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Rhesis - Literature. 9.2 (2018). Full issue

2018

Rhesis International Journal of Linguistics, Philology and Literature Committee GIOVANNA ANGELI (Università di Firenze) PHILIP BALDI (Pennsylvania State University) NIEVES BARANDA LETURIO (UNED, España) WALTER BREU (Universität Konstanz) JOSEPH BUTTIGIEG (University of Notre Dame) ARMIN BURKHARDT (Universität Magdeburg) PEDRO CÁTEDRA (Universidad de Salamanca) ANNA CORNAGLIOTTI (Università di Torino) PIERLUIGI CUZZOLIN (Università di Bergamo) ALFONSO D’AGOSTINO (Università di Milano) KONRAD EHLICH (Freie Universität Berlin; Ludwig-Maximilians-Universität München) ANDREA FASSÒ (Università di Bologna) ANITA FETZER (Universität Lüneburg) JOSEPH FRANCESE (Michigan State University) SAMIL KHAHLIL (Université Saint-Joseph de Beyrouth; Pontificio Istituto Orientale di Roma) ROGER LASS (University of Cape Town) MICHELE LOPORCARO (Università di Zurigo) GIOVANNI MARCHETTI (Università di Bologna) JOHN MCKINNELL (Durham University) CLAUDIO DI MEOLA (Università di Roma – Sapienza) HÉCTOR MUÑOZ DÍAZ (Universidad Autónoma Metropolitana México, D.F.) TERESA PÀROLI (Università di Roma – Sapienza) BARTOLOMEO PIRONE (Università Napoli – L’Orientale) ATO QUAYSON (University of Toronto) PAOLO RAMAT (Università di Pavia) SUSANNE ROMAINE (University of Oxford) DOMENICO SILVESTRI (Università Napoli – L’Orientale) MARCELLO SOFFRITTI (Università di Bologna, Forlì) THOMAS STOLZ (Universität Bremen) RICHARD TRACHSLER (Universität Zürich) Editors GABRIELLA MAZZON, IGNAZIO PUTZU (editor in chief), MAURIZIO VIRDIS Editorial Board RICCARDO BADINI, FRANCESCA BOARINI, DUILIO CAOCCI, FRANCESCA CHESSA, MARIA GRAZIA DONGU, MARÍA DOLORES GARCÍA SÁNCHEZ, ANTONIETTA MARRA, GIULIA MURGIA, MAURO PALA, NICOLETTA PUDDU, PATRIZIA SERRA, VERONKA SZŐKE, DANIELA VIRDIS, FABIO VASARRI Assistant Editor ELEONORA FOIS Double blind, peer reviewed. Rhesis International Journal of Linguistics, Philology and Literature Literature 9.2 Dipartimento di Filologia, Letteratura e Linguistica Università degli Studi di Cagliari Rhesis International Journal of Linguistics, Philology and Literature Literature 9.2 ISSN: 2037-4569 © Copyright 2018 Dipartimento di Filologia, Letteratura e Linguistica Università degli Studi di Cagliari Partita IVA: 00443370929 Direzione: via S. Giorgio, 12 – 09124, Cagliari Sede amministrativa: via Is Mirrionis, 1 – 09123, Cagliari LITERATURE 9.2 CONTENTS 5 Le due virtù della spada: Justitia e Fortitudo CARLO DONÀ 37 Sciascia and Calvino, ... and Giufà JOSEPH FRANCESE 69 La metafisica dello sprofondo nella narrativa di Giulio Angioni IRENE PALLADINI 85 The Sister’s Gaze in Ian McEwan’s Atonement CLAUDIA CAO 96 The Different Lives of Michael Frayn’s Noises Off: An Italian Case Study ELEONORA FOIS 113 Ipotesi stemmatiche nella tradizione della Voie d’Enfer et de Paradis di Pierre de l’Hôpital ANDREA MACCIÒ 5 Le due virtù della spada: Justitia e Fortitudo Carlo Donà (Università di Messina) Abstract Following the path of Prudentius’ Psychomachia, in the Middle Ages the sword can characterize the representation of many Virtues, as generically proper to the Christian fighting the battle for his personal salvation. In contemporary culture this weapon is a specific attribute of Justitia, but, between the 9th and the15th centuries, it was primarily characteristic of another virtue, Fortitudo. The paper follows the evolution of both these representative traditions. First of all, it focuses on the very remote origins of the image of Justitia with sword, and on what led to the rebirth of this iconic formula after the year 1000. Secondly, and above all, it reconstructs the forgotten history and the complex development of Fortitudo’s representation as a warrior armed with shield and sword, unsheathed and upright. Key words – Virtues (representation); Sword; Justitia; Fortitudo Seguendo la via aperta dalla Psycomachia di Prudenzio, nel Medioevo la spada può caratterizzare la rappresentazione di molte Virtù, in quanto genericamente propria del cristiano che combatte la battaglia per ottenere la sua salvezza. Nella cultura moderna quest’arma è un attributo specifico di Justitia, ma, tra il IX e il XV secolo, era principalmente caratteristica di un’altra virtù, Fortitudo. Il contributo segue l’evoluzione di entrambe queste tradizioni rappresentative. Prima di tutto, si concentra sulle origini molto remote dell’immagine di Justitia con la spada, e sul processo che portò alla rinascita di questa formula iconica dopo l’anno 1000. In secondo luogo, e soprattutto, ricostruisce la storia, del tutto dimenticata, e il complesso sviluppo della rappresentazione di Fortitudo come guerriero armato di scudo e spada sguainata e ritta. Parole chiave – Virtù (rappresentazione); Spada; Justitia; Fortitudo 1. Le virtù armate Grazie alla consegna della spada, compiuta da colui che lo addobba cavaliere, nel Medioevo il giovane passa dalla classe degli adolescenti a quella degli adulti, trasformandosi da valletto o bacheler in uomo di guerra; ottenendola stringe il primo legame di fedeltà con il suo padrino d’armi, e con la sua spada in pugno diventa ciò che è destinato ad essere, perché l’arma costituisce propriamente lo strumento della sua grandezza e il simbolo di tutte le sue virtù, come insegna re Alfonso X di Castiglia († 1284). Ley 4 -I buoni costumi che gli uomini tengono naturalmente in sé sono detti Bontà; in latino si chiamano Virtù, e tra esse ve ne sono quattro di maggiori: Prudenza (cordura), Fortezza (fortaleza), Temperanza (mesura) e Giustizia (justicia). […]. A nessuno esse convengono più che a coloro che devono difendere <dai nemici> la Chiesa, i Re e tutti gli altri: la prudenza farà in modo che lo sappiano fare a loro vantaggio e senza loro danno; la fortezza che siano fermi in Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https:// rhesis.it/ Literature, 9.2: 5-36, 2018 6 ciò che faranno e non siano incostanti; la temperanza che facciano le cose come si deve e non passino il segno, e la giustizia che le facciano secondo diritto. […] Prudenza […] mostra l’elsa della spada che l’uomo stringe in pugno […]. Colui che si difende, tenendo le armi innanzi a sé, dimostra con esse fortezza, che è la virtù che fa sì che l’uomo stia fermo di fronte ai pericoli che gli si parano innanzi; allo stesso modo nel pomo sta tutta la forza della spada, poiché in essa si innestano l’elsa, la guardia e il ferro. E come l’armatura che protegge e l’arma che colpisce sono analoghe alla virtù della temperanza tra le cose […], così è la guardia, posta a metà tra l’elsa e la lama. E proprio così come le armi che l’uomo stringe in mano per colpire nel punto più adatto sono un simbolo di giustizia, che ha in sé diritto e uguaglianza, allo stesso modo ciò mostra il ferro della spada, che è dritto e acuto, e taglia egualmente da entrambe le parti. […] Ley 14 - La spada è l’arma che mostra queste quattro significazioni che abbiamo detto. E poiché colui che deve essere cavaliere deve possedere in sé queste quattro virtù, gli antichi stabilirono che con essa <spada> ricevesse l’ordine di cavalleria, e non con un’altra arma1. La spada è dunque ciò che forma l’identità sociale del cavaliere e misura la sua grandezza: «Librentur stricto meritorum pondera ferro»2, ‘La spada nel pugno misuri il peso dei meriti’. Privarsi di quest’arma significava spogliarsi non solo del ruolo sociale, ma della propria stessa umanità: qualcosa di inconcepibile e di assurdo, tanto che quando Carlo il Grosso (839-888), figlio di Ludovico il Germanico e re di Alemannia e d’Italia, tentò di farlo nell’873, venne senz’altro preso per ossesso, e fu subito sottoposto a esorcismo 3. Solo il santo può e deve privarsi di questo simbolo del sé, come San Galgano, che trasforma la spada in una croce piantandola per terra ed adorandola, o come Sant’Alessio, che, nella miniatura che precede la sua canzone nello straordinario Salterio di St. Alban (Dombibliothek Hildesheim, HS St. Godehard 1, fol. 28 r°, ca. 1125), inizia la sua nuova vita in Dio appunto consegnando alla moglie, esterrefatta e dolente, la spada e l’anello. Quello che il santo compie è un premeditato suicidio sociale, il segno irrevocabile e drammatico della sua morte al mondo, perché guerriero e spada costituiscono un’endiadi inscindibile, e vivono in una simbiosi perpetua e irrevocabile: tanto che un famoso spadaccino e poeta norreno del X secolo, Bersi il Duellatore, poteva affermare, di certo con perfetta sincerità, che il giorno in cui non avesse più potuto tenere in mano la sua cara spada Laufi la morte poteva prenderlo 4. Possiamo capire come nel Medioevo cristiano la spada sia divenuta il fulcro dell’identità nobiliare e del suo sistema di valori a partire da un passo, di capitale importanza, in cui San Paolo descriveva il cristiano forte nella fede come un guerriero rivestito delle armi di Dio. 1 Alfonso X rey de Castilla, Las siete partidas. El libro del fuero de las leyes, a cura di José SANCHEZARCILLA BERNAL, Madrid, Reus, 2004, Partida Segunda, titulo XXI, De los caballeros, pp. 288-89 (ley 4), 292-293 (ley 14). 2 Sassone Grammatico, Gesta dei re e degli eroi danesi, a cura di Ludovica KOCH e Maria Adele CIPOLLA, Torino, Einaudi, 1993, II, vii, 16, p. 111. 3 Annales Bertiniani, a cura di Georg WAITZ, MGH Script. rer. germ. 5, Hannover, Hahn, 1883, ad An. 873, pp. 122-123: Ludovico il Germanico celebra il Natale nel palazzo di Francoforte coi suoi figli Ludovico e Carlo, che diviene preda di un demone, dando in escandescenze durante il consiglio, «et discingens se spata, cadere in terram illam permisit, et cum se vellet balteo discingere et vestimento exuere, coepit vexari» (p. 122). Afferrato dai cortigiani, è subito portato in chiesa, dove l’arcivescovo Liutberto clebra per lui una messa, esorcizza il demone, e gli impone un lungo pellegrinaggio «per sacra loca sanctorum martyrum» (p. 123) affinché il demonio sia definitivamente allontanato da lui. 4 Den Norsk-Islandske Skjaldedigtning, a cura di Finnur JÓNSSON, 2 voll., Copenhagen-Kristiania, Gyldendalske Boghandel – Nordisk Forlag, 1912-15, vol. B1, p. 88, cit. da Hilda R. ELLIS DAVIDSON, The Sword in Anglo-Saxon England: Its Archaeology and Literature, Oxford, Clarendon, 1962 (reprint Woodbridge, The Boydell Press, 1994), p. 215. Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https:// rhesis.it/ Literature, 9.2: 5-36, 2018 7 Fortificatevi nel Signore, e nella sua onnipotente virtù. Rivestitevi dell’armatura di Dio per poter resistere alle insidie del diavolo e mantenervi fermi e vittoriosi. In piedi, dunque, cinti i fianchi con la verità, rivestiti della corazza della giustizia, e per calzari lo zelo […]. Abbiate sempre in mano lo scudo della fede, con il quale possiate estinguere tutte le frecce infuocate del maligno. Prendete ancora l’elmo della Salvezza e la spada dello Spirito che è il verbo di Dio5. 1.1 1.2 1.3 Fig. 1 La virtù armata – 1.1: Pudicitia uccide la Sodomita Libido, da Prudenzio, Psychomachia, X sec., Brussels, Bibliotheque royale, Ms. 10066-77, fol 116 v. 1.2: Evangeliario di Enrico il Leone, Abbazia di Helmershausen, circa 1188, München, Bayerische Staatsbibliothek Clm 30055, Virtutum legio fol. 18 r°. 1.3: Herrada di Landsberg, Humilitas guida la schiera delle virtù, dall’Hortus Deliciarum, fol. 200 r°, Alsazia, seconda metà del XII secolo, copia di E. Schweitzer, circa 1848 da Gerard CAMES, Allégories et Symboles dans l’Hortus deliciarum, tav. 49. Questa immagine marziale non poteva che piacere moltissimo agli uomini dell’Età di Mezzo, costretti a vivere in uno stato di guerra pressoché endemico, cosicché, sin dagli inizi del V secolo, e soprattutto per influsso di un fortunatissimo poemetto allegorico, la Psychomachia di Prudenzio, che canta con dovizia di cruenti particolari la battaglia tra 5 Efesini 6, 10-18. Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https:// rhesis.it/ Literature, 9.2: 5-36, 2018 8 le Virtù e i Vizi, il discorso morale si andò militarizzando 6. Da un lato dunque si diffuse un tema amatissimo, quello del conflictus virtutum et vitiorum, che, rappresentando una serie di duelli tra le virtù e di vizi che sono ad esse contrapposte, dall’altro si fecero delle Virtù stesse dei guerrieri armati (fig. 1.1), sempre pronti allo scontro: così esse apparivano per esempio nell’Evangeliario di Enrico il Leone (ca. 1188, fig. 1.2) o nel perduto manoscritto dell’Hortus Deliciarum di Herrada di Landsberg (1165 ca., fig. 1.3)7. In questa prospettiva, tutte le virtù, senza distinzione alcuna, possono essere rappresentate come guerrieri che combattono la nobile battaglia per la salvezza (fig. 2), e dunque tutte sono caratterizzate dalla spada. Almeno fino al XII secolo, dunque, possono comparire armate Humilitas o Caritas, Sapientia o Fides (figg. 2.1-2.4): reggono sempre soltanto un brando cruciforme, e assumono di norma la stessa posizione assunta da Humilitas per guidare la schiera delle consorelle nell’Hortus: cioè la postura di vigile e minacciosa attesa che prende il guerriero prima dello scontro, preparandosi a colpire, con la spada in palo, cioè parallela in verticale con la punta verso l’alto, e a difendersi con lo scudo proteso per coprire il corpo. 2.1 2.2 6 Sull’influsso di Prudenzio nelle rappresentazioni medievali v. Johanne S. NORMAN, Metamorphoses of an Allegory. The Iconography of the Psychomachia in Medieval Art, New York, Lang, 1988. La Psicomachia si può vedere oggi in una bella edizione con elegante traduzione italiana: Aurelio Prudenzio Clemente, La Psycomachia. La lotta dei vizi e delle virtù, a cura di Bruno BASILE, Roma, Carocci, 2007. 7 Gerard CAMES, Allégories et symboles dans l’Hortus Deliciarum, Leiden, Brill, 1971. Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https:// rhesis.it/ Literature, 9.2: 5-36, 2018 9 2.3 2.4 Fig. 2 Singole virtù con spada e scudo – 2.1: Tractatus de vitiis et virtutibus, Humilitas che si contrappone a Superbia, regione della Loira, metà del IX secolo Paris, Bibliothèque Nationale, MS Latin 8318, fol. 53 r°. 2.2: Rotbertus, Caritas duella con Avaritia, Clermont-Ferrand, Notre-Dame du Port, ca. 1100. 2.3: Sapientia (o Justitia?) come virtù armata, iniziale D del Libro della Sapienza, Bible de Saint-Thierry, Francia orientale (Abbazia di Saint-Thierry, Reims), primo quarto del XII secolo, Reims - Bibliothèque Municipale, ms. 0023, f. 18. 2.4: Evangeliario di Enrico il Leone, Abbazia di Helmershausen, circa 1188, München, Bayerische Staatsbibliothek Clm 30055, Fides armata di spada, fol. 13 v°. Evidentemente, si tratta di un’immagine non determinata, adatta a tutta la virtutum legio, in opposizione a specifici topoi figurativi che definiscono invece singole virtù, come quello che sulla scorta dei passi biblici su Sansone e Davide rappresenta la virtù della Forza, Fortitudo, mentre lotta a mani nude contro un leone (fig. 3.1). 3.1 3.2 Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https:// rhesis.it/ Literature, 9.2: 5-36, 2018 10 3.3 3.4 Fig. 3 Altri modelli – 3.1: Evangeliario di Enrico il Leone, Abbazia di Helmershausen, circa 1188, München, Bayerische Staatsbibliothek Clm 30055, Fortitudo fol. 14 r°. 3.2: Fortuna volge la sua ruota, prima metà del sec. XII, disegno aggiunto a un manoscritto spagnolo dei Moralia in Job, Manchester, John Rylands Library, Ryland MS Latin 83, fol. 214 v°. 3.3: La retorica con Cicerone, München, CLM 2599, fol. 104 v°. 3.4: Orgoglio e Invidia, dai Salmi penitenziali del Libro d’ore Dunois, Francia centrale (Parigi), dopo il 1436, London, British Library, Ms. Yates Thompson 3, fol. 159 r°. D’altro canto, in quanto universale attributo della potestas, ampiamente diffuso nelle raffigurazioni regali, la spada in questa posizione caratterizzava spesso non solo le virtù, ma anche figure allegoriche di vario genere, e persino i vizi, che hanno signoria sull’animo umano. In un disegno tracciato nel XII secolo su una pagina bianca di un manoscritto dei Moralia in Job la vediamo nelle mani di Fortuna, che, con la sinistra è intenta a girare la sua ruota (fig. 3.2); nelle illustrazioni a penna aggiunte a un codice monacense miscellaneo, composto probabilmente ad Aldersbach tra 1225 e 1230, caratterizza la Retorica che accompagna un Cicerone di estenuata eleganza (fig. 3.3); mentre nel sontuoso Libro d’ore Dunois della British Library, opera francese della prima metà del ’400, caratterizza tutte le disposizioni viziose, e tra questi Orgueil / Orgoglio, coronato, vestito di porpora e seduto, anche lui, su un leone ed Envie / Invidia, matrona apparentemente nobile assisa su un cane (fig. 3.4). Ma in ambito morale la spada ha anche un valore più specifico e più strettamente connesso all’etica cavalleresca, perché, come insegna a metà del Trecento Juan Manuel, grande scrittore e nobilissimo principe, nel suo Libro de las armas, «… esta espada sinifica tres cosas: la primera fortaleza, porque es de fierro; la segunda justiçia, porque corta de amas las partes, la terçera la cruz» [«La spada significa tre cose: la prima è Fortezza, perché è di ferro; la seconda è Giustizia, perché taglia da entrambe le parti; la Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https:// rhesis.it/ Literature, 9.2: 5-36, 2018 11 terza è la Croce»]8. Riservandomi di affrontare altrove le spade cruciformi, cercherò di vedere nella pagine che seguono come la spada sia divenuta il simbolo precipuo delle due virtù cardinali per eccellenza proprie degli uomini d’arme, cioè, appunto, Giustizia e Forza, che sono, non a caso, le due virtù messe a fuoco dalla benedictio ensis novi militis (Durand) o benedictio ensis noviter succinti (Pontificale Romano-Germanico, Rituale di Biburg), che risalgono forse al X secolo9, e si trovano regolarmente nei testi liturgici almeno fino al secolo XII. Esaudisci, ti chiediamo, o Signore, le nostre preghiere, e degnati di benedire con la maestà della tua destra questa spada che il tuo servo N. desidera accingersi, affinché possa essere di difesa e di protezione delle chiese, delle vedove, degli orfani e di tutti i servi di Dio contro la malvagità dei pagani, e sia terrore, paura e timore per tutti coloro che tessono insidie 10. Benedizione della spada del novello soldato – Dio, protettore di tutti coloro che sperano in te, acconsenti alle nostre suppliche e concedi a questo tuo servo che con cuore sincero si sforza per la prima volta di cingersi della spada della milizia: che in tutto sia protetto dallo scudo della tua virtù. E come a Davide e a Giuditta desti la potenza e la vittoria della fortezza, così, munito del tuo ausilio, sempre riesca vincitore contro la malvagità dei suoi nemici, e possa aver successo nella tutela della Santa Chiesa11. 2. Justitia e i suoi attributi Per noi è scontato che l’immagine di Justitia presenti come attributi fissi la spada snudata e la bilancia, secondo un topos figurativo che soprattutto in Italia si fissa con inusuale rigidità già sul finire del Medioevo (fig. 4) 12. La genesi di questa immagine è tuttavia complessa, e insegna davvero molto sulle complesse dinamiche culturali dell’Età di Mezzo. 8 Il testo del Libro de las armas o, più esattamente, Libro de los tres razones, composto tra 1342 e 1345 è stato edito da Don Juan Manuel, Cinco tratados. Libro del cavallero et del escudero. Libro de las tres razones. Libro enfenido. Tractado de la asunçion de la Virgen. Libro de la caça, a cura di Reinaldo AYERBE-CHAUX, Madison, Hispanic Seminary of Medieval Studies, 1986, ma se ne trova una edizione on line: <http://www.saavedrafajardo.org/Archivos/LIBROS/Libro0167.pdf˃, p. 7. 9 Carl ERDMANN, Alle origini dell’idea di crociata, Spoleto, Centro italiano di Studi sull’Alto Medioevo, 1996, pp. 352-359; Michel ANDRIEU (a cura di), Le Pontifical Romain au Moyen-Age, vol. III: Le Pontifical de Guillaume Durand, Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, 1940, p. 447; Walter VON ARX, Das Klosterrituale von Biburg, Freiburg, Universitätsverlag Freiburg, 1970, p. 262; Max PERLACH (a cura di), Die Statuten des Deutschen Ordens, Halle a. S., Max Niemeyer, 1890, p. 129. La benedictio armorum più antica compare nel pontificale attribuito ad Egberto di York (732-766), che fu tuttavia contiene diversi ampliamenti posteriori: Erdmann la data al 960 circa. 10 Cyrille VOGEL, Reinhard ELZE (a cura di), Le Pontifical romano-germanique du Xe Siècle, Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, 1963, p. 379. 11 Manuale ad Usum Insignis Ecclesiae Sarum, in Manuale et processionale ad usum insignis ecclesiae Eboracensis, a cura di William G. HENDERSON, Surtees Society 63, Durha Andrews &Co, 1875, p. 28; Manuale ad usum percelebris Ecclesie Sarisburiencis, a cura di Arthur J. COLLINS, London, Henry Bradshaw Society vol. 91, 1960, p. 63-64. 12 Per l’iconografia di Justitia mi limito a rinviare al bell’articolo di Paola RÉFICE, “Giustizia”, in Enciclopedia dell’Arte Medievale, vol. VII, Roma, Treccani, 1996, pp. 2-10, con ricchissima bibliografia. Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https:// rhesis.it/ Literature, 9.2: 5-36, 2018 12 4.1 4.2 4.3 Fig. 4 Justitia – 4.1: Justitia, bottega di Andrea Pisano 1335-1338, Firenze, Museo dell’Opera del Duomo. 4.2: Bonino da Campione e collaboratori, Giustizia, Arca di Cansignorio della Scala Verona, recinto delle arche Scaligere, ca. 1370. 4.3: Jacobello del Fiore, La giustizia, 1421, tempera su tavola; Venezia, Gallerie dell’Accademia. Il punto di partenza più lontano possiamo infatti ravvisarlo addirittura nelle immagini del dio mesopotamico della giustizia, Utu-Šamaš, che è sempre contrassegnato da una daga tenuta in palo, in quello che chiamerò “Gesto di Ostensione” (fig. 5.1-5.2), e almeno in qualche caso verifica l’equità della bilancia (fig. 5.3): sin dal II millennio a. C. troviamo dunque già riuniti nella sua figura tutti gli elementi fondamentali del simplegma simbolico di Justitia. Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https:// rhesis.it/ Literature, 9.2: 5-36, 2018 13 5.1 5.2 5.3 Fig 5 Utu-Šamaš dio della giustizia – 5.1: Cilindro di ematite, Isin-Larsa (2004-1790 a. C.): un re incedente in atto di omaggio offre un toro al dio Šamaš, London, British Museum, n. 89284. 5.2: Impronta di sigillo cilindrico, Šamaš ascende dalle Montagne dell’Est e entra attraverso le porte del cielo, Mesopotamia, periodo akkadico, (ca. 2334–2154 a.C.), Serpentina, New York, Pierpont Morgan Museum, no. 178. 5.3: Sigillo cilindrico di età accadica, con Šamaš in trono che controllo l’equità di una bilancia, e offerente che porta una capra, da Jeremy BLACK, Anthony GREEN, Gods, Demons and Symbols of Ancient Mesopotamia, London, British Museum Press, 1998, fig. 152, p. 183. Non credo tuttavia che questo schema iconico sia giunto al Medioevo dall’antica tradizione mesopotamica per trasmissione diretta; più verosimilmente esso pervenne in Occidente per due strade tortuose, che a un certo punto confluirono l’una nell’altra. La prima di queste vie passava, ovviamente, per la Sacra Scrittura, che affondando le sue radici nello stesso terreno culturale da cui era nata la figura di Utu-Šamaš ne condivide in buona parte l’immaginario, e quindi fornisce a Yahvéh in primo luogo una spada che è sostanzialmente strumento di una giustizia severa e sanguigna: «Con il fuoco infatti il Signore farà giustizia e con la spada su ogni uomo; molti saranno i colpiti dal Signore» (Isaia 66, 16); «Temete per voi la spada, poiché è la spada che punisce l’iniquità, e saprete che c’è un giudice» (Giobbe 19, 29); «39Sono io che do la morte e faccio vivere Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https:// rhesis.it/ Literature, 9.2: 5-36, 2018 14 […] 41quando avrò affilato la folgore della mia spada e la mia mano inizierà il giudizio, farò vendetta dei miei avversari, ripagherò i miei nemici. 42Inebrierò di sangue le mie frecce, si pascerà di carne la mia spada, del sangue dei cadaveri e dei prigionieri, delle teste dei condottieri nemici!» (Deuteronomio, 32, 39-42). Dio dunque non solo possiede una spada fiammeggiante, ma la sazia «della carne e del sangue degli uccisi, della testa dei capi nemici» (Deut. 32, 41-42); è «ricoperta di sangue, poiché il Signore fa carneficina a Bosra, grande strage nell’Idumea» (Is. 34, 5-6), e con essa Dio uccide Raab e trafigge il Dragone (Is. 51,9). 6 Fig. 6 La spada di Dio - La manus Dei fa giustizia, Stuttgart Psalter, ca 820-830, Württembergische Landesbibliothek Stuttgart, Bibl. fol. 23, fol. 147 r°. Nell’immaginario medievale è la stessa Manus Dei che utilizza l’arma, per esempio in uno dei capolavori dell’arte carolingia, il cosiddetto Salterio di Stoccarda, eseguito nell’abbazia di Saint-Germain-des-Près tra l’820 e l’830, che illustra con una vivace miniatura il salmo 129 (fig. 6). Il testo invoca l’aiuto di Dio contro i nemici di Sion. Oggi la versione più diffusa dei versetti 3 e 4 appare piuttosto edulcorata e suona «3Sul mio dorso hanno arato gli aratori, / hanno fatto lunghi solchi. / 4Il Signore è giusto: / ha spezzato il giogo degli empi» (CEI). La Vulgata, però, ha una lezione assai più accesa e bellicosa: «3supra dorsum meum fabricaverunt peccatores / prolongaverunt iniquitatem suam. 4Dominus iustus concidit cervices peccatorum…»13, cioè «sul mio dorso i peccatori hanno elevato le loro costruzioni, hanno protratto la loro iniquità: ma il giusto Iddio ha tagliato le cervici di coloro che peccano». Il miniaturista carolingio, seguendo letteralmente il testo, mostra dunque, a sinistra, Israele attonito, aureolato e chino sotto il peso del gran muro che gli empi stanno costruendo sulle sue spalle, e a destra, con impassibile precisione, la mano di Dio che sbuca dalle nubi e decapita i peccatori con una spada bella e possente: ne ha già fatto fuori uno, che con la testa divisa dal corpo sanguina copiosamente, e tuttavia mostra con la mano la potenza della giustizia divina, e ne sta spacciando un secondo, dall’aria perplessa ma sottomessa al fato inevitabile. 13 La Nuova Vulgata segue una soluzione di compromesso: «3 Supra dorsum meum araverunt aratores, / prolongaverunt sulcos suos. / 4 Dominus autem iustus / concidit cervices peccatorum». Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https:// rhesis.it/ Literature, 9.2: 5-36, 2018 15 Ma poiché i giudizi divini sono infallibilmente giusti, oltre alla spada di giustizia Yahvéh è fornito anche di una bilancia (fig. 7.1) che simboleggia la perfetta equità del suo giudizio: «Mi pesi pure sulla bilancia della giustizia e Dio riconoscerà la mia integrità» (Giobbe 31,6); «La stadera e le bilance giuste appartengono al Signore, sono opera sua tutti i pesi del sacchetto» (Proverbi 16, 11) ecc. 7.1 7.2 7.3 Fig. 7 La bilancia della giustizia divina – 7.1: Salterio detto di Utrecht, Reims 816-835, Utrecht, Universiteitsbibliotheek, MS Bibl. Rhenotraiectinae I Nr 32, fol. 56 r°., ps. 95, versetti 10 e 13, Il Signore giudicherà il mondo con giustizia. 7.2: Beatus de Liébana, Commentaria in Apocalypsin, Apocalisse detta di Silos, Santo Domingo de Silos, ultimo quarto del X secolo, British Library, Add MS 11695 fol. 102 v°. 7.3: Albrecht Dürer, I cavalieri dell’Apocalisse, particolare, 1496-1497. Nell’immaginario biblico, dunque, la giustizia divina possiede insieme spada e bilance, e i due oggetti appaiono riuniti insieme soprattutto nelle figure, amatissime nel Medioevo, dei Cavalieri che in Apocalisse 6 vengono inviati da Dio per devastare la terra negli ultimi giorni. Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https:// rhesis.it/ Literature, 9.2: 5-36, 2018 16 Quando l’Agnello aprì il secondo sigillo sentii il secondo Vivente che diceva: “Vieni!”. 4 Ed ecco uscì un altro cavallo, rosso, e a colui che stava sopra fu dato il potere di togliere la pace dalla terra e di far sì che gli uomini si sgozzassero fra di loro e gli fu consegnata una grande spada. 5 Quando l’Agnello aprì il terzo sigillo, sentii il terzo Vivente che diceva: “Vieni!”. E vidi immediatamente apparire un cavallo nero, e colui che vi stava sopra aveva in mano una bilancia. 3 La diffusione di queste immagini fu letteralmente immensa, e perdurò da un capo all’altro del Medioevo: a partire dalle colorite miniature mozarabiche dei Commentaria in Apocalypsin di Beatus de Liébana, che in qualche caso sono precedenti al Mille (fig. 7.2) almeno fino alla grandiosa xilografia di Dürer, comparsa nel 1498 (fig. 7.3), e dunque per oltre mezzo millennio, il terribile cavaliere degli ultimi giorni porta sempre la spada in ostensione come segno della potestas necandi che gli è concessa, e quest’arma appare in esplicita endiadi con la bilancia. 8.1 8.2 8.3 Fig. 8 Dee classiche della Giustizia – 8.1: Julia Domna, Asse di Pautalia, Tracia, 193-217 d. C., con Nemesi stante che tiene bilancia e cubito. 8.2: Statua di Nemesi con il gladio, dal Nemeseion di Carnutum, II/III sec. d. C. 8.3: Giustino I, 518-527 d.C., Pentanummium di Antiochia; Tyche. All’incirca parallelo a questa via specificamente cristiana percorsa dagli attributi di Justitia, correva però anche un percorso culturale diverso, che, verosimilmente originandosi dalle stesse tradizioni antico-orientali, passava tuttavia dalla cultura classica, e in particolare dalla tradizione greca. Qui la Giustizia in quanto astratta virtù Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https:// rhesis.it/ Literature, 9.2: 5-36, 2018 17 fu personificata da alcune figure divine di sesso femminile, numerose e piuttosto mal distinguibili l’una dall’altra – Themis, la legge divina, Dikē, Justitia, Nemesis ma anche Astrea o Tyche, la Fortuna. In quanto signore dell’equa misura e della retta distribuzione, queste dee sono spesso contraddistinte da una bilancia e da uno strumento di misura: Nemesi per esempio è regolarmente provvista della statera e tiene spesso con la sinistra il cubito (fig. 8.1), un’asta per misurare, che tuttavia spesso, soprattutto nell’iconografia monetale, ovviamente sommaria date le dimensioni dell’immagine, non è chiaramente distinguibile come tale. Ma poiché queste figure divine concretamente puniscono il reo che le ha offese, esse sono tradizionalmente associate anche alla spada. A proposito di Dike/Justitia Eschilo già nelle Coefore ricorda che: «Sta saldo il ceppo di Giustizia / e vi si foggia una spada il Destino…» (639 ss.); Themis/Tyche, in quella che viene considerata l’ultima moneta con iconografia pagana, un pentanummium di Giustino I risalente circa al 520 d. C., compare coronata e seduta in trono, intenta a stringere in mano quella che sembrerebbe essere una spada in palo (fig. 8.3)14. Quanto a Nemesi, la dea che, secondo il suo nome “distribuisce” ciò che spetta ad ognuno, le era dedicata un’ara sul Campidoglio, dove le truppe deponevano una spada prima di partire per la guerra e in alcune immagini appare dotata di una robusta spada che tiene posata sulla spalla (fig. 8.2). La spada del resto apparteneva al repertorio consueto del loro ambito, perché a Roma quest’arma assunse un valore simbolico importante, in quanto rappresentò il possesso di un particolare tipo di potere, quello ius gladii che designava fondamentalmente la giurisdizione criminale sui cittadini, ed era costituito, concretamente, dalla possibilità di comminare la pena capitale 15. Si discute ancora sull’evoluzione e i limiti di questo potere di vita e di morte, ma sembra assodato che fosse prerogativa usuale dei governatori provinciali fin dal primo impero 16. Dopo la Constitutio Antoniniana del 212, che estese la cittadinanza romana a tutti gli uomini liberi, il “diritto di spada” fu accordato ai governatori di rango senatorio e, in condizioni particolari, anche a quelli di rango equestre17: gli Scriptores Historiae 14 Non è impossibile, data la cattiva qualità del conio, che si tratti in realtà di una qualche altra cosa (come una fronda di palma o una cornucopia, un timone o, più probabilmente, l’asta per misurare), ma di solito questi oggetti vengono retti tenendoli in modo diverso e appoggiandoli alla clavicola, ed è comunque fuor di dubbio che come una spada l’oggetto sarà stato volentieri letto negli anni successivi. 15 L’insieme della documentazione che utilizzo è raccolta e discussa in Vincenzo AIELLO, “L’imperatore e la spada”, in Aa. Vv., Istituzioni, carismi ed esercizio del potere (IV-VI secolo d. C.), a cura di Giorgio BONAMENTE e Rita LIZZI TESTA, Bari, Edipuglia, 2010, pp. 11-30. 16 La teoria più diffusa è quella classica di Theodor MOMMSEN, Römisches Staatsrecht, vol. II, 1, Leipzig, S. Hirzel, 1887-1888, p. 267 ss., e Theodor MOMMSEN, Römisches Strafrecht, Leipzig, Dunkler & Humblot, 1899, pp. 243 ss., secondo cui lo ius gladii è in sostanza la giurisdizione criminale sui cittadini, propria dell’imperatore e da lui delegata abitualmente a partire dal III secolo, ma ci sono alcune voci discordanti: secondo Peter GARNEY, “The Criminal Jurisdiction of Governors”, «Journal of Roman Studies», 58.1-2 (1970), pp. 51-59, tutti i governatori provinciali avrebbero goduto dello ius gladii fin dalla tarda repubblica; per Arrigo MANFREDINI, “Ius Gladii”, «Annali dell’Università di Ferrara, Scienze Giuridiche, Nuova serie», 5 (1991), pp. 104-126, viceversa si trattò essenzialmente di un potere di poliziesco e repressivo. Sull’estensione di questo diritto si veda Detlef LIEBS, “Das ius gladii der römischen Provinzgouverneure in der Kaiserzeit”, «Zeitschrift für Papyrologie und Epigraphik», 43 (1981), pp. 217-223. 17 Bernardo SANTALUCIA, Studi di diritto penale romano, Roma, L’Erma di Bretschneider, 1994, pp. 205, 217-218 e Bernardo SANTALUCIA, Altri studi di diritto penale romano, Padova, Cedam, 2010, p. 82. Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https:// rhesis.it/ Literature, 9.2: 5-36, 2018 18 Augustae parlano di honores iuris gladii18, e secondo Ulpiano, «coloro che governano un’intera provincia hanno lo ius gladii, e il potere di condannare ai lavori forzati nelle miniere»19. Così, questo potere capitale finì per incarnare l’essenza stessa dell’imperium: «L’imperium è puro o misto. Imperium puro è avere la potestas gladii nel punire i facinorosi, cosa che si chiama anche potestas»20. Dunque, ius gladii, potestas gladii e imperium (merum) tendevano almeno approssimativamente a coincidere nella coscienza dei Romani di età imperiale, di certo perché la spada, nel principato, si prestava a fungere da simbolo di somma (e a volte sommaria) giustizia avendo soppiantato la scure come strumento della pena capitale. Lo insegna ancora Ulpiano («Si deve eseguire la pena capitale con la spada, non con la scure, la lancia, il bastone, il laccio o in altro modo»21) e lo testimonia l’aneddoto secondo cui Caracalla si irritò fortemente contro il sicario tradizionalista che osò giustiziare il giurista Papiniano con la scure: «… gladio te exequi oportuit meum iussum!»22. San Paolo fece pienamente propria l’associazione tra gladio e giustizia in un passo di capitale importanza, e la trasmise alla cultura cristiana con tutto l’immenso peso della sua autorità. «4Perché il magistrato è un ministro di Dio per il tuo bene; ma se fai il male, temi, perché egli non porta la spada invano; infatti è un ministro di Dio per infliggere una giusta punizione a chi fa il male [«… non sine causa gladium portat: Dei enim minister est vindex in iram ei qui malum agit]» (Romani 13). Sin dall’alba stessa del Medioevo, dunque, Giustizia e spada furono necessariamente associate: così già in una delle amatissime Variae di Cassiodoro (ca. 537), che descrivendo la formula per la nomina del comes provinciae, una specie di potentissimo governatore generale con compiti di polizia, lo mostra dotato appunto di un gladio. Le cariche pubbliche escludono di norma l’uso delle armi ma il comes provinciae anche in tempi di pace porta la spada di guerra («gladio bellico rebus etiam pacatis accingitur»), affinché il reo sia punito per la salute di tutti: sono le armi della legge, non quelle del furore e questa ostentazione ha lo scopo educativo di terrorizzare i rei più ancora della pena («arma ista iuris sunt, non furoris. haec ostentatio nimirum est contra noxios instituta, ut plus terror corrigat quam poena consumat. […] civilis est pavor iste, non bellicus»)23. 18 Per esempio, nella Vita Alexandri Severi di Elio LAMPRIDIO l’imperatore «Honores iuris gladii numquam vendi passus est» (‘Non permise che fossero oggetto di mercato le alte cariche che comportano diritti di vita e di morte’), Scrittori della Storia Augusta, a cura di Leopoldo AGNES, Torino, UTET, 1960, “Vita di Alessandro Severo”, § 49, p. 318. 19 Corpus iuris civilis, vol. I, a cura di Theodor MOMMSEN , Paul KRÜGER, Berlin, Weidmann, 1938, Iustiniani Digesta, lb. I, cap. 18, De officio praesidis, § 6.8, p. 44: «Qui universas provincias regunt, ius gladii habent et in metallum dandi potestas eis permissa est». 20 Corpus iuris civilis, Digestus, ed. MOMMSEN, KRÜGER, lb. II, cap. 1, Ulpianus 2 de off. quaest, § 3 De Iurisdictione, pag. 46: «Imperium aut merum aut mixtum est. merum est imperium habere gladii potestatem ad animadvertendum facinorosos homines, quod etiam potestas appellatur». Per l’identificazione fra Ius gladii, potestas gladii e imperium merum si veda Ettore DE RUGGIERO, Dizionario Epigrafico di antichità romane, vol. III, Roma, L. Pasqualucci, 1900, s. v. ‘gladius’, p. 532. 21 Corpus iuris civilis, Digestus, ed. MOMMSEN, KRÜGER, lb. XXXXVIII, cap. 19, Ulpianus, De Poenis 8, § 1, p. 847: «Vita adimitur ut puta si damnatur aliquis, ut gladio in eum animadvertatur; sed animadverti gladio oportet non securi vel telo vel fusti vel laqueo vel quo alio modo». 22 Elio SPARZIANO, “Vita di Caracalla”, in AGNES, Scrittori della Storia Augusta, 4, 1, p. 219. 23 Magni Aurelii Cassiodori Senatoris, Variarum libri duodecim, a cura di Theodor MOMMSEN, MGH AA XII, VII, 1, Formula comitivae provinciae, pp. 201-202. Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https:// rhesis.it/ Literature, 9.2: 5-36, 2018 19 Alla luce di tutto questo, è ovvio che il Medioevo, riprendendo le immagini classiche delle personificazioni femminili di Justitia, apportasse loro sovente una significativa correzione. In qualche raro caso infatti i modelli antichi vennero ripresi con letterale fedeltà, come accade nel già citato evangeliario di Enrico il Leone (fig. 9.1), dove Justitia, aureolata, mostra statera e cubito come Nemesis, o con qualche superficiale innovazione, sul tipo di quella presente nel battistero bronzeo del duomo di Hildesheim (fig. 9.2), in cui Justitia tiene in luogo dell’asta misuratrice un cartiglio che riprende Sapienza 41, 21, «Omnia in mensura […] et pondere disposuisti». 9.1 9.2 Fig. 9 Bilancia e cubito – 9.1: Evangeliario di Enrico il Leone München, Bayerische Stadtbibliothek, Clm 30055, Helmarshausen, circa 1188 Justitia, fol. 14 v. 9.2: Hildesheim, Tesoro del duomo, fonte battesimale, bronzo, verso il 1220, Justitia. Nella grande maggioranza dei casi, tuttavia, seguendo da presso da un lato le suggestioni scritturali e patristiche, dall’altro la tradizione propriamente romana, si preferì dotare la personificazione della Giustizia di una spada snudata. A favore di questa opzione pesò senza dubbio in modo determinate il fatto che proprio una spada spesso accompagnava la bilancia nelle amatissime scene di psicostasia, che mostrano San Michele intento alla pesatura delle anime in lotta con le potenze demoniache (fig. 10.1-10.2). Il passaggio dalla tradizione antica alla versione medievale si coglie in fieri in uno dei rilievi che ornano la tomba di papa Clemente II († 1047) a Bamberga, e che potrebbero appartenere già al programma originario del sepolcro, rifatto nel 1240 (fig. 10.3). Vi compare un personaggio femminile coronato, evidentemente identificabile con Justitia, che tiene con la destra la bilancia, mentre con la sinistra, nella stessa posizione con cui Nemesi regge il cubito o la Justitia di Hildesheim mostra il cartiglio, tiene una robusta spada perfettamente stauromorfa. Ovviamente una lama pesante e afffilata non si può tenere così, ma proprio il fatto che la posizione sia illogica mostra nel modo più evidente la forza attrattiva del modello codificato dalla tradizione precedente. Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https:// rhesis.it/ Literature, 9.2: 5-36, 2018 20 10.2 10.1 10.3 10.4 Fig. 10 San Michele e la nascita dello schema di Justitia – 10.1: Psicostasia con san Michele contende le anime al demonio, lunetta della Pieve di Talignano (Parma), 1200 ca. 10.2: San Michele pesa le anime, foglio volante con xilografia anonima tedesca, nei modi di Albrecht Dürer, ca. 1500. 10.3: Justitia, rilievo dalla tomba di papa Clemente II († 1047) nella cattedrale di Bamberga. La tomba è stata rifatta nel 1240. 10.4 Giustizia fra due re, cattedrale di Léon, circa 1300. Una volta rinnovato dall’introduzione della spada, il modulo ereditato poté evolversi liberamente, e nel giro di qualche anno assunse il suo aspetto definitivo (fig. 10.4), attribuendo finalmente alla personificazione della Giustizia, accanto alla statera, la spada tenuta in palo, posizione che, essendo tipica del Re in maestà, accompagnava al significato di minaccia insito nella lama snudata, quello di potere posseduto o esercitato. Del resto, dai tempi di Cassiodoro in poi, l’associazione fra spada e giustizia era diventata corrente anche nella prassi, non solo perché con la spada si eseguivano le condanne capitali, ma anche per la forma peculiare dell’arma, in quanto la simmetria, la presenza di due taglienti uguali e soprattutto l’aspetto cruciforme ne facevano un simbolo perfettamente adeguato della ferrea necessità della pena e dell’imparzialità del Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https:// rhesis.it/ Literature, 9.2: 5-36, 2018 21 giudizio. Può chiarirlo la testimonianza di un troviero della Champagne, Guyot de Provins, cui si deve un poema, verboso e ripetitivo, che descrive il valore allegorico delle varie componenti dell’armatura. La santa scrittura divina / che ci offre l’usbergo della fede [??] / ci descrive, secondo quanto credo, / quale sia la spada, e di che taglia. / È un bastone fatto per dar battaglia, / un bastone del tutto dritto. / Temuto deve essere, e forte, e fiero / colui che su di sé porta la spada, / arma che suscita gran timore. / È il più dritto dei bastoni: / e deve essere un ottimo campione / l’uomo che porta una simile spada. / Non è né debole né torta, / ma dritta, chiara ed affilata, / e ben tagliente, e bene acuta. / Questa Spada si chiama Rettitudine/ e ben si accoppia all’armatura. / Chi ben la tiene, bene può attendere / i suoi nemici: per difendersi, / forza gli dona, ed ardimento. / La Scrittura sacra, che non mente, / della Spada ci racconta / che fu fatta per Giustizia. / Nella Spada vi è il segno di croce; / deve avere una strada sicura, / l’uomo che tiene la dritta Spada/ se si trova in una via stretta /non deve sconfortarsi, / ché il Nemico non può tribolare / un uomo che mena retta via. / La sua parola deve essere ascoltata / e onorata, e posta innanzi <alle altre>; / può ben parlare con fierezza / chi tiene la Spada della rettitudine: / sicuramente richiede il suo diritto / ovunque, e può ben farlo. / […] /È buona cosa tenere una simile spada /che il Nemico nostro molto teme / Questo sappiamo bene, per fede, / che la spada fu fatta in primo luogo / per mantenere diritto: retto quindi / deve essere colui che tiene la spada, / e per questo l’abbiamo chiamata / Rettitudine. Colui che segue Rettitudine / non teme nulla, fuorché Dio, / di nulla ha paura, fuorché di Dio24. Non stupisce, alla luce di tutto ciò, che il Medioevo abbia creato delle spade speciali, destinate a rappresentare la potestas gladii e l’amministrazione del potere giurisdizionale, e spesso concretamente all’esecuzione delle pene capitali, chiamate appunto Spade di Giustizia, che si cristallizzarono in un modello fisso (fig. 11). Fig. 11 Spada di giustizia – 12.1: Germania, XVI o XVII secolo, Colmar, Musée d’Unterlinden. Le caratterizzavano sempre quattro elementi: a) una rigorosa simmetria bilaterale, che doveva rappresentare l’assoluta equità del giudice, per cui le due parti sono uguali; 24 Guiot de Provins († post 1208), L’armeüre du chevalier, vv. 234.83, in Les œuvres de Guiot de Provins, poète lyrique et satirique, a cura di John ORR, Manchester, Imprimerie de l’Univeristè, 1915, p. 101 ss. Il testo ricorda da vicino brani del Lancelot (La Marche de Gaule, §§ 246-247, in Le Livre du Graal, a cura di Philippe WALTER, v. II Paris, Gallimard, 2003, pp. 252-253) e del Llibre de l’ordre de cavalleria (Raimon Lull, Llibre de l’orde de cavalleria, V.2, in Id., Obres Essentials, vol. I, a cura di Pere BOHIGAS, Barcelona, Edicions Selecta, 1957, pp. 515-545, 538; trad. it. Raimondo Lullo, Il libro dell’Ordine di Cavalleria, a cura di Giovanni ALLEGRA, Carmagnola, Edizioni Arktos, 1983, pp. 142-143); passi analoghi si trovano anche nell’anonimo Ordene de Chevalerie, vv. 205-219 (Le Roman des Eles and L’ordene de chevalerie. Two Early Old French Didactic Poems, a cura di Keith BUSBY, Amsterdam-Philadelphia, John Benjamins, 1983, pp. 110-111), nell’Enseignement des Princes di Robert de Blois, vv. 491 ss. (Robert de Blois, Sämtliche Werke, vol. a cura di Jacob ULRICH, Berlin, Mayer und Müller, 1906, p. 17) e soprattutto ne Li dis de l’espee di Jacques de Baisieux (ca. 1250?) che fornisce una completa lettura allegorica della spada (Jacques de Baisieux, L’Œuvre de Jacques de Baisieux, a cura di Patrick A. THOMAS, La Haye-Paris, Mouton, 1973, pp. 64-71). Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https:// rhesis.it/ Literature, 9.2: 5-36, 2018 22 b) un perfetto stauromorfismo, che le assimilava alla croce di Cristo, per cui l’elsa rettilinea è perfettamente perpendicolare alla linea della lama; c) una netta tendenza al parallelismo dei due taglienti, che si spiega proprio sulla base dell’associazione tra “dritto” e “diritto” e d) infine l’assenza di punta, attraverso la quale si esprimeva l’idea che la giustizia colpisce tagliando (cioè in senso etimologico ‘de-cide’) ma non ferisce né punge. Riuscire a riconoscere a colpo d’occhio questa particolare tipologia di spade è importante per interpretare correttamente le testimonianze figurative. Esse infatti affiorano più spesso di quanto non si possa credere, soprattutto nelle scene sacre, e in ogni caso la loro comparsa vuole sottolineare che ciò che con esse si compie è opera di giustizia e non di violenza. È per esempio quel che fece, intorno al 1265, il geniale miniatore della Douce Apocalypse rappresentando il suo Cristo trionfante (fig. 12.1) che con una spada siffatta sconfigge i re al servizio della Bestia, e pone così fine alla storia e istaura il suo regno millenario. Quanto tenace fosse questa tradizione rappresentativa lo dimostra il fatto che, più di due secoli dopo, essa veniva ancora rigorosamente seguita da Andrea Mantegna, che in due versioni della decapitazione di Oloferne (tempera della National Gallery of Art, Washington, monocromo della National Gallery of Ireland, fig. 12.2), dota le sue scultoree Giuditte appunto di una spada di Giustizia. Qualche anno dopo lo stesso accade, del resto, alle eroine eleganti e perverse di Lucas Cranach. 12.1 12.2 Fig. 12 Violenza giusta – 12.1: Cristo sconfigge i seguaci della Bestia, Apocalisse, detta Douce Apocalypse, London? c. 1265-70, Oxford, Bodleyan Library, MS. Douce 180, fol. 84. 12.2: Andrea Mantegna, Giuditta con la testa di Oloferne, tempera su tela, 1495, Dublin, National Gallery of Ireland. 3. Le metamorfosi di Fortitudo La militarizzazione del discorso morale, iniziata col passo paolino della lettera agli Efesini e con la Psychomachia prudenziana, si attagliava ancor più che a Justitia, soprattutto a Fortezza o Fortitudo25, virtù aristocratica e maschile per eccellenza (cfr. gr. ἀνδρεία < ἀνήρ, lat. virtus < vir), e inerente sia il piano fisico che quello morale (non 25 Non a caso nel De anima di Ugo di San Vittore è appunto Vis o Fortitudo che enuncia in prima persona i succitati versetti paolini: v. PL CLXXVII, col. 185. Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https:// rhesis.it/ Literature, 9.2: 5-36, 2018 23 per nulla appartiene al novero delle virtù cardinali 26), giacché, per dirla con Alfonso el Sabio «fortaleza […] es virtud que hace al hombre estar firme a los peligros que le vienen». Per buone ragioni, insomma, Fortitudo è la virtù fiera e bellicosa per antonomasia, ed è pertanto ad essa che bisognerà riferire in prima battuta le rappresentazioni della Virtus armata, tanto più che essa costituisce in un certo senso una condizione preliminare alla manifestazione di tutte le altre virtù, in quanto specifica la disposizione d’animo necessaria per resistere nel bene, disposizione che deve essere insieme salda, combattiva e tenace. Come accade un po’ per tutte le virtù, tuttavia, le rappresentazioni di Fortitudo non seguono sempre un tipo unico. Dal Rinascimento in poi, per lo più essa viene rappresentata di volta in volta come una donna che spezza una colonna, o apre a mani nude le fauci di un leone (fig. 4.1) con allusione alla storia biblica di Sansone; ma nel Medioevo, e già prima del Mille, essa appare più spesso armata. 13.1 13.2 13.3 Fig. 13 Fortitudo armata di lancia – 13.1: Sacramentorum liber S. Gregorii papæ, Autun, Bibliothèque Municipale, ms. 0019 bis fol. 173v°, 845-850. 13.2: Bibbia di Carlo il Calvo, detta di San Paolo fuori le mura, scuola di Reims, 870 ca., fol. 1r°: Carlo il Calvo in trono circondato dalle virtù cardinali (part.), Roma, Biblioteca dell’Abbazia. 13.3: Fortitudo da un evangeliario della seconda metà del IX secolo. Cambrai, Bibliothèque Municipale, cod. 327, fol. 16 v°. In età carolingia in particolare Fortitudo è per lo più aureolata, in vesti femminili, e munita di asta e di scudo, come nel bel manoscritto Sacramentario di Autun (fig. 13.1), risalente agli anni 845-850, nel foglio iniziale della Bibbia di San Paolo fuori le mura (ca. 870, fig. 13.2) o in un evangeliario all’incirca contemporaneo conservato a Cambrai (fig. 13.3). Ma già in quegli stessi anni, che non per nulla videro la progressiva sostituzione della spada alla lancia come arma regale, questa virtù dovette abitualmente 26 Adolf KATZENELLENBOGEN, Allegories of the Virtues and Vices in Medieval Art. From Early Christian Times to the Thirteenth Century, translated by Alan J. P. Crick, London, Studies of the Warburg Institute, 10, 1939 (rist. Toronto, Toronto UP, 1989); Gérard CAMES, Allegories et symboles dans l’Hortus deliciarum, Leiden, E.J. Brill, 1971; Shawn R. TUCKER (a cura di), The Virtues and Vices in the Arts: A Sourcebook, Lutterworth Press, Cambridge, 2015; Jennifer O’ REILLY, Studies in the Iconography of the Virtues and Vices in the Middle Ages, London, New York, Garland, 1988; Liana DE GIROLAMI CHENEY, “Virtue/Virtues”, in Encyclopaedia of Comparative Iconography, a cura di Helene E. ROBERTS, ChicagoLondon, Fitzroy Dearbom, 1998, pp. 907-922; Jérôme BASCHET, “Vizi e Virtù”, in Enciclopedia dell’arte medievale, Roma, Treccani, 2000 e soprattutto l’ottimo articolo di Michaela BAUTZ, “Fortitudo”, in Reallexikon zur Deutschen Kunstgeschichte, X, München, Beck, 2004, pp. 225-271, che si può leggere anche on line <http://www.rdklabor.de/wiki/Fortitudo>. Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https:// rhesis.it/ Literature, 9.2: 5-36, 2018 24 presentare anche un aspetto più decisamente marziale, avendo come attributi fondamentali l’armatura, lo scudo e la spada. Lo testimonia a chiare lettere uno dei più grandi scrittori dell’epoca di Carlo Magno, Teodulfo di Orléans († 821), descrivendo in uno dei suoi poemi una raffigurazione presente su una placca circolare, probabilmente esposta nel palazzo di Aquisgrana: Le stava vicino la Forza [Vis], fortissima tra le virtù, provvista delle armi che competono ai suoi uffici: in una mano teneva infatti una daga [sicam], e nell’altra uno scudo, il capo tutto coperto dal cono dell’elmo, in modo che possa vincere le orrende larve dei vizi, e che la santa libertà sia bene al sicuro27. 50 Si tratta, evidentemente, dello stesso tipo di raffigurazione che veniva occasionalmente associata a Humilitas e alle altre virtù (fig. 2) ma che in età carolingia inizia a divenire topica appunto in correlazione singolare con Fortitudo. Ciò accadde forse perché questo modello ripeteva antiche immagini tradizionali semanticamente prossime all’ambito della Forza. La ritroviamo sin da tempi ben più lontani, per esempio in un bronzetto sardo degli inizi del primo millennio a. C. (fig. 14.1), o nella monetazione greca, in cui sin dal IV secolo a. C. compare la figura dell’eroe elmato e nudo che imbraccia lo scudo e tiene la spada pronta al colpo o di Atena Promachos colta nella stessa posizione. 14.1 14.2 14.3 14.4 Fig. 14 Antecedenti del “Gesto di Forza” – 14.1: Cagliari, Museo Nazionale, Statuetta bronzea di guerriero con scudo e spada, da Uta, inizi del primo millennio a. C. 14.2: Julia Domna, Asse con statua di Ares, altare e incensieri, Rabbathmoba, Arabia, 193-217 d. C. 14.3: Immagine dal corno aureo di Gallehus, Danimarca, c. 350-450 d. C. 14.4: Valchiria, argento, inizi del IX secolo, Copenhagen, National Museum of Denmark. In forme affatto analoghe questa postura, che chiamerò “Gesto di Forza”, doveva in particolare caratterizzare un’antica statua di Marte, evidentemente famosa, visto che venne effigiata in parecchie monete del II-III secolo d. C., coniate a Rabbathmoba sotto 27 Theodulfus, “De septem liberalibus artibus in quadam pictura depictis”, in Theodulfi Carmina, a cura di Ernst DÜMMLER, MGH, Poetae Latini aevi Carolini, I Berlin, Weidmann, 1881, pp. 445-569, n. xlvi, p. 545, vv. 47-52 . Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https:// rhesis.it/ Literature, 9.2: 5-36, 2018 25 Settimio Severo, Giulia Domna e Geta (fig. 14.2). Credo sia lecito supporre che la posizione del dio avesse già un carattere ritualmente fisso, e fosse in particolare vicina all’ambito semantico della forza, giacché la ritroviamo un paio di secoli dopo in ambito germanico, nelle figure di guerrieri trionfanti e solari effigiate nel corno aureo di Gallehus (V sec.?, fig. 14.3). Significativamente, si tratta di uno schema che viene associato anche a figure femminili: rarissime raffigurazioni di età vichinga ci presentano infatti esattamente in questa postura le Valchirie, le dee guerriere al seguito di Odino che assistono alle battaglie decidendo le sorti dei combattenti (fig. 14.4). Parte da qui una tradizione iconografica che nel corso di qualche secolo andò progressivamente associando questa postura, che è in sostanza quella del guerriero armato, che in vigile attesa del nemico mostra di essere pronto sia all’attacco (la spada) che alla difesa (lo scudo), alla specifica rappresentazione di Fortitudo. E poiché si tratta, è il caso di aggiungerlo, di una tradizione tanto ricca e importante quanto curiosamente trascurata dagli studi iconologici, varrà la pena di ricostruirla con una certa accuratezza. 15.1 15.2 Fig. 15 Nascita del Gesto di Forza – 15.1: Il Miles Christianus come incarnazione della forza, che schiaccia il serpente demoniaco; regione della Loira (Tours o Fleury), seconda metà del secolo IX, Paris, Bibliothèque Nationale, Ms. Latin 8318, fol. 55r°. 15.2: Girolamo Olgiati, Miles Christianus, incisione di Hieronymus Wierix, 1619. Opere carolingie sul tipo di quella descritta da Teodulfo dovettero fissarne il tipo. Nel manoscritto latino 8318 della Bibliothèque Nationale, una raccolta miscellanea di Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https:// rhesis.it/ Literature, 9.2: 5-36, 2018 26 vari testi risalente alla metà del IX secolo, vediamo per esempio un Miles Christianus raffigurato come un re che in questa posizione calpesta, il serpente demoniaco (fig. 15.1). Il disegno è posto significativamente a illustrazione del passo di Efesini 6, 10-18 citato all’inizio, a cui il copista ha aggiunto un brano di Giobbe «Et militia est vita hominis super terram» (Job, 7.1) e una descrizione delle armi che il cristiano deve impugnare, a partire dal «Gladius Spritus Sancti». Il tutto, significativamente, termina con una citazione da un canto liturgico, «Estote fortes in bello et pugnate cum antiquo serpente et accipietis regnum aeternum»28, canto che in età carolingia doveva essere ben noto, dal momento che viene citato anche nel manuale di Duhoda, redatto tra l’841 e l’84329. Da testi e immagini come questi nascono sia il topos iconico di Fortitudo, sia quello, in larga parte coincidente, del Miles Christianus: basta il confronto tra il disegno del manoscritto carolingio e un’incisione di analogo argomento di Girolamo Olgiati e Hieronymus Wierix datata 1619 (fig. 15.2), per comprendere con una sola occhiata quanto stabile sia rimasta nei secoli la tradizione allegorica di cui stiamo discorrendo. 16.1 16.2 Fig. 16 Diffusione del Gesto di Forza – 16.1: Piatto con scena di conquista, Semirechye (?), San Pietroburgo, Hermitage, S-46, argento con laminature d’oro, IX-X sec., particolare del guerriero alla sommità della torre. 16.2: Roman d’Alexandre, rubrica: «D’Alixandre que sailli de sor le berfroi sur le mur de Tyr» (‘Di Alessandro che salì sopra la torre sulle mura di Tiro’), Bologna, intorno al 1285, Venezia, Museo Correr, Ms. Correr 1493, fol. 31 v°. Almeno un manufatto documenta che questa posizione, che chiamerò “Gesto di Forza” o “Posizione di Fortitudo”, doveva avere già in età ottoniana un significato ben 28 Corpus antiphonalium officii (= CAO), Rerum ecclesiasticarum documenta 7-12, 6 voll., a cura di René-J. HESBERT, Roma, Herder, 1963-1979, vol.III, n. 2684. 29 Duodha, Liber manualis, cap. XXVII, “Admonitio utilis ad comprimenda vitia”, in Le manuel de Dhuoda, a cura di Edouard BONDURAND, Genève, Mégariotis Reprints, 1978, IV, 5, 10, p.141: «Scriptum est in cujusdam libelli particula: Estote fortes in bello e cum antiquo pugnate serpente. Beatus namque Petrus de hac serpenti pugnatione ut resistamus viriliter nos admonit […]. Vigilandum tibi est, fili, et cum executione operis boni viriliter certandum, ne pereat in te vera et santa sanguinis filii Dei redemptio.». Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https:// rhesis.it/ Literature, 9.2: 5-36, 2018 27 stabilito in un’area estremamente ampia. Si tratta di un piatto d’argento con laminature d’oro trovato nel 1909 nella provincia di Perm’, ma verosimilmente prodotto più a sudest30, tra IX e X secolo, attualmente conservato all’Hermitage di San Pietroburgo (fig. 16.1). La raffigurazione non è di facile lettura, ma celebra, a quanto mi sembra, la conquista di una fortezza, che occupa il centro della scena ed è circondata da guerrieri a cavallo. Il personaggio principale è un cavaliere, situato in alto a destra, leggermente più grande degli altri, che stringe in mano una sorta di scettro ed è dotato non di elmo ma di corona: si tratta quindi sicuramente di un re, il quale saluta, direi, i suoi soldati che hanno appena conquistato il castello. Dalla sommità della torre un soldato gli risponde, rigidamente ritto in posizione di Fortitudo tra due nemici morti e due compagni che mostrano trionfanti le armi con cui hanno compiuto l’impresa; sotto di loro squillano le trombe, mentre nove cavalieri, disposti a coppie intorno alla torre, salutano l’evento con lance, stendardi e spade. Il “Gesto di Forza” appare qui non solo perfettamente definito, ma emerge in un contesto del tutto coerente all’interno del quale esso svolge un ruolo estremamente significativo. Lo si confronti con l’Alessandro che dall’alto di una torre che ha appena conquistato minaccia le mura di Tiro, che ha stretto d’assedio (fig. 16.2), soverchiando il nemico morto esattamente come il soldato del piatto di Semirechye. È palese che le due figure sono equivalenti, e dunque semanticamente analoghe. Ora, questi due ultimi esempi, ma anche gli altri documenti raccolti sin qui dimostrano, quanto mi sembra, un fatto importante e se non m’inganno del tutto trascurato dagli studiosi di iconologia: sicuramente già prima del Mille, come suggeriscono il manoscritto Latino 3818 (fig. 15.1) e il piatto di Semirechye (fig. 16.1), e forse da tempi assai più antichi (fig.14.1-4), la posizione del guerriero con scudo imbracciato e spada in palo era divenuta esemplare, trasformandosi in un vero e proprio semantema iconico, cioè in un portatore autonomo di significato che indicava di per sé il valore di Fortitudo. Un personaggio effigiato in tale posizione è in altri termini sempre una figura Fortitudinis, e, reciprocamente, viene effigiato in questa postura soltanto chi a qualche titolo sia depositario della Fortezza, virtù che egli dimostra e ostenta appunto grazie a questa postura caratteristica. Non ho altre informazioni sulla situazione in Oriente, ma in Europa il tipo appare già perfettamente cristallizzato subito dopo il Mille, nella base della grande croce da altare (Heinrichskreuz) conservata al duomo di Fritzlar (fig. 17.1) e connessa con la visita compiuta al monastero nel 1020da Enrico II e di sua moglie, Kunigunde di Lussemburgo. La virtù vi appare non solo armata di spada, ma provvista di elmo conico con nasale, proprio come nel poemetto carolingio, ed è identificabile senza ambiguità grazie alla presenza del titulus. Vale la pena di notare che a questa altezza cronologica, Justitia, che le sta accanto, è provvista di bilancia ma appare disarmata, esattamente come accade nella Bibbia di San Paolo fuori le mura (fig. 13.2). Qualche decennio più tardi lo schema si manifestava in forme di esemplare chiarezza in un’altra miniatura dell’Hortus deliciarum di Herrada di Landsberg († 1195, fig. 17.2), in cui viene ritratta in questa postura non solo la Fortezza, ma tutta la famiglia di virtù che da essa dipendono (Magnificentia comitis, Confidentia, Tolerantia, Requies, Stabilitas, Perseverantia, Constantia). Fortitudo, in quanto principalis virtus, porta 30 Sono state avanzate varie ipotesi di localizzazione, tutte a oriente del mar Caspio: dalla zona dell’attuale Kazakistan, in quella che allora si chiamava la “Provincia dei Sette Fiumi” (Semirechye Oblast) alla Sogdiana e al Khorashan. Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https:// rhesis.it/ Literature, 9.2: 5-36, 2018 28 l’elmo coronato, e tiene la spada in palo; per il resto tutte le virtù a lei connesse indossano la tunica femminile lunga sino ai piedi, ma sopra di essa vestono la cotta di maglia del miles, e portano l’elmo con nasale e lo scudo appeso al collo, uno di quei grandi scudi a mandorla (kite shield) che conosciamo così bene dall’arazzo di Bayeux. Il confronto con l’analoga rappresentazione della schiera delle virtù (fig. 1.3) rende chiaro che questa posizione in sé è appunto propria di Fortitudo, ma può essere estesa a tutte le disposizioni virtuose in quanto ciascuna di esse, per potersi realizzare, richiede forza d’animo e ferma determinazione. 17.1 17.2 Fig. 17 Primi esempi del Gesto di Forza - 17.1: Piede di crocifisso, bronzo, Germania, ante 1020, Fritzlar, Domschatz und Museum des Sankt-Petri-Domes. 17.2: Herrada di Landsberg, Fortitudo e le sue parti, dall’Hortus Deliciarum, fol. 204 r°, Alsazia, seconda metà del XII secolo, copia di E. Schweitzer, ca. 1848 da Alexander STRAUB, Gustave KELLER, Herrad von Landsberg. Hortus deliciarum, Strasbourg, 18791899, tav. LII. Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https:// rhesis.it/ Literature, 9.2: 5-36, 2018 29 Del tema possediamo anche una versione maschile, del tutto analoga, che ritroviamo per esempio nel già ricordato fonte battesimale bronzeo di Hildesheim, risalente all’incirca al 1220 (fig. 18.1). Anche in questo caso Fortitudo, identificata dal titulus, è un re in armi che regge con vigile cautela una spada snudata pronta a colpire e tiene lo scudo ben stretto contro il fianco; rivelano il suo sesso i tratti del volto piuttosto rudi, e sopratutto il cartiglio, che presentando una interessante variante di Proverbi 16, 32 «Vir qui dominatur animo suo fortior est expugnatore urbium», sottolinea il carattere innanzitutto morale della virtù, la quale secondo i teologi è «un vigore dell’animo, che conduce conformemente alla ragione»31. In altri casi invece definire il sesso della personificazione è decisamente difficile, anche perché il soldato giovane è tradizionalmente rappresentato imberbe (fig. 18.2): restano tuttavia sorprendentemente costanti non solo la posizione e gli attributi, ma anche alcuni tratti secondari, come il cingolo che assicura l’elmo al collo. 18.1 18.2 Fig. 18 Gesto di Forza (con titulus) – 18.1: Fonte battesimale con raffigurazioni allegoriche, Hildesheim, Sankt Maria, intorno al 1220; il testo che si legge nel cartiglio è un adattamento di Proverbi 16, 32: «Melior est patiens viro forti, et qui dominatur animo suo expugnatore urbium». 18.2: Fortitudo, da Libellus capitulorum, XII sec., Stuttgart, Württembergische Landesbibliothek, Cod.brev.128, fol. 10 r°. Sebbene spesso il titulus manchi, lo ripeto, immagini di questo tipo sono sempre facilmente e inequivocabilmente riconoscibili come raffigurazioni di Fortitudo grazie alla concomitante presenza di quattro elementi: a) un personaggio, sia di sesso maschile che femminile, normalmente elmato e coperto di cotta d’arme, il quale b) solo e al di fuori di ogni contesto bellico, c) tiene una spada snudata in palo e d) si protegge il corpo con lo scudo. L’isolamento, la posizione fissa e la contemporanea presenza della spada brandita e dello scudo imbracciato bastano in genere per riconoscere con certezza in figure di questo tipo incarnazioni di Fortitudo, tanto più che esser sovente si situano in contesti significativi, come le serie di Virtù e Vizi sulla facciata delle chiese, e presentano spesso un elemento concomitante che ricorre con regolarità: il leone o il serpente-drago su cui si trionfa, calpestandoli o combattendoli, secondo lo schema eroico del Cristo dell’età carolingia ottoniana, e più in particolare il dettato del Salmo 91,13 «Camminerai su aspidi e vipere, / schiaccerai leoni e draghi». Il rettile normalmente si schiaccia col piede, mentre il rapporto col leone è più complesso, 31 Speculum morale, L. I, dist. LXXX, parte III. Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https:// rhesis.it/ Literature, 9.2: 5-36, 2018 30 giacché questo animale è simbolo delle tentazioni demoniache, ma è al tempo stesso custos iusticie nonché incarnazione del coraggio32. 19.1 19.3 19.2 19.5 19.4 Fig. 19 Fortitudo e il leone – 19.1: Fortitudo, Padova, Abbazia di S. Giustina, portale (distrutto), opera di maestranze francesi, ca. 1175. 19.2: Capitello romanico con Fortitudo, verso il 1200, Museo archeologico di Girona. 19.3: Amiens, Cattedrale, Fortitudo, facciata occidentale, ca. 1260. 19.4: Fortitudo, Strasburgo, Cattedrale, statue del portale con virtù e vizi. 19.5: Giotto, Fortitudo, Padova, Cappella degli Scrovegni, affresco, ca. 1306. Questa situazione simbolicamente complessa produce una certa oscillazione nelle raffigurazioni. In generale, quando il personaggio che rappresenta l’incarnazione della 32 Émile MÂLE, Le origini del gotico. L'iconografia medievale e le sue fonti, Milano, Jaca Book, 1986, p. 129: «Il leone raffigurato sullo scudo conferisce un significato estremamente chiaro. È forse necessario allineare molti testi per dimostrare che il leone fu agli occhi dei simbolisti del Medioevo una tipologia del coraggio? Il leone, dice Rabano Mauro, è per il suo coraggio il re degli animali; il libro dei Proverbi afferma: “Il leone è il più coraggioso degli animali e non teme di confrontarsi con nessuno”. Nel XII secolo il De bestiis ripete testualmente queste parole. (PL CLXXVIII, col. 23)» Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https:// rhesis.it/ Literature, 9.2: 5-36, 2018 31 forza è di sesso maschile, lo si raffigura di norma mentre combatte contro la fiera, in cui dunque prevale il valore negativo, come accade nello splendido rilievo del piedritto laterale del perduto portale romanico di Santa Giustina a Padova (fig. 19.1), o in un gustoso capitello del museo di Girona (fig. 19.2). Allorché invece la virtù appare in aspetto femminile, il leone diviene semplicemente una divisa araldica che campeggia sul suo scudo, e assume dunque un valore apertamente positivo (fig. 19.3-4). Con sintesi geniale entrambi gli aspetti di questa duplicità leonina vennero rappresentati da Giotto nella Fortezza della cappella degli Scrovegni a Padova (fig. 19.5). Ritratta come una formosa e robusta matrona, Fortitudo regge non più una spada, ma una mazza da guerra, e si protegge con un grande scudo – propriamente uno di quegli immensi scudi che proteggevano balestrieri e fanti e portavano il nome di palvese, targone o tavolaccio – su cui campeggia appunto un leone rampante, e contro il quale si spezzano i dardi dei nemici. Sopra la lorica musculata che le protegge il busto, la donna porta una pelle di leone: è la classica leonté, attributo di Eracle, che esattamente come l’eroe Fortitudo indossa con il capo della fiera a guisa di elmo. Sullo zoccolo si legge: «Fortitudo ogni cosa atterra, superando [lacuna] e, armata, impugnando una mazza, schiaccia le malvagità. Ecco, con la forza uccide il leone, e si copre della sua pelle (‘En occidit vi leonem, eius pelle tegitur’). Su tutti ha la meglio nello scontro, e in nessun caso è abbattuta». 20.1 20.2 20.3 Fig. 20 Varianti dello schema – 20.1: Andrea Pisano, Fortitudo, porta del Battistero di San Giovanni, Firenze, 1330-1336. 20.2 Fortitudo, Placca di altare portatile, verso il 1160, Augsburg, Städtische Kunstsammlung. 20.3: Fortitudo con spada e laccio, Canterbury, Christ Church Cathedral, Transetto Nord-Est, (n. XVII) 1179 - 1180. Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https:// rhesis.it/ Literature, 9.2: 5-36, 2018 32 Questa possente Fortitudo giottesca inaugura una variante specificamente italiana del tema, in cui alla spada, che nel frattempo era divenuta appannaggio di altre virtù (e prima fra tutte appunto Justitia) si sostituisce la mazza o il bastone: una ventina d’anni dopo Andrea Pisano seguirà per esempio questo modello nelle porte del Battistero di Firenze (fig. 20.1). Una volta fissato, il tipo diede peraltro luogo anche ad altre varianti, generalmente poco vitali, sia nella posizione, sia negli attributi, come dimostrano la Fortezza di un altare portatile tedesco che brandisce lo scudo anziché proteggersi con esso (fig. 20.2), o quella della cattedrale di Canterbury (fig. 20.3), che al suo posto tiene una corda. 21.1 21.2 Fig. 21 Persistenza – 21.1: Matthäus Greuter, Septima Petitio, incisione di Paul Fürst, ca.1635. 21.2: Domenichino, Fortitudo, Roma, S. Carlo ai Catinari, affresco, 1630. Resta da aggiungere, per concludere, che sebbene insidiato da forme concorrenti, prima fra tutte quella in cui Fortitudo lotta a mani nude contro il leone, questo topos iconico sopravvisse almeno sino al barocco. Illustrando, nel 1635, la settima richiesta del Padre Nostro, Matthäus Greuter dava ancora una Fortitudo perfettamente rispondente al modello medievale (fig. 21.1), se non fosse per le ali, che ne fanno una sorta di San Michele in gonnella; e nelle vignette sottostanti inserisce un leone con il cartiglio “In fortitudine” e quella colonna che nel frattempo era divenuta il più usuale degli attributi di questa virtù. Cinque anni prima, affrescando i pennacchi della cupola di San Carlo ai Catinari a Roma, Domenichino aveva osato di più, proponendo una Fortitudo-Atena (fig. 21.2); anch’egli seguiva in realtà da presso il vecchio schema, non solo dotando la Virtù degli attributi di prammatica, la spada, lo scudo, l’armatura e l’elmo, ma del pari corredandola del leone e della colonna, in modo da farne una sorta di concentrato iconografico. Tanto più sorprendente, e per me inesplicabile, è il fatto che immagine venga corredata dal cartiglio Humilitas. Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https:// rhesis.it/ Literature, 9.2: 5-36, 2018 33 Riferimenti bibliografici Testi Alfonso X rey de Castilla, Las siete partidas. El libro del fuero de las leyes, a cura di José SANCHEZ-ARCILLA BERNAL, Madrid, Reus, 2004. Annales Bertiniani, a cura di Georg WAITZ, MGH Script. rer. germ. 5, Hannover, Hahn, 1883. Jacques de Baisieux, L’Œuvre de Jacques de Baisieux, a cura di Patrick A. THOMAS, La Haye-Paris, Mouton, 1973. Robert de Blois, Sämtliche Werke, vol. III, a cura di Jacob ULRICH, Berlin, Mayer und Müller, 1906. Corpus antiphonalium officii, Rerum ecclesiasticarum documenta, a cura di René-J. HESBERT, 6 voll., Roma, Herder, 1963-1979. Corpus iuris civilis, vol. I, a cura di Theodor MOMMSEN, Paul KRÜGER, Berlin, Weidmann, 1938. Den Norsk-Islandske Skjaldedigtning, a cura di Finnur JÓNSSON, 2 voll., CopenhagenKristiania, Gyldendalske Boghandel – Nordisk Forlag, 1912-1915. 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International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https:// rhesis.it/ Literature, 9.2: 5-36, 2018 37 Sciascia and Calvino, … and Giufà Joseph Francese (Michigan State University, USA) Abstract This essay traces the evolution of the personal and professional relationship of Italo Calvino and Leonardo Sciascia, using their divergent readings of the tales of the Sicilian folk hero Giufà as a yardstick for measuring their personal and professional association and their development as writers and thinkers. Thus, it sheds light on Italian literary culture as it took new form after WWII through the years of lead and the death of the two men in the 1980s; specifically, the two disagreed publicly as to how the Italian State should react to the terrorist threat posed by the Red Brigades in the late 1970s. Subsequent to these polemics Sciascia broke with Einaudi (the firm for whom Calvino, since the 1950s had edited most of Sciascia’s books). Then, in 1989 (four years after Calvino’s death in 1985), Sciascia, in perhaps the last essay he wrote, disagreed with Calvino’s 1971 characterization of the Giufà as a trickster and village idiot, as a sort of societal antibody, someone communities need to expel in the interest of their well-being. Key words – Italo Calvino; Leonardo Sciascia; Giufà; Years of Lead; Einaudi Publishing House; literary postmodernism 1. Introduction While the critical bibliographies dealing with two of Italy’s most important intellectuals over the second half of the twentieth century, Leonardo Sciascia (19211989) and Italo Calvino (1923-1985), are extensive, to say the least, the personal relationship and professional interactions of the two have not been examined. The purpose of this essay is to fill that gap, not only because their association constitutes an important chapter in Italy’s intellectual history, but because it sheds light on their individual development as writers, and on the cultural divide sparked in Italy by the socalled years of (terrorist) lead, the late 1970s. Both men have been labeled postmodern writers: Calvino for writings that accentuate the ludic, artistic re-ordering of a limited number of basic elements of plot into a seemingly infinite number of stories; Sciascia for casting into doubt basic conceptions of truth, proposing that material reality can be known only indirectly, through narrations and interpretations (and interpretations of interpretations). Surprisingly, the Sicilian folk hero Giufà plays an important role in the interactions of the two men1. 1 For Giufà, see, below, section 4: Calvino and Giufà. Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https:// rhesis.it/ Literature, 9.2: 37-68, 2018 38 Calvino and Sciascia made each other’s acquaintance after the War. In the early 1950s, Sciascia, in his capacity as editor of the a bi-monthly literary journal «Galleria», invited Elio Vittorini to publish in the journal. Calvino came into contact with Sciascia through Vittorini. In 1958 Sciascia’s second book, Gli zii di Sicilia, was published in the experimental «Gettone» series edited by Vittorini for Einaudi. Calvino, an editor for Einaudi, a friend and collaborator of Vittorini, was given the assignment of editing this and all other titles written by Sciascia for Einaudi until Sciascia broke with that publisher in the late 1970s. Calvino diligently performed his task, pointing out the strong and weak points of manuscripts as they arrived. Calvino transformed a number of Giufà tales into standard Italian for his 1956 edition of Fiabe italiane. Because of Calvino’s expertise in this area, in 1971 Sciascia induced the owners of Sellerio publishing to invite Calvino 2 to write the introduction to a re-edition of the Mimi siciliani: rustic tales of pranks, chicanery, and infidelities, transformed into literary Italian from the dialect by Francesco Lanza3. They believed the book would help establish the Sicilian identity of Sellerio editore. They also felt the Mimi deserved the resonance it would gain from an introduction by a writer of Calvino’s stature, and that Calvino’s name on the cover of the volume would promote the volume of sales needed to put the house on a solid financial basis. Calvino wrote the introduction. But Sciascia disagreed with Calvino’s characterization of Giufà as a trickster and village idiot, an outcast and societal antibody, someone communities need to expel to preserve their well-being. Nonetheless, Sciascia maintained his silence for almost twenty years. In the interim the two men disagreed publicly over whether or not intellectuals needed to defend their country’s democratic institutions in the face of a terrorist threat: during the trial of Red Brigade (Br) leaders in 1977, and then in the aftermath of the kidnapping of Aldo Moro and the assassination of Moro and his five bodyguards. 2. The 1940s After the fall of Fascism, Calvino joined the clandestine Communist Party (Pci) and fought in the Resistance, as did his brother. They were encouraged to do so by their parents, both scientists and university professors. Subsequently, Calvino’s parents were twice held hostage by the Germans, who demanded information on their sons’ whereabouts. After the War Calvino confirmed his membership in the Pci (he was a frequent presence that Party’s daily, l’Unità, and served, in the early 1950s, on its National Cultural Committee) and his commitment to the workers’ movement. He left the Pci in 1957 (after the 1956 Soviet invasions of Poland and Hungary), while vowing to remain a «revolutionary» and a 2 In 1969, the publisher’s inaugural year, Calvino wrote (also on Sciascia’s recommendation) the introduction to a re-edition of Serafino Amabile GUASTELLA, Le parità e le storie morali dei nostri villani, Palermo, Edizioni della Regione siciliana, 1969 [1884] (now in Italo CALVINO, Saggi 1945-1985. Tomo secondo, ed. Mario BARENGHI, Milano, Mondadori, 1995, pp. 1551-1565). 3 Caterina DE CAPRIO, “Sciascia, Giufà e Il mare colore del vino”, «Il Giannone», 7.13-14 (2009), pp. 107-117, p. 111. The first edition of Lanza’s Mimi was published in 1928 in Milan by Alpes. The reedition, with Calvino’s introduction was published by Esse (Sellerio) in 1971 and re-issued by Sellerio in 1984. I consulted the 2011 edition published by Armando Siciliano Editore. Calvino’s introduction to Lanza can now be found in CALVINO, Saggi, pp. 1601-1610. Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https:// rhesis.it/ Literature, 9.2: 37-68, 2018 39 «communist»4. The biographies of Calvino and Sciascia provide highly significant context to chapters in intellectual history (such as the present essay), because we cannot ignore, indeed, we must carefully evaluate the extent to which the socio-economic conditions of writers, especially during their youth, conditioned their later behavior, their political choices, the themes of their research and their development as thinkers. Social origin is much more than simple biographical information. Sciascia’s youth was very different from Calvino’s, and not merely because he grew up in Sicily (Calvino came of age in a place – Liguria – where the war against Fascism and the German occupiers forced young Italian men to make a basic life choice), and therefore requires closer attention. Sciascia’s grandfather had worked his way up from sulphur-mine worker: with the help of a priest, he learned to read. This ability enabled him to become a squad leader, and later a mine administrator5. According to Leonardo’s close childhood friend, the poet Stefano Vilardo, Sciascia’s family was more affluent and cultured than those of his schoolmates6. Many of Sciascia’s uncles were very well placed in local Fascist organizations7. So, when Sciascia first began to feel estranged from the Regime, in the 1940s, those inchoate feelings became aversion, and his family came to consider him «una specie di pecora nera»8. In the 1940s9 «[c]on l’aiuto di G. C.» Sciascia would recall, «mi trovai […] dall’altra parte»10, that is, among the locals who rejected Fascist rhetoric. «G.C.» was a school 4 Paolo SPRIANO, Le passioni di un decennio (1946-1956), Milano, Garzanti, 1986, p. 25. For an analysis of Calvino’s exit from the Pci, see Joseph FRANCESE, “Lo scrittore che non venne dal freddo. Il primo viaggio di Calvino negli Usa”, «Allegoria», 37 (2001), pp. 38-61. 5 Matteo COLLURA, Il maestro di Regalpetra: Vita di Leonardo Sciascia, Milano, TEA Longanesi, 1996, p. 45. 6 Stefano VILARDO, A scuola con Leonardo Sciascia. Conversazione con Antonio Motta, Palermo, Sellerio, 2012, pp. 29-30, 49. 7 Leonardo SCIASCIA, “Leonardo Sciascia”, in Ettore A. ALBERTONE (ed.), La generazione degli anni difficili, Bari, Laterza, 1962, pp. 259-262, p. 260. Indeed, when Sciascia was eight years old his father’s brother-in-law, president of the local Opera Nazionale Balilla (an Ispettore dei Fasci, he was therefore ex officio member of the Consiglio Nazionale of the National Fascist Party), began garnering him special treatment. Leonardo went to the Saturday morning adunate «perché c’era il sorteggio dei giocattoli». They made him platoon leader, even though he acknowledged he was not competent, and gave him «una croce al merito. […] Sempre perché c’era mio zio, si capisce». He also remembered that «[m]i faceva piacere che ci fosse mio zio con quella cintura dorata, la sciarpa azzurra e il pugnaletto. Mi risparmiava tante cose. Persino il premilitare mi poi risparmiato». Then, «[p]rotetto da mia zia, non andai più alle esercitazioni del sabato, non indossai più la divisa» (Leonardo SCIASCIA, “Memorie vicine”, «Nuova corrente. Rivista di letteratura», 1.3 [June 1954], pp. 200-216, p. 203). In his own words, «[i]n Sicilia la famiglia, nelle sue vaste ramificazioni, ha questa funzione: di proteggere, di privilegiare i suoi membri rispetto ai doveri che la società e lo Stato impongono a tutti. È la prima radice della mafia, lo so bene. Ma per una volta ne ho approfittato anch’io» (COLLURA, Il maestro di Regalpetra, p. 64). 8 Leonardo SCIASCIA, La palma va al nord: Articoli e interventi 1977-1980, ed. Valter VECELLIO, Milano, Gammalibri, 1982, p. 68. 9 Vilardo’s memory does not always jibe with Sciascia’s. For example, Vilardo recalls that «[f]u dopo, molto dopo il ’37», that he and Sciascia made the acquaintance of Cortese (and of the Macaluso brothers): «[p]iù tardi, negli anni Quaranta» (VILARDO, A scuola con Leonardo Sciascia, p. 77). «L’incontro con Gino Cortese avvenne al chiosco di Giannone, dove si vendevano, oltre a invitanti, dissetanti bibite […], anche riviste e giornali. Noi andavamo a comprarvi L’Osservatore Romano, l’unico giornale che non dava le notizie adulterate dal fanatismo imperante» (VILARDO, A scuola con Leonardo Sciascia, p. 79). 10 SCIASCIA, “Memorie vicine”, p. 210. Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https:// rhesis.it/ Literature, 9.2: 37-68, 2018 40 mate, Gino Cortese (1921-1989)11, a member of the clandestine Communist Party. While Sciascia was declared unfit for military service (due to his «torace insufficiente»12), Cortese was drafted into the cavalry13 and sent to Parma; he would desert and enter the partisan cause. After the War Cortese was a member of the Communist delegation at the Assemblea Regionale Siciliana (from 1947 to 1967) and served as provincial Secretary of the Communist Party in Caltanissetta and as assessore at the Comune di Caltanissetta14. Sciascia, as Emanuele Macaluso has clarified, interacted with Communists in the 1940s, but at no point asked to join the Party15. In 1941 Sciascia found employment in his hometown of Racalmuto at the government grain warehouse, where he would remain until 194816. He married and began a family in 194417. Sciascia was also close to a founding member of the Party of Christian Democracy (Dc), Giuseppe Alessi18. In 1943, soon after the Allied landing in Sicily Alessi invited Sciascia to write for a local daily he edited for the Dc19. And immediately after the War Sciascia «collaborò per qualche anno alle terze pagine […] del giornale Sicilia del popolo20, the Dc’s official newspaper in Sicily. It may, or may not, be the case that, because of this journalistic experience, Cortese accompanied Vittorio Nisticò – named editor of the Palermitan daily «L’Ora» by Amerigo Terenzi soon after its acquisition in 1954 by the Pci – to Racalmuto so that Sciascia might begin collaborating with that newspaper21. Sciascia’s signature appeared for the first time in «L’Ora» 24 March 195522, that is, at a time when Sciascia was a relatively unknown writer: Cronache scolastiche came forth in Nuovi Argomenti in early 1955; his first book, Le parrocchie di Regalpetra, in 1956. Nisticò does not specify when his meeting with Sciascia occurred. However, it would seem that Sciascia’s decision to collaborate with «L’Ora» was a tormented one23. 11 SCIASCIA, “Memorie vicine”, p. 209. COLLURA, Il maestro di Regalpetra, pp. 75-76. 13 COLLURA, Il maestro di Regalpetra, pp. 105-106. 14 Cortese went on to teach philosophy at the University of Messina. <http://www.ars.sicilia.it/deputati/scheda.jsp?idLegis=2&idDeputato=169>. 15 Emanuele MACALUSO, Leonardo Sciascia e i comunisti, Milano, Feltrinelli, 2010, p. 16. 16 In his own words, «mi avevano trovato del lavoro» SCIASCIA, “Memorie vicine”, p. 215. 17 Claude AMBROISE, “Cronologia”, in Leonardo SCIASCIA, Opere: 1956-1971, ed. Claude AMBROISE, Milano, Bompiani, 2004 [1987], pp. LI-LXX, p. LII. 18 VILARDO, A scuola con Leonardo Sciascia, pp. 40, 80. While correcting the proofs of this article, I read Domenico SCARPA, “La prova democristiana di Leonardo Sciascia. Una ricerca in corso”, «Todomodo», 4 (2014), pp. 179-203, and plan to return to it in the future. 19 Alessi was a founding member of the Dc, first and third President of the Region Sicily, and MP from 1968 to 1972. After the War he edited the official organ of the Dc’s provincial federation of Caltanissetta, «l’Unità», onto which he embedded his support of regional autonomy and firm opposition to Sicilian separatism (<http://xoomer.virgilio.it/lorenzobarone/intervista_a_giuseppe_alessi.html>). 20 VILARDO, A scuola con Leonardo Sciascia, pp. 80-81. 21 On 28 January 1956 Laterza wrote to Sciascia telling of a visit to the publishing house in Bari by Piero Dallamano, an editor of the daily Paese sera. They discussed Le parrocchie and Dallamano told Laterza he planned to invite Sciascia to collaborate with the newspaper (Leonardo SCIASCIA, Vito LATERZA, L’invenzione di Regalpetra: Carteggio 1955-1988, Roma-Bari, Editori Laterza, 2016, p. 43). 22 His debut piece was a review of Vittore FIORE, Ero nato sui mari del tonno (NISTICÒ, Accadeva in Sicilia: Gli anni ruggenti dell’‘Ora’ di Palermo, Palermo, Sellerio, 2001 pp. 44, 235), a reprint of what had already appeared in «Letteratura» (3.13-14 [January-April 1955], pp. 163-64). 23 One factor, in addition to those set forth in this paragraph, was Leonardo’s relationship with Salvatore Sciascia. In response to a 1953 letter from Mario La Cava (who wanted to review Risposte di «Vie 12 Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https:// rhesis.it/ Literature, 9.2: 37-68, 2018 41 19 December 1954 Sciascia had warned his friend, the writer Mario La Cava, that collaboration with the Communist weekly «Il contemporaneo» «porta delle conseguenze»24. Sciascia feared that since he was a school teacher («[l]egato al ‘pane del governo’, come qui si dice»25) he would have «ragioni più evidenti di temere»26. As late as 9 September 1956, Sciascia still had doubts. As he wrote to La Cava, «[f]orse nei primi di ottobre vado a Palermo, al giornale «L’Ora». Sono molto perplesso, ma credo andrò, almeno in prova. Non so se il mestiere fa per me, abituato come sono ad una vita tranquilla e a un lavoro molto libero»27. Indeed, while «L’Ora» published an excerpt from the soon-to-be-published Parrocchie («Conversazioni a Regalpetra») on 29 February 1956, Sciascia’s collaboration began in earnest only in late 1957 28. If I may take a step back in time, when Mussolini was deposed, «c’erano già gli americani»29 in Racalmuto, to use Sciascia’s phrasing, and the ignominious end of the Regime, «ci apparve dunque una notizia lontana, quasi estranea, come se fosse venuta da un altro mondo»30. In fact, in Racalmuto «[l]o sbarco degli americani è stato una kermesse […]. Avevano creato una divisione, chiamata “Texas”, composta interamente da figli di siciliani. Sembrava una rimpatriata, una festa tra parenti. Parlavano siciliano»31. When the «continental» government headed by Ferruccio Parri, Italy’s first after the Second World War (21 June-10 December 1945), «fece arrestare i separatisti siciliani» Sciascia, in his own words, discovered he was «essenzialmente siciliano» and «quella intrusione del potere romano mi ha precipitato in un atavismo siciliano. E non ne sono più uscito»32. In 1945 Sciascia was already in contact «con un intraprendente suo omonimo, Salvatore Sciascia (1919-1986), fondatore della casa editrice che in quegli anni di speranze sarà una scialuppa su cui imbarcarsi per raggiungere le lontane spiagge della cultura»33. As the hostilities of the Second World War were concluding, Salvatore Nuove» ai lettori for «Galleria») Sciascia wrote: «[p]er l’inchiesta “Vie Nuove” sono perplesso. Per conto mio, direi che andrebbe benissimo. Ma tu sai che c’è gente che al solo sospetto d’un certo colore, s’infuria; e sai che questa gente dà sussidi alle riviste; e che il nostro Salvatore ci tiene a non perderli. Se vuoi, mandami dunque l’articolo ma non mi impegno a farlo uscire» (Mario LA CAVA, Leonardo SCIASCIA, Lettere dal centro del mondo. 1951-1988, ed. Milly CURCIO, Luigi TASSONI, Soveria Mannelli, Rubettino, 2012, pp. 110, 112). 24 Sciascia was wary, even though «L’Ora» – unlike «Il contemporaneo» – was not an official Pci publication. In fact, as Macaluso explains, «[c]on Nisticò il giornale diventò un centro autonomo di battaglia politica e culturale contro la conservazione e la mafia, per la modernizzazione dell’Isola, per aiutare tutte le forze che muovevano in questa direzione e trovare fra loro convergenze e collegamenti. Ho detto un centro autonomo. «L’Ora» non era considerato un giornale del Pci. Ci fu, tra il giornale e il partito, un rapporto dialettico e critico reale». Because of this, the daily could «esprimere interessi, idee, umori e cultura che sgorgavano dalla società nel suo complesso» (Emanuele MACALUSO, 50 anni nel Pci, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2003, p. 115). 25 LA CAVA, SCIASCIA, Lettere dal centro del mondo, p. 198. 26 LA CAVA, SCIASCIA, Lettere dal centro del mondo, p. 198. 27 LA CAVA, SCIASCIA, Lettere dal centro del mondo, p. 261. 28 NISTICÒ, Accadeva in Sicilia, V. 1, p. 237. On 9 December 1959 he wrote to Laterza, saying that he had taken on the literary reviews for «L’Ora» (SCIASCIA, LATERZA, L’invenzione di Regalpetra, p. 72). 29 SCIASCIA, La palma va al nord, p. 133. 30 SCIASCIA, La palma va al nord, p. 133. 31 SCIASCIA, Fuoco all’anima: Conversazione con Domenico Porzio, Milano, Mondadori, 1992, p. 33. 32 SCIASCIA, La palma va al nord, pp. 50-51. 33 COLLURA, Il maestro di Regalpetra, p. 122. Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https:// rhesis.it/ Literature, 9.2: 37-68, 2018 42 initiated a number of «illuminate iniziative imprenditoriali» 34, one of which was an entrance into publishing. In addition to a bookstore and a number of monograph series, in August 1949 Salvatore Sciascia – who was active in the Rotary (he was widely known in Caltanissetta as “Il Commendatore”35) – financed the journal Galleria as part of a strategy designed to «far meglio risaltare l’isolamento di Caltanisetta» and to «gettar ponti e di stringere da lontano alleanze…»36. He made Leonardo editor-in-chief in August 1950, at the inception of the periodical’s second year37. Galleria enabled Leonardo to put himself in contact with the fior fiore of Italian culture. Indeed, it positioned him to organize a conference (held in November 1953), sponsored in full by Sicily’s Assessorato alla Pubblica Istruzione38. Among the attendees was the relatively unknown Pasolini 39, along with established figures such as Vittorini40, and Mario La Cava41. 34 Sergio MANGIAVILLANO, “Salvatore Sciascia editore in Caltanissetta”, «Incontri: Rivista del Rotary Club di Caltanissetta», (Luglio 2011), pp. 38-41, p. 38. 35 Archivio Storico Distrettuale “Ferruccio Vignola” And Fondazione Culturale “Salvatore Sciascia”, Salvatore Sciascia: l’uomo, l’editore, il rotariano, Caltanissetta, Rotary International, Distretto 2110 Sicilia-Malta, 2011, p. 15. 36 MANGIAVILLANO, “Salvatore Sciascia editore in Caltanissetta”, p. 39. 37 In this capacity, and through Leonardo, Salvatore sponsored an array of writers. See, for example, Pasolini’s letter of 19 March 1953 to Leonardo, thanking him for the 3000 lire paid by Sciascia editore for a short story that appeared in «Galleria» (Pier Paolo PASOLINI, Lettere: 1940-1954, ed. Nico NALDINI, Torino, Einaudi, 1986, p. 551). 38 LA CAVA, SCIASCIA, Lettere dal centro del mondo, p. 104 e LA CAVA, “Letterati a convegno”, «Il Mondo», 15 December 1953, p. 11. 39 PASOLINI, Lettere, p. 594. After the conference (30 November 1953), Pasolini asked Sciascia to thank the assessore, Pietro Castiglia, for the opportunity to participate (PASOLINI, Lettere, p. 619). The giunta in which Castiglia served included two assessori from the liberal-democratico qualunquista group (one of whom was Castiglia), in addition to a Social Democrat, an Independent and a substitute assessore chosen from the ranks of the Republicans (Romolo MENIGHETTI, Franco NICASTRO, Franco Restivo. Vicerè della Sicilia autonoma, 1945-1955, Palermo, ILA Palma, 2010, p. 67). The giunta was led by the second President of the Regione Siciliana, the Dc Franco Restivo and an acquaintance of Salvatore Sciascia (MANGIAVILLANO, “Salvatore Sciascia editore in Caltanissetta”, p. 41). Castiglia had served in Italy’s Constitutional Assembly, representing the Fronte liberale democratico dell’uomo qualunque, and, consequent to the merger of the Assembly’s far-right-wing parties, spent the final two months of his term as a member of the Unione Nazionale group (˂http://storia.camera.it/deputato/pietro-castiglia19020509/gruppi#nav> [28 July 2018]). He was also elected to the first three legislatures of the Assemblea Regionale Siciliana. During the first legislature (1948-1951) he was a member of the Blocco liberale democratico qualunquista. He was elected to the second and third legislatures (1951-1955 and 1955-1959) in the list of the Partito Nazionale Monarchico; on 20 July 1951 was sworn in as the Assessore Regionale alla Pubblica Istruzione (˂http://www.ars.sicilia.it/deputati/scheda.jsp?idDeputato=159>). Restivo’s career took him from Palermo to the National Parliament. He was Minister of the Interior from 1968 to 1972. 40 Elio VITTORINI, Lettere: 1952-1955, ed. Edoardo ESPOSITO, Carlo MINOLA, Torino, Einaudi, 2006, pp. 103, 108-109, 115. 41 LA CAVA, SCIASCIA, Lettere dal centro del mondo, pp.103, 105, 107. In April 1952 Sciascia mentioned to La Cava the possibility of contributing to a periodical edited and financed by Sicily’s Assessorato alla Pubblica Istruzione: «la rivista», he wrote, «disponde di fondi che oggi sembrano addirittura favolosi», and, it seems, paid handsomely contributors to the journal. As for the funding of «Galleria», in June 1952 Sciascia told La Cava how «[q]uesta rassegna, per mancanza di linfa finanziaria, subì lo scorso anno un arresto: e già ci rassegnavamo a considerarla morta, quando non so da che Commissione pervenne all’editore un sussidio tale che ne assicura la continuità» (LA CAVA, SCIASCIA, Lettere dal centro del mondo, pp. 22, 26, 29, 112). Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https:// rhesis.it/ Literature, 9.2: 37-68, 2018 43 In 1952 Leonardo asked Vittorini if he would like to publish a sample of his work in the periodical, and Vittorini happily accepted42. Soon thereafter, in the issue of Spring 1953, a chapter of Le città del mondo appeared in «Galleria». Consequently (27 November 1954), Sciascia wrote to Vittorini, asking if his manuscript, Le parrocchie di Regalpetra, could be «gettonato»43, that is, published in the Gettoni series of experimental prose edited by Vittorini for Einaudi44. Unbeknown to Vittorini – it would seem, and on Calvino’s recommendation45 - a chapter of Le parrocchie, Cronache scolastiche, appeared in the January-February 1955 issue of an important literary review edited by Alberto Carocci and Alberto Moravia, Nuovi Argomenti. Le parrocchie was published by Laterza in 1956; but Sciascia’s second book, Gli zii di Sicilia, was «gettonato»46 in 1958. Once Sciascia entered the Einaudi stable Calvino became his first reader and editor. 3. Calvino editore di Sciascia Calvino was «una delle prime persone a leggere quasi tutti i libri di Sciascia»47. Calvino reviewed Sciascia’s manuscripts not only «come lettore della casa editrice Einaudi»48, but also «come amico»49. And Calvino did, in fact, treat Sciascia as one would a good friend; responding to each submission with frank and sincere critiques, which he folded into responses that were for the most part positive. In other words, Calvino saw no need, after reading the manuscripts, to avoid giving Sciascia, as Calvino himself phrased it, «qualche boccone amaro in ogni lettera»50. In fact, a sort of refrain emanates from Calvino’s missives to Sciascia. Each of them contains a subtle but firm acknowledgement of Sciascia’s reluctance to hone his work, to give attention to form equal to that afforded to content. For example, on 22 August 1956, less than three months after the publication of Kruscev’s so-called secret report, and less than two months after the Soviet suppression of the workers’ uprising in Poznań, Sciascia sent Calvino the manuscript of his brief narrative La morte di Stalin. Calvino found that Sciascia had put too much emphasis on «la cronaca degli avvenimenti storici, il resoconto di quel che pubblicano i giornali, senza abbastanza controparte di narrazione»51). He believed that if Sciascia were to «lavorarci ancora, potrebbe dire molto di più. Così è piuttosto superficiale, con un sospetto di facilità»52. 42 VITTORINI, Lettere, p. 52 and VITTORINI, “Le città del mondo” (Frammento di Romanzo)”, «Galleria», 3.3 (January 1953), pp. 20-24. 43 VITTORINI, Lettere, p. 260. 44 VITTORINI, Lettere, p. 260, n. 3. 45 CALVINO, Lettere, p. 417. 46 VITTORINI, Lettere, p. 260. 47 Italo CALVINO, “Lettere di Italo Calvino a Leonardo Sciascia”, «Forum Italicum», 15.1 (1981), pp. 6272, p. 62. 48 CALVINO, “Lettere di Italo Calvino a Leonardo Sciascia”, p. 62. 49 As Calvino wrote in 1981, while re-reading his letters to Sciascia, «[a] vederle tutte insieme scopro che ho scritto quasi un «tutto Sciascia […] mi trovo di fronte come a un mio diario che si svolge attraverso il confronto con l’opera di uno scrittore amico» (CALVINO, “Lettere di Italo Calvino a Leonardo Sciascia”, p. 62). 50 Italo CALVINO, Lettere 1940-1985, ed. Luca BARANELLI, Milano, Mondadori, 2000, p. 897. 51 CALVINO, Lettere, p. 464. 52 CALVINO, Lettere, p. 464. Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https:// rhesis.it/ Literature, 9.2: 37-68, 2018 44 But Sciascia did not return to the manuscript. Rather, he published it, untouched, the following January in the journal Tempo presente, prior to including it in Gli zii di Sicilia. Of the brief narrative Il quarantotto, another chapter of that volume, Calvino made himself very clear: «nel racconto non c’è altro che [roba storica]»53. Indeed, he continued, vuoi scrivere un racconto storico così e così; e ci riesci perché hai un ottimo «mestiere» e una gran limpidezza di segno; e te la cavi anche nella parte garibaldina un po’ affrettata e sbrigativa. Ma di nuovo, di vero, di sofferto, di faticoso, di non-del-tutto-chiaro-nemmenoa-te-stesso cosa dici? L’idea dei due tipi di siciliani è solo detta, non è rappresentata: e ci sarebbe da cavarne fuori molto. Ho un po’ paura che tu ti lasci prendere dalla tua facilità di mettere insieme racconti ben fatti o che per una tua eccessiva modestia ti limiti a camminare sul battuto54. Calvino was convinced that if Sciascia could find the courage to look both around and inside himself, as Calvino believed Sciascia had done in Cronache scolastiche, he could «darci altre cose di quella forza»55 and not mere «pezzi di costume»56. But this suggestion went unheeded. As for Il giorno della civetta, Calvino told Sciascia that, at the text’s conclusion, «diventa quasi una nuda istruttoria»57 and, therefore, «un po’ perde vivezza»58. He found in Il Consiglio d’Egitto a «[g]ravissima stonatura»59: a lack of coherence and harmony that Calvino believed risked making the book seem «casuale, giornalistica»60 and advised Sciascia to remove «queste immagini moderne […] che abbassano il livello della tua prosa, sempre sorvegliata»61. Left unresolved in L’onorevole (written in one week’s time62) is the problem of giving «vitalità poetica»63 to «elementi […] solo enunciati»64. Again Calvino urged Sciascia to «finalmente vedere in faccia il tuo demone, sentire la sua vera voce»65. While Calvino’s appraisal of Il contesto was also substantially positive 66, he found that in Todo modo Sciascia violated «una delle prime regole del genere poliziesco»:67 Sciascia failed to reveal at the appropriate time important «elementi al lettore»,68 the clues necessary to solve the enigma are nowhere to be found. Regarding A ciascuno il suo, Calvino felt it was a «una divertente variazione su un tema di cui ormai mi sembra 53 CALVINO, Lettere, p. 517. 54 CALVINO, Lettere, p. 517. 55 CALVINO, Lettere, p. 517. CALVINO, Lettere, p. 517. 57 CALVINO, Lettere, p. 666. 58 CALVINO, Lettere, p. 666. 59 CALVINO, Lettere, p. 713. 60 CALVINO, Lettere, p. 713. 61 CALVINO, Lettere, p. 713. 62 COLLURA, Il maestro di Regalpetra, p. 191. 63 CALVINO, Lettere, p. 82. 64 CALVINO, Lettere, p. 82. 65 CALVINO, Lettere, p. 829. 66 CALVINO, Lettere, pp. 1110-13. 67 CALVINO, Lettere, p. 1255. 68 CALVINO, Lettere, p. 1255. 56 Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https:// rhesis.it/ Literature, 9.2: 37-68, 2018 45 di sapere già tutto, assolutamente tutto»69. After proffering this «boccone amaro»70, Calvino wrote: «attendo la tua vendetta»71. Sciascia responded to this «frecciata»72 with an allusion to his own «inquietudine e insoddisfazione»73 (which he attributed to writing from, of, and for a Region that «intorno mi si va facendo il deserto»74: a Region that «nella sua realtà» was «dead»75). He said he appreciated Calvino’s critique of Il giorno della civetta, and concluded: «[i]l tuo giudizio e quello dei lettori che continuano a comprare i miei libri, coincidendo con il giudizio del cardinal Federico con i pareri di Perpetua, sono quelli di cui veramente mi importa»76. In other words, Sciascia’s public (to use his term, “Perpetua”), who for the most part are not intellectuals of the stature of Calvino or Sciascia (“cardinal Federico”), are elevated by Calvino’s decision to publish Sciascia’s works. It follows that Sciascia’s readers can be elevated because they can buy his books, despite the works’ artistic limitations; and readers can buy his books because Einaudi publishes them (accepting them, beginning with Il giorno della civetta, «a scatola chiusa»77, to use Sciascia’s phrasing); and Einaudi publishes them not because they are great literature but because they sell. Thus, Sciascia’s response is a subtle, highly literate, and ironic 78. 3.1. Laterza It might seem from the correspondence between Sciascia and Laterza, that Sciascia would have been happier had he not found himself bound by contract to Einaudi. Laterza, as publisher of Le parrocchie, promoted Sciascia’s work (the writer was angered that Gli zii was not listed among Einaudi’s «novità»79 for August 1958); and Laterza put Sciascia in contact with other venues, writers, and intellectuals. Moreover, Laterza – unlike Calvino – flattered Sciascia (of Gli zii di Sicilia; for example, Laterza wrote: «ho finito da pochi giorni la lettura del Suo ultimo libro, quasi centellinando le Sue pagine che raggiungono spesso una rara bellezza e che sempre sono impostate col Suo originale linguaggio che prediligo particolarmente»80). But Sciascia was bound by 69 CALVINO, Lettere, p. 897. CALVINO, Lettere, p. 897. 71 It may have been the case that Calvino was expecting a vendetta similar to Sciascia’s review of Il barone rampante, which follows the structure of Calvino’s letters to Sciascia. In the conclusion to a substantially positive piece Sciascia notes «qualche elemento non perfettamente fuso». He attributes this to the fact that «è stato scritto d’impeto (le date: dal 10 dicembre 1956 al 26 febbraio 1957), con felice furore» (Leonardo SCIASCIA, “Review of Italo Calvino, Il barone rampante”, «Il Ponte», 13.12 [1957], pp. 1880-1882, p. 1882). Calvino, Sciascia proposes, was a «uomo offeso nella ragione» – by, we can surmise, recent events in Eastern Europe and their aftermath in Italy – who had shifted «la sua protesta sul piano della fantasia» (SCIASCIA, “Review”, p. 1882). 72 Leonardo SCIASCIA, “Caro Calvino, non sono solido come credi”, «La Stampa-Tuttolibri», 15.679 (25 November 1989),” p. 1. 73 SCIASCIA, “Caro Calvino”, p. 1. 74 SCIASCIA, “Caro Calvino”, p. 1. 75 SCIASCIA, “Caro Calvino”, p. 1. 76 SCIASCIA, “Caro Calvino”, p. 1. 77 SCIASCIA, LATERZA, L’invenzione di Regalpetra, p. 79. 78 For irony, see note 131, below. 79 SCIASCIA, LATERZA, L’invenzione di Regalpetra, p. 65. 80 SCIASCIA, LATERZA, L’invenzione di Regalpetra, p. 78. 70 Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https:// rhesis.it/ Literature, 9.2: 37-68, 2018 46 contract to publish with Einaudi «due opere “a carattere narrativo”» after Gli zii81. This explains why he wrote to Laterza claiming he had asked Calvino to block the re-edition of Gli zii: had Calvino agreed, Sciascia would have been free to publish elsewhere82. So Sciascia – on 25 June 1959, while working on Il giorno della civetta – wrote to Calvino telling of his displeasure with how Einaudi had handled Gli zii, and asking if Calvino, once the work-in-progress was completed, would provide a much-appreciated appraisal, but non per l’eventuale pubblicazione. Con tutta franchezza (e spero me la permetterai in nome dell’amicizia), ti confesso che il mio editore ideale è Vito Laterza: non solo perché paga i diritti con puntualità e scrupolo (cosa di cui non mi importa molto), ma perché diffonde il libro come meglio non si potrebbe 83. Sciascia had to be pleased that Laterza had accepted for publication (on 25 May 1959) Il giorno della civetta prior to its completion, indeed, without having seen the manuscript84. Sciascia also enjoyed dealing directly with Laterza, whom Sciascia told how bureaucracy made dialogue with Giulio Einaudi impossible85. Vito Laterza, as De Mauro stresses, needed to rebuild his publishing house after the death in 1952 of Benedetto Croce, «per più di mezzo secolo nume tutelare indiscusso di Laterza»,86 and therefore approached Sciascia’s work from a different vantage than Calvino: the standards and criteria for evaluation of the two men were different. The publisher Laterza was looking to build a stable of writers for a house in dire need of establishing new contacts87 whose books would sell (and so Laterza’s many comments on the structure of Le parrocchie were, according to Laterza himself, «non di merito, ma di carattere esclusivamente editoriale»88. This was precisely the sort of help, that of giving his writings form, Sciascia desired89). Unlike Laterza, Calvino was an author who read looking primarily at the quality and longevity of the writing: in a word, its merits. This is why in his capacity as editor he dispensed frecciate and bocconi amari90. 81 Paolo SQUILLACIOTI, “Storia di un’autocensura: La vicenda redazionale de Il giorno della civetta”, «Todomodo», 2 (2012), pp. 23-36, p. 25. This explains why Morte dell’Inquisitore could come forth with Laterza in 1964, after Il giorno della civetta and Il Consiglio d’Egitto, and before L’onorevole and A ciascuno il suo, which were published by Einaudi, in 1961, 1963, 1965, and 1966. 82 SCIASCIA, LATERZA, L’invenzione di Regalpetra, p. 70. In that same letter, dated 5 July 1959, he told Laterza that he was «intestardito a lasciare - a costo di non pubblicare niente per altri sette anni (dico per dire)» (SCIASCIA, LATERZA, L’invenzione di Regalpetra, p. 70). Then, on 23 December 1959 he vowed to «sganciar[si]» from Einaudi, «anche a rischio di non pubblicare più un libro» (SCIASCIA, LATERZA, L’invenzione di Regalpetra, p. 76). 83 SQUILLACIOTI, “Storia di un’autocensura”, p. 28. 84 SCIASCIA, LATERZA, L’invenzione di Regalpetra, p. 68. 85 «Einaudi è invece irraggiungible, dietro le sue barriere burocratiche (e di burocrazia che non ha nemmeno il merito di essere ordinata): e Lei può immaginare quanto ciò sia irritante per un meridionale come me, abituato a risolvere tutto nel rapporto personale, di amicizia» (SCIASCIA, LATERZA, L’invenzione di Regalpetra, p. 108). 86 Tullio DE MAURO, “Introduzione”, in SCIASCIA, LATERZA, L’invenzione di Regalpetra, pp. V-XVIII, p. VI. 87 DE MAURO, “Introduzione”, p. VI. 88 SCIASCIA, LATERZA, L’invenzione di Regalpetra, p. 9. 89 4 February 1964 Sciascia wrote to Laterza: «io ricordo sempre quanto Lei mi abbia aiutato per Le parrocchie: a scriverle, a darle forma». SCIASCIA-LATERZA, L’invenzione di Regalpetra, pp. 107-108. 90 CALVINO, Lettere, p. 897. Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https:// rhesis.it/ Literature, 9.2: 37-68, 2018 47 Calvino responded almost immediately to the letter in which Sciascia says that Laterza was his «editore ideale»91: on 30 June Calvino wrote to Sciascia expressing the wish that the latter’s new novel be published by Einaudi, and promising that the new work «appena letto e approvato da me […] passerà direttamente in tipografia. E uscirà nei Coralli con tutti gli onori»92. In other words, in this exchange Sciascia – his personal relationship with Calvino (and Laterza) aside – proves himself, at a very early stage of his career, a shrewd negotiator, one who knew how to set two competing publishers against each other for his own advantage 93. 4. Calvino and Giufà In the early 1950s Giulio Einaudi assigned Calvino the task of preparing a volume of Italian folk tales94. Calvino accepted willingly because the task afforded him the opportunity to contribute to the preservation of the oral tradition; to that end he gathered, selected, and rewrote what he considered the most beautiful and representative fables from each of Italy’s regions. He also gave himself two diverse but converging goals: reach the broadest possible audience of non-specialists while respecting «tutti i crismi della ricerca folcloristica italiana»95. As part of this process he translated forty-four Sicilian tales into standard Italian, the last of which is a composite of ten Giufà stories. Juḥā96 (as he is known in the Arab world) – in all likelihood an expression of an oral tradition before he appeared in an Arabic book printed in the ninth century – is known throughout the Mediterranean97. In Sicily he is called Giufà. Giufà is a pre-pubescent boy98, and something of a village idiot (but it must be clarified straight away that while he often behaves like a simpleton, he is more accurately described as a stolto astuto [a person of low intelligence, who does not grasp linguistic nuance, but who can be shrewd when basic self-interest – easy money, free food, avoiding work – is in play]). He arrived in 91 Quoted in SQUILLACIOTI, “Storia di un’autocensura”, p. 28. Quoted in SQUILLACIOTI, “Storia di un’autocensura”, p. 28. 93 As Squillacioti notes, «[l]e rassicurazioni di Calvino sembrano accontentare Sciascia […] Ma nel contempo, mantiene vivo l’altro canale editoriale» (SQUILLACIOTI, “Storia di un’autocensura”, p. 29). Einaudi, of course, published Il giorno della civetta; «fortunatamente» for Sciascia, Squillacioti adds, because «Laterza non aveva neanche all’epoca una collana di narrativa» (SQUILLACIOTI, “Storia di un’autocensura”, p. 29). 94 Mario LAVAGETTO, “Prefazione”, in Italo CALVINO, Fiabe italiane, Milano, Mondadori, 2005 [1993], pp. XI-XLVII, pp. XI-XII. 95 LAVAGETTO, “Prefazione”, p. X. 96 This spelling complies with the transliteration system of the «International Journal of Middle East Studies» for Arabic, Persian, and Turkish. In the Italian texts I have consulted, Giufà’s Arabic name is spelled Ğuhâ. 97 The fame of Juḥā has endured over the centuries over a very extended geographic area. The Arabic Juḥā is something of a paradox; often he is described as «a wise old fool» (AA.VV., “Juha, The Middle East’s heroic everyman”, «The Economist» (15 August 2017) ˂https://www.economist.com/prospero/2017/08/15/juha-themiddle-easts-heroic-everyman>). He is an adult man, in some stories he is married; in one he has a daughter. In some stories his advice is sought; in others, he is a fool, a cuckold, an object of derision. In Tuscany, he is known as Giucca; in Turkey, Nasreddin Hoca. According to the writer Luigi Malerba, Hoca is also known in Bulgaria where he is «destinato a essere vittima di beffe svariatissime» (Luigi MALERBA, Strategie del comico, Macerata, Quodlibet, 2018, p. 91). 98 Since Giufà is very young, he is unmarried; so, as stupid as he may be, unlike his Arabic counterpart, he cannot be cuckolded. This lack of a sexual dimension distinguishes the Giufà stories from their Arabic, Turkish, and Tuscan counterparts. I venture that we may legitimately glean a sexual dimension from Lanza’s Mimi, which are replete with the travails of sundry cornuti e gabbati, cornuti e contenti, and cornuti e mazziati. 92 Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https:// rhesis.it/ Literature, 9.2: 37-68, 2018 48 Sicily in the ninth century with the Arab conquest. The plots of the tales involving him are generally a bit lengthier and more complicated than those involving Juḥā, whose stories often resolve themselves in a witty remark. In almost all the tales Giufà lives alone at home with his widowed mother, who keeps eviction and starvation at bay, and who often must save her son from punishment for his self-destructive behavior. Giufà was introduced into the Italian literary tradition in the first decades following the Unification of Italy by Laura Gonzenbach (1842-1878), a polyglot member of Messina’s Swiss-German community and by Giuseppe Pitrè (1841-1916), a Palermitan physician. Gonzenbach interviewed working-class women living in coastal towns in the northeast of Sicily. She translated what was told her in the local dialect into German, then published her collection in Leipzig a few years before Pitrè came forth with a collection of tales gathered during his travels to the far corners of the Island 99. Pitrè is universally credited for his success, as Zipes writes, in «restor[ing] the significance of oral literature» through his «renditions of the spoken word»100, and, according to Lo Nigro, for transcriptions noted for their «assoluta fedeltà alla forma originale del dettato popolare»101. As Calvino himself phrased it, «il piacere a leggere Pitrè» in the original Sicilian dialect, consists «soprattutto nella ricchezza della lingua vernacola, nei modi di dire, nei proverbi, nelle invenzioni espressive inaspettate» 102. This is why Calvino, while working on the Sicilian tales chosen for inclusion in his edition of Le fiabe italiane, drew heavily from Pitrè. Calvino – in the early 1950s a relatively young writer in a literary environment still influenced by neorealism, a movement in turn conditioned by the Gramscian concept of national-popular – accepted the challenge of gathering and transcribing a selection of the country’s folktales into Italian from the peninsula’s many dialects because it offered him an opportunity to hone his craft while developing strategies of narrative realism. Work on the Fiabe allowed him to deal first-hand with the language and cadences of the popular strata, their life situations, their ways of thinking. From them he culled realistic forms of expression and behaviors of those who found themselves in desolate, real-life situations. Pitrè provided a model because he knew how to «renderci il tono parlato, il caratteristico stile narrativo»103 of those he interviewed. In fact, Calvino considered Pitrè’s Fiabe (along with Nerucci’s collection of Tuscan tales) one of the «due raccolte [di fiabe] più belle che l’Italia possieda»104 because both «hanno uno “stile”»105. He found Pitrè’s collection «un optimum di possibile restituzione sulla carta di quella particolare e labile arte che è il raccontare a voce»106 because it enables us to discard «l’astratta idea del “popolo” raccontatore»107 and presents the reader with 99 Laura RUBINI, “Introduzione”, in Laura GONZENBACH, Fiabe Siciliane, ed. Luisa Rubini, transl. by Luisa Rubini and Vincenzo Consolo, Roma, Donzelli, 1999, pp. XV-XIX, p. XIX. 100 Jack ZIPES, “The indomitable Giuseppe Pitrè”, «Folklore», 120 (April 2009), pp. 1-18, pp. 4, 6. 101 Sebastiano LO NIGRO, Racconti popolari siciliani. Classificazione e bibliografia, Firenze, Olschki, 1957, p. XVI. 102 CALVINO, Saggi, p. 1630. 103 Italo CALVINO, “Introduzione (1956)”, in ID., Fiabe italiane, Milano, Mondadori, 2005 [1993], pp. 355, p. 32. 104 CALVINO, “Introduzione”, p. 22. 105 CALVINO, “Introduzione”, p. 33. 106 CALVINO, “Introduzione”, pp. 22-23. 107 CALVINO, “Introduzione”, pp. 22-23. Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https:// rhesis.it/ Literature, 9.2: 37-68, 2018 49 personalità di narratori e narratrici ben distinte, segnate quasi sempre con nome e cognome, età e mestiere, di modo che possiamo, sul calco delle storie senza tempo né volto, di tra il grezzo anonimo parlato dialettale, scavar fuori qualche scoperta o sia pur qualche accenno d’un mondo d’immaginazione più sofferto, d’un ritmo interiore, una passione, una speranza che s’esprimano attraverso quest’attitudine a favoleggiare 108. Through Pitrè’s narratori and narratrici «si mutua», to use Calvino’s own words, «il sempre rinnovato legame della fiaba atemporale col mondo dei suoi ascoltatori, con la Storia»109. Thus, Calvino’s definition of “style” is one tool at our disposal for examining the fundamentally divergent approaches to writing taken by Calvino and Sciascia: the former saw himself as an author, the latter primarily a pamphleteer110 whose stylistic investigations concentrated on honing his buon novellare (or, as said in Racalmuto, «portare il racconto»111). Another, very important tool, is their contrasting utilization of Giufà, for Sciascia a tassel in the mosaic of his public self-image. 5. Sciascia and Giufà In April 1963 Sciascia published Giufà e il cardinale, a narrative that grafts Pitrè’s Giufà e lu Judici (355-56) onto Pitrè’s Giufà e lu Cardinali (372-75)112. Sciascia’s Giufà does not pursue economic self-interest. And what many might consider a flaw – his letteralità, to use Sciascia’s term, or complete inability to comprehend nuance, subtlety, and metaphor – is in Sciascia a virtue that enables the character to subvert not only what is considered normative 108 CALVINO, “Introduzione”, pp. 23-24. CALVINO, “Introduzione”, p. 25. “Style” in Calvino’s parlance is an interrogation of the «quotidianità di immagini grige, di presenze senza volto, di grezzo e sbadato parlare» (CALVINO, Saggi, p. 76). Its goals are those of enabling the writer, firstly, to define «uno spazio e un colore interno alla pagina, un sistema di rapporti che acquista spessore, un linguaggio calibrato» (CALVINO, Saggi, p. 76) and, secondly, to actively choose «un sistema di coordinate essenziali per esprimere il nostro rapporto col mondo» (CALVINO, Saggi, p. 77). An author’s personal style is constructed contemporaneously «nell’espressione poetica come nella coscienza morale» (CALVINO, Saggi, p. 77). It is an unattainable, undefinable goal, an object of desire always just beyond our reach. 110 Leonardo SCIASCIA, “Leonardo Sciascia”, in Elio Filippo ACCROCCA (ed.), Ritratti su misura, Venezia, Il Sodalizio del libro, 1960, pp. 380-381, p. 381. From early stages of his career as a writer, Sciascia aspired to give vent to his «puntiglio di voler essere solo polemista» (LA CAVA, SCIASCIA, Lettere dal centro del mondo, p. 418). In his own words, «[i]o non ho scritto che libelli … A me interessa dibattere cose di oggi; cose che interessano quante più persone possibile, tenendo come assolutamente secondari i risultati letterari. Se ci sono non m’interessano […] Perché il trovarmi in una enciclopedia, in una storia della letteratura, o tra i maestri del racconto, mi fa un effetto addirittura iettatorio» (COLLURA, Il maestro di Regalpetra, p. 181). His main concerns were ideas and current events. In a letter to Vito Laterza dated 6 September 1955 he described Le parrocchie as «un libro che è un pamphlet» (SCIASCIA, LATERZA, L’invenzione di Regalpetra, p. 21); and, as he told an interviewer in late 1987, «[n]on ho per fine di scrivere grandi libri. […] Certo, mi auguro di venir letto, ma della posterità non m’importa nulla…» (James DAUPHINÉ, “Chi è lei, Leonardo Sciascia? Incontro con Leonardo Sciascia”, Italian translation by Saverio D’Esposito, «Linea d’ombra», 65 [1991], pp. 37-47, p. 44). 111 Leonardo SCIASCIA, “Sciascia a Calvino”, «Venerdì Il Caffè - Mensile di attualità», 2.5-6 (JulyAugust-September 1954), no page available. 112 This latter tale is a lengthy variant of Pitrè’s Giufà e lu Canta-matinu (Giuseppe PITRÈ, Fiabe novelle e racconti popolari siciliani, Sala Bolognese, Arnaldo Forni, 1982 [1880], pp. 360-61). 109 Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https:// rhesis.it/ Literature, 9.2: 37-68, 2018 50 behavior, but also seemingly timeless, ubiquitous Power. Sciascia elsewhere makes such rectitude his own, claiming it is a means for warding against «imposture», «falsità», and «bugie»113. Moreover, in choosing these two novelline, Sciascia looks past other stories that underscore the boy’s stolto-astuto pursuit of self-gratification. Sciascia’s Giufà, as is Pitrè’s, is indeed «babbeo»114. But while Pitrè’s is lagnusu [a complainer] and mariolo [a rascal], Sciascia’s is also malizioso [malicious and spiteful]115. Pitrè’s Giufà e lu Judici is a story of how Giufà’s inability to understand nothing but the literal meaning of words (Giufà always takes what he is told at face value and acts accordingly) allows him to strike full force, on the nose, the Judge who belittles him. To explain, Giufà files charges against his mother because she does not give him the money earned from the sale of meat he stole from a band of thieves. She cannot pay him, she claims, because she lent the money to a swarm of insolvent flies. He waits a week, loses his patience, then demands justice from the local court. Just when the Judge, who has ruled in favor of the mother simply because of his disdain for the fool, consoles Giufà by giving him leave to kill any fly that crosses his path, one such insect lands on the magistrate’s nose. So Giufà punches the fly with such force that he knocks the judge unconscious. In Pitrè’s rendition of Giufà e lu Cardinali, Giufà’s mother, to get her slacker son out of the house, tells him to go hunt for un cardiduzzu (a European finch), which, she explains, is a small bird with a red head. Once in the woods Giufà is elated when he shoots a cardidunni, to his mind an extremely large cardiduzzu. He brings home his game, a Cardinal, fully expecting his mother to share his joy. Instead, she has nervous spasms. To calm her, he throws the cadaver in a well and covers the body with a layer of stones. Then it occurs to him to drop in a dead wether116 and cover it with a second layer of stones. Soon an unbearable stench begins to emanate from the well, so Giufà, acting on impulse, runs to tell a magistrate where a dead Cardinal can be found. The judge knows Giufà is a simpleton, and tries to send the boy on his way. But Giufà insists, so the Judge goes with a police contingent to investigate. The officers, rather than engage with the fetor themselves, lower Giufà into the well. Once inside, Giufà yells up that the water has turned to stone, and that there is a cadaver below. Giufà is tasked with sending the rocks upward in a bucket. After removing some of them, he reports that the Cardinal had sprouted horns. The «magnanimous» judge is amused, but tells Giufà to keep digging. When Giufà has fully uncovered the carcass, he announces that he has found a gelding. The «magnanimous»117 judge sees humor in the situation; then he tells Giufà to get a job and stop wasting everyone’s time, lest he find himself chained to a prison cell. 113 Leonardo SCIASCIA, Opere: 1984-1989, ed. Claude AMBROISE, Milano, Bompiani, 2004 [1991], p. 344. 114 A term Vincenzo Consolo translates as «quiet[e] e quindi fess[o], vale a dire non prepotent[e], non mafios[o]» (Vincenzo CONSOLO, “Una brutta storia italiana”, «l’Unità», 24 October 2001, p. 1). In making his selection, Sciascia also looks past stories in which the mother is endowed with agency. For example, in Giufà e lu Canta-matinu she hides the body of the man Giufà has killed at the bottom of an empty well, then wards off trouble by killing a wether and throwing it on top of the cadaver. Once in the well, Giufà finds the animal’s carcass, then, since he grasps only the literal meaning of words, asks the man’s children (who are present to identify the body) if their father was cornuto, bringing the investigation to a close. 115 For a clearer view of how this relates to Sciascia’s identification with Giufà, see, below, notes 205 and 206. 116 In Pitrè «un crastu» (pp. 360, 370, 374, 375). I take this term – translated in note on p. 370 as «un castrato», or gelding – to signify a castrated male sheep or goat. 117 Giuseppe PITRÈ, Giufà e lu Cardinali, in ID., Fiabe, novelle e racconti popolari siciliani, volume 3, Palermo, Edikronos, 1982, pp. 372-75, p. 374. Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https:// rhesis.it/ Literature, 9.2: 37-68, 2018 51 Sciascia’s introduction to his re-writing succinctly sets in place an important component of his public self-image (one he will use to explain why he typically reasons in ways unlike those followed by “continental” Italians): the Arab ascendency of Giufà, and by extension all Sicilians from Sciascia’s home Region118. Equally important, in Sciascia’s Giufà e il Cardinale Power transcends time. In its original redaction, a Prince of the Roman Catholic Church is synecdoche of metatemporal, arbitrary power: the embodiment of the Inquisition («il cardinale era quello che faceva l’opera di misericordia in piazza della Marina dove su un bel fuoco di legna secca faceva arrostire uomini e donne, non si sa perchè, forse perché aveva fretta a mandare anime all’altro mondo o perché si divertiva a vedere i corpi abbrustolire»119). His Power is enforced by «ogni sorta di sbirri: quelli del caìd e quelli del vicerè, compagni d’arme di re Ferdinando e carabinieri di re Vittorio» and is supported by the spioni and avari (peers of the anonymous letter writers and others who collaborate with law enforcement in Il giorno della civetta) who, always and everywhere, are all too eager to turn on each other and collaborate with the police (in this case in the search for the Cardinal and his killer). Furthermore, unlike Pitrè’s Giufà, who responds spontaneously to a situation far beyond his comprehension – an unappreciative, hysterical mother who has just banished him from his home – Sciascia transforms Giufà into a person motivated by anger, suggesting a level of intelligence to which the popular Giufà, as captured by Pitrè, could not aspire. 6. Calvino, Sciascia, and Giufà Because of Calvino’s work on the Fiabe, Sciascia proposed that Calvino write the introduction to the 1971 re-edition of Lanza’s Mimi. Calvino’s introduction to Lanza is important for our purposes because it sheds light on his approach as a writer to popular literature. Calvino saw in Lanza a writer who was interested in both the «mondo 118 Sciascia revised this narrative (Leonardo SCIASCIA, “Giufà e il cardinale”, «l’Unità», 28 April 1963, p. 8) for his 1973 collection Mare colore del vino (SCIASCIA, Opere: 1956-1971, pp. 1306-13). One of the more significant modifications in the rewrite is the tranformation of the original «la fece franca per quella malizia che in certi casi gli stupidi sanno spremere» into «la fece franca o per troppa stupidità o per troppa malizia, poiché la stupidità va d’accordo con la malizia sempre, e stupido com’è Giufà sa essere maliziosissimo» (SCIASCIA, Opere: 1956-1971, pp. 1306-1307). Furthermore, he changed title to the Arabic ‫جحا‬, accentuating the Giufà’s Arabic ascendency. As Pappalardo indicates, «[t]he Islamic presence on the island provides Sciascia with an Arab myth of origin that is only elusively imagined, sporadically discussed, and never coherently developed in the author’s writings» (Salvatore PAPPALARDO, “From Ibn Ḥamdīs to Giufà: Leonardo Sciascia and the Writing of a Siculo-Arab Literary History”, «Italian Culture», 36.1 [March 2018], pp. 32-47, p. 33). Although Sciascia, as Pappalardo points out, could not read Arabic, the writer promoted his Arab ascendency, and claimed that the a-temporal Sicilian forma mentis that informed his thought was fundamentally Arab. Most critics have avoided the question of how to reconcile the importance that Sciascia attributes to Arab Sicily with his knowledge – that of an intelligent non-specialist – of a Siculo-Arab literary and cultural tradition. Traina proposes simply that Sciascia’s true Sicily is the Arab Sicily of the poet Ibn Ḥamdīs and the geographer al-Idrisi, «una Sicilia tollerante a cui la Spagna dell’Inquisizione cambierà volto senza che le generosi illusioni dell’Illuminismo siciliano siano poi riuscite a recuperarle alla civiltà se non al livello delle élites intellettuali» (Giuseppe TRAINA, Leonardo Sciascia, Milano, Bruno Mondadori, 1999, p. 201). 119 This passage was excised from the re-write, and the Cardinal’s brutality and abuse of arbitrary power are transferred to the police. Reference to the wickedness of the Cardinal, and to the clergy in general, is limited to Giufà’s speculation that the Cardinal might have sprouted horns after death and final judgement. Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https:// rhesis.it/ Literature, 9.2: 37-68, 2018 52 culturale contadino» and admired Lanza’s «expressive choices»120. For Calvino «la dote maggiore» of Lanza’s transformation of the oral tradition was his ability to «comunicare il massimo colore con i minimi mezzi»121. But Sciascia in 1989 will disagree sharply with the perspectives on Giufà Calvino puts forth (as we shall see) in his “Introduction” to Lanza. In this venue Calvino underscores the fact that the mimi are characterized by a «carica d’aggressività»122 inherent in all «contese di campanile»123. The resident of a near-by town is derided – very often because he is a fool and/or cuckold – and «inchiodato alla definizione emblematica consegnata una volta per tutte alla facezia»124. Because the fool is isolated and «escluso dalla comunità»125, he is «considerato fuori dell’umanità»126. So, the only option available is to deflect the derision farther down the social ladder, to someone even more pitiful127. In fact, «nella mutua denigrazione degli oppressi c’è sempre qualcuno più denigrato e più oppresso di tutti»128. Of course, occupying the very bottom of the ladder is Giufà. Although we cheer when Giufà manages to deflect ridicule (for example when his idiocy allows him to do unwittingly what the rest of us lack to courage to do purposely: challenge the essence of power), he is first and foremost a social antibody. That is, he embodies «tutta la stoltezza universale per allontanarla dalla comunità: il raccontare le storie di Giufà conferma narratore e ascoltatore nella loro superiorità nel mondo degli stolti»129. So, while in Lanza aggression is campanilistica, directed at residents of a rival town, Giufà is universal. To explain, Calvino had noted that none of the Giufà stories provide a physical description of the characters, nor of the setting: «[l]e descrizioni sono quasi sempre scheletriche, la terminologia è generica…»130. Because we can project onto him whomever we want, he serves the function of banishing from our midst stupidity, an element of which is his letteralità, his inability to grasp linguistic nuance, understatement, sarcasm, and irony131. If in Lanza, as Calvino argues, the «funzione aggressiva si innesti sulla funzione primaria d’allontanamento della stoltezza»132 then Giufà is idiocy par excellence. 7. Late 1970s: The Trial of the Red Brigades in Turin Calvino, even after leaving the Pci in 1957 (subsequent to the Soviet invasions of Hungary and Poland the previous year), remained a supporter of the Communist Party. 120 CALVINO, Saggi, p. 1061. CALVINO, Saggi, p. 1609. 122 CALVINO, Saggi, p. 1602. 123 CALVINO, Saggi, p. 1602. 124 CALVINO, Saggi, p. 1602. 125 CALVINO, Saggi, p. 1602. 126 CALVINO, Saggi, p. 1602. 127 CALVINO, Saggi, p. 1602. 128 CALVINO, Saggi, p. 1603. 129 CALVINO, Saggi, p. 1605. 130 CALVINO, “Introduzione”, p. 44. 131 Irony, according to Sciascia «nasc[e] dalla coscienza non improvvisa ma stabilmente acquisita, della nostra superiorità» (SCIASCIA, Opere: 1984-1989, p. 1169). In fact, it is rhetorical device many of Sciascia’s characters use to (re)affirm their rank in a male pecking order (Joseph FRANCESE, Leonardo Sciascia e la funzione sociale degli intellettuali, Firenze, Firenze University Press, 2012, pp. 55-73). 132 CALVINO, Saggi, p. 1605. 121 Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https:// rhesis.it/ Literature, 9.2: 37-68, 2018 53 Sciascia’s political itinerary is not as linear. As stated above, after the War he felt an affinity for the separatist movement. He was close to Giuseppe Alessi, and, as editor of «Galleria», interacted with the Dc-led giunta that governed Sicily. He also included among his friends the communists Cortese, the Macaluso brothers, Massimiliano and Emanuele, and Pompeo Colajanni133. In 1978 Sciascia told the Socialist periodical Mondo operaio how, after the conclusion of the “Operazione Milazzo” he supported, at least initially, the centro-sinistra: «ho votato socialista in quegli anni. Ero partito con un voto radicale 134, poi PSI»135. The “Operazione Milazzo” took its name from the President of the Sicilian Region, Silvio Milazzo, who, from October 1958 through February 1960, headed a governing alliance that brought together Socialists, progressive members of the Dc (such as Milazzo), Communists136, Monarchists and the neo-fascist Movimento sociale italiano137. As the centro-sinistra began to take shape, Sciascia became disenchanted with the Psi, and aligned, in his own words, first with the «PSIUP138, poi sono approdato al voto 133 Sciascia maintained a cordial relationship with Colajanni through the 1950s (LA CAVA, SCIASCIA, Lettere dal centro del mondo, p. 285) and mentions the partisan hero in an autobiographical piece written in 1962, when the centro-sinistra was on the horizon. In that same note it he pledges: «[v]oterò socialista finché sarà possibile. Finché sarà possibile, voglio dire, non votare comunista. Finché sarà onestamente possibile non votare comunista» (Sciascia in ALBERTONE, La generazione degli anni difficili, pp. 261262; Sciascia’s emphasis). 134 The Partito radicale was founded in December 1955, consequent to a secession of the more progressive members of the Partito Liberale. 135 In missives to Vito Laterza, Sciascia, without specifying his allegiance, told how he had participated, «con una certa passione» in 1955 electoral campaign for the renewal of the Sicilian Regional Assembly. Laterza, who was close politically to Tommaso and Vittore Fiore, contributed, it would seem, to the success of Psi in the 1956 municipal elections held in his home city of Bari (SCIASCIA, LATERZA, L’invenzione di Regalpetra, pp. 15, 17, 58). 136 The Communists believed this alliance would make possible the political isolation of the more rearguard wing of the Dc. The “operation” was also considered, by participating Christian Democrats, a means for defending both regional autonomy – from centripetal pressures exerted by the DC national secretary, Amintore Fanfani – and Sicilian industries from colonization at the hands of monopolies based in Northern Italy. As Martinelli indicates, the national strategy of the Pci at that time sought to «metter in evidenza le contraddizioni interne alla DC, puntando a un rapporto positivo con la sinistra cattolica». Nonetheless, the «embarassing presence» of the extreme Right «ha sollevato comunque all’interno del PCI perplessità e critiche» (Renzo MARTINELLI, “Il PCI dalle elezioni del 1958 al IX congresso: I comunisti, la ‘via italiana al socialismo’ e il governo”, «Ricerche storiche», 244 [September 2006], pp. 365-383, pp. 365, 375). The center of gravity of this «convergenza temporanea e diversamente motivata» (Rosario BATTAGLIA, Michela D’ANGLEO, “Il PCI e il milazzismo: alcune considerazioni sulla linea politica comunista”, in Rosario BATTAGLIA, Michela D’ANGELO, Santi FEDELE [eds.], Il milazzismo: La Sicilia nella crisi del centrismo, Roma, Gangemi, 1988, pp. 87-97, pp. 88, 92) of seemingly irreconcilable political forces, according to Giorgio Amendola, was the common goal of impeding the consolidation of «un regime di monopolio politico della DC» (quoted in Emanuele MACALUSO, I comunisti e la Sicilia, Roma, Editori Riuniti, 1970, p. 120). 137 The Msi left the coalition in August 1959. 138 The Partito socialista italiano di unità proletaria was the result of a split of the Socialist Party. The majority of the Psi wanted to end its alliance with the Pci and approach the parties who formed national government. When the Psi entered the government, those parliamentarians who did not give the new coalition a vote of confidence were expelled. Those who constituted the original nucleus of the Psiup though it would be possible to ally with the Pci. For the Psiup see Aldo AGOSTI, Il partito provvisorio: Storia del Psiup nel lungo Sessantotto italiano, Roma-Bari, Laterza, 2013. Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https:// rhesis.it/ Literature, 9.2: 37-68, 2018 54 PCI»139. In 1975 – because Sciascia agreed with the Pci’s stance on the 1974 divorce referendum and despite the fact that Sciascia strongly disagreed with that Party’s official national strategy of an «historical compromise» with the Dc (which reminded Sciascia of milazzismo) – the Communist Regional Secretary in Sicily, Achille Occhetto, convinced Sciascia (who had «convinced himself» the Pci «poteva prendere l’autobus liberale»140) to participate in an experiment of «buon governo» at Palermo’s City Council. To overcome Sciascia’s refusal to be a candidate, Occhetto finally succeeded in charming the writer with the idea of a «colpo mediatico»: Sciascia and Palermo’s mayor Vito Ciancimino (later convicted for conspiracy with organized crime) contemporaneously entering the new Council’s inaugural meeting from opposite sides of the its Chamber141. But soon thereafter Sciascia resigned from the City Council and broke with the Pci. After the Moro assassination, because of the Pci’s opposition to negotiations with the Red Brigades, all of Sciascia interventions regarding the role and function of the State «serviranno almeno in parte ad attaccare il Partito comunista» 142. Indeed, according to Sciascia’s friend, the writer Andrea Camilleri, Sciascia assumed an attitude of «anticomunismo viscerale»143. In 1979 Sciascia was elected to Parliament as a member of the Radical Party and served on the parliamentary committee charged with investigating the kidnapping and assassination of Aldo Moro. It was in the late 1970s, after Sciascia’s falling out with the Pci, that Sciascia advocated on two occasions controversial stances on topical issues. He and Calvino publicly disagreed, thereby casting into high relief their divergent views on what it means to be a citizen of the Italian Republic. The first instance occurred in May 1977, eight months before kidnapping of Aldo Moro and the murder of the five members of his escort. Each of the sixteen citizen jurors charged with adjudicating the trial of the colonna torinese of the Br, after receiving threats from the terrorist organization, presented the court with medical certificates documenting their sindrome depressiva and were exempted from service. A protracted debate ensued that saw Sciascia and Calvino on opposite sides of the barricade. Igniting the polemic was an interview by Eugenio Montale in which the Nobel laureate asserted «non si può chiedere a nessuno di essere un eroe» 144. He added 139 SCIASCIA, La palma va al nord, pp. 138-39. Sciascia claimed he wrote Candido «quando ero appena uscito dal fascino che esercitava su di me il Partito comunista italiano. Non sono mai stato comunista, eppure, per onestà, devo precisare di aver subito l’attrazione del Pci». Writing Candido «mi ha procurato un intenso sentimento di libertà» (DAUPHINÉ, “Chi è lei, Leonardo Sciascia?”, p. 40). I would note, in passing (I shall return to this elsewere), in 1951 Sciascia stated that he joined the Pci when he was 18 years old and exited the Party when he was 24; his departure, he wrote, was «non senza oscillazioni, non senza crisi» (Leonardo SCIASCIA, “L’intelligenza degli ex”, «Sicilia del popolo», 6 December 1951, p. 5, in Paolo CILONA [ed.], Ricordare Sciascia, Palermo, Publiscula, 1991, pp. 330-331, p. 330). 140 Valter VECELLIO, “Leonardo Sciascia e «Il guaio della sinistra in Italia»”, in Pietro MILONE (ed.), L’Enciclopedia di Leonardo Sciascia, Milano, La vita felice, 2007, pp. 101-115, p. 102. 141 Achille OCCHETTO, Secondo me, Casale Monferrato, Piemme, 2000, pp. 196-98. 142 Marcelle PADOVANI, “Presentazione”, in Leonardo SCIASCIA, La Sicilia come metafora, Intervista di Marcelle Padovani, ed. Marcelle Padovani, Milano, Mondadori, 1979, pp. VII-XIV, p. XII. 143 Aldo CAZZULLO, “Camilleri: “Gli scontri con Sciascia, la vita da cieco e il No al referendum”, «Corriere della sera», 19 November 2016 (</www.corriere.it/cronache/16_novembre_19/camilleri-gliscontri-sciascia-83f1927e-adc5-11e6-97cf-b67e1016ae14.shtml>). 144 Giulio NASCIMBENE, “‘La sconfitta dello Stato’, dice Montale, viene da lontano”, «Corriere della sera», 5 May 1977, p. 1. Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https:// rhesis.it/ Literature, 9.2: 37-68, 2018 55 that he too would have been afraid had he been chosen for jury duty, and would have had himself exempted also145. Two days later (11 May 1977 146) Calvino publicly reprimanded Montale for his «morale da don Abbondio»147. Since l’istituzione dei giudici popolari, da molto tempo comune ai Paesi più civili, vada salvata e rispettata (oltre che migliorata e riformata dato che vediamo che funziona male), in quanto ogni forma di partecipazione dei cittadini alla vita pubblica è bene che sia potenziata e resa efficiente, anziché svilita 148. Calvino refused to brook excuses for not meeting one’s civic duties: «pur con tutta la paura del caso, non mi sentirei giustificabile in alcun modo se mi sottraessi a un compito per nulla gradevole, ma che l’insieme delle mie idee mi porta a considerare necessario»149. Those who surrender to «l’arbitrio dei killers misteriosi o l’inappellabilità delle corti marziali»150, Calvino argued, fail to give the State – which «consiste soprattutto nei cittadini democratici che non si arrendono, che non lasciano andare tutto alla malora»151 – the opportunity to evolve 152. Indeed, «[è] inutile prendersela con magistrati e polizia, che non fanno abbastanza per difenderci da terroristi e rapitori, se poi si disertano le giurie popolari»153. The next day, 12 May 1977, a brief opinion piece by Sciascia appeared on the front page of Corriere della sera. His opening tells of how he had started to write a note in which he, like Calvino, quoted Manzoni. But he discarded that draft: I promessi sposi, he wrote, is «il più esatto e disperato ritratto dell’Italia […] come è e come speriamo non sarà in avvenire»154. Recourse to Manzoni – he stated, implicitly diminishing Calvino’s argument – is «immediato e inevitabile […] da parte di ogni italiano non analfabeta»155. So, rather than engage with Calvino’s reference to don Abbondio, Sciascia averred that he too would have found a way to exempt himself from jury duty. He had no desire to resist «questo crollo o disfacimento in cui in nessun modo e minimamente mi sento responsabile. Salvare la democrazia, difendere la libertà, non cedere, non arrendersi - e così via, coi titoli che vediamo ad ogni avvenimento tragico accendersi sui giornali - sono soltanto parole»156. Furthermore, he refused to legitimize «una classe politica che non muta e che non muterà se non suicidandosi. Non voglio per nulla distoglierla da questo proposito o contribuire a riconfortarla»157. 145 NASCIMBENE, “La sconfitta dello Stato”, p. 1. Saggi, pp. 2306-10. 147 CALVINO, Saggi, p. 2307. 148 CALVINO, Saggi, p. 2308. 149 CALVINO, Saggi, pp. 2308-2309. 150 CALVINO, Saggi, p. 2309. 151 CALVINO, Saggi, p. 2310. 152 CALVINO, Saggi, p. 2310. 153 CALVINO, Saggi, pp. 2309-2310. 154 Leonardo SCIASCIA, “Non voglio aiutarli in alcun modo”, «Corriere della sera», 12 May 1977, p. 1. 155 SCIASCIA, “Non voglio aiutarli in alcun modo”, p. 1. 156 SCIASCIA, “Non voglio aiutarli in alcun modo”, p. 1. 157 Sciascia intervened four times in this debate. This op-ed first appeared in «Corriere della sera» with the title “Non voglio aiutarli in alcun modo” (now in Domenico PORZIO [ed.], Coraggio e viltà degli intellettuali, Milano, Mondadori, 1977, pp. 12-14). His other three contributions all appeared in «La Stampa» (9 June, 19 146 CALVINO, Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https:// rhesis.it/ Literature, 9.2: 37-68, 2018 56 Calvino was quick to respond158. After a succinct summary of the high points of recent Italian history – the 1974 referendum on divorce, the success of the Italian Communist Party in the political elections of 1976 159, the Lockheed scandal160 – Calvino contended that Italians (including «la gran parte degli elettori che hanno votato DC nonostante la DC»161), were frustrated with the «modo di governare della Democrazia cristiana»162, and with that party’s responsibilities for the social and political stasis that afflicted the country. This is why «[s]baglia di grosso Leonardo Sciascia»163 when he invokes the «crollo o disfacimento o suicidio di un sistema di potere lasciato a se stesso»164. Rather, imperative was the recognition of «la grande carica d’energia morale che spinge a non accettare il modo come vanno le cose e che vuole essere parte attiva nel cambiarle»165. If Sciascia was a pessimist (as Calvino defined the term, «uno che trova che le cose non potrebbero andare peggio» 166), Calvino defined himself an optimist, someone who thought that things could be much worse, but was willing to resist and effect positive change: «soprattutto nella mentalità, nei meccanismi di comportamento, nel modo come vediamo i nostri rapporti col potere e come immaginiamo il nostro futuro»167. 8. The Late 1970s: The Moro Case In March 1978, in the immediate aftermath of the Moro kidnapping, Sciascia remained silent, quietly assuming «un atteggiamento interlocutorio»168: he re-examined his life, what he had written, the consequences of what he had written, and his responsibilities. But an editorial by Aniello Coppola, at the time editor-in-chief of Paese sera169, caused him to break his «silenzio religioso»170. Calvino, for his part, nine days after the assassination of the President of the Dc – 18 May 1978 – broke the silence he too had maintained since the kidnapping and provided June, and 3 July 1977) with the titles “Di disfattismo, della carne e di altre cose”, “Se dissenti, io ti spingo a sinistra”, and “Una risposta a [Edoardo] Sanguineti” (now in PORZIO, Coraggio e viltà, pp. 32-38, pp. 125-130, pp. 174-76). As the debate went on, Sciascia had the worst of it: for example, see the contributions of Natalia Ginzburg and Edoardo Sanguineti (PORZIO, Coraggio e viltà, pp. 139-43, 163-67, 190-91). 158 CALVINO, Saggi, pp. 2311-15. 159 The Christian Democrats held, in comparison to the parliamentary elections of 1974, at 38% (but lost four seats in the lower chamber), while the Communists gained 7% (advancing to 34%) and 49 seats. 160 Allegations circulated that Lockheed Aircraft had bribed a number of high-profile politicians in Italy. Among those implicated was the President of the Italian Republic, Giovanni Leone. While the accusations against Leone were never proven conclusively, in the short term they led to Leone’s resignation. 161 CALVINO, Saggi, p. 2314. Calvino’s emphasis. 162 CALVINO, Saggi, pp. 2313-2314. 163 CALVINO, Saggi, p. 2315. 164 CALVINO, Saggi, p. 2315. 165 CALVINO, Saggi, p. 2314. 166 CALVINO, Saggi, p. 2315. 167 CALVINO, Saggi, p. 2315. 168 SCIASCIA, La palma va al nord, p. 145. 169 Coppola wondered aloud why Sciascia, so loquacious during the Red Brigades trial in Turin the previous year, had unexpectedly maintained silent while the terrorist formation was unleashing its assault on «il cuore dello Stato» (Aniello COPPOLA, “Non è tempo di cicale”, «Paese sera», 19 March 1978, p. 1). 170 SCIASCIA, La palma va al nord, p. 145. Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https:// rhesis.it/ Literature, 9.2: 37-68, 2018 57 an account of how he had struggled, throughout the ordeal, to set emotions aside and subject the shock and trauma of the Moro case to objective analysis. He reasoned that if Moro had been taken prisoner «per aprire brecce nello schieramento politico» and upset the Institutions of the Republic, then the kidnapping «non poteva avere altra soluzione da quella che ha avuto»171. The frontal assault of the Red Brigades on the Dc – paradoxically – granted that Party with «una sorta di immunità morale» while postponing, sine die, any sort reckoning for the «colpe accumulatesi in trent’anni di governo e sottogoverno». At the same time, the terrorists had left the Pci with no choice other than the one taken, «concentrare le sue energie» in the defense of Italy’s democratic system of government172. The Moro case left Calvino less optimistic than the year before: the evil incubated by the Dc had spread throughout Italian society, culminating in the «mostruosità del delitto Moro». Yet he could not help but wonder if some good might come of it, «per un fortunato concorso di circostanze obiettive». But for that to happen, the forces of Good would need the help of the «volontà e intelligenza»173 of all Italians. 8 June, precisely three weeks after this intervention by Calvino – if we follow strictly the chronology of the events, rather than causal logic – Sciascia publicly broke his relationship with Einaudi. Sciascia objected to Einaudi’s submission – against his instructions – of his novel Candido to the jury of a literary prize. He saw this marketing strategy as «una mancanza di riguardo o una disattenzione tanto grave da giustificare – non senza rammarico – la rottura di un vecchio e fedele rapporto»174. Ten days later Calvino intervened again in the debate on the Moro case. He asserted that he empathized with those Italians who felt estranged from «la politica dei partiti»175, and defended them from charges of «qualunquismo»176. Qualunquisti, as he defined them, were indulgent, complicitous, or resigned to the worst 177, a definition that implicitly dovetailed with the self-defined «pessimist»178 Sciascia claimed to be. Calvino, who had fought in the Resistance, rejected murder as a method of political struggle. But he also reminded his readers that political assassinations were not uncommon, citing the fate of John and Robert Kennedy. What made the killing of Moro uncommon was the fact that it took place «in slow motion»179 – that is, over fifty-five days. Politicians, he added, know – or they should know – that often «l’esercizio del potere s’accompagna a un rischio mortale»180. Moreover, and in contradiction of Sciascia’s hypothesis, they know – or should know – that public service means being 171 CALVINO, Saggi, pp. 2338-2339. CALVINO, Saggi, p. 2342. 173 CALVINO, Saggi, p. 2343. 174 Leonardo SCIASCIA, “Perché lascio Einaudi”, «Corriere della sera», 8 June 1978, p. 8. Nonetheless, Sciascia published Il teatro della memoria and Cruciverba – in 1981 and 1983 – with Einaudi. Occhio di capra, which he had promised to Einaudi, was released by Sellerio in 1982, even though, as Sciascia had written to La Cava, «[n]on mi va di saltare da questa barca che affonda» (LA CAVA, SCIASCIA, Lettere dal centro del mondo, p. 475). In 1983 Einaudi editore had become financially insolvent. 175 CALVINO, Saggi, p. 2346. 176 CALVINO, Saggi, p. 2346. 177 CALVINO, Saggi, p. 2346. 178 CALVINO, Saggi, p. 2352: see note 192. 179 CALVINO, Saggi, p. 2347. 180 CALVINO, Saggi, p. 2348. 172 Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https:// rhesis.it/ Literature, 9.2: 37-68, 2018 58 ready «a lasciar tutto da un momento all’altro, perché la vita individuale – la propria – deve prima o poi finire e non può essere la cosa che conta di più»181. Sciascia completed L’Affaire Moro on 24 August 1978. Because its main arguments are well known and for reasons of space I will not summarize here. Suffice it to say that he praised the Red Brigades for their «etica carceraria» (the captive Moro was treated much better than their cronies held in State prisons182). By contrast, the State (through Parliament’s two major Parties, the Dc and the Pci), while not the material assassin, had re-instated, ipso facto, the death penalty and was responsible for Moro’s death. It was, he argued, an «assassinio legale»183 committed for reasons of State. Calvino’s review of L’Affaire appeared soon after the book’s publication, and in «L’Ora di Palermo» (Sciascia’s home turf, so to speak). The review is reminiscent of the letters Calvino, in an editor at Einaudi, sent over the years in response to Sciascia’s manuscripts. Calvino accentuates the positive. The book is well written; he appreciates «la finezza di molte osservazioni», especially the perspicacity of Sciascia’s analyses of the use of the term ‘statist’ and of Moro’s personality184. Then he administers a few bocconi amari, to borrow Calvino’s term. Sciascia’s «tesi di fondo» is just plain wrong: given the constraints, the Italian government could not have handled the case in any other way. And L’Affaire Moro «conferma che uno spiraglio per una qualsiasi trattativa non viene mai aperto dai rapitori»185. Indeed, if even a hint of a desire to negotiate had come from the Br, «malgrado tutte le dichiarazioni spartane»186, given «l’elasticità del mondo politico italiano»187, a deal would certainly have been made. However, he stresses (implicitly turning against Sciascia the latter’s demand that he be allowed to «contraddire e contraddirsi»188), se questo caso si fosse verificato, cioè se i governanti avessero stabilito il principio che per salvare la vita di un uomo di governo si può fare qualsiasi compromesso, mentre i semplici cittadini sono alla mercé di uccisioni, rapimenti e rapine, allora sono sicuro che l’indignazione civile di Sciascia sarebbe stata ancora più categorica […] 189. For Calvino, the strength of Sciascia’s reflections – Sciascia considered the Moro case «come la tragedia di un uomo, ed un uomo rappresentativo di una storia e di un costume»190– is its greatest weakness. Sciascia had viewed the case «come un fatto isolato, senza un prima ed un poi»191. Rather, the Moro affaire needed contextualization: it was merely one episode in a long-term terrorist strategy whose goal was to trigger a civil war. And, Calvino underscores, herein lies the fundamental, 181 CALVINO, Saggi, p. 2348. Leonardo, SCIASCIA, Opere: 1971-1983, ed. Claude AMBROISE, Milano, Bompiani, 2004 [1987], pp. 472-473. 183 SCIASCIA, Opere: 1971-1983, p. 499. 184 CALVINO, Saggi, p. 2349. 185 CALVINO, Saggi, pp. 2349-2350. 186 CALVINO, Saggi, p. 2350. 187 CALVINO, Saggi, p. 2350. 188 SCIASCIA, La palma va al nord, p. 177. 189 CALVINO, Saggi, p. 2350. 190 CALVINO, Saggi, p. 2351. 191 CALVINO, Saggi, p. 2351. 182 Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https:// rhesis.it/ Literature, 9.2: 37-68, 2018 59 irreconcilable contradiction in Sciascia’s logic: despite all the declarations to the contrary, Sciascia shows himself to be the optimist192: Sciascia’s hope that Moro’s kidnapping could have had a «happy ending» was «un’illusione che sarebbe stato più pietoso non coltivare»193. 9. Sciascia and Giufà, redux In 1989, four years after Calvino’s death, Sciascia, in what was probably the last essay he wrote before his own demise – an introduction to a Giufà anthology edited by Corrao194 – takes exception to Calvino’s 1956 characterization of Giufà as a fool: «[m]a sono propriamente comiche, le storie di Giufà? E Giufà è proprio uno sciocco?», he asks195. If, for Calvino, Giufà is «lo sciocco a cui tutte finiscono per andar bene», he continues, «si può davvero dire sciocco» someone «a cui tutte finiscono per andar bene?». Especially when Giufà’s «sciocchezze» are «sempre dettate da una specie di demone della letteralità»196. He concludes that Giufà’s «socially absurd» actions not only are «transgressive» but are congruous with «un “diritto naturale”», a universal aversion to falsehoods: they are proof of Giufà’s «libertà dalla menzogna»197. Moreover, Giufà’s lack of awareness of «il danno che le sue azioni riversano sugli altri» is not «sciocco», «almeno nella misura in cui non è sciocca ogni affermazione di libertà, di verità»198. This, of course is true. But it is true only to the extent that Sciascia, it seems, ignored the distinction between the moral conscience and interior freedom of the specialist (the ethics of principle of private intellectuals who give voice to their convictions without fear of consequence) on the one hand, and, on the other, the ethics of responsibility that binds the public intellectual and the politician (for Weber someone who aspires to 192 By contrast, in this instance Calvino saw himself as a pessimist, indeed, «più fedele al pessimismo proprio di Sciascia di quanto non lo sia Sciascia stesso» (CALVINO, Saggi, p. 2352). 193 CALVINO, Saggi, p. 2352. While this controversy went forth, both Calvino and Sciascia concluded work on their contributions to Pitrè’s collection of Sicilian folktales, Novelline popolari siciliane (published by Sellerio in November 1978). Calvino wrote a brief introduction and Sciascia translated one of the tales into standard Italian. 194 SCIASCIA, “L’arte di Giufà”, in Francesca Maria CORRAO (ed.), Le storie di Giufà, Palermo, Sellerio, 2001, pp. 9-19. In 1991 Sciascia’s “Prefazione” appeared in Giufà il furbo, lo sciocco, il saggio (pp. 715), edited by Francesca Maria Corrao (Corrao also wrote the “Introduzione”) for Arnoldo Mondadori. Later that same year, a re-edition of that book came forth with Sellerio with the title Le storie di Giufà. Sciascia’s contribution was retitled “L’arte di Giufà” (pp. 7-19), while Corrao’s introduction was moved to the rear of the book and re-titled “Per una storia di Giufà”. In an email dated 17 November 2017, Paolo Squillacioti, curator of the 2012 Adelphi edition of Sciascia’s Opere, kindly reminded me that the 1991 collection of Giufà stories edited by Corrao for Bompiani includes no indication of when Sciascia wrote the essay in question, but that the 2001 Sellerio re-edition is dated 1989. He added that he had not done research on the matter, but that Sciascia would have had to have written it prior to September 1989, when his deteriorating health would not have allowed him to work on a text of this length. He also pointed out that the final sentences of the text allow us to surmise that Sciascia wrote the note «con davanti la raccolta della Corrao in forma pre-print», but he did not know why two years passed before the book came into print. I would be remiss if I did not heartily thank Dr. Squillacioti, not only for this email, but for other information he has shared with me, particularly useful in locating and retrieving other texts by Sciascia. 195 SCIASCIA, “L’arte di Giufà”, p. 11. 196 SCIASCIA, “L’arte di Giufà”, p. 12. 197 SCIASCIA, “L’arte di Giufà”, p. 12. 198 SCIASCIA, “L’arte di Giufà”, p. 12. Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https:// rhesis.it/ Literature, 9.2: 37-68, 2018 60 participate or participates in the distribution of power199, an activity Sciascia fully engaged in not only as a public intellectual but as a member of Palermo’s City Council and Italy’s National Parliament) to always keep in mind the consequences of their guidance and actions for their followers. Sciascia then explicitly responds to Calvino’s 1971 introduction to Lanza’s Mimi to argue that if Giufà is a social antibody, that isolation is the source of Giufà’s strength. Isolation allows him to make «vacillare le “menzogne convenzionali” che la comunità accetta e pratica, e su cui si regge»200. He then asks if the «superiorità»201 Calvino claims Giufà inspires – in both narrator and listener – is not better described as a form of social envy, an «illusione consolatoria», compensation for the lack of «libertà e impunità di cui Giufà invece gode». He then proposes that «Giufà rappresenta il sogno dell’impunità»202, the dream lived by Candido Munafò, Sciascia’s most autobiographical character203, and protagonist of his «most autobiographical work»204; someone who, like Giufà, is «assolutamente refrattario a ogni sentimento»205. Thus, Sciascia’s idiosyncratic reading transforms the character into a projection of his public self-image206. Giufà, he argues, «è un lontano, remoto antenato»207 of Candide, Voltaire’s optimist and model for Sciascia’s Candido, ovvero un sogno fatto in Sicilia: [n]el suo stare alla lettera delle cose e alle cose della lettera, Giufà è in effetti un vendicatore ignaro: vendica tutte le interpretazioni, i traslati, i tentacoli le sottigliezze per cui la parola è stata adattata a nascondere il pensiero e a conculcare il diritto208. 199 Max WEBER, La scienza come professione. La politica come professione, Italian translation by Helga Grünhof, Pietro Rossi, Francesco Tuccari, Torino, Einaudi, 2001, p. 49. 200 SCIASCIA, “L’arte di Giufà”, p. 17. 201 SCIASCIA, “L’arte di Giufà”, p. 17. 202 SCIASCIA, “L’arte di Giufà”, p. 16. 203 SCIASCIA, La palma va al nord, p. 199. 204 SCIASCIA, La palma va al nord, p. 199, and p. 166. 205 SCIASCIA, “L’arte di Giufà”, p. 13. Sciascia, for polemical purposes, must force the Giufà tales into a pre-determined mould. For example, Giufà’s universality («a Giufà mai è stato assegnato un luogo di nascita», he writes [SCIASCIA, “L’arte di Giufà”, p. 15]) enables Sciascia to deduce that the boy «non è tanto sciocco» (SCIASCIA, “L’arte di Giufà”, p. 15): residents, Sciascia explains, of every town in Sicily – «una regione dove ogni paese afferma la propria superiorità “intellettuale”» (SCIASCIA, “L’arte di Giufà”, p. 15) – happily disown him so that his stupidity can be assigned to a rival town. Therefore, since no one wants Giufà, «può appartenere a ogni paese e a tutti, e insomma all’intera Sicilia» (SCIASCIA, “L’arte di Giufà”, p. 15). 206 Sciascia’s reading of Giufà is strongly conditioned by his perspectives on Sicilian atavism or essentialism (see FRANCESE, Leonardo Sciascia e la funzione sociale degli intellettuali, p. 53), which, in turn, are influenced by his ideas on the idiosyncratic nature of Power in Sicily. In 1980 he argued that because Sicilians have «un’altra e diversa esperienza del potere: di un potere che non costruisce, che non edifica, che non opera […] per il bene di tutti». Therefore, any theme that is not «più o meno direttamente collegabile a quello del potere nei suoi rappresentanti di vertice e nelle sue manifestazioni più immediate, più arbitrarie, più folli o che abbia a che fare col costruire, con l’edificare e tout court col fare associativo, sociale, sia quasi del tutto estraneo alla novellistica popolare siciliana» (Leonardo SCIASCIA, “Presentazione”, in Giuseppe COCCHIARA, Il paese di cuccagna e altri studi di folkore, Torino, Boringhieri, 1980, pp. IX-XII, pp. IX-X). 207 SCIASCIA, “L’arte di Giufà”, p. 17. 208 SCIASCIA, “L’arte di Giufà”, pp. 15-16. Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https:// rhesis.it/ Literature, 9.2: 37-68, 2018 61 By identifying with a social outcast, a character whose deafness to nuance inevitably places him outside all «cosche»209, Sciascia casts himself as a vendicatore consapevole. What remains vague, to me, even after reading an array of exegeses, is how la parola is avenged by Giufà. He makes us laugh, as Corrao notes, when he causes us to interrogate «il senso invalso nelle espressioni idiomatiche»210. He makes us laugh when he acts without thinking, «cioè senza preoccuparsi del senso, o dei vari sensi, che alcune espressioni idiomatiche assumono a seconda del variare del contesto» 211. He makes us laugh because he «understands the world in a literal sense»212, and «is not conscious or aware of what the consequences of his actions will be»213. Thus, for Zipes Giufà «is clearly a fool, but he is not a wise fool»214. Often, according to Corrao, Giufà «non fa altro che danneggiare se stesso»215. Most importantly (for those of us who believe literature and politics can transform consciousness and reality), Giufà’s «vendicare», as Marrone writes, never goes beyond the «gesto isolato, privo di riscontro e senza conseguenze reali»216. The incongruity of Giufà’s impunity in the face of absolute power, his exemption from restriction, also makes us laugh. Indeed, it is impossible to deny that most readers participate vicariously when Giufà punches a sitting judge on the nose 217, something only a stolto, that is, a vendicatore inconsapevole would do. However, and pace Sciascia, Giufà is funny only to the extent each of us can say ‘that could never be me, I would never be so blind or stupid’; ‘that would never happen to people like me, I would never allow myself to be put in that position’. In other words, he can make us laugh only if a splitting of the ego occurs. We identify with Giufà, but only up to a certain point218. Giufà is funny because he affords us the comfort of knowing that no matter how unfortunate our lives may be, he is worse off. He is comical because he misinterprets and, consequently, acts in a way – particularly when he disrespects authority – the rest of us can only fantasize. Thus, he not only frees us from social restrictions, temporarily, but from psychological ones as well. He can do so because he exists at the crossroads of the pleasure and reality principles. 209 In Sciascia’s opinion «i siciliani “buoni”» (e.g. Ettore Majorana, Diego La Matina) are not «portati a fare gruppo, a stabilire solidarietà e a stabilirvisi (sono i siciliani peggiori quelli che hanno il genio del gruppo, della “cosca”)» (SCIASCIA, Opere: 1971-1983, pp. 223-224). 210 Francesca Maria CORRAO, “Per una storia di Giufà” in EAD., Le storie di Giufà, Palermo, Sellerio, 2013, pp. 133-170, p. 154. 211 CORRAO, “Per una storia di Giufà”, p. 154. 212 ZIPES, “The indomitable Giuseppe Pitrè”, p. 15. 213 ZIPES, “The indomitable Giuseppe Pitrè”, p. 15. 214 ZIPES, “The indomitable Giuseppe Pitrè”, p. 15. 215 CORRAO, “Per una storia di Giufà”, p. 154. 216 Gianfranco MARRONE, Stupidità, Milano, Bompiani, 2012, pp. 20-21. 217 SCIASCIA, “L’arte di Giufà”, p. 17. 218 Giufà, if I may borrow Freud’s phrasing, sparks two contrary reactions that «persist as the centrepoint of a splitting of the ego» (Sigmund FREUD, “Splitting of the Ego in the Process of Defence”, in James STRACHEY [ed.], Standard Edition of the Complete Psychological Works of Sigmund Freud, London, Hogarth Press, 1966-1974, pp. 275-278, p. 276). Splitting, a common defense mechanism, is the failure in a person’s thinking to bring together the dichotomy of both positive and negative qualities of the self and others into a cohesive, realistic whole. Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https:// rhesis.it/ Literature, 9.2: 37-68, 2018 62 10. Conclusion While Calvino was the bearer of uncomfortable truths, based in a rational analysis of reality, Sciascia saw his mission as that of making known «la propria verità, o meglio: la verità»219. And his subjective truths, at the time of their utterance had great purchase. Even though thinkers (Calvino, for example) and politicians identified the flaws in Sciascia’s analysis of the letters written by the captive Aldo Moro (not only was the Italian government wary of giving the appearance of the State surrendering – even while behind-the-scenes negotiations aiming at a so-called humanitarian solution would have allowed for Moro’s liberation were taking place –, but, first and foremost, it could not give the Red Brigades political recognition as a legitimate counterpart to the State, transforming them into a “State within the State”, to use the terrorists’ terminology, because doing so would have been a violation of the Italian Constitution), Sciascia’s interpretation was common sense for many Italians for decades220. The problem raised by the cultural divide of the anni di piombo for today’s reader is that of learning from the past, which means, among other things, setting aside preconceived notions, and gaining and maintaining the ability to negotiate pleasure and reality principles. In our case, we must contend with the elevation of subjective truth (la verità che vorremmo che fosse stata, so to speak) to the level of Truth, in a time when fake news has been elevated to art form (through what has been called an «illusory truth effect»221, a mental process that equates repetition with truth), and in a time when increasingly polarized electorates ignore news that displeases because it does not reconfirm beliefs and convictions. Sciascia was most certainly a master of the buon novellare: of creating reader empathy for his protagonists, of leading readers to identify with his narrating voices. His works participated in a postmodern literary season that seemed to revel in casting into doubt the idea of historiographic truth; that proposed that truth is subjective; that material reality can be known only through our interpretations and our interpretations of those interpretations. And, quite frankly, Sciascia narratives have an uncommon force: 219 DAUPHINÉ, “Chi è lei, Leonardo Sciascia?”, p. 44. I am referring not only to L’Affaire Moro, and to Sciascia’s interventions on the 1977 trial of the Red Brigades (which, as Guido CRAINZ affirmed in 2016, are «difficile rileggere oggi» [Storia della Repubblica: L’Italia dalla Liberazione ad oggi Rome, Donzelli, 2016, p. 208]). I also have in mind Sciascia’s controversial essay “I professionisti dell’antimafia”, which Gian Carlo CASELLI still considered, twenty years after the fact, an open wound (“La ferita di Sciascia”, «l’Unità», 13 January 1987, p. 1). Indeed, Paolo Borsellino, in his last public intervention, a commemoration of Giovanni Falcone, 25 June 1992, told of «come in effetti […] cominciò a farlo morire […] quell’articolo di Leonardo Sciascia sul Corriere della Sera che bollava me come professionista dell’Antimafia e l’amico Leoluca Orlando come professionista dell’Antimafia in politica” (Paolo BORSELLINO, “Falcone cominciò a morire nel 1988”, in Antonella MASCALI [ed.], Le ultime parole di Falcone e Borsellino, Milano, Chiarelettere, 2012, pp. 99-106, p. 101). 221 See FAZIO, BRASHIER, PAYNE and MARSH for whom ‘illusory truth’ is a rhetorical technique based in ambiguity and redundancy: «misconceptions enter our knowledge base and inform our choices» because «processing fluency» (that is, «the ease with which people comprehend statements») «informs a variety of judgements» because it is facilitated by repetition (Linda K. FAZIO, Nadia M. BRASHIER, B. Keith, PAYNE, Elizabeth J. PAYNE, “Knowledge Does Not Protect Against Illusory Truth”, «Journal of Experimental Psychology: General», 144.5 [2015], pp. 993-1002, p. 993). 220 Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https:// rhesis.it/ Literature, 9.2: 37-68, 2018 63 his interpretations convince222. Calvino, especially Calvino «combinatorio»223, has also been defined a “postmodern” writer. As we have seen, he saw his task as one of «trascrizione o riscrittura, applicato ai testi»224. In other words, the author of Il castello dei destini incrociati, while transcribing Pitrè, postured himself as yet another «anello dell’anonima catena senza fine per cui le fiabe si tramandano, anelli che non sono mai puri strumenti, trasmettitori passivi, ma […] i suoi veri «autori» 225. The Tuscan proverb quoted in Calvino’s introduction to the Fiabe italiane – «La novella nun è bella, / se sopra nun ci si rappella»226 – would influence him for decades. 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Thus, he wrote Il castello dei destini incrociati (1969), Le città invisibili (1972), and Se una notte d’inverno un viaggiatore (1979), novels in which he strove to lay bare to readers the literary artifice, that is, the structure of the narration. 224 CALVINO, “Introduzione”, p. 33. 225 CALVINO, “Introduzione”, pp. 21-22. 226 CALVINO, “Introduzione”, p. 21. Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https:// rhesis.it/ Literature, 9.2: 37-68, 2018 64 BORSELLINO, Paolo, “Falcone cominciò a morire nel 1988”, in MASCALI, Antonella (ed.), Le ultime parole di Falcone e Borsellino, Milano, Chiarelettere, 2012, pp. 99-106. CALVINO, Italo, “Lettere di Italo Calvino a Leonardo Sciascia”, «Forum Italicum», 15.1 (1981), pp. 62-72. CALVINO, Italo, Saggi 1945-1985. Tomo secondo, ed. Mario BARENGHI, Milano, Mondadori, 1995. CALVINO, Italo, Lettere 1940-1985, ed. Luca BARANELLI, Milano, Mondadori, 2000. 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Key words – narrative; landscape; “sprofondo”; dreamscape; etymology Il lavoro esplora alcuni elementi paesaggistici nella produzione narrativa di Giulio Angioni. In particolare, lo studio intende valorizzare la dimensione dello “sprofondo”, variamente declinato, come cifra peculiare della percezione e rappresentazione del paesaggio, nella sua stratificazione storicoculturale, onirica ed etimologica. Infatti, dall’analisi dei testi narrativi di Angioni pare affiorare una tensione “speleologica” ne «le molte età perdute a strati sotto i piedi», che permangono in un dialogo serrato, anche drammatico, con il presente. Parole chiave – narrativa; paesaggio; sprofondo; onirologia; etimologia Senza cedere all’enfasi celebrativa, che tanto seduce il coro delle prefiche inscenato da Marcello Fois1, la narrativa etnografica2 di Giulio Angioni «nasce adulta»3, ovvero 1 Marcello FOIS, “Sergio Atzeni nella letteratura sarda”, in Giuseppe LEDDA, Gigliola SULIS (a cura di), Sergio Atzeni e le voci della Sardegna, Bologna, Bononia University Press, 2017, pp. 31-34. Vero è che Fois condanna l’estetica morbosa del compianto di adoranti prefiche, intente alla celebrazione decontestualizzata di Sergio Atzeni, ma il rilievo può essere di monito anche agli esegeti della narrativa di Angioni. Pertanto, si suggerisce di tenere a mente il decalogo impartito da Fois, in relazione alla urgenza di desantificare e defolclorizzare la voce degli autori sardi, ancorandoli alla specifica «catena genetica» cui afferiscono. Fois si concentra specificamente sulla nouvelle vague sarda, di cui pioniere sarebbe l’Emilio Lussu di Marcia su Roma e dintorni del ’32. Il richiamo alle opere fondative degli autori sardi resta imprescindibile per una congrua analisi critica della produzione narrativa di Angioni. Peraltro, nell’elenco finemente stilato da Fois, figura, a ragione, anche l’Angioni di A fogu aintru - A fuoco dentro, Nuoro, Ilisso, 1978. 2 Franco MANAI, nella sua “Nota introduttiva” alla raccolta di esordio di Giulio ANGIONI, A fogu aintru - A fuoco dentro, Nuoro, Ilisso, 2008, pp. 5-9, p. 5, ricorre alla formula «scrittura etnografica». Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https:// rhesis.it/ Literature, 9.2: 69-84, 2018 70 consapevole, come attesta l’ultimo dei venti quadri che compone l’affresco corale di A fogu aintru: Controtempo4. Il testo – pur non esaurendosi in una dichiarazione programmatica posta in calce a orientare, e acquietare, il lettore – mette comunque in guardia da «vagheggiamenti di arcadie perdute»5, «sedimenti di popolarismo e di memorialistica rusticana»6 e «ruralismi salvifici»7 vari, originati da una mitizzazione, in odore di Falsosardo Show8, di taglio molto borghese, più propensa a trafugare, che a comprendere, le realtà e i miti di ieri e di oggi. Così, l’apologo del figlio di zia Ciccitta, il quale piange non perché ha da ritornare in Olanda, ma perché «non è possibile restare a casa, col meglio dell’Olanda»9, e la pantomima di blasonati accademici danesi, che scimmiottano la spontaneità di talune usanze sarde, nella presunzione di vivere «alla maniera di»10, con tutto 3 La locuzione di Sandro MAXIA, introdotta nella “Prefazione” a Giulio ANGIONI, L’oro di Fraus, Nuoro, Il Maestrale, 1998, pp. 5-11, p. 6, necessita di qualche chiarimento. Lo studioso, infatti, la riconduce alla padronanza dei mezzi espressivi e all’elevato grado di elaborazione teorica che connota la narrativa di Angioni, nient’affatto autore domenicale, infiacchito da quelle «infiorescenze citatorie che talvolta appesantiscono le opere letterarie» (p. 5). Osserva Maxia: «In altri termini, la narrativa di Angioni nasce adulta, consapevole di sé e dei suoi mezzi espressivi, e non reca quasi traccia di un apprendistato che evidentemente si è svolto in interiore homine, in una severa educazione di quelle doti di osservazione e di giudizio sul mondo che distinguono l’artista vero dal semplice portatore di “temperamento artistico”, che, come ha detto una volta Chesterton, “è una malattia che affligge i dilettanti”». 4 ANGIONI, “Controtempo”, in A fogu aintru, pp. 122-130. Si precisa che è lo stesso Angioni a introdurre l’espressione «venti quadri» per gli affreschi che compongono la partitura polifonica del volume di esordio: «Conti dell’inventario che dobbiamo fare, questi venti quadri contano gli spiccioli, ma vogliono alludere alle grandi cifre del trentennio trascorso» (p. 130). Rispetto alla problematicità delle fabulae di Angioni, che solo con una buona dose di approssimazione e una certa forzatura possono rientrare nella struttura di racconti o novelle tradizionali, dacché egli ne corrode, dall’interno, l’impianto stesso, si rinvia al contributo di Franco MANAI, “Il contadino e l’intellettuale: i racconti di A fogu aintru”, in Franco MANAI, Cosa succede a Fraus? Sardegna e mondo nel racconto di Giulio Angioni, Cagliari, Cuec, 2006, pp. 15-43. 5 ANGIONI, “Controtempo”, p. 124. 6 ANGIONI, “Controtempo”, p. 129. 7 ANGIONI, “Controtempo”, p. 129. 8 Giulio ANGIONI, Il gioco del mondo, Nuoro, Il Maestrale, 1999. Con questo esilarante nomignolo è apostrofato il dottor Zedda, proprietario di un’azienda. E, beninteso, l’epiteto indica il suo credo: «E siccome era socio fondatore della Pro Loco Fraus, alcuni lo chiamavano anche Falsosardo Show» (p. 69). 9 Esemplare, ai fini del nostro discorso, l’apologo: «Il figlio di zia Ciccitta, da vent’anni in Olanda, l’ultima volta che è venuto a Natale, arrivato il mattino della ripartenza si è seduto un momento davanti al camino, e si è messo a piangere in silenzio, mentre sua madre piangeva con lui e suo padre fingeva di canzonarli entrambi. Non voleva più ripartire, non perché non volesse tornare in Olanda, dove si sta meglio, ma perché non è possibile restare a casa, col meglio dell’Olanda. Tornare a casa è una festa, non è la ferialità quotidiana di prima di andarsene. Le rimpatriate sono sempre dolci, specialmente se durano poco, in modo che sia solo un gioco che non stanchi» (ANGIONI, “Controtempo”, pp. 122-123). 10 «Un uditorio singolare: professori, assistenti e dottorandi di quell’istituto scientifico, sporchi e puzzolenti di stalla e di un ottimo formaggio danese, fetido come gorgonzola, malvestiti e irsuti di barbe e di capelli. Il medesimo fetore di stalla e di formaggio ristagnava in tutti i locali dell’istituto. Le donne vestivano larghi e informi calzoni di tela azzurra e vecchie camicie contadine senza colletto, arrivavano e se ne andavano sotto ombrelloni verdi come quelli dei contadini delle mie parti, chi con scarponi, chi con vecchi zoccoloni di legno, ma tutte le calzature maschili e femminili erano ornate e profumate, apposta e ad arte diceva Rudolf, con resti di strame. Intellettuali travestiti da contadini che lassù non ci sono più a quel modo da ben più di mezzo secolo» (ANGIONI, “Controtempo”, pp. 124-125). E, poco dopo: «Insistevano, una volta, che parlassi della Sardegna. Ho detto loro dell’atteggiamento di lamento e di ironia dei contadini e dei pastori sardi verso la loro esperienza di vita, e invece delle nostalgie di drappelli di piccola borghesia intellettuale, urbana e campagnola, per il mondo rurale scomparso. Reagivano con placidi cenni di assenso, anche quando mi lasciai scappare che per il mondo delle campagne non si fa nulla scimmiottandone usi e costumi» (ANGIONI, “Controtempo”, p. 126). Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https:// rhesis.it/ Literature, 9.2: 69-84, 2018 71 il puntiglio del mercimonio del folklore11 e della mercatura della memoria, assurgono a costellazioni guida nella visione dell’autore. La narrativa di Angioni, memore della lectio della signorina garbata e ammodo in Fantasticheria12 – antesignana di tutte le caritatevoli pie donne13 e delle sdegnose Madamìn14 sulla faccia della terra – sonda, in prima istanza, lo spaesamento antropologico, non scevro del disorientamento15 necessariamente prodotto da una ricerca non concepita a volo d’uccello, ma in profondità. Esemplare, al proposito, la autorappresentazione di Silverio Lampis in Gabbiani sul Carso: Lampis quel giorno si era impegnato molto a spiegare la ricerca sul campo in antropologia, la ricerca etnografica diretta, la osservazione partecipante, o forse meglio: partecipazione osservante, insomma quel modo di ricerca che vuole comprendere gli altri osservandoli vivere, ma non a volo d’uccello, ma in profondità, non come un gabbiano che plana in alto su possibili prede, magari anche così, ma soprattutto cercando di entrare nella pelle dei nativi, diventando uno di loro, come lui stesso ha cercato a lungo di fare sui Carpazi: e così poi testimoniare di quel modo di vivere, essendo stato là, vivendoci16. 11 Si rimanda, al proposito, alla sezione “Folklore” redatta da Marcello FOIS, in In Sardegna non c’è il mare, Roma-Bari, Laterza, 2008, p. 50, il quale osserva che il folklore «è il mercato della memoria, il risultato di una revisione di se stessi, che non parte da se stessi, ma da modelli autorizzati d’importazione». 12 Giovanni VERGA, “Fantasticheria”, in ID., Tutte le novelle, introduzione, testo e note a cura di Carla RICCARDI, Milano, Mondadori, 1979, pp. 129-136. Impossibile, in questa sede, rendere conto degli echi, di matrice verghiana, che riverberano l’opera omnia di Angioni. Tuttavia, l’uso sistematico di locuzioni proverbiali, che innervano la tessitura narrativa dello scrittore sardo, sono, con ogni probabilità, riconducibili alla lectio dello scrittore siciliano. In particolare, l’epica di Una ignota compagnia, Nuoro, Il Maestrale, 2006 (edizione riveduta e corretta di quella uscita per i tipi di Feltrinelli, Milano, 1992) è intarsiata di stilemi proverbiali, introdotti, tuttavia, in funzione antifrastica e straniata rispetto agli ideali di saggezza metastorica di Verga. In effetti, l’impiego dei proverbi, nel serrato gioco interlocutorio fra Tore e Warùi, sembra rispondere più al bisogno di puntellare il caos del mondo che a tramandare un sapere acquisito. 13 Il rimando d’obbligo è a Una ignota compagnia, in particolare alla sequenza inerente le misericordiose dame della carità, vivandiere alla Mensa di San Vincenzo, vestali del «granduomo» (Giulio ANGIONI, Una ignota compagnia, p. 146), che, con il loro «disgusto pio» (ANGIONI, Una ignota compagnia, p. 147), dispensano scampoli di cibo, acquietando così la loro falsa coscienza. 14 Giulio ANGIONI, “Madamìn”, in Millant’anni, Nuoro, Il Maestrale, 2002, pp. 117-122. Nel superbo ritratto di signora piemontese si appunta tutta l’acredine possibile contro la vanagloria spocchiosa della dama, che si sente catapultata, esiliata proprio, in una terra di villani zotici, marmaglia di ribaldi in orbace che neanche i sanculotti! 15 Di disorientamento antropologico è lecito parlare per il racconto “Ricerca sul campo”, in A fogu aintru, pp. 11-17. In effetti, il giovane laureando appare come istupidito dinanzi a Ziu Sidoru morente: «In piedi dall’altra parte del letto, appoggiato al comò, stupidamente inutile guardava, con gesti insoliti in quella casa, ora l’orologio, ora il malato, ora le carte dei suoi appunti sulla festa» (p. 16). L’episodio ritornerà, per la consuetudine a innesti e interpolazioni dell’autore, in Il sale sulla ferita, Nuoro, Il Maestrale, 2010, sebbene con una sensibile variazione. All’incredulità del giovane, che, nel racconto, indaga sulla tradizionale festa di sant’Isidoro, si viene profilando, nel romanzo, ben altra questione privata. Il protagonista, infatti, si reca a casa di Sidoro Manis, mosso da una quête più consapevole, benché votata allo scacco. Ovvero, egli si propone di dilucidare il mistero della prematura fine, ai tempi della occupazione delle terre, del povero Benito Palmas, scomparso in circostanze misteriose e la cui memoria è ora al vaglio di una sospetta agiografia del martirio eroico. Si veda il capitolo 2, pp. 85-89. 16 Giulio ANGIONI, Gabbiani sul Carso, Palermo, Sellerio, 2010, pp. 138-139. Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https:// rhesis.it/ Literature, 9.2: 69-84, 2018 72 A ogni buon conto, non è mai una questione di dietrologia, bensì di profondologia 17 e su questo si fonda la narrativa di Angioni, intenta a sfatare stereotipi e a corrodere pregiudizi, esemplati nella protervia dello studente, armato di questionario, che si introduce nella casa di Ziu Sidoru, alla ricerca di chissà cosa, poi 18. E in questo è possibile scorgere un punto di sutura con il racconto antropologico, vero e proprio architesto, Un errore geografico di Romano Bilenchi19, secondo la lettura proposta da Guido Guglielmi: L’episodio è apparentemente comico. In realtà la posta in gioco è una lotta per il riconoscimento. A render il ragazzo ridicolo è un impulso a superare una differenza, una condizione di subalternità. Ciò che egli cerca è una comunicazione. E compie un maldestro tentativo per ottenerla […]. E proprio una comunicazione gli viene rifiutata. Non lo si accetta come interlocutore […]. La comicità rivela un risvolto drammatico […]. E si costituisce la figura antropologica (arcaica) del capro espiatorio 20. Ad accomunare i due autori è, infatti, la lotta per il riconoscimento che investe e sovrasta i personaggi, definendo, con tutto l’attrito che è dato immaginare, la geografia conflittuale dei loro rapporti. Analogamente a Bilenchi, molti scorci tratteggiati da Angioni si radicano nell’avvertimento del contrario, la cui tensione dilemmatica, con l’innesto dell’aprosdoketon21, si intensifica in prossimità di un epilogo sottratto a scioglimento risolutivo. Vieppiù, entrambi gli scrittori accordano alle figure regressive di ragazzi un acume critico e riflessivo precluso a esperti o presunti tali, come si evince dal componimento di Pistis Orlando, terza B22, lui pure con i suoi begli errori ortografici e geografici, ma analista sopraffino di questioni demografiche e di emigrazione. Insomma, saldando, in un carsico connubio, la lectio verghiana all’exemplum bilenchiano – dato che potrebbe, tra l’altro, chiarire la duplice direttrice, realisticocontemporanea e lirico-memoriale, individuata da Franco Manai23 – Angioni si muove 17 ANGIONI, Gabbiani sul Carso, p. 408. In merito alla misteriosa scomparsa di Lampis, professore, antropologo, filosofo e detective alla bisogna, è il sardo Trau a spiegare, a chiare lettere, «che non è una questione di dietrologia, questa scomparsa, ma di profondologia». 18 ANGIONI, “Ricerca sul campo”, pp. 11-17. 19 Romano BILENCHI, “Un errore geografico”, in Romano BILENCHI, Anna e Bruno e altri racconti, Opere complete, a cura e con introduzione di Benedetta CENTOVALLI, Cronologia, note ai testi e bibliografia a cura di Benedetta CENTOVALLI, Massimo DEPAOLI e Cristina NESI, Milano, Rizzoli, 2009, pp. 122-130. 20 Guido GUGLIELMI, “Il romanzo familiare di Bilenchi”, in ID., La prosa italiana del Novecento II, Tra romanzo e racconto, Torino, Einaudi, pp. 72-89, pp. 73-74. 21 Si pensi, almeno, all’epilogo esilarante di “L’ultima transumanza”, in A fogu aintru, pp. 18-21. Qui, il giornalista, in odore di vagheggiamenti nostalgici e scrupoli identitari, tallona un ragazzotto, custode del gregge, per poi, con una stoccata finale, accorgersi che non conduce vita romita, ma armeggia allegro con la marmitta della sua fiammante Honda. E il pastorello dei tempi moderni, in un inusuale misturo linguistico, così gli si rivolge: «Che, pure te sei sardegnolo?» (p. 21). 22 ANGIONI, “Componimento”, in A fogu aintru, pp. 80-81. Con queste parole si conclude l’elaborato: «Certamente la popolazione sarda è aumentata un poco grazie agli sforzi personali dei presidenti regionali ma veramente non è diventata più benestante, anzi s’è ne andata via per guadagnarsi il pane in altri posti lontani dall’altra parte del mare e fuori di stato» (p. 81). 23 Franco MANAI, nella “Introduzione” alla già citata monografia, osserva: «Nella narrativa di Giulio Angioni è possibile riscontrare due linee di sviluppo che a tratti procedono in parallelo e a tratti si intrecciano con prevalenza volta a volta dell’una o dell’altra: una la potremmo definire realisticocontemporanea e l’altra lirico-memoriale» (MANAI, “Introduzione”, p. 11). Sul piano stilistico ed espressivo, come la «parola precisa, netta, luminosa di Bilenchi ha altri piani di profondità» (GUGLIELMI, “Il romanzo Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https:// rhesis.it/ Literature, 9.2: 69-84, 2018 73 lungo il crinale di una scrittura etnografica mai assertiva, ma intensamente problematizzata, che, passo dopo passo, con tensione meta-cognitiva, riflette su stessa, sino agli esiti di una auto-rappresentazione parodiata, non limitandosi al travaso, nella materia letteraria, di questioni antropologiche. Al centro degli interessi dell’autore è la Sardegna, Cagliari, il microcosmo di Nuraddei e di Fraus, sorta di Macondo, esiliato ogni realismo magico, «laboratorio mobile di scrittura»24 e agente di narrazioni, ma la Sardegna, cui Angioni è avvinto da una sorta di «cordone elicoidale genetico e ombelicale»25 – forse l’apologo del cordone conservato in una vescica di maiale assume non poche rifrazioni ermeneutiche26 – per quanto incavata nell’orbita del «post-coloniale endogeno»27, travalica il perimetro isolano. Ovvero, pur nella consapevolezza che, per parafrasare le parole pronunciate da Josto Melis in Afa, le radici antiche siano un obbligo, la scrittura di Angioni non inclina al loro culto retoricamente atteggiato e ostinatamente abbarbicato 28. E, praticando un distanziamento ragionato dall’“esotico turistico” allestito in Assandira29, l’autore non indulge all’autocompiacimento nostalgico, oggettivato nell’apologo dell’uccello di Borges, che si staglia in una pagina cruciale di Gabbiani sul Carso: Io dei sardi ho smesso di occuparmi, rischiavo di guardarmi l’ombelico. Noi sardi siamo come l’uccello di Borges, che se vola, vola solo all’indietro, lo sguardo fisso al nido da cui parte30. Attraverso il filtro corrosivo dell’ironia, mediata da Sterne31, anche per gli andirivieni della comune narrativa ricorsiva e digressiva, intarsiata di analessi e prolessi e con slittamenti temporali e spaziali dislocazioni, Angioni demistifica le astruserie dei forestieri, tra alieni, medium e vivacità orgasmiche32. E, con l’estro della boutade familiare di Bilenchi”, p. 74), analogamente quella limpida di Angioni si corruga, a tratti, perlustrando il fondo delle cose, nel serrato confronto con il presente e con i traumi della storia. 24 Mauro PALA, Per una letteratura minore e di resistenza: il caso di Giulio Angioni, in corso di pubblicazione. 25 FOIS, In Sardegna non c’è il mare, p. 7. 26 L’antropologo, nel racconto, ignora la vera funzione della reliquia conservata nella vescica di maiale, che «garantisce alla madre e al neonato che mai soffriranno reciproche lontananze» (in Il mare intorno, Palermo, Sellerio, 2003, p. 98). Tuttavia, anche per la caustica demitizzazione dello “studiato” antropologo, si consideri tutto il racconto. 27 Margherita MARRAS, “Dall’Ottocento ai nostri giorni: la parabola del romanzo a tema storico in Sardegna tra coloniale e postcoloniale”, in Patrizia SERRA (a cura di), Questioni di letteratura sarda: un paradigma da definire, Milano, FrancoAngeli, 2012, pp. 195-214, p. 207. 28 Josto Melis prorompe in una battuta rivelatrice: «Caso mai sono obblighi, le tue radici antiche» (Giulio ANGIONI, Afa, Palermo, Sellerio, 2008, p. 28). 29 Giulio ANGIONI, Assandira, Palermo Sellerio, 2004. Il romanzo, teatralizzazione del mondo alla rovescia, incarna l’ingordigia idolatra dei turisti. E, in un luogo del romanzo, a proposito del saluto scambiato tra gli ospiti che vanno e vengono dall’agriturismo, esso stesso contraddizione terminologica, Angioni puntualizza: «tra gente che veniva da fuori in un’isola che non si capisce ancora bene dove collocare nella geografia mutevole dell’esotico turistico» (p. 101). 30 ANGIONI, Gabbiani sul Carso, pp. 102-103. 31 Già Sandro Maxia rileva come Angioni si collochi «tacitamente sotto il segno di due scrittori che hanno fatto dell’ironia metanarrativa il loro punto di forza» (MAXIA, “Prefazione”, p. 10). Naturalmente Conrad, per le manipolazioni polifoniche, e Sterne, per la «strategia depistante della digressione in cui eccelse» (MAXIA, “Prefazione”, p. 10). 32 «Di un altro forestiero che a Cavanna si aspettava uno sbarco di marziani. Di un altro meno strambo che dimostra l’esistenza del Maligno con le prove che ha raccolto nei dintorni. Del regista teatrale che s’ispira Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https:// rhesis.it/ Literature, 9.2: 69-84, 2018 74 ingegnosa, diabolica nella sua comicità, per cui, è ovvio, un sardo non può che nascere da una sardina33, l’autore riconduce molte delle problematiche dell’isola, un tempo punizione e oggidì premio vacanziero34, alla dimensione archetipica dell’uomo straniero all’uomo, come pare suggerire la citazione, tratta dall’Eschilo delle Supplici, posta in epigrafe a Una ignota compagnia35. In questo romanzo – il quale si snoda in una Milano livida, mappata con precisione e assembrata in spazi claustrati 36 come il laboratorio Lucetta Confezioni e la pensione in cui sono confinati Tore e gli altri – la provvisorietà si rapprende nello sguardo di Warùi, nonostante, o forse in quanto, depositario di una saggezza tanto millenaria37 quanto vilipesa, ma non risparmia neppure il leghista Carlino, apparentemente integrato, nondimeno esodato. La disappartenenza consuona con il trauma del nostos, nella consapevolezza che non si può tornare se non in retromarcia, come Ennio, «tornato male dopo un brutto andare via»38, rinculando, appunto, o come Pescegrasso e Totore, che inverano la sarcastica profezia paterna39. E poco importa che la retro sia letteralmente innestata, con potente effetto comico, dalla famiglia Melas in Il mare intorno40. Già, perché, nonostante l’ilarità dell’escamotage, permane, al fondo, un retrogusto parecchio amaro. Sarà, ancora una volta, un’epigrafe, ovvero quella da tratta da un verso di Caproni, in limine a alle maniere locali genuine molto parche nel gestire. Della studiosa del sesso che sostiene che le donne quaggiù sono capaci della maggiore quantità con la più intensa qualità di orgasmi in tutta Europa. E come lo mettiamo tutto questo con quello che ha scoperto un ricercatore tedesco, che a Fraus e nei dintorni molte zitelle sono medium straordinarie?» (ANGIONI, Il gioco del mondo, p. 90). 33 ANGIONI, Le fiamme di Toledo, Palermo, Sellerio, 2006. Il fiscale Vaca, rivolgendosi a Sigismondo Arquer, condannato al rogo per eresia pertinace, gli domanda: «Ma voi che siete di nazione sarda, siete forse italiano?» (p. 197). E, nel medesimo capitolo, significativamente intitolato Ignorabimus, l’alcalde del carcere si permette di chiedere a Sigismondo «se io da sardo fossi nato da una sardina» (pp. 197-198). 34 Ancora: «Sono cambiati i tempi, sì, fin troppo. Prima la gente ci veniva triste, come per punizione: “Io ti sbatto in Sardegna”, minacciavano. Ora ci vengono per premio, per vacanza. Forse è meglio così. Sì, prima era peggio ed era meglio, già, era meglio ed era peggio» (ANGIONI, Il gioco del mondo, p. 90). 35 «Una ignota compagnia / solo col tempo viene giudicata. / Ognuno ha lingua svelta e ingenerosa / verso lo straniero». 36 La dimensione asfittica di spazi concentrazionari sostanzia anche il romanzo Alba dei giorni bui Nuoro, Il Maestrale, 2005. Si consideri, almeno, la natura desaturata del laboratorio in cui Alba consuma le sue notti. 37 «Perché un nero, nessuno lo guarda negli occhi, se incrocia gli sguardi, diceva, ma solo di sbieco, come una mosca dentro il piatto del vicino. Ma un nero tra i bianchi si sente gli sguardi di tutti, un fascio di sguardi pungenti. E forse chissà, nel paese dei bianchi anche l’occhio di Dio, che vede ogni singolo ovunque, lui pure non guarda negli occhi i suoi neri, ma dietro» (ANGIONI, Una ignota compagnia, p. 32). 38 «C’è chi non sa tornare, dicono di lui, perché non si tratta di un viaggio, ma di un’arte lunga, ritornare al paese. Ennio è tornato male dopo un brutto andare via. Non perché come tanti è ricomparso senza un soldo, ma perché triste e allucinato più di Don Chisciotte, scarso di riso e di parole, stanco di prendere mulini per giganti, vecchie bagasce per la Dulcinea. Si sa di un pianto irrefrenabile e convulso, quando Ennio ha rivisto da lontano il suo paese con la chiesa bianca e tonda lassù in cima, come un’antica chioccia attenta ai suoi pulcini. Questo però è successo anche ad altri, che hanno saputo tornare, anche se per leccarsi le ferite, in retromarcia» (ANGIONI, Il gioco del mondo, pp. 61-62). 39 «Ritornerete a Fraus, ma rinculando - ripeteva» (ANGIONI, Il gioco del mondo, p. 70). Tuttavia, per il nostos negato e le illusioni perdute di Totore e Pescegrasso, si consideri l’intero brano (pp. 69-70). 40 La famiglia Melas torna a casa, in Sardegna, letteralmente rinculando. Così, mentre l’autostrada è ingolfata dal traffico vacanziero, i nostri escono dall’ingorgo in retromarcia, per non perdere il traghetto prenotato da tempo. E se ne vanno con l’intenzione di non tornare mai più in Germania (ANGIONI, Il mare intorno, pp. 121-127). Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https:// rhesis.it/ Literature, 9.2: 69-84, 2018 75 Il gioco del mondo41, la Spoon River di Angioni, la cui eco stilla già nel racconto Voltaire e il gendarme42, a suggerire l’amplificatio del tema, oltre il confine della città bianca e dell’isola natia. Semmai, il ritorno permane nella soglia del desiderio, quello dell’infanzia nuragica che trama non solo la narrativa, ma anche la produzione liricotestamentaria di Angioni43, e aggalla dagli interstizi della memoria, dischiusa dall’odore di mele, che agisce come una madeleine nella vertigine lirica di Sigismondo: Ecco, ma sì, è un profumo di mele. Mele! È questo profumo di mele che mi sta chiamando e che mi sta facendo ritornare. Il profumo di mele che mi riempie, mi fa arrivare, mi fa tornare in vita, delle mele dei nonni Tarragò, colte dagli alberi nell’orto dietro casa, nella mia vecchia Fraus lontana e verde dell’infanzia, da cui non mi separa più nessun esilio 44. Ai temi cruciali che innervano la scrittura di Angioni, inerenti la problematica dell’emigrazione, le bieche storture del boom economico, la condizione delle classi subalterne e l’impegno fattivo dell’intellettuale, occorre coniugare la peculiare percezione e rappresentazione del paesaggio, riconducibile alla metafisica dello sprofondo, cui Franco Manai dedica pagine importanti45. Se le ricerche antropologiche 41 «Il mio viaggiare / è stato tutto un restare / qua, dove non fui mai» (Giorgio CAPRONI, “Biglietto lasciato prima di non andare via”, in ID., Il franco cacciatore, Milano, Garzanti, 1982, p. 41). Si noti che Angioni modifica il titolo sostituendo “lasciato” con “scritto”, una variazione che può essere intesa come un possibile refuso, oppure come consapevole affermazione della persistenza della scrittura. 42 Già all’altezza del racconto Voltaire e il gendarme compare un esplicito riferimento all’Antologia di Spoon River, la cui lettura lascia parecchio costernato ziu Tatanu (ANGIONI, “Voltaire e il gendarme”, in A fogu aintru, pp. 57-64, p. 61). 43 Il sindaco-filosofo-detective de L’oro di Fraus pensa: «Dalla mia infanzia fino ad oggi questo mondo è cambiato con me più che nel millennio che finisce. E io da sindaco son qui per provvedere a questo luogo dove la mia infanzia, e l’infanzia che dicono del mondo, mi risulta un po’ meno fantasma che altrove» (p. 36). Analogamente, in una delle sezioni cerniera di Millant’anni, dopo la visita al «Museo della civiltà contadina», l’anonimo e corale narratore, sentenzia, con una nota di disincanto: «Mi è sembrato il museo della mia infanzia a Fraus: ma più vicina ai tempi nuragici di don Agostino Deliperi che a questi nostri tempi che viviamo» (ANGIONI, Millant’anni, p. 116). Tale è la centralità del motivo da figurare anche nel congedo a Il gioco del mondo: «Qui vedo chiaro che la mia fanciullezza è più vicina ai tempi dei nuraghi che a tempi come questi. E mi ci sento le vertigini. Ma è grazie agli artifici del ricordo che si riesce a sopportare ogni passato, e forse a non avere eccessi di paura del futuro» (ANGIONI, Il gioco del mondo, p. 101). Il tema ricorre, inoltre, in uno dei racconti de Il mare intorno: «Io dico spesso che l’infanzia di uno della mia età è più vicina al tempo dei nuraghi e dei fenici più che a questi tempi che viviamo. Sì, lo dico spesso e tutti lo trovano suggestivo. Io lo trovo terribile. Ne sento le vertigini» (ANGIONI, Il mare intorno, pp. 185-186). Il tema sostanzia finanche la produzione lirico-testamentaria di Anninora. In particolare, si suggerisce il riferimento all’explicit di Infanzie: «più vicina all’infanzia dei nuraghi / che a questa ben calzata di oggigiorno» (Giulio ANGIONI, Anninora, prefazione di Luigi TASSONI, nota al testo di Giancarlo PORCU, Nuoro, Il Maestrale, 2017, p. 28). 44 ANGIONI, Le fiamme di Toledo, p. 236. 45 MANAI, “Il cielo stellato del tenente Manca: Lo sprofondo”, in Cosa succede a Fraus? Sardegna e mondo nel racconto di Giulio Angioni, pp. 109-140. Senza pretesa di esaustività, si fornisce di seguito una campionatura delle specifiche occorrenze del segno nella produzione di Angioni. In Una ignota compagnia, l’epifania della neve sprofonda Milano in un’atmosfera dai toni surreali (ANGIONI, Una ignota compagnia, p. 123). In questo romanzo, lo sprofondo è, tuttavia, anche linguistico: «Ci guardavamo intenti per capirci, provando e riprovando in varie lingue. Richiami indietro le parole e le disponi in altro modo, e nello sforzo c’è sempre qualcosa che riaffiora, al di là delle frasi, e poi sprofonda tra una lingua e l’altra» (ANGIONI, Una ignota compagnia, p. 198). Nel racconto Rosa Maria Lepànto Serra, Coga, lo sprofondo è connesso alla topica della visione dall’alto di un campanile, da cui è possibile contemplare l’inabissamento nella valle: «Suo padre campanaro la cercava sempre là, sul campanile, quando in casa non c’era. Oppure alla finestra Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https:// rhesis.it/ Literature, 9.2: 69-84, 2018 76 orientano lo studioso alla profondologia, in una sorta di torsione dilemmatica, la sprofondologia, variamente declinata, connota la sua narrativa, avvitata nel paesaggio e nelle «diramazioni plurivoche»46 della scrittura. Presumibilmente, ma il dato è qui solo adombrato, il referente potrebbe essere costituto proprio dal libello Sardegna come un’infanzia di Elio Vittorini47, pur senza condividerne il fascino estetizzante del primitivo e il calligrafismo di ispirazione rondesca. Il tema dello sprofondo, determinato dalla permeabilità di visioni sgranate, è, infatti, latamente introdotto da Vittorini: in relazione all’immobilità calcinosa di Tavolara48, alla sacralità silente, benché raschiata dell’Oratorio del Rosario, sopra lo sprofondo a picco nella valle» (ANGIONI, “Rosa Maria Lepànto Serra, Coga”, in Millant’anni, Nuoro, Il Maestrale, 2009 [2002], pp. 87-113, pp. 89-90). In seguito, in riferimento alle presunte stregonerie compiute dal prete spretato, che la povera Rosa trova appeso a una corda, è dato rinvenire un richiamo ulteriore allo sprofondo (ANGIONI, “Rosa Maria Lepànto Serra, Coga”, p. 94). In uno dei quadri «(le molte età perdute a strati sotto i piedi)», incluso nella silloge Millant’anni, l’inabissamento è oggettivazione della morte (ANGIONI, “Rosa Maria Lepànto Serra, Coga”, p. 173), e tutta la pagina, di fatto, sonda la valenza metafisica dello sprofondo nel paesaggio. La silloge di quadri che compone Il mare intorno tematizza il «buco di Intramontis» (ANGIONI, Il mare intorno, p. 22). E lo «sprofondamento» (p. 23) è interpretato nella specifica accezione di oblio che la tensione fabulatoria e la prassi scrittoria, fosse anche su tavolette preistoriche, tentano entrambe di arginare. Ne Le fiamme di Toledo ricompare l’imagerie dello sprofondo, connessa alla visio dall’alto del campanile, già rilevata nel racconto Rosa Maria Lepànto (ANGIONI, Le fiamme di Toledo, pp. 90-91). La formula ricompare, sempre in relazione al paesaggio della Marina e alla parabola del prete impiccato: «Anche se Domíniga avesse saputo tutto questo, non si sarebbe meno spaventata, a parte che sapeva che del prete dicevano che in notti di tregenda il diavolo se lo portava su a sedere in cima al campanile, ululando alla luna come lupi, o giù nello sprofondo di Marina» (ANGIONI, Le fiamme di Toledo, p. 97). Ne La pelle intera, lo sprofondo è introdotto, una prima volta, in un’accezione paesaggistica: «Era sempre nell’orto, in vigna, nel noccioleto in riva al fossato, sotto le mura e lo sprofondo del torrione» (Giulio ANGIONI, La pelle intera, Nuoro, Il Maestrale, 2007, p.37), e in seguito: «Presi da un fiume in piena, rapide e sprofondi, correnti e mulinelli» (ANGIONI, La pelle intera, p. 75) e, in riferimento ad Anselmo Frett: «Conosco il suo sprofondare dentro di sé come in un pozzo» (ANGIONI, La pelle intera, p. 70). In Afa, lo sprofondo è inteso come immersione nel primigenio e nelle stratificazioni di una onomastica evocativa, infatti Josto Melis ama ricondurre il suo nome a radici preistoriche locali (ANGIONI, Afa, p. 28). Nello stesso romanzo, inoltre, il segno rimanda allo sconfinato del mare, tra «sprofondo e salvamento» (ANGIONI, Afa, p. 192). In Gabbiani sul Carso, il lemma è intensificato, tanto che il romanzo è allegoria dello sprofondo paesaggistico e dell’inabissamento conoscitivo. Non è certo casuale che il penultimo capitolo dell’opera si intitoli, appunto, Lo sprofondo (pp. 365-403). Inoltre, l’epica ipogea di Gabbiani è mutuata da Lo sprofondo del 2001, come opportunamente precisa, in una nota in calce, Franco Manai (Cosa succede a Fraus?, p. 109). Modello di complicazione sotterranea e della dialettica di mistero e conoscenza, in cui inevitabilmente «si sprofonda» (ANGIONI, Gabbiani sul Carso, p. 90), l’inabissamento tratteggia un onirogramma, dacché sogni e sprofondo sono correlati: «Ne fa mai, lei, di sogni di sprofondo?» (ANGIONI, Gabbiani sul Carso, p. 91). E il mistero promana anche dalla effusione auratica delle doline carsiche: «Lui si riguarda indietro, giù di sotto, alla luminosità serale misteriosa che pare salire da qualche sprofondo» (p. 95). Insomma, è tutto il romanzo a configurarsi come uno «sprofondo balcanico» (ANGIONI, Gabbiani sul Carso, p. 196), in cui si precipita e da cui traluce, fitto, il mistero. Nel più recente Sulla faccia della terra (Nuoro, Il Maestrale, Milano, Feltrinelli, 2015) il termine sprofondo non è impiegato, forse sostituito da «sconquasso». L’elisione del segno non è priva di importanza, forse a veicolare un qualche barlume di minima attitudine resistenziale per Mannai Murenu e i suoi, ad onta delle atrocità perpetrate dai pisani. 46 Maurizio VIRDIS impiega la formula nel suo recente contributo “Geostorica sarda. Produzione letteraria nella e nelle lingue di Sardegna”, «Rhesis», 8.2 (2017), pp. 17-27. 47 Elio VITTORINI, Sardegna come un’infanzia, con prefazione di Michela MURGIA e introduzione di Silvio GUARNIERI, Milano, Bompiani, 2015. 48«Tavolara; forse viene da tavola; e veramente è un enorme blocco calcinoso che in questo chiarore violetto di zolfo pare si accasci e debba sprofondare nell’acque, bruciata dentro. E che sia un’isola non si vede. Cupe masse alle spalle la riprendono» (VITTORINI, Sardegna come un’infanzia, p. 26). Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https:// rhesis.it/ Literature, 9.2: 69-84, 2018 77 dalla canicola, del Tempio49, ai viottoli che si incardinano nelle vicinanze di Sassari 50 e, durante il viaggio da Cagliari, «Gerusalemme di Sardegna»51, direzione Alghero, per la effimera labilità costiera52. Tuttavia, se lo sprofondo è reso, da Vittorini, in sinergia allo stupore contemplativo, nella produzione di Angioni assume una tale complessità da autorizzare non solo la formula di scrittura etnografica, ma anche speleologica, con l’esortazione a rileggere l’affondo prima, e la sparizione poi, di Lampis, con tanto di attrezzatura da speleologo, nella groviera-dolina-inghiottitoio del Carso, a paradigma di poetica e di scrittura. In prima battuta, lo sprofondo si oggettivizza nella emergenza di paesaggi-ipogei, come sembra suggerire Sandro Maxia che, nella prefazione a L’oro di Fraus, rileva la centralità della Casa dell’Orco, con i suoi budelli ciechi, autentico serbatoio mitopoietico, e «topos centrale del libro, o meglio u-topos, non-luogo che ognuno riempie ad libitum dei suoi desideri e delle sue ossessioni e fobie»53. Pur restando valida la lettura proposta, mi pare che, semmai, di Ur-luogo si debba discorrere, considerando, al contempo, le ramificazioni metamorfiche che l’ipogeo preistorico assume nella narrativa di Angioni. Si pensi, in particolare, ai recessi di miniere, di grotte scure e giganti, e alla variante del pozzo di Cavanna in cui è occultato il cadavere del povero Benvenuto ne L’oro di Fraus. Ma concrezione estrema, per la materializzazione dello sprofondo, è l’inghiottitoio di Gabbiani sul Carso, le cui complicazioni sotterranee configurano una vera e propria metafisica del paesaggio, come scrive l’autore stesso in una sequenza decisiva, in cui un tale dona a Lampis una copia della sua opera, intitolata, appunto, Metafisica del Carso54. La natura confinaria, borderline, del luogo rende tangibili antri e anfratti di sospetti e magagne che il detective cerca, caparbio, di dissipare, disambiguando55 il mistero, calandosi nei sotterranei della confinistica. Alle carsiche profondità, che rivelano molto di un mondo non solo alla rovescia, ma direi proprio sottosopra, è da coniugare la rappresentazione di immondezzai e discariche. 49 «Dal sagrato si guarda come da un terrazzo nella valle. Dove il deserto è assoluto; sprofonda; raschiato dalla canicola» (VITTORINI, Sardegna come un’infanzia, p. 44). 50 «A tratti da una piazza si esce sopra una steppa di buio. O si sprofonda dentro viottoli di piena campagna dai quali non si vedono più i lumi che ci siamo lasciati dietro e quelli che avevamo davanti» (VITTORINI, Sardegna come un’infanzia, p. 54). 51 VITTORINI, Sardegna come un’infanzia, p. 84. 52 «Che siano, cioè, coste effimere, che possano sprofondare e riemergere con la regolarità del ticchettìo d’un orologio» (VITTORINI, Sardegna come un’infanzia, p. 104). 53 MAXIA, “Prefazione”, p. 8. Al proposito, fondamentale, per la radiografia di cunicoli interrati, ad alta densità mitopoietica, ben oltre le fole, è la pagina tratta da L’oro di Fraus: «La Casa dell’Orco, figurarsi: da millenni ci rifila patacche a noi di Fraus: orchi e diavoli, tesori interrati, ricchezze minerarie, adesso funghi in galleria. Ha pure il fisico del ruolo, come luogo fiabesco. Ma è ciò che non si vede il più notevole: il ventre dell’Orco ha le viscere lunghe: budelli complicati, si dice, arrivano all’uno e all’altro mare, per scampo e sicurezza di chi possiede i luoghi. E i misteri dei suoi visceri sempre custoditi da guardiani truci» (ANGIONI, L’oro di Fraus, p. 154). 54 «Mentre tutti e due stanno lì a leggere e a vedere, un tale, che si dice del posto, si avvicina a Lampis e gli fa omaggio di una copia della sua opera Metafisica del Carso, dove sostiene, dice con molta convinzione, che la Grotta Gigante è la grotta del mito degli schiavi di Platone, che il Carso dunque è la matrice dell’idealismo platonico, quindi di tutta la metafisica occidentale, quindi della Metafisica» (ANGIONI, Gabbiani sul Carso, p. 89). 55 Disambiguare è lemma cruciale nella poetica di Angioni e agisce sotto tutte le determinazioni della sua scrittura. Si consideri almeno la assertiva dichiarazione di Lampis: «“Nemmeno con me, se non per allusioni complicate da disambiguare”» (ANGIONI, Gabbiani sul Carso, p. 82). Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https:// rhesis.it/ Literature, 9.2: 69-84, 2018 78 Già ne L’oro di Fraus, il detective, i cui piedi piatti rimandano, in forma per certi versi parodiata, a Edipo pie’ gonfio, si oppone – con la sua utopia paesaggistica, proprio lui che si è laureato con una tesi su Utopia di Tommaso Moro – alle scorie e detriti che infestano non solo la miniera, ma tutta l’isola56. Pur tuttavia è soprattutto la discarica abusiva di Repen a marcare l’etica di uno sprofondo esiziale, con tanto di Genius loci, abortito, più che partorito, da quel “sommovimento viscerale” che anima anche la questione privata, altissima posta in gioco, ne Il sale sulla ferita57. E alludo, beninteso, al personaggio “Mercoledì delle Ceneri” che, nella sua eteronomia onomastica, sempre evocativa, è pure detto “El Cocal”, ovvero “il gabbiano”, uccello delle discariche, non meno di quanto lo sia il palazzinaro trafficone Sekula, lui pure creatura interstiziale. Il topos delle discariche ipogee collima, inoltre, con la rappresentazione di cimiteri ridotti ad ammasso di rifiuti, almeno quello di Lambrate in Una ignota compagnia58 e quello ebraico in La pelle intera, invaso dalla malerba e dallo sfacelo di vivi che non si curano dei morti 59. Tuttavia, la dimensione underground non è da intendersi in senso contrappositivo alla topica della visio dall’alto che, nella narrativa di Angioni, non marca, in ogni modo, né la presunzione antropocentrica del possesso, né l’estasi ascensionistica, prefigurando, essa stessa, lo sprofondo: il sogno di librarsi in volo si risolve, infatti, in uno schianto 60. Al limite, dall’alto degli spalti della rocca cagliaritana, si offre, nella grazia di una reminiscenza che sconfina nella rivelazione, una luce appena consolatoria61. Ma, in un luogo soltanto, la contemplazione dall’alto della Torretta salva, intera, la pelle ai due protagonisti62. Allo sprofondo più prettamente paesaggistico, che, per slittamento metamorfico e concettuale, è radicato nell’ipocentro della Marina e del buco dell’Intramontis, è possibile 56 In una pagina de L’oro di Fraus, Angioni, con tanto di esatti acrostici, differenzia, censendole, scorie e rifiuti comunali: «Ma la strada del pozzo sacro di Cavanna a un certo punto costeggia l’immondezzaio comunale: anzi, gli RSU, come dice il dottor Zammataro per dire i rifiuti solidi urbani, lui che parla per sigle: gli STI invece sono gli scarichi tossici industriali, mentre il PIP è il piano per gl’insediamenti produttivi, che certuni vogliono qui, dove io invece ci vorrei rifare il paesaggio. Non ci passavo più da mesi: eppure sta nel centro della mia utopia paesaggistica questa collina biancastra, lussureggiante a primavera, ma d’estate brulla: in attesa dell’interramento periodico, turbe d’uccelli vi banchettano» (ANGIONI, L’oro di Fraus, p. 23). 57 Il protagonista, voce narrante, nel suo memoriale, introduce la formula nel corso della quête privata: «io ce n’avrei di cose da studiare, qui da noi, però le sento tutte a questo modo, con un sommovimento viscerale, che mi ridesta gli echi di voci misteriose» (Giulio ANGIONI, Il sale sulla ferita, Nuoro, Il Maestrale, 1990, p. 148). 58 Si pensi al cimitero residuale di Lambrate: «E Giuseppina poi è morta, più di un anno fa. Il tempo è lungo e breve a suo piacere. Adesso è al cimitero di Lambrate, questa città dei morti tutta fiori secchi e marmi freddi, dici il nome del morto, ti dicono due numeri, del campo e della tomba” (ANGIONI, Una ignota compagnia, p. 62). 59«Tombe ingegnose, però strane, già tutte malandate, senza croci e foto e certe scritte incomprensibili scolpite sulle pietre. Non c’era interramorti, e nemmeno un custode. Molte erbacce e un’aria di abbandono. Non vivi che si curano dei morti» (ANGIONI, La pelle intera, p. 102). 60 Basti il richiamo al racconto Rosa Maria Lepànto Serra, Coga (in ANGIONI, Millant’anni, pp. 87-113), rielaborato, con significative variazioni, nel capitolo Concubina diaboli, in Le fiamme di Toledo, pp. 87-114. 61 Ci si riferisce, nello specifico, a una delle pagine di più intenso lirismo ne Le fiamme di Toledo: «E si tornava in alto sugli spalti della rocca, come a vedere più chiaro, come da bambini quando giochiamo a guardare il più lontano possibile, mentre a sera un alito umido saliva dal golfo, il firmamento si adornava man mano di stelle» (ANGIONI, Le fiamme di Toledo, p. 276). Per la pregnanza evocativa della percezione visiva, sospesa fra reminiscenza e rivelazione, si veda l’intera pagina. 62 Si pensi alla vasta sequenza che suggella La pelle intera, con Efisio e Anselmo che, dall’alto della torre, contemplano l’arrivo di Berger e di Ricu Gross, sino allo sparo di Efisio, che spappola la faccia di Berger, salvando così la propria pelle, e quella dell’amico (ANGIONI, La pelle intera, pp. 200-209). Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https:// rhesis.it/ Literature, 9.2: 69-84, 2018 79 associare anche l’inabissamento della morte, lo sprofondo etimologico e quello onirico, tutti ad alto coefficiente paesaggistico. L’etimologia, e per certi versi la onomastica, in Angioni, è, infatti, interrata nelle stratificazioni etiche, dischiudendo «(le molte età perdute a strati sotto i piedi)»63 che strutturano «l’epica minimalista Millant’anni»64. Si pensi alla etimologia del toponimo di Fraus, da intendersi sia come frode, con tutte le implicazioni storiche che questo comporta, sia come artigianato di scrittura: - Fraus - diceva in quei giorni il mio preside al liceo: - Fraus vuole dire frode, no? Eh sì, nomen omen, carissimo collega sindaco: nomina sunt consequentia rerum: questi fatti di Fraus ce lo confermano … Ma Fraus in lingua nostra vuole dire fabbri, al plurale. Forse per rinomanze antiche in arti della forgia, prima che i frauensi si dessero a stentare in una più consueta vita rustica65. E, come emerge dall’affondo, Fraus è «luogo ipotetico, ma è anche un sito ben definito in quanto volano dell’esperienza narrata per essere condivisa, o piuttosto forgiata per rendere onore all’antica tradizione di fabbri che caratterizza i frauensi, tradizione attualizzata nella capacità di creare storie»66. Senz’altro non riducibile, dunque, a simulacro letterario, Fraus è cellula germinale di narrazione, nella «intersezione diacronica per costruire relazioni e stabilire raffronti»67. La stratigrafia etimologica concerne anche la «faccenda del furare» che deriverà anche dal latino rubare, ma a Fraus, chiosa Tziu Pedru, «prima di tutto viene dal bisogno» 68, e, anche in quest’ultimo 63 ANGIONI, Millant’anni. I sedici quadri che compongono la silloge sono contrappuntati da altrettanti interventi-cerniera, denominati, appunto, «(le molte età perdute a strati sotto i piedi)». Si deve a Franco Manai l’analisi della funzione precipua svolta dai capitoletti: «Millant’anni è definito nella copertina come ʻromanzoʼ. Se però lo si va a esaminare più da vicino si resta colpiti dal fatto che il libro è costituito da 16 racconti autonomi, ciascuno con un suo titolo e ciascuno ambientato in un periodo storico diverso. A distanze irregolari, tra un gruppo di racconti e l’altro, sono inseriti sei capitoletti scritti in corsivo e tutti con lo stesso titolo tra parentesi (le molte età perdute a strati sotto i piedi). Abbiamo detto che questi capitoletti sono inseriti tra i diversi gruppi di racconti. Si potrebbe anche dire che è il contrario: sono i racconti che abbiamo definito autonomi a essere inseriti all’interno della trama continua benché interrotta costituita dai sei capitoletti. Appare dunque evidente come proprio questi interventi, messi modestamente tra parentesi, costituiscano l’ossatura centrale del libro» (MANAI, “L’epica minimalista di Millant’anni”, in Cosa succede a Fraus?, p. 151). 64 MANAI, “L’epica minimalista di Millant’anni”, pp. 141-185. 65 ANGIONI, L’oro di Fraus, p. 35. L’etimologia è altrove riproposta da Angioni: «O quella fissazione di quell’altro, Antonicheddu Maccu, che ha avuto inizio il giorno che ha saputo che Fraus, in una lingua antica che si parlava qua, vuole dire frode, cioè inganno, fregatura. E dunque noi viviamo nell’inganno, sempre, prima di noi, dopo di noi, tutti, giorno e notte? Ci ha pensato a lungo. Troppo a lungo» (ANGIONI, Il gioco del mondo, p. 88). E Sandro Maxia chiarisce che “niente ci vieta di scorgere nel toponimo un’allusione all’arte di forgiare parole, stabile possesso degli aedi popolari e del loro erede colto, il sindaco professore di filosofia, cavaliere errante della verità” (MAXIA, “Prefazione”, p. 9). 66 PALA, Per una letteratura minore e di resistenza: il caso di Giulio Angioni. 67 PALA, Per una letteratura minore e di resistenza: il caso di Giulio Angioni. 68 Giova citare per esteso il brano, con tutte le implicazioni storiche che lo studio etimologico comporta: «Di quella esperienza di tziu Pedru con il viceparroco si è raccontata a lungo la faccenda del furare, che significa rubare. -Furare, furari, furai: bella parola, - dice il prete giovane - e viene dritta dritta dal latino. Tziu Pedru l’ha guardato, ha riflettuto quanto basta e poi gli ha detto: -Furare in seminario certamente viene dal latino. Qui a Fraus però, furare, prima di tutto viene dal bisogno. La storia, diceva tziu Pedru, quella conviene studiarla, che so, ai romani, agli inglesi, magari anche ai corsi, che si credono grandi perché lì ci è nato quel Napoleone, forse anche a molti altri, che gli fa piacere, non a noi sardi. A studiare la storia noi sardi non facciamo che arrabbiarci. Tu guarda un sardo che legge la sua storia: è lì tutto accigliato, solo ogni tanto gli esce un piccolo sorriso, ma sardonico. Sì, un sardo che s’informa della sua storia, s’incazza. E ci dà sotto a Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https:// rhesis.it/ Literature, 9.2: 69-84, 2018 80 caso, l’etimo comporta la messa a fuoco, e in discussione, delle categorie storiografiche, sollecitando un generale ripensamento critico, infulcrato sulla dialettica, mai assestata, tra prospettive egemoniche e subalternità, come da lectio gramsciana. Peraltro, si precisa, il nome del pensatore sardo figura in più di un luogo nella narrativa e nella lirica di Angioni69. Ma, al di là di esplicite occorrenze, la metodologia gramsciana salda, in una congiuntura essenziale e logica stringente, la narrativa plurisdiscorsiva di Angioni che, senza rientrare nella categoria dell’autoesotismo e del romanzo di denuncia, si pone come critica aperta a una società in divenire. E a Gramsci Angioni attribuisce la capacità «non di aver ragione e di sostenere una tesi, ma di mettersi davanti al problema e cercare di capire»70. L’onirologia, densa di rifrazioni paesaggistiche e intensamente predittiva, costella molti dei romanzi di Angioni, poiché, e su questo l’autore parla chiaro, «nel sonno sembra di cogliere misteri che la veglia non intende»71. Ma cifra invero peculiare dell’autore è la identificazione tra sogno e sprofondo, sotto il segno di un dreamscape che sostanzia non solo le pagine conclusive di Gabbiani sul Carso, con la chiamata dall’oltretomba di Lampis, ma che è disseminato in vari luoghi del romanzo, tanto da autorizzare la locuzione interpretativa di «catabasi onirica nello sprofondo»: “No, questo non è un luogo qualunque”, dice quasi solenne, e spiega che qui tutto è come in un suo sogno antico, dove lui cade in un abisso, nella casa dell’Orco a Fraus, al suo paese, ma sognando si accorge di sognare, riesce in tempo a svegliarsi e a non morire sfracellato nel profondo: “Ne fa mai, lei, di sogni di sprofondo?”72. Che il paesaggio assuma una valenza oracolare non è solo attestato dalla oniromanzia, ma emerge da altri luoghi testuali: ad esempio, poco prima del rinvenimento del cadavere di Benvenuto, lo scenario, lungi dalla riduzione a fondale decorativo, preannuncia la catastrofe: sapere contro chi, ma sono così tanti che ci perde il conto, dai fenici più antichi fino a noi: duemila e cinquecento anni di fregature. Certo che s’incazza. Ma soprattutto contro se stesso. O al massimo sghignazza: su se stesso» (ANGIONI, Il gioco del mondo, pp. 34-35). 69 Gramsci figura già nella raccolta d’esordio A fogu aintru, in particolare nel racconto L’ultima transumanza: «Intanto, a edificazione di certa sinistra sarda refrattaria e poco patriottica, ha pronto un saggio inedito dove si dimostra come il sardo Gramsci sia stato separatista fino al suo ultimo respiro (e un suo segreto motivo d’orgoglio è che il SID lo ha tenuto d’occhio a lungo come persona pericolosa per l’integrità dello stato italiano)» (p. 20). Compare, in seguito, nel quadro Trent’anni dopo, incunabolo a Il sale sulla ferita, in relazione alla proposta di dedicare a Gramsci una piazza: «Il segretario aveva fatto una bella introduzione alla proposta, che comprendeva anche una Piazza Antonio Gramsci, subito accettata, e una Via Giuseppe Di Vittorio riuscita in salita anche nella discussione. Efisio nella sua relazione aveva citato Gramsci sulla necessità di contrapporre lo “spirito di scissione” al “complesso formidabile di trincee e di fortificazioni della classe dominante”, a “tutto ciò che influisce e può influire sull’opinione pubblica direttamente o indirettamente …: le biblioteche, le scuole, i circoli e i clubs di vario genere, fino all’architettura, alla disposizione delle vie e ai nomi di queste …”» (ANGIONI, “Martirio oscuro”, in A fogu aintru, pp. 67-76, p. 78). Ne Il sale sulla ferita si rievoca quando Modesto Adamo Palmas assistette, tra gli altri, a un comizio di “Nino Gramsci di Ghilarza” (p. 215). Infine, la lirica di Angioni è impregnata di echi gramsciani: cfr. Anninora (in Anninora, pp. 26-27) e La vita è sogno (in Anninora, pp. 127-128). Sulla “eredità” gramsciana nel pensiero di Giulio Angioni, si veda il contributo già citato di PALA, Per una letteratura minore e di resistenza: il caso di Giulio Angioni. 70 ANGIONI, “Gramsci ritrovato tra Cultural studies e antropologia”, in «Lares» (Maggio/ Agosto 2008), p. 256. 71 ANGIONI, Le fiamme di Toledo, p. 352. 72 ANGIONI, Gabbiani sul Carso, p. 91. Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https:// rhesis.it/ Literature, 9.2: 69-84, 2018 81 Mi pareva d’entrare in porto in un’alba livida, dopo una notte di mal di mare: i primi gabbiani alti e striduli da nord-est, sbucavano dalla nebbia putrida che a quell’ora ammatassa la Casa dell’Orco, fin sopra sul Muso dei Gatti. Sfiata dalla Casa dell’Orco, qui da noi la nebbia. Alla grotta del pozzo sacro ci guida Gianuario. Dentro, un sentore di pulcino morto nel suo guscio, insopportabile. 73 Dal passo citato emerge, altresì, una disposizione plurisensoriale e sinestetica, sebbene Angioni ne faccia un uso parecchio distillato, limitandone l’impiego alle sequenze di più intensa drammaticità. Inoltre, lo stridio lamentoso dei gabbiani, refrain ricorrente nella sua scrittura, permette di cogliere la rilevanza delle bestie nella sua produzione, implicanti un’araldica irredenta, se non addirittura sventurata. Ci si limiterà, in questa sede, a segnalare, ne Il sale sulla ferita, la sequenza del bue agonizzante, nel cui occhio vitreo Angioni rapprende il martirio, «in un rispecchiamento senza fine»74, preludendo alla sorte di Benito stesso75. La ierofania di bestie si esprime compiutamente nell’epica del cane Dolceacqua, nume tutelare, la cui parabola metamorfica ispira alcune delle più belle pagine di Sulla faccia della terra76. Una disposizione creaturale connota, dunque, la narrativa di Angioni, investendo uomini come il vecchio Costantino Saru, telamone intagliato nel paesaggio di Assandira, bestie, e l’efflorescenza arborea di Afa: con buona pace del saccente dendrologo, la sacralità austera del paesaggio è custodita dagli alberi, gelosi testimoni di segreti e depositari di verità77. Anzi, si potrebbe addirittura arguire che Assandira e Afa costituiscano un dittico: rispettivamente della profanazione e del sacro del paesaggio. Sacralità che traluce dalla rievocazione-rivisitazione di Tanìt, che permea l’intima fibra di Afa, e dai buffi e irriverenti Bes, disseminati un po’ ovunque nel romanzo. Profanazione che, per converso, alligna nel paesaggio scuorante di Assandira, e non solo per la ridicola mise in abito da sposa e per i pastori agghindati, e confezionati a uso e consumo di turisti, ma anche per la stessa natura del luogo, ovvero dell’agriturismo, contraddizione nei termini78. 73 ANGIONI, L’oro di Fraus, p. 53. ANGIONI, Il sale sulla ferita, p. 104. 75 Si considerino almeno due passaggi fondamentali: «accarezzando il bue sulla cervice, fissandolo negli occhi già annebbiati: e in quegli occhi grandi al lume di carburo Benito si è specchiato con paura, ha visto come l’occhio del bue nero rimandava al suo e poi di nuovo viceversa la faccia del bue nero in un rispecchiamento senza fine» (ANGIONI, Il sale sulla ferita, pp. 103-104). Ancora: «-Se non dormo il bue non muore, spiegherà poi a suo fratello, e ripensava all’occhio affascinante che attraverso il suo gli rimandava infine anche se stesso, all’infinito: tanto così è profondo nella notte l’occhio di un bue che muore» (ANGIONI, Il sale sulla ferita, p. 107). 76 Si ricorda che un intero capitolo di Sulla faccia della terra è intitolato, e dedicato, a Dolceacqua (ANGIONI, Sulla faccia della terra, pp. 26-28). 77 Si rimanda all’incipit di Afa. Il protagonista, Josto Melis, prima ripensa alle parole del dendrologo «che sosteneva che nei rapporti tra gli alberi e gli uomini, gli alberi hanno solo meriti, gli uomini solo torti, e sul nostro giornale dovrebbe fare pedagogia ecologica, in un’isola dove la gente, dice, non sa che farsene dell’albero, in campagna anche meno che in città» (ANGIONI, Afa, p. 18). Josto, poi, medita assorto, con evidente eco montaliana: «Ascolto il silenzio, rabbrividendo, sotto gli alberi che sanno, loro sì che sanno perché stanno al mondo, qui dove adesso pare a me che il mondo molli un po’ la presa, sembra lasciarsi andare a una rivelazione, a mostrare un segreto, un punto debole che cede, fa intravedere qualche ignota e risaputa verità» (ANGIONI, Afa, p. 20). 78 Il vecchio Costantino non conosce nemmeno la parola «agriturismo»: «ci vedeva una contraddizione, un’unione di cose che si escludono, la volpe con l’agnello» (ANGIONI, Assandira, p. 45). 74 Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https:// rhesis.it/ Literature, 9.2: 69-84, 2018 82 Resta in ultimo da chiarire la valenza, anche simbolica, di scenari esiziali che connotano molte delle opere di Angioni, in particolare le ricorsive esplosioni e i roghi variamente rappresentati dall’autore79. L’intratestualità apocalittica, che produce un azzeramento paesaggistico, una sorta, appunto, di landscape al grado zero, assume una funzione catartica, come è per l’incendio appiccato ad Assandira, ma provoca, altrove, l’insabbiamento della verità ridotta a scoria, fatta esplodere, appunto. Quel che è certo è che, con la forza della parola, Angioni puntelli le rovine, poiché, fino a quando sarà viva la funzione Shehrazade80, vi sarà un barlume di vita sulla faccia della terra. Finanche nella reclusione carceraria, stretti alla gogna della pena capitale, la parola potrà rinviare l’esecuzione e arginare la resa, dacché «contro la paura niente è meglio del racconto»81. Fosse anche una vita stillata goccia a goccia, e misurata su «i mille passi»82 di un sopravvissuto a tutti gli scempi che è dato immaginare, sino a quando qualcuno esaudirà il primario bisogno di raccontare e di raccontarsi, di tenere un libro sotto il braccio o di vergare parole su Dolceacqua fatto pergamena83, avremo salva la pelle, intera. La sola forza da contrapporre a ogni sprofondo risuona con la grazia di un anninora, cui è sempre bello ritornare. Questo è l’oro di Fraus, il quale, a saperlo ascoltare, echeggia nei paesaggi di una parola che sa interrogare le radici profonde dell’uomo. 79 Si ricorda che l’imagerie del fuoco assume rilevanza nella narrativa di Angioni sin dal racconto A fuoco dentro (pp. 103-111). Nel quadro citato, è Emilio Lussu a incitare i convenuti; l’episodio sarà riproposto, con sensibile variatio, ne Il sale sulla ferita. Ma questa volta sarà l’avvenente Erica-America a esortare gli astanti a tirare fuori il fuoco, che troppo a lungo hanno covato dentro. Solo di sguincio si precisa che l’imagerie del fuoco, nella variante del rogo, percorre tutto il memoriale de Le fiamme di Toledo. Addirittura, Sigismondo immagina, in una sorta di coazione anamorfica, che il rogo ad attenderlo sia solo una variazione dei buoni fuochi estivi, che dardeggiano nella notte di San Giovanni. Con il solstizio d’esatte, infatti, il bagliore della sua terra, Cagliari e Fraus, si ravviva nella memoria del giuristateologo. Si consideri, poi, il rogo appiccato da Costantino Saru in Assandira. Qui, va rilevato, il fuoco si appalesa sin dall’inizio, poi, con analessi, ne viene ricostruita la dinamica. Dunque, abdicando alla spettacolarizzazione catastrofica, il rogo si addensa nella tessitura dell’intero romanzo. In merito alle esplosioni, si precisa che, ne L’oro di Fraus, questa è prima sognata, poi concretamente agìta, sino a fare crollare la miniera, con tutti i segreti sepolti dentro. E quanto l’esplosione pervada Gabbiani sul Carso si evince dalla iterazione del motivo. In una prima esplosione, infatti, perde la vita “Mercoledì delle Ceneri”, “personaggio-alibi” alla stregua del tenente Manca. In seguito, è Lampis, in un sogno ad alta densità profetica, a immaginare l’esplosione della discarica illegale di Repen. E una esplosione vera e propria finisce per inghiottire tutto l’inghottitoio carsico. 80 Il riferimento apparirà meno peregrino qualora si consideri che, ne L’oro di Fraus, vi è un esplicito rimando al novellare di Shehrazade: «Credevo di riuscire a raccontare tutto quanto questa notte. Non saranno le Confessioni d’Agostino, queste mie, ma per me non valgono meno del racconto di più di mille notti che voleva rimandare una condanna: è più importante, in specie se dovessero ridurmi a questa storia, i farabutti. A volte è quasi comico se penso che posso avere ascoltatori solo a costo di morirne» (ANGIONI, L’oro di Fraus, p. 63). E il raccontarsi, con rimandi a Shehrazade, permea tutta l’epica dei fuggiaschi nell’Isola Nostra in Sulla faccia della terra. Non va dimenticato, infatti, che Akì è persiana, è originaria dell’altipiano iranico, ovvero compatriota di Shehrazade: «E sei compatriota della più grande narratrice al mondo, Shehrazade. Ti tocca raccontare» (ANGIONI, Sulla faccia della terra, p. 42). Anche la lirica Ragione tematizza a dovere questo principio. Alludo, in particolare, al verso: «ma so che il mondo ha senso a raccontarlo» (ANGIONI, Anninora, p. 109). 81 ANGIONI, Le fiamme di Toledo, p. 303. 82 Così si intitola, significativamente, l’ultimo capitolo in Sulla faccia della terra (pp. 154-155). 83 Si allude, beninteso, a Tidoreddu, salvato grazie al ritrovamento, tanto imprevisto quanto fortunato, del Libro del Comando, che, con devozione, egli tiene sempre sotto il braccio (Sulla faccia della terra, p. 60). Per quanto concerne la sorte di Dolceacqua, la cui pelle sarà «tabernacolo di cose spirituali, che durano e crescono» (p. 120), si veda il capitolo Dolceacqua se ne va (pp. 118-121). Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https:// rhesis.it/ Literature, 9.2: 69-84, 2018 83 Riferimenti bibliografici ANGIONI, Giulio, Il gioco del mondo, Nuoro, Il Maestrale, 1999. ANGIONI, Giulio, Il mare intorno, Palermo, Sellerio, 2003. ANGIONI, Giulio, Assandira, Palermo Sellerio, 2004. 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Irene Palladini Università di Cagliari (Italy) irene_palladini@fastwebnet.it Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https:// rhesis.it/ Literature, 9.2: 69-84, 2018 85 The Sister’s Gaze in Ian McEwan’s Atonement Claudia Cao (University of Cagliari) Abstract Atonement by Ian McEwan (2001) is a novel structured around some key episodes that gradually shift the reader’s attention to the more self-reflective elements of the text. The centrality of the gaze, the voyeuristic attitude of the characters, and the multiple perspectives force the reader to return to scenes already “seen”, recalling, in the end, the reader’s own gaze from outside the text. The last pages, in particular, because of their manipulation of the events, make the reader the final witness. Starting from Lacan’s theory on the gaze, this article analyses how the traumatic scene observed by the younger sister, unbeknownst to the elder, serves as a mythopoetic device and it is at the origin of the mise en abîme on which the Chinese box structure of the novel stands. The repetitions of the trauma – first with the furtive reading of an obscene letter addressed to the older sister and then with the love scene in the library – mark the gradual prevailing of the imaginary on the real, until the final discovery of the fictionality of the whole story1. Key words – Trauma; gaze; Atonement; Ian McEwan 1. Atonement by Ian McEwan is a work which gradually shifts the reader’s attention to the more self-reflective elements of the text. The centrality of the gaze, the voyeuristic attitude of the characters, and the perspective proliferation that forces us to return to scenes already “seen”, finally refer to the external gaze of the reader, called to express a judgment on the events of which he is the ultimate witness, driven by the work of manipulation of events and the diegetic encasing of the work. The narrative scheme follows in some ways the conventional love triangle which involves two sisters with antithetical traits 2. The character system is made up of a younger sister, Briony, who is representative of a conservative education 3, and an older sister, Cecilia, whose identity, initially in a state of development, increasingly distances itself from family education and, in particular, from the maternal model. At the centre is Part of the contents of this article has already been published in the book chapter “Narrazioni dell’altra: lo sguardo in Atonement di Ian McEwan e Di buona famiglia di Isabella Bossi Fedrigotti”, in Claudia CAO, Marina GUGLIELMI (eds.), Sorelle e sorellanza nella letteratura e nelle arti, Firenze, Franco Cesati, 2017. 2 On some recurring types and patterns in the representation of the relationship between the sisters see Sara Annes BROWN, Devoted Sisters. Representations of the Sister Relationship in Nineteenth Century British and American Literature, Aldershot, Ashgate, 2003. 3 The reference to common sense and respectability is already present on the paratextual level, in the quote from Northanger Abbey placed in the epigraph (on the use of the epigraph in Atonement see Pilar HIDALGO, “Memory and Storytelling in Ian McEwan’s Atonement”, «Critique», 46.2 [2005], p. 83). 1 Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https:// rhesis.it/ Literature, 9.2: 85-95, 2018 86 a male figure, Robbie, unknowingly coveted by both sisters. The secondary characters – mainly the mother – instead perform an axiological function, reinforcing the position of each sister in terms of values, according to a typical play of symmetries and oppositions. The place held by the father, instead, is unoccupied: he is destined never to enter the scene, except as a ‘voice’ emanating from a telephone receiver4. That he worked late she [Emily] did not doubt, but she knew he did not sleep at his club, and he knew that she knew this. But there was nothing to say. Or rather, there was too much. […] If this sham was conventional hypocrisy, she had to concede that it had its uses. […] And she did not miss his presence so much as his voice on the phone. Even being lied to constantly, though hardly like love, was sustained attention; he must care about her to fabricate so elaborately and over such a long stretch time. His deceit was a form of tribute to the importance of their marriage 5. The father, who has a second life outside of the conjugal one, can be considered in a parallel and levelled condition with his daughters, since all are struggling with their “secret” sentimental worlds. His characterization also undermines the mother’s possibility of acquiring a role of reference, as she is deprived of credibility. The role of the parents sharpens the sense of isolation of the two sisters in the family community. At the same time, however, even in his absence and his contradictions, the few references to their father constantly refer to his role of interdiction, of spokesman of the social norm6. The social interdiction, the respectability and the shame which pervade the narration, are only the first level in which we find the gaze of the Other, to which is added the recurrence of the motif of envy in the sisters’ relationship, evoked between the lines in Briony’s attempt to become the other. The importance of detail and of the narrator’s visual field, moreover, is suggested by the first scene that outlines the distinctive traits between the two sisters. The description of Briony’s room, an immobile and orderly world, metaphorically prefigures the ApollonianDionysiac dichotomy represented by the dialectic between her and her sister: She [Briony] was one of those children possessed by a desire to have the world just so. Whereas her big sister’s room was a stew of unclosed books, unfolded clothes, unmade bad, unemptied ashtrays, Briony’s was a shrine to her controlling demon: the model farm spread across a deep window ledge consisted of the usual animals, but all facing one way – towards their owner – as if about to break into song, and even the farmyard hens were neatly corralled. In fact Briony’s was the only tidy upstairs room in the house. Her straight-backed dolls in their many-roomed mansion appeared to be under strict instruction not to touch the walls; the various thumb-sized figures to be found standing about her dressing table – cowboys, deep-sea divers, humanoid mice – suggested by their even ranks and spacing a citizen’s army awaiting orders7. 4 It is significant that, in the only moment in which their father could have broken into the house due to the urgency of the rape of Lola, an accident with the car prevents his arrival. Moreover, even if implicitly, the relationship that in terms of values the father generates with his son and with Marshall has the effect of emphasizing the purity and innocence of Robbie. 5 Ian MCEWAN, Atonement (2001), London, Vintage, 2002, p. 148. 6 See MCEWAN, Atonement, pp. 46-47: «She [Cecilia] lit up as she descended the stairs to the hall, knowing that she would not have dared had her father been at home. He had precise ideas about where and when a woman should be seen smoking: not in the street, or any public space, not on entering a room, not standing up, and only when offered, never from her on supply – notions as self-evident to him as natural justice. […] In fact, being at odds with her father about anything at all, even an insignificant detail, made her uncomfortable […] none of the lessons of practical criticism, could quite deliver her from obedience». 7 MCEWAN, Atonement, pp. 4-5. Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https:// rhesis.it/ Literature, 9.2: 85-95, 2018 87 McEwan’s insistence on the semantic field of view becomes even more explicit both because of the choice to inaugurate his narration with the word «the play» and with the reading of the screenplay of a never staged Briony’s show – which place the role of an ideal audience in the foreground – and because of the choice of highlighting the word «glance»8 in the same comedy, definable as a mise en abîme which emphasizes one of the main themes of the novel, that of the fault linked to the infringement of the family law9. The fil rouge of the gaze therefore allows us to follow the three steps which structure the plot, and at the same time the development of the writer and of the novel. The driving force of the novel is a “primal scene”10, the scene by the fountain: on a diegetic level, this scene marks the access of the older sister to the adult world, her becoming the other for the younger one. On the symbolic level, it determines the infiltration of the uncanny in the sister relationship. On a metanarrative level, it represents a moment of rupture, of deviation in the textual organization11. Following Lacan’s aesthetic theory, and his anamorphic conception of the artwork, it is in this scene where the intersection of different perspectives and frames unveiled in the end of the novel originates12. The link between uncanny, sight, and artistic creation is theorized in the Book X of the Seminar, where Lacan highlights the ambivalence of the uncanny, understood both as the moment in which the image in the mirror becomes autonomous, turning into a double – reducing the subject of perception to its object13 – and at the same time becoming a tool of access to desire. It is in this doubling that the relationship with the artistic creation is observable, conceived as an ideal point from which it is possible to frame the experience of the Unheimliche, usually sudden and fugitive, and that in this way can instead be reproduced, fixed. The Unheimliche gaze can be considered inaugural of Lacan’s anamorphic aesthetic, then developed in Book XI, as a dialectical moment in which the Real enters the Symbolic, coinciding with the anguish caused by the emergence of the Real. My analysis will start from the primal scene at the fountain to observe its two repetitions and their effects on the sisters’ relationship as well as on the plot 8 MCEWAN, Atonement, p. 11. In view of the last aspect that will be analysed concerning the diegetic encasing, it should be noticed that here, as in Hamlet, one of the best-known literary examples of the mise en abîme considered by Dällenbach (Il racconto speculare: saggio sulla mise en abyme, translated by Bianca Concolino Mancini, Parma, Pratiche, 1994, p. 17), Briony also chooses a comedy as an implicit accusation against her brother, guilty in her view of having left the family and having dedicated himself to his passing relationships rather than lead a regular life with a wife and children, as hoped by the ending of Briony’s drama. 10 See Sigmund FREUD, The Wolfman and Other Cases, translated by Louise Adey Huish, New York, Penguin, 2003. 11 Only in the end does the reader discover the nature of Atonement as a self-begetting novel, a work with the dual status of a fictional and material object (see Steven G. KELLMAN, The Self-Begetting Novel, New York, Columbia University Press, 1980). 12 Lacan’s reflection develops in particular in the Books X (especially in the first section, “Introduction to the Structure of Anxiety”, in Jacques LACAN, Anxiety. The Seminar of Jacques Lacan. Book X, ed. JacquesAlain MILLER, translated by Adrian R. Price, Cambridge, Polity Press, 2014, pp. 3-82) and Book XI of the Seminar, especially in the section “Of the Gaze as Object petit a”, The Seminar of Jacques Lacan, Book XI. The Four Fundamental Concepts of Psycho-Analysis (1977), translated by Alan Sheridan, New YorkLondon, W. W. Norton and Company, 1998, pp. 67-119). Among the works that deepen the Lacanian theory of the gaze, I refer to Henry KRIPS, “The Politics of the Gaze: Foucault, Lacan and Žižek”, «Culture Unbound. Journal of Current Cultural Research», 2 (2010), pp. 91-102. 13 See LACAN, The Seminar of Jacques Lacan, Book XI, pp. 91-100. 9 Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https:// rhesis.it/ Literature, 9.2: 85-95, 2018 88 development: it will be considered the beginning of the infraction, a deviation from the original order, which the regressive force represented by Briony will try to rebuild. The aim of this study is to demonstrate how the gaze is fundamental to the narrative structure of the work and the origin of the mise en abîme on which the Chinese box structure is based. The episode by the fountain, witnessed by the younger sister by the window, unbeknownst to the elder, is the moment in which Briony starts to insinuate herself into the plot of a story which does not belong to her. From this moment, her gaze and her control manipulate the love story, from continuing thwarting it. Subsequently, her manipulation of the same events on paper fulfils, at least on the fictional level, the sentimental relationship which she had interrupted. The first level in which the gaze is present, however, is the thematic one, within the relationship between the sisters: spying, the fear of being discovered, the increase of the scopic desire, are transformed – in the same day when the few ‘real’ events of the novel take place – in the appropriation of the older sister’s story. 2. This examination of Briony’s Bildung (both as a writer and as a woman) starts from the idea that the subject can be acknowledged exclusively by the effect of something, as a result of the Other, which can be found in her case in the mother and sister figures. The novel begins with the image of the younger sister seeking recognition through the parental gaze: Mrs Tallis read the seven pages of The Trials of Arabella in her bedroom, at the dressing table, with the author’s arm around her shoulder the whole while. Briony studied her mother’s face for every trace of shifting emotion, and Emily Tallis obliged with looks of alarm, snickers of glee and, at the end, grateful smiles and wise, affirming nods. She took her daughter in her arms, onto her lap […] and said that the play was ‘stupendous’, and agreed instantly […] that this word could be quoted on the poster which was to be an easel in the entrance hall by the ticket booth14. The search for recognition by Briony is constant and insistent, from the desire to dedicate a theatrical performance to her brother who has just returned home, to the exasperated attempt to make up for that failure with the staging of a false testimony. In the symmetries between the male characters and in the search for attention from the older brother we can find that same intent of access to the adult world, which is the cause of her sense of competitiveness towards Cecilia, especially considering what the reader learns later about Briony’s love declaration to Robbie. It is, however, Briony’s voyeuristic spying on Cecilia that introduces an alteration in the intersubjective dynamics between the two sisters15: 14 MCEWAN, Atonement, p. 4. And then: «Her effort received encouragement. In fact, they were welcomed as the Tallises began to understand that the baby of the family possessed a strange mind and a facility with words. […] Briony was encouraged to read her stories aloud in the library and it surprised her parents and older sister to hear their quiet girl perform so boldly […] and looking up from the page for seconds at a time as she read in order to gaze into one face after the other, unapologetically demanding her family’s total attention as she cast her narrative spell» (MCEWAN, Atonement, pp. 6-7). 15 It is emblematic that Briony watches the fountain scene from the window of the house, both for the implications which her estranged position with respect to real events will acquire in metatextual terms – as a fallacious interpreter of the episode – and for the set of intertextual references to one of the key images in the reflection on the uncanny (see Laura MARCUS, “Ian McEwan’s Modernist Time: Atonement and Saturday”, Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https:// rhesis.it/ Literature, 9.2: 85-95, 2018 89 She [Briony] had arrived at one of the nursery’s wide-open windows and must have seen what lay before her some seconds before she registered it. It was a scene that could easily have accommodated, in the distance at least, a medieval castle. […] What was less comprehensible, however, was how Robbie imperiously raised his hand now, as though issuing a command which Cecilia dared not disobey. It was extraordinary that she was unable to resist him. At his insistence she was removing her clothes, and at such speed. She was out of her blouse, now she had let her skirt drop to the ground and was stepping out of it, while he looked on impatiently, hands on hips. What strange power did he have over her. Blackmail? Threats? Briony raised two hands to her face and stepped back a little way from the window. She should shut her eyes, she thought, and spare herself the sight of her sister’s shame. But that was impossible, because there were further surprises. Cecilia still in her underwear, was climbing into the pond, was standing waist deep in the water, was pinching her nose – and then she was gone. There was only Robbie, and the clothes on the gravel, and beyond, the silent park and the distant, blue hills 16. The scene, even if symbolically and from the perspective of the younger sister, represents at the beginning only a violation of the paternal law, but then acquires additional values for the new dynamics activated in the dialectic between the sisters, in terms of loss of complicity and for the insinuation of the Uncanny between the two. In macrostructural terms – of plot organization and development – the scene witnessed by Briony acquires a trauma function, ‘trauma’ being defined as the narrative device activating the circular chain of repetition of the plot17. The primal scene, the moment of recognition for Briony of her exclusion from the adult world, modifies the relationship with her sister: the insinuation of the Uncanny soon turns for Briony into envy of a secret and forbidden pleasure, from which originates her scopic desire, the desire to see, only partially justifiable by the fear for her sister’s safety18. Briony’s desires to know and to see keep pace with each other and they are at the origin of further repetitions of the scene with variations19. The scene of the fountain is therefore readable as a moment of recognition and transition, where the weight of Briony’s exclusion from the adult world is marked by the reference to what she had done in front of Robbie at the river a year before, waiting for that rescue recalled during the sister’s plunge: When he [Robbie] returned she [Briony] was standing exactly he had left her, on the bank, looking into the water, with her towel around her shoulders. She said, ‘If I fell in the river, would you save me?’ in Sebastian GROES (ed.), Ian McEwan. Contemporary Critical Perspectives, London-New York, Bloomsbury, 2013 [2011], p. 88). 16 MCEWAN, Atonement, pp. 38-39. 17 See Peter BROOKS, Reading for the Plot. Design and Intention in Narrative, Cambridge, MA, Harvard University Press, 1992 [1984], in particular chapter 5. The centrality of repetition is marked on the lexical level by the presence of the refrain initially linked to the nightmares of Briony - «Come back» typographically emphasized by the italics (see MCEWAN, Atonement, pp. 44; 76; 264). 18 These references allude to the Freudian definition of the primal scene. Most critics in the analysis of Atonement focus on Briony’s young age and her misinterpretation of the scene, while little mention has been given to Briony’s love declaration to Robbie (on Atonement see Dominic HEAD, Ian McEwan, ManchesterNew York, Manchester University Press, 2007, pp. 156-176; Roberta FERRARI, Ian McEwan, Firenze, Le Lettere, 2012, pp. 172-200; Laura MARCUS, “Ian McEwan’s Modernist Time”, pp. 83-98; Eluned SUMMERS-BREMNER, Ian McEwan. Sex, Death, and History, Amherst, Cambria, 2014, pp. 145-180). 19 Briony reads Robbie’s letter and opens the door of the library because of her desire to know and to unmask Robbie. Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https:// rhesis.it/ Literature, 9.2: 85-95, 2018 90 ‘Of course.’ He was bending over the basket as he said this and he heard, but did not see, her jump in. Her towel lay on the bank. […] there was no sign of her […] the water was an opaque muddy green. […] He pushed her onto the bank with great difficulty in his sodden clothes, struggled out himself. […] ‘I wanted you to save me.’ […] ‘Do you know why I wanted you to save me?’ ‘No.’ […] ‘Because I love you.’ […] He restrained an impulse to laugh. He was the object of a schoolgirl crush 20. However, the desire to enter into the adult world becomes increasingly insistent in the pages following the episode21 and is significantly linked to the moment of Briony’s poetic conversion, when she definitively shifts from the fairy tale and drama towards the novel22. These elements allow us to find the starting point of the plot in the traumatic scene, understood as a moment of «deviance»23 with the double meaning of both a necessary condition for life to be «narratable» and «a state of abnormality and error»24, in the most common sense of misinterpretation. 3. The link between the gaze and the metanarrative aspects is reinforced in the second stage of the symbolic chain originated by the traumatic moment. The repetition in this case takes place after the “theft” of a writing by Briony, it is generated by the scopic impulse provoked by the scene of the fountain, and it culminates in the reading of Robbie’s letter to Cecilia. The very complexity of her feelings confirmed Briony in her view that she was entering an arena of adult emotion and dissembling from which her writing was bound to benefit. What fairy tale ever held so much by way of contradiction? A savage and thoughtless curiosity prompted her to rip the letter from its envelope […] and though the shock of the message vindicated her completely, this did not prevent her from feeling guilty. It was wrong to open people’s letters, but it was right, it was essential, for her to know everything. […] She needed to be alone to consider Robbie afresh, and to frame the opening paragraph of a story 20 MCEWAN, Atonement, pp. 231-232. See MCEWAN, Atonement, pp. 39-40: «It was a temptation for her to be magical and dramatic, and to regard what she had witnessed as a tableau mounted for her alone, a special moral for her wrapped in a mystery. But she knew very well that if she had not stood when she did, the scene would still have happened, for it was not about her at all. Only chance had brought her to the window. This was not a fairy tale. This was the real, the adult world in which frogs did not address princesses, and the only messages were the ones that people sent». And more, at p. 74: «Planting her feet firmly in the grass, she disposed of her old self year by year in thirteen strokes. She severed the sickly dependency of infancy of early childhood, and the schoolgirl eager to show off and be praised. And the eleven-year-old’s silly pride in her first stories and her reliance on her mother’s good opinion». 22 The first movement which Briony approaches is modernism, which of the gaze, of the challenge to the limits of representability has made the core of its experimentation (on this aspect see Peter MATTHEWS, “The Impression of a Deeper Darkness: Ian McEwan’s Atonement”, «ESC», 32.1 [2006], pp. 147-160). Referring to those pages, it should be noticed how the intrusion of a gaze from above becomes insistent in this phase of transition also for the great number of prolepsis, the references to the meaning which these events would have taken sixty years later. 23 BROOKS, Reading for the Plot, p. 85. 24 BROOKS, Reading for the Plot, p. 85. 21 Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https:// rhesis.it/ Literature, 9.2: 85-95, 2018 91 shot through with real life. No more princesses! The scene by the fountain […] the luminous absence shimmering above the wetness on the gravel – all this would have to be reconsidered. […] With the letter, something elemental, brutal, perhaps even criminal had been introduced […]25. Beyond the content of the writing, the objects of attention in this analysis are the intersubjective relations and the symbolic circuit created by its arrival into the scene, and the dominant role played by the gaze as a tool of control. As Lacan observed in his examination of Poe’s story, the pleasure for the reader – who knows the central element of the enigma from the beginning – is to be a witness from above and to observe how all characters are played. They are unknowingly trapped in a network within which their role is from time to time defined by another authority, up to the final climax: in the end the reader witnesses the total dominance of the letter understood, in metanarrative terms, as a moment in which the narrator turns his gaze to the reader, reaffirming the fictional nature of the story, and, in figurative terms, as the dominance of the unconscious, which is expressed in the repetitions which trap the characters26. According to the Lacanian reading of the three registers called into question in the relationships between the characters, the register of the Real is represented by a character who is unable to see what is happening before his eyes, that is, the interception of the letter; the register of the Imaginary is represented by a character who holds the letter – in this register, the subject uses his strategies to hold the letter but fails because he does not understand that he is seen; and the third register, that of the Symbolic, is that of the thief who is about to enter into action. It is he who holds the authority, the control, and acts accordingly27. Therefore, the characters’ role slips correspond from time to time to processes of assimilation to the register of the other. It is interesting to observe how in this work the device of the “deviated” letter is multiplied and reflected in more forms, intensifying the focal value of this script. It is certainly not possible to fully adopt the Lacanian scheme on The Purloined Letter to Atonement28, but it is important to observe that with the ‘deviation’ of the letter, Briony begins to access the sphere of the other, Cecilia, the true holder of the writing. At the same time, this moment also confirms her access to the register of the Imaginary, in which Briony will be trapped, conditioning her entire interpretation of subsequent events with her fixation on the traumatic content of the letter. 25 MCEWAN, Atonement, p. 113. The close link between the letter-reading and the repetition of the traumatic scene of the fountain is reiterated by Briony when, having returned to her room after reading the script, she understands that she has to rethink those scenes in a new light (see MCEWAN, Atonement, p. 113). The echo of Robbie’s obscene word in Briony’s thoughts, its fixation under various forms even typographically, as she says, are all the signs of that moment of fixation of every traumatic scene. McEwan remarks on these effects with the allusions to psychoanalysis in the chapter dedicated to the drafting of the letter by Robbie. 27 See Jacques LACAN, “Seminar on The Purloined Letter”, in Jacques LACAN, Écrits. The First Complete Edition in English, translated by Bruce Fink, in collaboration with Héloïse Fink and Russel Grigg, New York-London, W. W. Norton and Company, 2006, pp. 6-48; Giovanni BOTTIROLI, “Strutturalismo e strategia in Jacques Lacan. Un’interpretazione della Lettera rubata”, «Aut Aut», 177 (1980), pp. 95-116; John P. MULLER, William J. RICHARDSON, “Lacan’s Seminar on ‘The Purloined Letter’: Overview”, in John P. MULLER, William J. RICHARDSON (eds.), The Purloined Poe: Lacan, Derrida and Psychoanalytic Reading, Baltimore-London, Johns Hopkins University Press, 1988, pp. 55-76. 28 For the proposal of an analysis of Atonement in its intertextual links with the Purloined Letter see Heta PYRHÖNEN, “Purloined Letters in Ian McEwan’s Atonement”, «Mosaic», 45.4 (2012), pp. 103-118. 26 Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https:// rhesis.it/ Literature, 9.2: 85-95, 2018 92 Briony reaches the climax of the symbolic chain of repetitions during the same evening on which the first part of the novel focuses: from the moment when she sees her sister undressing in front of Robbie, to the reading of the obscene word in Robbie’s letter until she enters the library, the reader witnesses a process of approximation of the girl to the pleasure of the other. Briony’s misunderstanding of each of these scenes is once again legible within that fixation in the register of the Imaginary in which every hermeneutical capacity is suspended: «Though they were immobile, her immediate understanding was she had interrupted an attack, a hand-to-hand fight. The scene was so entirely a realisation of her worst fears that she sensed that her over-anxious imagination had projected the figures onto the packed spines of books. This illusion, or hope of one, was dispelled as her eyes adjusted to the gloom»29. There is a reversal of roles, where Briony’s initial role of the representative of the order is soon upended. She is responsible for the punishment of the honest and unaware protector of the criminal, bringing to extreme consequences the fusion between real and imaginary that began with the fountain scene. The clearest confirmation of the convergence between fixation in the register of the imaginary and assimilation of the role of the sister, however, can be found in the second part, in which Briony is the only one to assume an entirely fictitious part to insert herself between the links of the plot, acquiring the role of a nurse in the same hospital where Cecilia worked before losing her life. 4. During the scene of the rape of Lola it is possible to notice the total alteration of the function of sight, which becomes a real hallucination, representing the full supremacy of the imaginary over the real: what it is known – or is believed to be known – definitively prevails over what is actually happening. To fully understand the dialectic between the imaginary and the real that culminates with the sexual assault on Lola, which only anticipates what the reader will later learn in the last section of the novel – to have read not the actual course of events but the version imagined by Briony, the established writer – it is necessary, however, to start from the fountain scene as the moment of the genesis of the metanarrative: The sequence was illogical – the drowning scene, followed by a rescue, should have proceeded the marriage proposal. Such was Briony’s last thought before she accepted that she did not understand, and that she must simply watch. Unseen, from two storeys up, with the benefit of unambiguous sunlight, she had privileged access across the years to adult behaviour […] Suddenly the scene was empty; the wet patch on the ground where Cecilia had got out of the pond was the only evidence that anything had happened at all […] Six decades later she would describe how at the age of thirteen she had written her way through a whole history of literature, […] one special morning during a heat wave in 1935 […] When the young girl went back to the window and looked down, the damp patch on the gravel had evaporated30. As soon as the scene is over, Briony has in fact the first thought to represent a «hidden observer like herself»31, to insert herself into the story in the role of writer, but above all to stage the very limits of her ability to represent the scene, by rewriting it «three times 29 MCEWAN, Atonement, p. 123. MCEWAN, Atonement, pp. 39-41. 31 MCEWAN, Atonement, p. 40. 30 Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https:// rhesis.it/ Literature, 9.2: 85-95, 2018 93 over, from three points of view»32. This is the moment in which the subject of the narration becomes the object. The «patch» on the ground, on which Briony’s glance insists, acquires metonymic value referring to the role of the stain in Lacan’s aesthetic theory33. It is in this moment that she starts to reflect on the possibility of a new story to write, originated from the (deformed) interpretation of the episode: it is the genesis of Two Figures by the Fountain, the first version of her novel. On the metatextual level, the parenthesis between the first departure from the window and her return to it, when the patch has disappeared, is in fact the moment of the gap, of the anamorphosis: Briony has insinuated herself once and for all into the plot of a story which did not belong to her to become the director, fusing real and imaginary34. It is starting from this scene that we come to the widest interpretation of the role of the gaze in the work, in which the person who looks ceases to be the subject, but is delivered unto the experience of the Other’s gaze, in this case both the real and fictional reader. Briony’s desire to represent the impossibility of depicting the real through the word leads us to the core of McEwan’s experimentation. As the scene of the window recalls, the novel originated in that moment becomes the frame of reality, assuming the function of organizing and framing the experience, but it necessarily presents a gap with respect to those events, showing to the readers the very limits of its representation: it is for this reason that the ending is necessarily open, marking the break between itself and the extradiegetic reality which it tried to include in its plot35. Another fundamental point is the close link suggested by Žižek between traumatic scene, interpretation, and creation. The three moments are in fact closely interrelated because the fixation on the traumatic scene of the jouissance of the Other36 freezes the scene, tears it away from its context, distorts it: the interpretation becomes a necessary mediator, which first creates a distance from the moment of the scene. In this regard, it is significant that the novel is narrated at the end of the life of the writer, Briony, and that the writing is repetition at a distance of the fixed events from which their lives have never been freed. The problem these fifty-nine years has been this: how can a novelist achieve atonement when, with her absolute power of deciding outcomes, she is also God? There is no one, no entity or higher form that she can appeal to, or be reconciled with, or that can forgive her. There is nothing outside her. In her imagination she has set the limits and the terms 37. The work uses a series of mechanisms of negation and substitution in an attempt to reconstruct the original shattered fullness: Cecilia’s story is entirely told by Briony, who tries to put together the pieces of her sister’s life and fill in the missing parts through the 32 MCEWAN, Atonement p. 40. LACAN, The Seminar of Jacques Lacan. Book XI, pp. 97-99. 34 Briony’s words in chapter 7 suggest this fusion: «The cost of oblivious daydreaming was always this moment of return, the realignment with what had been before and now seemed a little worse. Her reverie, once rich in plausible details, had become a passing silliness before the hard mass of the actual. It was difficult to come back. Come back, her sister used to whisper when she woke her from a bad dream» (MCEWAN, Atonement, p. 76). 35 See Brian FINNEY, “Briony’s Stand against Oblivion: The Making of Fiction in Ian McEwan’s ‘Atonement’”, «Journal of Modern Literature», 27.3 (2004), p. 15. 36 Slavoj ŽIŽEK, The Plague of Fantasies (1997), London-New York, Verso, 2009, p. 115. 37 MCEWAN, Atonement, p. 371. 33 Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https:// rhesis.it/ Literature, 9.2: 85-95, 2018 94 writings received after death, in an attempt to confess and to atone for her guilt. The last repetition occurs in the end of Atonement, where the discovery of the fictionality of the story narrated by Briony leads the reader back to the opening word of the work («the play») to find in the screenplay of the show the first mise en abîme of what the reader has witnessed: the drafting of a show never staged. References BERTA, Luca, Oltre la mise en abyme. 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Performability rightfully remains a fundamental feature, only recently legitimized, of any translation written for the stage. However, the relationship between translation, adaptation and rewriting is equally important in shaping the target play. This paper aims to introduce the director’s vision of the source play and of its possible dramaturgical improvements as a further reason behind the blurred boundary between translation and adaptation in theatre. Rumori fuori scena, the Italian version of Michael Frayn’s Noises Off, serves as the case study for a contrastive analysis which, in addition to the source text and its published translation, analyses the script currently being staged. The words of the translator and of the professionals involved are then essential to understand the practice of theatrical translation in all its steps, in order to truly devise a comprehensive theoretical framework of the issues involved in the operation. Key words – stage translation; adaptation; Michael Frayn; Noises Off; Italian theatre Research has acknowledged that theatrical translation «is not limited to interlingual transfer»1. In the light of the cultural centrality of theatre and of the prominent role of translation in intercultural communication2, the complex phenomenon of translating a foreign play for the target stage deserves careful consideration. Among the many issues are the cultural influence exerted by the target context on the one hand, and the need to write lines which could be performable in the target language on the other. As for the first point, theatre is deeply intertwined with the culture which generates it, 1 Cristina MARINETTI, “Transnational, Multilingual, Post-dramatic: Rethinking the Location of Translation in Contemporary Theatre”, in Silvia BIGLIAZZI, Paola AMBROSi and Peter KOFLE (eds.), Theatre Translation in Performance, Abingdon-New York, Routledge, 2011, p. 36. 2 See David KATAN, “Translation as Intercultural Communication”, in Jeremy MUNDAY (ed.) The Routledge Companion to Translation Studies, London-New York, Routledge, 2009, pp. 74-92; Anthony J. LIDDICOAT, “Translation as Intercultural Mediation: Setting the Scene”, «Perspectives: Studies in Translation Theory and Practice», 24 (2016), pp. 347-353; Ovidi Carbonell CORTES, Sue-Ann HARDING (eds.), Routledge Handbooks in Translation and Interpreting Studies, New York, Routledge, 2018. Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https:// rhesis.it/ Literature, 9.2: 96-112, 2018 97 to the extent that it contributes to the audience’s education3. Theatre mirrors reality, so the play will be deeply connected to its space and time, striving towards a relevant role in the cultural development of a given society. For instance, G.B. Shaw thought that A Doll’s House will be as flat as ditchwater when A Midsummer Night’s Dream will still be as fresh as paint; but it will have done more work in the world; and that is enough for the highest genius4. Intercultural theatre comes to life when the play travels outside its borders: the source play is inevitably absorbed by the target culture, becoming a hybrid whose original features coexist with new, specific ones5. As for the second issue, illustrious actors and directors – from Jean Vilar to Dario Fo – often complained about translated plays which «do not breathe»6. Writing a performable theatrical language is a challenging task whose secrets and techniques (relevant in translation) have not yet been fully analyzed. This article argues that an interdisciplinary approach and a synergy between the theoretical dimension and the practice of the stage are essential to understanding stage translation7. Far from a «distrust of theory»8, this article aims at offering a case-study which proves that including the theatrical practice is essential in building a theory truly focused on its object of study. Stage translation goes beyond the interlingual problem and embraces negotiation between different cultural sensibilities, practices, techniques 9, as demonstrated by the abundance of case studies that «blur the boundaries between adaptation and translation»10, documented by recent research11. Stage translation calls for the analysis of the interlinguistic/ intercultural problems between the source and target culture as well as a study of the way the lines are tailored on the target language. However, these elements alone might do not guarantee an adequate understanding of the phenomenon: for instance, they cannot provide a satisfying explanation for shifts deriving from practical performative problems. Only by 3 Jeffrey RICHARDS (ed.), Sir Henry Irving: theatre, culture, and society: essays, addresses, and lecture, Keele, Ryburn Pub., 1994, p. 167. 4 Hanna SCOLNICOV, Peter HOLLAND, The Play out of Context: Transferring Plays from Culture to Culture, Cambridge-New York, Cambridge University Press, 1989, p. 63. 5 Patrice PAVIS, Theatre at the Crossroads of Culture, translated by Loren Kruger, London-New York, Routledge, 1992, p. 4. 6 Ton HOENSELAARS, Shakespeare and the Language of Translation, London, Arden Shakespeare, 2004, p. 137. 7 Roger BAINES, Cristina MARINETTI, Maria PERTEGHELLA, “Introduction”, in BAINES, MARINETTI, PERTEGHELLA (eds.), Staging and Performing Translation: Text and Theatre Practice, p. 2. 8 Silvia BIGLIAZZI, Paola AMBROSI, Peter KOFLER, “Introduction”, in Silvia BIGLIAZZI, Paola AMBROSI, Peter KOFLER (eds.), Theatre Translation in Performance, Abingdon, Routledge, 2013, p.2. 9 The encounter between the Western and the non-Western theatrical traditions are the core of cross-cultural theatre, which encompasses intercultural, multicultural and post-colonial theatre. Jacqueline LO, Helen GILBERT, “Toward a Topography of Cross-Cultural Theatre Praxis”, «TDR», 46. 3 (2002), pp. 31-53. 10 Katia KREBS, Translation and Adaptation in Theatre and Film, London-New York, Routledge, 2014, p. 4. 11 See So-Rim LEE, “Translation, Adaptation, and Appropriation in Brook’s Mahabharata”, «New Theatre Quarterly», 34.1 (2018), pp. 74-90; Kara REILLY, “Richard Cumberland’s 'The Jew' and the Benevolence of the Audience: Performance and Religious Tolerance”, «Eighteenth-Century Studies», 48.4 (2015), pp. 457477. Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https:// rhesis.it/ Literature, 9.2: 96-112, 2018 98 including the performative dimension can the analysis be complete. Stage translation provides new arguments to the understanding of the relationship between the dramatic text and the performance12, the latter being the dimension where the text is manipulated in many ways. Such manipulation, achieved by means of translation and adaptation, is a direct consequence of the intentional encounter between cultures and performing traditions embedded in intercultural theatre 13. The case study here presented extends the analytical look to the process which leads to the final performed text, shedding light on some of the reasons behind the manipulation. Firstly, as an Art whose survival mostly depends on economic results, drama needs to weight both the expectations and the habits of the target audience 14. Classic plays and prominent playwrights represent a safe investment, while new plays usually struggle for visibility; when they cross their original borders, their identity and features are fully renegotiable to make them fit for the target stage. Secondly, the playwright’s position in the Canon needs to be considered15: the more central the author, the more reluctant to changes the target approach, shaped by the critical narration, will be. For instance, Ducis’s creative rendition of Hamlet seems outrageous today given that Shakespeare’s fame has grown immeasurably over the centuries, while it was accepted when, far from being a literary or dramatic pillar, the Bard was deemed a playwright with a disputable sense of dramaturgy16. Thirdly, shifts from source to target play17 might be generally explained by linguistic issues depending on cultural differences18. Some features of the source play might be emphasized according to the target audience’s expectations. The director’s involvement in the recreation of a play might seem an obvious fact, but the extent to which his/her decisions influence the target play has not been properly 12 From strictly linguistic perspectives (see Mick SHORT, Exploring the Language of Poems, Plays, and Prose, London-New York, Longman, 1996), the text needs to be understood before being performed and the activation of schemata (see Roger C. SCHANK, Robert P. ABELSON, Scripts, Plans, Goals and Understanding: An Inquiry into Human Knowledge Structures, Hilsdale, Erlbaum, 1977) compensates the lack of visual aid. Studies reinforcing the position of the performance (see Roger M. BUSFIELD, The Playwright’s Art: Stage, Radio, Television, Motion Pictures, New York, Harper, 1971; Piermario VESCOVO, Entracte: drammaturgia del tempo, Venezia, Marsilio, 2007) claim that dialogue is only fulfilled by the actor’s interpretation (see Anne UBERSFELD, Lire le théâtre, Paris, Éditions Sociales, 1977) and clearly distinguish between the text prior to the performance and the text being performed (see Mick WALLIS, Simon SHEPHERD, Studying Plays, London-New York, Oxford University Press Inc., 2002; Marco DEMARINIS, Semiotica del teatro: l’analisi testuale dello spettacolo, Milano, Bompiani, 1982; Gigi LIVIO, La scrittura drammatica: teoria e pratica esegetica, Milano, Mursia, 1992). The stylistic perspective (see Susan MANDALA, Twentieth-century Drama Dialogue as Ordinary Talk: Speaking between the Lines, Aldershot, Ashgate, 2007) is useful in detecting the features of dramatic language, but the path which leads to the performance cannot be discarded. 13 LO, GILBERT, “Toward a Topography of Cross-Cultural Theatre Praxis”, p. 32. 14 See Paola PUGLIATTI, I segni latenti, Messina, Firenze, 1986, p. 16. 15 Andre LEFEVERE (ed.), Translation, History, Culture: A Sourcebook, London-New York, Routledge, 1992, p. 23. 16 See Anna Maria CRINÒ, Le traduzioni di Shakespeare in Italia nel Settecento, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1950. 17 Source and target text (or play) are here used as technical terms. For a discussion of the metaphorical use of the terms ‘source text’ and ‘target text’, see Rainer GULDIN, Translation as Metaphor, New York, Routledge, 2015. 18 Linda HUTCHEON, Theory of Adaptation, London-New York, Routledge, 2006, p. 150. Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https:// rhesis.it/ Literature, 9.2: 96-112, 2018 99 considered. This influence becomes crucial in intercultural theatre, where the balance of power between the playwright and the director changes: «the director does not subordinate himself to another author; his source is only a pretext»19. In the Twentieth century «directors were but translators who must render the playwright’s intention precisely»20 and their choice of improving the text going against the literal sense of the text was ethically condemned. In intercultural theatre, however, the director is the centre of the culturalization process, the «unifying object»21 whose dominant narrative22 actively shapes the final target play. The ways the director of the target play affects and influences the translator’s approach to the source text needs to be analyzed in order to fully understand the process beginning with the translated text and ending with performance on the target stage. A contrastive examination of the linguistic/cultural problems alone is rarely sufficient to fully explain and understand the shifts in the target play: other issues specifically related to theatre are involved. The understanding of stage translation is limited and partial unless the dramaturgical decisions leading to the target play are included in the study of the phenomenon. This contribution focuses on Michael Frayn’s Noises Off and its Italian version, Rumori fuori Scena (translated by Filippo Ottoni and directed by Attilio Corsini), to widen the analysis of the factors which influence the process conducive to the target play. Firstly, the analysis aims to demonstrate the importance of a collaborative relationship between the director and the translator. Secondly, it aims to show the extent to which the target text is shaped by the director’s dramaturgical vision. As a perfect example of metatheatre, Noises Off (from now on, NO) pivots around actors trying to stage a farce. Farce is a genre which exerts a great fascination upon Frayn, who said: Farce has always been regarded in his country, in fact everywhere, as rather downmarket, popular entertainment. When I first started writing farces, interviewers would ask me ‘why do you do farces?’ why don’t you write about life as it is? […] I mean, it seems to be that everyday life has a very strong tendency towards farce, that is to say, things go wrong 23. The inspiration for NO came to Frayn by watching his own play The Two of Us from backstage24. Complying to the features of farce, which involves every-day situations and «‘slices of life’ dramatically and comically distorted but still very close to reality» 25 19 HUTCHEON, Theory of Adaptation, p. 82. Jeane LUERE, “Remarks of Playwrights and Directors”, in EAD. (ed.), Playwright versus director: authorial intentions and performance interpretations, Westport, Greenwood Press, 1994, p. 14. Emphasis mine. 21 PAVIS, Theatre at the Crossroads of Culture, p. 177. 22 See Coleen Shirin MACPHERSON, “A New Vision for Intercultural Theatre Practice: From Toronto to London to Cairo with First Draft”, «Canadian Theatre Review», 72 (2017), pp. 110-114. 23 Merritt MOSELEY, Understanding Michael Frayn, Columbia, University of South Carolina Press, 2006, p. 109. 24 Malcolm PAGE, File on Frayn, London, Methuen Drama, 1994, p.31. 25 Barbara CANNINGS, “Towards a Definition of Farce as a Literary Genre”, «The Modern Language Review», 56. 4 (1961), pp. 558-560, p. 558. 20 Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https:// rhesis.it/ Literature, 9.2: 96-112, 2018 100 without a definite plot26, NO shows the chaotic dress rehearsal of a play and the reality of theatre life27. Respecting the farcical «recalcitrance of objects»28, characters struggle with items which do not perform as they should; the play also generously portrays the «fall of dignity»29 exposing characters to mockery and panic which, according to Frayn, is another key feature in farce30. NO «has as its first act a pastiche of traditional farce; as its second a contemporary variant on the formula; as its third, an elaborate undermining of it»31. In Act I, the company is involved in a challenging dress rehearsal; Act II proves that everyday theatrical life, with its crisis and fights, is even more farcical than fiction; Act III sees the explosion of all the internal conflicts in the company with disastrous but hilarious consequences. The power of the farce comes from the situation, and the play needs time to build the story before letting the conflicts explode: the third act is then pivotal in the dramaturgical structure of the farce 32, as the Italian director, Attilio Corsini, also knew. In Noises Off the comic effect depends on various factors. Firstly, it pivots entirely on the lines, whose language resumes and intensifies the elements of everyday conversation33, discarding neutral or lacklustre expressions. Secondly, the comic effect is built by both lines and action; thirdly, it can be solely based on gestures and facial expressions. According to Stephenson, dialogue is the key of a successful farce34, which makes it an essential feature to preserve in translation. The strong sociocultural ties of humour often require emancipation from the source text: if chained to the original text and its author, the target play will not be effective in performance 35 for the «languages of the scene»36 will not overlap. Filippo Ottoni, who translated the play into Italian, believes that «what makes English people laugh may leave us indifferent» (phone interview, November 2014 37), which is a basic rephrasing of Tymoczko’s definition of 26 Irving HOWE, “Farce and Fiction”, «The Threepenny Review», 43 (1990), pp. 5-6, p. 5. Act I is set the night before the opening of the farce Nothing On: director Lloyd tries to go through a dress rehearsal which gets constantly interrupted by the actor’s questions and problems. In Act II the the action takes place backstage before and during the performance. The relationships within the company have become more complicated and are rapidly deteriorating. The performance of Nothing On is affected by missed cues, forgotten lines, misplaced props and falling trousers. Act III shows the demise of the company. The actors change the play considerably, making mistakes and trying to dissimulate. They all manage to get to the end of the play and their happy ending. 28 HOWE, “Farce and Fiction”, p. 5. 29 HOWE, “Farce and Fiction”, p. 5. 30 PAGE, File on Frayn, p. 31. 31 PAGE, File on Frayn, p. 30. 32 PAGE, File on Frayn, p. 32. 33 CANNINGS, “Towards a Definition of Farce as a Literary Genre”, p. 558. 34 Robert C. STEPHENSON, “Farce as Method”, «Tulane Drama Review», 5.2 (1960), pp. 85-93, p. 90. 35 According to Hutcheon, however, playwrights «like to think that they’re the sole author of everything that happens on stage» (HUTCHEON, Theory of Adaptation, p. 79) and interpret every modification as an interference: they might not welcome nor understand any change to their creation. 36 Gigi LIVIO, La scrittura drammatica: teoria e pratica esegetica, Milano, Mursia, 1992, p. 10. 37 The citations reported are the result of the author of this article’s conversations with Filippo Ottoni and Viviana Toniolo, who agreed to share the creative process which led to the translation and the performance of Rumori fuori scena. 27 Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https:// rhesis.it/ Literature, 9.2: 96-112, 2018 101 «comical paradigm»38. A variable amount of rewriting or modifications might then be necessary: style, tone and dialect are the resources of the target language which greatly contribute to the comic effect, as well as sentence structure, lexical choices and language variety39. As for the specific features of the target culture comedy, Italian humour is polarized. According to Paolo Consigli, a pagan and hedonistic side of Italian humour coexists with a Christian and moralizing one 40, with a regular emphasis on farce and sexual allusions. This leads to believe that the farcical aspects of NO might harmonize well with the target culture humour and that modifications based on differences between comic backgrounds could be easily avoided. However, the Compagnia Attori & Tecnici fired the first translator for having produced a word-by-word translation: Since the [first] translation didn’t work, we called Filippo Ottoni […] His translation was wonderful: you read it and you understand it’s funny. I remember I was in bed, reading it and laughing out loud, because it had all that it was supposed to be there (Viviana Toniolo, personal communication, September 2014). Despite the apparent similarities related to the farcical mood, the first literal translation of the play was not satisfying enough from a performative perspective. In order to reach the goal of laughter (pivotal in a farce), the cultural roots of humour often force the source text and the translation to go separate ways. Moreover, since drama translation calls for quick and dynamic lines which adequately match the action, both language and comic situations need to be enhanced when necessary41. As Ottoni revealed, being involved in the creative process of the show offered him a guideline and a clear plan, very useful to emancipate effectively from the source text, especially considering that «literal translations never work. They are changed» (Ottoni, phone interview, November 2014). Ottoni also revealed that working as an active part of the team and knowing what the director expects from the text is crucial for the translator to stay in control: «I agree with changing what does not work, but this has to be done the way the director wants. Doing my way is useless. I think this is what a good translator must do» (Ottoni, phone interview, November 2014), that is, to devise a way to start pushing the text where the director will ultimately lead it. This does not mean that the lines written by the translator will not be modified later. In this sense, Viviana Toniolo, Corsini’s partner, is equally clear: 38 Jeroen VANDAELE, “Humour in Translation”, in Yves GAMBIER, Luc VAN DOORSLAER (eds.) Handbook of Translation Studies, Amsterdam-Philadelphia, John Benjamin Publishing Company, 2010, pp. 147-152, p. 150. 39 See Dirk DELABASTITA “A Great Feast of Languages: Shakespeare’s Multilingual Comedy in King Henry V”, «The Translator», 8.2 (2002), pp. 303-340. Research on translating humour mainly lingered on wordplay and punning, considered harder to translate than «cultural-based humour» or «reality-based humour» (Brigit MAHER, Recreation and Style: Translating Humorous Literature in Italian and English, AmsterdamPhiladelphia, John Benjamin Publishing Company, p. 6), where function (assessing the importance of the comic moments in the overall text) becomes crucial for a successful translation. 40 Paolo CONSIGLI, “Humor in Italy”, in Avner ZIV (ed.), National Styles of Humor, New York, Greenwood Press, 1988, pp. 133-151, p. 135. 41 As Bergson said, the comic effect stems from the contrast between what a character wants to communicate and what happens to him/her while trying to communicate (Henri BERGSON, Il riso. Saggio sul significato del comico, translated by Federica Sossi, Milano, Feltrinelli, 2011, p. 17). Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https:// rhesis.it/ Literature, 9.2: 96-112, 2018 102 When you go on stage you realize that some things need to change: a phrase might be too long or some words too literary. Words get cut or changed because the audience has to understand everything and arrive at the final goal: to laugh (Toniolo, personal communication, September 2014). It emerges that the philological respect for the source text is not the main concern in comedy, especially when the strong sociocultural roots of humour require a precise translation strategy. The overview of the issues raised by the translation and the outline of a clear targetoriented approach in the process leading to the Italian script are the necessary introduction to the following contrastive analysis. The purpose is to detect the nature of the shifts from NO to Rumori Fuori Scena (from now on RFS). The Italian translation of the play (also by Filippo Ottoni) was first published by Costa&Nolan in 1985 (two years after the first Italian performance42). For this article, however, the Compagnia Attori &Tecnici shared the video recording still used by the company to revise RFS for each year’s new run. The deep differences between the lines of the published play and the lines performed by the actors confirm the fluidity of the dramatic text. The editorial translation of RFS does not mirror the text performed on stage and it cannot be used as the sole reference in a study whose objective is to analyze theatrical translation from the practitioners’ perspective. However, as one additional version of the play, a comparison between the editorial translation (meant for the reader) and the script obtained from the video recording (hence, used in performance and meant for the actors) will allow a clearer view of the difference from Frayn’s source text. The following study will then involve three different texts: the English source play (NO), the 2005 edition of the Italian translation (RFS 1) and the script (RFS 2). The analysis will privilege the translating techniques which mirror a precise dramaturgical vision related to the medium itself, such as amplification and rewriting43. The lines here presented are taken directly from the video recording, with a brief description of what actors do on stage to clarify the action. The first examples which demonstrate how the director can influence the identity of the target play and its translation involve swearing and sexual references. In a farce, laughter is a priority. Vulgarity usually ensures safe and fast results, for it does not act on the propositional meaning but on the evocative meaning44. Vulgarity adds an emotional weight to the lines and emphasizes them while economizing on words, so it can be unexpectedly useful to empower certain moments of the play without adding original material. While 42 Rumori fuori scena debuted on Dec. 4, 1983 at the Teatro Flaiano in Rome. Lexical shifs originating from linguistic or cultural interferences were present and tackled. «We were in weekly rep together in Peebles» (Michael FRAYN, “Noises Off”, in ID., Plays: 1, London, Methuen 1997, pp. 359-522, p. 383) becomes «Abbiamo fatto insieme i carri di Tespi» (Michael FRAYN, Rumori fuori scena, translated by Filippo Ottoni, Genova, Costa&Nolan, 2005, p. 28) in RFS1 and it is further reduced in RFS2: «è con lui che sono entrata in arte». Philip’s reference «If Inland Revenue finds out we're in the country […] » (FRAYN, “Noises Off”, p. 389) is explicitated in both translation and script: «Se l'ufficio delle imposte viene a sapere che siamo tornati […] » (FRAYN, Rumori fuori scena, p. 32). Close translation is avoided also for allusions to Oxfam: «I’ll give it to Oxfam with the other one» (FRAYN, “Noises Off”, p. 441) becomes «Adesso la nascondo in un posto dove non la ritrova di sicuro» (FRAYN, Rumori fuori scena, p. 66). 44 Fay R. LEDVINKA, What the fuck are you talking about? Traduzione, omissione e censura nel doppiaggio e nel sottotitolaggio in Italia, Torino, Eris Edizioni, 2011, p. 14. 43 Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https:// rhesis.it/ Literature, 9.2: 96-112, 2018 103 swearing is barely noticeable in RFS1 (aligned with NO), it becomes quite noticeable in RFS2. The amplification mainly involves the lines of the director, Lloyd (Raul in RFS2), and Roger (Gerry in RFS2), the most irritable actor of the company. Ex 1 NO. LLOYD: Take the sardines off with you 45. RFS2. RAUL: Quando esci di scena… portati via QUELLE CAZZO DI SARDINE!46 Ex. 2 NO. ROGER: […] I mean, I’m just, you know47, in case anyone’s looking at all this and thinking ‘My God’48! RFS2. GERRY: Perché se qualcuno vedesse quello che stiamo facendo potrebbe anche dire: e che cazzo … (Act III) According to Viviana Toniolo, the first performances were even richer in swearing. After Corsini’s death, however, that aspect was softened at the audience’s request. Sexual references have also been boosted wherever possible. RFS1 already adopts some truly clever solutions: NO. ROGER (the bathroom door opens, Roger closes it): oh, and a client. I’m showing a prospective tenant over the house [...] she’s thinking of renting it… her interest is definitely aroused49. RFS1. GARRY (la porta del bagno si apre, Roger la richiude): ah! C’è anche una cliente […] è molto eccitata all’idea di prenderlo … in affitto, naturalmente 50. The verb ‘arouse’ in the source text clearly leads to a sexual allusion, but it is mitigated by the subject, ‘the interest’. In RFS1, Ottoni was able to exploit a fortuitous linguistic coincidence. The same line is translated with a word choice immediately suggesting a sexual encounter, using an anaphoric reference and moving the explanatory houserenting part at the end of the line. In RFS2, the amplification is evident in the new lines (absent in NO and in RFS1): RFS2. GERRY: Eh…passavo da queste parti, ho aperto la porta e… oh! E… mi son detto… Oh! Quanta polvere… Che faccio, la scopo... La casa, naturalmente… Eh, c’è qui anche una cliente, stavamo per concludere... Sull’appartamento, voglio dire […] È molto eccitata all’idea di prenderlo… l’appartamento. (Act I) In colloquial and informal spoken Italian, the verb ‘scopare’, means both “to sweep the floor” and “to screw”, while the verb ‘concludere’ (which indicates a successful economic transition in standard Italian) also refers to a sexual encounter which is sure to happen. Moreover, the noun for ‘house’ in Italian is feminine, so the object pronoun ‘la’ can ambiguously refer both to the house or to Vicky, Gerry’s lover: a reference to the dusty floor was added to exploit such an ambiguity. Furthermore, at the end of the line, the same 45 FRAYN, “Noises Off”, p. 375. 46 (Act I). Capital letters indicate the screaming attitude of the actor. 47 Roger’s frequent fillers are preserved in RFS2 (mainly translated as «capito, no?»). They often come at the end of Gerry’s lines to add rhythm but they are strategically avoided if the line stands on its own, as in this example. 48 FRAYN, “Noises Off”, p. 499. 49 FRAYN, “Noises Off”, p. 373. 50 FRAYN, Rumori fuori scena, p. 22. Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https:// rhesis.it/ Literature, 9.2: 96-112, 2018 104 solution is reprised by the masculine pronoun ‘lo’, which, paired with the verbs ‘eccitare’ and ‘prendere’, immediately evokes the male reproductive organ. The malicious reference is again redirected by Gerry himself, specifying he was referring to the ‘appartamento’ (“flat”, also a masculin word, which matches the verb ‘to take’ as in “to rent”). The amplification pivots around the same core topic of the source text, with the addition of new linguistic material which draws from a consolidated tradition of sex jokes. Another amplification involving the exploitation of sexual double meanings is found in Act I, where the actors desperately look for Selsdon/Amedeo: NO. LLOYD: Split into two, there’s a front and a back. And instantly we’ve lost him 51. RFS2. RAUL: Diviso in due, c’è un davanti e un didietro. Stando noi nel davanti ce lo siamo subito perso nel didietro… Not only does RFS2 play on the similarity between the noun ‘dietro’ (“back”) and ‘didietro’ (a colloquial synonym of “bottom”), but it also exploits the possible confusion between the verb ‘perdere’ (“to lose”) and ‘prendere’ (“to take”): all these linguistic elements evoke a quite vulgar expression and, metaphorically, someone who is tricked or in trouble (in this case, the rehearsal cannot continue without Amedeo). The addition of sexual puns and allusions aims to empower the target text while respecting the features of the farce. RFS1, presumably translated by Filippo Ottoni alone, did not experiment with additions as much as RFS2: this leads to thinking that it was the collaboration with the director which allowed Ottoni (or maybe Corsini himself) to detach his translation from the source text. Adaptation often extends to the features of some characters (for instance, moving from screen to stage52), while fewer changes are expected in translation. The following examples show that stage translation can change the characters’ traits for the benefit of the performance. The evolution of Selsdon (NO) into Amedeo (RFS2) is indicative of the will to build a character’s specific features around the target culture. The modifications are part of the performing process: Corsini worked on empowering the comic impact of Amedeo’s scenes. For instance, in Act I Amedeo recalls one of the many times he forgot to arrive on time for a performance. The amplification aims at emphasizing his funny clumsiness and his old age: NO. SELSDON: I was having a little postprandial snooze at the back of the stalls so as to be ready for the rehearsal53. RFS2. AMEDEO: Stavo facendo un pisolino postprandiale giù nelle ultime file, aspettando che toccasse a me54 […] Non avrò mica saltato la prima, eh? […] No, perché mi è già 51 FRAYN, “Noises Off”, p. 26. 52 Eva ESPASA, “Performability in Translation: Speakability? Playability? Or just Saleability?”, in Carol Ann UPTON, Moving Target: Theatre Translation and Cultural Relocation, Manchester, St. Jerome Publishing, 2000, pp. 49-62. 53 FRAYN, “Noises Off”, p. 384. 54 A direct translation of «so as to be ready for the rehearsal» was avoided despite the absence of particular linguistic problems. However, ‘per essere pronto per le prove, or ‘così da esser pronto per le prove’ is not as Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https:// rhesis.it/ Literature, 9.2: 96-112, 2018 105 successo di saltare una prima, sapete? Ci fu un certo scompiglio. Eravamo a Liverpool, nel 1934, e voi vi ricorderete com’era a quei tempi… In the following passage, the scene revolves more explicitly around Amedeo’s hearing impairment than the source text. NO. SELSDON: I met Myra Hess once […] LLOYD: From your entrance, please, Selsdon. SELSDON: Well, it was during the war, at a charity show in Sunderland… LLOYD: Thank you, Poppy! SELSDON: Oh, not for me, it stops me sleeping. RFS2. AMEDEO: Io l’ho conosciuta, sai, Giacinta Galletti… […] RAUL: Riprendiamo dalla tua entrata? AMEDEO: Ma sì era sfollata, abbiamo anche fatto uno spettacolo insieme tra le truppe… RAUL: Amedeo sei divino ma adesso basta! AMEDEO: Un piatto di pasta con un bicchiere di vino a quest’ora me lo farei proprio! Keeping the pun based on Poppy (the assistant’s name and the plant) would have implied a close translation with an uncertain outcome. A simple game of assonances achieves the same result more efficiently in the target language. Here is one more example of Amedeo’s enhanced comic character: NO. SELSDON: So, what are they offering? One microwave oven. What? Fifty quid? Hardly worth lifting it. …junk…junk…junk… if you insist…55 RFS2. AMEDEO (speaking to an imaginary colleague back stage): Tu fai il palo che io faccio il carico ma senza fretta… tanto nel pomeriggio non ho altri impegni (notices the receiver is out of place and he picks it up) Pronto? / È un’ora che aspetta? / Squire, Squire e come si chiama l’altro? / E che ne so io, adesso faccio il carico…/ che cosa offre la piazza vediamo un po’ / oh, un forno a microonde / e quanto ci si può fare? Venti sterline? Non vale la pena di portarlo via / questo è una porcheria, questo è una porcheria, questo è meglio di niente / quando dicono che l’età della pensione è dura dicono il giusto / questo è proprio un furto da pensionato. In NO, Selsdon enters playing the Burglar and begins to examine the items in the house, predicting their value. In RFS2, Amedeo’s debut lines refer to a backstage accomplice. The receiver of the phone had not been put back from a previous conversation (a further independent deviation from the source) and Amedeo picks it up, starting a conversation with someone who, as the audience learns, has been waiting on line the whole time. Having been mentioned before, the reference to ‘Squire’ is already familiar. Amedeo ends by philosophizing on the bitterness of his life as a retired burglar, which helps the audience sympathize with him. This example confirms that amplification in RFS2 tends to avoid inserting original material: the expanded part refers to already known facts or names. The reference to retirement is clearly devised to engage the Italian audience. While the playwright’s determination against all modifications in the target play sometimes complicates the intercultural communication, Frayn wisely proves to be fluid and as synthetic as the final choice, which proves that the performability of the lines is a primary concern of stage translation. 55 FRAYN, “Noises Off”, p. 411. Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https:// rhesis.it/ Literature, 9.2: 96-112, 2018 106 aware of the different destinies of his play in translation, as he says in the introductory Author’s Note in Plays 156. He is willing to embrace convincing modifications which aim at the target audience’s positive reception. It is worth noting that the heaviest interventions in RFS2 concern the ending of the acts: they need to be impactful given their importance in the overall play. While Act I of NO and RFS1 simply features a few lines by Selsdon, RFS2 ends with a ‘Sardine Song’: a small musical number, a simple choreography in which all actors sing an elementary tune. Minor as it might appear, its inclusion was the director’s idea. The ending of Act II starts moving in a different direction in terms of character development and dramaturgical devices. In NO, Frayn’s most exploited (maybe even abused) way of creating dialogic chaos consists of organizing the scene around a core dialogue whose development plods by constant and sometimes repetitive interruptions which Corsini and Ottoni expunge, making the overall dialogue fluid and less disjointed. Far from being driven by objective cultural differences, this decision reflects divergent dramatic visions concerning the optimal dialogical structure57, which gives a different emphasis on certain characters or actions. NO shows Poppy trying to make a confession to Lloyd. Her lines are not indicated in the scene direction, which means that if the play is read, the development of the action is left to the reader’s imagination. At the end, Poppy screams her pregnancy, interrupted by Selsdon’s repeated search for cues, a typical example of Frayn’s dialogical organization: NO. POPPY (screams to Lloyd in despair): I’m going to have a… SELSDON (flings the front door open): Good old-fashioned plate of what…? POPPY: … baby! Selsdon goes back on stage. poppy claps her hand over her mouth, horrified58. Despite Poppy’s revelation being the key moment, the act ends with Lloyd accidentally sitting on a cactus. In RFS1, Poppy, whispering at first, complains about Lloyd’s absence and his daily rehearsals; then, according to the stage direction, Lloyd offers her some whisky and she starts to speak a little louder, revealing that she knows of Lloyd’s other woman. Finally, when Lloyd still seems not to have heard, she starts screaming. RFS1 clarifies the meaning of the conversation which was only roughly indicated in the source text, but reprises its ending, with Lloyd’s last line and the scene with the cactus59. In RFS2, Poppy’s confession stands out with a slightly hysterical scene (probably expected by an Italian audience) and it is fully emphasized by erasing all interruptions. The lines of Lella – Poppy’s new name in RFS2 – have been greatly amplified with references to her loneliness in order to enhance the audience’s sympathy for this broken-hearted assistant. Lella’s revelation ends the act. 56 FRAYN, “Author’s Note”, in “Noises Off”, p. 360. 57 See Manfred PFISTER, The Theory and Analysis of Drama, translated by John Halliday, Cambridge, Cambridge University Press, 1991. 58 FRAYN, “Noises Off”, p. 491. 59 FRAYN, Rumori fuori scena, p. 117. Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https:// rhesis.it/ Literature, 9.2: 96-112, 2018 107 RFS2. LELLA: Senti io adesso ti devo proprio parlare. Eh, sì, lo so che non è il momento adatto, ma con te non è mai il momento adatto. Io continuo a telefonarti, ma non ci sei mai. Lo so che hai da fare tutto il giorno, ma non ci sei neanche la notte, e neanche al mattino ti trovo ma, e non so dove vai... Raul kisses her on her forehead and starts to walk away. LELLA (raising her voice): No, no, no, non cercare di blandirmi; io ora ti dirò tutto quello che ti devo dire, perché appena calerà il sipario tu andrai in camerino da Lisa, lo so. Ti ho visto sai, che le regalavi un cactus! non sono mica cieca! E poi riprenderai il treno per Roma. Comincio a capire come funzioni, Raul, scommetto che te la fai con qualcuna del Giulietta e Romeo. Ah, ma questa volta non puoi cavartela così! (raising her voice again) e allora bello mio sturati le orecchie, perché io sono INCINTA! (The other actors quietly stop performing, silence – and the curtain- fall). Act III offers a theatrical lesson on comic timing, self-control and theatrical discipline, without which the whole performance falls apart. Its comic effect comes from repetition: the audience, who knows the lines, understands the actor’s frantic improvisation. Critics underlined the weaknesses of the third act, so pivotal in a farce60. As Viviana Toniolo highlights, «we saw the show in London and we noticed that Act III was really long, and there was little laughing» (personal interview, September 2014), but they attributed the issue to their scarce linguistic knowledge. When we read it in Ottoni’s translation we understood: Act three did not work because it was telling private matters, pregnancies and stuff, right on stage. You just need to show the audience what was on Act I, everything they already know, so they can laugh at the actors, their fights, their mistakes. If you propose fights with words instead of facts, one simply doesn’t believe it. So, Attilio [Corsini] cut it all out (Toniolo, personal interview, September 2014). Corsini tackled the dramaturgical issues from the beginning of the act. NO, in fact, starts with Tim and Poppy apologizing for the delay while a fight between Belinda and Dotty is audible off stage. NO. TIM: Good evening ladies and gentlemen (he removes the Burglar’s cap). […] We apologize for the slight delay in starting tonight, which is due to circumstances… BELINDA (off, screaming but indistinguishable): Hands off Freddie! All right? DOTTY (off, screaming but indistinguishable): You’re the one who’s trying to get their hands on Freddie! TIM: … Due to circumstances… DOTTY (off, screaming but indistinguishable): You don’t own him, you know! TIM: … beyond our control … The sound of a slap, off, and Dotty screams in pain, off61. RFS2 highlights the fight between the two actresses by showing it on stage in all its comic violence (instead of leaving it to the spectator’s imagination): the background for the following action is set in less than thirty seconds. 60 «Act II […] is also a forceful argument for farce’s value as human comedy. Perhaps nothing could top it, and Act III doesn’t always succeed» (PAGE, File on Frayn, p. 33). 61 FRAYN, “Noises Off”, p. 492. Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https:// rhesis.it/ Literature, 9.2: 96-112, 2018 108 According to Viviana Toniolo, modifications aiming at improving the play bring excellent results62. The ending of Act III proves Corsini’s will to produce the best play possible: so convincing was this new solution that Frayn decided to use Corsini’s ending after having seen the Italian performance. In NO, three characters playing The Burglar are tricked into coming on stage by the cue “I’ve heard of this getting stuck with a problem, but this is ridiculous”. One by one, the three actors repeat their lines, triggering ironic comments by their colleagues on stage. They all turn to Lloyd (among the burglars), paralysed in stage-fright: Flavia takes control of the situation by, quite literally, putting the words in Lloyd’s mouth. One by one, all the objects mentioned throughout the play (doors, sardines, a phone, bags and boxes) are frantically chased. The act ends with an improvised wedding between Lloyd and Poppy. In Corsini’s opinion, such dramatic structure needed improvement. He preserved the three entrances of the Burglars, which harmonize well with the general feeling of disorganization. However, RFS2 focuses on rhythm, with the fast pace of the action – emphasized in the performance – contributing to the farcical and paradoxical mood. Whenever possible, the actors nervously try to hold on to their lines (by now well known to the audience) to keep the performance going. For instance, Gerry catches Raul’s casual reference to the police to recover his lines (“ora scendo giù e chiamo la polizia”), but chaos prevails again when the phone starts to ring by itself, forcing the actors to go back to improvising. Undismayed, Lisa sticks to her lines, mechanically repeating them even when they are completely disconnected from the situation. The crescendo culminates with Amedeo’s closing line: “Quando arriva il momento che la vita offre soltanto dolori ed incertezze, non c’è niente di meglio che … Una buona tazza di tè!”, which ends the act and the play. Corsini acknowledged Frayn’s idea of chaos, reinterpreting it. Translating a play is to devise solutions which go beyond the inter-linguistic dimension. The case study shows Ottoni and Corsini’s target-oriented approach: they considered the audience’s dramatic expectations and the director’s artistic direction: these were the focus around which major changes were developed. Modifications of the source text might not be driven exclusively by cultural interference63, but also by a different view of the best dramatic structure to produce laughter. Having been running in Italy for thirty years, RFS is now probably seen as a classic. As a play whose strength is to talk about theatre, it certainly has a universal appeal 64, but the analysis showed that modifications were still needed to facilitate its success. Michael Frayn does not compare to classic playwrights in terms of expectations and critical evaluation, which erased all philological pressures on the source text. Thanks to Filippo Ottoni and Viviana Toniolo’s contribution, the analysis benefits from the practitioners’ vision of the play: acting in terms of what is dramaturgically efficient, 62 Frayn’s 1998 Copenhagen, also translated by Filippo Ottoni, is a further example. «The Italian version is half as long as the English one and that is why it has been successful. Frayn saw Copenhagen with me. He was silent. He understood the play had been appreciated. But he also realized the play had changed» (Ottoni, phone interview 2014). 63 References to Inland Revenue, for instance, have been domesticated or neutralized. 64 FRAYN, Rumori fuori scena, p. 9. Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https:// rhesis.it/ Literature, 9.2: 96-112, 2018 109 they pursued a mini-max strategy65, like translators. Corsini was able to shape his version of the play thanks to Ottoni’s constant support: a collaboration between translator and director is the only way for the translator to be involved in the process and produce a text truly tailored on the performance. In this case, Corsini and Ottoni operated on the source play by amplifying, cutting and rewriting, which confirms the fluid nature of the dramatic text. In RFS2 many interventions are motivated by the inconsistencies in the dramatic development of the source text, whose potential was still clear to Corsini. Being the text one of the elements of the theatrical dynamic but not its invariable centre, the comic force of the NO was improved as Corsini saw fit: the play was a farce, and its goal was to make the audience laugh. However, sometimes RFS2 pushes on sex jokes as the easiest and safest choice to get to that goal, trying to force them in the lines instead of defining innovative ways to improve the writing. The analysis of RFS1 and RFS2 highlights the factors and the complex framework which influence the transposition of a foreign play into the target stage as well as the importance of practitioners’ experience for a full understanding of the identity of the target play and the requirements of stage translation. References BAINES, Roger, MARINETTI, Cristina, PERTEGHELLA, Manuela (eds.), Staging and Performing Translation: Text and Theatre Practice, Basingstoke, Palgrave Macmillan, 2011. BASSNETT, Susan, Translation Studies, London-New York, Routledge, 2002. BERGSON, Henri, Il Riso. Saggio sul significato del comico, Italian translation by Federica Sossi, Milano, Feltrinelli, 2011. BIGLIAZZI, Silvia, KOFLER, Peter, AMBROSI Paola (eds.), Theatre Translation in Performance, Abingdon, Routledge, 2013. BUSFIELD, Roger M., The Playwright’s Art: Stage, Radio, Television, Motion Pictures, New York, Harper, 1971. 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As it is evident, the results of this study constitute an indispensable preliminary contribution to the realization of the first critical edition of the poem which is currently being prepared. Key words – Voie d’Enfer et de Paradis; Pierre de l’Hôpital; allegorical voyage; textual criticism; Romance Philology Nonostante l’importanza da esso rivestita nel panorama dei viaggi allegorici nell’Aldilà, il componimento della Voie d’Enfer et de Paradis, attribuito a Pierre de l’Hôpital e ascrivibile ai primi decenni del secolo XIV, ha suscitato un interesse assai scarso da parte della critica. Dopo una dovuta contestualizzazione del testo e dei successivi riadattamenti, il presente contributo fa luce sulla sua tradizione manoscritta, dando contezza dello stato della trasmissione testuale e fornendo una serie di riscontri ecdotici che avvalorano l’ipotesi di uno stemma codicum bipartito nei due rami A-B e C-S. I risultati qui sintetizzati costituiscono un indispensabile apporto preliminare alla realizzazione della prima edizione critica della Voie d’Enfer et de Paradis, che l’autore dell’articolo sta approntando. Parole chiave – Voie d’Enfer et de Paradis; Pierre de l’Hôpital; viaggio allegorico; critica testuale; Filologia romanza 1. Premessa Tra i componimenti oitanici ascrivibili alla tipologia testuale del viaggio allegorico nell’Aldilà, l’inedita Voie d’Enfer et de Paradis attribuita a Pierre de l’Hôpital (13151336) ha rivestito sicuramente un ruolo di primaria importanza nella diacronia del genere letterario a cui pertiene. Inizialmente introdotta nel dominio d’oïl dai tanti volgarizzamenti di testi Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https:// rhesis.it/ Literature, 9.2: 113-132, 2018 114 appartenenti alla letteratura mediolatina (secoli XII e XIII)1, la tradizione dei viaggi allegorici conosce in Francia un profondo rinnovamento a partire dall’eccentrico Songe d’Enfer di Raoul de Houdenc (1215 ca.): esente da legami di filiazione diretta con altri antecedenti, infatti, la parodia attuata nel Songe d’Enfer rovescia la funzione pedagogica che nella letteratura visionaria era di norma affidata al procedimento allegorico, in ciò attestando di fatto un’avvenuta canonizzazione del modello testuale o genere letterario a cui ogni eventuale forma di riscrittura non può che riferirsi. Al componimento di Raoul fa immediato seguito una Voie de Paradis “presudoraoulliana” che lo conclude (e certo lo corregge) nel quadro di un Aldilà, per così dire, panottico o panoramico2, comprendente in sé, cioè, l’intero spazio escatologico che dall’inferno “inferiore” ascende fino al limite ultimo del paradiso celeste, alla visio beatifica. “Metamorfosi odeporica” delle più tradizionali visiones, la tipologia narrativa del viaggio allegorico “in sogno” così elaborata nel corso del secolo XIII, dunque, si rivelerà di una produttività sorprendente3: all’inizio del secolo successivo, il primo componimento a raccogliere il testimone del Songe d’Enfer e del suo sequel (seppure, va detto, con toni e intenzioni apparentemente contrastanti) sarà appunto la Voie d’Enfer et de Paradis attribuita a Pierre de l’Hôpital e subito seguita dall’altro, omonimo ma ben più noto viaggio allegorico di Jean de le Mote (1340 ca.)4. A tal proposito, nella sua recente monografia dedicata all’eclettica produzione dell’autore hennuyer, Silvère Menegaldo ipotizza ragionevolmente che la Voie di Jean de le Mote abbia trovato nella precedente Voie di Pierre de l’Hôpital nientemeno che la sua stessa fonte diretta5, in ciò recuperando una prima intuizione che fu già di Antoine Thomas6. Ma c’è di più; a conferma dell’ampio Fortleben che ha riguardato la Voie d’Enfer et de Paradis di Pierre de l’Hôpital, certo già avvalorato da una tradizione del 1 Segnatamente, le sei versioni della Vision de saint Paul (secolo XIII), derivate dalle dieci versioni abbreviate dell’apocrifa Visio Pauli (secoli VII-XI); l’immram del Voyage de saint Brendan di Benedeit (secolo XII); le due versioni in prosa e il frammento in versi che traducono la tardiva Visio Tnugdali (1149) redatta dal monaco irlandese Marcus sul modello dei Dialogi di Gregorio Magno; infine, l’Espurgatoire seint Patriz (1190 ca.) di Maria – forse Maria di Francia – derivato dal trattato latino del monaco cistercense H(enry) de Saltrey. Per uno studio approfondito sulle origini del viaggio allegorico rimando a Fabienne POMEL, Les voies de l’au-delà et l’essor de l’allégorie au Moyen Âge, Paris, Honoré Champion Éditeur, 2001; Jérôme BASCHET, Les représentations de l’enfer en France et en Italie (XIIe-XVe siècle), Roma, École française, 1993 («Bibliothèque des Écoles françaises d’Athènes et de Rome», 279) e Claude CAROZZI, Le voyage de l’âme dans l’au-delà d’après la littérature latine (Ve-XIIIe siècle), Roma, École française, 1994 («École française de Rome», 189). 2 Cfr. CAROZZI, Le voyage de l’âme dans l’au-delà d’après la littérature latine (Ve-XIIIe siècle), pp. 589 sgg. 3 Si ricordino altresì le composizioni della Voie de Paradis di Rutebeuf e dell’altra (omonima) di Baudouin de Condé, ascrivibili anch’esse al secolo XIII. 4 L’unica edizione critica del testo, a oggi, è Mary Aquiline PETY, La Voie d’Enfer et de Paradis. An Unpublished Poem of the Fourteenth Century by Jehan de La Mote, Washington, Catholic University of America Press, 1940 (Reimpr. New York, AMS Press, 1969). 5 Cfr. Silvère MENEGALDO, Le dernier Ménestrel? Jean de Le Mote, une poétique en transition (autour de 1340), Gèneve, Droz, 2015, pp. 203-259. 6 Antoine THOMAS, Anonyme, auteur de la Voie d’enfer et de paradis, «Histoire littéraire de la France», 36 (1927), p. 91. Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https:// rhesis.it/ Literature, 9.2: 113-132, 2018 115 testo comprensiva di ben quattro testimoni manoscritti (ms. A: BnF fr. 1543, cc. 99va151rb; ms. B: Cambrais, BM 176, cc. 1ra-65rb; ms. C: BnF fr. 24313, cc. 1ra-26vb; ms. S: St.-Omer, BM 752, cc. 175ra-217rb), si annoverano altresì due ulteriori rielaborazioni dello stesso componimento, anch’esse peraltro inedite e collocabili cronologicamente a cavaliere dei secoli XIV e XV: si tratta del Songe de la Voie d’Enfer et de la Voie de Paradis, scritto sotto forma di dialogo e tràdito da tre testimoni (ms. D: BnF fr. 1051, cc. 1-55v; ms. E: Gent, Universiteitsbibliotheek, 352, cc. 1-8; ms. n° 775, attualmente in vendita presso Les Enluminures) e della moralità conosciuta sotto il titolo di Speculum mondialle, trasmessa purtroppo acefala e da un codex unicus (ms. F: BnF fr. 1534, f. 118va-139rb)7. La fortunata trasmissione della prima “drammatizzazione” e della seconda, vera e propria mise-en-scène del testo (con tutta probabilità rappresentata a Parigi8) offre di fatto la rara occasione di poter studiare le dinamiche inerenti alla ricezione e ai processi di circolazione e riadattamento (teatrale, nella fattispecie) di un componimento medioevale ascrivibile al genere allegorico-didattico. L’apogeo trecentesco del modello narrativo del viaggio allegorico si chiuderà, in definitiva, con la magniloquente grandeur del triplice Pèlerinage (de Vie humaine, in due redazioni, de l’Âme e de Jésus Christ) redatto a metà secolo, in più di trentacinquemila versi, da Guillaume de Degulleville e contrassegnato da un uso ossessivo dell’analogia e da un esasperato eccesso di “allegorismo”, che «conduisent à une esthétique […] de la prolifération et de l’éclatement, qui traduit une amplification de l’angoisse existentielle que l’allégorie ne parvient plus à canaliser ou conjurer» 9. Com’è evidente, dunque, il testo di Pierre de l’Hôpital si colloca effettivamente al vertice diacronico della produzione allegorico-visionaria in antico francese, rappresentandone l’esito maturo e contribuendo notevolmente agli sviluppi futuri che ne interesseranno la tipologia testuale. Non sarà superfluo, pertanto, fornire qui un pur breve riepilogo del contenuto stesso che il componimento offre al lettore: Dopo essersi addormentato, il chierico protagonista della Voie intraprende, per sua stessa volontà, un lungo pellegrinaggio sulla via verso l’inferno accompagnato da Disperazione, che lo guiderà presso i sette peccati capitali (a loro volta personificati da rispettabili dame di corte): Orgoglio, Invidia, Avarizia, Ira, Pigrizia, Gola e Lussuria. Il testo segue dappresso un paradigma narrativo tendenzialmente puntuale, fatte salve minime variazioni: dopo essere giunto presso la “castellania” 7 Le sigle dei manoscritti ora riportate furono apposte da Antoine Thomas nel resoconto che offrì della tradizione manoscritta della Voie di Pierre de l’Hôpital e delle sue dirette riscritture: lo studioso, all’epoca, non conosceva l’esistenza del terzo testimone del Songe (attualmente in vendita presso Les Enluminures con segnatura 775), ragion per cui lo stesso manoscritto è rimasto a tutt’oggi privo di sigla e la lettera F contrassegna invece il codex unicus dello Speculum mondialle. Cfr. THOMAS, “Anonyme, auteur de la Voie d’enfer et de paradis”, pp. 86-89. 8 «On peut croire que l’œuvre qu’il nous a laissée fut représentée à Paris […]» (THOMAS, “Anonyme, auteur de la Voie d’enfer et de paradis”, p. 99); dello stesso avviso Piezzoli: «Bien que nous ne possédions pas de trace de sa représentation, la pièce a certainement été jouée» (Thérèse PIEZZOLI, La Voie d’Enfer et de Paradis. Poème du XIVe siècle, «École nationale des chartes. Positions des thèses», [1952], p. 88). 9 POMEL, Les voies de l’au-delà et l’essor de l’allégorie au Moyen Âge, p. 513. Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https:// rhesis.it/ Literature, 9.2: 113-132, 2018 116 di ciascun vizio (il cui ambiente è descritto in modo del tutto confacente al carattere della propria signora, secondo un efficace procedimento analogico), il chierico riceve dalle sue stesse ospiti un catalogo di “anti-comandamenti” a cui egli promette di volta in volta di attenersi, un manicaretto – specchiante anch’esso l’indole del relativo peccato – e la possibilità di pernottamento, così che l’indomani mattina egli possa di nuovo mettersi in cammino, sempre in compagnia di Disperazione, alla volta del vizio successivo. Va qui segnalato lo spazio concesso dall’autore al proprio gusto per una satira sociale che non risparmia veramente nessuno e il cui tramite è perlopiù offerto dai monologhi delle sette castellane (notevole, in tal senso, la conoscenza dallo stesso dimostrata del mondo dei commerci, tanto che, sostiene Thomas, «l’histoire de notre langue peut s’enrichir grâce à lui de termes techniques qui ne figurent pas souvent dans les textes littéraires»10). Va da sé che il sentiero intrapreso condurrà ben presto il pellegrino all’imboccatura dell’inferno “inferiore”, di fronte al quale, tuttavia, egli si mostrerà renitente a proseguire, spaventato com’è dagli orrori che vi intravede e di cui il narratore offrirà una sintetica ma suggestiva rievocazione. Approfittando quindi della momentanea assenza di Disperazione, andata in cerca del rinforzo dei diavoli, il chierico si rivolge in preghiera a Contrizione, grazie a cui riesce a sfuggire alle orde infernali che tentano di acciuffarlo, raggiungendo la dimora di Confessione: qui riconosce le proprie colpe e riepiloga i fondamenti della dottrina cristiana. A seguire, Soddisfazione propone al protagonista un’adeguata penitenza. Il chierico può finalmente risvegliarsi, a tutta prima spaventato dal ricordo del pericolo vissuto ma dipoi subito rincuorato per il buon esito del sogno; riaddormentatosi, intraprende così la seconda metà del proprio viaggio onirico, in tutto speculare alla prima: guidato ora da Speranza nella via delle virtù, egli fa tappa presso Umiltà, Pazienza, Liberalità, Sobrietà, Castità e Isneleté (Diligenza). L’approdo finale è all’hortus conclusus del paradiso terrestre (cf. Genesi 2, 8-14) «[…], dont émane une odeur exquise et au milieu duquel se trouve l’Arbre de vie ainsi que la source des quatre grands fleuves d’Asie, soit le Nil (“Gyon”), le Gange (“Phison”), le Tigre et l’Euphrate»11. Lo spettacolo insostenibile del paradiso celeste sarà di fatto appena intravisto, non essendo permesso al chierico di sperimentare la tanto agognata visio beatifica, nonostante l’intercessione accordatagli su richiesta dalla stessa Carità. È il momento del risveglio definitivo: nel prolisso epilogo del racconto, il narratore in prima persona invoca la misericordia divina per il penitente, secondo gli esempi scritturali di Zaccheo e Maria Maddalena; defilandosi poi da un’eventuale accusa di invidia che le numerose tirate satiriche dell’opera potrebbero attirargli, egli offre anzi una brillante descrizione allegorica dell’Arbre d’envie. Il componimento si chiude dunque con una richiesta di preghiera per l’anima del committente e destinatario dell’opera (un bon preudomme di cui però si tace il nome), oltre che per il suo stesso autore. Da quanto detto finora, fa specie che la Voie d’Enfer et de Paradis di Pierre de l’Hôpital (e il discorso, si badi, è estendibile alle sue stesse riscritture) sia rimasta a oggi non soltanto inedita, ma quasi del tutto priva di bibliografia e ignorata, allo stesso modo, sia 10 11 THOMAS, “Anonyme, auteur de la Voie d’enfer et de paradis”, p. 95. MENEGALDO, Le dernier Ménestrel?, pp. 213-214. Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https:// rhesis.it/ Literature, 9.2: 113-132, 2018 117 dalla critica testuale che letteraria. A maggior ragione, allora, andrà indubbiamente reso merito ad Antoine Thomas per aver censito e offerto, nel lontano 1927, un resoconto puntuale dei tre testimoni della Voie (A, B e C) e degli altri tre latori dei suoi due rifacimenti (D, E e F) che all’epoca erano i soli a essere conosciuti. Lo studioso, che già rilevava come la regione di provenienza dell’autore (a lui ancora ignoto) dovesse circoscriversi entro un’area geografica compresa tra Piccardia, Artois e Vallonia occidentale, si esprimeva altresì sulla datazione del componimento, desunta sulla base di un’allusione storica del testo alla morte di Enguerrand de Marigny (1315, terminus a quo) e sull’ipotesi dell’anteriorità dello stesso rispetto alla Voie d’Enfer et de Paradis di Jean de le Mote (1340 ca., terminus ad quem); come anticipato poc’anzi, il suggerimento sarebbe stato in seguito raccolto da Menegaldo, che di recente ha avanzato la proposta della filiazione diretta della seconda Voie dalla prima12. Lo stesso Thomas, tuttavia, non aveva ancora ipotizzato una genealogia o un tipo stemmatico della tradizione del testo a lui nota. Esattamente trent’anni più tardi, in alcune sue notules lexicologiques del 1957, Michel Dubois, oltre a dare per la prima volta notizia dell’esistenza di un quarto testimone del componimento (ms. S = St.-Omer, BM 752) e del nome dell’autore ivi restituito in rubrica (c. 175r), osservava incidentalmente: «Les mss se groupent en deux familles, AB et CS»13. Il laconico appunto di Dubois, d’altronde, trovava già in parte conferma nella scelta del manoscritto di base per un’edizione parziale del testo (Les sept vices) prevista qualche anno prima in una tesi per l’École nationale des chartes, discussa tra il 31 marzo e il 1° aprile 1952: «[…] le manuscrit français 24313 de la Bibliothèque nationale semble le meilleur. […]. Il offre, en cas de divergence entre les trois manuscrits, des leçons préférables à celles des deux autres. Les règles de la métrique y sont mieux observées»14. Come si mostrerà a breve, a un’attenta analisi della tradizione manoscritta che restituisce la Voie d’Enfer et de Paradis di Pierre de l’Hôpital, risulta effettivamente confermato un bifidismo di fondo che riduce al limite, in sede di edizione, le possibilità di automatismo nella scelta delle varianti e lascia ampio spazio ai criteri interni e al “famigerato judicium”15, laddove le lezioni concorrenti oppongano tra loro i due rami dello stemma16. 12 Antoine Thomas si limitava a constatare l’anteriorità della Voie di Pierre de l’Hôpital sull’altra di Jean de le Mote in base al fatto che il primo testo alluda satiricamente alle decime concesse dal papa ai re di Francia in occasione della guerra di crociata, le quali «ont donné lieu à de nombreuses tractations depuis le règne de Philippe III jusqu’à celui de Philippe VI inclusivement», non estendendosi di fatto oltre il 1336 (THOMAS, “Anonyme, auteur de la Voie d’enfer et de paradis”, p. 91; ma cfr. altresì PIEZZOLI, “La Voie d’Enfer et de Paradis. Poème du XIVe siècle”, p. 88). Il passo ulteriore compiuto da Menegaldo poggia, oltre che sulla struttura dei due componimenti e sulla loro “vischiosità intertestuale” (come avrebbe avuto a definirla Segre), anche sulla puntuale descrizione del “romanzesco” château tournoyant che in ambo i testi designa la dimora di Envie e sull’unica attestazione occorsa nella Voie di Jean de le Mote (v. 3391) del nome Accide (letto maldestramente dal solo editore del testo, tra l’altro): «autre façon de désigner Paresse, dont le caractère isolé pourrait témoigner d’une imitation de Pierre de l’Hôpital, qui de son côté utilise indifféremment les deux noms» (MENEGALDO, Le dernier Ménestrel?, pp. 222-223). 13 Michel DUBOIS, “Notules lexicologiques”, «Romania», 78 (1957), pp. 390-392, p. 391. 14 PIEZZOLI, “La Voie d’Enfer et de Paradis. Poème du XIVe siècle”, p. 90. La tesi di Piezzoli non fu mai depositata nelle Archives e a oggi, purtroppo, non ne rimane che un conciso sommario. 15 Cfr. Gianfranco CONTINI, Breviario di ecdotica, Torino, Einaudi, 1997, p. 138. Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https:// rhesis.it/ Literature, 9.2: 113-132, 2018 118 2. I Quattro Testimoni Manoscritti Della Voie d’enfer et de paradis Prima di procedere al confronto delle varianti, tuttavia, sarà necessario dar conto, seppure in breve, dello stato in cui attualmente si trova la tradizione del testo, costituita, come già ricordato, da quattro testimoni manoscritti: 1) ms. A (7448 vv.): BnF fr. 1543, cc. 99va-151rb; datato al 1402 (c. 238v). Del testimone è innanzitutto da segnalare una considerevole lacuna rilevabile tra le due colonne di compilazione alla c. 111v, cagionata probabilmente dalla perdita di una carta dell’antigrafo. L’omissione è compresa in 142 vv. in B (cc. 15r b-16va); 144 vv. in C (cc. 11rb-12ra) e 144 vv. in S (cc. 185ra-186ra). Il ms. A, talvolta, inserisce alcuni versi che non trovano riscontro negli altri testimoni; si consideri, per esempio, la pericope in cui Orgueil diffida il protagonista di affidarsi a Umilité17; la modifica di un rimante da parte di A implica, dapprima, l’introduzione di un verso successivo per la costituzione di un nuovo couplet (accorde : descorde), e poi l’inserimento di un ulteriore verso, del tutto accessorio, necessario a sua volta a ristabilire la rima personne : somme compromessa rispetto all’originaria adonne : personne del couplet di C-S: «Car il n’est nulz, s’a li s’accorde, «Qui n’ait a my moult grant descorde, «Car trop m’aville se personne «Et m’ennuie. C’est la somme: «Qui s’umelie Dieux l’accrout. Ms. A, c. 101rb. «Car il n’est nulz, s’a li s’adonne, « *** «Que trop n’aville sa personne: « *** «Qui s’umilie Dieus l’acrout. Ms. C, c. 2va (cfr. B, c. 3ra; S, c. 176vb). 16 Ciò vale, è ovvio, nel caso di una ricostruzione filologica del testo che non si limiti a emendare, bédierianamente, gli errori “evidenti” di un presunto codex optimus. 17 Il senso del passo in C, B e S sarebbe il seguente: «Perché non vi è alcuno che, se a lei [a Umiltà] si dona, non avvilisca la (sua) persona: “Chi si umilia, Dio lo piega”». L’anacoluto e il tono dell’ultimo verso sono indici di un’espressione paremiologica (la somme di A, evidentemente) che si dimostra piuttosto ricorrente specie in autori e/o testi piccardi: «Par trop luy taire ou estre solitaire, / Et sans notaire, on pert bien bruit et brout: / Qui trop s’abaisse, on dit que Dieu l’acrout» (Noël DUPIRE, Les Faictz et dictz de Jean Molinet, Paris, Société des Anciens Textes Français, 1936-1939, v. 1, p. 218). «Qui s’acrout, en [var. Dieu] l’abesse, se dit on mainte fye»; «Qui hante lez chetifs povreté va quirant, / Qui s’acrout on le va tout adez abaissant / Et ly homs qui se va honnestement pourtant / On le prise et honneure et moqu’on le meschant» (Noëlle LABORDERIE, Florent et Octavien, chanson de geste du XIVe siècle, Paris, Champion, 1991, t. 1, pp. 50; 106 [«Nouvelle bibliothèque du Moyen Âge; 17»]). «Messages est de Dieu, si com j’ay en pensé, / Estrait de haute gent et de haut parenté, / Le branc tient en sa main, si a juré Jhesu / Que jamais joye n’ara, si lui ara rendu, / Car ung proverbë est monlt souvent ramentu: / Qui s’acro[i]t, Dieu l’abaisse, dont il est confundu» (qui l’editore ha corretto acrout in acroit. Marie-Jeanne PINVIDIC, Les enfances de Doon de Mayence. Édition et étude, Thèse de Doctorat, Université d’Aix-Marseille 1, 1995, p. 506). «Pour ce a chascun son art souffise / Et son estat sanz faire emprise / De trop ne po querir hault bout; / Car qui s’abaisse Dieux l’acrout, / Et qui se hauce plus qu’a point, / Cheoir le fault en petit point» (Gaston RAYNAUD, Le Miroir de mariage, in ID., Œuvres complètes de Eustache Deschamps, Paris, Didot, 1894, t. 9, p. 300 [«Société des Anciens Textes Français»]); ecc. Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https:// rhesis.it/ Literature, 9.2: 113-132, 2018 119 Altrove, ricorrono varie altre lacune di uno o due versi dovute probabilmente alla disattenzione del copista, talvolta recuperate dall’introduzione di versi sostitutivi. 2) ms. B (7394 vv.): Cambrais, BM 176, cc. 1ra-65rb; sec. XV. La lezione del testo tràdita dal ms. B è molto difettosa: oltre alle pressoché costanti ipometrie dovute alla mancata trascrizione di intere parole (perlopiù monosillabi), vanno segnalate numerose lacune di varia estensione: 3 vv. alla c. 10vb (cfr. A, c. 107vb; C, c. 8ra; S, c. 182ra-rb); quattro serie di couplets (8 vv.) alla c. 11ra (cfr. A, c. 108ra; C, c. 8rb; S, c. 182rb-va); altri cinque couplets (10 vv.) e un verso alla c. 11va (cfr. A, c. 108va; C, c. 8va-vb; S, cc. 182vb-183ra); 8 vv. alla c. 20va (cfr. A, c. 115ra; C, c. 15ra; lacuna in S); 14 vv. alla c. 20vb (cfr. A, c. 115rb; C, c. 15rb; lacuna in S); 7 vv. alla c. 21ra-rb (cfr. A, c. 115rb-va; C, c. 15rb-va; S, c. 189ra) e altri 44 vv. alla c. 23ra (cfr. A, c. 117ra-va; C, cc. 16vb-17ra; S, c. 190va-vb). Altre varie omissioni riguardano invece singoli octosyllabes, talvolta sostituiti dal copista con un’innovazione. 3) ms. C (4320 vv.): BnF fr. 24313, cc. 1ra-26vb; sec. XIV. Il testimone più antico restituisce purtroppo solo una parte della Voie. Oltre a quattro versi lasciati in bianco (cfr. cc. 8ra-va-vb; 20rb) – tracce perspicue di evidenti difficoltà nella lettura dell’antigrafo – il ms. C è esente dalle sviste più palesi di A e B e mostra, inoltre, poche omissioni: 2 couplets alla c. 6ra (cfr. A, c. 105rb-va; B, cc. 7vb-8ra; S, c. 180ra); 2 couplets alla c. 10ra (cfr. A, c. 110rb; B, c. 13va; lacuna in S); 4 vv. alla c. 16vb (cfr. A, c. 117ra; B, c. 23ra; S, c. 190va). In altri luoghi, C riporta alcuni couplets che mancano negli altri tre testimoni (difficile a dirsi se introdotti dal copista dello stesso manoscritto – o nel suo antigrafo – ovvero se già presenti nel supposto archetipo): alla c. 8ra (cfr. A, c. c. 107vb; B, c. 10vb; S, c. 182ra) e alla c. 13vb (cfr. A, c. 113va; B, c. 18vb; S, c. 187vb). 4) ms. S (6237 vv.): St.-Omer, BM 752, cc. 175ra-217rb; sec. XVI. Anche il copista del ms. S risulta molto più solerte rispetto agli estensori di A e di B. Nel testimone sono rilevabili quattro cospicue lacune che, a giudicare dalla loro entità e posizione (sempre tra il verso di una carta e il recto della successiva), possono imputarsi alla perdita di almeno sette carte del codice, certamente agevolata da un’avvenuta rifascicolazione dello stesso, com’è evidente dalla rifilatura del taglio: perdita di una carta tra le cc. 179v e 180r (cfr. A, cc. 104va-105va = 141 vv.; B, cc. 6vb-8ra = 141 vv.; C, cc. 5rb-6va = 140 vv.); perdita di una carta tra le cc. 183v e 184r (cfr. A, cc. 109va110vb = 145 vv.; B, cc. 12va-13vb = 145 vv.; C, cc. 9va-10rb = 143 vv); perdita di una carta tra le cc. 188v e 189r (cfr. A, cc. 114va-115va = 145 vv.; B, cc. 20ra-21ra = 123 vv.; C, cc. 14va-15va = 145 vv.); perdita di quattro carte tra le cc. 206v e 207r (cfr. A, cc. 133vb-137vb = 580 vv.; B, cc. 44va-48va = 567 vv.; lacuna in C). Il formato in folio del codice e il fatto che lo stesso risulti mutilo delle prime quindici carte possono spiegare infine la perdita degli ultimi due o tre fogli che avrebbero Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https:// rhesis.it/ Literature, 9.2: 113-132, 2018 120 restituito una sezione finale del componimento compresa in una misura di 343 vv. nel ms. A e di 344 vv. nel ms. B. Grazie al confronto tra le lacune riscontrate nei quattro testimoni della Voie e sopra menzionate e data la cronologia dei manoscritti, si può escludere preliminarmente la presenza di codices descripti nella tradizione del testo, ovvero un’eventuale derivazione di B da A o di S da C. 3. Una tradizione bipartita Assai utile si rivela, inoltre, l’esame di alcune significative varianti che permettono di ricostruire la tipologia stemmatica della tradizione della Voie d’Enfer et de Paradis, già ricondotta a una struttura bifida, come si è detto poc’anzi, da Michel Dubois. Le sezioni testuali di seguito poste a confronto attraverso la lettura diretta dei manoscritti costituiscono, peraltro, soltanto alcuni dei numerosissimi loci della tradizione della Voie che ne dimostrano la netta bipartizione18: 1) Nella sezione iniziale del testo, in cui Desesperance ragguaglia il chierico circa la prima tappa del suo pellegrinaggio verso l’inferno, si riscontrano per esempio significative variazioni concernenti la morfologia verbale che oppongono il ramo A-B all’altro C-S: «En bon hostel geirais ennuit: «A Mont Orgueil le castel noble, «N’a tel dusqu’en Constantinoble; «Chemin aras moult deduisant, «Large, souef, moult deduisant. «Ennuit verrons Orgueil me mere «Qui n’est mie aigre ne amere, «Ains est noble, de grant afaire, «Moult grant feste nous venra faire. Ms. A, c. 100ra. «En bon hostel gerrons anuit: «A Mont Orghoel le chastel noble, «N’a tel jusqu’a Constantinoble; «Chemin arons moult deduisant, «Large, souef, non pas nuisant. «Anuit verrons Orghoel ma mere «Qui n’est ny aigre ni amere, «Ains est noble, de hault affaire «Moult grand feste nous vaulra faire. Ms. C, c. 1rb-va. «En bon hostel giras anuit: «A Mont Orguel le castiel noble, «N’a tel jusquez a Constantinoble; «Chemin aras moult deduisant, «Large, souef, non pas nuisant. «Anuit verrons Orguel ma mere «Qui n’est ne magre ne amere, «Ains est noble, de grand affaire, «En bon hostel gerrons anuit: «A Mont Orgeul le chastel noble, «N’a tel jusqu’en Constantinoble; «Chemin arons moult deduisant, «Large, souef, non pas nuisant. «Anuit verrons Orgeul ma mere «Qui n’est ne aigre ne amere, «Ains est noble et de grant affaire, 18 La piena e inequivocabile conferma dell’ipotesi stemmatica, va detto, potrà darsi dalla prova necessaria di un archetipo comune ai testimoni, che per ora è soltanto presunto: sarà necessario dunque raccogliere maggiori indizi (particolari oscurità o occorrenze di varianti adiafore in diffrazione) che siano tali da escludere definitivamente lo spettro di eventuali redazioni parallele. Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https:// rhesis.it/ Literature, 9.2: 113-132, 2018 121 «Moult grand feste nous vorra faire. Ms. B, c. 1 va-vb. «Moult grant feste nous vaurra faire. Ms. S, c. 175va. La seconda persona singolare di gesir e avoir, così com’è restituita da A e da B (laddove C e S riportano il plurale), contrasta evidentemente con la voce verrons e col seguente pronome di prima persona plurale su cui tutti i testimoni convergono. Allo stesso modo e in un contesto sostanzialmente identico, simile opposizione si ripete laddove Desesperance annuncia al chierico il prossimo soggiorno al maniero di Glouternie: Dit Desesperance le sage: Ja tost venras a son mainnage. Ms. A, c. 112vb. Dist Desesperance le sage: Ja tost venrons a son manage. Ms.C, c. 13ra-rb. Dist Desesperance ma dame: Ja tos venras a son manage. Ms. B, c. 18ra. Dist Desesperance le sage: Ja tost venrons en son manage. Ms. S, c. 187rb. Ancora, una concordanza a senso (emendata da A-B o determinata da C-S) ha potuto provocare un’opposizione simile alle precedenti, laddove l’allegoria di Fraude avverte dama Avarisse dell’arrivo di Desesperance e del chierico presso la sua dimora: Tost se’n couru Fraude le sage, Avarice avec sen lignage Trouva, qui monnoye comptoit Et en gran sacques le mettoit. Ms. A, c. 105vb. Tost se’n corut Fraude le sage, Avarisse aveucq son lignage Trouva, qui monnoye contoient Et en grans escrins les mettoient. Ms.C, c. 6rb. Tost se’n couru Fraude le sage, Avarisse avoec son lignage Trouva, qui monnoie contoit Et en grant sacquiaus les mettoit. Ms. B, c. 8va. Tost se’n courut Fraude la sage, Avarisce avec son lingnage Trouva, qui monnoie comptoient Et en grans escrins le mettoient. Ms. S, c. 180rb. 2) Nella pericope in cui Desesperance e il chierico si accingono a salire verso il castello d’Orgueil detto Montventeus – dacché «En tout l’an n’a nulle saizon / Que là dessus grans vens ne vente» (ms. C, c. 1vb) – viene descritta la fitta vegetazione che circonda il castello: .I. castel vi sus une roche, Ains homs ne vit si belle boche, De hauls sapins estoit vestue, De loriers et d’erbe menue. Ms. A, c. 100rb. Un castel vi sur une roce, N’ainc homs ne vit si bele boche, De haus sapins estoit vestue, D’oliviers et d’erbe menue. Ms.C, c. 1va. .I. castel vich sur une roche, Oncquez ne vit hons plus belle boche, Ung chastel vy sus une roche, Ains hons ne vit sy belle boche, Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https:// rhesis.it/ Literature, 9.2: 113-132, 2018 122 De haulz sapins estoit vestue, De loriies et de herbe menue Ms. B, c. 1vb. De haulz sapins estoit vestue, D’oliviers et d’erbe menue. Ms. S, c. 175vb. Com’è evidente, la lezione di A-B, in cui agli “ulivi” si sostituiscono gli “allori”, conduce all’ipermetria del verso e implica, nell’edizione, la necessaria scelta della variante attestata da C-S. Si rivelano ben più numerose, comunque, le opposizioni dei due rami per ipometria in A-B, come nel caso di un verso inserito all’interno di un monologo di Envie19, che presenta tuttavia una divergenza tra le varianti della stessa famiglia: «Quant avec les gros seras, «D’iaux flater toudis penseras. Ms. A, c. 104ra-rb. «Quand aveucq les grans gens seras, «De yaulz flater toudis penseras. Ms.C, c. 4vb. «Quant avoec les gens seras, «D’yaus toudis flater penseras. Ms. B, c. 6va. «Quant avec les grans gens seras, «D’aux flater toutdis penseras. Ms. S, c. 179va. 3) Tra le variazioni maggiormente riscontrabili, vi sono poi le frequenti anastrofi che permutano l’ordine sintattico nell’unità metrica dell’octosyllabe: Ainsi tout en parlant montasmes Tant qu’el castel andoy entrames. Ms. A, c. 100vb. Ainsi tout en montant parliesmes Tant qu’ou castel andoi entresmes. Ms.C, c. 2ra. Ensi tout en parlant montamez Tant qu’el castiel nous .ij. entramez. Ms. B, c. 2 rb. Ainsy tout en montant parlasmes Tant c’au chastel andoy entrames. Ms. S, c. 176ra. Simili opposizioni, per le quali risulta tendenzialmente assai difficile pronunciarsi, occorrono pressoché costantemente in fase di collazione20. 19 Ma si osservino ancora gli esempi seguenti (ometto le varianti minime): 1. Dal banchetto di Orgueil: «A court de roy, n’a court de conte, / De viandes plu delicieuses / N’eut onquez, ne plus precieuses» (ms. A, c. 102ra; cfr. ms. B, c. 4ra) ~ «A court de roi, n’a court de conte, / Viandes plus deliscieuzes / N’eut onques, ne plus precieuzes» (ms. C, c. 3ra; cfr. ms. S, c. 177va). 2. Dal monologo di Peresche: «Garde que trop ne traveillez» (mss. A, c. 111vb; B, c. 16vb) ~ «Garde que trop ne te traveilles» (ms. C, c. 12rb; cfr. ms. S, c. 186rb); 3. Dal monologo di Glouternie, in cui è evidente l’errore di omissione da parte di A-B: «Et quant menue gent plus boivent / Et menguent que il ne doivent, / Il cuident valoir plus que conte» (ms. A, c. 114va; cfr. ms. B, c. 20ra) ~ «Et quand menues gens plus boivent / Et menguent plus qu’el ne doibuent, / Il cuident valoir plus que compte» (ms. C, 14 va; cfr. ms. S, c. 188vb). 20 Nel caso sopra riportato, parrebbe forse preferibile la lezione di A-B, mentre C-S può aver commesso un errore di anticipazione: il costrutto sintattico [avverbio tout + gerundio di parler + verbo di moto al perfetto] sembra infatti formulare nel testo. Cfr., per esempio, più oltre: «Tout ainsi parlant ens entrasmes» (ms. C, c. 6rb, lezione su cui peraltro tutti gli altri testimoni convergono: cfr. A, c. 105vb; B, c. 8rb; S, c. 180ra). Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https:// rhesis.it/ Literature, 9.2: 113-132, 2018 123 Si consideri, ad esempio, parte della sezione del testo relativa alla descriptio personae di Envie, in cui l’anastrofe interna al verso determina l’opposizione, nei due rami, dei sintagmi le blanc des yex [var. yeus] (mss. A e B) e li [var. ly] gannes des yeulz [var. yeux] (mss. C e S): Mais onques coulour ne mua Envie, qui n’est pas vermeille, Ains estoit pale a grant merveille, Ganne, et s’ot la veue basse, Li gannes le blanc des yex passe; Moult sanloit tristre et reboulee, Pensieve ou de mal encombree. Ms. A, c. 103va. Mais unques coulour ne’n mua Envie, qui n’est pas vermeille, Ains estoit pale a grand merveille, Ganne, s’avoit le vue basse, Li gannes des yeulz le blanc passe; Moult sambloit tristre et destourbee, Pensieve ou de mal encombree. Ms.C, c. 4va. Mais oncquez couleur ne mua Envie, qui n’est pas vermeille, Ains estoit pale a grant merveille, Janne, et s’ot la veue basse, Li janne le blanc des yeus passe; Moult sanbloit triste et reboullee, Pensieus ou de mal enconbree. Ms. B, c. 5vb. Mais onques coulour ne’n mua Envie, qui n’est pas vremelle, Ains estoit pale a grant mervelle, Janne, la veue basse, Ly gannes des yeux le blanc passe; Moult sembloit triste ou destourbee, Pesme ou de mal encombree. Ms. S, c. 179ra. La tradizione risulta incerta anche nel verso precedente: C infatti diverge, per la flessione del verbo (avoit), dalla lezione di A-B (ot), mentre S omette la stessa voce verbale rendendo il verso ipometro. Nello stesso octosyllabe, tra l’altro, già compare la forma ganne o janne che verrà ripresa, sempre in incipit, nel verso successivo: l’iterazione anaforica è volta evidentemente a specificare e a sottolineare l’esangue colorito da cui la personificazione di Envie, pale a grant merveille, risulta contraddistinta. Ancora, nell’ultimo couplet riportato, l’occorrenza di due diversi participi passati riferiti a Envie, reboulee (“beffata”, in A-B) e destourbee (“infastidita”, in C-S), conferma il sistematico disporsi delle varianti nei due rami. 4) Alcune altre pericopi di particolare rilievo meritano di essere poste a confronto. Nell’esempio seguente, relativo al commiato tra il chierico e Orgueil, risulta evidente la costante opposizione tra le varianti che occorrono nei due rami della tradizione: Orgueil trouvay enmy la sale Qui n’estoit ne tainte ne pale, Ains estoit blanche et coulouree Et si tres noblement paree, Onquez si bien ne fu royne. Ysnelment vers li m’encline, Si di: «Dame je vous merchy «Car vous m’avez, par vo merchi, «Fait plus d’onneur que ne puis dire Orghoel trouvai enmi la sale Qui n’estoit ne tainte ne pale, Ains estoit blance et coulouree Et si tres noblement paree Qu’onques plus bien ne fu roine. Isnelement vers li m’encline, Si li dis: «Dame vous merci «Quar vous m’aves, par vo merci, «Fait plus d’onneur que ne puis dire Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https:// rhesis.it/ Literature, 9.2: 113-132, 2018 124 «Et plus de biens. Dieux le vous mire». Orgueil respont bassettement: «Amis, retenes seulement «Mes ensengnemens: s’en serez «Partout prisies et honneres. «Salues moy ma fille Envie, «Plus sage n’est de li en vie; «Ennuit jerres en sa maison, «Cres le, si feres raison». Ms. A, c. 102va. «Et plus de bien. Dieus le vous mire». Orghoeulz respondi bassement: «Amis retenes, seulement «Mes enseignemens: sens feres «Et partout prisies en seres. «Salues moy ma fille Envie, «Plus sage de lui n’est en vie; «Anuit gerres en sa maizon, «Crees le, si feres raison». Ms. C, c. 3va. Orguel trouvai en mi la salle Qui n’estoit ne niche ne pale, Ains estoit blancque et coulouree Et si tres noblement paree, Oncquez si bien ne fu royne. Isniellement viers luy m’encline, Si dis: «Dame je vous merchy «Car vous m’avez, par vo merchy, «Fait plus d’honneur que ne puis dire «Et plus de bien. Dieus le vous mire». Orguel respont bassetement: «Amis, retenes seulement «Mes enseignemens: si seres «Partout prisiez et honneres. «Salue moy ma fille Envie, «Plus sage n’est de li en vie; «Anuit girez en sa maison, «Crees le, si ferez raison». Ms. B, c. 4va. Orgeul trouvay en my la salle Qui n’estoit ne tainte ne palle, Ains estoit blanche et colouree Et sy tres noblement paree C’onques plus belle ne fu roine. Isnelement vers ly m’encline, Sy ly dy: «Dame vous merchy «Car vous m’aves, par vo merchy, «Fait plus d’onneur que ne puis dire «Et plus de biens. Dieux le vous mire». Orgeul respondy bassement: «Amis, retenes seulement «Mes ensegnemens: sens feres «Et partout prisies en seres. «Salues moy ma fille Envie, «Plus sage de ly n’est en vie; «Anuit gerres en se maison, «Creez le, sy ares raison». Ms. S, cc. 177vb–178ra. Nel primo caso, la lezione Qu’onques/C’onques del ramo C-S risulta certamente più congrua rispetto a Onquez di A-B, in quanto introduce, mediante la congiunzione consecutiva incipitaria assente in A-B, la subordinata che esprime la diretta conseguenza di quanto enunciato nelle principali, anticipata peraltro dagli avverbi ains e si restituiti da tutti i testimoni (ms. C: «Ains estoit blance et coulouree, / Et si tres noblement paree / Qu’onques plus bien ne fu roine»). Nel secondo riscontro, al settimo verso della citazione, la perdita del monosillabico li da parte di A-B avrà potuto cagionare, già in fase di compilazione, l’aggiunta del pronome di prima persona assente in C-S affinché la misura del verso fosse ripristinata: per lo stesso motivo, la diversa coniugazione del verbo respondre (presente in A-B e perfetto in C-S) avrà comportato la conseguente modifica, nell’un caso o nell’altro, dell’avverbio successivo. Da ultimo, la variante si seres / Partout… restituita da B – laddove A legge s(i) en seres / Partout… – potrebbe costituire una possibile banalizzazione della lezione di C e di S, d’altronde ricorrente anche altrove nel testo, per esempio nelle prime parole rivolte al chierico da Peresche: «Amis, des gros et des menus / Sui je – dist elle – moult amee, / chiere tenue et honneree; / Se tu me crois grand sens feras» (ms. C, c. 12rb: cfr. A, c. 111vb; B, c. 16va; S, c. 184rb). Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https:// rhesis.it/ Literature, 9.2: 113-132, 2018 125 Nella sezione del testo in cui Porte-Nouvelle avvisa dama Envie dell’arrivo dei due ospiti, si riscontra tuttavia una distribuzione meno omogenea delle varianti sui due rami: «Ne soiez prescheuse ne vaine, «Pour yaus veoir vous atournes «Ou de ci pour yaus vous tournes: «Entres en chambre ou en tour, «Ou vous savez bien vo contour, «Es quellez destourner vous savez «Quant volente vous en avez. «En Mal Regart, vostre tourelle, «Entres si vous plaist, demoiselle; «Jamais là ne vous trouveront, «Tant bien querre ne vous saront. «Si verrez vous quanqu’il feront «Et orrez quanquez il diront». Quant Porte Nouvelle ot tout dit, Envie un peu attendi. Ms. A, c. 102vb-103ra. «Ne soies precheuse ne vaine, «Pour yaulz veoir vous atournes «Ou de chi pour yaulz vous tournes: «Entres ou en cambre ou en tour, «Encore a .C. huis ci entour «Es quels destourner vous scaves «Quand volente vous en aves. «En Mal Regard, vostre tornelle, «Entres s’il vous plaist, dame belle; «Jamais là ne vous trouveront «Ne jamais aler n’i saront. «Se verres vous quanqu’il feront «Et orres quanques il diront». Quand Portenouvelle entendi, Envie .j. petit attendi. Ms. C, c. 3vb-4ra. «Ne soiies precheuse ne vaine, «Pour yaulz veoir vous atournez «Ou de chy pour yaulz vous tournes: «Entres en cambre ou en tour, «Dont il a tant ychy entour, «Es quelz destourner vous scavez «Quand volentet vous en avez. «En Mal Regard, vostre tournielle «Entres s’il vous plaist, dame bielle; «Jamais là ne vous trouveront, «Tant bien querre ne vous scaront. «Si veiries quancquez qu’il feroient «Et orries quancquez qu’il diroient». Quand Porte Nouvielle entendi, Envie .j. pau attendi. Ms. B, c. 5ra. «Ne soies precheuse ne vaine, «Pour aux veoir vous atournes «Ou de chy pour aux vous tournes: «Entres en chambrette ou en tour, «Encoire a .C. huis cy en tour «Es quelz destourner vous saves «Quant volente vous en aves. «En Mal Regart, vostre tourelle, «Entres s’il vous plaist, dame belle; «Jamais là ne vous trouveront «Ne jamais aler n’y saront. «Si verres vous quanque il feront «Et orres canque il parleront». Quant Porte Nouvelle entendy, Envie ung petit attendy. Ms. S, c. 178rb-178va. Nel primo caso, risulta certo da preferirsi la più congrua lectio difficilior tràdita da C-S rispetto alle concorrenti di A e di B. Ciò è d’altronde suggerito, già a una prima lettura, dalla coincidenza in clausula della variante di B, ychy entour, con la lezione restituita dall’altro ramo, che tramanda analogamente ci entour (ms. C) / cy en tour (ms. S); la lectio isolata del ms. A, Ou vous savez bien vo contour, invece, risulta banale e compromette evidentemente la rima equivoca col primo octosyllabe del couplet (procedimento retorico assai ricorrente nel componimento). Inoltre, la variante di C-S, certo più adeguata al contesto del labirinto in cui si snoda lo spazio del castello, è ulteriormente confermata dalla coerente sintassi del periodo, dacché il sintagma pronominale e[n le]s quelz (che segue) certamente presuppone il maschile plurale dei Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https:// rhesis.it/ Literature, 9.2: 113-132, 2018 126 cento huis attraverso i quali Envie è solita sfuggire a chi la cerca21. Lo stesso sintagma ricorre anche in B (pur in assenza di un antecedente al maschile plurale), mentre A, dal canto suo, aggiusta volgendo lo stesso pronome al femminile (quellez) per riferirsi anaforicamente a chambre e tour di due versi prima: se lo stratagemma riesce a compensare in parte l’inadeguatezza semantica del couplet, esso provoca tuttavia l’ipermetria dell’octosyllabe tradendo gli interventi sul testo di A-B. Nell’esempio che segue, in cui Envie si vanta di aver provocato la cacciata di Adamo ed Eva dal’Eden e la crocifissione di Cristo, l’aggiunta in incipit e per esigenze metriche di una congiunzione di troppo in C-S offusca il significato dell’intera pericope: «Evain seuch si bien enlachier «Que mengier je le fis la ponme «Dont dampne furent fenme et honme. «·L ij C· ans sans faille «Apres, mis je telle bataille «Entre juys, par enresdie, «Que Jhesucris, le fil Marie, «Firent a tort morir en crois. Ms. A, c. 104rb. «Eve sceus si bien enlachier «Que mengier je li fis le pomme «Dont dampne furent femme et homme. «Chinquante ·ij C· ans sans faille «Et apres mis je tel bataille «Entre juis, par lor envie, «Que Jhesucrist, le fil Marie, «Firent a tort morir en crois. Ms.C, c. 5ra. «Eva seuch si bien enlachier «Que mengier li fis la ponme «Dont danpnez furent fenme et honme. «Chincquante ·ii C· ans sans faille «Apries, je esmeuch tel bataille «Entre juis, de heresie, «Que Jhesucris, le fil Marie, «Firent a tort morir en croix. Ms. B, c. 6vb. «Evain seuch sy bien enlachier «Que mengier je ly fis la pomme «Dont dampne furent femme et homme. «·Lii·Cens· ans sans faille «Et apres mu ge tel bataille «Entre juis, par erredie, «Que Jhesucris, le fil Marie, «Firent a tort mourir en crois. Ms. S, c. 179vb. Come anticipato, la variante et apres restituita da C-S rende di fatto illogico il verso che precede, in cui la scansione temporale di 5200 anni [(50 + 2) * 100] sta certo a significare il periodo intercorso tra la cacciata dell’umanità dall’Eden e la morte di Cristo, secondo la cronologia risalente al Chronicon di Eusebio di Cesarea22. Inoltre, la 21 A ben vedere, lo stesso concetto veniva anticipato poco prima nel testo: «Quand trouver le quideon el porce / Devant, elle est hors par derriere, / Et se’n va bien par tel maniere / Qu’il n’est nulz qui sievir le sace» (ms. C, c. 3vb; ma cfr., allo stesso modo, i mss. A, c. 102vb; B, c. 4vb; S, c. 178rb): il porce di cui si fa parola in tal caso ha esattamente la stessa funzione dei cento huis restituiti dalla lezione di C-S sopra riportata. 22 A onor del vero, il calcolo di Eusebio (ripreso altresì in Dante, Parad. XXVI, 118-123) perviene alla cifra di 5199 anni: «Remarquons tout d’abord que 5200 est un multiple de 8, et le premier en nombre centenaire qui se présente dans le sixième millénaire. Nous supposons alors qu’il existait avant Eusèbe une ère de 5200 fondée sur le cycle lunaire de 8 ans et assortie à la chronologie courte de la vie du Christ. Dans cette ère, l’année 5201, celle de la naissance du Christ, est à la fois début de siècle et début de cucle. La chronologie courte devait porter la Passion du Christ à l’an 5231. C’est précisément celle qu’Eusèbe présente équivalemment dans sa chronique. Mais, comme Eusèbe inaugure la chronologie longue et Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https:// rhesis.it/ Literature, 9.2: 113-132, 2018 127 congiunzione iniziale et costituisce un evidente tentativo di ripristinare la misura del verso compromessa dalla caduta di una sillaba in antigrafo (telle/tel). La lezione di C-S si configura dunque come errore congiuntivo dei due testimoni. Nella sezione del testo in cui Avarisse consiglia al chierico di dedicarsi all’usura, i mss. C e S non soltanto presentano varianti divergenti rispetto alla lezione semures restituita da A-B, ma tali varianti risultano fra loro discordanti. La ricostruzione della pericope è poi ulteriormente complicata dall’inversione dei due versi del successivo couplet in uno dei due rami e dall’inusuale accordo di A con S e di B con C nella porzione testuale in cui Avarisse, negli ultimi versi di seguito riportati, assicura al chierico che egli potrà incrementare di un terzo (A-S) o addirittura triplicare (B-C) il valore del proprio investimento: Et se tu prestes as usures Sus bons gages ou sus semures, Avec les usures, les montes Je te lo bien que toudis montes, Et ainsi de ·xx· libres trente Feras en brief tamps a mente. Ms. A, c. 106vb. Et se tu prestes as uzures Sur boins wages ou sur chaintures, Je te lo bien que toudis montes Aveucq les uzures les montes, Et ainsi de ·x· libres ·xxx· Feras en brief tamps, c’est m’entente. Ms. C, c. 7ra. Et se tu prestez as usurez Sur bon gaghe ou sur semurez Et ossi en faisant tes conptez Je loch bien que toudis montes, Et ensi de ·x· livrez ·xxx· Feras en brief tanps, a m’entente. Ms. B, c. 9va. Et se tu prestes a usures Sur bons wages ou sur mesure Je te lo bien que toutdis montes Avec les usures les montes, Et ainsy de ·xx· livres ·xxx· Feras en brief tamps, c’est m’entente. Ms. S, c. 181ra. A una prima lettura, parrebbe che siano stati i mss. C e S ad aver banalizzato, indipendentemente l’uno dall’altro, la lezione concorrente sem(e)ures, qui da intendersi probabilmente nel suo significato secondario di «Ornement fait de perles semées sur une étoffe»23. Si tratterebbe, pertanto, di un accessorio di particolare pregio tra i capi di vestiario – almeno quanto lo sarebbero le chaintures menzionate da C – tale da poter di fatto costituire, all’occorrenza, il pegno perfetto per un prestito a interesse. La variante di S mesure, d’altro canto, potrebbe facilmente spiegarsi attraverso una comunissima metatesi (intenzionale o meno) incorsa nella compilazione. Tuttavia, non è nemmeno da escludersi la possibilità che l’innovazione si sia prodotta invece all’interno del ramo A-B e che la donne un peu plus de trois ans et demì à la vie publique, il aura été dans la nécessité de reculer la date de sa naissance. Il l’aura fait en s’éloignant le moins possible du nombre centenaire. On voit, en effet, qu’il ne recule que de deux ans la date de la naissance du Christ et qu’il compense le reste en diminuant la vie cachée du Christ qu’il fait achever dans sa 30 e année. Ainsi peut s’expliquer que l’ère chrétienne d’Eusèbe est 5199 au lieu de 5201» (Venance GRUMEL, La chronologie, Paris, Presses Universitaires de France, 1958 [«Bibliothèque Byzantine. Traité D’Études Byzantines. Vol. I»], pp. 24-25). 23 Gdf 7, 371c; DMF semure B; FEW XI, 436b. Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https:// rhesis.it/ Literature, 9.2: 113-132, 2018 128 variante mesure, restituita dal ms. S, possa considerarsi archetipica: se così fosse, la metatesi consonantica mesure > semures potrebbe essere stata dettata o da mero automatismo (indotto forse anche dalla precedente voce in rima usures, al plurale) o dal semplice desiderio di impreziosire il couplet. La variante del ms. C si dimostrerebbe, in ogni caso, un’evidente banalizzazione. Infine, se si suppone che l’inversione del couplet successivo fosse già presente nel subarchetipo di A-B, si potrebbe più facilmente spiegare anche l’ulteriore, eventuale innovazione del ms. B, in cui il primo verso del couplet si discosta completamente dalla lezione tràdita dagli altri manoscritti: l’anticipazione di un octosyllabe, presumibilmente indotta in fase di trascrizione dal piège à copiste della rima equivoca montes : (les) montes (lapsus, d’altronde, non sporadico in A-B), avrebbe infatti notevolmente complicato la sintassi del testo mediante l’anticipazione dell’oggetto (da un ordine SVO nei mss. C e S a un ordine OSV in A), inducendo così il compilatore di B a semplificare, sostituendo la prolessi originaria con una subordinata eccedente e impiegando intransitivamente lo stesso verbo monter. L’ipotesi di una tradizione bipartita è ulteriormente avvalorata dall’occorrenza di un couplet tràdito da A-B e mancante in C-S, cui fanno seguito altre divergenze nei successivi octosyllabes che non convergono in rima; l’esempio proposto è relativo alla porzione del testo in cui Luxure elargisce al proprio ospite alcuni consigli su come appropriarsi del corpo e quindi delle ricchezze e degli averi delle donne: Gard toy de fenmes diffamer; Saches bien, se tu lez diffames, Que tu seras hays des femnes; Et se pour leur amour avoir T’estuet despendre grant avoir, Ja ne te’n caut ne le plain mie, Tant que cascune soit t’amie: Puis que lez corps avoir poras, Sires de leur avoir seras. Ms. A, c. 116va-vb. Gard toy de femes diffamer; *** *** Et se pour leur amour acquerre T’esteut despendre avoir ou terre, Ja ne te’n cault ne le plain mie, Mais que cascune soit [t’]amie: Puis que le corps poras avoir, Sires seras de leur avoir. Ms.C, c. 16rb-va. Gart toy de fenme diffamier; Sachez bien, se tu les diffamez, Que tu seras hays des fenmez; Et se pour leur amour avoir Te couvient despendre grand avoir, Ja ne te’n cault ne le plain mie, Tant que cascunne soit t’amie: Puis que leurs corpz avoir poras, Sirez de leur avoir seras. Ms. B, c. 22va. Gart toy de femnes diffamer; *** *** Et se pour leur amour aquerre T’esteut despendre avoir ou terre, Ja ne te’n cault ne le plain mie, Mais que chascune soit t’amie: Puis que le corps porras avoir, Sires seras de leur avoir. Ms. S, c. 190ra. Al di là del couplet mancante in C-S – il cui tono sentenzioso non fa certamente escludere l’interpolazione in A-B – si potrebbe ipotizzare che la rima equivoca avoir: Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https:// rhesis.it/ Literature, 9.2: 113-132, 2018 129 avoir, subito dopo restituita da A e da B – laddove C-S presenta la difficilior aquerre : terre – sia stata erroneamente anticipata in A-B e ciò possa aver indotto lo stesso copista allo stratagemma delle anastrofi che evitassero, negli ultimi due octosyllabes citati, il ripetersi della medesima rima. Si consideri, per concludere, la prima parte del dialogo intercorso tra Desesperance e la sentinella Gastebien alla porta del maniero di Glouternie, in cui è nuovamente riscontrabile l’assenza di un couplet in uno dei due rami (A-B, nello specifico): «Desesperance bien viengniez» – Dist Gastebiens – «Or m’ensengniez «Ou vous alez et dont venes; «Qui est cilz clers que vous menes?» *** *** «Sachiez, de son pays le’n amainne: «D’infer veoir se met en painne. Ms. A, c. 113ra. «Desesperanche bien veignies» – Dist Gastebiens – «Or m’ensegnies «Ou vous ales et dont venes; «Qui est chils clers que vous menes?» «Amis – respond Desesperance – «Li clers en moy a grand fiance, «Sachies, de son paiis l’amaine: «D’infer veoir se met en paine. Ms.C, c. 13rb. «Desesperanche bien vignies» – Dist Gastebien – «Or m’ensigniez «Ou vous ales et dont venes; «Qui est cilz clercs que vous menez?» *** *** «Sachiez que de son pais l’amaine: «D’infier veoir se met en paine. Ms. B, c. 18ra. «Desesperanche bien vegnies» – Dist Gaste-bien – «Or m’enseingnies «Ou vous ales et dont venes; «Qui est chu clers que vous menes?» «Amis – respont Desesperanche – «Le clers en moy a grant fianche, «Sachies, de son pais l’amaine: «D’infer veoir se met en paine. Ms. S, c. 187rb-va. Sebbene appaia prematuro, come nei casi che precedono, pronunciarsi sulla scelta fra le varianti riportate nelle due famiglie in cui sembra dividersi la tradizione, si noterà certo come il couplet tramandato da C-S, e presumibilmente omesso in A-B, renda certamente più perspicuo, grazie all’esplicitazione del nome del secondo interlocutore, lo scambio di battute occorso tra i due personaggi. Pertanto, benché certo assai facilmente implementabili con ulteriori loci24, le sezioni testuali restituite dalla tradizione manoscritta della Voie d’Enfer et de Paradis di Pierre de l’Hôpital qui poste a confronto si rivelano assai significative per supportare l’ipotesi di una bipartizione stemmatica nei due rami A-B e C-S. 24 Menziono appena un’altra divergenza assai ricorrente nella tradizione: laddove in C-S, al termine dei tanti discorsi diretti del testo, il narratore vi si riferisce anaforicamente col sintagma c(h)es mo(t)s, in A-B la stessa espressione ricorre quasi sempre al singolare: cfr. A, c. 101ra - B, c. 2vb - C, c. 2rb - S, c. 176va; A, c. 101ra - B, c. 3ra - C, c. 2rb - S, c. 176va; A, c. 111va - B, c. 15rb - C, c. 11rb - S, c. 185 ra; A, c. 118va B, c. 24rb - C, c. 18ra - S, c. 191vb; ecc. Ma la discordanza cagionata dall’occorrenza contestuale di forme plurali in C-S e singolari in A-B ricorre spesso anche in altri casi. Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https:// rhesis.it/ Literature, 9.2: 113-132, 2018 130 In conclusione, merita di essere menzionata un’ulteriore considerazione di Michel Dubois che sembra trovare nuova conferma nell’analisi della tradizione: «Ce ms. [S = St.-Omer, BM 752], qui est, d’après le catalogue, du XVIe s., […] offre une copie dans l’ensemble correcte et, semble-t-il, fidèle de ce qu’a dû être l’original de la famille à laquelle se rattachent, outre C, une rédactïon remaniée contenue dans le mss D (BN. ffr. 1051) et E (Gand 352) et une adaptation dramatique contenue dans le ms. F (BN. ffr. 1534)»25. La valutazione di Dubois, a ben vedere, è ulteriormente rafforzata dal fatto che già nel 1952 Thérèse Piezzoli, come sopra riportato, sceglieva il ms. C quale testimone di base per un’edizione parziale del componimento (C tramanda infatti appena poco più della metà del testo). La studiosa, inoltre, segnalava come i mss. D e E, oltre a non derivare l’uno dall’altro, avessero restituito un primo rimaneggiamento della Voie il cui testo «semble s’inspirer d’un manuscrit de la rédaction originale qui ne nous serait pas parvenu»26, escludendo quindi ex silentio l’appartenenza del Songe de la Voie al ramo della tradizione di C (e quindi di S, benché il testimone audomarois non fosse ancora conosciuto): l’appunto di Piezzoli, a ben vedere, si mostra in evidente disaccordo con quanto avrebbe poi sostenuto lo stesso Dubois, secondo il quale la tradizione manoscritta relativa alle due riscritture del testo sarebbe da correlare al ramo C-S dello stemma relativo alla Voie d’Enfer et de Paradis. Dunque, il puntuale confronto con le redazioni tràdite dai testimoni dei rimaneggiamenti, quale indispensabile apporto costituito dalla tradizione indiretta del testo, consentirà di risolvere la questione della corretta collocazione dei mss. D, E e F nella genealogia della Voie d’Enfer et de Paradis e, conseguentemente, di implementare la configurazione dello stemma codicum della stessa, a maggior vantaggio di una restituzione filologica del componimento. Riferimenti bibliografici BASCHET, Jérôme, Les représentations de l’enfer en France et en Italie (XII e-XVe siècle), Roma, École française, 1993 («Bibliothèque des Écoles françaises d’Athènes et de Rome», 279). CAROZZI, Claude, Le voyage de l’âme dans l’au-delà d’après la littérature latine (V eXIIIe siècle), Roma, École française, 1994 («École française de Rome», 189). CONTINI, Gianfranco, Breviario di ecdotica, Torino, Einaudi, 1997. DUBOIS, Michel, “Notules lexicologiques”, «Romania», 78 (1957), pp. 390-392. DUPIRE, Noël, Les Faictz et dictz de Jean Molinet, Paris, Société des Anciens Textes Français, 1936-1939. 25 26 DUBOIS, “Notules lexicologiques”, p. 390. PIEZZOLI, “La Voie d’Enfer et de Paradis. Poème du XIVe siècle”, p. 88. Rhesis. 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