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La questione delle “comfort women” nella prospettiva del diritto internazionale: Analisi comparata dei casi Ko Hanako, et Al. c. Giappone e Hwang Geum Joo, et Al. c. Giappone

The aim of this paper is to offer a comparative analysis of two cases, decided respectively by the Japanese Supreme Court on 27 April 2007 and by the U.S. Court of Appeals for the District of Columbia Circuit on 28 June 2005, dealing with civil reparation claims brought against Japan in connection with the so-called "comfort women issue". After a brief historical outline of the issue and of the main positions concerning it, Chapter 1 focuses on the object of the case-study. Sections 5 and 6 move then on to consider the way in which the principle of sovereign immunity has been treated in the two verdicts and the official position of the Japanese government in relation to the policy implemented from 1995 to 2007 under the activity of the Asian Women's Fund. Chapter 2 further presents the author's translation of two Japanese primary sources - namely para. 3 (a) of the judgement rendered on 29 march 2002 by the Tokyo High Court on the Ko Hanako, Et Al. v. Japan Case, dealing with the interpretation of para. 3 of the 1907 Hague Convention (IV), and the entire text of the 2007 Japanese Supreme Court judgement on the same case. An annotated bibliography is reported at the end of the paper.

Corso di Laurea in Lingue, Culture e Società dell’Asia Orientale Prova finale di Laurea La questione delle “comfort women” nella prospettiva del diritto internazionale: la sentenza del 28 giugno 2005 della United States Court of Appeals for the District of Columbia Circuit e la sentenza del 27 aprile 2007 della Corte Suprema del Giappone. Relatore Ch. Prof.ssa Sara De Vido Correlatore: Ch. Prof. Andrea Revelant Laureando Giovanni Lamberti Matricola 826615 Anno Accademico 2011 / 2012 INDICE Introduzione …………………………………………………………………………….. I 序文………………………………………………………………………………………. II Capitolo Primo: inquadramento storico-giuridico della questione delle “comfort women” ………………………………………………………………………………….. 1 1. Introduzione ………………………………………………………………….... 1 2. Istituzione del “comfort women system” e primi sviluppi post-bellici ………... 2 3. Kō Hanako, et al. c. Giappone ……………………………………………….... 6 4. Hwang Geum Joo, et al. v. Japan ……………………………………………... 10 5. I casi Kō Hanako, et al. c. Giappone e Hwang Geum Joo, et al. v. Japan in ottica comparativa e il principio d’immunità degli Stati stranieri ……...…... 14 6. Posizione ufficiale del governo giapponese e attività dell’Asian Women’s Fund …………………………………………………………………………… 17 7. Conclusioni ……………………………………………………………………. 23 Capitolo Secondo: sentenze riportate in traduzione …………………………………… 26 8. Sentenza del 29 marzo 2002 del Tribunale Distrettuale di Tōkyō …………...... 26 9. Sentenza del 27 aprile 2007 della Corte Suprema del Giappone …………….... 28 Bibliografia ragionata …………………………………………………………………... 49 I Introduzione Il presente elaborato nasce anzitutto dall’interesse maturato nei confronti del “comfort women issue” in una duplice prospettiva: sia sul piano dell’applicabilità di determinati strumenti giuridici, sia su quello della sua influenza nel quadro politico-internazionale dell’Asia Orientale. La possibilità di approccio alla questione tramite un’analisi comparativa di due sentenze, rese rispettivamente in Giappone e negli Stati Uniti, ha peraltro costituito un’ulteriore motivazione a favore di tale scelta. Il nucleo centrale dell’elaborato, quale esposto nel Capitolo Primo, propone inizialmente una sintetica introduzione a carattere storico sulla questione delle “comfort women”, cui segue una disamina maggiormente approfondita dei due ricorsi presi in esame come concreto caso di studio. La dottrina dell’immunità degli Stati, declinata nelle specifiche casistiche in precedenza emerse, è quindi oggetto del paragrafo quinto, da cui derivano alcune delle premesse per la successiva analisi delle posizioni ufficiali assunte nel merito dal governo giapponese, con particolare riferimento ai risultati dell’attività svolta fra il 1995 e il 2007 dall’Asian Women’s Fund. Il Capitolo Secondo costituisce invece la presentazione di due rilevanti fonti giapponesi consultate in lingua originale, delle quali si è conseguentemente scelto di fornire una traduzione italiana. Tale traduzione è limitata, per quanto concerne la Sentenza del 29 marzo 2002 del Tribunale Distrettuale di Tōkyō (§8), ad un paragrafo relativo all’interpretazione della Convenzione dell’Aja su leggi e usi della guerra terrestre, mentre è integrale nel caso della Sentenza del 27 aprile 2007 della Corte Suprema del Giappone (§9). II 序文 本卒業小論文 一方 法 いう 含 従軍慰 情勢 主題 高裁 決 びコ 適用 ビア特 能性 婦問題 区合衆国 他方 東ア 中心 当 裁 決 ア 国際 問題 比較 治 日本最 析 成 立 い 第一章 最初 究 対象 さ 責 法理 適用 実 従軍慰 両 決 無 さ 策 そ 和文伊 法規慣例 一節 び 婦問題 焦 当 巡 結果 条約 歴史的側面 ア 基礎 概括的序論 基 第五 例研 節 国家無答 ア女性基金 中心 日本 府 出典 本論第 7 式的立場 章 解釈 第 九節 東京地方裁 日本最高裁 第一小法廷 成 最 参考 種々 検討さ い 紹 さ 陸戦 成 7日 日 決 全文 い 論文 作成 資料 文献目録 掲載さ い 決 構成さ 1 Capitolo Primo: inquadramento storico-giuridico della questione delle “comfort women” 1. Introduzione Oggetto del seguente elaborato sono le vicende giuridiche, quasi coeve e sotto numerosi aspetti parallele, che hanno riportato all’attenzione della cronaca 1 e degli operatori giuridici la questione, mai in realtà totalmente sopita, della responsabilità dello Stato giapponese per i crimini internazionali occorsi durante il conflitto del 1937-45 e, conseguentemente, della possibilità per le vittime sopravvissute di pretendere e ottenerne risarcimento. Se l’attribuzione di responsabilità penale agli Stati appare infatti decisamente da escludersi sulla base delle vigenti norme di diritto internazionale, la persecuzione degli stessi in sede civile, quale è appunto una pretesa di risarcimento per danni, si presenta non meno problematica, considerati gli ostacoli oggettivi e gli aspetti controversi – in primo luogo rappresentati dai limiti d’applicazione della dottrina dell’immunità degli organi sovrani – intrinseci a tale tipo di ricorso. Ove si tenga poi conto di come le vicende relative al conflitto dell’Asia Orientale siano tuttora oggetto di un acceso dibattito storiografico in Giappone e di periodiche frizioni diplomatiche fra quest’ultimo e i circostanti Paesi asiatici, emerge la complessità del panorama politico in cui si collocano tanto la sentenza emessa il 28 giugno 2005 dalla U.S. Court of Appeals for the District of Columbia nel caso Hwang Geum Joo, et al. v. Japan, quanto quella, in seguito indicata come Kō Hanako, et al. c. Giappone, emanata il 27 marzo 2007 dalla Corte Suprema Giapponese. Delle problematiche qui trattate si suggerisce in tal modo la rilevanza sul piano politico internazionale e si impone al tempo stesso un’osservazione maggiormente approfondita al fine di coglierne, oltre alle indubbie affinità, anche le differenze a livello di interpretazione e impiego degli strumenti giuridici coinvolti, nonché delle situazioni contingenti al loro sviluppo. Volendo privilegiare la disamina degli aspetti giuridici degli eventi, al cui fine è contestualmente presentata una traduzione italiana della sentenza d’ultima istanza per Kō Hanako, et al. c. Giappone, la ricerca bibliografica di carattere storico-politico è stata limitata ai documenti strettamente necessari all’individuazione del più ampio panorama internazionale relativo ai ricorsi considerati, con particolare attenzione alle ripetute prese di posizione ufficiali da parte del governo giapponese. I prossimi paragrafi costituiranno dunque un tentativo di comparazione mediante strumenti linguistici 1 Cfr. ad es. ONISHI N., “Japan Court Rules Against Sex Slaves and Laborers”, The New York Times, 28 April 2007. 2 e giuridici di due vicende prese ad esempio tra le più articolate prospettive ulteriormente intravedibili. 2. Istituzione del “comfort women system” e primi sviluppi post-bellici In linea generale, entrambe le cause, dibattute rispettivamente negli Stati Uniti e in Giappone, sono state intentate come ricorsi collettivi da parte di donne asiatiche (sei cittadine sudcoreane, quattro cinesi, tre filippine e una taiwanese nel caso Hwang Geum Joo, et al. v. Japan, due cinesi nel caso Kō Hanako, et al. c. Giappone) contro il governo giapponese, accusato di corresponsabilità nella progettazione e implementazione di un sistema di prostituzione coattiva a beneficio delle forze armate imperiali, attivo nei territori occupati durante il conflitto in Asia Orientale e divenuto in seguito noto sotto la denominazione di “comfort women system” (従軍慰 婦制度 – jūgun ianfu seido).2 Un’utile panoramica storico-critica sulla questione è offerta da una recente opera di Tanaka Yuki, 3 la cui ricostruzione, in larga parte basata sulle fonti primarie raccolte nel Jūgun ianfu shiryōshū (Raccolta documentale sulle comfort women) edito da Yoshimi Yoshiaki, possiede il pregio di esprimere una posizione nettamente anti-revisionistica e dunque favorevole al riconoscimento di responsabilità in capo allo Stato giapponese, pur senza nascondere le difficoltà obiettive poste alla ricerca storica dalla perdurante segretezza di numerose fonti (perlopiù documenti appartenuti alle forze di polizia, nonché ai Ministeri degli Interni, delle Colonie, del Lavoro, di Salute Pubblica e della Giustizia), che potrebbero contribuire decisivamente ad una migliore comprensione degli eventi. Incerta, ma probabilmente riconducibile alla spedizione a Shanghai compiuta ancora nel 1932 sotto il comando del generale Shirakawa Yoshinori, è la data d’istituzione del sistema, le cui radici e connessioni profonde vengono d’altro canto ravvisate da Tanaka nel più antico mercato della prostituzione traente alimento dall’emigrazione di donne giapponesi in Cina (c.d. 唐行 さ – karayukisan) alla fine del XIX secolo. Del pari congetturale è il numero delle vittime di tale sistema, stimato da Tanaka sulla base di un ordine emanato nel 1941 dal comando dell’Armata del Kwantung in 80.000-100.000 e dalle ricerche svolte nell’ambito 2 Per il dibattito sulla legittimità dell’uso del termine “comfort women”, impiegato nel seguito per motivi di praticità e comprensibilità, si vedano ad es. TANAKA Y., Japan's Comfort Women: Sexual Slavery and Prostitution during World War II and the U.S. Occupation, London, Routledge, 2002, pp. 6-7 e R. CAROLI, “‘Comfort Women’. Una lettura di genere”, in Deportate, esuli, profughe, N° 10, 2009, p. 132. 3 TANAKA Y., op. cit. 3 del progetto Memory and Reconciliation in the Asia-Pacific della George Washington University4 in una ancor più vaga ipotesi di 20.000-200.000 donne asiatiche ridotte in schiavitù sessuale durante l’intera durata del conflitto. Ciò premesso, risulta comunque possibile tracciare con una certa precisione i collegamenti fra le autorità statali civili e militari che ressero l’impalcatura del sistema, schematicamente individuabili nei seguenti punti: 1) una strategia ampiamente nota e concordata fra le più alte sfere militari (i singoli comandi d’armata, di fatto responsabili per l’organizzazione delle comfort stations,5 e il sovrastante Ministero della Guerra), giustificata principalmente dalla necessità di provvedere fonti di distrazione alle truppe impegnate al fronte, limitando al contempo l’incidenza delle malattie veneree tramite un sistema di prostituzione controllata; 2) il sicuro coinvolgimento del Kenpeitai (Polizia Militare) nel “reclutamento” delle comfort women e nelle susseguenti operazioni logistiche, nonché dell’Ufficio di Polizia delle Colonie nell’emanazione dei passaporti necessari ai movimenti del personale civile all’interno dei territori occupati; 3) il ruolo svolto dal Ministero degli Esteri per mezzo di una direttiva emanata nel 1942 che, consentendo l’espatrio verso le colonie alle comfort women provviste di documenti militari, cedette di fatto il controllo completo dell’organizzazione al Ministero della Guerra;6 4) la collaborazione fornita dalle autorità coloniali (in particolare dal generale Minami Jirō, governatore generale della Corea) e, in taluni casi, da operatori privati già attivi precedentemente nelle zone d’occupazione. Il Tribunale Internazionale riunitosi a Tōkyō fra il 1946 e il 1948, pur occupandosi marginalmente della responsabilità di alcuni organi dello Stato giapponese, trattò tuttavia la questione sulla base di un differente approccio, finalizzato cioè, come nel caso di Norimberga, alla determinazione e persecuzione di crimini individuali. Se una simile decisione può oggi apparire 4 Issues: Comfort Women, in “Memory & Reconciliation in the Asia-Pacific”, http://www.gwu.edu/~memory/issues/co mfortwomen/index.html, 26-07-2011. 5 6 慰 – ianjo. Cfr. TANAKA Y., op. cit., p. 27: «In January 1942, the Minister of Foreign Affairs, Tōgō Shigenori, instructed his staff the comfort women should be issued with military travel documents and that they would no longer require a passport for overseas travel.» La direttiva cui fa riferimento Tanaka è riportata in YOSHIMI Y. ed., Jūgun ianfu shiryōshū, Tōkyō, Ōtsuki Shoten, 1992, pp.142-143. 4 giustificabile sulla base delle eccezionali circostanze storiche, tali da richiedere persino l’introduzione di fattispecie precedentemente sconosciute al diritto internazionale, è pur vero che la questione della responsabilità dello Stato giapponese (e quindi della possibilità per le vittime del comfort women system di pretendere da esso un risarcimento individuale) non venne sostanzialmente affrontata. A dimostrazione di come conclusioni assimilabili alla posizione espressa da Tanaka 7 non siano tuttavia per nulla scontate, implicando peraltro un considerevole elemento politico, è d’altro canto possibile ricordare a titolo d’esempio un articolo di Nitta Hitoshi,8 prevalentemente basato sulle ricerche di Hata Ikuhiko e rappresentativo di una posizione storiografica revisionistica, le cui tesi si collocano su una linea diametralmente opposta. In considerazione degli aspetti finora brevemente enunciati, non sorprende riscontrare un’analoga problematicità nelle dinamiche evolutive del movimento postbellico delle comfort women, le cui prime tappe fondamentali, dalla sua costituzione in Corea del Sud all’inizio degli anni settanta alla prima class action contro il Giappone intentata da 35 vittime il 6 dicembre 1991, sono peraltro ricordate in un articolo di Chunghee Sarah Soh. 9 I contenuti della pubblicazione, focalizzata particolarmente sulle risposte all’iniziativa giapponese dell’Asian Women’s Fund (ア ア 女 性 基 金 – Ajia Josei Kikin), saranno successivamente ripresi nell’ambito generale delle considerazioni politiche associate al caso: si è voluto tuttavia qui introdurla per richiamare l’attenzione sul ruolo ricoperto in tali vicende dall’evoluzione della percezione internazionale (è il caso delle Guerre jugoslave, le cui atrocità guadagnarono una subitanea attenzione ai c.d. genderspecific war crimes), oltre che dai cambiamenti politici occorsi nei singoli Stati, quali l’avvio del processo di democratizzazione in Corea del Sud nel 1987 e il suo ingresso all’ONU nel 1991, circostanza che l’anno successivo permise al Korean Council for Women Drafted for Military Sexual Slavery by Japan di indirizzare la questione delle comfort women direttamente alla Commissione delle Nazioni Unite per i Diritti Umani.10 7 Cfr. TANAKA Y., op. cit., p. 181: «The Japanese cannot escape responsibility for these unprecedented violations of human rights […].». 8 NITTA H., "And Why Shouldn't Japanese Prime Minister Worship at Yasukuni? A Personal View", in J. Breen (a cura di), Yasukuni, the War Dead, and the Struggle for Japan's Past, New York, Columbia University Press, 2008. 9 S. SOH, “Japan's National/Asian Women's Fund for Comfort Women”, in Pacific Affairs, Vol. 76, N° 2, 2003, pp. 209- 233. 10 Cfr. S. SOH, op. cit., p. 215: «In March, the NGO Korean Council for Women Drafted for Military Sexual Slavery by Japan […] appealed to the UN Commission on Human Rights (UNCHR) to investigate their cause. During the course 5 E’ infine opportuno ricordare l’analisi svolta in merito ai crimini di guerra commessi contro le donne e al loro trattamento nei tribunali internazionali da Kelly Dawn Askin, 11 la quale, esprimendosi sia sul terreno propriamente giuridico sia su quello più ampiamente storico e sociale, evidenzia in particolar modo le connessioni con gli aspetti giuridici al centro della successiva trattazione. La scarsa rilevanza assunta da questo tipo di crimini nei tribunali costituitisi in Asia successivamente alla conclusione del conflitto rappresenta in tal senso un assunto di partenza nella determinazione delle resistenze opposte all’attuazione della giustizia storica nel caso delle comfort women. Le motivazioni di un simile silenzio furono varie, estendendosi dalla riluttanza delle vittime sopravvissute a denunciare la propria condizione a causa della vergogna sociale che ne sarebbe potuta derivare, allo sfruttamento del medesimo sistema da parte delle forze d’occupazione alleate, denunciato peraltro anche nel citato studio di Tanaka: il risultato fu che le donne asiatiche vennero escluse dalla giustizia dei vincitori, forse per lo stesso fatto di essere allo stesso tempo asiatiche e donne e, dunque, obbligate a prestare il loro conforto agli uomini impegnati nella guerra ancor più di quanto ci si attendesse da donne bianche.12 A simili riflessioni perviene anche l’opera di Askin, presentante in seguito una serie di ragioni per le quali, trascorsa l’epoca dei tribunali di guerra, i ricorsi in tal senso continuano nondimeno a rappresentare una via difficilmente praticabile (ad esempio, a causa dei traumi fisici e psicologici riportati dalle vittime, talora troppo estesi da consentire il ricorso ad una corte, di un’interpretazione eccessivamente restrittiva della legislazione vigente, o ancora dell’acquiescenza delle autorità civili verso l’imputato, qualora esse siano convinte della maggior convenienza di una forma extra-giudiziale di risoluzione). Come inoltre già ricordato, il fatto che l’“imputato” nei casi qui considerati non sia una semplice persona pubblica o privata, bensì lo Stato stesso, rende inapplicabile lo Statuto della Corte Penale Internazionale, la cui retroattività rispetto alla sua entrata in vigore (1 luglio 2002) sarebbe peraltro da escludere in ogni caso. Non essendo ancora riconosciuto dal diritto internazionale un principio di responsabilità penale degli Stati, l’eventuale ricorso deve conseguentemente essere svolto sul piano civile del risarcimento per danni. La tesi (segue nota) of the year, the dynamic trajectory of the Korean women's efforts included the Korean Council's presentations on the comfort women issue to UNCHR meetings in Geneva as well as diligent networking with women's organizations in afflicted Asian nations to build solidarity.» 11 K. D. ASKIN, War Crimes Against Women: Prosecution in International War Crimes Tribunals, The Hague, Martinus Nijhoff Publishers, 1997. 12 R. CAROLI, op. cit., p. 134. 6 fondamentale dell’opera, ossia che i casi di violenza sessuale presi in considerazione siano di per sé soggetti a giurisdizione universale in quanto violazione di norme imperative (jus cogens), ribadite da strumenti giuridici ormai assimilabili a norme consuetudinarie, quali le Convenzioni dell’Aja del 1899 e del 1907 e le Convenzioni di Ginevra del 1949, introduce quindi al tema portante di entrambe le sentenze qui esaminate, vale a dire il rapporto sussistente fra violazione dei diritti umani, jus cogens e dottrina dell’immunità degli Stati. Prima di osservare le posizioni dottrinarie inerenti nello specifico alle questioni emerse da Hwang Geum Joo, et al. v. Japan e da Kō Hanako, et al. c. Giappone, risulta d’altro canto agevole fornire una breve sequenza cronologica dei due casi, comprensiva dei principali elementi in essi contenuti: sarà in seguito più immediato ricondurre la dottrina alla giurisprudenza considerata, fornendo in ultima analisi maggiori elementi per la lettura degli aspetti politici coinvolti. 3. Kō Hanako, et al. c. Giappone Prima fra le due in ordine cronologico e posteriore di cinque anni alla class action del 1991 (conclusasi successivamente con un’archiviazione nel 2001), il ricorso intentato da Guo Xicui (nella sentenza finale della Corte Suprema Giapponese, 告人X – Jōkokunin Ekkusu Ichi – “Appellante X1”) e Hou Qiaolian (deceduta prima della conclusione del processo e indicata pertanto come 亡A – Bō Ē – “Defunta [Appellante] A”) viene avviata il 23 febbraio 1996 presso il Tribunale Distrettuale di Tōkyō sotto forma di richiesta di un risarcimento di venti milioni di yen per ciascuna delle ricorrenti, nonché di scuse ufficiali da parte del governo giapponese. Indicazioni sulle argomentazioni impiegate nella sentenza, disponente l’archiviazione del caso il 29 marzo 2002, 13 si possono trovare riassunte nella pagina dedicata del programma Memory and Reconciliation in the Asia-Pacific,14 nel quale è preso in considerazione il ruolo della Convenzione dell’Aja del 1907 su leggi e usi della guerra terrestre (cui il Giappone aveva aderito nel 1911) nel consentire o meno il ricorso individuale contro lo Stato violante i termini del Regolamento. Argomentando principalmente sul dettato dell’art. 2 della Convenzione e sulla dottrina prevalente 13 “Heisei jūyonen sangatsu nijūkyūnichi Tōkyō Chihō Saibansho hanketsu” (Sentenza del 29 marzo 2002 del Tribunale Distrettuale di Tōkyō), in Hanrei jihō, N° 1804, p. 50. 成 14 14 3 29 日東京地方裁 決時報 第 1804 号 50 頁. ANONIMO, Comfort Women: Japan, Chinese Comfort Women: (2nd Group), in “Memory & Reconciliation”, cit., http://www.gwu.edu/~memory/data/judicial/comfortwomen_japan/Chinese%20(2nd%20group).html, 26-07-2011. In appendice è presentato in traduzione italiana il paragrafo 3(a) del testo originale. 7 all’epoca della sua formazione, notoriamente poco consapevole della soggettività internazionale dell’individuo, la corte nega che l’obbligo di riparazione (賠償 責 – baishō no seki, secondo la versione giapponese dell’art. 3) gravante sullo Stato responsabile possa essere invocata da altri che i soggetti statali parte del trattato. L’art. 11 co. 1 dell’Application of Laws Act (法例 – Hōrei), stabilisce inoltre che, in materia di formazione ed effetti di pretese non contrattuali, «the formation and effect of claims arising from […] tort shall be governed by the law of the place where the events causing the claims occurred»15, specificando tuttavia al co. 2 l’inapplicabilità del precedente paragrafo nel caso in cui gli eventi in questione siano avvenuti all’estero e non costituiscano torto per la legge giapponese. Tale è in effetti la conclusione raggiunta dal Tribunale Distrettuale, secondo il quale l'obbligo di riparazione derivante allo Stato per azioni dannose compiute come atto d'autorità non era riconosciuto dalla Costituzione dell'Impero del Giappone, ragion per cui, anche in relazione alla presente questione, non sussiste per l'imputato alcun obbligo di riparazione a beneficio dei ricorrenti.16 Ciononostante, per la prima volta i disturbi post-traumatici derivati dal trattamento subito dalle vittime sono ufficialmente annoverati fra gli elementi oggettivi del danno, posizione in seguito significativamente mantenuta fino al giudizio della Corte Suprema, seppur nella forma congetturale di disturbo post-traumatico da stress causato da un grave trauma psichico che si ritiene collegato all’imprigionamento e alle violenze di cui detto.17 15 K. ANDERSON, Y. OKUDA, “Hōrei, Act on the Application of Laws, Law No. 10 of 1898”, in Asian-Pacific Law and Policy Journal, Vol. 3, N° 1, 2002, pp. 235-236. 16 “Sentenza del 29 marzo 2002 del Tribunale Distrettuale di Tōkyō”, cit. 17 “Heisei jūkyūnen shigatsu nijūshichinichi Saikō Saibansho (Daiichi Shōhōtei) hanketsu” (Sentenza del 27 aprile 2007 del Primo Collegio Ristretto della Corte Suprema), in Shūmin, N° 224, p. 325. 成 19 4 Corsivo nostro. 27 日最高裁 第一小法廷 決 集民 第 224 号 325 頁. 8 Le analoghe conclusioni raggiunte nella sentenza del 18 marzo 2005 dell’Alta Corte di Tōkyō18 si trovano sintetizzate nel giudizio d’ultima istanza del 27 aprile 2007, nel quale la Corte Suprema, pur rigettando definitivamente l’appello, esprime alcune prese di posizione concorrenti a quelle dell’Alta Corte e meritevoli di particolare interesse, specie nell’ottica di una possibile evoluzione futura della giurisprudenza relativa a casi similari. Alla base della ricostruzione proposta dalla Corte Suprema si trova anzitutto il concetto di “quadro generale del Trattato di Pace di San Francisco” ( サ フラ コ 和条約 枠組 – San Furanshisuko heiwa jōyaku no wakugumi), ovvero l’impostazione generale dei trattati di pace stipulati dal Giappone nel secondo dopoguerra e ispirati alla ratio originaria del Trattato di San Francisco. A tale ratio – volta in ultima analisi a prevenire tanto il formarsi di un possibile spirito revanscista giapponese, quanto il collasso del neonato Stato democratico sotto eccessivi oneri di riparazione – la corte ascrive il paragrafo quinto del Comunicato congiunto sino-giapponese del 1972 e il preambolo del successivo Trattato di Pace e Amicizia del 1978, che vengono di fatto assimilati ad un più ampio processo di “disposizione dei diritti di pretesa” (請求権 処理 – seikyūken no shori). La “disposizione” qui trattata, considerata parte di tutti gli accordi di pace internazionali conclusi dal Giappone anche dopo il 1951, rappresenta quindi l’argomento portante della tesi del collegio giudicante, che se ne serve anche per superare un’eventuale ambiguità presentata dal dettato del paragrafo quinto del Comunicato Congiunto (tale aspetto è trattato al paragrafo 2.IV della sentenza, malgrado non siano mancate da parte della dottrina posizioni critiche riguardo la fondatezza di una simile conclusione).19 Malgrado definitiva quanto alla sua immediata risoluzione, una simile logica appare tuttavia particolarmente degna d’interesse nel riconoscere come la “rinuncia” all’esercizio dei diritti di pretesa qui esposta non giunga a significarne l’estinzione sostanziale, ma si limiti a far decadere il potere di ricorso alla Corte in base ad essi.20 18 “Heisei jūshichinen sangatsu jūhachinichi Tōkyō Kōtō Saibansho hanketsu” (Sentenza del 18 marzo 2005 dell’Alta Corte di Tōkyō), in Hanrei jihō, N° 1843, p. 32. 成 17 19 03 18 日東京高等裁 決 例時報 第 1843 号 32 頁. Si veda ad es. M. A. LEVIN, “Nishimatsu Construction Co. v. Song Jixiao et al.; Kō Hanako et al. v. Japan”, in The American Journal of International Law, Vol. 102, N° 1, 2008, pp. 148-154., che esprime dubbi sulla logica mediante cui la Corte Suprema è giunta ad includere gli individui fra i soggetti della rinuncia ai diritti di pretesa dichiarata nel Comunicato Congiunto. 20 “Sentenza del 27 aprile 2007 del Primo Collegio Ristretto della Corte Suprema”, cit. 9 Ciò potrebbe implicitamente costituire un’apertura favorevole della Corte Suprema ad accordi extra-giudiziali volti a risolvere future controversie di questo genere: un’apertura “politica” quindi, se considerata in questa prospettiva, e in quanto tale priva di effetti giuridici, ma tanto più significativa ove si tenga conto delle vicissitudini attraversate dalle iniziative intraprese in tal senso dal governo giapponese a partire dagli anni novanta. Non meno rilevante è infine il trattamento riservato dalla corte alla dottrina dell’immunità degli organi sovrani, sollevata dalla difesa fin dal primo grado di giudizio. Riprendendo in ciò sostanzialmente la tesi della corte di seconda istanza, la Corte Suprema, al paragrafo 1.IV.(1) della sentenza nega infatti la possibilità di assumere l’applicabilità del principio nel caso in questione, non essendosi nello specifico verificato un “impiego di potere pubblico dello Stato” (国 行使 権力 – kuni no kōkenryoku no kōshi). Il diniego della natura di actum jure imperii all’organizzazione del comfort women system si presenta pertanto rilevante sotto due principali aspetti: ai fini immediati della presente trattazione, in quanto costituisce, come si vedrà, un elemento distintivo rispetto al giudizio emesso dalla U.S. Court of Appeals for the District of Columbia Circuit nel caso Hwang Geum Joo, et al. v. Japan; a livello più generale perché esso contrasta con tesi, quale quella di Tanaka Yuki, miranti a dimostrare il consapevole coinvolgimento dello Stato nell’organizzazione del sistema in funzione strategica. Affermare che «le violenze di cui detto non sono di per sé riconosciute come azioni belliche, strategiche, od attività a queste ultime connesse»,21 pur rappresentando sotto taluni aspetti un parziale diniego del coinvolgimento dello Stato nel tipo di attività oggetto della causa, ha in ultima analisi consentito di rimuovere uno dei maggiori ostacoli alla conduzione di simili azioni legali, lasciando al tempo stesso ipotizzare come posizioni opposte potrebbero paradossalmente condurre al successo di una difesa imperniata sul principio di potere sovrano.22 21 Ibid. 22 Una simile ipotesi non dovrebbe ovviamente mancare di analizzare il rapporto sussistente fra l’immunità riconosciuta agli Stati per i c.d. acta jure imperii e il ruolo ricoperto da eventuali norme di diritto cogente poste a tutela dei diritti umani fondamentali, tema che verrà nuovamente preso in considerazione funzionalmente alla disamina dei casi in questione. Per una posizione critica, rappresentativa delle problematiche tuttora persistenti in materia, si veda ad es. L. M. CAPLAN, “State Immunity, Human Rights, and Jus Cogens: A Critique of the Normative Hierarchy Theory”, in American Journal of International Law, Vol. 97, N° 4, 2003, pp. 741-781. 10 4. Hwang Geum Joo, et al. v. Japan Se il ragionamento sottostante agli sviluppi del caso Kō Hanako, et al. c. Giappone si svolge principalmente sul piano dell’interpretazione di fonti primarie e secondarie del diritto internazionale (rispettivamente una consuetudine, quale il principio di immunità degli organi sovrani, e una serie di trattati, quali il Trattato di Pace di San Francisco e il Trattato di Pace e Amicizia fra Repubblica Popolare Cinese e Giappone), nel caso Hwang Geum Joo, et al. v. Japan, la connotazione di common law del diritto statunitense, unitamente all’elemento di complicazione rappresentato dalla sostanziale estraneità di attore e convenuto rispetto al Paese del foro giudicante, rendono necessaria la considerazione di alcuni atti normativi interni disciplinanti la giurisdizione delle corti americane e l’immunità degli Stati stranieri. Specifica attenzione è pertanto richiesta nei confronti di tali norme giuridiche, le quali, costituendo una forma di adattamento mediante procedimento ordinario al diritto internazionale, non ne rispecchiano necessariamente le evoluzioni in ogni circostanza. L’FSIA (Foreign Sovereign Immunities Act)23 è, in particolare, lo strumento legislativo statunitense in materia di immunità degli Stati stranieri, coerentemente in ciò alla tendenza, secondo Caplan propria generalmente della tradizione di common law, a disciplinare questo aspetto del diritto mediante procedimento ordinario di riformulazione del diritto internazionale:24 sulla base del caso Argentine Republic v. Amerada Hess Shipping Corp.25 esso costituisce inoltre «the sole basis for obtaining jurisdiction over a foreign state in our courts», 26 rendendo di conseguenza superflua l’analisi dell’Alien Tort Statute.27 23 28 United States Code §§1330, 1332, 1391(f), 1441(d), 1602-1611. 24 Si consideri ad es. per la Gran Bretagna lo United Kingdom State Immunity Act del 1978. Jürgen Bröhmer (J. BRÖHMER, State Immunity and the Violation of Human Rights, The Hague, Martinus Nijhoff Publishers, 1997) indica inoltre nell’FSIA il tentativo di risolvere la situazione di dipendenza del Department of Justice rispetto al Department of State che si era venuta a creare contestualmente all’adozione della c.d. dottrina dell’immunità relativa degli Stati stranieri espressa nella Tate Letter del 1952. 25 Argentine Republic v. Amerada Hess Shipping Corp., 488 U.S. 428 (1989). 26 Tale osservazione si trova ribadita, riferita al caso Creighton Ltd. v. Gov’t of the State of Qatar, 181 F.3d 118 (D.C.Cir. 1999), anche in Hwang Geum Joo, et al. v. Japan, 413 F.3d 45 (D.C. Cir. 2005), p. 5. 27 Da notare come, malgrado l’Alien Tort Statute possa apparire collegabile al caso in questione, anche trascurando le disposizioni di Argentine Republic v. Amerada Hess Shipping Corp. sussisterebbe pur sempre il problema della correlazione di tale normativa al diritto internazionale penale, il che renderebbe arduo sostenerne l’applicabilità qualora l’imputato non sia un individuo – come nel caso Filártiga v. Peña-Irala, 630 F.2d 876 (2d Cir. 1980) – bensì uno Stato, come in Hwang Geum Joo, et al. v. Japan. 11 La prima sentenza emessa sul caso, aperto il 18 settembre 200028 presso la District Court of Columbia e da quest’ultima archiviato il 4 ottobre 2001, è riassunta all’interno del Memorandum Opinion del giudice Henry J. Kennedy in un verdetto di non giustiziabilità. 29 L’attore aveva precedentemente richiesto, tramite l’Opposition to the Defendant’s Motion del 7 maggio 2001, l’applicazione del paragrafo 1605(a)(2) dell’FSIA (c.d. “commercial activity exception”), 30 l’assunzione di una rinuncia implicita all’immunità (“implied waiver”) giustificata dalla violazione di norme di diritto imperativo e il disconoscimento della tesi secondo cui il caso avrebbe rappresentato una questione politica non giustiziabile. Le obiezioni così strutturate sono quindi respinte dalla corte visto come: 1) l’accettazione giapponese della Dichiarazione di Potsdam del 1945 non si possa considerare una rinuncia all’immunità, in quanto non rispondente ai criteri di chiarezza, intenzionalità e assenza di ambiguità necessari a sostenere un explicit waiver secondo il paragrafo 1605(a)(1) dell’FSIA;31 2) la teoria dell’implied waiver costruita sulla violazione di norme internazionali cogenti sia incompatibile con il requisito di intenzionalità espresso nel medesimo paragrafo;32 28 La sequenza cronologica e le linee generali delle argomentazioni impiegate nei vari gradi di giudizio si possono trovare riassunte in ANONIMO, Comfort Women: U.S., Hwang Geum Joo, et al. v. Japan, in “Memory & Reconciliation”, cit., http://www.gwu.edu/~memory/data/judicial/comfortwomen_us/hwang%20geum%20joo.html, 26-07-2011 e inoltre in ANONIMO, “Nonapplicability of FSIA Exceptions to ‘Comfort Women’ Case”, in The American Journal of International Law, Vol. 97, N° 3, 2003, pp. 686-688. 29 «The court therefore concludes that even if Japan did not enjoy sovereign immunity, plaintiffs' claims are nonjusticiable and must be dismissed.» (Hwang Geum Joo, et al. v. Japan, Civil Action 00-02233 (HHK) (D.C. Cir. 2001), p. 24). 30 Dell’FSIA veniva contestualmente suggerita l’applicazione retroattiva, sulla base di Princz v. Federal Republic of Germany, 26 F.3d 1166 (D.C. Cir. 1994). 31 Tali criteri si trovano ulteriormente spiegati nel commentario all’FSIA contenuto in A. DICKINSON, R. LINDSAY, J. P. LOONAM, State Immunity: Selected Materials and Commentary, Oxford, Oxford University Press, 2004, pp. 247 ss., ove il caso dell’explicit waiver è di fatto ricondotto alle sole due fattispecie di un trattato internazionale facente menzione della rinuncia all’immunità, o di un analogo trattato riconoscente la giurisdizione statunitense sulle attività in esso disciplinate. 32 L’osservazione, contenuta nel Memorandum Opinion del giudice Kennedy, è ripresa da Princz v. Federal Republic of Germany; in A. DICKINSON, R. LINDSAY, J. P. LOONAM, op. cit., si considera applicabile l’implied waiver in caso di clausola d’arbitrato, di scelta legislativa, o laddove l’organo sovrano citato in giudizio rinunci a basare la propria difesa sul principio d’immunità. Una critica alla teoria, paradossale nell’opinione dell’Autore, per cui lo Stato dovrebbe 12 3) il comfort women system non abbia costituito un’attività commerciale soggetta alle eccezioni del paragrafo 1605(a)(2), in quanto le risorse in esso impiegate non sarebbero state del tipo normalmente a disposizione di una qualsiasi attività economica privata;33 4) l’identificazione del caso come political question non giustiziabile sia motivata dalla presenza di due dei fattori enunciati nella sentenza Baker v. Carr, 369 U.S. 186 (1962) – nella fattispecie, la mancanza di standard giuridicamente affermabili e utilizzabili per trattare il caso e l’impossibilità di giudizio in assenza di una scelta politica iniziale a carattere discrezionale.34 Il Brief for Appellants35 presentato successivamente al ricorso in appello il 5 ottobre 2001 argomenta di conseguenza sui punti precedentemente esposti, sostenendo la validità della teoria dell’implied waiver derivante dalla violazione di norme internazionali cogenti e l’applicabilità della commercial activity exception. Se le prove a sostegno del secondo aspetto appaiono condivisibili sulla base del riferimento all’origine storica del sistema e delle critiche mosse all’impiego in prima istanza dei precedenti Saudi Arabia v. Nelson, 507 U.S. 349 (1993) e Cicippio v. Islamic Republic of Iran, 30 F.3d 164 (D.C. Cir. 1994), 36 gli argomenti a favore della teoria dell’implied waiver (segue nota) ritenersi implicitamente rinunciatario alla propria immunità a fronte di una violazione dello jus cogens (quale una gross violation dei diritti umani) è contenuta in L. M. CAPLAN, op. cit. 33 Conseguentemente il requisito dell’effetto diretto sugli Stati Uniti prescritto dall’FSIA nel caso di “act outside the territory of the United States in connection with a commercial activity of the foreign state elsewhere” non è verificato dalla corte, che risolve la questione negando radicalmente agli atti considerati la stessa natura di “attività commerciale”. 34 Sull’analisi della political question doctrine si veda ad es. B. STEPHENS et al., International Human Rights Litigation in U.S. Courts, The Hague, Martinus Nijhoff Publishers, 2008. In relazione al primo dei punti qui citati, l’Autore obietta come nel caso dei diritti umani sia in realtà possibile identificare standard giuridici ampiamente definiti e codificati (da notare, tuttavia, sempre in relazione a crimini internazionali dell’individuo). D’altro canto si ricorda come la sentenza Sarei v. Rio Tinto PLC, 221 F. Supp. 2d 1116 (C.D. Cal. 2002) abbia stabilito l’applicabilità del precedente di Alperin v. Vatican Bank, 242 F. Supp. 2d 686 (N.D. Cal. 2003) – un caso di questione politica legata a decisioni discrezionali estranee alla magistratura, significativamente citato anche nella sentenza definitiva della Corte d’Appello in Hwang Geum Joo, et al. v. Japan – ai crimini di guerra commessi dai nemici degli Stati Uniti durante un conflitto mondiale. 35 Brief of Amici Curiae Askin et al. in Support of Plaintiff-Appellants Hwang Geum Joo et al. and Reversal of the District Court Decision, United States Court of Appeals for the District of Columbia Circuit, No. 01-7169, 28 August 2002. 36 Nello specifico, gli amici curiae ricordano come il caso Nelson richiedesse l’applicazione del paragrafo 1605(a)(2) dell’FSIA per azione dello Stato straniero “based upon a commercial activity carried on in the United States” (mentre l’attore in Hwang Geum Joo, et al. v. Japan si riferisce ad atti “in connection with a commercial activity elsewhere”) e come, in quella situazione, il legame fra il torto subito e l’attività commerciale fosse meramente indiretto, diversamente 13 vertono tuttavia prevalentemente sul ruolo storico e giuridico di trattati (quali la Convenzione internazionale per la repressione del traffico di donne e bambini del 1921) e tribunali (International Military Tribunal, International Military Tribunal for the Far East, International Criminal Tribunal for the former Yugoslavia e International Criminal Tribunal for Rwanda) legati all’accertamento e persecuzione di crimini di guerra (dunque, nuovamente, in una dimensione individuale, solo indirettamente rilevante nel caso in cui il convenuto sia uno Stato al quale è chiesto un risarcimento per danni in una causa civile). La motivazione per l’archiviazione dell’appello (27 giugno 2003) è legata, come nella precedente sentenza, al rifiuto della teoria dell’implied waiver e all’applicazione della political question doctrine, cui si aggiungono il riferimento al framework creato dal Trattato di Pace di San Francisco (un aspetto quindi simile al caso Kō Hanako, et al. c. Giappone precedentemente analizzato) e la negazione della possibilità di applicazione retroattiva dell’FSIA e delle sue eccezioni (questione che non era stata in precedenza esaminata alla luce delle considerazioni sulla non giustiziabilità del caso in generale). Su rimando della Corte Suprema, la United States Court of Appeals for the District of Columbia Circuit ha emesso il 28 giugno 2005 una sentenza definitiva confermante in maniera sostanziale la posizione della Corte Distrettuale relativo alla natura politica della questione.37 Nello specifico, l’affermazione secondo cui un giudizio della corte «would undo a settled foreign policy of state-to-state negotiations with Japan», 38 riflette i due fattori agenti nell’individuazione della political question: vale a dire, il dissenso fra Giappone e Corea del Sud (entrambi Paesi alleati degli Stati Uniti) riguardo l’interpretazione del Trattato di Pace di San Francisco e il diretto intervento in materia da parte dell’esecutivo statunitense attraverso uno Statement of Interest del 27 aprile 2001, ancora all’epoca del primo grado di giudizio. (segue nota) quindi dal caso delle comfort women. Nel caso Cicippio, la Corte Suprema aveva invece rifiutato di riconoscere la natura di “attività commerciale” al rapimento finalizzato all’ottenimento di un riscatto, osservando l’inesistenza di un “mercato dei rapimenti” paragonabile a quello in cui si svolgono normalmente le attività private: la considerazione è ripresa nella lettera degli amici curiae per rimarcare al contrario l’esistenza, tuttora attuale, di un mercato della prostituzione del quale il comfort women system non avrebbe rappresentato che una riproposizione su maggior scala. 37 «We hold the appellants’ complaint presents a nonjusticiable political question, namely, whether the governments of the appellants’ countries resolved their claims in negotiating peace treaties with Japan.» (Hwang Geum Joo, et al. v. Japan, 413 F.3d 45 (D.C. Cir. 2005), p. 14). 38 Ibid., p. 13. 14 5. I casi Kō Hanako, et al. c. Giappone e Hwang Geum Joo, et al. v. Japan in ottica comparativa e il principio d’immunità degli Stati stranieri Una breve considerazione retrospettiva dei due casi alla luce degli elementi analizzati nei precedenti paragrafi consente di coglierne meglio le similitudini e le differenze, queste ultime legate non tanto agli esiti concreti – analoghi nella loro negazione del risarcimento richiesto dall’attore – quanto ai diversi sistemi legali ad essi sottostanti e, conseguentemente, alle rationes delle sentenze giapponese e statunitense. Un aspetto di somiglianza è rappresentato in primo luogo dalla considerazione riservata al processo di normalizzazione post-bellica e, in particolare, al Trattato di San Francisco come modello ispiratore dei successivi accordi di pace fra il Giappone e gli exterritori occupati: da notare tuttavia come, se il giudizio d’ultima istanza in Kō Hanako, et al. c. Giappone nega l’immunità dello Stato per la gestione del comfort women system e ricorre pertanto al quadro generale del Trattato al fine di dimostrare l’avvenuta rinuncia dei cittadini cinesi ai diritti di pretesa per danni subiti durante lo svolgimento del conflitto, in Hwang Geum Joo, et al. v. Japan la Corte d’Appello inserisce invece il processo di pacificazione nell’ambito di un’argomentazione tendente a riconoscere al Giappone il privilegio dell’immunità in base alla natura politica del caso. La discrepanza fra i due ragionamenti è evidentemente giustificata dai vincoli che ne determinano l’impostazione: nel caso giapponese la questione è infatti affrontata sul piano interpretativo concernente il principio d’immunità relativa, mentre la causa intentata negli Stati Uniti verte anzitutto sulla determinazione dell’immunità o meno di uno Stato straniero alla luce di uno specifico strumento legislativo interno (l’FSIA). Quest’ultimo atto normativo non ha mancato peraltro di suscitare le critiche di parte della dottrina, che individua al suo interno un’impropria commistione fra alcune disposizioni (quali i numerosi requisiti territoriali) riconducibili alla determinazione di giurisdizione delle corti interne e altre più propriamente orientate a disciplinare il tema dell’immunità degli Stati stranieri.39 Nel caso specifico di Hwang Geum Joo, et al. v. Japan, la 39 Si veda ancora Bröhmer per la definizione di “giurisdizione” come «positive set of rules, which determines when one state, rather than another state, may act» (J. BRÖHMER, op. cit., p. 36), da accertarsi preventivamente in base ai principi di territorialità, personalità e universalità, e di “immunità” come «negative set of rules, namely when a court may not hear a case» (ibid., p. 37), giustificabile ratione personae (caso in cui rientrerebbe l’immunità dei soggetti statali in quanto tali e dotati di sovranità esterna, eventualmente declinabile solo qualora gli stessi lo desiderino), o ratione materiae (circostanza assimilata in realtà dall’Autore ad un principio assoluto di giurisdizione a monte, relativo alla non ingerenza negli affari interni dello Stato straniero e, dunque, alla sua irrinunciabile sovranità interna). Alla luce di ciò, l’Autore parla quindi di «disadvantages of domestic codifications of international law principles which are still in a process of dynamic development» (ibid., p. 84). 15 negazione della stessa natura di attività commerciale della condotta presa in esame ha consentito di evitare la considerazione dei vincoli territoriali richiesti dal paragrafo 1605(a)(2), rendendo pertanto meno evidente tale limite dell’FSIA; nondimeno l’applicazione della political question doctrine si inserisce pienamente fra gli ostacoli individuati da Beth Stephens alla condotta dei c.d. Historical Justice Claims sotto la legislazione americana.40 Le tesi di Jürgen Bröhmer sul riconoscimento dell’immunità degli organi sovrani sviluppano viceversa un’interpretazione del diritto internazionale assimilabile all’ottica prevalente in Kō Hanako, et al. c. Giappone: malgrado, come si è detto, la Corte Suprema sia infine giunta a disconoscere l’immunità dello Stato nel caso in questione, le conclusioni di Bröhmer risultano comunque funzionali ad una migliore comprensione delle motivazioni alla base delle politiche di risarcimento extra-giudiziale descritte nel seguito. Punto di partenza del ragionamento dell’Autore è che il privilegio dell’immunità sia attualmente riconosciuto o negato agli Stati sulla base di tre criteri definiti come “option” (uguaglianza formale degli Stati nella propria sovranità, il che lascia ogni ente sovrano libero di scegliere se compiere o meno atti leciti od illeciti, collegati o meno al territorio di un altro Stato), “risk calculability” (criterio dell’aspetto funzionale della sovranità, per il quale si presuppone la capacità dello Stato di regolare la propria condotta sulla base dei prevedibili oneri finanziari da essa derivanti) e “pacifying effect” (secondo cui l’ente sovrano potrebbe frapporre meno ostacoli al giudizio proveniente da uno Stato territorialmente legato all’illecito compiuto, così rendendo tale criterio giurisdizionale rilevante soprattutto ai fini pratici dell’international comity).41 Su queste premesse viene dunque tracciata una possibile distinzione fra condotte illecite in base alla considerazione dell’individualità delle vittime e alle dimensioni dell’illecito stesso, giungendo in tal modo alla formalizzazione di seguito riportata: 1) crimini “individualizzati”, la cui riparazione si otterrà al meglio mediante l’esercizio dei diritti soggettivi del singolo nelle corti nazionali, in considerazione dell’assenza di rimedi 40 B. STEPHENS et al., op. cit., pp. 543-549: in riferimento alla political question doctrine l’Autore nota inoltre come tale ostacolo sia risultato talora evitabile attraverso un’accorta diposizione dell’istanza di rivendicazione (così, ad es. per In re African American Slave Descendants Litigation, 471 F.3d 754 (7th Cir. 2006), il quale, essendo costruito come uno state law claim, piuttosto che come una pretesa di riparazione per il torto rappresentato dalla schiavitù in sé, ha evitato l’obiezione in cui è incorso invece Hwang Geum Joo, et al., v. Japan, pur venendo in seguito ugualmente archiviato in base alle disposizioni in materia di prescrizione). 41 Nell’ottica dell’Autore, tale legame non dovrebbe quindi essere rafforzato più del dovuto nei casi coinvolgenti gross violations di diritti umani, pena il sacrificio del “beneficio collettivo” riconosciuto anche da Caplan come fondamento della dottrina dell’immunità degli Stati (L. M. CAPLAN, op. cit., p. 744). 16 internazionali e, al contempo, della sicura necessità di negare l’immunità del soggetto violatore; 2) crimini “individualizzati” commessi su vasta scala (ad esempio, nel caso di un regime repressivo), rispetto ai quali l’immunità proteggerebbe lo Stato solo qualora si potesse dimostrare come la quantità e la portata delle violazioni compiute siano tali da rappresentare un onere riparatorio in grado di compromettere la solvibilità – e, conseguentemente, la sovranità funzionale – dello Stato medesimo;42 3) crimini commessi contro un ampio gruppo di individui (ad esempio, in una guerra), nel qual caso le violazioni dei diritti umani vengono considerate dall’Autore come direttamente discendenti dall’iniziale violazione del diritto dello Stato aggredito, rendendo la soluzione privatistica probabilmente inefficiente rispetto a quella internazionalistica di un accordo fra nazioni. La via internazionalistica dell’accordo fra Stati appare quindi all’Autore come la più indicata – per ragioni di ordine pratico legate al numero delle vittime e alle difficoltà di accertamento dei singoli casi – in circostanze quali quelle emerse in Kō Hanako, et al. c. Giappone e in Hwang Geum Joo, et al. v. Japan. Ciò non può ovviamente tener conto della possibilità di dissenso fra gli Stati stessi in merito al significato da attribuire a tali accordi (si ricordi, a titolo d’esempio, il ragionamento seguito dalla Corte Suprema Giapponese nell’interpretazione del paragrafo quinto del Comunicato Congiunto del 1972, tacciato, dal canto del Ministero degli Esteri cinese, di un’arbitrarietà tale da rendere illegale e invalido l’intero verdetto),43 né dell’eventualità che le vittime esitino a rendere pubblico il torto subito a causa delle barriere sociali proprie di uno specifico ambiente culturale (situazione tutt’altro che remota, anzi verificatasi in numerosi casi legati alle stesse vicende delle comfort women). La dimensione politico-internazionale all’interno della quale sono inserite le due azioni legali, di cui si sono finora presi in esame principalmente gli aspetti storici e giuridici, è del resto innegabile, come dimostra una risoluzione presentata alla House of Representatives degli Stati Uniti poco prima del verdetto conclusivo nel caso Kō Hanako ed esprimente l’opinione della Camera secondo cui 42 Per quanto concerne tale presa di posizione, invero piuttosto originale e riferita a situazioni che l’Autore definisce come “borderline cases”, si veda J. BRÖHMER, op. cit., pp. 211-214. Assunto portante delle tesi in seguito sviluppate è che la preservazione della sovranità funzionale dello Stato, determinata anche dalla sua solvibilità, sia (o debba essere considerata) criterio discriminante per l’attribuzione del privilegio dell’immunità. 43 Per l’eco internazionale avuto dalla reazione del Ministero degli Esteri cinese alla sentenza in Kō Hanako, et al. c. Giappone, si veda ad es. ONISHI N., op. cit. 17 the Government of Japan should formally acknowledge, apologize, and accept historical responsibility in a clear and unequivocal manner for its Imperial Armed Forces' coercion of young women into sexual slavery, known to the world as “comfort women”, during its colonial and wartime occupation of Asia and the Pacific Islands from the 1930s through the duration of World War II.44 Posto dunque come le considerazioni della Corte Suprema sul caso Kō Hanako, et al. c. Giappone, in un’ottica peraltro condivisa da parte della dottrina, siano apparse suggerire la convenienza di una forma di risoluzione extra-giudiziale per la controversia, si può comprendere l’utilità di una disamina delle principali politiche svolte in tal senso dal governo giapponese, delle quali si cercherà nel seguito di fornire una breve panoramica critica. 6. Posizione ufficiale del governo giapponese e attività dell’Asian Women’s Fund Nascita e primi sviluppi del movimento delle comfort women sono già stati precedentemente tracciati: in riferimento, nello specifico, alla posizione ufficiale del governo giapponese in merito alla questione è qui opportuno ricordare i due eventi fondamentali rappresentati dalla testimonianza di Kim Hak-Sun, prima comfort woman ad esprimersi pubblicamente nel 1991, e dalla pubblicazione dei risultati delle ricerche storiche di Yoshimi Yoshiaki sull’Asahi Shinbun dell’11 gennaio 1992, comprovanti, grazie allo studio di documenti del National Institute for Defense Studies Library ( 防 衛 研 究 図 書 館 – Bōei kenkyūjo toshokan), il diretto coinvolgimento dell’Esercito Imperiale nella gestione delle comfort stations durante la guerra.45 A tali avvenimenti fecero seguito, nel gennaio del 1992, le prime scuse del governo, rinnovate dall’allora primo ministro Miyazawa Kiichi in occasione della sua visita nella Repubblica di Corea e, soprattutto, 44 UNITED STATES HOUSE OF REPRESENTATIVES, H. Res. 121 [110th], in “The Library of Congress, THOMAS”, 31 gennaio 2007 (presentazione), 30 luglio 2007 (approvazione), http://thomas.loc.gov/cgi-bin/bdquery/z?d110:H.Res121:, 26-07-2011. Da notare tuttavia che il riferimento è ad una forma di “responsabilità storica” (“responsibility”, ben diversa da un’eventuale “legal liability”, o “responsabilità legale” del governo giapponese a risarcire effettivamente le vittime). 45 La raccolta documentaria edita da Yoshimi Yoshiaki è peraltro ampiamente citata nei posteriori studi sul tema, fra cui la citata opera di Tanaka Yuki (cfr. TANAKA Y., op. cit., p. 183, nota 1). Ulteriori informazioni sulla tipologia di documenti storici conservati al National Institute for Defense Studies sono reperibili in: Shiryō etsuranshitsu (Biblioteca storica), in “Bōeishō – Bōei kenkyūjo”, http://www.nids.go.jp/military_archives/index.html, 26-07-2011. 防衛省 日 防衛研究 <http://www.nids.go.jp/military_archives/index.html> ア セ 2011 史料閲覧 7 26 . Il sito è inoltre disponibile in lingua inglese come: Military Archives, in “The National Institute for Defense Studies”, http://www.nids.go.jp/english/military_archives/index.html, 26-07-2011. 18 l’avvio di uno studio governativo nel dicembre 1991, i cui esiti vennero poi resi pubblici il 4 agosto 1993 mediante uno statement del segretario generale di gabinetto Kōno Yōhei.46 La significatività delle dichiarazioni risiede soprattutto nell’ammissione di un diretto coinvolgimento delle autorità militari dell’epoca, nell’espressione di scuse e nel riferimento ai procedimenti giudiziari allora in corso: temi in cui sono già in parte ravvisabili le ambiguità terminologiche e sostanziali che avrebbero segnato anche le successive iniziative del governo giapponese, costituendo uno dei maggiori problemi alla loro accettazione da parte della pubblica opinione, nazionale e non. La competenza linguistica nella lettura dei documenti originali risulta in questo caso un utile strumento nella valutazione di alcune scelte lessicali riflettenti il tentativo di evitare in ogni modo l’esplicita attribuzione di responsabilità in capo allo Stato giapponese. Da notare, ad esempio, come nello statement del 1993, il ruolo delle autorità militari e amministrative, pur riconosciuto, si trovi per quanto possibile circoscritto a momenti specifici e costantemente associato alla collaborazione di agenti privati (una delle tesi favorite dai negazionisti del coinvolgimento governativo è che il sistema fosse in effetti interamente gestito da operatori privati preesistenti al conflitto), mentre il riferimento ad una “colpa” storica e giuridica è in certo qual modo oscurato dalla più vaga espressione di «sincere apologies and remorse» (心 詫び 反省 気持 – kokoro kara owabi to hansei no kimochi): un precedente, di fatto, per l’analoga controversia terminologica sorta in occasione delle prime lettere ufficiali di scusa emesse dall’Asian Women’s Fund, nonché uno dei principali motivi dell’ostile reazione del Korean Council for Women Drafted for Military Sexual Slavery by Japan.47 Una disputa lessicale, che ne sottintende una ben più profonda su intenti e finalità del programma, accompagna altresì la fondazione, il 19 luglio 1995, dell’Asian Women’s Fund (女性 46 KŌNO Y., Ianfu kankei chōsa kekka happyō ni kansuru Kōno naikaku kanbōchōkan danwa (Dichiarazione del segretario generale di gabinetto Kōno sulla pubblicazione dei risultati delle ricerche sulle comfort women), in “Gaimushō hōmupēji”, Heisei gonen hachigatsu yokka, http://www.mofa.go.jp/mofaj/area/taisen/kono.html, 26-072011. 河野 8 47 洋 4日 慰 婦 係調査結果発表 河野内 官 <http://www.mofa.go.jp/mofaj/area/taisen/kono.html> 長官談 ア セ 成 5 外務省 2011 7 26 日 . Si veda ad esempio, per quanto concerne la reazione dell’organizzazione coreana alla pubblicazione del secondo report ufficiale del governo giapponese nell’agosto 1993, S. SOH, op. cit., p. 219: «The Korean Council issued an angry statement on the same day as the announcement of the Second Report, elaborating on the shortcomings of the report. Specifically, they found Tokyo's admission of coercion incomplete and devious, cleverly skirting the charge of "war crime" and lacking a commitment to "legal" responsibility.» 19 ア ア 和国民基金 – Josei no tame no Ajia heiwa kokumin kikin, “Fondo popolare della pace in Asia per le donne” – in genere abbreviato in ア ア女性基金 – Ajia josei kikin – o AWF). L’organizzazione, descritta dalla dottrina come una “pubblica organizzazione nazionale ibrida”48 in quanto ente a carattere misto governativo e non, si sarebbe dovuta infatti inizialmente chiamare 女性 ア ア 和 好基金 (Josei no tame no Ajia heiwa yūkō kikin, “Fondo della pace e dell’amicizia in Asia per le donne”), senza dunque alcun riferimento alla “popolazione”, il cui inserimento in qualità di 国民 (kokumin, ossia public beings costituenti la Nazione) avrebbe comportato, a detta delle posizioni più critiche, un ennesimo sviamento di responsabilità dallo Stato ad un più generico e concettualmente sfuggente “popolo giapponese”.49 Nell’aprile 2007, un mese dopo la liquidazione dell’AWF a conclusione degli ultimi progetti svolti in Indonesia, il Ministero degli Esteri giapponese ha pubblicato un report ufficiale50 presentante le attività sostenute dal Fondo nei Paesi in cui esse hanno avuto luogo (oltre all’Indonesia, anche Filippine, Repubblica di Corea, Taiwan e Olanda), la cui lettura può risultare indicativa del grado di accettazione e di successo riportato dall’ente nel perseguimento dei propri obiettivi. Nel caso del primo gruppo di Paesi considerato (Filippine, Repubblica di Corea e Taiwan, fra i primi a vedere la conclusione del progetto nel settembre 2002), l’AWF ha attuato una politica volta a provvedere assistenza diretta alle comfort women sotto forma di cure mediche e programmi di welfare (finanziati direttamente dal governo giapponese), oltre che di risarcimenti individuali (2 milioni di yen per ogni vittima) forniti dai finanziamenti indipendenti del Fondo stesso. Congiuntamente all’aiuto economico, ogni vittima ha inoltre ricevuto una lettera di scuse firmata dal primo ministro Hashimoto Ryūtarō, sulle quali è nata un’accesa disputa relativa alla natura della 48 «[…] the Fund may be conceptualized as a hybrid national public organization or an “NPO.”» (S. SOH, op. cit., p. 210). 49 A tal proposito è opportuno ricordare, sulla scorta dell’articolo citato, la costituzione, in polemica con l’AWF, del Citizens’ Fund to Realize Postwar Compensation (戦 補償実現市民基金 – Sengo hoshō jitsugen shimin kikin), nella cui denominazione i “cittadini” sono designati quali shimin anziché come kokumin, a marcare una presa di distanza dalla dimensione governativa criticata dai fondatori. 50 NIHON GAIMUSHŌ, Ianfu mondai ni taisuru Nihon seifu no shisaku (Politiche del governo giapponese relative alla questione delle comfort women), in “Gaimushō hōmupēji”, Heisei jūkyūnen shigatsu, http://www.mofa.go.jp/mofaj/area /taisen/ianfu.html, 26-07-2011. 日本外務省 慰 婦問題 対 日本 mofa.go.jp/mofaj/area/taisen/ianfu.html> ア 府 セ 策 2011 成 19 外務省 7 26 日 . 4 <http://www. 20 colpa ammessa dal Giappone e, conseguentemente, al significato da attribuirsi all’atto riparatorio.51 In effetti, nonostante la lettera del Primo Ministro fosse intesa quale espressione dell’intero governo giapponese (la terminologia del report ministeriale del 2007 non lascia dubbi in tal senso), l’impiego al suo interno dell’espressione “my personal feelings” ( 私 気持 – watashi no kimochi)52 lasciava piuttosto pensare ad un atto privato, tanto più che, sia in queste prime lettere che nel report del 2007, il riferimento ad una “moral responsibility” (道義的責任 – dōgiteki sekinin) pareva escludere del tutto ogni altro tipo di responsabilità, in particolar modo legale.53 A partire dal 1998 e con la successione di Obuchi Keizō nella carica di primo ministro in Giappone, il fraseggio delle lettere di scusa è stato quindi modificato eliminando l’aggettivo “personal” dalla traduzione in lingua inglese, impiegando per la prima volta il termine 謝罪 (shazai, “scusa” implicante un crimine a monte e non semplicemente un errore, od altra più lieve forma di responsabilità) e designando l’aiuto finanziario elargito non più come 慰労金 (irōkin, “comfort money”) o 見舞金 (mimaikin, “sympathy money”), bensì, in un’ottica già più prossima al riconoscimento di una responsabilità legale, come 償 い 金 (tsugunaikin, “atonement money”, “risarcimento”). Ciononostante la preesistente opposizione da parte di gruppi quali il già ricordato Korean Council for Women Drafted for Military Sexual Slavery by Japan e l’atteggiamento dello stesso AWF, nella descrizione di Soh «exclusive[ly] concern[ed] for the welfare and the privacy of the victimsurvivors»,54 hanno in definitiva contribuito a rendere tali significativi cambiamenti poco visibili ai fini della promozione delle attività del Fondo all’estero. D’altro canto, a ulteriore riprova delle 51 Vista la composizione interna assai variegata dell’AWF, non sono inoltre mancati contrasti fra membri, come Hata Ikuhiko (già citato a proposito della posizione di Nitta Hitoshi sulla questione), contrari all’ottica di una state compensation, e altri, quali Takasaki Sōji e Wada Haruki, schierati su posizioni opposte. 52 L’interpolazione, nella traduzione inglese, dell’aggettivo “personal” è, di fatto, inspiegabile a detta di Soh, dal momento che tale vocabolo non compare in realtà nell’originale espressione giapponese; malgrado ciò, la critica appuntabile alla costruzione ideologica sottostante alle prime lettere di scusa governative rimane sostanzialmente immutata. 53 È questa, in particolare, la tesi del Center for Research and Documentation on Japan’s War Responsibility (日本 争責任資料セ 戦 – Nihon no sensō sekinin shiryō sentā), nell’affermare che «This letter, however, accepts only Japan’s “moral responsibility”, while rejecting legal responsibility and liability to provide compensation.» (CENTER FOR RESEARCH AND DOCUMENTATION ON JAPAN'S WAR RESPONSIBILITY, Appeal Concerning Japan’s military comfort women, in “The Asia-Pacific Journal”, 23 febbraio 2007, http://japanfocus.org/data/comwomappeal.abbrev.pdf, 26-072011). 54 S. SOH, op. cit., p. 210. 21 difficoltà interne legate al panorama operativo variegato e alla stessa natura “ibrida” dell’AWF, può essere utile ricordare come, in pieno svolgimento del dibattito terminologico poc’anzi riassunto, il presidente del Fondo Hara Bunbei avesse emesso un memorandum nel quale i “risarcimenti” (già qui designati come tsugunaikin) venivano nuovamente presentati come adempimento di una “responsabilità morale” (dōgiteki sekinin) della “popolazione” (kokumin).55 Ancora diversa è poi la questione dei progetti realizzati in Olanda (dove, vista l’assenza di comfort women ufficialmente riconosciute, è stato concluso nel 1998 un memorandum d’intesa sulla concessione di un finanziamento di 255 milioni di yen in tre anni per un progetto volto a migliorare le condizioni di vita di 79 vittime gravemente traumatizzate dal secondo conflitto mondiale) e in Indonesia, nella quale l’AWF ha invece stanziato 380 milioni di yen in dieci anni per il progetto abitativo Promotion of Social Welfare Service for Elderly People in Indonesia (高齢者社会福祉 進 業 – Kōreisha shakai fukushi suishin jigyō), sotto la condizione che l’accesso alle strutture realizzate sarebbe stato riservato prioritariamente a donne dichiaratesi come comfort women.56 La scelta è stata in questo caso determinata dalle difficoltà del governo indonesiano nell’identificare direttamente le vittime e si è risolta, secondo il report del 2007, nella fornitura di alloggio a quattordici donne fra i soggetti beneficiari dell’iniziativa: una cifra in fondo esigua e motivata 55 HARA B., Ajia josei kikin jigyō ni kansuru Nihon seifu no hōteki tachiba (Posizione legale del governo giapponese in merito alle attività dell’Asian Women’s Fund), in “Dijitaru kinenkan – Ianfu mondai to Ajia josei kikin”, Heisei hachinen jūgatsu, http://www.awf.or.jp/6/statement-16.html, 26-07-2011. 原 文 女性基金 衛 ア 成8 ア女性基金 10 業 日本 府 法的立場 <http://www.awf.or.jp/6/statement-16.html> 記念館 ア セ 慰 2011 婦問題 7 26 日 ア ア . Il memorandum è in particolar modo designato a chiarire la posizione del governo giapponese rispetto all’accettazione dei risarcimenti provveduti dal Fondo: a tal proposito viene ribadito come, a fronte della separazione esistente fra le attività dell’AWF e l’esecutivo, la cui posizione è riconosciuta essere “immutata” (従来 – jūrai no tōri), tale accettazione non pregiudichi in sé il diritto delle vittime ad intentare azioni legali per i torti subiti. Da notare inoltre come il generico riferimento a una “responsabilità morale” riconducibile al “popolo giapponese” non sia, da un punto di vista giuridico, nulla più di un artificio verbale, dal contenuto sconosciuto al diritto internazionale. 56 Una sintetica descrizione relativa a caratteristiche e implementazione di tale progetto si trova in Recent Policy of the Government of Japan on the Issue known as Comfort Women, in “Ministry of Foreign Affairs of Japan”, April 2007, http://www.mofa.go.jp/policy/women/fund/policy.html, 26-07-2011: «[…] the AWF has decided to support a project proposed by the Government of Indonesia called the "Promotion of Social Welfare Services for Elderly People in Indonesia" through a fund disbursed by the Government of Japan. In March 1997, the AWF concluded the Memorandum of Understanding (MOU) with the Government of Indonesia to provide financial support (380million yen over 10 years) to the project. In this project, new facilities will be built for the elderly who have no family or relatives to look after them and are unable to work due to illness or physical handicaps.» 22 probabilmente almeno in parte dalle barriere sociali tuttora ostacolanti il pubblico riconoscimento delle comfort women.57 Nel complesso le reazioni governative alle iniziative dell’AWF sono state molto variegate e sottendono evidentemente diverse disposizioni politiche nei confronti del Giappone, spaziando dall’opposizione netta di Taiwan e Repubblica di Corea (dove fondi speciali per le vittime sono stati stanziati dai rispettivi governi sotto la condizione del previo rifiuto del risarcimento fornito dall’AWF), alla divisione interna verificatasi nelle Filippine (dove si sono costituite associazioni di vittime pro e contro l’accettazione del sostegno finanziario), fino alla collaborazione dimostrata da Indonesia e Olanda (in quest’ultimo caso, segnatamente, sulla base della considerazione secondo cui una donazione volontaria da parte della popolazione, come in parte l’AWF si qualifica, sarebbe comunque preferibile ad un risarcimento governativo forzato e non coinvolgente la società civile). Tra i successi dell’iniziativa se ne può quindi annoverare l’approccio pratico, mosso dalla volontà di fornire un’immediata compensazione economica volta al miglioramento delle condizioni di vita delle vittime sopravvissute: un simile “compromesso costruttivo”, come definito da Soh, 58 si è certamente dovuto scontrare con le tesi del movimento non-governativo incentrate sulla necessità dell’ammissione di responsabilità ai sensi del diritto da parte del governo giapponese quale punto di partenza per ogni successiva azione risarcitoria e ha attraversato una serie di contraddizioni di cui si è cercato brevemente di dar conto, ma ha avuto d’altro canto il merito di provvedere in maniera diretta ai bisogni dei soggetti cui si è indirizzato, evitando così molti degli ostacoli che una più ampia presa di posizione storica e giuridica avrebbe inevitabilmente comportato. Sotto un diverso punto di vista, il fatto che solo 364 sopravvissute fra Repubblica di Corea, Filippine, Taiwan e Olanda abbiano potuto ricevere sostegno dall’AWF e che la Repubblica Popolare Cinese ne sia rimasta vistosamente esclusa (si ricordi che la causa Kō Hanako, et al. c. Giappone è stata intentata proprio da due sopravvissute provenienti dalla provincia cinese dello Shaanxi) dovrebbe far ugualmente riflettere sui limiti effettivi, in parte motivati dalle medesime ambiguità di cui riferito, riscontrati dall’ente nel perseguimento delle proprie politiche. Il parere incoraggiante espresso dalla Sub-Commissione delle Nazioni Unite per la Prevenzione della Discriminazione e la Protezione 57 Cfr. K. D. ASKIN, op. cit., p. 94, nota 314. 58 «[…] a constructive compromise measure might be more desirable than a complete stalemate, especially from the perspective of the aged victims, in contrast to that of the well-meaning yet uncompromising advocates.» (S. SOH, op. cit., p. 233). 23 delle Minoranze nell’agosto 199759 (dunque a circa due anni dall’istituzione del Fondo) è in tal senso rappresentativo di un contesto dai margini tuttora altamente mobili, specie ove lo si raffronti alle dichiarazioni rilasciate un decennio più tardi dal Primo Ministro Abe Shinzō in risposta alla già ricordata House Resolution 121 della Camera dei Rappresentanti statunitense, che sono parse riportare la linea ufficiale del governo giapponese alla situazione antecedente l’intervento di Kōno nel 1993.60 7. Conclusioni Nelle precedenti pagine si è cercato di fornire una possibile chiave di lettura per la ricerca e l’opera di traduzione svolte. La breve introduzione, pur necessariamente limitata all’essenziale, è stata dunque concepita in funzione degli aspetti giurisprudenziali successivamente trattati, quale strumento di approccio finalizzato a coglierne gli elementi storico-sociali imprescindibili per qualunque analisi che si proponga di collocare tali vicende in una dimensione propriamente internazionale. Alcune delle tematiche così poste in evidenza – quali la difficoltà di accesso a fonti e informazioni certe, l’acceso dibattito politico e la stessa discordanza di pareri fra gli storici – hanno potuto quindi essere riscontrate nell’ottica e nel linguaggio giuridici propri delle sentenze qui considerate, i cui specifici contenuti e implicazioni sono stati successivamente presi in esame. Si è potuto in tal modo osservare come la contestata questione della responsabilità dello Stato giapponese sia stata infine ammessa dalla Corte Suprema nel caso Kō Hanako, et al. c. Giappone, negando tuttavia la possibilità di tutela giurisdizionale alle vittime, i cui diritti di ricorso alla corte (da notare, non i diritti di pretesa in sé) sono stati invece dichiarati decaduti sulla base dei trattati iscritti nel processo di normalizzazione post-bellica. Da un diverso punto di vista, è stato altresì evidenziato come la controversia storico-politica relativa all’effettività del coinvolgimento della pubblica amministrazione nel comfort women system possa essere stata paradossalmente complicata da tale sentenza, in cui l’immunità dello Stato è disconosciuta inferendo l’estraneità dell’intero 59 «[The Sub-Commission on Prevention of Discrimination and Protection of Minorities] takes note of the information provided by the Government of Japan, as well as by other parties concerned, with regard to actions in relation to the issue of women sex slaves during the Second World War, recognizing the positive steps made so far towards the solution to this issue […]» (UNITED NATIONS SUB-COMMISSION ON PREVENTION OF DISCRIMINATION AND PROTECTION OF MINORITIES, Report of the Working Group on Contemporary Forms of Slavery, Sub Commission Resolution 1997/22, in “United Nations High Commissioner for Human Rights”, 27 August 1997, http://www.unhchr.ch/Huridocda/Huridoc a.nsf/(Symbol)/E.CN.4.SUB.2.RES.1997.22.En?Opendocument, 26-07-2011). 60 Cfr. ONISHI N., “Japan Repeats Denial of Role in World War II Sex Slavery”, The New York Times, 17 March 2007. 24 sistema alle forme di esercizio di potere pubblico propriamente qualificabili come acta jure imperii. La nozione di “processo di normalizzazione post-bellica” è risultata inoltre rilevante ai fini delle motivazioni addotte per l’archiviazione del caso Hwang Geum Joo, et al. v. Japan, determinato nella sua ratio più che dall’interpretazione del diritto internazionale vigente, dall’inevitabile applicazione della normativa interna (l’FSIA e, conseguentemente, la c.d. political question doctrine) disciplinante tale fattispecie in ambito statunitense. La disamina finale inerente alle forme assunte dai risarcimenti extra-legali provvisti dallo Stato giapponese, seppur non esaustiva relativamente alla materia affrontata, è stata nondimeno presentata sulla scorta delle posizioni dottrinarie proposte e delle originali prospettive aperte in particolar modo dalle considerazioni della corte in Kō Hanako, et al. c. Giappone. Si è visto come il “compromesso costruttivo” costituito dalle attività dell’AWF abbia in tal senso rappresentato un possibile mezzo per provvedere efficientemente una forma di risarcimento pecuniario, evitando parzialmente le prevedibili resistenze pubbliche e private alle politiche svolte da un organo che, come notato da Soh, è spesso apparso non sufficientemente rappresentativo del governo, pur soffrendo al tempo stesso di un′ineliminabile connotazione “governativa”.61 Se i risultati sul piano dell’efficienza possono dunque dirsi nel complesso positivi, l’esiguità del numero di vittime sopravvissute beneficiate dal programma in tredici anni d’attività e la completa estraneità della Repubblica Popolare Cinese, principale terreno di scontro durante il conflitto dell’Asia Orientale, non mancano d’altro canto di sottolineare i limiti intrinseci all’efficacia di iniziative così strutturate. Al di là delle posizioni giurisprudenziali e dottrinarie espresse riguardo alle specifiche vicende qui prese in esame, le considerazioni generali sugli argomenti favorevoli e contrari alla risoluzione giudiziaria dei torti storici, di cui si è cercato di offrire una panoramica orientativa, relativizzano necessariamente ogni asserzione sul tema, costituendo un aspetto problematico rispetto al quale i policy-makers hanno mostrato di doversi direttamente misurare, tanto nel caso delle reiterate dichiarazioni del governo giapponese, quanto in quello dello Statement of Interest emesso dal Dipartimento di Stato americano durante lo sviluppo di Hwang Geum Joo, et al. v. Japan. Pur non potendo dunque esprimere un parere conclusivo riguardo ad una materia definita quale vera e propria «sfida morale per la società giapponese attuale», 62 resta nondimeno inconfutabile il ruolo rivestito da una corretta informazione storica nel formare un’opinione 61 «[The AWF] does not represent the government sufficiently, yet it is simultaneously viewed as being under the control of the government» (S. SOH, op. cit., p. 210). 62 R. CAROLI, op. cit., p. 143. 25 pubblica consapevole e fornire in ultima analisi strumenti viepiù certi e affidabili per il giudizio su una problematica rivelatasi tuttora sensibile per le vittime e politicamente delicata nell’ambito delle relazioni internazionali in Asia Orientale. 26 Capitolo Secondo: sentenze riportate in traduzione 8. Sentenza del 29 marzo 2002 del Tribunale Distrettuale di Tōkyō Numero del caso 1997 (Wa) N° 3316 Denominazione del caso Pretesa di risarcimento per danni Data del giudizio 29.03.2002 Foro giudicante Tribunale Distrettuale di Tōkyō Tipologia di giudizio Sentenza Riportato in Hanrei jihō, N° 1804, p. 50 Si riporta di seguito la traduzione del paragrafo (3)a) della sentenza relativo all’interpretazione terminologica data dal Tribunale all’art. 3 della Convenzione dell’Aja su leggi e usi della guerra terrestre. (3) In relazione alla Convenzione dell’Aja sulla guerra terrestre a) Terminologia della Convenzione L’art. 3 della Convenzione dell’Aja sulla guerra terrestre (redatta nel 1907 e ratificata dal nostro Paese nel 1911), prescrivendo che «La Parte belligerante che violasse le disposizioni di detto Regolamento sarà tenuta al risarcimento degli eventuali danni. Essa sarà responsabile di tutti gli atti commessi da persone che fanno parte della sua forza armata.» 63 , crea un obbligo di risarcimento dei danni in capo allo Stato Parte del Trattato che ne violasse le disposizioni, ma non fa alcun riferimento alla controparte (ossia, alla persona che sarebbe titolare del diritto di risarcimento per danni). Inoltre, la Convenzione dell’Aja sulla guerra terrestre non contiene alcuna disposizione che lasci intuire metodi o procedure tramite cui gli individui possano esercitare il diritto di richiesta di risarcimento per danni, né l’esistenza di diritti di ricorso individuali. Al 63 «A belligerent party which violates the provisions of the said Regulations shall, if the case demands, be liable to pay compensation. It shall be responsible for all acts committed by persons forming part of its armed forces.» 規則 条項 違反 軍隊 組成 交戦当 人員 一 者 行 損害ア 付責任 キ フ 之カ賠償 責 フヘキモ 交戦当 者 27 contrario, l’art. 2 della Convenzione dell’Aja sulla guerra terrestre, stabilendo che «Le disposizioni contenute nel Regolamento di cui all’articolo 1 e nella presente Convenzione, non sono applicabili che fra le Potenze contraenti, e soltanto se i belligeranti facciano tutti parte della Convenzione»64, pone a premessa la determinazione di diritti e obblighi fra gli Stati contraenti. Considerato come il carattere fondamentale dei trattati di cui al precedente punto 1) e l’epoca della stesura della Convenzione dell’Aja sulla guerra terrestre siano ritenuti aver subito l’influenza dominante della dottrina tradizionale, ancor meno propensa a riconoscere la personalità giuridica internazionale dell’individuo, se la Convenzione dell’Aja sulla guerra terrestre si fosse proposta di riconoscere diritti di ricorso direttamente in capo agli individui, necessariamente avrebbe fatto uso di una specifica disposizione in proposito. Sulla base di tale ragionamento, risulta di conseguenza arduo intendere che la Convenzione dell’Aja sulla guerra terrestre abbia riconosciuto un diritto di ricorso individuale. Non vi sono poi indicazioni riguardo al fatto che il termine inglese “compensation”65 (non nel testo ufficiale della Convenzione) non si riferisca al risarcimento per danni di uno Stato nei confronti di un altro Stato conformemente al diritto internazionale; al contrario, si possono portare sentenze di corti degli Stati Uniti d’America in cui non è stato riconosciuto un diritto di riparazione individuale sulla base dell’art. 3 della Convenzione dell’Aja sulla guerra terrestre (successivi punti c.II e c.III). 64 «The provisions contained in the Regulations referred to in Article 1, as well as in the present Convention, do not apply except between Contracting Powers, and then only if all the belligerents are parties to the Convention.» 規則 65 本条約 規定 In Inglese nel testo. 交戦国カ悉 本条約 当 者 キ 限 締約国間 之 適用 28 9. Sentenza del 27 aprile 2007 della Corte Suprema del Giappone Numero del caso 2005 (Ju) N° 3316 Denominazione del caso Pretesa di risarcimento per danni Data del giudizio 27 aprile 2007 Foro giudicante Corte Suprema – I Collegio Ristretto Tipologia di giudizio Sentenza Risultato Ricorso annullato per decisione propria dalla Corte di ultima istanza Riportato in Shūmin, N° 224, p. 325 ---------------------------------- ----------------------------------------------------------------------------------Corte di seconda istanza Alta Corte di Tōkyō Numero del caso 2002 (Ne) N° 2621 Data del giudizio 18 marzo 2005 ---------------------------------- ----------------------------------------------------------------------------------Oggetto del giudizio Sentenza concernente il paragrafo quinto del Comunicato Congiunto del Governo Giapponese e del Governo della Repubblica Popolare Cinese e i diritti di pretesa di cittadini della Repubblica Popolare Cinese sorti nei confronti dello Stato giapponese, dei suoi cittadini, o di sue persone giuridiche durante la Guerra sino-giapponese.66 Sunto del verdetto Sulla base del paragrafo quinto del Comunicato Congiunto del Governo Giapponese e del Governo della Repubblica Popolare Cinese è da considerarsi decaduto il potere di ricorso alla Corte per i diritti di pretesa dei cittadini della Repubblica Popolare Cinese sorti nei confronti dello Stato giapponese, dei suoi cittadini, o di sue persone giuridiche durante la Guerra sino-giapponese. di ultima istanza Riferimenti Trattato di Pace con il Giappone, art. 14(b) Comunicato Congiunto del Governo Giapponese e del Governo della Repubblica Popolare Cinese, §5 Trattato di Pace e Amicizia fra il Giappone e la Repubblica Popolare 66 Con il termine “Guerra sino-giapponese”, la presente traduzione si riferisce, coerentemente con quanto esplicitato in seguito al punto 1.II.(1) al periodo di ostilità compreso fra il 1937 e il 1945 (nel testo originale indicato come 日中戦争 – Nicchū sensō). 29 Cinese Dispositivo della sentenza Ricorso respinto. L’onere del ricorso è sostenuto dagli appellanti. Motivazione 1) Sunto del caso I. Gli appellanti, cittadini della Repubblica Popolare Cinese, sostengono che le appellanti X1 e la defunta appellante A (dopo il decesso succeduta nella causa da altri appellanti oltre ad X1) siano state fatte prigioniere in Cina durante la Seconda Guerra Mondiale da parte di membri dell’Esercito Giapponese e siano state ripetutamente violentate. Sulla base del principio di responsabilità del datore di lavoro, ex art. 715 co. 1 del Codice Civile67 e secondo il diritto civile allora vigente nella Repubblica Cinese, le appellanti chiedono all’appellato il risarcimento dei danni subiti e una dichiarazione solenne di scuse ufficiali. L’appellato sostiene che, oltre alla possibilità di applicare al caso in questione il c.d. principio di immunità degli Stati, sia trascorso il termine di prescrizione di cui all’ultimo paragrafo dell’art. 724 del Codice Civile68. Entrando nel merito del diritto di pretesa, 67 第七百十五条 使用者等責任 第 相当 者 加え 損害 注意 賠償 又 相当 あ 業 責任 う 注意 他人 使用 使用者 損害 生 べ 者 被用者 被用者 選任 そ 業 びそ あ 業 限 執行 監督 い い い Liability of Employers, Article 715 (1), «A person who employs others for a certain business shall be liable for damages inflicted on a third party by his/her employees with respect to the execution of that business; provided, however, that this shall not apply if the employer exercised reasonable care in appointing the employee or in supervising the business, or if the damages could not have been avoided even if he/she had exercised reasonable care.» 68 除斥期間 び加害者 第七百二十四条 知 時 法行 間行使 損害賠償 い 時効 請求権 消滅 被害者又 法行 そ 法定代理人 時 十 損害 経過 様 Restriction of Period of Right to Demand Compensation for Damages in Tort, Article 724, «The right to demand compensation for damages in tort shall be extinguished by the operation of prescription if it is not exercised by the 30 l’appellato sostiene inoltre che, conseguentemente alla rinuncia di tali diritti derivante dai trattati inseriti nell’ambito del c.d. processo di normalizzazione postbellica, gli obblighi pendenti in tal senso sullo Stato e sui cittadini giapponesi si siano estinti. II. In relazione allo sviluppo dei fatti, si riporta di seguito il sunto di quanto legalmente accertato dalla Corte di seconda istanza. (1) Nel Luglio del 1937 il Giappone, prendendo a pretesto l’incidente del Ponte di Lugou, aprì le ostilità con la Cina (in seguito indicate come “Guerra sinogiapponese”), allargando il fronte fino alle regioni della Cina settentrionale. Dall’inizio di Ottobre dello stesso anno l’Esercito Giapponese iniziò a fare incursioni nella Provincia di Shanxi e, dopo alterne fasi offensive e difensive nei confronti dello Hachirogun69, nel settembre del 1939 stabilì un punto d’appoggio a Jinguicun nella Contea di Yu come base avanzata contro le forze antigiapponesi operanti nelle regioni montagnose a Nord della provincia. (2) Fatti relativi ai danni arrecati a) Appellante X1 L’appellante X1 è nata nel 1927 (Shōwa II) nella Contea di Yu della Provincia di Shanxi, dove è cresciuta. In un giorno del settimo mese70 del 1942 (Shōwa XVII), membri armati dell’Esercito Giapponese e del Seikyōtai 71 (gruppo armato organizzato dalla popolazione locale e cooperante con l’Esercito Giapponese) fecero irruzione nell’abitazione in cui la sorella maggiore dell’appellante viveva con il marito, sulla scorta di una delazione secondo cui questi avrebbe collaborato con lo Hachirogun: in quell’occasione l’appellante fu condotta insieme alla famiglia della sorella nella base di Jinguicun e ivi imprigionata. L’appellante, allora quindicenne, (segue nota) victim or his/her legal representative within three years from the time when he/she comes to know of the damages and the identity of the perpetrator. The same shall apply when twenty years have elapsed from the time of the tortious act.» 69 Nel testo, 70 Il testo della sentenza fa riferimento al 旧暦 (kyūreki), il tradizionale calendario lunisolare usato, specie in passato, in 路軍 (Hachirogun, “Eight Route Army”): forze armate controllate dal Partito Comunista Cinese. numerosi Paesi est-asiatici, fra cui anche Cina e Giappone. In base al calendario gregoriano attualmente in vigore, il settimo mese corrisponde al periodo compreso fra l’ultima decade di luglio e la prima di settembre. 71 Nel testo, 清郷隊 – Seikyōtai. 31 era fidanzata, ma ancora non sposata, senza esperienza di rapporti sessuali e in età adolescenziale; a partire da quella notte fu tuttavia ripetutamente sottoposta a violenze di gruppo da parte di più militari giapponesi, fra cui il comandante della base. Dopo circa due settimane di prigionia e grazie all’aiuto della famiglia, l’appellante fu temporaneamente rilasciata e poté far ritorno alla propria dimora, ma in seguito fu condotta altre due volte a Jinguicun, imprigionata e violentata nella stessa maniera. L’appellante fu rilasciata intorno alla metà del nono mese72 dello stesso anno, ma presenta tuttora i sintomi di un disturbo post-traumatico da stress causato da un grave trauma psichico che si ritiene collegato agli imprigionamenti e violenze di cui detto. b) Fu Appellante A A nacque nel 1929 (Shōwa IV) nella Contea di Yu della Provincia di Shanxi, dove crebbe. In un giorno del terzo mese 73 del 1942 (Shōwa XVII), numerosi militari giapponesi invasero il villaggio in cui A viveva e la fecero prigioniera insieme al padre, con l’accusa di offrire sostegno allo Hachirogun. Pur essendo ancora tredicenne, senza esperienza di rapporti sessuali e in età adolescenziale, venne violentata da più militari giapponesi dopo essere stata percossa e presa a calci. Fu in seguito rilasciata a fronte del pagamento di 700 Yuan d’argento da parte della madre, ma nel frattempo era stata ripetutamente sottoposta ad abusi e violenze di gruppo per circa 40 giorni. Morì l’11 Maggio 1999 (Heisei XI), ma in vita presentava i sintomi di un disturbo post-traumatico da stress causato da un grave trauma psichico che si ritiene collegato all’imprigionamento e alle violenze di cui detto. III. In relazione alla rinuncia ai diritti di pretesa conseguente alla normalizzazione postbellica, si riporta di seguito il sunto, includente anche fatti ampiamente noti, di quanto legalmente accertato dalla Corte di seconda istanza. (1) Dopo essere stato sottoposto ad occupazione alleata a seguito della Seconda Guerra Mondiale, l’8 Settembre 1951 a San Francisco il Giappone concluse con 48 Potenze 72 Il nono mese corrisponde al periodo compreso fra l’ultima decade di settembre e la prima di novembre del calendario gregoriano. 73 Il terzo mese corrisponde al periodo compreso fra l’ultima decade di marzo e la prima di maggio del calendario gregoriano. 32 Alleate il Trattato di Pace con il Giappone (in seguito indicato come “Trattato di San Francisco”) e il 28 Aprile 1952, all’entrata in vigore del trattato, riacquistò l’indipendenza. Tale trattato costituisce il fondamento del processo di normalizzazione postbellica del Giappone, pone fine allo stato di ostilità fra il Giappone e ogni Potenza Alleata (art. 1(a) 74 ) e, unitamente al riconoscimento da parte delle Potenze Alleate della sovranità del popolo giapponese (art. 1(b)75), è stato stipulato al fine di risolvere definitivamente le pendenze relative a territori (cap. II), patrimoni e diritti di pretesa (cap. V). Tuttavia, poiché, come si dirà in seguito, la Cina (ossia, la Cina – così designata da qui in avanti – che aveva preso parte come Stato alla Guerra sino-giapponese) non fu invitata a prendere parte alla conferenza di pace, l’India e altri Stati non vi parteciparono e l’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche insieme ad altri Stati rifiutò di apporre la propria firma al trattato, non fu possibile giungere ad una pace generale con tutte le Potenze Alleate. (2) All’interno del Trattato di San Francisco sono contenute le seguenti disposizioni in materia di riparazioni di guerra e diritti di pretesa. a) Si riconosce che il Giappone debba pagare un risarcimento alle Potenze Alleate per i danni e le sofferenze causate in tempo di guerra. Si riconosce tuttavia altresì come, posta la necessità di mantenere viva l’economia, le risorse in possesso del Giappone non siano al momento sufficienti a pagare una completa riparazione per tutti i danni e le sofferenze di cui detto, onorando al contempo i propri altri debiti. (Art. 14(a)76). 74 «The state of war between Japan and each of the Allied Powers is terminated as from the date on which the present Treaty comes into force between Japan and the Allied Power concerned as provided for in Article 23.» 日本国 間 75 効力 生 日 間戦争状態 第 十 条 定 条約 日本国 当 連合国 終了 «The Allied Powers recognize the full sovereignty of the Japanese people over Japan and its territorial waters.» 連合国 76 各連合国 日本国 びそ 領水 対 日本国民 完全 主権 承認 «It is recognized that Japan should pay reparations to the Allied Powers for the damage and suffering caused by it during the war. Nevertheless it is also recognized that the resources of Japan are not presently sufficient, if it is to maintain a viable economy, to make complete reparation for all such damage and suffering and at the same time meet its other obligations.» 日本国 戦争中 存立 能 生 経 さ 損害 維持 べ び苦痛 対 連合国 賠償 支払うべ 日本国 資源 日本国 承認さ べ 前記 損害 33 b) Il Giappone aprirà celermente negoziati con le Potenze Alleate che lo desiderino e i cui attuali territori siano stati occupati dall’Esercito Giapponese subendone danni, al fine di contribuire al risarcimento delle spese per la riparazione dei danni causati ai detti Stati attraverso l’offerta di servizi da parte di cittadini giapponesi nella produzione, nel salvataggio di imbarcazioni naufragate e in altri tipi di attività. (Art. 14(a)177). L’offerta di servizi stabilita da questa clausola è in seguito denominata “riparazione per equivalente mediante servizi”.78 c) Ciascuna delle Potenze Alleate avrà il diritto di sequestrare, trattenere, liquidare, o disporre secondo qualunque altro dispositivo legale proprietà, diritti e interessi del Giappone, di cittadini giapponesi, ecc. che, al momento dell’iniziale entrata in vigore di questo trattato, si troveranno sotto la propria giurisdizione (ad esclusione delle proprietà ecc. di Giapponesi risiedenti nei territori delle Potenze Alleate che avessero ricevuto tale autorizzazione dai rispettivi governi durante la guerra). (Art. 14(a)279). (segue nota) び苦痛 対 完全 賠償 行い且 時 他 債務 履行 現在充 い 承認さ 77 «Japan will promptly enter into negotiations with Allied Powers so desiring, whose present territories were occupied by Japanese forces and damaged by Japan, with a view to assisting to compensate those countries for the cost of repairing the damage done, by making available the services of the Japanese people in production, salvaging and other work for the Allied Powers in question.» 日本国 現在 希望 生産 え 交 領域 損害 日本国軍隊 船引揚 修復 そ 占領さ 他 作業 費用 国 且 日本国 日本人 役務 補償 当 損害 え 連合国 利用 資 当 連合国 供 連合国 や 開始 78 役務賠償 – ekimu baishō, “reparation in services”. 79 «Each of the Allied Powers shall have the right to seize, retain, liquidate or otherwise dispose of all property, rights and interests of (a) Japan and Japanese nationals, (b) persons acting for or on behalf of Japan or Japanese nationals, and (c) entities owned or controlled by Japan or Japanese nationals, which on the first coming into force of the present Treaty were subject to its jurisdiction.» 各連合国 あ 次 掲 差 べ 押え び日本国民 。け) 日本国又 配 団体 留置 日本国民 産 清算 権利 そ 代理者又 び利益 他何 代行者並び 条約 方法 最初 処 。げ) 日本国又 効力発生 権利 日本国民 時 そ 管轄 。a) 日本国 又 支 34 d) Salvo ove diversamente specificato nel trattato, le Potenze Alleate rinunciano a tutti i diritti di pretesa di riparazione e agli altri diritti di pretesa provenienti da sé e dai propri cittadini e derivanti dalle azioni intraprese dal Giappone e dai suoi cittadini durante lo svolgimento della guerra, così come a quelli relativi ai costi diretti dell’occupazione. (Art. 14(b)80). e) Il Giappone rinuncia a tutti i diritti di pretesa dello Stato giapponese e dei suoi cittadini derivanti dalla guerra o dalle azioni intraprese dalle Potenze Alleate e dai loro cittadini a causa dell’esistenza di uno stato di guerra e rinuncia altresì a tutti i diritti di pretesa derivanti dalla presenza, dallo svolgimento di mansioni o dalle azioni degli eserciti o delle autorità di ciascuna delle Potenze Alleate in territori giapponesi prima dell’entrata in vigore del presente trattato. (Art. 19(a) 81). (3) La Cina, come parte delle Potenze Alleate, doveva essere originariamente invitata alla conferenza di pace ma, dal momento che sia il governo della Repubblica Popolare Cinese costituito nel 1949, sia il governo della Repubblica Cinese trasferitosi in esilio a Taiwan sostenevano di essere l’unico governo legittimo rappresentante la Cina, causando una situazione di divergenza anche all’interno delle Potenze Alleate in merito al riconoscimento dei rispettivi governi, fu infine deciso di non invitare alla conferenza alcuno dei due. Venne tuttavia stabilito di considerare la 80 «Except as otherwise provided in the present Treaty, the Allied Powers waive all reparations claims of the Allied Powers, other claims of the Allied Powers and their nationals arising out of any actions taken by Japan and its nationals in the course of the prosecution of the war, and claims of the Allied Powers for direct military costs of occupation.» 条約 びそ 合国 81 段 定 国民 請求権 あ 場合 行動 生 除 連合国 連合国 連合国 びそ 国民 べ 他 賠償請求権 請求権並び 戦争 占領 遂行中 直接軍 日本国 費 連 棄 «Japan waives all claims of Japan and its nationals against the Allied Powers and their nationals arising out of the war or out of actions taken because of the existence of a state of war, and waives all claims arising from the presence, operations or actions of forces or authorities of any of the Allied Powers in Japanese territory prior to the coming into force of the present Treaty.» 日本国 対 戦争 日本国 い 生 びそ 連合国 戦争状態 存在 国民 べ 請求権 軍隊又 当局 存在 行動 棄 職務遂行又 且 行動 条約 生 生 連合国 効力発生 べ びそ 前 日本国領域 請求権 棄 国民 35 Cina come titolare dei benefici stabiliti nel Trattato di San Francisco (art. 21 82 ) riguardo alla rinuncia da parte del Giappone ai propri interessi in Cina (art. 1083) e alla disposizione dei beni giapponesi all’estero (art. 14(a)2). (4) In seguito a ciò il Giappone, oltre a svolgere negoziati con ciascuna delle Potenze Alleate in merito alle riparazioni per equivalente mediante servizi di cui al punto (2)b), avviò trattative anche con quegli Stati o territori che non erano stati interessati dal Trattato di San Francisco, al fine di stipulare trattati di pace bilaterali che costituissero il quadro generale per la normalizzazione postbellica. In tale ambito, la maggior pendenza era quella delle relazioni con la Cina, che non era stata invitata alla conferenza di pace: il 28 Aprile 1952 il governo giapponese, riconoscendo come governo legittimo della Cina quello della Repubblica Cinese, stipulò con detto governo il Trattato di Pace fra il Giappone e la Repubblica Cinese (da qui in avanti indicato come “Trattato di Pace sino-giapponese”), che entrò in vigore il 5 Agosto dello stesso anno. In tale trattato erano contenute clausole in base alle quali lo stato di guerra fra il Giappone e la Repubblica Cinese sarebbe terminato il giorno dell’entrata in vigore del trattato stesso (art. 1 84 ) e le questioni sollevate dall’esistenza di uno stato di guerra fra i due Paesi sarebbero state risolte secondo 82 «Notwithstanding the provisions of Article 25 of the present Treaty, China shall be entitled to the benefits of Articles 10 and 14(a)2; and Korea to the benefits of Articles 2, 4, 9 and 12 of the present Treaty.» 条約 朝鮮 83 第 十五条 条約 第 規定 条 第四条 わ 中国 第十条 第九条 び第十 条 利益 び第十四条(a)2 受 利益 受 権利 権利 «Japan renounces all special rights and interests in China, including all benefits and privileges resulting from the provisions of the final Protocol signed at Peking on 7 September 1901, and all annexes, notes and documents supplementary thereto, and agrees to the abrogation in respect to Japan of the said protocol, annexes, notes and documents.» 日本国 簡 び文書 且 84 千九百一 規定 前記 九 七日 生 べ 議定書 附属書 京 署 利益 書簡 さ 最終議定書並び び特権 び文書 含 中国 日本国 補足 べ 廃棄 べ 特殊 権利 附属書 び利益 書 棄 意 «The state of war between the Republic of China and Japan is terminated as from the date on which the present Treaty enters into force.» 日本国 中華民国 間 戦争状態 条約 効力 生 日 終了 36 disposizioni conformi al Trattato di Pace di San Francisco (art. 1185). Sulla base delle clausole di un Protocollo aggiuntivo indivisibile dal trattato, fu altresì stabilito che la Repubblica Cinese, in segno di magnanimità e buona fede nei confronti del popolo giapponese, avrebbe rinunciato spontaneamente agli interessi sui servizi dovuti dal Giappone secondo l’art. 14(a)1 del Trattato di Pace di San Francisco (Protocollo aggiuntivo 1(b)86). In base allo scambio di note annesso al trattato, ne sarebbe stata inoltre riconosciuta l’applicazione ai territori effettivamente controllati all’epoca dal governo della Repubblica Cinese e a tutti quelli che da allora in avanti fossero entrati a farne parte. (5) I governi della Repubblica Popolare Cinese e della Repubblica Cinese continuarono anche in seguito a reclamare per sé la posizione di legittimo governo della Cina, ma il governo giapponese, all’epoca del Gabinetto di Tanaka Kakuei, modificò la propria linea politica in direzione del riconoscimento del governo della Repubblica Popolare Cinese e, con il progredire dei negoziati per il c.d. processo di normalizzazione diplomatica sino-giapponese, giunse il 29 Settembre 1972 ad emanare il Comunicato Congiunto del Governo Giapponese e del Governo della Repubblica Popolare Cinese (da qui in avanti indicato come “Comunicato Congiunto sino-giapponese”). All’interno di tale comunicato vi sono clausole secondo cui «La situazione anormale sussistita finora fra il Giappone e la Repubblica Popolare Cinese ha termine nel giorno dell’emanazione del presente comunicato congiunto» 85 «Unless otherwise provided for in the present Treaty and the documents supplementary thereto, any problem arising between the Republic of China and Japan as a result of the existence of a state of war shall be settled in accordance with the relevant provisions of the San Francisco Treaty.» 条約 存在 86 び 結果 補足 生 文書 問題 サ 段 定 あ フラ 場合 コ条約 除く外 日本国 相当規定 従 中華民国 間 戦争状態 解決 «As a sign of magnanimity and good will towards the Japanese people, the Republic of China voluntarily waives the benefit of the services to be made available by Japan pursuant to Article 14 (a) 1 of the San Francisco Treaty.» 中華民国 日本国 提供 日本国民 べ 役務 対 利益 寛厚 善意 自発的 表徴 棄 サ フラ コ条約第十四条 a 基 37 (§1) 87 , «Il governo giapponese riconosce il governo della Repubblica Popolare Cinese come unico governo legittimo della Cina» (§2) 88 e «Nell’interesse dell’amicizia fra i popoli cinese e giapponese, il governo della Repubblica Popolare Cinese dichiara di rinunciare alla pretesa di riparazioni di guerra nei confronti del Giappone» (§5)89. I governi dei due Stati conclusero il 12 Agosto 1978 il Trattato di Pace e Amicizia tra il Giappone e la Repubblica Popolare Cinese (da qui in avanti indicato come “Trattato di Pace e Amicizia sino-giapponese”), che entrò in vigore il 23 Ottobre dello stesso anno e nel cui preambolo è stabilita l’intenzione di riconoscere la stretta osservanza dei principi espressi nel Comunicato Congiunto sino-giapponese90. IV. Sulla base del seguente verdetto, la Corte di seconda istanza ha ritenuto di dover respingere entrambe le pretese delle appellanti. (1) Si riconosce che, secondo il diritto civile allora vigente nella Repubblica Cinese, gli appellati siano obbligati al risarcimento per responsabilità del datore di lavoro in relazione alle violenze precedentemente accertate. Inoltre, basandosi sul principio di responsabilità per azione illegale secondo il diritto giapponese, il c.d. principio di immunità degli Stati risulta applicabile in relazione all’esercizio del potere pubblico 87 «The abnormal state of affairs that has hitherto existed between Japan and the People's Republic of China is terminated on the date on which this Joint Communique is issued.» 日本国 88 中華人民共和国 間 正常 状態 共 声明 発出さ 日 終了 «The Government of Japan recognizes that Government of the People's Republic of China as the sole legal Government of China.» 日本国 89 府 中華人民共和国 府 中国 唯一 合法 府 あ 承認 «The Government of the People's Republic of China declares that in the interest of the friendship between the Chinese and the Japanese peoples, it renounces its demand for war reparation from Japan.» 中華人民共和国 府 中日両国国民 好 日本国 対 戦争賠償 請求 棄 言 90 «Japan and the People's Republic of China, […] Confirming that the above-mentioned Joint Communique constitutes the basis of the relations of peace and friendship between the two countries and that the principles enunciated in the Joint Communique should be strictly observed […]» 日本国 び前記 び中華人民共和国 共 声明 示さ お…が 前記 諸原則 共 厳格 声明 遵 さ 両国間 べ 和 好 確認 係 基礎 お…が あ 38 dello Stato, ma, dal momento che le violenze di cui detto non sono di per sé riconosciute come azioni belliche, strategiche, o attività a queste ultime connesse e non sono quindi riferibili ad un esercizio di potere pubblico dello Stato, grava sugli appellati, in mancanza di applicabilità del principio di immunità degli Stati, la responsabilità del risarcimento per danni in base all’art. 715 co. 1 del Codice Civile. (2) È necessario comprendere come l’art. 11 del Trattato di Pace sino-giapponese, nello stabilire di attenersi all’art. 14(b) del Trattato di Pace di San Francisco che sancisce la rinuncia ai diritti di pretesa da parte delle Potenze Alleate, intendesse non limitare tale rinuncia al solo diritto di protezione diplomatica, bensì includere anche i diritti di pretesa in sé. È conseguentemente necessario intendere che i diritti di pretesa di risarcimento per danni delle cittadine cinesi, appellanti X1 e A, sorti a seguito delle violenze perpetrate ad opera di militari dell’Esercito Giapponese durante lo svolgimento della Seconda Guerra Mondiale, siano stati abbandonati in base al Trattato di Pace sino-giapponese. Inoltre è appropriato intendere che, per quanto il Trattato di Pace sino-giapponese sia stato concluso con il governo della Repubblica Cinese, oramai privato del controllo effettivo della Cina continentale, tale governo fosse all’epoca riconosciuto dalla comunità internazionale come legittimo rappresentate della Cina e che, avendo il Trattato di Pace sino-giapponese efficacia come concluso fra gli Stati giapponese e cinese, – quest’ultimo rappresentato dal detto governo – esso risulti applicabile all’intera Cina, ad inclusione dei suoi territori continentali. Nel Comunicato Congiunto sino-giapponese in seguito emesso dalla Repubblica Popolare Cinese si trovano bensì disposizioni sulla rinuncia alle riparazioni di guerra, ma queste, senza nulla aggiungere all’ulteriore riconoscimento di un rapporto di diritto ormai costituito, non danno luogo a nuove conseguenze giuridiche. 2) In relazione al punto primo della petizione per l’accettazione dell’appello di ultima istanza avanzata dal rappresentante d’appello dell’attore, Oyama Hiroshi I. La tesi principale sostiene che la sentenza di seconda istanza menzionata in precedenza al punto 1.IV(2) sia contraria alle disposizione legislative e regolamentari; secondo quanto in seguito esposto, tale sentenza è tuttavia condivisibile nelle conclusioni in cui viene riconosciuta la difesa della rinuncia ai diritti di pretesa. 39 II. In relazione alla rinuncia ai diritti di pretesa come principio fondamentale della normalizzazione postbellica (1) Il Trattato di Pace di San Francisco, che ha fissato il quadro per la normalizzazione del Giappone dopo la Seconda Guerra Mondiale, ha disposto da un lato il riconoscimento dell’obbligo di risarcimento del Giappone nei confronti delle Potenze Alleate relativamente alle c.d. riparazioni di guerra (termine designante i benefici finanziari o di altra natura che i Paesi sconfitti offrono ai vincitori nell’ambito del processo di pacificazione) e, nell’intento di stanziare in maniera effettiva una parte delle riparazioni, ha sancito l’assegnazione alle Potenze Alleate della disposizione dei beni giapponesi situati all’estero sotto la loro giurisdizione (art. 14(a)2). Preso tuttavia atto dell’insufficienza delle risorse del Giappone a far fronte ad una riparazione completa (art. 14(a)) e in considerazione delle effettive capacità di sostenere tale onere, ha stabilito di rimettere a negoziati separati fra il Giappone e le Potenze Alleate gli accordi concreti sulle riparazioni di guerra, comprendenti le riparazioni per equivalenti mediante servizi (art. 14(a)1). La c.d. disposizione dei diritti di pretesa 91 è così divenuta premessa di questo tipo di sistemazione delle riparazioni di guerra. Con tale “disposizione dei diritti di pretesa” si intende la sistemazione di quanto potrebbe costituire diritto di pretesa fra gli Stati belligeranti o fra i loro cittadini a seguito del conflitto, e costituire in tal modo oggetto di negoziato separatamente dalle riparazioni di guerra: a tale riguardo è stata stabilita la reciproca rinuncia a tutti i diritti di pretesa sorti durante la condotta del conflitto relativamente agli Stati antagonisti e ai loro cittadini, ad inclusione dei diritti di pretesa delle persone fisiche e giuridiche (artt. 14(b) e 19(a)). (2) Similmente, il Trattato di Pace di San Francisco, ponendo come premessa la mutua rinuncia a tutti i diritti di pretesa – inclusi quelli delle persone private – sorti durante la condotta del conflitto, ha stabilito il quadro generale per la normalizzazione postbellica del Giappone, ossia il fatto che il Giappone, riconosciuto l’obbligo delle riparazioni di guerra nei confronti delle Potenze Alleate, abbia ad esse conferito la disposizione dei patrimoni giapponesi posti sotto la loro giurisdizione, svolgendo separatamente negoziati con ciascuna di esse in merito agli accordi effettivi sulle riparazioni di guerra, includenti quelle rese in servizi. Alla luce dell’importanza del 91 請求権 処理 – seikyūken no shori, “disposal of claims”. 40 Trattato di Pace di San Francisco, concluso con 48 Potenze Alleate, in virtù del quale il Giappone riacquistò la propria indipendenza, tale quadro generale (in seguito indicato come “quadro generale del Trattato di Pace di San Francisco”92) si è dovuto applicare anche in riferimento alla normalizzazione postbellica attraverso la stipulazione di trattati di pace fra il Giappone e quegli Stati e territori all’epoca estranei al Trattato di Pace di San Francisco. Si intende che il quadro generale del Trattato di Pace di San Francisco sia stato istituito con l’obiettivo di creare saldi rapporti amichevoli per il futuro, ponendo definitivamente termine allo stato di ostilità fra il Giappone e 48 Potenze Alleate, e che sia dipeso dalla considerazione secondo cui se, a fronte della stipulazione del trattato di pace, quanto in esso stabilito avesse rimesso la risoluzione delle questioni inerenti ai vari diritti di pretesa sorti durante lo svolgimento del conflitto all’esercizio di tali diritti in singoli procedimenti civili posteriori agli eventi, vi sarebbe stato il timore di far pendere in futuro nei confronti di entrambi gli Stati e i popoli un onere prevedibilmente severo ed eccessivo al momento della conclusione del trattato, turbando in tal modo l’ordine e costituendo in ultima analisi un ostacolo al raggiungimento dei suoi scopi. (3) Inoltre, alla luce del fatto che la rinuncia ai diritti di pretesa contenuta nel quadro generale del Trattato di Pace di San Francisco si ritrova nella decisione di evitare di rimettere la soluzione delle problematiche inerenti ai detti diritti al loro esercizio in singoli procedimenti civili posteriori agli eventi, è appropriato intendere che la “rinuncia” all’esercizio dei diritti di pretesa qui esposta non giunga a significarne l’estinzione sostanziale, ma si limiti a far decadere il potere di ricorso alla Corte in base ad essi. Gli appellanti sostengono che, eccettuata la circostanza in cui lo Stato rinunci al proprio diritto di protezione diplomatica, non sia possibile porre restrizioni per mutuo consenso degli Stati ai diritti privati in quanto diritti connaturati al cittadino, ma, dal momento che gli Stati, al momento della stipulazione del trattato di pace comportante la cessazione delle ostilità, possono disporre la sistemazione dei diritti di pretesa (includenti quelli privati) in base all’esercizio della sovranità personale, la tesi precedentemente esposta non è ammissibile. 92 サ フラ framework”. コ 和条約 枠組 – San Furanshisuko heiwa jōyaku no wakugumi, “San Francisco Treaty 41 (4) A seguito della stipulazione del Trattato di Pace di San Francisco e sulla base di quest’ultimo furono condotti negoziati fra il governo giapponese e quelli degli Stati parte al trattato riguardo alle riparazioni di guerra (ivi incluse le riparazioni in servizi), sortendo come risultato la conclusione di accordi bilaterali di riparazione (con la Repubblica delle Filippine, ecc.), o la rinuncia ai diritti di pretesa (con la Repubblica Popolare Democratica del Laos, ecc.), nel qual caso la mutua rinuncia ai diritti di pretesa, ad inclusione di quelli privati, fu ovviamente posta come premessa. Il governo giapponese concluse trattati di pace bilaterali o accordi di riparazione e proseguì la sistemazione delle riparazioni di guerra e dei diritti di pretesa anche nei confronti degli Stati e dei territori che non erano parte del Trattato di Pace di San Francisco: ugualmente all’interno di tali trattati, in relazione alla sistemazione dei diritti di pretesa, è chiaramente stabilita l’intenzione di rinunciare mutualmente a tutti quelli, anche privati, sorti durante lo svolgimento del conflitto (Trattato di Pace fra il Giappone e l’India, art. 6; Trattato di Pace fra il Giappone e la Federazione Birmana, art. 5; Accordo fra il Giappone e la Thailandia sulla risoluzione della problema relativo allo Yen Speciale, art. 3; Protocollo fra il governo giapponese e il governo del Regno d’Olanda sulla risoluzione del problema relativo ad alcuni tipi di diritti privati di pretesa di cittadini olandesi, art. 3; Comunicato Congiunto del governo giapponese e del governo dell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche, §6; Accordo fra il Giappone e la Repubblica Popolare di Polonia sulla ripresa delle relazioni diplomatiche, art. 4; Trattato di Pace fra il Giappone e la Repubblica d’Indonesia, art. 4; Accordo del 21.09.1967 fra il Giappone e la Repubblica di Singapore, art. 2; Accordi fra il Giappone e gli Stati Uniti d’America sull’Amministrazione Fiduciaria delle Isole Pacifiche, art. 2). L’art. 2 dell’Accordo del 21 settembre 1967 fra il Giappone e la Malesia si esprime inoltre in maniera alquanto astratta, affermando che «Il governo malese acconsente a che siano risolte in maniera completa e definitiva tutte le problematiche sorte dagli infausti eventi verificatisi durante la Seconda Guerra Mondiale ed esercitanti un’influenza negativa sull’esistenza di buone relazioni fra i due Stati.» 93 : se esso può dirsi l’unica 93 «The Government of Malaysia agrees that all questions arising out of the unhappy events during the Second World War which may affect the existing good relations between the two countries are hereby fully and finally settled.» イ べ ア 府 問題 両国間 完全 存在 良好 最終的 係 解決さ 影響 ぼ 意 第 次世界大戦 間 幸 件 生 42 eccezione in riferimento al modo di esprimersi, lo stesso accordo non può però intendersi come atto a disporre una sistemazione dei diritti di pretesa in maniera differente dal Trattato di Pace di San Francisco e dai trattati di pace bilaterali ad esso posteriori e anche tale articolo andrà pertanto considerato come esprimente l’intenzione di conformarsi al quadro generale del Trattato di Pace di San Francisco, nel quale si rinuncia reciprocamente a tutti i diritti di pretesa, ad inclusione di quelli privati, sorti durante la condotta delle ostilità. III. In merito alla rinuncia ai diritti di pretesa sulla base del Trattato di Pace sino-giapponese (1) Come precedentemente esposto, sussiste per la disposizione dei rapporti con la Cina nel dopoguerra il Trattato di Pace sino-giapponese, stipulato con il governo della Repubblica Cinese. Poiché si intende che l’art. 11 di tale trattato, nello stabilire di attenersi a regolamenti conformi al Trattato di Pace di San Francisco per «le problematiche sorte in conseguenza all’esistenza di uno stato di guerra fra il Giappone e la Repubblica Cinese» comprenda ovviamente anche la questione della disposizione dei diritti di pretesa, inclusi quelli privati, segue la considerazione che tutte le pretese della Cina e dei suoi cittadini sorte durante la condotta della Guerra sino-giapponese siano state abbandonate in conformità al dettato dell’art. 14(b) del Trattato di Pace di San Francisco. In aggiunta, come già menzionato, all’interno del Protocollo aggiuntivo 1(b) è stabilita anche la rinuncia alle riparazioni in servizi come «dimostrazione di magnanimità e buona fede nei confronti del popolo giapponese». (2) A tal proposito, dal momento che all’epoca della stipulazione del Trattato di pace sino-giapponese (1952, o Shōwa XXVII) il controllo esercitato dal governo della Repubblica Cinese, esiliato dalla Cina continentale, si limitava a Taiwan e alle isole circostanti, non si può escludere un dubbio sull’attribuzione allo stesso governo della competenza a stipulare un trattato nell’ambito del processo di pacificazione seguito alla Guerra sino-giapponese. Si può tuttavia affermare che all’epoca gli Stati si fossero divisi in merito al riconoscimento del governo della Cina fra un gruppo a guida statunitense, che riconosceva la Repubblica Cinese, e uno a guida britannica, che riconosceva la Repubblica Popolare Cinese: essendo il primo gruppo numericamente preponderante rispetto al secondo ed essendo oltretutto ampiamente risaputo come fosse il governo della Repubblica Cinese a detenere il diritto di rappresentanza della Cina in seno alle Nazioni Unite, il governo giapponese in tali 43 circostanze riconobbe come governo legittimo della Cina quello della Repubblica Cinese, ragion per cui il fatto che sia stato il governo della Repubblica Cinese a stipulare il trattato relativo alla pacificazione successiva alla Guerra sino-giapponese non può dirsi aver costituito un impedimento in sé. (3) Tuttavia, come precedentemente esposto, all’epoca della stipulazione del Trattato di Pace sino-giapponese il controllo esercitato dal governo della Repubblica Cinese si limitava a Taiwan e alle isole circostanti e nello scambio di note annesso al trattato è espressa a titolo di premessa l’intenzione che «le clausole di tale trattato si applichino a tutti i territori sotto l’effettivo controllo della Repubblica Cinese e a quanti entrino a farne parte in seguito».94 Sulla base di tale dicitura, è necessario riconoscere come pienamente valida l’interpretazione secondo cui le clausole relative alla disposizione delle riparazioni di guerra e dei diritti di pretesa non si spingano oltre l’espressione della possibilità di una loro applicazione futura nei confronti della Cina continentale soggetta al controllo della Repubblica Popolare Cinese. Conseguentemente non è possibile sostenere l’applicazione alla Cina continentale del dettato dell’art. 11 e del Protocollo 1(b) del Trattato di Pace sino-giapponese, disponenti la rinuncia alle riparazioni di guerra nonché ai diritti di pretesa ad inclusione di quelli privati, in quanto essa non è passata sotto la sovranità della Repubblica Cinese a seguito della conclusione del trattato, e ovviamente non è nemmeno possibile estenderne l’efficacia ai cittadini cinesi residenti nella Cina continentale. Non si può pertanto estendere l’efficacia della rinuncia ai diritti di pretesa fondata su tale trattato alle appellanti, le quali sono chiaramente cittadine cinesi residenti nella Cina continentale. IV. In relazione alla rinuncia ai diritti di pretesa basata sul paragrafo quinto del Comunicato Congiunto sino-giapponese (1) Il paragrafo quinto del Comunicato Congiunto sino-giapponese afferma che «nell’interesse dell’amicizia fra i popoli cinese e giapponese, il governo della Repubblica Popolare Cinese dichiara di rinunciare alla pretesa di riparazioni di 94 «[…] the terms of the present Treaty shall, in respect of the Republic of China, be applicable to all the territories which are now, or which may hereafter be, under the control of its Government. […]» (N° 1., Taipei, 28 aprile 1952). お…が 領域 条約 適用 あ 条項 中華民国 中華民国 府 支配 現 あ 又 お…が (Daiichigō, senkyūhyakugojūninen shigatsu nijūhachinichi, Taipei ni oite). 入 べ 44 guerra nei confronti del Giappone»: limitatamente a tale dettato, non si può asserire con chiarezza se fosse presente o meno l’intenzione di includere la disposizione di altri diritti di pretesa oltre alle c.d. riparazioni di guerra fra Stati, non essendo specificato il soggetto delle “pretese” costituenti oggetto della rinuncia, né, anche assumendo l’inclusione della disposizione dei diritti di pretesa, è possibile stabilire chiaramente se vi fosse o meno l’intenzione di comprendere in ciò la rinuncia alle pretese che cittadini della Repubblica Popolare Cinese avessero recato come persone private. (2) Ciononostante, nel caso in cui si rifletta basandosi sulle circostanze in cui si svolsero i negoziati, – fatti oggi ampiamente noti grazie a ricerche condotte sui resoconti ufficiali delle trattative per la normalizzazione diplomatica sino-giapponese e sulle memorie dei loro incaricati – è necessario, come in seguito esposto, riconoscere al Comunicato Congiunto sino-giapponese natura di trattato di pace e non è pertanto possibile intendere l’accordo in merito alla sistemazione delle riparazioni di guerra e dei diritti di pretesa diversamente da quanto stabilito nel quadro generale del Trattato di Pace di San Francisco. a) Durante i negoziati per la normalizzazione delle relazioni diplomatiche, il governo della Repubblica Popolare Cinese sostenne una sistemazione basata sui “Tre Principi per la Normalizzazione” 95. Con tali tre principi si intendeva: 1) Il riconoscimento del governo della Repubblica Popolare Cinese come unico governo legittimo rappresentante la Cina; 2) Il fatto che Taiwan costituisse parte indivisibile del territorio della Repubblica Popolare Cinese; 3) Il fatto che il Trattato di Pace sinogiapponese fosse illegale e invalido e andasse pertanto abrogato. Poiché da tale ragionamento conseguiva che, per il governo della Repubblica Popolare Cinese, il processo di pace successivo alla Guerra sino-giapponese non si fosse ancora concluso, fu per esso necessario conferire al Comunicato Congiunto sino-giapponese il valore di un trattato di pace e risultò pertanto indispensabile una dichiarazione di cessazione delle ostilità, nonché la disposizione delle riparazioni di guerra e dei diritti di pretesa. Contrariamente, il governo giapponese, a partire dalle circostanze in cui aveva stipulato il Trattato di Pace sino-giapponese riconoscendo la Repubblica Cinese 95 復交 原則 – Fukkō sangensoku, “Three principles for restoring diplomatic relations”. 45 come legittimo governo della Cina e fatta salva la possibilità di un futuro recesso dal trattato medesimo, non poteva formalmente fare a meno di basarsi, rispetto alla conclusione della Guerra sino-giapponese e alla questione della sistemazione delle riparazioni e dei diritti di pretesa, sul presupposto della sua avvenuta risoluzione attraverso tale trattato (l’impossibilità di affermare l’applicazione alla Cina continentale delle clausole di disposizione delle riparazioni di guerra e dei diritti di pretesa derivanti dal trattato è stata in precedenza esposta, ma il governo giapponese dell’epoca non era di questo avviso). b) Nel corso dei negoziati per la normalizzazione delle relazioni diplomatiche sinogiapponesi, i governi giapponese e della Repubblica Popolare Cinese, riconoscendo pienamente l’inevitabilità di rapportarsi alle trattative sulla base delle differenti premesse in precedenza esposte, indicarono conseguentemente che la normalizzazione postbellica della Guerra sino-giapponese fosse realizzata in maniera non contraddittoria per entrambe le rispettive posizioni e venne trovata la forma del Comunicato Congiunto, nel cui preambolo veniva affermata l’intenzione da parte giapponese di basarsi sulla «piena comprensione» dei Tre Principi per la Normalizzazione avanzati dal governo della Repubblica Popolare Cinese96. Inoltre, l’espressione del paragrafo primo del Comunicato Congiunto sino-giapponese, secondo cui «La situazione anormale sussistita finora fra il Giappone e la Repubblica Popolare Cinese ha termine nel giorno dell’emanazione del presente comunicato congiunto» si poteva intendere da parte cinese come una dichiarazione di conclusione della Guerra sino-giapponese, mentre venne interpretata da parte giapponese nel senso di porre termine all’assenza di relazioni diplomatiche con il governo della Repubblica Popolare Cinese. c) Alla luce delle circostanze in cui si svolsero i negoziati per la normalizzazione delle relazioni sino-giapponesi, risulta evidente come il governo della Repubblica Popolare Cinese interpreti il paragrafo quinto del Comunicato Congiunto come disposizione fondamentale per l’intero processo di normalizzazione postbellica, ad 96 «Further, the Japanese side reaffirms its position that it intends to realize the normalization of relations between the two countries from the stand of fully understanding “the three principles for the restoration of relations” put forward by the Government of the People's Republic of China.» 日本側 実現 中華人民共和国 いう見解 再確認 府 提起 復交 原則 十 理解 立場 立 国交正常 46 inclusione delle riparazioni di guerra come pure dei diritti di pretesa, mentre il governo giapponese, pur sempre dell’idea che la disposizione delle riparazioni di guerra e dei diritti di pretesa sia stata risolta dal Trattato di Pace sino-giapponese, concorda del resto con tale espressione, interpretandola nel senso di una conferma dell’avvenuta normalizzazione anche nei rapporti con il governo della Repubblica Popolare Cinese, con conseguenze sostanzialmente identiche a quelle del Trattato di Pace sino-giapponese. Il Comunicato Congiunto sino-giapponese, in tali circostanze emanato, non può quindi dirsi avere altra natura che quella di un trattato di pace, tanto per il governo della Repubblica Popolare Cinese che per quello giapponese. Inoltre, come precedentemente spiegato, il quadro generale del Trattato di Pace di San Francisco riveste un importante significato per il raggiungimento degli obiettivi dei trattati di pace ed è evidente il timore di arrecare un ostacolo a tali obiettivi nel caso in cui, deviando dal quadro generale, si disponesse la risoluzione delle sole riparazioni di guerra, lasciando irrisolta quella dei diritti di pretesa, o si escludessero i diritti di pretesa delle persone private dagli oggetti della rinuncia a tali diritti. In relazione all’emanazione del Comunicato Congiunto, non è del resto suggerito alcun motivo circa l’inevitabilità di una sistemazione di tal genere, né si trovano indizi riguardo al fatto che, durante i negoziati per la normalizzazione diplomatica sinogiapponese, fossero state sollevate problematiche o svolte trattative sotto questo punto di vista. Conseguentemente, per quanto nel quinto paragrafo del Comunicato Congiunto sino-giapponese le persone private non siano specificate come soggetto delle “pretese”, non è possibile intendere la sistemazione così effettuata come divergente dal quadro generale del Trattato di Pace di San Francisco. d) In base a quanto finora esposto, l’intendimento del Comunicato Congiunto sinogiapponese non differisce dal quadro generale del Trattato di Pace di San Francisco e, a proposito della disposizione dei diritti di pretesa, deve riconoscersi come chiaramente espressa la mutua rinuncia a tutti quelli, anche privati, sorti durante la condotta del conflitto. (3) Sulla base di questa interpretazione del paragrafo quinto del Comunicato Congiunto sino-giapponese, se ne prendono in esame la natura di norma vincolante ma non direttamente applicabile e la validità giuridica. 47 Innanzitutto, dal momento che il Comunicato Congiunto sino-giapponese non è considerato nel nostro Paese come un trattato e manca anche di una ratifica da parte della Dieta, sussisterebbe la possibilità che la sua natura di norma vincolante ma non direttamente applicabile in conformità al diritto internazionale costituisca un problema. Essendo tuttavia evidente come la Repubblica Popolare Cinese lo abbia riconosciuto alla stregua di norma di diritto internazionale, se ne può perlomeno affermare la natura giuridica di dichiarazione unilaterale di tale Stato. In aggiunta, dal momento che all’interno del Trattato di Pace e Amicizia sino-giapponese, avente in maniera chiara natura giuridica come trattato di diritto internazionale, è confermata l’intenzione di osservare strettamente i principi espressi nel Comunicato Congiunto sino-giapponese, è necessario assumere anche per il governo giapponese la natura giuridica di trattato del paragrafo quinto del Comunicato ed è pertanto evidente come ne sia in ogni caso riconosciuta la natura di norma legale conforme al diritto internazionale. Inoltre, come precedentemente spiegato, poiché la rinuncia ai diritti di pretesa inserita nel quadro generale del Trattato di Pace di San Francisco indica la decadenza del potere di ricorso alla Corte in base ad essi, deve dirsi riconosciuta l’efficacia sul piano del diritto interno anche per la rinuncia ai diritti di pretesa stabilita al paragrafo quinto del Comunicato Congiunto sino-giapponese, senza che via sia necessità di un provvedimento legislativo volto a concretizzarne il contenuto. (4) Stando in tal modo i fatti, in virtù del paragrafo quinto del Comunicato Congiunto sino-giapponese, bisogna considerare decaduto il potere di ricorso alla Corte riguardo ai diritti di pretesa dei cittadini della Repubblica Popolare Cinese sorti nei confronti dello Stato giapponese, dei suoi cittadini o di sue persone giuridiche durante la Guerra sino-giapponese e, a fronte della difesa relativa alla rinuncia ai diritti di pretesa basata sul medesimo paragrafo, non si può che respingere la richiesta di giudizio fondata su tali diritti. (5) Conclusione La causa in questione presentava una pretesa di risarcimento per danni a fronte di illeciti commessi da militari dell’Esercito Giapponese nel corso della Guerra sinogiapponese: alla luce della connessione fra i fatti precedentemente esposti, è riconosciuta l’estrema gravità delle sofferenze fisiche e psicologiche patite dalle 48 vittime ma, non potendo che constatare come queste siano divenute oggetto della rinuncia ai diritti di pretesa espressa nel paragrafo quinto del Comunicato Congiunto sino-giapponese, il ricorso alla Corte non è ammissibile. Secondo quanto esposto, il verdetto emesso in seconda istanza relativamente al punto dibattuto è ammissibile nella sua conclusione, mentre non lo è nelle argomentazioni impiegate. La Corte delibera di conseguenza ad unanimità di pareri nella forma espressa dal dispositivo. Presidente della Corte Giudice SAIGUCHI Chiharu Giudice YOKOO Kazuko Giudice KAINAKA Tatsuo Giudice IZUMI Tokuji Giudice WAKUI Norio 49 Bibliografia ragionata ANONIMO, Issues: Comfort Women, in “Memory & Reconciliation in the Asia-Pacific”, http://ww w.gwu.edu/~memory/issues/comfortwomen/index.html, 26-07-2011. ANONIMO, Comfort Women: U.S., Hwang Geum Joo, et al. v. Japan, in “Memory & Reconciliation in the Asia-Pacific”, http://www.gwu.edu/~memory/data/judicial/comfortwomen_us/ hwang%20geum%20joo.html, 26-07-2011. ANONIMO, Comfort Women: Japan, Chinese Comfort Women: (2nd Group), in “Memory & Reconciliation in the Asia-Pacific”, http://www.gwu.edu/~memory/data/judicial/comfortwomen_ja pan/Chinese%20(2nd%20group).html, 26-07-2011. ANONIMO, “Nonapplicability of FSIA Exceptions to ‘Comfort Women’ Case”, in The American Journal of International Law, Vol. 97, N° 3, 2003, pp. 686-688. 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