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Corso di Laurea Magistrale in Lingue, economie e istituzioni dell’Asia e dell’Africa mediterranea Tesi di Laurea Mensōre ja nai! Il controverso processo di State-building a Okinawa, tra urbanizzazione e meccanizzazione del settore primario Relatore Ch.mo Prof. Marco Zappa Correlatore Prof. Patrick Heinrich Laureando Giovanni Stigliano Messuti Matricola 862529 Anno Accademico 2020-2021 Indice 要旨 3 Introduzione 7 Capitolo 1. Il paesaggio e il disegno del potere 17 1.1. L’occhio del Novecento racconta l’occhio dello Stato. Un documento cinematografico 17 1.2. Da Berlino a Naha. Possibili applicazioni della human geography al caso okinawano 19 Capitolo 2. Edilizia civile e urbanizzazione 33 2.1. L’importanza della concezione di paesaggio nella definizione delle pratiche abitative 33 2.2. L’architettura tradizionale del Regno delle Ryūkyū e l’integrazione “morbida” nello Stato Meiji 41 2.3. Il tardivo piano di ricostruzione dell’USCAR e la difficile transizione all’edilizia cementizia 53 2.4. Ritorno al Giappone. La febbre dell’edilizia turistica e il miraggio dell’integrazione paritetica 65 Capitolo 3. Settore primario e meccanizzazione 85 3.1. Collocazione del settore primario nell’economia del disegno di centralizzazione 85 3.2. I prodotti tradizionali del Regno delle Ryūkyū e l’utopia Meiji dell’industria zuccheriera 88 3.3. Normalizzare l’emergenza. Conflitti di interesse e passi falsi del piano di sviluppo agricolo dell’USCAR 111 3.4. Ritorno al Giappone. Sostenere l’insostenibile, esportare l’inesportabile 125 Conclusioni 144 Bibliografia 159 2 要旨 本論文では、日本政府あるいは琉球列島を統治したアメリカ政府による沖縄に対す る統治方針によって沖縄本島の環境がどのように変化したのか、その理由を明らかに するとともに、これまでのウチナーンチュの生活が沖縄県の設置(明治 12 年)以後、 今日にかけてどのように変わってきたのかに関して研究を行う。 ここに言う統治方針とは、民意の如何にかかわらず、ある政府が人材及び資源を中 央に移転すること、または官僚制の利益になるように既存の制度を徹底的に改正する 対策を意味する。これに関する先行研究においては、自然豊かな琉球地方の風景が近 代化に誘われた経済活動、例えば分蜜糖の生産、重化学工業、そしてリゾート化によ りどのぐらい荒廃が進んだのかがわかる。しかし、その産業と政府との繋がりがどん なものであるかに関する調査と、またはかかる風景が荒廃してから沖縄出身の一般人 の生活様式が具体的にどのように変わっていったのかを確かめる細かい調査がまだ行 われていないとする。 そこで、本研究は上述の繋がり及びその生活様式の変化を明らかにするために、琉 球大学附属図書館並びに、ヴェネツィア・カ・フォスカリ大学アジア・北アフリカ言 語・文化学部図書館にも保存されている地域環境学、土木建築学、農・動物学などに 関わる様々な文献を通じて、各分野の研究結果の分析を総合的に行った。 本論文の構成は四部に分かれている。まず、第一章では本研究を進めるために用い られた方法を理論的に闡明し、現代の社会学史も考慮しながら最も参考になった地 理・経済・都市社会学者からの論文を考察し、さらに彼らのそのテーマに関する展開 を示す。その中で、出発点は社会学の父であり哲学者であるドイツ出身のゲオルク・ ジンメルであるが、本章における主な参照は 80・90 年代に人文地理学とその批判的 アプローチを生み出した英語圏で生まれた学者であるジェームズ・C・スコット、デ ヴィッド・ハーヴェイ及びエドワード・W・ソジャである。彼らの主張に基づいてそ の変化を展開してみた。原則として、我々の主張は自由主義的経済思想とその価値観 を公然と認める民主主義国家もあらゆる人間活動に次第に税をかけて特別利益をもた らすこと、あるいは大規模公共事業を拡大しつつ自然環境を整備することで市民をよ りよくコントロールすることができるようになるということである。 3 特に、琉球列島が台湾、中国大陸及び日本の本州の中間あたりという要所に位置す るため、薩摩藩によるいわゆる琉球侵攻をはじめとして植民地のような占領が数十年 単位で相次ぎ、今日においても沖縄は帝国主義国であった米国と日本の「周縁」にな ったと思われる。 次に、第二章では戦後の時代に琉球列島を統治したアメリカ政府によって講じられ た沖縄復興政策、及びその後 1970 年代に日本へ返還が完了されてから当時の田中角 栄総理大臣によって図られた新全国総合開発計画に導入された”土建国家ポリシー”と 琉球王国の伝統的な建築工法を比較し、土木建築を対象としつつ上記の弾圧的仕組み が沖縄本島では実際にどのように機能したのかについて調べた。まず沖縄の民家を見 てみると、住居が森から離れずにその中に位置し、そこに存在すること自体が台風の 暴風雨から家を守るとともに、地すべりや洪水を防ぐ機能を果したと考えられる。そ れに、各部屋が各自の使用目的を持ち、家人の身分を反映しながらもプライバシーを 保障し、家族は住居の垣の内側で野菜を植えて食糧及び供水を補うこともできている ため、沖縄の伝統住宅が人々の安全と自給を備えるだけではなく、自然との交流を促 す建物であったと評価できる。 言うまでもなく、第二次世界大戦において住居が徹底的に破壊され、琉球列島を統 治したアメリカ政府によって築かれた難民キャンプは質の悪い材質を用いた単なる仮 設構造のものであったため災害に耐えられないものであった。同様に、緊急事態が終 了した後で建てられた 2×4(ツーバイフォー)工法に基づいた民間専用バラック小屋 もしっかりしている土台を持っておらず、イエシロアリに弱いアメリカから輸入され た木材で作られていたため幾年か過ぎるうちに崩れるようになった。にもかかわらず、 1950 年代半ば以降は米軍によって行われる土木建築が転機を迎え、セメント工法が 導入されたおかげで島の一級・二級建築士が新たな建築手法を迅速に身につけ、県内 の役所や一般人のニーズに応じて如何なるビルも設計、建築することが可能にになっ た。その結果、洋風の家の数が飛躍的に向上したが、同時に米軍基地との距離が近づ くことで、その基地で働く米兵による殺人・強姦・誘拐事件が一貫して増加したこと が知られている。あいにく、その状況は日本に返還されるまで続き、日本国政府も見 て見ぬふりしたと考えられる。むしろ、政府は県民の福祉を充実されるどころか、” 土建国家ポリシー”と相まってリゾート、テーマ遊園地及びエンターテイメント施設 4 などを中心とする土建戦略を講じ、沖縄の環境と市街地景観を決定的に損なったと思 われる。 さらに、第三章では前章と同様に沖縄県の設置、アメリカ軍占領の開始と沖縄本土 復帰という三つの転機を特定し、その時代における農耕・水産・家畜飼育という経済 活動がどのように進化してきたのかを論ずるだけではなく、それらの過程が中央集権 化への傾向を胎蔵しているかどうかを明確にすることを目標にする。そもそも、琉球 王国の独立時代は主要作物が米丸大豆、大麦または福建省から十七世紀ごろ野国総管 に導入された紅芋であったが、それらとともに甘蔗は数十年で王国の主要輸出入にな っていた。そして、薩摩侵攻が起こってから琉球政府が砂糖生産を唯一の最優先品と して決めて、沖縄人の栽培方法の大変革が始まった。のちに、日本が明治時代に入り、 琉球列島の機械化を促すことと、低賃金で労働力を搾取することを望んだ本土出身の 資本家によって、本島で砂糖精製所が作られ始めた。そこで初めて設立された会社は 農林水産省に支えられた「沖縄製糖」であり、中頭郡西原町に工場を建て、そこで分 蜜糖を精製しはじめた。分蜜糖は黒砂糖と比べる場合、大量生産が可能であったため 県内の支配階級と県外の起業家にも支持され、農産加工の独占化が不可逆的になった。 その状況は第二次世界大戦にかけて早いスピードで進んだが、琉球列島の経済は沖 縄戦の激しさで完全に崩壊した。続いて、アメリカによる占領が行われた際に司令部 の関心は民間の生活手段に移っていった。そのため、甘蔗の耕作を抜本的に抑制し、 その代わりに紅芋、島野菜、大豆の促成栽培をウチナーンチュに紹介してみたが、そ れが島の地質構造にあまり合わなかったため食料自給率は 1960 年代まで不十分であ ったことがわかる。同時に、琉球列島を統治したアメリカ政府はこれまで県庁が注意 を払わなかった水産、家畜飼育という分野を成長させる企画を実施したにもかかわら ず、相変わらず基地の繁栄を第一にしていたため競争力を持つ地域経済の誕生はまだ あり得ないものであった。さらに、復帰以降は日本政府が経済基盤やリソースへのア クセスを改良したとは言え、ある果実、たとえばパイナップルやマンゴーの栽培を開 発すること、さらに観光公害の発生を過小評価しながらツーリズムキャンペーンを何 度も行うことを除いて、ポリシーの変更を加えなかったことで、現在でも他府県と比 べ沖縄県が全国の賃金水準、雇用水準及び教育水準に追いついていないことが分かる。 5 以上をまとめると、最終章では沖縄問題の解決への具体的な提案を結論として述べ る。確かに、沖縄本島は中央集権化の犠牲者だと言える。なぜなら、統治している国 家がいかなるものであってもウチナーンチュは海外の支配層に比べて知能が劣り、覚 えが悪くて自活できない民族として扱われ、あるいは進歩へ導かれるべき人間として 差別されたため沖縄において独立はなく、「中央」すなわち東京にある政府やワシン トンの安い労力、農産物の宝庫、さらにセメントの建築が本土に比べて早く、そして 徹底的に行われたことにによって沖縄は変形されたと見られるからである。結局、 島々の未来を手に入れられるような提案と言えば、短期滞在をする観光客の人数に制 限を設けること、リゾートを目的とする建築や土地整備に関わる法の厳格な施行を行 うこと、公共交通機関のサービスを改善すること、そして最後に環境問題についての 県民の意識を高めることを示した。その理由は、それらを採択したら持続可能な開発 を遂げ、経済や投資の「本土依存」がなくなり、県民自身が自分たちの島のこれから の運命を創ることが可能になると考えられるからである。 6 Introduzione In virtù della propria posizione strategica, a metà strada tra Taiwan, la Cina continentale e il Giappone, le Ryūkyū sono sempre state al centro di aspre contese territoriali, tanto da arrivare a perdere del tutto la propria autonomia già a partire dal 1609, in seguito all’invasione delle truppe di Satsuma – il feudo (han) corrispondente all’odierna prefettura di Kagoshima (Kyūshū). Fu soltanto il primo di una serie di passaggi di consegne eterodiretti e arbitrari, con i quali questo arcipelago nel Mar Cinese Orientale fu costretto a una condizione di doppia sudditanza – nei confronti della dinastia Ming in quanto stato tributario, e al contempo nei confronti di Satsuma in quanto territorio occupato – prima e all’integrazione forzosa nello Stato Meiji – la cui politica del kyūkan onzon (preservazione degli antichi costumi) aggravò la condizione di povertà e arretratezza – poi. Da qui in avanti, tristemente noti sono gli eventi che portarono Okinawa a venire utilizzata come suteishi (pedina sacrificale) dell’Impero nel Secondo Conflitto Mondiale, e quindi come deposito di armamenti – nonché come confino per gli elementi più insubordinati del Corpo dei Marines –, la cui smobilitazione non sembra a oggi rientrare nell’agenda politica del Primo Ministro Suga, nonostante le rinnovate promesse dei predecessori in tal senso. Tenendo a mente questi e altri riferimenti cronologici successivi – es. il problematico ritorno (henkan) al Giappone di Satō Eisaku (Jimintō) 1 nel 1972 –, il presente studio si propone di analizzare in che misura il processo di state building – ovvero, quando l’autorità statale utilizza il potere di cui è depositaria per eliminare le resistenze interne e convogliare verso un sedicente “centro” le risorse disponibili – abbia saputo modificare il paesaggio dell’isola maggiore (hontō) di Okinawa a vantaggio della classe dirigente, ponendo in evidenza il legame tra cambi di policy e variazioni nell’ambiente circostante. In linea di principio, la tesi di seguito sostenuta è che, in presenza di una forte spinta ideologica o nel nome di un economismo totalizzante, sussista la possibilità che suddetto centro decida di dichiarare guerra a quegli spazi interstiziali entro cui si esercitano la libertà e socialità dei cittadini, arrivando a eliminare con la forza ciò che non collima Nome completo Jiyūminshutō (spesso abbreviato in Jimintō), noto internazionalmente come Liberal Democratic Party (LDP), è un partito conservatore nato nel 1955 dalla fusione del Partito Liberale (Jiyūtō) guidato da Yoshida Shigeru con il Partito Democratico del Giappone (Nihon Minshutō) di Hatoyama Ichirō. Dalla sua fondazione è rimasto pressocché ininterrottamente alla guida del paese. Cfr. Jiyūmintō in Kotobanku onrain jiten, Asahi Shimbunsha, Tokyo. 1 7 con le sue astrazioni pur di sostanziarle, e che ciò si verifichi con maggiore violenza in mancanza di una sovranità stabile e consensuale. In riferimento al contesto okinawano, riteniamo che tale processo sia stato – e continui a essere – più evidente, in primo luogo sotto il profilo paesaggistico, in due macroaree: l’edilizia civile, cui è strettamente connesso lo sviluppo della moderna industria del turismo, caratterizzata da un afflusso di visitatori sproporzionato alle reali capacità di accoglienza dell’isola, e il settore primario – ulteriormente scorporabile in pesca, allevamento e agricoltura –, rappresentante il principale richiamo occupazionale per quanti, impossibilitati o indisposti a uscire dai confini della prefettura, intendessero trovare un impiego al di fuori delle strutture ricettive e dei servizi di intrattenimento annessi. Le fonti principali – soprattutto in lingua giapponese – utili alla stesura della presente dissertazione sono state reperite presso la biblioteca della Facoltà di studi internazionali e regionali (Kokusai chiiki sōzō gakubu) dell’Università delle Ryūkyū in Okinawa, frequentata dal tesista in qualità di borsista del MEXT (Japanese Studies Undergraduate Track) da settembre a dicembre 2019. La possibilità di condurre ricerca sul campo e toccare con mano la fragile realtà dell’isola, interfacciandosi direttamente con gli abitanti e la loro percezione dei problemi rilevanti ai fini dello studio, è stata indispensabile all’elaborazione della cornice teorica entro cui collocare i dati raccolti, a cui hanno successivamente contribuito i preziosi consigli di lettura del relatore Prof. Marco Zappa. In particolare, la frequentazione personale con il Dott. Giovanni Diego Masucci, coautore di una delle ricerche più recenti sulle ripercussioni delle politiche edilizie sullo stato di salute della barriera corallina, ha rappresentato un’occasione unica per acquisire la consapevolezza e la maturità intellettuale necessarie ad affrontare un tema spesso trascurato nel campo dei cosiddetti Japanese studies, ovvero il prezzo esatto dal mainland giapponese (hondo) per il controverso modello di sviluppo esportato nelle Ryūkyū a partire dai primi anni Settanta. Dietro gli scorci da cartolina e le campagne pubblicitarie, si cela infatti la dura realtà quotidiana di chi nella prefettura vive e lavora, i cui tassi di istruzione, occupazione e reddito sono tra i più bassi – se non direttamente i più bassi – della nazione. In antitesi rispetto all’immagine che il Giappone tenta di proiettare di sé all’estero, ovvero di baluardo della democrazia in Estremo Oriente, tecnologicamente all’avanguardia e socialmente pacificato, lo scenario osservabile nei 8 centri urbani dell’isola è quanto di più lontano da questa rappresentazione: gli attriti con i Marines e gli altri rappresentanti delle forze armate statunitensi, per quanto non comparabili per gravità ai casi di cronaca che hanno scosso l’opinione pubblica nell’ultimo ventennio, sono all’ordine del giorno e tradiscono un’insanabile separazione tra militari e civili, forzosamente mantenuta dalle istituzioni; le piazze e gli spazi pubblici di Naha, Ginowan e delle altre municipalità maggiori sono periodicamente presidiati da manifestazioni autorizzate, in cui i cittadini – giovani in testa – non mancano di palesare il proprio dissenso con slogan e striscioni; gli yoseba (quartieri operai) proliferano a fianco dei numerosi cantieri aperti per lavori di non meglio precisata estensione e utilità, radunando al proprio interno manovali a giornata e altri attori dell’economia sommersa nell’indifferenza delle forze dell’ordine. Ancora, sul versante dei servizi ai cittadini, la rete di trasporto pubblico, composta da autobus di linea obsoleti e una singola monorotaia a circondare il centro storico, copre il territorio a macchia di leopardo, con gravi ritardi e disservizi riscontrabili all’infuori del sovrappopolato Centro-Sud; la fornitura d’acqua – dichiarata potabile dalle autorità prefetturali ma gravemente contaminata dai pesticidi e dagli agenti chimici stoccati nelle basi – e di elettricità si interrompe di frequente a causa dei tifoni e delle piogge torrenziali, richiedendo fino ad alcuni giorni per il ripristino nelle zone settentrionali; gli uffici comunali, postali e gli ospedali sorgono il più delle volte a distanza di chilometri dai centri abitati, complicando le interazioni con il pubblico e necessitando il possesso di un’autovettura per l’espletazione anche delle mansioni più semplici. Invero, è nostra opinione che queste e altre avversità che gli okinawani debbono affrontare su base quotidiana, invisibili a chi si limitasse a vivere l’isola pernottando in un resort per un paio di settimane, rappresentino l’effetto collaterale di un processo di centralizzazione statalista dalle alterne fortune, articolatosi perlomeno in tre tempi accomunati dall’obiettivo di ridurre l’arcipelago delle Ryūkyū allo stato di periferia di un più vasto sistema-paese, che facendo leva su pretesti ora di ordine geopolitico – la keystone of the Pacific nella strategia americana della Guerra Fredda – ora di ordine macroeconomico – il raggiungimento dello hondo nami invocato dai governi dell’LDP – sarebbe riuscito a garantirsi una riserva stabile di forza lavoro a basso costo e di prodotti agroalimentari da importare. Obiettivo di questo studio è pertanto presentare la questione okinawana sotto una luce diversa, integrando la trattazione dei temi maggiormente dibattuti – uno su tutti la permanenza delle basi 9 militari – in un discorso più ampio, atto a dimostrare, a partire dalle modificazioni intercorse nel paesaggio, come problemi di ordine apparentemente diverso traggano in realtà la propria origine dalla medesima aspirazione della classe dirigente di turno a rendere uniformi, regolari, pervi e quindi controllabili quegli spazi sino ad allora amministrati su base comunitaria dalla popolazione indigena, il cui legame con il paesaggio ne costituiva la chiave di lettura. Avvalendosi di un ampio apparato di note, sia esplicative che di approfondimento, lo studio intende rivolgersi a chiunque avesse interesse ad approfondire le dinamiche e le forme contemporanee del potere a partire da un caso di rara complessità, su cui si assommano questioni identitarie, postcoloniali e ambientali che alimentano il dibattito inerente alle responsabilità del Giappone contemporaneo in qualità di Stato-guida – o sedicente tale – del quadrante estremorientale. Nello specifico, la trattazione di questi contenuti si articola in tre capitoli, a loro volta suddivisi in sottosezioni tematiche. Il primo capitolo si apre con una breve analisi del film Il profondo desiderio degli dèi (Kamigami no fukaki yokubō, 1968) a opera del regista della nūberu bāgu Imamura Shōhei, ritenuto particolarmente adatto a far comprendere il nesso intercorrente tra mutamenti nel paesaggio e strette autoritarie: in esso si narra dell’anomala saga familiare dei Futori, ostracizzati dalla propria comunità a causa di un crimine contro natura, a cui si presenta un’opportunità di riscatto all’arrivo di un ingegnere da Tokyo, incaricato di effettuare i primi sopralluoghi in vista della conversione al turismo della piccola isola di Kure – Ishigaki al di qua dello schermo. Nel mettere in scena la dialettica tra consuetudinario e istituzionale, tra centro e periferia, tra tempo e spazio, affidando ai personaggi e alla loro afasia il compito di testimoniare l’impotenza delle comunità rurali dinanzi alla macchina della modernità statale, si può dire che Imamura avesse intuito, senza rigore scientifico ma con una certa prescienza, l’equazione per cui alla distruzione delle peculiarità di un territorio corrisponde un più agile controllo e sfruttamento da parte del centro amministrativo e burocratico. A seguire, si rende conto dell’apparato teorico utilizzato per condurre questa indagine, avente come numi tutelari alcune voci controcorrente del pensiero tardonovecentesco: operanti in campi differenti e talvolta in contrasto tra loro, ad accomunare James C. Scott, Michel Foucault, David Harvey, Henri Lefebvre ed Edward W. Soja si pone la convinzione che gli stendardi di benessere e libertà ostentati dalle grandi democrazie liberali nascondano in realtà meccanismi di 10 oppressione di matrice capitalistica, il cui disegno può essere svelato soltanto guardando a quegli aspetti sinora trascurati dalla critica marxista. Passata indenne la prova del Tempo, è infatti invadendo, ridisegnando e mistificando lo Spazio che il capitale può sperare di perpetuarsi, avvalendosi in primo luogo dell’opera di accentramento dei moderni Stati-nazione, posta in essere già a partire dalla fine del XVIII secolo. Adattando queste considerazioni al nostro oggetto di studio, si può notare come riforme introdotte in campi anche molto distanti tra loro (agricoltura, edilizia, turismo) e da padroni differenti (Giappone Imperiale, Amministrazione fiduciaria americana, Giappone postbellico) condividano il medesimo obiettivo di rendere leggibile – amministrativamente parlando – il paesaggio dell’isola agli occhi dello Stato centrale, in modo da meglio sfruttarne le ricchezze e disperdere gli elementi di disturbo, primo fra tutti lo sviluppo di un’autentica identità okinawana. Benché detti strumenti epistemologici non siano mai stati applicati allo studio della realtà okinawana prima d’ora, riteniamo che essa rappresenti un case study particolarmente ricco di interesse per una serie di ragioni: in primo luogo, riunisce in sé le storture del capitale sia del XX (organized/entrepreneurial capitalism) che del XXI (disorganized/speculative capitalism) secolo, manifestandole in una scala più facilmente osservabile da parte del ricercatore; in secondo luogo, costituisce un’unità insulare di discreta estensione territoriale, a sua volta inglobata in un più vasto Stato-nazione insulare di cui riproduce debolezze e contraddizioni; è stata poi a lungo apolide e utilizzata quale merce di scambio in schermaglie geopolitiche, vedendosi negato il proprio diritto all’autodeterminazione; ancora, presenta un contesto idrogeologico, faunistico e ambientale di rara bellezza e fragilità, sul quale gli effetti collaterali delle politiche di accentramento sono particolarmente evidenti; infine, è vittima di dinamiche socioeconomiche sperequate di matrice post-coloniale da cui gran parte dell’Asia Orientale si è ormai emancipata, la cui persistenza è da imputarsi alla dipendenza indotta dal mainland giapponese. Nel secondo capitolo, si procede ad analizzare concretamente la genesi del processo di urbanizzazione sull’isola principale di Okinawa, a partire dalla descrizione dell’architettura tradizionale del Regno delle Ryūkyū. Posta la differenza antropologica sostanziale tra la concezione di paesaggio invalsa nel Kantō-Kansai, imperniata sulla figura del satoyama (villaggio di montagna) e sulla possibilità di intervenire proattivamente sui suoi elementi 11 costitutivi, e quella riscontrabile nell’arcipelago meridionale, per cui le attività umane possono soltanto controbilanciare ex post facto la forza distruttiva o creativa dei fenomeni naturali, le abitazioni private dei ryukyuani si distinguevano per la prossimità allo spazio della foresta, la divisione funzionale degli ambienti e la presenza di porcile e orto all’interno del perimetro della proprietà. Regolata da specifici decreti della corte di Shuri, concernenti la qualità e quantità del legname, nonché il metodo di costruzione utilizzabili, detta prassi edilizia cadde parzialmente in disuso con l’istituzione del governo prefetturale nel 1879, a causa della diversa gestione delle risorse boschive imposta dalla burocrazia nipponica, per poi venire completamente abbandonata in seguito alla battaglia di Okinawa. Nel dopoguerra, gli occupanti americani ebbero il merito di risolvere l’emergenza umanitaria determinata dalle migliaia di sfollati affidandosi a strutture provvisorie in legno, lamiera e materiali isolanti costruite con la tecnica 2x4 – riferito alla dimensione in pollici (inches) delle travi impiegate –, di facile applicazione e pertanto velocemente appresa dagli indigeni per ridare forma ai villaggi cancellati dal conflitto; tuttavia, si trattava di abitazioni estremamente fragili, incapaci di resistere ai tifoni e ai parassiti e che pertanto dovevano essere ricostruite circa ogni due mesi, esigendo un pesante costo di materiali e forza lavoro. La svolta giunse soltanto negli anni Cinquanta, con l’avvio di un programma di costruzione di aule scolastiche in cemento supervisionato dal genio dell’Esercito, che coinvolse in prima persona gli architetti del luogo consentendo loro di acquisire le nozioni fondamentali dell’edilizia cementizia: grazie alla solerzia degli studi di architettura locali, negli anni Sessanta il problema degli alloggi poteva dirsi ormai risolto, per quanto al prezzo di maggiori sconfinamenti dei militari americani nei centri abitati, spesso con intenti criminosi. Al momento del ritorno al Giappone nel 1972, i grandi immobiliaristi dello hondo preferirono dunque concentrarsi sulla costruzione di infrastrutture (seibi) costiere e fluviali e strutture ricettive di lusso piuttosto che di quartieri residenziali, cementificando zone dell’isola fino ad allora rimaste inviolate – tra cui la vittima più illustre è probabilmente la foresta di Yanbaru, nell’estremità settentrionale. Dietro il pretesto di migliorare le condizioni di vita dei cittadini e l’accessibilità alle risorse, Tōkyō riuscì così a esportare anche a Okinawa il cosiddetto modello doken kokka (Stato costruttore), fondato su un sistema di subappalti e tangenti coinvolgente imprenditori, funzionari ministeriali e amministratori delegati, il cui unico vero scopo consiste 12 nel mantenere perennemente in funzione la macchina dei lavori pubblici per consentire ai soliti noti di arricchirsi. Le ripercussioni, sugli ecosistemi marini e terrestri così come sulla salute degli individui, sono state a dir poco ingenti, e costituiscono il punto che la classe dirigente di domani dovrà maggiormente attenzionare per ridurre il divario con il resto della nazione. Nel terzo capitolo, si ripercorre la parabola di modernizzazione del settore primario con riferimenti specifici a ciascuna delle sue componenti (agricoltura, allevamento, pesca), soffermandosi sugli avvenimenti che, oltre a determinare un cambio di paradigma sul piano produttivo, hanno rappresentato anche un’evoluzione sul piano culturale, per quanto concerne lo stile di vita delle comunità rurali. Al contrario della pesca, praticata solo come attività accessoria e comunque non in mare aperto, l’allevamento dei maiali costituiva un’attività socialmente vissuta e largamente partecipata all’interno del villaggio, a cui si dedicavano in egual modo sia uomini che donne in virtù del valore simbolico assunto dalla consumazione di carne suina in occasione degli eventi comunitari che scandivano l’anno solare. Per quanto riguarda le colture caratteristiche del Regno delle Ryūkyū, esse erano la patata dolce viola (umu) e la canna da zucchero (ūji), i cui metodi di coltivazione e lavorazione furono introdotti dalla Cina all’inizio del XVII secolo, risolvendo in parte il problema delle carestie e dell’insufficienza di riso. Nei decenni successivi, lo zucchero grezzo (kurozatō) sarebbe diventato il fiore all’occhiello dell’export ryukyuano, attirando le mire di Satsuma che, di lì a poco, avrebbe esteso il proprio dominio sull’isola appropriandosi in via esclusiva del suo bene più prezioso per condurre manovre speculative sul mercato di Ōsaka. La situazione peggiorò ulteriormente con l’inglobamento nello Stato Meiji, a cui corrispose un programma di industrializzazione eterodiretto, fondato sulla produzione di massa di zucchero bianco raffinato (bunmitsutō) a opera di alcuni investitori dello hondo, riuniti nella compagnia Okitai Seitō. Complice la concorrenza della già avanzatissima industria zuccheriera di Taiwan, il progetto, nonostante il supporto ufficioso ricevuto dalle alte cariche del governo prefetturale, non decollò mai e i suoi grandi stabilimenti – siti a Nishihara e Yomitan – riuscirono a mettere sotto contratto soltanto una minoranza della classe contadina. La maggior parte delle famiglie continuava infatti a produrre kurozatō in proprio, organizzata in associazioni locali (satō gumi) che dividevano equamente costi e proventi dell’intero processo. Tale assetto duale rimase invariato fino ai primi anni Venti, quando la fine del boom postbellico mise in ginocchio la 13 fragile economia di Okinawa: per tutta risposta, la prefettura chiese e ottenne fondi speciali per il rafforzamento del monopolio, in modo da mettere fuori gioco una volta per tutte i piccoli produttori locali – i quali, nonostante tutto, riuscirono a tirare avanti almeno fino all’inizio della guerra. A ostilità concluse, spettò alle truppe di occupazione il compito di ricostruire da zero il settore primario e mettere così fine all’emergenza alimentare, implementando ove possibile le più recenti conoscenze scientifiche in modo da aumentare l’output totale di cibo. A beneficiare maggiormente del piano di ripresa fu sicuramente la pesca, grazie a una nuova flotta motorizzata, costituita da veicoli militari ricondizionati a uso civile, e a una moderna catena del freddo composta da magazzini frigoriferi e impianti di surgelazione costruiti dalle locali associazioni di pescatori su indicazione del Corpo degli Ingegneri dell’Esercito, resosi disponibile anche per attività esulanti dall’ordinaria manutenzione delle basi militari. Diverso il discorso per l’allevamento, per risollevare il quale si resa necessaria una massiccia importazione di capi bovini e suini dagli Stati Uniti, non solo su parte governativa ma contando anche sul contributo di associazioni benefiche. Sul piano agricolo, le tecniche di coltivazione intensiva di stampo americano, caratterizzate dall’uso di pesticidi e fertilizzanti chimici, si rivelarono in un primo momento inefficaci, con il risultato che diverse famiglie tornarono a praticare un’agricoltura di mera sussistenza. Le colture che il Quartier Generale dello Supreme Commander of Allied Powers (SCAP) si adoperò per ripristinare erano orzo, miglio, fagioli di soia e ortaggi verdi quali scalogno e spinaci, ma grandi sforzi furono profusi anche nell’ampliamento della rete di irrigazione necessaria alla coltivazione del riso, la cui produzione tornò ai livelli prebellici intorno alla metà degli anni Cinquanta. Dopo un iniziale scetticismo, furono incentivate anche la coltivazione e trasformazione dello zucchero, che nel decennio precedente la restituzione sarebbe diventato la punta di diamante delle esportazioni dell’isola, traghettando la popolazione fuori dalla miseria che aveva caratterizzato le fasi iniziali dell’occupazione. A fronte del ritrovato benessere, sempre meno famiglie continuarono a dedicarsi all’agricoltura in via esclusiva, tanto che la maggior parte dei locali preferiva cercare un impiego più redditizio connesso alle attività delle basi militari. Fu infine il governo giapponese a far compiere al primario il grande balzo in avanti verso la realizzazione del massimo output, con la piena meccanizzazione dell’agricoltura, della pesca e 14 dell’allevamento. Negli anni Settanta, lo sviluppo di macchinari agricoli adatti al trapianto del riso permise anche a Okinawa di soddisfare il proprio fabbisogno di questo cereale, mentre colture commercialmente più rilevanti (mango, ananas, zucchero) iniziarono a essere soggette a stringenti regolamenti governativi riguardanti la pianificazione e il controllo della produzione. Al pari dei propri omologhi nel resto dell’Arcipelago, anche gli agricoltori okinawani si trovarono così a dover sottostare ai vincoli imposti dal General Agreement on Trade and Tariffs (GATT), dalla World Trade Organization (WTO) e dagli altri accordi internazionali sottoscritti da Tōkyō, per rispettare i quali il legislatore doveva supplire con generosi incentivi al divieto di favorire la produzione domestica. Una situazione particolarmente grave si registra invece nell’ambito dell’allevamento suino, in primo luogo sotto il profilo economico: i costi dell’importazione dei mangimi e dello smaltimento delle deiezioni si ripercuotono infatti sul prezzo finale, rendendolo proibitivo per le tasche del consumatore medio, senza contare l’enorme impatto ambientale che il mantenimento di una popolazione di più di 200mila suini esercita sull’ecosistema dell’isola e sulla qualità della vita degli abitanti. Leggermente migliori le condizioni dell’industria ittica che, a differenza di quanto osservabile nelle comunità di pescatori del mainland, è provvista di una catena del freddo e di infrastrutture portuali omogeneamente sviluppate e diffuse lungo la sua linea di costa. Complici la diversificazione portata dal turismo e i programmi di ripopolamento a cura del Centro Prefetturale per l’Acquacoltura, le riserve di pesce di Okinawa sono oggi ancora sane e abbondanti, per quanto permanga una certa difficoltà a esportare nel resto dell’Arcipelago, determinata sia dalle manovre inflazionistiche a opera delle cooperative sia dai costi di trasporto. Da ultimo, nel capitolo finale delle Conclusioni, si è cercato di individuare possibili strategie di crescita per il futuro di Okinawa, in grado di garantire autonomia e sviluppo sostenibile a una realtà che, con l’avanzare della globalizzazione, rischia sempre più di essere travolta dal corso degli eventi, nonché di veder fagocitate quelle particolarità paesaggistiche che costituiscono il suo vero tesoro. Rielaborando alcune soluzioni proposte da geografi e specialisti di island studies, riteniamo che le seguenti possano avere un esito discretamente felice se implementate nel contesto okinawano, nell’ordine: l’imposizione di un tetto massimo sugli ingressi dei turisti “mordi e fuggi” (principalmente provenienti da Taiwan, Cina Popolare e Corea), il cui apporto al ciclo economico 15 si limita all’acquisto di consumable a regimi d’imposta convenienti; l’inasprimento della normativa edilizia per la costruzione di resort, spa e altre strutture ricettive di lusso, per accomodare le quali sono necessarie opere di messa in sicurezza e viabilizzazione invasive (tetrapod, landfill, sopraelevamenti, ripianamenti); l’introduzione nel curriculum scolastico – dalle elementari alle superiori – di attività formative obbligatorie (lezioni di biologia, gite, project work) atte a sensibilizzare le nuove generazioni circa la fragilità del patrimonio naturalistico locale; il potenziamento della rete di trasporto pubblico, in modo da indebolire il monopolio esercitato dai concessionari d’auto sulla mobilità dei cittadini e abbattere l’inquinamento prodotto dalle vetture private, nonché risolvere il problema dello smaltimento delle stesse. Tali conclusioni sono da interpretarsi come altrettante possibili vie verso un’equa e non traumatica integrazione della prefettura di Okinawa nel sistema-paese giapponese, nella consapevolezza che esse si configurano come indicazioni concrete e non come speculazioni di natura meramente accademica. 16 Capitolo 1. Il paesaggio e il disegno del potere 1.1. L’occhio del Novecento racconta l’occhio dello Stato. Un documento cinematografico Nella remota isola di Kurage, all’estremo confine meridionale del Giappone, si consuma la tragedia della famiglia Futori. Nekichi, imprigionato in una grotta per espiare la relazione incestuosa con la sorella, vive ai margini della comunità e con lui i suoi figli, Kametarō e Toriko, su cui grava il medesimo sospetto. Improvvisamente, una frana libera Nekichi dalle sue catene e rivela la presenza di una sorgente d’acqua sotterranea. La notizia attira subito l’attenzione del capovillaggio: con la costruzione di una rete idrica si potrebbe finalmente trasformare l’isola in un paradiso tropicale, attirando i turisti della terraferma. Così, nonostante la resistenza degli anziani, viene convocato un ingegnere da Tokyo per svolgere i primi lavori. Ma l’eros disinibito di Toriko, combinato all’asprezza del luogo, gli daranno non poco filo da torcere. Si potrebbe riassumere così la trama de Il profondo desiderio degli dèi (Kamigami no fukaki yokubō, 1968), uno dei tanti gioielli della nūberu bāgu a firma di Imamura Shōhei (1926 – 2006). Accolto tiepidamente alla sua uscita in sala, e con ancor maggiore perplessità da chi aveva imparato ad amare il regista per lo sguardo disilluso sulla realtà suburbana tokyota, il film è oggi considerato il suo documento antropologico più completo. Chiamando in causa il mito fondativo dell’Arcipelago – la coppia primigenia di Izanagi e Izanami, fratello e sorella 2 – ed evocando lo spettro del tabù annesso, Imamura espone lo spettatore – di cui è figura il personaggio dell’ingegnere – all’inanità dell’etica dinanzi alla spinta riproduttiva: anche la società più sofisticata – quale si fregiava di essere diventata quella nipponica di fine anni Sessanta – non può nulla contro i tifoni, il sole a picco, la sete, sicché ogni principio non si rivela altro che un ostacolo alla continuazione della specie. Più in concreto, è per il particolare regime di visione adottato che la pellicola costituisce per noi una preziosa testimonianza. Il profondo desiderio degli dèi è, infatti, un film essenzialmente di spazi e sugli spazi, che sfrutta appieno il fascino esotico di Ishigaki3 senza per questo ricorrere a immagini stereotipe o idilliache. Al contrario, la giungla così come la costa è ricca di insidie, e 2 Nonostante le teorie degli specialisti siano discordanti in merito, è indubbio che Imamura si riferisse a questa lettura del mito, come confermato anche dalle sue interviste. Per una disamina dettagliata della questione, cfr. Murakami F. Incest and Rebirth in Kojiki in Monumenta Nipponica, vol. 43-4, Sophia University, Tokyo, 1988. 3 Kure è nome fittizio. La location è appunto l’isola di Ishigaki nel Mar Cinese Orientale, appartenente alla prefettura di Okinawa (n.d.r.). 17 per evitare di calpestare un habu4 o di cadere in uno strapiombo è indispensabile la guida dei locali: solo per questi ultimi il paesaggio altrimenti illeggibile – quale di fatto appare al povero burocrate della capitale – assume un senso, grazie a pratiche radicatesi nella coscienza collettiva senza bisogno di codificazioni formali. Ne consegue che, là dove l’occhio dello Stato non è in grado di cogliere una visione d’insieme, si perde inevitabilmente anche la cognizione del tempo: se non ci sono tasse da raccogliere, scadenze da rispettare, documenti da rinnovare, a che pro scandire i mesi o gli anni? Con ciò si spiega l’abbondanza di ellissi temporali, alle quali nemmeno i dialoghi possono porre rimedio, in quanto la funzione fatica del linguaggio è continuamente frustrata dal dialetto degli isolani. Non resta dunque che arrendersi, rinunciare alla temporalità convenzionale e rimettersi al metro dei fenomeni naturali. C’è però un momento in cui l’ordine – se così si può chiamare – è ristabilito. Nel finale, un trenino su rotaie fende la vegetazione lungo un percorso ben tracciato, che dal piccolo aeroporto turistico porta l’ingegner Kariya, con moglie e suocera al seguito, nel cuore lussureggiante di Kurage. Qui incontra ancora una volta Kametarō, che dopo un breve periodo a Tokyo è tornato sull’isola a occuparsi della manutenzione della locomotiva. Benché agli estremi opposti della scala sociale, i due sono ora parte dello stesso sistema: parlano la stessa lingua, se non il giapponese della capitale quantomeno il giapponese del capitale. Ed è da questo dialogo tra Kariya e Kametarō, normato nelle forme culturali, che la parola e il tempo riacquistano la propria forza normativa: veniamo a sapere quanti anni sono trascorsi dal tragico evento che ha chiuso la saga di Nekichi, cosa lega Kariya a Kametarō e cosa si cela dietro la decisione di quest’ultimo di abbandonare la metropoli tanto agognata. Il microcosmo di Kurage, così impenetrabile e arcano in prima battuta, è adesso perfettamente intellegibile. Nel mettere in scena questa dialettica tra consuetudinario e istituzionale, tra centro e periferia, tra tempo e spazio, si può dire che Imamura avesse intuito, con una certa prescienza, i contenuti delle teorie qui confluite a formare il quadro teorico di riferimento. È solo dopo aver riconosciuto tale debito che possiamo muovere il primo passo verso un’analisi del processo di state building a Okinawa, consci del fatto che si tratta di un’impresa tutt’altro che semplice. 4 Nome volgare della vipera delle Ryūkyū (Protobothrops flavoviridis) (n.d.r.). 18 1.2. Da Berlino a Naha. Possibili applicazioni della human geography al caso okinawano Se ci sofferma a osservare una carta geografica sufficientemente dettagliata, non è difficile capire perché Okinawa sia stata l’oggetto del desiderio di tanti imperi. Con questo nome, ci si riferisce nel complesso a quei gruppi di isole dell’arcipelago delle Ryūkyū che, dal punto di vista amministrativo, fanno capo all’omonima isola maggiore, sede del governo prefetturale 5 . Collocate nel Mar Cinese Orientale a metà strada tra Taiwan, la Cina continentale e il Kyūshū, in una posizione strategicamente invidiabile, sono tuttavia poco favorevoli all’insediamento umano. Fonte: Kambayashi T., Wikimedia Commons, 2004. Il clima tropicale, caratterizzato da temperatura e umidità elevate, tempo atmosferico imprevedibile e tifoni, ha infatti sempre messo a dura prova la capacità di adattamento del popolo Sito nella città di Naha. Non rientrano dunque in questo novero i gruppi delle isole di Ōsumi, Tokara e Amami, dipendenti dalla prefettura di Kagoshima e denominate nell’insieme Isole Satsunan (n.d.r.). 5 19 ryukyuano, ma già nell’XI sec. esso poteva vantare un regno6 che nulla aveva da invidiare alle monarchie asiatiche limitrofe. Sopperendo con i traffici marittimi alla scarsità di risorse e praticando un’aurea via di mezzo nei rapporti diplomatici, le Liuqiu 7 conobbero un lungo periodo di prosperità, il cui apice fu contrassegnato dalla riunificazione sotto l’egida della prima dinastia Shō8 agli inizi del XV sec. Fonte: Kambayashi T., Wikimedia Commons, 2011. Sarebbe più corretto parlare di “regni”, sia in termini di avvicendamento al potere che di suddivisione territoriale. Tralasciando la dinastia mitica dei Tenson, il primo sovrano storicamente attestato è Shunten (1187 – 1237), il cui potere non fu comunque assoluto: trattavasi piuttosto di un primus inter pares, la cui autorità era riconosciuta da una triade di principati. Cfr. Caroli R. Il mito dell'omogeneità giapponese: Storia di Okinawa, Franco Angeli Editore, Milano, 2008. 7 Questo il nome utilizzato nelle cronache cinesi del VII-VIII sec. che per prime ne attestano i rapporti con la dinastia Tang. Cfr. Caroli, op. cit., p. 39. 8 Nel 1314 si ribellarono al sovrano Tamagusuku – erede della dinastia di Eiso, pronipote di Shunten – i re di Ōzan e di Nakijin, fondando due regni completamente autonomi – rispettivamente denominati Nanzan e Hokuzan. Tale situazione si protrasse fino al 1429 quando Hashi (1372 – 1439), capostipite della dinastia Shō, riuscì a riportare sotto il controllo centrale i principati ribelli. Cfr. Caroli, op. cit., pp. 42-43. 6 20 Tristemente noti sono i passaggi successivi, che portarono la corte di Shuri a una doppia sudditanza9 prima e all’incorporazione ufficiale nel Giappone Meiji10 poi – per il cui dettaglio si rimanda alla bibliografia e al dettagliato apparato di note. Quello che ci interessa appurare in questa sede sono, piuttosto, le modalità con cui tale integrazione forzosa sia stata attuata e continui ad attuarsi tutt’oggi, agendo, ancor prima che nelle sedi istituzionali, sui corpi fisici e sul paesaggio. Per farlo, si è scelto di adottare un framework eterogeneo, i cui numi tutelari appartengono alla branca più progressista delle scienze sociali del secolo scorso – e non solo. Inutile dirlo, il primato in questo campo spetta a Georg Simmel, che in un’epoca dominata dal positivismo non si lasciò abbagliare dal benessere diffuso in Europa dalla Seconda Rivoluzione Industriale. Benché si interessasse principalmente di estetica e non abbia mai confortato le proprie teorie con ricerche quantitative, le sue osservazioni restano attuali e si riscoprono validate, in una certa misura, alla prova dei fatti. Simmel vedeva la classe intellettuale del suo tempo chiusa in un settarismo quasi feticistico, sulla falsariga del metodo scientifico che aveva fatto della specializzazione la sua nuova bandiera. Al contrario, centrale nel suo pensiero sarebbe rimasto il concetto di Wechselwirkung 11 , ovvero dell’effetto di “reciprocità” di fenomeni e saperi: da qui la consapevolezza che l’urbanizzazione non avrebbe modificato soltanto l’aspetto esteriore dei centri abitati: «[…] la vita urbana ha trasformato la lotta con la natura per il cibo in una lotta per l’uomo: ché la posta in palio non viene data dalla natura, ma dall’uomo. […] l’offerente deve cercare di suscitare bisogni sempre nuovi e sempre più specifici nelle persone a cui si rivolge. La necessità di specializzare la propria prestazione per trovare una fonte di guadagno non ancora esaurita, una Con questo termine si allude all’ambigua posizione diplomatica del Regno delle Ryūkyū in seguito all’invasione dello han di Satsuma nel 1609. Nel 1372 il regno aveva infatti giurato fedeltà all’imperatore Hongwu della dinastia Ming, diventandone a tutti gli effetti uno stato tributario. Tuttavia, anche dopo aver costretto il re Shō Nei a sottomettersi, il daimyō di Satsuma Shimazu Tadatsune (1576-1638) fece il possibile per tenerne la Cina all’oscuro, in modo che Okinawa continuasse a godere dei privilegi commerciali accordatile. Cfr. Caroli, op. cit., pp. 55-56. 10 Il primo passo fu l’emanazione dell’editto Haihan chiken nell’agosto 1871, con cui il vecchio sistema feudale degli han venne ufficialmente abolito e le Ryūkyū integrate nella prefettura di Satsuma. Qualche mese più tardi, il cosiddetto Incidente di Mudan – naufragio di alcuni marinai ryukyuani sulle coste di Taiwan, ove trovarono la morte per mano degli aborigeni – consentì al governo di Tōkyō di rivendicare la cittadinanza giapponese delle vittime, indicendo una spedizione punitiva di lì a poco. La storia dell’annessione si concluse nel 1879, con l’abdicazione dell’ultimo sovrano Shō Tai (1872-1879) e la proclamazione della prefettura di Okinawa. Cfr. Caroli, op. cit., pp. 82-83. 11 Letteralmente “effetto di reciprocità”, il termine sta a indicare «una concezione della realtà (in genere, e non soltanto sociale) come rete di relazioni di influenza reciproca tra una pluralità di elementi». Cfr. Cavalli A. Introduzione in Corso di sociologia, Il Mulino, Bologna, 2012. 9 21 funzione non facilmente sostituibile, spinge a differenziare, raffinare e arricchire i bisogni del pubblico.»12 Con più lungimiranza del contemporaneo Marx, che prevedeva una cristi strutturale e definitiva del capitalismo determinata dal raggiungimento del punto di massima espansione 13 , Simmel anticipa qui una problematica centrale del dibattito marxista del secondo Novecento, ovvero che la crisi del sistema è ciclica e che la sua sopravvivenza dipende dalla capacità di reinventarsi – o, in termini più economicamente ortodossi, “ristrutturarsi” – periodicamente, creando nuovi bisogni e ridefinendo i propri spazi. La natura predatoria del capitalismo si esplica quindi non solo nella dialettica operaio-padrone e nell’arena della fabbrica, ma, per esteso, in quella consumatore-produttore e nell’economia monetaria, di cui lo Stato liberale è fautore primo. Altrove Simmel non sarebbe stato altrettanto critico, complice il relativo disinteresse in uno studio sistematico dei rapporti di produzione. Ma proprio uno dei suoi saggi più eminentemente filosofici ci fa da sponda per mettere in relazione la logica soggiacente ai processi di antropizzazione con il controllo statale: «Il ponte […] assume un valore estetico, non solo perché nella fattualità e nella soddisfazione di fini pratici stabilisce un collegamento di ciò che è separato, ma anche perché lo rende immediatamente visibile: per collegare le parti del paesaggio fornisce all’occhio la stessa capacità che questo offre ai corpi rispetto alla realtà pratica. […] La porta, creando in un certo senso uno snodo (articolazione) tra lo spazio dell’uomo e tutto quello che è al di fuori di esso, abolisce la separazione tra interno ed esterno. Dal momento che può essere aperta, la sua chiusura offre il sentimento di una più forte chiusura nei confronti di tutto ciò che è al di là di questo spazio, più incisivamente di quanto non faccia la semplice parete: quest’ultima è muta. La porta parla. Per l’uomo è essenziale, nel senso più profondo, porre a se stesso una delimitazione, ma con libertà, questa limitazione può di nuovo superarla e porsi al di fuori di essa.»14 Com’è noto, questo aspetto è in realtà secondario nella teoria marxiana della crisi, legata piuttosto alla Legge della caduta tendenziale del saggio di profitto, espressa nel III Libro, cap. 3.13 de Il Capitale. Tuttavia, abbiamo ritenuto di porla in evidenza per quelli che saranno gli indirizzi successivi della riflessione marxista, che volente o nolente arriverà a confrontarsi con tale questione. Per l’edizione critica consultata, cfr. Boggeri M. L. et al. (cur.), Marx K. Il Capitale, Editori Riuniti, Roma, 1974. 13 Jedlowski P. (cur.), Simmel G. Le metropoli e la vita dello spirito, Armando Editore, Roma, 1995, p.52. 14 Borsari A., Bronzino C. (cur.), Simmel G. Ponte e Porta in Saggi di estetica, Archetipo Libri, Bologna, 2012, pp.15-16. 12 22 Non si può nascondere che il discorso non alluda a specifiche opere infrastrutturali, riferendosi più in generale a tendenze astoriche, connaturate all’essere umano. Tuttavia, il collegamento calza nella misura in cui le categorie di ponte e porta ricoprono, rispettivamente, il ruolo di rendere visibile e mettere in comunicazione, di circoscrivere un confine e/o revocarlo; in sintesi, di irregimentare il movimento e lo sguardo, là dove questo è il medesimo obiettivo che si prefigge qualsiasi governo centrale. Tuttavia, fino all’avvento della critica strutturalista tali intuizioni sarebbero rimaste perlopiù inascoltate. Nella sua risistemazione filologica dell’evoluzione del concetto di spazio nell’ambito delle scienze sociali, Edward W. Soja imputa questo ritardo di ricezione alla preminenza esercitata dal materialismo storico nella riflessione marxista: «The first insistent voices of postmodern critical human geography appeared in the late 1960s, but they were barely heard against the then prevailing temporal din. For more than a decade, the spatializing project remained strangely muted by the untroubled reaffirmation of the primacy of history over geography that enveloped both Western Marxism and liberal social science in a virtually sanctified vision of the ever-accumulating past».15 Questo perché: «In grounding the Hegelian dialectic in material life, Marx not only responded to Hegelian idealism. Denying the spiritual navigation and determination of history, he also rejected its particularized spatial form, the territorially defined state, as history’s principal vehicle. […] In the Marxian dialectic, revolutionary time was re-established, with its driving force grounded in class consciousness and class struggle stripped of all spatial mystifications».16 In altre parole, l’elezione del tempo a categoria euristica esclusiva, il cui moto cumulativoprogressivo serviva particolarmente bene una visione della storia come “storia di lotte di classe”, aveva ridotto lo spazio a mero epifenomeno, sicché ogni analisi che avesse cercato di restituirgli centralità sarebbe stata tacciata di eresia. Eccezioni illustri si contano tra gli esponenti del marxismo francese, forte di una tradizione anarchico-socialista 17 improntata al comunitarismo territoriale che aveva impedito 15 Soja E. W. Postmodern Geographies. The Reassertion of Space in Critical Social Theory, Verso Books, New York, 2011, p. 13. 16 Ivi, p.46. 17 In particolare il socialismo utopico di Henri de Saint-Simon e la geografia anarchica di Élisée Reclus. Cfr. Soja, op. cit., pp. 46-47. 23 l’oscuramento della questione spaziale. Lo stesso Michel Foucault, per quanto abbia cercato di negarlo il più a lungo possibile 18 , le riserva un posto di riguardo nella sua critica delle sovrastrutture: «La grande ossessione del XIX secolo era, come sappiamo, la storia: i temi dello sviluppo e della stasi, della crisi e della ciclicità, del passato che continua ad accumularsi […]. […] L’epoca attuale potrebbe essere, piuttosto, l’epoca dello spazio. Ci troviamo nell’epoca della simultaneità, nell’epoca della giustapposizione, l’epoca del vicino e del lontano, del fianco a fianco, della dispersione. Ci troviamo in un momento in cui il mondo – o così almeno credo – appare più come una rete che si connette a punti e si interseca con la sua stessa matassa, che come una lunga vita che si dipana attraverso il tempo. Potremmo forse dire che alcuni dei conflitti che animano il dibattito odierno, si combattono tra i pii discendenti del tempo e gli spietati abitanti dello spazio.»19 In particolare, Foucault tiene a sottolineare come lo stigma di sterilità dialettica degli “spietati abitanti dello spazio” sia stato smentito dagli sviluppi della postmodernità. Gli spazi, quando socialmente vissuti, e quindi modificati e modificantesi per effetto di una intrinseca e scambievole attiguità – che obbedisce solo in apparenza alle nostre sistematizzazioni–, sono quanto di più lontano da un perimetro vuoto, nel quale l’intelletto – men che meno quello dell’accademico – può permettersi di collocare individui e fenomeni. Poco oltre nella stessa sede, simili loci, irriducibili l’uno all’altro e assolutamente non sovrapponibili, vengono definiti “eterotopie”, di cui ci interessa evidenziare un aspetto: «[esse] hanno, nei confronti dello spazio rimanente, una funzione. Questa si articola in due poli estremi. O svolgono il ruolo di uno spazio d’illusione, a denunciare come ancor più illusorio tutto lo spazio reale, tutti i siti in cui la vita umana è compartimentata […], o, al contrario, creano uno spazio altro, un altro spazio reale tanto perfetto, meticoloso e ben organizzato quanto il nostro è disordinato, mal gestito, caotico. In questo caso, si tratterebbe di una eterotopia non d’illusione 18 Soltanto verso la fine della sua carriera, messo alle strette dagli intervistatori di Hérodote, Foucault riconobbe la centralità dello spazio nel suo pensiero. Gli unici riferimenti espliciti fino ad allora erano rimasti circoscritti ad alcune conferenze tenutesi intorno alla fine degli anni Sessanta, e che l’autore si era rifiutato di dare alle stampe. Il contenuto dell’intervista in questione è riportato in Questions à Michel Foucault sur la géographie in Hérodote. Revue de Géographie et de Géopolitique, no.1, La Découverte, Parigi, 1976, pp. 71-85. 19 Foucault M. Des espaces autres, Éditions érès, Tolosa, 2004, p.12. Trad. mia. 24 ma di compensazione, e mi domando se certe colonie non abbiano funzionato pressappoco in questa maniera».20 A metà tra la rarefazione estrema dell’utopia e la bruta materialità del “posto”, l’eterotopia è insomma sia la superficie riflettente che il gioco di specchi, che muta nel tempo e può nascere in esso – l’utilizzo di un termine sì storicamente connotato come quello di “colonie” è eloquente – ma non da esso. E se è vero che la costruzione di uno spazio non può non rimandare alle istanze storiche che lo hanno necessitato, è altrettanto vero allora che la storia, a prescindere dalla particolare visione a sorreggerla, non può esimersi dal radicare nello spazio gli eventi che convoca, dal momento che questi ultimi vivono della tensione delle società umane a segnalare il carattere illusorio di dove vivono (prima funzione eterotopica) o suppletivo di dove non vivono (seconda funzione). Circa la necessità di riabilitare lo spazio nella riflessione coeva, mirando all’elaborazione di un materialismo storico-geografico, si era già espresso in maniera meno reticente Henri Lefebvre, partendo da una considerazione di natura urbanistica: «Il riduzionismo si insinua sotto la pretesa di scientificità: si costruiscono modelli ridotti (della società, della città, delle istituzioni, della famiglia, ecc.) e ci si attiene a essi. È così che lo spazio sociale si riduce allo spazio mentale, attraverso un’operazione “scientifica” la cui scientificità maschera l’ideologia. […] A questo punto il pensiero critico (che è messo al bando dal dogmatismo) si accorge che la riduzione sistematizzata e il riduzionismo corrispondono ad una pratica politica. Lo Stato e il potere politico si vogliono e si fanno riduttori delle contraddizioni; quindi la riduzione e il riduzionismo appaiono come dei mezzi al servizio dello Stato e del potere: non in quanto ideologie, ma in quanto sapere; […].»21 Confutando l’illusione di trasparenza dello spazio, per la quale ciò che si dà in esso è autoevidente e perciò esauribile in analisi puramente descrittive – “geografiche” nell’accezione peggiorativa del lemma –, Lefebvre precorre Foucault nel riconoscere che tale schematismo riproduce quel nesso strumentale tra conoscenza e controllo che è episteme del potere. Laddove non si può fare a meno di ricorrere a riduzioni, perché metodologicamente agile o perché fare altrimenti implicherebbe una revisione dei saperi istituzionali tout court, bisogna comunque 20 21 Ivi, p. 19. Galletti M. (Trad.), Lefebvre H. La produzione dello spazio, Pgreco, Roma, 2018, p. 120. 25 tener presente che lo spettro dell’oppressione, che i seguaci del marxismo vedono possedere i processi di produzione, aleggia anche sui loro stessi strumenti analitici.22 Un avvertimento, quello di Lefebvre, che sarebbe suonato ancor più profetico negli anni Ottanta, quando la globalizzazione incipiente dimostrò che il modo capitalista era ancora in grado di prosperare. Come era possibile che il ciclo continuasse, nonostante lo spazio fisico per generare plusvalore fosse formalmente saturo? «[…] il neo-capitalismo e il neo-imperialismo dividono lo spazio dominato in regioni sfruttate per e con la produzione (dei beni di consumo), e in regioni sfruttate per e con il consumo dello spazio. Turismo e tempo libero diventano grandi settori di investimento e di rendita, complemento dell’edilizia, della speculazione immobiliare, dell’urbanizzazione generalizzata (e, naturalmente, dell’integrazione nel capitalismo dell’agricoltura, della produzione alimentare, ecc.)».23 Ancora una volta, vale la pena di soffermarsi sul lessico. Nonostante si stia parlando di “capitalismo” e “imperialismo”, costrutti che per definizione presuppongono una gerarchia inequivocabile – di due soggetti, entrambi guadagnano ma solo uno profitta –, scompare il binomio sfruttatore/sfruttato: nella nuova geografia del capitale, l’unica configurazione possibile è l’omogeneità dello sfruttamento. A ogni modo, ciò non significa che sia scomparsa la subalternità della periferia al centro. Al contrario, oggi è quantomai chiaro quanto il modo capitalista operi per frammentazione, contrapponendo le singole realtà regionali l’una all’altra in modo da moltiplicare centri e periferie. Si consegue così un duplice scopo: da un lato, rendere meno evidente il sostrato di sopraffazione, mascherandolo di un velo ideologico – i.e., qualunque periferia può diventare centro e rinegoziare i rapporti di forza; dall’altro, stroncare sul nascere l’associazionismo disperdendo la forza lavoro, che a seconda delle variazioni della domanda aggregata si redistribuirà ora in un’area ora in un’altra, senza avere lo spazio-tempo materiale per lo sviluppo di una coscienza di classe. Occorre precisare che la miopia della corrente maggioritaria del marxismo non fu il risultato di un’adesione puramente fideistica all’ortodossia, la cui speculazione non mancò anzi di autocritica né di metodo, dando alla luce alcune delle pagine più acute del secondo Dopoguerra. Cfr. Petrucciani S. Storia del marxismo, Carocci Editore, Roma, 2015. 23 Ivi, p. 340. 22 26 Per quanto a prima vista paradossale, tale assetto sincronico non è affatto incompatibile con le fluttuazioni periodiche del mercato: una regione che necessiti di date materie prime per produrre un dato bene, può sfruttarne un’altra – limitrofa o meno che sia – ed esserne nello stesso tempo sfruttata per il consumo di un dato spazio; ma col passare degli anni, nulla toglie che i termini del rapporto possano invertirsi. Sotto questo profilo, il macroequilibrio del sistema è garantito dalla sua resilienza, per la quale la ciclicità della crisi, al prezzo di periodi di sofferenza anche prolungati, si trasforma in un’occasione per cambiare l’ordine dei fattori affinché il risultato finale resti invariato. Non a caso, tra i settori che meglio esemplificano questa dinamica sono citati l’edilizia, il turismo, lo svago e gli indotti annessi, il che ci riporta inevitabilmente agli scenari da cartolina di Okinawa. L’arcipelago, e più nello specifico lo hontō, si presenta infatti come un perfetto caso di studio, per certi versi unico nel suo genere. Unità insulare di discreta estensione territoriale, a sua volta inglobata in un più vasto Stato-nazione insulare di cui riproduce debolezze e contraddizioni, riunisce in sé quelle storture del capitale di cui abbiamo riferito nelle pagine precedenti, manifestandole in una scala più facilmente osservabile da parte del ricercatore. In un secolo e mezzo di storia, Okinawa è stata sottoposta a un processo di modernizzazione eterodiretto che ne ha per sempre modificato – nonché in certi casi cancellato – il paesaggio, l’economia, l’identità, relegandola in una condizione di perpetua dipendenza dalla terraferma, da dove provengono le uniche iniezioni di capitale – sia nella forma di sussidi che di investimenti privati. A imporre questa condizione fu, come si diceva all’inizio, il governo centrale di Tōkyō, al quale si sostituì temporaneamente per circa un ventennio la macchina da guerra statunitense, all’indomani del secondo conflitto mondiale. A tal proposito, piuttosto che attraverso una rivista puramente elencativa di leggi o riforme, si è preferito esaminarne l’operato ricorrendo all’approccio di due altri grandi interpreti della postmodernità, entrambi appartenenti al mondo anglofono, ai quali spetta il merito di aver codificato formalmente le intuizioni dei predecessori nella disciplina nota come human geography, ovvero quella branca della sociologia che si occupa di studiare da vicino l’antropizzazione e le interazioni tra uomo e natura per leggervi in filigrana il disegno del potere. La preoccupazione principale di David Harvey, per il quale l’appropriazione dello spazio – soprattutto a livello urbano – non era che un tassello del progetto di ristrutturazione sistemica 27 posto in essere dal tardo capitalismo, era quella di determinare se il mondo della cultura, delle arti e delle scienze sarebbe stato in grado di opporre sufficiente resistenza a tale progetto. Rielaborando e implementando con contenuti originali i contributi di Michel de Certeau e Lefebvre24, Harvey mise a punto una griglia delle pratiche spaziali (grid of spacial practices), dove per “pratiche spaziali” si intendono tutte quelle azioni che, al di là della funzione d’uso, sono investite di un valore sociale nel rapportarsi con i propri simili e con la realtà circostante:25 «1. Accessibility and distanciation speak to the role of the ‘friction of distance’ in human affairs. Distance is both a barrier to, and a defence against, human interaction. It imposes transaction costs upon any system of production and reproduction (particularly those based on any elaborate social division of labour, trade, and social differentiation of reproductive functions). […]. 2. The appropriation of space examines the way in which space is occupied by objects (house, factories, streets, etc.), activities (land uses), individuals, classes or other social groupings. Systematized and institutionalized appropriation may entail the production of territorially bounded forms of social solidarity. 3. The domination of space reflects how individuals or powerful groups dominate the organization and production of space through legal means so as to exercise a greater degree of control either over the friction of distance or over the manner in which space is appropriated by themselves or others. 4. The production of space examines how new systems (actual or imagined) of land use, transport and communications, territorial organization etc. are produced, and how new modes of representation (e.g., information technology, computerized mapping, or design) arise».26 24 Importante anche il contributo di Scott Lash e John Urry, i cui studi sulla transizione da organized a disorganized capitalism fornirono a Harvey gli strumenti più prettamente economici per l’elaborazione delle proprie teorie Cfr. Lash S., Urry J. The end of organized capitalism, University of Wisconsin Press, Madison, 1987; Lash S., Urry J. Economies of Signs and Space, SAGE Publications Ltd., Thousand Oaks, 1993. 25 Michel de Certeau fu il primo a darne una definizione accessibile, benché utilizzando una nomenclatura diversa – “tattiche” anziché “pratiche”. Un esempio può essere l’atto del cucinare, che al di là della funzione d’uso (procurare nutrimento) presuppone un’interazione non meccanica con l’ambiente circostante (fornelli/sala da pranzo), nonché una serie di pratiche sociali e creative che informano la sua stessa semantica – “cucinare” è un termine connotato, diverso dal più neutro “preparare” e simili – nell’ambito del linguaggio. Cfr. Baccianini M. (Trad.), de Certeau M. L’invenzione del quotidiano, Edizioni Lavoro, Roma, 2009. 26 Harvey D. The Condition of Postmodernity: An Enquiry into the Origins of Cultural Change, Blackwell Publishing, Hoboken, 1991, pp. 219-222 (corsivi miei). 28 Tale schema non ha di per sé valore euristico, né simili azioni sono suscettibili di incasellamento stabile, dal momento che si evolvono di pari passo con le coordinate sociali (classe, genere, comunità, etnia ecc.) da cui sono validate. Ciononostante, «When placed in the context of capitalist social relations and imperatives […], the grid helps unravel some of the complexity that prevails in understanding the transformation of spatial experience associated with the shift from modernist to postmodernist ways of thinking».27 Nel nostro caso, quindi, esso può aiutarci a interpretare le pratiche spaziali come sintomi della transizione dallo Stato industriale (creatura della modernità) allo Stato speculatore (creatura postmoderna), consentendoci di riconoscere quando una data pratica travalica il proprio confine – lo stesso Harvey, per esempio, rileva che l’appropriazione persistente nel tempo a vantaggio di un particolare gruppo si traduce di fatto in dominazione, a dimostrazione della loro mobilità. A complemento delle teorie di Harvey si pongono quelle di James C. Scott, secondo il quale era stata trascurata una premessa fondamentale. Infatti, per quanto lo Stato moderno costituisse il punto di partenza della riflessione di chi, sul finire del secolo, si interessava delle sinergie tra capitale finanziario e governi centrali, questo non si poteva dare per scontato; semmai, fu proprio la transizione dai regni premoderni agli Stati ottocenteschi a garantire l’innesto di una certa concezione dello spazio, dalla quale sarebbero poi discese le pratiche di appropriazione di cui sopra – che possono provenire tanto dal pubblico quanto dalla libera iniziativa. Prima ancora di un’ideologia o di una società civile sufficientemente malleabile, condizione sine qua non di ogni progetto di state building è appunto la semplificazione dell’orizzonte spaziale entro cui si opera: «The premodern state […] lacked anything like a detailed “map” of its terrain and its people. It lacked […] a measure, a metric, that would allow it to “translate” what it knew into a common standard necessary for synoptic vision. […] Suddenly, processes as disparate as the creation of permanent last names, the standardization of weights and measures, the establishment of cadastral surveys and population registers, the invention of freehold tenure, the standardization of language and legal discourse, the design of cities, and the organization of transportation seemed comprehensible as attempts at legibility and simplification. […] 27 Ivi, p.223. 29 These state simplifications […] did not successfully represent the actual activity of the society they depicted, nor were they intended to; they represented only that slice of it that interested the official observer. They were, moreover, not just maps. Rather, they were maps that, when allied with state power, would enable much of the reality they depicted to be remade».28 In sostanza, il rischio insito in queste semplificazioni non sarebbe quello di una riduzione schematica della realtà, dacché una certa miopia statale è il prezzo da pagare per una prospettiva sinottica da cui poter esercitare il comando, esattamente come chi sale in cima a una torre posta al centro di una città sa che da lì potrà apprezzarne l’intera geometria, ma non i dettagli. D’altro canto, sussiste il pericolo che, dietro una forte spinta ideologica o nel nome di un economismo totalizzante, il potere centrale decida di dichiarare guerra a quegli spazi interstiziali entro cui si esercitano la libertà e socialità dei cittadini, arrivando a eliminare con la forza ciò che non collima con le sue astrazioni pur di sostanziarle – come diversi programmi di pianificazione su vasta scala hanno peraltro dimostrato, nel corso della storia.29 Anche in questo caso, l’immagine di uno Stato centrale – o meglio, un impero – fortemente ideologizzato, animato dal sogno di riunire un continente sotto la stessa bandiera nel nome di una “Grande Sfera di Coprosperità”30, ci riconduce a Okinawa, che di quel progetto irrealizzabile fu forse la prima vittima. Per capire con che esiti e per mezzo di quali veicoli, ci rifacciamo un’ultima volta a Scott, da cui riprendiamo la catalogazione dei processi di centralizzazione, espressi in termini di leggibilità burocratica: 28 Scott J. C. Seeing Like a State: How Certain Schemes to Improve the Human Condition Have Failed, Yale University Press, New Heaven, 1999, pp. 2-3. 29 I case study scelti dall’accademico sono la ripianificazione urbana di Parigi a opera di Le Corbusier, il piano di standardizzazione dell’agricoltura sovietica – il modello sovkhoz/kolkhoz – sotto Lenin, e il progetto originale per Brasília di Lúcio Costa. Cfr. Scott, op. cit., pp. 60-61; 120-121; 201-202. 30 Asse portante del militarismo Shōwa, il termine daitōa kyōeiken (Sfera di coprosperità della Grande Asia Orientale) fu utilizzato per la prima volta dall’allora Ministro degli Esteri Matsuoka Yasuke (1940-41), in merito al futuro assetto dell’Impero. Nel nome di un ambiguo panasianesimo – giacché alla “razza” nipponica veniva comunque riconosciuto un primato sulle altre –, il Giappone si sarebbe incaricato di liberare il Pacifico dalla morsa colonialista dell’Occidente, creando attorno a sé un cordone di Stati-satellite che, in cambio di protezione e tecnologie, avrebbero provveduto al sostentamento del centro. Cfr. Yellen J. A. The Greater East Asia CoProsperity Sphere: When Total Empire Met Total War, Cornell University Press, Ithaca, 2019. 30 Legibility of Social Groups, Institutions and Practices31 Illegible • Settlements Temporary Legible encampments of Permanent villages, estates, and hunter-gatherers, nomads, slash- plantations and-burn cultivators, pioneers, peoples; • and gypsies • • Unplanned cities Planned of grid sedentary cities and neighborhoods […]; and neighborhoods […] • Economic units • Large property bourgeoisie • Large farms • Small peasant farms • Factories (proletariat) • Artisanal production • Large • Small shops • Informal economy, Small property, petite establishments “off the • books” • Property regimes Technical commercial Formal economy, “on the books” • Collective farms property • State property • Private property • National cadastral survey • Local records • Local • Centralized Open commons, communal and resource organization Water customary use, local irrigation societies Transportation • Decentralized dam, irrigation control webs and • Centralized hubs networks 31 Scott, op. cit., p.220. 31 Energy • Cow pats and brushwood • gathered locally or local electric Large generating stations in urban centers generating stations Identification • Unregulated local naming customs • No state citizens documentation of • Permanent patronyms • National system of identification cards, documents, or passports L’adozione di un simile strumento, da cui prende le mosse l’intera struttura del presente studio, necessita delle dovute cautele. Già a una prima lettura ci si accorge infatti che alcuni termini, nella colonna di sinistra come in quella di destra, non si adattano propriamente al contesto ryukyuano né pre né post Meiji, soprattutto per il fatto che la fattispecie giapponese non è contemplata nel testo citato di Scott, incentrato invece sull’operato delle monarchie illuminate del XIX sec. e dei regimi totalitari europei del XX sec. Ciò detto, si tratta comunque di un quadro teorico di inconfutabile rigore, che consente di riunire conoscenze maturate in campi diversi (relazioni internazionali, politologia, antropologia, sociologia, scienze naturali) nella stessa sede, in modo da offrire una panoramica esauriente e – neanche a dirlo – sinottica della questione okinawana, la cui criticità può rivestire interesse non solo per l’addetto ai lavori, ma anche per il lettore non specializzato interessato a discernere limiti e sconfinamenti dell’autorità. 32 Capitolo 2. Edilizia civile e urbanizzazione 2.1. L’importanza della concezione di paesaggio nella definizione delle pratiche abitative Come anticipato, in questo capitolo ci occuperemo di analizzare l’evoluzione degli insediamenti umani (settlements) sull’isola di Okinawa, ponendo in evidenza il nesso esistente tra i passaggi di consegne – dal Giappone Meiji all’amministrazione fiduciaria USA, e quindi da quest’ultima al governo Satō32 – che ne hanno ridefinito l’assetto politico, e le nuove tendenze architettonicostrutturali che ne hanno ridefinito l’aspetto esteriore. Urge tuttavia una premessa, onde evitare facili fraintendimenti e altrettanto facili accuse nei confronti dei dominatori, ovvero che allo sbarco in armi delle truppe di Satsuma le Ryūkyū non erano affatto una terra vergine, ferma a una sorta di preistoria istituzionale. Al contrario, specie sull’isola principale che è oggetto della nostra indagine, la riunificazione a opera della dinastia Shō33 aveva diffuso un embrionale senso dello Stato che, nel corso di quasi due secoli di regno, aveva avuto modo di radicarsi non solo nella coscienza della classe dirigente ma anche in quella dei sudditi comuni, che grazie alla presenza di funzionari a livello locale avevano imparato a identificarsi nell’autorità. Ne consegue che il potere centrale disponesse – e questo ancor prima della succitata unificazione – di edifici-simbolo distinti per funzione (organizzazione del culto, burocrazia, cultura), di personale amministrativo per essi competente e di un apparato legislativo34 per mezzo dei quali controllare la società civile e intraprendere opere pubbliche, non diversamente da un qualsiasi han coevo. In questo senso, il distinguo per cui si può legittimamente parlare di prevaricazione da parte nipponica è da ricercarsi a monte delle differenze sistemiche tra monarchia autoctona e feudalesimo di periodo Edo. Per l’appunto, la nostra tesi parte dall’assunto che l’origine di tale 32 Satō Eisaku (Jimintō), Primo Ministro per tre mandati dal 1964 al 1972. A lui si devono le trattative per la restituzione di Okinawa (Okinawa henkan), con il Presidente Lyndon Johnson (1963 – 1969) prima e il Presidente Richard Nixon (1969 – 1974) poi. È ricordato soprattutto per la sua agenda pacifista, che avrebbe portato all’introduzione dei Tre Principi di Non-Proliferazione Nucleare – i.e., il Giappone si sarebbe astenuto dal possesso, dalla produzione e dall’introduzione sul proprio territorio di armamenti atomici – nel 1967, e alla ratifica dell’omonimo trattato internazionale (NPT) nel 1970. Cfr. Gatti F. Storia del Giappone contemporaneo, Mondadori, Milano, 2002. 33 Vd. nota 5 in Capitolo 1. Il paesaggio e il disegno del potere, p.18. 34 Si trattava sostanzialmente di un calco delle leggi varate sotto la dinastia Ming (1368 – 1644), sprovvisto di una netta distinzione tra penale e civile e che lasciava ampia libertà discrezionale all’autorità giudicante. Cfr. Caroli, op. cit., pp. 42-43. 33 incompatibilità di fondo risieda nella diversa concezione di paesaggio35 posseduta dai due popoli, da cui si può supporre discendano anche i rispettivi approcci alla diplomazia e alla res publica. Partendo dal caso del mainland, si sente spesso parlare del satoyama36 come del tipico paesaggio rurale giapponese, ma non bisogna dimenticare che detta realtà non è rappresentativa della totalità del territorio dell’Arcipelago, in quanto difficilmente sovrapponibile a contesti climatici al di fuori dell’area del Kantō-Kansai. Nato dalla necessità delle prime comunità stanziali di prevenire le catastrofi naturali (tifoni, terremoti, inondazioni) che stagionalmente le costringevano a emigrare, il satoyama si fonda sull’osservazione empirica e sull’introduzione graduale di nuove soluzioni in disparati ambiti della vita agreste, dal mangime per il bestiame alla raccolta dei prodotti del sottobosco, dal direzionamento delle acque reflue fino alla produzione del carbone di legna. Valutando collettivamente gli esiti delle proprie innovazioni in una prospettiva a lungo termine, le comunità di villaggio facilitavano così l’acquisizione delle buone pratiche di generazione in generazione, il cui merito fu quello di accelerare il raggiungimento di una certa stabilità idrogeologica senza interventi invasivi. Basti pensare, per esempio, a come la saggezza popolare fosse riuscita ad arginare il problema delle alluvioni, oggi ripresentatosi a causa dell’edilizia cementizia. Montuoso per quasi il 75% della sua superficie, il Giappone non offre vasti spazi per l’insediamento umano, ragion per cui molti villaggi non ebbero altra scelta che svilupparsi in verticale, mettendo a coltura quanto più dislivello possibile prima di imbattersi nelle pendici del monte o collina dominante l’altura. In seguito all’introduzione della risicoltura 37 , i cui terrazzamenti offrivano una comoda alternativa alla coltivazione in piano, le comunità agricole si guardarono bene dal disboscare le 35 In geografia, «data una cornice di elementi naturali, la materializzazione nello spazio geografico dei processi storici, articolati secondo i meccanismi insediativi, le presenze culturali e artistiche, gli eventi di varia natura, l’evoluzione dei modi di produzione. Tra gli aspetti naturali quelli che più concorrono all’individuazione di paesaggi sono le forme del suolo e la vegetazione […]; tra i fattori umani, i caratteri dell’insediamento e, soprattutto, dell’economia rurale […]». Cfr. Paesaggio in Enciclopedia Treccani (versione online). 36 Crasi di sato (villaggio) e yama (montagna), il termine fu coniato nel 1759 da Teramachi Hyōemon, perito forestale della valle di Kiso (Prefettura di Nagano), che lo utilizzò in narrativa nell’accezione di «paesaggio di montagna osservabile nei pressi dei centri abitati». A riesumare e dare dignità scientifica al lemma fu però l’ecologista Shidei Tsunahide (1911 – 2009), che negli anni Sessanta lo ripropose quale modello di sostenibilità. Cercando di fare ordine tra le accezioni del termine, lo s’intende di seguito come il modo di gestione dei villaggi pre-industriali, caratterizzato da una organizzazione delle risorse (boschive, erbose, idriche) di reciproco beneficio per gli abitanti e l’ambiente circostante. Cfr. Takeuchi K. Satoyama Landscapes as Managed Nature in Brown R. D., Yokohari M. et al. Satoyama – The Traditional Rural Landscape of Japan, Springer Japan, Tokyo, 2003. 37 Nel periodo Yayoi (300 a.C. – 250 d.C ca.). Cfr, Caroli R., Gatti F. Storia del Giappone, Laterza, Bari, 2017. 34 aree verdi che si frapponevano tra il centro abitato e la montagna, su cui non a caso convergono tabù e superstizioni dello shintō38. L’utilità di questo cordone naturale, al di qua del quale correva la fila di abitazioni, era quella di porre rimedio alle esondazioni dei corsi d’acqua: di norma, infatti, i fiumi giapponesi non hanno una grande portata, sicché il loro letto è incapace di contenere gli enormi volumi d’acqua che vi si riversano improvvisamente in seguito alle precipitazioni monsoniche. Villaggio satoyama nella municipalità di Kumamoto, Kyūshū. Fonte: Sekiyama K., KSPhotographic, 2019. Villaggio satoyama nella municipalità di Kumamoto, Kyūshū. Fonte: Sekiyama K., KSPhotographic, 2019. L’effetto distruttivo di queste era appunto mitigato dalla foresta 39 del satoyama: gli alberi assorbivano buona parte del volume in eccesso, limitando l’erosione del terreno circostante per mezzo delle radici; l’acqua così filtrata scendeva quindi lungo i terrazzamenti, che tramite canaline era direzionata verso gli orti prospicienti le abitazioni, dove le singole famiglie crescevano le proprie verdure; infine, quel che restava veniva ulteriormente deviato dagli orti Nello shintō, la montagna è anticamera dell’aldilà: è qui che dimorano gli spiriti degli antenati che, durante la festa dello obon (13 – 15 agosto), si crede facciano visita ai propri discendenti, nonché la divinità protettrice (kami) a cui è dedicato il santuario locale. Cfr. Raveri M. Il pensiero giapponese classico, Einaudi, Torino, 2014. 39 Le specie che in origine dominavano le foreste decidue dell’area del Kantō-Kansai erano la quercia (konara, riferito specificamente alle varietà Quercus serrata e Q. acutissima) e il pino rosso (akamatsu, nome scient. Pinus densiflora). Cfr. Takeuchi, op. cit., pp. 47-48. 38 35 verso il ruscello – o altro corso d’acqua minore – del villaggio, da cui gli abitanti attingevano l’occorrente per le attività quotidiane (bucato, cucina, igiene personale). Nel corso di questo processo, l’acqua passava da un microhabitat all’altro, arricchendosi di una serie di microorganismi che andavano ad aggiungersi al bioma dei siti ove si depositavano, finendo poi per percolare nella falda acquifera sotterranea. Rappresentazione grafica dell’ecosistema del satoyama. Fonte: Yuanmei J. et al., Yunnan Normal University, 2019 In tal modo, i paesani riuscivano a garantirsi protezione dalle piogge e dalle frane senza bisogno di ricorrere a opere idrauliche maggiori, facendo pendere a proprio vantaggio la bilancia del fabbisogno idrico. Non da ultimo, il ridotto rischio idrogeologico permetteva di manutenere ed eventualmente estendere la rete stradale da e verso il villaggio, facilitando traffici commerciali e viaggi in provincia. Certo, questo sistema richiedeva i dovuti accorgimenti per risultare efficace: per evitare un accumulo eccessivo di foglie e altri residui, questi venivano raccolti regolarmente e compostati per essere utilizzati negli orti privati; ancora, quando un albero raggiungeva un’altezza eccessiva, esso veniva abbattuto senza sradicarlo, sì che negli anni potesse ricrescere a partire dal troncone. In generale, si cercava di rispettare la diversità spontanea della foresta, senza privilegiare le 36 specie da cui si poteva ricavare profitto immediato40, e di lasciare sempre sufficiente spazio tra le chiome, in modo che la luce solare potesse penetrare nel folto in ogni stagione, massimizzando la produzione di biomassa. In altre parole, si può dire che la prassi del satoyama abbia anticipato le moderne teorie sulla biodiversità degli ecosistemi, affidandosi a un approccio trial and error che, seppur eccessivamente intuitivo e dispersivo per poter essere definito scientifico, presenta comunque un’impostazione sperimentale facilmente osservabile e riproducibile, tanto da aver attirato l’attenzione di quegli agronomi che in tempi più recenti si sono occupati di sensibilizzare l’opinione pubblica in materia ambientale. Con le dovute cautele circa la “giapponesità” tout court del satoyama di cui si diceva all’inizio, se ne può altresì desumere una concezione di paesaggio come managed nature41: posto che la natura non è capace di autoregolarsi al punto da creare le condizioni ideali per la sopravvivenza dell’uomo, bisogna individuarne gli ambiti passibili di miglioramento, astenendosi al contempo dal compiere operazioni in grado di compromettere la buona salute delle specie vegetali – e non solo – che concorrono ad assicurare la sostenibilità della vita sedentaria. Inutile dirlo, si tratta però di un equilibrio precario, fondato su leggi non scritte e che necessita di aggiustamenti continui, la cui bontà si può determinare soltanto rimanendo in loco, a osservare con pazienza. Pazienza che la generazione postbellica, affamata di benessere e desiderosa di lasciarsi alle spalle il conservatorismo delle zone rurali, chiaramente più non aveva. Ciò che non aveva fatto l’inurbamento di periodo Meiji, con l’annessa emorragia di forza lavoro dalle campagne, lo fecero infatti le grandi società di costruzioni del XX secolo, che per accomodare 40 La moderna scienza forestale, sviluppatasi in Prussia tra la seconda metà del Settecento e inizio Ottocento, era giunta alla conclusione (erronea) che, con monocolture di alberi a rapido accrescimento e una buona dose di fertilizzanti chimici, si sarebbe potuto garantire un ricambio di legname da costruzione stabile nel tempo. Sull’onda dell’entusiasmo per gli ottimi risultati ottenuti con la prima generazione di piante, tali innovazioni furono subito introdotte nei Paesi europei in via di industrializzazione e, più tardi, in Giappone, dove il governo Meiji disboscò ettari di foresta spontanea per far posto a foreste sperimentali piantate a cedro (sugi, nome scient. Cryptomeria japonica) e cipresso (hinoki, nome scient. Chamaecyparis obtusa). Particolarità del caso giapponese è che la vera impennata nella sostituzione specifica si ebbe a partire dal Secondo Dopoguerra, quando in Europa e Stati Uniti le teorie delle biodiversità e i fallimenti del secolo precedente avevano portato al definitivo abbandono delle monocolture. A oggi, si stima che il Giappone abbia sostituito più del 50% del proprio patrimonio boschivo con sugi, portando sull’orlo dell’estinzione alcune specie endemiche – soprattutto farfalle, come il midori shijimi (nome scient. Favonius orientalis) – e aumentando il rischio idrogeologico, nonché l’incidenza di allergie stagionali da polline (kafunshō). Cfr. Kerr A. Dogs and Demons: Tales from the Dark Side of Japan, Hill & Wang Publishing, New York City, 2002; Takeuchi, op. cit., pp. 90-91. 41 La definizione, come anche l’elaborazione teorica su questo punto, appartiene all’agronomo Takeuchi Kazuhiko, al cui studio ci siamo rifatti per la stesura dei paragrafi incipitari sul satoyama. Cfr. Takeuchi, op. cit., pp. 11-12. 37 una sempre più numerosa classe impiegatizia – tra cui figuravano anche quei figli e nipoti che avevano scelto di abbandonare il furusato (paese natìo) – si misero ad acquistare terreni da quelle famiglie contadine che, perduto il sostegno materiale degli eredi, avevano poca ragione di rifiutare le loro generose offerte. Per erigere i blocchi residenziali si iniziò quindi a tagliare letteralmente a metà le dorsali delle colline e a cementificare il fondovalle, distruggendo su entrambi i versanti l’ecosistema del satoyama, che nonostante gli sforzi di volontari ed esperti costituisce oggi una realtà pressoché estinta. Rappresentazione schematica della crisi del satoyama. Fonte: Yuanmei J. et al., Yunnan Normal University, 2019 Diverso il discorso per Okinawa, le cui condizioni di partenza erano più severe rispetto a quelle osservabili nello hondo. Abituato a una flora subtropicale che poco si prestava allo sfruttamento umano e ancor meno a offrire protezione dai frequenti tifoni, il popolo ryukyuano dovette convivere a lungo con la preoccupazione delle scarse riserve idriche e dell’umidità elevata, che impedivano la conservazione degli alimenti e la pianificazione dell’agricoltura su ampia scala. Tenendo conto di questi fattori frenanti, non è difficile capire perché gli isolani avessero 38 sviluppato una certa cautela nei confronti degli interventi antropici, complice anche il timore reverenziale mantenuto dalle loro guide spirituali42 nei confronti dello status quo ambientale. Di conseguenza, a Okinawa non è possibile riscontrare un sistema di “management naturale” comparabile a quello del satoyama: i locali erano ovviamente a conoscenza delle ricchezze che il territorio aveva da offrire, ma i singoli prelievi non si inserivano in un più vasto quadro di sperimentazione – e a seguire di implementazione – atto a migliorare la situazione iniziale; piuttosto, si cercava di controbilanciare il proprio impatto sull’ecosistema per mezzo di interventi di compensazione di pari entità, sì da non compromettere il ricambio di quelle già esigue risorse che avrebbero dovuto garantire la sopravvivenza della generazioni a venire, anche in vista di un potenziale aumento demografico – quale spesso si verificava. A questo punto, una definizione di paesaggio in grado di porre in risalto la distanza rispetto al lemma precedente potrebbe essere quella di counterbalanced nature. Ferma restando la consapevolezza che la natura non costituisce una dimensione a uso e consumo dell’uomo, non è tuttavia nelle facoltà di quest’ultimo dettare i termini del rapporto, come avvalorato dall’osservazione fenomenica. Nubifragi che si scatenano all’improvviso, ristrettezze di spazio e penuria di materie prime frustrano continuamente la possibilità di instaurare una dialettica genuinamente produttiva e paritetica con l’ambiente di appartenenza, sicché la soluzione migliore appare quella di un’interazione moderata, per la quale ogni sottrazione deve tener conto dei tempi di rigenerazione delle risorse naturali. Continuando su questa linea di ragionamento, si può aggiungere che mentre le pratiche del satoyama discendono da un approccio deduttivo nei confronti della natura, confortato da pattern ricorrenti e un contesto idrogeologico più disponente tali da consentire l’astrazione e quindi la previsione, le pratiche del villaggio okinawano paiono derivare semmai da un approccio quasi esclusivamente induttivo, limitato nelle sue speculazioni da una situazione di partenza affatto rigida, che poco spazio lasciava all’iniziativa delle popolazioni stanziali. L’ambito in cui esercitare le proprie facoltà creative non sta perciò a monte, nella prevenzione e mitigazione dei Per quanto non si possa parlare di matriarcato, nelle Ryūkyū il potere religioso è sempre stato appannaggio delle noro, sacerdotesse-indovine legate per parentela ai capi politici. Il loro ruolo era quello di officiare i riti e custodire il focolare sacro del villaggio, nonché di sorvegliare l’operato della controparte maschile. I documenti che ne sanciscono le linee di discendenza risalgono all’unificazione del regno, ma il loro potere declinò sensibilmente a partire dal XVII sec. Per uno studio comparato con le altre manifestazioni sciamaniche dell’Arcipelago, cfr. Haring D. G. The Noro Cult of Amami Ōshima: Divine Priestesses of the Ryūkyū Islands in Sociologus – Neue Folge vol. 3-2, Duncker & Humblot, Berlino, 1953. 42 39 fenomeni naturali, quanto a valle, ovvero nell’organizzazione di quelle pratiche associative, precipue della razza umana, che consentono di porre rimedio – come si diceva sopra, “compensare” – ai capricci della natura ex post facto. Per l’appunto, è qui che si inserisce l’agglomerato sociale noto come muē 43 , la risposta okinawana al satoyama: esistente ancor oggi nella forma di banco di mutuo soccorso, esso era in origine un’associazione informale di “liberi cittadini” finalizzata alla comunione di beni materiali, agroalimentari e manodopera, alla quale si contribuiva su base volontaria. Quando una disgrazia si abbatteva su una famiglia del villaggio, era il muē a provvedere alle spese e al lavoro fisico che il singolo nucleo non poteva sostenere con le sue sole forze: il crollo di un pozzo o di un’abitazione, la perdita di una piantagione o di un capo di bestiame, erano eventi all’ordine del giorno che, se da un lato difficilmente prevenibili, potevano essere più agilmente superati facendo affidamento sull’associazionismo. In sintesi, mentre il satoyama si dimostrava particolarmente efficiente nelle pratiche di profilassi, punto di forza del muē era la corsa ai ripari, che portando sollievo immediato ai sinistrati consentiva un ritorno alla normalità meno traumatico. Riprendendo il discorso iniziale, riteniamo che questa differenza antropologica fondamentale circa lo statuto del paesaggio rappresenti la chiave di volta per interpretare le mancate sinergie tra Yamato e Liuqiu: da un lato, un pugno di Stati regionali ossessionati dall’espansione territoriale, che in seguito all’unificazione44 avrebbero riconosciuto nella centralizzazione e nel militarismo il proprio denominatore comune; dall’altro, una galassia di piccole isole che, pur esperendo strette da parte di una volubile autorità centrale, aveva trovato nella decentralizzazione e nel pacifismo45 il giusto equilibrio onde schermirsi dalle pressioni interne ed esterne. 43 Giapp. standard muai, presentano oggi lo statuto legale di cooperative o associazioni culturali, organizzate per vicinato (machi) al pari delle associazioni di volontariato dello hondo. Di recente, la loro attività è venuta a intersecarsi con quella dei kōenkai, i gruppi di supporto creati da esponenti locali del Jimintō allo scopo di fidelizzare il proprio elettorato con feste, gite ed elargizioni. Cfr. Moyai in Kotobanku onrain jiten, Asahi Shimbunsha, Tokyo. 44 L’opera di unificazione inaugurata da Oda Nobunaga (1534 – 1582) nella seconda metà del Cinquecento e conclusasi con l’imposizione dello shogunato (bakufu) nel 1600 da parte di Tokugawa Ieyasu (1543 – 1616). Cfr. Caroli, Gatti, op. cit., pp. 87-88. 45 Il pacifismo totalizzante del popolo okinawano è un falso mito, come si evince dai cenni storici sinora riportati, nonché dalle arti marziali di autodifesa (karate, kobudō) che videro la luce sull’isola. Tuttavia, per quanto percorse da conflitti e ribellioni interne, è altresì vero che le Ryūkyū non ritennero mai la guerra un valido strumento diplomatico, ragion per cui quantità e sofisticazione del potenziale bellico furono sempre ridotte al minimo. Cfr. Smits G. Visions of Ryukyu: Identity and Ideology in Early-Modern Thought and Politics, University of Hawaii Press, Manoa, 1999. 40 Tenendo a mente quanto detto sopra, procediamo ora a vedere come questo particolare modo di intendere la vita in comunità si sia concretato in prassi architettonica, e come il medesimo sia stato successivamente stravolto dai tentativi di modernizzazione messi in campo – spesso e volentieri in buona fede – dalle nazioni occupanti. 2.2. L’architettura tradizionale del Regno delle Ryūkyū e l’integrazione “morbida” nello Stato Meiji L’utilizzo del termine “tradizionale” pone, come di consueto, un problema di identificazione. In generale, ci riferiamo con esso a quelle manifestazioni dell’architettura civile riconducibili al periodo di piena sovranità della corte di Shuri, la cui originalità fu sancita principalmente a posteriori dai movimenti identitari di tardo periodo Shōwa46, in un momento in cui rimarcare su quanti più fronti possibili la distanza dalla cultura egemone dello hondo era diventato di capitale importanza. La diatriba fu più che altro di natura teorica, dato che gran parte del patrimonio culturale era andata distrutta nei fuochi della guerra – come comprovato dai pochi esemplari originali sopravvissuti 47 –, ma fornì un indirizzo rigoroso per le successive opere di ricostruzione48, che restituirono agli abitanti di Okinawa dei monumenti attorno a cui ricostruire la propria coscienza collettiva. Nel suo primo studio sistematico sull’argomento (i.e. Ryūkyū geijustu chōsa, 1924), il celebre storico dell’architettura Itō Chūta (1867 – 1954) classificò l’architettura ryukyuana come una particolare declinazione dell’architettura imperiale cinese. Tale definizione non piacque ad alcuni intellettuali okinawani diplomatisi presso le migliori università di Tōkyō, come Ihara Fuyū (1876 – 1947) e Higashionna Kanjun (1882 – 1963), desiderosi di muovere oltre il pregiudizio dell’incolmabile distanza tra cultura isolana e cultura Yamato. Al contrario, secondo costoro l’architettura delle Ryūkyū costituiva il sostrato più antico e autentico della civiltà giapponese, ovvero quello in cui erano ancora riscontrabili contaminazioni con le altre realtà del Pacifico Meridionale, prima della massiccia influenza cinese. Tuttavia, negli anni Settanta studi affini – per quanto viziati da un certo coinvolgimento politico – hanno dimostrato la maggior fondatezza delle teorie di Itō rispetto a quelle dei suoi discepoli. Per una disamina della querelle sull’originalità dell’architettura okinawana, cfr. Toya N. Kindai ni okeru ‘Ryūkyū kenchiku’ no seiritsu to chiiki shakai in Journal of Architecture and Planning, vol. 73, Architectural Institute of Japan, Tokyo, 2008. 47 Si tratta perlopiù di rovine di castelli (gusuku) che l’aristocrazia aveva smesso di abitare in seguito alle devastazioni delle guerre di riunificazione (XV sec.), come i siti di Nakagusuku (Ginowan-shi), Katsuren (Urumashi), Nakijin (Nago-shi), o ancora di mausolei reali costruiti nei periodi di pace intervallanti suddetti conflitti, come il Tamaudun (Naha-shi) e lo Urasoe yōdore (Urasoe-shi). Cfr. Ladefoged T., Pearson R. Fortified castles on Okinawa Island during the Gusuku Period, AD 1200-1600 in Antiquity, vol. 74, Cambridge University Press, Cambridge, 2000. 48 L’esempio più noto è sicuramente il Castello di Shuri (Naha-shi), ricostruito nel 1992 nel suo sito originario per commemorare il ventennale del Ritorno al Giappone, e nuovamente raso al suolo dal recente incendio del 2019. Cfr. Japan government aims to restore Okinawa’s gutted Shuri Castle by 2026, The Japan Times, 27 marzo 2020. 46 41 Come ogni società confuciana, anche quella ryukyuana era fortemente classista, ragion per cui esistevano leggi precise in merito a chi potesse costruire cosa, e utilizzando quali materiali. La prima attestazione a regolare formalmente questo aspetto, sino ad allora rimasto norma consuetudinaria da far applicare ai capivillaggio, è contenuta in un editto dello Haneji shioki49 (1667), in cui il legno di quercia50 (chāgi) e di pino51 (māchi) vengono designati come «legname per uso nobiliare» (goyōgi), vietandone ai sudditi comuni l’abbattimento, la vendita e l’uso privato: chi, all’ispezione periodica del magistrato, fosse stato trovato colpevole di aver eretto con detti materiali parte della propria abitazione – o anche solo di aver abbattuto questi alberi per far spazio alla stessa –, sarebbe stato punito con la demolizione della dimora e il divieto di edificarne un’altra senza previo controllo dell’autorità competente. Dettagli di chāgi (sinistra) e māchi (destra). Fonte: Okinawa Prefecture, 2015. Raccolta di leggi a opera di Haneji Chōshū (1617 – 1676), storico di corte e Primo Consigliere (sessei) di Shuri dal 1666 al 1675. Compilatore della prima cronaca ufficiale del regno (Chūzan seikan, 1650), studiò a Satsuma sotto l’egida dell’aristocrazia guerriera nipponica, da cui apprese l’etica militare, l’autodisciplina di matrice zen e il rispetto reverenziale verso i superiori. Alla sua morte, queste centinaia di editti furono raccolte in un corpus unico che avrebbe informato l’agenda politica del regno fino alla deposizione dell’ultimo sovrano Shō Tai nel 1872. Cfr. Kuba M. Meiji-Taishōki no Okinawa ni okeru mokuzai riyō no jōkyō ni tsuite – Okinawaken shinrin shisatsu fukumeisho in Okinawa kenritsu hakubutsukan-bijutsukan kiyō, vol. 6, Okinawa Prefectural Museum & Art Museum, Naha, 2013. 50 Giapp. standard urajirogashi, nome scientifico Quercus salicina. In luchuan, la parola chāgi designa anche lo inumaki (Podocarpus macrophyllus) una specie di conifera utilizzata anch’essa come materiale da costruzione, ma non soggetta a restrizioni d’uso in quanto molto comune. Cfr. Kuba, op. cit., pp. 61-62. 51 Giapp. standard matsu, nome scientifico Pinus luchuensis (n.d.r.). 49 42 Successivamente, nel 1737 a tale novero si aggiunsero lo īku52, lo akagi53, lo itajii54 e lo iju55, rendendo virtualmente impossibile costruire una casa con legname di qualità per chiunque non appartenesse ai ranghi dell’aristocrazia. Con lo stesso editto56, il governo reale decretò inoltre il monopolio sulle foreste dei somayama57, la cui gestione era stata sino ad allora affidata in via autonoma ai majiri58, allo scopo di pianificarne le attività di rimboschimento e disboscamento. Dettagli di itajii (sinistra) e iju (destra). Fonte: Okinawa Prefecture, 2020. 52 Giapp. standard mokkoku, nome scientifico Ternstroemia gymnanthera (n.d.r.). Giapp. standard id., nome scientifico Bischofia javanica (n.d.r.). 54 Giapp. standard sudajii, nome scientifico Castanopsis sieboldii (ssp. luchuensis) (n.d.r.). 55 Giapp. standard himetsubaki, nome scientifico Schima wallichii (n.d.r.). 56 Noto ufficialmente come Rinsei hassho o Somayama Hōshikichō (1737). Cfr. Kuba, op. cit., pp. 61-62. 57 Foreste in amministrazione fiduciaria collettiva. Formalmente proprietà del sovrano, erano affidate alla supervisione dei capi majiri (vd. nota seguente.), che a loro volta ne delegavano la tutela ai capivillaggio. A prendersene cura effettivamente erano i residenti locali, che in cambio dei diritti d’uso su una piccola percentuale del legname – utilizzato in parte come materiale da costruzione, in parte per ricavarne carbone – si assicuravano della salute degli alberi, eseguivano i lavori di rimboschimento e comunicavano alle autorità i dati rilevanti. Cfr. Kuba, op. cit., pp. 62-63. 58 Giapp. standard magiri, divisioni amministrative di primo livello, corrispondenti per estensione territoriale agli odierni comuni (shi) ma dotati di maggiore autonomia. Dalla sua introduzione intorno al XV sec., tale sistema rimase in vigore fino al 1908, quando fu abolito tramite decreto imperiale e sostituito con il moderno sistema municipale (shichōson). Cfr. Tana M. Omoro kara Okinawashi tanjō made, Okinawa Bunkō, Naha, 1984. 53 43 Un’eccezione importante alla regola era rappresentata dal centro abitato di Naha, dove era consentito il libero utilizzo del goyōgi, a prescindere dallo status sociale, per una questione di prestigio internazionale: qui si trovavano infatti i quartieri residenziali occupati dalle legazioni straniere durante le ambascerie, nonché le abitazioni dei diplomatici in pianta stabile. Va da sé che le famiglie aventi disponibilità economica sufficiente all’acquisto di legnami pregiati fossero spesso le stesse per le quali non si poneva il problema del divieto, ma è pur vero che a Naha si poteva osservare una certa mobilità sociale, con mercanti, artigiani e piccoli proprietari terrieri che avevano gradualmente guadagnato la città alta, trovandosi a vivere a poca distanza dai nobili d’alto rango. Dettagli di īku (sinistra) e akagi (destra). Fonte: Okinawa Prefecture, 2016. Nonostante l’estensione considerevole – se paragonato alle altre realtà dell’arcipelago – e le attività di preservazione di cui si diceva poc’anzi, ancora sul finire del XVIII sec. lo hontō soffriva di una carenza cronica di legname, ragion per cui una voce considerevole del bilancio pubblico era rappresentata dalle importazioni di questo bene: da Amami Ōshima e Kikaijima – ovvero dalle periferie del regno – proveniva il chāgi, resistente a muffe e insetti e pertanto 44 destinato a essere trasformato in pilastri, travetti e pavimenti, mentre da Satsuma – a maggior ragione in seguito alla sottomissione – si acquistava legno di cedro59 (sugi) e cipresso60 (hinoki), che venivano utilizzati per laccature, navi, attrezzature edili e oggetti di uso quotidiano. Un materiale meno ricercato e per cui non sussistevano particolari vincoli d’uso era invece la roccia calcarea (sekkaigan), disponibile in abbondanza sull’isola. È opinione condivisa che essa abbia avuto origine dalla sedimentazione stratificata della barriera corallina, in concomitanza con il progressivo abbassamento del livello degli oceani: una volta esposto all’aria aperta per effetto dello spostamento di faglia, il corallo ha attraversato un processo noto come cementazione 61 , indurendosi rapidamente pur mantenendo la porosità caratteristica dell’organismo biologico. Particolarità della variante ryukyuana sono le ripide formazioni “a cresta di gallo”, in prossimità di corsi d’acqua superficiali o sotterranei. Questi veri e propri muri di roccia sono frutto di un caso particolarmente felice del fenomeno sopra descritto, favorito da un’erosione differenziale che ha portato in evidenza soltanto gli strati maggiormente consolidati: da un lato, il dislivello ha impedito un accumulo di terreno alla base, sì da evitare il rallentamento dell’ossidazione; dall’altro, il flusso d’acqua costante ha accelerato la cristallizzazione del calcare, che bagnandosi e asciugandosi a fasi alterne indurisce più velocemente. Dal momento che tali creste raramente superano i 150 metri di spessore, non era raro che gli isolani tentassero di perforarle fino a raggiungere la sorgente sottostante, in modo da garantirsi una riserva idrica ausiliaria. In virtù della relativa facilità di estrazione, nonché della sua resistenza alle intemperie, il sekkaigan era impiegato nella costruzione di muri di cinta, mangiatoie, servizi igienici e pavimentazioni, sia stradali che domestiche: una scelta, quest’ultima, non molto appropriata visto che, trattandosi di una roccia porosa, nei giorni di pioggia diventa pericolosamente scivolosa. 59 Nome scientifico Cryptomeria japonica, la qualità di legname importata da Satsuma era nota come yakusugi, in quanto proveniva dalle piante che crescevano spontaneamente sopra i 500 metri a Yakushima, appartenente al gruppo delle Isole Ōsumi – ca. 600 chilometri a Nord-Est di Okinawa. Cfr. Chikara M. Kyūshū ikushujō no hozon’en no genkyō in Rinboku iden shigen jōhō, vol. 29, Rinboku Ikushu Sentā, Hitachi, 2004 60 Nome scientifico Chamaecyparis obtusa (n.d.r.). 61 In geologia, «litificazione e saldatura di sedimenti clastici – ovvero provenienti da formazioni rocciose precedenti – per effetto della precipitazione di minerali in interstizi porosi». Più volgarmente, processo per il quale gli ioni – di cui sono ricchi i corsi d’acqua sotterranei – formano microscopici “ponti” di minerale tra i granuli dei sedimenti originari, legandoli insieme in un nuovo conglomerato. Cfr. Takayasu K. Ryukyu Limestone of Okinawa-Jima, South Japan: A Stratigraphical and Sedimentological Study in Memoirs of the Faculty of Science, vol. 45-1, Kyoto University, Kyoto, 1978. 45 Ciò detto, passiamo a vedere la struttura di una tipica dimora ryukyuana, tenendo presente che la presenza o meno di certi elementi distintivi dipendeva dal censo e dalla professione degli occupanti. L’abitazione propriamente detta si trova al centro del complesso, orientata a Sud per garantire la massima esposizione alla luce solare durante la giornata. L’interno dell’edificio principale (omoya) presenta a Sud-Est lo ichibanza, la stanza principale contenente il tokonoma per il culto degli antenati, riservata al capofamiglia e alla sua consorte; alla sua sinistra è invece il nibanza, contente l’altare buddista62 e occupata dai figli, ai quali era comunque data facoltà di utilizzare la metà superiore della stanza paterna, in caso di necessità. Pianta di casa tradizionale ryukyuana. Fonte: Shinsei Shuppansha, 1980. Sull’estremità occidentale si trova la cucina: a differenza delle altre stanze, che presentavano una copertura in bambù intrecciato (chinibu)63, il pavimento era in terra battuta o pietra – come La maggiore influenza del buddismo rispetto allo shintō, che pure era entrato a far parte della religiosità locale attraverso secoli di contatti con lo hondo, si rivelò problematica all’indomani della proclamazione dello Shinbutsu hanzenrei (1868), ovvero l’editto sanzionante la superiorità dello shintō quale unica religione autentica dell’Arcipelago. La matrice buddista del culto tradizionale di Okinawa fu a lungo guardata con sospetto dagli ufficiali di Tōkyō quale ulteriore prova dell’inaffidabilità e indolenza degli indigeni, incapaci di conformarsi fino in fondo al kokutai (ordinamento nazionale). Cfr. Hardacre H. Creating State Shinto: The Great Promulgation Campaign and the New Religions in The Journal of Japanese Studies, vol. 12-1, The Society for Japanese Studies, Seattle, 1986. 63 Il nome autoctono del bambù intrecciato, con il quale ci si riferisce per estensione anche alla tecnica di intrecciatura tipica di Okinawa: in essa, le fascine di bambù sono disposte obliquamente su intelaiatura quadrangolare, a formare degli incroci. Cfr. Chinibu in Okinawa Hōgen Jiten, Ajima Kabushikigaisha, Naha. 62 46 nell’esempio in questione –, per evitare che la fiamma del focolare domestico64 – sempre accesa – potesse scatenare un incendio; nello specifico, per cuocere le pietanze si usava una piccola fornace (kamado), circondata sui tre lati da grosse pietre e sormontata da un ampio scaffale, dove si appoggiavano la legna da ardere e le spezie. Uscendo dall’omoya, ci si imbatte sulla destra nello ashiyagi, una sorta di dépendance collegata allo ichibanza dal basamento in pietra o dalla grondaia (amahaji)65. Dotata di propri servizi igienici e di una o due stanze, essa serviva ad accomodare le coppie anziane – genitori e/o suoceri o, viceversa, gli sposi novelli –, come spazio per la socializzazione dei giovani o, infine, come casa per gli ospiti d’onore, anche se quest’ultima funzione cadde presto in disuso in seguito alla presa del potere da parte di Satsuma, che aveva sospeso le visite dei funzionari locali per tema di complotti. Ricostruzione di un complesso tradizionale presso l’acquario di Churaumi (Motobu-chō). Fonte: Inoue C., Smart Magazine, 2015. Era talvolta affiancato da un bruciatore d’incenso (kōro) per la venerazione di Hinukan, divinità animista del fuoco. Cfr. Yashiki to tatemono in Ryūkyū Bunka Akāibu, Okinawa Kenritsu Sōgōkyōiku Sentā, Okinawa. 65 Serviva a impedire che la pioggia, che sovente cadeva di stravento, potesse bagnare gli ambienti interni. Offriva poi riparo dalla luce diretta a chi si intratteneva all’esterno, e facilitava la raccolta di foglie e altri residui che si depositavano sul tetto. Aveva infine un’importante funzione sociale: nelle case okinawane, sprovviste di vestibolo (genkan), gli ospiti venivano accolti sotto la grondaia, e qui si servivano le pietanze di benvenuto al loro arrivo. Cfr. Dixon B. Okinawa as Transported Landscape: Understanding Japanese Archaeological Remains on Tinian Using Ryūkyū Ethnohistory and Ethnography in Asian Perspectives, vol. 54-2, Hawaii University Press, Manoa, 2015. 64 47 Per quanto riguarda gli ambienti funzionali, fuori dalla cucina si trova il magazzino (momikura) per il riso non mondato (momi, appunto) con tetto di paglia, rialzato di circa 2 metri per evitare l’umidità del suolo. Era sorretto da alti pilastri circolari – da 4 a 9, a seconda dell’ampiezza della struttura – sui quali erano installati dei nezumigaeshi, placche di legno a metà altezza tra il terreno e il deposito, che servivano a impedire ai topi di raggiungere la sommità. Sulle pareti in chinibu, inclinate di 45 gradi verso l’esterno, si aprivano due ingressi con la rispettiva scala di legno, in modo da garantire una buona areazione in ogni stagione. Il pozzo (ido), invece, non era presente in ogni abitazione, e anche laddove disponibile non sempre bastava a soddisfare il fabbisogno familiare, sicché era necessario recarsi alla sorgente più vicina per fare scorta: l’acqua così raccolta veniva quindi conservata in recipienti fissi, posti all’esterno della cucina. Passando sul lato Nord-Ovest, troviamo i servizi igienici (benjo) e il porcile (tonsha), che spesso costituivano un’unica unità (fūru in luchuan)66. Resti di fūru presso il sito archeologico di Hanzanbaru (Chatan-chō). Fonte: Hitorigoto Blog, 2015. Introdotto dalla Cina, probabilmente al tempo della dinastia Han (206 a.C. – 220 d.C.). Esemplari di fūru (giapp. standard butabenjo) sono attestati anche sull’isola di Jeju, facente parte delle acque territoriali della Repubblica di Corea. Cfr. Dixon, op. cit., p. 290. 66 48 Entrambi in pietra, i primi erano una sorta di latrina alla turca rialzata, provvista di un foro rettangolare – detto tōshi nu mī – e declinante verso l’interno, sormontata da un arco a impedire la penetrazione della luce. Le deiezioni venivano poi raccolte e gettate – o fluivano direttamente, nel caso in cui le due sezioni fossero collegate – nella porcilaia, dove diventavano mangime per il bestiame: una pratica a prima vista insalubre, ma che in realtà consentiva uno smaltimento del tutto igienico degli escrementi umani. Inoltre, anche se il bagno si trovava spesso sottovento, esso schermava l’alloggiamento dei maiali dalle correnti d’aria, pertanto gli effluvi provenienti da quest’ultimo non raggiungevano le stanze. In aggiunta, la casa disponeva di due aree verdi: a Nord, sul retro, un orto (atai) in cui, non diversamente dal satoyama, si coltivavano verdure – solitamente shimayasai 67 che non richiedevano cure particolari – con cui integrare la propria dietra; a Sud, davanti all’ingresso, un giardino fiorito (nā) per il tempo libero e lo svago, protetto da un muretto (hinpun)68. Lungo tutto il perimetro, correva infine un muro di cinta in pietra (ishigaki)69. Una parola in più va spesa per il tetto che, decorato con tegole rosse (akagawara)70 e un caneleone (shīsā) 71 in argilla, costituisce ancor oggi il tratto distintivo delle abitazioni private dell’isola, nonostante i materiali utilizzati e la struttura raramente rispecchino quelli originari. A ogni modo, non bisogna dimenticare che, fino alle fasi finali della Guerra del Pacifico, molti Le “verdure dell’isola”, ovvero i tipici gōyā (giapp. standard nigauri, melone amaro), ensai (giapp. standard kūshinsai, spinacio d’acqua cinese), nigana (giapp. standard hosoba, basilico amaro), handama (giapp. standard suizenjina, spinacio delle Ryūkyū), solitamente usati come contorno o condimento. Cfr. Okinawa dentō no shimayasai in Chiiki Shigen Kenkyūsho Kenkyūburogu, Ippanshadanhōjin Chiiki Shigen Kenkyūsho, Tokyo. 68 Presenta due funzioni: una pratica, in quanto nasconde alla vista dei passanti il giardino, garantendo una certa privacy; una simbolico-religiosa, in quanto sancisce la divisione tra interno ed esterno, proteggendo gli inquilini dagli spiriti malevoli che si fossero introdotti dall’ingresso. Cfr. Hinpun in Ryūkyū Bunka Akāibu, Okinawa Kenritsu Sōgōkyōiku Sentā, Okinawa. 69 L’architettura okinawana tradizionale presenta tre stili di muratura: nozura zumi, il più antico, in cui pietre grezze o frammenti di corallo vengono disposti a incastro senza lavorazione (un esempio è l’ala meridionale delle rovine di Nakagusuku); nuno zumi, in cui le pietre vengono lavorate fino ad assumere forma quadrata o rettangolare, in voga tra il XII sec. e il XV sec. (vd. il portale di ingresso del già citato Nakagusuku); aikata zumi, tecnica che prevede una limatura minuziosa del bordo, di modo che le pietre semigrezze possano essere combinate mantenendo la loro forma originale (realizzato in questo stile è il tempio Sōgen-ji a Naha). Cfr. Ishizumi in Ryūkyū Bunka Akāibu, Okinawa Kenritsu Sōgōkyōiku Sentā, Okinawa. 70 Si ritiene che l’uso di decorare il tetto con piccole tegole sia stato importato dal regno di Koguryŏ (37 a.C. – 3 d. C.) nella penisola coreana, come dimostrato dai ritrovamenti archeologici del castello di Urasoe. Il colore rosso è tuttavia una particolarità di Okinawa, dovuta al tipo di argilla disponibile sull’isola. Cfr. Ryukyuan Architechture in Zamami: Red-Tile Roofs, The Zamami Times, 28 gennaio 2016. 71 Una variante locale del cane-leone (komainu), statua posta all’ingresso dei templi buddisti per tenere alla larga le forze del male, riscontrabile in tutto l’Estremo Oriente. Tuttavia, a differenza dei suoi omologhi lo shīsā era usato quasi esclusivamente come acroterio – decorazione per fregi o sommità degli edifici. Cfr. Shīsā in Ryūkyū Bunka Akāibu, Okinawa Kenritsu Sōgōkyōiku Sentā, Okinawa. 67 49 agricoltori – costituenti la maggioranza della popolazione ryukyuana – non disponevano di un simile lusso e vivevano in capanne dal tetto di paglia (anayā)72, realizzate con frasche e legname di alberi comuni quali kunchāyūna73, deigo74 e usukugajumaru75: benché non potessero reggere il confronto con le dimore edificate in goyogi, tanto da venire spazzate via facilmente al primo tifone, potevano essere ricostruite in un tempo relativamente breve e a costi contenuti, e rappresentavano perciò la scelta più conveniente sia per i privati che per i muē. Ricostruzioni di anaya presso il giardino botanico di Omoro (Motobu-chō). Fonte: Ocean Expo Park, 2019. Questo, a grandi linee, lo scenario che gli ufficiali di Tokyo si trovarono dinanzi al principio del periodo Meiji, e che cercarono di intaccare il meno possibile onde non incrinare ulteriormente i rapporti con l’ormai esautorata aristocrazia indigena. Non si pensi infatti che alla base dei 72 Evoluzione del tateana, capanna eretta a partire da una fossa (ana, da cui appunto la metonimia) scavata nel terreno e sorretta da un piccolo pilastro centrale (komaruta), scomparsa agli inizi del XII sec. Rispetto al precursore, lo anayā presenta una struttura più solida e permette di accomodare più persone; infatti, benché il termine “capanna” lasci supporre altrimenti, non si trattava di un riparo di fortuna ma di un’abitazione a tutti gli effetti, spesso organizzata in complessi residenziali di due o più unità. Cfr. Sumai no rekishi in Ryūkyū Bunka Akāibu, Okinawa Kenritsu Sōgōkyōiku Sentā. 73 Giapp. standard ōbagi, nome scientifico Macaranga tanarius (n.d.r.). 74 Giapp. standard id., nome scientifico Erythrina variegata. Il suo legno era ambito anche dai nobili, pur non rientrando tra i goyogi, per la fabbricazione di suppellettili da rivestire in lacca (shikki). Cfr. Kuba, op. cit., p. 62. 75 Giapp. standard akō, nome scientifico Ficus superba (var. japonica) (n.d.r.). 50 Provvedimenti kyūkan onzon76 vi fosse un sincero interesse a tutelare il patrimonio culturale dell’isola; semmai, il mantenimento forzoso di una certa arretratezza nello stile di vita e nelle pratiche abitative, congiuntamente alle vestigia del sistema regio-feudale in ambito fondiario, fiscale, amministrativo, erano funzionali alla preservazione di una serie di privilegi che, come aveva insegnato la ribellione di Satsuma77, i signori locali non sarebbero stati disposti a cedere senza combattere. Prova ne è il fatto che, all’indomani della revoca dei suddetti Provvedimenti, il governo centrale si affrettò ad abbandonare la linea morbida, pur senza cambiare formalmente indirizzo alla propria policy: edifici e luoghi d’incontro emblematici della vita comunitaria okinawana78, la cui funzione trascendeva quella meramente abitativa, furono bollati come lasciti di un passato primitivo, che non rendeva giustizia alla statura della neonata prefettura di Okinawa. La popolazione fu così incoraggiata a integrarsi, in primo luogo culturalmente e in secondo luogo professionalmente, nella filiera dell’incipiente capitalismo giapponese, per il quale forme di associazionismo identitario avrebbero sempre costituito un pericolo. Di conseguenza, la situazione paradossale che si venne a delineare alla fine della Restaurazione Meiji era tale per cui, da un lato, continuavano a sussistere realtà abitative premoderne a uso e consumo della popolazione autoctona, che, sulla falsariga di quanto accaduto al satoyama nello hondo, sarebbero probabilmente scomparse con altrettanta velocità senza l’intervento statale; dall’altro, si moltiplicavano realtà produttive e speculative di matrice capitalistica i cui frutti, come vedremo in dettaglio nel prossimo capitolo, venivano colti in via esclusiva dalla Lett. “Provvedimenti (seisaku) per la preservazione degli antichi costumi”, una serie di misure messe a punto dal Commissario straordinario alla conversione delle Ryūkyū (Ryūkyū shobunkan) Matsuda Michiyuki (1839 – 1882) nel 1879 e rimaste in vigore fino al 1903. Onde garantirsi l’appoggio della classe dirigente locale, il governo Meiji accordò all’aristocrazia okinawana il mantenimento dei propri privilegi, ovvero stipendi mensili in base al proprio titolo – legato a un pubblico ufficio che di fatto non veniva più esercitato – ed esenzioni dalle tasse. Corollario di questi provvedimenti in materia fiscale era una serie di disposizioni circa la preservazione di usi e costumi locali, la cui sopravvivenza serviva a legittimare culturalmente il permanere di un anacronistico sistema feudale. Cfr. Quast A. A word in your ear in Ryukyu Bugei Research Workshop, Ryukyu Bugei, Okinawa, 2015. 77 Nota in giapponese col nome di Nansei sensō (Guerra del Sud-Ovest), la famosa ribellione di Satsuma, guidata dall’ “ultimo samurai” Saigō Takamori (1828 – 1877), si protrasse dal gennaio al settembre 1877 e segnò la definitiva uscita di scena della classe samuraica dalla piramide sociale del Giappone Meiji. Primo vero banco di prova per il neonato esercito di leva, la rivolta culminò nell’assedio del castello di Kumamoto nel Kyūshū, conclusosi con la vittoria dell’esercito regolare e la consecutiva ritirata a Kagoshima, dove i capi della sedizione incontrarono la propria fine. Cfr. Caroli, Gatti, op. cit., pp. 150-151. 78 L’esempio più emblematico sono gli utaki, santuari naturali in cui le noro (vd. nota 42, p. 40) celebravano i culti comunitari. Benché non formalmente proibito, ritrovarsi presso questi luoghi era guardato con disprezzo dalle autorità giapponesi, nonché con un certo timore – per possibili ritrovi di sediziosi. Cfr. Rots A.P. ‘This Is Not a Powerspot’: Heritage Tourism, Sacred Space, and Conflicts of Authority at Sēfa Utaki in Asian Ethnology, vol. 781, Nanzan University Press, Nagoya, 2019. 76 51 “madrepatria”. In questo frangente storico, il gradiente di sviluppo di Okinawa si può pertanto apprezzare non da una stima dei benefici (esigui) conseguenti all’introduzione di nuove conoscenze e tecnologie, quanto dall’osservazione di quegli effetti collaterali che accomunano l’isola alla terraferma, come il proliferare di yoseba 79 /doyagai 80 , la dicotomia sovrappopolamento (centri amministrativi)/spopolamento (zone rurali), la frammentazione della proprietà privata, l’endemizzazione della povertà e via dicendo. Da qui, la cautela delle virgolette nel parlare di integrazione morbida nello Stato Meiji. Per quanto la tempesta dell’iconoclastia modernista non si fosse ancora abbattuta con tutta la sua forza, la Okinawa di fine Ottocento si trovava infatti ad affrontare una fase di transizione punteggiata di contraddizioni: a metà tra leggibile e illeggibile, tra arretratezza e modernizzazione, tra accumulazione originaria e protocapitalismo, nondimeno sopravvivevano degli spazi interstiziali che, col senno di poi, avrebbero potuto rappresentare un terreno fertile per l’elaborazione di un legittimo dissenso. Dissenso che, purtroppo, si sarebbe costituito la sua base ideologica soltanto molto più tardi, a causa della comprovata connivenza tra élite locali e quadri burocratici di Tokyo. Quartieri dei lavoratori in nero dell’industria edilizia, pagati a giornata. La gerarchia prevede una serie di shitauke (ing. sub-contractors) che, affidandosi all’intermediazione di un gangster locale (oyaji) o a un’agenzia di reclutamento (tehaishi) affiliata alla yakuza, forniscono alle grandi compagnie edilizie, note come motouke (ing. prime contractors), la manodopera di cui hanno bisogno. Prima conseguenza di questa serie di subappalti è che la quasi totalità della paga degli operai se ne va in commissioni e polizze assicurative, ritornando nelle tasche degli sfruttatori; in secondo luogo, i ripetuti passaggi di consegne servono a confondere le acque, in modo da far apparire regolare la prestazione degli sfruttati. Il primo yoseba di Okinawa fu quello di Nishihara-chō (Nakagami-gun), sviluppatosi a partire dal 1908 attorno alle piantagioni di zucchero e zuccherifici di proprietà della compartecipata statale Okitai Takushoku Seitō Gaisha. Dopo la guerra, il cuore pulsante dell’economia sommersa si spostò più a Nord, precisamente a Koza-shi – dal 1974 inglobata nella municipalità di Okinawa-shi –, una municipalità creata ad hoc nel 1956 dall’amministrazione americana per accomodare l’enorme quantità di okinawani rimpatriati. Studi più recenti hanno rilevato però che, in seguito alla riqualificazione di Koza promossa dal governo giapponese, il punto di ritrovo dei lavoratori in nero si è spostato nei pressi del suo luogo d’origine, ovvero alle porte del castello di Shuri (Naha-shi), a soli 6 chilometri da Nishihara. Per uno studio relativamente recente del fenomeno, cfr. Sendō H. Naha no yoseba in Okinawa Fīrudo Risāchi (Nihon – Ajia Bunkachōsa Jisshū Hōkokusho), vol. 1, Waseda Daigaku Kyōikubungakubu, Tokyo, 2007. 80 Gli slums che sorgono accanto agli yoseba e ne accomodano la forza lavoro, caratterizzati da tassi di microcriminalità (aggressioni, estorsioni, schermaglie tra fazioni) pericolosamente al di sopra della media nazionale. Cfr. Sendō, op. cit., p. 92. 79 52 2.3. Il tardivo piano di ricostruzione dell’USCAR e la difficile transizione all’edilizia cementizia Diversamente dal predecessore, la sfida che il direttivo dell’USCAR81 si trovò ad affrontare non fu tanto quella di traghettare Okinawa verso la modernità aggiornandone il paradigma abitativo e urbano, quanto di riscrivere quest’ultimo a partire da zero, provvedendo al contempo alla risoluzione dell’emergenza umanitaria 82 e alla pianificazione a lungo termine delle attività economiche. Una sfida che, come vedremo a breve, si sarebbe rivelata al di sopra delle capacità dei vertici militari statunitensi, ai quali va attribuita la responsabilità del problematico assetto urbano osservabile ancor oggi, frutto della mancata coordinazione tra i centri di potere coinvolti a vario titolo nella suddetta amministrazione, nonché della propensione a far prevalere gli interessi militari su quelli civili. Ciò detto, è pur vero che ai piani alti di Washington nessuno aveva preventivato che l’occupazione di Okinawa si sarebbe protratta oltre la capitolazione del mainland83, e che in un certo senso fu semmai l’inaspettata accondiscendenza di Tokyo alle condizioni di resa a necessitare un’estensione della stessa. L’ambiguità di fondo dell’art. 8 della Dichiarazione di Potsdam 84 aveva infatti posto l’Amministrazione Truman dinanzi a un bivio: annoverare le United States Civil Administration of the Ryukyu Islands, istituito il 5 dicembre 1950 dal Comando dell’Estremo Oriente quale riorganizzazione del precedente USMGR (United States Military Government of the Ryukyu Islands). La sua funzione era quella di soprintendere al processo democratico e, fino al 1960, di nominare il Capo Esecutivo (gyōsei shuseki) del Governo delle Ryūkyū, l’organo di autogoverno che deteneva in via esclusiva il potere legislativo, esecutivo e giudiziario in quanto eletto dal popolo. Anche in seguito al 1960 l’USCAR continuò tuttavia a mantenere il diritto di veto sulle proposte di legge del parlamento locale, e non di rado ricorse a manipolazioni e frodi elettorali per favorire l’inserimento di esponenti a sé vicini nell’emiciclo. Cfr. Fisch A. G. Military Government in the Ryukyu Islands 1945 to 1950, US Army Center of Military History, Washington D.C., 1988. 82 Al momento del discorso alla nazione dell’Imperatore Hiroito che mise ufficialmente fine alle ostilità (15 agosto 1945), a Okinawa si contavano 320mila sfollati, distribuiti sull’intera superficie dell’isola in 7 campi profughi corrispondenti ad altrettante unità amministrative del governo militare, ovvero: Itoman (Sud-Ovest), Chinen (SudEst), Koza (Centro-Ovest), Ishikawa (Centro-Ovest), Maebaru (Centro-Est), Jinuza (Centro-Est) e Taira (NordOvest). Il ricollocamento dei civili ospitati nei campi di Jinuza, Ishikawa e Maebaru fu completato nel marzo 1946, mentre gli altri avrebbero dovuto attendere la fine di luglio. Fino al 1949 l’Esercito dovette comunque gestire un flusso pressoché continuo di rimpatri, dal momento che gran parte della popolazione maschile di Okinawa era stata dislocata nei territori occupati dell’Impero durante il conflitto. Cfr. Fisch, op.cit., p.90-91. 83 Secondo i piani originari dello Stato Maggiore per la conquista del mainland, dopo estensivi bombardamenti aerei e navali le Forze Alleate avrebbero dovuto procedere a una grande operazione anfibia congiunta, utilizzando le Ryūkyū come avamposto per i rifornimenti e la riorganizzazione delle retrovie. Tuttavia, com’è noto, alla fine non vi fu alcuno sbarco. La detonazione degli ordigni atomici fu sufficiente a convincere il quartier generale giapponese ad accettare la resa incondizionata, sicché sul momento l’occupazione di Okinawa parve perdere la sua importanza strategica. Cfr. Fisch, op.cit., p. 70. 84 Firmata dai capi di governo di Stati Uniti, Cina Nazionalista e Regno Unito il 26 luglio 1945, definisce i termini della resa giapponese e i provvedimenti a questa successivi. Nello specifico, l’Articolo 8 ribadisce quanto già precedentemente convenuto nel corso della Conferenza del Cairo (22 – 26 novembre 1943), ovvero che la sovranità giapponese sarebbe stata da allora in avanti limitata «alle isole di Honshū, Hokkaidō, Shikoku e Kyūshū, e a quelle isole minori così come […] determinato». La mancanza di indicazioni più specifiche in merito a quali isole fossero da considerarsi tali avrebbe a lungo costretto Okinawa in una zona grigia del diritto internazionale. Cfr. Department 81 53 Ryūkyū tra quelle stesse «isoli minori» per le quali restava valida la sovranità giapponese, procedendo di conseguenza alla loro demilitarizzazione e restituzione alla parte sconfitta – così come auspicato dal Dipartimento di Stato85; oppure riconoscere loro lo statuto di primary base areas86, normalizzando la presenza americana per gli anni a venire – assecondando le richieste dello Stato Maggiore Congiunto87. Dati lo scenario turbolento che all’epoca ancora si prospettava nel Pacifico88 e il clamore che una concessione territoriale di tale importanza strategica avrebbe suscitato tra le nazioni appena sottrattesi al giogo imperiale, la posizione dei militari infine prevalse, ma nessuno dei due Corpi protagonisti della sanguinosa battaglia di Okinawa 89 sembrava volersi assumere un simile impegno. Dalla fine delle ostilità fino alla nomina del Generale MacArthur quale uomo di punta del neonato Comando per l’Estremo Oriente 90 , si assistette quindi a un continuo rimbalzo di responsabilità tra Marina ed Esercito 91 , il cui interesse a governare un presidio permanente of State. Foreign Relations of the United States: The Potsdam Conference 1945, vol. 2-1382, Washington DC Government Printing Office, Washington D.C., 1960. 85 United States Department of State, l’organo esecutivo del governo federale responsabile per la politica estera, le relazioni internazionali e le missioni diplomatiche. All’epoca l’indirizzo del Dipartimento, dettato dal Segretario di Stato James F. Byrnes (1945 – 1947), era di osservare una generale prudenza nel farsi coinvolgere nel processo di decolonizzazione dell’Estremo Oriente, nella misura in cui ciò avrebbe potuto esacerbare gli attriti geopolitici con il rivale sovietico. Cfr. Foltos L.J. The New Pacific Barrier: America's Search for Security in the Pacific, 1945–47 in Diplomatic History, vol. 13-3, Oxford University Press, Oxford, 1989. 86 Basi estere il cui controllo è reputato indispensabile per la sicurezza dei confini nazionali (homeland security) e/o per il buon esito di missioni di lunga durata (projected military operations). Cfr. Joint Chief of Staff, Over-All Examination of U.S. Requirements for Military Bases and Rights, CCS File 360 (12-9-42), Sec. II, 1945. 87 Joint Chiefs of Staff, organo consultivo delle forze armate statunitensi che riunisce i Capi di Stato Maggiore di ciascun corpo, con l’aggiunta del Direttore della Guardia Nazionale. Cfr. Foltos, op. cit., p. 320. 88 Sul continente si continuava a combattere la Guerra Civile Cinese (1945 – 1949), i cui effetti si estendevano alla penisola coreana e, più in generale, a tutto il Sud-Est Asiatico in piena decolonizzazione. Samarani G. La Cina contemporanea. Dalla fine dell’Impero ad oggi, Einaudi, Torino, 2017. 89 Combattuta tra il primo aprile e il 22 giugno 1945, è tristemente nota per la disumanità con cui il comando giapponese, capeggiato dal Generale Ushijima Mitsuru, costrinse la popolazione civile a fronteggiare disarmata il nemico, e successivamente a togliersi la vita quando ormai era diventato inutile opporre resistenza. Le disposizioni dello Stato Maggiore dell’Esercito Imperiale erano appunto di trattenere il nemico a Okinawa a ogni costo, onde evitare l’extrema ratio dello hondo kessen (battaglia decisiva sulla terraferma). Cfr. Caroli, op. cit., pp.172-175 90 Onde migliorare il coordinamento e la velocità d’intervento delle truppe d’occupazione impegnate all’estero, lo Stato Maggiore Congiunto optò per una riorganizzazione comprensiva dei comandi più strategicamente rilevanti. Nell’Estremo Oriente, la responsabilità per tutte le operazioni di terra, aria e mare fu affidata al Gen. Douglas MacArthur in qualità di Comandante in Capo per l’Estremo Oriente (CINCFE). A seguire, a partire dal 1 gennaio 1947 MacArthur divenne direttamente responsabile anche per la gestione degli affari civili nelle Ryūkyū, con la creazione di un apposito ufficio competente (i.e., Korea-Ryukyus Division). Cfr. Fisch, op. cit., pp.75-76. 91 Lo Stato Maggiore Congiunto aveva inizialmente affidato la gestione degli affari civili e militari alla Marina, ma l’Ammiraglio Chester W. Nimitz, Comandante in Capo della Flotta del Pacifico, riuscì a ottenere una deroga temporanea – effettiva dal 31 luglio 1945 – fino alla completa occupazione del mainland giapponese, scaricando la responsabilità sull’Esercito nel mentre. Il 21 settembre dello stesso anno le redini tornarono alla Marina, ma Nimitz per primo si era ormai reso conto che la conformazione dell’isola non offriva alcun approdo o avamposto strategicamente vantaggioso per la sua flotta. Infine, l’amministrazione tornò a essere una responsabilità dell’Esercito il primo aprile 1946, e di fatto tale rimase fino al ritorno al Giappone nel 1972. Cfr. Chamberlin S. J. 54 sull’isola era andato scemando una volta comprese le condizioni climatiche e idrogeologiche estremamente sfavorevoli che la caratterizzavano. Risolto il problema della leadership, quantomeno a livello formale 92 , si poté finalmente procedere all’avvio delle opere di ricostruzione, ma la priorità con cui queste furono eseguite non sempre rispose alle reali esigenze della popolazione civile, soprattutto nella prima fase dei lavori. Dato l’esiguo numero di genieri93 che potevano essere destinati dallo Stato Maggiore alla costruzione di nuovi edifici, l’Esercito si preoccupò anzitutto di migliorare i collegamenti tra le installazioni militari, procedendo alla costruzione di strade asfaltate, ponti, acquedotti, porti94, e di accomodare i propri effettivi, erigendo caserme, circoli per ufficiali, centri ricreativi e piccole centrali elettriche in grado di provvedere al fabbisogno energetico delle truppe. A eccezione di alcuni edifici permanenti in cemento, contenuti all’interno del perimetro delle basi maggiori95, la quasi totalità delle unità abitative constava di strutture temporanee in legno e lamiera incapaci di resistere alle sferzate dei tifoni, sicché sia occupanti che occupati si trovavano di anno in anno – e a volte anche più di frequente96 – a dover ricominciare da capo, non avendo più nemmeno un tetto sopra la testa. Il persistere di questa politica edilizia, anche a fronte della sua comprovata inadeguatezza, era legato a ragioni sostanzialmente budgetarie: basti pensare che dei 93 milioni di dollari richiesti nel biennio 1946-48 per costruire strutture permanenti antitifone sull’isola di Okinawa, il Congresso ne approvò soltanto 31, mentre le unità del genio (Gen. Mag.), Forrest S. (Contramm.), Control of US-held Areas in the Ryukyus, ABC File 384 Ryukyus (18 Jul 44), Sec. IA, 1945 92 Nonostante ne avesse facoltà, MacArthur non intervenne mai in prima persona nella gestione degli affari civili nelle Ryūkyū, provvedendo anzi a un alleggerimento degli obblighi periodici di rapporto – cosa che invitava indirettamente all’autogestione. Cfr. Caroli, op. cit., p. 184. 93 Nell’agosto 1946 si contavano 4200 ingegneri divisi in 12 unità, di cui 8 impegnate in opere di manutenzione/pubblica utilità e soltanto 4 in lavori di costruzione. Nel corso dei due anni successivi, il numero di effettivi sarebbe stato dimezzato, mantenendo però il medesimo rapporto per quanto concerneva le attività svolte. Cfr. Greeson G. C et al. Castles in the Far East: The U.S. Army Corps of Engineers Okinawa and Japan Districts, 1945-1990, U.S. Army Corps of Engineers –Japan Engineer District, Zama, 1990. 94 Il porto principale era quello Naha, salvatosi dalla completa distruzione e riportato a piena operatività già nell’autunno 1946 con l’aggiunta di cinque nuovi attracchi. Cfr. Greeson, op. cit., p. 97. 95 Le prime a vedere la luce furono le basi aeronautiche di Kadena (Kadena-shi) e Futenma (Ginowan-shi) nel 1945. Cfr. Greeson, op. cit., p. 46. 96 Di norma, l’isola di Okinawa è colpita da 7-8 tifoni l’anno, caratterizzati da raffiche di vento stabilmente al di sopra dei 120 kmh, oltre la soglia massima che le installazioni provvisorie dell’epoca potevano sostenere (110 kmh ca.). Cfr. Typhoons in Okinawa Index (website), Okinawa Indekkusu Kabushikigaisha; Fisch, op. cit., pp. 87-88. 55 militare in possesso delle conoscenze necessarie a mettere in piedi quelle stesse strutture venivano continuamente riassegnate ad altri contingenti dello USARPAC97. A ogni modo, benché non ci fosse paragone con le tecniche architettoniche della tradizione ryukyuana prima descritte, forti di conoscenze acquisite nel corso di secoli di permanenza sul territorio, non si può dire che il metodo di costruzione impiegato dall’esercito americano fosse di per sé scadente. Si trattava del cosiddetto “sistema 2x4”, in cui assi di legno di circa 5 centimetri per 1098, solitamente di abete rosso99 o pino giallo100, venivano utilizzate prima per costruire il telaio dell’intera struttura, e quindi come montanti verticali (stud) da fissare all’interno dello stesso, avendo cura di lasciare uno spazio di 40-60 cm tra un montante e l’altro. Abitazione provvisoria realizzata con metodo 2x4 e tetto in ramaglie. Fonte: US Department of Defense, 1950. Detta separazione tra gli elementi portanti, che veniva successivamente colmata con tavole di compensato e altro materiale isolante a costituire le pareti, serviva a garantire flessibilità e resilienza all’insieme, qualità indispensabili soprattutto in zone ad alto rischio sismico. Per la United States Army Pacific, ovvero la divisione dell’Esercito responsabile per la regione indo-pacifica. Mantiene la responsabilità operativa per Alaska, Bangladesh, Corea del Sud, Giappone, Hawaii, India e Filippine, così come per tutti gli altri territori che si affacciano sul Pacifico. Cfr. Mission & Vision in USARPAC – U.S. Army Pacific (official website), Department of Defense. 98 Approssimazione in centimetri della misura originaria in pollici (inches), dove 1” = 2,54cm. Inoltre, benché fresche di taglio le assi misurassero effettivamente 2x4”, esse venivano asciugate e piallate fino a raggiungere la dimensione di circa 1.5x3.5” prima di essere immesse sul mercato. Cfr. Ogura N. The Rapid Spread of Modern Buildings and the Simplification of Planning Method in Postwar Okinawa in The Okinawan Journal of American Studies, vol. 1, American Studies Center of the University of the Ryukyus, Nishihara, 2004. 99 Ing. red spruce, nome scientifico Picea rubens. (n.d.r.). 100 Ing. western yellow pine, nome scientifico Pinus ponderosa. (n.d.r.). 97 56 stessa ragione – nonché per risparmiare sui materiali –, le case così costruite non possedevano vere e proprie fondamenta, bensì poggiavano su piattaforme di legno rialzate di una decina di centimetri dal terreno, a loro volta costruite secondo il medesimo sistema di assi 5x10cm e pannelli. Come accennato, però, tali abitazioni si rivelarono tragicamente inadatte al contesto okinawano. In primo luogo, a differenza dello hondo non era tanto la frequenza dei terremoti quanto quella dei tifoni a costituire il maggior pericolo naturale, contro il quale delle abitazioni senza basamento in pietra né barriere esterne – funzione, quest’ultima, che nell’architettura tradizionale svolgevano il muro perimetrale (hinpun) e la vegetazione arborea circostante – non avevano alcuna possibilità di resistere. In secondo luogo, il legname importato dagli Stati Uniti e quindi impiegato nell’edilizia civile non veniva trattato preventivamente con repellenti chimici, e apparteneva inoltre a delle qualità più vulnerabili alle termiti autoctone101. Abitazione provvisoria 2x4 con tetto in lamiera e tiranti presso Isahama (Ginowan-shi). Fonte: Infinite Photographs, 1949. In conclusione, benché l’elevata semplicità di applicazione del sistema 2x4 abbia permesso a migliaia di sfollati di abbandonare le tendopoli dei campi profughi e di costruirsi una casa con le Tra le numerose specie presenti sull’isola, le più dannose per gli insediamenti umani sono le cosiddette termiti di Formosa, di cui si riscontrano due genera, uno di superficie (Coptotermes formosanus) e uno sotterraneo (Odontotermes formosanus). Cfr. Ikehara S. The Termite Fauna of the Ryukyu Island and its Economic Significance (1) – The Yaeyama-gunto and the Okinawa-gunto in Ryūkyū daigaku butsurigakubu kiyō, vol. 1, Ryūkyū Daigaku Butsurigakubu, Nishihara, 1957. 101 57 proprie forze, spesso e volentieri tornando al proprio luogo d’origine in modo da ricostituire una pur embrionale comunità di villaggio, è inconfutabile che la sua adozione abbia soltanto posticipato il problema degli alloggi aggravando di fatto la precarietà degli isolani, nonché la loro dipendenza dalle truppe di occupazione per quanto concerneva la fornitura di materiali da costruzione. Successivamente, furono proprio i danni causati da un tifone a convincere gli alti scranni delle forze armate che bisognava rivedere completamente la politica edilizia di Okinawa. In seguito all’abbattersi di Gloria102 il 23 luglio 1949, che aveva raso al suolo gran parte delle strutture di recente costruzione, l’Esercito dispose l’invio di una task force di ufficiali e ingegneri civili guidata dal Generale George J. Nold che, nel corso del mese di ottobre, condusse in loco uno studio approfondito sulle necessità strutturali dei nuovi edifici. Il responso fu univoco: l’idea di continuare ad affidarsi a costruzioni provvisorie, per quanto apparentemente vantaggioso sul breve termine, a lungo andare si sarebbe rivelato finanziariamente insostenibile103; inoltre, questo continuo stop and go non faceva che acutizzare l’andamento spasmodico dell’economia locale, caratterizzata da fasi di stagnazione assoluta – poiché di norma non si commissionavano grandi opere in grado di occupare la forza lavoro su base quotidiana – seguite da periodi di eccesso di domanda di manodopera – ovvero il post-tifone, quando la popolazione civile doveva provvedere contemporaneamente alla ricostruzione sia delle proprie case sia delle installazioni militari. Per uscire da questa impasse, Nold e colleghi suggerivano che, a fianco dell’avvio di progetti per la creazione di basi militari permanenti, gli sforzi del governo militare si concentrassero sulla costruzione di ponti, strade, impianti di depurazione e altre infrastrutture che potessero garantire alla popolazione civile stabilità occupazionale, facile accesso alle risorse primarie e migliori trasporti, in modo da instaurare un circolo virtuoso capace di diminuire gli attriti con le forze di occupazione e di accelerare i lavori nelle basi stesse. Il merito della Missione Nold fu dunque quello di intuire quanto lo sviluppo di un’efficiente edilizia civile e il benessere di chi 102 Il bilancio dei danni causati dal tifone fu di 38 morti e 42502 edifici distrutti. Cfr. Okinawa: Sic Transit Gloria, Time Magazine, 8 agosto 1949. 103 Secondo le stime dell’aeronautica, da settembre 1945 a luglio 1949 oltre 10 milioni di dollari erano stati spesi solo per ripristinare le strutture provvisorie danneggiate dai tifoni. Cfr. Newman J. B. (Gen. Mag.) Air Force Construction on Okinawa in The Military Engineer vol. 42-287, United Stated Air Force (USAF), Washington D.C., 1950. 58 direttamente ne beneficiava fossero indispensabili per la buona riuscita dei progetti di fortificazione dell’isola, diventati ancor più urgenti alla luce della crescente instabilità lungo il 38esimo parallelo104. Con l’approvazione dei contenuti del Rapporto Nold in novembre e l’inizio dell’anno nuovo, Okinawa assistette così a un vero e proprio boom edilizio trainato dagli appalti per la costruzione di edifici in cemento, i cui bandi di gara internazionali105 consentirono agli imprenditori locali106 di farsi le ossa al fianco dei prime contractors giapponesi, superando in pochi anni il volume d’affari prebellico. Tuttavia, se da un lato i progetti per le installazioni militari erano supervisionati da ufficiali del genio, in grado di formare la manodopera locale e di guidare i lavori durante l’intero processo, dall’altro erano ben pochi gli architetti okinawani a conoscenza dei fondamenti teorici dell’edilizia cementizia che potessero fare altrettanto 107 , ragion per cui l’urbanizzazione di Okinawa sarebbe proseguita a due velocità ancora per alcuni anni, con i cantieri delle basi che, paradossalmente, aprivano e chiudevano più rapidamente di quelli per i quartieri residenziali. La svolta giunse nel 1954, quando l’USCAR inaugurò un programma edilizio per la costruzione di aule scolastiche in cemento, i cui progetti furono affidati a liberi professionisti locali affinché potessero soprintendere ai lavori in autonomia, senza bisogno di distogliere personale americano qualificato dall’attività nelle basi. Con la partecipazione a questo programma, gli architetti e geometri 108 dell’isola acquisirono una notevole dimestichezza con la nuova prassi edilizia, In seguito alle rivolte rosse scoppiate nel 1948 nella provincia meridionale di Jeonnam e sull’isola di Jeju, la situazione nella penisola coreana era sfuggita al controllo degli occupanti, tanto che gli scontri lungo il confine erano ormai all’ordine del giorno. Cfr. Riotto M. Storia della Corea. Dalle origini ai giorni nostri, Bompiani, Milano, 2014. 105 Ai bandi di gara del 1950 parteciparono ditte americane, filippine e giapponesi, ma furono quasi sempre quest’ultime ad aggiudicarsi gli appalti, potendo contare su un costo del lavoro decisamente inferiore rispetto ai concorrenti. Cfr. Fisch, op. cit., p. 184 106 Questo primo exploit edilizio fece la fortuna di due ditte di costruzioni del luogo: la Kokuba Gumi, fondata nel 1931 da Kokuba Kotarō (1900 – 1988), e la Ōshiro Gumi, fondata nel 1920 da Ōshiro Kamakichi (1897 – 1992). Durante gli anni della guerra, entrambe si erano compromesse con il regime eseguendo le opere di fortificazione dell’isola per conto dell’Esercito Imperiale, ma l’amministrazione americana pensò bene di riabilitarle in quanto si trattava delle uniche imprese edilizie degne di questo nome, in grado di dare nuovo impulso all’economia locale. Cfr. Fisch, op. cit., p. 185 107 Nonostante nel 1947 il 90% della popolazione in età scolare fosse iscritto regolarmente a un istituto di istruzione, ancora nel 1950 esistevano un solo istituto tecnico e una sola università sull’isola. Inoltre, a causa dell’isolamento linguistico e geografico, gli architetti del luogo non avevano modo di entrare in contatto con le ultime novità del settore, né tantomeno di partecipare al dibattito internazionale. Cfr. Ogura, op. cit., pp. 48-49. 108 I termini si riferiscono rispettivamente ai gradi di kenchikushi (architetto professionista) di prima e di seconda classe, mutuati dal sistema giapponese e adottati a Okinawa anche durante l’occupazione americana. Per il dettaglio 104 59 arrivando ad adottare lo schema dell’aula quale unità di base per i loro progetti di abitazioni private di stampo occidentale, in quanto estremamente regolare e facilmente replicabile su vasta scala. Già a partire dalla fine degli anni Cinquanta, gli studi di architettura del luogo offrivano una discreta gamma di soluzione abitative, aventi tutte come archetipo la pianta rettangolare tipica degli edifici scolastici, sulla quale si eseguivano poi variazioni proporzionali a seconda delle esigenze del committente. Pianta e sezione di un’aula scolastica. Fonte: Nobuyuki O., University of the Ryukyus, 2004. Pianta di appartamento (sinistra) e ufficio postale (destra). Fonte: Nobuyuki O., University of the Ryukyus, 2004. In linea di massima, un appartamento privato si componeva di più unità quadrangolari di misura compresa tra i 5x10m e gli 8x16m, ognuna costituita da coppie di pilastri di cemento prospicienti, poste a un metro di distanza l’una dall’altra e sormontate da un trave – anch’esso di cemento – della legislazione in materia, cfr. Kitadai R. Kenchikushi Law in Japan in The Japan Institute of Architects (official website), The Japan Institute of Architects (JIA), Tokyo, 1990. 60 ciascuna. I muri e il soffitto, formati da blocchi legati con malta, venivano eretti a colmare gli spazi vuoti del framing, mentre per il pavimento era previsto un ulteriore rivestimento, ottenuto per mezzo di una colata di cemento all’interno di un perimetro delimitato da assi. A seguire, la separazione degli ambienti si eseguiva semplicemente erigendo muri non portanti all’interno della singola unità, arrivando a ricavare generalmente una, massimo due stanze: la tipologia di abitazione più richiesta prevedeva infatti un’ampia unità centrale senza divisori – una sorta di living open space –, attorno alla quale si disponevano le unità funzionali (camera da letto, bagno, ripostiglio), ulteriormente suddivise al loro interno. Lo stesso schema veniva applicato anche per la costruzione di edifici più complessi, quali uffici pubblici, negozi, cliniche, officine, ottenuti tramite la ripetizione del medesimo pattern in orizzontale e/o in verticale. A dispetto delle apparenze, è possibile rintracciare un apporto originale anche in questo stadio dell’architettura ryukyuana. Tipologie di edificio derivate dalla pianta dell’aula scolastica, distinte per funzione. Fonte: Nobuyuki O., University of the Ryukyus, 2004. 61 Tralasciando i materiali e la tecnica, è piuttosto il procedimento logico con cui i professionisti del luogo si adoperavano per la soddisfazione della propria clientela a essere peculiare: invece di adattare i progetti alle particolarità della singola commessa o, eventualmente, di ripensarli ex novo – attività comunemente associata alla professione di architetto, ma che può rivelarsi incredibilmente time consuming –, gli studi di architettura di Okinawa applicavano sempre il medesimo modello di base, moltiplicando il numero delle singole unità e lavorando sulle loro proporzioni in modo da venire incontro alle esigenze del cliente. Facendo di necessità virtù, in sede teorica questi architetti non ideavano soluzioni abitative originali, ma ricombinavano creativamente quei (pochi) fondamenti che avevano imparato a padroneggiare, tenendo a mente la destinazione d’uso dell’edificio finito. Negli anni Sessanta la maggior parte degli okinawani poté così dire finalmente addio alle abitazioni provvisorie, trasferendosi in quartieri residenziali permanenti che nulla avevano da invidiare – strutturalmente parlando – a quelli di recente costruzione sullo hondo, che nonostante il maggior sviluppo tecnologico aveva appena iniziato la sua corsa all’applicazione del cemento all’edilizia privata109. Risolta la questione degli alloggi, se ne acuì tuttavia una più spinosa, ovvero quello della convivenza tra personale militare e popolazione civile: una necessità dettata dal fatto che le zone circostanti le basi non solo presentavano i terreni i più adatti alla costruzione di nuovi edifici, alla coltivazione e all’allevamento, ma attorno a esse si concentravano anche infrastrutture e servizi di cui non si poteva usufruire altrove. Sin dai primi mesi dell’occupazione, detta convivenza si era dimostrata a dir poco problematica, per non dire impossibile: l’inevitabile promiscuità tra caserme e abitazioni private, combinata al meccanismo di rotazione su base razziale allora invalso nell’Esercito110, inaugurò una stagione Il punto di svolta fu l’istituzione della Japan Housing Corporation (Nihon Jūtaku Kōdan) nel 1955, agenzia amministrativa indipendente specializzata nella costruzione e nel recupero di condomini in cemento, nata per venire incontro alle esigenze della crescente popolazione urbana. In seguito all’acquisizione della Urban Infrastructure Development Corporation nel 2004, è da allora nota come Urban Renaissance Agency (Dokuritsu Gyōsei Hōjin Toshi Saisei Kikō, abbr. Toshi Saisei Kikō). Cfr. Fukao S. The History of Developments toward Open Building in Japan in Education for an Open Architecture, Ball State University, Muncie, 2008. 110 Fino all’Ordine Esecutivo 9981 del 1948, le singole unità venivano costituite su base razziale ed erano obbligate a condurre esistenze separate al di fuori delle operazioni militari. Esasperati dalla segregazione, diversi afroamericani della Decima Armata di stanza a Okinawa si diedero presto al crimine, ma non fu possibile ricollocarli altrove dal momento che la linea ufficiale dello Stato Maggiore era di concentrare le cosiddette black units nelle basi del Pacifico. Lo stesso accadde nel 1947 quando, dopo due anni di proteste, alcune unità afroamericane particolarmente insubordinate furono sostituite da altrettanti soldati di origine filippina, la cui segregazione dai 109 62 di soprusi ai danni dei cittadini a cui né la polizia militare né le forze dell’ordine locali furono grado di porre freno, incoraggiando indirettamente l’insubordinazione delle truppe che, vedendo i loro commilitoni indisciplinati cavarsela impuniti, venivano incentivati a commettere illeciti. A partire dal 1946, la soluzione adottata dal comando di Okinawa fu quella di riscrivere il codice di condotta militare nell’ottica di limitare al minimo le interazioni con i civili, e di istituire blocchi stradali permanenti all’ingresso dei maggiori centri abitati: una strategia che, a parte qualche buon risultato nell’estremità Nord dell’isola, non riuscì a contenere l’incidenza di reati nel più popoloso Centro-Sud, dove erano gli okinawani stessi – perlopiù quelli coinvolti nell’economia sommersa – a cercare il contatto con gli occupanti. Sotto questo profilo, il boom edilizio di metà secolo favorì una recrudescenza 111 del fenomeno della delinquenza, nella misura in cui l’impennata nella costruzione di residenze, sprovvista di una chiara pianificazione urbana, aveva portato alla saturazione di quegli interstizi che, nelle intenzioni dell’amministrazione civile, avrebbero dovuto fungere da cuscinetto e che – aggiungiamo noi – sarebbero potuti diventare lo spazio sociale entro cui rinegoziare l’immagine delle forze di occupazione. Invero, poco sarebbe cambiato nei quindici precedenti lo henkan. Alla vigilia del 15 maggio 1972, Okinawa era ormai diventata ciò che i vari piani di sviluppo avallati da Washington, pur senza troppa convinzione, si erano riproposti di evitare a ogni costo: una periferia del neonato impero a stelle e strisce incapace di reggersi sulle proprie gambe, dipendente da un “centro” che nel corso degli anni ne aveva assorbito le risorse umane e naturali non tanto distraendole verso la madrepatria, quanto concentrandole all’interno delle sue propaggini eterotopiche, ovverosia le basi militari. Veri e propri laboratori di disuguaglianze, entro i loro ristretti confini e nelle immediate vicinanze avevano preso presto a consumarsi, fino alla sublimazione, i conflitti razziali, linguistici e di classe che parallelamente stavano infiammando il Nuovo Continente, ma senza il conforto di una superficie sufficientemente ampia da consentire il controllo, la dispersione o eventualmente la mutuazione di istanze da parte della gente del luogo. commilitoni bianchi provocò una nuova ondata di violenze. Cfr. MacGregor M. J. (Jr.). Integration of the Armed Forces 1940-1965, US Army Center of Military History, Washington D.C., 1981. 111 Dal settembre 1955 fino al dicembre 1970, vi fu un aumento esponenziale di reati intenzionali violenti (stupri, aggressioni, omicidi), perpetrati dai militari americani ai danni della popolazione civile. Cfr. List of Main Crimes Committed and Incidents Concerning the U.S. Military on Okinawa, Okinawa Times, 12 ottobre 1995. 63 Alla luce di questo fatto, si comprende anche perché, nonostante la presenza di una diffusa coscienza sociale e di un ceto dirigente intellettualmente vivace 112 , i movimenti di protesta isolani non abbiano mai raggiunto una risonanza tale da smuovere la comunità internazionale durante l’intero ciclo di vita dell’amministrazione civile: i problemi di Okinawa erano così specificamente situati che la loro risoluzione non avrebbe portato ad alcun miglioramento sullo schacchiere geopolitico per le altre nazioni occidentali113, né, probabilmente, sarebbe stato di sùbito giovamento per gli abitanti medesimi, le cui sofferenze condividevano la medesima origine dei loro privilegi, per quanto irrisori. In altre parole, pur partendo da posizioni ideologiche formalmente agli antipodi, gli Stati Uniti riuscirono là dove il Giappone imperiale, per mancanza di tempo o a causa di una pianificazione fin troppo certosina, aveva fallito: trasformare Okinawa in un inventario perfettamente leggibile di uomini e di merci, fondato sull’inequivocabile dicotomia civile/militare, a sua volta esasperazione autoritario-statalista della dialettica capitalistica della produzione. In questo senso, i disordini e la precarietà che a lungo avrebbero afflitto la realtà quotidiana dell’isola sono da interpretarsi quali epifenomeni di una sinottica miopia. Partendo dal presupposto che le relazioni tra occupanti e occupati devono essere incasellate e normate secondo vincoli d’obbedienza, dovuta dai secondi ai primi ma non viceversa, in quanto la ratio militare prescrive che questi ultimi rispondano esclusivamente ai propri superiori – superiori che, come abbiamo visto, optarono per una politica della tolleranza a sfregio degli offesi –, ne consegue che le interazioni informali – ovvero non coartatamente gerarchiche – esulanti da tale dialettica, che costituiscono il fascio discorsivo attorno al quale prende forma la città come entità sociale, finiscano per uscire dal campo visivo dello Stato (USCAR), il cui disegno può comunque 112 Tra le personalità di spicco, è doveroso ricordare il prematuramente scomparso Higa Shūhei (1901 – 1956), fondatore del Partito Democratico delle Ryūkyū (Ryūkyū Minshutō) e primo capo eletto dell’esecutivo ryukyuano; Senaga Kamejirō (1907 – 2001), giornalista e deputato comunista, eletto sindaco di Naha nel 1956; Yara Chōbyō (1902 – 1997), Presidente dell’Associazione degli Insegnanti di Okinawa (Okinawa Kyōshoku Inkai) e capo dell’ultimo esecutivo pre-handover – nonché primo governatore della prefettura dopo la restituzione. Cfr. Caroli, op. cit., pp. 218-235. 113 Nel contesto di piena guerra fredda, il mantenimento di un solido presidio in Estremo Oriente – il cosiddetto keystone of the Pacific – era indispensabile per garantire la credibilità e la coesione dell’Alleanza Atlantica. Per la stessa ragione, gran parte del cosiddetto “mondo libero” fu particolarmente indulgente nei confronti dell’occupazione di Okinawa, come anche dell’interventismo americano in generale. Cfr. Sarantakes N. E. Keystone: The American Occupation of Okinawa and U.S. Japanese Relations, Texas A&M University Press, College Station, 2000. 64 definirsi completo fintantoché le linee di approvvigionamento da e verso i suoi centri nevralgici (le basi) rimangono le uniche filiere integranti i mezzi di sussistenza dei subordinati (i cittadini). Al contrario, la Okinawa che si presentò al momento dello handover al Primo Ministro Satō, in parte estraneo all’autoreferenzialità perversa di questo “ciclo” economico, dovette apparire come un’isola urbanisticamente incomprensibile, sfregiata da uno skyline cancriforme e oppressa da un baricentro produttivo-commerciale pericolosamente spostato verso installazioni militari che, ormai, non potevano far altro che reclamare altro spazio per mascherare la propria obsolescenza tecnologica e strategica. 2.4. Ritorno al Giappone. La febbre dell’edilizia turistica e il miraggio dell’integrazione paritetica Le direttrici lungo le quali il Piano di sviluppo e promozione 114 appena implementato si riprometteva di condurre Okinawa verso la parità con il resto della nazione (hondo nami), e che avrebbero continuato a informare la policy line dei piani decennali a venire, erano sostanzialmente tre: mantenimento della piena operatività delle basi (kichi), cercando di mediare tra le promesse fatte ai cittadini e i vincoli imposti dal Reversion Agreement115; avvio di lavori pubblici (kōkyō jigyō) su vasta scala, allo scopo di impiegare senza soluzione di continuità l’abbondante forza lavoro non specializzata; creazione di un’industria del turismo (kankō) di lusso proiettata verso l’estero e il mainland, in grado di garantire l’autonomia economica dell’isola e di assorbire la forza lavoro più giovane e qualificata. In giapponese Okinawa shinkō kaihatsu keikaku, fu il primo di una serie di piani decennali – attualmente se ne contano cinque, di cui l’ultimo ancora in attuazione – atti a sostenere lo sviluppo dell’isola con fondi pubblici. Detto piano prevedeva l’istituzione di un’agenzia governativa preposta (Okinawa Development Agency) all’interno del Ministero dell’Economia e delle Finanze, affiancata da un istituto finanziario (Okinawa Development Finance Corporation) incaricato di stimolare gli investimenti privati. Cfr. Okinawa kaihatsuchō secchihō in Shūgiin – The House of Representatives (official website), The House of Representatives, Tokyo. 115 Ratificato dal Segretario di Stato William P. Rogers e dal Ministro degli Esteri Aichi Kiichi il 17 giugno 1971, includeva un memorandum sulla successiva restituzione dei siti occupati dalle basi: delle 134 strutture presenti in quel momento a Okinawa, soltanto 34 sarebbero state restituite immediatamente dopo il passaggio di consegne, a cui se ne sarebbero aggiunte 12 «in un momento futuro appropriato». Altro punto molto criticato dall’opinione pubblica fu la concessione all’esercito americano del diritto a introdurre armamenti atomici all’interno del territorio di Okinawa. Cfr. Eldridge R. D. Post-Reversion Okinawa and U.S.-Japan Relation: A Preliminary Survey of Local Politics and the Bases, 1972-2002 in U.S.-Japan Alliance Affairs Series vol. 1, School of International Public Policy – Osaka University, Osaka, 2004 114 65 Di queste «3 K» (san-kei sangyō), quella che prospettava i maggiori ostacoli era senza dubbio la protezione degli interessi delle basi, legati in primo luogo alla loro estensione spaziale 116. Una delle ragioni che aveva portato l’opinione pubblica locale a guardare con favore al ritorno sotto la giurisdizione giapponese era stata appunto la prospettiva di una restituzione dei terreni117 su cui sorgevano le installazioni militari, per i quali i legittimi proprietari118 percepivano un canone d’uso senza poter però esercitare i propri diritti sugli stessi. Per tutta risposta, il governo centrale – diventato il subfornitore dei contratti d’affitto alle forze americane di stanza in Giappone – si guardò bene dal mettere in discussione tale prassi, limitandosi a implementare una legge speciale119 per la preservazione dello status quo fino a nuovo ordine. Dieci anni e diverse leggi capestro 120 più tardi, le basi uscirono infine ridimensionate dal processo di negoziazione istituzionale svoltosi a più riprese in seno al Security Consultative Committee (SCC)121, anche se non nelle percentuali auspicate. Fatto sta che, nel 1982, 39 delle 87 strutture originali erano state smantellate, liberando una superficie pari a circa All’indomani dell’handover, le basi americane occupavano 286,61 km2, corrispondenti al 23% della superficie totale dell’isola. Cfr. Purves J. M. Island of Military Bases. A Contemporary Political and Economic History of Okinawa, The Contemporary Okinawa Website, Okinawa, 2001. 117 Si tratta di una questione complessa, risalente al regime di proprietà invalso prima dell’annessione allo Stato Meiji. Invece di appezzamenti contigui, le famiglie ryukyuane possedevano di solito piccoli lotti di terra, collocati anche molto distanti l’uno dall’altro: questo assicurava che, anche in caso di tifoni o altre calamità, fosse possibile procurarsi di che vivere coltivando il sopravvissuto alla catastrofe. Dal momento che i documenti catastali erano andati quasi tutti perduti nel corso della battaglia di Okinawa, l’amministrazione militare si affidò alla memoria dei capivillaggio per redigere nuovi atti di proprietà con cui ridare fondamento giuridico alle pretese avanzate dai locali, a cui non fece però seguito alcuna restituzione. A seguito del crescente malcontento, nel 1950 MacArthur pensò bene di chiudere la questione intimando agli ufficiali di stanza nelle Ryūkū di assicurare la superficie necessaria alla piena operatività delle basi «by purchase or through condemnation». A fronte del pericolo di una confisca per via processuale, nel 1951 quasi tutti i proprietari terrieri avevano aderito al sistema di canoni d’affitto messo a punto dall’Esercito, ma la speranza di una restituzione avrebbe continuato ad alimentare il dibattito politico fino alla vigilia del ritorno al Giappone. Cfr. Morris M. D. Okinawa: Tiger by the Tail, Hawthorn Books, Portland, 1968. 118 A differenza del resto del territorio nazionale, dove l’87% della terra su cui sorgono le installazioni militari americane è di proprietà dello Stato, a Okinawa questa appartiene in maggioranza ai privati (32%) e alle municipalità (shi, 29%). Cfr. U.S. Military Base Issues in Okinawa in Okinawa Prefectural Government (official website), Okinawa Prefectural Government – Washington D.C. Office, 2016. 119 In giapponese Okinawa ni okeru kōyōchitō no zantei shiyō ni kansuru hōritsu (Legge provvisoria per l’utilizzo dei terreni di pubblico interesse), fu accusata di incostituzionalità dai suoi detrattori in riferimento agli artt. 14 (uguaglianza di fronte alla legge), 29 (proprietà privata) e 95 (obbligo di approvazione referendaria per l’entrata in vigore di leggi speciali) della Costituzione Giapponese. Cfr. Eldridge, op. cit., pp. 63-64. 120 Allo scadere della legge di cui alla nota precedente nel 1977, il governo giapponese decise di implementare due leggi precedentemente adottate dall’amministrazione civile americana, onde costringere i proprietari ad accordare la propria disponibilità alla permanenza delle basi: la Beigun yōchi tokubetsu sōchihō (Legge speciale sui terreni a uso delle forze armate statunitensi) e la Tochi shūyōhō (Legge sull’espropriazione dei terreni), in vigore fino al 1997 e ulteriormente emendate prima della scadenza nell’aprile dello stesso anno. Cfr. Eldridge, op. cit., pp. 66-67. 121 Centro di comando istituito dal primo Trattato di Sicurezza Nippoamericano (abbr. Anpo in giapponese) il 19 maggio 1960 per coordinare i rispettivi piani strategici, coinvolge in prima persona i ministri della Difesa e degli Esteri di entrambi i paesi. Cfr. SCC in Kotobanku onrain jiten, Asahi Shimbunsha, Tokyo. 116 66 35mila km2122 che, nel corso del decennio, fu progressivamente lottizzata ed edificata, sì da alleviare la pressione sui già sovrappopolati centri urbani della parte centro-meridionale dell’isola. Contrariamente a quanto paventato da Tokyo, ovvero che una demilitarizzazione di simili proporzioni avrebbe destabilizzato il precario mercato del lavoro locale condannando lo staff delle basi alla disoccupazione, nonché azzerato l’indotto relativo al settore della ristorazione e dell’intrattenimento, i dati raccolti negli anni successivi alla restituzione di dette aree mostrano un netto miglioramento dei parametri pertinenti: Effetti economici della restituzione su alcune aree del popoloso Centro-Sud. I dati della tabella si riferiscono rispettivamente: alla restituzione della superficie circostante il porto militare di Naha, approvata nel 1972 ed effettuata nel 1974; alla superficie occupata dalla base della Marina statunitense a Oroku (Naha-shi), restituita nel 1987; alla superficie occupata da Camp Lester a Kuwae (Okinawa-shi), restituita in due momenti, rispettivamente nel 1996 (99 ettari) e nel 2003 (38 ettari) – completa restituzione dei restanti 68 ettari prevista per il 2025. Fonte: Okinawa Prefectural Government, 2016. A questo punto, appare chiaro come la resistenza opposta da parte giapponese fosse legata più che altro alla necessità di guadagnare tempo: da un lato, per consentire agli Stati Uniti di aggiustare la propria politica interventista in Estremo Oriente, rivista al ribasso in seguito agli esiti disastrosi della campagna di Vietnam; dall’altro, per individuare siti alternativi adatti al ricollocamento di quelle basi che l’alleato non era disposto a cedere, ma soltanto a spostare in zone meno densamente popolate. 122 Nel 1972 la superficie occupata dalle basi ammontava a 286610 km2 per un totale di 87 strutture, contro i 251,910 km2 divisi tra 48 strutture del 1982. Cfr. Purves, op. cit., p. 76. 67 Mappa comparativa (1972 e 2017) della distribuzione delle basi militari sul territorio di Okinawa. Fonte: The Okinawa Times, 2017. Da questa constatazione, si evince anche come il reale obiettivo delle compagnie dello hondo non fossero gli appalti residenziali, a maggior ragione se si considera che sotto l’amministrazione USCAR si era andati ben oltre la risoluzione del problema degli alloggi, arrivando a saturare di palazzine in cemento quasi tutta la superficie abitabile. Infatti, per quanto l’urbanizzazione dei siti precedentemente occupati dalle basi abbia rappresentato comunque un buon affare, a fare la fortuna di questi colossi fu il business delle infrastrutture e delle opere di viabilizzazione, inserite nel più vasto contesto del Nuovo piano comprensivo per lo sviluppo nazionale123. In giapponese Shin zenkoku sōgōkaihatsu keikaku, fu lanciato nel 1969 dal Primo Ministro Satō con l’obiettivo di «creare un ambiente prospero» (yutakana kankyō no sōzō) entro il 1985. Concretamente, tale piano prevedeva il potenziamento delle infrastrutture nazionali, soprattutto ferroviarie e stradali; l’apertura dell’economia giapponese al mercato internazionale, focalizzandosi sull’esportazione di prodotti finiti; il potenziamento dell’industria pesante e manifatturiera, tramite la concentrazione della forza lavoro e degli stabilimenti industriali in sette grandi «blocchi su scala nazionale», corrispondenti alle conurbazioni di Sapporo, Sendai, Tōkyō, Nagoya, Ōsaka, Hiroshima e Fukushima. Cfr. Ōshiro I. 1960nendaigōki ni okeru Ryūkyū seifu no kōgyōkaihatsu kōsō. Jigi wo shisshiteita jūkagakukōgyō yūchi in Ryūkyū Keizai Kenkyū, vol. 81, Ryūkyū Daigaku Hōbungakubu, Nishihara, 2011. 123 68 Dopo un’iniziale incertezza circa l’opportunità di convertire Okinawa all’industria pesante sulla falsariga del resto del Paese, trasformandola in un hub del petrolchimico e della cantieristica navale124 che avrebbe costituito l’«ottavo blocco» della filiera nazionale, si concluse che sarebbe stato incredibilmente più agile – nonché profittevole – provare a colmare il divario con il mainland provvedendo alla costruzione di collegamenti e impianti atti a facilitare l’accessibilità alle risorse e la mobilità dei cittadini della prefettura, il cui stile di vita, percepito come scomodo ed eccessivamente spartano dagli osservatori di Tokyo, appariva come il maggior ostacolo al cambio di immagine che si prefigurava per l’isola. Ignorando a bella posta le particolarità paesaggistiche e ambientali di Okinawa, punto di partenza di questi lavori pubblici fu l’implementazione bruta del modello doken kokka125, chiave di volta del progetto di ricostruzione dell’Arcipelago (rettō kaizō) vagliato dal Primo Ministro Tanaka126. Detto sistema prevedeva che il budget messo a disposizione dalla Dieta venisse ripartito equamente tra i tre ministeri maggiori – ovvero Ministero delle Costruzioni (Kensetsushō), della Pesca e dell’Agricoltura (Nōrinsuisanshō) e delle Infrastrutture e Trasporti (Kokudokōtsūshō) –, i quali coordinavano poi la pubblicazione dei bandi d’appalto in modo da evitare conflitti di interesse o sovrapposizioni, avendo cura di commissionare rispettivamente dighe e strade urbane (Costruzioni), interventi di miglioramento del suolo e strade extraurbane (Agricoltura), porti e infrastrutture portuali (Trasporti). Grazie alla Legge sulle commesse pubbliche127 e alle leggi 124 Il sito prescelto per la realizzazione di questo macrocomplesso industriale era la baia della città di Kin (Kin-chō), sulla costa orientale. Il progetto originario prevedeva la costruzione di impianti di stoccaggio e raffinazione del greggio, un’acciaieria, un cantiere navale, un impianto per la lavorazione dell’alluminio e una centrale nucleare, su una superficie di circa 33mila ettari. Nonostante fossero già stati costruiti una strada che metteva in comunicazione le due sponde della baia e una raffineria, in seguito agli shock petroliferi del 1973 il progetto fu abbandonato e mai più ripreso. Cfr. Ōshiro, op. cit., pp. 5-7 125 Lett. “Stato costruttore”, termine coniato in ambito giornalistico in riferimento alla politica economica perseguita dal Primo Ministro Tanaka Kakuei (vd. nota seguente), fondata sul finanziamento di grandi opere pubbliche (doken) quale motore della crescita del Paese. Cfr. Kerr, op. cit., pp. 20-21. 126 Tanaka Kakuei (Jimintō), Primo Ministro dal 1972 al 1974, inaugurò il processo di cementificazione del Giappone e la pratica di utilizzare i kōenkai quale strumento per ridirezionare i fondi pubblici verso progetti graditi al proprio elettorato. Fu costretto alle dimissioni prima della fine del suo mandato a causa di una serie di scandali, culminati con la scoperta del suo coinvolgimento nel cosiddetto Affare Lockheed, un giro di tangenti internazionali con la quale l’omonima azienda aerospaziale americana aveva cercato di assicurarsi le commesse dell’aeronautica militare giapponese. Cfr. Gatti, op. cit., p. 146. 127 In giapponese Kankōju ni tsuite no chūshōkigyōsha no juchū no kakuho ni kansuru hōritsu, approvata nel 1966, prevedeva che il governo centrale e quelli locali accordassero la precedenza negli appalti alle piccole e medie imprese locali. Pensata per garantire una più equa competizione, la legge ebbe effetti deleteri sul tessuto imprenditoriale: dalle 41867 PMI operanti in campo edilizio del 1966 si arrivò a quota 90096 nel 1985, con una percentuale di successo negli appalti pari al 41,6%. Molte di queste aziende, che pure vincevano le gare, non erano poi in grado di portare a termine le commesse e non producevano alcuna ricchezza né servizio, limitandosi a fare da intermediari per le grandi compagnie. Cfr. Kingston J. Japan’s Quiet Transformation: Social Change and Civil 69 prefetturali limitanti la partecipazione dei contractors esterni, sulla carta erano le piccole e medie imprese locali ad aggiudicarsi gli appalti, le quali erano però chiaramente incapaci di portare a termine opere di simile portata: è qui che entravano in gioco le grandi compagnie dello hondo, che proponendosi quali subappaltatori riuscivano ad aggirare la legislazione vigente e ad appropriarsi dei fondi statali – meno una piccola percentuale che l’impresa vincitrice del bando tratteneva per sé quale commissione. Tale meccanismo, di cui erano al corrente tutte le parti coinvolte e che veniva puntualmente oliato da tangenti e accordi sottobanco, si fondava sul tacito assenso dei piani alti dei ministeri in questione, i cui dirigenti, dopo il ritiro dai pubblici offici, si riservavano la possibilità di servire come amakudari128 presso le medesime aziende che si erano adoperati per favorire durante la loro carriera. Concretamente parlando, a pagare il prezzo più alto di questa sconsiderata politica edilizia fu Yanbaru, la parte settentrionale dell’isola i cui 27mila ettari 129 di foresta subtropicale costituiscono, assieme ai 682 chilometri130 di linea costiera, la vera ricchezza di Okinawa. Tra gli interventi post-handover più invasivi, va ricordata anzitutto la costruzione di un complesso di dighe131, acquedotti e condutture lungo il versante orientale dell’isola, che da Benoki giù fino all’estrema punta meridionale di Fukuji dirotta l’acqua dei fiumi maggiori verso i campi coltivati e le pig farms del Centro-Nord, seguiti dai centri abitati e alberghi del Centro-Sud; inoltre, come se non bastasse, lungo il versante occidentale nove stazioni di pompaggio prelevano l’acqua dai Society in 21st Century Japan, Routledge Curzon, Milton Park, 2004; Kusunoki S. Japan’s Government Procurement Regimes for Public Works: A Comparative Introduction in Brooklyn Journal of International Law, vol. 32-2, Brooklyn Law School, New York City, 2007. 128 Lett. “discesi dal cielo”, ex alti funzionari statali assunti in compagnie private con ruoli dirigenziali, rappresentano gli anelli di congiunzione del cosiddetto Triangolo di ferro (tetsu no toraianguru), ovvero il sistema di potere oligarchico costituito da burocrati, politici e imprenditori. Cfr. Colignon R., Usui C. The Resilience of Japan’s Iron Triangle in Asian Survey, vol. 41-5, University of California Press, Oakland, 2001. 129 In origine, circa un terzo di questi 27mila ettari era contenuto all’interno del perimetro di Camp Gonsalves, il centro di addestramento per operazioni nella giungla della IIIa Divisione dei Marines. Tuttavia, grazie alle restituzioni concesse nel 1972 e nel 2016, i militari ne controllano oggi “solo” 3600 ettari. Cfr. McCormack G. Okinawan Dilemmas: Coral Islands or Concrete Islands in JPRI Working Paper, vol. 45. Japan Policy Research Institute, San Diego, 1998; McCormack G., Norimatsu S. O. Resistant Islands: Okinawa Confronts Japan and the United States, Rowman & Littlefield, Washington D.C., 2018. 130 Cifra riferita alle misurazioni più recenti, eseguite a partire dai dati disponibili su OpenStreetMap (OSM) Coastline Dataset e ulteriormente raffinati tramite l’importazione sul software opensource QGIS. Cfr. Masucci G. D., Reimer J. D. Expanding walls and shrinking beaches: loss of natural coastline in Okinawa Island, Japan, PeerJ Ltd., Londra, 2019. 131 Nel complesso oggi si contano a Okinawa 11 dighe (damu), di cui 6 costruite tra il 1974 e il 1997 nella sola foresta di Yanbaru. Cfr. McCormack, op. cit., p. 3. 70 corsi minori e la convogliano nel circuito principale, impedendo ai numerosi inquilini di Yanbaru – tra cui figurano ovviamente anche gli esseri umani – di soddisfare il proprio fabbisogno idrico. Mappa delle 9 dighe di Yanbaru, di cui 6 nel cuore della foresta. Fonte: Okinawa General Bureau, North Dam Integrated Control Office, 2015. Altra infrastruttura invasiva e di dubbia utilità è la Ōkuni Rindō, una strada panoramica a due corsie costruita tra il 1977 e il 1994 che si snoda attraverso la parte più remota – e quindi delicata – della giungla per quasi 36 chilometri. Presentata dai suoi promotori come l’equivalente settentrionale della Kaichū Dōro132, il suo scopo era quello di facilitare l’accesso dei turisti al cuore verde dell’isola e di creare nuove opportunità di guadagno per i residenti delle cittadine limitrofe, sì da ridurne il pendolarismo verso l’estremità meridionale. Immediata conseguenza dell’apertura del tratto fu l’accumularsi di rifiuti urbani, sulle cui tracce fecero la loro comparsa animali domestici (cani, gatti) e selvatici (manguste) a minacciare la sopravvivenza delle specie Strada sopraelevata di 4,75 km eretta nel 1972, collega la raffineria dell’isola di Henza (Uruma-shi) alla penisola di Katsuren, dove si trova il White Beach Naval Facility, deposito di armamenti ed equipaggiamento del corpo dei Marines. Nonostante sia stata costruita per scopi militari, fu fortemente voluta anche dagli abitanti dei villaggi vicini, che da tempo attendevano la creazione di infrastrutture stradali adeguate. Cfr. Sōkaina emerardo burū no umi wo wataru “kaichū dōro” in Uruma Jikan (website), Uruma City Office. 132 71 del luogo133, che ne cadevano facilmente preda. A ogni modo, il danno maggiore resta quello arrecato direttamente – sia in termini di inquinamento acustico che di condotta134 – dalle attività umane, che nel giro di pochi mesi costrinsero la fauna locale ad allontanarsi sempre più verso l’interno, vanificando così lo scopo originario della strada stessa. Veduta satellitare della Ōkuni Rindō, che dal villaggio di Kunigami (Nord) attraversa la foresta fino al villaggio di Ōgimi (Sud-Ovest). Fonte: DEE Okinawa, 2016. In generale, queste grandi opere erano accompagnate da più generici interventi per il miglioramento del suolo (tochi kairyō) commissionati dal Ministero dell’Agricoltura, pressoché all’ordine del giorno durante gli anni Settanta. A dispetto del nome, queste migliorie prevedevano l’abbattimento della vegetazione spontanea e il successivo rimboschimento (zōrin) con specie commercialmente rilevanti o, in alternativa, la messa a coltura con l’ausilio di 133 La foresta di Yanbaru ospita diverse specie endemiche a rischio di estinzione, soprattutto uccelli come il porciglione di Okinawa (Yanbaru kuina, nome scient. Hypotaenidia okinawae), particolarmente vulnerabile perché incapace di volare; il picchio Noguchi (noguchigera, nome scient. Dendrocopos noguchii), che nidifica soltanto sui rami di quercia morta; il picchio pigmeo (kogera, nome scient. Dendrocopos kizuki); l’assiolo delle Ryūkyū (konohazuku, nome scient. Otus elegans). Sono a rischio anche la rana di Ishikawa (Ishikawa kaeru, nome scient. Odorrana ishikawae), il ratto a pelo lungo delle Ryūkyū (kenaganezumi, nome scient. Diplothrix legata) e lo scarabeo di Yanbaru (tenaga kogane, nome scient. Cheirotonus jamba). La sopravvivenza di queste e altre specie è legata a doppio filo alla preservazione delle piante e alberi nativi di Yanbaru, e al mantenimento delle originali dinamiche di predazione. Cfr. McCormack, op. cit., p. 3; Okinawa Ikimono Lab (website), Department of Environmental Affairs of Okinawa Prefectural Government, 2017. 134 Negli anni si sono registrati diversi casi di bracconaggio e di furti di specie protette. Cfr. McCormack, op. cit., p. 3. 72 fertilizzanti e pesticidi chimici. Quale che fosse la destinazione d’uso dei terreni soggetti a questa operazione, in entrambi i casi lo strato di terriccio superficiale, ricco di nutrienti e microorganismi, veniva letteralmente raschiato via nel corso dei lavori: quel che ne rimaneva era una superficie piana e regolare, che dal punto di vista operativo si presta meglio alle attività agricole ma è allo stesso tempo meno fertile, con limitate possibilità di rendita sul lungo termine a causa dell’azzerata biodiversità – dalla quale dipende lo sviluppo del bioma. Ciononostante, a fine anni Novanta già 5mila ettari di foresta erano stati “modernizzati” all’interno della circoscrizione di Kunigami 135 , con l’annessa industria della lavorazione del legno a costituire l’unica fonte di reddito e occupazione per i circa 6000 abitanti: una scelta che, dal punto di vista strettamente economico, si rivelò vincente, dal momento che all’epoca circa una trentina di piccole imprese edili (doken’ya) si rivolgeva alle falegnamerie del luogo per ottenere legname a un prezzo inferiore rispetto a quello importato dal mainland. Tuttavia, con l’ingresso nel nuovo millennio iniziarono a manifestarsi gli effetti collaterali della sostituzione specifica: gli alberi tagliati impiegavano più tempo a ricrescere e le pendici collinose avevano perduto la loro capacità di trattenere l’acqua, dando luogo a frane e smottamenti i cui danni andavano ad aggiungersi ai già ingenti costi di gestione, sempre più ardui da sostenere a causa della progressiva liberalizzazione del primario propugnata dal governo centrale a partire dalla fine degli anni Sessanta. A parimerito in termini di fatturato e impatto ambientale, accanto all’edilizia stradale e alla riqualificazione dei terreni si colloca il settore delle infrastrutture costiere, responsabile della frammentazione della barriera corallina e del conseguente arretramento del litorale che interessa ormai l’intera linea di costa dell’isola. Riprendendo la lezione utilizzata negli studi più recenti in materia, si possono distinguere tre categorie fondamentali di intervento136, la cui progressione riflette la crescente invasività: 1. Rinforzo di base o soft armoring (Scenario B), dove un alto muro di cemento separa la vegetazione della foresta dalla spiaggia. Pur venendo meno la contiguità tra i due 135 Amministrativamente parlando, si configura come villaggio (mura), ma si è preferito evitare questo termine per rendere giustizia alla sua estensione: Kunigami copre infatti un’area pari a 194,8 km 2, corrispondente all’intera punta settentrionale dell’isola principale. 136 Cfr. Masucci, Reimer, op. cit., pp. 7-8. 73 ecosistemi, tale soluzione permette di preservare la zona intertidale, la fauna e la flora della sezione di costa interessata, e può essere inoltre rimossa con relativa facilità. 2. Rinforzo estensivo o hard armoring (Scenario C), in cui frangiflutti, dighe o altri elementi strutturali in cemento (es. tetrapod 137 , paratie) vengono eretti a partire dal fondale o posati sullo stesso, interrompendo la comunicazione diretta tra la zona intertidale e il mare aperto. In questo modo, la conformazione della sezione di costa interessata viene compromessa irreversibilmente, tanto da non poter essere ripristinata nemmeno rimuovendo l’intera armatura in un secondo momento. Si riscontra in presenza di strade sopraelevate o edifici in prossimità del mare. 3. Interramento o land reclamation (Scenario D), consiste in un prolungamento artificiale della linea costiera in cui nuova superficie edificabile viene ricavata tramite colate di cemento e detriti accompagnate da pompaggio, fino a raggiungere la parità di livello con la terra emersa. In questo processo, tutto ciò che si trova sul fondale e sulla sezione di costa interessata viene sotterrato, sparendo definitivamente dall’orizzonte del paesaggio. Si riscontra spesso in prossimità di basi militari ricollocate 138 o poli commerciali di recente costruzione. Guardando ai dati relativi al numero complessivo di interventi eseguiti, è allarmante notare come impatto ambientale e frequenza di utilizzo siano tra loro direttamente proporzionali: infatti, le soluzioni più invasive appaiono anche come le più gettonate, con il 45,3% (ovvero 309,2 km)139 137 Tetraedri di cemento poroso, progettati per garantire la massima stabilità anche in condizioni atmosferiche estreme. Sono solitamente disposti a incastro in modo da resistere al moto di onde e correnti, ritardando così il processo di erosione del litorale. Al di là di Okinawa, dove la loro presenza è massiccia, sono visibili uniformemente su tutto il territorio nazionale. Cfr. Hesse S. Loving and Loathing Japan's Concrete Coasts, Where Tetrapods Reign in The Asia-Pacific Journal – Japan Focus, vol. 5-7, The Asia-Pacific Journal, 2007. 138 Il caso più clamoroso è sicuramente quello della Base Aerea di Futenma, ancora al centro di accese controversie. Il primo piano di ricollocamento del 1996 prevedeva la creazione di un nuovo sito tramite land reclamation nella baia di Oura (Nago-shi), ma nel 2005 il Primo Ministro Koizumi (Jimintō) raggiunse un accordo per lo spostamento della base presso il prospiciente Camp Schwab, nella vicina circoscrizione di Henoko (Henoko-ku). Successivamente, le proteste dei residenti contro gli ampliamenti che si sarebbero dovuti eseguire e il successivo cambio di rotta imposto dai governi a guida Democratica (Minshutō, 2009-2012) riuscirono a spostare il baricentro delle trattative, che per qualche anno si concentrarono su una possibile integrazione all’interno della Base Aerea di Kadena (Okinawa-shi). Tuttavia, con il ritorno al potere del Partito Liberal Democratico, si decise di adottare la soluzione avallata in precedenza da Koizumi, dando inizio ai lavori nel 2015. Cfr. Maslow S. A Blueprint for a Strong Japan? Abe Shinzō and Japan’s Evolving Security System in Asian Survey, vol. 55-4, University of California Press, Oakland, 2015. 139 Negli ultimi 40 anni sono stati ottenuti tramite land reclamation 21,03 km2 di nuova superficie edificabile. Attualmente, sono in corso tre grandi progetti di questo tipo: la costruzione di una seconda pista per l’Aeroporto di Naha (Naha-shi, 1,6 km2 previsti); la realizzazione di un complesso turistico – con tanto di spiagge artificiali – presso le barene di Awase (Okinawa-shi, 2,66 km2 previsti); l’ampliamento della superficie totale del suddetto Camp 74 di linea costiera interessato da land reclamation, il 14,5% (98,9 km) da hard armoring e il 3,4% (23,7 km) da soft armoring, il che significa che soltanto il 36,8% (251 km) del litorale di Okinawa può vantare uno stato naturale o di minima alterazione (Scenario A), dove è la vegetazione stessa a creare una zona cuscinetto – solitamente composta da dune e arbusti – tra la foresta e la spiaggia. Campioni fotografici di opere costiere, distinte per tipologia. Fonte: Masucci G. D. et al., University of the Ryukyus, 2019. In aggiunta al danno visibile a occhio nudo causato dalle opere di posa e costruzione, bisogna tener conto anche della frammentazione ecosistemica (habitat fragmentation) posta in essere da questi mostri di cemento sotto la superficie dell’acqua, che inficia non soltanto la corretta comunicazione tra la zona intertidale e il mare aperto, ma anche la sopravvivenza e la capacità Schwab presso Henoko (Nago-shi, 1,6 km2 previsti), per consentire il ricollocamento della base di Futenma. Cfr. Masucci, Reimer, op. cit., pp.3-5. 75 riproduttiva della fauna corallina140, incluse quelle colonie che si trovano nelle zone franche appartenenti al 36,8% di costa virtualmente incontaminata. Mappa tematica della frammentazione ecosistemica costiera. Fonte: Masucci G. D. et al., University of the Ryukyus, 2019. Come evidenziato dalla mappa tematica, la metà occidentale dell’isola si rivela la più colpita dagli interventi di difesa costiera (kaigan hozen shisetsu), presentando una frammentazione pari a 229 diversi settori lineari con una lunghezza media di 1,10 km, creati artificialmente tramite la combinazione dei tre sistemi sovra descritti. In una situazione leggermente migliore si trova la La fauna corallina di Okinawa appartiene alla sottoclasse degli esacoralli (Hexacorallia) – così detti perché presentano 6 setti, dove per setti si intendono le placche scheletriche disposte radialmente, a determinare la caratteristica forma circolare del corallite –, e più precisamente all’ordine delle sclerattinie (Scleractinia), che a latitudini inter-tropicali danno appunto origine alle formazioni coloniali note come “barriere”. Cfr. Nishihira M. et al. Coral Reefs of Japan, Japan Coral Reef Society & The Ministry of Environment of Japan, Tokyo, 2004. 140 76 metà orientale, suddivisa in 198 settori lineari con una lunghezza media di 910 metri: è qui che è stato misurato il tratto costiero naturale più lungo, che si snoda ininterrottamente per 10,71 km nella sezione Nord-Orientale della citata circoscrizione di Kunigami. Tabella comprensiva dell’entità delle opere costiere, distinte per funzione. Fonte: Masucci G. D. et al., University of the Ryukyus, 2019. I vantaggi offerti da questa linea continua sono molteplici: in primo luogo, una barriera corallina di tale estensione è in grado di disperdere da sola circa il 97% dell’energia cinetica generata dal moto ondoso, provvedendo una difesa migliore di qualsiasi armatura di cemento; secondariamente, le popolazioni di alghe che si sviluppano al di qua della barriera presentano le condizioni ideali per l’accoppiamento e la schiusa delle uova fecondate di diverse specie endemiche che, in mancanza di protezione dalle correnti e dai predatori, avrebbero difficoltà a nidiare altrove; infine, non bisogna dimenticare che, a livello globale, le formazioni coralline sono in grado di riassorbire complessivamente circa il 2% delle emissioni annue di anidride carbonica, agendo quale prezioso alleato nella lotta al surriscaldamento globale. 77 Mappa tematica degli interventi di land reclamation, eseguiti tra il 1977 e il 2018. Fonte: Masucci G. D. et al., University of the Ryukyus, 2019. Come già visto nel caso di Yanbaru, però, questi e altri vantaggi monetariamente non quantificabili esulavano dalla prospettiva dello Stato costruttore, che dopo il record di 1 milione e 800mila visitatori registrato nel solo 1975 141 , si era posto obiettivi sempre più ambiziosi arrivando a imporsi il raggiungimento di una quota stabile di cinque milioni di turisti142 entro la fine del terzo piano decennale – i.e. marzo 2002 secondo l’anno fiscale. In quest’ottica, il punto di svolta verso la cementificazione del litorale fu rappresentato dal Piano regionale per l’allestimento di resort 143, con il quale il Primo Ministro Nakasone 144 puntava a rivitalizzare Anno dell’inaugurazione dell’Okinawa Marine Expo (Okinawa kokusai kaiyō hakurankai, 20 luglio 1975-18 gennaio 1976), fu il primo grande evento internazionale organizzato sull’isola dopo il ritorno al Giappone. Cfr. McCormack, op. cit., p. 2. 142 Come auspicato, tale quota fu ampiamente superata e raggiunta già nel 2001, attestandosi stabilmente sopra i 6 milioni a partire dal 2009 e arrivando persino a superare i numeri dell’eterno rivale, le Hawaii, nel 2018. Questo ovviamente fino allo scatenarsi della pandemia, che ha riportato Okinawa ai livelli degli anni Novanta (3,7 milioni in un anno). Cfr. Okinawa tourist numbers top those of Hawaii for first time, The Japan Times, 9 febbraio 2018; Tourists visiting Okinawa drop 63% in 2020 amid pandemic, The Asahi Shimbun, 27 gennaio 2021. 143 In giapponese Sōgō hoyō chiiki seibihō, approvata nel 1987, prevedeva anche una serie di incentivi fiscali e semplificazioni burocratiche per le imprese che si fossero impegnate a investire nelle zone cosiddette “periferiche”. Cfr. Nguyen D. Tourism Development in Okinawa: Spatial and Temporal Pattern (MA Thesis), Graduate School of Geography – The University of Hawaii, Manoa, 2012. 144 Nakasone Yasuhiro (Jimintō), Primo Ministro dal 1982 al 1987, cercò di riportare su un livello di parità l’alleanza nippoamericana in un braccio di ferro continuo con il Presidente Reagan, e avviò un grandioso piano di riforme all’insegna della privatizzazione e della liberalizzazione. Inoltre, in quanto fervente nazionalista, promosse una politica estera all’insegna dell’internazionalizzazione (kokusaika), nella peculiare accezione per cui il Giappone, depositario di una cultura superiore, avrebbe dovuto farsi guida dei vicini asiatici nella corsa allo sviluppo. Cfr. Gatti, op. cit., pp. 160-161. 141 78 l’economia delle zone periferiche con lo sviluppo di un’industria del turismo all’avanguardia, incentrata sulle «specificità geografiche e culturali» delle regioni coinvolte. Com’era prevedibile, la promessa di porre un freno all’emorragia di giovani dalle aree più disagiate e di migliorare le condizioni ambientali delle stesse, dichiarata in sede istituzionale, rimase lettera morta e si tradusse di fatto nell’ennesimo via libera alle ditte di costruzioni che, nel caso specifico di Okinawa, avrebbero avuto carta bianca su praticamente l’intero territorio della prefettura145. Mappa tematica delle aree designate dal Piano regionale per l’allestimento di resort. Fonte: Nguyen D., University of Hawaii, 2012. Rispetto ai più semplici alberghi, i resort si configurano come strutture ricettive che, all’interno di un perimetro precisamente delimitato e separato dal resto dell’abitato, concentrano complessi ricreativi (piscine, centri benessere, campi da golf e da tennis) il cui mantenimento e manutenzione ordinari richiedono risorse idriche 146 ed energetiche di gran lunga superiori a 145 A differenze delle altre regioni coinvolte nel Piano, dove le aree designate per le opere di sviluppo corrispondevano soltanto a una parte del territorio prefetturale, a Okinawa l’intera superficie della prefettura fu reputata idonea alla costruzione di strutture e infrastrutture turistiche. Cfr. Nguyen, op. cit., pp. 51-52. 146 Il fabbisogno idrico di un cliente di queste strutture ammonta a circa 1000 litri d’acqua al giorno, contro i 370 litri giornalieri di un comune residente. Cfr. McCormack, op. cit., p. 6. 79 qualsiasi edificio strettamente residenziale, i cui costi si riflettono necessariamente sui prezzi al pubblico. Ne consegue che la clientela cui dette strutture si rivolgono sia estremamente selezionata: nel caso specifico di Okinawa, l’ospite-tipo è un giapponese del Kantō – spesso con famiglia al seguito – di età compresa tra i 25 e i 40 anni 147 , con mansioni dirigenziali e uno stipendio sufficiente a sostenere una settimana di soggiorno completamente a sue spese, in cerca di relax lontano dai ritmi della vita urbana. In questo senso, il resort offre l’esperienza ideale, in quanto concentra all’interno di un unico complesso gli svaghi potenzialmente ricercati dal cliente, provvedendo inoltre un isolamento sia geografico che sociale dalla popolazione dei centri urbani dell’isola. Tuttavia, non è difficile capire come questo tipo di turismo elitario sia terribilmente inidoneo a instaurare una dialettica di scambio tra il visitatore/portatore di capitale e la società civile/portatrice di conoscenze, in grado di valorizzare le «specificità geografiche e culturali» di cui si diceva prima: anche le esperienze in apparenza più tipiche (immersioni, degustazioni, gite fuoriporta) che presuppongono l’uscita dall’hortus conclusus del resort sono infatti inserite in un itinerario predeterminato, in cui la direzione e il suo staff figurano quali unici intermediari tra il cliente e i locali, sì da limitare al minimo qualsiasi interazione esulante dalla mera erogazione del servizio. Ciononostante, simili strutture continuarono a moltiplicarsi a vista d’occhio per tutti gli anni Settanta e Ottanta, soprattutto nelle municipalità di Nago (Nago-shi) e Onna (Onna-shi), rispettivamente nel Centro-Nord e Centro-Ovest dell’isola, raggiungendo l’apice negli anni Novanta in concomitanza con il boom del cemento: in questa fase, si arrivò a costruire resort di lusso perfino nel cuore amministrativo della prefettura (Okinawa-shi) e nella centralissima – nonché sovrappopolata – municipalità di Ginowan (Ginowan-shi), benché il fulcro della febbre edilizia rimanessero la suddetta zona di Onna e limitrofi. Dal persistere di questo trend, si evince quindi come il campanello dall’allarme rappresentato dallo scoppio della bolla speculativa148 147 I dati si riferiscono ai trend osservati fino al 2012. Cfr. Aizawa M. et al. Analysis of trends in tourist behavior and a case study of tourism flows using mobile positioning data in Okinawa, Japan Travel Bureau Foundation in collaborazione con Okinawa Prefectural Government, Okinawa, 2012. 148 Il facile ricorso ai prestiti bancari sia da parte dei privati che delle imprese, combinato alla crescente domanda di terreno edificabile per accomodare una popolazione urbana composta da sempre più single, aveva portato a un aumento vertiginoso del prezzo dei terreni, pari a decine di volte il loro valore originario. La bolla iniziò a sgonfiarsi quando gli istituti finanziari, che avevano elargito prestiti anche a clienti senza reali garanzie, iniziarono ad avere difficoltà a riscuotere i propri crediti, innescando una spirale di insolvenza che fece sfiorare il collasso dell’intero sistema, per evitare il quale si rese necessario un massiccio intervento statale. Cfr. Gatti, op. cit., pp.157-159. 80 fosse rimasto in buona sostanza inascoltato: invece di ripensare dalle fondamenta l’allocazione della spesa pubblica e il funzionamento del proprio sistema corporativistico, il governo di Tokyo continuò a ignorare i limiti di un modello che, affidando enormi somme di denaro a pochi eletti, aveva il potere di sostenere una crescita meramente nominale 149 a cui non corrispondeva un aumentato benessere dei cittadini – di fatto, gli end users che per primi avrebbero dovuto trarre beneficio dalle opere pubbliche commissionate. Ancora, in controtendenza rispetto agli altri paesi del G7, dove l’adesione ai contenuti della Dichiarazione di Rio150 si era tradotta in una rinnovata sensibilità ambientale, che aveva portato istituzioni, grandi imprese nazionali e opinione pubblica a cercare la quadra con gli avvertimenti lanciati dalla comunità scientifica, nella comune consapevolezza del carattere utopico di una crescita precorrente i tempi di rigenerazione delle risorse naturali, a poco sarebbe valsa in Giappone la promulgazione di una Legge sull’impatto ambientale151. Come comprovato dagli innumerevoli incentivi fiscali e rilassamenti normativi in materia edilizia, le possibilità offerte da una non meglio precisata transizione verde dovevano apparire poca cosa rispetto ai tangibili proventi della cementificazione, a maggior ragione se lo scopo professato era proprio quello di porre rimedio agli errori della natura, ovvero di irregimentare il paesaggio al punto da renderlo completamente privo di rischi e ospitale per gli insediamenti umani, in una prospettiva a suo Nonostante la recessione, anche durante il cosiddetto “decennio perduto” il PIL giapponese continuò a registrare una crescita annua di poco superiore all’1%, cui propulsore era il fatturato dell’industria edilizia. Cfr. Noguchi Y. Ushinawareta jūnen in Nihon keizai nyūmon, Kōdansha, Tokyo, 2017. 150 Nome completo Dichiarazione di Rio sull’Ambiente e lo Sviluppo, riassume in 27 articoli le conclusioni raggiunte dall’assemblea delle Nazioni Unite nel corso dell’omonima conferenza tenutasi nella sede brasiliana dal 3 al 14 giugno 1992. Con la propria adesione, gli Stati partecipanti si impegnavano a collaborare tra loro nell’ottica di garantire uno sviluppo sostenibile per le generazioni future, utilizzando strumenti giuridici appropriati (i.e., leggi sull’impatto ambientale) e provvedendo a sensibilizzare i cittadini in merito. Cfr. Rio Declaration on Environment and Development, UN Commission on Human Rights, Ginevra, 1992. 151 In giapponese Kankyō eikyō hyōkahō, approvata nel 1997 ed entrata in vigore due anni più tardi, era stata pensata per fornire una base legale con cui limitare l’implementazione di progetti edilizi eccessivamente invasivi. Si tratta tuttavia di una legge dalle maglie molto larghe, in quanto prescrive che soltanto i progetti su «larga scala» sono soggetti all’obbligo di fornire una valutazione preventiva sull’impatto ambientale; per i progetti di media scala, infatti, è il governo centrale a decidere volta per volta circa l’opportunità di produrre tale valutazione, mentre per quelli di piccola scala non si rende necessaria. Tuttavia, anche nel caso in cui detta valutazione venga resa, essa non sarà esaminata direttamente dal Ministero dell’Ambiente, ma dal Ministero dei Trasporti o dal Ministero dell’Economia, i quali, come abbiamo visto, non di rado intrattengono rapporti d’affari ufficiosi con gli stessi appaltatori che si sottopongono al loro esame. Nel caso in cui vi sia un elevato rischio di collusione, il Ministero dell’Ambiente può essere chiamato a esprimere un parere specialistico sulla valutazione prodotta, ma la sua approvazione è puramente accessoria ai fini della decisione finale, che spetta comunque al ministero competente in prima istanza. Nel caso specifico di Okinawa, solo gli interventi di land reclamation sopra i 50 ettari (0,5 km2) sono considerati progetti su larga scala, mentre le opere di fortificazione costiera di qualsiasi entità non sono contemplate, e possono perciò essere autorizzate senza fornire una valutazione preventiva sull’impatto ambientale. Cfr. Environmental Impact Assessment Act, Ministry of the Environment (MOE), Government of Japan, Tokyo, 1997. 149 81 modo ambientalista e umanista che forniva un’utile sponda ideologica ai gruppi di interesse coinvolti. A tal proposito, è interessante notare come una parola chiave che ricorre spesso nei vari piani e leggi di cui si è riferito sinora sia seibi (lett. “allestimento”), utilizzata in combinazione con termini quali jigyō (progetto), kankyō (ambiente), kiban (infrastruttura), secchi (installazione), toshi (città), a formare dei composti dove essa perde il suo significato originario152 assumendo, a seconda del contesto, l’accezione di “ammodernamento”, “miglioramento”, “ricostruzione”, “risistemazione”. Detta giravolta semantica rappresenta un indizio prezioso per comprendere la logica soggiacente ai vari progetti edilizi eterodiretti dallo hondo: si costruisce non tanto per rendere possibile qualcosa o per fornire gli strumenti necessari affinché quel qualcosa possa essere svolto diversamente, quanto per sostituire ciò che a Okinawa già c’è con qualcos’altro che, per sua intrinseca natura, si configura come migliore, più completo, più avanzato. Qualità, queste, che non fanno riferimento ad alcuno standard tecnologico globalmente riconosciuto, bensì ai particolarissimi criteri invalsi nel sistema doken kokka e ai suoi ristretti orizzonti imprenditoriali. Dalla perversione di significato subìta dal termine seibi si può quindi risalire alla distorta concezione di sviluppo che fino a oggi ha informato – e per certi versi continua a informare – le politiche fiscali e le iniziative private promosse nelle Ryūkyū in quasi cinquant’anni di amministrazione giapponese, per la quale sarebbe il raggiungimento della massima somiglianza e uniformità con il mainland, ossia il Giappone propriamente detto in quanto portatore egemone di civiltà, a rappresentare l’unica modernità possibile. Sostituendo nell’equazione il movente ideologico con l’ossessione per il profitto, appare purtroppo chiaro come, nonostante il cambio d’abito, anche il Giappone pacifista e democratico abbia finito per cadere preda dei fantasmi del suo passato, andandosi ad aggiungere alla lista di quei paesi che, anche in seguito al tramonto dei grandi sistemi di pensiero – la cosiddetta morte delle ideologie – e delle contrapposizioni geopolitiche che ne derivavano, hanno continuato a combattere una personalissima e pressoché invisibile guerra che, come ogni conflitto, ne ha logorato il benessere e la prosperità. Mantenendo le grandi conurbazioni ad alta concertazione demografica individuate dal Secondo piano di sviluppo nazionale quale elemento «Ciò che appronta, allestisce, e fornisce gli strumenti affinché qualcosa sia subito pronto all’utilizzo». Cfr. Seibi in Kotobanku onrain jiten, Asahi Shimbunsha, Tokyo (Trad. mia). 152 82 imprescindibile del proprio modello di crescita, il governo di Tokyo non ha fatto che esacerbare le disparità regionali da esso stesso create in prima battuta, utilizzando il cemento quale grande livellatrice per assimilare il micro al macro. Invero, nel momento in cui anche il più remoto villaggio di provincia dovesse essere integrato nel circuito infrastrutturale e industriale facente capo a uno dei sedicenti “centri”, la guerra si potrebbe dire finalmente vinta, ma si tratta per forza di cose di un obiettivo irraggiungibile. Pertanto, il logoramento continua. Nel nome del primato nazionale e del massimo output, termini quali “decrescita felice”153 o “deindustrializzazione” sono messi al bando, nel disperato tentativo di mantenere un terzo posto in classifica a cui non corrispondono più la solidità e credibilità internazionale di un tempo. A pagarne lo scotto sono, come di consueto, i cittadini, i quali si scoprono impotenti dinanzi a uno Stato che, appurata la natura asintotica del suo grand plan, insiste caparbio a riscrivere la propria mappa affidandosi a una formula tanto rodata quanto inefficace: si istituiscono nuovi organi amministrativi senza mettere mano ai meccanismi della burocrazia; si costruiscono infrastrutture senza considerare le esigenze dei residenti e le peculiarità del territorio; si erigono condomini e alberghi senza tener conto del reale potere d’acquisto della popolazione e dei flussi demografici correnti; in altre parole, si modifica il paesaggio in funzione di una visione centralista che col tempo è arrivata a svincolarsi quasi completamente dalla realtà fenomenica, il cui scopo è obliterare gli ostacoli formali che interferiscono con la periferizzazione su cui si fonda la sopravvivenza del suo nucleo. Certo, detto nucleo ospita anche i propulsori dell’innovazione del Paese e utilizza parte delle risorse che avoca a sé per individuare nuove soluzioni tecnologiche, stili di vita, pratiche sociali, ma resta la ferma resistenza della classe dirigente a implementarle sul territorio nazionale, dal momento che così facendo l’intera struttura crollerebbe. 153 Teoria per la quale una progressiva diminuzione del volume di produzione, accompagnata da un rallentamento degli scambi sul mercato internazionale, permetterebbe di emanciparsi dalla schiavitù del profitto e degli sprechi riportando così i consumi in linea con le risorse naturali attualmente disponibili. Elaborata nell’ambito delle scienze politiche, detta teoria ha ottenuto il favore di diversi economisti (Tim Jackson. Yanis Varoufakis) che negli ultimi vent’anni si sono adoperati per dotarla di un apparato teorico più rigoroso, suggerendo indirizzi macroeconomici concreti. Cfr. Latouche S. Petit traité de la décroissance sereine, Editions Mille et une Nuits, Parigi, 2007; Jackson T. The Post-growth Challenge: Secular Stagnation, Inequality and the Limits to Growth in Ecological Economics, vol. 156, International Society for Ecological Economics (ISEE), 2018. 83 Una nota positiva è che, nonostante il controllo dei mezzi di informazione e l’afonia delle opposizioni154, l’opinione pubblica e il mondo delle imprese hanno preso coscienza di questo iato tra sviluppo e benessere, iniziando ad alzare la voce affinché le cose cambino. In particolare, gli abitanti di Okinawa e i loro rappresentanti nelle istituzioni non hanno mai smesso di lottare, battendosi per un ripensamento fondamentale dell’atteggiamento paternalista e assistenzialista ostentato dal governo centrale. Dopo le fantasiose ipotesi di trasformare la prefettura in una sorta di arcipelago digitale all’avanguardia, piuttosto che in una free trade zone sulla falsariga delle omologhe FTZ cinesi155, la richiesta che viene ora rivolta alle alte sfere è di iniziare a utilizzare l’enorme potenziale – in termini di mezzi e di forza lavoro – dell’industria delle costruzioni per rimediare agli errori fatti, riportando, per quanto possibile, il paesaggio dello hontō ai livelli prehandover, e da lì ripartire per incentivare un turismo responsabile, incentrato sulla conoscenza e il rispetto del patrimonio naturalistico. Nel prossimo capitolo, vedremo nel dettaglio quali sono le maggiori difficoltà implicite in questo cambio di rotta, e perché una nutrita parte dei residenti continua a guardare con relativa fiducia alle promesse del doken kokka. 154 Ci si riferisce in particolare alle nomine dei vertici della NHK e dei grandi quotidiani nazionali, nonché alle riforme costituzionali approvate durante il secondo e il terzo governo Abe. Cfr. Nakano K. Ukeika suru Nihonseiji, Iwanami Shoten, Tokyo, 2015. 155 Queste le proposte avanzate rispettivamente dal Ministero delle Telecomunicazioni e dal Ministero dell’Economia e del Commercio. Cfr. Intelligent Island, Take 2, The Japan Times, 18 dicembre 1996. 84 Capitolo 3. Settore primario e meccanizzazione 3.1. Collocazione del settore primario nell’economia del disegno di centralizzazione Il presente capitolo rappresenta la continuazione, nonché l’ideale conclusione, della disamina degli ambiti passibili di sistematizzazione e razionalizzazione – per non dire legibilizzazione, prendendo a prestito un neologismo largamente accettato dalla comunità scientifica operante nel campo della human geography – così come individuati nell’Introduzione, a partire dai contenuti della tabella a opera di Scott riportata per intero nella prima sezione156. A un primo confronto con l’originale, appare subito chiaro come la seguente risistemazione non rispecchi pedissequamente le categorie selezionate dall’antropologo americano, né a ogni modo fosse nostra intenzione fare altrettanto: a detta dello stesso Scott, infatti, avendo a disposizione materiale di studio e tempo a sufficienza, sarebbe possibile discernere l’opera di centralizzazione statale – e in certi casi tracciarne anche una cronistoria – in virtualmente qualsiasi dominio di un territorio socialmente vissuto, cosa che, a sua volta, implica l’assenza di un framework d’indagine esaustivo in senso assoluto, applicando il quale si arriverebbe a ricavare, quasi matematicamente, il grado di “statalizzazione” di una comunità. Pertanto, pur riconoscendo il debito verso tale tentativo di risistemazione, a suo modo completo nonostante la professione di umiltà dello studioso – imputabile più alla buona creanza accademica che a un reale understatement –, si è optato per una selezione e un simultaneo accorpamento di nuclei tematici. Nello specifico, si è preferito glissare sulla questione dei regimi di proprietà (property regimes), ovvero sul passaggio dalla proprietà condivisa alla proprietà privata e sull’annessa creazione di un catasto nazionale, in quanto già parzialmente descritta in nota nel capitolo precedente 157 e riconducibile alla progressiva ascesa della borghesia imprenditoriale nello hondo, fenomeno su cui esistono studi autonomi più autorevoli158 e la cui esposizione in questa sede rischierebbe di portarci fuori strada. A seguire, il secondo escluso è rappresentato dalla questione degli strumenti di identificazione (identification systems), concernente la transizione da un sistema di patronimici/cognomi 156 Cfr. Capitolo 1. Il paesaggio e il disegno del potere, pp. 29-30. Vd. nota 117 in Capitolo 2. Edilizia civile e urbanizzazione, p. 67. 158 Cfr. Hoston G. A. Conceptualizing Bourgeois Revolution: The Prewar Japanese Left and the Meiji Restoration in Society and History, vol. 33-3, Cambridge University Press, Cambridge, 1991; Revelant A. Sviluppo economico e disuguaglianza. La questione fiscale nel Giappone moderno 1873-1940, Libreria Editrice Cafoscarina, Venezia, 2016. 157 85 consuetudinario e indigeno a un altro standardizzato e sovraimposto, da cui discende l’adozione di documenti via via più tangibili e sofisticati (es. carta d’identità, passaporto). Per quanto un approfondimento sull’onomastica delle Ryūkyū possa rivelarsi ricco di interesse, è pur vero che si tratta di un processo forzoso avviato e concluso sotto l’egida del Giappone Meiji e che non ha avuto particolari ripercussioni sullo sviluppo – o meglio, sul mancato sviluppo – dell’identità okinawana, tanto era ristretta la fascia di popolazione che coinvolse in prima persona159; inoltre, scendere nel dettaglio per puro amor di completezza solleverebbe un problema di coerenza all’interno del corpo dello studio, dal momento che l’orizzonte temporale entro cui si è scelto di operare spazia dall’età moderna a quella contemporanea, sicché non avrebbe molto senso accogliervi un oggetto d’indagine la cui rilevanza critica è circoscritta al passato remoto. Al contrario, si è scelto di riprendere la lezione di unità economiche (economic units), dove per queste si intendono quelle attività umane che, oltre a garantire la sussistenza sia dell’individuo che della comunità, rappresentano il veicolo principale attraverso cui accrescere il benessere ed eventualmente il prestigio degli stessi. Ancora, caratteristica precipua di dette unità è il fatto di presupporre una scambievole interazione con il paesaggio, la cui conseguente modificazione può essere letta come indicatore di uno sbilanciamento dei termini del rapporto, arrivando a inferire possibili fluttuazioni future del benessere conquistato. In riferimento al caso okinawano, abbiamo ritenuto che l’agricoltura, la pesca e l’allevamento – settori analogamente intensivi e sempre più meccanizzati, e pertanto analizzabili servendosi dei medesimi criteri come una singola unità – rappresentino le tre macroaree che meglio rispondono a questa descrizione: eccezion fatta per il settore delle costruzioni e del turismo, già ampiamente descritti, tali sono appunto i settori in cui i locali possono sperare di trovare un impiego senza uscire dai confini della prefettura. Pur non potendo fare a meno di riconoscere la presenza di nuove realtà imprenditoriali, nate il più delle volte sotto forma di start-up160 e operanti in quelle branche dell’innovazione – energie rinnovabili, trattamento dei rifiuti, depurazione delle acque reflue – di cui Okinawa ha disperatamente bisogno, è purtroppo un dato di fatto che la stragrande 159 Soltanto gli aristocratici o i funzionari pubblici possedevano un kamei (cognome) che, in aggiunta al loro titolo o carica, costituiva il nome ufficiale. I sudditi comuni possedevano invece soltanto un nome di battesimo (warabi nā), che a corte veniva utilizzato perlopiù quale appellativo confidenziale. Cfr. Higa S. On Okinawan Names in Sakamaki S. Ryukyuan Names: Monographs on and Lists of Personal and Place Names in the Ryukyus, East-West Center Press, Manoa, 1964. 160 Cfr. List of Startups (Okinawa), START (Program for Creating STart-ups from Advanced Research and Technology), Japan Science and Technology Agency, Tokyo, 2018. 86 maggioranza delle imprese locali sia integrata nella catena produttiva del doken kokka, di cui rappresentano l’ultimo anello. In aggiunta, approcciarsi allo studio del settore primario e della filiera agroalimentare guardando alla loro coesione interna piuttosto che tentando di scorporarli in più sottocategorie di ordine semiotico – come per l’appunto usa fare Scott161 –, permette di calcolarne la rilevanza economica in termini qualitativi, arrivando così a tracciare un quadro comprensivo della filogenesi dell’opera di centralizzazione, senza soffermarsi troppo sulle specificità culturali del singolo gesto – ammesso che queste siano ancora osservabili in una società che, coerentemente col resto del Giappone, ha da tempo completamente introiettato i princìpi dell’economia di mercato e della libera impresa. Nell’economia complessiva della dissertazione, l’analisi delle categorie descritte in precedenza assume una duplice rilevanza. In primo luogo, serve lo scopo di completare il quadro del processo di urbanizzazione sull’isola principale di Okinawa, allargando il fuoco dai centri propriamente detti “urbani” a tutte quelle concentrazioni e infrastrutture che consentono la sopravvivenza e sostengono la crescita dell’organismo-città, in un’ottica olistica per la quale non solo quest’ultimo non è riducibile alla somma delle attività svolte dai suoi centri funzionali, ma è da leggersi come perno o al più snodo di un più ampio quadro regionale, il cui ordine interno è determinato contemporaneamente sia dalle spinte espansive che dal centro si irradiano verso le periferie, sia dalle resistenze opposte dalle periferie per rinegoziare la propria posizione rispetto al centro. In secondo luogo, fine del presente capitolo è stabilire un ulteriore nesso tra le modificazioni occorse nel paesaggio a partire dall’inizio della dominazione straniera e i passaggi di sovranità, onde evidenziare come, anche là dove lo Stato abbia formalmente abbandonato i propri propositi di pianificazione su larga scala e di intervento, provvedendo alla liberalizzazione persino di quei servizi di pubblica utilità che un tempo costituivano un presidio irrinunciabile da cui esercitare, in senso quasi hegeliano 162 , il suo controllo sul singolo, sussista comunque una tendenza a 161 Ricordiamo che Scott si confronta principalmente con gli Stati autoritari emersi nel primo Novecento, in un’epoca in cui il cambio di paradigma – dalla libera iniziativa imprenditoriale alla programmazione sistematica – fu dirompente a livello culturale. Cfr. Scott, op. cit., pp. 193-222. 162 Cfr. Henry B. (Trad.), Hegel G. W. F. Lineamenti di filosofia del diritto, Laterza, Bari, 1999; Ver Eecke W. Hegel on Economics and Freedom in ARSP: Archiv für Rechts und Sozialphilosophie, vol. 69-2, Franz Steiner Verlag, Stoccarda, 1983. 87 replicare un certo disegno di omologazione, la cui ratio è appunto quella di ridurre al minimo la difformità della natura dal disegno dell’uomo. In questo senso, si continua a riscontrare quella sinottica miopia per cui l’assetto paesaggistico più desiderabile è quello che meglio accomoda le necessità produttive di un sistema centralizzato, dove la variabile naturale è estromessa dal computo delle risorse disponibili, figurando anzi quale ostacolo al funzionamento ottimale dell’insieme. Invero, un’analisi esaustiva in questi termini non può esimersi dal confronto con il quadro macroeconomico, istruendo un paragone con il sistema-paese: bisogna quindi arrivare a determinare se le tecniche e i mezzi messi a disposizione sull’isola siano – e siano stati – in linea con quelli impiegati nel resto del territorio nazionale, o se invece presentino inefficienze tali da configurare uno stato di arretratezza relativa; se i prodotti e i servizi generati dal settore primario, sia sul mercato interno che su quello internazionale, possano definirsi competitivi o meno; se il governo di Tokyo abbia cercato di incentivare l’economia locale al fine di assicurarle un certo grado di autonomia o, al contrario, per ribadirne la dipendenza dalla terraferma; se il permanere del business model attuale per gli anni a venire possa definirsi sostenibile, sia per quanto riguarda i tempi di rigenerazione delle risorse sia in termini di forza lavoro e investimenti. Seguendo la medesima scansione cronologica osservata per affrontare la questione dell’edilizia civile, ovvero individuando tre momenti di svolta fondamentali per la storia della prefettura, si proverà di seguito a descrivere il funzionamento e lo sviluppo dell’economia rurale di Okinawa, rimandando alla prossima sezione delle Conclusioni alcuni suggerimenti mirati circa gli aspetti più disfunzionali. 3.2. I prodotti tradizionali del Regno delle Ryūkyū e l’utopia Meiji dell’industria zuccheriera Ancor prima dell’invasione da parte di Satsuma, il Regno delle Ryūkyū incontrava non poche difficoltà a sfamare la totalità dei suoi sudditi. Nonostante la presenza di vaste piantagioni di riso – la cui introduzione nel resto dell’Arcipelago si deve probabilmente all’intermediazione operata dai primi coloni di Okinawa163 – di proprietà statale, la cui coltivazione era affidata al sistema Tra le ipotesi relative all’introduzione del riso (Oryza sativa, subsp. japonica) in Giappone, ha oggi riacquistato forza quella dell’itinerario meridionale, avanzata per la prima volta dal padre dell’etnografia giapponese Yanagita Kunio (1875 – 1962) nel 1952. Tale teoria afferma che il cereale sarebbe arrivato nell’Arcipelago passando dall’isola di Miyako nelle Ryūkyū, dove nel tardo periodo Jōmon (10000 a.C. – 300 a.C.) fecero naufragio alcuni pescherecci cinesi, i cui marinai si stabilirono infine sull’isola insegnando ai nativi le proprie tecniche di coltivazione. Cfr. 163 88 semi-autogestito dei majiri e sorvegliata dagli aristocratici locali, esse erano in grado di garantire soltanto due raccolti l’anno e necessitavano di grandi quantità d’acqua durante l’intero ciclo di vita della pianta. Per questa ragione, nonché per il fatto che, essendo concentrate nella zona centromeridionale – principalmente Onna e limitrofi –, dette piantagioni erano particolarmente esposte alla furia dei tifoni, il riso costituiva soltanto un terzo della dieta indigena, a integrazione della quale si consumavano cereali e legumi meno problematici da coltivare quali come orzo, miglio e fagioli di soia. In realtà, era la patata dolce viola, volgarmente nota come umu 164 , a costituire la coltura principale: questo tubero, rappresentante la base dell’alimentazione sia degli isolani che dei loro animali da cortile, poteva essere piantato quasi ovunque e in qualunque stagione, arrivando a garantire tra i tre e i quattro raccolti l’anno. Patata dolce viola pronta per la raccolta. Fonte: Narita Fāmurando, 2020. Introdotto dalla Cina dall’alto funzionario Noguni Sōkan165 nel 1605, fu di fatto il capitano di vascello Gima Shinjō166, esperto di agronomia, a ordinarne la coltivazione sperimentale su vasta Takamiya H. Introductory Routes of Rice to Japan: An. Examination of the Southern Route Hypothesis in Asian Perspectives, vol. 40-2, University of Hawaii Press, Manoa, 2001. 164 Giapp. standard beni imo o satuma imo, nome scientifico Dioscorea alata (n.d.r.). 165 Segretario al commercio (sōkan) originario del majiri di Noguni (oggi Kadena-chō), dalla sua prima ambasceria a Fuzhou (provincia di Fujian) nel 1605 riportò in patria la tipica patata dolce, che iniziò a coltivare nel suo villaggio natìo. La voce giunse presto all’orecchio di Gima Shinjō (vd. nota seguente), che propose al re di estendere la coltura a tutto il regno. Cfr. Quast A. Generation Gima Pēchin Shinmei in Ryukyu Bugei Research Workshop, Ryukyu Bugei, Okinawa, 2017. 166 Reggente del majiri di Gima (oggi Yomitan-son) e comandante (seitō) della Oshiaketomi, una delle sei grandi navi della flotta ryukyuana impiegate nei viaggi a lunga percorrenza. Cfr. ivi, p. 2. 89 scala per quindici anni in ogni circoscrizione del regno, sicuro che la sua diffusione capillare avrebbe messo fine una volta per tutte alle carestie che periodicamente costringevano centinaia di villaggi alla fame. Com’è noto, l’intuizione del militare si rivelò vincente, portando le Ryūkyū un passo più vicino all’obiettivo dell’autosufficienza alimentare, fermo restando il limite fisiologico della ridotta estensione delle terre arabili. Altro elemento imprescindibile della cultura gastronomica delle Ryūkyū era – ed è tuttora – la carne di maiale (uwā)167, attorno alla quale gravitava un complesso sistema rituale che accomuna diverse culture del Sud-Est Asiatico sul tragitto della corrente Kuroshio168. Esemplare di aigū in un allevamento specializzato. Fonte: Kaneko H. et al., Japanese Society of Animal Science, 2020. Benché sembri che fino al XVIII secolo solo alcune famiglie dell’isola possedessero i mezzi per allevare un capo di loro esclusiva proprietà, fonti cinesi documentanti le ambascerie nelle Liuqiu La specie di suino indigena è lo aigū, imparentato con il cinghiale selvatico delle Ryūkyū (Sus scrofa ryukiuanus). Noto anche come maiale nero di Okinawa, è andato quasi estinto in seguito al Secondo Conflitto Mondiale, ma grazie a programmi di riproduzione approvati dal governo giapponese a partire dagli fine degli anni Ottanta è oggi fuori pericolo e costituisce uno dei capi di bestiame più ricercati in virtù della qualità delle sue carni. Cfr. Tasaki S. The Strange Case of the Agū Pig, Slow Food Archive, 16 novembre 2015. 168 Corrente oceanica calda, ha origine nel Pacifico Occidentale in prossimità di Luzon nelle Filippine, passando per Taiwan, l’isola di Jeju e le Ryūkyū fino alle coste del mainland giapponese. Recenti studi hanno dimostrato come le regioni che si trovano sul tragitto iniziale della corrente condividano elementi culturali simili, a partire dalla rilevanza sociale dell’allevamento dei suini e del consumo della loro carne. Cfr. Lee S., Hyun H. Pork Food Culture and Sustainability on Islands along the Kuroshio Current: Resource Circulation and Ecological Communities on Okinawa and Jeju in Island Studies Journal, vol. 13-1, University of Prince Edward Island, Charlottetown, 2018. 167 90 riportano che chiunque avesse modo di assaggiare la prelibata pietanza almeno una volta l’anno sotto forma di zuppa o stufato, dal momento che questa accompagnava i momenti più importanti (funerali, matrimoni, matsuri) della vita comunitaria. A ogni modo, il metodo di allevamento, già accennato nel capitolo precedente, non differiva a seconda del censo o dello status sociale: che si trattasse delle porcilaie reali o dell’abitazione di un suddito comune, le bestie venivano nutrite con le deiezioni degli inquilini umani e gli avanzi di cucina, costituendo un circuito chiuso perfettamente sostenibile in cui gli escrementi prodotti dal bestiame venivano utilizzati come fertilizzante per l’orto di casa e i campi, i cui prodotti venivano in ultima istanza consumati dall’uomo. A ciò si aggiungeva un sistema di divisione del lavoro che coinvolgeva in egual misura ambedue i sessi e garantiva la salubrità della carne, responsabilizzando l’intera comunità: un ruolo di primo piano spettava alle donne, incaricate di alimentare l’animale e di soprintendere agli atti riproduttivi e alle gravidanze, monitorandone nel mentre lo stato di salute; la macellazione169 era invece appannaggio degli uomini, che all’avvicinarsi di un evento importante sceglievano collettivamente il giorno esatto in cui scannare l’animale, procedendo quindi al dissanguamento e al taglio delle carni, a cui avevano diritto anche coloro che non fossero stati direttamente imparentati con la famiglia proprietaria del suino, dal momento che alle feste e alle celebrazioni partecipava il villaggio nel suo insieme. Non solo: chi avesse mancato di prendere parte al pasto collettivo a base di maiale, sul quale convergeva il significato simbolico delle preghiere e offerte precedenti la consumazione, sarebbe stato tacciato di iettatura richiedendo l’intervento del capovillaggio, dal momento che rifiutare di cibarsene significava rifiutare la mediazione con la divinità istituita dall’atto rituale. In luchuan uwākurushi, prevede anzitutto che il maiale sia lasciato a digiuno o nutrito al più con qualche patata dolce per alcuni giorni. Il giorno precedente l’uccisione, il maiale viene quindi legato e condotto fuori dalla porcilaia, con il grugno imbottito di stracci per impedire ai lamenti di giungere al villaggio, finché la mattina seguente viene scannato per strangolamento o impiccagione. Prima di procedere oltre, il corpo viene lasciato dissanguare, dopodiché vengono rimosse le setole usando coltelli arroventati; segue la macellazione vera e propria, che viene eseguita in prossimità del mare o di un corso d’acqua per consentire il lavaggio degli organi interni: tra questi, il fegato, i reni e il pancreas vengono separati e messi sotto sale assieme alla testa, mentre il resto dell’animale viene consumato nelle ore successive. Al momento della celebrazione, la noro selezionava alcune parti da riservare alla divinità, ma poteva anche accadere che si offrisse l’intera pietanza senza che la comunità avesse a mangiarne per rivolgere una preghiera: secondo la religione locale, infatti, i maiali non erano animali sacri e potevano perciò essere uccisi per soddisfare i bisogni alimentari e spirituali del villaggio. Paradossalmente, quindi, il maiale svolgeva una funzione religiosa nella misura in cui non era investito di alcun valore sacrale, configurandosi come una sorta di moneta di scambio nei rapporti tra uomini e celesti. Cfr. Lee S., Hyun H., op. cit., pp. 10-12. 169 91 Al contrario, un’attività cui si dedicavano relativamente in pochi era la pesca, occupante poco meno di un decimo della popolazione totale – e a ogni modo non in via esclusiva. Diversamente da quanto si potrebbe pensare, infatti, i ryukyuani non avevano a disposizione imbarcazioni adatte alla pesca in mare aperto: gli equipaggi delle tradizionali sabani 170 , strette e lunghe, solitamente si avventuravano appena al di fuori della barriera corallina avvalendosi di lenze a mano e remi – utilizzati per stordire il pesce tirato a bordo oltre che per la propulsione dell’imbarcazione – in acque di profondità compresa tra i 20 e i 50 metri, riportando a casa un pescato171 sufficiente a sfamare una o due famiglie per un paio di giorni, dal momento che le alte temperature, in combinazione con l’umidità e il proliferare dei parassiti, rendevano impossibile conservarlo a lungo. Regata di fukaki sabani al largo dell’isola di Zamami. Fonte: Abeam Consulting, 2014. 170 Simili a canoe, possono ospitare un equipaggio da 6 a 12 persone a seconda della lunghezza ed essere provviste di vela – in tal caso si parla di fukaki sabani. Si ritiene che il nome abbia origine dalla crasi dei termini luchuan buni (giapp. standard fune, “barca”) e saba (giapp. standard same, “squalo”), dal momento che questa tipologia di imbarcazione era utilizzata per la caccia allo squalo. Cfr. Brooks D. Japanese Wooden Boatbuilding: History and Traditions in Education About Asia, vol. 19-2, Association for Asian Studies, Ann Arbor, 2014. 171 Al di qua della barriera corallina, si pescavano con una certa facilità ayu (Plecoglossus altivelis, il cosiddetto pesce dolce), mībai (giapp. standard kiji hata, nome scient. Epinephelus akaara), tonni striati (giapp. standard katsuo, nome scient. Katsuwonus pelamis), piovre e gamberi. Cfr. Akimichi T., Ruddle K. The historical development of territorial rights and fishery regulations in Okinawan inshore waters in Maritime Institutions in the Western Pacific, National Museum of Ethnology, Osaka, 1984. 92 La ragione per cui, contrariamente alla cultura del mainland, il pesce non avrebbe mai costituito l’alimento principe della dieta okinawana, rappresentando piuttosto un supplemento o surrogato di proteine in periodi di penuria di carne, risiede infatti nell’incompatibilità del clima con la pesca a lungo raggio, per la quale si sarebbero resi necessari metodi di conservazione172 – primo fra tutti quello sotto sale – che nessuna comunità delle Ryūkyū aveva dimostrato interesse a sviluppare, nella misura in cui esistevano già altri settori più progrediti – l’agricoltura e l’allevamento, appunto – dedicandosi ai quali ci si poteva procurare di che vivere senza allontanarsi troppo dal villaggio. Per questa ragione, la maggior parte dei pescatori – o meglio, di chi, vivendo in prossimità del mare, praticava la pesca come attività accessoria – preferiva, quando possibile, limitarsi a catturare le proprie prede al di qua del confine naturale della barriera, senza allestire alcuna imbarcazione: grazie al fondale poco profondo – dodici metri di profondità massima in prossimità delle formazioni coralline esterne – e alle diverse specie di pesci che vi cercavano riparo dalle correnti per accoppiarsi e deporre uova, una piccola comunità poteva arrivare a coprire quasi completamente il proprio fabbisogno proteico pescando con il solo ausilio di una fiocina o anche a mani nude, fermo restando l’obbligo di non interferire con il ciclo biologico della fauna marina al punto da compromettere il numero complessivo degli esemplari. In questo senso, non bisogna confondere la scala ridotta su cui la pesca fu praticata fino ad almeno il periodo Taishō173 con l’importanza sociale rivestita dalle pratiche a essa connesse nella vita quotidiana delle periferie dell’arcipelago: per quanto commercialmente irrilevante, costituiva infatti una risorsa preziosissima per quanti, distanti dai maggiori centri abitati, si trovavano impossibilitati ad accedere ai mercati cittadini e avevano dunque disperato bisogno di una fonte di cibo addizionale, sia su base giornaliera, sia per le situazioni di emergenza – ad esempio, qualora un tifone avesse spazzato via le colture e tagliato il villaggio fuori dalla rete stradale. Dal punto di vista antropologico, ancora per lungo tempo il mare avrebbe continuato a rappresentare per i ryukyuani qualcosa di più simile a un’estensione della dimensione terrestre Il metodo conosciuto dai ryukyuani era quello dell’affumicamento, praticato regolarmente per far durare di più il pescato. Tuttavia, dato il tempo richiesto per affumicare a dovere un pezzo di pesce il processo non veniva sempre portato a compimento, sicché esso andava comunque consumato entro qualche giorno. Cfr. Fisch, op.cit., p. 133. 173 Nei primi anni Dieci il Ministero della Pesca e dell’Agricoltura cercò di modernizzare la flotta ryukyuana con l’introduzione di 100 sanpan a motore, ma il settore non sarebbe decollato fino all’inizio dell’occupazione americana. Cfr. Fisch, op.cit., p. 134. 172 93 del proprio majiri, limitato dunque alle sue immediate vicinanze, piuttosto che un orizzonte sconfinato e liberamente esplorabile: solcare le onde con grandi navi, affrontando le intemperie e l’ignoto alla ricerca di qualche esotico tesoro, appariva semmai come una stravaganza della classe dirigente che ai sudditi non conveniva imitare. Tornando appunto ai tesori che Noguni Sōkan aveva riportato con sé dalla sua seconda ambasceria a Fuzhou nel 1623, non si può non citare la tecnica di estrazione dello zucchero di canna (kurozatō), una pianta disponibile in abbondanza sin da tempo immemore sull’isola principale, ma attorno alla quale non si era sviluppata una conoscenza artigianale sufficientemente sofisticata da consentire la trasformazione della materia prima in merce di scambio. In breve tempo, lo zucchero grezzo divenne il fiore all’occhiello dell’export del regno, incentivando anche le famiglie più umili a convertire una parte dei propri possedimenti, sino ad allora riservati esclusivamente a colture edibili con cui provvedere direttamente alla soddisfazione del fabbisogno alimentare, alla coltivazione della canna da zucchero alla luce dei profitti che si prospettavano all’orizzonte, che si trattasse di vendere il prodotto non lavorato ai nascenti grossisti o di mettersi in affari con altri volenterosi del villaggio per provvedere da sé alla raffinazione e quindi alla vendita del prodotto finito174. Tuttavia, benché all’exploit dello zucchero vada riconosciuto il merito di aver esteso la circolazione dell’economia monetaria a fasce della popolazione sino ad allora rimaste quasi invisibili e di aver gettato le basi dell’accumulazione originaria di una ristretta cerchia di possidenti locali, è anche vero che ciò segnò l’inizio della fine per i piccoli proprietari (shōnō) e, più in generale, per l’autonomia politica faticosamente mantenuta dalla dinastia regnante. Inevitabilmente, alla crescente prosperità conseguente all’introduzione di questo nuovo asset corrispose anche una più onerosa pressione fiscale imposta dalla terraferma, per assecondare la quale il sovrano Shō Nei provvide a stringere la presa sui propri sudditi, dimostrando scarso acume politico. Il primo passo in questa direzione fu rappresentato dall’individuazione di una nuova classe di amministratori scelti all’interno delle comunità di villaggio, noti come jikata yakunin: chi ricopriva questo ruolo, pur non salendo di grado all’interno della gerarchia del majiri, veniva incaricato dallo Stato di raccogliere le tasse e di controllare che le direttive Cfr. Matsumura W. The Limits of Okinawa: Japanese Capitalism, Living Labor, and Theorizations of Community, Duke University Press, Durham, 2015. 174 94 governative concernenti la quote di terreno da destinare a ciascuna coltura – zucchero di canna in primis – fossero implementate correttamente, ricevendo una piccola provvigione per i servigi svolti. Nonostante la ridotta entità sia dello stipendio percepito sia dell’importanza della carica all’interno della burocrazia statale, questi funzionari a metà mantenevano il loro diritto a una porzione delle terre del villaggio, periodicamente redistribuite secondo il tradizionale sistema di rotazione (jiwari), in quanto cittadini comuni, ma si trovavano investiti anche di un enorme potere negoziale informale, abusando del quale praticavano il prestito a usura e cercavano di favorire le famiglie a loro più vicine. Una volta comprese le implicazioni fattuali del loro apparentemente risibile privilegio, i jikata yakunin finirono per fidelizzarsi completamente all’autorità centrale estraniandosi dalle loro comunità d’origine, per la quali rappresentavano ormai nulla più che la longa manus degli esattori di stanza a Naha. In concomitanza con l’acuirsi dell’ingiustizia sociale, la situazione delle casse regie si fece particolarmente critica nel 1646, quando Satsuma impose il monopolio sui prodotti tipici più redditizi (curcuma, stoffe, zucchero) e il pagamento di una quota fissa di tributi in zucchero di canna, il cui valore fu fissato dallo han al di sotto del prezzo di mercato invalso nel resto dell’Arcipelago, in modo da rivenderlo a proprio vantaggio nei maggiori centri commerciali – principalmente Ōsaka. Per assecondare le velleità speculatrici del dominatore, il governo locale inaugurò una politica di compravendita al ribasso dello zucchero (kaiagetō)175, impedendo ai piccoli produttori e trasformatori di ricavare un pur minimo utile dal commercio in proprio dello stesso, cosa che non fece che aggravare le condizioni generali della popolazione contadina, che già versava allo Stato due terzi del proprio raccolto proveniente da altre colture. Nel 1669, la forbice della disuguaglianza si allargò ulteriormente: con l’intento di aumentare di circa il 10% la superficie totale delle terre arabili, sì da ripagare più in fretta gli esorbitanti debiti contratti con Satsuma, il neoinsediato Shō Tei decretò, dietro consiglio del già citato Haneji Chōshū176, l’avvio di una consistente campagna di bonifica a spese del governo, i cui beneficiari ultimi sarebbero stati, tuttavia, i suddetti jikata yakunin. Costoro avrebbero avuto diritto, a titolo individuale, a una porzione delle aree soggette a bonifica (dette shiakechi), le quali non sarebbero state dunque In ambito economico, il verbo kaigeru (di base semplicemente “comprare”) indica l’acquisto di beni privati da parte di un ente pubblico facendo leva sul proprio potere negoziale. Nel composto in questione, -tō è una delle letture dell’ideogramma di “zucchero”. Cfr. Kaiageru in Kotobanku onrain jiten, Asahi Shimbunsha, Tokyo. 176 Vd. nota 49 in Capitolo 2. Edilizia civile e urbanizzazione, p. 43. 175 95 incluse nel sistema di rotazione periodica delle terre pubbliche177: una decisione che vanificava lo scopo primo della riforma, nella misura in cui i funzionari pagavano molte meno tasse degli agricoltori comuni, oltra a essere esentati dall’obbligo di fornire manodopera per la realizzazione di grandi opere. Inutile dirlo, l’avvento di questa nuova classe di proprietari terrieri (uēki) scosse alle fondamenta la struttura sociale delle Ryūkyū, favorendo la transizione a un sistema di produzione agricola fondato sulla razionalizzazione, la pianificazione e la sorveglianza. Potendo vantare una conoscenza diretta delle comunità che soprintendevano, a differenza della conoscenza meramente nominale posseduta dai funzionari di professione a palazzo, gli uēki divennero ben presto gli interlocutori principali della corte, a cui quest’ultima decise di affidarsi per il raggiungimento dei nuovi, ambiziosi progetti a lungo termine per l’aumento della resa dei raccolti. A pagare le spese delle ambizioni del governo centrale erano, come di consueto, i piccoli proprietari, molti dei quali si risolsero infine a vendere la propria persona (miuri) agli amministratori locali pur di liberarsi dal fardello delle tasse: benché tale decisione non implicasse una rinuncia formale ai diritti di proprietà, è pur vero che chi arrivava a compiere questo doloroso passo aveva il più delle volte già impegnato il proprio appezzamento per far fronte alle spese, e che l’assenza di retribuzione rendeva di fatto impossibile riscattare il terreno in un prossimo futuro. Si assistette così alla nascita di una nuova classe di mezzadri (nāgu) che, similmente a manodopera schiavile, lavoravano la terra del signore in cambio del minimo indispensabile per la propria sussistenza, senza voce in capitolo nella divisione del raccolto né possibilità di emigrare altrove, dal momento che le leggi del regno impedivano di esercitare la professione al di fuori del villaggio natìo. Tale situazione si protrasse per quasi un secolo e mezzo, con somma delusione dell’antica classe dirigente che, trovandosi a dover rivaleggiare con i latifondisti per il controllo delle risorse strategiche dell’isola, non poteva comunque fare a meno di affidarsi a questi parvenu per riscuotere i tributi e le donazioni con cui mantenere il proprio prestigio, a cui nel tempo si aggiunse anche la vendita dei titoli nobiliari alle famiglie di origine contadina più benestanti, mentre l’intento originario di colmare la voragine del debito pubblico era diventato ormai 177 A Okinawa, i regimi di proprietà delle terre arabili si distinguevano in terre a uso comune (ca. 10%), terre di proprietà dei villaggi soggette a rotazione periodica (ca. 70%) e terre a uso privato dei funzionari del regno (ca. 20%). Cfr. Matsumura, op. cit., p. 31. 96 un’utopia. Non sorprende dunque che, nelle parole di Iha Fuyū 178 e altri intellettuali favorevoli al “ricongiungimento con la madrepatria”, in retrospettiva i provvedimenti adottati dal pur autoritario Stato Meiji apparissero come una sorta di liberazione dalla schiavitù, sia per quanto concerne lo strapotere del dominio di Satsuma, sia in riferimento alle prevaricazioni implicite nel contratto di mezzadria. In realtà, sappiamo che l’adozione dei Provvedimenti kyūkan onzon, avvenuta quasi contemporaneamente all’istituzione della prefettura nel 1879, lasciò a bella posta inalterato il sistema amministrativo e di esazione fiscale preesistente, secondo una logica comune a diversi imperi coloniali179: i contadini rimanevano infatti tenuti a pagare un triplice tributo – in natura, in lavoro e in denaro – ai funzionari locali, i quali, pur essendo stati formalmente integrati nella burocrazia statale facente capo a Tokyo, conservavano una serie di privilegi consuetudinari sconosciuti ai loro omologhi dello hondo, esercitando i quali avevano modo di estendere la loro già ampia influenza. Inoltre, l’inclusione nel sistema-nazione giapponese espose l’economia di Okinawa alle brusche fluttuazioni del mercato internazionale, acuendo la dipendenza dall’usura delle fasce sociali più deboli. Vista la crescente domanda di zucchero proveniente dal resto dell’Arcipelago, il governo Meiji pensò bene di mantenere la politica del kaiagetō in continuità con il periodo feudale, vietando ai singoli abitanti di procedere alla libera vendita del prodotto finito prima che il villaggio di cui facevano parte avesse espletato i propri obblighi fiscali nei confronti dello Stato. Complice anche l’aumento della quota obbligatoria di zucchero richiesta a ogni villaggio, a scapito delle altre colture da cui la gente comune si procurava di che mangiare, per sopravvivere i mezzadri non avevano altra scelta che rivolgersi a intermediari del settore agricolo – perlopiù provenienti dal mainland – per ottenere un anticipo (maedai) ad alti tassi d’interesse sul raccolto Laureato in linguistica presso l’Università Imperiale di Tōkyō, fu il padre degli studi okinawani e fervente sostenitore dell’integrazione nel sistema imperiale. Così come altri giovani intellettuali della sua generazione, riteneva che il Ryūkyū shobun (disposizione delle Ryūkyū) andasse interpretato come un processo di riunificazione con il popolo giapponese, fratello “separato alla nascita” da quello ryukyuano dal corso degli eventi. Cfr. Iha F. Okinawajin no sosen ni tsuite in Kyōyō kenkyū, vol. 15-1, Kyushu International University, Kita-Kyushu, 2008. 179 Così come avvenuto nei domini coloniali di India e Africa, la classe dirigente preesistente viene integrata formalmente nella nuova gerarchia amministrativa ma privata del proprio potere politico e decisionale: il mantenimento di questa utile facciata consente al dominatore di scaricare la responsabilità di scelte di policy impopolari sulle élite locali, assicurandosi al contempo la collaborazione incondizionata di questi ultimi per l’attuazione delle stesse. Cfr. Guha R., Scott J. C. Elementary Aspects of Peasant Insurgency in Colonial India, Duke University Press, Durham, 1999. 178 97 delle canne che andava poi saldato a raccolto avvenuto, prosciugando le riserve anche di chi avesse voluto procedere alla vendita in proprio dello zucchero in avanzo. Nonostante l’accorato appello di Uesugi Mochinori all’indomani della sua nomina a governatore della prefettura, nel quale egli lamentava l’inefficienza e l’incompetenza dei pubblici funzionari appartenenti alla cerchia dei jikata yakunin, nonché il circolo vizioso instaurato dalla pratica dell’usura, per la quale i coltivatori vedevano il frutto del proprio lavoro requisito quale tassa per il governo centrale o saldo dei debiti verso il signore locale, disincentivando di riflesso la produttività e l’innovazione tecnologica, il responso del Ministero dell’Interno fu quantomai tiepido, adducendo che un cambio di passo sì radicale a così poca distanza dall’avvio del processo di integrazione avrebbe di sicuro destabilizzato la regione, da tempo usa alle sopraffazioni dell’aristocrazia al punto da considerarle alla stregua di una tradizione. Per un vero cambiamento – difficile dire in che misura positivo – si sarebbe pertanto dovuta attendere l’annessione di Taiwan, forte di un’industria dello zucchero che vantava un output tre volte maggiore di quella di Okinawa e il cui statuto permetteva al Giappone di implementare politiche coercitive di stampo apertamente coloniale, lasciando campo libero agli imprenditori della madrepatria per la costruzione dei loro stabilimenti ideali. Mentre Taiwan si avviava a diventare lo zuccherificio dell’Impero, Tokyo decise che era giunto il momento di riportare la sua prefettura estremo-meridionale in linea con gli standard dell’Arcipelago, avviando con più di un ventennio di ritardo un’opera di riforma della tassazione fondiaria180: i piccoli proprietari furono ufficialmente liberati dallo stato di servitù e dagli obblighi tributari in natura nei confronti dei funzionari locali, vedendosi riconosciuto – quantomeno sulla carta – il diritto alla proprietà privata sui terreni che erano stati precedentemente costretti a impegnare, sui quali avrebbero iniziato a pagare una tassa individuale in denaro, proporzionale all’estensione e alla resa dello specifico appezzamento. Con il completamento della riforma agraria nel 1903, che metteva al bando la consuetudine della rotazione periodica e assegnava a ciascun contadino un atto di 180 In giapponese nota semplicemente come Chiso Kaisei, è la riforma fondiaria per antonomasia. Approvata nel 1873, introdusse il diritto alla proprietà privata e abolì l’obbligo di versare le tasse in natura – riso e altri prodotti: secondo il nuovo sistema, le imposte – rigorosamente in denaro – sarebbero state calcolate in base all’estensione della specifica proprietà, la cui misurazione fu affidata agli stessi proprietari. Vista la scarsa onestà con cui quest’ultimi effettuarono le misurazioni, il governo centrale fu successivamente costretto a operare una rettifica arbitraria del catasto fondiario per raggiungere la quota di entrate prevista in prima battuta, scatenando il malcontento popolare. La situazione si normalizzò nel 1875, quando Tōkyō cercò di venire incontro alle masse contadine con una diminuzione percentuale della pressione fiscale. Cfr. Caroli, Gatti, op. cit., p. 144-145. 98 proprietà, anche i cittadini di Okinawa furono integrati nel mercato del lavoro nazionale, andando a costituire un’enorme riserva di uomini e donne pronti a vendere le proprie braccia per sostenere l’ascesa del capitalismo giapponese e il ripianamento del debito pubblico, in una configurazione che replicava, su più ampia scala, il giogo premoderno di subordinazione e indebitamento nei confronti del feudo di Satsuma181. Prima conseguenza di questa riorganizzazione globale fu la mercificazione della terra, che da artefatto culturale attorno al quale si organizzava il senso di comunità degli okinawani divenne semplice moneta di scambio, a cui fece seguito l’appropriazione, da parte dello Stato, di tutti quei terreni il cui statuto era rimasto ambiguo in seguito all’implementazione della riforma: fu così che, entro il 1908, centinaia di ettari precedentemente amministrati dalle comunità di villaggio o lasciati appositamente a disposizione della collettività furono sottoposti a un processo forzoso di enclosuring, cui scopo ultimo era la conversione a siti per la coltivazione intensiva e la lavorazione della canna da zucchero. Nonostante l’acquisizione di Taiwan, Tokyo non aveva infatti rinunciato ai suoi propositi originari: la trasformazione di Okinawa in un avamposto all’avanguardia dell’industria zuccheriera sarebbe servita ad accelerare la conversione di migliaia di piccoli proprietari, ormai privati della possibilità di mantenersi autonomi usufruendo delle terre a uso comune, in produttori e rivenditori dipendenti dagli stabilimenti locali, nonché ad approfittare al massimo grado del vento di guerra che, già da qualche anno, soffiava sul Vecchio Continente e sul mondo. Facendo leva sul governatore Narahara Shigeru, i cui poteri e autonomia decisionale superavano di gran lunga quelli goduti dagli altri amministratori prefetturali, già nel 1907 il Ministero della Pesca e dell’Agricoltura riuscì a ottenere l’autorizzazione per la costruzione di uno stabilimento sperimentale presso il villaggio di Nishihara, provvisto di un parco macchine di ultima generazione importato dal Regno Unito, in grado di produrre circa cento tonnellate di zucchero raffinato (bunmitsutō) al giorno, e di un sito per la coltivazione della canna da zucchero secondo gli standard occidentali, con tanto di impianto di irrigazione, pesticidi e fertilizzanti. Due anni più tardi, la fabbrica già lavorava a pieno regime, attirandosi le attenzioni di diversi uomini d’affari del mainland che scalpitavano per essere i primi ad approfittare di questa gallina dalle uova d’oro. A dirigere i giochi furono tre delle personalità più eminenti della scena okinawana, 181 Cfr. Matsumura, op. cit., pp. 79-81. 99 rispettivamente Hibi Shigeaki, nuovo governatore della prefettura, Asabushi Kanjō, amministratore della regione di Nakagami, e Taira Hōichi, presidente della Okinawa Kyōritsu Ginkō: anziché lasciare che fosse la libera concorrenza a decidere il nuovo proprietario dello zuccherificio, costoro intavolarono trattative ufficiose con la Okinawa Seitō Kabushikigaisha182, una compagnia specializzata nella produzione di zucchero bianco fondata da poco più di un anno grazie a capitali provenienti dallo hondo, proponendole l’applicazione della prelazione e di un prezzo di favore183 in cambio della facoltà di decidere sulle nomine delle sue cariche dirigenziali. Lo stabilimento di Nishihara nel 1917. Fonte: Sakamaki-Hawley Collection, The University of Hawaii, 1889. Come c’era da aspettarsi, nel 1911 l’affare fu concluso: Taira chiese il coinvolgimento della Abe Shōten, società commerciale (sōgo shōsha) 184 del settore alimentare a lui vicina con sede legale a Yokohama, per soprintendere alla compravendita dello zucchero grezzo, insediando Abe Kōnosuke della succursale di Naha quale direttore e l’ex governatore Narahara in qualità di presidente del consiglio di amministrazione. Una volta modificato l’organigramma aziendale 182 Fondata nel 1910 in collaborazione con la Ryūseki Kabushikigaisha, azienda specializzata nel commercio di petrolio e nella produzione di etanolo, possedeva già uno zuccherificio a Miyakojima e una sede amministrativa a Naha. Cfr. Tsujihara M., Imamura S. Kūchū shashin wo mochiita senzenki Okinawa ni okeru seitōkōjō to shataku no haichizu no fukugen in Nihon Enerugī Gakkaishi, vol. 54, Nihon Kenchiku Gakkai Kyūshū Shibu, Fukuoka, 2015. 183 Precisamente, centomila yen da pagarsi in sette anni senza interessi. Cfr. Matsumura, op. cit., p. 122. 184 Società commerciali che, a differenza delle proprie omologhe in altri paesi, non si specializzano in una selezionata gamma di prodotti ma presentano una linea di distribuzione estremamente diversificata; inoltre, si occupano non solo dell’intermediazione, ma anche della logistica e delle ricerche di mercato. Grazie alla grande liquidità di cui dispongono, svolgono infine una funzione simile a quello dei fondi d’investimento. Cfr. Cavalieri R. et al. Diritto dell'Asia Orientale, Libreria Editrice Cafoscarina, Venezia, 2019. 100 secondo le preferenze di questo triumvirato di liberi cittadini, il complesso di Nishihara aumentò il proprio volume di produzione raggiungendo le 250 tonnellate al giorno, facendo registrare un attivo che fu subito reinvestito da Abe per penetrare il mercato taiwanese: con l’acquisizione di una compagnia giapponese operante nel settore della raffinazione, nel 1912 la Okinawa Seitō cambiò il proprio nome in Okitai Seitō, aprendo anche un secondo stabilimento nella città di Kadena (Kadena-chō), ad appena venti chilometri di distanza da Nishihara. Lo stabilimento di Kadena nel 1917. Fonte: Sakamaki-Hawley Collection, The University of Hawaii, 1889. A seguire, si venne a creare un vero e proprio monopolio quando la Tainansha 185 , società specializzata nella produzione dello zucchero con base a Taiwan, decise di espandersi a Okinawa nel 1917, arrivando ad acquisire la Okitai Seitō con tutti i suoi possedimenti nel giro di soli tre anni. Tra questi figuravano, oltre ovviamente agli stabilimenti, anche i vasti appezzamenti – circa quattro chilometri quadrati – di terreno acquistati dalla famiglia reale 186 , corrispondenti ai distretti (ku) di Kudo e Goe nel villaggio di Yomitan (Yomitan-son), allo scopo di affittarli alle famiglie contadine e garantirsi così un rifornimento costante di materia prima con cui far lavorare le fabbriche a pieno regime. Grazie ai canoni d’affitto relativamente bassi, il neonato colosso 185 Fondata da imprenditori taiwanesi nel 1904, il controllo della compagnia e dei suoi quattro stabilimenti passò nel 1907 alla Suzuki Shōten di Kōbe, rivale della già citata Abe Shōten. Cfr. Tainan Seitō ga Shōwa seitō to naru made, Taiwan Nichinichi Shimpō, 9 ottobre 1927. 186 In cambio della rinuncia al proprio titolo, al re Shō Tai (1843 – 1901) e alla sua famiglia fu concesso il rango di kōshaku (marchesi), con l’annessa rendita mensile: quest’ultima non era tuttavia sufficiente a sostenere il loro tenore di vita, ragion per cui si risolsero a vendere alla Okitai Seitō i propri possedimenti a Yomitan. Cfr. Mukai K. Okinawa kindai kezaishi – Shihonshugi no hatten to henkyōchi nōgyō, Nihon Keizai Hyōronsha, Tokyo, 1988. 101 dello zucchero riuscì a radunare più di 250 nuclei al suo servizio, sui quali incombevano però pesanti debiti – per l’acquisto dei fertilizzanti e il noleggio delle attrezzatture – e la sorveglianza degli ispettori, che si assicuravano che la miglior parte del raccolto fosse destinata alla ditta. Con l’obiettivo di boicottare la produzione dello zucchero grezzo – che impegnava ancora la maggior parte della popolazione 187 – sì da costringere sempre più famiglie a trasferirsi sulle proprietà dell’azienda, la Tainansha fece leva sulle proprie connessioni nelle alte sfere per convincere l’amministrazione prefetturale a dare più concreto effetto alla Legge per lo sviluppo dell’industria del bunmitsutō188: continuando l’opera del predecessore, venne quindi estesa e potenziata la rete ferroviaria che, dietro pressione della Okitai Seitō, era stata costruita nel 1914 per collegare gli impianti di Nakagami con Naha a Sud e il porto di Yomitan (Yomitan-son) a Nord-Ovest, con la realizzazione di nuove linee intermedie e depositi per lo stoccaggio del carbone lungo i tratti a lunga percorrenza, esercitando così il pieno controllo su quelle stesse strade che i piccoli proprietari dovevano percorrere con mezzi propri per smerciare lo zucchero grezzo nei centri urbani. A ogni modo, non tutta la borghesia locale era disposta ad accettare di buon grado l’imposizione di questa stretta monopolistica, il cui sottotesto era l’arricchimento degli investitori del mainland a spese dei restanti attori economici. In particolare, la fazione d’opposizione raccoltasi attorno all’industriale Inaka Akira faceva notare che diversi articoli 189 della legge in questione rimettevano all’arbitrio del governo prefetturale le decisioni concernenti la costruzione e la modernizzazione degli impianti, nonché la facoltà delle aziende operanti nel settore zuccheriero di stipulare partnership o atti di fusione, minacciando la libertà d’impresa e l’autonomia di chiunque non avesse avuto modo di influenzare – attraverso canali non istituzionali, s’intende – il giudizio del governatore. In questo senso, la Legge per lo sviluppo dell’industria del bunmitsutō appariva nientemeno che una copia malriuscita delle leggi che a Taiwan e altrove nell’Impero proibivano ai nativi di costituire e dirigere società per azioni senza la supervisione Secondo le stime di Ōta Chōfu (vd. nota 190, p. 104), circa 47mila produttori indipendenti. Cfr. Ōta C. Ōta Chōfu jiki zenshū (jō), Daiichi Shobō, Tokyo, 1993. 188 Zucchero in cui, grazie a un processo di centrifugazione, la melassa viene separata ed eliminata dai cristalli. Cfr. Bunmitsutō in Kotobanku onrain jiten, Asahi Shimbunsha, Tokyo. 189 In particolare, l’Art. 5 prescriveva che chiunque avesse voluto entrare nel settore zuccheriero creando uno stabilimento meccanizzato o implementante nuove tecnologie avrebbe prima dovuto ottenere l’autorizzazione del governatore: si trattava ovviamente di una riforma atta a innalzare un’ulteriore all’entrata per eventuali competitors della Tainansha. Cfr. Kengian teishutsu riyū, Ryūkyū Shimpō, 4 dicembre 1917. 187 102 dell’autorità giapponese competente in materia, sulla base del principio razzista per il quale le popolazioni sottomesse dell’Asia Orientale non erano intellettualmente e moralmente in grado di condurre un’impresa: per Okinawa tornava così a profilarsi l’ombra del colonialismo, cui prima implicazione sarebbe stata la trasformazione dell’isola in una gigantesca riserva – in questo caso di zucchero bianco ed etanolo – a uso e consumo del centro. Fu precisamente in questo momento che le proposte di ispirazione socialista del giornalista Ōta Chōfu190, a lungo considerato un pericoloso radicale dall’establishment del luogo, acquisirono forza. Giunti a questo punto, l’unico modo per opporre resistenza alle istanze del governatore e limitare l’infiltrazione di capitali dalla terraferma senza con ciò condannare l’isola a un perenne sottosviluppo era puntare il più possibile sull’associazionismo e la cooperazione tra le microrealtà produttive che punteggiavano il paesaggio rurale, in modo da emancipare le masse contadine dalla necessità del lavoro salariato. Concretamente, Ōta proponeva di muovere oltre la rigida separazione tra coltivatori e raffinatori, coordinando e collegando tra loro i piccoli zuccherifici di campagna (sato gōya)191 gestiti da gruppi di famiglie appartenenti allo stesso distretto (satō gumi) a formare delle fabbriche di media estensione in grado di produrre sia zucchero grezzo che raffinato, certo in quantità sensibilmente inferiori – in media 40 tonnellate al dì contro le 400 del complesso di Kadena – rispetto ai grandi stabilimenti della Tainansha, ma nondimeno in grado razionalizzare velocemente la produzione in modo da evitare un surplus a fronte delle flessioni periodiche della domanda, ammortizzando così i costi di gestione. A fornire il supporto finanziario affinché questi progetti si concretassero sarebbe stata la Banca dell’Agricoltura (Okinawa Nōkō Ginkō), a cui spettava il compito di concedere prestiti a bassi tassi d’interesse ai satō gumi per l’acquisto collettivo di attrezzature e macchinari agricoli moderni, impianti di irrigazione, pesticidi e fertilizzanti, oltre che per la realizzazione di opere Giornalista e attivista politico, al pari di Iha condusse gli studi superiori a Tōkyō grazie a una borsa di studio e fondò il Ryūkyū Shimpō, il primo quotidiano dell’isola, al suo ritorno nel 1893. Nonostante l’aperto sostegno all’integrazione nella nazione giapponese, si dimostrò sempre molto critico nei confronti delle politiche di modernizzazione attuate a Okinawa: in particolare, lo preoccupava l’afflusso di capitali e investitori dallo hondo, che dalla loro posizione di preminenza avrebbero potuto mettere in ginocchio l’economia locale – come già avvenuto in Hokkaidō, per esempio. Cfr. Kerr G. H. Okinawa: The History of an Island People, Tuttle Publishing, North Clarendon, 2018. 191 L’unità fondamentale del satō goya era la capanna dal tetto di paglia (shimegoya) dove si trovavano i mortai e le presse a trazione animale, con le quali lo zucchero veniva estratto allo stato liquido. Cfr. Satō shimegoya in Kotobanku onrain jiten, Asahi Shimbunsha, Tokyo. 190 103 di viabilizzazione su piccola scala con cui predisporre un circuito alternativo alle ferrovie prefetturali, utilizzate in via esclusiva dai convogli della concorrenza. Tuttavia, le ambizioni di Ōta e compagni si scontrarono presto con la dura realtà del consenso: i contadini non si dimostrarono granché entusiasti all’idea di dover riorganizzare la produzione entrando in affari con famiglie con cui, in certi casi, non avevano mai avuto contatti, senza contare la questione dell’indebitamento con la Banca dell’Agricoltura e della stagnazione della domanda interno di zucchero grezzo, che già costringeva diversi piccoli produttori a cedere una porzione della materia prima alla Tainansha per far quadrare i conti. Invero, il boom del kurozatō192 che investì la prefettura negli anni immediatamente successivi alla conclusione del Primo Conflitto Mondiale, conseguente alla distruzione delle piantagioni di barbabietola di tutta Europa e ai cattivi raccolti che avevano funestato Taiwan, fecero passare la questione in secondo piano spingendo sempre più contadini tra le braccia della Tainansha, che consolidando la sua posizione monopolistica poté capitalizzare al massimo sulla domanda internazionale di zucchero, arrivata in breve tempo alle stelle. Accecati da promesse di benessere senza precedenti, molte famiglie di affittuari sacrificarono porzioni consistenti dei propri terreni alla coltivazione della canna da zucchero, sottraendo spazio alle altre colture su cui si basava la loro alimentazione e tempo alle attività che scandivano la vita del villaggio, che si trattasse dell’allevamento di bestiame o dell’artigianato. Ciononostante, le condizioni di chi lavorava presso i grandi stabilimenti non registrarono mai un vero miglioramento: i canoni restavano bassi rispetto alla media nazionale e la materia prima era venduta alla fabbrica a un prezzo nettamente superiore al passato, ma il ricavato se ne andava per ripagare gli alti interessi dei maedai, che i contadini puntualmente sottoscrivevano pur di mettersi al riparo dalla volubilità del mercato e delle condizioni atmosferiche. Al contrario, al di fuori della parte di Nakagami che cadeva sotto la giurisdizione della Tainansha, i produttori di zucchero grezzo godevano di maggiore prosperità rispetto alle loro controparti salariate, complice l’aumento della domanda interna per questo bene. Diversamente da quanto preventivato da Ōta, fu proprio la preservazione del vecchio sistema dei sato gōya – alcuni dei quali dotati di attrezzature più moderne ma rimasti strutturalmente invariati – a consentire 192 Nel 1918, un picul (60,5 kg ca.) di zucchero grezzo si vendeva a un prezzo di 9,2 yen, salito successivamente a 22 yen nel 1919 e al massimo storico di 35,89 yen per picul nel 1920. Cfr. Matsumura, op. cit., p. 131. 104 l’emancipazione della classe contadina dal capitale giapponese, grazie a una divisione del lavoro che nelle avversità precedenti il boom si era fatta inaspettatamente sofisticata: un singolo satō gumi – ciascuno composto da circa diciassette famiglie – era responsabile per la gestione del sato gōya e dell’annessa fornace, acquistati collettivamente con il contributo di tutti i membri, e organizzava i turni sulla base di un calendario deciso in precedenza. Detti turni non prevedevano soltanto la macinazione e l’estrazione dello zucchero, ma anche la manutenzione delle attrezzature, la distribuzione del mangime al bestiame e l’assunzione di lavoratori a giornata193 esterni al gumi per i periodi di picco. Quando poi tra aprile e maggio le attività di lavorazione giungevano temporaneamente al termine per consentire la vendita del prodotto finito, le famiglie si riunivano per calcolare la quota che ciascuna doveva versare alla cassa comune, sulla base dei costi operativi sostenuti per lo specifico quantitativo di zucchero prodotto dal nucleo interessato. Cartolina raffigurante un mercato dello zucchero per le strade di Naha nei primi anni Venti. Fonte: Naha-shi Rekishi Hakubutsukan, 2015. Così facendo, ogni famiglia aveva facoltà di programmare in anticipo quanto tempo e risorse investire nel sato gōya, e di conseguenza quanto zucchero portarsi a casa: nel periodo che va da luglio a dicembre, questo veniva quindi piazzato sui mercati rionali o venduto agli intermediari, 193 Per assistersi nei periodi di massima attività, corrispondenti alla fase del raccolto e a quella del trasporto ai mercati, famiglie appartenenti a satō goya diversi stringevano tra di loro contratti di lavoro temporanei – detti yuimāru – con cui piccoli gruppi di uomini di uomini e donne si prestavano al lavoro nelle proprietà altrui in cambio di denaro o di manodopera per un momento successivo. Cfr. Tamura H. Ryūkyū kyōsan sonraku no kenkyū, Okinawa Fūdokisha, Okinawa, 1969. 105 nel qual caso sarebbe quasi sicuramente finito sui grandi mercati commerciali di Naha e del resto dell’Arcipelago. Di conseguenza, nonostante i ripetuti sforzi dell’ufficio del governatore per mettere fuori gioco i satō gumi, la produzione di bunmitsutō non compì mai il salto quantitativo auspicato, attestandosi stabilmente sulla soglia del 30% della produzione totale di zucchero della prefettura. Per la maggior parte degli okinawani, la lavorazione dello zucchero grezzo rappresentava infatti non solo un elemento imprescindibile della propria tradizione e stile di vita, ma anche uno strumento con cui asserire la propria indipendenza da un sistema compiutamente capitalistico che, in cambio di aumenti di entrate estemporanei, esponeva i lavoratori alla precarietà di un settore estremamente vulnerabile ai capricci del mercato, incapace di ridimensionarsi agilmente sul piano strutturale – se non operando dei tagli al personale, per l’appunto. Barili di kurozatoō pronti per l’imbarco presso il porto di Naha. Fonte: Naha-shi Rekishi Hakubutsukan, 2015. In aggiunta al rifiuto di farsi declassare a semplici coltivatori di canna da zucchero, nel corso degli anni Dieci e nei primi anni Venti, i piccoli produttori residenti nei pressi degli stabilimenti industriali e degli snodi ferroviari principali si dedicarono al rafforzamento delle strategie collettive di boicottaggio 194 ai danni della Okitai Seitō/Tainansha, adottando come provvedimento comune il rifiuto di vendere la materia prima in eccesso all’azienda. Benché in 194 Il primo di questi boicottaggi fu organizzato nel 1916, in risposta ai costi di produzione stabiliti dalla allora Okitai Seitō per l’estrazione di zucchero grezzo, reputati troppo alti. Cfr. Matsumura, op. cit., p. 137. 106 un primo momento questo avesse comportato maggiori difficoltà economiche per i singoli nuclei familiari, che rifiutandosi di vendere una parte del raccolto alle fabbriche non avevano modo di far quadrare i conti a fine mese – poiché non sempre si riusciva a lavorare tutta la canna da zucchero o a piazzare il prodotto finito sul mercato nella finestra di tempo prevista –, a lungo andare si rivelò una strategia vincente, nella misura in cui minò la solidità del monopolio e costrinse la compagnia a rivedere favorevolmente le proprie tariffe pur di smuovere i contadini dalle loro posizioni. Nella fattispecie, gli agenti di commercio che si occupavano di acquistare la canna da zucchero per conto degli stabilimenti calcolavano la somma da corrispondere sottraendo i supposti costi di lavorazione del kurozatō dal prezzo dello zucchero grezzo sul mercato di Naha, adottando come valore di riferimento il prezzo toccato nei dieci giorni precedenti la consegna delle forniture. Ne consegue che, mentre era nell’interesse dell’azienda calcolare suddetti costi al rialzo, i contadini si battessero per una stima più realistica al ribasso, ma prima che venisse adottata una strategia comune era stato facile per la Okitai Seitō – e successivamente per la Tainansha – trovare qualcuno disposto a contrattare, nel caso in cui certe famiglie si fossero rifiutate di cedere le proprie scorte. Il primo risultato concreto dei boicottaggi fu l’apertura di tavoli di trattativa tra i colletti bianchi di Nishihara e i satō gumi, allo scopo di raggiungere un compromesso sul calcolo dei costi di produzione che tanto influivano sulla determinazione della tariffa finale: il più delle volte, questi si concludevano con l’adozione consensuale di un sistema di percentuali noto come warimodoshi, per il quale i produttori che avessero accettato di vendere parte della loro canna da zucchero al prezzo fisso proposto dall’azienda sarebbero stati ricompensati con un ulteriore incentivo sulla singola unità, proporzionale al quantitativo totale fornito – per esempio, chi decideva di cedere dieci barili in totale aveva diritto a un ritorno del 10% sul singolo barile, chi ne forniva quindici a un ritorno del 15% a barile, e così via. Lungi dall’essere diventato una sorta di diritto sindacale acquisito, nondimeno il warimodoshi rappresentava un utile precedente, ricorrendo al quale industriali e produttori indipendenti potevano trovare la quadra senza paralizzare il mercato agricolo a tempo indefinito, fermo restando il fatto che, per smuovere le acque e far sedere i dirigenti al tavolo, i contadini dovevano anzitutto ricorrere alla protesta o quantomeno alla disobbedienza, ovvero mettere a punto strategie di boicottaggio sufficientemente articolate e condivise da minacciare le linee di 107 approvvigionamento delle fabbriche, pervenendo di fatto a soluzioni abbastanza eterogenee a seconda del caso specifico195. Di fatto, pur con il conforto dei suddetti strumenti di risoluzione delle controversie, le tensioni tra Tainansha e satō gumi avrebbero continuato a percorrere tutti gli anni Venti e Trenta, estendendosi dagli agricoltori e lavoratori salariati degli impianti anche a chi non aveva alcun interesse direttamente connesso alla produzione di zucchero, con deflagrazioni via via più violente196 che manifestavano l’insofferenza della popolazione civile nei confronti di un governo centrale dichiaratamente autoritario e militarista, ormai proiettato esclusivamente verso la corsa agli armamenti. Veduta dall’alto di un satogumi nei pressi di Naha negli anni Venti. Fonte: Bull Collection, University of the Ryukyus, 2015. 195 Altre soluzioni comprendevano la concessione di una percentuale per picul al raggiungimento di una determinata quota di fornitura per singolo impianto, o ancora percentuali fisse a barile per chi si fosse impegnato a fornire il proprio kurozatō in eccesso in esclusiva alla Tainansha per uno, due o tre anni. Cfr. Genryō baishūhō, Ryūkyū Shimpō, 24 ottobre 1917. 196 In particolare, nei primi anni Trenta il distretto di Kunigami fu protagonista di alcune rivolte di ispirazione marxista, irradiatesi a partire dal villaggio di Ōgimi dove si era formato un vero e proprio movimento di riforma che si opponeva allo sfruttamento della regione e alla gestione centralizzata dell’agricoltura. Cfr. Kinjō I. Nōson no keizai kōsei keikaku ni tsuite in Okinawa shiryō henshūsho kiyō, vol. 6, Okinawa Shiryō Henshūsho, Naha, 1981. 108 Tra gli avvenimenti all’origine del malcontento, è da annoverarsi sicuramente il crollo della borsa di Tokyo nel marzo 1920, che aveva portato sull’orlo del fallimento anche le solidissime banche coloniali di Taiwan e Corea197 determinando una flessione di oltre il 70% del prezzo dello zucchero grezzo, rappresentante la punta di diamante dell’export okinawano. Com’era prevedibile, il colpo di frusta sull’economia dell’isola fu immediato, dal momento che essa non possedeva altri asset all’infuori della sua industria zuccheriera a due velocità, incapace di ridirezionare le iniezioni di capitale su altri settori da un lato e di rendersi competitiva sullo scenario internazionale dall’altro – a causa anche della concorrenza interna rappresentata dai territori occupati, forti di un’agricoltura altamente meccanizzata. La crisi era tale per cui, nelle cronache dell’epoca, Okinawa veniva spesso descritta con la perifrasi di “inferno delle palme” (sotetsu no jigoku), in riferimento ai frequenti casi di morte per avvelenamento in seguito all’ingestione del frutto della pianta, segno della pressoché totale mancanza di generi alimentari e di conforto. Appurato che la prefettura non sarebbe riuscita a risollevarsi dalla miseria contando solo sul proprio tessuto imprenditoriale e rete bancaria, nel 1924 il governatore Kamei Mitsumasa fu costretto a richiedere l’intervento diretto del Ministero delle Finanze per l’erogazione di fondi d’emergenza e per la costituzione di un comitato ad hoc198, incaricato di elaborare strategie di pianificazione economica e di monitorare l’andamento delle stesse. Anziché chiedere a gran voce la concessione di maggiore autonomia dai capitali del mainland, con la creazione di compartecipate statali in nuovi settori strategici che, sulla falsariga di quanto accaduto col primo impianto di Nishihara, avrebbero permesso a Okinawa di diversificare la produzione e il mercato del lavoro, la prima proposta di legge elaborata in seno al comitato chiedeva alla Dieta l’imposizione di un regime fiscale di ordine coloniale, che prevedesse il controllo degli investimenti e il ritorno degli avanzi di bilancio – che sino ad allora erano stati versati regolarmente a Tokyo – dal governo centrale a quello prefetturale, di modo che quest’ultimo potesse sostituirsi definitivamente agli imprenditori locali nel guidare lo sviluppo della regione. All’origine del crollo delle istituzioni finanziare del paese v’era l’eccessiva superficialità con cui i prestiti erano stati accordati anche a clienti senza reali garanzie: la Okinawa Ginkō non fece eccezione e anch’essa si trovò prossima alla bancarotta a causa dell’insolvenza e dei crediti deteriorati. Cfr. Aldcroft D. H. From Versailles to Wall Street: 1919 – 1929, University of California Press, Oakland, 1992. 198 In giapponese Okinawaken Keizai Shinkōkai, era un comitato bipartisan di estrazione civile, composto sia da ufficiali locali che da funzionari ministeriali di Tōkyō, la cui prima seduta si tenne nel dicembre 1914. Cfr. Matsumura, op. cit., p. 150. 197 109 Inoltre, in continuità con gli errori del passato, restava ferma la volontà di rafforzare il monopolio della Tainansha, operando una ristrutturazione radicale dell’industria zuccheriera tale da determinare la transizione definitiva alla produzione di bunmitsutō, nell’ingenua convinzione che la crisi attuale fosse stata innescata dall’egoismo e dall’ottusità dei piccoli produttori, che con il loro rifiuto di accondiscendere alle direttive della compagnia avevano perso l’occasione di modernizzarsi, condannando l’intero panorama produttivo all’arretratezza. Nonostante l’accorato appello del governatore, gli articoli della Legge per il recupero di Okinawa 199 che implicavano l’adozione di forme di controllo e gestione più appropriate per l’amministrazione di una colonia che non di una prefettura facente parte della madrepatria furono perlopiù ignorati dalla Dieta. Al di là del limite giuridico rappresentato dal diritto costituzionale e internazionale, infatti, il governo centrale non aveva alcuna intenzione di rivedere la sua politica nei territori occupati per concedere a una piccola isola il privilegio di farsi strada in un settore i cui investimenti erano concentrati altrove: Taiwan, dove ben prima del tracollo economico gli imprenditori giapponesi avevano saputo creare le condizioni ottimali per un’agricoltura intensiva e meccanizzata, avrebbe continuato a fungere da zuccherificio dell’Impero, mentre a Okinawa ci si sarebbe dovuti accontentare di procedere con tattiche di persuasione, dal momento che la via della coercizione non era legalmente praticabile. Ciò detto, è pur vero che alla fine Kamei riuscì a strappare l’approvazione dei fondi richiesti, i quali furono puntualmente devoluti al rafforzamento della posizione della Tainansha che, approfittando delle condizioni miserevoli in cui versava la popolazione, riuscì a portare dalla sua parte – e quindi nei propri campi – sempre più famiglie. In altre parole, se da un lato Tokyo aveva confutato in sede istituzionale la posizione di quanti invocavano il commissariamento para-coloniale, dall’altro aveva lasciato comunque intendere che i sudditi okinawani, per quanto giapponesi dinanzi alla legge, non meritavano il grado di autonomia normalmente garantito dal loro status e che l’assistenzialismo era l’unica soluzione per colmare il divario – anzitutto culturale – col resto della nazione. Da ciò si evince come non solo l’opinione pubblica ma anche la classe dirigente si fossero lasciate condizionare dalla narrativa pietistica dei quotidiani nazionali e dei servitori dello Stato di stanza a Okinawa, che puntando sulla descrizione patetica dei poveri 199 Il primo quotidiano nazionale a dislocare degli inviati in loco fu lo Ōsaka Mainichi Shimbun, la cui narrativa razzista ed essenzialissante si impose quale modello dominante nella cronaca della crisi okinawana. Cfr. Shimoda M. Ryūkyū yo, doko e iku, Ōsaka Mainichi Shimbun, 1925. 110 isolani, dipinti come esseri primitivi dediti alle danze, al canto e all’alcol, per loro natura refrattari al lavoro fisico e intellettuale, avevano tentato di discolpare se stessi e i profittatori provenuti dal mainland, le cui disastrose scelte di policy avevano di fatto impedito alla prefettura di sollevarsi dal fondo della classifica. Cosa ancora più grave, questo atteggiamento paternalista misto a sospetto avrebbe continuato a informare i rapporti tra Stato e cittadini fino al tragico epilogo del Secondo Conflitto Mondiale, in un momento in cui Okinawa sarebbe tornata al centro dell’attenzione per il suo valore strategico. In tempo di guerra, confrontati dall’impossibilità di aumentare l’output di zucchero raffinato oltre la soglia critica del 37% della produzione totale così come ordinato dal Quartier Generale dello SCAP, gli ufficiali dell’esercito giapponese non esitarono ad additare i piccoli produttori indipendenti – il cui kurozatō era ormai quasi interamente destinato ai depositi militari sparsi per l’Arcipelago – quali unici colpevoli, adducendo come motivazione la natura intimamente indolente e infida dei nativi. Non è perciò difficile comprendere la totale noncuranza con cui le truppe imperiali fecero scempio delle colture e degli insediamenti dell’isola, allo scopo di accomodare i propri uomini e realizzare in fretta e furia una linea di difesa in grado di resistere allo sbarco degli Alleati: gli okinawani erano troppo pigri per rendersi utili allo sforzo bellico, quindi era in potere di chi combatteva requisire spazi e risorse per garantire la difesa della regione; ancora, se effettivamente costoro si dedicavano a qualche attività, era lecito supporre che fosse per un loro egoistico tornaconto o, peggio, per praticare lo spionaggio. Non sarebbe dunque un errore affermare che la distruzione sofferta dal paesaggio di Okinawa è da imputarsi tanto alle opere logistiche e di fortificazione approntate dai difensori prima della battaglia, quanto ai bombardamenti e agli sbarchi che, in un secondo momento, accompagnarono gli attaccanti nel loro tentativo di guadagnare l’entroterra. 3.3. Normalizzare l’emergenza. Conflitti di interesse e passi falsi del piano di sviluppo agricolo dell’USCAR Trovatisi di fronte a un paesaggio rurale che, nel giro di pochi mesi – o pochi anni, se si vuole tener conto degli interventi a opera dell’esercito imperiale sovra descritti –, aveva perduto i suoi connotati, trasformandosi in una landa desolata con pochi appezzamenti fertili pronti a essere coltivati, la prima preoccupazione degli occupanti fu quella di far fruttare il più possibile la terra 111 arabile rimasta allo scopo di sfamare la pletora di sfollati e rimpatriati che di giorno in giorno aumentava sull’isola, consumando progressivamente le scorte di razioni messe a disposizione dei civili conservate nel deposito di Tengan (Uruma-shi). Perduta la sovrastruttura burocratica degli uffici governativi assieme con i documenti da questi custoditi, che all’apice del processo di centralizzazione avevano permesso alla prefettura di conoscere – e di conseguenza tassare – con precisione le attività economiche svolte dai singoli nuclei familiari, fossero esse connesse alla produzione di zucchero grezzo o meno, l’esercito statunitense non ebbe altra scelta che adottare a sua volta un prototipo di suddivisione amministrativa con cui supplire alla perdita di punti di riferimento e disporre una redistribuzione provvisoria delle terre per far fronte all’emergenza alimentare. Tuttavia, i nove distretti200 istituiti a seguito dell’insediamento delle forze di occupazione non erano esattamente sovrapponibili alle municipalità (shi) individuate dal sistema precedentemente in vigore, né, a ogni buon conto, sarebbe stato possibile fare diversamente, dal momento che le mappe recanti le informazioni pertinenti erano andate distrutte nel corso degli scontri, vanificando in partenza ogni tentativo di ricostruzione filologicamente accurato: ne consegue che i sinistrati il cui villaggio fosse stato irraggiungibile o raso al suolo venissero assegnati provvisoriamente a coltivare lotti di terra di cui non avevano conoscenza diretta, spesso entrando in conflitto con chi magari quello stesso terreno lo possedeva, ma non aveva alcun modo di provarlo. A peggiorare le cose – dal punto di vista del consenso, quantomeno –, per consentire un equo accesso al cibo il governo militare aveva prescritto non solo la coltivazione, ma anche la redistribuzione del raccolto su base comune, affidando quest’ultima alla giurisdizione dei distretti, ma la disobbedienza era tale per cui, da un lato, chi aveva avuto la fortuna di ritornare sulla terra di sua proprietà si rifiutava di consegnare i frutti del proprio lavoro agli ispettori distrettuali, mentre chi doveva lavorare la terra altrui senza compenso non si faceva scrupolo a sottrarre ciò di cui aveva bisogno per integrare le misere razioni. Alla luce del malcontento generale generato da questo provvedimento, che di fatto quasi nessuno si impegnava a rispettare, i vertici dell’USMGR 201 tornarono sui propri passi, optando per una graduale e rinnovata 200 Nel complesso, oltre ai sette distretti sede di altrettanti campi profughi (vd. nota 82 in Capitolo 2. Edilizia civile e urbanizzazione, p. 54), si contavano altre due divisioni amministrative, ovvero Hentona – nell’estremo Nord – e quello corrispondente all’intera estensione di Iejima, distante una ventina di chilometri dalla penisola di Motobu. Cfr. Fisch, op. cit., p. 58. 201 Vd. nota 81 in Capitolo 2. Edilizia civile e urbanizzazione, p. 54. 112 centralizzazione dell’agricoltura che avrebbe garantito un utilizzo più razionale di attrezzi e superfici, già di per sé scarsi: nel marzo 1946 vide così la luce lo Okinawan Department of Agriculture, il cui personale, composto da ufficiali agronomi, non sarebbe più stato incaricato di effettuare le operazioni in prima persona, quanto di insegnare agli okinawani le tecniche di coltivazione appropriate e di sincerarsi che queste dessero i risultati sperati. In breve tempo, il coinvolgimento diretto della popolazione civile in qualità di attore del processo di innovazione agricola e non più di semplice spettatore portò a una responsabilizzazione delle stessa, sicché gli isolani non solo iniziarono a fidarsi degli esperti ma anche a collaborare con loro per estenderne la sfera di influenza. È con questo spirito che, su incoraggiamento dello stesso Dipartimento, iniziarono a moltiplicarsi piccole associazioni locali che, senza scopo di lucro, si proponevano di ricostruire la rete sociale e di mutuo soccorso (muē) caratterizzante le comunità di villaggio (mura) prima della guerra, diffondendo al contempo le conoscenze apprese dai militari; successivamente, nel giugno dello stesso anno, dette cooperative furono riconosciute ufficialmente ed unificate nella Central Okinawan Agricultural Association, le cui mansioni comprendevano la distribuzione dei prodotti ortofrutticoli sull’intero territorio dell’isola, la fabbricazione e il noleggio di macchinari e utensili agricoli, l’organizzazione della logistica e dei progetti di riqualificazione del terreno – questi ultimi ancora su scala limitata, vista la riluttanza del Quartier Generale a concedere spazio prezioso per le installazioni militari. In questa fase, ancora critica sotto il profilo della sicurezza alimentare a causa del continuo aumento demografico202, gli sforzi del Dipartimento e delle associazioni si concentrarono di comune accordo sulla coltivazione della patata dolce endemica, che tornò così a rappresentare la coltura principale dell’isola con il 35% di superficie arabile occupata. Diverso il discorso per il riso, dal momento che le ostilità avevano compromesso la maggior parte dei sistemi di irrigazione che garantivano il corretto funzionamento delle risaie, rendendo necessari interventi preliminari di ristrutturazione e ripristino che andavano al di là delle competenze degli enti in questione: complice il diverso ordine di priorità osservato dalla tabella di marcia del Corpo degli Ingegneri, la coltivazione del riso sarebbe pertanto proceduta a rilento fino alla metà degli anni L’aumento demografico era determinato sia dai rimpatri che dalle nuove nascite: basti pensare che, secondo fonti militari, già nel 1951 si contavano 37 famiglie per chilometro quadrato, poco al di sotto dei livelli prebellici – 38 famiglie nel 1937. Cfr. McCune S. Geographical Aspects of Agricultural Changes in the Ryukyu Islands, University Press of Florida, Gainesville, 1989. 202 113 Cinquanta, quando, pur senza raggiungere l’autosufficienza, avrebbe perlomeno riguadagnato i livelli prebellici. Contadina okinawana intenta a mondare il riso. Fonte: Department of Defense, 1988. Altra nota dolente era rappresentata dalla produzione di orzo, miglio e soia, cereali e legumi fondamentali della dieta okinawana che però, già durante il tardo periodo Meiji, la prefettura era stata costretta a importare vista la preminenza assunta dall’industria zuccheriera nell’economia locale. Con un’inversione di rotta rispetto al predecessore, il governo militare ordinò una drastica riduzione 203 della superficie coltivata a canna da zucchero allo scopo di reintrodurre queste colture204, in aggiunta a ortaggi verdi come spinaci, scalogno, cavolo cinese e cetrioli, il cui consumo sarebbe stato destinato anche ai capi di bestiame, tornati timidamente a popolare l’isola grazie a una massiccia importazione dagli Stati Uniti – in particolare a opera di associazioni benefiche205. 203 Gli ordini del Quartier Generale erano di coltivare a canna da zucchero soltanto la superficie strettamente necessaria a soddisfare le necessità alimentari dei civili: secondo questo parametro, sotto il dominio giapponese Okinawa era arrivata a produrre fino a 9 volte il fabbisogno di zucchero dei suoi abitanti. Cfr. Fisch, op. cit., p. 125. 204 Particolare enfasi su posta sulla necessità di coltivare fagioli di soia: non solo erano ricchi di grassi e proteine – elementi di cui la dieta degli okinawani aveva disperatamente bisogno –, ma contribuivano anche ad arricchire il suolo di azoto, che ne aumentava la fertilità permettendo di risparmiare sui fertilizzanti. Cfr. Fisch, op. cit., p. 124. 205 Nel 1946, la United Okinawan Association of Hawaii riuscì a raccogliere fondi per 47mila dollari, con cui furono acquistati e spediti a Okinawa 50 maiali e 500 scrofe. Nell’estate dello stesso anno, il governo americano importò altri 45 maiali, 33 vacche e 1100 polli. Cfr. Adaniya R. Uchinanchu: A History of Okinawans in Hawaii, University of Hawaii Press, Manoa, 2009. 114 Sempre nell’ottica di integrare con una maggiore quantità di proteine la dieta oltremodo essenziale dei locali sono da interpretarsi i tentativi del governo militare di rimettere in piedi il settore della pesca, il più colpito dagli attacchi aerei che avevano preceduto l’invasione via mare: delle cento imbarcazioni a motore, introdotte nei primi anni Dieci dal Ministero della Pesca e dell’Agricoltura di Tokyo per incoraggiare la pesca al largo, in un timido tentativo di ammodernare la flotta locale e favorire la nascita di un’industria ittica degna di questo nome, nessuna era sopravvissuta ai bombardamenti americani, affondate per tema che fossero utilizzate per attacchi suicidi o, viceversa, per mettere in salvo gli ufficiali imperiali. La stessa sorte era toccata anche a circa il 70% delle barche a remi – tradizionali e non – che i nativi impiegavano per la pesca in acque poco profonde: complice il sospetto che, nelle fasi conclusive della battaglia, queste potessero eludere la sorveglianza della Marina e infiltrare spie nemiche nel territorio sotto il controllo alleato, la loro manutenzione fu proibita fino a nuovo ordine, condannando anche le imbarcazioni in buono stato a marcire fino al novembre 1945, quando fu autorizzata la ripresa della pesca di sussistenza al di qua del confine naturale delimitato dalla barriera corallina. Nello stesso mese, la Marina acconsentì al dislocamento di una cinquantina di mezzi anfibi da sbarco ricondizionati per uso civile, incaricandosi di ridare corpo all’ormai inesistente flotta ryukyuana a partire dal porto militare di Toguchi (Motobu-chō), che presto divenne l’hub centrale delle attività connesse alla pesca: qui furono costruiti i primi magazzini frigoriferi, impianti di refrigerazione ed essiccatoi, mentre diverse motosiluranti da pattugliamento furono a loro volta riconvertite e provviste di strumentazione per la pesca a strascico. Sulla falsariga di quanto accaduto per le politiche agricole, anche in questo caso si decise di istituire un dipartimento apposito: lo Okinawan Department of Fisheries, con base a Ishikawa (Ishikawashi), iniziò a essere operativo dal marzo 1946, con l’incarico di soprintendere alla distribuzione delle attrezzature e degli esplosivi – per la pesca di profondità – su tutto il territorio, affiancato dalla Central Okinawan Fisheries Association che, sorvegliando l’operato dei consorzi di pescatori affiliati, si occupava dell’approvazione delle licenze e dell’immatricolazione delle imbarcazioni. Grazie agli sforzi di centralizzazione a opera dei militari, questa pur scompaginata 206 flotta si dimostrò all’altezza delle aspettative, portando a un incremento 206 Nel 1950, essa contava 65 pescherecci e 2000 canoe di nuova costruzione, 338 veicoli anfibi da sbarco ricondizionati e 24 LCVP (Landing Craft, Vehicle Personnel) di piccole dimensioni ricondizionati. Cfr. Fisch, op. cit., pp. 135-136. 115 sostanziale del volume del pescato 207 ; invero, tale successo era da imputarsi non solo alla dedizione del Corpo degli Ingegneri nel rimettere a nuovo dotazioni militari dismesse, ma anche all’operato delle associazioni locali che, utilizzando i materiali e le indicazioni forniti da Ishikawa, avevano continuato a costruire impianti di refrigerazione lungo tutta la linea di costa per consentire la conservazione del prodotto. Nave militare ricondizionata per la pesca al tonno, dotata di impianto di refrigerazione interno. Fonte: Department of Defense, 1988. In questo caso, il Quartier Generale non mancò di intuire le potenzialità offerte dal settore, che appariva ormai pronto al grande balzo in avanti verso lo sfruttamento commerciale: allo scopo di eliminare l’ultimo ostacolo alla modernizzazione dell’industria ittica, rappresentato dalla mentalità retriva degli okinawani – che, come abbiamo visto, percepivano la pesca come un’attività puramente accessoria –, furono invitati esperti giapponesi dal mainland con l’incarico di insegnare ai nativi come gestire un’azienda in maniera competitiva, nonché come manovrare le più recenti imbarcazioni per la pesca al largo, acquistate all’uopo dal governo militare. Risultato di questo programma di “rieducazione” fu la nascita della Ryukyuan Fisheries Company, fondata nel 1951 grazie a capitali raccolti collettivamente dalle cooperative locali: gli stessi azionisti ne costituivano gli impiegati e poteva contare su impianti di refrigerazione Dalle circa 205 tonnellate di luglio 1946 – corrispondente all’inizio delle operazioni delle prime imbarcazioni ricondizionate –, si arrivò a registrare 782 tonnellate nello stesso mese del 1949. Cfr. Fisch, op. cit., p. 136. 207 116 all’avanguardia, oltre a piattaforme fisse per la pesca al largo che affiancavano le normali operazioni della flotta. In linea con le previsioni di bilancio, l’azienda riuscì in pochi anni a imporsi come partner irrinunciabile delle compagnie omologhe dello hondo, incoraggiando diversi piccoli imprenditori a investire in azioni o a mettersi in proprio. Tuttavia, alla crescita del peso dell’industria ittica nell’economia dell’isola non corrispose un aumento di domanda di forza lavoro altrettanto eclatante, nella misura in cui il personale richiesto sia per ruoli operativi che dirigenziali era estremamente ridotto dato il grado di meccanizzazione: paradossalmente, la capacità del settore di mantenersi competitivo e di provvedere sollievo alle martoriate finanze pubbliche era di fatto vincolata alla necessità di mantenere al minimo i costi variabili relativi alla manodopera, in quanto gli ingenti costi fissi di manutenzione e riparazione vincolavano la possibilità delle aziende di espandersi oltre le dimensioni attuali. D’altro canto, mentre la pesca compiva passi da gigante verso la modernità, Okinawa si trovava ancora infinitamente lontana dal raggiungimento degli obiettivi di crescita quinquennali che, in maniera forse troppo ottimistica, il Generale MacArthur aveva fissato per l’ex prefettura al principio del 1948. Nonostante l’impegno profuso per aumentare il numero di animali da soma e di bovini da latte e da carne, la parziale inadeguatezza delle tecniche di coltivazione intensiva applicate dagli esperti statunitensi alla conformazione e alle caratteristiche fisico-biologiche del territorio aveva rallentato notevolmente il processo di ripresa, al quale si sovrapponevano inoltre gli interessi particolaristici degli ufficiali in capo ai singoli distretti, che con campanilismo si ostinavano a ignorare le richieste del Quartier Generale di cooperare per una maggiore integrazione dei piani di sviluppo rurale, nel timore che ciò avrebbe distratto uomini e risorse preziosi dalle attività nelle basi di propria competenza o, non da ultimo, costretto le stesse a cedere parte del proprio perimetro per far spazio a campi coltivati. A seguito di ripetute resistenze, l’Esercito optò infine per una revisione comprensiva del sistema dei distretti, lasciando da un lato intatta la suddivisione amministrativa vigente ma rimuovendo dall’altro gli ufficiali ostruzionisti: per evitare che ciò potesse ripetersi, da allora in avanti l’implementazione delle politiche agricole sarebbe stata una responsabilità esclusiva del Dipartimento dell’Agricoltura, che a prescindere delle preferenze degli amministratori locali avrebbe avuto facoltà di dare inizio a progetti su vasta scala senza aspettare il loro nullaosta. 117 Tuttavia, ciò non eliminava il problema della scarsità di personale specializzato disponibile per operazioni di miglioramento agricolo, dal momento che, come abbiamo visto, la maggior parte dei generi era destinata dai propri superiori a ben altre attività, se non assegnata direttamente a missioni in altri contingenti dello scenario estremorientale. Preso atto della stagnazione imperante a Okinawa, il Sottosegretario all’Esercito degli Stati Uniti Tracy S. Voorhees si risolse alfine a chiedere l’invio di una task force altamente specializzata che, in contemporanea con l’analoga Missione Nold, avrebbe avuto il compito di condurre sopralluoghi e analisi allo scopo di appurare lo stato di avanzamento dell’agricoltura e di elaborare proposte concrete con cui facilitare l’uscita dall’impasse. Guidata dall’agroeconomista Raymond E. Vickery e composta quasi esclusivamente da addetti ai lavori di estrazione civile, la commissione iniziò le sue verifiche nel mese di settembre del 1949, accorgendosi immediatamente dello «stato particolarmente deplorevole» in cui versava il settore primario e con esso chi vi era impiegato – ovvero l’intera popolazione indigena. Com’era lecito aspettarsi, il rapporto pubblicato da Vickery e colleghi a ispezioni concluse non conteneva nulla di cui il Quartier Generale non fosse già a conoscenza, dal momento che la questione centrale rimaneva l’impossibilità di realizzare il pieno potenziale della regione fintantoché le basi avessero continuato a occuparne più di un quinto della terra arabile, impedendo agli abitanti di ricostruire la filiera che, prima dell’inizio della guerra, lasciava intravvedere una pur flebile possibilità di autonomia fondata sull’applicazione di conoscenze consuetudinarie. Le riforme più impellenti erano perciò anzitutto di carattere amministrativo, riassunte dal rapporto in questione sotto forma di nove punti fondamentali: 1. Istituire un governo civile centrale, l’imitando l’autonomia degli organi di autogoverno locali208; 2. Riorganizzare il governo militare in modo da provvedere una controparte istituzionale per ciascuno degli uffici governativi che avrebbero visto la luce con la nascita del suddetto governo civile – inclusa una burocrazia competente; 208 Ci si riferisce in questo caso alle cooperative agricole e alle altre associazioni di liberi cittadini (n.d.r.). 118 3. Rivalutare lo yen ryukyuano 209 aprendo canali commerciali con il Giappone e altre nazioni del mondo; 4. Aumentare la quota di proprietà terriera sotto il controllo diretto dei ryukyuani, provvedendo tutele legali atte a prevenire lo sfratto o canoni d’affitto troppo alti; 5. Rivedere la regola del miglio (one mile limit)210, che vieta ai locali di costruire e coltivare entro un miglio dagli alloggi dei militari americani; 6. Organizzare un sistema di emigrazione controllato e sovvenzionato, su base volontaria, per trasferire parte degli abitanti al di fuori delle Ryūkyū; 7. Istituire una società finanziaria per la ricostruzione (reconstruction finance corporation); 8. Istituire un istituto di credito per l’agricoltura (farm credit administration); 9. Rivedere il sistema di distribuzione delle scorte di cibo importate via nave nell’arcipelago e cambiare i componenti della razione standard, in sostituzione della razione provvisoria (tentative ration) che dal 1945 è rimasta invariata.211 Nel complesso, tali proposte furono accolte positivamente dai piani alti dell’Esercito, e con ancora maggior entusiasmo da chi credeva che i tempi fossero maturi per una maggiore partecipazione dei cittadini alla vita politica: in primo luogo, la creazione di un governo civile centrale, passando per libere elezioni con cui scegliere i propri rappresentanti, avrebbe contribuito a ridurre il divario culturale con il resto del Giappone, dove già si erano svolte le prime elezioni democratiche 212 dalla fine della guerra e il programma di rieducazione civica messo a punto dallo SCAP iniziava a erodere le incrostazioni ideologiche del tennōsei fashizumu 213 , soprattutto per quanto concerneva l’uguaglianza di genere e la libertà di Valuta provvisoria introdotta durante l’occupazione per prevenire l’inflazione e favorire un ritorno graduale all’economia monetaria, fu utilizzata da civili e militari fino al 1958, quando fu definitivamente sostituita dal dollaro americano. Cfr, B-en kara doru e hōtei tsūka no kirikae, Okinawa Prefectural Archives, 16 settembre 1958. 210 La ratio alla base di questo provvedimento era di tenere le zanzare – potenzialmente infette – alla larga dagli alloggi militari, dal momento che si stimava che il raggio d’azione di questi insetti fosse appunto di un miglio americano (1,609 km). Si trattava in realtà di un pretesto, dal momento che le larve potevano essere facilmente trasportate dalla pioggia vicino alle basi. Cfr. Chief of Public Safety Section, MG Directive No.3, sub: Building Permits, 18 gennaio 1949. 211 Cfr. Fisch, op. cit., p. 128. Trad. mia. 212 Le prime elezioni generali dalla fine del conflitto si tennero il 10 aprile 1946, aperte per la prima volta anche alle donne. Il risultato delle consultazioni diede vita al primo dei due governi guidati da Yoshida Shigeru, del Partito Liberale (Jiyūtō). Cfr. Caroli, Gatti, op. cit., pp. 222-223213 L’ideologia fascista di matrice giapponese, imperniata sulla figura dell’imperatore (tennō) quale garante della coesione nazionale e della supremazia del popolo Yamato in Asia. Tuttavia, il dibattito storiografico sull’opportunità del termine fashizumu – peraltro attribuito da studi posteriori e non dagli stessi ideologi nipponici – è ancora aperto: da molti studiosi è infatti ritenuto improprio in quanto, a differenza di quanto verificatosi in Italia e Germania, lo statalismo (kokka shugi) di periodo Shōwa non dissolse gli altri schieramenti politici né pose a capo della gerarchia 209 119 espressione e di pensiero; in secondo luogo, ciò avrebbe consentito una più netta separazione di prerogative e competenze, in modo da evitare – almeno in linea teorica – conflitti di interesse da parte di chi, trovandosi a ricoprire un incarico militare dovendo al contempo soprintendere agli affari civili, finiva spesso per scontentare sia l’una che l’altra parte, rallentando scientemente il processo decisionale pur di evitare di prendere provvedimenti impopolari; da ultimo, detto governo civile avrebbe costituito un utile catalizzatore per il malcontento e le proteste popolari, nella misura in cui i rappresentanti eletti sarebbero stati direttamente responsabili per i loro fallimenti, esponendo al fuoco delle critiche la classe politica locale in luogo della gerarchia militare americana. A ben guardare, anche l’ipotesi di organizzare un sistema di espatri volontari non era così peregrina: occorre ricordarsi infatti che i ryukyuani erano stati i protagonisti dei flussi migratori214 dal Giappone che, dalla fine del XIX secolo, avevano interessato in particolar modo gli Stati Uniti e l’America Latina, arrivando a costituire comunità numerose e ben radicate che avevano continuato a crescere al riparo dai grandi sconvolgimenti della prima metà del Novecento. A differenza di quanti, per ordine delle autorità giapponesi o perché costretti dalle proprie ristrettezze economiche, avevano dovuto cercare fortuna nei territori occupati dall’Impero nel Sud-Est Asiatico, subendo una duplice discriminazione da parte dei loro “connazionali” – dei cui privilegi non potevano partecipare – e dei colonizzati – ai quali pur erano accomunati sul piano dello sfruttamento e dell’ostracismo sociale –, coloro che si erano insediati nelle Americhe e in Europa avevano avuto modo di costruirsi una nuova identità, scevra del senso di inferiorità di sudditi di seconda classe che aveva caratterizzato i processi identitari dello state building dal periodo Meiji in poi. Se si considera inoltre che diverse migliaia di residenti non avevano semplicemente avuto altra scelta che ritornare a Okinawa per sfuggire alle persecuzioni nelle ex-colonie, e che altrettanti – se non di più – che erano rimasti avevano perduto i propri riferimenti comunitari a causa del conflitto, l’idea di ricominciare daccapo in statale una figura dittatoriale, depositaria del potere assoluto. Cfr. Gatti F. Il fascismo giapponese, Libreria Editrice Cafoscarina, Venezia, 1997. 214 I primi immigrati ryukyuani giunsero nelle Hawaii e in Brasile negli anni Dieci, costituendo comunità che crescevano al ritmo di circa cinquecento persone l’anno. Il fenomeno si intensificò in seguito alla Prima Guerra Mondiale, quando il Giappone ottenne un mandato sui protettorati tedeschi nel Pacifico espugnati per conto dell’Intesa: a partire dagli anni Venti, sempre più ryukyuani decisero quindi di cercare fortuna nelle isole Marianne, nelle isole Marshall, in Micronesia e a Palau. Cfr. Matsumoto S. Okinawa Migrants to Hawaii in Hawaiian Journal of History, vol. 16, Hawaiian Historical Society, Honolulu, 1982. 120 terra straniera doveva risultare certo più allettante che continuare la propria lotta quotidiana per la sopravvivenza in una patria trasfigurata, teatro di tante atrocità e sofferenze. Ciò detto, anche il Rapporto Vickery sarebbe caduto vittima della lentezza e delle complesse procedure della burocrazia di Washington, ragion per cui, nonostante l’urgenza con cui si raccomandava di dare effetto alle proposte, alcune di queste avrebbero richiesto qualche anno – più precisamente tre per la fondazione dell’USCAR – per essere approvate e concretarsi, mentre altre – come il sistema degli espatri, per esempio – non avrebbero mai visto la luce. Tra quelle andate a buon fine, le riforme a beneficiare delle tempistiche più celeri furono quelle di ordine economico: nel 1950 fu istituito il Ryukyuan Reconstruction Finance Fund, dal quale i piccoli imprenditori locali – agricoltori in testa – avrebbero potuto ottenere finanziamenti a un tasso conveniente per acquistare fertilizzanti, sostituire attrezzature e assumere nuovo personale, in contemporanea con la fondazione della Ryukyuan Food and Agricultural Organization, il primo ufficio pubblico che, anticipando la formazione del suddetto governo civile, avrebbe avuto il compito di favorire la coesione politica dell’isola partendo dall’uniformazione dei piani di innovazione agricola, sì da preparare il terreno per la transizione a un sistema di potere centralizzato, prevista da lì a pochi anni: fu proprio questo ufficio a dare il via a un primo progetto per il miglioramento e l’ampliamento dei sistemi di irrigazione per mezzo di dighe e canali, che nel giro di un paio d’anni portò a un incremento del 5% della superficie coltivabile a riso, indispensabile per ridurre la dipendenza dell’isola dalle importazioni di questo cereale – che doveva ormai essere acquistato anche dalla vicina Thailandia e dal Myanmar. Viceversa, una raccomandazione del Rapporto la cui applicazione pratica si rivelò più difficoltosa del previsto riguardava l’utilizzo dei concimi naturali, di difficile reperibilità a causa dei pochi animali da fattoria presenti. Dal momento che, anche volendo importare altri capi di bestiame da fuori come già fatto in precedenza, non sarebbe stato comunque possibile allevarli al meglio a causa della mancanza di spazio e di generi alimentari, l’unica via praticabile era quella del debbio215: d’altro canto, per quanto la potassa216 rilasciata nel processo aumentasse la 215 Pratica consistente nel bruciare le erbe secche ricoprenti il terreno, allo scopo di migliorarne la fertilità e ridurre le popolazioni di parassiti. Se praticata estensivamente, può tuttavia portare alla liberazione dell’azoto organico del terreno e alla distruzione di microorganismi benefici, producendo l’effetto contrario. Cfr. Debbio in Enciclopedia Treccani (versione online), Istituto della Enciclopedia Italiana. 216 Il carbonato di potassio, ovvero la polvere bianca che si ottiene dalla combustione delle piante e accresce la fertilità del suolo. Cfr. Potassa in Enciclopedia Treccani (versione online), Istituto della Enciclopedia Italiana. 121 fertilità del terreno, la combustione della superficie coltivata riduceva la capacità dello stesso di assorbire e trattenere l’acqua, traducendosi a conti fatti in una perdita di produttività dell’arabile. In questo caso, furono i nativi a individuare la soluzione migliore optando per un ritorno alle origini: infatti, per quanto il direttivo dell’Esercito avesse a lungo scoraggiato la ripresa dell’allevamento suino tradizionale, nel quale, come abbiamo visto, i maiali venivano nutriti con gli escrementi dei padroni di casa – che in parte li utilizzavano anche per concimare i propri orti e campi –, detta pratica venne gradualmente incoraggiata, a patto che ciascuna famiglia si impegnasse a utilizzare le deiezioni umane e animali così prodotte soltanto all’interno del lotto di sua proprietà, in modo da limitare il diffondersi di eventuali epidemie. Nonostante i cospicui ritardi e le omissioni, alla vigilia dell’insediamento del primo esecutivo dell’USCAR Okinawa arrivò a superare per la prima volta la soglia delle 500 tonnellate metriche di cibo, per un totale di 598.900 tonnellate – corrispondenti a circa la metà del fabbisogno alimentare della popolazione indigena – così suddivise217: Patate dolci 510.000 tonnellate Riso 28.500 tonnellate Ortaggi verdi 26.400 tonnellate Canna da zucchero 11.500 tonnellate Patate 10.000 tonnellate Granaglie (spec. orzo e frumento) 5.000 tonnellate Fagioli di soia 4.500 tonnellate 217 I dati della tabella sono citati in Msg. Deputy Governor Ryukyu Civil Administration, RYCOM to DEPTAR (SAOOA FAOA) Wash. Nr. R 03712, MaCArthur Archives (Washington), 4 aprile 1951. 122 Altri legumi 2.000 tonnellate Miglio 1.000 tonnellate Si trattava certo di un risultato soddisfacente se paragonato alla situazione di partenza, ma il neoeletto governo civile si trovava ora a dover fare i conti con la vera sfida, ovverosia aumentare la produzione agricola su un territorio di estensione finita – il tempo degli interventi di landfilling era ancora di là da venire – e su cui gravava una sempre crescente pressione demografica. Di concerto con le associazioni locali riunite sotto il vessillo della Central Okinawan Agricultural Association e gli interlocutori militari, l’Amministrazione Civile delle Ryūkyū diede prova di grande solerzia avviando una serie di progetti per l’allargamento della rete idrica e la razionalizzazione della produzione, oltre ad avallare programmi sperimentali concernenti l’introduzione di pesticidi chimici anche nelle colture non intensive, l’incrocio di specie vegetali e animali e il brevetto di nuovi utensili agricoli, senza contare il significativo cambio di passo rappresentato dalla rivitalizzazione dell’industria zuccheriera, per il momento circoscritta alla coltivazione della materia prima e alla produzione di kurozatō. Pressa per l’estrazione del lo zucchero di nuova costruzione. Fonte: Department of Defense, 1988. Proprio nel 1952, infatti, il governo giapponese aveva iniziato a liberalizzare il commercio agricolo, includendo la canna da zucchero e lo zucchero non lavorato provenienti da Okinawa 123 nel novero dei prodotti nazionali in termini di dazi e tariffe: posto che soltanto un aumento della superficie arabile – inconseguibile con le tecnologie dell’epoca – avrebbe permesso all’isola di avvicinarsi all’autosufficienza alimentare, il governo pensò bene di supplire al deficit di bilancio determinato dall’import puntando sulla voce delle esportazioni, tornando a porsi quale primo fornitore di zucchero della terraferma. In breve tempo, sempre più famiglie convertirono parte dei propri possedimenti alla coltivazione della canna, rimettendo in moto – questa volta sotto l’egida dello Stato e seguendo le linee guida di un piano nazionale orientato al benessere collettivo – la filiera produttiva dei satō gumi in maniera non dissimile da quanto teorizzato in prima battuta da Ōta, ovvero riunendosi in cooperative organizzate trasversalmente sul territorio e dotate di propri macchinari, cui si sovrapponeva un management di stampo americano caratterizzato da rotazione delle mansioni, benefit e investimenti in innovazione. Di pari passo con il ritorno al primato dello zucchero nel settore primario, cui si accompagnava una crescente sicurezza alimentare favorita dal riequilibrio della bilancia commerciale, la maggior parte degli okinawani smise di praticare l’agricoltura quale occupazione esclusiva, preferendo dedicarsi ad attività più redditizie connesse più o meno direttamente con le forze di occupazione di stanza nelle basi militari: per citare le statistiche, dalle 37 famiglie contadine per chilometro quadrato che si contavano nel 1951, si passò a 32,4 per km2 nel 1964218 e quindi a 25,9 per km2 nel 1971; in altri termini, l’assetto sociale dell’isola nei mesi precedenti lo henkan vedeva soltanto il 31% della popolazione impiegato a tempo pieno nell’agricoltura – focalizzata su colture commercialmente rilevanti come canna da zucchero, ananas e mango – o nell’allevamento, mentre il restante 69% vi si dedicava al massimo in via collaterale, e certo non più per combattere la fame. Constatato il fallimento dell’amministrazione militare nel riportare le colture e le tecniche di coltivazione tradizionali al centro del discorso economico, nonché nel ripristinare le comunità di villaggio e il tessuto sociale indigeno così come si configuravano prima dell’inizio del conflitto, il governo civile non ebbe altra scelta che ritornare a un modello di produzione intensivo e Nel 1964, l’agricoltura – fino a qualche anno prima lo zoccolo duro dell’economia ryukyuana – costituiva solo il 13,7% del PIL: una cifra che si ridusse ulteriormente nel 1970 raggiungendo quota 7,6%, fino ad arrivare al minimo storico del 1,4% registrato nel 2003. Cfr. Kakazu H. Changing Agricultural Environments in Small Islands – Cases of the South Pacific and Okinawa in International Journal of Island Affairs, Special Issue, INSULA & Small Island Developing States Unit of the Division for Sustainable Development of the United Nations, Parigi, 2004; McCune, op. cit., p. 69. 218 124 centralizzato, assecondando a distanza di mezzo secolo le aspirazioni dei monopolisti della Tainansha, pur di riprendere le redini del destino geopolitico dell’isola, guadagnandosi una posizione di interlocutore – certo non alla pari, ma che aveva dalla sua degli asset da offrire – da cui negoziare un ritorno al Giappone che, quantomeno, avrebbe dato impulso alle riforme – agraria, fiscale, edilizia – che la controparte militare si ostinava a procrastinare. In altre parole, se è vero che non si può sollevare gli esecutivi a guida del Governo delle Ryūkū dalle proprie responsabilità per quanto concerne l’indirizzo filogiapponese impresso alla politica economica, troppo compiacente nei confronti del mainland e dei suoi piani di sviluppo a base di cemento e infrastrutture di dubbia utilità, è altrettanto vero che questo atteggiamento fu necessitato dalla noncuranza con cui gli Stati Uniti perseverarono nel privilegiare gli interessi militari a detrimento di quelli civili, mancando di comprendere che un allentamento della pressione avrebbe contribuito a facilitare l’imposizione di un presidio militare stabile. Al contrario, chi a Washington aveva il potere di sbloccare la situazione avrebbe seguitato fino all’ultimo a declinare l’onere di guidare la ripresa economica e la ricostruzione industriale, nonostante il capitale umano e finanziario investito per studiare le migliori soluzioni con cui garantire a Okinawa un futuro sostenibile e rispettoso del suo retaggio. 3.4. Ritorno al Giappone. Sostenere l’insostenibile, esportare l’inesportabile. Al momento della restituzione di Okinawa, il capitalismo giapponese stava attraversando una fase di profonda ristrutturazione, innescata, fra gli altri fattori, dai progressi tecnologici che avrebbero reso finalmente possibile una completa meccanizzazione dell’agricoltura, offrendo una soluzione concreta all’annosa questione della produttività dei terreni, risalente ai provvedimenti adottati in seguito alla sconfitta nel Secondo Conflitto Mondiale. Durante l’occupazione, infatti, la riforma agraria219 introdotta dallo SCAP aveva gradualmente eroso le grandi concentrazioni latifondistiche, riuscendo nell’intento di fornire a milioni di rimpatriati dai teatri di guerra e di sfollati dai centri industriali un pezzo di terra con cui guadagnarsi di che 219 Approvata dalla Dieta il 21 ottobre 1946, obbligava i proprietari terrieri a vendere i propri terreni allo Stato in caso di comprovato assenteismo o qualora la proprietà superasse l’estensione massima consentita per il possesso individuale, corrispondente a quattro cho (1 cho = 0,99 ettari) in Hokkaidō e a un cho nel resto del paese. La superficie così recuperata fu resa nuovamente disponibile sul mercato, affidando agli uffici locali il compito di stilare le liste degli aventi diritto all’acquisto. Cfr. Williamson M. B. Land Reform in Japan in Journal of Farm Economics, vol. 33-2, Oxford University Press, Oxford, 1951. 125 vivere e ricostituire i propri nuclei familiari: si trattava in genere di appezzamenti molto piccoli – in media due ettari circa –, tali da poter essere lavorati dai membri di una stessa famiglia senza richiedere manodopera addizionale, arrivando a produrre un modesto surplus che veniva poi rivenduto sui mercati locali. Tuttavia, in concomitanza con la riconquistata indipendenza del Giappone, questo sistema di coltivazione su piccola scala, studiato per minimizzare i proventi dei singoli proprietari, in modo che questi ultimi non avessero ad acquistare la terra dei propri vicini replicando il modello latifondista, si rivelò un’arma a doppio taglio: le conurbazioni della cintura industriale Tokyo-Nagoya-Ōsaka, ormai completamente ricostruite e in continua espansione, richiamavano forza lavoro dalle campagne e dalle piccole città per sostenere la folle corsa del miracolo economico, privando le aree periferiche di quei giovani che rappresentavano il futuro delle comunità rurali. Abbandonate dai propri eredi, le famiglie contadine si trovarono così spesso impossibilitate a far fruttare i terreni in loro possesso, nella misura in cui non esisteva ancora alcun macchinario in grado di sostituire la precisione del lavoro umano, senza contare il duro colpo inferto dall’adesione al GATT220 alla produzione di riso, con l’eliminazione delle tariffe preferenziali e delle quote nazionali. Fu proprio al principio degli anni Settanta che il vuoto lasciato dal mancato cambio generazionale, ormai tradottosi in una costante a causa dell’enfasi posta dalla politica economica sull’industria pesante e manifatturiera concentrata attorno alle grandi città, fu parzialmente colmato dall’introduzione di trattori e trapiantatrici in grado di piantare sue due filari contemporaneamente in risaie irrigate, abbattendo come mai prima di allora i tempi di semina e trapianto. Diventati una presenza fissa dell’attività di ogni agricoltore, nuovi modelli continuarono a essere sviluppati fino agli anni Novanta, quando comparvero delle versioni non plus ultra che, a parte qualche modifica, rappresentano ancor oggi i macchinari più comunemente utilizzati: tra questi, le trapiantatrici da quattro e sei filari, le mietitrebbie per le risaie a secco e i sistemi laser per il livellamento del terreno, indispensabili per garantire la crescita uniforme delle piante e un’irrigazione capillare, rappresentano un elemento ricorrente del paesaggio rurale General Agreement on Trade and Tariffs, accordo internazionale per l’abbattimento delle barriere protezionistiche e delle restrizioni quantitative sulle importazioni, firmato per la prima volta a Ginevra il 30 ottobre 1947 da 23 paesi. Il Giappone vi aderì nel 1955, impegnandosi a rivedere la propria politica industriale – fino ad allora incentrata sulla promozione delle industrie strategiche sul mercato interno – in cambio di un concessioni tariffarie favorevoli da parte dei paesi membri, soprattutto per quanto concerneva il settore tessile e dei combustibili. Cfr. Suzumura K. Japan’s Industrial Policy and Accession to the GATT: A Teacher by Positive or Negative Examples? in Hitotsubashi Journal of Economics, vol. 38-2, Hitotsubashi University, Tokyo, 1997. 220 126 giapponese, caratterizzato, ancora a distanza di mezzo secolo, da terreni di limitata estensione coltivati al limite delle loro possibilità, senza osservare periodi di riposo e con massicce quantità di pesticidi ed erbicidi chimici. Inutile dirlo, l’importazione di un simile modello a Okinawa ha avuto effetti disastrosi sull’ecosistema e sulla salute delle stesse colture, scarsamente competitive sul mercato internazionale e interno nonostante l’elevata qualità dei prodotti finiti. L’esempio più emblematico di questa discrasia tra incentivi statali alla produzione e adesione ad accordi internazionali che penalizzano le eccellenze nazionali è probabilmente la storia della coltivazione dell’ananas, introdotta negli anni Cinquanta proprio allo scopo di rafforzare la posizione dell’isola come esportatore. Raggiunto l’apice intorno al 1965, il settore è stato interessato da un declino pressoché costante a partire dal ritorno al Giappone, rappresentante il primo – nonché quasi unico – acquirente delle circa 40mila tonnellate di ananas raccolte ogni anno: di queste, il 90% è destinato all’inscatolamento, al surgelamento o all’industria della trasformazione alimentare, mentre la quantità restante è consumata fresca o sotto forma di succo dagli abitanti della prefettura, la cui domanda di frutta si pone al di sopra della media nazionale, confortata dal prezzo accessibile dei prodotti locali. Le prime limitazioni riguardanti la coltivazione e la lavorazione del frutto tropicale risalgono al 1984, quando il Ministero della Pesca e dell’Agricoltura impose al governatore Junji Nishime, con due provvedimenti separati221, una programmazione su base quinquennale dell’estensione e della densità delle piantagioni, la cui superficie sarebbe stata poi equamente distribuita dalle municipalità alle cooperative o agli agricoltori indipendenti che ne avessero fatto richiesta. A ciò si sarebbe aggiunto nel 1986 l’obbligo di rispettare un tetto massimo sulle esportazioni annuali – verso il mainland e verso il resto del mondo – di ananas non lavorato, conseguente ai cambiamenti introdotti dall’Uruguay Round 222 del suddetto GATT: chi, tra gli agricoltori, si 221 Noti internazionalmente con il nome di Production Control of Canned Pineapples e Stabilization of Demand and Supply of Canned Pineapples, costituiscono l’implementazione concreta della precedente direttiva Guidance to be Given Immediately in Planting of Fruit Trees, emanate dal Ministero della Pesca e dell’Agricoltura (MAFF) per evitare un calo sensibile delle importazioni di ananas dagli Stati Uniti, primo partner commerciale in ambito agroalimentare. Cfr. Kenzo I., Dyck J. Fruit Policies in Japan, United States Department of Agriculture, 2010; MAFF, Restrictions on Imports of Certain Agricultural Products, Foreign Trade Information System, 1987. 222 L’Uruguay Round fu l’ottavo e più ambizioso ciclo di negoziati del GATT. Iniziato nel 1986 e conclusosi nel 1994, aveva l’obiettivo di ridurre i sussidi all’agricoltura nazionale, eliminare le restrizioni sugli investimenti stranieri, aprire al mercato internazionale settori precedentemente considerati off-limits come le assicurazioni, i servizi alla persona e bancari; inoltre, puntava all’adozione di un codice comune in merito di proprietà intellettuale 127 fosse dimostrato inadempiente, correva il rischio di venire depennato dalla lista degli aventi diritto ai sussidi e ai prestiti governativi, di fatto le uniche iniezioni di capitale che consentivano di tirare avanti a un settore altrimenti condannato all’obsolescenza. Limitazioni nazionali sulla superficie coltivabile a frutta nel 1987. Fonte: Foreign Trade Information System, 1987. Limitazioni nazionali specifiche per la coltivazione e la trasformazione di ananas nel 1987. Fonte: Foreign Trade Information System, 1987. Così come attualmente strutturata, infatti, la filiera dell’ananas è quantomai lontana dall’essere un’attività environmentally friendly, destinata a una sensibile riduzione di scala o al totale e violazione del diritto d’autore. Cfr. World Trade Organization, A Summary of the Final Act of the Uruguay Round, WTO, 2021. 128 abbandono nei prossimi decenni a causa degli effetti deleteri esercitati sull’assetto idrogeologico delle zone interessate. Dal momento che le aree coltivabili in piano vengono solitamente riservate alle risaie, sì da consentire un’irrigazione ottimale per mezzo degli impianti che dalle zone montuose trasportano l’acqua a valle, solitamente le piantagioni di ananas devono essere realizzate sui versanti delle colline, per le quali si rendono necessari pesanti interventi di “correzione” a opera di ruspe e rulli compressori, che ripianando le naturali gibbosità del terreno rendono possibile la disposizione della coltura in filari, così come prescritto dalle moderne tecniche di coltivazione intensiva. Filari di ananas presso Nago, dove si trova il celebre parco a tema Nago Pineapple Park. Fonte: Nago Pineapple Park, 2020. A causa di questo continuo rimaneggiamento e deformazione, il terreno perde di coesione e con essa la capacità da fungere da idroretentore, utile a prevenire smottamenti e frane, con conseguente deterioramento del bacino idrografico, la cui variazione nel tempo rappresenta un problema serio per le stazioni di pompaggio da cui dipende la fornitura idrica dell’isola; inoltre, il processo di erosione del suolo è accelerato dalla stessa struttura delle piantagioni, che, diversamente dal folto manto della foresta, lasciano scoperte ampie zone del terreno lasciando percolare molta più acqua rispetto alla vegetazione spontanea. 129 Nel complesso, si ritiene che le opere di miglioramento connesse alla coltivazione dell’ananas siano responsabili di più della metà degli episodi di cedimento del terreno registrati ogni anno, così come del perenne inquinamento dei corsi d’acqua: a causa dell’erosione, gli strati inferiori di scisto argilloso223 e di pietra calcarea sono stati esposti a contatto con l’esterno, riversando nei fiumi alcali e acidi – da cui il colore rosso o biancastro osservabile nei giorni di pioggia a seconda della composizione del terreno – che impediscono la respirazione delle piante e arrivano in ultima istanza a soffocare le colonie di corallo. Un altro fattore che contribuisce ad aggravare questa situazione di criticità è l’uso improprio dei fertilizzanti e degli altri agenti chimici impiegati in agricoltura, imputabile non tanto a una mancanza di conoscenze quanto a un circolo vizioso di sovraproduzione che rende più conveniente farne un utilizzo spropositato. Non bisogna dimenticare infatti che la reintegrazione di Okinawa a pieno titolo nella nazione giapponese ha comportato anche l’inclusione delle sue cooperative agricole nella pertinente associazione nazionale, dal comprovato atteggiamento lobbista. Nota ai più semplicemente come JA, la Nōgyō Kyōdō Kumiai224 (Unione Nazionale delle Cooperative Agricole) proseguì almeno fino al 1995 a gonfiare il prezzo del riso, approfittando della natura sostanzialmente anelastica della domanda di beni essenziali per la quale prezzi di mercato più alti non influiscono – almeno sul breve termine – sul volume complessivo degli acquisti, traducendosi di riflesso in maggiori ricavi e commissioni per chi detenesse il monopolio sulla vendita dei prodotti agricoli – la stessa JA. Ovviamente, il metodo più rapido ed efficace per provocare detta inflazione consisteva nel far lievitare i costi di produzione sostenuti dai singoli agricoltori, aumentando la quota di pesticidi, fertilizzanti e macchinari che questi potevano ottenere dalla propria cooperativa di zona. Per quanto fortemente limitato dall’implementazione delle riforme approvate nella già citata seduta sudamericana del GATT, il gioco della JA non solo continua ancor oggi ma si è esteso anche a colture quantitativamente meno rilevanti del riso: anche i coltivatori di ananas, in cambio Roccia metamorfica ricca di minerali – in particolare mica, clorite e grafite – disposti parallelamente a strati; questa disposizione lamellare piuttosto regolare ne determina l’elevata friabilità. Cfr. Scisto in Enciclopedia Treccani (versione online), Istituto della Enciclopedia Italiana. 224 Nome complete Zenkoku Nōgyō Kyōdō Kumiai Chuōkai, fu istituita nel 1954 allo scopo di regolare il mercato agricolo e uniformare la gamma di macchinari, attrezzature e prodotti chimici utilizzati dagli agricoltori di tutto il paese. Storico presidio del Jimintō, la sua vicinanza al partito fu messa in discussione dalle concessioni fatte agli Stati Uniti in seguito all’apertura delle trattative dello Uruguay Round (vd. nota 222, p. 127). Cfr. JA Zenchū, JA Zenchū towa in JA Gurūpu tōitsu kōhō (official website), 2019. 223 130 della quota associativa versata, sono dunque incentivati a utilizzare l’intera fornitura di prodotti chimici corrisposta, pena il pagamento di una tassa di smaltimento – dal momento che le eccedenze non possono essere rese alla sede emittente. Allo stesso tempo, in linea con le tendenze demografiche del resto della nazione, anche a Okinawa si registra un progressivo spopolamento delle campagne, con molte proprietà che vengono abbandonate o il cui proprietario – in media di età avanzata – passa a miglior vita senza che il catasto abbia a esserne notificato: benché al corrente di questa situazione, è la stessa JA a guardarsi bene dal rivedere l’elenco dei propri iscritti, dal momento che ciò consente di mantenere invariata la fornitura da corrispondere alle sedi locali, e con essa la lievitazione dei costi finali. Altrettanto difficile è, per chi sceglie di rimanere, entrare in possesso degli appezzamenti di terra rimasti senza proprietario, con cui magari diversificare le proprie colture: l’attuale regime di tassazione per le terre agricole è infatti talmente vantaggioso che spesso anche a chi ha ormai abbandonato la fattoria di famiglia conviene pagare le irrisorie imposte annue piuttosto che espletare le procedure burocratiche necessarie a svincolare la terra per rimetterla sul mercato; inoltre, secondo una lettura antropologica225, tale riluttanza a separarsi dai propri possedimenti sarebbe in realtà connessa al concetto di ba (luogo), profondamente radicato nella cultura giapponese, per il quale cedere ad altri la terra su cui si è nati equivarrebbe a rinnegare le proprie radici, commettendo un torto nei confronti della propria stirpe – soprattutto verso le generazioni future. Speculazioni a parte, è innegabile che l’enfasi ancor oggi posta dai politici conservatori del Jimintō – aventi nelle campagne e nei centri rurali il proprio bacino elettorale di riferimento – e dai diretti interessati sulla disgregazione della famiglia tradizionale e sulla crisi del tasso di fertilità si spieghi banalmente col fatto che i vincoli di sangue appaiono ormai l’unico freno in grado di trattenere il flusso di emigrazione giovanile verso le grandi città, dal momento che il lavoro agricolo, agli occhi di una generazione cresciuta col mito del lavoro salariato e impiegatizio nell’industria dei servizi, appare non solo inutile ma anche degradante. Complice una rappresentazione mediatica sensazionalistica e parziale, tendente a magnificare i vibranti – e affollatissimi – centri produttivi del paese in antitesi alla desolazione e alla (supposta) 225 Cfr. Osamu S. Philosophy of Agricultural Science: A Japanese Perspective, Trans Pacific Press, Melbourne, 2006. 131 arretratezza delle periferie rurali, il termine inaka (campagna), fino a qualche decennio fa depositario di un senso di frugalità e naturalezza intersecantesi con la nostalgia evocata dal furusato, presenta ora una sfumatura dispregiativa in quanto evoca la dimensione dell’esilio, dell’isolamento spaziale e culturale vissuto dagli agricoltori e di quanti avessero la sfortuna di legarsi a loro. Nonostante i dati evidenzino la fattuale infondatezza di questi e altri stereotipi226, essi hanno nondimeno generato e imposto uno stigma sulle zone agrarie, nelle quali, proprio alla luce dell’irreperibilità di manodopera nazionale, si contano numerose comunità di immigrati: tale realtà è tanto più osservabile a Okinawa dove, in virtù della vicinanza al continente, si riversano frotte di lavoratori stagionali di nazionalità cinese e vietnamita, equamente divisi tra la ristorazione e il lavoro nei campi, a cui si aggiungono donne originarie del Sud-Est Asiatico – prevalentemente Thailandia e Filippine – che, per mezzo dei moderni network di omiai (incontri matrimoniali), lasciano il proprio paese per andare in sposa ai giovani agricoltori dell’isola, penalizzati nella ricerca di partner. Al di là della questione sociale e demografica, a determinare la parabola discendente – sia in termini di output che di peso sulla bilancia commerciale – dell’agricoltura okinawana è la scarsa varietà specifica delle colture, osservabile in primo luogo nelle popolazioni di canna da zucchero (Saccharum officinarum). La varietà endemica e spontanea presente a Okinawa, dal caratteristico colore violaceo, è ormai pressoché scomparsa e sopravvive solo al di fuori delle piantagioni, dove invece si coltiva una varietà artificiale frutto di selezioni e incroci, particolarmente adatta allo sfruttamento intensivo grazie all’alto contenuto di saccarosio, oltre al fusto più spesso e alle foglie più corte che ne aumentano la resistenza alle raffiche di vento e alla pioggia. Di per sé, la canna da zucchero non richiederebbe particolari cure per quanto concerne le fasi di crescita e maturazione, dal momento che i nutrienti del suolo di Okinawa – circa venti volte biologicamente più ricco rispetto a quello del mainland 227 – consentono alla pianta di raggiungere il pieno Prendendo a esempio dello spopolamento delle campagne la prefettura (ken) Akita nel Tōhoku, caratterizzata da una popolazione di poco più di 966mila abitanti distribuiti su una superficie di 11637 km 2, studi relativamente recenti hanno dimostrato come Akita si piazzasse regolarmente prima nel Test di rendimento scolastico nazionale, sfatando il mito dell’arretratezza e della scarsa propensione all’apprendimento degli abitanti dei centri rurali. Anche i dati odierni si confermano in linea con quanto rilevato in precedenza. Cfr. Mock J. Mock, John. The Social Impact of Rural-Urban Shift: Some Akita Examples in Thompson C. S., Traphagan J. W. Wearing Cultural Styles in Japan: Concepts of Tradition and Modernity in Practice, SUNY Press, Albany, 2012; Statistic Japan, Education: National Achievement Test, ODOMON, 2019. 227 La differenza col resto del Giappone è ancora più marcata se si prende in considerazione la varietà delle specie vegetali, corrispondente a 45 volte quella del mainland per ogni 10 km2. Cfr. Wicaksono K. P., Nakagoshi N. Agriculture Profile and Sustainability in Okinawa Prefecture Japan and East Java Province of Indonesia and Its 226 132 sviluppo già in soli 18 mesi; tuttavia, gli stessi clima e terreno che garantiscono il rigoglio delle specie vegetali crea anche le condizioni ideali per le larve di insetti potenzialmente nocivi, accelerandone le fasi di sviluppo e portando simultaneamente alla fase adulta popolazioni parassitarie che, in altre zone del mondo, non si trovano a dover competere per le medesime risorse nella stessa stagione. Raccolta della canna da zucchero presso una piantagione di Okinawa. Fonte: World Unite, 2018 L’ipotesi che un unico ceppo super-resistente, dotato delle caratteristiche ottimali per fronteggiare i tifoni e gli altri fenomeni atmosferici avversi, sarebbe riuscito a sopravvivere anche alle specie parassitarie – sia vegetali che animali – perché non si trattava di una varietà originariamente disponibile in natura, sulle prime si dimostrò corretta, complici i tempi relativamente recenti dell’incrocio che spiazzarono gli avversari naturali della canna da zucchero. Com’è noto, però, per quanto una specie possieda caratteristiche adatte alla sopravvivenza, dalle Future Development in ISTECS Journal – Science and Technology Policy, vol. 19, Institute for Science and Technology Studies, Jakarta, 2009. 133 monocolture discendono invariabilmente una serie di problematiche relative all’equilibrio ecosistemico: nel caso specifico, la fauna ospitata stabilmente all’interno della nicchia ecologica è estremamente ridotta, sia in termini di varietà che di numero di esemplari: si tratta perlopiù di insetti che, oltre a offrire un utile diversivo per le specie parassitarie – le cui abitudini alimentari sono variabili e possono dunque limitarsi ad attaccare questi anziché le piante –, attirano altri predatori più grandi come uccelli e roditori, le cui feci contribuiscono ad arricchire il suolo; in secondo luogo, anche le nuove varietà ottenute per incrocio non possiedono che alcune coppie di geni resistenti, il cui numero non può materialmente aumentare nel tempo proprio a causa dell’omogeneità del pool genetico della coltura, il che ci riporta alla questione dell’abuso di pesticidi: una minore aspettativa di vita implica una maggiore spinta riproduttiva e generazioni di insetti che si succedono più rapidamente, oltre che potenzialmente più resistenti a causa dell’aumentata probabilità che si verifichino mutazioni genetiche vantaggiose. In uno scenario non antropizzato, ove non figuri cioè la mano dell’uomo nel manipolare né il ciclo vitale delle altre specie né le condizioni di partenza dell’ambiente, la lotta tra la canna da zucchero e i suoi avversari si configurerebbe come un eterno testa a testa: per quanto infatti le specie parassitarie – insetti in primis – si riproducano a un ritmo vertiginosamente più rapido, la gamma e la velocità delle mutazioni di cui è capace una popolazione di canna da zucchero sufficientemente diversificata sono di gran lunga superiori alle possibilità offerte dalle tecniche artificiali di ingegneria genetica, ragion per cui, anche se una singola popolazione dovesse perdere la sua battaglia e venire cancellata, ciò non comprometterebbe la sopravvivenza della specie nel suo complesso, che anzi avrebbe comunque a riceverne un certo beneficio nella forma dell’arricchimento genomico: questo è, per l’appunto, il funzionamento di un ecosistema, ovvero di un insieme di relazioni tra materia biologica e materia non vivente il cui risultato globale tende a riportarsi sempre su una situazione di equilibrio 228 . Al contrario, quanto osservabile nella fattispecie della canna di zucchero okinawana possiede le caratteristiche di un agrosistema229: in esso, la diversità rappresenta un disvalore e le relazioni tra organismi sono soggette al metro di 228 Cfr. Begon M. et al., Ecology: From Individuals to Ecosystems, Blackwell Publishing, Hoboken, 2005. L’agrosistema rappresenta un ecosistema semplificato secondo le esigenze produttive dell’uomo, in cui è l’agricoltore a stabilire l’apporto di nutrienti (concimi, fitofarmaci) e di sostanze chimiche (fertilizzanti, pesticidi), nonché la composizione della biomassa – ovvero quali e quanti prodotti organici sono amessi nell’economia del sistema. Cfr. Ferrari M. et al. Lotta biologica. Controllo biologico ed integrato nella pratica fitoiatrica, Edizioni Agricole, Bologna, 2000. 229 134 giudizio umano, che, individuando due schieramenti contrapposti, metterà in campo ogni sua risorsa per far prevalere la fazione prescelta, dal momento che dal suo trionfo dipende la sopravvivenza di una specie – la razza umana, appunto – la cui evoluzione ha comportato esigenze alimentari che non sono più geograficamente situate, bensì globalizzate e diffuse al punto da chiamare in causa interessi esulanti dalla semplice soddisfazione del bisogno fisiologico. Di fatto, quello che l’agronomia contemporanea sta iniziando a realizzare con sempre maggiore chiarezza è che è proprio tale impostazione a rappresentare il primo nemico dell’agricoltura intensiva: la distinzione fondamentale tra colture – ovvero ciò che garantisce nutrimento, sicurezza o profitto all’uomo –, specie nocive e ciò che si colloca nel mezzo tra i due estremi, per quanto sia stata indispensabile a sostenere la crescita della nostra specie, andrebbe oggi parzialmente rivista, nella misura in cui sarebbe sufficiente supervisionare la convivenza e la competizione tra le specie per incoraggiare la produttività di quelle commercialmente e nutrizionalmente rilevanti. Certo, per quanto graduale, non si può escludere che un cambiamento di tale entità possa avere effetti depressivi sul breve e medio termine sull’economia giapponese, ma a ben guardare il settore primario è ormai da tempo preda di un trend negativo: mantenendo come riferimento la canna da zucchero di Okinawa, si nota infatti come già quindici anni fa, nonostante il pauroso calo di superficie coltivata, sia il volume di produzione che la produttività delle piantagioni si attestassero su un livello sostanzialmente stabile ma insufficiente sia a coprire il fabbisogno nazionale, sia a venire esportato all’estero, rimanendo pressoché inalterato fino ai giorni nostri230. 230 I dati relativi alla produzione di canna da zucchero – così come delle altre colture commercialmente rilevanti – dal 1961 al 2019 sono consultabili liberamente dal portale online FAOSTAT della Food and Agriculture Organization of the United Nations (http://www.fao.org/faostat/en/#data/QC). 135 Statistiche degli agricoltori impiegati nella produzione di canna da zucchero e della superficie coltivata nel ventennio 1996 – 2006. Fonte: Wicaksono K. et al, ISTS Jakarta (su dati forniti dal Ministero della Pesca e dell’Agricoltura), 2009. Statistiche della produzione e della produttività delle colture di canna da zucchero nel ventennio 1996 – 2006. Fonte: Wicaksono K. et al, ISTS Jakarta (su dati forniti dal Ministero della Pesca e dell’Agricoltura), 2009. Dalla lettura di questi dati, si possono trarre fondamentalmente due conclusioni: in primo luogo, che lo sfruttamento e l’inquinamento del suolo, causati dall’omesso periodo di riposo tra un raccolto e l’altro e dalla spropositata quantità di azoto e fosforo – componenti base dei pesticidi – che ne ha sbilanciato l’equilibrio minerale, sono tali per cui cali sensibili nella popolazione non si traducono in altrettanto drastici cali di produzione: in altre parole, questo significa che, a prescindere dalle peculiarità biologiche e dall’estensione delle singole piantagioni, quando una 136 di queste viene abbandonata un’altra viene sfruttata al doppio della sua capacità per raggiungere le quote imposte dalla JA, compromettendone la fecondità per gli anni a venire; in secondo luogo, che, nonostante gli incentivi varati dal governo e il sostegno professato dalla classe politica, il settore primario – e in particolare l’industria zuccheriera – non rappresenta più una voce di bilancio in grado di generare profitti, né figura come uno degli asset che il Giappone intende rilanciare nella sua visione per il futuro: prova ne è il calo della superficie coltivata e dell’annessa forza lavoro su impulso dell’urbanizzazione, le cui possibilità di espansione appaiono incommensurabilmente più allettanti, a maggior ragione se si tiene a mente l’importanza che l’edilizia ancora riveste nell’economia del paese. Si arriva così al paradosso della situazione odierna, con lo zucchero e l’ananas di Okinawa che arrivano a costare rispettivamente otto e tre volte tanto i prezzi del mercato internazionale, senza che la sovrastruttura governativa abbia modo di intervenire alla radice degli sprechi a causa del monopolio esercitato dalla JA, le cui manovre inflazionistiche risultano comunque indispensabili per garantire la sopravvivenza degli agricoltori e degli altri portatori di interesse coinvolti – tra cui figurano anche alcune industrie strategiche, come quella petrolchimica per la produzione dei pesticidi e quella meccanica per i macchinari agricoli e la strumentistica di precisione. Fa eccezione la produzione di fiori recisi, sviluppatasi sensibilmente nell’ultimo decennio grazie all’iniziativa di alcuni agricoltori emancipatisi dalla tirannia delle cooperative in seguito all’abbandono delle colture intensive di canna da zucchero; particolarmente apprezzati sul mercato del mainland, i fiori di Okinawa rappresentano un dato felicemente in controtendenza nel panorama delle esportazioni, per quanto osservatori contemporanei abbiano rilevato con preoccupazione l’introduzione di metodi di coltivazione para-intensiva (serre in vinile, pesticidi), nonché di specie particolarmente richieste sul mercato giapponese (rose, crisantemi) che rischiano di sostituire le varietà endemiche231, sinora protagoniste della crescita del settore. In condizioni non molto dissimili versano anche l’allevamento e la pesca, la cui attuale configurazione non appare tanto orientata verso la sostenibilità e la competitività quanto verso il sostentamento di una minoranza di lavoratori sprovvista di tutele e ammortizzatori sociali. Soprattutto azalee, iris e orchidee. Cfr. Japan Floriculture Market – Growth, Trends, COVID-19 Impact, and Forecasts (2021 – 2026), Mordor Intelligence, 2020. 231 137 A gennaio 2020, a Okinawa si contavano 225,800 maiali, il cui numero si è ridotto di alcune migliaia di unità in seguito all’influenza suina che, per la prima volta in 33 anni, ha colpito gli allevamenti dell’isola.232 Si tratta certo di una cifra sensibilmente inferiore rispetto a venti anni fa, quando i capi suini ammontavano a più di 300mila unità, ma tale dato è da interpretarsi nella cornice demografica di abbandono delle zone rurali di cui sopra, alla quale vanno ad aggiungersi gli effetti collaterali del blocco del flusso turistico, alle cui oscillazioni gli allevatori risultano più sensibili a causa dei minori incentivi e sussidi di norma disposti dal governo per il loro settore di afferenza, considerato ancora forte sul piano nazionale dal momento che esso rappresenta circa il 25% dell’output totale del primario. Per quanto concerne il metodo di allevamento applicato, a un primo sguardo le pig farms potrebbero sembrare più sostenibili delle loro controparti coltivate ad ananas o canna da zucchero: sempre più aziende agricole – soprattutto a conduzione familiare – optano infatti per l’allevamento all’aperto, utilizzando mangimi biologici e trattando i liquami in modo da abbattere il contenuto di metano (CH4) e monossido di azoto (N2O) prima dello scarico in mare, mentre il resto degli escrementi solidi viene riutilizzato quale concime organico. Tuttavia, a parte alcuni esempi virtuosi su piccola scala, dove l’attenzione all’impatto ambientale e l’eticità sono premiate da consumatori sensibili al rapporto qualità/prezzo, la cui fedeltà permette di rientrare gli ingenti costi di smaltimento, la realtà della maggior parte degli allevamenti è ben diversa. Di norma, una scrofa inizia a essere inseminata a partire dagli otto mesi d’età, arrivando a partorire in media dieci maialini ogni 153 giorni, comprensivi di un periodo di gestazione di 128 giorni e di uno di allattamento di 25 giorni; concluso l’allattamento, i cuccioli vengono separati dalla madre e alimentati al chiuso con granturco, fagioli di soia e integratori – principalmente di vitamine e sali minerali – fino a raggiungere il peso di 115 chili: secondo il regime di alimentazione giapponese, tale soglia è generalmente raggiunta dagli esemplari maschi intorno ai 184 giorni d’età e corrisponde al momento della macellazione, che avviene invece al 38esimo mese d’età per le scrofe per capitalizzarne al massimo il periodo di fertilità. 232 I primi casi sono stati rilevati a gennaio 2020 nella centralissima Uruma (Uruma-shi), per poi espandersi anche ad allevamenti siti nella municipalità di Okinawa (Okinawa-shi). La situazione è tornata sotto controllo a partire da marzo dello stesso anno, con l’abbattimento dei capi infetti e l’inizio delle vaccinazioni. Cfr. Swine fever confirmed in Okinawa for first time in 33 years, The Japan Times, 8 gennaio 2020; Okinawa recovers from hog cholera epidemic that killed more than 12,000 pigs, Stars and Stripes, 7 maggio 2020. 138 Nel corso della sua breve vita, ciascun capo produce escrementi e gas serra pari a quelli prodotti da circa sei esseri umani, tenendo conto anche delle normali attività quotidiane (guidare l’automobile, utilizzare prodotti spray, usufruire di elettricità prodotta termicamente da fonti non rinnovabili) similmente impattanti. A ciò si devono aggiungere l’energia elettrica e il carburante utilizzati per il trasporto del mangime, dal momento che il Giappone importa dall’estero – principalmente da Stati Uniti, Brasile e Canada – il 90% del foraggio somministrato nelle sue fattorie; infine, il processo di compostaggio, areazione e deodorazione degli escrementi solidi (80% delle deiezioni suine) e quello di filtraggio degli escrementi liquidi (20%) richiedono, oltre che energia elettrica di per sé, anche un trasporto motorizzato fino all’impianto di depurazione di zona, spesso incapace di accogliere al contempo i rifiuti biologici delle fattorie locali: per questa ragione, gli allevatori sono spesso costretti a conservarli in una fossa all’aperto fino alla notifica di ritrovata disponibilità da parte dell’impianto, permettendo nel mentre ai gas serra di liberarsi nell’ambiente. Appare dunque evidente come il mito del chilometro zero e della salubrità della carne di maiale di Okinawa sia di fatto una falsa eccellenza, addotta dal governo prefetturale a scopi turistici basandosi esclusivamente sui dati relativi al consumo – che effettivamente vede gli stessi okinawani in testa – e al trasporto interno, escludendo dal computo tutte le attività collaterali necessarie a portare in tavola un pezzo di carne suina. Sotto il profilo legale, è poi lo stesso sistema nazionale a chiudere un occhio sull’enorme quantità di inquinanti che si riversano nell’atmosfera: basti pensare che la soglia massima consentita di nitrati per gli scarti animali provenienti da pig farms si attesta a livello globale intorno ai 100mg/L, mentre in Giappone arriva fino a un esorbitante 900mg/L. Il risultato è che l’impatto ambientale che l’isola deve sostenere ogni anno per il mantenimento della sua popolazione suina equivale a circa il doppio degli scarti prodotti dai suoi inquilini umani – corrispondenti a 1 milione e 440mila abitanti secondo le stime dell’anno passato –, con una buona percentuale dei liquami che, per ragioni di tempo o di denaro, non riesce a passare per gli impianti di depurazione prima di venire scaricata nei corsi d’acqua, contaminando direttamente i fiumi da cui la rete idrica preleva l’acqua da redistribuire ai centri urbani. In una condizione leggermente migliore, in primo luogo sotto il profilo ambientale, si trova invece l’industria ittica, che grazie allo sviluppo dell’acquacoltura è riuscita a frenare 139 l’esaurimento delle scorte di pesce, molluschi e crostacei che nel resto del paese sta mettendo in ginocchio le piccole comunità di pescatori. Come si è tentato di evidenziare in precedenza, in Giappone sussiste infatti un grave problema di scala, per il quale man mano che ci si allontana dal centro industriale della regione, anche le infrastrutture e i servizi attinenti ad altri settori produttivi tendono a diminuire di estensione o a farsi più obsoleti: la situazione delle città costiere riflette esattamente questa configurazione, con porti minori mal attrezzati e scarsamente collegati ai mercati ittici i cui costi di mantenimento sono diventati insostenibili per le cooperative locali, richiedendo l’intervento pubblico. Ancora, queste comunità presentano spesso un’economia non diversificata, scomoda eredità del passato e della centralità rivestita dalla pesca nella quotidianità dei villaggi preindustriali che, ormai da un trentennio, ha determinato il ricorso alla pesca selvaggia, compromettendo il ciclo riproduttivo delle specie interessate: caricare a bordo e refrigerare quanto più pesce possibile resta comunque l’unico modo per tenere in vita intere realtà urbane che, proprio a causa della loro perifericità, non hanno dalla loro alcun asset di ripiego e rischierebbero altrimenti di scomparire. Al contrario, Okinawa può contare su una catena del freddo e delle infrastrutture portuali omogeneamente sviluppate e diffuse lungo la sua linea di costa, eredità dell’occupazione americana che, come abbiamo visto, il governo giapponese si guardò bene dallo smantellare233. Dal punto di vista culturale, il fatto che la pesca non sia mai stata praticata in via esclusiva dagli okinawani ha sicuramente giocato a loro favore con l’ingresso nel nuovo millennio: per quanto oggigiorno si possano osservare dei “tradizionali” villaggi di pescatori, allestiti per i visitatori nella parte meridionale dell’isola con tanto di essiccatoi e reti in bella vista, sappiamo appunto che anche presso gli insediamenti costieri ci si dedicava solitamente al lavoro nei campi e all’allevamento del bestiame, a cui si deve poi aggiungere la diversificazione portata in età contemporanea dal turismo. Rispetto alle loro omologhe dello hondo, le città costiere dell’isola possono infatti contare su una serie di attività economiche connesse all’accoglienza e all’intrattenimento che, benché esigano a loro volta un prezzo in termini di spazio e di inquinamento, costituiscono un presidio relativamente sicuro della loro autonomia, nonché una via di collegamento con la rete di trasporti e servizi messa a disposizione dei turisti. Cfr. Ajia to Okinawa no shokuhin sangyō renkei no kanōsei – Kōrudo chēn to sentoraru kicchin, Okinawa Prefectural Government, 2016. 233 140 Ciò detto, anche a Okinawa si registra un problema di overfishing, riguardante in primo luogo il tonno. Le varietà più ricercate sono il pinnaga234, il kihada235, il mebachi236 e il kuromaguro237, per la cui cattura si utilizzano sostanzialmente due tecniche: in primo luogo, il palamito (haenawa), utilizzato anche nel resto del Giappone e consistente in una lunga corda sostenuta lungo la sua estensione da piccole boe, dalle quali pendono numerose lenze con esca; da diversi anni si impiega inoltre il payao238, un’ampia struttura galleggiante ancorata al fondale marino che, grazie all’ombra proiettata dalla sua estremità emersa, porta i pesci a radunarsene al di sotto, facilitando la cattura da parte dei pescherecci. Rappresentazione grafica della pesca al tonno con haenawa (sinistra) e con payao (destra). Fonte: Okinawa Prefectural Government, 2018. Altra preda ambita sono i totani, delle varietà sodeika239, tobiika240, aoriika241, kouiika242. Per gli esemplari più grandi, appartenenti generalmente alle prime due varietà elencate, si utilizza un metodo di recente introduzione 243 composto da due unità di galleggianti principali: la prima Nome scient. Thunnus alalunga, noto come “tonno bianco” in italiano (n.d.r.). Nome scient.Thunnus albacares, noto come “tonno pinna gialla” in italiano (n.d.r.). 236 Nome scient. Thunnus obesus, noto come “tonno obeso” in italiano (n.d.r.). 237 Nome scient. Thunnus orientalis, noto come “tonno oceanico” in italiano (n.d.r.). 238 Il termine è un prestito dal tagalog e significa per l’appunto “zattera”. Si tratta di una tecnica largamente utilizzata nel Sud-Est Asiatico per la pesca del tonno, ma la scienza non è ancora riuscita dare una risposta al perché questi pesci tendano a radunarsi al di sotto della piattaforma: secondo alcune teorie, essi sarebbero attirati dai molluschi e dalle alghe che proliferano in condizioni di scarsa illuminazione e attecchiscono sull’estremità sommersa del payao. Cfr. Ocean Policy Research Institute, Payao wa nettai engangyogyō no ‘sukui’ to naru ka, Sasakawa Peace Foundation, 2015. 239 Nome scient. Thysanoteuthis rhombus, noto come “totano diamante” in italiano (n.d.r.). 240 Nome scient. Todarodes pacificus, noto come “totano volante” in italiano (n.d.r.). 241 Nome scient. Sepioteuthis lessoniana, noto come “calamaro di Lesson” in italiano (n.d.r.). 242 Nome scient. Sepia esculenta, nota come “seppia indopacifica” in italiano (n.d.r.). 243 L’attuale tecnica di cattura della sodeika fu introdotta nelle Ryūkyū nel 1989 dalla cooperativa di pescatori di Kumejima, utilizzando le conoscenze e le attrezzature ricevute da alcuni colleghi della prefettura di Hyōgo nel Kansai. Cfr. Okinawa no shuyō seisanbutsu no shōkai in Okinawa Prefecture (official website), Okinawa Prefectural Government. 234 235 141 sostiene una bandiera di colore nero, che serve a segnalare la presenza della trappola, la seconda una corda a cui sono attaccate le luci subacquee e le esche di plastica – modellate secondo la forma dei piccoli calamari e pesci di cui la sodeika si nutre – che servono ad attirare la preda; quando quest’ultima abbocca, scatta un meccanismo che sblocca l’asta della bandiera permettendole di basculare, segnalando ai pescatori la riuscita dell’operazione. Rappresentazione grafica della pesca alla sodeika. Fonte: Okinawa Prefectural Government, 2018. Una specie – se così si può definire – che invece sta diventando di sempre più difficile reperibilità, e per la quale sono state approntate numerose aree protette per favorirne la riproduzione, sono i cosiddetti machi, una denominazione dialettale utilizzata indistintamente per indicare pesci a pinne raggiate dall’aspetto simile ma appartenenti a specie diverse, rispettivamente lo hamadai244, lo aodai245, lo ōhime246 e lo himedai247. In sostituzione a questi ultimi, ultimamente si tende a consumare – sia nelle famiglie che nella ristorazione – altre varietà endemiche248 che, grazie all’encomiabile lavoro di ripopolamento a cura del Centro Prefetturale per Nome scient. Etelis coruscans, noto come “lutiano” in italiano (n.d.r.). Nome scient. Paracaesio caerulea, per questo pesce e per le due specie a seguire si utilizza invariabilmente la denominazione commerciale anglosassone di “snapper” anche in italiano (n.d.r.). 246 Nome scient. Pristipomoides filamentosus, o semplicemente “snapper” (n.d.r.). 247 Nome scient. Pristipomoides sieboldii, o semplicemente “snapper” (n.d.r.). 248 Come lo hama fuefuki (Lethrinus nebulosus), il chairo maruhata (Epinephelus coioides) e la prelibata vongola ryukyuana volgarmente detta himejako (Tridacna crocea), cui si aggiungono alcune specie introdotte dall’estero come il madai (Pagrus major), le cui uova fecondate furono in origine importate da Taiwan. Cfr. Outline of Okinawa Prefectural Sea Farming Center, Okinawa Prefectural Government, 2000. 244 245 142 l’Acquacoltura249, hanno superato la soglia critica di estinzione fino a raggiungere un numero di esemplari tale da consentirne lo sfruttamento commerciale e l’esportazione. Tuttavia, è proprio questa voce a far registrare un’ultima nota dolente: al pari di quanto accaduto in agricoltura, sempre più cooperative di pescatori hanno iniziato ad applicare le medesime tattiche di inflazione, imponendo tempi di sostituzione delle attrezzature più ravvicinati e aumentando le forniture di carburante ai propri membri. Ne consegue che, a meno che non si tratti di un ristorante specializzato in cucina ryukyuana, il pesce che da Okinawa giunge sui banchi del mercato di Tsukiji e altrove nel Kantō difficilmente riesca a trovare un acquirente, senza contare che già prima delle manovre poco ortodosse delle cooperative esso era penalizzato da un ingente sovrapprezzo, determinato dal trasporto fino al mainland. 249 Sito a Motobu-chō, nel distretto di Kunigami. Cfr. Outline of Okinawa Prefectural Sea Farming Center, p. 2. 143 Conclusioni Un termine ricorrente negli studi specialistici concernenti lo Okinawa mondai – e che a nostra volta abbiamo utilizzato in qualche occasione – per riferirsi al ruolo sostanzialmente passivo ricoperto dalla classe dirigente dell’isola e dai suoi abitanti nel corso del processo decisionale che ha condotto all’attuale assetto paesaggistico, politico ed economico è quello di “vittima”250, il cui utilizzo necessita tuttavia di alcune cautele. Per quanto riguarda gli strumenti epistemologici e la cornice metodologica impiegati per condurre la presente analisi, è indubbio che Okinawa si configuri come una vittima dei processi di centralizzazione, nella misura in cui la perdita dei diritti di proprietà e di gestione del territorio da parte della popolazione indigena non è avvenuta in via consensuale, bensì per effetto dell’incompetenza diplomatica e della connivenza della classe dirigente locale con i signori feudali di Satsuma e con chi, dopo di loro, sarebbe arrivato a promettere il mantenimento di anacronistici privilegi – e di uno status quo soltanto apparente – in cambio del controllo effettivo sulla dimensione spaziale del regno. Come abbiamo visto, la tattica messa in campo dall’amministrazione giapponese fu di lasciare formalmente intatti gli insediamenti e le pratiche abitative dei ryukyuani, il cui ammodernamento avrebbe peraltro comportato una spesa pubblica che il governo Meiji non intendeva – né, a conti fatti, probabilmente nemmeno avrebbe potuto – sobbarcarsi; viceversa, esso preferì apportare modifiche strutturali nell’ambiente circostante e nei modi di produzione, intuendo che ciò avrebbe consentito di interrompere il ciclo di relazioni e di condivisione delle risorse che garantiva l’autonomia dei villaggi, intesi come agglomerati sociali pre-statali la cui sopravvivenza offuscava lo schematismo della mappa che Tokyo puntava a tracciare dell’isola. Da ciò si evince lo scopo comune a provvedimenti tanto eterogenei, come reclutare tra le fila della burocrazia funzionari provenienti dalle medesime realtà che essi sarebbero stati incaricati di sorvegliare o favorire la crescita e il monopolio di un’industria senza aver prima eliminato – per mezzo della coercizione o del compromesso – i suoi principali concorrenti: coerentemente con il concetto di illusione di libertà prodotta dal capitalismo, era infatti opinione diffusa presso i quadri dirigenti che, una volta assistito coi propri occhi ai lampanti vantaggi determinati Un’interessante analisi della vittimizzazione degli okinawani come convenzione storiografica si trova in Matsumura, op. cit., pp. 10-14. 250 144 dall’introduzione del nuovo sistema, la maggior parte della popolazione si sarebbe adattata spontaneamente alla configurazione di sfruttamento auspicata. In realtà, tali vantaggi consistevano semplicemente nella possibilità di sottrarsi – almeno in parte – ai numerosi pregiudizi e discriminazioni a cui i ryukyuani erano soggetti a causa del loro status di sudditi di recente acquisizione e della supposta indolenza nell’adattarsi al cambiamento: trasferirsi nei campi della Okitai Seitō per lavorare a cottimo, rinunciando ai diritti sul frutto del proprio lavoro e arrivando talvolta a recidere i legami con la comunità d’origine, significava perciò evitare le pressioni e i ricatti delle autorità prefetturali, disposte a tutto pur di costringere i piccoli produttori a cedere l’esclusiva sul raccolto di canna da zucchero allo stabilimento di zona; ancora, astenersi dal partecipare ai riti comunitari presso gli utaki officiati dalle noro, su cui gravava il sospetto della sedizione e lo stigma della barbarie, significava dimostrare una più sincera adesione all’ordinamento nazionale (kokutai) e quindi risparmiarsi le ispezioni militari che, periodicamente, passavano al setaccio i villaggi in cerca di marxisti o presunti tali; infine, mandare i propri figli a scuola a imparare la lingua nazionale, tentando di parlare il meno possibile il luchuan in loro presenza, significava aprire a questi ultimi nuove possibilità di carriera – principalmente nel neonato esercito di leva o negli uffici pubblici a Naha. Di fatto, non si trattava di nulla di diverso rispetto a quanto accaduto in Europa a partire dal XVIII secolo, con la nascita dei moderni Stati-nazione e l’ascesa della borghesia imprenditoriale e professionale, i cui dogmi fondanti del libero mercato, della proprietà privata e della divisione del lavoro avevano condotto l’intera società a conformarsi, volente o nolente, a una visione del mondo imperniata sul nesso inestinguibile tra produzione e crescita, e tra crescita e riscatto sociale. Ma quali erano le particolari sfide che il Giappone si trovò ad affrontare rispetto a, per esempio, Francia e Prussia, due dei suoi modelli di state building di riferimento? In primo luogo, vi era un evidente problema di coesione e uniformità territoriale: non solo le Ryūkyū erano fisicamente separate dal resto del paese, ma la conoscenza pregressa delle loro caratteristiche climatiche, idrogeologiche e naturalistiche si limitava alle informazioni raccolte da un dominio feudale premoderno con priorità sostanzialmente diverse, il cui campo visivo era circoscritto a una sola attività economica – i.e., la coltivazione e raffinazione di canna da zucchero – e ai centri proto-urbani corrispondenti alle maggiori piazze e snodi commerciali; in altre parole, mancava una mappatura scevra da interessi particolaristici, tale da consentire al centro di conoscere senza 145 vedere – per quanto riguarda la popolazione, basandosi esclusivamente su una serie di parametri e modelli temporalmente scanditi e indipendenti da coordinate spaziali, quali il volume delle entrate, le statistiche sull’occupazione e l’andamento demografico – e di vedere senza conoscere – per quanto riguarda il territorio, affidandosi a una descrizione virtualmente perfetta e stabile, alla cui definizione non concorrono le pratiche sociali e culturali che tendono a modificarlo nel tempo –, entrambe condizioni fondamentali per la conduzione dell’ordinaria amministrazione statale. Secondariamente, una volta stabilito che anche Okinawa avrebbe dovuto rientrare nell’ordine di idee di questa logica centralista, restava aperta la questione di come integrarla nella filiera produttiva del paese in tempi consoni con le mire espansionistiche della classe dirigente, che già guardava con insistenza al continente asiatico. Data l’impossibilità di introdurre nell’isola l’industria pesante, determinata sia dalla sua distanza da Tokyo che dalla scarsa reperibilità di materie prime, si cercò pertanto di ristrutturare l’unico settore che, per ampiezza di scala e disponibilità di conoscenze, poteva essere agilmente convertito alla produzione di massa: si arrivò così alla costruzione dei primi complessi per l’estrazione e la raffinazione dello zucchero, il cui modesto esito è da interpretarsi come il risultato della miopia connaturata ad alcune scelte di governance sul piano macroeconomico. Anzitutto, in retrospettiva appare quantomai evidente come il tentativo di perseguire sincronicamente l’espansione imperialista in Estremo Oriente e la modernizzazione della prefettura fosse destinato al fallimento: a partire da una condizione iniziale con diversi punti di contatto, i territori occupati finirono presto per sorpassare l’arcipelago meridionale grazie a un regime fiscale e giuridico di stampo apertamente coloniale, che limitando sensibilmente i diritti delle persone aveva creato le condizioni ideali per l’espansione del capitalismo giapponese; al contrario, Okinawa poteva beneficiare della protezione offerta dal diritto costituzionale e internazionale, per il quale l’imposizione di un commissariamento para-coloniale avrebbe comportato, oltre a una risposta istituzionale da parte degli organi di garanzia, anche un danno di immagine che il Giappone, in qualità di potenza emergente nel Pacifico, non poteva permettersi, pena la perdita del potere negoziale che sino ad allora aveva consentito di evitare le interferenze straniere negli affari di Stato. 146 A seguire, l’abbattersi della crisi del primo dopoguerra mise temporaneamente in stand-by i piani di Tokyo, necessitando l’emissione di sussidi di emergenza non solo per alleviare lo stato di povertà endemica, ma anche e soprattutto per soccorrere quelle stesse fabbriche che, confortate dal proprio monopolio all’interno dei ristretti confini dell’isola, avevano risparmiato all’osso sugli investimenti in innovazione, ritrovandosi impreparate di fronte alla volubilità del mercato internazionale. Infine, l’avvento del militarismo Shōwa, le cui ombre iniziarono ad allungarsi sull’isola ben prima della famigerata battaglia, rappresentò senz’altro l’inversione di rotta più significativa, nella misura in cui furono adottate misure di coercizione esplicita – in precedenza oculatamente evitate –, facendo cadere la maschera ideologica del paternalismo imperiale: paradossalmente, negli anni del conflitto si cercò di intervenire il meno possibile sulle asperità naturali del luogo, rappresentanti un irrinunciabile vantaggio strategico sia per la fase di difesa che per l’eventuale ritirata verso l’interno. A pagare lo scotto dell’inusitata presenza militare sarebbero stati, semmai, i villaggi contadini, che proprio nel tentativo di adeguarsi alle indicazioni emanate dall’alto avevano in parte dimenticato o rinunciato a tenere in vita le proprie pratiche consuetudinarie, trovandosi del tutto impreparate ad accogliere le torme di soldati che ora pretendevano di essere ospitate e sfamate. A ostilità concluse, il percorso compiuto dalle forze di occupazione statunitensi verso l’imposizione di un disegno centralista fu sostanzialmente inverso, in quanto, a partire da una gestione della cosa pubblica di carattere intrinsecamente militare, necessitata dalla stasi di qualsiasi attività economica e commerciale, nonché dalla distruzione degli insediamenti, esso arrivò ad allentare gradualmente – ma mai in maniera definitiva – la presa sulla popolazione civile, in modo da incentivare la libera impresa e la replicazione di un modello di crescita di stampo americano, avente grossomodo i medesimi riferimenti ideologici di quello giapponese – prima che quest’ultimo fosse contaminato dallo statalismo e dal militarismo, s’intende. Anche in questo caso, si può riconoscere a posteriori una grave ingenuità di fondo, corrispondente all’erronea convinzione che il mantenimento della piena operatività delle basi e la conduzione delle esercitazioni annesse potessero convivere con la crescita endogena dell’economia locale – o nazionale, se si considera il particolare statuto giuridico riconosciuto alle Ryūkyū al tempo. Detto diversamente, lo USMGR avrebbe fallito nella ripianificazione della geografia produttiva del territorio avendo elevato arbitrariamente a centro nevralgico della regione delle installazioni 147 di carattere puramente difensivo, metaforici buchi neri incapaci di trasformare – sotto forma di beni o servizi – o ripristinare nel tempo le risorse che dalle periferie giungevano a soddisfarne il fabbisogno energetico e di manodopera. Si arrivò così a configurare una situazione altrettanto paradossale per cui, continuando a detenere in via esclusiva la proprietà dei terreni più fertili, l’utilizzo delle infrastrutture strategiche e l’accesso alle risorse primarie, sul piano dei rapporti di produzione gli occupanti si ponevano quali primi avversari e concorrenti della popolazione civile, la stessa che si erano ripromessi di risollevare dalla miseria dando impulso a una ripresa economica abbastanza energica da consentire l’emancipazione dalla centralità delle basi. Sul piano dei processi di legibilizzazione, prima conseguenza dell’adozione di tale assetto fu l’affermarsi di un regime di visione la cui profondità era direttamente proporzionale all’inefficienza dello Stato. La nuova suddivisione amministrativa in distretti, la cui gerarchia era di fatto incapace di agire all’unisono per via di campanilismi e interessi particolaristici, era comunque in grado di provvedere una mappatura piuttosto esaustiva e omogenea, dal momento che quanto concerneva le attività civili vi rientrava soltanto in funzione ancillare degli interessi militari: da qui, si comprende la lentezza e la riluttanza con cui furono implementati i piani di riqualificazione agricola, economica, edilizia, la cui importanza, per un governo abituato a guardare solo al corretto funzionamento del suo apparato difensivo, sarebbe rimasta tutt’al più marginale. Parimenti, è possibile leggere in quest’ottica la politica assistenzialista varata dal Giappone liberaldemocratico post-henkan, sostituendo nell’equazione gli interessi corporativistici al termine degli interessi militari. Anche qui, ritroviamo una macchina statale che, nonostante gli intenti professati in sede programmatica, si pone quale diretta concorrente dei cittadini che avrebbe il dovere di servire, intervenendo nelle zone d’ombra lasciate dai suoi immediati predecessori per mezzo del formidabile strumento dei sussidi e dei lavori pubblici: i primi sono da intendersi come un dispositivo di pressione indiretta sulle istituzioni prefetturali, concepiti in linea di principio quale moneta di scambio nella composizione del pubblico dissenso, fomentato il più delle volte dalla mancata revisione dell’attuale defense policy; i secondi rappresentano invece l’estensione tangibile dell’occhio dello Stato, che avvalendosi della forza omologatrice del cemento e dell’edilizia civile persegue lo scopo di rendere passibili di sfruttamento anche quelle aree sinora scampate all’opera di “miglioramento” del territorio. Conseguentemente, detto 148 miglioramento determina a sua volta l’adozione di un modello di sviluppo che, per quanto favorisca l’occupazione della forza lavoro locale, serve in realtà a mantenere al proprio posto una classe dirigente altrimenti inerte e facilmente sostituibile. Riprendendo il nostro argomento iniziale, è comunque consigliabile non indulgere alla dialettica del vittimismo al di là di queste considerazioni di ordine storico: fare diversamente implicherebbe infatti deresponsabilizzare e contemporaneamente caricaturizzare un’intera popolazione, omettendo di rendere onore ai suoi meriti e al suo spirito di autodeterminazione, nonché di riconoscere le infinite prospettive che il presente, pur con tutte le sue contraddizioni, dischiude per l’avvenire. Gli okinawani, intesi come gli abitanti dell’odierna prefettura di Okinawa, depositari di una tradizione aventi radici ben più antiche delle narrative ideologiche dei moderni Stati-nazione, sono gli unici a possedere il diritto e la forza necessaria a decidere per il proprio futuro, in primo luogo in qualità di cittadini giapponesi a tutti gli effetti. Tuttavia, tra l’enucleazione delle proprie richieste e il conseguimento di migliori condizioni di vita e di lavoro attraverso i canali istituzionali preposti, si frappongono diversi problemi strutturali, alcuni comuni all’intero Giappone, altri riguardanti specificamente la situazione dell’arcipelago meridionale. Per quanto riguarda il contesto nazionale, il disinteresse e la scarsa partecipazione – soprattutto da parte dei giovani – alla vita politica del paese rappresentano un vulnus inveterato della democrazia giapponese, la cui criticità è stata a lungo minimizzata dalle dirigenze dei partiti di pressoché ogni area, abituati a rivolgersi a un elettorato stabile nel tempo e debitamente fidelizzato. Ciononostante, tale atteggiamento di noncuranza è venuto inevitabilmente a collidere con la realtà ineludibile del dato demografico, riportando all’attenzione della classe politica la necessità di rivedere i propri programmi e strategie di comunicazione in un’epoca in cui sempre meno individui votano e si interessano della cosa pubblica: eppure, nonostante la centralità acclarata di internet e delle piattaforme social nei processi di informazione, ancora oggi il grosso della campagna elettorale ruota attorno a comizi in piazza o a bordo strada, con tanto di camionetta e megafono, o a martellanti campagne pubblicitarie che raggiungono una percentuale irrisoria degli elettori, mentre mancano rubriche televisive o programmi di infotainment in grado di aprire un dibattito genuino, coinvolgendo in prima persona gli esponenti di partito e le loro idee. 149 Intimamente collegata a questa cacofonia comunicativa è la questione della mancanza dell’alternativa, da cui è lecito supporre discenda anche la remissività del corpo elettorale, tradizionalmente imputata al popolo giapponese sulla base di interpretazioni culturaliste – es. l’innato orientamento alla coesione sociale degli orientali – ma di fatto riscontrabile in più o meno tutte le democrazie liberali contemporanee. Eccezion fatta per alcune fondamentali divergenze “di bandiera” nell’ambito dei diritti civili, della politica monetaria e del welfare, le posizioni di maggioranza e opposizione e dei loro alleati di coalizione sui nodi problematici della contemporaneità appaiono perlopiù identiche, denotando una distanza ideologica quasi del tutto azzerata tra i due fronti dello schieramento; di conseguenza, nonostante l’elettorato – in primo luogo quello urbano – abbia da tempo riconosciuto come soltanto una revisione critica e strutturale della politica energetica, del sistema corporativistico, dei piani di sicurezza nazionale e dei sistemi sanitario e scolastico possa ingenerare un cambiamento degno di questo nome, esso si trova per forza di cose disincentivato a esprimere le proprie istanze e a farle pervenire alla base o agli organi di partito, come pure a discuterne pubblicamente o in privato. Tale riduzione dell’offerta politica – se così si può chiamare – non rappresenta dunque la naturale riorganizzazione di un sistema democratico che ha trovato il suo punto di equilibrio in una serie di valori condivisi dall’intero corpo elettorale, quanto la cesura definitiva tra democrazia e rappresentanza, da cui si evince lo iato che separa le esigenze dei cittadini comuni da quelle dei politicanti – le quali, almeno in linea teorica, dovrebbero semmai coincidere. Infine, come si è tentato ampiamente di dimostrare altrove nella dissertazione, il Giappone continua a soffrire di un grave problema di scala, traducentesi in una configurazione ormai apparentemente immutabile per la quale solo una manciata di grandi città industriali possiede la facoltà di intervenire sulla vita politica del paese e di imprimere un pur minimo indirizzo ai provvedimenti adottati in sede parlamentare, in contrasto con una moltitudine di centri urbani – dalla ridotta densità abitativa ma ospitanti la maggior parte della popolazione – che si scoprono impotenti e afoni nell’interagire con le istituzioni, benché possano vantare un peso elettorale non inferiore alle metropoli. In termini di capitale umano, è proprio questo doppiopesismo mantenuto dalla Dieta nell’approcciarsi all’opera di riforma a perpetuare i flussi di emigrazione interna dalle città minori – o supposte tali – verso i cuori produttivi delle singole prefetture: in questo senso, lavorare e vivere nella grande città non significa solo essere al centro del mondo, partecipare 150 della natura di quel cool Japan tanto ostentato dai media nazionali e rappresentato da quelli stranieri, ma anche sapere che la propria opinione conta e che la propria voce, per quanto spersonalizzata e ridotta ai minimi termini, giungerà alle orecchie del potere passando per la tappa obbligata dei rapporti di produzione, complice l’ossessione per il PIL e la crescita nominale – GDPism in inglese – della classe dirigente. Se è pertanto vero che l’unica cosa che conta sono i grandi numeri e le proiezioni verticali, e che questi possono aumentare ulteriormente solo là dove ve ne sia già una concentrazione significativa, ne consegue che soltanto Ōsaka, Tokyo e poche altre realtà possono auspicare al cambiamento, nella misura in cui esse stesse ne sono il motore primo. In realtà, questa visione semplicistica – nonché discriminatoria in una certa misura – non solo impedisce alle periferie di reinventarsi e rinegoziare il proprio ruolo nell’economia nazionale, privandole delle loro risorse più preziose – forza lavoro potenziale in primis –, ma riduce le possibilità di crescita di quegli stessi centri che rappresentano la punta di diamante del tessuto produttivo, dal momento che il benessere e l’espansione di contesti urbani di tale complessità poco si confanno a sottostare a criteri aziendalistici di ordine puramente quantitativo. Quest’ultimo aspetto ci riporta necessariamente a Okinawa, e all’infelice collocazione della regione nell’organigramma del sistema-paese. Già diversi anni prima che l’ipotesi della restituzione dell’ex prefettura si concretasse, la preoccupazione dei quadri dirigenti di Tokyo era stata quella di determinare cosa l’isola potesse contribuire a produrre, il che, come abbiamo visto, ha dato adito alle ipotesi più fantasiose; in realtà, per somma disdetta dell’establishment, si capì ben presto che, a meno di non cambiare radicalmente il volto del territorio, riprogettando dalle fondamenta anche le concentrazioni urbane e le attività economiche preesistenti, sarebbe stato impossibile convertire Naha o altre municipalità densamente popolate all’industria manifatturiera. Secondo il punto di vista dei funzionari ministeriali, Okinawa sarebbe dunque tornata a essere un fardello per l’economia nazionale, che tuttavia non ci si poteva esimere dall’assumere sia per una questione di integrità territoriale, che il Giappone scalpitava per ripristinare sin dalla firma del Trattato di San Francisco251 – non da ultimo per un emendamento 251 Siglato l’8 settembre 1951 da 49 paesi, sancì la ripresa di regolari relazioni diplomatiche tra Giappone e Stati Uniti, così come con gli altri membri delle Nazioni Unite. Inoltre, mise ufficialmente fine all’occupazione militare del paese da parte delle forze americane, che a partire dall’anno successivo si ritirarono dall’Arcipelago. Cfr. Caroli, Gatti, op. cit., pp. 229-231. 151 simbolico degli errori del suo passato coloniale –, sia per trarre d’impaccio l’alleato americano, il cui interventismo nel Sud-Est Asiatico aveva riportato all’attenzione dell’opinione pubblica e della comunità internazionale le fragili basi legali su cui poggiava la prolungata occupazione delle Ryūkyū. In un mondo proiettato verso la globalizzazione, dove il settore primario costituiva una voce ormai irrilevante nel bilancio pubblico di una nazione del Primo Mondo e l’urgenza di promuovere uno sviluppo sostenibile e rispettoso dell’ambiente non era stata ancora pienamente compresa, Okinawa rappresentava qualcosa di molto simile a un peso morto, ripensabile tutt’al più come un’unica, grande struttura ricettiva dove permettere alle boccheggianti imprese edilizie dello hondo di approfittare del ridotto costo del lavoro, e ai turisti big spender di ricaricare le batterie in uno scenario che non aveva eguali nel resto dell’Arcipelago. Purtroppo, anche a distanza di quasi cinquant’anni, nel cui corso il sogno di spodestare gli Stati Uniti quale prima economia del globo e di guidare verso la modernizzazione le nazioni in via di sviluppo dell’Estremo Oriente si è irrimediabilmente infranto, permane invariata la tendenza a ragionare secondo gli stessi schemi che hanno impedito al paese di interpretare correttamente le sue criticità e punti di forza. Forse sperando in un nuovo miracolo economico – che dovrebbe essere anzitutto demografico –, il Giappone continua così a inseguire la Cina affidandosi al miraggio postfordista della razionalizzazione dei processi di produzione252, ignorando la tiepida risposta del mercato e i segnali d’allarme provenienti dalla sua classe media, perseverando nell’erronea convinzione che produrre in gran quantità e a costi ridotti significhi crescere di conseguenza. Se però si esce dalla rigidità di questo schema mentale e ci si prova a porre nuovamente il medesimo quesito, appare chiaro come l’incompatibilità tra il contesto okinawano e le aspirazioni dell’industria pesante nipponica rappresenti un problema soltanto se lo si vuole intendere come tale. Ferme restando le sue inconfutabili storture, nondimeno il XXI secolo si è distinto per un radicale ripensamento delle priorità da parte di governi e cittadini, la cui risposta alla crescente incertezza, determinata dal cambiamento climatico e dall’esaurimento delle risorse naturali, è stata – almeno nella maggior parte dei casi – di ridurre gradualmente il volume di produzione di beni materiali per favorire un utilizzo più coscienzioso di quello che il pianeta ha Cfr. Berndt E. J. J-Economy, J-Corporation and J-Power since 1990 – From Mutual Gain to Neoliberal Redistribution, Edizioni Ca’ Foscari, Venezia, 2018. 252 152 da offrire, sì da permettere alle prossime generazioni di godere delle stesse comodità e sicurezze che l’umanità è riuscita a conquistarsi nel secolo scorso. In questa prospettiva, le Ryūkyū non solo non verserebbero in una condizione di arretratezza o sottosviluppo, ma presenterebbero anzi le condizioni ideali per una rinascita verde da estendere in un secondo momento all’intero Arcipelago, fondata sulla riduzione di scala, il ritorno alla gestione comunitaria degli spazi e delle risorse, la valorizzazione del patrimonio naturalistico, l’agricoltura biologica e la sensibilizzazione alle tematiche ambientali. Giunti a questo punto, si è ritenuto doveroso approntare una disamina conclusiva di quelli che a nostro parere rappresentano gli ostacoli più insidiosi per la riqualificazione green dell’isola, proponendo al contempo alcune soluzioni concrete frutto della personale rielaborazione delle teorie avanzate da geografi ed esperti di island studies, i cui studi ci hanno guidati nella scelta di questo specifico tema per la presente dissertazione – e per il cui dettaglio si rimanda nuovamente alla bibliografia253. In primo luogo, è noto come la principale fonte di entrate dello hontō, come anche dei suoi maggiori disagi, sia rappresentata dal turismo. Nello specifico, si possono distinguere tre categorie principali di turisti, ciascuna caratterizzata da una diversa modalità di accesso e fruizione alle strutture dell’isola: la prima e più numerosa su base giornaliera è quella dei turisti “mordi e fuggi”, provenienti – in ordine di affluenza – da Taiwan, Cina Popolare, Corea e Hong Kong254, che, sbarcati nel porto di Naha, hanno a disposizione alcune ora di libertà per fare compere e assaggiare qualche prodotto tipico prima di fare ritorno alla propria nave da crociera; per una questione di prossimità, affollano generalmente i negozi della Kokusai Dōri – la via dello shopping a pochi passi dal cuore amministrativo della città – per acquistare souvenir o prodotti di elettronica a regimi d’imposta convenienti. La seconda categoria è quella dei turisti stranieri – sia orientali che occidentali – che visitano Okinawa per soggiorni di media durata – dai tre ai cinque giorni – , solitamente come tappa conclusiva di un più vasto tour dell’Arcipelago; in considerazione delle spese già sostenute durante il viaggio e per il trasporto aereo, alloggiano di 253 Cfr. Gima H., Yoshitake T. A Comparative Study of Energy Security in Okinawa Prefecture and the State of Hawaii in Evergreen, vol. 3, University of Kyushu, Fukuoka, 2016; Kakazu H. Tōsho Keizai no jiritsu wo meguru shomondai in Journal of Island Studies, vol. 3, University of the Ryukyus, Nishihara, 2002; Nishimura Y. Okinawa ni okeru nōson kaihatsu kara mita gurīn tsūrizumu in Journal of Tourism Sciences, vol. 3, University of the Ryukyus, Nishihara, 2011. 254 Cfr. Okinawa tourist numbers top those of Hawaii for first time, The Japan Times, 9 febbraio 2018. 153 norma in alberghi o pensioni a un prezzo accessibile, sfruttando il tempo a disposizione per visitare le attrazioni più rinomate, come l’acquario di Churaumi (Motobu-chō), il Nago Pineapple Park (Nago-shi), l’American Village (Chatan-chō), i punti panoramici di Hedo Misaki (Kunigami-son) e Kafu Banta (Uruma-shi), e il castello di Shuri – quest’ultimo almeno fino allo sfortunato incendio del 2019. Per spostarsi con più facilità, in genere noleggiano un’auto presso uno dei numerosi rentakā (ing. car rental) o utilizzano i pullman turistici messi a disposizione dalle agenzie di viaggi dell’isola: rappresentano inoltre la categoria che più contribuisce a sostenere le piccole attività locali, nonché l’unica potenzialmente interessata a un turismo di tipo naturalistico o culturale. Infine, la terza categoria, composta quasi esclusivamente da turisti originari del mainland, è quella dotata del maggiore potere d’acquisto, ed è dunque in grado di permettersi soggiorni di lunga durata – dalla settimana in su255; la struttura ricettiva prediletta è di conseguenza il resort, che grazie ai suoi comfort e alla distanza dai centri urbani provvede un’esperienza di isolamento all’insegna del relax, salvo particolari richieste dei clienti in altro senso (es. immersioni, spettacoli dal vivo). Il loro contributo in termini puramente monetari all’economia dell’isola è sicuramente il più cospicuo, ma è controbilanciato da un impatto ambientale – sia a priori, per quanto concerne i lavori di costruzione del resort e delle annesse opere di viabilizzazione, sia a posteriori, per la quantità di acqua ed energia consumata – sproporzionato rispetto a quanto possibilmente pagato dal singolo cliente. Data questa configurazione, uno strumento legale appropriato per ridurre gli sprechi e la quantità di rifiuti solidi prodotti dagli spostamenti e dai consumi dei visitatori, oltre alla congestione delle strade di Naha e delle municipalità turisticamente più rilevanti, potrebbe essere l’imposizione – sotto forma di ordinanza prefetturale – di un tetto massimo sugli ingressi, garantendo la precedenza a chi effettivamente prenoti un soggiorno di media o lunga durata presso una delle strutture dell’isola. Un simile provvedimento contribuirebbe sicuramente a limitare l’assalto dei crocieristi, nonché a ridurre la pressione sugli esercizi commerciali e sugli alberghi, che fino a poco tempo prima della pandemia si trovavano impossibilitati ad accogliere le migliaia di ospiti che in alta stagione si precipitavano a Okinawa, approfittando delle offerte-lampo sui voli nazionali. 255 Cfr. Aizawa, op. cit, pp. 4-5. 154 Più arduo da disincentivare appare invece il turismo d’alto bordo, dal momento che, anche in caso di fallimento della singola struttura, difficilmente il governo centrale arriverebbe ad autorizzare lo smantellamento di un resort, il cui impatto ambientale è comunque il più delle volte irreversibile. Quello che invece si può fare, sul fronte della profilassi del territorio che è sinora riuscito a sfuggire alla frenesia edilizia dello hondo, è un potenziamento – o meglio, una revisione in chiave restrittiva – della Legge sull’impatto ambientale attualmente in vigore: in primo luogo, si potrebbe rendere obbligatoria la produzione di una valutazione preventiva sull’impatto ambientale a prescindere dall’entità del progetto, dal momento che, come abbiamo visto, anche gli interventi considerati di piccola scala si dimostrano eccessivamente invasivi per il contesto paesaggistico di Okinawa; in questo senso, anche un ripensamento fondamentale dei criteri definenti la scala di un’opera edilizia, da cui derivano gli specifici adempimenti burocratici e accertamenti tecnici da espletare prima dell’apertura del cantiere, potrebbe aiutare a responsabilizzare impresari e funzionari, richiedendo un più attento lavoro di pianificazione per i primi e di valutazione per i secondi; infine, la decisione finale circa l’opportunità dell’opera si potrebbe rimettere in via esclusiva al Ministero dell’Ambiente, il quale, finalmente libero dallo strapotere del Ministero dell’Economia e del Ministero dei Trasporti – la cui imparzialità è inficiata dalla rete di conoscenze con il mondo dell’edilizia –, formulerebbe il proprio verdetto in base alla sua sola area di competenza, guardando più al parere degli esperti che alle esigenze degli imprenditori. A ogni modo, è difficile credere che un’opera di riforma imperniata esclusivamente su leggi e normative emanate dall’alto sarebbe sufficiente a imprimere una vera svolta al modello di sviluppo di Okinawa. A fronte dell’elevata complessità, la questione del turismo richiede infatti una soluzione altrettanto articolata, per la quale si possono formulare una serie di suggerimenti collaterali la cui implementazione gioverebbe non solo ai visitatori, ma anche a chi sull’isola vive e lavora stabilmente. Anzitutto, sarebbe opportuno provvedere all’ampliamento e ammodernamento dell’intero sistema di trasporto pubblico, a oggi comprendente autobus di linea e monorotaia – la Yui Rēru, che dall’Aeroporto Internazionale di Naha arriva in tre ore a coprire la distanza fino al capolinea della stazione di Tedako-Uranishi, nella municipalità di Urasoe. Per quanto riguarda i primi, essi sono più datati dei loro omologhi riservati ai tour, tanto da necessitare riparazioni frequenti che 155 si ripercuotono sul rispetto degli orari; ancora, gli ingenti costi di manutenzione si riflettono sulle tariffe, che sulle lunghe percorrenze – ovvero praticamente tutte le tratte che dalle municipalità del Centro-Sud si irradiano verso gli altri centri abitati – diventano proibitive, anche volendo sottoscrivere un abbonamento mensile. Invero, se le aziende del trasporto locale, con il supporto economico e organizzativo del governo prefetturale, si risolvessero ad agire di concerto per una sostituzione comprensiva del parco vetture, aumentando allo stesso tempo il numero dei mezzi e degli autisti alle proprie dipendenze, sarebbe possibile organizzare una rete di trasporto più efficiente, in grado di coprire l’intera estensione dell’isola avvalendosi di un sistema di cambi e collegamenti tra linee diverse: in tal modo, invece di poche vetture costrette a percorrere lunghe distanze effettuando poche fermate, si potrebbe arrivare a una copertura più capillare, tale da compensare eventuali ritardi con la frequenza delle corse. Oltre ai turisti, a beneficiarne sarebbero ovviamente i cittadini della prefettura, ai quali sarebbe data l’occasione di emanciparsi dal monopolio sulla mobilità individuale esercitato dalle concessionarie d’auto. Di fatto, la necessità di possedere una propria vettura per spostarsi liberamente non solo comporta un impatto ambientale considerevole in termini di consumo di carburante, di viabilità stradale e di inquinamento acustico e dell’aria, ma costringe le varie tipologie di residenti a lungo termine (teijūsha) – una denominazione che accomuna categorie professionali assai eterogenee, quali militari americani di stanza in Giappone, immigrati lavoratori, ricercatori universitari – ad attraversare un complesso iter burocratico per ottenere la patente di guida e, per chi ne avesse la disponibilità economica, anche per acquistare una propria vettura. Si tratta certamente di un sistema che fa buon gioco ai proprietari di concessionarie, alla protezione dei cui interessi si può in una certa misura imputare le attuali condizioni del trasporto pubblico, lasciato a se stesso allo scopo di favorire un settore che ha il merito di generare occupazione per molti abitanti del luogo. D’altro canto, ridurre gradualmente il numero di autovetture in circolazione contribuirebbe a scoraggiare il fenomeno dell’abbandono delle stesse, che ha ormai raggiunto proporzioni insostenibili: le strade di Okinawa appena fuori dalle zone più trafficate sono infatti disseminate di auto dismesse parcheggiate in doppia fila, lasciate ad arrugginirsi e a degradarsi in prossimità delle abitazioni e delle aree verdi, rilasciando nell’ambiente le sostanze inquinanti più disparate. 156 Ciò è dovuto in primo luogo alle procedure burocratiche e ai costi che i proprietari devono sostenere per lo smaltimento, dal momento che il veicolo deve essere trasportato via nave fino alla terraferma256, dove si trovano gli impianti di rottamazione: tale fatto disincentiva i residenti stranieri ad espletare le pratiche necessarie allo smaltimento prima di far ritorno al proprio paese, tanto che, qualora non si riesca a trovare un connazionale disposto ad acquistare la vettura usata, quest’ultima viene per l’appunto abbandonata per la strada; a loro volta, anche i cittadini giapponesi della prefettura, nonostante il rischio di venire rintracciati ed essere chiamati a rispondere del proprio illecito, finiscono per ricorrere a questa pratica, dato l’elevato numero di macchine che un okinawano normalmente cambia nel corso della sua vita, non da ultimo su impulso dei numerosi incentivi e promozioni offerti dai concessionari. Potenziare la rete del trasporto pubblico non rappresenterebbe dunque soltanto un provvedimento democratico, atto a garantire uguali possibilità di spostamento a tutte le fasce d’età e di reddito, ma anche un’ulteriore polizza sulla vivibilità dei centri urbani e sulla salute dei cittadini, nonché del resto degli inquilini animali e vegetali che popolano gli ecosistemi isolani. In aggiunta, l’avvio di una vera rinascita verde non può prescindere dalla protezione e dalla promozione del patrimonio naturalistico, per la quale si renderà necessaria l’elaborazione di un nuovo modello di turismo rispettoso del delicato equilibrio ecosistemico, soprattutto alla luce dell’importanza capitale che questo settore continuerà a rivestire per l’economia dell’isola per gli anni a venire. In realtà, gli uffici turistici di Okinawa offrono già da diverso tempo gite ed escursioni guidate ai luoghi simbolo del territorio257, ma si tratta perlopiù di attività scarsamente pubblicizzate e quasi esclusivamente per parlanti giapponese, il che esclude a priori i turisti stranieri, più facilmente attirati da svaghi e attrazioni che non presuppongono un’interazione con i locali; inoltre, al di là della barriera linguistica, i professionisti in grado di condurre in sicurezza un gruppo di visitatori nel folto della foresta e di illustrarne le particolarità con cognizione di causa si contano sulle dita di una mano, a causa del numero ridotto di giovani che decidono di intraprendere questo percorso di formazione specialistica. 256 Cfr. Marine Corps Community Services (MCCS), Vehicle Disposal & Deregistration in MCCS Okinawa (official website), 2018. 257 Cfr. Murray A. E. Footprints in Paradise – Ecotourism, Local Knowledge, and Nature Therapies in Okinawa, Berghahn Books, New York City, 2017. 157 Nonostante il forte senso di appartenenza, le nuove generazioni dimostrano infatti un modesto interesse nei confronti della storia naturale e delle bellezze del proprio territorio, complice la ridotta attenzione prestata a questi temi all’interno del curriculum scolastico; al contrario, se si provvedesse a una riforma dei programmi – dalla scuola primaria in poi – meno in linea con l’insegnamento manualistico propugnato da Tokyo e più focalizzata sull’apprendimento sul campo, gli okinawani avrebbero occasione di interfacciarsi con la realtà circostante sin da giovanissimi, attraverso attività formative formalmente integrate nel proprio percorso di studi quali lezioni tematiche, viaggi di istruzione, visite guidate e project work, imparando così ad apprezzare la natura e sviluppando una coscienza ambientale con cui opporre resistenza agli interventi di “miglioramento” a opera delle doken’ya, il cui successo dipende spesso dall’indifferenza riservata dall’opinione pubblica a questi temi. Accompagnati da un metodo di insegnamento delle lingue straniere – cinese mandarino e inglese in primis – improntato all’acquisizione di una padronanza effettiva anziché al superamento dei test a scelta multipla attualmente invalsi nella scuola pubblica, detti aggiustamenti ai curricula contribuirebbero a formare non solo le figure specialistiche (agronomi, guardie forestali, guide turistiche, insegnanti) di cui l’isola ha disperato bisogno per proteggere e monetizzare il proprio patrimonio naturalistico, ma anche dei cittadini debitamente informati e in grado di comprendere le implicazioni ambientali derivanti da determinate scelte di policy, al di là dei vantaggi economici immediatamente visibili. Verosimilmente, il turismo post-pandemico a Okinawa dovrà per forza di cose conformarsi temporaneamente a questa situazione di stallo, rivedendo le proprie strategie di promozione e di accoglienza alla luce del ridotto afflusso di turisti stranieri e delle limitate possibilità economiche della classe media (shimin) dello hondo, che oggi come mai prima d’ora si candida a essere la prima fautrice della ripresa dell’isola. In conclusione, il nostro auspicio è che il cambiamento che si profila all’orizzonte non rappresenti un mero ripiego emergenziale, bensì il punto di partenza di un più coscienzioso approccio alle risorse, agli individui e agli spazi, fondato su una rinnovata conoscenza civica e sulla consapevolezza – per quanto intuitiva – dei processi di territorializzazione e centralizzazione che mettono a repentaglio il paesaggio e l’autosufficienza di questo splendido arcipelago. 158 Bibliografia Libri ADANIYA, Ruth, Uchinanchu: A History of Okinawans in Hawaii, University of Hawaii Press, Manoa, 1986. ALDCROFT, Derek H., From Versailles to Wall Street: 1919 – 1929, University of California Press, Oakland, 1992. BACCIANINI, Mario (traduzione di), DE CERTEAU, Michel, L’invenzione del quotidiano, Edizioni Lavoro, Roma, 2009. BEGON Michael et al., Ecology: From Individuals to Ecosystems, Blackwell Publishing, Hoboken, 2005. 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