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International Journal of Linguistics, Philology and Literature
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MARÍA DOLORES GARCÍA SÁNCHEZ, ANTONIETTA MARRA, GIULIA MURGIA, MAURO PALA, NICOLETTA
PUDDU, PATRIZIA SERRA, VERONKA SZŐKE, DANIELA VIRDIS, FABIO VASARRI
Assistant Editor
ELEONORA FOIS
Double blind, peer reviewed.
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International Journal
of Linguistics, Philology and Literature
Literature
9.2
Dipartimento di Filologia, Letteratura e Linguistica
Università degli Studi di Cagliari
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Literature 9.2
ISSN: 2037-4569
© Copyright 2018
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Sede amministrativa: via Is Mirrionis, 1 – 09123, Cagliari
LITERATURE 9.2
CONTENTS
5
Le due virtù della spada: Justitia e Fortitudo
CARLO DONÀ
37
Sciascia and Calvino, ... and Giufà
JOSEPH FRANCESE
69
La metafisica dello sprofondo nella narrativa di Giulio Angioni
IRENE PALLADINI
85
The Sister’s Gaze in Ian McEwan’s Atonement
CLAUDIA CAO
96
The Different Lives of Michael Frayn’s Noises Off: An Italian Case Study
ELEONORA FOIS
113
Ipotesi stemmatiche nella tradizione della Voie d’Enfer et de Paradis di Pierre
de l’Hôpital
ANDREA MACCIÒ
5
Le due virtù della spada: Justitia e Fortitudo
Carlo Donà
(Università di Messina)
Abstract
Following the path of Prudentius’ Psychomachia, in the Middle Ages the sword can characterize the
representation of many Virtues, as generically proper to the Christian fighting the battle for his personal
salvation. In contemporary culture this weapon is a specific attribute of Justitia, but, between the 9th and
the15th centuries, it was primarily characteristic of another virtue, Fortitudo. The paper follows the
evolution of both these representative traditions. First of all, it focuses on the very remote origins of the
image of Justitia with sword, and on what led to the rebirth of this iconic formula after the year 1000.
Secondly, and above all, it reconstructs the forgotten history and the complex development of Fortitudo’s
representation as a warrior armed with shield and sword, unsheathed and upright.
Key words – Virtues (representation); Sword; Justitia; Fortitudo
Seguendo la via aperta dalla Psycomachia di Prudenzio, nel Medioevo la spada può caratterizzare la
rappresentazione di molte Virtù, in quanto genericamente propria del cristiano che combatte la battaglia per
ottenere la sua salvezza. Nella cultura moderna quest’arma è un attributo specifico di Justitia, ma, tra il IX e
il XV secolo, era principalmente caratteristica di un’altra virtù, Fortitudo. Il contributo segue l’evoluzione di
entrambe queste tradizioni rappresentative. Prima di tutto, si concentra sulle origini molto remote
dell’immagine di Justitia con la spada, e sul processo che portò alla rinascita di questa formula iconica dopo
l’anno 1000. In secondo luogo, e soprattutto, ricostruisce la storia, del tutto dimenticata, e il complesso
sviluppo della rappresentazione di Fortitudo come guerriero armato di scudo e spada sguainata e ritta.
Parole chiave – Virtù (rappresentazione); Spada; Justitia; Fortitudo
1. Le virtù armate
Grazie alla consegna della spada, compiuta da colui che lo addobba cavaliere, nel
Medioevo il giovane passa dalla classe degli adolescenti a quella degli adulti,
trasformandosi da valletto o bacheler in uomo di guerra; ottenendola stringe il primo
legame di fedeltà con il suo padrino d’armi, e con la sua spada in pugno diventa ciò che è
destinato ad essere, perché l’arma costituisce propriamente lo strumento della sua grandezza
e il simbolo di tutte le sue virtù, come insegna re Alfonso X di Castiglia († 1284).
Ley 4 -I buoni costumi che gli uomini tengono naturalmente in sé sono detti Bontà; in latino si
chiamano Virtù, e tra esse ve ne sono quattro di maggiori: Prudenza (cordura), Fortezza
(fortaleza), Temperanza (mesura) e Giustizia (justicia). […]. A nessuno esse convengono più
che a coloro che devono difendere <dai nemici> la Chiesa, i Re e tutti gli altri: la prudenza farà
in modo che lo sappiano fare a loro vantaggio e senza loro danno; la fortezza che siano fermi in
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ciò che faranno e non siano incostanti; la temperanza che facciano le cose come si deve e non
passino il segno, e la giustizia che le facciano secondo diritto. […] Prudenza […] mostra l’elsa
della spada che l’uomo stringe in pugno […]. Colui che si difende, tenendo le armi innanzi a sé,
dimostra con esse fortezza, che è la virtù che fa sì che l’uomo stia fermo di fronte ai pericoli che
gli si parano innanzi; allo stesso modo nel pomo sta tutta la forza della spada, poiché in essa si
innestano l’elsa, la guardia e il ferro. E come l’armatura che protegge e l’arma che colpisce sono
analoghe alla virtù della temperanza tra le cose […], così è la guardia, posta a metà tra l’elsa e la
lama. E proprio così come le armi che l’uomo stringe in mano per colpire nel punto più adatto
sono un simbolo di giustizia, che ha in sé diritto e uguaglianza, allo stesso modo ciò mostra il
ferro della spada, che è dritto e acuto, e taglia egualmente da entrambe le parti. […] Ley 14 - La
spada è l’arma che mostra queste quattro significazioni che abbiamo detto. E poiché colui che
deve essere cavaliere deve possedere in sé queste quattro virtù, gli antichi stabilirono che con
essa <spada> ricevesse l’ordine di cavalleria, e non con un’altra arma1.
La spada è dunque ciò che forma l’identità sociale del cavaliere e misura la sua
grandezza: «Librentur stricto meritorum pondera ferro»2, ‘La spada nel pugno misuri il
peso dei meriti’. Privarsi di quest’arma significava spogliarsi non solo del ruolo sociale,
ma della propria stessa umanità: qualcosa di inconcepibile e di assurdo, tanto che
quando Carlo il Grosso (839-888), figlio di Ludovico il Germanico e re di Alemannia e
d’Italia, tentò di farlo nell’873, venne senz’altro preso per ossesso, e fu subito
sottoposto a esorcismo 3. Solo il santo può e deve privarsi di questo simbolo del sé, come
San Galgano, che trasforma la spada in una croce piantandola per terra ed adorandola, o
come Sant’Alessio, che, nella miniatura che precede la sua canzone nello straordinario
Salterio di St. Alban (Dombibliothek Hildesheim, HS St. Godehard 1, fol. 28 r°, ca.
1125), inizia la sua nuova vita in Dio appunto consegnando alla moglie, esterrefatta e
dolente, la spada e l’anello. Quello che il santo compie è un premeditato suicidio
sociale, il segno irrevocabile e drammatico della sua morte al mondo, perché guerriero e
spada costituiscono un’endiadi inscindibile, e vivono in una simbiosi perpetua e
irrevocabile: tanto che un famoso spadaccino e poeta norreno del X secolo, Bersi il
Duellatore, poteva affermare, di certo con perfetta sincerità, che il giorno in cui non
avesse più potuto tenere in mano la sua cara spada Laufi la morte poteva prenderlo 4.
Possiamo capire come nel Medioevo cristiano la spada sia divenuta il fulcro dell’identità
nobiliare e del suo sistema di valori a partire da un passo, di capitale importanza, in cui San
Paolo descriveva il cristiano forte nella fede come un guerriero rivestito delle armi di Dio.
1
Alfonso X rey de Castilla, Las siete partidas. El libro del fuero de las leyes, a cura di José SANCHEZARCILLA BERNAL, Madrid, Reus, 2004, Partida Segunda, titulo XXI, De los caballeros, pp. 288-89 (ley
4), 292-293 (ley 14).
2 Sassone Grammatico, Gesta dei re e degli eroi danesi, a cura di Ludovica KOCH e Maria Adele
CIPOLLA, Torino, Einaudi, 1993, II, vii, 16, p. 111.
3 Annales Bertiniani, a cura di Georg WAITZ, MGH Script. rer. germ. 5, Hannover, Hahn, 1883, ad An.
873, pp. 122-123: Ludovico il Germanico celebra il Natale nel palazzo di Francoforte coi suoi figli
Ludovico e Carlo, che diviene preda di un demone, dando in escandescenze durante il consiglio, «et
discingens se spata, cadere in terram illam permisit, et cum se vellet balteo discingere et vestimento
exuere, coepit vexari» (p. 122). Afferrato dai cortigiani, è subito portato in chiesa, dove l’arcivescovo
Liutberto clebra per lui una messa, esorcizza il demone, e gli impone un lungo pellegrinaggio «per sacra
loca sanctorum martyrum» (p. 123) affinché il demonio sia definitivamente allontanato da lui.
4 Den Norsk-Islandske Skjaldedigtning, a cura di Finnur JÓNSSON, 2 voll., Copenhagen-Kristiania,
Gyldendalske Boghandel – Nordisk Forlag, 1912-15, vol. B1, p. 88, cit. da Hilda R. ELLIS DAVIDSON, The
Sword in Anglo-Saxon England: Its Archaeology and Literature, Oxford, Clarendon, 1962 (reprint
Woodbridge, The Boydell Press, 1994), p. 215.
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Fortificatevi nel Signore, e nella sua onnipotente virtù. Rivestitevi dell’armatura di Dio per
poter resistere alle insidie del diavolo e mantenervi fermi e vittoriosi. In piedi, dunque, cinti
i fianchi con la verità, rivestiti della corazza della giustizia, e per calzari lo zelo […].
Abbiate sempre in mano lo scudo della fede, con il quale possiate estinguere tutte le frecce
infuocate del maligno. Prendete ancora l’elmo della Salvezza e la spada dello Spirito che è
il verbo di Dio5.
1.1
1.2
1.3
Fig. 1 La virtù armata – 1.1: Pudicitia uccide la Sodomita Libido, da Prudenzio, Psychomachia, X sec.,
Brussels, Bibliotheque royale, Ms. 10066-77, fol 116 v. 1.2: Evangeliario di Enrico il Leone, Abbazia di
Helmershausen, circa 1188, München, Bayerische Staatsbibliothek Clm 30055, Virtutum legio fol. 18 r°.
1.3: Herrada di Landsberg, Humilitas guida la schiera delle virtù, dall’Hortus Deliciarum, fol. 200 r°,
Alsazia, seconda metà del XII secolo, copia di E. Schweitzer, circa 1848 da Gerard CAMES, Allégories et
Symboles dans l’Hortus deliciarum, tav. 49.
Questa immagine marziale non poteva che piacere moltissimo agli uomini dell’Età di
Mezzo, costretti a vivere in uno stato di guerra pressoché endemico, cosicché, sin dagli
inizi del V secolo, e soprattutto per influsso di un fortunatissimo poemetto allegorico, la
Psychomachia di Prudenzio, che canta con dovizia di cruenti particolari la battaglia tra
5
Efesini 6, 10-18.
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le Virtù e i Vizi, il discorso morale si andò militarizzando 6. Da un lato dunque si diffuse
un tema amatissimo, quello del conflictus virtutum et vitiorum, che, rappresentando una
serie di duelli tra le virtù e di vizi che sono ad esse contrapposte, dall’altro si fecero
delle Virtù stesse dei guerrieri armati (fig. 1.1), sempre pronti allo scontro: così esse
apparivano per esempio nell’Evangeliario di Enrico il Leone (ca. 1188, fig. 1.2) o nel
perduto manoscritto dell’Hortus Deliciarum di Herrada di Landsberg (1165 ca., fig.
1.3)7. In questa prospettiva, tutte le virtù, senza distinzione alcuna, possono essere
rappresentate come guerrieri che combattono la nobile battaglia per la salvezza (fig. 2),
e dunque tutte sono caratterizzate dalla spada. Almeno fino al XII secolo, dunque,
possono comparire armate Humilitas o Caritas, Sapientia o Fides (figg. 2.1-2.4):
reggono sempre soltanto un brando cruciforme, e assumono di norma la stessa posizione
assunta da Humilitas per guidare la schiera delle consorelle nell’Hortus: cioè la postura
di vigile e minacciosa attesa che prende il guerriero prima dello scontro, preparandosi a
colpire, con la spada in palo, cioè parallela in verticale con la punta verso l’alto, e a
difendersi con lo scudo proteso per coprire il corpo.
2.1
2.2
6
Sull’influsso di Prudenzio nelle rappresentazioni medievali v. Johanne S. NORMAN, Metamorphoses of
an Allegory. The Iconography of the Psychomachia in Medieval Art, New York, Lang, 1988. La
Psicomachia si può vedere oggi in una bella edizione con elegante traduzione italiana: Aurelio Prudenzio
Clemente, La Psycomachia. La lotta dei vizi e delle virtù, a cura di Bruno BASILE, Roma, Carocci, 2007.
7
Gerard CAMES, Allégories et symboles dans l’Hortus Deliciarum, Leiden, Brill, 1971.
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9
2.3
2.4
Fig. 2 Singole virtù con spada e scudo – 2.1: Tractatus de vitiis et virtutibus, Humilitas che si contrappone
a Superbia, regione della Loira, metà del IX secolo Paris, Bibliothèque Nationale, MS Latin 8318, fol. 53 r°.
2.2: Rotbertus, Caritas duella con Avaritia, Clermont-Ferrand, Notre-Dame du Port, ca. 1100. 2.3: Sapientia
(o Justitia?) come virtù armata, iniziale D del Libro della Sapienza, Bible de Saint-Thierry, Francia orientale
(Abbazia di Saint-Thierry, Reims), primo quarto del XII secolo, Reims - Bibliothèque Municipale, ms.
0023, f. 18. 2.4: Evangeliario di Enrico il Leone, Abbazia di Helmershausen, circa 1188, München,
Bayerische Staatsbibliothek Clm 30055, Fides armata di spada, fol. 13 v°.
Evidentemente, si tratta di un’immagine non determinata, adatta a tutta la virtutum
legio, in opposizione a specifici topoi figurativi che definiscono invece singole virtù,
come quello che sulla scorta dei passi biblici su Sansone e Davide rappresenta la virtù
della Forza, Fortitudo, mentre lotta a mani nude contro un leone (fig. 3.1).
3.1
3.2
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10
3.3
3.4
Fig. 3 Altri modelli – 3.1: Evangeliario di Enrico il Leone, Abbazia di Helmershausen, circa 1188,
München, Bayerische Staatsbibliothek Clm 30055, Fortitudo fol. 14 r°. 3.2: Fortuna volge la sua ruota,
prima metà del sec. XII, disegno aggiunto a un manoscritto spagnolo dei Moralia in Job, Manchester,
John Rylands Library, Ryland MS Latin 83, fol. 214 v°. 3.3: La retorica con Cicerone, München, CLM
2599, fol. 104 v°. 3.4: Orgoglio e Invidia, dai Salmi penitenziali del Libro d’ore Dunois, Francia centrale
(Parigi), dopo il 1436, London, British Library, Ms. Yates Thompson 3, fol. 159 r°.
D’altro canto, in quanto universale attributo della potestas, ampiamente diffuso nelle
raffigurazioni regali, la spada in questa posizione caratterizzava spesso non solo le virtù,
ma anche figure allegoriche di vario genere, e persino i vizi, che hanno signoria
sull’animo umano. In un disegno tracciato nel XII secolo su una pagina bianca di un
manoscritto dei Moralia in Job la vediamo nelle mani di Fortuna, che, con la sinistra è
intenta a girare la sua ruota (fig. 3.2); nelle illustrazioni a penna aggiunte a un codice
monacense miscellaneo, composto probabilmente ad Aldersbach tra 1225 e 1230,
caratterizza la Retorica che accompagna un Cicerone di estenuata eleganza (fig. 3.3);
mentre nel sontuoso Libro d’ore Dunois della British Library, opera francese della
prima metà del ’400, caratterizza tutte le disposizioni viziose, e tra questi Orgueil /
Orgoglio, coronato, vestito di porpora e seduto, anche lui, su un leone ed Envie /
Invidia, matrona apparentemente nobile assisa su un cane (fig. 3.4).
Ma in ambito morale la spada ha anche un valore più specifico e più strettamente
connesso all’etica cavalleresca, perché, come insegna a metà del Trecento Juan Manuel,
grande scrittore e nobilissimo principe, nel suo Libro de las armas, «… esta espada
sinifica tres cosas: la primera fortaleza, porque es de fierro; la segunda justiçia, porque
corta de amas las partes, la terçera la cruz» [«La spada significa tre cose: la prima è
Fortezza, perché è di ferro; la seconda è Giustizia, perché taglia da entrambe le parti; la
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terza è la Croce»]8. Riservandomi di affrontare altrove le spade cruciformi, cercherò di
vedere nella pagine che seguono come la spada sia divenuta il simbolo precipuo delle
due virtù cardinali per eccellenza proprie degli uomini d’arme, cioè, appunto, Giustizia
e Forza, che sono, non a caso, le due virtù messe a fuoco dalla benedictio ensis novi
militis (Durand) o benedictio ensis noviter succinti (Pontificale Romano-Germanico,
Rituale di Biburg), che risalgono forse al X secolo9, e si trovano regolarmente nei testi
liturgici almeno fino al secolo XII.
Esaudisci, ti chiediamo, o Signore, le nostre preghiere, e degnati di benedire con la maestà
della tua destra questa spada che il tuo servo N. desidera accingersi, affinché possa essere di
difesa e di protezione delle chiese, delle vedove, degli orfani e di tutti i servi di Dio contro
la malvagità dei pagani, e sia terrore, paura e timore per tutti coloro che tessono insidie 10.
Benedizione della spada del novello soldato – Dio, protettore di tutti coloro che sperano in
te, acconsenti alle nostre suppliche e concedi a questo tuo servo che con cuore sincero si
sforza per la prima volta di cingersi della spada della milizia: che in tutto sia protetto dallo
scudo della tua virtù. E come a Davide e a Giuditta desti la potenza e la vittoria della
fortezza, così, munito del tuo ausilio, sempre riesca vincitore contro la malvagità dei suoi
nemici, e possa aver successo nella tutela della Santa Chiesa11.
2. Justitia e i suoi attributi
Per noi è scontato che l’immagine di Justitia presenti come attributi fissi la spada
snudata e la bilancia, secondo un topos figurativo che soprattutto in Italia si fissa con
inusuale rigidità già sul finire del Medioevo (fig. 4) 12. La genesi di questa immagine è
tuttavia complessa, e insegna davvero molto sulle complesse dinamiche culturali
dell’Età di Mezzo.
8
Il testo del Libro de las armas o, più esattamente, Libro de los tres razones, composto tra 1342 e 1345 è
stato edito da Don Juan Manuel, Cinco tratados. Libro del cavallero et del escudero. Libro de las tres
razones. Libro enfenido. Tractado de la asunçion de la Virgen. Libro de la caça, a cura di Reinaldo
AYERBE-CHAUX, Madison, Hispanic Seminary of Medieval Studies, 1986, ma se ne trova una edizione on
line: <http://www.saavedrafajardo.org/Archivos/LIBROS/Libro0167.pdf˃, p. 7.
9 Carl ERDMANN, Alle origini dell’idea di crociata, Spoleto, Centro italiano di Studi sull’Alto Medioevo,
1996, pp. 352-359; Michel ANDRIEU (a cura di), Le Pontifical Romain au Moyen-Age, vol. III: Le
Pontifical de Guillaume Durand, Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, 1940, p. 447; Walter
VON ARX, Das Klosterrituale von Biburg, Freiburg, Universitätsverlag Freiburg, 1970, p. 262; Max
PERLACH (a cura di), Die Statuten des Deutschen Ordens, Halle a. S., Max Niemeyer, 1890, p. 129. La
benedictio armorum più antica compare nel pontificale attribuito ad Egberto di York (732-766), che fu
tuttavia contiene diversi ampliamenti posteriori: Erdmann la data al 960 circa.
10 Cyrille VOGEL, Reinhard ELZE (a cura di), Le Pontifical romano-germanique du Xe Siècle, Città del
Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, 1963, p. 379.
11 Manuale ad Usum Insignis Ecclesiae Sarum, in Manuale et processionale ad usum insignis ecclesiae
Eboracensis, a cura di William G. HENDERSON, Surtees Society 63, Durha Andrews &Co, 1875, p. 28;
Manuale ad usum percelebris Ecclesie Sarisburiencis, a cura di Arthur J. COLLINS, London, Henry
Bradshaw Society vol. 91, 1960, p. 63-64.
12 Per l’iconografia di Justitia mi limito a rinviare al bell’articolo di Paola RÉFICE, “Giustizia”, in
Enciclopedia dell’Arte Medievale, vol. VII, Roma, Treccani, 1996, pp. 2-10, con ricchissima bibliografia.
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12
4.1
4.2
4.3
Fig. 4 Justitia – 4.1: Justitia, bottega di Andrea Pisano 1335-1338, Firenze, Museo dell’Opera del
Duomo. 4.2: Bonino da Campione e collaboratori, Giustizia, Arca di Cansignorio della Scala Verona,
recinto delle arche Scaligere, ca. 1370. 4.3: Jacobello del Fiore, La giustizia, 1421, tempera su tavola;
Venezia, Gallerie dell’Accademia.
Il punto di partenza più lontano possiamo infatti ravvisarlo addirittura nelle immagini
del dio mesopotamico della giustizia, Utu-Šamaš, che è sempre contrassegnato da una
daga tenuta in palo, in quello che chiamerò “Gesto di Ostensione” (fig. 5.1-5.2), e
almeno in qualche caso verifica l’equità della bilancia (fig. 5.3): sin dal II millennio a.
C. troviamo dunque già riuniti nella sua figura tutti gli elementi fondamentali del
simplegma simbolico di Justitia.
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13
5.1
5.2
5.3
Fig 5 Utu-Šamaš dio della giustizia – 5.1: Cilindro di ematite, Isin-Larsa (2004-1790 a. C.): un re
incedente in atto di omaggio offre un toro al dio Šamaš, London, British Museum, n. 89284. 5.2:
Impronta di sigillo cilindrico, Šamaš ascende dalle Montagne dell’Est e entra attraverso le porte del cielo,
Mesopotamia, periodo akkadico, (ca. 2334–2154 a.C.), Serpentina, New York, Pierpont Morgan
Museum, no. 178. 5.3: Sigillo cilindrico di età accadica, con Šamaš in trono che controllo l’equità di una
bilancia, e offerente che porta una capra, da Jeremy BLACK, Anthony GREEN, Gods, Demons and Symbols
of Ancient Mesopotamia, London, British Museum Press, 1998, fig. 152, p. 183.
Non credo tuttavia che questo schema iconico sia giunto al Medioevo dall’antica
tradizione mesopotamica per trasmissione diretta; più verosimilmente esso pervenne in
Occidente per due strade tortuose, che a un certo punto confluirono l’una nell’altra. La
prima di queste vie passava, ovviamente, per la Sacra Scrittura, che affondando le sue
radici nello stesso terreno culturale da cui era nata la figura di Utu-Šamaš ne condivide
in buona parte l’immaginario, e quindi fornisce a Yahvéh in primo luogo una spada che
è sostanzialmente strumento di una giustizia severa e sanguigna: «Con il fuoco infatti il
Signore farà giustizia e con la spada su ogni uomo; molti saranno i colpiti dal Signore»
(Isaia 66, 16); «Temete per voi la spada, poiché è la spada che punisce l’iniquità, e
saprete che c’è un giudice» (Giobbe 19, 29); «39Sono io che do la morte e faccio vivere
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14
[…] 41quando avrò affilato la folgore della mia spada e la mia mano inizierà il giudizio,
farò vendetta dei miei avversari, ripagherò i miei nemici. 42Inebrierò di sangue le mie
frecce, si pascerà di carne la mia spada, del sangue dei cadaveri e dei prigionieri, delle
teste dei condottieri nemici!» (Deuteronomio, 32, 39-42). Dio dunque non solo possiede
una spada fiammeggiante, ma la sazia «della carne e del sangue degli uccisi, della testa
dei capi nemici» (Deut. 32, 41-42); è «ricoperta di sangue, poiché il Signore fa
carneficina a Bosra, grande strage nell’Idumea» (Is. 34, 5-6), e con essa Dio uccide
Raab e trafigge il Dragone (Is. 51,9).
6
Fig. 6 La spada di Dio - La manus Dei fa giustizia, Stuttgart Psalter, ca 820-830, Württembergische
Landesbibliothek Stuttgart, Bibl. fol. 23, fol. 147 r°.
Nell’immaginario medievale è la stessa Manus Dei che utilizza l’arma, per esempio
in uno dei capolavori dell’arte carolingia, il cosiddetto Salterio di Stoccarda, eseguito
nell’abbazia di Saint-Germain-des-Près tra l’820 e l’830, che illustra con una vivace
miniatura il salmo 129 (fig. 6). Il testo invoca l’aiuto di Dio contro i nemici di Sion.
Oggi la versione più diffusa dei versetti 3 e 4 appare piuttosto edulcorata e suona «3Sul
mio dorso hanno arato gli aratori, / hanno fatto lunghi solchi. / 4Il Signore è giusto: / ha
spezzato il giogo degli empi» (CEI). La Vulgata, però, ha una lezione assai più accesa e
bellicosa: «3supra dorsum meum fabricaverunt peccatores / prolongaverunt iniquitatem
suam. 4Dominus iustus concidit cervices peccatorum…»13, cioè «sul mio dorso i
peccatori hanno elevato le loro costruzioni, hanno protratto la loro iniquità: ma il giusto
Iddio ha tagliato le cervici di coloro che peccano». Il miniaturista carolingio, seguendo
letteralmente il testo, mostra dunque, a sinistra, Israele attonito, aureolato e chino sotto
il peso del gran muro che gli empi stanno costruendo sulle sue spalle, e a destra, con
impassibile precisione, la mano di Dio che sbuca dalle nubi e decapita i peccatori con
una spada bella e possente: ne ha già fatto fuori uno, che con la testa divisa dal corpo
sanguina copiosamente, e tuttavia mostra con la mano la potenza della giustizia divina,
e ne sta spacciando un secondo, dall’aria perplessa ma sottomessa al fato inevitabile.
13
La Nuova Vulgata segue una soluzione di compromesso: «3 Supra dorsum meum araverunt aratores, /
prolongaverunt sulcos suos. / 4 Dominus autem iustus / concidit cervices peccatorum».
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15
Ma poiché i giudizi divini sono infallibilmente giusti, oltre alla spada di giustizia
Yahvéh è fornito anche di una bilancia (fig. 7.1) che simboleggia la perfetta equità del
suo giudizio: «Mi pesi pure sulla bilancia della giustizia e Dio riconoscerà la mia
integrità» (Giobbe 31,6); «La stadera e le bilance giuste appartengono al Signore, sono
opera sua tutti i pesi del sacchetto» (Proverbi 16, 11) ecc.
7.1
7.2
7.3
Fig. 7 La bilancia della giustizia divina – 7.1: Salterio detto di Utrecht, Reims 816-835, Utrecht,
Universiteitsbibliotheek, MS Bibl. Rhenotraiectinae I Nr 32, fol. 56 r°., ps. 95, versetti 10 e 13, Il Signore
giudicherà il mondo con giustizia. 7.2: Beatus de Liébana, Commentaria in Apocalypsin, Apocalisse detta
di Silos, Santo Domingo de Silos, ultimo quarto del X secolo, British Library, Add MS 11695 fol. 102 v°.
7.3: Albrecht Dürer, I cavalieri dell’Apocalisse, particolare, 1496-1497.
Nell’immaginario biblico, dunque, la giustizia divina possiede insieme spada e
bilance, e i due oggetti appaiono riuniti insieme soprattutto nelle figure, amatissime nel
Medioevo, dei Cavalieri che in Apocalisse 6 vengono inviati da Dio per devastare la
terra negli ultimi giorni.
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16
Quando l’Agnello aprì il secondo sigillo sentii il secondo Vivente che diceva: “Vieni!”. 4
Ed ecco uscì un altro cavallo, rosso, e a colui che stava sopra fu dato il potere di togliere la
pace dalla terra e di far sì che gli uomini si sgozzassero fra di loro e gli fu consegnata una
grande spada. 5 Quando l’Agnello aprì il terzo sigillo, sentii il terzo Vivente che diceva:
“Vieni!”. E vidi immediatamente apparire un cavallo nero, e colui che vi stava sopra aveva
in mano una bilancia.
3
La diffusione di queste immagini fu letteralmente immensa, e perdurò da un capo
all’altro del Medioevo: a partire dalle colorite miniature mozarabiche dei Commentaria
in Apocalypsin di Beatus de Liébana, che in qualche caso sono precedenti al Mille (fig.
7.2) almeno fino alla grandiosa xilografia di Dürer, comparsa nel 1498 (fig. 7.3), e
dunque per oltre mezzo millennio, il terribile cavaliere degli ultimi giorni porta sempre
la spada in ostensione come segno della potestas necandi che gli è concessa, e
quest’arma appare in esplicita endiadi con la bilancia.
8.1
8.2
8.3
Fig. 8 Dee classiche della Giustizia – 8.1: Julia Domna, Asse di Pautalia, Tracia, 193-217 d. C., con
Nemesi stante che tiene bilancia e cubito. 8.2: Statua di Nemesi con il gladio, dal Nemeseion di
Carnutum, II/III sec. d. C. 8.3: Giustino I, 518-527 d.C., Pentanummium di Antiochia; Tyche.
All’incirca parallelo a questa via specificamente cristiana percorsa dagli attributi di
Justitia, correva però anche un percorso culturale diverso, che, verosimilmente
originandosi dalle stesse tradizioni antico-orientali, passava tuttavia dalla cultura
classica, e in particolare dalla tradizione greca. Qui la Giustizia in quanto astratta virtù
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17
fu personificata da alcune figure divine di sesso femminile, numerose e piuttosto mal
distinguibili l’una dall’altra – Themis, la legge divina, Dikē, Justitia, Nemesis ma anche
Astrea o Tyche, la Fortuna.
In quanto signore dell’equa misura e della retta distribuzione, queste dee sono spesso
contraddistinte da una bilancia e da uno strumento di misura: Nemesi per esempio è
regolarmente provvista della statera e tiene spesso con la sinistra il cubito (fig. 8.1),
un’asta per misurare, che tuttavia spesso, soprattutto nell’iconografia monetale,
ovviamente sommaria date le dimensioni dell’immagine, non è chiaramente
distinguibile come tale. Ma poiché queste figure divine concretamente puniscono il reo
che le ha offese, esse sono tradizionalmente associate anche alla spada. A proposito di
Dike/Justitia Eschilo già nelle Coefore ricorda che: «Sta saldo il ceppo di Giustizia / e
vi si foggia una spada il Destino…» (639 ss.); Themis/Tyche, in quella che viene
considerata l’ultima moneta con iconografia pagana, un pentanummium di Giustino I
risalente circa al 520 d. C., compare coronata e seduta in trono, intenta a stringere in
mano quella che sembrerebbe essere una spada in palo (fig. 8.3)14. Quanto a Nemesi, la
dea che, secondo il suo nome “distribuisce” ciò che spetta ad ognuno, le era dedicata
un’ara sul Campidoglio, dove le truppe deponevano una spada prima di partire per la
guerra e in alcune immagini appare dotata di una robusta spada che tiene posata sulla
spalla (fig. 8.2).
La spada del resto apparteneva al repertorio consueto del loro ambito, perché a Roma
quest’arma assunse un valore simbolico importante, in quanto rappresentò il possesso di
un particolare tipo di potere, quello ius gladii che designava fondamentalmente la
giurisdizione criminale sui cittadini, ed era costituito, concretamente, dalla possibilità di
comminare la pena capitale 15. Si discute ancora sull’evoluzione e i limiti di questo
potere di vita e di morte, ma sembra assodato che fosse prerogativa usuale dei
governatori provinciali fin dal primo impero 16.
Dopo la Constitutio Antoniniana del 212, che estese la cittadinanza romana a tutti gli
uomini liberi, il “diritto di spada” fu accordato ai governatori di rango senatorio e, in
condizioni particolari, anche a quelli di rango equestre17: gli Scriptores Historiae
14
Non è impossibile, data la cattiva qualità del conio, che si tratti in realtà di una qualche altra cosa
(come una fronda di palma o una cornucopia, un timone o, più probabilmente, l’asta per misurare), ma di
solito questi oggetti vengono retti tenendoli in modo diverso e appoggiandoli alla clavicola, ed è
comunque fuor di dubbio che come una spada l’oggetto sarà stato volentieri letto negli anni successivi.
15 L’insieme della documentazione che utilizzo è raccolta e discussa in Vincenzo AIELLO, “L’imperatore
e la spada”, in Aa. Vv., Istituzioni, carismi ed esercizio del potere (IV-VI secolo d. C.), a cura di Giorgio
BONAMENTE e Rita LIZZI TESTA, Bari, Edipuglia, 2010, pp. 11-30.
16 La teoria più diffusa è quella classica di Theodor MOMMSEN, Römisches Staatsrecht, vol. II, 1,
Leipzig, S. Hirzel, 1887-1888, p. 267 ss., e Theodor MOMMSEN, Römisches Strafrecht, Leipzig, Dunkler
& Humblot, 1899, pp. 243 ss., secondo cui lo ius gladii è in sostanza la giurisdizione criminale sui
cittadini, propria dell’imperatore e da lui delegata abitualmente a partire dal III secolo, ma ci sono alcune
voci discordanti: secondo Peter GARNEY, “The Criminal Jurisdiction of Governors”, «Journal of Roman
Studies», 58.1-2 (1970), pp. 51-59, tutti i governatori provinciali avrebbero goduto dello ius gladii fin
dalla tarda repubblica; per Arrigo MANFREDINI, “Ius Gladii”, «Annali dell’Università di Ferrara, Scienze
Giuridiche, Nuova serie», 5 (1991), pp. 104-126, viceversa si trattò essenzialmente di un potere di
poliziesco e repressivo. Sull’estensione di questo diritto si veda Detlef LIEBS, “Das ius gladii der
römischen Provinzgouverneure in der Kaiserzeit”, «Zeitschrift für Papyrologie und Epigraphik», 43
(1981), pp. 217-223.
17 Bernardo SANTALUCIA, Studi di diritto penale romano, Roma, L’Erma di Bretschneider, 1994, pp. 205,
217-218 e Bernardo SANTALUCIA, Altri studi di diritto penale romano, Padova, Cedam, 2010, p. 82.
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18
Augustae parlano di honores iuris gladii18, e secondo Ulpiano, «coloro che governano
un’intera provincia hanno lo ius gladii, e il potere di condannare ai lavori forzati nelle
miniere»19. Così, questo potere capitale finì per incarnare l’essenza stessa
dell’imperium: «L’imperium è puro o misto. Imperium puro è avere la potestas gladii
nel punire i facinorosi, cosa che si chiama anche potestas»20. Dunque, ius gladii,
potestas gladii e imperium (merum) tendevano almeno approssimativamente a
coincidere nella coscienza dei Romani di età imperiale, di certo perché la spada, nel
principato, si prestava a fungere da simbolo di somma (e a volte sommaria) giustizia
avendo soppiantato la scure come strumento della pena capitale. Lo insegna ancora
Ulpiano («Si deve eseguire la pena capitale con la spada, non con la scure, la lancia, il
bastone, il laccio o in altro modo»21) e lo testimonia l’aneddoto secondo cui Caracalla si
irritò fortemente contro il sicario tradizionalista che osò giustiziare il giurista Papiniano
con la scure: «… gladio te exequi oportuit meum iussum!»22.
San Paolo fece pienamente propria l’associazione tra gladio e giustizia in un passo di
capitale importanza, e la trasmise alla cultura cristiana con tutto l’immenso peso della
sua autorità. «4Perché il magistrato è un ministro di Dio per il tuo bene; ma se fai il
male, temi, perché egli non porta la spada invano; infatti è un ministro di Dio per
infliggere una giusta punizione a chi fa il male [«… non sine causa gladium portat: Dei
enim minister est vindex in iram ei qui malum agit]» (Romani 13).
Sin dall’alba stessa del Medioevo, dunque, Giustizia e spada furono necessariamente
associate: così già in una delle amatissime Variae di Cassiodoro (ca. 537), che
descrivendo la formula per la nomina del comes provinciae, una specie di potentissimo
governatore generale con compiti di polizia, lo mostra dotato appunto di un gladio. Le
cariche pubbliche escludono di norma l’uso delle armi ma il comes provinciae anche in
tempi di pace porta la spada di guerra («gladio bellico rebus etiam pacatis accingitur»),
affinché il reo sia punito per la salute di tutti: sono le armi della legge, non quelle del
furore e questa ostentazione ha lo scopo educativo di terrorizzare i rei più ancora della
pena («arma ista iuris sunt, non furoris. haec ostentatio nimirum est contra noxios
instituta, ut plus terror corrigat quam poena consumat. […] civilis est pavor iste, non
bellicus»)23.
18
Per esempio, nella Vita Alexandri Severi di Elio LAMPRIDIO l’imperatore «Honores iuris gladii
numquam vendi passus est» (‘Non permise che fossero oggetto di mercato le alte cariche che comportano
diritti di vita e di morte’), Scrittori della Storia Augusta, a cura di Leopoldo AGNES, Torino, UTET, 1960,
“Vita di Alessandro Severo”, § 49, p. 318.
19 Corpus iuris civilis, vol. I, a cura di Theodor MOMMSEN , Paul KRÜGER, Berlin, Weidmann, 1938,
Iustiniani Digesta, lb. I, cap. 18, De officio praesidis, § 6.8, p. 44: «Qui universas provincias regunt, ius
gladii habent et in metallum dandi potestas eis permissa est».
20 Corpus iuris civilis, Digestus, ed. MOMMSEN, KRÜGER, lb. II, cap. 1, Ulpianus 2 de off. quaest, § 3 De
Iurisdictione, pag. 46: «Imperium aut merum aut mixtum est. merum est imperium habere gladii
potestatem ad animadvertendum facinorosos homines, quod etiam potestas appellatur». Per
l’identificazione fra Ius gladii, potestas gladii e imperium merum si veda Ettore DE RUGGIERO,
Dizionario Epigrafico di antichità romane, vol. III, Roma, L. Pasqualucci, 1900, s. v. ‘gladius’, p. 532.
21 Corpus iuris civilis, Digestus, ed. MOMMSEN, KRÜGER, lb. XXXXVIII, cap. 19, Ulpianus, De Poenis 8,
§ 1, p. 847: «Vita adimitur ut puta si damnatur aliquis, ut gladio in eum animadvertatur; sed animadverti
gladio oportet non securi vel telo vel fusti vel laqueo vel quo alio modo».
22 Elio SPARZIANO, “Vita di Caracalla”, in AGNES, Scrittori della Storia Augusta, 4, 1, p. 219.
23 Magni Aurelii Cassiodori Senatoris, Variarum libri duodecim, a cura di Theodor MOMMSEN, MGH AA
XII, VII, 1, Formula comitivae provinciae, pp. 201-202.
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19
Alla luce di tutto questo, è ovvio che il Medioevo, riprendendo le immagini classiche
delle personificazioni femminili di Justitia, apportasse loro sovente una significativa
correzione. In qualche raro caso infatti i modelli antichi vennero ripresi con letterale
fedeltà, come accade nel già citato evangeliario di Enrico il Leone (fig. 9.1), dove
Justitia, aureolata, mostra statera e cubito come Nemesis, o con qualche superficiale
innovazione, sul tipo di quella presente nel battistero bronzeo del duomo di Hildesheim
(fig. 9.2), in cui Justitia tiene in luogo dell’asta misuratrice un cartiglio che riprende
Sapienza 41, 21, «Omnia in mensura […] et pondere disposuisti».
9.1
9.2
Fig. 9 Bilancia e cubito – 9.1: Evangeliario di Enrico il Leone München, Bayerische Stadtbibliothek,
Clm 30055, Helmarshausen, circa 1188 Justitia, fol. 14 v. 9.2: Hildesheim, Tesoro del duomo, fonte
battesimale, bronzo, verso il 1220, Justitia.
Nella grande maggioranza dei casi, tuttavia, seguendo da presso da un lato le
suggestioni scritturali e patristiche, dall’altro la tradizione propriamente romana, si
preferì dotare la personificazione della Giustizia di una spada snudata. A favore di
questa opzione pesò senza dubbio in modo determinate il fatto che proprio una spada
spesso accompagnava la bilancia nelle amatissime scene di psicostasia, che mostrano
San Michele intento alla pesatura delle anime in lotta con le potenze demoniache (fig.
10.1-10.2). Il passaggio dalla tradizione antica alla versione medievale si coglie in fieri
in uno dei rilievi che ornano la tomba di papa Clemente II († 1047) a Bamberga, e che
potrebbero appartenere già al programma originario del sepolcro, rifatto nel 1240 (fig.
10.3). Vi compare un personaggio femminile coronato, evidentemente identificabile con
Justitia, che tiene con la destra la bilancia, mentre con la sinistra, nella stessa posizione
con cui Nemesi regge il cubito o la Justitia di Hildesheim mostra il cartiglio, tiene una
robusta spada perfettamente stauromorfa. Ovviamente una lama pesante e afffilata non
si può tenere così, ma proprio il fatto che la posizione sia illogica mostra nel modo più
evidente la forza attrattiva del modello codificato dalla tradizione precedente.
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20
10.2
10.1
10.3
10.4
Fig. 10 San Michele e la nascita dello schema di Justitia – 10.1: Psicostasia con san Michele contende
le anime al demonio, lunetta della Pieve di Talignano (Parma), 1200 ca. 10.2: San Michele pesa le anime,
foglio volante con xilografia anonima tedesca, nei modi di Albrecht Dürer, ca. 1500. 10.3: Justitia, rilievo
dalla tomba di papa Clemente II († 1047) nella cattedrale di Bamberga. La tomba è stata rifatta nel 1240.
10.4 Giustizia fra due re, cattedrale di Léon, circa 1300.
Una volta rinnovato dall’introduzione della spada, il modulo ereditato poté evolversi
liberamente, e nel giro di qualche anno assunse il suo aspetto definitivo (fig. 10.4),
attribuendo finalmente alla personificazione della Giustizia, accanto alla statera, la
spada tenuta in palo, posizione che, essendo tipica del Re in maestà, accompagnava al
significato di minaccia insito nella lama snudata, quello di potere posseduto o esercitato.
Del resto, dai tempi di Cassiodoro in poi, l’associazione fra spada e giustizia era
diventata corrente anche nella prassi, non solo perché con la spada si eseguivano le
condanne capitali, ma anche per la forma peculiare dell’arma, in quanto la simmetria, la
presenza di due taglienti uguali e soprattutto l’aspetto cruciforme ne facevano un
simbolo perfettamente adeguato della ferrea necessità della pena e dell’imparzialità del
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21
giudizio. Può chiarirlo la testimonianza di un troviero della Champagne, Guyot de
Provins, cui si deve un poema, verboso e ripetitivo, che descrive il valore allegorico
delle varie componenti dell’armatura.
La santa scrittura divina / che ci offre l’usbergo della fede [??] / ci descrive, secondo quanto
credo, / quale sia la spada, e di che taglia. / È un bastone fatto per dar battaglia, / un bastone
del tutto dritto. / Temuto deve essere, e forte, e fiero / colui che su di sé porta la spada, /
arma che suscita gran timore. / È il più dritto dei bastoni: / e deve essere un ottimo
campione / l’uomo che porta una simile spada. / Non è né debole né torta, / ma dritta, chiara
ed affilata, / e ben tagliente, e bene acuta. / Questa Spada si chiama Rettitudine/ e ben si
accoppia all’armatura. / Chi ben la tiene, bene può attendere / i suoi nemici: per difendersi, /
forza gli dona, ed ardimento. / La Scrittura sacra, che non mente, / della Spada ci racconta /
che fu fatta per Giustizia. / Nella Spada vi è il segno di croce; / deve avere una strada
sicura, / l’uomo che tiene la dritta Spada/ se si trova in una via stretta /non deve
sconfortarsi, / ché il Nemico non può tribolare / un uomo che mena retta via. / La sua parola
deve essere ascoltata / e onorata, e posta innanzi <alle altre>; / può ben parlare con fierezza
/ chi tiene la Spada della rettitudine: / sicuramente richiede il suo diritto / ovunque, e può
ben farlo. / […] /È buona cosa tenere una simile spada /che il Nemico nostro molto teme /
Questo sappiamo bene, per fede, / che la spada fu fatta in primo luogo / per mantenere
diritto: retto quindi / deve essere colui che tiene la spada, / e per questo l’abbiamo chiamata
/ Rettitudine. Colui che segue Rettitudine / non teme nulla, fuorché Dio, / di nulla ha paura,
fuorché di Dio24.
Non stupisce, alla luce di tutto ciò, che il Medioevo abbia creato delle spade speciali,
destinate a rappresentare la potestas gladii e l’amministrazione del potere
giurisdizionale, e spesso concretamente all’esecuzione delle pene capitali, chiamate
appunto Spade di Giustizia, che si cristallizzarono in un modello fisso (fig. 11).
Fig. 11 Spada di giustizia – 12.1: Germania, XVI o XVII secolo, Colmar, Musée d’Unterlinden.
Le caratterizzavano sempre quattro elementi: a) una rigorosa simmetria bilaterale,
che doveva rappresentare l’assoluta equità del giudice, per cui le due parti sono uguali;
24
Guiot de Provins († post 1208), L’armeüre du chevalier, vv. 234.83, in Les œuvres de Guiot de Provins,
poète lyrique et satirique, a cura di John ORR, Manchester, Imprimerie de l’Univeristè, 1915, p. 101 ss. Il testo
ricorda da vicino brani del Lancelot (La Marche de Gaule, §§ 246-247, in Le Livre du Graal, a cura di Philippe
WALTER, v. II Paris, Gallimard, 2003, pp. 252-253) e del Llibre de l’ordre de cavalleria (Raimon Lull, Llibre
de l’orde de cavalleria, V.2, in Id., Obres Essentials, vol. I, a cura di Pere BOHIGAS, Barcelona, Edicions
Selecta, 1957, pp. 515-545, 538; trad. it. Raimondo Lullo, Il libro dell’Ordine di Cavalleria, a cura di Giovanni
ALLEGRA, Carmagnola, Edizioni Arktos, 1983, pp. 142-143); passi analoghi si trovano anche nell’anonimo
Ordene de Chevalerie, vv. 205-219 (Le Roman des Eles and L’ordene de chevalerie. Two Early Old French
Didactic Poems, a cura di Keith BUSBY, Amsterdam-Philadelphia, John Benjamins, 1983, pp. 110-111),
nell’Enseignement des Princes di Robert de Blois, vv. 491 ss. (Robert de Blois, Sämtliche Werke, vol. a cura di
Jacob ULRICH, Berlin, Mayer und Müller, 1906, p. 17) e soprattutto ne Li dis de l’espee di Jacques de Baisieux
(ca. 1250?) che fornisce una completa lettura allegorica della spada (Jacques de Baisieux, L’Œuvre de Jacques
de Baisieux, a cura di Patrick A. THOMAS, La Haye-Paris, Mouton, 1973, pp. 64-71).
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b) un perfetto stauromorfismo, che le assimilava alla croce di Cristo, per cui l’elsa
rettilinea è perfettamente perpendicolare alla linea della lama; c) una netta tendenza al
parallelismo dei due taglienti, che si spiega proprio sulla base dell’associazione tra
“dritto” e “diritto” e d) infine l’assenza di punta, attraverso la quale si esprimeva l’idea
che la giustizia colpisce tagliando (cioè in senso etimologico ‘de-cide’) ma non ferisce
né punge. Riuscire a riconoscere a colpo d’occhio questa particolare tipologia di spade è
importante per interpretare correttamente le testimonianze figurative. Esse infatti
affiorano più spesso di quanto non si possa credere, soprattutto nelle scene sacre, e in
ogni caso la loro comparsa vuole sottolineare che ciò che con esse si compie è opera di
giustizia e non di violenza. È per esempio quel che fece, intorno al 1265, il geniale
miniatore della Douce Apocalypse rappresentando il suo Cristo trionfante (fig. 12.1) che
con una spada siffatta sconfigge i re al servizio della Bestia, e pone così fine alla storia e
istaura il suo regno millenario. Quanto tenace fosse questa tradizione rappresentativa lo
dimostra il fatto che, più di due secoli dopo, essa veniva ancora rigorosamente seguita
da Andrea Mantegna, che in due versioni della decapitazione di Oloferne (tempera della
National Gallery of Art, Washington, monocromo della National Gallery of Ireland, fig.
12.2), dota le sue scultoree Giuditte appunto di una spada di Giustizia. Qualche anno
dopo lo stesso accade, del resto, alle eroine eleganti e perverse di Lucas Cranach.
12.1
12.2
Fig. 12 Violenza giusta – 12.1: Cristo sconfigge i seguaci della Bestia, Apocalisse, detta Douce Apocalypse,
London? c. 1265-70, Oxford, Bodleyan Library, MS. Douce 180, fol. 84. 12.2: Andrea Mantegna, Giuditta con
la testa di Oloferne, tempera su tela, 1495, Dublin, National Gallery of Ireland.
3. Le metamorfosi di Fortitudo
La militarizzazione del discorso morale, iniziata col passo paolino della lettera agli
Efesini e con la Psychomachia prudenziana, si attagliava ancor più che a Justitia,
soprattutto a Fortezza o Fortitudo25, virtù aristocratica e maschile per eccellenza (cfr. gr.
ἀνδρεία < ἀνήρ, lat. virtus < vir), e inerente sia il piano fisico che quello morale (non
25
Non a caso nel De anima di Ugo di San Vittore è appunto Vis o Fortitudo che enuncia in prima persona
i succitati versetti paolini: v. PL CLXXVII, col. 185.
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23
per nulla appartiene al novero delle virtù cardinali 26), giacché, per dirla con Alfonso el
Sabio «fortaleza […] es virtud que hace al hombre estar firme a los peligros que le
vienen». Per buone ragioni, insomma, Fortitudo è la virtù fiera e bellicosa per
antonomasia, ed è pertanto ad essa che bisognerà riferire in prima battuta le
rappresentazioni della Virtus armata, tanto più che essa costituisce in un certo senso una
condizione preliminare alla manifestazione di tutte le altre virtù, in quanto specifica la
disposizione d’animo necessaria per resistere nel bene, disposizione che deve essere
insieme salda, combattiva e tenace.
Come accade un po’ per tutte le virtù, tuttavia, le rappresentazioni di Fortitudo non
seguono sempre un tipo unico. Dal Rinascimento in poi, per lo più essa viene
rappresentata di volta in volta come una donna che spezza una colonna, o apre a mani
nude le fauci di un leone (fig. 4.1) con allusione alla storia biblica di Sansone; ma nel
Medioevo, e già prima del Mille, essa appare più spesso armata.
13.1
13.2
13.3
Fig. 13 Fortitudo armata di lancia – 13.1: Sacramentorum liber S. Gregorii papæ, Autun, Bibliothèque
Municipale, ms. 0019 bis fol. 173v°, 845-850. 13.2: Bibbia di Carlo il Calvo, detta di San Paolo fuori le mura,
scuola di Reims, 870 ca., fol. 1r°: Carlo il Calvo in trono circondato dalle virtù cardinali (part.), Roma,
Biblioteca dell’Abbazia. 13.3: Fortitudo da un evangeliario della seconda metà del IX secolo. Cambrai,
Bibliothèque Municipale, cod. 327, fol. 16 v°.
In età carolingia in particolare Fortitudo è per lo più aureolata, in vesti femminili, e
munita di asta e di scudo, come nel bel manoscritto Sacramentario di Autun (fig. 13.1),
risalente agli anni 845-850, nel foglio iniziale della Bibbia di San Paolo fuori le mura
(ca. 870, fig. 13.2) o in un evangeliario all’incirca contemporaneo conservato a Cambrai
(fig. 13.3). Ma già in quegli stessi anni, che non per nulla videro la progressiva
sostituzione della spada alla lancia come arma regale, questa virtù dovette abitualmente
26
Adolf KATZENELLENBOGEN, Allegories of the Virtues and Vices in Medieval Art. From Early Christian
Times to the Thirteenth Century, translated by Alan J. P. Crick, London, Studies of the Warburg Institute,
10, 1939 (rist. Toronto, Toronto UP, 1989); Gérard CAMES, Allegories et symboles dans l’Hortus
deliciarum, Leiden, E.J. Brill, 1971; Shawn R. TUCKER (a cura di), The Virtues and Vices in the Arts: A
Sourcebook, Lutterworth Press, Cambridge, 2015; Jennifer O’ REILLY, Studies in the Iconography of the
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anche on line <http://www.rdklabor.de/wiki/Fortitudo>.
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presentare anche un aspetto più decisamente marziale, avendo come attributi
fondamentali l’armatura, lo scudo e la spada. Lo testimonia a chiare lettere uno dei più
grandi scrittori dell’epoca di Carlo Magno, Teodulfo di Orléans († 821), descrivendo in
uno dei suoi poemi una raffigurazione presente su una placca circolare, probabilmente
esposta nel palazzo di Aquisgrana:
Le stava vicino la Forza [Vis], fortissima tra le virtù,
provvista delle armi che competono ai suoi uffici:
in una mano teneva infatti una daga [sicam], e nell’altra uno scudo,
il capo tutto coperto dal cono dell’elmo,
in modo che possa vincere le orrende larve dei vizi,
e che la santa libertà sia bene al sicuro27.
50
Si tratta, evidentemente, dello stesso tipo di raffigurazione che veniva occasionalmente
associata a Humilitas e alle altre virtù (fig. 2) ma che in età carolingia inizia a divenire
topica appunto in correlazione singolare con Fortitudo. Ciò accadde forse perché questo
modello ripeteva antiche immagini tradizionali semanticamente prossime all’ambito
della Forza. La ritroviamo sin da tempi ben più lontani, per esempio in un bronzetto
sardo degli inizi del primo millennio a. C. (fig. 14.1), o nella monetazione greca, in cui
sin dal IV secolo a. C. compare la figura dell’eroe elmato e nudo che imbraccia lo scudo
e tiene la spada pronta al colpo o di Atena Promachos colta nella stessa posizione.
14.1
14.2
14.3
14.4
Fig. 14 Antecedenti del “Gesto di Forza” – 14.1: Cagliari, Museo Nazionale, Statuetta bronzea di
guerriero con scudo e spada, da Uta, inizi del primo millennio a. C. 14.2: Julia Domna, Asse con statua di
Ares, altare e incensieri, Rabbathmoba, Arabia, 193-217 d. C. 14.3: Immagine dal corno aureo di
Gallehus, Danimarca, c. 350-450 d. C. 14.4: Valchiria, argento, inizi del IX secolo, Copenhagen, National
Museum of Denmark.
In forme affatto analoghe questa postura, che chiamerò “Gesto di Forza”, doveva in
particolare caratterizzare un’antica statua di Marte, evidentemente famosa, visto che
venne effigiata in parecchie monete del II-III secolo d. C., coniate a Rabbathmoba sotto
27
Theodulfus, “De septem liberalibus artibus in quadam pictura depictis”, in Theodulfi Carmina, a cura
di Ernst DÜMMLER, MGH, Poetae Latini aevi Carolini, I Berlin, Weidmann, 1881, pp. 445-569, n. xlvi,
p. 545, vv. 47-52 .
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Settimio Severo, Giulia Domna e Geta (fig. 14.2). Credo sia lecito supporre che la
posizione del dio avesse già un carattere ritualmente fisso, e fosse in particolare vicina
all’ambito semantico della forza, giacché la ritroviamo un paio di secoli dopo in ambito
germanico, nelle figure di guerrieri trionfanti e solari effigiate nel corno aureo di
Gallehus (V sec.?, fig. 14.3). Significativamente, si tratta di uno schema che viene
associato anche a figure femminili: rarissime raffigurazioni di età vichinga ci presentano
infatti esattamente in questa postura le Valchirie, le dee guerriere al seguito di Odino
che assistono alle battaglie decidendo le sorti dei combattenti (fig. 14.4).
Parte da qui una tradizione iconografica che nel corso di qualche secolo andò
progressivamente associando questa postura, che è in sostanza quella del guerriero
armato, che in vigile attesa del nemico mostra di essere pronto sia all’attacco (la spada)
che alla difesa (lo scudo), alla specifica rappresentazione di Fortitudo. E poiché si tratta,
è il caso di aggiungerlo, di una tradizione tanto ricca e importante quanto curiosamente
trascurata dagli studi iconologici, varrà la pena di ricostruirla con una certa accuratezza.
15.1
15.2
Fig. 15 Nascita del Gesto di Forza – 15.1: Il Miles Christianus come incarnazione della forza, che
schiaccia il serpente demoniaco; regione della Loira (Tours o Fleury), seconda metà del secolo IX, Paris,
Bibliothèque Nationale, Ms. Latin 8318, fol. 55r°. 15.2: Girolamo Olgiati, Miles Christianus, incisione di
Hieronymus Wierix, 1619.
Opere carolingie sul tipo di quella descritta da Teodulfo dovettero fissarne il tipo.
Nel manoscritto latino 8318 della Bibliothèque Nationale, una raccolta miscellanea di
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vari testi risalente alla metà del IX secolo, vediamo per esempio un Miles Christianus
raffigurato come un re che in questa posizione calpesta, il serpente demoniaco (fig.
15.1). Il disegno è posto significativamente a illustrazione del passo di Efesini 6, 10-18
citato all’inizio, a cui il copista ha aggiunto un brano di Giobbe «Et militia est vita
hominis super terram» (Job, 7.1) e una descrizione delle armi che il cristiano deve
impugnare, a partire dal «Gladius Spritus Sancti». Il tutto, significativamente, termina
con una citazione da un canto liturgico, «Estote fortes in bello et pugnate cum antiquo
serpente et accipietis regnum aeternum»28, canto che in età carolingia doveva essere
ben noto, dal momento che viene citato anche nel manuale di Duhoda, redatto tra l’841
e l’84329. Da testi e immagini come questi nascono sia il topos iconico di Fortitudo, sia
quello, in larga parte coincidente, del Miles Christianus: basta il confronto tra il disegno
del manoscritto carolingio e un’incisione di analogo argomento di Girolamo Olgiati e
Hieronymus Wierix datata 1619 (fig. 15.2), per comprendere con una sola occhiata
quanto stabile sia rimasta nei secoli la tradizione allegorica di cui stiamo discorrendo.
16.1
16.2
Fig. 16 Diffusione del Gesto di Forza – 16.1: Piatto con scena di conquista, Semirechye (?), San
Pietroburgo, Hermitage, S-46, argento con laminature d’oro, IX-X sec., particolare del guerriero alla
sommità della torre. 16.2: Roman d’Alexandre, rubrica: «D’Alixandre que sailli de sor le berfroi sur le
mur de Tyr» (‘Di Alessandro che salì sopra la torre sulle mura di Tiro’), Bologna, intorno al 1285,
Venezia, Museo Correr, Ms. Correr 1493, fol. 31 v°.
Almeno un manufatto documenta che questa posizione, che chiamerò “Gesto di
Forza” o “Posizione di Fortitudo”, doveva avere già in età ottoniana un significato ben
28
Corpus antiphonalium officii (= CAO), Rerum ecclesiasticarum documenta 7-12, 6 voll., a cura di
René-J. HESBERT, Roma, Herder, 1963-1979, vol.III, n. 2684.
29 Duodha, Liber manualis, cap. XXVII, “Admonitio utilis ad comprimenda vitia”, in Le manuel de
Dhuoda, a cura di Edouard BONDURAND, Genève, Mégariotis Reprints, 1978, IV, 5, 10, p.141: «Scriptum
est in cujusdam libelli particula: Estote fortes in bello e cum antiquo pugnate serpente. Beatus namque
Petrus de hac serpenti pugnatione ut resistamus viriliter nos admonit […]. Vigilandum tibi est, fili, et cum
executione operis boni viriliter certandum, ne pereat in te vera et santa sanguinis filii Dei redemptio.».
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stabilito in un’area estremamente ampia. Si tratta di un piatto d’argento con laminature
d’oro trovato nel 1909 nella provincia di Perm’, ma verosimilmente prodotto più a sudest30, tra IX e X secolo, attualmente conservato all’Hermitage di San Pietroburgo (fig.
16.1). La raffigurazione non è di facile lettura, ma celebra, a quanto mi sembra, la
conquista di una fortezza, che occupa il centro della scena ed è circondata da guerrieri a
cavallo. Il personaggio principale è un cavaliere, situato in alto a destra, leggermente più
grande degli altri, che stringe in mano una sorta di scettro ed è dotato non di elmo ma di
corona: si tratta quindi sicuramente di un re, il quale saluta, direi, i suoi soldati che
hanno appena conquistato il castello. Dalla sommità della torre un soldato gli risponde,
rigidamente ritto in posizione di Fortitudo tra due nemici morti e due compagni che
mostrano trionfanti le armi con cui hanno compiuto l’impresa; sotto di loro squillano le
trombe, mentre nove cavalieri, disposti a coppie intorno alla torre, salutano l’evento con
lance, stendardi e spade.
Il “Gesto di Forza” appare qui non solo perfettamente definito, ma emerge in un
contesto del tutto coerente all’interno del quale esso svolge un ruolo estremamente
significativo. Lo si confronti con l’Alessandro che dall’alto di una torre che ha appena
conquistato minaccia le mura di Tiro, che ha stretto d’assedio (fig. 16.2), soverchiando
il nemico morto esattamente come il soldato del piatto di Semirechye. È palese che le
due figure sono equivalenti, e dunque semanticamente analoghe. Ora, questi due ultimi
esempi, ma anche gli altri documenti raccolti sin qui dimostrano, quanto mi sembra, un
fatto importante e se non m’inganno del tutto trascurato dagli studiosi di iconologia:
sicuramente già prima del Mille, come suggeriscono il manoscritto Latino 3818 (fig.
15.1) e il piatto di Semirechye (fig. 16.1), e forse da tempi assai più antichi (fig.14.1-4),
la posizione del guerriero con scudo imbracciato e spada in palo era divenuta esemplare,
trasformandosi in un vero e proprio semantema iconico, cioè in un portatore autonomo
di significato che indicava di per sé il valore di Fortitudo. Un personaggio effigiato in
tale posizione è in altri termini sempre una figura Fortitudinis, e, reciprocamente, viene
effigiato in questa postura soltanto chi a qualche titolo sia depositario della Fortezza,
virtù che egli dimostra e ostenta appunto grazie a questa postura caratteristica.
Non ho altre informazioni sulla situazione in Oriente, ma in Europa il tipo appare già
perfettamente cristallizzato subito dopo il Mille, nella base della grande croce da altare
(Heinrichskreuz) conservata al duomo di Fritzlar (fig. 17.1) e connessa con la visita
compiuta al monastero nel 1020da Enrico II e di sua moglie, Kunigunde di
Lussemburgo. La virtù vi appare non solo armata di spada, ma provvista di elmo conico
con nasale, proprio come nel poemetto carolingio, ed è identificabile senza ambiguità
grazie alla presenza del titulus. Vale la pena di notare che a questa altezza cronologica,
Justitia, che le sta accanto, è provvista di bilancia ma appare disarmata, esattamente
come accade nella Bibbia di San Paolo fuori le mura (fig. 13.2).
Qualche decennio più tardi lo schema si manifestava in forme di esemplare chiarezza
in un’altra miniatura dell’Hortus deliciarum di Herrada di Landsberg († 1195, fig. 17.2),
in cui viene ritratta in questa postura non solo la Fortezza, ma tutta la famiglia di virtù
che da essa dipendono (Magnificentia comitis, Confidentia, Tolerantia, Requies,
Stabilitas, Perseverantia, Constantia). Fortitudo, in quanto principalis virtus, porta
30
Sono state avanzate varie ipotesi di localizzazione, tutte a oriente del mar Caspio: dalla zona
dell’attuale Kazakistan, in quella che allora si chiamava la “Provincia dei Sette Fiumi” (Semirechye
Oblast) alla Sogdiana e al Khorashan.
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l’elmo coronato, e tiene la spada in palo; per il resto tutte le virtù a lei connesse
indossano la tunica femminile lunga sino ai piedi, ma sopra di essa vestono la cotta di
maglia del miles, e portano l’elmo con nasale e lo scudo appeso al collo, uno di quei
grandi scudi a mandorla (kite shield) che conosciamo così bene dall’arazzo di Bayeux. Il
confronto con l’analoga rappresentazione della schiera delle virtù (fig. 1.3) rende chiaro
che questa posizione in sé è appunto propria di Fortitudo, ma può essere estesa a tutte le
disposizioni virtuose in quanto ciascuna di esse, per potersi realizzare, richiede forza
d’animo e ferma determinazione.
17.1
17.2
Fig. 17 Primi esempi del Gesto di Forza - 17.1: Piede di crocifisso, bronzo, Germania, ante 1020, Fritzlar,
Domschatz und Museum des Sankt-Petri-Domes. 17.2: Herrada di Landsberg, Fortitudo e le sue parti,
dall’Hortus Deliciarum, fol. 204 r°, Alsazia, seconda metà del XII secolo, copia di E. Schweitzer, ca. 1848
da Alexander STRAUB, Gustave KELLER, Herrad von Landsberg. Hortus deliciarum, Strasbourg, 18791899, tav. LII.
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Del tema possediamo anche una versione maschile, del tutto analoga, che ritroviamo
per esempio nel già ricordato fonte battesimale bronzeo di Hildesheim, risalente
all’incirca al 1220 (fig. 18.1). Anche in questo caso Fortitudo, identificata dal titulus, è
un re in armi che regge con vigile cautela una spada snudata pronta a colpire e tiene lo
scudo ben stretto contro il fianco; rivelano il suo sesso i tratti del volto piuttosto rudi, e
sopratutto il cartiglio, che presentando una interessante variante di Proverbi 16, 32 «Vir
qui dominatur animo suo fortior est expugnatore urbium», sottolinea il carattere
innanzitutto morale della virtù, la quale secondo i teologi è «un vigore dell’animo, che
conduce conformemente alla ragione»31. In altri casi invece definire il sesso della
personificazione è decisamente difficile, anche perché il soldato giovane è
tradizionalmente rappresentato imberbe (fig. 18.2): restano tuttavia sorprendentemente
costanti non solo la posizione e gli attributi, ma anche alcuni tratti secondari, come il
cingolo che assicura l’elmo al collo.
18.1
18.2
Fig. 18 Gesto di Forza (con titulus) – 18.1: Fonte battesimale con raffigurazioni allegoriche, Hildesheim,
Sankt Maria, intorno al 1220; il testo che si legge nel cartiglio è un adattamento di Proverbi 16, 32: «Melior
est patiens viro forti, et qui dominatur animo suo expugnatore urbium». 18.2: Fortitudo, da Libellus
capitulorum, XII sec., Stuttgart, Württembergische Landesbibliothek, Cod.brev.128, fol. 10 r°.
Sebbene spesso il titulus manchi, lo ripeto, immagini di questo tipo sono sempre
facilmente e inequivocabilmente riconoscibili come raffigurazioni di Fortitudo grazie
alla concomitante presenza di quattro elementi: a) un personaggio, sia di sesso maschile
che femminile, normalmente elmato e coperto di cotta d’arme, il quale b) solo e al di
fuori di ogni contesto bellico, c) tiene una spada snudata in palo e d) si protegge il corpo
con lo scudo. L’isolamento, la posizione fissa e la contemporanea presenza della spada
brandita e dello scudo imbracciato bastano in genere per riconoscere con certezza in
figure di questo tipo incarnazioni di Fortitudo, tanto più che esser sovente si situano in
contesti significativi, come le serie di Virtù e Vizi sulla facciata delle chiese, e
presentano spesso un elemento concomitante che ricorre con regolarità: il leone o il
serpente-drago su cui si trionfa, calpestandoli o combattendoli, secondo lo schema
eroico del Cristo dell’età carolingia ottoniana, e più in particolare il dettato del Salmo
91,13 «Camminerai su aspidi e vipere, / schiaccerai leoni e draghi». Il rettile
normalmente si schiaccia col piede, mentre il rapporto col leone è più complesso,
31
Speculum morale, L. I, dist. LXXX, parte III.
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30
giacché questo animale è simbolo delle tentazioni demoniache, ma è al tempo stesso
custos iusticie nonché incarnazione del coraggio32.
19.1
19.3
19.2
19.5
19.4
Fig. 19 Fortitudo e il leone – 19.1: Fortitudo, Padova, Abbazia di S. Giustina, portale (distrutto), opera di
maestranze francesi, ca. 1175. 19.2: Capitello romanico con Fortitudo, verso il 1200, Museo archeologico di
Girona. 19.3: Amiens, Cattedrale, Fortitudo, facciata occidentale, ca. 1260. 19.4: Fortitudo, Strasburgo,
Cattedrale, statue del portale con virtù e vizi. 19.5: Giotto, Fortitudo, Padova, Cappella degli Scrovegni,
affresco, ca. 1306.
Questa situazione simbolicamente complessa produce una certa oscillazione nelle
raffigurazioni. In generale, quando il personaggio che rappresenta l’incarnazione della
32
Émile MÂLE, Le origini del gotico. L'iconografia medievale e le sue fonti, Milano, Jaca Book, 1986, p.
129: «Il leone raffigurato sullo scudo conferisce un significato estremamente chiaro. È forse necessario
allineare molti testi per dimostrare che il leone fu agli occhi dei simbolisti del Medioevo una tipologia del
coraggio? Il leone, dice Rabano Mauro, è per il suo coraggio il re degli animali; il libro dei Proverbi
afferma: “Il leone è il più coraggioso degli animali e non teme di confrontarsi con nessuno”. Nel XII
secolo il De bestiis ripete testualmente queste parole. (PL CLXXVIII, col. 23)»
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forza è di sesso maschile, lo si raffigura di norma mentre combatte contro la fiera, in cui
dunque prevale il valore negativo, come accade nello splendido rilievo del piedritto laterale
del perduto portale romanico di Santa Giustina a Padova (fig. 19.1), o in un gustoso
capitello del museo di Girona (fig. 19.2). Allorché invece la virtù appare in aspetto
femminile, il leone diviene semplicemente una divisa araldica che campeggia sul suo scudo,
e assume dunque un valore apertamente positivo (fig. 19.3-4). Con sintesi geniale entrambi
gli aspetti di questa duplicità leonina vennero rappresentati da Giotto nella Fortezza
della cappella degli Scrovegni a Padova (fig. 19.5). Ritratta come una formosa e robusta
matrona, Fortitudo regge non più una spada, ma una mazza da guerra, e si protegge con
un grande scudo – propriamente uno di quegli immensi scudi che proteggevano
balestrieri e fanti e portavano il nome di palvese, targone o tavolaccio – su cui
campeggia appunto un leone rampante, e contro il quale si spezzano i dardi dei nemici.
Sopra la lorica musculata che le protegge il busto, la donna porta una pelle di leone: è la
classica leonté, attributo di Eracle, che esattamente come l’eroe Fortitudo indossa con il
capo della fiera a guisa di elmo. Sullo zoccolo si legge: «Fortitudo ogni cosa atterra,
superando [lacuna] e, armata, impugnando una mazza, schiaccia le malvagità. Ecco, con
la forza uccide il leone, e si copre della sua pelle (‘En occidit vi leonem, eius pelle
tegitur’). Su tutti ha la meglio nello scontro, e in nessun caso è abbattuta».
20.1
20.2
20.3
Fig. 20 Varianti dello schema – 20.1: Andrea Pisano, Fortitudo, porta del Battistero di San Giovanni, Firenze,
1330-1336. 20.2 Fortitudo, Placca di altare portatile, verso il 1160, Augsburg, Städtische Kunstsammlung. 20.3:
Fortitudo con spada e laccio, Canterbury, Christ Church Cathedral, Transetto Nord-Est, (n. XVII) 1179 - 1180.
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Questa possente Fortitudo giottesca inaugura una variante specificamente italiana del
tema, in cui alla spada, che nel frattempo era divenuta appannaggio di altre virtù (e prima
fra tutte appunto Justitia) si sostituisce la mazza o il bastone: una ventina d’anni dopo
Andrea Pisano seguirà per esempio questo modello nelle porte del Battistero di Firenze (fig.
20.1). Una volta fissato, il tipo diede peraltro luogo anche ad altre varianti, generalmente
poco vitali, sia nella posizione, sia negli attributi, come dimostrano la Fortezza di un altare
portatile tedesco che brandisce lo scudo anziché proteggersi con esso (fig. 20.2), o quella
della cattedrale di Canterbury (fig. 20.3), che al suo posto tiene una corda.
21.1
21.2
Fig. 21 Persistenza – 21.1: Matthäus Greuter, Septima Petitio, incisione di Paul Fürst, ca.1635. 21.2:
Domenichino, Fortitudo, Roma, S. Carlo ai Catinari, affresco, 1630.
Resta da aggiungere, per concludere, che sebbene insidiato da forme concorrenti,
prima fra tutte quella in cui Fortitudo lotta a mani nude contro il leone, questo topos
iconico sopravvisse almeno sino al barocco. Illustrando, nel 1635, la settima richiesta del
Padre Nostro, Matthäus Greuter dava ancora una Fortitudo perfettamente rispondente al
modello medievale (fig. 21.1), se non fosse per le ali, che ne fanno una sorta di San
Michele in gonnella; e nelle vignette sottostanti inserisce un leone con il cartiglio “In
fortitudine” e quella colonna che nel frattempo era divenuta il più usuale degli attributi di
questa virtù. Cinque anni prima, affrescando i pennacchi della cupola di San Carlo ai
Catinari a Roma, Domenichino aveva osato di più, proponendo una Fortitudo-Atena (fig.
21.2); anch’egli seguiva in realtà da presso il vecchio schema, non solo dotando la Virtù
degli attributi di prammatica, la spada, lo scudo, l’armatura e l’elmo, ma del pari
corredandola del leone e della colonna, in modo da farne una sorta di concentrato
iconografico. Tanto più sorprendente, e per me inesplicabile, è il fatto che immagine
venga corredata dal cartiglio Humilitas.
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Sciascia and Calvino, … and Giufà
Joseph Francese
(Michigan State University, USA)
Abstract
This essay traces the evolution of the personal and professional relationship of Italo Calvino and
Leonardo Sciascia, using their divergent readings of the tales of the Sicilian folk hero Giufà as a yardstick
for measuring their personal and professional association and their development as writers and thinkers.
Thus, it sheds light on Italian literary culture as it took new form after WWII through the years of lead
and the death of the two men in the 1980s; specifically, the two disagreed publicly as to how the Italian
State should react to the terrorist threat posed by the Red Brigades in the late 1970s. Subsequent to these
polemics Sciascia broke with Einaudi (the firm for whom Calvino, since the 1950s had edited most of
Sciascia’s books). Then, in 1989 (four years after Calvino’s death in 1985), Sciascia, in perhaps the last
essay he wrote, disagreed with Calvino’s 1971 characterization of the Giufà as a trickster and village
idiot, as a sort of societal antibody, someone communities need to expel in the interest of their well-being.
Key words – Italo Calvino; Leonardo Sciascia; Giufà; Years of Lead; Einaudi Publishing House; literary
postmodernism
1. Introduction
While the critical bibliographies dealing with two of Italy’s most important
intellectuals over the second half of the twentieth century, Leonardo Sciascia (19211989) and Italo Calvino (1923-1985), are extensive, to say the least, the personal
relationship and professional interactions of the two have not been examined. The
purpose of this essay is to fill that gap, not only because their association constitutes an
important chapter in Italy’s intellectual history, but because it sheds light on their
individual development as writers, and on the cultural divide sparked in Italy by the socalled years of (terrorist) lead, the late 1970s. Both men have been labeled postmodern
writers: Calvino for writings that accentuate the ludic, artistic re-ordering of a limited
number of basic elements of plot into a seemingly infinite number of stories; Sciascia
for casting into doubt basic conceptions of truth, proposing that material reality can be
known only indirectly, through narrations and interpretations (and interpretations of
interpretations). Surprisingly, the Sicilian folk hero Giufà plays an important role in the
interactions of the two men1.
1
For Giufà, see, below, section 4: Calvino and Giufà.
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Calvino and Sciascia made each other’s acquaintance after the War. In the early
1950s, Sciascia, in his capacity as editor of the a bi-monthly literary journal «Galleria»,
invited Elio Vittorini to publish in the journal. Calvino came into contact with Sciascia
through Vittorini. In 1958 Sciascia’s second book, Gli zii di Sicilia, was published in the
experimental «Gettone» series edited by Vittorini for Einaudi. Calvino, an editor for
Einaudi, a friend and collaborator of Vittorini, was given the assignment of editing this
and all other titles written by Sciascia for Einaudi until Sciascia broke with that
publisher in the late 1970s. Calvino diligently performed his task, pointing out the
strong and weak points of manuscripts as they arrived.
Calvino transformed a number of Giufà tales into standard Italian for his 1956
edition of Fiabe italiane. Because of Calvino’s expertise in this area, in 1971 Sciascia
induced the owners of Sellerio publishing to invite Calvino 2 to write the introduction to
a re-edition of the Mimi siciliani: rustic tales of pranks, chicanery, and infidelities,
transformed into literary Italian from the dialect by Francesco Lanza3. They believed the
book would help establish the Sicilian identity of Sellerio editore. They also felt the
Mimi deserved the resonance it would gain from an introduction by a writer of
Calvino’s stature, and that Calvino’s name on the cover of the volume would promote
the volume of sales needed to put the house on a solid financial basis.
Calvino wrote the introduction. But Sciascia disagreed with Calvino’s
characterization of Giufà as a trickster and village idiot, an outcast and societal
antibody, someone communities need to expel to preserve their well-being.
Nonetheless, Sciascia maintained his silence for almost twenty years. In the interim the
two men disagreed publicly over whether or not intellectuals needed to defend their
country’s democratic institutions in the face of a terrorist threat: during the trial of Red
Brigade (Br) leaders in 1977, and then in the aftermath of the kidnapping of Aldo Moro
and the assassination of Moro and his five bodyguards.
2. The 1940s
After the fall of Fascism, Calvino joined the clandestine Communist Party (Pci) and
fought in the Resistance, as did his brother. They were encouraged to do so by their parents,
both scientists and university professors. Subsequently, Calvino’s parents were twice held
hostage by the Germans, who demanded information on their sons’ whereabouts. After the
War Calvino confirmed his membership in the Pci (he was a frequent presence that Party’s
daily, l’Unità, and served, in the early 1950s, on its National Cultural Committee) and his
commitment to the workers’ movement. He left the Pci in 1957 (after the 1956 Soviet
invasions of Poland and Hungary), while vowing to remain a «revolutionary» and a
2
In 1969, the publisher’s inaugural year, Calvino wrote (also on Sciascia’s recommendation) the
introduction to a re-edition of Serafino Amabile GUASTELLA, Le parità e le storie morali dei nostri
villani, Palermo, Edizioni della Regione siciliana, 1969 [1884] (now in Italo CALVINO, Saggi 1945-1985.
Tomo secondo, ed. Mario BARENGHI, Milano, Mondadori, 1995, pp. 1551-1565).
3 Caterina DE CAPRIO, “Sciascia, Giufà e Il mare colore del vino”, «Il Giannone», 7.13-14 (2009), pp.
107-117, p. 111. The first edition of Lanza’s Mimi was published in 1928 in Milan by Alpes. The reedition, with Calvino’s introduction was published by Esse (Sellerio) in 1971 and re-issued by Sellerio in
1984. I consulted the 2011 edition published by Armando Siciliano Editore. Calvino’s introduction to
Lanza can now be found in CALVINO, Saggi, pp. 1601-1610.
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«communist»4.
The biographies of Calvino and Sciascia provide highly significant context to
chapters in intellectual history (such as the present essay), because we cannot ignore,
indeed, we must carefully evaluate the extent to which the socio-economic conditions of
writers, especially during their youth, conditioned their later behavior, their political
choices, the themes of their research and their development as thinkers. Social origin is
much more than simple biographical information.
Sciascia’s youth was very different from Calvino’s, and not merely because he grew
up in Sicily (Calvino came of age in a place – Liguria – where the war against Fascism
and the German occupiers forced young Italian men to make a basic life choice), and
therefore requires closer attention.
Sciascia’s grandfather had worked his way up from sulphur-mine worker: with the
help of a priest, he learned to read. This ability enabled him to become a squad leader,
and later a mine administrator5. According to Leonardo’s close childhood friend, the
poet Stefano Vilardo, Sciascia’s family was more affluent and cultured than those of his
schoolmates6. Many of Sciascia’s uncles were very well placed in local Fascist
organizations7. So, when Sciascia first began to feel estranged from the Regime, in the
1940s, those inchoate feelings became aversion, and his family came to consider him
«una specie di pecora nera»8.
In the 1940s9 «[c]on l’aiuto di G. C.» Sciascia would recall, «mi trovai […] dall’altra
parte»10, that is, among the locals who rejected Fascist rhetoric. «G.C.» was a school
4
Paolo SPRIANO, Le passioni di un decennio (1946-1956), Milano, Garzanti, 1986, p. 25. For an analysis
of Calvino’s exit from the Pci, see Joseph FRANCESE, “Lo scrittore che non venne dal freddo. Il primo
viaggio di Calvino negli Usa”, «Allegoria», 37 (2001), pp. 38-61.
5 Matteo COLLURA, Il maestro di Regalpetra: Vita di Leonardo Sciascia, Milano, TEA Longanesi, 1996, p. 45.
6 Stefano VILARDO, A scuola con Leonardo Sciascia. Conversazione con Antonio Motta, Palermo,
Sellerio, 2012, pp. 29-30, 49.
7 Leonardo SCIASCIA, “Leonardo Sciascia”, in Ettore A. ALBERTONE (ed.), La generazione degli anni
difficili, Bari, Laterza, 1962, pp. 259-262, p. 260. Indeed, when Sciascia was eight years old his father’s
brother-in-law, president of the local Opera Nazionale Balilla (an Ispettore dei Fasci, he was therefore ex
officio member of the Consiglio Nazionale of the National Fascist Party), began garnering him special
treatment. Leonardo went to the Saturday morning adunate «perché c’era il sorteggio dei giocattoli».
They made him platoon leader, even though he acknowledged he was not competent, and gave him «una
croce al merito. […] Sempre perché c’era mio zio, si capisce». He also remembered that «[m]i faceva
piacere che ci fosse mio zio con quella cintura dorata, la sciarpa azzurra e il pugnaletto. Mi risparmiava
tante cose. Persino il premilitare mi poi risparmiato». Then, «[p]rotetto da mia zia, non andai più alle
esercitazioni del sabato, non indossai più la divisa» (Leonardo SCIASCIA, “Memorie vicine”, «Nuova
corrente. Rivista di letteratura», 1.3 [June 1954], pp. 200-216, p. 203). In his own words, «[i]n Sicilia la
famiglia, nelle sue vaste ramificazioni, ha questa funzione: di proteggere, di privilegiare i suoi membri
rispetto ai doveri che la società e lo Stato impongono a tutti. È la prima radice della mafia, lo so bene. Ma
per una volta ne ho approfittato anch’io» (COLLURA, Il maestro di Regalpetra, p. 64).
8 Leonardo SCIASCIA, La palma va al nord: Articoli e interventi 1977-1980, ed. Valter VECELLIO,
Milano, Gammalibri, 1982, p. 68.
9 Vilardo’s memory does not always jibe with Sciascia’s. For example, Vilardo recalls that «[f]u dopo,
molto dopo il ’37», that he and Sciascia made the acquaintance of Cortese (and of the Macaluso brothers):
«[p]iù tardi, negli anni Quaranta» (VILARDO, A scuola con Leonardo Sciascia, p. 77). «L’incontro con
Gino Cortese avvenne al chiosco di Giannone, dove si vendevano, oltre a invitanti, dissetanti bibite […],
anche riviste e giornali. Noi andavamo a comprarvi L’Osservatore Romano, l’unico giornale che non
dava le notizie adulterate dal fanatismo imperante» (VILARDO, A scuola con Leonardo Sciascia, p. 79).
10 SCIASCIA, “Memorie vicine”, p. 210.
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mate, Gino Cortese (1921-1989)11, a member of the clandestine Communist Party. While
Sciascia was declared unfit for military service (due to his «torace insufficiente»12),
Cortese was drafted into the cavalry13 and sent to Parma; he would desert and enter the
partisan cause. After the War Cortese was a member of the Communist delegation at the
Assemblea Regionale Siciliana (from 1947 to 1967) and served as provincial Secretary of
the Communist Party in Caltanissetta and as assessore at the Comune di Caltanissetta14.
Sciascia, as Emanuele Macaluso has clarified, interacted with Communists in the 1940s,
but at no point asked to join the Party15. In 1941 Sciascia found employment in his
hometown of Racalmuto at the government grain warehouse, where he would remain
until 194816. He married and began a family in 194417.
Sciascia was also close to a founding member of the Party of Christian Democracy (Dc),
Giuseppe Alessi18. In 1943, soon after the Allied landing in Sicily Alessi invited Sciascia to
write for a local daily he edited for the Dc19. And immediately after the War Sciascia
«collaborò per qualche anno alle terze pagine […] del giornale Sicilia del popolo20, the Dc’s
official newspaper in Sicily. It may, or may not, be the case that, because of this journalistic
experience, Cortese accompanied Vittorio Nisticò – named editor of the Palermitan daily
«L’Ora» by Amerigo Terenzi soon after its acquisition in 1954 by the Pci – to Racalmuto so
that Sciascia might begin collaborating with that newspaper21. Sciascia’s signature appeared
for the first time in «L’Ora» 24 March 195522, that is, at a time when Sciascia was a
relatively unknown writer: Cronache scolastiche came forth in Nuovi Argomenti in early
1955; his first book, Le parrocchie di Regalpetra, in 1956.
Nisticò does not specify when his meeting with Sciascia occurred. However, it
would seem that Sciascia’s decision to collaborate with «L’Ora» was a tormented one23.
11 SCIASCIA,
“Memorie vicine”, p. 209.
COLLURA, Il maestro di Regalpetra, pp. 75-76.
13 COLLURA, Il maestro di Regalpetra, pp. 105-106.
14 Cortese went on to teach philosophy at the University of Messina.
<http://www.ars.sicilia.it/deputati/scheda.jsp?idLegis=2&idDeputato=169>.
15 Emanuele MACALUSO, Leonardo Sciascia e i comunisti, Milano, Feltrinelli, 2010, p. 16.
16 In his own words, «mi avevano trovato del lavoro» SCIASCIA, “Memorie vicine”, p. 215.
17 Claude AMBROISE, “Cronologia”, in Leonardo SCIASCIA, Opere: 1956-1971, ed. Claude AMBROISE,
Milano, Bompiani, 2004 [1987], pp. LI-LXX, p. LII.
18 VILARDO, A scuola con Leonardo Sciascia, pp. 40, 80. While correcting the proofs of this article, I read
Domenico SCARPA, “La prova democristiana di Leonardo Sciascia. Una ricerca in corso”, «Todomodo»,
4 (2014), pp. 179-203, and plan to return to it in the future.
19 Alessi was a founding member of the Dc, first and third President of the Region Sicily, and MP from
1968 to 1972. After the War he edited the official organ of the Dc’s provincial federation of Caltanissetta,
«l’Unità», onto which he embedded his support of regional autonomy and firm opposition to Sicilian
separatism (<http://xoomer.virgilio.it/lorenzobarone/intervista_a_giuseppe_alessi.html>).
20 VILARDO, A scuola con Leonardo Sciascia, pp. 80-81.
21 On 28 January 1956 Laterza wrote to Sciascia telling of a visit to the publishing house in Bari by Piero
Dallamano, an editor of the daily Paese sera. They discussed Le parrocchie and Dallamano told Laterza
he planned to invite Sciascia to collaborate with the newspaper (Leonardo SCIASCIA, Vito LATERZA,
L’invenzione di Regalpetra: Carteggio 1955-1988, Roma-Bari, Editori Laterza, 2016, p. 43).
22 His debut piece was a review of Vittore FIORE, Ero nato sui mari del tonno (NISTICÒ, Accadeva in
Sicilia: Gli anni ruggenti dell’‘Ora’ di Palermo, Palermo, Sellerio, 2001 pp. 44, 235), a reprint of what
had already appeared in «Letteratura» (3.13-14 [January-April 1955], pp. 163-64).
23 One factor, in addition to those set forth in this paragraph, was Leonardo’s relationship with Salvatore
Sciascia. In response to a 1953 letter from Mario La Cava (who wanted to review Risposte di «Vie
12
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19 December 1954 Sciascia had warned his friend, the writer Mario La Cava, that
collaboration with the Communist weekly «Il contemporaneo» «porta delle
conseguenze»24. Sciascia feared that since he was a school teacher («[l]egato al ‘pane
del governo’, come qui si dice»25) he would have «ragioni più evidenti di temere»26. As
late as 9 September 1956, Sciascia still had doubts. As he wrote to La Cava, «[f]orse nei
primi di ottobre vado a Palermo, al giornale «L’Ora». Sono molto perplesso, ma credo
andrò, almeno in prova. Non so se il mestiere fa per me, abituato come sono ad una vita
tranquilla e a un lavoro molto libero»27. Indeed, while «L’Ora» published an excerpt
from the soon-to-be-published Parrocchie («Conversazioni a Regalpetra») on 29
February 1956, Sciascia’s collaboration began in earnest only in late 1957 28.
If I may take a step back in time, when Mussolini was deposed, «c’erano già gli
americani»29 in Racalmuto, to use Sciascia’s phrasing, and the ignominious end of the
Regime, «ci apparve dunque una notizia lontana, quasi estranea, come se fosse venuta da
un altro mondo»30. In fact, in Racalmuto «[l]o sbarco degli americani è stato una kermesse
[…]. Avevano creato una divisione, chiamata “Texas”, composta interamente da figli di
siciliani. Sembrava una rimpatriata, una festa tra parenti. Parlavano siciliano»31.
When the «continental» government headed by Ferruccio Parri, Italy’s first after the
Second World War (21 June-10 December 1945), «fece arrestare i separatisti siciliani»
Sciascia, in his own words, discovered he was «essenzialmente siciliano» and «quella
intrusione del potere romano mi ha precipitato in un atavismo siciliano. E non ne sono
più uscito»32.
In 1945 Sciascia was already in contact «con un intraprendente suo omonimo,
Salvatore Sciascia (1919-1986), fondatore della casa editrice che in quegli anni di
speranze sarà una scialuppa su cui imbarcarsi per raggiungere le lontane spiagge della
cultura»33. As the hostilities of the Second World War were concluding, Salvatore
Nuove» ai lettori for «Galleria») Sciascia wrote: «[p]er l’inchiesta “Vie Nuove” sono perplesso. Per conto
mio, direi che andrebbe benissimo. Ma tu sai che c’è gente che al solo sospetto d’un certo colore,
s’infuria; e sai che questa gente dà sussidi alle riviste; e che il nostro Salvatore ci tiene a non perderli. Se
vuoi, mandami dunque l’articolo ma non mi impegno a farlo uscire» (Mario LA CAVA, Leonardo
SCIASCIA, Lettere dal centro del mondo. 1951-1988, ed. Milly CURCIO, Luigi TASSONI, Soveria Mannelli,
Rubettino, 2012, pp. 110, 112).
24 Sciascia was wary, even though «L’Ora» – unlike «Il contemporaneo» – was not an official Pci
publication. In fact, as Macaluso explains, «[c]on Nisticò il giornale diventò un centro autonomo di
battaglia politica e culturale contro la conservazione e la mafia, per la modernizzazione dell’Isola, per
aiutare tutte le forze che muovevano in questa direzione e trovare fra loro convergenze e collegamenti. Ho
detto un centro autonomo. «L’Ora» non era considerato un giornale del Pci. Ci fu, tra il giornale e il
partito, un rapporto dialettico e critico reale». Because of this, the daily could «esprimere interessi, idee,
umori e cultura che sgorgavano dalla società nel suo complesso» (Emanuele MACALUSO, 50 anni nel Pci,
Soveria Mannelli, Rubbettino, 2003, p. 115).
25 LA CAVA, SCIASCIA, Lettere dal centro del mondo, p. 198.
26 LA CAVA, SCIASCIA, Lettere dal centro del mondo, p. 198.
27 LA CAVA, SCIASCIA, Lettere dal centro del mondo, p. 261.
28 NISTICÒ, Accadeva in Sicilia, V. 1, p. 237. On 9 December 1959 he wrote to Laterza, saying that he
had taken on the literary reviews for «L’Ora» (SCIASCIA, LATERZA, L’invenzione di Regalpetra, p. 72).
29 SCIASCIA, La palma va al nord, p. 133.
30 SCIASCIA, La palma va al nord, p. 133.
31 SCIASCIA, Fuoco all’anima: Conversazione con Domenico Porzio, Milano, Mondadori, 1992, p. 33.
32 SCIASCIA, La palma va al nord, pp. 50-51.
33 COLLURA, Il maestro di Regalpetra, p. 122.
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initiated a number of «illuminate iniziative imprenditoriali» 34, one of which was an
entrance into publishing.
In addition to a bookstore and a number of monograph series, in August 1949
Salvatore Sciascia – who was active in the Rotary (he was widely known in Caltanissetta
as “Il Commendatore”35) – financed the journal Galleria as part of a strategy designed to
«far meglio risaltare l’isolamento di Caltanisetta» and to «gettar ponti e di stringere da
lontano alleanze…»36. He made Leonardo editor-in-chief in August 1950, at the inception
of the periodical’s second year37. Galleria enabled Leonardo to put himself in contact
with the fior fiore of Italian culture. Indeed, it positioned him to organize a conference
(held in November 1953), sponsored in full by Sicily’s Assessorato alla Pubblica
Istruzione38. Among the attendees was the relatively unknown Pasolini 39, along with
established figures such as Vittorini40, and Mario La Cava41.
34
Sergio MANGIAVILLANO, “Salvatore Sciascia editore in Caltanissetta”, «Incontri: Rivista del Rotary
Club di Caltanissetta», (Luglio 2011), pp. 38-41, p. 38.
35 Archivio Storico Distrettuale “Ferruccio Vignola” And Fondazione Culturale “Salvatore Sciascia”,
Salvatore Sciascia: l’uomo, l’editore, il rotariano, Caltanissetta, Rotary International, Distretto 2110 Sicilia-Malta, 2011, p. 15.
36 MANGIAVILLANO, “Salvatore Sciascia editore in Caltanissetta”, p. 39.
37 In this capacity, and through Leonardo, Salvatore sponsored an array of writers. See, for example,
Pasolini’s letter of 19 March 1953 to Leonardo, thanking him for the 3000 lire paid by Sciascia editore for
a short story that appeared in «Galleria» (Pier Paolo PASOLINI, Lettere: 1940-1954, ed. Nico NALDINI,
Torino, Einaudi, 1986, p. 551).
38 LA CAVA, SCIASCIA, Lettere dal centro del mondo, p. 104 e LA CAVA, “Letterati a convegno”, «Il
Mondo», 15 December 1953, p. 11.
39 PASOLINI, Lettere, p. 594. After the conference (30 November 1953), Pasolini asked Sciascia to thank
the assessore, Pietro Castiglia, for the opportunity to participate (PASOLINI, Lettere, p. 619). The giunta in
which Castiglia served included two assessori from the liberal-democratico qualunquista group (one of
whom was Castiglia), in addition to a Social Democrat, an Independent and a substitute assessore chosen
from the ranks of the Republicans (Romolo MENIGHETTI, Franco NICASTRO, Franco Restivo. Vicerè della
Sicilia autonoma, 1945-1955, Palermo, ILA Palma, 2010, p. 67). The giunta was led by the second
President of the Regione Siciliana, the Dc Franco Restivo and an acquaintance of Salvatore Sciascia
(MANGIAVILLANO, “Salvatore Sciascia editore in Caltanissetta”, p. 41). Castiglia had served in Italy’s
Constitutional Assembly, representing the Fronte liberale democratico dell’uomo qualunque, and,
consequent to the merger of the Assembly’s far-right-wing parties, spent the final two months of his term as
a member of the Unione Nazionale group (˂http://storia.camera.it/deputato/pietro-castiglia19020509/gruppi#nav> [28 July 2018]). He was also elected to the first three legislatures of the Assemblea
Regionale Siciliana. During the first legislature (1948-1951) he was a member of the Blocco liberale
democratico qualunquista. He was elected to the second and third legislatures (1951-1955 and 1955-1959) in
the list of the Partito Nazionale Monarchico; on 20 July 1951 was sworn in as the Assessore Regionale alla
Pubblica Istruzione (˂http://www.ars.sicilia.it/deputati/scheda.jsp?idDeputato=159>). Restivo’s career took
him from Palermo to the National Parliament. He was Minister of the Interior from 1968 to 1972.
40 Elio VITTORINI, Lettere: 1952-1955, ed. Edoardo ESPOSITO, Carlo MINOLA, Torino, Einaudi, 2006, pp.
103, 108-109, 115.
41 LA CAVA, SCIASCIA, Lettere dal centro del mondo, pp.103, 105, 107. In April 1952 Sciascia mentioned
to La Cava the possibility of contributing to a periodical edited and financed by Sicily’s Assessorato alla
Pubblica Istruzione: «la rivista», he wrote, «disponde di fondi che oggi sembrano addirittura favolosi»,
and, it seems, paid handsomely contributors to the journal. As for the funding of «Galleria», in June 1952
Sciascia told La Cava how «[q]uesta rassegna, per mancanza di linfa finanziaria, subì lo scorso anno un
arresto: e già ci rassegnavamo a considerarla morta, quando non so da che Commissione pervenne
all’editore un sussidio tale che ne assicura la continuità» (LA CAVA, SCIASCIA, Lettere dal centro del
mondo, pp. 22, 26, 29, 112).
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In 1952 Leonardo asked Vittorini if he would like to publish a sample of his work in
the periodical, and Vittorini happily accepted42. Soon thereafter, in the issue of Spring
1953, a chapter of Le città del mondo appeared in «Galleria». Consequently (27
November 1954), Sciascia wrote to Vittorini, asking if his manuscript, Le parrocchie di
Regalpetra, could be «gettonato»43, that is, published in the Gettoni series of
experimental prose edited by Vittorini for Einaudi44.
Unbeknown to Vittorini – it would seem, and on Calvino’s recommendation45 - a
chapter of Le parrocchie, Cronache scolastiche, appeared in the January-February 1955
issue of an important literary review edited by Alberto Carocci and Alberto Moravia,
Nuovi Argomenti. Le parrocchie was published by Laterza in 1956; but Sciascia’s
second book, Gli zii di Sicilia, was «gettonato»46 in 1958. Once Sciascia entered the
Einaudi stable Calvino became his first reader and editor.
3. Calvino editore di Sciascia
Calvino was «una delle prime persone a leggere quasi tutti i libri di Sciascia»47.
Calvino reviewed Sciascia’s manuscripts not only «come lettore della casa editrice
Einaudi»48, but also «come amico»49. And Calvino did, in fact, treat Sciascia as one
would a good friend; responding to each submission with frank and sincere critiques,
which he folded into responses that were for the most part positive. In other words,
Calvino saw no need, after reading the manuscripts, to avoid giving Sciascia, as Calvino
himself phrased it, «qualche boccone amaro in ogni lettera»50.
In fact, a sort of refrain emanates from Calvino’s missives to Sciascia. Each of them
contains a subtle but firm acknowledgement of Sciascia’s reluctance to hone his work,
to give attention to form equal to that afforded to content. For example, on 22 August
1956, less than three months after the publication of Kruscev’s so-called secret report,
and less than two months after the Soviet suppression of the workers’ uprising in
Poznań, Sciascia sent Calvino the manuscript of his brief narrative La morte di Stalin.
Calvino found that Sciascia had put too much emphasis on «la cronaca degli
avvenimenti storici, il resoconto di quel che pubblicano i giornali, senza abbastanza
controparte di narrazione»51). He believed that if Sciascia were to «lavorarci ancora,
potrebbe dire molto di più. Così è piuttosto superficiale, con un sospetto di facilità»52.
42
VITTORINI, Lettere, p. 52 and VITTORINI, “Le città del mondo” (Frammento di Romanzo)”, «Galleria»,
3.3 (January 1953), pp. 20-24.
43 VITTORINI, Lettere, p. 260.
44 VITTORINI, Lettere, p. 260, n. 3.
45 CALVINO, Lettere, p. 417.
46 VITTORINI, Lettere, p. 260.
47 Italo CALVINO, “Lettere di Italo Calvino a Leonardo Sciascia”, «Forum Italicum», 15.1 (1981), pp. 6272, p. 62.
48 CALVINO, “Lettere di Italo Calvino a Leonardo Sciascia”, p. 62.
49 As Calvino wrote in 1981, while re-reading his letters to Sciascia, «[a] vederle tutte insieme scopro che ho
scritto quasi un «tutto Sciascia […] mi trovo di fronte come a un mio diario che si svolge attraverso il confronto
con l’opera di uno scrittore amico» (CALVINO, “Lettere di Italo Calvino a Leonardo Sciascia”, p. 62).
50 Italo CALVINO, Lettere 1940-1985, ed. Luca BARANELLI, Milano, Mondadori, 2000, p. 897.
51 CALVINO, Lettere, p. 464.
52 CALVINO, Lettere, p. 464.
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But Sciascia did not return to the manuscript. Rather, he published it, untouched, the
following January in the journal Tempo presente, prior to including it in Gli zii di
Sicilia.
Of the brief narrative Il quarantotto, another chapter of that volume, Calvino made
himself very clear: «nel racconto non c’è altro che [roba storica]»53. Indeed, he continued,
vuoi scrivere un racconto storico così e così; e ci riesci perché hai un ottimo «mestiere» e
una gran limpidezza di segno; e te la cavi anche nella parte garibaldina un po’ affrettata e
sbrigativa. Ma di nuovo, di vero, di sofferto, di faticoso, di non-del-tutto-chiaro-nemmenoa-te-stesso cosa dici? L’idea dei due tipi di siciliani è solo detta, non è rappresentata: e ci
sarebbe da cavarne fuori molto. Ho un po’ paura che tu ti lasci prendere dalla tua facilità di
mettere insieme racconti ben fatti o che per una tua eccessiva modestia ti limiti a
camminare sul battuto54.
Calvino was convinced that if Sciascia could find the courage to look both around and
inside himself, as Calvino believed Sciascia had done in Cronache scolastiche, he could
«darci altre cose di quella forza»55 and not mere «pezzi di costume»56. But this
suggestion went unheeded.
As for Il giorno della civetta, Calvino told Sciascia that, at the text’s conclusion,
«diventa quasi una nuda istruttoria»57 and, therefore, «un po’ perde vivezza»58. He
found in Il Consiglio d’Egitto a «[g]ravissima stonatura»59: a lack of coherence and
harmony that Calvino believed risked making the book seem «casuale, giornalistica»60
and advised Sciascia to remove «queste immagini moderne […] che abbassano il livello
della tua prosa, sempre sorvegliata»61. Left unresolved in L’onorevole (written in one
week’s time62) is the problem of giving «vitalità poetica»63 to «elementi […] solo
enunciati»64. Again Calvino urged Sciascia to «finalmente vedere in faccia il tuo
demone, sentire la sua vera voce»65.
While Calvino’s appraisal of Il contesto was also substantially positive 66, he found
that in Todo modo Sciascia violated «una delle prime regole del genere poliziesco»:67
Sciascia failed to reveal at the appropriate time important «elementi al lettore»,68 the
clues necessary to solve the enigma are nowhere to be found. Regarding A ciascuno il
suo, Calvino felt it was a «una divertente variazione su un tema di cui ormai mi sembra
53
CALVINO, Lettere, p. 517.
54 CALVINO, Lettere, p. 517.
55
CALVINO, Lettere, p. 517.
CALVINO, Lettere, p. 517.
57 CALVINO, Lettere, p. 666.
58 CALVINO, Lettere, p. 666.
59 CALVINO, Lettere, p. 713.
60 CALVINO, Lettere, p. 713.
61 CALVINO, Lettere, p. 713.
62 COLLURA, Il maestro di Regalpetra, p. 191.
63 CALVINO, Lettere, p. 82.
64 CALVINO, Lettere, p. 82.
65 CALVINO, Lettere, p. 829.
66 CALVINO, Lettere, pp. 1110-13.
67 CALVINO, Lettere, p. 1255.
68 CALVINO, Lettere, p. 1255.
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di sapere già tutto, assolutamente tutto»69. After proffering this «boccone amaro»70,
Calvino wrote: «attendo la tua vendetta»71.
Sciascia responded to this «frecciata»72 with an allusion to his own «inquietudine e
insoddisfazione»73 (which he attributed to writing from, of, and for a Region that
«intorno mi si va facendo il deserto»74: a Region that «nella sua realtà» was «dead»75).
He said he appreciated Calvino’s critique of Il giorno della civetta, and concluded: «[i]l
tuo giudizio e quello dei lettori che continuano a comprare i miei libri, coincidendo con
il giudizio del cardinal Federico con i pareri di Perpetua, sono quelli di cui veramente
mi importa»76. In other words, Sciascia’s public (to use his term, “Perpetua”), who for
the most part are not intellectuals of the stature of Calvino or Sciascia (“cardinal
Federico”), are elevated by Calvino’s decision to publish Sciascia’s works. It follows
that Sciascia’s readers can be elevated because they can buy his books, despite the
works’ artistic limitations; and readers can buy his books because Einaudi publishes
them (accepting them, beginning with Il giorno della civetta, «a scatola chiusa»77, to use
Sciascia’s phrasing); and Einaudi publishes them not because they are great literature
but because they sell. Thus, Sciascia’s response is a subtle, highly literate, and ironic 78.
3.1. Laterza
It might seem from the correspondence between Sciascia and Laterza, that Sciascia
would have been happier had he not found himself bound by contract to Einaudi.
Laterza, as publisher of Le parrocchie, promoted Sciascia’s work (the writer was
angered that Gli zii was not listed among Einaudi’s «novità»79 for August 1958); and
Laterza put Sciascia in contact with other venues, writers, and intellectuals. Moreover,
Laterza – unlike Calvino – flattered Sciascia (of Gli zii di Sicilia; for example, Laterza
wrote: «ho finito da pochi giorni la lettura del Suo ultimo libro, quasi centellinando le
Sue pagine che raggiungono spesso una rara bellezza e che sempre sono impostate col
Suo originale linguaggio che prediligo particolarmente»80). But Sciascia was bound by
69 CALVINO,
Lettere, p. 897.
CALVINO, Lettere, p. 897.
71 It may have been the case that Calvino was expecting a vendetta similar to Sciascia’s review of Il
barone rampante, which follows the structure of Calvino’s letters to Sciascia. In the conclusion to a
substantially positive piece Sciascia notes «qualche elemento non perfettamente fuso». He attributes this
to the fact that «è stato scritto d’impeto (le date: dal 10 dicembre 1956 al 26 febbraio 1957), con felice
furore» (Leonardo SCIASCIA, “Review of Italo Calvino, Il barone rampante”, «Il Ponte», 13.12 [1957],
pp. 1880-1882, p. 1882). Calvino, Sciascia proposes, was a «uomo offeso nella ragione» – by, we can
surmise, recent events in Eastern Europe and their aftermath in Italy – who had shifted «la sua protesta sul
piano della fantasia» (SCIASCIA, “Review”, p. 1882).
72 Leonardo SCIASCIA, “Caro Calvino, non sono solido come credi”, «La Stampa-Tuttolibri», 15.679 (25
November 1989),” p. 1.
73 SCIASCIA, “Caro Calvino”, p. 1.
74 SCIASCIA, “Caro Calvino”, p. 1.
75 SCIASCIA, “Caro Calvino”, p. 1.
76 SCIASCIA, “Caro Calvino”, p. 1.
77 SCIASCIA, LATERZA, L’invenzione di Regalpetra, p. 79.
78 For irony, see note 131, below.
79 SCIASCIA, LATERZA, L’invenzione di Regalpetra, p. 65.
80 SCIASCIA, LATERZA, L’invenzione di Regalpetra, p. 78.
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contract to publish with Einaudi «due opere “a carattere narrativo”» after Gli zii81. This
explains why he wrote to Laterza claiming he had asked Calvino to block the re-edition
of Gli zii: had Calvino agreed, Sciascia would have been free to publish elsewhere82.
So Sciascia – on 25 June 1959, while working on Il giorno della civetta – wrote to
Calvino telling of his displeasure with how Einaudi had handled Gli zii, and asking if
Calvino, once the work-in-progress was completed, would provide a much-appreciated
appraisal, but
non per l’eventuale pubblicazione. Con tutta franchezza (e spero me la permetterai in nome
dell’amicizia), ti confesso che il mio editore ideale è Vito Laterza: non solo perché paga i
diritti con puntualità e scrupolo (cosa di cui non mi importa molto), ma perché diffonde il
libro come meglio non si potrebbe 83.
Sciascia had to be pleased that Laterza had accepted for publication (on 25 May 1959) Il
giorno della civetta prior to its completion, indeed, without having seen the
manuscript84. Sciascia also enjoyed dealing directly with Laterza, whom Sciascia told
how bureaucracy made dialogue with Giulio Einaudi impossible85.
Vito Laterza, as De Mauro stresses, needed to rebuild his publishing house after the
death in 1952 of Benedetto Croce, «per più di mezzo secolo nume tutelare indiscusso di
Laterza»,86 and therefore approached Sciascia’s work from a different vantage than
Calvino: the standards and criteria for evaluation of the two men were different. The
publisher Laterza was looking to build a stable of writers for a house in dire need of
establishing new contacts87 whose books would sell (and so Laterza’s many comments on
the structure of Le parrocchie were, according to Laterza himself, «non di merito, ma di
carattere esclusivamente editoriale»88. This was precisely the sort of help, that of giving his
writings form, Sciascia desired89). Unlike Laterza, Calvino was an author who read looking
primarily at the quality and longevity of the writing: in a word, its merits. This is why in his
capacity as editor he dispensed frecciate and bocconi amari90.
81
Paolo SQUILLACIOTI, “Storia di un’autocensura: La vicenda redazionale de Il giorno della civetta”,
«Todomodo», 2 (2012), pp. 23-36, p. 25. This explains why Morte dell’Inquisitore could come forth with
Laterza in 1964, after Il giorno della civetta and Il Consiglio d’Egitto, and before L’onorevole and A
ciascuno il suo, which were published by Einaudi, in 1961, 1963, 1965, and 1966.
82 SCIASCIA, LATERZA, L’invenzione di Regalpetra, p. 70. In that same letter, dated 5 July 1959, he told
Laterza that he was «intestardito a lasciare - a costo di non pubblicare niente per altri sette anni (dico per
dire)» (SCIASCIA, LATERZA, L’invenzione di Regalpetra, p. 70). Then, on 23 December 1959 he vowed to
«sganciar[si]» from Einaudi, «anche a rischio di non pubblicare più un libro» (SCIASCIA, LATERZA,
L’invenzione di Regalpetra, p. 76).
83 SQUILLACIOTI, “Storia di un’autocensura”, p. 28.
84 SCIASCIA, LATERZA, L’invenzione di Regalpetra, p. 68.
85 «Einaudi è invece irraggiungible, dietro le sue barriere burocratiche (e di burocrazia che non ha
nemmeno il merito di essere ordinata): e Lei può immaginare quanto ciò sia irritante per un meridionale
come me, abituato a risolvere tutto nel rapporto personale, di amicizia» (SCIASCIA, LATERZA,
L’invenzione di Regalpetra, p. 108).
86 Tullio DE MAURO, “Introduzione”, in SCIASCIA, LATERZA, L’invenzione di Regalpetra, pp. V-XVIII, p. VI.
87 DE MAURO, “Introduzione”, p. VI.
88 SCIASCIA, LATERZA, L’invenzione di Regalpetra, p. 9.
89 4 February 1964 Sciascia wrote to Laterza: «io ricordo sempre quanto Lei mi abbia aiutato per Le
parrocchie: a scriverle, a darle forma». SCIASCIA-LATERZA, L’invenzione di Regalpetra, pp. 107-108.
90 CALVINO, Lettere, p. 897.
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Calvino responded almost immediately to the letter in which Sciascia says that
Laterza was his «editore ideale»91: on 30 June Calvino wrote to Sciascia expressing the
wish that the latter’s new novel be published by Einaudi, and promising that the new
work «appena letto e approvato da me […] passerà direttamente in tipografia. E uscirà
nei Coralli con tutti gli onori»92.
In other words, in this exchange Sciascia – his personal relationship with Calvino (and
Laterza) aside – proves himself, at a very early stage of his career, a shrewd negotiator, one
who knew how to set two competing publishers against each other for his own advantage 93.
4. Calvino and Giufà
In the early 1950s Giulio Einaudi assigned Calvino the task of preparing a volume of
Italian folk tales94. Calvino accepted willingly because the task afforded him the
opportunity to contribute to the preservation of the oral tradition; to that end he gathered,
selected, and rewrote what he considered the most beautiful and representative fables
from each of Italy’s regions. He also gave himself two diverse but converging goals:
reach the broadest possible audience of non-specialists while respecting «tutti i crismi
della ricerca folcloristica italiana»95. As part of this process he translated forty-four
Sicilian tales into standard Italian, the last of which is a composite of ten Giufà stories.
Juḥā96 (as he is known in the Arab world) – in all likelihood an expression of an oral
tradition before he appeared in an Arabic book printed in the ninth century – is known
throughout the Mediterranean97. In Sicily he is called Giufà. Giufà is a pre-pubescent
boy98, and something of a village idiot (but it must be clarified straight away that while he
often behaves like a simpleton, he is more accurately described as a stolto astuto [a person
of low intelligence, who does not grasp linguistic nuance, but who can be shrewd when
basic self-interest – easy money, free food, avoiding work – is in play]). He arrived in
91 Quoted
in SQUILLACIOTI, “Storia di un’autocensura”, p. 28.
Quoted in SQUILLACIOTI, “Storia di un’autocensura”, p. 28.
93 As Squillacioti notes, «[l]e rassicurazioni di Calvino sembrano accontentare Sciascia […] Ma nel contempo,
mantiene vivo l’altro canale editoriale» (SQUILLACIOTI, “Storia di un’autocensura”, p. 29). Einaudi, of course,
published Il giorno della civetta; «fortunatamente» for Sciascia, Squillacioti adds, because «Laterza non aveva
neanche all’epoca una collana di narrativa» (SQUILLACIOTI, “Storia di un’autocensura”, p. 29).
94 Mario LAVAGETTO, “Prefazione”, in Italo CALVINO, Fiabe italiane, Milano, Mondadori, 2005 [1993],
pp. XI-XLVII, pp. XI-XII.
95 LAVAGETTO, “Prefazione”, p. X.
96 This spelling complies with the transliteration system of the «International Journal of Middle East Studies»
for Arabic, Persian, and Turkish. In the Italian texts I have consulted, Giufà’s Arabic name is spelled Ğuhâ.
97 The fame of Juḥā has endured over the centuries over a very extended geographic area. The Arabic Juḥā is
something of a paradox; often he is described as «a wise old fool» (AA.VV., “Juha, The Middle East’s heroic
everyman”, «The Economist» (15 August 2017) ˂https://www.economist.com/prospero/2017/08/15/juha-themiddle-easts-heroic-everyman>). He is an adult man, in some stories he is married; in one he has a daughter. In
some stories his advice is sought; in others, he is a fool, a cuckold, an object of derision. In Tuscany, he is
known as Giucca; in Turkey, Nasreddin Hoca. According to the writer Luigi Malerba, Hoca is also known in
Bulgaria where he is «destinato a essere vittima di beffe svariatissime» (Luigi MALERBA, Strategie del
comico, Macerata, Quodlibet, 2018, p. 91).
98 Since Giufà is very young, he is unmarried; so, as stupid as he may be, unlike his Arabic counterpart, he
cannot be cuckolded. This lack of a sexual dimension distinguishes the Giufà stories from their Arabic,
Turkish, and Tuscan counterparts. I venture that we may legitimately glean a sexual dimension from Lanza’s
Mimi, which are replete with the travails of sundry cornuti e gabbati, cornuti e contenti, and cornuti e mazziati.
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Sicily in the ninth century with the Arab conquest. The plots of the tales involving him are
generally a bit lengthier and more complicated than those involving Juḥā, whose stories
often resolve themselves in a witty remark. In almost all the tales Giufà lives alone at
home with his widowed mother, who keeps eviction and starvation at bay, and who often
must save her son from punishment for his self-destructive behavior.
Giufà was introduced into the Italian literary tradition in the first decades following
the Unification of Italy by Laura Gonzenbach (1842-1878), a polyglot member of
Messina’s Swiss-German community and by Giuseppe Pitrè (1841-1916), a Palermitan
physician. Gonzenbach interviewed working-class women living in coastal towns in the
northeast of Sicily. She translated what was told her in the local dialect into German,
then published her collection in Leipzig a few years before Pitrè came forth with a
collection of tales gathered during his travels to the far corners of the Island 99.
Pitrè is universally credited for his success, as Zipes writes, in «restor[ing] the
significance of oral literature» through his «renditions of the spoken word»100, and,
according to Lo Nigro, for transcriptions noted for their «assoluta fedeltà alla forma
originale del dettato popolare»101. As Calvino himself phrased it, «il piacere a leggere
Pitrè» in the original Sicilian dialect, consists «soprattutto nella ricchezza della lingua
vernacola, nei modi di dire, nei proverbi, nelle invenzioni espressive inaspettate» 102.
This is why Calvino, while working on the Sicilian tales chosen for inclusion in his
edition of Le fiabe italiane, drew heavily from Pitrè. Calvino – in the early 1950s a
relatively young writer in a literary environment still influenced by neorealism, a
movement in turn conditioned by the Gramscian concept of national-popular – accepted
the challenge of gathering and transcribing a selection of the country’s folktales into
Italian from the peninsula’s many dialects because it offered him an opportunity to hone
his craft while developing strategies of narrative realism. Work on the Fiabe allowed
him to deal first-hand with the language and cadences of the popular strata, their life
situations, their ways of thinking. From them he culled realistic forms of expression and
behaviors of those who found themselves in desolate, real-life situations.
Pitrè provided a model because he knew how to «renderci il tono parlato, il
caratteristico stile narrativo»103 of those he interviewed. In fact, Calvino considered
Pitrè’s Fiabe (along with Nerucci’s collection of Tuscan tales) one of the «due raccolte
[di fiabe] più belle che l’Italia possieda»104 because both «hanno uno “stile”»105. He
found Pitrè’s collection «un optimum di possibile restituzione sulla carta di quella
particolare e labile arte che è il raccontare a voce»106 because it enables us to discard
«l’astratta idea del “popolo” raccontatore»107 and presents the reader with
99
Laura RUBINI, “Introduzione”, in Laura GONZENBACH, Fiabe Siciliane, ed. Luisa Rubini, transl. by
Luisa Rubini and Vincenzo Consolo, Roma, Donzelli, 1999, pp. XV-XIX, p. XIX.
100 Jack ZIPES, “The indomitable Giuseppe Pitrè”, «Folklore», 120 (April 2009), pp. 1-18, pp. 4, 6.
101 Sebastiano LO NIGRO, Racconti popolari siciliani. Classificazione e bibliografia, Firenze, Olschki,
1957, p. XVI.
102 CALVINO, Saggi, p. 1630.
103 Italo CALVINO, “Introduzione (1956)”, in ID., Fiabe italiane, Milano, Mondadori, 2005 [1993], pp. 355, p. 32.
104 CALVINO, “Introduzione”, p. 22.
105 CALVINO, “Introduzione”, p. 33.
106 CALVINO, “Introduzione”, pp. 22-23.
107 CALVINO, “Introduzione”, pp. 22-23.
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personalità di narratori e narratrici ben distinte, segnate quasi sempre con nome e cognome,
età e mestiere, di modo che possiamo, sul calco delle storie senza tempo né volto, di tra il
grezzo anonimo parlato dialettale, scavar fuori qualche scoperta o sia pur qualche accenno
d’un mondo d’immaginazione più sofferto, d’un ritmo interiore, una passione, una speranza
che s’esprimano attraverso quest’attitudine a favoleggiare 108.
Through Pitrè’s narratori and narratrici «si mutua», to use Calvino’s own words, «il
sempre rinnovato legame della fiaba atemporale col mondo dei suoi ascoltatori, con la
Storia»109.
Thus, Calvino’s definition of “style” is one tool at our disposal for examining the
fundamentally divergent approaches to writing taken by Calvino and Sciascia: the
former saw himself as an author, the latter primarily a pamphleteer110 whose stylistic
investigations concentrated on honing his buon novellare (or, as said in Racalmuto,
«portare il racconto»111).
Another, very important tool, is their contrasting utilization of Giufà, for Sciascia a
tassel in the mosaic of his public self-image.
5. Sciascia and Giufà
In April 1963 Sciascia published Giufà e il cardinale, a narrative that grafts Pitrè’s Giufà
e lu Judici (355-56) onto Pitrè’s Giufà e lu Cardinali (372-75)112. Sciascia’s Giufà does not
pursue economic self-interest. And what many might consider a flaw – his letteralità, to use
Sciascia’s term, or complete inability to comprehend nuance, subtlety, and metaphor – is in
Sciascia a virtue that enables the character to subvert not only what is considered normative
108
CALVINO, “Introduzione”, pp. 23-24.
CALVINO, “Introduzione”, p. 25. “Style” in Calvino’s parlance is an interrogation of the «quotidianità
di immagini grige, di presenze senza volto, di grezzo e sbadato parlare» (CALVINO, Saggi, p. 76). Its goals
are those of enabling the writer, firstly, to define «uno spazio e un colore interno alla pagina, un sistema
di rapporti che acquista spessore, un linguaggio calibrato» (CALVINO, Saggi, p. 76) and, secondly, to
actively choose «un sistema di coordinate essenziali per esprimere il nostro rapporto col mondo»
(CALVINO, Saggi, p. 77). An author’s personal style is constructed contemporaneously «nell’espressione
poetica come nella coscienza morale» (CALVINO, Saggi, p. 77). It is an unattainable, undefinable goal, an
object of desire always just beyond our reach.
110 Leonardo SCIASCIA, “Leonardo Sciascia”, in Elio Filippo ACCROCCA (ed.), Ritratti su misura, Venezia,
Il Sodalizio del libro, 1960, pp. 380-381, p. 381. From early stages of his career as a writer, Sciascia aspired
to give vent to his «puntiglio di voler essere solo polemista» (LA CAVA, SCIASCIA, Lettere dal centro del
mondo, p. 418). In his own words, «[i]o non ho scritto che libelli … A me interessa dibattere cose di oggi;
cose che interessano quante più persone possibile, tenendo come assolutamente secondari i risultati letterari.
Se ci sono non m’interessano […] Perché il trovarmi in una enciclopedia, in una storia della letteratura, o tra
i maestri del racconto, mi fa un effetto addirittura iettatorio» (COLLURA, Il maestro di Regalpetra, p. 181).
His main concerns were ideas and current events. In a letter to Vito Laterza dated 6 September 1955 he
described Le parrocchie as «un libro che è un pamphlet» (SCIASCIA, LATERZA, L’invenzione di Regalpetra,
p. 21); and, as he told an interviewer in late 1987, «[n]on ho per fine di scrivere grandi libri. […] Certo, mi
auguro di venir letto, ma della posterità non m’importa nulla…» (James DAUPHINÉ, “Chi è lei, Leonardo
Sciascia? Incontro con Leonardo Sciascia”, Italian translation by Saverio D’Esposito, «Linea d’ombra», 65
[1991], pp. 37-47, p. 44).
111 Leonardo SCIASCIA, “Sciascia a Calvino”, «Venerdì Il Caffè - Mensile di attualità», 2.5-6 (JulyAugust-September 1954), no page available.
112 This latter tale is a lengthy variant of Pitrè’s Giufà e lu Canta-matinu (Giuseppe PITRÈ, Fiabe novelle
e racconti popolari siciliani, Sala Bolognese, Arnaldo Forni, 1982 [1880], pp. 360-61).
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behavior, but also seemingly timeless, ubiquitous Power. Sciascia elsewhere makes such
rectitude his own, claiming it is a means for warding against «imposture», «falsità», and
«bugie»113. Moreover, in choosing these two novelline, Sciascia looks past other stories that
underscore the boy’s stolto-astuto pursuit of self-gratification. Sciascia’s Giufà, as is Pitrè’s,
is indeed «babbeo»114. But while Pitrè’s is lagnusu [a complainer] and mariolo [a rascal],
Sciascia’s is also malizioso [malicious and spiteful]115.
Pitrè’s Giufà e lu Judici is a story of how Giufà’s inability to understand nothing but the
literal meaning of words (Giufà always takes what he is told at face value and acts
accordingly) allows him to strike full force, on the nose, the Judge who belittles him. To
explain, Giufà files charges against his mother because she does not give him the money
earned from the sale of meat he stole from a band of thieves. She cannot pay him, she
claims, because she lent the money to a swarm of insolvent flies. He waits a week, loses his
patience, then demands justice from the local court. Just when the Judge, who has ruled in
favor of the mother simply because of his disdain for the fool, consoles Giufà by giving him
leave to kill any fly that crosses his path, one such insect lands on the magistrate’s nose. So
Giufà punches the fly with such force that he knocks the judge unconscious.
In Pitrè’s rendition of Giufà e lu Cardinali, Giufà’s mother, to get her slacker son out
of the house, tells him to go hunt for un cardiduzzu (a European finch), which, she
explains, is a small bird with a red head. Once in the woods Giufà is elated when he
shoots a cardidunni, to his mind an extremely large cardiduzzu. He brings home his
game, a Cardinal, fully expecting his mother to share his joy. Instead, she has nervous
spasms. To calm her, he throws the cadaver in a well and covers the body with a layer of
stones. Then it occurs to him to drop in a dead wether116 and cover it with a second layer
of stones. Soon an unbearable stench begins to emanate from the well, so Giufà, acting on
impulse, runs to tell a magistrate where a dead Cardinal can be found. The judge knows
Giufà is a simpleton, and tries to send the boy on his way. But Giufà insists, so the Judge
goes with a police contingent to investigate. The officers, rather than engage with the
fetor themselves, lower Giufà into the well. Once inside, Giufà yells up that the water has
turned to stone, and that there is a cadaver below. Giufà is tasked with sending the rocks
upward in a bucket. After removing some of them, he reports that the Cardinal had
sprouted horns. The «magnanimous» judge is amused, but tells Giufà to keep digging.
When Giufà has fully uncovered the carcass, he announces that he has found a gelding.
The «magnanimous»117 judge sees humor in the situation; then he tells Giufà to get a job
and stop wasting everyone’s time, lest he find himself chained to a prison cell.
113 Leonardo SCIASCIA, Opere: 1984-1989, ed. Claude AMBROISE, Milano, Bompiani, 2004 [1991], p. 344.
114 A term Vincenzo Consolo translates as «quiet[e] e quindi fess[o], vale a dire non prepotent[e], non
mafios[o]» (Vincenzo CONSOLO, “Una brutta storia italiana”, «l’Unità», 24 October 2001, p. 1). In making
his selection, Sciascia also looks past stories in which the mother is endowed with agency. For example, in
Giufà e lu Canta-matinu she hides the body of the man Giufà has killed at the bottom of an empty well, then
wards off trouble by killing a wether and throwing it on top of the cadaver. Once in the well, Giufà finds the
animal’s carcass, then, since he grasps only the literal meaning of words, asks the man’s children (who are
present to identify the body) if their father was cornuto, bringing the investigation to a close.
115 For a clearer view of how this relates to Sciascia’s identification with Giufà, see, below, notes 205 and 206.
116 In Pitrè «un crastu» (pp. 360, 370, 374, 375). I take this term – translated in note on p. 370 as «un
castrato», or gelding – to signify a castrated male sheep or goat.
117 Giuseppe PITRÈ, Giufà e lu Cardinali, in ID., Fiabe, novelle e racconti popolari siciliani, volume 3,
Palermo, Edikronos, 1982, pp. 372-75, p. 374.
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Sciascia’s introduction to his re-writing succinctly sets in place an important
component of his public self-image (one he will use to explain why he typically reasons
in ways unlike those followed by “continental” Italians): the Arab ascendency of Giufà,
and by extension all Sicilians from Sciascia’s home Region118.
Equally important, in Sciascia’s Giufà e il Cardinale Power transcends time. In its
original redaction, a Prince of the Roman Catholic Church is synecdoche of
metatemporal, arbitrary power: the embodiment of the Inquisition («il cardinale era
quello che faceva l’opera di misericordia in piazza della Marina dove su un bel fuoco di
legna secca faceva arrostire uomini e donne, non si sa perchè, forse perché aveva fretta
a mandare anime all’altro mondo o perché si divertiva a vedere i corpi abbrustolire»119).
His Power is enforced by «ogni sorta di sbirri: quelli del caìd e quelli del vicerè,
compagni d’arme di re Ferdinando e carabinieri di re Vittorio» and is supported by the
spioni and avari (peers of the anonymous letter writers and others who collaborate with
law enforcement in Il giorno della civetta) who, always and everywhere, are all too
eager to turn on each other and collaborate with the police (in this case in the search for
the Cardinal and his killer).
Furthermore, unlike Pitrè’s Giufà, who responds spontaneously to a situation far beyond
his comprehension – an unappreciative, hysterical mother who has just banished him from
his home – Sciascia transforms Giufà into a person motivated by anger, suggesting a level
of intelligence to which the popular Giufà, as captured by Pitrè, could not aspire.
6. Calvino, Sciascia, and Giufà
Because of Calvino’s work on the Fiabe, Sciascia proposed that Calvino write the
introduction to the 1971 re-edition of Lanza’s Mimi. Calvino’s introduction to Lanza is
important for our purposes because it sheds light on his approach as a writer to popular
literature. Calvino saw in Lanza a writer who was interested in both the «mondo
118 Sciascia
revised this narrative (Leonardo SCIASCIA, “Giufà e il cardinale”, «l’Unità», 28 April 1963, p.
8) for his 1973 collection Mare colore del vino (SCIASCIA, Opere: 1956-1971, pp. 1306-13). One of the
more significant modifications in the rewrite is the tranformation of the original «la fece franca per quella
malizia che in certi casi gli stupidi sanno spremere» into «la fece franca o per troppa stupidità o per troppa
malizia, poiché la stupidità va d’accordo con la malizia sempre, e stupido com’è Giufà sa essere
maliziosissimo» (SCIASCIA, Opere: 1956-1971, pp. 1306-1307). Furthermore, he changed title to the
Arabic جحا, accentuating the Giufà’s Arabic ascendency. As Pappalardo indicates, «[t]he Islamic presence
on the island provides Sciascia with an Arab myth of origin that is only elusively imagined, sporadically
discussed, and never coherently developed in the author’s writings» (Salvatore PAPPALARDO, “From Ibn
Ḥamdīs to Giufà: Leonardo Sciascia and the Writing of a Siculo-Arab Literary History”, «Italian
Culture», 36.1 [March 2018], pp. 32-47, p. 33). Although Sciascia, as Pappalardo points out, could not
read Arabic, the writer promoted his Arab ascendency, and claimed that the a-temporal Sicilian forma
mentis that informed his thought was fundamentally Arab. Most critics have avoided the question of how
to reconcile the importance that Sciascia attributes to Arab Sicily with his knowledge – that of an
intelligent non-specialist – of a Siculo-Arab literary and cultural tradition. Traina proposes simply that
Sciascia’s true Sicily is the Arab Sicily of the poet Ibn Ḥamdīs and the geographer al-Idrisi, «una Sicilia
tollerante a cui la Spagna dell’Inquisizione cambierà volto senza che le generosi illusioni
dell’Illuminismo siciliano siano poi riuscite a recuperarle alla civiltà se non al livello delle élites
intellettuali» (Giuseppe TRAINA, Leonardo Sciascia, Milano, Bruno Mondadori, 1999, p. 201).
119 This passage was excised from the re-write, and the Cardinal’s brutality and abuse of arbitrary power are
transferred to the police. Reference to the wickedness of the Cardinal, and to the clergy in general, is limited
to Giufà’s speculation that the Cardinal might have sprouted horns after death and final judgement.
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culturale contadino» and admired Lanza’s «expressive choices»120. For Calvino «la dote
maggiore» of Lanza’s transformation of the oral tradition was his ability to «comunicare
il massimo colore con i minimi mezzi»121.
But Sciascia in 1989 will disagree sharply with the perspectives on Giufà Calvino puts
forth (as we shall see) in his “Introduction” to Lanza. In this venue Calvino underscores the
fact that the mimi are characterized by a «carica d’aggressività»122 inherent in all «contese
di campanile»123. The resident of a near-by town is derided – very often because he is a fool
and/or cuckold – and «inchiodato alla definizione emblematica consegnata una volta per
tutte alla facezia»124. Because the fool is isolated and «escluso dalla comunità»125, he is
«considerato fuori dell’umanità»126. So, the only option available is to deflect the derision
farther down the social ladder, to someone even more pitiful127. In fact, «nella mutua
denigrazione degli oppressi c’è sempre qualcuno più denigrato e più oppresso di tutti»128.
Of course, occupying the very bottom of the ladder is Giufà. Although we cheer when
Giufà manages to deflect ridicule (for example when his idiocy allows him to do
unwittingly what the rest of us lack to courage to do purposely: challenge the essence of
power), he is first and foremost a social antibody. That is, he embodies «tutta la stoltezza
universale per allontanarla dalla comunità: il raccontare le storie di Giufà conferma
narratore e ascoltatore nella loro superiorità nel mondo degli stolti»129. So, while in Lanza
aggression is campanilistica, directed at residents of a rival town, Giufà is universal. To
explain, Calvino had noted that none of the Giufà stories provide a physical description of
the characters, nor of the setting: «[l]e descrizioni sono quasi sempre scheletriche, la
terminologia è generica…»130. Because we can project onto him whomever we want, he
serves the function of banishing from our midst stupidity, an element of which is his
letteralità, his inability to grasp linguistic nuance, understatement, sarcasm, and irony131. If
in Lanza, as Calvino argues, the «funzione aggressiva si innesti sulla funzione primaria
d’allontanamento della stoltezza»132 then Giufà is idiocy par excellence.
7. Late 1970s: The Trial of the Red Brigades in Turin
Calvino, even after leaving the Pci in 1957 (subsequent to the Soviet invasions of
Hungary and Poland the previous year), remained a supporter of the Communist Party.
120
CALVINO, Saggi, p. 1061.
CALVINO, Saggi, p. 1609.
122 CALVINO, Saggi, p. 1602.
123 CALVINO, Saggi, p. 1602.
124 CALVINO, Saggi, p. 1602.
125 CALVINO, Saggi, p. 1602.
126 CALVINO, Saggi, p. 1602.
127 CALVINO, Saggi, p. 1602.
128 CALVINO, Saggi, p. 1603.
129 CALVINO, Saggi, p. 1605.
130 CALVINO, “Introduzione”, p. 44.
131 Irony, according to Sciascia «nasc[e] dalla coscienza non improvvisa ma stabilmente acquisita, della
nostra superiorità» (SCIASCIA, Opere: 1984-1989, p. 1169). In fact, it is rhetorical device many of
Sciascia’s characters use to (re)affirm their rank in a male pecking order (Joseph FRANCESE, Leonardo
Sciascia e la funzione sociale degli intellettuali, Firenze, Firenze University Press, 2012, pp. 55-73).
132 CALVINO, Saggi, p. 1605.
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Sciascia’s political itinerary is not as linear. As stated above, after the War he felt an
affinity for the separatist movement. He was close to Giuseppe Alessi, and, as editor of
«Galleria», interacted with the Dc-led giunta that governed Sicily. He also included
among his friends the communists Cortese, the Macaluso brothers, Massimiliano and
Emanuele, and Pompeo Colajanni133.
In 1978 Sciascia told the Socialist periodical Mondo operaio how, after the conclusion
of the “Operazione Milazzo” he supported, at least initially, the centro-sinistra: «ho
votato socialista in quegli anni. Ero partito con un voto radicale 134, poi PSI»135. The
“Operazione Milazzo” took its name from the President of the Sicilian Region, Silvio
Milazzo, who, from October 1958 through February 1960, headed a governing alliance
that brought together Socialists, progressive members of the Dc (such as Milazzo),
Communists136, Monarchists and the neo-fascist Movimento sociale italiano137.
As the centro-sinistra began to take shape, Sciascia became disenchanted with the Psi,
and aligned, in his own words, first with the «PSIUP138, poi sono approdato al voto
133
Sciascia maintained a cordial relationship with Colajanni through the 1950s (LA CAVA, SCIASCIA,
Lettere dal centro del mondo, p. 285) and mentions the partisan hero in an autobiographical piece written
in 1962, when the centro-sinistra was on the horizon. In that same note it he pledges: «[v]oterò socialista
finché sarà possibile. Finché sarà possibile, voglio dire, non votare comunista. Finché sarà onestamente
possibile non votare comunista» (Sciascia in ALBERTONE, La generazione degli anni difficili, pp. 261262; Sciascia’s emphasis).
134 The Partito radicale was founded in December 1955, consequent to a secession of the more
progressive members of the Partito Liberale.
135 In missives to Vito Laterza, Sciascia, without specifying his allegiance, told how he had participated,
«con una certa passione» in 1955 electoral campaign for the renewal of the Sicilian Regional Assembly.
Laterza, who was close politically to Tommaso and Vittore Fiore, contributed, it would seem, to the
success of Psi in the 1956 municipal elections held in his home city of Bari (SCIASCIA, LATERZA,
L’invenzione di Regalpetra, pp. 15, 17, 58).
136 The Communists believed this alliance would make possible the political isolation of the more
rearguard wing of the Dc. The “operation” was also considered, by participating Christian Democrats, a
means for defending both regional autonomy – from centripetal pressures exerted by the DC national
secretary, Amintore Fanfani – and Sicilian industries from colonization at the hands of monopolies based
in Northern Italy. As Martinelli indicates, the national strategy of the Pci at that time sought to «metter in
evidenza le contraddizioni interne alla DC, puntando a un rapporto positivo con la sinistra cattolica».
Nonetheless, the «embarassing presence» of the extreme Right «ha sollevato comunque all’interno del
PCI perplessità e critiche» (Renzo MARTINELLI, “Il PCI dalle elezioni del 1958 al IX congresso: I
comunisti, la ‘via italiana al socialismo’ e il governo”, «Ricerche storiche», 244 [September 2006], pp.
365-383, pp. 365, 375). The center of gravity of this «convergenza temporanea e diversamente motivata»
(Rosario BATTAGLIA, Michela D’ANGLEO, “Il PCI e il milazzismo: alcune considerazioni sulla linea
politica comunista”, in Rosario BATTAGLIA, Michela D’ANGELO, Santi FEDELE [eds.], Il milazzismo: La
Sicilia nella crisi del centrismo, Roma, Gangemi, 1988, pp. 87-97, pp. 88, 92) of seemingly irreconcilable
political forces, according to Giorgio Amendola, was the common goal of impeding the consolidation of
«un regime di monopolio politico della DC» (quoted in Emanuele MACALUSO, I comunisti e la Sicilia,
Roma, Editori Riuniti, 1970, p. 120).
137 The Msi left the coalition in August 1959.
138 The Partito socialista italiano di unità proletaria was the result of a split of the Socialist Party. The
majority of the Psi wanted to end its alliance with the Pci and approach the parties who formed national
government. When the Psi entered the government, those parliamentarians who did not give the new
coalition a vote of confidence were expelled. Those who constituted the original nucleus of the Psiup
though it would be possible to ally with the Pci. For the Psiup see Aldo AGOSTI, Il partito provvisorio:
Storia del Psiup nel lungo Sessantotto italiano, Roma-Bari, Laterza, 2013.
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PCI»139. In 1975 – because Sciascia agreed with the Pci’s stance on the 1974 divorce
referendum and despite the fact that Sciascia strongly disagreed with that Party’s official
national strategy of an «historical compromise» with the Dc (which reminded Sciascia of
milazzismo) – the Communist Regional Secretary in Sicily, Achille Occhetto, convinced
Sciascia (who had «convinced himself» the Pci «poteva prendere l’autobus liberale»140) to
participate in an experiment of «buon governo» at Palermo’s City Council. To overcome
Sciascia’s refusal to be a candidate, Occhetto finally succeeded in charming the writer
with the idea of a «colpo mediatico»: Sciascia and Palermo’s mayor Vito Ciancimino
(later convicted for conspiracy with organized crime) contemporaneously entering the
new Council’s inaugural meeting from opposite sides of the its Chamber141.
But soon thereafter Sciascia resigned from the City Council and broke with the Pci.
After the Moro assassination, because of the Pci’s opposition to negotiations with the
Red Brigades, all of Sciascia interventions regarding the role and function of the State
«serviranno almeno in parte ad attaccare il Partito comunista» 142. Indeed, according to
Sciascia’s friend, the writer Andrea Camilleri, Sciascia assumed an attitude of
«anticomunismo viscerale»143. In 1979 Sciascia was elected to Parliament as a member
of the Radical Party and served on the parliamentary committee charged with
investigating the kidnapping and assassination of Aldo Moro.
It was in the late 1970s, after Sciascia’s falling out with the Pci, that Sciascia
advocated on two occasions controversial stances on topical issues. He and Calvino
publicly disagreed, thereby casting into high relief their divergent views on what it
means to be a citizen of the Italian Republic.
The first instance occurred in May 1977, eight months before kidnapping of Aldo
Moro and the murder of the five members of his escort. Each of the sixteen citizen
jurors charged with adjudicating the trial of the colonna torinese of the Br, after
receiving threats from the terrorist organization, presented the court with medical
certificates documenting their sindrome depressiva and were exempted from service.
A protracted debate ensued that saw Sciascia and Calvino on opposite sides of the
barricade. Igniting the polemic was an interview by Eugenio Montale in which the
Nobel laureate asserted «non si può chiedere a nessuno di essere un eroe» 144. He added
139
SCIASCIA, La palma va al nord, pp. 138-39. Sciascia claimed he wrote Candido «quando ero appena
uscito dal fascino che esercitava su di me il Partito comunista italiano. Non sono mai stato comunista,
eppure, per onestà, devo precisare di aver subito l’attrazione del Pci». Writing Candido «mi ha procurato
un intenso sentimento di libertà» (DAUPHINÉ, “Chi è lei, Leonardo Sciascia?”, p. 40). I would note, in
passing (I shall return to this elsewere), in 1951 Sciascia stated that he joined the Pci when he was 18
years old and exited the Party when he was 24; his departure, he wrote, was «non senza oscillazioni, non
senza crisi» (Leonardo SCIASCIA, “L’intelligenza degli ex”, «Sicilia del popolo», 6 December 1951, p. 5,
in Paolo CILONA [ed.], Ricordare Sciascia, Palermo, Publiscula, 1991, pp. 330-331, p. 330).
140 Valter VECELLIO, “Leonardo Sciascia e «Il guaio della sinistra in Italia»”, in Pietro MILONE (ed.),
L’Enciclopedia di Leonardo Sciascia, Milano, La vita felice, 2007, pp. 101-115, p. 102.
141 Achille OCCHETTO, Secondo me, Casale Monferrato, Piemme, 2000, pp. 196-98.
142 Marcelle PADOVANI, “Presentazione”, in Leonardo SCIASCIA, La Sicilia come metafora, Intervista di
Marcelle Padovani, ed. Marcelle Padovani, Milano, Mondadori, 1979, pp. VII-XIV, p. XII.
143 Aldo CAZZULLO, “Camilleri: “Gli scontri con Sciascia, la vita da cieco e il No al referendum”,
«Corriere della sera», 19 November 2016 (</www.corriere.it/cronache/16_novembre_19/camilleri-gliscontri-sciascia-83f1927e-adc5-11e6-97cf-b67e1016ae14.shtml>).
144 Giulio NASCIMBENE, “‘La sconfitta dello Stato’, dice Montale, viene da lontano”, «Corriere della
sera», 5 May 1977, p. 1.
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that he too would have been afraid had he been chosen for jury duty, and would have
had himself exempted also145.
Two days later (11 May 1977 146) Calvino publicly reprimanded Montale for his
«morale da don Abbondio»147. Since
l’istituzione dei giudici popolari, da molto tempo comune ai Paesi più civili, vada salvata e
rispettata (oltre che migliorata e riformata dato che vediamo che funziona male), in quanto
ogni forma di partecipazione dei cittadini alla vita pubblica è bene che sia potenziata e resa
efficiente, anziché svilita 148.
Calvino refused to brook excuses for not meeting one’s civic duties: «pur con tutta la
paura del caso, non mi sentirei giustificabile in alcun modo se mi sottraessi a un
compito per nulla gradevole, ma che l’insieme delle mie idee mi porta a considerare
necessario»149. Those who surrender to «l’arbitrio dei killers misteriosi o
l’inappellabilità delle corti marziali»150, Calvino argued, fail to give the State – which
«consiste soprattutto nei cittadini democratici che non si arrendono, che non lasciano
andare tutto alla malora»151 – the opportunity to evolve 152. Indeed, «[è] inutile
prendersela con magistrati e polizia, che non fanno abbastanza per difenderci da
terroristi e rapitori, se poi si disertano le giurie popolari»153.
The next day, 12 May 1977, a brief opinion piece by Sciascia appeared on the front
page of Corriere della sera. His opening tells of how he had started to write a note in
which he, like Calvino, quoted Manzoni. But he discarded that draft: I promessi sposi, he
wrote, is «il più esatto e disperato ritratto dell’Italia […] come è e come speriamo non
sarà in avvenire»154. Recourse to Manzoni – he stated, implicitly diminishing Calvino’s
argument – is «immediato e inevitabile […] da parte di ogni italiano non analfabeta»155.
So, rather than engage with Calvino’s reference to don Abbondio, Sciascia averred that he
too would have found a way to exempt himself from jury duty. He had no desire to resist
«questo crollo o disfacimento in cui in nessun modo e minimamente mi sento
responsabile. Salvare la democrazia, difendere la libertà, non cedere, non arrendersi - e
così via, coi titoli che vediamo ad ogni avvenimento tragico accendersi sui giornali - sono
soltanto parole»156. Furthermore, he refused to legitimize «una classe politica che non
muta e che non muterà se non suicidandosi. Non voglio per nulla distoglierla da questo
proposito o contribuire a riconfortarla»157.
145 NASCIMBENE,
“La sconfitta dello Stato”, p. 1.
Saggi, pp. 2306-10.
147 CALVINO, Saggi, p. 2307.
148 CALVINO, Saggi, p. 2308.
149 CALVINO, Saggi, pp. 2308-2309.
150 CALVINO, Saggi, p. 2309.
151 CALVINO, Saggi, p. 2310.
152 CALVINO, Saggi, p. 2310.
153 CALVINO, Saggi, pp. 2309-2310.
154 Leonardo SCIASCIA, “Non voglio aiutarli in alcun modo”, «Corriere della sera», 12 May 1977, p. 1.
155 SCIASCIA, “Non voglio aiutarli in alcun modo”, p. 1.
156 SCIASCIA, “Non voglio aiutarli in alcun modo”, p. 1.
157 Sciascia intervened four times in this debate. This op-ed first appeared in «Corriere della sera» with the title
“Non voglio aiutarli in alcun modo” (now in Domenico PORZIO [ed.], Coraggio e viltà degli intellettuali,
Milano, Mondadori, 1977, pp. 12-14). His other three contributions all appeared in «La Stampa» (9 June, 19
146 CALVINO,
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Calvino was quick to respond158. After a succinct summary of the high points of
recent Italian history – the 1974 referendum on divorce, the success of the Italian
Communist Party in the political elections of 1976 159, the Lockheed scandal160 –
Calvino contended that Italians (including «la gran parte degli elettori che hanno votato
DC nonostante la DC»161), were frustrated with the «modo di governare della
Democrazia cristiana»162, and with that party’s responsibilities for the social and
political stasis that afflicted the country. This is why «[s]baglia di grosso Leonardo
Sciascia»163 when he invokes the «crollo o disfacimento o suicidio di un sistema di
potere lasciato a se stesso»164. Rather, imperative was the recognition of «la grande
carica d’energia morale che spinge a non accettare il modo come vanno le cose e che
vuole essere parte attiva nel cambiarle»165. If Sciascia was a pessimist (as Calvino
defined the term, «uno che trova che le cose non potrebbero andare peggio» 166), Calvino
defined himself an optimist, someone who thought that things could be much worse, but
was willing to resist and effect positive change: «soprattutto nella mentalità, nei
meccanismi di comportamento, nel modo come vediamo i nostri rapporti col potere e
come immaginiamo il nostro futuro»167.
8. The Late 1970s: The Moro Case
In March 1978, in the immediate aftermath of the Moro kidnapping, Sciascia
remained silent, quietly assuming «un atteggiamento interlocutorio»168: he re-examined
his life, what he had written, the consequences of what he had written, and his
responsibilities. But an editorial by Aniello Coppola, at the time editor-in-chief of Paese
sera169, caused him to break his «silenzio religioso»170.
Calvino, for his part, nine days after the assassination of the President of the Dc – 18
May 1978 – broke the silence he too had maintained since the kidnapping and provided
June, and 3 July 1977) with the titles “Di disfattismo, della carne e di altre cose”, “Se dissenti, io ti spingo a
sinistra”, and “Una risposta a [Edoardo] Sanguineti” (now in PORZIO, Coraggio e viltà, pp. 32-38, pp. 125-130,
pp. 174-76). As the debate went on, Sciascia had the worst of it: for example, see the contributions of Natalia
Ginzburg and Edoardo Sanguineti (PORZIO, Coraggio e viltà, pp. 139-43, 163-67, 190-91).
158 CALVINO, Saggi, pp. 2311-15.
159 The Christian Democrats held, in comparison to the parliamentary elections of 1974, at 38% (but lost
four seats in the lower chamber), while the Communists gained 7% (advancing to 34%) and 49 seats.
160 Allegations circulated that Lockheed Aircraft had bribed a number of high-profile politicians in Italy.
Among those implicated was the President of the Italian Republic, Giovanni Leone. While the accusations
against Leone were never proven conclusively, in the short term they led to Leone’s resignation.
161 CALVINO, Saggi, p. 2314. Calvino’s emphasis.
162 CALVINO, Saggi, pp. 2313-2314.
163 CALVINO, Saggi, p. 2315.
164 CALVINO, Saggi, p. 2315.
165 CALVINO, Saggi, p. 2314.
166 CALVINO, Saggi, p. 2315.
167 CALVINO, Saggi, p. 2315.
168 SCIASCIA, La palma va al nord, p. 145.
169 Coppola wondered aloud why Sciascia, so loquacious during the Red Brigades trial in Turin the
previous year, had unexpectedly maintained silent while the terrorist formation was unleashing its assault
on «il cuore dello Stato» (Aniello COPPOLA, “Non è tempo di cicale”, «Paese sera», 19 March 1978, p. 1).
170 SCIASCIA, La palma va al nord, p. 145.
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an account of how he had struggled, throughout the ordeal, to set emotions aside and
subject the shock and trauma of the Moro case to objective analysis. He reasoned that if
Moro had been taken prisoner «per aprire brecce nello schieramento politico» and upset
the Institutions of the Republic, then the kidnapping «non poteva avere altra soluzione
da quella che ha avuto»171. The frontal assault of the Red Brigades on the Dc –
paradoxically – granted that Party with «una sorta di immunità morale» while
postponing, sine die, any sort reckoning for the «colpe accumulatesi in trent’anni di
governo e sottogoverno». At the same time, the terrorists had left the Pci with no choice
other than the one taken, «concentrare le sue energie» in the defense of Italy’s
democratic system of government172.
The Moro case left Calvino less optimistic than the year before: the evil incubated by
the Dc had spread throughout Italian society, culminating in the «mostruosità del delitto
Moro». Yet he could not help but wonder if some good might come of it, «per un
fortunato concorso di circostanze obiettive». But for that to happen, the forces of Good
would need the help of the «volontà e intelligenza»173 of all Italians.
8 June, precisely three weeks after this intervention by Calvino – if we follow strictly
the chronology of the events, rather than causal logic – Sciascia publicly broke his
relationship with Einaudi. Sciascia objected to Einaudi’s submission – against his
instructions – of his novel Candido to the jury of a literary prize. He saw this marketing
strategy as «una mancanza di riguardo o una disattenzione tanto grave da giustificare –
non senza rammarico – la rottura di un vecchio e fedele rapporto»174.
Ten days later Calvino intervened again in the debate on the Moro case. He asserted
that he empathized with those Italians who felt estranged from «la politica dei
partiti»175, and defended them from charges of «qualunquismo»176. Qualunquisti, as he
defined them, were indulgent, complicitous, or resigned to the worst 177, a definition that
implicitly dovetailed with the self-defined «pessimist»178 Sciascia claimed to be.
Calvino, who had fought in the Resistance, rejected murder as a method of political
struggle. But he also reminded his readers that political assassinations were not
uncommon, citing the fate of John and Robert Kennedy. What made the killing of Moro
uncommon was the fact that it took place «in slow motion»179 – that is, over fifty-five
days. Politicians, he added, know – or they should know – that often «l’esercizio del
potere s’accompagna a un rischio mortale»180. Moreover, and in contradiction of
Sciascia’s hypothesis, they know – or should know – that public service means being
171 CALVINO,
Saggi, pp. 2338-2339.
CALVINO, Saggi, p. 2342.
173 CALVINO, Saggi, p. 2343.
174 Leonardo SCIASCIA, “Perché lascio Einaudi”, «Corriere della sera», 8 June 1978, p. 8. Nonetheless,
Sciascia published Il teatro della memoria and Cruciverba – in 1981 and 1983 – with Einaudi. Occhio di
capra, which he had promised to Einaudi, was released by Sellerio in 1982, even though, as Sciascia had
written to La Cava, «[n]on mi va di saltare da questa barca che affonda» (LA CAVA, SCIASCIA, Lettere dal
centro del mondo, p. 475). In 1983 Einaudi editore had become financially insolvent.
175 CALVINO, Saggi, p. 2346.
176 CALVINO, Saggi, p. 2346.
177 CALVINO, Saggi, p. 2346.
178 CALVINO, Saggi, p. 2352: see note 192.
179 CALVINO, Saggi, p. 2347.
180 CALVINO, Saggi, p. 2348.
172
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ready «a lasciar tutto da un momento all’altro, perché la vita individuale – la propria –
deve prima o poi finire e non può essere la cosa che conta di più»181.
Sciascia completed L’Affaire Moro on 24 August 1978. Because its main arguments
are well known and for reasons of space I will not summarize here. Suffice it to say that
he praised the Red Brigades for their «etica carceraria» (the captive Moro was treated
much better than their cronies held in State prisons182). By contrast, the State (through
Parliament’s two major Parties, the Dc and the Pci), while not the material assassin, had
re-instated, ipso facto, the death penalty and was responsible for Moro’s death. It was,
he argued, an «assassinio legale»183 committed for reasons of State.
Calvino’s review of L’Affaire appeared soon after the book’s publication, and in
«L’Ora di Palermo» (Sciascia’s home turf, so to speak). The review is reminiscent of
the letters Calvino, in an editor at Einaudi, sent over the years in response to Sciascia’s
manuscripts. Calvino accentuates the positive. The book is well written; he appreciates
«la finezza di molte osservazioni», especially the perspicacity of Sciascia’s analyses of
the use of the term ‘statist’ and of Moro’s personality184. Then he administers a few
bocconi amari, to borrow Calvino’s term. Sciascia’s «tesi di fondo» is just plain wrong:
given the constraints, the Italian government could not have handled the case in any
other way. And L’Affaire Moro «conferma che uno spiraglio per una qualsiasi trattativa
non viene mai aperto dai rapitori»185. Indeed, if even a hint of a desire to negotiate had
come from the Br, «malgrado tutte le dichiarazioni spartane»186, given «l’elasticità del
mondo politico italiano»187, a deal would certainly have been made.
However, he stresses (implicitly turning against Sciascia the latter’s demand that he
be allowed to «contraddire e contraddirsi»188),
se questo caso si fosse verificato, cioè se i governanti avessero stabilito il principio che per
salvare la vita di un uomo di governo si può fare qualsiasi compromesso, mentre i semplici
cittadini sono alla mercé di uccisioni, rapimenti e rapine, allora sono sicuro che
l’indignazione civile di Sciascia sarebbe stata ancora più categorica […] 189.
For Calvino, the strength of Sciascia’s reflections – Sciascia considered the Moro
case «come la tragedia di un uomo, ed un uomo rappresentativo di una storia e di un
costume»190– is its greatest weakness. Sciascia had viewed the case «come un fatto
isolato, senza un prima ed un poi»191. Rather, the Moro affaire needed
contextualization: it was merely one episode in a long-term terrorist strategy whose goal
was to trigger a civil war. And, Calvino underscores, herein lies the fundamental,
181 CALVINO, Saggi,
p. 2348.
Leonardo, SCIASCIA, Opere: 1971-1983, ed. Claude AMBROISE, Milano, Bompiani, 2004 [1987], pp.
472-473.
183 SCIASCIA, Opere: 1971-1983, p. 499.
184 CALVINO, Saggi, p. 2349.
185 CALVINO, Saggi, pp. 2349-2350.
186 CALVINO, Saggi, p. 2350.
187 CALVINO, Saggi, p. 2350.
188 SCIASCIA, La palma va al nord, p. 177.
189 CALVINO, Saggi, p. 2350.
190 CALVINO, Saggi, p. 2351.
191 CALVINO, Saggi, p. 2351.
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irreconcilable contradiction in Sciascia’s logic: despite all the declarations to the
contrary, Sciascia shows himself to be the optimist192: Sciascia’s hope that Moro’s
kidnapping could have had a «happy ending» was «un’illusione che sarebbe stato più
pietoso non coltivare»193.
9. Sciascia and Giufà, redux
In 1989, four years after Calvino’s death, Sciascia, in what was probably the last essay
he wrote before his own demise – an introduction to a Giufà anthology edited by
Corrao194 – takes exception to Calvino’s 1956 characterization of Giufà as a fool: «[m]a
sono propriamente comiche, le storie di Giufà? E Giufà è proprio uno sciocco?», he
asks195. If, for Calvino, Giufà is «lo sciocco a cui tutte finiscono per andar bene», he
continues, «si può davvero dire sciocco» someone «a cui tutte finiscono per andar bene?».
Especially when Giufà’s «sciocchezze» are «sempre dettate da una specie di demone della
letteralità»196. He concludes that Giufà’s «socially absurd» actions not only are
«transgressive» but are congruous with «un “diritto naturale”», a universal aversion to
falsehoods: they are proof of Giufà’s «libertà dalla menzogna»197. Moreover, Giufà’s lack
of awareness of «il danno che le sue azioni riversano sugli altri» is not «sciocco»,
«almeno nella misura in cui non è sciocca ogni affermazione di libertà, di verità»198.
This, of course is true. But it is true only to the extent that Sciascia, it seems, ignored
the distinction between the moral conscience and interior freedom of the specialist (the
ethics of principle of private intellectuals who give voice to their convictions without
fear of consequence) on the one hand, and, on the other, the ethics of responsibility that
binds the public intellectual and the politician (for Weber someone who aspires to
192
By contrast, in this instance Calvino saw himself as a pessimist, indeed, «più fedele al pessimismo
proprio di Sciascia di quanto non lo sia Sciascia stesso» (CALVINO, Saggi, p. 2352).
193 CALVINO, Saggi, p. 2352. While this controversy went forth, both Calvino and Sciascia concluded
work on their contributions to Pitrè’s collection of Sicilian folktales, Novelline popolari siciliane
(published by Sellerio in November 1978). Calvino wrote a brief introduction and Sciascia translated one
of the tales into standard Italian.
194 SCIASCIA, “L’arte di Giufà”, in Francesca Maria CORRAO (ed.), Le storie di Giufà, Palermo, Sellerio,
2001, pp. 9-19. In 1991 Sciascia’s “Prefazione” appeared in Giufà il furbo, lo sciocco, il saggio (pp. 715), edited by Francesca Maria Corrao (Corrao also wrote the “Introduzione”) for Arnoldo Mondadori.
Later that same year, a re-edition of that book came forth with Sellerio with the title Le storie di Giufà.
Sciascia’s contribution was retitled “L’arte di Giufà” (pp. 7-19), while Corrao’s introduction was moved
to the rear of the book and re-titled “Per una storia di Giufà”. In an email dated 17 November 2017, Paolo
Squillacioti, curator of the 2012 Adelphi edition of Sciascia’s Opere, kindly reminded me that the 1991
collection of Giufà stories edited by Corrao for Bompiani includes no indication of when Sciascia wrote
the essay in question, but that the 2001 Sellerio re-edition is dated 1989. He added that he had not done
research on the matter, but that Sciascia would have had to have written it prior to September 1989, when
his deteriorating health would not have allowed him to work on a text of this length. He also pointed out
that the final sentences of the text allow us to surmise that Sciascia wrote the note «con davanti la raccolta
della Corrao in forma pre-print», but he did not know why two years passed before the book came into
print. I would be remiss if I did not heartily thank Dr. Squillacioti, not only for this email, but for other
information he has shared with me, particularly useful in locating and retrieving other texts by Sciascia.
195 SCIASCIA, “L’arte di Giufà”, p. 11.
196 SCIASCIA, “L’arte di Giufà”, p. 12.
197 SCIASCIA, “L’arte di Giufà”, p. 12.
198 SCIASCIA, “L’arte di Giufà”, p. 12.
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participate or participates in the distribution of power199, an activity Sciascia fully
engaged in not only as a public intellectual but as a member of Palermo’s City Council
and Italy’s National Parliament) to always keep in mind the consequences of their
guidance and actions for their followers.
Sciascia then explicitly responds to Calvino’s 1971 introduction to Lanza’s Mimi to
argue that if Giufà is a social antibody, that isolation is the source of Giufà’s strength.
Isolation allows him to make «vacillare le “menzogne convenzionali” che la comunità
accetta e pratica, e su cui si regge»200. He then asks if the «superiorità»201 Calvino
claims Giufà inspires – in both narrator and listener – is not better described as a form
of social envy, an «illusione consolatoria», compensation for the lack of «libertà e
impunità di cui Giufà invece gode». He then proposes that «Giufà rappresenta il sogno
dell’impunità»202, the dream lived by Candido Munafò, Sciascia’s most
autobiographical character203, and protagonist of his «most autobiographical work»204;
someone who, like Giufà, is «assolutamente refrattario a ogni sentimento»205.
Thus, Sciascia’s idiosyncratic reading transforms the character into a projection of
his public self-image206. Giufà, he argues, «è un lontano, remoto antenato»207 of
Candide, Voltaire’s optimist and model for Sciascia’s Candido, ovvero un sogno fatto in
Sicilia:
[n]el suo stare alla lettera delle cose e alle cose della lettera, Giufà è in effetti un
vendicatore ignaro: vendica tutte le interpretazioni, i traslati, i tentacoli le sottigliezze per
cui la parola è stata adattata a nascondere il pensiero e a conculcare il diritto208.
199
Max WEBER, La scienza come professione. La politica come professione, Italian translation by Helga
Grünhof, Pietro Rossi, Francesco Tuccari, Torino, Einaudi, 2001, p. 49.
200 SCIASCIA, “L’arte di Giufà”, p. 17.
201 SCIASCIA, “L’arte di Giufà”, p. 17.
202 SCIASCIA, “L’arte di Giufà”, p. 16.
203 SCIASCIA, La palma va al nord, p. 199.
204 SCIASCIA, La palma va al nord, p. 199, and p. 166.
205 SCIASCIA, “L’arte di Giufà”, p. 13. Sciascia, for polemical purposes, must force the Giufà tales into a
pre-determined mould. For example, Giufà’s universality («a Giufà mai è stato assegnato un luogo di
nascita», he writes [SCIASCIA, “L’arte di Giufà”, p. 15]) enables Sciascia to deduce that the boy «non è
tanto sciocco» (SCIASCIA, “L’arte di Giufà”, p. 15): residents, Sciascia explains, of every town in Sicily –
«una regione dove ogni paese afferma la propria superiorità “intellettuale”» (SCIASCIA, “L’arte di Giufà”,
p. 15) – happily disown him so that his stupidity can be assigned to a rival town. Therefore, since no one
wants Giufà, «può appartenere a ogni paese e a tutti, e insomma all’intera Sicilia» (SCIASCIA, “L’arte di
Giufà”, p. 15).
206 Sciascia’s reading of Giufà is strongly conditioned by his perspectives on Sicilian atavism or
essentialism (see FRANCESE, Leonardo Sciascia e la funzione sociale degli intellettuali, p. 53), which, in
turn, are influenced by his ideas on the idiosyncratic nature of Power in Sicily. In 1980 he argued that
because Sicilians have «un’altra e diversa esperienza del potere: di un potere che non costruisce, che non
edifica, che non opera […] per il bene di tutti». Therefore, any theme that is not «più o meno direttamente
collegabile a quello del potere nei suoi rappresentanti di vertice e nelle sue manifestazioni più immediate,
più arbitrarie, più folli o che abbia a che fare col costruire, con l’edificare e tout court col fare associativo,
sociale, sia quasi del tutto estraneo alla novellistica popolare siciliana» (Leonardo SCIASCIA,
“Presentazione”, in Giuseppe COCCHIARA, Il paese di cuccagna e altri studi di folkore, Torino,
Boringhieri, 1980, pp. IX-XII, pp. IX-X).
207 SCIASCIA, “L’arte di Giufà”, p. 17.
208 SCIASCIA, “L’arte di Giufà”, pp. 15-16.
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By identifying with a social outcast, a character whose deafness to nuance inevitably
places him outside all «cosche»209, Sciascia casts himself as a vendicatore consapevole.
What remains vague, to me, even after reading an array of exegeses, is how la parola
is avenged by Giufà. He makes us laugh, as Corrao notes, when he causes us to
interrogate «il senso invalso nelle espressioni idiomatiche»210. He makes us laugh when
he acts without thinking, «cioè senza preoccuparsi del senso, o dei vari sensi, che alcune
espressioni idiomatiche assumono a seconda del variare del contesto» 211. He makes us
laugh because he «understands the world in a literal sense»212, and «is not conscious or
aware of what the consequences of his actions will be»213. Thus, for Zipes Giufà «is
clearly a fool, but he is not a wise fool»214. Often, according to Corrao, Giufà «non fa
altro che danneggiare se stesso»215. Most importantly (for those of us who believe
literature and politics can transform consciousness and reality), Giufà’s «vendicare», as
Marrone writes, never goes beyond the «gesto isolato, privo di riscontro e senza
conseguenze reali»216.
The incongruity of Giufà’s impunity in the face of absolute power, his exemption
from restriction, also makes us laugh. Indeed, it is impossible to deny that most readers
participate vicariously when Giufà punches a sitting judge on the nose 217, something
only a stolto, that is, a vendicatore inconsapevole would do.
However, and pace Sciascia, Giufà is funny only to the extent each of us can say
‘that could never be me, I would never be so blind or stupid’; ‘that would never happen
to people like me, I would never allow myself to be put in that position’. In other words,
he can make us laugh only if a splitting of the ego occurs. We identify with Giufà, but
only up to a certain point218. Giufà is funny because he affords us the comfort of
knowing that no matter how unfortunate our lives may be, he is worse off. He is
comical because he misinterprets and, consequently, acts in a way – particularly when
he disrespects authority – the rest of us can only fantasize.
Thus, he not only frees us from social restrictions, temporarily, but from
psychological ones as well. He can do so because he exists at the crossroads of the
pleasure and reality principles.
209
In Sciascia’s opinion «i siciliani “buoni”» (e.g. Ettore Majorana, Diego La Matina) are not «portati a
fare gruppo, a stabilire solidarietà e a stabilirvisi (sono i siciliani peggiori quelli che hanno il genio del
gruppo, della “cosca”)» (SCIASCIA, Opere: 1971-1983, pp. 223-224).
210 Francesca Maria CORRAO, “Per una storia di Giufà” in EAD., Le storie di Giufà, Palermo, Sellerio,
2013, pp. 133-170, p. 154.
211 CORRAO, “Per una storia di Giufà”, p. 154.
212 ZIPES, “The indomitable Giuseppe Pitrè”, p. 15.
213 ZIPES, “The indomitable Giuseppe Pitrè”, p. 15.
214 ZIPES, “The indomitable Giuseppe Pitrè”, p. 15.
215 CORRAO, “Per una storia di Giufà”, p. 154.
216 Gianfranco MARRONE, Stupidità, Milano, Bompiani, 2012, pp. 20-21.
217 SCIASCIA, “L’arte di Giufà”, p. 17.
218 Giufà, if I may borrow Freud’s phrasing, sparks two contrary reactions that «persist as the centrepoint of a splitting of the ego» (Sigmund FREUD, “Splitting of the Ego in the Process of Defence”, in
James STRACHEY [ed.], Standard Edition of the Complete Psychological Works of Sigmund Freud,
London, Hogarth Press, 1966-1974, pp. 275-278, p. 276). Splitting, a common defense mechanism, is the
failure in a person’s thinking to bring together the dichotomy of both positive and negative qualities of the
self and others into a cohesive, realistic whole.
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10. Conclusion
While Calvino was the bearer of uncomfortable truths, based in a rational analysis of
reality, Sciascia saw his mission as that of making known «la propria verità, o meglio:
la verità»219. And his subjective truths, at the time of their utterance had great purchase.
Even though thinkers (Calvino, for example) and politicians identified the flaws in
Sciascia’s analysis of the letters written by the captive Aldo Moro (not only was the
Italian government wary of giving the appearance of the State surrendering – even while
behind-the-scenes negotiations aiming at a so-called humanitarian solution would have
allowed for Moro’s liberation were taking place –, but, first and foremost, it could not
give the Red Brigades political recognition as a legitimate counterpart to the State,
transforming them into a “State within the State”, to use the terrorists’ terminology,
because doing so would have been a violation of the Italian Constitution), Sciascia’s
interpretation was common sense for many Italians for decades220.
The problem raised by the cultural divide of the anni di piombo for today’s reader is
that of learning from the past, which means, among other things, setting aside
preconceived notions, and gaining and maintaining the ability to negotiate pleasure and
reality principles. In our case, we must contend with the elevation of subjective truth (la
verità che vorremmo che fosse stata, so to speak) to the level of Truth, in a time when
fake news has been elevated to art form (through what has been called an «illusory truth
effect»221, a mental process that equates repetition with truth), and in a time when
increasingly polarized electorates ignore news that displeases because it does not reconfirm beliefs and convictions.
Sciascia was most certainly a master of the buon novellare: of creating reader
empathy for his protagonists, of leading readers to identify with his narrating voices.
His works participated in a postmodern literary season that seemed to revel in casting
into doubt the idea of historiographic truth; that proposed that truth is subjective; that
material reality can be known only through our interpretations and our interpretations of
those interpretations. And, quite frankly, Sciascia narratives have an uncommon force:
219
DAUPHINÉ, “Chi è lei, Leonardo Sciascia?”, p. 44.
I am referring not only to L’Affaire Moro, and to Sciascia’s interventions on the 1977 trial of the Red
Brigades (which, as Guido CRAINZ affirmed in 2016, are «difficile rileggere oggi» [Storia della
Repubblica: L’Italia dalla Liberazione ad oggi Rome, Donzelli, 2016, p. 208]). I also have in mind
Sciascia’s controversial essay “I professionisti dell’antimafia”, which Gian Carlo CASELLI still
considered, twenty years after the fact, an open wound (“La ferita di Sciascia”, «l’Unità», 13 January
1987, p. 1). Indeed, Paolo Borsellino, in his last public intervention, a commemoration of Giovanni
Falcone, 25 June 1992, told of «come in effetti […] cominciò a farlo morire […] quell’articolo di
Leonardo Sciascia sul Corriere della Sera che bollava me come professionista dell’Antimafia e l’amico
Leoluca Orlando come professionista dell’Antimafia in politica” (Paolo BORSELLINO, “Falcone cominciò
a morire nel 1988”, in Antonella MASCALI [ed.], Le ultime parole di Falcone e Borsellino, Milano,
Chiarelettere, 2012, pp. 99-106, p. 101).
221 See FAZIO, BRASHIER, PAYNE and MARSH for whom ‘illusory truth’ is a rhetorical technique based in
ambiguity and redundancy: «misconceptions enter our knowledge base and inform our choices» because
«processing fluency» (that is, «the ease with which people comprehend statements») «informs a variety of
judgements» because it is facilitated by repetition (Linda K. FAZIO, Nadia M. BRASHIER, B. Keith,
PAYNE, Elizabeth J. PAYNE, “Knowledge Does Not Protect Against Illusory Truth”, «Journal of
Experimental Psychology: General», 144.5 [2015], pp. 993-1002, p. 993).
220
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his interpretations convince222.
Calvino, especially Calvino «combinatorio»223, has also been defined a
“postmodern” writer. As we have seen, he saw his task as one of «trascrizione o
riscrittura, applicato ai testi»224. In other words, the author of Il castello dei destini
incrociati, while transcribing Pitrè, postured himself as yet another «anello
dell’anonima catena senza fine per cui le fiabe si tramandano, anelli che non sono mai
puri strumenti, trasmettitori passivi, ma […] i suoi veri «autori» 225. The Tuscan proverb
quoted in Calvino’s introduction to the Fiabe italiane – «La novella nun è bella, / se
sopra nun ci si rappella»226 – would influence him for decades.
To their credit, both Sciascia and Calvino, because of this purported gap between text
and political-social-historical reality, afford us the opportunity to test our capabilities
for critical reading.
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222
For an analysis of some rhetorical strategies utilized in a novel by Sciascia, see Joseph FRANCESE,
“The Death Penalty and Narrative Strategies in Porte aperte by Leonardo Sciascia”, «Forum Italicum»,
51.3 (2017), pp. 775–798.
223 In the late 1960s and 1970s Calvino was influenced by the writings of Roland Barthes, the fictions of
Jorge Borges, Sterne’s Tristram Shandy, Raymond Queaneu and the OuLiPo group (the Ouvroir de
Littérature Potentielle, or workshop of potential literature) who were in turn influenced by the Russian
Formalists and Structuralism. Thus, he wrote Il castello dei destini incrociati (1969), Le città
invisibili (1972), and Se una notte d’inverno un viaggiatore (1979), novels in which he strove to lay bare
to readers the literary artifice, that is, the structure of the narration.
224 CALVINO, “Introduzione”, p. 33.
225 CALVINO, “Introduzione”, pp. 21-22.
226 CALVINO, “Introduzione”, p. 21.
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La metafisica dello sprofondo
nella narrativa di Giulio Angioni
Irene Palladini
(Università di Cagliari)
Abstract
The work explores some landscape elements in the narrative production of Giulio Angioni. In particular,
the study aims to enhance the dimension of “sprofondo”, variously declined, as a peculiar figure of the
perception and representation of the landscape, in its historical-cultural, oneiric and etymological
stratification. In fact, from the analysis of the narrative texts of Angioni seems to emerge a
“speleological” tension in ‘the many ages lost in layers underfoot’, which remain in a close dialogue,
even dramatic, with the present.
Key words – narrative; landscape; “sprofondo”; dreamscape; etymology
Il lavoro esplora alcuni elementi paesaggistici nella produzione narrativa di Giulio Angioni. In
particolare, lo studio intende valorizzare la dimensione dello “sprofondo”, variamente declinato, come
cifra peculiare della percezione e rappresentazione del paesaggio, nella sua stratificazione storicoculturale, onirica ed etimologica. Infatti, dall’analisi dei testi narrativi di Angioni pare affiorare una
tensione “speleologica” ne «le molte età perdute a strati sotto i piedi», che permangono in un dialogo
serrato, anche drammatico, con il presente.
Parole chiave – narrativa; paesaggio; sprofondo; onirologia; etimologia
Senza cedere all’enfasi celebrativa, che tanto seduce il coro delle prefiche inscenato da
Marcello Fois1, la narrativa etnografica2 di Giulio Angioni «nasce adulta»3, ovvero
1
Marcello FOIS, “Sergio Atzeni nella letteratura sarda”, in Giuseppe LEDDA, Gigliola SULIS (a cura di),
Sergio Atzeni e le voci della Sardegna, Bologna, Bononia University Press, 2017, pp. 31-34. Vero è che Fois
condanna l’estetica morbosa del compianto di adoranti prefiche, intente alla celebrazione decontestualizzata
di Sergio Atzeni, ma il rilievo può essere di monito anche agli esegeti della narrativa di Angioni. Pertanto, si
suggerisce di tenere a mente il decalogo impartito da Fois, in relazione alla urgenza di desantificare e
defolclorizzare la voce degli autori sardi, ancorandoli alla specifica «catena genetica» cui afferiscono. Fois si
concentra specificamente sulla nouvelle vague sarda, di cui pioniere sarebbe l’Emilio Lussu di Marcia su
Roma e dintorni del ’32. Il richiamo alle opere fondative degli autori sardi resta imprescindibile per una
congrua analisi critica della produzione narrativa di Angioni. Peraltro, nell’elenco finemente stilato da Fois,
figura, a ragione, anche l’Angioni di A fogu aintru - A fuoco dentro, Nuoro, Ilisso, 1978.
2 Franco MANAI, nella sua “Nota introduttiva” alla raccolta di esordio di Giulio ANGIONI, A fogu aintru - A
fuoco dentro, Nuoro, Ilisso, 2008, pp. 5-9, p. 5, ricorre alla formula «scrittura etnografica».
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Literature, 9.2: 69-84, 2018
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consapevole, come attesta l’ultimo dei venti quadri che compone l’affresco corale di A fogu
aintru: Controtempo4. Il testo – pur non esaurendosi in una dichiarazione programmatica
posta in calce a orientare, e acquietare, il lettore – mette comunque in guardia da
«vagheggiamenti di arcadie perdute»5, «sedimenti di popolarismo e di memorialistica
rusticana»6 e «ruralismi salvifici»7 vari, originati da una mitizzazione, in odore di
Falsosardo Show8, di taglio molto borghese, più propensa a trafugare, che a comprendere,
le realtà e i miti di ieri e di oggi. Così, l’apologo del figlio di zia Ciccitta, il quale piange
non perché ha da ritornare in Olanda, ma perché «non è possibile restare a casa, col meglio
dell’Olanda»9, e la pantomima di blasonati accademici danesi, che scimmiottano la
spontaneità di talune usanze sarde, nella presunzione di vivere «alla maniera di»10, con tutto
3
La locuzione di Sandro MAXIA, introdotta nella “Prefazione” a Giulio ANGIONI, L’oro di Fraus, Nuoro, Il
Maestrale, 1998, pp. 5-11, p. 6, necessita di qualche chiarimento. Lo studioso, infatti, la riconduce alla
padronanza dei mezzi espressivi e all’elevato grado di elaborazione teorica che connota la narrativa di
Angioni, nient’affatto autore domenicale, infiacchito da quelle «infiorescenze citatorie che talvolta
appesantiscono le opere letterarie» (p. 5). Osserva Maxia: «In altri termini, la narrativa di Angioni nasce
adulta, consapevole di sé e dei suoi mezzi espressivi, e non reca quasi traccia di un apprendistato che
evidentemente si è svolto in interiore homine, in una severa educazione di quelle doti di osservazione e di
giudizio sul mondo che distinguono l’artista vero dal semplice portatore di “temperamento artistico”, che,
come ha detto una volta Chesterton, “è una malattia che affligge i dilettanti”».
4 ANGIONI, “Controtempo”, in A fogu aintru, pp. 122-130. Si precisa che è lo stesso Angioni a introdurre
l’espressione «venti quadri» per gli affreschi che compongono la partitura polifonica del volume di esordio:
«Conti dell’inventario che dobbiamo fare, questi venti quadri contano gli spiccioli, ma vogliono alludere alle
grandi cifre del trentennio trascorso» (p. 130). Rispetto alla problematicità delle fabulae di Angioni, che solo
con una buona dose di approssimazione e una certa forzatura possono rientrare nella struttura di racconti o
novelle tradizionali, dacché egli ne corrode, dall’interno, l’impianto stesso, si rinvia al contributo di Franco
MANAI, “Il contadino e l’intellettuale: i racconti di A fogu aintru”, in Franco MANAI, Cosa succede a Fraus?
Sardegna e mondo nel racconto di Giulio Angioni, Cagliari, Cuec, 2006, pp. 15-43.
5 ANGIONI, “Controtempo”, p. 124.
6 ANGIONI, “Controtempo”, p. 129.
7 ANGIONI, “Controtempo”, p. 129.
8 Giulio ANGIONI, Il gioco del mondo, Nuoro, Il Maestrale, 1999. Con questo esilarante nomignolo è
apostrofato il dottor Zedda, proprietario di un’azienda. E, beninteso, l’epiteto indica il suo credo: «E siccome
era socio fondatore della Pro Loco Fraus, alcuni lo chiamavano anche Falsosardo Show» (p. 69).
9 Esemplare, ai fini del nostro discorso, l’apologo: «Il figlio di zia Ciccitta, da vent’anni in Olanda, l’ultima
volta che è venuto a Natale, arrivato il mattino della ripartenza si è seduto un momento davanti al camino, e
si è messo a piangere in silenzio, mentre sua madre piangeva con lui e suo padre fingeva di canzonarli
entrambi. Non voleva più ripartire, non perché non volesse tornare in Olanda, dove si sta meglio, ma perché
non è possibile restare a casa, col meglio dell’Olanda. Tornare a casa è una festa, non è la ferialità quotidiana
di prima di andarsene. Le rimpatriate sono sempre dolci, specialmente se durano poco, in modo che sia solo
un gioco che non stanchi» (ANGIONI, “Controtempo”, pp. 122-123).
10 «Un uditorio singolare: professori, assistenti e dottorandi di quell’istituto scientifico, sporchi e puzzolenti di
stalla e di un ottimo formaggio danese, fetido come gorgonzola, malvestiti e irsuti di barbe e di capelli. Il
medesimo fetore di stalla e di formaggio ristagnava in tutti i locali dell’istituto. Le donne vestivano larghi e
informi calzoni di tela azzurra e vecchie camicie contadine senza colletto, arrivavano e se ne andavano sotto
ombrelloni verdi come quelli dei contadini delle mie parti, chi con scarponi, chi con vecchi zoccoloni di legno,
ma tutte le calzature maschili e femminili erano ornate e profumate, apposta e ad arte diceva Rudolf, con resti
di strame. Intellettuali travestiti da contadini che lassù non ci sono più a quel modo da ben più di mezzo secolo»
(ANGIONI, “Controtempo”, pp. 124-125). E, poco dopo: «Insistevano, una volta, che parlassi della Sardegna.
Ho detto loro dell’atteggiamento di lamento e di ironia dei contadini e dei pastori sardi verso la loro esperienza
di vita, e invece delle nostalgie di drappelli di piccola borghesia intellettuale, urbana e campagnola, per il
mondo rurale scomparso. Reagivano con placidi cenni di assenso, anche quando mi lasciai scappare che per il
mondo delle campagne non si fa nulla scimmiottandone usi e costumi» (ANGIONI, “Controtempo”, p. 126).
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il puntiglio del mercimonio del folklore11 e della mercatura della memoria, assurgono a
costellazioni guida nella visione dell’autore.
La narrativa di Angioni, memore della lectio della signorina garbata e ammodo in
Fantasticheria12 – antesignana di tutte le caritatevoli pie donne13 e delle sdegnose
Madamìn14 sulla faccia della terra – sonda, in prima istanza, lo spaesamento
antropologico, non scevro del disorientamento15 necessariamente prodotto da una ricerca
non concepita a volo d’uccello, ma in profondità. Esemplare, al proposito, la autorappresentazione di Silverio Lampis in Gabbiani sul Carso:
Lampis quel giorno si era impegnato molto a spiegare la ricerca sul campo in antropologia,
la ricerca etnografica diretta, la osservazione partecipante, o forse meglio: partecipazione
osservante, insomma quel modo di ricerca che vuole comprendere gli altri osservandoli
vivere, ma non a volo d’uccello, ma in profondità, non come un gabbiano che plana in alto
su possibili prede, magari anche così, ma soprattutto cercando di entrare nella pelle dei
nativi, diventando uno di loro, come lui stesso ha cercato a lungo di fare sui Carpazi: e così
poi testimoniare di quel modo di vivere, essendo stato là, vivendoci16.
11
Si rimanda, al proposito, alla sezione “Folklore” redatta da Marcello FOIS, in In Sardegna non c’è il mare,
Roma-Bari, Laterza, 2008, p. 50, il quale osserva che il folklore «è il mercato della memoria, il risultato di
una revisione di se stessi, che non parte da se stessi, ma da modelli autorizzati d’importazione».
12 Giovanni VERGA, “Fantasticheria”, in ID., Tutte le novelle, introduzione, testo e note a cura di Carla
RICCARDI, Milano, Mondadori, 1979, pp. 129-136. Impossibile, in questa sede, rendere conto degli echi, di
matrice verghiana, che riverberano l’opera omnia di Angioni. Tuttavia, l’uso sistematico di locuzioni
proverbiali, che innervano la tessitura narrativa dello scrittore sardo, sono, con ogni probabilità, riconducibili
alla lectio dello scrittore siciliano. In particolare, l’epica di Una ignota compagnia, Nuoro, Il Maestrale,
2006 (edizione riveduta e corretta di quella uscita per i tipi di Feltrinelli, Milano, 1992) è intarsiata di stilemi
proverbiali, introdotti, tuttavia, in funzione antifrastica e straniata rispetto agli ideali di saggezza metastorica
di Verga. In effetti, l’impiego dei proverbi, nel serrato gioco interlocutorio fra Tore e Warùi, sembra
rispondere più al bisogno di puntellare il caos del mondo che a tramandare un sapere acquisito.
13 Il rimando d’obbligo è a Una ignota compagnia, in particolare alla sequenza inerente le misericordiose
dame della carità, vivandiere alla Mensa di San Vincenzo, vestali del «granduomo» (Giulio ANGIONI, Una
ignota compagnia, p. 146), che, con il loro «disgusto pio» (ANGIONI, Una ignota compagnia, p. 147),
dispensano scampoli di cibo, acquietando così la loro falsa coscienza.
14 Giulio ANGIONI, “Madamìn”, in Millant’anni, Nuoro, Il Maestrale, 2002, pp. 117-122. Nel superbo
ritratto di signora piemontese si appunta tutta l’acredine possibile contro la vanagloria spocchiosa della
dama, che si sente catapultata, esiliata proprio, in una terra di villani zotici, marmaglia di ribaldi in orbace
che neanche i sanculotti!
15 Di disorientamento antropologico è lecito parlare per il racconto “Ricerca sul campo”, in A fogu aintru,
pp. 11-17. In effetti, il giovane laureando appare come istupidito dinanzi a Ziu Sidoru morente: «In piedi
dall’altra parte del letto, appoggiato al comò, stupidamente inutile guardava, con gesti insoliti in quella casa,
ora l’orologio, ora il malato, ora le carte dei suoi appunti sulla festa» (p. 16). L’episodio ritornerà, per la
consuetudine a innesti e interpolazioni dell’autore, in Il sale sulla ferita, Nuoro, Il Maestrale, 2010, sebbene
con una sensibile variazione. All’incredulità del giovane, che, nel racconto, indaga sulla tradizionale festa di
sant’Isidoro, si viene profilando, nel romanzo, ben altra questione privata. Il protagonista, infatti, si reca a
casa di Sidoro Manis, mosso da una quête più consapevole, benché votata allo scacco. Ovvero, egli si
propone di dilucidare il mistero della prematura fine, ai tempi della occupazione delle terre, del povero
Benito Palmas, scomparso in circostanze misteriose e la cui memoria è ora al vaglio di una sospetta
agiografia del martirio eroico. Si veda il capitolo 2, pp. 85-89.
16 Giulio ANGIONI, Gabbiani sul Carso, Palermo, Sellerio, 2010, pp. 138-139.
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A ogni buon conto, non è mai una questione di dietrologia, bensì di profondologia 17
e su questo si fonda la narrativa di Angioni, intenta a sfatare stereotipi e a corrodere
pregiudizi, esemplati nella protervia dello studente, armato di questionario, che si
introduce nella casa di Ziu Sidoru, alla ricerca di chissà cosa, poi 18. E in questo è
possibile scorgere un punto di sutura con il racconto antropologico, vero e proprio
architesto, Un errore geografico di Romano Bilenchi19, secondo la lettura proposta da
Guido Guglielmi:
L’episodio è apparentemente comico. In realtà la posta in gioco è una lotta per il
riconoscimento. A render il ragazzo ridicolo è un impulso a superare una differenza, una
condizione di subalternità. Ciò che egli cerca è una comunicazione. E compie un maldestro
tentativo per ottenerla […]. E proprio una comunicazione gli viene rifiutata. Non lo si
accetta come interlocutore […]. La comicità rivela un risvolto drammatico […]. E si
costituisce la figura antropologica (arcaica) del capro espiatorio 20.
Ad accomunare i due autori è, infatti, la lotta per il riconoscimento che investe e
sovrasta i personaggi, definendo, con tutto l’attrito che è dato immaginare, la geografia
conflittuale dei loro rapporti. Analogamente a Bilenchi, molti scorci tratteggiati da
Angioni si radicano nell’avvertimento del contrario, la cui tensione dilemmatica, con
l’innesto dell’aprosdoketon21, si intensifica in prossimità di un epilogo sottratto a
scioglimento risolutivo. Vieppiù, entrambi gli scrittori accordano alle figure regressive
di ragazzi un acume critico e riflessivo precluso a esperti o presunti tali, come si evince
dal componimento di Pistis Orlando, terza B22, lui pure con i suoi begli errori ortografici
e geografici, ma analista sopraffino di questioni demografiche e di emigrazione.
Insomma, saldando, in un carsico connubio, la lectio verghiana all’exemplum
bilenchiano – dato che potrebbe, tra l’altro, chiarire la duplice direttrice, realisticocontemporanea e lirico-memoriale, individuata da Franco Manai23 – Angioni si muove
17
ANGIONI, Gabbiani sul Carso, p. 408. In merito alla misteriosa scomparsa di Lampis, professore,
antropologo, filosofo e detective alla bisogna, è il sardo Trau a spiegare, a chiare lettere, «che non è una
questione di dietrologia, questa scomparsa, ma di profondologia».
18 ANGIONI, “Ricerca sul campo”, pp. 11-17.
19 Romano BILENCHI, “Un errore geografico”, in Romano BILENCHI, Anna e Bruno e altri racconti, Opere
complete, a cura e con introduzione di Benedetta CENTOVALLI, Cronologia, note ai testi e bibliografia a cura
di Benedetta CENTOVALLI, Massimo DEPAOLI e Cristina NESI, Milano, Rizzoli, 2009, pp. 122-130.
20 Guido GUGLIELMI, “Il romanzo familiare di Bilenchi”, in ID., La prosa italiana del Novecento II, Tra
romanzo e racconto, Torino, Einaudi, pp. 72-89, pp. 73-74.
21 Si pensi, almeno, all’epilogo esilarante di “L’ultima transumanza”, in A fogu aintru, pp. 18-21. Qui, il
giornalista, in odore di vagheggiamenti nostalgici e scrupoli identitari, tallona un ragazzotto, custode del
gregge, per poi, con una stoccata finale, accorgersi che non conduce vita romita, ma armeggia allegro con la
marmitta della sua fiammante Honda. E il pastorello dei tempi moderni, in un inusuale misturo linguistico,
così gli si rivolge: «Che, pure te sei sardegnolo?» (p. 21).
22 ANGIONI, “Componimento”, in A fogu aintru, pp. 80-81. Con queste parole si conclude l’elaborato:
«Certamente la popolazione sarda è aumentata un poco grazie agli sforzi personali dei presidenti regionali
ma veramente non è diventata più benestante, anzi s’è ne andata via per guadagnarsi il pane in altri posti
lontani dall’altra parte del mare e fuori di stato» (p. 81).
23 Franco MANAI, nella “Introduzione” alla già citata monografia, osserva: «Nella narrativa di Giulio
Angioni è possibile riscontrare due linee di sviluppo che a tratti procedono in parallelo e a tratti si
intrecciano con prevalenza volta a volta dell’una o dell’altra: una la potremmo definire realisticocontemporanea e l’altra lirico-memoriale» (MANAI, “Introduzione”, p. 11). Sul piano stilistico ed espressivo,
come la «parola precisa, netta, luminosa di Bilenchi ha altri piani di profondità» (GUGLIELMI, “Il romanzo
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lungo il crinale di una scrittura etnografica mai assertiva, ma intensamente
problematizzata, che, passo dopo passo, con tensione meta-cognitiva, riflette su stessa,
sino agli esiti di una auto-rappresentazione parodiata, non limitandosi al travaso, nella
materia letteraria, di questioni antropologiche.
Al centro degli interessi dell’autore è la Sardegna, Cagliari, il microcosmo di
Nuraddei e di Fraus, sorta di Macondo, esiliato ogni realismo magico, «laboratorio
mobile di scrittura»24 e agente di narrazioni, ma la Sardegna, cui Angioni è avvinto da
una sorta di «cordone elicoidale genetico e ombelicale»25 – forse l’apologo del cordone
conservato in una vescica di maiale assume non poche rifrazioni ermeneutiche26 – per
quanto incavata nell’orbita del «post-coloniale endogeno»27, travalica il perimetro
isolano. Ovvero, pur nella consapevolezza che, per parafrasare le parole pronunciate da
Josto Melis in Afa, le radici antiche siano un obbligo, la scrittura di Angioni non inclina
al loro culto retoricamente atteggiato e ostinatamente abbarbicato 28. E, praticando un
distanziamento ragionato dall’“esotico turistico” allestito in Assandira29, l’autore non
indulge all’autocompiacimento nostalgico, oggettivato nell’apologo dell’uccello di
Borges, che si staglia in una pagina cruciale di Gabbiani sul Carso:
Io dei sardi ho smesso di occuparmi, rischiavo di guardarmi l’ombelico. Noi sardi siamo come
l’uccello di Borges, che se vola, vola solo all’indietro, lo sguardo fisso al nido da cui parte30.
Attraverso il filtro corrosivo dell’ironia, mediata da Sterne31, anche per gli andirivieni
della comune narrativa ricorsiva e digressiva, intarsiata di analessi e prolessi e con
slittamenti temporali e spaziali dislocazioni, Angioni demistifica le astruserie dei
forestieri, tra alieni, medium e vivacità orgasmiche32. E, con l’estro della boutade
familiare di Bilenchi”, p. 74), analogamente quella limpida di Angioni si corruga, a tratti, perlustrando il
fondo delle cose, nel serrato confronto con il presente e con i traumi della storia.
24 Mauro PALA, Per una letteratura minore e di resistenza: il caso di Giulio Angioni, in corso di
pubblicazione.
25 FOIS, In Sardegna non c’è il mare, p. 7.
26 L’antropologo, nel racconto, ignora la vera funzione della reliquia conservata nella vescica di maiale, che
«garantisce alla madre e al neonato che mai soffriranno reciproche lontananze» (in Il mare intorno, Palermo,
Sellerio, 2003, p. 98). Tuttavia, anche per la caustica demitizzazione dello “studiato” antropologo, si
consideri tutto il racconto.
27 Margherita MARRAS, “Dall’Ottocento ai nostri giorni: la parabola del romanzo a tema storico in Sardegna
tra coloniale e postcoloniale”, in Patrizia SERRA (a cura di), Questioni di letteratura sarda: un paradigma da
definire, Milano, FrancoAngeli, 2012, pp. 195-214, p. 207.
28 Josto Melis prorompe in una battuta rivelatrice: «Caso mai sono obblighi, le tue radici antiche» (Giulio
ANGIONI, Afa, Palermo, Sellerio, 2008, p. 28).
29 Giulio ANGIONI, Assandira, Palermo Sellerio, 2004. Il romanzo, teatralizzazione del mondo alla rovescia,
incarna l’ingordigia idolatra dei turisti. E, in un luogo del romanzo, a proposito del saluto scambiato tra gli
ospiti che vanno e vengono dall’agriturismo, esso stesso contraddizione terminologica, Angioni puntualizza:
«tra gente che veniva da fuori in un’isola che non si capisce ancora bene dove collocare nella geografia
mutevole dell’esotico turistico» (p. 101).
30 ANGIONI, Gabbiani sul Carso, pp. 102-103.
31 Già Sandro Maxia rileva come Angioni si collochi «tacitamente sotto il segno di due scrittori che hanno
fatto dell’ironia metanarrativa il loro punto di forza» (MAXIA, “Prefazione”, p. 10). Naturalmente Conrad,
per le manipolazioni polifoniche, e Sterne, per la «strategia depistante della digressione in cui eccelse»
(MAXIA, “Prefazione”, p. 10).
32 «Di un altro forestiero che a Cavanna si aspettava uno sbarco di marziani. Di un altro meno strambo che
dimostra l’esistenza del Maligno con le prove che ha raccolto nei dintorni. Del regista teatrale che s’ispira
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ingegnosa, diabolica nella sua comicità, per cui, è ovvio, un sardo non può che nascere
da una sardina33, l’autore riconduce molte delle problematiche dell’isola, un tempo
punizione e oggidì premio vacanziero34, alla dimensione archetipica dell’uomo straniero
all’uomo, come pare suggerire la citazione, tratta dall’Eschilo delle Supplici, posta in
epigrafe a Una ignota compagnia35. In questo romanzo – il quale si snoda in una Milano
livida, mappata con precisione e assembrata in spazi claustrati 36 come il laboratorio
Lucetta Confezioni e la pensione in cui sono confinati Tore e gli altri – la provvisorietà
si rapprende nello sguardo di Warùi, nonostante, o forse in quanto, depositario di una
saggezza tanto millenaria37 quanto vilipesa, ma non risparmia neppure il leghista
Carlino, apparentemente integrato, nondimeno esodato.
La disappartenenza consuona con il trauma del nostos, nella consapevolezza che non
si può tornare se non in retromarcia, come Ennio, «tornato male dopo un brutto andare
via»38, rinculando, appunto, o come Pescegrasso e Totore, che inverano la sarcastica
profezia paterna39. E poco importa che la retro sia letteralmente innestata, con potente
effetto comico, dalla famiglia Melas in Il mare intorno40. Già, perché, nonostante
l’ilarità dell’escamotage, permane, al fondo, un retrogusto parecchio amaro. Sarà,
ancora una volta, un’epigrafe, ovvero quella da tratta da un verso di Caproni, in limine a
alle maniere locali genuine molto parche nel gestire. Della studiosa del sesso che sostiene che le donne
quaggiù sono capaci della maggiore quantità con la più intensa qualità di orgasmi in tutta Europa. E come lo
mettiamo tutto questo con quello che ha scoperto un ricercatore tedesco, che a Fraus e nei dintorni molte
zitelle sono medium straordinarie?» (ANGIONI, Il gioco del mondo, p. 90).
33 ANGIONI, Le fiamme di Toledo, Palermo, Sellerio, 2006. Il fiscale Vaca, rivolgendosi a Sigismondo
Arquer, condannato al rogo per eresia pertinace, gli domanda: «Ma voi che siete di nazione sarda, siete forse
italiano?» (p. 197). E, nel medesimo capitolo, significativamente intitolato Ignorabimus, l’alcalde del
carcere si permette di chiedere a Sigismondo «se io da sardo fossi nato da una sardina» (pp. 197-198).
34 Ancora: «Sono cambiati i tempi, sì, fin troppo. Prima la gente ci veniva triste, come per punizione: “Io ti
sbatto in Sardegna”, minacciavano. Ora ci vengono per premio, per vacanza. Forse è meglio così. Sì, prima
era peggio ed era meglio, già, era meglio ed era peggio» (ANGIONI, Il gioco del mondo, p. 90).
35 «Una ignota compagnia / solo col tempo viene giudicata. / Ognuno ha lingua svelta e ingenerosa / verso
lo straniero».
36 La dimensione asfittica di spazi concentrazionari sostanzia anche il romanzo Alba dei giorni bui Nuoro, Il
Maestrale, 2005. Si consideri, almeno, la natura desaturata del laboratorio in cui Alba consuma le sue notti.
37 «Perché un nero, nessuno lo guarda negli occhi, se incrocia gli sguardi, diceva, ma solo di sbieco, come
una mosca dentro il piatto del vicino. Ma un nero tra i bianchi si sente gli sguardi di tutti, un fascio di
sguardi pungenti. E forse chissà, nel paese dei bianchi anche l’occhio di Dio, che vede ogni singolo
ovunque, lui pure non guarda negli occhi i suoi neri, ma dietro» (ANGIONI, Una ignota compagnia, p. 32).
38 «C’è chi non sa tornare, dicono di lui, perché non si tratta di un viaggio, ma di un’arte lunga, ritornare al
paese. Ennio è tornato male dopo un brutto andare via. Non perché come tanti è ricomparso senza un soldo,
ma perché triste e allucinato più di Don Chisciotte, scarso di riso e di parole, stanco di prendere mulini per
giganti, vecchie bagasce per la Dulcinea. Si sa di un pianto irrefrenabile e convulso, quando Ennio ha rivisto
da lontano il suo paese con la chiesa bianca e tonda lassù in cima, come un’antica chioccia attenta ai suoi
pulcini. Questo però è successo anche ad altri, che hanno saputo tornare, anche se per leccarsi le ferite, in
retromarcia» (ANGIONI, Il gioco del mondo, pp. 61-62).
39 «Ritornerete a Fraus, ma rinculando - ripeteva» (ANGIONI, Il gioco del mondo, p. 70). Tuttavia, per il
nostos negato e le illusioni perdute di Totore e Pescegrasso, si consideri l’intero brano (pp. 69-70).
40 La famiglia Melas torna a casa, in Sardegna, letteralmente rinculando. Così, mentre l’autostrada è
ingolfata dal traffico vacanziero, i nostri escono dall’ingorgo in retromarcia, per non perdere il traghetto
prenotato da tempo. E se ne vanno con l’intenzione di non tornare mai più in Germania (ANGIONI, Il mare
intorno, pp. 121-127).
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Il gioco del mondo41, la Spoon River di Angioni, la cui eco stilla già nel racconto
Voltaire e il gendarme42, a suggerire l’amplificatio del tema, oltre il confine della città
bianca e dell’isola natia. Semmai, il ritorno permane nella soglia del desiderio, quello
dell’infanzia nuragica che trama non solo la narrativa, ma anche la produzione liricotestamentaria di Angioni43, e aggalla dagli interstizi della memoria, dischiusa dall’odore
di mele, che agisce come una madeleine nella vertigine lirica di Sigismondo:
Ecco, ma sì, è un profumo di mele. Mele! È questo profumo di mele che mi sta chiamando
e che mi sta facendo ritornare. Il profumo di mele che mi riempie, mi fa arrivare, mi fa
tornare in vita, delle mele dei nonni Tarragò, colte dagli alberi nell’orto dietro casa, nella
mia vecchia Fraus lontana e verde dell’infanzia, da cui non mi separa più nessun esilio 44.
Ai temi cruciali che innervano la scrittura di Angioni, inerenti la problematica
dell’emigrazione, le bieche storture del boom economico, la condizione delle classi
subalterne e l’impegno fattivo dell’intellettuale, occorre coniugare la peculiare
percezione e rappresentazione del paesaggio, riconducibile alla metafisica dello
sprofondo, cui Franco Manai dedica pagine importanti45. Se le ricerche antropologiche
41
«Il mio viaggiare / è stato tutto un restare / qua, dove non fui mai» (Giorgio CAPRONI, “Biglietto lasciato
prima di non andare via”, in ID., Il franco cacciatore, Milano, Garzanti, 1982, p. 41). Si noti che Angioni
modifica il titolo sostituendo “lasciato” con “scritto”, una variazione che può essere intesa come un possibile
refuso, oppure come consapevole affermazione della persistenza della scrittura.
42 Già all’altezza del racconto Voltaire e il gendarme compare un esplicito riferimento all’Antologia di
Spoon River, la cui lettura lascia parecchio costernato ziu Tatanu (ANGIONI, “Voltaire e il gendarme”, in A
fogu aintru, pp. 57-64, p. 61).
43 Il sindaco-filosofo-detective de L’oro di Fraus pensa: «Dalla mia infanzia fino ad oggi questo mondo è
cambiato con me più che nel millennio che finisce. E io da sindaco son qui per provvedere a questo luogo
dove la mia infanzia, e l’infanzia che dicono del mondo, mi risulta un po’ meno fantasma che altrove» (p.
36). Analogamente, in una delle sezioni cerniera di Millant’anni, dopo la visita al «Museo della civiltà
contadina», l’anonimo e corale narratore, sentenzia, con una nota di disincanto: «Mi è sembrato il museo
della mia infanzia a Fraus: ma più vicina ai tempi nuragici di don Agostino Deliperi che a questi nostri tempi
che viviamo» (ANGIONI, Millant’anni, p. 116). Tale è la centralità del motivo da figurare anche nel congedo
a Il gioco del mondo: «Qui vedo chiaro che la mia fanciullezza è più vicina ai tempi dei nuraghi che a tempi
come questi. E mi ci sento le vertigini. Ma è grazie agli artifici del ricordo che si riesce a sopportare ogni
passato, e forse a non avere eccessi di paura del futuro» (ANGIONI, Il gioco del mondo, p. 101). Il tema
ricorre, inoltre, in uno dei racconti de Il mare intorno: «Io dico spesso che l’infanzia di uno della mia età è
più vicina al tempo dei nuraghi e dei fenici più che a questi tempi che viviamo. Sì, lo dico spesso e tutti lo
trovano suggestivo. Io lo trovo terribile. Ne sento le vertigini» (ANGIONI, Il mare intorno, pp. 185-186). Il
tema sostanzia finanche la produzione lirico-testamentaria di Anninora. In particolare, si suggerisce il
riferimento all’explicit di Infanzie: «più vicina all’infanzia dei nuraghi / che a questa ben calzata di
oggigiorno» (Giulio ANGIONI, Anninora, prefazione di Luigi TASSONI, nota al testo di Giancarlo PORCU,
Nuoro, Il Maestrale, 2017, p. 28).
44 ANGIONI, Le fiamme di Toledo, p. 236.
45 MANAI, “Il cielo stellato del tenente Manca: Lo sprofondo”, in Cosa succede a Fraus? Sardegna e mondo
nel racconto di Giulio Angioni, pp. 109-140. Senza pretesa di esaustività, si fornisce di seguito una
campionatura delle specifiche occorrenze del segno nella produzione di Angioni. In Una ignota compagnia,
l’epifania della neve sprofonda Milano in un’atmosfera dai toni surreali (ANGIONI, Una ignota compagnia,
p. 123). In questo romanzo, lo sprofondo è, tuttavia, anche linguistico: «Ci guardavamo intenti per capirci,
provando e riprovando in varie lingue. Richiami indietro le parole e le disponi in altro modo, e nello sforzo
c’è sempre qualcosa che riaffiora, al di là delle frasi, e poi sprofonda tra una lingua e l’altra» (ANGIONI, Una
ignota compagnia, p. 198). Nel racconto Rosa Maria Lepànto Serra, Coga, lo sprofondo è connesso alla
topica della visione dall’alto di un campanile, da cui è possibile contemplare l’inabissamento nella valle:
«Suo padre campanaro la cercava sempre là, sul campanile, quando in casa non c’era. Oppure alla finestra
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orientano lo studioso alla profondologia, in una sorta di torsione dilemmatica, la
sprofondologia, variamente declinata, connota la sua narrativa, avvitata nel paesaggio e
nelle «diramazioni plurivoche»46 della scrittura. Presumibilmente, ma il dato è qui solo
adombrato, il referente potrebbe essere costituto proprio dal libello Sardegna come
un’infanzia di Elio Vittorini47, pur senza condividerne il fascino estetizzante del
primitivo e il calligrafismo di ispirazione rondesca. Il tema dello sprofondo, determinato
dalla permeabilità di visioni sgranate, è, infatti, latamente introdotto da Vittorini: in
relazione all’immobilità calcinosa di Tavolara48, alla sacralità silente, benché raschiata
dell’Oratorio del Rosario, sopra lo sprofondo a picco nella valle» (ANGIONI, “Rosa Maria Lepànto Serra,
Coga”, in Millant’anni, Nuoro, Il Maestrale, 2009 [2002], pp. 87-113, pp. 89-90). In seguito, in riferimento
alle presunte stregonerie compiute dal prete spretato, che la povera Rosa trova appeso a una corda, è dato
rinvenire un richiamo ulteriore allo sprofondo (ANGIONI, “Rosa Maria Lepànto Serra, Coga”, p. 94). In uno
dei quadri «(le molte età perdute a strati sotto i piedi)», incluso nella silloge Millant’anni, l’inabissamento è
oggettivazione della morte (ANGIONI, “Rosa Maria Lepànto Serra, Coga”, p. 173), e tutta la pagina, di fatto,
sonda la valenza metafisica dello sprofondo nel paesaggio. La silloge di quadri che compone Il mare intorno
tematizza il «buco di Intramontis» (ANGIONI, Il mare intorno, p. 22). E lo «sprofondamento» (p. 23) è
interpretato nella specifica accezione di oblio che la tensione fabulatoria e la prassi scrittoria, fosse anche su
tavolette preistoriche, tentano entrambe di arginare. Ne Le fiamme di Toledo ricompare l’imagerie dello
sprofondo, connessa alla visio dall’alto del campanile, già rilevata nel racconto Rosa Maria Lepànto
(ANGIONI, Le fiamme di Toledo, pp. 90-91). La formula ricompare, sempre in relazione al paesaggio della
Marina e alla parabola del prete impiccato: «Anche se Domíniga avesse saputo tutto questo, non si sarebbe
meno spaventata, a parte che sapeva che del prete dicevano che in notti di tregenda il diavolo se lo portava
su a sedere in cima al campanile, ululando alla luna come lupi, o giù nello sprofondo di Marina» (ANGIONI,
Le fiamme di Toledo, p. 97). Ne La pelle intera, lo sprofondo è introdotto, una prima volta, in un’accezione
paesaggistica: «Era sempre nell’orto, in vigna, nel noccioleto in riva al fossato, sotto le mura e lo sprofondo
del torrione» (Giulio ANGIONI, La pelle intera, Nuoro, Il Maestrale, 2007, p.37), e in seguito: «Presi da un
fiume in piena, rapide e sprofondi, correnti e mulinelli» (ANGIONI, La pelle intera, p. 75) e, in riferimento ad
Anselmo Frett: «Conosco il suo sprofondare dentro di sé come in un pozzo» (ANGIONI, La pelle intera, p.
70). In Afa, lo sprofondo è inteso come immersione nel primigenio e nelle stratificazioni di una onomastica
evocativa, infatti Josto Melis ama ricondurre il suo nome a radici preistoriche locali (ANGIONI, Afa, p. 28).
Nello stesso romanzo, inoltre, il segno rimanda allo sconfinato del mare, tra «sprofondo e salvamento»
(ANGIONI, Afa, p. 192). In Gabbiani sul Carso, il lemma è intensificato, tanto che il romanzo è allegoria
dello sprofondo paesaggistico e dell’inabissamento conoscitivo. Non è certo casuale che il penultimo
capitolo dell’opera si intitoli, appunto, Lo sprofondo (pp. 365-403). Inoltre, l’epica ipogea di Gabbiani è
mutuata da Lo sprofondo del 2001, come opportunamente precisa, in una nota in calce, Franco Manai (Cosa
succede a Fraus?, p. 109). Modello di complicazione sotterranea e della dialettica di mistero e conoscenza,
in cui inevitabilmente «si sprofonda» (ANGIONI, Gabbiani sul Carso, p. 90), l’inabissamento tratteggia un
onirogramma, dacché sogni e sprofondo sono correlati: «Ne fa mai, lei, di sogni di sprofondo?» (ANGIONI,
Gabbiani sul Carso, p. 91). E il mistero promana anche dalla effusione auratica delle doline carsiche: «Lui si
riguarda indietro, giù di sotto, alla luminosità serale misteriosa che pare salire da qualche sprofondo» (p. 95).
Insomma, è tutto il romanzo a configurarsi come uno «sprofondo balcanico» (ANGIONI, Gabbiani sul Carso,
p. 196), in cui si precipita e da cui traluce, fitto, il mistero. Nel più recente Sulla faccia della terra (Nuoro, Il
Maestrale, Milano, Feltrinelli, 2015) il termine sprofondo non è impiegato, forse sostituito da «sconquasso».
L’elisione del segno non è priva di importanza, forse a veicolare un qualche barlume di minima attitudine
resistenziale per Mannai Murenu e i suoi, ad onta delle atrocità perpetrate dai pisani.
46 Maurizio VIRDIS impiega la formula nel suo recente contributo “Geostorica sarda. Produzione letteraria
nella e nelle lingue di Sardegna”, «Rhesis», 8.2 (2017), pp. 17-27.
47 Elio VITTORINI, Sardegna come un’infanzia, con prefazione di Michela MURGIA e introduzione di Silvio
GUARNIERI, Milano, Bompiani, 2015.
48«Tavolara; forse viene da tavola; e veramente è un enorme blocco calcinoso che in questo chiarore violetto
di zolfo pare si accasci e debba sprofondare nell’acque, bruciata dentro. E che sia un’isola non si vede. Cupe
masse alle spalle la riprendono» (VITTORINI, Sardegna come un’infanzia, p. 26).
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dalla canicola, del Tempio49, ai viottoli che si incardinano nelle vicinanze di Sassari 50 e,
durante il viaggio da Cagliari, «Gerusalemme di Sardegna»51, direzione Alghero, per la
effimera labilità costiera52.
Tuttavia, se lo sprofondo è reso, da Vittorini, in sinergia allo stupore contemplativo,
nella produzione di Angioni assume una tale complessità da autorizzare non solo la
formula di scrittura etnografica, ma anche speleologica, con l’esortazione a rileggere
l’affondo prima, e la sparizione poi, di Lampis, con tanto di attrezzatura da speleologo,
nella groviera-dolina-inghiottitoio del Carso, a paradigma di poetica e di scrittura. In
prima battuta, lo sprofondo si oggettivizza nella emergenza di paesaggi-ipogei, come
sembra suggerire Sandro Maxia che, nella prefazione a L’oro di Fraus, rileva la
centralità della Casa dell’Orco, con i suoi budelli ciechi, autentico serbatoio
mitopoietico, e «topos centrale del libro, o meglio u-topos, non-luogo che ognuno
riempie ad libitum dei suoi desideri e delle sue ossessioni e fobie»53. Pur restando valida
la lettura proposta, mi pare che, semmai, di Ur-luogo si debba discorrere, considerando,
al contempo, le ramificazioni metamorfiche che l’ipogeo preistorico assume nella
narrativa di Angioni. Si pensi, in particolare, ai recessi di miniere, di grotte scure e
giganti, e alla variante del pozzo di Cavanna in cui è occultato il cadavere del povero
Benvenuto ne L’oro di Fraus. Ma concrezione estrema, per la materializzazione dello
sprofondo, è l’inghiottitoio di Gabbiani sul Carso, le cui complicazioni sotterranee
configurano una vera e propria metafisica del paesaggio, come scrive l’autore stesso in
una sequenza decisiva, in cui un tale dona a Lampis una copia della sua opera, intitolata,
appunto, Metafisica del Carso54. La natura confinaria, borderline, del luogo rende
tangibili antri e anfratti di sospetti e magagne che il detective cerca, caparbio, di
dissipare, disambiguando55 il mistero, calandosi nei sotterranei della confinistica.
Alle carsiche profondità, che rivelano molto di un mondo non solo alla rovescia, ma
direi proprio sottosopra, è da coniugare la rappresentazione di immondezzai e discariche.
49
«Dal sagrato si guarda come da un terrazzo nella valle. Dove il deserto è assoluto; sprofonda; raschiato
dalla canicola» (VITTORINI, Sardegna come un’infanzia, p. 44).
50 «A tratti da una piazza si esce sopra una steppa di buio. O si sprofonda dentro viottoli di piena campagna
dai quali non si vedono più i lumi che ci siamo lasciati dietro e quelli che avevamo davanti» (VITTORINI,
Sardegna come un’infanzia, p. 54).
51 VITTORINI, Sardegna come un’infanzia, p. 84.
52 «Che siano, cioè, coste effimere, che possano sprofondare e riemergere con la regolarità del ticchettìo
d’un orologio» (VITTORINI, Sardegna come un’infanzia, p. 104).
53 MAXIA, “Prefazione”, p. 8. Al proposito, fondamentale, per la radiografia di cunicoli interrati, ad alta
densità mitopoietica, ben oltre le fole, è la pagina tratta da L’oro di Fraus: «La Casa dell’Orco, figurarsi: da
millenni ci rifila patacche a noi di Fraus: orchi e diavoli, tesori interrati, ricchezze minerarie, adesso funghi
in galleria. Ha pure il fisico del ruolo, come luogo fiabesco. Ma è ciò che non si vede il più notevole: il
ventre dell’Orco ha le viscere lunghe: budelli complicati, si dice, arrivano all’uno e all’altro mare, per
scampo e sicurezza di chi possiede i luoghi. E i misteri dei suoi visceri sempre custoditi da guardiani truci»
(ANGIONI, L’oro di Fraus, p. 154).
54 «Mentre tutti e due stanno lì a leggere e a vedere, un tale, che si dice del posto, si avvicina a Lampis e gli
fa omaggio di una copia della sua opera Metafisica del Carso, dove sostiene, dice con molta convinzione,
che la Grotta Gigante è la grotta del mito degli schiavi di Platone, che il Carso dunque è la matrice
dell’idealismo platonico, quindi di tutta la metafisica occidentale, quindi della Metafisica» (ANGIONI,
Gabbiani sul Carso, p. 89).
55 Disambiguare è lemma cruciale nella poetica di Angioni e agisce sotto tutte le determinazioni della sua
scrittura. Si consideri almeno la assertiva dichiarazione di Lampis: «“Nemmeno con me, se non per allusioni
complicate da disambiguare”» (ANGIONI, Gabbiani sul Carso, p. 82).
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Già ne L’oro di Fraus, il detective, i cui piedi piatti rimandano, in forma per certi versi
parodiata, a Edipo pie’ gonfio, si oppone – con la sua utopia paesaggistica, proprio lui che
si è laureato con una tesi su Utopia di Tommaso Moro – alle scorie e detriti che infestano
non solo la miniera, ma tutta l’isola56. Pur tuttavia è soprattutto la discarica abusiva di
Repen a marcare l’etica di uno sprofondo esiziale, con tanto di Genius loci, abortito, più
che partorito, da quel “sommovimento viscerale” che anima anche la questione privata,
altissima posta in gioco, ne Il sale sulla ferita57. E alludo, beninteso, al personaggio
“Mercoledì delle Ceneri” che, nella sua eteronomia onomastica, sempre evocativa, è pure
detto “El Cocal”, ovvero “il gabbiano”, uccello delle discariche, non meno di quanto lo
sia il palazzinaro trafficone Sekula, lui pure creatura interstiziale. Il topos delle discariche
ipogee collima, inoltre, con la rappresentazione di cimiteri ridotti ad ammasso di rifiuti,
almeno quello di Lambrate in Una ignota compagnia58 e quello ebraico in La pelle intera,
invaso dalla malerba e dallo sfacelo di vivi che non si curano dei morti 59.
Tuttavia, la dimensione underground non è da intendersi in senso contrappositivo
alla topica della visio dall’alto che, nella narrativa di Angioni, non marca, in ogni modo,
né la presunzione antropocentrica del possesso, né l’estasi ascensionistica, prefigurando,
essa stessa, lo sprofondo: il sogno di librarsi in volo si risolve, infatti, in uno schianto 60.
Al limite, dall’alto degli spalti della rocca cagliaritana, si offre, nella grazia di una
reminiscenza che sconfina nella rivelazione, una luce appena consolatoria61. Ma, in un
luogo soltanto, la contemplazione dall’alto della Torretta salva, intera, la pelle ai due
protagonisti62.
Allo sprofondo più prettamente paesaggistico, che, per slittamento metamorfico e
concettuale, è radicato nell’ipocentro della Marina e del buco dell’Intramontis, è possibile
56
In una pagina de L’oro di Fraus, Angioni, con tanto di esatti acrostici, differenzia, censendole, scorie e rifiuti
comunali: «Ma la strada del pozzo sacro di Cavanna a un certo punto costeggia l’immondezzaio comunale:
anzi, gli RSU, come dice il dottor Zammataro per dire i rifiuti solidi urbani, lui che parla per sigle: gli STI
invece sono gli scarichi tossici industriali, mentre il PIP è il piano per gl’insediamenti produttivi, che certuni
vogliono qui, dove io invece ci vorrei rifare il paesaggio. Non ci passavo più da mesi: eppure sta nel centro
della mia utopia paesaggistica questa collina biancastra, lussureggiante a primavera, ma d’estate brulla: in
attesa dell’interramento periodico, turbe d’uccelli vi banchettano» (ANGIONI, L’oro di Fraus, p. 23).
57 Il protagonista, voce narrante, nel suo memoriale, introduce la formula nel corso della quête privata: «io ce
n’avrei di cose da studiare, qui da noi, però le sento tutte a questo modo, con un sommovimento viscerale, che
mi ridesta gli echi di voci misteriose» (Giulio ANGIONI, Il sale sulla ferita, Nuoro, Il Maestrale, 1990, p. 148).
58 Si pensi al cimitero residuale di Lambrate: «E Giuseppina poi è morta, più di un anno fa. Il tempo è lungo
e breve a suo piacere. Adesso è al cimitero di Lambrate, questa città dei morti tutta fiori secchi e marmi
freddi, dici il nome del morto, ti dicono due numeri, del campo e della tomba” (ANGIONI, Una ignota
compagnia, p. 62).
59«Tombe ingegnose, però strane, già tutte malandate, senza croci e foto e certe scritte incomprensibili
scolpite sulle pietre. Non c’era interramorti, e nemmeno un custode. Molte erbacce e un’aria di abbandono.
Non vivi che si curano dei morti» (ANGIONI, La pelle intera, p. 102).
60 Basti il richiamo al racconto Rosa Maria Lepànto Serra, Coga (in ANGIONI, Millant’anni, pp. 87-113),
rielaborato, con significative variazioni, nel capitolo Concubina diaboli, in Le fiamme di Toledo, pp. 87-114.
61 Ci si riferisce, nello specifico, a una delle pagine di più intenso lirismo ne Le fiamme di Toledo: «E si
tornava in alto sugli spalti della rocca, come a vedere più chiaro, come da bambini quando giochiamo a
guardare il più lontano possibile, mentre a sera un alito umido saliva dal golfo, il firmamento si adornava
man mano di stelle» (ANGIONI, Le fiamme di Toledo, p. 276). Per la pregnanza evocativa della percezione
visiva, sospesa fra reminiscenza e rivelazione, si veda l’intera pagina.
62 Si pensi alla vasta sequenza che suggella La pelle intera, con Efisio e Anselmo che, dall’alto della torre,
contemplano l’arrivo di Berger e di Ricu Gross, sino allo sparo di Efisio, che spappola la faccia di Berger,
salvando così la propria pelle, e quella dell’amico (ANGIONI, La pelle intera, pp. 200-209).
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associare anche l’inabissamento della morte, lo sprofondo etimologico e quello onirico,
tutti ad alto coefficiente paesaggistico. L’etimologia, e per certi versi la onomastica, in
Angioni, è, infatti, interrata nelle stratificazioni etiche, dischiudendo «(le molte età
perdute a strati sotto i piedi)»63 che strutturano «l’epica minimalista Millant’anni»64. Si
pensi alla etimologia del toponimo di Fraus, da intendersi sia come frode, con tutte le
implicazioni storiche che questo comporta, sia come artigianato di scrittura:
- Fraus - diceva in quei giorni il mio preside al liceo: - Fraus vuole dire frode, no? Eh sì,
nomen omen, carissimo collega sindaco: nomina sunt consequentia rerum: questi fatti di
Fraus ce lo confermano … Ma Fraus in lingua nostra vuole dire fabbri, al plurale. Forse per
rinomanze antiche in arti della forgia, prima che i frauensi si dessero a stentare in una più
consueta vita rustica65.
E, come emerge dall’affondo, Fraus è «luogo ipotetico, ma è anche un sito ben definito
in quanto volano dell’esperienza narrata per essere condivisa, o piuttosto forgiata per
rendere onore all’antica tradizione di fabbri che caratterizza i frauensi, tradizione
attualizzata nella capacità di creare storie»66. Senz’altro non riducibile, dunque, a
simulacro letterario, Fraus è cellula germinale di narrazione, nella «intersezione
diacronica per costruire relazioni e stabilire raffronti»67. La stratigrafia etimologica
concerne anche la «faccenda del furare» che deriverà anche dal latino rubare, ma a
Fraus, chiosa Tziu Pedru, «prima di tutto viene dal bisogno» 68, e, anche in quest’ultimo
63
ANGIONI, Millant’anni. I sedici quadri che compongono la silloge sono contrappuntati da altrettanti
interventi-cerniera, denominati, appunto, «(le molte età perdute a strati sotto i piedi)». Si deve a Franco Manai
l’analisi della funzione precipua svolta dai capitoletti: «Millant’anni è definito nella copertina come ʻromanzoʼ.
Se però lo si va a esaminare più da vicino si resta colpiti dal fatto che il libro è costituito da 16 racconti
autonomi, ciascuno con un suo titolo e ciascuno ambientato in un periodo storico diverso. A distanze irregolari,
tra un gruppo di racconti e l’altro, sono inseriti sei capitoletti scritti in corsivo e tutti con lo stesso titolo tra
parentesi (le molte età perdute a strati sotto i piedi). Abbiamo detto che questi capitoletti sono inseriti tra i
diversi gruppi di racconti. Si potrebbe anche dire che è il contrario: sono i racconti che abbiamo definito
autonomi a essere inseriti all’interno della trama continua benché interrotta costituita dai sei capitoletti. Appare
dunque evidente come proprio questi interventi, messi modestamente tra parentesi, costituiscano l’ossatura
centrale del libro» (MANAI, “L’epica minimalista di Millant’anni”, in Cosa succede a Fraus?, p. 151).
64 MANAI, “L’epica minimalista di Millant’anni”, pp. 141-185.
65 ANGIONI, L’oro di Fraus, p. 35. L’etimologia è altrove riproposta da Angioni: «O quella fissazione di
quell’altro, Antonicheddu Maccu, che ha avuto inizio il giorno che ha saputo che Fraus, in una lingua antica
che si parlava qua, vuole dire frode, cioè inganno, fregatura. E dunque noi viviamo nell’inganno, sempre,
prima di noi, dopo di noi, tutti, giorno e notte? Ci ha pensato a lungo. Troppo a lungo» (ANGIONI, Il gioco
del mondo, p. 88). E Sandro Maxia chiarisce che “niente ci vieta di scorgere nel toponimo un’allusione
all’arte di forgiare parole, stabile possesso degli aedi popolari e del loro erede colto, il sindaco professore di
filosofia, cavaliere errante della verità” (MAXIA, “Prefazione”, p. 9).
66 PALA, Per una letteratura minore e di resistenza: il caso di Giulio Angioni.
67 PALA, Per una letteratura minore e di resistenza: il caso di Giulio Angioni.
68 Giova citare per esteso il brano, con tutte le implicazioni storiche che lo studio etimologico comporta: «Di
quella esperienza di tziu Pedru con il viceparroco si è raccontata a lungo la faccenda del furare, che significa
rubare. -Furare, furari, furai: bella parola, - dice il prete giovane - e viene dritta dritta dal latino. Tziu Pedru
l’ha guardato, ha riflettuto quanto basta e poi gli ha detto: -Furare in seminario certamente viene dal latino.
Qui a Fraus però, furare, prima di tutto viene dal bisogno. La storia, diceva tziu Pedru, quella conviene
studiarla, che so, ai romani, agli inglesi, magari anche ai corsi, che si credono grandi perché lì ci è nato quel
Napoleone, forse anche a molti altri, che gli fa piacere, non a noi sardi. A studiare la storia noi sardi non
facciamo che arrabbiarci. Tu guarda un sardo che legge la sua storia: è lì tutto accigliato, solo ogni tanto gli
esce un piccolo sorriso, ma sardonico. Sì, un sardo che s’informa della sua storia, s’incazza. E ci dà sotto a
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caso, l’etimo comporta la messa a fuoco, e in discussione, delle categorie storiografiche,
sollecitando un generale ripensamento critico, infulcrato sulla dialettica, mai assestata,
tra prospettive egemoniche e subalternità, come da lectio gramsciana. Peraltro, si
precisa, il nome del pensatore sardo figura in più di un luogo nella narrativa e nella
lirica di Angioni69. Ma, al di là di esplicite occorrenze, la metodologia gramsciana salda,
in una congiuntura essenziale e logica stringente, la narrativa plurisdiscorsiva di
Angioni che, senza rientrare nella categoria dell’autoesotismo e del romanzo di
denuncia, si pone come critica aperta a una società in divenire. E a Gramsci Angioni
attribuisce la capacità «non di aver ragione e di sostenere una tesi, ma di mettersi
davanti al problema e cercare di capire»70.
L’onirologia, densa di rifrazioni paesaggistiche e intensamente predittiva, costella
molti dei romanzi di Angioni, poiché, e su questo l’autore parla chiaro, «nel sonno
sembra di cogliere misteri che la veglia non intende»71. Ma cifra invero peculiare
dell’autore è la identificazione tra sogno e sprofondo, sotto il segno di un dreamscape
che sostanzia non solo le pagine conclusive di Gabbiani sul Carso, con la chiamata
dall’oltretomba di Lampis, ma che è disseminato in vari luoghi del romanzo, tanto da
autorizzare la locuzione interpretativa di «catabasi onirica nello sprofondo»:
“No, questo non è un luogo qualunque”, dice quasi solenne, e spiega che qui tutto è come in
un suo sogno antico, dove lui cade in un abisso, nella casa dell’Orco a Fraus, al suo paese,
ma sognando si accorge di sognare, riesce in tempo a svegliarsi e a non morire sfracellato
nel profondo: “Ne fa mai, lei, di sogni di sprofondo?”72.
Che il paesaggio assuma una valenza oracolare non è solo attestato dalla oniromanzia,
ma emerge da altri luoghi testuali: ad esempio, poco prima del rinvenimento del
cadavere di Benvenuto, lo scenario, lungi dalla riduzione a fondale decorativo,
preannuncia la catastrofe:
sapere contro chi, ma sono così tanti che ci perde il conto, dai fenici più antichi fino a noi: duemila e
cinquecento anni di fregature. Certo che s’incazza. Ma soprattutto contro se stesso. O al massimo
sghignazza: su se stesso» (ANGIONI, Il gioco del mondo, pp. 34-35).
69 Gramsci figura già nella raccolta d’esordio A fogu aintru, in particolare nel racconto L’ultima
transumanza: «Intanto, a edificazione di certa sinistra sarda refrattaria e poco patriottica, ha pronto un saggio
inedito dove si dimostra come il sardo Gramsci sia stato separatista fino al suo ultimo respiro (e un suo
segreto motivo d’orgoglio è che il SID lo ha tenuto d’occhio a lungo come persona pericolosa per l’integrità
dello stato italiano)» (p. 20). Compare, in seguito, nel quadro Trent’anni dopo, incunabolo a Il sale sulla
ferita, in relazione alla proposta di dedicare a Gramsci una piazza: «Il segretario aveva fatto una bella
introduzione alla proposta, che comprendeva anche una Piazza Antonio Gramsci, subito accettata, e una Via
Giuseppe Di Vittorio riuscita in salita anche nella discussione. Efisio nella sua relazione aveva citato
Gramsci sulla necessità di contrapporre lo “spirito di scissione” al “complesso formidabile di trincee e di
fortificazioni della classe dominante”, a “tutto ciò che influisce e può influire sull’opinione pubblica
direttamente o indirettamente …: le biblioteche, le scuole, i circoli e i clubs di vario genere, fino
all’architettura, alla disposizione delle vie e ai nomi di queste …”» (ANGIONI, “Martirio oscuro”, in A fogu
aintru, pp. 67-76, p. 78). Ne Il sale sulla ferita si rievoca quando Modesto Adamo Palmas assistette, tra gli
altri, a un comizio di “Nino Gramsci di Ghilarza” (p. 215). Infine, la lirica di Angioni è impregnata di echi
gramsciani: cfr. Anninora (in Anninora, pp. 26-27) e La vita è sogno (in Anninora, pp. 127-128). Sulla
“eredità” gramsciana nel pensiero di Giulio Angioni, si veda il contributo già citato di PALA, Per una
letteratura minore e di resistenza: il caso di Giulio Angioni.
70 ANGIONI, “Gramsci ritrovato tra Cultural studies e antropologia”, in «Lares» (Maggio/ Agosto 2008), p. 256.
71 ANGIONI, Le fiamme di Toledo, p. 352.
72 ANGIONI, Gabbiani sul Carso, p. 91.
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Mi pareva d’entrare in porto in un’alba livida, dopo una notte di mal di mare: i primi
gabbiani alti e striduli da nord-est, sbucavano dalla nebbia putrida che a quell’ora
ammatassa la Casa dell’Orco, fin sopra sul Muso dei Gatti. Sfiata dalla Casa dell’Orco, qui
da noi la nebbia. Alla grotta del pozzo sacro ci guida Gianuario. Dentro, un sentore di
pulcino morto nel suo guscio, insopportabile. 73
Dal passo citato emerge, altresì, una disposizione plurisensoriale e sinestetica, sebbene
Angioni ne faccia un uso parecchio distillato, limitandone l’impiego alle sequenze di
più intensa drammaticità. Inoltre, lo stridio lamentoso dei gabbiani, refrain ricorrente
nella sua scrittura, permette di cogliere la rilevanza delle bestie nella sua produzione,
implicanti un’araldica irredenta, se non addirittura sventurata. Ci si limiterà, in questa
sede, a segnalare, ne Il sale sulla ferita, la sequenza del bue agonizzante, nel cui occhio
vitreo Angioni rapprende il martirio, «in un rispecchiamento senza fine»74, preludendo
alla sorte di Benito stesso75. La ierofania di bestie si esprime compiutamente nell’epica
del cane Dolceacqua, nume tutelare, la cui parabola metamorfica ispira alcune delle più
belle pagine di Sulla faccia della terra76.
Una disposizione creaturale connota, dunque, la narrativa di Angioni, investendo
uomini come il vecchio Costantino Saru, telamone intagliato nel paesaggio di
Assandira, bestie, e l’efflorescenza arborea di Afa: con buona pace del saccente
dendrologo, la sacralità austera del paesaggio è custodita dagli alberi, gelosi testimoni di
segreti e depositari di verità77. Anzi, si potrebbe addirittura arguire che Assandira e Afa
costituiscano un dittico: rispettivamente della profanazione e del sacro del paesaggio.
Sacralità che traluce dalla rievocazione-rivisitazione di Tanìt, che permea l’intima fibra
di Afa, e dai buffi e irriverenti Bes, disseminati un po’ ovunque nel romanzo.
Profanazione che, per converso, alligna nel paesaggio scuorante di Assandira, e non
solo per la ridicola mise in abito da sposa e per i pastori agghindati, e confezionati a uso
e consumo di turisti, ma anche per la stessa natura del luogo, ovvero dell’agriturismo,
contraddizione nei termini78.
73
ANGIONI, L’oro di Fraus, p. 53.
ANGIONI, Il sale sulla ferita, p. 104.
75 Si considerino almeno due passaggi fondamentali: «accarezzando il bue sulla cervice, fissandolo negli
occhi già annebbiati: e in quegli occhi grandi al lume di carburo Benito si è specchiato con paura, ha visto
come l’occhio del bue nero rimandava al suo e poi di nuovo viceversa la faccia del bue nero in un
rispecchiamento senza fine» (ANGIONI, Il sale sulla ferita, pp. 103-104). Ancora: «-Se non dormo il bue non
muore, spiegherà poi a suo fratello, e ripensava all’occhio affascinante che attraverso il suo gli rimandava
infine anche se stesso, all’infinito: tanto così è profondo nella notte l’occhio di un bue che muore»
(ANGIONI, Il sale sulla ferita, p. 107).
76 Si ricorda che un intero capitolo di Sulla faccia della terra è intitolato, e dedicato, a Dolceacqua
(ANGIONI, Sulla faccia della terra, pp. 26-28).
77 Si rimanda all’incipit di Afa. Il protagonista, Josto Melis, prima ripensa alle parole del dendrologo «che
sosteneva che nei rapporti tra gli alberi e gli uomini, gli alberi hanno solo meriti, gli uomini solo torti, e sul
nostro giornale dovrebbe fare pedagogia ecologica, in un’isola dove la gente, dice, non sa che farsene
dell’albero, in campagna anche meno che in città» (ANGIONI, Afa, p. 18). Josto, poi, medita assorto, con
evidente eco montaliana: «Ascolto il silenzio, rabbrividendo, sotto gli alberi che sanno, loro sì che sanno
perché stanno al mondo, qui dove adesso pare a me che il mondo molli un po’ la presa, sembra lasciarsi
andare a una rivelazione, a mostrare un segreto, un punto debole che cede, fa intravedere qualche ignota e
risaputa verità» (ANGIONI, Afa, p. 20).
78 Il vecchio Costantino non conosce nemmeno la parola «agriturismo»: «ci vedeva una contraddizione,
un’unione di cose che si escludono, la volpe con l’agnello» (ANGIONI, Assandira, p. 45).
74
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Resta in ultimo da chiarire la valenza, anche simbolica, di scenari esiziali che
connotano molte delle opere di Angioni, in particolare le ricorsive esplosioni e i roghi
variamente rappresentati dall’autore79. L’intratestualità apocalittica, che produce un
azzeramento paesaggistico, una sorta, appunto, di landscape al grado zero, assume una
funzione catartica, come è per l’incendio appiccato ad Assandira, ma provoca, altrove,
l’insabbiamento della verità ridotta a scoria, fatta esplodere, appunto.
Quel che è certo è che, con la forza della parola, Angioni puntelli le rovine, poiché, fino
a quando sarà viva la funzione Shehrazade80, vi sarà un barlume di vita sulla faccia della
terra. Finanche nella reclusione carceraria, stretti alla gogna della pena capitale, la parola
potrà rinviare l’esecuzione e arginare la resa, dacché «contro la paura niente è meglio del
racconto»81. Fosse anche una vita stillata goccia a goccia, e misurata su «i mille passi»82 di
un sopravvissuto a tutti gli scempi che è dato immaginare, sino a quando qualcuno esaudirà
il primario bisogno di raccontare e di raccontarsi, di tenere un libro sotto il braccio o di
vergare parole su Dolceacqua fatto pergamena83, avremo salva la pelle, intera. La sola forza
da contrapporre a ogni sprofondo risuona con la grazia di un anninora, cui è sempre bello
ritornare. Questo è l’oro di Fraus, il quale, a saperlo ascoltare, echeggia nei paesaggi di una
parola che sa interrogare le radici profonde dell’uomo.
79
Si ricorda che l’imagerie del fuoco assume rilevanza nella narrativa di Angioni sin dal racconto A
fuoco dentro (pp. 103-111). Nel quadro citato, è Emilio Lussu a incitare i convenuti; l’episodio sarà
riproposto, con sensibile variatio, ne Il sale sulla ferita. Ma questa volta sarà l’avvenente Erica-America a
esortare gli astanti a tirare fuori il fuoco, che troppo a lungo hanno covato dentro. Solo di sguincio si
precisa che l’imagerie del fuoco, nella variante del rogo, percorre tutto il memoriale de Le fiamme di
Toledo. Addirittura, Sigismondo immagina, in una sorta di coazione anamorfica, che il rogo ad attenderlo
sia solo una variazione dei buoni fuochi estivi, che dardeggiano nella notte di San Giovanni. Con il
solstizio d’esatte, infatti, il bagliore della sua terra, Cagliari e Fraus, si ravviva nella memoria del giuristateologo. Si consideri, poi, il rogo appiccato da Costantino Saru in Assandira. Qui, va rilevato, il fuoco si
appalesa sin dall’inizio, poi, con analessi, ne viene ricostruita la dinamica. Dunque, abdicando alla
spettacolarizzazione catastrofica, il rogo si addensa nella tessitura dell’intero romanzo. In merito alle
esplosioni, si precisa che, ne L’oro di Fraus, questa è prima sognata, poi concretamente agìta, sino a fare
crollare la miniera, con tutti i segreti sepolti dentro. E quanto l’esplosione pervada Gabbiani sul Carso si
evince dalla iterazione del motivo. In una prima esplosione, infatti, perde la vita “Mercoledì delle
Ceneri”, “personaggio-alibi” alla stregua del tenente Manca. In seguito, è Lampis, in un sogno ad alta
densità profetica, a immaginare l’esplosione della discarica illegale di Repen. E una esplosione vera e
propria finisce per inghiottire tutto l’inghottitoio carsico.
80 Il riferimento apparirà meno peregrino qualora si consideri che, ne L’oro di Fraus, vi è un esplicito
rimando al novellare di Shehrazade: «Credevo di riuscire a raccontare tutto quanto questa notte. Non
saranno le Confessioni d’Agostino, queste mie, ma per me non valgono meno del racconto di più di mille
notti che voleva rimandare una condanna: è più importante, in specie se dovessero ridurmi a questa storia, i
farabutti. A volte è quasi comico se penso che posso avere ascoltatori solo a costo di morirne» (ANGIONI,
L’oro di Fraus, p. 63). E il raccontarsi, con rimandi a Shehrazade, permea tutta l’epica dei fuggiaschi
nell’Isola Nostra in Sulla faccia della terra. Non va dimenticato, infatti, che Akì è persiana, è originaria
dell’altipiano iranico, ovvero compatriota di Shehrazade: «E sei compatriota della più grande narratrice al
mondo, Shehrazade. Ti tocca raccontare» (ANGIONI, Sulla faccia della terra, p. 42). Anche la lirica Ragione
tematizza a dovere questo principio. Alludo, in particolare, al verso: «ma so che il mondo ha senso a
raccontarlo» (ANGIONI, Anninora, p. 109).
81 ANGIONI, Le fiamme di Toledo, p. 303.
82 Così si intitola, significativamente, l’ultimo capitolo in Sulla faccia della terra (pp. 154-155).
83 Si allude, beninteso, a Tidoreddu, salvato grazie al ritrovamento, tanto imprevisto quanto fortunato, del
Libro del Comando, che, con devozione, egli tiene sempre sotto il braccio (Sulla faccia della terra, p. 60).
Per quanto concerne la sorte di Dolceacqua, la cui pelle sarà «tabernacolo di cose spirituali, che durano e
crescono» (p. 120), si veda il capitolo Dolceacqua se ne va (pp. 118-121).
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irene_palladini@fastwebnet.it
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The Sister’s Gaze in Ian McEwan’s Atonement
Claudia Cao
(University of Cagliari)
Abstract
Atonement by Ian McEwan (2001) is a novel structured around some key episodes that gradually shift the
reader’s attention to the more self-reflective elements of the text. The centrality of the gaze, the
voyeuristic attitude of the characters, and the multiple perspectives force the reader to return to scenes
already “seen”, recalling, in the end, the reader’s own gaze from outside the text. The last pages, in
particular, because of their manipulation of the events, make the reader the final witness.
Starting from Lacan’s theory on the gaze, this article analyses how the traumatic scene observed by the
younger sister, unbeknownst to the elder, serves as a mythopoetic device and it is at the origin of the mise
en abîme on which the Chinese box structure of the novel stands. The repetitions of the trauma – first
with the furtive reading of an obscene letter addressed to the older sister and then with the love scene in
the library – mark the gradual prevailing of the imaginary on the real, until the final discovery of the
fictionality of the whole story1.
Key words – Trauma; gaze; Atonement; Ian McEwan
1. Atonement by Ian McEwan is a work which gradually shifts the reader’s attention to
the more self-reflective elements of the text. The centrality of the gaze, the voyeuristic
attitude of the characters, and the perspective proliferation that forces us to return to
scenes already “seen”, finally refer to the external gaze of the reader, called to express a
judgment on the events of which he is the ultimate witness, driven by the work of
manipulation of events and the diegetic encasing of the work.
The narrative scheme follows in some ways the conventional love triangle which
involves two sisters with antithetical traits 2. The character system is made up of a
younger sister, Briony, who is representative of a conservative education 3, and an older
sister, Cecilia, whose identity, initially in a state of development, increasingly distances
itself from family education and, in particular, from the maternal model. At the centre is
Part of the contents of this article has already been published in the book chapter “Narrazioni dell’altra: lo
sguardo in Atonement di Ian McEwan e Di buona famiglia di Isabella Bossi Fedrigotti”, in Claudia CAO,
Marina GUGLIELMI (eds.), Sorelle e sorellanza nella letteratura e nelle arti, Firenze, Franco Cesati, 2017.
2 On some recurring types and patterns in the representation of the relationship between the sisters see
Sara Annes BROWN, Devoted Sisters. Representations of the Sister Relationship in Nineteenth Century
British and American Literature, Aldershot, Ashgate, 2003.
3 The reference to common sense and respectability is already present on the paratextual level, in the quote
from Northanger Abbey placed in the epigraph (on the use of the epigraph in Atonement see Pilar HIDALGO,
“Memory and Storytelling in Ian McEwan’s Atonement”, «Critique», 46.2 [2005], p. 83).
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a male figure, Robbie, unknowingly coveted by both sisters. The secondary characters –
mainly the mother – instead perform an axiological function, reinforcing the position of
each sister in terms of values, according to a typical play of symmetries and
oppositions. The place held by the father, instead, is unoccupied: he is destined never to
enter the scene, except as a ‘voice’ emanating from a telephone receiver4.
That he worked late she [Emily] did not doubt, but she knew he did not sleep at his club,
and he knew that she knew this. But there was nothing to say. Or rather, there was too
much. […] If this sham was conventional hypocrisy, she had to concede that it had its uses.
[…] And she did not miss his presence so much as his voice on the phone. Even being lied
to constantly, though hardly like love, was sustained attention; he must care about her to
fabricate so elaborately and over such a long stretch time. His deceit was a form of tribute
to the importance of their marriage 5.
The father, who has a second life outside of the conjugal one, can be considered in a parallel
and levelled condition with his daughters, since all are struggling with their “secret”
sentimental worlds. His characterization also undermines the mother’s possibility of acquiring
a role of reference, as she is deprived of credibility. The role of the parents sharpens the sense
of isolation of the two sisters in the family community. At the same time, however, even in
his absence and his contradictions, the few references to their father constantly refer to his role
of interdiction, of spokesman of the social norm6. The social interdiction, the respectability
and the shame which pervade the narration, are only the first level in which we find the
gaze of the Other, to which is added the recurrence of the motif of envy in the sisters’
relationship, evoked between the lines in Briony’s attempt to become the other.
The importance of detail and of the narrator’s visual field, moreover, is suggested by the
first scene that outlines the distinctive traits between the two sisters. The description of
Briony’s room, an immobile and orderly world, metaphorically prefigures the ApollonianDionysiac dichotomy represented by the dialectic between her and her sister:
She [Briony] was one of those children possessed by a desire to have the world just so. Whereas
her big sister’s room was a stew of unclosed books, unfolded clothes, unmade bad, unemptied
ashtrays, Briony’s was a shrine to her controlling demon: the model farm spread across a deep
window ledge consisted of the usual animals, but all facing one way – towards their owner – as
if about to break into song, and even the farmyard hens were neatly corralled. In fact Briony’s
was the only tidy upstairs room in the house. Her straight-backed dolls in their many-roomed
mansion appeared to be under strict instruction not to touch the walls; the various thumb-sized
figures to be found standing about her dressing table – cowboys, deep-sea divers, humanoid
mice – suggested by their even ranks and spacing a citizen’s army awaiting orders7.
4
It is significant that, in the only moment in which their father could have broken into the house due to the
urgency of the rape of Lola, an accident with the car prevents his arrival. Moreover, even if implicitly, the
relationship that in terms of values the father generates with his son and with Marshall has the effect of
emphasizing the purity and innocence of Robbie.
5 Ian MCEWAN, Atonement (2001), London, Vintage, 2002, p. 148.
6 See MCEWAN, Atonement, pp. 46-47: «She [Cecilia] lit up as she descended the stairs to the hall, knowing
that she would not have dared had her father been at home. He had precise ideas about where and when a
woman should be seen smoking: not in the street, or any public space, not on entering a room, not standing
up, and only when offered, never from her on supply – notions as self-evident to him as natural justice. […]
In fact, being at odds with her father about anything at all, even an insignificant detail, made her
uncomfortable […] none of the lessons of practical criticism, could quite deliver her from obedience».
7 MCEWAN, Atonement, pp. 4-5.
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McEwan’s insistence on the semantic field of view becomes even more explicit both
because of the choice to inaugurate his narration with the word «the play» and with the
reading of the screenplay of a never staged Briony’s show – which place the role of an
ideal audience in the foreground – and because of the choice of highlighting the word
«glance»8 in the same comedy, definable as a mise en abîme which emphasizes one of the
main themes of the novel, that of the fault linked to the infringement of the family law9.
The fil rouge of the gaze therefore allows us to follow the three steps which structure
the plot, and at the same time the development of the writer and of the novel. The
driving force of the novel is a “primal scene”10, the scene by the fountain: on a diegetic
level, this scene marks the access of the older sister to the adult world, her becoming the
other for the younger one. On the symbolic level, it determines the infiltration of the
uncanny in the sister relationship. On a metanarrative level, it represents a moment of
rupture, of deviation in the textual organization11. Following Lacan’s aesthetic theory,
and his anamorphic conception of the artwork, it is in this scene where the intersection
of different perspectives and frames unveiled in the end of the novel originates12.
The link between uncanny, sight, and artistic creation is theorized in the Book X of
the Seminar, where Lacan highlights the ambivalence of the uncanny, understood both
as the moment in which the image in the mirror becomes autonomous, turning into a
double – reducing the subject of perception to its object13 – and at the same time
becoming a tool of access to desire. It is in this doubling that the relationship with the
artistic creation is observable, conceived as an ideal point from which it is possible to
frame the experience of the Unheimliche, usually sudden and fugitive, and that in this
way can instead be reproduced, fixed. The Unheimliche gaze can be considered
inaugural of Lacan’s anamorphic aesthetic, then developed in Book XI, as a dialectical
moment in which the Real enters the Symbolic, coinciding with the anguish caused by
the emergence of the Real.
My analysis will start from the primal scene at the fountain to observe its two
repetitions and their effects on the sisters’ relationship as well as on the plot
8
MCEWAN, Atonement, p. 11.
In view of the last aspect that will be analysed concerning the diegetic encasing, it should be noticed that
here, as in Hamlet, one of the best-known literary examples of the mise en abîme considered by Dällenbach
(Il racconto speculare: saggio sulla mise en abyme, translated by Bianca Concolino Mancini, Parma,
Pratiche, 1994, p. 17), Briony also chooses a comedy as an implicit accusation against her brother, guilty in
her view of having left the family and having dedicated himself to his passing relationships rather than lead
a regular life with a wife and children, as hoped by the ending of Briony’s drama.
10 See Sigmund FREUD, The Wolfman and Other Cases, translated by Louise Adey Huish, New York,
Penguin, 2003.
11 Only in the end does the reader discover the nature of Atonement as a self-begetting novel, a work with
the dual status of a fictional and material object (see Steven G. KELLMAN, The Self-Begetting Novel, New
York, Columbia University Press, 1980).
12 Lacan’s reflection develops in particular in the Books X (especially in the first section, “Introduction to
the Structure of Anxiety”, in Jacques LACAN, Anxiety. The Seminar of Jacques Lacan. Book X, ed. JacquesAlain MILLER, translated by Adrian R. Price, Cambridge, Polity Press, 2014, pp. 3-82) and Book XI of the
Seminar, especially in the section “Of the Gaze as Object petit a”, The Seminar of Jacques Lacan, Book XI.
The Four Fundamental Concepts of Psycho-Analysis (1977), translated by Alan Sheridan, New YorkLondon, W. W. Norton and Company, 1998, pp. 67-119). Among the works that deepen the Lacanian theory
of the gaze, I refer to Henry KRIPS, “The Politics of the Gaze: Foucault, Lacan and Žižek”, «Culture
Unbound. Journal of Current Cultural Research», 2 (2010), pp. 91-102.
13 See LACAN, The Seminar of Jacques Lacan, Book XI, pp. 91-100.
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development: it will be considered the beginning of the infraction, a deviation from the
original order, which the regressive force represented by Briony will try to rebuild.
The aim of this study is to demonstrate how the gaze is fundamental to the narrative
structure of the work and the origin of the mise en abîme on which the Chinese box
structure is based. The episode by the fountain, witnessed by the younger sister by the
window, unbeknownst to the elder, is the moment in which Briony starts to insinuate
herself into the plot of a story which does not belong to her. From this moment, her gaze
and her control manipulate the love story, from continuing thwarting it. Subsequently,
her manipulation of the same events on paper fulfils, at least on the fictional level, the
sentimental relationship which she had interrupted.
The first level in which the gaze is present, however, is the thematic one, within the
relationship between the sisters: spying, the fear of being discovered, the increase of the
scopic desire, are transformed – in the same day when the few ‘real’ events of the novel
take place – in the appropriation of the older sister’s story.
2. This examination of Briony’s Bildung (both as a writer and as a woman) starts
from the idea that the subject can be acknowledged exclusively by the effect of
something, as a result of the Other, which can be found in her case in the mother and
sister figures. The novel begins with the image of the younger sister seeking recognition
through the parental gaze:
Mrs Tallis read the seven pages of The Trials of Arabella in her bedroom, at the dressing
table, with the author’s arm around her shoulder the whole while. Briony studied her
mother’s face for every trace of shifting emotion, and Emily Tallis obliged with looks of
alarm, snickers of glee and, at the end, grateful smiles and wise, affirming nods. She took
her daughter in her arms, onto her lap […] and said that the play was ‘stupendous’, and
agreed instantly […] that this word could be quoted on the poster which was to be an easel
in the entrance hall by the ticket booth14.
The search for recognition by Briony is constant and insistent, from the desire to
dedicate a theatrical performance to her brother who has just returned home, to the
exasperated attempt to make up for that failure with the staging of a false testimony. In
the symmetries between the male characters and in the search for attention from the
older brother we can find that same intent of access to the adult world, which is the
cause of her sense of competitiveness towards Cecilia, especially considering what the
reader learns later about Briony’s love declaration to Robbie. It is, however, Briony’s
voyeuristic spying on Cecilia that introduces an alteration in the intersubjective
dynamics between the two sisters15:
14
MCEWAN, Atonement, p. 4. And then: «Her effort received encouragement. In fact, they were welcomed
as the Tallises began to understand that the baby of the family possessed a strange mind and a facility with
words. […] Briony was encouraged to read her stories aloud in the library and it surprised her parents and
older sister to hear their quiet girl perform so boldly […] and looking up from the page for seconds at a time
as she read in order to gaze into one face after the other, unapologetically demanding her family’s total
attention as she cast her narrative spell» (MCEWAN, Atonement, pp. 6-7).
15 It is emblematic that Briony watches the fountain scene from the window of the house, both for the
implications which her estranged position with respect to real events will acquire in metatextual terms – as a
fallacious interpreter of the episode – and for the set of intertextual references to one of the key images in the
reflection on the uncanny (see Laura MARCUS, “Ian McEwan’s Modernist Time: Atonement and Saturday”,
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She [Briony] had arrived at one of the nursery’s wide-open windows and must have seen
what lay before her some seconds before she registered it. It was a scene that could easily
have accommodated, in the distance at least, a medieval castle. […] What was less
comprehensible, however, was how Robbie imperiously raised his hand now, as though
issuing a command which Cecilia dared not disobey. It was extraordinary that she was
unable to resist him. At his insistence she was removing her clothes, and at such speed. She
was out of her blouse, now she had let her skirt drop to the ground and was stepping out of
it, while he looked on impatiently, hands on hips. What strange power did he have over her.
Blackmail? Threats? Briony raised two hands to her face and stepped back a little way from
the window. She should shut her eyes, she thought, and spare herself the sight of her
sister’s shame. But that was impossible, because there were further surprises. Cecilia still in
her underwear, was climbing into the pond, was standing waist deep in the water, was
pinching her nose – and then she was gone. There was only Robbie, and the clothes on the
gravel, and beyond, the silent park and the distant, blue hills 16.
The scene, even if symbolically and from the perspective of the younger sister,
represents at the beginning only a violation of the paternal law, but then acquires
additional values for the new dynamics activated in the dialectic between the sisters, in
terms of loss of complicity and for the insinuation of the Uncanny between the two. In
macrostructural terms – of plot organization and development – the scene witnessed by
Briony acquires a trauma function, ‘trauma’ being defined as the narrative device
activating the circular chain of repetition of the plot17.
The primal scene, the moment of recognition for Briony of her exclusion from the
adult world, modifies the relationship with her sister: the insinuation of the Uncanny
soon turns for Briony into envy of a secret and forbidden pleasure, from which
originates her scopic desire, the desire to see, only partially justifiable by the fear for her
sister’s safety18. Briony’s desires to know and to see keep pace with each other and they
are at the origin of further repetitions of the scene with variations19.
The scene of the fountain is therefore readable as a moment of recognition and
transition, where the weight of Briony’s exclusion from the adult world is marked by
the reference to what she had done in front of Robbie at the river a year before, waiting
for that rescue recalled during the sister’s plunge:
When he [Robbie] returned she [Briony] was standing exactly he had left her, on the bank,
looking into the water, with her towel around her shoulders.
She said, ‘If I fell in the river, would you save me?’
in Sebastian GROES (ed.), Ian McEwan. Contemporary Critical Perspectives, London-New York,
Bloomsbury, 2013 [2011], p. 88).
16 MCEWAN, Atonement, pp. 38-39.
17 See Peter BROOKS, Reading for the Plot. Design and Intention in Narrative, Cambridge, MA, Harvard
University Press, 1992 [1984], in particular chapter 5. The centrality of repetition is marked on the lexical
level by the presence of the refrain initially linked to the nightmares of Briony - «Come back» typographically emphasized by the italics (see MCEWAN, Atonement, pp. 44; 76; 264).
18 These references allude to the Freudian definition of the primal scene. Most critics in the analysis of
Atonement focus on Briony’s young age and her misinterpretation of the scene, while little mention has been
given to Briony’s love declaration to Robbie (on Atonement see Dominic HEAD, Ian McEwan, ManchesterNew York, Manchester University Press, 2007, pp. 156-176; Roberta FERRARI, Ian McEwan, Firenze, Le
Lettere, 2012, pp. 172-200; Laura MARCUS, “Ian McEwan’s Modernist Time”, pp. 83-98; Eluned
SUMMERS-BREMNER, Ian McEwan. Sex, Death, and History, Amherst, Cambria, 2014, pp. 145-180).
19 Briony reads Robbie’s letter and opens the door of the library because of her desire to know and to
unmask Robbie.
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‘Of course.’
He was bending over the basket as he said this and he heard, but did not see, her jump in.
Her towel lay on the bank. […] there was no sign of her […] the water was an opaque
muddy green. […] He pushed her onto the bank with great difficulty in his sodden clothes,
struggled out himself. […]
‘I wanted you to save me.’ […]
‘Do you know why I wanted you to save me?’
‘No.’ […]
‘Because I love you.’ […]
He restrained an impulse to laugh. He was the object of a schoolgirl crush 20.
However, the desire to enter into the adult world becomes increasingly insistent in the
pages following the episode21 and is significantly linked to the moment of Briony’s
poetic conversion, when she definitively shifts from the fairy tale and drama towards
the novel22.
These elements allow us to find the starting point of the plot in the traumatic scene,
understood as a moment of «deviance»23 with the double meaning of both a necessary
condition for life to be «narratable» and «a state of abnormality and error»24, in the most
common sense of misinterpretation.
3. The link between the gaze and the metanarrative aspects is reinforced in the
second stage of the symbolic chain originated by the traumatic moment. The repetition
in this case takes place after the “theft” of a writing by Briony, it is generated by the
scopic impulse provoked by the scene of the fountain, and it culminates in the reading
of Robbie’s letter to Cecilia.
The very complexity of her feelings confirmed Briony in her view that she was entering an
arena of adult emotion and dissembling from which her writing was bound to benefit. What
fairy tale ever held so much by way of contradiction? A savage and thoughtless curiosity
prompted her to rip the letter from its envelope […] and though the shock of the message
vindicated her completely, this did not prevent her from feeling guilty. It was wrong to
open people’s letters, but it was right, it was essential, for her to know everything. […] She
needed to be alone to consider Robbie afresh, and to frame the opening paragraph of a story
20
MCEWAN, Atonement, pp. 231-232.
See MCEWAN, Atonement, pp. 39-40: «It was a temptation for her to be magical and dramatic, and to
regard what she had witnessed as a tableau mounted for her alone, a special moral for her wrapped in a
mystery. But she knew very well that if she had not stood when she did, the scene would still have
happened, for it was not about her at all. Only chance had brought her to the window. This was not a fairy
tale. This was the real, the adult world in which frogs did not address princesses, and the only messages
were the ones that people sent». And more, at p. 74: «Planting her feet firmly in the grass, she disposed of
her old self year by year in thirteen strokes. She severed the sickly dependency of infancy of early
childhood, and the schoolgirl eager to show off and be praised. And the eleven-year-old’s silly pride in her
first stories and her reliance on her mother’s good opinion».
22 The first movement which Briony approaches is modernism, which of the gaze, of the challenge to the
limits of representability has made the core of its experimentation (on this aspect see Peter MATTHEWS,
“The Impression of a Deeper Darkness: Ian McEwan’s Atonement”, «ESC», 32.1 [2006], pp. 147-160).
Referring to those pages, it should be noticed how the intrusion of a gaze from above becomes insistent in
this phase of transition also for the great number of prolepsis, the references to the meaning which these
events would have taken sixty years later.
23 BROOKS, Reading for the Plot, p. 85.
24 BROOKS, Reading for the Plot, p. 85.
21
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shot through with real life. No more princesses! The scene by the fountain […] the
luminous absence shimmering above the wetness on the gravel – all this would have to be
reconsidered. […] With the letter, something elemental, brutal, perhaps even criminal had
been introduced […]25.
Beyond the content of the writing, the objects of attention in this analysis are the
intersubjective relations and the symbolic circuit created by its arrival into the scene,
and the dominant role played by the gaze as a tool of control. As Lacan observed in his
examination of Poe’s story, the pleasure for the reader – who knows the central element
of the enigma from the beginning – is to be a witness from above and to observe how all
characters are played. They are unknowingly trapped in a network within which their
role is from time to time defined by another authority, up to the final climax: in the end
the reader witnesses the total dominance of the letter understood, in metanarrative
terms, as a moment in which the narrator turns his gaze to the reader, reaffirming the
fictional nature of the story, and, in figurative terms, as the dominance of the
unconscious, which is expressed in the repetitions which trap the characters26.
According to the Lacanian reading of the three registers called into question in the
relationships between the characters, the register of the Real is represented by a
character who is unable to see what is happening before his eyes, that is, the
interception of the letter; the register of the Imaginary is represented by a character who
holds the letter – in this register, the subject uses his strategies to hold the letter but fails
because he does not understand that he is seen; and the third register, that of the
Symbolic, is that of the thief who is about to enter into action. It is he who holds the
authority, the control, and acts accordingly27. Therefore, the characters’ role slips
correspond from time to time to processes of assimilation to the register of the other. It
is interesting to observe how in this work the device of the “deviated” letter is
multiplied and reflected in more forms, intensifying the focal value of this script. It is
certainly not possible to fully adopt the Lacanian scheme on The Purloined Letter to
Atonement28, but it is important to observe that with the ‘deviation’ of the letter, Briony
begins to access the sphere of the other, Cecilia, the true holder of the writing. At the
same time, this moment also confirms her access to the register of the Imaginary, in
which Briony will be trapped, conditioning her entire interpretation of subsequent
events with her fixation on the traumatic content of the letter.
25
MCEWAN, Atonement, p. 113.
The close link between the letter-reading and the repetition of the traumatic scene of the fountain is
reiterated by Briony when, having returned to her room after reading the script, she understands that she has
to rethink those scenes in a new light (see MCEWAN, Atonement, p. 113). The echo of Robbie’s obscene
word in Briony’s thoughts, its fixation under various forms even typographically, as she says, are all the
signs of that moment of fixation of every traumatic scene. McEwan remarks on these effects with the
allusions to psychoanalysis in the chapter dedicated to the drafting of the letter by Robbie.
27 See Jacques LACAN, “Seminar on The Purloined Letter”, in Jacques LACAN, Écrits. The First Complete
Edition in English, translated by Bruce Fink, in collaboration with Héloïse Fink and Russel Grigg, New
York-London, W. W. Norton and Company, 2006, pp. 6-48; Giovanni BOTTIROLI, “Strutturalismo e
strategia in Jacques Lacan. Un’interpretazione della Lettera rubata”, «Aut Aut», 177 (1980), pp. 95-116;
John P. MULLER, William J. RICHARDSON, “Lacan’s Seminar on ‘The Purloined Letter’: Overview”, in John
P. MULLER, William J. RICHARDSON (eds.), The Purloined Poe: Lacan, Derrida and Psychoanalytic
Reading, Baltimore-London, Johns Hopkins University Press, 1988, pp. 55-76.
28 For the proposal of an analysis of Atonement in its intertextual links with the Purloined Letter see Heta
PYRHÖNEN, “Purloined Letters in Ian McEwan’s Atonement”, «Mosaic», 45.4 (2012), pp. 103-118.
26
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Briony reaches the climax of the symbolic chain of repetitions during the same
evening on which the first part of the novel focuses: from the moment when she sees
her sister undressing in front of Robbie, to the reading of the obscene word in Robbie’s
letter until she enters the library, the reader witnesses a process of approximation of the
girl to the pleasure of the other. Briony’s misunderstanding of each of these scenes is
once again legible within that fixation in the register of the Imaginary in which every
hermeneutical capacity is suspended: «Though they were immobile, her immediate
understanding was she had interrupted an attack, a hand-to-hand fight. The scene was so
entirely a realisation of her worst fears that she sensed that her over-anxious
imagination had projected the figures onto the packed spines of books. This illusion, or
hope of one, was dispelled as her eyes adjusted to the gloom»29.
There is a reversal of roles, where Briony’s initial role of the representative of the
order is soon upended. She is responsible for the punishment of the honest and unaware
protector of the criminal, bringing to extreme consequences the fusion between real and
imaginary that began with the fountain scene.
The clearest confirmation of the convergence between fixation in the register of the
imaginary and assimilation of the role of the sister, however, can be found in the second
part, in which Briony is the only one to assume an entirely fictitious part to insert herself
between the links of the plot, acquiring the role of a nurse in the same hospital where
Cecilia worked before losing her life.
4. During the scene of the rape of Lola it is possible to notice the total alteration of
the function of sight, which becomes a real hallucination, representing the full
supremacy of the imaginary over the real: what it is known – or is believed to be known
– definitively prevails over what is actually happening. To fully understand the dialectic
between the imaginary and the real that culminates with the sexual assault on Lola,
which only anticipates what the reader will later learn in the last section of the novel –
to have read not the actual course of events but the version imagined by Briony, the
established writer – it is necessary, however, to start from the fountain scene as the
moment of the genesis of the metanarrative:
The sequence was illogical – the drowning scene, followed by a rescue, should have
proceeded the marriage proposal. Such was Briony’s last thought before she accepted that
she did not understand, and that she must simply watch. Unseen, from two storeys up, with
the benefit of unambiguous sunlight, she had privileged access across the years to adult
behaviour […] Suddenly the scene was empty; the wet patch on the ground where Cecilia
had got out of the pond was the only evidence that anything had happened at all […] Six
decades later she would describe how at the age of thirteen she had written her way through
a whole history of literature, […] one special morning during a heat wave in 1935 […]
When the young girl went back to the window and looked down, the damp patch on the
gravel had evaporated30.
As soon as the scene is over, Briony has in fact the first thought to represent a «hidden
observer like herself»31, to insert herself into the story in the role of writer, but above all
to stage the very limits of her ability to represent the scene, by rewriting it «three times
29
MCEWAN, Atonement, p. 123.
MCEWAN, Atonement, pp. 39-41.
31 MCEWAN, Atonement, p. 40.
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over, from three points of view»32. This is the moment in which the subject of the
narration becomes the object. The «patch» on the ground, on which Briony’s glance
insists, acquires metonymic value referring to the role of the stain in Lacan’s aesthetic
theory33. It is in this moment that she starts to reflect on the possibility of a new story to
write, originated from the (deformed) interpretation of the episode: it is the genesis of
Two Figures by the Fountain, the first version of her novel. On the metatextual level,
the parenthesis between the first departure from the window and her return to it, when
the patch has disappeared, is in fact the moment of the gap, of the anamorphosis: Briony
has insinuated herself once and for all into the plot of a story which did not belong to
her to become the director, fusing real and imaginary34. It is starting from this scene that
we come to the widest interpretation of the role of the gaze in the work, in which the
person who looks ceases to be the subject, but is delivered unto the experience of the
Other’s gaze, in this case both the real and fictional reader.
Briony’s desire to represent the impossibility of depicting the real through the word
leads us to the core of McEwan’s experimentation. As the scene of the window recalls,
the novel originated in that moment becomes the frame of reality, assuming the function
of organizing and framing the experience, but it necessarily presents a gap with respect
to those events, showing to the readers the very limits of its representation: it is for this
reason that the ending is necessarily open, marking the break between itself and the
extradiegetic reality which it tried to include in its plot35.
Another fundamental point is the close link suggested by Žižek between traumatic
scene, interpretation, and creation. The three moments are in fact closely interrelated
because the fixation on the traumatic scene of the jouissance of the Other36 freezes the
scene, tears it away from its context, distorts it: the interpretation becomes a necessary
mediator, which first creates a distance from the moment of the scene. In this regard, it
is significant that the novel is narrated at the end of the life of the writer, Briony, and
that the writing is repetition at a distance of the fixed events from which their lives have
never been freed.
The problem these fifty-nine years has been this: how can a novelist achieve atonement
when, with her absolute power of deciding outcomes, she is also God? There is no one, no
entity or higher form that she can appeal to, or be reconciled with, or that can forgive her.
There is nothing outside her. In her imagination she has set the limits and the terms 37.
The work uses a series of mechanisms of negation and substitution in an attempt to
reconstruct the original shattered fullness: Cecilia’s story is entirely told by Briony, who
tries to put together the pieces of her sister’s life and fill in the missing parts through the
32
MCEWAN, Atonement p. 40.
LACAN, The Seminar of Jacques Lacan. Book XI, pp. 97-99.
34 Briony’s words in chapter 7 suggest this fusion: «The cost of oblivious daydreaming was always this
moment of return, the realignment with what had been before and now seemed a little worse. Her reverie,
once rich in plausible details, had become a passing silliness before the hard mass of the actual. It was
difficult to come back. Come back, her sister used to whisper when she woke her from a bad dream»
(MCEWAN, Atonement, p. 76).
35 See Brian FINNEY, “Briony’s Stand against Oblivion: The Making of Fiction in Ian McEwan’s
‘Atonement’”, «Journal of Modern Literature», 27.3 (2004), p. 15.
36 Slavoj ŽIŽEK, The Plague of Fantasies (1997), London-New York, Verso, 2009, p. 115.
37 MCEWAN, Atonement, p. 371.
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writings received after death, in an attempt to confess and to atone for her guilt. The last
repetition occurs in the end of Atonement, where the discovery of the fictionality of the
story narrated by Briony leads the reader back to the opening word of the work («the
play») to find in the screenplay of the show the first mise en abîme of what the reader
has witnessed: the drafting of a show never staged.
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claudia.cao@unica.it
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The Different Lives of Michael Frayn’s Noises Off:
An Italian Case Study
Eleonora Fois
(Università di Cagliari)
Abstract
In stage translation, the intercultural nature of drama and the varied addressees (actors and audience) of
the target play demand a flexible strategy. Performability rightfully remains a fundamental feature, only
recently legitimized, of any translation written for the stage. However, the relationship between
translation, adaptation and rewriting is equally important in shaping the target play.
This paper aims to introduce the director’s vision of the source play and of its possible dramaturgical
improvements as a further reason behind the blurred boundary between translation and adaptation in
theatre. Rumori fuori scena, the Italian version of Michael Frayn’s Noises Off, serves as the case study for
a contrastive analysis which, in addition to the source text and its published translation, analyses the script
currently being staged. The words of the translator and of the professionals involved are then essential to
understand the practice of theatrical translation in all its steps, in order to truly devise a comprehensive
theoretical framework of the issues involved in the operation.
Key words – stage translation; adaptation; Michael Frayn; Noises Off; Italian theatre
Research has acknowledged that theatrical translation «is not limited to interlingual
transfer»1. In the light of the cultural centrality of theatre and of the prominent role of
translation in intercultural communication2, the complex phenomenon of translating a
foreign play for the target stage deserves careful consideration. Among the many issues
are the cultural influence exerted by the target context on the one hand, and the need to
write lines which could be performable in the target language on the other.
As for the first point, theatre is deeply intertwined with the culture which generates it,
1 Cristina MARINETTI, “Transnational, Multilingual, Post-dramatic: Rethinking the Location of Translation in
Contemporary Theatre”, in Silvia BIGLIAZZI, Paola AMBROSi and Peter KOFLE (eds.), Theatre Translation in
Performance, Abingdon-New York, Routledge, 2011, p. 36.
2 See David KATAN, “Translation as Intercultural Communication”, in Jeremy MUNDAY (ed.) The Routledge
Companion to Translation Studies, London-New York, Routledge, 2009, pp. 74-92; Anthony J. LIDDICOAT,
“Translation as Intercultural Mediation: Setting the Scene”, «Perspectives: Studies in Translation Theory and
Practice», 24 (2016), pp. 347-353; Ovidi Carbonell CORTES, Sue-Ann HARDING (eds.), Routledge Handbooks
in Translation and Interpreting Studies, New York, Routledge, 2018.
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to the extent that it contributes to the audience’s education3. Theatre mirrors reality, so the
play will be deeply connected to its space and time, striving towards a relevant role in the
cultural development of a given society. For instance, G.B. Shaw thought that
A Doll’s House will be as flat as ditchwater when A Midsummer Night’s Dream will
still be as fresh as paint; but it will have done more work in the world; and that is
enough for the highest genius4.
Intercultural theatre comes to life when the play travels outside its borders: the source
play is inevitably absorbed by the target culture, becoming a hybrid whose original
features coexist with new, specific ones5. As for the second issue, illustrious actors and
directors – from Jean Vilar to Dario Fo – often complained about translated plays which
«do not breathe»6. Writing a performable theatrical language is a challenging task
whose secrets and techniques (relevant in translation) have not yet been fully analyzed.
This article argues that an interdisciplinary approach and a synergy between the
theoretical dimension and the practice of the stage are essential to understanding stage
translation7. Far from a «distrust of theory»8, this article aims at offering a case-study
which proves that including the theatrical practice is essential in building a theory truly
focused on its object of study. Stage translation goes beyond the interlingual problem
and embraces negotiation between different cultural sensibilities, practices, techniques 9,
as demonstrated by the abundance of case studies that «blur the boundaries between
adaptation and translation»10, documented by recent research11.
Stage translation calls for the analysis of the interlinguistic/ intercultural problems
between the source and target culture as well as a study of the way the lines are tailored
on the target language. However, these elements alone might do not guarantee an
adequate understanding of the phenomenon: for instance, they cannot provide a
satisfying explanation for shifts deriving from practical performative problems. Only by
3
Jeffrey RICHARDS (ed.), Sir Henry Irving: theatre, culture, and society: essays, addresses, and lecture, Keele,
Ryburn Pub., 1994, p. 167.
4 Hanna SCOLNICOV, Peter HOLLAND, The Play out of Context: Transferring Plays from Culture to Culture,
Cambridge-New York, Cambridge University Press, 1989, p. 63.
5 Patrice PAVIS, Theatre at the Crossroads of Culture, translated by Loren Kruger, London-New York,
Routledge, 1992, p. 4.
6 Ton HOENSELAARS, Shakespeare and the Language of Translation, London, Arden Shakespeare, 2004, p.
137.
7 Roger BAINES, Cristina MARINETTI, Maria PERTEGHELLA, “Introduction”, in BAINES, MARINETTI,
PERTEGHELLA (eds.), Staging and Performing Translation: Text and Theatre Practice, p. 2.
8 Silvia BIGLIAZZI, Paola AMBROSI, Peter KOFLER, “Introduction”, in Silvia BIGLIAZZI, Paola AMBROSI, Peter
KOFLER (eds.), Theatre Translation in Performance, Abingdon, Routledge, 2013, p.2.
9 The encounter between the Western and the non-Western theatrical traditions are the core of cross-cultural
theatre, which encompasses intercultural, multicultural and post-colonial theatre. Jacqueline LO, Helen
GILBERT, “Toward a Topography of Cross-Cultural Theatre Praxis”, «TDR», 46. 3 (2002), pp. 31-53.
10 Katia KREBS, Translation and Adaptation in Theatre and Film, London-New York, Routledge, 2014, p. 4.
11 See So-Rim LEE, “Translation, Adaptation, and Appropriation in Brook’s Mahabharata”, «New Theatre
Quarterly», 34.1 (2018), pp. 74-90; Kara REILLY, “Richard Cumberland’s 'The Jew' and the Benevolence of
the Audience: Performance and Religious Tolerance”, «Eighteenth-Century Studies», 48.4 (2015), pp. 457477.
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including the performative dimension can the analysis be complete. Stage translation
provides new arguments to the understanding of the relationship between the dramatic
text and the performance12, the latter being the dimension where the text is manipulated
in many ways. Such manipulation, achieved by means of translation and adaptation, is a
direct consequence of the intentional encounter between cultures and performing
traditions embedded in intercultural theatre 13.
The case study here presented extends the analytical look to the process which leads to
the final performed text, shedding light on some of the reasons behind the manipulation.
Firstly, as an Art whose survival mostly depends on economic results, drama needs to
weight both the expectations and the habits of the target audience 14. Classic plays and
prominent playwrights represent a safe investment, while new plays usually struggle for
visibility; when they cross their original borders, their identity and features are fully
renegotiable to make them fit for the target stage. Secondly, the playwright’s position in
the Canon needs to be considered15: the more central the author, the more reluctant to
changes the target approach, shaped by the critical narration, will be. For instance,
Ducis’s creative rendition of Hamlet seems outrageous today given that Shakespeare’s
fame has grown immeasurably over the centuries, while it was accepted when, far from
being a literary or dramatic pillar, the Bard was deemed a playwright with a disputable
sense of dramaturgy16. Thirdly, shifts from source to target play17 might be generally
explained by linguistic issues depending on cultural differences18. Some features of the
source play might be emphasized according to the target audience’s expectations.
The director’s involvement in the recreation of a play might seem an obvious fact,
but the extent to which his/her decisions influence the target play has not been properly
12
From strictly linguistic perspectives (see Mick SHORT, Exploring the Language of Poems, Plays, and Prose,
London-New York, Longman, 1996), the text needs to be understood before being performed and the
activation of schemata (see Roger C. SCHANK, Robert P. ABELSON, Scripts, Plans, Goals and Understanding:
An Inquiry into Human Knowledge Structures, Hilsdale, Erlbaum, 1977) compensates the lack of visual aid.
Studies reinforcing the position of the performance (see Roger M. BUSFIELD, The Playwright’s Art: Stage,
Radio, Television, Motion Pictures, New York, Harper, 1971; Piermario VESCOVO, Entracte: drammaturgia
del tempo, Venezia, Marsilio, 2007) claim that dialogue is only fulfilled by the actor’s interpretation (see Anne
UBERSFELD, Lire le théâtre, Paris, Éditions Sociales, 1977) and clearly distinguish between the text prior to the
performance and the text being performed (see Mick WALLIS, Simon SHEPHERD, Studying Plays, London-New
York, Oxford University Press Inc., 2002; Marco DEMARINIS, Semiotica del teatro: l’analisi testuale dello
spettacolo, Milano, Bompiani, 1982; Gigi LIVIO, La scrittura drammatica: teoria e pratica esegetica, Milano,
Mursia, 1992). The stylistic perspective (see Susan MANDALA, Twentieth-century Drama Dialogue as
Ordinary Talk: Speaking between the Lines, Aldershot, Ashgate, 2007) is useful in detecting the features of
dramatic language, but the path which leads to the performance cannot be discarded.
13 LO, GILBERT, “Toward a Topography of Cross-Cultural Theatre Praxis”, p. 32.
14 See Paola PUGLIATTI, I segni latenti, Messina, Firenze, 1986, p. 16.
15 Andre LEFEVERE (ed.), Translation, History, Culture: A Sourcebook, London-New York, Routledge,
1992, p. 23.
16 See Anna Maria CRINÒ, Le traduzioni di Shakespeare in Italia nel Settecento, Roma, Edizioni di Storia e
Letteratura, 1950.
17 Source and target text (or play) are here used as technical terms. For a discussion of the metaphorical use of
the terms ‘source text’ and ‘target text’, see Rainer GULDIN, Translation as Metaphor, New York, Routledge,
2015.
18 Linda HUTCHEON, Theory of Adaptation, London-New York, Routledge, 2006, p. 150.
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considered. This influence becomes crucial in intercultural theatre, where the balance of
power between the playwright and the director changes: «the director does not
subordinate himself to another author; his source is only a pretext»19. In the Twentieth
century «directors were but translators who must render the playwright’s intention
precisely»20 and their choice of improving the text going against the literal sense of the
text was ethically condemned. In intercultural theatre, however, the director is the centre
of the culturalization process, the «unifying object»21 whose dominant narrative22
actively shapes the final target play. The ways the director of the target play affects and
influences the translator’s approach to the source text needs to be analyzed in order to
fully understand the process beginning with the translated text and ending with
performance on the target stage.
A contrastive examination of the linguistic/cultural problems alone is rarely
sufficient to fully explain and understand the shifts in the target play: other issues
specifically related to theatre are involved. The understanding of stage translation is
limited and partial unless the dramaturgical decisions leading to the target play are
included in the study of the phenomenon. This contribution focuses on Michael Frayn’s
Noises Off and its Italian version, Rumori fuori Scena (translated by Filippo Ottoni and
directed by Attilio Corsini), to widen the analysis of the factors which influence the
process conducive to the target play. Firstly, the analysis aims to demonstrate the
importance of a collaborative relationship between the director and the translator.
Secondly, it aims to show the extent to which the target text is shaped by the director’s
dramaturgical vision.
As a perfect example of metatheatre, Noises Off (from now on, NO) pivots around
actors trying to stage a farce. Farce is a genre which exerts a great fascination upon
Frayn, who said:
Farce has always been regarded in his country, in fact everywhere, as rather downmarket,
popular entertainment. When I first started writing farces, interviewers would ask me ‘why
do you do farces?’ why don’t you write about life as it is? […] I mean, it seems to be that
everyday life has a very strong tendency towards farce, that is to say, things go wrong 23.
The inspiration for NO came to Frayn by watching his own play The Two of Us from
backstage24. Complying to the features of farce, which involves every-day situations
and «‘slices of life’ dramatically and comically distorted but still very close to reality» 25
19
HUTCHEON, Theory of Adaptation, p. 82.
Jeane LUERE, “Remarks of Playwrights and Directors”, in EAD. (ed.), Playwright versus director: authorial
intentions and performance interpretations, Westport, Greenwood Press, 1994, p. 14. Emphasis mine.
21 PAVIS, Theatre at the Crossroads of Culture, p. 177.
22 See Coleen Shirin MACPHERSON, “A New Vision for Intercultural Theatre Practice: From Toronto to
London to Cairo with First Draft”, «Canadian Theatre Review», 72 (2017), pp. 110-114.
23 Merritt MOSELEY, Understanding Michael Frayn, Columbia, University of South Carolina Press, 2006, p.
109.
24 Malcolm PAGE, File on Frayn, London, Methuen Drama, 1994, p.31.
25 Barbara CANNINGS, “Towards a Definition of Farce as a Literary Genre”, «The Modern Language Review»,
56. 4 (1961), pp. 558-560, p. 558.
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without a definite plot26, NO shows the chaotic dress rehearsal of a play and the reality
of theatre life27. Respecting the farcical «recalcitrance of objects»28, characters struggle
with items which do not perform as they should; the play also generously portrays the
«fall of dignity»29 exposing characters to mockery and panic which, according to Frayn,
is another key feature in farce30. NO «has as its first act a pastiche of traditional farce;
as its second a contemporary variant on the formula; as its third, an elaborate
undermining of it»31. In Act I, the company is involved in a challenging dress rehearsal;
Act II proves that everyday theatrical life, with its crisis and fights, is even more farcical
than fiction; Act III sees the explosion of all the internal conflicts in the company with
disastrous but hilarious consequences. The power of the farce comes from the situation,
and the play needs time to build the story before letting the conflicts explode: the third
act is then pivotal in the dramaturgical structure of the farce 32, as the Italian director,
Attilio Corsini, also knew.
In Noises Off the comic effect depends on various factors. Firstly, it pivots entirely
on the lines, whose language resumes and intensifies the elements of everyday
conversation33, discarding neutral or lacklustre expressions. Secondly, the comic effect
is built by both lines and action; thirdly, it can be solely based on gestures and facial
expressions. According to Stephenson, dialogue is the key of a successful farce34, which
makes it an essential feature to preserve in translation. The strong sociocultural ties of
humour often require emancipation from the source text: if chained to the original text
and its author, the target play will not be effective in performance 35 for the «languages
of the scene»36 will not overlap. Filippo Ottoni, who translated the play into Italian,
believes that «what makes English people laugh may leave us indifferent» (phone
interview, November 2014 37), which is a basic rephrasing of Tymoczko’s definition of
26
Irving HOWE, “Farce and Fiction”, «The Threepenny Review», 43 (1990), pp. 5-6, p. 5.
Act I is set the night before the opening of the farce Nothing On: director Lloyd tries to go through a dress
rehearsal which gets constantly interrupted by the actor’s questions and problems. In Act II the the action takes
place backstage before and during the performance. The relationships within the company have become more
complicated and are rapidly deteriorating. The performance of Nothing On is affected by missed cues,
forgotten lines, misplaced props and falling trousers. Act III shows the demise of the company. The actors
change the play considerably, making mistakes and trying to dissimulate. They all manage to get to the end of
the play and their happy ending.
28 HOWE, “Farce and Fiction”, p. 5.
29 HOWE, “Farce and Fiction”, p. 5.
30 PAGE, File on Frayn, p. 31.
31 PAGE, File on Frayn, p. 30.
32 PAGE, File on Frayn, p. 32.
33 CANNINGS, “Towards a Definition of Farce as a Literary Genre”, p. 558.
34 Robert C. STEPHENSON, “Farce as Method”, «Tulane Drama Review», 5.2 (1960), pp. 85-93, p. 90.
35 According to Hutcheon, however, playwrights «like to think that they’re the sole author of everything that
happens on stage» (HUTCHEON, Theory of Adaptation, p. 79) and interpret every modification as an
interference: they might not welcome nor understand any change to their creation.
36 Gigi LIVIO, La scrittura drammatica: teoria e pratica esegetica, Milano, Mursia, 1992, p. 10.
37 The citations reported are the result of the author of this article’s conversations with Filippo Ottoni and
Viviana Toniolo, who agreed to share the creative process which led to the translation and the performance of
Rumori fuori scena.
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«comical paradigm»38. A variable amount of rewriting or modifications might then be
necessary: style, tone and dialect are the resources of the target language which greatly
contribute to the comic effect, as well as sentence structure, lexical choices and
language variety39.
As for the specific features of the target culture comedy, Italian humour is polarized.
According to Paolo Consigli, a pagan and hedonistic side of Italian humour coexists
with a Christian and moralizing one 40, with a regular emphasis on farce and sexual
allusions. This leads to believe that the farcical aspects of NO might harmonize well
with the target culture humour and that modifications based on differences between
comic backgrounds could be easily avoided. However, the Compagnia Attori & Tecnici
fired the first translator for having produced a word-by-word translation:
Since the [first] translation didn’t work, we called Filippo Ottoni […] His translation was
wonderful: you read it and you understand it’s funny. I remember I was in bed, reading it
and laughing out loud, because it had all that it was supposed to be there (Viviana Toniolo,
personal communication, September 2014).
Despite the apparent similarities related to the farcical mood, the first literal translation
of the play was not satisfying enough from a performative perspective. In order to reach
the goal of laughter (pivotal in a farce), the cultural roots of humour often force the
source text and the translation to go separate ways.
Moreover, since drama translation calls for quick and dynamic lines which
adequately match the action, both language and comic situations need to be enhanced
when necessary41. As Ottoni revealed, being involved in the creative process of the
show offered him a guideline and a clear plan, very useful to emancipate effectively
from the source text, especially considering that «literal translations never work. They
are changed» (Ottoni, phone interview, November 2014). Ottoni also revealed that
working as an active part of the team and knowing what the director expects from the
text is crucial for the translator to stay in control: «I agree with changing what does not
work, but this has to be done the way the director wants. Doing my way is useless. I
think this is what a good translator must do» (Ottoni, phone interview, November
2014), that is, to devise a way to start pushing the text where the director will ultimately
lead it. This does not mean that the lines written by the translator will not be modified
later. In this sense, Viviana Toniolo, Corsini’s partner, is equally clear:
38
Jeroen VANDAELE, “Humour in Translation”, in Yves GAMBIER, Luc VAN DOORSLAER (eds.) Handbook of
Translation Studies, Amsterdam-Philadelphia, John Benjamin Publishing Company, 2010, pp. 147-152, p. 150.
39 See Dirk DELABASTITA “A Great Feast of Languages: Shakespeare’s Multilingual Comedy in King Henry
V”, «The Translator», 8.2 (2002), pp. 303-340. Research on translating humour mainly lingered on wordplay
and punning, considered harder to translate than «cultural-based humour» or «reality-based humour» (Brigit
MAHER, Recreation and Style: Translating Humorous Literature in Italian and English, AmsterdamPhiladelphia, John Benjamin Publishing Company, p. 6), where function (assessing the importance of the
comic moments in the overall text) becomes crucial for a successful translation.
40 Paolo CONSIGLI, “Humor in Italy”, in Avner ZIV (ed.), National Styles of Humor, New York, Greenwood
Press, 1988, pp. 133-151, p. 135.
41 As Bergson said, the comic effect stems from the contrast between what a character wants to communicate
and what happens to him/her while trying to communicate (Henri BERGSON, Il riso. Saggio sul significato del
comico, translated by Federica Sossi, Milano, Feltrinelli, 2011, p. 17).
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When you go on stage you realize that some things need to change: a phrase might be too
long or some words too literary. Words get cut or changed because the audience has to
understand everything and arrive at the final goal: to laugh (Toniolo, personal
communication, September 2014).
It emerges that the philological respect for the source text is not the main concern in
comedy, especially when the strong sociocultural roots of humour require a precise
translation strategy.
The overview of the issues raised by the translation and the outline of a clear targetoriented approach in the process leading to the Italian script are the necessary
introduction to the following contrastive analysis. The purpose is to detect the nature of
the shifts from NO to Rumori Fuori Scena (from now on RFS).
The Italian translation of the play (also by Filippo Ottoni) was first published by
Costa&Nolan in 1985 (two years after the first Italian performance42). For this article,
however, the Compagnia Attori &Tecnici shared the video recording still used by the
company to revise RFS for each year’s new run. The deep differences between the lines of
the published play and the lines performed by the actors confirm the fluidity of the dramatic
text. The editorial translation of RFS does not mirror the text performed on stage and it
cannot be used as the sole reference in a study whose objective is to analyze theatrical
translation from the practitioners’ perspective. However, as one additional version of the
play, a comparison between the editorial translation (meant for the reader) and the script
obtained from the video recording (hence, used in performance and meant for the actors)
will allow a clearer view of the difference from Frayn’s source text. The following study
will then involve three different texts: the English source play (NO), the 2005 edition of the
Italian translation (RFS 1) and the script (RFS 2). The analysis will privilege the translating
techniques which mirror a precise dramaturgical vision related to the medium itself, such as
amplification and rewriting43. The lines here presented are taken directly from the video
recording, with a brief description of what actors do on stage to clarify the action.
The first examples which demonstrate how the director can influence the identity of the
target play and its translation involve swearing and sexual references. In a farce, laughter is
a priority. Vulgarity usually ensures safe and fast results, for it does not act on the
propositional meaning but on the evocative meaning44. Vulgarity adds an emotional weight
to the lines and emphasizes them while economizing on words, so it can be unexpectedly
useful to empower certain moments of the play without adding original material. While
42
Rumori fuori scena debuted on Dec. 4, 1983 at the Teatro Flaiano in Rome.
Lexical shifs originating from linguistic or cultural interferences were present and tackled. «We were in
weekly rep together in Peebles» (Michael FRAYN, “Noises Off”, in ID., Plays: 1, London, Methuen 1997, pp.
359-522, p. 383) becomes «Abbiamo fatto insieme i carri di Tespi» (Michael FRAYN, Rumori fuori scena,
translated by Filippo Ottoni, Genova, Costa&Nolan, 2005, p. 28) in RFS1 and it is further reduced in RFS2: «è
con lui che sono entrata in arte». Philip’s reference «If Inland Revenue finds out we're in the country […] »
(FRAYN, “Noises Off”, p. 389) is explicitated in both translation and script: «Se l'ufficio delle imposte viene a
sapere che siamo tornati […] » (FRAYN, Rumori fuori scena, p. 32). Close translation is avoided also for
allusions to Oxfam: «I’ll give it to Oxfam with the other one» (FRAYN, “Noises Off”, p. 441) becomes «Adesso
la nascondo in un posto dove non la ritrova di sicuro» (FRAYN, Rumori fuori scena, p. 66).
44 Fay R. LEDVINKA, What the fuck are you talking about? Traduzione, omissione e censura nel doppiaggio e
nel sottotitolaggio in Italia, Torino, Eris Edizioni, 2011, p. 14.
43
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swearing is barely noticeable in RFS1 (aligned with NO), it becomes quite noticeable in
RFS2. The amplification mainly involves the lines of the director, Lloyd (Raul in RFS2),
and Roger (Gerry in RFS2), the most irritable actor of the company.
Ex 1 NO. LLOYD: Take the sardines off with you 45.
RFS2. RAUL: Quando esci di scena… portati via QUELLE CAZZO DI SARDINE!46
Ex. 2 NO. ROGER: […] I mean, I’m just, you know47, in case anyone’s looking at all this
and thinking ‘My God’48!
RFS2. GERRY: Perché se qualcuno vedesse quello che stiamo facendo potrebbe anche dire:
e che cazzo … (Act III)
According to Viviana Toniolo, the first performances were even richer in swearing.
After Corsini’s death, however, that aspect was softened at the audience’s request.
Sexual references have also been boosted wherever possible. RFS1 already adopts some
truly clever solutions:
NO. ROGER (the bathroom door opens, Roger closes it): oh, and a client. I’m showing a
prospective tenant over the house [...] she’s thinking of renting it… her interest is definitely
aroused49.
RFS1. GARRY (la porta del bagno si apre, Roger la richiude): ah! C’è anche una cliente
[…] è molto eccitata all’idea di prenderlo … in affitto, naturalmente 50.
The verb ‘arouse’ in the source text clearly leads to a sexual allusion, but it is mitigated
by the subject, ‘the interest’. In RFS1, Ottoni was able to exploit a fortuitous linguistic
coincidence. The same line is translated with a word choice immediately suggesting a
sexual encounter, using an anaphoric reference and moving the explanatory houserenting part at the end of the line. In RFS2, the amplification is evident in the new lines
(absent in NO and in RFS1):
RFS2. GERRY: Eh…passavo da queste parti, ho aperto la porta e… oh! E… mi son
detto… Oh! Quanta polvere… Che faccio, la scopo... La casa, naturalmente… Eh, c’è qui
anche una cliente, stavamo per concludere... Sull’appartamento, voglio dire […] È molto
eccitata all’idea di prenderlo… l’appartamento. (Act I)
In colloquial and informal spoken Italian, the verb ‘scopare’, means both “to sweep the
floor” and “to screw”, while the verb ‘concludere’ (which indicates a successful economic
transition in standard Italian) also refers to a sexual encounter which is sure to happen.
Moreover, the noun for ‘house’ in Italian is feminine, so the object pronoun ‘la’ can
ambiguously refer both to the house or to Vicky, Gerry’s lover: a reference to the dusty
floor was added to exploit such an ambiguity. Furthermore, at the end of the line, the same
45 FRAYN, “Noises Off”, p. 375.
46 (Act I). Capital letters indicate the screaming attitude of the actor.
47
Roger’s frequent fillers are preserved in RFS2 (mainly translated as «capito, no?»). They often come at the
end of Gerry’s lines to add rhythm but they are strategically avoided if the line stands on its own, as in this
example.
48 FRAYN, “Noises Off”, p. 499.
49 FRAYN, “Noises Off”, p. 373.
50 FRAYN, Rumori fuori scena, p. 22.
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solution is reprised by the masculine pronoun ‘lo’, which, paired with the verbs ‘eccitare’
and ‘prendere’, immediately evokes the male reproductive organ. The malicious reference
is again redirected by Gerry himself, specifying he was referring to the ‘appartamento’
(“flat”, also a masculin word, which matches the verb ‘to take’ as in “to rent”). The
amplification pivots around the same core topic of the source text, with the addition of new
linguistic material which draws from a consolidated tradition of sex jokes.
Another amplification involving the exploitation of sexual double meanings is found
in Act I, where the actors desperately look for Selsdon/Amedeo:
NO. LLOYD: Split into two, there’s a front and a back. And instantly we’ve lost him 51.
RFS2. RAUL: Diviso in due, c’è un davanti e un didietro. Stando noi nel davanti ce lo
siamo subito perso nel didietro…
Not only does RFS2 play on the similarity between the noun ‘dietro’ (“back”) and
‘didietro’ (a colloquial synonym of “bottom”), but it also exploits the possible confusion
between the verb ‘perdere’ (“to lose”) and ‘prendere’ (“to take”): all these linguistic
elements evoke a quite vulgar expression and, metaphorically, someone who is tricked
or in trouble (in this case, the rehearsal cannot continue without Amedeo).
The addition of sexual puns and allusions aims to empower the target text while
respecting the features of the farce. RFS1, presumably translated by Filippo Ottoni
alone, did not experiment with additions as much as RFS2: this leads to thinking that it
was the collaboration with the director which allowed Ottoni (or maybe Corsini himself)
to detach his translation from the source text.
Adaptation often extends to the features of some characters (for instance, moving
from screen to stage52), while fewer changes are expected in translation. The following
examples show that stage translation can change the characters’ traits for the benefit of
the performance. The evolution of Selsdon (NO) into Amedeo (RFS2) is indicative of
the will to build a character’s specific features around the target culture. The
modifications are part of the performing process: Corsini worked on empowering the
comic impact of Amedeo’s scenes. For instance, in Act I Amedeo recalls one of the
many times he forgot to arrive on time for a performance. The amplification aims at
emphasizing his funny clumsiness and his old age:
NO. SELSDON: I was having a little postprandial snooze at the back of the stalls so as to
be ready for the rehearsal53.
RFS2. AMEDEO: Stavo facendo un pisolino postprandiale giù nelle ultime file, aspettando
che toccasse a me54 […] Non avrò mica saltato la prima, eh? […] No, perché mi è già
51 FRAYN, “Noises Off”, p. 26.
52 Eva ESPASA, “Performability
in Translation: Speakability? Playability? Or just Saleability?”, in Carol Ann
UPTON, Moving Target: Theatre Translation and Cultural Relocation, Manchester, St. Jerome Publishing,
2000, pp. 49-62.
53 FRAYN, “Noises Off”, p. 384.
54 A direct translation of «so as to be ready for the rehearsal» was avoided despite the absence of particular
linguistic problems. However, ‘per essere pronto per le prove, or ‘così da esser pronto per le prove’ is not as
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successo di saltare una prima, sapete? Ci fu un certo scompiglio. Eravamo a Liverpool, nel
1934, e voi vi ricorderete com’era a quei tempi…
In the following passage, the scene revolves more explicitly around Amedeo’s hearing
impairment than the source text.
NO. SELSDON: I met Myra Hess once […]
LLOYD: From your entrance, please, Selsdon.
SELSDON: Well, it was during the war, at a charity show in Sunderland…
LLOYD: Thank you, Poppy!
SELSDON: Oh, not for me, it stops me sleeping.
RFS2. AMEDEO: Io l’ho conosciuta, sai, Giacinta Galletti… […]
RAUL: Riprendiamo dalla tua entrata?
AMEDEO: Ma sì era sfollata, abbiamo anche fatto uno spettacolo insieme tra le truppe…
RAUL: Amedeo sei divino ma adesso basta!
AMEDEO: Un piatto di pasta con un bicchiere di vino a quest’ora me lo farei proprio!
Keeping the pun based on Poppy (the assistant’s name and the plant) would have
implied a close translation with an uncertain outcome. A simple game of assonances
achieves the same result more efficiently in the target language. Here is one more
example of Amedeo’s enhanced comic character:
NO. SELSDON: So, what are they offering? One microwave oven. What? Fifty quid? Hardly
worth lifting it. …junk…junk…junk… if you insist…55
RFS2. AMEDEO (speaking to an imaginary colleague back stage): Tu fai il palo che io faccio
il carico ma senza fretta… tanto nel pomeriggio non ho altri impegni (notices the receiver is out
of place and he picks it up) Pronto? / È un’ora che aspetta? / Squire, Squire e come si chiama
l’altro? / E che ne so io, adesso faccio il carico…/ che cosa offre la piazza vediamo un po’ / oh,
un forno a microonde / e quanto ci si può fare? Venti sterline? Non vale la pena di portarlo via /
questo è una porcheria, questo è una porcheria, questo è meglio di niente / quando dicono che
l’età della pensione è dura dicono il giusto / questo è proprio un furto da pensionato.
In NO, Selsdon enters playing the Burglar and begins to examine the items in the house,
predicting their value. In RFS2, Amedeo’s debut lines refer to a backstage accomplice.
The receiver of the phone had not been put back from a previous conversation (a further
independent deviation from the source) and Amedeo picks it up, starting a conversation
with someone who, as the audience learns, has been waiting on line the whole time.
Having been mentioned before, the reference to ‘Squire’ is already familiar. Amedeo
ends by philosophizing on the bitterness of his life as a retired burglar, which helps the
audience sympathize with him. This example confirms that amplification in RFS2 tends
to avoid inserting original material: the expanded part refers to already known facts or
names. The reference to retirement is clearly devised to engage the Italian audience.
While the playwright’s determination against all modifications in the target play
sometimes complicates the intercultural communication, Frayn wisely proves to be
fluid and as synthetic as the final choice, which proves that the performability of the lines is a primary concern
of stage translation.
55 FRAYN, “Noises Off”, p. 411.
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aware of the different destinies of his play in translation, as he says in the introductory
Author’s Note in Plays 156. He is willing to embrace convincing modifications which
aim at the target audience’s positive reception. It is worth noting that the heaviest
interventions in RFS2 concern the ending of the acts: they need to be impactful given
their importance in the overall play. While Act I of NO and RFS1 simply features a few
lines by Selsdon, RFS2 ends with a ‘Sardine Song’: a small musical number, a simple
choreography in which all actors sing an elementary tune. Minor as it might appear, its
inclusion was the director’s idea.
The ending of Act II starts moving in a different direction in terms of character
development and dramaturgical devices. In NO, Frayn’s most exploited (maybe even
abused) way of creating dialogic chaos consists of organizing the scene around a core
dialogue whose development plods by constant and sometimes repetitive interruptions
which Corsini and Ottoni expunge, making the overall dialogue fluid and less
disjointed. Far from being driven by objective cultural differences, this decision reflects
divergent dramatic visions concerning the optimal dialogical structure57, which gives a
different emphasis on certain characters or actions.
NO shows Poppy trying to make a confession to Lloyd. Her lines are not indicated in
the scene direction, which means that if the play is read, the development of the action
is left to the reader’s imagination. At the end, Poppy screams her pregnancy, interrupted
by Selsdon’s repeated search for cues, a typical example of Frayn’s dialogical
organization:
NO. POPPY (screams to Lloyd in despair): I’m going to have a…
SELSDON (flings the front door open): Good old-fashioned plate of what…?
POPPY: … baby!
Selsdon goes back on stage. poppy claps her hand over her mouth, horrified58.
Despite Poppy’s revelation being the key moment, the act ends with Lloyd accidentally
sitting on a cactus. In RFS1, Poppy, whispering at first, complains about Lloyd’s absence
and his daily rehearsals; then, according to the stage direction, Lloyd offers her some
whisky and she starts to speak a little louder, revealing that she knows of Lloyd’s other
woman. Finally, when Lloyd still seems not to have heard, she starts screaming. RFS1
clarifies the meaning of the conversation which was only roughly indicated in the source
text, but reprises its ending, with Lloyd’s last line and the scene with the cactus59. In RFS2,
Poppy’s confession stands out with a slightly hysterical scene (probably expected by an
Italian audience) and it is fully emphasized by erasing all interruptions. The lines of Lella –
Poppy’s new name in RFS2 – have been greatly amplified with references to her loneliness
in order to enhance the audience’s sympathy for this broken-hearted assistant. Lella’s
revelation ends the act.
56 FRAYN, “Author’s Note”, in “Noises Off”, p. 360.
57 See Manfred PFISTER, The Theory and Analysis
of Drama, translated by John Halliday, Cambridge,
Cambridge University Press, 1991.
58 FRAYN, “Noises Off”, p. 491.
59 FRAYN, Rumori fuori scena, p. 117.
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RFS2. LELLA: Senti io adesso ti devo proprio parlare. Eh, sì, lo so che non è il momento
adatto, ma con te non è mai il momento adatto. Io continuo a telefonarti, ma non ci sei mai.
Lo so che hai da fare tutto il giorno, ma non ci sei neanche la notte, e neanche al mattino ti
trovo ma, e non so dove vai...
Raul kisses her on her forehead and starts to walk away.
LELLA (raising her voice): No, no, no, non cercare di blandirmi; io ora ti dirò tutto quello
che ti devo dire, perché appena calerà il sipario tu andrai in camerino da Lisa, lo so. Ti ho
visto sai, che le regalavi un cactus! non sono mica cieca! E poi riprenderai il treno per
Roma. Comincio a capire come funzioni, Raul, scommetto che te la fai con qualcuna del
Giulietta e Romeo. Ah, ma questa volta non puoi cavartela così! (raising her voice again) e
allora bello mio sturati le orecchie, perché io sono INCINTA! (The other actors quietly stop
performing, silence – and the curtain- fall).
Act III offers a theatrical lesson on comic timing, self-control and theatrical discipline,
without which the whole performance falls apart. Its comic effect comes from
repetition: the audience, who knows the lines, understands the actor’s frantic
improvisation. Critics underlined the weaknesses of the third act, so pivotal in a farce60.
As Viviana Toniolo highlights, «we saw the show in London and we noticed that Act III
was really long, and there was little laughing» (personal interview, September 2014),
but they attributed the issue to their scarce linguistic knowledge.
When we read it in Ottoni’s translation we understood: Act three did not work because it
was telling private matters, pregnancies and stuff, right on stage. You just need to show the
audience what was on Act I, everything they already know, so they can laugh at the actors,
their fights, their mistakes. If you propose fights with words instead of facts, one simply
doesn’t believe it. So, Attilio [Corsini] cut it all out (Toniolo, personal interview,
September 2014).
Corsini tackled the dramaturgical issues from the beginning of the act. NO, in fact, starts
with Tim and Poppy apologizing for the delay while a fight between Belinda and Dotty
is audible off stage.
NO. TIM: Good evening ladies and gentlemen (he removes the Burglar’s cap). […]
We apologize for the slight delay in starting tonight, which is due to circumstances…
BELINDA (off, screaming but indistinguishable): Hands off Freddie! All right?
DOTTY (off, screaming but indistinguishable): You’re the one who’s trying to get their
hands on Freddie!
TIM: … Due to circumstances…
DOTTY (off, screaming but indistinguishable): You don’t own him, you know!
TIM: … beyond our control …
The sound of a slap, off, and Dotty screams in pain, off61.
RFS2 highlights the fight between the two actresses by showing it on stage in all its
comic violence (instead of leaving it to the spectator’s imagination): the background for
the following action is set in less than thirty seconds.
60
«Act II […] is also a forceful argument for farce’s value as human comedy. Perhaps nothing could top it,
and Act III doesn’t always succeed» (PAGE, File on Frayn, p. 33).
61 FRAYN, “Noises Off”, p. 492.
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According to Viviana Toniolo, modifications aiming at improving the play bring
excellent results62. The ending of Act III proves Corsini’s will to produce the best play
possible: so convincing was this new solution that Frayn decided to use Corsini’s
ending after having seen the Italian performance. In NO, three characters playing The
Burglar are tricked into coming on stage by the cue “I’ve heard of this getting stuck
with a problem, but this is ridiculous”. One by one, the three actors repeat their lines,
triggering ironic comments by their colleagues on stage. They all turn to Lloyd (among
the burglars), paralysed in stage-fright: Flavia takes control of the situation by, quite
literally, putting the words in Lloyd’s mouth. One by one, all the objects mentioned
throughout the play (doors, sardines, a phone, bags and boxes) are frantically chased.
The act ends with an improvised wedding between Lloyd and Poppy.
In Corsini’s opinion, such dramatic structure needed improvement. He preserved the
three entrances of the Burglars, which harmonize well with the general feeling of
disorganization. However, RFS2 focuses on rhythm, with the fast pace of the action –
emphasized in the performance – contributing to the farcical and paradoxical mood.
Whenever possible, the actors nervously try to hold on to their lines (by now well known
to the audience) to keep the performance going. For instance, Gerry catches Raul’s casual
reference to the police to recover his lines (“ora scendo giù e chiamo la polizia”), but
chaos prevails again when the phone starts to ring by itself, forcing the actors to go back
to improvising. Undismayed, Lisa sticks to her lines, mechanically repeating them even
when they are completely disconnected from the situation. The crescendo culminates with
Amedeo’s closing line: “Quando arriva il momento che la vita offre soltanto dolori ed
incertezze, non c’è niente di meglio che … Una buona tazza di tè!”, which ends the act
and the play. Corsini acknowledged Frayn’s idea of chaos, reinterpreting it.
Translating a play is to devise solutions which go beyond the inter-linguistic
dimension. The case study shows Ottoni and Corsini’s target-oriented approach: they
considered the audience’s dramatic expectations and the director’s artistic direction:
these were the focus around which major changes were developed. Modifications of the
source text might not be driven exclusively by cultural interference63, but also by a
different view of the best dramatic structure to produce laughter.
Having been running in Italy for thirty years, RFS is now probably seen as a classic.
As a play whose strength is to talk about theatre, it certainly has a universal appeal 64,
but the analysis showed that modifications were still needed to facilitate its success.
Michael Frayn does not compare to classic playwrights in terms of expectations and
critical evaluation, which erased all philological pressures on the source text. Thanks to
Filippo Ottoni and Viviana Toniolo’s contribution, the analysis benefits from the
practitioners’ vision of the play: acting in terms of what is dramaturgically efficient,
62
Frayn’s 1998 Copenhagen, also translated by Filippo Ottoni, is a further example. «The Italian version is
half as long as the English one and that is why it has been successful. Frayn saw Copenhagen with me. He was
silent. He understood the play had been appreciated. But he also realized the play had changed» (Ottoni, phone
interview 2014).
63 References to Inland Revenue, for instance, have been domesticated or neutralized.
64 FRAYN, Rumori fuori scena, p. 9.
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they pursued a mini-max strategy65, like translators. Corsini was able to shape his
version of the play thanks to Ottoni’s constant support: a collaboration between
translator and director is the only way for the translator to be involved in the process
and produce a text truly tailored on the performance. In this case, Corsini and Ottoni
operated on the source play by amplifying, cutting and rewriting, which confirms the
fluid nature of the dramatic text. In RFS2 many interventions are motivated by the
inconsistencies in the dramatic development of the source text, whose potential was still
clear to Corsini. Being the text one of the elements of the theatrical dynamic but not its
invariable centre, the comic force of the NO was improved as Corsini saw fit: the play
was a farce, and its goal was to make the audience laugh. However, sometimes RFS2
pushes on sex jokes as the easiest and safest choice to get to that goal, trying to force
them in the lines instead of defining innovative ways to improve the writing.
The analysis of RFS1 and RFS2 highlights the factors and the complex framework
which influence the transposition of a foreign play into the target stage as well as the
importance of practitioners’ experience for a full understanding of the identity of the
target play and the requirements of stage translation.
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Eleonora Fois
Università di Cagliari (Italy)
eleonora.fois@libero.it
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Ipotesi stemmatiche nella tradizione della Voie d’Enfer et
de Paradis di Pierre de l’Hôpital
Andrea Macciò
(Università di Cagliari)
Abstract
Despite the great importance that the early-fourteenth century Voie d’Enfer et de Paradis by Pierre de
l’Hôpital had in the diachronic development of the allegorical voyage literary genre, it has drawn only
passing interest from criticism. After placing Pierre de l’Hôpital’s composition and its re-writings in the
purview of the oitanic literature, this paper sheds light on its manuscript tradition by both describing the
state of the textual transmission and providing appropriate ecdotic comparisons that confirm the
hypothesis of a bifid stemma, divided into two branches A-B and C-S. As it is evident, the results of this
study constitute an indispensable preliminary contribution to the realization of the first critical edition of
the poem which is currently being prepared.
Key words – Voie d’Enfer et de Paradis; Pierre de l’Hôpital; allegorical voyage; textual criticism;
Romance Philology
Nonostante l’importanza da esso rivestita nel panorama dei viaggi allegorici nell’Aldilà, il componimento
della Voie d’Enfer et de Paradis, attribuito a Pierre de l’Hôpital e ascrivibile ai primi decenni del secolo
XIV, ha suscitato un interesse assai scarso da parte della critica. Dopo una dovuta contestualizzazione del
testo e dei successivi riadattamenti, il presente contributo fa luce sulla sua tradizione manoscritta, dando
contezza dello stato della trasmissione testuale e fornendo una serie di riscontri ecdotici che avvalorano
l’ipotesi di uno stemma codicum bipartito nei due rami A-B e C-S. I risultati qui sintetizzati costituiscono
un indispensabile apporto preliminare alla realizzazione della prima edizione critica della Voie d’Enfer et
de Paradis, che l’autore dell’articolo sta approntando.
Parole chiave – Voie d’Enfer et de Paradis; Pierre de l’Hôpital; viaggio allegorico; critica testuale;
Filologia romanza
1. Premessa
Tra i componimenti oitanici ascrivibili alla tipologia testuale del viaggio allegorico
nell’Aldilà, l’inedita Voie d’Enfer et de Paradis attribuita a Pierre de l’Hôpital (13151336) ha rivestito sicuramente un ruolo di primaria importanza nella diacronia del
genere letterario a cui pertiene.
Inizialmente introdotta nel dominio d’oïl dai tanti volgarizzamenti di testi
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appartenenti alla letteratura mediolatina (secoli XII e XIII)1, la tradizione dei viaggi
allegorici conosce in Francia un profondo rinnovamento a partire dall’eccentrico Songe
d’Enfer di Raoul de Houdenc (1215 ca.): esente da legami di filiazione diretta con altri
antecedenti, infatti, la parodia attuata nel Songe d’Enfer rovescia la funzione pedagogica
che nella letteratura visionaria era di norma affidata al procedimento allegorico, in ciò
attestando di fatto un’avvenuta canonizzazione del modello testuale o genere letterario a
cui ogni eventuale forma di riscrittura non può che riferirsi.
Al componimento di Raoul fa immediato seguito una Voie de Paradis
“presudoraoulliana” che lo conclude (e certo lo corregge) nel quadro di un Aldilà, per
così dire, panottico o panoramico2, comprendente in sé, cioè, l’intero spazio
escatologico che dall’inferno “inferiore” ascende fino al limite ultimo del paradiso
celeste, alla visio beatifica. “Metamorfosi odeporica” delle più tradizionali visiones, la
tipologia narrativa del viaggio allegorico “in sogno” così elaborata nel corso del secolo
XIII, dunque, si rivelerà di una produttività sorprendente3: all’inizio del secolo
successivo, il primo componimento a raccogliere il testimone del Songe d’Enfer e del
suo sequel (seppure, va detto, con toni e intenzioni apparentemente contrastanti) sarà
appunto la Voie d’Enfer et de Paradis attribuita a Pierre de l’Hôpital e subito seguita
dall’altro, omonimo ma ben più noto viaggio allegorico di Jean de le Mote (1340 ca.)4.
A tal proposito, nella sua recente monografia dedicata all’eclettica produzione
dell’autore hennuyer, Silvère Menegaldo ipotizza ragionevolmente che la Voie di Jean
de le Mote abbia trovato nella precedente Voie di Pierre de l’Hôpital nientemeno che la
sua stessa fonte diretta5, in ciò recuperando una prima intuizione che fu già di Antoine
Thomas6. Ma c’è di più; a conferma dell’ampio Fortleben che ha riguardato la Voie
d’Enfer et de Paradis di Pierre de l’Hôpital, certo già avvalorato da una tradizione del
1
Segnatamente, le sei versioni della Vision de saint Paul (secolo XIII), derivate dalle dieci versioni
abbreviate dell’apocrifa Visio Pauli (secoli VII-XI); l’immram del Voyage de saint Brendan di Benedeit
(secolo XII); le due versioni in prosa e il frammento in versi che traducono la tardiva Visio Tnugdali
(1149) redatta dal monaco irlandese Marcus sul modello dei Dialogi di Gregorio Magno; infine,
l’Espurgatoire seint Patriz (1190 ca.) di Maria – forse Maria di Francia – derivato dal trattato latino del
monaco cistercense H(enry) de Saltrey. Per uno studio approfondito sulle origini del viaggio allegorico
rimando a Fabienne POMEL, Les voies de l’au-delà et l’essor de l’allégorie au Moyen Âge, Paris, Honoré
Champion Éditeur, 2001; Jérôme BASCHET, Les représentations de l’enfer en France et en Italie (XIIe-XVe
siècle), Roma, École française, 1993 («Bibliothèque des Écoles françaises d’Athènes et de Rome», 279) e
Claude CAROZZI, Le voyage de l’âme dans l’au-delà d’après la littérature latine (Ve-XIIIe siècle), Roma,
École française, 1994 («École française de Rome», 189).
2
Cfr. CAROZZI, Le voyage de l’âme dans l’au-delà d’après la littérature latine (Ve-XIIIe siècle), pp. 589 sgg.
3
Si ricordino altresì le composizioni della Voie de Paradis di Rutebeuf e dell’altra (omonima) di
Baudouin de Condé, ascrivibili anch’esse al secolo XIII.
4
L’unica edizione critica del testo, a oggi, è Mary Aquiline PETY, La Voie d’Enfer et de Paradis. An
Unpublished Poem of the Fourteenth Century by Jehan de La Mote, Washington, Catholic University of
America Press, 1940 (Reimpr. New York, AMS Press, 1969).
5
Cfr. Silvère MENEGALDO, Le dernier Ménestrel? Jean de Le Mote, une poétique en transition (autour de
1340), Gèneve, Droz, 2015, pp. 203-259.
6
Antoine THOMAS, Anonyme, auteur de la Voie d’enfer et de paradis, «Histoire littéraire de la France», 36
(1927), p. 91.
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testo comprensiva di ben quattro testimoni manoscritti (ms. A: BnF fr. 1543, cc. 99va151rb; ms. B: Cambrais, BM 176, cc. 1ra-65rb; ms. C: BnF fr. 24313, cc. 1ra-26vb; ms.
S: St.-Omer, BM 752, cc. 175ra-217rb), si annoverano altresì due ulteriori rielaborazioni
dello stesso componimento, anch’esse peraltro inedite e collocabili cronologicamente a
cavaliere dei secoli XIV e XV: si tratta del Songe de la Voie d’Enfer et de la Voie de
Paradis, scritto sotto forma di dialogo e tràdito da tre testimoni (ms. D: BnF fr. 1051,
cc. 1-55v; ms. E: Gent, Universiteitsbibliotheek, 352, cc. 1-8; ms. n° 775, attualmente in
vendita presso Les Enluminures) e della moralità conosciuta sotto il titolo di Speculum
mondialle, trasmessa purtroppo acefala e da un codex unicus (ms. F: BnF fr. 1534, f.
118va-139rb)7. La fortunata trasmissione della prima “drammatizzazione” e della
seconda, vera e propria mise-en-scène del testo (con tutta probabilità rappresentata a
Parigi8) offre di fatto la rara occasione di poter studiare le dinamiche inerenti alla
ricezione e ai processi di circolazione e riadattamento (teatrale, nella fattispecie) di un
componimento medioevale ascrivibile al genere allegorico-didattico.
L’apogeo trecentesco del modello narrativo del viaggio allegorico si chiuderà, in
definitiva, con la magniloquente grandeur del triplice Pèlerinage (de Vie humaine, in
due redazioni, de l’Âme e de Jésus Christ) redatto a metà secolo, in più di
trentacinquemila versi, da Guillaume de Degulleville e contrassegnato da un uso
ossessivo dell’analogia e da un esasperato eccesso di “allegorismo”, che «conduisent à
une esthétique […] de la prolifération et de l’éclatement, qui traduit une amplification
de l’angoisse existentielle que l’allégorie ne parvient plus à canaliser ou conjurer» 9.
Com’è evidente, dunque, il testo di Pierre de l’Hôpital si colloca effettivamente al
vertice diacronico della produzione allegorico-visionaria in antico francese,
rappresentandone l’esito maturo e contribuendo notevolmente agli sviluppi futuri che ne
interesseranno la tipologia testuale. Non sarà superfluo, pertanto, fornire qui un pur
breve riepilogo del contenuto stesso che il componimento offre al lettore:
Dopo essersi addormentato, il chierico protagonista della Voie intraprende, per sua
stessa volontà, un lungo pellegrinaggio sulla via verso l’inferno accompagnato da
Disperazione, che lo guiderà presso i sette peccati capitali (a loro volta
personificati da rispettabili dame di corte): Orgoglio, Invidia, Avarizia, Ira, Pigrizia,
Gola e Lussuria. Il testo segue dappresso un paradigma narrativo tendenzialmente
puntuale, fatte salve minime variazioni: dopo essere giunto presso la “castellania”
7
Le sigle dei manoscritti ora riportate furono apposte da Antoine Thomas nel resoconto che offrì della
tradizione manoscritta della Voie di Pierre de l’Hôpital e delle sue dirette riscritture: lo studioso, all’epoca,
non conosceva l’esistenza del terzo testimone del Songe (attualmente in vendita presso Les Enluminures
con segnatura 775), ragion per cui lo stesso manoscritto è rimasto a tutt’oggi privo di sigla e la lettera F
contrassegna invece il codex unicus dello Speculum mondialle. Cfr. THOMAS, “Anonyme, auteur de la
Voie d’enfer et de paradis”, pp. 86-89.
8
«On peut croire que l’œuvre qu’il nous a laissée fut représentée à Paris […]» (THOMAS, “Anonyme,
auteur de la Voie d’enfer et de paradis”, p. 99); dello stesso avviso Piezzoli: «Bien que nous ne
possédions pas de trace de sa représentation, la pièce a certainement été jouée» (Thérèse PIEZZOLI, La
Voie d’Enfer et de Paradis. Poème du XIVe siècle, «École nationale des chartes. Positions des thèses»,
[1952], p. 88).
9
POMEL, Les voies de l’au-delà et l’essor de l’allégorie au Moyen Âge, p. 513.
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di ciascun vizio (il cui ambiente è descritto in modo del tutto confacente al
carattere della propria signora, secondo un efficace procedimento analogico), il
chierico riceve dalle sue stesse ospiti un catalogo di “anti-comandamenti” a cui egli
promette di volta in volta di attenersi, un manicaretto – specchiante anch’esso
l’indole del relativo peccato – e la possibilità di pernottamento, così che l’indomani
mattina egli possa di nuovo mettersi in cammino, sempre in compagnia di
Disperazione, alla volta del vizio successivo. Va qui segnalato lo spazio concesso
dall’autore al proprio gusto per una satira sociale che non risparmia veramente
nessuno e il cui tramite è perlopiù offerto dai monologhi delle sette castellane
(notevole, in tal senso, la conoscenza dallo stesso dimostrata del mondo dei
commerci, tanto che, sostiene Thomas, «l’histoire de notre langue peut s’enrichir
grâce à lui de termes techniques qui ne figurent pas souvent dans les textes
littéraires»10). Va da sé che il sentiero intrapreso condurrà ben presto il pellegrino
all’imboccatura dell’inferno “inferiore”, di fronte al quale, tuttavia, egli si mostrerà
renitente a proseguire, spaventato com’è dagli orrori che vi intravede e di cui il
narratore offrirà una sintetica ma suggestiva rievocazione. Approfittando quindi
della momentanea assenza di Disperazione, andata in cerca del rinforzo dei diavoli,
il chierico si rivolge in preghiera a Contrizione, grazie a cui riesce a sfuggire alle
orde infernali che tentano di acciuffarlo, raggiungendo la dimora di Confessione:
qui riconosce le proprie colpe e riepiloga i fondamenti della dottrina cristiana. A
seguire, Soddisfazione propone al protagonista un’adeguata penitenza.
Il chierico può finalmente risvegliarsi, a tutta prima spaventato dal ricordo del
pericolo vissuto ma dipoi subito rincuorato per il buon esito del sogno;
riaddormentatosi, intraprende così la seconda metà del proprio viaggio onirico, in
tutto speculare alla prima: guidato ora da Speranza nella via delle virtù, egli fa
tappa presso Umiltà, Pazienza, Liberalità, Sobrietà, Castità e Isneleté (Diligenza).
L’approdo finale è all’hortus conclusus del paradiso terrestre (cf. Genesi 2, 8-14)
«[…], dont émane une odeur exquise et au milieu duquel se trouve l’Arbre de vie
ainsi que la source des quatre grands fleuves d’Asie, soit le Nil (“Gyon”), le Gange
(“Phison”), le Tigre et l’Euphrate»11. Lo spettacolo insostenibile del paradiso
celeste sarà di fatto appena intravisto, non essendo permesso al chierico di
sperimentare la tanto agognata visio beatifica, nonostante l’intercessione
accordatagli su richiesta dalla stessa Carità.
È il momento del risveglio definitivo: nel prolisso epilogo del racconto, il narratore
in prima persona invoca la misericordia divina per il penitente, secondo gli esempi
scritturali di Zaccheo e Maria Maddalena; defilandosi poi da un’eventuale accusa
di invidia che le numerose tirate satiriche dell’opera potrebbero attirargli, egli offre
anzi una brillante descrizione allegorica dell’Arbre d’envie. Il componimento si
chiude dunque con una richiesta di preghiera per l’anima del committente e
destinatario dell’opera (un bon preudomme di cui però si tace il nome), oltre che
per il suo stesso autore.
Da quanto detto finora, fa specie che la Voie d’Enfer et de Paradis di Pierre de l’Hôpital
(e il discorso, si badi, è estendibile alle sue stesse riscritture) sia rimasta a oggi non
soltanto inedita, ma quasi del tutto priva di bibliografia e ignorata, allo stesso modo, sia
10
11
THOMAS, “Anonyme, auteur de la Voie d’enfer et de paradis”, p. 95.
MENEGALDO, Le dernier Ménestrel?, pp. 213-214.
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dalla critica testuale che letteraria. A maggior ragione, allora, andrà indubbiamente reso
merito ad Antoine Thomas per aver censito e offerto, nel lontano 1927, un resoconto
puntuale dei tre testimoni della Voie (A, B e C) e degli altri tre latori dei suoi due
rifacimenti (D, E e F) che all’epoca erano i soli a essere conosciuti.
Lo studioso, che già rilevava come la regione di provenienza dell’autore (a lui ancora
ignoto) dovesse circoscriversi entro un’area geografica compresa tra Piccardia, Artois e
Vallonia occidentale, si esprimeva altresì sulla datazione del componimento, desunta
sulla base di un’allusione storica del testo alla morte di Enguerrand de Marigny (1315,
terminus a quo) e sull’ipotesi dell’anteriorità dello stesso rispetto alla Voie d’Enfer et de
Paradis di Jean de le Mote (1340 ca., terminus ad quem); come anticipato poc’anzi, il
suggerimento sarebbe stato in seguito raccolto da Menegaldo, che di recente ha
avanzato la proposta della filiazione diretta della seconda Voie dalla prima12.
Lo stesso Thomas, tuttavia, non aveva ancora ipotizzato una genealogia o un tipo
stemmatico della tradizione del testo a lui nota. Esattamente trent’anni più tardi, in alcune
sue notules lexicologiques del 1957, Michel Dubois, oltre a dare per la prima volta notizia
dell’esistenza di un quarto testimone del componimento (ms. S = St.-Omer, BM 752) e
del nome dell’autore ivi restituito in rubrica (c. 175r), osservava incidentalmente: «Les
mss se groupent en deux familles, AB et CS»13.
Il laconico appunto di Dubois, d’altronde, trovava già in parte conferma nella scelta del
manoscritto di base per un’edizione parziale del testo (Les sept vices) prevista qualche
anno prima in una tesi per l’École nationale des chartes, discussa tra il 31 marzo e il 1°
aprile 1952: «[…] le manuscrit français 24313 de la Bibliothèque nationale semble le
meilleur. […]. Il offre, en cas de divergence entre les trois manuscrits, des leçons
préférables à celles des deux autres. Les règles de la métrique y sont mieux observées»14.
Come si mostrerà a breve, a un’attenta analisi della tradizione manoscritta che restituisce
la Voie d’Enfer et de Paradis di Pierre de l’Hôpital, risulta effettivamente confermato un
bifidismo di fondo che riduce al limite, in sede di edizione, le possibilità di automatismo
nella scelta delle varianti e lascia ampio spazio ai criteri interni e al “famigerato
judicium”15, laddove le lezioni concorrenti oppongano tra loro i due rami dello stemma16.
12
Antoine Thomas si limitava a constatare l’anteriorità della Voie di Pierre de l’Hôpital sull’altra di Jean
de le Mote in base al fatto che il primo testo alluda satiricamente alle decime concesse dal papa ai re di
Francia in occasione della guerra di crociata, le quali «ont donné lieu à de nombreuses tractations depuis
le règne de Philippe III jusqu’à celui de Philippe VI inclusivement», non estendendosi di fatto oltre il
1336 (THOMAS, “Anonyme, auteur de la Voie d’enfer et de paradis”, p. 91; ma cfr. altresì PIEZZOLI, “La
Voie d’Enfer et de Paradis. Poème du XIVe siècle”, p. 88). Il passo ulteriore compiuto da Menegaldo
poggia, oltre che sulla struttura dei due componimenti e sulla loro “vischiosità intertestuale” (come
avrebbe avuto a definirla Segre), anche sulla puntuale descrizione del “romanzesco” château tournoyant
che in ambo i testi designa la dimora di Envie e sull’unica attestazione occorsa nella Voie di Jean de le
Mote (v. 3391) del nome Accide (letto maldestramente dal solo editore del testo, tra l’altro): «autre façon
de désigner Paresse, dont le caractère isolé pourrait témoigner d’une imitation de Pierre de l’Hôpital, qui
de son côté utilise indifféremment les deux noms» (MENEGALDO, Le dernier Ménestrel?, pp. 222-223).
13
Michel DUBOIS, “Notules lexicologiques”, «Romania», 78 (1957), pp. 390-392, p. 391.
14
PIEZZOLI, “La Voie d’Enfer et de Paradis. Poème du XIVe siècle”, p. 90. La tesi di Piezzoli non fu mai
depositata nelle Archives e a oggi, purtroppo, non ne rimane che un conciso sommario.
15
Cfr. Gianfranco CONTINI, Breviario di ecdotica, Torino, Einaudi, 1997, p. 138.
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2. I Quattro Testimoni Manoscritti Della Voie d’enfer et de paradis
Prima di procedere al confronto delle varianti, tuttavia, sarà necessario dar conto,
seppure in breve, dello stato in cui attualmente si trova la tradizione del testo, costituita,
come già ricordato, da quattro testimoni manoscritti:
1) ms. A (7448 vv.): BnF fr. 1543, cc. 99va-151rb; datato al 1402 (c. 238v).
Del testimone è innanzitutto da segnalare una considerevole lacuna rilevabile tra le due
colonne di compilazione alla c. 111v, cagionata probabilmente dalla perdita di una carta
dell’antigrafo. L’omissione è compresa in 142 vv. in B (cc. 15r b-16va); 144 vv. in C (cc.
11rb-12ra) e 144 vv. in S (cc. 185ra-186ra). Il ms. A, talvolta, inserisce alcuni versi che
non trovano riscontro negli altri testimoni; si consideri, per esempio, la pericope in cui
Orgueil diffida il protagonista di affidarsi a Umilité17; la modifica di un rimante da parte
di A implica, dapprima, l’introduzione di un verso successivo per la costituzione di un
nuovo couplet (accorde : descorde), e poi l’inserimento di un ulteriore verso, del tutto
accessorio, necessario a sua volta a ristabilire la rima personne : somme compromessa
rispetto all’originaria adonne : personne del couplet di C-S:
«Car il n’est nulz, s’a li s’accorde,
«Qui n’ait a my moult grant descorde,
«Car trop m’aville se personne
«Et m’ennuie. C’est la somme:
«Qui s’umelie Dieux l’accrout.
Ms. A, c. 101rb.
«Car il n’est nulz, s’a li s’adonne,
« ***
«Que trop n’aville sa personne:
« ***
«Qui s’umilie Dieus l’acrout.
Ms. C, c. 2va (cfr. B, c. 3ra; S, c. 176vb).
16
Ciò vale, è ovvio, nel caso di una ricostruzione filologica del testo che non si limiti a emendare,
bédierianamente, gli errori “evidenti” di un presunto codex optimus.
17
Il senso del passo in C, B e S sarebbe il seguente: «Perché non vi è alcuno che, se a lei [a Umiltà] si
dona, non avvilisca la (sua) persona: “Chi si umilia, Dio lo piega”». L’anacoluto e il tono dell’ultimo
verso sono indici di un’espressione paremiologica (la somme di A, evidentemente) che si dimostra
piuttosto ricorrente specie in autori e/o testi piccardi: «Par trop luy taire ou estre solitaire, / Et sans
notaire, on pert bien bruit et brout: / Qui trop s’abaisse, on dit que Dieu l’acrout» (Noël DUPIRE, Les
Faictz et dictz de Jean Molinet, Paris, Société des Anciens Textes Français, 1936-1939, v. 1, p. 218). «Qui
s’acrout, en [var. Dieu] l’abesse, se dit on mainte fye»; «Qui hante lez chetifs povreté va quirant, / Qui
s’acrout on le va tout adez abaissant / Et ly homs qui se va honnestement pourtant / On le prise et
honneure et moqu’on le meschant» (Noëlle LABORDERIE, Florent et Octavien, chanson de geste du
XIVe siècle, Paris, Champion, 1991, t. 1, pp. 50; 106 [«Nouvelle bibliothèque du Moyen Âge; 17»]).
«Messages est de Dieu, si com j’ay en pensé, / Estrait de haute gent et de haut parenté, / Le branc tient en
sa main, si a juré Jhesu / Que jamais joye n’ara, si lui ara rendu, / Car ung proverbë est monlt souvent
ramentu: / Qui s’acro[i]t, Dieu l’abaisse, dont il est confundu» (qui l’editore ha corretto acrout in acroit.
Marie-Jeanne PINVIDIC, Les enfances de Doon de Mayence. Édition et étude, Thèse de Doctorat,
Université d’Aix-Marseille 1, 1995, p. 506). «Pour ce a chascun son art souffise / Et son estat sanz faire
emprise / De trop ne po querir hault bout; / Car qui s’abaisse Dieux l’acrout, / Et qui se hauce plus qu’a
point, / Cheoir le fault en petit point» (Gaston RAYNAUD, Le Miroir de mariage, in ID., Œuvres complètes
de Eustache Deschamps, Paris, Didot, 1894, t. 9, p. 300 [«Société des Anciens Textes Français»]); ecc.
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Altrove, ricorrono varie altre lacune di uno o due versi dovute probabilmente alla
disattenzione del copista, talvolta recuperate dall’introduzione di versi sostitutivi.
2) ms. B (7394 vv.): Cambrais, BM 176, cc. 1ra-65rb; sec. XV.
La lezione del testo tràdita dal ms. B è molto difettosa: oltre alle pressoché costanti
ipometrie dovute alla mancata trascrizione di intere parole (perlopiù monosillabi),
vanno segnalate numerose lacune di varia estensione: 3 vv. alla c. 10vb (cfr. A, c. 107vb;
C, c. 8ra; S, c. 182ra-rb); quattro serie di couplets (8 vv.) alla c. 11ra (cfr. A, c. 108ra; C,
c. 8rb; S, c. 182rb-va); altri cinque couplets (10 vv.) e un verso alla c. 11va (cfr. A, c.
108va; C, c. 8va-vb; S, cc. 182vb-183ra); 8 vv. alla c. 20va (cfr. A, c. 115ra; C, c. 15ra;
lacuna in S); 14 vv. alla c. 20vb (cfr. A, c. 115rb; C, c. 15rb; lacuna in S); 7 vv. alla c.
21ra-rb (cfr. A, c. 115rb-va; C, c. 15rb-va; S, c. 189ra) e altri 44 vv. alla c. 23ra (cfr. A, c.
117ra-va; C, cc. 16vb-17ra; S, c. 190va-vb). Altre varie omissioni riguardano invece
singoli octosyllabes, talvolta sostituiti dal copista con un’innovazione.
3) ms. C (4320 vv.): BnF fr. 24313, cc. 1ra-26vb; sec. XIV.
Il testimone più antico restituisce purtroppo solo una parte della Voie. Oltre a quattro versi
lasciati in bianco (cfr. cc. 8ra-va-vb; 20rb) – tracce perspicue di evidenti difficoltà nella lettura
dell’antigrafo – il ms. C è esente dalle sviste più palesi di A e B e mostra, inoltre, poche
omissioni: 2 couplets alla c. 6ra (cfr. A, c. 105rb-va; B, cc. 7vb-8ra; S, c. 180ra); 2 couplets
alla c. 10ra (cfr. A, c. 110rb; B, c. 13va; lacuna in S); 4 vv. alla c. 16vb (cfr. A, c. 117ra; B, c.
23ra; S, c. 190va). In altri luoghi, C riporta alcuni couplets che mancano negli altri tre
testimoni (difficile a dirsi se introdotti dal copista dello stesso manoscritto – o nel suo
antigrafo – ovvero se già presenti nel supposto archetipo): alla c. 8ra (cfr. A, c. c. 107vb; B,
c. 10vb; S, c. 182ra) e alla c. 13vb (cfr. A, c. 113va; B, c. 18vb; S, c. 187vb).
4) ms. S (6237 vv.): St.-Omer, BM 752, cc. 175ra-217rb; sec. XVI.
Anche il copista del ms. S risulta molto più solerte rispetto agli estensori di A e di B.
Nel testimone sono rilevabili quattro cospicue lacune che, a giudicare dalla loro entità e
posizione (sempre tra il verso di una carta e il recto della successiva), possono imputarsi
alla perdita di almeno sette carte del codice, certamente agevolata da un’avvenuta
rifascicolazione dello stesso, com’è evidente dalla rifilatura del taglio: perdita di una
carta tra le cc. 179v e 180r (cfr. A, cc. 104va-105va = 141 vv.; B, cc. 6vb-8ra = 141 vv.;
C, cc. 5rb-6va = 140 vv.); perdita di una carta tra le cc. 183v e 184r (cfr. A, cc. 109va110vb = 145 vv.; B, cc. 12va-13vb = 145 vv.; C, cc. 9va-10rb = 143 vv); perdita di una
carta tra le cc. 188v e 189r (cfr. A, cc. 114va-115va = 145 vv.; B, cc. 20ra-21ra = 123 vv.;
C, cc. 14va-15va = 145 vv.); perdita di quattro carte tra le cc. 206v e 207r (cfr. A, cc.
133vb-137vb = 580 vv.; B, cc. 44va-48va = 567 vv.; lacuna in C).
Il formato in folio del codice e il fatto che lo stesso risulti mutilo delle prime quindici
carte possono spiegare infine la perdita degli ultimi due o tre fogli che avrebbero
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restituito una sezione finale del componimento compresa in una misura di 343 vv. nel
ms. A e di 344 vv. nel ms. B.
Grazie al confronto tra le lacune riscontrate nei quattro testimoni della Voie e sopra
menzionate e data la cronologia dei manoscritti, si può escludere preliminarmente la
presenza di codices descripti nella tradizione del testo, ovvero un’eventuale derivazione
di B da A o di S da C.
3. Una tradizione bipartita
Assai utile si rivela, inoltre, l’esame di alcune significative varianti che permettono
di ricostruire la tipologia stemmatica della tradizione della Voie d’Enfer et de Paradis,
già ricondotta a una struttura bifida, come si è detto poc’anzi, da Michel Dubois. Le
sezioni testuali di seguito poste a confronto attraverso la lettura diretta dei manoscritti
costituiscono, peraltro, soltanto alcuni dei numerosissimi loci della tradizione della Voie
che ne dimostrano la netta bipartizione18:
1)
Nella sezione iniziale del testo, in cui Desesperance ragguaglia il chierico circa
la prima tappa del suo pellegrinaggio verso l’inferno, si riscontrano per esempio
significative variazioni concernenti la morfologia verbale che oppongono il ramo A-B
all’altro C-S:
«En bon hostel geirais ennuit:
«A Mont Orgueil le castel noble,
«N’a tel dusqu’en Constantinoble;
«Chemin aras moult deduisant,
«Large, souef, moult deduisant.
«Ennuit verrons Orgueil me mere
«Qui n’est mie aigre ne amere,
«Ains est noble, de grant afaire,
«Moult grant feste nous venra faire.
Ms. A, c. 100ra.
«En bon hostel gerrons anuit:
«A Mont Orghoel le chastel noble,
«N’a tel jusqu’a Constantinoble;
«Chemin arons moult deduisant,
«Large, souef, non pas nuisant.
«Anuit verrons Orghoel ma mere
«Qui n’est ny aigre ni amere,
«Ains est noble, de hault affaire
«Moult grand feste nous vaulra faire.
Ms. C, c. 1rb-va.
«En bon hostel giras anuit:
«A Mont Orguel le castiel noble,
«N’a tel jusquez a Constantinoble;
«Chemin aras moult deduisant,
«Large, souef, non pas nuisant.
«Anuit verrons Orguel ma mere
«Qui n’est ne magre ne amere,
«Ains est noble, de grand affaire,
«En bon hostel gerrons anuit:
«A Mont Orgeul le chastel noble,
«N’a tel jusqu’en Constantinoble;
«Chemin arons moult deduisant,
«Large, souef, non pas nuisant.
«Anuit verrons Orgeul ma mere
«Qui n’est ne aigre ne amere,
«Ains est noble et de grant affaire,
18
La piena e inequivocabile conferma dell’ipotesi stemmatica, va detto, potrà darsi dalla prova necessaria
di un archetipo comune ai testimoni, che per ora è soltanto presunto: sarà necessario dunque raccogliere
maggiori indizi (particolari oscurità o occorrenze di varianti adiafore in diffrazione) che siano tali da
escludere definitivamente lo spettro di eventuali redazioni parallele.
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«Moult grand feste nous vorra faire.
Ms. B, c. 1 va-vb.
«Moult grant feste nous vaurra faire.
Ms. S, c. 175va.
La seconda persona singolare di gesir e avoir, così com’è restituita da A e da B (laddove
C e S riportano il plurale), contrasta evidentemente con la voce verrons e col seguente
pronome di prima persona plurale su cui tutti i testimoni convergono. Allo stesso modo
e in un contesto sostanzialmente identico, simile opposizione si ripete laddove
Desesperance annuncia al chierico il prossimo soggiorno al maniero di Glouternie:
Dit Desesperance le sage:
Ja tost venras a son mainnage.
Ms. A, c. 112vb.
Dist Desesperance le sage:
Ja tost venrons a son manage.
Ms.C, c. 13ra-rb.
Dist Desesperance ma dame:
Ja tos venras a son manage.
Ms. B, c. 18ra.
Dist Desesperance le sage:
Ja tost venrons en son manage.
Ms. S, c. 187rb.
Ancora, una concordanza a senso (emendata da A-B o determinata da C-S) ha potuto
provocare un’opposizione simile alle precedenti, laddove l’allegoria di Fraude avverte
dama Avarisse dell’arrivo di Desesperance e del chierico presso la sua dimora:
Tost se’n couru Fraude le sage,
Avarice avec sen lignage
Trouva, qui monnoye comptoit
Et en gran sacques le mettoit.
Ms. A, c. 105vb.
Tost se’n corut Fraude le sage,
Avarisse aveucq son lignage
Trouva, qui monnoye contoient
Et en grans escrins les mettoient.
Ms.C, c. 6rb.
Tost se’n couru Fraude le sage,
Avarisse avoec son lignage
Trouva, qui monnoie contoit
Et en grant sacquiaus les mettoit.
Ms. B, c. 8va.
Tost se’n courut Fraude la sage,
Avarisce avec son lingnage
Trouva, qui monnoie comptoient
Et en grans escrins le mettoient.
Ms. S, c. 180rb.
2)
Nella pericope in cui Desesperance e il chierico si accingono a salire verso il
castello d’Orgueil detto Montventeus – dacché «En tout l’an n’a nulle saizon / Que là
dessus grans vens ne vente» (ms. C, c. 1vb) – viene descritta la fitta vegetazione che
circonda il castello:
.I. castel vi sus une roche,
Ains homs ne vit si belle boche,
De hauls sapins estoit vestue,
De loriers et d’erbe menue.
Ms. A, c. 100rb.
Un castel vi sur une roce,
N’ainc homs ne vit si bele boche,
De haus sapins estoit vestue,
D’oliviers et d’erbe menue.
Ms.C, c. 1va.
.I. castel vich sur une roche,
Oncquez ne vit hons plus belle boche,
Ung chastel vy sus une roche,
Ains hons ne vit sy belle boche,
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De haulz sapins estoit vestue,
De loriies et de herbe menue
Ms. B, c. 1vb.
De haulz sapins estoit vestue,
D’oliviers et d’erbe menue.
Ms. S, c. 175vb.
Com’è evidente, la lezione di A-B, in cui agli “ulivi” si sostituiscono gli “allori”,
conduce all’ipermetria del verso e implica, nell’edizione, la necessaria scelta della
variante attestata da C-S.
Si rivelano ben più numerose, comunque, le opposizioni dei due rami per ipometria
in A-B, come nel caso di un verso inserito all’interno di un monologo di Envie19, che
presenta tuttavia una divergenza tra le varianti della stessa famiglia:
«Quant avec les gros seras,
«D’iaux flater toudis penseras.
Ms. A, c. 104ra-rb.
«Quand aveucq les grans gens seras,
«De yaulz flater toudis penseras.
Ms.C, c. 4vb.
«Quant avoec les gens seras,
«D’yaus toudis flater penseras.
Ms. B, c. 6va.
«Quant avec les grans gens seras,
«D’aux flater toutdis penseras.
Ms. S, c. 179va.
3)
Tra le variazioni maggiormente riscontrabili, vi sono poi le frequenti anastrofi
che permutano l’ordine sintattico nell’unità metrica dell’octosyllabe:
Ainsi tout en parlant montasmes
Tant qu’el castel andoy entrames.
Ms. A, c. 100vb.
Ainsi tout en montant parliesmes
Tant qu’ou castel andoi entresmes.
Ms.C, c. 2ra.
Ensi tout en parlant montamez
Tant qu’el castiel nous .ij. entramez.
Ms. B, c. 2 rb.
Ainsy tout en montant parlasmes
Tant c’au chastel andoy entrames.
Ms. S, c. 176ra.
Simili opposizioni, per le quali risulta tendenzialmente assai difficile pronunciarsi,
occorrono pressoché costantemente in fase di collazione20.
19
Ma si osservino ancora gli esempi seguenti (ometto le varianti minime): 1. Dal banchetto di Orgueil:
«A court de roy, n’a court de conte, / De viandes plu delicieuses / N’eut onquez, ne plus precieuses» (ms.
A, c. 102ra; cfr. ms. B, c. 4ra) ~ «A court de roi, n’a court de conte, / Viandes plus deliscieuzes / N’eut
onques, ne plus precieuzes» (ms. C, c. 3ra; cfr. ms. S, c. 177va). 2. Dal monologo di Peresche: «Garde que
trop ne traveillez» (mss. A, c. 111vb; B, c. 16vb) ~ «Garde que trop ne te traveilles» (ms. C, c. 12rb; cfr.
ms. S, c. 186rb); 3. Dal monologo di Glouternie, in cui è evidente l’errore di omissione da parte di A-B:
«Et quant menue gent plus boivent / Et menguent que il ne doivent, / Il cuident valoir plus que conte»
(ms. A, c. 114va; cfr. ms. B, c. 20ra) ~ «Et quand menues gens plus boivent / Et menguent plus qu’el ne
doibuent, / Il cuident valoir plus que compte» (ms. C, 14 va; cfr. ms. S, c. 188vb).
20
Nel caso sopra riportato, parrebbe forse preferibile la lezione di A-B, mentre C-S può aver commesso
un errore di anticipazione: il costrutto sintattico [avverbio tout + gerundio di parler + verbo di moto al
perfetto] sembra infatti formulare nel testo. Cfr., per esempio, più oltre: «Tout ainsi parlant ens
entrasmes» (ms. C, c. 6rb, lezione su cui peraltro tutti gli altri testimoni convergono: cfr. A, c. 105vb; B, c.
8rb; S, c. 180ra).
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123
Si consideri, ad esempio, parte della sezione del testo relativa alla descriptio
personae di Envie, in cui l’anastrofe interna al verso determina l’opposizione, nei due
rami, dei sintagmi le blanc des yex [var. yeus] (mss. A e B) e li [var. ly] gannes des yeulz
[var. yeux] (mss. C e S):
Mais onques coulour ne mua
Envie, qui n’est pas vermeille,
Ains estoit pale a grant merveille,
Ganne, et s’ot la veue basse,
Li gannes le blanc des yex passe;
Moult sanloit tristre et reboulee,
Pensieve ou de mal encombree.
Ms. A, c. 103va.
Mais unques coulour ne’n mua
Envie, qui n’est pas vermeille,
Ains estoit pale a grand merveille,
Ganne, s’avoit le vue basse,
Li gannes des yeulz le blanc passe;
Moult sambloit tristre et destourbee,
Pensieve ou de mal encombree.
Ms.C, c. 4va.
Mais oncquez couleur ne mua
Envie, qui n’est pas vermeille,
Ains estoit pale a grant merveille,
Janne, et s’ot la veue basse,
Li janne le blanc des yeus passe;
Moult sanbloit triste et reboullee,
Pensieus ou de mal enconbree.
Ms. B, c. 5vb.
Mais onques coulour ne’n mua
Envie, qui n’est pas vremelle,
Ains estoit pale a grant mervelle,
Janne, la veue basse,
Ly gannes des yeux le blanc passe;
Moult sembloit triste ou destourbee,
Pesme ou de mal encombree.
Ms. S, c. 179ra.
La tradizione risulta incerta anche nel verso precedente: C infatti diverge, per la
flessione del verbo (avoit), dalla lezione di A-B (ot), mentre S omette la stessa voce
verbale rendendo il verso ipometro. Nello stesso octosyllabe, tra l’altro, già compare la
forma ganne o janne che verrà ripresa, sempre in incipit, nel verso successivo:
l’iterazione anaforica è volta evidentemente a specificare e a sottolineare l’esangue
colorito da cui la personificazione di Envie, pale a grant merveille, risulta
contraddistinta. Ancora, nell’ultimo couplet riportato, l’occorrenza di due diversi
participi passati riferiti a Envie, reboulee (“beffata”, in A-B) e destourbee (“infastidita”,
in C-S), conferma il sistematico disporsi delle varianti nei due rami.
4)
Alcune altre pericopi di particolare rilievo meritano di essere poste a confronto.
Nell’esempio seguente, relativo al commiato tra il chierico e Orgueil, risulta evidente la
costante opposizione tra le varianti che occorrono nei due rami della tradizione:
Orgueil trouvay enmy la sale
Qui n’estoit ne tainte ne pale,
Ains estoit blanche et coulouree
Et si tres noblement paree,
Onquez si bien ne fu royne.
Ysnelment vers li m’encline,
Si di: «Dame je vous merchy
«Car vous m’avez, par vo merchi,
«Fait plus d’onneur que ne puis dire
Orghoel trouvai enmi la sale
Qui n’estoit ne tainte ne pale,
Ains estoit blance et coulouree
Et si tres noblement paree
Qu’onques plus bien ne fu roine.
Isnelement vers li m’encline,
Si li dis: «Dame vous merci
«Quar vous m’aves, par vo merci,
«Fait plus d’onneur que ne puis dire
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«Et plus de biens. Dieux le vous mire».
Orgueil respont bassettement:
«Amis, retenes seulement
«Mes ensengnemens: s’en serez
«Partout prisies et honneres.
«Salues moy ma fille Envie,
«Plus sage n’est de li en vie;
«Ennuit jerres en sa maison,
«Cres le, si feres raison».
Ms. A, c. 102va.
«Et plus de bien. Dieus le vous mire».
Orghoeulz respondi bassement:
«Amis retenes, seulement
«Mes enseignemens: sens feres
«Et partout prisies en seres.
«Salues moy ma fille Envie,
«Plus sage de lui n’est en vie;
«Anuit gerres en sa maizon,
«Crees le, si feres raison».
Ms. C, c. 3va.
Orguel trouvai en mi la salle
Qui n’estoit ne niche ne pale,
Ains estoit blancque et coulouree
Et si tres noblement paree,
Oncquez si bien ne fu royne.
Isniellement viers luy m’encline,
Si dis: «Dame je vous merchy
«Car vous m’avez, par vo merchy,
«Fait plus d’honneur que ne puis dire
«Et plus de bien. Dieus le vous mire».
Orguel respont bassetement:
«Amis, retenes seulement
«Mes enseignemens: si seres
«Partout prisiez et honneres.
«Salue moy ma fille Envie,
«Plus sage n’est de li en vie;
«Anuit girez en sa maison,
«Crees le, si ferez raison».
Ms. B, c. 4va.
Orgeul trouvay en my la salle
Qui n’estoit ne tainte ne palle,
Ains estoit blanche et colouree
Et sy tres noblement paree
C’onques plus belle ne fu roine.
Isnelement vers ly m’encline,
Sy ly dy: «Dame vous merchy
«Car vous m’aves, par vo merchy,
«Fait plus d’onneur que ne puis dire
«Et plus de biens. Dieux le vous mire».
Orgeul respondy bassement:
«Amis, retenes seulement
«Mes ensegnemens: sens feres
«Et partout prisies en seres.
«Salues moy ma fille Envie,
«Plus sage de ly n’est en vie;
«Anuit gerres en se maison,
«Creez le, sy ares raison».
Ms. S, cc. 177vb–178ra.
Nel primo caso, la lezione Qu’onques/C’onques del ramo C-S risulta certamente più
congrua rispetto a Onquez di A-B, in quanto introduce, mediante la congiunzione
consecutiva incipitaria assente in A-B, la subordinata che esprime la diretta conseguenza
di quanto enunciato nelle principali, anticipata peraltro dagli avverbi ains e si restituiti da
tutti i testimoni (ms. C: «Ains estoit blance et coulouree, / Et si tres noblement paree /
Qu’onques plus bien ne fu roine»). Nel secondo riscontro, al settimo verso della citazione,
la perdita del monosillabico li da parte di A-B avrà potuto cagionare, già in fase di
compilazione, l’aggiunta del pronome di prima persona assente in C-S affinché la misura
del verso fosse ripristinata: per lo stesso motivo, la diversa coniugazione del verbo
respondre (presente in A-B e perfetto in C-S) avrà comportato la conseguente modifica,
nell’un caso o nell’altro, dell’avverbio successivo. Da ultimo, la variante si seres /
Partout… restituita da B – laddove A legge s(i) en seres / Partout… – potrebbe costituire
una possibile banalizzazione della lezione di C e di S, d’altronde ricorrente anche altrove
nel testo, per esempio nelle prime parole rivolte al chierico da Peresche: «Amis, des gros
et des menus / Sui je – dist elle – moult amee, / chiere tenue et honneree; / Se tu me crois
grand sens feras» (ms. C, c. 12rb: cfr. A, c. 111vb; B, c. 16va; S, c. 184rb).
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Nella sezione del testo in cui Porte-Nouvelle avvisa dama Envie dell’arrivo dei due
ospiti, si riscontra tuttavia una distribuzione meno omogenea delle varianti sui due rami:
«Ne soiez prescheuse ne vaine,
«Pour yaus veoir vous atournes
«Ou de ci pour yaus vous tournes:
«Entres en chambre ou en tour,
«Ou vous savez bien vo contour,
«Es quellez destourner vous savez
«Quant volente vous en avez.
«En Mal Regart, vostre tourelle,
«Entres si vous plaist, demoiselle;
«Jamais là ne vous trouveront,
«Tant bien querre ne vous saront.
«Si verrez vous quanqu’il feront
«Et orrez quanquez il diront».
Quant Porte Nouvelle ot tout dit,
Envie un peu attendi.
Ms. A, c. 102vb-103ra.
«Ne soies precheuse ne vaine,
«Pour yaulz veoir vous atournes
«Ou de chi pour yaulz vous tournes:
«Entres ou en cambre ou en tour,
«Encore a .C. huis ci entour
«Es quels destourner vous scaves
«Quand volente vous en aves.
«En Mal Regard, vostre tornelle,
«Entres s’il vous plaist, dame belle;
«Jamais là ne vous trouveront
«Ne jamais aler n’i saront.
«Se verres vous quanqu’il feront
«Et orres quanques il diront».
Quand Portenouvelle entendi,
Envie .j. petit attendi.
Ms. C, c. 3vb-4ra.
«Ne soiies precheuse ne vaine,
«Pour yaulz veoir vous atournez
«Ou de chy pour yaulz vous tournes:
«Entres en cambre ou en tour,
«Dont il a tant ychy entour,
«Es quelz destourner vous scavez
«Quand volentet vous en avez.
«En Mal Regard, vostre tournielle
«Entres s’il vous plaist, dame bielle;
«Jamais là ne vous trouveront,
«Tant bien querre ne vous scaront.
«Si veiries quancquez qu’il feroient
«Et orries quancquez qu’il diroient».
Quand Porte Nouvielle entendi,
Envie .j. pau attendi.
Ms. B, c. 5ra.
«Ne soies precheuse ne vaine,
«Pour aux veoir vous atournes
«Ou de chy pour aux vous tournes:
«Entres en chambrette ou en tour,
«Encoire a .C. huis cy en tour
«Es quelz destourner vous saves
«Quant volente vous en aves.
«En Mal Regart, vostre tourelle,
«Entres s’il vous plaist, dame belle;
«Jamais là ne vous trouveront
«Ne jamais aler n’y saront.
«Si verres vous quanque il feront
«Et orres canque il parleront».
Quant Porte Nouvelle entendy,
Envie ung petit attendy.
Ms. S, c. 178rb-178va.
Nel primo caso, risulta certo da preferirsi la più congrua lectio difficilior tràdita da C-S
rispetto alle concorrenti di A e di B. Ciò è d’altronde suggerito, già a una prima lettura,
dalla coincidenza in clausula della variante di B, ychy entour, con la lezione restituita
dall’altro ramo, che tramanda analogamente ci entour (ms. C) / cy en tour (ms. S); la
lectio isolata del ms. A, Ou vous savez bien vo contour, invece, risulta banale e
compromette evidentemente la rima equivoca col primo octosyllabe del couplet
(procedimento retorico assai ricorrente nel componimento). Inoltre, la variante di C-S,
certo più adeguata al contesto del labirinto in cui si snoda lo spazio del castello, è
ulteriormente confermata dalla coerente sintassi del periodo, dacché il sintagma
pronominale e[n le]s quelz (che segue) certamente presuppone il maschile plurale dei
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cento huis attraverso i quali Envie è solita sfuggire a chi la cerca21. Lo stesso sintagma
ricorre anche in B (pur in assenza di un antecedente al maschile plurale), mentre A, dal
canto suo, aggiusta volgendo lo stesso pronome al femminile (quellez) per riferirsi
anaforicamente a chambre e tour di due versi prima: se lo stratagemma riesce a
compensare in parte l’inadeguatezza semantica del couplet, esso provoca tuttavia
l’ipermetria dell’octosyllabe tradendo gli interventi sul testo di A-B.
Nell’esempio che segue, in cui Envie si vanta di aver provocato la cacciata di Adamo
ed Eva dal’Eden e la crocifissione di Cristo, l’aggiunta in incipit e per esigenze metriche
di una congiunzione di troppo in C-S offusca il significato dell’intera pericope:
«Evain seuch si bien enlachier
«Que mengier je le fis la ponme
«Dont dampne furent fenme et honme.
«·L ij C· ans sans faille
«Apres, mis je telle bataille
«Entre juys, par enresdie,
«Que Jhesucris, le fil Marie,
«Firent a tort morir en crois.
Ms. A, c. 104rb.
«Eve sceus si bien enlachier
«Que mengier je li fis le pomme
«Dont dampne furent femme et homme.
«Chinquante ·ij C· ans sans faille
«Et apres mis je tel bataille
«Entre juis, par lor envie,
«Que Jhesucrist, le fil Marie,
«Firent a tort morir en crois.
Ms.C, c. 5ra.
«Eva seuch si bien enlachier
«Que mengier li fis la ponme
«Dont danpnez furent fenme et honme.
«Chincquante ·ii C· ans sans faille
«Apries, je esmeuch tel bataille
«Entre juis, de heresie,
«Que Jhesucris, le fil Marie,
«Firent a tort morir en croix.
Ms. B, c. 6vb.
«Evain seuch sy bien enlachier
«Que mengier je ly fis la pomme
«Dont dampne furent femme et homme.
«·Lii·Cens· ans sans faille
«Et apres mu ge tel bataille
«Entre juis, par erredie,
«Que Jhesucris, le fil Marie,
«Firent a tort mourir en crois.
Ms. S, c. 179vb.
Come anticipato, la variante et apres restituita da C-S rende di fatto illogico il verso che
precede, in cui la scansione temporale di 5200 anni [(50 + 2) * 100] sta certo a
significare il periodo intercorso tra la cacciata dell’umanità dall’Eden e la morte di
Cristo, secondo la cronologia risalente al Chronicon di Eusebio di Cesarea22. Inoltre, la
21
A ben vedere, lo stesso concetto veniva anticipato poco prima nel testo: «Quand trouver le quideon el porce /
Devant, elle est hors par derriere, / Et se’n va bien par tel maniere / Qu’il n’est nulz qui sievir le sace» (ms. C,
c. 3vb; ma cfr., allo stesso modo, i mss. A, c. 102vb; B, c. 4vb; S, c. 178rb): il porce di cui si fa parola in tal caso
ha esattamente la stessa funzione dei cento huis restituiti dalla lezione di C-S sopra riportata.
22
A onor del vero, il calcolo di Eusebio (ripreso altresì in Dante, Parad. XXVI, 118-123) perviene alla
cifra di 5199 anni: «Remarquons tout d’abord que 5200 est un multiple de 8, et le premier en nombre
centenaire qui se présente dans le sixième millénaire. Nous supposons alors qu’il existait avant Eusèbe
une ère de 5200 fondée sur le cycle lunaire de 8 ans et assortie à la chronologie courte de la vie du Christ.
Dans cette ère, l’année 5201, celle de la naissance du Christ, est à la fois début de siècle et début de cucle.
La chronologie courte devait porter la Passion du Christ à l’an 5231. C’est précisément celle qu’Eusèbe
présente équivalemment dans sa chronique. Mais, comme Eusèbe inaugure la chronologie longue et
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congiunzione iniziale et costituisce un evidente tentativo di ripristinare la misura del
verso compromessa dalla caduta di una sillaba in antigrafo (telle/tel). La lezione di C-S
si configura dunque come errore congiuntivo dei due testimoni.
Nella sezione del testo in cui Avarisse consiglia al chierico di dedicarsi all’usura, i
mss. C e S non soltanto presentano varianti divergenti rispetto alla lezione semures
restituita da A-B, ma tali varianti risultano fra loro discordanti. La ricostruzione della
pericope è poi ulteriormente complicata dall’inversione dei due versi del successivo
couplet in uno dei due rami e dall’inusuale accordo di A con S e di B con C nella
porzione testuale in cui Avarisse, negli ultimi versi di seguito riportati, assicura al
chierico che egli potrà incrementare di un terzo (A-S) o addirittura triplicare (B-C) il
valore del proprio investimento:
Et se tu prestes as usures
Sus bons gages ou sus semures,
Avec les usures, les montes
Je te lo bien que toudis montes,
Et ainsi de ·xx· libres trente
Feras en brief tamps a mente.
Ms. A, c. 106vb.
Et se tu prestes as uzures
Sur boins wages ou sur chaintures,
Je te lo bien que toudis montes
Aveucq les uzures les montes,
Et ainsi de ·x· libres ·xxx·
Feras en brief tamps, c’est m’entente.
Ms. C, c. 7ra.
Et se tu prestez as usurez
Sur bon gaghe ou sur semurez
Et ossi en faisant tes conptez
Je loch bien que toudis montes,
Et ensi de ·x· livrez ·xxx·
Feras en brief tanps, a m’entente.
Ms. B, c. 9va.
Et se tu prestes a usures
Sur bons wages ou sur mesure
Je te lo bien que toutdis montes
Avec les usures les montes,
Et ainsy de ·xx· livres ·xxx·
Feras en brief tamps, c’est m’entente.
Ms. S, c. 181ra.
A una prima lettura, parrebbe che siano stati i mss. C e S ad aver banalizzato,
indipendentemente l’uno dall’altro, la lezione concorrente sem(e)ures, qui da intendersi
probabilmente nel suo significato secondario di «Ornement fait de perles semées sur une
étoffe»23. Si tratterebbe, pertanto, di un accessorio di particolare pregio tra i capi di vestiario
– almeno quanto lo sarebbero le chaintures menzionate da C – tale da poter di fatto
costituire, all’occorrenza, il pegno perfetto per un prestito a interesse. La variante di S
mesure, d’altro canto, potrebbe facilmente spiegarsi attraverso una comunissima metatesi
(intenzionale o meno) incorsa nella compilazione. Tuttavia, non è nemmeno da escludersi la
possibilità che l’innovazione si sia prodotta invece all’interno del ramo A-B e che la
donne un peu plus de trois ans et demì à la vie publique, il aura été dans la nécessité de reculer la date de
sa naissance. Il l’aura fait en s’éloignant le moins possible du nombre centenaire. On voit, en effet, qu’il
ne recule que de deux ans la date de la naissance du Christ et qu’il compense le reste en diminuant la vie
cachée du Christ qu’il fait achever dans sa 30 e année. Ainsi peut s’expliquer que l’ère chrétienne
d’Eusèbe est 5199 au lieu de 5201» (Venance GRUMEL, La chronologie, Paris, Presses Universitaires de
France, 1958 [«Bibliothèque Byzantine. Traité D’Études Byzantines. Vol. I»], pp. 24-25).
23
Gdf 7, 371c; DMF semure B; FEW XI, 436b.
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variante mesure, restituita dal ms. S, possa considerarsi archetipica: se così fosse, la metatesi
consonantica mesure > semures potrebbe essere stata dettata o da mero automatismo
(indotto forse anche dalla precedente voce in rima usures, al plurale) o dal semplice
desiderio di impreziosire il couplet. La variante del ms. C si dimostrerebbe, in ogni caso,
un’evidente banalizzazione.
Infine, se si suppone che l’inversione del couplet successivo fosse già presente nel
subarchetipo di A-B, si potrebbe più facilmente spiegare anche l’ulteriore, eventuale
innovazione del ms. B, in cui il primo verso del couplet si discosta completamente dalla
lezione tràdita dagli altri manoscritti: l’anticipazione di un octosyllabe, presumibilmente
indotta in fase di trascrizione dal piège à copiste della rima equivoca montes : (les)
montes (lapsus, d’altronde, non sporadico in A-B), avrebbe infatti notevolmente
complicato la sintassi del testo mediante l’anticipazione dell’oggetto (da un ordine SVO
nei mss. C e S a un ordine OSV in A), inducendo così il compilatore di B a semplificare,
sostituendo la prolessi originaria con una subordinata eccedente e impiegando
intransitivamente lo stesso verbo monter.
L’ipotesi di una tradizione bipartita è ulteriormente avvalorata dall’occorrenza di un
couplet tràdito da A-B e mancante in C-S, cui fanno seguito altre divergenze nei
successivi octosyllabes che non convergono in rima; l’esempio proposto è relativo alla
porzione del testo in cui Luxure elargisce al proprio ospite alcuni consigli su come
appropriarsi del corpo e quindi delle ricchezze e degli averi delle donne:
Gard toy de fenmes diffamer;
Saches bien, se tu lez diffames,
Que tu seras hays des femnes;
Et se pour leur amour avoir
T’estuet despendre grant avoir,
Ja ne te’n caut ne le plain mie,
Tant que cascune soit t’amie:
Puis que lez corps avoir poras,
Sires de leur avoir seras.
Ms. A, c. 116va-vb.
Gard toy de femes diffamer;
***
***
Et se pour leur amour acquerre
T’esteut despendre avoir ou terre,
Ja ne te’n cault ne le plain mie,
Mais que cascune soit [t’]amie:
Puis que le corps poras avoir,
Sires seras de leur avoir.
Ms.C, c. 16rb-va.
Gart toy de fenme diffamier;
Sachez bien, se tu les diffamez,
Que tu seras hays des fenmez;
Et se pour leur amour avoir
Te couvient despendre grand avoir,
Ja ne te’n cault ne le plain mie,
Tant que cascunne soit t’amie:
Puis que leurs corpz avoir poras,
Sirez de leur avoir seras.
Ms. B, c. 22va.
Gart toy de femnes diffamer;
***
***
Et se pour leur amour aquerre
T’esteut despendre avoir ou terre,
Ja ne te’n cault ne le plain mie,
Mais que chascune soit t’amie:
Puis que le corps porras avoir,
Sires seras de leur avoir.
Ms. S, c. 190ra.
Al di là del couplet mancante in C-S – il cui tono sentenzioso non fa certamente
escludere l’interpolazione in A-B – si potrebbe ipotizzare che la rima equivoca avoir:
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avoir, subito dopo restituita da A e da B – laddove C-S presenta la difficilior aquerre :
terre – sia stata erroneamente anticipata in A-B e ciò possa aver indotto lo stesso copista
allo stratagemma delle anastrofi che evitassero, negli ultimi due octosyllabes citati, il
ripetersi della medesima rima.
Si consideri, per concludere, la prima parte del dialogo intercorso tra Desesperance e
la sentinella Gastebien alla porta del maniero di Glouternie, in cui è nuovamente
riscontrabile l’assenza di un couplet in uno dei due rami (A-B, nello specifico):
«Desesperance bien viengniez»
– Dist Gastebiens – «Or m’ensengniez
«Ou vous alez et dont venes;
«Qui est cilz clers que vous menes?»
***
***
«Sachiez, de son pays le’n amainne:
«D’infer veoir se met en painne.
Ms. A, c. 113ra.
«Desesperanche bien veignies»
– Dist Gastebiens – «Or m’ensegnies
«Ou vous ales et dont venes;
«Qui est chils clers que vous menes?»
«Amis – respond Desesperance –
«Li clers en moy a grand fiance,
«Sachies, de son paiis l’amaine:
«D’infer veoir se met en paine.
Ms.C, c. 13rb.
«Desesperanche bien vignies»
– Dist Gastebien – «Or m’ensigniez
«Ou vous ales et dont venes;
«Qui est cilz clercs que vous menez?»
***
***
«Sachiez que de son pais l’amaine:
«D’infier veoir se met en paine.
Ms. B, c. 18ra.
«Desesperanche bien vegnies»
– Dist Gaste-bien – «Or m’enseingnies
«Ou vous ales et dont venes;
«Qui est chu clers que vous menes?»
«Amis – respont Desesperanche –
«Le clers en moy a grant fianche,
«Sachies, de son pais l’amaine:
«D’infer veoir se met en paine.
Ms. S, c. 187rb-va.
Sebbene appaia prematuro, come nei casi che precedono, pronunciarsi sulla scelta fra le
varianti riportate nelle due famiglie in cui sembra dividersi la tradizione, si noterà certo
come il couplet tramandato da C-S, e presumibilmente omesso in A-B, renda certamente
più perspicuo, grazie all’esplicitazione del nome del secondo interlocutore, lo scambio
di battute occorso tra i due personaggi.
Pertanto, benché certo assai facilmente implementabili con ulteriori loci24, le sezioni
testuali restituite dalla tradizione manoscritta della Voie d’Enfer et de Paradis di Pierre
de l’Hôpital qui poste a confronto si rivelano assai significative per supportare l’ipotesi
di una bipartizione stemmatica nei due rami A-B e C-S.
24
Menziono appena un’altra divergenza assai ricorrente nella tradizione: laddove in C-S, al termine dei
tanti discorsi diretti del testo, il narratore vi si riferisce anaforicamente col sintagma c(h)es mo(t)s, in A-B
la stessa espressione ricorre quasi sempre al singolare: cfr. A, c. 101ra - B, c. 2vb - C, c. 2rb - S, c. 176va;
A, c. 101ra - B, c. 3ra - C, c. 2rb - S, c. 176va; A, c. 111va - B, c. 15rb - C, c. 11rb - S, c. 185 ra; A, c. 118va B, c. 24rb - C, c. 18ra - S, c. 191vb; ecc. Ma la discordanza cagionata dall’occorrenza contestuale di forme
plurali in C-S e singolari in A-B ricorre spesso anche in altri casi.
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In conclusione, merita di essere menzionata un’ulteriore considerazione di Michel
Dubois che sembra trovare nuova conferma nell’analisi della tradizione: «Ce ms. [S =
St.-Omer, BM 752], qui est, d’après le catalogue, du XVIe s., […] offre une copie dans
l’ensemble correcte et, semble-t-il, fidèle de ce qu’a dû être l’original de la famille à
laquelle se rattachent, outre C, une rédactïon remaniée contenue dans le mss D (BN. ffr.
1051) et E (Gand 352) et une adaptation dramatique contenue dans le ms. F (BN. ffr.
1534)»25. La valutazione di Dubois, a ben vedere, è ulteriormente rafforzata dal fatto
che già nel 1952 Thérèse Piezzoli, come sopra riportato, sceglieva il ms. C quale
testimone di base per un’edizione parziale del componimento (C tramanda infatti
appena poco più della metà del testo). La studiosa, inoltre, segnalava come i mss. D e E,
oltre a non derivare l’uno dall’altro, avessero restituito un primo rimaneggiamento della
Voie il cui testo «semble s’inspirer d’un manuscrit de la rédaction originale qui ne nous
serait pas parvenu»26, escludendo quindi ex silentio l’appartenenza del Songe de la Voie
al ramo della tradizione di C (e quindi di S, benché il testimone audomarois non fosse
ancora conosciuto): l’appunto di Piezzoli, a ben vedere, si mostra in evidente disaccordo
con quanto avrebbe poi sostenuto lo stesso Dubois, secondo il quale la tradizione
manoscritta relativa alle due riscritture del testo sarebbe da correlare al ramo C-S dello
stemma relativo alla Voie d’Enfer et de Paradis.
Dunque, il puntuale confronto con le redazioni tràdite dai testimoni dei
rimaneggiamenti, quale indispensabile apporto costituito dalla tradizione indiretta del
testo, consentirà di risolvere la questione della corretta collocazione dei mss. D, E e F
nella genealogia della Voie d’Enfer et de Paradis e, conseguentemente, di implementare
la configurazione dello stemma codicum della stessa, a maggior vantaggio di una
restituzione filologica del componimento.
Riferimenti bibliografici
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siècle), Roma, École française, 1993 («Bibliothèque des Écoles françaises
d’Athènes et de Rome», 279).
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CONTINI, Gianfranco, Breviario di ecdotica, Torino, Einaudi, 1997.
DUBOIS, Michel, “Notules lexicologiques”, «Romania», 78 (1957), pp. 390-392.
DUPIRE, Noël, Les Faictz et dictz de Jean Molinet, Paris, Société des Anciens Textes
Français, 1936-1939.
25
26
DUBOIS, “Notules lexicologiques”, p. 390.
PIEZZOLI, “La Voie d’Enfer et de Paradis. Poème du XIVe siècle”, p. 88.
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GOSSEN, Charles-Théodore, Petite grammaire de l’ancien picard, Paris, Klincksieck, 1951.
GRUMEL, Venance, La chronologie, Paris, Presses Universitaires de France, 1958
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