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(BA thesis) Moda, tecnologia, emozioni: verso una nuova sensibilità algoritmica

2016

Dedica Voglio dedicare questo mio lavoro accademico innanzitutto alla mia famiglia, che ha sempre supportato le mie scelte concedendomi di inseguire le mie passioni e i miei sogni e che, in particolar modo, mi ha permesso di poter intraprendere il percorso di studi che mi ha portata fino a qui. Senza il loro appoggio mi sarebbe stato impossibile tagliare questo traguardo. In secondo luogo, voglio dedicare questa tesi alle mie migliori amiche e a tutti quegli amici che nel corso degli anni mi sono stati vicini, felicitandosi per le mie vittorie e sostenendomi nei momenti difficili; senza di loro non sarei la persona che sono ora. In ultimo, voglio dedicare questa tesi a me stessa, perché possa servirmi a testimonianza delle mie capacità rendendomi consapevole di quanto con l’impegno e con la dedizione posso arrivare a conquistare. Indice Introduzione ........................................................................................................... 1 1. MODA E MEDIA: DUE SISTEMI A CONFRONTO .................................................. 3 1.1 Sistema Moda ................................................................................................ 4 1.1.1 Dal <<trickle-down>> alla <<selezione collettiva>> ................................ 8 Georg Simmel e il <<gocciolamento>> ......................................................... 8 Herbert Blumer e la <<selezione collettiva>> ............................................. 13 1.1.2 Dalla <<selezione collettiva>> allo stile individuale: street style ed estetica del digitale ........................................................................................ 21 1.2 Sistema dei Media ....................................................................................... 30 1.2.1 Dalla <<bullet theory>> al <<two-step flow of communication>> ....... 31 La teoria ipodermica o <<bullet theory>> .................................................. 32 La teoria del <<two-step flow of communication>> ................................... 34 1.3 Indossare la tecnologia: l’abito come medium ........................................... 41 1.4 Un nuovo statuto per le emozioni ............................................................... 51 2. IL NUOVO ECOSISTEMA MEDIATICO ................................................................ 59 2.1 La tripla rivoluzione ..................................................................................... 60 2.1.1 Individui connected e network sociali ................................................... 61 2.1.2 Rivoluzione Internet .............................................................................. 67 2.1.3 Rivoluzione mobile ................................................................................ 72 2.2 L’ambiente 2.0 ............................................................................................. 77 2.2.1 Una nuova alleanza fra bit e atomi ....................................................... 83 2.2.2 Network sociali e social apps ................................................................ 87 2.2.3 Processi d’influenza e scelta individuale ............................................... 93 3. ALGORITMI: NUOVI INTERMEDIARI CULTURALI? ........................................... 103 3.1 Un’architettura di controllo opaca e diffusa ............................................. 104 3.2 Cultural Analytics: una prospettiva di ricerca up-to-date ......................... 112 3.3 The <<automation of taste>>: Il gusto nell’epoca della sua riproducibilità tecnologica ...................................................................................................... 122 3.4 Nuovi scenari per un’esperienza aumentata del quotidiano .................... 129 Case study 1: <<Moody Closet>> ................................................................. 131 Case study 2: <<Mirror Mirror>> ................................................................. 136 Conclusioni.......................................................................................................... 143 Bibliografia .......................................................................................................... 145 Ringraziamenti .................................................................................................... 147 Introduzione Per elaborare la mia ricerca sono partita dal considerare quegli argomenti che più mi avevano colpito nel corso dei miei studi universitari e che ero desiderosa di approfondire. In particolar modo, sono rimasta affascinata da una disciplina di cui inizialmente non conoscevo nulla, ma che sin dal primo momento mi ha interessato molto: è così che, partecipando alle lezioni che si tenevano in aula e consultando differenti altre fonti e materiali, sono arrivata a circoscrivere all'interno del vasto ambito della Sociologia dei processi culturali alcune specifiche tematiche da cui poter prendere spunto per sviluppare la mia tesi. Si è trattato di un processo di stesura che ha conosciuto molte revisioni e aggiustamenti, spesso dovuti al mio incontro con materiali che di volta in volta suscitavano la mia attenzione portandomi a rielaborare e arricchire l’idea iniziale alla luce di nuove consapevolezze. Ho dunque costruito il mio approfondimento mettendo insieme differenti tasselli, cercando di riunire i miei diversi interessi in un percorso che risultasse al tempo stesso innovativo e coinvolgente. Prendendo inizialmente in considerazione i processi di diffusione della moda, mi sono resa conto che volevo sapere di più a riguardo: desideravo infatti analizzare in modo più approfondito le particolari dinamiche che portano all’ascesa di una tendenza, provvedendo che essa s’imponga come normativa generale all'interno di una determinata società. Mi incuriosiva soprattutto ragionare sui meccanismi di scelta implicati nel processo di adozione di un determinato trend, in riferimento al campo dell’abbigliamento ma anche ai più diversi ambiti della vita sociale; proprio per questo ho voluto estendere il mio sguardo anche al mondo mediatico, considerandone gli specifici meccanismi di diffusione del messaggio. Operando un parallelismo fra le modalità di trasmissione dell'informazione che sia il sistema moda che il sistema dei media utilizzano per arrivare a far breccia 1 fra i vari strati della popolazione, ho voluto esaminare i punti di contatto esistenti fra questi due mondi: primo fra tutti il potere di influenza che entrambi esercitano nei confronti del loro pubblico. Sono così arrivata a chiedermi quale fosse la reale autonomia dell'individuo nei confronti dei diktat che questi due sistemi sembrano imporgli, nello specifico ho riflettuto sulle conseguenze che i meccanismi della moda e dei media comportano nel processo di affermazione dell’identità personale del singolo soggetto; indagando fino a che punto questi la plasmino e la modifichino a loro piacimento e interesse e, viceversa, in che modo permettano invece all’individuo di sfruttare gli strumenti che essi mettono a disposizione per esprimere e veicolare la propria ineguagliabile unicità. 2 1. MODA E MEDIA: DUE SISTEMI A CONFRONTO Questo primo capitolo vuole introdurre i due grandi ambiti culturali di riferimento che saranno presi in esame nel corso della mia argomentazione. Il mio intento, in questa prima sezione dell’elaborato, è quello di andare ad analizzare la struttura soggiacente ai due grandi sistemi della moda e dei mezzi di comunicazione tradizionali; con lo scopo di pervenire a un confronto fra i due campi che ne metta in risalto simili logiche implicite di funzionamento. Questi due sistemi infatti, sin dagli albori del loro consolidamento come strutture di creazione del significato e del consenso all’interno delle società moderne, presentano un’organizzazione formale simile rispetto ai meccanismi di trasmissione e di diffusione del messaggio che implementano. Cercherò di soffermarmi dunque sulle analogie intercorrenti fra il sistema della moda e il sistema dei media, mettendo in luce anche le necessarie differenze che presentano, nel tentativo di dimostrare come questi viaggino su due binari paralleli che talvolta – e oggi sempre più spesso – tendono a incrociarsi; generando scenari innovativi e ad alto tasso di complessità. Le logiche dei due sistemi subiscono un influsso reciproco e arrivano così a originare nuove realtà all’interno delle quali i confini dell’uno e dell’altro ne risultano smorzati, in favore di una maggiore compenetrazione fra i due campi. A supporto della mia argomentazione mi servirò di alcuni modelli teorici resi noti da vari studiosi del campo della sociologia, che portarono avanti i loro studi nell’ambito della propagazione dell’informazione erogata per mezzo dei due veicoli comunicativi della moda e dei media. Partendo dalla lettura di queste ricerche, i cui risultati sono stati appurati e la cui attendibilità e validità sono state confermate a più riprese nel corso del tempo, miro a ripercorrere l’evoluzione delle strategie comunicative che questi settori hanno visto plasmarsi e succedersi; in una parabola che vuole giungere a considerare attentamente gli sviluppi più recenti passando in rassegna le diverse tesi che si sono susseguite negli anni fino ad arrivare a noi. 3 Innanzitutto risulta di primaria importanza analizzare le peculiari condizioni sociali, culturali, economiche, politiche e tecnologiche che si presentavano in quei contesti spazio-temporali che consentirono ai due sistemi di fare la loro comparsa all’interno delle organizzazioni sociali esistenti e, propriamente, di sfruttare le caratteristiche intrinseche di queste stesse strutture organizzative come una solida base su cui poter fondare il proprio potere. Nei paragrafi che seguono mi soffermerò ad esaminare ciascun sistema dapprima in modo separato, così da poter spaziare maggiormente nella presentazione delle sue proprie specificità caratteristiche, in seguito approderò ad un confronto congiunto che tragga le conclusioni della mia esposizione e metta in collegamento i due livelli, evidenziando le reali interazioni che sussistono fra loro. 1.1 Sistema Moda Sul vocabolario della lingua italiana Treccani, alla voce moda, fanno la loro comparsa, fra altre, queste definizioni: b. Fenomeno sociale che consiste nell’affermarsi, in un determinato momento storico e in una data area geografica e culturale, di modelli estetici e comportamentali (nel gusto, nello stile, nelle forme espressive), e nel loro diffondersi via via che ad essi si conformano gruppi, più o meno vasti, per i quali tali modelli costituiscono, al tempo stesso, elemento di coesione interna e di riconoscibilità rispetto ad altri gruppi; […] Come espressione del gusto predominante (tipico di una determinata società) la moda interessa ambiti intellettuali, ideologici, movimenti artistici e letterari, o, più genericamente, abitudini, comportamenti, preferenze […] c. Con uso assol., o senza partic. specificazioni, il termine fa in genere riferimento all’ambito dell’abbigliamento (ma anche delle acconciature, degli ornamenti personali, del trucco, ecc.), nel quale il fenomeno è caratterizzato, soprattutto in tempi recenti, dal rapido succedersi di fogge, 4 forme, materiali, in omaggio a modelli estetici che in genere si affermano come elementi di novità e originalità (2016)1 Da qui possiamo ricavare innanzitutto che il termine moda è atto a designare un fenomeno riconducibile a un circoscritto contesto spazio-temporale, all’interno del quale, ovviamente, sono vigenti determinati ideali, valori, credenze e condizioni politiche e sociali che non possono lasciarlo indifferente: essendo la moda espressione di uno stato di cose presente essa non può prescindere dalle specifiche condizioni dell’ambiente in cui si origina, che contribuiscono a fondarne l’essenza. Può essere considerata infatti come il risultato di queste precise coordinate, come la loro trascrizione in una forma che si presenta al tempo stesso come materiale e simbolica. Le peculiarità del fenomeno si riscontrano soprattutto in tre suoi aspetti fondamentali: nel suo elevato grado di affermazione a livello sociale, nella sua breve durata e nella frequenza periodica che esso adotta nel propugnare il cambiamento di rotta, mantenendosi sempre aperto a novità e possibilità ulteriori. Effettivamente possiede una misteriosa abilità di conquista, dimostrata dalla sua inspiegabile capacità di attrarre a sé le vaste schiere di seguaci da cui raccoglie larga approvazione. Orientata a segnare una netta rottura sia con la tradizione che l’ha preceduta che con lo status quo suo contemporaneo, la moda mira a porsi come modello guida all’interno della società entro cui si manifesta, definendosi come il canone da seguire e stabilendo una precisa normativa che influenza, in modo più o meno pregnante, le pratiche, le opinioni, le abitudini, il gusto e le preferenze degli individui che ne fanno parte. Il codice estetico o comportamentale da essa prescritto è destinato però, per sua intima natura, a essere adottato per un periodo di tempo limitato, durante il quale quella particolare declinazione del fenomeno rimane in auge. Una volta divenuta obsoleta, poiché giunta al suo punto di massima saturazione, questa normativa 1 Vocabolario on line Treccani. http://www.treccani.it/vocabolario/moda/ Treccani.it. 5 Consultato il 30 agosto 2016, da si rigenera nuovamente in antitesi con i suoi presupposti precedenti, smentendoli e oltrepassandoli in modo dialettico. La caducità che contraddistingue il fenomeno non va però annoverata fra i suoi punti di debolezza: anzi, la sua forza intrinseca risiede proprio nel suo imperativo al mutamento continuo, nel suo ininterrotto trasformismo, nel suo costante slancio verso l’innovazione, nel suo incessante protendersi verso un’ulteriorità di cui ancora non si intravedono i confini precisi, in una sorta di perenne insoddisfazione per lo stato attuale delle cose. La moda è destinata a soggiornare in modo permanente in una zona di confine: fra il qui ed ora e un agognato futuro prossimo a sopraggiungere; ed è questo che la tiene in vita. Essa è infatti eterno divenire, anelo a una diversa possibilità d’esprimere lo spirito del tempo, desiderio di superamento del presente e volontà di trascendere le condizioni raggiunte, vagheggiamento di quello che verrà. È dunque territorio dell’immaginazione e della creatività, ed è per questa ragione che essa riesce a sedurre le masse, attirando alla sua causa un vasto assenso: per le infinite possibilità di metamorfosi che consente a coloro che se ne servono. Non perde fascino e vigore e non stufa mai poiché è sempre pronta a rimettersi in discussione, ripresentandosi di volta in volta sotto una forma divergente. Indubbiamente la moda consente poi all’individuo di mettere in atto delle strategie sia imitative che distintive nei confronti degli altri individui con cui egli interagisce: le prime sono votate all’emulazione della massa e sfociano dunque in casi di omologazione e di livellamento sociale, le seconde sono preposte invece alla differenziazione e all’elevazione di un singolo soggetto, o di un particolare gruppo di soggetti, al di sopra della dominante culturale. Ma questo specifico argomento sarà oggetto di più attenta discussione nel corso del paragrafo 1.1.2, all’interno del quale verranno affrontate più nel dettaglio le modalità di propagazione e diffusione del fenomeno. 6 È importante tenere a mente che il meccanismo di funzionamento implementato dalla moda non riguarda esclusivamente le temporanee usanze vestimentarie e ornamentali di un dato contesto culturale ma, anzi, abbraccia uno spettro più ampio di manifestazioni sociali, che possono avere a che fare con preferenze, gusti e abitudini svariate; tuttavia nello specifico del mio elaborato, o perlomeno in questa prima sezione, tenderò a prendere in considerazione la moda soprattutto nella sua accezione di metamorfosi progressiva delle fogge d’abito nel corso del tempo. La moda come noi la conosciamo attualmente ha alle sue spalle una lunga storia evolutiva, ma la sua messa a punto sotto forma di sistema, nonché la sua istituzionalizzazione, vennero decretate solamente dalla nascita della cosiddetta Haute Couture; tradotto dal francese con il termine <<Alta Moda>>. Certo, non si può attestare che prima di questo momento non si sia mai verificato, nelle diverse regioni del mondo, alcun episodio di innovazione in campo vestiario; e sarebbe sconsiderato ammettere il contrario. Del periodo precedente il suo avvento ci giungono sicuramente alcune testimonianze di fenomeni simili alla moda che, tuttavia, non si imposero con la sua stessa enfasi ricorsiva nello scandire l’introduzione della novità all’interno di contesti socioculturali situati; caratteristica che essa assume solo a partire dalla seconda metà del XIX secolo e che identifica in maniera inequivocabile l’inizio di nuova era. In questo preciso periodo, infatti, il ritmo incessante del cambiamento viene sottoposto a una pianificazione regolare e calibrata, che lo porta a ripresentarsi ogni volta al termine di un preciso intervallo di tempo; scandendo così i ritmi della produzione e dell’introduzione dell’innovazione in campo sociale. La moda assume dunque una ciclicità stagionale ed è ora lo stilista stesso a controllarne il funzionamento, in quanto egli solamente si assume il diritto e la facoltà di introdurre la novità all’interno del sistema; influendo così sui suoi stessi principi organizzativi. 7 1.1.1 Dal <<trickle-down>> alla <<selezione collettiva>> Avendo presentato a grandi linee in che cosa consiste questa nuova forma di pensiero estetico collettivo, mi accingo ora a riflettere sui singolari processi a cui esso ricorre per svilupparsi all’interno del corpo sociale. Mirando a ripercorrere brevemente le tappe principali dell’evoluzione che la teoria critica ha conosciuto nel descrivere il funzionamento della moda, prenderò in considerazione le disamine portate avanti da studiosi di primaria importanza nel campo della sociologia che affronta nello specifico questa tematica. Trattasi di una disciplina in continuo aggiornamento anche e soprattutto rispetto alle nuove configurazioni che il fenomeno assume nella nostra società contemporanea, modificandosi di pari passo e in simbiosi con essa; riconfigurandosi nei confronti dei nuovi ritmi, delle nuove pratiche, dei nuovi ideali, valori, modelli organizzativi che sono sorti e continueranno a sorgere col trascorrere del tempo. Georg Simmel e il <<gocciolamento>> A Georg Simmel spetta il merito di aver adottato, per la prima volta nella storia, un punto di vista inusuale nell’analisi della vicenda moda: diversamente da quanto avevano fatto altri prima di lui, egli si servì di un approccio prettamente sociologico nei confronti del tema in questione. Infatti, se fino a quel momento l’attenzione degli studiosi si era rivolta per lo più a soppesarne i soli contenuti, Simmel fu il primo ad indagarne anche la forma; focalizzandosi più nel dettaglio sullo studio dei meccanismi intrinsechi alla base del fenomeno. Il sociologo tedesco, nel popolare saggio intitolato Die Mode (1895), ci mostra pertanto una modalità rivoluzionaria di leggere e interpretare la moda, considerandola un puro processo sociale. È importante tenere a mente che la sua ricerca prende le mosse dalla diretta osservazione della realtà della sua epoca, dunque prende a riferimento lo specifico assetto sociale esistente a fine Ottocento: un’organizzazione piramidale al cui vertice si situavano le ristrette classi dirigenti, detentrici del massimo potere, e alla cui base si collocava lo strato più 8 vasto e impotente della popolazione. Questo fatto, tuttavia, se in un certo senso limita l’applicazione di alcune rilevazioni del sociologo, che rimangono vincolate a una realtà spazio-temporale molto circoscritta, non toglie certo importanza alla riuscita individuazione di alcune costanti che, ancora oggi, risultano utili e illuminanti da mettere in conto al fine di comprendere il fenomeno in esame. Le considerazioni di Simmel, come abbiamo affermato pocanzi, partono dal presupposto che la moda sia un processo sociale il quale, al pari di ogni altro, rende manifesto il dualismo naturale insito in ogni aspetto della vita umana. È allora una lotta degli opposti quella che si sprigiona nella formula della moda, un contrasto perpetuo che chiama a sé ogni individuo per partecipare insieme della propria comune essenza. Lo studioso individua in particolare due forze opposte che, con forte prepotenza, esternano il loro antagonismo nello specifico di questo ambito, sopraffacendosi continuamente. Queste sono identificate nei meccanismi dell’imitazione e della differenziazione: due pulsioni assolutamente indispensabili a fondare la moda, la quale non può prescindere dalla loro reciproca e simultanea co-esistenza. Precisamente egli afferma che se uno dei due istinti viene meno la moda non può sussistere in quanto manca della propria potenza intrinseca, identificata niente di meno che nella perenne tensione fra impulsi contrapposti. Questo disaccordo di base non è di certo percepito come negativo dai seguaci della moda ma anzi, al contrario, è quanto costituisce la sua vera e intima forza; in quanto consente agli individui che se ne servono di placare i loro connaturati appetiti di sopravvivenza. E questi appetiti altro non sono che la necessità di raggiungere uno stato di coesione con il resto della società, da una parte, e, allo stesso tempo, il desiderio e il bisogno di ritagliarsi uno spazio proprio, personale e caratteristico nei confronti della massa indistinta, dall’altra. Come afferma Simmel: La moda è imitazione di un modello dato e appaga il bisogno di appoggio sociale […] Nondimeno appaga il bisogno di diversità, la 9 tendenza alla differenziazione, al cambiamento, al distinguersi. […] la ragione fondamentale della sua efficacia è che le mode sono sempre mode di classe (Simmel, 1996, p. 15). Se allora la spinta all’imitazione porta il soggetto a fondersi con la moltitudine dei suoi simili, la contraria pressione alla differenziazione lo spinge invece ad enfatizzare o al contrario attenuare – quando non addirittura negare – gli aspetti della norma generale al fine di marcare una netta separazione fra se stesso e il resto della collettività. L’imitazione è per Simmel la maniera attraverso cui il singolo può divincolarsi dal peso della scelta operata: egli, sottoscrivendo ciò che va per la maggiore, si libera da ogni qual si voglia senso di responsabilità e vergogna nei confronti del suo agire; poiché in questo caso può godere del sostegno di chi, come lui, ha deciso di seguire il pensiero maggioritario. La deresponsabilizzazione deriva dunque dall’adesione acritica dimostrata attraverso l’adeguamento al gregge. Il senso di vergogna viene anch’esso estirpato proprio per il fatto che l’agire del singolo viene a coincidere con l’agire collettivo: tutti fanno, dicono, pensano alla stessa maniera, quindi nessuno ha più timore di venire emarginato o di essere giudicato inappropriato dall’ “altro come lui”. L’atteggiamento emulativo però mette a tacere le doti creative del soggetto, che si trova a operare senza dover compiere alcuno sforzo personale: trova tutto già predisposto e deve solo limitarsi ad aderire a un’opzione preconfezionata, ogni giudizio è pertanto sospeso. Per quanto concerne l’esigenza di ritrovare la propria intima essenza distaccandosi dalla moltitudine, all’individuo, secondo Simmel, sono date due diverse possibilità: enfatizzare i caratteri della moda, condotta tipica del maniaco di moda che, portando all’esasperazione gli attributi della logica dominante, riesce a riappropriarsi di uno spazio di manovra prettamente individuale; oppure negare, in toto o in parte, i presupposti della moda, 10 ponendosi al di fuori della corrente principale e isolandosi dalla collettività tramite un forte gesto d’opposizione. È importante però tenere a mente che, per il sociologo, la moda è sempre una moda di classe e che dunque la distinzione individuale è possibile sempre e solo all’interno di una logica di gruppo dei pari; dunque i concetti di uguaglianza e disparità si riscontrano continuamente ad un livello collegiale, sebbene entro cerchie più ristrette. […] la moda significa da un lato coesione di quanti si trovano allo stesso livello sociale, unità di una cerchia sociale da essa caratterizzata, dall’altro chiusura di questo gruppo nei confronti dei gradi sociali inferiori e loro caratterizzazione mediante la non appartenenza a esso. (ivi p.16-17) È così che sia il maniaco di moda sia il soggetto anti-moda si troveranno ad incrociarsi con altri che, come loro, avranno implementato le medesime strategie di estremizzazione, rispettivamente in positivo o in negativo, nei confronti di un fenomeno dal quale non è possibile prescindere. Il raggiungimento di una posizione del tutto indipendente risulta interdetto poiché a nessuno è dato di sottrarsi dal gioco delle negoziazioni sociali. La moda invero può essere considerata come una linea di demarcazione fra conformità interna, relativa a una minuta cerchia, e difformità esterna, di quanti non appartengono a quella stessa cerchia omogenea al suo interno. Essa, precisamente, mediante un’azione omogenizzante livella i vari caratteri individuali interni ad uno stesso gruppo e, al contempo, separa suddetto gruppo dalle aggregazioni difformi a esso limitrofe. Segna così un netto confine fra quanto è incluso e quanto è escluso da ogni strato sociale, connettendo fra loro i soggetti affini e, simultaneamente, sottraendoli da quanto rimane a loro esterno ed estraneo. Applicando questa dinamica alla piramide sociale antidemocratica di fine Ottocento ne deriva un meccanismo simile a quello di una lotta di classe per la detenzione del potere. Se, come abbiamo detto, la moda è sempre espressione 11 congiunta di un’intera classe allora non può che originarsi dalle sole élite altolocate: è infatti in gioco una battaglia per la propria legittimazione, per imporre il proprio prestigio attraverso gli strumenti offerti dalla moda. […] la nuova moda, appartiene soltanto alle classi sociali superiori. Non appena le classi inferiori cominciano ad appropriarsene superando i confini imposti dalle classi superiori e spezzando l’unità della loro reciproca appartenenza così simbolizzata, le classi superiori si volgono da questa moda ad un’altra, con la quale si differenziano nuovamente dalle grandi masse e il gioco può ricominciare. Le classi inferiori infatti guardano in alto ed aspirano ad elevarsi. Questo è loro possibile soprattutto nell’ambito della moda in quanto è il più accessibile a un’imitazione esteriore. […] perché gli oggetti della moda, in quanto esteriorità della vita, sono particolarmente accessibili al puro possesso del denaro. (ivi p.20) Ecco che il motore trainante della moda si esplica in un continuo antagonismo fra creazione e appropriazione delle tendenze. La classe agiata inventa una modalità specifica attraverso cui distanziarsi dagli strati sociali inferiori i quali mirano invece ad acquisire autorevolezza e ad avanzare di livello. Appropriandosi dei simboli che connotavano, al principio, i soli individui delle classi agiate come un’unica unità, le classi più basse mirano a incrementare il proprio status adottando le loro insigni; in quanto non ne posseggono di proprie. Questo risulta però essere un tentativo tutto esteriore di darsi un tono, di ereditare un capitale culturale: come nota Simmel, non avendo esse altro modo di elevarsi di grado e non potendo sperare di far proprio il gusto innato delle élite, poiché mancano delle stesse doti intellettuali o di altre doti di genere immateriale, non possono che limitarsi a emularne l’aspetto meramente superficiale; che può essere acquisito materialmente attraverso i soldi. L’introduzione dell’innovazione spetta allora ai soli ceti abbienti, mentre le altre classi possono solamente copiare quanto queste hanno già ideato. 12 Ma questa strategia non fa altro che perpetrare nuovamente il dislivello già presente fra le classi: non appena le classi superiori si sentono espropriate dei loro caratteri identificativi sono portate inevitabilmente ad inventare un nuovo modo di differenziarsi da quelle inferiori, le quali hanno violato il confine di separazione che le distanziava. È così che il meccanismo può ripartire da principio. Questa teoria è comunemente detta <<Teoria del gocciolamento>> o <<Trickledown theory>> esattamente per il fatto che essa presenta la moda come un fenomeno sociale dominato sì da un impeto dualistico, ma di flusso monodirezionale, che segue un movimento destinato ogni volta a diffondersi solo e soltanto secondo un orientamento verticale che va dall’alto verso il basso; “gocciolando” dagli strati più elevati verso gli strati inferiori della popolazione senza che a questi ultimi sia data alcuna possibilità di intervento creativo. L’ideazione della nuova moda è sempre appannaggio della ristretta élite al vertice, che detiene il primato culturale ed è interessata perciò a conservare inalterato lo status quo e i propri agi. Se allora i ceti più elevati sono in genere più conservatori è la classe media che imprime il reale dinamismo alla storia. Come si è detto il modello simmeliano aderisce a una specifica composizione del corpo sociale, che per la prima volta inizia a essere messo in crisi con l’avvento della classe media all’interno del panorama pubblico. Da quel momento l’assetto tradizionale inizia a vacillare e la moda consente agli individui di esercitare una certa mobilità sociale. Herbert Blumer e la <<selezione collettiva>> A sessant’anni di distanza dall’analisi portata avanti da Simmel, Blumer si trova dinanzi a una società totalmente rivoluzionata, per la quale il precedente modello esplicativo dei processi di creazione di novità e di diffusione delle tendenze risulta essere incompatibile. Il corpo sociale, e di conseguenza la sua 13 organizzazione estrinseca, sono stati sottoposti a grandissimi e plurimi cambiamenti, che ne hanno profondamente modificato gli assetti tradizionali. A partire dagli anni Quaranta del Novecento si è assistito all’emergere di un modello di consumo, definito in seguito di massa, che ha portato a elidere le vecchie gerarchie di potere. Certamente non si è trattato di un cambiamento che si è verificato dall’oggi al domani, ma che si è prodotto lentamente; incontrando alcune resistenze iniziali spesso dovute al disinnesco di consuetudini secolari. Nondimeno anche il sistema moda ha conosciuto un percorso di progressiva evoluzione, compiendo un’impennata decisiva attorno agli anni Sessanta del XX secolo: questa fase infatti rimodula radicalmente gli equilibri in gioco. A tal proposito si è parlato spesso di un graduale processo di “democratizzazione”, ma cosa si intende esattamente con questo termine? Innanzitutto, la novità più evidente è stata la riconfigurazione dell’intero organismo sotto le spinte del policentrismo, ossia della moltiplicazione esponenziale dei centri di produzione e di diffusione della moda. Parigi, ormai da anni, non deteneva più il primato di unico grande fulcro creativo al mondo, anzi varie e diverse realtà erano riuscite a imporsi con la stessa sua forza nel panorama internazionale; conducendo a una situazione generale di “libera concorrenza”, e non più di monopolio, in ambito di creazione e irradiazione dell’innovazione. Firenze, Milano, Londra, sono questi alcuni dei nuovi nodi propulsori del sistema decentrato che passano a essere accolti sotto i riflettori dell’interesse globale. A questa importante rivoluzione corrispose un’equivalente perdita di centralità da parte della haute couture, che in quegli anni si trovò costretta a fare i conti con una produzione molto più economica poiché standardizzata: la confezione industriale. questa era nata in Europa già un secolo prima ma, avendo conosciuto un concreto sviluppo solamente nei territori d’oltreoceano, si trovò a essere importata dall’America; con la denominazione di Ready-To-Wear. Al venir sussunta nel sistema francese, assunse inoltre il nome di Prêt- À-Porter. 14 Tale nuova modalità di concepire l’abito, in taglie preconfezionate, non surclassò del tutto la produzione su misura, che però rimase rilegata ad ambiti e occasioni davvero molto circoscritte. La nuova epoca aveva infatti prodotto nuovi stili di vita e dunque nuove necessità; gli abiti costosi unici e originali venivano spesso abbandonati a favore di un loro sostituto più adatto ai tempi che correvano. L’alta qualità e la vasta gamma di scelta che il pronto moda mette a disposizione lo configurano inoltre come un’alternativa più consona rispetto alla confezione di basso costo e qualità che si era invece diffusa a partire dagli anni Trenta. In aggiunta a tutti questi mutamenti, emersero svariate nuove figure a contendersi il ruolo di promotrici delle tendenze e vari stilisti giovani e innovativi si affacciarono alla ribalta. All’interno di un tale scenario polifonico e polimorfo, come viene a riarticolarsi il meccanismo di ideazione e circolazione delle tendenze? La teoria del trickle-down risulta essere inappropriata poiché anacronistica rispetto alla nuova era, afferma il sociologo americano Herbert Blumer; che tuttavia non disconosce il merito di Simmel nell’aver evidenziato almeno tre dei caratteri più esemplificativi della moda, ossia la sua intrinseca necessità di fondarsi su di un preciso assetto sociale che la sostenga e le consenta di svilupparsi, il suo configurarsi come continuo processo di cambiamento e, infine, l’importanza che il prestigio riveste nelle operazioni proprie di questo campo. Blumer propone dunque una nuova interpretazione teorica, più attenta alle vicissitudini del mutato assetto socio-culturale. Può servirsi inoltre della diretta esperienza maturata presso l’industria di moda femminile parigina, da cui deriva illuminanti spunti di riflessione e utilissimi per una comprensione più profonda del fenomeno. Precisamente durante quel periodo di tempo egli ha modo di osservare alcune consuetudini che si ripetono di anno in anno all’apertura delle varie case di moda. 15 […] I was forcibly impressed by the fact that the setting or determination of fashion takes place actually through an intense process of selection. […] choices are made by the buyers -a highly competitive and secretive lotindependently of each other and without knowledge of each other’s selections. (Blumer, 1969, p. 278-279) Nota innanzitutto come la nascita di una nuova tendenza sia sempre il risultato di un processo di attenta ed esperta selezione, operata da un élite molto ristretta di individui – i compratori – che, mossi da una strana forza misteriosa, arrivavano a far ricadere le proprie singole scelte, formulate rigorosamente senza diretto accordo o contatto fra di loro, sul medesimo ed esiguo gruppo di modelli vestiari. Il sociologo, determinato a voler comprendere le ragioni che si agitano al di sotto di tale enigmatica circostanza, è di seguito portato a un’importante intuizione: <<[…] the buyers were immersed in and preoccupied with a remarkably common world of intense stimulation>> in virtù di cui <<[…] buyers came to develop common sensitivities and similar appreciations.>> (ivi p.279). È dunque l’esposizione dei soggetti a un dato comune ambiente a intervenire sui meccanismi decisionali da essi adoperati, pilotando in modo simile le loro scelte? Sembrerebbe proprio essere così: i compratori, trovandosi calati all’interno di uno stesso orizzonte socio-culturale, ricco di svariati e plurimi stimoli, finiscono per derivarne una comune sensibilità e senso del gusto; che spiega dunque la strana coincidenza che emerge fra le loro singole preferenze. Questi individui sono tutti molto attenti all’andamento del mercato della moda femminile, di cui studiano scrupolosamente le inclinazioni e da cui derivano gli interessi dominanti dei suoi vari pubblici. In egual misura si dedicano alla lettura di riviste e pubblicazioni di settore e alla vigile osservazione delle linee di prodotti concorrenti. È così che possono formarsi quel solido retroterra di conoscenze che gli sarà fondamentale per potersi orientare nel corso della loro selezione di tendenze; una vera e propria missione volta a indirizzare la produzione e il consumo di beni ad alto valore simbolico. 16 Blumer si interroga poi in merito alla provenienza di quell’ispirazione che stimola la creatività dei designers, si chiede su che cosa essi si basino per incontrarla al fine di incorporarla poi nella progettazione dei loro modelli. Anche in questo caso egli riscontra una lampante corrispondenza, ugualmente non programmata, fra i vari capi proposti dagli stilisti nelle loro collezioni. Se è lo spirito del tempo che questi ideatori di moda vogliono comunicare, allora essi saranno inevitabilmente portati a divenire acuti osservatori di tutto ciò che li circonda. There were three lines of preoccupation from which they derived their ideas. One was to pour over old plates of former fashions and depictions of costumes of far-off peoples. A second was to brood and reflect over current and recent styles. The third, and most important, was to develop an intimate familiarity with the most recent expressions of modernity as these were to be seen in such areas as the fine arts, recent literature, political debates and happenings, and discourse in the sophisticated world. The dress designers were engaged in translating themes from these areas and media into dress designs. (ibidem) Traendo spunto dagli stessi molteplici campi dell’umana cultura attigui al mondo della moda, la cerchia a suo modo ristretta e competitiva dei disegnatori d’abiti converge verso soluzioni analoghe; nel tentativo di rileggere il passato attraverso la mediazione del presente e di giungere a preconizzare il futuro grazie a una consapevole lettura delle dinamiche contemporanee. Blumer non concorda con l’affermazione di Simmel secondo cui le mode sono sempre dettate dalle classi agiate, in quanto emblemi del loro prestigio; anzi, fa notare come il modello che diventa la moda abbia già in sé una potente valenza intrinseca: è proprio questa che le permette di imporsi e di attirare a sé, fra gli altri, le élite. Queste ultime, appropriandosene, vi conferiscono dunque solo in un secondo momento il tratto del proprio prestigio. I gruppi agiati non dettano dunque la moda ma, per la loro spiccata sensibilità, possono al massimo 17 identificare per primi la direzione che essa sta prendendo; abbracciandone i dettami. Il loro tentativo di differenziazione dal resto della società si situa quindi all’interno del meccanismo stesso della moda, la quale non nasce in risposta al loro comportamento ma si costituisce a priori. <<Not all prestigeful persons are innovators and innovators are not necessarily persons with the highest prestige.>> (ivi p.281) il ruolo prescrittivo assegnato da Simmel ai gruppi altolocati della società in ambito di creazione della nuova moda viene ora profondamente ridimensionato: queste stesse cerchie, difatti, si trovano a dover indirizzare la propria scelta verso modelli preesistenti, creati da innovatori esterni – i designer ad esempio – e non direttamente connessi al proprio giudizio o potere. La leadership nel campo dell’introduzione delle tendenze passa dunque a essere assunta da figure provenienti da svariati livelli sociali. L’individuo che voglia essere riconosciuto come leader in questo ambito dovrà essere costantemente aggiornato sui cambiamenti della società, al passo con essa, sempre vigile e attento a captare i successivi sviluppi verso cui questa si appresta. Si è parlato spesso di processi grassroot e di fenomeni bubble-up per riferirsi a quelle particolari ondate di innovazione che partendo dal basso, dai livelli infimi della società, arrivano a inglobare solo successivamente gli strati superiori. Tali fenomeni, prima impensabili, iniziano a prendere piede all’interno dello specifico assetto societario che si struttura a partire dalla seconda metà del XX secolo; che li rende finalmente possibili. Sicuramente si tratta di meccanismi di più ampio respiro sociale e di impronta maggiormente democratica, per il fatto che concedono a chiunque abbia le giuste capacità di partecipare al rinnovamento sociale. Tuttavia, allo stesso tempo, si tratta anche di fenomeni decretati a mettere presto in ombra le figure di spicco che si susseguono nell’incessante divenire della civiltà; voltagabbana, in quanto sempre pronti ad acclamare gli astri nascenti dimenticandosi, più o meno rapidamente e irrevocabilmente, delle stelle del passato loro più prossimo. Un giorno sei in, 18 quello dopo sei out; i nuovi leader sono come banderuole pronte a essere sospinte nella direzione in cui soffia il vento dell’innovazione, il quale però ben presto cambia rotta riportandole al loro immobilismo di partenza. Questi processi di cui parlo sono però ancora lontani dal manifestarsi in tutta la loro forza e pienezza e bisognerà aspettare i decenni successivi affinché questi si affermino in modo decisivo. Tuttavia è possibile nel frattempo constatare come il policentrismo assunto dalla leadership rispecchia in pieno il modello riformato del sistema moda nato a fine anni Sessanta. <<Fashion appears much more as a collective groping […] than a channelled movement laid down by prestigeful figures.>> (ibidem) si tratta di un meccanismo che procede per successivi tentativi e aggiustamenti, che si rimodula di volta in volta sulla scorta dei vari modelli espressivi maturati in risposta ai cambiamenti sociali; non è determinato dal solo arbitrio e potere decisionale dei soggetti prestigiosi. Il <<gusto collettivo>>, che Blumer descrive come <<sensitivity to objects of social experience>> (ivi p.284), si evolve in relazione a una molteplicità di fattori intercorrenti che si pongono come elementi di un nuovo ordine sociale, consono, di volta in volta, alla vita contemporanea così come essa si dà nel momento presente del suo incessante divenire. <<Fashion trends […] signify a convergence and marshalling of collective taste in a given direction>> (ivi p.283) la tendenza dominante che, per un determinato periodo di tempo, si instaura all’interno di una data società è il risultato di un compromesso fra la sensibilità e le predilezioni dei tanti soggetti che la compongono; e ne esemplifica il cambiamento di rotta generale verso nuovi interessi e preferenze. Il <<gusto collettivo>> altro non è che a subjective mechanism, giving orientation to individuals, structuring activity and moulding the world of experience. Tastes are themselves a product of experience […] formed in the context of social interaction, responding to the definitions and affirmations given by others. People thrown into areas 19 of common interaction and having similar runs of experience develop common tastes. […] Collective taste is an active force in the ensuing process of selection (ivi p.284) È un agente costantemente attivo nel corso del mutamento sociale ed è essenziale al processo di selezione collettiva, poiché è volto a scremare fra molteplici forme espressive innovative quelle più adatte a ergersi come stendardo della contemporaneità o come emblema degli scenari dell’immediato futuro. È un principio ordinatore malleabile, aperto alle successive revisioni cui verrà sottoposto nell’ambito dell’interazione sociale; ambito a sua volta modulato da soggetti appartenenti a contesti attigui che, avendo vissuto esperienze simili, hanno acquisito una sensibilità per lo più concorde gli uni agli altri. È un comune denominatore, capace di raggruppare sotto il suo vessillo larghissima parte della società per traghettarla verso le proprie sorti future. Riassumendo quanto fin qui detto, l’istituzione di una tendenza di moda è dunque considerata da Blumer come una libera selezione nata dall’incontro di diverse preferenze individuali attorno a un modello preciso, ritenuto il più adatto a rappresentare lo spirito del tempo rispetto ad altri modelli concorrenti. Il modello in questione si consolida dunque come la moda dominante per un periodo di tempo limitato, durante il quale detterà legge. Il ruolo sociale della moda si riscontra allora, secondo Blumer, nell’alto grado di uniformità e di unanimità che essa riesce a produrre: riesce infatti a portare ORDINE in una situazione di caos sociale iniziale, poiché indicando una via unica e univoca da seguire limita l’anarchia e il disordine che potrebbero sorgere se non vi fosse alcun modello guida collettivamente accettato. Così facendo dota gli individui di un codice comune attraverso il quale gestirsi e dare forma al mondo. Inoltre permette all’innovazione di presentarsi incessantemente all’interno del contesto sociale, spingendolo verso la sua evoluzione e il suo sviluppo, verso un continuo miglioramento delle condizioni raggiunte; 20 combattendo l’immobilismo così come la fossilizzazione nel tempo passato. Rende dunque libero ogni individuo di sperimentare nuove soluzioni, consentendogli di presentare il proprio punto di vista e la propria interpretazione del presente nonché le sue idee in merito ai modelli culturali futuri cui prevede che la società tenderà. 1.1.2 Dalla <<selezione collettiva>> allo stile individuale: street style ed estetica del digitale Questo relativismo culturale, ossia questo orientamento della società verso un continuo divincolarsi di volta in volta fra nuovi molteplici punti di vista, fa però sì che emergano sempre più delle figure instabili ed effimere a impossessarsi temporaneamente del primato culturale; ponendosi come guide profetiche dell’intera società. Da tale fenomeno consegue che non esistono più univoche mode e tendenze, si assiste anzi a una moltiplicatone esponenziale di voghe e correnti multiple in fatto di moda e cultura. Ognuno ha la possibilità di dire la sua, di far valere la propria preferenza e di inventare un nuovo gusto dominante; nella speranza di raccogliere a sé qualche seguace. I nuovi guru provengono dalle regioni più disparate del pianeta e spesso amano mixare fra loro le suggestioni culturali più svariate, dimostrando un’abilità combinatoria degna erede di quell’indole frammentaria, polimorfa e antigerarchica tipica dell’età post-moderna. Come già ho affermato a più riprese nel corso della mia argomentazione, il sistema moda ha seguito nel tempo una lunga evoluzione, che l’ha portato a divenire più aperto e democratico e a rendere partecipe dei suoi meccanismi una più vasta compagine di soggetti sociali. Se nelle comunità tradizionali l’utilizzo di un costume statico era simbolo e strumento per il mantenimento dell’ordine prestabilito, nelle società moderne l’avvento di mode cicliche ed effimere divenne espressione dello spirito di cambiamento e dell’ideologia di progresso che avevano informato di sé l’intera sfera socio-culturale di quella determinata epoca. 21 Nella nostra contemporaneità, essendo la moda giunta ad uno stadio evolutivo ancor più avanzato, la questione dello stile individuale diviene cruciale. Sulla spinta del policentrismo assunto dal sistema e su quella di un rinnovato multiprospettivismo a esso connesso la moda inizia a trasformarsi in qualcosa di sempre più amorfo: è difficile da individuare chiaramente poiché non si identifica più come una corrente unica e univoca ma assume una natura plurale; presentandosi in distinte sfumature a seconda della regione geografica o dello specifico gruppo socio-culturale in cui si origina. Più che di moda si parla infatti di stili, focalizzandosi su quelle precise normative che contraddistinguono il soggetto singolo, o la ristretta cerchia con cui egli si identifica, più che la collettività in toto. Oggi lo stile di vita e il gusto personale di un individuo forniscono importanti elementi per poterlo identificare. Precisamente con la nascita delle sottoculture, negli anni Sessanta del Novecento, lo stile arriva a costituirsi come il mezzo prediletto attraverso cui esternare e dichiarare in modo esplicito la propria appartenenza a uno specifico gruppo, i cui confini interni ed esterni sono marcati in modo preciso mediante l’adozione, da parte dei suoi membri, di un codice mutualmente condiviso. L’appartenenza e l’esclusione a una precisa cerchia vengono dunque ancora una volta sancite tramite il dispositivo dell’abbigliamento, ora però secondo una logica di “gruppo dei pari” e non più di classe. Cadono infatti le vecchie gerarchie e allo stesso tempo viene meno anche la necessità di emulare le élite agiate al fine di incontrare la propria collocazione nel corpo sociale. I nuovi collettivi sono formati da individui di nazionalità, sesso ed età differenti, tutti accomunati però da una qualche passione o interesse comune. Nella società che si sviluppa a partire dalla seconda metà del Novecento prende infatti spazio l’idea di tempo libero e insieme con essa iniziano a intravedersi i prodromi dell’odierna società consumistica. A cominciare dal secondo dopoguerra, e soprattutto nei decenni successivi, si assiste in effetti a una rapida diffusione di beni di consumo innovativi, legati al ciclo delle mode. Grazie 22 alla loro disponibilità economica i baby boomer, così come verranno soprannominati i giovani ragazzi della prima generazione post-bellica, sono i primi a poter godere di una ritrovata serenità economica e di un periodo di prosperità generale; tutto ciò porterà poi a rivoluzioni sociali che modificheranno in modo radicale l’assetto esistente. Bersaglio del mercato diviene soprattutto questo nuovo segmento ad alto potenziale di spesa, bombardato da messaggi pubblicitari persuasivi e coinvolgenti che spingono all’acquisto sfrenato di beni di seconda necessità. È da questo preciso momento che il concetto di stile di vita si colloca al vertice dell’occupazione giornaliera di migliaia di persone, giovani e non, che tentano di crearsi una propria identità unica e irripetibile sfruttando il potenziale dei beni ad alto valore simbolico; fra questi, ovviamente, fa capolino lo strumento dell’abbigliamento. La necessità ineludibile di comunicare la propria soggettività al resto della società è sentita in modo pregnante soprattutto dai teenagers, ragazzi adolescenti che mirano a crearsi un’identità nuova e totalmente divergente rispetto a quella dei loro genitori; che risulti essere indipendente e forte, espressione dei tempi mutati e dei nuovi ideali da essi condivisi. Lo sviluppo, negli anni, di un sempre più marcato individualismo accompagna il passaggio dal prevalere delle logiche della moda, intesa come <<selezione collettiva>> e come mutua condivisione, da parte dell’intera società, di uno stesso trend destinato presto a decadere, a quelle dello stile individuale. Ma precisamente, cosa differenzia la moda dallo stile? Come fa notare Ted Polhemus, che ha dedicato varie sue opere a tematiche riguardanti moda e anti-moda, la moda <<has a fluctating value over time>> mentre lo stile <<defies change in pursuit of the timeless>> (Polhemus, 1996, p. 19), è dunque senza tempo. Sovente, in modo sbrigativo, lo stile viene considerato come un’esemplificazione libera della propria soggettività mentre la moda come un assoggettamento al gusto dominante, alla norma – intesa sia come legge o diktat che come “normalità”, adesione a qualcosa cui tutti indistintamente 23 partecipano –. Tuttavia lo stile può indicare anche un’identità di gruppo, un noi più che un io: quella che potremmo meglio definire come anti-moda si riscontra ad esempio nel mondo tribale come in quello contadino, e dimostra orgoglio e fierezza nell’atto di tramandare uno stesso codice di abbigliamento, relativamente invariato dai tempi dei tempi, attraverso le generazioni. Continuità e conservatorismo sono in questo caso concetti utili a descrivere quelle ristrette realtà, marcando il confine rispetto a tutto quanto si colloca all’esterno di esse. Un medesimo approccio, riadattato, è ripreso e dalle sottoculture e da tutti quei gruppi chiaramente identificati in uno stile preciso e immutabile: questi stili arrivano però ad avere una risonanza globale grazie all’azione dei media, che ne amplificano la portata espandendo la visibilità dei piccoli gruppi oltre i loro ristretti confini territoriali di provenienza. Secondo l’antropologo statunitense l’avvento della globalizzazione e gli influssi e le trasformazioni che essa porta con sé segnano un punto cruciale nel corso evolutivo dell’intero sistema moda. Questo fenomeno permette di entrare in contatto con differenti e inesplorate realtà, elidendo progressivamente le distanze geografiche esistenti; inoltre i nuovi mezzi di comunicazione ubiqui e interconnessi, che permettono di reperire informazioni e di comunicare in modo facile e immediato, consentono in modo più o meno diretto di accedere ai più lontani luoghi e alle più remote epoche storiche. La tecnologia opera così un potenziamento del campo d’azione umano. A tutto questo si aggiunge una crescente sensazione di “presentificazione” che sembra far implodere l’asse temporale su se stesso, congelandolo in una sorta di eterno presente multiforme entro il quale si riscontra una sovrapposizione e coesistenza di tempi storici eterogenei. Tale sentimento è conseguenza soprattutto dello sgretolarsi del mito del progresso, tipico modernista e orientato al futuro, in favore di un ripiegamento sul solo tempo presente che abbandona ogni qual si voglia speranza in un riscatto o in un miglioramento a venire. Il motto <<no future>> 24 introdotto come lemma dalla sottocultura punk ben sintetizza questa condizione. Ecco che di questo passo si gettano le basi per una cultura di tipo multietnico e globale, condivisa ed eclettica. Nel suo saggio Style Surfing Polhemus introduce a una possibile descrizione delle varie <<styletribes>> (ivi p.40) che fra gli anni Sessanta e Novanta sono arrivate a contrassegnare lo scenario globale: gruppi di individui accomunati da passioni musicali, in alcuni casi dallo sport, ma soprattutto dalla stessa sensibilità nel vestire, occupati in una continua ricerca di espressione personale attraverso gli strumenti sempre nuovi che il mondo dell’abbigliamento e dell’ornamento corporeo mettono loro a disposizione. Questi nuovi raggruppamenti sociali traggono ispirazione, per configurare il proprio stile peculiare, da molteplici epoche passate e da località e regioni geografiche recondite: le parole d’ordine risultano infatti essere libertà, sperimentazione e re-interpretazione di oggetti simbolici, guidati dalla propria personale vena creativa. Polhemus sottolinea come queste nuove tribù di stile a differenza delle popolazioni tribali vere e proprie, che sono riconducibili a contesti localistici ben delimitati e dunque a forme organizzative che ricalcano quelle delle comunità tradizionali, sono composte da cittadini cosmopoliti provenienti da varie parti del globo; tutti riuniti sotto il comune denominatore dello stile adottato che esemplifica una mutua adesione allo stesso sistema di valori simbolici. Il crescente bisogno di autenticità, avvertito a partire dagli anni Sessanta da individui che ambivano a ritrovare la propria soggettività al di fuori della massa di per sé amorfa, anonima e indefinita entro cui erano stati imbrigliati dal vangelo del consumo, porta a spostare lo sguardo su tutto quanto era rimasto incorrotto e in qualche modo puro; ai margini delle civiltà capitalistiche occidentali. Gli esponenti delle rivendicazioni giovanili guardano anche a queste realtà come a possibili mezzi di redenzione e decontaminazione dal consumismo esasperato. Un’altra tattica operativa, che sembra indicare in un certo senso 25 una presa di posizione più marcatamente politica nei confronti dell’impero del consumo, prevede l’impiego degli stessi prodotti di massa ma secondo delle modalità riconfigurate in modo totalmente differente. È attraverso questo approccio confrontational dimostrato verso le grandi istituzioni che le sottoculture tendono a sovvertirne le regole e i significati preconfezionati. Di pari passo a queste inclinazioni si verifica un ribaltamento delle strutture di classe all’interno di quei precisi processi che portano all’adozione di una determinata moda: ora lo stile nasce sulla strada, a tal proposito si parla di street style. Si tratta in principio di uno stile povero, semplice e informale che ben presto però arriva a risalire la piramide sociale fino a incontrare l’approvazione delle classi ai livelli superiori, affermandosi come modello per l’intera collettività occidentale. La moda ufficiale infatti inizia a copiare questi stessi stili, prendendone possesso e introducendoli all’interno del meccanismo capitalistico. <<Although originating amongst the young and the nonconformist, both tribal style and “dressing down” rapidly became hallmarks of mainstream Western culture.>> (ivi p.46), la strada dell’allontanamento definitivo dalle logiche del consumo risulta essere dunque impraticabile. Le sottoculture si trovano espropriate dei propri simboli che, una volta introdotti in un contesto diversificato – il circuito della moda ufficiale – perdono il loro significato e la loro forza evocativa originari. La stessa sorte tocca anche a quei tentativi di riconversione degli oggetti di consumo in nuove strutture di significato, infatti le azioni e i prodotti derivati da tali azioni di “sabotaggio” vengono depotenziate dal fatto stesso di essere sussunte nuovamente all’interno dell’apparato capitalistico. Questo fenomeno esemplifica in modo esatto quei meccanismi di creazione culturale dal basso, altresì detti di bubble-up, di cui ho detto precedentemente: gli innovatori, in questo caso posti ai margini o ai livelli infimi della società, creano una nuova tendenza capace di risalire la piramide sociale e di informare di sé anche il gusto delle classi superiori, condizionandone le scelte e i 26 comportamenti. Certo, a ben osservare le dinamiche con cui questi nuovi oggetti culturali “eversivi” sono destinati, nonostante tutto, a venir reintrodotti all’interno del sistema si nota un certo sfruttamento del capitale creativo degli innovatori da parte delle aziende capitalistiche. Su questa posizione ritornerò poi successivamente nel corso dell’elaborato, per approfondirla alla luce di ulteriori tematiche a essa connesse. Negli anni Ottanta si assiste a un forte incremento dell’ossessione per la ricerca di uno stile individuale e anche gli stilisti istituzionali vi cedono; si riscontra infatti una vena prettamente classicista nelle creazioni di moda presentate in quegli anni da diverse influenti figure del campo e ciò sembra negare il diktat, fino a quel momento imprescindibile, della continua ricerca di novità. Nascono in quel periodo i total look, che consentono a chi li indossa di emettere una chiara dichiarazione di status. Sempre di un imperativo si tratta, sottrarsi al gioco della moda risulta in effetti impensabile se si vuole comunicare la propria posizione e identità sociale attraverso una precisa tipologia d’abbigliamento; tuttavia la vasta gamma di stili senza tempo ora disponibili consentono al consumatore un minimo di scelta, seppur inequivocabilmente limitata dai dettami delle gerarchie di potere ai vertici dell’istituzione. Alla fine del decennio precedente l’avvento della <<condizione postmoderna>> (Lyotard, 1979) aveva sconvolto definitivamente l’assetto della società e con essa tutti i suoi costrutti e le sue strutture di significato, con forti ripercussioni anche sulla sfera culturale. <<Where once there was a clean, obvious direction, now there is a maze>> (Polhemus, 1996, p. 32) gli individui si trovano da quel momento in poi dinanzi a un groviglio intricato di strade dissimili, che ognuno è libero di affrontare come meglio ritiene, scegliendo di volta in volta il percorso che preferisce intraprendere. Lo stile personale inizia ad essere sempre più criptico e complesso da decodificare, è il trionfo dell’ambiguità e dell’eclettismo. Il modo di apparire e di abbigliarsi riflette dunque alcune caratteristiche 27 dell’assetto globale dell’epoca: disordine, smarrimento, perdita di orientamento, caos. Il filone predominate nei circuiti ufficiali della moda diviene quello della decostruzione, molto diffusa fra i designer di provenienza orientale, che vede gli stilisti spesso impegnati nella realizzazione di patchwork che sfruttano stoffe e materiali eterogenei, spesso poveri o volutamente fatti apparire come consunti e danneggiati, prelevati da contesti plurimi. Gli innovatori di tendenze, di pari passo, si cimentano ancor di più nel sovvertire il significato di determinati capi e ornamenti, giocano con essi utilizzandoli come un vocabolario di segni atto ad esprimere valori e significati innovativi. Dagli anni Novanta a seguire si assisterà a un rimescolamento di stili sempre più complesso e a un loro ricambio sempre più veloce e spasmodico, tale che risulterà quasi impossibile tracciarne un percorso puntuale e completo. Secondo Polhemus nella nostra contemporaneità continuano a fiorire incessantemente nuove tribù di stile mentre le vecchie sottoculture sono resuscitate dall’incontro coi nuovi gruppi giovanili che ne adottano i segni distintivi, remixandoli con l’aggiunta di nuovi elementi e dando vita a ensemble inattesi che ospitano una ricca stratificazione di significati. Da una stessa radice comune nascono diverse branchie e sottogeneri, declinazioni molteplici di un medesimo stile di partenza. Il gusto per il vintage e per il revival è evidentemente sempre più presente nei diversi campi della cultura contemporanea, una mania per il retrò che purtroppo in alcuni casi vive accontentandosi di uno sterile citazionismo, crogiolandosi in un atteggiamento riflessivo e autoreferenziale piuttosto che proporre soluzioni che risultino essere realmente innovative. Polhemus fa notare come attualmente esiste una fluidità di confini sempre maggiore rispetto alle rigide barriere entro cui un tempo i gruppi sociali tendevano a barricarsi. Al giorno d’oggi si passa da uno stile all’altro con la stessa disinvoltura, facilità e tranquillità con cui si fa zapping fra la ricca offerta 28 della programmazione televisiva, come se gli stili vestimentari altro non fossero che possibili scenari che attendono solamente di essere provati <<multiple channels on a TV set wanting to be “surfed”>> (ivi p.54) Se la scelta non dovesse essere di proprio gradimento si può sempre decidere di revocare la propria preferenza, senza troppe e problematiche conseguenze. Come insegnano gli stessi spot televisivi, soddisfatti o rimborsati. Nessuno si identifica più in uno stile o in una posizione univoca, nessuno opera mai una scelta definitiva o ritiene opportuno farlo: le categorie sono limitanti e le persone vogliono essere libere di passare da uno stile all’altro senza troppi freni o impedimenti. Le odierne tribù di stile mancano allora di quel senso di appartenenza e di quella fedeltà al credo del gruppo che determinava un tempo le sottoculture delle origini: Various styles proliferate at a rate that is increasingly difficult to keep up with […] but few, if any, of these carry with them the sense of belonging and commitment that must constitute the bottom line of true tribal identity. (ivi p.50) Tutto si riduce a un puro gioco combinatorio, senza alcuno scopo preciso se non quello di divertirsi, provocare e sperimentare; ecco perché Polhemus paragona tutto ciò a un grande parco giochi o ancora a un supermercato dove poter liberamente trarre dagli scaffali tutto ciò che si considera essere allettante, senza alcuna preoccupazione morale o politica nei confronti del proprio agire. Ci si costruisce da sé il proprio modo di vestire attraverso un’azione di campionamento e ri-assemblaggio <<[…]channel surfing – making my own programme by sampling and mixing […]>> (ivi p.97) perché ci sono <<[…] too many possibilities. We can’t possibly take it all in, so we sample bits of it as if life was an “All You Can Eat” smorgasbord.>> (ibidem) un buffet aperto a tutti dal quale poter prendere ciò che si vuole. È la coesistenza simultanea e ambigua di tutti gli opposti, la cancellazione delle differenze, delle gerarchie e dei significati inequivocabili: frammentazione e decostruzione, 29 eclettismo e multi- prospettivismo sono i nuovi punti cardine che orientano le persone nelle loro scelte di abbigliamento. Se il gruppo sottoculturale punk era stato l’iniziatore di questa logica di bricolage e di Do It Yourself, applicandola più in generale all’intera sfera della produzione culturale e non soltanto al ristretto campo del vestire, questa stessa ideologia diviene ora sterile poiché avulsa dal suo contesto naturale di provenienza e dunque sminuita della sua valenza originaria. 1.2 Sistema dei Media Con il termine <<sistema mediatico>> voglio intendere l’intero insieme degli strumenti tecnologici e dei canali comunicativi attraverso i quali è possibile veicolare un messaggio. È importante chiarire innanzitutto che ogni mezzo di comunicazione crea un ambiente comunicativo peculiare a sé stante, che gode di caratteristiche specifiche derivate dalle possibilità che esso mette in gioco nonché dai suoi limiti. Ecco che allora a seconda della tipologia di messaggio che si ha intenzione di veicolare bisognerà saper scegliere il mezzo più opportuno ed efficace per quella determinata evenienza. Ogni medium inoltre necessita di un determinato contesto per potersi sviluppare e funzionare correttamente. A tutte le suddette conclusioni non si è giunti da subito: inizialmente infatti si aveva una concezione molto ristretta e limitata rispetto ai mezzi di comunicazione, che negli anni sono stati analizzati da differenti punti di vista; più prettamente scientifici o, al contrario, maggiormente attenti allo sviluppo della cultura sociale nel suo insieme. Dopo la radicale trasformazione sociale che si è accompagnata allo sviluppo della stampa a caratteri mobili, in un certo senso primo vero e proprio meccanismo per la produzione seriale di massa, uno dei più importanti strumenti comunicativi moderni è stato senza dubbio il telefono, che permetteva un dialogo a distanza fra persone. Importante successore del telefono fu la radio, che consentiva di poter trasmettere lo stesso messaggio a più pubblici; tutti anche qui necessariamente dotati di un particolare apparecchio per ricevere il segnale. Fra le più importanti invenzioni dell’età 30 moderna vi è però quella della televisione. È infatti con la sua definitiva affermazione fra i vari strati della popolazione che, a partire dalla seconda metà degli anni Cinquanta, iniziano a configurarsi veri e propri rituali di fruizione. Il nuovo mezzo tecnologico inizia infatti ad attrarre a sé gruppi più o meno consistenti di seguaci che quotidianamente si radunano dinanzi allo schermo televisivo per assistere alle sue programmazioni, scandendone l’organizzazione temporale della giornata. Nascono così pratiche e abitudini di consumo che accomunano migliaia di persone, localizzate in differenziate regioni geografiche entro le quali il mezzo televisivo ha raggiunto una discreta diffusione. Capita ad esempio di riunirsi attorno a uno stesso programma e di fondare su di esso dei legami relazionali con individui che condividono la stessa passione a riguardo. È per questa ragione che queste diverse audience si potrebbero identificare come le anticipatrici delle future comunità che si origineranno con l’avvento del web. Senza perderci troppo in questioni secondarie, veniamo ora alla specifica tematica che mi interessa trattare in merito ai primi sviluppi della comunicazione supportata dalle apparecchiature tecnologiche. 1.2.1 Dalla <<bullet theory>> al <<two-step flow of communication>> Com’è risaputo per ogni nuova invenzione nel campo dell’umana cultura, specie inoltre se legata all’ambito tecnologico, esiste sempre una correlata volontà di ricerca sugli effetti e sulle conseguenze che tale innovazione comporta per la società del suo tempo. Il desiderio di comprendere gli esiti benevoli così come quello di esaminare i riscontri negativi derivati dall’introduzione di una specifica novità culturale spingono gli studiosi dei più differenti campi a sviluppare accurate ricerche al fine di riuscire a spiegarne i meccanismi e le caratteristiche. Da decenni, nel campo degli studi sulla comunicazione, sempre maggior importanza è attribuita all’analisi dei moderni mezzi comunicativi tecnologici, con particolare attenzione allo studio dell’interazione fra uomo e macchina e 31 agli sviluppi che ne conseguono. Com’è ora risaputo, nel tempo l’essere umano tende ad abituarsi all’utilizzo di una determinata tecnologia, arrivando a farla propria e a renderla parte del proprio quotidiano; spesso in maniera anche incosciente. È così che si attua quella che viene definita <<normalizzazione>> dell’innovazione. Con questo termine si vuole intendere esattamente la propensione naturale e automatica che gli individui sviluppano verso un determinato oggetto culturale o tecnologico, che giungono a percepire quasi come connaturato alla loro esperienza di vita grazie all’utilizzo continuo e progressivamente intensificato che ne fanno durante i primi periodi della sua introduzione. La mediologia è una scienza specialistica che negli anni si è incaricata di studiare i meccanismi intrinsechi dei vari mezzi di comunicazione nonché gli effetti che essi produco se introdotti nei contesti quotidiani degli individui. Questa branchia della sociologia, di enorme rilevanza e importanza, sorge però solo a partire dagli anni Cinquanta del Novecento, mentre i le prime ricerche approfondite sulle modalità con cui vengono veicolati i messaggi attraverso gli strumenti tecnologici risalgono a qualche decennio prima. La teoria ipodermica o <<bullet theory>> L’<<Hypodermic Needle Theory>> é un modello teorico statunitense risalente al periodo compreso fra gli Venti e Trenta del Novecento, momento in cui ci si approccia a uno studio sistemico del funzionamento dei mezzi di comunicazione di massa per la prima volta in assoluto. Harold Lasswell, membro del filone di indagine della Communication Research, fu l’esponente di maggior rilevanza per l’affermazione di tale visione, che considerava i mass media come potenti strumenti di persuasione dell’opinione pubblica; non a caso proprio in quegli anni questi servirono in larga parte gli interessi della propaganda di guerra e dei totalitarismi politici. La sua forza presupponeva l’esistenza di una popolazione composta da individui isolati, omogenei e indifferenziati – senza distinzione di classe, età, genere… –, caratterizzati dagli stessi bisogni e dalle stesse esigenze, 32 facilmente manipolabili e suggestionabili in quanto deboli e privi di capacità organizzative e di leadership, tendenti ad azioni collettive uniformi. L’isolamento che gli individui sperimentavano all’interno dei nuovi contesti di vita moderni, assai distante rispetto a quel senso di comunità che si legava alle forme organizzative sociali tradizionali, li portava ad aderire alla cultura dominante poiché questa sembrava fornire loro un verosimile senso di appartenenza. Questa prima analisi sistemica del funzionamento dei media promulgò dunque la credenza che, senza la necessità di alcuna mediazione intermedia, i mezzi di comunicazione di massa potessero condizionare a proprio interesse e piacimento il comportamento e il pensiero di quanti ne subivano i messaggi. Si appoggiava infatti alle congetture fornite dalla psicologia comportamentista, che in quegli anni aveva avuto la meglio nell’ambito dello studio del comportamento umano, istituendo una diretta correlazione fra stimolo e risposta alla base di ogni azione. Trasposta nell’ambito della comunicazione tale assunzione presupponeva dunque un effetto automatico dell’emittente mediatico nei confronti di un individuo ricevente, cui non era data facoltà di ribattere. Questa influenza diretta dei mezzi comunicativi nei confronti di una collettività passiva e incapace di difendersi in alcun modo può essere riassunta con l’immagine di un proiettile – bullet – che colpisce un bersaglio – target – incontrato dritto sulla propria traiettoria, senza che incursioni esterne ne compromettano l’efficacia; ancora, secondo una differente immagine, l’ideologia espressa dai mass media penetrerebbe come un ago – needle – all’interno delle carni di un’audience composta di soggetti indifesi che non possono sottrarsi alla loro intrusione. In questo paradigma interpretativo è facile identificare l’esistenza di un unico e univoco flusso del contenuto comunicativo che procede dall’alto verso il basso – o se si preferisce dal centro alla periferia –, negando qualsiasi opportunità di rettifica esterna; per questa ragione, relativamente a questa visione, si è parlato di <<powerful media>>. 33 Tale orientamento unidirezionale del messaggio, dunque della persuasione da esso esercitata, può essere paragonato precisamente alla modalità di propagazione delle nuove tendenze di moda descritta da Georg Simmel; secondo le sue conclusioni l’introduzione dell’innovazione avveniva sempre a partire dalla classe egemone e discendeva poi solo successivamente agli strati inferiori della popolazione, senza mai modificare il proprio moto direzionale. In questo differente caso l’élite di riferimento risulta essere quella composta dai proprietari delle emittenti televisive e da tutta la compagine di figure a essa correlate. L’antidemocraticità dei due modelli dipende strettamente dalla struttura sociale con cui questi si misuravano e dalla considerazione che in entrambi i casi si aveva della massa popolare nel suo insieme, ritenuta povera di capacità di intervento o di creatività. La teoria del <<two-step flow of communication>> Al di là dei suoi limiti intrinsechi derivati dall’incuranza nel considerare gli effetti peculiari suscitati nei singoli soggetti della “massa”, nonché dall’erronea convinzione che tali soggetti presentassero tutti le stesse caratteristiche psicologiche e individuali; l’ipotesi teoretica appena presentata subisce un progressivo abbandono negli anni a seguire, in favore di nuove ipotesi sulle effettive potenzialità dei media. In particolar modo la <<bullet theory>> lascia il posto a un nuovo paradigma interpretativo presentato in sua diretta opposizione. A partire dagli anni Quaranta del Novecento la concezione dei <<media forti>> lascia infatti spazio all’ipotesi che i mass media possano presentare solamente degli <<effetti limitati>> sul loro pubblico, in quanto differenti soggetti possono rispondere ai vari messaggi che li colpiscono opponendovi differenti resistenze. Negli stessi anni un team di esperti sviluppa un’interessantissima ricerca empirica in merito ai processi di scelta messi in atto da un gruppo di cittadini americani in clima di campagna elettorale. L’importanza dello studio noto come The People’s Choice (Lazarsfeld, Berelson, & Gaudet, 1948) è riscontrabile nei 34 risultati che tale disamina ha portato alla luce: con l’intento di approfondire le modalità con cui ogni singolo soggetto elaborava la propria preferenza elettorale, Paul Lazarsfeld e i suoi collaboratori – fra cui Elihu Katz – hanno evidenziato l’esistenza di un complesso circolo di influenze alla base delle scelte quotidiane di migliaia di persone. È da questo esatto studio che prende piede un’ipotesi della trasmissione del messaggio mediatico che prevede l’intervento di figure intermedie, note come opinion leader, fra emittente e pubblico destinatario. Questo modello a doppio livello ammette fermamente che l’influenza dei mezzi di comunicazione di massa sia meno potente e diretta di quanto ipotizzato sino a quel momento. Si era infatti sempre ritenuto che questi esercitassero un impatto determinante nei confronti dell’intera popolazione sociale, opinione largamente ridimensionata anche grazie alla nuova attenzione prestata alle dinamiche d’influenza fra individui appartenenti a uno stesso contesto quotidiano. La nuova teorizzazione vuole infatti spiegare come il filtro dei mediatori, interposti a metà della traiettoria comunicativa, riesce in qualche modo a ridimensionare la forza e la portata del messaggio originariamente veicolato dalle istituzioni ufficiali – siano esse la stampa o la radio, e si potrebbe estendere tale osservazione anche ad altri successivi mezzi comunicativi fra cui in primis la televisione e poi Internet –. Non si tratta più dunque di un flusso concepito come unidirezionale che, procedendo dall’alto verso il basso in modo univoco, puntella in maniera incessante un pubblico esteso, inattivo e inerte; al contrario, secondo questo discordante punto di vista sarebbe consentito a una determinata e limitata porzione di audience – precisamente formata dai mediatori culturali e dagli opinionisti – di poter operare una qualche rettifica al messaggio iniziale, arrivando così a far propendere verso la propria posizione larga parte del restante pubblico, relativamente inattivo, posto ai livelli inferiori della catena comunicativa. 35 Analysis of the process of decision-making during the course of an election campaign led the authors of The People's Choice to suggest that the flow of mass communications may be less direct than was commonly supposed. It may be, they proposed, that influences stemming from the mass media first reach "opinion leaders" who, in turn, pass on what they read and hear to those of their every-day associates for whom they are influential. This hypothesis was called "the two-step flow of communication." (Katz, 1957, p. 63) L’innovativa formulazione teorica proposta doveva tuttavia fare i conti con una concezione dell’organizzazione sociale totalmente inadatta a supportare un simile sviluppo dei processi comunicativi: l’idea che si era sempre avuta rispetto alle dinamiche di vita degli abitanti dei moderni centri urbani doveva essere sottoposta a revisione e riformulata in modo diverso. Infatti, la concezione di pubblico inteso come massa amorfa e atomistica, formata da individui separati gli uni dagli altri ma tutti ugualmente sottoposti ai messaggi dei mezzi di comunicazione, non forniva un substrato adatto alla trasposizione empirica della teoria del doppio flusso. For social theory, and for the design of communications research, the hypothesis suggested that the image of modern urban society needed revision. The image of the audience as a mass of disconnected individuals hooked up to the media but not to each other could not be reconciled with the idea of a two-step flow of communication implying, as it did, networks of interconnected individuals through which mass communications are channeled. (ibidem) Ecco che allora, a partire da un’ottica divergente, si iniziò a pensare alla società nel suo complesso come a una rete interconnessa di soggetti individuali pronti ad accogliere e veicolare nelle loro cerchie i messaggi mediatici in cui si imbattevano. Al crescere dell’importanza attribuita alle relazioni interpersonali una prima e acerba teorizzazione di quella che più avanti verrà definita come 36 <<network society>> (Castells, 1996) iniziò ad accennarsi facendo la sua timida comparsa. I possibili scenari abbozzati dagli esiti dello studio sulle preferenze politiche degli elettori portò allo sviluppo di vari altri studi che, partendo da una stessa base comune, approfondirono le multiple ipotesi che la ricerca metteva in campo. In particolare emersero tre essenziali punti da cui poter partire per formulare ulteriori postulazioni sull’argomento. Innanzitutto ci si focalizzò sull’impatto suscitato dall’influenza interpersonale: a seguito di ricerche mirate si era giunti a comprovare che i contatti diretti fra persone erano stati molto più frequenti ed efficaci rispetto alle azioni dei mass media nell'atto di influenzare una scelta elettorale o una revoca della posizione politica precedentemente assunta. Successivamente si tentò di sondare il flusso che l’influenza personale seguiva nel suo diffondersi fra i diversi soggetti della popolazione. Ci si chiedeva la motivazione per la quale alcune particolari persone – gli opinion leader – venissero ritenute più valide e importanti rispetto ad altre quando si trattava di dover ricevere un consiglio competente. Gli influencer vennero individuati attraverso delle interviste, i cui risultati evidenziarono una forte orizzontalità: venne infatti appurato che gli intermediari provenivano dalle stesse classi sociali delle persone con le quali erano entrate in contatto influenzandole. Per ogni livello sociale fu possibile riscontrare dei correlati influencer, che risultarono essere molto simili alle persone che essi stessi influenzavano per la precisa ragione di viverci a stretto contatto. In ultimo si soppesò il grado di esposizione degli opinion leader al sistema mediatico, ricavandone che questi erano esposti in modo di gran lunga maggiore ai vari mezzi di comunicazione – stampa, radio, televisione ecc... – rispetto a ogni altro individuo ordinario. Prendendo in considerazione questi nuovi punti fermi a cui si era arrivati, si assunse dunque che gli individui che non potevano essere considerati dei leader fossero da reputarsi come i seguaci dei suddetti leader; infatti, solo dimostrando 37 questa stretta interdipendenza fra le parti sarebbe stata possibile una verifica effettiva dell’efficacia della teoria del <<two-step flow of communication>>. Di significativa rilevanza ai fini di questa comprova risultano allora essere lo studio che Merton condusse sull’influenza interpersonale e sui comportamenti comunicazionali a Rovere nonché quello portato avanti nello specifico da Katz e Lazarsfeld riguardo ai processi decisionali in ambito di marketing, mode e avvenimenti della sfera pubblica. Il primo, di poco successivo a quello di Lazarsfeld, Berelson e Gaudet, ebbe innanzitutto il merito di estendere la ricerca a un campo molto più vasto rispetto al solo ambito politico cui faceva riferimento The People’s Choice; inoltre si concentrò più sull’osservazione dei rapporti personali e dei comportamenti comunicativi intercorrenti fra le diverse tipologie di opinion leader che sulla relazione fra i leader e i loro follower. Tramite nuove interviste si poterono finalmente localizzare quelle persone ritenute influenti in vari campi socio-culturali dalla maggioranza della popolazione. Rispetto al precedente, questo nuovo studio si prendeva la briga di operare una scrematura molto più attenta; selezionando come leader solo coloro che erano riusciti a intervenire nei processi decisionali di un maggior numero di individui di quanti non verificati dalla ricerca sulle preferenze politiche, dimostrando così un raggio d’influenza assai più ampio. In seguito si arrivò a identificare come i caratteri distintivi di un ipotetico buon leader risultavano essere strettamente connessi ai valori, alla conoscenza e alla competenza da lui posseduti nonché al suo posizionamento strategico all’interno delle reti relazionali: Broadly, it appears that influence is related (1) to the personification of certain values (who one is); (2) to competence (what one knows); and (3) to strategic social location (whom one knows). (Katz, 1957, p. 70) Merton giunse a individuare due differenti tipologie di leader d’opinione: un primo tipo, definito locale, ha larga facoltà di influenza sociale rispetto ai temi 38 più diversificati, in quanto è in contatto diretto con tutti i diversi livelli della sua comunità di riferimento – non possiede però una conoscenza specifica in alcun campo –; un secondo genere è definito invece cosmopolita e, esattamente per il fatto di scegliere accuratamente le differenti realtà sociali a cui prendere parte, vanta una conoscenza specifica e approfondita rispetto a precisi ambiti d’interesse. Il secondo studio che ho menzionato, portato avanti fra il 1945 e il 1946 sotto il nome di Decatur Study, riprende dal punto in cui Merton si era interrotto, ampliando le sue ricerche e focalizzandosi attentamente anche sul rapporto fra i leader e i loro follower. La questione chiave, stavolta, ruotava attorno all’interrogativo sull’effettivo flusso delle influenze: potevano queste diffondersi trasversalmente fra le differenti classi sociali, da leader posti ai livelli superiori verso loro seguaci appartenenti anche ai livelli inferiori? Oppure le loro dinamiche erano destinate a funzionare solamente all’interno delle stesse cerchie di cui i singoli influencer facevano parte? Ci si concentrò sullo studio di catene di influenze maggiormente complesse rispetto alla mera diade leader – follower, che in sé costituiva solamente un’unità singola di un gruppo socialmente molto più strutturato ed ampio. Inoltre non si poteva fare affidamento su alcun metodo d’analisi effettivamente valido e praticabile per lo studio di suddetta coppia d’individui presa singolarmente. Fu presto verificato che gli stessi soggetti che si autodefinivano opinion leader ammettevano di essere stati a loro volta influenzati da altri individui nel prendere le proprie decisioni; a comprova dell’esistenza di una catena d’influenze più generale. Da queste conclusioni iniziò allora ad essere adottata una prospettiva ancor più estesa, che considerava anche gli influencer dei suddetti opinion leader e i legami che fra essi intercorrevano. Procedendo di questo passo divenne lampante il fatto che la leadership esercitata da determinati individui nei processi di influenza non potesse essere considerata come un tratto specifico loro caratteriale, dunque attribuibile solamente a pochi 39 soggetti isolati; anzi tale facoltà emergeva come una dote possibilmente pertinente a tutti gli individui, sempre però relativamente a determinati e limitati contesti e tematiche. Ogni leader che si rispetti, invero, ha la necessità di essere riconosciuto tale dall’approvazione e dalla legittimazione che riceve da altri individui esterni, sui quali riesce ad esercitare un certo potere di persuasione. Questi individui esterni ovviamente non sono gli stessi ovunque e comunque e anche su questo fattore si gioca la questione della relatività intrinseca di ogni leadership. In conclusione, i risultati emersi dai differenti successivi studi che ho fin qui riportato evidenziarono come In addition to serving as networks of communication, interpersonal relations are also sources of pressure to conform to the group's way of thinking and acting, as well as sources of social support. (ivi p.72) Per quanto riguarda il supporto sociale fornito dalle reti relazionali interpersonali, spesso è proprio la sicurezza derivata dal poter contare sull’appoggio del proprio gruppo di riferimento che spinge il singolo individuo a realizzare progetti d’innovazione. In riferimento invece alla pressione esercitata dal gruppo di appartenenza sull’individuo affinché questo si conformi con le logiche del gruppo, è possibile che in situazioni di incertezza o di scarsa chiarezza si prediligano delle scorciatoie decisionali che portano a seguire ciecamente la stessa strada intrapresa dalla propria cerchia di riferimento; in quanto considerata come un “porto sicuro”. Ricollegandomi ora alla questione del relativismo culturale, esposta all’incipit del presente paragrafo, posso constatare come anche il potere d’influenza esercitato dai leader d’opinione risulti essere in sé limitato. Infatti si tratta sempre di un potere intrinsecamente plurale e multiforme, possibilmente esercitabile da qualsivoglia individuo per un ristretto periodo di tempo ed entro 40 un contesto geografico e sociale preciso; il tutto dopo aver raccolto attorno a sé l’approvazione di un consistente e solido gruppo di altri soggetti sociali. Se dunque l’autorità rimane concentrata di volta in volta nelle mani di un esiguo numero di soggetti, il rapido ricambio della leadership nei più disparati campi, che segue le stesse curve di sviluppo e decadenza assunte dal fenomeno moda, assicura una democraticità tutta nuova alle dinamiche di creazione e introduzione dell’innovazione sociale. All’interno dei suoi meccanismi sono ora chiamati a partecipare tutti coloro che vogliano cimentarsi nel ruolo di guide della collettività, accompagnandola nelle future tappe del suo percorso evolutivo. Col passare del tempo le figure degli influencer assumeranno un carattere sempre più effimero e contingente, in stretta connessione con la messa in campo di nuove tecnologie di comunicazione e con i cambiamenti nelle pratiche e nella natura delle relazioni sociali che si presenteranno di pari passo con esse. Mi riferisco soprattutto all’avvento di quella che viene definita come <<Tripla Rivoluzione>> (Rainie & Wellman, Networked. Il nuovo sistema operativo sociale, 2012, p. 7) che, portando alla nascita della rete Internet e all’introduzione della tecnologia mobile, modificherà profondamente l’assetto quotidiano, la struttura organizzativa e i contesti di vita di tutte le popolazioni che ne subiranno l’influsso. Ancora una volta una maggiore possibilità di partecipazione implicherà una corrispettiva “perdita di sovranità” da parte delle vecchie gerarchie, portando alla nascita di uno spazio pubblico all’interno del quale la possibilità d’azione del singolo si trova necessariamente limitata dall’emergenza di altri individui che, come lui, tentano in qualche modo di spiccare in mezzo alla folla. Tale argomento verrà però discusso più nel dettaglio nel successivo capitolo. 1.3 Indossare la tecnologia: l’abito come medium Come ho avuto modo di esporre nei due precedenti paragrafi, è possibile tracciare un parallelismo fra lo sviluppo strutturale di due dei sistemi 41 istituzionali più potenti all’interno del panorama socio-culturale moderno: moda e media sviluppano logiche di funzionamento affini e sfruttano simili meccanismi nella messa in atto dei loro processi d’influenza. Se in un primo momento la struttura di entrambi i settori risulta essere profondamente antidemocratica, di impostazione piramidale e di gestione ristretta a poche figure potenti; in un secondo momento questi si vedono attraversati da un cambiamento che ne mette in profonda crisi gli assetti tradizionali. Specchio della società della loro epoca, tali organismi di produzione culturale e simbolica subiscono gli influssi del fermento del corpo sociale, che chiede una maggior partecipazione alla vita culturale nonché la possibilità di dar vita a una propria visione personale delle cose. Nel corso del loro continuo aggiornamento evolutivo queste due grandi istituzioni conosceranno una simbiosi sempre più stretta ed entrando in interazione fra loro contribuiranno a fondare una maggiore complessità per ciascuno dei due ambiti coinvolti; le loro forze si intersecheranno sempre più, ognuna derivando utili spunti dalla propria controparte, e si arriverà ad una situazione dove, sostenendosi a vicenda, moda e media giungeranno a generare soluzioni innovative e ad alto potenziale attrattivo. La correlazione esistente fra i due campi culturali risulta evidente per Marshall McLuhan già a partire dagli anni Cinquanta del Novecento, epoca in cui lo studioso della comunicazione introduce la disciplina specialistica nota come Mediologia per discuterne caratteristiche, potenzialità, effetti e possibili sviluppi futuri. Esponente della scuola di Toronto, egli rilegge la storia dell’umanità come il percorso evolutivo delle tecnologie di comunicazione, identificando quattro diverse fasi cruciali (McLuhan, La galassia Gutenberg: nascita dell'uomo tipografico, 1976): quella dell’oralità primaria, nel Medioevo, quella dell’invenzione della scrittura, nel IV sec. a.C., quella dell’invenzione della stampa a caratteri mobili che, dal 1455, segna la nascita della <<Galassia Gutenberg>>, infine quella caratterizzata dall’avvento dell’elettricità che, a 42 partire dagli anni Venti del Novecento, segna l’ingresso nella <<Galassia Marconi>>. Secondo il suo pensiero ogni epoca storica è contrassegnata dalla predominanza di un medium specifico, capace di influenzare la cultura del tempo e di determinare la sensibilità e il “modo di vedere” dei soggetti che la abitano. Ogni mezzo comunicativo porta inoltre all’acuirsi di un preciso organo sensoriale, pregiudicando l’equilibrio dell’apparato nel suo complesso. Se una tecnologia viene introdotta in una cultura sia dall’interno sia dall’esterno, e se provoca una nuova accentuazione o supremazia di uno o dell’altro dei nostri sensi, allora il rapporto tra tutti i sensi ne risulta alterato. […] L’intreccio dei sensi è costante eccetto in condizioni di anestesia. Ma ognuno dei sensi quando venga acutizzato ad un alto livello di intensità può fungere da anestetico nei confronti degli altri sensi. (ivi p.50) Se allora la <<Galassia Gutenberg>> fu connotata dall’emergere di un mezzo specifico, la scrittura, e dalla predominanza della vista sugli altri sensi, la <<Galassia Marconi>> è dominata sì dalla nascita di molteplici media – il telefono, la radio, la televisione – ma, ancora, tutti ugualmente basati su di un unico mezzo, l’energia elettrica, ed è segnata, questa volta, dal prevalere delle facoltà uditive. Quest’ultimo universo viene considerato come il periodo durante il quale si manifesta un’oralità secondaria, un ritorno alla fase orale tipica dell’era tribale; tuttavia, le moderne tecnologie che vi nascono dipendono sempre in ugual misura dalla stampa e dalla scrittura. […] oggi, con l’elettricità […] ci muoviamo rapidamente di nuovo in un mondo uditivo […] E tuttavia le abitudini della scrittura permangono nel nostro modo di parlare, nella nostra sensibilità, nel nostro modo di strutturare lo spazio e il tempo della vita quotidiana. (ivi p.55) 43 Infatti, i nuovi mezzi comunicativi non arrivano mai a surclassare del tutto quelli che li hanno preceduti, ma anzi li inglobano nel corso del loro sviluppo. <<Il mezzo è il messaggio>>, ogni contenuto di un mezzo è esso stesso un altro mezzo: i vari media si trovano interconnessi in una rete entro la quale ognuno rimanda all'altro come nella logica dell’ipertesto, ossia quella tipologia di testo che contiene in sé collegamenti ad altri testi o a contenuti situati altrove. Certo, poi ogni mezzo ha la propria specificità e produce effetti suoi peculiari. Altra importantissima considerazione avanzata dal mediologo è quella secondo cui ogni medium è portato a creare degli “ambienti” entro cui la vita umana si trova ad agire. Secondo tale concezione ecologica la metropoli stessa può considerarsi come un medium, in quanto ambiente che supporta le relazioni umane e produce una trasformazione nelle forme di vita e nella psicologia degli individui che la abitano. Se inoltre è il contesto entro cui un medium nasce, oltre al suo intrinseco connotato tecnologico, a determinarne il funzionamento, allora tecnologia e vita umana si modificano di pari passo, in simbiosi, plasmandosi a vicenda. Se, secondo la dottrina mcluhaniana, ogni mezzo modifica le facoltà percettive e cognitive umane e di conseguenza le forme di organizzazione stesse della società e della realtà, ecco che i media risultano, dunque, strettamente connessi al sistema nervoso centrale, configurandosi come sue vere e proprie estensioni tecnologiche. L’uomo fa propria la tecnologia e la plasma, introducendo nuove pratiche d’utilizzo nel servirsene quotidianamente. Allo stesso tempo però, come abbiamo visto, anche la tecnologia esercita, in egual misura, un potere sull’essere umano. Avendo chiara in mente questa struttura teorica si può ora considerare lo specifico del tema dell’abbigliamento, nell’analisi dell’influenza che l’abito, in quanto mezzo di comunicazione, attua nei confronti dell’individuo che lo indossa. Come rimarca Nello Barile in una brillante interpretazione delle teorizzazioni mchluhaniane (Barile, Abito, corpo, tecnologia. La moda come antenna del 44 mutamento: da Marshall McLuhan agli scrittori cyberpunk, 2015), la concezione ciclica, propria dei meccanismi di diffusione della moda, risulta essere determinante nella visione del mediologo canadese. McLuhan infatti fa coincidere il processo di avvicendamento delle epoche nella storia della civiltà umana con […] l'idea di ciclo nel suo senso pieno. Non solo come momento che si consuma dopo il raggiungimento di un picco di crescita e d'esposizione, ma come qualcosa che ritorna al passato e lo riattualizza. (ivi p.84) Come già attestato precedentemente, secondo questa logica la progressiva evoluzione della tecnologia segna un continuo alternarsi di affermazione e decadimento di determinate strutture organizzative e fogge culturali. Si tratta di un moto autoriflessivo, che ripiegandosi su sé stesso prepara l’avvenire futuro; rielaborando in maniera innovativa il proprio passato secondo un andamento fortemente discontinuo. […] l'autore definisce "limite di rottura," recuperando la definizione di Kenneth Boulding […] il punto in cui l'espansione di un dato processo tecnologico e culturale raggiunge un grado d'intensificazione […] al di là del quale esso tende a consumarsi per diventare l'opposto di ciò che era. (ivi p.85) Quando un dato fenomeno perviene al suo punto estremo di sviluppo, esaurendo tutta la propria carica iniziale, non può far altro che lasciare spazio al nuovo; l’esasperazione che però alla lunga ha subito lo porta a raggiungere un vertice di criticità tale che l’intero sistema pare <<reagire con una sorta di crisi di rigetto.>> (ibidem), producendo una forza del tutto antitetica e divergente rispetto a quella precedente da tempo saturatasi. Nel dodicesimo capitolo della celeberrima opera Understanding Media, del 1964, McLuhan scandaglia più nel dettaglio l’abbigliamento, ovvero il precipuo strumento di comunicazione implementato dalla moda per esprimere i propri 45 significati simbolici e contingenti. Innanzitutto, dato che secondo la dottrina mcluhaniana i mezzi comunicativi altro non sono che estensioni tecnologiche delle facoltà umane, l’abito viene considerato come un prolungamento della pelle. In quanto strumento, viene poi descritto da un punto di vista prettamente tecnico. Risulta avere innanzitutto una funzione pratica, poiché serve a tutelare il proprio contenuto: funge infatti da membrana protettiva, coprendo il corpo del soggetto che lo indossa e mantenendone stabile la temperatura corporea. È inoltre ipotizzato che l’abito possa esercitare una funzione segnaletica, agendo <<come un mezzo per definire socialmente la persona.>> (McLuhan, Gli strumenti del comunicare, 1967, p. 129) e assumendo dunque un ruolo simbolico propriamente per il fatto di essere uno strumento atto a veicolare dei significati agli interlocutori sociali. Procedendo nella sua dissertazione McLuhan paragona la macchina da cucire alla macchina per la composizione tipografica automatica, e così facendo […] apre la possibilità d'inserire l'evoluzione dell'abbigliamento nella più generale concettualizzazione sullo sviluppo dei media e, nella fattispecie, sul passaggio dalla galassia alfabetica a quella elettrica. La linea dritta della macchina da cucire sarebbe in grado di uniformare il discorso dell'abito come la linotype ha fatto con il discorso vero e proprio. (Barile, Abito, corpo, tecnologia. La moda come antenna del mutamento: da Marshall McLuhan agli scrittori cyberpunk, 2015, p. 91). La standardizzazione dei processi produttivi della moda porta a una semplificazione delle linee dei capi d’abbigliamento e a un’uniformizzazione nell’apparire degli individui sociali, che possono ora permettersi manufatti a costi minori. La moda diviene vero e proprio fenomeno di massa e la strategia dell’obsolescenza programmata dei beni subisce una forte accentuazione. Già Simmel agli inizi del secolo aveva rilevato come l’abito fosse in grado di esprimere una particolare coercizione nei confronti del proprio indossatore: 46 Chi può e vuole seguire la moda porta abbastanza spesso vestiti nuovi. Ma il vestito nuovo condiziona il nostro comportamento più di quello vecchio che si è completamente adattato ai nostri gesti, cede senza resistenza […] Sentirsi “più comodi” in un vestito vecchio che in uno nuovo, significa che l’abito nuovo ci impone il suo statuto formale […] il vestito nuovo conferisce a chi lo porta una certa uniformità sovrindividuale nell’atteggiamento (Simmel, 1996, p. 23). Certo, qui si tratta di una considerazione che non ha nulla a che fare con l’assetto socio-culturale cui si riferisce invece McLuhan, profondamente plasmato dall’avvento dei processi industriali e reinventato dallo sviluppo di nuove tecnologie nonché da una revisione degli assetti sociali verso un modello più spiccatamente democratico. Inoltre mentre il primo sociologo esamina il fenomeno moda, il secondo si sofferma invece sul singolo suo elemento base, l’abito, estraniandolo momentaneamente da un discorso riferito alla dinamica delle tendenze vestiarie e abbracciando una <<[…] concezione più generale che investe lo stesso rapporto tra la meccanizzazione indotta dalla stampa a caratteri mobili e gli effetti dell'organizzazione fordista intesa come meccanizzazione dell'intero corpo sociale.>> (Barile, Abito, corpo, tecnologia. La moda come antenna del mutamento: da Marshall McLuhan agli scrittori cyberpunk, 2015, p. 92). McLuhan arriva infatti solo in seguito a estendere le considerazioni portate avanti nella suddetta trattazione, precisamente in un articolo redatto per Harper’s Bazaar (McLuhan, Fashion is medium, 1968); celebre rivista del settore moda. Qui il mediologo si focalizza sul sistema moda nel suo insieme e ne indaga gli sviluppi secondo quell’ottica ciclica che segna l’incedere e l’esaurirsi di ogni fenomeno culturale e di ogni era umana. L’intero sistema nel suo complesso nonché il suo contenuto, l’abbigliamento, risultano anch’essi sottoposti a una continua riscrittura; influenzata dai paradigmi culturali vigenti entro le peculiari soglie di ogni fase storica. 47 McLuhan opera un parallelismo fra l’evoluzione delle forme vestimentarie e lo sviluppo di una diversa forma di società, meditando sulla discontinuità che si riscontra fra il costume dell’epoca orale e l’abito tipografico dell’era dominata dall’introduzione della stampa; che apporta un forte tratto di meccanicizzazione a tutti i restanti processi sociali. La stampa […] immediata estensione tecnologica della persona umana […] è un mezzo di comunicazione oltreché una merce […] essa insegnò agli uomini come organizzare ogni altra attività su una base lineare e sistematica. (McLuhan, La galassia Gutenberg: nascita dell'uomo tipografico, 1976, p. 191) Se nella fase tribale l’uomo viveva in simbiosi con la natura, in quella successiva si riscontra un corrispondente ritorno del dato naturale, trapelante stavolta dalle stesse fogge vestiarie adottate. <<La nuova moda che contraddistingue l'era elettrica sarebbe, dunque, votata al culto di una nudità secondaria o "di ritorno.">> (Barile, Abito, corpo, tecnologia. La moda come antenna del mutamento: da Marshall McLuhan agli scrittori cyberpunk, 2015, p. 93), simboli di questa nuova vertenza sarebbero il bikini, che lascia a vista una maggiore percentuale di epidermide, o meglio ancora la minigonna, che per il suo carattere unisex – se in riferimento ad esempio al kilt – può essere indossata universalmente sia dal genere femminile che da quello maschile. L’adozione dei suddetti capi d’abbigliamento si configura, nel tempo, come nuova uniformità culturale ed è ritenuta da McLuhan spia del ritorno del tribale sotto forme diversificate rispetto a quelle delle origini. Procedendo nella sua argomentazione, come nota Barile, il mediologo riesce a <<[…] intuire la transizione dalle vecchie regole del sistema moda alle nuove […] riesce a cogliere il sostanziale slittamento dall'epoca in cui prevale una moda impositiva, imitativa e massificata (appunto "alfabetica"), verso un nuovo assetto in cui prevale l'istanza di 48 emancipazione e di auto-espressione contro i vecchi diktat dell'impero dell'effimero.>> (ivi p.95) È proprio nel periodo in cui Fashion is medium è redatto che nella società sono in atto dei movimenti di così vasta portata da condurre poi a una sua riconfigurazione totale; in primis faccio riferimento, in questa circostanza, alla democratizzazione del settore moda. McLuhan dunque, come un veggente, sembra anticipare quanto accadrà nei decenni successivi, quando le logiche dello stile individuale prevarranno nettamente sull’acritica adesione alla tendenza di massa o dominante; divenendo fondamentale strumento per la costruzione della propria identità soggettiva. <<La moda non è più dettata dall'esterno […] L’abbigliamento non è più un imballo […] E diventato un'estensione della nostra pelle, del nostro carattere intimo.>> (McLuhan, Fashion is medium, 1968, p. 214). Il gusto, le preferenze e gli ideali propri del soggetto sono comunicati da quel prolungamento della propria interiorità che è l’abito, personalizzabile in un’infinità di modi singolari e oltre ogni qualsivoglia coercizione o imposizione di potere. A vari anni di distanza rispetto alle teorizzazioni del celebre mediologo voglio ora portare brevemente l’attenzione su un ambito di ricerca oggigiorno molto rilevante, ossia quello relativo alle nuove tecnologie dell’abbigliamento. Col termine wearable technologies vogliono indicarsi precisamente quelle particolari tipologie di indumenti e accessori che, sviluppando innovative commistioni di moda e tecnologia, sperimentano nuove modalità di includere l’utilizzo dei device informatici nella vita quotidiana degli individui; ponendoli a stretto contatto con il loro corpo. L’abito assume dunque una natura aperta e malleabile, modificandosi in risposta sia delle specifiche condizioni ambientali con cui entra in contatto sia di tutti gli altri stimoli che riceve dall’esterno. Le nuove strumentazioni tecnologiche di cui si vede dotato gli consentono così di 49 potenziare le proprie prestazioni nei confronti delle due funzioni, rispettivamente protettiva e comunicativa, che gli sono proprie. L’introduzione di nuove applicazioni in campo tessile consente di avviare la produzione di fibre e materiali di nuova generazione, capaci di approdare a standard più elevati in fatto di igiene, regolazione corporea, comfort, praticità e sicurezza. Sfruttandoli si possono realizzare capi che si adattano alle più svariate tipologie di ambiente nonché alle molteplici necessità dei consumatori, fungendo letteralmente da seconda pelle. L’abito inoltre, grazie al parallelo processo di miniaturizzazione dei dispositivi elettronici, può trasformarsi in un <<sistema senziente interconnesso con molteplici sistemi>> (Barile, Manuale di comunicazione, sociologia e cultura della moda, 2006, p. 142) entrando in comunicazione con l’esterno. La ricerca riguardo alle tecnologie indossabili prende l’avvio da reparti specifici di indagine quali l’esercito, il mondo dello sport e particolari ambiti lavorativi quali quello medico-ospedaliero o della pubblica sicurezza, o ancora quello dell’aeronautica spaziale. Sono esattamente le condizioni estreme e insolite cui sono sottoposti i lavoratori di questi contesti che spingono i ricercatori a configurare nuove attrezzature e dotazioni tecniche capaci di rendere più agevole e sicuro lo svolgimento delle attività a essi connesse. Rilevante risulta essere inoltre l’orientamento in questa stessa direzione da parte di collettivi sottoculturali tecno-entusiasti. Negli anni, poi, molti grandi brand hanno investito sul potenziamento delle possibilità offerte dai loro prodotti di abbigliamento, considerando le nuove tecnologie come l’elemento competitivo sui cui puntare per poter emergere rispetto agli altri marchi loro concorrenti. A partire da quel momento l’ambito di applicazione delle wearable technologies ha iniziato dunque a estendersi anche a prodotti destinati a un pubblico meno specialistico. Oggi infatti esistono numerosi esempi di smart clothing, a supporto di quei peculiari stili di vita propri di una clientela assai differenziata. 50 Come nota Barile (op. cit. p.48) le diverse soluzioni cui si è pervenuti in ambito di nuove tecnologie del vestire possono essere raggruppate sotto tre principali categorie. Un primo sottogruppo riguarda le innovazioni intrinseche, vale a dire quelle strettamente connesse alla struttura costitutiva del capo d’abbigliamento; queste includono tutti quei miglioramenti che si sono raggiunti a livello di tessuti e materiali grazie all’implemento di nano e biotecnologie. Un secondo sottogruppo si riferisce invece a tutte quelle integrazioni estrinseche, ossia poste in aggiunta all’indumento base; un esempio potrebbero essere quei particolari capi che permettono di integrare lettori musicali, satelliti GPS o applicazioni per lo sport all’abbigliamento di tutti i giorni, grazie a un sistema invisibile di micro innesti. Un ultimo raggruppamento include poi tutti quei prodotti complementari nati dall’incontro fra aziende del ramo della moda con altre del ramo della tecnologia, destinati a rappresentare elementi di secondo piano rispetto alle primarie attività di tali istituzioni; fra questi vi sono soprattutto accessori ad alto contenuto tecnologico quali spesso orologi o occhiali da sole. Ecco allora che la deduzione mcluhaniana si concretizza in pieno: l’abito diviene in tutto e per tutto una nostra estensione tecnologica, dotata di sensibilità propria e capace di intervenire in relazione ai nostri contesti di vita quotidiani. 1.4 Un nuovo statuto per le emozioni Fino a questo momento, appoggiandomi al supporto offertomi dagli scritti di alcuni esperti in materia, ho concentrato l’attenzione sul collegamento esistente fra abbigliamento e tecnologia comunicativa, evidenziando come i due campi di studio della moda e della comunicazione presentino molteplici punti d’incontro. Ora voglio soffermarmi invece su un concetto che mi sarà utile per commentare le parti successive del mio elaborato e che ritengo necessario chiarificare in quanto espressione di un preciso orientamento della nostra attuale società. Il termine <<feticismo tecnologico>> tiene insieme due differenti vocaboli che, a primo acchito, risulterebbero essere incompatibili. <<Feticismo>> deriva da 51 <<feticcio>> e può indicare, così come lo definisce il vocabolario della lingua italiana Treccani, una 1. Forma di religiosità primitiva, consistente nel culto di oggetti naturali, talora anche di oggetti fabbricati a fini rituali o profani, considerati come sacri e dotati di particolare potenza. […] 3. Forma di perversione sessuale che concentra il desiderio erotico, consentendone l’appagamento, su una parte del corpo del partner o su un oggetto che gli appartiene (in genere un indumento). 4. Nel pensiero marxiano, f. delle merci, la circostanza, ritenuta tipica del rapporto di produzione capitalistico, per la quale le merci non rappresenterebbero semplici oggetti fisici ma rispecchierebbero rapporti sociali e situazioni antropologiche, gli uni e gli altri riducendosi in tal modo alla loro espressione produttiva, materiale (2016)2 Di grande importanza risulta essere quest’ultima definizione in quanto il lemma si afferma nell’uso sociale soprattutto grazie Karl Marx. Ne Il Capitale (1867) il filosofo parla di <<feticismo delle merci>> per indicare quella particolare evenienza, riscontrata specificatamente nel contesto della società capitalistica, per la quale i manufatti realizzati in ambito produttivo cessano di rappresentare dei meri elementi fisici, assumendo un carattere sovrasensibile e in un certo senso auratico; supplementare rispetto alla loro essenza oggettuale e al loro valore d’uso. Secondo tale concezione essi divengono infatti dei surrogati delle relazioni umane le quali, all’interno del mondo capitalistico, sono celate sotto forma di questi stessi prodotti alienati, che tendono così ad assumere un carattere loro proprio e indipendente rispetto alla mano che li ha creati. I rapporti umani sono dunque ridotti, di conseguenza, a scambi fra cose. Partendo da questa riflessione, voglio portare l’attenzione sul significato che le merci in generale e, nello specifico, i beni ad alto contenuto simbolico e a elevato connotato tecnologico hanno assunto per la società contemporanea. Si è verificato un progressivo inasprimento di quelle condizioni presentate da Marx 2 Vocabolario on line Treccani. Treccani.it. http://www.treccani.it/vocabolario/feticismo/ 52 Consultato il 30 agosto 2016, da nella seconda metà del XIX secolo; Il valore di scambio degli oggetti è sempre più preponderante rispetto al loro valore d’uso e le merci sono caricate di sempre più significati esterni per poter attrarre a sé il maggior numero di consumatori possibile. Questa precisa sorte si riscontra in modo assai evidente per tutti quei beni secondari quali possono essere capi d’abbigliamento ed apparecchi tecnologici, che più che essere scelti per la loro utilità funzionale sono sempre più spesso adottati per il valore di status che riescono a esprimere, per i significati simbolici che trasmettono. La tecnologia, seguendo i meccanismi intrinsechi del fenomeno moda, è sottoposta a un ricambio sempre più rapido e programmato, sulla scorta delle tendenze sociali e dei nuovi bisogni che di conseguenza si configurano; anch’essi presentandosi a intervalli di giorno in giorno sempre più freneticamente cadenzati. L’obsolescenza dell’innovazione tecnologica ricalca quella relativa al settore moda e il legame fra i due livelli è sempre più pregnante. È così che personal computer, smartphone e fotocamere digitali cedono presto il passo ai loro aggiornamenti e potenziamenti successivi, conoscendo una vita sempre più breve. Ma, cosa sono diventate esattamente queste “protesi tecnologiche” nel nostro quotidiano? Che ruolo hanno assunto nei nostri contesti di vita? Sarà mia premura rispondere a questi e altri interrogativi nel capitolo seguente, per ritornare ora alla questione del feticismo e indagarla in modo più approfondito. Abbiamo appurato che talune merci non fanno gola agli individui solamente per quello che esse sono in quanto tali, ma soprattutto per quello che appaiono: per gli scenari che sono in grado di far intravedere e per gli orizzonti di significato che dispiegano dinanzi al soggetto che ne fa uso, per quei precisi messaggi che gli permettono di veicolare agli altri individui servendosene. Con la dovuta precauzione ci si può riferire ai suddetti oggetti definendoli feticci, in quanto essi assumono delle caratteristiche accessorie per mezzo delle quali diventano degni di essere avvalorati – se non in certi casi idolatrati – maggiormente di quanto di per sé non accadrebbe. Con le prime esposizioni universali, potente 53 dispositivo di comunicazione visiva, si compie la prima fase verso una familiarizzazione del grande pubblico con le merci; queste non sono più percepite come estranee – come prodotto alienato del lavoro dell’operaio che le ha generate – in quanto, all’esatto scopo di farle sentire più vicine al consumatore, vengono messe in mostra in modo altamente spettacolarizzato ed emozionale, enfatizzando il loro potere attrattivo. Come afferma l’antropologo Massimo Canevacci <<La dimensione visuale crea un valore aggiunto tra il corpo della merce e il corpo del consumatore. Questo valore aggiunto vivifica nelle nuove forme del feticismo.>> (Canevacci, 1995, p. 18). Tutto ciò risulta incrementato soprattutto all’interno dell’ambiente altamente tecnologico entro il quale siamo immersi, in quanto esso contribuisce in misura ancor maggiore a modificare la nostra percezione del reale. Il confine che un tempo segnava una netta linea di demarcazione fra mondo delle cose e mondo delle persone diviene progressivamente più labile in una società che fa sempre più fatica a discernere fra apparenza e realtà dei fatti. Il divario fra cose e persone si fa di continuo più soffuso: crollano le gerarchie che tenevano un tempo separati i due universi, la contaminazione è oramai da tempo in atto. Nell’ambito della comunicazione tecnologica si attua infatti una trasformazione delle cose da oggetti passivi a soggetti attivi: <<Esse non sono più “oggetti”, bensì pienamente soggetti, hanno cioè una loro individualità […] sensibilità e intelligenze. Una loro biografia. Hanno un “corpo” pieno di simboli e segni.>> (ivi p.16) La cosa inanimata passa ad assumere così un attributo emozionale proprio dell’essere umano, acquisendo un’autonomia e un’identità proprie, distinguendosi dalla moltitudine delle altre merci. Al pari degli esseri umani arriva addirittura a comunicare la propria identità e a lottare per la propria affermazione al cospetto delle altre cose concorrenti. Ciò che si trasforma è allora la natura stessa della cosa oggettuale, che assume uno statuto ontologico. Da sempre la facoltà del sentire è servita come distinguo basilare fra essere umano e mondo delle cose, ma se in un’ottica totalmente innovativa l’uomo 54 fosse invece considerato come una cosa senziente? Mario Perniola (1994), riprendendo la terminologia introdotta da Walter Benjamin, parla di <<sex appeal dell’inorganico>> come di una condizione che si colloca a metà strada fra la fredda impersonalità e insensibilità delle cose e la soggettività sensibile dell’essere umano. Per avvicinarci all’idea di questo nuovo orizzonte ontologico il filosofo ci invita a considerare il corpo come qualcosa a sé rispetto alle facoltà sensibili dell’individuo, approdando così al concetto di corpo de-funzionalizzato: qui ogni desiderio o necessità risultano annullati o sospesi, in quanto il corpo non arriva ad assolvere più alcuno scopo e <<raggiunge la fissità imperitura delle cose […] è diventata impossibile ogni esperienza soggettiva>> (ivi p.42) Si entra allora in una situazione dove il corpo del soggetto appare come un’autonoma estensione inorganica cui egli può prestare le proprie facoltà sensorie affinché gli divenga possibile sentirsi. <<Corpo senz’organi vuol dire che tra il mio corpo e il suo non c’è differenza, perché entrambi sono una cosa che sente, una cosa che cui noi prestiamo per così dire il nostro apparato sensibile affinché essa si senta. È proprio questo sentire neutro di un corpo che non appartiene a nessuno, ma alla cui sensibilità noi possiamo sempre accedere, che ne fa qualcosa di sempre disponibile, tale da suscitare un’eccitazione infinita. Esso è là sempre pronto e spalancato in tutta la sua estensione.>> (ivi p.43) Il filoso descrive l’avvento di una nuova sensibilità contemporanea che si forma dall’incontro fra sessualità e filosofia: si tratta di una sessualità artificiale e neutrale in quanto, oggi, gli “oggetti del desiderio” risultano essere sia entità animate che inanimate. Non è mai totalmente soddisfatta, non si estingue, oscilla continuamente da questo ad altro; non è mai data e determinata ma è un andirivieni costante di sensazioni. I concetti di alienazione, del soggetto rispetto al proprio corpo, così come quello di reificazione, delle facoltà sensorie umane all’interno di un oggetto, risultano fondamentali per poter comprendere questa condizione. 55 A proposito di reificazione dell’umana facoltà di sentire, la sociologa Eva Illouz propone un’interessante lettura delle dinamiche relazionali contemporanee. Nel suo saggio intitolato Intimità fredde (2007) descrive la modalità attraverso cui le emozioni umane, poste all’interno del circuito di produzione capitalistico, tendano a reificarsi, assumendo un’esistenza propria e autonoma rispetto al soggetto cui sono riferite e divenendo vere e proprie merci; pronte a essere scambiate grazie a una loro libera circolazione in ambito pubblico. La sociologa concentra le proprie osservazioni in particolar modo sull’attitudine, riscontrata ad ampio raggio fra gli individui della società attuale, di esternare le proprie emozioni – e soprattutto la propria sofferenza – in una narrazione destinata a intrattenere un vasto pubblico. Possiamo […] osservare come la narrazione psicologica trasformi i sentimenti [...] in oggetti da esporre al pubblico, in questioni su cui discutere e dibattere. Il soggetto prende parte alla sfera pubblica attraverso l'analisi e l'esposizione di sentimenti privati. (ivi p.89) Sono molte infatti le occasioni in cui il privato diviene affare collettivo e in varie sedi differenti l’essenza intima del soggetto viene trasformata in qualche cosa da presentare all’interno dell’arena sociale, dove verrà scandagliata e commentata da differenti interlocutori. La studiosa ipotizza che tutto ciò sia dovuto a una necessità dettata dal dilagare dell’individualismo e che il fine ultimo di tale atteggiamento, per il soggetto, sia quello di incontrare approvazione e conforto da parte degli altri attori sociali, denotati come <<"comunità di destino" o di sofferenza>> le quali <<rappresentano una struttura performativa simbolica che compie il risanamento: termine e scopo della narrazione.>> (ivi p.93). Illouz intravede dunque la nascita di una nuova forma di capitalismo, che sfruttando i sentimenti arriverebbe a fare l’interesse di diversi attori istituzionali fra cui in particolare lo Stato, il mondo accademico, vari rami dell’industria culturale, molteplici categorie professionali, nonché numerose compagnie assicurative e case farmaceutiche. 56 L'atto stesso del narrare e di essere trasformati dalla propria narrazione è la merce che viene prodotta, elaborata e messa in circolazione da una vasta compagine di esperti (psichiatri, psicoterapeuti, medici e consulenti) e di canali mediatici (riviste maschili e femminili, talk show, programmi radio con la partecipazione telefonica degli ascoltatori e così via). (ivi p.94) Le emozioni all’interno della società dei consumi sono confezionate appositamente per poter essere fruite alla stregua di qualsiasi altro prodotto di consumo, diventano la nuova moneta di scambio nel contesto delle relazioni interpersonali. Inoltre, il processo di spettacolarizzazione dell’identità personale si riconfigura adottando nuove strategie e si potenzia grazie all’azione dei mezzi di comunicazione che, veicolandola, ne amplificano la portata. Nella terza parte del libro Illouz si sofferma ad analizzare più nello specifico i siti di incontri online, trattenendosi sulla loro impalcatura strutturale e sulle modalità di comunicazione che essi adottano. Porta così alla luce importanti caratteristiche loro costitutive che, con le dovute precauzioni, ritengo possano essere applicate più in generale anche alla logica comunicativa tipica dell’ambiente dei social network online. La sociologa nota come: Internet […] trasformi l’io privato in oggetto da esibire pubblicamente. […] Internet contribuisce alla testualizzazione della soggettività […] e cioè a una modalità di autocoscienza in cui l’io viene esteriorizzato ed oggettivato tramite mezzi visivi di rappresentazione e di linguaggio. (ivi p.120) Definisce inoltre tale ambiente come un <<libero mercato di libera concorrenza con altri>> (ivi p.121), evidenziando quella particolare smania di competizione fra identità che ha spesso luogo online; dove ciascuno è spinto a dare la migliore espressione e rappresentazione del proprio sé. Anticipando un concetto che verrà discusso in maniera più esaustiva nel corso del successivo capitolo, si potrebbe parlare a tal proposito di logiche di selfbranding. Infatti Internet <<[…] trasforma l’io in un prodotto confezionato […] rende incerte le persone riguardo 57 […] il proprio valore su un mercato così strutturato e ansiose di migliorare la propria posizione su quel mercato.>> (ivi p.132). 58 2. IL NUOVO ECOSISTEMA MEDIATICO Il grado di interconnessione instauratosi, nel tempo, fra vecchi e nuovi strumenti comunicativi tecnologici ha dato vita a un sistema mediatico sempre più ampio e complesso. Oggi siamo costantemente immersi all’interno di tale contesto e, avendoci fatto l’abitudine, sembriamo non rendercene nemmeno troppo conto. Ho scelto di utilizzare il termine <<ecosistema>> per indicare questo particolare ambiente in cui la vita umana, di natura biologica, e la tecnologia, di natura inorganica, tendono a vivere a strettissimo contatto fra loro; la tecnologia, infatti, è sempre più presente nei nostri contesti quotidiani e ci diventa quasi impossibile prescinderne anche per portare a termine le attività più semplici. Nel corso delle nostre giornate siamo portati ad accedere ai più vari e diversi mezzi di comunicazione, per svagarci e per poter organizzare in modo efficiente i nostri impegni; dipendiamo in modo assiduo da apparecchi tecnologici che ci tengano costantemente informati in merito alle questioni più disparate – le riunioni di lavoro, gli incontri con gli amici, le notizie relative alle nostre reti sociali e così via. Le protesi tecnologiche che utilizziamo ci hanno trasformati in individui multitasking ubiqui e interconnessi e di conseguenza siamo in perenne allerta; siamo sempre pronti a cogliere ogni aggiornamento informativo che proviene dalla Rete per timore di rimanere indietro e/o di trovarci isolati rispetto al resto della società. La frenesia con cui ricorriamo a questi device di nuova generazione ce ne rende spesso schiavi, ma non ne possiamo più fare a meno: non possiamo astenerci dal prendere parte alle negoziazioni sociali che hanno sede nei territori del web e per manifestare la nostra presenza ci troviamo obbligati a curare i nostri profili personali sui molteplici siti di social networking esistenti. Infatti, la partecipazione alla vita online sancisce la piena cittadinanza dell’individuo alla propria contemporaneità. Il panorama sociale dinanzi al quale ci troviamo oggi, che nel presente capitolo mi accingo a indagare più nel dettaglio, fonda la propria forza e il proprio 59 carattere di attrattiva sulla salda congiunzione che instaura fra il mondo reale e quello virtuale. Esattamente questa nuova interazione che si viene a creare permette di non concepire più l’online e la rete Internet come qualcosa di totalmente disgiunto dalle dinamiche del quotidiano; come qualcosa di fittizio e artificiale da contrapporre alla vita concreta, che si sviluppa invece nei soli spazi del mondo fisico. Una simile concezione è infatti decaduta da tempo. Le possibilità offerte dalle nuove tecnologie hanno accompagnato dei periodi di rivoluzione sociale che si sono rivelati fatidici per l’affermarsi del nuovo scenario complessivo. La tecnologia si è appoggiata ai modelli sociali esistenti, sfruttandoli come canali di trasmissione attraverso cui diffondersi e arrivare a far presa fra i vari livelli della popolazione; di pari passo le strutture organizzative che caratterizzano le nuove società contemporanee sono state via via rimodulate dai processi di adozione delle nuove tecnologie che in esse si sono manifestati, che hanno influito sui loro equilibri e sui loro meccanismi. Non si tratta dunque né di determinismo tecnologico, né di determinismo sociale: le trasformazioni a cui si è assistito nel corso tempo derivano tutte da un atto di interazione reciproca fra struttura sociale e innovazioni tecnologiche. Tecnologia e vita umana si modificano di pari passo, in simbiosi, plasmandosi a vicenda: l’uomo fa propria la tecnologia e la trasforma, introducendo nuove pratiche d’utilizzo col suo servirsene quotidianamente; allo stesso tempo però, anche la tecnologia esercita, in egual misura, un potere sull’essere umano e sulla sua organizzazione. Come vedremo, il modello operativo di base del nuovo millennio si è rivelato essere quello del network, modello determinato a dare forma sia alla sfera sociale che a quella della comunicazione. 2.1 La tripla rivoluzione Come ho già anticipato, ciò che ha permesso alle nuove tecnologie comunicative della <<network society>> (Castells, 1996) di affermarsi è stata la peculiare struttura sociale con cui esse si sono trovate a confrontarsi, che ne ha costituito 60 il substrato abilitante. Quel particolare atto di rinnovamento che viene descritto come <<tripla rivoluzione>> (Rainie & Wellman, Networked. Il nuovo sistema operativo sociale, 2012), infatti, si basa innanzitutto su di un primo cambiamento fondamentale: l’emergere di un nuovo modello di socialità; precisamente quello della rete. […] la Rivoluzione dei Network Sociali si è verificata […] prima della Rivoluzione di Internet o del Mobile. È la meno vistosa, perché non si traduce in una trasformazione sul piano tecnologico, ma rappresenta un cambiamento nelle modalità di relazione tra le persone. (ivi p.45) Se dunque la prima rivoluzione pertiene a una modifica della struttura organizzativa della società, la seconda e la terza si riferiscono invece alla nascita di due fortunatissime innovazioni comunicative; rispettivamente la rete Internet e la tecnologia mobile. Vediamo ora queste tre fasi più nel dettaglio. 2.1.1 Individui connected e network sociali <<Il grande pubblico ha acquisito consapevolezza dell’esistenza e delle dinamiche dei network sociali soprattutto grazie alla diffusione dei siti di social networking>> (ivi p.206), che hanno reso visibili all’interno del cyberspazio quelle reti di legami interpersonali che esistono nel mondo reale in tutta la loro concretezza. Tuttavia, già molto tempo prima dell’effettivo avvento della rete Internet la letteratura sociologica di ambito comunicativo aveva individuato, all’interno delle società avanzate, una particolare inclinazione degli individui a organizzarsi secondo uno schema interconnesso di unità singole; dando vita al modello del <<networked individualism>> (Rainie & Wellman, Networked. Il nuovo sistema operativo sociale, 2012). In questo nuovo orizzonte organizzativo, a ogni individuo è permesso di mantenere intatta la propria autonomia e, al contempo, di intrecciare delle relazioni con altri individui come lui indipendenti ma connessi. 61 L’idea di network rivede la concezione secondo cui la società tenderebbe a operare come un gruppo integrato e relativamente stabile di soggetti; infatti, in seguito all’accresciuta mobilità sociale e alla tendenza, anch’essa sempre più presente, di migrare di città in città o di regione in regione, appare anacronistico e riduttivo considerare la società come un corpo di individui facilmente circoscrivibile e identificabile. Risulta molto più attuale concepirla come un sistema di relazioni aperto, democratico e costituito al suo interno da numerosi sottogruppi, cui è possibile accedere o revocare la propria adesione in qualsiasi momento. L’avvento di una simile rivoluzione sociale è stato preparato senza dubbio da una congiuntura favorevole, costituita da importanti incentivi quali lo sviluppo delle telecomunicazioni, dei trasporti e delle ITC ad esempio. Inoltre, le spinte derivate dai processi di globalizzazione hanno aiutato a gettare le fondamenta per la nascita di una cultura comune, unitamente a un generale clima di pace che ha portato a stipulare diversi accordi di collaborazione fra Stati. La base essenziale del nuovo sistema sociale diviene allora il singolo soggetto, il quale, letteralmente, ha la possibilità di costruire le proprie relazioni a misura d’uomo; personalizzandole secondo le sue necessità del momento. L’autonomia diventa un valore supremo e l’individuo è pronto a metterla al primo posto nella sua scala di valori. Tutto ciò comporta l’affievolirsi della centralità un tempo attribuita alla dimensione del gruppo. <<La cultura della network society è fondamentalmente caratterizzata dall’importanza dei progetti di autonomia come principio che orienta le singole persone. Ciò ha manifestazioni individuali e collettive […] gli attori sociali puntano a costruire l’autonomia in tutte le dimensioni della loro vita>> (Castells, Fernàndez-Ardèvol, Linchuan Qiu, & Sey, 2008, p. 163) Il nuovo individuo connesso appartiene, in genere, a cerchie sociali differenti, riconducibili ai diversi contesti in cui si trova ad agire nel proprio quotidiano; a ognuna di esse egli presterà la propria attenzione e la propria dedizione in 62 misura differente, istituendo delle relazioni selettive e ad hoc conformemente alla circostanza che di volta in volta gli si presenterà. <<Gli individui networked sono caratterizzati da forme di appartenenza parziale a molteplici network. […] Devono valutare a chi rivolgersi per ottenere diversi tipi di aiuto.>> (Rainie & Wellman, Networked. Il nuovo sistema operativo sociale, 2012, p. 33). È esattamente l’estrema fluidità che caratterizza il nuovo ambiente sociale che, consentendo l’accesso simultaneo a svariati network, permette all’individuo di ridefinire incessantemente la propria identità; sulla scorta dei vari interlocutori con cui egli entra in contatto. L’emergere della socialità in rete consente inoltre di diversificare fra legami interpersonali di natura e scopo differente. Certo, se trasposto all’ambito della socialità virtuale questo comporta un progressivo affermarsi di nuovi legami deboli ed effimeri, ma ciò non va a intaccare le relazioni sociali che l’individuo intrattiene offline; che anzi, nella maggioranza dei casi, vengono mantenute se non addirittura potenziate dal supporto offerto dalle tecnologie di comunicazione di Rete. Infatti, all’interno del nuovo panorama socio-culturale le interazioni che hanno luogo online e quelle che hanno luogo offline risultano essere fra loro profondamente integrate e, al contrario di quanto spesso ipotizzato, le prime non si sostituiscono alle seconde. I contatti che si instaurano all’interno del mondo fisico sono prolungati grazie a quelli che si intrattengono nell’orizzonte del cyberspazio; che fungono così da supplemento ai primi. Internet crea nuovi legami deboli e rafforza quelli già esistenti, ma contribuisce a rinsaldare ulteriormente anche i legami forti; poiché <<È un’estensione della vita così com’è, in tutte le sue dimensioni e con tutte le sue modalità.>> (Castells, Galassia Internet, 2006, p. 119) Le tecnologie comunicative di Internet e della telefonia mobile permettono al soggetto di esercitare una maggior partecipazione sociale entro un raggio d’azione più ampio; lo aiutano così a prendersi cura di un complesso di relazioni multiple, sfaccettate e frammentate in continua crescita, che risulterebbe impossibile gestire tramite i soli rapporti faccia a faccia. 63 È così che nel tempo, come osservano Rainie e Wellman, si è passati dai rapporti <<door – to – door>> alle connessioni <<place – to – place>>; per giungere infine alle relazioni <<person – to – person>>. Se i primi si incentravano sui rapporti di vicinato e sulla dimensione comunitaria tipica delle società tradizionali, le seconde erano invece strettamente connesse all’avvento della <<glocalizzazione>> (Robertson, 1992), ossia di quel particolare fenomeno che rese lampanti le correlazioni esistenti fra livelli territoriali differenti; più precisamente fra i vari contesti locali e il territorio globale nel suo complesso. Nella socialità di tipo <<place – to – place>> persisteva una marcata dimensione di gruppo, che trascendeva però i ristretti confini locali: gli individui iniziavano a prendere parte a contesti assai differenti, facenti capo ai diversi ambiti fisici con cui si rapportavano nel corso della loro quotidianità – casa, università, ufficio ecc. Questa tipologia di relazioni non sussisteva necessariamente fra individui che abitavano a stretto contatto fra loro; anzi spesso capitava che individui di città differenti venissero però a incontrarsi in determinati luoghi per svolgere le proprie attività di studio o lavoro, ad esempio. Con l’avvento delle relazioni <<person – to – person>> si è abbandonata in maniera definitiva la logica comunitaria, per abbracciare una concezione di stampo prettamente individualistico. Si è assistito inoltre alla separazione fra interazione sociale e luogo fisico, resa possibile dall’abbattimento dei divari geografici operato dalle tecnologie di comunicazione a distanza; il cui uso negli anni risulta essersi notevolmente intensificato. Ne è derivata una maggiore libertà per i singoli soggetti, che se ora dimostrano un impegno meno costante nel coltivare le loro relazioni sociali tuttavia prendono parte a un numero sempre più elevato di contesti differenti. Sono nate così quelle “associazioni elettive” basate sugli interessi condivisi, con poche barriere all’entrata e bassi costi-opportunità. Rheingold (1993), riferendosi alle nuove configurazioni della socialità online che instaurano una comunicazione di tipo transazionale, parla di <<comunità 64 virtuali>>. Come si è visto, però, sarebbe più opportuno parlare di individualismo in rete, per evidenziare che quei precisi sistemi di relazioni interpersonali si originano sempre a partire dal nucleo irriducibile del singolo individuo. Il termine comunità rimanda infatti in maniera troppo diretta alle forme organizzative delle società tradizionali. I nuovi esempi di socialità online si manifestano sotto forma di assembramenti soggetti a una continua ridefinizione dei propri confini, a un perpetuo mutamento dei loro equilibri interni. L’estrema flessibilità che caratterizza tali associazioni spontanee non pone vincoli di alcun genere ai propri membri ed è per questa ragione che all’interno di esse tendono a crearsi legami difficilmente duraturi; in quanto ogni individuo che vi partecipa è poco portato a investirvi larga parte del proprio impegno e del proprio tempo, ognuno si sente come deresponsabilizzato a mantenere intatta e costante la propria adesione a una data cerchia. Oggi, inoltre, i legami deboli e malfunzionanti possono essere cessati in maniera molto più semplice e rapida rispetto a un tempo e senza comportare nessuna forte conseguenza sociale per il singolo; che potrà sempre aggregarsi a nuovi soggetti. Le diverse tipologie di legami che si formano all’interno dei network dipendono in larga misura dalle caratteristiche dello stesso, così come dai flussi di risorse che circolano al suo interno. Un legame può distinguersi per la sua frequenza e qualità o ancora per i rapporti di simmetria che esso instaura – che potremmo meglio definire come meccanismi di reciprocità. I network variano in scala e dimensione e la loro densità, più o meno elevata, può determinare un aiuto, nel caso in cui vi siano molte interconnessioni attive, o un ostacolo, se in presenza di buchi strutturali, alla trasmissione dell’informazione fra le diverse parti che lo compongono. È fondamentale ricordare che all’interno di ogni struttura di rete esistono vari nodi, ossia differenti unità minime strutturali in grado di connettersi l’una con l’altra stabilendo una comunicazione. Non tutti i nodi hanno le medesime 65 caratteristiche, esistono nodi periferici e altri più centrali. Possiamo allora assumere che anche all’interno delle reti sociali non tutti gli individui occupano la stessa posizione o svolgono la stessa attività. I soggetti che mantengono un contatto con network plurimi ed eterogenei possono essere considerati dei connettori, per il fatto che essi svolgono una funzione di coesione fra realtà diverse che altrimenti risulterebbero totalmente chiuse e isolate rispetto all’esterno. Tali figure possono essere paragonate a quello che in linguaggio informatico viene definito come hub o super-connettore, ossia un nodo di rete capace di mettere in contatto cluster differenti. I cluster altro non sono che aree “congestionate” di contatto, in quanto godono di una altissima quantità di interconnessioni reciproche. Un cluster è caratterizzato dunque da un’elevata densità di legami e potrebbe essere associato a un “gruppo dei pari”, formato da individui simili e in rapporto orizzontale fra loro. In breve, i legami di tipo bridging funzionano molto bene per far circolare informazioni dentro e fuori da un cluster di relazioni. Ma i legami di tipo bonding, che si trovano all’interno di un cluster, sono spesso necessari per garantire la fiducia interna, l’efficienza e la solidarietà. (Rainie & Wellman, Networked. Il nuovo sistema operativo sociale, 2012, p. 81) Ecco che, allora, il posizionamento strategico di un super-connettore all’interno della rete risulta essere fondamentale per permettergli di esercitare un ruolo di rilievo nei vari network in cui egli è inserito. Nell’ambito delle relazioni sociali, riprendendo le conclusioni di Merton, si potrebbe parlare a tal proposito di una nuova figura ibrida di leader, a metà strada fra quello cosmopolita e quello locale. Alla stregua del primo, infatti, il super-connettore possiede una conoscenza mirata e approfondita riguardo a un ambito specifico d’interesse, mentre alla stregua del secondo, essendo in diretto contatto con differenti cluster, ha facoltà di esercitare la propria influenza sociale ad ampio raggio; gettando ponti fra network eterogenei molteplici. 66 Il contatto fra soggetti connettori appartenenti a cluster differenti può originare dei network di network e questo è tutt’al più vero al giorno d’oggi, dove ipoteticamente <<[…] ogni persona è diventata un portale verso il resto del mondo, che offre ai suoi amici ponti verso altre cerchie sociali.>> (ivi p.87). I legami deboli che si vengono a creare in un network non devono essere sottovalutati, anzi, spesso questi contatti costituiscono la modalità privilegiata di accesso a un network nuovo e differente. 2.1.2 Rivoluzione Internet In Galassia Internet anche il sociologo della comunicazione Manuel Castells nota come, negli ultimi anni del ventesimo secolo, si sia approdati a una nuova forma sociale ed economica. L’avvento di un modello basato sul network ha permesso di attuare un decentramento del potere, mettendo in atto delle forme di coordinamento orizzontale fra individui posti agli stessi livelli; tutti in diretta comunicazione fra loro. Le nuove strategie gestionali che ne derivano sono in larga parte rese possibili dall’avvento della nuova tecnologia Internet, inoltre è proprio grazie a essa che nascono nuove pratiche sociali ed emergono varie forme di partecipazione civile e di organizzazione dal basso. <<Così come la diffusione della stampa in Occidente ha creato ciò che McLuhan ha definito “Galassia Gutenberg”, noi siamo entrati oggi in un nuovo mondo della comunicazione: la Galassia Internet.>> (Castells, Galassia Internet, 2006, p. 14). Secondo Castells, l’ideologia che informa la cultura dell’Internet delle origini così come i suoi valori basilari sono condivisi da una gerarchia di soggetti formata da quattro gruppi differenti. Un primo gruppo tecno-meritocratico, riferito alla comunità accademica e scientifica, definisce le norme di cooperazione nel processo di sviluppo delle tecnologie. Un secondo gruppo composto da hacker, collaborando con il primo, funge da ponte fra le élite culturali e il resto della società nei processi di diffusione delle scoperte tecnologiche; un importante ruolo in questo caso è svolto anche dagli imprenditori che le commercializzano, rendendole disponibili sul mercato di massa. Il gruppo hacker si caratterizza per 67 la propria autonomia e per i meccanismi di reciprocità che pone alla base dei rapporti di collaborazione online fra i suoi membri; tutti sempre pronti a mettersi al servizio della collettività e a lavorare per il suo progresso. La loro ricompensa non è monetaria ma si riconduce alla pura gioia del creare nonché alla consapevolezza di aver personalmente contribuito allo sviluppo della conoscenza e dell’intelligenza collettiva. Un terzo gruppo essenziale allo sviluppo della nuova tecnologia comunicativa risulta essere poi quello comunitario-virtuale, che rende Internet un mezzo di comunicazione e di interazione sociale. I soggetti che ne prendono parte definiscono i processi, le pratiche e le forme di utilizzo della Rete e strutturano inoltre l’organizzazione sociale stessa. All’interno di tale sottogruppo vige una tipologia di comunicazione libera e orizzontale, con flussi informativi che procedono da molti a molti; si tratta dunque di un ambiente che permette a ciascun soggetto di creare il proprio network e la propria identità sulla base dei propri interessi individuali specifici. L’ultimo gruppo da menzionare è quello formato dagli imprenditori che, come ho già accennato, sono interessati a diffondere l’uso della tecnologia nei vari circuiti sociali; vendendo innovazioni a quei capitalisti che si dimostrino interessati a investirvi. Internet diviene così lo strumento trainante della new economy, quella forma di economia basata sui nuovi meccanismi di gestione, produzione, distribuzione e consumo resi possibili dalle rivoluzioni, tecnologiche e non, che hanno portato alla genesi del <<nuovo sistema operativo sociale>> (Rainie & Wellman, Networked. Il nuovo sistema operativo sociale, 2012). Internet nacque da una stretta collaborazione fra le ricerche condotte in campo scientifico e militare e la cultura della libertà, e il suo sviluppo venne sostenuto dall’investimento dell’iniziativa personale di alcuni soggetti isolati e da numerose altre fazioni; fra cui il governo e altri enti governativi e alcune università e centri di ricerca. Non si originò dunque nell’ambito delle imprese, ma in un contesto relativamente libero e autonomo; che favoriva la crescita 68 culturale grazie alla cooperazione, alla creatività e all’innovazione. Fin da principio i suoi obiettivi primari erano lo sviluppo della conoscenza e della tecnologia, non il guadagno. Proprio affinché Internet continui a seguire questo percorso è necessario che essa permanga una struttura aperta, decentrata, diffusa e multidirezionale, fondata sulla cooperazione e sull’interattività di tutti gli utenti; e spetta alle istituzioni di governo del network garantire queste condizioni. Ecco che allora un modello di Rete che faccia propri i criteri dell’open-source, mantenendosi disponibile a una libera modifica strutturale da parte dei suoi numerosi utenti, potrebbe realmente consentire un’evoluzione di Internet con un ritorno positivo per tutta la collettività. Quella che si configura oggi come una rete di reti non ha però sempre avuto tale struttura, la sua origine rimonta a singole reti di computer separate le une dalle altre. Il primo network di computer che si è sviluppò fu Arpanet: nato nel 1969 dall’Arpa3 serviva a condividere online l’utilizzo dei computer di diversi centri di elaborazione dati e gruppi di ricerca. In poco tempo, i nodi del network iniziarono inoltre a distribuirsi in vari altri centri sperimentali e università. Arpanet implementava un sistema di trasmissione decentralizzato e flessibile, quello della <<commutazione a pacchetto>> sviluppato da Paul Baran. Tale sistema permetteva di veicolare le telecomunicazioni procedendo per pacchetti distinti di informazione, frammentando il messaggio in singole unità. A quel tempo l’implementazione di una simile strategia era volta a salvaguardare, per lo meno in parte, le informazioni trasmesse; nel caso si fosse verificato un attacco nucleare. Nel 1970, dagli studi di Ray Tomlinson, nacque anche la posta elettronica. Al fine di collegare Arpanet ad altre reti di computer, le ricerche produssero un nuovo linguaggio capace di mettere in comunicazione i vari nodi. Nel 1973 nacque il TCP – Transmission Control Protocol – che venne frapposto come ulteriore protocollo fra due reti di computer distinte. Questo, unendosi all’ IP – 3 Arpa è l’acronimo di Advanced Research Project Agency, una sezione del Dipartimento della Difesa Usa creata nel 1958 per operare ricerche mirate a raggiungere una superiorità tecnologica sugli Urss. 69 Internet Protocol – nel 1978, portò poi alla nascita dello standard TCP/IP; in uso ancora oggi. Se fino agli anni Ottanta queste reti di computer trovavano spazio solo all’interno di pochi ristretti contesti accademici e d’élite, a partire dalla privatizzazione di Arpanet, avvenuta agli inizi degli anni Novanta, si aprì invece una nuova era per la diffusione dei network tecnologici all’interno della società. Fu però solo l’invenzione del World Wide Web a consentire a Internet – ex Arpanet – di raggiungere realmente una diffusione e una presenza su scala globale. Questo nuovo programma per la condivisione di dati e informazioni messo a punto, nel 1990, da Tim Berners-Lee del CERN4, riprendeva l’idea dell’ipertesto di Ted Nelson. Quest’ultimo mirava a creare un sistema di informazioni interconnesse fra loro, in continua evoluzione ed espansione e, possibilmente, volto a raccogliere tutta la conoscenza umana. La successiva nascita dell’interfaccia Mosaic che, nel 1993, diede vita al primo browser grafico, nonché l’avvento, nel 1995, di Internet Explorer – il browser di Microsoft – chiusero la fase di quello che viene convenzionalmente considerato come il primo web; che si apprestò poi a evolversi verso la sua declinazione successiva: il 2.0. L’introduzione dell’ipertesto ha consentito finalmente all’informazione di collegarsi in Rete, offrendo agli utenti la possibilità di esperire una lettura libera, non lineare né sequenziale, dei vari contenuti online. La nuova modalità di concepire il web, sfruttando degli appositi link di navigazione, permette di passare facilmente da un contenuto all’altro, in ordine casuale; dà così a ogni utente la possibilità di personalizzarne la propria fruizione secondo le sue necessità, bypassando gli elementi che non lo interessano. Di conseguenza, gli permette inoltre di riorganizzare l’informazione online secondo una diversa gerarchia strutturale. Come vedremo, anche l’atto di assegnare un punteggio a determinate informazioni così come quello di applicare delle etichette – tag – ai 4 CERN è l’acronimo per Centro Europeo per la Ricerca Nucleare. 70 vari contenuti che popolano il cyberspazio consentono di attuare una continua riorganizzazione dell’informazione del mondo virtuale; portando all’attenzione della maggioranza questioni di volta in volta differenti ed evidenziando così gli specifici trend e le particolari tendenze in atto nello scenario sociale del periodo. Sempre grazie alla logica del collegamento ipertestuale ogni contenuto può essere ulteriormente ampliato: cliccando sugli appositi link a esso correlati è infatti possibile ricevere informazioni supplementari a riguardo, magari venendo reindirizzati ad altre pagine di approfondimento. In questo modo ci è dato di acquisire maggiore conoscenza in merito a una determinata circostanza o evento. Non è da dimenticare che anche l’introduzione dei motori di ricerca ha semplificato moltissimo la navigazione in Rete, permettendo a una più vasta schiera di individui di incontrare facilmente informazioni online riguardo alle questioni più svariate. Oggigiorno la larga disponibilità di contenuti online nonché la rapidità e la facilità con cui vi si può accedere offre una maggiore possibilità di scelta agli utenti networked: navigando sul web, questi possono trovare ogni volta materiali nuovi e differenti, imbattendosi in punti di vista divergenti. L’informazione online si trova infatti soggetta a una continua crescita e rielaborazione e, se si è in grado di divincolarsi fra il marasma dei contenuti disponibili, è inoltre possibile incontrare elementi specifici e diversi rispetto a quelli che vanno per la maggiore o che interessano le grandi masse. Ecco allora che grazie alla Rete anche i contenuti di nicchia possono raggiungere più facilmente il loro pubblico interessato, coinvolgendo in modo più veloce ed efficace audience più vaste. Nel tempo l’essere connessi ha acquisito un valore tutto nuovo: il fatto di godere di un accesso alla rete Internet permette a ogni soggetto di essere pienamente partecipe delle dinamiche sociali sue contemporanee, che oggi sempre più in larga parte si svolgono anche online. Le nostre attività quotidiane, dalle più semplici alle più complesse, si organizzano sovente attraverso la rete 71 Internet e <<In realtà, l’esclusione da questi network è una delle forme più dannose di esclusione nella nostra economia e nella nostra cultura.>> (Castells, Galassia Internet, 2006, p. 15); quindi essere cittadini della Rete diviene essenziale. Un possibile ostacolo al conseguimento di una partecipazione democratica di tutti gli individui alla Rete, oltre al prezzo degli apparecchi e delle connessioni, risulta essere il digital divide, che discrimina fra chi ha maggiori o minori competenze rispetto all’utilizzo di Internet e dei dispositivi informatici in generale. Oggi le nuove disuguaglianze sociali si giocano infatti nei territori del mondo online. 2.1.3 Rivoluzione mobile Sfruttando il carattere di asincronia tipico della rete Internet, che permette di accedervi in ogni luogo e tempo, i device mobili e portatili di comunicazione sono sempre più presenti a supporto delle nostre necessità quotidiane. In particolare, l’introduzione degli smartphone segnò una profonda linea di demarcazione fra quanto precedette e quanto seguì il loro avvento: grazie a loro oggi <<Il Web si è trasformato in un ambiente effimero che possiamo portarci dietro nel taschino.>> (Lovink, 2012, p. 15). Le prime tecnologie di telefonia mobile si svilupparono a inizio anni Settanta, all’epoca però i dispositivi, oltre ad avere un costo elevato, erano ancora di grandi dimensioni e di ingente peso. Nel corso degli anni i costi di produzione decrebbero, di pari passo al miglioramento delle prestazioni degli apparecchi; tali condizioni spinsero gli apparati governativi di vari paesi a costruire sempre più ripetitori cellulari, di gran lunga più economici rispetto alle infrastrutture di cui necessitava la concorrente connettività fissa. A partire dal nuovo millennio gli utilizzatori dei dispositivi cellulari iniziarono a configurarne nuove pratiche d’utilizzo, che prescindevano dalla funzione primaria di telefonare. L’introduzione dei messaggi di testo sms – short message service – portò nuovamente al prevalere di una comunicazione basata sul testo scritto, legata al primato della vista e non a quello delle facoltà uditive. La rivoluzione decretata, 72 però, a segnare una netta svolta nei processi di organizzazione e di gestione del quotidiano per migliaia di individui fu l’avvento dello smartphone. Alla fine del primo decennio del Duemila, le ricerche in campo tecnologico avevano portato a realizzare dispositivi sempre più pratici e funzionali, facilmente maneggevoli, user-friendly ed economici. Ecco che il “cellulare intelligente” di nuova generazione risultava essere <<[…] multifunzionale come un coltellino svizzero, capace di comunicare, navigare nel web, creare, intrattenere – e mantenere i contatti con i network sociali in modo istantaneo.>> (Rainie & Wellman, Networked. Il nuovo sistema operativo sociale, 2012, p. 145). Quest’innovazione si è configurata come una delle più importanti – se non la più importante – degli ultimi decenni in ambito di tecnologie comunicative, in quanto i moderni cellulari multimediali hanno accompagnato l’emergere di una differente concezione della stessa Internet: permettendo ai dispositivi mobili di assicurarsi una connessione ininterrotta alla rete di reti, nonché fornendoli di un particolare sistema operativo, li si è resi sempre più simili a dei veri e propri computer; consentendo agli utenti di esercitare una forma di partecipazione ubiqua, flessibile, autonoma e personale al web. L’innovazione tecnologica rappresentata dallo smartphone si è modificata di pari passo con le modalità relazionali e le abitudini comunicative degli individui, i quali hanno plasmato lo strumento stesso al fine di adattarlo alle loro nuove necessità. Oggi l’esigenza di comunicare invade in modo prepotente la scansione temporale delle nostre giornate, introducendosi all’interno di ogni momento libero. Poter contare su un accesso ininterrotto all’ambito della comunicazione digitale ci sembra assolutamente irrinunciabile e al solo pensiero di non poter disporre dei nostri network personali in qualsiasi momento vogliamo ci porta a sviluppare un senso di fragilità e insicurezza. Ecco che allora attraverso il nostro device mobile possiamo rimanere in costante contatto con le nostre cerchie e coi nostri centri di interesse, in ogni luogo e in ogni tempo; lo smartphone 73 diviene infatti un nodo di Rete e permette di godere di una connessione sempre pronta e disponibile, consentendo all’individuo networked di personalizzare la propria esperienza di comunicazione in modo inedito. Questa nuova modalità di gestire i propri flussi comunicazionali e informativi porta a una riconfigurazione dei contesti spaziali e temporali di interazione, nonché a un ridimensionamento dell’intensità e della densità dei rapporti interpersonali. Castells introduce i concetti di <<spazio dei flussi>> e <<tempo senza tempo>>: […] lo spazio dei flussi è l’organizzazione materiale dell’interazione sociale simultanea a distanza attraverso la comunicazione in rete, con il supporto tecnologico delle telecomunicazioni, dei sistemi di comunicazione interattiva e dei trasporti ad alta velocità. La struttura e il significato dello spazio dei flussi non sono legati a nessun luogo particolare, bensì alle relazioni create all’interno di -e intorno al- network che elabora gli specifici flussi di comunicazione. Il contenuto dei flussi di comunicazione definisce il network e, in tal modo, lo spazio dei flussi e le basi territoriali di ciascun nodo. Il tempo senza tempo fa riferimento alla desenquenzializzazione dell’azione sociale, attraverso la contrazione del tempo o attraverso l’ordinamento casuale dei momenti della sequenza. (Castells, FernàndezArdèvol, Linchuan Qiu, & Sey, 2008, p. 187) Secondo tale concezione, i luoghi reali arrivano a perdere la loro specificità, divenendo meri punti d’incontro dei vari network di comunicazione in cui l’individuo è incluso; sono solo la scena in cui si esplica un’interazione nata in un’altrove, precisamente nello <<spazio dei flussi>>. Questo risulta essere vero se pensiamo alla possibilità offerta dai dispositivi di comunicazione digitale wireless di riorganizzare in tempo reale la presenza degli individui all’interno degli ambienti del mondo fisico; ad esempio: il mio amico mi manda un messaggio su Whatsapp e mi chiede di trovarci all’ora X in un luogo Y: l’interazione fra noi è avvenuta nel cyberspazio ma le sue conseguenze si 74 esplicheranno all’interno del mondo concreto, attraverso un preciso comportamento che entrambi metteremo in pratica – il recarci presso il luogo concordato. Si assiste dunque all’indebolimento del luogo fisico come supporto delle relazioni sociali e, in contemporanea, all’avvento di una nuova modalità di organizzazione delle attività basata più sulla dimensione del tempo che su precisi spazi reali. A tal proposito voglio introdurre anche il concetto di <<smart mobs>>, che Rheingold (2002) analizza nel suo omonimo lavoro. Secondo il critico, le possibilità comunicative offerte dalle nuove tecnologie portano alla comparsa di nuove forme auto-organizzative dal basso: le aggregazioni di persone distanti che sfruttano le reti di telecomunicazione, e in particolare Internet, per entrare in contatto possono dar vita a mobilitazioni effimere all’interno dello spazio pubblico. Come abbiamo constatato, i dispositivi mobili mediano oggi la socialità, il consumo, la costruzione di significati e molte altre attività, in quanto assistono numerose pratiche che eccedono la mera funzione di comunicazione; quali ad esempio quelle relative all’intrattenimento e alla sorveglianza. Per quanto riguarda la sorveglianza, attraverso di essi si possono mettere in pratica delle forme di controllo decentralizzate, che operano sia in modo verticale, tramite il tracciamento GPS o la profilazione utente, che in modo orizzontale; consentendo al singolo di rimanere costantemente aggiornato sulle attività svolte in tempo reale dai suoi amici e conoscenti, grazie ai vari avvisi di notifiche e feed che vengono inviate direttamente al proprio dispositivo mobile. Gli smartphone, essendo multitasking, permettono di esercitare contemporaneamente svariate attività differenti, inoltre diventano un perfetto esempio di convergenza mediale; in quanto sono in grado di attuare una modalità di comunicazione multicanale e multimediale. Multicanale perché sfrutta molteplici canali e piattaforme per veicolare contenuti di diversa natura. 75 Multimediale poiché le fotocamere e i lettori musicali e video integrati nel dispositivo consentono di riunire all’interno di un singolo supporto le caratteristiche specifiche di differenti strumenti elettronici. La particolare architettura software di cui dispongono tali dispositivi dà inoltre la possibilità di applicarvi servizi e funzionalità aggiuntive, spesso fruibili solo e soltanto attraverso di essi. Mi riferisco a quell’enorme disponibilità di applicazioni che possono essere facilmente acquisite nei diversi store virtuali: ce ne sono a migliaia e il loro numero continua ad aumentare di giorno in giorno, si differenziano innanzitutto fra gratuite e a pagamento e servono i più svariati scopi; sono spesso legate all’intrattenimento, al social networking, allo shopping, all’archiviazione di materiale online e a vari tool per la gestione del proprio quotidiano. Gli smartphone possono assumere anche una funzione decorativa ed espressiva: <<L’indossabilità rende il telefono cellulare un articolo di moda, pronto a essere personalizzato per riflettere l’identità del suo possessore>> (Castells, FernàndezArdèvol, Linchuan Qiu, & Sey, 2008, p. 125). L’infinita disponibilità di applicazioni e accessori volti alla customizzazione del proprio dispositivo concorrono a rendere i cellulari di nuova generazione degli strumenti simbolici in tutto e per tutto, atti a manifestare la propria singolare soggettività. Questa funzione si è oggi talmente radicalizzata da arrivare a generare crisi di panico nell’individuo che non si trovasse sempre in possesso del proprio strumento di navigazione compatto; quasi che il perderlo di vista equivalesse a smarrire un tratto essenziale di sé e della propria identità. Questa reazione può essere giustificata anche per il fatto che oggi siamo soliti archiviare un’enormità di informazioni personali all’interno dei nostri dispositivi mobili, contenuti sensibili che non vogliamo finiscano nelle mani sbagliate ma che soprattutto abbiamo il terrore di poter perdere per sempre. 76 2.2 L’ambiente 2.0 Negli anni del web di prima generazione – 1.0 – alcune società iniziarono a sperimentare un nuovo modello di business, sfruttando Internet come canale preferenziale per distribuire i propri servizi agli utenti. La frontiera del commercio elettronico, espressione potente della new economy, mancava tuttavia di idee innovative e questo fatto si riversò ben presto sulle aziende pioniere delle vendite online; la loro crescita conobbe infatti una forte battuta d’arresto che portò a numerosi casi di bancarotta. A tutto ciò successe un periodo di crisi economica e di scandali finanziari, che toccò l’apice nel biennio 2000-2001. Constatato il fallimento della prima iniziativa, qualche anno dopo si decise per un cambio di rotta; esemplificato da un’innovativa apertura aziendale nei confronti degli utenti di Internet. Questi smisero di essere considerati meri clienti passivi e vennero chiamati a partecipare alla co-progettazione di vari prodotti di consumo; per questa ragione possiamo d’ora in poi assimilarli alla categoria dei prosumer (Toffler, 1980), i consumatori-produttori. Le aziende avevano compreso il potenziale che ogni individuo rappresentava nella catena di produzione del valore economico e per questo motivo cominciarono a prestare maggiore attenzione alle necessità, alle esigenze, ai gusti e alle preferenze dei loro vari pubblici; instaurando con essi una diretta collaborazione – più che di collaborazione, però, in alcuni casi si potrebbe parlare di un vero e proprio sfruttamento del lavoro e della creatività degli utenti, imprescindibili ingranaggi del macchinario capitalistico. Questa e altre novità segnarono l’avvento del web dinamico: a partire da quel momento, nei primi anni Duemila, iniziarono a diffondersi una miriade di applicazioni web differenti e, di pari passo, crebbe anche il numero degli utenti che accedevano ad Internet quotidianamente. Il nuovo paradigma della Rete presentava caratteristiche assai differenti da quello che lo aveva preceduto: se il primo web offriva delle funzionalità limitate per i “non addetti ai lavori”, 77 l’ambiente del 2.0 si configurava invece come uno strumento attraverso cui chiunque poteva esercitare una reale partecipazione. Gli utenti assunsero allora un ruolo attivo nei processi di costruzione dell’ambiente virtuale, in quanto la struttura stessa del nuovo web, molto più intuitiva, consentiva loro un accesso facilitato e permetteva inoltre di creare contenuti personali in modo gratuito. È così che la Rete iniziò a riempirsi di contenuti prodotti dagli utenti stessi, in una parabola evolutiva che a partire dai primi blog e siti personali giunge sino alle piattaforme di social networking contemporanee. Il carattere di interattività che gli utenti manifestano attraverso la creazione dei cosiddetti UGC – user generated contents – permette loro di sperimentare un sentimento di empowerment, che li porta perciò a impegnarsi ancor di più in un continuo lavoro di elaborazione e condivisione di materiali in Rete. Essi, però, non sono del tutto consapevoli che le informazioni che veicolano attraverso il web verranno immagazzinate in appositi database, per essere poi vendute a terzi e dunque monetizzate. Il commercio dei dati personali è diventato oggi centrale per le nuove forme di commercio elettronico, per le quali anche assicurarsi il controllo dei canali di distribuzione risulta essere fondamentale. Varie sono le ragioni che spingono gli individui a produrre e diffondere materiale online, così come molteplici sono anche le strategie e i mezzi specifici che essi implementano. Come ho detto, con la nascita del web di nuova generazione emerge la volontà del pubblico di far sentire la propria voce, nonché di collaborare al processo di stratificazione della conoscenza collettiva. L’istituzione di siti a licenza creative commons, a metà strada fra il copyright e il pubblico dominio, permette agli utenti di partecipare alla creazione e alla diffusione di una cultura democratica, orizzontale, condivisa e collettiva. Un chiaro esempio di tale innovazione risulta essere Wikipedia, per l’appunto <<l’enciclopedia libera>>, a cui tutti possono accedere e dare il proprio contributo accrescitivo. Ancora, le tecnologie digitali permettono di sperimentare nuove modalità d’espressione, che anche i “non esperti in 78 materia” possono utilizzare per ritagliarsi un proprio spazio personale all’interno della Rete; mettendo in mostra le proprie doti creative. In particolare, la categoria degli amatori sembra arrivare a colonizzare il nuovo spazio pubblico virtuale, dando vita talvolta a fenomeni di micro-celebrity. Patrice Flichy, nel suo saggio Le sacre de l’amateur. Sociologie des passions ordinaires à l’ère numérique (2010), analizza la riconfigurazione che le categorie di <<esperto>> e di <<dilettante>> subiscono all’interno dell’ambiente 2.0, constatando come il confine che li separa tende progressivamente a sfumare in favore di un maggior attivismo delle persone comuni; reso possibile dalla configurazione stessa della nuova struttura della Rete e dalla positiva possibilità che essa offre per la costituzione e la diffusione di una conoscenza collettiva. Da questo stato di cose, secondo Flichy, emerge una nuova figura intermedia, l’amatore, capace di rimettere in discussione gli equilibri tradizionalmente in gioco. Andrew Keen, autore di The Cult of the Amateur: How Today's Internet Is Killing Our Culture (2007), ha un’opinione negativa al riguardo: egli ritiene che l’informazione estremamente frammentata veicolata da questi ignoranti e narcisisti “influencer amatoriali” porti a una riduzione dei gatekeeper culturali istituzionali, nonché a una diminuzione dei contenuti di alta qualità. In ogni caso gli amatori, che si dedicano alle loro passioni durante il proprio tempo libero, sembrano oggi pronti a sfidare le figure istituzionali: non serve più aver maturato una conoscenza specifica per poter emergere all’interno dell’arena mediatica. Gli anni della dura gavetta e del percorso di preparazione e di avviamento alla professione maturati dagli esperti di vari settori risultano ora quasi vanificati dall’avvento di questi nuovi protagonisti del panorama contemporaneo. <<Le élite dei produttori professionali non detengono più il monopolio della creazione e della diffusione dei contenuti.>> (Rainie & Wellman, Networked. Il nuovo sistema operativo sociale, 2012, p. 304). Queste, vedendosi espropriate della propria autorità, arrivano talvolta a riassorbire nel 79 loro sistema istituzionale quelle nuove forme di produzione culturale partecipata nate dalla motivazione estrinseca e dal sentito interesse degli individui comuni. Mi riferisco a quelle logiche collaborative orientate a una creazione collettiva della cultura come il crowdsourcing ad esempio, che supporta la nascita di nuovi progetti dal basso prevedendo spesso anche forme di autosostentamento economico – dette crowdfunding. Ritornando a considerare i produttori di contenuti online, fra di loro ve ne sono alcuni che redigono contenuti informazionali alternativi rispetto ai circuiti ufficiali della stampa e degli altri mezzi di comunicazione; dando vita a siti personali o blog per trattare delle questioni più svariate. Altri ancora si cimentano in azioni di carattere più spiccatamente artistico, realizzando dei remix o mash-up per dar vita a produzioni originali rielaborando contenuti preesistenti – il citazionismo trionfa in questo ambito. Un’altra particolare categoria di prosumer concerne poi gli individui impegnati in operazioni di selfbranding, ossia, come ho accennato nel paragrafo 1.4, in atti che pertengono alla costruzione, alla gestione e alla comunicazione della propria identità online. I soggetti che aderiscono a tali pratiche sono di volta in volta più numerosi in quanto nella nostra contemporaneità saper gestire la propria immagine sociale risulta essere una questione più che mai rilevante. Ecco che allora <<Siamo costantemente impegnati a fare login, creare profili e aggiornare il nostro stato per presentare adeguatamente il nostro Io sul mercato globale del lavoro, dell'amicizia e dell'amore.>> (Lovink, 2012, p. 18). In un mondo dove sempre più spesso conta più ciò che si appare di ciò che si è, ogni individuo si trova dinanzi alla necessità incombente di dover veicolare una corretta immagine di sé; che sia il più attinente possibile alla realtà ma che, paradossalmente, sia allo stesso tempo il più vicina possibile all’immagine che gli altri si sono fatti di lui. Come osserva Lovink: 80 […] sta crescendo la confusione tra chi siamo in realtà e quanto dovremmo rivelare riguardo alla vita e alle opinioni personali, allo stesso modo in cui la crescente pressione a "essere noi stessi" appare sempre più conflittuale nei confronti del conformismo sociale. (ivi p.58) Questa pratica sviluppa una tendenza generalizzata a condividere la propria vita privata online, rendendola così materia di pubblico interesse. Ecco le emozioni, le preferenze, le attività, le relazioni sociali e le situazioni sentimentali del singolo si trovano esposte nei differenti scaffali della sua personale vetrina mediatica. È la stessa struttura dei social media a incitare alla condivisione costante di contenuti, all’aggiornamento continuo dei profili; queste piattaforme vogliono conoscere sempre più dettagli sulla nostra persona e per prime ci spingono a interagire: <<“A cosa stai pensando?” […] Se la Macchina non riesce a leggere quel che ci passa per la testa, ci viene gentilmente richiesto di inserirlo e condividerlo.>> (ivi p.17) Come già Illouz rilevava nel suo saggio Intimità fredde (2007), la nostra attuale società è dominata da un incessante dilagare di racconti individuali nonché da una diffusa esposizione di informazioni riservate e sensibili all’interno dell’arena pubblica; in stretta concomitanza con quella che pare configurarsi come una vera e propria competizione per l’affermazione dell’identità. Anche nei territori del 2.0 sembra essere in atto una sorta di lotta per la sopravvivenza, combattuta per evitare di passare nel dimenticatoio o di subire un’emarginazione sociale e continuare invece a popolare l’ambiente virtuale: ognuno sfodera le proprie armi migliori al fine di produrre un contenuto fortemente personalizzato, che gli consenta di darsi una certa riconoscibilità fra gli altri individui che, come lui, prendono parte a questa battaglia. La concorrenza è alta e le persone arrivano a far proprie le logiche del marketing per promuovere sé stesse alla stregua di un brand di rilievo, facendo leva sui 81 propri fattori strategici al fine di diffondere ad ampio raggio la propria brand identity. Fondamentale risulta essere la capacità di divincolarsi fra le differenti piattaforme comunicative e i vari “spazi pubblicitari” a cui si prende parte. Bisogna sapersi “vendere bene” ed è per questa ragione che si dovrà essere in grado di scegliere di volta in volta il linguaggio, il tono, il messaggio e gli strumenti adatti per veicolare i differenti aspetti della propria personalità attraverso i vari canali che le odierne tecnologie di comunicazione mettono a disposizione. Il reputation management diventa la chiave per avere successo nel mondo digitalizzato. Sapersi ben destrare fra i diversi ambienti virtuali cui si prende parte, nonché essere in grado di assicurare una presenza attiva e costante nei vari siti di social networking cui si è iscritti è indispensabile. Le tecniche di auto-promozione sono volte soprattutto al miglioramento della propria brand image, ossia della percezione comune che nel tempo la società sviluppa nei confronti della propria persona; in questo modo si può arrivare a posizionarsi in un punto di rilievo all’interno del vasto mercato identitario, rafforzando allo stesso tempo la propria identità. In conclusione, per nessuna tipologia di produttori di contenuti è prevista una retribuzione monetaria, ma per ciascuno di essi la ricompensa è esemplificata dal conseguente miglioramento della propria collocazione sociale nonché dall’allargamento dei propri network di conoscenze. Spesso infatti, chi non punta a raggiungere la notorietà e l’approvazione altrui, o almeno chi non mira solamente a questi scopi, è spinto a conoscere individui che condividano i suoi stessi interessi per entrare a far parte delle loro cerchie. O ancora può avere interesse a partecipare a un dibattito pubblico per confrontarsi con punti di vista alternativi rispetto ai propri, derivandone interessanti opinioni riguardo a una questione specifica ad esempio. 82 2.2.1 Una nuova alleanza fra bit e atomi In un’epoca in cui il possesso di un’alfabetizzazione tecnologica diviene fondamentale per garantire agli individui una completa cittadinanza alla loro contemporaneità, essere iscritti ai principali social media site e utilizzare le tecnologie di comunicazione digitale significa inserirsi a pieno nell’arena di discussione pubblica e culturale della società. Non prendervi parte crea infatti esclusione, proprio per il fatto che il dibattito che ha luogo online ha strettissima correlazione con il mondo che si incontra offline. Questa particolare congruenza che si viene a creare fra virtuale e reale, sostenuta dalla decisiva importanza che la rivoluzione del mobile ha rappresentato in questa direzione, apre a scenari mai immaginati prima. I nuovi dispositivi portatili, grazie alla loro connessione a Internet, hanno oggi facoltà di interagire direttamente con gli elementi della realtà, alcuni esempi di questa funzionalità potrebbero essere il sistema GPS, la geo-localizzazione e il geo-tagging, o ancora tutte quelle particolari applicazioni che, implementando un sistema di realtà aumentata, permettono di fruire dell’ambiente circostante ricevendo informazioni aggiuntive su di esso al tempo stesso in cui se ne fa esperienza. Si è spesso parlato di <<Internet of Things>> (anticipata dalle teorizzazioni della Gartner5) e in questa concezione è insito uno stretto collegamento fra oggetti fisici e ambiente virtuale. Essa prevede infatti che la Rete, in questa sua nuova fase evolutiva, arrivi a mappare tutti gli elementi del mondo reale; giungendo a identificarli in modo preciso ed univoco secondo un linguaggio elettronico. In questo modo consente ai luoghi e agli oggetti del mondo fisico di entrare in relazione fra loro, inoltre, rendendoli chiaramente riconoscibili, li dota di una loro autonoma identità; che questi potranno veicolare attraverso la Rete. Mediante la connessione a Internet diviene allora possibile monitorare quegli oggetti reali che, oltre a comunicare contenuti 5 Gartner è un’azienda di analisi industriale statunitense, celebre per aver identificato con largo anticipo gli sviluppi che Internet avrebbe conosciuto a seguito dell’accresciuta integrazione fra mondo fisico e digitale; teorizzati nel <<Paradigma della Supranet>>. 83 propri, sono in grado di fornire importanti informazioni sul loro contesto circostante; comportandosi come dei sensori. Gli oggetti divengono dunque senzienti e dislocano le facoltà intellettive tipiche umane all’interno dell’ambiente. Sempre attraverso la Rete, anche il territorio arriva a comunicare con gli individui: le cosiddette smart cities mostrano un possibile approdo di queste evoluzioni. Nascono dunque delle ecologie ibride che grazie alle applicazioni delle ICTs – Tecnologie dell’Informazione e della Comunicazione – attuano una concreta integrazione fra utente, supporto tecnologico e ambiente circostante; ridefinendo lo spazio d’interazione e gestendo flussi d’informazione. Se, come ho detto, le cose del mondo fisico sono ora dotate di una chiara riconoscibilità, che le distingue le une dalle altre, arrivano a comunicare la propria identità attraverso la Rete alla stregua di quelle persone in carne ed ossa occupate in operazioni di selfbranding. Ecco che nell’ambiente virtuale si viene a creare una particolare condizione per cui le cose sembrano assumere una loro esistenza autonoma, concorrendo anch’esse per eludere la concorrenza, mentre le persone paiono ridursi sempre più a meri oggetti; a merci che esponendosi all’interno delle diverse vetrine mediatiche autopromuovono il proprio Io sotto forma di emozioni “reificate”. Come già ho accennato nel paragrafo 1.4, il radicale rapporto di orizzontalità che arrivano ad assumere gli oggetti e le persone nei territori della Rete sembra elidere ogni qualsivoglia differenziazione fra questi due mondi; cancellando le tradizionali gerarchie che li vedevano un tempo disgiunti. Si inserisce all’interno di questo discorso anche l’analisi di Nello Barile (Barile, From the Posthuman Consumer to the Ontobranding Dimension: Geolocalization, Augmented Reality and Emotional Ontology as a Radical Redefinition of What Is Real, 2013) che, introducendo il concetto di <<ontobranding>>, riflette sul modo in cui le dinamiche contemporanee stiano portando a una riconfigurazione totale della sfera dell’umana esperienza. 84 Secondo quest’interessante prospettiva l’esasperazione delle strategie del marketing unitamente alla nascita di pratiche di consumo che arrivano a insinuarsi in tutti interstizi della vita quotidiana porterebbero a ridefinire le relazioni esistenti fra dimensione emozionale, mondo delle cose ed essere umano; sfruttando gli strumenti offerti dalle tecnologie digitali. In questo nuovo orizzonte che si viene a creare, tutto quanto esiste è reso individualizzabile: diventa dunque marca di sé, costruendo la propria identità in riferimento a valori, relazioni ed esperienze sue particolari. Ci troviamo dinanzi a un <<Brand New World>> (Barile, 2009) completamente plasmato dalle logiche del branding, che arrivano a inglobare in toto la dimensione esistenziale; tenendo insieme sullo stesso livello cose, persone e istituzioni. Se dunque di postumano bisogna parlare non è tanto per la capacità della tecnologia di potenziare il soggetto e di trasfigurarlo nel corpo cyborg ma piuttosto nella possibilità di dislocare conoscenza e intenzionalità dell’uomo nell’ambiente. (ivi p.174) Il concetto di <<postumano>>, già trapassato dall’ambito delle performance artistiche a quello del marketing e del consumo con l’avvento dell’immaginario distopico anni Novanta, che teorizzava una futura integrazione di organico e inorganico attraverso l’applicazione di particolari protesi corporee all’uomo, passa ad assumere ora una connotazione più pragmatica; legata al ruolo di supporto che la tecnologia riveste nella nostra vita di tutti i giorni. Questa contribuisce oggi alla <<dynamic interaction between what were once separated as the ontological distinction between reality and virtuality>> (Barile, From the Posthuman Consumer to the Ontobranding Dimension: Geolocalization, Augmented Reality and Emotional Ontology as a Radical Redefinition of What Is Real, 2013, p. 1) consentendo di accedere a un’esperienza del mondo che si fa sempre più ricca e complessa grazie alle possibilità offerte dalla realtà aumentata. 85 In conclusione, l’<<ontobranding>> può essere allora definito come <<[…] the final stage of an evolution from an old ideal of interaction between human and machines to a new kind of interaction where the machines become softer and immaterial, emotions become contents, and places become media.>> (ibidem). Come ho detto infatti, il territorio diventa soggetto attivo della comunicazione attraverso la smartification e il divario fra individuo e device elettronici si assottiglia sempre di più, in quanto <<[…] the reification of human emotions through consumption and digital innovation (as in the dynamic of social networking) corresponds to the specular process of emotional transformation of technologies.>> (ivi p.2). Le nuove tecnologie consentono all’intelligenza digitale di invadere in modo soft e quasi inconscio ogni ambito del quotidiano, diventando in alcuni casi dei veri e propri compagni di esperienze e assumendo delle connotazioni quasi umane: <<humans are turning into machines and, at the same time, machines are getting some human soft skills and feelings.>> (ivi p.5). Un esempio concreto potrebbero essere tutte le diverse versioni di assistenti vocali introdotte dalle aziende produttrici di software informatici; di cui Siri e Cortana sono le maggiori rappresentanti. La prima, sviluppata da Apple nel 2011, è ospitata su sistema operativo iOS e supporta le più svariate attività dell’utente: dal fissare appuntamenti al chiamare un numero in rubrica, dal modificare alcune impostazioni del dispositivo e delle applicazioni che esso utilizza al ricercare informazioni sul web; il tutto a partire da un input vocale – “Ehi, Siri” – o da digitazione tramite keyboard. Cortana, introdotta da Microsoft nel 2014, era stata inizialmente concepita come solo supporto per Windows Phone, ma venne successivamente estesa a corredo della decima versione del sistema operativo dell’azienda – Windows 10 – eseguibile anche su personal computer. Questa assistente ricalca le stesse funzioni che ho descritto per Siri ma ritengo sia dotata di un’ulteriore capacità di interazione emotiva con l’utente, nei confronti del quale si pone come se si trattasse di un suo amico – “In che modo posso aiutarti?”. Cortana non si limita a servire scopi pratici, ma 86 accompagna quelle funzioni di organizzazione e di gestione delle informazioni e degli eventi che vedono interessato l’utente con altre prettamente legate alla sfera dell’intrattenimento: racconta barzellette e freddure, canta, fa imitazioni di personaggi famosi, lancia la moneta per aiutare l’utente nelle sue decisioni e così via. È capace di rispondere a tono se la si tratta male, ma allo stesso tempo ringrazia e si complimenta a sua volta se la si loda; mostrando così una sua propria identità emotiva. È interessante notare come a entrambe le assistenti vocali sia stato attribuito un nome proprio, alla stregua di una persona; inoltre, l’inconfondibile timbro di voce umano che le contraddistingue le avvicina ulteriormente alla dimensione dei loro utenti in carne e ossa, facendole sembrare realmente delle loro conoscenti fidate. Considerando simili sviluppi della tecnologia verso una relazione con gli user che diventa sempre più personale e ad alta intensità emotiva, non siamo lontani dal veder concretizzarsi gli scenari dipinti da Spike Jonze in Her, suo fortunato lavoro cinematografico del 2013. Nel film Theodore, il protagonista, arriva a innamorarsi di Samantha, il sistema operativo del proprio computer. Questo infatti, essendo basato sull’intelligenza artificiale, è capace di evolversi in funzione della progressiva personalizzazione del rapporto col proprio utente, da cui apprende come elaborare i sentimenti per giungere infine a manifestare emozioni proprie. 2.2.2 Network sociali e social apps In un contesto dove ormai ogni momento della vita umana sembra essere mediato dalla tecnologia, che in egual misura assiste l'individuo nell’interazione con l'ambiente esterno come nelle relazioni interpersonali, i dispositivi mobili e miniaturizzati acquisiscono un’enorme rilevanza. In particolare, come già ho ribadito a più riprese, la rivoluzione del mobile ha decretato delle profonde innovazioni nell'utilizzo di Internet: ora che disponiamo di nuovi device compatti, che ci seguono nella vita di tutti i giorni, possiamo rimanere costantemente connessi con il cyberspazio; in qualsiasi luogo e tempo possiamo 87 mantenerci aperti alla comunicazione online. Tuttavia <<L’osservazione e l’ascolto consapevoli cedono il passo al multitasking diffuso.>> (Lovink, 2012, p. 203) e sovente fruiamo eventi e contenuti in modo distratto e incompleto, questo perché siamo capaci di dedicare solo un’attenzione parziale a ciascuna delle differenti azioni simultanee che compiamo. Sempre più spesso le varie piattaforme di social networking un tempo legate al computer, dunque a un uso relativamente “stanziale” di Internet che sfruttava la rete fissa domestica, sono oggi appositamente concepite per i nostri smartphone. E non sto parlando della mera capacità di risoluzione assunta delle pagine web che, adattandosi in default a uno schermo ridotto, permette ora una navigazione da cellulare molto più efficace e semplificata. Mi riferisco invece a tutte quelle social apps che nascono per essere fruite in esclusiva sui nostri dispositivi mobili. Queste applicazioni hanno portato gli individui a definire nuove pratiche sociali, diventando uno dei principali motivi per cui essi accedono al web: per verificare la presenza di aggiornamenti provenienti da Facebook, Twitter, Instagram, Snapchat ecc…– citando gli esempi più famosi e fortunati. Il successo di simili configurazioni d'uso della connessione in Rete è da ricercarsi nella centralità assunta oggi dal concetto di <<tempo reale>>. Con tempo reale si intende quella particolare configurazione della dimensione temporale di cui si può fare esperienza grazie ai moderni mezzi di comunicazione tecnologica. Il tempo reale non ha nulla a che vedere con un andamento naturale della temporalità, nasce infatti all'interno di quei particolari ambienti mediatici che consentono di fruire informazioni e notizie in modo istantaneo. L’abitudine sviluppata dagli individui nei confronti di questa contrazione temporale dell'ordine delle cose li ha portati a sperimentare una certa insoddisfazione nei confronti di tutto quanto richiede un maggior intervallo di tempo per manifestarsi a pieno. L’accelerazione che l’evoluzione tecnologica ha impresso alla vita quotidiana ha condotto le persone a maturare un forte senso 88 di irrequietezza; derivato dall’esperienza di un ambiente sempre più effimero e in rapidissimo e costante cambiamento. Una citazione di Geert Lovink ci avvicina alla comprensione del nuovo orizzonte temporale in cui siamo inseriti, che procede a ritmo serrato e incalzante: <<Il tempo reale significa una radicale trasformazione dell'archivio statico al "flusso" e al "fiume". [...] la parte visibile dell'archivio si riduce alle ultime ore.>> (ivi p.15). Qui i contenuti obsoleti sono presto destinati a venir sostituiti con altri più recenti, secondo la smania dell'aggiornamento continuo. Perdiamo dunque la facoltà di memorizzare a lungo termine le informazioni, delegando questa funzione a database immateriali e archivi digitali. Questa tendenza spiega il successo delle applicazioni di cloud-computing, destinate a organizzare i nostri contenuti all’interno di specifici spazi virtuali e capaci di renderceli disponibili in qualsiasi momento o luogo; poiché sempre accessibili dai nostri dispositivi mobili intelligenti. Nel contesto della socialità online il concetto di tempo reale riveste grande importanza, poiché per riuscire a tenere il passo col frenetico mondo contemporaneo gli individui si vedono costretti a prestare una continua e costante attenzione agli avvenimenti che hanno luogo nei territori del web; essendo questi in stretta correlazione con quanto accade nel mondo reale. Un simile atteggiamento potrebbe in alcuni casi sfociare però in ossessione: la paura di mancare una notizia o un aggiornamento di stato fa oggi capolino fra i soggetti più fragili della popolazione per diventare una vera e propria patologia contemporanea; etichettata dagli psicologi come <<FoMO>> acronimo dall'inglese per Fear of Missing Out. Se è vero dunque che la partecipazione sociale si esplica oggigiorno anche attraverso i meccanismi che hanno luogo nell'ambiente della Rete, una mancata partecipazione a un evento che si verifica online potrebbe ipoteticamente comportare una futura esclusione dalle correlate dinamiche relazionali che avranno luogo offline; pregiudicando il prestigio e la posizione sociale che il soggetto poteva vantare. Si tratta tuttavia 89 di casi estremi, che testimoniano ancora una volta l’odierna centralità delle tecnologie di comunicazione. Riflettendo ora sulla specifica configurazione dei siti di social networking, voglio soffermarmi su un’osservazione fatta da Lovink, che considera questi ambienti come individualistici e competitivi. Secondo la sua opinione, sarebbero infatti capaci di fomentare quell’ossessione per la costruzione identitaria attraverso i canali della comunicazione online che caratterizza oggi larga parte della società. Il teorico delle culture di Rete descrive questi spazi virtuali come dei <<“giardini recintati” che tengono lontano l’Altro aggressivo>> (ivi p.24). Queste piattaforme dunque, configurandosi come degli spazi “a circuito chiuso”, autoreferenziali e profondamente omogenei al loro interno, non permettono un reale incontro fra punti di vista divergenti; anzi, rinchiudono il soggetto entro le sbarre di un contesto sicuro ma, allo stesso tempo, sterile e ripetitivo. Ogni dibattito, così come ogni opinione controversa, rimangono cautamente chiusi fuori. Simili ambienti, oltre a ridurre la possibilità per gli utenti di entrare in contatto con realtà differenti, permettono di decidere in modo accurato quanti e quali contenuti mostrare alle proprie cerchie e, soprattutto, a quale specifica tipologia di pubblico consentire l’accesso alle proprie informazioni sensibili. Per tutelarsi si possono adottare differenti strategie, si può ad esempio regolare la privacy per ciascun post realizzato o ridurre l’audience cui rendere visibile il proprio profilo personale. Ancora, è possibile negare le richieste di amicizia che provengono da persone sconosciute, rinunciando a follower che potrebbero rivelarsi fastidiosi o nocivi. I siti come Facebook permettono così di modulare l’intensità e la qualità delle proprie interazioni sociali online; operando un’accurata scrematura degli individui con cui mantenere un contatto. In ogni caso revocare un legame virtuale risulta essere facilmente praticabile, mediante i tasti di unfriend e unfollow appositamente predisposti da queste applicazioni. 90 Nelle varie arene sociali virtuali la logica della trasparenza è diventata sempre più diffusa e impedisce che si creino identità non corrispondenti alla realtà dei fatti; ma non è sempre stato così. Nei primi anni dell’avvento di Internet si pensava che il mondo virtuale avesse facoltà di liberare l’individuo dalla realtà, dandogli la possibilità di prendersi una pausa dalla società che lo circondava. Per questa ragione era diffusa anche l’usanza di immedesimarsi in personaggi fittizi, sovente personaggi di giochi di ruolo online – i cosiddetti MUD6. Questi videogiochi, permettendo all’utente di assumere identità multiple a suo piacimento, rendevano inutili le politiche di privacy; poiché in essi veniva a mancare un Io univoco e reale da proteggere. Poi però <<La guerra al terrorismo fece abortire il desiderio per una seria cultura parallela del “secondo io”, dando invece spazio all’emergere dell’industria della sorveglianza e del controllo globale>> (ivi p.60). Di conseguenza oggigiorno i giochi di ruolo e la costruzione di identità plurime o fittizie occupano solamente una piccolissima percentuale di quanto pertiene alla sfera della socialità online. La nuova tendenza dominante è mostrarsi per quello che si è, promuovendo la propria persona a livello globale attraverso i nuovi canali offerti dalle tecnologie della comunicazione. [...] É svanita l'idea per cui il virtuale possa liberarci dal nostro vecchio sé. Non esiste alcuna identità alternativa. L’io del Web 2.0 è quindi qualcosa di più che semplice operazione cosmetica. L’ideale non è né l’Altro né un essere umano migliore. (ivi p.18) L’applicazione mobile Snapchat implementa una modalità di comunicazione molto accorta contro le intrusioni di possibili utenti indesiderati e il suo punto di forza risiede nel carattere estremamente effimero dei contenuti che tramite essa vengono veicolati. Nata come piattaforma di instant messaging per scambiarsi snaps, messaggi di testo o brevi video, prevede che questi restino visibili per una durata di tempo limitata; autodistruggendosi dopo un numero 6 MUD è l’acronimo inglese per Multi - User Dungeon, quella particolare categoria di videogiochi di ruolo multiplayer che si svolgono negli ambienti di Internet. 91 variabile di secondi decisi di volta in volta dall’utente stesso. Onde evitare poi che gli scatti postati possano essere in qualche modo salvati o trattenuti sul device del proprio interlocutore, per esempio mediante una scansione dello schermo del proprio telefonino – detto screenshoot –, le politiche dell’applicazione prevedono di allertare l’utente qualora un caso simile dovesse verificarsi; così da metterlo al corrente di un possibile pericolo per la propria privacy. Oltre a funzionare come una chat multimediale Snapchat permette di realizzare un proprio storytelling personale – la story –, composto da scatti e brevi video che riassumono i momenti più significativi della propria giornata. Esattamente al termine delle ventiquattrore, questi contenuti sono destinati a scomparire dall’archivio dell’applicazione. La logica della trasparenza è anche in questo caso molto sentita; confermata dalla possibilità data a ogni utente di poter venire a conoscenza di chi, nello specifico, ha fruito i propri materiali. Nel tempo Snapchat si è evoluta, rilasciando nuove potenzialità. Dal 2014 tramite un’estensione detta Snapcash, realizzata in collaborazione con Square, ha reso possibile effettuare pagamenti attraverso i propri circuiti; consentendo l’invio e la ricezione di denaro direttamente tramite chat. Unitamente a quest’innovazione, riservata per ora ai soli utenti statunitensi, l’applicazione si è aperta ad alcuni inserzionisti, consentendogli di pubblicare le proprie pubblicità nella sezione Discover dell’applicazione – posizionata a destra della schermata principale. Queste nuove funzionalità potrebbero portare a una totale ridefinizione delle modalità di concepire il commercio online; a tal proposito si è recentemente parlato di ephemeral shopping, ossia di shopping effimero. Nel concreto Snapchat non è ancora stata predisposta come un vero e proprio e-shop, tuttavia il suo consiglio direttivo sta prendendo accordi con le aziende per rendere possibile nel prossimo futuro un simile scenario innovativo. Il carattere strategico di questa soluzione potrebbe risiedere proprio nell’attenzione che verrebbe tributata dagli utenti alle varie proposte di vendita: 92 il fatto di sapere che determinati prodotti potrebbero essere disponibili in esclusiva, o in offerta, per un periodo di tempo limitato, potrebbe spingerli all’acquisto compulsivo per timore di perdere “l’occasione della vita”. La competizione fra consumatori per concludere “l’affare del secolo” colonizzerebbe così il tempo reale del cyberspazio. 2.2.3 Processi d’influenza e scelta individuale Nel contesto dell’interazione sociale ogni soggetto viene plasmato inevitabilmente dal contatto con gli altri. Può magari arrivare a maturare alcuni particolari sentimenti o a elaborare opinioni differenti rispetto a quelle precedentemente possedute, questo perché il rapportarsi con individui esterni lo ha portato a rivedere alcune sue posizioni personali. Si può quindi affermare che la società ci influenza, portandoci talvolta a operare scelte o azioni che magari inizialmente non avevamo minimamente considerato. Non è certo un mistero che esistono dei meccanismi di influenza strettamente connessi alla struttura reticolare della società. Tuttavia, se un tempo questi si manifestavano entro contesti relativamente più limitati, grazie ai nuovi mezzi di comunicazione tecnologica la loro portata risulta notevolmente amplificata. Può infatti estendersi al di fuori dei ristretti confini locali e regionali, per attraversare in maniera trasversale e immediata l’intero territorio globale. Come già ho anticipato nel paragrafo 1.2, oggi assistiamo a una relativizzazione sempre maggiore del potere d’influenza degli opinion leader, in quanto, in contemporanea alla progressiva “democratizzazione” della facoltà di leadership offerta dal libero accesso di tutti gli individui alla Rete, emerge una puntiforme e diffusa quantità di figure di rilievo. Di conseguenza, all’aumentare del numero dei concorrenti, pochi sono i casi in cui un influencer nato nei territori del cyberspazio riesce a raggiungere un’audience internazionale. Nella maggior parte dei casi l’influenza esercitata dal leader “amatoriale” resta collocabile entro un limitato contesto spazio-temporale, spesso identificabile con la cerchia dei suoi pari o con il suo network primario. 93 Ipoteticamente, ogni creatore di contenuti 2.0 potrebbe arrivare a rivestire il ruolo di infuencer. Rainie e Wellman con il termine <<participators>> fanno esattamente riferimento a quella tipologia di utenti che: <<[…] creano e condividono materiale online […] orientato a influenzare o ad aiutare gli altri. Questa categoria di utenti impegnati include persone che scrivono un blog, caricano foto e video, creano avatar e pubblicano molto materiale su social network sites come Facebook.>> (Rainie & Wellman, Networked. Il nuovo sistema operativo sociale, 2012, p. 126) L’importante è per loro partecipare, manifestare la propria presenza, sfruttare la propria creatività per farne un proprio marchio di fabbrica; arrivando a produrre contenuti altamente riconoscibili che suscitino l’attenzione di altri utenti. Vorrei però affermare che, se tutti i prosumer che si incontrano nel web possono considerarsi dei potenziali influencer, mi pare che esistono per lo meno due differenti tipologie di “leader d’opinione 2.0” fra cui dover differenziare. Ritengo che un primo tipo possa riferirsi a quella particolare figura che, impegnandosi coscientemente nella propria missione, riesce a ottenere un successo e una fama che si estendono oltre il suo ristretto network primario. In questo caso, il carattere virale tipico delle modalità di diffusione dei contenuti nel cyberspazio risulta essere molto utile a tutti quegli individui esplicitamente votati a esercitare un più ampio raggio di influenza all’interno della società del loro tempo. Aiuta infatti i soggetti inizialmente poco conosciuti ad arrivare al centro dell’attenzione mediatica scalando le vette dei contenuti più fruiti dai vari utenti del web. Una seconda tipologia di ipotetico influencer potrebbe invece riscontrarsi nella figura di un individuo che, sebbene non miri in modo diretto a esercitare un’influenza nei confronti dei suoi contatti e delle sue ristrette cerchie amicali, arriva ugualmente a interferire coi loro processi di scelta. 94 Per far chiarezza, sostengo che il primo tipo di opinion leader possa considerarsi una persona volontariamente mirata a raggiungere una soglia di celebrità e per questa ragione la si trova costantemente assorta nella creazione di nuovi, precisi e riconoscibili contenuti; il secondo tipo potrebbe invece corrispondere a un soggetto che produce informazione in modo molto più inconsapevole e senza rivolgersi in modo specifico a nessuna particolare tipologia di audience. Se il primo leader utilizzerà supporti quali blog, canali e siti personali per farsi conoscere in modo peculiare da un pubblico molto vasto, il secondo si limiterà più spesso a utilizzare tutte quelle piattaforme di social networking che sono volte in primo luogo a mantenere i rapporti con i propri network primari; formati da amici, colleghi e parenti. Ancora una volta ritengo possibile applicare le due categorie mertoniane 7, rispettivamente di leader cosmopolita e di leader locale, alle due diverse figure di “influencer 2.0” che ho tentato brevemente di tratteggiare. Ora la domanda a cui voglio rispondere è la seguente: in che modo questi leader d’opinione, consapevoli o meno, possono arrivare a influenzare le scelte degli utenti loro connessi attraverso i social media? Quali conseguenze ne derivano? Vorrei soffermarmi a riflettere in particolar modo sui meccanismi che potrebbero essere implementati dalla seconda categoria di influencer che ho cercato di descrivere; evitando di soffermarmi invece sull’abusata questione dei blogger – che, soprattutto se curano siti inerenti questioni di stile personale o di moda, entrano spesso in contatto o in collaborazione diretta con le case istituzionali; barattando così parte della propria indipendenza ideologica al fine di acquisire una posizione di maggior prestigio sulla ribalta internazionale. Una prima modalità di esercitare l’influenza online potrebbe essere relativa alle tecniche con cui gli utenti tendono a organizzare l’informazione elettronica. In un ambiente mediatico all’interno del quale l’overload di dati raggiunge livelli mai conosciuti prima, rendendo difficile divincolarsi fra migliaia e migliaia di 7 In riferimento al Rovere Study condotto dal sociologo Robert K. Merton nel 1949. 95 contenuti differenti, il metodo del rating assume un ruolo di primo piano. Questo permette al singolo di valutare un elemento – spesso attraverso l’assegnazione di un numero di stelline variabile – in base alle proprie opinioni soggettive e all’esperienza che ne ha ricavato. Ecco spiegato il successo di quelle piattaforme che permettono l’interazione fra utenti che hanno vissuto episodi di fruizione simili, in merito ai prodotti e agli eventi più diversi – un esempio potrebbe essere TripAdvisor, che riunisce i soggetti in un forum di discussione che tratta di viaggi, ristoranti e percorsi culturali e di intrattenimento. Le recensioni che si riscontrano in simili ambienti porgono le testimonianze dirette di persone in carne ed ossa – entro casi limite – ed è per questo motivo che assumono un valore aggiunto per la collettività. In generale, l’atto di classificare i materiali della Rete aiuta ad attribuire una certa gerarchia alla sovrabbondanza di contenuti che vi si incontrano. Funziona inoltre da segnalatore di credibilità e agevola gli utenti in situazioni di incertezza, in quanto il punteggio assegnato a una determinata applicazione o prodotto funge da suggerimento indiretto per quanti siano alla ricerca di un parere altrui a riguardo; più o meno esperto che sia. Ancora una volta, dunque, gli utenti si affidano alla raccomandazione di altri utenti loro pari e ciò comporta un’ulteriore perdita di legittimità e di centralità da parte dei media tradizionali: <<Un[a] conseguenza del web 2.0 è che i mezzi di informazione sono, nella migliore delle ipotesi, fonti secondarie.>> (Lovink, 2012, p. 7) poiché <<Oggi i social media si impongono come fonte primaria d’informazione per milioni di persone.>> (ivi p.240), che preferiscono fare affidamento a individui comuni e simili a loro piuttosto che dipendere dalle élite culturali o dalle figure istituzionali. Come già ho affermato in riferimento all’avvento degli amatori sullo scenario mediatico contemporaneo, oggi l’acquisizione della conoscenza passa da canali alternativi e non dipende più solo e soltanto dalle istituzioni ufficiali o dalle autorità di uno specifico campo. Nella maggioranza dei casi ci si basa su 96 raccomandazioni che passano da individuo a individuo, poiché sembrano essere più spontanee e disinteressate, più “familiari”; il tradizionale passaparola non viene dunque abbandonato, ma si trapianta all’interno dei nuovi spazi virtuali della socialità online. In questo nuovo scenario, Rainie e Wellman individuano la presenza di una dinamica tutta nuova di diffusione dell’informazione all’interno di un network e, ad anni di distanza dalla teorizzazione del two-step flow of communication, arrivano a sostenere l’esistenza di un multi-flusso comunicativo: Al posto di un flusso di comunicazione a due fasi, spesso possiamo osservare un flusso multifase, nel quale le persone verificano costantemente i loro network sociali e le fonti istituzionali su internet. […] Dato che sono spesso incerti sulle persone e sulle istituzioni di cui fidarsi, c’è un circolo continuo tra l’informazione istituzionale e le persone che compongono i loro network (sia in presenza che attraverso l’ITC), con l’obiettivo di definire e valutare l’informazione. (Rainie & Wellman, Networked. Il nuovo sistema operativo sociale, 2012, p. 341) Dato l’attuale relativismo in fatto di leadership, prima di prendere la propria decisione, onde evitare di farla dipendere da un’unica e univoca fonte che magari potrebbe risultare poco attendibile in alcune circostanze, gli individui sono portati a consultare una molteplicità di pareri differenti; soppesandoli fra loro per più volte prima di assumere una posizione definitiva. Ecco che l’informazione assume allora un andamento sincopato e procede alla continua ricerca di feedback esterni, seguendo un percorso che risulta essere difficilmente prevedibile. Come vedremo però, questa continua incertezza nei confronti delle proprie fonti informative unitamente alla molteplicità di dati che queste impongono di dover soppesare, porterà spesso gli individui a sospendere il proprio giudizio; poiché si vedranno incapaci di gestire una simile mole di informazione. Di 97 questo passo saranno portati sempre più spesso ad affidarsi in modo automatico ai suggerimenti avanzati dai meccanismi matematici della Rete. Le dinamiche che prendono piede all’interno dei siti di social networking possono certamente influire in modo più o meno diretto sugli utenti che li utilizzano. È importante però differenziare fra le diverse tipologie di piattaforme sociali oggigiorno disponibili, in quanto ognuna di esse sortisce effetti specifici, presenta caratteristiche e contenuti suoi peculiari e raccoglie differenti audience. Analizzando nello specifico Facebook, uno dei social media site più fortunato di sempre, Rainie e Wellman riscontrano come per ogni persona iscritta i <<link abilitano un network di informazioni più denso e più ampio, che […] riguarda […] anche tutte le cose che le piacciono e tutti gli altri network di cui fa parte.>> (ivi p.210). Visitando la pagina personale di un utente è possibile apprendere di più riguardo ai suoi gusti e alle sue preferenze, sia in merito a specifici temi – musica, cinematografia, letteratura… – che in generale riguardo ad altri elementi per cui egli ha mostrato un interesse. Inoltre, qualora l’utente abbia lasciato visibili tali informazioni, è possibile venire a conoscenza delle persone con cui egli è entrato in contatto: dei gruppi nei quali è inserito e degli utenti con cui ha stretto amicizia. Anche Lovink si sofferma ad analizzare la stessa piattaforma sociale, evidenziando come al suo interno <<Il passaggio dal link al “mi piace” come moneta sonante prevalente sul web simbolizza lo strappo nell’economia dell’attenzione dalla navigazione basata sulla ricerca all’ambito autoreferenziale o recintato nei social media.>> (Lovink, 2012, p. 23). Qui la funzionalità introdotta dal tasto “mi piace” assume una funzione di raccomandazione nei confronti di tutti coloro con cui l’utente è in contatto. Il pulsante, introdotto nel 2010 sulla piattaforma Facebook e imitato poi da tasti affini su altre piattaforme social, permette infatti di segnalare in modo semplice e istantaneo i propri elementi di interesse, così che le proprie cerchie, ricevendo 98 il suggerimento, siano anch’esse portate a fruire un determinato contenuto. Ancora una volta le scelte del singolo sono influenzate in primis da individui simili a lui, che hanno inoltre facoltà di condividere materiali specifici sulla loro timeline personale: <<Trova e condividi: le raccomandazioni giuste arrivano più dagli utenti che dai professionisti.>> (ivi p.7). Questa particolare e sottile modalità di esercitare la propria influenza online rischia però di invischiare i soggetti all’interno di un orizzonte di scelta assai limitato, impedendogli di entrare in relazione con persone loro dissimili. Se il mio amico x è interessato a un particolare elemento y sono inevitabilmente portato anche io a constatare di che cosa si tratta, in quanto avendo noi due gli stessi gusti e condividendo le stesse passioni sono quasi sicuro che questo contenuto y potrà piacere anche a me. Tale comportamento potrebbe portare a sviluppare una forma debole di conformismo sociale, facendo convergere gli individui verso le stesse scelte operate dai propri pari nella speranza di poter sviluppare un senso di maggior coesione col proprio gruppo di riferimento. Le opinioni che riceviamo dalle cerchie in cui siamo inseriti ci sembrano infatti assai rilevanti in quanto espressioni di un’ideologia condivisa che, se anche noi saremo disposti a seguire, ci porterà a sviluppare un senso di appartenenza a una comune realtà. Vi è certamente modo di non farsi troppo contagiare da queste indicazioni preferenziali, che tuttavia non ci lasciano mai del tutto indifferenti. Il tasto like non è però l’unico strumento messo a disposizione da Facebook per intervenire nei processi di fruizione e di scelta dei propri utenti: la peculiare home page della piattaforma è pensata appositamente per differire da persona a persona, sia per i contenuti che mostra che per la gerarchia con cui li ordina. I feed non sono né casuali né esaustivi: Facebook utilizza degli algoritmi che tentano di creare per ogni amico un flusso di informazioni “su misura”, sulla base degli interessi di ciascuno. Pertanto ogni amico ottiene nel suo 99 news feed personalizzato un’immagine parzialmente differente (Rainie & Wellman, 2012, p. 210) Se inizialmente il news feed veniva elaborato secondo criteri che selezionavano informazioni rilevanti di carattere sia globale che locale, quest’ultimi riguardo avvenimenti in stretta attinenza con l’area geografica di provenienza dell’utente, recentemente l’azienda proprietaria del fortunato social network site ha annunciato che presenterà un nuovo e differente meccanismo generativo. Lo scopo è quello di rendere gli aggiornamenti personalizzati sempre più in linea con gli interessi e le abitudini del singolo o con le ultime ricerche e attività da lui svolte su suddetta piattaforma. Siamo certamente in un’epoca dove la personalizzazione dei prodotti di consumo e dei contenuti digitali ha raggiunto livelli mai visti prima, ma questa continua volontà di propinare all’utente dei risultati di ricerca sempre in linea con le proprie preferenze, presenta ovviamente un rovescio della medaglia. Voglio a tal proposito introdurre il concetto di <<bolla di filtraggio>> approfondito nel saggio The Filter Bubble: What the Internet Is Hiding from You di Eli Pariser. L’attivista di Internet, analizzando la circolazione delle informazioni in Rete, identifica la presenza di un’invisibile membrana ideologica che rinchiudere ogni soggetto nella propria bolla individuale; isolandolo dal confronto con l’esterno e soprattutto dal contatto con punti di vista divergenti rispetto al proprio. Questa sfera di significati che avvolge l’utente nel suo fare esperienza del web si viene a creare dall’azione congiunta dei numerosi filtri che, nel tempo, sono stati raccolti in base alla sua storia di navigazione online i quali, stratificandosi l’uno sull’altro, hanno portato a un’estrema personalizzazione dei suoi risultati di ricerca. Così facendo, gli algoritmi che stanno dietro a queste particolari configurazioni dell’ambiente online riducono in modo inequivocabile il numero di informazioni e di contenuti con cui il soggetto può entrare in contatto, portando in risalto solamente quei particolari elementi che hanno stretta 100 attinenza con i gusti e le abitudini dell’utente stesso. In questo modo non facilitano il suo approccio a nuove idee, in quanto ne limitano l’esposizione al solo ambito autoreferenziale di preferenze personali. Pariser mette in allerta riguardo all’azione di questi meccanismi nascosti e in un suo intervento alla conferenza TED8 afferma: <<Internet is showing us what it thinks we want to see, but not necessarily what we need to see.>>. Perciò non dobbiamo fare l’errore di considerare quanto troviamo su Internet come qualcosa di imparziale e oggettivo, in quanto quello che ci viene proposto è un contenuto filtrato, pensato apposta per fornirci le risposte che ritiene noi stiamo cercando. Internet ci isola da tutto quanto non rispecchia in modo chiaro e specifico le nostre posizioni ideologiche e le nostre preferenze, omettendo di presentarci possibili informazioni alternative in merito a una specifica questione. Così facendo non ci dà modo di avere una reale visione di tutto ciò che esiste, ma si limita a fornirci un punto di vista parziale e circoscritto, riproponendoci quanto già apprezziamo o conosciamo e imbrigliandoci sempre più in un circolo vizioso. Di questi meccanismi tratterò però in maniera più approfondita nel capitolo che segue. 8 Eli Pariser, Beware online “filter bubbles”, registrato a marzo 2011, consultato il 19 settembre 2016 da: http://www.ted.com/talks/eli_pariser_beware_online_filter_bubbles. 101 102 3. ALGORITMI: NUOVI INTERMEDIARI CULTURALI? Navigando nell’attuale mondo della Rete siamo costantemente portati a imbatterci in un’architettura di sorveglianza ed elaborazione dati che controlla ogni nostra attività online, tanto più oggi che l’informazione è divenuta la più ricca fonte di sostentamento per l’intera società; in quanto crea denaro e valore economico. L’avvento delle modalità di profilazione utenti segna la fine della loro privacy, in quanto le tecnologie di raccolta dati, attive sulla maggior parte delle piattaforme web, sfruttano le loro informazioni sensibili vendendole a grandi aziende o a siti di e-commerce; traendone così profitto. Simili strategie, subdole in quanto opache e diffuse ad ampio raggio, non permettono a nessuno di sfuggire alla loro ingerenza. L’utente medio si vede sempre più spesso obbligato a diffondere i propri dati personali online per poter avere, in ritorno, l’accesso ai siti Internet. Il modo sovente occulto con cui vengono messi in atto tali abusi di potere non rispecchia affatto la concezione democratica dell’Internet delle origini. I dati personali degli utenti, così sottratti e immagazzinati, diventano proprietà dei governi e soprattutto delle imprese, che li utilizzeranno per studiare le esigenze nonché le preferenze del singolo e potergli proporre, in risposta, appositi prodotti, servizi e contenuti che lo interessino e lo soddisfino. A questo stesso proposito rispondono anche i cosiddetti algoritmi, meccanismi matematici che tentano di identificare delle costanti nel comportamento di un dato fenomeno; nella migliore delle ipotesi sarebbero in grado di identificare il circoscritto set di possibili soluzioni che sottende a uno specifico problema. Questi procedimenti, alla base della programmazione informatica, arrivano oggigiorno a essere sfruttati per ricalcare i processi decisionali dell’essere umano, in quanto consentendo di formulare ipotesi verosimili sui suoi meccanismi di pensiero possono prevederne le probabili scelte e azioni. Ovviamente, come ho già detto, non si limitano a fornire un singolo risultato ma 103 propongono una gamma di diverse risposte, tutte però ugualmente probabili e ammissibili. Offrendo a ciascuno un’esperienza altamente personalizzata poiché centrata sul singolo utente della Rete, gli odierni ambienti del cyberspazio sfruttano il sistema degli algoritmi per prevedere dove si incanaleranno l’attenzione e l’interesse degli individui; al fine di indirizzarne i movimenti verso contenuti di natura simile. Infatti, una volta compresi i gusti e le predilezioni del soggetto rispetto a determinati usi di Internet nonché verso determinate tipologie di prodotti, gli algoritmi cercheranno di proporgli attività e contenuti che sicuramente riscuoteranno successo in quanto attigui o assimilabili alle sue preferenze e consuetudini. Tale meccanismo, se aiuta le aziende a guadagnare vendendo i prodotti giusti e se permette ai centri di potere di controllare i comportamenti degli utenti, comporta ovviamente delle restrizioni al libero arbitrio del singolo, poiché lo chiude all’interno di uno spazio online ancora una volta autoreferenziale e limitato; rendendogli più difficile entrare in contatto con ambienti o contenuti estranei alle proprie abitudini e simpatie. Quale spazio di manovra rimane allora all’individuo all’interno della Rete? È ancora possibile esercitare una propria autonomia nei confronti di simili interferenze nell’ambito della navigazione online? E soprattutto, siamo ancora liberi di scegliere per conto nostro, senza essere troppo influenzati da queste e altre nuove forme di condizionamento indiretto? 3.1 Un’architettura di controllo opaca e diffusa L’odierno scenario 2.0 sembra prospettare la fine delle tanto acclamate opportunità di libertà e autonomia che un tempo si riteneva avrebbero caratterizzato la Rete Internet. Alla sua nascita la Rete di Reti venne salutata molto positivamente dall’intera società, in quanto si credeva che la sua struttura stessa, diffusa e distribuita, avrebbe assicurato l’avvento di una modalità di comunicazione orizzontale e democratica fra tutti gli individui. Ci si aspettava che, oltrepassando le limitazioni e le imposizioni del modello top-down dei 104 media tradizionali, Internet avrebbe incentivato la libertà d’espressione consentendo a chiunque di prendere parte alla discussione pubblica all’interno dell’arena virtuale; facendo così sentire la propria voce al mondo intero. Questo è però risultato essere vero entro certi limiti, infatti, come afferma Lovink, è giunta […] la fine dei giorni armoniosi della governance multilaterale - quella variegata coalizione di mega-imprese, organizzazioni non governative e ingegneri che tenevano a debita distanza le autorità statali e le aziende di telecomunicazioni vecchio stampo. (Lovink, 2012, p. 1) La cultura dell’Internet delle origini, così ben descritta da Castells (2006) nella sua compagine multiforme, viene ora oscurata dall’avvento di nuovi apparati burocratici e fazioni d’interesse, che arrivano a prendere il possesso quasi totale della Rete. Il potere si concentra ora in un numero ridotto di poli, molti dei quali sono rappresentati da ricche aziende informatiche o venditrici di servizi online; che spesso arrivano ad acquistare i loro concorrenti per aggiudicarsi una più larga fascia di mercato e manifestare la propria superiorità. In concomitanza del rafforzamento delle strutture di potere e di controllo crescono gli interrogativi riguardo al trattamento dei dati personali e alla tutela della privacy degli utenti: appare oramai chiaro come l’idea di una presunta neutralità della Rete non trovi conferma nella realtà degli eventi, possiamo infatti constatare una <<[…]crescente centralizzazione dei servizi internet offertici gratuitamente in cambio della raccolta di dati, profili, gusti musicali, abitudini sociali e opinioni personali.>> (ivi p.47). Le persone sono spesso inconsapevoli della quantità di informazioni sensibili che lasciano trapelare nel corso della loro navigazione online, informazioni destinate a diventare parte di quegli enormi magazzini digitali che raccolgono dati utili per ricavare un profilo più o meno completo di ogni utente del web. Che si acceda alla Rete tramite il proprio account personale, dunque identificandosi apertamente, o che si effettui una navigazione “anonima”, tutti 105 link che apriamo, tutte le pagine che visitiamo e tutte le parole chiave che inseriamo nelle barre degli indirizzi verranno elaborate al fine di controllare la nostra attività online; derivandone utili indicatori per classificare la nostra persona sotto precise categorie di consumatori. Da che abbiamo iniziato a usare la Rete siamo stati schedati nei database di chissà quante società di analisi dati e il nostro fascicolo personale non fa che accrescersi ogni qual volta accediamo al web; cosicché ci facciamo conoscere sempre più nel dettaglio. Non ci rendiamo conto che ci stanno sfruttando, ma in realtà diventiamo <<Utentioperai che lavorano per l’ape regina Google. […] tante api che volano da un sito all’altro solo per accrescere il valore del proprietario dell’alveare.>> (ivi p.39). Infatti, come ho affermato a più riprese nel corso dell’elaborato, queste preziosissime informazioni sugli utenti vengono raccolte da vari e diversi sistemi di statistica online – i cosiddetti web analytics – nonché dagli stessi motori di ricerca, per essere poi vendute alle aziende che se ne mostreranno interessate per proporre prodotti e servizi mirati alla nostra persona. Come se non bastasse, il sovraccarico informativo che si incontra nel multiforme e complesso scenario di Internet ci rende sempre più sterili e svogliati: non siamo più in grado di elaborare tutte le informazioni in cui ci imbattiamo né tantomeno riusciamo a memorizzarle o abbiamo alcun interesse a farlo, è per questa ragione che sempre più spesso ci affidiamo in modo automatico a quanto la Rete stessa ci propone. La stragrande maggioranza delle volte si tratta di materiali che combaciano esattamente con i nostri gusti e con le nostre passioni, ma ci siamo mai chiesti come ciò sia possibile? Affibbiando un ruolo di guida agli strumenti di ricerca, poiché reputiamo che possano aiutarci a orientarci nel marasma informativo entro cui ci troviamo immersi, facciamo solamente il loro gioco; confermando le loro previsioni in merito al nostro comportamento. È così che siamo sempre più portati a seguire il gregge, a conformarci con quanto appare fra i trending topics del momento; senza aver 106 realmente voglia di esplorare cosa c’è oltre quello che ci è dato a vedere in prima battuta. I motori di ricerca rimpiazzano oggi in gran parte la lettura non sequenziale dei contenuti web effettuata attraverso la navigazione per link, basta infatti digitare una parola chiave nella barra degli indirizzi per ricevere in modo istantaneo una grande quantità di elementi ad essa correlati. Questi strumenti utilizzano spesso degli algoritmi, che potremmo definire in maniera semplificata come dei meccanismi matematici di previsione che aiutano l’utente nel suo processo di scelta; avanzando delle soluzioni logiche relativamente alle preferenze da lui manifestate in precedenza. È così che, basandosi sulla nostra storia di attività online, sfruttano le analogie fra diversi contenuti e valutano l’importanza e la qualità delle diverse informazioni di cui dispongono al fine di proporci una soluzione personalizzata che soddisfi i nostri ipotetici gusti e bisogni. Alla stregua di quanto ho spiegato per Facebook anche Google personalizza i risultati di ricerca implementando le stesse tecniche algoritmiche, non esiste più un Google standard e uniformato per tutti: persone differenti visualizzano fra i primi link pagine web differenti; questo perché avranno alle loro spalle una cronologia personale che diverge da quella di qualsiasi altro utente. Internet arriva a proporci esattamente quello che si aspetta che noi stiamo cercando – “forse cercavi…”. Lovink ci allerta però di come <<[…] i motori di ricerca indicizzano le fonti in base alla popolarità, non alla Verità.>> (ivi p. 219) non dobbiamo dunque dare per scontato che quanto propongono sia sempre affidabile, le informazioni e i dati riscontrati su Internet vanno prima interpretati e filtrati affinché possano realmente rivelarsi utili. Spesso però oggi agli individui viene a mancare la capacità di pensiero critico. I primi algoritmi per l’elaborazione informatica dei dati utente nascono negli anni Novanta, in stretta correlazione con lo sviluppo dell’e-commerce. Questa particolare concezione di commercio per via elettronica si basa infatti sullo sfruttamento dei gusti e delle preferenze dei singoli individui della Rete, cui 107 propone dei suggerimenti automatici di prodotti ai quali, inerentemente alle loro abitudini e opinioni, questi potrebbero risultare interessati. Il successo riscosso da questo nuovo modello di business, basato sull’analisi massiccia dei big data e delle informazioni personali degli user, ha portato negli anni a includere simili meccanismi anche all’interno di numerosi siti di notizie e di intrattenimento e in moltissime piattaforme di social networking – Youtube con i suoi video correlati, Facebook con i suoi bottoni recommend e in generale tutti quegli altri spazi che implementano le strategie di trending topic quali Twitter ad esempio. È così che, sempre più spesso, il web di cui l’utente fa esperienza viene colonizzato da contenuti selezionati in modo matematico sulle base della sua storia passata di navigazione, opportunamente tracciata da svariati sistemi analisi – fra i più celebri Google Analytics. Il soggetto sembra dunque ridursi a ripetere il proprio passato un giorno dopo l’altro, riconfermando le proprie scelte e abitudini. Gli intermediari culturali tradizionali, che un tempo detenevano il diretto monopolio nel determinare la diffusione dei prodotti culturali e mediatici fra le diverse fila della società, sembrano destinati a vedersi surclassare dai nuovi consiglieri informatici. Questi ultimi infatti influiscono indubbiamente sui criteri di fruizione degli utenti, poiché come nota Massimo Airoldi <<[…] i recommendation systems sono lungi dall’essere neutri e avalutativi come la loro presunta oggettività matematica tenderebbe a suggerire.>> (Airoldi, 2015, p. 137), questi sistemi sono sempre gestiti in accordo con le logiche delle aziende e delle istituzioni che decidono di implementarli, ne perseguono dunque l’ideologia e gli specifici interessi; primo fra tutti quello relativo alla massimizzazione del profitto. Così facendo questi meccanismi matematici commettono un vero e proprio atto di riduzionismo nei confronti dell’enorme varietà della natura umana; circoscrivendola a poche e limitate tipologie di individui. 108 Generando in automatico associazioni tra oggetti – A e i relativi suggerimenti B e C – i sistemi di raccomandazione intervengono nella definizione dell’immaginario contemporaneo, contribuendo a tracciare reti di connessioni semantiche mediaticamente condivise. (ivi p. 139) Questo comporta, di conseguenza, l’esclusione di tutte quelle forme culturali che risultano essere poco profittevoli, o che comunque rispecchiano le sole preferenze di poche isolate nicchie sociali. Queste ultime, infatti, si trovano spesso in disaccordo con le opinioni dominanti o con quanto va per la maggiore, risultando così difficilmente identificabili e gestibili tramite mere previsioni automatiche. Esistono varie tipologie di sistemi di raccomandazione, che fanno riferimento rispettivamente ai contenuti di un determinato spazio online, allo specifico comportamento di un singolo utente, o ancora alle abitudini manifestate dagli utenti in generale nel corso della loro navigazione web. Quest’ultima tipologia si limita a riassumere quelle che sono le mode collettive condivise dal mainstream, prescindendo dal considerare le nicchie minori di utenti. Tende infatti a presentare i macro-trend sociali del momento, proponendo i contenuti più fruiti, i prodotti più acquistati o le applicazioni maggiormente votate e scaricate. Un’altra particolarissima tipologia di elaborazione dati, detta collaborative filtering, si pone invece in netta contrapposizione rispetto alle precedenti; avanza infatti dei suggerimenti automatici incrociando le preferenze di singoli utenti che hanno dimostrato gusti ed abitudini di consumo affini. Utilizzando un sistema di raccolta e di analisi aggregata degli insiemi delle preferenze e dei comportamenti di differenti utenti singoli – insiemi ipotizzati non suscettibili di variare nel tempo – questa metodologia propone una serie di suggerimenti automatici ma focalizzati, in stretta attinenza con le preferenze espresse dai singoli utenti; instaurando, in particolar modo, una diretta correlazione fra individui con preferenze affini e proponendo a ognuno di essi i 109 contenuti fruiti dai propri simili. Mira così a predire quali elementi interesseranno un dato utente sulla base della sua affinità rispetto ai profili ricavati da altri utenti. Si tratta di associazioni del tipo “se hai apprezzato x apprezzerai sicuramente anche y, poiché tutti gli utenti che hanno espresso interesse per y lo hanno espresso anche per x” e così via. La sua forza sta nel riuscire a proporre dei consigli mirati, poiché centrati sul singolo utente e non destinati a una massa indifferenziata. Airoldi nota come un tale meccanismo generatore di raccomandazioni, implementato fra gli altri da Spotify, Amazon e Youtube, arrivi a creare una situazione in cui l’utente è portato a muoversi entro un range limitato di possibilità, in quanto le opzioni di scelta disponibili saranno sempre fra loro correlate e si presenteranno ogni volta come un insieme unico, chiuso rispetto ad altre eventuali possibilità. Poiché <<Il mondo prospera sul fatto di essere normali e noiosi, non delle eccezioni. La differenza rimane confinata alle scelte dei menù a tendina.>> (Lovink, 2012, p. 43). Indubbiamente, questo trattiene il soggetto dal voler compiere uno sforzo per esplorare un probabile orizzonte alternativo e Suggerisce l’idea di un utente che, posto di fronte al comportamento della “maggioranza silenziosa” dei suoi “simili” (coloro che hanno consumato digitalmente uno stesso video, articolo, brano musicale, prodotto), subisce una forma differente di “spirale del silenzio” (Noelle-Neumann, 1974), per la quale si conforma al gusto del gruppo non tanto per paura dell’isolamento, quanto per “comodità” – non a caso, l’aspetto più enfatizzato da chi fornisce servizi di raccomandazione automatica. (Airoldi, 2015, p. 140) Ecco che allora i sistemi automatici di raccomandazione agiscono per noi come delle euristiche decisionali, come delle scorciatoie di pensiero che utilizziamo per praticità o quando agiamo d’impulso – ad esempio in situazioni di overload informativo, dove non siamo capaci di gestire la vastità delle informazioni di cui 110 disponiamo per poter operare una scelta in modo razionale. Ma questo agire risulta alla lunga deleterio se <<L’individuo occidentale autonomo preferisce delegare competenze e conoscenze a quel che Clay Shirky definisce “l’autorità algoritmica”, e anziché acquisire potere, questa delega esterna non fa che indebolire ulteriormente il soggetto.>> (Lovink, 2012, p. 50) Questi meccanismi informatici, ingannevoli e riduttivi, tentano di far rientrare i comportamenti delle differenti tipologie di utenti entro dei percorsi facilmente prevedibili e identificabili. Si configurano così come una sorta di panopticon9 invertito e cercano di controllare gli individui che, tuttavia, non essendo totalmente consapevoli dell’esistenza di queste opache architetture ritengono di agire in modo relativamente incondizionato. Le infrastrutture sottese ai meccanismi di funzionamento del suggerimento automatico sono dunque potenzialmente dannose proprio per il fatto che risultano essere invisibili. I recommender systems portano all’omologazione identitaria poiché <<[..] danno per scontato che abbiamo un incestuoso desiderio di essere proprio come i nostri amici.>> (ivi p.207), perpetuandosi all’interno di circuiti a senso unico e apparentemente senza alcuna via d’uscita. Non contemplano eccezioni alla norma, ma è proprio questa la falla a cui aggrapparsi per potersi rimpossessare della propria libertà di scelta; al di là di ogni vincolo e di ogni configurazione preconfezionata. La natura umana è molto complessa e non può essere riprodotta alla perfezione da un algoritmo: l’incontro con realtà diverse rimane ancora praticabile e la serendipità ritorna sotto forma di cybernetic serendipity all’interno dell’ambiente virtuale; ricollegandosi a quel particolare fenomeno per il quale ci si imbatte indirettamente in una nuova piacevole scoperta mentre si è alla ricerca di tutt’altro. In conclusione, questo dimostra che spetta a noi singoli utenti attuare un’exit strategy, poiché è ancora possibile allontanarsi da simili meccanismi fortemente 9 Il carcere ideale progettato, nel 1791, dal filosofo e giurista Jeremy Bentham. Struttura di forma circolare al cui centro sorge una torre di controllo, permette di vigilare in modo diretto su un vasto gruppo di individui; i quali sono consapevoli di essere osservati in ogni momento. Panopticon; or, the inspection-house, Jeremy Bentham, London, T. Payne, 1791. 111 prescrittivi; riconquistandosi la propria isola d’indipendenza. Anche Lovink si mostra fiducioso quando afferma che <<La battaglia per internet non è ancora chiusa. Finché c'è qualcosa in gioco, nuovi spazi autonomi produrranno nuove generazioni di fuorilegge - e posizioni critiche per portare avanti I propri progetti.>> (Lovink, 2012, p. 14) e ancora <<Occorre rafforzare l’autodeterminazione dei nodi contro l’autorità centrale della nuvola dei dati e assicurarsi che il Web rimanga decentralizzato.>> (ivi p.47). Bisogna dunque uscire dall'autoreferenzialità, riaprendo un reale dialogo fra le parti e distaccandosi invece dalle logiche di imitazione; apportando così dissonanza all’interno del sistema razionale di ripetizione standardizzata degli atteggiamenti. Bisogna utilizzare i media in modo tattico (De Certeau, 1980), smuovere lo status quo aprendosi all'innovazione. Bisogna esplorare nuove possibilità, individuare i punti deboli del sistema: le fenditure in cui poter far breccia per ricavarsi uno spazio autonomo d'azione, o meglio, di sovversione. Gli utenti non devono essere spettatori passivi bensì attori attivi, devono mobilitarsi personalmente per avviare un cambiamento dei processi attualmente in atto nel nuovo ecosistema mediatico. 3.2 Cultural Analytics: una prospettiva di ricerca up-to-date Ho constatato come l’emergente ricorso agli algoritmi di previsione ed elaborazione dati, cautamente celati all’interno della stessa impalcatura di Internet, abbia permesso a terze parti di riconfigurare gli equilibri in gioco; acquisendo sempre maggior potere e controllo sugli utenti e ponendo fine a quell’ideale di cyberdemocrazia che si reputava concretizzabile grazie all’avvento del 2.0. Tuttavia, da una prospettiva meno pessimistica, ho affermato che, se anche quest’invisibile autorità algoritmica <<è caratterizzata da un’apparente neutralità, così come da un intento predittivo che però, nella pratica, tende a diventare fortemente “prescrittivo”>>, (Airoldi, 2015, p. 139) è ancora possibile imporvisi con un gesto di antitesi. Adottando un atteggiamento ancor più in positivo è possibile sfruttare questi stessi meccanismi, che 112 sembrano essere in tutto e per tutto destinati a esercitare una forma di indottrinamento nei confronti degli utenti del web, per arrivare a concepire nuovi paradigmi di ricerca in campo culturale. Per l’appunto, secondo la proposta di Lev Manovich sarebbe possibile incanalare parte delle loro logiche di ispezione dati nello studio delle forme culturali sì del passato ma soprattutto del presente; infatti, adottando una prospettiva d’analisi più attuale si potrebbe giungere a una più profonda comprensione del panorama culturale contemporaneo, che spesso presenta modalità di creazione e di diffusione degli artefatti culturali intrinsecamente legate all’universo del 2.0. Studioso del rapporto fra individui e new media nonché di media art e docente di informatica al Graduate Centre della City University di New York, Manovich ha avanzato l’ipotesi di utilizzare una metodologia di ricerca culturale mai implementata prima, auspicandosi che questa possa portare a sfidare i convenzionali costrutti riguardanti l’umana cultura nonché le sue convenzioni canoniche. Il suo intento è quello di ridefinire il concetto di cultura rivedendo i confini entro cui essa si trova imbrigliata da secoli, prevedendo dunque vie alternative per indagarne e comprenderne la storia in un percorso che partendo dal passato giunga fino al presente. Egli nota che negli ultimi decenni si è assistito a un progressivo aumento del numero di persone, professionisti e non, che hanno preso parte alla produzione e alla discussione della cultura globale. I nuovi mezzi di comunicazione digitale e soprattutto i social media hanno infatti permesso a una moltitudine di utenti di intraprendere un ruolo attivo nella creazione e nella diffusione delle nuove forme e tendenze culturali, esprimendo il proprio estro creativo anche attraverso user-generated contents. Di conseguenza si sono moltiplicati sia la compagine degli artisti che la complessiva collezione di opere presente online: oggi infatti il web ospita moltissimi spazi dove poter riscontrare preziose fonti di dati culturali, fra cui siti di professionisti, di non professionisti e semi- 113 professionisti, o ancora piattaforme create da gruppi di studio e facoltà universitarie per lavori di gruppo e progetti. Se un tempo gli storici dell’arte e della cultura potevano formulare le proprie teorie prendendo a riferimento un ridotto campione di dati culturali, con l’avvento dei new media la cultura ha moltiplicato sé stessa; arrivando a promuovere non solo la digitalizzazione di gran parte dei propri artefatti preesistenti – ad esempio, per la letteratura, Google Books, Amazon ecc… – ma producendo nuovi artefatti di intrinseca natura digitale. Ciò ha reso sempre più difficile analizzare e classificare le varie forme artistiche esistenti, nonché rintracciare fra esse utili informazioni riguardo a particolari tendenze o filoni di sviluppo in seno alla società della nostra epoca. L’approccio delle Cultural Analytics sembra quindi portare a una svolta: unitamente alle innovative tecniche di creazione, condivisione e analisi supportate dalle recenti apparecchiature tecnologiche, permette non solo di analizzare gli artefatti in sé ma di derivarne anche ulteriori dimensioni correlate alla cultura; fra cui i comportamenti, le impressioni e le reazioni circostanziali degli utenti – cosa che prima risultava impossibile osservare così nel dettaglio: […] because of digitization efforts since the middle of the 1990s, and because the significant (and constantly growing) percentage of all cultural and social activities passes through, or takes place on the web or networked media devices (mobile phones, game platforms, etc.), we now have access unprecedented amounts of both “cultural data” (cultural artifacts themselves), and “data about culture.” All this data can be grouped into three broad conceptual categories (Manovich, Trending: the promises and the challenges of big social data, 2011, p. 14) Nella prima grande categoria Manovich fa ricadere tutti quei contenuti che si configurano come artefatti culturali veri e propri, altresì detti <<cultural data>> (Manovich, How to Follow Global Digital Cultures, or Cultural Analytics for Beginners, 2009, p. 14); nello specifico immagini, video, film, brani musicali, 114 esempi di architettura e design, grafica, giochi e siti web. All’interno di questa grande categoria egli opera una distinzione iniziale fra <<born digital>> (ibidem) e <<born analog>> (ivi p.11) sottolineando come il primo termine sia riferibile a opere originali nate appositamente da e per il mondo virtuale; mentre il secondo stia a indicare tutte quelle opere che sono state nel tempo digitalizzate così da poter entrare a far parte dei vari archivi digitali. È importante ricordare che queste ultime non sono da considerarsi delle trasposizioni esatte degli originali in formato digitale, infatti, nel corso della traduzione alcuni aspetti contestuali di tali opere vengono irrimediabilmente meno: <<Digitized artifacts […] originated in other media - therefore, their representation in digital form may not contain all the original information.>> (ivi p.14-15). Lo stesso discorso vale anche per tutte quelle tipologie di esperienze culturali nate fuori dal contesto strettamente virtuale e che si tenta di registrare all’interno di database o piattaforme online, poiché ancora una volta <<[…] the properties of material/media objects that we can record and analyze is only one part of an experience.>> (ivi p.15) le sensazioni correlate alla fruizione dal vivo e in presenza vengono meno – fra queste: opere teatrali, performance, spettacoli di danza, concerti, l’esperienza fisica di uno spazio architettonico o di un oggetto di design, l’interazione in tempo reale dell’utente con un videogioco o con un’applicazione che sfrutta i satelliti GPS ecc.. All’interno del sottogruppo dei <<born digital>>, Manovich opera poi un’ulteriore distinguo fra contenuti <<web native>> (ivi p.9), riferibili per esempio a blog o siti web, e contenuti <<web intended>> (ibidem), ossia creati nello specifico per le piattaforme di social media; che influenzeranno la forma di tali artefatti ciascuna secondo le proprie caratteristiche e logiche interne. Nella seconda grande categoria di dati culturali Manovich fa rientrare tutte quelle rilevazioni riguardanti il rapporto degli utenti con i digital media, raccolte nel corso della loro navigazione online da appositi sistemi di tracciamento. 115 All’interno della terza e ultima categoria raccoglie invece tutti quei commenti o discorsi riscontrabili online che riguardano o corredano attività culturali, oggetti culturali e processi di creazione. Definisce questa categoria <<cultural information>> (ivi p.14) e ne fanno parte composizioni di critica, articoli e recensioni, ma anche i più semplici commenti ai post. Manovich invita poi a fare attenzione al fatto che in questo attuale e riformato scenario culturale <<[…] the ubiquity of software tools for culture creation and sharing changes what “culture” is>> (Manovich, Cultural Analytics: Visualizing Cultural Patterns in the Era of “More Media”, 2009, p. 3). Quei particolari software che gli utenti utilizzano negli atti di creazione, diffusione e comunicazione della cultura ne influenzano gli effetti e dunque non si può prescindere da uno studio degli artefatti culturali che non tenga conto delle logiche e dei meccanismi soggiacenti ai processi che li vedono coinvolti. Oggi tutti i sistemi sociali ed economici dipendono in larga parte dai software: <<We live in a software culture - that is, a culture where the production, distribution, and reception of most content is mediated by software.>> (Manovich, Cultural Software, 2011, p. 17). Quindi […] if we want to understand contemporary techniques of control, communication, representation, simulation, analysis, decision-making, memory, vision, writing, and interaction, our analysis can't be complete until we consider this software layer. (ivi p.7) Allo stesso modo in cui non ci si può bendare gli occhi e ignorare le peculiari condizioni che preesistono alla nascita di un determinato fenomeno, poiché queste suggestionano le modalità con cui esso si presenta nonché gli effetti che esso genera, è altresì importantissimo saper ricondurre una manifestazione culturale all’interno di un contesto spazio-temporale preciso; nonché correlarla a un particolare modello di società con tutte le sue implicazioni economiche, politiche, culturali e tecnologiche: queste infatti influiscono tutte più o meno indirettamente sull’oggetto di studio. 116 Nel dettaglio a Manovich interessano quei software che hanno stretta attinenza con la dimensione culturale, che rendono possibili differenti azioni: i <<media software>> (ivi p. 12), che consentono di creare, condividere, gestire e accedere ad artefatti culturali; i social software, che permettono di prendere parte a esperienze culturali interattive o di creare e condividere informazione e conoscenza comunicando con altre persone; infine tutti quei software che sviluppano strumenti e servizi atti a supportare le suddette attività. Come egli ribadisce adottare un approccio bidirezionale è basilare <<[…] Software Studies has to investigate both the role of software in forming contemporary culture, and cultural, social, and economic forces which are shaping development of software itself.>> (ivi p.4) poiché la tecnologia si modifica sempre di pari passo con gli usi e le pratiche che vi nascono attorno. Gli strumenti di analisi tradizionali non riescono a svolgere però questo complesso lavoro che gli si prospetta dinanzi, serve dunque adottare una procedura che sia al passo coi tempi. Ecco che allora il paradigma delle Cultural Analytics, introdotto nel 2005, incrocia metodi computazionali e visuali per studiare un’enorme quantità di dati, dinamiche e flussi culturali. In questo nuovo ambito di ricerca la normale scienza computazionale prende in prestito nuove tecniche d'analisi dall’arte digitale e mediatica e dal campo della visualizzazione dell'informazione; segnando un punto di congiunzione fra la metodologia scientifica e quella umanistica. […] Digital Humanities and Social Computing […] we are interested combining both in the studies of cultures - focus on the particular, interpretation, and the past from the humanities and the focus on the general, formal models, and predicting the future from the sciences. (Manovich, The Science of Culture? Social Computing, Digital Humanities and Cultural Analytics, 2015, p. 1-2) L’interesse di Manovich e del suo gruppo di ricerca è duplice, per questo trova molte risonanze con due campi di studio differenti. Da una parte, l’attrazione 117 per il passato e per il futuro della storia culturale dell’umanità intera; che comprende tutti, professionisti e dilettanti, senza fare distinzioni antidemocratiche. Dall’altra, il desiderio di contemplare più da vicino il funzionamento della società networked, indagando il suo rapporto con gli apparecchi tecnologici e con gli ambienti della socialità online per comprendere come questa interazione possa impattare sull’ambito della creazione e della diffusione culturale contemporanea. Like digital humanists, we are interested in analyzing historical artifacts – but we are also equally interested in contemporary digital visual culture […] Also, we are equally interested in professional culture [and art] created by […] non-professionals […] Like computational social scientists and computer scientists, we are also attracted to the study of society using social media and social phenomena specific to social networks. […] However, if Social Computing focuses on the social in social networks, Cultural Analytics focuses on the cultural.>> (ivi p. 6-7) Manovich sottolinea l’importanza di combinare l’analisi condotta per via informatica con una più prettamente umana, poiché solo in questo modo si potrà giungere a sviluppare un metodo realmente innovativo; che tenga conto sia delle generalità dell’oggetto di studio che delle sue molteplici declinazioni singolari. Sociological tradition is concerned with finding and describing the general patterns in human behaviour […] Cultural Analytics is also interested in [it] However, ideally the analysis of the larger patterns will also lead us to particular individual cases […] we may combine the concern of social science, and sciences in general, with the general and the regular, and the concern of humanities with individual and particular. (ivi p. 9) Per arrivare a identificare un campione rappresentativo occorre prima scandagliare un insieme molto più esteso di partenza: ecco allora che si 118 dimostreranno utilissimi anche i big data, che possono essere usati per identificare tendenze e strutture generali. Infatti <<[…] while a small sample allows finding the "typical" or "most popular," it does not reveal what I call “content islands”>> (Manovich, The Science of Culture? Social Computing, Digital Humanities and Cultural Analytics, 2015, p. 6) Inoltre agli analisti culturali interessa analizzare sia il contenuto che la struttura di un artefatto culturale; quest’ultima non però a partire da dei dati riguardanti l’immagine, come molti attualmente fanno, bensì dall’immagine stessa: a tal proposito Manovich e i suoi collaboratori implementano vari strumenti open source, fra cui in particolare uno chiamato imageJ10. Per operare questa duplice disamina si rende allora necessario combinare un’analisi computerizzata quantitativa QCA – Quantitative Cultural Analysis – con una qualitativa di tipo “analogico-manuale”. La prima, servendosi di una metodologia informatica, consente di rilevare quelle strutture intrinseche degli artefatti culturali che le sole facoltà umane di cognizione e percezione non sono in grado di contemplare. La seconda permette invece di approdare a uno studio più specifico e circoscritto dell’oggetto in questione, isolando un numero maggiormente limitato di suoi aspetti e di sue variabili in modo da potervisi focalizzare personalmente. Oggi inoltre i ricercatori godono della possibilità di utilizzare quei meccanismi API – Application User Interface – che permettono a chiunque di scaricare grandi quantità di dati utente dai maggiori siti di social networking e di shopping online. Questa opzione apre a panorami e possibilità prima d’ora mai contemplati: The rise of social media along with the progress in computational tools that can process massive amounts of data makes possible a fundamentally new approach for the study of human beings and society. […] We can study exact trajectories […] The detailed knowledge and insights that before can 10 Sviluppato dai National Institutes of Health degli Stati Uniti, il programma di elaborazione digitale di immagini è scaricabile liberamente all’indirizzo: https://imagej.nih.gov/ij/. 119 only be reached about a few people can now be reached about many more people. (Manovich, Trending: the promises and the challenges of big social data, 2011, p. 3) È così che anche grazie ai Big Data: […] paintings can be described on thousands of separate dimensions. Similarly, we can describe everybody living in a city on millions of separate dimensions by extracting all kinds of characteristics from their social media activity. [using] wide data – very large and potentially endless number of variables describing a set of cases. (Manovich, The Science of Culture? Social Computing, Digital Humanities and Cultural Analytics, 2015, p. 13) Tuttavia anche se l’avvento dei social media, a partire dai primi anni del nuovo millennio, ha fornito la possibilità di disporre liberamente di una quantità di dati enorme riguardo agli utenti e alle loro abitudini, <<We need to be careful of reading communications over social networks and digital footprints as “authentic.”>> (Manovich, Trending: the promises and the challenges of big social data, 2011, p. 6), poiché alcune volte questi interventi sono il risultato di una costruzione macchinosa volta a dare una precisa rappresentazione sociale di sé. Uno degli scopi principali dell’innovativa formula di studio proposta diviene […] to find new similarities, affinities, and clusters in the universe of cultural artifacts [and to] question our common sense view of things, where certain dimensions are taken for granted. […] making strange our basic cultural concepts and ways or organizing and understanding cultural datasets. (Manovich, How to Follow Global Digital Cultures, or Cultural Analytics for Beginners, 2009, p. 13). Poiché da metà anni Novanta iniziò la digitalizzazione dei contenuti <<born analog>> 120 But it is crucial to remember that what has been digitized in many cases are only the canonical works, i.e. a tiny part of culture deemed to be significant by our cultural institutions. […] Cultural Analytics […] has a potential to map everything that remains outside the canon – to begin generating “art history without great names.” We want to understand not only the exceptional but also the typical; not only the few “cultural sentences spoken by a few “great man” but the patterns in all cultural sentences spoken by everybody else; in short, what is outside a few great museums rather than what is inside and what has been already extensively discussed too many times. (ivi p.11) Manovich e I suoi collaboratori puntano dunque a promuovere una nuova prospettiva democratica in tutti i sensi: che prenda in considerazione una storia dell’arte e della cultura globali e omnicomprensive, senza operare discriminazioni di alcun tipo in quanto ogni artefatto è prezioso per farsi un’idea maggiormente approfondita degli scenari attuali; che producono forme espressive sempre più multiformi ed eclettiche. Niente e nessuno va emarginato se si vuole mappare la variabilità e la diversità culturale e questo approccio risulta ora attuabile grazie alle odierne tecnologie di elaborazione dati. Tali innovative procedure permetteranno invero di osservare come le riduzionistiche etichette che nel tempo si sono assegnate a determinati oggetti culturali tendono spesso a sovrapporsi, formando dei cluster in continua rimodulazione. Ciò conferma come non esistano delle categorie con confini stretti e definiti una volta per tutte, poiché è sempre possibile riscontrare nuovi raggruppamenti e intersecamenti. Allo stesso modo Manovich mira a fornire degli strumenti di analisi utilizzabili anche dai “non addetti ai lavori”, cosicché a tutti sia data la possibilità di arrivare a comprendere le dinamiche culturali in atto nella propria epoca. […] Google and Yahoo do not reveal the measurements of web pages they analyse […] In contrast, the goal of cultural Analytics is to enable what we 121 may call “deep cultural search” – give users the open-source tools so they themselves can analyze any type of cultural content in detail and use the results of this analysis in new ways. (ivi p.22) In conclusione, emerge una chiara volontà di studiare quanto ha contraddistinto le forme culturali del passato e del presente per arrivare a prevedere, nella migliore delle ipotesi, le tendenze culturali che si presenteranno nel futuro. In particolar modo, l’ideale delle Cultural Analytics è arrivare a mappare in tempo reale i flussi culturali che si manifesteranno in simultanea nelle varie regioni del mondo: <<One of the directions we are planning to pursue in the future is the development of visual systems that would allow us to follow global cultural dynamics in real-time.>> (ivi p.20). 3.3 The <<automation of taste>>: Il gusto nell’epoca della sua riproducibilità tecnologica Ho sinora discusso del potere degli algoritmi e della loro capacità di guidare gli utenti nel corso della loro navigazione online, indirizzandoli verso precisi percorsi sulla base di previsioni logico-deduttive derivate dai loro precedenti comportamenti di fruizione. Ho inoltre appurato come simili procedimenti matematici possano arrivare a riconfigurare il concetto stesso di gusto personale, infatti, interponendosi nei processi di scelta dell’individuo e fornendogli delle risposte automatiche correlate alla sensibilità del suo “gruppo dei pari”, spinge il soggetto ad abbracciare spesso il gusto dominante della cerchia di individui lui affini; conformandovisi. Questo continuo adagiarsi dell’utente alle segnalazioni dell’algoritmo, in casi di incertezza o di sovraccarico informativo, lo porta, alla lunga, a perdere le proprie facoltà di pensiero critico: le sue azioni e le sue preferenze gli vengono infatti sempre più spesso indotte dagli input di un’autorità esterna, <<l’autorità algoritmica>> (Shirky, 2009). Come afferma Clay Shirky <<Algorithmic authority is the decision to regard as authoritative an unmanaged process of extracting value from diverse, 122 untrustworthy sources, without any human standing beside the result.>> (ibidem), essa ha dunque il potere di incrociare fra loro i pareri derivanti da una sfaccettata gamma di individui, entrambi esperti e dilettanti, derivandone risultati verosimili e convincenti tali che spingono gli utenti a rimettervi la propria fiducia senza riserve. Shirky prosegue affermando che la nascita di questa nuova forma di coercizione è da rimettere all’atto sociale stesso di un collettivo accordo di fiducia nei confronti di simili meccanismi matematici: <<[…] authority is a social agreement, not a culturally independent fact.>> (ibidem). Ecco che questo agente generativo di pareri e opinioni, col sostegno della società, arriva ad assumere un’autonomia propria; configurandosi come una perfetta guida atta a rispondere ai quesiti peculiari di tipologie di individui differenti. Le facoltà di giudizio umane vengono dunque delegate a questa intelligenza artificiale che, apprendendone gli schemi di pensiero, sembra attenuare il divario esistente fra essere umano e tecnologia informatica. Nel sotto-paragrafo 2.2.1 del precedente capitolo ho già introdotto i temi dell’<<Internet delle Cose>> e della smartification, discutendo di come l’applicazione delle ICTs al contesto della vita quotidiana porti ad automatizzare le pratiche di gestione dei flussi di informazione nonché di comunicazione, facendo interagire gli individui e il loro ambiente esterno attraverso la connessione a Internet; allo stesso modo ho già affrontato il tema relativo all’<<ontobranding>> (Barile, From the Posthuman Consumer to the Ontobranding Dimension: Geolocalization, Augmented Reality and Emotional Ontology as a Radical Redefinition of What Is Real, 2013), che si configura come una nuova dimensione esperienziale all’interno della quale il rapporto fra cose, luoghi e persone viene completamente ridimensionato dalle logiche del branding nonché dal nuovo valore assegnato alle emozioni nel contesto di produzione capitalistico. Il punto di congiunzione fra essere umano e tecnologia è il contesto del consumo, dove la dimensione emotiva svolge un ruolo 123 fondamentale: è proprio attraverso di essa che il rapporto fra individuo e device tecnologico arriva a riconfigurarsi nella maniera più totale. I suddetti concetti, e in particolare l’ultimo di questi, mi saranno ora utili per analizzare un’interessante teoria riguardo a una possibile deriva del marchingegno algoritmico: l’<<automazione del gusto>> (Barile & Sugiyama, The Automation of Taste: A Theoretical Exploration of Mobile ICTs and Social Robots in the Context of Music Consumption, 2015). Consapevole delle possibilità offerte dalle odierne Tecnologie dell’Informazione e della Comunicazione – ICTs – che, tramite device miniaturizzati ubiqui e senzienti, arrivano a colonizzare in modo sempre più diffuso ma delicato e soffuso il nostro ambiente quotidiano; questa prospettiva intravede l’emergere di una sensibilità emozionale e creativa tutta nuova che, informandosi delle facoltà umane estrapolate dall’interazione con gli individui durante le loro pratiche di fruizione, si “automatizza” rispetto all’essere umano che la esperisce. Barile e Sugiyama riprendendo i concetti di <<social robot>> e di <<ontobranding>> presentano così un nuovo modello di interazione fra l’individuo e la tecnologia, rivedendo le tradizionali dinamiche relazionali fino ad ora discusse e approfondite. Innanzitutto è importante puntualizzare come la loro ricerca parta dal presupposto che al giorno d’oggi si sia largamente abbandonata quell’idea di integrazione fra essere umano e tecnologia tipica degli anni Novanta, che vedeva nel modello ibrido del cyborg una possibile simbiosi fra i due livelli; allo stesso modo, anche i primi prototipi di robotica antropomorfizzati o zoomorfizzati creati apposta per potervisi relazionare emozionalmente – come ad esempio Furby e Tamagotchi – hanno lasciato spazio a nuove e diverse prospettive di studio. The notion of social robots often evokes the idea of ‘humanoid social robots’ […] and also zoomorphic social robots [This] might create an impression that the questions about the relationship between humans and 124 technologies are still far removed from our everyday experiences and saved for the research laboratories and the world of science fiction. However, information and communication technologies (ICTs) have been slowly but steadily ‘approaching’ the human body, calling for a reconsideration of the notion of social robots. (Sugiyama & Jane, 2013, p. 1) La tecnologia oltre ad essere sempre più integrata nel nostro quotidiano è anche sempre più vicina alla dimensione del corpo, come ho potuto dimostrare introducendo il tema delle wearable technologies (paragrafo 1.3). Inoltre, <<The penetration of robotized devices in our daily experience is also transforming our feelings and ideas about them.>> (Barile & Sugiyama, The Automation of Taste: A Theoretical Exploration of Mobile ICTs and Social Robots in the Context of Music Consumption, 2015, p. 1) in quanto oggi i device tecnologici sono sempre più considerati sulla base del loro valore emotivo. In uno scenario dove le dimensioni della produzione e del consumo di esperienze sono sempre più spesso mediate da dispositivi elettronici intelligenti e relazionali, si rende possibile preconizzare che questi non solo influenzino le nostre facoltà percettive e cognitive, come già aveva intuito McLuhan, ma che addirittura arrivino a rendere il gusto personale e le emozioni individuali un tratto autonomo e non più pertinente in esclusiva all’essere umano: <<[...] mobile ICTs such as smart phones have the power to shape, and furthermore, to “automate” our emotions and taste.>> (ibidem). Dunque, date queste premesse e dato che come abbiamo detto anche il confine fra ICTs e corpo umano si sta assottigliando sempre di più, in quanto questi device mobili sono sempre più a contatto con noi ogni giorno e in ogni momento, si potrebbe ipotizzare una possibile intersezione fra sensibilità umana e macchine robotiche: “the automation of taste" [...] Is a theoretical framework that can describe the new role of the technological mediation in the social definition of taste 125 [that] facilitated by the smart phone and its applications and algorithms, leads to the human carrying some traces of robots. (ibidem) I dati che noi produciamo attraverso i nostri device tecnologici – fotografie, testi ecc.. – “materializzano” le nostre emozioni, le nostre opinioni e i nostri pensieri, trasformandoli in una forma di capitale monetizzabile e veicolabile attraverso il cyberspazio. Questo è quanto accade ad esempio negli ambienti dei social media dove, come ho già illustrato nei capitoli precedenti, le logiche della narrazione di sé unitamente all’ossessione per la costruzione identitaria spingono il singolo individuo a mettere a nudo le proprie informazioni sensibili e personali; rompendo le barriere esistenti fra pubblico e privato per pubblicizzarsi all’interno di un’arena virtuale dove si trova a concorre con altri individui e con altre cose. Ecco che allora il punto di intersezione fra individuo e tecnologia risultano essere esattamente i social media e tutte quelle altre applicazioni sociali che permettono di instaurare una relazione ad alto valore emozionale. Barile e Sugiyama propongono una lettura delle dinamiche intercorrenti in questa nuova forma di rapporto secondo una logica circolare: <<[…] the technoemotional circuit […] explains the interaction between humans and social robots/ICTs.>> (ivi p.2). Come ho spiegato, oggi viviamo e/o riviviamo le nostre emozioni attraverso le apparecchiature tecnologiche: è come se “per osmosi” noi veicolassimo loro le nostre facoltà umane attraverso gli assidui rituali di personalizzazione e di utilizzo che ne facciamo e queste, in risposta, inculcassero in noi delle logiche di funzionamento sempre più automatiche, insensibili e anaffettive; deprivandoci così del nostro capitale creativo ed emotivo. This circular process shows the limits of human emotions turned into a resource while simultaneously displaying the opportunities of artificial emotions that ubiquitous robots produced, affecting the human emotional sphere. In both cases the notion of automation is at the center of the emotional circuit. In the case of the robots “acquiring” emotions, the 126 process of automation is an implementer of creativity. In the case of social media, on the other hand, automation indicates a reification that is a reduction of human creativity. (ivi p.4) Trattasi dunque di un duplice intercambio che permette alla tecnologia di sussumere i tratti propri della natura umana, previo processo di reificazione dell’emozione, e all’essere umano di reagire alla successiva simulazione emotiva, prodotta dalle stesse ICTs nei suoi confronti. Il concetto tradizionale di automazione attiene a quella progressiva evoluzione delle macchine che permette loro di sostituirsi all’uomo in alcuni suoi compiti, liberandolo così da sgradevoli e pesanti mansioni. Infatti, se un macchinario può funzionare in autonomia significa che non necessita di alcun controllo o intervento da parte dell’uomo. Se dunque in un primo momento tale concetto rimaneva strettamente legato all’ambito produttivo, in correlazione allo sviluppo di nuove tecniche di produzione nelle industrie capitalistiche, nel nuovo scenario che sinora ho cercato di tratteggiare <<[…] automation starts to colonize the world of creativity not just in the sphere of production but also in the reproductive sphere [of] consumption […] This is where the notion of automation intersects the notion of taste.>> (ibidem). Nel rapporto di scambio fra uomo e tecnologie si interpongono sempre più spesso dei procedimenti algoritmici, che in egual modo mediano le esperienze della socialità online. Il loro potere è però estremamente è dannoso, in quanto: [it] puts together, on the same level, contents, ads and people […] the process overwhelms the individual will and increases an automatic economy based on the elaboration and the circulation of our personal data […] this is the clear demonstration that our personal and private taste is reshaped by the dynamic of a “social” turned into data and then turned again into a human possible choice. Furthermore, those algorithms are designed by humans, but such algorithms also design humans in the sense 127 that they define a certain range of choices we can make according to our networks and our “like”. (ibidem) La strutturazione del gusto attiene ancora a un processo sociale che però, una volta trasposto negli ambienti di social networking online, risulta essere profondamente influenzato da quelle logiche della produzione automatica e personalizzata del suggerimento che ho approfonditamente illustrato parlando dei meccanismi di predizione algoritmici. Gli algoritmi oggi ci educano al gusto, in quanto ci abituano a fare determinate scelte guidandoci verso una comunione coi nostri simili; ci portano ad abbracciare un’opzione profittevole al fine di non farci sentire emarginati e di non farci perdere l’approvazione dei nostri pari. Il processo di interscambio fra uomo e tecnologia si esplica dunque, in un primo momento, attraverso l’immissione dei dati personali del soggetto nell’universo del web e, in un successivo momento, attraverso la scelta che egli dovrà operare fra una gamma di opzioni preconfezionate; opportunamente suggeritegli dal procedimento algoritmico sulla base del proprio profilo utente. Già Herbert Blumer e altri avevano riscontrato un meccanismo sociale alla base della strutturazione del gusto e delle tendenze. Egli in particolar modo, come ho mostrato nel paragrafo 1.1.2, aveva coniato il termine <<gusto collettivo>> per descrivere quella particolare <<sensitivity to objects of social experience>> (Blumer, 1969, p. 284) che, evolvendosi in relazione a una molteplicità di fattori intercorrenti, determinava l’avvento di un nuovo ordine sociale; conciliando così l’anarchia iniziale. Allo stesso modo, anche gli algoritmi “normalizzano” le scelte degli individui, riducendole a poche e quantificabili variabili. Mi sembra poi opportuno constatare che: If in the past one needed to be part of a social class and/or of a subculture through a pedagogic process of bildung, today this social mediation is less important and it is almost completely replaceable by applications available on our smart phones. (ivi p.7). 128 Oggi vengono meno l’impegno e lo sforzo, non necessitiamo più di seguire un percorso di educazione al gusto specifico di una data cerchia sociale: ci pensano gli algoritmi a plasmare le nostre soggettività individuali, creando nicchie omogenee di consumatori. Il loro potere infatti <<[…] can easily manage, orient or actualize a human choice collectively, and at the same time, in a customized manner.>> (ivi p.9). Noi ci limitiamo ad aderire in modo automatico a una gamma di scelte preconfezionate, perdendo di conseguenza facoltà di pensiero critico, di creatività e di scelta. È così che anche il gusto diventa una categoria riproducibile matematicamente. 3.4 Nuovi scenari per un’esperienza aumentata del quotidiano Fino a questo momento ho analizzato differenti tematiche, legate alle modalità di diffusione delle tendenze e della trasmissione del messaggio mediatico nonché alle dinamiche relazionali che hanno luogo fra gli individui del corpo sociale. Mi sono inoltre soffermata sulle implicazioni che lo sviluppo delle tecnologie di comunicazione ha avuto per la società, riconfigurandone la struttura organizzativa e generando nuove pratiche di consumo strettamente legate ai device digitali; che sono arrivati a costituire una parte imprescindibile del nostro quotidiano. Nel tempo, le dinamiche delle relazioni interpersonali così come le modalità d’interazione fra uomo e tecnologia si sono evolute verso nuove e più complesse conformazioni e l’ambiente dell’esperienza umana ne è uscito profondamente riconfigurato. Dopo anni di teorizzazioni riguardo al virtuale e alle possibilità che questa estensione avrebbe potuto offrire all’uomo comune, liberandolo dalle costrizioni del mondo reale e permettendogli di assumere parte attiva nelle dinamiche di partecipazione politica, sociale e culturale della sua epoca; oggi assistiamo a un forte ritorno della realtà, che combinandosi con la dimensione virtuale arriva ad assumere una configurazione assai più complessa. Se dunque 129 nel corso degli anni Novanta l’attenzione generale era più orientata verso il modello della virtual reality – VR –, ora questa nuova alleanza fra reale e virtuale, fra mondo dei bit e mondo degli atomi, fra naturale e artificiale, fra emotivo e razionale apre a possibilità mai esplorate prima e potenzialmente rivoluzionarie. Discourses of industrial societies emphasize material aspects, whereas those of post-industrial societies highlight immaterial ones. The direction of innovations today is a new pragmatic dimension based on the dynamic integration between them and more focused on everyday life. (ivi p.3) L’attuale enfasi rivolta alla realtà aumentata – AR – risiede nella sua possibilità di offrire un aiuto concreto nei contesti di vita degli individui: essa infatti non rifugge in una dimensione autoreferenziale o in un universo parallelo; ma, integrando in sé due dimensioni contrapposte, permette invece di approdare a un’estensione del mondo fisico così come finora lo conosciamo. L’augmented reality immette degli elementi multimediali nel contesto ambientale abituale, modificando le normali facoltà sensoriali e precettive umane e arricchendole con utili informazioni aggiuntive. Così facendo si pone come un filtro di mediazione fra il soggetto e il mondo lui circostante, rendendo quest’ultimo interattivo e manipolabile grazie ad appositi sensori in esso dislocati; capaci di interagire con i device digitali utilizzati dall’utente tramite una connessione alla Rete Internet. Ne deriva dunque la possibilità di godere di un’esperienza amplificata del quotidiano grazie a delle particolari estensioni fornite dalle ICTs. Fra queste, le principali sono intrinsecamente legate ai dispositivi mobili, in quanto la mediazione di cui parlo avviene solitamente in tempo reale e questi apparecchi miniaturizzati permettono di spostarsi con l’individuo che li indossa, accompagnandolo nel corso delle sue attività ordinarie. A tal proposito vorrei allora soffermarmi in quest’ultimo paragrafo dell’elaborato ad analizzare le nuove prospettive di ricerca che si stanno 130 sviluppando in questa precisa direzione. Voglio prendere in esame alcuni studi che si prospettano di creare strumenti utili a supportare l’individuo contemporaneo nel corso della sua esperienza quotidiana, accrescendone le potenzialità grazie alla mediazione delle nuove tecnologie informatiche. Mi riferisco in particolar modo a quei progetti che, stabilendo un rapporto fra ambiente fisico, supporto tecnologico e soggetto, puntino a sviluppare innovative modalità d’interazione fra essi; che abbiano un effetto migliorativo sulla vita degli individui e, perché no, sfruttino anche le stesse logiche algoritmiche in modo rivoluzionario, rivoltandone la concezione negativa e implementandoli in applicazioni che possano risultare proficue e benefiche per la vita di tutti i giorni. Nel mio caso, terrò in considerazione alcune ricerche e progetti che hanno a che fare con tematiche quali la moda e lo stile personale e il selfbranding. Case study 1: <<Moody Closet>> Il primo caso che mi accingo ad analizzare fa riferimento a un particolare strumento di raccomandazione concepito appositamente per smartphone; che funziona su sistemi operativi Android 4.0 e versioni successive e a cui si può accedere connettendosi col proprio profilo e-mail, Facebook, Google+, o Twitter. Trattasi di un’ipotesi di applicazione della tipologia del personal style recommender, dunque in stretta attinenza sia con le dinamiche dello stile personale che con quelle del selfbranding. Infatti, com’è risaputo, anche l’abbigliamento può fungere da veicolo di espressione identitaria, proprio per la sua capacità di esternare alcuni tratti del carattere e della sensibilità personale del soggetto che se ne serve. Come già McLuhan affermava (1968) <<Fashion is medium>>: l’abbigliamento, estensione della nostra pelle e protesi della nostra soggettività, è da considerarsi in tutto e per tutto uno strumento di comunicazione; capace perciò di influire anche sul nostro sistema percettivo e cognitivo. 131 È proprio da questi assunti che Bojana Dumeljic sembra partire per ideare la propria applicazione. Moody Closet potrebbe aprire a possibilità inedite rispetto alle sue concorrenti, in quanto, a differenza delle classiche app di pesonal closet esistenti, ha a che fare direttamente con la sfera emotiva dell’utente e, nello specifico, con il ruolo che questa riveste nelle dinamiche di scelta dell’abbigliamento individuale. L’esistenza di una reciproca influenza fra mise adottata ed emotività non è di certo nuova: tutti sappiamo che il modo in cui ci vestiamo ha facoltà di influenzare, nel bene e nel male, il nostro umore; così come, allo stesso modo, il nostro umore può guidare le nostre scelte in fatto di stile e portarci a vestire in modi differenti a seconda della nostra disposizione umorale del momento. L’intendo di fondo di Dumeljic è quello di semplificare un processo che quotidianamente ognuno di noi si trova a dover affrontare: la scelta dell’outfit giornaliero; pratica che, se l’indecisione regna sovrana, può comportare un grande dispendio di tempo e di fatica. Lo stress che ne deriva porta l’individuo a risentirne in negativo sul piano psicologico, ecco che allora Moody Closet mira a supportare queste dinamiche di scelta intervenendo in aiuto dell’utente e consigliandolo su come abbigliarsi; tenendo sempre in grande considerazione il suo umore del momento. Così facendo punta a migliorare l’efficienza e la produttività del soggetto, il quale, una volta liberato dallo stato d’incertezza in cui si trovava, sarà in grado di investire il suo tempo e di incanalare i suoi sforzi in maniera diversa. La sviluppatrice è infatti convinta che se il soggetto riesce a vestirsi senza troppa difficoltà e seguendo le proprie preferenze arriva a sentirsi bene in tutti sensi. Ecco dunque un esempio concreto di come la tecnologia può servire ad agevolare e ottimizzare la nostra vita di tutti i giorni. Nel dettaglio, quest’applicazione user-centered dovrebbe basarsi su un meccanismo di predizione algoritmica, mirato a creare degli ensemble composti da tre o più elementi appositamente selezionati dal guardaroba virtuale creato dall’utente. L’armadio dovrebbe permettere di riordinare il proprio contenuto 132 sotto diverse etichette, così che, volendo, fosse possibile accedere alle sue varie sezioni in modo efficace. Dovrebbe consentire inoltre di classificare i capi secondo l’umore, il colore e la categoria cui appartengono – ad esempio top, bottom, accessori ecc.. – e dovrebbe permettere di suddividere ulteriormente quest’ultimo gruppo in sottocategorie minori, che indichino ad esempio la forma e il materiale di cui sono fatti. Durante la fase di immissione dei capi all’interno dell’armadio, tramite una loro fotografia, l’utente dovrebbe specificare in modo esatto sia la stagione dell’anno che la peculiare disposizione umorale con cui è solito indossare ciascuno di essi. <<Everyone has their own associations with their clothing, therefore the user would also have to specify in which mood(s) they wear each item.>> (Dumeljic, 2014, p. 3). Nonostante Moody Closet sia stato pensato per lavorare con un range limitato di umori, tutte le situazioni basilari in cui il soggetto medio potrebbe trovarsi sono state tenute in considerazione; arrivando a configurare 10 diverse categorie finali che l’applicazione dovrebbe essere in grado di gestire:  happy – felice  confidence – fiducioso in sé stesso  don’t mess with me – intrepido e fiero  in a hurry – di fretta  feeling blue – malinconico  lazy day – pigro  going out – festivo  sweather weather – dismesso, informale e in cerca di comfort  pick me up – speranzoso e motivato  get to work – laborioso ed efficiente Ognuna di queste etichette fa riferimento a un determinato sentimento generale, capace di raccoglie sotto di sé delle sfumature emotive sottilmente differenti. 133 Una volta inseriti gli elementi all’interno del proprio armadio virtuale, l’utente verrebbe sottoposto a un test iniziale dove dovrebbe approvare o rifiutare alcuni semplici match fra due capi; permettendo così di rilevare i suoi abbinamenti favoriti. Questo passaggio risulta di fondamentale importanza, in quanto per riuscire a fornire un suggerimento realmente mirato ed efficace l’algoritmo alla base dell’applicazione deve innanzitutto apprendere le preferenze personali del soggetto. La successiva raccomandazione potrebbe basarsi sia sullo specifico mood selezionato dalla schermata iniziale che sulle caratteristiche specifiche di un capo preselezionato dall’utente stesso. Qualora il soggetto non dovesse mostrarsi totalmente soddisfatto del risultato, potrebbe scegliere di ricevere una nuova e completa proposta di ensemble o di limitarsi a ri-assemblare le singole parti della proposta iniziale che non lo convincono; chiedendo una nuova raccomandazione limitatamente al solo capo che desidera sostituire. Una particolare funzionalità che l’app vorrebbe introdurre concerne poi l’elaborazione di alcune statistiche, in grado di fornire sia il tasso di frequenza con cui sono stati indossati alcuni elementi che quello con cui sono stati ripetuti alcuni abbinamenti. Allo stesso modo, dovrebbe tenere traccia di quelli che sono i colori e gli umori più utilizzati nonché gli ultimi capi aggiunti all’armadio virtuale; presumibilmente da poco acquistati. Quest’ultima operazione dovrebbe fornire all’utente una maggiore consapevolezza dei capi di cui è in possesso, evitandogli di spendere ulteriori soldi in cose che non gli sarebbero utili. Moody Closet dovrebbe permettere infine di salvare una copia di tutti gli outfit indossati e, correlandoli a una determinata data del proprio calendario personale, dovrebbe consentire al soggetto di evitare di riproporre le stesse mise a distanza di un breve intervallo di tempo. Nonostante il progetto complessivo abbia alla base una comprovata fase di ricerca e documentazione, nelle conclusioni finali del suo paper l’autrice rivela di 134 non essere ancora riuscita a mettere in pratica tutte le funzionalità inizialmente previste per l’applicazione; di cui ad oggi risultano effettivamente sviluppate e testate solo quelle riguardanti la creazione di un armadio personale e quelle inerenti la raccolta di dati statistici in relazione alle abitudini dell’utente. Come già ho precisato inizialmente, trattasi di un’ipotesi ancora in corso d’opera; in quanto simili applicazioni richiedono tempo e fatica per essere messe a punto nel migliore dei modi. In questo caso, la sviluppatrice si è vista inoltre imbrigliata entro delle scadenze temporali che non le hanno permesso di approfondire la propria conoscenza delle tecniche di sviluppo di applicazioni per il sistema operativo Android. Inoltre, non potendo contare sull’appoggio di un team che la assistesse nel corso delle varie fasi progettuali si è vista ulteriormente rallentata nel portare a termine la propria missione. Tuttavia nel tirare le somme del proprio lavoro si dice comunque soddisfatta degli obiettivi raggiunti, ripromettendosi di conseguire le competenze necessarie per poter realizzare in modo esaustivo questa sua idea di mobile app. Fra le osservazioni e gli accorgimenti da lei già previsti in merito ai successivi sviluppi del progetto, mi sembrano molto rilevanti quelle relative all’inclusione di raccomandazioni basate sulle condizioni climatiche e sulle occasioni d’uso di un determinato outfit. In effetti, ritengo che dotare l’applicazione di simili prerogative porterebbe a un miglioramento complessivo del servizio che questa si propone di offrire al proprio utente. Le raccomandazioni dovrebbero infatti concernere anche tutte le varie tipologie di occasioni ed eventi cui il soggetto potrebbe trovarsi a prendere parte nel corso della propria quotidianità. Inoltre risulterebbe utilissimo permettere all’applicazione di accedere in tempo reale alle previsioni metereologiche relative allo specifico luogo in cui si trova l’utente, così da potergli fornire suggerimenti mirati e allo stesso tempo consoni con il clima e la temperatura che egli si troverà ad affrontare una volta fuori di casa. Una simile funzionalità permetterebbe inoltre di incrementare quel particolare legame fra luogo fisico, supporto tecnologico ed esperienza 135 dell’utente di cui ho parlato nei paragrafi precedenti; instaurando una stretta sinergia fra tecnologia e ambiente esterno. Case study 2: <<Mirror Mirror>> Il secondo caso di studio che mi accingo a prendere ora in considerazione concerne nuovamente la tematica dello stile personale, questa volta, però, intersecandola con la dimensione della realtà aumentata, apre a inedite e innovative frontiere sia per il design di moda professionale che per la più ordinaria user customization. Mirror Mirror consente all’utente di realizzare il proprio capo personalizzato, utilizzando il proprio corpo come un manichino e ricevendo un feedback in tempo reale dalla propria immagine riflessa; combina infatti un normale sistema di realtà aumentata con uno specchio costituito da uno schermo digitale rivestito da una pellicola semiriflettente. L’applicazione riprende dunque le tecnologie già predisposte all’interno dei camerini virtuali, che consentono al consumatore di valutare il fitting di un determinato capo senza indossarlo ma osservandone una riproduzione virtuale posta in sovrimpressione sulla propria immagine specchiata. In aggiunta, supportando un’interfaccia utente integrata, consente una maggiore possibilità di intervento al soggetto, permettendogli di gestire in modo semplice e intuitivo le diverse fasi di realizzazione del proprio indumento. Il sistema è in grado di interagire in tempo reale con l’utente grazie ad appositi sensori predisposti per tracciarne i gesti e i movimenti. Tali sensori mettono il soggetto nella condizione di poter creare la propria t-shirt in modo interattivo e coinvolgente, lasciandolo libero di muoversi all’interno dello spazio; inoltre, catturandone la posa, sono in grado di generare in modo automatico una griglia tridimensionale sulla parte alta del suo corpo, individuando e circoscrivendo la precisa porzione di spazio entro cui egli andrà ad operare. All’utente sono date due diverse possibilità di intervento: uno diretto, che lo porta a disegnare a mano libera sulla superficie del proprio corpo, e uno 136 indiretto, che lo porta invece a eseguire dei movimenti aerei coi propri arti seguendo nel proprio riflesso allo specchio l’evolversi del disegno di moda. Impugnando degli appositi pennini digitali egli può creare il proprio capo personale servendosi dei vari strumenti di personalizzazione predisposti dall’interfaccia utente, i cui bottoni virtuali sono stati collocati ai bordi esterni del display per consentire di accedervi in modo rapido ed efficace senza che questi ostruiscano il riflesso e la proiezione dell’immagine del soggetto. Il sensore del telecomando-pennino e quello dello specchio interagiscono fra loro servendosi di una tecnologia a raggi infrarossi. Fra i vari tool messi a disposizione dall’applicazione compaiono pennelli di dimensioni e colori differenti e numerosi pattern preimpostati, questi ultimi, una volta selezionati, vengono automaticamente adattati alla forma del corpo e alla taglia dell’utente. È poi possibile ingrandire, tagliare, ruotare e riposizionare i disegni grafici come si desidera, al fine di accordarli al proprio gusto personale – per rimuoverli è sufficiente invece trascinarli all’esterno dell’area inizialmente delimitata. Tutte le stampe e le scritte posizionate sulla superficie della t-shirt virtuale subiscono una traslazione speculare, dando modo al soggetto di poter verificare attraverso la superficie riflettente l’effettiva resa che queste avranno una volta stampate sul tessuto. Se lo specchio mostra però un punto di vista esterno e di terza persona, attraverso un proiettore la realtà aumentata permette di riportare i pattern grafici realizzati dall’utente anche sul proprio corpo, consentendogli di adottare una prospettiva di prima persona nei confronti della propria creazione. Un ulteriore proiettore permette al soggetto di impostare una precisa immagine di sfondo per caratterizzare l’ambiente esperienziale che lo circonda. Una simile funzionalità è atta a simulare l’ambientazione reale entro cui il soggetto si troverà a indossare l’indumento, permettendogli così di valutarlo in relazione al contesto d’utilizzo specifico per cui questo è stato pensato. 137 In futuro Mirror Mirror si prospetta di arrivare a supportare anche una modalità d’interazione multi utente, consentendo che più persone disegnino insieme i propri capi interagendo l’un l’altro per fornirsi dei riscontri e dei suggerimenti. Come spiegano gli autori del paper, una simile funzionalità potrebbe rivelarsi utile qualora si volessero realizzare delle divise sportive che prevedono la stessa tipologia di abbigliamento per tutti i membri di una squadra, o ancora per realizzare delle magliette personalizzate in modo affine destinate a due partner o a due amici che desiderano possedere uno stesso capo. Non c’è da preoccuparsi riguardo al fitting, in quanto <<[…] the same design is projected on all users, but scaled to their body size>> (Saakes, Yeo, Noh, Han, & Woo, 2016, p. 3). Mirror Mirror vorrebbe rendere possibile l’eventualità che i vari utenti disegnino tutti insieme sulla stessa maglietta o che ciascuno di essi disegni sulla propria t-shirt in contemporanea agli altri, per ora, tuttavia, l’impianto è in grado di interagire con un solo utente alla volta. A seguito di alcune prove concrete questo sistema si è dimostrato adatto a poter essere implementato da uno stilista che si trovi a dover realizzare uno specifico capo per un cliente, in questo caso un tablet sincronizzato in tempo reale con lo specchio rimpiazzerebbe l’interfaccia utente integrata nello schermo mentre al committente sarebbe dato ugualmente modo di verificare il processo creativo del designer attraverso la superficie riflettente. Dai test effettuati facendo utilizzare Mirror Mirror a delle coppie di studenti di design sono emersi utili suggerimenti per modificare il sistema al fine di renderlo più intuitivo ed efficiente. In generale si è constatato come la modalità di input manuale fosse poco precisa e non consentisse di generare decorazioni minute e accurate, per questa ragione si è pensato di mettere a disposizione dell’utente uno strumento di testo che potesse facilitare per lo meno l’inserimento di scritte e numeri sulla superficie delle t-shirt virtuali; garantendone così anche una più chiara leggibilità. 138 Dato che gran parte degli utenti aveva riscontrato delle difficoltà nel disegnare a mano libera, si sono svolti nuovi test per mettere a confronto le prestazioni e i risultati garantiti dalla gestualità manuale con quelli resi possibili dal supporto dell’interfaccia multi-tocco del tablet. A questo fine sono stati presi a campione 12 individui dell’età media di 23 anni, di cui 7 erano ragazze. Fra questi sono stati scelti 6 designer industriali di professione, che si ipotizzava dunque avessero una maggiore familiarità con le tecniche di questo campo, e 6 individui inesperti. A tutti è stato richiesto inizialmente di riprodurre a mano libera una tshirt con un design preciso, facendo riferimento a un modello di media complessità messogli a disposizione; successivamente gli è stato richiesto di creare invece loro stessi un modello originale sempre tramite un input manuale. È stato poi previsto che ripetessero questi due esperimenti anche attraverso l’interfaccia del tablet. Al termine della sessione si è constatato che gli utenti erano in generale molto più abituati ad avere a che fare con l’interfaccia del tablet che con i gesti manuali, inoltre <<[…] working on real scale requires more time due to the large gestures.>> (ivi p.4) dunque quello manuale si è rivelato essere un procedimento molto più lento oltre che più difficilmente controllabile. Tuttavia, due terzi dei partecipanti hanno percepito i movimenti manuali come più intuitivi e si è infatti potuto riscontrare come questi stimolavano gli individui a intraprendere un processo di libera creazione e sperimentazione, portandoli a esplorare tutte le diverse possibilità che offriva loro lo strumento. L’utilizzo del tablet, al contrario, spingeva i soggetti a rimanere focalizzati quasi esclusivamente su un obiettivo definito, tanto che questi si dimenticavano di controllare la propria immagine riflessa nello specchio per verificare come stava procedendo la loro opera. Nonostante tutto, gli intervistati inesperti hanno dichiarato di preferire le modalità di creazione tramite tablet, poiché questo consente di controllare in modo più semplice e mirato le proprie azioni, al contrario i designer 139 professionisti hanno mostrato una maggior predilezione per il procedimento manuale, poiché questo permette di avere un feedback molto più diretto e immediato nel processo di creazione del proprio capo. Mirror Mirror ha riscosso in generale molto interesse fra gli intervistati: i suoi punti di forza sono risultati essere innanzitutto il fatto che essa offre un’esperienza di design simulato, arricchita dalla possibilità di situare il processo di creazione all’interno di un ambiente preciso; inoltre, il fatto che essa permette di incappare in episodi di serendipità permettendo ai soggetti di adottare a una metodologia di disegno manuale e spontaneo che gli consente di sviluppare la propria creatività in tutta libertà. Certo, c’è ancora molto lavoro da fare per perfezionare la piattaforma e dotarla di nuove funzionalità, in quanto <<The current prototype has several limitations and does not implement a full body mannequin needed to support dresses and trousers.>> (ibidem). Come notano gli autori, potrebbe risultare utile arrivare a simulare anche lo specifico taglio e la specifica forma dell’indumento da realizzare, nonché la specifica texture del materiale prescelto per realizzarlo. Sarebbe inoltre utilissimo consentire di sovrapporre fra loro strati di abbigliamento differenti, così da permettere di realizzare un outfit completo nel corso di un’unica sessione creativa. Questi accorgimenti risultano essere di fondamentale importanza, soprattutto nel caso in cui un designer professionista volesse implementare il sistema per il proprio lavoro. Nonostante tutto Mirror Mirror si pone sulla buona strada per approdare a una nuova e coinvolgente modalità di progettare i propri abiti. Sfruttando la sinergia esistente fra reale e virtuale e mettendo la tecnologia al servizio dell’utente lo porta a svolgere un ruolo attivo nel processo di personalizzazione del proprio capo, liberandone le facoltà creative e facendolo coincidere ancora una volta con la figura del prosumer. A mio parere una simile piattaforma potrebbe essere implementata all’interno dei negozi di abbigliamento riscuotendo un grandissimo successo, specialmente 140 oggi che l’ossessione per la customizzazione dei propri abiti arriva a coinvolgere l’intera società. Ogni individuo, infatti, sente la forte necessità di adottare uno stile d’abbigliamento personale fortemente caratterizzato e riconoscibile, tale che gli contenta di autopromuoversi spiccando in qualche modo fra la massa. 141 142 Conclusioni Nel contesto di una perpetua dialettica fra tendenza all'omologazione e al conformismo sociale e tendenza alla distinzione e all'autenticità individuale, ho voluto analizzare più in profondità le varie implicazioni connesse ai meccanismi di influenza messi in atto dalla moda e dai media; cercando di abbozzare i futuri sviluppi di entrambi i sistemi istituzionali a partire da un'analisi del loro passato e del loro presente. In particolar modo, mi sono soffermata su quella radicale rivoluzione socioculturale che, appoggiandosi al nuovo modello di organizzazione sociale in rete che si è strutturato a partire dagli anni Novanta del Novecento per dare vita a quello che ho definito come il "nuovo ecosistema mediatico", ha comportato per migliaia di individui una più ampia possibilità di partecipazione alla cultura e alla vita sociale del proprio tempo; permettendogli di esercitare la propria influenza più ad ampio raggio e di veicolare la propria identità oltre i ristretti confini territoriali. Queste trasformazioni hanno permesso di riconfigurare l'intera esperienza di vita degli individui contemporanei, di pari passo con la tendenza a un’integrazione sempre maggiore fra mondo reale e mondo virtuale; che lascia intravedere scenari inediti e di grande portata innovativa. Si apre oggi una nuova era, dove gli equilibri sociali si giocano a cavallo fra territori del web e territori reali e dove nuovi e potenti istituti di controllo e di sorveglianza sembrano limitare quel sogno di democrazia libertaria che era sorto nei primi anni di diffusione della rete Internet. Tuttavia, lungi dal pensare che gli esseri umani verranno surclassati in tutto e per tutto dalla tecnologia, è importante notare come questa tenda a intervenire sempre più spesso nei contesti di vita quotidiani degli individui; assumendo un carattere sempre più soft, emozionale e “intelligente” e ridefinendo così i tradizionali rapporti intercorrenti fra essere umano e device di comunicazione. 143 In una contemporaneità dove il divario fra universo umano e universo tecnologico si fa sempre più sottile e dove rischiamo di perdere le nostre capacità di pensiero critico, di interpretazione e di elaborazione dati a causa dell'overload informativo che ci sommerge, appare sicuramente necessario considerare le possibili ripercussioni negative che potrebbero scaturire dal nostro fare affidamento in modo automatico alle tecnologie digitali. Tuttavia, prendendo le dovute precauzioni, è possibile godere delle positive possibilità che queste stesse tecnologie oggi ci offrono intervenendo in modo concreto nella nostra vita di tutti i giorni: supportando le nostre attività comunicative e non, permettendo una maggiore integrazione fra individuo e contesto ambientale e arricchendo la nostra normale esperienza del reale con contenuti multimediali ed emozionali ulteriori; in sintesi, personalizzando e ottimizzando la nostra quotidianità in modo da darcene la migliore versione possibile. 144 Bibliografia Airoldi, M. (2015, dicembre). Potrebbe interessarti anche: recommender algorithms e immaginario, il caso YouTube. Imagojournal(6), 132-150. Barile, N. (2006). Manuale di comunicazione, sociologia e cultura della moda (Vol. 2. Moda e Stili). Roma: Meltemi Editore. Barile, N. (2009). Brand New World. Il consumo dell marche come forma di rappresentazione del mondo. Milano: Lupetti. Barile, N. (2013). 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Bantam Books, USA. 146 Ringraziamenti Voglio ringraziare il mio relatore, Nello Barile, per aver supportato il mio interesse nei confronti di queste tematiche, aiutandomi a elaborare passo passo un percorso che risultasse coerente ma al contempo ampio abbastanza da poter contemplare i miei vari temi d'interesse. Lo ringrazio di aver assecondato nel modo più assoluto il mio gusto personale aiutandomi a realizzare in modo molto soddisfacente questa mia prima esperienza di scrittura accademica. Inoltre ringrazio l'Università IULM per avermi permesso di conseguire le conoscenze necessarie a sviluppare questo mio approfondimento e per avermi permesso di arrivare a studiare più da vicino alcuni ambiti che da sempre mi affascinano e mi interessano; posso infatti dirmi soddisfatta di questo percorso triennale che mi ha portato a conseguire anche varie soddisfazioni personali. In ultimo, ma assolutamente non meno importante, vorrei ringraziare le compagne di viaggio che ho incontrato durante questa avventura di tre anni, Alice, Giovanna, Maddalena, Sabrina e Sofia, che mi hanno sostenuta nei momenti di maggior tensione e fatica e che hanno condiviso con me anche momenti di serenità e di svago. Il loro contributo si è rivelato fondamentale per poter portare a termine i vari lavori di gruppo che ci siamo trovate a realizzare insieme, creando un team di collaborazione che è riuscito a lavorare sempre in modo piacevole, stimolante e creativo e allo stesso tempo accurato e rispondente agli scopi e agli standard fissati dai docenti. 147