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martedì 14 dicembre 2021

Hellstorm di Warren Ellis

Se ho ben capito, si tratta di uno di quegli interventi in extremis che fanno negli Stati Uniti quando una testata vende meno, meglio ancora se di terza o quarta fascia come questo Hellstorm: si cambia il team creativo e gli si dà carta bianca; tanto, peggio di così non potrà andare.

Essendo uno dei primi lavori di Warren Ellis per la Marvel (forse proprio il primo?) il suo talento non risalta ancora e gli toccò accodarsi alla moda “horror” e allo stile “maturo” che in casa DC aveva baciato in fronte il Sandman di Neil Gaiman.

Nel primo ciclo di tre episodi il risorto Figlio di Satana deve scovare un serial killer di satanisti che lavora per conto di un demone che vuole dominare l’inferno, tracciando il suo sigillo su Manhattan (sì, banale, ma nel 1994 forse non lo era, soprattutto nel fumetto mainstream); dal quarto capitolo in poi le cose si fanno piuttosto confuse… Warren Ellis doveva riallacciarsi alle sottotrame lasciate in sospeso dalla precedente gestione e anche a quelle create da lui, il tutto imbastendo episodi autoconclusivi all’interno di una trama orizzontale che però deraglia anche a causa di episodi “fill in” messi a casaccio o spalmati su più numeri: e così, con un nuovo cast di personaggi sopra le righe tipico di Ellis, Hellstorm inizialmente dovrebbe avere a che fare con il ritorno della moglie dall’inferno e invece le sue avventure si concludono con la sua paternità a opera di un’altra donna (o quello che è). Non mi stupisce insomma che la testata andasse ancora male anche con Warren Ellis alle redini. In uno di quei tentativi patetici di salvare il salvabile che fanno negli Stati Uniti, cercando forse di abbagliare i lettori ritenuti gatti rincoglioniti davanti ai fari delle auto di notte, la Marvel a un certo punto affidò le copertine ad artisti di fama, ma se dopo Brian Bolland e P. Craig Russell assoldi Mark Buckingham (aaargh!) e Duncan Fegredo (che a me piace, ma non è Bolland) non puoi lamentarti che la testata chiude comunque.

Ad accompagnare le didascalie “introverse” (ah ah!) di moda a metà anni ’90 c’è una certa confusione e una netta sensazione che mancasse una direzione alla serie, ma qualche battuta divertente Ellis la mette giù con successo.

I disegni di Leonardo Manco sono rovinati da una colorazione piatta e satura a firma “Ariane” tipica dei trogloditi digitali anni ’90, ma pure lui ci mette del suo limitandosi a schizzare molti dettagli – forse su suggerimento dell’editor per non far sfigurare i suoi colleghi statunitensi. Gli episodi disegnati da Peter Gross non lo fanno rimpiangere troppo, insomma, men che meno la brevissima apparizione del bravo Martin Chaplin – Derek Yaniger, invece, non fa affatto una bella figura.

Il testimone di Hellstorm viene preso idealmente da Druid, miniserie con cui continua la collaborazione tra Warren Ellis e Leonardo Manco, ma con i colori un po’ migliori di D’Israeli. Hellstorm/Satana fa anche un’apparizione nella cornice della storia. In questa miniserie un personaggio meno che minore dell’universo Marvel prende una piega soprannaturale e diventa (o lo era sempre?) cattivello. La storia verterebbe sulla creazione di un finto dio a partire dalle spoglie di stupratori, assassini, ecc. ma in realtà è una scusa per una passerella di bizzarre figure à la Warren Ellis, che mantiene il suo humour ma si concede un po’ troppo bla bla bla, forse anche per far risplendere Leonardo Manco con le sue spash pages. La serie si vorrebbe dark ed “estrema” (ma guai a mostrare una tetta o uomini “nudi” senza mutande!) però indulge troppo in sequenze quasi supereroistiche – che Druid/Anthony Ludgate ammazzi coreograficamente i suoi nemici facendoli bruciare, seccare, trapassare da legni, ecc. è alla fine come se lo facesse con raggi laser et similia. Se non altro, Druid ha un finale simpatico.

In sostanza, si tratta di due lavori assolutamente prescindibili dello scrittore scozzese. Certo, il lavoro di Manco (soprattutto su Druid) non è male, e qualche battutina divertente spunta qua e là, ma credo siano consigliabili solo a quei lettori che vogliono trovare le radici di alcune idee di Ellis poi sviluppate meglio altrove (curioso notare come una maga si chiami Jakita Wegener, presaga della futura Jakita Wagner del meraviglioso Planetary) oppure che vogliono tuffarsi nella barbarie che furono gli anni ’90 fumettistici statunitensi. Ho come il timore che esistano veramente lettori del genere.

martedì 29 dicembre 2020

The Dollhouse Family: La Casa delle Bambole

Se non altro lo sceneggiatore M. R. Carey è stato onesto e ha anticipato sin dall’inizio che questa storia di fantasmi e possessioni ha una base pseudoscientifica. Molto pseudo.

Nel 1979 la piccola Alice riceve in eredità una bellissima e apparentemente antica casa di bambole, uno di quei giocattoli diffusi nel mondo anglosassone in cui vengono ricreate in piccolo delle abitazioni signorili molto dettagliate. Il padre di Alice è un uomo manesco e dedito all’alcol ma grazie a una formula magica la bambina può andare a rifugiarsi nella casa giocattolo, dove i pupazzi prendono vita e giocano con lei. E dove si trova anche la Stanza Nera, un luogo tramite cui la casa stessa parla con i suoi abitanti “suggerendo” loro cosa fare una volta tornati al mondo reale. Siccome il consiglio prontamente accolto è quello di ammazzare suo padre, colpa che ricadrà sulla madre, Alice passerà i primi anni della sua vita in giro per case famiglie e istituzioni simili.

Nel mentre, o meglio 150 anni prima, Joseph Kent esplora in Irlanda una caverna sconosciuta, rinvenendo una creatura colossale e cedendo alla lussuria con una ragazza che si trova nella stessa caverna. La narrazione procede parallela e mentre Joseph ha miracolosamente un figlio dalla moglie ufficialmente sterile (che muore nel parto) Alice cresce, diventa una veterinaria e ha anche lei una bambina, nata dopo un “incidente” con un preservativo. Nemmeno la pillola del giorno dopo funziona: a quanto pare deve per forza nascere una nuova creatura, proprio com’era accaduto con Joseph… La casa delle bambole ricompare poco prima che Alice e sua figlia Una rimangano mutilate in un attentato, e alla fine la protagonista si decide a farla finita con quell’entità che vuole manipolarle per i suoi scopi.

Pur nascendo negli Stati Uniti The Dollhouse Family non è certo la classica storia di supereroi (si vedono persino delle donne nude! Inconcepibile!) però ricorre comunque agli stereotipi del genere: i cliffhanger, alcune battutine cool, la preparazione per lo scontro finale, la creazione di una nemesi, addirittura la retcon… Il suo intento di essere qualcosa di diverso da un fumetto mainstream è quindi riuscito solo in parte, inoltre il ritmo è sin troppo sincopato con sequenze molto lunghe frammiste ad altre che avrebbero meritato un minimo di approfondimento (Jake accetta la sua paternità senza colpo ferire, per limitarsi a un esempio). Carey ha messo un po’ troppa carne sul fuoco e tra riferimenti alla tradizione gaelica e ai gruppi suprematisti bianchi avrebbe sicuramente tratto beneficio da qualche capitolo in più oltre ai sei di cui è composto questo fumetto. Come anticipato, la spiegazione del mistero è pseudoscientifica o meglio pseudorazionale. Ma anche il ricorso alla fantascienza per spiegare il nucleo della storia non copre del tutto certi buchi logici. Più che altro, il lavoro di Carey è apprezzabile per aver architettato una storia in cui tout se tient, spargendo indizi nel corso di tutti e sei gli episodi.

I disegni sono opera di Peter Gross con “rifiniture” di Vince Locke. Non è che queste ultime abbelliscano più di tanto il comparto grafico, che è piuttosto abbozzato e che l’accumulo di segni e segnetti rende a volte ancora più confuso. Qualche volta si fa fatica a distinguere un personaggio da un altro, e se le pupille non sono uniformemente nere ma solo tratteggiate gli sguardi diventano assenti e i personaggi inespressivi. Ogni tanto affiora anche qualche sproporzione anatomica. Le sequenze nella Stanza Nera sono invece molto efficaci, perché il tratteggio ricorda quasi delle incisioni; ma purtroppo queste sequenze sono pochissime.

Non si può certo dire che The Dollhouse Family sia un brutto fumetto, ma la cosa che ho apprezzato di più sono le suggestive copertine fotografiche di Jessica Dalva.