Pagine sparse
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I ricordi...
I ricordi sono pagine che la vita accumula e consegna ad ognuno. A suo piacimento la memoria li rievoca percorrendo strade invisibili, nascoste. E Francesca, una madre d’altri tempi arrivata al capolinea della sua vita, li riattraversa, quasi a dar conto di un vissuto. Il suo vissuto è fatto di amore totale e di dedizione, di dolore e di cura, e tuttavia i retaggi culturali ed epocali ereditati hanno reso le pagine sparse della sua memoria un filo che snoda la difficoltà di manifestare attraverso il calore della gestualità i propri sentimenti e le emozioni.
Ma l’osservanza del riserbo in cui gli otto figli di Francesca sono cresciuti, più che ingenerare asperità e barriere, produce appartenenza. È risaputo, infatti, che per i figli la casa materna è pavimento ed orizzonte, abito e abitudine, soprattutto se qualcuno, come fa Francesca, lascia per loro una chiave nella toppa.
Antonietta Notarangelo, in Pagine sparse, intrecciando voci che dialogano da lontano, che riflettono, che narrano, crea uno splendido affresco della complessa figura materna e del ruolo psicopedagogico che riveste.
Antonietta Notarangelo vive a Modena. Insegnante di Italiano e Storia nelle Scuole Medie Superiori, si è occupata di formazione e aggiornamento del personale docente. È coautrice dei volumi Letteratura e cinema raccontano l’emigrazione; La storia sulle spalle.
Ha lavorato a progetti sperimentali su tematiche interculturali e di Storia locale.
Ha ideato mostre e percorsi di lettura pubblica con inconsueti tagli interpretativi.
Relatrice in convegni e giornate seminariali, si è occupata di Shoah e di Primo Levi, di don Milani, di fonti letterarie nella storia, di Arte contemporanea.
Attualmente collabora con l’Archivio Storico Diocesano di Modena.
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Anteprima del libro
Pagine sparse - Antonietta Notarangelo
Prefazione di Barbara Alberti
Il prof. Robin Ian Dunbar, antropologo inglese, si è scomodato a fare una ricerca su quanti amici possa davvero contare un essere umano. Il numero è risultato molto molto limitato. Ma il professore ha dimenticato i libri, limitati solo dalla durata della vita umana.
È lui l’unico amante, il libro. L’unico confidente che non tradisce, né abbandona. Mi disse un amico, lettore instancabile: Avrò tutte le vite che riuscirò a leggere. Sarò tutti i personaggi che vorrò essere.
Il libro offre due beni contrastanti, che in esso si fondono: ci trovi te stesso e insieme una tregua dall’identità. Meglio di tutti l’ha detto Emily Dickinson nei suoi versi più famosi:
Non esiste un vascello come un libro
per portarci in terre lontane
né corsieri come una pagina
di poesia che s’impenna.
Questa traversata la può fare anche un povero,
tanto è frugale il carro dell’anima
(Trad. Ginevra Bompiani).
A volte, in preda a sentimenti non condivisi ti chiedi se sei pazzo, trovi futili e colpevoli le tue visioni che non assurgono alla dignità di fatto, e non osi confessarle a nessuno, tanto ti sembrano assurde.
Ma un giorno puoi ritrovarle in un romanzo. Qualcun altro si è confessato per te, magari in un tempo lontano. Solo, a tu per tu con la pagina, hai il diritto di essere totale. Il libro è il più soave grimaldello per entrare nella realtà. È la traduzione di un sogno.
Ai miei tempi, da adolescenti eravamo costretti a leggere di nascosto, per la maggior parte i libri di casa erano severamente vietati ai ragazzi. Shakespeare per primo, perfino Fogazzaro era sospetto, Ovidio poi da punizione corporale. Erano permessi solo Collodi, Lo Struwwelpeter, il London canino e le vite dei santi.
Una vigilia di Natale mio cugino fu beccato in soffitta, rintanato a leggere in segreto il più proibito fra i proibiti, L’amante di lady Chatterley. Con ignominia fu escluso dai regali e dal cenone. Lo incontrai in corridoio per nulla mortificato, anzi tutto spavaldo, e un po’ più grosso del solito. Aprì la giacca, dentro aveva nascosto i 4 volumi di Guerra e pace, e mi disse: Che me ne frega, a me del cenone. Io, quest’anno, faccio il Natale dai Rostov
.
Sono amici pazienti, i libri, ci aspettano in piedi, di schiena negli scaffali tutta la vita, sono capaci di aspettare all’infinito che tu li prenda in mano. Ognuno di noi ama i suoi scrittori come parenti, ma anche alcuni traduttori, o autori di prefazioni che ci iniziano al mistero di un’altra lingua, di un altro mondo.
Certe voci ci definiscono quanto quelle con cui parliamo ogni giorno, se non di più. E non ci bastano mai. Quando se ne aggiungono altre è un dono inatteso da non lasciarsi sfuggire.
Questo è l’animo col quale Albatros ci offre la sua collana Nuove voci, una selezione di nuovi autori italiani, punto di riferimento per il lettore navigante, un braccio legato all’albero maestro per via delle sirene, l’altro sopra gli occhi a godersi la vastità dell’orizzonte. L’editore, che è l’artefice del viaggio, vi propone la collana di scrittori emergenti più premiata dell’editoria italiana. E se non credete ai premi potete credere ai lettori, grazie ai quali la collana è fra le più vendute. Nel mare delle parole scritte per esser lette, ci incontreremo di nuovo con altri ricordi, altre rotte. Altre voci, altre stanze.
i
Chi viveva altrove, guardandola da lontano, vedeva la cittadina come una massa marmorea che distanza e fantasia trasformavano in un corpo disteso e dormiente. L’abitato, sebbene avesse sviluppato qualche propaggine lungo i versanti, si estendeva in lunghezza sul crinale della montagna. Pareva una donna adagiata sul basamento di una colonna tortile i cui ghirigori erano tracciati dai tornanti delle tre strade di accesso e le irregolarità degli andirivieni parevano un bizzarro decoro operato dalla mano di scalpellini esperti. Anche il riverbero dei raggi sul biancore dei muri alimentava quella fantasia rendendo più diafana la scultura
rocciosa. Col buio della notte, invece, l’oscurità ingoiava biancore, basamento e ghirigori e trasformava la scultura
in una lunga striscia che i puntini luminosi tenevano sospesa nel vuoto senza fonderla con le stelle. Ai piedi dell’erta, la vegetazione, infittita, nascondeva la scultura
che la vista riscopriva più in alto nella materialità di un agglomerato di case. Due degli ingressi dell’abitato, col tempo, si erano spostati più a valle dove le palazzine parevano sgomitare per mantenere la prima fila sulla balconata che dominava il golfo sottostante. Sul versante nord, al contrario, le costruzioni avevano smesso di proliferare, forse perché temevano l’ombra dei boschi dirimpettai e il precipizio su cui si ergevano. D’altronde, la visuale panoramica del mare era sempre stata la più gettonata, né lo spopolamento che aveva sedato la fame di case pareva voler modificare le richieste e le abitudini dei residenti rimasti. Le estremità periferiche, pur slittate più in basso, apparivano agli avventori sempre uguali a se stesse, erano solo gli occhi avvezzi e familiari a cogliere qualche piccola variante che, a seconda degli umori e delle stagioni, risfoderava un orgoglio antico o una nuova traccia di decadimento. Ma questi erano gli occhi del ritorno, erano gli occhi di chi cercava di annodare il filo del presente con il tempo sospeso della propria assenza.
Fantasie e periferie erano estranee a Francesca che abitava nel centro storico e da tempo non si spingeva fino laggiù, neppure per visitare i suoi morti. Erano i suoi figli a commentare espansioni e varianti cittadine in cui si imbattevano ogni volta che tornavano. Questi arrivavano quasi in contemporanea ed erano incuranti del Benvenuti
che, dalle aiuole, le rinsecchite piantine di lavanda nana auguravano ai nuovi arrivati. Ma loro non erano nuovi, loro tornavano a casa scoprendosi ogni volta diversi, ma non estranei. Si trattava di rimpatri stagionali che talvolta si sommavano ai fugaci ritorni in coincidenza di una festività.
Quello della moltiplicazione di viaggi e presenze in terra natia era l’alibi per non dirsi che ogni ritorno offriva ad ognuno l’occasione di riabbracciare ancora una volta Francesca il cui decadimento presagiva l’approssimarsi della sua fine.
Quell’anno erano tornati più volte, includendo un anniversario importante e il Natale. Anche Francesca sentiva che per lei non ci sarebbero state molte altre festività, perciò aveva inteso l’affollamento dell’ultimo Natale come un dono speciale, come una sorpresa sotto l’albero. Accogliendoli, il suo sorriso era andato al revival di letterine infantili cariche di promesse, alle processioni per mettere Gesù Bambino nel presepe e alle calze un po’ lise che la Befana riempiva di leccornie.
Ci avevano scherzato spesso, ma per lei che in passato le riempiva, quelle calze appese ai ganci della vecchia porta di ingresso erano davvero tante. Ai piccoli, che avevano appena acquisito il diritto ai dolciumi, Francesca offriva il suo aiuto per tirarle giù, voleva evitare alle calze di aggiungere buchi a quelli ricuciti più volte.
Era una porta enorme agli occhi bambini. Poi, dopo l’ultimo trasloco, era finita in cenere e così anche la Befana aveva smesso di riempire le molte calze che, gonfie e posizionate ad altezze diverse, nella penombra parevano stivali spaiati di tanti ex voto.
Il tempo di