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scrivere per vivere vivere per scrivere

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La lettura di tutti i buoni libri è come una conversazione con gli uomini migliori dei secoli andati. (René Descartes) ********************************************************************************************** USQUE AD FINEM
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venerdì 22 luglio 2016

Raccontare, scribacchiare, ricordare. Ennesime facezie sgrammaticate




Raccontino estivo.


Mi sento sfiorare la pelle, un tocco leggero. Apro gli occhi, non perché stessi dormendo, ma piuttosto scocciato dall'immobilità obbligata. Una buona scusa la carezza involontaria del mio bambino. Il letto matrimoniale, per quanto grande, diventa una gabbia se ci sono quasi 30 gradi e l'umidità ti stringe la gola. Alzo il capo e vedo al di là del corpicino di mio figlio il sorriso di mia moglie. Dico sorriso ma in realtà non posso saperlo, è buio. Non posso farne a meno, la immagino sempre sorridente. Accogliente.
«Non dormi?»
«No amore, che palle … »
Bisbigliamo, se il delinquente minorile si sveglia è la fine. Quando apre gli occhi anche la notte più buia diventa una giornata in piena ora di punta, per noi che ci alziamo alle cinque e mezza è la fine.
« Ancora quei pensieri?»
« Anche, sì. Sono stanco, sarà per questo. Cazzo. Sono passati venticinque anni, alle volte mi sembra di essere ancora lì.»
« Non so come aiutarti. Posso soltanto esserci.»
«È già tanto. È tutto per me. Ti amo.»
Con cautela mi alzo da letto, metto i cuscini di traverso sul bordo per evitare che il bambino rotolando cada. Lei non mi segue, capisce che voglio stare solo. Lei capisce sempre. Capisce cose di me prima ancora che io stesso le possa realizzare.
Vado in cucina, apro il frigo e rimango imbambolato a guardare la luce, mi ferisce gli occhi, strizzo le palpebre ma non distolgo lo sguardo. Ho bisogno di quel dolore.
Sono stati giorni intensi, ma più che le vicende quotidiane sono le ultime notizie del telegiornale ad avermi turbato: parlano di un colpo di stato in Turchia. Ogni volta è la stessa storia. Uccisioni, colpi di cannone, spari, esplosioni, cose che mi riportano a vecchie detonazioni, antiche urla, vociare di lingue slave. Fantasmi.
Non è cambiato nulla. Non cambierà mai nulla.
Non ho svegliato il bambino ma il canarino sì. Il suo canto mi scuote e mi mette in allarme. Copro la gabbietta con un panno e chiudo il frigo. Mi siedo, illuminato dalla sola lucina della cappa del forno, sorseggio una bibita. Una coca sgasata. Molto appropriata, visto l'umore.
Non tento nemmeno di contrastare la marea montante dei ricordi, ho imparato con il tempo che basta lasciarli fluire perché se ne vadano da soli.
Non voglio mettermi a scrivere, di solito in notti come queste lo faccio, ma l'ansia del turno mattutino che mi aspetta non lascia scampo.
Torno ad aprire il frigorifero per riporre la bottiglia. La luce non mi ferisce più gli occhi. Mi sono abituato. Già, non è forse così per tutte le cose? Il tempo trascorso, la distanza, sono cure formidabili, ci si abitua a tutto.

O forse no.




© 2016 di Massimiliano Riccardi

giovedì 19 maggio 2016

Immersus emergo. Inutili facezie in merito al ricordare


Ci sono cose che ti rimangono addosso, ti attraversano e passano, ma qualcosa lasciano. Brandelli emozionali: sfilacciati, sopiti, eco celate dal frastuono del contingente.
Alle volte rifletti su ciò che fai ogni giorno, ripensi al quotidiano, ti sembra  tutto normale. Ti senti normale. Poi ti ritrovi a parlare con amici e colleghi e ti rendi conto che di normale c'è ben poco. Magari ti capita di sederti a mangiare dopo che quella mattina hai visto morire una persona, dopo che hai respirato l'odore del sangue, della merda, del piscio. Sì, perché alle cose bisogna dare il giusto nome. Ti ritrovi a parlare con un parente che ti sottopone a una tirata di lamentele per delle inezie mentre sino a un'ora prima hai sudato e sfiatato come un mantice mentre massaggiavi un torace per far ripartire un cuore fermo.  Tutto normale? Un pezzo di cazzo.
Eppure tiri avanti, te la senti menare dalla stampa, dai cittadini indignati per i casi di malasanità, ascolti filippiche sul ruolo inutile e stratutelato dei dipendenti pubblici. Poi pensi ai sacrifici che hai fatto per raggiungere livelli eccellenti di professionalità, al lavoro quotidiano in mezzo alla morte, alla sofferenza, al dolore, alla disperazione. Alla gioia nel vedere che sei riuscito a fare qualche cosa di buono, che qualcuno sta meglio grazie a te. Allora ti butti alle spalle le amarezze. Te ne fotti, ti racconti che fare del proprio meglio, sempre e comunque, è sufficiente a ripagarti. Perché il dovere è un valore in sé, non ha bisogno di riconoscimenti o premi.
Alle volte sei a passeggio con tuo figlio e ti accorgi che non ascolti nemmeno quello che ti dice, perché magari hai fatto la notte, hai il "cotone nella testa", sei ancora stordito dai suoni ossessivi degli allarmi monitor, l'adrenalina non ti ha ancora mollato del tutto e non hai dormito bene dopo il fine turno. Oppure notizie televisive, o semplici situazioni occasionali, ti portano alla memoria cose che hai visto e vissuto. E in quasi 25 anni di sanità prevalentemente in aree critiche di cose ne hai viste.
Avete mai visto il corpo di un defenestrato, con le sue belle ossicine che spuntano da tutte le parti? Il corpo di una persona arrotata da un'auto, devastata e irriconoscibile? Ferite di arma da taglio tali da esporre i visceri? Un cranio sfondato? Un ustionato così mal messo che mentre lo tocchi ti rimangono brani di carne in mano? Oppure di assistere all'agonia di un malato terminale, essere lì, con lui sino alla fine, e guardarlo mentre la vita lo abbandona?
In qualche modo devi sopravvivere a tutto ciò. Devi andare avanti, continuare a rapportarti con persone che certe immagini le hanno viste solo nei film, e sforzarti di considerare importanti tutte le cazzate che la vita ti propina, perché la vita è fatta anche di cazzate, di cose superficiali, di leggerezza, e non è colpa di nessuno se hai scelto un lavoro che ti massacra la mente e l'anima.
 Che ti cambia.
Profondamente.
Allora ti può capitare di tornare a casa la sera, e portare a fare la nanna il tuo bambino che prima di addormentarsi ti racconta delle sue avventure quotidiane, delle piccole gioie innocenti che ha provato. Poi, nel buio, la sua manina che ti accarezza sente bagnato sulle tue guance, e ti senti chiedere: «papà, piangi? Ti ho fatto arrabbiare?»
Non gli puoi certo dire che sei felice di essere lì, di poterlo toccare, accarezzare, perché quel pomeriggio hai visto morire un ragazzo di diciannove anni con dolori così lancinanti da non trovare pace nemmeno con la morfina, che implorava e invocava la sua mamma. Ti inventi delle palle, trovi scuse, è troppo piccolo, lo tranquillizzi, gli dici che va tutto bene. Che sei solo commosso dal bene che gli vuoi.
Tutta sta manfrina perché oggi, passeggiando in un centro commerciale, ho visto due anziani che camminavano mano nella mano come fidanzatini. Non riuscivo a smettere di guardarli. L'uomo si è accorto che lo fissavo, come si conviene tra persone perbene, come usava una volta, mi ha sorriso e mi ha salutato. Alle volte a segnarti e a scandire l'orologio della memoria sono gli avvenimenti meno importanti, quelli apparentemente insignificanti. Nulla di strano, ma come dicevo, ci sono cose che ti rimangono addosso. Dentro.
Anni fa, negli anni di servizio in Pronto Soccorso, mi è capitata una di quelle situazioni apparentemente banali, routine:
Ero in triage, la solita calca. Una di quelle notti che ti sembrava di essere in pieno centro, di giorno, all'ora di punta. Arriva l'ennesima ambulanza, scende per primo un milite che conosco, mi guarda e scuote la testa. Capisco, mi scuso con il paziente che stavo trattando per un trauma distorsivo e con il mio collega mi avvicino alla barella che intanto era stata scaricata. Ci vuole meno di un secondo per constatare la gravità: un paziente molto anziano con un'importante crisi respiratoria. Semiseduto sulla barella, con una mano avvinghiata alla mano della moglie. Lei, con una mano lo teneva e con l'altra lo accarezzava mormorandogli qualcosa. Il mio collega mi dice di occuparmi della burocrazia, nella sala dei codici rossi ci sarebbe andato lui. Le decisioni sono sempre repentine e non si discute mai, si agisce. L'ho odiato, preferivo di gran lunga l'azione piuttosto che quello che mi attendeva. Mentre si allontanava con il paziente mi ha guardato come a volersi scusare per la fregatura. Ho mormorato un vaffanculo tra i denti.
Porto con me la signora, la faccio sedere. Le chiedo i dati anagrafici del marito. Il mio tono è pacato, lei piange. Non la guardo, non so perché ho paura. Io non ho mai paura. È strano. Mi poggia una mano sul braccio. Sento il calore del contatto, la ruvidezza della sua pelle. Alzo lo sguardo verso di lei.
«Mio marito ce la farà. È un uomo forte. Ha fatto la guerra. Ha lavorato una vita intera.»
Sento la stretta sul mio braccio farsi più intensa. Come a voler comunicare ben altro delle semplici parole. Con la coda dell'occhio mi rendo conto che, a parte il pianto, è tranquilla, composta. Dignitosa. Mi osserva mentre raccolgo informazioni sui precedenti e sulle patologie note del marito.
La guardo anche io. Finalmente la vedo, veramente. Una donna anziana che si fa forza. Una combattente. Un viso intagliato, solchi nella carne che raccontano di vita vissuta. Di figli cresciuti con sacrificio. Di lavoro. Di nipoti da amare. Rughe che parlano di antichi sorrisi, di pianti, di gioie e di amarezze. Capelli soffici, bianchi, che ti viene voglia di accarezzare.
Mentre si asciuga le lacrime mi dice: «lei è stanco. Mi dispiace per tutto questo disturbo.» Il tono è quello di una madre, la stessa dolcezza che solo le madri possono avere.
La fisso, questo è troppo. Mi sale un groppo alla gola che ricaccio indietro a fatica. Lotto.  Combatto. Dentro di me penso: " ma tu che cazzo ne sai, sono stanco, sì. Ora vorrei essere in Sala Rossa a insufflare ossigeno, a compiere tutte le manovre necessarie per riprendere tuo marito. E invece sono qui. A guardare te. Dolcissima. Addolorata. Che nel tuo dramma trovi il tempo di preoccuparti di uno sconosciuto che sta solo facendo il suo lavoro. Vieni qui e mi scuoti l'anima con la tua bellezza, la bellezza che solo i vecchi che hanno visto tutto possono avere. Mi scuoti con la tua bontà."
Terminati gli aspetti burocratici, la invito a seguirmi. In prossimità della sala rossa mi accerto di com'è la situazione. Un collega a bassa voce mi dice che il paziente è stabile. Faccio segno alla donna di avvicinarsi. Le dico che può entrare a salutare il marito prima che organizziamo per il ricovero. Lei tentenna. Mi guarda. Poi mi prende per mano. Entriamo insieme. Roberto, il mio collega, scosta la tenda e riusciamo a vedere il paziente. La donna lascia la mia mano, quasi in punta di piedi porta la sua sul mio volto e mi da una carezza. Non dice nulla, muove solo il capo su e giù. Leggo nel gesto un grazie che mi scalda. La lascio andare dal suo uomo. Me ne torno in triage.
Vengo accolto da un sonoro vaffanculo da parte di un ragazzotto accompagnato dagli amici, alterato forse dall'alcol o chissà da cos'altro.
 «Che cazzo, è tre ore che aspetto, qui si può anche morire.»
Sorrido a quell'imbecille. Con un tocco sulla spalla ringrazio la collega che nel frattempo mi ha sostituito. La giostra riprende. Quella, come molte altre, sarà una lunga notte. Non ripenso più a ciò che è accaduto. Solo dopo, a distanza di tempo, come per molti altri episodi, ho raggiunto una nuova consapevolezza.
Ecco, solo un piccolo sfogo, oppure un racconto di fantasia, magari ricordi, chissà, comunque nulla di che.

Piccole tessere di un mosaico colorato, macchiato qua e là, ma non tanto. Tasselli che disegnano vite, sogni, speranze, gioie.



© 2016 di Massimiliano Riccardi

venerdì 28 agosto 2015

Sul sentire comune, scorci e frammenti


Nei giorni scorsi ho letto due post, di due blogger con caratteristiche diverse ma con lo stesso amore per la rievocazione e l'omaggio a cose passate: Patricia Moll con il suo Mirtylla's House e Cristina con Athenae Noctua.
Nel leggere i loro post, ho subito ritrovato frammenti della mia infanzia, non necessariamente legati a quello che avevano scritto. Immagini color seppia, che si muovono a scatti come nei vecchi film. Sono gli scherzi della memoria, basta un dettaglio perché si metta in moto con dinamiche apparentemente casuali. La memoria, quasi come un corpo vivo, che fluttua leggero nello spazio del comune sentire e che ogni tanto sfiora sensazioni e pensieri lasciati liberi da chi sa chi traendone energia. Come tutto ciò che riguarda le vecchie pellicole segni di bruciatura e distorsioni, ma anche tanta struggente nostalgia mista a divertimento nel rivederle.
Ho ripensato a me stesso dodicenne, al mio vecchio professore di lettere, a un compito a casa inusuale e deliziosamente intrigante per un bambino.
« Ragazzi, domani mattina, durante percorso che fate per venire a scuola, provate a camminare tenendo lo sguardo un po' più alto rispetto alla linea dell'orizzonte. Cercate di guardarvi intorno con attenzione, soprattutto guardate su, verso le finestre, i cornicioni dei palazzi. Osservate i dettagli. Ovviamente cercate di non investire gli altri passanti e di non finire sotto una macchina.»
Ci fu una risata generale. Tutti felici e sollevati per lo scampato pericolo in merito alla possibilità di dover studiare a memoria la solita sbobba, ce ne andammo a casa.
Ma tant'è … La curiosità e la novità della cosa mise radice.
Il giorno dopo, uscendo di casa, percorro  salita Santa Brigida con a destra il palazzo della Famiglia Dufour e i suoi frontoni decorati in evidente contrasto con i palazzi sull'altro lato di aspetto dimesso ed evidentemente popolari. Attraverso l'arco che permette di accedere a via balbi scorgendo la locandina votiva dedicata alla santa che dà il nome alla salita. Via balbi mi appare sotto una luce diversa, osservo un palazzone di cui una metà conserva ancora i segni dei bombardamenti dell'ultima guerra, non ci avevo mai fatto caso, o meglio lo avevo sempre visto senza guardarlo veramente. Subito dopo il Palazzo Reale, così chiamato da che la famiglia Savoia lo acquistò dai Balbi per adibirlo a residenza genovese. Un palazzo seicentesco di una bellezza sfolgorante. Percorro via balbi superando la sede dell'università anch'essa appartenuta alla famiglia balbi e successivamente ai Gesuiti che ne fecero un polo didattico già dal 1775. Entro in piazza dell'Annunziata e scorgo la Basilica della santissima Annunziata del Vastato, un misto di tardo manierismo e barocco. Lì c'è un attraversamento pedonale e se non fosse stato per un gentile tassista che mi ha urlato di stare attento sarei finito investito dalle auto, tanto ero perso nell'ammirare le guglie dei due campanili. E via così, tutto un guardarmi intorno e scoprire cose mai viste nonostante che quello fosse il mio percorso da anni e che fossi nato e cresciuto nel centro storico.
In classe, quella mattina, discutemmo a lungo delle nostre impressioni. Io personalmente scoprii per la prima volta Genova, cosa significasse vivere in una città ricca di storia, a quante cose mi passavano davanti agli occhi che semplicemente ignoravo. Tutti i miei compagni raccontarono dettagli riguardanti le rispettive "scoperte". Il nostro prof di lettere e storia ci guardava sorridendo mentre facevamo a gara per arricchire i nostri racconti di quante più immagini potevamo. Poi, con molta calma, ci disse che quello era il modo di affrontare le sue materie, attenzione ai dettagli, perché dietro alle singole parole non c'erano solo giochi stilistici ma sentimenti ed emozioni, riflessione sui fatti perché la storia non era solo date e celebrazione di eventi, ma carne e sangue di uomini che quegli eventi li hanno vissuti. Uomini che parlavano in un certo modo, che sognavano, lottavano, che semplicemente avevano vissuto lasciando un segno del loro passaggio perché noi si potesse godere di un presente diverso e più ricco rispetto al loro. Dovevamo "sentire" i racconti, i romanzi. Dovevamo "ascoltare" le voci degli uomini che avevano vissuto le vicende di epoche passate. Chissà che fine ha fatto fratel Raffaele, della scuola di San Giovanni Battista De La Salle, con solo un vestito per l'inverno e uno per l'estate, ma ricchissimo di universi e mondi da regalare.

Tutto qui. Come potete osservare … facezie.


© 2015 di Massimiliano Riccardi.