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Un “sociolinguista” cinquecentesco: Girolamo Olives e
i suoi Commentaria et Glosa in Cartam de Logu (1567)
Giulia Murgia
(Università di Cagliari)
Abstract
The present paper explores the Commentaria et Glosa in Cartam de Logu (1567), the first juridical
commentary, written in Latin, of the Carta de Logu, a collection of norms published in the 14 th century by
the judge-kings of the Sardinian Giudicato (kingdom) of Arborea. The author of the Commentaria, the
Sardinian jurist Girolamo Olives, from Sassari, was the first Sardinian magistrate to be appointed as fiscal
lawyer in the Council of Aragona in 1554. In his work, Olives gives us important (socio)linguistic data for
a better understanding of the Sardinian linguistic community in the 16th century. It is in this period that,
beside Sardinian, Catalan achieves the highest status in the linguistic repertoire, while Castilian only
slowly starts to expand. Olives takes into account some patterns of Sardinian multilingualism and provides
rhetorical examples of the judge-kings’ complicated strategy of legitimation and power consolidation
through biblical narrative models.
Key words – Girolamo Olives; Commentaria et Glosa in Cartam de Logu; sociolinguistics
Il presente lavoro si propone di analizzare i Commentaria et Glosa in Cartam de Logu (1567), il primo
commento giuridico, scritto in latino, della Carta de Logu, una compilazione di norme promosse dai
giudici del Giudicato Sardo d’Arborea nel XIV secolo. Il suo autore, il sardo Girolamo Olives,
giureconsulto di Sassari entrato nel 1554 nel Consiglio d’Aragona in qualità di avvocato fiscale (primo tra
i magistrati sardi), ci offre importanti informazioni (socio)linguistiche per una migliore comprensione della
comunità linguistica sarda nel XVI secolo, periodo nel quale, accanto al Sardo, si afferma l’egemonia del
catalano con la funzione di polo linguistico alto, mentre il castigliano comincia lentamente a prendere
piede. Olives esamina alcuni schemi del plurilinguismo sardo e fornisce esempi retorici della complessa
strategia di legittimazione e di consolidamento del potere condotta dai giudici attraverso il ricorso a
modelli narrativi desunti dalle Sacre Scritture.
Parole chiave – Girolamo Olives; Commentaria et Glosa in Cartam de Logu; sociolinguistica
1. Introduzione
La tradizione manoscritta della Carta de Logu dell’Arborea, come dimostrato
recentemente da Lupinu (LUPINU 2010), si presenta bifida: i due rami nei quali essa si
articola, che coincidono con il manoscritto (Cagliari, Biblioteca Universitaria, 211,
datato al terzo quarto del XV secolo1) e con l’editio princeps quattrocentesca (Cagliari,
1 Le edizioni del manoscritto sono due: LUPINU (2010) e, prima, BESTA e GUARNERIO (1905). È Besta a curare
l’edizione critica, mentre GUARNERIO (1905) si occupa dell’analisi linguistica.
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Biblioteca Universitaria, Inc. 2302, da cui discende la tradizione a stampa), risultano
infatti dipendere da un archetipo già viziato da errori. L’“albero” della Carta de Logu si
aggiunge insomma, con buona pace di Bédier, alla silva portentosa dei tronchi che si
dividono «en deux branches maîtresses, et en deux seulement» (BÉDIER: 1928). A rigore,
attenendoci alla ricostruzione stemmatica dei rapporti tra i testimoni della Carta de
Logu, i rami più bassi dell’albero – che conservano stampe tutte dipendenti, in diversa
misura, alcune per via diretta altre per via indiretta, dall’incunabolo, e che sono talvolta
foriere di interventi che ne hanno parzialmente modificato l’assetto testuale – non
dovrebbero interessarci. Quando però uno degli editori cinquecenteschi veste anche i
panni del filologo e del linguista, si impone un’eccezione.
Una riflessione a parte merita infatti l’edizione spagnola curata nel 1567 dal
giureconsulto sardo Girolamo Olives3 (nato a Sassari forse nel 1505 e morto a Madrid
nel 15684), che contiene, quasi dopo ogni capitolo della Carta de Logu, densi commenti
giuridici in latino: nei preziosi Commentaria et Glosa in Cartam de Logu (OLIVES 1567),
il magistrato sassarese ha glossato e interpretato res et verba del codice legislativo
arborense, in particolare intervenendo sui luoghi problematici ed emendando il testo
dell’edizione a stampa che ha sotto gli occhi5, quando ritiene che essa tramandi lezioni
corrotte o prive di senso, fornendo così delle interpretazioni che saranno poi riproposte
da alcune stampe successive (Sassari 1617, Cagliari 1708, Cagliari 1725), e che si
rivelano spesso utili anche all’interprete moderno.
In questa sede non ci interesserà tanto l’aspetto dell’Olives filologo, quanto piuttosto
quello dell’Olives (socio)linguista, che dissemina nel suo commento una serie di
informazioni utili a comprendere come si configurava la Carta de Logu e il suo specifico
lessico all’interno del repertorio linguistico sardo, in un Cinquecento dominato dal catalano6,
e con il castigliano che stenterà, anche nei secoli successivi, a penetrare nell’Isola7.
2 L’incunabolo, sprovvisto di colophon e di frontespizio, non gode a tutt’oggi di un’edizione critica, ma esistono delle
edizioni anastatiche: SCANU (1991) e CASULA (2011). Dell’incunabolo si conserva un altro esemplare presso la
Biblioteca Reale di Torino (Incunaboli, I, 44).
3 Sulla figura di Girolamo Olives, si vedano: TOLA (1837-1838, III), BESTA (1903-1904), MOR (1938), CORTESE
(1964), SINI (1997), VIDAL (1999), OLIVARI (2004), MATTONE (2004, 2012 e 2013), ARRIETA ALBERDI (2010: 47-53).
4 Sulla data di morte di Olives, scrive ARRIETA ALBERDI (2010: 52, nota 27): «Mattone [si riferisce a MATTONE 2004:
422] dà come sicura la data della morte il 12 giugno del 1569. Ma nella consulta sulla sua sostituzione come avvocato
fiscale del Consiglio, datata 22 agosto 1568, si allude al fatto che Olives fosse già deceduto».
5 Che la sua edizione della Carta de Logu si basi su un esemplare a stampa e non su un manoscritto è sottolineato
dallo stesso Olives (1567) che, nella sua dedica al re, scrive: «animadvertens ego literam plurium capitulorum
mendosam propter corruptam impressionem». Ancora prima, nel frontespizio, dichiara che la sua edizione sarà
corredata «cum repertorio operis et tabula propria capitulorum quae erat in in impressione veteri».
6 CARBONELL and ARMANGUÉ (2000: 264): «durant els segles XV, XVI i bona part del XVII, el català assisteix
precisament al seu període de màxima difusiò a l’illa, fins a esdevenir-hi hegemònic: és la llengua dels parlaments i de
les lleis que n’emanen; dels senyors feudals y dels privilegis que atorguen a llurs súbdits; de les crides dels virreis
adreçades al conjunt de la població, de les corporacions municipals i de les ordinacions que promulguen» (ivi p. 264).
7 BLASCO FERRER (1984: 162): «La supremazia linguistica catalana in Sardegna non si limitò ai quasi due secoli di
dominazione, ma si protrasse per ben oltre duecento anni, ed in alcuni luoghi l’impiego del cat. non fu mai scalzato
nell’isola dallo spagnolo. Le due aree di maggior diffusione di castiglianismi sono il Nord e la città di Cagliari.
Nonostante ciò la penetrazione dello spagn. nel Settentrione e nel camp. fu superficiale ed ebbe un decorso lentissimo:
nella capitale la fruizione del nuovo codice linguistico si avvia sullo scorcio del Seicento [...], in area camp. e barbaricina
gli atti notarili ed i pregoni stessi in cat. sono regolari sino attorno al 1650».
Si tenga però presente che proprio a partire dall’anno della pubblicazione dei Commentaria, cioè «dal 1567, per il
convergere della politica linguistica e culturale di Filippo II e delle scelte filospagnole dei ceti elevati locali, l’adozione
del castigliano, nell’insegnamento e nella predicazione da parte dell’ordine religioso, pose le basi per una ridefinizione del
repertorio linguistico cittadino e del peso, al suo interno, dei diversi codici in gioco» (DETTORI 2012: 588).
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La scelta del 1567 quale anno della pubblicazione dei Commentaria – che
rappresentano una versione “di servizio” della Carta, volta a fornire un utile strumento di
consultazione e interpretazione della Carta de Logu agli avvocati, ai magistrati, ai notai e,
in generale, ai funzionari dell’apparato burocratico della macchina giudiziaria della
Sardegna cinquecentesca – dovette molto probabilmente, come acutamente osservato da
Mattone, essere stata frutto di una pianificazione editoriale “strategica”, essendo questa la
data in cui il sovrano Filippo II promulgò a Madrid la Nueva recopilación delle leggi del
Regno. Il complesso lavoro esegetico di Olives, iniziato già dal 1555, potè dunque inserirsi
all’interno del «movimento di ricompilazione della normativa dei diversi regni della
monarchia, dalla Navarra a Valencia, dai Paesi Baschi alla Catalogna» (MATTONE 2012).
Nonostante alcuni studiosi li abbiano in passato ritenuti un po’ attardati nelle
conoscenze esibite (MOR 1938; DERUDAS 2010), oggi i Commentaria et Glosa in
Cartam de Logu sono stati pienamenti riabilitati. Olives ottiene infatti nel 15548 la
nomina di avvocato fiscale del Regno (primo tra i giuristi sardi) entrando così nel
Consiglio d’Aragona9, il tribunale di massima istanza della Monarchia ispanica, quello
cioè «in cui a corte si trattano le cause giudiziarie e gli affari dei regni lontani» (ARRIETA
ALBERDI 2010: 43). La sua formazione appare dunque inserita a pieno titolo nelle
correnti internazionali del diritto e considerata pienamente rispondente alla preparazione
“standard” di un magistrato spagnolo di quell’epoca (MATTONE 2012).
Quello in cui scrive Olives è un momento storico in cui potrebbe sembrare difficile, a
prima vista (soprattutto per Olives, che appare perfettamente integrato al potere centrale),
l’emergere di possibili rivendicazioni “nazionalistiche” da parte della Sardegna, e quindi di
eventuali ricadute linguistico-identitarie che una difesa del sardo contro l’egemonia di
varietà alloglotte avrebbe potuto comportare, proprio perché l’incameramento dell’isola
all’interno della Monarchia è ormai partita chiusa. E invece è proprio il Cinquecento il
secolo che assiste al nascere dell’idea di ‘nazione’ sarda, il secolo nel quale affiora la
coscienza che la Sardegna possegga una specificità culturale che la rende irriducibile alle
altre entità statuali europee. Si tratta di consapevolezze elaborate all’indomani
dell’inserimento ufficiale del Regnum Sardiniae all’interno della Corona d’Aragona,
annessione che elevava appunto l’isola al rango di “nazione”, accanto alle altre che
costituivano l’arazzo multietnico delle nazioni facenti parte della confederazione10.
Evidentemente consapevole del suo ruolo di “portavoce” del diritto giuridico isolano in
Spagna e – data la definizione di Monarchia plurale attribuita alla Corona per via della sua
natura sovranazionale – in Europa11, Olives non rinuncia, all’interno del suo imponente
lavoro ermeneutico, agli approfondimenti storici sulle consuetudini locali nonché alle
osservazioni di stampo linguistico, con le quali egli contribuisce a fissare un’immagine
vagamente idealizzata della Sardegna trecentesca che produsse la Carta de Logu come una
8 È questo l’anno proposto da ARRIETA ALBERDI (2010: 49).
9 Cfr. MATTONE (2012) e ARRIETA ALBERDI (2010: 48): «L’accesso di Olives al Consiglio d’Aragona si ebbe in un
momento in cui c’era scarsità di ministri nello stesso Consiglio e abbondanza di cause provenienti dall’isola sarda».
10 Cfr. DETTORI (2012), p. 578: «Nella duplicità di istituti giuridici catalani e sardi e nella distinzione etnica che li
sostiene emerge e si definisce nella prima età catalana la nació sardescha, che, formalmente unificata in Regno, acquista
identità e rilievo proprio in riferimento alla nació cathalana e alle altre nazioni della Corona. Nell’isola, entrata a far parte
del mosaico di nazionalità della Monarchia, i sardi vengono ricondotti all’appartenenza alla comunità naturale d’origine,
definita sulla base di una comunanza di stirpe, proiezione territoriale, tradizioni e lingua, consuetudini giuridiche».
11 Secondo MOR (1938: 68), il commento alla Carta de Logu sarebbe stato indirizzato più agli spagnoli che ai sardi,
mentre su questa posizione l’opinione di DERUDAS (2010: 23-24) diverge, in quanto Olives scriverebbe «l’unica sua
opera di qualche proporzione indubbiamente con intendimenti pratici ed al solo scopo di dare un po’ di luce alla
sempre valida, ma a quei tempi forse già male interpretata, legislazione arborense».
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nazione pienamente sovrana e indipendente, i cui giudici non erano semplici vassalli del re
d’Aragona (nonostante formalmente lo fossero già da molto tempo), mentre la figura della
stessa Eleonora d’Arborea viene da lui costruita e collocata, come si avrà modo di vedere,
all’interno di un catalogo di eroine della classicità letterariamente strutturato.
La stessa figura di intellettuale che egli rappresenta – e che nei Commentaria si
“autorappresenta” in quanto esponente dei ceti colti e dirigenziali sardi – è paradigmatica
delle forze linguistiche che attraversano la Sardegna in quegli anni: Olives è un sardo
sardofono, ormai risucchiato culturalmente nella sfera di influenza iberica, destinataria,
insieme alla Sardegna, del suo commento in latino, ma culturalmente soggiogato dalla
funzionalità veicolare del latino e dal suo uso quale “lingua franca” della scienza
giuridica cinquecentesca nella comunicazione dotta.
Olives ripubblica quindi la Carta de Logu, riproponendo il testo in sardo, in adesione
alla politica della Corona che manteneva in vigore le norme legislative e consuetudinarie
dei regni che incamerava12, ma traducendolo e commentandolo in latino per renderlo
fruibile anche (ma non solo e non in via preferenziale) a un pubblico non sardo. Il suo
punto di vista è quindi, in virtù del suo ruolo prismatico di esegeta, focalizzato, in
numerosi casi, sulla situazione plurilinguistica della Corona, quello di un parlante
altamente rappresentativo13. È vero che la sua statura culturale è fuori dal comune in un
contesto storico come quello sardo cinquecentesco in cui l’alfabetizzazione è ancora
conquista di pochi, ma è anche l’espressione e il frutto di una vivace Sassari
cinquecentesca14, animata da un’intellettualità autoctona che si relaziona già alla pari con
quella europea (SERRA 2012b: 9).
2. Obiettivi e metodi: diritto e sociolinguistica
Le posizioni assunte da Olives nell’accompagnare per mano il lettore della Carta de
Logu attraverso la cultura e la lingua sarde ci permettono di affrontare un’analisi dei
Commentaria e, attraverso questi, almeno parzialmente, della Carta de Logu stessa, da un
punto di vista sociolinguistico. La sua opera ci consente infatti un’esplorazione del
patrimonio del pensiero giuridico sardo che, se non è proprio di “prima mano” –
condizione impossibile dato che Olives non vive in quella civiltà giudicale trecentesca che
ha prodotto le prime versioni della Carta de Logu – certamente è molto più vicina alla
“scaturigine” del diritto arborense di qualsiasi altro commento ad esso dedicato. La
perlustrazione sistematica del suo pensiero, da annoverare tra i desiderata della storia del
12 Cfr. DETTORI (2012: 577-578): «La Corona aveva infatti l’assetto di una federazione multinazionale, in cui il diritto
catalano era applicato sulla base di precise distinzioni etniche. Erano infatti le nacions privilegiate, costituite da
catalani, valenzani, aragonesi, maiorchini, a godere dei diritti e dei privilegi garantiti dalle istituzioni catalane. Gli altri
gruppi etnici, pur sottoposti alla giurisdizione dell’autorità regia rappresentata localmente, venivano giudicati in base
al diritto del territorio di appartenenza. […] In Sardegna venne mantenuta la legislazione giudicale, dalle costituzioni
di Mariano IV alla Carta de Logu di Arborea, e gli statuti comunali di Sassari e di Iglesias. Rimase in vigore anche
l’insieme di norme consuetudinarie che avevano regolato fino a quel momento la vita delle aree rurali, che scorreva
seguendo i ritmi produttivi tradizionali, passati indenni attraverso le trasformazioni dell’assetto politico. Tali norme
erano definite globalmente dai catalani consuetut de la nació sardescha e vennero mantenute e applicate nei confronti
dei nativi sardi ben oltre il XIV secolo».
13 MESTHRIE (2011: 5): «“Multiple voicing”, as stressed in the Bakhtinian view of language, is particularly important:
the speech of an individual carries and projects echoes and traces of disparate identities, that is, the voices of other
individuals or social groups».
14 Sul fermento intellettuale della Sassari cinquecentesca, si vedano ZANETTI (1963), CADONI e TURTAS (1988),
TURTAS, RUNDINE E TOGNOTTI (1990), VIRDIS (2006).
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diritto sardo, può arricchire non solo la discussione giuridica, ma anche il panorama critico
e teorico della linguistica sarda.
Analizzato di per sé, il latino dei Commentaria et glosa, nella estrema chiarezza tipica
della prosa manualistica, che non si pone il problema della ricercatezza formale o
dell’eleganza del periodare, ma che preferisce arrivare seccamente al punto del
ragionamento giuridico, si allinea ai registri più formali dell’organizzazione della lingua.
Nel suo confrontarsi, attraverso modalità traduttorie, con il repertorio sardo del tempo,
pone però il problema della differenziazione dei registri e, insieme, ingaggia la sfida di
porre a diretto confronto il vocabolario giuridico elaborato in sardo con la lingua
ufficiale della giurisprudenza, veicolo universale della dottrina del diritto nella prima Età
Moderna. La dialettica che si viene così ad instaurare tra il latino e il sardo, lingua del
diritto locale preso in esame e, insieme, del giurista autore dei Commentaria15, fa
emergere, anche involontariamente, il problema dell’alterità del volgare rispetto alla
lingua che gode del massimo status nel repertorio europeo dell’epoca. Non è però sul
metalinguaggio della scienza giuridica che intendiamo soffermarci in questa sede, quanto
piuttosto sul modo in cui l’analisi di un giureconsulto dedito alla divulgazione scientifica
possa illuminare talune caratteristiche linguistiche, stilistiche e retoriche della Carta de
Logu finora rimaste in ombra.
Anche la lingua del diritto sardo, infatti, come buona parte delle norme che
confluiscono nella Carta de Logu, ha una natura “consuetudinaria”: entrambe le
dimensioni, quella della lingua e quella del diritto, vedono la propria fisionomia e qualità
modificate dall’uso e dai costumi, dalle vicissitudini storiche e sociali, in base
all’utilizzo del gruppo socio-linguistico di riferimento16. Le parole del diritto (e il diritto
stesso) si modificano nel corso del tempo, vengono dimenticate, sostituite, recuperate.
Uno degli obiettivi del presente lavoro sarà dunque quello di mostrare come (si veda
la Sezione 5) il testo di Olives ci aiuti a comprendere quali varianti diafasicamente
rilevanti il lessico giuridico sardo selezioni dal continuum linguistico del repertorio a
propria disposizione, spesso mettendo indirettamente in luce come il sardo si specializzi
in senso burocratico e secondo quali modalità, da un punto di vista diamesico, organizzi
un proprio standard scritto.
Se è poi vero, come studiato da parte della filosofia analitica del Novecento, che il
diritto non farebbe che ritagliarsi uno spazio esiguo all’interno del più ampio e
onnicomprensivo sistema lingua in quanto lingua “settoriale” (cfr. MANTOVANI 2008:
19), il confronto sincronico sulle modalità in cui due lingue, collocate a diverse altezze
nell’architettura della lingua in quanto a dignità culturale, suddividono e plasmano le
possibilità espressive, secondo modalità differenti, può regalare qualche chiarimento
sociolinguistico per affrontare il lessico della Carta de Logu, così impermeabile, per
ragioni di tipologia testuale, alla rappresentazione della variazione linguistica nelle
diverse dimensioni diastratica, diamesica e diatopica. Il discorso vale non solo per il
confronto con il latino, ma anche con le altre lingue di prestigio con cui il sardo nel
15 MANTOVANI (2008: 33): «all’interno di una comprensiva nozione di “lingua giuridica” occorre perciò distinguere la
lingua “del diritto” (o lingua delle norme oppure lingua legislativa o prescrittiva) dalla lingua testimoniata da altri tipi
di testo pertinenti alla comunicazione giuridica (ad esempio, le sentenze e i trattati scientifici), che designamo
residualmente come lingua “dei giuristi”».
16 «Quanto al parallelismo di struttura [tra lingua e diritto], l’antichità aveva anticipato le riflessioni ottocentesche –
di J. Grimm e Savigny – sulla natura consuetudinaria di lingua e diritto, continuamente rimodellati dall’uso del gruppo
di riferimento, cioè dei parlanti e dei consociati» (MANTOVANI 2008: 18).
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Cinquecento, e in parte già quello del Trecento, era entrato in concorrenza, prima tra
tutte il catalano (si veda la Sezione 4).
Il ragionamento sul linguaggio giuridico17 sarà poi affrontato anche da un’altra
prospettiva, che tenga conto delle strategie narrative che ad esso sono immancabilmente
sottese. Non si deve infatti dimenticare che il discorso giuridico è «intimamente connesso
con il possesso e l’esercizio del potere. […] L’esercizio del potere si mostra nei modi in
cui la verità viene valorizzata, ed altre interpretazioni, nello stesso tempo, inibite. Alla
coppia discorso-potere si lega dunque indissolubilmente anche il sapere, ovvero la
legittimazione del discorso vero» (ANTELMI 2004: 100-101). Consapevole della
compromissione del diritto con le forme, anche linguistiche, in cui si manifesta il controllo
sociale, Girolamo Olives, attraverso una fitta rete di rimandi scritturali, rinviene traccia di
quei valori biblici ed evangelici che gli sembra innervino le norme della Carta de Logu (si
veda Sezione 3). L’instaurazione di questi rapporti “intertestuali” si inserisce all’interno di
una strategia di legittimazione del diritto isolano agli occhi della Corona d’Aragona che
mira a sancire l’intrinseca ‘verità’ del discorso giuridico giudicale, verità che discende
dalla compromissione del testo con i moduli di scrittura propri al testo sacro.
3. Strategie di legittimazione del diritto isolano: modelli retorici e stilistici nel
commento al Proemio
Il Cinquecento non è soltanto il secolo in cui la Sardegna acquisisce piena coscienza
della propria specificità culturale, politica e storica, ma anche quello nel quale, «allo
stato delle nostre conoscenze, si pone per la prima volta nella sua storia culturale,
l’istituzione di una letteratura e di una attività letteraria che si inserisce pienamente nelle
correnti culturali europee dell’epoca» (VIRDIS 2012: 61). È significativo che questi due
fenomeni, l’esplodere di una produzione letteraria e l’appropriarsi da parte della
Sardegna dello statuto di «soggetto storico e culturale autonomo» (VIRDIS 2012: 61),
procedano di pari passo. A conferma di questa rinnovata spinta intellettuale alla quale è
stato assegnato il nome di «umanesimo ritardato» (CADONI: 1988), si potrebbero fare
molti nomi: il primo è naturalmente quello, per la poesia, di Gerolamo Araolla, autore
del poema in sardo Sa vita, su martiriu et morte de sos gloriosos martires Gavinu,
Brothu e Gianuari (1582) e, per la storiografia, quello di Giovanni Francesco Fara con i
suoi De rebus Sardois (1580) e con la compilazione della Sardiniae Chorographia.
Si tratta di letterati che spesso, come lo stesso Fara, hanno ricevuto una formazione
prevalentemente giuridica18, il che favorisce di frequente “travasi” dall’uno all’altro ambito e
interferenze continue, secondo una tradizione e una consuetudine anche italiane per cui,
come già evidenziato da Dionisotti, si osserva che «nel suo trapasso dalla Sicilia all’Italia il
continuo sviluppo di una nuova letteratura appaia in gran parte dovuto […] all’iniziativa di
laici educati allo studio e alla pratica delle leggi, a giudici e notai» (DIONISOTTI 1999: 58).
Il caso di Girolamo Olives, in virtù della carica che egli ricopre in seno alla Corona
d’Aragona, va soppesato e valutato con un’attenzione particolare: in quanto primo
magistrato sardo chiamato a esercitare una funzione giurisdizionale nel cuore della
17 Sul linguaggio giuridico, tra i molti titoli possibili, si vedano SCARPELLI e DI LUCIA (1994), MORTARA GARAVELLI
(2001), GARZONE e SANTULLI (2004).
18 CADONI (1990: 100): «Una verifica di tutto questo si può trovare scorrendo l’inventario dei libri della Bibliotheca di Fara,
inventario da lui stesso stilato e giuntoci, per una fortunata circostanza, in copia autografa: in esso i volumi concernenti il
diritto sono di gran lunga preponderanti tanto che, su un totale di 1006 titoli, circa settecento sono di argomento giuridico».
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Monarchia iberica, Olives sente su di sé il peso di rappresentare la Sardegna in quanto
entità storica, giuridica e istituzionale:
Il cammino per assicurarsi uno spazio politico in seno della Monarchia non fu facile. La
Sardegna poteva comparire a corte fisicamente, mediante rappresentanti quali ambasciatori,
agenti, mercanti e uomini d’affari; ma per un effettivo consolidamento della sua presenza
come soggetto politico aveva bisogno di conseguire un’effettiva rappresentanza negli organi
di massima istanza di giustizia e governo. Questa presenza si ottiene mediante i letrados che
accedono a corte in qualità di alti magistrati. Con essi compare – soprattutto la prima volta –
il regno da cui provengono e che senza dubbio rappresentano […]. A partire da questo
momento, si tratta di conquistarsi un proprio spazio, di darsi una collocazione che li
garantisca (è questo un dato importante) allo stesso modo dei letrados degli altri regni i
quali, in qualità di magistrati, fanno sì che il loro regno d’appartenenza, titolare di un
ordinamento completo e maturo, sia posto su un piano d’uguaglianza con gli altri. Si tratta di
presentare in forma adeguata il proprio diritto particolare, il diritto patrio. (ARRIETA
ALBERDI 2010: 45-46)
È dalla constatazione di questa missione dalle chiare implicazioni politiche della quale
Olives si sente investito che occorre prendere le mosse per comprendere le ragioni per le
quali egli accantoni spesso l’obiettivo primario che si è prefisso con i Commentaria, cioè
quello di glossare il testo di legge e di rinvenire e additarne i relativi modelli giuridici,
per lasciare spazio a riflessioni volte a ravvisare l’influenza, dietro le norme arborensi, di
moduli retorici e stilistici di matrice biblica, evidenziando così i parallelismi tra la Carta
de Logu e gli insegnamenti vetero- e neotestamentari, nonché l’elevata qualità formale
nel confezionamento di alcune sezioni della Carta de Logu stessa, soprattutto quella del
celebre Proemio.
Il titolo stesso con cui si è soliti riferirsi al corpus giuridico arborense, quello di
Carta, nasce all’insegna di un procedimento metonimico, come a suo tempo era stato per
i condaghes19.
De nominatur ergo et intitulatur istud opus, Carta de Logu, pro cuius declaratione est
advertendum quod hic ponitur continens pro contento, id est carta pro ipsa compilatione
scripta in carta. Nam sicut cum antea scribebatur in tabellis aliquando tabella ponebatur pro
litera et sic scriptura et sic continens pro contento. Et etiam hodie aliquando appellamus
membranam ipsam scripturam in carta pergamenea, ita etiam hic ponitur carta pro ipsa
compilatione facta et scripta in carta20. (OLIVES 1567: f. 1r)
Di per sé, l’accento posto da Olives su questo procedimento linguistico-espressivo non
ha nulla di singolare, ma spiana la strada a una serie di rilievi sulla Carta de Logu e sul
suo proemio che tendono a sottolinearne le qualità estetiche e stilistiche:
INCIPIT prohemium operis nam author sive compilator optimi oratoris more, antequam
agrediatur materiam, praemittit quae in isto prohemio sequuntur, cum videatur quodammodo
in civile illotis manibus sine aliqua praefatione aggredi materiam, et opus, ut dicit text. in l.
1. ff. de origi. iur.
Istud prohemium sive praefatio dividitur per ipsum met compilatorem in duas partes
principales cum reperiantur duo capitula distincta de per se. Secunda est ibi sa Carta de
Logu…. […] Ideo in prima parte prohemij assignantur causae quibus ipsa Aeleonora author
et legislatrix mota fuit ad condendam istam cartam et compilationem capitulorum. In 2. parte
19 Sul termine condaghe, si vedano MERCI (2001: 7-14), MELE (2002), TURTAS (2008).
20 Nella trascrizione dei Commentaria, si è intervenuti sul testo solo nella scansione e divisione delle parole,
nell’inserimento di apostrofi e accenti, nell’interpunzione e nello scioglimento delle abbreviature.
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declarat et ponit qualiter ista compilatio cartae et capitulorum partim venit corrigendo et
emendando cartam, capitula et leges iudicis Mariani patris et predecessoris ipsius Aeleonora.
(OLIVES 1567: f. 2r)
L’author o il compilator della Carta doveva essere insomma un ottimo oratore se in
grado di organizzare così efficacemente la dispositio degli argomenti nel suo proemio. E
ancor più, le sue capacità retoriche sono dimostrate dalla “bontà” degli argomenti che
egli anticipa nella prefazione e che saranno poi sviluppati nello stendere la Carta in base
alle direttive di Eleonora e al lascito del padre Mariano, una “bontà” che non discende
solo dalla valutazione dell’eleganza formale degli argomenti stessi o dalla loro rilevanza
o conformità a certi “standard” di gusto che Olives immagina debbano essere rispettati
nello stendere l’incipit di un testo di così fondamentale importanza nella storia sarda, ma
che ha la sua ragione d’essere soprattutto nel fondamento morale degli insegnamenti e
delle norme di convivenza civile che la Carta intende promuovere e diffondere. «Nota
quod incrementum populorum et regnorum provenit ex bona et recta iusticia, hoc probat
principium huius prohemij» (OLIVES 1567: f. 2r): che la prefazione della Carta sia
fortemente compromessa con una riflessione sul bene e sul male è un aspetto che Olives
coglie perfettamente, mettendo in luce i luoghi biblici dai quali il suo compilatore
medievale può aver tratto spunto e che, non sappiamo in quale misura, potrebbero
effettivamente aver condizionato la stesura della Carta.
Olives inanella allora una serie di parallelismi scritturali: «ubi ‹e›n‹im› deest
gubernatio, corruit populus, proverbiorum 11» (OLIVES 1567: f. 2r). Il riferimento
evocato da Olives è appunto al Libro dei Proverbi, 11, 14: «ubi non est gubernator
populus corruet»21. E subito dopo Olives commenta:
Iusticia enim firmat solium et regnum, proverbi c. 16 et in multitudine populi dignitas regis
et in paucitate plebis ignominia principis, proverbi c. 14. Nota ibi sa superbia dessos
malvagios, quod per leges et ius efficimus bonos, tam metu poenarum, quam spe
praemiorum, l. 1. in princ. ff. de iust. et iur. (OLIVES 1567: f. 2r)
Il richiamo è a Proverbi, 16, 12 («abominabiles regi qui agunt impie quoniam iustitia
firmatur solium»), e a Proverbi, 14, 28 («in multitudine populi dignitas regis et in paucitate
plebis ignominia principis»), ma vi si legge anche un rimando al Corpus iuris civilis
giustinianeo. Che nel proemio della Carta de Logu arborense si possa scorgere uno slancio
stilistico posto a suggellare l’incipit degli ordinamenti sardi, impreziosendoli, è un’idea
che è stata più di recente ripresa da Antonio Era (1962), il quale ha riorganizzato il
collegamento istituito da Olives con la giurisprudenza romana mostrando come il proemio
arborense sia adeguatamente provvisto di un fondamento scientifico-filosofico.
L’eminente studioso della storia del diritto isolano osserva infatti: «Un motivo “Cum cio
siat causa chi s’accrescimentu et esaltamentu etc.” è filosofico e generico perché riflette
la necessità di legiferare riecheggiando e sviluppando il noto distico di origine oraziana:
oderunt peccare boni virtutis amore // oderunt peccare mali formidine poenae» (ERA
1962: 16-17). Era riporta anche i passi di opere che con questa massima oraziana
risultano essere consonanti: «Decreto I, distin. IV, c. I, da Isidoro, etym. 5, 20; e 2, causa
XXIII, q. V, c. 18 da S. Agostino, Ep. 54 ad Macedonium. Il distico è allegato dalla
glossa “metu penarum” sul Dig. I, I, I» (ERA 1964: 17, nota 11).
21 Tutte le citazioni bibliche in latino del presente contributo sono tratte dalla Vulgata Clementina, consultabile on line
all’indirizzo: ‹http://vulsearch.sourceforge.net/html/› [accessed 02nd February 2015].
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Le osservazioni di A. Era ci obbligano insomma a leggere il famoso attacco della
Carta de Logu sotto una nuova luce:
‹C›on siò siat causa qui su acreximentu ‹et exaltamentu› dessas provincias et regnos et terras
dexendant e bengant dae sa rex[o]ni e pro servari sa iusticia, 2e per issu‹s› bonus capidulus
sa superbia dessos reos et malvados hominis si infrenet et constringat, ad ciò qui sos bonos
et puros et innocentes poçant viviri et istari inter issos reos ad seguridadi pro paura dessas
penas et issos bonos, prossa virtudi d[essu] amori, siant tottu hobedientis assos capidulus et
ordi[namentos] de custa Carta de Logu, […] (Carta de Logu, ed. LUPINU 2010: 54)
La rete di citazioni eccellenti evocate da A. Era ci offre la misura della ricchezza del
retroterra culturale nel quale il proemio della Carta de Logu affonda le proprie radici.
Tra i nomi e i titoli evocati, accanto alle Etymologiae di Isidoro di Siviglia e alle
riflessioni agostiniane, spicca la citazione del distico delle Epistulae oraziane contenuta
nel frammento del giureconsulto romano Ulpiano, le cui parole aprono le Pandette
giustinianee (De iustitia et iure), in quella parte del Corpus iuris civilis che tramanda la
raccolta degli iura (1, 1, 1):
Iuri operam daturum prius nosse oportet, unde nomen iuris descendat. est autem a iustitia
appellatum: nam, ut eleganter Celsus definit, ius est ars boni et aequi. Cuius merito quis nos
sacerdotes appellet: iustitiam namque colimus et boni et aequi notitiam profitemur, aequum
ab iniquo separantes, licitum ab illicito discernentes, bonos non solum metu poenarum,
verum etiam praemiorum quoque exhortatione efficere cupientes, veram nisi fallor
philosophiam, non simulatam affectantes22.
Lo stesso intento, dichiarato da Eleonora nella prefazione, di contribuire al bene della
republicha sardisca lascia intravedere «il solido riferimento alla cultura giuridica coeva
da parte degli ignoti compilatori della Carta de Logu dell’Arborea» (SINI 1997: 985)23.
Originale e nuovo è invece lo sforzo profuso da Olives nel tentativo di offrire al corpus
arborense un fondamento biblico.
Così Olives evidenzia come gli insegnamenti contenuti nella Carta de Logu
illuminino e rischiarino il cammino dei propri sudditi, servendosi del gioco
paronomastico lex-lux di provenienza veterotestamentaria: «Et ideo lex dicitur lux et
mandatum lucerna proverb. c. 6 quibus quis graditur per semitam rectam et viam vitae»
(OLIVES 1567: f. 2r). Il rimando è a Proverbi, 6, 22-23 («Cum ambulaveris, gradiantur
tecum ; cum dormieris, custodiant te: et evigilans loquere cum eis. Quia mandatum
lucerna est, et lex lux, et via vitae increpatio disciplinae»), un passo che, nel corso dei
secoli, è stato interpretato come un’esaltazione del diritto e della sua capacità ordinatrice
di creare una società armoniosa. La legge naturale del Giudicato d’Arborea, estesa
all’intero Regnum Sardiniae (COSTA PARETAS: 2004), esiste perché emanazione della
legge eterna: lo ius fori arborense si rispecchia insomma nello ius coeli.
Il continuo accostamento della Carta de Logu al sostrato culturale biblico necessita
anche di spiegazioni linguistiche per evitare indebite sovrapposizioni terminologiche da
22 La citazione del Corpus Iuris Civilis è tratta dal sito: ‹http://www.thelatinlibrary.com/justinian.html› [accessed
02nd February 2015].
23 SINI (1997: 985-986): «mi pare, infatti, possibile percepire distintamente, per quanto riguarda l’utilizzazione del
concetto di respublica, sia la consapevolezza della relazione sintagmatica fra populus e respublica, già postulata dai
glossatori più antichi; sia la conoscenza dei vari significati della parola respublica, così come risultavano
schematizzati nella Glossa accursiana».
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parte del lettore inesperto della società sarda e della sua composizione nel periodo di
stesura della Carta de Logu.
Ergo in casu nostro ista Aeleonora iure proprio e de se principaliter habebat regiam
dignitatem et successerat in regno Arborensi patri suo Mariano iudici etiam dicti regni ut
dicitur in sequenti parte prohemij, ibi sa carta de logu. Et dicebantur isti reges iudices /f. 2v/
ad instar eorum qui iudicabant Israel, ut habetur in Sacra Scriptura in libro Iudicum, […] sed
illi iudices Israel non habebant dignitatem regiam, sed tantum iudicabant, ut in dicto libro
Iudicum habetur de pluribus patr‹i›bus, et prophetis, qui iudicaverunt Israel. Nam primus
Rex in Israel post dictos iudices et immediate post Samuelem fuit Saul, ut habetur lib. 1
Regum, cap. 8. et 9 et 10 et 11. Sed isti iudices sardi erant Reges, et sic in isto prohemio bis
dicit in regno nostro Arbaree, ibi in su regnu nostru, et plures istorum iudicum Sardorum se
nominaverunt Reges, ut patet per quamplura documenta auctentica et antiqua, super
aliquibus dotationibus ecclesiarum dicti regni Sardiniae, ut est videre per quosdam libros
antiquos et aucthenticos aliquarum insignium ecclesiarum, qui libri in lingua materna Sarda
appellantur condagues, condagui, de quo fit mentio infra in cap. 25. (OLIVES 1567: ff. 2r-2v)
Così, che i reges arborensi vengano chiamati iudices è un dato che ha bisogno di un
chiarimento, onde evitare una confusione tra l’ordinamento politico dei Giudici in Israele
(narrato, come specifica Olives, nel I libro dei Re, 8-11), più definibili come capi militari
occasionali che non come veri e propri sovrani («sed non habebant dignitatem regiam»),
e il governo dei giudici sardi, la cui piena sovranità era stata a suo tempo apertamente
disconosciuta dalla Corona con l’atto di infeudazione trecentesca di Bonifacio VIII a
Giacomo II d’Aragona, ma in merito alla quale Olives, neanche tanto velatamente,
prende una chiara posizione in favore della regalità giudicale, mettendo tra parentesi la
condizione di vassallaggio dei regoli arborensi rispetto alla monarchia iberica24. Olives
era dunque perfettamente conscio delle questioni ideologiche che si celavano dietro la
definizione della parola ‘giudice’ e decide, nel circoscriverne il significato, di rifarsi
all’antica autonomia goduta dai giudici in epoca altomedievale.
La riflessione del giureconsulto sassarese si sposta poi sulla questione della legittimità
dell’esercizio femminile del potere, con un approfondimento sulla figura della giudicessa
Eleonora:
Et sic apparet quod haec Aeleonora erat regina habens de per se et principaliter regnum iure
proprietatis et dignitatem et iurisdictionem per successionem, ut est dictum. Ex hoc aparet
quod foemine succedunt in regno, et sic etiam in Hispania et in Anglia et in regno Apuliae et
in omnibus regnis subditis Hispaniae. (OLIVES 1567: f. 2v)
Olives realizza un breve excursus sulle nazioni in cui alle donne è consentito l’accesso al
soglio regale, precisando che tra quelle che condividono questa modalità di successione e
di avvicendamento al trono vi sono tutte le nazioni che fanno parte della confederazione
iberica, a sottolineare la piena parità della Sardegna rispetto alle altre monarchie europee.
Il magistrato sardo passa poi in rassegna i modelli “classici” di ginocrazie occidentali e
orientali, inserendo nel suo commento al proemio della Carta e nel suo approfondimento
sul personaggio di Eleonora d’Arborea una galleria paradigmatica di figure femminili:
24 Proprio in merito alla singolare denominazione dei sovrani arborensi quali giudici, Besta sostiene: «nell’uso
volgare, tenacemente avvinto alle tradizioni, quella di giudice prevalse sull’altre denominazioni anche per esser
preferita nella chiesa che, nelle pretese sue di dominio, teneva a mantenere a proprio riguardo intatte le parvenze di
soggezione che già aveano subordinato i giudici all’imperatore» (BESTA 1909: 16).
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Et sic videmus quamplures illustrissimas foeminas regnasse, quae fortitudine et
magnanimitate et virili robore floruerunt, ut fuit Arthemisia Halicarnaseorum regina,
Semiramis quae regnavit super Asirios, et Cleopatra in Egipto, et Camilla Volscorum regina,
et Tomiris quae imperavit super Scitas et superavit Persas in bello, et Zenobia Palmireorum
regine quae etiam regnavit in Siria, quas cum pluribus alijs commemorat et accumulat
Bartol. de Cassan. In suo Cathalogo gloriae mundi in secunda parte in 8. consideratione et in
nostra Hispania novissime in Castella regnavit serenissima regina Elizabeth quae nupsit
magnanimo et Catholico Regi nostro Ferdinando Aragonum regi propter quorum coniugium
regna Hispaniae fuerunt unita, et post eos regnavit in tota Hispania serenissima regina
Ioanna mater invinctissimi et magni imperatoris Caroli v. et regis nostri praedecessoris iusti
et catholici nostri regis et domini Philippi ad praesens regnantis, cuius dies Deus protrahat in
longevum foeliciter amen. (OLIVES 1567: f. 2v).
La fonte esplicitata da cui Olives dichiara di prelevare questa illustre lista di regnanti
esemplari (Artemisia, Semiramide, Cleopatra, Camilla, Tomiris, Zenobia) è
rappresentata dall’opera del giurista francese Barthélemy de Chasseneuz (1480-1541),
conosciuto anche come Bartholomeus Cassaneus25. Il suo Catalogus gloriae mundi
(CHASSENEUZ: 1529) è un’opera rinascimentale dal taglio enciclopedico, testimonianza
del gusto cinquecentesco per il trattato dotto ed erudito, la cui ratio di fondo è
rappresentata da una «réflexion sur le thème alors en vogue de la Dignitas hominis»
(SECRET 1958: 173). Si noti che una sequenza molto simile si ritrova anche nel
Cortegiano di Baldassarre Castiglione (pubblicato nel 1528), dove si legge: «e se adesso
non si trovano al mondo quelle gran regine, che vadano a subiugare paesi lontani e
facciano magni edifici, piramidi e città, come quella Tomiris, regina di Scizia, Artemisia,
Zenobia, Semiramis, Cleopatra, non ci son ancor omini come Cesare, Alessandro,
Scipione, Lucullo e quegli altri imperatori romani» (CASTIGLIONE, ed. PRETI 1965: 256).
Non si intende chiaramente postulare la diretta conoscenza da parte di Girolamo
Olives dell’opera di Castiglione, che però, data l’altezza cronologica e la ricezione anche
spagnola dell’opera italiana nel Cinquecento e nel Seicento, non è comunque detto vada
del tutto esclusa, soprattutto in considerazione del fatto che «Il cortegiano del conte
Balthasar Castiglione, Firenze 1528» (FARA, Bibliotheca, ed. CADONI 1992: 380), come
altri testi fondamentali nella costituzione del canone letterario cinquecentesco italiano, è
tra i titoli catalogati nella Bibliotheca di Fara26.
In questo caso però è lo stesso Olives ad indicare ai lettori di avere in mente l’opera di
Barthélemy de Chasseneuz. Eppure allargare lo sguardo al contesto letterario che
circondava l’edizione dei Commentaria ci offre in filigrana un riflesso del pubblico
destinatario di questa edizione della Carta de Logu, un pubblico cinquecentesco, anche
regionale, che doveva evidentemente essere addestrato alla lettura dei Classici e
potenzialmente aggiornato sulle novità editoriali, e quindi capace di cogliere i riferimenti
intertestuali attivati dalla menzione di questa galleria di donne eccellenti.
Inoltre, come ha osservato Mattone, l’accostamento di Eleonora a questa prestigiosa
galleria di regine antiche e moderne porrà le basi per una reinterpretazione della figura
della giudicessa «nel XVIII secolo in chiave “patriottica”, cioè come una aperta
esaltazione del ruolo di Eleonora» (MATTONE 1995: 21, nota 17). In altre parole,
l’“assorbimento” di Eleonora all’interno di questa struttura catalogica che ne ispessisce
25 Per una breve bibliografia sull’opera e la biografia di Barthélemy de Chasseneuz, si vedano SECRET (1958) e
PIGNOT (1880).
26 Si noti, per inciso, che all’interno della Bibliotheca di Fara, un catalogo di volumi che annovera più di un migliaio di
titoli e che fu probabilmente compilato intorno al 1585, figura anche un’edizione dei Commentaria di Olives: «Leges
Sardoe seu Carta localis cum glosis Hieronimi Olives, Madriti 1567» (Fara, Bibliotheca, ed. CADONI 1992: 360).
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la statura politica non produce solo l’effetto (provvisto di chiare ricadute ideologiche) di
conferirle un’incontestabile dignità regale di portata universale, ma le assegna anche,
almeno virtualmente, un posto all’interno della produzione storiografica e letteraria,
inserita com’è tra le Grandi della Storia che hanno goduto di una celebrazione anche
poetica. In un momento storico come quello che vive la Sardegna sotto la Corona
d’Aragona, la rievocazione dell’esperienza di autonomia giudicale acquista un valore
simbolico e sollecita una mitopoiesi collettiva di cui Olives si fa interprete.
L’attivazione, nel lettore colto, di una serie di collegamenti intertestuali interviene sul
piano simbolico della determinazione di fatti reali (che sarebbe forse possibile analizzare
in chiave antropologica), reazione alla scarnificazione identitaria a cui il predominio
iberico andava sottoponendo la Sardegna.
Allora, se l’obiettivo della sociolinguistica è anche quello di indagare le autorappresentazioni rese possibili dalla lingua e le strategie narrative, anche inconsce, che in
essa si dispiegano27, bisogna riconoscere a Girolamo Olives il peso che gli compete in
questa operazione di “messa in forma” del patrimonio culturale sardo che gli arriva
veicolato dalla Carta de Logu, un’operazione che ha una componente di manipolazione
ideologica che sottostà a qualsiasi intento nobilitante.
Risponde sempre a una intenzione trasfigurante l’attenzione che Olives rivolge alla
definizione della parola armentargiu, evocata nella glossa al capitolo III della Carta de
Logu. Per spiegarne l’etimologia e il legame con la cultura agro-pastorale e, quindi, la
radice legata alla parola latina armentum28, Olives sente la necessità di ricorrere a Virgilio.
Circa illud verbum armentarju hic videtur innuere text. quod armentarius fit officialis, nam
dicit text. armentarius localis vel alius noster officialis, nam li alius est dictio implicativa et
similium repetitiva l. si fugitivi cum gloss. ibi in verbo aliam C. de servi. fugi. aliquando stat
pro procuratore ut in c. 62 de chertadore et in c. 112 de ordinamentos de sa guardia de laores
vinjas et ortos, in quo capitulo capitur etiam armentu pro grege ibi dum dicit su armentu de
sas vacas. Et latine etiam armentarius est ipse pastor armenti, Virgilius in 3. lib. georgico
omnia secus armentarius apher agit tectumque laremque, sed proprie armentum est genus
pecoris apti ad opus armorum ut boves et equi vel quia sunt animalia apta ad arandum ut
quasi armenta, quasi aramenta ut declarat Calepinus in dictione armentarius et armentum.
(OLIVES 1567: f. 6r)
È innanzitutto da rilevare come Olives elenchi una serie di occorrenze del vocabolo
armentargiu all’interno della Carta de Logu, rimandando al cap. LXII “De chertadore” e
al cap. CXII “Ordinamentos de sa guardia de sus laores, vingnas et ortos”: questo piccolo
glossario consente di soppesare l’occorrenza del vocabolo all’interno di altri contesti
d’uso, facilitandone così la comprensione al lettore. Olives rileva poi come la voce
armentargiu abbia perso il significato latino di ‘pastore di armenti’ acquisendo quello
specifico di ‘ufficiale locale, del Giudicato’ e dunque ‘amministratore di beni e proprietà
pubblici’. La parola tra l’altro entra, nella veste di sardismo lessicale appartenente alla
sfera dell’amministrazione (RAVANI 2011b: 35), anche nell’italiano del Breve di Villa di
Chiesa, lo statuto della città di Iglesias, giuntoci nella redazione del 132729, e in quello
della Carta de Logu del Giudicato di Cagliari, probabilmente risalente al 135530.
27 Come studiato da LE PAGE e KELLER (1985), la lingua comporta una serie di «acts of identity in which people
reveal both their personal identity and their search for social roles» (LE PAGE and KELLER 1985: 14).
: «log. ant. (frequentissimo nei documenti antichi) ‘amministratore delle grandi proprietà
pubbliche e private’, e poi anche ‘amministratore della diocesi, economo, curatore in mancanza di vescovo’ […]. In
origine dovette designare un semplice custode di armenti, = ARMENTARIUS (Varrone, Virgilio ecc.)».
29 Breve di Villa di Chiesa (Libro III, cap. III “Delli habitatori di Villa di Chiesa et altri, che siano tenuti al capitano
28 Cfr. DES, s.v.
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La voce armentu è però attestata nella Carta de Logu al cap. CXII proprio
nell’accezione di ‘mandria’. Nel menzionare il Virgilio del III libro delle Georgiche (vv.
343-344), Olives segna la distanza del lessema sardo armentargiu, nel corso del tempo
specializzatosi tanto da diventare termine tecnico, rispetto al comune vocabolo latino. Ma,
allo stesso tempo, la rievocazione della società delle Georgiche ha l’effetto di trasfigurare
la civiltà rurale sarda sotto la luce idealizzante della letteratura bucolica, come se i pastori
sardi e i loro armenti agissero, per un momento, sulla tela di fondo della poesia virgiliana.
Sebbene l’argomentazione giuridica di Olives non appaia quasi mai forzata né
surrettiziamente impreziosita da echi e suggestioni letterarie, ciononostante la cultura
nella quale è immerso, fatta di letture di ispirazione religiosa e di letteratura classica,
emerge prepotentemente soprattutto in questa prima sezione dei suoi Commentaria,
quando si tratta di glossare i primi capitoli della Carta de Logu dedicati agli istituti di
diritto penale. I pochi rimandi del magistrato sassarese alla propria biblioteca e a quella
che immagina sia condivisa dai suoi lettori creano l’illusione che la Sardegna si muova a
pieno titolo all’interno della “civiltà delle lettere”: pur restando di fatto, nella sua
produzione letteraria, al di fuori del canone della letteratura occidentale, l’Isola è però
pienamente integrata nel suo sistema di ricezione.
Non si può escludere che Olives, nel richiamare alla mente una serie di agganci con i
modelli scritturali stia in realtà suggerendo una preziosa pista interpretativa, mostrando
come la Carta de Logu si sia rifatta, già nelle intenzioni originarie dei suoi compilatori e
dei giudici che ne hanno promosso e patrocinato la stesura, a un modello desunto dalle
Sacre Scritture, chiaramente piegato alle finalità normative proprie di un testo giuridico.
Per esempio, in relazione al cap. III della Carta de Logu, “Qui ochirit homini”, anche
il reato di omicidio viene affrontato da Olives con il pensiero rivolto all’insegnamento
contenuto nell’Antico e nel Nuovo Testamento:
Sequitur nunc de homicidio, quod crimen est exosum omni iure, […] est enim exosum in
iure divino exod. c. 21 et de lege evangelica, et sic de lege gratiae Matth. 26. Qui gladio
ferit, gladio perit. (OLIVES 1567: f. 6r)
Olives rimanda al fondamento biblico della pena capitale in caso di omicidio. La
distinzione sulla sanzione da infliggere all’assassino se il fatto commesso configura un
omicidio volontario o un omicidio per legittima difesa, la quale integra una causa di
giustificazione, è infatti sancita anche in Esodo, 21, 12-14:
Qui percusserit hominem volens occidere, morte moriatur. Qui autem non est insidiatus, sed
Deus illum tradidit in manus ejus, constituam tibi locum in quem fugere debeat. Si quis per
industriam occiderit proximum suum, et per insidias: ab altari meo evelles eum, ut moriatur.
Se ci volgiamo a ciò che si legge nel capitolo relativo a questo reato nella Carta de Logu,
scopriamo che anche il testo legislativo arborense disciplina in modo unitario, trattandoli
uno di seguito all’altro così come fa il libro esodiaco, i casi di omicidio nei quali il
soggetto agente causi volontariamente la morte di un uomo, per i quali è prevista la
overo retori”): «Ordi[nia]mo che tucti habitaturi di Villa di Chiesa, così t(er)ramagnesi come sardi, stiano (e) siano ad
una medesma ragione et rispondano tucti al capitano overo rectori (e) iudice, no(n) ave(n)do pió arme(n)tajo, né
curatori, né magiore» (ed. RAVANI 2011a: 142).
30 TANGHERONI (2004: 230): «E si alcuna persona offendesse alcuno de li infrascripti officiali, cioè judice di
facto, armentaio, o magiore, essendo al’officio, le pene si debbiano radoppiare in quelli malefactori».
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condanna a morte, e i casi in cui l’assassino abbia subito un’aggressione e abbia dunque
reagito legittimamente, situazione che esclude la rilevanza penale del fatto:
conformemente al brocardo vim vi repellere licet, l’ordinamento riconosce l’autodifesa
del diritto così aggredito, purché l’intera vicenda sia provata dai boni homines del
villaggio. Si legge infatti nel III capitolo della Carta de Logu:
1
[Volemus et ordinamus que si alcuna persona ochirit homini et est·indi confesso in su iudiciu
over convinto secundu que ’ssu ordini dessa ragoni comandat, siat·illi segada sa testa in su
loghu dessa] /2v/ justicia per modu qui ’ndi morgiat et pro dinari neunu non canpit, 2salvu qui
‹su dictu homini hochirit deffendendo a si […] (Carta de Logu, ed. LUPINU 2010: 58).
Si vede allora come l’ordine nell’esposizione delle due fattispecie nella narrazione tratta
dal libro esodiaco – che dapprima dispone la condanna a morte per l’omicida e, in
seconda battuta, l’assoluzione in caso di omicidio per legittima difesa – sia esattamente
corrispondente, mutatis verbis, a quello della norma arborense. Se poi si confronta la
trattazione di questi reati negli altri statuti sardi (come il Breve di Villa di Chiesa o gli
Statuti Sassaresi)31, è possibile comprendere meglio l’impatto del “sottotesto” biblico
sulla Carta de Logu, che si trova a convergere con un dispositivo di ascendenza
romanistica (SINI 2004: 57).
Altri parallelismi, sottolinea Olives, si possono rinvenire con le parole di Cristo nel
Vangelo di Matteo: «Tunc ait illi Jesus: “Converte gladium tuum in locum suum: omnes
enim, qui acceperint gladium, gladio peribunt”» (Matteo, 26, 52), e con il libro dei Numeri,
35, 31: «non accipietis pretium ab eo qui reus est sanguinis, statim et ipse morietur».
Taliter quod moriatur et quod non possit aliquo modo redimi cum pecunia, et sic nota quod
pena homicidij est mors naturalis sine redemptione […] Et ad idem est text. numeri, c.
penult. ubi dicit non accipies pretium ab eo qui reus sanguinis erit, sed moriatur, et sic per
dictum text. et Exo. c. 21 de iure divino, paena homicidij est mors naturalis. Quinimo et de
lege Evangelica, quae est lex gratiae, ut fuit dictum, Matth. c. 26 et etiam de iure Canon.
(OLIVES 1567: f. 6r)
Olives sembra inoltre mettere l’accento su un nodo giuridico legato alle pene irrogate in
caso di omicidio e alla possibilità che fosse previsto, dalla giurisprudenza vigente in
epoca anteriore alla promulgazione della Carta de Logu, che queste consistessero
semplicemente in una sanzione pecuniaria (forse solo nel caso in cui l’ucciso fosse di
condizione servile), ipotesi avanzata da Giulio Paulis a partire dalla precisazione che si
legge appunto nel cap. III «pro dinari neunu non canpit»32. Non possiamo stabilire fino a
che punto Olives avesse coscienza delle antiche fasi di sviluppo del diritto isolano e se
fosse consapevole (nel caso si dimostrasse in modo definitivo la fondatezza di
31 Si confronti cosa accade nella trattazione della legittima difesa negli altri statuti sardi: «Il Breve parla di “se
deffendendo” a proposito di omicidio e di chi viene aggredito nella propria abitazione, obbligando però l’autore del
fatto a provare le circostanze e in questo caso “non patisca di ciò pena nissuna”. Negli Statuti [Sassaresi] la legittima
difesa è prevista nel caso di aggressione compiuta con una spada o un coltello o armi simili a favore di chi “pro
deffendersi” reagisce, senza essere condannato se non ha usato un’arma, o in caso contrario la sanzione è determinata
attraverso un rimando al capitolo che disciplina “dessos qui ferin”» (ARTIZZU 2010: 268).
32 PAULIS (1997: 98): «la precisazione che il reo d’omicidio pro dinarj neunu non campit (cfr. la formula e aquell no
escapis pro diners nella richiesta avanzata dai rappresentanti sardi al Parlamento di Pietro IV d’Aragona) significa che
la legislazione arborense anteriore alla CdL [Carta de Logu] contemplava la possibilità che l’omicidio fosse oggetto di
composizione con il versamento di una certa somma di denaro alla parte offesa. Tale pratica era ancora ammessa dagli
StSass [Statuti Sassaresi] per l’omicidio di un servo (l’individuo di condizione servile era considerato come mera
proprietà del padrone), ma veniva esclusa per l’omicidio di un libero, secondo che recita il cap. 1 del libro III».
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quest’ipotesi largamente condivisibile) che la Sardegna pre-Carta de Logu contemplasse
questa diversa possibilità di composizione del reato: se però così fosse, Olives starebbe
qui richiamando l’attenzione del lettore sul fatto che i giudici arborensi, prescrivendo la
condanna a morte dell’omicida a prescindere dalla condizione sociale dell’ucciso e
vietandone una risoluzione per vie pecuniarie, si starebbero allineando ai dettami biblici.
È vero che l’istituzione di simili parallelismi tra un testo statutario e le Sacre Scritture
potrebbe rivestire un carattere topico nell’opera di un giurista cinquecentesco qual è
Olives, che doveva senz’altro porsi il problema, in pieno clima controriformistico,
dell’ortodossia non solo dei propri scritti, ma anche della conformità della Carta
medievale stessa ai dettami religiosi imposti dal nuovo clima post-tridentino, consonanza
che avrebbe garantito al corpus arborense una completa accettazione e una serena
sopravvivenza in quanto legislazione del Regnum Sardiniae.
Ma in questa sede ci si domanda se sia possibile osservare la questione anche da
un’altra prospettiva, se cioè possa essere lecito immaginare che anche i compilatori della
Carta o la stessa giudicessa Eleonora o il padre di lei, Mariano IV, avessero coscienza di
tali parallelismi scritturali o, addirittura, ne fossero in qualche misura artefici e promotori.
Non si deve dimenticare che anche gli studiosi contemporanei che si sono occupati
della Carta de Logu vi hanno riconosciuto i modelli giuridici propri del diritto canonico e
hanno proposto di riconoscere tra i suoi estensori membri dell’alto clero. Si pensi ad
Antonio Marongiu, il quale ha ipotizzato che, benché non vi sia «alcun precedente di
norme statutarie le quali diano al diritto canonico l’autorità di fonte superiore di diritto:
ossia di fonte per eccellenza, a preferenza del diritto romano» (MARONGIU 1975: 63), il
redattore della Carta de Logu potrebbe essere stato «presuntivamente, un sacerdote cultore
di diritto canonico, ossia un canonista» (MARONGIU 1975: 63), forse il «“dotore de decretu
et de lege et canonicu” Filippo Mameli, morto ad Oristano l’8 maggio 1349, dato che il
testo rivela nel proemio e nei capitoli 3, 21, 51, 57 l’impronta di un esperto conoscitore del
diritto canonico e in particolare delle Decretali di Gregorio IX» (MATTONE 1993: 414).
A quest’ipotesi, se ne affianca un’altra che individua in padre Guido Cattaneo (frate
domenicano, arcivescovo d’Arborea tra il 1312 e il 1339, autore del De usu bonorum
temporalium Christi et discipulorum eius, opera nella quale prende posizione in merito
allo scontro tra francescani Conventuali e Spirituali33) uno dei più probabili compilatori
del corpus arborense34.
A queste supposizioni bisogna poi aggiungere quanto rilevato da Giampaolo Mele in
merito alla particolare attenzione che la giudicessa Eleonora sembra riservare, nella
promulgazione degli ordinamenti arborensi, all’imposizione di norme che regolino il
rispetto della religione. Le sanzioni previste per i crimini commessi contro la Chiesa
rispecchiano infatti «una piena sintonia tra il Giudicato e la Chiesa arborense; ciò
rappresenta, una ‘eccezione’, nel panorama dei rapporti, spesso assai tesi, tra potere
politico e clero (secolare e regolare) nella Sardegna medioevale» (MELE 2010: XVIII).
Va inoltre considerato che era abitudine di tutti i sovrani europei offrire di sé
l’immagine di emissari e mediatori della volontà divina in terra, non solo attraverso la
familiarità con una serie di pratiche rituali che ne confermassero il primato temporale e,
in una certa misura, spirituale, ma anche, per restare a un livello di testualità e di analisi
dell’impiego di precise strategie narrative, attraverso un’attenta costruzione retorica dei
propri discorsi pubblici, che essi amavano impreziosire con citazioni bibliche. Questo
33 Cfr. CICU (1995).
34 Cfr. ARTIZZU (1981) e SCHENA (1979 e 2003).
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atteggiamento accomuna anche i sovrani catalani regnanti negli anni di governo di
Mariano ed Eleonora, tra i quali spicca, per l’ampio uso di una retorica che si
avvantaggia del patrimonio scritturale, Pietro IV il Cerimonioso (SCHENA 1993)35.
Il problema di una legittimazione di matrice divina si poneva ancor più per i giudici
sardi, particolarmente desiderosi di vedersi attribuita una condizione di piena regalità, il
cui riconoscimento giuridico passava anche attraverso il conferimento della dignitas regia
da parte della Chiesa romana e attraverso la pratica dell’unzione, pratica diffusa presso
diverse monarchie, ma finora non attestata presso i giudicati sardi (GALLINARI 2010: 153154). I giudici, fin dalle prime testimonianze documentarie36, sembrano infatti esprimere in
modo netto la volontà di conferire al proprio governo un carattere teocratico37.
Si pensi al recente indirizzo di studi sulla narrativa naturale dei condaghes38, che ha
evidenziato come in questi testi, per lungo tempo considerati semplici registri patrimoniali
dotati di mere finalità pratico-documentarie, sia invece possibile riconoscere e portare alla
luce «l’influenza di moduli stilistici desunti dal patrimonio culturale di scriptores
monastici non certo illetterati, che sono appunto in grado, […] di riplasmare la lingua
dell’oralità, il volgare sardo, sul modello retorico e stilistico costituito dalle Sacre
Scritture» (SERRA 2012c: 39-40).
Facendo tesoro di questa stimolante linea di ricerca, supportati anche dalla lettura
scritturale della Carta de Logu offertaci da Girolamo Olives, non si potrà che guardare
con occhi nuovi al corpus di norme arborense. Potrebbe allora non essere un particolare
irrilevante il fatto che, dopo il celebre proemio della giudicessa Eleonora, in cui si
stabilisce il potere “salvifico” del giudice e i benefici che il loro retto governo può
apportare al proprio popolo, il primo capitolo della Carta de Logu, “De qui offenderet sa
Sengoria”, si apra proprio sul reato di “lesa maestà”, a ricalcare, in qualche misura,
l’ordine del decalogo ebraico, riportato in Deuteronomio 5, 6-21 e in Esodo 20, 2-17:
Ego sum Dominus Deus tuus, qui eduxi te de terra Ægypti, de domo servitutis. Non habebis
deos alienos coram me. Non facies tibi sculptile, neque omnem similitudinem quæ est in
cælo desuper, et quæ in terra deorsum, nec eorum quæ sunt in aquis sub terra. Non adorabis
ea, neque coles : ego sum Dominus Deus tuus fortis, zelotes, visitans iniquitatem patrum in
filios, in tertiam et quartam generationem eorum qui oderunt me: et faciens misericordiam in
millia his qui diligunt me, et custodiunt præcepta mea. Non assumes nomen Domini Dei tui
in vanum: nec enim habebit insontem Dominus eum qui assumpserit nomen Domini Dei sui
frustra. […] Honora patrem tuum et matrem tuam, ut sis longævus super terram, quam
Dominus Deus tuus dabit tibi. Non occides. (Exodus 20, 2-13)
35 TANGHERONI (2004: 214): «Pietro IV nelle Costituzioni presenta se stesso, […] come il re pacifico e pio, pronto alla
misericordia, erede di chi era venuto a liberare i sardi da un giogo tirannico. Era l’immagine che più ampiamente
aveva dato di sé il 23 febbraio [del 1355], nel suo discorso di apertura del Parlamento, tutto costruito sulla base di
citazioni bibliche in latino commentate in catalano. Egli era il re giusto e misericordioso, ufficiale e luogotenente in
questo mondo di Nostro Signore e, sull’esempio di questi, venuto a salvare i sudditi dalla cattiva situazione in cui
erano, pronto ad ascoltare tutti, compresi coloro che, essendosi comportati male, si erano pentiti».
36 È quanto rilevato da Gallinari a proposito della donazione del 1066 del giudice calaritano Torchitorio a favore
dell’abbazia di Montecassino, a proposito della «formula “rex a Deo electus vel coronatus” attribuita al giudice, che
risulta interessante perché sembrerebbe che si possa cogliere in essa la volontà politica del governante di far derivare
la sua autorità direttamente dalla Divinità, senza alcuna mediazione terrena, e di realizzare un’operazione di
omologazione culturale e politica. La suddetta espressione corrispondeva alla formula Dei gratia che compariva in
contemporanea nei documenti prodotti dai sovrani occidentali» (GALLINARI 2010: 161).
37 LALINDE ABADÍA (2004: 30): «La Carta de Logu è ispirata a una concezione trascendente del diritto di derivazione
ecclesiastica e canonica, dato che se il destinatario fondamentale della norma è il regno, mostra uno speciale interesse
per la Chiesa e per le ragioni ecclesiastiche. Lo stesso atto di emanazione dello Statuto è rivolto ai fedeli e ai sudditi
“ad honori de Deus Onnipotenti, e dessa gloriosa Virgini Madonna Santa Maria Mamma sua”».
38 VIRDIS (2012) e SERRA (2012a, 2012b e 2012c).
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Confrontando questa parte del decalogo ebraico con i primi capitoli della Carta de Logu
sembra emergere una stretta vicinanza al modello biblico nell’ordine seguito dai
compilatori arborensi per la costruzione della prima parte del testo sardo. A chi avrà
consultato, in un Medioevo estremamente sensibile agli spunti religiosi, una copia della
Carta de Logu, il susseguirsi dei primi capitoli avrebbe offerto il seguente quadro: “De
qui offenderet sa Sengoria” (I), “De qui tractarit traicioni o desonore” (II) e “Qui ochirit
homini” (III). Sebbene non si possa essere certi che il sistema di titolatura fosse già
compreso nella redazione della Carta offerta dal manoscritto, ciò non toglie che così
come nel libro esodiaco, anche nella Carta de Logu l’accento sembra essere posto, in
prima battuta, sulla categoria del delitto “politico”, che mira a scongiurare il pericolo di
attentati al giudice e ai suoi familiari, alla loro vita («Non habebis deos alienos coram
me»), al loro onore («Non assumes nomen Domini Dei tui in vanum») e ai loro beni.
Anche nel decalogo esodiaco poi, alla categoria del delitto politico segue quella del
delitto contro le persone («Non occides»). In questo possibile “calco” del modello
retorico offerto dall’Antico Testamento nella dispositio testuale della sezione incipitaria
della Carta de Logu, il suo fruitore medievale poteva forse cogliere l’aspetto divino e
umano del sovrano, connaturato alla visione dello Stato che i giudici volevano
trasmettere. Il potere del giudice mirava ad essere la risultante dell’armonica
integrazione del re con i suoi sudditi, ma il sovrano, cioè colui che detiene la summa
potestas, è il defensor pacis, il luogotenente di Dio in terra.
Se è vero ciò che afferma Lalinde Abadía e cioè che gli estensori della compilazione
arborense non sembrano aver seguito, nella struttura e nella suddivisione del testo, alcun
modello giuridico, per esempio di matrice romanistica o giustinianea, che sia chiaramente
riconoscibile (LALINDE ABADÍA 2004: 20), il paradigma di riferimento strutturale della
Carta de Logu, o per lo meno di parte della sua prima sezione, potrà allora essere ricercato
al di là delle fonti “terrene” della ratio iuris.
Il messaggio veicolato dalla precisa distribuzione degli argomenti nella sezione iniziale
della Carta, probabile riflesso dei comandamenti veterotestamentari, mirerebbe insomma a
dimostrare come il rispetto dell’autorità sovrana si inscriva direttamente nel salvifico piano
della provvidenza. Sembra cioè che anche per i compilatori della Carta de Logu, come per
gli scriptores monastici che si dedicavano alla compilazione dei condaghes, la tipologia
biblica rappresenti non una pratica esteriore, ma una vera e propria forma di pensiero e di
strutturazione dell’argomentazione possibile in una società, come quella medievale, dedita
alla ruminatio intensa e appassionata della Scrittura.
Per rendersi conto della distanza che separa la Carta de Logu da altri testi statutari
sardi pressoché coevi o di poco anteriori, sarà sufficiente il confronto con gli Statuti
Sassaresi, scritti in epoca precedente alla conquista aragonese della Città (1323-1324)39
e dunque imbevuti del clima politico e della dimensione ideologica dell’Italia comunale,
essendo il Comune di Sassari nato nella prima metà del ’200 sotto gli auspici di Pisa e
poi passato nel 1294 sotto il controllo di Genova. Il testo degli Statuti Sassaresi si apre,
almeno nella redazione che ci è pervenuta, sul giuramento del podestà, figura la cui
elezione veniva affidata agli anziani della Repubblica. Seguono poi, secondo la formula
prevista dagli Statuti, i giuramenti del Cavaliere coadiutore e del Notaio del Podestà. In
assenza di un sovrano che rappresenti il “capo” del corpo politico e sociale e che si
39 D’ARIENZO (1986: 110): «nel 1316 il nostro Statuto sardo fu soltanto ricopiato e […] tale trascrizione fu fatta sulla
base di un testo ufficiale, originale, già esistente, in lingua logudorese».
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ammanti degli attributi del simbolismo religioso, non c’è chiaramente spazio per una
costruzione teologica e scritturale del testo di legge.
Certo non bastano questi pochi rilievi per dimostrare in modo definitivo l’influenza
scritturale nella redazione della Carta de Logu o per saggiarne adeguatamente la pervasività
e la profondità d’azione. È però interessante soffermarsi sui Commentaria di Olives e sugli
accostamenti che egli instaura tra il codice arborense e le Sacre Scritture non solo per
ricavarne quanto questi parallelismi ci possono suggerire nella direzione dell’analisi
sociolinguistica delle tipologie testuali sarde e del grado di formalizzazione delle strategie
retoriche utilizzate, ma anche per misurare l’impatto che il trattato di Olives dovette avere
nella ricezione della Carta de Logu40. Se è vero che i Commentaria rivestirono autorità di
legge nei secoli a seguire, è allora molto probabile che la lettura di questo testo, come la sua
ripubblicazione nelle successive edizioni, abbia avuto un’influenza notevole nella
rappresentazione simbolica della Sardegna, nell’immaginario che intorno al mondo
archetipico della civiltà giudicale doveva essersi sviluppato anche grazie alla suggestiva
rappresentazione dei tempi antichi offerta dall’edizione madrilena della Carta de Logu.
L’aver “imposto” al testo una chiave di lettura scritturale conferisce al testo di legge
un’ispirazione divina e trasforma la Carta de Logu, agli occhi dei lettori dei Commentaria,
in un libro chiaramente depositario di una “verità” e di un messaggio di giustizia e pace
non più solo umane. Se con il rimando alla galleria di governi ginocratici e la rievocazione
di Virgilio si avverte l’impegno del giureconsulto nel voler dimostrare che gli statuti sardi
e la civiltà di cui sono espressione non sono isolati culturalmente, con le citazioni e i
parallelismi di matrice biblica Olives non deve fare alcuno sforzo dimostrativo. È la stessa
Carta de Logu che sembra fornirgli l’appiglio per dimostrare come il corpus giuridico
arborense non derivi asfitticamente da una “vicenda” locale, ma respiri, conformandosi
alle pratiche di riconoscimento sacrale invalse presso le altre monarchie occidentali, una
tradizione culturale pienamente europea. I suoi Commentaria, con un piede in Sardegna e
un piede in Spagna, oscillanti tra il regionalismo sardo e l’incipiente tentativo iberico di
conferire al mondo un aspetto “globalizzato”, dispiegano insomma delle chiare strategie di
legittimazione giocate anche e soprattutto intorno al potere della parola biblica.
4. Cenni sulla variazione nello spazio linguistico sardo
Come primo esempio di presa di coscienza della stratificazione linguistica propria
della situazione di diglossia che caratterizzava parte della Sardegna del Cinquecento, si è
soliti ricordare le parole del cagliaritano Sigismondo Arquer, autore della Sardiniae
brevis historia et descriptio, composto nel 1549 e poi pubblicato nel 1550, a Basilea, per
i tipi dello stampatore Heinrich Petri, all’interno della prima edizione in lingua latina
della Cosmographia universalis di Sebastian Münster. Nella sua Sardiniae brevis
historia (ed. LANERI 2007), Arquer dedica una sezione specifica alla “questione della
lingua” (De Sardorum lingua), stendendo uno “specchietto” trilingue latino-catalanosardo nella preghiera Pater noster. Ma è rimasta famosa soprattutto la sua “fotografia”
della situazione sociolinguistica sarda: «sunt duae praecipuae in ea insula linguae, una
qua utuntur in civitatibus, et altera qua extra civitates. Oppidani loquuntur fere lingua
Hispanica, Tarraconensi seu Catalana, quam didicerunt ab Hispanis [...] alii vero
genuinam retinent Sardorum linguam» (ARQUER, Sardiniae brevis historia et descriptio,
40 ARRIETA ALBERDI (2010: 50): «Il valore interpretativo della glossa di Olives sembra confermato dall’accoglienza che
ricevette presso altre grandi autorità del tempo e anche presso alti magistrati sardi come Joan Dexart e Francisco de Vico».
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ed. LANERI 2007: 30). Poco più tardi anche Giovanni Francesco Fara, nella sua In
Sardiniae Chorographiam, probabilmente composta tra il 1580-1 e il 1584-5, offre uno
spaccato del plurilinguismo sardo:
Loquuntur lingua propria Sarda cum ritmice, tum etiam soluta oratione, praesertim in capite
Logudori ubi purior, copiosior et splendidior est; et cum Hispani plures, Tarraconenses seu
Cathalani, et Itali migrarunt in eam et commerciorum gratia quotidie adventant, loquuntur
etiam lingua Hispanica, Tarraconensi seu Cathalana, et Itala hisque omnibus linguis
concionatur in uno eodemque populo seu auditorio. Calaritani tamen et Algarenses
communiter utuntur suorum maiorum lingua Cathalana, alii vero genuinam retinent
Sardorum linguam. (FARA, In Sardiniae Chorographiam, ed. CADONI 1992: 152)
Rilevanti, in questo condensato di sociolinguistica, sono le considerazioni in merito
all’opposizione tra le città iberofone e le campagne sardofone in un Cinquecento dove la
diglossia comincia a marcare un confine geografico e culturale e in cui l’ascesa del
castigliano quale lingua di prestigio non è comunque riuscita a soppiantare le altre lingue del
repertorio isolano e a tradurre la propria influenza in una vera e propria egemonia culturale41.
Troppo spesso però si dimentica, forse anche per l’assenza di una moderna edizione
critica dei suoi Commentaria, che anche la figura di Girolamo Olives ha contribuito a
immettere la Sardegna e il suo sistema giuridico all’interno del circuito internazionale e,
così come quella di Arquer, anche la sua opera, per quanto non contenga una sezione
specificamente dedicata alla questione della lingua, è una miniera di preziose
osservazioni sociolinguistiche.
Rispetto alla Sardegna del XVI secolo, immersa in differenti tradizioni linguistiche e
culturali coesistenti all’interno di una singola comunità, in un Cinquecento in cui la
funzione di polo linguistico alto comincia ad essere assunto dal castigliano, ma con il
catalano che continua in Sardegna a ricoprire il ruolo di lingua del mondo urbano, dei
notai e dell’amministrazione ecclesiastica, Olives si pone, in particolare nelle sequenze
con finalità traduttive, come una sorta di mediatore linguistico e culturale.
Si osservi la glossa che il giureconsulto appone al cap. 111 della sua edizione (basata
su un’edizione a stampa, verosimilmente l’incunabolo, e corrispondente al cap. 111 del
manoscritto), dove si parla dei vincoli ai quali sono sottoposti i legatori di pelle 42; la
Carta de Logu dispone infatti che tutti i ligadores che legano pelli ad Oristano non
possano legare alcuna pelle in fascio se questa non sia stata preventivamente
contrassegnata con il marchio stabilito.
‹I›tem ordinamus qui sus ligadores totu qui ligant corjus in Aristanis siant tenudus de non
ligare corju perunu in faxi si non est signadu de cusu sinnu qu’est ordinadu. Et ‹qui› contra
faguirit siat postu in su bangullieri cun uno corju a guturu, e posca istit in prexoni infin’a qui
ad avir pagadu sollos xx. (Carta de Logu, ed. LUPINU 2010: 150)
41 MANINCHEDDA (2000: 178): «L’algherese Antonio Lo Frasso (seconda metà del XVI secolo) scrive in castigliano e
solo marginalmente in catalano e in sardo; il canonico Gerolamo Araolla (1545-fine del sec. XVI) scrive in castigliano,
italiano e sardo; il nobile bosano Pietro Delitala (1550-1592 ca.) in italiano, l’umanista Gian Francesco Fara in latino,
Sigismondo Arquer in latino, italiano e castigliano. Un cenacolo di studiosi sassaresi vive ed opera fra Sassari e le
Università di Pisa e Bologna, scrivendo prevalentemente in latino».
42 Cfr. MAMELI DE’ MANNELLI (1805: 127, nota 187), sui ligadores: «Quei, che affasciano le cuoja: ed ecco molte
persone interessate per precetto penale nel marcamento delle cuoja, i propietarj, e compratori, i Ministri di Giustizia, i
Mercatanti, i Maceratori, i Conciatori, e fin anche coloro, che ne formano i fasci; colle quali cautele s’ottengono due
cose assai interessanti, cioè il più facile scoprimento dei furti di bestiame, e la più sicura riscossione de’ dritti».
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Concentreremo la nostra attenzione sul vocabolo bangullieri, che nell’incunabolo si
presenta nella forma panghuliere (f. 22v), al quale, come vedremo, Olives dedica una
glossa. Sul significato di questo vocabolo, si può leggere la spiegazione fornita dal
giurista ottocentesco Giovanni Maria Mameli de’ Mannelli:
Pangulieri l’ho tradotto tanto qua, quanto nel cap. 142. berlina, sebbene possa significare
anche la gogna, perché sufficiente punizione mi è parsa nell’uno, e nell’altro caso la berlina
in sussidio della pena pecuniaria d’una, e di due lire rispettivamente, abbenchè lire di que’
tempi, essendo più grave la pena della gogna. Panga si denomina in sardo quel banco, su cui
i Beccaj tagliano, e vendon la carne pubblicamente: ciò sia detto a maggiore intelligenza
della voce pangulieri. (MAMELI DE’ MANNELLI 1805: 128, nota 188)
Sulla sua scorta, anche Guarnerio traduce il termine come berlina e lo mette in relazione
con il logudorese bangu (Guarnerio 1905: 126), etimologia ripresa e approfondita da
Blasco Ferrer: «il significato […] è quello di ‘(mettere alla) berlina’, ma la connessione
col sardo bangu non può che derivare dal fatto che codesta voce significava ‘macelleria’,
ossia il luogo dove gli animali venivano scuoiati e i cuoi cotti e predisposti per la
vendita. Secondo noi, dunque, banguleri è una neoformazione sarda imperniata su
bangu, con l’aggiunta del suffisso -eri (druperi, fusteri, barberi). Chi trasgrediva perciò
le norme d’allestimento dei cuoi veniva esposto al pubblico con i cuoi addosso, prima
d’essere condotto in carcere» (BLASCO FERRER 2003: 144).
Partiamo allora dalle attestazioni del manoscritto e dell’incunabolo per giungere alla
glossa di Olives. Innanzitutto si noterà che la lezione del manoscritto, bangullieri, non
concorda con quella dell’incunabolo, che ha panghuliere. L’oscillazione dell’occlusiva
bilabiale iniziale, sonora nel manoscritto e sorda nell’incunabolo, può essere forse dovuta
al fatto che, accettando l’etimologia proposta, il sardo presenta, per indicare il banco da
macelleria, sia la parola bangu/bancu che la variante pangu/panga43. Qualche
considerazione in più merita, visto che l’intenzione è quella di concentrarsi sull’attenzione
mostrata da Olives per il catalano, il suffisso utilizzato per la formazione di questa parola, eri/-ere. Quello che ci interessa non è l’alternanza tra le vocali anteriori -e ed -i in
posizione finale, che è tipica dell’arborense (e in questo la Carta de Logu non fa
eccezione), ma il fatto che si tratti di un suffisso molto produttivo e già attestato nei
documenti sardi antichi (per esempio, lo incontriamo già nel Condaghe di San Pietro di
Silki o negli Statuti Sassaresi), che è stato preso in prestito dall’italiano, dal catalano44 e
dallo spagnolo (PINTO 2011: 63).
Che la parola bangullieri/panghuliere potesse essere di difficile comprensione già nel
Cinquecento è un’ipotesi che possiamo cominciare a formulare a partire dal fatto che Olives,
come a breve vedremo, si senta tenuto a spiegarla e che trova conferma se leggiamo cosa
accade nella prima delle edizioni “logudoresizzanti” della Carta de Logu. Al suo posto,
nell’edizione sassarese del 1617 compare la voce fanguleri: è impossibile che si tratti di un
mero errore tipografico dovuto alla sostituzione di una lettera ad un’altra poiché il termine,
con questa stessa grafia che presenta la fricativa iniziale al posto dell’occlusiva, compare
coerentemente sia nel testo che nel commento di Olives che l’edizione riproduce. Possiamo
forse immaginare che il vocabolo che indicava il luogo della vergogna pubblica possa aver
43 DES, s.v. bánka, p. 149: «bánku, bángu log. e camp. ‘banco’, specm. il banco da macello, il desco o pancone su cui
i macellai spezzano la carne da vendere; anche pánga, pángu».
44 WAGNER (1997 [1951]: 316-317): «si devono considerare come italianismi (nel tosc. antico –iere o –eri si usavano l’uno a
fianco dell’altro, ed ancora nei dialetti toscani –eri è molto in uso […].) Nel periodo catalano-spagnolo penetrarono nel sardo
molte parole col suffisso spagnolo –ero e soprattutto col cat. –er; […] Tali suffissi si aggiungono anche a voci sarde».
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subito una contaminazione con la parola fangu, creando una sorta di ibrido inesistente45, ma
dotato di un senso immediatamente comprensibile, data la sua capacità di evocare la
“lordura” della dignità del reo sottoposto a una simile pena.
Il commento di Olives, invece, per una volta, lascia da parte le questioni giuridiche,
per soffermarsi proprio su questa vox insolita:
IBI in text. su panghuliere est locus iustitiae, qui dicitur vulgo la vergonya, alibi dicitur lo
costell et in aliquibus partibus regni ut Sassari dicitur la girella, quae est in platea palumba
quae alias vulgo dici solebat corte de lardu de hoc panghuliere loquitur capitulum 142.infra.
(OLIVES 1567, f. 96r46)
La glossa funziona come un “agglutinatore” semantico e interlinguistico, condensando
intorno alla parola “difficile”, in questo caso bangullieri/panghuliere, una serie sinonimica
(la vergonya, lo costell, la girella, corte de lardu) di grande utilità per la ricostruzione non
solo del sardo, ma anche delle altre lingue medievali che con il sardo sono entrate in
contatto. In chiave sociolinguistica, ci interessano però soprattutto le osservazioni in
merito alla distribuzione areale delle varianti. Il sintagma locus iustitiae è presente in
quanto tecnicismo giuridico e quindi variante diastraticamente alta e diamesicamente
orientata sul polo dello scritto. Le altre realizzazioni del termine nel volgare catalano
(«dicitur vulgo») sono la vergonya47 oppure lo costell, quest’ultimo termine tecnico che
indicava il «pal on hom lligava el qui era condemnat a la vergonya pública. Les formes
més corrents foren una columna de pedra amb anelles o bé unes fustes que, en unir-se,
deixaven uns forats per a subjectar algun membre del condemnat. Solia esser a l’entrada de
les poblacions o en un lloc públic» (VIRELLA I BLODA 1982: 263-267).
Possiamo inoltre vedere un accenno alla variazione diatopica quando Olives scrive «et
in aliquibus partibus regni ut Sassari dicitur la girella». A Sassari prevale quindi la varietà
urbana locale, il dialetto sassarese, scaturito dal contatto tra volgari italiani e logudorese48.
La voce girella49 è utilizzata in italiano come sinonimo di ‘berlina’, come si evince da
un’attestazione in latino del 1228: «potestas seu consul de Carmignano non possit punire
aliquem in persona, possit tamen ponere ad berlinam, girellam et frustare occasione furti»
(RICCI 1895: 373). Alle osservazioni diatopiche di Olives, possiamo inoltre aggiungere che
in Sardegna era noto e adattato alla fonetica sarda già nel Trecento anche il termine
berlina, come si evince dalla lettura del Breve di Villa di Chiesa: «Et se no(n) avesse di
che pagare, stia tucto uno die ala catena dela berrina» (Breve di Villa di Chiesa, ed.
RAVANI 2011a: 118), dove la voce berrina presenta un’assimilazione progressiva -rl- > -
45 Che queste edizioni non siano nuove a simili operazioni di manipolazione linguistica è cosa nota (cfr. PAULIS 1997: 117).
46 L’edizione riporta il 99 come numero di pagina, ma si tratta di un errore nel posizionamento del 6, poiché la carta in
questione si trova tra la 95 e la 97. Come sottolinea lo stesso Olives, anche al cap. 142 dell’incunabolo (intitolato “Qui
iscongiarit vigna o orto”), privo di corrispondenza nel manoscritto, si fa menzione della voce panguliere, previsto
come pena per chi entri illecitamente nelle vigne o negli orti e non paghi la sanzione prevista entro i termini stabiliti:
«et si non paghat infra .viii. dies daessa die qui at esser tentu siat posto in su panghulier» (Carta de Logu, incunabolo,
f. 32r). Si noti alla voce panghulier l’assenza della vocale finale (mero errore tipografico o voce con morfologia
suffissale schiettamente catalana?), che Olives reintegra nella sua edizione (f. 113r).
47 ALCOVER e MOLL (1993: s.v. vergonya): «Posar algú a la vergonya: exposar un delinqüent en un lloc públic perquè
la gent sàpiga que ha delinquit».
48 Cfr. TURTAS (1981) e SANNA (1975).
49 Cfr. TLIO, s.v. berlina. Il GDLI (1970 VI: 846) alla voce girella attesta come primo significato «ruota della
carrucola; la carrucola stessa» e poi aggiunge: «Ant. e reg.: la tortura della corda (che passava per una carrucola)».
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rr- non attribuibile al toscano (cfr. TLIO, s.v. berlina), ma al sardo, che non è estraneo a
questo fenomeno consonantico anche per i prestiti da altre lingue50.
Anche il sardo ci offre un altro sinonimo di pangulieri, come corte de lardu, ed
entrambe le parole lasciano traccia del proprio passaggio anche nella toponomastica
sarda: si pensi alla piazza principale di Paulilatino (in provincia di Oristano), oggi
ribattezzata piazza Indipendenza, ma nota anche con il nome di su pangulieri, mentre
corte de lardu era chiamata, come risulta da un elenco compilato nell’Ottocento, una
delle sette contrade di Castelsardo (in provincia di Sassari) (ROGGIO 1999). Pasquale
Tola, nel suo Dizionario biografico degli uomini illustri di Sardegna, nel tracciare il
profilo di Olives, cita proprio questo passaggio dei Commentaria in cui il giureconsulto
menziona la piazza Palumba a riprova dell’origine sassarese di Olives, poiché, scrive:
[…] bastava leggere le chiose dallo stesso Olives fatte alla Carta de Logu per conghietturare
con critico fondamento ch’egli era nato in Sassari. Infatti sono da lui ricordati in vari luoghi
di detta sua opera i nomi vigenti al suo tempo, ed i già antiquati, non solo delle vie e delle
piazze principali, ma perfino dei chiassetti di detta città, come (per darne esempio) laddove
rammenta che la piazza Palumba, in cui si dava la colla ai malfattori era prima chiamata
Corte de ladru. (TOLA 1837-1838 III: 43-44, nota 24)
Si vede allora come Olives ci permetta di osservare uno spaccato sincronico del
Cinquecento, mostrandoci la coesistenza in Sardegna di più varietà, e l’organizzazione di
queste in repertori funzionalizzati, fornendoci utili suggerimenti sui rapporti tra la
distribuzione della popolazione e la storia degli usi linguistici nello spazio, nonché la
possibilità, per quanto anacronistica perché relativa al Cinquecento inoltrato, di andare
oltre il testo della Carta de Logu, e di cogliere lo scarto tra scritto e parlato, essenziale
per gli studiosi che si occupano del Medioevo e della prima Età Moderna e possiedono
solo testimonianze scritte.
I casi di traduzione delle voci difficili sarde in Catalano o in Spagnolo nei
Commentaria sono anche altrove abbastanza frequenti: si tratta spesso di vere e proprie
“traduzioni culturali” nel senso che i Cultural Studies ci hanno insegnato a conoscere,
cioè di specchietti sinonimici nei quali Olives dimostra di avere profonda coscienza del
fatto che le identità e le culture – la sarda, l’italiana, la catalana, la spagnola – che
entrano in gioco nel ventaglio di competenze linguistiche di un sardo del Cinquecento,
non sono mai fisse, determinate e perfettamente sovrapponibili le une alle altre, ma
ritagliano spazi sempre diversi e spesso non del tutto coincidenti nella sfera del
significabile. È chiaro che la consapevolezza di questo sfasamento tra lingue e significati
permette anche, attraverso lo sguardo straniato indotto dal metodo comparativo, di
interrogare l’uso e la pratica del sardo medievale, di un serbatoio lessicale in perenne
tensione allo scopo di integrare nel proprio orizzonte di senso linguaggi altri e, con
questi, anche nuovi ragionamenti e visioni del mondo (cfr. MAZZARA 2007).
Nel commentare la rubrica che apre la sezione degli Ordinamentos de silvas (che si apre
al cap. 81 dell’incunabolo), che regolamentano lo sfruttamento dei boschi, Olives precisa:
In ista rubri. silva non ponitur in proprio significatu secundum capitula sequentia, nam silva
proprie est nemus cum suis arboribus, inde silva caedua quae succiditur vel quae est iam
succisa, et iterum renovata arboribus […] sed secundum capitula sequentia capitur hic silva
pro venatione, quae fit in silva, nam capitula sequentia loquuntur de venatione, et sic etiam
50 VIRDIS (1978: § 24): «R+L > -rr-: MERULA(M), FERULA(M)> (*MEURLA, *FEURLA) > meurra, feurra, it.
ciarlare > c’arrai».
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lingua Hispana appellatur monteria, ipsa venatio quae fit in monte, ponuntur sub ista rubri.
quatuor capitula quae loquuntur de materia venationis. (OLIVES 1567: f. 77r)
Sebbene nel ’500 la diffusione del Castigliano appaia minoritaria in Sardegna, Olives
introduce la voce spagnola montería, «caza de jabalíes, venados y otras fieras que llaman
caza mayor» (ALONSO II 1958: 2886), così come altrove, soffermandosi sui vocaboli
utilizzati per indicare specifiche razze canine, nomini la voce ventor («s. XV al XX
Perro ventor. El de caza, que sigue a ésta por el olfato o viento», ALONSO III 1958:
4144) e la voce podenco («adj. s. XIV al XX. Dic. del perro sumamente sagaz y ágil para
la caza, por su gran vista, olfato y resistencia», ALONSO II 1958: 3329), come si legge
nella glossa al cap. LXXXIV:
Istud capitulum etiam sub eadem rubri. continuat eandem materiam venationis, et dicit quod
si aliquis occupaverit cervuum quem canis odoriferus coeperit, qui est ipse jagaru quem text.
ponit. Nam canis odoriferus est ipse canis qui vadit ad rastrum ut dicimus et lingua Hispana
appellatus ventor, canis vero molosus est ipse canis de posta, ut dicitur vulgariter, et canis
vergatus est ipse podencus […]. (OLIVES 1567: f. 77v)
O ancora, a commento del capitolo XXXVIII, “De proare sos cavallos”, ci offre un’altra
parola catalana:
Et hac de causa ne animalia domita de prato discurrant ad locum seminatorium et vetitum
(appellatum vidatone) solent in aliquibus locis tenere de nocte et includere boves domitos in
quadam curte quae alias appellatur vulgariter lingua Sarda mandra, et ista curtis in qua boves
includuntur appellatur proprie bubari in lingua Sarda habes rubri. propriam in cap. 179 sub
rubr. dessos bubaris, et etiam curte ut in c. 43 sub rubri. qui levarit raigua, et lingua Catalana
dicitur corral. (OLIVES 1567: ff. 44r-44v)
Olives introduce qui i due vocaboli mandra e bubari, utilizzati in sardo entrambi con il
significato di ‘recinto’, ma specializzatisi in modo differente: «il gulbare, bulbare e varr.
era un recinto in cui dovevano restare rinchiusi la notte i bovini, per evitare che essi,
vagando incustoditi, arrecassero danno ai campi coltivati. La mandra, invece, era uno
spazio di terreno prativo […], nel quale il bestiame minuto, e segnatamente le pecore e le
capre, potevano pasker oltre che jaker» (PAULIS 1997: 108-109).
La forma riportata da Olives per bubari è uno scempiamento di quella che occorre più
volte (bubarris, bubarri, bubarre) nella Carta de Logu al cap. CLXXIX, presente
esclusivamente nell’incunabolo e non nel manoscritto. Paulis ritiene la voce bubari
difficile da spiegare da un punto di vista dell’evoluzione fonetica: «È indubbio che il
bubari della Carta de Logu sia la stessa parola che in logudorese antico appare come
gulbare, bulbare e varr. Da essa si differenzia soltanto per la caduta dissimilativa della
prima liquida, caduta che però potrebbe anche essere dovuta non già a un fenomeno
fonetico, ma a una lezione corrotta, tanto più che l’incunabolo quattrocentesco reca
addirittura la forma bubarri, con un -rr- foneticamente impossibile (a meno che non si
pensi a una metatesi, anche soltanto grafica, della r + cons. del tipo burbari > bubarri)»
(PAULIS 1997: 109).
Casi come questo, in cui Olives attesta nei suoi Commentaria una voce sarda che
suscita qualche dubbio negli studiosi moderni, ci pongono di fronte alla necessità di
stabilire quale peso accordare alla testimonianza del giurista sassarese. Bisogna cioè
decidere se possiamo assegnare alla sue attestazioni un valore dirimente, nel qual caso
Olives confermerebbe che la voce della Carta de Logu non sia una lezione corrotta
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dell’incunabolo, oppure se questa attestazione della voce bubari senza la liquida sia da
attribuire alla semplice citazione delle forme contenute nel capitolo CLXXIX a cui Olives
esplicitamente rimanda. Va comunque notato che Olives, nel riportare nel commento
latino la voce bubari, non si limita a riprodurre pedissequamente ciò che legge nella
stampa che ha sotto gli occhi. Così, se andiamo a verificare quali varianti utilizza nella sua
trascrizione del capitolo CLXXIX, ritroviamo bubaris, ma anche bubarri e bubarre
(OLIVES 1567: f. 119v). Questo fatto può forse essere interpretato come un indizio della
relativa autonomia, propria di chi maneggia il repertorio con la destrezza del madrelingua,
con la quale Olives si accosta al sardo e all’incunabolo della Carta de Logu, la cui facies
linguistico-grafica egli non riproduce del tutto fedelmente, riservandosi quel margine di
libertà d’intervento che è proprio del suo spirito di editore critico e attento.
Olives ci propone una significativa variazione sinonimica del sardo (chiaramente in
condizioni di sinonimia relativa, non perfetta), con tre varianti quali mandra, bubari e
curte (che Olives trae dal cap. XLIII dove si legge corte de boes), che potremmo
intendere come co-iponimi di ‘recinto’, che Olives presenta nella forma catalana corral,
appunto «recinte per a tancar bestiar» (DECLC II: 946-951), definizione più generica e
imprecisa rispetto a quella sottesa ai lemmi mandra e bubari, specializzatisi nel sardo in
un senso ristretto.
Inoltre, bisognerà rilevare come per Olives tradurre non sia quasi mai un fatto neutro,
non sia per lui quasi mai questione di “chiamare le cose” con le parole degli altri, ma
rappresenti anche l’occasione per “manipolare” la lettura storica del passato sardo e dei
suoi rapporti con la corona catalana, come emerge in diversi passaggi, di più ampio
respiro, nei quali, per esempio, sottolinea la legittimità dei giudici d’Arborea e il loro
legame con la sponda iberica del Mediterraneo ricordando il vincolo parentale che vede i
regoli oristanesi imparentati con la potente famiglia catalana dei Cervera, grazie alla
quale acquisiscono il titolo di visconti di Bas:
pater istius Aeleonorae fuit iudex Marianus […] et qui fuit etiam iudex arborensis, et isti
iudices arborenses ut ibi apparet in dicto c. nos Marianus, habebant etiam terras in capite
Lugudorij, et probatur etiam hic ibi et contissa de Gocianu, nam comitatus Gociani est in
capite Lugudorij, et habebant etiam terras in principatu Catalonie, nam erant vicecomites de
Basso, qui vicecomitatus est in Catalonia, qui vicecomitatus Bassi et Caprera hodie sunt
illustrissimi domini Almirantis Castellae. (OLIVES 1567, f. 3r)
Ma spesso il suo sguardo si allarga anche a registrare i passaggi storici legati ai
cambiamenti lingua-legge. Interessante è per esempio la riflessione con la quale Olives
accompagna il ricordo della richiesta che il viceré di Sardegna dal 1556 al 1559, Álvaro
de Madrigal, inoltrò allo stamento militare del Parlamento da lui presieduto nel 1558 e il
decreto viceregio dell’8 aprile del 1565 (ARMANGUÉ I HERRERO 2009). Nel documento,
che ci è pervenuto, si legge:
Item supplica a Vostra Magestat dit Stament Militar, que, per quant en lo present Regne hi
ha algunes ciutats, com es la de Vila de Sglesie, y Bosa, que tenen Capitol de Breu ab lo
qual se regexen, y son en llengua Pisana o Italiana, y per lo semblant la Ciutat de Sasser tè
alguns Capitols en llengua Jenovesa o Italiana; y, per quant se veu, nò convè nì es just, que
lleys del Regne stiguen en llengua stranya: que sia provehit y decretat, que dits Capitols sian
traduhits en llengua Sardesca o Cathalana, nò mudada la substancia dels altres; y que los de
llengua Italiana sien abolits, talment que nò reste memoria de aquells.
Que se traduescan en llengua Cathalana. (BAUDI DI VESME 1877: 920)
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Olives, nel 1567, quindi a breve distanza dalla richiesta presentata al Parlamento, ricorda
appunto la sollecitazione a provvedere ad una traduzione, che non riguarda però la Carta
de Logu. Il perché è chiaro: se per la Corona è tollerabile un codice di norme en llengua
Sardesca, non è però accettabile che in alcune città sarde sopravvivano ancora testi
statutari redatti nelle lingue dei precedenti dominatori, idiomi che, proprio in ragione
dello stretto legame lingua-identità che la Corona ha ben presente, vanno condannati alla
damnatio memoriae. Scrive infatti Olives:
Sardinia fuit sub differenti monarchia secundum diversa tempora, aliquando fuit sub dominio
et monarchia ecclesiae per quam tandem fuit infeudata foelicibus regibus Aragonum, aliquando
fuit sub monarchia Pisana, quae licet parum duraverit tamen aliquando regnarunt in Sardinia, et
aliquando sedes Apostolica et Senatus pisarum faciebant aliquas ordinationes et capitula quae
mandabant servari in aliquibus partibus regni, et illa talia capitula dirigebant et transmittebant
in regnum cum literis ad modum brevis, quibusquidem literis vel breve mandabant servari talia
capitula, et hinc poterant dici capitula brevis, quae usque in hodiernum diem sic nominantur in
civitate ecclesiarum, et in parlamento Illust. don Alvari de Madrigal proceres de stamento
militari in cap. 9 supplicarunt quod aboleretur tale nomen capitulorum brevis et quod
traducerentur de lingua Itala in maternam. (OLIVES 1567: f. 73r)
Interessante notare che Olives ricorda solo la richiesta di traduzione «de lingua Itala in
maternam», cioè in sardo, mentre si dimentica (non possiamo sapere fino a che punto
volutamente oppure per una vera svista) che l’istanza prevedeva anche una traduzione en
llengua Cathalana.
Il limitato spazio a disposizione ci esime dal portare altri esempi, peraltro decisamente
numerosi, soprattutto sul versante filologico, a riprova della sensibilità (socio)linguistica
di Olives. L’apporto dei Commentaria nell’analisi della tradizione della Carta de Logu si
presenta dunque decisivo quale testimonianza del profondo cambiamento dei rapporti tra
il sardo e il catalano nel Cinquecento: le glosse latine “registrano” infatti la viva voce di
un sardo che, proprio intorno a quelle antiche norme arborensi che cominciavano ad
assurgere ad emblema della “nazione” sarda, e riflettendo sulle lingue che in essa
confluiscono, erige la propria “idea” di Sardegna.
5. Conclusioni
Pur nella loro estraneità al processo di strutturazione dell’architettura del sardo, alla
quale ha contribuito un testo come la Carta de Logu, che irrompe nel panorama della
produzione medievale isolana fornendoci una “fotografia” di una prima faticosa
organizzazione del polo alto, formale e scientifico del sardo arborense, i Commentaria et
glosa sono però altamente rappresentativi delle forze identitarie che, nel corso del tempo,
si sono coagulate intorno al codice giudicale, quale strumento di rappresentazione
dell’alterità linguistica all’interno dell’eterogeneo corpo giuridico che si stringe intorno
alla Corona d’Aragona.
Si osservi cosa accade quando, nel confronto tra il lessico latino e quello sardo sul
terreno del linguaggio giuridico, che da un punto di vista dell’interpretazione si presenta
rigidamente vincolato51, si pone il problema della definizione giuridica di un vocabolo.
51 MANTOVANI (2008: 34): la lingua del diritto «possiede un vocabolario di tecnicismi specifici, cioè parole o
espressioni polirematiche che posseggono un significato giuridico pressoché univoco. La maggior parte di questi
termini, a causa del loro ristretto significato, che non si prestava a riusi, è rimasta confinata all’uso specialistico […].
Altri, pur nati in ambito giuridico e mantenendo in quest’ambito il loro significato univoco, sono stati adottati in senso
più o meno traslato nella lingua comune».
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Per esempio, in merito al cap. 101, De inventario, Olives crea un piccolo cappello
introduttivo alla nozione giuridica di ‘inventario’:
De inventario. Inventarium vulgo appellatur, quod alias lex appellat repertorium ut dicit text.
in l. tutor qui repertorium ff. de administra. tuto. et dicitur repertorium et inventarium
secundum gloss. ibi in d.l. tutor qui eo quia reperta et inventa in bonis pupillis continet, et ibi
descripta sunt, potest etiam dici repertorium et inventarium eo quia in eo reperiantur, et sunt
reportata et inveniuntur bona quae erant describenda. (OLIVES 1567: 90r)
È evidente come Olives stia qui manifestando la consapevolezza che il lessico giuridico,
così come si è specializzato in sardo, non sia perfettamente sovrapponibile al vocabolario
latino, che utilizza, per esprimere lo stesso concetto, anche il termine repertorium (cfr.
DU CANGE: s.v. repertorium: «Jurisconsultis idem quod Inventarium»). Sta insomma
svolgendo una funzione di mediazione culturale, perché mette a confronto il tecnicismo
sardo con la terminologia proveniente dalla giurisprudenza romana.
La distinzione è sempre tra un registro alto, quello della lex che si esprime in lingua
latina e che ci fornisce un termine tecnico come repertorium, e un registro basso, quello
del vulgo sardo, che ha deciso di recuperare dal serbatoio il termine inventario. Si noti, tra
l’altro, che il termine inventario occorre, in riferimento al cap. CI, solo nel titolo e che il
sistema di titolatura della Carta de Logu è presente solo nell’incunabolo e non nel
manoscritto, come probabile aggiunta seriore. Il termine inventario occorre però in altri
capitoli del manoscritto, per es. il cap. CXXIII De nodaios, dove rientra all’interno di un
elenco di “atti” a disposizione del notaio: «iscriviri et notari toto sos contractos,
testamentos et inventarios et incantos et acteras causas et cartas». Nel definire in senso
tecnico il significato di un termine giuridico sardo, Olives conferisce ai suoi Commentaria
una valenza che è anche normativa, se è vero che le sue glosse, come ebbe a scrivere
Schupfer, rivestirono «vigore di legge» (SCHUPFER 1908: 380) e dovettero dunque servire
a dissipare i dubbi degli stessi “operatori” del diritto che frequentavano i tribunali sardi.
Un altro esempio è dato dalla rubrica che Olives antepone alla sezione della Carta de
Logu “Ordinamento de chertos et de nunças”:
Ibi chertos vult dicere lites, nam ‘chertu’ est lis, sic habes infra in rub. de chertadore cap. 62.
et rub. de chertu cap. 63. et rubr. de chertus cap. 70. et in rubri. de chertos dubidosos c. 77.
Nunça, idem est quod citatio vel notificatio, quasi nuntio a nuntio, est enim latinum
corruptum, ut saepe dixi quod lingua Sarda est latinitas corrupta, quod nunça sit citatio vel
notificatio de aliquo actu probatur infra cap. 52. de corona et in cap. 53. de nunça de corona
et in c. 55. in rubri. de nunças et in c. 58. rubr. de mandare nunça. (OLIVES 1567: f. 50v)
In questo passaggio, Olives non si limita a definire il significato di chertu52 (‘lite’), qui
specializzatosi nel senso di ‘contesa giudiziaria’, e quello di nunça53 (‘citazione’), anche
questo da intendersi come tecnicismo nel senso di ‘citazione presentata davanti a un
magistrato’, ma si lancia in un giudizio di valore sulla lingua sarda che egli vede come
una varietà di latinitas corrupta. Difficile valutare pienamente cosa intenda quando
definisce il vocabolo nunça come latinum corruptum: bisogna chiedersi se cioè l’accento
vada posto sulla nozione di latinitas e Olives si allinei così all’idea, diventata
precocemente un luogo comune, del carattere di estremo conservatorismo della lingua
dei Sardi, grammaticam tamquam simiae homines imitantes, come ebbe a dire Dante nel
52 DES, s.v. kertare.
53 DES, s.v. nunthare.
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De vulgari eloquentia (I, 11, 7) escludendo il sardo dalla sua ricerca del volgare illustre
perché dal poeta ritenuto mera imitazione del latino; oppure se Olives constati nel lessico
giuridico sardo, capace di elaborare autonomamente il proprio vocabolario tecnico in una
condizione di «“non separatezza” dalla lingua comune» (ANTELMI 2008: 89),
l’allontanamento e la deviazione (o, per dirla con termini cinquecenteschi, la corruzione),
operati dal latino volgare, dalla norma classica.
Se il compito del giurista, nella sua operazione di attualizzazione del messaggio
giuridico della medievale Carta de Logu, dovrebbe essere semplicemente quello di
istituire dei validi collegamenti tra le due lingue, latino e sardo, mostrandone gli scarti e
ricucendone le incongruenze e le reciproche differenze, a fronte della «consustanzialità
tra la norma giuridica e la sua espressione linguistica» (ANTELMI 2008: 90), non è così
per Olives, che si appropria di alcuni atteggiamenti verso il latino o verso i volgari che
caratterizzano la produzione trattatistica cinquecentesca di ispirazione teorica, di ambito
anche spagnolo, tutta impegnata negli accesi dibattiti sulla ‘questione della lingua’54.
D’altra parte, si è avuto modo di vedere come, stante la grande utilità “pratica” del
testo, non manchi nei Commentaria un risvolto teorico e, soprattutto, ideologico. Le
glosse, che dovrebbero innocentemente farsi veicolo della scientia iuris, regalando alla
Sardegna un diritto “patrio” che si confronti alla pari con gli altri diritti nazionali
europei, sono spesso costruite attraverso l’evocazione di immagini dotate di una propria
dimensione stilistica e di un valore retorico, la cui riprova ci è fornita dalla ricerca di un
modello scritturale che informi la stesura della Carta de Logu.
Quando Olives stende il suo commento, il processo di funzionalizzazione della
variazione linguistica ha già avuto modo di strutturare i ruoli da attribuire alle diverse
varietà, a vantaggio di quelle iberiche, il catalano in particolare, nei rapporti alti, e
soprattutto nella prassi scrittoria: le sue considerazioni ci regalano un fugace spaccato
della distribuzione diatopica e diafasica di alcuni sinonimi concorrenziali nel
Cinquecento, offrendoci una proiezione areale del persistere della varietà locale o,
viceversa, della profonda penetrazione delle lingue esogene, ben al di là della dicotomica
opposizione città catalanofona contro campagna sardofona proposta da Arquer.
Ma soprattutto, allargando lo sguardo alle alterne vicende storiche che hanno
interessato l’Isola, l’opera di Olives inaugura l’inizio di un nuovo corso storico, in cui
scrivere di lingua sarda e di Sardegna avrà sempre più a che fare con ragioni politiche e
territoriali, rivendicazioni etniche e utopie nazionalistiche. La sua voce, espressione di
un tentativo di centralizzazione di una delle periferie dell’Impero, ci racconta da un
nuovo e privilegiato punto di vista la storia delle complesse relazioni, anche linguistiche,
tra gli organi centrali della Monarchia iberica e i regni ad essa collegati.
Riferimenti bibliografici
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