Il Castello
Di Franz Kafka
4/5
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Info su questo ebook
Traduzione di Giuseppe Porzi
Edizione integrale
Scritto intorno al 1922 e pubblicato postumo da Max Brod nel 1926, Il Castello è l’ultimo romanzo di Franz Kafka. L’agrimensore K., «emergendo da un vuoto di antefatti o di preistoria personale simile a un banco di nebbia», come scrive Italo Alighiero Chiusano nell’Introduzione, arriva in un villaggio sormontato da un castello. K. è lì per esercitare la propria professione, ma ciò gli è impedito dall’ostilità degli abitanti e dagli ostacoli frapposti dalla burocrazia del Castello, sfuggente e inafferrabile per la sua meticolosa e arbitraria complessità. Il romanzo, che s’interrompe proprio nel momento in cui maggiori sembrano le difficoltà di K., doveva concludersi, secondo Brod, con una parziale vittoria dell’agrimensore, lasciando così intravedere uno spiraglio di speranza.
«Il sogno, in Kafka, è quasi esclusivamente incubo, ossessione, ma di segno direi soave: un sogno che non fa quasi mai gridare terrorizzati, ma che ci pesa sui polmoni sino alle soglie dell’asfissia» (Italo Alighiero Chiusano).
Franz Kafka
il più celebre interprete della complessità del vissuto umano e delle angosce che turbano la nostra epoca, nacque a Praga nel 1883. Figlio di un agiato negoziante, gretto e autoritario, con cui visse sempre in conflitto, trascorse un’esistenza apparentemente monotona e priva di grandi avvenimenti. Poco dopo la laurea s’impiegò in un ente pubblico, dove rimase fino a due anni prima della sua prematura scomparsa, avvenuta nel 1924 a causa della tubercolosi. Scrisse tre romanzi, America, Il processo e Il Castello, un gran numero di bellissimi racconti, tutti pubblicati dalla Newton Compton nella collana e nel volume unico Tutti romanzi, i racconti, pensieri e aforismi.
Franz Kafka
Franz Kafka fue un destacado escritor de origen judío nacido el 3 de julio de 1883 en Praga. La relación compleja con su padre y la influencia de su familia se reflejarían en gran medida en su obra. La mayoría de sus obras fueron publicadas póstumamente por su amigo y editor, Max Brod, quien ignoró las últimas voluntades de Kafka de destruir sus escritos. A lo largo de su vida, Kafka luchó con una profunda ansiedad y una intensa introspección que a menudo se reflejaba en sus obras. Sus escritos exploraban temas como la alienación, el aislamiento, la burocracia y el absurdo de la vida moderna. A menudo, sus personajes se enfrentaban a situaciones angustiantes e incomprensibles, y se debatían con la impotencia y la falta de sentido en un mundo aparentemente irracional. A pesar de la aparente oscuridad de su obra, Kafka es considerado uno de los autores más influyentes del siglo XX y su estilo literario ha dejado una profunda huella en la literatura moderna. Sus obras siguen siendo objeto de estudio y admiración en todo el mundo, y su nombre se ha convertido en sinónimo de temas profundos y complejos que exploran la condición humana.
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Recensioni su Il Castello
1.517 valutazioni28 recensioni
- Valutazione: 1 su 5 stelle1/5Absolutely incomprehensible!
- Valutazione: 4 su 5 stelle4/5Nog bevreemdender dan Het Proces, maar prachtige scènes. Andermaal het individu tegenover de onzichtbare almacht, maar minstens evenzeer over hoe de perceptie van mensen doorslaggevend is. Tegelijk een soort Bildungsroman : als K. aankomt is hij een onbeschreven blad, maar hij probeert hardnekkig dat blad ingevuld te krijgen.Eerste keer gelezen toen ik 17 was.
- Valutazione: 3 su 5 stelle3/5This book is like reading a dream. I'm not sure whose dream it is though. The Castle is the story of K who was summoned to a village as Land-Surveyor and his trials and tribulations trying to work through the bureaucracy of the castle's politics. Void of any consistent punctuation (paragraphs go on for pages) I found both K and the villagers to be nonsensical and irrational. This must be the most contrary town ever written about. The situations are inane, but Kafka's style is still engaging where I wanted to find out what crazy direction the story would take next. Had Kafka ever finished this work so it wasn't such a burden to read, it definitely would have earned itself more stars.
- Valutazione: 3 su 5 stelle3/5There was a news article today suggesting that two thirds of people questioned lie about the books they have read to appear more sophisticated, so how do you know I'm telling the truth...
This was somewhat strange. It's never quite clear what is true and what isn't. Everything is open to interpretation. The main character is an incommer, who views the situation in the village very differently from the locals. There are many rules and customs that make the villagers seem brainwashed in comparison to the incommer. The presence of the castle - the seat of power - is always mysterious and threatening, even sinister. - Valutazione: 5 su 5 stelle5/5I would like to see where Kafka would have taken this unfinished novel which stops in mid-sentence. His protagonist K. seems so unreflective and tossed about by those around him. Chock full of that patented dark Kafka humor, it lurches from one slightly nightmarish episode to another, and the translation seems to catch the dreamlike prose that this novel is known for. A bit frustrating to read, for Kafka seems to dispense with paragraphs for many pages at a time. It really slowed me down.
- Valutazione: 2 su 5 stelle2/5A land-surveyor simply named K travels to a distant village after being summoned to work there by officials at the mysterious Castle. Upon arrival, he is treated poorly by the majority of the local villagers and is told that a mistake was made when he was offered a job as there is no work for him. However, K does manage to almost immediately become engaged to the barmaid Frieda and make friends with the messenger Barnabas and his family, who are considered outcasts of society because of his sister Amalia's refusal to offer sexual favors to a Castle official. Meanwhile, K fruitlessly pursues Klamm, the Castle official assigned to him, in hopes of finding out more about his situation. Additionally, K tries to manage the annoying antics of the two assistants he meets upon arrival at the village and is given a deal to work as the school's janitor in lieu of the land-surveying he expected. I am going to start this review by openly and only somewhat abashedly noting that the reason I gave this book such a low rating is because I flat out did not understand what was going on the majority of the time. Kafka is known for being surreal and writing in a dream-like logic, but this book crossed a line for me. While I enjoyed both The Metamorphosis and The Trial, The Castle dragged on far too long for me without ever seeming to make a point. My research on the book points to various themes of the book: religion/salvation (which I did not see at all); isolation/alienation (yes, it's there but c'mon already, how many long dialogues do we need to get that K and the Barnabas family don't fit in?); and bureaucratic red tape (which The Trial already covered perfectly). But, as I hinted out above, the book just went on for too long to make me care any longer about trying to suss out what on earth Kafka was talking about anymore. There is no real action in the book and little by the way of "showing" in the narration. Rather, the book is just one long series of monologues with characters going on and on about the Castle and its inhabitants, often contradicting themselves as their speeches droned on interminably. There's only so much a reader can take of yet another character saying something about how K doesn't know how things work in the village and how wonderful the Castle officials are, no matter how unattainable they may be. Some readers have noted that this book is "funny," presumably in a dark humor/satirical way, but sadly I did not find that to be true for the vast majority of the text. Again, the narrative really seemed to drag at times, and I lost a lot of interest by the half-way point, after which I was just ready for it to end. When the book did finally conclude - if you can call a unfinished sentence a conclusion - I was just happy it was over (although that was mixed with annoyance that the end was uncompleted!). I recognize that Kafka was ill and dying when he wrote this book and that he asked that his unfinished manuscripts be destroyed upon his death; therefore this criticism of the novel is somewhat unfair as the author was unable to revise, edit down the superfluous dialogue, fix the strange POV/tense change near the end, etc. Nevertheless, as this book is highly praised as a "must-read" classic, I looked at it through that critical lens and was deeply disappointed. The audio version with the equally praised narrator George Guidall did little to remedy the situation. I found Guidall a dull reader who only added to my attitude of "hurry-up-and-be-done" regarding this book. I'd very much recommend The Metamorphosis, The Trial, or even the short stories to anyone interested in reading Kafka for the first time, but I'd steer people away from this book personally. Just my two cents.
- Valutazione: 1 su 5 stelle1/5I love the trial, and many of Kafka's short stories but the castle lacks something somehow. Maybe it's the way the oppressive, intense rush of a confusing modern world that Kafka captures so well elsewhere can hardly hope to be translated into the medievalesque setting of this novel. It comes across as rather twee and annoying.
- Valutazione: 1 su 5 stelle1/5"I want to go to the castle!" "You can't get there from here.""But I need to go the castle!""You can't get there from here."I hated this book.
- Valutazione: 4 su 5 stelle4/5I'd never read anything like Kafka when I found "The Castle" down at my local library. I was still quite young then, and perhaps wasn't prepared for what lay in store for me; it took me a while to make my way through the book, and when I had finished I wasn't sure how to make sense of it all. I'm still not sure, but I do know that, as a piece of fiction, "The Castle" is very impressive.As a side-note, it's with some sadness that I saw my library redeveloped a few years back. It wasn't a real redevelopment - now they have computers and such - but what changed about five years was the removal of one little carousel, stuck at the end of an aisle where it didn't really belong, that was crowded with foreign books. I discovered Kafka there, and Lem too; how I wish I could make more discoveries like those so innocently, and without such precipitous expectations!
- Valutazione: 4 su 5 stelle4/5I've read the chapters in different orders and the story had meaning every time. Fascinating and twisted, but that is Kafka for you.
- Valutazione: 4 su 5 stelle4/5a novel of the futility of trying. go ahead. read it. i dare you.
- Valutazione: 3 su 5 stelle3/5This was weird, but not as weird, or as difficult, as I was expecting. The narrative flows reasonably well. There are passages that go on interminably, but there's enough action to make them bearable. It felt like reading someone else's crazy dream, with the contradictions and strange passage of time. Poor K. Accepted into the village for all the wrong reasons. I see where The Prisoner TV show got its ideas from now!
- Valutazione: 5 su 5 stelle5/5This book can be read as an introduction to dystopian literature.Joseph K. (the protagonist) arrives in a village and struggles to gain access to the mysterious authorities who govern it from a castle. K. believes that he's been invited to a town to do some land surveying, and realises upon his arrival that his invitation was maybe the result of a bureaucratic mishap. K. wants answers from the officials at the castle that overlooks the town.This book is about bureaucracy, meaning, connection, relationships, and how hierarchy impacts the way we experience and live in this world.It may be an unfinished work, but it is an amazing book that can test your conception of the real purpose in your life.
- Valutazione: 1 su 5 stelle1/5I'm getting off the Kafka train at the next stop.
- Valutazione: 1 su 5 stelle1/5No conclusion. Everyone was extremely analytical.
- Valutazione: 3 su 5 stelle3/5This book was sadly never finished by Kafka before he died in 1924. He began writing it in 1922 and it was first published after his death in 1926. It tells the story of K who is a surveyor. He is summoned to the castle, but when he arrives he is not granted admittance and it seems he was summoned by accident. He stays though and keeps trying to find ways around his exclusion and tries petitioning various people and officials.He meets Freida at one of the bars and after a tumble under one of the tables they end up engaged and living together. They are thrown out of the bar after the landlady falls out with K who generally seems to misunderstand and rub everyone up the wrong way. They end up living in a school room which is less than ideal with K's two unwanted assistants who keep getting him in more and more trouble!It's a strange novel and I never quite understood why K didn't just leave. There seemed no point in staying and I am sure he said he had a family (which I assumed meant wife) at the start. I liked the Barnabas character and his two sisters who unforatunely didn't get on with Freida at all. It's a shame it was never finished, it ends in the middle of a sentence in fact. I would love to have seen how it all played out and what became of K.
- Valutazione: 3 su 5 stelle3/5Kafka's writing style is very challenging at points, droning on with long, highly punctuated sentences, and even longer paragraphs... sometimes spanning 10 pages. Somehow... its utterly annoying and totally engaging at the same time, very bizarre.Overall, it's a pity the book was unfinished, cause I was finally starting to get into it. For those who don't know, the book literally ends in mid-sentence.The main character K. speaks for Kafka's obvious hatred for bureaucracy and authority. Toward the end of the book, (who knows where that really is in relation to the story it intended to be) you start learning some interesting facts (purely opinions, because there are no facts in his world) that really shape the book and could change the way you look at the story, but unfortunately it was never expounded on... so one never knows where Kafka could had gone with this.
- Valutazione: 3 su 5 stelle3/5This is not your usual Kafka. Some parts were so wonderfully spare and seemed to hint at something fantastic underneath the surface--relationships with God, between society and hierarchy, and the way that people distance so-called others. The dialogue sections were sooo long, though. There were several chapters that I was nearly certain were completely written in dialogue.
I know that this was a work-in-progress, clearly evinced from the very last line, before a character is about to speak...and while Kafka was experimental, I don't think he was *that* experimental. That alone makes the whole thing quite interesting. The potential is definitely there, but it is something like sitting down to a dinner, smelling the wonderful dinner-smells to such an extent that you are almost actually able to taste it, and then, discovering that there is no meal, but instead, a lengthy description about what meal you might have had, over the growling of stomachs. - Valutazione: 5 su 5 stelle5/5This is an important classic existentialist novel in the vein of other Kafka's works: absurd, heavy, gloomy, with no exit and at the same time not without a comedic sense to it. As with most of other Kafka's writings it's hard to pin them to one meaning, they are morally ambiguous and open to different interpretations. Who's to argue that Kafka here was not describing life itself?K. is the stranger who appears out of nowhere in sleepy village, a drifter, no one knows his past nor his goals. He is cold and rational and shows an uncanny ability to disarm with his arguments, winning a few hearts and minds in the process. The story, however, really takes off in Chapter 5 and 6, in which K. meets with the village mayor and the landlady, and the ensuing passages contain some brilliantly constructed dialogues. Everything in the village appears to be painfully slow, plain, mundane and yet at the same time deceitful and inexplicably complicated. Trying to reach the inaccessible fabled castle, K. finds himself in an absurd and strange existential drama and rebels.
- Valutazione: 3 su 5 stelle3/5Kafka is interesting, that's for sure. But his style does not work well for me, I find it a chore to read even though I'm intrigued by it.
- Valutazione: 2 su 5 stelle2/5A frustrating reading experience. Finished 3 chapters and thought i'd better leave it alone for now. Will eventually revisit, but for now it leaves a bad taste in my mouth.
- Valutazione: 5 su 5 stelle5/5Only a total stranger could ask such a question. Are there control agencies? There are only control agencies. Of course they aren’t meant to find errors, in the vulgar sense of that term, since no errors occur, and even if an error does occur, as in your case, who can finally say that it is an error.
We were all once younger. I don't know if we have all been haunted. - Valutazione: 4 su 5 stelle4/5I listened to the audio and I found it a lot easier to understand than trying to read it. I liked K's determination which teaches never to give up which is a good lesson. K's pain and agony were almost humorous at times as I would just say to myself, "Why don't you just move on?" As I listened I could feel the frustration of K trying to reach a goal that was so unattainable and it reminded me of some of the frustrations of everyday life. It is a difficult book to understand but I think it has a very profound message that life is an endless round of disappointments that seems to have no point but that is the point.
- Valutazione: 4 su 5 stelle4/5The Castle always has the advantage . . .
- Valutazione: 2 su 5 stelle2/5A frustrating, irritating book that accurately describes the impersonality of the bureaucracy.
- Valutazione: 3 su 5 stelle3/5The Castle tells the story of a man known simply as K. who arrives in a village to work as a surveyor at the invitation of the authorities in the town's castle, only to discover that there has been some kind of mix up and no surveyor is needed. It follows his attempts to deal with the castle's bureaucracy to receive justice or at least some kind of work (though he never manages to actually meet any of the major officials, but only communicates with them through a couple of apparently useless messages) and the village's residents, who are used to life under the castle's arbitrary rule and have little sympathy for K.'s troubles.The Castle is probably my least favorite of Kafka's major unfinished works, perhaps in part because it seems to be the most unfinished of them. It is similar to The Trial in some ways, but also different in some interesting respects. While the story in The Trial involved endless, mind-numbing bureaucracy with regard to one particular aspect of life, namely the legal system, in the world of The Castle that bureaucracy is expanded to encompass ALL aspects of life, such that life itself becomes unlivable even if one is not accused of any wrongdoing. So The Castle is rather broader, but thus loses the focus of a work like The Trial (on the issue of guilt, in that case)...and that broadness seems to have fomented Kafka's tendency toward vagueness.The Castle also feels somewhat rambling---there are some amusing or thought-provoking parts, but in general it just doesn't seem to be going anywhere. That's kind of the point, of course, but after a while it just starts to drag. It didn't seem that well-written for Kafka either, but I don't know how much of that is due to Mark Harman's translation of this edition and how much to the rough state of Kafka's original drafts.On the whole, worth reading perhaps once, but some of Kafka's other work is better.
- Valutazione: 3 su 5 stelle3/5Being very dry and long-winded while being an unfinished book, The Castle was very hard to get through for me. Although it was only 280 pages, it would be much more if it had been edited using standard practices. As this is the first book by Kafka I have read, I am not sure if it his style, or because he didn't finish the book, but paragraph breaks were few and far between, even when there was a change in dialogue speaker.I did enjoy and find rather relatable Kafka's themes of the absurdity of a nontransparent, yet subtly out-of-control bureaucracy; the absurdity of the the status quo; and how people can have such different, yet thoroughly thought-out perspectives, possibly stemming from deeply ingrained biases.
- Valutazione: 2 su 5 stelle2/5This survived all three editions so far of '1001 Books You Must Read Before You Die'? I don't think it should have. 'The Trial' made my list of favorites the year I read that, so it can't be because I don't like Kafka. A lot of the same elements were in both books, but I guess The Trial was just more polished. The Castle is really an unfinished book, so you have to wonder how much Kafka may have changed it if he could have. And this is one of the books Kafka never wanted to publish. If The Castle was the first Kafka book I read, I don't think I would have tried any others. While reading this, I was jokingly thinking maybe "Kafkaesque" means a nightmarish book that never ends, takes way too long to read and seems pretty pointless, but then the book ends in the middle of a sentence, almost like waking up in the middle of a nightmare. I'd say try The Trial.
Anteprima del libro
Il Castello - Franz Kafka
Capitolo primo
Era tarda sera, quando K. arrivò. Il villaggio era immerso in una spessa coltre di neve. Non si riusciva a vedere la collina, nebbia e oscurità la circondavano, neanche il più debole bagliore di luce indicava il grande Castello. K. rimase a lungo sul ponte di legno che dalla strada maestra conduceva al villaggio, e guardò su, nel vuoto apparente.
Poi andò in cerca di un rifugio per la notte: nella locanda c'era ancora gente sveglia, l'oste non aveva camere da affittare, ma, chiaramente sorpreso e confuso dall'ospite tardivo, fece dormire K. nella sala della locanda, su un pagliericcio.
Alcuni contadini stavano ancora bevendo birra, ma egli non volle parlare con nessuno, si prese il sacco dal solaio e si coricò accanto alla stufa. Faceva caldo, i contadini se ne stavano in silenzio; li osservò ancora un po' con gli occhi stanchi e poi si addormentò.
Poco dopo, però, venne svegliato. Un giovane, in abito cittadino con la faccia da attore, gli occhi stretti e sopracciglia marcate, era ritto accanto a lui insieme all'oste. Anche i contadini erano ancora là, alcuni avevano girato le sedie per guardare e ascoltare meglio. Il giovane si scusò molto cortesemente con K. per averlo svegliato, si presentò come il figlio del portinaio e disse: «Questo villaggio è proprietà del Castello, chi abita o pernotta qui, in un certo senso abita o pernotta nel Castello. Nessuno può farlo senza il permesso del Conte; lei però non ha questo permesso, o almeno non l'ha mostrato». K. si era sollevato, si era ravviati i capelli, diede uno sguardo alla gente e disse: «In quale villaggio mi sono perduto? C'è un castello qui?».
«Sicuro», disse il giovane lentamente, «il Castello del signor Conte Westwest», mentre qua e là qualcuno scuoteva la testa nei confronti di K.
«E per pernottare si deve avere il permesso?», chiese K., quasi volesse convincersi, di non aver sognato le precedenti comunicazioni.
«Si deve avere il permesso», fu la risposta, e come per prenderlo in giro il giovane chiese, con il braccio teso, all'oste e agli ospiti: «Oppure non lo si deve avere?».
«Allora dovrò andarmelo a prendere», disse K. sbadigliando e tirando via la coperta, quasi volesse alzarsi.
«Sì, e da chi?», chiese il giovane.
«Dal signor Conte», disse K., «non c'è altro da fare.»
«Andare a prendere il permesso dal signor Conte ora, a mezzanotte?», gridò il giovane facendo un passo indietro.
«Non è possibile?», chiese K. imperturbabile. «Allora perché mi avete svegliato!» Il giovane andò fuori di sé. «Che modi da vagabondo!», urlò. «Esigo rispetto dinanzi alle autorità del Conte. L'ho svegliata apposta, per comunicarle che deve lasciare immediatamente i territori del Conte.»
«Basta con la commedia», disse K. a voce stranamente bassa, e, coricandosi di nuovo si tirò sopra la coperta. «Sta esagerando, giovanotto e domani riparleremo della sua condotta. L'oste e i signori là sono testimoni, per quanto ne possa aver bisogno. Ma lasci che le dica che sono l'agrimensore chiamato dal Conte. I miei aiutanti arriveranno domani in carrozza con gli strumenti. Non volevo lasciarmi sfuggire una camminata sulla neve, ma purtroppo ho sbagliato strada più volte, per questo sono arrivato così tardi. Che fosse troppo tardi per annunciarmi al Castello, lo avevo capito da solo, senza i suoi insegnamenti. Perciò mi sono accontentato di questo pagliericcio, dove lei ha avuto la scortesia — a dir poco — di disturbarmi. E con questo ho finito, Buona notte, signori.» E K. si girò verso la stufa. «Agrimensore?», udì una voce titubante domandare dietro le sue spalle, poi fu silenzio assoluto. Il giovane, però, si riprese subito e disse all'oste con un tono sommesso abbastanza da apparire rispettoso del sonno di K., ma forte quel tanto che bastava perché K. potesse comprendere. «Chiederò istruzioni per telefono.» Come, c'era anche un telefono in questa locanda di paese? Un'eccellente organizzazione. Il particolare sorprese K., sebbene si attendesse di tutto. Il telefono era appeso poco sopra la sua testa, ed egli, assonnato com'era, non lo aveva notato. Se dunque il giovane doveva telefonare, non poteva non disturbare, con tutta la buona volontà, il sonno di K. Ora si trattava di capire se K. lo volesse far telefonare, ed egli decise di permetterglielo. Allora non aveva più alcun senso fingere di dormire e perciò ritornò in posizione supina. Vide i contadini serrarsi timidamente e parlare tra loro. L'arrivo di un agrimensore non era cosa da poco. La porta della cucina si aprì, di là c'era l'imponente figura dell'ostessa che riempiva lo spazio della porta. L'oste le si avvicinò in punta di piedi per informarla di quanto stava accadendo. E poi cominciò la telefonata. Il portinaio dormiva, ma c'era un sottoportinaio, uno dei sottoportinai, un certo signor Fritz. Il giovane, che si presentò come Schwarzer, raccontò come avesse trovato K., un uomo sulla trentina, veramente male in arnese, tranquillamente addormentato su un pagliericcio, con un minuscolo zaino che gli faceva da cuscino e un nodoso bastone a portata di mano. Naturalmente gli era sembrato sospetto e siccome l'oste non aveva fatto il proprio dovere, egli — Schwarzer — aveva adempiuto il suo, andando sino in fondo alla cosa. Il risveglio, l'interrogatorio, la minaccia doverosa della cacciata dalla contea, erano stati accolti con sdegno da K., forse a ragione, avendo egli affermato di essere un agrimensore chiamato dal Conte. Naturalmente era suo dovere, almeno dal punto di vista formale, verificare tale affermazione; e Schwarzer pregava quindi il signor Fritz di informarsi alla cancelleria centrale se realmente era atteso un agrimensore e di telefonare subito la risposta.
Si fece silenzio. Laggiù Fritz era andato ad informarsi, e qui si aspettava una risposta. K. non si era mosso, non si era mai girato, non sembrava incuriosito. Guardava fisso dinanzi a sé. Il racconto di Schwarzer col suo miscuglio di malignità e cautela gli diede l'immagine di quel certo costume diplomatico, di cui disponevano, nel Castello, anche subalterni come Schwarzer. E là si lavorava persino con zelo, in quanto la cancelleria centrale faceva anche servizio notturno. Evidentemente diedero una risposta molto rapida, perché Fritz già richiamava. La comunicazione, però, dovette essere molto breve perché Schwarzer riattaccò la cornetta furibondo.
«L'avevo detto, io!», gridò. «Nessuna traccia di agrimensori, un volgare vagabondo bugiardo, e forse peggio.» K. pensò per un momento che, tutti, Schwarzer, i contadini, l'oste e la moglie si sarebbero lanciati contro di lui. Per evitare almeno il primo assalto si rannicchiò sotto la coperta. Il telefono squillò di nuovo, particolarmente forte, almeno così sembrò a K. Pian piano tirò fuori la testa. E sebbene fosse strano che la chiamata riguardasse di nuovo K., tutti rimasero immobili e Schwarzer ritornò all'apparecchio. Rimase ad ascoltare una conversazione piuttosto lunga e poi disse a bassa voce: «Un errore? È davvero spiacevole per me. Ha telefonato il capufficio in persona? Strano, strano. Come lo spiegherò al signor agrimensore?».
K. stava con l'orecchio teso. Il Castello, dunque, lo aveva nominato agrimensore. Da un lato questo gli sembrava sfavorevole, perché dimostrava che sapevano tutto di lui e, soppesati i rapporti di forza, accettavano sorridendo la lotta. D'altro canto era un bene perché, secondo lui, dimostrava che era stato sottovalutato, lasciandolo così più libero di quanto non avesse potuto sperare in un primo momento. E se pensavano di poterlo intimorire a lungo con la superiorità morale del riconoscimento delle sue mansioni di agrimensore, si illudevano; un brivido gli percorse la schiena, ma niente di più.
A Schwarzer, che timidamente si stava avvicinando, K. fece cenno di andarsene; rifiutò gli inviti insistenti di trasferirsi nella camera dell'oste e accettò soltanto da questi un bicchierino, prima di andare a letto, e dall'ostessa un catino con sapone e asciugamano. E non dovette nemmeno chiedere che venisse sgomberata la sala, perché tutti si affrettarono a uscire, con la faccia volta altrove, per non rischiare di essere riconosciuti la mattina dopo. Spensero la luce e finalmente ebbe un po' di pace. Dormì profondamente fino al mattino, disturbato una o due volte appena dalle corse dei topi.
Dopo la colazione, che secondo l'oste doveva essere pagata dal Castello, come tutto il mantenimento di K., volle recarsi subito al villaggio. Ma poiché l'oste, con il quale aveva scambiato solo le parole necessarie, ricordando il suo comportamento del giorno prima, gli girava continuamente attorno in atteggiamento di muta preghiera, ebbe compassione di lui e per un momento lo fece sedere accanto a sé.
«Ancora non conosco il Conte», disse K. «Deve pagare bene i lavori ben fatti, non è vero? Quando uno va tanto lontano da moglie e figli come me, vorrebbe portare a casa qualcosa.»
«In quanto a questo il signore non deve preoccuparsi, non si è mai sentito nessuno lamentarsi di essere stato pagato male.»
«Bene», disse K. «Io non sono timido e so dire ciò che penso anche a un Conte, ma con i signori è molto meglio risolvere le questioni in modo amichevole.» L'oste sedeva di fronte a K., sul bordo del sedile vicino la finestra; non osava sedersi più comodamente e per tutto il tempo fissava K. con grandi occhi scuri e spauriti. In un primo momento aveva cercato la sua compagnia, e ora sembrava quasi che volesse scappare via. Temeva di essere interrogato a proposito del Conte? Diffidava di K., credendolo un «signore»? K. cercò di rassicurarlo. Guardò l'orologio e disse: «Presto arriveranno i miei aiutanti, puoi trovare loro una sistemazione?».
«Certo, signore», rispose, «ma non abiteranno con te al Castello?» Rinunciava così facilmente e volentieri ai clienti, e soprattutto a K., che collocava senz'altro nel Castello? «Non è ancora sicuro», disse K., «prima devo sapere che tipo di lavoro mi hanno affidato. Se ad esempio dovessi lavorare quaggiù, sarà più ragionevole abitare qui. In effetti temo che la vita lassù al Castello non mi vada a genio. Voglio essere sempre libero, io.»
«Tu non conosci il Castello», disse l'oste a bassa voce.
«Certamente», rispose K., «non bisogna dare giudizi prematuri. Per il momento del Castello non so altro se non che è esperto nel cercarsi un agrimensore capace. Ma forse ci saranno altri pregi.» E si alzò per liberare della sua presenza l'inquieto oste che stava mordendosi le labbra. Non era facile conquistare la fiducia di quest'uomo.
Allontanandosi, K. notò alla parete un ritratto scuro in una cornice nera. Lo aveva notato già dal suo giaciglio, ma da lontano non ne aveva distinto i particolari e aveva creduto che il quadro vero e proprio, fosse stato portato via dalla cornice e si trattasse di un fondo nero. Invece il quadro c'era; era il ritratto a mezzo busto di un uomo sulla cinquantina. Costui teneva il capo così chino sul petto tanto che gli occhi si potevano appena vedere. Un atteggiamento dovuto alla fronte alta e pesante e al naso grande e adunco. La barba, schiacciata al petto dalla posizione della testa, si allargava più in basso. La mano sinistra era allargata tra i capelli folti, ma non riusciva più a sollevare la testa. «Chi è?», chiese K. «Il Conte?» Stava in piedi davanti al quadro, senza voltarsi per guardare l'oste. «No», rispose l'oste. «È il portinaio.»
«Avete davvero un bel portinaio al Castello», riprese K. «Peccato che il figlio sia così mal riuscito.»
«No», disse l'oste, e tirando un po' verso di sé K., gli sussurrò all'orecchio: «Ieri Schwarzer ha esagerato, suo padre è solo un sotto portinaio, e addirittura uno degli ultimi». In quel momento l'oste parve a K. un bambino. «Che furfante», disse ridendo; l'oste però non rise, disse: «Anche suo padre è potente». «Ma va'!», disse K. «Per te sono tutti potenti. Lo sono anch'io?»
«Tu?» disse l'oste timido ma serio. «No, tu non sei potente.»
«Allora sei un buon osservatore», disse K. «Infatti, detto in confidenza, non sono affatto potente. E per questa ragione non ho meno rispetto di te per i potenti, soltanto che non sono sincero come te e non sempre voglio ammetterlo.» E K. diede un buffetto sulla guancia dell'oste per confortarlo e attirarsi la sua simpatia. Allora egli sorrise un po'. Era un giovane dal viso delicato e quasi glabro; come aveva potuto mettersi con quella donna grassa e matura che si vedeva trafficare di là, dietro una finestrella, con le braccia puntate sui fianchi? K. non volle indagare oltre per non scacciare quel sorriso che era finalmente riuscito ad ottenere. Gli fece soltanto cenno di aprirgli la porta e uscì nel bel mattino invernale.
Guardò in alto* verso il Castello chiaramente delineato nell'aria limpida, e il sottile strato di neve che ricopriva tutto, ne faceva risaltare ancora più nettamente i contorni. Del resto sembrava che lassù sulla collina ci fosse molta meno neve che nel villaggio, dove K. procedeva con non minore fatica rispetto al giorno precedente lungo la strada maestra. Qui la neve arrivava sino alle finestre delle capanne e gravava sui tetti bassi, mentre lassù sulla collina tutto si ergeva libero e leggero, almeno così pareva dal basso.
Come appariva da lontano, il Castello corrispondeva alle aspettative di K. Non era né una vecchia fortezza feudale, né una nuova costruzione fastosa; era piuttosto una vasta costruzione composta da pochi edifici a due piani e da molte case basse una accanto all'altra. Se non si fosse saputo che era un castello, lo si sarebbe potuto scambiare per una piccola città. K. vide solo una torre, ma non riusciva a capire se si trattasse di un'abitazione o di una chiesa. Uno stormo di cornacchie le volava intorno.
K. proseguì il cammino con lo sguardo fisso sul Castello e null'altro lo interessava. Ma, con l'avvicinarsi, il Castello lo deluse. Non era che una misera cittadina, un insieme di casupole con la sola particolarità di essere costruite tutte in pietra; l'intonaco, però, era caduto da tempo e la pietra sembrava scrostarsi. Per un attimo K. si ricordò del suo paese natale, era messo appena peggio di quel cosiddetto Castello. Se K. fosse venuto solo per una visita sarebbe stato un viaggio sprecato; avrebbe fatto meglio a ritornare al suo vecchio villaggio, che non vedeva da molto tempo. E ripensando paragonò il campanile del suo paese con la torre lassù. Il campanile si stagliava deciso, senza esitazione, rastremato in alto, col tetto largo coperto di tegole rosse: una costruzione terrestre — che altro potremmo edificare, noi? — Ma con un più alto scopo che questa accozzaglia di casupole e con una espressione più chiara che non il grigio lavoro quotidiano. La torre lassù l'unica che riuscisse a vedere — era forse la torre di un'altra abitazione, ora lo si riusciva a capire, forse del corpo principale del Castello; era una costruzione rotonda e uniforme, in parte ricoperta pietosamente di edera, con le piccole finestre, che ora scintillavano al sole. Aveva qualcosa di allucinante, con una sorta di terrazzo nella parte finale, le cui merlature incerte, irregolari e diroccate, disegnate da una mano infantile timorosa o negligente, si frastagliavano nel cielo azzurro. Era come se un triste abitante di una casa che, secondo giustizia, avrebbe dovuto rimanere rinchiuso nella stanza più lontana, avesse sfondato il tetto e si fosse innalzato per mostrarsi al mondo.
K. si fermò di nuovo, come se col silenzioso sostare acquistasse maggiore capacità di giudizio. Qualcosa però lo disturbò. Dietro la chiesa del villaggio vicino alla quale si era fermato — non era altro che una cappella ampliata come un capannone per contenere i parrocchiani — c'era una scuola. Era una costruzione lunga e bassa, che dava allo stesso tempo la sensazione del provvisorio e dell'antico, in un giardino delimitato da un cancello ora ricoperto dalla neve.
In quel momento uscivano i bambini con il maestro. Facevano ressa attorno a lui, tutti gli occhi erano fissi su di lui, chiacchieravano senza sosta da tutte le parti così svelti, che K. non capiva assolutamente le loro parole. L'insegnante, un giovane piccolo e gracile di spalle, ma senza per questo essere ridicolo, camminava eretto, aveva già notato K. da lontano; in verità egli era l'unica persona, oltre al suo gruppo, visibile in giro a vista d'occhio. K., in qualità di forestiero salutò per primo, tanto più che l'omino aveva un aspetto autoritario. «Buon giorno signor maestro», disse. D'un tratto i bambini ammutolirono; e l'improvviso silenzio come preparazione alle sue parole dovette piacere al maestro: «Sta guardando il Castello?», chiese con un tono più benigno di quanto K. si attendesse, ma dando l'impressione di non approvare quanto stava facendo. «Sì», disse K. «Non sono di qui, sono arrivato soltanto ieri sera.»
«Il Castello non le piace?», domandò velocemente l'insegnante. «Come?», tornò a chiedere K. un po' stupito, ripetendo la domanda in una forma più blanda. «Se mi piace il Castello? Perché crede che non mi piaccia?»
«Non piace a nessun forestiero», disse il maestro. Per non dire niente di sgradevole, K. cambiò discorso chiedendo: «Lei conoscerà bene il Conte». «No», rispose il maestro facendo l'atto di allontanarsi. K., però non desistette e tornò a chiedere: «Come, non conosce il Conte». «Perché, dovrei conoscerlo?» disse l'insegnante e aggiunse in francese: «Abbiate riguardo della presenza di bambini innocenti». K. si senti in diritto di chiedere: «Signor maestro, potrei venire a farle visita? Dovrò rimanere a lungo qui e già mi sento un po' solo; non mi sento a mio agio tra i contadini e men che meno al Castello». «Tra i contadini e il Castello non c'è una grande differenza», disse il maestro. «Può essere», disse K., «ma questo non cambia la mia situazione. Potrei venire a farle visita?»
«Io abito dal macellaio in Schwanengasse.» Piuttosto che un invito era la comunicazione di un recapito, tuttavia K. disse: «Bene, verrò». Il maestro annuì e proseguì immediatamente con il gruppo dei bambini che avevano ripreso a schiamazzare. Sparirono subito in un vicolo che scendeva ripido.
K. però era stordito, irritato dal colloquio. Per la prima volta dal suo arrivo si sentiva veramente stanco. All'inizio, il lungo cammino non sembrava averlo affaticato, aveva camminato in quei giorni, tranquillamente, passo dopo passo! Ora, però, sentiva le conseguenze dell'eccessivo sforzo, certamente nel momento meno opportuno. Era attirato irresistibilmente da nuove conoscenze, ma ognuna aumentava la sua spossatezza. Se nella sua condizione attuale si fosse imposto di allungare la passeggiata almeno fino all' ingresso del Castello, avrebbe fatto già troppo.
Dunque proseguì, ma il cammino era lungo. La strada infatti, cioè la strada principale del villaggio, non conduceva alla collina del Castello, ma solo nelle vicinanze; poi però, quasi di proposito, deviava e, sebbene non si allontanasse dal Castello, non ci si avvicinava neppure. K. aspettava sempre che finalmente la strada prendesse la direzione del Castello e soltanto questa speranza lo induceva a proseguire; chiaramente, a causa della stanchezza, esitava a lasciare la strada e si stupiva della lunghezza del paese che sembrava non aver fine; sempre casette e finestre incrostate di ghiaccio, neve e assenza di esseri umani. Finalmente si staccò da quella strada che lo teneva prigioniero, e lo accolse un vicolo angusto ancora più ricoperto dalla neve, tanto che sollevare i piedi che vi sprofondavano era diventata una fatica. Era grondante di sudore, all'improvviso si fermò e non riuscì più a proseguire.
Comunque non si era smarrito; a destra e a sinistra c'erano delle casupole di contadini. Fece una palla di neve e la lanciò contro una finestra. Subito si aprì la porta — la prima che si apriva durante tutto il suo cammino — e comparve un vecchio gentile e debole, con una pelliccia, e la testa inclinata da una parte. «Posso entrare un può da lei?», chiese K., «sono molto stanco.» Non udì le parole del vecchio e accettò ringraziando l'asse che fu spinta verso di lui e che lo salvò dalla neve, e con pochi passi entrò in casa.
Era una grande stanza nella penombra. Chi entrava da fuori all'inizio non vedeva niente. K. finì barcollando contro un mastello, una mano di donna lo trattenne. Da un angolo giungevano grida infantili. Da un altro saliva del fumo che oscurava la penombra. K. stava lì come in mezzo a una nuvola. «È ubriaco», disse qualcuno. «Chi è lui?», gridò una voce imperiosa, e subito rivolta al vecchio: «perché l'hai fatto entrare? È necessario far entrare chiunque si aggiri per i vicoli?». «Sono l'agrimensore del Conte», disse K. cercando di giustificarsi davanti all'uomo che ancora non riusciva a vedere. «Ah, è l'agrimensore», disse una voce di donna, e seguì un silenzio assoluto. «Mi conoscete?» chiese K. «Certamente», rispose brevemente la stessa voce. Il fatto che conoscessero K. non sembrava raccomandarlo.
Finalmente il fumo si diradò un poco, e K. potè lentamente orientarsi. Sembrava che fosse giorno di bucato. Vicino alla porta si lavava la biancheria. Il vapore, però, arrivava anche dall'altro angolo, dove due uomini facevano il bagno nell'acqua fumante di una tinozza di legno; K. non ne aveva mai viste di così grandi, occupava quasi il posto di due letti. Ma ancora più sorprendente, anche se non se ne capiva bene il motivo, era l'angolo di destra. Da una grande apertura, l'unica nella parete posteriore della stanza, entrava una luce smorta di neve proveniente dal cortile, che dava una parvenza di seta al vestito di una donna stanca, semisdraiata in un'alta poltrona in fondo all'angolo. Aveva un lattante al seno. Attorno a lei giocavano alcuni bambini dall'aspetto di contadini; ella invece non sembrava appartenere al loro ambiente. Certamente la malattia e la stanchezza rendono raffinati anche i contadini.
«Sedete», disse uno degli uomini, che portava una grande barba e un paio di baffi sotto i quali la bocca era sempre aperta e ansimava senza posa. Indicò con un gesto buffo della mano oltre il bordo della tinozza una cassapanca, spruzzando di acqua calda tutta la faccia di K. Sulla cassapanca stava già seduto il vecchio che aveva fatto entrare K., già mezzo appisolato. K. fu lieto di potersi finalmente sedere. E da quel momento nessuno si curò più di lui. La donna al lavatoio, bionda, e di una floridezza giovanile, cantava a bassa voce mentre lavava; gli uomini che facevano il bagno sguazzavano nell'acqua; i bambini che cercavano di avvicinarsi venivano allontanati con potenti spruzzi che non risparmiavano nemmeno K.; la donna sulla poltrona era distesa quasi inerte, neanche abbassava lo sguardo sul bimbo che teneva al seno, ma fissava un punto indistinto nell'aria.
K. osservò a lungo questa bella scena immobile e triste; poi, però, doveva essersi addormentato, perché quando venne scosso da una voce sonora, si accorse che la sua testa era appoggiata alla spalla del vecchio accanto a lui. Gli uomini erano usciti dalla tinozza dove ora giocavano i bambini controllati dalla donna bionda, ed erano in piedi davanti a K., vestiti. L'uomo barbuto che prima aveva gridato sembrava il meno importante dei due. L'altro, infatti, non più alto del barbuto e con una barba molto meno imponente, era un uomo taciturno dai pensieri lenti, largo di figura e di viso e teneva la testa china. «Signor agrimensore», disse, «perdoni la mia scortesia, ma non può restare qui.»
«Non avevo intenzione di fermarmi», disse K., «volevo soltanto riposarmi un po'. Ora l'ho fatto e quindi me ne vado.»
«Forse si meraviglierà per la nostra scarsa ospitalità, ma non è nostro costume essere ospitali; noi non abbiamo bisogno di ospiti.» Un po' ristorato dal sonno e un po' più lucido di prima, K. si rallegrò di quel parlar chiaro. Si muoveva più liberamente, appoggiava il suo bastone qua e là, si avvicinò alla donna sulla poltrona, che, del resto, era la più grande nella stanza.
«Certo», disse K., «a che vi servono gli ospiti? Ma qualche volta si può averne bisogno, ad esempio di me, dell'agrimensore.»
«Non lo so», disse l'uomo lentamente, «se qualcuno l'ha chiamata evidentemente avrà bisogno di lei, sarà un caso eccezionale, ma noi gente modesta, ci atteniamo alle regole, e non può biasimarci.»
«No, no», disse K., «io non posso che ringraziare lei e tutti i presenti.» E sorprendendo tutti, si girò con un salto fermandosi davanti alla donna. Ella osservò K. con gli stanchi occhi azzurri, un fazzoletto di seta trasparente le copriva il capo chino sino a metà della fronte; il lattante dormiva sul suo petto: «Chi sei?», chiese K. in tono sprezzante — non era chiaro se il disprezzo si riferisse a K. o alle proprie parole — rispose: «Una ragazza del castello».
Tutto durò un attimo, già gli uomini avevano affiancato K. da entrambi i lati e in silenzio, ma con tutte le forze, lo misero alla porta, come se non ci fosse altro mezzo per farsi capire. Il vecchio aveva l'aria di divertirsi molto e batteva le mani. Anche la lavandaia rideva vicino ai bambini che all'improvviso si erano messi a schiamazzare.
K. si trovò improvvisamente in strada, gli uomini lo controllavano dalla soglia. Aveva ripreso a nevicare, sebbene sembrasse un può più chiaro. L'uomo barbuto gridò impaziente: «Dove vuole andare? Per qui si va al castello e di là al villaggio». K. non rispose a lui, ma si rivolse all'altro, che nonostante la sua superiorità sembrava più socievole. «Chi siete, e chi debbo ringraziare per la sosta?»
«Io sono il mastro conciatore Lasemann», fu la risposta, «ma non deve ringraziare nessuno.»
«Bene», disse K., «forse ci rivedremo.»
«Non credo», disse Lasemann. In quel momento l'uomo barbuto gridò alzando la mano: «Buon giorno Arthur, buon giorno Jeremias!». K. si voltò; allora c'erano altre persone per la strada del villaggio! Provenienti dalla strada del castello si avvicinavano due giovani, di altezza media, entrambi molto magri e con gli abiti aderenti, e si assomigliavano parecchio. Dalla carnagione molto scura dei loro visi spiccava un pizzo particolarmente nero; con la strada in quelle condizioni camminavano a velocità sorprendente, muovendo al passo le loro gambe magre. «Che vi è successo?», gridò l'uomo barbuto — solo gridando riuscì a farsi comprendere, tanto andavano veloci senza fermarsi. «Affari», risposero ridendo ad alta voce. «E dove?»
«Alla locanda.»
«Ci vado anch'io», gridò K., per una volta più forte degli altri; aveva una gran voglia di unirsi ai due. La loro conoscenza non gli avrebbe giovato molto, ma dovevano essere bravi ragazzi e certamente la loro compagnia lo avrebbe rianimato. Essi udirono le parole di K., ma fecero soltanto un cenno col capo e lo sorpassarono.
K. era ancora sprofondato nella neve, e non aveva voglia di sollevare i piedi per affondarli di nuovo un po' più in là; il mastro conciatore e il suo compagno, soddisfatti di aver messo definitivamente alla porta K., rientrarono in casa lentamente voltandosi di continuo a guardarlo attraverso la porta lasciata socchiusa. K. rimase solo con la neve che lo ricopriva. «Ecco l'occasione per farsi prendere dallo sconforto, se solo mi trovassi qui per caso e non per mia volontà», pensò.
In quel momento si aprì una piccola finestra di una capanna sulla sinistra, che chiusa era sembrata di un bel blu scuro, forse per il riflesso della neve, ed era così piccola che, ora che era aperta non si riusciva a vedere tutto il volto dell'uomo alla finestra, ma solo gli occhi: occhi scuri di un vecchio. «È ancora là», disse una tremula voce di donna. «È l'agrimensore», disse una voce maschile. Poi l'uomo si affacciò e chiese con un tono non scortese, ma come se si fosse preoccupato che tutto fosse a posto sulla strada davanti casa sua: «Che sta aspettando?». «Una slitta che mi dia un passaggio», rispose K. «Per di qua non passano slitte», disse l'uomo, «da queste parti non c'è traffico.»
«Ma è la strada che porta al Castello», obiettò K. «Non importa», disse l'uomo con una certa inflessibilità, «qui non passa nessuno.» Poi entrambi tacquero. Si vedeva però che l'uomo stava pensando a qualcosa, perché la finestra, dalla quale usciva del fumo, rimaneva ancora aperta. «Una brutta strada», disse K. per venirgli in aiuto.
«Eh già», rispose semplicemente l'uomo.
Ma dopo un po' disse: «Se vuole la porto io con la mia slitta». «Se lo fa, quanto vuole?», chiese K. contento. «Niente», disse l'uomo.
K. rimase molto stupito. «Lei è l'agrimensore», spiegò il vecchio, «e appartiene al Castello. Allora, dove vuole andare?»
«Al Castello», s'affrettò a rispondere K. «Allora non la porto», replicò subito l'uomo. «Ma appartengo al Castello», disse K., ripetendo le stesse parole dell'uomo. «Forse», disse quello con un tono poco affabile. «Allora mi porti alla locanda», disse K. «Bene», rispose l'uomo. «Vengo subito con la slitta.» Il tutto non diede l'impressione di una particolare amichevolezza, quanto piuttosto di una sorta di premura, molto egoistica, ansiosa, quasi pedantesca di allontanare K. dalla soglia di casa.
Il portone del cortile si aprì e apparve una piccola slitta adatta per piccoli carichi, piatta e senza un sedile, tirata da un cavalluccio fragile: dietro c'era l'uomo, curvo, debole, zoppicante, dal viso magro, rosso e raffreddato, che sembrava ancora più piccolo, con uno scialle di lana avvolto ben stretto sul capo. L'uomo era visibilmente malato, eppure era uscito pur di allontanare K. Questi accennò qualcosa in proposito, ma l'uomo scosse la testa. K. venne informato soltanto che egli era il carrettiere Gerstäcker e che aveva preso quella scomoda slitta soltanto perché era già pronta e tirarne fuori un'altra avrebbe richiesto troppo tempo. «Si sieda», disse indicando con la frusta la parte posteriore della slitta. «Mi siederò accanto a lei», disse K. «Io andrò a piedi», disse Gerstäcker. «E perché mai?», chiese K. «Andrò a piedi», ripetè Gerstäcker, e fu colto da un attacco di tosse tale che dovette puntare i piedi nella neve e aggrapparsi al bordo della slitta. K. non disse altro, si sedette dietro, dove gli era stato indicato, la tosse pian piano si calmò e partirono.
Il Castello là in alto, già stranamente scuro, che K. aveva sperato di raggiungere in giornata, si allontanava di nuovo. Quasi in segno di temporaneo commiato, risuonò da lassù un tocco di campana, gioioso e alato, un tocco, che, almeno per un attimo, gli fece tremare il cuore, quasi lo minacciasse, perché il rintocco era anche doloroso, l'adempimento delle sue incerte aspirazioni. Ma ben presto la grande campana tacque e seguì una campanella fioca e monotona forse proveniente da lassù, o forse dal villaggio. Lo scampanellìo si addiceva meglio al lento viaggio e al miserevole ma inesorabile carrettiere.
«Ehi», disse improvvisamente K. — erano arrivati già nelle vicinanze della chiesa, mancava poco per la locanda e K. poteva già osare qualcosa. «Mi meraviglio molto che tu osi portarmi in slitta sotto la tua responsabilità, ne hai poi diritto?» Gerstäcker non se ne diede per inteso e continuò a camminare accanto al cavallino. «Ehi», gridò K., raccogliendo della neve sulla slitta e facendone una palla con cui colpì Gerstäcker in un orecchio. Allora l'uomo si fermò e si voltò indietro; ma quando K. lo vide così vicino a sé — la slitta era scivolata in avanti ancora per un può — quella figura curva, in un certo qual modo maltrattata, il viso rosso, stanco e affilato con le guance diverse, l'una piatta e l'altra incavata, la bocca aperta e attenta, in cui spuntavano non più di un paio di denti, dovette ripetere con compassione quello che prima aveva detto con cattiveria, cioè se Gerstäcker non avrebbe potuto essere punito per averlo trasportato. «Cosa vuoi?», domandò Gerstäcker senza capire, ma senza attendere un'ulteriore spiegazione incitò il cavallo e ripartirono.
Capitolo secondo
Quando furono nei pressi della locanda — K. lo capì da una svolta della strada — si accorse con grande stupore che era già completamente buio. Era stato via così tanto tempo? Secondo i suoi calcoli non più di un'ora o due; era uscito di mattina e non aveva neanche sentito il bisogno di mangiare. E fino a poco prima era stato giorno chiaro; solo ora s'era fatto buio. «Che giornate corte, che giornate corte», disse tra sé, scese dalla slitta e andò all'osteria.
Con grande gioia vide, in cima alla scala esterna della casa, l'oste che gli faceva luce con la lanterna alzata. All'improvviso si ricordò del carrettiere e si fermò. Sentì un colpo di tosse, da qualche parte nel buio: era lui. Dopo tutto lo avrebbe rivisto presto. Solo quando arrivò in cima alle scale accanto all'oste che lo salutava umilmente, notò due uomini ai lati della porta. Prese la lanterna dalla mano dell'oste e li illuminò; erano i due che aveva già incontrato, chiamati Arthur e Jeremias, che ora gli davano un saluto militaresco. K. rise, ricordandosi del suo periodo militare, di quel periodo felice. «Chi siete?», domandò guardandoli l'uno dopo l'altro. «I suoi aiutanti», risposero. «Sono i suoi aiutanti», confermò l'oste a bassa voce. «Come?» chiese K., «Siete i miei vecchi aiutanti, quelli che ho fatto venire e che stavo aspettando?» Es^si confermarono. «Bene», disse K. dopo un po'. «È un bene che siate arrivati.» — «Del resto», continuò dopo un altro breve istante di silenzio, «arrivate molto tardi, siete ben negligenti.»
«La strada era lunga», disse uno. «Una strada lunga», ripetè K.,