Dedica
Voglio dedicare questo mio lavoro accademico innanzitutto alla mia
famiglia, che ha sempre supportato le mie scelte concedendomi di
inseguire le mie passioni e i miei sogni e che, in particolar modo, mi ha
permesso di poter intraprendere il percorso di studi che mi ha portata fino
a qui. Senza il loro appoggio mi sarebbe stato impossibile tagliare questo
traguardo.
In secondo luogo, voglio dedicare questa tesi alle mie migliori amiche e a
tutti quegli amici che nel corso degli anni mi sono stati vicini, felicitandosi
per le mie vittorie e sostenendomi nei momenti difficili; senza di loro non
sarei la persona che sono ora.
In ultimo, voglio dedicare questa tesi a me stessa, perché possa servirmi a
testimonianza delle mie capacità rendendomi consapevole di quanto con
l’impegno e con la dedizione posso arrivare a conquistare.
Indice
Introduzione ........................................................................................................... 1
1. MODA E MEDIA: DUE SISTEMI A CONFRONTO .................................................. 3
1.1 Sistema Moda ................................................................................................ 4
1.1.1 Dal <<trickle-down>> alla <<selezione collettiva>> ................................ 8
Georg Simmel e il <<gocciolamento>> ......................................................... 8
Herbert Blumer e la <<selezione collettiva>> ............................................. 13
1.1.2 Dalla <<selezione collettiva>> allo stile individuale: street style ed
estetica del digitale ........................................................................................ 21
1.2 Sistema dei Media ....................................................................................... 30
1.2.1 Dalla <<bullet theory>> al <<two-step flow of communication>> ....... 31
La teoria ipodermica o <<bullet theory>> .................................................. 32
La teoria del <<two-step flow of communication>> ................................... 34
1.3 Indossare la tecnologia: l’abito come medium ........................................... 41
1.4 Un nuovo statuto per le emozioni ............................................................... 51
2. IL NUOVO ECOSISTEMA MEDIATICO ................................................................ 59
2.1 La tripla rivoluzione ..................................................................................... 60
2.1.1 Individui connected e network sociali ................................................... 61
2.1.2 Rivoluzione Internet .............................................................................. 67
2.1.3 Rivoluzione mobile ................................................................................ 72
2.2 L’ambiente 2.0 ............................................................................................. 77
2.2.1 Una nuova alleanza fra bit e atomi ....................................................... 83
2.2.2 Network sociali e social apps ................................................................ 87
2.2.3 Processi d’influenza e scelta individuale ............................................... 93
3. ALGORITMI: NUOVI INTERMEDIARI CULTURALI? ........................................... 103
3.1 Un’architettura di controllo opaca e diffusa ............................................. 104
3.2 Cultural Analytics: una prospettiva di ricerca up-to-date ......................... 112
3.3 The <<automation of taste>>: Il gusto nell’epoca della sua riproducibilità
tecnologica ...................................................................................................... 122
3.4 Nuovi scenari per un’esperienza aumentata del quotidiano .................... 129
Case study 1: <<Moody Closet>> ................................................................. 131
Case study 2: <<Mirror Mirror>> ................................................................. 136
Conclusioni.......................................................................................................... 143
Bibliografia .......................................................................................................... 145
Ringraziamenti .................................................................................................... 147
Introduzione
Per elaborare la mia ricerca sono partita dal considerare quegli argomenti che
più mi avevano colpito nel corso dei miei studi universitari e che ero desiderosa
di approfondire. In particolar modo, sono rimasta affascinata da una disciplina
di cui inizialmente non conoscevo nulla, ma che sin dal primo momento mi ha
interessato molto: è così che, partecipando alle lezioni che si tenevano in aula e
consultando differenti altre fonti e materiali, sono arrivata a circoscrivere
all'interno del vasto ambito della Sociologia dei processi culturali alcune
specifiche tematiche da cui poter prendere spunto per sviluppare la mia tesi.
Si è trattato di un processo di stesura che ha conosciuto molte revisioni e
aggiustamenti, spesso dovuti al mio incontro con materiali che di volta in volta
suscitavano la mia attenzione portandomi a rielaborare e arricchire l’idea
iniziale alla luce di nuove consapevolezze. Ho dunque costruito il mio
approfondimento mettendo insieme differenti tasselli, cercando di riunire i miei
diversi interessi in un percorso che risultasse al tempo stesso innovativo e
coinvolgente.
Prendendo inizialmente in considerazione i processi di diffusione della moda, mi
sono resa conto che volevo sapere di più a riguardo: desideravo infatti
analizzare in modo più approfondito le particolari dinamiche che portano
all’ascesa di una tendenza, provvedendo che essa s’imponga come normativa
generale all'interno di una determinata società. Mi incuriosiva soprattutto
ragionare sui meccanismi di scelta implicati nel processo di adozione di un
determinato trend, in riferimento al campo dell’abbigliamento ma anche ai più
diversi ambiti della vita sociale; proprio per questo ho voluto estendere il mio
sguardo anche al mondo mediatico, considerandone gli specifici meccanismi di
diffusione del messaggio.
Operando un parallelismo fra le modalità di trasmissione dell'informazione che
sia il sistema moda che il sistema dei media utilizzano per arrivare a far breccia
1
fra i vari strati della popolazione, ho voluto esaminare i punti di contatto
esistenti fra questi due mondi: primo fra tutti il potere di influenza che entrambi
esercitano nei confronti del loro pubblico.
Sono così arrivata a chiedermi quale fosse la reale autonomia dell'individuo nei
confronti dei diktat che questi due sistemi sembrano imporgli, nello specifico ho
riflettuto sulle conseguenze che i meccanismi della moda e dei media
comportano nel processo di affermazione dell’identità personale del singolo
soggetto; indagando fino a che punto questi la plasmino e la modifichino a loro
piacimento e interesse e, viceversa, in che modo permettano invece
all’individuo di sfruttare gli strumenti che essi mettono a disposizione per
esprimere e veicolare la propria ineguagliabile unicità.
2
1. MODA E MEDIA: DUE SISTEMI A CONFRONTO
Questo primo capitolo vuole introdurre i due grandi ambiti culturali di
riferimento che saranno presi in esame nel corso della mia argomentazione. Il
mio intento, in questa prima sezione dell’elaborato, è quello di andare ad
analizzare la struttura soggiacente ai due grandi sistemi della moda e dei mezzi
di comunicazione tradizionali; con lo scopo di pervenire a un confronto fra i due
campi che ne metta in risalto simili logiche implicite di funzionamento.
Questi due sistemi infatti, sin dagli albori del loro consolidamento come
strutture di creazione del significato e del consenso all’interno delle società
moderne, presentano un’organizzazione formale simile rispetto ai meccanismi
di trasmissione e di diffusione del messaggio che implementano.
Cercherò di soffermarmi dunque sulle analogie intercorrenti fra il sistema della
moda e il sistema dei media, mettendo in luce anche le necessarie differenze
che presentano, nel tentativo di dimostrare come questi viaggino su due binari
paralleli che talvolta – e oggi sempre più spesso – tendono a incrociarsi;
generando scenari innovativi e ad alto tasso di complessità. Le logiche dei due
sistemi subiscono un influsso reciproco e arrivano così a originare nuove realtà
all’interno delle quali i confini dell’uno e dell’altro ne risultano smorzati, in
favore di una maggiore compenetrazione fra i due campi.
A supporto della mia argomentazione mi servirò di alcuni modelli teorici resi
noti da vari studiosi del campo della sociologia, che portarono avanti i loro studi
nell’ambito della propagazione dell’informazione erogata per mezzo dei due
veicoli comunicativi della moda e dei media.
Partendo dalla lettura di queste ricerche, i cui risultati sono stati appurati e la
cui attendibilità e validità sono state confermate a più riprese nel corso del
tempo, miro a ripercorrere l’evoluzione delle strategie comunicative che questi
settori hanno visto plasmarsi e succedersi; in una parabola che vuole giungere a
considerare attentamente gli sviluppi più recenti passando in rassegna le
diverse tesi che si sono susseguite negli anni fino ad arrivare a noi.
3
Innanzitutto risulta di primaria importanza analizzare le peculiari condizioni
sociali, culturali, economiche, politiche e tecnologiche che si presentavano in
quei contesti spazio-temporali che consentirono ai due sistemi di fare la loro
comparsa all’interno delle organizzazioni sociali esistenti e, propriamente, di
sfruttare le caratteristiche intrinseche di queste stesse strutture organizzative
come una solida base su cui poter fondare il proprio potere.
Nei paragrafi che seguono mi soffermerò ad esaminare ciascun sistema
dapprima in modo separato, così da poter spaziare maggiormente nella
presentazione delle sue proprie specificità caratteristiche, in seguito approderò
ad un confronto congiunto che tragga le conclusioni della mia esposizione e
metta in collegamento i due livelli, evidenziando le reali interazioni che
sussistono fra loro.
1.1 Sistema Moda
Sul vocabolario della lingua italiana Treccani, alla voce moda, fanno la loro
comparsa, fra altre, queste definizioni:
b. Fenomeno sociale che consiste nell’affermarsi, in un determinato
momento storico e in una data area geografica e culturale, di modelli
estetici e comportamentali (nel gusto, nello stile, nelle forme espressive), e
nel loro diffondersi via via che ad essi si conformano gruppi, più o meno
vasti, per i quali tali modelli costituiscono, al tempo stesso, elemento di
coesione interna e di riconoscibilità rispetto ad altri gruppi; […] Come
espressione del gusto predominante (tipico di una determinata società) la
moda interessa ambiti intellettuali, ideologici, movimenti artistici e
letterari, o, più genericamente, abitudini, comportamenti, preferenze […] c.
Con uso assol., o senza partic. specificazioni, il termine fa in genere
riferimento all’ambito dell’abbigliamento (ma anche delle acconciature,
degli ornamenti personali, del trucco, ecc.), nel quale il fenomeno è
caratterizzato, soprattutto in tempi recenti, dal rapido succedersi di fogge,
4
forme, materiali, in omaggio a modelli estetici che in genere si affermano
come elementi di novità e originalità (2016)1
Da qui possiamo ricavare innanzitutto che il termine moda è atto a designare un
fenomeno riconducibile a un circoscritto contesto spazio-temporale, all’interno
del quale, ovviamente, sono vigenti determinati ideali, valori, credenze e
condizioni politiche e sociali che non possono lasciarlo indifferente: essendo la
moda espressione di uno stato di cose presente essa non può prescindere dalle
specifiche condizioni dell’ambiente in cui si origina, che contribuiscono a
fondarne l’essenza. Può essere considerata infatti come il risultato di queste
precise coordinate, come la loro trascrizione in una forma che si presenta al
tempo stesso come materiale e simbolica. Le peculiarità del fenomeno si
riscontrano soprattutto in tre suoi aspetti fondamentali: nel suo elevato grado
di affermazione a livello sociale, nella sua breve durata e nella frequenza
periodica che esso adotta nel propugnare il cambiamento di rotta,
mantenendosi sempre aperto a novità e possibilità ulteriori. Effettivamente
possiede una misteriosa abilità di conquista, dimostrata dalla sua inspiegabile
capacità di attrarre a sé le vaste schiere di seguaci da cui raccoglie larga
approvazione. Orientata a segnare una netta rottura sia con la tradizione che
l’ha preceduta che con lo status quo suo contemporaneo, la moda mira a porsi
come modello guida all’interno della società entro cui si manifesta, definendosi
come il canone da seguire e stabilendo una precisa normativa che influenza, in
modo più o meno pregnante, le pratiche, le opinioni, le abitudini, il gusto e le
preferenze degli individui che ne fanno parte. Il codice estetico o
comportamentale da essa prescritto è destinato però, per sua intima natura, a
essere adottato per un periodo di tempo limitato, durante il quale quella
particolare declinazione del fenomeno rimane in auge. Una volta divenuta
obsoleta, poiché giunta al suo punto di massima saturazione, questa normativa
1
Vocabolario on line Treccani.
http://www.treccani.it/vocabolario/moda/
Treccani.it.
5
Consultato
il
30
agosto
2016,
da
si rigenera nuovamente in antitesi con i suoi presupposti precedenti,
smentendoli e oltrepassandoli in modo dialettico. La caducità che
contraddistingue il fenomeno non va però annoverata fra i suoi punti di
debolezza: anzi, la sua forza intrinseca risiede proprio nel suo imperativo al
mutamento continuo, nel suo ininterrotto trasformismo, nel suo costante
slancio verso l’innovazione, nel suo incessante protendersi verso un’ulteriorità
di cui ancora non si intravedono i confini precisi, in una sorta di perenne
insoddisfazione per lo stato attuale delle cose. La moda è destinata a
soggiornare in modo permanente in una zona di confine: fra il qui ed ora e un
agognato futuro prossimo a sopraggiungere; ed è questo che la tiene in vita.
Essa è infatti eterno divenire, anelo a una diversa possibilità d’esprimere lo
spirito del tempo, desiderio di superamento del presente e volontà di
trascendere le condizioni raggiunte, vagheggiamento di quello che verrà. È
dunque territorio dell’immaginazione e della creatività, ed è per questa ragione
che essa riesce a sedurre le masse, attirando alla sua causa un vasto assenso:
per le infinite possibilità di metamorfosi che consente a coloro che se ne
servono. Non perde fascino e vigore e non stufa mai poiché è sempre pronta a
rimettersi in discussione, ripresentandosi di volta in volta sotto una forma
divergente.
Indubbiamente la moda consente poi all’individuo di mettere in atto delle
strategie sia imitative che distintive nei confronti degli altri individui con cui egli
interagisce: le prime sono votate all’emulazione della massa e sfociano dunque
in casi di omologazione e di livellamento sociale, le seconde sono preposte
invece alla differenziazione e all’elevazione di un singolo soggetto, o di un
particolare gruppo di soggetti, al di sopra della dominante culturale. Ma questo
specifico argomento sarà oggetto di più attenta discussione nel corso del
paragrafo 1.1.2, all’interno del quale verranno affrontate più nel dettaglio le
modalità di propagazione e diffusione del fenomeno.
6
È importante tenere a mente che il meccanismo di funzionamento
implementato dalla moda non riguarda esclusivamente le temporanee usanze
vestimentarie e ornamentali di un dato contesto culturale ma, anzi, abbraccia
uno spettro più ampio di manifestazioni sociali, che possono avere a che fare
con preferenze, gusti e abitudini svariate; tuttavia nello specifico del mio
elaborato, o perlomeno in questa prima sezione, tenderò a prendere in
considerazione la moda soprattutto nella sua accezione di metamorfosi
progressiva delle fogge d’abito nel corso del tempo.
La moda come noi la conosciamo attualmente ha alle sue spalle una lunga storia
evolutiva, ma la sua messa a punto sotto forma di sistema, nonché la sua
istituzionalizzazione, vennero decretate solamente dalla nascita della cosiddetta
Haute Couture; tradotto dal francese con il termine <<Alta Moda>>.
Certo, non si può attestare che prima di questo momento non si sia mai
verificato, nelle diverse regioni del mondo, alcun episodio di innovazione in
campo vestiario; e sarebbe sconsiderato ammettere il contrario. Del periodo
precedente il suo avvento ci giungono sicuramente alcune testimonianze di
fenomeni simili alla moda che, tuttavia, non si imposero con la sua stessa enfasi
ricorsiva nello scandire l’introduzione della novità all’interno di contesti socioculturali situati; caratteristica che essa assume solo a partire dalla seconda metà
del XIX secolo e che identifica in maniera inequivocabile l’inizio di nuova era.
In questo preciso periodo, infatti, il ritmo incessante del cambiamento viene
sottoposto a una pianificazione regolare e calibrata, che lo porta a ripresentarsi
ogni volta al termine di un preciso intervallo di tempo; scandendo così i ritmi
della produzione e dell’introduzione dell’innovazione in campo sociale. La moda
assume dunque una ciclicità stagionale ed è ora lo stilista stesso a controllarne il
funzionamento, in quanto egli solamente si assume il diritto e la facoltà di
introdurre la novità all’interno del sistema; influendo così sui suoi stessi principi
organizzativi.
7
1.1.1 Dal <<trickle-down>> alla <<selezione collettiva>>
Avendo presentato a grandi linee in che cosa consiste questa nuova forma di
pensiero estetico collettivo, mi accingo ora a riflettere sui singolari processi a cui
esso ricorre per svilupparsi all’interno del corpo sociale. Mirando a ripercorrere
brevemente le tappe principali dell’evoluzione che la teoria critica ha conosciuto
nel descrivere il funzionamento della moda, prenderò in considerazione le
disamine portate avanti da studiosi di primaria importanza nel campo della
sociologia che affronta nello specifico questa tematica. Trattasi di una disciplina
in continuo aggiornamento anche e soprattutto rispetto alle nuove
configurazioni che il fenomeno assume nella nostra società contemporanea,
modificandosi di pari passo e in simbiosi con essa; riconfigurandosi nei confronti
dei nuovi ritmi, delle nuove pratiche, dei nuovi ideali, valori, modelli
organizzativi che sono sorti e continueranno a sorgere col trascorrere del
tempo.
Georg Simmel e il <<gocciolamento>>
A Georg Simmel spetta il merito di aver adottato, per la prima volta nella storia,
un punto di vista inusuale nell’analisi della vicenda moda: diversamente da
quanto avevano fatto altri prima di lui, egli si servì di un approccio prettamente
sociologico nei confronti del tema in questione. Infatti, se fino a quel momento
l’attenzione degli studiosi si era rivolta per lo più a soppesarne i soli contenuti,
Simmel fu il primo ad indagarne anche la forma; focalizzandosi più nel dettaglio
sullo studio dei meccanismi intrinsechi alla base del fenomeno. Il sociologo
tedesco, nel popolare saggio intitolato Die Mode (1895), ci mostra pertanto una
modalità rivoluzionaria di leggere e interpretare la moda, considerandola un
puro processo sociale. È importante tenere a mente che la sua ricerca prende le
mosse dalla diretta osservazione della realtà della sua epoca, dunque prende a
riferimento lo specifico assetto sociale esistente a fine Ottocento:
un’organizzazione piramidale al cui vertice si situavano le ristrette classi
dirigenti, detentrici del massimo potere, e alla cui base si collocava lo strato più
8
vasto e impotente della popolazione. Questo fatto, tuttavia, se in un certo senso
limita l’applicazione di alcune rilevazioni del sociologo, che rimangono vincolate
a una realtà spazio-temporale molto circoscritta, non toglie certo importanza
alla riuscita individuazione di alcune costanti che, ancora oggi, risultano utili e
illuminanti da mettere in conto al fine di comprendere il fenomeno in esame.
Le considerazioni di Simmel, come abbiamo affermato pocanzi, partono dal
presupposto che la moda sia un processo sociale il quale, al pari di ogni altro,
rende manifesto il dualismo naturale insito in ogni aspetto della vita umana. È
allora una lotta degli opposti quella che si sprigiona nella formula della moda,
un contrasto perpetuo che chiama a sé ogni individuo per partecipare insieme
della propria comune essenza.
Lo studioso individua in particolare due forze opposte che, con forte
prepotenza, esternano il loro antagonismo nello specifico di questo ambito,
sopraffacendosi continuamente. Queste sono identificate nei meccanismi
dell’imitazione
e
della
differenziazione:
due
pulsioni
assolutamente
indispensabili a fondare la moda, la quale non può prescindere dalla loro
reciproca e simultanea co-esistenza. Precisamente egli afferma che se uno dei
due istinti viene meno la moda non può sussistere in quanto manca della
propria potenza intrinseca, identificata niente di meno che nella perenne
tensione fra impulsi contrapposti. Questo disaccordo di base non è di certo
percepito come negativo dai seguaci della moda ma anzi, al contrario, è quanto
costituisce la sua vera e intima forza; in quanto consente agli individui che se ne
servono di placare i loro connaturati appetiti di sopravvivenza. E questi appetiti
altro non sono che la necessità di raggiungere uno stato di coesione con il resto
della società, da una parte, e, allo stesso tempo, il desiderio e il bisogno di
ritagliarsi uno spazio proprio, personale e caratteristico nei confronti della
massa indistinta, dall’altra. Come afferma Simmel:
La moda è imitazione di un modello dato e appaga il bisogno di
appoggio sociale […] Nondimeno appaga il bisogno di diversità, la
9
tendenza alla differenziazione, al cambiamento, al distinguersi. […] la
ragione fondamentale della sua efficacia è che le mode sono sempre
mode di classe (Simmel, 1996, p. 15).
Se allora la spinta all’imitazione porta il soggetto a fondersi con la moltitudine
dei suoi simili, la contraria pressione alla differenziazione lo spinge invece ad
enfatizzare o al contrario attenuare – quando non addirittura negare – gli
aspetti della norma generale al fine di marcare una netta separazione fra se
stesso e il resto della collettività.
L’imitazione è per Simmel la maniera attraverso cui il singolo può divincolarsi
dal peso della scelta operata: egli, sottoscrivendo ciò che va per la maggiore, si
libera da ogni qual si voglia senso di responsabilità e vergogna nei confronti del
suo agire; poiché in questo caso può godere del sostegno di chi, come lui, ha
deciso di seguire il pensiero maggioritario. La deresponsabilizzazione deriva
dunque dall’adesione acritica dimostrata attraverso l’adeguamento al gregge. Il
senso di vergogna viene anch’esso estirpato proprio per il fatto che l’agire del
singolo viene a coincidere con l’agire collettivo: tutti fanno, dicono, pensano alla
stessa maniera, quindi nessuno ha più timore di venire emarginato o di essere
giudicato inappropriato dall’ “altro come lui”. L’atteggiamento emulativo però
mette a tacere le doti creative del soggetto, che si trova a operare senza dover
compiere alcuno sforzo personale: trova tutto già predisposto e deve solo
limitarsi ad aderire a un’opzione preconfezionata, ogni giudizio è pertanto
sospeso.
Per quanto concerne l’esigenza di ritrovare la propria intima essenza
distaccandosi dalla moltitudine, all’individuo, secondo Simmel, sono date due
diverse possibilità: enfatizzare i caratteri della moda, condotta tipica del
maniaco di moda che, portando all’esasperazione gli attributi della logica
dominante, riesce a riappropriarsi di uno spazio di manovra prettamente
individuale; oppure negare, in toto o in parte, i presupposti della moda,
10
ponendosi al di fuori della corrente principale e isolandosi dalla collettività
tramite un forte gesto d’opposizione.
È importante però tenere a mente che, per il sociologo, la moda è sempre una
moda di classe e che dunque la distinzione individuale è possibile sempre e solo
all’interno di una logica di gruppo dei pari; dunque i concetti di uguaglianza e
disparità si riscontrano continuamente ad un livello collegiale, sebbene entro
cerchie più ristrette.
[…] la moda significa da un lato coesione di quanti si trovano allo stesso
livello sociale, unità di una cerchia sociale da essa caratterizzata, dall’altro
chiusura di questo gruppo nei confronti dei gradi sociali inferiori e loro
caratterizzazione mediante la non appartenenza a esso. (ivi p.16-17)
È così che sia il maniaco di moda sia il soggetto anti-moda si troveranno ad
incrociarsi con altri che, come loro, avranno implementato le medesime
strategie di estremizzazione, rispettivamente in positivo o in negativo, nei
confronti di un fenomeno dal quale non è possibile prescindere. Il
raggiungimento di una posizione del tutto indipendente risulta interdetto
poiché a nessuno è dato di sottrarsi dal gioco delle negoziazioni sociali.
La moda invero può essere considerata come una linea di demarcazione fra
conformità interna, relativa a una minuta cerchia, e difformità esterna, di quanti
non appartengono a quella stessa cerchia omogenea al suo interno.
Essa, precisamente, mediante un’azione omogenizzante livella i vari caratteri
individuali interni ad uno stesso gruppo e, al contempo, separa suddetto gruppo
dalle aggregazioni difformi a esso limitrofe. Segna così un netto confine fra
quanto è incluso e quanto è escluso da ogni strato sociale, connettendo fra loro
i soggetti affini e, simultaneamente, sottraendoli da quanto rimane a loro
esterno ed estraneo.
Applicando questa dinamica alla piramide sociale antidemocratica di fine
Ottocento ne deriva un meccanismo simile a quello di una lotta di classe per la
detenzione del potere. Se, come abbiamo detto, la moda è sempre espressione
11
congiunta di un’intera classe allora non può che originarsi dalle sole élite
altolocate: è infatti in gioco una battaglia per la propria legittimazione, per
imporre il proprio prestigio attraverso gli strumenti offerti dalla moda.
[…] la nuova moda, appartiene soltanto alle classi sociali superiori. Non
appena le classi inferiori cominciano ad appropriarsene superando i confini
imposti dalle classi superiori e spezzando l’unità della loro reciproca
appartenenza così simbolizzata, le classi superiori si volgono da questa
moda ad un’altra, con la quale si differenziano nuovamente dalle grandi
masse e il gioco può ricominciare. Le classi inferiori infatti guardano in alto
ed aspirano ad elevarsi. Questo è loro possibile soprattutto nell’ambito
della moda in quanto è il più accessibile a un’imitazione esteriore. […]
perché gli oggetti della moda, in quanto esteriorità della vita, sono
particolarmente accessibili al puro possesso del denaro. (ivi p.20)
Ecco che il motore trainante della moda si esplica in un continuo antagonismo
fra creazione e appropriazione delle tendenze. La classe agiata inventa una
modalità specifica attraverso cui distanziarsi dagli strati sociali inferiori i quali
mirano invece ad acquisire autorevolezza e ad avanzare di livello.
Appropriandosi dei simboli che connotavano, al principio, i soli individui delle
classi agiate come un’unica unità, le classi più basse mirano a incrementare il
proprio status adottando le loro insigni; in quanto non ne posseggono di
proprie.
Questo risulta però essere un tentativo tutto esteriore di darsi un tono, di
ereditare un capitale culturale: come nota Simmel, non avendo esse altro modo
di elevarsi di grado e non potendo sperare di far proprio il gusto innato delle
élite, poiché mancano delle stesse doti intellettuali o di altre doti di genere
immateriale, non possono che limitarsi a emularne l’aspetto meramente
superficiale; che può essere acquisito materialmente attraverso i soldi.
L’introduzione dell’innovazione spetta allora ai soli ceti abbienti, mentre le altre
classi possono solamente copiare quanto queste hanno già ideato.
12
Ma questa strategia non fa altro che perpetrare nuovamente il dislivello già
presente fra le classi: non appena le classi superiori si sentono espropriate dei
loro caratteri identificativi sono portate inevitabilmente ad inventare un nuovo
modo di differenziarsi da quelle inferiori, le quali hanno violato il confine di
separazione che le distanziava. È così che il meccanismo può ripartire da
principio.
Questa teoria è comunemente detta <<Teoria del gocciolamento>> o <<Trickledown theory>> esattamente per il fatto che essa presenta la moda come un
fenomeno sociale dominato sì da un impeto dualistico, ma di flusso
monodirezionale, che segue un movimento destinato ogni volta a diffondersi
solo e soltanto secondo un orientamento verticale che va dall’alto verso il
basso; “gocciolando” dagli strati più elevati verso gli strati inferiori della
popolazione senza che a questi ultimi sia data alcuna possibilità di intervento
creativo. L’ideazione della nuova moda è sempre appannaggio della ristretta
élite al vertice, che detiene il primato culturale ed è interessata perciò a
conservare inalterato lo status quo e i propri agi. Se allora i ceti più elevati sono
in genere più conservatori è la classe media che imprime il reale dinamismo alla
storia.
Come si è detto il modello simmeliano aderisce a una specifica composizione del
corpo sociale, che per la prima volta inizia a essere messo in crisi con l’avvento
della classe media all’interno del panorama pubblico. Da quel momento
l’assetto tradizionale inizia a vacillare e la moda consente agli individui di
esercitare una certa mobilità sociale.
Herbert Blumer e la <<selezione collettiva>>
A sessant’anni di distanza dall’analisi portata avanti da Simmel, Blumer si trova
dinanzi a una società totalmente rivoluzionata, per la quale il precedente
modello esplicativo dei processi di creazione di novità e di diffusione delle
tendenze risulta essere incompatibile. Il corpo sociale, e di conseguenza la sua
13
organizzazione estrinseca, sono stati sottoposti a grandissimi e plurimi
cambiamenti, che ne hanno profondamente modificato gli assetti tradizionali.
A partire dagli anni Quaranta del Novecento si è assistito all’emergere di un
modello di consumo, definito in seguito di massa, che ha portato a elidere le
vecchie gerarchie di potere. Certamente non si è trattato di un cambiamento
che si è verificato dall’oggi al domani, ma che si è prodotto lentamente;
incontrando alcune resistenze iniziali spesso dovute al disinnesco di
consuetudini secolari.
Nondimeno anche il sistema moda ha conosciuto un percorso di progressiva
evoluzione, compiendo un’impennata decisiva attorno agli anni Sessanta del XX
secolo: questa fase infatti rimodula radicalmente gli equilibri in gioco. A tal
proposito si è parlato spesso di un graduale processo di “democratizzazione”,
ma cosa si intende esattamente con questo termine? Innanzitutto, la novità più
evidente è stata la riconfigurazione dell’intero organismo sotto le spinte del
policentrismo, ossia della moltiplicazione esponenziale dei centri di produzione
e di diffusione della moda. Parigi, ormai da anni, non deteneva più il primato di
unico grande fulcro creativo al mondo, anzi varie e diverse realtà erano riuscite
a imporsi con la stessa sua forza nel panorama internazionale; conducendo a
una situazione generale di “libera concorrenza”, e non più di monopolio, in
ambito di creazione e irradiazione dell’innovazione. Firenze, Milano, Londra,
sono questi alcuni dei nuovi nodi propulsori del sistema decentrato che passano
a essere accolti sotto i riflettori dell’interesse globale.
A questa importante rivoluzione corrispose un’equivalente perdita di centralità
da parte della haute couture, che in quegli anni si trovò costretta a fare i conti
con una produzione molto più economica poiché standardizzata: la confezione
industriale. questa era nata in Europa già un secolo prima ma, avendo
conosciuto un concreto sviluppo solamente nei territori d’oltreoceano, si trovò
a essere importata dall’America; con la denominazione di Ready-To-Wear. Al
venir sussunta nel sistema francese, assunse inoltre il nome di Prêt- À-Porter.
14
Tale nuova modalità di concepire l’abito, in taglie preconfezionate, non
surclassò del tutto la produzione su misura, che però rimase rilegata ad ambiti e
occasioni davvero molto circoscritte. La nuova epoca aveva infatti prodotto
nuovi stili di vita e dunque nuove necessità; gli abiti costosi unici e originali
venivano spesso abbandonati a favore di un loro sostituto più adatto ai tempi
che correvano. L’alta qualità e la vasta gamma di scelta che il pronto moda
mette a disposizione lo configurano inoltre come un’alternativa più consona
rispetto alla confezione di basso costo e qualità che si era invece diffusa a
partire dagli anni Trenta.
In aggiunta a tutti questi mutamenti, emersero svariate nuove figure a
contendersi il ruolo di promotrici delle tendenze e vari stilisti giovani e
innovativi si affacciarono alla ribalta.
All’interno di un tale scenario polifonico e polimorfo, come viene a riarticolarsi il
meccanismo di ideazione e circolazione delle tendenze?
La teoria del trickle-down risulta essere inappropriata poiché anacronistica
rispetto alla nuova era, afferma il sociologo americano Herbert Blumer; che
tuttavia non disconosce il merito di Simmel nell’aver evidenziato almeno tre dei
caratteri più esemplificativi della moda, ossia la sua intrinseca necessità di
fondarsi su di un preciso assetto sociale che la sostenga e le consenta di
svilupparsi, il suo configurarsi come continuo processo di cambiamento e,
infine, l’importanza che il prestigio riveste nelle operazioni proprie di questo
campo. Blumer propone dunque una nuova interpretazione teorica, più attenta
alle vicissitudini del mutato assetto socio-culturale. Può servirsi inoltre della
diretta esperienza maturata presso l’industria di moda femminile parigina, da
cui deriva illuminanti spunti di riflessione e utilissimi per una comprensione più
profonda del fenomeno. Precisamente durante quel periodo di tempo egli ha
modo di osservare alcune consuetudini che si ripetono di anno in anno
all’apertura delle varie case di moda.
15
[…] I was forcibly impressed by the fact that the setting or determination of
fashion takes place actually through an intense process of selection. […]
choices are made by the buyers -a highly competitive and secretive lotindependently of each other and without knowledge of each other’s
selections. (Blumer, 1969, p. 278-279)
Nota innanzitutto come la nascita di una nuova tendenza sia sempre il risultato
di un processo di attenta ed esperta selezione, operata da un élite molto
ristretta di individui – i compratori – che, mossi da una strana forza misteriosa,
arrivavano a far ricadere le proprie singole scelte, formulate rigorosamente
senza diretto accordo o contatto fra di loro, sul medesimo ed esiguo gruppo di
modelli vestiari. Il sociologo, determinato a voler comprendere le ragioni che si
agitano al di sotto di tale enigmatica circostanza, è di seguito portato a
un’importante intuizione: <<[…] the buyers were immersed in and preoccupied
with a remarkably common world of intense stimulation>> in virtù di cui <<[…]
buyers came to develop common sensitivities and similar appreciations.>> (ivi
p.279). È dunque l’esposizione dei soggetti a un dato comune ambiente a
intervenire sui meccanismi decisionali da essi adoperati, pilotando in modo
simile le loro scelte? Sembrerebbe proprio essere così: i compratori, trovandosi
calati all’interno di uno stesso orizzonte socio-culturale, ricco di svariati e
plurimi stimoli, finiscono per derivarne una comune sensibilità e senso del
gusto; che spiega dunque la strana coincidenza che emerge fra le loro singole
preferenze. Questi individui sono tutti molto attenti all’andamento del mercato
della moda femminile, di cui studiano scrupolosamente le inclinazioni e da cui
derivano gli interessi dominanti dei suoi vari pubblici. In egual misura si
dedicano alla lettura di riviste e pubblicazioni di settore e alla vigile osservazione
delle linee di prodotti concorrenti. È così che possono formarsi quel solido
retroterra di conoscenze che gli sarà fondamentale per potersi orientare nel
corso della loro selezione di tendenze; una vera e propria missione volta a
indirizzare la produzione e il consumo di beni ad alto valore simbolico.
16
Blumer si interroga poi in merito alla provenienza di quell’ispirazione che
stimola la creatività dei designers, si chiede su che cosa essi si basino per
incontrarla al fine di incorporarla poi nella progettazione dei loro modelli. Anche
in questo caso egli riscontra una lampante corrispondenza, ugualmente non
programmata, fra i vari capi proposti dagli stilisti nelle loro collezioni. Se è lo
spirito del tempo che questi ideatori di moda vogliono comunicare, allora essi
saranno inevitabilmente portati a divenire acuti osservatori di tutto ciò che li
circonda.
There were three lines of preoccupation from which they derived their
ideas. One was to pour over old plates of former fashions and depictions of
costumes of far-off peoples. A second was to brood and reflect over
current and recent styles. The third, and most important, was to develop
an intimate familiarity with the most recent expressions of modernity as
these were to be seen in such areas as the fine arts, recent literature,
political debates and happenings, and discourse in the sophisticated world.
The dress designers were engaged in translating themes from these areas
and media into dress designs. (ibidem)
Traendo spunto dagli stessi molteplici campi dell’umana cultura attigui al
mondo della moda, la cerchia a suo modo ristretta e competitiva dei disegnatori
d’abiti converge verso soluzioni analoghe; nel tentativo di rileggere il passato
attraverso la mediazione del presente e di giungere a preconizzare il futuro
grazie a una consapevole lettura delle dinamiche contemporanee.
Blumer non concorda con l’affermazione di Simmel secondo cui le mode sono
sempre dettate dalle classi agiate, in quanto emblemi del loro prestigio; anzi, fa
notare come il modello che diventa la moda abbia già in sé una potente valenza
intrinseca: è proprio questa che le permette di imporsi e di attirare a sé, fra gli
altri, le élite. Queste ultime, appropriandosene, vi conferiscono dunque solo in
un secondo momento il tratto del proprio prestigio. I gruppi agiati non dettano
dunque la moda ma, per la loro spiccata sensibilità, possono al massimo
17
identificare per primi la direzione che essa sta prendendo; abbracciandone i
dettami. Il loro tentativo di differenziazione dal resto della società si situa quindi
all’interno del meccanismo stesso della moda, la quale non nasce in risposta al
loro comportamento ma si costituisce a priori. <<Not all prestigeful persons are
innovators and innovators are not necessarily persons with the highest
prestige.>> (ivi p.281) il ruolo prescrittivo assegnato da Simmel ai gruppi
altolocati della società in ambito di creazione della nuova moda viene ora
profondamente ridimensionato: queste stesse cerchie, difatti, si trovano a dover
indirizzare la propria scelta verso modelli preesistenti, creati da innovatori
esterni – i designer ad esempio – e non direttamente connessi al proprio
giudizio o potere. La leadership nel campo dell’introduzione delle tendenze
passa dunque a essere assunta da figure provenienti da svariati livelli sociali.
L’individuo che voglia essere riconosciuto come leader in questo ambito dovrà
essere costantemente aggiornato sui cambiamenti della società, al passo con
essa, sempre vigile e attento a captare i successivi sviluppi verso cui questa si
appresta.
Si è parlato spesso di processi grassroot e di fenomeni bubble-up per riferirsi a
quelle particolari ondate di innovazione che partendo dal basso, dai livelli infimi
della società, arrivano a inglobare solo successivamente gli strati superiori. Tali
fenomeni, prima impensabili, iniziano a prendere piede all’interno dello
specifico assetto societario che si struttura a partire dalla seconda metà del XX
secolo; che li rende finalmente possibili. Sicuramente si tratta di meccanismi di
più ampio respiro sociale e di impronta maggiormente democratica, per il fatto
che concedono a chiunque abbia le giuste capacità di partecipare al
rinnovamento sociale. Tuttavia, allo stesso tempo, si tratta anche di fenomeni
decretati a mettere presto in ombra le figure di spicco che si susseguono
nell’incessante divenire della civiltà; voltagabbana, in quanto sempre pronti ad
acclamare gli astri nascenti dimenticandosi, più o meno rapidamente e
irrevocabilmente, delle stelle del passato loro più prossimo. Un giorno sei in,
18
quello dopo sei out; i nuovi leader sono come banderuole pronte a essere
sospinte nella direzione in cui soffia il vento dell’innovazione, il quale però ben
presto cambia rotta riportandole al loro immobilismo di partenza.
Questi processi di cui parlo sono però ancora lontani dal manifestarsi in tutta la
loro forza e pienezza e bisognerà aspettare i decenni successivi affinché questi si
affermino in modo decisivo. Tuttavia è possibile nel frattempo constatare come
il policentrismo assunto dalla leadership rispecchia in pieno il modello riformato
del sistema moda nato a fine anni Sessanta. <<Fashion appears much more as a
collective groping […] than a channelled movement laid down by prestigeful
figures.>> (ibidem) si tratta di un meccanismo che procede per successivi
tentativi e aggiustamenti, che si rimodula di volta in volta sulla scorta dei vari
modelli espressivi maturati in risposta ai cambiamenti sociali; non è
determinato dal solo arbitrio e potere decisionale dei soggetti prestigiosi.
Il <<gusto collettivo>>, che Blumer descrive come <<sensitivity to objects of
social experience>> (ivi p.284), si evolve in relazione a una molteplicità di fattori
intercorrenti che si pongono come elementi di un nuovo ordine sociale,
consono, di volta in volta, alla vita contemporanea così come essa si dà nel
momento presente del suo incessante divenire. <<Fashion trends […] signify a
convergence and marshalling of collective taste in a given direction>> (ivi p.283)
la tendenza dominante che, per un determinato periodo di tempo, si instaura
all’interno di una data società è il risultato di un compromesso fra la sensibilità e
le predilezioni dei tanti soggetti che la compongono; e ne esemplifica il
cambiamento di rotta generale verso nuovi interessi e preferenze. Il <<gusto
collettivo>> altro non è che
a subjective mechanism, giving orientation to individuals, structuring
activity
and moulding the world of experience. Tastes are themselves a product of
experience […] formed in the context of social interaction, responding to
the definitions and affirmations given by others. People thrown into areas
19
of common interaction and having similar runs of experience develop
common tastes. […] Collective taste is an active force in the ensuing
process of selection (ivi p.284)
È un agente costantemente attivo nel corso del mutamento sociale ed è
essenziale al processo di selezione collettiva, poiché è volto a scremare fra
molteplici forme espressive innovative quelle più adatte a ergersi come
stendardo della contemporaneità o come emblema degli scenari dell’immediato
futuro. È un principio ordinatore malleabile, aperto alle successive revisioni cui
verrà sottoposto nell’ambito dell’interazione sociale; ambito a sua volta
modulato da soggetti appartenenti a contesti attigui che, avendo vissuto
esperienze simili, hanno acquisito una sensibilità per lo più concorde gli uni agli
altri. È un comune denominatore, capace di raggruppare sotto il suo vessillo
larghissima parte della società per traghettarla verso le proprie sorti future.
Riassumendo quanto fin qui detto, l’istituzione di una tendenza di moda è
dunque considerata da Blumer come una libera selezione nata dall’incontro di
diverse preferenze individuali attorno a un modello preciso, ritenuto il più
adatto a rappresentare lo spirito del tempo rispetto ad altri modelli concorrenti.
Il modello in questione si consolida dunque come la moda dominante per un
periodo di tempo limitato, durante il quale detterà legge.
Il ruolo sociale della moda si riscontra allora, secondo Blumer, nell’alto grado di
uniformità e di unanimità che essa riesce a produrre: riesce infatti a portare
ORDINE in una situazione di caos sociale iniziale, poiché indicando una via unica
e univoca da seguire limita l’anarchia e il disordine che potrebbero sorgere se
non vi fosse alcun modello guida collettivamente accettato. Così facendo dota
gli individui di un codice comune attraverso il quale gestirsi e dare forma al
mondo. Inoltre permette all’innovazione di presentarsi incessantemente
all’interno del contesto sociale, spingendolo verso la sua evoluzione e il suo
sviluppo, verso un continuo miglioramento delle condizioni raggiunte;
20
combattendo l’immobilismo così come la fossilizzazione nel tempo passato.
Rende dunque libero ogni individuo di sperimentare nuove soluzioni,
consentendogli di presentare il proprio punto di vista e la propria
interpretazione del presente nonché le sue idee in merito ai modelli culturali
futuri cui prevede che la società tenderà.
1.1.2 Dalla <<selezione collettiva>> allo stile individuale: street style
ed estetica del digitale
Questo relativismo culturale, ossia questo orientamento della società verso un
continuo divincolarsi di volta in volta fra nuovi molteplici punti di vista, fa però sì
che emergano sempre più delle figure instabili ed effimere a impossessarsi
temporaneamente del primato culturale; ponendosi come guide profetiche
dell’intera società. Da tale fenomeno consegue che non esistono più univoche
mode e tendenze, si assiste anzi a una moltiplicatone esponenziale di voghe e
correnti multiple in fatto di moda e cultura. Ognuno ha la possibilità di dire la
sua, di far valere la propria preferenza e di inventare un nuovo gusto
dominante; nella speranza di raccogliere a sé qualche seguace. I nuovi guru
provengono dalle regioni più disparate del pianeta e spesso amano mixare fra
loro le suggestioni culturali più svariate, dimostrando un’abilità combinatoria
degna erede di quell’indole frammentaria, polimorfa e antigerarchica tipica
dell’età post-moderna.
Come già ho affermato a più riprese nel corso della mia argomentazione, il
sistema moda ha seguito nel tempo una lunga evoluzione, che l’ha portato a
divenire più aperto e democratico e a rendere partecipe dei suoi meccanismi
una più vasta compagine di soggetti sociali. Se nelle comunità tradizionali
l’utilizzo di un costume statico era simbolo e strumento per il mantenimento
dell’ordine prestabilito, nelle società moderne l’avvento di mode cicliche ed
effimere divenne espressione dello spirito di cambiamento e dell’ideologia di
progresso che avevano informato di sé l’intera sfera socio-culturale di quella
determinata epoca.
21
Nella nostra contemporaneità, essendo la moda giunta ad uno stadio evolutivo
ancor più avanzato, la questione dello stile individuale diviene cruciale. Sulla
spinta del policentrismo assunto dal sistema e su quella di un rinnovato multiprospettivismo a esso connesso la moda inizia a trasformarsi in qualcosa di
sempre più amorfo: è difficile da individuare chiaramente poiché non si
identifica più come una corrente unica e univoca ma assume una natura plurale;
presentandosi in distinte sfumature a seconda della regione geografica o dello
specifico gruppo socio-culturale in cui si origina. Più che di moda si parla infatti
di stili, focalizzandosi su quelle precise normative che contraddistinguono il
soggetto singolo, o la ristretta cerchia con cui egli si identifica, più che la
collettività in toto. Oggi lo stile di vita e il gusto personale di un individuo
forniscono importanti elementi per poterlo identificare.
Precisamente con la nascita delle sottoculture, negli anni Sessanta del
Novecento, lo stile arriva a costituirsi come il mezzo prediletto attraverso cui
esternare e dichiarare in modo esplicito la propria appartenenza a uno specifico
gruppo, i cui confini interni ed esterni sono marcati in modo preciso mediante
l’adozione, da parte dei suoi membri, di un codice mutualmente condiviso.
L’appartenenza e l’esclusione a una precisa cerchia vengono dunque ancora una
volta sancite tramite il dispositivo dell’abbigliamento, ora però secondo una
logica di “gruppo dei pari” e non più di classe. Cadono infatti le vecchie
gerarchie e allo stesso tempo viene meno anche la necessità di emulare le élite
agiate al fine di incontrare la propria collocazione nel corpo sociale. I nuovi
collettivi sono formati da individui di nazionalità, sesso ed età differenti, tutti
accomunati però da una qualche passione o interesse comune.
Nella società che si sviluppa a partire dalla seconda metà del Novecento prende
infatti spazio l’idea di tempo libero e insieme con essa iniziano a intravedersi i
prodromi dell’odierna società consumistica. A cominciare dal secondo
dopoguerra, e soprattutto nei decenni successivi, si assiste in effetti a una
rapida diffusione di beni di consumo innovativi, legati al ciclo delle mode. Grazie
22
alla loro disponibilità economica i baby boomer, così come verranno
soprannominati i giovani ragazzi della prima generazione post-bellica, sono i
primi a poter godere di una ritrovata serenità economica e di un periodo di
prosperità generale; tutto ciò porterà poi a rivoluzioni sociali che
modificheranno in modo radicale l’assetto esistente. Bersaglio del mercato
diviene soprattutto questo nuovo segmento ad alto potenziale di spesa,
bombardato da messaggi pubblicitari persuasivi e coinvolgenti che spingono
all’acquisto sfrenato di beni di seconda necessità. È da questo preciso momento
che il concetto di stile di vita si colloca al vertice dell’occupazione giornaliera di
migliaia di persone, giovani e non, che tentano di crearsi una propria identità
unica e irripetibile sfruttando il potenziale dei beni ad alto valore simbolico; fra
questi, ovviamente, fa capolino lo strumento dell’abbigliamento.
La necessità ineludibile di comunicare la propria soggettività al resto della
società è sentita in modo pregnante soprattutto dai teenagers, ragazzi
adolescenti che mirano a crearsi un’identità nuova e totalmente divergente
rispetto a quella dei loro genitori; che risulti essere indipendente e forte,
espressione dei tempi mutati e dei nuovi ideali da essi condivisi. Lo sviluppo,
negli anni, di un sempre più marcato individualismo accompagna il passaggio dal
prevalere delle logiche della moda, intesa come <<selezione collettiva>> e come
mutua condivisione, da parte dell’intera società, di uno stesso trend destinato
presto a decadere, a quelle dello stile individuale. Ma precisamente, cosa
differenzia la moda dallo stile? Come fa notare Ted Polhemus, che ha dedicato
varie sue opere a tematiche riguardanti moda e anti-moda, la moda <<has a
fluctating value over time>> mentre lo stile <<defies change in pursuit of the
timeless>> (Polhemus, 1996, p. 19), è dunque senza tempo.
Sovente,
in
modo
sbrigativo,
lo
stile
viene
considerato
come
un’esemplificazione libera della propria soggettività mentre la moda come un
assoggettamento al gusto dominante, alla norma – intesa sia come legge o
diktat che come “normalità”, adesione a qualcosa cui tutti indistintamente
23
partecipano –. Tuttavia lo stile può indicare anche un’identità di gruppo, un noi
più che un io: quella che potremmo meglio definire come anti-moda si riscontra
ad esempio nel mondo tribale come in quello contadino, e dimostra orgoglio e
fierezza nell’atto di tramandare uno stesso codice di abbigliamento,
relativamente invariato dai tempi dei tempi, attraverso le generazioni.
Continuità e conservatorismo sono in questo caso concetti utili a descrivere
quelle ristrette realtà, marcando il confine rispetto a tutto quanto si colloca
all’esterno di esse. Un medesimo approccio, riadattato, è ripreso e dalle
sottoculture e da tutti quei gruppi chiaramente identificati in uno stile preciso e
immutabile: questi stili arrivano però ad avere una risonanza globale grazie
all’azione dei media, che ne amplificano la portata espandendo la visibilità dei
piccoli gruppi oltre i loro ristretti confini territoriali di provenienza.
Secondo l’antropologo statunitense l’avvento della globalizzazione e gli influssi e
le trasformazioni che essa porta con sé segnano un punto cruciale nel corso
evolutivo dell’intero sistema moda. Questo fenomeno permette di entrare in
contatto con differenti e inesplorate realtà, elidendo progressivamente le
distanze geografiche esistenti; inoltre i nuovi mezzi di comunicazione ubiqui e
interconnessi, che permettono di reperire informazioni e di comunicare in modo
facile e immediato, consentono in modo più o meno diretto di accedere ai più
lontani luoghi e alle più remote epoche storiche. La tecnologia opera così un
potenziamento del campo d’azione umano. A tutto questo si aggiunge una
crescente sensazione di “presentificazione” che sembra far implodere l’asse
temporale su se stesso, congelandolo in una sorta di eterno presente
multiforme entro il quale si riscontra una sovrapposizione e coesistenza di tempi
storici eterogenei. Tale sentimento è conseguenza soprattutto dello sgretolarsi
del mito del progresso, tipico modernista e orientato al futuro, in favore di un
ripiegamento sul solo tempo presente che abbandona ogni qual si voglia
speranza in un riscatto o in un miglioramento a venire. Il motto <<no future>>
24
introdotto come lemma dalla sottocultura punk ben sintetizza questa
condizione.
Ecco che di questo passo si gettano le basi per una cultura di tipo multietnico e
globale, condivisa ed eclettica. Nel suo saggio Style Surfing Polhemus introduce
a una possibile descrizione delle varie <<styletribes>> (ivi p.40) che fra gli anni
Sessanta e Novanta sono arrivate a contrassegnare lo scenario globale: gruppi di
individui accomunati da passioni musicali, in alcuni casi dallo sport, ma
soprattutto dalla stessa sensibilità nel vestire, occupati in una continua ricerca
di espressione personale attraverso gli strumenti sempre nuovi che il mondo
dell’abbigliamento e dell’ornamento corporeo mettono loro a disposizione.
Questi nuovi raggruppamenti sociali traggono ispirazione, per configurare il
proprio stile peculiare, da molteplici epoche passate e da località e regioni
geografiche recondite: le parole d’ordine risultano infatti essere libertà,
sperimentazione e re-interpretazione di oggetti simbolici, guidati dalla propria
personale vena creativa. Polhemus sottolinea come queste nuove tribù di stile a
differenza delle popolazioni tribali vere e proprie, che sono riconducibili a
contesti localistici ben delimitati e dunque a forme organizzative che ricalcano
quelle delle comunità tradizionali, sono composte da cittadini cosmopoliti
provenienti da varie parti del globo; tutti riuniti sotto il comune denominatore
dello stile adottato che esemplifica una mutua adesione allo stesso sistema di
valori simbolici.
Il crescente bisogno di autenticità, avvertito a partire dagli anni Sessanta da
individui che ambivano a ritrovare la propria soggettività al di fuori della massa
di per sé amorfa, anonima e indefinita entro cui erano stati imbrigliati dal
vangelo del consumo, porta a spostare lo sguardo su tutto quanto era rimasto
incorrotto e in qualche modo puro; ai margini delle civiltà capitalistiche
occidentali. Gli esponenti delle rivendicazioni giovanili guardano anche a queste
realtà come a possibili mezzi di redenzione e decontaminazione dal consumismo
esasperato. Un’altra tattica operativa, che sembra indicare in un certo senso
25
una presa di posizione più marcatamente politica nei confronti dell’impero del
consumo, prevede l’impiego degli stessi prodotti di massa ma secondo delle
modalità riconfigurate in modo totalmente differente. È attraverso questo
approccio confrontational dimostrato verso le grandi istituzioni che le
sottoculture tendono a sovvertirne le regole e i significati preconfezionati.
Di pari passo a queste inclinazioni si verifica un ribaltamento delle strutture di
classe all’interno di quei precisi processi che portano all’adozione di una
determinata moda: ora lo stile nasce sulla strada, a tal proposito si parla di
street style. Si tratta in principio di uno stile povero, semplice e informale che
ben presto però arriva a risalire la piramide sociale fino a incontrare
l’approvazione delle classi ai livelli superiori, affermandosi come modello per
l’intera collettività occidentale. La moda ufficiale infatti inizia a copiare questi
stessi stili, prendendone possesso e introducendoli all’interno del meccanismo
capitalistico. <<Although originating amongst the young and the nonconformist,
both tribal style and “dressing down” rapidly became hallmarks of mainstream
Western culture.>> (ivi p.46), la strada dell’allontanamento definitivo dalle
logiche del consumo risulta essere dunque impraticabile. Le sottoculture si
trovano espropriate dei propri simboli che, una volta introdotti in un contesto
diversificato – il circuito della moda ufficiale – perdono il loro significato e la loro
forza evocativa originari. La stessa sorte tocca anche a quei tentativi di
riconversione degli oggetti di consumo in nuove strutture di significato, infatti le
azioni e i prodotti derivati da tali azioni di “sabotaggio” vengono depotenziate
dal fatto stesso di essere sussunte nuovamente all’interno dell’apparato
capitalistico.
Questo fenomeno esemplifica in modo esatto quei meccanismi di creazione
culturale dal basso, altresì detti di bubble-up, di cui ho detto precedentemente:
gli innovatori, in questo caso posti ai margini o ai livelli infimi della società,
creano una nuova tendenza capace di risalire la piramide sociale e di informare
di sé anche il gusto delle classi superiori, condizionandone le scelte e i
26
comportamenti. Certo, a ben osservare le dinamiche con cui questi nuovi
oggetti culturali “eversivi” sono destinati, nonostante tutto, a venir reintrodotti
all’interno del sistema si nota un certo sfruttamento del capitale creativo degli
innovatori da parte delle aziende capitalistiche. Su questa posizione ritornerò
poi successivamente nel corso dell’elaborato, per approfondirla alla luce di
ulteriori tematiche a essa connesse.
Negli anni Ottanta si assiste a un forte incremento dell’ossessione per la ricerca
di uno stile individuale e anche gli stilisti istituzionali vi cedono; si riscontra
infatti una vena prettamente classicista nelle creazioni di moda presentate in
quegli anni da diverse influenti figure del campo e ciò sembra negare il diktat,
fino a quel momento imprescindibile, della continua ricerca di novità. Nascono
in quel periodo i total look, che consentono a chi li indossa di emettere una
chiara dichiarazione di status. Sempre di un imperativo si tratta, sottrarsi al
gioco della moda risulta in effetti impensabile se si vuole comunicare la propria
posizione e identità sociale attraverso una precisa tipologia d’abbigliamento;
tuttavia la vasta gamma di stili senza tempo ora disponibili consentono al
consumatore un minimo di scelta, seppur inequivocabilmente limitata dai
dettami delle gerarchie di potere ai vertici dell’istituzione.
Alla fine del decennio precedente l’avvento della <<condizione postmoderna>>
(Lyotard, 1979) aveva sconvolto definitivamente l’assetto della società e con
essa tutti i suoi costrutti e le sue strutture di significato, con forti ripercussioni
anche sulla sfera culturale. <<Where once there was a clean, obvious direction,
now there is a maze>> (Polhemus, 1996, p. 32) gli individui si trovano da quel
momento in poi dinanzi a un groviglio intricato di strade dissimili, che ognuno è
libero di affrontare come meglio ritiene, scegliendo di volta in volta il percorso
che preferisce intraprendere. Lo stile personale inizia ad essere sempre più
criptico e complesso da decodificare, è il trionfo dell’ambiguità e dell’eclettismo.
Il modo di apparire e di abbigliarsi riflette dunque alcune caratteristiche
27
dell’assetto
globale
dell’epoca:
disordine,
smarrimento,
perdita
di
orientamento, caos.
Il filone predominate nei circuiti ufficiali della moda diviene quello della
decostruzione, molto diffusa fra i designer di provenienza orientale, che vede gli
stilisti spesso impegnati nella realizzazione di patchwork che sfruttano stoffe e
materiali eterogenei, spesso poveri o volutamente fatti apparire come consunti
e danneggiati, prelevati da contesti plurimi.
Gli innovatori di tendenze, di pari passo, si cimentano ancor di più nel sovvertire
il significato di determinati capi e ornamenti, giocano con essi utilizzandoli come
un vocabolario di segni atto ad esprimere valori e significati innovativi. Dagli
anni Novanta a seguire si assisterà a un rimescolamento di stili sempre più
complesso e a un loro ricambio sempre più veloce e spasmodico, tale che
risulterà quasi impossibile tracciarne un percorso puntuale e completo.
Secondo Polhemus nella nostra contemporaneità continuano a fiorire
incessantemente nuove tribù di stile mentre le vecchie sottoculture sono
resuscitate dall’incontro coi nuovi gruppi giovanili che ne adottano i segni
distintivi, remixandoli con l’aggiunta di nuovi elementi e dando vita a ensemble
inattesi che ospitano una ricca stratificazione di significati. Da una stessa radice
comune nascono diverse branchie e sottogeneri, declinazioni molteplici di un
medesimo stile di partenza. Il gusto per il vintage e per il revival è
evidentemente sempre più presente nei diversi campi della cultura
contemporanea, una mania per il retrò che purtroppo in alcuni casi vive
accontentandosi di uno sterile citazionismo, crogiolandosi in un atteggiamento
riflessivo e autoreferenziale piuttosto che proporre soluzioni che risultino essere
realmente innovative.
Polhemus fa notare come attualmente esiste una fluidità di confini sempre
maggiore rispetto alle rigide barriere entro cui un tempo i gruppi sociali
tendevano a barricarsi. Al giorno d’oggi si passa da uno stile all’altro con la
stessa disinvoltura, facilità e tranquillità con cui si fa zapping fra la ricca offerta
28
della programmazione televisiva, come se gli stili vestimentari altro non fossero
che possibili scenari che attendono solamente di essere provati <<multiple
channels on a TV set wanting to be “surfed”>> (ivi p.54) Se la scelta non dovesse
essere di proprio gradimento si può sempre decidere di revocare la propria
preferenza, senza troppe e problematiche conseguenze. Come insegnano gli
stessi spot televisivi, soddisfatti o rimborsati. Nessuno si identifica più in uno
stile o in una posizione univoca, nessuno opera mai una scelta definitiva o
ritiene opportuno farlo: le categorie sono limitanti e le persone vogliono essere
libere di passare da uno stile all’altro senza troppi freni o impedimenti. Le
odierne tribù di stile mancano allora di quel senso di appartenenza e di quella
fedeltà al credo del gruppo che determinava un tempo le sottoculture delle
origini:
Various styles proliferate at a rate that is increasingly difficult to keep up
with […] but few, if any, of these carry with them the sense of belonging
and commitment that must constitute the bottom line of true tribal
identity. (ivi p.50)
Tutto si riduce a un puro gioco combinatorio, senza alcuno scopo preciso se non
quello di divertirsi, provocare e sperimentare; ecco perché Polhemus paragona
tutto ciò a un grande parco giochi o ancora a un supermercato dove poter
liberamente trarre dagli scaffali tutto ciò che si considera essere allettante,
senza alcuna preoccupazione morale o politica nei confronti del proprio agire. Ci
si costruisce da sé il proprio modo di vestire attraverso un’azione di
campionamento e ri-assemblaggio <<[…]channel surfing – making my own
programme by sampling and mixing […]>> (ivi p.97) perché ci sono <<[…] too
many possibilities. We can’t possibly take it all in, so we sample bits of it as if life
was an “All You Can Eat” smorgasbord.>> (ibidem) un buffet aperto a tutti dal
quale poter prendere ciò che si vuole. È la coesistenza simultanea e ambigua di
tutti gli opposti, la cancellazione delle differenze, delle gerarchie e dei significati
inequivocabili:
frammentazione
e
decostruzione,
29
eclettismo
e
multi-
prospettivismo sono i nuovi punti cardine che orientano le persone nelle loro
scelte di abbigliamento. Se il gruppo sottoculturale punk era stato l’iniziatore di
questa logica di bricolage e di Do It Yourself, applicandola più in generale
all’intera sfera della produzione culturale e non soltanto al ristretto campo del
vestire, questa stessa ideologia diviene ora sterile poiché avulsa dal suo
contesto naturale di provenienza e dunque sminuita della sua valenza originaria.
1.2 Sistema dei Media
Con il termine <<sistema mediatico>> voglio intendere l’intero insieme degli
strumenti tecnologici e dei canali comunicativi attraverso i quali è possibile
veicolare un messaggio. È importante chiarire innanzitutto che ogni mezzo di
comunicazione crea un ambiente comunicativo peculiare a sé stante, che gode
di caratteristiche specifiche derivate dalle possibilità che esso mette in gioco
nonché dai suoi limiti. Ecco che allora a seconda della tipologia di messaggio che
si ha intenzione di veicolare bisognerà saper scegliere il mezzo più opportuno ed
efficace per quella determinata evenienza. Ogni medium inoltre necessita di un
determinato contesto per potersi sviluppare e funzionare correttamente.
A tutte le suddette conclusioni non si è giunti da subito: inizialmente infatti si
aveva una concezione molto ristretta e limitata rispetto ai mezzi di
comunicazione, che negli anni sono stati analizzati da differenti punti di vista;
più prettamente scientifici o, al contrario, maggiormente attenti allo sviluppo
della cultura sociale nel suo insieme.
Dopo la radicale trasformazione sociale che si è accompagnata allo sviluppo
della stampa a caratteri mobili, in un certo senso primo vero e proprio
meccanismo per la produzione seriale di massa, uno dei più importanti
strumenti comunicativi moderni è stato senza dubbio il telefono, che
permetteva un dialogo a distanza fra persone. Importante successore del
telefono fu la radio, che consentiva di poter trasmettere lo stesso messaggio a
più pubblici; tutti anche qui necessariamente dotati di un particolare
apparecchio per ricevere il segnale. Fra le più importanti invenzioni dell’età
30
moderna vi è però quella della televisione. È infatti con la sua definitiva
affermazione fra i vari strati della popolazione che, a partire dalla seconda metà
degli anni Cinquanta, iniziano a configurarsi veri e propri rituali di fruizione. Il
nuovo mezzo tecnologico inizia infatti ad attrarre a sé gruppi più o meno
consistenti di seguaci che quotidianamente si radunano dinanzi allo schermo
televisivo per assistere alle sue programmazioni, scandendone l’organizzazione
temporale della giornata.
Nascono così pratiche e abitudini di consumo che accomunano migliaia di
persone, localizzate in differenziate regioni geografiche entro le quali il mezzo
televisivo ha raggiunto una discreta diffusione. Capita ad esempio di riunirsi
attorno a uno stesso programma e di fondare su di esso dei legami relazionali
con individui che condividono la stessa passione a riguardo. È per questa
ragione che queste diverse audience si potrebbero identificare come le
anticipatrici delle future comunità che si origineranno con l’avvento del web.
Senza perderci troppo in questioni secondarie, veniamo ora alla specifica
tematica che mi interessa trattare in merito ai primi sviluppi della
comunicazione supportata dalle apparecchiature tecnologiche.
1.2.1 Dalla <<bullet theory>> al <<two-step flow of
communication>>
Com’è risaputo per ogni nuova invenzione nel campo dell’umana cultura, specie
inoltre se legata all’ambito tecnologico, esiste sempre una correlata volontà di
ricerca sugli effetti e sulle conseguenze che tale innovazione comporta per la
società del suo tempo. Il desiderio di comprendere gli esiti benevoli così come
quello di esaminare i riscontri negativi derivati dall’introduzione di una specifica
novità culturale spingono gli studiosi dei più differenti campi a sviluppare
accurate ricerche al fine di riuscire a spiegarne i meccanismi e le caratteristiche.
Da decenni, nel campo degli studi sulla comunicazione, sempre maggior
importanza è attribuita all’analisi dei moderni mezzi comunicativi tecnologici,
con particolare attenzione allo studio dell’interazione fra uomo e macchina e
31
agli sviluppi che ne conseguono. Com’è ora risaputo, nel tempo l’essere umano
tende ad abituarsi all’utilizzo di una determinata tecnologia, arrivando a farla
propria e a renderla parte del proprio quotidiano; spesso in maniera anche
incosciente. È così che si attua quella che viene definita <<normalizzazione>>
dell’innovazione. Con questo termine si vuole intendere esattamente la
propensione naturale e automatica che gli individui sviluppano verso un
determinato oggetto culturale o tecnologico, che giungono a percepire quasi
come connaturato alla loro esperienza di vita grazie all’utilizzo continuo e
progressivamente intensificato che ne fanno durante i primi periodi della sua
introduzione.
La mediologia è una scienza specialistica che negli anni si è incaricata di studiare
i meccanismi intrinsechi dei vari mezzi di comunicazione nonché gli effetti che
essi produco se introdotti nei contesti quotidiani degli individui. Questa
branchia della sociologia, di enorme rilevanza e importanza, sorge però solo a
partire dagli anni Cinquanta del Novecento, mentre i le prime ricerche
approfondite sulle modalità con cui vengono veicolati i messaggi attraverso gli
strumenti tecnologici risalgono a qualche decennio prima.
La teoria ipodermica o <<bullet theory>>
L’<<Hypodermic Needle Theory>> é un modello teorico statunitense risalente al
periodo compreso fra gli Venti e Trenta del Novecento, momento in cui ci si
approccia a uno studio sistemico del funzionamento dei mezzi di comunicazione
di massa per la prima volta in assoluto. Harold Lasswell, membro del filone di
indagine della Communication Research, fu l’esponente di maggior rilevanza per
l’affermazione di tale visione, che considerava i mass media come potenti
strumenti di persuasione dell’opinione pubblica; non a caso proprio in quegli
anni questi servirono in larga parte gli interessi della propaganda di guerra e dei
totalitarismi politici. La sua forza presupponeva l’esistenza di una popolazione
composta da individui isolati, omogenei e indifferenziati – senza distinzione di
classe, età, genere… –, caratterizzati dagli stessi bisogni e dalle stesse esigenze,
32
facilmente manipolabili e suggestionabili in quanto deboli e privi di capacità
organizzative e di leadership, tendenti ad azioni collettive uniformi. L’isolamento
che gli individui sperimentavano all’interno dei nuovi contesti di vita moderni,
assai distante rispetto a quel senso di comunità che si legava alle forme
organizzative sociali tradizionali, li portava ad aderire alla cultura dominante
poiché questa sembrava fornire loro un verosimile senso di appartenenza.
Questa prima analisi sistemica del funzionamento dei media promulgò dunque
la credenza che, senza la necessità di alcuna mediazione intermedia, i mezzi di
comunicazione di massa potessero condizionare a proprio interesse e
piacimento il comportamento e il pensiero di quanti ne subivano i messaggi. Si
appoggiava infatti alle congetture fornite dalla psicologia comportamentista,
che in quegli anni aveva avuto la meglio nell’ambito dello studio del
comportamento umano, istituendo una diretta correlazione fra stimolo e
risposta alla base di ogni azione. Trasposta nell’ambito della comunicazione tale
assunzione presupponeva dunque un effetto automatico dell’emittente
mediatico nei confronti di un individuo ricevente, cui non era data facoltà di
ribattere. Questa influenza diretta dei mezzi comunicativi nei confronti di una
collettività passiva e incapace di difendersi in alcun modo può essere riassunta
con l’immagine di un proiettile – bullet – che colpisce un bersaglio – target –
incontrato dritto sulla propria traiettoria, senza che incursioni esterne ne
compromettano l’efficacia; ancora, secondo una differente immagine,
l’ideologia espressa dai mass media penetrerebbe come un ago – needle –
all’interno delle carni di un’audience composta di soggetti indifesi che non
possono sottrarsi alla loro intrusione.
In questo paradigma interpretativo è facile identificare l’esistenza di un unico e
univoco flusso del contenuto comunicativo che procede dall’alto verso il basso –
o se si preferisce dal centro alla periferia –, negando qualsiasi opportunità di
rettifica esterna; per questa ragione, relativamente a questa visione, si è parlato
di <<powerful media>>.
33
Tale orientamento unidirezionale del messaggio, dunque della persuasione da
esso esercitata, può essere paragonato precisamente alla modalità di
propagazione delle nuove tendenze di moda descritta da Georg Simmel;
secondo le sue conclusioni l’introduzione dell’innovazione avveniva sempre a
partire dalla classe egemone e discendeva poi solo successivamente agli strati
inferiori della popolazione, senza mai modificare il proprio moto direzionale. In
questo differente caso l’élite di riferimento risulta essere quella composta dai
proprietari delle emittenti televisive e da tutta la compagine di figure a essa
correlate. L’antidemocraticità dei due modelli dipende strettamente dalla
struttura sociale con cui questi si misuravano e dalla considerazione che in
entrambi i casi si aveva della massa popolare nel suo insieme, ritenuta povera di
capacità di intervento o di creatività.
La teoria del <<two-step flow of communication>>
Al di là dei suoi limiti intrinsechi derivati dall’incuranza nel considerare gli effetti
peculiari suscitati nei singoli soggetti della “massa”, nonché dall’erronea
convinzione che tali soggetti presentassero tutti le stesse caratteristiche
psicologiche e individuali; l’ipotesi teoretica appena presentata subisce un
progressivo abbandono negli anni a seguire, in favore di nuove ipotesi sulle
effettive potenzialità dei media. In particolar modo la <<bullet theory>> lascia il
posto a un nuovo paradigma interpretativo presentato in sua diretta
opposizione.
A partire dagli anni Quaranta del Novecento la concezione dei <<media forti>>
lascia infatti spazio all’ipotesi che i mass media possano presentare solamente
degli <<effetti limitati>> sul loro pubblico, in quanto differenti soggetti possono
rispondere ai vari messaggi che li colpiscono opponendovi differenti resistenze.
Negli stessi anni un team di esperti sviluppa un’interessantissima ricerca
empirica in merito ai processi di scelta messi in atto da un gruppo di cittadini
americani in clima di campagna elettorale. L’importanza dello studio noto come
The People’s Choice (Lazarsfeld, Berelson, & Gaudet, 1948) è riscontrabile nei
34
risultati che tale disamina ha portato alla luce: con l’intento di approfondire le
modalità con cui ogni singolo soggetto elaborava la propria preferenza
elettorale, Paul Lazarsfeld e i suoi collaboratori – fra cui Elihu Katz – hanno
evidenziato l’esistenza di un complesso circolo di influenze alla base delle scelte
quotidiane di migliaia di persone. È da questo esatto studio che prende piede
un’ipotesi della trasmissione del messaggio mediatico che prevede l’intervento
di figure intermedie, note come opinion leader, fra emittente e pubblico
destinatario. Questo modello a doppio livello ammette fermamente che
l’influenza dei mezzi di comunicazione di massa sia meno potente e diretta di
quanto ipotizzato sino a quel momento. Si era infatti sempre ritenuto che questi
esercitassero un impatto determinante nei confronti dell’intera popolazione
sociale, opinione largamente ridimensionata anche grazie alla nuova attenzione
prestata alle dinamiche d’influenza fra individui appartenenti a uno stesso
contesto quotidiano.
La nuova teorizzazione vuole infatti spiegare come il filtro dei mediatori,
interposti a metà della traiettoria comunicativa, riesce in qualche modo a
ridimensionare la forza e la portata del messaggio originariamente veicolato
dalle istituzioni ufficiali – siano esse la stampa o la radio, e si potrebbe
estendere tale osservazione anche ad altri successivi mezzi comunicativi fra cui
in primis la televisione e poi Internet –. Non si tratta più dunque di un flusso
concepito come unidirezionale che, procedendo dall’alto verso il basso in modo
univoco, puntella in maniera incessante un pubblico esteso, inattivo e inerte; al
contrario, secondo questo discordante punto di vista sarebbe consentito a una
determinata e limitata porzione di audience – precisamente formata dai
mediatori culturali e dagli opinionisti – di poter operare una qualche rettifica al
messaggio iniziale, arrivando così a far propendere verso la propria posizione
larga parte del restante pubblico, relativamente inattivo, posto ai livelli inferiori
della catena comunicativa.
35
Analysis of the process of decision-making during the course of an election
campaign led the authors of The People's Choice to suggest that the flow of
mass communications may be less direct than was commonly supposed. It
may be, they proposed, that influences stemming from the mass media
first reach "opinion leaders" who, in turn, pass on what they read and hear
to those of their every-day associates for whom they are influential. This
hypothesis was called "the two-step flow of communication." (Katz, 1957,
p. 63)
L’innovativa formulazione teorica proposta doveva tuttavia fare i conti con una
concezione dell’organizzazione sociale totalmente inadatta a supportare un
simile sviluppo dei processi comunicativi: l’idea che si era sempre avuta rispetto
alle dinamiche di vita degli abitanti dei moderni centri urbani doveva essere
sottoposta a revisione e riformulata in modo diverso. Infatti, la concezione di
pubblico inteso come massa amorfa e atomistica, formata da individui separati
gli uni dagli altri ma tutti ugualmente sottoposti ai messaggi dei mezzi di
comunicazione, non forniva un substrato adatto alla trasposizione empirica
della teoria del doppio flusso.
For social theory, and for the design of communications research, the
hypothesis suggested that the image of modern urban society needed
revision. The image of the audience as a mass of disconnected individuals
hooked up to the media but not to each other could not be reconciled with
the idea of a two-step flow of communication implying, as it did, networks
of interconnected individuals through which mass communications are
channeled. (ibidem)
Ecco che allora, a partire da un’ottica divergente, si iniziò a pensare alla società
nel suo complesso come a una rete interconnessa di soggetti individuali pronti
ad accogliere e veicolare nelle loro cerchie i messaggi mediatici in cui si
imbattevano. Al crescere dell’importanza attribuita alle relazioni interpersonali
una prima e acerba teorizzazione di quella che più avanti verrà definita come
36
<<network society>> (Castells, 1996) iniziò ad accennarsi facendo la sua timida
comparsa.
I possibili scenari abbozzati dagli esiti dello studio sulle preferenze politiche
degli elettori portò allo sviluppo di vari altri studi che, partendo da una stessa
base comune, approfondirono le multiple ipotesi che la ricerca metteva in
campo. In particolare emersero tre essenziali punti da cui poter partire per
formulare ulteriori postulazioni sull’argomento. Innanzitutto ci si focalizzò
sull’impatto suscitato dall’influenza interpersonale: a seguito di ricerche mirate
si era giunti a comprovare che i contatti diretti fra persone erano stati molto più
frequenti ed efficaci rispetto alle azioni dei mass media nell'atto di influenzare
una scelta elettorale o una revoca della posizione politica precedentemente
assunta. Successivamente si tentò di sondare il flusso che l’influenza personale
seguiva nel suo diffondersi fra i diversi soggetti della popolazione. Ci si chiedeva
la motivazione per la quale alcune particolari persone – gli opinion leader –
venissero ritenute più valide e importanti rispetto ad altre quando si trattava di
dover ricevere un consiglio competente. Gli influencer vennero individuati
attraverso delle interviste, i cui risultati evidenziarono una forte orizzontalità:
venne infatti appurato che gli intermediari provenivano dalle stesse classi sociali
delle persone con le quali erano entrate in contatto influenzandole. Per ogni
livello sociale fu possibile riscontrare dei correlati influencer, che risultarono
essere molto simili alle persone che essi stessi influenzavano per la precisa
ragione di viverci a stretto contatto.
In ultimo si soppesò il grado di esposizione degli opinion leader al sistema
mediatico, ricavandone che questi erano esposti in modo di gran lunga
maggiore ai vari mezzi di comunicazione – stampa, radio, televisione ecc... –
rispetto a ogni altro individuo ordinario.
Prendendo in considerazione questi nuovi punti fermi a cui si era arrivati, si
assunse dunque che gli individui che non potevano essere considerati dei leader
fossero da reputarsi come i seguaci dei suddetti leader; infatti, solo dimostrando
37
questa stretta interdipendenza fra le parti sarebbe stata possibile una verifica
effettiva dell’efficacia della teoria del <<two-step flow of communication>>.
Di significativa rilevanza ai fini di questa comprova risultano allora essere lo
studio che Merton condusse sull’influenza interpersonale e sui comportamenti
comunicazionali a Rovere nonché quello portato avanti nello specifico da Katz e
Lazarsfeld riguardo ai processi decisionali in ambito di marketing, mode e
avvenimenti della sfera pubblica.
Il primo, di poco successivo a quello di Lazarsfeld, Berelson e Gaudet, ebbe
innanzitutto il merito di estendere la ricerca a un campo molto più vasto
rispetto al solo ambito politico cui faceva riferimento The People’s Choice;
inoltre si concentrò più sull’osservazione dei rapporti personali e dei
comportamenti comunicativi intercorrenti fra le diverse tipologie di opinion
leader che sulla relazione fra i leader e i loro follower. Tramite nuove interviste
si poterono finalmente localizzare quelle persone ritenute influenti in vari campi
socio-culturali dalla maggioranza della popolazione. Rispetto al precedente,
questo nuovo studio si prendeva la briga di operare una scrematura molto più
attenta; selezionando come leader solo coloro che erano riusciti a intervenire
nei processi decisionali di un maggior numero di individui di quanti non verificati
dalla ricerca sulle preferenze politiche, dimostrando così un raggio d’influenza
assai più ampio. In seguito si arrivò a identificare come i caratteri distintivi di un
ipotetico buon leader risultavano essere strettamente connessi ai valori, alla
conoscenza e alla competenza da lui posseduti nonché al suo posizionamento
strategico all’interno delle reti relazionali:
Broadly, it appears that influence is related (1) to the personification of
certain values (who one is); (2) to competence (what one knows); and (3)
to strategic social location (whom one knows). (Katz, 1957, p. 70)
Merton giunse a individuare due differenti tipologie di leader d’opinione: un
primo tipo, definito locale, ha larga facoltà di influenza sociale rispetto ai temi
38
più diversificati, in quanto è in contatto diretto con tutti i diversi livelli della sua
comunità di riferimento – non possiede però una conoscenza specifica in alcun
campo –; un secondo genere è definito invece cosmopolita e, esattamente per il
fatto di scegliere accuratamente le differenti realtà sociali a cui prendere parte,
vanta una conoscenza specifica e approfondita rispetto a precisi ambiti
d’interesse.
Il secondo studio che ho menzionato, portato avanti fra il 1945 e il 1946 sotto il
nome di Decatur Study, riprende dal punto in cui Merton si era interrotto,
ampliando le sue ricerche e focalizzandosi attentamente anche sul rapporto fra i
leader e i loro follower. La questione chiave, stavolta, ruotava attorno
all’interrogativo sull’effettivo flusso delle influenze: potevano queste diffondersi
trasversalmente fra le differenti classi sociali, da leader posti ai livelli superiori
verso loro seguaci appartenenti anche ai livelli inferiori? Oppure le loro
dinamiche erano destinate a funzionare solamente all’interno delle stesse
cerchie di cui i singoli influencer facevano parte?
Ci si concentrò sullo studio di catene di influenze maggiormente complesse
rispetto alla mera diade leader – follower, che in sé costituiva solamente
un’unità singola di un gruppo socialmente molto più strutturato ed ampio.
Inoltre non si poteva fare affidamento su alcun metodo d’analisi effettivamente
valido e praticabile per lo studio di suddetta coppia d’individui presa
singolarmente. Fu presto verificato che gli stessi soggetti che si autodefinivano
opinion leader ammettevano di essere stati a loro volta influenzati da altri
individui nel prendere le proprie decisioni; a comprova dell’esistenza di una
catena d’influenze più generale. Da queste conclusioni iniziò allora ad essere
adottata una prospettiva ancor più estesa, che considerava anche gli influencer
dei suddetti opinion leader e i legami che fra essi intercorrevano. Procedendo di
questo passo divenne lampante il fatto che la leadership esercitata da
determinati individui nei processi di influenza non potesse essere considerata
come un tratto specifico loro caratteriale, dunque attribuibile solamente a pochi
39
soggetti isolati; anzi tale facoltà emergeva come una dote possibilmente
pertinente a tutti gli individui, sempre però relativamente a determinati e
limitati contesti e tematiche. Ogni leader che si rispetti, invero, ha la necessità di
essere riconosciuto tale dall’approvazione e dalla legittimazione che riceve da
altri individui esterni, sui quali riesce ad esercitare un certo potere di
persuasione. Questi individui esterni ovviamente non sono gli stessi ovunque e
comunque e anche su questo fattore si gioca la questione della relatività
intrinseca di ogni leadership.
In conclusione, i risultati emersi dai differenti successivi studi che ho fin qui
riportato evidenziarono come
In addition to serving as networks of communication, interpersonal
relations are also sources of pressure to conform to the group's way of
thinking and acting, as well as sources of social support. (ivi p.72)
Per quanto riguarda il supporto sociale fornito dalle reti relazionali
interpersonali, spesso è proprio la sicurezza derivata dal poter contare
sull’appoggio del proprio gruppo di riferimento che spinge il singolo individuo a
realizzare progetti d’innovazione. In riferimento invece alla pressione esercitata
dal gruppo di appartenenza sull’individuo affinché questo si conformi con le
logiche del gruppo, è possibile che in situazioni di incertezza o di scarsa
chiarezza si prediligano delle scorciatoie decisionali che portano a seguire
ciecamente la stessa strada intrapresa dalla propria cerchia di riferimento; in
quanto considerata come un “porto sicuro”.
Ricollegandomi ora alla questione del relativismo culturale, esposta all’incipit
del presente paragrafo, posso constatare come anche il potere d’influenza
esercitato dai leader d’opinione risulti essere in sé limitato. Infatti si tratta
sempre di un potere intrinsecamente plurale e multiforme, possibilmente
esercitabile da qualsivoglia individuo per un ristretto periodo di tempo ed entro
40
un contesto geografico e sociale preciso; il tutto dopo aver raccolto attorno a sé
l’approvazione di un consistente e solido gruppo di altri soggetti sociali.
Se dunque l’autorità rimane concentrata di volta in volta nelle mani di un esiguo
numero di soggetti, il rapido ricambio della leadership nei più disparati campi,
che segue le stesse curve di sviluppo e decadenza assunte dal fenomeno moda,
assicura una democraticità tutta nuova alle dinamiche di creazione e
introduzione dell’innovazione sociale. All’interno dei suoi meccanismi sono ora
chiamati a partecipare tutti coloro che vogliano cimentarsi nel ruolo di guide
della collettività, accompagnandola nelle future tappe del suo percorso
evolutivo.
Col passare del tempo le figure degli influencer assumeranno un carattere
sempre più effimero e contingente, in stretta connessione con la messa in
campo di nuove tecnologie di comunicazione e con i cambiamenti nelle pratiche
e nella natura delle relazioni sociali che si presenteranno di pari passo con esse.
Mi riferisco soprattutto all’avvento di quella che viene definita come <<Tripla
Rivoluzione>> (Rainie & Wellman, Networked. Il nuovo sistema operativo
sociale, 2012, p. 7) che, portando alla nascita della rete Internet e
all’introduzione della tecnologia mobile, modificherà profondamente l’assetto
quotidiano, la struttura organizzativa e i contesti di vita di tutte le popolazioni
che ne subiranno l’influsso. Ancora una volta una maggiore possibilità di
partecipazione implicherà una corrispettiva “perdita di sovranità” da parte delle
vecchie gerarchie, portando alla nascita di uno spazio pubblico all’interno del
quale la possibilità d’azione del singolo si trova necessariamente limitata
dall’emergenza di altri individui che, come lui, tentano in qualche modo di
spiccare in mezzo alla folla. Tale argomento verrà però discusso più nel dettaglio
nel successivo capitolo.
1.3 Indossare la tecnologia: l’abito come medium
Come ho avuto modo di esporre nei due precedenti paragrafi, è possibile
tracciare un parallelismo fra lo sviluppo strutturale di due dei sistemi
41
istituzionali più potenti all’interno del panorama socio-culturale moderno: moda
e media sviluppano logiche di funzionamento affini e sfruttano simili
meccanismi nella messa in atto dei loro processi d’influenza. Se in un primo
momento la struttura di entrambi i settori risulta essere profondamente
antidemocratica, di impostazione piramidale e di gestione ristretta a poche
figure potenti; in un secondo momento questi si vedono attraversati da un
cambiamento che ne mette in profonda crisi gli assetti tradizionali. Specchio
della società della loro epoca, tali organismi di produzione culturale e simbolica
subiscono gli influssi del fermento del corpo sociale, che chiede una maggior
partecipazione alla vita culturale nonché la possibilità di dar vita a una propria
visione personale delle cose.
Nel corso del loro continuo aggiornamento evolutivo queste due grandi
istituzioni conosceranno una simbiosi sempre più stretta ed entrando in
interazione fra loro contribuiranno a fondare una maggiore complessità per
ciascuno dei due ambiti coinvolti; le loro forze si intersecheranno sempre più,
ognuna derivando utili spunti dalla propria controparte, e si arriverà ad una
situazione dove, sostenendosi a vicenda, moda e media giungeranno a generare
soluzioni innovative e ad alto potenziale attrattivo.
La correlazione esistente fra i due campi culturali risulta evidente per Marshall
McLuhan già a partire dagli anni Cinquanta del Novecento, epoca in cui lo
studioso della comunicazione introduce la disciplina specialistica nota come
Mediologia per discuterne caratteristiche, potenzialità, effetti e possibili sviluppi
futuri. Esponente della scuola di Toronto, egli rilegge la storia dell’umanità come
il percorso evolutivo delle tecnologie di comunicazione, identificando quattro
diverse fasi cruciali (McLuhan, La galassia Gutenberg: nascita dell'uomo
tipografico, 1976): quella dell’oralità primaria, nel Medioevo, quella
dell’invenzione della scrittura, nel IV sec. a.C., quella dell’invenzione della
stampa a caratteri mobili che, dal 1455, segna la nascita della <<Galassia
Gutenberg>>, infine quella caratterizzata dall’avvento dell’elettricità che, a
42
partire dagli anni Venti del Novecento, segna l’ingresso nella <<Galassia
Marconi>>.
Secondo il suo pensiero ogni epoca storica è contrassegnata dalla predominanza
di un medium specifico, capace di influenzare la cultura del tempo e di
determinare la sensibilità e il “modo di vedere” dei soggetti che la abitano. Ogni
mezzo comunicativo porta inoltre all’acuirsi di un preciso organo sensoriale,
pregiudicando l’equilibrio dell’apparato nel suo complesso.
Se una tecnologia viene introdotta in una cultura sia dall’interno sia
dall’esterno, e se provoca una nuova accentuazione o supremazia di uno o
dell’altro dei nostri sensi, allora il rapporto tra tutti i sensi ne risulta
alterato. […] L’intreccio dei sensi è costante eccetto in condizioni di
anestesia. Ma ognuno dei sensi quando venga acutizzato ad un alto livello
di intensità può fungere da anestetico nei confronti degli altri sensi. (ivi
p.50)
Se allora la <<Galassia Gutenberg>> fu connotata dall’emergere di un mezzo
specifico, la scrittura, e dalla predominanza della vista sugli altri sensi, la
<<Galassia Marconi>> è dominata sì dalla nascita di molteplici media – il
telefono, la radio, la televisione – ma, ancora, tutti ugualmente basati su di un
unico mezzo, l’energia elettrica, ed è segnata, questa volta, dal prevalere delle
facoltà uditive. Quest’ultimo universo viene considerato come il periodo
durante il quale si manifesta un’oralità secondaria, un ritorno alla fase orale
tipica dell’era tribale; tuttavia, le moderne tecnologie che vi nascono dipendono
sempre in ugual misura dalla stampa e dalla scrittura.
[…] oggi, con l’elettricità […] ci muoviamo rapidamente di nuovo in un
mondo uditivo […] E tuttavia le abitudini della scrittura permangono nel
nostro modo di parlare, nella nostra sensibilità, nel nostro modo di
strutturare lo spazio e il tempo della vita quotidiana. (ivi p.55)
43
Infatti, i nuovi mezzi comunicativi non arrivano mai a surclassare del tutto quelli
che li hanno preceduti, ma anzi li inglobano nel corso del loro sviluppo. <<Il
mezzo è il messaggio>>, ogni contenuto di un mezzo è esso stesso un altro
mezzo: i vari media si trovano interconnessi in una rete entro la quale ognuno
rimanda all'altro come nella logica dell’ipertesto, ossia quella tipologia di testo
che contiene in sé collegamenti ad altri testi o a contenuti situati altrove. Certo,
poi ogni mezzo ha la propria specificità e produce effetti suoi peculiari.
Altra importantissima considerazione avanzata dal mediologo è quella secondo
cui ogni medium è portato a creare degli “ambienti” entro cui la vita umana si
trova ad agire. Secondo tale concezione ecologica la metropoli stessa può
considerarsi come un medium, in quanto ambiente che supporta le relazioni
umane e produce una trasformazione nelle forme di vita e nella psicologia degli
individui che la abitano. Se inoltre è il contesto entro cui un medium nasce, oltre
al suo intrinseco connotato tecnologico, a determinarne il funzionamento, allora
tecnologia e vita umana si modificano di pari passo, in simbiosi, plasmandosi a
vicenda. Se, secondo la dottrina mcluhaniana, ogni mezzo modifica le facoltà
percettive e cognitive umane e di conseguenza le forme di organizzazione stesse
della società e della realtà, ecco che i media risultano, dunque, strettamente
connessi al sistema nervoso centrale, configurandosi come sue vere e proprie
estensioni tecnologiche. L’uomo fa propria la tecnologia e la plasma,
introducendo nuove pratiche d’utilizzo nel servirsene quotidianamente. Allo
stesso tempo però, come abbiamo visto, anche la tecnologia esercita, in egual
misura, un potere sull’essere umano.
Avendo chiara in mente questa struttura teorica si può ora considerare lo
specifico del tema dell’abbigliamento, nell’analisi dell’influenza che l’abito, in
quanto mezzo di comunicazione, attua nei confronti dell’individuo che lo
indossa.
Come rimarca Nello Barile in una brillante interpretazione delle teorizzazioni
mchluhaniane (Barile, Abito, corpo, tecnologia. La moda come antenna del
44
mutamento: da Marshall McLuhan agli scrittori cyberpunk, 2015), la concezione
ciclica, propria dei meccanismi di diffusione della moda, risulta essere
determinante nella visione del mediologo canadese. McLuhan infatti fa
coincidere il processo di avvicendamento delle epoche nella storia della civiltà
umana con
[…] l'idea di ciclo nel suo senso pieno. Non solo come momento che si
consuma dopo il raggiungimento di un picco di crescita e d'esposizione, ma
come qualcosa che ritorna al passato e lo riattualizza. (ivi p.84)
Come già attestato precedentemente, secondo questa logica la progressiva
evoluzione della tecnologia segna un continuo alternarsi di affermazione e
decadimento di determinate strutture organizzative e fogge culturali. Si tratta di
un moto autoriflessivo, che ripiegandosi su sé stesso prepara l’avvenire futuro;
rielaborando in maniera innovativa il proprio passato secondo un andamento
fortemente discontinuo.
[…] l'autore definisce "limite di rottura," recuperando la definizione di
Kenneth Boulding […] il punto in cui l'espansione di un dato processo
tecnologico e culturale raggiunge un grado d'intensificazione […] al di là del
quale esso tende a consumarsi per diventare l'opposto di ciò che era. (ivi
p.85)
Quando un dato fenomeno perviene al suo punto estremo di sviluppo,
esaurendo tutta la propria carica iniziale, non può far altro che lasciare spazio al
nuovo; l’esasperazione che però alla lunga ha subito lo porta a raggiungere un
vertice di criticità tale che l’intero sistema pare <<reagire con una sorta di crisi
di rigetto.>> (ibidem), producendo una forza del tutto antitetica e divergente
rispetto a quella precedente da tempo saturatasi.
Nel dodicesimo capitolo della celeberrima opera Understanding Media, del
1964, McLuhan scandaglia più nel dettaglio l’abbigliamento, ovvero il precipuo
strumento di comunicazione implementato dalla moda per esprimere i propri
45
significati simbolici e contingenti. Innanzitutto, dato che secondo la dottrina
mcluhaniana i mezzi comunicativi altro non sono che estensioni tecnologiche
delle facoltà umane, l’abito viene considerato come un prolungamento della
pelle. In quanto strumento, viene poi descritto da un punto di vista prettamente
tecnico. Risulta avere innanzitutto una funzione pratica, poiché serve a tutelare
il proprio contenuto: funge infatti da membrana protettiva, coprendo il corpo
del soggetto che lo indossa e mantenendone stabile la temperatura corporea. È
inoltre ipotizzato che l’abito possa esercitare una funzione segnaletica, agendo
<<come un mezzo per definire socialmente la persona.>> (McLuhan, Gli
strumenti del comunicare, 1967, p. 129) e assumendo dunque un ruolo
simbolico propriamente per il fatto di essere uno strumento atto a veicolare dei
significati agli interlocutori sociali.
Procedendo nella sua dissertazione McLuhan paragona la macchina da cucire
alla macchina per la composizione tipografica automatica, e così facendo
[…] apre la possibilità d'inserire l'evoluzione dell'abbigliamento nella più
generale concettualizzazione sullo sviluppo dei media e, nella fattispecie,
sul passaggio dalla galassia alfabetica a quella elettrica. La linea dritta della
macchina da cucire sarebbe in grado di uniformare il discorso dell'abito
come la linotype ha fatto con il discorso vero e proprio. (Barile, Abito,
corpo, tecnologia. La moda come antenna del mutamento: da Marshall
McLuhan agli scrittori cyberpunk, 2015, p. 91).
La standardizzazione dei processi produttivi della moda porta a una
semplificazione delle linee dei capi d’abbigliamento e a un’uniformizzazione
nell’apparire degli individui sociali, che possono ora permettersi manufatti a
costi minori. La moda diviene vero e proprio fenomeno di massa e la strategia
dell’obsolescenza programmata dei beni subisce una forte accentuazione.
Già Simmel agli inizi del secolo aveva rilevato come l’abito fosse in grado di
esprimere una particolare coercizione nei confronti del proprio indossatore:
46
Chi può e vuole seguire la moda porta abbastanza spesso vestiti nuovi. Ma
il vestito nuovo condiziona il nostro comportamento più di quello vecchio
che si è completamente adattato ai nostri gesti, cede senza resistenza […]
Sentirsi “più comodi” in un vestito vecchio che in uno nuovo, significa che
l’abito nuovo ci impone il suo statuto formale […] il vestito nuovo
conferisce a chi lo porta una certa uniformità sovrindividuale
nell’atteggiamento (Simmel, 1996, p. 23).
Certo, qui si tratta di una considerazione che non ha nulla a che fare con
l’assetto socio-culturale cui si riferisce invece McLuhan, profondamente
plasmato dall’avvento dei processi industriali e reinventato dallo sviluppo di
nuove tecnologie nonché da una revisione degli assetti sociali verso un modello
più spiccatamente democratico. Inoltre mentre il primo sociologo esamina il
fenomeno moda, il secondo si sofferma invece sul singolo suo elemento base,
l’abito, estraniandolo momentaneamente da un discorso riferito alla dinamica
delle tendenze vestiarie e abbracciando una
<<[…] concezione più generale che investe lo stesso rapporto tra la
meccanizzazione indotta dalla stampa a caratteri mobili e gli effetti
dell'organizzazione fordista intesa come meccanizzazione dell'intero corpo
sociale.>> (Barile, Abito, corpo, tecnologia. La moda come antenna del
mutamento: da Marshall McLuhan agli scrittori cyberpunk, 2015, p. 92).
McLuhan arriva infatti solo in seguito a estendere le considerazioni portate
avanti nella suddetta trattazione, precisamente in un articolo redatto per
Harper’s Bazaar (McLuhan, Fashion is medium, 1968); celebre rivista del settore
moda. Qui il mediologo si focalizza sul sistema moda nel suo insieme e ne
indaga gli sviluppi secondo quell’ottica ciclica che segna l’incedere e l’esaurirsi di
ogni fenomeno culturale e di ogni era umana. L’intero sistema nel suo
complesso nonché il suo contenuto, l’abbigliamento, risultano anch’essi
sottoposti a una continua riscrittura; influenzata dai paradigmi culturali vigenti
entro le peculiari soglie di ogni fase storica.
47
McLuhan opera un parallelismo fra l’evoluzione delle forme vestimentarie e lo
sviluppo di una diversa forma di società, meditando sulla discontinuità che si
riscontra fra il costume dell’epoca orale e l’abito tipografico dell’era dominata
dall’introduzione della stampa; che apporta un forte tratto di meccanicizzazione
a tutti i restanti processi sociali.
La stampa […] immediata estensione tecnologica della persona umana […]
è un mezzo di comunicazione oltreché una merce […] essa insegnò agli
uomini come organizzare ogni altra attività su una base lineare e
sistematica. (McLuhan, La galassia Gutenberg: nascita dell'uomo
tipografico, 1976, p. 191)
Se nella fase tribale l’uomo viveva in simbiosi con la natura, in quella successiva
si riscontra un corrispondente ritorno del dato naturale, trapelante stavolta
dalle stesse fogge vestiarie adottate. <<La nuova moda che contraddistingue
l'era elettrica sarebbe, dunque, votata al culto di una nudità secondaria o "di
ritorno.">> (Barile, Abito, corpo, tecnologia. La moda come antenna del
mutamento: da Marshall McLuhan agli scrittori cyberpunk, 2015, p. 93), simboli
di questa nuova vertenza sarebbero il bikini, che lascia a vista una maggiore
percentuale di epidermide, o meglio ancora la minigonna, che per il suo
carattere unisex – se in riferimento ad esempio al kilt – può essere indossata
universalmente sia dal genere femminile che da quello maschile. L’adozione dei
suddetti capi d’abbigliamento si configura, nel tempo, come nuova uniformità
culturale ed è ritenuta da McLuhan spia del ritorno del tribale sotto forme
diversificate rispetto a quelle delle origini.
Procedendo nella sua argomentazione, come nota Barile, il mediologo riesce a
<<[…] intuire la transizione dalle vecchie regole del sistema moda alle
nuove […] riesce a cogliere il sostanziale slittamento dall'epoca in cui
prevale una
moda
impositiva, imitativa e
massificata
(appunto
"alfabetica"), verso un nuovo assetto in cui prevale l'istanza di
48
emancipazione e di auto-espressione contro i vecchi diktat dell'impero
dell'effimero.>> (ivi p.95)
È proprio nel periodo in cui Fashion is medium è redatto che nella società sono
in atto dei movimenti di così vasta portata da condurre poi a una sua
riconfigurazione totale; in primis faccio riferimento, in questa circostanza, alla
democratizzazione del settore moda. McLuhan dunque, come un veggente,
sembra anticipare quanto accadrà nei decenni successivi, quando le logiche
dello stile individuale prevarranno nettamente sull’acritica adesione alla
tendenza di massa o dominante; divenendo fondamentale strumento per la
costruzione della propria identità soggettiva. <<La moda non è più dettata
dall'esterno […] L’abbigliamento non è più un imballo […] E diventato
un'estensione della nostra pelle, del nostro carattere intimo.>> (McLuhan,
Fashion is medium, 1968, p. 214).
Il gusto, le preferenze e gli ideali propri del soggetto sono comunicati da quel
prolungamento della propria interiorità che è l’abito, personalizzabile in
un’infinità di modi singolari e oltre ogni qualsivoglia coercizione o imposizione di
potere.
A vari anni di distanza rispetto alle teorizzazioni del celebre mediologo voglio
ora portare brevemente l’attenzione su un ambito di ricerca oggigiorno molto
rilevante, ossia quello relativo alle nuove tecnologie dell’abbigliamento. Col
termine wearable technologies vogliono indicarsi precisamente quelle
particolari tipologie di indumenti e accessori che, sviluppando innovative
commistioni di moda e tecnologia, sperimentano nuove modalità di includere
l’utilizzo dei device informatici nella vita quotidiana degli individui; ponendoli a
stretto contatto con il loro corpo. L’abito assume dunque una natura aperta e
malleabile, modificandosi in risposta sia delle specifiche condizioni ambientali
con cui entra in contatto sia di tutti gli altri stimoli che riceve dall’esterno. Le
nuove strumentazioni tecnologiche di cui si vede dotato gli consentono così di
49
potenziare
le
proprie
prestazioni
nei
confronti
delle
due
funzioni,
rispettivamente protettiva e comunicativa, che gli sono proprie. L’introduzione
di nuove applicazioni in campo tessile consente di avviare la produzione di fibre
e materiali di nuova generazione, capaci di approdare a standard più elevati in
fatto di igiene, regolazione corporea, comfort, praticità e sicurezza. Sfruttandoli
si possono realizzare capi che si adattano alle più svariate tipologie di ambiente
nonché alle molteplici necessità dei consumatori, fungendo letteralmente da
seconda pelle. L’abito inoltre, grazie al parallelo processo di miniaturizzazione
dei dispositivi elettronici, può trasformarsi in un <<sistema senziente
interconnesso con molteplici sistemi>> (Barile, Manuale di comunicazione,
sociologia e cultura della moda, 2006, p. 142) entrando in comunicazione con
l’esterno.
La ricerca riguardo alle tecnologie indossabili prende l’avvio da reparti specifici
di indagine quali l’esercito, il mondo dello sport e particolari ambiti lavorativi
quali quello medico-ospedaliero o della pubblica sicurezza, o ancora quello
dell’aeronautica spaziale. Sono esattamente le condizioni estreme e insolite cui
sono sottoposti i lavoratori di questi contesti che spingono i ricercatori a
configurare nuove attrezzature e dotazioni tecniche capaci di rendere più
agevole e sicuro lo svolgimento delle attività a essi connesse. Rilevante risulta
essere inoltre l’orientamento in questa stessa direzione da parte di collettivi
sottoculturali tecno-entusiasti.
Negli anni, poi, molti grandi brand hanno investito sul potenziamento delle
possibilità offerte dai loro prodotti di abbigliamento, considerando le nuove
tecnologie come l’elemento competitivo sui cui puntare per poter emergere
rispetto agli altri marchi loro concorrenti. A partire da quel momento l’ambito di
applicazione delle wearable technologies ha iniziato dunque a estendersi anche
a prodotti destinati a un pubblico meno specialistico. Oggi infatti esistono
numerosi esempi di smart clothing, a supporto di quei peculiari stili di vita
propri di una clientela assai differenziata.
50
Come nota Barile (op. cit. p.48) le diverse soluzioni cui si è pervenuti in ambito
di nuove tecnologie del vestire possono essere raggruppate sotto tre principali
categorie. Un primo sottogruppo riguarda le innovazioni intrinseche, vale a dire
quelle
strettamente
connesse
alla
struttura
costitutiva
del
capo
d’abbigliamento; queste includono tutti quei miglioramenti che si sono raggiunti
a livello di tessuti e materiali grazie all’implemento di nano e biotecnologie. Un
secondo sottogruppo si riferisce invece a tutte quelle integrazioni estrinseche,
ossia poste in aggiunta all’indumento base; un esempio potrebbero essere quei
particolari capi che permettono di integrare lettori musicali, satelliti GPS o
applicazioni per lo sport all’abbigliamento di tutti i giorni, grazie a un sistema
invisibile di micro innesti. Un ultimo raggruppamento include poi tutti quei
prodotti complementari nati dall’incontro fra aziende del ramo della moda con
altre del ramo della tecnologia, destinati a rappresentare elementi di secondo
piano rispetto alle primarie attività di tali istituzioni; fra questi vi sono
soprattutto accessori ad alto contenuto tecnologico quali spesso orologi o
occhiali da sole.
Ecco allora che la deduzione mcluhaniana si concretizza in pieno: l’abito diviene
in tutto e per tutto una nostra estensione tecnologica, dotata di sensibilità
propria e capace di intervenire in relazione ai nostri contesti di vita quotidiani.
1.4 Un nuovo statuto per le emozioni
Fino a questo momento, appoggiandomi al supporto offertomi dagli scritti di
alcuni esperti in materia, ho concentrato l’attenzione sul collegamento esistente
fra abbigliamento e tecnologia comunicativa, evidenziando come i due campi di
studio della moda e della comunicazione presentino molteplici punti d’incontro.
Ora voglio soffermarmi invece su un concetto che mi sarà utile per commentare
le parti successive del mio elaborato e che ritengo necessario chiarificare in
quanto espressione di un preciso orientamento della nostra attuale società.
Il termine <<feticismo tecnologico>> tiene insieme due differenti vocaboli che, a
primo acchito, risulterebbero essere incompatibili. <<Feticismo>> deriva da
51
<<feticcio>> e può indicare, così come lo definisce il vocabolario della lingua
italiana Treccani, una
1. Forma di religiosità primitiva, consistente nel culto di oggetti naturali,
talora anche di oggetti fabbricati a fini rituali o profani, considerati come
sacri e dotati di particolare potenza. […] 3. Forma di perversione sessuale
che concentra il desiderio erotico, consentendone l’appagamento, su una
parte del corpo del partner o su un oggetto che gli appartiene (in genere un
indumento). 4. Nel pensiero marxiano, f. delle merci, la circostanza,
ritenuta tipica del rapporto di produzione capitalistico, per la quale le merci
non rappresenterebbero semplici oggetti fisici ma rispecchierebbero
rapporti sociali e situazioni antropologiche, gli uni e gli altri riducendosi in
tal modo alla loro espressione produttiva, materiale (2016)2
Di grande importanza risulta essere quest’ultima definizione in quanto il lemma
si afferma nell’uso sociale soprattutto grazie Karl Marx. Ne Il Capitale (1867) il
filosofo parla di <<feticismo delle merci>> per indicare quella particolare
evenienza, riscontrata specificatamente nel contesto della società capitalistica,
per la quale i manufatti realizzati in ambito produttivo cessano di rappresentare
dei meri elementi fisici, assumendo un carattere sovrasensibile e in un certo
senso auratico; supplementare rispetto alla loro essenza oggettuale e al loro
valore d’uso. Secondo tale concezione essi divengono infatti dei surrogati delle
relazioni umane le quali, all’interno del mondo capitalistico, sono celate sotto
forma di questi stessi prodotti alienati, che tendono così ad assumere un
carattere loro proprio e indipendente rispetto alla mano che li ha creati. I
rapporti umani sono dunque ridotti, di conseguenza, a scambi fra cose.
Partendo da questa riflessione, voglio portare l’attenzione sul significato che le
merci in generale e, nello specifico, i beni ad alto contenuto simbolico e a
elevato connotato tecnologico hanno assunto per la società contemporanea. Si
è verificato un progressivo inasprimento di quelle condizioni presentate da Marx
2
Vocabolario on line Treccani. Treccani.it.
http://www.treccani.it/vocabolario/feticismo/
52
Consultato
il
30
agosto
2016,
da
nella seconda metà del XIX secolo; Il valore di scambio degli oggetti è sempre
più preponderante rispetto al loro valore d’uso e le merci sono caricate di
sempre più significati esterni per poter attrarre a sé il maggior numero di
consumatori possibile. Questa precisa sorte si riscontra in modo assai evidente
per tutti quei beni secondari quali possono essere capi d’abbigliamento ed
apparecchi tecnologici, che più che essere scelti per la loro utilità funzionale
sono sempre più spesso adottati per il valore di status che riescono a esprimere,
per i significati simbolici che trasmettono.
La tecnologia, seguendo i meccanismi intrinsechi del fenomeno moda, è
sottoposta a un ricambio sempre più rapido e programmato, sulla scorta delle
tendenze sociali e dei nuovi bisogni che di conseguenza si configurano; anch’essi
presentandosi a intervalli di giorno in giorno sempre più freneticamente
cadenzati. L’obsolescenza dell’innovazione tecnologica ricalca quella relativa al
settore moda e il legame fra i due livelli è sempre più pregnante. È così che
personal computer, smartphone e fotocamere digitali cedono presto il passo ai
loro aggiornamenti e potenziamenti successivi, conoscendo una vita sempre più
breve. Ma, cosa sono diventate esattamente queste “protesi tecnologiche” nel
nostro quotidiano? Che ruolo hanno assunto nei nostri contesti di vita? Sarà mia
premura rispondere a questi e altri interrogativi nel capitolo seguente, per
ritornare ora alla questione del feticismo e indagarla in modo più approfondito.
Abbiamo appurato che talune merci non fanno gola agli individui solamente per
quello che esse sono in quanto tali, ma soprattutto per quello che appaiono: per
gli scenari che sono in grado di far intravedere e per gli orizzonti di significato
che dispiegano dinanzi al soggetto che ne fa uso, per quei precisi messaggi che
gli permettono di veicolare agli altri individui servendosene. Con la dovuta
precauzione ci si può riferire ai suddetti oggetti definendoli feticci, in quanto
essi assumono delle caratteristiche accessorie per mezzo delle quali diventano
degni di essere avvalorati – se non in certi casi idolatrati – maggiormente di
quanto di per sé non accadrebbe. Con le prime esposizioni universali, potente
53
dispositivo di comunicazione visiva, si compie la prima fase verso una
familiarizzazione del grande pubblico con le merci; queste non sono più
percepite come estranee – come prodotto alienato del lavoro dell’operaio che
le ha generate – in quanto, all’esatto scopo di farle sentire più vicine al
consumatore, vengono messe in mostra in modo altamente spettacolarizzato ed
emozionale, enfatizzando il loro potere attrattivo. Come afferma l’antropologo
Massimo Canevacci <<La dimensione visuale crea un valore aggiunto tra il corpo
della merce e il corpo del consumatore. Questo valore aggiunto vivifica nelle
nuove forme del feticismo.>> (Canevacci, 1995, p. 18).
Tutto ciò risulta incrementato soprattutto all’interno dell’ambiente altamente
tecnologico entro il quale siamo immersi, in quanto esso contribuisce in misura
ancor maggiore a modificare la nostra percezione del reale. Il confine che un
tempo segnava una netta linea di demarcazione fra mondo delle cose e mondo
delle persone diviene progressivamente più labile in una società che fa sempre
più fatica a discernere fra apparenza e realtà dei fatti. Il divario fra cose e
persone si fa di continuo più soffuso: crollano le gerarchie che tenevano un
tempo separati i due universi, la contaminazione è oramai da tempo in atto.
Nell’ambito della comunicazione tecnologica si attua infatti una trasformazione
delle cose da oggetti passivi a soggetti attivi: <<Esse non sono più “oggetti”,
bensì pienamente soggetti, hanno cioè una loro individualità […] sensibilità e
intelligenze. Una loro biografia. Hanno un “corpo” pieno di simboli e segni.>>
(ivi p.16) La cosa inanimata passa ad assumere così un attributo emozionale
proprio dell’essere umano, acquisendo un’autonomia e un’identità proprie,
distinguendosi dalla moltitudine delle altre merci. Al pari degli esseri umani
arriva addirittura a comunicare la propria identità e a lottare per la propria
affermazione al cospetto delle altre cose concorrenti. Ciò che si trasforma è
allora la natura stessa della cosa oggettuale, che assume uno statuto ontologico.
Da sempre la facoltà del sentire è servita come distinguo basilare fra essere
umano e mondo delle cose, ma se in un’ottica totalmente innovativa l’uomo
54
fosse invece considerato come una cosa senziente? Mario Perniola (1994),
riprendendo la terminologia introdotta da Walter Benjamin, parla di <<sex
appeal dell’inorganico>> come di una condizione che si colloca a metà strada fra
la fredda impersonalità e insensibilità delle cose e la soggettività sensibile
dell’essere umano. Per avvicinarci all’idea di questo nuovo orizzonte ontologico
il filosofo ci invita a considerare il corpo come qualcosa a sé rispetto alle facoltà
sensibili dell’individuo, approdando così al concetto di corpo de-funzionalizzato:
qui ogni desiderio o necessità risultano annullati o sospesi, in quanto il corpo
non arriva ad assolvere più alcuno scopo e <<raggiunge la fissità imperitura delle
cose […] è diventata impossibile ogni esperienza soggettiva>> (ivi p.42) Si entra
allora in una situazione dove il corpo del soggetto appare come un’autonoma
estensione inorganica cui egli può prestare le proprie facoltà sensorie affinché
gli divenga possibile sentirsi.
<<Corpo senz’organi vuol dire che tra il mio corpo e il suo non c’è
differenza, perché entrambi sono una cosa che sente, una cosa che cui noi
prestiamo per così dire il nostro apparato sensibile affinché essa si senta. È
proprio questo sentire neutro di un corpo che non appartiene a nessuno,
ma alla cui sensibilità noi possiamo sempre accedere, che ne fa qualcosa di
sempre disponibile, tale da suscitare un’eccitazione infinita. Esso è là
sempre pronto e spalancato in tutta la sua estensione.>> (ivi p.43)
Il filoso descrive l’avvento di una nuova sensibilità contemporanea che si forma
dall’incontro fra sessualità e filosofia: si tratta di una sessualità artificiale e
neutrale in quanto, oggi, gli “oggetti del desiderio” risultano essere sia entità
animate che inanimate. Non è mai totalmente soddisfatta, non si estingue,
oscilla continuamente da questo ad altro; non è mai data e determinata ma è un
andirivieni costante di sensazioni. I concetti di alienazione, del soggetto rispetto
al proprio corpo, così come quello di reificazione, delle facoltà sensorie umane
all’interno di un oggetto, risultano fondamentali per poter comprendere questa
condizione.
55
A proposito di reificazione dell’umana facoltà di sentire, la sociologa Eva Illouz
propone un’interessante lettura delle dinamiche relazionali contemporanee. Nel
suo saggio intitolato Intimità fredde (2007) descrive la modalità attraverso cui le
emozioni umane, poste all’interno del circuito di produzione capitalistico,
tendano a reificarsi, assumendo un’esistenza propria e autonoma rispetto al
soggetto cui sono riferite e divenendo vere e proprie merci; pronte a essere
scambiate grazie a una loro libera circolazione in ambito pubblico. La sociologa
concentra le proprie osservazioni in particolar modo sull’attitudine, riscontrata
ad ampio raggio fra gli individui della società attuale, di esternare le proprie
emozioni – e soprattutto la propria sofferenza – in una narrazione destinata a
intrattenere un vasto pubblico.
Possiamo […] osservare come la narrazione psicologica trasformi i
sentimenti [...] in oggetti da esporre al pubblico, in questioni su cui
discutere e dibattere. Il soggetto prende parte alla sfera pubblica
attraverso l'analisi e l'esposizione di sentimenti privati. (ivi p.89)
Sono molte infatti le occasioni in cui il privato diviene affare collettivo e in varie
sedi differenti l’essenza intima del soggetto viene trasformata in qualche cosa
da presentare all’interno dell’arena sociale, dove verrà scandagliata e
commentata da differenti interlocutori. La studiosa ipotizza che tutto ciò sia
dovuto a una necessità dettata dal dilagare dell’individualismo e che il fine
ultimo di tale atteggiamento, per il soggetto, sia quello di incontrare
approvazione e conforto da parte degli altri attori sociali, denotati come
<<"comunità di destino" o di sofferenza>> le quali <<rappresentano una
struttura performativa simbolica che compie il risanamento: termine e scopo
della narrazione.>> (ivi p.93). Illouz intravede dunque la nascita di una nuova
forma di capitalismo, che sfruttando i sentimenti arriverebbe a fare l’interesse
di diversi attori istituzionali fra cui in particolare lo Stato, il mondo accademico,
vari rami dell’industria culturale, molteplici categorie professionali, nonché
numerose compagnie assicurative e case farmaceutiche.
56
L'atto stesso del narrare e di essere trasformati dalla propria narrazione è
la merce che viene prodotta, elaborata e messa in circolazione da una vasta
compagine di esperti (psichiatri, psicoterapeuti, medici e consulenti) e di
canali mediatici (riviste maschili e femminili, talk show, programmi radio
con la partecipazione telefonica degli ascoltatori e così via). (ivi p.94)
Le emozioni all’interno della società dei consumi sono confezionate
appositamente per poter essere fruite alla stregua di qualsiasi altro prodotto di
consumo, diventano la nuova moneta di scambio nel contesto delle relazioni
interpersonali. Inoltre, il processo di spettacolarizzazione dell’identità personale
si riconfigura adottando nuove strategie e si potenzia grazie all’azione dei mezzi
di comunicazione che, veicolandola, ne amplificano la portata.
Nella terza parte del libro Illouz si sofferma ad analizzare più nello specifico i siti
di incontri online, trattenendosi sulla loro impalcatura strutturale e sulle
modalità di comunicazione che essi adottano. Porta così alla luce importanti
caratteristiche loro costitutive che, con le dovute precauzioni, ritengo possano
essere applicate più in generale anche alla logica comunicativa tipica
dell’ambiente dei social network online. La sociologa nota come:
Internet […] trasformi l’io privato in oggetto da esibire pubblicamente. […]
Internet contribuisce alla testualizzazione della soggettività […] e cioè a una
modalità di autocoscienza in cui l’io viene esteriorizzato ed oggettivato
tramite mezzi visivi di rappresentazione e di linguaggio. (ivi p.120)
Definisce inoltre tale ambiente come un <<libero mercato di libera concorrenza
con altri>> (ivi p.121), evidenziando quella particolare smania di competizione
fra identità che ha spesso luogo online; dove ciascuno è spinto a dare la migliore
espressione e rappresentazione del proprio sé. Anticipando un concetto che
verrà discusso in maniera più esaustiva nel corso del successivo capitolo, si
potrebbe parlare a tal proposito di logiche di selfbranding. Infatti Internet <<[…]
trasforma l’io in un prodotto confezionato […] rende incerte le persone riguardo
57
[…] il proprio valore su un mercato così strutturato e ansiose di migliorare la
propria posizione su quel mercato.>> (ivi p.132).
58
2. IL NUOVO ECOSISTEMA MEDIATICO
Il grado di interconnessione instauratosi, nel tempo, fra vecchi e nuovi
strumenti comunicativi tecnologici ha dato vita a un sistema mediatico sempre
più ampio e complesso. Oggi siamo costantemente immersi all’interno di tale
contesto e, avendoci fatto l’abitudine, sembriamo non rendercene nemmeno
troppo conto.
Ho scelto di utilizzare il termine <<ecosistema>> per indicare questo particolare
ambiente in cui la vita umana, di natura biologica, e la tecnologia, di natura
inorganica, tendono a vivere a strettissimo contatto fra loro; la tecnologia,
infatti, è sempre più presente nei nostri contesti quotidiani e ci diventa quasi
impossibile prescinderne anche per portare a termine le attività più semplici.
Nel corso delle nostre giornate siamo portati ad accedere ai più vari e diversi
mezzi di comunicazione, per svagarci e per poter organizzare in modo efficiente
i nostri impegni; dipendiamo in modo assiduo da apparecchi tecnologici che ci
tengano costantemente informati in merito alle questioni più disparate – le
riunioni di lavoro, gli incontri con gli amici, le notizie relative alle nostre reti
sociali e così via. Le protesi tecnologiche che utilizziamo ci hanno trasformati in
individui multitasking ubiqui e interconnessi e di conseguenza siamo in perenne
allerta; siamo sempre pronti a cogliere ogni aggiornamento informativo che
proviene dalla Rete per timore di rimanere indietro e/o di trovarci isolati
rispetto al resto della società. La frenesia con cui ricorriamo a questi device di
nuova generazione ce ne rende spesso schiavi, ma non ne possiamo più fare a
meno: non possiamo astenerci dal prendere parte alle negoziazioni sociali che
hanno sede nei territori del web e per manifestare la nostra presenza ci
troviamo obbligati a curare i nostri profili personali sui molteplici siti di social
networking esistenti. Infatti, la partecipazione alla vita online sancisce la piena
cittadinanza dell’individuo alla propria contemporaneità.
Il panorama sociale dinanzi al quale ci troviamo oggi, che nel presente capitolo
mi accingo a indagare più nel dettaglio, fonda la propria forza e il proprio
59
carattere di attrattiva sulla salda congiunzione che instaura fra il mondo reale e
quello virtuale. Esattamente questa nuova interazione che si viene a creare
permette di non concepire più l’online e la rete Internet come qualcosa di
totalmente disgiunto dalle dinamiche del quotidiano; come qualcosa di fittizio e
artificiale da contrapporre alla vita concreta, che si sviluppa invece nei soli spazi
del mondo fisico. Una simile concezione è infatti decaduta da tempo.
Le possibilità offerte dalle nuove tecnologie hanno accompagnato dei periodi di
rivoluzione sociale che si sono rivelati fatidici per l’affermarsi del nuovo scenario
complessivo. La tecnologia si è appoggiata ai modelli sociali esistenti,
sfruttandoli come canali di trasmissione attraverso cui diffondersi e arrivare a
far presa fra i vari livelli della popolazione; di pari passo le strutture
organizzative che caratterizzano le nuove società contemporanee sono state via
via rimodulate dai processi di adozione delle nuove tecnologie che in esse si
sono manifestati, che hanno influito sui loro equilibri e sui loro meccanismi. Non
si tratta dunque né di determinismo tecnologico, né di determinismo sociale: le
trasformazioni a cui si è assistito nel corso tempo derivano tutte da un atto di
interazione reciproca fra struttura sociale e innovazioni tecnologiche.
Tecnologia e vita umana si modificano di pari passo, in simbiosi, plasmandosi a
vicenda: l’uomo fa propria la tecnologia e la trasforma, introducendo nuove
pratiche d’utilizzo col suo servirsene quotidianamente; allo stesso tempo però,
anche la tecnologia esercita, in egual misura, un potere sull’essere umano e
sulla sua organizzazione.
Come vedremo, il modello operativo di base del nuovo millennio si è rivelato
essere quello del network, modello determinato a dare forma sia alla sfera
sociale che a quella della comunicazione.
2.1 La tripla rivoluzione
Come ho già anticipato, ciò che ha permesso alle nuove tecnologie comunicative
della <<network society>> (Castells, 1996) di affermarsi è stata la peculiare
struttura sociale con cui esse si sono trovate a confrontarsi, che ne ha costituito
60
il substrato abilitante. Quel particolare atto di rinnovamento che viene descritto
come <<tripla rivoluzione>> (Rainie & Wellman, Networked. Il nuovo sistema
operativo sociale, 2012), infatti, si basa innanzitutto su di un primo
cambiamento fondamentale: l’emergere di un nuovo modello di socialità;
precisamente quello della rete.
[…] la Rivoluzione dei Network Sociali si è verificata […] prima della
Rivoluzione di Internet o del Mobile. È la meno vistosa, perché non si
traduce in una trasformazione sul piano tecnologico, ma rappresenta un
cambiamento nelle modalità di relazione tra le persone. (ivi p.45)
Se dunque la prima rivoluzione pertiene a una modifica della struttura
organizzativa della società, la seconda e la terza si riferiscono invece alla nascita
di due fortunatissime innovazioni comunicative; rispettivamente la rete Internet
e la tecnologia mobile. Vediamo ora queste tre fasi più nel dettaglio.
2.1.1 Individui connected e network sociali
<<Il grande pubblico ha acquisito consapevolezza dell’esistenza e delle
dinamiche dei network sociali soprattutto grazie alla diffusione dei siti di social
networking>> (ivi p.206), che hanno reso visibili all’interno del cyberspazio
quelle reti di legami interpersonali che esistono nel mondo reale in tutta la loro
concretezza. Tuttavia, già molto tempo prima dell’effettivo avvento della rete
Internet la letteratura sociologica di ambito comunicativo aveva individuato,
all’interno delle società avanzate, una particolare inclinazione degli individui a
organizzarsi secondo uno schema interconnesso di unità singole; dando vita al
modello del <<networked individualism>> (Rainie & Wellman, Networked. Il
nuovo sistema operativo sociale, 2012). In questo nuovo orizzonte
organizzativo, a ogni individuo è permesso di mantenere intatta la propria
autonomia e, al contempo, di intrecciare delle relazioni con altri individui come
lui indipendenti ma connessi.
61
L’idea di network rivede la concezione secondo cui la società tenderebbe a
operare come un gruppo integrato e relativamente stabile di soggetti; infatti, in
seguito all’accresciuta mobilità sociale e alla tendenza, anch’essa sempre più
presente, di migrare di città in città o di regione in regione, appare anacronistico
e riduttivo considerare la società come un corpo di individui facilmente
circoscrivibile e identificabile. Risulta molto più attuale concepirla come un
sistema di relazioni aperto, democratico e costituito al suo interno da numerosi
sottogruppi, cui è possibile accedere o revocare la propria adesione in qualsiasi
momento.
L’avvento di una simile rivoluzione sociale è stato preparato senza dubbio da
una congiuntura favorevole, costituita da importanti incentivi quali lo sviluppo
delle telecomunicazioni, dei trasporti e delle ITC ad esempio. Inoltre, le spinte
derivate dai processi di globalizzazione hanno aiutato a gettare le fondamenta
per la nascita di una cultura comune, unitamente a un generale clima di pace
che ha portato a stipulare diversi accordi di collaborazione fra Stati.
La base essenziale del nuovo sistema sociale diviene allora il singolo soggetto, il
quale, letteralmente, ha la possibilità di costruire le proprie relazioni a misura
d’uomo; personalizzandole secondo le sue necessità del momento. L’autonomia
diventa un valore supremo e l’individuo è pronto a metterla al primo posto nella
sua scala di valori. Tutto ciò comporta l’affievolirsi della centralità un tempo
attribuita alla dimensione del gruppo.
<<La cultura della network society è fondamentalmente caratterizzata
dall’importanza dei progetti di autonomia come principio che orienta le
singole persone. Ciò ha manifestazioni individuali e collettive […] gli attori
sociali puntano a costruire l’autonomia in tutte le dimensioni della loro
vita>> (Castells, Fernàndez-Ardèvol, Linchuan Qiu, & Sey, 2008, p. 163)
Il nuovo individuo connesso appartiene, in genere, a cerchie sociali differenti,
riconducibili ai diversi contesti in cui si trova ad agire nel proprio quotidiano; a
ognuna di esse egli presterà la propria attenzione e la propria dedizione in
62
misura differente, istituendo delle relazioni selettive e ad hoc conformemente
alla circostanza che di volta in volta gli si presenterà. <<Gli individui networked
sono caratterizzati da forme di appartenenza parziale a molteplici network. […]
Devono valutare a chi rivolgersi per ottenere diversi tipi di aiuto.>> (Rainie &
Wellman, Networked. Il nuovo sistema operativo sociale, 2012, p. 33).
È esattamente l’estrema fluidità che caratterizza il nuovo ambiente sociale che,
consentendo l’accesso simultaneo a svariati network, permette all’individuo di
ridefinire incessantemente la propria identità; sulla scorta dei vari interlocutori
con cui egli entra in contatto. L’emergere della socialità in rete consente inoltre
di diversificare fra legami interpersonali di natura e scopo differente. Certo, se
trasposto all’ambito della socialità virtuale questo comporta un progressivo
affermarsi di nuovi legami deboli ed effimeri, ma ciò non va a intaccare le
relazioni sociali che l’individuo intrattiene offline; che anzi, nella maggioranza
dei casi, vengono mantenute se non addirittura potenziate dal supporto offerto
dalle tecnologie di comunicazione di Rete. Infatti, all’interno del nuovo
panorama socio-culturale le interazioni che hanno luogo online e quelle che
hanno luogo offline risultano essere fra loro profondamente integrate e, al
contrario di quanto spesso ipotizzato, le prime non si sostituiscono alle seconde.
I contatti che si instaurano all’interno del mondo fisico sono prolungati grazie a
quelli che si intrattengono nell’orizzonte del cyberspazio; che fungono così da
supplemento ai primi. Internet crea nuovi legami deboli e rafforza quelli già
esistenti, ma contribuisce a rinsaldare ulteriormente anche i legami forti; poiché
<<È un’estensione della vita così com’è, in tutte le sue dimensioni e con tutte le
sue modalità.>> (Castells, Galassia Internet, 2006, p. 119)
Le tecnologie comunicative di Internet e della telefonia mobile permettono al
soggetto di esercitare una maggior partecipazione sociale entro un raggio
d’azione più ampio; lo aiutano così a prendersi cura di un complesso di relazioni
multiple, sfaccettate e frammentate in continua crescita, che risulterebbe
impossibile gestire tramite i soli rapporti faccia a faccia.
63
È così che nel tempo, come osservano Rainie e Wellman, si è passati dai rapporti
<<door – to – door>> alle connessioni <<place – to – place>>; per giungere
infine alle relazioni <<person – to – person>>. Se i primi si incentravano sui
rapporti di vicinato e sulla dimensione comunitaria tipica delle società
tradizionali, le seconde erano invece strettamente connesse all’avvento della
<<glocalizzazione>> (Robertson, 1992), ossia di quel particolare fenomeno che
rese lampanti le correlazioni esistenti fra livelli territoriali differenti; più
precisamente fra i vari contesti locali e il territorio globale nel suo complesso.
Nella socialità di tipo <<place – to – place>> persisteva una marcata dimensione
di gruppo, che trascendeva però i ristretti confini locali: gli individui iniziavano a
prendere parte a contesti assai differenti, facenti capo ai diversi ambiti fisici con
cui si rapportavano nel corso della loro quotidianità – casa, università, ufficio
ecc. Questa tipologia di relazioni non sussisteva necessariamente fra individui
che abitavano a stretto contatto fra loro; anzi spesso capitava che individui di
città differenti venissero però a incontrarsi in determinati luoghi per svolgere le
proprie attività di studio o lavoro, ad esempio.
Con l’avvento delle relazioni <<person – to – person>> si è abbandonata in
maniera definitiva la logica comunitaria, per abbracciare una concezione di
stampo prettamente individualistico. Si è assistito inoltre alla separazione fra
interazione sociale e luogo fisico, resa possibile dall’abbattimento dei divari
geografici operato dalle tecnologie di comunicazione a distanza; il cui uso negli
anni risulta essersi notevolmente intensificato. Ne è derivata una maggiore
libertà per i singoli soggetti, che se ora dimostrano un impegno meno costante
nel coltivare le loro relazioni sociali tuttavia prendono parte a un numero
sempre più elevato di contesti differenti. Sono nate così quelle “associazioni
elettive” basate sugli interessi condivisi, con poche barriere all’entrata e bassi
costi-opportunità.
Rheingold (1993), riferendosi alle nuove configurazioni della socialità online che
instaurano una comunicazione di tipo transazionale, parla di <<comunità
64
virtuali>>. Come si è visto, però, sarebbe più opportuno parlare di
individualismo in rete, per evidenziare che quei precisi sistemi di relazioni
interpersonali si originano sempre a partire dal nucleo irriducibile del singolo
individuo. Il termine comunità rimanda infatti in maniera troppo diretta alle
forme organizzative delle società tradizionali.
I nuovi esempi di socialità online si manifestano sotto forma di assembramenti
soggetti a una continua ridefinizione dei propri confini, a un perpetuo
mutamento dei loro equilibri interni. L’estrema flessibilità che caratterizza tali
associazioni spontanee non pone vincoli di alcun genere ai propri membri ed è
per questa ragione che all’interno di esse tendono a crearsi legami difficilmente
duraturi; in quanto ogni individuo che vi partecipa è poco portato a investirvi
larga parte del proprio impegno e del proprio tempo, ognuno si sente come
deresponsabilizzato a mantenere intatta e costante la propria adesione a una
data cerchia. Oggi, inoltre, i legami deboli e malfunzionanti possono essere
cessati in maniera molto più semplice e rapida rispetto a un tempo e senza
comportare nessuna forte conseguenza sociale per il singolo; che potrà sempre
aggregarsi a nuovi soggetti.
Le diverse tipologie di legami che si formano all’interno dei network dipendono
in larga misura dalle caratteristiche dello stesso, così come dai flussi di risorse
che circolano al suo interno. Un legame può distinguersi per la sua frequenza e
qualità o ancora per i rapporti di simmetria che esso instaura – che potremmo
meglio definire come meccanismi di reciprocità. I network variano in scala e
dimensione e la loro densità, più o meno elevata, può determinare un aiuto, nel
caso in cui vi siano molte interconnessioni attive, o un ostacolo, se in presenza
di buchi strutturali, alla trasmissione dell’informazione fra le diverse parti che lo
compongono.
È fondamentale ricordare che all’interno di ogni struttura di rete esistono vari
nodi, ossia differenti unità minime strutturali in grado di connettersi l’una con
l’altra stabilendo una comunicazione. Non tutti i nodi hanno le medesime
65
caratteristiche, esistono nodi periferici e altri più centrali. Possiamo allora
assumere che anche all’interno delle reti sociali non tutti gli individui occupano
la stessa posizione o svolgono la stessa attività. I soggetti che mantengono un
contatto con network plurimi ed eterogenei possono essere considerati dei
connettori, per il fatto che essi svolgono una funzione di coesione fra realtà
diverse che altrimenti risulterebbero totalmente chiuse e isolate rispetto
all’esterno. Tali figure possono essere paragonate a quello che in linguaggio
informatico viene definito come hub o super-connettore, ossia un nodo di rete
capace di mettere in contatto cluster differenti. I cluster altro non sono che aree
“congestionate” di contatto, in quanto godono di una altissima quantità di
interconnessioni reciproche. Un cluster è caratterizzato dunque da un’elevata
densità di legami e potrebbe essere associato a un “gruppo dei pari”, formato
da individui simili e in rapporto orizzontale fra loro.
In breve, i legami di tipo bridging funzionano molto bene per far circolare
informazioni dentro e fuori da un cluster di relazioni. Ma i legami di tipo
bonding, che si trovano all’interno di un cluster, sono spesso necessari per
garantire la fiducia interna, l’efficienza e la solidarietà. (Rainie & Wellman,
Networked. Il nuovo sistema operativo sociale, 2012, p. 81)
Ecco che, allora, il posizionamento strategico di un super-connettore all’interno
della rete risulta essere fondamentale per permettergli di esercitare un ruolo di
rilievo nei vari network in cui egli è inserito. Nell’ambito delle relazioni sociali,
riprendendo le conclusioni di Merton, si potrebbe parlare a tal proposito di una
nuova figura ibrida di leader, a metà strada fra quello cosmopolita e quello
locale. Alla stregua del primo, infatti, il super-connettore possiede una
conoscenza mirata e approfondita riguardo a un ambito specifico d’interesse,
mentre alla stregua del secondo, essendo in diretto contatto con differenti
cluster, ha facoltà di esercitare la propria influenza sociale ad ampio raggio;
gettando ponti fra network eterogenei molteplici.
66
Il contatto fra soggetti connettori appartenenti a cluster differenti può originare
dei network di network e questo è tutt’al più vero al giorno d’oggi, dove
ipoteticamente <<[…] ogni persona è diventata un portale verso il resto del
mondo, che offre ai suoi amici ponti verso altre cerchie sociali.>> (ivi p.87). I
legami deboli che si vengono a creare in un network non devono essere
sottovalutati, anzi, spesso questi contatti costituiscono la modalità privilegiata
di accesso a un network nuovo e differente.
2.1.2 Rivoluzione Internet
In Galassia Internet anche il sociologo della comunicazione Manuel Castells nota
come, negli ultimi anni del ventesimo secolo, si sia approdati a una nuova forma
sociale ed economica. L’avvento di un modello basato sul network ha permesso
di attuare un decentramento del potere, mettendo in atto delle forme di
coordinamento orizzontale fra individui posti agli stessi livelli; tutti in diretta
comunicazione fra loro. Le nuove strategie gestionali che ne derivano sono in
larga parte rese possibili dall’avvento della nuova tecnologia Internet, inoltre è
proprio grazie a essa che nascono nuove pratiche sociali ed emergono varie
forme di partecipazione civile e di organizzazione dal basso. <<Così come la
diffusione della stampa in Occidente ha creato ciò che McLuhan ha definito
“Galassia Gutenberg”, noi siamo entrati oggi in un nuovo mondo della
comunicazione: la Galassia Internet.>> (Castells, Galassia Internet, 2006, p. 14).
Secondo Castells, l’ideologia che informa la cultura dell’Internet delle origini così
come i suoi valori basilari sono condivisi da una gerarchia di soggetti formata da
quattro gruppi differenti. Un primo gruppo tecno-meritocratico, riferito alla
comunità accademica e scientifica, definisce le norme di cooperazione nel
processo di sviluppo delle tecnologie. Un secondo gruppo composto da hacker,
collaborando con il primo, funge da ponte fra le élite culturali e il resto della
società nei processi di diffusione delle scoperte tecnologiche; un importante
ruolo in questo caso è svolto anche dagli imprenditori che le commercializzano,
rendendole disponibili sul mercato di massa. Il gruppo hacker si caratterizza per
67
la propria autonomia e per i meccanismi di reciprocità che pone alla base dei
rapporti di collaborazione online fra i suoi membri; tutti sempre pronti a
mettersi al servizio della collettività e a lavorare per il suo progresso. La loro
ricompensa non è monetaria ma si riconduce alla pura gioia del creare nonché
alla consapevolezza di aver personalmente contribuito allo sviluppo della
conoscenza e dell’intelligenza collettiva.
Un terzo gruppo essenziale allo sviluppo della nuova tecnologia comunicativa
risulta essere poi quello comunitario-virtuale, che rende Internet un mezzo di
comunicazione e di interazione sociale. I soggetti che ne prendono parte
definiscono i processi, le pratiche e le forme di utilizzo della Rete e strutturano
inoltre l’organizzazione sociale stessa. All’interno di tale sottogruppo vige una
tipologia di comunicazione libera e orizzontale, con flussi informativi che
procedono da molti a molti; si tratta dunque di un ambiente che permette a
ciascun soggetto di creare il proprio network e la propria identità sulla base dei
propri interessi individuali specifici.
L’ultimo gruppo da menzionare è quello formato dagli imprenditori che, come
ho già accennato, sono interessati a diffondere l’uso della tecnologia nei vari
circuiti sociali; vendendo innovazioni a quei capitalisti che si dimostrino
interessati a investirvi. Internet diviene così lo strumento trainante della new
economy, quella forma di economia basata sui nuovi meccanismi di gestione,
produzione, distribuzione e consumo resi possibili dalle rivoluzioni, tecnologiche
e non, che hanno portato alla genesi del <<nuovo sistema operativo sociale>>
(Rainie & Wellman, Networked. Il nuovo sistema operativo sociale, 2012).
Internet nacque da una stretta collaborazione fra le ricerche condotte in campo
scientifico e militare e la cultura della libertà, e il suo sviluppo venne sostenuto
dall’investimento dell’iniziativa personale di alcuni soggetti isolati e da
numerose altre fazioni; fra cui il governo e altri enti governativi e alcune
università e centri di ricerca. Non si originò dunque nell’ambito delle imprese,
ma in un contesto relativamente libero e autonomo; che favoriva la crescita
68
culturale grazie alla cooperazione, alla creatività e all’innovazione. Fin da
principio i suoi obiettivi primari erano lo sviluppo della conoscenza e della
tecnologia, non il guadagno. Proprio affinché Internet continui a seguire questo
percorso è necessario che essa permanga una struttura aperta, decentrata,
diffusa e multidirezionale, fondata sulla cooperazione e sull’interattività di tutti
gli utenti; e spetta alle istituzioni di governo del network garantire queste
condizioni. Ecco che allora un modello di Rete che faccia propri i criteri
dell’open-source, mantenendosi disponibile a una libera modifica strutturale da
parte dei suoi numerosi utenti, potrebbe realmente consentire un’evoluzione di
Internet con un ritorno positivo per tutta la collettività.
Quella che si configura oggi come una rete di reti non ha però sempre avuto tale
struttura, la sua origine rimonta a singole reti di computer separate le une dalle
altre. Il primo network di computer che si è sviluppò fu Arpanet: nato nel 1969
dall’Arpa3 serviva a condividere online l’utilizzo dei computer di diversi centri di
elaborazione dati e gruppi di ricerca. In poco tempo, i nodi del network
iniziarono inoltre a distribuirsi in vari altri centri sperimentali e università.
Arpanet implementava un sistema di trasmissione decentralizzato e flessibile,
quello della <<commutazione a pacchetto>> sviluppato da Paul Baran. Tale
sistema permetteva di veicolare le telecomunicazioni procedendo per pacchetti
distinti di informazione, frammentando il messaggio in singole unità. A quel
tempo l’implementazione di una simile strategia era volta a salvaguardare, per
lo meno in parte, le informazioni trasmesse; nel caso si fosse verificato un
attacco nucleare. Nel 1970, dagli studi di Ray Tomlinson, nacque anche la posta
elettronica.
Al fine di collegare Arpanet ad altre reti di computer, le ricerche produssero un
nuovo linguaggio capace di mettere in comunicazione i vari nodi. Nel 1973
nacque il TCP – Transmission Control Protocol – che venne frapposto come
ulteriore protocollo fra due reti di computer distinte. Questo, unendosi all’ IP –
3
Arpa è l’acronimo di Advanced Research Project Agency, una sezione del Dipartimento della Difesa
Usa creata nel 1958 per operare ricerche mirate a raggiungere una superiorità tecnologica sugli Urss.
69
Internet Protocol – nel 1978, portò poi alla nascita dello standard TCP/IP; in uso
ancora oggi.
Se fino agli anni Ottanta queste reti di computer trovavano spazio solo
all’interno di pochi ristretti contesti accademici e d’élite, a partire dalla
privatizzazione di Arpanet, avvenuta agli inizi degli anni Novanta, si aprì invece
una nuova era per la diffusione dei network tecnologici all’interno della società.
Fu però solo l’invenzione del World Wide Web a consentire a Internet – ex
Arpanet – di raggiungere realmente una diffusione e una presenza su scala
globale. Questo nuovo programma per la condivisione di dati e informazioni
messo a punto, nel 1990, da Tim Berners-Lee del CERN4, riprendeva l’idea
dell’ipertesto di Ted Nelson. Quest’ultimo mirava a creare un sistema di
informazioni interconnesse fra loro, in continua evoluzione ed espansione e,
possibilmente, volto a raccogliere tutta la conoscenza umana.
La successiva nascita dell’interfaccia Mosaic che, nel 1993, diede vita al primo
browser grafico, nonché l’avvento, nel 1995, di Internet Explorer – il browser di
Microsoft – chiusero la fase di quello che viene convenzionalmente considerato
come il primo web; che si apprestò poi a evolversi verso la sua declinazione
successiva: il 2.0.
L’introduzione dell’ipertesto ha consentito finalmente all’informazione di
collegarsi in Rete, offrendo agli utenti la possibilità di esperire una lettura libera,
non lineare né sequenziale, dei vari contenuti online. La nuova modalità di
concepire il web, sfruttando degli appositi link di navigazione, permette di
passare facilmente da un contenuto all’altro, in ordine casuale; dà così a ogni
utente la possibilità di personalizzarne la propria fruizione secondo le sue
necessità, bypassando gli elementi che non lo interessano. Di conseguenza, gli
permette inoltre di riorganizzare l’informazione online secondo una diversa
gerarchia strutturale. Come vedremo, anche l’atto di assegnare un punteggio a
determinate informazioni così come quello di applicare delle etichette – tag – ai
4
CERN è l’acronimo per Centro Europeo per la Ricerca Nucleare.
70
vari contenuti che popolano il cyberspazio consentono di attuare una continua
riorganizzazione dell’informazione del mondo virtuale; portando all’attenzione
della maggioranza questioni di volta in volta differenti ed evidenziando così gli
specifici trend e le particolari tendenze in atto nello scenario sociale del periodo.
Sempre grazie alla logica del collegamento ipertestuale ogni contenuto può
essere ulteriormente ampliato: cliccando sugli appositi link a esso correlati è
infatti possibile ricevere informazioni supplementari a riguardo, magari venendo
reindirizzati ad altre pagine di approfondimento. In questo modo ci è dato di
acquisire maggiore conoscenza in merito a una determinata circostanza o
evento.
Non è da dimenticare che anche l’introduzione dei motori di ricerca ha
semplificato moltissimo la navigazione in Rete, permettendo a una più vasta
schiera di individui di incontrare facilmente informazioni online riguardo alle
questioni più svariate. Oggigiorno la larga disponibilità di contenuti online
nonché la rapidità e la facilità con cui vi si può accedere offre una maggiore
possibilità di scelta agli utenti networked: navigando sul web, questi possono
trovare ogni volta materiali nuovi e differenti, imbattendosi in punti di vista
divergenti. L’informazione online si trova infatti soggetta a una continua crescita
e rielaborazione e, se si è in grado di divincolarsi fra il marasma dei contenuti
disponibili, è inoltre possibile incontrare elementi specifici e diversi rispetto a
quelli che vanno per la maggiore o che interessano le grandi masse. Ecco allora
che grazie alla Rete anche i contenuti di nicchia possono raggiungere più
facilmente il loro pubblico interessato, coinvolgendo in modo più veloce ed
efficace audience più vaste.
Nel tempo l’essere connessi ha acquisito un valore tutto nuovo: il fatto di
godere di un accesso alla rete Internet permette a ogni soggetto di essere
pienamente partecipe delle dinamiche sociali sue contemporanee, che oggi
sempre più in larga parte si svolgono anche online. Le nostre attività quotidiane,
dalle più semplici alle più complesse, si organizzano sovente attraverso la rete
71
Internet e <<In realtà, l’esclusione da questi network è una delle forme più
dannose di esclusione nella nostra economia e nella nostra cultura.>> (Castells,
Galassia Internet, 2006, p. 15); quindi essere cittadini della Rete diviene
essenziale. Un possibile ostacolo al conseguimento di una partecipazione
democratica di tutti gli individui alla Rete, oltre al prezzo degli apparecchi e delle
connessioni, risulta essere il digital divide, che discrimina fra chi ha maggiori o
minori competenze rispetto all’utilizzo di Internet e dei dispositivi informatici in
generale. Oggi le nuove disuguaglianze sociali si giocano infatti nei territori del
mondo online.
2.1.3 Rivoluzione mobile
Sfruttando il carattere di asincronia tipico della rete Internet, che permette di
accedervi in ogni luogo e tempo, i device mobili e portatili di comunicazione
sono sempre più presenti a supporto delle nostre necessità quotidiane. In
particolare, l’introduzione degli smartphone segnò una profonda linea di
demarcazione fra quanto precedette e quanto seguì il loro avvento: grazie a loro
oggi <<Il Web si è trasformato in un ambiente effimero che possiamo portarci
dietro nel taschino.>> (Lovink, 2012, p. 15).
Le prime tecnologie di telefonia mobile si svilupparono a inizio anni Settanta,
all’epoca però i dispositivi, oltre ad avere un costo elevato, erano ancora di
grandi dimensioni e di ingente peso. Nel corso degli anni i costi di produzione
decrebbero, di pari passo al miglioramento delle prestazioni degli apparecchi;
tali condizioni spinsero gli apparati governativi di vari paesi a costruire sempre
più ripetitori cellulari, di gran lunga più economici rispetto alle infrastrutture di
cui necessitava la concorrente connettività fissa. A partire dal nuovo millennio
gli utilizzatori dei dispositivi cellulari iniziarono a configurarne nuove pratiche
d’utilizzo,
che
prescindevano
dalla
funzione
primaria
di
telefonare.
L’introduzione dei messaggi di testo sms – short message service – portò
nuovamente al prevalere di una comunicazione basata sul testo scritto, legata al
primato della vista e non a quello delle facoltà uditive. La rivoluzione decretata,
72
però, a segnare una netta svolta nei processi di organizzazione e di gestione del
quotidiano per migliaia di individui fu l’avvento dello smartphone.
Alla fine del primo decennio del Duemila, le ricerche in campo tecnologico
avevano portato a realizzare dispositivi sempre più pratici e funzionali,
facilmente maneggevoli, user-friendly ed economici. Ecco che il “cellulare
intelligente” di nuova generazione risultava essere <<[…] multifunzionale come
un coltellino svizzero, capace di comunicare, navigare nel web, creare,
intrattenere – e mantenere i contatti con i network sociali in modo
istantaneo.>> (Rainie & Wellman, Networked. Il nuovo sistema operativo
sociale, 2012, p. 145).
Quest’innovazione si è configurata come una delle più importanti – se non la più
importante – degli ultimi decenni in ambito di tecnologie comunicative, in
quanto i moderni cellulari multimediali hanno accompagnato l’emergere di una
differente concezione della stessa Internet: permettendo ai dispositivi mobili di
assicurarsi una connessione ininterrotta alla rete di reti, nonché fornendoli di un
particolare sistema operativo, li si è resi sempre più simili a dei veri e propri
computer; consentendo agli utenti di esercitare una forma di partecipazione
ubiqua, flessibile, autonoma e personale al web. L’innovazione tecnologica
rappresentata dallo smartphone si è modificata di pari passo con le modalità
relazionali e le abitudini comunicative degli individui, i quali hanno plasmato lo
strumento stesso al fine di adattarlo alle loro nuove necessità.
Oggi l’esigenza di comunicare invade in modo prepotente la scansione
temporale delle nostre giornate, introducendosi all’interno di ogni momento
libero. Poter contare su un accesso ininterrotto all’ambito della comunicazione
digitale ci sembra assolutamente irrinunciabile e al solo pensiero di non poter
disporre dei nostri network personali in qualsiasi momento vogliamo ci porta a
sviluppare un senso di fragilità e insicurezza. Ecco che allora attraverso il nostro
device mobile possiamo rimanere in costante contatto con le nostre cerchie e
coi nostri centri di interesse, in ogni luogo e in ogni tempo; lo smartphone
73
diviene infatti un nodo di Rete e permette di godere di una connessione sempre
pronta e disponibile, consentendo all’individuo networked di personalizzare la
propria esperienza di comunicazione in modo inedito.
Questa nuova modalità di gestire i propri flussi comunicazionali e informativi
porta a una riconfigurazione dei contesti spaziali e temporali di interazione,
nonché a un ridimensionamento dell’intensità e della densità dei rapporti
interpersonali.
Castells introduce i concetti di <<spazio dei flussi>> e <<tempo senza tempo>>:
[…] lo spazio dei flussi è l’organizzazione materiale dell’interazione sociale
simultanea a distanza attraverso la comunicazione in rete, con il supporto
tecnologico delle telecomunicazioni, dei sistemi di comunicazione
interattiva e dei trasporti ad alta velocità. La struttura e il significato dello
spazio dei flussi non sono legati a nessun luogo particolare, bensì alle
relazioni create all’interno di -e intorno al- network che elabora gli specifici
flussi di comunicazione. Il contenuto dei flussi di comunicazione definisce il
network e, in tal modo, lo spazio dei flussi e le basi territoriali di ciascun
nodo. Il tempo senza tempo fa riferimento alla desenquenzializzazione
dell’azione sociale, attraverso la contrazione del tempo o attraverso
l’ordinamento casuale dei momenti della sequenza. (Castells, FernàndezArdèvol, Linchuan Qiu, & Sey, 2008, p. 187)
Secondo tale concezione, i luoghi reali arrivano a perdere la loro specificità,
divenendo meri punti d’incontro dei vari network di comunicazione in cui
l’individuo è incluso; sono solo la scena in cui si esplica un’interazione nata in
un’altrove, precisamente nello <<spazio dei flussi>>. Questo risulta essere vero
se pensiamo alla possibilità offerta dai dispositivi di comunicazione digitale
wireless di riorganizzare in tempo reale la presenza degli individui all’interno
degli ambienti del mondo fisico; ad esempio: il mio amico mi manda un
messaggio su Whatsapp e mi chiede di trovarci all’ora X in un luogo Y:
l’interazione fra noi è avvenuta nel cyberspazio ma le sue conseguenze si
74
esplicheranno all’interno del mondo concreto, attraverso un preciso
comportamento che entrambi metteremo in pratica – il recarci presso il luogo
concordato.
Si assiste dunque all’indebolimento del luogo fisico come supporto delle
relazioni sociali e, in contemporanea, all’avvento di una nuova modalità di
organizzazione delle attività basata più sulla dimensione del tempo che su
precisi spazi reali.
A tal proposito voglio introdurre anche il concetto di <<smart mobs>>, che
Rheingold (2002) analizza nel suo omonimo lavoro. Secondo il critico, le
possibilità comunicative offerte dalle nuove tecnologie portano alla comparsa di
nuove forme auto-organizzative dal basso: le aggregazioni di persone distanti
che sfruttano le reti di telecomunicazione, e in particolare Internet, per entrare
in contatto possono dar vita a mobilitazioni effimere all’interno dello spazio
pubblico.
Come abbiamo constatato, i dispositivi mobili mediano oggi la socialità, il
consumo, la costruzione di significati e molte altre attività, in quanto assistono
numerose pratiche che eccedono la mera funzione di comunicazione; quali ad
esempio quelle relative all’intrattenimento e alla sorveglianza. Per quanto
riguarda la sorveglianza, attraverso di essi si possono mettere in pratica delle
forme di controllo decentralizzate, che operano sia in modo verticale, tramite il
tracciamento GPS o la profilazione utente, che in modo orizzontale;
consentendo al singolo di rimanere costantemente aggiornato sulle attività
svolte in tempo reale dai suoi amici e conoscenti, grazie ai vari avvisi di notifiche
e feed che vengono inviate direttamente al proprio dispositivo mobile.
Gli
smartphone,
essendo
multitasking,
permettono
di
esercitare
contemporaneamente svariate attività differenti, inoltre diventano un perfetto
esempio di convergenza mediale; in quanto sono in grado di attuare una
modalità di comunicazione multicanale e multimediale. Multicanale perché
sfrutta molteplici canali e piattaforme per veicolare contenuti di diversa natura.
75
Multimediale poiché le fotocamere e i lettori musicali e video integrati nel
dispositivo consentono di riunire all’interno di un singolo supporto le
caratteristiche specifiche di differenti strumenti elettronici.
La particolare architettura software di cui dispongono tali dispositivi dà inoltre
la possibilità di applicarvi servizi e funzionalità aggiuntive, spesso fruibili solo e
soltanto attraverso di essi. Mi riferisco a quell’enorme disponibilità di
applicazioni che possono essere facilmente acquisite nei diversi store virtuali: ce
ne sono a migliaia e il loro numero continua ad aumentare di giorno in giorno, si
differenziano innanzitutto fra gratuite e a pagamento e servono i più svariati
scopi; sono spesso legate all’intrattenimento, al social networking, allo
shopping, all’archiviazione di materiale online e a vari tool per la gestione del
proprio quotidiano.
Gli smartphone possono assumere anche una funzione decorativa ed espressiva:
<<L’indossabilità rende il telefono cellulare un articolo di moda, pronto a essere
personalizzato per riflettere l’identità del suo possessore>> (Castells, FernàndezArdèvol, Linchuan Qiu, & Sey, 2008, p. 125). L’infinita disponibilità di
applicazioni e accessori volti alla customizzazione del proprio dispositivo
concorrono a rendere i cellulari di nuova generazione degli strumenti simbolici
in tutto e per tutto, atti a manifestare la propria singolare soggettività. Questa
funzione si è oggi talmente radicalizzata da arrivare a generare crisi di panico
nell’individuo che non si trovasse sempre in possesso del proprio strumento di
navigazione compatto; quasi che il perderlo di vista equivalesse a smarrire un
tratto essenziale di sé e della propria identità. Questa reazione può essere
giustificata anche per il fatto che oggi siamo soliti archiviare un’enormità di
informazioni personali all’interno dei nostri dispositivi mobili, contenuti sensibili
che non vogliamo finiscano nelle mani sbagliate ma che soprattutto abbiamo il
terrore di poter perdere per sempre.
76
2.2 L’ambiente 2.0
Negli anni del web di prima generazione – 1.0 – alcune società iniziarono a
sperimentare un nuovo modello di business, sfruttando Internet come canale
preferenziale per distribuire i propri servizi agli utenti. La frontiera del
commercio elettronico, espressione potente della new economy, mancava
tuttavia di idee innovative e questo fatto si riversò ben presto sulle aziende
pioniere delle vendite online; la loro crescita conobbe infatti una forte battuta
d’arresto che portò a numerosi casi di bancarotta. A tutto ciò successe un
periodo di crisi economica e di scandali finanziari, che toccò l’apice nel biennio
2000-2001.
Constatato il fallimento della prima iniziativa, qualche anno dopo si decise per
un cambio di rotta; esemplificato da un’innovativa apertura aziendale nei
confronti degli utenti di Internet. Questi smisero di essere considerati meri
clienti passivi e vennero chiamati a partecipare alla co-progettazione di vari
prodotti di consumo; per questa ragione possiamo d’ora in poi assimilarli alla
categoria dei prosumer (Toffler, 1980), i consumatori-produttori. Le aziende
avevano compreso il potenziale che ogni individuo rappresentava nella catena
di produzione del valore economico e per questo motivo cominciarono a
prestare maggiore attenzione alle necessità, alle esigenze, ai gusti e alle
preferenze dei loro vari pubblici; instaurando con essi una diretta collaborazione
– più che di collaborazione, però, in alcuni casi si potrebbe parlare di un vero e
proprio sfruttamento del lavoro e della creatività degli utenti, imprescindibili
ingranaggi del macchinario capitalistico.
Questa e altre novità segnarono l’avvento del web dinamico: a partire da quel
momento, nei primi anni Duemila, iniziarono a diffondersi una miriade di
applicazioni web differenti e, di pari passo, crebbe anche il numero degli utenti
che accedevano ad Internet quotidianamente. Il nuovo paradigma della Rete
presentava caratteristiche assai differenti da quello che lo aveva preceduto: se il
primo web offriva delle funzionalità limitate per i “non addetti ai lavori”,
77
l’ambiente del 2.0 si configurava invece come uno strumento attraverso cui
chiunque poteva esercitare una reale partecipazione. Gli utenti assunsero allora
un ruolo attivo nei processi di costruzione dell’ambiente virtuale, in quanto la
struttura stessa del nuovo web, molto più intuitiva, consentiva loro un accesso
facilitato e permetteva inoltre di creare contenuti personali in modo gratuito. È
così che la Rete iniziò a riempirsi di contenuti prodotti dagli utenti stessi, in una
parabola evolutiva che a partire dai primi blog e siti personali giunge sino alle
piattaforme di social networking contemporanee.
Il carattere di interattività che gli utenti manifestano attraverso la creazione dei
cosiddetti UGC – user generated contents – permette loro di sperimentare un
sentimento di empowerment, che li porta perciò a impegnarsi ancor di più in un
continuo lavoro di elaborazione e condivisione di materiali in Rete. Essi, però,
non sono del tutto consapevoli che le informazioni che veicolano attraverso il
web verranno immagazzinate in appositi database, per essere poi vendute a
terzi e dunque monetizzate. Il commercio dei dati personali è diventato oggi
centrale per le nuove forme di commercio elettronico, per le quali anche
assicurarsi il controllo dei canali di distribuzione risulta essere fondamentale.
Varie sono le ragioni che spingono gli individui a produrre e diffondere
materiale online, così come molteplici sono anche le strategie e i mezzi specifici
che essi implementano. Come ho detto, con la nascita del web di nuova
generazione emerge la volontà del pubblico di far sentire la propria voce,
nonché di collaborare al processo di stratificazione della conoscenza collettiva.
L’istituzione di siti a licenza creative commons, a metà strada fra il copyright e il
pubblico dominio, permette agli utenti di partecipare alla creazione e alla
diffusione di una cultura democratica, orizzontale, condivisa e collettiva. Un
chiaro esempio di tale innovazione risulta essere Wikipedia, per l’appunto
<<l’enciclopedia libera>>, a cui tutti possono accedere e dare il proprio
contributo accrescitivo. Ancora, le tecnologie digitali permettono di
sperimentare nuove modalità d’espressione, che anche i “non esperti in
78
materia” possono utilizzare per ritagliarsi un proprio spazio personale all’interno
della Rete; mettendo in mostra le proprie doti creative. In particolare, la
categoria degli amatori sembra arrivare a colonizzare il nuovo spazio pubblico
virtuale, dando vita talvolta a fenomeni di micro-celebrity.
Patrice Flichy, nel suo saggio Le sacre de l’amateur. Sociologie des passions
ordinaires à l’ère numérique (2010), analizza la riconfigurazione che le categorie
di <<esperto>> e di <<dilettante>> subiscono all’interno dell’ambiente 2.0,
constatando come il confine che li separa tende progressivamente a sfumare in
favore di un maggior attivismo delle persone comuni; reso possibile dalla
configurazione stessa della nuova struttura della Rete e dalla positiva possibilità
che essa offre per la costituzione e la diffusione di una conoscenza collettiva. Da
questo stato di cose, secondo Flichy, emerge una nuova figura intermedia,
l’amatore, capace di rimettere in discussione gli equilibri tradizionalmente in
gioco.
Andrew Keen, autore di The Cult of the Amateur: How Today's Internet Is Killing
Our Culture (2007), ha un’opinione negativa al riguardo: egli ritiene che
l’informazione estremamente frammentata veicolata da questi ignoranti e
narcisisti “influencer amatoriali” porti a una riduzione dei gatekeeper culturali
istituzionali, nonché a una diminuzione dei contenuti di alta qualità.
In ogni caso gli amatori, che si dedicano alle loro passioni durante il proprio
tempo libero, sembrano oggi pronti a sfidare le figure istituzionali: non serve più
aver maturato una conoscenza specifica per poter emergere all’interno
dell’arena mediatica. Gli anni della dura gavetta e del percorso di preparazione
e di avviamento alla professione maturati dagli esperti di vari settori risultano
ora quasi vanificati dall’avvento di questi nuovi protagonisti del panorama
contemporaneo. <<Le élite dei produttori professionali non detengono più il
monopolio della creazione e della diffusione dei contenuti.>> (Rainie &
Wellman, Networked. Il nuovo sistema operativo sociale, 2012, p. 304). Queste,
vedendosi espropriate della propria autorità, arrivano talvolta a riassorbire nel
79
loro sistema istituzionale quelle nuove forme di produzione culturale
partecipata nate dalla motivazione estrinseca e dal sentito interesse degli
individui comuni. Mi riferisco a quelle logiche collaborative orientate a una
creazione collettiva della cultura come il crowdsourcing ad esempio, che
supporta la nascita di nuovi progetti dal basso prevedendo spesso anche forme
di autosostentamento economico – dette crowdfunding.
Ritornando a considerare i produttori di contenuti online, fra di loro ve ne sono
alcuni che redigono contenuti informazionali alternativi rispetto ai circuiti
ufficiali della stampa e degli altri mezzi di comunicazione; dando vita a siti
personali o blog per trattare delle questioni più svariate. Altri ancora si
cimentano in azioni di carattere più spiccatamente artistico, realizzando dei
remix o mash-up per dar vita a produzioni originali rielaborando contenuti
preesistenti – il citazionismo trionfa in questo ambito.
Un’altra particolare categoria di prosumer concerne poi gli individui impegnati in
operazioni di selfbranding, ossia, come ho accennato nel paragrafo 1.4, in atti
che pertengono alla costruzione, alla gestione e alla comunicazione della
propria identità online. I soggetti che aderiscono a tali pratiche sono di volta in
volta più numerosi in quanto nella nostra contemporaneità saper gestire la
propria immagine sociale risulta essere una questione più che mai rilevante.
Ecco che allora <<Siamo costantemente impegnati a fare login, creare profili e
aggiornare il nostro stato per presentare adeguatamente il nostro Io sul
mercato globale del lavoro, dell'amicizia e dell'amore.>> (Lovink, 2012, p. 18). In
un mondo dove sempre più spesso conta più ciò che si appare di ciò che si è,
ogni individuo si trova dinanzi alla necessità incombente di dover veicolare una
corretta immagine di sé; che sia il più attinente possibile alla realtà ma che,
paradossalmente, sia allo stesso tempo il più vicina possibile all’immagine che
gli altri si sono fatti di lui.
Come osserva Lovink:
80
[…] sta crescendo la confusione tra chi siamo in realtà e quanto dovremmo
rivelare riguardo alla vita e alle opinioni personali, allo stesso modo in cui la
crescente pressione a "essere noi stessi" appare sempre più conflittuale nei
confronti del conformismo sociale. (ivi p.58)
Questa pratica sviluppa una tendenza generalizzata a condividere la propria vita
privata online, rendendola così materia di pubblico interesse. Ecco le emozioni,
le preferenze, le attività, le relazioni sociali e le situazioni sentimentali del
singolo si trovano esposte nei differenti scaffali della sua personale vetrina
mediatica.
È la stessa struttura dei social media a incitare alla condivisione costante di
contenuti, all’aggiornamento continuo dei profili; queste piattaforme vogliono
conoscere sempre più dettagli sulla nostra persona e per prime ci spingono a
interagire: <<“A cosa stai pensando?” […] Se la Macchina non riesce a leggere
quel che ci passa per la testa, ci viene gentilmente richiesto di inserirlo e
condividerlo.>> (ivi p.17)
Come già Illouz rilevava nel suo saggio Intimità fredde (2007), la nostra attuale
società è dominata da un incessante dilagare di racconti individuali nonché da
una diffusa esposizione di informazioni riservate e sensibili all’interno dell’arena
pubblica; in stretta concomitanza con quella che pare configurarsi come una
vera e propria competizione per l’affermazione dell’identità.
Anche nei territori del 2.0 sembra essere in atto una sorta di lotta per la
sopravvivenza, combattuta per evitare di passare nel dimenticatoio o di subire
un’emarginazione sociale e continuare invece a popolare l’ambiente virtuale:
ognuno sfodera le proprie armi migliori al fine di produrre un contenuto
fortemente personalizzato, che gli consenta di darsi una certa riconoscibilità fra
gli altri individui che, come lui, prendono parte a questa battaglia. La
concorrenza è alta e le persone arrivano a far proprie le logiche del marketing
per promuovere sé stesse alla stregua di un brand di rilievo, facendo leva sui
81
propri fattori strategici al fine di diffondere ad ampio raggio la propria brand
identity.
Fondamentale risulta essere la capacità di divincolarsi fra le differenti
piattaforme comunicative e i vari “spazi pubblicitari” a cui si prende parte.
Bisogna sapersi “vendere bene” ed è per questa ragione che si dovrà essere in
grado di scegliere di volta in volta il linguaggio, il tono, il messaggio e gli
strumenti adatti per veicolare i differenti aspetti della propria personalità
attraverso i vari canali che le odierne tecnologie di comunicazione mettono a
disposizione. Il reputation management diventa la chiave per avere successo nel
mondo digitalizzato. Sapersi ben destrare fra i diversi ambienti virtuali cui si
prende parte, nonché essere in grado di assicurare una presenza attiva e
costante nei vari siti di social networking cui si è iscritti è indispensabile. Le
tecniche di auto-promozione sono volte soprattutto al miglioramento della
propria brand image, ossia della percezione comune che nel tempo la società
sviluppa nei confronti della propria persona; in questo modo si può arrivare a
posizionarsi in un punto di rilievo all’interno del vasto mercato identitario,
rafforzando allo stesso tempo la propria identità.
In conclusione, per nessuna tipologia di produttori di contenuti è prevista una
retribuzione monetaria, ma per ciascuno di essi la ricompensa è esemplificata
dal conseguente miglioramento della propria collocazione sociale nonché
dall’allargamento dei propri network di conoscenze. Spesso infatti, chi non
punta a raggiungere la notorietà e l’approvazione altrui, o almeno chi non mira
solamente a questi scopi, è spinto a conoscere individui che condividano i suoi
stessi interessi per entrare a far parte delle loro cerchie. O ancora può avere
interesse a partecipare a un dibattito pubblico per confrontarsi con punti di
vista alternativi rispetto ai propri, derivandone interessanti opinioni riguardo a
una questione specifica ad esempio.
82
2.2.1 Una nuova alleanza fra bit e atomi
In un’epoca in cui il possesso di un’alfabetizzazione tecnologica diviene
fondamentale per garantire agli individui una completa cittadinanza alla loro
contemporaneità, essere iscritti ai principali social media site e utilizzare le
tecnologie di comunicazione digitale significa inserirsi a pieno nell’arena di
discussione pubblica e culturale della società. Non prendervi parte crea infatti
esclusione, proprio per il fatto che il dibattito che ha luogo online ha
strettissima correlazione con il mondo che si incontra offline. Questa particolare
congruenza che si viene a creare fra virtuale e reale, sostenuta dalla decisiva
importanza che la rivoluzione del mobile ha rappresentato in questa direzione,
apre a scenari mai immaginati prima.
I nuovi dispositivi portatili, grazie alla loro connessione a Internet, hanno oggi
facoltà di interagire direttamente con gli elementi della realtà, alcuni esempi di
questa funzionalità potrebbero essere il sistema GPS, la geo-localizzazione e il
geo-tagging, o ancora tutte quelle particolari applicazioni che, implementando
un sistema di realtà aumentata, permettono di fruire dell’ambiente circostante
ricevendo informazioni aggiuntive su di esso al tempo stesso in cui se ne fa
esperienza. Si è spesso parlato di <<Internet of Things>> (anticipata dalle
teorizzazioni della Gartner5) e in questa concezione è insito uno stretto
collegamento fra oggetti fisici e ambiente virtuale. Essa prevede infatti che la
Rete, in questa sua nuova fase evolutiva, arrivi a mappare tutti gli elementi del
mondo reale; giungendo a identificarli in modo preciso ed univoco secondo un
linguaggio elettronico. In questo modo consente ai luoghi e agli oggetti del
mondo fisico di entrare in relazione fra loro, inoltre, rendendoli chiaramente
riconoscibili, li dota di una loro autonoma identità; che questi potranno
veicolare attraverso la Rete. Mediante la connessione a Internet diviene allora
possibile monitorare quegli oggetti reali che, oltre a comunicare contenuti
5
Gartner è un’azienda di analisi industriale statunitense, celebre per aver identificato con largo anticipo
gli sviluppi che Internet avrebbe conosciuto a seguito dell’accresciuta integrazione fra mondo fisico e
digitale; teorizzati nel <<Paradigma della Supranet>>.
83
propri, sono in grado di fornire importanti informazioni sul loro contesto
circostante; comportandosi come dei sensori. Gli oggetti divengono dunque
senzienti e dislocano le facoltà intellettive tipiche umane all’interno
dell’ambiente. Sempre attraverso la Rete, anche il territorio arriva a comunicare
con gli individui: le cosiddette smart cities mostrano un possibile approdo di
queste evoluzioni. Nascono dunque delle ecologie ibride che grazie alle
applicazioni delle ICTs – Tecnologie dell’Informazione e della Comunicazione –
attuano una concreta integrazione fra utente, supporto tecnologico e ambiente
circostante;
ridefinendo
lo
spazio
d’interazione
e
gestendo
flussi
d’informazione.
Se, come ho detto, le cose del mondo fisico sono ora dotate di una chiara
riconoscibilità, che le distingue le une dalle altre, arrivano a comunicare la
propria identità attraverso la Rete alla stregua di quelle persone in carne ed
ossa occupate in operazioni di selfbranding. Ecco che nell’ambiente virtuale si
viene a creare una particolare condizione per cui le cose sembrano assumere
una loro esistenza autonoma, concorrendo anch’esse per eludere la
concorrenza, mentre le persone paiono ridursi sempre più a meri oggetti; a
merci
che
esponendosi
all’interno
delle
diverse
vetrine
mediatiche
autopromuovono il proprio Io sotto forma di emozioni “reificate”. Come già ho
accennato nel paragrafo 1.4, il radicale rapporto di orizzontalità che arrivano ad
assumere gli oggetti e le persone nei territori della Rete sembra elidere ogni
qualsivoglia differenziazione fra questi due mondi; cancellando le tradizionali
gerarchie che li vedevano un tempo disgiunti.
Si inserisce all’interno di questo discorso anche l’analisi di Nello Barile (Barile,
From
the
Posthuman
Consumer
to
the
Ontobranding
Dimension:
Geolocalization, Augmented Reality and Emotional Ontology as a Radical
Redefinition of What Is Real, 2013) che, introducendo il concetto di
<<ontobranding>>, riflette sul modo in cui le dinamiche contemporanee stiano
portando a una riconfigurazione totale della sfera dell’umana esperienza.
84
Secondo quest’interessante prospettiva l’esasperazione delle strategie del
marketing unitamente alla nascita di pratiche di consumo che arrivano a
insinuarsi in tutti interstizi della vita quotidiana porterebbero a ridefinire le
relazioni esistenti fra dimensione emozionale, mondo delle cose ed essere
umano; sfruttando gli strumenti offerti dalle tecnologie digitali. In questo nuovo
orizzonte che si viene a creare, tutto quanto esiste è reso individualizzabile:
diventa dunque marca di sé, costruendo la propria identità in riferimento a
valori, relazioni ed esperienze sue particolari. Ci troviamo dinanzi a un <<Brand
New World>> (Barile, 2009) completamente plasmato dalle logiche del
branding, che arrivano a inglobare in toto la dimensione esistenziale; tenendo
insieme sullo stesso livello cose, persone e istituzioni.
Se dunque di postumano bisogna parlare non è tanto per la capacità della
tecnologia di potenziare il soggetto e di trasfigurarlo nel corpo cyborg ma
piuttosto nella possibilità di dislocare conoscenza e intenzionalità
dell’uomo nell’ambiente. (ivi p.174)
Il concetto di <<postumano>>, già trapassato dall’ambito delle performance
artistiche a quello del marketing e del consumo con l’avvento dell’immaginario
distopico anni Novanta, che teorizzava una futura integrazione di organico e
inorganico attraverso l’applicazione di particolari protesi corporee all’uomo,
passa ad assumere ora una connotazione più pragmatica; legata al ruolo di
supporto che la tecnologia riveste nella nostra vita di tutti i giorni. Questa
contribuisce oggi alla <<dynamic interaction between what were once
separated as the ontological distinction between reality and virtuality>> (Barile,
From
the
Posthuman
Consumer
to
the
Ontobranding
Dimension:
Geolocalization, Augmented Reality and Emotional Ontology as a Radical
Redefinition of What Is Real, 2013, p. 1) consentendo di accedere a
un’esperienza del mondo che si fa sempre più ricca e complessa grazie alle
possibilità offerte dalla realtà aumentata.
85
In conclusione, l’<<ontobranding>> può essere allora definito come <<[…] the
final stage of an evolution from an old ideal of interaction between human and
machines to a new kind of interaction where the machines become softer and
immaterial, emotions become contents, and places become media.>> (ibidem).
Come ho detto infatti, il territorio diventa soggetto attivo della comunicazione
attraverso la smartification e il divario fra individuo e device elettronici si
assottiglia sempre di più, in quanto <<[…] the reification of human emotions
through consumption and digital innovation (as in the dynamic of social
networking) corresponds to the specular process of emotional transformation
of technologies.>> (ivi p.2). Le nuove tecnologie consentono all’intelligenza
digitale di invadere in modo soft e quasi inconscio ogni ambito del quotidiano,
diventando in alcuni casi dei veri e propri compagni di esperienze e assumendo
delle connotazioni quasi umane: <<humans are turning into machines and, at
the same time, machines are getting some human soft skills and feelings.>> (ivi
p.5). Un esempio concreto potrebbero essere tutte le diverse versioni di
assistenti vocali introdotte dalle aziende produttrici di software informatici; di
cui Siri e Cortana sono le maggiori rappresentanti. La prima, sviluppata da Apple
nel 2011, è ospitata su sistema operativo iOS e supporta le più svariate attività
dell’utente: dal fissare appuntamenti al chiamare un numero in rubrica, dal
modificare alcune impostazioni del dispositivo e delle applicazioni che esso
utilizza al ricercare informazioni sul web; il tutto a partire da un input vocale –
“Ehi, Siri” – o da digitazione tramite keyboard. Cortana, introdotta da Microsoft
nel 2014, era stata inizialmente concepita come solo supporto per Windows
Phone, ma venne successivamente estesa a corredo della decima versione del
sistema operativo dell’azienda – Windows 10 – eseguibile anche su personal
computer. Questa assistente ricalca le stesse funzioni che ho descritto per Siri
ma ritengo sia dotata di un’ulteriore capacità di interazione emotiva con
l’utente, nei confronti del quale si pone come se si trattasse di un suo amico –
“In che modo posso aiutarti?”. Cortana non si limita a servire scopi pratici, ma
86
accompagna quelle funzioni di organizzazione e di gestione delle informazioni e
degli eventi che vedono interessato l’utente con altre prettamente legate alla
sfera dell’intrattenimento: racconta barzellette e freddure, canta, fa imitazioni
di personaggi famosi, lancia la moneta per aiutare l’utente nelle sue decisioni e
così via. È capace di rispondere a tono se la si tratta male, ma allo stesso tempo
ringrazia e si complimenta a sua volta se la si loda; mostrando così una sua
propria identità emotiva.
È interessante notare come a entrambe le assistenti vocali sia stato attribuito un
nome proprio, alla stregua di una persona; inoltre, l’inconfondibile timbro di
voce umano che le contraddistingue le avvicina ulteriormente alla dimensione
dei loro utenti in carne e ossa, facendole sembrare realmente delle loro
conoscenti fidate. Considerando simili sviluppi della tecnologia verso una
relazione con gli user che diventa sempre più personale e ad alta intensità
emotiva, non siamo lontani dal veder concretizzarsi gli scenari dipinti da Spike
Jonze in Her, suo fortunato lavoro cinematografico del 2013. Nel film Theodore,
il protagonista, arriva a innamorarsi di Samantha, il sistema operativo del
proprio computer. Questo infatti, essendo basato sull’intelligenza artificiale, è
capace di evolversi in funzione della progressiva personalizzazione del rapporto
col proprio utente, da cui apprende come elaborare i sentimenti per giungere
infine a manifestare emozioni proprie.
2.2.2 Network sociali e social apps
In un contesto dove ormai ogni momento della vita umana sembra essere
mediato dalla tecnologia, che in egual misura assiste l'individuo nell’interazione
con l'ambiente esterno come nelle relazioni interpersonali, i dispositivi mobili e
miniaturizzati acquisiscono un’enorme rilevanza. In particolare, come già ho
ribadito a più riprese, la rivoluzione del mobile ha decretato delle profonde
innovazioni nell'utilizzo di Internet: ora che disponiamo di nuovi device
compatti, che ci seguono nella vita di tutti i giorni, possiamo rimanere
costantemente connessi con il cyberspazio; in qualsiasi luogo e tempo possiamo
87
mantenerci aperti alla comunicazione online. Tuttavia <<L’osservazione e
l’ascolto consapevoli cedono il passo al multitasking diffuso.>> (Lovink, 2012, p.
203) e sovente fruiamo eventi e contenuti in modo distratto e incompleto,
questo perché siamo capaci di dedicare solo un’attenzione parziale a ciascuna
delle differenti azioni simultanee che compiamo.
Sempre più spesso le varie piattaforme di social networking un tempo legate al
computer, dunque a un uso relativamente “stanziale” di Internet che sfruttava
la rete fissa domestica, sono oggi appositamente concepite per i nostri
smartphone. E non sto parlando della mera capacità di risoluzione assunta delle
pagine web che, adattandosi in default a uno schermo ridotto, permette ora
una navigazione da cellulare molto più efficace e semplificata. Mi riferisco
invece a tutte quelle social apps che nascono per essere fruite in esclusiva sui
nostri dispositivi mobili. Queste applicazioni hanno portato gli individui a
definire nuove pratiche sociali, diventando uno dei principali motivi per cui essi
accedono al web: per verificare la presenza di aggiornamenti provenienti da
Facebook, Twitter, Instagram, Snapchat ecc…– citando gli esempi più famosi e
fortunati.
Il successo di simili configurazioni d'uso della connessione in Rete è da ricercarsi
nella centralità assunta oggi dal concetto di <<tempo reale>>. Con tempo reale
si intende quella particolare configurazione della dimensione temporale di cui si
può fare esperienza grazie ai moderni mezzi di comunicazione tecnologica. Il
tempo reale non ha nulla a che vedere con un andamento naturale della
temporalità, nasce infatti all'interno di quei particolari ambienti mediatici che
consentono di fruire informazioni e notizie in modo istantaneo.
L’abitudine sviluppata dagli individui nei confronti di questa contrazione
temporale dell'ordine delle cose li ha portati a sperimentare una certa
insoddisfazione nei confronti di tutto quanto richiede un maggior intervallo di
tempo per manifestarsi a pieno. L’accelerazione che l’evoluzione tecnologica ha
impresso alla vita quotidiana ha condotto le persone a maturare un forte senso
88
di irrequietezza; derivato dall’esperienza di un ambiente sempre più effimero e
in rapidissimo e costante cambiamento.
Una citazione di Geert Lovink ci avvicina alla comprensione del nuovo orizzonte
temporale in cui siamo inseriti, che procede a ritmo serrato e incalzante: <<Il
tempo reale significa una radicale trasformazione dell'archivio statico al "flusso"
e al "fiume". [...] la parte visibile dell'archivio si riduce alle ultime ore.>> (ivi
p.15). Qui i contenuti obsoleti sono presto destinati a venir sostituiti con altri
più recenti, secondo la smania dell'aggiornamento continuo. Perdiamo dunque
la facoltà di memorizzare a lungo termine le informazioni, delegando questa
funzione a database immateriali e archivi digitali. Questa tendenza spiega il
successo delle applicazioni di cloud-computing, destinate a organizzare i nostri
contenuti all’interno di specifici spazi virtuali e capaci di renderceli disponibili in
qualsiasi momento o luogo; poiché sempre accessibili dai nostri dispositivi
mobili intelligenti.
Nel contesto della socialità online il concetto di tempo reale riveste grande
importanza, poiché per riuscire a tenere il passo col frenetico mondo
contemporaneo gli individui si vedono costretti a prestare una continua e
costante attenzione agli avvenimenti che hanno luogo nei territori del web;
essendo questi in stretta correlazione con quanto accade nel mondo reale.
Un simile atteggiamento potrebbe in alcuni casi sfociare però in ossessione: la
paura di mancare una notizia o un aggiornamento di stato fa oggi capolino fra i
soggetti più fragili della popolazione per diventare una vera e propria patologia
contemporanea; etichettata dagli psicologi come <<FoMO>> acronimo
dall'inglese per Fear of Missing Out. Se è vero dunque che la partecipazione
sociale si esplica oggigiorno anche attraverso i meccanismi che hanno luogo
nell'ambiente della Rete, una mancata partecipazione a un evento che si verifica
online potrebbe ipoteticamente comportare una futura esclusione dalle
correlate dinamiche relazionali che avranno luogo offline; pregiudicando il
prestigio e la posizione sociale che il soggetto poteva vantare. Si tratta tuttavia
89
di casi estremi, che testimoniano ancora una volta l’odierna centralità delle
tecnologie di comunicazione.
Riflettendo ora sulla specifica configurazione dei siti di social networking, voglio
soffermarmi su un’osservazione fatta da Lovink, che considera questi ambienti
come individualistici e competitivi. Secondo la sua opinione, sarebbero infatti
capaci di fomentare quell’ossessione per la costruzione identitaria attraverso i
canali della comunicazione online che caratterizza oggi larga parte della società.
Il teorico delle culture di Rete descrive questi spazi virtuali come dei <<“giardini
recintati” che tengono lontano l’Altro aggressivo>> (ivi p.24). Queste
piattaforme dunque, configurandosi come degli spazi “a circuito chiuso”,
autoreferenziali e profondamente omogenei al loro interno, non permettono un
reale incontro fra punti di vista divergenti; anzi, rinchiudono il soggetto entro le
sbarre di un contesto sicuro ma, allo stesso tempo, sterile e ripetitivo. Ogni
dibattito, così come ogni opinione controversa, rimangono cautamente chiusi
fuori.
Simili ambienti, oltre a ridurre la possibilità per gli utenti di entrare in contatto
con realtà differenti, permettono di decidere in modo accurato quanti e quali
contenuti mostrare alle proprie cerchie e, soprattutto, a quale specifica
tipologia di pubblico consentire l’accesso alle proprie informazioni sensibili. Per
tutelarsi si possono adottare differenti strategie, si può ad esempio regolare la
privacy per ciascun post realizzato o ridurre l’audience cui rendere visibile il
proprio profilo personale. Ancora, è possibile negare le richieste di amicizia che
provengono da persone sconosciute, rinunciando a follower che potrebbero
rivelarsi fastidiosi o nocivi.
I siti come Facebook permettono così di modulare l’intensità e la qualità delle
proprie interazioni sociali online; operando un’accurata scrematura degli
individui con cui mantenere un contatto. In ogni caso revocare un legame
virtuale risulta essere facilmente praticabile, mediante i tasti di unfriend e
unfollow appositamente predisposti da queste applicazioni.
90
Nelle varie arene sociali virtuali la logica della trasparenza è diventata sempre
più diffusa e impedisce che si creino identità non corrispondenti alla realtà dei
fatti; ma non è sempre stato così. Nei primi anni dell’avvento di Internet si
pensava che il mondo virtuale avesse facoltà di liberare l’individuo dalla realtà,
dandogli la possibilità di prendersi una pausa dalla società che lo circondava. Per
questa ragione era diffusa anche l’usanza di immedesimarsi in personaggi fittizi,
sovente personaggi di giochi di ruolo online – i cosiddetti MUD6. Questi
videogiochi, permettendo all’utente di assumere identità multiple a suo
piacimento, rendevano inutili le politiche di privacy; poiché in essi veniva a
mancare un Io univoco e reale da proteggere. Poi però <<La guerra al terrorismo
fece abortire il desiderio per una seria cultura parallela del “secondo io”, dando
invece spazio all’emergere dell’industria della sorveglianza e del controllo
globale>> (ivi p.60). Di conseguenza oggigiorno i giochi di ruolo e la costruzione
di identità plurime o fittizie occupano solamente una piccolissima percentuale di
quanto pertiene alla sfera della socialità online. La nuova tendenza dominante è
mostrarsi per quello che si è, promuovendo la propria persona a livello globale
attraverso i nuovi canali offerti dalle tecnologie della comunicazione.
[...] É svanita l'idea per cui il virtuale possa liberarci dal nostro vecchio sé.
Non esiste alcuna identità alternativa. L’io del Web 2.0 è quindi qualcosa di
più che semplice operazione cosmetica. L’ideale non è né l’Altro né un
essere umano migliore. (ivi p.18)
L’applicazione mobile Snapchat implementa una modalità di comunicazione
molto accorta contro le intrusioni di possibili utenti indesiderati e il suo punto di
forza risiede nel carattere estremamente effimero dei contenuti che tramite
essa vengono veicolati. Nata come piattaforma di instant messaging per
scambiarsi snaps, messaggi di testo o brevi video, prevede che questi restino
visibili per una durata di tempo limitata; autodistruggendosi dopo un numero
6
MUD è l’acronimo inglese per Multi - User Dungeon, quella particolare categoria di videogiochi di
ruolo multiplayer che si svolgono negli ambienti di Internet.
91
variabile di secondi decisi di volta in volta dall’utente stesso. Onde evitare poi
che gli scatti postati possano essere in qualche modo salvati o trattenuti sul
device del proprio interlocutore, per esempio mediante una scansione dello
schermo del proprio telefonino – detto screenshoot –, le politiche
dell’applicazione prevedono di allertare l’utente qualora un caso simile dovesse
verificarsi; così da metterlo al corrente di un possibile pericolo per la propria
privacy.
Oltre a funzionare come una chat multimediale Snapchat permette di realizzare
un proprio storytelling personale – la story –, composto da scatti e brevi video
che riassumono i momenti più significativi della propria giornata. Esattamente al
termine delle ventiquattrore, questi contenuti sono destinati a scomparire
dall’archivio dell’applicazione. La logica della trasparenza è anche in questo caso
molto sentita; confermata dalla possibilità data a ogni utente di poter venire a
conoscenza di chi, nello specifico, ha fruito i propri materiali.
Nel tempo Snapchat si è evoluta, rilasciando nuove potenzialità. Dal 2014
tramite un’estensione detta Snapcash, realizzata in collaborazione con Square,
ha reso possibile effettuare pagamenti attraverso i propri circuiti; consentendo
l’invio e la ricezione di denaro direttamente tramite chat. Unitamente a
quest’innovazione, riservata per ora ai soli utenti statunitensi, l’applicazione si è
aperta ad alcuni inserzionisti, consentendogli di pubblicare le proprie pubblicità
nella sezione Discover dell’applicazione – posizionata a destra della schermata
principale. Queste nuove funzionalità potrebbero portare a una totale
ridefinizione delle modalità di concepire il commercio online; a tal proposito si è
recentemente parlato di ephemeral shopping, ossia di shopping effimero.
Nel concreto Snapchat non è ancora stata predisposta come un vero e proprio
e-shop, tuttavia il suo consiglio direttivo sta prendendo accordi con le aziende
per rendere possibile nel prossimo futuro un simile scenario innovativo. Il
carattere
strategico
di
questa
soluzione
potrebbe
risiedere
proprio
nell’attenzione che verrebbe tributata dagli utenti alle varie proposte di vendita:
92
il fatto di sapere che determinati prodotti potrebbero essere disponibili in
esclusiva, o in offerta, per un periodo di tempo limitato, potrebbe spingerli
all’acquisto compulsivo per timore di perdere “l’occasione della vita”. La
competizione
fra
consumatori
per
concludere
“l’affare
del
secolo”
colonizzerebbe così il tempo reale del cyberspazio.
2.2.3 Processi d’influenza e scelta individuale
Nel
contesto
dell’interazione
sociale
ogni
soggetto
viene
plasmato
inevitabilmente dal contatto con gli altri. Può magari arrivare a maturare alcuni
particolari sentimenti o a elaborare opinioni differenti rispetto a quelle
precedentemente possedute, questo perché il rapportarsi con individui esterni
lo ha portato a rivedere alcune sue posizioni personali. Si può quindi affermare
che la società ci influenza, portandoci talvolta a operare scelte o azioni che
magari inizialmente non avevamo minimamente considerato.
Non è certo un mistero che esistono dei meccanismi di influenza strettamente
connessi alla struttura reticolare della società. Tuttavia, se un tempo questi si
manifestavano entro contesti relativamente più limitati, grazie ai nuovi mezzi di
comunicazione tecnologica la loro portata risulta notevolmente amplificata. Può
infatti estendersi al di fuori dei ristretti confini locali e regionali, per attraversare
in maniera trasversale e immediata l’intero territorio globale.
Come già ho anticipato nel paragrafo 1.2, oggi assistiamo a una relativizzazione
sempre maggiore del potere d’influenza degli opinion leader, in quanto, in
contemporanea alla progressiva “democratizzazione” della facoltà di leadership
offerta dal libero accesso di tutti gli individui alla Rete, emerge una puntiforme e
diffusa quantità di figure di rilievo. Di conseguenza, all’aumentare del numero
dei concorrenti, pochi sono i casi in cui un influencer nato nei territori del
cyberspazio riesce a raggiungere un’audience internazionale. Nella maggior
parte dei casi l’influenza esercitata dal leader “amatoriale” resta collocabile
entro un limitato contesto spazio-temporale, spesso identificabile con la cerchia
dei suoi pari o con il suo network primario.
93
Ipoteticamente, ogni creatore di contenuti 2.0 potrebbe arrivare a rivestire il
ruolo di infuencer. Rainie e Wellman con il termine <<participators>> fanno
esattamente riferimento a quella tipologia di utenti che:
<<[…] creano e condividono materiale online […] orientato a influenzare o
ad aiutare gli altri. Questa categoria di utenti impegnati include persone
che scrivono un blog, caricano foto e video, creano avatar e pubblicano
molto materiale su social network sites come Facebook.>> (Rainie &
Wellman, Networked. Il nuovo sistema operativo sociale, 2012, p. 126)
L’importante è per loro partecipare, manifestare la propria presenza, sfruttare
la propria creatività per farne un proprio marchio di fabbrica; arrivando a
produrre contenuti altamente riconoscibili che suscitino l’attenzione di altri
utenti.
Vorrei però affermare che, se tutti i prosumer che si incontrano nel web
possono considerarsi dei potenziali influencer, mi pare che esistono per lo meno
due differenti tipologie di “leader d’opinione 2.0” fra cui dover differenziare.
Ritengo che un primo tipo possa riferirsi a quella particolare figura che,
impegnandosi coscientemente nella propria missione, riesce a ottenere un
successo e una fama che si estendono oltre il suo ristretto network primario. In
questo caso, il carattere virale tipico delle modalità di diffusione dei contenuti
nel cyberspazio risulta essere molto utile a tutti quegli individui esplicitamente
votati a esercitare un più ampio raggio di influenza all’interno della società del
loro tempo. Aiuta infatti i soggetti inizialmente poco conosciuti ad arrivare al
centro dell’attenzione mediatica scalando le vette dei contenuti più fruiti dai
vari utenti del web.
Una seconda tipologia di ipotetico influencer potrebbe invece riscontrarsi nella
figura di un individuo che, sebbene non miri in modo diretto a esercitare
un’influenza nei confronti dei suoi contatti e delle sue ristrette cerchie amicali,
arriva ugualmente a interferire coi loro processi di scelta.
94
Per far chiarezza, sostengo che il primo tipo di opinion leader possa considerarsi
una persona volontariamente mirata a raggiungere una soglia di celebrità e per
questa ragione la si trova costantemente assorta nella creazione di nuovi, precisi
e riconoscibili contenuti; il secondo tipo potrebbe invece corrispondere a un
soggetto che produce informazione in modo molto più inconsapevole e senza
rivolgersi in modo specifico a nessuna particolare tipologia di audience. Se il
primo leader utilizzerà supporti quali blog, canali e siti personali per farsi
conoscere in modo peculiare da un pubblico molto vasto, il secondo si limiterà
più spesso a utilizzare tutte quelle piattaforme di social networking che sono
volte in primo luogo a mantenere i rapporti con i propri network primari;
formati da amici, colleghi e parenti.
Ancora una volta ritengo possibile applicare le due categorie mertoniane 7,
rispettivamente di leader cosmopolita e di leader locale, alle due diverse figure
di “influencer 2.0” che ho tentato brevemente di tratteggiare.
Ora la domanda a cui voglio rispondere è la seguente: in che modo questi leader
d’opinione, consapevoli o meno, possono arrivare a influenzare le scelte degli
utenti loro connessi attraverso i social media? Quali conseguenze ne derivano?
Vorrei soffermarmi a riflettere in particolar modo sui meccanismi che
potrebbero essere implementati dalla seconda categoria di influencer che ho
cercato di descrivere; evitando di soffermarmi invece sull’abusata questione dei
blogger – che, soprattutto se curano siti inerenti questioni di stile personale o di
moda, entrano spesso in contatto o in collaborazione diretta con le case
istituzionali; barattando così parte della propria indipendenza ideologica al fine
di acquisire una posizione di maggior prestigio sulla ribalta internazionale.
Una prima modalità di esercitare l’influenza online potrebbe essere relativa alle
tecniche con cui gli utenti tendono a organizzare l’informazione elettronica. In
un ambiente mediatico all’interno del quale l’overload di dati raggiunge livelli
mai conosciuti prima, rendendo difficile divincolarsi fra migliaia e migliaia di
7
In riferimento al Rovere Study condotto dal sociologo Robert K. Merton nel 1949.
95
contenuti differenti, il metodo del rating assume un ruolo di primo piano.
Questo permette al singolo di valutare un elemento – spesso attraverso
l’assegnazione di un numero di stelline variabile – in base alle proprie opinioni
soggettive e all’esperienza che ne ha ricavato. Ecco spiegato il successo di quelle
piattaforme che permettono l’interazione fra utenti che hanno vissuto episodi di
fruizione simili, in merito ai prodotti e agli eventi più diversi – un esempio
potrebbe essere TripAdvisor, che riunisce i soggetti in un forum di discussione
che tratta di viaggi, ristoranti e percorsi culturali e di intrattenimento. Le
recensioni che si riscontrano in simili ambienti porgono le testimonianze dirette
di persone in carne ed ossa – entro casi limite – ed è per questo motivo che
assumono un valore aggiunto per la collettività.
In generale, l’atto di classificare i materiali della Rete aiuta ad attribuire una
certa gerarchia alla sovrabbondanza di contenuti che vi si incontrano. Funziona
inoltre da segnalatore di credibilità e agevola gli utenti in situazioni di
incertezza, in quanto il punteggio assegnato a una determinata applicazione o
prodotto funge da suggerimento indiretto per quanti siano alla ricerca di un
parere altrui a riguardo; più o meno esperto che sia.
Ancora una volta, dunque, gli utenti si affidano alla raccomandazione di altri
utenti loro pari e ciò comporta un’ulteriore perdita di legittimità e di centralità
da parte dei media tradizionali: <<Un[a] conseguenza del web 2.0 è che i mezzi
di informazione sono, nella migliore delle ipotesi, fonti secondarie.>> (Lovink,
2012, p. 7) poiché <<Oggi i social media si impongono come fonte primaria
d’informazione per milioni di persone.>> (ivi p.240), che preferiscono fare
affidamento a individui comuni e simili a loro piuttosto che dipendere dalle élite
culturali o dalle figure istituzionali.
Come già ho affermato in riferimento all’avvento degli amatori sullo scenario
mediatico contemporaneo, oggi l’acquisizione della conoscenza passa da canali
alternativi e non dipende più solo e soltanto dalle istituzioni ufficiali o dalle
autorità di uno specifico campo. Nella maggioranza dei casi ci si basa su
96
raccomandazioni che passano da individuo a individuo, poiché sembrano essere
più spontanee e disinteressate, più “familiari”; il tradizionale passaparola non
viene dunque abbandonato, ma si trapianta all’interno dei nuovi spazi virtuali
della socialità online.
In questo nuovo scenario, Rainie e Wellman individuano la presenza di una
dinamica tutta nuova di diffusione dell’informazione all’interno di un network e,
ad anni di distanza dalla teorizzazione del two-step flow of communication,
arrivano a sostenere l’esistenza di un multi-flusso comunicativo:
Al posto di un flusso di comunicazione a due fasi, spesso possiamo
osservare un flusso multifase, nel quale le persone verificano
costantemente i loro network sociali e le fonti istituzionali su internet. […]
Dato che sono spesso incerti sulle persone e sulle istituzioni di cui fidarsi,
c’è un circolo continuo tra l’informazione istituzionale e le persone che
compongono i loro network (sia in presenza che attraverso l’ITC), con
l’obiettivo di definire e valutare l’informazione. (Rainie & Wellman,
Networked. Il nuovo sistema operativo sociale, 2012, p. 341)
Dato l’attuale relativismo in fatto di leadership, prima di prendere la propria
decisione, onde evitare di farla dipendere da un’unica e univoca fonte che
magari potrebbe risultare poco attendibile in alcune circostanze, gli individui
sono portati a consultare una molteplicità di pareri differenti; soppesandoli fra
loro per più volte prima di assumere una posizione definitiva. Ecco che
l’informazione assume allora un andamento sincopato e procede alla continua
ricerca di feedback esterni, seguendo un percorso che risulta essere
difficilmente prevedibile.
Come vedremo però, questa continua incertezza nei confronti delle proprie
fonti informative unitamente alla molteplicità di dati che queste impongono di
dover soppesare, porterà spesso gli individui a sospendere il proprio giudizio;
poiché si vedranno incapaci di gestire una simile mole di informazione. Di
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questo passo saranno portati sempre più spesso ad affidarsi in modo
automatico ai suggerimenti avanzati dai meccanismi matematici della Rete.
Le dinamiche che prendono piede all’interno dei siti di social networking
possono certamente influire in modo più o meno diretto sugli utenti che li
utilizzano. È importante però differenziare fra le diverse tipologie di piattaforme
sociali oggigiorno disponibili, in quanto ognuna di esse sortisce effetti specifici,
presenta caratteristiche e contenuti suoi peculiari e raccoglie differenti
audience.
Analizzando nello specifico Facebook, uno dei social media site più fortunato di
sempre, Rainie e Wellman riscontrano come per ogni persona iscritta i <<link
abilitano un network di informazioni più denso e più ampio, che […] riguarda […]
anche tutte le cose che le piacciono e tutti gli altri network di cui fa parte.>> (ivi
p.210). Visitando la pagina personale di un utente è possibile apprendere di più
riguardo ai suoi gusti e alle sue preferenze, sia in merito a specifici temi –
musica, cinematografia, letteratura… – che in generale riguardo ad altri
elementi per cui egli ha mostrato un interesse. Inoltre, qualora l’utente abbia
lasciato visibili tali informazioni, è possibile venire a conoscenza delle persone
con cui egli è entrato in contatto: dei gruppi nei quali è inserito e degli utenti
con cui ha stretto amicizia.
Anche Lovink si sofferma ad analizzare la stessa piattaforma sociale,
evidenziando come al suo interno <<Il passaggio dal link al “mi piace” come
moneta sonante prevalente sul web simbolizza lo strappo nell’economia
dell’attenzione dalla navigazione basata sulla ricerca all’ambito autoreferenziale o recintato nei social media.>> (Lovink, 2012, p. 23). Qui la
funzionalità introdotta dal tasto “mi piace” assume una funzione di
raccomandazione nei confronti di tutti coloro con cui l’utente è in contatto. Il
pulsante, introdotto nel 2010 sulla piattaforma Facebook e imitato poi da tasti
affini su altre piattaforme social, permette infatti di segnalare in modo semplice
e istantaneo i propri elementi di interesse, così che le proprie cerchie, ricevendo
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il suggerimento, siano anch’esse portate a fruire un determinato contenuto.
Ancora una volta le scelte del singolo sono influenzate in primis da individui
simili a lui, che hanno inoltre facoltà di condividere materiali specifici sulla loro
timeline personale: <<Trova e condividi: le raccomandazioni giuste arrivano più
dagli utenti che dai professionisti.>> (ivi p.7).
Questa particolare e sottile modalità di esercitare la propria influenza online
rischia però di invischiare i soggetti all’interno di un orizzonte di scelta assai
limitato, impedendogli di entrare in relazione con persone loro dissimili. Se il
mio amico x è interessato a un particolare elemento y sono inevitabilmente
portato anche io a constatare di che cosa si tratta, in quanto avendo noi due gli
stessi gusti e condividendo le stesse passioni sono quasi sicuro che questo
contenuto y potrà piacere anche a me. Tale comportamento potrebbe portare a
sviluppare una forma debole di conformismo sociale, facendo convergere gli
individui verso le stesse scelte operate dai propri pari nella speranza di poter
sviluppare un senso di maggior coesione col proprio gruppo di riferimento. Le
opinioni che riceviamo dalle cerchie in cui siamo inseriti ci sembrano infatti assai
rilevanti in quanto espressioni di un’ideologia condivisa che, se anche noi
saremo disposti a seguire, ci porterà a sviluppare un senso di appartenenza a
una comune realtà. Vi è certamente modo di non farsi troppo contagiare da
queste indicazioni preferenziali, che tuttavia non ci lasciano mai del tutto
indifferenti.
Il tasto like non è però l’unico strumento messo a disposizione da Facebook per
intervenire nei processi di fruizione e di scelta dei propri utenti: la peculiare
home page della piattaforma è pensata appositamente per differire da persona
a persona, sia per i contenuti che mostra che per la gerarchia con cui li ordina.
I feed non sono né casuali né esaustivi: Facebook utilizza degli algoritmi che
tentano di creare per ogni amico un flusso di informazioni “su misura”,
sulla base degli interessi di ciascuno. Pertanto ogni amico ottiene nel suo
99
news feed personalizzato un’immagine parzialmente differente (Rainie &
Wellman, 2012, p. 210)
Se inizialmente il news feed veniva elaborato secondo criteri che selezionavano
informazioni rilevanti di carattere sia globale che locale, quest’ultimi riguardo
avvenimenti in stretta attinenza con l’area geografica di provenienza
dell’utente, recentemente l’azienda proprietaria del fortunato social network
site ha annunciato che presenterà un nuovo e differente meccanismo
generativo. Lo scopo è quello di rendere gli aggiornamenti personalizzati
sempre più in linea con gli interessi e le abitudini del singolo o con le ultime
ricerche e attività da lui svolte su suddetta piattaforma.
Siamo certamente in un’epoca dove la personalizzazione dei prodotti di
consumo e dei contenuti digitali ha raggiunto livelli mai visti prima, ma questa
continua volontà di propinare all’utente dei risultati di ricerca sempre in linea
con le proprie preferenze, presenta ovviamente un rovescio della medaglia.
Voglio a tal proposito introdurre il concetto di <<bolla di filtraggio>>
approfondito nel saggio The Filter Bubble: What the Internet Is Hiding from You
di Eli Pariser.
L’attivista di Internet, analizzando la circolazione delle informazioni in Rete,
identifica la presenza di un’invisibile membrana ideologica che rinchiudere ogni
soggetto nella propria bolla individuale; isolandolo dal confronto con l’esterno e
soprattutto dal contatto con punti di vista divergenti rispetto al proprio. Questa
sfera di significati che avvolge l’utente nel suo fare esperienza del web si viene a
creare dall’azione congiunta dei numerosi filtri che, nel tempo, sono stati
raccolti in base alla sua storia di navigazione online i quali, stratificandosi l’uno
sull’altro, hanno portato a un’estrema personalizzazione dei suoi risultati di
ricerca. Così facendo, gli algoritmi che stanno dietro a queste particolari
configurazioni dell’ambiente online riducono in modo inequivocabile il numero
di informazioni e di contenuti con cui il soggetto può entrare in contatto,
portando in risalto solamente quei particolari elementi che hanno stretta
100
attinenza con i gusti e le abitudini dell’utente stesso. In questo modo non
facilitano il suo approccio a nuove idee, in quanto ne limitano l’esposizione al
solo ambito autoreferenziale di preferenze personali.
Pariser mette in allerta riguardo all’azione di questi meccanismi nascosti e in un
suo intervento alla conferenza TED8 afferma: <<Internet is showing us what it
thinks we want to see, but not necessarily what we need to see.>>. Perciò non
dobbiamo fare l’errore di considerare quanto troviamo su Internet come
qualcosa di imparziale e oggettivo, in quanto quello che ci viene proposto è un
contenuto filtrato, pensato apposta per fornirci le risposte che ritiene noi
stiamo cercando. Internet ci isola da tutto quanto non rispecchia in modo chiaro
e specifico le nostre posizioni ideologiche e le nostre preferenze, omettendo di
presentarci possibili informazioni alternative in merito a una specifica
questione.
Così facendo non ci dà modo di avere una reale visione di tutto ciò che esiste,
ma si limita a fornirci un punto di vista parziale e circoscritto, riproponendoci
quanto già apprezziamo o conosciamo e imbrigliandoci sempre più in un circolo
vizioso.
Di questi meccanismi tratterò però in maniera più approfondita nel capitolo che
segue.
8
Eli Pariser, Beware online “filter bubbles”, registrato a marzo 2011, consultato il 19 settembre 2016 da:
http://www.ted.com/talks/eli_pariser_beware_online_filter_bubbles.
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102
3. ALGORITMI: NUOVI INTERMEDIARI CULTURALI?
Navigando nell’attuale mondo della Rete siamo costantemente portati a
imbatterci in un’architettura di sorveglianza ed elaborazione dati che controlla
ogni nostra attività online, tanto più oggi che l’informazione è divenuta la più
ricca fonte di sostentamento per l’intera società; in quanto crea denaro e valore
economico.
L’avvento delle modalità di profilazione utenti segna la fine della loro privacy, in
quanto le tecnologie di raccolta dati, attive sulla maggior parte delle
piattaforme web, sfruttano le loro informazioni sensibili vendendole a grandi
aziende o a siti di e-commerce; traendone così profitto. Simili strategie, subdole
in quanto opache e diffuse ad ampio raggio, non permettono a nessuno di
sfuggire alla loro ingerenza. L’utente medio si vede sempre più spesso obbligato
a diffondere i propri dati personali online per poter avere, in ritorno, l’accesso ai
siti Internet. Il modo sovente occulto con cui vengono messi in atto tali abusi di
potere non rispecchia affatto la concezione democratica dell’Internet delle
origini. I dati personali degli utenti, così sottratti e immagazzinati, diventano
proprietà dei governi e soprattutto delle imprese, che li utilizzeranno per
studiare le esigenze nonché le preferenze del singolo e potergli proporre, in
risposta, appositi prodotti, servizi e contenuti che lo interessino e lo soddisfino.
A questo stesso proposito rispondono anche i cosiddetti algoritmi, meccanismi
matematici che tentano di identificare delle costanti nel comportamento di un
dato fenomeno; nella migliore delle ipotesi sarebbero in grado di identificare il
circoscritto set di possibili soluzioni che sottende a uno specifico problema.
Questi procedimenti, alla base della programmazione informatica, arrivano
oggigiorno a essere sfruttati per ricalcare i processi decisionali dell’essere
umano, in quanto consentendo di formulare ipotesi verosimili sui suoi
meccanismi di pensiero possono prevederne le probabili scelte e azioni.
Ovviamente, come ho già detto, non si limitano a fornire un singolo risultato ma
103
propongono una gamma di diverse risposte, tutte però ugualmente probabili e
ammissibili.
Offrendo a ciascuno un’esperienza altamente personalizzata poiché centrata sul
singolo utente della Rete, gli odierni ambienti del cyberspazio sfruttano il
sistema degli algoritmi per prevedere dove si incanaleranno l’attenzione e
l’interesse degli individui; al fine di indirizzarne i movimenti verso contenuti di
natura simile. Infatti, una volta compresi i gusti e le predilezioni del soggetto
rispetto a determinati usi di Internet nonché verso determinate tipologie di
prodotti, gli algoritmi cercheranno di proporgli attività e contenuti che
sicuramente riscuoteranno successo in quanto attigui o assimilabili alle sue
preferenze e consuetudini. Tale meccanismo, se aiuta le aziende a guadagnare
vendendo i prodotti giusti e se permette ai centri di potere di controllare i
comportamenti degli utenti, comporta ovviamente delle restrizioni al libero
arbitrio del singolo, poiché lo chiude all’interno di uno spazio online ancora una
volta autoreferenziale e limitato; rendendogli più difficile entrare in contatto
con ambienti o contenuti estranei alle proprie abitudini e simpatie.
Quale spazio di manovra rimane allora all’individuo all’interno della Rete? È
ancora possibile esercitare una propria autonomia nei confronti di simili
interferenze nell’ambito della navigazione online? E soprattutto, siamo ancora
liberi di scegliere per conto nostro, senza essere troppo influenzati da queste e
altre nuove forme di condizionamento indiretto?
3.1 Un’architettura di controllo opaca e diffusa
L’odierno scenario 2.0 sembra prospettare la fine delle tanto acclamate
opportunità di libertà e autonomia che un tempo si riteneva avrebbero
caratterizzato la Rete Internet. Alla sua nascita la Rete di Reti venne salutata
molto positivamente dall’intera società, in quanto si credeva che la sua struttura
stessa, diffusa e distribuita, avrebbe assicurato l’avvento di una modalità di
comunicazione orizzontale e democratica fra tutti gli individui. Ci si aspettava
che, oltrepassando le limitazioni e le imposizioni del modello top-down dei
104
media tradizionali, Internet avrebbe incentivato la libertà d’espressione
consentendo a chiunque di prendere parte alla discussione pubblica all’interno
dell’arena virtuale; facendo così sentire la propria voce al mondo intero. Questo
è però risultato essere vero entro certi limiti, infatti, come afferma Lovink, è
giunta
[…] la fine dei giorni armoniosi della governance multilaterale - quella
variegata coalizione di mega-imprese, organizzazioni non governative e
ingegneri che tenevano a debita distanza le autorità statali e le aziende di
telecomunicazioni vecchio stampo. (Lovink, 2012, p. 1)
La cultura dell’Internet delle origini, così ben descritta da Castells (2006) nella
sua compagine multiforme, viene ora oscurata dall’avvento di nuovi apparati
burocratici e fazioni d’interesse, che arrivano a prendere il possesso quasi totale
della Rete. Il potere si concentra ora in un numero ridotto di poli, molti dei quali
sono rappresentati da ricche aziende informatiche o venditrici di servizi online;
che spesso arrivano ad acquistare i loro concorrenti per aggiudicarsi una più
larga fascia di mercato e manifestare la propria superiorità.
In concomitanza del rafforzamento delle strutture di potere e di controllo
crescono gli interrogativi riguardo al trattamento dei dati personali e alla tutela
della privacy degli utenti: appare oramai chiaro come l’idea di una presunta
neutralità della Rete non trovi conferma nella realtà degli eventi, possiamo
infatti constatare una <<[…]crescente centralizzazione dei servizi internet
offertici gratuitamente in cambio della raccolta di dati, profili, gusti musicali,
abitudini sociali e opinioni personali.>> (ivi p.47).
Le persone sono spesso inconsapevoli della quantità di informazioni sensibili
che lasciano trapelare nel corso della loro navigazione online, informazioni
destinate a diventare parte di quegli enormi magazzini digitali che raccolgono
dati utili per ricavare un profilo più o meno completo di ogni utente del web.
Che si acceda alla Rete tramite il proprio account personale, dunque
identificandosi apertamente, o che si effettui una navigazione “anonima”, tutti
105
link che apriamo, tutte le pagine che visitiamo e tutte le parole chiave che
inseriamo nelle barre degli indirizzi verranno elaborate al fine di controllare la
nostra attività online; derivandone utili indicatori per classificare la nostra
persona sotto precise categorie di consumatori. Da che abbiamo iniziato a usare
la Rete siamo stati schedati nei database di chissà quante società di analisi dati
e il nostro fascicolo personale non fa che accrescersi ogni qual volta accediamo
al web; cosicché ci facciamo conoscere sempre più nel dettaglio. Non ci
rendiamo conto che ci stanno sfruttando, ma in realtà diventiamo <<Utentioperai che lavorano per l’ape regina Google. […] tante api che volano da un sito
all’altro solo per accrescere il valore del proprietario dell’alveare.>> (ivi p.39).
Infatti, come ho affermato a più riprese nel corso dell’elaborato, queste
preziosissime informazioni sugli utenti vengono raccolte da vari e diversi sistemi
di statistica online – i cosiddetti web analytics – nonché dagli stessi motori di
ricerca, per essere poi vendute alle aziende che se ne mostreranno interessate
per proporre prodotti e servizi mirati alla nostra persona.
Come se non bastasse, il sovraccarico informativo che si incontra nel multiforme
e complesso scenario di Internet ci rende sempre più sterili e svogliati: non
siamo più in grado di elaborare tutte le informazioni in cui ci imbattiamo né
tantomeno riusciamo a memorizzarle o abbiamo alcun interesse a farlo, è per
questa ragione che sempre più spesso ci affidiamo in modo automatico a
quanto la Rete stessa ci propone. La stragrande maggioranza delle volte si tratta
di materiali che combaciano esattamente con i nostri gusti e con le nostre
passioni, ma ci siamo mai chiesti come ciò sia possibile? Affibbiando un ruolo di
guida agli strumenti di ricerca, poiché reputiamo che possano aiutarci a
orientarci nel marasma informativo entro cui ci troviamo immersi, facciamo
solamente il loro gioco; confermando le loro previsioni in merito al nostro
comportamento. È così che siamo sempre più portati a seguire il gregge, a
conformarci con quanto appare fra i trending topics del momento; senza aver
106
realmente voglia di esplorare cosa c’è oltre quello che ci è dato a vedere in
prima battuta.
I motori di ricerca rimpiazzano oggi in gran parte la lettura non sequenziale dei
contenuti web effettuata attraverso la navigazione per link, basta infatti digitare
una parola chiave nella barra degli indirizzi per ricevere in modo istantaneo una
grande quantità di elementi ad essa correlati. Questi strumenti utilizzano spesso
degli algoritmi, che potremmo definire in maniera semplificata come dei
meccanismi matematici di previsione che aiutano l’utente nel suo processo di
scelta; avanzando delle soluzioni logiche relativamente alle preferenze da lui
manifestate in precedenza. È così che, basandosi sulla nostra storia di attività
online, sfruttano le analogie fra diversi contenuti e valutano l’importanza e la
qualità delle diverse informazioni di cui dispongono al fine di proporci una
soluzione personalizzata che soddisfi i nostri ipotetici gusti e bisogni.
Alla stregua di quanto ho spiegato per Facebook anche Google personalizza i
risultati di ricerca implementando le stesse tecniche algoritmiche, non esiste più
un Google standard e uniformato per tutti: persone differenti visualizzano fra i
primi link pagine web differenti; questo perché avranno alle loro spalle una
cronologia personale che diverge da quella di qualsiasi altro utente. Internet
arriva a proporci esattamente quello che si aspetta che noi stiamo cercando –
“forse cercavi…”. Lovink ci allerta però di come <<[…] i motori di ricerca
indicizzano le fonti in base alla popolarità, non alla Verità.>> (ivi p. 219) non
dobbiamo dunque dare per scontato che quanto propongono sia sempre
affidabile, le informazioni e i dati riscontrati su Internet vanno prima interpretati
e filtrati affinché possano realmente rivelarsi utili. Spesso però oggi agli individui
viene a mancare la capacità di pensiero critico.
I primi algoritmi per l’elaborazione informatica dei dati utente nascono negli
anni Novanta, in stretta correlazione con lo sviluppo dell’e-commerce. Questa
particolare concezione di commercio per via elettronica si basa infatti sullo
sfruttamento dei gusti e delle preferenze dei singoli individui della Rete, cui
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propone dei suggerimenti automatici di prodotti ai quali, inerentemente alle
loro abitudini e opinioni, questi potrebbero risultare interessati.
Il successo riscosso da questo nuovo modello di business, basato sull’analisi
massiccia dei big data e delle informazioni personali degli user, ha portato negli
anni a includere simili meccanismi anche all’interno di numerosi siti di notizie e
di intrattenimento e in moltissime piattaforme di social networking – Youtube
con i suoi video correlati, Facebook con i suoi bottoni recommend e in generale
tutti quegli altri spazi che implementano le strategie di trending topic quali
Twitter ad esempio.
È così che, sempre più spesso, il web di cui l’utente fa esperienza viene
colonizzato da contenuti selezionati in modo matematico sulle base della sua
storia passata di navigazione, opportunamente tracciata da svariati sistemi
analisi – fra i più celebri Google Analytics. Il soggetto sembra dunque ridursi a
ripetere il proprio passato un giorno dopo l’altro, riconfermando le proprie
scelte e abitudini.
Gli intermediari culturali tradizionali, che un tempo detenevano il diretto
monopolio nel determinare la diffusione dei prodotti culturali e mediatici fra le
diverse fila della società, sembrano destinati a vedersi surclassare dai nuovi
consiglieri informatici. Questi ultimi infatti influiscono indubbiamente sui criteri
di fruizione degli utenti, poiché come nota Massimo Airoldi <<[…] i
recommendation systems sono lungi dall’essere neutri e avalutativi come la loro
presunta oggettività matematica tenderebbe a suggerire.>> (Airoldi, 2015, p.
137), questi sistemi sono sempre gestiti in accordo con le logiche delle aziende e
delle istituzioni che decidono di implementarli, ne perseguono dunque
l’ideologia e gli specifici interessi; primo fra tutti quello relativo alla
massimizzazione del profitto.
Così facendo questi meccanismi matematici commettono un vero e proprio atto
di riduzionismo nei confronti dell’enorme varietà della natura umana;
circoscrivendola a poche e limitate tipologie di individui.
108
Generando in automatico associazioni tra oggetti – A e i relativi
suggerimenti B e C – i sistemi di raccomandazione intervengono nella
definizione dell’immaginario contemporaneo, contribuendo a tracciare reti
di connessioni semantiche mediaticamente condivise. (ivi p. 139)
Questo comporta, di conseguenza, l’esclusione di tutte quelle forme culturali
che risultano essere poco profittevoli, o che comunque rispecchiano le sole
preferenze di poche isolate nicchie sociali. Queste ultime, infatti, si trovano
spesso in disaccordo con le opinioni dominanti o con quanto va per la maggiore,
risultando così difficilmente identificabili e gestibili tramite mere previsioni
automatiche.
Esistono varie tipologie di sistemi di raccomandazione, che fanno riferimento
rispettivamente ai contenuti di un determinato spazio online, allo specifico
comportamento di un singolo utente, o ancora alle abitudini manifestate dagli
utenti in generale nel corso della loro navigazione web. Quest’ultima tipologia si
limita a riassumere quelle che sono le mode collettive condivise dal
mainstream, prescindendo dal considerare le nicchie minori di utenti. Tende
infatti a presentare i macro-trend sociali del momento, proponendo i contenuti
più fruiti, i prodotti più acquistati o le applicazioni maggiormente votate e
scaricate.
Un’altra particolarissima tipologia di elaborazione dati, detta collaborative
filtering, si pone invece in netta contrapposizione rispetto alle precedenti;
avanza infatti dei suggerimenti automatici incrociando le preferenze di singoli
utenti che hanno dimostrato gusti ed abitudini di consumo affini.
Utilizzando un sistema di raccolta e di analisi aggregata degli insiemi delle
preferenze e dei comportamenti di differenti utenti singoli – insiemi ipotizzati
non suscettibili di variare nel tempo – questa metodologia propone una serie di
suggerimenti automatici ma focalizzati, in stretta attinenza con le preferenze
espresse dai singoli utenti; instaurando, in particolar modo, una diretta
correlazione fra individui con preferenze affini e proponendo a ognuno di essi i
109
contenuti fruiti dai propri simili.
Mira così a predire quali elementi
interesseranno un dato utente sulla base della sua affinità rispetto ai profili
ricavati da altri utenti. Si tratta di associazioni del tipo “se hai apprezzato x
apprezzerai sicuramente anche y, poiché tutti gli utenti che hanno espresso
interesse per y lo hanno espresso anche per x” e così via. La sua forza sta nel
riuscire a proporre dei consigli mirati, poiché centrati sul singolo utente e non
destinati a una massa indifferenziata.
Airoldi nota come un tale meccanismo generatore di raccomandazioni,
implementato fra gli altri da Spotify, Amazon e Youtube, arrivi a creare una
situazione in cui l’utente è portato a muoversi entro un range limitato di
possibilità, in quanto le opzioni di scelta disponibili saranno sempre fra loro
correlate e si presenteranno ogni volta come un insieme unico, chiuso rispetto
ad altre eventuali possibilità. Poiché <<Il mondo prospera sul fatto di essere
normali e noiosi, non delle eccezioni. La differenza rimane confinata alle scelte
dei menù a tendina.>> (Lovink, 2012, p. 43). Indubbiamente, questo trattiene il
soggetto dal voler compiere uno sforzo per esplorare un probabile orizzonte
alternativo e
Suggerisce l’idea di un utente che, posto di fronte al comportamento della
“maggioranza silenziosa” dei suoi “simili” (coloro che hanno consumato
digitalmente uno stesso video, articolo, brano musicale, prodotto), subisce
una forma differente di “spirale del silenzio” (Noelle-Neumann, 1974), per
la quale si conforma al gusto del gruppo non tanto per paura
dell’isolamento, quanto per “comodità” – non a caso, l’aspetto più
enfatizzato da chi fornisce servizi di raccomandazione automatica. (Airoldi,
2015, p. 140)
Ecco che allora i sistemi automatici di raccomandazione agiscono per noi come
delle euristiche decisionali, come delle scorciatoie di pensiero che utilizziamo
per praticità o quando agiamo d’impulso – ad esempio in situazioni di overload
informativo, dove non siamo capaci di gestire la vastità delle informazioni di cui
110
disponiamo per poter operare una scelta in modo razionale. Ma questo agire
risulta alla lunga deleterio se <<L’individuo occidentale autonomo preferisce
delegare competenze e conoscenze a quel che Clay Shirky definisce “l’autorità
algoritmica”, e anziché acquisire potere, questa delega esterna non fa che
indebolire ulteriormente il soggetto.>> (Lovink, 2012, p. 50)
Questi meccanismi informatici, ingannevoli e riduttivi, tentano di far rientrare i
comportamenti delle differenti tipologie di utenti entro dei percorsi facilmente
prevedibili e identificabili. Si configurano così come una sorta di panopticon9
invertito e cercano di controllare gli individui che, tuttavia, non essendo
totalmente consapevoli dell’esistenza di queste opache architetture ritengono
di agire in modo relativamente incondizionato. Le infrastrutture sottese ai
meccanismi di funzionamento del suggerimento automatico sono dunque
potenzialmente dannose proprio per il fatto che risultano essere invisibili.
I recommender systems portano all’omologazione identitaria poiché <<[..]
danno per scontato che abbiamo un incestuoso desiderio di essere proprio
come i nostri amici.>> (ivi p.207), perpetuandosi all’interno di circuiti a senso
unico e apparentemente senza alcuna via d’uscita. Non contemplano eccezioni
alla norma, ma è proprio questa la falla a cui aggrapparsi per potersi
rimpossessare della propria libertà di scelta; al di là di ogni vincolo e di ogni
configurazione preconfezionata. La natura umana è molto complessa e non può
essere riprodotta alla perfezione da un algoritmo: l’incontro con realtà diverse
rimane ancora praticabile e la serendipità ritorna sotto forma di cybernetic
serendipity all’interno dell’ambiente virtuale; ricollegandosi a quel particolare
fenomeno per il quale ci si imbatte indirettamente in una nuova piacevole
scoperta mentre si è alla ricerca di tutt’altro.
In conclusione, questo dimostra che spetta a noi singoli utenti attuare un’exit
strategy, poiché è ancora possibile allontanarsi da simili meccanismi fortemente
9
Il carcere ideale progettato, nel 1791, dal filosofo e giurista Jeremy Bentham. Struttura di forma
circolare al cui centro sorge una torre di controllo, permette di vigilare in modo diretto su un vasto gruppo
di individui; i quali sono consapevoli di essere osservati in ogni momento.
Panopticon; or, the inspection-house, Jeremy Bentham, London, T. Payne, 1791.
111
prescrittivi; riconquistandosi la propria isola d’indipendenza. Anche Lovink si
mostra fiducioso quando afferma che <<La battaglia per internet non è ancora
chiusa. Finché c'è qualcosa in gioco, nuovi spazi autonomi produrranno nuove
generazioni di fuorilegge - e posizioni critiche per portare avanti I propri
progetti.>> (Lovink, 2012, p. 14) e ancora <<Occorre rafforzare l’autodeterminazione dei nodi contro l’autorità centrale della nuvola dei dati e
assicurarsi che il Web rimanga decentralizzato.>> (ivi p.47). Bisogna dunque
uscire dall'autoreferenzialità, riaprendo un reale dialogo fra le parti e
distaccandosi invece dalle logiche di imitazione; apportando così dissonanza
all’interno
del
sistema
razionale
di
ripetizione
standardizzata
degli
atteggiamenti. Bisogna utilizzare i media in modo tattico (De Certeau, 1980),
smuovere lo status quo aprendosi all'innovazione. Bisogna esplorare nuove
possibilità, individuare i punti deboli del sistema: le fenditure in cui poter far
breccia per ricavarsi uno spazio autonomo d'azione, o meglio, di sovversione. Gli
utenti non devono essere spettatori passivi bensì attori attivi, devono
mobilitarsi personalmente per avviare un cambiamento dei processi
attualmente in atto nel nuovo ecosistema mediatico.
3.2 Cultural Analytics: una prospettiva di ricerca up-to-date
Ho constatato come l’emergente ricorso agli algoritmi di previsione ed
elaborazione dati, cautamente celati all’interno della stessa impalcatura di
Internet, abbia permesso a terze parti di riconfigurare gli equilibri in gioco;
acquisendo sempre maggior potere e controllo sugli utenti e ponendo fine a
quell’ideale di cyberdemocrazia che si reputava concretizzabile grazie
all’avvento del 2.0. Tuttavia, da una prospettiva meno pessimistica, ho
affermato che, se anche quest’invisibile autorità algoritmica <<è caratterizzata
da un’apparente neutralità, così come da un intento predittivo che però, nella
pratica, tende a diventare fortemente “prescrittivo”>>, (Airoldi, 2015, p. 139) è
ancora possibile imporvisi con un gesto di antitesi. Adottando un atteggiamento
ancor più in positivo è possibile sfruttare questi stessi meccanismi, che
112
sembrano essere in tutto e per tutto destinati a esercitare una forma di
indottrinamento nei confronti degli utenti del web, per arrivare a concepire
nuovi paradigmi di ricerca in campo culturale. Per l’appunto, secondo la
proposta di Lev Manovich sarebbe possibile incanalare parte delle loro logiche
di ispezione dati nello studio delle forme culturali sì del passato ma soprattutto
del presente; infatti, adottando una prospettiva d’analisi più attuale si potrebbe
giungere a una più profonda comprensione del panorama culturale
contemporaneo, che spesso presenta modalità di creazione e di diffusione degli
artefatti culturali intrinsecamente legate all’universo del 2.0.
Studioso del rapporto fra individui e new media nonché di media art e docente
di informatica al Graduate Centre della City University di New York, Manovich ha
avanzato l’ipotesi di utilizzare una metodologia di ricerca culturale mai
implementata prima, auspicandosi che questa possa portare a sfidare i
convenzionali costrutti riguardanti l’umana cultura nonché le sue convenzioni
canoniche. Il suo intento è quello di ridefinire il concetto di cultura rivedendo i
confini entro cui essa si trova imbrigliata da secoli, prevedendo dunque vie
alternative per indagarne e comprenderne la storia in un percorso che partendo
dal passato giunga fino al presente.
Egli nota che negli ultimi decenni si è assistito a un progressivo aumento del
numero di persone, professionisti e non, che hanno preso parte alla produzione
e alla discussione della cultura globale. I nuovi mezzi di comunicazione digitale e
soprattutto i social media hanno infatti permesso a una moltitudine di utenti di
intraprendere un ruolo attivo nella creazione e nella diffusione delle nuove
forme e tendenze culturali, esprimendo il proprio estro creativo anche
attraverso user-generated contents. Di conseguenza si sono moltiplicati sia la
compagine degli artisti che la complessiva collezione di opere presente online:
oggi infatti il web ospita moltissimi spazi dove poter riscontrare preziose fonti di
dati culturali, fra cui siti di professionisti, di non professionisti e semi-
113
professionisti, o ancora piattaforme create da gruppi di studio e facoltà
universitarie per lavori di gruppo e progetti.
Se un tempo gli storici dell’arte e della cultura potevano formulare le proprie
teorie prendendo a riferimento un ridotto campione di dati culturali, con
l’avvento dei new media la cultura ha moltiplicato sé stessa; arrivando a
promuovere non solo la digitalizzazione di gran parte dei propri artefatti
preesistenti – ad esempio, per la letteratura, Google Books, Amazon ecc… – ma
producendo nuovi artefatti di intrinseca natura digitale. Ciò ha reso sempre più
difficile analizzare e classificare le varie forme artistiche esistenti, nonché
rintracciare fra esse utili informazioni riguardo a particolari tendenze o filoni di
sviluppo in seno alla società della nostra epoca.
L’approccio delle Cultural Analytics sembra quindi portare a una svolta:
unitamente alle innovative tecniche di creazione, condivisione e analisi
supportate dalle recenti apparecchiature tecnologiche, permette non solo di
analizzare gli artefatti in sé ma di derivarne anche ulteriori dimensioni correlate
alla cultura; fra cui i comportamenti, le impressioni e le reazioni circostanziali
degli utenti – cosa che prima risultava impossibile osservare così nel dettaglio:
[…] because of digitization efforts since the middle of the 1990s, and
because the significant (and constantly growing) percentage of all cultural
and social activities passes through, or takes place on the web or
networked media devices (mobile phones, game platforms, etc.), we now
have access unprecedented amounts of both “cultural data” (cultural
artifacts themselves), and “data about culture.” All this data can be
grouped into three broad conceptual categories (Manovich, Trending: the
promises and the challenges of big social data, 2011, p. 14)
Nella prima grande categoria Manovich fa ricadere tutti quei contenuti che si
configurano come artefatti culturali veri e propri, altresì detti <<cultural data>>
(Manovich, How to Follow Global Digital Cultures, or Cultural Analytics for
Beginners, 2009, p. 14); nello specifico immagini, video, film, brani musicali,
114
esempi di architettura e design, grafica, giochi e siti web. All’interno di questa
grande categoria egli opera una distinzione iniziale fra <<born digital>> (ibidem)
e <<born analog>> (ivi p.11) sottolineando come il primo termine sia riferibile a
opere originali nate appositamente da e per il mondo virtuale; mentre il
secondo stia a indicare tutte quelle opere che sono state nel tempo digitalizzate
così da poter entrare a far parte dei vari archivi digitali. È importante ricordare
che queste ultime non sono da considerarsi delle trasposizioni esatte degli
originali in formato digitale, infatti, nel corso della traduzione alcuni aspetti
contestuali di tali opere vengono irrimediabilmente meno: <<Digitized artifacts
[…] originated in other media - therefore, their representation in digital form
may not contain all the original information.>> (ivi p.14-15). Lo stesso discorso
vale anche per tutte quelle tipologie di esperienze culturali nate fuori dal
contesto strettamente virtuale e che si tenta di registrare all’interno di database
o piattaforme online, poiché ancora una volta <<[…] the properties of
material/media objects that we can record and analyze is only one part of an
experience.>> (ivi p.15) le sensazioni correlate alla fruizione dal vivo e in
presenza vengono meno – fra queste: opere teatrali, performance, spettacoli di
danza, concerti, l’esperienza fisica di uno spazio architettonico o di un oggetto
di design, l’interazione in tempo reale dell’utente con un videogioco o con
un’applicazione che sfrutta i satelliti GPS ecc.. All’interno del sottogruppo dei
<<born digital>>, Manovich opera poi un’ulteriore distinguo fra contenuti
<<web native>> (ivi p.9), riferibili per esempio a blog o siti web, e contenuti
<<web intended>> (ibidem), ossia creati nello specifico per le piattaforme di
social media; che influenzeranno la forma di tali artefatti ciascuna secondo le
proprie caratteristiche e logiche interne.
Nella seconda grande categoria di dati culturali Manovich fa rientrare tutte
quelle rilevazioni riguardanti il rapporto degli utenti con i digital media, raccolte
nel corso della loro navigazione online da appositi sistemi di tracciamento.
115
All’interno della terza e ultima categoria raccoglie invece tutti quei commenti o
discorsi riscontrabili online che riguardano o corredano attività culturali, oggetti
culturali e processi di creazione. Definisce questa categoria <<cultural
information>> (ivi p.14) e ne fanno parte composizioni di critica, articoli e
recensioni, ma anche i più semplici commenti ai post.
Manovich invita poi a fare attenzione al fatto che in questo attuale e riformato
scenario culturale <<[…] the ubiquity of software tools for culture creation and
sharing changes what “culture” is>> (Manovich, Cultural Analytics: Visualizing
Cultural Patterns in the Era of “More Media”, 2009, p. 3). Quei particolari
software che gli utenti utilizzano negli atti di creazione, diffusione e
comunicazione della cultura ne influenzano gli effetti e dunque non si può
prescindere da uno studio degli artefatti culturali che non tenga conto delle
logiche e dei meccanismi soggiacenti ai processi che li vedono coinvolti.
Oggi tutti i sistemi sociali ed economici dipendono in larga parte dai software:
<<We live in a software culture - that is, a culture where the production,
distribution, and reception of most content is mediated by software.>>
(Manovich, Cultural Software, 2011, p. 17). Quindi
[…] if we want to understand contemporary techniques of control,
communication, representation, simulation, analysis, decision-making,
memory, vision, writing, and interaction, our analysis can't be complete
until we consider this software layer. (ivi p.7)
Allo stesso modo in cui non ci si può bendare gli occhi e ignorare le peculiari
condizioni che preesistono alla nascita di un determinato fenomeno, poiché
queste suggestionano le modalità con cui esso si presenta nonché gli effetti che
esso genera, è altresì importantissimo saper ricondurre una manifestazione
culturale all’interno di un contesto spazio-temporale preciso; nonché correlarla
a un particolare modello di società con tutte le sue implicazioni economiche,
politiche, culturali e tecnologiche: queste infatti influiscono tutte più o meno
indirettamente sull’oggetto di studio.
116
Nel dettaglio a Manovich interessano quei software che hanno stretta attinenza
con la dimensione culturale, che rendono possibili differenti azioni: i <<media
software>> (ivi p. 12), che consentono di creare, condividere, gestire e accedere
ad artefatti culturali; i social software, che permettono di prendere parte a
esperienze culturali interattive o di creare e condividere informazione e
conoscenza comunicando con altre persone; infine tutti quei software che
sviluppano strumenti e servizi atti a supportare le suddette attività.
Come egli ribadisce adottare un approccio bidirezionale è basilare <<[…]
Software Studies has to investigate both the role of software in forming
contemporary culture, and cultural, social, and economic forces which are
shaping development of software itself.>> (ivi p.4) poiché la tecnologia si
modifica sempre di pari passo con gli usi e le pratiche che vi nascono attorno.
Gli strumenti di analisi tradizionali non riescono a svolgere però questo
complesso lavoro che gli si prospetta dinanzi, serve dunque adottare una
procedura che sia al passo coi tempi. Ecco che allora il paradigma delle Cultural
Analytics, introdotto nel 2005, incrocia metodi computazionali e visuali per
studiare un’enorme quantità di dati, dinamiche e flussi culturali. In questo
nuovo ambito di ricerca la normale scienza computazionale prende in prestito
nuove tecniche d'analisi dall’arte digitale e mediatica e dal campo della
visualizzazione dell'informazione; segnando un punto di congiunzione fra la
metodologia scientifica e quella umanistica.
[…] Digital Humanities and Social Computing […] we are interested
combining both in the studies of cultures - focus on the particular,
interpretation, and the past from the humanities and the focus on the
general, formal models, and predicting the future from the sciences.
(Manovich, The Science of Culture? Social Computing, Digital Humanities
and Cultural Analytics, 2015, p. 1-2)
L’interesse di Manovich e del suo gruppo di ricerca è duplice, per questo trova
molte risonanze con due campi di studio differenti. Da una parte, l’attrazione
117
per il passato e per il futuro della storia culturale dell’umanità intera; che
comprende
tutti,
professionisti
e
dilettanti,
senza
fare
distinzioni
antidemocratiche. Dall’altra, il desiderio di contemplare più da vicino il
funzionamento della società networked, indagando il suo rapporto con gli
apparecchi tecnologici e con gli ambienti della socialità online per comprendere
come questa interazione possa impattare sull’ambito della creazione e della
diffusione culturale contemporanea.
Like digital humanists, we are interested in analyzing historical artifacts –
but we are also equally interested in contemporary digital visual culture […]
Also, we are equally interested in professional culture [and art] created by
[…] non-professionals […] Like computational social scientists and
computer scientists, we are also attracted to the study of society using
social media and social phenomena specific to social networks. […]
However, if Social Computing focuses on the social in social networks,
Cultural Analytics focuses on the cultural.>> (ivi p. 6-7)
Manovich sottolinea l’importanza di combinare l’analisi condotta per via
informatica con una più prettamente umana, poiché solo in questo modo si
potrà giungere a sviluppare un metodo realmente innovativo; che tenga conto
sia delle generalità dell’oggetto di studio che delle sue molteplici declinazioni
singolari.
Sociological tradition is concerned with finding and describing the general
patterns in human behaviour […] Cultural Analytics is also interested in [it]
However, ideally the analysis of the larger patterns will also lead us to
particular individual cases […] we may combine the concern of social
science, and sciences in general, with the general and the regular, and the
concern of humanities with individual and particular. (ivi p. 9)
Per arrivare a identificare un campione rappresentativo occorre prima
scandagliare un insieme molto più esteso di partenza: ecco allora che si
118
dimostreranno utilissimi anche i big data, che possono essere usati per
identificare tendenze e strutture generali. Infatti <<[…] while a small sample
allows finding the "typical" or "most popular," it does not reveal what I call
“content islands”>> (Manovich, The Science of Culture? Social Computing,
Digital Humanities and Cultural Analytics, 2015, p. 6)
Inoltre agli analisti culturali interessa analizzare sia il contenuto che la struttura
di un artefatto culturale; quest’ultima non però a partire da dei dati riguardanti
l’immagine, come molti attualmente fanno, bensì dall’immagine stessa: a tal
proposito Manovich e i suoi collaboratori implementano vari strumenti open
source, fra cui in particolare uno chiamato imageJ10.
Per operare questa duplice disamina si rende allora necessario combinare
un’analisi computerizzata quantitativa QCA – Quantitative Cultural Analysis –
con una qualitativa di tipo “analogico-manuale”. La prima, servendosi di una
metodologia informatica, consente di rilevare quelle strutture intrinseche degli
artefatti culturali che le sole facoltà umane di cognizione e percezione non sono
in grado di contemplare. La seconda permette invece di approdare a uno studio
più specifico e circoscritto dell’oggetto in questione, isolando un numero
maggiormente limitato di suoi aspetti e di sue variabili in modo da potervisi
focalizzare personalmente.
Oggi inoltre i ricercatori godono della possibilità di utilizzare quei meccanismi
API – Application User Interface – che permettono a chiunque di scaricare grandi
quantità di dati utente dai maggiori siti di social networking e di shopping
online. Questa opzione apre a panorami e possibilità prima d’ora mai
contemplati:
The rise of social media along with the progress in computational tools that
can process massive amounts of data makes possible a fundamentally new
approach for the study of human beings and society. […] We can study
exact trajectories […] The detailed knowledge and insights that before can
10
Sviluppato dai National Institutes of Health degli Stati Uniti, il programma di elaborazione digitale di
immagini è scaricabile liberamente all’indirizzo: https://imagej.nih.gov/ij/.
119
only be reached about a few people can now be reached about many more
people. (Manovich, Trending: the promises and the challenges of big social
data, 2011, p. 3)
È così che anche grazie ai Big Data:
[…] paintings can be described on thousands of separate dimensions.
Similarly, we can describe everybody living in a city on millions of separate
dimensions by extracting all kinds of characteristics from their social media
activity. [using] wide data – very large and potentially endless number of
variables describing a set of cases. (Manovich, The Science of Culture?
Social Computing, Digital Humanities and Cultural Analytics, 2015, p. 13)
Tuttavia anche se l’avvento dei social media, a partire dai primi anni del nuovo
millennio, ha fornito la possibilità di disporre liberamente di una quantità di dati
enorme riguardo agli utenti e alle loro abitudini, <<We need to be careful of
reading communications over social networks and digital footprints as
“authentic.”>> (Manovich, Trending: the promises and the challenges of big
social data, 2011, p. 6), poiché alcune volte questi interventi sono il risultato di
una costruzione macchinosa volta a dare una precisa rappresentazione sociale
di sé.
Uno degli scopi principali dell’innovativa formula di studio proposta diviene
[…] to find new similarities, affinities, and clusters in the universe of
cultural artifacts [and to] question our common sense view of things,
where certain dimensions are taken for granted. […] making strange our
basic cultural concepts and ways or organizing and understanding cultural
datasets. (Manovich, How to Follow Global Digital Cultures, or Cultural
Analytics for Beginners, 2009, p. 13).
Poiché da metà anni Novanta iniziò la digitalizzazione dei contenuti <<born
analog>>
120
But it is crucial to remember that what has been digitized in many cases
are only the canonical works, i.e. a tiny part of culture deemed to be
significant by our cultural institutions. […] Cultural Analytics […] has a
potential to map everything that remains outside the canon – to begin
generating “art history without great names.” We want to understand not
only the exceptional but also the typical; not only the few “cultural
sentences spoken by a few “great man” but the patterns in all cultural
sentences spoken by everybody else; in short, what is outside a few great
museums rather than what is inside and what has been already extensively
discussed too many times. (ivi p.11)
Manovich e I suoi collaboratori puntano dunque a promuovere una nuova
prospettiva democratica in tutti i sensi: che prenda in considerazione una storia
dell’arte e della cultura globali e omnicomprensive, senza operare
discriminazioni di alcun tipo in quanto ogni artefatto è prezioso per farsi un’idea
maggiormente approfondita degli scenari attuali; che producono forme
espressive sempre più multiformi ed eclettiche. Niente e nessuno va emarginato
se si vuole mappare la variabilità e la diversità culturale e questo approccio
risulta ora attuabile grazie alle odierne tecnologie di elaborazione dati. Tali
innovative procedure permetteranno invero di osservare come le riduzionistiche
etichette che nel tempo si sono assegnate a determinati oggetti culturali
tendono spesso a sovrapporsi, formando dei cluster in continua rimodulazione.
Ciò conferma come non esistano delle categorie con confini stretti e definiti una
volta per tutte, poiché è sempre possibile riscontrare nuovi raggruppamenti e
intersecamenti.
Allo stesso modo Manovich mira a fornire degli strumenti di analisi utilizzabili
anche dai “non addetti ai lavori”, cosicché a tutti sia data la possibilità di
arrivare a comprendere le dinamiche culturali in atto nella propria epoca.
[…] Google and Yahoo do not reveal the measurements of web pages they
analyse […] In contrast, the goal of cultural Analytics is to enable what we
121
may call “deep cultural search” – give users the open-source tools so they
themselves can analyze any type of cultural content in detail and use the
results of this analysis in new ways. (ivi p.22)
In conclusione, emerge una chiara volontà di studiare quanto ha contraddistinto
le forme culturali del passato e del presente per arrivare a prevedere, nella
migliore delle ipotesi, le tendenze culturali che si presenteranno nel futuro. In
particolar modo, l’ideale delle Cultural Analytics è arrivare a mappare in tempo
reale i flussi culturali che si manifesteranno in simultanea nelle varie regioni del
mondo: <<One of the directions we are planning to pursue in the future is the
development of visual systems that would allow us to follow global cultural
dynamics in real-time.>> (ivi p.20).
3.3 The <<automation of taste>>: Il gusto nell’epoca della
sua riproducibilità tecnologica
Ho sinora discusso del potere degli algoritmi e della loro capacità di guidare gli
utenti nel corso della loro navigazione online, indirizzandoli verso precisi
percorsi sulla base di previsioni logico-deduttive derivate dai loro precedenti
comportamenti di fruizione. Ho inoltre appurato come simili procedimenti
matematici possano arrivare a riconfigurare il concetto stesso di gusto
personale, infatti, interponendosi nei processi di scelta dell’individuo e
fornendogli delle risposte automatiche correlate alla sensibilità del suo “gruppo
dei pari”, spinge il soggetto ad abbracciare spesso il gusto dominante della
cerchia di individui lui affini; conformandovisi. Questo continuo adagiarsi
dell’utente alle segnalazioni dell’algoritmo, in casi di incertezza o di sovraccarico
informativo, lo porta, alla lunga, a perdere le proprie facoltà di pensiero critico:
le sue azioni e le sue preferenze gli vengono infatti sempre più spesso indotte
dagli input di un’autorità esterna, <<l’autorità algoritmica>> (Shirky, 2009).
Come afferma Clay Shirky <<Algorithmic authority is the decision to regard as
authoritative an unmanaged process of extracting value from diverse,
122
untrustworthy sources, without any human standing beside the result.>>
(ibidem), essa ha dunque il potere di incrociare fra loro i pareri derivanti da una
sfaccettata gamma di individui, entrambi esperti e dilettanti, derivandone
risultati verosimili e convincenti tali che spingono gli utenti a rimettervi la
propria fiducia senza riserve. Shirky prosegue affermando che la nascita di
questa nuova forma di coercizione è da rimettere all’atto sociale stesso di un
collettivo accordo di fiducia nei confronti di simili meccanismi matematici: <<[…]
authority is a social agreement, not a culturally independent fact.>> (ibidem).
Ecco che questo agente generativo di pareri e opinioni, col sostegno della
società, arriva ad assumere un’autonomia propria; configurandosi come una
perfetta guida atta a rispondere ai quesiti peculiari di tipologie di individui
differenti. Le facoltà di giudizio umane vengono dunque delegate a questa
intelligenza artificiale che, apprendendone gli schemi di pensiero, sembra
attenuare il divario esistente fra essere umano e tecnologia informatica.
Nel sotto-paragrafo 2.2.1 del precedente capitolo ho già introdotto i temi
dell’<<Internet delle Cose>> e della smartification, discutendo di come
l’applicazione delle ICTs al contesto della vita quotidiana porti ad automatizzare
le pratiche di gestione dei flussi di informazione nonché di comunicazione,
facendo interagire gli individui e il loro ambiente esterno attraverso la
connessione a Internet; allo stesso modo ho già affrontato il tema relativo
all’<<ontobranding>> (Barile, From the Posthuman Consumer to the
Ontobranding Dimension: Geolocalization, Augmented Reality and Emotional
Ontology as a Radical Redefinition of What Is Real, 2013), che si configura come
una nuova dimensione esperienziale all’interno della quale il rapporto fra cose,
luoghi e persone viene completamente ridimensionato dalle logiche del
branding nonché dal nuovo valore assegnato alle emozioni nel contesto di
produzione capitalistico. Il punto di congiunzione fra essere umano e tecnologia
è il contesto del consumo, dove la dimensione emotiva svolge un ruolo
123
fondamentale: è proprio attraverso di essa che il rapporto fra individuo e device
tecnologico arriva a riconfigurarsi nella maniera più totale.
I suddetti concetti, e in particolare l’ultimo di questi, mi saranno ora utili per
analizzare un’interessante teoria riguardo a una possibile deriva del
marchingegno algoritmico: l’<<automazione del gusto>> (Barile & Sugiyama,
The Automation of Taste: A Theoretical Exploration of Mobile ICTs and Social
Robots in the Context of Music Consumption, 2015). Consapevole delle
possibilità offerte dalle odierne Tecnologie dell’Informazione e della
Comunicazione – ICTs – che, tramite device miniaturizzati ubiqui e senzienti,
arrivano a colonizzare in modo sempre più diffuso ma delicato e soffuso il
nostro ambiente quotidiano; questa prospettiva intravede l’emergere di una
sensibilità emozionale e creativa tutta nuova che, informandosi delle facoltà
umane estrapolate dall’interazione con gli individui durante le loro pratiche di
fruizione, si “automatizza” rispetto all’essere umano che la esperisce. Barile e
Sugiyama riprendendo i concetti di <<social robot>> e di <<ontobranding>>
presentano così un nuovo modello di interazione fra l’individuo e la tecnologia,
rivedendo le tradizionali dinamiche relazionali fino ad ora discusse e
approfondite.
Innanzitutto è importante puntualizzare come la loro ricerca parta dal
presupposto che al giorno d’oggi si sia largamente abbandonata quell’idea di
integrazione fra essere umano e tecnologia tipica degli anni Novanta, che
vedeva nel modello ibrido del cyborg una possibile simbiosi fra i due livelli; allo
stesso modo, anche i primi prototipi di robotica antropomorfizzati o
zoomorfizzati creati apposta per potervisi relazionare emozionalmente – come
ad esempio Furby e Tamagotchi – hanno lasciato spazio a nuove e diverse
prospettive di studio.
The notion of social robots often evokes the idea of ‘humanoid social
robots’ […] and also zoomorphic social robots [This] might create an
impression that the questions about the relationship between humans and
124
technologies are still far removed from our everyday experiences and
saved for the research laboratories and the world of science fiction.
However, information and communication technologies (ICTs) have been
slowly but steadily ‘approaching’ the human body, calling for a
reconsideration of the notion of social robots. (Sugiyama & Jane, 2013, p.
1)
La tecnologia oltre ad essere sempre più integrata nel nostro quotidiano è
anche sempre più vicina alla dimensione del corpo, come ho potuto dimostrare
introducendo il tema delle wearable technologies (paragrafo 1.3). Inoltre, <<The
penetration of robotized devices in our daily experience is also transforming our
feelings and ideas about them.>> (Barile & Sugiyama, The Automation of Taste:
A Theoretical Exploration of Mobile ICTs and Social Robots in the Context of
Music Consumption, 2015, p. 1) in quanto oggi i device tecnologici sono sempre
più considerati sulla base del loro valore emotivo.
In uno scenario dove le dimensioni della produzione e del consumo di
esperienze sono sempre più spesso mediate da dispositivi elettronici intelligenti
e relazionali, si rende possibile preconizzare che questi non solo influenzino le
nostre facoltà percettive e cognitive, come già aveva intuito McLuhan, ma che
addirittura arrivino a rendere il gusto personale e le emozioni individuali un
tratto autonomo e non più pertinente in esclusiva all’essere umano: <<[...]
mobile ICTs such as smart phones have the power to shape, and furthermore, to
“automate” our emotions and taste.>> (ibidem).
Dunque, date queste premesse e dato che come abbiamo detto anche il confine
fra ICTs e corpo umano si sta assottigliando sempre di più, in quanto questi
device mobili sono sempre più a contatto con noi ogni giorno e in ogni
momento, si potrebbe ipotizzare una possibile intersezione fra sensibilità
umana e macchine robotiche:
“the automation of taste" [...] Is a theoretical framework that can describe
the new role of the technological mediation in the social definition of taste
125
[that] facilitated by the smart phone and its applications and algorithms,
leads to the human carrying some traces of robots. (ibidem)
I dati che noi produciamo attraverso i nostri device tecnologici – fotografie, testi
ecc.. – “materializzano” le nostre emozioni, le nostre opinioni e i nostri pensieri,
trasformandoli in una forma di capitale monetizzabile e veicolabile attraverso il
cyberspazio. Questo è quanto accade ad esempio negli ambienti dei social
media dove, come ho già illustrato nei capitoli precedenti, le logiche della
narrazione di sé unitamente all’ossessione per la costruzione identitaria
spingono il singolo individuo a mettere a nudo le proprie informazioni sensibili e
personali; rompendo le barriere esistenti fra pubblico e privato per
pubblicizzarsi all’interno di un’arena virtuale dove si trova a concorre con altri
individui e con altre cose. Ecco che allora il punto di intersezione fra individuo e
tecnologia risultano essere esattamente i social media e tutte quelle altre
applicazioni sociali che permettono di instaurare una relazione ad alto valore
emozionale.
Barile e Sugiyama propongono una lettura delle dinamiche intercorrenti in
questa nuova forma di rapporto secondo una logica circolare: <<[…] the technoemotional circuit […] explains the interaction between humans and social
robots/ICTs.>> (ivi p.2). Come ho spiegato, oggi viviamo e/o riviviamo le nostre
emozioni attraverso le apparecchiature tecnologiche: è come se “per osmosi”
noi veicolassimo loro le nostre facoltà umane attraverso gli assidui rituali di
personalizzazione e di utilizzo che ne facciamo e queste, in risposta, inculcassero
in noi delle logiche di funzionamento sempre più automatiche, insensibili e
anaffettive; deprivandoci così del nostro capitale creativo ed emotivo.
This circular process shows the limits of human emotions turned into a
resource while simultaneously displaying the opportunities of artificial
emotions that ubiquitous robots produced, affecting the human emotional
sphere. In both cases the notion of automation is at the center of the
emotional circuit. In the case of the robots “acquiring” emotions, the
126
process of automation is an implementer of creativity. In the case of social
media, on the other hand, automation indicates a reification that is a
reduction of human creativity. (ivi p.4)
Trattasi dunque di un duplice intercambio che permette alla tecnologia di
sussumere i tratti propri della natura umana, previo processo di reificazione
dell’emozione, e all’essere umano di reagire alla successiva simulazione
emotiva, prodotta dalle stesse ICTs nei suoi confronti.
Il concetto tradizionale di automazione attiene a quella progressiva evoluzione
delle macchine che permette loro di sostituirsi all’uomo in alcuni suoi compiti,
liberandolo così da sgradevoli e pesanti mansioni. Infatti, se un macchinario può
funzionare in autonomia significa che non necessita di alcun controllo o
intervento da parte dell’uomo. Se dunque in un primo momento tale concetto
rimaneva strettamente legato all’ambito produttivo, in correlazione allo
sviluppo di nuove tecniche di produzione nelle industrie capitalistiche, nel
nuovo scenario che sinora ho cercato di tratteggiare <<[…] automation starts to
colonize the world of creativity not just in the sphere of production but also in
the reproductive sphere [of] consumption […] This is where the notion of
automation intersects the notion of taste.>> (ibidem).
Nel rapporto di scambio fra uomo e tecnologie si interpongono sempre più
spesso dei procedimenti algoritmici, che in egual modo mediano le esperienze
della socialità online. Il loro potere è però estremamente è dannoso, in quanto:
[it] puts together, on the same level, contents, ads and people […] the
process overwhelms the individual will and increases an automatic
economy based on the elaboration and the circulation of our personal data
[…] this is the clear demonstration that our personal and private taste is
reshaped by the dynamic of a “social” turned into data and then turned
again into a human possible choice. Furthermore, those algorithms are
designed by humans, but such algorithms also design humans in the sense
127
that they define a certain range of choices we can make according to our
networks and our “like”. (ibidem)
La strutturazione del gusto attiene ancora a un processo sociale che però, una
volta trasposto negli ambienti di social networking online, risulta essere
profondamente influenzato da quelle logiche della produzione automatica e
personalizzata del suggerimento che ho approfonditamente illustrato parlando
dei meccanismi di predizione algoritmici. Gli algoritmi oggi ci educano al gusto,
in quanto ci abituano a fare determinate scelte guidandoci verso una
comunione coi nostri simili; ci portano ad abbracciare un’opzione profittevole al
fine di non farci sentire emarginati e di non farci perdere l’approvazione dei
nostri pari.
Il processo di interscambio fra uomo e tecnologia si esplica dunque, in un primo
momento, attraverso l’immissione dei dati personali del soggetto nell’universo
del web e, in un successivo momento, attraverso la scelta che egli dovrà operare
fra una gamma di opzioni preconfezionate; opportunamente suggeritegli dal
procedimento algoritmico sulla base del proprio profilo utente.
Già Herbert Blumer e altri avevano riscontrato un meccanismo sociale alla base
della strutturazione del gusto e delle tendenze. Egli in particolar modo, come ho
mostrato nel paragrafo 1.1.2, aveva coniato il termine <<gusto collettivo>> per
descrivere quella particolare <<sensitivity to objects of social experience>>
(Blumer, 1969, p. 284) che, evolvendosi in relazione a una molteplicità di fattori
intercorrenti, determinava l’avvento di un nuovo ordine sociale; conciliando così
l’anarchia iniziale. Allo stesso modo, anche gli algoritmi “normalizzano” le scelte
degli individui, riducendole a poche e quantificabili variabili.
Mi sembra poi opportuno constatare che:
If in the past one needed to be part of a social class and/or of a subculture
through a pedagogic process of bildung, today this social mediation is less
important and it is almost completely replaceable by applications available
on our smart phones. (ivi p.7).
128
Oggi vengono meno l’impegno e lo sforzo, non necessitiamo più di seguire un
percorso di educazione al gusto specifico di una data cerchia sociale: ci pensano
gli algoritmi a plasmare le nostre soggettività individuali, creando nicchie
omogenee di consumatori. Il loro potere infatti <<[…] can easily manage, orient
or actualize a human choice collectively, and at the same time, in a customized
manner.>> (ivi p.9). Noi ci limitiamo ad aderire in modo automatico a una
gamma di scelte preconfezionate, perdendo di conseguenza facoltà di pensiero
critico, di creatività e di scelta. È così che anche il gusto diventa una categoria
riproducibile matematicamente.
3.4 Nuovi scenari per un’esperienza aumentata del
quotidiano
Fino a questo momento ho analizzato differenti tematiche, legate alle modalità
di diffusione delle tendenze e della trasmissione del messaggio mediatico
nonché alle dinamiche relazionali che hanno luogo fra gli individui del corpo
sociale. Mi sono inoltre soffermata sulle implicazioni che lo sviluppo delle
tecnologie di comunicazione ha avuto per la società, riconfigurandone la
struttura organizzativa e generando nuove pratiche di consumo strettamente
legate ai device digitali; che sono arrivati a costituire una parte imprescindibile
del nostro quotidiano. Nel tempo, le dinamiche delle relazioni interpersonali
così come le modalità d’interazione fra uomo e tecnologia si sono evolute verso
nuove e più complesse conformazioni e l’ambiente dell’esperienza umana ne è
uscito profondamente riconfigurato.
Dopo anni di teorizzazioni riguardo al virtuale e alle possibilità che questa
estensione avrebbe potuto offrire all’uomo comune, liberandolo dalle
costrizioni del mondo reale e permettendogli di assumere parte attiva nelle
dinamiche di partecipazione politica, sociale e culturale della sua epoca; oggi
assistiamo a un forte ritorno della realtà, che combinandosi con la dimensione
virtuale arriva ad assumere una configurazione assai più complessa. Se dunque
129
nel corso degli anni Novanta l’attenzione generale era più orientata verso il
modello della virtual reality – VR –, ora questa nuova alleanza fra reale e
virtuale, fra mondo dei bit e mondo degli atomi, fra naturale e artificiale, fra
emotivo e razionale apre a possibilità mai esplorate prima e potenzialmente
rivoluzionarie.
Discourses of industrial societies emphasize material aspects, whereas
those of post-industrial societies highlight immaterial ones. The direction
of innovations today is a new pragmatic dimension based on the dynamic
integration between them and more focused on everyday life. (ivi p.3)
L’attuale enfasi rivolta alla realtà aumentata – AR – risiede nella sua possibilità
di offrire un aiuto concreto nei contesti di vita degli individui: essa infatti non
rifugge in una dimensione autoreferenziale o in un universo parallelo; ma,
integrando in sé due dimensioni contrapposte, permette invece di approdare a
un’estensione del mondo fisico così come finora lo conosciamo.
L’augmented reality immette degli elementi multimediali nel contesto
ambientale abituale, modificando le normali facoltà sensoriali e precettive
umane e arricchendole con utili informazioni aggiuntive. Così facendo si pone
come un filtro di mediazione fra il soggetto e il mondo lui circostante, rendendo
quest’ultimo interattivo e manipolabile grazie ad appositi sensori in esso
dislocati; capaci di interagire con i device digitali utilizzati dall’utente tramite
una connessione alla Rete Internet. Ne deriva dunque la possibilità di godere di
un’esperienza amplificata del quotidiano grazie a delle particolari estensioni
fornite dalle ICTs. Fra queste, le principali sono intrinsecamente legate ai
dispositivi mobili, in quanto la mediazione di cui parlo avviene solitamente in
tempo reale e questi apparecchi miniaturizzati permettono di spostarsi con
l’individuo che li indossa, accompagnandolo nel corso delle sue attività
ordinarie.
A tal proposito vorrei allora soffermarmi in quest’ultimo paragrafo
dell’elaborato ad analizzare le nuove prospettive di ricerca che si stanno
130
sviluppando in questa precisa direzione. Voglio prendere in esame alcuni studi
che si prospettano di creare strumenti utili a supportare l’individuo
contemporaneo nel corso della sua esperienza quotidiana, accrescendone le
potenzialità grazie alla mediazione delle nuove tecnologie informatiche. Mi
riferisco in particolar modo a quei progetti che, stabilendo un rapporto fra
ambiente fisico, supporto tecnologico e soggetto, puntino a sviluppare
innovative modalità d’interazione fra essi; che abbiano un effetto migliorativo
sulla vita degli individui e, perché no, sfruttino anche le stesse logiche
algoritmiche in modo rivoluzionario, rivoltandone la concezione negativa e
implementandoli in applicazioni che possano risultare proficue e benefiche per
la vita di tutti i giorni.
Nel mio caso, terrò in considerazione alcune ricerche e progetti che hanno a che
fare con tematiche quali la moda e lo stile personale e il selfbranding.
Case study 1: <<Moody Closet>>
Il primo caso che mi accingo ad analizzare fa riferimento a un particolare
strumento di raccomandazione concepito appositamente per smartphone; che
funziona su sistemi operativi Android 4.0 e versioni successive e a cui si può
accedere connettendosi col proprio profilo e-mail, Facebook, Google+, o
Twitter.
Trattasi di un’ipotesi di applicazione della tipologia del personal style
recommender, dunque in stretta attinenza sia con le dinamiche dello stile
personale che con quelle del selfbranding. Infatti, com’è risaputo, anche
l’abbigliamento può fungere da veicolo di espressione identitaria, proprio per la
sua capacità di esternare alcuni tratti del carattere e della sensibilità personale
del soggetto che se ne serve. Come già McLuhan affermava (1968) <<Fashion is
medium>>: l’abbigliamento, estensione della nostra pelle e protesi della nostra
soggettività, è da considerarsi in tutto e per tutto uno strumento di
comunicazione; capace perciò di influire anche sul nostro sistema percettivo e
cognitivo.
131
È proprio da questi assunti che Bojana Dumeljic sembra partire per ideare la
propria applicazione. Moody Closet potrebbe aprire a possibilità inedite rispetto
alle sue concorrenti, in quanto, a differenza delle classiche app di pesonal closet
esistenti, ha a che fare direttamente con la sfera emotiva dell’utente e, nello
specifico, con il ruolo che questa riveste nelle dinamiche di scelta
dell’abbigliamento individuale.
L’esistenza di una reciproca influenza fra mise adottata ed emotività non è di
certo nuova: tutti sappiamo che il modo in cui ci vestiamo ha facoltà di
influenzare, nel bene e nel male, il nostro umore; così come, allo stesso modo, il
nostro umore può guidare le nostre scelte in fatto di stile e portarci a vestire in
modi differenti a seconda della nostra disposizione umorale del momento.
L’intendo di fondo di Dumeljic è quello di semplificare un processo che
quotidianamente ognuno di noi si trova a dover affrontare: la scelta dell’outfit
giornaliero; pratica che, se l’indecisione regna sovrana, può comportare un
grande dispendio di tempo e di fatica. Lo stress che ne deriva porta l’individuo a
risentirne in negativo sul piano psicologico, ecco che allora Moody Closet mira a
supportare queste dinamiche di scelta intervenendo in aiuto dell’utente e
consigliandolo su come abbigliarsi; tenendo sempre in grande considerazione il
suo umore del momento. Così facendo punta a migliorare l’efficienza e la
produttività del soggetto, il quale, una volta liberato dallo stato d’incertezza in
cui si trovava, sarà in grado di investire il suo tempo e di incanalare i suoi sforzi
in maniera diversa. La sviluppatrice è infatti convinta che se il soggetto riesce a
vestirsi senza troppa difficoltà e seguendo le proprie preferenze arriva a sentirsi
bene in tutti sensi. Ecco dunque un esempio concreto di come la tecnologia può
servire ad agevolare e ottimizzare la nostra vita di tutti i giorni.
Nel dettaglio, quest’applicazione user-centered dovrebbe basarsi su un
meccanismo di predizione algoritmica, mirato a creare degli ensemble composti
da tre o più elementi appositamente selezionati dal guardaroba virtuale creato
dall’utente. L’armadio dovrebbe permettere di riordinare il proprio contenuto
132
sotto diverse etichette, così che, volendo, fosse possibile accedere alle sue varie
sezioni in modo efficace. Dovrebbe consentire inoltre di classificare i capi
secondo l’umore, il colore e la categoria cui appartengono – ad esempio top,
bottom, accessori ecc.. – e dovrebbe permettere di suddividere ulteriormente
quest’ultimo gruppo in sottocategorie minori, che indichino ad esempio la
forma e il materiale di cui sono fatti.
Durante la fase di immissione dei capi all’interno dell’armadio, tramite una loro
fotografia, l’utente dovrebbe specificare in modo esatto sia la stagione
dell’anno che la peculiare disposizione umorale con cui è solito indossare
ciascuno di essi. <<Everyone has their own associations with their clothing,
therefore the user would also have to specify in which mood(s) they wear each
item.>> (Dumeljic, 2014, p. 3). Nonostante Moody Closet sia stato pensato per
lavorare con un range limitato di umori, tutte le situazioni basilari in cui il
soggetto medio potrebbe trovarsi sono state tenute in considerazione;
arrivando a configurare 10 diverse categorie finali che l’applicazione dovrebbe
essere in grado di gestire:
happy – felice
confidence – fiducioso in sé stesso
don’t mess with me – intrepido e fiero
in a hurry – di fretta
feeling blue – malinconico
lazy day – pigro
going out – festivo
sweather weather – dismesso, informale e in cerca di comfort
pick me up – speranzoso e motivato
get to work – laborioso ed efficiente
Ognuna di queste etichette fa riferimento a un determinato sentimento
generale, capace di raccoglie sotto di sé delle sfumature emotive sottilmente
differenti.
133
Una volta inseriti gli elementi all’interno del proprio armadio virtuale, l’utente
verrebbe sottoposto a un test iniziale dove dovrebbe approvare o rifiutare
alcuni semplici match fra due capi; permettendo così di rilevare i suoi
abbinamenti favoriti. Questo passaggio risulta di fondamentale importanza, in
quanto per riuscire a fornire un suggerimento realmente mirato ed efficace
l’algoritmo alla base dell’applicazione deve innanzitutto apprendere le
preferenze personali del soggetto.
La successiva raccomandazione potrebbe basarsi sia sullo specifico mood
selezionato dalla schermata iniziale che sulle caratteristiche specifiche di un
capo preselezionato dall’utente stesso. Qualora il soggetto non dovesse
mostrarsi totalmente soddisfatto del risultato, potrebbe scegliere di ricevere
una nuova e completa proposta di ensemble o di limitarsi a ri-assemblare le
singole parti della proposta iniziale che non lo convincono; chiedendo una
nuova raccomandazione limitatamente al solo capo che desidera sostituire.
Una particolare funzionalità che l’app vorrebbe introdurre concerne poi
l’elaborazione di alcune statistiche, in grado di fornire sia il tasso di frequenza
con cui sono stati indossati alcuni elementi che quello con cui sono stati ripetuti
alcuni abbinamenti. Allo stesso modo, dovrebbe tenere traccia di quelli che
sono i colori e gli umori più utilizzati nonché gli ultimi capi aggiunti all’armadio
virtuale; presumibilmente da poco acquistati. Quest’ultima operazione
dovrebbe fornire all’utente una maggiore consapevolezza dei capi di cui è in
possesso, evitandogli di spendere ulteriori soldi in cose che non gli sarebbero
utili.
Moody Closet dovrebbe permettere infine di salvare una copia di tutti gli outfit
indossati e, correlandoli a una determinata data del proprio calendario
personale, dovrebbe consentire al soggetto di evitare di riproporre le stesse
mise a distanza di un breve intervallo di tempo.
Nonostante il progetto complessivo abbia alla base una comprovata fase di
ricerca e documentazione, nelle conclusioni finali del suo paper l’autrice rivela di
134
non essere ancora riuscita a mettere in pratica tutte le funzionalità inizialmente
previste per l’applicazione; di cui ad oggi risultano effettivamente sviluppate e
testate solo quelle riguardanti la creazione di un armadio personale e quelle
inerenti la raccolta di dati statistici in relazione alle abitudini dell’utente.
Come già ho precisato inizialmente, trattasi di un’ipotesi ancora in corso
d’opera; in quanto simili applicazioni richiedono tempo e fatica per essere
messe a punto nel migliore dei modi. In questo caso, la sviluppatrice si è vista
inoltre imbrigliata entro delle scadenze temporali che non le hanno permesso di
approfondire la propria conoscenza delle tecniche di sviluppo di applicazioni per
il sistema operativo Android. Inoltre, non potendo contare sull’appoggio di un
team che la assistesse nel corso delle varie fasi progettuali si è vista
ulteriormente rallentata nel portare a termine la propria missione. Tuttavia nel
tirare le somme del proprio lavoro si dice comunque soddisfatta degli obiettivi
raggiunti, ripromettendosi di conseguire le competenze necessarie per poter
realizzare in modo esaustivo questa sua idea di mobile app.
Fra le osservazioni e gli accorgimenti da lei già previsti in merito ai successivi
sviluppi del progetto, mi sembrano molto rilevanti quelle relative all’inclusione
di raccomandazioni basate sulle condizioni climatiche e sulle occasioni d’uso di
un determinato outfit. In effetti, ritengo che dotare l’applicazione di simili
prerogative porterebbe a un miglioramento complessivo del servizio che questa
si propone di offrire al proprio utente. Le raccomandazioni dovrebbero infatti
concernere anche tutte le varie tipologie di occasioni ed eventi cui il soggetto
potrebbe trovarsi a prendere parte nel corso della propria quotidianità. Inoltre
risulterebbe utilissimo permettere all’applicazione di accedere in tempo reale
alle previsioni metereologiche relative allo specifico luogo in cui si trova
l’utente, così da potergli fornire suggerimenti mirati e allo stesso tempo consoni
con il clima e la temperatura che egli si troverà ad affrontare una volta fuori di
casa. Una simile funzionalità permetterebbe inoltre di incrementare quel
particolare legame fra luogo fisico, supporto tecnologico ed esperienza
135
dell’utente di cui ho parlato nei paragrafi precedenti; instaurando una stretta
sinergia fra tecnologia e ambiente esterno.
Case study 2: <<Mirror Mirror>>
Il secondo caso di studio che mi accingo a prendere ora in considerazione
concerne nuovamente la tematica dello stile personale, questa volta, però,
intersecandola con la dimensione della realtà aumentata, apre a inedite e
innovative frontiere sia per il design di moda professionale che per la più
ordinaria user customization.
Mirror Mirror consente all’utente di realizzare il proprio capo personalizzato,
utilizzando il proprio corpo come un manichino e ricevendo un feedback in
tempo reale dalla propria immagine riflessa; combina infatti un normale sistema
di realtà aumentata con uno specchio costituito da uno schermo digitale
rivestito da una pellicola semiriflettente. L’applicazione riprende dunque le
tecnologie già predisposte all’interno dei camerini virtuali, che consentono al
consumatore di valutare il fitting di un determinato capo senza indossarlo ma
osservandone una riproduzione virtuale posta in sovrimpressione sulla propria
immagine specchiata. In aggiunta, supportando un’interfaccia utente integrata,
consente una maggiore possibilità di intervento al soggetto, permettendogli di
gestire in modo semplice e intuitivo le diverse fasi di realizzazione del proprio
indumento.
Il sistema è in grado di interagire in tempo reale con l’utente grazie ad appositi
sensori predisposti per tracciarne i gesti e i movimenti. Tali sensori mettono il
soggetto nella condizione di poter creare la propria t-shirt in modo interattivo e
coinvolgente, lasciandolo libero di muoversi all’interno dello spazio; inoltre,
catturandone la posa, sono in grado di generare in modo automatico una griglia
tridimensionale sulla parte alta del suo corpo, individuando e circoscrivendo la
precisa porzione di spazio entro cui egli andrà ad operare.
All’utente sono date due diverse possibilità di intervento: uno diretto, che lo
porta a disegnare a mano libera sulla superficie del proprio corpo, e uno
136
indiretto, che lo porta invece a eseguire dei movimenti aerei coi propri arti
seguendo nel proprio riflesso allo specchio l’evolversi del disegno di moda.
Impugnando degli appositi pennini digitali egli può creare il proprio capo
personale servendosi dei vari strumenti di personalizzazione predisposti
dall’interfaccia utente, i cui bottoni virtuali sono stati collocati ai bordi esterni
del display per consentire di accedervi in modo rapido ed efficace senza che
questi ostruiscano il riflesso e la proiezione dell’immagine del soggetto. Il
sensore del telecomando-pennino e quello dello specchio interagiscono fra loro
servendosi di una tecnologia a raggi infrarossi.
Fra i vari tool messi a disposizione dall’applicazione compaiono pennelli di
dimensioni e colori differenti e numerosi pattern preimpostati, questi ultimi,
una volta selezionati, vengono automaticamente adattati alla forma del corpo e
alla taglia dell’utente. È poi possibile ingrandire, tagliare, ruotare e riposizionare
i disegni grafici come si desidera, al fine di accordarli al proprio gusto personale
– per rimuoverli è sufficiente invece trascinarli all’esterno dell’area inizialmente
delimitata. Tutte le stampe e le scritte posizionate sulla superficie della t-shirt
virtuale subiscono una traslazione speculare, dando modo al soggetto di poter
verificare attraverso la superficie riflettente l’effettiva resa che queste avranno
una volta stampate sul tessuto. Se lo specchio mostra però un punto di vista
esterno e di terza persona, attraverso un proiettore la realtà aumentata
permette di riportare i pattern grafici realizzati dall’utente anche sul proprio
corpo, consentendogli di adottare una prospettiva di prima persona nei
confronti della propria creazione.
Un ulteriore proiettore permette al soggetto di impostare una precisa immagine
di sfondo per caratterizzare l’ambiente esperienziale che lo circonda. Una simile
funzionalità è atta a simulare l’ambientazione reale entro cui il soggetto si
troverà a indossare l’indumento, permettendogli così di valutarlo in relazione al
contesto d’utilizzo specifico per cui questo è stato pensato.
137
In futuro Mirror Mirror si prospetta di arrivare a supportare anche una modalità
d’interazione multi utente, consentendo che più persone disegnino insieme i
propri capi interagendo l’un l’altro per fornirsi dei riscontri e dei suggerimenti.
Come spiegano gli autori del paper, una simile funzionalità potrebbe rivelarsi
utile qualora si volessero realizzare delle divise sportive che prevedono la stessa
tipologia di abbigliamento per tutti i membri di una squadra, o ancora per
realizzare delle magliette personalizzate in modo affine destinate a due partner
o a due amici che desiderano possedere uno stesso capo. Non c’è da
preoccuparsi riguardo al fitting, in quanto <<[…] the same design is projected on
all users, but scaled to their body size>> (Saakes, Yeo, Noh, Han, & Woo, 2016,
p. 3). Mirror Mirror vorrebbe rendere possibile l’eventualità che i vari utenti
disegnino tutti insieme sulla stessa maglietta o che ciascuno di essi disegni sulla
propria t-shirt in contemporanea agli altri, per ora, tuttavia, l’impianto è in
grado di interagire con un solo utente alla volta.
A seguito di alcune prove concrete questo sistema si è dimostrato adatto a
poter essere implementato da uno stilista che si trovi a dover realizzare uno
specifico capo per un cliente, in questo caso un tablet sincronizzato in tempo
reale con lo specchio rimpiazzerebbe l’interfaccia utente integrata nello
schermo mentre al committente sarebbe dato ugualmente modo di verificare il
processo creativo del designer attraverso la superficie riflettente.
Dai test effettuati facendo utilizzare Mirror Mirror a delle coppie di studenti di
design sono emersi utili suggerimenti per modificare il sistema al fine di
renderlo più intuitivo ed efficiente. In generale si è constatato come la modalità
di input manuale fosse poco precisa e non consentisse di generare decorazioni
minute e accurate, per questa ragione si è pensato di mettere a disposizione
dell’utente uno strumento di testo che potesse facilitare per lo meno
l’inserimento di scritte e numeri sulla superficie delle t-shirt virtuali;
garantendone così anche una più chiara leggibilità.
138
Dato che gran parte degli utenti aveva riscontrato delle difficoltà nel disegnare a
mano libera, si sono svolti nuovi test per mettere a confronto le prestazioni e i
risultati garantiti dalla gestualità manuale con quelli resi possibili dal supporto
dell’interfaccia multi-tocco del tablet. A questo fine sono stati presi a campione
12 individui dell’età media di 23 anni, di cui 7 erano ragazze. Fra questi sono
stati scelti 6 designer industriali di professione, che si ipotizzava dunque
avessero una maggiore familiarità con le tecniche di questo campo, e 6 individui
inesperti. A tutti è stato richiesto inizialmente di riprodurre a mano libera una tshirt con un design preciso, facendo riferimento a un modello di media
complessità messogli a disposizione; successivamente gli è stato richiesto di
creare invece loro stessi un modello originale sempre tramite un input manuale.
È stato poi previsto che ripetessero questi due esperimenti anche attraverso
l’interfaccia del tablet.
Al termine della sessione si è constatato che gli utenti erano in generale molto
più abituati ad avere a che fare con l’interfaccia del tablet che con i gesti
manuali, inoltre <<[…] working on real scale requires more time due to the large
gestures.>> (ivi p.4) dunque quello manuale si è rivelato essere un
procedimento molto più lento oltre che più difficilmente controllabile. Tuttavia,
due terzi dei partecipanti hanno percepito i movimenti manuali come più
intuitivi e si è infatti potuto riscontrare come questi stimolavano gli individui a
intraprendere un processo di libera creazione e sperimentazione, portandoli a
esplorare tutte le diverse possibilità che offriva loro lo strumento. L’utilizzo del
tablet, al contrario, spingeva i soggetti a rimanere focalizzati quasi
esclusivamente su un obiettivo definito, tanto che questi si dimenticavano di
controllare la propria immagine riflessa nello specchio per verificare come stava
procedendo la loro opera.
Nonostante tutto, gli intervistati inesperti hanno dichiarato di preferire le
modalità di creazione tramite tablet, poiché questo consente di controllare in
modo più semplice e mirato le proprie azioni, al contrario i designer
139
professionisti hanno mostrato una maggior predilezione per il procedimento
manuale, poiché questo permette di avere un feedback molto più diretto e
immediato nel processo di creazione del proprio capo.
Mirror Mirror ha riscosso in generale molto interesse fra gli intervistati: i suoi
punti di forza sono risultati essere innanzitutto il fatto che essa offre
un’esperienza di design simulato, arricchita dalla possibilità di situare il processo
di creazione all’interno di un ambiente preciso; inoltre, il fatto che essa
permette di incappare in episodi di serendipità permettendo ai soggetti di
adottare a una metodologia di disegno manuale e spontaneo che gli consente di
sviluppare la propria creatività in tutta libertà.
Certo, c’è ancora molto lavoro da fare per perfezionare la piattaforma e dotarla
di nuove funzionalità, in quanto <<The current prototype has several limitations
and does not implement a full body mannequin needed to support dresses and
trousers.>> (ibidem). Come notano gli autori, potrebbe risultare utile arrivare a
simulare anche lo specifico taglio e la specifica forma dell’indumento da
realizzare, nonché la specifica texture del materiale prescelto per realizzarlo.
Sarebbe inoltre utilissimo consentire di sovrapporre fra loro strati di
abbigliamento differenti, così da permettere di realizzare un outfit completo nel
corso di un’unica sessione creativa. Questi accorgimenti risultano essere di
fondamentale importanza, soprattutto nel caso in cui un designer professionista
volesse implementare il sistema per il proprio lavoro.
Nonostante tutto Mirror Mirror si pone sulla buona strada per approdare a una
nuova e coinvolgente modalità di progettare i propri abiti. Sfruttando la sinergia
esistente fra reale e virtuale e mettendo la tecnologia al servizio dell’utente lo
porta a svolgere un ruolo attivo nel processo di personalizzazione del proprio
capo, liberandone le facoltà creative e facendolo coincidere ancora una volta
con la figura del prosumer.
A mio parere una simile piattaforma potrebbe essere implementata all’interno
dei negozi di abbigliamento riscuotendo un grandissimo successo, specialmente
140
oggi che l’ossessione per la customizzazione dei propri abiti arriva a coinvolgere
l’intera società. Ogni individuo, infatti, sente la forte necessità di adottare uno
stile d’abbigliamento personale fortemente caratterizzato e riconoscibile, tale
che gli contenta di autopromuoversi spiccando in qualche modo fra la massa.
141
142
Conclusioni
Nel contesto di una perpetua dialettica fra tendenza all'omologazione e al
conformismo sociale e tendenza alla distinzione e all'autenticità individuale, ho
voluto analizzare più in profondità le varie implicazioni connesse ai meccanismi
di influenza messi in atto dalla moda e dai media; cercando di abbozzare i futuri
sviluppi di entrambi i sistemi istituzionali a partire da un'analisi del loro passato
e del loro presente.
In particolar modo, mi sono soffermata su quella radicale rivoluzione socioculturale che, appoggiandosi al nuovo modello di organizzazione sociale in rete
che si è strutturato a partire dagli anni Novanta del Novecento per dare vita a
quello che ho definito come il "nuovo ecosistema mediatico", ha comportato
per migliaia di individui una più ampia possibilità di partecipazione alla cultura e
alla vita sociale del proprio tempo; permettendogli di esercitare la propria
influenza più ad ampio raggio e di veicolare la propria identità oltre i ristretti
confini territoriali. Queste trasformazioni hanno permesso di riconfigurare
l'intera esperienza di vita degli individui contemporanei, di pari passo con la
tendenza a un’integrazione sempre maggiore fra mondo reale e mondo virtuale;
che lascia intravedere scenari inediti e di grande portata innovativa.
Si apre oggi una nuova era, dove gli equilibri sociali si giocano a cavallo fra
territori del web e territori reali e dove nuovi e potenti istituti di controllo e di
sorveglianza sembrano limitare quel sogno di democrazia libertaria che era
sorto nei primi anni di diffusione della rete Internet. Tuttavia, lungi dal pensare
che gli esseri umani verranno surclassati in tutto e per tutto dalla tecnologia, è
importante notare come questa tenda a intervenire sempre più spesso nei
contesti di vita quotidiani degli individui; assumendo un carattere sempre più
soft, emozionale e “intelligente” e ridefinendo così i tradizionali rapporti
intercorrenti fra essere umano e device di comunicazione.
143
In una contemporaneità dove il divario fra universo umano e universo
tecnologico si fa sempre più sottile e dove rischiamo di perdere le nostre
capacità di pensiero critico, di interpretazione e di elaborazione dati a causa
dell'overload informativo che ci sommerge, appare sicuramente necessario
considerare le possibili ripercussioni negative che potrebbero scaturire dal
nostro fare affidamento in modo automatico alle tecnologie digitali. Tuttavia,
prendendo le dovute precauzioni, è possibile godere delle positive possibilità
che queste stesse tecnologie oggi ci offrono intervenendo in modo concreto
nella nostra vita di tutti i giorni: supportando le nostre attività comunicative e
non, permettendo una maggiore integrazione fra individuo e contesto
ambientale e arricchendo la nostra normale esperienza del reale con contenuti
multimediali ed emozionali ulteriori; in sintesi, personalizzando e ottimizzando
la nostra quotidianità in modo da darcene la migliore versione possibile.
144
Bibliografia
Airoldi, M. (2015, dicembre). Potrebbe interessarti anche: recommender algorithms e immaginario, il
caso YouTube. Imagojournal(6), 132-150.
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Ringraziamenti
Voglio ringraziare il mio relatore, Nello Barile, per aver supportato il mio
interesse nei confronti di queste tematiche, aiutandomi a elaborare passo passo
un percorso che risultasse coerente ma al contempo ampio abbastanza da poter
contemplare i miei vari temi d'interesse. Lo ringrazio di aver assecondato nel
modo più assoluto il mio gusto personale aiutandomi a realizzare in modo molto
soddisfacente questa mia prima esperienza di scrittura accademica.
Inoltre ringrazio l'Università IULM per avermi permesso di conseguire le
conoscenze necessarie a sviluppare questo mio approfondimento e per avermi
permesso di arrivare a studiare più da vicino alcuni ambiti che da sempre mi
affascinano e mi interessano; posso infatti dirmi soddisfatta di questo percorso
triennale che mi ha portato a conseguire anche varie soddisfazioni personali.
In ultimo, ma assolutamente non meno importante, vorrei ringraziare le
compagne di viaggio che ho incontrato durante questa avventura di tre anni,
Alice, Giovanna, Maddalena, Sabrina e Sofia, che mi hanno sostenuta nei
momenti di maggior tensione e fatica e che hanno condiviso con me anche
momenti di serenità e di svago. Il loro contributo si è rivelato fondamentale per
poter portare a termine i vari lavori di gruppo che ci siamo trovate a realizzare
insieme, creando un team di collaborazione che è riuscito a lavorare sempre in
modo piacevole, stimolante e creativo e allo stesso tempo accurato e
rispondente agli scopi e agli standard fissati dai docenti.
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