Ci sono cose che ti rimangono addosso, ti
attraversano e passano, ma qualcosa lasciano. Brandelli emozionali: sfilacciati, sopiti, eco celate dal frastuono del
contingente.
Alle volte rifletti su ciò che fai ogni
giorno, ripensi al quotidiano, ti sembra
tutto normale. Ti senti normale. Poi ti ritrovi a parlare con amici e
colleghi e ti rendi conto che di normale c'è ben poco. Magari ti capita di
sederti a mangiare dopo che quella mattina hai visto morire una persona, dopo
che hai respirato l'odore del sangue, della merda, del piscio. Sì, perché alle
cose bisogna dare il giusto nome. Ti ritrovi a parlare con un parente che ti
sottopone a una tirata di lamentele per delle inezie mentre sino a un'ora prima hai sudato e sfiatato come un mantice mentre massaggiavi un torace
per far ripartire un cuore fermo. Tutto
normale? Un pezzo di cazzo.
Eppure tiri avanti, te la senti menare dalla
stampa, dai cittadini indignati per i casi di malasanità, ascolti filippiche
sul ruolo inutile e stratutelato dei dipendenti pubblici. Poi pensi ai
sacrifici che hai fatto per raggiungere livelli eccellenti di professionalità,
al lavoro quotidiano in mezzo alla morte, alla sofferenza, al dolore, alla
disperazione. Alla gioia nel vedere che sei riuscito a fare qualche cosa di
buono, che qualcuno sta meglio grazie a te. Allora ti butti alle spalle le
amarezze. Te ne fotti, ti racconti che fare del proprio meglio, sempre e comunque, è sufficiente a ripagarti. Perché
il dovere è un valore in sé, non ha bisogno di
riconoscimenti o premi.
Alle volte sei a passeggio con tuo figlio e ti
accorgi che non ascolti nemmeno quello che ti dice, perché magari hai fatto la
notte, hai il "cotone nella testa", sei ancora stordito dai suoni
ossessivi degli allarmi monitor, l'adrenalina non ti ha ancora mollato del
tutto e non hai dormito bene dopo il fine turno. Oppure notizie televisive, o
semplici situazioni occasionali, ti portano alla memoria cose che hai visto e
vissuto. E in quasi 25 anni di sanità prevalentemente in aree critiche di cose
ne hai viste.
Avete mai visto il corpo di un defenestrato,
con le sue belle ossicine che spuntano da tutte le parti? Il corpo di una
persona arrotata da un'auto, devastata e
irriconoscibile? Ferite di arma da taglio tali da esporre i visceri? Un cranio
sfondato? Un ustionato così mal messo che mentre lo tocchi ti rimangono brani
di carne in mano? Oppure di
assistere
all'agonia di un malato terminale, essere lì, con lui sino alla fine, e guardarlo
mentre la vita lo abbandona?
In qualche modo devi sopravvivere a tutto ciò.
Devi andare avanti, continuare a rapportarti con persone che certe immagini le
hanno viste solo nei film, e sforzarti di considerare importanti tutte le
cazzate che la vita ti propina, perché la vita è fatta anche di cazzate, di
cose superficiali, di leggerezza, e non è colpa di nessuno se hai scelto un
lavoro che ti massacra la mente e l'anima.
Che ti
cambia.
Profondamente.
Allora ti può capitare di tornare a casa la
sera, e portare a fare la nanna il tuo bambino che prima di addormentarsi ti
racconta delle sue avventure quotidiane, delle piccole gioie innocenti che ha
provato. Poi, nel buio, la sua manina che ti accarezza sente bagnato sulle tue
guance, e ti senti chiedere: «papà, piangi? Ti ho fatto arrabbiare?»
Non gli puoi certo dire che
sei felice di essere lì, di poterlo toccare, accarezzare, perché quel
pomeriggio hai visto morire un ragazzo di diciannove anni con dolori così
lancinanti da non trovare pace nemmeno con la morfina, che implorava e invocava
la sua mamma. Ti inventi delle
palle, trovi scuse, è troppo piccolo, lo tranquillizzi, gli dici che va tutto
bene. Che sei solo commosso dal bene che gli vuoi.
Tutta sta manfrina perché
oggi, passeggiando in un centro commerciale,
ho visto due anziani che camminavano mano nella mano come fidanzatini. Non riuscivo a smettere di guardarli. L'uomo si è accorto che lo fissavo, come si conviene tra persone
perbene, come usava una volta, mi ha sorriso e mi ha salutato. Alle volte a segnarti e a scandire l'orologio della memoria sono gli
avvenimenti meno importanti, quelli apparentemente insignificanti. Nulla di strano, ma come
dicevo, ci sono cose
che ti rimangono addosso. Dentro.
Anni fa, negli anni di
servizio in Pronto Soccorso, mi
è capitata una di quelle situazioni apparentemente banali, routine:
Ero in triage, la solita
calca. Una di quelle notti che ti sembrava di essere in pieno centro, di giorno, all'ora di punta. Arriva l'ennesima ambulanza,
scende per primo un milite che conosco, mi guarda e scuote la testa. Capisco,
mi scuso con il paziente che stavo
trattando per un trauma distorsivo e con il mio collega mi avvicino alla
barella che intanto era stata scaricata. Ci vuole meno di un secondo per constatare la gravità: un paziente molto anziano con un'importante crisi
respiratoria. Semiseduto sulla barella, con una mano avvinghiata alla mano
della moglie. Lei, con una mano lo teneva e con l'altra lo accarezzava
mormorandogli qualcosa. Il mio collega mi dice di occuparmi della burocrazia,
nella sala dei codici rossi ci sarebbe andato lui. Le decisioni sono sempre repentine e non si discute mai, si agisce. L'ho odiato, preferivo di
gran lunga l'azione piuttosto che quello che mi attendeva. Mentre si
allontanava con il paziente mi ha guardato come a volersi scusare per la fregatura. Ho mormorato un vaffanculo tra i denti.
Porto con me la signora, la faccio sedere. Le
chiedo i dati anagrafici del marito. Il mio tono è pacato, lei piange. Non la
guardo, non so perché ho paura. Io non ho mai paura. È strano. Mi poggia una
mano sul braccio. Sento il calore del contatto, la ruvidezza della sua pelle.
Alzo lo sguardo verso di lei.
«Mio marito ce la farà. È un uomo forte. Ha
fatto la guerra. Ha lavorato una vita intera.»
Sento la stretta sul mio braccio farsi più
intensa. Come a voler comunicare ben altro delle semplici parole. Con la coda dell'occhio mi rendo conto che, a parte il pianto, è
tranquilla, composta. Dignitosa. Mi osserva mentre raccolgo informazioni sui
precedenti e sulle patologie note del marito.
La guardo anche io. Finalmente la vedo, veramente. Una donna anziana che si fa forza. Una combattente. Un viso intagliato, solchi
nella carne che raccontano di vita vissuta. Di figli cresciuti con sacrificio. Di lavoro. Di nipoti da amare. Rughe che
parlano di antichi sorrisi, di pianti, di gioie e di amarezze. Capelli soffici,
bianchi, che ti viene voglia di accarezzare.
Mentre si asciuga le lacrime mi dice: «lei è
stanco. Mi dispiace per tutto questo
disturbo.» Il tono è quello di una madre, la stessa dolcezza che solo le madri
possono avere.
La fisso, questo è troppo. Mi sale un groppo
alla gola che ricaccio indietro a fatica. Lotto. Combatto. Dentro di me penso: "
ma tu che cazzo ne sai, sono stanco, sì. Ora vorrei essere in Sala Rossa a
insufflare ossigeno, a compiere tutte le manovre necessarie per riprendere tuo
marito. E invece sono qui. A guardare te. Dolcissima. Addolorata. Che nel tuo
dramma trovi il tempo di preoccuparti di uno sconosciuto che sta solo facendo
il suo lavoro. Vieni qui e mi scuoti l'anima con la tua bellezza, la bellezza
che solo i vecchi che hanno visto tutto possono avere. Mi scuoti con la tua
bontà."
Terminati
gli aspetti burocratici, la invito a seguirmi. In prossimità della sala rossa mi accerto di com'è la situazione. Un collega a
bassa voce mi dice che il paziente è stabile. Faccio segno alla donna di
avvicinarsi. Le dico che può entrare a salutare il marito prima che
organizziamo per il ricovero. Lei tentenna. Mi guarda. Poi mi prende per mano.
Entriamo insieme. Roberto, il mio collega, scosta la tenda e riusciamo a vedere
il paziente. La donna lascia la mia mano, quasi in punta di piedi porta la sua sul mio volto e mi da una
carezza. Non dice nulla, muove solo il capo su e giù. Leggo nel gesto un grazie
che mi scalda. La lascio andare dal suo uomo. Me ne torno in triage.
Vengo accolto da un sonoro vaffanculo da parte
di un ragazzotto accompagnato
dagli amici, alterato forse dall'alcol o chissà da cos'altro.
«Che cazzo, è tre ore che
aspetto, qui si può anche morire.»
Sorrido a quell'imbecille. Con un tocco sulla
spalla ringrazio la collega che nel frattempo mi ha sostituito. La giostra
riprende. Quella, come molte altre, sarà una
lunga notte.
Non ripenso più a ciò che è accaduto. Solo dopo, a distanza di
tempo, come per
molti
altri episodi,
ho raggiunto una nuova consapevolezza.
Ecco,
solo un piccolo sfogo, oppure un racconto di fantasia, magari ricordi, chissà, comunque nulla di che.
Piccole tessere di un mosaico
colorato, macchiato qua e là, ma non
tanto.
Tasselli che disegnano vite, sogni, speranze, gioie.
© 2016 di Massimiliano Riccardi