Corso di Laurea Magistrale
in Lingue, economie e istituzioni dell’Asia
e dell’Africa mediterranea
Tesi di Laurea
Mensōre ja nai!
Il controverso processo di State-building a Okinawa, tra
urbanizzazione e meccanizzazione del settore primario
Relatore
Ch.mo Prof. Marco Zappa
Correlatore
Prof. Patrick Heinrich
Laureando
Giovanni Stigliano Messuti
Matricola 862529
Anno Accademico
2020-2021
Indice
要旨
3
Introduzione
7
Capitolo 1. Il paesaggio e il disegno del potere
17
1.1. L’occhio del Novecento racconta l’occhio dello Stato. Un documento cinematografico
17
1.2. Da Berlino a Naha. Possibili applicazioni della human geography al caso okinawano
19
Capitolo 2. Edilizia civile e urbanizzazione
33
2.1. L’importanza della concezione di paesaggio nella definizione delle pratiche abitative
33
2.2. L’architettura tradizionale del Regno delle Ryūkyū e l’integrazione “morbida” nello Stato
Meiji
41
2.3. Il tardivo piano di ricostruzione dell’USCAR e la difficile transizione all’edilizia cementizia
53
2.4. Ritorno al Giappone. La febbre dell’edilizia turistica e il miraggio dell’integrazione
paritetica
65
Capitolo 3. Settore primario e meccanizzazione
85
3.1. Collocazione del settore primario nell’economia del disegno di centralizzazione
85
3.2. I prodotti tradizionali del Regno delle Ryūkyū e l’utopia Meiji dell’industria zuccheriera
88
3.3. Normalizzare l’emergenza. Conflitti di interesse e passi falsi del piano di sviluppo agricolo
dell’USCAR
111
3.4. Ritorno al Giappone. Sostenere l’insostenibile, esportare l’inesportabile
125
Conclusioni
144
Bibliografia
159
2
要旨
本論文では、日本政府あるいは琉球列島を統治したアメリカ政府による沖縄に対す
る統治方針によって沖縄本島の環境がどのように変化したのか、その理由を明らかに
するとともに、これまでのウチナーンチュの生活が沖縄県の設置(明治 12 年)以後、
今日にかけてどのように変わってきたのかに関して研究を行う。
ここに言う統治方針とは、民意の如何にかかわらず、ある政府が人材及び資源を中
央に移転すること、または官僚制の利益になるように既存の制度を徹底的に改正する
対策を意味する。これに関する先行研究においては、自然豊かな琉球地方の風景が近
代化に誘われた経済活動、例えば分蜜糖の生産、重化学工業、そしてリゾート化によ
りどのぐらい荒廃が進んだのかがわかる。しかし、その産業と政府との繋がりがどん
なものであるかに関する調査と、またはかかる風景が荒廃してから沖縄出身の一般人
の生活様式が具体的にどのように変わっていったのかを確かめる細かい調査がまだ行
われていないとする。
そこで、本研究は上述の繋がり及びその生活様式の変化を明らかにするために、琉
球大学附属図書館並びに、ヴェネツィア・カ・フォスカリ大学アジア・北アフリカ言
語・文化学部図書館にも保存されている地域環境学、土木建築学、農・動物学などに
関わる様々な文献を通じて、各分野の研究結果の分析を総合的に行った。
本論文の構成は四部に分かれている。まず、第一章では本研究を進めるために用い
られた方法を理論的に闡明し、現代の社会学史も考慮しながら最も参考になった地
理・経済・都市社会学者からの論文を考察し、さらに彼らのそのテーマに関する展開
を示す。その中で、出発点は社会学の父であり哲学者であるドイツ出身のゲオルク・
ジンメルであるが、本章における主な参照は 80・90 年代に人文地理学とその批判的
アプローチを生み出した英語圏で生まれた学者であるジェームズ・C・スコット、デ
ヴィッド・ハーヴェイ及びエドワード・W・ソジャである。彼らの主張に基づいてそ
の変化を展開してみた。原則として、我々の主張は自由主義的経済思想とその価値観
を公然と認める民主主義国家もあらゆる人間活動に次第に税をかけて特別利益をもた
らすこと、あるいは大規模公共事業を拡大しつつ自然環境を整備することで市民をよ
りよくコントロールすることができるようになるということである。
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特に、琉球列島が台湾、中国大陸及び日本の本州の中間あたりという要所に位置す
るため、薩摩藩によるいわゆる琉球侵攻をはじめとして植民地のような占領が数十年
単位で相次ぎ、今日においても沖縄は帝国主義国であった米国と日本の「周縁」にな
ったと思われる。
次に、第二章では戦後の時代に琉球列島を統治したアメリカ政府によって講じられ
た沖縄復興政策、及びその後 1970 年代に日本へ返還が完了されてから当時の田中角
栄総理大臣によって図られた新全国総合開発計画に導入された”土建国家ポリシー”と
琉球王国の伝統的な建築工法を比較し、土木建築を対象としつつ上記の弾圧的仕組み
が沖縄本島では実際にどのように機能したのかについて調べた。まず沖縄の民家を見
てみると、住居が森から離れずにその中に位置し、そこに存在すること自体が台風の
暴風雨から家を守るとともに、地すべりや洪水を防ぐ機能を果したと考えられる。そ
れに、各部屋が各自の使用目的を持ち、家人の身分を反映しながらもプライバシーを
保障し、家族は住居の垣の内側で野菜を植えて食糧及び供水を補うこともできている
ため、沖縄の伝統住宅が人々の安全と自給を備えるだけではなく、自然との交流を促
す建物であったと評価できる。
言うまでもなく、第二次世界大戦において住居が徹底的に破壊され、琉球列島を統
治したアメリカ政府によって築かれた難民キャンプは質の悪い材質を用いた単なる仮
設構造のものであったため災害に耐えられないものであった。同様に、緊急事態が終
了した後で建てられた 2×4(ツーバイフォー)工法に基づいた民間専用バラック小屋
もしっかりしている土台を持っておらず、イエシロアリに弱いアメリカから輸入され
た木材で作られていたため幾年か過ぎるうちに崩れるようになった。にもかかわらず、
1950 年代半ば以降は米軍によって行われる土木建築が転機を迎え、セメント工法が
導入されたおかげで島の一級・二級建築士が新たな建築手法を迅速に身につけ、県内
の役所や一般人のニーズに応じて如何なるビルも設計、建築することが可能にになっ
た。その結果、洋風の家の数が飛躍的に向上したが、同時に米軍基地との距離が近づ
くことで、その基地で働く米兵による殺人・強姦・誘拐事件が一貫して増加したこと
が知られている。あいにく、その状況は日本に返還されるまで続き、日本国政府も見
て見ぬふりしたと考えられる。むしろ、政府は県民の福祉を充実されるどころか、”
土建国家ポリシー”と相まってリゾート、テーマ遊園地及びエンターテイメント施設
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などを中心とする土建戦略を講じ、沖縄の環境と市街地景観を決定的に損なったと思
われる。
さらに、第三章では前章と同様に沖縄県の設置、アメリカ軍占領の開始と沖縄本土
復帰という三つの転機を特定し、その時代における農耕・水産・家畜飼育という経済
活動がどのように進化してきたのかを論ずるだけではなく、それらの過程が中央集権
化への傾向を胎蔵しているかどうかを明確にすることを目標にする。そもそも、琉球
王国の独立時代は主要作物が米丸大豆、大麦または福建省から十七世紀ごろ野国総管
に導入された紅芋であったが、それらとともに甘蔗は数十年で王国の主要輸出入にな
っていた。そして、薩摩侵攻が起こってから琉球政府が砂糖生産を唯一の最優先品と
して決めて、沖縄人の栽培方法の大変革が始まった。のちに、日本が明治時代に入り、
琉球列島の機械化を促すことと、低賃金で労働力を搾取することを望んだ本土出身の
資本家によって、本島で砂糖精製所が作られ始めた。そこで初めて設立された会社は
農林水産省に支えられた「沖縄製糖」であり、中頭郡西原町に工場を建て、そこで分
蜜糖を精製しはじめた。分蜜糖は黒砂糖と比べる場合、大量生産が可能であったため
県内の支配階級と県外の起業家にも支持され、農産加工の独占化が不可逆的になった。
その状況は第二次世界大戦にかけて早いスピードで進んだが、琉球列島の経済は沖
縄戦の激しさで完全に崩壊した。続いて、アメリカによる占領が行われた際に司令部
の関心は民間の生活手段に移っていった。そのため、甘蔗の耕作を抜本的に抑制し、
その代わりに紅芋、島野菜、大豆の促成栽培をウチナーンチュに紹介してみたが、そ
れが島の地質構造にあまり合わなかったため食料自給率は 1960 年代まで不十分であ
ったことがわかる。同時に、琉球列島を統治したアメリカ政府はこれまで県庁が注意
を払わなかった水産、家畜飼育という分野を成長させる企画を実施したにもかかわら
ず、相変わらず基地の繁栄を第一にしていたため競争力を持つ地域経済の誕生はまだ
あり得ないものであった。さらに、復帰以降は日本政府が経済基盤やリソースへのア
クセスを改良したとは言え、ある果実、たとえばパイナップルやマンゴーの栽培を開
発すること、さらに観光公害の発生を過小評価しながらツーリズムキャンペーンを何
度も行うことを除いて、ポリシーの変更を加えなかったことで、現在でも他府県と比
べ沖縄県が全国の賃金水準、雇用水準及び教育水準に追いついていないことが分かる。
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以上をまとめると、最終章では沖縄問題の解決への具体的な提案を結論として述べ
る。確かに、沖縄本島は中央集権化の犠牲者だと言える。なぜなら、統治している国
家がいかなるものであってもウチナーンチュは海外の支配層に比べて知能が劣り、覚
えが悪くて自活できない民族として扱われ、あるいは進歩へ導かれるべき人間として
差別されたため沖縄において独立はなく、「中央」すなわち東京にある政府やワシン
トンの安い労力、農産物の宝庫、さらにセメントの建築が本土に比べて早く、そして
徹底的に行われたことにによって沖縄は変形されたと見られるからである。結局、
島々の未来を手に入れられるような提案と言えば、短期滞在をする観光客の人数に制
限を設けること、リゾートを目的とする建築や土地整備に関わる法の厳格な施行を行
うこと、公共交通機関のサービスを改善すること、そして最後に環境問題についての
県民の意識を高めることを示した。その理由は、それらを採択したら持続可能な開発
を遂げ、経済や投資の「本土依存」がなくなり、県民自身が自分たちの島のこれから
の運命を創ることが可能になると考えられるからである。
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Introduzione
In virtù della propria posizione strategica, a metà strada tra Taiwan, la Cina continentale e il
Giappone, le Ryūkyū sono sempre state al centro di aspre contese territoriali, tanto da arrivare a
perdere del tutto la propria autonomia già a partire dal 1609, in seguito all’invasione delle truppe
di Satsuma – il feudo (han) corrispondente all’odierna prefettura di Kagoshima (Kyūshū). Fu
soltanto il primo di una serie di passaggi di consegne eterodiretti e arbitrari, con i quali questo
arcipelago nel Mar Cinese Orientale fu costretto a una condizione di doppia sudditanza – nei
confronti della dinastia Ming in quanto stato tributario, e al contempo nei confronti di Satsuma
in quanto territorio occupato – prima e all’integrazione forzosa nello Stato Meiji – la cui politica
del kyūkan onzon (preservazione degli antichi costumi) aggravò la condizione di povertà e
arretratezza – poi.
Da qui in avanti, tristemente noti sono gli eventi che portarono Okinawa a venire utilizzata come
suteishi (pedina sacrificale) dell’Impero nel Secondo Conflitto Mondiale, e quindi come deposito
di armamenti – nonché come confino per gli elementi più insubordinati del Corpo dei Marines
–, la cui smobilitazione non sembra a oggi rientrare nell’agenda politica del Primo Ministro Suga,
nonostante le rinnovate promesse dei predecessori in tal senso.
Tenendo a mente questi e altri riferimenti cronologici successivi – es. il problematico ritorno
(henkan) al Giappone di Satō Eisaku (Jimintō) 1 nel 1972 –, il presente studio si propone di
analizzare in che misura il processo di state building – ovvero, quando l’autorità statale utilizza
il potere di cui è depositaria per eliminare le resistenze interne e convogliare verso un sedicente
“centro” le risorse disponibili – abbia saputo modificare il paesaggio dell’isola maggiore (hontō)
di Okinawa a vantaggio della classe dirigente, ponendo in evidenza il legame tra cambi di policy
e variazioni nell’ambiente circostante. In linea di principio, la tesi di seguito sostenuta è che, in
presenza di una forte spinta ideologica o nel nome di un economismo totalizzante, sussista la
possibilità che suddetto centro decida di dichiarare guerra a quegli spazi interstiziali entro cui si
esercitano la libertà e socialità dei cittadini, arrivando a eliminare con la forza ciò che non collima
Nome completo Jiyūminshutō (spesso abbreviato in Jimintō), noto internazionalmente come Liberal Democratic
Party (LDP), è un partito conservatore nato nel 1955 dalla fusione del Partito Liberale (Jiyūtō) guidato da Yoshida
Shigeru con il Partito Democratico del Giappone (Nihon Minshutō) di Hatoyama Ichirō. Dalla sua fondazione è
rimasto pressocché ininterrottamente alla guida del paese. Cfr. Jiyūmintō in Kotobanku onrain jiten, Asahi
Shimbunsha, Tokyo.
1
7
con le sue astrazioni pur di sostanziarle, e che ciò si verifichi con maggiore violenza in mancanza
di una sovranità stabile e consensuale.
In riferimento al contesto okinawano, riteniamo che tale processo sia stato – e continui a essere
– più evidente, in primo luogo sotto il profilo paesaggistico, in due macroaree: l’edilizia civile,
cui è strettamente connesso lo sviluppo della moderna industria del turismo, caratterizzata da un
afflusso di visitatori sproporzionato alle reali capacità di accoglienza dell’isola, e il settore
primario – ulteriormente scorporabile in pesca, allevamento e agricoltura –, rappresentante il
principale richiamo occupazionale per quanti, impossibilitati o indisposti a uscire dai confini
della prefettura, intendessero trovare un impiego al di fuori delle strutture ricettive e dei servizi
di intrattenimento annessi.
Le fonti principali – soprattutto in lingua giapponese – utili alla stesura della presente
dissertazione sono state reperite presso la biblioteca della Facoltà di studi internazionali e
regionali (Kokusai chiiki sōzō gakubu) dell’Università delle Ryūkyū in Okinawa, frequentata dal
tesista in qualità di borsista del MEXT (Japanese Studies Undergraduate Track) da settembre a
dicembre 2019. La possibilità di condurre ricerca sul campo e toccare con mano la fragile realtà
dell’isola, interfacciandosi direttamente con gli abitanti e la loro percezione dei problemi
rilevanti ai fini dello studio, è stata indispensabile all’elaborazione della cornice teorica entro cui
collocare i dati raccolti, a cui hanno successivamente contribuito i preziosi consigli di lettura del
relatore Prof. Marco Zappa. In particolare, la frequentazione personale con il Dott. Giovanni
Diego Masucci, coautore di una delle ricerche più recenti sulle ripercussioni delle politiche
edilizie sullo stato di salute della barriera corallina, ha rappresentato un’occasione unica per
acquisire la consapevolezza e la maturità intellettuale necessarie ad affrontare un tema spesso
trascurato nel campo dei cosiddetti Japanese studies, ovvero il prezzo esatto dal mainland
giapponese (hondo) per il controverso modello di sviluppo esportato nelle Ryūkyū a partire dai
primi anni Settanta.
Dietro gli scorci da cartolina e le campagne pubblicitarie, si cela infatti la dura realtà quotidiana
di chi nella prefettura vive e lavora, i cui tassi di istruzione, occupazione e reddito sono tra i più
bassi – se non direttamente i più bassi – della nazione. In antitesi rispetto all’immagine che il
Giappone tenta di proiettare di sé all’estero, ovvero di baluardo della democrazia in Estremo
Oriente, tecnologicamente all’avanguardia e socialmente pacificato, lo scenario osservabile nei
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centri urbani dell’isola è quanto di più lontano da questa rappresentazione: gli attriti con i
Marines e gli altri rappresentanti delle forze armate statunitensi, per quanto non comparabili per
gravità ai casi di cronaca che hanno scosso l’opinione pubblica nell’ultimo ventennio, sono
all’ordine del giorno e tradiscono un’insanabile separazione tra militari e civili, forzosamente
mantenuta dalle istituzioni; le piazze e gli spazi pubblici di Naha, Ginowan e delle altre
municipalità maggiori sono periodicamente presidiati da manifestazioni autorizzate, in cui i
cittadini – giovani in testa – non mancano di palesare il proprio dissenso con slogan e striscioni;
gli yoseba (quartieri operai) proliferano a fianco dei numerosi cantieri aperti per lavori di non
meglio precisata estensione e utilità, radunando al proprio interno manovali a giornata e altri
attori dell’economia sommersa nell’indifferenza delle forze dell’ordine. Ancora, sul versante dei
servizi ai cittadini, la rete di trasporto pubblico, composta da autobus di linea obsoleti e una
singola monorotaia a circondare il centro storico, copre il territorio a macchia di leopardo, con
gravi ritardi e disservizi riscontrabili all’infuori del sovrappopolato Centro-Sud; la fornitura
d’acqua – dichiarata potabile dalle autorità prefetturali ma gravemente contaminata dai pesticidi
e dagli agenti chimici stoccati nelle basi – e di elettricità si interrompe di frequente a causa dei
tifoni e delle piogge torrenziali, richiedendo fino ad alcuni giorni per il ripristino nelle zone
settentrionali; gli uffici comunali, postali e gli ospedali sorgono il più delle volte a distanza di
chilometri dai centri abitati, complicando le interazioni con il pubblico e necessitando il possesso
di un’autovettura per l’espletazione anche delle mansioni più semplici.
Invero, è nostra opinione che queste e altre avversità che gli okinawani debbono affrontare su
base quotidiana, invisibili a chi si limitasse a vivere l’isola pernottando in un resort per un paio
di settimane, rappresentino l’effetto collaterale di un processo di centralizzazione statalista dalle
alterne fortune, articolatosi perlomeno in tre tempi accomunati dall’obiettivo di ridurre
l’arcipelago delle Ryūkyū allo stato di periferia di un più vasto sistema-paese, che facendo leva
su pretesti ora di ordine geopolitico – la keystone of the Pacific nella strategia americana della
Guerra Fredda – ora di ordine macroeconomico – il raggiungimento dello hondo nami invocato
dai governi dell’LDP – sarebbe riuscito a garantirsi una riserva stabile di forza lavoro a basso
costo e di prodotti agroalimentari da importare.
Obiettivo di questo studio è pertanto presentare la questione okinawana sotto una luce diversa,
integrando la trattazione dei temi maggiormente dibattuti – uno su tutti la permanenza delle basi
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militari – in un discorso più ampio, atto a dimostrare, a partire dalle modificazioni intercorse nel
paesaggio, come problemi di ordine apparentemente diverso traggano in realtà la propria origine
dalla medesima aspirazione della classe dirigente di turno a rendere uniformi, regolari, pervi e
quindi controllabili quegli spazi sino ad allora amministrati su base comunitaria dalla
popolazione indigena, il cui legame con il paesaggio ne costituiva la chiave di lettura.
Avvalendosi di un ampio apparato di note, sia esplicative che di approfondimento, lo studio
intende rivolgersi a chiunque avesse interesse ad approfondire le dinamiche e le forme
contemporanee del potere a partire da un caso di rara complessità, su cui si assommano questioni
identitarie, postcoloniali e ambientali che alimentano il dibattito inerente alle responsabilità del
Giappone contemporaneo in qualità di Stato-guida – o sedicente tale – del quadrante
estremorientale. Nello specifico, la trattazione di questi contenuti si articola in tre capitoli, a loro
volta suddivisi in sottosezioni tematiche.
Il primo capitolo si apre con una breve analisi del film Il profondo desiderio degli dèi (Kamigami
no fukaki yokubō, 1968) a opera del regista della nūberu bāgu Imamura Shōhei, ritenuto
particolarmente adatto a far comprendere il nesso intercorrente tra mutamenti nel paesaggio e
strette autoritarie: in esso si narra dell’anomala saga familiare dei Futori, ostracizzati dalla
propria comunità a causa di un crimine contro natura, a cui si presenta un’opportunità di riscatto
all’arrivo di un ingegnere da Tokyo, incaricato di effettuare i primi sopralluoghi in vista della
conversione al turismo della piccola isola di Kure – Ishigaki al di qua dello schermo. Nel mettere
in scena la dialettica tra consuetudinario e istituzionale, tra centro e periferia, tra tempo e spazio,
affidando ai personaggi e alla loro afasia il compito di testimoniare l’impotenza delle comunità
rurali dinanzi alla macchina della modernità statale, si può dire che Imamura avesse intuito, senza
rigore scientifico ma con una certa prescienza, l’equazione per cui alla distruzione delle
peculiarità di un territorio corrisponde un più agile controllo e sfruttamento da parte del centro
amministrativo e burocratico.
A seguire, si rende conto dell’apparato teorico utilizzato per condurre questa indagine, avente
come numi tutelari alcune voci controcorrente del pensiero tardonovecentesco: operanti in campi
differenti e talvolta in contrasto tra loro, ad accomunare James C. Scott, Michel Foucault, David
Harvey, Henri Lefebvre ed Edward W. Soja si pone la convinzione che gli stendardi di benessere
e libertà ostentati dalle grandi democrazie liberali nascondano in realtà meccanismi di
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oppressione di matrice capitalistica, il cui disegno può essere svelato soltanto guardando a quegli
aspetti sinora trascurati dalla critica marxista. Passata indenne la prova del Tempo, è infatti
invadendo, ridisegnando e mistificando lo Spazio che il capitale può sperare di perpetuarsi,
avvalendosi in primo luogo dell’opera di accentramento dei moderni Stati-nazione, posta in
essere già a partire dalla fine del XVIII secolo.
Adattando queste considerazioni al nostro oggetto di studio, si può notare come riforme
introdotte in campi anche molto distanti tra loro (agricoltura, edilizia, turismo) e da padroni
differenti (Giappone Imperiale, Amministrazione fiduciaria americana, Giappone postbellico)
condividano il medesimo obiettivo di rendere leggibile – amministrativamente parlando – il
paesaggio dell’isola agli occhi dello Stato centrale, in modo da meglio sfruttarne le ricchezze e
disperdere gli elementi di disturbo, primo fra tutti lo sviluppo di un’autentica identità okinawana.
Benché detti strumenti epistemologici non siano mai stati applicati allo studio della realtà
okinawana prima d’ora, riteniamo che essa rappresenti un case study particolarmente ricco di
interesse per una serie di ragioni: in primo luogo, riunisce in sé le storture del capitale sia del XX
(organized/entrepreneurial capitalism) che del XXI (disorganized/speculative capitalism)
secolo, manifestandole in una scala più facilmente osservabile da parte del ricercatore; in
secondo luogo, costituisce un’unità insulare di discreta estensione territoriale, a sua volta
inglobata in un più vasto Stato-nazione insulare di cui riproduce debolezze e contraddizioni; è
stata poi a lungo apolide e utilizzata quale merce di scambio in schermaglie geopolitiche,
vedendosi negato il proprio diritto all’autodeterminazione; ancora, presenta un contesto
idrogeologico, faunistico e ambientale di rara bellezza e fragilità, sul quale gli effetti collaterali
delle politiche di accentramento sono particolarmente evidenti; infine, è vittima di dinamiche
socioeconomiche sperequate di matrice post-coloniale da cui gran parte dell’Asia Orientale si è
ormai emancipata, la cui persistenza è da imputarsi alla dipendenza indotta dal mainland
giapponese.
Nel secondo capitolo, si procede ad analizzare concretamente la genesi del processo di
urbanizzazione sull’isola principale di Okinawa, a partire dalla descrizione dell’architettura
tradizionale del Regno delle Ryūkyū. Posta la differenza antropologica sostanziale tra la
concezione di paesaggio invalsa nel Kantō-Kansai, imperniata sulla figura del satoyama
(villaggio di montagna) e sulla possibilità di intervenire proattivamente sui suoi elementi
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costitutivi, e quella riscontrabile nell’arcipelago meridionale, per cui le attività umane possono
soltanto controbilanciare ex post facto la forza distruttiva o creativa dei fenomeni naturali, le
abitazioni private dei ryukyuani si distinguevano per la prossimità allo spazio della foresta, la
divisione funzionale degli ambienti e la presenza di porcile e orto all’interno del perimetro della
proprietà. Regolata da specifici decreti della corte di Shuri, concernenti la qualità e quantità del
legname, nonché il metodo di costruzione utilizzabili, detta prassi edilizia cadde parzialmente in
disuso con l’istituzione del governo prefetturale nel 1879, a causa della diversa gestione delle
risorse boschive imposta dalla burocrazia nipponica, per poi venire completamente abbandonata
in seguito alla battaglia di Okinawa.
Nel dopoguerra, gli occupanti americani ebbero il merito di risolvere l’emergenza umanitaria
determinata dalle migliaia di sfollati affidandosi a strutture provvisorie in legno, lamiera e
materiali isolanti costruite con la tecnica 2x4 – riferito alla dimensione in pollici (inches) delle
travi impiegate –, di facile applicazione e pertanto velocemente appresa dagli indigeni per ridare
forma ai villaggi cancellati dal conflitto; tuttavia, si trattava di abitazioni estremamente fragili,
incapaci di resistere ai tifoni e ai parassiti e che pertanto dovevano essere ricostruite circa ogni
due mesi, esigendo un pesante costo di materiali e forza lavoro. La svolta giunse soltanto negli
anni Cinquanta, con l’avvio di un programma di costruzione di aule scolastiche in cemento
supervisionato dal genio dell’Esercito, che coinvolse in prima persona gli architetti del luogo
consentendo loro di acquisire le nozioni fondamentali dell’edilizia cementizia: grazie alla
solerzia degli studi di architettura locali, negli anni Sessanta il problema degli alloggi poteva
dirsi ormai risolto, per quanto al prezzo di maggiori sconfinamenti dei militari americani nei
centri abitati, spesso con intenti criminosi.
Al momento del ritorno al Giappone nel 1972, i grandi immobiliaristi dello hondo preferirono
dunque concentrarsi sulla costruzione di infrastrutture (seibi) costiere e fluviali e strutture
ricettive di lusso piuttosto che di quartieri residenziali, cementificando zone dell’isola fino ad
allora rimaste inviolate – tra cui la vittima più illustre è probabilmente la foresta di Yanbaru,
nell’estremità settentrionale. Dietro il pretesto di migliorare le condizioni di vita dei cittadini e
l’accessibilità alle risorse, Tōkyō riuscì così a esportare anche a Okinawa il cosiddetto modello
doken kokka (Stato costruttore), fondato su un sistema di subappalti e tangenti coinvolgente
imprenditori, funzionari ministeriali e amministratori delegati, il cui unico vero scopo consiste
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nel mantenere perennemente in funzione la macchina dei lavori pubblici per consentire ai soliti
noti di arricchirsi. Le ripercussioni, sugli ecosistemi marini e terrestri così come sulla salute degli
individui, sono state a dir poco ingenti, e costituiscono il punto che la classe dirigente di domani
dovrà maggiormente attenzionare per ridurre il divario con il resto della nazione.
Nel terzo capitolo, si ripercorre la parabola di modernizzazione del settore primario con
riferimenti specifici a ciascuna delle sue componenti (agricoltura, allevamento, pesca),
soffermandosi sugli avvenimenti che, oltre a determinare un cambio di paradigma sul piano
produttivo, hanno rappresentato anche un’evoluzione sul piano culturale, per quanto concerne lo
stile di vita delle comunità rurali.
Al contrario della pesca, praticata solo come attività accessoria e comunque non in mare aperto,
l’allevamento dei maiali costituiva un’attività socialmente vissuta e largamente partecipata
all’interno del villaggio, a cui si dedicavano in egual modo sia uomini che donne in virtù del
valore simbolico assunto dalla consumazione di carne suina in occasione degli eventi comunitari
che scandivano l’anno solare. Per quanto riguarda le colture caratteristiche del Regno delle
Ryūkyū, esse erano la patata dolce viola (umu) e la canna da zucchero (ūji), i cui metodi di
coltivazione e lavorazione furono introdotti dalla Cina all’inizio del XVII secolo, risolvendo in
parte il problema delle carestie e dell’insufficienza di riso. Nei decenni successivi, lo zucchero
grezzo (kurozatō) sarebbe diventato il fiore all’occhiello dell’export ryukyuano, attirando le mire
di Satsuma che, di lì a poco, avrebbe esteso il proprio dominio sull’isola appropriandosi in via
esclusiva del suo bene più prezioso per condurre manovre speculative sul mercato di Ōsaka.
La situazione peggiorò ulteriormente con l’inglobamento nello Stato Meiji, a cui corrispose un
programma di industrializzazione eterodiretto, fondato sulla produzione di massa di zucchero
bianco raffinato (bunmitsutō) a opera di alcuni investitori dello hondo, riuniti nella compagnia
Okitai Seitō. Complice la concorrenza della già avanzatissima industria zuccheriera di Taiwan,
il progetto, nonostante il supporto ufficioso ricevuto dalle alte cariche del governo prefetturale,
non decollò mai e i suoi grandi stabilimenti – siti a Nishihara e Yomitan – riuscirono a mettere
sotto contratto soltanto una minoranza della classe contadina. La maggior parte delle famiglie
continuava infatti a produrre kurozatō in proprio, organizzata in associazioni locali (satō gumi)
che dividevano equamente costi e proventi dell’intero processo. Tale assetto duale rimase
invariato fino ai primi anni Venti, quando la fine del boom postbellico mise in ginocchio la
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fragile economia di Okinawa: per tutta risposta, la prefettura chiese e ottenne fondi speciali per
il rafforzamento del monopolio, in modo da mettere fuori gioco una volta per tutte i piccoli
produttori locali – i quali, nonostante tutto, riuscirono a tirare avanti almeno fino all’inizio della
guerra.
A ostilità concluse, spettò alle truppe di occupazione il compito di ricostruire da zero il settore
primario e mettere così fine all’emergenza alimentare, implementando ove possibile le più
recenti conoscenze scientifiche in modo da aumentare l’output totale di cibo. A beneficiare
maggiormente del piano di ripresa fu sicuramente la pesca, grazie a una nuova flotta motorizzata,
costituita da veicoli militari ricondizionati a uso civile, e a una moderna catena del freddo
composta da magazzini frigoriferi e impianti di surgelazione costruiti dalle locali associazioni di
pescatori su indicazione del Corpo degli Ingegneri dell’Esercito, resosi disponibile anche per
attività esulanti dall’ordinaria manutenzione delle basi militari.
Diverso il discorso per l’allevamento, per risollevare il quale si resa necessaria una massiccia
importazione di capi bovini e suini dagli Stati Uniti, non solo su parte governativa ma contando
anche sul contributo di associazioni benefiche. Sul piano agricolo, le tecniche di coltivazione
intensiva di stampo americano, caratterizzate dall’uso di pesticidi e fertilizzanti chimici, si
rivelarono in un primo momento inefficaci, con il risultato che diverse famiglie tornarono a
praticare un’agricoltura di mera sussistenza. Le colture che il Quartier Generale dello Supreme
Commander of Allied Powers (SCAP) si adoperò per ripristinare erano orzo, miglio, fagioli di
soia e ortaggi verdi quali scalogno e spinaci, ma grandi sforzi furono profusi anche
nell’ampliamento della rete di irrigazione necessaria alla coltivazione del riso, la cui produzione
tornò ai livelli prebellici intorno alla metà degli anni Cinquanta. Dopo un iniziale scetticismo,
furono incentivate anche la coltivazione e trasformazione dello zucchero, che nel decennio
precedente la restituzione sarebbe diventato la punta di diamante delle esportazioni dell’isola,
traghettando la popolazione fuori dalla miseria che aveva caratterizzato le fasi iniziali
dell’occupazione. A fronte del ritrovato benessere, sempre meno famiglie continuarono a
dedicarsi all’agricoltura in via esclusiva, tanto che la maggior parte dei locali preferiva cercare
un impiego più redditizio connesso alle attività delle basi militari.
Fu infine il governo giapponese a far compiere al primario il grande balzo in avanti verso la
realizzazione del massimo output, con la piena meccanizzazione dell’agricoltura, della pesca e
14
dell’allevamento. Negli anni Settanta, lo sviluppo di macchinari agricoli adatti al trapianto del
riso permise anche a Okinawa di soddisfare il proprio fabbisogno di questo cereale, mentre
colture commercialmente più rilevanti (mango, ananas, zucchero) iniziarono a essere soggette a
stringenti regolamenti governativi riguardanti la pianificazione e il controllo della produzione.
Al pari dei propri omologhi nel resto dell’Arcipelago, anche gli agricoltori okinawani si
trovarono così a dover sottostare ai vincoli imposti dal General Agreement on Trade and Tariffs
(GATT), dalla World Trade Organization (WTO) e dagli altri accordi internazionali sottoscritti
da Tōkyō, per rispettare i quali il legislatore doveva supplire con generosi incentivi al divieto di
favorire la produzione domestica. Una situazione particolarmente grave si registra invece
nell’ambito dell’allevamento suino, in primo luogo sotto il profilo economico: i costi
dell’importazione dei mangimi e dello smaltimento delle deiezioni si ripercuotono infatti sul
prezzo finale, rendendolo proibitivo per le tasche del consumatore medio, senza contare l’enorme
impatto ambientale che il mantenimento di una popolazione di più di 200mila suini esercita
sull’ecosistema dell’isola e sulla qualità della vita degli abitanti. Leggermente migliori le
condizioni dell’industria ittica che, a differenza di quanto osservabile nelle comunità di pescatori
del mainland, è provvista di una catena del freddo e di infrastrutture portuali omogeneamente
sviluppate e diffuse lungo la sua linea di costa. Complici la diversificazione portata dal turismo
e i programmi di ripopolamento a cura del Centro Prefetturale per l’Acquacoltura, le riserve di
pesce di Okinawa sono oggi ancora sane e abbondanti, per quanto permanga una certa difficoltà
a esportare nel resto dell’Arcipelago, determinata sia dalle manovre inflazionistiche a opera delle
cooperative sia dai costi di trasporto.
Da ultimo, nel capitolo finale delle Conclusioni, si è cercato di individuare possibili strategie di
crescita per il futuro di Okinawa, in grado di garantire autonomia e sviluppo sostenibile a una
realtà che, con l’avanzare della globalizzazione, rischia sempre più di essere travolta dal corso
degli eventi, nonché di veder fagocitate quelle particolarità paesaggistiche che costituiscono il
suo vero tesoro.
Rielaborando alcune soluzioni proposte da geografi e specialisti di island studies, riteniamo che
le seguenti possano avere un esito discretamente felice se implementate nel contesto okinawano,
nell’ordine: l’imposizione di un tetto massimo sugli ingressi dei turisti “mordi e fuggi”
(principalmente provenienti da Taiwan, Cina Popolare e Corea), il cui apporto al ciclo economico
15
si limita all’acquisto di consumable a regimi d’imposta convenienti; l’inasprimento della
normativa edilizia per la costruzione di resort, spa e altre strutture ricettive di lusso, per
accomodare le quali sono necessarie opere di messa in sicurezza e viabilizzazione invasive
(tetrapod, landfill, sopraelevamenti, ripianamenti); l’introduzione nel curriculum scolastico –
dalle elementari alle superiori – di attività formative obbligatorie (lezioni di biologia, gite,
project work) atte a sensibilizzare le nuove generazioni circa la fragilità del patrimonio
naturalistico locale; il potenziamento della rete di trasporto pubblico, in modo da indebolire il
monopolio esercitato dai concessionari d’auto sulla mobilità dei cittadini e abbattere
l’inquinamento prodotto dalle vetture private, nonché risolvere il problema dello smaltimento
delle stesse.
Tali conclusioni sono da interpretarsi come altrettante possibili vie verso un’equa e non
traumatica integrazione della prefettura di Okinawa nel sistema-paese giapponese, nella
consapevolezza che esse si configurano come indicazioni concrete e non come speculazioni di
natura meramente accademica.
16
Capitolo 1. Il paesaggio e il disegno del potere
1.1. L’occhio del Novecento racconta l’occhio dello Stato. Un documento cinematografico
Nella remota isola di Kurage, all’estremo confine meridionale del Giappone, si consuma la
tragedia della famiglia Futori. Nekichi, imprigionato in una grotta per espiare la relazione
incestuosa con la sorella, vive ai margini della comunità e con lui i suoi figli, Kametarō e Toriko,
su cui grava il medesimo sospetto. Improvvisamente, una frana libera Nekichi dalle sue catene e
rivela la presenza di una sorgente d’acqua sotterranea. La notizia attira subito l’attenzione del
capovillaggio: con la costruzione di una rete idrica si potrebbe finalmente trasformare l’isola in
un paradiso tropicale, attirando i turisti della terraferma. Così, nonostante la resistenza degli
anziani, viene convocato un ingegnere da Tokyo per svolgere i primi lavori. Ma l’eros disinibito
di Toriko, combinato all’asprezza del luogo, gli daranno non poco filo da torcere.
Si potrebbe riassumere così la trama de Il profondo desiderio degli dèi (Kamigami no fukaki
yokubō, 1968), uno dei tanti gioielli della nūberu bāgu a firma di Imamura Shōhei (1926 – 2006).
Accolto tiepidamente alla sua uscita in sala, e con ancor maggiore perplessità da chi aveva
imparato ad amare il regista per lo sguardo disilluso sulla realtà suburbana tokyota, il film è oggi
considerato il suo documento antropologico più completo.
Chiamando in causa il mito fondativo dell’Arcipelago – la coppia primigenia di Izanagi e
Izanami, fratello e sorella 2 – ed evocando lo spettro del tabù annesso, Imamura espone lo
spettatore – di cui è figura il personaggio dell’ingegnere – all’inanità dell’etica dinanzi alla spinta
riproduttiva: anche la società più sofisticata – quale si fregiava di essere diventata quella
nipponica di fine anni Sessanta – non può nulla contro i tifoni, il sole a picco, la sete, sicché ogni
principio non si rivela altro che un ostacolo alla continuazione della specie.
Più in concreto, è per il particolare regime di visione adottato che la pellicola costituisce per noi
una preziosa testimonianza. Il profondo desiderio degli dèi è, infatti, un film essenzialmente di
spazi e sugli spazi, che sfrutta appieno il fascino esotico di Ishigaki3 senza per questo ricorrere a
immagini stereotipe o idilliache. Al contrario, la giungla così come la costa è ricca di insidie, e
2
Nonostante le teorie degli specialisti siano discordanti in merito, è indubbio che Imamura si riferisse a questa
lettura del mito, come confermato anche dalle sue interviste. Per una disamina dettagliata della questione, cfr.
Murakami F. Incest and Rebirth in Kojiki in Monumenta Nipponica, vol. 43-4, Sophia University, Tokyo, 1988.
3
Kure è nome fittizio. La location è appunto l’isola di Ishigaki nel Mar Cinese Orientale, appartenente alla prefettura
di Okinawa (n.d.r.).
17
per evitare di calpestare un habu4 o di cadere in uno strapiombo è indispensabile la guida dei
locali: solo per questi ultimi il paesaggio altrimenti illeggibile – quale di fatto appare al povero
burocrate della capitale – assume un senso, grazie a pratiche radicatesi nella coscienza collettiva
senza bisogno di codificazioni formali.
Ne consegue che, là dove l’occhio dello Stato non è in grado di cogliere una visione d’insieme,
si perde inevitabilmente anche la cognizione del tempo: se non ci sono tasse da raccogliere,
scadenze da rispettare, documenti da rinnovare, a che pro scandire i mesi o gli anni? Con ciò si
spiega l’abbondanza di ellissi temporali, alle quali nemmeno i dialoghi possono porre rimedio,
in quanto la funzione fatica del linguaggio è continuamente frustrata dal dialetto degli isolani.
Non resta dunque che arrendersi, rinunciare alla temporalità convenzionale e rimettersi al metro
dei fenomeni naturali.
C’è però un momento in cui l’ordine – se così si può chiamare – è ristabilito. Nel finale, un
trenino su rotaie fende la vegetazione lungo un percorso ben tracciato, che dal piccolo aeroporto
turistico porta l’ingegner Kariya, con moglie e suocera al seguito, nel cuore lussureggiante di
Kurage. Qui incontra ancora una volta Kametarō, che dopo un breve periodo a Tokyo è tornato
sull’isola a occuparsi della manutenzione della locomotiva. Benché agli estremi opposti della
scala sociale, i due sono ora parte dello stesso sistema: parlano la stessa lingua, se non il
giapponese della capitale quantomeno il giapponese del capitale.
Ed è da questo dialogo tra Kariya e Kametarō, normato nelle forme culturali, che la parola e il
tempo riacquistano la propria forza normativa: veniamo a sapere quanti anni sono trascorsi dal
tragico evento che ha chiuso la saga di Nekichi, cosa lega Kariya a Kametarō e cosa si cela dietro
la decisione di quest’ultimo di abbandonare la metropoli tanto agognata. Il microcosmo di
Kurage, così impenetrabile e arcano in prima battuta, è adesso perfettamente intellegibile.
Nel mettere in scena questa dialettica tra consuetudinario e istituzionale, tra centro e periferia,
tra tempo e spazio, si può dire che Imamura avesse intuito, con una certa prescienza, i contenuti
delle teorie qui confluite a formare il quadro teorico di riferimento.
È solo dopo aver riconosciuto tale debito che possiamo muovere il primo passo verso un’analisi
del processo di state building a Okinawa, consci del fatto che si tratta di un’impresa tutt’altro
che semplice.
4
Nome volgare della vipera delle Ryūkyū (Protobothrops flavoviridis) (n.d.r.).
18
1.2. Da Berlino a Naha. Possibili applicazioni della human geography al caso okinawano
Se ci sofferma a osservare una carta geografica sufficientemente dettagliata, non è difficile capire
perché Okinawa sia stata l’oggetto del desiderio di tanti imperi. Con questo nome, ci si riferisce
nel complesso a quei gruppi di isole dell’arcipelago delle Ryūkyū che, dal punto di vista
amministrativo, fanno capo all’omonima isola maggiore, sede del governo prefetturale 5 .
Collocate nel Mar Cinese Orientale a metà strada tra Taiwan, la Cina continentale e il Kyūshū,
in una posizione strategicamente invidiabile, sono tuttavia poco favorevoli all’insediamento
umano.
Fonte: Kambayashi T., Wikimedia Commons, 2004.
Il clima tropicale, caratterizzato da temperatura e umidità elevate, tempo atmosferico
imprevedibile e tifoni, ha infatti sempre messo a dura prova la capacità di adattamento del popolo
Sito nella città di Naha. Non rientrano dunque in questo novero i gruppi delle isole di Ōsumi, Tokara e Amami,
dipendenti dalla prefettura di Kagoshima e denominate nell’insieme Isole Satsunan (n.d.r.).
5
19
ryukyuano, ma già nell’XI sec. esso poteva vantare un regno6 che nulla aveva da invidiare alle
monarchie asiatiche limitrofe. Sopperendo con i traffici marittimi alla scarsità di risorse e
praticando un’aurea via di mezzo nei rapporti diplomatici, le Liuqiu 7 conobbero un lungo
periodo di prosperità, il cui apice fu contrassegnato dalla riunificazione sotto l’egida della prima
dinastia Shō8 agli inizi del XV sec.
Fonte: Kambayashi T., Wikimedia Commons, 2011.
Sarebbe più corretto parlare di “regni”, sia in termini di avvicendamento al potere che di suddivisione territoriale.
Tralasciando la dinastia mitica dei Tenson, il primo sovrano storicamente attestato è Shunten (1187 – 1237), il cui
potere non fu comunque assoluto: trattavasi piuttosto di un primus inter pares, la cui autorità era riconosciuta da
una triade di principati. Cfr. Caroli R. Il mito dell'omogeneità giapponese: Storia di Okinawa, Franco Angeli Editore,
Milano, 2008.
7
Questo il nome utilizzato nelle cronache cinesi del VII-VIII sec. che per prime ne attestano i rapporti con la dinastia
Tang. Cfr. Caroli, op. cit., p. 39.
8
Nel 1314 si ribellarono al sovrano Tamagusuku – erede della dinastia di Eiso, pronipote di Shunten – i re di Ōzan
e di Nakijin, fondando due regni completamente autonomi – rispettivamente denominati Nanzan e Hokuzan. Tale
situazione si protrasse fino al 1429 quando Hashi (1372 – 1439), capostipite della dinastia Shō, riuscì a riportare
sotto il controllo centrale i principati ribelli. Cfr. Caroli, op. cit., pp. 42-43.
6
20
Tristemente noti sono i passaggi successivi, che portarono la corte di Shuri a una doppia
sudditanza9 prima e all’incorporazione ufficiale nel Giappone Meiji10 poi – per il cui dettaglio si
rimanda alla bibliografia e al dettagliato apparato di note.
Quello che ci interessa appurare in questa sede sono, piuttosto, le modalità con cui tale
integrazione forzosa sia stata attuata e continui ad attuarsi tutt’oggi, agendo, ancor prima che
nelle sedi istituzionali, sui corpi fisici e sul paesaggio. Per farlo, si è scelto di adottare un
framework eterogeneo, i cui numi tutelari appartengono alla branca più progressista delle scienze
sociali del secolo scorso – e non solo.
Inutile dirlo, il primato in questo campo spetta a Georg Simmel, che in un’epoca dominata dal
positivismo non si lasciò abbagliare dal benessere diffuso in Europa dalla Seconda Rivoluzione
Industriale. Benché si interessasse principalmente di estetica e non abbia mai confortato le
proprie teorie con ricerche quantitative, le sue osservazioni restano attuali e si riscoprono validate,
in una certa misura, alla prova dei fatti. Simmel vedeva la classe intellettuale del suo tempo
chiusa in un settarismo quasi feticistico, sulla falsariga del metodo scientifico che aveva fatto
della specializzazione la sua nuova bandiera. Al contrario, centrale nel suo pensiero sarebbe
rimasto il concetto di Wechselwirkung 11 , ovvero dell’effetto di “reciprocità” di fenomeni e
saperi: da qui la consapevolezza che l’urbanizzazione non avrebbe modificato soltanto l’aspetto
esteriore dei centri abitati:
«[…] la vita urbana ha trasformato la lotta con la natura per il cibo in una lotta per l’uomo: ché
la posta in palio non viene data dalla natura, ma dall’uomo. […] l’offerente deve cercare di
suscitare bisogni sempre nuovi e sempre più specifici nelle persone a cui si rivolge. La necessità
di specializzare la propria prestazione per trovare una fonte di guadagno non ancora esaurita, una
Con questo termine si allude all’ambigua posizione diplomatica del Regno delle Ryūkyū in seguito all’invasione
dello han di Satsuma nel 1609. Nel 1372 il regno aveva infatti giurato fedeltà all’imperatore Hongwu della dinastia
Ming, diventandone a tutti gli effetti uno stato tributario. Tuttavia, anche dopo aver costretto il re Shō Nei a
sottomettersi, il daimyō di Satsuma Shimazu Tadatsune (1576-1638) fece il possibile per tenerne la Cina all’oscuro,
in modo che Okinawa continuasse a godere dei privilegi commerciali accordatile. Cfr. Caroli, op. cit., pp. 55-56.
10
Il primo passo fu l’emanazione dell’editto Haihan chiken nell’agosto 1871, con cui il vecchio sistema feudale
degli han venne ufficialmente abolito e le Ryūkyū integrate nella prefettura di Satsuma. Qualche mese più tardi, il
cosiddetto Incidente di Mudan – naufragio di alcuni marinai ryukyuani sulle coste di Taiwan, ove trovarono la morte
per mano degli aborigeni – consentì al governo di Tōkyō di rivendicare la cittadinanza giapponese delle vittime,
indicendo una spedizione punitiva di lì a poco. La storia dell’annessione si concluse nel 1879, con l’abdicazione
dell’ultimo sovrano Shō Tai (1872-1879) e la proclamazione della prefettura di Okinawa. Cfr. Caroli, op. cit., pp.
82-83.
11
Letteralmente “effetto di reciprocità”, il termine sta a indicare «una concezione della realtà (in genere, e non
soltanto sociale) come rete di relazioni di influenza reciproca tra una pluralità di elementi». Cfr. Cavalli A.
Introduzione in Corso di sociologia, Il Mulino, Bologna, 2012.
9
21
funzione non facilmente sostituibile, spinge a differenziare, raffinare e arricchire i bisogni del
pubblico.»12
Con più lungimiranza del contemporaneo Marx, che prevedeva una cristi strutturale e definitiva
del capitalismo determinata dal raggiungimento del punto di massima espansione 13 , Simmel
anticipa qui una problematica centrale del dibattito marxista del secondo Novecento, ovvero che
la crisi del sistema è ciclica e che la sua sopravvivenza dipende dalla capacità di reinventarsi –
o, in termini più economicamente ortodossi, “ristrutturarsi” – periodicamente, creando nuovi
bisogni e ridefinendo i propri spazi. La natura predatoria del capitalismo si esplica quindi non
solo nella dialettica operaio-padrone e nell’arena della fabbrica, ma, per esteso, in quella
consumatore-produttore e nell’economia monetaria, di cui lo Stato liberale è fautore primo.
Altrove Simmel non sarebbe stato altrettanto critico, complice il relativo disinteresse in uno
studio sistematico dei rapporti di produzione. Ma proprio uno dei suoi saggi più eminentemente
filosofici ci fa da sponda per mettere in relazione la logica soggiacente ai processi di
antropizzazione con il controllo statale:
«Il ponte […] assume un valore estetico, non solo perché nella fattualità e nella soddisfazione di
fini pratici stabilisce un collegamento di ciò che è separato, ma anche perché lo rende
immediatamente visibile: per collegare le parti del paesaggio fornisce all’occhio la stessa capacità
che questo offre ai corpi rispetto alla realtà pratica.
[…] La porta, creando in un certo senso uno snodo (articolazione) tra lo spazio dell’uomo e tutto
quello che è al di fuori di esso, abolisce la separazione tra interno ed esterno. Dal momento che
può essere aperta, la sua chiusura offre il sentimento di una più forte chiusura nei confronti di
tutto ciò che è al di là di questo spazio, più incisivamente di quanto non faccia la semplice parete:
quest’ultima è muta. La porta parla. Per l’uomo è essenziale, nel senso più profondo, porre a se
stesso una delimitazione, ma con libertà, questa limitazione può di nuovo superarla e porsi al di
fuori di essa.»14
Com’è noto, questo aspetto è in realtà secondario nella teoria marxiana della crisi, legata piuttosto alla Legge
della caduta tendenziale del saggio di profitto, espressa nel III Libro, cap. 3.13 de Il Capitale. Tuttavia, abbiamo
ritenuto di porla in evidenza per quelli che saranno gli indirizzi successivi della riflessione marxista, che volente o
nolente arriverà a confrontarsi con tale questione. Per l’edizione critica consultata, cfr. Boggeri M. L. et al. (cur.),
Marx K. Il Capitale, Editori Riuniti, Roma, 1974.
13
Jedlowski P. (cur.), Simmel G. Le metropoli e la vita dello spirito, Armando Editore, Roma, 1995, p.52.
14
Borsari A., Bronzino C. (cur.), Simmel G. Ponte e Porta in Saggi di estetica, Archetipo Libri, Bologna, 2012,
pp.15-16.
12
22
Non si può nascondere che il discorso non alluda a specifiche opere infrastrutturali, riferendosi
più in generale a tendenze astoriche, connaturate all’essere umano. Tuttavia, il collegamento
calza nella misura in cui le categorie di ponte e porta ricoprono, rispettivamente, il ruolo di
rendere visibile e mettere in comunicazione, di circoscrivere un confine e/o revocarlo; in sintesi,
di irregimentare il movimento e lo sguardo, là dove questo è il medesimo obiettivo che si prefigge
qualsiasi governo centrale.
Tuttavia, fino all’avvento della critica strutturalista tali intuizioni sarebbero rimaste perlopiù
inascoltate. Nella sua risistemazione filologica dell’evoluzione del concetto di spazio
nell’ambito delle scienze sociali, Edward W. Soja imputa questo ritardo di ricezione alla
preminenza esercitata dal materialismo storico nella riflessione marxista:
«The first insistent voices of postmodern critical human geography appeared in the late 1960s,
but they were barely heard against the then prevailing temporal din. For more than a decade, the
spatializing project remained strangely muted by the untroubled reaffirmation of the primacy of
history over geography that enveloped both Western Marxism and liberal social science in a
virtually sanctified vision of the ever-accumulating past».15
Questo perché:
«In grounding the Hegelian dialectic in material life, Marx not only responded to Hegelian
idealism. Denying the spiritual navigation and determination of history, he also rejected its
particularized spatial form, the territorially defined state, as history’s principal vehicle. […] In
the Marxian dialectic, revolutionary time was re-established, with its driving force grounded in
class consciousness and class struggle stripped of all spatial mystifications».16
In altre parole, l’elezione del tempo a categoria euristica esclusiva, il cui moto cumulativoprogressivo serviva particolarmente bene una visione della storia come “storia di lotte di classe”,
aveva ridotto lo spazio a mero epifenomeno, sicché ogni analisi che avesse cercato di restituirgli
centralità sarebbe stata tacciata di eresia.
Eccezioni illustri si contano tra gli esponenti del marxismo francese, forte di una tradizione
anarchico-socialista
17
improntata al comunitarismo territoriale che aveva impedito
15
Soja E. W. Postmodern Geographies. The Reassertion of Space in Critical Social Theory, Verso Books, New
York, 2011, p. 13.
16
Ivi, p.46.
17
In particolare il socialismo utopico di Henri de Saint-Simon e la geografia anarchica di Élisée Reclus. Cfr. Soja,
op. cit., pp. 46-47.
23
l’oscuramento della questione spaziale. Lo stesso Michel Foucault, per quanto abbia cercato di
negarlo il più a lungo possibile 18 , le riserva un posto di riguardo nella sua critica delle
sovrastrutture:
«La grande ossessione del XIX secolo era, come sappiamo, la storia: i temi dello sviluppo e della
stasi, della crisi e della ciclicità, del passato che continua ad accumularsi […]. […] L’epoca
attuale potrebbe essere, piuttosto, l’epoca dello spazio. Ci troviamo nell’epoca della simultaneità,
nell’epoca della giustapposizione, l’epoca del vicino e del lontano, del fianco a fianco, della
dispersione. Ci troviamo in un momento in cui il mondo – o così almeno credo – appare più come
una rete che si connette a punti e si interseca con la sua stessa matassa, che come una lunga vita
che si dipana attraverso il tempo. Potremmo forse dire che alcuni dei conflitti che animano il
dibattito odierno, si combattono tra i pii discendenti del tempo e gli spietati abitanti dello
spazio.»19
In particolare, Foucault tiene a sottolineare come lo stigma di sterilità dialettica degli “spietati
abitanti dello spazio” sia stato smentito dagli sviluppi della postmodernità. Gli spazi, quando
socialmente vissuti, e quindi modificati e modificantesi per effetto di una intrinseca e
scambievole attiguità – che obbedisce solo in apparenza alle nostre sistematizzazioni–, sono
quanto di più lontano da un perimetro vuoto, nel quale l’intelletto – men che meno quello
dell’accademico – può permettersi di collocare individui e fenomeni. Poco oltre nella stessa sede,
simili loci, irriducibili l’uno all’altro e assolutamente non sovrapponibili, vengono definiti
“eterotopie”, di cui ci interessa evidenziare un aspetto:
«[esse] hanno, nei confronti dello spazio rimanente, una funzione. Questa si articola in due poli
estremi. O svolgono il ruolo di uno spazio d’illusione, a denunciare come ancor più illusorio tutto
lo spazio reale, tutti i siti in cui la vita umana è compartimentata […], o, al contrario, creano uno
spazio altro, un altro spazio reale tanto perfetto, meticoloso e ben organizzato quanto il nostro è
disordinato, mal gestito, caotico. In questo caso, si tratterebbe di una eterotopia non d’illusione
18
Soltanto verso la fine della sua carriera, messo alle strette dagli intervistatori di Hérodote, Foucault riconobbe la
centralità dello spazio nel suo pensiero. Gli unici riferimenti espliciti fino ad allora erano rimasti circoscritti ad
alcune conferenze tenutesi intorno alla fine degli anni Sessanta, e che l’autore si era rifiutato di dare alle stampe. Il
contenuto dell’intervista in questione è riportato in Questions à Michel Foucault sur la géographie in Hérodote.
Revue de Géographie et de Géopolitique, no.1, La Découverte, Parigi, 1976, pp. 71-85.
19
Foucault M. Des espaces autres, Éditions érès, Tolosa, 2004, p.12. Trad. mia.
24
ma di compensazione, e mi domando se certe colonie non abbiano funzionato pressappoco in
questa maniera».20
A metà tra la rarefazione estrema dell’utopia e la bruta materialità del “posto”, l’eterotopia è
insomma sia la superficie riflettente che il gioco di specchi, che muta nel tempo e può nascere in
esso – l’utilizzo di un termine sì storicamente connotato come quello di “colonie” è eloquente –
ma non da esso.
E se è vero che la costruzione di uno spazio non può non rimandare alle istanze storiche che lo
hanno necessitato, è altrettanto vero allora che la storia, a prescindere dalla particolare visione a
sorreggerla, non può esimersi dal radicare nello spazio gli eventi che convoca, dal momento che
questi ultimi vivono della tensione delle società umane a segnalare il carattere illusorio di dove
vivono (prima funzione eterotopica) o suppletivo di dove non vivono (seconda funzione).
Circa la necessità di riabilitare lo spazio nella riflessione coeva, mirando all’elaborazione di un
materialismo storico-geografico, si era già espresso in maniera meno reticente Henri Lefebvre,
partendo da una considerazione di natura urbanistica:
«Il riduzionismo si insinua sotto la pretesa di scientificità: si costruiscono modelli ridotti (della
società, della città, delle istituzioni, della famiglia, ecc.) e ci si attiene a essi. È così che lo spazio
sociale si riduce allo spazio mentale, attraverso un’operazione “scientifica” la cui scientificità
maschera l’ideologia. […] A questo punto il pensiero critico (che è messo al bando dal
dogmatismo) si accorge che la riduzione sistematizzata e il riduzionismo corrispondono ad una
pratica politica. Lo Stato e il potere politico si vogliono e si fanno riduttori delle contraddizioni;
quindi la riduzione e il riduzionismo appaiono come dei mezzi al servizio dello Stato e del potere:
non in quanto ideologie, ma in quanto sapere; […].»21
Confutando l’illusione di trasparenza dello spazio, per la quale ciò che si dà in esso è
autoevidente e perciò esauribile in analisi puramente descrittive – “geografiche” nell’accezione
peggiorativa del lemma –, Lefebvre precorre Foucault nel riconoscere che tale schematismo
riproduce quel nesso strumentale tra conoscenza e controllo che è episteme del potere. Laddove
non si può fare a meno di ricorrere a riduzioni, perché metodologicamente agile o perché fare
altrimenti implicherebbe una revisione dei saperi istituzionali tout court, bisogna comunque
20
21
Ivi, p. 19.
Galletti M. (Trad.), Lefebvre H. La produzione dello spazio, Pgreco, Roma, 2018, p. 120.
25
tener presente che lo spettro dell’oppressione, che i seguaci del marxismo vedono possedere i
processi di produzione, aleggia anche sui loro stessi strumenti analitici.22
Un avvertimento, quello di Lefebvre, che sarebbe suonato ancor più profetico negli anni Ottanta,
quando la globalizzazione incipiente dimostrò che il modo capitalista era ancora in grado di
prosperare. Come era possibile che il ciclo continuasse, nonostante lo spazio fisico per generare
plusvalore fosse formalmente saturo?
«[…] il neo-capitalismo e il neo-imperialismo dividono lo spazio dominato in regioni sfruttate
per e con la produzione (dei beni di consumo), e in regioni sfruttate per e con il consumo dello
spazio. Turismo e tempo libero diventano grandi settori di investimento e di rendita,
complemento dell’edilizia, della speculazione immobiliare, dell’urbanizzazione generalizzata (e,
naturalmente, dell’integrazione nel capitalismo dell’agricoltura, della produzione alimentare,
ecc.)».23
Ancora una volta, vale la pena di soffermarsi sul lessico. Nonostante si stia parlando di
“capitalismo” e “imperialismo”, costrutti che per definizione presuppongono una gerarchia
inequivocabile – di due soggetti, entrambi guadagnano ma solo uno profitta –, scompare il
binomio sfruttatore/sfruttato: nella nuova geografia del capitale, l’unica configurazione possibile
è l’omogeneità dello sfruttamento.
A ogni modo, ciò non significa che sia scomparsa la subalternità della periferia al centro. Al
contrario, oggi è quantomai chiaro quanto il modo capitalista operi per frammentazione,
contrapponendo le singole realtà regionali l’una all’altra in modo da moltiplicare centri e
periferie. Si consegue così un duplice scopo: da un lato, rendere meno evidente il sostrato di
sopraffazione, mascherandolo di un velo ideologico – i.e., qualunque periferia può diventare
centro e rinegoziare i rapporti di forza; dall’altro, stroncare sul nascere l’associazionismo
disperdendo la forza lavoro, che a seconda delle variazioni della domanda aggregata si
redistribuirà ora in un’area ora in un’altra, senza avere lo spazio-tempo materiale per lo sviluppo
di una coscienza di classe.
Occorre precisare che la miopia della corrente maggioritaria del marxismo non fu il risultato di un’adesione
puramente fideistica all’ortodossia, la cui speculazione non mancò anzi di autocritica né di metodo, dando alla luce
alcune delle pagine più acute del secondo Dopoguerra. Cfr. Petrucciani S. Storia del marxismo, Carocci Editore,
Roma, 2015.
23
Ivi, p. 340.
22
26
Per quanto a prima vista paradossale, tale assetto sincronico non è affatto incompatibile con le
fluttuazioni periodiche del mercato: una regione che necessiti di date materie prime per produrre
un dato bene, può sfruttarne un’altra – limitrofa o meno che sia – ed esserne nello stesso tempo
sfruttata per il consumo di un dato spazio; ma col passare degli anni, nulla toglie che i termini
del rapporto possano invertirsi. Sotto questo profilo, il macroequilibrio del sistema è garantito
dalla sua resilienza, per la quale la ciclicità della crisi, al prezzo di periodi di sofferenza anche
prolungati, si trasforma in un’occasione per cambiare l’ordine dei fattori affinché il risultato
finale resti invariato.
Non a caso, tra i settori che meglio esemplificano questa dinamica sono citati l’edilizia, il turismo,
lo svago e gli indotti annessi, il che ci riporta inevitabilmente agli scenari da cartolina di Okinawa.
L’arcipelago, e più nello specifico lo hontō, si presenta infatti come un perfetto caso di studio,
per certi versi unico nel suo genere. Unità insulare di discreta estensione territoriale, a sua volta
inglobata in un più vasto Stato-nazione insulare di cui riproduce debolezze e contraddizioni,
riunisce in sé quelle storture del capitale di cui abbiamo riferito nelle pagine precedenti,
manifestandole in una scala più facilmente osservabile da parte del ricercatore.
In un secolo e mezzo di storia, Okinawa è stata sottoposta a un processo di modernizzazione
eterodiretto che ne ha per sempre modificato – nonché in certi casi cancellato – il paesaggio,
l’economia, l’identità, relegandola in una condizione di perpetua dipendenza dalla terraferma,
da dove provengono le uniche iniezioni di capitale – sia nella forma di sussidi che di investimenti
privati. A imporre questa condizione fu, come si diceva all’inizio, il governo centrale di Tōkyō,
al quale si sostituì temporaneamente per circa un ventennio la macchina da guerra statunitense,
all’indomani del secondo conflitto mondiale.
A tal proposito, piuttosto che attraverso una rivista puramente elencativa di leggi o riforme, si è
preferito esaminarne l’operato ricorrendo all’approccio di due altri grandi interpreti della
postmodernità, entrambi appartenenti al mondo anglofono, ai quali spetta il merito di aver
codificato formalmente le intuizioni dei predecessori nella disciplina nota come human
geography, ovvero quella branca della sociologia che si occupa di studiare da vicino
l’antropizzazione e le interazioni tra uomo e natura per leggervi in filigrana il disegno del potere.
La preoccupazione principale di David Harvey, per il quale l’appropriazione dello spazio –
soprattutto a livello urbano – non era che un tassello del progetto di ristrutturazione sistemica
27
posto in essere dal tardo capitalismo, era quella di determinare se il mondo della cultura, delle
arti e delle scienze sarebbe stato in grado di opporre sufficiente resistenza a tale progetto.
Rielaborando e implementando con contenuti originali i contributi di Michel de Certeau e
Lefebvre24, Harvey mise a punto una griglia delle pratiche spaziali (grid of spacial practices),
dove per “pratiche spaziali” si intendono tutte quelle azioni che, al di là della funzione d’uso,
sono investite di un valore sociale nel rapportarsi con i propri simili e con la realtà circostante:25
«1. Accessibility and distanciation speak to the role of the ‘friction of distance’ in human affairs.
Distance is both a barrier to, and a defence against, human interaction. It imposes transaction
costs upon any system of production and reproduction (particularly those based on any elaborate
social division of labour, trade, and social differentiation of reproductive functions). […].
2. The appropriation of space examines the way in which space is occupied by objects (house,
factories, streets, etc.), activities (land uses), individuals, classes or other social groupings.
Systematized and institutionalized appropriation may entail the production of territorially
bounded forms of social solidarity.
3. The domination of space reflects how individuals or powerful groups dominate the
organization and production of space through legal means so as to exercise a greater degree of
control either over the friction of distance or over the manner in which space is appropriated by
themselves or others.
4. The production of space examines how new systems (actual or imagined) of land use, transport
and communications, territorial organization etc. are produced, and how new modes of
representation (e.g., information technology, computerized mapping, or design) arise».26
24
Importante anche il contributo di Scott Lash e John Urry, i cui studi sulla transizione da organized a disorganized
capitalism fornirono a Harvey gli strumenti più prettamente economici per l’elaborazione delle proprie teorie Cfr.
Lash S., Urry J. The end of organized capitalism, University of Wisconsin Press, Madison, 1987; Lash S., Urry J.
Economies of Signs and Space, SAGE Publications Ltd., Thousand Oaks, 1993.
25
Michel de Certeau fu il primo a darne una definizione accessibile, benché utilizzando una nomenclatura diversa
– “tattiche” anziché “pratiche”. Un esempio può essere l’atto del cucinare, che al di là della funzione d’uso
(procurare nutrimento) presuppone un’interazione non meccanica con l’ambiente circostante (fornelli/sala da
pranzo), nonché una serie di pratiche sociali e creative che informano la sua stessa semantica – “cucinare” è un
termine connotato, diverso dal più neutro “preparare” e simili – nell’ambito del linguaggio. Cfr. Baccianini M.
(Trad.), de Certeau M. L’invenzione del quotidiano, Edizioni Lavoro, Roma, 2009.
26
Harvey D. The Condition of Postmodernity: An Enquiry into the Origins of Cultural Change, Blackwell
Publishing, Hoboken, 1991, pp. 219-222 (corsivi miei).
28
Tale schema non ha di per sé valore euristico, né simili azioni sono suscettibili di incasellamento
stabile, dal momento che si evolvono di pari passo con le coordinate sociali (classe, genere,
comunità, etnia ecc.) da cui sono validate. Ciononostante,
«When placed in the context of capitalist social relations and imperatives […], the grid helps
unravel some of the complexity that prevails in understanding the transformation of spatial
experience associated with the shift from modernist to postmodernist ways of thinking».27
Nel nostro caso, quindi, esso può aiutarci a interpretare le pratiche spaziali come sintomi della
transizione dallo Stato industriale (creatura della modernità) allo Stato speculatore (creatura
postmoderna), consentendoci di riconoscere quando una data pratica travalica il proprio confine
– lo stesso Harvey, per esempio, rileva che l’appropriazione persistente nel tempo a vantaggio
di un particolare gruppo si traduce di fatto in dominazione, a dimostrazione della loro mobilità.
A complemento delle teorie di Harvey si pongono quelle di James C. Scott, secondo il quale era
stata trascurata una premessa fondamentale. Infatti, per quanto lo Stato moderno costituisse il
punto di partenza della riflessione di chi, sul finire del secolo, si interessava delle sinergie tra
capitale finanziario e governi centrali, questo non si poteva dare per scontato; semmai, fu proprio
la transizione dai regni premoderni agli Stati ottocenteschi a garantire l’innesto di una certa
concezione dello spazio, dalla quale sarebbero poi discese le pratiche di appropriazione di cui
sopra – che possono provenire tanto dal pubblico quanto dalla libera iniziativa.
Prima ancora di un’ideologia o di una società civile sufficientemente malleabile, condizione sine
qua non di ogni progetto di state building è appunto la semplificazione dell’orizzonte spaziale
entro cui si opera:
«The premodern state […] lacked anything like a detailed “map” of its terrain and its people. It
lacked […] a measure, a metric, that would allow it to “translate” what it knew into a common
standard necessary for synoptic vision. […] Suddenly, processes as disparate as the creation of
permanent last names, the standardization of weights and measures, the establishment of cadastral
surveys and population registers, the invention of freehold tenure, the standardization of language
and legal discourse, the design of cities, and the organization of transportation seemed
comprehensible as attempts at legibility and simplification. […]
27
Ivi, p.223.
29
These state simplifications […] did not successfully represent the actual activity of the society
they depicted, nor were they intended to; they represented only that slice of it that interested the
official observer. They were, moreover, not just maps. Rather, they were maps that, when allied
with state power, would enable much of the reality they depicted to be remade».28
In sostanza, il rischio insito in queste semplificazioni non sarebbe quello di una riduzione
schematica della realtà, dacché una certa miopia statale è il prezzo da pagare per una prospettiva
sinottica da cui poter esercitare il comando, esattamente come chi sale in cima a una torre posta
al centro di una città sa che da lì potrà apprezzarne l’intera geometria, ma non i dettagli. D’altro
canto, sussiste il pericolo che, dietro una forte spinta ideologica o nel nome di un economismo
totalizzante, il potere centrale decida di dichiarare guerra a quegli spazi interstiziali entro cui si
esercitano la libertà e socialità dei cittadini, arrivando a eliminare con la forza ciò che non collima
con le sue astrazioni pur di sostanziarle – come diversi programmi di pianificazione su vasta
scala hanno peraltro dimostrato, nel corso della storia.29
Anche in questo caso, l’immagine di uno Stato centrale – o meglio, un impero – fortemente
ideologizzato, animato dal sogno di riunire un continente sotto la stessa bandiera nel nome di
una “Grande Sfera di Coprosperità”30, ci riconduce a Okinawa, che di quel progetto irrealizzabile
fu forse la prima vittima.
Per capire con che esiti e per mezzo di quali veicoli, ci rifacciamo un’ultima volta a Scott, da cui
riprendiamo la catalogazione dei processi di centralizzazione, espressi in termini di leggibilità
burocratica:
28
Scott J. C. Seeing Like a State: How Certain Schemes to Improve the Human Condition Have Failed, Yale
University Press, New Heaven, 1999, pp. 2-3.
29
I case study scelti dall’accademico sono la ripianificazione urbana di Parigi a opera di Le Corbusier, il piano di
standardizzazione dell’agricoltura sovietica – il modello sovkhoz/kolkhoz – sotto Lenin, e il progetto originale per
Brasília di Lúcio Costa. Cfr. Scott, op. cit., pp. 60-61; 120-121; 201-202.
30
Asse portante del militarismo Shōwa, il termine daitōa kyōeiken (Sfera di coprosperità della Grande Asia
Orientale) fu utilizzato per la prima volta dall’allora Ministro degli Esteri Matsuoka Yasuke (1940-41), in merito al
futuro assetto dell’Impero. Nel nome di un ambiguo panasianesimo – giacché alla “razza” nipponica veniva
comunque riconosciuto un primato sulle altre –, il Giappone si sarebbe incaricato di liberare il Pacifico dalla morsa
colonialista dell’Occidente, creando attorno a sé un cordone di Stati-satellite che, in cambio di protezione e
tecnologie, avrebbero provveduto al sostentamento del centro. Cfr. Yellen J. A. The Greater East Asia CoProsperity Sphere: When Total Empire Met Total War, Cornell University Press, Ithaca, 2019.
30
Legibility of Social Groups, Institutions and Practices31
Illegible
•
Settlements
Temporary
Legible
encampments
of
Permanent villages, estates, and
hunter-gatherers, nomads, slash-
plantations
and-burn cultivators, pioneers,
peoples;
•
and gypsies
•
•
Unplanned
cities
Planned
of
grid
sedentary
cities
and
neighborhoods […];
and
neighborhoods […]
•
Economic units
•
Large property
bourgeoisie
•
Large farms
•
Small peasant farms
•
Factories (proletariat)
•
Artisanal production
•
Large
•
Small shops
•
Informal economy,
Small
property,
petite
establishments
“off the
•
books”
•
Property regimes
Technical
commercial
Formal
economy,
“on
the
books”
•
Collective farms
property
•
State property
•
Private property
•
National cadastral survey
•
Local records
•
Local
•
Centralized
Open
commons,
communal
and
resource organization
Water
customary
use,
local
irrigation societies
Transportation
•
Decentralized
dam,
irrigation
control
webs
and
•
Centralized hubs
networks
31
Scott, op. cit., p.220.
31
Energy
•
Cow
pats
and
brushwood
•
gathered locally or local electric
Large generating stations in
urban centers
generating stations
Identification
•
Unregulated
local
naming
customs
•
No
state
citizens
documentation
of
•
Permanent patronyms
•
National
system
of
identification
cards,
documents, or passports
L’adozione di un simile strumento, da cui prende le mosse l’intera struttura del presente studio,
necessita delle dovute cautele.
Già a una prima lettura ci si accorge infatti che alcuni termini, nella colonna di sinistra come in
quella di destra, non si adattano propriamente al contesto ryukyuano né pre né post Meiji,
soprattutto per il fatto che la fattispecie giapponese non è contemplata nel testo citato di Scott,
incentrato invece sull’operato delle monarchie illuminate del XIX sec. e dei regimi totalitari
europei del XX sec.
Ciò detto, si tratta comunque di un quadro teorico di inconfutabile rigore, che consente di riunire
conoscenze maturate in campi diversi (relazioni internazionali, politologia, antropologia,
sociologia, scienze naturali) nella stessa sede, in modo da offrire una panoramica esauriente e –
neanche a dirlo – sinottica della questione okinawana, la cui criticità può rivestire interesse non
solo per l’addetto ai lavori, ma anche per il lettore non specializzato interessato a discernere
limiti e sconfinamenti dell’autorità.
32
Capitolo 2. Edilizia civile e urbanizzazione
2.1. L’importanza della concezione di paesaggio nella definizione delle pratiche abitative
Come anticipato, in questo capitolo ci occuperemo di analizzare l’evoluzione degli insediamenti
umani (settlements) sull’isola di Okinawa, ponendo in evidenza il nesso esistente tra i passaggi
di consegne – dal Giappone Meiji all’amministrazione fiduciaria USA, e quindi da quest’ultima
al governo Satō32 – che ne hanno ridefinito l’assetto politico, e le nuove tendenze architettonicostrutturali che ne hanno ridefinito l’aspetto esteriore.
Urge tuttavia una premessa, onde evitare facili fraintendimenti e altrettanto facili accuse nei
confronti dei dominatori, ovvero che allo sbarco in armi delle truppe di Satsuma le Ryūkyū non
erano affatto una terra vergine, ferma a una sorta di preistoria istituzionale. Al contrario, specie
sull’isola principale che è oggetto della nostra indagine, la riunificazione a opera della dinastia
Shō33 aveva diffuso un embrionale senso dello Stato che, nel corso di quasi due secoli di regno,
aveva avuto modo di radicarsi non solo nella coscienza della classe dirigente ma anche in quella
dei sudditi comuni, che grazie alla presenza di funzionari a livello locale avevano imparato a
identificarsi nell’autorità. Ne consegue che il potere centrale disponesse – e questo ancor prima
della succitata unificazione – di edifici-simbolo distinti per funzione (organizzazione del culto,
burocrazia, cultura), di personale amministrativo per essi competente e di un apparato
legislativo34 per mezzo dei quali controllare la società civile e intraprendere opere pubbliche,
non diversamente da un qualsiasi han coevo.
In questo senso, il distinguo per cui si può legittimamente parlare di prevaricazione da parte
nipponica è da ricercarsi a monte delle differenze sistemiche tra monarchia autoctona e
feudalesimo di periodo Edo. Per l’appunto, la nostra tesi parte dall’assunto che l’origine di tale
32
Satō Eisaku (Jimintō), Primo Ministro per tre mandati dal 1964 al 1972. A lui si devono le trattative per la
restituzione di Okinawa (Okinawa henkan), con il Presidente Lyndon Johnson (1963 – 1969) prima e il Presidente
Richard Nixon (1969 – 1974) poi. È ricordato soprattutto per la sua agenda pacifista, che avrebbe portato
all’introduzione dei Tre Principi di Non-Proliferazione Nucleare – i.e., il Giappone si sarebbe astenuto dal possesso,
dalla produzione e dall’introduzione sul proprio territorio di armamenti atomici – nel 1967, e alla ratifica
dell’omonimo trattato internazionale (NPT) nel 1970. Cfr. Gatti F. Storia del Giappone contemporaneo, Mondadori,
Milano, 2002.
33
Vd. nota 5 in Capitolo 1. Il paesaggio e il disegno del potere, p.18.
34
Si trattava sostanzialmente di un calco delle leggi varate sotto la dinastia Ming (1368 – 1644), sprovvisto di una
netta distinzione tra penale e civile e che lasciava ampia libertà discrezionale all’autorità giudicante. Cfr. Caroli, op.
cit., pp. 42-43.
33
incompatibilità di fondo risieda nella diversa concezione di paesaggio35 posseduta dai due popoli,
da cui si può supporre discendano anche i rispettivi approcci alla diplomazia e alla res publica.
Partendo dal caso del mainland, si sente spesso parlare del satoyama36 come del tipico paesaggio
rurale giapponese, ma non bisogna dimenticare che detta realtà non è rappresentativa della
totalità del territorio dell’Arcipelago, in quanto difficilmente sovrapponibile a contesti climatici
al di fuori dell’area del Kantō-Kansai.
Nato dalla necessità delle prime comunità stanziali di prevenire le catastrofi naturali (tifoni,
terremoti, inondazioni) che stagionalmente le costringevano a emigrare, il satoyama si fonda
sull’osservazione empirica e sull’introduzione graduale di nuove soluzioni in disparati ambiti
della vita agreste, dal mangime per il bestiame alla raccolta dei prodotti del sottobosco, dal
direzionamento delle acque reflue fino alla produzione del carbone di legna. Valutando
collettivamente gli esiti delle proprie innovazioni in una prospettiva a lungo termine, le comunità
di villaggio facilitavano così l’acquisizione delle buone pratiche di generazione in generazione,
il cui merito fu quello di accelerare il raggiungimento di una certa stabilità idrogeologica senza
interventi invasivi.
Basti pensare, per esempio, a come la saggezza popolare fosse riuscita ad arginare il problema
delle alluvioni, oggi ripresentatosi a causa dell’edilizia cementizia. Montuoso per quasi il 75%
della sua superficie, il Giappone non offre vasti spazi per l’insediamento umano, ragion per cui
molti villaggi non ebbero altra scelta che svilupparsi in verticale, mettendo a coltura quanto più
dislivello possibile prima di imbattersi nelle pendici del monte o collina dominante l’altura.
In seguito all’introduzione della risicoltura 37 , i cui terrazzamenti offrivano una comoda
alternativa alla coltivazione in piano, le comunità agricole si guardarono bene dal disboscare le
35
In geografia, «data una cornice di elementi naturali, la materializzazione nello spazio geografico dei processi
storici, articolati secondo i meccanismi insediativi, le presenze culturali e artistiche, gli eventi di varia natura,
l’evoluzione dei modi di produzione. Tra gli aspetti naturali quelli che più concorrono all’individuazione di paesaggi
sono le forme del suolo e la vegetazione […]; tra i fattori umani, i caratteri dell’insediamento e, soprattutto,
dell’economia rurale […]». Cfr. Paesaggio in Enciclopedia Treccani (versione online).
36
Crasi di sato (villaggio) e yama (montagna), il termine fu coniato nel 1759 da Teramachi Hyōemon, perito
forestale della valle di Kiso (Prefettura di Nagano), che lo utilizzò in narrativa nell’accezione di «paesaggio di
montagna osservabile nei pressi dei centri abitati». A riesumare e dare dignità scientifica al lemma fu però
l’ecologista Shidei Tsunahide (1911 – 2009), che negli anni Sessanta lo ripropose quale modello di sostenibilità.
Cercando di fare ordine tra le accezioni del termine, lo s’intende di seguito come il modo di gestione dei villaggi
pre-industriali, caratterizzato da una organizzazione delle risorse (boschive, erbose, idriche) di reciproco beneficio
per gli abitanti e l’ambiente circostante. Cfr. Takeuchi K. Satoyama Landscapes as Managed Nature in Brown R.
D., Yokohari M. et al. Satoyama – The Traditional Rural Landscape of Japan, Springer Japan, Tokyo, 2003.
37
Nel periodo Yayoi (300 a.C. – 250 d.C ca.). Cfr, Caroli R., Gatti F. Storia del Giappone, Laterza, Bari, 2017.
34
aree verdi che si frapponevano tra il centro abitato e la montagna, su cui non a caso convergono
tabù e superstizioni dello shintō38. L’utilità di questo cordone naturale, al di qua del quale correva
la fila di abitazioni, era quella di porre rimedio alle esondazioni dei corsi d’acqua: di norma,
infatti, i fiumi giapponesi non hanno una grande portata, sicché il loro letto è incapace di
contenere gli enormi volumi d’acqua che vi si riversano improvvisamente in seguito alle
precipitazioni monsoniche.
Villaggio satoyama nella municipalità di Kumamoto, Kyūshū. Fonte: Sekiyama K., KSPhotographic, 2019.
Villaggio satoyama nella municipalità di Kumamoto, Kyūshū. Fonte: Sekiyama K., KSPhotographic, 2019.
L’effetto distruttivo di queste era appunto mitigato dalla foresta 39 del satoyama: gli alberi
assorbivano buona parte del volume in eccesso, limitando l’erosione del terreno circostante per
mezzo delle radici; l’acqua così filtrata scendeva quindi lungo i terrazzamenti, che tramite
canaline era direzionata verso gli orti prospicienti le abitazioni, dove le singole famiglie
crescevano le proprie verdure; infine, quel che restava veniva ulteriormente deviato dagli orti
Nello shintō, la montagna è anticamera dell’aldilà: è qui che dimorano gli spiriti degli antenati che, durante la
festa dello obon (13 – 15 agosto), si crede facciano visita ai propri discendenti, nonché la divinità protettrice (kami)
a cui è dedicato il santuario locale. Cfr. Raveri M. Il pensiero giapponese classico, Einaudi, Torino, 2014.
39
Le specie che in origine dominavano le foreste decidue dell’area del Kantō-Kansai erano la quercia (konara,
riferito specificamente alle varietà Quercus serrata e Q. acutissima) e il pino rosso (akamatsu, nome scient. Pinus
densiflora). Cfr. Takeuchi, op. cit., pp. 47-48.
38
35
verso il ruscello – o altro corso d’acqua minore – del villaggio, da cui gli abitanti attingevano
l’occorrente per le attività quotidiane (bucato, cucina, igiene personale). Nel corso di questo
processo, l’acqua passava da un microhabitat all’altro, arricchendosi di una serie di
microorganismi che andavano ad aggiungersi al bioma dei siti ove si depositavano, finendo poi
per percolare nella falda acquifera sotterranea.
Rappresentazione grafica dell’ecosistema del satoyama. Fonte: Yuanmei J. et al., Yunnan Normal University, 2019
In tal modo, i paesani riuscivano a garantirsi protezione dalle piogge e dalle frane senza bisogno
di ricorrere a opere idrauliche maggiori, facendo pendere a proprio vantaggio la bilancia del
fabbisogno idrico. Non da ultimo, il ridotto rischio idrogeologico permetteva di manutenere ed
eventualmente estendere la rete stradale da e verso il villaggio, facilitando traffici commerciali
e viaggi in provincia.
Certo, questo sistema richiedeva i dovuti accorgimenti per risultare efficace: per evitare un
accumulo eccessivo di foglie e altri residui, questi venivano raccolti regolarmente e compostati
per essere utilizzati negli orti privati; ancora, quando un albero raggiungeva un’altezza eccessiva,
esso veniva abbattuto senza sradicarlo, sì che negli anni potesse ricrescere a partire dal troncone.
In generale, si cercava di rispettare la diversità spontanea della foresta, senza privilegiare le
36
specie da cui si poteva ricavare profitto immediato40, e di lasciare sempre sufficiente spazio tra
le chiome, in modo che la luce solare potesse penetrare nel folto in ogni stagione, massimizzando
la produzione di biomassa.
In altre parole, si può dire che la prassi del satoyama abbia anticipato le moderne teorie sulla
biodiversità degli ecosistemi, affidandosi a un approccio trial and error che, seppur
eccessivamente intuitivo e dispersivo per poter essere definito scientifico, presenta comunque
un’impostazione sperimentale facilmente osservabile e riproducibile, tanto da aver attirato
l’attenzione di quegli agronomi che in tempi più recenti si sono occupati di sensibilizzare
l’opinione pubblica in materia ambientale.
Con le dovute cautele circa la “giapponesità” tout court del satoyama di cui si diceva all’inizio,
se ne può altresì desumere una concezione di paesaggio come managed nature41: posto che la
natura non è capace di autoregolarsi al punto da creare le condizioni ideali per la sopravvivenza
dell’uomo, bisogna individuarne gli ambiti passibili di miglioramento, astenendosi al contempo
dal compiere operazioni in grado di compromettere la buona salute delle specie vegetali – e non
solo – che concorrono ad assicurare la sostenibilità della vita sedentaria.
Inutile dirlo, si tratta però di un equilibrio precario, fondato su leggi non scritte e che necessita
di aggiustamenti continui, la cui bontà si può determinare soltanto rimanendo in loco, a osservare
con pazienza. Pazienza che la generazione postbellica, affamata di benessere e desiderosa di
lasciarsi alle spalle il conservatorismo delle zone rurali, chiaramente più non aveva. Ciò che non
aveva fatto l’inurbamento di periodo Meiji, con l’annessa emorragia di forza lavoro dalle
campagne, lo fecero infatti le grandi società di costruzioni del XX secolo, che per accomodare
40
La moderna scienza forestale, sviluppatasi in Prussia tra la seconda metà del Settecento e inizio Ottocento, era
giunta alla conclusione (erronea) che, con monocolture di alberi a rapido accrescimento e una buona dose di
fertilizzanti chimici, si sarebbe potuto garantire un ricambio di legname da costruzione stabile nel tempo. Sull’onda
dell’entusiasmo per gli ottimi risultati ottenuti con la prima generazione di piante, tali innovazioni furono subito
introdotte nei Paesi europei in via di industrializzazione e, più tardi, in Giappone, dove il governo Meiji disboscò
ettari di foresta spontanea per far posto a foreste sperimentali piantate a cedro (sugi, nome scient. Cryptomeria
japonica) e cipresso (hinoki, nome scient. Chamaecyparis obtusa). Particolarità del caso giapponese è che la vera
impennata nella sostituzione specifica si ebbe a partire dal Secondo Dopoguerra, quando in Europa e Stati Uniti le
teorie delle biodiversità e i fallimenti del secolo precedente avevano portato al definitivo abbandono delle
monocolture. A oggi, si stima che il Giappone abbia sostituito più del 50% del proprio patrimonio boschivo con
sugi, portando sull’orlo dell’estinzione alcune specie endemiche – soprattutto farfalle, come il midori shijimi (nome
scient. Favonius orientalis) – e aumentando il rischio idrogeologico, nonché l’incidenza di allergie stagionali da
polline (kafunshō). Cfr. Kerr A. Dogs and Demons: Tales from the Dark Side of Japan, Hill & Wang Publishing,
New York City, 2002; Takeuchi, op. cit., pp. 90-91.
41
La definizione, come anche l’elaborazione teorica su questo punto, appartiene all’agronomo Takeuchi Kazuhiko,
al cui studio ci siamo rifatti per la stesura dei paragrafi incipitari sul satoyama. Cfr. Takeuchi, op. cit., pp. 11-12.
37
una sempre più numerosa classe impiegatizia – tra cui figuravano anche quei figli e nipoti che
avevano scelto di abbandonare il furusato (paese natìo) – si misero ad acquistare terreni da quelle
famiglie contadine che, perduto il sostegno materiale degli eredi, avevano poca ragione di
rifiutare le loro generose offerte. Per erigere i blocchi residenziali si iniziò quindi a tagliare
letteralmente a metà le dorsali delle colline e a cementificare il fondovalle, distruggendo su
entrambi i versanti l’ecosistema del satoyama, che nonostante gli sforzi di volontari ed esperti
costituisce oggi una realtà pressoché estinta.
Rappresentazione schematica della crisi del satoyama. Fonte: Yuanmei J. et al., Yunnan Normal University, 2019
Diverso il discorso per Okinawa, le cui condizioni di partenza erano più severe rispetto a quelle
osservabili nello hondo. Abituato a una flora subtropicale che poco si prestava allo sfruttamento
umano e ancor meno a offrire protezione dai frequenti tifoni, il popolo ryukyuano dovette
convivere a lungo con la preoccupazione delle scarse riserve idriche e dell’umidità elevata, che
impedivano la conservazione degli alimenti e la pianificazione dell’agricoltura su ampia scala.
Tenendo conto di questi fattori frenanti, non è difficile capire perché gli isolani avessero
38
sviluppato una certa cautela nei confronti degli interventi antropici, complice anche il timore
reverenziale mantenuto dalle loro guide spirituali42 nei confronti dello status quo ambientale.
Di conseguenza, a Okinawa non è possibile riscontrare un sistema di “management naturale”
comparabile a quello del satoyama: i locali erano ovviamente a conoscenza delle ricchezze che
il territorio aveva da offrire, ma i singoli prelievi non si inserivano in un più vasto quadro di
sperimentazione – e a seguire di implementazione – atto a migliorare la situazione iniziale;
piuttosto, si cercava di controbilanciare il proprio impatto sull’ecosistema per mezzo di interventi
di compensazione di pari entità, sì da non compromettere il ricambio di quelle già esigue risorse
che avrebbero dovuto garantire la sopravvivenza della generazioni a venire, anche in vista di un
potenziale aumento demografico – quale spesso si verificava.
A questo punto, una definizione di paesaggio in grado di porre in risalto la distanza rispetto al
lemma precedente potrebbe essere quella di counterbalanced nature. Ferma restando la
consapevolezza che la natura non costituisce una dimensione a uso e consumo dell’uomo, non è
tuttavia nelle facoltà di quest’ultimo dettare i termini del rapporto, come avvalorato
dall’osservazione fenomenica. Nubifragi che si scatenano all’improvviso, ristrettezze di spazio
e penuria di materie prime frustrano continuamente la possibilità di instaurare una dialettica
genuinamente produttiva e paritetica con l’ambiente di appartenenza, sicché la soluzione
migliore appare quella di un’interazione moderata, per la quale ogni sottrazione deve tener conto
dei tempi di rigenerazione delle risorse naturali.
Continuando su questa linea di ragionamento, si può aggiungere che mentre le pratiche del
satoyama discendono da un approccio deduttivo nei confronti della natura, confortato da pattern
ricorrenti e un contesto idrogeologico più disponente tali da consentire l’astrazione e quindi la
previsione, le pratiche del villaggio okinawano paiono derivare semmai da un approccio quasi
esclusivamente induttivo, limitato nelle sue speculazioni da una situazione di partenza affatto
rigida, che poco spazio lasciava all’iniziativa delle popolazioni stanziali. L’ambito in cui
esercitare le proprie facoltà creative non sta perciò a monte, nella prevenzione e mitigazione dei
Per quanto non si possa parlare di matriarcato, nelle Ryūkyū il potere religioso è sempre stato appannaggio delle
noro, sacerdotesse-indovine legate per parentela ai capi politici. Il loro ruolo era quello di officiare i riti e custodire
il focolare sacro del villaggio, nonché di sorvegliare l’operato della controparte maschile. I documenti che ne
sanciscono le linee di discendenza risalgono all’unificazione del regno, ma il loro potere declinò sensibilmente a
partire dal XVII sec. Per uno studio comparato con le altre manifestazioni sciamaniche dell’Arcipelago, cfr. Haring
D. G. The Noro Cult of Amami Ōshima: Divine Priestesses of the Ryūkyū Islands in Sociologus – Neue Folge vol.
3-2, Duncker & Humblot, Berlino, 1953.
42
39
fenomeni naturali, quanto a valle, ovvero nell’organizzazione di quelle pratiche associative,
precipue della razza umana, che consentono di porre rimedio – come si diceva sopra,
“compensare” – ai capricci della natura ex post facto.
Per l’appunto, è qui che si inserisce l’agglomerato sociale noto come muē 43 , la risposta
okinawana al satoyama: esistente ancor oggi nella forma di banco di mutuo soccorso, esso era
in origine un’associazione informale di “liberi cittadini” finalizzata alla comunione di beni
materiali, agroalimentari e manodopera, alla quale si contribuiva su base volontaria. Quando una
disgrazia si abbatteva su una famiglia del villaggio, era il muē a provvedere alle spese e al lavoro
fisico che il singolo nucleo non poteva sostenere con le sue sole forze: il crollo di un pozzo o di
un’abitazione, la perdita di una piantagione o di un capo di bestiame, erano eventi all’ordine del
giorno che, se da un lato difficilmente prevenibili, potevano essere più agilmente superati
facendo affidamento sull’associazionismo. In sintesi, mentre il satoyama si dimostrava
particolarmente efficiente nelle pratiche di profilassi, punto di forza del muē era la corsa ai ripari,
che portando sollievo immediato ai sinistrati consentiva un ritorno alla normalità meno
traumatico.
Riprendendo il discorso iniziale, riteniamo che questa differenza antropologica fondamentale
circa lo statuto del paesaggio rappresenti la chiave di volta per interpretare le mancate sinergie
tra Yamato e Liuqiu: da un lato, un pugno di Stati regionali ossessionati dall’espansione
territoriale, che in seguito all’unificazione44 avrebbero riconosciuto nella centralizzazione e nel
militarismo il proprio denominatore comune; dall’altro, una galassia di piccole isole che, pur
esperendo strette da parte di una volubile autorità centrale, aveva trovato nella decentralizzazione
e nel pacifismo45 il giusto equilibrio onde schermirsi dalle pressioni interne ed esterne.
43
Giapp. standard muai, presentano oggi lo statuto legale di cooperative o associazioni culturali, organizzate per
vicinato (machi) al pari delle associazioni di volontariato dello hondo. Di recente, la loro attività è venuta a
intersecarsi con quella dei kōenkai, i gruppi di supporto creati da esponenti locali del Jimintō allo scopo di fidelizzare
il proprio elettorato con feste, gite ed elargizioni. Cfr. Moyai in Kotobanku onrain jiten, Asahi Shimbunsha, Tokyo.
44
L’opera di unificazione inaugurata da Oda Nobunaga (1534 – 1582) nella seconda metà del Cinquecento e
conclusasi con l’imposizione dello shogunato (bakufu) nel 1600 da parte di Tokugawa Ieyasu (1543 – 1616). Cfr.
Caroli, Gatti, op. cit., pp. 87-88.
45
Il pacifismo totalizzante del popolo okinawano è un falso mito, come si evince dai cenni storici sinora riportati,
nonché dalle arti marziali di autodifesa (karate, kobudō) che videro la luce sull’isola. Tuttavia, per quanto percorse
da conflitti e ribellioni interne, è altresì vero che le Ryūkyū non ritennero mai la guerra un valido strumento
diplomatico, ragion per cui quantità e sofisticazione del potenziale bellico furono sempre ridotte al minimo. Cfr.
Smits G. Visions of Ryukyu: Identity and Ideology in Early-Modern Thought and Politics, University of Hawaii
Press, Manoa, 1999.
40
Tenendo a mente quanto detto sopra, procediamo ora a vedere come questo particolare modo di
intendere la vita in comunità si sia concretato in prassi architettonica, e come il medesimo sia
stato successivamente stravolto dai tentativi di modernizzazione messi in campo – spesso e
volentieri in buona fede – dalle nazioni occupanti.
2.2. L’architettura tradizionale del Regno delle Ryūkyū e l’integrazione “morbida” nello Stato
Meiji
L’utilizzo del termine “tradizionale” pone, come di consueto, un problema di identificazione. In
generale, ci riferiamo con esso a quelle manifestazioni dell’architettura civile riconducibili al
periodo di piena sovranità della corte di Shuri, la cui originalità fu sancita principalmente a
posteriori dai movimenti identitari di tardo periodo Shōwa46, in un momento in cui rimarcare su
quanti più fronti possibili la distanza dalla cultura egemone dello hondo era diventato di capitale
importanza. La diatriba fu più che altro di natura teorica, dato che gran parte del patrimonio
culturale era andata distrutta nei fuochi della guerra – come comprovato dai pochi esemplari
originali sopravvissuti 47 –, ma fornì un indirizzo rigoroso per le successive opere di
ricostruzione48, che restituirono agli abitanti di Okinawa dei monumenti attorno a cui ricostruire
la propria coscienza collettiva.
Nel suo primo studio sistematico sull’argomento (i.e. Ryūkyū geijustu chōsa, 1924), il celebre storico
dell’architettura Itō Chūta (1867 – 1954) classificò l’architettura ryukyuana come una particolare declinazione
dell’architettura imperiale cinese. Tale definizione non piacque ad alcuni intellettuali okinawani diplomatisi presso
le migliori università di Tōkyō, come Ihara Fuyū (1876 – 1947) e Higashionna Kanjun (1882 – 1963), desiderosi di
muovere oltre il pregiudizio dell’incolmabile distanza tra cultura isolana e cultura Yamato. Al contrario, secondo
costoro l’architettura delle Ryūkyū costituiva il sostrato più antico e autentico della civiltà giapponese, ovvero quello
in cui erano ancora riscontrabili contaminazioni con le altre realtà del Pacifico Meridionale, prima della massiccia
influenza cinese. Tuttavia, negli anni Settanta studi affini – per quanto viziati da un certo coinvolgimento politico –
hanno dimostrato la maggior fondatezza delle teorie di Itō rispetto a quelle dei suoi discepoli. Per una disamina
della querelle sull’originalità dell’architettura okinawana, cfr. Toya N. Kindai ni okeru ‘Ryūkyū kenchiku’ no
seiritsu to chiiki shakai in Journal of Architecture and Planning, vol. 73, Architectural Institute of Japan, Tokyo,
2008.
47
Si tratta perlopiù di rovine di castelli (gusuku) che l’aristocrazia aveva smesso di abitare in seguito alle
devastazioni delle guerre di riunificazione (XV sec.), come i siti di Nakagusuku (Ginowan-shi), Katsuren (Urumashi), Nakijin (Nago-shi), o ancora di mausolei reali costruiti nei periodi di pace intervallanti suddetti conflitti, come
il Tamaudun (Naha-shi) e lo Urasoe yōdore (Urasoe-shi). Cfr. Ladefoged T., Pearson R. Fortified castles on
Okinawa Island during the Gusuku Period, AD 1200-1600 in Antiquity, vol. 74, Cambridge University Press,
Cambridge, 2000.
48
L’esempio più noto è sicuramente il Castello di Shuri (Naha-shi), ricostruito nel 1992 nel suo sito originario per
commemorare il ventennale del Ritorno al Giappone, e nuovamente raso al suolo dal recente incendio del 2019. Cfr.
Japan government aims to restore Okinawa’s gutted Shuri Castle by 2026, The Japan Times, 27 marzo 2020.
46
41
Come ogni società confuciana, anche quella ryukyuana era fortemente classista, ragion per cui
esistevano leggi precise in merito a chi potesse costruire cosa, e utilizzando quali materiali. La
prima attestazione a regolare formalmente questo aspetto, sino ad allora rimasto norma
consuetudinaria da far applicare ai capivillaggio, è contenuta in un editto dello Haneji shioki49
(1667), in cui il legno di quercia50 (chāgi) e di pino51 (māchi) vengono designati come «legname
per uso nobiliare» (goyōgi), vietandone ai sudditi comuni l’abbattimento, la vendita e l’uso
privato: chi, all’ispezione periodica del magistrato, fosse stato trovato colpevole di aver eretto
con detti materiali parte della propria abitazione – o anche solo di aver abbattuto questi alberi
per far spazio alla stessa –, sarebbe stato punito con la demolizione della dimora e il divieto di
edificarne un’altra senza previo controllo dell’autorità competente.
Dettagli di chāgi (sinistra) e māchi (destra). Fonte: Okinawa Prefecture, 2015.
Raccolta di leggi a opera di Haneji Chōshū (1617 – 1676), storico di corte e Primo Consigliere (sessei) di Shuri
dal 1666 al 1675. Compilatore della prima cronaca ufficiale del regno (Chūzan seikan, 1650), studiò a Satsuma sotto
l’egida dell’aristocrazia guerriera nipponica, da cui apprese l’etica militare, l’autodisciplina di matrice zen e il
rispetto reverenziale verso i superiori. Alla sua morte, queste centinaia di editti furono raccolte in un corpus unico
che avrebbe informato l’agenda politica del regno fino alla deposizione dell’ultimo sovrano Shō Tai nel 1872. Cfr.
Kuba M. Meiji-Taishōki no Okinawa ni okeru mokuzai riyō no jōkyō ni tsuite – Okinawaken shinrin shisatsu
fukumeisho in Okinawa kenritsu hakubutsukan-bijutsukan kiyō, vol. 6, Okinawa Prefectural Museum & Art
Museum, Naha, 2013.
50
Giapp. standard urajirogashi, nome scientifico Quercus salicina. In luchuan, la parola chāgi designa anche lo
inumaki (Podocarpus macrophyllus) una specie di conifera utilizzata anch’essa come materiale da costruzione, ma
non soggetta a restrizioni d’uso in quanto molto comune. Cfr. Kuba, op. cit., pp. 61-62.
51
Giapp. standard matsu, nome scientifico Pinus luchuensis (n.d.r.).
49
42
Successivamente, nel 1737 a tale novero si aggiunsero lo īku52, lo akagi53, lo itajii54 e lo iju55,
rendendo virtualmente impossibile costruire una casa con legname di qualità per chiunque non
appartenesse ai ranghi dell’aristocrazia. Con lo stesso editto56, il governo reale decretò inoltre il
monopolio sulle foreste dei somayama57, la cui gestione era stata sino ad allora affidata in via
autonoma ai majiri58, allo scopo di pianificarne le attività di rimboschimento e disboscamento.
Dettagli di itajii (sinistra) e iju (destra). Fonte: Okinawa Prefecture, 2020.
52
Giapp. standard mokkoku, nome scientifico Ternstroemia gymnanthera (n.d.r.).
Giapp. standard id., nome scientifico Bischofia javanica (n.d.r.).
54
Giapp. standard sudajii, nome scientifico Castanopsis sieboldii (ssp. luchuensis) (n.d.r.).
55
Giapp. standard himetsubaki, nome scientifico Schima wallichii (n.d.r.).
56
Noto ufficialmente come Rinsei hassho o Somayama Hōshikichō (1737). Cfr. Kuba, op. cit., pp. 61-62.
57
Foreste in amministrazione fiduciaria collettiva. Formalmente proprietà del sovrano, erano affidate alla
supervisione dei capi majiri (vd. nota seguente.), che a loro volta ne delegavano la tutela ai capivillaggio. A
prendersene cura effettivamente erano i residenti locali, che in cambio dei diritti d’uso su una piccola percentuale
del legname – utilizzato in parte come materiale da costruzione, in parte per ricavarne carbone – si assicuravano
della salute degli alberi, eseguivano i lavori di rimboschimento e comunicavano alle autorità i dati rilevanti. Cfr.
Kuba, op. cit., pp. 62-63.
58
Giapp. standard magiri, divisioni amministrative di primo livello, corrispondenti per estensione territoriale agli
odierni comuni (shi) ma dotati di maggiore autonomia. Dalla sua introduzione intorno al XV sec., tale sistema
rimase in vigore fino al 1908, quando fu abolito tramite decreto imperiale e sostituito con il moderno sistema
municipale (shichōson). Cfr. Tana M. Omoro kara Okinawashi tanjō made, Okinawa Bunkō, Naha, 1984.
53
43
Un’eccezione importante alla regola era rappresentata dal centro abitato di Naha, dove era
consentito il libero utilizzo del goyōgi, a prescindere dallo status sociale, per una questione di
prestigio internazionale: qui si trovavano infatti i quartieri residenziali occupati dalle legazioni
straniere durante le ambascerie, nonché le abitazioni dei diplomatici in pianta stabile. Va da sé
che le famiglie aventi disponibilità economica sufficiente all’acquisto di legnami pregiati fossero
spesso le stesse per le quali non si poneva il problema del divieto, ma è pur vero che a Naha si
poteva osservare una certa mobilità sociale, con mercanti, artigiani e piccoli proprietari terrieri
che avevano gradualmente guadagnato la città alta, trovandosi a vivere a poca distanza dai nobili
d’alto rango.
Dettagli di īku (sinistra) e akagi (destra). Fonte: Okinawa Prefecture, 2016.
Nonostante l’estensione considerevole – se paragonato alle altre realtà dell’arcipelago – e le
attività di preservazione di cui si diceva poc’anzi, ancora sul finire del XVIII sec. lo hontō
soffriva di una carenza cronica di legname, ragion per cui una voce considerevole del bilancio
pubblico era rappresentata dalle importazioni di questo bene: da Amami Ōshima e Kikaijima –
ovvero dalle periferie del regno – proveniva il chāgi, resistente a muffe e insetti e pertanto
44
destinato a essere trasformato in pilastri, travetti e pavimenti, mentre da Satsuma – a maggior
ragione in seguito alla sottomissione – si acquistava legno di cedro59 (sugi) e cipresso60 (hinoki),
che venivano utilizzati per laccature, navi, attrezzature edili e oggetti di uso quotidiano.
Un materiale meno ricercato e per cui non sussistevano particolari vincoli d’uso era invece la
roccia calcarea (sekkaigan), disponibile in abbondanza sull’isola. È opinione condivisa che essa
abbia avuto origine dalla sedimentazione stratificata della barriera corallina, in concomitanza
con il progressivo abbassamento del livello degli oceani: una volta esposto all’aria aperta per
effetto dello spostamento di faglia, il corallo ha attraversato un processo noto come
cementazione
61
, indurendosi rapidamente pur mantenendo la porosità caratteristica
dell’organismo biologico.
Particolarità della variante ryukyuana sono le ripide formazioni “a cresta di gallo”, in prossimità
di corsi d’acqua superficiali o sotterranei. Questi veri e propri muri di roccia sono frutto di un
caso particolarmente felice del fenomeno sopra descritto, favorito da un’erosione differenziale
che ha portato in evidenza soltanto gli strati maggiormente consolidati: da un lato, il dislivello
ha impedito un accumulo di terreno alla base, sì da evitare il rallentamento dell’ossidazione;
dall’altro, il flusso d’acqua costante ha accelerato la cristallizzazione del calcare, che bagnandosi
e asciugandosi a fasi alterne indurisce più velocemente. Dal momento che tali creste raramente
superano i 150 metri di spessore, non era raro che gli isolani tentassero di perforarle fino a
raggiungere la sorgente sottostante, in modo da garantirsi una riserva idrica ausiliaria.
In virtù della relativa facilità di estrazione, nonché della sua resistenza alle intemperie, il
sekkaigan era impiegato nella costruzione di muri di cinta, mangiatoie, servizi igienici e
pavimentazioni, sia stradali che domestiche: una scelta, quest’ultima, non molto appropriata
visto che, trattandosi di una roccia porosa, nei giorni di pioggia diventa pericolosamente
scivolosa.
59
Nome scientifico Cryptomeria japonica, la qualità di legname importata da Satsuma era nota come yakusugi, in
quanto proveniva dalle piante che crescevano spontaneamente sopra i 500 metri a Yakushima, appartenente al
gruppo delle Isole Ōsumi – ca. 600 chilometri a Nord-Est di Okinawa. Cfr. Chikara M. Kyūshū ikushujō no hozon’en
no genkyō in Rinboku iden shigen jōhō, vol. 29, Rinboku Ikushu Sentā, Hitachi, 2004
60
Nome scientifico Chamaecyparis obtusa (n.d.r.).
61
In geologia, «litificazione e saldatura di sedimenti clastici – ovvero provenienti da formazioni rocciose precedenti
– per effetto della precipitazione di minerali in interstizi porosi». Più volgarmente, processo per il quale gli ioni –
di cui sono ricchi i corsi d’acqua sotterranei – formano microscopici “ponti” di minerale tra i granuli dei sedimenti
originari, legandoli insieme in un nuovo conglomerato. Cfr. Takayasu K. Ryukyu Limestone of Okinawa-Jima, South
Japan: A Stratigraphical and Sedimentological Study in Memoirs of the Faculty of Science, vol. 45-1, Kyoto
University, Kyoto, 1978.
45
Ciò detto, passiamo a vedere la struttura di una tipica dimora ryukyuana, tenendo presente che
la presenza o meno di certi elementi distintivi dipendeva dal censo e dalla professione degli
occupanti.
L’abitazione propriamente detta si trova al centro del complesso, orientata a Sud per garantire la
massima esposizione alla luce solare durante la giornata. L’interno dell’edificio principale
(omoya) presenta a Sud-Est lo ichibanza, la stanza principale contenente il tokonoma per il culto
degli antenati, riservata al capofamiglia e alla sua consorte; alla sua sinistra è invece il nibanza,
contente l’altare buddista62 e occupata dai figli, ai quali era comunque data facoltà di utilizzare
la metà superiore della stanza paterna, in caso di necessità.
Pianta di casa tradizionale ryukyuana. Fonte: Shinsei Shuppansha, 1980.
Sull’estremità occidentale si trova la cucina: a differenza delle altre stanze, che presentavano una
copertura in bambù intrecciato (chinibu)63, il pavimento era in terra battuta o pietra – come
La maggiore influenza del buddismo rispetto allo shintō, che pure era entrato a far parte della religiosità locale
attraverso secoli di contatti con lo hondo, si rivelò problematica all’indomani della proclamazione dello Shinbutsu
hanzenrei (1868), ovvero l’editto sanzionante la superiorità dello shintō quale unica religione autentica
dell’Arcipelago. La matrice buddista del culto tradizionale di Okinawa fu a lungo guardata con sospetto dagli
ufficiali di Tōkyō quale ulteriore prova dell’inaffidabilità e indolenza degli indigeni, incapaci di conformarsi fino
in fondo al kokutai (ordinamento nazionale). Cfr. Hardacre H. Creating State Shinto: The Great Promulgation
Campaign and the New Religions in The Journal of Japanese Studies, vol. 12-1, The Society for Japanese Studies,
Seattle, 1986.
63
Il nome autoctono del bambù intrecciato, con il quale ci si riferisce per estensione anche alla tecnica di
intrecciatura tipica di Okinawa: in essa, le fascine di bambù sono disposte obliquamente su intelaiatura
quadrangolare, a formare degli incroci. Cfr. Chinibu in Okinawa Hōgen Jiten, Ajima Kabushikigaisha, Naha.
62
46
nell’esempio in questione –, per evitare che la fiamma del focolare domestico64 – sempre accesa
– potesse scatenare un incendio; nello specifico, per cuocere le pietanze si usava una piccola
fornace (kamado), circondata sui tre lati da grosse pietre e sormontata da un ampio scaffale, dove
si appoggiavano la legna da ardere e le spezie. Uscendo dall’omoya, ci si imbatte sulla destra
nello ashiyagi, una sorta di dépendance collegata allo ichibanza dal basamento in pietra o dalla
grondaia (amahaji)65. Dotata di propri servizi igienici e di una o due stanze, essa serviva ad
accomodare le coppie anziane – genitori e/o suoceri o, viceversa, gli sposi novelli –, come spazio
per la socializzazione dei giovani o, infine, come casa per gli ospiti d’onore, anche se
quest’ultima funzione cadde presto in disuso in seguito alla presa del potere da parte di Satsuma,
che aveva sospeso le visite dei funzionari locali per tema di complotti.
Ricostruzione di un complesso tradizionale presso l’acquario di Churaumi (Motobu-chō). Fonte: Inoue C., Smart Magazine, 2015.
Era talvolta affiancato da un bruciatore d’incenso (kōro) per la venerazione di Hinukan, divinità animista del
fuoco. Cfr. Yashiki to tatemono in Ryūkyū Bunka Akāibu, Okinawa Kenritsu Sōgōkyōiku Sentā, Okinawa.
65
Serviva a impedire che la pioggia, che sovente cadeva di stravento, potesse bagnare gli ambienti interni. Offriva
poi riparo dalla luce diretta a chi si intratteneva all’esterno, e facilitava la raccolta di foglie e altri residui che si
depositavano sul tetto. Aveva infine un’importante funzione sociale: nelle case okinawane, sprovviste di vestibolo
(genkan), gli ospiti venivano accolti sotto la grondaia, e qui si servivano le pietanze di benvenuto al loro arrivo. Cfr.
Dixon B. Okinawa as Transported Landscape: Understanding Japanese Archaeological Remains on Tinian Using
Ryūkyū Ethnohistory and Ethnography in Asian Perspectives, vol. 54-2, Hawaii University Press, Manoa, 2015.
64
47
Per quanto riguarda gli ambienti funzionali, fuori dalla cucina si trova il magazzino (momikura)
per il riso non mondato (momi, appunto) con tetto di paglia, rialzato di circa 2 metri per evitare
l’umidità del suolo. Era sorretto da alti pilastri circolari – da 4 a 9, a seconda dell’ampiezza della
struttura – sui quali erano installati dei nezumigaeshi, placche di legno a metà altezza tra il terreno
e il deposito, che servivano a impedire ai topi di raggiungere la sommità. Sulle pareti in chinibu,
inclinate di 45 gradi verso l’esterno, si aprivano due ingressi con la rispettiva scala di legno, in
modo da garantire una buona areazione in ogni stagione. Il pozzo (ido), invece, non era presente
in ogni abitazione, e anche laddove disponibile non sempre bastava a soddisfare il fabbisogno
familiare, sicché era necessario recarsi alla sorgente più vicina per fare scorta: l’acqua così
raccolta veniva quindi conservata in recipienti fissi, posti all’esterno della cucina. Passando sul
lato Nord-Ovest, troviamo i servizi igienici (benjo) e il porcile (tonsha), che spesso costituivano
un’unica unità (fūru in luchuan)66.
Resti di fūru presso il sito archeologico di Hanzanbaru (Chatan-chō). Fonte: Hitorigoto Blog, 2015.
Introdotto dalla Cina, probabilmente al tempo della dinastia Han (206 a.C. – 220 d.C.). Esemplari di fūru (giapp.
standard butabenjo) sono attestati anche sull’isola di Jeju, facente parte delle acque territoriali della Repubblica di
Corea. Cfr. Dixon, op. cit., p. 290.
66
48
Entrambi in pietra, i primi erano una sorta di latrina alla turca rialzata, provvista di un foro
rettangolare – detto tōshi nu mī – e declinante verso l’interno, sormontata da un arco a impedire
la penetrazione della luce. Le deiezioni venivano poi raccolte e gettate – o fluivano direttamente,
nel caso in cui le due sezioni fossero collegate – nella porcilaia, dove diventavano mangime per
il bestiame: una pratica a prima vista insalubre, ma che in realtà consentiva uno smaltimento del
tutto igienico degli escrementi umani. Inoltre, anche se il bagno si trovava spesso sottovento,
esso schermava l’alloggiamento dei maiali dalle correnti d’aria, pertanto gli effluvi provenienti
da quest’ultimo non raggiungevano le stanze.
In aggiunta, la casa disponeva di due aree verdi: a Nord, sul retro, un orto (atai) in cui, non
diversamente dal satoyama, si coltivavano verdure – solitamente shimayasai 67 che non
richiedevano cure particolari – con cui integrare la propria dietra; a Sud, davanti all’ingresso, un
giardino fiorito (nā) per il tempo libero e lo svago, protetto da un muretto (hinpun)68. Lungo tutto
il perimetro, correva infine un muro di cinta in pietra (ishigaki)69.
Una parola in più va spesa per il tetto che, decorato con tegole rosse (akagawara)70 e un caneleone (shīsā) 71 in argilla, costituisce ancor oggi il tratto distintivo delle abitazioni private
dell’isola, nonostante i materiali utilizzati e la struttura raramente rispecchino quelli originari. A
ogni modo, non bisogna dimenticare che, fino alle fasi finali della Guerra del Pacifico, molti
Le “verdure dell’isola”, ovvero i tipici gōyā (giapp. standard nigauri, melone amaro), ensai (giapp. standard
kūshinsai, spinacio d’acqua cinese), nigana (giapp. standard hosoba, basilico amaro), handama (giapp. standard
suizenjina, spinacio delle Ryūkyū), solitamente usati come contorno o condimento. Cfr. Okinawa dentō no
shimayasai in Chiiki Shigen Kenkyūsho Kenkyūburogu, Ippanshadanhōjin Chiiki Shigen Kenkyūsho, Tokyo.
68
Presenta due funzioni: una pratica, in quanto nasconde alla vista dei passanti il giardino, garantendo una certa
privacy; una simbolico-religiosa, in quanto sancisce la divisione tra interno ed esterno, proteggendo gli inquilini
dagli spiriti malevoli che si fossero introdotti dall’ingresso. Cfr. Hinpun in Ryūkyū Bunka Akāibu, Okinawa Kenritsu
Sōgōkyōiku Sentā, Okinawa.
69
L’architettura okinawana tradizionale presenta tre stili di muratura: nozura zumi, il più antico, in cui pietre grezze
o frammenti di corallo vengono disposti a incastro senza lavorazione (un esempio è l’ala meridionale delle rovine
di Nakagusuku); nuno zumi, in cui le pietre vengono lavorate fino ad assumere forma quadrata o rettangolare, in
voga tra il XII sec. e il XV sec. (vd. il portale di ingresso del già citato Nakagusuku); aikata zumi, tecnica che
prevede una limatura minuziosa del bordo, di modo che le pietre semigrezze possano essere combinate mantenendo
la loro forma originale (realizzato in questo stile è il tempio Sōgen-ji a Naha). Cfr. Ishizumi in Ryūkyū Bunka Akāibu,
Okinawa Kenritsu Sōgōkyōiku Sentā, Okinawa.
70
Si ritiene che l’uso di decorare il tetto con piccole tegole sia stato importato dal regno di Koguryŏ (37 a.C. – 3 d.
C.) nella penisola coreana, come dimostrato dai ritrovamenti archeologici del castello di Urasoe. Il colore rosso è
tuttavia una particolarità di Okinawa, dovuta al tipo di argilla disponibile sull’isola. Cfr. Ryukyuan Architechture in
Zamami: Red-Tile Roofs, The Zamami Times, 28 gennaio 2016.
71
Una variante locale del cane-leone (komainu), statua posta all’ingresso dei templi buddisti per tenere alla larga le
forze del male, riscontrabile in tutto l’Estremo Oriente. Tuttavia, a differenza dei suoi omologhi lo shīsā era usato
quasi esclusivamente come acroterio – decorazione per fregi o sommità degli edifici. Cfr. Shīsā in Ryūkyū Bunka
Akāibu, Okinawa Kenritsu Sōgōkyōiku Sentā, Okinawa.
67
49
agricoltori – costituenti la maggioranza della popolazione ryukyuana – non disponevano di un
simile lusso e vivevano in capanne dal tetto di paglia (anayā)72, realizzate con frasche e legname
di alberi comuni quali kunchāyūna73, deigo74 e usukugajumaru75: benché non potessero reggere
il confronto con le dimore edificate in goyogi, tanto da venire spazzate via facilmente al primo
tifone, potevano essere ricostruite in un tempo relativamente breve e a costi contenuti, e
rappresentavano perciò la scelta più conveniente sia per i privati che per i muē.
Ricostruzioni di anaya presso il giardino botanico di Omoro (Motobu-chō). Fonte: Ocean Expo Park, 2019.
Questo, a grandi linee, lo scenario che gli ufficiali di Tokyo si trovarono dinanzi al principio del
periodo Meiji, e che cercarono di intaccare il meno possibile onde non incrinare ulteriormente i
rapporti con l’ormai esautorata aristocrazia indigena. Non si pensi infatti che alla base dei
72
Evoluzione del tateana, capanna eretta a partire da una fossa (ana, da cui appunto la metonimia) scavata nel
terreno e sorretta da un piccolo pilastro centrale (komaruta), scomparsa agli inizi del XII sec. Rispetto al precursore,
lo anayā presenta una struttura più solida e permette di accomodare più persone; infatti, benché il termine “capanna”
lasci supporre altrimenti, non si trattava di un riparo di fortuna ma di un’abitazione a tutti gli effetti, spesso
organizzata in complessi residenziali di due o più unità. Cfr. Sumai no rekishi in Ryūkyū Bunka Akāibu, Okinawa
Kenritsu Sōgōkyōiku Sentā.
73
Giapp. standard ōbagi, nome scientifico Macaranga tanarius (n.d.r.).
74
Giapp. standard id., nome scientifico Erythrina variegata. Il suo legno era ambito anche dai nobili, pur non
rientrando tra i goyogi, per la fabbricazione di suppellettili da rivestire in lacca (shikki). Cfr. Kuba, op. cit., p. 62.
75
Giapp. standard akō, nome scientifico Ficus superba (var. japonica) (n.d.r.).
50
Provvedimenti kyūkan onzon76 vi fosse un sincero interesse a tutelare il patrimonio culturale
dell’isola; semmai, il mantenimento forzoso di una certa arretratezza nello stile di vita e nelle
pratiche abitative, congiuntamente alle vestigia del sistema regio-feudale in ambito fondiario,
fiscale, amministrativo, erano funzionali alla preservazione di una serie di privilegi che, come
aveva insegnato la ribellione di Satsuma77, i signori locali non sarebbero stati disposti a cedere
senza combattere. Prova ne è il fatto che, all’indomani della revoca dei suddetti Provvedimenti,
il governo centrale si affrettò ad abbandonare la linea morbida, pur senza cambiare formalmente
indirizzo alla propria policy: edifici e luoghi d’incontro emblematici della vita comunitaria
okinawana78, la cui funzione trascendeva quella meramente abitativa, furono bollati come lasciti
di un passato primitivo, che non rendeva giustizia alla statura della neonata prefettura di Okinawa.
La popolazione fu così incoraggiata a integrarsi, in primo luogo culturalmente e in secondo luogo
professionalmente, nella filiera dell’incipiente capitalismo giapponese, per il quale forme di
associazionismo identitario avrebbero sempre costituito un pericolo.
Di conseguenza, la situazione paradossale che si venne a delineare alla fine della Restaurazione
Meiji era tale per cui, da un lato, continuavano a sussistere realtà abitative premoderne a uso e
consumo della popolazione autoctona, che, sulla falsariga di quanto accaduto al satoyama nello
hondo, sarebbero probabilmente scomparse con altrettanta velocità senza l’intervento statale;
dall’altro, si moltiplicavano realtà produttive e speculative di matrice capitalistica i cui frutti,
come vedremo in dettaglio nel prossimo capitolo, venivano colti in via esclusiva dalla
Lett. “Provvedimenti (seisaku) per la preservazione degli antichi costumi”, una serie di misure messe a punto dal
Commissario straordinario alla conversione delle Ryūkyū (Ryūkyū shobunkan) Matsuda Michiyuki (1839 – 1882)
nel 1879 e rimaste in vigore fino al 1903. Onde garantirsi l’appoggio della classe dirigente locale, il governo Meiji
accordò all’aristocrazia okinawana il mantenimento dei propri privilegi, ovvero stipendi mensili in base al proprio
titolo – legato a un pubblico ufficio che di fatto non veniva più esercitato – ed esenzioni dalle tasse. Corollario di
questi provvedimenti in materia fiscale era una serie di disposizioni circa la preservazione di usi e costumi locali, la
cui sopravvivenza serviva a legittimare culturalmente il permanere di un anacronistico sistema feudale. Cfr. Quast
A. A word in your ear in Ryukyu Bugei Research Workshop, Ryukyu Bugei, Okinawa, 2015.
77
Nota in giapponese col nome di Nansei sensō (Guerra del Sud-Ovest), la famosa ribellione di Satsuma, guidata
dall’ “ultimo samurai” Saigō Takamori (1828 – 1877), si protrasse dal gennaio al settembre 1877 e segnò la
definitiva uscita di scena della classe samuraica dalla piramide sociale del Giappone Meiji. Primo vero banco di
prova per il neonato esercito di leva, la rivolta culminò nell’assedio del castello di Kumamoto nel Kyūshū,
conclusosi con la vittoria dell’esercito regolare e la consecutiva ritirata a Kagoshima, dove i capi della sedizione
incontrarono la propria fine. Cfr. Caroli, Gatti, op. cit., pp. 150-151.
78
L’esempio più emblematico sono gli utaki, santuari naturali in cui le noro (vd. nota 42, p. 40) celebravano i culti
comunitari. Benché non formalmente proibito, ritrovarsi presso questi luoghi era guardato con disprezzo dalle
autorità giapponesi, nonché con un certo timore – per possibili ritrovi di sediziosi. Cfr. Rots A.P. ‘This Is Not a
Powerspot’: Heritage Tourism, Sacred Space, and Conflicts of Authority at Sēfa Utaki in Asian Ethnology, vol. 781, Nanzan University Press, Nagoya, 2019.
76
51
“madrepatria”. In questo frangente storico, il gradiente di sviluppo di Okinawa si può pertanto
apprezzare non da una stima dei benefici (esigui) conseguenti all’introduzione di nuove
conoscenze e tecnologie, quanto dall’osservazione di quegli effetti collaterali che accomunano
l’isola alla terraferma, come il proliferare di yoseba
79
/doyagai
80
, la dicotomia
sovrappopolamento (centri amministrativi)/spopolamento (zone rurali), la frammentazione della
proprietà privata, l’endemizzazione della povertà e via dicendo. Da qui, la cautela delle virgolette
nel parlare di integrazione morbida nello Stato Meiji.
Per quanto la tempesta dell’iconoclastia modernista non si fosse ancora abbattuta con tutta la sua
forza, la Okinawa di fine Ottocento si trovava infatti ad affrontare una fase di transizione
punteggiata di contraddizioni: a metà tra leggibile e illeggibile, tra arretratezza e
modernizzazione, tra accumulazione originaria e protocapitalismo, nondimeno sopravvivevano
degli spazi interstiziali che, col senno di poi, avrebbero potuto rappresentare un terreno fertile
per l’elaborazione di un legittimo dissenso.
Dissenso che, purtroppo, si sarebbe costituito la sua base ideologica soltanto molto più tardi, a
causa della comprovata connivenza tra élite locali e quadri burocratici di Tokyo.
Quartieri dei lavoratori in nero dell’industria edilizia, pagati a giornata. La gerarchia prevede una serie di shitauke
(ing. sub-contractors) che, affidandosi all’intermediazione di un gangster locale (oyaji) o a un’agenzia di
reclutamento (tehaishi) affiliata alla yakuza, forniscono alle grandi compagnie edilizie, note come motouke (ing.
prime contractors), la manodopera di cui hanno bisogno. Prima conseguenza di questa serie di subappalti è che la
quasi totalità della paga degli operai se ne va in commissioni e polizze assicurative, ritornando nelle tasche degli
sfruttatori; in secondo luogo, i ripetuti passaggi di consegne servono a confondere le acque, in modo da far apparire
regolare la prestazione degli sfruttati. Il primo yoseba di Okinawa fu quello di Nishihara-chō (Nakagami-gun),
sviluppatosi a partire dal 1908 attorno alle piantagioni di zucchero e zuccherifici di proprietà della compartecipata
statale Okitai Takushoku Seitō Gaisha. Dopo la guerra, il cuore pulsante dell’economia sommersa si spostò più a
Nord, precisamente a Koza-shi – dal 1974 inglobata nella municipalità di Okinawa-shi –, una municipalità creata
ad hoc nel 1956 dall’amministrazione americana per accomodare l’enorme quantità di okinawani rimpatriati. Studi
più recenti hanno rilevato però che, in seguito alla riqualificazione di Koza promossa dal governo giapponese, il
punto di ritrovo dei lavoratori in nero si è spostato nei pressi del suo luogo d’origine, ovvero alle porte del castello
di Shuri (Naha-shi), a soli 6 chilometri da Nishihara. Per uno studio relativamente recente del fenomeno, cfr. Sendō
H. Naha no yoseba in Okinawa Fīrudo Risāchi (Nihon – Ajia Bunkachōsa Jisshū Hōkokusho), vol. 1, Waseda
Daigaku Kyōikubungakubu, Tokyo, 2007.
80
Gli slums che sorgono accanto agli yoseba e ne accomodano la forza lavoro, caratterizzati da tassi di
microcriminalità (aggressioni, estorsioni, schermaglie tra fazioni) pericolosamente al di sopra della media nazionale.
Cfr. Sendō, op. cit., p. 92.
79
52
2.3. Il tardivo piano di ricostruzione dell’USCAR e la difficile transizione all’edilizia cementizia
Diversamente dal predecessore, la sfida che il direttivo dell’USCAR81 si trovò ad affrontare non
fu tanto quella di traghettare Okinawa verso la modernità aggiornandone il paradigma abitativo
e urbano, quanto di riscrivere quest’ultimo a partire da zero, provvedendo al contempo alla
risoluzione dell’emergenza umanitaria 82 e alla pianificazione a lungo termine delle attività
economiche. Una sfida che, come vedremo a breve, si sarebbe rivelata al di sopra delle capacità
dei vertici militari statunitensi, ai quali va attribuita la responsabilità del problematico assetto
urbano osservabile ancor oggi, frutto della mancata coordinazione tra i centri di potere coinvolti
a vario titolo nella suddetta amministrazione, nonché della propensione a far prevalere gli
interessi militari su quelli civili.
Ciò detto, è pur vero che ai piani alti di Washington nessuno aveva preventivato che
l’occupazione di Okinawa si sarebbe protratta oltre la capitolazione del mainland83, e che in un
certo senso fu semmai l’inaspettata accondiscendenza di Tokyo alle condizioni di resa a
necessitare un’estensione della stessa. L’ambiguità di fondo dell’art. 8 della Dichiarazione di
Potsdam 84 aveva infatti posto l’Amministrazione Truman dinanzi a un bivio: annoverare le
United States Civil Administration of the Ryukyu Islands, istituito il 5 dicembre 1950 dal Comando dell’Estremo
Oriente quale riorganizzazione del precedente USMGR (United States Military Government of the Ryukyu Islands).
La sua funzione era quella di soprintendere al processo democratico e, fino al 1960, di nominare il Capo Esecutivo
(gyōsei shuseki) del Governo delle Ryūkyū, l’organo di autogoverno che deteneva in via esclusiva il potere
legislativo, esecutivo e giudiziario in quanto eletto dal popolo. Anche in seguito al 1960 l’USCAR continuò tuttavia
a mantenere il diritto di veto sulle proposte di legge del parlamento locale, e non di rado ricorse a manipolazioni e
frodi elettorali per favorire l’inserimento di esponenti a sé vicini nell’emiciclo. Cfr. Fisch A. G. Military Government
in the Ryukyu Islands 1945 to 1950, US Army Center of Military History, Washington D.C., 1988.
82
Al momento del discorso alla nazione dell’Imperatore Hiroito che mise ufficialmente fine alle ostilità (15 agosto
1945), a Okinawa si contavano 320mila sfollati, distribuiti sull’intera superficie dell’isola in 7 campi profughi
corrispondenti ad altrettante unità amministrative del governo militare, ovvero: Itoman (Sud-Ovest), Chinen (SudEst), Koza (Centro-Ovest), Ishikawa (Centro-Ovest), Maebaru (Centro-Est), Jinuza (Centro-Est) e Taira (NordOvest). Il ricollocamento dei civili ospitati nei campi di Jinuza, Ishikawa e Maebaru fu completato nel marzo 1946,
mentre gli altri avrebbero dovuto attendere la fine di luglio. Fino al 1949 l’Esercito dovette comunque gestire un
flusso pressoché continuo di rimpatri, dal momento che gran parte della popolazione maschile di Okinawa era stata
dislocata nei territori occupati dell’Impero durante il conflitto. Cfr. Fisch, op.cit., p.90-91.
83
Secondo i piani originari dello Stato Maggiore per la conquista del mainland, dopo estensivi bombardamenti aerei
e navali le Forze Alleate avrebbero dovuto procedere a una grande operazione anfibia congiunta, utilizzando le
Ryūkyū come avamposto per i rifornimenti e la riorganizzazione delle retrovie. Tuttavia, com’è noto, alla fine non
vi fu alcuno sbarco. La detonazione degli ordigni atomici fu sufficiente a convincere il quartier generale giapponese
ad accettare la resa incondizionata, sicché sul momento l’occupazione di Okinawa parve perdere la sua importanza
strategica. Cfr. Fisch, op.cit., p. 70.
84
Firmata dai capi di governo di Stati Uniti, Cina Nazionalista e Regno Unito il 26 luglio 1945, definisce i termini
della resa giapponese e i provvedimenti a questa successivi. Nello specifico, l’Articolo 8 ribadisce quanto già
precedentemente convenuto nel corso della Conferenza del Cairo (22 – 26 novembre 1943), ovvero che la sovranità
giapponese sarebbe stata da allora in avanti limitata «alle isole di Honshū, Hokkaidō, Shikoku e Kyūshū, e a quelle
isole minori così come […] determinato». La mancanza di indicazioni più specifiche in merito a quali isole fossero
da considerarsi tali avrebbe a lungo costretto Okinawa in una zona grigia del diritto internazionale. Cfr. Department
81
53
Ryūkyū tra quelle stesse «isoli minori» per le quali restava valida la sovranità giapponese,
procedendo di conseguenza alla loro demilitarizzazione e restituzione alla parte sconfitta – così
come auspicato dal Dipartimento di Stato85; oppure riconoscere loro lo statuto di primary base
areas86, normalizzando la presenza americana per gli anni a venire – assecondando le richieste
dello Stato Maggiore Congiunto87. Dati lo scenario turbolento che all’epoca ancora si prospettava
nel Pacifico88 e il clamore che una concessione territoriale di tale importanza strategica avrebbe
suscitato tra le nazioni appena sottrattesi al giogo imperiale, la posizione dei militari infine
prevalse, ma nessuno dei due Corpi protagonisti della sanguinosa battaglia di Okinawa 89
sembrava volersi assumere un simile impegno.
Dalla fine delle ostilità fino alla nomina del Generale MacArthur quale uomo di punta del
neonato Comando per l’Estremo Oriente 90 , si assistette quindi a un continuo rimbalzo di
responsabilità tra Marina ed Esercito 91 , il cui interesse a governare un presidio permanente
of State. Foreign Relations of the United States: The Potsdam Conference 1945, vol. 2-1382, Washington DC
Government Printing Office, Washington D.C., 1960.
85
United States Department of State, l’organo esecutivo del governo federale responsabile per la politica estera, le
relazioni internazionali e le missioni diplomatiche. All’epoca l’indirizzo del Dipartimento, dettato dal Segretario di
Stato James F. Byrnes (1945 – 1947), era di osservare una generale prudenza nel farsi coinvolgere nel processo di
decolonizzazione dell’Estremo Oriente, nella misura in cui ciò avrebbe potuto esacerbare gli attriti geopolitici con
il rivale sovietico. Cfr. Foltos L.J. The New Pacific Barrier: America's Search for Security in the Pacific, 1945–47
in Diplomatic History, vol. 13-3, Oxford University Press, Oxford, 1989.
86
Basi estere il cui controllo è reputato indispensabile per la sicurezza dei confini nazionali (homeland security) e/o
per il buon esito di missioni di lunga durata (projected military operations). Cfr. Joint Chief of Staff, Over-All
Examination of U.S. Requirements for Military Bases and Rights, CCS File 360 (12-9-42), Sec. II, 1945.
87
Joint Chiefs of Staff, organo consultivo delle forze armate statunitensi che riunisce i Capi di Stato Maggiore di
ciascun corpo, con l’aggiunta del Direttore della Guardia Nazionale. Cfr. Foltos, op. cit., p. 320.
88
Sul continente si continuava a combattere la Guerra Civile Cinese (1945 – 1949), i cui effetti si estendevano alla
penisola coreana e, più in generale, a tutto il Sud-Est Asiatico in piena decolonizzazione. Samarani G. La Cina
contemporanea. Dalla fine dell’Impero ad oggi, Einaudi, Torino, 2017.
89
Combattuta tra il primo aprile e il 22 giugno 1945, è tristemente nota per la disumanità con cui il comando
giapponese, capeggiato dal Generale Ushijima Mitsuru, costrinse la popolazione civile a fronteggiare disarmata il
nemico, e successivamente a togliersi la vita quando ormai era diventato inutile opporre resistenza. Le disposizioni
dello Stato Maggiore dell’Esercito Imperiale erano appunto di trattenere il nemico a Okinawa a ogni costo, onde
evitare l’extrema ratio dello hondo kessen (battaglia decisiva sulla terraferma). Cfr. Caroli, op. cit., pp.172-175
90
Onde migliorare il coordinamento e la velocità d’intervento delle truppe d’occupazione impegnate all’estero, lo
Stato Maggiore Congiunto optò per una riorganizzazione comprensiva dei comandi più strategicamente rilevanti.
Nell’Estremo Oriente, la responsabilità per tutte le operazioni di terra, aria e mare fu affidata al Gen. Douglas
MacArthur in qualità di Comandante in Capo per l’Estremo Oriente (CINCFE). A seguire, a partire dal 1 gennaio
1947 MacArthur divenne direttamente responsabile anche per la gestione degli affari civili nelle Ryūkyū, con la
creazione di un apposito ufficio competente (i.e., Korea-Ryukyus Division). Cfr. Fisch, op. cit., pp.75-76.
91
Lo Stato Maggiore Congiunto aveva inizialmente affidato la gestione degli affari civili e militari alla Marina, ma
l’Ammiraglio Chester W. Nimitz, Comandante in Capo della Flotta del Pacifico, riuscì a ottenere una deroga
temporanea – effettiva dal 31 luglio 1945 – fino alla completa occupazione del mainland giapponese, scaricando la
responsabilità sull’Esercito nel mentre. Il 21 settembre dello stesso anno le redini tornarono alla Marina, ma Nimitz
per primo si era ormai reso conto che la conformazione dell’isola non offriva alcun approdo o avamposto
strategicamente vantaggioso per la sua flotta. Infine, l’amministrazione tornò a essere una responsabilità
dell’Esercito il primo aprile 1946, e di fatto tale rimase fino al ritorno al Giappone nel 1972. Cfr. Chamberlin S. J.
54
sull’isola era andato scemando una volta comprese le condizioni climatiche e idrogeologiche
estremamente sfavorevoli che la caratterizzavano.
Risolto il problema della leadership, quantomeno a livello formale 92 , si poté finalmente
procedere all’avvio delle opere di ricostruzione, ma la priorità con cui queste furono eseguite
non sempre rispose alle reali esigenze della popolazione civile, soprattutto nella prima fase dei
lavori. Dato l’esiguo numero di genieri93 che potevano essere destinati dallo Stato Maggiore alla
costruzione di nuovi edifici, l’Esercito si preoccupò anzitutto di migliorare i collegamenti tra le
installazioni militari, procedendo alla costruzione di strade asfaltate, ponti, acquedotti, porti94, e
di accomodare i propri effettivi, erigendo caserme, circoli per ufficiali, centri ricreativi e piccole
centrali elettriche in grado di provvedere al fabbisogno energetico delle truppe.
A eccezione di alcuni edifici permanenti in cemento, contenuti all’interno del perimetro delle
basi maggiori95, la quasi totalità delle unità abitative constava di strutture temporanee in legno e
lamiera incapaci di resistere alle sferzate dei tifoni, sicché sia occupanti che occupati si trovavano
di anno in anno – e a volte anche più di frequente96 – a dover ricominciare da capo, non avendo
più nemmeno un tetto sopra la testa. Il persistere di questa politica edilizia, anche a fronte della
sua comprovata inadeguatezza, era legato a ragioni sostanzialmente budgetarie: basti pensare
che dei 93 milioni di dollari richiesti nel biennio 1946-48 per costruire strutture permanenti
antitifone sull’isola di Okinawa, il Congresso ne approvò soltanto 31, mentre le unità del genio
(Gen. Mag.), Forrest S. (Contramm.), Control of US-held Areas in the Ryukyus, ABC File 384 Ryukyus (18 Jul 44),
Sec. IA, 1945
92
Nonostante ne avesse facoltà, MacArthur non intervenne mai in prima persona nella gestione degli affari civili
nelle Ryūkyū, provvedendo anzi a un alleggerimento degli obblighi periodici di rapporto – cosa che invitava
indirettamente all’autogestione. Cfr. Caroli, op. cit., p. 184.
93
Nell’agosto 1946 si contavano 4200 ingegneri divisi in 12 unità, di cui 8 impegnate in opere di
manutenzione/pubblica utilità e soltanto 4 in lavori di costruzione. Nel corso dei due anni successivi, il numero di
effettivi sarebbe stato dimezzato, mantenendo però il medesimo rapporto per quanto concerneva le attività svolte.
Cfr. Greeson G. C et al. Castles in the Far East: The U.S. Army Corps of Engineers Okinawa and Japan Districts,
1945-1990, U.S. Army Corps of Engineers –Japan Engineer District, Zama, 1990.
94
Il porto principale era quello Naha, salvatosi dalla completa distruzione e riportato a piena operatività già
nell’autunno 1946 con l’aggiunta di cinque nuovi attracchi. Cfr. Greeson, op. cit., p. 97.
95
Le prime a vedere la luce furono le basi aeronautiche di Kadena (Kadena-shi) e Futenma (Ginowan-shi) nel 1945.
Cfr. Greeson, op. cit., p. 46.
96
Di norma, l’isola di Okinawa è colpita da 7-8 tifoni l’anno, caratterizzati da raffiche di vento stabilmente al di
sopra dei 120 kmh, oltre la soglia massima che le installazioni provvisorie dell’epoca potevano sostenere (110 kmh
ca.). Cfr. Typhoons in Okinawa Index (website), Okinawa Indekkusu Kabushikigaisha; Fisch, op. cit., pp. 87-88.
55
militare in possesso delle conoscenze necessarie a mettere in piedi quelle stesse strutture
venivano continuamente riassegnate ad altri contingenti dello USARPAC97.
A ogni modo, benché non ci fosse paragone con le tecniche architettoniche della tradizione
ryukyuana prima descritte, forti di conoscenze acquisite nel corso di secoli di permanenza sul
territorio, non si può dire che il metodo di costruzione impiegato dall’esercito americano fosse
di per sé scadente. Si trattava del cosiddetto “sistema 2x4”, in cui assi di legno di circa 5
centimetri per 1098, solitamente di abete rosso99 o pino giallo100, venivano utilizzate prima per
costruire il telaio dell’intera struttura, e quindi come montanti verticali (stud) da fissare
all’interno dello stesso, avendo cura di lasciare uno spazio di 40-60 cm tra un montante e l’altro.
Abitazione provvisoria realizzata con metodo 2x4 e tetto in ramaglie. Fonte: US Department of Defense, 1950.
Detta separazione tra gli elementi portanti, che veniva successivamente colmata con tavole di
compensato e altro materiale isolante a costituire le pareti, serviva a garantire flessibilità e
resilienza all’insieme, qualità indispensabili soprattutto in zone ad alto rischio sismico. Per la
United States Army Pacific, ovvero la divisione dell’Esercito responsabile per la regione indo-pacifica. Mantiene
la responsabilità operativa per Alaska, Bangladesh, Corea del Sud, Giappone, Hawaii, India e Filippine, così come
per tutti gli altri territori che si affacciano sul Pacifico. Cfr. Mission & Vision in USARPAC – U.S. Army Pacific
(official website), Department of Defense.
98
Approssimazione in centimetri della misura originaria in pollici (inches), dove 1” = 2,54cm. Inoltre, benché
fresche di taglio le assi misurassero effettivamente 2x4”, esse venivano asciugate e piallate fino a raggiungere la
dimensione di circa 1.5x3.5” prima di essere immesse sul mercato. Cfr. Ogura N. The Rapid Spread of Modern
Buildings and the Simplification of Planning Method in Postwar Okinawa in The Okinawan Journal of American
Studies, vol. 1, American Studies Center of the University of the Ryukyus, Nishihara, 2004.
99
Ing. red spruce, nome scientifico Picea rubens. (n.d.r.).
100
Ing. western yellow pine, nome scientifico Pinus ponderosa. (n.d.r.).
97
56
stessa ragione – nonché per risparmiare sui materiali –, le case così costruite non possedevano
vere e proprie fondamenta, bensì poggiavano su piattaforme di legno rialzate di una decina di
centimetri dal terreno, a loro volta costruite secondo il medesimo sistema di assi 5x10cm e
pannelli.
Come accennato, però, tali abitazioni si rivelarono tragicamente inadatte al contesto okinawano.
In primo luogo, a differenza dello hondo non era tanto la frequenza dei terremoti quanto quella
dei tifoni a costituire il maggior pericolo naturale, contro il quale delle abitazioni senza
basamento in pietra né barriere esterne – funzione, quest’ultima, che nell’architettura
tradizionale svolgevano il muro perimetrale (hinpun) e la vegetazione arborea circostante – non
avevano alcuna possibilità di resistere. In secondo luogo, il legname importato dagli Stati Uniti
e quindi impiegato nell’edilizia civile non veniva trattato preventivamente con repellenti chimici,
e apparteneva inoltre a delle qualità più vulnerabili alle termiti autoctone101.
Abitazione provvisoria 2x4 con tetto in lamiera e tiranti presso Isahama (Ginowan-shi). Fonte: Infinite Photographs, 1949.
In conclusione, benché l’elevata semplicità di applicazione del sistema 2x4 abbia permesso a
migliaia di sfollati di abbandonare le tendopoli dei campi profughi e di costruirsi una casa con le
Tra le numerose specie presenti sull’isola, le più dannose per gli insediamenti umani sono le cosiddette termiti
di Formosa, di cui si riscontrano due genera, uno di superficie (Coptotermes formosanus) e uno sotterraneo
(Odontotermes formosanus). Cfr. Ikehara S. The Termite Fauna of the Ryukyu Island and its Economic Significance
(1) – The Yaeyama-gunto and the Okinawa-gunto in Ryūkyū daigaku butsurigakubu kiyō, vol. 1, Ryūkyū Daigaku
Butsurigakubu, Nishihara, 1957.
101
57
proprie forze, spesso e volentieri tornando al proprio luogo d’origine in modo da ricostituire una
pur embrionale comunità di villaggio, è inconfutabile che la sua adozione abbia soltanto
posticipato il problema degli alloggi aggravando di fatto la precarietà degli isolani, nonché la
loro dipendenza dalle truppe di occupazione per quanto concerneva la fornitura di materiali da
costruzione.
Successivamente, furono proprio i danni causati da un tifone a convincere gli alti scranni delle
forze armate che bisognava rivedere completamente la politica edilizia di Okinawa. In seguito
all’abbattersi di Gloria102 il 23 luglio 1949, che aveva raso al suolo gran parte delle strutture di
recente costruzione, l’Esercito dispose l’invio di una task force di ufficiali e ingegneri civili
guidata dal Generale George J. Nold che, nel corso del mese di ottobre, condusse in loco uno
studio approfondito sulle necessità strutturali dei nuovi edifici.
Il responso fu univoco: l’idea di continuare ad affidarsi a costruzioni provvisorie, per quanto
apparentemente vantaggioso sul breve termine, a lungo andare si sarebbe rivelato
finanziariamente insostenibile103; inoltre, questo continuo stop and go non faceva che acutizzare
l’andamento spasmodico dell’economia locale, caratterizzata da fasi di stagnazione assoluta –
poiché di norma non si commissionavano grandi opere in grado di occupare la forza lavoro su
base quotidiana – seguite da periodi di eccesso di domanda di manodopera – ovvero il post-tifone,
quando la popolazione civile doveva provvedere contemporaneamente alla ricostruzione sia
delle proprie case sia delle installazioni militari.
Per uscire da questa impasse, Nold e colleghi suggerivano che, a fianco dell’avvio di progetti per
la creazione di basi militari permanenti, gli sforzi del governo militare si concentrassero sulla
costruzione di ponti, strade, impianti di depurazione e altre infrastrutture che potessero garantire
alla popolazione civile stabilità occupazionale, facile accesso alle risorse primarie e migliori
trasporti, in modo da instaurare un circolo virtuoso capace di diminuire gli attriti con le forze di
occupazione e di accelerare i lavori nelle basi stesse. Il merito della Missione Nold fu dunque
quello di intuire quanto lo sviluppo di un’efficiente edilizia civile e il benessere di chi
102
Il bilancio dei danni causati dal tifone fu di 38 morti e 42502 edifici distrutti. Cfr. Okinawa: Sic Transit Gloria,
Time Magazine, 8 agosto 1949.
103
Secondo le stime dell’aeronautica, da settembre 1945 a luglio 1949 oltre 10 milioni di dollari erano stati spesi
solo per ripristinare le strutture provvisorie danneggiate dai tifoni. Cfr. Newman J. B. (Gen. Mag.) Air Force
Construction on Okinawa in The Military Engineer vol. 42-287, United Stated Air Force (USAF), Washington D.C.,
1950.
58
direttamente ne beneficiava fossero indispensabili per la buona riuscita dei progetti di
fortificazione dell’isola, diventati ancor più urgenti alla luce della crescente instabilità lungo il
38esimo parallelo104.
Con l’approvazione dei contenuti del Rapporto Nold in novembre e l’inizio dell’anno nuovo,
Okinawa assistette così a un vero e proprio boom edilizio trainato dagli appalti per la costruzione
di edifici in cemento, i cui bandi di gara internazionali105 consentirono agli imprenditori locali106
di farsi le ossa al fianco dei prime contractors giapponesi, superando in pochi anni il volume
d’affari prebellico.
Tuttavia, se da un lato i progetti per le installazioni militari erano supervisionati da ufficiali del
genio, in grado di formare la manodopera locale e di guidare i lavori durante l’intero processo,
dall’altro erano ben pochi gli architetti okinawani a conoscenza dei fondamenti teorici
dell’edilizia cementizia che potessero fare altrettanto 107 , ragion per cui l’urbanizzazione di
Okinawa sarebbe proseguita a due velocità ancora per alcuni anni, con i cantieri delle basi che,
paradossalmente, aprivano e chiudevano più rapidamente di quelli per i quartieri residenziali. La
svolta giunse nel 1954, quando l’USCAR inaugurò un programma edilizio per la costruzione di
aule scolastiche in cemento, i cui progetti furono affidati a liberi professionisti locali affinché
potessero soprintendere ai lavori in autonomia, senza bisogno di distogliere personale americano
qualificato dall’attività nelle basi. Con la partecipazione a questo programma, gli architetti e
geometri 108 dell’isola acquisirono una notevole dimestichezza con la nuova prassi edilizia,
In seguito alle rivolte rosse scoppiate nel 1948 nella provincia meridionale di Jeonnam e sull’isola di Jeju, la
situazione nella penisola coreana era sfuggita al controllo degli occupanti, tanto che gli scontri lungo il confine
erano ormai all’ordine del giorno. Cfr. Riotto M. Storia della Corea. Dalle origini ai giorni nostri, Bompiani,
Milano, 2014.
105
Ai bandi di gara del 1950 parteciparono ditte americane, filippine e giapponesi, ma furono quasi sempre
quest’ultime ad aggiudicarsi gli appalti, potendo contare su un costo del lavoro decisamente inferiore rispetto ai
concorrenti. Cfr. Fisch, op. cit., p. 184
106
Questo primo exploit edilizio fece la fortuna di due ditte di costruzioni del luogo: la Kokuba Gumi, fondata nel
1931 da Kokuba Kotarō (1900 – 1988), e la Ōshiro Gumi, fondata nel 1920 da Ōshiro Kamakichi (1897 – 1992).
Durante gli anni della guerra, entrambe si erano compromesse con il regime eseguendo le opere di fortificazione
dell’isola per conto dell’Esercito Imperiale, ma l’amministrazione americana pensò bene di riabilitarle in quanto si
trattava delle uniche imprese edilizie degne di questo nome, in grado di dare nuovo impulso all’economia locale.
Cfr. Fisch, op. cit., p. 185
107
Nonostante nel 1947 il 90% della popolazione in età scolare fosse iscritto regolarmente a un istituto di istruzione,
ancora nel 1950 esistevano un solo istituto tecnico e una sola università sull’isola. Inoltre, a causa dell’isolamento
linguistico e geografico, gli architetti del luogo non avevano modo di entrare in contatto con le ultime novità del
settore, né tantomeno di partecipare al dibattito internazionale. Cfr. Ogura, op. cit., pp. 48-49.
108
I termini si riferiscono rispettivamente ai gradi di kenchikushi (architetto professionista) di prima e di seconda
classe, mutuati dal sistema giapponese e adottati a Okinawa anche durante l’occupazione americana. Per il dettaglio
104
59
arrivando ad adottare lo schema dell’aula quale unità di base per i loro progetti di abitazioni
private di stampo occidentale, in quanto estremamente regolare e facilmente replicabile su vasta
scala. Già a partire dalla fine degli anni Cinquanta, gli studi di architettura del luogo offrivano
una discreta gamma di soluzione abitative, aventi tutte come archetipo la pianta rettangolare
tipica degli edifici scolastici, sulla quale si eseguivano poi variazioni proporzionali a seconda
delle esigenze del committente.
Pianta e sezione di un’aula scolastica. Fonte: Nobuyuki O., University of the Ryukyus, 2004.
Pianta di appartamento (sinistra) e ufficio postale (destra). Fonte: Nobuyuki O., University of the Ryukyus, 2004.
In linea di massima, un appartamento privato si componeva di più unità quadrangolari di misura
compresa tra i 5x10m e gli 8x16m, ognuna costituita da coppie di pilastri di cemento prospicienti,
poste a un metro di distanza l’una dall’altra e sormontate da un trave – anch’esso di cemento –
della legislazione in materia, cfr. Kitadai R. Kenchikushi Law in Japan in The Japan Institute of Architects (official
website), The Japan Institute of Architects (JIA), Tokyo, 1990.
60
ciascuna. I muri e il soffitto, formati da blocchi legati con malta, venivano eretti a colmare gli
spazi vuoti del framing, mentre per il pavimento era previsto un ulteriore rivestimento, ottenuto
per mezzo di una colata di cemento all’interno di un perimetro delimitato da assi.
A seguire, la separazione degli ambienti si eseguiva semplicemente erigendo muri non portanti
all’interno della singola unità, arrivando a ricavare generalmente una, massimo due stanze: la
tipologia di abitazione più richiesta prevedeva infatti un’ampia unità centrale senza divisori –
una sorta di living open space –, attorno alla quale si disponevano le unità funzionali (camera da
letto, bagno, ripostiglio), ulteriormente suddivise al loro interno. Lo stesso schema veniva
applicato anche per la costruzione di edifici più complessi, quali uffici pubblici, negozi, cliniche,
officine, ottenuti tramite la ripetizione del medesimo pattern in orizzontale e/o in verticale.
A dispetto delle apparenze, è possibile rintracciare un apporto originale anche in questo stadio
dell’architettura ryukyuana.
Tipologie di edificio derivate dalla pianta dell’aula scolastica, distinte per funzione. Fonte: Nobuyuki O., University of the Ryukyus, 2004.
61
Tralasciando i materiali e la tecnica, è piuttosto il procedimento logico con cui i professionisti
del luogo si adoperavano per la soddisfazione della propria clientela a essere peculiare: invece
di adattare i progetti alle particolarità della singola commessa o, eventualmente, di ripensarli ex
novo – attività comunemente associata alla professione di architetto, ma che può rivelarsi
incredibilmente time consuming –, gli studi di architettura di Okinawa applicavano sempre il
medesimo modello di base, moltiplicando il numero delle singole unità e lavorando sulle loro
proporzioni in modo da venire incontro alle esigenze del cliente.
Facendo di necessità virtù, in sede teorica questi architetti non ideavano soluzioni abitative
originali, ma ricombinavano creativamente quei (pochi) fondamenti che avevano imparato a
padroneggiare, tenendo a mente la destinazione d’uso dell’edificio finito.
Negli anni Sessanta la maggior parte degli okinawani poté così dire finalmente addio alle
abitazioni provvisorie, trasferendosi in quartieri residenziali permanenti che nulla avevano da
invidiare – strutturalmente parlando – a quelli di recente costruzione sullo hondo, che nonostante
il maggior sviluppo tecnologico aveva appena iniziato la sua corsa all’applicazione del cemento
all’edilizia privata109.
Risolta la questione degli alloggi, se ne acuì tuttavia una più spinosa, ovvero quello della
convivenza tra personale militare e popolazione civile: una necessità dettata dal fatto che le zone
circostanti le basi non solo presentavano i terreni i più adatti alla costruzione di nuovi edifici,
alla coltivazione e all’allevamento, ma attorno a esse si concentravano anche infrastrutture e
servizi di cui non si poteva usufruire altrove.
Sin dai primi mesi dell’occupazione, detta convivenza si era dimostrata a dir poco problematica,
per non dire impossibile: l’inevitabile promiscuità tra caserme e abitazioni private, combinata al
meccanismo di rotazione su base razziale allora invalso nell’Esercito110, inaugurò una stagione
Il punto di svolta fu l’istituzione della Japan Housing Corporation (Nihon Jūtaku Kōdan) nel 1955, agenzia
amministrativa indipendente specializzata nella costruzione e nel recupero di condomini in cemento, nata per venire
incontro alle esigenze della crescente popolazione urbana. In seguito all’acquisizione della Urban Infrastructure
Development Corporation nel 2004, è da allora nota come Urban Renaissance Agency (Dokuritsu Gyōsei Hōjin
Toshi Saisei Kikō, abbr. Toshi Saisei Kikō). Cfr. Fukao S. The History of Developments toward Open Building in
Japan in Education for an Open Architecture, Ball State University, Muncie, 2008.
110
Fino all’Ordine Esecutivo 9981 del 1948, le singole unità venivano costituite su base razziale ed erano obbligate
a condurre esistenze separate al di fuori delle operazioni militari. Esasperati dalla segregazione, diversi
afroamericani della Decima Armata di stanza a Okinawa si diedero presto al crimine, ma non fu possibile ricollocarli
altrove dal momento che la linea ufficiale dello Stato Maggiore era di concentrare le cosiddette black units nelle
basi del Pacifico. Lo stesso accadde nel 1947 quando, dopo due anni di proteste, alcune unità afroamericane
particolarmente insubordinate furono sostituite da altrettanti soldati di origine filippina, la cui segregazione dai
109
62
di soprusi ai danni dei cittadini a cui né la polizia militare né le forze dell’ordine locali furono
grado di porre freno, incoraggiando indirettamente l’insubordinazione delle truppe che, vedendo
i loro commilitoni indisciplinati cavarsela impuniti, venivano incentivati a commettere illeciti.
A partire dal 1946, la soluzione adottata dal comando di Okinawa fu quella di riscrivere il codice
di condotta militare nell’ottica di limitare al minimo le interazioni con i civili, e di istituire
blocchi stradali permanenti all’ingresso dei maggiori centri abitati: una strategia che, a parte
qualche buon risultato nell’estremità Nord dell’isola, non riuscì a contenere l’incidenza di reati
nel più popoloso Centro-Sud, dove erano gli okinawani stessi – perlopiù quelli coinvolti
nell’economia sommersa – a cercare il contatto con gli occupanti.
Sotto questo profilo, il boom edilizio di metà secolo favorì una recrudescenza 111 del fenomeno
della delinquenza, nella misura in cui l’impennata nella costruzione di residenze, sprovvista di
una chiara pianificazione urbana, aveva portato alla saturazione di quegli interstizi che, nelle
intenzioni dell’amministrazione civile, avrebbero dovuto fungere da cuscinetto e che –
aggiungiamo noi – sarebbero potuti diventare lo spazio sociale entro cui rinegoziare l’immagine
delle forze di occupazione.
Invero, poco sarebbe cambiato nei quindici precedenti lo henkan. Alla vigilia del 15 maggio
1972, Okinawa era ormai diventata ciò che i vari piani di sviluppo avallati da Washington, pur
senza troppa convinzione, si erano riproposti di evitare a ogni costo: una periferia del neonato
impero a stelle e strisce incapace di reggersi sulle proprie gambe, dipendente da un “centro” che
nel corso degli anni ne aveva assorbito le risorse umane e naturali non tanto distraendole verso
la madrepatria, quanto concentrandole all’interno delle sue propaggini eterotopiche, ovverosia
le basi militari. Veri e propri laboratori di disuguaglianze, entro i loro ristretti confini e nelle
immediate vicinanze avevano preso presto a consumarsi, fino alla sublimazione, i conflitti
razziali, linguistici e di classe che parallelamente stavano infiammando il Nuovo Continente, ma
senza il conforto di una superficie sufficientemente ampia da consentire il controllo, la
dispersione o eventualmente la mutuazione di istanze da parte della gente del luogo.
commilitoni bianchi provocò una nuova ondata di violenze. Cfr. MacGregor M. J. (Jr.). Integration of the Armed
Forces 1940-1965, US Army Center of Military History, Washington D.C., 1981.
111
Dal settembre 1955 fino al dicembre 1970, vi fu un aumento esponenziale di reati intenzionali violenti (stupri,
aggressioni, omicidi), perpetrati dai militari americani ai danni della popolazione civile. Cfr. List of Main Crimes
Committed and Incidents Concerning the U.S. Military on Okinawa, Okinawa Times, 12 ottobre 1995.
63
Alla luce di questo fatto, si comprende anche perché, nonostante la presenza di una diffusa
coscienza sociale e di un ceto dirigente intellettualmente vivace 112 , i movimenti di protesta
isolani non abbiano mai raggiunto una risonanza tale da smuovere la comunità internazionale
durante l’intero ciclo di vita dell’amministrazione civile: i problemi di Okinawa erano così
specificamente situati che la loro risoluzione non avrebbe portato ad alcun miglioramento sullo
schacchiere geopolitico per le altre nazioni occidentali113, né, probabilmente, sarebbe stato di
sùbito giovamento per gli abitanti medesimi, le cui sofferenze condividevano la medesima
origine dei loro privilegi, per quanto irrisori.
In altre parole, pur partendo da posizioni ideologiche formalmente agli antipodi, gli Stati Uniti
riuscirono là dove il Giappone imperiale, per mancanza di tempo o a causa di una pianificazione
fin troppo certosina, aveva fallito: trasformare Okinawa in un inventario perfettamente leggibile
di uomini e di merci, fondato sull’inequivocabile dicotomia civile/militare, a sua volta
esasperazione autoritario-statalista della dialettica capitalistica della produzione.
In questo senso, i disordini e la precarietà che a lungo avrebbero afflitto la realtà quotidiana
dell’isola sono da interpretarsi quali epifenomeni di una sinottica miopia. Partendo dal
presupposto che le relazioni tra occupanti e occupati devono essere incasellate e normate secondo
vincoli d’obbedienza, dovuta dai secondi ai primi ma non viceversa, in quanto la ratio militare
prescrive che questi ultimi rispondano esclusivamente ai propri superiori – superiori che, come
abbiamo visto, optarono per una politica della tolleranza a sfregio degli offesi –, ne consegue
che le interazioni informali – ovvero non coartatamente gerarchiche – esulanti da tale dialettica,
che costituiscono il fascio discorsivo attorno al quale prende forma la città come entità sociale,
finiscano per uscire dal campo visivo dello Stato (USCAR), il cui disegno può comunque
112
Tra le personalità di spicco, è doveroso ricordare il prematuramente scomparso Higa Shūhei (1901 – 1956),
fondatore del Partito Democratico delle Ryūkyū (Ryūkyū Minshutō) e primo capo eletto dell’esecutivo ryukyuano;
Senaga Kamejirō (1907 – 2001), giornalista e deputato comunista, eletto sindaco di Naha nel 1956; Yara Chōbyō
(1902 – 1997), Presidente dell’Associazione degli Insegnanti di Okinawa (Okinawa Kyōshoku Inkai) e capo
dell’ultimo esecutivo pre-handover – nonché primo governatore della prefettura dopo la restituzione. Cfr. Caroli,
op. cit., pp. 218-235.
113
Nel contesto di piena guerra fredda, il mantenimento di un solido presidio in Estremo Oriente – il cosiddetto
keystone of the Pacific – era indispensabile per garantire la credibilità e la coesione dell’Alleanza Atlantica. Per la
stessa ragione, gran parte del cosiddetto “mondo libero” fu particolarmente indulgente nei confronti
dell’occupazione di Okinawa, come anche dell’interventismo americano in generale. Cfr. Sarantakes N. E.
Keystone: The American Occupation of Okinawa and U.S. Japanese Relations, Texas A&M University Press,
College Station, 2000.
64
definirsi completo fintantoché le linee di approvvigionamento da e verso i suoi centri nevralgici
(le basi) rimangono le uniche filiere integranti i mezzi di sussistenza dei subordinati (i cittadini).
Al contrario, la Okinawa che si presentò al momento dello handover al Primo Ministro Satō, in
parte estraneo all’autoreferenzialità perversa di questo “ciclo” economico, dovette apparire come
un’isola urbanisticamente incomprensibile, sfregiata da uno skyline cancriforme e oppressa da
un baricentro produttivo-commerciale pericolosamente spostato verso installazioni militari che,
ormai, non potevano far altro che reclamare altro spazio per mascherare la propria obsolescenza
tecnologica e strategica.
2.4. Ritorno al Giappone. La febbre dell’edilizia turistica e il miraggio dell’integrazione
paritetica
Le direttrici lungo le quali il Piano di sviluppo e promozione 114 appena implementato si
riprometteva di condurre Okinawa verso la parità con il resto della nazione (hondo nami), e che
avrebbero continuato a informare la policy line dei piani decennali a venire, erano
sostanzialmente tre: mantenimento della piena operatività delle basi (kichi), cercando di mediare
tra le promesse fatte ai cittadini e i vincoli imposti dal Reversion Agreement115; avvio di lavori
pubblici (kōkyō jigyō) su vasta scala, allo scopo di impiegare senza soluzione di continuità
l’abbondante forza lavoro non specializzata; creazione di un’industria del turismo (kankō) di
lusso proiettata verso l’estero e il mainland, in grado di garantire l’autonomia economica
dell’isola e di assorbire la forza lavoro più giovane e qualificata.
In giapponese Okinawa shinkō kaihatsu keikaku, fu il primo di una serie di piani decennali – attualmente se ne
contano cinque, di cui l’ultimo ancora in attuazione – atti a sostenere lo sviluppo dell’isola con fondi pubblici. Detto
piano prevedeva l’istituzione di un’agenzia governativa preposta (Okinawa Development Agency) all’interno del
Ministero dell’Economia e delle Finanze, affiancata da un istituto finanziario (Okinawa Development Finance
Corporation) incaricato di stimolare gli investimenti privati. Cfr. Okinawa kaihatsuchō secchihō in Shūgiin – The
House of Representatives (official website), The House of Representatives, Tokyo.
115
Ratificato dal Segretario di Stato William P. Rogers e dal Ministro degli Esteri Aichi Kiichi il 17 giugno 1971,
includeva un memorandum sulla successiva restituzione dei siti occupati dalle basi: delle 134 strutture presenti in
quel momento a Okinawa, soltanto 34 sarebbero state restituite immediatamente dopo il passaggio di consegne, a
cui se ne sarebbero aggiunte 12 «in un momento futuro appropriato». Altro punto molto criticato dall’opinione
pubblica fu la concessione all’esercito americano del diritto a introdurre armamenti atomici all’interno del territorio
di Okinawa. Cfr. Eldridge R. D. Post-Reversion Okinawa and U.S.-Japan Relation: A Preliminary Survey of Local
Politics and the Bases, 1972-2002 in U.S.-Japan Alliance Affairs Series vol. 1, School of International Public Policy
– Osaka University, Osaka, 2004
114
65
Di queste «3 K» (san-kei sangyō), quella che prospettava i maggiori ostacoli era senza dubbio la
protezione degli interessi delle basi, legati in primo luogo alla loro estensione spaziale 116. Una
delle ragioni che aveva portato l’opinione pubblica locale a guardare con favore al ritorno sotto
la giurisdizione giapponese era stata appunto la prospettiva di una restituzione dei terreni117 su
cui sorgevano le installazioni militari, per i quali i legittimi proprietari118 percepivano un canone
d’uso senza poter però esercitare i propri diritti sugli stessi.
Per tutta risposta, il governo centrale – diventato il subfornitore dei contratti d’affitto alle forze
americane di stanza in Giappone – si guardò bene dal mettere in discussione tale prassi,
limitandosi a implementare una legge speciale119 per la preservazione dello status quo fino a
nuovo ordine. Dieci anni e diverse leggi capestro 120 più tardi, le basi uscirono infine
ridimensionate dal processo di negoziazione istituzionale svoltosi a più riprese in seno al Security
Consultative Committee (SCC)121, anche se non nelle percentuali auspicate. Fatto sta che, nel
1982, 39 delle 87 strutture originali erano state smantellate, liberando una superficie pari a circa
All’indomani dell’handover, le basi americane occupavano 286,61 km2, corrispondenti al 23% della superficie
totale dell’isola. Cfr. Purves J. M. Island of Military Bases. A Contemporary Political and Economic History of
Okinawa, The Contemporary Okinawa Website, Okinawa, 2001.
117
Si tratta di una questione complessa, risalente al regime di proprietà invalso prima dell’annessione allo Stato
Meiji. Invece di appezzamenti contigui, le famiglie ryukyuane possedevano di solito piccoli lotti di terra, collocati
anche molto distanti l’uno dall’altro: questo assicurava che, anche in caso di tifoni o altre calamità, fosse possibile
procurarsi di che vivere coltivando il sopravvissuto alla catastrofe. Dal momento che i documenti catastali erano
andati quasi tutti perduti nel corso della battaglia di Okinawa, l’amministrazione militare si affidò alla memoria dei
capivillaggio per redigere nuovi atti di proprietà con cui ridare fondamento giuridico alle pretese avanzate dai locali,
a cui non fece però seguito alcuna restituzione. A seguito del crescente malcontento, nel 1950 MacArthur pensò
bene di chiudere la questione intimando agli ufficiali di stanza nelle Ryūkū di assicurare la superficie necessaria
alla piena operatività delle basi «by purchase or through condemnation». A fronte del pericolo di una confisca per
via processuale, nel 1951 quasi tutti i proprietari terrieri avevano aderito al sistema di canoni d’affitto messo a punto
dall’Esercito, ma la speranza di una restituzione avrebbe continuato ad alimentare il dibattito politico fino alla vigilia
del ritorno al Giappone. Cfr. Morris M. D. Okinawa: Tiger by the Tail, Hawthorn Books, Portland, 1968.
118
A differenza del resto del territorio nazionale, dove l’87% della terra su cui sorgono le installazioni militari
americane è di proprietà dello Stato, a Okinawa questa appartiene in maggioranza ai privati (32%) e alle municipalità
(shi, 29%). Cfr. U.S. Military Base Issues in Okinawa in Okinawa Prefectural Government (official website),
Okinawa Prefectural Government – Washington D.C. Office, 2016.
119
In giapponese Okinawa ni okeru kōyōchitō no zantei shiyō ni kansuru hōritsu (Legge provvisoria per l’utilizzo
dei terreni di pubblico interesse), fu accusata di incostituzionalità dai suoi detrattori in riferimento agli artt. 14
(uguaglianza di fronte alla legge), 29 (proprietà privata) e 95 (obbligo di approvazione referendaria per l’entrata in
vigore di leggi speciali) della Costituzione Giapponese. Cfr. Eldridge, op. cit., pp. 63-64.
120
Allo scadere della legge di cui alla nota precedente nel 1977, il governo giapponese decise di implementare due
leggi precedentemente adottate dall’amministrazione civile americana, onde costringere i proprietari ad accordare
la propria disponibilità alla permanenza delle basi: la Beigun yōchi tokubetsu sōchihō (Legge speciale sui terreni a
uso delle forze armate statunitensi) e la Tochi shūyōhō (Legge sull’espropriazione dei terreni), in vigore fino al
1997 e ulteriormente emendate prima della scadenza nell’aprile dello stesso anno. Cfr. Eldridge, op. cit., pp. 66-67.
121
Centro di comando istituito dal primo Trattato di Sicurezza Nippoamericano (abbr. Anpo in giapponese) il 19
maggio 1960 per coordinare i rispettivi piani strategici, coinvolge in prima persona i ministri della Difesa e degli
Esteri di entrambi i paesi. Cfr. SCC in Kotobanku onrain jiten, Asahi Shimbunsha, Tokyo.
116
66
35mila km2122 che, nel corso del decennio, fu progressivamente lottizzata ed edificata, sì da
alleviare la pressione sui già sovrappopolati centri urbani della parte centro-meridionale
dell’isola.
Contrariamente a quanto paventato da Tokyo, ovvero che una demilitarizzazione di simili
proporzioni avrebbe destabilizzato il precario mercato del lavoro locale condannando lo staff
delle basi alla disoccupazione, nonché azzerato l’indotto relativo al settore della ristorazione e
dell’intrattenimento, i dati raccolti negli anni successivi alla restituzione di dette aree mostrano
un netto miglioramento dei parametri pertinenti:
Effetti economici della restituzione su alcune aree del popoloso Centro-Sud. I dati della tabella si riferiscono rispettivamente: alla
restituzione della superficie circostante il porto militare di Naha, approvata nel 1972 ed effettuata nel 1974; alla superficie occupata dalla
base della Marina statunitense a Oroku (Naha-shi), restituita nel 1987; alla superficie occupata da Camp Lester a Kuwae (Okinawa-shi),
restituita in due momenti, rispettivamente nel 1996 (99 ettari) e nel 2003 (38 ettari) – completa restituzione dei restanti 68 ettari prevista
per il 2025. Fonte: Okinawa Prefectural Government, 2016.
A questo punto, appare chiaro come la resistenza opposta da parte giapponese fosse legata più
che altro alla necessità di guadagnare tempo: da un lato, per consentire agli Stati Uniti di
aggiustare la propria politica interventista in Estremo Oriente, rivista al ribasso in seguito agli
esiti disastrosi della campagna di Vietnam; dall’altro, per individuare siti alternativi adatti al
ricollocamento di quelle basi che l’alleato non era disposto a cedere, ma soltanto a spostare in
zone meno densamente popolate.
122
Nel 1972 la superficie occupata dalle basi ammontava a 286610 km2 per un totale di 87 strutture, contro i 251,910
km2 divisi tra 48 strutture del 1982. Cfr. Purves, op. cit., p. 76.
67
Mappa comparativa (1972 e 2017) della distribuzione delle basi militari sul territorio di Okinawa. Fonte: The Okinawa Times, 2017.
Da questa constatazione, si evince anche come il reale obiettivo delle compagnie dello hondo
non fossero gli appalti residenziali, a maggior ragione se si considera che sotto l’amministrazione
USCAR si era andati ben oltre la risoluzione del problema degli alloggi, arrivando a saturare di
palazzine in cemento quasi tutta la superficie abitabile. Infatti, per quanto l’urbanizzazione dei
siti precedentemente occupati dalle basi abbia rappresentato comunque un buon affare, a fare la
fortuna di questi colossi fu il business delle infrastrutture e delle opere di viabilizzazione, inserite
nel più vasto contesto del Nuovo piano comprensivo per lo sviluppo nazionale123.
In giapponese Shin zenkoku sōgōkaihatsu keikaku, fu lanciato nel 1969 dal Primo Ministro Satō con l’obiettivo
di «creare un ambiente prospero» (yutakana kankyō no sōzō) entro il 1985. Concretamente, tale piano prevedeva il
potenziamento delle infrastrutture nazionali, soprattutto ferroviarie e stradali; l’apertura dell’economia giapponese
al mercato internazionale, focalizzandosi sull’esportazione di prodotti finiti; il potenziamento dell’industria pesante
e manifatturiera, tramite la concentrazione della forza lavoro e degli stabilimenti industriali in sette grandi «blocchi
su scala nazionale», corrispondenti alle conurbazioni di Sapporo, Sendai, Tōkyō, Nagoya, Ōsaka, Hiroshima e
Fukushima. Cfr. Ōshiro I. 1960nendaigōki ni okeru Ryūkyū seifu no kōgyōkaihatsu kōsō. Jigi wo shisshiteita
jūkagakukōgyō yūchi in Ryūkyū Keizai Kenkyū, vol. 81, Ryūkyū Daigaku Hōbungakubu, Nishihara, 2011.
123
68
Dopo un’iniziale incertezza circa l’opportunità di convertire Okinawa all’industria pesante sulla
falsariga del resto del Paese, trasformandola in un hub del petrolchimico e della cantieristica
navale124 che avrebbe costituito l’«ottavo blocco» della filiera nazionale, si concluse che sarebbe
stato incredibilmente più agile – nonché profittevole – provare a colmare il divario con il
mainland provvedendo alla costruzione di collegamenti e impianti atti a facilitare l’accessibilità
alle risorse e la mobilità dei cittadini della prefettura, il cui stile di vita, percepito come scomodo
ed eccessivamente spartano dagli osservatori di Tokyo, appariva come il maggior ostacolo al
cambio di immagine che si prefigurava per l’isola.
Ignorando a bella posta le particolarità paesaggistiche e ambientali di Okinawa, punto di partenza
di questi lavori pubblici fu l’implementazione bruta del modello doken kokka125, chiave di volta
del progetto di ricostruzione dell’Arcipelago (rettō kaizō) vagliato dal Primo Ministro Tanaka126.
Detto sistema prevedeva che il budget messo a disposizione dalla Dieta venisse ripartito
equamente tra i tre ministeri maggiori – ovvero Ministero delle Costruzioni (Kensetsushō), della
Pesca e dell’Agricoltura (Nōrinsuisanshō) e delle Infrastrutture e Trasporti (Kokudokōtsūshō) –,
i quali coordinavano poi la pubblicazione dei bandi d’appalto in modo da evitare conflitti di
interesse o sovrapposizioni, avendo cura di commissionare rispettivamente dighe e strade urbane
(Costruzioni), interventi di miglioramento del suolo e strade extraurbane (Agricoltura), porti e
infrastrutture portuali (Trasporti). Grazie alla Legge sulle commesse pubbliche127 e alle leggi
124
Il sito prescelto per la realizzazione di questo macrocomplesso industriale era la baia della città di Kin (Kin-chō),
sulla costa orientale. Il progetto originario prevedeva la costruzione di impianti di stoccaggio e raffinazione del
greggio, un’acciaieria, un cantiere navale, un impianto per la lavorazione dell’alluminio e una centrale nucleare, su
una superficie di circa 33mila ettari. Nonostante fossero già stati costruiti una strada che metteva in comunicazione
le due sponde della baia e una raffineria, in seguito agli shock petroliferi del 1973 il progetto fu abbandonato e mai
più ripreso. Cfr. Ōshiro, op. cit., pp. 5-7
125
Lett. “Stato costruttore”, termine coniato in ambito giornalistico in riferimento alla politica economica perseguita
dal Primo Ministro Tanaka Kakuei (vd. nota seguente), fondata sul finanziamento di grandi opere pubbliche (doken)
quale motore della crescita del Paese. Cfr. Kerr, op. cit., pp. 20-21.
126
Tanaka Kakuei (Jimintō), Primo Ministro dal 1972 al 1974, inaugurò il processo di cementificazione del
Giappone e la pratica di utilizzare i kōenkai quale strumento per ridirezionare i fondi pubblici verso progetti graditi
al proprio elettorato. Fu costretto alle dimissioni prima della fine del suo mandato a causa di una serie di scandali,
culminati con la scoperta del suo coinvolgimento nel cosiddetto Affare Lockheed, un giro di tangenti internazionali
con la quale l’omonima azienda aerospaziale americana aveva cercato di assicurarsi le commesse dell’aeronautica
militare giapponese. Cfr. Gatti, op. cit., p. 146.
127
In giapponese Kankōju ni tsuite no chūshōkigyōsha no juchū no kakuho ni kansuru hōritsu, approvata nel 1966,
prevedeva che il governo centrale e quelli locali accordassero la precedenza negli appalti alle piccole e medie
imprese locali. Pensata per garantire una più equa competizione, la legge ebbe effetti deleteri sul tessuto
imprenditoriale: dalle 41867 PMI operanti in campo edilizio del 1966 si arrivò a quota 90096 nel 1985, con una
percentuale di successo negli appalti pari al 41,6%. Molte di queste aziende, che pure vincevano le gare, non erano
poi in grado di portare a termine le commesse e non producevano alcuna ricchezza né servizio, limitandosi a fare
da intermediari per le grandi compagnie. Cfr. Kingston J. Japan’s Quiet Transformation: Social Change and Civil
69
prefetturali limitanti la partecipazione dei contractors esterni, sulla carta erano le piccole e medie
imprese locali ad aggiudicarsi gli appalti, le quali erano però chiaramente incapaci di portare a
termine opere di simile portata: è qui che entravano in gioco le grandi compagnie dello hondo,
che proponendosi quali subappaltatori riuscivano ad aggirare la legislazione vigente e ad
appropriarsi dei fondi statali – meno una piccola percentuale che l’impresa vincitrice del bando
tratteneva per sé quale commissione. Tale meccanismo, di cui erano al corrente tutte le parti
coinvolte e che veniva puntualmente oliato da tangenti e accordi sottobanco, si fondava sul tacito
assenso dei piani alti dei ministeri in questione, i cui dirigenti, dopo il ritiro dai pubblici offici,
si riservavano la possibilità di servire come amakudari128 presso le medesime aziende che si
erano adoperati per favorire durante la loro carriera.
Concretamente parlando, a pagare il prezzo più alto di questa sconsiderata politica edilizia fu
Yanbaru, la parte settentrionale dell’isola i cui 27mila ettari 129 di foresta subtropicale
costituiscono, assieme ai 682 chilometri130 di linea costiera, la vera ricchezza di Okinawa. Tra
gli interventi post-handover più invasivi, va ricordata anzitutto la costruzione di un complesso
di dighe131, acquedotti e condutture lungo il versante orientale dell’isola, che da Benoki giù fino
all’estrema punta meridionale di Fukuji dirotta l’acqua dei fiumi maggiori verso i campi coltivati
e le pig farms del Centro-Nord, seguiti dai centri abitati e alberghi del Centro-Sud; inoltre, come
se non bastasse, lungo il versante occidentale nove stazioni di pompaggio prelevano l’acqua dai
Society in 21st Century Japan, Routledge Curzon, Milton Park, 2004; Kusunoki S. Japan’s Government
Procurement Regimes for Public Works: A Comparative Introduction in Brooklyn Journal of International Law,
vol. 32-2, Brooklyn Law School, New York City, 2007.
128
Lett. “discesi dal cielo”, ex alti funzionari statali assunti in compagnie private con ruoli dirigenziali,
rappresentano gli anelli di congiunzione del cosiddetto Triangolo di ferro (tetsu no toraianguru), ovvero il sistema
di potere oligarchico costituito da burocrati, politici e imprenditori. Cfr. Colignon R., Usui C. The Resilience of
Japan’s Iron Triangle in Asian Survey, vol. 41-5, University of California Press, Oakland, 2001.
129
In origine, circa un terzo di questi 27mila ettari era contenuto all’interno del perimetro di Camp Gonsalves, il
centro di addestramento per operazioni nella giungla della IIIa Divisione dei Marines. Tuttavia, grazie alle
restituzioni concesse nel 1972 e nel 2016, i militari ne controllano oggi “solo” 3600 ettari. Cfr. McCormack G.
Okinawan Dilemmas: Coral Islands or Concrete Islands in JPRI Working Paper, vol. 45. Japan Policy Research
Institute, San Diego, 1998; McCormack G., Norimatsu S. O. Resistant Islands: Okinawa Confronts Japan and the
United States, Rowman & Littlefield, Washington D.C., 2018.
130
Cifra riferita alle misurazioni più recenti, eseguite a partire dai dati disponibili su OpenStreetMap (OSM)
Coastline Dataset e ulteriormente raffinati tramite l’importazione sul software opensource QGIS. Cfr. Masucci G.
D., Reimer J. D. Expanding walls and shrinking beaches: loss of natural coastline in Okinawa Island, Japan, PeerJ
Ltd., Londra, 2019.
131
Nel complesso oggi si contano a Okinawa 11 dighe (damu), di cui 6 costruite tra il 1974 e il 1997 nella sola
foresta di Yanbaru. Cfr. McCormack, op. cit., p. 3.
70
corsi minori e la convogliano nel circuito principale, impedendo ai numerosi inquilini di Yanbaru
– tra cui figurano ovviamente anche gli esseri umani – di soddisfare il proprio fabbisogno idrico.
Mappa delle 9 dighe di Yanbaru, di cui 6 nel cuore della foresta. Fonte: Okinawa General Bureau, North Dam Integrated Control Office, 2015.
Altra infrastruttura invasiva e di dubbia utilità è la Ōkuni Rindō, una strada panoramica a due
corsie costruita tra il 1977 e il 1994 che si snoda attraverso la parte più remota – e quindi delicata
– della giungla per quasi 36 chilometri. Presentata dai suoi promotori come l’equivalente
settentrionale della Kaichū Dōro132, il suo scopo era quello di facilitare l’accesso dei turisti al
cuore verde dell’isola e di creare nuove opportunità di guadagno per i residenti delle cittadine
limitrofe, sì da ridurne il pendolarismo verso l’estremità meridionale. Immediata conseguenza
dell’apertura del tratto fu l’accumularsi di rifiuti urbani, sulle cui tracce fecero la loro comparsa
animali domestici (cani, gatti) e selvatici (manguste) a minacciare la sopravvivenza delle specie
Strada sopraelevata di 4,75 km eretta nel 1972, collega la raffineria dell’isola di Henza (Uruma-shi) alla penisola
di Katsuren, dove si trova il White Beach Naval Facility, deposito di armamenti ed equipaggiamento del corpo dei
Marines. Nonostante sia stata costruita per scopi militari, fu fortemente voluta anche dagli abitanti dei villaggi vicini,
che da tempo attendevano la creazione di infrastrutture stradali adeguate. Cfr. Sōkaina emerardo burū no umi wo
wataru “kaichū dōro” in Uruma Jikan (website), Uruma City Office.
132
71
del luogo133, che ne cadevano facilmente preda. A ogni modo, il danno maggiore resta quello
arrecato direttamente – sia in termini di inquinamento acustico che di condotta134 – dalle attività
umane, che nel giro di pochi mesi costrinsero la fauna locale ad allontanarsi sempre più verso
l’interno, vanificando così lo scopo originario della strada stessa.
Veduta satellitare della Ōkuni Rindō, che dal villaggio di Kunigami (Nord) attraversa la foresta fino al villaggio di Ōgimi (Sud-Ovest).
Fonte: DEE Okinawa, 2016.
In generale, queste grandi opere erano accompagnate da più generici interventi per il
miglioramento del suolo (tochi kairyō) commissionati dal Ministero dell’Agricoltura, pressoché
all’ordine del giorno durante gli anni Settanta. A dispetto del nome, queste migliorie
prevedevano l’abbattimento della vegetazione spontanea e il successivo rimboschimento (zōrin)
con specie commercialmente rilevanti o, in alternativa, la messa a coltura con l’ausilio di
133
La foresta di Yanbaru ospita diverse specie endemiche a rischio di estinzione, soprattutto uccelli come il
porciglione di Okinawa (Yanbaru kuina, nome scient. Hypotaenidia okinawae), particolarmente vulnerabile perché
incapace di volare; il picchio Noguchi (noguchigera, nome scient. Dendrocopos noguchii), che nidifica soltanto sui
rami di quercia morta; il picchio pigmeo (kogera, nome scient. Dendrocopos kizuki); l’assiolo delle Ryūkyū
(konohazuku, nome scient. Otus elegans). Sono a rischio anche la rana di Ishikawa (Ishikawa kaeru, nome scient.
Odorrana ishikawae), il ratto a pelo lungo delle Ryūkyū (kenaganezumi, nome scient. Diplothrix legata) e lo
scarabeo di Yanbaru (tenaga kogane, nome scient. Cheirotonus jamba). La sopravvivenza di queste e altre specie è
legata a doppio filo alla preservazione delle piante e alberi nativi di Yanbaru, e al mantenimento delle originali
dinamiche di predazione. Cfr. McCormack, op. cit., p. 3; Okinawa Ikimono Lab (website), Department of
Environmental Affairs of Okinawa Prefectural Government, 2017.
134
Negli anni si sono registrati diversi casi di bracconaggio e di furti di specie protette. Cfr. McCormack, op. cit.,
p. 3.
72
fertilizzanti e pesticidi chimici. Quale che fosse la destinazione d’uso dei terreni soggetti a questa
operazione, in entrambi i casi lo strato di terriccio superficiale, ricco di nutrienti e
microorganismi, veniva letteralmente raschiato via nel corso dei lavori: quel che ne rimaneva era
una superficie piana e regolare, che dal punto di vista operativo si presta meglio alle attività
agricole ma è allo stesso tempo meno fertile, con limitate possibilità di rendita sul lungo termine
a causa dell’azzerata biodiversità – dalla quale dipende lo sviluppo del bioma.
Ciononostante, a fine anni Novanta già 5mila ettari di foresta erano stati “modernizzati”
all’interno della circoscrizione di Kunigami 135 , con l’annessa industria della lavorazione del
legno a costituire l’unica fonte di reddito e occupazione per i circa 6000 abitanti: una scelta che,
dal punto di vista strettamente economico, si rivelò vincente, dal momento che all’epoca circa
una trentina di piccole imprese edili (doken’ya) si rivolgeva alle falegnamerie del luogo per
ottenere legname a un prezzo inferiore rispetto a quello importato dal mainland. Tuttavia, con
l’ingresso nel nuovo millennio iniziarono a manifestarsi gli effetti collaterali della sostituzione
specifica: gli alberi tagliati impiegavano più tempo a ricrescere e le pendici collinose avevano
perduto la loro capacità di trattenere l’acqua, dando luogo a frane e smottamenti i cui danni
andavano ad aggiungersi ai già ingenti costi di gestione, sempre più ardui da sostenere a causa
della progressiva liberalizzazione del primario propugnata dal governo centrale a partire dalla
fine degli anni Sessanta.
A parimerito in termini di fatturato e impatto ambientale, accanto all’edilizia stradale e alla
riqualificazione dei terreni si colloca il settore delle infrastrutture costiere, responsabile della
frammentazione della barriera corallina e del conseguente arretramento del litorale che interessa
ormai l’intera linea di costa dell’isola.
Riprendendo la lezione utilizzata negli studi più recenti in materia, si possono distinguere tre
categorie fondamentali di intervento136, la cui progressione riflette la crescente invasività:
1. Rinforzo di base o soft armoring (Scenario B), dove un alto muro di cemento separa la
vegetazione della foresta dalla spiaggia. Pur venendo meno la contiguità tra i due
135
Amministrativamente parlando, si configura come villaggio (mura), ma si è preferito evitare questo termine per
rendere giustizia alla sua estensione: Kunigami copre infatti un’area pari a 194,8 km 2, corrispondente all’intera
punta settentrionale dell’isola principale.
136
Cfr. Masucci, Reimer, op. cit., pp. 7-8.
73
ecosistemi, tale soluzione permette di preservare la zona intertidale, la fauna e la flora
della sezione di costa interessata, e può essere inoltre rimossa con relativa facilità.
2. Rinforzo estensivo o hard armoring (Scenario C), in cui frangiflutti, dighe o altri
elementi strutturali in cemento (es. tetrapod 137 , paratie) vengono eretti a partire dal
fondale o posati sullo stesso, interrompendo la comunicazione diretta tra la zona
intertidale e il mare aperto. In questo modo, la conformazione della sezione di costa
interessata viene compromessa irreversibilmente, tanto da non poter essere ripristinata
nemmeno rimuovendo l’intera armatura in un secondo momento. Si riscontra in presenza
di strade sopraelevate o edifici in prossimità del mare.
3. Interramento o land reclamation (Scenario D), consiste in un prolungamento artificiale
della linea costiera in cui nuova superficie edificabile viene ricavata tramite colate di
cemento e detriti accompagnate da pompaggio, fino a raggiungere la parità di livello con
la terra emersa. In questo processo, tutto ciò che si trova sul fondale e sulla sezione di
costa interessata viene sotterrato, sparendo definitivamente dall’orizzonte del paesaggio.
Si riscontra spesso in prossimità di basi militari ricollocate 138 o poli commerciali di
recente costruzione.
Guardando ai dati relativi al numero complessivo di interventi eseguiti, è allarmante notare come
impatto ambientale e frequenza di utilizzo siano tra loro direttamente proporzionali: infatti, le
soluzioni più invasive appaiono anche come le più gettonate, con il 45,3% (ovvero 309,2 km)139
137
Tetraedri di cemento poroso, progettati per garantire la massima stabilità anche in condizioni atmosferiche
estreme. Sono solitamente disposti a incastro in modo da resistere al moto di onde e correnti, ritardando così il
processo di erosione del litorale. Al di là di Okinawa, dove la loro presenza è massiccia, sono visibili uniformemente
su tutto il territorio nazionale. Cfr. Hesse S. Loving and Loathing Japan's Concrete Coasts, Where Tetrapods Reign
in The Asia-Pacific Journal – Japan Focus, vol. 5-7, The Asia-Pacific Journal, 2007.
138
Il caso più clamoroso è sicuramente quello della Base Aerea di Futenma, ancora al centro di accese controversie.
Il primo piano di ricollocamento del 1996 prevedeva la creazione di un nuovo sito tramite land reclamation nella
baia di Oura (Nago-shi), ma nel 2005 il Primo Ministro Koizumi (Jimintō) raggiunse un accordo per lo spostamento
della base presso il prospiciente Camp Schwab, nella vicina circoscrizione di Henoko (Henoko-ku).
Successivamente, le proteste dei residenti contro gli ampliamenti che si sarebbero dovuti eseguire e il successivo
cambio di rotta imposto dai governi a guida Democratica (Minshutō, 2009-2012) riuscirono a spostare il baricentro
delle trattative, che per qualche anno si concentrarono su una possibile integrazione all’interno della Base Aerea di
Kadena (Okinawa-shi). Tuttavia, con il ritorno al potere del Partito Liberal Democratico, si decise di adottare la
soluzione avallata in precedenza da Koizumi, dando inizio ai lavori nel 2015. Cfr. Maslow S. A Blueprint for a
Strong Japan? Abe Shinzō and Japan’s Evolving Security System in Asian Survey, vol. 55-4, University of California
Press, Oakland, 2015.
139
Negli ultimi 40 anni sono stati ottenuti tramite land reclamation 21,03 km2 di nuova superficie edificabile.
Attualmente, sono in corso tre grandi progetti di questo tipo: la costruzione di una seconda pista per l’Aeroporto di
Naha (Naha-shi, 1,6 km2 previsti); la realizzazione di un complesso turistico – con tanto di spiagge artificiali –
presso le barene di Awase (Okinawa-shi, 2,66 km2 previsti); l’ampliamento della superficie totale del suddetto Camp
74
di linea costiera interessato da land reclamation, il 14,5% (98,9 km) da hard armoring e il 3,4%
(23,7 km) da soft armoring, il che significa che soltanto il 36,8% (251 km) del litorale di Okinawa
può vantare uno stato naturale o di minima alterazione (Scenario A), dove è la vegetazione stessa
a creare una zona cuscinetto – solitamente composta da dune e arbusti – tra la foresta e la spiaggia.
Campioni fotografici di opere costiere, distinte per tipologia. Fonte: Masucci G. D. et al., University of the Ryukyus, 2019.
In aggiunta al danno visibile a occhio nudo causato dalle opere di posa e costruzione, bisogna
tener conto anche della frammentazione ecosistemica (habitat fragmentation) posta in essere da
questi mostri di cemento sotto la superficie dell’acqua, che inficia non soltanto la corretta
comunicazione tra la zona intertidale e il mare aperto, ma anche la sopravvivenza e la capacità
Schwab presso Henoko (Nago-shi, 1,6 km2 previsti), per consentire il ricollocamento della base di Futenma. Cfr.
Masucci, Reimer, op. cit., pp.3-5.
75
riproduttiva della fauna corallina140, incluse quelle colonie che si trovano nelle zone franche
appartenenti al 36,8% di costa virtualmente incontaminata.
Mappa tematica della frammentazione ecosistemica costiera. Fonte: Masucci G. D. et al., University of the Ryukyus, 2019.
Come evidenziato dalla mappa tematica, la metà occidentale dell’isola si rivela la più colpita
dagli interventi di difesa costiera (kaigan hozen shisetsu), presentando una frammentazione pari
a 229 diversi settori lineari con una lunghezza media di 1,10 km, creati artificialmente tramite la
combinazione dei tre sistemi sovra descritti. In una situazione leggermente migliore si trova la
La fauna corallina di Okinawa appartiene alla sottoclasse degli esacoralli (Hexacorallia) – così detti perché
presentano 6 setti, dove per setti si intendono le placche scheletriche disposte radialmente, a determinare la
caratteristica forma circolare del corallite –, e più precisamente all’ordine delle sclerattinie (Scleractinia), che a
latitudini inter-tropicali danno appunto origine alle formazioni coloniali note come “barriere”. Cfr. Nishihira M. et
al. Coral Reefs of Japan, Japan Coral Reef Society & The Ministry of Environment of Japan, Tokyo, 2004.
140
76
metà orientale, suddivisa in 198 settori lineari con una lunghezza media di 910 metri: è qui che
è stato misurato il tratto costiero naturale più lungo, che si snoda ininterrottamente per 10,71 km
nella sezione Nord-Orientale della citata circoscrizione di Kunigami.
Tabella comprensiva dell’entità delle opere costiere, distinte per funzione. Fonte: Masucci G. D. et al., University of the Ryukyus, 2019.
I vantaggi offerti da questa linea continua sono molteplici: in primo luogo, una barriera corallina
di tale estensione è in grado di disperdere da sola circa il 97% dell’energia cinetica generata dal
moto ondoso, provvedendo una difesa migliore di qualsiasi armatura di cemento;
secondariamente, le popolazioni di alghe che si sviluppano al di qua della barriera presentano le
condizioni ideali per l’accoppiamento e la schiusa delle uova fecondate di diverse specie
endemiche che, in mancanza di protezione dalle correnti e dai predatori, avrebbero difficoltà a
nidiare altrove; infine, non bisogna dimenticare che, a livello globale, le formazioni coralline
sono in grado di riassorbire complessivamente circa il 2% delle emissioni annue di anidride
carbonica, agendo quale prezioso alleato nella lotta al surriscaldamento globale.
77
Mappa tematica degli interventi di land reclamation, eseguiti tra il 1977 e il 2018. Fonte: Masucci G. D. et al., University of the Ryukyus, 2019.
Come già visto nel caso di Yanbaru, però, questi e altri vantaggi monetariamente non
quantificabili esulavano dalla prospettiva dello Stato costruttore, che dopo il record di 1 milione
e 800mila visitatori registrato nel solo 1975 141 , si era posto obiettivi sempre più ambiziosi
arrivando a imporsi il raggiungimento di una quota stabile di cinque milioni di turisti142 entro la
fine del terzo piano decennale – i.e. marzo 2002 secondo l’anno fiscale. In quest’ottica, il punto
di svolta verso la cementificazione del litorale fu rappresentato dal Piano regionale per
l’allestimento di resort 143, con il quale il Primo Ministro Nakasone 144 puntava a rivitalizzare
Anno dell’inaugurazione dell’Okinawa Marine Expo (Okinawa kokusai kaiyō hakurankai, 20 luglio 1975-18
gennaio 1976), fu il primo grande evento internazionale organizzato sull’isola dopo il ritorno al Giappone. Cfr.
McCormack, op. cit., p. 2.
142
Come auspicato, tale quota fu ampiamente superata e raggiunta già nel 2001, attestandosi stabilmente sopra i 6
milioni a partire dal 2009 e arrivando persino a superare i numeri dell’eterno rivale, le Hawaii, nel 2018. Questo
ovviamente fino allo scatenarsi della pandemia, che ha riportato Okinawa ai livelli degli anni Novanta (3,7 milioni
in un anno). Cfr. Okinawa tourist numbers top those of Hawaii for first time, The Japan Times, 9 febbraio 2018;
Tourists visiting Okinawa drop 63% in 2020 amid pandemic, The Asahi Shimbun, 27 gennaio 2021.
143
In giapponese Sōgō hoyō chiiki seibihō, approvata nel 1987, prevedeva anche una serie di incentivi fiscali e
semplificazioni burocratiche per le imprese che si fossero impegnate a investire nelle zone cosiddette “periferiche”.
Cfr. Nguyen D. Tourism Development in Okinawa: Spatial and Temporal Pattern (MA Thesis), Graduate School of
Geography – The University of Hawaii, Manoa, 2012.
144
Nakasone Yasuhiro (Jimintō), Primo Ministro dal 1982 al 1987, cercò di riportare su un livello di parità l’alleanza
nippoamericana in un braccio di ferro continuo con il Presidente Reagan, e avviò un grandioso piano di riforme
all’insegna della privatizzazione e della liberalizzazione. Inoltre, in quanto fervente nazionalista, promosse una
politica estera all’insegna dell’internazionalizzazione (kokusaika), nella peculiare accezione per cui il Giappone,
depositario di una cultura superiore, avrebbe dovuto farsi guida dei vicini asiatici nella corsa allo sviluppo. Cfr.
Gatti, op. cit., pp. 160-161.
141
78
l’economia delle zone periferiche con lo sviluppo di un’industria del turismo all’avanguardia,
incentrata sulle «specificità geografiche e culturali» delle regioni coinvolte. Com’era prevedibile,
la promessa di porre un freno all’emorragia di giovani dalle aree più disagiate e di migliorare le
condizioni ambientali delle stesse, dichiarata in sede istituzionale, rimase lettera morta e si
tradusse di fatto nell’ennesimo via libera alle ditte di costruzioni che, nel caso specifico di
Okinawa, avrebbero avuto carta bianca su praticamente l’intero territorio della prefettura145.
Mappa tematica delle aree designate dal Piano regionale per l’allestimento di resort. Fonte: Nguyen D., University of Hawaii, 2012.
Rispetto ai più semplici alberghi, i resort si configurano come strutture ricettive che, all’interno
di un perimetro precisamente delimitato e separato dal resto dell’abitato, concentrano complessi
ricreativi (piscine, centri benessere, campi da golf e da tennis) il cui mantenimento e
manutenzione ordinari richiedono risorse idriche 146 ed energetiche di gran lunga superiori a
145
A differenze delle altre regioni coinvolte nel Piano, dove le aree designate per le opere di sviluppo
corrispondevano soltanto a una parte del territorio prefetturale, a Okinawa l’intera superficie della prefettura fu
reputata idonea alla costruzione di strutture e infrastrutture turistiche. Cfr. Nguyen, op. cit., pp. 51-52.
146
Il fabbisogno idrico di un cliente di queste strutture ammonta a circa 1000 litri d’acqua al giorno, contro i 370
litri giornalieri di un comune residente. Cfr. McCormack, op. cit., p. 6.
79
qualsiasi edificio strettamente residenziale, i cui costi si riflettono necessariamente sui prezzi al
pubblico.
Ne consegue che la clientela cui dette strutture si rivolgono sia estremamente selezionata: nel
caso specifico di Okinawa, l’ospite-tipo è un giapponese del Kantō – spesso con famiglia al
seguito – di età compresa tra i 25 e i 40 anni 147 , con mansioni dirigenziali e uno stipendio
sufficiente a sostenere una settimana di soggiorno completamente a sue spese, in cerca di relax
lontano dai ritmi della vita urbana. In questo senso, il resort offre l’esperienza ideale, in quanto
concentra all’interno di un unico complesso gli svaghi potenzialmente ricercati dal cliente,
provvedendo inoltre un isolamento sia geografico che sociale dalla popolazione dei centri urbani
dell’isola. Tuttavia, non è difficile capire come questo tipo di turismo elitario sia terribilmente
inidoneo a instaurare una dialettica di scambio tra il visitatore/portatore di capitale e la società
civile/portatrice di conoscenze, in grado di valorizzare le «specificità geografiche e culturali» di
cui si diceva prima: anche le esperienze in apparenza più tipiche (immersioni, degustazioni, gite
fuoriporta) che presuppongono l’uscita dall’hortus conclusus del resort sono infatti inserite in un
itinerario predeterminato, in cui la direzione e il suo staff figurano quali unici intermediari tra il
cliente e i locali, sì da limitare al minimo qualsiasi interazione esulante dalla mera erogazione
del servizio.
Ciononostante, simili strutture continuarono a moltiplicarsi a vista d’occhio per tutti gli anni
Settanta e Ottanta, soprattutto nelle municipalità di Nago (Nago-shi) e Onna (Onna-shi),
rispettivamente nel Centro-Nord e Centro-Ovest dell’isola, raggiungendo l’apice negli anni
Novanta in concomitanza con il boom del cemento: in questa fase, si arrivò a costruire resort di
lusso perfino nel cuore amministrativo della prefettura (Okinawa-shi) e nella centralissima –
nonché sovrappopolata – municipalità di Ginowan (Ginowan-shi), benché il fulcro della febbre
edilizia rimanessero la suddetta zona di Onna e limitrofi. Dal persistere di questo trend, si evince
quindi come il campanello dall’allarme rappresentato dallo scoppio della bolla speculativa148
147
I dati si riferiscono ai trend osservati fino al 2012. Cfr. Aizawa M. et al. Analysis of trends in tourist behavior
and a case study of tourism flows using mobile positioning data in Okinawa, Japan Travel Bureau Foundation in
collaborazione con Okinawa Prefectural Government, Okinawa, 2012.
148
Il facile ricorso ai prestiti bancari sia da parte dei privati che delle imprese, combinato alla crescente domanda di
terreno edificabile per accomodare una popolazione urbana composta da sempre più single, aveva portato a un
aumento vertiginoso del prezzo dei terreni, pari a decine di volte il loro valore originario. La bolla iniziò a sgonfiarsi
quando gli istituti finanziari, che avevano elargito prestiti anche a clienti senza reali garanzie, iniziarono ad avere
difficoltà a riscuotere i propri crediti, innescando una spirale di insolvenza che fece sfiorare il collasso dell’intero
sistema, per evitare il quale si rese necessario un massiccio intervento statale. Cfr. Gatti, op. cit., pp.157-159.
80
fosse rimasto in buona sostanza inascoltato: invece di ripensare dalle fondamenta l’allocazione
della spesa pubblica e il funzionamento del proprio sistema corporativistico, il governo di Tokyo
continuò a ignorare i limiti di un modello che, affidando enormi somme di denaro a pochi eletti,
aveva il potere di sostenere una crescita meramente nominale 149 a cui non corrispondeva un
aumentato benessere dei cittadini – di fatto, gli end users che per primi avrebbero dovuto trarre
beneficio dalle opere pubbliche commissionate.
Ancora, in controtendenza rispetto agli altri paesi del G7, dove l’adesione ai contenuti della
Dichiarazione di Rio150 si era tradotta in una rinnovata sensibilità ambientale, che aveva portato
istituzioni, grandi imprese nazionali e opinione pubblica a cercare la quadra con gli avvertimenti
lanciati dalla comunità scientifica, nella comune consapevolezza del carattere utopico di una
crescita precorrente i tempi di rigenerazione delle risorse naturali, a poco sarebbe valsa in
Giappone la promulgazione di una Legge sull’impatto ambientale151. Come comprovato dagli
innumerevoli incentivi fiscali e rilassamenti normativi in materia edilizia, le possibilità offerte
da una non meglio precisata transizione verde dovevano apparire poca cosa rispetto ai tangibili
proventi della cementificazione, a maggior ragione se lo scopo professato era proprio quello di
porre rimedio agli errori della natura, ovvero di irregimentare il paesaggio al punto da renderlo
completamente privo di rischi e ospitale per gli insediamenti umani, in una prospettiva a suo
Nonostante la recessione, anche durante il cosiddetto “decennio perduto” il PIL giapponese continuò a registrare
una crescita annua di poco superiore all’1%, cui propulsore era il fatturato dell’industria edilizia. Cfr. Noguchi Y.
Ushinawareta jūnen in Nihon keizai nyūmon, Kōdansha, Tokyo, 2017.
150
Nome completo Dichiarazione di Rio sull’Ambiente e lo Sviluppo, riassume in 27 articoli le conclusioni
raggiunte dall’assemblea delle Nazioni Unite nel corso dell’omonima conferenza tenutasi nella sede brasiliana dal
3 al 14 giugno 1992. Con la propria adesione, gli Stati partecipanti si impegnavano a collaborare tra loro nell’ottica
di garantire uno sviluppo sostenibile per le generazioni future, utilizzando strumenti giuridici appropriati (i.e., leggi
sull’impatto ambientale) e provvedendo a sensibilizzare i cittadini in merito. Cfr. Rio Declaration on Environment
and Development, UN Commission on Human Rights, Ginevra, 1992.
151
In giapponese Kankyō eikyō hyōkahō, approvata nel 1997 ed entrata in vigore due anni più tardi, era stata pensata
per fornire una base legale con cui limitare l’implementazione di progetti edilizi eccessivamente invasivi. Si tratta
tuttavia di una legge dalle maglie molto larghe, in quanto prescrive che soltanto i progetti su «larga scala» sono
soggetti all’obbligo di fornire una valutazione preventiva sull’impatto ambientale; per i progetti di media scala,
infatti, è il governo centrale a decidere volta per volta circa l’opportunità di produrre tale valutazione, mentre per
quelli di piccola scala non si rende necessaria. Tuttavia, anche nel caso in cui detta valutazione venga resa, essa non
sarà esaminata direttamente dal Ministero dell’Ambiente, ma dal Ministero dei Trasporti o dal Ministero
dell’Economia, i quali, come abbiamo visto, non di rado intrattengono rapporti d’affari ufficiosi con gli stessi
appaltatori che si sottopongono al loro esame. Nel caso in cui vi sia un elevato rischio di collusione, il Ministero
dell’Ambiente può essere chiamato a esprimere un parere specialistico sulla valutazione prodotta, ma la sua
approvazione è puramente accessoria ai fini della decisione finale, che spetta comunque al ministero competente in
prima istanza. Nel caso specifico di Okinawa, solo gli interventi di land reclamation sopra i 50 ettari (0,5 km2) sono
considerati progetti su larga scala, mentre le opere di fortificazione costiera di qualsiasi entità non sono contemplate,
e possono perciò essere autorizzate senza fornire una valutazione preventiva sull’impatto ambientale. Cfr.
Environmental Impact Assessment Act, Ministry of the Environment (MOE), Government of Japan, Tokyo, 1997.
149
81
modo ambientalista e umanista che forniva un’utile sponda ideologica ai gruppi di interesse
coinvolti.
A tal proposito, è interessante notare come una parola chiave che ricorre spesso nei vari piani e
leggi di cui si è riferito sinora sia seibi (lett. “allestimento”), utilizzata in combinazione con
termini quali jigyō (progetto), kankyō (ambiente), kiban (infrastruttura), secchi (installazione),
toshi (città), a formare dei composti dove essa perde il suo significato originario152 assumendo,
a seconda del contesto, l’accezione di “ammodernamento”, “miglioramento”, “ricostruzione”,
“risistemazione”. Detta giravolta semantica rappresenta un indizio prezioso per comprendere la
logica soggiacente ai vari progetti edilizi eterodiretti dallo hondo: si costruisce non tanto per
rendere possibile qualcosa o per fornire gli strumenti necessari affinché quel qualcosa possa
essere svolto diversamente, quanto per sostituire ciò che a Okinawa già c’è con qualcos’altro
che, per sua intrinseca natura, si configura come migliore, più completo, più avanzato. Qualità,
queste, che non fanno riferimento ad alcuno standard tecnologico globalmente riconosciuto,
bensì ai particolarissimi criteri invalsi nel sistema doken kokka e ai suoi ristretti orizzonti
imprenditoriali. Dalla perversione di significato subìta dal termine seibi si può quindi risalire alla
distorta concezione di sviluppo che fino a oggi ha informato – e per certi versi continua a
informare – le politiche fiscali e le iniziative private promosse nelle Ryūkyū in quasi
cinquant’anni di amministrazione giapponese, per la quale sarebbe il raggiungimento della
massima somiglianza e uniformità con il mainland, ossia il Giappone propriamente detto in
quanto portatore egemone di civiltà, a rappresentare l’unica modernità possibile.
Sostituendo nell’equazione il movente ideologico con l’ossessione per il profitto, appare
purtroppo chiaro come, nonostante il cambio d’abito, anche il Giappone pacifista e democratico
abbia finito per cadere preda dei fantasmi del suo passato, andandosi ad aggiungere alla lista di
quei paesi che, anche in seguito al tramonto dei grandi sistemi di pensiero – la cosiddetta morte
delle ideologie – e delle contrapposizioni geopolitiche che ne derivavano, hanno continuato a
combattere una personalissima e pressoché invisibile guerra che, come ogni conflitto, ne ha
logorato il benessere e la prosperità. Mantenendo le grandi conurbazioni ad alta concertazione
demografica individuate dal Secondo piano di sviluppo nazionale quale elemento
«Ciò che appronta, allestisce, e fornisce gli strumenti affinché qualcosa sia subito pronto all’utilizzo». Cfr. Seibi
in Kotobanku onrain jiten, Asahi Shimbunsha, Tokyo (Trad. mia).
152
82
imprescindibile del proprio modello di crescita, il governo di Tokyo non ha fatto che esacerbare
le disparità regionali da esso stesso create in prima battuta, utilizzando il cemento quale grande
livellatrice per assimilare il micro al macro. Invero, nel momento in cui anche il più remoto
villaggio di provincia dovesse essere integrato nel circuito infrastrutturale e industriale facente
capo a uno dei sedicenti “centri”, la guerra si potrebbe dire finalmente vinta, ma si tratta per forza
di cose di un obiettivo irraggiungibile.
Pertanto, il logoramento continua. Nel nome del primato nazionale e del massimo output, termini
quali “decrescita felice”153 o “deindustrializzazione” sono messi al bando, nel disperato tentativo
di mantenere un terzo posto in classifica a cui non corrispondono più la solidità e credibilità
internazionale di un tempo. A pagarne lo scotto sono, come di consueto, i cittadini, i quali si
scoprono impotenti dinanzi a uno Stato che, appurata la natura asintotica del suo grand plan,
insiste caparbio a riscrivere la propria mappa affidandosi a una formula tanto rodata quanto
inefficace: si istituiscono nuovi organi amministrativi senza mettere mano ai meccanismi della
burocrazia; si costruiscono infrastrutture senza considerare le esigenze dei residenti e le
peculiarità del territorio; si erigono condomini e alberghi senza tener conto del reale potere
d’acquisto della popolazione e dei flussi demografici correnti; in altre parole, si modifica il
paesaggio in funzione di una visione centralista che col tempo è arrivata a svincolarsi quasi
completamente dalla realtà fenomenica, il cui scopo è obliterare gli ostacoli formali che
interferiscono con la periferizzazione su cui si fonda la sopravvivenza del suo nucleo. Certo,
detto nucleo ospita anche i propulsori dell’innovazione del Paese e utilizza parte delle risorse
che avoca a sé per individuare nuove soluzioni tecnologiche, stili di vita, pratiche sociali, ma
resta la ferma resistenza della classe dirigente a implementarle sul territorio nazionale, dal
momento che così facendo l’intera struttura crollerebbe.
153
Teoria per la quale una progressiva diminuzione del volume di produzione, accompagnata da un rallentamento
degli scambi sul mercato internazionale, permetterebbe di emanciparsi dalla schiavitù del profitto e degli sprechi
riportando così i consumi in linea con le risorse naturali attualmente disponibili. Elaborata nell’ambito delle scienze
politiche, detta teoria ha ottenuto il favore di diversi economisti (Tim Jackson. Yanis Varoufakis) che negli ultimi
vent’anni si sono adoperati per dotarla di un apparato teorico più rigoroso, suggerendo indirizzi macroeconomici
concreti. Cfr. Latouche S. Petit traité de la décroissance sereine, Editions Mille et une Nuits, Parigi, 2007; Jackson
T. The Post-growth Challenge: Secular Stagnation, Inequality and the Limits to Growth in Ecological Economics,
vol. 156, International Society for Ecological Economics (ISEE), 2018.
83
Una nota positiva è che, nonostante il controllo dei mezzi di informazione e l’afonia delle
opposizioni154, l’opinione pubblica e il mondo delle imprese hanno preso coscienza di questo
iato tra sviluppo e benessere, iniziando ad alzare la voce affinché le cose cambino. In particolare,
gli abitanti di Okinawa e i loro rappresentanti nelle istituzioni non hanno mai smesso di lottare,
battendosi per un ripensamento fondamentale dell’atteggiamento paternalista e assistenzialista
ostentato dal governo centrale. Dopo le fantasiose ipotesi di trasformare la prefettura in una sorta
di arcipelago digitale all’avanguardia, piuttosto che in una free trade zone sulla falsariga delle
omologhe FTZ cinesi155, la richiesta che viene ora rivolta alle alte sfere è di iniziare a utilizzare
l’enorme potenziale – in termini di mezzi e di forza lavoro – dell’industria delle costruzioni per
rimediare agli errori fatti, riportando, per quanto possibile, il paesaggio dello hontō ai livelli prehandover, e da lì ripartire per incentivare un turismo responsabile, incentrato sulla conoscenza e
il rispetto del patrimonio naturalistico. Nel prossimo capitolo, vedremo nel dettaglio quali sono
le maggiori difficoltà implicite in questo cambio di rotta, e perché una nutrita parte dei residenti
continua a guardare con relativa fiducia alle promesse del doken kokka.
154
Ci si riferisce in particolare alle nomine dei vertici della NHK e dei grandi quotidiani nazionali, nonché alle
riforme costituzionali approvate durante il secondo e il terzo governo Abe. Cfr. Nakano K. Ukeika suru Nihonseiji,
Iwanami Shoten, Tokyo, 2015.
155
Queste le proposte avanzate rispettivamente dal Ministero delle Telecomunicazioni e dal Ministero
dell’Economia e del Commercio. Cfr. Intelligent Island, Take 2, The Japan Times, 18 dicembre 1996.
84
Capitolo 3. Settore primario e meccanizzazione
3.1. Collocazione del settore primario nell’economia del disegno di centralizzazione
Il presente capitolo rappresenta la continuazione, nonché l’ideale conclusione, della disamina
degli ambiti passibili di sistematizzazione e razionalizzazione – per non dire legibilizzazione,
prendendo a prestito un neologismo largamente accettato dalla comunità scientifica operante nel
campo della human geography – così come individuati nell’Introduzione, a partire dai contenuti
della tabella a opera di Scott riportata per intero nella prima sezione156. A un primo confronto
con l’originale, appare subito chiaro come la seguente risistemazione non rispecchi
pedissequamente le categorie selezionate dall’antropologo americano, né a ogni modo fosse
nostra intenzione fare altrettanto: a detta dello stesso Scott, infatti, avendo a disposizione
materiale di studio e tempo a sufficienza, sarebbe possibile discernere l’opera di centralizzazione
statale – e in certi casi tracciarne anche una cronistoria – in virtualmente qualsiasi dominio di un
territorio socialmente vissuto, cosa che, a sua volta, implica l’assenza di un framework
d’indagine esaustivo in senso assoluto, applicando il quale si arriverebbe a ricavare, quasi
matematicamente, il grado di “statalizzazione” di una comunità.
Pertanto, pur riconoscendo il debito verso tale tentativo di risistemazione, a suo modo completo
nonostante la professione di umiltà dello studioso – imputabile più alla buona creanza
accademica che a un reale understatement –, si è optato per una selezione e un simultaneo
accorpamento di nuclei tematici. Nello specifico, si è preferito glissare sulla questione dei regimi
di proprietà (property regimes), ovvero sul passaggio dalla proprietà condivisa alla proprietà
privata e sull’annessa creazione di un catasto nazionale, in quanto già parzialmente descritta in
nota nel capitolo precedente 157 e riconducibile alla progressiva ascesa della borghesia
imprenditoriale nello hondo, fenomeno su cui esistono studi autonomi più autorevoli158 e la cui
esposizione in questa sede rischierebbe di portarci fuori strada.
A seguire, il secondo escluso è rappresentato dalla questione degli strumenti di identificazione
(identification systems), concernente la transizione da un sistema di patronimici/cognomi
156
Cfr. Capitolo 1. Il paesaggio e il disegno del potere, pp. 29-30.
Vd. nota 117 in Capitolo 2. Edilizia civile e urbanizzazione, p. 67.
158
Cfr. Hoston G. A. Conceptualizing Bourgeois Revolution: The Prewar Japanese Left and the Meiji Restoration
in Society and History, vol. 33-3, Cambridge University Press, Cambridge, 1991; Revelant A. Sviluppo economico
e disuguaglianza. La questione fiscale nel Giappone moderno 1873-1940, Libreria Editrice Cafoscarina, Venezia,
2016.
157
85
consuetudinario e indigeno a un altro standardizzato e sovraimposto, da cui discende l’adozione
di documenti via via più tangibili e sofisticati (es. carta d’identità, passaporto). Per quanto un
approfondimento sull’onomastica delle Ryūkyū possa rivelarsi ricco di interesse, è pur vero che
si tratta di un processo forzoso avviato e concluso sotto l’egida del Giappone Meiji e che non ha
avuto particolari ripercussioni sullo sviluppo – o meglio, sul mancato sviluppo – dell’identità
okinawana, tanto era ristretta la fascia di popolazione che coinvolse in prima persona159; inoltre,
scendere nel dettaglio per puro amor di completezza solleverebbe un problema di coerenza
all’interno del corpo dello studio, dal momento che l’orizzonte temporale entro cui si è scelto di
operare spazia dall’età moderna a quella contemporanea, sicché non avrebbe molto senso
accogliervi un oggetto d’indagine la cui rilevanza critica è circoscritta al passato remoto.
Al contrario, si è scelto di riprendere la lezione di unità economiche (economic units), dove per
queste si intendono quelle attività umane che, oltre a garantire la sussistenza sia dell’individuo
che della comunità, rappresentano il veicolo principale attraverso cui accrescere il benessere ed
eventualmente il prestigio degli stessi. Ancora, caratteristica precipua di dette unità è il fatto di
presupporre una scambievole interazione con il paesaggio, la cui conseguente modificazione può
essere letta come indicatore di uno sbilanciamento dei termini del rapporto, arrivando a inferire
possibili fluttuazioni future del benessere conquistato. In riferimento al caso okinawano,
abbiamo ritenuto che l’agricoltura, la pesca e l’allevamento – settori analogamente intensivi e
sempre più meccanizzati, e pertanto analizzabili servendosi dei medesimi criteri come una
singola unità – rappresentino le tre macroaree che meglio rispondono a questa descrizione:
eccezion fatta per il settore delle costruzioni e del turismo, già ampiamente descritti, tali sono
appunto i settori in cui i locali possono sperare di trovare un impiego senza uscire dai confini
della prefettura. Pur non potendo fare a meno di riconoscere la presenza di nuove realtà
imprenditoriali, nate il più delle volte sotto forma di start-up160 e operanti in quelle branche
dell’innovazione – energie rinnovabili, trattamento dei rifiuti, depurazione delle acque reflue –
di cui Okinawa ha disperatamente bisogno, è purtroppo un dato di fatto che la stragrande
159
Soltanto gli aristocratici o i funzionari pubblici possedevano un kamei (cognome) che, in aggiunta al loro titolo
o carica, costituiva il nome ufficiale. I sudditi comuni possedevano invece soltanto un nome di battesimo (warabi
nā), che a corte veniva utilizzato perlopiù quale appellativo confidenziale. Cfr. Higa S. On Okinawan Names in
Sakamaki S. Ryukyuan Names: Monographs on and Lists of Personal and Place Names in the Ryukyus, East-West
Center Press, Manoa, 1964.
160
Cfr. List of Startups (Okinawa), START (Program for Creating STart-ups from Advanced Research and
Technology), Japan Science and Technology Agency, Tokyo, 2018.
86
maggioranza delle imprese locali sia integrata nella catena produttiva del doken kokka, di cui
rappresentano l’ultimo anello.
In aggiunta, approcciarsi allo studio del settore primario e della filiera agroalimentare guardando
alla loro coesione interna piuttosto che tentando di scorporarli in più sottocategorie di ordine
semiotico – come per l’appunto usa fare Scott161 –, permette di calcolarne la rilevanza economica
in termini qualitativi, arrivando così a tracciare un quadro comprensivo della filogenesi
dell’opera di centralizzazione, senza soffermarsi troppo sulle specificità culturali del singolo
gesto – ammesso che queste siano ancora osservabili in una società che, coerentemente col resto
del Giappone, ha da tempo completamente introiettato i princìpi dell’economia di mercato e della
libera impresa.
Nell’economia complessiva della dissertazione, l’analisi delle categorie descritte in precedenza
assume una duplice rilevanza. In primo luogo, serve lo scopo di completare il quadro del
processo di urbanizzazione sull’isola principale di Okinawa, allargando il fuoco dai centri
propriamente detti “urbani” a tutte quelle concentrazioni e infrastrutture che consentono la
sopravvivenza e sostengono la crescita dell’organismo-città, in un’ottica olistica per la quale non
solo quest’ultimo non è riducibile alla somma delle attività svolte dai suoi centri funzionali, ma
è da leggersi come perno o al più snodo di un più ampio quadro regionale, il cui ordine interno
è determinato contemporaneamente sia dalle spinte espansive che dal centro si irradiano verso
le periferie, sia dalle resistenze opposte dalle periferie per rinegoziare la propria posizione
rispetto al centro.
In secondo luogo, fine del presente capitolo è stabilire un ulteriore nesso tra le modificazioni
occorse nel paesaggio a partire dall’inizio della dominazione straniera e i passaggi di sovranità,
onde evidenziare come, anche là dove lo Stato abbia formalmente abbandonato i propri propositi
di pianificazione su larga scala e di intervento, provvedendo alla liberalizzazione persino di quei
servizi di pubblica utilità che un tempo costituivano un presidio irrinunciabile da cui esercitare,
in senso quasi hegeliano 162 , il suo controllo sul singolo, sussista comunque una tendenza a
161
Ricordiamo che Scott si confronta principalmente con gli Stati autoritari emersi nel primo Novecento, in
un’epoca in cui il cambio di paradigma – dalla libera iniziativa imprenditoriale alla programmazione sistematica –
fu dirompente a livello culturale. Cfr. Scott, op. cit., pp. 193-222.
162
Cfr. Henry B. (Trad.), Hegel G. W. F. Lineamenti di filosofia del diritto, Laterza, Bari, 1999; Ver Eecke W.
Hegel on Economics and Freedom in ARSP: Archiv für Rechts und Sozialphilosophie, vol. 69-2, Franz Steiner
Verlag, Stoccarda, 1983.
87
replicare un certo disegno di omologazione, la cui ratio è appunto quella di ridurre al minimo la
difformità della natura dal disegno dell’uomo. In questo senso, si continua a riscontrare quella
sinottica miopia per cui l’assetto paesaggistico più desiderabile è quello che meglio accomoda
le necessità produttive di un sistema centralizzato, dove la variabile naturale è estromessa dal
computo delle risorse disponibili, figurando anzi quale ostacolo al funzionamento ottimale
dell’insieme.
Invero, un’analisi esaustiva in questi termini non può esimersi dal confronto con il quadro
macroeconomico, istruendo un paragone con il sistema-paese: bisogna quindi arrivare a
determinare se le tecniche e i mezzi messi a disposizione sull’isola siano – e siano stati – in linea
con quelli impiegati nel resto del territorio nazionale, o se invece presentino inefficienze tali da
configurare uno stato di arretratezza relativa; se i prodotti e i servizi generati dal settore primario,
sia sul mercato interno che su quello internazionale, possano definirsi competitivi o meno; se il
governo di Tokyo abbia cercato di incentivare l’economia locale al fine di assicurarle un certo
grado di autonomia o, al contrario, per ribadirne la dipendenza dalla terraferma; se il permanere
del business model attuale per gli anni a venire possa definirsi sostenibile, sia per quanto riguarda
i tempi di rigenerazione delle risorse sia in termini di forza lavoro e investimenti.
Seguendo la medesima scansione cronologica osservata per affrontare la questione dell’edilizia
civile, ovvero individuando tre momenti di svolta fondamentali per la storia della prefettura, si
proverà di seguito a descrivere il funzionamento e lo sviluppo dell’economia rurale di Okinawa,
rimandando alla prossima sezione delle Conclusioni alcuni suggerimenti mirati circa gli aspetti
più disfunzionali.
3.2. I prodotti tradizionali del Regno delle Ryūkyū e l’utopia Meiji dell’industria zuccheriera
Ancor prima dell’invasione da parte di Satsuma, il Regno delle Ryūkyū incontrava non poche
difficoltà a sfamare la totalità dei suoi sudditi. Nonostante la presenza di vaste piantagioni di riso
– la cui introduzione nel resto dell’Arcipelago si deve probabilmente all’intermediazione operata
dai primi coloni di Okinawa163 – di proprietà statale, la cui coltivazione era affidata al sistema
Tra le ipotesi relative all’introduzione del riso (Oryza sativa, subsp. japonica) in Giappone, ha oggi riacquistato
forza quella dell’itinerario meridionale, avanzata per la prima volta dal padre dell’etnografia giapponese Yanagita
Kunio (1875 – 1962) nel 1952. Tale teoria afferma che il cereale sarebbe arrivato nell’Arcipelago passando dall’isola
di Miyako nelle Ryūkyū, dove nel tardo periodo Jōmon (10000 a.C. – 300 a.C.) fecero naufragio alcuni pescherecci
cinesi, i cui marinai si stabilirono infine sull’isola insegnando ai nativi le proprie tecniche di coltivazione. Cfr.
163
88
semi-autogestito dei majiri e sorvegliata dagli aristocratici locali, esse erano in grado di garantire
soltanto due raccolti l’anno e necessitavano di grandi quantità d’acqua durante l’intero ciclo di
vita della pianta. Per questa ragione, nonché per il fatto che, essendo concentrate nella zona
centromeridionale – principalmente Onna e limitrofi –, dette piantagioni erano particolarmente
esposte alla furia dei tifoni, il riso costituiva soltanto un terzo della dieta indigena, a integrazione
della quale si consumavano cereali e legumi meno problematici da coltivare quali come orzo,
miglio e fagioli di soia.
In realtà, era la patata dolce viola, volgarmente nota come umu 164 , a costituire la coltura
principale: questo tubero, rappresentante la base dell’alimentazione sia degli isolani che dei loro
animali da cortile, poteva essere piantato quasi ovunque e in qualunque stagione, arrivando a
garantire tra i tre e i quattro raccolti l’anno.
Patata dolce viola pronta per la raccolta. Fonte: Narita Fāmurando, 2020.
Introdotto dalla Cina dall’alto funzionario Noguni Sōkan165 nel 1605, fu di fatto il capitano di
vascello Gima Shinjō166, esperto di agronomia, a ordinarne la coltivazione sperimentale su vasta
Takamiya H. Introductory Routes of Rice to Japan: An. Examination of the Southern Route Hypothesis in Asian
Perspectives, vol. 40-2, University of Hawaii Press, Manoa, 2001.
164
Giapp. standard beni imo o satuma imo, nome scientifico Dioscorea alata (n.d.r.).
165
Segretario al commercio (sōkan) originario del majiri di Noguni (oggi Kadena-chō), dalla sua prima ambasceria
a Fuzhou (provincia di Fujian) nel 1605 riportò in patria la tipica patata dolce, che iniziò a coltivare nel suo villaggio
natìo. La voce giunse presto all’orecchio di Gima Shinjō (vd. nota seguente), che propose al re di estendere la coltura
a tutto il regno. Cfr. Quast A. Generation Gima Pēchin Shinmei in Ryukyu Bugei Research Workshop, Ryukyu
Bugei, Okinawa, 2017.
166
Reggente del majiri di Gima (oggi Yomitan-son) e comandante (seitō) della Oshiaketomi, una delle sei grandi
navi della flotta ryukyuana impiegate nei viaggi a lunga percorrenza. Cfr. ivi, p. 2.
89
scala per quindici anni in ogni circoscrizione del regno, sicuro che la sua diffusione capillare
avrebbe messo fine una volta per tutte alle carestie che periodicamente costringevano centinaia
di villaggi alla fame. Com’è noto, l’intuizione del militare si rivelò vincente, portando le Ryūkyū
un passo più vicino all’obiettivo dell’autosufficienza alimentare, fermo restando il limite
fisiologico della ridotta estensione delle terre arabili. Altro elemento imprescindibile della
cultura gastronomica delle Ryūkyū era – ed è tuttora – la carne di maiale (uwā)167, attorno alla
quale gravitava un complesso sistema rituale che accomuna diverse culture del Sud-Est Asiatico
sul tragitto della corrente Kuroshio168.
Esemplare di aigū in un allevamento specializzato. Fonte: Kaneko H. et al., Japanese Society of Animal Science, 2020.
Benché sembri che fino al XVIII secolo solo alcune famiglie dell’isola possedessero i mezzi per
allevare un capo di loro esclusiva proprietà, fonti cinesi documentanti le ambascerie nelle Liuqiu
La specie di suino indigena è lo aigū, imparentato con il cinghiale selvatico delle Ryūkyū (Sus scrofa ryukiuanus).
Noto anche come maiale nero di Okinawa, è andato quasi estinto in seguito al Secondo Conflitto Mondiale, ma
grazie a programmi di riproduzione approvati dal governo giapponese a partire dagli fine degli anni Ottanta è oggi
fuori pericolo e costituisce uno dei capi di bestiame più ricercati in virtù della qualità delle sue carni. Cfr. Tasaki S.
The Strange Case of the Agū Pig, Slow Food Archive, 16 novembre 2015.
168
Corrente oceanica calda, ha origine nel Pacifico Occidentale in prossimità di Luzon nelle Filippine, passando per
Taiwan, l’isola di Jeju e le Ryūkyū fino alle coste del mainland giapponese. Recenti studi hanno dimostrato come
le regioni che si trovano sul tragitto iniziale della corrente condividano elementi culturali simili, a partire dalla
rilevanza sociale dell’allevamento dei suini e del consumo della loro carne. Cfr. Lee S., Hyun H. Pork Food Culture
and Sustainability on Islands along the Kuroshio Current: Resource Circulation and Ecological Communities on
Okinawa and Jeju in Island Studies Journal, vol. 13-1, University of Prince Edward Island, Charlottetown, 2018.
167
90
riportano che chiunque avesse modo di assaggiare la prelibata pietanza almeno una volta l’anno
sotto forma di zuppa o stufato, dal momento che questa accompagnava i momenti più importanti
(funerali, matrimoni, matsuri) della vita comunitaria. A ogni modo, il metodo di allevamento,
già accennato nel capitolo precedente, non differiva a seconda del censo o dello status sociale:
che si trattasse delle porcilaie reali o dell’abitazione di un suddito comune, le bestie venivano
nutrite con le deiezioni degli inquilini umani e gli avanzi di cucina, costituendo un circuito chiuso
perfettamente sostenibile in cui gli escrementi prodotti dal bestiame venivano utilizzati come
fertilizzante per l’orto di casa e i campi, i cui prodotti venivano in ultima istanza consumati
dall’uomo.
A ciò si aggiungeva un sistema di divisione del lavoro che coinvolgeva in egual misura ambedue
i sessi e garantiva la salubrità della carne, responsabilizzando l’intera comunità: un ruolo di
primo piano spettava alle donne, incaricate di alimentare l’animale e di soprintendere agli atti
riproduttivi e alle gravidanze, monitorandone nel mentre lo stato di salute; la macellazione169 era
invece appannaggio degli uomini, che all’avvicinarsi di un evento importante sceglievano
collettivamente il giorno esatto in cui scannare l’animale, procedendo quindi al dissanguamento
e al taglio delle carni, a cui avevano diritto anche coloro che non fossero stati direttamente
imparentati con la famiglia proprietaria del suino, dal momento che alle feste e alle celebrazioni
partecipava il villaggio nel suo insieme. Non solo: chi avesse mancato di prendere parte al pasto
collettivo a base di maiale, sul quale convergeva il significato simbolico delle preghiere e offerte
precedenti la consumazione, sarebbe stato tacciato di iettatura richiedendo l’intervento del
capovillaggio, dal momento che rifiutare di cibarsene significava rifiutare la mediazione con la
divinità istituita dall’atto rituale.
In luchuan uwākurushi, prevede anzitutto che il maiale sia lasciato a digiuno o nutrito al più con qualche patata
dolce per alcuni giorni. Il giorno precedente l’uccisione, il maiale viene quindi legato e condotto fuori dalla porcilaia,
con il grugno imbottito di stracci per impedire ai lamenti di giungere al villaggio, finché la mattina seguente viene
scannato per strangolamento o impiccagione. Prima di procedere oltre, il corpo viene lasciato dissanguare,
dopodiché vengono rimosse le setole usando coltelli arroventati; segue la macellazione vera e propria, che viene
eseguita in prossimità del mare o di un corso d’acqua per consentire il lavaggio degli organi interni: tra questi, il
fegato, i reni e il pancreas vengono separati e messi sotto sale assieme alla testa, mentre il resto dell’animale viene
consumato nelle ore successive. Al momento della celebrazione, la noro selezionava alcune parti da riservare alla
divinità, ma poteva anche accadere che si offrisse l’intera pietanza senza che la comunità avesse a mangiarne per
rivolgere una preghiera: secondo la religione locale, infatti, i maiali non erano animali sacri e potevano perciò essere
uccisi per soddisfare i bisogni alimentari e spirituali del villaggio. Paradossalmente, quindi, il maiale svolgeva una
funzione religiosa nella misura in cui non era investito di alcun valore sacrale, configurandosi come una sorta di
moneta di scambio nei rapporti tra uomini e celesti. Cfr. Lee S., Hyun H., op. cit., pp. 10-12.
169
91
Al contrario, un’attività cui si dedicavano relativamente in pochi era la pesca, occupante poco
meno di un decimo della popolazione totale – e a ogni modo non in via esclusiva. Diversamente
da quanto si potrebbe pensare, infatti, i ryukyuani non avevano a disposizione imbarcazioni
adatte alla pesca in mare aperto: gli equipaggi delle tradizionali sabani 170 , strette e lunghe,
solitamente si avventuravano appena al di fuori della barriera corallina avvalendosi di lenze a
mano e remi – utilizzati per stordire il pesce tirato a bordo oltre che per la propulsione
dell’imbarcazione – in acque di profondità compresa tra i 20 e i 50 metri, riportando a casa un
pescato171 sufficiente a sfamare una o due famiglie per un paio di giorni, dal momento che le alte
temperature, in combinazione con l’umidità e il proliferare dei parassiti, rendevano impossibile
conservarlo a lungo.
Regata di fukaki sabani al largo dell’isola di Zamami. Fonte: Abeam Consulting, 2014.
170
Simili a canoe, possono ospitare un equipaggio da 6 a 12 persone a seconda della lunghezza ed essere provviste
di vela – in tal caso si parla di fukaki sabani. Si ritiene che il nome abbia origine dalla crasi dei termini luchuan buni
(giapp. standard fune, “barca”) e saba (giapp. standard same, “squalo”), dal momento che questa tipologia di
imbarcazione era utilizzata per la caccia allo squalo. Cfr. Brooks D. Japanese Wooden Boatbuilding: History and
Traditions in Education About Asia, vol. 19-2, Association for Asian Studies, Ann Arbor, 2014.
171
Al di qua della barriera corallina, si pescavano con una certa facilità ayu (Plecoglossus altivelis, il cosiddetto
pesce dolce), mībai (giapp. standard kiji hata, nome scient. Epinephelus akaara), tonni striati (giapp. standard katsuo,
nome scient. Katsuwonus pelamis), piovre e gamberi. Cfr. Akimichi T., Ruddle K. The historical development of
territorial rights and fishery regulations in Okinawan inshore waters in Maritime Institutions in the Western Pacific,
National Museum of Ethnology, Osaka, 1984.
92
La ragione per cui, contrariamente alla cultura del mainland, il pesce non avrebbe mai costituito
l’alimento principe della dieta okinawana, rappresentando piuttosto un supplemento o surrogato
di proteine in periodi di penuria di carne, risiede infatti nell’incompatibilità del clima con la
pesca a lungo raggio, per la quale si sarebbero resi necessari metodi di conservazione172 – primo
fra tutti quello sotto sale – che nessuna comunità delle Ryūkyū aveva dimostrato interesse a
sviluppare, nella misura in cui esistevano già altri settori più progrediti – l’agricoltura e
l’allevamento, appunto – dedicandosi ai quali ci si poteva procurare di che vivere senza
allontanarsi troppo dal villaggio.
Per questa ragione, la maggior parte dei pescatori – o meglio, di chi, vivendo in prossimità del
mare, praticava la pesca come attività accessoria – preferiva, quando possibile, limitarsi a
catturare le proprie prede al di qua del confine naturale della barriera, senza allestire alcuna
imbarcazione: grazie al fondale poco profondo – dodici metri di profondità massima in
prossimità delle formazioni coralline esterne – e alle diverse specie di pesci che vi cercavano
riparo dalle correnti per accoppiarsi e deporre uova, una piccola comunità poteva arrivare a
coprire quasi completamente il proprio fabbisogno proteico pescando con il solo ausilio di una
fiocina o anche a mani nude, fermo restando l’obbligo di non interferire con il ciclo biologico
della fauna marina al punto da compromettere il numero complessivo degli esemplari.
In questo senso, non bisogna confondere la scala ridotta su cui la pesca fu praticata fino ad
almeno il periodo Taishō173 con l’importanza sociale rivestita dalle pratiche a essa connesse nella
vita quotidiana delle periferie dell’arcipelago: per quanto commercialmente irrilevante,
costituiva infatti una risorsa preziosissima per quanti, distanti dai maggiori centri abitati, si
trovavano impossibilitati ad accedere ai mercati cittadini e avevano dunque disperato bisogno di
una fonte di cibo addizionale, sia su base giornaliera, sia per le situazioni di emergenza – ad
esempio, qualora un tifone avesse spazzato via le colture e tagliato il villaggio fuori dalla rete
stradale. Dal punto di vista antropologico, ancora per lungo tempo il mare avrebbe continuato a
rappresentare per i ryukyuani qualcosa di più simile a un’estensione della dimensione terrestre
Il metodo conosciuto dai ryukyuani era quello dell’affumicamento, praticato regolarmente per far durare di più
il pescato. Tuttavia, dato il tempo richiesto per affumicare a dovere un pezzo di pesce il processo non veniva sempre
portato a compimento, sicché esso andava comunque consumato entro qualche giorno. Cfr. Fisch, op.cit., p. 133.
173
Nei primi anni Dieci il Ministero della Pesca e dell’Agricoltura cercò di modernizzare la flotta ryukyuana con
l’introduzione di 100 sanpan a motore, ma il settore non sarebbe decollato fino all’inizio dell’occupazione
americana. Cfr. Fisch, op.cit., p. 134.
172
93
del proprio majiri, limitato dunque alle sue immediate vicinanze, piuttosto che un orizzonte
sconfinato e liberamente esplorabile: solcare le onde con grandi navi, affrontando le intemperie
e l’ignoto alla ricerca di qualche esotico tesoro, appariva semmai come una stravaganza della
classe dirigente che ai sudditi non conveniva imitare.
Tornando appunto ai tesori che Noguni Sōkan aveva riportato con sé dalla sua seconda
ambasceria a Fuzhou nel 1623, non si può non citare la tecnica di estrazione dello zucchero di
canna (kurozatō), una pianta disponibile in abbondanza sin da tempo immemore sull’isola
principale, ma attorno alla quale non si era sviluppata una conoscenza artigianale
sufficientemente sofisticata da consentire la trasformazione della materia prima in merce di
scambio. In breve tempo, lo zucchero grezzo divenne il fiore all’occhiello dell’export del regno,
incentivando anche le famiglie più umili a convertire una parte dei propri possedimenti, sino ad
allora riservati esclusivamente a colture edibili con cui provvedere direttamente alla
soddisfazione del fabbisogno alimentare, alla coltivazione della canna da zucchero alla luce dei
profitti che si prospettavano all’orizzonte, che si trattasse di vendere il prodotto non lavorato ai
nascenti grossisti o di mettersi in affari con altri volenterosi del villaggio per provvedere da sé
alla raffinazione e quindi alla vendita del prodotto finito174. Tuttavia, benché all’exploit dello
zucchero vada riconosciuto il merito di aver esteso la circolazione dell’economia monetaria a
fasce della popolazione sino ad allora rimaste quasi invisibili e di aver gettato le basi
dell’accumulazione originaria di una ristretta cerchia di possidenti locali, è anche vero che ciò
segnò l’inizio della fine per i piccoli proprietari (shōnō) e, più in generale, per l’autonomia
politica faticosamente mantenuta dalla dinastia regnante.
Inevitabilmente, alla crescente prosperità conseguente all’introduzione di questo nuovo asset
corrispose anche una più onerosa pressione fiscale imposta dalla terraferma, per assecondare la
quale il sovrano Shō Nei provvide a stringere la presa sui propri sudditi, dimostrando scarso
acume politico. Il primo passo in questa direzione fu rappresentato dall’individuazione di una
nuova classe di amministratori scelti all’interno delle comunità di villaggio, noti come jikata
yakunin: chi ricopriva questo ruolo, pur non salendo di grado all’interno della gerarchia del
majiri, veniva incaricato dallo Stato di raccogliere le tasse e di controllare che le direttive
Cfr. Matsumura W. The Limits of Okinawa: Japanese Capitalism, Living Labor, and Theorizations of Community,
Duke University Press, Durham, 2015.
174
94
governative concernenti la quote di terreno da destinare a ciascuna coltura – zucchero di canna
in primis – fossero implementate correttamente, ricevendo una piccola provvigione per i servigi
svolti. Nonostante la ridotta entità sia dello stipendio percepito sia dell’importanza della carica
all’interno della burocrazia statale, questi funzionari a metà mantenevano il loro diritto a una
porzione delle terre del villaggio, periodicamente redistribuite secondo il tradizionale sistema di
rotazione (jiwari), in quanto cittadini comuni, ma si trovavano investiti anche di un enorme
potere negoziale informale, abusando del quale praticavano il prestito a usura e cercavano di
favorire le famiglie a loro più vicine. Una volta comprese le implicazioni fattuali del loro
apparentemente risibile privilegio, i jikata yakunin finirono per fidelizzarsi completamente
all’autorità centrale estraniandosi dalle loro comunità d’origine, per la quali rappresentavano
ormai nulla più che la longa manus degli esattori di stanza a Naha.
In concomitanza con l’acuirsi dell’ingiustizia sociale, la situazione delle casse regie si fece
particolarmente critica nel 1646, quando Satsuma impose il monopolio sui prodotti tipici più
redditizi (curcuma, stoffe, zucchero) e il pagamento di una quota fissa di tributi in zucchero di
canna, il cui valore fu fissato dallo han al di sotto del prezzo di mercato invalso nel resto
dell’Arcipelago, in modo da rivenderlo a proprio vantaggio nei maggiori centri commerciali –
principalmente Ōsaka. Per assecondare le velleità speculatrici del dominatore, il governo locale
inaugurò una politica di compravendita al ribasso dello zucchero (kaiagetō)175, impedendo ai
piccoli produttori e trasformatori di ricavare un pur minimo utile dal commercio in proprio dello
stesso, cosa che non fece che aggravare le condizioni generali della popolazione contadina, che
già versava allo Stato due terzi del proprio raccolto proveniente da altre colture. Nel 1669, la
forbice della disuguaglianza si allargò ulteriormente: con l’intento di aumentare di circa il 10%
la superficie totale delle terre arabili, sì da ripagare più in fretta gli esorbitanti debiti contratti con
Satsuma, il neoinsediato Shō Tei decretò, dietro consiglio del già citato Haneji Chōshū176, l’avvio
di una consistente campagna di bonifica a spese del governo, i cui beneficiari ultimi sarebbero
stati, tuttavia, i suddetti jikata yakunin. Costoro avrebbero avuto diritto, a titolo individuale, a
una porzione delle aree soggette a bonifica (dette shiakechi), le quali non sarebbero state dunque
In ambito economico, il verbo kaigeru (di base semplicemente “comprare”) indica l’acquisto di beni privati da
parte di un ente pubblico facendo leva sul proprio potere negoziale. Nel composto in questione, -tō è una delle
letture dell’ideogramma di “zucchero”. Cfr. Kaiageru in Kotobanku onrain jiten, Asahi Shimbunsha, Tokyo.
176
Vd. nota 49 in Capitolo 2. Edilizia civile e urbanizzazione, p. 43.
175
95
incluse nel sistema di rotazione periodica delle terre pubbliche177: una decisione che vanificava
lo scopo primo della riforma, nella misura in cui i funzionari pagavano molte meno tasse degli
agricoltori comuni, oltra a essere esentati dall’obbligo di fornire manodopera per la realizzazione
di grandi opere.
Inutile dirlo, l’avvento di questa nuova classe di proprietari terrieri (uēki) scosse alle fondamenta
la struttura sociale delle Ryūkyū, favorendo la transizione a un sistema di produzione agricola
fondato sulla razionalizzazione, la pianificazione e la sorveglianza. Potendo vantare una
conoscenza diretta delle comunità che soprintendevano, a differenza della conoscenza
meramente nominale posseduta dai funzionari di professione a palazzo, gli uēki divennero ben
presto gli interlocutori principali della corte, a cui quest’ultima decise di affidarsi per il
raggiungimento dei nuovi, ambiziosi progetti a lungo termine per l’aumento della resa dei
raccolti. A pagare le spese delle ambizioni del governo centrale erano, come di consueto, i piccoli
proprietari, molti dei quali si risolsero infine a vendere la propria persona (miuri) agli
amministratori locali pur di liberarsi dal fardello delle tasse: benché tale decisione non implicasse
una rinuncia formale ai diritti di proprietà, è pur vero che chi arrivava a compiere questo doloroso
passo aveva il più delle volte già impegnato il proprio appezzamento per far fronte alle spese, e
che l’assenza di retribuzione rendeva di fatto impossibile riscattare il terreno in un prossimo
futuro. Si assistette così alla nascita di una nuova classe di mezzadri (nāgu) che, similmente a
manodopera schiavile, lavoravano la terra del signore in cambio del minimo indispensabile per
la propria sussistenza, senza voce in capitolo nella divisione del raccolto né possibilità di
emigrare altrove, dal momento che le leggi del regno impedivano di esercitare la professione al
di fuori del villaggio natìo.
Tale situazione si protrasse per quasi un secolo e mezzo, con somma delusione dell’antica classe
dirigente che, trovandosi a dover rivaleggiare con i latifondisti per il controllo delle risorse
strategiche dell’isola, non poteva comunque fare a meno di affidarsi a questi parvenu per
riscuotere i tributi e le donazioni con cui mantenere il proprio prestigio, a cui nel tempo si
aggiunse anche la vendita dei titoli nobiliari alle famiglie di origine contadina più benestanti,
mentre l’intento originario di colmare la voragine del debito pubblico era diventato ormai
177
A Okinawa, i regimi di proprietà delle terre arabili si distinguevano in terre a uso comune (ca. 10%), terre di
proprietà dei villaggi soggette a rotazione periodica (ca. 70%) e terre a uso privato dei funzionari del regno (ca.
20%). Cfr. Matsumura, op. cit., p. 31.
96
un’utopia. Non sorprende dunque che, nelle parole di Iha Fuyū 178 e altri intellettuali favorevoli
al “ricongiungimento con la madrepatria”, in retrospettiva i provvedimenti adottati dal pur
autoritario Stato Meiji apparissero come una sorta di liberazione dalla schiavitù, sia per quanto
concerne lo strapotere del dominio di Satsuma, sia in riferimento alle prevaricazioni implicite
nel contratto di mezzadria.
In realtà, sappiamo che l’adozione dei Provvedimenti kyūkan onzon, avvenuta quasi
contemporaneamente all’istituzione della prefettura nel 1879, lasciò a bella posta inalterato il
sistema amministrativo e di esazione fiscale preesistente, secondo una logica comune a diversi
imperi coloniali179: i contadini rimanevano infatti tenuti a pagare un triplice tributo – in natura,
in lavoro e in denaro – ai funzionari locali, i quali, pur essendo stati formalmente integrati nella
burocrazia statale facente capo a Tokyo, conservavano una serie di privilegi consuetudinari
sconosciuti ai loro omologhi dello hondo, esercitando i quali avevano modo di estendere la loro
già ampia influenza.
Inoltre, l’inclusione nel sistema-nazione giapponese espose l’economia di Okinawa alle brusche
fluttuazioni del mercato internazionale, acuendo la dipendenza dall’usura delle fasce sociali più
deboli. Vista la crescente domanda di zucchero proveniente dal resto dell’Arcipelago, il governo
Meiji pensò bene di mantenere la politica del kaiagetō in continuità con il periodo feudale,
vietando ai singoli abitanti di procedere alla libera vendita del prodotto finito prima che il
villaggio di cui facevano parte avesse espletato i propri obblighi fiscali nei confronti dello Stato.
Complice anche l’aumento della quota obbligatoria di zucchero richiesta a ogni villaggio, a
scapito delle altre colture da cui la gente comune si procurava di che mangiare, per sopravvivere
i mezzadri non avevano altra scelta che rivolgersi a intermediari del settore agricolo – perlopiù
provenienti dal mainland – per ottenere un anticipo (maedai) ad alti tassi d’interesse sul raccolto
Laureato in linguistica presso l’Università Imperiale di Tōkyō, fu il padre degli studi okinawani e fervente
sostenitore dell’integrazione nel sistema imperiale. Così come altri giovani intellettuali della sua generazione,
riteneva che il Ryūkyū shobun (disposizione delle Ryūkyū) andasse interpretato come un processo di riunificazione
con il popolo giapponese, fratello “separato alla nascita” da quello ryukyuano dal corso degli eventi. Cfr. Iha F.
Okinawajin no sosen ni tsuite in Kyōyō kenkyū, vol. 15-1, Kyushu International University, Kita-Kyushu, 2008.
179
Così come avvenuto nei domini coloniali di India e Africa, la classe dirigente preesistente viene integrata
formalmente nella nuova gerarchia amministrativa ma privata del proprio potere politico e decisionale: il
mantenimento di questa utile facciata consente al dominatore di scaricare la responsabilità di scelte di policy
impopolari sulle élite locali, assicurandosi al contempo la collaborazione incondizionata di questi ultimi per
l’attuazione delle stesse. Cfr. Guha R., Scott J. C. Elementary Aspects of Peasant Insurgency in Colonial India,
Duke University Press, Durham, 1999.
178
97
delle canne che andava poi saldato a raccolto avvenuto, prosciugando le riserve anche di chi
avesse voluto procedere alla vendita in proprio dello zucchero in avanzo.
Nonostante l’accorato appello di Uesugi Mochinori all’indomani della sua nomina a governatore
della prefettura, nel quale egli lamentava l’inefficienza e l’incompetenza dei pubblici funzionari
appartenenti alla cerchia dei jikata yakunin, nonché il circolo vizioso instaurato dalla pratica
dell’usura, per la quale i coltivatori vedevano il frutto del proprio lavoro requisito quale tassa per
il governo centrale o saldo dei debiti verso il signore locale, disincentivando di riflesso la
produttività e l’innovazione tecnologica, il responso del Ministero dell’Interno fu quantomai
tiepido, adducendo che un cambio di passo sì radicale a così poca distanza dall’avvio del
processo di integrazione avrebbe di sicuro destabilizzato la regione, da tempo usa alle
sopraffazioni dell’aristocrazia al punto da considerarle alla stregua di una tradizione.
Per un vero cambiamento – difficile dire in che misura positivo – si sarebbe pertanto dovuta
attendere l’annessione di Taiwan, forte di un’industria dello zucchero che vantava un output tre
volte maggiore di quella di Okinawa e il cui statuto permetteva al Giappone di implementare
politiche coercitive di stampo apertamente coloniale, lasciando campo libero agli imprenditori
della madrepatria per la costruzione dei loro stabilimenti ideali. Mentre Taiwan si avviava a
diventare lo zuccherificio dell’Impero, Tokyo decise che era giunto il momento di riportare la
sua prefettura estremo-meridionale in linea con gli standard dell’Arcipelago, avviando con più
di un ventennio di ritardo un’opera di riforma della tassazione fondiaria180: i piccoli proprietari
furono ufficialmente liberati dallo stato di servitù e dagli obblighi tributari in natura nei confronti
dei funzionari locali, vedendosi riconosciuto – quantomeno sulla carta – il diritto alla proprietà
privata sui terreni che erano stati precedentemente costretti a impegnare, sui quali avrebbero
iniziato a pagare una tassa individuale in denaro, proporzionale all’estensione e alla resa dello
specifico appezzamento. Con il completamento della riforma agraria nel 1903, che metteva al
bando la consuetudine della rotazione periodica e assegnava a ciascun contadino un atto di
180
In giapponese nota semplicemente come Chiso Kaisei, è la riforma fondiaria per antonomasia. Approvata nel
1873, introdusse il diritto alla proprietà privata e abolì l’obbligo di versare le tasse in natura – riso e altri prodotti:
secondo il nuovo sistema, le imposte – rigorosamente in denaro – sarebbero state calcolate in base all’estensione
della specifica proprietà, la cui misurazione fu affidata agli stessi proprietari. Vista la scarsa onestà con cui
quest’ultimi effettuarono le misurazioni, il governo centrale fu successivamente costretto a operare una rettifica
arbitraria del catasto fondiario per raggiungere la quota di entrate prevista in prima battuta, scatenando il
malcontento popolare. La situazione si normalizzò nel 1875, quando Tōkyō cercò di venire incontro alle masse
contadine con una diminuzione percentuale della pressione fiscale. Cfr. Caroli, Gatti, op. cit., p. 144-145.
98
proprietà, anche i cittadini di Okinawa furono integrati nel mercato del lavoro nazionale, andando
a costituire un’enorme riserva di uomini e donne pronti a vendere le proprie braccia per sostenere
l’ascesa del capitalismo giapponese e il ripianamento del debito pubblico, in una configurazione
che replicava, su più ampia scala, il giogo premoderno di subordinazione e indebitamento nei
confronti del feudo di Satsuma181.
Prima conseguenza di questa riorganizzazione globale fu la mercificazione della terra, che da
artefatto culturale attorno al quale si organizzava il senso di comunità degli okinawani divenne
semplice moneta di scambio, a cui fece seguito l’appropriazione, da parte dello Stato, di tutti
quei terreni il cui statuto era rimasto ambiguo in seguito all’implementazione della riforma: fu
così che, entro il 1908, centinaia di ettari precedentemente amministrati dalle comunità di
villaggio o lasciati appositamente a disposizione della collettività furono sottoposti a un processo
forzoso di enclosuring, cui scopo ultimo era la conversione a siti per la coltivazione intensiva e
la lavorazione della canna da zucchero. Nonostante l’acquisizione di Taiwan, Tokyo non aveva
infatti rinunciato ai suoi propositi originari: la trasformazione di Okinawa in un avamposto
all’avanguardia dell’industria zuccheriera sarebbe servita ad accelerare la conversione di
migliaia di piccoli proprietari, ormai privati della possibilità di mantenersi autonomi usufruendo
delle terre a uso comune, in produttori e rivenditori dipendenti dagli stabilimenti locali, nonché
ad approfittare al massimo grado del vento di guerra che, già da qualche anno, soffiava sul
Vecchio Continente e sul mondo.
Facendo leva sul governatore Narahara Shigeru, i cui poteri e autonomia decisionale superavano
di gran lunga quelli goduti dagli altri amministratori prefetturali, già nel 1907 il Ministero della
Pesca e dell’Agricoltura riuscì a ottenere l’autorizzazione per la costruzione di uno stabilimento
sperimentale presso il villaggio di Nishihara, provvisto di un parco macchine di ultima
generazione importato dal Regno Unito, in grado di produrre circa cento tonnellate di zucchero
raffinato (bunmitsutō) al giorno, e di un sito per la coltivazione della canna da zucchero secondo
gli standard occidentali, con tanto di impianto di irrigazione, pesticidi e fertilizzanti. Due anni
più tardi, la fabbrica già lavorava a pieno regime, attirandosi le attenzioni di diversi uomini
d’affari del mainland che scalpitavano per essere i primi ad approfittare di questa gallina dalle
uova d’oro. A dirigere i giochi furono tre delle personalità più eminenti della scena okinawana,
181
Cfr. Matsumura, op. cit., pp. 79-81.
99
rispettivamente Hibi Shigeaki, nuovo governatore della prefettura, Asabushi Kanjō,
amministratore della regione di Nakagami, e Taira Hōichi, presidente della Okinawa Kyōritsu
Ginkō: anziché lasciare che fosse la libera concorrenza a decidere il nuovo proprietario dello
zuccherificio, costoro intavolarono trattative ufficiose con la Okinawa Seitō Kabushikigaisha182,
una compagnia specializzata nella produzione di zucchero bianco fondata da poco più di un anno
grazie a capitali provenienti dallo hondo, proponendole l’applicazione della prelazione e di un
prezzo di favore183 in cambio della facoltà di decidere sulle nomine delle sue cariche dirigenziali.
Lo stabilimento di Nishihara nel 1917. Fonte: Sakamaki-Hawley Collection, The University of Hawaii, 1889.
Come c’era da aspettarsi, nel 1911 l’affare fu concluso: Taira chiese il coinvolgimento della Abe
Shōten, società commerciale (sōgo shōsha) 184 del settore alimentare a lui vicina con sede legale
a Yokohama, per soprintendere alla compravendita dello zucchero grezzo, insediando Abe
Kōnosuke della succursale di Naha quale direttore e l’ex governatore Narahara in qualità di
presidente del consiglio di amministrazione. Una volta modificato l’organigramma aziendale
182
Fondata nel 1910 in collaborazione con la Ryūseki Kabushikigaisha, azienda specializzata nel commercio di
petrolio e nella produzione di etanolo, possedeva già uno zuccherificio a Miyakojima e una sede amministrativa a
Naha. Cfr. Tsujihara M., Imamura S. Kūchū shashin wo mochiita senzenki Okinawa ni okeru seitōkōjō to shataku
no haichizu no fukugen in Nihon Enerugī Gakkaishi, vol. 54, Nihon Kenchiku Gakkai Kyūshū Shibu, Fukuoka,
2015.
183
Precisamente, centomila yen da pagarsi in sette anni senza interessi. Cfr. Matsumura, op. cit., p. 122.
184
Società commerciali che, a differenza delle proprie omologhe in altri paesi, non si specializzano in una
selezionata gamma di prodotti ma presentano una linea di distribuzione estremamente diversificata; inoltre, si
occupano non solo dell’intermediazione, ma anche della logistica e delle ricerche di mercato. Grazie alla grande
liquidità di cui dispongono, svolgono infine una funzione simile a quello dei fondi d’investimento. Cfr. Cavalieri R.
et al. Diritto dell'Asia Orientale, Libreria Editrice Cafoscarina, Venezia, 2019.
100
secondo le preferenze di questo triumvirato di liberi cittadini, il complesso di Nishihara aumentò
il proprio volume di produzione raggiungendo le 250 tonnellate al giorno, facendo registrare un
attivo che fu subito reinvestito da Abe per penetrare il mercato taiwanese: con l’acquisizione di
una compagnia giapponese operante nel settore della raffinazione, nel 1912 la Okinawa Seitō
cambiò il proprio nome in Okitai Seitō, aprendo anche un secondo stabilimento nella città di
Kadena (Kadena-chō), ad appena venti chilometri di distanza da Nishihara.
Lo stabilimento di Kadena nel 1917. Fonte: Sakamaki-Hawley Collection, The University of Hawaii, 1889.
A seguire, si venne a creare un vero e proprio monopolio quando la Tainansha 185 , società
specializzata nella produzione dello zucchero con base a Taiwan, decise di espandersi a Okinawa
nel 1917, arrivando ad acquisire la Okitai Seitō con tutti i suoi possedimenti nel giro di soli tre
anni. Tra questi figuravano, oltre ovviamente agli stabilimenti, anche i vasti appezzamenti – circa
quattro chilometri quadrati – di terreno acquistati dalla famiglia reale 186 , corrispondenti ai
distretti (ku) di Kudo e Goe nel villaggio di Yomitan (Yomitan-son), allo scopo di affittarli alle
famiglie contadine e garantirsi così un rifornimento costante di materia prima con cui far lavorare
le fabbriche a pieno regime. Grazie ai canoni d’affitto relativamente bassi, il neonato colosso
185
Fondata da imprenditori taiwanesi nel 1904, il controllo della compagnia e dei suoi quattro stabilimenti passò
nel 1907 alla Suzuki Shōten di Kōbe, rivale della già citata Abe Shōten. Cfr. Tainan Seitō ga Shōwa seitō to naru
made, Taiwan Nichinichi Shimpō, 9 ottobre 1927.
186
In cambio della rinuncia al proprio titolo, al re Shō Tai (1843 – 1901) e alla sua famiglia fu concesso il rango di
kōshaku (marchesi), con l’annessa rendita mensile: quest’ultima non era tuttavia sufficiente a sostenere il loro tenore
di vita, ragion per cui si risolsero a vendere alla Okitai Seitō i propri possedimenti a Yomitan. Cfr. Mukai K.
Okinawa kindai kezaishi – Shihonshugi no hatten to henkyōchi nōgyō, Nihon Keizai Hyōronsha, Tokyo, 1988.
101
dello zucchero riuscì a radunare più di 250 nuclei al suo servizio, sui quali incombevano però
pesanti debiti – per l’acquisto dei fertilizzanti e il noleggio delle attrezzatture – e la sorveglianza
degli ispettori, che si assicuravano che la miglior parte del raccolto fosse destinata alla ditta.
Con l’obiettivo di boicottare la produzione dello zucchero grezzo – che impegnava ancora la
maggior parte della popolazione 187 – sì da costringere sempre più famiglie a trasferirsi sulle
proprietà dell’azienda, la Tainansha fece leva sulle proprie connessioni nelle alte sfere per
convincere l’amministrazione prefetturale a dare più concreto effetto alla Legge per lo sviluppo
dell’industria del bunmitsutō188: continuando l’opera del predecessore, venne quindi estesa e
potenziata la rete ferroviaria che, dietro pressione della Okitai Seitō, era stata costruita nel 1914
per collegare gli impianti di Nakagami con Naha a Sud e il porto di Yomitan (Yomitan-son) a
Nord-Ovest, con la realizzazione di nuove linee intermedie e depositi per lo stoccaggio del
carbone lungo i tratti a lunga percorrenza, esercitando così il pieno controllo su quelle stesse
strade che i piccoli proprietari dovevano percorrere con mezzi propri per smerciare lo zucchero
grezzo nei centri urbani.
A ogni modo, non tutta la borghesia locale era disposta ad accettare di buon grado l’imposizione
di questa stretta monopolistica, il cui sottotesto era l’arricchimento degli investitori del mainland
a spese dei restanti attori economici. In particolare, la fazione d’opposizione raccoltasi attorno
all’industriale Inaka Akira faceva notare che diversi articoli 189 della legge in questione
rimettevano all’arbitrio del governo prefetturale le decisioni concernenti la costruzione e la
modernizzazione degli impianti, nonché la facoltà delle aziende operanti nel settore zuccheriero
di stipulare partnership o atti di fusione, minacciando la libertà d’impresa e l’autonomia di
chiunque non avesse avuto modo di influenzare – attraverso canali non istituzionali, s’intende –
il giudizio del governatore. In questo senso, la Legge per lo sviluppo dell’industria del
bunmitsutō appariva nientemeno che una copia malriuscita delle leggi che a Taiwan e altrove
nell’Impero proibivano ai nativi di costituire e dirigere società per azioni senza la supervisione
Secondo le stime di Ōta Chōfu (vd. nota 190, p. 104), circa 47mila produttori indipendenti. Cfr. Ōta C. Ōta Chōfu
jiki zenshū (jō), Daiichi Shobō, Tokyo, 1993.
188
Zucchero in cui, grazie a un processo di centrifugazione, la melassa viene separata ed eliminata dai cristalli. Cfr.
Bunmitsutō in Kotobanku onrain jiten, Asahi Shimbunsha, Tokyo.
189
In particolare, l’Art. 5 prescriveva che chiunque avesse voluto entrare nel settore zuccheriero creando uno
stabilimento meccanizzato o implementante nuove tecnologie avrebbe prima dovuto ottenere l’autorizzazione del
governatore: si trattava ovviamente di una riforma atta a innalzare un’ulteriore all’entrata per eventuali competitors
della Tainansha. Cfr. Kengian teishutsu riyū, Ryūkyū Shimpō, 4 dicembre 1917.
187
102
dell’autorità giapponese competente in materia, sulla base del principio razzista per il quale le
popolazioni sottomesse dell’Asia Orientale non erano intellettualmente e moralmente in grado
di condurre un’impresa: per Okinawa tornava così a profilarsi l’ombra del colonialismo, cui
prima implicazione sarebbe stata la trasformazione dell’isola in una gigantesca riserva – in
questo caso di zucchero bianco ed etanolo – a uso e consumo del centro.
Fu precisamente in questo momento che le proposte di ispirazione socialista del giornalista Ōta
Chōfu190, a lungo considerato un pericoloso radicale dall’establishment del luogo, acquisirono
forza. Giunti a questo punto, l’unico modo per opporre resistenza alle istanze del governatore e
limitare l’infiltrazione di capitali dalla terraferma senza con ciò condannare l’isola a un perenne
sottosviluppo era puntare il più possibile sull’associazionismo e la cooperazione tra le microrealtà produttive che punteggiavano il paesaggio rurale, in modo da emancipare le masse
contadine dalla necessità del lavoro salariato. Concretamente, Ōta proponeva di muovere oltre
la rigida separazione tra coltivatori e raffinatori, coordinando e collegando tra loro i piccoli
zuccherifici di campagna (sato gōya)191 gestiti da gruppi di famiglie appartenenti allo stesso
distretto (satō gumi) a formare delle fabbriche di media estensione in grado di produrre sia
zucchero grezzo che raffinato, certo in quantità sensibilmente inferiori – in media 40 tonnellate
al dì contro le 400 del complesso di Kadena – rispetto ai grandi stabilimenti della Tainansha, ma
nondimeno in grado razionalizzare velocemente la produzione in modo da evitare un surplus a
fronte delle flessioni periodiche della domanda, ammortizzando così i costi di gestione. A fornire
il supporto finanziario affinché questi progetti si concretassero sarebbe stata la Banca
dell’Agricoltura (Okinawa Nōkō Ginkō), a cui spettava il compito di concedere prestiti a bassi
tassi d’interesse ai satō gumi per l’acquisto collettivo di attrezzature e macchinari agricoli
moderni, impianti di irrigazione, pesticidi e fertilizzanti, oltre che per la realizzazione di opere
Giornalista e attivista politico, al pari di Iha condusse gli studi superiori a Tōkyō grazie a una borsa di studio e
fondò il Ryūkyū Shimpō, il primo quotidiano dell’isola, al suo ritorno nel 1893. Nonostante l’aperto sostegno
all’integrazione nella nazione giapponese, si dimostrò sempre molto critico nei confronti delle politiche di
modernizzazione attuate a Okinawa: in particolare, lo preoccupava l’afflusso di capitali e investitori dallo hondo,
che dalla loro posizione di preminenza avrebbero potuto mettere in ginocchio l’economia locale – come già
avvenuto in Hokkaidō, per esempio. Cfr. Kerr G. H. Okinawa: The History of an Island People, Tuttle Publishing,
North Clarendon, 2018.
191
L’unità fondamentale del satō goya era la capanna dal tetto di paglia (shimegoya) dove si trovavano i mortai e le
presse a trazione animale, con le quali lo zucchero veniva estratto allo stato liquido. Cfr. Satō shimegoya in
Kotobanku onrain jiten, Asahi Shimbunsha, Tokyo.
190
103
di viabilizzazione su piccola scala con cui predisporre un circuito alternativo alle ferrovie
prefetturali, utilizzate in via esclusiva dai convogli della concorrenza.
Tuttavia, le ambizioni di Ōta e compagni si scontrarono presto con la dura realtà del consenso: i
contadini non si dimostrarono granché entusiasti all’idea di dover riorganizzare la produzione
entrando in affari con famiglie con cui, in certi casi, non avevano mai avuto contatti, senza
contare la questione dell’indebitamento con la Banca dell’Agricoltura e della stagnazione della
domanda interno di zucchero grezzo, che già costringeva diversi piccoli produttori a cedere una
porzione della materia prima alla Tainansha per far quadrare i conti.
Invero, il boom del kurozatō192 che investì la prefettura negli anni immediatamente successivi
alla conclusione del Primo Conflitto Mondiale, conseguente alla distruzione delle piantagioni di
barbabietola di tutta Europa e ai cattivi raccolti che avevano funestato Taiwan, fecero passare la
questione in secondo piano spingendo sempre più contadini tra le braccia della Tainansha, che
consolidando la sua posizione monopolistica poté capitalizzare al massimo sulla domanda
internazionale di zucchero, arrivata in breve tempo alle stelle. Accecati da promesse di benessere
senza precedenti, molte famiglie di affittuari sacrificarono porzioni consistenti dei propri terreni
alla coltivazione della canna da zucchero, sottraendo spazio alle altre colture su cui si basava la
loro alimentazione e tempo alle attività che scandivano la vita del villaggio, che si trattasse
dell’allevamento di bestiame o dell’artigianato. Ciononostante, le condizioni di chi lavorava
presso i grandi stabilimenti non registrarono mai un vero miglioramento: i canoni restavano bassi
rispetto alla media nazionale e la materia prima era venduta alla fabbrica a un prezzo nettamente
superiore al passato, ma il ricavato se ne andava per ripagare gli alti interessi dei maedai, che i
contadini puntualmente sottoscrivevano pur di mettersi al riparo dalla volubilità del mercato e
delle condizioni atmosferiche.
Al contrario, al di fuori della parte di Nakagami che cadeva sotto la giurisdizione della Tainansha,
i produttori di zucchero grezzo godevano di maggiore prosperità rispetto alle loro controparti
salariate, complice l’aumento della domanda interna per questo bene. Diversamente da quanto
preventivato da Ōta, fu proprio la preservazione del vecchio sistema dei sato gōya – alcuni dei
quali dotati di attrezzature più moderne ma rimasti strutturalmente invariati – a consentire
192
Nel 1918, un picul (60,5 kg ca.) di zucchero grezzo si vendeva a un prezzo di 9,2 yen, salito successivamente a
22 yen nel 1919 e al massimo storico di 35,89 yen per picul nel 1920. Cfr. Matsumura, op. cit., p. 131.
104
l’emancipazione della classe contadina dal capitale giapponese, grazie a una divisione del lavoro
che nelle avversità precedenti il boom si era fatta inaspettatamente sofisticata: un singolo satō
gumi – ciascuno composto da circa diciassette famiglie – era responsabile per la gestione del
sato gōya e dell’annessa fornace, acquistati collettivamente con il contributo di tutti i membri, e
organizzava i turni sulla base di un calendario deciso in precedenza. Detti turni non prevedevano
soltanto la macinazione e l’estrazione dello zucchero, ma anche la manutenzione delle
attrezzature, la distribuzione del mangime al bestiame e l’assunzione di lavoratori a giornata193
esterni al gumi per i periodi di picco. Quando poi tra aprile e maggio le attività di lavorazione
giungevano temporaneamente al termine per consentire la vendita del prodotto finito, le famiglie
si riunivano per calcolare la quota che ciascuna doveva versare alla cassa comune, sulla base dei
costi operativi sostenuti per lo specifico quantitativo di zucchero prodotto dal nucleo interessato.
Cartolina raffigurante un mercato dello zucchero per le strade di Naha nei primi anni Venti.
Fonte: Naha-shi Rekishi Hakubutsukan, 2015.
Così facendo, ogni famiglia aveva facoltà di programmare in anticipo quanto tempo e risorse
investire nel sato gōya, e di conseguenza quanto zucchero portarsi a casa: nel periodo che va da
luglio a dicembre, questo veniva quindi piazzato sui mercati rionali o venduto agli intermediari,
193
Per assistersi nei periodi di massima attività, corrispondenti alla fase del raccolto e a quella del trasporto ai
mercati, famiglie appartenenti a satō goya diversi stringevano tra di loro contratti di lavoro temporanei – detti
yuimāru – con cui piccoli gruppi di uomini di uomini e donne si prestavano al lavoro nelle proprietà altrui in cambio
di denaro o di manodopera per un momento successivo. Cfr. Tamura H. Ryūkyū kyōsan sonraku no kenkyū, Okinawa
Fūdokisha, Okinawa, 1969.
105
nel qual caso sarebbe quasi sicuramente finito sui grandi mercati commerciali di Naha e del resto
dell’Arcipelago.
Di conseguenza, nonostante i ripetuti sforzi dell’ufficio del governatore per mettere fuori gioco
i satō gumi, la produzione di bunmitsutō non compì mai il salto quantitativo auspicato,
attestandosi stabilmente sulla soglia del 30% della produzione totale di zucchero della prefettura.
Per la maggior parte degli okinawani, la lavorazione dello zucchero grezzo rappresentava infatti
non solo un elemento imprescindibile della propria tradizione e stile di vita, ma anche uno
strumento con cui asserire la propria indipendenza da un sistema compiutamente capitalistico
che, in cambio di aumenti di entrate estemporanei, esponeva i lavoratori alla precarietà di un
settore estremamente vulnerabile ai capricci del mercato, incapace di ridimensionarsi agilmente
sul piano strutturale – se non operando dei tagli al personale, per l’appunto.
Barili di kurozatoō pronti per l’imbarco presso il porto di Naha. Fonte: Naha-shi Rekishi Hakubutsukan, 2015.
In aggiunta al rifiuto di farsi declassare a semplici coltivatori di canna da zucchero, nel corso
degli anni Dieci e nei primi anni Venti, i piccoli produttori residenti nei pressi degli stabilimenti
industriali e degli snodi ferroviari principali si dedicarono al rafforzamento delle strategie
collettive di boicottaggio
194
ai danni della Okitai Seitō/Tainansha, adottando come
provvedimento comune il rifiuto di vendere la materia prima in eccesso all’azienda. Benché in
194
Il primo di questi boicottaggi fu organizzato nel 1916, in risposta ai costi di produzione stabiliti dalla allora Okitai
Seitō per l’estrazione di zucchero grezzo, reputati troppo alti. Cfr. Matsumura, op. cit., p. 137.
106
un primo momento questo avesse comportato maggiori difficoltà economiche per i singoli nuclei
familiari, che rifiutandosi di vendere una parte del raccolto alle fabbriche non avevano modo di
far quadrare i conti a fine mese – poiché non sempre si riusciva a lavorare tutta la canna da
zucchero o a piazzare il prodotto finito sul mercato nella finestra di tempo prevista –, a lungo
andare si rivelò una strategia vincente, nella misura in cui minò la solidità del monopolio e
costrinse la compagnia a rivedere favorevolmente le proprie tariffe pur di smuovere i contadini
dalle loro posizioni.
Nella fattispecie, gli agenti di commercio che si occupavano di acquistare la canna da zucchero
per conto degli stabilimenti calcolavano la somma da corrispondere sottraendo i supposti costi
di lavorazione del kurozatō dal prezzo dello zucchero grezzo sul mercato di Naha, adottando
come valore di riferimento il prezzo toccato nei dieci giorni precedenti la consegna delle
forniture. Ne consegue che, mentre era nell’interesse dell’azienda calcolare suddetti costi al
rialzo, i contadini si battessero per una stima più realistica al ribasso, ma prima che venisse
adottata una strategia comune era stato facile per la Okitai Seitō – e successivamente per la
Tainansha – trovare qualcuno disposto a contrattare, nel caso in cui certe famiglie si fossero
rifiutate di cedere le proprie scorte. Il primo risultato concreto dei boicottaggi fu l’apertura di
tavoli di trattativa tra i colletti bianchi di Nishihara e i satō gumi, allo scopo di raggiungere un
compromesso sul calcolo dei costi di produzione che tanto influivano sulla determinazione della
tariffa finale: il più delle volte, questi si concludevano con l’adozione consensuale di un sistema
di percentuali noto come warimodoshi, per il quale i produttori che avessero accettato di vendere
parte della loro canna da zucchero al prezzo fisso proposto dall’azienda sarebbero stati
ricompensati con un ulteriore incentivo sulla singola unità, proporzionale al quantitativo totale
fornito – per esempio, chi decideva di cedere dieci barili in totale aveva diritto a un ritorno del
10% sul singolo barile, chi ne forniva quindici a un ritorno del 15% a barile, e così via.
Lungi dall’essere diventato una sorta di diritto sindacale acquisito, nondimeno il warimodoshi
rappresentava un utile precedente, ricorrendo al quale industriali e produttori indipendenti
potevano trovare la quadra senza paralizzare il mercato agricolo a tempo indefinito, fermo
restando il fatto che, per smuovere le acque e far sedere i dirigenti al tavolo, i contadini dovevano
anzitutto ricorrere alla protesta o quantomeno alla disobbedienza, ovvero mettere a punto
strategie di boicottaggio sufficientemente articolate e condivise da minacciare le linee di
107
approvvigionamento delle fabbriche, pervenendo di fatto a soluzioni abbastanza eterogenee a
seconda del caso specifico195.
Di fatto, pur con il conforto dei suddetti strumenti di risoluzione delle controversie, le tensioni
tra Tainansha e satō gumi avrebbero continuato a percorrere tutti gli anni Venti e Trenta,
estendendosi dagli agricoltori e lavoratori salariati degli impianti anche a chi non aveva alcun
interesse direttamente connesso alla produzione di zucchero, con deflagrazioni via via più
violente196 che manifestavano l’insofferenza della popolazione civile nei confronti di un governo
centrale dichiaratamente autoritario e militarista, ormai proiettato esclusivamente verso la corsa
agli armamenti.
Veduta dall’alto di un satogumi nei pressi di Naha negli anni Venti. Fonte: Bull Collection, University of the Ryukyus, 2015.
195
Altre soluzioni comprendevano la concessione di una percentuale per picul al raggiungimento di una determinata
quota di fornitura per singolo impianto, o ancora percentuali fisse a barile per chi si fosse impegnato a fornire il
proprio kurozatō in eccesso in esclusiva alla Tainansha per uno, due o tre anni. Cfr. Genryō baishūhō, Ryūkyū
Shimpō, 24 ottobre 1917.
196
In particolare, nei primi anni Trenta il distretto di Kunigami fu protagonista di alcune rivolte di ispirazione
marxista, irradiatesi a partire dal villaggio di Ōgimi dove si era formato un vero e proprio movimento di riforma che
si opponeva allo sfruttamento della regione e alla gestione centralizzata dell’agricoltura. Cfr. Kinjō I. Nōson no
keizai kōsei keikaku ni tsuite in Okinawa shiryō henshūsho kiyō, vol. 6, Okinawa Shiryō Henshūsho, Naha, 1981.
108
Tra gli avvenimenti all’origine del malcontento, è da annoverarsi sicuramente il crollo della
borsa di Tokyo nel marzo 1920, che aveva portato sull’orlo del fallimento anche le solidissime
banche coloniali di Taiwan e Corea197 determinando una flessione di oltre il 70% del prezzo
dello zucchero grezzo, rappresentante la punta di diamante dell’export okinawano. Com’era
prevedibile, il colpo di frusta sull’economia dell’isola fu immediato, dal momento che essa non
possedeva altri asset all’infuori della sua industria zuccheriera a due velocità, incapace di
ridirezionare le iniezioni di capitale su altri settori da un lato e di rendersi competitiva sullo
scenario internazionale dall’altro – a causa anche della concorrenza interna rappresentata dai
territori occupati, forti di un’agricoltura altamente meccanizzata. La crisi era tale per cui, nelle
cronache dell’epoca, Okinawa veniva spesso descritta con la perifrasi di “inferno delle palme”
(sotetsu no jigoku), in riferimento ai frequenti casi di morte per avvelenamento in seguito
all’ingestione del frutto della pianta, segno della pressoché totale mancanza di generi alimentari
e di conforto.
Appurato che la prefettura non sarebbe riuscita a risollevarsi dalla miseria contando solo sul
proprio tessuto imprenditoriale e rete bancaria, nel 1924 il governatore Kamei Mitsumasa fu
costretto a richiedere l’intervento diretto del Ministero delle Finanze per l’erogazione di fondi
d’emergenza e per la costituzione di un comitato ad hoc198, incaricato di elaborare strategie di
pianificazione economica e di monitorare l’andamento delle stesse. Anziché chiedere a gran voce
la concessione di maggiore autonomia dai capitali del mainland, con la creazione di
compartecipate statali in nuovi settori strategici che, sulla falsariga di quanto accaduto col primo
impianto di Nishihara, avrebbero permesso a Okinawa di diversificare la produzione e il mercato
del lavoro, la prima proposta di legge elaborata in seno al comitato chiedeva alla Dieta
l’imposizione di un regime fiscale di ordine coloniale, che prevedesse il controllo degli
investimenti e il ritorno degli avanzi di bilancio – che sino ad allora erano stati versati
regolarmente a Tokyo – dal governo centrale a quello prefetturale, di modo che quest’ultimo
potesse sostituirsi definitivamente agli imprenditori locali nel guidare lo sviluppo della regione.
All’origine del crollo delle istituzioni finanziare del paese v’era l’eccessiva superficialità con cui i prestiti erano
stati accordati anche a clienti senza reali garanzie: la Okinawa Ginkō non fece eccezione e anch’essa si trovò
prossima alla bancarotta a causa dell’insolvenza e dei crediti deteriorati. Cfr. Aldcroft D. H. From Versailles to Wall
Street: 1919 – 1929, University of California Press, Oakland, 1992.
198
In giapponese Okinawaken Keizai Shinkōkai, era un comitato bipartisan di estrazione civile, composto sia da
ufficiali locali che da funzionari ministeriali di Tōkyō, la cui prima seduta si tenne nel dicembre 1914. Cfr.
Matsumura, op. cit., p. 150.
197
109
Inoltre, in continuità con gli errori del passato, restava ferma la volontà di rafforzare il monopolio
della Tainansha, operando una ristrutturazione radicale dell’industria zuccheriera tale da
determinare la transizione definitiva alla produzione di bunmitsutō, nell’ingenua convinzione
che la crisi attuale fosse stata innescata dall’egoismo e dall’ottusità dei piccoli produttori, che
con il loro rifiuto di accondiscendere alle direttive della compagnia avevano perso l’occasione
di modernizzarsi, condannando l’intero panorama produttivo all’arretratezza.
Nonostante l’accorato appello del governatore, gli articoli della Legge per il recupero di
Okinawa 199 che implicavano l’adozione di forme di controllo e gestione più appropriate per
l’amministrazione di una colonia che non di una prefettura facente parte della madrepatria furono
perlopiù ignorati dalla Dieta. Al di là del limite giuridico rappresentato dal diritto costituzionale
e internazionale, infatti, il governo centrale non aveva alcuna intenzione di rivedere la sua
politica nei territori occupati per concedere a una piccola isola il privilegio di farsi strada in un
settore i cui investimenti erano concentrati altrove: Taiwan, dove ben prima del tracollo
economico gli imprenditori giapponesi avevano saputo creare le condizioni ottimali per
un’agricoltura intensiva e meccanizzata, avrebbe continuato a fungere da zuccherificio
dell’Impero, mentre a Okinawa ci si sarebbe dovuti accontentare di procedere con tattiche di
persuasione, dal momento che la via della coercizione non era legalmente praticabile. Ciò detto,
è pur vero che alla fine Kamei riuscì a strappare l’approvazione dei fondi richiesti, i quali furono
puntualmente devoluti al rafforzamento della posizione della Tainansha che, approfittando delle
condizioni miserevoli in cui versava la popolazione, riuscì a portare dalla sua parte – e quindi
nei propri campi – sempre più famiglie. In altre parole, se da un lato Tokyo aveva confutato in
sede istituzionale la posizione di quanti invocavano il commissariamento para-coloniale,
dall’altro aveva lasciato comunque intendere che i sudditi okinawani, per quanto giapponesi
dinanzi alla legge, non meritavano il grado di autonomia normalmente garantito dal loro status
e che l’assistenzialismo era l’unica soluzione per colmare il divario – anzitutto culturale – col
resto della nazione. Da ciò si evince come non solo l’opinione pubblica ma anche la classe
dirigente si fossero lasciate condizionare dalla narrativa pietistica dei quotidiani nazionali e dei
servitori dello Stato di stanza a Okinawa, che puntando sulla descrizione patetica dei poveri
199
Il primo quotidiano nazionale a dislocare degli inviati in loco fu lo Ōsaka Mainichi Shimbun, la cui narrativa
razzista ed essenzialissante si impose quale modello dominante nella cronaca della crisi okinawana. Cfr. Shimoda
M. Ryūkyū yo, doko e iku, Ōsaka Mainichi Shimbun, 1925.
110
isolani, dipinti come esseri primitivi dediti alle danze, al canto e all’alcol, per loro natura
refrattari al lavoro fisico e intellettuale, avevano tentato di discolpare se stessi e i profittatori
provenuti dal mainland, le cui disastrose scelte di policy avevano di fatto impedito alla prefettura
di sollevarsi dal fondo della classifica.
Cosa ancora più grave, questo atteggiamento paternalista misto a sospetto avrebbe continuato a
informare i rapporti tra Stato e cittadini fino al tragico epilogo del Secondo Conflitto Mondiale,
in un momento in cui Okinawa sarebbe tornata al centro dell’attenzione per il suo valore
strategico. In tempo di guerra, confrontati dall’impossibilità di aumentare l’output di zucchero
raffinato oltre la soglia critica del 37% della produzione totale così come ordinato dal Quartier
Generale dello SCAP, gli ufficiali dell’esercito giapponese non esitarono ad additare i piccoli
produttori indipendenti – il cui kurozatō era ormai quasi interamente destinato ai depositi militari
sparsi per l’Arcipelago – quali unici colpevoli, adducendo come motivazione la natura
intimamente indolente e infida dei nativi. Non è perciò difficile comprendere la totale
noncuranza con cui le truppe imperiali fecero scempio delle colture e degli insediamenti
dell’isola, allo scopo di accomodare i propri uomini e realizzare in fretta e furia una linea di
difesa in grado di resistere allo sbarco degli Alleati: gli okinawani erano troppo pigri per rendersi
utili allo sforzo bellico, quindi era in potere di chi combatteva requisire spazi e risorse per
garantire la difesa della regione; ancora, se effettivamente costoro si dedicavano a qualche
attività, era lecito supporre che fosse per un loro egoistico tornaconto o, peggio, per praticare lo
spionaggio. Non sarebbe dunque un errore affermare che la distruzione sofferta dal paesaggio di
Okinawa è da imputarsi tanto alle opere logistiche e di fortificazione approntate dai difensori
prima della battaglia, quanto ai bombardamenti e agli sbarchi che, in un secondo momento,
accompagnarono gli attaccanti nel loro tentativo di guadagnare l’entroterra.
3.3. Normalizzare l’emergenza. Conflitti di interesse e passi falsi del piano di sviluppo agricolo
dell’USCAR
Trovatisi di fronte a un paesaggio rurale che, nel giro di pochi mesi – o pochi anni, se si vuole
tener conto degli interventi a opera dell’esercito imperiale sovra descritti –, aveva perduto i suoi
connotati, trasformandosi in una landa desolata con pochi appezzamenti fertili pronti a essere
coltivati, la prima preoccupazione degli occupanti fu quella di far fruttare il più possibile la terra
111
arabile rimasta allo scopo di sfamare la pletora di sfollati e rimpatriati che di giorno in giorno
aumentava sull’isola, consumando progressivamente le scorte di razioni messe a disposizione
dei civili conservate nel deposito di Tengan (Uruma-shi).
Perduta la sovrastruttura burocratica degli uffici governativi assieme con i documenti da questi
custoditi, che all’apice del processo di centralizzazione avevano permesso alla prefettura di
conoscere – e di conseguenza tassare – con precisione le attività economiche svolte dai singoli
nuclei familiari, fossero esse connesse alla produzione di zucchero grezzo o meno, l’esercito
statunitense non ebbe altra scelta che adottare a sua volta un prototipo di suddivisione
amministrativa con cui supplire alla perdita di punti di riferimento e disporre una redistribuzione
provvisoria delle terre per far fronte all’emergenza alimentare. Tuttavia, i nove distretti200 istituiti
a seguito dell’insediamento delle forze di occupazione non erano esattamente sovrapponibili alle
municipalità (shi) individuate dal sistema precedentemente in vigore, né, a ogni buon conto,
sarebbe stato possibile fare diversamente, dal momento che le mappe recanti le informazioni
pertinenti erano andate distrutte nel corso degli scontri, vanificando in partenza ogni tentativo di
ricostruzione filologicamente accurato: ne consegue che i sinistrati il cui villaggio fosse stato
irraggiungibile o raso al suolo venissero assegnati provvisoriamente a coltivare lotti di terra di
cui non avevano conoscenza diretta, spesso entrando in conflitto con chi magari quello stesso
terreno lo possedeva, ma non aveva alcun modo di provarlo.
A peggiorare le cose – dal punto di vista del consenso, quantomeno –, per consentire un equo
accesso al cibo il governo militare aveva prescritto non solo la coltivazione, ma anche la
redistribuzione del raccolto su base comune, affidando quest’ultima alla giurisdizione dei
distretti, ma la disobbedienza era tale per cui, da un lato, chi aveva avuto la fortuna di ritornare
sulla terra di sua proprietà si rifiutava di consegnare i frutti del proprio lavoro agli ispettori
distrettuali, mentre chi doveva lavorare la terra altrui senza compenso non si faceva scrupolo a
sottrarre ciò di cui aveva bisogno per integrare le misere razioni. Alla luce del malcontento
generale generato da questo provvedimento, che di fatto quasi nessuno si impegnava a rispettare,
i vertici dell’USMGR 201 tornarono sui propri passi, optando per una graduale e rinnovata
200
Nel complesso, oltre ai sette distretti sede di altrettanti campi profughi (vd. nota 82 in Capitolo 2. Edilizia civile
e urbanizzazione, p. 54), si contavano altre due divisioni amministrative, ovvero Hentona – nell’estremo Nord – e
quello corrispondente all’intera estensione di Iejima, distante una ventina di chilometri dalla penisola di Motobu.
Cfr. Fisch, op. cit., p. 58.
201
Vd. nota 81 in Capitolo 2. Edilizia civile e urbanizzazione, p. 54.
112
centralizzazione dell’agricoltura che avrebbe garantito un utilizzo più razionale di attrezzi e
superfici, già di per sé scarsi: nel marzo 1946 vide così la luce lo Okinawan Department of
Agriculture, il cui personale, composto da ufficiali agronomi, non sarebbe più stato incaricato di
effettuare le operazioni in prima persona, quanto di insegnare agli okinawani le tecniche di
coltivazione appropriate e di sincerarsi che queste dessero i risultati sperati.
In breve tempo, il coinvolgimento diretto della popolazione civile in qualità di attore del processo
di innovazione agricola e non più di semplice spettatore portò a una responsabilizzazione delle
stessa, sicché gli isolani non solo iniziarono a fidarsi degli esperti ma anche a collaborare con
loro per estenderne la sfera di influenza. È con questo spirito che, su incoraggiamento dello stesso
Dipartimento, iniziarono a moltiplicarsi piccole associazioni locali che, senza scopo di lucro, si
proponevano di ricostruire la rete sociale e di mutuo soccorso (muē) caratterizzante le comunità
di villaggio (mura) prima della guerra, diffondendo al contempo le conoscenze apprese dai
militari; successivamente, nel giugno dello stesso anno, dette cooperative furono riconosciute
ufficialmente ed unificate nella Central Okinawan Agricultural Association, le cui mansioni
comprendevano la distribuzione dei prodotti ortofrutticoli sull’intero territorio dell’isola, la
fabbricazione e il noleggio di macchinari e utensili agricoli, l’organizzazione della logistica e dei
progetti di riqualificazione del terreno – questi ultimi ancora su scala limitata, vista la riluttanza
del Quartier Generale a concedere spazio prezioso per le installazioni militari.
In questa fase, ancora critica sotto il profilo della sicurezza alimentare a causa del continuo
aumento demografico202, gli sforzi del Dipartimento e delle associazioni si concentrarono di
comune accordo sulla coltivazione della patata dolce endemica, che tornò così a rappresentare la
coltura principale dell’isola con il 35% di superficie arabile occupata. Diverso il discorso per il
riso, dal momento che le ostilità avevano compromesso la maggior parte dei sistemi di
irrigazione che garantivano il corretto funzionamento delle risaie, rendendo necessari interventi
preliminari di ristrutturazione e ripristino che andavano al di là delle competenze degli enti in
questione: complice il diverso ordine di priorità osservato dalla tabella di marcia del Corpo degli
Ingegneri, la coltivazione del riso sarebbe pertanto proceduta a rilento fino alla metà degli anni
L’aumento demografico era determinato sia dai rimpatri che dalle nuove nascite: basti pensare che, secondo fonti
militari, già nel 1951 si contavano 37 famiglie per chilometro quadrato, poco al di sotto dei livelli prebellici – 38
famiglie nel 1937. Cfr. McCune S. Geographical Aspects of Agricultural Changes in the Ryukyu Islands, University
Press of Florida, Gainesville, 1989.
202
113
Cinquanta, quando, pur senza raggiungere l’autosufficienza, avrebbe perlomeno riguadagnato i
livelli prebellici.
Contadina okinawana intenta a mondare il riso. Fonte: Department of Defense, 1988.
Altra nota dolente era rappresentata dalla produzione di orzo, miglio e soia, cereali e legumi
fondamentali della dieta okinawana che però, già durante il tardo periodo Meiji, la prefettura era
stata costretta a importare vista la preminenza assunta dall’industria zuccheriera nell’economia
locale. Con un’inversione di rotta rispetto al predecessore, il governo militare ordinò una drastica
riduzione 203 della superficie coltivata a canna da zucchero allo scopo di reintrodurre queste
colture204, in aggiunta a ortaggi verdi come spinaci, scalogno, cavolo cinese e cetrioli, il cui
consumo sarebbe stato destinato anche ai capi di bestiame, tornati timidamente a popolare l’isola
grazie a una massiccia importazione dagli Stati Uniti – in particolare a opera di associazioni
benefiche205.
203
Gli ordini del Quartier Generale erano di coltivare a canna da zucchero soltanto la superficie strettamente
necessaria a soddisfare le necessità alimentari dei civili: secondo questo parametro, sotto il dominio giapponese
Okinawa era arrivata a produrre fino a 9 volte il fabbisogno di zucchero dei suoi abitanti. Cfr. Fisch, op. cit., p. 125.
204
Particolare enfasi su posta sulla necessità di coltivare fagioli di soia: non solo erano ricchi di grassi e proteine –
elementi di cui la dieta degli okinawani aveva disperatamente bisogno –, ma contribuivano anche ad arricchire il
suolo di azoto, che ne aumentava la fertilità permettendo di risparmiare sui fertilizzanti. Cfr. Fisch, op. cit., p. 124.
205
Nel 1946, la United Okinawan Association of Hawaii riuscì a raccogliere fondi per 47mila dollari, con cui furono
acquistati e spediti a Okinawa 50 maiali e 500 scrofe. Nell’estate dello stesso anno, il governo americano importò
altri 45 maiali, 33 vacche e 1100 polli. Cfr. Adaniya R. Uchinanchu: A History of Okinawans in Hawaii, University
of Hawaii Press, Manoa, 2009.
114
Sempre nell’ottica di integrare con una maggiore quantità di proteine la dieta oltremodo
essenziale dei locali sono da interpretarsi i tentativi del governo militare di rimettere in piedi il
settore della pesca, il più colpito dagli attacchi aerei che avevano preceduto l’invasione via mare:
delle cento imbarcazioni a motore, introdotte nei primi anni Dieci dal Ministero della Pesca e
dell’Agricoltura di Tokyo per incoraggiare la pesca al largo, in un timido tentativo di
ammodernare la flotta locale e favorire la nascita di un’industria ittica degna di questo nome,
nessuna era sopravvissuta ai bombardamenti americani, affondate per tema che fossero utilizzate
per attacchi suicidi o, viceversa, per mettere in salvo gli ufficiali imperiali. La stessa sorte era
toccata anche a circa il 70% delle barche a remi – tradizionali e non – che i nativi impiegavano
per la pesca in acque poco profonde: complice il sospetto che, nelle fasi conclusive della battaglia,
queste potessero eludere la sorveglianza della Marina e infiltrare spie nemiche nel territorio sotto
il controllo alleato, la loro manutenzione fu proibita fino a nuovo ordine, condannando anche le
imbarcazioni in buono stato a marcire fino al novembre 1945, quando fu autorizzata la ripresa
della pesca di sussistenza al di qua del confine naturale delimitato dalla barriera corallina.
Nello stesso mese, la Marina acconsentì al dislocamento di una cinquantina di mezzi anfibi da
sbarco ricondizionati per uso civile, incaricandosi di ridare corpo all’ormai inesistente flotta
ryukyuana a partire dal porto militare di Toguchi (Motobu-chō), che presto divenne l’hub
centrale delle attività connesse alla pesca: qui furono costruiti i primi magazzini frigoriferi,
impianti di refrigerazione ed essiccatoi, mentre diverse motosiluranti da pattugliamento furono
a loro volta riconvertite e provviste di strumentazione per la pesca a strascico. Sulla falsariga di
quanto accaduto per le politiche agricole, anche in questo caso si decise di istituire un
dipartimento apposito: lo Okinawan Department of Fisheries, con base a Ishikawa (Ishikawashi), iniziò a essere operativo dal marzo 1946, con l’incarico di soprintendere alla distribuzione
delle attrezzature e degli esplosivi – per la pesca di profondità – su tutto il territorio, affiancato
dalla Central Okinawan Fisheries Association che, sorvegliando l’operato dei consorzi di
pescatori affiliati, si occupava dell’approvazione delle licenze e dell’immatricolazione delle
imbarcazioni. Grazie agli sforzi di centralizzazione a opera dei militari, questa pur
scompaginata 206 flotta si dimostrò all’altezza delle aspettative, portando a un incremento
206
Nel 1950, essa contava 65 pescherecci e 2000 canoe di nuova costruzione, 338 veicoli anfibi da sbarco
ricondizionati e 24 LCVP (Landing Craft, Vehicle Personnel) di piccole dimensioni ricondizionati. Cfr. Fisch, op.
cit., pp. 135-136.
115
sostanziale del volume del pescato 207 ; invero, tale successo era da imputarsi non solo alla
dedizione del Corpo degli Ingegneri nel rimettere a nuovo dotazioni militari dismesse, ma anche
all’operato delle associazioni locali che, utilizzando i materiali e le indicazioni forniti da
Ishikawa, avevano continuato a costruire impianti di refrigerazione lungo tutta la linea di costa
per consentire la conservazione del prodotto.
Nave militare ricondizionata per la pesca al tonno, dotata di impianto di refrigerazione interno. Fonte: Department of Defense, 1988.
In questo caso, il Quartier Generale non mancò di intuire le potenzialità offerte dal settore, che
appariva ormai pronto al grande balzo in avanti verso lo sfruttamento commerciale: allo scopo
di eliminare l’ultimo ostacolo alla modernizzazione dell’industria ittica, rappresentato dalla
mentalità retriva degli okinawani – che, come abbiamo visto, percepivano la pesca come
un’attività puramente accessoria –, furono invitati esperti giapponesi dal mainland con l’incarico
di insegnare ai nativi come gestire un’azienda in maniera competitiva, nonché come manovrare
le più recenti imbarcazioni per la pesca al largo, acquistate all’uopo dal governo militare.
Risultato di questo programma di “rieducazione” fu la nascita della Ryukyuan Fisheries
Company, fondata nel 1951 grazie a capitali raccolti collettivamente dalle cooperative locali: gli
stessi azionisti ne costituivano gli impiegati e poteva contare su impianti di refrigerazione
Dalle circa 205 tonnellate di luglio 1946 – corrispondente all’inizio delle operazioni delle prime imbarcazioni
ricondizionate –, si arrivò a registrare 782 tonnellate nello stesso mese del 1949. Cfr. Fisch, op. cit., p. 136.
207
116
all’avanguardia, oltre a piattaforme fisse per la pesca al largo che affiancavano le normali
operazioni della flotta.
In linea con le previsioni di bilancio, l’azienda riuscì in pochi anni a imporsi come partner
irrinunciabile delle compagnie omologhe dello hondo, incoraggiando diversi piccoli
imprenditori a investire in azioni o a mettersi in proprio. Tuttavia, alla crescita del peso
dell’industria ittica nell’economia dell’isola non corrispose un aumento di domanda di forza
lavoro altrettanto eclatante, nella misura in cui il personale richiesto sia per ruoli operativi che
dirigenziali era estremamente ridotto dato il grado di meccanizzazione: paradossalmente, la
capacità del settore di mantenersi competitivo e di provvedere sollievo alle martoriate finanze
pubbliche era di fatto vincolata alla necessità di mantenere al minimo i costi variabili relativi alla
manodopera, in quanto gli ingenti costi fissi di manutenzione e riparazione vincolavano la
possibilità delle aziende di espandersi oltre le dimensioni attuali.
D’altro canto, mentre la pesca compiva passi da gigante verso la modernità, Okinawa si trovava
ancora infinitamente lontana dal raggiungimento degli obiettivi di crescita quinquennali che, in
maniera forse troppo ottimistica, il Generale MacArthur aveva fissato per l’ex prefettura al
principio del 1948. Nonostante l’impegno profuso per aumentare il numero di animali da soma
e di bovini da latte e da carne, la parziale inadeguatezza delle tecniche di coltivazione intensiva
applicate dagli esperti statunitensi alla conformazione e alle caratteristiche fisico-biologiche del
territorio aveva rallentato notevolmente il processo di ripresa, al quale si sovrapponevano inoltre
gli interessi particolaristici degli ufficiali in capo ai singoli distretti, che con campanilismo si
ostinavano a ignorare le richieste del Quartier Generale di cooperare per una maggiore
integrazione dei piani di sviluppo rurale, nel timore che ciò avrebbe distratto uomini e risorse
preziosi dalle attività nelle basi di propria competenza o, non da ultimo, costretto le stesse a
cedere parte del proprio perimetro per far spazio a campi coltivati. A seguito di ripetute resistenze,
l’Esercito optò infine per una revisione comprensiva del sistema dei distretti, lasciando da un
lato intatta la suddivisione amministrativa vigente ma rimuovendo dall’altro gli ufficiali
ostruzionisti: per evitare che ciò potesse ripetersi, da allora in avanti l’implementazione delle
politiche agricole sarebbe stata una responsabilità esclusiva del Dipartimento dell’Agricoltura,
che a prescindere delle preferenze degli amministratori locali avrebbe avuto facoltà di dare inizio
a progetti su vasta scala senza aspettare il loro nullaosta.
117
Tuttavia, ciò non eliminava il problema della scarsità di personale specializzato disponibile per
operazioni di miglioramento agricolo, dal momento che, come abbiamo visto, la maggior parte
dei generi era destinata dai propri superiori a ben altre attività, se non assegnata direttamente a
missioni in altri contingenti dello scenario estremorientale. Preso atto della stagnazione
imperante a Okinawa, il Sottosegretario all’Esercito degli Stati Uniti Tracy S. Voorhees si risolse
alfine a chiedere l’invio di una task force altamente specializzata che, in contemporanea con
l’analoga Missione Nold, avrebbe avuto il compito di condurre sopralluoghi e analisi allo scopo
di appurare lo stato di avanzamento dell’agricoltura e di elaborare proposte concrete con cui
facilitare l’uscita dall’impasse. Guidata dall’agroeconomista Raymond E. Vickery e composta
quasi esclusivamente da addetti ai lavori di estrazione civile, la commissione iniziò le sue
verifiche nel mese di settembre del 1949, accorgendosi immediatamente dello «stato
particolarmente deplorevole» in cui versava il settore primario e con esso chi vi era impiegato –
ovvero l’intera popolazione indigena. Com’era lecito aspettarsi, il rapporto pubblicato da
Vickery e colleghi a ispezioni concluse non conteneva nulla di cui il Quartier Generale non fosse
già a conoscenza, dal momento che la questione centrale rimaneva l’impossibilità di realizzare
il pieno potenziale della regione fintantoché le basi avessero continuato a occuparne più di un
quinto della terra arabile, impedendo agli abitanti di ricostruire la filiera che, prima dell’inizio
della guerra, lasciava intravvedere una pur flebile possibilità di autonomia fondata
sull’applicazione di conoscenze consuetudinarie. Le riforme più impellenti erano perciò
anzitutto di carattere amministrativo, riassunte dal rapporto in questione sotto forma di nove
punti fondamentali:
1. Istituire un governo civile centrale, l’imitando l’autonomia degli organi di autogoverno
locali208;
2. Riorganizzare il governo militare in modo da provvedere una controparte istituzionale
per ciascuno degli uffici governativi che avrebbero visto la luce con la nascita del
suddetto governo civile – inclusa una burocrazia competente;
208
Ci si riferisce in questo caso alle cooperative agricole e alle altre associazioni di liberi cittadini (n.d.r.).
118
3. Rivalutare lo yen ryukyuano 209 aprendo canali commerciali con il Giappone e altre
nazioni del mondo;
4. Aumentare la quota di proprietà terriera sotto il controllo diretto dei ryukyuani,
provvedendo tutele legali atte a prevenire lo sfratto o canoni d’affitto troppo alti;
5. Rivedere la regola del miglio (one mile limit)210, che vieta ai locali di costruire e coltivare
entro un miglio dagli alloggi dei militari americani;
6. Organizzare un sistema di emigrazione controllato e sovvenzionato, su base volontaria,
per trasferire parte degli abitanti al di fuori delle Ryūkyū;
7. Istituire una società finanziaria per la ricostruzione (reconstruction finance corporation);
8. Istituire un istituto di credito per l’agricoltura (farm credit administration);
9. Rivedere il sistema di distribuzione delle scorte di cibo importate via nave nell’arcipelago
e cambiare i componenti della razione standard, in sostituzione della razione provvisoria
(tentative ration) che dal 1945 è rimasta invariata.211
Nel complesso, tali proposte furono accolte positivamente dai piani alti dell’Esercito, e con
ancora maggior entusiasmo da chi credeva che i tempi fossero maturi per una maggiore
partecipazione dei cittadini alla vita politica: in primo luogo, la creazione di un governo civile
centrale, passando per libere elezioni con cui scegliere i propri rappresentanti, avrebbe
contribuito a ridurre il divario culturale con il resto del Giappone, dove già si erano svolte le
prime elezioni democratiche 212 dalla fine della guerra e il programma di rieducazione civica
messo a punto dallo SCAP iniziava a erodere le incrostazioni ideologiche del tennōsei
fashizumu 213 , soprattutto per quanto concerneva l’uguaglianza di genere e la libertà di
Valuta provvisoria introdotta durante l’occupazione per prevenire l’inflazione e favorire un ritorno graduale
all’economia monetaria, fu utilizzata da civili e militari fino al 1958, quando fu definitivamente sostituita dal dollaro
americano. Cfr, B-en kara doru e hōtei tsūka no kirikae, Okinawa Prefectural Archives, 16 settembre 1958.
210
La ratio alla base di questo provvedimento era di tenere le zanzare – potenzialmente infette – alla larga dagli
alloggi militari, dal momento che si stimava che il raggio d’azione di questi insetti fosse appunto di un miglio
americano (1,609 km). Si trattava in realtà di un pretesto, dal momento che le larve potevano essere facilmente
trasportate dalla pioggia vicino alle basi. Cfr. Chief of Public Safety Section, MG Directive No.3, sub: Building
Permits, 18 gennaio 1949.
211
Cfr. Fisch, op. cit., p. 128. Trad. mia.
212
Le prime elezioni generali dalla fine del conflitto si tennero il 10 aprile 1946, aperte per la prima volta anche alle
donne. Il risultato delle consultazioni diede vita al primo dei due governi guidati da Yoshida Shigeru, del Partito
Liberale (Jiyūtō). Cfr. Caroli, Gatti, op. cit., pp. 222-223213
L’ideologia fascista di matrice giapponese, imperniata sulla figura dell’imperatore (tennō) quale garante della
coesione nazionale e della supremazia del popolo Yamato in Asia. Tuttavia, il dibattito storiografico sull’opportunità
del termine fashizumu – peraltro attribuito da studi posteriori e non dagli stessi ideologi nipponici – è ancora aperto:
da molti studiosi è infatti ritenuto improprio in quanto, a differenza di quanto verificatosi in Italia e Germania, lo
statalismo (kokka shugi) di periodo Shōwa non dissolse gli altri schieramenti politici né pose a capo della gerarchia
209
119
espressione e di pensiero; in secondo luogo, ciò avrebbe consentito una più netta separazione di
prerogative e competenze, in modo da evitare – almeno in linea teorica – conflitti di interesse da
parte di chi, trovandosi a ricoprire un incarico militare dovendo al contempo soprintendere agli
affari civili, finiva spesso per scontentare sia l’una che l’altra parte, rallentando scientemente il
processo decisionale pur di evitare di prendere provvedimenti impopolari; da ultimo, detto
governo civile avrebbe costituito un utile catalizzatore per il malcontento e le proteste popolari,
nella misura in cui i rappresentanti eletti sarebbero stati direttamente responsabili per i loro
fallimenti, esponendo al fuoco delle critiche la classe politica locale in luogo della gerarchia
militare americana.
A ben guardare, anche l’ipotesi di organizzare un sistema di espatri volontari non era così
peregrina: occorre ricordarsi infatti che i ryukyuani erano stati i protagonisti dei flussi
migratori214 dal Giappone che, dalla fine del XIX secolo, avevano interessato in particolar modo
gli Stati Uniti e l’America Latina, arrivando a costituire comunità numerose e ben radicate che
avevano continuato a crescere al riparo dai grandi sconvolgimenti della prima metà del
Novecento. A differenza di quanti, per ordine delle autorità giapponesi o perché costretti dalle
proprie ristrettezze economiche, avevano dovuto cercare fortuna nei territori occupati
dall’Impero nel Sud-Est Asiatico, subendo una duplice discriminazione da parte dei loro
“connazionali” – dei cui privilegi non potevano partecipare – e dei colonizzati – ai quali pur
erano accomunati sul piano dello sfruttamento e dell’ostracismo sociale –, coloro che si erano
insediati nelle Americhe e in Europa avevano avuto modo di costruirsi una nuova identità, scevra
del senso di inferiorità di sudditi di seconda classe che aveva caratterizzato i processi identitari
dello state building dal periodo Meiji in poi. Se si considera inoltre che diverse migliaia di
residenti non avevano semplicemente avuto altra scelta che ritornare a Okinawa per sfuggire alle
persecuzioni nelle ex-colonie, e che altrettanti – se non di più – che erano rimasti avevano
perduto i propri riferimenti comunitari a causa del conflitto, l’idea di ricominciare daccapo in
statale una figura dittatoriale, depositaria del potere assoluto. Cfr. Gatti F. Il fascismo giapponese, Libreria Editrice
Cafoscarina, Venezia, 1997.
214
I primi immigrati ryukyuani giunsero nelle Hawaii e in Brasile negli anni Dieci, costituendo comunità che
crescevano al ritmo di circa cinquecento persone l’anno. Il fenomeno si intensificò in seguito alla Prima Guerra
Mondiale, quando il Giappone ottenne un mandato sui protettorati tedeschi nel Pacifico espugnati per conto
dell’Intesa: a partire dagli anni Venti, sempre più ryukyuani decisero quindi di cercare fortuna nelle isole Marianne,
nelle isole Marshall, in Micronesia e a Palau. Cfr. Matsumoto S. Okinawa Migrants to Hawaii in Hawaiian Journal
of History, vol. 16, Hawaiian Historical Society, Honolulu, 1982.
120
terra straniera doveva risultare certo più allettante che continuare la propria lotta quotidiana per
la sopravvivenza in una patria trasfigurata, teatro di tante atrocità e sofferenze.
Ciò detto, anche il Rapporto Vickery sarebbe caduto vittima della lentezza e delle complesse
procedure della burocrazia di Washington, ragion per cui, nonostante l’urgenza con cui si
raccomandava di dare effetto alle proposte, alcune di queste avrebbero richiesto qualche anno –
più precisamente tre per la fondazione dell’USCAR – per essere approvate e concretarsi, mentre
altre – come il sistema degli espatri, per esempio – non avrebbero mai visto la luce. Tra quelle
andate a buon fine, le riforme a beneficiare delle tempistiche più celeri furono quelle di ordine
economico: nel 1950 fu istituito il Ryukyuan Reconstruction Finance Fund, dal quale i piccoli
imprenditori locali – agricoltori in testa – avrebbero potuto ottenere finanziamenti a un tasso
conveniente per acquistare fertilizzanti, sostituire attrezzature e assumere nuovo personale, in
contemporanea con la fondazione della Ryukyuan Food and Agricultural Organization, il primo
ufficio pubblico che, anticipando la formazione del suddetto governo civile, avrebbe avuto il
compito di favorire la coesione politica dell’isola partendo dall’uniformazione dei piani di
innovazione agricola, sì da preparare il terreno per la transizione a un sistema di potere
centralizzato, prevista da lì a pochi anni: fu proprio questo ufficio a dare il via a un primo progetto
per il miglioramento e l’ampliamento dei sistemi di irrigazione per mezzo di dighe e canali, che
nel giro di un paio d’anni portò a un incremento del 5% della superficie coltivabile a riso,
indispensabile per ridurre la dipendenza dell’isola dalle importazioni di questo cereale – che
doveva ormai essere acquistato anche dalla vicina Thailandia e dal Myanmar.
Viceversa, una raccomandazione del Rapporto la cui applicazione pratica si rivelò più
difficoltosa del previsto riguardava l’utilizzo dei concimi naturali, di difficile reperibilità a causa
dei pochi animali da fattoria presenti. Dal momento che, anche volendo importare altri capi di
bestiame da fuori come già fatto in precedenza, non sarebbe stato comunque possibile allevarli
al meglio a causa della mancanza di spazio e di generi alimentari, l’unica via praticabile era
quella del debbio215: d’altro canto, per quanto la potassa216 rilasciata nel processo aumentasse la
215
Pratica consistente nel bruciare le erbe secche ricoprenti il terreno, allo scopo di migliorarne la fertilità e ridurre
le popolazioni di parassiti. Se praticata estensivamente, può tuttavia portare alla liberazione dell’azoto organico del
terreno e alla distruzione di microorganismi benefici, producendo l’effetto contrario. Cfr. Debbio in Enciclopedia
Treccani (versione online), Istituto della Enciclopedia Italiana.
216
Il carbonato di potassio, ovvero la polvere bianca che si ottiene dalla combustione delle piante e accresce la
fertilità del suolo. Cfr. Potassa in Enciclopedia Treccani (versione online), Istituto della Enciclopedia Italiana.
121
fertilità del terreno, la combustione della superficie coltivata riduceva la capacità dello stesso di
assorbire e trattenere l’acqua, traducendosi a conti fatti in una perdita di produttività dell’arabile.
In questo caso, furono i nativi a individuare la soluzione migliore optando per un ritorno alle
origini: infatti, per quanto il direttivo dell’Esercito avesse a lungo scoraggiato la ripresa
dell’allevamento suino tradizionale, nel quale, come abbiamo visto, i maiali venivano nutriti con
gli escrementi dei padroni di casa – che in parte li utilizzavano anche per concimare i propri orti
e campi –, detta pratica venne gradualmente incoraggiata, a patto che ciascuna famiglia si
impegnasse a utilizzare le deiezioni umane e animali così prodotte soltanto all’interno del lotto
di sua proprietà, in modo da limitare il diffondersi di eventuali epidemie.
Nonostante i cospicui ritardi e le omissioni, alla vigilia dell’insediamento del primo esecutivo
dell’USCAR Okinawa arrivò a superare per la prima volta la soglia delle 500 tonnellate metriche
di cibo, per un totale di 598.900 tonnellate – corrispondenti a circa la metà del fabbisogno
alimentare della popolazione indigena – così suddivise217:
Patate dolci
510.000 tonnellate
Riso
28.500 tonnellate
Ortaggi verdi
26.400 tonnellate
Canna da zucchero
11.500 tonnellate
Patate
10.000 tonnellate
Granaglie (spec. orzo e frumento)
5.000 tonnellate
Fagioli di soia
4.500 tonnellate
217
I dati della tabella sono citati in Msg. Deputy Governor Ryukyu Civil Administration, RYCOM to DEPTAR
(SAOOA FAOA) Wash. Nr. R 03712, MaCArthur Archives (Washington), 4 aprile 1951.
122
Altri legumi
2.000 tonnellate
Miglio
1.000 tonnellate
Si trattava certo di un risultato soddisfacente se paragonato alla situazione di partenza, ma il
neoeletto governo civile si trovava ora a dover fare i conti con la vera sfida, ovverosia aumentare
la produzione agricola su un territorio di estensione finita – il tempo degli interventi di landfilling
era ancora di là da venire – e su cui gravava una sempre crescente pressione demografica.
Di concerto con le associazioni locali riunite sotto il vessillo della Central Okinawan Agricultural
Association e gli interlocutori militari, l’Amministrazione Civile delle Ryūkyū diede prova di
grande solerzia avviando una serie di progetti per l’allargamento della rete idrica e la
razionalizzazione della produzione, oltre ad avallare programmi sperimentali concernenti
l’introduzione di pesticidi chimici anche nelle colture non intensive, l’incrocio di specie vegetali
e animali e il brevetto di nuovi utensili agricoli, senza contare il significativo cambio di passo
rappresentato dalla rivitalizzazione dell’industria zuccheriera, per il momento circoscritta alla
coltivazione della materia prima e alla produzione di kurozatō.
Pressa per l’estrazione del lo zucchero di nuova costruzione. Fonte: Department of Defense, 1988.
Proprio nel 1952, infatti, il governo giapponese aveva iniziato a liberalizzare il commercio
agricolo, includendo la canna da zucchero e lo zucchero non lavorato provenienti da Okinawa
123
nel novero dei prodotti nazionali in termini di dazi e tariffe: posto che soltanto un aumento della
superficie arabile – inconseguibile con le tecnologie dell’epoca – avrebbe permesso all’isola di
avvicinarsi all’autosufficienza alimentare, il governo pensò bene di supplire al deficit di bilancio
determinato dall’import puntando sulla voce delle esportazioni, tornando a porsi quale primo
fornitore di zucchero della terraferma. In breve tempo, sempre più famiglie convertirono parte
dei propri possedimenti alla coltivazione della canna, rimettendo in moto – questa volta sotto
l’egida dello Stato e seguendo le linee guida di un piano nazionale orientato al benessere
collettivo – la filiera produttiva dei satō gumi in maniera non dissimile da quanto teorizzato in
prima battuta da Ōta, ovvero riunendosi in cooperative organizzate trasversalmente sul territorio
e dotate di propri macchinari, cui si sovrapponeva un management di stampo americano
caratterizzato da rotazione delle mansioni, benefit e investimenti in innovazione.
Di pari passo con il ritorno al primato dello zucchero nel settore primario, cui si accompagnava
una crescente sicurezza alimentare favorita dal riequilibrio della bilancia commerciale, la
maggior parte degli okinawani smise di praticare l’agricoltura quale occupazione esclusiva,
preferendo dedicarsi ad attività più redditizie connesse più o meno direttamente con le forze di
occupazione di stanza nelle basi militari: per citare le statistiche, dalle 37 famiglie contadine per
chilometro quadrato che si contavano nel 1951, si passò a 32,4 per km2 nel 1964218 e quindi a
25,9 per km2 nel 1971; in altri termini, l’assetto sociale dell’isola nei mesi precedenti lo henkan
vedeva soltanto il 31% della popolazione impiegato a tempo pieno nell’agricoltura – focalizzata
su colture commercialmente rilevanti come canna da zucchero, ananas e mango – o
nell’allevamento, mentre il restante 69% vi si dedicava al massimo in via collaterale, e certo non
più per combattere la fame.
Constatato il fallimento dell’amministrazione militare nel riportare le colture e le tecniche di
coltivazione tradizionali al centro del discorso economico, nonché nel ripristinare le comunità di
villaggio e il tessuto sociale indigeno così come si configuravano prima dell’inizio del conflitto,
il governo civile non ebbe altra scelta che ritornare a un modello di produzione intensivo e
Nel 1964, l’agricoltura – fino a qualche anno prima lo zoccolo duro dell’economia ryukyuana – costituiva solo
il 13,7% del PIL: una cifra che si ridusse ulteriormente nel 1970 raggiungendo quota 7,6%, fino ad arrivare al
minimo storico del 1,4% registrato nel 2003. Cfr. Kakazu H. Changing Agricultural Environments in Small Islands
– Cases of the South Pacific and Okinawa in International Journal of Island Affairs, Special Issue, INSULA &
Small Island Developing States Unit of the Division for Sustainable Development of the United Nations, Parigi,
2004; McCune, op. cit., p. 69.
218
124
centralizzato, assecondando a distanza di mezzo secolo le aspirazioni dei monopolisti della
Tainansha, pur di riprendere le redini del destino geopolitico dell’isola, guadagnandosi una
posizione di interlocutore – certo non alla pari, ma che aveva dalla sua degli asset da offrire – da
cui negoziare un ritorno al Giappone che, quantomeno, avrebbe dato impulso alle riforme –
agraria, fiscale, edilizia – che la controparte militare si ostinava a procrastinare.
In altre parole, se è vero che non si può sollevare gli esecutivi a guida del Governo delle Ryūkū
dalle proprie responsabilità per quanto concerne l’indirizzo filogiapponese impresso alla politica
economica, troppo compiacente nei confronti del mainland e dei suoi piani di sviluppo a base di
cemento e infrastrutture di dubbia utilità, è altrettanto vero che questo atteggiamento fu
necessitato dalla noncuranza con cui gli Stati Uniti perseverarono nel privilegiare gli interessi
militari a detrimento di quelli civili, mancando di comprendere che un allentamento della
pressione avrebbe contribuito a facilitare l’imposizione di un presidio militare stabile. Al
contrario, chi a Washington aveva il potere di sbloccare la situazione avrebbe seguitato fino
all’ultimo a declinare l’onere di guidare la ripresa economica e la ricostruzione industriale,
nonostante il capitale umano e finanziario investito per studiare le migliori soluzioni con cui
garantire a Okinawa un futuro sostenibile e rispettoso del suo retaggio.
3.4. Ritorno al Giappone. Sostenere l’insostenibile, esportare l’inesportabile.
Al momento della restituzione di Okinawa, il capitalismo giapponese stava attraversando una
fase di profonda ristrutturazione, innescata, fra gli altri fattori, dai progressi tecnologici che
avrebbero reso finalmente possibile una completa meccanizzazione dell’agricoltura, offrendo
una soluzione concreta all’annosa questione della produttività dei terreni, risalente ai
provvedimenti adottati in seguito alla sconfitta nel Secondo Conflitto Mondiale. Durante
l’occupazione, infatti, la riforma agraria219 introdotta dallo SCAP aveva gradualmente eroso le
grandi concentrazioni latifondistiche, riuscendo nell’intento di fornire a milioni di rimpatriati dai
teatri di guerra e di sfollati dai centri industriali un pezzo di terra con cui guadagnarsi di che
219
Approvata dalla Dieta il 21 ottobre 1946, obbligava i proprietari terrieri a vendere i propri terreni allo Stato in
caso di comprovato assenteismo o qualora la proprietà superasse l’estensione massima consentita per il possesso
individuale, corrispondente a quattro cho (1 cho = 0,99 ettari) in Hokkaidō e a un cho nel resto del paese. La
superficie così recuperata fu resa nuovamente disponibile sul mercato, affidando agli uffici locali il compito di
stilare le liste degli aventi diritto all’acquisto. Cfr. Williamson M. B. Land Reform in Japan in Journal of Farm
Economics, vol. 33-2, Oxford University Press, Oxford, 1951.
125
vivere e ricostituire i propri nuclei familiari: si trattava in genere di appezzamenti molto piccoli
– in media due ettari circa –, tali da poter essere lavorati dai membri di una stessa famiglia senza
richiedere manodopera addizionale, arrivando a produrre un modesto surplus che veniva poi
rivenduto sui mercati locali. Tuttavia, in concomitanza con la riconquistata indipendenza del
Giappone, questo sistema di coltivazione su piccola scala, studiato per minimizzare i proventi
dei singoli proprietari, in modo che questi ultimi non avessero ad acquistare la terra dei propri
vicini replicando il modello latifondista, si rivelò un’arma a doppio taglio: le conurbazioni della
cintura industriale Tokyo-Nagoya-Ōsaka, ormai completamente ricostruite e in continua
espansione, richiamavano forza lavoro dalle campagne e dalle piccole città per sostenere la folle
corsa del miracolo economico, privando le aree periferiche di quei giovani che rappresentavano
il futuro delle comunità rurali. Abbandonate dai propri eredi, le famiglie contadine si trovarono
così spesso impossibilitate a far fruttare i terreni in loro possesso, nella misura in cui non esisteva
ancora alcun macchinario in grado di sostituire la precisione del lavoro umano, senza contare il
duro colpo inferto dall’adesione al GATT220 alla produzione di riso, con l’eliminazione delle
tariffe preferenziali e delle quote nazionali.
Fu proprio al principio degli anni Settanta che il vuoto lasciato dal mancato cambio
generazionale, ormai tradottosi in una costante a causa dell’enfasi posta dalla politica economica
sull’industria pesante e manifatturiera concentrata attorno alle grandi città, fu parzialmente
colmato dall’introduzione di trattori e trapiantatrici in grado di piantare sue due filari
contemporaneamente in risaie irrigate, abbattendo come mai prima di allora i tempi di semina e
trapianto. Diventati una presenza fissa dell’attività di ogni agricoltore, nuovi modelli
continuarono a essere sviluppati fino agli anni Novanta, quando comparvero delle versioni non
plus ultra che, a parte qualche modifica, rappresentano ancor oggi i macchinari più comunemente
utilizzati: tra questi, le trapiantatrici da quattro e sei filari, le mietitrebbie per le risaie a secco e i
sistemi laser per il livellamento del terreno, indispensabili per garantire la crescita uniforme delle
piante e un’irrigazione capillare, rappresentano un elemento ricorrente del paesaggio rurale
General Agreement on Trade and Tariffs, accordo internazionale per l’abbattimento delle barriere
protezionistiche e delle restrizioni quantitative sulle importazioni, firmato per la prima volta a Ginevra il 30 ottobre
1947 da 23 paesi. Il Giappone vi aderì nel 1955, impegnandosi a rivedere la propria politica industriale – fino ad
allora incentrata sulla promozione delle industrie strategiche sul mercato interno – in cambio di un concessioni
tariffarie favorevoli da parte dei paesi membri, soprattutto per quanto concerneva il settore tessile e dei combustibili.
Cfr. Suzumura K. Japan’s Industrial Policy and Accession to the GATT: A Teacher by Positive or Negative
Examples? in Hitotsubashi Journal of Economics, vol. 38-2, Hitotsubashi University, Tokyo, 1997.
220
126
giapponese, caratterizzato, ancora a distanza di mezzo secolo, da terreni di limitata estensione
coltivati al limite delle loro possibilità, senza osservare periodi di riposo e con massicce quantità
di pesticidi ed erbicidi chimici.
Inutile dirlo, l’importazione di un simile modello a Okinawa ha avuto effetti disastrosi
sull’ecosistema e sulla salute delle stesse colture, scarsamente competitive sul mercato
internazionale e interno nonostante l’elevata qualità dei prodotti finiti. L’esempio più
emblematico di questa discrasia tra incentivi statali alla produzione e adesione ad accordi
internazionali che penalizzano le eccellenze nazionali è probabilmente la storia della coltivazione
dell’ananas, introdotta negli anni Cinquanta proprio allo scopo di rafforzare la posizione
dell’isola come esportatore. Raggiunto l’apice intorno al 1965, il settore è stato interessato da un
declino pressoché costante a partire dal ritorno al Giappone, rappresentante il primo – nonché
quasi unico – acquirente delle circa 40mila tonnellate di ananas raccolte ogni anno: di queste, il
90% è destinato all’inscatolamento, al surgelamento o all’industria della trasformazione
alimentare, mentre la quantità restante è consumata fresca o sotto forma di succo dagli abitanti
della prefettura, la cui domanda di frutta si pone al di sopra della media nazionale, confortata dal
prezzo accessibile dei prodotti locali.
Le prime limitazioni riguardanti la coltivazione e la lavorazione del frutto tropicale risalgono al
1984, quando il Ministero della Pesca e dell’Agricoltura impose al governatore Junji Nishime,
con due provvedimenti separati221, una programmazione su base quinquennale dell’estensione e
della densità delle piantagioni, la cui superficie sarebbe stata poi equamente distribuita dalle
municipalità alle cooperative o agli agricoltori indipendenti che ne avessero fatto richiesta. A ciò
si sarebbe aggiunto nel 1986 l’obbligo di rispettare un tetto massimo sulle esportazioni annuali
– verso il mainland e verso il resto del mondo – di ananas non lavorato, conseguente ai
cambiamenti introdotti dall’Uruguay Round 222 del suddetto GATT: chi, tra gli agricoltori, si
221
Noti internazionalmente con il nome di Production Control of Canned Pineapples e Stabilization of Demand and
Supply of Canned Pineapples, costituiscono l’implementazione concreta della precedente direttiva Guidance to be
Given Immediately in Planting of Fruit Trees, emanate dal Ministero della Pesca e dell’Agricoltura (MAFF) per
evitare un calo sensibile delle importazioni di ananas dagli Stati Uniti, primo partner commerciale in ambito
agroalimentare. Cfr. Kenzo I., Dyck J. Fruit Policies in Japan, United States Department of Agriculture, 2010;
MAFF, Restrictions on Imports of Certain Agricultural Products, Foreign Trade Information System, 1987.
222
L’Uruguay Round fu l’ottavo e più ambizioso ciclo di negoziati del GATT. Iniziato nel 1986 e conclusosi nel
1994, aveva l’obiettivo di ridurre i sussidi all’agricoltura nazionale, eliminare le restrizioni sugli investimenti
stranieri, aprire al mercato internazionale settori precedentemente considerati off-limits come le assicurazioni, i
servizi alla persona e bancari; inoltre, puntava all’adozione di un codice comune in merito di proprietà intellettuale
127
fosse dimostrato inadempiente, correva il rischio di venire depennato dalla lista degli aventi
diritto ai sussidi e ai prestiti governativi, di fatto le uniche iniezioni di capitale che consentivano
di tirare avanti a un settore altrimenti condannato all’obsolescenza.
Limitazioni nazionali sulla superficie coltivabile a frutta nel 1987. Fonte: Foreign Trade Information System, 1987.
Limitazioni nazionali specifiche per la coltivazione e la trasformazione di ananas nel 1987. Fonte: Foreign Trade Information System, 1987.
Così come attualmente strutturata, infatti, la filiera dell’ananas è quantomai lontana dall’essere
un’attività environmentally friendly, destinata a una sensibile riduzione di scala o al totale
e violazione del diritto d’autore. Cfr. World Trade Organization, A Summary of the Final Act of the Uruguay Round,
WTO, 2021.
128
abbandono nei prossimi decenni a causa degli effetti deleteri esercitati sull’assetto idrogeologico
delle zone interessate. Dal momento che le aree coltivabili in piano vengono solitamente
riservate alle risaie, sì da consentire un’irrigazione ottimale per mezzo degli impianti che dalle
zone montuose trasportano l’acqua a valle, solitamente le piantagioni di ananas devono essere
realizzate sui versanti delle colline, per le quali si rendono necessari pesanti interventi di
“correzione” a opera di ruspe e rulli compressori, che ripianando le naturali gibbosità del terreno
rendono possibile la disposizione della coltura in filari, così come prescritto dalle moderne
tecniche di coltivazione intensiva.
Filari di ananas presso Nago, dove si trova il celebre parco a tema Nago Pineapple Park. Fonte: Nago Pineapple Park, 2020.
A causa di questo continuo rimaneggiamento e deformazione, il terreno perde di coesione e con
essa la capacità da fungere da idroretentore, utile a prevenire smottamenti e frane, con
conseguente deterioramento del bacino idrografico, la cui variazione nel tempo rappresenta un
problema serio per le stazioni di pompaggio da cui dipende la fornitura idrica dell’isola; inoltre,
il processo di erosione del suolo è accelerato dalla stessa struttura delle piantagioni, che,
diversamente dal folto manto della foresta, lasciano scoperte ampie zone del terreno lasciando
percolare molta più acqua rispetto alla vegetazione spontanea.
129
Nel complesso, si ritiene che le opere di miglioramento connesse alla coltivazione dell’ananas
siano responsabili di più della metà degli episodi di cedimento del terreno registrati ogni anno,
così come del perenne inquinamento dei corsi d’acqua: a causa dell’erosione, gli strati inferiori
di scisto argilloso223 e di pietra calcarea sono stati esposti a contatto con l’esterno, riversando nei
fiumi alcali e acidi – da cui il colore rosso o biancastro osservabile nei giorni di pioggia a seconda
della composizione del terreno – che impediscono la respirazione delle piante e arrivano in
ultima istanza a soffocare le colonie di corallo.
Un altro fattore che contribuisce ad aggravare questa situazione di criticità è l’uso improprio dei
fertilizzanti e degli altri agenti chimici impiegati in agricoltura, imputabile non tanto a una
mancanza di conoscenze quanto a un circolo vizioso di sovraproduzione che rende più
conveniente farne un utilizzo spropositato. Non bisogna dimenticare infatti che la reintegrazione
di Okinawa a pieno titolo nella nazione giapponese ha comportato anche l’inclusione delle sue
cooperative agricole nella pertinente associazione nazionale, dal comprovato atteggiamento
lobbista. Nota ai più semplicemente come JA, la Nōgyō Kyōdō Kumiai224 (Unione Nazionale
delle Cooperative Agricole) proseguì almeno fino al 1995 a gonfiare il prezzo del riso,
approfittando della natura sostanzialmente anelastica della domanda di beni essenziali per la
quale prezzi di mercato più alti non influiscono – almeno sul breve termine – sul volume
complessivo degli acquisti, traducendosi di riflesso in maggiori ricavi e commissioni per chi
detenesse il monopolio sulla vendita dei prodotti agricoli – la stessa JA. Ovviamente, il metodo
più rapido ed efficace per provocare detta inflazione consisteva nel far lievitare i costi di
produzione sostenuti dai singoli agricoltori, aumentando la quota di pesticidi, fertilizzanti e
macchinari che questi potevano ottenere dalla propria cooperativa di zona.
Per quanto fortemente limitato dall’implementazione delle riforme approvate nella già citata
seduta sudamericana del GATT, il gioco della JA non solo continua ancor oggi ma si è esteso
anche a colture quantitativamente meno rilevanti del riso: anche i coltivatori di ananas, in cambio
Roccia metamorfica ricca di minerali – in particolare mica, clorite e grafite – disposti parallelamente a strati;
questa disposizione lamellare piuttosto regolare ne determina l’elevata friabilità. Cfr. Scisto in Enciclopedia
Treccani (versione online), Istituto della Enciclopedia Italiana.
224
Nome complete Zenkoku Nōgyō Kyōdō Kumiai Chuōkai, fu istituita nel 1954 allo scopo di regolare il mercato
agricolo e uniformare la gamma di macchinari, attrezzature e prodotti chimici utilizzati dagli agricoltori di tutto il
paese. Storico presidio del Jimintō, la sua vicinanza al partito fu messa in discussione dalle concessioni fatte agli
Stati Uniti in seguito all’apertura delle trattative dello Uruguay Round (vd. nota 222, p. 127). Cfr. JA Zenchū, JA
Zenchū towa in JA Gurūpu tōitsu kōhō (official website), 2019.
223
130
della quota associativa versata, sono dunque incentivati a utilizzare l’intera fornitura di prodotti
chimici corrisposta, pena il pagamento di una tassa di smaltimento – dal momento che le
eccedenze non possono essere rese alla sede emittente. Allo stesso tempo, in linea con le
tendenze demografiche del resto della nazione, anche a Okinawa si registra un progressivo
spopolamento delle campagne, con molte proprietà che vengono abbandonate o il cui
proprietario – in media di età avanzata – passa a miglior vita senza che il catasto abbia a esserne
notificato: benché al corrente di questa situazione, è la stessa JA a guardarsi bene dal rivedere
l’elenco dei propri iscritti, dal momento che ciò consente di mantenere invariata la fornitura da
corrispondere alle sedi locali, e con essa la lievitazione dei costi finali.
Altrettanto difficile è, per chi sceglie di rimanere, entrare in possesso degli appezzamenti di terra
rimasti senza proprietario, con cui magari diversificare le proprie colture: l’attuale regime di
tassazione per le terre agricole è infatti talmente vantaggioso che spesso anche a chi ha ormai
abbandonato la fattoria di famiglia conviene pagare le irrisorie imposte annue piuttosto che
espletare le procedure burocratiche necessarie a svincolare la terra per rimetterla sul mercato;
inoltre, secondo una lettura antropologica225, tale riluttanza a separarsi dai propri possedimenti
sarebbe in realtà connessa al concetto di ba (luogo), profondamente radicato nella cultura
giapponese, per il quale cedere ad altri la terra su cui si è nati equivarrebbe a rinnegare le proprie
radici, commettendo un torto nei confronti della propria stirpe – soprattutto verso le generazioni
future.
Speculazioni a parte, è innegabile che l’enfasi ancor oggi posta dai politici conservatori del
Jimintō – aventi nelle campagne e nei centri rurali il proprio bacino elettorale di riferimento – e
dai diretti interessati sulla disgregazione della famiglia tradizionale e sulla crisi del tasso di
fertilità si spieghi banalmente col fatto che i vincoli di sangue appaiono ormai l’unico freno in
grado di trattenere il flusso di emigrazione giovanile verso le grandi città, dal momento che il
lavoro agricolo, agli occhi di una generazione cresciuta col mito del lavoro salariato e
impiegatizio nell’industria dei servizi, appare non solo inutile ma anche degradante. Complice
una rappresentazione mediatica sensazionalistica e parziale, tendente a magnificare i vibranti –
e affollatissimi – centri produttivi del paese in antitesi alla desolazione e alla (supposta)
225
Cfr. Osamu S. Philosophy of Agricultural Science: A Japanese Perspective, Trans Pacific Press, Melbourne,
2006.
131
arretratezza delle periferie rurali, il termine inaka (campagna), fino a qualche decennio fa
depositario di un senso di frugalità e naturalezza intersecantesi con la nostalgia evocata dal
furusato, presenta ora una sfumatura dispregiativa in quanto evoca la dimensione dell’esilio,
dell’isolamento spaziale e culturale vissuto dagli agricoltori e di quanti avessero la sfortuna di
legarsi a loro. Nonostante i dati evidenzino la fattuale infondatezza di questi e altri stereotipi226,
essi hanno nondimeno generato e imposto uno stigma sulle zone agrarie, nelle quali, proprio alla
luce dell’irreperibilità di manodopera nazionale, si contano numerose comunità di immigrati:
tale realtà è tanto più osservabile a Okinawa dove, in virtù della vicinanza al continente, si
riversano frotte di lavoratori stagionali di nazionalità cinese e vietnamita, equamente divisi tra la
ristorazione e il lavoro nei campi, a cui si aggiungono donne originarie del Sud-Est Asiatico –
prevalentemente Thailandia e Filippine – che, per mezzo dei moderni network di omiai (incontri
matrimoniali), lasciano il proprio paese per andare in sposa ai giovani agricoltori dell’isola,
penalizzati nella ricerca di partner.
Al di là della questione sociale e demografica, a determinare la parabola discendente – sia in
termini di output che di peso sulla bilancia commerciale – dell’agricoltura okinawana è la scarsa
varietà specifica delle colture, osservabile in primo luogo nelle popolazioni di canna da zucchero
(Saccharum officinarum). La varietà endemica e spontanea presente a Okinawa, dal caratteristico
colore violaceo, è ormai pressoché scomparsa e sopravvive solo al di fuori delle piantagioni,
dove invece si coltiva una varietà artificiale frutto di selezioni e incroci, particolarmente adatta
allo sfruttamento intensivo grazie all’alto contenuto di saccarosio, oltre al fusto più spesso e alle
foglie più corte che ne aumentano la resistenza alle raffiche di vento e alla pioggia. Di per sé, la
canna da zucchero non richiederebbe particolari cure per quanto concerne le fasi di crescita e
maturazione, dal momento che i nutrienti del suolo di Okinawa – circa venti volte biologicamente
più ricco rispetto a quello del mainland 227 – consentono alla pianta di raggiungere il pieno
Prendendo a esempio dello spopolamento delle campagne la prefettura (ken) Akita nel Tōhoku, caratterizzata da
una popolazione di poco più di 966mila abitanti distribuiti su una superficie di 11637 km 2, studi relativamente
recenti hanno dimostrato come Akita si piazzasse regolarmente prima nel Test di rendimento scolastico nazionale,
sfatando il mito dell’arretratezza e della scarsa propensione all’apprendimento degli abitanti dei centri rurali. Anche
i dati odierni si confermano in linea con quanto rilevato in precedenza. Cfr. Mock J. Mock, John. The Social Impact
of Rural-Urban Shift: Some Akita Examples in Thompson C. S., Traphagan J. W. Wearing Cultural Styles in Japan:
Concepts of Tradition and Modernity in Practice, SUNY Press, Albany, 2012; Statistic Japan, Education: National
Achievement Test, ODOMON, 2019.
227
La differenza col resto del Giappone è ancora più marcata se si prende in considerazione la varietà delle specie
vegetali, corrispondente a 45 volte quella del mainland per ogni 10 km2. Cfr. Wicaksono K. P., Nakagoshi N.
Agriculture Profile and Sustainability in Okinawa Prefecture Japan and East Java Province of Indonesia and Its
226
132
sviluppo già in soli 18 mesi; tuttavia, gli stessi clima e terreno che garantiscono il rigoglio delle
specie vegetali crea anche le condizioni ideali per le larve di insetti potenzialmente nocivi,
accelerandone le fasi di sviluppo e portando simultaneamente alla fase adulta popolazioni
parassitarie che, in altre zone del mondo, non si trovano a dover competere per le medesime
risorse nella stessa stagione.
Raccolta della canna da zucchero presso una piantagione di Okinawa. Fonte: World Unite, 2018
L’ipotesi che un unico ceppo super-resistente, dotato delle caratteristiche ottimali per
fronteggiare i tifoni e gli altri fenomeni atmosferici avversi, sarebbe riuscito a sopravvivere
anche alle specie parassitarie – sia vegetali che animali – perché non si trattava di una varietà
originariamente disponibile in natura, sulle prime si dimostrò corretta, complici i tempi
relativamente recenti dell’incrocio che spiazzarono gli avversari naturali della canna da zucchero.
Com’è noto, però, per quanto una specie possieda caratteristiche adatte alla sopravvivenza, dalle
Future Development in ISTECS Journal – Science and Technology Policy, vol. 19, Institute for Science and
Technology Studies, Jakarta, 2009.
133
monocolture discendono invariabilmente una serie di problematiche relative all’equilibrio
ecosistemico: nel caso specifico, la fauna ospitata stabilmente all’interno della nicchia ecologica
è estremamente ridotta, sia in termini di varietà che di numero di esemplari: si tratta perlopiù di
insetti che, oltre a offrire un utile diversivo per le specie parassitarie – le cui abitudini alimentari
sono variabili e possono dunque limitarsi ad attaccare questi anziché le piante –, attirano altri
predatori più grandi come uccelli e roditori, le cui feci contribuiscono ad arricchire il suolo; in
secondo luogo, anche le nuove varietà ottenute per incrocio non possiedono che alcune coppie
di geni resistenti, il cui numero non può materialmente aumentare nel tempo proprio a causa
dell’omogeneità del pool genetico della coltura, il che ci riporta alla questione dell’abuso di
pesticidi: una minore aspettativa di vita implica una maggiore spinta riproduttiva e generazioni
di insetti che si succedono più rapidamente, oltre che potenzialmente più resistenti a causa
dell’aumentata probabilità che si verifichino mutazioni genetiche vantaggiose.
In uno scenario non antropizzato, ove non figuri cioè la mano dell’uomo nel manipolare né il
ciclo vitale delle altre specie né le condizioni di partenza dell’ambiente, la lotta tra la canna da
zucchero e i suoi avversari si configurerebbe come un eterno testa a testa: per quanto infatti le
specie parassitarie – insetti in primis – si riproducano a un ritmo vertiginosamente più rapido, la
gamma e la velocità delle mutazioni di cui è capace una popolazione di canna da zucchero
sufficientemente diversificata sono di gran lunga superiori alle possibilità offerte dalle tecniche
artificiali di ingegneria genetica, ragion per cui, anche se una singola popolazione dovesse
perdere la sua battaglia e venire cancellata, ciò non comprometterebbe la sopravvivenza della
specie nel suo complesso, che anzi avrebbe comunque a riceverne un certo beneficio nella forma
dell’arricchimento genomico: questo è, per l’appunto, il funzionamento di un ecosistema, ovvero
di un insieme di relazioni tra materia biologica e materia non vivente il cui risultato globale tende
a riportarsi sempre su una situazione di equilibrio 228 . Al contrario, quanto osservabile nella
fattispecie della canna di zucchero okinawana possiede le caratteristiche di un agrosistema229: in
esso, la diversità rappresenta un disvalore e le relazioni tra organismi sono soggette al metro di
228
Cfr. Begon M. et al., Ecology: From Individuals to Ecosystems, Blackwell Publishing, Hoboken, 2005.
L’agrosistema rappresenta un ecosistema semplificato secondo le esigenze produttive dell’uomo, in cui è
l’agricoltore a stabilire l’apporto di nutrienti (concimi, fitofarmaci) e di sostanze chimiche (fertilizzanti, pesticidi),
nonché la composizione della biomassa – ovvero quali e quanti prodotti organici sono amessi nell’economia del
sistema. Cfr. Ferrari M. et al. Lotta biologica. Controllo biologico ed integrato nella pratica fitoiatrica, Edizioni
Agricole, Bologna, 2000.
229
134
giudizio umano, che, individuando due schieramenti contrapposti, metterà in campo ogni sua
risorsa per far prevalere la fazione prescelta, dal momento che dal suo trionfo dipende la
sopravvivenza di una specie – la razza umana, appunto – la cui evoluzione ha comportato
esigenze alimentari che non sono più geograficamente situate, bensì globalizzate e diffuse al
punto da chiamare in causa interessi esulanti dalla semplice soddisfazione del bisogno fisiologico.
Di fatto, quello che l’agronomia contemporanea sta iniziando a realizzare con sempre maggiore
chiarezza è che è proprio tale impostazione a rappresentare il primo nemico dell’agricoltura
intensiva: la distinzione fondamentale tra colture – ovvero ciò che garantisce nutrimento,
sicurezza o profitto all’uomo –, specie nocive e ciò che si colloca nel mezzo tra i due estremi,
per quanto sia stata indispensabile a sostenere la crescita della nostra specie, andrebbe oggi
parzialmente rivista, nella misura in cui sarebbe sufficiente supervisionare la convivenza e la
competizione tra le specie per incoraggiare la produttività di quelle commercialmente e
nutrizionalmente rilevanti.
Certo, per quanto graduale, non si può escludere che un cambiamento di tale entità possa avere
effetti depressivi sul breve e medio termine sull’economia giapponese, ma a ben guardare il
settore primario è ormai da tempo preda di un trend negativo: mantenendo come riferimento la
canna da zucchero di Okinawa, si nota infatti come già quindici anni fa, nonostante il pauroso
calo di superficie coltivata, sia il volume di produzione che la produttività delle piantagioni si
attestassero su un livello sostanzialmente stabile ma insufficiente sia a coprire il fabbisogno
nazionale, sia a venire esportato all’estero, rimanendo pressoché inalterato fino ai giorni nostri230.
230
I dati relativi alla produzione di canna da zucchero – così come delle altre colture commercialmente rilevanti –
dal 1961 al 2019 sono consultabili liberamente dal portale online FAOSTAT della Food and Agriculture
Organization of the United Nations (http://www.fao.org/faostat/en/#data/QC).
135
Statistiche degli agricoltori impiegati nella produzione di canna da zucchero e della superficie coltivata nel ventennio 1996 – 2006.
Fonte: Wicaksono K. et al, ISTS Jakarta (su dati forniti dal Ministero della Pesca e dell’Agricoltura), 2009.
Statistiche della produzione e della produttività delle colture di canna da zucchero nel ventennio 1996 – 2006.
Fonte: Wicaksono K. et al, ISTS Jakarta (su dati forniti dal Ministero della Pesca e dell’Agricoltura), 2009.
Dalla lettura di questi dati, si possono trarre fondamentalmente due conclusioni: in primo luogo,
che lo sfruttamento e l’inquinamento del suolo, causati dall’omesso periodo di riposo tra un
raccolto e l’altro e dalla spropositata quantità di azoto e fosforo – componenti base dei pesticidi
– che ne ha sbilanciato l’equilibrio minerale, sono tali per cui cali sensibili nella popolazione non
si traducono in altrettanto drastici cali di produzione: in altre parole, questo significa che, a
prescindere dalle peculiarità biologiche e dall’estensione delle singole piantagioni, quando una
136
di queste viene abbandonata un’altra viene sfruttata al doppio della sua capacità per raggiungere
le quote imposte dalla JA, compromettendone la fecondità per gli anni a venire; in secondo luogo,
che, nonostante gli incentivi varati dal governo e il sostegno professato dalla classe politica, il
settore primario – e in particolare l’industria zuccheriera – non rappresenta più una voce di
bilancio in grado di generare profitti, né figura come uno degli asset che il Giappone intende
rilanciare nella sua visione per il futuro: prova ne è il calo della superficie coltivata e dell’annessa
forza lavoro su impulso dell’urbanizzazione, le cui possibilità di espansione appaiono
incommensurabilmente più allettanti, a maggior ragione se si tiene a mente l’importanza che
l’edilizia ancora riveste nell’economia del paese.
Si arriva così al paradosso della situazione odierna, con lo zucchero e l’ananas di Okinawa che
arrivano a costare rispettivamente otto e tre volte tanto i prezzi del mercato internazionale, senza
che la sovrastruttura governativa abbia modo di intervenire alla radice degli sprechi a causa del
monopolio esercitato dalla JA, le cui manovre inflazionistiche risultano comunque indispensabili
per garantire la sopravvivenza degli agricoltori e degli altri portatori di interesse coinvolti – tra
cui figurano anche alcune industrie strategiche, come quella petrolchimica per la produzione dei
pesticidi e quella meccanica per i macchinari agricoli e la strumentistica di precisione.
Fa eccezione la produzione di fiori recisi, sviluppatasi sensibilmente nell’ultimo decennio grazie
all’iniziativa di alcuni agricoltori emancipatisi dalla tirannia delle cooperative in seguito
all’abbandono delle colture intensive di canna da zucchero; particolarmente apprezzati sul
mercato del mainland, i fiori di Okinawa rappresentano un dato felicemente in controtendenza
nel panorama delle esportazioni, per quanto osservatori contemporanei abbiano rilevato con
preoccupazione l’introduzione di metodi di coltivazione para-intensiva (serre in vinile, pesticidi),
nonché di specie particolarmente richieste sul mercato giapponese (rose, crisantemi) che
rischiano di sostituire le varietà endemiche231, sinora protagoniste della crescita del settore.
In condizioni non molto dissimili versano anche l’allevamento e la pesca, la cui attuale
configurazione non appare tanto orientata verso la sostenibilità e la competitività quanto verso il
sostentamento di una minoranza di lavoratori sprovvista di tutele e ammortizzatori sociali.
Soprattutto azalee, iris e orchidee. Cfr. Japan Floriculture Market – Growth, Trends, COVID-19 Impact, and
Forecasts (2021 – 2026), Mordor Intelligence, 2020.
231
137
A gennaio 2020, a Okinawa si contavano 225,800 maiali, il cui numero si è ridotto di alcune
migliaia di unità in seguito all’influenza suina che, per la prima volta in 33 anni, ha colpito gli
allevamenti dell’isola.232 Si tratta certo di una cifra sensibilmente inferiore rispetto a venti anni
fa, quando i capi suini ammontavano a più di 300mila unità, ma tale dato è da interpretarsi nella
cornice demografica di abbandono delle zone rurali di cui sopra, alla quale vanno ad aggiungersi
gli effetti collaterali del blocco del flusso turistico, alle cui oscillazioni gli allevatori risultano
più sensibili a causa dei minori incentivi e sussidi di norma disposti dal governo per il loro settore
di afferenza, considerato ancora forte sul piano nazionale dal momento che esso rappresenta
circa il 25% dell’output totale del primario. Per quanto concerne il metodo di allevamento
applicato, a un primo sguardo le pig farms potrebbero sembrare più sostenibili delle loro
controparti coltivate ad ananas o canna da zucchero: sempre più aziende agricole – soprattutto a
conduzione familiare – optano infatti per l’allevamento all’aperto, utilizzando mangimi biologici
e trattando i liquami in modo da abbattere il contenuto di metano (CH4) e monossido di azoto
(N2O) prima dello scarico in mare, mentre il resto degli escrementi solidi viene riutilizzato quale
concime organico. Tuttavia, a parte alcuni esempi virtuosi su piccola scala, dove l’attenzione
all’impatto ambientale e l’eticità sono premiate da consumatori sensibili al rapporto
qualità/prezzo, la cui fedeltà permette di rientrare gli ingenti costi di smaltimento, la realtà della
maggior parte degli allevamenti è ben diversa.
Di norma, una scrofa inizia a essere inseminata a partire dagli otto mesi d’età, arrivando a
partorire in media dieci maialini ogni 153 giorni, comprensivi di un periodo di gestazione di 128
giorni e di uno di allattamento di 25 giorni; concluso l’allattamento, i cuccioli vengono separati
dalla madre e alimentati al chiuso con granturco, fagioli di soia e integratori – principalmente di
vitamine e sali minerali – fino a raggiungere il peso di 115 chili: secondo il regime di
alimentazione giapponese, tale soglia è generalmente raggiunta dagli esemplari maschi intorno
ai 184 giorni d’età e corrisponde al momento della macellazione, che avviene invece al 38esimo
mese d’età per le scrofe per capitalizzarne al massimo il periodo di fertilità.
232
I primi casi sono stati rilevati a gennaio 2020 nella centralissima Uruma (Uruma-shi), per poi espandersi anche
ad allevamenti siti nella municipalità di Okinawa (Okinawa-shi). La situazione è tornata sotto controllo a partire da
marzo dello stesso anno, con l’abbattimento dei capi infetti e l’inizio delle vaccinazioni. Cfr. Swine fever confirmed
in Okinawa for first time in 33 years, The Japan Times, 8 gennaio 2020; Okinawa recovers from hog cholera
epidemic that killed more than 12,000 pigs, Stars and Stripes, 7 maggio 2020.
138
Nel corso della sua breve vita, ciascun capo produce escrementi e gas serra pari a quelli prodotti
da circa sei esseri umani, tenendo conto anche delle normali attività quotidiane (guidare
l’automobile, utilizzare prodotti spray, usufruire di elettricità prodotta termicamente da fonti non
rinnovabili) similmente impattanti. A ciò si devono aggiungere l’energia elettrica e il carburante
utilizzati per il trasporto del mangime, dal momento che il Giappone importa dall’estero –
principalmente da Stati Uniti, Brasile e Canada – il 90% del foraggio somministrato nelle sue
fattorie; infine, il processo di compostaggio, areazione e deodorazione degli escrementi solidi
(80% delle deiezioni suine) e quello di filtraggio degli escrementi liquidi (20%) richiedono, oltre
che energia elettrica di per sé, anche un trasporto motorizzato fino all’impianto di depurazione
di zona, spesso incapace di accogliere al contempo i rifiuti biologici delle fattorie locali: per
questa ragione, gli allevatori sono spesso costretti a conservarli in una fossa all’aperto fino alla
notifica di ritrovata disponibilità da parte dell’impianto, permettendo nel mentre ai gas serra di
liberarsi nell’ambiente.
Appare dunque evidente come il mito del chilometro zero e della salubrità della carne di maiale
di Okinawa sia di fatto una falsa eccellenza, addotta dal governo prefetturale a scopi turistici
basandosi esclusivamente sui dati relativi al consumo – che effettivamente vede gli stessi
okinawani in testa – e al trasporto interno, escludendo dal computo tutte le attività collaterali
necessarie a portare in tavola un pezzo di carne suina. Sotto il profilo legale, è poi lo stesso
sistema nazionale a chiudere un occhio sull’enorme quantità di inquinanti che si riversano
nell’atmosfera: basti pensare che la soglia massima consentita di nitrati per gli scarti animali
provenienti da pig farms si attesta a livello globale intorno ai 100mg/L, mentre in Giappone
arriva fino a un esorbitante 900mg/L. Il risultato è che l’impatto ambientale che l’isola deve
sostenere ogni anno per il mantenimento della sua popolazione suina equivale a circa il doppio
degli scarti prodotti dai suoi inquilini umani – corrispondenti a 1 milione e 440mila abitanti
secondo le stime dell’anno passato –, con una buona percentuale dei liquami che, per ragioni di
tempo o di denaro, non riesce a passare per gli impianti di depurazione prima di venire scaricata
nei corsi d’acqua, contaminando direttamente i fiumi da cui la rete idrica preleva l’acqua da
redistribuire ai centri urbani.
In una condizione leggermente migliore, in primo luogo sotto il profilo ambientale, si trova
invece l’industria ittica, che grazie allo sviluppo dell’acquacoltura è riuscita a frenare
139
l’esaurimento delle scorte di pesce, molluschi e crostacei che nel resto del paese sta mettendo in
ginocchio le piccole comunità di pescatori. Come si è tentato di evidenziare in precedenza, in
Giappone sussiste infatti un grave problema di scala, per il quale man mano che ci si allontana
dal centro industriale della regione, anche le infrastrutture e i servizi attinenti ad altri settori
produttivi tendono a diminuire di estensione o a farsi più obsoleti: la situazione delle città costiere
riflette esattamente questa configurazione, con porti minori mal attrezzati e scarsamente collegati
ai mercati ittici i cui costi di mantenimento sono diventati insostenibili per le cooperative locali,
richiedendo l’intervento pubblico. Ancora, queste comunità presentano spesso un’economia non
diversificata, scomoda eredità del passato e della centralità rivestita dalla pesca nella quotidianità
dei villaggi preindustriali che, ormai da un trentennio, ha determinato il ricorso alla pesca
selvaggia, compromettendo il ciclo riproduttivo delle specie interessate: caricare a bordo e
refrigerare quanto più pesce possibile resta comunque l’unico modo per tenere in vita intere
realtà urbane che, proprio a causa della loro perifericità, non hanno dalla loro alcun asset di
ripiego e rischierebbero altrimenti di scomparire.
Al contrario, Okinawa può contare su una catena del freddo e delle infrastrutture portuali
omogeneamente sviluppate e diffuse lungo la sua linea di costa, eredità dell’occupazione
americana che, come abbiamo visto, il governo giapponese si guardò bene dallo smantellare233.
Dal punto di vista culturale, il fatto che la pesca non sia mai stata praticata in via esclusiva dagli
okinawani ha sicuramente giocato a loro favore con l’ingresso nel nuovo millennio: per quanto
oggigiorno si possano osservare dei “tradizionali” villaggi di pescatori, allestiti per i visitatori
nella parte meridionale dell’isola con tanto di essiccatoi e reti in bella vista, sappiamo appunto
che anche presso gli insediamenti costieri ci si dedicava solitamente al lavoro nei campi e
all’allevamento del bestiame, a cui si deve poi aggiungere la diversificazione portata in età
contemporanea dal turismo. Rispetto alle loro omologhe dello hondo, le città costiere dell’isola
possono infatti contare su una serie di attività economiche connesse all’accoglienza e
all’intrattenimento che, benché esigano a loro volta un prezzo in termini di spazio e di
inquinamento, costituiscono un presidio relativamente sicuro della loro autonomia, nonché una
via di collegamento con la rete di trasporti e servizi messa a disposizione dei turisti.
Cfr. Ajia to Okinawa no shokuhin sangyō renkei no kanōsei – Kōrudo chēn to sentoraru kicchin, Okinawa
Prefectural Government, 2016.
233
140
Ciò detto, anche a Okinawa si registra un problema di overfishing, riguardante in primo luogo il
tonno. Le varietà più ricercate sono il pinnaga234, il kihada235, il mebachi236 e il kuromaguro237,
per la cui cattura si utilizzano sostanzialmente due tecniche: in primo luogo, il palamito
(haenawa), utilizzato anche nel resto del Giappone e consistente in una lunga corda sostenuta
lungo la sua estensione da piccole boe, dalle quali pendono numerose lenze con esca; da diversi
anni si impiega inoltre il payao238, un’ampia struttura galleggiante ancorata al fondale marino
che, grazie all’ombra proiettata dalla sua estremità emersa, porta i pesci a radunarsene al di sotto,
facilitando la cattura da parte dei pescherecci.
Rappresentazione grafica della pesca al tonno con haenawa (sinistra) e con payao (destra). Fonte: Okinawa Prefectural Government, 2018.
Altra preda ambita sono i totani, delle varietà sodeika239, tobiika240, aoriika241, kouiika242. Per gli
esemplari più grandi, appartenenti generalmente alle prime due varietà elencate, si utilizza un
metodo di recente introduzione 243 composto da due unità di galleggianti principali: la prima
Nome scient. Thunnus alalunga, noto come “tonno bianco” in italiano (n.d.r.).
Nome scient.Thunnus albacares, noto come “tonno pinna gialla” in italiano (n.d.r.).
236
Nome scient. Thunnus obesus, noto come “tonno obeso” in italiano (n.d.r.).
237
Nome scient. Thunnus orientalis, noto come “tonno oceanico” in italiano (n.d.r.).
238
Il termine è un prestito dal tagalog e significa per l’appunto “zattera”. Si tratta di una tecnica largamente utilizzata
nel Sud-Est Asiatico per la pesca del tonno, ma la scienza non è ancora riuscita dare una risposta al perché questi
pesci tendano a radunarsi al di sotto della piattaforma: secondo alcune teorie, essi sarebbero attirati dai molluschi e
dalle alghe che proliferano in condizioni di scarsa illuminazione e attecchiscono sull’estremità sommersa del payao.
Cfr. Ocean Policy Research Institute, Payao wa nettai engangyogyō no ‘sukui’ to naru ka, Sasakawa Peace
Foundation, 2015.
239
Nome scient. Thysanoteuthis rhombus, noto come “totano diamante” in italiano (n.d.r.).
240
Nome scient. Todarodes pacificus, noto come “totano volante” in italiano (n.d.r.).
241
Nome scient. Sepioteuthis lessoniana, noto come “calamaro di Lesson” in italiano (n.d.r.).
242
Nome scient. Sepia esculenta, nota come “seppia indopacifica” in italiano (n.d.r.).
243
L’attuale tecnica di cattura della sodeika fu introdotta nelle Ryūkyū nel 1989 dalla cooperativa di pescatori di
Kumejima, utilizzando le conoscenze e le attrezzature ricevute da alcuni colleghi della prefettura di Hyōgo nel
Kansai. Cfr. Okinawa no shuyō seisanbutsu no shōkai in Okinawa Prefecture (official website), Okinawa Prefectural
Government.
234
235
141
sostiene una bandiera di colore nero, che serve a segnalare la presenza della trappola, la seconda
una corda a cui sono attaccate le luci subacquee e le esche di plastica – modellate secondo la
forma dei piccoli calamari e pesci di cui la sodeika si nutre – che servono ad attirare la preda;
quando quest’ultima abbocca, scatta un meccanismo che sblocca l’asta della bandiera
permettendole di basculare, segnalando ai pescatori la riuscita dell’operazione.
Rappresentazione grafica della pesca alla sodeika. Fonte: Okinawa Prefectural Government, 2018.
Una specie – se così si può definire – che invece sta diventando di sempre più difficile reperibilità,
e per la quale sono state approntate numerose aree protette per favorirne la riproduzione, sono i
cosiddetti machi, una denominazione dialettale utilizzata indistintamente per indicare pesci a
pinne raggiate dall’aspetto simile ma appartenenti a specie diverse, rispettivamente lo
hamadai244, lo aodai245, lo ōhime246 e lo himedai247. In sostituzione a questi ultimi, ultimamente
si tende a consumare – sia nelle famiglie che nella ristorazione – altre varietà endemiche248 che,
grazie all’encomiabile lavoro di ripopolamento a cura del Centro Prefetturale per
Nome scient. Etelis coruscans, noto come “lutiano” in italiano (n.d.r.).
Nome scient. Paracaesio caerulea, per questo pesce e per le due specie a seguire si utilizza invariabilmente la
denominazione commerciale anglosassone di “snapper” anche in italiano (n.d.r.).
246
Nome scient. Pristipomoides filamentosus, o semplicemente “snapper” (n.d.r.).
247
Nome scient. Pristipomoides sieboldii, o semplicemente “snapper” (n.d.r.).
248
Come lo hama fuefuki (Lethrinus nebulosus), il chairo maruhata (Epinephelus coioides) e la prelibata vongola
ryukyuana volgarmente detta himejako (Tridacna crocea), cui si aggiungono alcune specie introdotte dall’estero
come il madai (Pagrus major), le cui uova fecondate furono in origine importate da Taiwan. Cfr. Outline of Okinawa
Prefectural Sea Farming Center, Okinawa Prefectural Government, 2000.
244
245
142
l’Acquacoltura249, hanno superato la soglia critica di estinzione fino a raggiungere un numero di
esemplari tale da consentirne lo sfruttamento commerciale e l’esportazione. Tuttavia, è proprio
questa voce a far registrare un’ultima nota dolente: al pari di quanto accaduto in agricoltura,
sempre più cooperative di pescatori hanno iniziato ad applicare le medesime tattiche di inflazione,
imponendo tempi di sostituzione delle attrezzature più ravvicinati e aumentando le forniture di
carburante ai propri membri. Ne consegue che, a meno che non si tratti di un ristorante
specializzato in cucina ryukyuana, il pesce che da Okinawa giunge sui banchi del mercato di
Tsukiji e altrove nel Kantō difficilmente riesca a trovare un acquirente, senza contare che già
prima delle manovre poco ortodosse delle cooperative esso era penalizzato da un ingente
sovrapprezzo, determinato dal trasporto fino al mainland.
249
Sito a Motobu-chō, nel distretto di Kunigami. Cfr. Outline of Okinawa Prefectural Sea Farming Center, p. 2.
143
Conclusioni
Un termine ricorrente negli studi specialistici concernenti lo Okinawa mondai – e che a nostra
volta abbiamo utilizzato in qualche occasione – per riferirsi al ruolo sostanzialmente passivo
ricoperto dalla classe dirigente dell’isola e dai suoi abitanti nel corso del processo decisionale
che ha condotto all’attuale assetto paesaggistico, politico ed economico è quello di “vittima”250,
il cui utilizzo necessita tuttavia di alcune cautele.
Per quanto riguarda gli strumenti epistemologici e la cornice metodologica impiegati per
condurre la presente analisi, è indubbio che Okinawa si configuri come una vittima dei processi
di centralizzazione, nella misura in cui la perdita dei diritti di proprietà e di gestione del territorio
da parte della popolazione indigena non è avvenuta in via consensuale, bensì per effetto
dell’incompetenza diplomatica e della connivenza della classe dirigente locale con i signori
feudali di Satsuma e con chi, dopo di loro, sarebbe arrivato a promettere il mantenimento di
anacronistici privilegi – e di uno status quo soltanto apparente – in cambio del controllo effettivo
sulla dimensione spaziale del regno.
Come abbiamo visto, la tattica messa in campo dall’amministrazione giapponese fu di lasciare
formalmente intatti gli insediamenti e le pratiche abitative dei ryukyuani, il cui ammodernamento
avrebbe peraltro comportato una spesa pubblica che il governo Meiji non intendeva – né, a conti
fatti, probabilmente nemmeno avrebbe potuto – sobbarcarsi; viceversa, esso preferì apportare
modifiche strutturali nell’ambiente circostante e nei modi di produzione, intuendo che ciò
avrebbe consentito di interrompere il ciclo di relazioni e di condivisione delle risorse che
garantiva l’autonomia dei villaggi, intesi come agglomerati sociali pre-statali la cui
sopravvivenza offuscava lo schematismo della mappa che Tokyo puntava a tracciare dell’isola.
Da ciò si evince lo scopo comune a provvedimenti tanto eterogenei, come reclutare tra le fila
della burocrazia funzionari provenienti dalle medesime realtà che essi sarebbero stati incaricati
di sorvegliare o favorire la crescita e il monopolio di un’industria senza aver prima eliminato –
per mezzo della coercizione o del compromesso – i suoi principali concorrenti: coerentemente
con il concetto di illusione di libertà prodotta dal capitalismo, era infatti opinione diffusa presso
i quadri dirigenti che, una volta assistito coi propri occhi ai lampanti vantaggi determinati
Un’interessante analisi della vittimizzazione degli okinawani come convenzione storiografica si trova in
Matsumura, op. cit., pp. 10-14.
250
144
dall’introduzione del nuovo sistema, la maggior parte della popolazione si sarebbe adattata
spontaneamente alla configurazione di sfruttamento auspicata.
In realtà, tali vantaggi consistevano semplicemente nella possibilità di sottrarsi – almeno in parte
– ai numerosi pregiudizi e discriminazioni a cui i ryukyuani erano soggetti a causa del loro status
di sudditi di recente acquisizione e della supposta indolenza nell’adattarsi al cambiamento:
trasferirsi nei campi della Okitai Seitō per lavorare a cottimo, rinunciando ai diritti sul frutto del
proprio lavoro e arrivando talvolta a recidere i legami con la comunità d’origine, significava
perciò evitare le pressioni e i ricatti delle autorità prefetturali, disposte a tutto pur di costringere
i piccoli produttori a cedere l’esclusiva sul raccolto di canna da zucchero allo stabilimento di
zona; ancora, astenersi dal partecipare ai riti comunitari presso gli utaki officiati dalle noro, su
cui gravava il sospetto della sedizione e lo stigma della barbarie, significava dimostrare una più
sincera adesione all’ordinamento nazionale (kokutai) e quindi risparmiarsi le ispezioni militari
che, periodicamente, passavano al setaccio i villaggi in cerca di marxisti o presunti tali; infine,
mandare i propri figli a scuola a imparare la lingua nazionale, tentando di parlare il meno
possibile il luchuan in loro presenza, significava aprire a questi ultimi nuove possibilità di
carriera – principalmente nel neonato esercito di leva o negli uffici pubblici a Naha.
Di fatto, non si trattava di nulla di diverso rispetto a quanto accaduto in Europa a partire dal
XVIII secolo, con la nascita dei moderni Stati-nazione e l’ascesa della borghesia imprenditoriale
e professionale, i cui dogmi fondanti del libero mercato, della proprietà privata e della divisione
del lavoro avevano condotto l’intera società a conformarsi, volente o nolente, a una visione del
mondo imperniata sul nesso inestinguibile tra produzione e crescita, e tra crescita e riscatto
sociale. Ma quali erano le particolari sfide che il Giappone si trovò ad affrontare rispetto a, per
esempio, Francia e Prussia, due dei suoi modelli di state building di riferimento? In primo luogo,
vi era un evidente problema di coesione e uniformità territoriale: non solo le Ryūkyū erano
fisicamente separate dal resto del paese, ma la conoscenza pregressa delle loro caratteristiche
climatiche, idrogeologiche e naturalistiche si limitava alle informazioni raccolte da un dominio
feudale premoderno con priorità sostanzialmente diverse, il cui campo visivo era circoscritto a
una sola attività economica – i.e., la coltivazione e raffinazione di canna da zucchero – e ai centri
proto-urbani corrispondenti alle maggiori piazze e snodi commerciali; in altre parole, mancava
una mappatura scevra da interessi particolaristici, tale da consentire al centro di conoscere senza
145
vedere – per quanto riguarda la popolazione, basandosi esclusivamente su una serie di parametri
e modelli temporalmente scanditi e indipendenti da coordinate spaziali, quali il volume delle
entrate, le statistiche sull’occupazione e l’andamento demografico – e di vedere senza conoscere
– per quanto riguarda il territorio, affidandosi a una descrizione virtualmente perfetta e stabile,
alla cui definizione non concorrono le pratiche sociali e culturali che tendono a modificarlo nel
tempo –, entrambe condizioni fondamentali per la conduzione dell’ordinaria amministrazione
statale.
Secondariamente, una volta stabilito che anche Okinawa avrebbe dovuto rientrare nell’ordine di
idee di questa logica centralista, restava aperta la questione di come integrarla nella filiera
produttiva del paese in tempi consoni con le mire espansionistiche della classe dirigente, che già
guardava con insistenza al continente asiatico.
Data l’impossibilità di introdurre nell’isola l’industria pesante, determinata sia dalla sua distanza
da Tokyo che dalla scarsa reperibilità di materie prime, si cercò pertanto di ristrutturare l’unico
settore che, per ampiezza di scala e disponibilità di conoscenze, poteva essere agilmente
convertito alla produzione di massa: si arrivò così alla costruzione dei primi complessi per
l’estrazione e la raffinazione dello zucchero, il cui modesto esito è da interpretarsi come il
risultato della miopia connaturata ad alcune scelte di governance sul piano macroeconomico.
Anzitutto, in retrospettiva appare quantomai evidente come il tentativo di perseguire
sincronicamente l’espansione imperialista in Estremo Oriente e la modernizzazione della
prefettura fosse destinato al fallimento: a partire da una condizione iniziale con diversi punti di
contatto, i territori occupati finirono presto per sorpassare l’arcipelago meridionale grazie a un
regime fiscale e giuridico di stampo apertamente coloniale, che limitando sensibilmente i diritti
delle persone aveva creato le condizioni ideali per l’espansione del capitalismo giapponese; al
contrario, Okinawa poteva beneficiare della protezione offerta dal diritto costituzionale e
internazionale, per il quale l’imposizione di un commissariamento para-coloniale avrebbe
comportato, oltre a una risposta istituzionale da parte degli organi di garanzia, anche un danno
di immagine che il Giappone, in qualità di potenza emergente nel Pacifico, non poteva
permettersi, pena la perdita del potere negoziale che sino ad allora aveva consentito di evitare le
interferenze straniere negli affari di Stato.
146
A seguire, l’abbattersi della crisi del primo dopoguerra mise temporaneamente in stand-by i piani
di Tokyo, necessitando l’emissione di sussidi di emergenza non solo per alleviare lo stato di
povertà endemica, ma anche e soprattutto per soccorrere quelle stesse fabbriche che, confortate
dal proprio monopolio all’interno dei ristretti confini dell’isola, avevano risparmiato all’osso
sugli investimenti in innovazione, ritrovandosi impreparate di fronte alla volubilità del mercato
internazionale. Infine, l’avvento del militarismo Shōwa, le cui ombre iniziarono ad allungarsi
sull’isola ben prima della famigerata battaglia, rappresentò senz’altro l’inversione di rotta più
significativa, nella misura in cui furono adottate misure di coercizione esplicita – in precedenza
oculatamente evitate –, facendo cadere la maschera ideologica del paternalismo imperiale:
paradossalmente, negli anni del conflitto si cercò di intervenire il meno possibile sulle asperità
naturali del luogo, rappresentanti un irrinunciabile vantaggio strategico sia per la fase di difesa
che per l’eventuale ritirata verso l’interno. A pagare lo scotto dell’inusitata presenza militare
sarebbero stati, semmai, i villaggi contadini, che proprio nel tentativo di adeguarsi alle
indicazioni emanate dall’alto avevano in parte dimenticato o rinunciato a tenere in vita le proprie
pratiche consuetudinarie, trovandosi del tutto impreparate ad accogliere le torme di soldati che
ora pretendevano di essere ospitate e sfamate.
A ostilità concluse, il percorso compiuto dalle forze di occupazione statunitensi verso
l’imposizione di un disegno centralista fu sostanzialmente inverso, in quanto, a partire da una
gestione della cosa pubblica di carattere intrinsecamente militare, necessitata dalla stasi di
qualsiasi attività economica e commerciale, nonché dalla distruzione degli insediamenti, esso
arrivò ad allentare gradualmente – ma mai in maniera definitiva – la presa sulla popolazione
civile, in modo da incentivare la libera impresa e la replicazione di un modello di crescita di
stampo americano, avente grossomodo i medesimi riferimenti ideologici di quello giapponese –
prima che quest’ultimo fosse contaminato dallo statalismo e dal militarismo, s’intende. Anche
in questo caso, si può riconoscere a posteriori una grave ingenuità di fondo, corrispondente
all’erronea convinzione che il mantenimento della piena operatività delle basi e la conduzione
delle esercitazioni annesse potessero convivere con la crescita endogena dell’economia locale –
o nazionale, se si considera il particolare statuto giuridico riconosciuto alle Ryūkyū al tempo.
Detto diversamente, lo USMGR avrebbe fallito nella ripianificazione della geografia produttiva
del territorio avendo elevato arbitrariamente a centro nevralgico della regione delle installazioni
147
di carattere puramente difensivo, metaforici buchi neri incapaci di trasformare – sotto forma di
beni o servizi – o ripristinare nel tempo le risorse che dalle periferie giungevano a soddisfarne il
fabbisogno energetico e di manodopera. Si arrivò così a configurare una situazione altrettanto
paradossale per cui, continuando a detenere in via esclusiva la proprietà dei terreni più fertili,
l’utilizzo delle infrastrutture strategiche e l’accesso alle risorse primarie, sul piano dei rapporti
di produzione gli occupanti si ponevano quali primi avversari e concorrenti della popolazione
civile, la stessa che si erano ripromessi di risollevare dalla miseria dando impulso a una ripresa
economica abbastanza energica da consentire l’emancipazione dalla centralità delle basi.
Sul piano dei processi di legibilizzazione, prima conseguenza dell’adozione di tale assetto fu
l’affermarsi di un regime di visione la cui profondità era direttamente proporzionale
all’inefficienza dello Stato. La nuova suddivisione amministrativa in distretti, la cui gerarchia
era di fatto incapace di agire all’unisono per via di campanilismi e interessi particolaristici, era
comunque in grado di provvedere una mappatura piuttosto esaustiva e omogenea, dal momento
che quanto concerneva le attività civili vi rientrava soltanto in funzione ancillare degli interessi
militari: da qui, si comprende la lentezza e la riluttanza con cui furono implementati i piani di
riqualificazione agricola, economica, edilizia, la cui importanza, per un governo abituato a
guardare solo al corretto funzionamento del suo apparato difensivo, sarebbe rimasta tutt’al più
marginale.
Parimenti, è possibile leggere in quest’ottica la politica assistenzialista varata dal Giappone
liberaldemocratico post-henkan, sostituendo nell’equazione gli interessi corporativistici al
termine degli interessi militari. Anche qui, ritroviamo una macchina statale che, nonostante gli
intenti professati in sede programmatica, si pone quale diretta concorrente dei cittadini che
avrebbe il dovere di servire, intervenendo nelle zone d’ombra lasciate dai suoi immediati
predecessori per mezzo del formidabile strumento dei sussidi e dei lavori pubblici: i primi sono
da intendersi come un dispositivo di pressione indiretta sulle istituzioni prefetturali, concepiti in
linea di principio quale moneta di scambio nella composizione del pubblico dissenso, fomentato
il più delle volte dalla mancata revisione dell’attuale defense policy; i secondi rappresentano
invece l’estensione tangibile dell’occhio dello Stato, che avvalendosi della forza omologatrice
del cemento e dell’edilizia civile persegue lo scopo di rendere passibili di sfruttamento anche
quelle aree sinora scampate all’opera di “miglioramento” del territorio. Conseguentemente, detto
148
miglioramento determina a sua volta l’adozione di un modello di sviluppo che, per quanto
favorisca l’occupazione della forza lavoro locale, serve in realtà a mantenere al proprio posto
una classe dirigente altrimenti inerte e facilmente sostituibile.
Riprendendo il nostro argomento iniziale, è comunque consigliabile non indulgere alla dialettica
del vittimismo al di là di queste considerazioni di ordine storico: fare diversamente
implicherebbe infatti deresponsabilizzare e contemporaneamente caricaturizzare un’intera
popolazione, omettendo di rendere onore ai suoi meriti e al suo spirito di autodeterminazione,
nonché di riconoscere le infinite prospettive che il presente, pur con tutte le sue contraddizioni,
dischiude per l’avvenire. Gli okinawani, intesi come gli abitanti dell’odierna prefettura di
Okinawa, depositari di una tradizione aventi radici ben più antiche delle narrative ideologiche
dei moderni Stati-nazione, sono gli unici a possedere il diritto e la forza necessaria a decidere
per il proprio futuro, in primo luogo in qualità di cittadini giapponesi a tutti gli effetti.
Tuttavia, tra l’enucleazione delle proprie richieste e il conseguimento di migliori condizioni di
vita e di lavoro attraverso i canali istituzionali preposti, si frappongono diversi problemi
strutturali, alcuni comuni all’intero Giappone, altri riguardanti specificamente la situazione
dell’arcipelago meridionale.
Per quanto riguarda il contesto nazionale, il disinteresse e la scarsa partecipazione – soprattutto
da parte dei giovani – alla vita politica del paese rappresentano un vulnus inveterato della
democrazia giapponese, la cui criticità è stata a lungo minimizzata dalle dirigenze dei partiti di
pressoché ogni area, abituati a rivolgersi a un elettorato stabile nel tempo e debitamente
fidelizzato. Ciononostante, tale atteggiamento di noncuranza è venuto inevitabilmente a collidere
con la realtà ineludibile del dato demografico, riportando all’attenzione della classe politica la
necessità di rivedere i propri programmi e strategie di comunicazione in un’epoca in cui sempre
meno individui votano e si interessano della cosa pubblica: eppure, nonostante la centralità
acclarata di internet e delle piattaforme social nei processi di informazione, ancora oggi il grosso
della campagna elettorale ruota attorno a comizi in piazza o a bordo strada, con tanto di
camionetta e megafono, o a martellanti campagne pubblicitarie che raggiungono una percentuale
irrisoria degli elettori, mentre mancano rubriche televisive o programmi di infotainment in grado
di aprire un dibattito genuino, coinvolgendo in prima persona gli esponenti di partito e le loro
idee.
149
Intimamente collegata a questa cacofonia comunicativa è la questione della mancanza
dell’alternativa, da cui è lecito supporre discenda anche la remissività del corpo elettorale,
tradizionalmente imputata al popolo giapponese sulla base di interpretazioni culturaliste – es.
l’innato orientamento alla coesione sociale degli orientali – ma di fatto riscontrabile in più o
meno tutte le democrazie liberali contemporanee. Eccezion fatta per alcune fondamentali
divergenze “di bandiera” nell’ambito dei diritti civili, della politica monetaria e del welfare, le
posizioni di maggioranza e opposizione e dei loro alleati di coalizione sui nodi problematici della
contemporaneità appaiono perlopiù identiche, denotando una distanza ideologica quasi del tutto
azzerata tra i due fronti dello schieramento; di conseguenza, nonostante l’elettorato – in primo
luogo quello urbano – abbia da tempo riconosciuto come soltanto una revisione critica e
strutturale della politica energetica, del sistema corporativistico, dei piani di sicurezza nazionale
e dei sistemi sanitario e scolastico possa ingenerare un cambiamento degno di questo nome, esso
si trova per forza di cose disincentivato a esprimere le proprie istanze e a farle pervenire alla base
o agli organi di partito, come pure a discuterne pubblicamente o in privato. Tale riduzione
dell’offerta politica – se così si può chiamare – non rappresenta dunque la naturale
riorganizzazione di un sistema democratico che ha trovato il suo punto di equilibrio in una serie
di valori condivisi dall’intero corpo elettorale, quanto la cesura definitiva tra democrazia e
rappresentanza, da cui si evince lo iato che separa le esigenze dei cittadini comuni da quelle dei
politicanti – le quali, almeno in linea teorica, dovrebbero semmai coincidere.
Infine, come si è tentato ampiamente di dimostrare altrove nella dissertazione, il Giappone
continua a soffrire di un grave problema di scala, traducentesi in una configurazione ormai
apparentemente immutabile per la quale solo una manciata di grandi città industriali possiede la
facoltà di intervenire sulla vita politica del paese e di imprimere un pur minimo indirizzo ai
provvedimenti adottati in sede parlamentare, in contrasto con una moltitudine di centri urbani –
dalla ridotta densità abitativa ma ospitanti la maggior parte della popolazione – che si scoprono
impotenti e afoni nell’interagire con le istituzioni, benché possano vantare un peso elettorale non
inferiore alle metropoli. In termini di capitale umano, è proprio questo doppiopesismo mantenuto
dalla Dieta nell’approcciarsi all’opera di riforma a perpetuare i flussi di emigrazione interna dalle
città minori – o supposte tali – verso i cuori produttivi delle singole prefetture: in questo senso,
lavorare e vivere nella grande città non significa solo essere al centro del mondo, partecipare
150
della natura di quel cool Japan tanto ostentato dai media nazionali e rappresentato da quelli
stranieri, ma anche sapere che la propria opinione conta e che la propria voce, per quanto
spersonalizzata e ridotta ai minimi termini, giungerà alle orecchie del potere passando per la
tappa obbligata dei rapporti di produzione, complice l’ossessione per il PIL e la crescita nominale
– GDPism in inglese – della classe dirigente.
Se è pertanto vero che l’unica cosa che conta sono i grandi numeri e le proiezioni verticali, e che
questi possono aumentare ulteriormente solo là dove ve ne sia già una concentrazione
significativa, ne consegue che soltanto Ōsaka, Tokyo e poche altre realtà possono auspicare al
cambiamento, nella misura in cui esse stesse ne sono il motore primo. In realtà, questa visione
semplicistica – nonché discriminatoria in una certa misura – non solo impedisce alle periferie di
reinventarsi e rinegoziare il proprio ruolo nell’economia nazionale, privandole delle loro risorse
più preziose – forza lavoro potenziale in primis –, ma riduce le possibilità di crescita di quegli
stessi centri che rappresentano la punta di diamante del tessuto produttivo, dal momento che il
benessere e l’espansione di contesti urbani di tale complessità poco si confanno a sottostare a
criteri aziendalistici di ordine puramente quantitativo.
Quest’ultimo aspetto ci riporta necessariamente a Okinawa, e all’infelice collocazione della
regione nell’organigramma del sistema-paese. Già diversi anni prima che l’ipotesi della
restituzione dell’ex prefettura si concretasse, la preoccupazione dei quadri dirigenti di Tokyo era
stata quella di determinare cosa l’isola potesse contribuire a produrre, il che, come abbiamo visto,
ha dato adito alle ipotesi più fantasiose; in realtà, per somma disdetta dell’establishment, si capì
ben presto che, a meno di non cambiare radicalmente il volto del territorio, riprogettando dalle
fondamenta anche le concentrazioni urbane e le attività economiche preesistenti, sarebbe stato
impossibile convertire Naha o altre municipalità densamente popolate all’industria
manifatturiera. Secondo il punto di vista dei funzionari ministeriali, Okinawa sarebbe dunque
tornata a essere un fardello per l’economia nazionale, che tuttavia non ci si poteva esimere
dall’assumere sia per una questione di integrità territoriale, che il Giappone scalpitava per
ripristinare sin dalla firma del Trattato di San Francisco251 – non da ultimo per un emendamento
251
Siglato l’8 settembre 1951 da 49 paesi, sancì la ripresa di regolari relazioni diplomatiche tra Giappone e Stati
Uniti, così come con gli altri membri delle Nazioni Unite. Inoltre, mise ufficialmente fine all’occupazione militare
del paese da parte delle forze americane, che a partire dall’anno successivo si ritirarono dall’Arcipelago. Cfr. Caroli,
Gatti, op. cit., pp. 229-231.
151
simbolico degli errori del suo passato coloniale –, sia per trarre d’impaccio l’alleato americano,
il cui interventismo nel Sud-Est Asiatico aveva riportato all’attenzione dell’opinione pubblica e
della comunità internazionale le fragili basi legali su cui poggiava la prolungata occupazione
delle Ryūkyū.
In un mondo proiettato verso la globalizzazione, dove il settore primario costituiva una voce
ormai irrilevante nel bilancio pubblico di una nazione del Primo Mondo e l’urgenza di
promuovere uno sviluppo sostenibile e rispettoso dell’ambiente non era stata ancora pienamente
compresa, Okinawa rappresentava qualcosa di molto simile a un peso morto, ripensabile tutt’al
più come un’unica, grande struttura ricettiva dove permettere alle boccheggianti imprese edilizie
dello hondo di approfittare del ridotto costo del lavoro, e ai turisti big spender di ricaricare le
batterie in uno scenario che non aveva eguali nel resto dell’Arcipelago. Purtroppo, anche a
distanza di quasi cinquant’anni, nel cui corso il sogno di spodestare gli Stati Uniti quale prima
economia del globo e di guidare verso la modernizzazione le nazioni in via di sviluppo
dell’Estremo Oriente si è irrimediabilmente infranto, permane invariata la tendenza a ragionare
secondo gli stessi schemi che hanno impedito al paese di interpretare correttamente le sue
criticità e punti di forza. Forse sperando in un nuovo miracolo economico – che dovrebbe essere
anzitutto demografico –, il Giappone continua così a inseguire la Cina affidandosi al miraggio
postfordista della razionalizzazione dei processi di produzione252, ignorando la tiepida risposta
del mercato e i segnali d’allarme provenienti dalla sua classe media, perseverando nell’erronea
convinzione che produrre in gran quantità e a costi ridotti significhi crescere di conseguenza.
Se però si esce dalla rigidità di questo schema mentale e ci si prova a porre nuovamente il
medesimo quesito, appare chiaro come l’incompatibilità tra il contesto okinawano e le
aspirazioni dell’industria pesante nipponica rappresenti un problema soltanto se lo si vuole
intendere come tale. Ferme restando le sue inconfutabili storture, nondimeno il XXI secolo si è
distinto per un radicale ripensamento delle priorità da parte di governi e cittadini, la cui risposta
alla crescente incertezza, determinata dal cambiamento climatico e dall’esaurimento delle risorse
naturali, è stata – almeno nella maggior parte dei casi – di ridurre gradualmente il volume di
produzione di beni materiali per favorire un utilizzo più coscienzioso di quello che il pianeta ha
Cfr. Berndt E. J. J-Economy, J-Corporation and J-Power since 1990 – From Mutual Gain to Neoliberal
Redistribution, Edizioni Ca’ Foscari, Venezia, 2018.
252
152
da offrire, sì da permettere alle prossime generazioni di godere delle stesse comodità e sicurezze
che l’umanità è riuscita a conquistarsi nel secolo scorso. In questa prospettiva, le Ryūkyū non
solo non verserebbero in una condizione di arretratezza o sottosviluppo, ma presenterebbero anzi
le condizioni ideali per una rinascita verde da estendere in un secondo momento all’intero
Arcipelago, fondata sulla riduzione di scala, il ritorno alla gestione comunitaria degli spazi e
delle risorse, la valorizzazione del patrimonio naturalistico, l’agricoltura biologica e la
sensibilizzazione alle tematiche ambientali.
Giunti a questo punto, si è ritenuto doveroso approntare una disamina conclusiva di quelli che a
nostro parere rappresentano gli ostacoli più insidiosi per la riqualificazione green dell’isola,
proponendo al contempo alcune soluzioni concrete frutto della personale rielaborazione delle
teorie avanzate da geografi ed esperti di island studies, i cui studi ci hanno guidati nella scelta di
questo specifico tema per la presente dissertazione – e per il cui dettaglio si rimanda nuovamente
alla bibliografia253.
In primo luogo, è noto come la principale fonte di entrate dello hontō, come anche dei suoi
maggiori disagi, sia rappresentata dal turismo. Nello specifico, si possono distinguere tre
categorie principali di turisti, ciascuna caratterizzata da una diversa modalità di accesso e
fruizione alle strutture dell’isola: la prima e più numerosa su base giornaliera è quella dei turisti
“mordi e fuggi”, provenienti – in ordine di affluenza – da Taiwan, Cina Popolare, Corea e Hong
Kong254, che, sbarcati nel porto di Naha, hanno a disposizione alcune ora di libertà per fare
compere e assaggiare qualche prodotto tipico prima di fare ritorno alla propria nave da crociera;
per una questione di prossimità, affollano generalmente i negozi della Kokusai Dōri – la via dello
shopping a pochi passi dal cuore amministrativo della città – per acquistare souvenir o prodotti
di elettronica a regimi d’imposta convenienti. La seconda categoria è quella dei turisti stranieri
– sia orientali che occidentali – che visitano Okinawa per soggiorni di media durata – dai tre ai
cinque giorni – , solitamente come tappa conclusiva di un più vasto tour dell’Arcipelago; in
considerazione delle spese già sostenute durante il viaggio e per il trasporto aereo, alloggiano di
253
Cfr. Gima H., Yoshitake T. A Comparative Study of Energy Security in Okinawa Prefecture and the State of
Hawaii in Evergreen, vol. 3, University of Kyushu, Fukuoka, 2016; Kakazu H. Tōsho Keizai no jiritsu wo meguru
shomondai in Journal of Island Studies, vol. 3, University of the Ryukyus, Nishihara, 2002; Nishimura Y. Okinawa
ni okeru nōson kaihatsu kara mita gurīn tsūrizumu in Journal of Tourism Sciences, vol. 3, University of the Ryukyus,
Nishihara, 2011.
254
Cfr. Okinawa tourist numbers top those of Hawaii for first time, The Japan Times, 9 febbraio 2018.
153
norma in alberghi o pensioni a un prezzo accessibile, sfruttando il tempo a disposizione per
visitare le attrazioni più rinomate, come l’acquario di Churaumi (Motobu-chō), il Nago
Pineapple Park (Nago-shi), l’American Village (Chatan-chō), i punti panoramici di Hedo Misaki
(Kunigami-son) e Kafu Banta (Uruma-shi), e il castello di Shuri – quest’ultimo almeno fino allo
sfortunato incendio del 2019. Per spostarsi con più facilità, in genere noleggiano un’auto presso
uno dei numerosi rentakā (ing. car rental) o utilizzano i pullman turistici messi a disposizione
dalle agenzie di viaggi dell’isola: rappresentano inoltre la categoria che più contribuisce a
sostenere le piccole attività locali, nonché l’unica potenzialmente interessata a un turismo di tipo
naturalistico o culturale. Infine, la terza categoria, composta quasi esclusivamente da turisti
originari del mainland, è quella dotata del maggiore potere d’acquisto, ed è dunque in grado di
permettersi soggiorni di lunga durata – dalla settimana in su255; la struttura ricettiva prediletta è
di conseguenza il resort, che grazie ai suoi comfort e alla distanza dai centri urbani provvede
un’esperienza di isolamento all’insegna del relax, salvo particolari richieste dei clienti in altro
senso (es. immersioni, spettacoli dal vivo). Il loro contributo in termini puramente monetari
all’economia dell’isola è sicuramente il più cospicuo, ma è controbilanciato da un impatto
ambientale – sia a priori, per quanto concerne i lavori di costruzione del resort e delle annesse
opere di viabilizzazione, sia a posteriori, per la quantità di acqua ed energia consumata –
sproporzionato rispetto a quanto possibilmente pagato dal singolo cliente.
Data questa configurazione, uno strumento legale appropriato per ridurre gli sprechi e la quantità
di rifiuti solidi prodotti dagli spostamenti e dai consumi dei visitatori, oltre alla congestione delle
strade di Naha e delle municipalità turisticamente più rilevanti, potrebbe essere l’imposizione –
sotto forma di ordinanza prefetturale – di un tetto massimo sugli ingressi, garantendo la
precedenza a chi effettivamente prenoti un soggiorno di media o lunga durata presso una delle
strutture dell’isola. Un simile provvedimento contribuirebbe sicuramente a limitare l’assalto dei
crocieristi, nonché a ridurre la pressione sugli esercizi commerciali e sugli alberghi, che fino a
poco tempo prima della pandemia si trovavano impossibilitati ad accogliere le migliaia di ospiti
che in alta stagione si precipitavano a Okinawa, approfittando delle offerte-lampo sui voli
nazionali.
255
Cfr. Aizawa, op. cit, pp. 4-5.
154
Più arduo da disincentivare appare invece il turismo d’alto bordo, dal momento che, anche in
caso di fallimento della singola struttura, difficilmente il governo centrale arriverebbe ad
autorizzare lo smantellamento di un resort, il cui impatto ambientale è comunque il più delle
volte irreversibile. Quello che invece si può fare, sul fronte della profilassi del territorio che è
sinora riuscito a sfuggire alla frenesia edilizia dello hondo, è un potenziamento – o meglio, una
revisione in chiave restrittiva – della Legge sull’impatto ambientale attualmente in vigore: in
primo luogo, si potrebbe rendere obbligatoria la produzione di una valutazione preventiva
sull’impatto ambientale a prescindere dall’entità del progetto, dal momento che, come abbiamo
visto, anche gli interventi considerati di piccola scala si dimostrano eccessivamente invasivi per
il contesto paesaggistico di Okinawa; in questo senso, anche un ripensamento fondamentale dei
criteri definenti la scala di un’opera edilizia, da cui derivano gli specifici adempimenti
burocratici e accertamenti tecnici da espletare prima dell’apertura del cantiere, potrebbe aiutare
a responsabilizzare impresari e funzionari, richiedendo un più attento lavoro di pianificazione
per i primi e di valutazione per i secondi; infine, la decisione finale circa l’opportunità dell’opera
si potrebbe rimettere in via esclusiva al Ministero dell’Ambiente, il quale, finalmente libero dallo
strapotere del Ministero dell’Economia e del Ministero dei Trasporti – la cui imparzialità è
inficiata dalla rete di conoscenze con il mondo dell’edilizia –, formulerebbe il proprio verdetto
in base alla sua sola area di competenza, guardando più al parere degli esperti che alle esigenze
degli imprenditori.
A ogni modo, è difficile credere che un’opera di riforma imperniata esclusivamente su leggi e
normative emanate dall’alto sarebbe sufficiente a imprimere una vera svolta al modello di
sviluppo di Okinawa. A fronte dell’elevata complessità, la questione del turismo richiede infatti
una soluzione altrettanto articolata, per la quale si possono formulare una serie di suggerimenti
collaterali la cui implementazione gioverebbe non solo ai visitatori, ma anche a chi sull’isola
vive e lavora stabilmente.
Anzitutto, sarebbe opportuno provvedere all’ampliamento e ammodernamento dell’intero
sistema di trasporto pubblico, a oggi comprendente autobus di linea e monorotaia – la Yui Rēru,
che dall’Aeroporto Internazionale di Naha arriva in tre ore a coprire la distanza fino al capolinea
della stazione di Tedako-Uranishi, nella municipalità di Urasoe. Per quanto riguarda i primi, essi
sono più datati dei loro omologhi riservati ai tour, tanto da necessitare riparazioni frequenti che
155
si ripercuotono sul rispetto degli orari; ancora, gli ingenti costi di manutenzione si riflettono sulle
tariffe, che sulle lunghe percorrenze – ovvero praticamente tutte le tratte che dalle municipalità
del Centro-Sud si irradiano verso gli altri centri abitati – diventano proibitive, anche volendo
sottoscrivere un abbonamento mensile. Invero, se le aziende del trasporto locale, con il supporto
economico e organizzativo del governo prefetturale, si risolvessero ad agire di concerto per una
sostituzione comprensiva del parco vetture, aumentando allo stesso tempo il numero dei mezzi
e degli autisti alle proprie dipendenze, sarebbe possibile organizzare una rete di trasporto più
efficiente, in grado di coprire l’intera estensione dell’isola avvalendosi di un sistema di cambi e
collegamenti tra linee diverse: in tal modo, invece di poche vetture costrette a percorrere lunghe
distanze effettuando poche fermate, si potrebbe arrivare a una copertura più capillare, tale da
compensare eventuali ritardi con la frequenza delle corse.
Oltre ai turisti, a beneficiarne sarebbero ovviamente i cittadini della prefettura, ai quali sarebbe
data l’occasione di emanciparsi dal monopolio sulla mobilità individuale esercitato dalle
concessionarie d’auto. Di fatto, la necessità di possedere una propria vettura per spostarsi
liberamente non solo comporta un impatto ambientale considerevole in termini di consumo di
carburante, di viabilità stradale e di inquinamento acustico e dell’aria, ma costringe le varie
tipologie di residenti a lungo termine (teijūsha) – una denominazione che accomuna categorie
professionali assai eterogenee, quali militari americani di stanza in Giappone, immigrati
lavoratori, ricercatori universitari – ad attraversare un complesso iter burocratico per ottenere la
patente di guida e, per chi ne avesse la disponibilità economica, anche per acquistare una propria
vettura. Si tratta certamente di un sistema che fa buon gioco ai proprietari di concessionarie, alla
protezione dei cui interessi si può in una certa misura imputare le attuali condizioni del trasporto
pubblico, lasciato a se stesso allo scopo di favorire un settore che ha il merito di generare
occupazione per molti abitanti del luogo. D’altro canto, ridurre gradualmente il numero di
autovetture in circolazione contribuirebbe a scoraggiare il fenomeno dell’abbandono delle stesse,
che ha ormai raggiunto proporzioni insostenibili: le strade di Okinawa appena fuori dalle zone
più trafficate sono infatti disseminate di auto dismesse parcheggiate in doppia fila, lasciate ad
arrugginirsi e a degradarsi in prossimità delle abitazioni e delle aree verdi, rilasciando
nell’ambiente le sostanze inquinanti più disparate.
156
Ciò è dovuto in primo luogo alle procedure burocratiche e ai costi che i proprietari devono
sostenere per lo smaltimento, dal momento che il veicolo deve essere trasportato via nave fino
alla terraferma256, dove si trovano gli impianti di rottamazione: tale fatto disincentiva i residenti
stranieri ad espletare le pratiche necessarie allo smaltimento prima di far ritorno al proprio paese,
tanto che, qualora non si riesca a trovare un connazionale disposto ad acquistare la vettura usata,
quest’ultima viene per l’appunto abbandonata per la strada; a loro volta, anche i cittadini
giapponesi della prefettura, nonostante il rischio di venire rintracciati ed essere chiamati a
rispondere del proprio illecito, finiscono per ricorrere a questa pratica, dato l’elevato numero di
macchine che un okinawano normalmente cambia nel corso della sua vita, non da ultimo su
impulso dei numerosi incentivi e promozioni offerti dai concessionari. Potenziare la rete del
trasporto pubblico non rappresenterebbe dunque soltanto un provvedimento democratico, atto a
garantire uguali possibilità di spostamento a tutte le fasce d’età e di reddito, ma anche
un’ulteriore polizza sulla vivibilità dei centri urbani e sulla salute dei cittadini, nonché del resto
degli inquilini animali e vegetali che popolano gli ecosistemi isolani.
In aggiunta, l’avvio di una vera rinascita verde non può prescindere dalla protezione e dalla
promozione del patrimonio naturalistico, per la quale si renderà necessaria l’elaborazione di un
nuovo modello di turismo rispettoso del delicato equilibrio ecosistemico, soprattutto alla luce
dell’importanza capitale che questo settore continuerà a rivestire per l’economia dell’isola per
gli anni a venire. In realtà, gli uffici turistici di Okinawa offrono già da diverso tempo gite ed
escursioni guidate ai luoghi simbolo del territorio257, ma si tratta perlopiù di attività scarsamente
pubblicizzate e quasi esclusivamente per parlanti giapponese, il che esclude a priori i turisti
stranieri, più facilmente attirati da svaghi e attrazioni che non presuppongono un’interazione con
i locali; inoltre, al di là della barriera linguistica, i professionisti in grado di condurre in sicurezza
un gruppo di visitatori nel folto della foresta e di illustrarne le particolarità con cognizione di
causa si contano sulle dita di una mano, a causa del numero ridotto di giovani che decidono di
intraprendere questo percorso di formazione specialistica.
256
Cfr. Marine Corps Community Services (MCCS), Vehicle Disposal & Deregistration in MCCS Okinawa (official
website), 2018.
257
Cfr. Murray A. E. Footprints in Paradise – Ecotourism, Local Knowledge, and Nature Therapies in Okinawa,
Berghahn Books, New York City, 2017.
157
Nonostante il forte senso di appartenenza, le nuove generazioni dimostrano infatti un modesto
interesse nei confronti della storia naturale e delle bellezze del proprio territorio, complice la
ridotta attenzione prestata a questi temi all’interno del curriculum scolastico; al contrario, se si
provvedesse a una riforma dei programmi – dalla scuola primaria in poi – meno in linea con
l’insegnamento manualistico propugnato da Tokyo e più focalizzata sull’apprendimento sul
campo, gli okinawani avrebbero occasione di interfacciarsi con la realtà circostante sin da
giovanissimi, attraverso attività formative formalmente integrate nel proprio percorso di studi
quali lezioni tematiche, viaggi di istruzione, visite guidate e project work, imparando così ad
apprezzare la natura e sviluppando una coscienza ambientale con cui opporre resistenza agli
interventi di “miglioramento” a opera delle doken’ya, il cui successo dipende spesso
dall’indifferenza riservata dall’opinione pubblica a questi temi. Accompagnati da un metodo di
insegnamento delle lingue straniere – cinese mandarino e inglese in primis – improntato
all’acquisizione di una padronanza effettiva anziché al superamento dei test a scelta multipla
attualmente invalsi nella scuola pubblica, detti aggiustamenti ai curricula contribuirebbero a
formare non solo le figure specialistiche (agronomi, guardie forestali, guide turistiche,
insegnanti) di cui l’isola ha disperato bisogno per proteggere e monetizzare il proprio patrimonio
naturalistico, ma anche dei cittadini debitamente informati e in grado di comprendere le
implicazioni ambientali derivanti da determinate scelte di policy, al di là dei vantaggi economici
immediatamente visibili.
Verosimilmente, il turismo post-pandemico a Okinawa dovrà per forza di cose conformarsi
temporaneamente a questa situazione di stallo, rivedendo le proprie strategie di promozione e di
accoglienza alla luce del ridotto afflusso di turisti stranieri e delle limitate possibilità economiche
della classe media (shimin) dello hondo, che oggi come mai prima d’ora si candida a essere la
prima fautrice della ripresa dell’isola. In conclusione, il nostro auspicio è che il cambiamento
che si profila all’orizzonte non rappresenti un mero ripiego emergenziale, bensì il punto di
partenza di un più coscienzioso approccio alle risorse, agli individui e agli spazi, fondato su una
rinnovata conoscenza civica e sulla consapevolezza – per quanto intuitiva – dei processi di
territorializzazione e centralizzazione che mettono a repentaglio il paesaggio e l’autosufficienza
di questo splendido arcipelago.
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