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Rhesis International Journal of Linguistics, Philology and Literature Committee GIOVANNA ANGELI (Università di Firenze) PHILIP BALDI (Pennsylvania State University) NIEVES BARANDA LETURIO (Universidad Nacional de Educación a Distancia) WALTER BREU (Universität Konstanz) JOSEPH BUTTIGIEG (University of Notre Dame) ARMIN BURKHARDT (Universität Magdeburg) PEDRO CÁTEDRA (Universidad de Salamanca) ANNA CORNAGLIOTTI (Università di Torino) PIERLUIGI CUZZOLIN (Università di Bergamo) ALFONSO D’AGOSTINO (Università di Milano) KONRAD EHLICH (Freie Universität Berlin; Ludwig-Maximilians-Universität München) ANDREA FASSÒ (Università di Bologna) ANITA FETZER (Universität Lüneburg) JOSEPH FRANCESE (Michigan State University) SAMIL KHAHLIL (Université Saint-Joseph de Beyrouth; Pontificio Istituto Orientale di Roma) ROGER LASS (University of Cape Town) MICHELE LOPORCARO (Università di Zurigo) GIOVANNI MARCHETTI (Università di Bologna) JOHN MCKINNELL (Durham University) CLAUDIO DI MEOLA (Università di Roma – Sapienza) HÉCTOR MUÑOZ DIAZ (Universidad Autónoma Metropolitana México, D.F.) TERESA PÀROLI (Università di Roma – Sapienza) BARTOLOMEO PIRONE (Università Napoli – L’Orientale) ATO QUAYSON (University of Toronto) PAOLO RAMAT (Università di Pavia) SUSANNE ROMAINE (University of Oxford) DOMENICO SILVESTRI (Università Napoli – L’Orientale) MARCELLO SOFFRITTI (Università di Bologna, Forlì) ERIC G. STANLEY (University of Oxford) THOMAS STOLZ (Universität Bremen) RICHARD TRACHSLER (Universität Zürich) Editors GABRIELLA MAZZON, IGNAZIO PUTZU (editor in chief), MAURIZIO VIRDIS Editorial Board RICCARDO BADINI, FRANCESCA BOARINI, DUILIO CAOCCI, FRANCESCA CHESSA, MARIA GRAZIA DONGU, MARIA DOLORES GARCIA SANCHEZ, ANTONIETTA MARRA, GIULIA MURGIA, MAURO PALA, NICOLETTA PUDDU, PATRIZIA SERRA, VERONKA SZŐKE, DANIELA VIRDIS, FABIO VASARRI Double blind, peer reviewed. Rhesis International Journal of Linguistics, Philology and Literature Linguistics and Philology 8.1 Dipartimento di Filologia, Letteratura e Linguistica Università degli Studi di Cagliari Rhesis International Journal of Linguistics, Philology and Literature Linguistics and Philology 8.1 ISSN: 2037-4569 © Copyright 2017 Dipartimento di Filologia, Letteratura e Linguistica Università degli Studi di Cagliari Partita IVA: 00443370929 Direzione: via S. Giorgio, 12 – 09124, Cagliari Sede ammistrativa: via Is Mirrionis, 1 – 09123, Cagliari LINGUISTICS AND PHILOLOGY 8.1 CONTENTS 5 «L’acqua correva con tanto impeto». La rappresentazione linguistica delle esondazioni nel XVI secolo: primi rilievi RITA FRESU 22 L’enigma del hronæs ban nel Franks Casket: una proposta interpretativa NICOLETTA GHESSA 54 Nuovi anglicismi nel discorso politico su Twitter ELEONORA MAMUSA 77 La morfologia verbale nel Breve Portus Kallaretani (ASP, Archivio Roncioni, ms. 322) GIULIA MURGIA 111 Il clitico [ŋkɛ] in sardo orgolese: dalla deissi all’aspetto CARMINU PINTORE 138 Agnizioni indomediterranee. Contesti culturali, riflessi linguistici, evidenze testuali DOMENICO SILVESTRI 176 Un recente contributo su Marziale e l’epigramma longum SABRINA SINIS 5 «L’acqua correva con tanto impeto». La rappresentazione linguistica delle esondazioni nel XVI secolo: primi rilievi1 Rita Fresu (Università di Cagliari) Abstract The paper draws the attention on the language of the Renaissance texts about floods starting from the analysis of some publications printed in the Sixteenth century in consequence of exceptional flooding of the Tiber (the “diluvi”). These documents represent a peculiar form of non-literary texts, which take different configurations: both brief reports and longer dissertations, structured in several parts, in which it is narrated how the event sparked off, also are discussed the causes of the phenomenon and the possible forecast, damages and consequences of owerflows, coping strategies. For such reasons this type of text represent a valuable source that allows to reconstruct patterns of perception and interpretation models of such a natural disaster. According to a historical-linguistic point of view the texts taken into consideration can be placed in the period of circulation of the Tuscan-Florentine model and, at the same time, in an important moment of expansion and stabilization of structures of the Italian language also in non-literary prose. The analysis focuses on the formal devices used to develop, narrate and linguistically represent such natural disasters, with particular reference to the syntactic-textual exposition and to semantic-lexical choices. Key Words – History of Italian Language; reports and printed notices; Disaster Texts; Rome; Sixteenth century L’intervento avvia una ricognizione sulla lingua di testi rinascimentali dedicati al fenomeno dell’esondazione attraverso una prima analisi di prodotti editoriali apparsi nel XVI secolo a seguito di eccezionali inondazioni del Tevere (i “diluvi”). Si tratta di una peculiare forma di pubblicistica non letteraria, che assume configurazioni testuali diversificate: dalla breve relazione descrittiva sino al trattato, articolato in più sezioni, in cui, oltre alla narrazione dell’evento scatenante, si discutono cause del fenomeno e possibilità di previsione, danni e conseguenze delle alluvioni e degli straripamenti, operazioni di soccorso, provvedimenti e strategie risolutive. Per siffatti motivi tale tipologia testuale costituisce una fonte preziosa che permette di ricostruire schemi di percezione e modelli interpretativi di un simile disastro naturale. Da un punto di vista storico-linguistico i testi esaminati si collocano nel periodo di diffusione del modello tosco-fiorentino e in un momento di espansione e stabilizzazione delle strutture della lingua italiana anche nella prosa non letteraria. La disamina linguistica qui proposta mette a fuoco modalità ed espedienti formali attraverso cui viene elaborato, narrato, rappresentato un evento calamitoso, con particolare riferimento all’articolazione sintattico-testuale e alle scelte semantico-lessicali. 1 Propongo qui, con modifiche e opportuni aggiornamenti, il testo della conferenza tenuta il 15 dicembre 2016 in occasione Workshop internazionale «Disaster Texts», Bibliotheca Hertziana – Max-Planck-Institut für Kunstgeschichte (Roma, 15-16 dicembre 2016), organizzato nell’ambito del progetto Disaster Texts. Literacy, Cultural Identity, Coping Strategies in Southern Italy between the Late Medieval and the Early Modern Period (Progetto STAR 2013, Università degli Studi di Napoli “Federico II”, coordinatore prof. Chiara De Caprio). Una versione ulteriormente integrata dell’intervento è anticipata in FRESU (in stampa). Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https://rhesis.it/ Linguistics and Philology, 8.1: 5-21, 2017 6 Parole chiave – storia della lingua italiana; relazioni e avvisi a stampa; testi di disastri; Roma; Cinquecento In la Rotonda si vedeva un mare2 1. I “diluvi” romani (e i disastri in genere) sub specie linguistica Con il presente contributo intendo proporre alcune riflessioni mirate ad avviare una ricognizione linguistica su testi che trattano il fenomeno dell’esondazione, attraverso l’analisi, per questo primo sondaggio, di prodotti editoriali nel XVI secolo dati alle stampe a seguito degli eccezionali straripamenti del Tevere (i cosiddetti “diluvi”). Si tratta di una peculiare forma di pubblicistica, che spesso appare molto a ridosso dell’evento, e che assume configurazioni testuali assai diversificate: diari, cronache, poemetti3, ma soprattutto resoconti e relazioni, descrittive e/o informative, e trattati, articolati in più sezioni, in cui, oltre alla narrazione del disastro, si discutono, in prospettiva più ampia e consapevole, cause del fenomeno e possibilità di previsione, danni e conseguenze delle alluvioni e degli straripamenti, operazioni di soccorso, disposizioni emergenziali, provvedimenti risolutivi. Per siffatti motivi tale documentazione – poco indagata sotto l’aspetto formale – costituisce una fonte preziosa (anche per la straordinaria vicinanza temporale con l’accaduto) che permette di ricostruire schemi di percezione e paradigmi interpretativi di un simile evento, del cui impatto, proprio sul finire del Cinquecento, si inizia ad avere maggiore coscienza, anche per effetto dello sviluppo edilizio della città e del mutato assetto urbanistico4. Da un punto di vista storico-linguistico tali testi si collocano nel periodo di diffusione del modello tosco-fiorentino – a cui, come è noto, significativo apporto diede proprio la stampa5 – e in un momento di espansione e stabilizzazione delle strutture della lingua italiana anche nella prosa tecnica e in quella con finalità pratiche e strumentali. Il loro accertamento linguistico, pertanto, consente di ricostruire le dinamiche di toscanizzazione, e in particolare di misurare la difformità con cui il fiorentino si andava imponendo, specialmente fuori Toscana, testimoniata dalla polimorfia riscontrabile in tutti i livelli di analisi (ma con particolare evidenza nel settore fono-morfologico)6. Si tratta di aspetti sui quali conto di tornare in altra occasione. In questa sede cercherò piuttosto di richiamare l’attenzione sugli espedienti formali attraverso cui viene elaborata, narrata, rappresentata linguisticamente una calamità naturale, con particolare Cfr. Diluvio di Roma che fu a. VII d’ottobre 1530, Bologna, per Giovanni Battista di Phaelli l’anno 1530, del mese di Novembre, c. 10. 3 Noto, per esempio, il cantare in ottava rima di Giuliano Dati, Del Diluvio de Roma del 1495 a dì 4 de decembre, per il quale vedi ESPOSITO and FARENGA (2011). 4 Su tali aspetti vedi almeno VAQUERO PIÑERO (2001). 5 Circa la stampa e il suo rapporto con la cultura volgare vedi TRIFONE (1993) e la bibliografia ivi indicata (di cui almeno TROVATO 1991 [2009]); spunti importanti anche in MARAZZINI (1993: 29-41). Sull’editoria a Roma, uno dei centri maggiormente forniti, come è risaputo, di tipografie dopo Venezia, cfr. almeno TRIFONE (1992: 45-46) (e, anche, dello stesso studioso 2008: 55-57) e LOMBARDI (2001, in partic. pp. 282285). 6 Vedi almeno SERIANNI (1997); ma fondamentali rimangono MIGLIORINI (19785: 429-496) e DURANTE (1981, in partic. pp. 171-210), e il già ricordato MARAZZINI (1993); utili spunti, inoltre, specialmente per gli aspetti sintattico-testuali e lessicali, si rinvengono in TESI (2005, in partic. pp. 25-47). 2 Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https://rhesis.it/ Linguistics and Philology, 8.1: 5-21, 2017 7 riferimento ai due comparti di lingua che maggiormente cooperano a livello pragmatico, quello dell’articolazione sintattico-testuale e quello relativo alle scelte semanticolessicali7. Il fenomeno delle esondazioni, al pari di altri eventi avversi, è stato oggetto di analisi nell’ambito della ricerca storica: è d’obbligo il rinvio ai contributi di Gerrit Jasper SCHENK, il quale, muovendo dalle definizioni e dalle formule descrittive (come inundatio, alluvio, diluvium universale e particulare) attribuite all’evento nei vari idiomi, ha enucleato schemi di percezione e modelli interpretativi, specialmente per l’epoca medievale8. Con specifico riferimento a Roma – e all’importanza che il suo fiume da sempre ha assunto nella storia della città – costituiscono un punto di riferimento gli interventi di Anna ESPOSITO (2002 [ma 2003]; 2006; 2010), cui si rimanda per un quadro anche bibliografico; andrà tuttavia ricordato almeno il contributo di Silvia ENZI (2006), che mette a fuoco, attraverso fonti cronachistiche e relazioni coeve, le cause (naturali, come i fattori meteorologici, e antropiche), le dinamiche e i percorsi ricorrenti, la distribuzione stagionale (con picchi di frequenza in novembre e dicembre) degli eccezionali straripamenti del fiume che colpirono l’Urbe; e, ancora, quello di BERSANI e BENCIVENGA (2001), che ricostruiscono, a partire dalla documentazione disponibile, la storia delle piene del fiume nel tratto urbano di Roma, problema che si risolse, come è noto, solo con la costruzione dei “muraglioni” del Lungotevere alla fine del XIX secolo9. Sul versante storico-linguistico occorre fare riferimento ai contributi dedicati alle diverse tipologie testuali che in modo vario, e con differenti obiettivi, hanno raccontato eventi drammatici, come appunto le esondazioni: la narrazione cronistica, innanzitutto, tipologicamente indagata, di recente, da più di un contributo10; poi la trattatistica, le cui peculiarità linguistiche sono affrontate in numerosi studi11 (nessuno dei quali, tuttavia, precipuamente dedicato a testi sull’esondazioni); le relazioni e gli avvisi a stampa, infine, per i quali sono disponibili gli interventi di Laura RICCI (2009; 2013, in partic. pp. 35-39), con un importante antecedente nello studio di Raymund WILHELM (1996), che analizza la fenomenologia di questo genere di documenti proprio in relazione al condizionamento che può derivare alla loro natura testuale. Una specifica linea di ricerca si sta sviluppando anche in Italia circa l’importanza in prospettiva storicolinguistica dei cosiddetti “testi del disastro”; diversi contributi in tale direzione provengono dagli studiosi che costituiscono il gruppo di ricerca del progetto ricordato in nota 1, per il quale si veda da ultimo il volume miscellaneo CECERE et al. (in stampa), al cui interno offre un inquadramento metodologico e bibliografico il contributo di Chiara DE CAPRIO (in particolare i primi due paragrafi), cui dunque rinvio. 8 Cfr. SCHENK (2007) e soprattutto (2010, in partic. pp. 42-65); ora, anche SCHENK (2016, nello specifico pp. 52-54); il medesimo volume miscellaneo contiene altri contributi pertinenti alle tematiche qui affrontate (vedi in partic. quello di ZIKA 2016); sulla questione inoltre utili rilievi si rinvengono anche in GUIDOBONI (2015, in partic. pp. 52-55). Accoglie interventi dedicati alle esondazioni in una prospettiva diacronicamente e diatopicamente più ampia, da ultimo, ancora SCHENK (2017), di cui si veda almeno il saggio introduttivo del curatore, alle pp. 3-44, e al quale si rinvia per un ulteriore aggiornamento bibliografico. 9 Ma vedi anche D’ONOFRIO (1980); ulteriore bibliografia inoltre in nota 21. 10 Vedi per esempio quello di DE CAPRIO (2012), per le cronache relative al Regno in età moderna (e ora, anche, DE CAPRIO 2017 e, in prospettiva specifica, DE CAPRIO in stampa); e, ancora, MONTUORI (2017); una sintesi ragionata è offerta da COLUSSI (2014), ma importanti rilievi sono contenuti anche in GUALDO (2013, in partic. pp. 15-72). 11 Una rassegna bibliografica è consultabile in APRILE (2014). 7 Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https://rhesis.it/ Linguistics and Philology, 8.1: 5-21, 2017 8 Propongo alcuni spunti di analisi muovendo da questa ultima classe di testo, per la quale – come è stato osservato12 – è possibile stabilire legami con la moderna cronaca giornalistica (a partire dalla disposizione del frontespizio e dallo stile brillante spesso adottato), quando mossa da intenti informativi, e nel contempo con i generi cosiddetti di consumo, laddove si guardi piuttosto alla circolazione popolare (lo smercio in strada, ad esempio, o la fruizione collettiva mediante lettura pubblica) e ad altri aspetti, come la fissazione di argomenti ritenuti appetibili per il grande pubblico. Uno di questi è rappresentato proprio dalla descrizione di prodigi e calamità, che vengono resi attraverso specifiche configurazioni testuali e meditate strategie linguistiche. Visti in una simile prospettiva tali documenti costituiscono un osservatorio privilegiato per indagare i circuiti di produzione, circolazione e ricezione di differenti tipi di testo generati dal disastro; testi cioè determinati dalla necessità di informare la comunità colpita da un evento calamitoso e nel contempo dall’esigenza da parte delle istituzioni di narrare l’accaduto restituendo un’immagine convincente e positiva della linea d’intervento adottata per fronteggiare l’emergenza e rassicurare la comunità traumatizzata. Gli studi, infatti, insistono sull’intensificarsi di certa pubblicistica (anche) come risposta da parte delle forze politiche, secolari e religiose, alla richiesta di notizie che in qualche modo gli eventi eccezionali producono; tali documenti quindi si configurano come efficaci strumenti di gestione e controllo delle informazioni, impiegati per orientare l’opinione pubblica e per rafforzare il prestigio delle classi dirigenti 13. La frequenza con cui il Tevere era soggetto a esondazioni, e la portata dei danni, ingenti sia per la densità demografica sia per il complesso assetto economico e architettonico-urbanistico della città, rendono i prodotti editoriali relativi all’Urbe particolarmente adatti a indagare la resa testuale di un simile disastro. A favore del dominio romano gioca anche, per il periodo prescelto, una discreta ricchezza documentaria, dal momento che proprio alla fine XV secolo e specialmente nel Cinquecento a Roma si registrano, a detta degli studiosi14, gli episodi più gravi, che sollecitarono appunto una pubblicistica specifica e specialistica, finalizzata certamente a conservare la memoria degli eventi ma, prima ancora, mirata a dar conto dell’emergenza e dei relativi provvedimenti da parte delle autorità, anche fuori dallo Stato della Chiesa. Da Roma, quindi, «centro di raccolta e smistamento delle notizie»15 – e in questo caso anche luogo dei fatti – le narrazioni di eventi eccezionali e funesti si irradiavano verso altre realtà politiche, prima tra tutti quella del limitrofo Regno di Napoli, “vicino” non solo geograficamente. La mobilità dei vari funzionari (ambasciatori, messi, delegati) che si spostavano dal Regno verso Roma, e viceversa, la presenza della comunità spagnola nell’Urbe, e in particolare presso la Santa Sede, i molteplici scambi culturali realizzati a più livelli, e mediante diversi canali (dalle istituzioni accademiche agli ambienti editoriali, ad esempio), paiono elementi sufficienti (e peraltro non unici) per ammettere l’esistenza di 12 Cfr. RICCI (2009) e (2013: 35-39); anche TRIFONE (1993: 437) sottolinea il «carattere protogiornalistico» dei fogli volanti. Uno sguardo ampio e paneuropeo su avisos, relaciones de sucesos e testi analoghi (con una focalizzazione sugli ambienti sardi) è reperibile nei saggi contenuti in ANDRÉS (2013). 13 Su tali aspetti cfr. CECERE (2017, in partic. pp. 64-65 e p. 71), specificatamente riferito ai resoconti delle eruzioni vesuviane del XVII secolo, cui si rinvia per ulteriori spunti e ragguagli bibliografici pienamente pertinenti con quanto affrontato in questa sede. E poi, ancora, vedi il già ricordato DE CAPRIO (in stampa). 14 Cfr. ENZI (2006: 15); ESPOSITO (2010: 258). 15 Così almeno TRIFONE (1993: 437). Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https://rhesis.it/ Linguistics and Philology, 8.1: 5-21, 2017 9 una fitta rete di contatti (documentata peraltro anche dalla massiccia corrispondenza epistolare tra le cancellerie) e dunque di profondi legami tra le due realtà politiche16. La risonanza di accadimenti notevoli inerenti all’Urbe è ben testimoniata, per esempio, dalla narrazione di Notar Giacomo che, nella “terza sezione” della sua cronaca (1510-11/1524 ca.), dedicata a eventi grosso modo coevi, così riferisce a proposito del “diluvio” del 4 dicembre 1495 (lo stesso da cui prese spunto Giuliano Dati per il suo citato poemetto): El quale dì 4 crescìo l’acqua del Tevero de Roma, ch(e) durò p(er) tuct(o) li 5 de decembre, che annegò le cantine de Roma et fe’ multo dapnno: et Roma era tucta acqua (§ 353,4-5)17. Siamo nel primo quarto del secolo. Col procedere dei decenni i legami tra Napoli e Roma si infittiscono e pare difficile negare la circolazione sui territori della Penisola di avvisi e prodotti editoriali di varia natura riguardanti eventi straordinari che, stando alle fonti, ebbero vasta eco anche di là dalle Alpi18. D’altro canto, anche RICCI (2009: 101) parla di «configurazione nazionale del fenomeno» e osserva come «gli avvisi stampati a Venezia o a Roma (ma anche a Milano, Bologna, Genova, Firenze, Napoli) si propagavano in altre aree d’Italia», alludendo, peraltro, alla mancata coincidenza tra luogo di origine (e di stampa) e luogo di arrivo (verosimilmente la sede di rinvenimento o di conservazione del testo); e, anche – parrebbe legittimo aggiungere – tenendo in considerazione il fatto che spesso il luogo di edizione del documento è differente rispetto al posto in cui si l’evento si verifica (come in alcuni dei casi di seguito esaminati). Gli indubbi legami, profondi e articolati su più piani, tra Stato della Chiesa e Regno di Napoli, dunque, e più in generale la consapevolezza della vasta circolazione di cui godé questo genere di pubblicistica, rendono lecito, nella prospettiva che qui si persegue, servirsi della documentazione relativa al dominio romano per avviare una prima disamina sulle strategie che caratterizzano la resa testuale di un’esondazione. 16 Ampia e disciplinarmente sfaccettata la bibliografia di riferimento. Limito i rimandi a pochi, essenziali rinvii: per ricostruire il clima socioculturale e linguistico a Roma e a Napoli durante il Viceregno cfr. rispettivamente almeno TRIFONE (1992: 28-56) e (2008: 35-63) e DE BLASI (2012: 65-88). Sulla mobilità dei governatori e dei funzionari spagnoli vedi MUSI (2013; utili spunti sui rapporti tra i due “stati” anche, dello stesso studioso, 2016) e, con riferimento alla prima metà del XVII secolo, ROVITO (2003). Circa il ruolo delle accademie, con specifico riferimento ai primi decenni del XVII secolo, ma con utili ragguagli anche per l’epoca antecedente, vedi GIANFRANCESCO (2010) e (2012) (ma già TRIFONE 1992: 53 insiste sui rapporti che l’Urbe alla fine del XVI secolo detiene, attraverso importanti centri di cultura, quali biblioteche e accademie, con i più qualificati ambienti italiani ed europei). Per un inquadramento storico che tiene conto anche delle realtà “periferiche” del Regno resta sempre valido GALASSO (1994). Spunti interessanti si recuperano nei contributi relativi a zone di “confine”, dove ancora più intensi erano i contatti del Regno con lo Stato della Chiesa, e più movimentate le dinamiche di scambio, come i territori abruzzesi, e in particolare il dominio aquilano, per cui si veda almeno MANTINI (20092). 17 Cfr. Cronica di Napoli, di Notar Giacomo, Napoli, Biblioteca Nazionale, ms Brancacciano II F 6; cito dall’edizione di Chiara DE CAPRIO (Roma, Istituto Storico per il Medioevo), in preparazione; ringrazio la curatrice per avermi liberalmente consentito l’accesso al testo, per una disamina del quale si veda il contributo della stessa studiosa nel citato volume collettaneo in stampa (e già, in prospettiva ampia, DE CAPRIO 2012; poi, ancora DE CAPRIO 2017). 18 Cfr. per esempio la segnalazione bibliografica in ESPOSITO (2010: 270 nota 43) a proposito di numerosi fogli volanti sulla devastante piena romana del 1530 (su cui vedi oltre) pubblicati nello stesso anno in diverse località della Germania. Sulla circolazione degli avvisi a stampa cfr. RICCI (2009: 100-101 e 112114); ragguagli circa la diffusione di simili testi, malgrado la dispersività del genere, si ricavano, in prospettiva generale, anche in ROZZO (2008); vedi inoltre MONACO (1992). Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https://rhesis.it/ Linguistics and Philology, 8.1: 5-21, 2017 10 2. Analisi dei documenti 2.1. La Relatione della Spaventevole inondatione (1599) [piena del 1598] Propongo, a titolo esemplificativo, una perlustrazione su documenti relativi al devastante straripamento del 1598. Alla vigilia di Natale un’improvvisa piena del Tevere (superiore alle precedenti, inclusa quella terribile dell’ottobre 1530, per la quale vedi oltre § 2.3.), sommerge quasi l’intera città causando, secondo le fonti, moltissime vittime, ingenti perdite di bestiame, vettovaglie e mercanzie, notevoli danni agli edifici, tra cui – forse il più noto – il crollo definitivo di Ponte Senatorio (o di Santa Maria o Emilio), che da allora sarà appunto Ponte Rotto19. A poco più di una settimana dal drammatico evento, il 2 Genaro 1599, appare per i tipi di Giuseppe Pavoni la Relatione della Spaventevole inondatione20. Composto da 4 pagine (precedute da un frontespizio), il resoconto porge al lettore il fatto secondo un’articolazione testuale che muove dalle cause (rintracciate nei venti), prosegue con la descrizione dello straripamento, raffrontandolo con precedenti analoghi, la stima dei danni, che vengono elencati in un ordine ascendente che va da quelli subiti dagli edifici fino alla perdita di vite umane; e, ancora, offre dettagli sui tempi, su quella che modernamente chiameremmo la “macchina dei soccorsi”, sulle strategie di intervento, sui provvedimenti disposti dalle autorità, e si conclude con un richiamo alla sfera religiosa (nell’allusione al miracolo del corpo del San Bartolomeo). Si tratta di una fonte pressoché ignorata dagli studi che si sono occupati dell’evento, e l’esemplare consultato pare costituire – se non ho visto male – l’unico conservato per l’editore ligure, disponibile soltanto nella stampa dell’epoca21. Vale dunque la pena riportare integralmente il testo: Relatione della spaventevole inondatione fatta dal Tevere nella citta di Roma, & suoi contorni, alli 23. di Decemb. 1598. Nella quale si dà notizia delle cose principali seguite in essa, sì del danno inestimabile c’hà patito della Città, quanto anco delli possibili aiuti, & liberalità usata dalla Santità di N. S. Papa Clem. VIII. & Illustriss. Cardinali, in così urgente bisogno verso il Popolo Romano. Con il numero degli affogati, & altri particolari degni da sapersi, per pregare il Signor Iddio ne guardi da simili infortunij, & morti repentine. Sull’evento, che costituisce una delle piene più note e devastanti che colpirono la città, cfr. ENZI (2006: 16). 20 Relatione della spauenteuole inondatione fatta dal Teuere nella citta di Roma, & suoi contorni, alli 23 decemb. 1598, In Genoua, appresso Giuseppe Pauoni, 1599; ho consultato l’esemplare custodito presso la Biblioteca Universitaria di Sassari. 21 Non ne fanno menzione, per esempio, ENZI (2006: 16 e 19-20) ed ESPOSITO (2010). Tuttavia, BENCIVENGA, DI LORETO e LIPERI (1995: 126 e 170) segnalano un omonimo e pressoché identico (almeno a un primo sguardo) documento, pubblicato nel 1599 a Milano, presso li Impressori, Camerale & Archiepiscopale; ne riproducono il frontespizio e la prima carta (p. 126, fig. 2 - Manoscritto di Anonimo sulla inondazione del 1598, presso la Biblioteca del Servizio Idrografico di Roma) e ne trascrivono alcuni stralci a p. 160; di questa stampa meneghina sembrano esistere diversi esemplari in alcune biblioteche settentrionali (Milano, Pavia, Torino; cfr. anche il catalogo in BOLOGNA 1965-1966), che al momento non è stato possibile consultare. Circa Giuseppe Pavoni (1551 ca. - 1641), noto tipografo-editore, attivo a Genova nella seconda metà del XVI secolo e i primi decenni del secolo successivo, stampatore dell’esemplare qui commentato, cfr. RIVALI (2014). 19 Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https://rhesis.it/ Linguistics and Philology, 8.1: 5-21, 2017 11 [1] Relatione della spaventevole inondatione fatta dal Tevere, nella citta di Roma, & suoi contorni, alli 23 di Decembre del 1598 Di Roma, li 2. Genaro 1599 La causa dell’Inondazione del Tevere è stata per venti Meridionali, onde la sera delli 23. del mese di Decembre passato, cominciò a uscir del suo letto il Tevere ne’ luoghi più bassi della Città, crescendo tuttavia sino alle dieci hore della notte seguente, si che restò tutta la Città sotto acqua; fuori che li sette Monti, & la somità d’alcuni luoghi più rilevati nel mezzo della Città, superando di gran lunga li segni dell’altre inondationi, che sono seguite ne’ tempi antichi, & anco moderni, & particolarmente di doi palmi più di quella, che venne al tempo di Papa Cle[2] Clemente Settimo, tanto memoranda, che seguì l’anno 1530. Il danno, che per ciò e causato, è tanto, è tale che si rende inestimabile, poi che non ci è persona, che non habbi sentito in qualche parte, ò poco, ò assai, passando il danno à milioni, affermando tutti, che questo danno sia stato peggio di un sacco, & come la rovina sia stata infinita, non è per ancora venuta à notitia del tutto, si dirà solo per hora, l’haver portato via otto Molini, havendoli somersi con gli huomini, & grano, che vi era dentro, & si è rovinato il Ponte di Santa MARIA, da i duoi archi in fuori, restaurati dalla felice memoria di Papa Gregorio Decimoterzo, parte del Ponte Molle, & quello di Sant’Angelo, ancorche sia restato immobile, essend’anco dalla furia dell’acqua state menate via tutte le casette, & botteghe, che stavano dirimpetto al Castello, sono cadute diverse case, & molte tuttavia minacciano rovina, & frà li danni notabili, sono stati quelli di molti Librari, & Droghieri, & quello, che è importato è li Magazeni di vini, & d’olio, & molte stanze ove si trovava riposto grandissima quantità di formento per li bisogni publici, & privati della Città, si sono affogati da quaranta prigioni, che erano in Torre di Nona, & nelle campagne si sono affogate molte persone, bestiami grossi, & piccioli. Que[3] Questo horrendo spettacolo durò sino alle quattro hore di notte, & in quell’hora, che si dice esser nato Nostro Signore GIESU CHRISTO, cominciò à calar talche il giorno di Natale era già calato tre palmi, quella mattina non si poterono celebrare secondo il solito li divini offitij nelle Chiese per essere state piene di acqua, La Santità di Nostro Signore, che dalle Loggie del Palazzo con li occhi pieni di lacrime, & con interno dolore stette à vedere si miserabile rovina, & oltre le continue orationi non resparmiando a spesa alcuna, ordinò subito che si mandassero quante barche si poteva in Prati, per salvare tutte quelle famiglie, che si trovavano in quelle case, & fece dispensare per le Parochie danari, & pane, non cessando frà tanto il Cardinal Aldobrandino dar buonissimo ordine à tutte le cose necessarie per il vitto, & salute del popolo, al quale faceva somministrare con barche, si come facevano gli altri Cardinali, & Baroni, dimostrando quella pietà, & liberalità, che si poteva desiderare maggiore. Si attende hora à nettare le stanze, rifarcire le case fracassate, & nettare le cantine, non senza timore, che per tanta humidità à Primavera non si abbia da sentire qualche gran malatia. Havendo anco Sua Santità ordinato una congregatione per [4] per vedere di trovar modo che per l’avenire si proveda a simili inconvenienti, trattandosi di fare un’altro letto per la valle detta l’Inferno. Si dice, che per l’inondatione sudetta si siano affogate dentro di questa Città, & nel contorno da mille quattrocento persone, & che la Città di Terni habbi anch’essa patito un simile influsso. S’è publicato un bando, che tutte le robbe, che sono state trovate in fiume si debbano notificare all’officio di Ripetta, per restituirle a’ patroni. Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https://rhesis.it/ Linguistics and Philology, 8.1: 5-21, 2017 12 E successo un miracolo del corpo di S. Bartolomeo che si ritrova nella Chiesa de’ Frati Zoccolanti nell’Isola di Trastevere, il qual è, che havendo il sudetto Fiume allagato essa Chiesa, non poteva l’acqua accostarsi al luogo, ove è il corpo di detto Santo per alquanti palmi, con tutto che soprabondasse da ogni banda. IL FINE Come si nota, la sintassi appare lineare e giustapposta; tende a presentare i fatti in maniera oggettiva adottando strategie caute (per esempio la dichiarazione, in apertura, di parzialità di notizie sui danni dovuta alla vicinanza temporale). La selezione degli introduttori verbali – tutti impersonali (si attende, si dice, s’è pubblicato un bando e passim) – sembra riflettere questo atteggiamento distaccato; per lo più assenti anche le formule che mirano a certificare la veridicità delle notizie veicolate. Anche le scelte lessicali appaiono, tutto sommato, misurate e prive di intenti enfatizzanti, a parte l’iterazione, più che prevedibile, di alcune parole-chiave come danno. Una virata di stile, tuttavia, si registra nella porzione di testo relativa agli interventi repentini (lo sottolinea anche l’avverbio subito) di papa Clemente VIII22 e, in generale, all’impegno del clero per soccorrere la popolazione, aspetto sul quale tutte le fonti storiografiche ufficiali relative all’evento hanno insistito. Nei righi dedicati il testo appare arricchito da segmenti modali (con li occhi pieni di lacrime & con interno dolore) impiegati per sottolineare il coinvolgimento, anche emotivo, del Pontefice; spiccano alcune dittologie costituite da termini semanticamente positivi (danari & pane, vitto & salute, pietà & liberalità) che evocano le sfere del benessere e del conforto, risultati appunto dalle misure adottate dal clero per fronteggiare l’emergenza. 2.2. Il Trattato dell’inondazione del Tevere 1599 (piena del 1598) Pare utile operare un accostamento con il Trattato dell’inondazione del Tevere23, stilato, in occasione del medesimo evento, nel febbraio del 1599, da Giacomo Castiglione (per stessa ammissione dell’autore in lingua volgare per intelligenza di tutti), e fatto stampare da Giovanni Martinelli nel giugno dello stesso anno: L’opere che conservano la memoria di qualsivogli accidente, devono essere abbracciate con desiderio poiche servono assai in altre occasioni simili per pigliar partiti oportuni, e guardarsi; oltra che con la sola narratione sodisfannno alla curiosità di quelli, che cercano di haver informatione delle cose successe. Io dunque con molta prontezza ho fatto stampare questo Trattato del Castiglione del diluvio del Tevere, che inondò Roma il mese di Decembre prossimo passato… Giovanni Martinelli Di Roma il dì primo di Giugno 1599 22 Ossia Ippolito Aldobrandini (Fano 1536 - Roma 1605) il cui pontificato si estese dal 1592 al 1605 (cfr. BORROMEO 1982); il prelato a cui si allude nel testo è Pietro Aldobrandini (1571-1621), nominato cardinale nel 1593 dallo zio Clemente VIII (cfr. FASANO GUARINI 1960). 23 Giacomo Castiglione, romano, Trattato dell’inondatione del Teuere. Di Iacomo Castiglione Romano. Doue si discorre delle caggioni, e rimedij suoi, e si dichiarano alcune antichità, e luoghi di autori vecchi. Con una relatione del diluuio di Roma del 1598. Raccolta da molti diluuij dalla fondatione sua, & pietre poste per segni di essi in diuerse parti di Roma; con le sue altezze, e misure. E con un modo stupendo col quale si saluorono molte famiglie in Castel Sant’Angelo, in Roma, appresso Guglielmo Facciotto, adistantia di Giouanni Martinelli (ho consultato la copia digitalizzata della Biblioteca Nazionale Centrale “Vittorio Emanuele II” di Roma disponibile al link https://books.google.it/books?vid=IBNR: CR000226275&redir_esc=y; ultima consultazione 30/09/2017). Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https://rhesis.it/ Linguistics and Philology, 8.1: 5-21, 2017 13 Il Trattato quindi segue di poco la Relatione, e tuttavia appare decisamente più “costruito” sul piano ideologico. Ciò trova corrispondenza nelle scelte linguistiche, sin dalla narrazione degli episodi più drammatici, che – come si nota dalle porzioni di testo evidenziate nel passo che segue – vengono restituiti ai lettori attraverso lo sguardo attonito e spaventato delle vittime che subiscono impotenti la furia devastante dell’acqua. Indicativo a tale proposito, per esempio, è l’uso, reiterato, di un verbo di percezione, come vedere, rafforzato peraltro dal pronome, e seguito dagli infiniti: un accorgimento formale che riconduce la narrazione al punto di vista di coloro che furono direttamente coinvolti nella tragedia: sulle 20. hore il Tevere cominciò à correre con tanto impeto per tutte le strade di Roma havendo riempito prima tutte le cantine quasi occultamente che spaventava tutti, e non era barcarolo alcuno che per molte contrade si assicurasse di andare. Stavano le persone in casa attonite vedendo si horribile spettacolo, ne sapevano che fine dovesse havere. Si vedevano molti guastar la robba, libri, biade, farine, drappi, merce, spargere e portar via ogli, vini, legna, massaritie, morire nelle stalle cavalli, & altri animali (6-7). Ancora più articolato, testualmente, e contraddistinto da soluzioni linguistiche meditate, appare il passo in cui il compilatore riferisce con dovizia di dettagli l’impegno del Cardinale Aldobrandini (a cui l’opera è peraltro dedicata), nipote del papa, intervenuto personalmente per sostenere e confortare la popolazione colpita, in particolare attraverso un capillare rifornimento alimentare; vale la pena notare l’insistenza, innanzitutto lessicale, sulla sfera dei bisogni primari più impellenti (efficacemente espressi dal sintagma incredibile fame) e su quella dei generi di prima necessità (pane, innanzitutto, termine-chiave reiterato) che appunto la liberalità del cardinale non fa mancare: E ben vero che il Cardinale Aldobrandino, che per questo era stato mandato da Borgo in Roma da N.S. in tanti mali non mancò di soccorrere con ogni oportuno rimedi, mandando molte barche pagate con Officiali, dove più era il bisogno, è dove si poteva per liberare quelle persone che correvano pericolo di restare sommerse. Non era minore il male che si pativa per la carestia del Vitto. Che niuno quasi, o pochi in Roma si ritrovava provisto in casa, comprandosi ogn’uno ò facendosi portare à di per dì pane, & altre cose da mangiare. Oltra che essere le Mole rotte ò menate via, & i forni bassi sotto acqua, soprastava una incredibil fame. Tutti dunque spaventati, & adolorati quel giorno se ne stettero con un silentio che recava horrore, guardando la furia della piena, che senza intermissione cresceva, la notte pochissimo si dormì, co’ lumi dalle finestre, alte si mirava, per sapere che progresso faceva si brutto mostro, che co’ lo strepito e rumore grande augumentava l’affanno alle persone [...] La mattina seguente giorno di San Stefano Protomartire si trovò che il fiume si era ritirato da molti luoghi rilevati. Subito si vide comparire in persona il Cardinale Aldobrandino a cavallo con una bona compagnia de suoi e con muli carichi di pane che lo andava distribuendo à poveri, e chi ne haveva bisogno. Have(n)done sempre fatto fabricare giorno, e notte à Fornari che havevano le loro habitationi ne monti, ò alle falde de’ monti, sicuri da simile influenza. Ne lasciò di seguitare con ogni instanza, acciò non ci fusse penuria di pane facendo venire di fuori farine in grandissima quantità. Onde non solo per le piazze, e botteghe sempre ci è stata abondanza di pane, mà si faceva anche portare su le Carette e Barche, di strada in strada, perche se ne potessero fornire le case (7-8). Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https://rhesis.it/ Linguistics and Philology, 8.1: 5-21, 2017 14 2.3. Il Diluvio di Roma che fu a. VII d’ottobre 1530 Torniamo alla tipologia testuale precedente, arretrando di oltre mezzo secolo. Lo stile asciutto, privo di toni enfatici, della Relatione del 1599 colpisce specialmente se confrontato con quello adottato in un opuscolo del 1530 sul memorabile, e altrettanto devastante, diluvio del 7 ottobre dello stesso anno, che ebbe, come già ricordato, una notevole risonanza anche fuori dai confini della Penisola (cfr. nota 18). Pubblicato a Bologna (per i tipi di Giovanni Phaelli) nel mese di novembre, l’opuscolo, anch’esso di 4 carte, è fruibile grazie allo studio del 1865 dell’erudito Benvenuto Gasparoni, il quale corredò il testo con annotazioni desunte dai documenti dell’epoca24. L’impianto testuale di questa relazione, assai differente da quella poc’anzi osservata, prende l’avvio da topoi consueti nella pubblicistica rinascimentale sulle piene del Tevere25: i presagi forieri del disastro, l’apparizione di mostri, eclissi di sole e di luna, le profezie inascoltate di monache sante: Io non lasciero di farvi sapere che nanti questa inondatione si sono vedute molte cose prodigiose dalle quali fu fatto laugurio che qualche terribbile e strano accidente si vederia in questa sfortunata Citade. Nacque un mostro che non haveva piedi: ne mani: ne viso: occhio naso: di maniera che non si poteva fare congiettura a che cosa si somigliasse: non haveva di maschio ne di femina ritratto: et non era effigie dhuomo ne di bestia. Oltra questo molti segni si sono nellaere veduti di giorno e di notte che porgevano molto di stupore e di tema: e stato visto da alcuni una matina nanti il giorno il Sole per il meno dun hora: et poi tuffarsi nelloriente: et non apparire fin al debito tempo (7-8). Una Monaca di divotione e santitate preclarissima: norma di religione: specchio di castitade et di virtude essempio: da spirito prophetico alluminata: di duo mesi inanti questo diluvio in cotal parole sciolse la lingua sua di sapientissima Sibilla. E non passa tutta la Luna di Settembre che Roma sera da piu grave infortunio oppressa che non fu al tempo del sacco. Ma ai tempi nostri poco o niente di fede si presta alle parole delle persone religiose et giuste: e chi seria stato quello cosi occhiuto che havesse potuto discorrere simile caso? (8). Nella resa di tali temi sono riconoscibili artifici segnalati dagli studi quali costanti formali dei generi di consumo e della pubblicistica divulgativa: l’uso dell’interrogativa fittizia, impiegata per sollecitare l’attenzione del lettore; e, ancora, la presenza di inserti metalinguistici con marche deittiche di prima e seconda persona (come io non lascero di farvi sapere) che alludono da un lato alla destinazione collettiva del documento, dall’altro alla consapevolezza da parte di chi scrive di dover soddisfare le curiosità del pubblico. Ma è soprattutto nella narrazione dei momenti cruciali che è possibile riconoscere il sapiente impiego di espedienti mirati a drammatizzare enfaticamente il racconto, che Diluvio di Roma che fu a. VII d’ottobre 1530, riprodotto e illustrato con note da Benvenuto Gasparoni, in «Arti e Lettere. Scritti raccolti da Benvenuto Gasparoni», Roma, Tipografia delle Scienze Matematiche e fisiche, 1865, Appendice al vol. II, pp. 81-98 e pp. 106-131, che a sua volta riproduce la cronaca «stampata in Bologna per Giovanni Battista di Phaelli | Lanno 1530 dil Mese di Novembre» [ora disponibile nella ristampa Benvenuto Gasparoni, Diluvio di Roma che fu a 7 d’ottobre 1530. Documenti sulle inondazioni del Tevere nella Roma del Cinquecento, riedizione dell’opuscolo del 1865, Cerchio (AQ), Edizioni Kirke, 2013]; sull’evento cfr. ESPOSITO (2010: 271-273). 25 Cfr. almeno ESPOSITO (2010: 265-272). 24 Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https://rhesis.it/ Linguistics and Philology, 8.1: 5-21, 2017 15 dunque producono effetti comunicativi di grande efficacia26: l’aggettivazione abbondante, caratterizzata da elementi elativi o semanticamente iperbolici con funzione enfatizzante; l’uso di verbi di percezione (udire quei lamenti, per esempio, ma anche vedere) funzionali a quell’iperdescrittivismo che trascina sensorialmente il lettore sulla scena della tragedia (e che è proprio della pubblicistica divulgativa); l’impiego di vocaboli appartenenti al campo semantico della sofferenza (lamenti: cridi: strida: urli: pianti: battere di palme: stracciare de vestimenta: graffiarsi de volti: percuotersi de petti) e che richiamano, studiatamente, per far leva sulla sfera degli affetti, quella delle relazioni amicali e di parentela: non solo quindi miseri fanciulli e le loro dolcissime madri, ma anche padre, fratelli, sorelle, mogli amici27: O cosa degna di compassione era udire quei lamenti: cridi: strida: urli: pia(n)ti: battere di palme: stracciare de vestimenta: graffiarsi de volti: percuotersi de petti: che riempivano laere: mai non fu udito caso di questo piu miserabbile: gra(n)dissimi tempi sono vedere dalle rapidissime onde portare quei miseri fanciulli presenti le dolcissime madri ne potere porgere loro ponto dagiuto: ma espettare essi simile fine di morire. Altri vedeva condurre a simel sorte padre: madre: fratelli: sorelle: moglie: amici: ne luno sapeva o havea forza di scampare laltro e men se stesso (9-10). 3. Spunti conclusivi Pur nella esiguità degli esempi offerti, si è cercato di mettere in luce come documenti tipologicamente distanti, ma talvolta appartenenti anche alla medesima classe di testo, possano esibire diverse modalità linguistiche per rendere uno stesso evento. Si tratta di differenze riconducibili a una serie di fattori tra loro interagenti: il condizionamento dettato dal genere testuale cui appartengono (pensiamo per esempio alla produzione e fruizione veloce delle relazioni verso quella più distesa dei trattati); poi il livello culturale degli estensori e le loro specifiche competenze scrittorie; ma, soprattutto, i diversi obiettivi comunicativi: meramente informativo, nell’avviso del 1598; apologetico, nel caso del Trattato; “drammatizzante” nell’opuscolo del 1530, nel quale è possibile scorgere una dimensione narrativa che si spinge fino all’espressionismo linguistico impiegato per amplificare enfaticamente l’evento; e, ancora, gli orientamenti ideologici che gli scriventi, o le categorie di scriventi, hanno inteso imprimere ai testi. A tale proposito sembrerebbero giocare un ruolo fondamentale i tempi di produzione e la circolazione dei documenti. Non sarà sfuggito infatti che il testo meramente descrittivo, potremmo anche dire più “neutro”, è quello cronologicamente più vicino all’accaduto, la Relatione del 2 gennaio (riferita all’evento del 23 dicembre); mentre il Trattato, più tardo di qualche mese, “costruisce”, anche linguisticamente, una «storia di successo»28 in merito alle misure adottate dalle forze politiche. Si tratta di risultati provvisori e tuttavia – sembra – indicativi di alcune linee di tendenza, particolarmente evidenti soprattutto in relazione alla variabilità dei generi 26 Circa il nesso fra disastri e narrazione si rinvia ai saggi contenuti in LAVOCAT (2011); e, ancora, si veda LAVOCAT (2012 [2013]). 27 Sembra possibile dunque rintracciare, in questo documento, quelle che RICCI (2009: 107) ha efficacemente definito «retorica della piacevolezza» e «retorica della manipolazione», ovvero strategie testuali che rispondono «al duplice intento di catturare l’attenzione del lettore e di orientare ideologicamente l’interpretazione del caso riferito»; cfr. anche RICCI (2013: 36). 28 La citazione è attinta dal paragrafo introduttivo in DE CAPRIO, FRESU e MONTUORI (2016: 571). Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https://rhesis.it/ Linguistics and Philology, 8.1: 5-21, 2017 16 testuali. Saranno imprescindibili ulteriori indagini, estese sia in senso diacronico (e diatopico) sia in relazione a differenti tradizioni testuali. Penso alla necessità, per esempio, di analizzare altri trattati rinascimentali, a partire da quello, notissimo, di Andrea Bacci (Sant’Elpidio a Mare, 1524 - Roma, 1600), traduzione dell’opera in latino di Luis Gómez (1484 ca. - 1542 ca.), primo ad aver dato alle stampe un testo sulle esondazioni dell’Urbe, pubblicato a Roma nell’anno successivo alla piena del 1530 29. E opportuno sarà poi esaminare manifestazioni testuali relative ad altre realtà territoriali della Penisola. Si tratta di allargamenti necessari per enucleare, anche rispetto alle esondazioni, gli elementi comuni che gli studi hanno iniziato a mettere a fuoco nelle narrazioni dei disastri, pur all’interno di una vasta eterogeneità di obiettivi, tipologie testuali, registri; e di individuare non soltanto temi ricorrenti, ma anche modelli narrativi, strutture, stilemi condivisi, evidenziando i prelievi formali che testimoniano i meccanismi di riuso sottostanti al processo di confezionamento del testo, e che contribuiscono, anche sul piano formale, a realizzare una tradizione del genere30. Un solo esempio: la presenza, nel commentato opuscolo sulla piena romana del 153031, del modulo Lacqua correva co(n) tanto impeto (che roinava le salicate et ha fatto una fossa si spaciosa e profonda da passare nelle fosse del Castello), il quale si rinviene pressoché identico nel drammatico resoconto della terribile tempesta che si abbatté nell’ottobre del 1727 su Napoli32: l’Acqua correva con tant’impeto, (che portava pezzi di Marmo di più Cantara in quà, e là, come pure pezzi di Monte, e da dove passavano sradicavano Arbori); e si veda, anche, il Tevere cominciò à correre con tanto impeto per tutte le strade di Roma (6) nel visto Trattato di Giacomo Castiglione nel 1599. Di là da tali aspetti, che andranno dunque puntualizzati con scandagli mirati, premeva qui mostrare l’utilità di indagare differenti testi, cronologicamente congruenti e riferiti al medesimo fenomeno, per confermare, innanzitutto, il valore fortemente condizionante del contesto pragmatico-funzionale33; in secondo luogo per ribadire – sono parole, ancora, di Gerrit Jasper SCHENK (2010: 25, che a sua volta si richiama a Robert Delort) – il «ruolo della lingua come fattore costruttivo e costruito in relazione a ciò che circonda l’uomo»; detto altrimenti, per ribadire lo stretto legame tra percezione e interpretazione di una calamità naturale e le modalità formali attraverso cui questa viene resa; un nesso che sembra agire specularmente e circolarmente: da un lato le scelte linguistiche restituiscono gli schemi percettivi e le prospettive interpretative sottostanti di chi stila il 29 Luis Gómez, De prodigiosis Tyberis inundationibus ab orbe co(n)dito ad annu(m) MDXXXI, Romae, apud F. Minitium Calvum, 1531 e Del Tevere di m. Andrea Bacci, medico et filosofo Libri tre, in Venezia, [Aldo Manuzio], 1576 (con antecedente Del Tevere della Natura et bontà dell’acqua e delle inondationi, Libri due, Roma, Vincenzo Luchino, tipogr. Luigi e Valerio Dorico, 1558); sul noto idrologo marchigiano vedi almeno BACCI (2001). 30 Insiste su corrispondenze, scambi, interazioni, elementi di continuità di questo genere di testi anche CECERE (2017, in partic. alle pp. 65-66 e p. 69). E poi, ancora, si vedano i risultati cui pervengono diversi saggi raccolti in CECERE et al. (in stampa). 31 Cfr. Diluvio di Roma che fu a. VII d’ottobre 1530 (cito dalla riedizione del 2013, p. 18). 32 Distinta relazione di quanto è occorso nella Città di Napoli il giorno 11 di Ottobre 1727. Di un’orribile Temporale, con Saette, e scosse di Terremoto, a segno, che tutto quel Popolo si ritrova molto afflitto, in Bologna, per Carlo Alessio, e Clemente Maria Fratelli Sassi [s.d.], BSNSP, Sismica, VII.D.14 [4 - Foglio di notizie di 3 facciate + titolo]; devo alla cortesia di Domenico Cecere, che qui ringrazio, la segnalazione di questo manoscritto. 33 Un risultato, questo, a cui pervengono analisi su altre tipologie testuali di epoca diversa, per cui cfr., per esempio, le conclusioni in DE CAPRIO, FRESU e MONTUORI (2016: 585). Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https://rhesis.it/ Linguistics and Philology, 8.1: 5-21, 2017 17 testo; dall’altro le risorse formali contribuiscono a “costruire” l’evento e ad alimentare l’immaginario collettivo a esso legato, orientandone ideologicamente l’interpretazione. Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https://rhesis.it/ Linguistics and Philology, 8.1: 5-21, 2017 18 Riferimenti bibliografici ANDRÉS, Gabriel (ed.) (2013), Proto-giornalismo e letteratura. Avvisi a stampa, relaciones de sucesos, presentazione di Giuseppina LEDDA. Milano: FrancoAngeli. APRILE, Marcello (2014), “Trattatistica”, in SIS, vol. II, 73-118. BENCIVENGA, Mauro, Eugenio DI LORETO and Lorenzo LIPERI (1995), “Il regime idrologico del Tevere, con particolare riguardo alle piene della città di Roma”, in «Memorie descrittive della Carta Geologica d’Italia» 50, 121-172. BERSANI, Pio and Mauro BENCIVENGA (2001), Le piene del Tevere a Roma. Dal V secolo a. C. all’anno 2000. Roma: s.n. [Presidenza del Consiglio dei Ministri, Dipartimento per i Servizi tecnici nazionali - Servizio idrografico e mareografico nazionale]. BOLOGNA, Giulia (ed.) (1965-1966), Le cinquecentine della Biblioteca Trivulziana. Catalogo, 2 vols. 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International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https://rhesis.it/ Linguistics and Philology, 8.1: 5-21, 2017 22 L’enigma del hronæs ban nel Franks Casket: una proposta interpretativa Nicoletta Ghessa (Università di Cagliari) Abstract The article presents a new interpretation of the Old English hronæs ban enigma, carved on the front panel of the Franks Casket (Northumbria, 8th century). The riddle, consisting of two alliterative verses written in futhorc runes, describes the stranding of a ‘fish’, hinting at the beached whale from whose bones the casket was made – as the solution hronæs ban “whalebone” clarifies. Nonetheless, the opening hemistich of the first verse has proved cryptic because of its ambiguous syntax, which scholars tend to emend and interpret univocally. Through a detailed lexical analysis of the verses and of their intertextual references, the paper aims at showing that the syntax was, indeed, intentionally made equivocal, thus allowing a twofold reading of the text, both profane and sacred. In fact, from a secular perspective, the riddle could be read as a formula to activate the apotropaic occult power of the casket’s material, whalebone, whilst from a Christian one, it could be seen as a metaphor of the Flood. The article will focus on this latter analogy, examining the myth of the Flood in Anglo-Saxon culture, and exploring the possible reasons behind the mention of this biblical episode in the casket, first and foremost as an allusion to its being an ‘ark’, i. e., a storage box for valuables. Key Words – Franks Casket; hronæs ban; whalebone riddle; myth of the Flood L’articolo propone una nuova interpretazione dell’enigma del hronæs ban, redatto in antico inglese e inciso, in rune dell’alfabeto futhorc, lungo la cornice del pannello frontale del Cofanetto Franks (Northumbria, VIII sec.). Composto da due versi allitterativi, l’indovinello descrive lo spiaggiamento di un ‘pesce’, alludendo alla balena arenata dalle cui ossa venne ricavato il manufatto, come appunto specifica la soluzione hronæs ban “osso di balena”, inclusa nell’iscrizione. Tuttavia, l’emistichio iniziale del primo verso presenta un’ambiguità sintattica tuttora oggetto di un acceso dibattito critico, che mira a interpretare in maniera univoca l’enunciato. Questo studio, attraverso una puntuale analisi filologico-lessicale e intertestuale dei versi, intende invece dimostrare come la sintassi ambivalente sia stata ricercata di proposito per creare un enigma dalla duplice lettura, profana e sacra. Le particolari scelte lessicali attuate nei versi, infatti, adombrano ulteriori livelli di significato del testo, che, a seconda della prospettiva nella quale lo si consideri (secolare o cristiana), può essere inteso come formula per attivare l’occulto potere apotropaico dell’osso di balena, oppure come metafora del Diluvio universale. L’articolo si concentra su questa seconda analogia, esaminando il mito del Diluvio universale nella cultura anglosassone e spiegando le ragioni che potrebbero avere spinto l’autore dell’enigma a includere un riferimento a questo episodio biblico nel cofanetto – il quale, in effetti, può essere definito un’‘arca’, in quanto scatola dove riporre al sicuro oggetti preziosi. Parole chiave – Cofanetto Franks; hronæs ban; enigma dell’osso di balena; mito del Diluvio universale Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https://rhesis.it/ Linguistics and Philology, 8.1: 22-53, 2017 23 Limpida dictanti metrorum carmina praesuL Munera nunc largire, rudis quo pandere reruM Versibus enigmata queam clandistina fatV!1 (ALDHELMUS, JUSTER 2015: 2) 1. La poetica dell’enigma nell’arte anglosassone «Svelare [...] i segreti enigmi delle cose»: questo è il fine che Aldhelm di Malmesbury, nel VII secolo, intende perseguire con la sua raccolta di indovinelli latini composti in esametri (Aenigmata Aldhelmi), come egli stesso dichiara nella præfatio dell’opera. Il compito che il dotto abate anglosassone si prefigge potrebbe apparire paradossale, in quanto egli intende svelare gli enigmi insiti nelle cose del Creato attraverso altrettanti enigmi, per giunta complicati dalla lingua e dalla forma ricercate in cui essi vengono redatti. Eppure Aldhelm considera l’indovinello strumento educativo per eccellenza, poiché per trovarne la soluzione l’intelletto è spinto – peraltro in maniera ludica – a compiere un notevole sforzo interpretativo, a sfruttare nuove associazioni di idee, a ‘vedere dentro’ (intelligĕre) le parole e i rapporti che esse hanno con gli oggetti e che gli oggetti intrattengono tra di loro. Ciò che interessa, quindi, non è tanto la nozione ottenuta risolvendo l’enigma, quanto il processo mentale che porta a tale risultato; più della conoscenza in sé, importa padroneggiare un valido metodo di ragionamento che permetta di accedere ad essa. L’indovinello serve proprio a questo: ad aguzzare l’ingegno. E, in ambito anglosassone, potremmo dire anche la vista. In tutti i linguaggi artistici che questa cultura ha sviluppato, verbali così come non-verbali, preponderante è infatti l’elemento visivo; per via del proprio retaggio orale, in primo piano campeggiano le immagini – perfino in poesia, attraverso l’uso di ardite metafore, le kenningar. Di conseguenza, manoscritti, gioielli, suppellettili, armi, porte e porzioni di pareti di edifici sacri si presentano ornati di fitti motivi vegetali e zoomorfi, secondo una vera e propria grammatica figurativa fatta di iconografie stilizzate e condensate che si intersecano fitte tra loro e che spesso non hanno una lettura univoca, bensì possiedono una natura volutamente polisemica; possono e devono essere interpretate in più modi, poiché in più modi può essere intesa la realtà complessa che esse raccontano, ricca di sfumature, dettagli e contraddizioni. Così come accade negli indovinelli, in queste rappresentazioni nulla è mai davvero come appare; può capitare, ad esempio, che quello che a un primo sguardo sembra un insieme casuale di intrecci abitati da animali su un pomolo di spada vada invece a comporre, visto da una diversa prospettiva, il muso di un toro2; o che la riproduzione di un gufo su una fibbia, se rovesciata, diventi quella di uno scoiattolo o di un altro piccolo mammifero3. L’intera arte anglosassone è costellata di immagini enigmatiche che invitano a non fermarsi all’apparenza, ma a osservare con attenzione il mondo circostante e a riflettere sulle interconnessioni esistenti tra gli elementi che lo governano e gli esseri viventi che lo popolano. “Puri canti in metri, patrono, concedimi ora in dono mentre parlo, incapace, affinché con questo discorso possa io svelare in versi i segreti enigmi delle cose”. Questa e le successive traduzioni sono mie. 2 Pomolo di spada, argento dorato, Woodeaton, Oxfordshire (VIII secolo), British Museum (W EBSTER 2012a: 36). 3 Fibbia, argento, Braughing, Hertfordshire (IX secolo), British Museum (WEBSTER 2012a: 37). 1 Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https://rhesis.it/ Linguistics and Philology, 8.1: 22-53, 2017 24 L’enigma permea dunque ogni aspetto del pensiero anglosassone, dall’educazione alla produzione artistica, quest’ultima caratterizzata per questo motivo da una forte interazione tra testo e immagine. Massimo esempio di questa ‘poetica dell’enigma’ è senza dubbio il Franks Casket, prezioso cofanetto in osso di balena realizzato in Northumbria durante l’VIII secolo, un’epoca ancora di transizione tra paganesimo e cristianesimo (nonostante la conversione degli Anglosassoni risalga al secolo precedente). Benché annoverato tra i manufatti dell’arte profana, il Cofanetto fu quasi certamente prodotto, o quanto meno ideato, in ambiente religioso con finalità didattiche, che emergono dalle tematiche implicite nelle raffigurazioni intagliate in rilievo sui suoi cinque pannelli. Essi sono istoriati di scene e motivi tratti sia dal folklore germanico e celtico sia dalla tradizione biblica e dalla storia giudaico-romana, ma una loro corretta e completa lettura è a volte impedita dall’utilizzo di iconografie, almeno per noi, ambigue e di molteplici codici linguistici e grafici nelle iscrizioni che le integrano – si passa dal dialetto northumbrico al latino, dalle rune del futhorc anglosassone alla scrittura semionciale latina, fino ad includere crittogrammi. In sintesi, il manufatto sembra configurarsi come un indovinello composito, le cui parti, una volta risolte singolarmente, lette nel complesso dovrebbero delineare un exemplum cristiano – anche se le ipotesi interpretative proposte finora non sono concordi su questo punto. Una delle parti che compongono l’iper-enigma del Cofanetto – e che costituisce lo specifico oggetto di questo studio – consiste proprio in un breve indovinello metrico, inciso in caratteri runici lungo la cornice del pannello frontale del manufatto. Esso ci narra l’infausto destino di un pesce che, a causa di una mareggiata, termina la sua vita sui ciottoli di una spiaggia: un’allusione alla balena arenata dalla quale venne ricavato il materiale di cui è fatto il Cofanetto. La soluzione, inclusa nell’iscrizione, è infatti hronæs ban “osso di balena”. Tuttavia, la posizione in cui essa è incisa, il contesto iconografico dell’intero pannello frontale, il forte potere immaginifico dei versi e alcune loro peculiarità morfologiche e lessicali, unitamente alle caratteristiche della tradizione enigmatografica all’interno della quale il componimento si inscrive, suggeriscono che l’indovinello possa celare una varietà di tematiche implicite, di duplice natura – cristiana e pagana –, e che quindi la presunta soluzione fornita sia da intendersi come una sorta di specchietto per le allodole o, al contrario, come un’esca gettata con l’intento di far abboccare gli ingegni più istruiti e smaliziati. Diverse sono state infatti le interpretazioni dell’indovinello avanzate negli anni dagli studiosi; a queste, intendo aggiungere una mia personale ipotesi, che cercherò di sostenere con il corredo di un’attenta ricerca filologico-lessicale condotta all’interno del corpus poetico anglosassone e della tradizione biblica; nella speranza, mutuata da Aldhelm, di svelare almeno uno dei segreti enigmi racchiusi in questo intrigante manufatto, che da secoli resiste ad ogni tentativo di spiegazione globale, nonostante le attenzioni ad esso costantemente rivolte dalla critica. 1.1. Il pannello frontale Prima di addentrarci nell’analisi dei versi dell’indovinello dell’osso di balena, è necessario soffermarsi brevemente sul contesto iconografico nel quale esso è inserito. Il pannello frontale del Franks Casket, nel quale un tempo si trovava la serratura del cofanetto, si presenta verticalmente diviso a metà per ospitare due scene di matrice culturale differente, che così affiancate costituiscono da sole un enigma: a sinistra, la raffigurazione della leggenda germanica del fabbro Weland, e a destra l’Adorazione dei Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https://rhesis.it/ Linguistics and Philology, 8.1: 22-53, 2017 25 Magi. Paganesimo e cristianesimo sembrerebbero qui messi a confronto, ma tuttora non è chiaro il motivo dell’accostamento di due soggetti all’apparenza così incompatibili tra loro (Weland, ‘principe degli Alfi’4 soggetto all’etica eroica della vendetta – per la quale non esita a uccidere e a perpetrare violenze –, e Gesù, il figlio di Dio venuto sulla Terra per annunciare una nuova legge e un nuovo messaggio di salvezza e misericordia) per evidenziare il contrasto tra la società pagana e quella cristiana; è anzi possibile che le scene potessero non apparire antitetiche, ma in qualche modo analoghe, come se Weland e la sua storia, nell’ottica germanica, fossero una prefigurazione, oggi difficile da intuire, di uno o più temi cristiani adombrati nell’Adorazione dei Magi. Ciò non costituirebbe un fatto anomalo: l’azione apostolica svolta all’epoca dai missionari cristiani, promossa da papa Gregorio Magno, non era esclusivamente repressiva nei confronti di culti, usanze e miti pagani, piuttosto mirava ad assimilarli, ove possibile, rideterminandoli secondo la nuova dottrina. E invero è questo che sembra accadere anche negli altri pannelli del Cofanetto; sebbene quello frontale sia il solo in cui figuri un’iconografia cristiana riconoscibile (chiarita da un’iscrizione in caratteri runici che recita Mægi), i restanti pannelli risultano incentrati su leggende o vicende storiche nelle quali il messaggio cristiano può essere comunque ravvisato come ideologia soggiacente. Malgrado in esse manchino elementi inequivocabilmente cristiani, è possibile scorgervi una morale cristiana latente, senza che l’interpretazione risenta di forzature arbitrarie5. L’accostamento di Weland all’Adorazione dei Magi nel pannello frontale potrebbe proprio fornire la chiave di lettura cristiana da applicare a tutte le storie pagane raffigurate nel manufatto, per accedere così al vero messaggio dell’opera – allo stesso modo in cui, inserendo la chiave nella serratura al centro del medesimo pannello, era possibile accedere al tesoro custodito nel Cofanetto. Rispetto agli altri, il pannello frontale presenta infatti delle singolarità per le quali si può pensare che esso svolga un ruolo cruciale nel tracciare l’idea alla base della struttura concettuale e fisica del Cofanetto. Non solo, come già detto, è l’unico pannello in cui campeggia un’iconografia neotestamentaria, ma è anche l’unico in cui sono ritratti due soggetti differenti appartenenti a due tradizioni distinte. Inoltre, l’iscrizione in caratteri runici incisa lungo la sua cornice è di natura atipica se paragonata a quella delle altre cornici. Queste ultime, nonostante il carattere perlopiù frammentario, oscuro e allusivo, servono da commento o didascalia alle scene che contornano. L’iscrizione del pannello frontale, come già anticipato, narra invece la sventurata sorte di un pesce, nella quale è impossibile individuare elementi ricollegabili a Weland o ai Magi. 1.1.1. L’iscrizione del hronæs ban Il testo traslitterato dell’iscrizione incisa sul pannello frontale nei caratteri dell’alfabeto futhorc, e redatta in antico inglese, è il seguente: Fisc flodu ahof on fergenberig; warþ gasric grorn, þær he on greut giswom. Hronæs ban6. (DOBBIE 1942: 116) Álfa lióði “principe degli Alfi”, Völundarkviða 11,3 (DRONKE 1997: 246). A questo proposito, si veda ad esempio la teoria di WEBSTER (2012b: 33-43), secondo la quale ogni pannello del Cofanetto contiene un insegnamento utile all’educazione di un buon re o condottiero cristiano. 6 Due sono le letture possibili: “Il pesce sollevò le onde sull’alta montagna; / il terribile re divenne triste quando nuotò sui ciottoli. / Osso di balena”. Oppure: “L’ondata portò il pesce sull’alta montagna; / il terribile re divenne triste quando nuotò sui ciottoli. / Osso di balena”. 4 5 Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https://rhesis.it/ Linguistics and Philology, 8.1: 22-53, 2017 26 Si tratta di un indovinello atto a rivelare il materiale di cui il Cofanetto è fatto: la sequenza dei segni, infatti, forma due versi lunghi, entrambi composti da semiversi allitteranti tra loro (il corpo dell’indovinello), più un terzo enunciato a sé stante che costituisce la soluzione, appunto hronaes ban “osso di balena”. Si è però giunti a questo risultato dopo un complicato lavoro di decodificazione (le rune incise sul lato inferiore, ad esempio, sono riflesse verticalmente e scritte da destra verso sinistra) e di interpretazione del testo, in virtù delle peculiarità lessicali e morfologiche che lo caratterizzano, ancora oggi oggetto di un acceso dibattito critico. È proprio l’emistichio iniziale, fisc flodu ahof, che contiene al suo interno un annoso dilemma interpretativo: non è facile stabilire con certezza quale, tra i sostantivi fisc “pesce” e flodu “flutto, onda, ondata; inondazione, diluvio”, sia il soggetto che governa il verbo ahof, 3ª pers. sing. del preterito di ahebban “sollevare, issare”. La questione è resa ancora più ostica dalla forma del sostantivo flodu, la cui desinenza in -u è un’anomalia che non trova una spiegazione convincente, poiché flōd è un sostantivo maschile della declinazione forte, nella quale la desinenza -u non corrisponde ad alcun caso, né al singolare né al plurale. Si potrebbe trattare di un arcaismo, in quanto la forma originaria era appunto flodu (tema in -u), divenuto poi flōd a seguito di un processo di perdita della vocale finale avvenuto durante la fase antica della lingua inglese antica, il quale interessò diversi sostantivi che finirono per confluire nei temi in -a (WRIGHT 1925: 99-100). Questo però potrebbe voler dire datare il Cofanetto a un periodo precedente l’VIII secolo, rendendo così anacronistici gli altri elementi, sia figurativi sia grafici, presenti nei vari pannelli oppure considerare l’ipotesi, poco plausibile, che il testo preesistesse al manufatto. Si ritiene quindi che l’incisore e/o autore del testo metrico abbia commesso un errore, declinando flōd come un sostantivo neutro forte. Quale che sia la motivazione di questa insolita desinenza, determinare il soggetto del primo verso rimane un’operazione difficile, in quanto le desinenze di nominativo e accusativo coincidono in tutti i temi nominali dell’antico inglese. La lettura che veda fisc come soggetto e flodu come oggetto genera un enunciato all’apparenza bizzarro: sembra infatti impossibile che un pesce, per quanto grande possa essere, sia in grado di provocare un’onda così alta da arrivare fin sopra alla cima di un’imponente montagna, ancor più se il ‘pesce’ in questione è una balena prossima a incagliarsi, dunque ferita o comunque indebolita – proprio come lascia intendere la soluzione dell’indovinello, che permette di identificare il pesce in una balena che si arena, divenendo grorn “triste, afflitta”7. La stranezza della situazione che deriva dal porre fisc come soggetto, poco realistica poiché non corrisponde a quanto avviene in natura (dove invece è un’ondata che può trasportare un pesce fin su un’altura), è uno dei principali motivi per cui questa ipotesi viene ritenuta poco convincente dalla maggioranza degli studiosi, secondo un approccio che oserei definire fin troppo logico e scientifico, figlio di una mentalità moderna che non tiene conto del contesto culturale e storico del componimento. L’uomo medievale, infatti, non avrebbe fatto alcuna fatica a ritenere credibile una tale affermazione; nei bestiari e nelle opere didascaliche e naturalistiche dell’epoca la balena viene sempre descritta come la creatura marina capace di emettere acqua e produrre onde, abitudine 7 Sebbene Aristotele (Historia Animalium, IV sec a.C.) avesse già intuito che i cetacei fossero mammiferi e non pesci, sarà soprattutto grazie a Linneo, nel Settecento, che questa classificazione diverrà ampiamente nota. Il termine ‘balena’ tuttora è spesso usato in modo improprio per indicare in senso lato tutti i cetacei di grossa taglia, che in realtà sono distinti in diverse famiglie (una delle quali è appunto quella dei Balenidi). Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https://rhesis.it/ Linguistics and Philology, 8.1: 22-53, 2017 27 alla quale l’animale deve il suo nome (lat. ballaena < gr. phá(l)laina, dalla radice PIE *bhel- “soffiare, gonfiare, ingrossare”). Isidoro di Siviglia (VII secolo), ad esempio, scrive che «Ballenae autem sunt inmensae magnitudinis bestiae, ab emittendo et fundendo aquas vocatae; ceteris enim bestiis maris altius iaciunt undas»8 (ISIDORUS, Etym. XII. vi, LINDSAY 1911: 61). Questa convinzione era inoltre già presente in alcune opere di autori latini; Plinio il Vecchio (I secolo d. C.), nell’enumerare i mostri marini che abitano i diversi mari del pianeta, parla di un capodoglio che s’innalza, simile ad una colonna, fino a sovrastare le vele delle navi, per poi emettere dal suo sfiatatoio una sorta di ‘diluvio’ («Maximum animal [...] est [...] in Gallico oceano physeter, ingentis columnae modo se attollens altiorque navium velis diluviem quandam eructans» [PLINIUS SECUNDUS, Naturalis Historia IX. iii, BORGHINI et al. 1983: 298]); ma ancora più significativo è un passo tratto dalla Mosella di Ausonio (IV secolo d. C.), in cui il poeta mette a confronto la mite ‘balena della Mosella’, ovvero il pesce siluro, con le pericolose balene dell’Atlantico (vv. 144-149): Talis Atlantiaco quondam ballena profundo cum vento motuve suo telluris ad oras pellitur; exclusum fundit mare, magnaque surgunt aequora, vicinique timent decrescere montes9. (AUSONIUS, GREEN 1991: 120) L’ipotesi che fisc sia il soggetto della frase può quindi considerarsi plausibile e ben giustificata: come racconta Ausonio, le balene, nel disperato e spesso vano tentativo di contrastare le correnti che le sospingono a riva, dibattendosi in mare sollevano onde tanto grandi che i monti vicini sembrano rimpicciolirsi – una circostanza paragonabile a quella che viene descritta anche nell’indovinello del Franks Casket. Ciò nonostante, esistono delle oggettive perplessità di natura prettamente linguistica che confortano l’interpretazione contraria, nonché la più condivisa, secondo la quale flodu sarebbe il soggetto del verbo ahof. MIZE (2011), data l’impossibilità di chiarire l’enunciato basandosi sul solo aspetto morfologico, sposta la sua analisi sul piano della semantica e qui individua due principali difficoltà: il verbo ahebban significa esclusivamente “sollevare, innalzare” e come complemento ha sempre un oggetto ben definito, che può essere facilmente afferrato, tanto che nelle occorrenze del corpus il senso del verbo implica di solito che l’oggetto sia prima sollevato e poi mantenuto in alto per un certo lasso di tempo, senza che l’agente lasci la presa su di esso; flōd, quindi, non sembra essere un complemento oggetto accettabile per il verbo, in quanto il suo significato di “onda, ondata/ diluvio” implica il concetto di flusso e movimento di una massa d’acqua. Anche da un punto di vista semantico, dunque, è più logico che sia l’acqua, col suo flusso crescente, a sollevare e tenere in alto un pesce per un dato periodo – non viceversa. Infatti, il verbo ahebban, come riportato nel DOE (s.v. A.1.d), può denotare l’azione svolta dalle acque di sollevare un oggetto; un esempio di questo uso è osservabile nel poema Genesis A (vv. 1418b-1419): «[…] siððan nægledbord, fær seleste, flod up ahof»10 (KRAPP 1931: 44), in cui il sostantivo flōd è appunto soggetto del preterito ahof. Mize conclude che, date queste evidenti motivazioni semantiche, l’unica “Le balene inoltre sono bestie di immensa grandezza, così chiamate poiché emettono e producono acqua; esse infatti innalzano onde più alte di quelle delle altre creature marine”. 9 “Così talvolta nell’immenso Atlantico una balena / è spinta dal vento o dal suo moto a riva; / trabocca il mare, grandi onde si levano sulla distesa d’acqua, / e i monti vicini temono di impicciolirsi”. 10 “[…] Con i flutti che ne sollevavano le tavole chiodate, eccellente vascello”. 8 Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https://rhesis.it/ Linguistics and Philology, 8.1: 22-53, 2017 28 lettura possibile dell’enunciato sia quella che intende flodu come soggetto del verbo e fisc come oggetto – e oggi questa viene adottata dalla maggioranza degli studiosi. Tuttavia, ritengo che privilegiare una lettura a discapito di un’altra, ugualmente possibile, potrebbe condurre fuori strada. A mio avviso, infatti, l’indovinello trova la sua ragion d’essere nel dualismo di senso che lo caratterizza. Come si è detto, esso si inserisce nell’unico pannello del Cofanetto in cui sono presenti due soggetti distinti, uno (la vendetta di Weland il fabbro) legato alla cultura pagana e l’altro (l’Adorazione dei Magi) a quella cristiana; l’ambiguità della forma linguistica potrebbe quindi essere stata ricercata di proposito per suggerire due letture differenti dello stesso indovinello, entrambe valide, che potessero conciliarsi con le tradizioni da cui scaturiscono le due scene ritratte nel pannello: dunque, l’una che esprimesse l’aspetto profano dei versi e l’altra che mettesse in luce una possibile metafora cristiana in essi celata. Da una parte, avremmo pertanto la lettura in cui fisc è soggetto del primo verso, la quale, raccontando lo spiaggiamento di una balena secondo un topos fissato dalle opere latine, costituirebbe un testo che avrebbe lo scopo di svelare il materiale utilizzato per creare il Cofanetto; dall’altra, avremmo invece la lettura secondo la quale sarebbe flodu il soggetto dell’enunciato, per cui il testo risultante si presterebbe ad essere interpretato in chiave cristiana, con finalità morali e didattiche, come già è stato notato da alcuni studiosi. EICHNER (1991), ad esempio, individua in fisc il pesce simbolo di Cristo e ravvisa nei versi un riferimento alla storia del profeta Giona. WEBSTER (1999) è invece convinta che il testo sia un monito rivolto in particolare ai re il cui operato non segua i precetti della fede cristiana: ad attenderli vi sarà una fine meschina come quella riservata al “terribile re” dell’indovinello. SCHÜRR (2005), infine, ritiene che i due versi siano costruiti su un gioco di antitesi tra bene e male, Cristo e Satana. Quest’ultima ipotesi, a mio parere, è particolarmente interessante; ad un’analisi più attenta, infatti, i sostantivi che nei versi dovrebbero avere come referente la balena, ovvero fisc nel primo verso e gasric nel secondo, sembrano possedere due connotazioni tra loro opposte. Se fisc, in un’ottica cristiana, richiama alla mente l’iconografia di Cristo illustrata dall’ichtýs, il termine gasric sembra invece avere una valenza negativa, quasi maligna. Il composto costituisce un hapax legomenon di non facile comprensione e negli anni è stato oggetto di diverse interpretazioni. SWEET (1879: 314) vede in gasric una forma arcaica di garsecg “mare”, parola anch’essa oscura sotto il profilo etimologico, ma comunemente usata in prosa e in poesia in riferimento al mare aperto o all’oceano. La radice gas- si riferirebbe all’“infuriare” del mare (cfr. il verbo an. geisa) e -ric costituirebbe un rafforzativo, per cui la parola viene intesa da Sweet come “rabbioso, collerico, terribile”, aggettivo sostantivato che potrebbe ben attribuirsi ad un mare in tempesta – il che spiegherebbe perché la forma attestata garsecg, ottenuta attraverso metatesi, venga utilizzata appunto col significato di “mare agitato; oceano”. Tuttavia, che il mare divenga triste (grorn) dopo “avere nuotato” (giswom) sui ciottoli (greut) è un enunciato bizzarro. Grorn è un aggettivo che indica uno stato d’animo di profonda afflizione, che non sembra adattarsi a un elemento fisico quale il mare (vedi Sezione 2.2.5.) – per quanto sicuramente gli Anglosassoni percepissero l’oceano come un’entità dotata di un potente spirito vitale. GRIENBERGER (1904: 445) ha proposto la traduzione “sovrano dei flutti”, che alluderebbe ad una qualche divinità marina non meglio specificata. Per KROGMANN (1959: 93), invece, gas- deriverebbe da gast “respiro, vita, anima; spirito, demone” (cfr ingl. ghost, ted. Geist) e -ric da rice, rica, col significato di “re, sovrano”, quindi il composto varrebbe “re della vita, delle anime”, paragonabile al composto gastcyning “re delle anime; re spirituale” attestato in Genesis A v. 2884 (KRAPP 1931: 85), in riferimento a Dio. BECKER (1973: 24-25), infine, Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https://rhesis.it/ Linguistics and Philology, 8.1: 22-53, 2017 29 cercando di trovare una sintesi tra le varie proposte, suggerisce che i significati possibili del composto siano quelli di “rabbioso sovrano, demone, mostro”, con riferimento alla balena che finisce per arenarsi sui ciottoli di una spiaggia. La balena, infatti, non godeva di una buona reputazione presso gli Anglosassoni, essendo ritenuta a tutti gli effetti un mostro marino, capace di affondare anche le navi più robuste, per via delle grandi onde che solleva, e di inghiottire interi equipaggi nelle sue fauci. Tanto che nel poema The Whale, basato sulla tradizione del Physiologus, la balena è allegoria di Satana; una connessione, questa tra il cetaceo e l’inferno, che si ritrova anche nelle miniature e nelle illustrazioni dei manoscritti medievali, nei quali le porte dell’inferno vengono spesso rappresentate come l’enorme bocca spalancata di una balena (o di un altro simile mostro marino). Gasric, dunque, nel possibile significato proposto da Becker, possiede una evidente connotazione negativa che ben si sposa con il ruolo demoniaco rivestito dalla balena nell’immaginario collettivo anglosassone, e costituisce un appellativo calzante per questo temibile abitante dei mari. Non è dunque da escludere che, contravvenendo alla consuetudine poetica anglosassone della variazione, i due sostantivi fisc e gasric abbiano due referenti diversi – o che, almeno, il loro referente abbia una natura ambigua, che possa prestarsi ad incarnare l’antitesi tra bene e male, tra salvezza e dannazione, tra cristianesimo e paganesimo che sembra caratterizzare l’intero pannello frontale del Cofanetto. Se consideriamo il ruolo dei mostri marini citati nella Bibbia – il piscis grandis che inghiotte Giona e il leviathan del libro di Giobbe –, spesso identificati con la balena (in ebraico moderno la parola liv’yatan significa appunto “balena”), notiamo che esso è difatti molto particolare: nonostante abbiano caratteristiche quasi demoniache, per il tramite di tali enormi creature si compie la volontà di Dio e si manifesta la Sua potenza. Simbolicamente, la balena sembra configurarsi più come uno strumento del bene o del male, piuttosto che come incarnazione esclusiva del maligno. Infatti, come spiegherò più avanti, alla balena vengono riconosciute, in alcuni bestiari, anche qualità positive, tanto da essere proposta come modello di vero amore materno, poiché capace di difendere ad ogni costo la propria prole da pericoli e nemici (vedi Sezione 3.2.). Inoltre, a suscitare qualche perplessità circa l’univocità del referente del pesce-balena sono i luoghi citati nei versi. Nel primo dei due, il pesce approda su un’alta montagna; berig < beorg significa “altura, montagna”, mentre per fergen- < fyrgen- “alto” è stata proposta anche una traduzione alternativa: secondo HODGETTS (1884: 147), esso deriverebbe da feorh “anima, spirito, vita”, quindi si tratterebbe di una montagna della vita, una sorta di montagna sacra11. Nel secondo verso, invece, il “terribile re” (gasric) “nuotò” (giswom) approdando sui ciottoli; greut < greot indica solitamente, in maniera precisa, i ciottoli di una spiaggia, così come in Andreas, nel quale la parola viene usata di frequente per descrivere il terreno pietroso di alcune spiagge, sebbene essa possa voler dire anche “suolo”. I due luoghi dunque potrebbero non coincidere; tenendo conto del contesto marino in cui avviene l’evento narrato, esiste la possibilità che la parola greut, dato il suo uso frequente in relazione alle spiagge, sia stata scelta proprio per indicare la riva, non un “suolo” qualunque – quindi un lembo di terra che si trova a livello del mare, non al di sopra. Pertanto, il pesce scaraventato sulla montagna potrebbe non essere lo stesso che ritroviamo agonizzante sui ciottoli; e dunque ciò che accade nel secondo verso potrebbe non essere una conseguenza di quanto accaduto nel primo, oppure i due versi potrebbero raccontare due momenti (o forse due prospettive) differenti del medesimo 11 È degno di nota il fatto che nel poema Exodus, v. 369 (KRAPP 1931: 101) sia attestato il termine feorhgebeorg “protezione della vita, rifugio”. Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https://rhesis.it/ Linguistics and Philology, 8.1: 22-53, 2017 30 evento. Nella lettura in cui è fisc il soggetto di ahof, è infatti naturale percepire la narrazione come suddivisa in due atti, ambientati in due luoghi diversi e separati tra loro da un breve intervallo di tempo: prima, la lotta in mare della balena contro le correnti; in seguito, la sua triste morte sulla spiaggia. È quindi possibile che, qualora la doppia lettura dell’enigma fosse effettivamente prevista e intenzionale, anche nella versione che vede flodu come soggetto l’autore abbia mantenuto un impianto narrativo simile. A questo punto, se si parte dal presupposto che i due versi non vadano letti in maniera consequenziale e che la balena, protagonista dei versi, possa essere espressione di una volontà ora benigna ora maligna, il gioco d’antitesi tra bene e male, intuito, ma solo accennato, da Schürr acquista contorni molto più definiti: nel primo verso, la balena è asservita a Dio e le acque le permettono di ‘ascendere’ ad una ipotetica montagna sacra; nel secondo, essa è soggiogata dal male e le acque la sospingono a riva, facendola perire sui ciottoli di una spiaggia. A riprova di questa contrapposizione, si potrebbe tener conto anche del modo in cui i due versi sono stati incisi sul pannello: le rune componenti il primo verso, sul lato superiore, seguono il normale orientamento della scrittura da sinistra verso destra; quelle del secondo, sul lato inferiore, seguono invece l’orientamento contrario, da destra verso sinistra, quasi a voler ribaltare la condizione narrata nel primo verso: come nota WEBSTER (1999: 233), la direzione anomala della scrittura sembra segnalare la presenza, in quella porzione di testo, di qualcosa di innaturale e malevolo. La balena, nell’indovinello, potrebbe dunque essere considerata allegoria bifronte del bene e del male; un’ambivalenza che, tuttavia, potrebbe non esaurirsi in se stessa, ma servire da espediente per introdurre il rimando, all’interno del complesso sistema iconografico del pannello frontale, ad uno specifico episodio della vicenda cristiana. Sono i vv. 1418b-1419 di Genesis A citati sopra che, a mio avviso, adombrano una nuova interpretazione dell’indovinello, visto come metafora di una precisa narrazione biblica. Il passo da cui sono tratti narra, infatti, l’approdo dell’Arca di Noè sulla montagna dell’Ararat (vv. 1417-1424a): For famig scip L and C nihta under roderum, siððan nægledbord, fær seleste, flod up ahof, oðþæt rimgetæl reðre þrage daga forð gewat. Đa on dunum gesæt heah mid hlæste holmærna mæst, earc Noes, þe Armenia hatene syndon12. (KRAPP 1931: 44) Le acque qui intese attraverso il sostantivo flōd sono quindi quelle del Diluvio universale, che spesso nei testi anglosassoni viene definito Noes flod “diluvio di Noè”13. Viene dunque spontaneo domandarsi se questo non sia il caso anche del sostantivo flodu nell’indovinello dell’osso di balena. In effetti, la lettura esaminata finora, che intende flodu come soggetto e fisc come oggetto del primo verso, ben si presta a “Viaggiò la nave spumeggiante per centocinquanta / notti sotto il firmamento, con i flutti che ne sollevavano le tavole chiodate, eccellente vascello / fin quando il numero dei crudeli giorni stabiliti / fu passato. Poi l’enorme casa marina, / l’arca di Noé, approdò in alto con il suo carico / sopra le montagne che sono chiamate Armenia”. 13 Si veda, in particolare, la produzione omiletica di Ælfric. 12 Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https://rhesis.it/ Linguistics and Philology, 8.1: 22-53, 2017 31 suggerire un’analogia tra l’ondata che trasporta il pesce sull’alta montagna e le acque del Diluvio universale che trasportano l’Arca sull’Ararat. L’Arca di Noè, infatti, non è una vera nave, in quanto non possiede remi, né vele, né timoni che permettano di controllarne la rotta; è come se fosse un enorme cassone galleggiante le cui sorti dipendono dalla volontà di Dio, espressa mediante le acque del Diluvio, aingl. flōd, appunto – il quale potrebbe essere paragonato allo stesso flod(u) che, nell’indovinello, decreta il destino del fisc del primo verso, probabile espressione di una volontà benevola. Inoltre, la parola armena Ararat vuol dire “luogo creato da Dio”, un luogo sacro; dunque una vetta, quella in questione, non solo molto alta, ma anche sacra, che può ben rappresentare entrambi i possibili significati di fergenberig “alta montagna” o “montagna dello spirito” sulla quale finisce il pesce dell’indovinello. In quest’ottica, il secondo verso dell’indovinello, accennando alla triste fine del “terribile re”, potrebbe invece raccontare l’episodio da un altro punto di vista, quello delle creature peccatrici che nelle acque del Diluvio trovano la morte. La balena, infatti, in quanto animale demoniaco per eccellenza (tanto da venir definito (gas)ric, ‘potente’, ‘re’, a significare la sua condizione egemonica nel mare), potrebbe qui simboleggiare tutti gli esseri impuri annientati dall’ira divina – finanche Satana stesso, sconfitto da Dio e da Cristo. Nei paragrafi che seguono, mi propongo di dimostrare come una tale analogia, che implica l’identificazione dell’Arca di Noè con il fisc dell’indovinello, sia non solo plausibile sotto il profilo testuale, ma anche attinente al quadro concettuale del pannello frontale del Franks Casket, oltre che giustificata dal contesto culturale in cui il manufatto venne creato e dagli scopi che esso doveva servire. 2. L’Arca e il Cofanetto 2.1. Il mito del Diluvio universale La storia di Noè e del Diluvio viene narrata nel libro della Genesi, subito dopo l’episodio di Caino e Abele. L’umanità si è rivelata essere troppo malvagia e corrotta; Dio arriva a pentirsi di averla creata e decide di annientarla con un diluvio le cui acque incessanti spazzeranno la terra per centocinquanta giorni, inghiottendo tutte le creature viventi, uomini e bestie. Soltanto Noè, «giusto, intemerato tra i suoi contemporanei» (Genesi 6, 9 [PASQUERO 1975: 35]), ispirerà la misericordia divina: Dio gli ordina di costruire un’Arca, sulla quale dovrà far salire la sua famiglia e un maschio e una femmina di ogni specie animale. Alla fine del diluvio, quando ogni altra creatura empia sarà stata distrutta, l’Arca si incaglierà sulla vetta più alta dell’Ararat14 e, una volta ritiratesi le acque, Dio investirà Noè del ruolo di nuovo capostipite dell’umanità; stringerà con lui e con i membri della sua famiglia un’alleanza, rinnovando la promessa di prosperità e benevolenza fatta in precedenza ad Adamo ed Eva, prima che il peccato originale venisse commesso (Genesi 1, 26-31). Le acque del Diluvio, difatti, lavano via il peccato dal mondo; come Pietro rivela, «quell’acqua era figura del battesimo» (1 Pietro 3, 21 [PASQUERO 1975: 1354]); il Diluvio è l’evento epocale che consente all’umanità di rinascere come popolo di Dio, il quale potrà essere accolto, dopo la venuta di Cristo, nella futura Chiesa. L’Ararat è una regione montuosa dell’Armenia (nell’attuale Turchia); nella Bibbia non viene specificato, tuttavia la vetta in questione potrebbe essere proprio il Monte Ararat, da sempre il più alto della regione. 14 Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https://rhesis.it/ Linguistics and Philology, 8.1: 22-53, 2017 32 Per gli esegeti biblici, Noè viene inteso come precursore di Cristo, la distruzione portata dalle acque come preannuncio di quella che nel Giorno del Giudizio sarà causata dal fuoco, mentre l’Arca, unico tramite per la salvezza, rappresenta allegoricamente la Chiesa, sola guida e rifugio per gli uomini pii durante la tormentata peregrinazione terrena. Sant’Agostino, per citare soltanto una tra queste autorevoli voci, afferma senza esitazione che la vicenda dell’Arca «figura est peregrinantis in hoc saeculo civitatis Dei, hoc est Ecclesiae, quae fit salva per lignum, in quo pependit Mediator Dei et hominum, homo Christus Iesus» (De civitate Dei 15.26)15. Non solo le assi di legno dell’Arca sono paragonabili alle travi della croce, ma l’Arca stessa, rispettando nelle sue misure le proporzioni del corpo umano, diventa metafora del corpo di Cristo in croce, ferito al fianco dalla lancia, allo stesso modo in cui sul fianco dell’Arca viene aperta una porta. Quest’ultima analogia risulta ancora più evidente nel momento in cui si considera che anche la Chiesa è metafora mistica del corpo di Cristo, una concezione che si riflette perfino nelle piante architettoniche delle chiese, che ricalcano la forma della croce latina. Similmente, «et cetera, quae in eiusdem arcae constructione dicuntur, ecclesiasticarum signa sunt rerum»16 (De civitate Dei 15.26); inoltre, così come l’arca si riempie di animali puri e impuri, allo stesso modo la Chiesa è ricettacolo per le genti più diverse17. Le sorti di queste “tante genti pure e impure” preoccupavano chiaramente anche i primi predicatori della nascente Chiesa anglosassone, impegnati nel compito di evangelizzare una vasta ed eterogenea popolazione pagana e di gettare le basi per un’unità religiosa che fosse salda nei principi della nuova dottrina. La narrazione biblica del Diluvio forniva loro i traslati necessari per esplicare alcuni tra i più importanti dogmi e misteri della fede, tra i quali la figura di Dio e del Suo Figlio, il battesimo, il ruolo e la natura della Chiesa, la fine dei tempi e la resurrezione dei giusti, e non ultimo lo spirito di fratellanza che avrebbe dovuto animare i singoli così come le nazioni, poiché l’umanità tutta origina dallo stesso seme preservato dall’arca. Il respiro epico della vicenda, inoltre, insieme al forte potere evocativo dell’immagine dell’Arca in balìa di una tempesta interminabile (che di certo richiamava alla mente degli Anglosassoni, abili marinai, esperienze di vita simili), rendeva l’episodio particolarmente adatto a impressionare un popolo avvezzo a storie pagane di eroi le cui imprese abbondavano di elementi leggendari e sensazionali. Non sorprende, dunque, che il racconto fosse commentato in omelie e oggetto di più complesse riflessioni teologiche ad opera dei grandi eruditi dei secoli interessati dal lungo processo di conversione al Cristianesimo e di quelli immediatamente successivi. Ciò contribuì ad accrescerne la popolarità; nello specifico, la produzione omiletica di Ælfric testimonia come, intorno all’anno Mille, perfino la platea illetterata avesse una conoscenza sufficientemente approfondita dell’episodio biblico e delle sue implicazioni, soprattutto escatologiche, cui il maestro infatti accenna ma tralascia di spiegare diffusamente (ANLEZARK 2006: 160161). All’epoca della manifattura del Franks Casket (VIII secolo), l’esegesi del racconto del Diluvio universale era già stata studiata, approfondita e ampliata da Beda il Venerabile, che si occupa della vicenda sia sotto il profilo storico – giacché, come Agostino, egli 15 “È un’immagine della città di Dio pellegrina in questa terra, ovvero della Chiesa, che fu salvata da un legno, dal quale pendette il Mediatore fra Dio e gli uomini, l’uomo Cristo Gesù”. 16 “E tutte le altre disposizioni che vengono impartite per la costruzione dell'arca, sono simboli di elementi della Chiesa”. 17 «Iam enim gentes ita Ecclesiam repleverunt, mundique et immundi, […] ita eius unitatis quadam compagine continentur» (De civitate Dei 15.27) “Infatti tante genti, pure e impure, colmavano ormai la Chiesa [...] e queste erano contenute in un certo modo dalla struttura della sua unità”. Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https://rhesis.it/ Linguistics and Philology, 8.1: 22-53, 2017 33 ritiene che il diluvio sia accaduto realmente, decretando l’inizio della seconda era del mondo – sia sotto quello teologico, senza mai discostarsi dalle interpretazioni formulate dai Padri della Chiesa e dai successivi commentatori. Anch’egli si cimenta, quindi, nell’argomentare l’associazione esistente tra il Diluvio e il Giorno del Giudizio, e nel chiarire l’analogia tra l’Arca di Noè, la Chiesa cattolica e il corpo di Cristo. Sembra dunque lecito supporre che tale tradizione esegetica fosse ben nota anche in tempi precedenti la stesura delle omelie di Ælfric, se non altro almeno in ambito monastico. Ne consegue che l’impianto metaforico ipotizzato nel paragrafo precedente non risulta azzardato, ma quanto meno plausibile. Nel primo verso dell’enigma del hronæs ban, il fisc “pesce”, riallacciandosi all’iconografia dell’ichtýs, potrebbe essere inteso come simbolo di Cristo, e, per traslato, dell’Arca di Noè, essa stessa allegoria della Chiesa e figura del corpo di Cristo. La seconda parte della metafora, tratteggiata nel secondo verso dell’indovinello, andrebbe a risolversi quindi all’interno del doppio simbolismo attribuito al Diluvio dagli esegeti: per i virtuosi, esso rappresenta la salvezza; per i nemici di Dio, la distruzione. Infatti, per i primi commentatori della Bibbia è facile scorgere un parallelo tra le acque del Diluvio universale, che risparmiano le creature ammesse nell’arca mentre annientano tutte le altre, e le acque del Mar Rosso, che lasciano fuggire gli Ebrei per poi inghiottire gli Egizi (ANLEZARK 2006: 206-207)18. Partendo da questo assunto, il “terribile re” (gasric) dell’enigma, contrapposto al fisc del primo verso, potrebbe dunque simboleggiare i nemici di Dio vinti dalle acque. 2.2. Occorrenze di flod Coevo al Franks Casket è anche il poema anglosassone Genesis, almeno nella sua parte più antica. Oggi l’opera viene infatti distinta convenzionalmente in Genesis A, adattamento in versi del Libro della Genesi (capitoli 1-22) nella versione della Vulgata, e Genesis B, o Later Genesis (Genesis vv. 235-851), una peculiare rivisitazione drammatica della Caduta degli angeli ribelli e dell’uomo basata su un originale in antico sassone di cui oggi si conserva solo un frammento19. La probabile data di composizione di Genesis A si aggira proprio intorno agli inizi dell’VIII secolo, ed è in questa parte più antica del poema che viene narrata la storia di Noè (vv. 1270-1560). Qui le acque del Diluvio vengono dette flōd, termine che ricorre dodici volte. Tra queste occorrenze della parola, rientrano i già citati vv. 1418a-1419 «[…] siððan nægledbord, fær seleste, flod up ahof», i quali si rivelano determinanti per questo studio, in quanto figurano nel passo che narra l’approdo dell’Arca di Noè sulla montagna dell’Ararat (vv.1417-1424, si veda Sezione 2.1.). Nella frase flod up ahof cooccorrono sia il sostantivo flōd sia il preterito ahof presenti anche nell’indovinello; flōd ricorre frequentemente nei testi anglosassoni, sia poetici sia prosastici; tuttavia, la sua combinazione con il preterito (a)hof si presenta soltanto tre volte all’interno del corpus: nell’iscrizione in caratteri runici sul pannello frontale del Franks Casket, nell’appena citato v. 1419 di Genesis e nelle glosse al Salmo 93 (92), dove compare nella forma di 18 Può essere interessante notare che in Exodus v. 447 (KRAPP 1931: 103) le acque del Mar Rosso che stanno per annientare l’esercito egiziano vengono dette flodegsa “acque del terrore”, un composto che richiama l’elemento gas- in gasric “terribile re” nel secondo verso dell’indovinello del Franks Casket. 19 Nel ms. Palatinus Latinus 1447, i frammenti della Genesi in antico sassone sono in verità tre, ma soltanto il primo è direttamente ricollegabile ai versi di Genesis B, in quanto è l’unico che tratta della Caduta dell’uomo dopo il peccato originale (i due restanti riguardano l’episodio di Caino e Abele e la distruzione di Sodoma). In particolare, si nota che i vv. 790-817 di Genesis B corrispondono in modo quasi esatto a quelli che compongo il primo frammento in antico sassone. Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https://rhesis.it/ Linguistics and Philology, 8.1: 22-53, 2017 34 preterito plurale: «Upphofon flodas drihtyn uppahofon flodas stefne heora» (WILDHAGEN 1910: 237)20. Si noti come anche nell’ultimo esempio citato il preterito sia determinato dall’avverbio up(p) “in su, verso l’alto”. In effetti, la combinazione di ahof e up, in maniera forse prevedibile, ha più di duecento riscontri nel corpus poetico e prosastico, senza contare poi le numerose occorrenze con altre forme coniugate del verbo ahebban. Per questo motivo, è singolare il fatto che nell’indovinello della balena ahof non sia accompagnato da up(p), e tuttavia compaia un’anomala desinenza in -u nel sostantivo flod(u), che precede il preterito. Si potrebbe supporre che quella -u non sia la desinenza della parola flōd, ma che rappresenti un troncamento dell’avverbio up, forse resosi necessario per far rientrare le parole nello spazio rimasto a disposizione per l’incisione. Data l’alta frequenza del sintagma up(p) ahof nel corpus, è plausibile che l’omissione della lettera finale ‘p’ non costituisse un ostacolo alla comprensione dell’enunciato. Una corrispondenza così puntuale ed esclusiva tra il primo verso dell’indovinello della balena e il v. 1419 di Genesis rende lecita l’ipotesi che l’uno sia una citazione dell’altro; supposizione ulteriormente confortata dal fatto che, qualora si accolga l’interpretazione secondo la quale flod(u) è soggetto del primo verso dell’enigma, la struttura dei due enunciati è identica, con il medesimo ordine sintattico Oggetto-Soggetto-Verbo (MIZE 2011: 346). Anche il Salmo 93 (92), poc’anzi citato con riferimento alla sua glossa anglosassone, può essere ricollegato all’ambito tematico del Diluvio universale. Esso esalta la stabilità eterna del regno di Dio, ‘Re supremo’, invano minacciata dal «frastuono di molte acque»: Levano i fiumi, o Signore, levano i fiumi il loro frastuono, levano i fiumi il loro fragore. Ma più che il frastuono di molte acque, più forte che i flutti del mare, è potente il Signore nell’alto. (PASQUERO 1975: 696) Le «molte acque» cui qui viene fatto riferimento sono probabilmente quelle dei fiumi Nilo ed Eufrate, i quali provocavano grandi alluvioni ed erano simbolo dell’Egitto e dell’Assiria, che bramavano la conquista di Gerusalemme, mostrandosi come nemici di Dio e del Suo popolo eletto. Dio è però definito più forte dei flutti del mare, e non permetterà mai che questi annientino il Suo regno. È infatti questo che Egli ha promesso a Noè al termine del Diluvio universale: «nessuna carne sarà più distrutta dalle acque del diluvio, né ci sarà più diluvio a sconvolgere la terra» (Genesi 9,11 [PASQUERO 1975: 37]); in Genesis vv. 1535b-1542, il passo viene così reso: [...] Ic eow treowa þæs mine selle, þæt ic on middangeard næfre egorhere eft gelæde, wæter ofer widland. Ge on wolcnum þæs oft and gelome andgiettacen magon sceawigan, þonne ic scurbogan minne iewe, þæt ic monnum þas wære gelæste, þenden woruld standeð21. (KRAPP 1931: 47-48) 20 “Levarono i fiumi, o Signore, levarono i fiumi le loro voci”. Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https://rhesis.it/ Linguistics and Philology, 8.1: 22-53, 2017 35 Dio, che riallacciandosi alla tradizione germanica della poesia eroica profana si configura come un re sempre vittorioso e giusto, non manderà più la sua egorhere “armata marina” (kenning per “inondazione, diluvio”) sulla terra, poiché ha stretto una nuova alleanza con gli uomini, suoi protetti. Egli è il solo che può decidere le sorti del Creato, e nessuna forza maligna può sostituirsi a Lui nel controllo degli elementi naturali. Tra questi, proprio l’acqua sembra essere quello prediletto da Dio per manifestare tanto la sua collera quanto il suo perdono nei confronti di infedeli e peccatori, avendo essa una forza distruttiva ed epuratrice al tempo stesso – si rammenti il parallelo tra le acque del Diluvio e quelle del Mar Rosso in Esodo, ma si pensi anche ai vari fiumi e mari tramutati in sangue in Apocalisse, senza trascurare il duplice potere attribuito all’acquasanta, in grado di lavare l’onta del peccato originale e al contempo di respingere i demoni. L’acqua, designata con il termine flod(u), riveste un ruolo chiave anche nell’enigma della balena (si veda anche la questione dei ‘punti marcatori’, Sezione 3.2.); può dunque essere utile, a questo punto della ricerca, verificare se gli accostamenti lessicali sfruttati nell’indovinello (flod + fisc + hron + beorg + greut + grorn) trovino un riscontro in altri passi del corpus poetico in riferimento al Diluvio universale o a contesti ad esso riconducibili, seppure in maniera indiretta. 2.2.1. Fisc + flod Le due parole compaiono vicine in diversi contesti poetici, non solo poiché i pesci non possono esistere separatamente dalle acque, ma anche perché la coppia fisc + flod è allitterante ed è per questo congeniale alle esigenze stilistiche della poesia anglosassone. Tuttavia, tra queste numerose co-occorrenze ve ne sono alcune degne di nota. In Christ III, terza parte del poema Christ, dedicata alla Parusia e al Giorno del Giudizio, viene detto che le acque si tramuteranno in fuoco e tutti i seafiscas “pesci del mare” bruceranno (vv. 984b-986a): […] Swa ær wæter fleowan, flodas afysde, þonne on fyrbaðe 22 swelað sæfiscas . (KRAPP – DOBBIE 1936: 30) È interessante osservare come in questo passo all’azione punitrice dell’acqua si sostituisca quella del fuoco, elemento suo antagonista ma dotato della medesima duplice capacità di purificare e annientare. Infatti, come chiarisce Pietro, alla fine dei tempi il fuoco sarà l’unico agente di distruzione e, come viene espressamente detto, questa azione richiama quella delle acque del Diluvio: […] in principio vi erano i cieli e una terra che, dalle acque, per mezzo delle acque, sorse alla parola di Dio, e che, mediante queste stesse cause, il mondo d’allora perì sommerso nel diluvio. Ma i cieli e la terra di ora sono mantenuti dalla medesima parola e riserbati per il fuoco nel giorno del giudizio e della rovina degli empi. (2 Pietro 3, 5-7 e 10 [PASQUERO 1975: 1358]) “Vi do la mia parola / che non manderò più / l’armata marina sulla terra, le acque sulle vaste distese. Vi sarà mostrato / molto spesso un segno, / quando rivelerò il mio arcobaleno, / che manterrò la promessa / (fatta) agli uomini, finché il mondo esisterà”. 22 “Mentre prima scorrevano le acque, / ora i pesci del mare bruciano in un bagno di fuoco”. 21 Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https://rhesis.it/ Linguistics and Philology, 8.1: 22-53, 2017 36 Nel Giorno del Giudizio, dunque, i giusti rinasceranno a nuova vita nella gloria di Dio, in maniera analoga a quanto accadde all’umanità alla fine del Diluvio universale, anticipazione del Giorno del Signore. Possiamo trovare una combinazione di flōd + fisc, questa volta riguardante la saldezza delle leggi del regno di Dio concesso agli uomini dopo il Diluvio, nel poema The Order of the World. In esso, un profeta, forse un erudito, si rivolge direttamente ai suoi lettori per renderli partecipi della grandiosità e potenza di Dio, il quale ha creato per gli uomini un universo dall’ordine perfetto, in cui tutti gli elementi e le bestie sono da Lui dominati. Anche l’unione dei pesci con le onde rientra in quest’ordine (vv. 82-85): «Forþon swa teofenede, se þe teala cuþe, […] flod wið flode, fisc wið yþum»23 (KRAPP – DOBBIE 1936: 166). 2.2.2. Flod + hron La presunta soluzione dell’indovinello, hronæs ban “osso di balena”, ci svela che il fisc sollevato dalle onde non è un pesce qualsiasi, bensì una balena. La co-occorrenza del termine hron con flod si verifica in due casi, oltre che nell’iscrizione del pannello frontale del Franks Casket. Il primo riguarda il poema Genesis B – come già detto, parte recenziore del poema composito Genesis. Flōd e hron compaiono, in sequenza ravvicinata, nei vv. 204-205, all’interno della promessa che Dio fa ad Adamo ed Eva, prima che il peccato originale venga commesso (vv. 201b-205a): Inc is […] on geweald geseald, […] feorheaceno cynn, ða ðe flod wecceð geond hronrade24. (KRAPP 1931: 8) La prima coppia avrà il controllo su tutte le bestie, selvatiche e d’allevamento, terrestri e marine. Di queste ultime, viene detto che sono messe in movimento dai flutti (flod) lungo la hronrade “via delle balene”, kenning per “mare” – esempio di come la tradizione biblica venga adattata agli stilemi della poesia germanica, oltre che indicativa del ruolo di spicco che le balene ricoprivano nell’immaginario collettivo della società anglosassone. La promessa fatta ad Adamo ed Eva viene rinnovata, in maniera quasi identica, a Noè alla fine del Diluvio, poiché egli è il nuovo capostipite dell’umanità. La ritroviamo quindi in Genesis A, ai vv. 1510b-1542 (il testo è stato in parte già esaminato nella Sezione 2.2.). Sebbene nella formulazione di questa seconda promessa non vi sia traccia delle balene, esse sono certamente incluse nello holmes hlæst “carico del mare” a cui viene fatto cenno («Eow is eðelstol and holmes hlæst», vv. 1514b-1515a25 [KRAPP 1931: 47]); anzi, è probabile che, da una prospettiva anglosassone, i grandi cetacei fossero i primi a venire in mente tra gli abitanti del mare, dimora di creature per lo più mostruose, sia nel senso di ‘spaventose’ sia in quello di ‘prodigiose’. A dimostrazione di ciò, il poeta di Genesis B, o il poeta sassone autore del passo originale da cui si traduce, nella resa della “Per questo ha unito, in maniera ben chiara, / […] il fiume col canale, il pesce con i flutti”. “A voi [...] è dato il dominio […] su ogni razza dotata di vita, e su quelli che i flutti sollevano / sulla via delle balene”. 25 “A voi è data una patria / e il carico del mare”. 23 24 Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https://rhesis.it/ Linguistics and Philology, 8.1: 22-53, 2017 37 promessa ad Adamo ed Eva ha sentito l’esigenza di definire il mare come ‘via delle balene’. Questo parallelo permette di fare un’ulteriore considerazione in merito al Franks Casket. Secondo BECKER (1973: 98-100), tutte le iscrizioni in caratteri runici che incorniciano i pannelli del Cofanetto sfruttano espedienti retorici e prosodici finalizzati a mettere in risalto i suoni corrispondenti a determinate rune, che potrebbero così acquisire un significato utile alla comprensione dell’iscrizione stessa, delle raffigurazioni incise e del manufatto nel suo insieme. Nell’iscrizione del pannello frontale, la prima allitterazione cade sulla lettera ‘f’, la runa feoh “ricchezza, abbondanza; bestiame”, mentre la seconda coinvolge la lettera ‘g’, la runa gyfu “dono”. Per Becker, ciò potrebbe significare che il Cofanetto contenesse un prezioso tesoro, forse di un guerriero, ricevuto in dono come ricompensa per una qualche impresa valorosa. FRANCOVICH ONESTI (2001: 1-19), invece, ipotizza che il Cofanetto stesso fosse inteso come un prezioso dono, auspicio di prosperità e ricchezza. Supposizioni, entrambe, che sembrano essere avvalorate dalle scene di Weland e dei Magi, dato che nelle rispettive narrazioni il dono e la ricchezza sono elementi portanti. Sono questi gli stessi temi riscontrabili, come si è visto, anche nella promessa fatta da Dio ad Adamo e in seguito a Noè, per la quale l’umanità riceve in dono tutte le ricchezze della terra, tra le quali il bestiame, detto eacen feoh “bestiame di grande taglia” (Genesis 1517b [KRAPP 1931: 47-48]); il racconto del Diluvio potrebbe dunque inscriversi senza difficoltà nel complesso quadro concettuale del pannello frontale del Cofanetto. La seconda opera in cui si ritrova la co-occorrenza di hron e flod è il poema Beowulf, dove le due parole appaiono spesso a distanza di pochi versi l’una dall’altra: «[…] hronfixas […] flodyþum» (vv. 540 e 542), «[…] Hronesnæsse […] floda» (vv. 2805 e 2808), «[…] flod […] Hronesnæsse» (vv. 3133 e 3136) (DOBBIE 1953: 18, 86, 96). Nessuna di queste occorrenze, però, compare in un contesto assimilabile a quello del Diluvio universale26; tuttavia, è lecito supporre a questo punto che hron- e flōd costituiscano una coppia di tipo collocativo nei testi poetici anglosassoni. Certo è che la balena, essendo un pesce, non può che essere collegata al mare; ma, mentre fisc e flōd danno luogo ad una collocazione molto comune e ovvia, utilizzata sia in versi che in prosa, il termine hron è di sicuro più specifico rispetto al suo iperonimo fisc, per cui, nel suo accostamento con flōd si può scorgere un grado di intenzionalità maggiore da parte del versificatore. Il fatto che questa particolare co-occorrenza sia presente in un’opera stilisticamente raffinata come Beowulf può essere una prova ulteriore dell’erudizione del creatore dell’indovinello. 2.2.3. Flod + beorg Nell’indovinello, la balena sollevata dalle acque arriva fin sopra una “alta montagna”. Il sostantivo fergenberig (fyrgenbeorg), è un hapax costituito da fyrgen- “montagna”, primo elemento di composti che potrebbe avere anche un valore rafforzativo (“elevato”)27, e dal sostantivo beorg “montagna, promontorio; rifugio, protezione”. Scomponendo la parola, la ricerca di combinazioni poetiche tra beorg (suo secondo elemento) e flōd porta a interessanti risultati. Il primo riguarda ancora una volta Genesis A, vv. 1386b-1389a, nei quali si parla nuovamente del Diluvio universale: 26 Tuttavia, Anlezark sostiene che il mito del Diluvio universale sia da intendersi come sostrato letterario del Beowulf. Si veda ANLEZARK 2006: cap. 6. 27 Confronta le sue tre occorrenze nel Beowulf (fyrgenstream, fyrgenholt, fyrgenbeamas). Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https://rhesis.it/ Linguistics and Philology, 8.1: 22-53, 2017 38 […] Flod ealle wreah, hreoh under heofonum hea beorgas geond sidne grund and on sund ahof earce from eorðan28. (KRAPP 1931: 43) Si può osservare qui, inoltre, la presenza del preterito ahof (v. 1388), che compare dunque due volte nella porzione del poema dedicata alla storia di Noè. In Andreas, invece, ritroviamo la forza distruttrice dell’acqua che si fa strumento della collera divina contro gli infedeli (vv. 1587b-1589a): […] þa se beorg tohlad, eorðscræf egeslic, ond þær in forlet flod fæðmian29. (KRAPP 1932: 47) Il poema si basa su un apocrifo del Nuovo Testamento, gli Atti di Andrea e Mattia (o Matteo): l’apostolo Andrea è chiamato a salvare Matteo, prigioniero nella città di Mermedonia, situata su un’isola non lontana dalla Grecia, abitata da pagani cannibali. Giunto in città con la speranza di convertire la popolazione alla fede cristiana e liberare così Matteo, Andrea viene imprigionato a sua volta. Dio allora interviene in suo aiuto; la città di Mermedonia viene sommersa dalle acque, le quali sgorgano da una colonna di marmo per ordine dell’apostolo. La popolazione, disperata, si pente e si converte; Andrea, sempre per intercessione divina, fa ritirare le acque, non prima, però, che quattordici tra i più crudeli dei pagani vengano inghiottiti nelle viscere della terra insieme all’acqua che defluisce in una voragine apertasi miracolosamente nel terreno. Si può quindi ravvisare nel passo citato una reminiscenza del Diluvio universale, poiché anche in questo frangente le acque, secondo la volontà divina, epurano la terra da ciò che vi è di immondo30. Infine, in Christ, nel contesto del Giudizio Universale, ricorre di nuovo l’immagine di acque tumultuose; le scogliere che prima facevano scudo contro il mare si scioglieranno, lasciando intendere che nulla potrà più fermare la forza delle onde impetuose, che andranno a sommergere e distruggere le terre (vv. 977b-981a): […] Beorgas gemeltað ond heahcleofu, þa wið holme ær fæste wið flodum foldan sceldun, stið ond stæðfæst, staþelas wið wæge, wætre windendum31. (KRAPP – DOBBIE 1936: 30) Sempre nel medesimo poema, è inoltre presente l’accostamento di fergen e flod, ai vv. 850-853a, dove però fergen risulta essere l’ottativo del verbo ferian “trasportare, andare, navigare”32: “Il diluvio, impetuoso sotto i cieli, inghiottì tutte le alte montagne / attraverso la terra spaziosa e l’acqua sollevò / l’arca dal suolo”. 29 “Poi (il santo) aprì una terribile voragine nella terra e vi lasciò / scorrere la marea d’acqua”. 30 Per un’analisi più approfondita dell’inondazione della città in Andreas e delle sue analogie con il Diluvio universale, si veda ANLEZARK 2006: 223-230. 31 “Le montagne si scioglieranno / e le alte scogliere, che una volta facevano scudo contro il mare e le sue maree, / ferme e salde, baluardi contro le onde / e l’acqua agitata”. 32 La possibilità di sostituire un elemento della collocazione con un altro di suono simile è frequentemente sfruttata nel corpus. 28 Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https://rhesis.it/ Linguistics and Philology, 8.1: 22-53, 2017 39 Nu is þon gelicost swa we on laguflode ofer cald wæter ceolum liðan geond sidne sæ, sundhengestum, flodwudu fergen33. (KRAPP – DOBBIE 1936: 26) Nonostante non si tratti della stessa parola presente nell’indovinello del Franks Casket, ma di un suo omofono, è curioso notare che in Andreas essa si presenti nel contesto di una similitudine nella quale compaiono barche di legno che affrontano le gelide acque dell’oceano. 2.2.4. Flod + greut La balena dell’indovinello, giunta ormai alla fine dei suoi giorni, si ritrova a cercare di ‘nuotare’ sui ciottoli, aingl. greot “ciottoli, ghiaia, fango”, sostantivo di cui nel secondo verso dell’indovinello troviamo la variante northumbrica greut. La sua combinazione con flod non risulta presente in altri poemi. Tuttavia, da sola è di attestazione frequente (soprattutto nel poema Andreas), perlopiù in contesti meramente descrittivi dove designa, in maniera specifica, i ciottoli o la ghiaia delle spiagge, oppure il suolo. Vi sono comunque alcune occorrenze che vale la pena esaminare, perché in esse il termine sembra avere una connotazione negativa, collegabile a quella del termine gasric – che rammentiamo essere un hapax legomenon. In due casi, il sostantivo è usato in relazione a un ritorno dall’Aldilà, una sorta di temporanea risurrezione. Entrambe le occorrenze si trovano in Andreas vv. 792-795a e 1623-1624: Het þa ofstlice up astandan Habraham ond Isaac, æðeling þriddan Iacob of greote to godes geþinge, sneome of slæpe þæm fæstan. […] Het þa onsunde ealle arisan, geonge of greote, þa ær geofon cwealde34. (KRAPP 1932: 25, 48) Nel secondo, è addirittura l’inferno il referente ultimo del sostantivo greot(e). Infatti, Andrea ordina che i giovani mermedoni già uccisi dalle acque divine si rialzino e riprendano vita, affinché non si leghino al nemico, al diavolo («in feonda geweald gefered ne wurdan», v. 1619 [KRAPP 1932: 48]) e non vadano incontro alla condanna dell’inferno, ma possano redimersi e convertirsi così come stanno facendo gli altri abitanti della città. Vi è un’altra occorrenza in cui il sostantivo è connesso ad un essere maligno e infernale: Genesis A, vv. 909b-910a: «[…] þu scealt greot etan/ þine lifdagas» (KRAPP 1931: 30)35. Qui infatti Dio si rivolge al serpente che ha indotto Eva a cogliere la mela e lo condanna a mordere il fango, ovvero a strisciare, per il resto della sua vita. “Ora è proprio come se stessimo andando per mare / su gelide acque con le navi, attraverso il vasto oceano, / navigando con destrieri acquatici [= navi], legni marini [= navi]”. 34 “Poi precipitosamente, al comando di Dio, / Abramo e Isacco, e il terzo nobile uomo / Giacobbe, si alzarono di colpo dal terreno [tomba], / uscendo dal sonno al quale erano affidati. […] Ordinò che illesi si rialzassero / dal suolo tutti i giovani, che l'oceano aveva prima ucciso”. 35 “Mangerai fango / per il resto dei tuoi giorni”. 33 Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https://rhesis.it/ Linguistics and Philology, 8.1: 22-53, 2017 40 2.2.5. Flod + grorn Non riuscendo a muoversi sui ciottoli, la balena dell’indovinello, ormai conscia della propria imminente morte, diviene profondamente triste e grorn “addolorata”. Questo aggettivo è attestato solo nell’iscrizione del Cofanetto Franks, sebbene come sostantivo conti qualche occorrenza, come pure l’annesso verbo grornian “lamentare, piangere (una perdita)” (cfr. aingl. grānian “emettere un sospiro di dolore, lamentarsi, piangere, compiangere” > ingl. groan “lamentarsi”). Di più frequente utilizzo è la forma gnorn, parola dal significato identico, tanto da poter essere considerata una variante di grorn, e anch’essa attestata di solito come sostantivo. Nemmeno questa, tuttavia, si combina con il sostantivo flod. Nel secondo verso dell’indovinello troviamo la parola subito dopo il sostantivo gasric, con il quale forma una coppia allitterativa, ed è per questo motivo che è importante analizzarla nel dettaglio, poiché potrebbe contribuire a far luce sulla natura forse demoniaca del referente di questo hapax legomenon. Le due forme grorn/gnorn derivano dal PIE *ghouros “spaventato, spaventoso”, dal quale si originano anche i sostantivi aingl. gyrn “pena, cordoglio, male” e gryre “orrore, terrore, timore”. La scelta di grorn, all’interno dell’ampia gamma di termini esistenti in antico inglese per esprimere la sofferenza, potrebbe essere stata guidata da una precisa intenzione comunicativa, al di là delle ovvie ragioni allitterative; esso potrebbe infatti essere evocativo di una pena terribile da sopportare psicologicamente, causata da avvenimenti tragici o azioni deplorevoli sotto il profilo morale – e dunque, in ottica cristiana, una pena originata dal peccato. Controllando le occorrenze della parola, si nota che essa è utilizzata in contesti molto negativi, spesso in relazione proprio col peccato e l’inferno. In Genesis B, è questo il termine che, ricorrendo tre volte nelle sue varie forme, designa la sofferenza e il rimorso di Adamo ed Eva dopo aver compiuto il peccato originale (vv. 765b-772a, 840b-841)36. Nei poemi apocalittici riguardanti il Giorno del Giudizio, la parola compare alcune volte, come si può rilevare in The Judgement Day II (vv. 86-87)37 e in Christ III (vv. 970-971 e 1575-1577)38. Le occorrenze più interessanti del termine si trovano però in Christ and Satan, poema in cui se ne contano cinque, tutte riferibili all’inferno e a Satana. I suoi seguaci vengono definiti gnornende cynn “dolente razza” (v. 133 [KRAPP 1931: 140]) e i demoni nell’inferno sono costretti ad ascoltare gnornungc mecga “i lamenti degli uomini” (v. 333 [KRAPP 1931: 146]). Perfino i demoni vengono ritratti come spiriti sofferenti: «ða him andsweradan atole gastas, / swarte and synfulle, susle begnornende» (vv. 51-52 36 «[…] Sorgedon ba twa, / Adam and Eue, and him oft betuh / gnornword gengdon; godes him ondredon, / heora herran hete, heofoncyninges nið / swiðe onsæton; selfe forstodon / his word onwended. þæt wif gnornode, / hof hreowigmod, (hæfde hyldo godes, / lare forlæten), […] Hwurfon hie ba twa, / togengdon gnorngende on þone grenan weald» (KRAPP 1931: 26, 28). “I due, Adamo ed Eva, si angosciavano entrambi / e spesso tra loro passavano/ parole di sconforto; temevano Dio, / l’odio del loro Signore, tanto paventavano la punizione del Re del Cielo; / loro stessi realizzarono / che la Sua parola era stata trasgredita. Quella donna pianse, / sconsolata, (poiché) aveva abbandonato la grazia / e i consigli di Dio. […] I due se ne andarono, / percorsero in ansia sentieri diversi nella verde selva”. 37 «Glæd bið se godes sunu, gif þu gnorn þrowast / and þe sylfum demst for synnum on eorðan» (DOBBIE 1942: 60). “Lieto è il figlio di Dio se tu una pena soffri / e te stesso giudichi per i peccati (commessi) sulla terra”. 38 «Grornað gesargad / eal middangeard on þa mæran tid. […] Ne bið þær ængum godum gnorn ætywed, / ne nængum yflum wel, ac þær æghwæþer / anfealde gewyrht ondweard wigeð» (KRAPP – DOBBIE 1936: 30, 47). “Piangerà afflitta / tutta la terra in quell’ora nota. […] Nessuna pena sarà mostrata agli uomini giusti, / né a quelli malvagi, ma ognuno qui / (presente) avrà quel che merita”. Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https://rhesis.it/ Linguistics and Philology, 8.1: 22-53, 2017 41 [KRAPP 1931: 136-137])39. E Satana spiega così il suo destino: «Ic her geþolian sceal þinga æghwylces, / bitres niðæs beala gnornian […]» (vv. 272-273 [KRAPP 1931: 144])40. Destino che accomuna anche tutti gli altri esseri dannati, come viene specificato poco dopo: «Swa gnornedon godes andsacan, / hate on helle […]» (vv. 279-280 [KRAPP 1931: 144])41. L’inferno stesso, in Juliana, viene detto grornhofe “corte di tristezza” (vv. 319-324 [KRAPP, DOBBIE 1936: 122])42. A definirlo in questo modo è il demone mandato da Satana per tormentare la virtuosa Juliana la quale, avendo una fede salda e un animo combattivo, non cede al male, e anzi diviene lei stessa un tormento per lo sciagurato mostro. Il diavolo, alla fine, ammetterà che per questo non avrà nulla di cui andar fiero, poiché ha fallito la missione della quale lui, triste (ancora una volta, gnorn-cearing, v. 529 [KRAPP – DOBBIE 1936: 128]), dovrà fare il resoconto ai suoi simili. La parola gnornhofe compare anche in Andreas vv. 1008b e 1043 (KRAPP 1932: 31, 32), per indicare la prigione in cui i mermedoni tenevano recluso Matteo. In Guthlac A, troviamo altre occorrenze in cui il termine è riferito direttamente ai demoni che infestano i monti vicino all’eremo del santo Guthlac (vv. 231b-232 e 429b431a)43. Guthlac, come Juliana, si dimostra più forte, nel corpo così come nello spirito, dei demoni. Grazie alla sua incrollabile fede, ogni loro attacco risulta vano e la sua anima non sarà tormentata dalle pene, né dai rimpianti («ne him gnornunga gæste scodun», v. 544 [KRAPP – DOBBIE 1936: 65]). Egli ha una coscienza pura e per questo non teme di morire, poiché per lui ciò significherà rinascere nella beatitudine del Paradiso, mentre i demoni, sofferenti, dovranno affrontare la vera morte nell’inferno («þær ge gnornende deað sceolon dreogan», vv. 679-680a [KRAPP – DOBBIE 1936: 68]). Le occorrenze appena citate confortano dunque l’ipotesi che la parola grorn/gnorn comunichi il senso d’afflizione originato dalla colpa, dal peccato; considerando il possibile significato di gasric “terribile re” e quello, secondario, di greot “terreno di sepoltura, tomba”, si può scorgere nel secondo verso dell’indovinello un tessuto di connotazioni negative associate al maligno che certamente non può essere casuale. La balena, almeno in questo verso, è senza dubbio un mostro infernale, verosimile incarnazione del male e/o del peccato. Nel complesso, invece, l’ampia rassegna di (co)occorrenze, esaminate finora, dimostra come le scelte lessicali attuate dall’autore dell’indovinello dell’osso di balena siano riscontrabili in altri contesti poetici che trattano del Diluvio universale o di temi ad esso afferenti, rendendo legittima l’ipotesi che tra gli enigmatici versi incisi nel pannello frontale del Cofanetto Franks e il racconto biblico sussista un effettivo legame, almeno da un punto di vista tematico. “Gli risposero (a Satana) terribili spiriti, / truci e peccatori, piangenti il loro tormento”. “Sono costretto a sopportare ogni cosa qui, / piangere (questa) bieca cattiveria amara”. 41 “Così soffrono gli avversari di Dio, / al caldo nell’inferno”. 42 «Hyre se aglæca ageaf ondsware, / forhtafongen, friþes orwena: / ‘Hwæt, mec min fæder on þas fore to þe, / hellwarena cyning, hider onsende / of þam engan ham, se is yfla gehwæs / in þam grornhofe geornfulra þonne ic» (KRAPP – DOBBIE 1936: 122). “Il disgraziato (mostro), rassegnato, / spaventato le rispose: / ‘Ascolta! Mio padre, re degli abitanti dell’inferno, mi ha mandato in viaggio da te / fuori da quell’opprimente dimora; / in quella corte di tristezza lui è più smanioso [di peccato/malvagità] di me’”. 43 «Sceoldon wræcmæcgas / ofgiefan gnornende grene beorgas. […] Bonan gnornedon, / mændon murnende þæt hy monnes bearn / þream oferþunge» (KRAPP – DOBBIE 1936: 56, 61). “Gli infami, / piangenti, avrebbero dovuto abbandonare i verdi monti. […] I demoni piagnucolavano, afflitti si lamentavano (del fatto) che un figlio dell’uomo potesse superare le loro minacce”. 39 40 Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https://rhesis.it/ Linguistics and Philology, 8.1: 22-53, 2017 42 3. L’enigmatografia medievale anglosassone 3.1. Ænigmata e Riddles Dopo avere esaminato l’indovinello dell’osso di balena da un punto di vista strettamente linguistico, è necessario indagarne gli eventuali punti di contatto o di divergenza con il resto della produzione enigmatografica medievale, al fine di comprendere appieno la natura del componimento. Quella degli indovinelli è una lunga e antica tradizione popolare, comune a molte culture. Sono però i Latini che ne fanno una vera e propria ars poetica; i cento Ænigmata di Symphosius, databili al V secolo, segnano convenzionalmente il passaggio da una forma sapienziale, ancora molto vicina alla tradizione orale, ad una d’intrattenimento sia conviviale sia letterario, nella quale gli enigmi non si limitano ad essere sfide verbali d’arguzia e sagacia, ma divengono veri e propri componimenti redatti secondo una metrica rigorosa, non privi di riferimenti alla letteratura e alla filosofia, che possono essere compresi solo da un pubblico colto. La raccolta fu infatti compilata in occasione dei Saturnali romani e lo stesso nome dell’autore, di cui si sa ben poco, potrebbe essere uno pseudonimo riferito ai simposi durante i quali gli enigmi sarebbero stati oggetto di gare e giochi tra uomini nobili e istruiti. L’opera di Symphosius diviene il modello di un filone letterario, quello degli ænigmata, che avrà particolare fortuna tra VII e VIII secolo e che conterà tra i suoi epigoni grandi eruditi anglosassoni: Aldhelmus, vescovo di Sherborne, Tatwine, arcivescovo di Canterbury, Eusebius, abate di Wearmouth, Bonifacio, missionario e vescovo di Magonza – e in maniera differente anche Alcuino di York, al quale vengono attribuiti 56 problemi matematici in prosa latina, e il Venerabile Beda, ritenuto autore di un’antologia di giochi enigmistici latini di vario genere. Gli enigmi anglo-latini mostrano spiccate somiglianze con quelli symphosiani, sia nella forma sia nei contenuti: ordinati in raccolte di cento (numero canonico), sono anch’essi scritti in esametri latini, presentano dei lemmi o titoli che ne esplicitano la soluzione e ripropongono solitamente soggetti e tópoi già sfruttati da Symphosius, oltre che impiegare gli stessi espedienti retorici della prosopopea o dell’osservatore esterno, di cui si parlerà nello specifico più avanti. Non si tratta, tuttavia, di mere imitazioni o esercizi di stile nell’ambito dello studio del latino: in essi la materia symphosiana viene rielaborata, ampliata, informata dalla fede cristiana e da un afflato poetico propriamente anglosassone. Se da un lato gli enigmi di Symphosius, incentrati su animali e oggetti del quotidiano, prediligono il reale e sono concisi e pregnanti (constano di soli tre esametri ciascuno), dall’altro quelli anglo-latini appaiono più immaginifici e drammatici, contorti e dispersivi, quasi sempre più lunghi dei corrispettivi latini. Quello che descrivono è un universo cristiano e il pubblico al quale si rivolgono si compone di monaci che devono essere educati e istruiti secondo i dettami della nuova fede; il loro scopo è mettere in luce non tanto l’oggetto o l’animale in sé, quanto ciò di cui esso può essere metafora, in chiave cristiana. I loro autori, uomini di lettere ma soprattutto di Chiesa, hanno ormai carpito i segreti dell’enigmistica e se ne avvalgono per indagare il mondo, visto come creazione di Dio, e palesare le verità insite in esso, concependo nuove formule e realizzazioni linguistiche che meglio si avvicinino alla realtà e alla mentalità anglosassoni. È in questo modo che le loro opere aprono la via alla completa naturalizzazione del genere, di cui ci resta una silloge di oltre novanta indovinelli vernacolari (Riddles) trascritta all’interno dell’Exeter Book (fine X secolo). Il Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https://rhesis.it/ Linguistics and Philology, 8.1: 22-53, 2017 43 manoscritto purtroppo è danneggiato in più parti e qualche pagina è andata perduta, motivo per cui è lecito pensare che gli indovinelli in origine ammontassero a cento, come da consuetudine. Sebbene il latino sia stato abbandonato in favore del volgare e l’esametro abbia ceduto il posto al verso lungo allitterante di matrice germanica, i Riddles rivelano uno stretto legame con la tradizione letteraria anglo-latina. Per ciò che concerne la struttura, la maggior parte di essi si apre con le formule ic eom “io sono” e ic wæs “io ero”, tipiche della prosopopea: l’oggetto occulto, animato o meno che sia, si racconta in prima persona, descrivendosi come una creatura straordinaria, e infine sfida il pubblico a riconoscerlo attraverso formule quali saga hwæt ic hatte “di’ qual è il mio nome”. In altri, in apertura troviamo la formula ic seah “io ho visto” o ic wiht geseah “io ho visto una creatura” (esatte corrispondenze dell’incipit latino vidi), con la quale un osservatore esterno introduce la descrizione dell’oggetto, che prosegue poi in terza persona. I componimenti sono di eguale o addirittura maggior lunghezza rispetto a quelli anglolatini, nonostante la presenza di cinque indovinelli composti da un solo verso lungo (Riddles 68-69, 75, 76, 79). La sintassi è volutamente artificiosa e fuorviante; la narrazione drammatica subisce frequenti e repentini cambi di tempo e spazio, in un susseguirsi di scene sempre diverse, vivide e perfino cruente, in uno stile che potremmo definire cinematografico (BITTERLI 2009: 154), già ravvisabile negli enigmi anglo-latini. In questi ultimi, così come in quelli vernacolari, sono infatti numerosi i casi in cui gli oggetti espongono le alterne vicende della loro vita, a volte così tormentata che i loro soliloqui acquistano un tono elegiaco: essi ricordano con nostalgia ciò che sono stati in una fanciullezza idilliaca e raccontano con amarezza le brutali torture subìte per trasformarsi in strumenti utili all’uomo – che ribadisce così la supremazia concessagli da Dio su ogni altra creatura esistente, della quale egli si serve per compiacere il volere divino, come accade ad esempio al vitello ucciso per ricavarne la pergamena sulla quale ricopiare i testi sacri (Riddle 26). Anche negli indovinelli anglosassoni, quindi, la presenza della dottrina cristiana è forte e costante, ed è ancora percepibile il loro carattere didattico; i soggetti e le tematiche di cui sono metafora si rifanno in genere alla tradizione anglo-latina, ma possono tuttavia colorirsi di sfumature popolari. Non mancano però indovinelli del tutto originali e profani, anche dal doppio senso erotico44 – probabilmente in virtù del sincretismo che caratterizza l’ambiente anglosassone. Particolare è inoltre l’uso dell’alfabeto runico come sistema crittografico; lettere o parole scritte in futhorc anglosassone, delimitate da due punti marcatori (uno prima e uno dopo la singola runa o la sequenza), si inframmezzano occasionalmente al testo in alfabeto latino, fornendo le chiavi cifrate per risolvere l’enigma45. In effetti, contrariamente a quanto accade per gli ænigmata latini, i Riddles anglosassoni sono sprovvisti di una soluzione esplicitata; semmai, è possibile trovare sporadici indizi codificati all’interno dei testi. Benché per anni reputata dagli studiosi la differenza più significativa tra gli enigmi anglo-latini e quelli anglosassoni, l’assenza delle soluzioni non può essere considerata una caratteristica vincolante degli indovinelli in vernacolo, poiché esse avrebbero potuto essere state elencate in una delle pagine perdute del manoscritto o in un’altra redazione della raccolta di indovinelli. Anche Gli indovinelli ‘osceni’: Riddles 25, 37, 44, 45, 54, 61, 62, 87. Ad esempio, il Riddle 42 (KRAPP – DOBBIE 1936: 203-204), in cui la soluzione hana “gallo” e hæn “gallina” è data dalle rune nyd (n), æsc (æ), ac (a) e hægl (h) combinate nel modo indicato. Si vedano anche i Riddles 19, 24, 64, 75. 44 45 Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https://rhesis.it/ Linguistics and Philology, 8.1: 22-53, 2017 44 l’assunto opposto, che gli ænigmata anglo-latini circolassero con le soluzioni annesse, è in verità contestabile, in quanto in alcuni casi queste sono assenti, ad esempio, nella Collectanea di Beda e negli ænigmata anonimi della raccolta di Lorsch, oppure separate dai testi, o fornite solo in parte, o annotate a margine in un secondo tempo, come avviene in alcuni manoscritti che riportano gli ænigmata di Aldhelmus (ms. St. Petersburg, Russian National Library, Q.I. 15; Wölfenbuttel, Herzog August-Bibliothek, Gud. Lat. 331; Vatican City, BAV, Pal. Lat. 1719 [ORCHARD 2005: 285]). Anziché una filiazione degli ænigmata anglo-latini, sarebbe dunque più corretto considerare i Riddles anglosassoni come un’antologia ad essi complementare; nonostante sul piano formale non vi sia corrispondenza di lingua e metrica, non si può parlare di vere e proprie differenze tra i componimenti in lingua latina e quelli in vernacolo, quanto di adattamenti e ampliamenti, nei secondi, di quanto già versificato nei primi, come se i testi anglosassoni e quelli anglo-latini fossero parti inscindibili di un’unica tradizione letteraria (ORCHARD 2005: 300). 3.2. L’indovinello dell’osso di balena È all’interno di questa tradizione che l’enigma del hronæs ban deve essere inquadrato. La manifattura del Franks Casket, come già detto, avvenne verosimilmente in Northumbria durante l’VIII secolo, dunque nello stesso contesto storico-culturale in cui si svilupparono gli ænigmata e, probabilmente, i prototipi dei recenziori Riddles dell’Exeter Book. Difatti, l’enigma inciso sul pannello frontale del Cofanetto possiede caratteristiche tali da accomunarlo sia agli indovinelli latini classici sia a quelli anglolatini e vernacolari. Sono assenti, è vero, le formule d’apertura e chiusura tipiche del genere, eppure è presente la soluzione (hronæs ban) e i soli due versi lunghi di cui consta l’indovinello ricordano il tristico symphosiano; il dettato è infatti breve e pregnante come negli esemplari latini, ma al contempo immaginifico e drammatico come negli ænigmata anglo-latini. Anche in questo caso la visuale può dirsi cinematografica: nel primo verso, è come se una ripresa a tutto campo ci permettesse di osservare da lontano la forza dei flutti che porta un pesce fin sopra un’alta montagna (o quella di una balena che solleva alte onde in mare aperto nel disperato tentativo di contrastare le correnti), mentre nel secondo l’inquadratura si restringe offrendoci il tragico primo piano di un “terribile re” agonizzante sui ciottoli di una spiaggia. Il componimento, seppur breve, presenta in nuce la stessa tendenza, frequente nei Riddles, a svolgere la narrazione mediante repentini cambi di scena – caratteristica che avvalora l’ipotesi, avanzata nella Sezione 1.1.1., che i due versi possano non essere letti in maniera direttamente consequenziale. L’indovinello sembrerebbe pertanto configurarsi come una sorta di anello di congiunzione tra le due tradizioni, un primo tentativo di adattare il genere degli ænigmata symphosiani agli stilemi della poesia anglosassone e agli scopi pedagogici dell’ambiente monastico. Ritengo infatti che, considerando la tradizione enigmatografica anglo-latina e lo specifico ambiente all’interno dei quali esso si inscrive, entrambi improntati ai principi della dottrina cattolica, l’enigma del hronæs ban debba necessariamente trasmettere un insegnamento cristiano e/o essere metafora di una narrazione biblica. L’interpretazione da me proposta, per cui questa micro-narrazione avrebbe come referente la storia di Noè e del Diluvio universale, sembra trovare ulteriore conforto proprio in una particolarità dei Riddles anglosassoni che rinveniamo nel testo dell’enigma dell’osso di balena: i punti marcatori. Se si osserva la prima porzione Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https://rhesis.it/ Linguistics and Philology, 8.1: 22-53, 2017 45 dell’iscrizione, in alto a sinistra, si notano infatti due punti, uno prima e uno dopo la sequenza di rune che formano la parola flodu “ondata, diluvio”. I punti, come accennato sopra, vengono utilizzati nei Riddles per marcare, all’interno del testo in alfabeto latino, le rune o le sequenze di rune che costituiscono le chiavi cifrate per risolvere gli enigmi; sebbene l’enigma del hronæs ban sia interamente scritto in caratteri futhorc, non sembra esserci alcuna ragione per cui in esso la funzione dei punti marcatori dovrebbe essere diversa. Al contrario, i punti marcatori risultano qui più utili poiché evidenziano una parola fra tante scritte nello stesso alfabeto, piuttosto che una lettera o una parola scritta in un alfabeto differente, che dunque già di per sé cattura l’attenzione del lettore. Flodu, che si trova all’interno dei punti marcatori, può quindi essere considerata la parola chiave dell’enigma, in quanto plausibile riferimento al Diluvio universale. Un’analisi che voglia dirsi completa non può tuttavia ignorare l’eventuale aspetto profano e forse occulto insito nel componimento, proprio in considerazione del carattere sincretico del contesto culturale della Northumbria dell’VIII secolo. L’osso di balena, che costituisce la soluzione dell’enigma, è un materiale certamente prezioso, ma che agli occhi di un anglosassone avrebbe potuto caricarsi di sinistre valenze, poiché ricavato da uno dei più temibili mostri marini. BECKER (1973: 97-98) e SCHWAB (2008: 23; 187188), a questo proposito, sostengono che il sintagma hronæs ban si possa rapportare ad analoghe formule incise su altri manufatti, le quali specificano il materiale di cui l’oggetto è fatto, forse per attivarne il potere protettivo o per sottolinearne la preziosità: þis is siulifur “questo è argento” sull’anello di Coquet-Island (Northumbria, Inghilterra), eko:sum:lapis “io sono (una) pietra” sulla pietra di Lösen (Blekinge, Svezia) e binisþitabinisþit “osso è questo, osso è questo” su un frammento di osso, possibile amuleto, rinvenuto a Lund (Skåne, Svezia). È evidente che ogni materiale nelle credenze popolari possedesse un potere intrinseco o legato alla fonte da cui esso veniva ricavato. Nel caso dell’osso, il materiale proveniva da una fonte in precedenza animata, che in vita possedeva uno spirito contraddistinto da determinate qualità e caratteristiche, le quali in qualche modo pervadevano ogni tessuto del corpo e vi rimanevano impresse anche dopo la morte dell’animale – così come, cristianamente, nelle reliquie permane l’essenza vitale del santo, che acquista poteri miracolosi in virtù dello stato di perfetta comunione con Dio raggiunto dallo spirito dell’eletto. All’osso di balena, considerata la natura demoniaca attribuita all’animale, potrebbe essere stato riconosciuto un forte potere apotropaico, utile a difendere il tesoro contenuto nel Cofanetto. In letteratura esiste un’importante testimonianza a riprova di questa ipotesi; infatti Olao Magno, nel 1555, scrive che nelle regioni artiche della Norvegia il clima ostile non permette agli alberi di crescere; dunque la natura, previdente, fornisce agli uomini le enormi ossa delle balene per edificare le loro case; tuttavia, «Dormientes inter has costas non alia insomnia vident, quam si continue in fluctibus marinis laborarent, aut in tempestatibus ad naufragium vsque periclitarentur»46 (OLAUS MAGNUS 1555: XXI. xxiv, 754). Gli abitanti di queste case, racchiusi in quello che prima era il corpo della balena, nei loro sogni rivivono i terribili istanti della tempesta che sospinse il cetaceo a riva, facendo sì che esso divenisse un ricco bottino per gli uomini che di lì a poco lo avrebbero trovato, morente, sulla spiaggia (SZABO 2005: 9). Una sorta di maledizione che ogni notte – durante la quale, nell’immaginario collettivo, hanno da sempre luogo eventi soprannaturali connessi a forze maligne – tormenta chi ha osato “Coloro i quali dormono entro queste costole altro non sognano, se non di trovarsi in continua difficoltà tra i flutti del mare, ovvero di essere sempre in pericolo di naufragio durante una tempesta”. 46 Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https://rhesis.it/ Linguistics and Philology, 8.1: 22-53, 2017 46 profanare e sfruttare i resti della balena arenata; le sue ossa diventano il mezzo attraverso cui questo maleficio può perpetrarsi. Il Franks Casket, grazie al ‘potere’ dell’osso di balena di cui è fatto, diviene un oggetto inviolabile, a meno che non si voglia incorrere nel rischio di essere vittima di un sortilegio ad opera del “terribile re” le cui spoglie formano ora il cofanetto. Il sintagma hronæs ban non è, dunque, solo la soluzione dell’indovinello: esso è un preciso avvertimento, quasi una formula magica per scagliare l’anatema. Perfino la posizione in cui esso è inciso sul pannello frontale potrebbe essere rilevante. Come si è già detto, tutta l’arte anglosassone si fonda su una forte interazione tra testo e immagini, e il Franks Casket è uno degli esempi più complessi di questa poetica; ogni dettaglio, finanche quello che appare solo come un motivo decorativo di riempimento, delinea una precisa simbologia; di conseguenza, anche la ripartizione degli spazi e dei testi incisi nei diversi pannelli può essere espressione di una determinata finalità comunicativa. Osservando la disposizione del testo lungo la cornice del pannello frontale, si nota che hronæs ban, inciso sul lato sinistro, è speculare alla sequenza di rune -enberig sul lato destro, terminazione della parola fergenberig, che comincia nel lato superiore della cornice, in prossimità dell’angolo destro (cfr. Figura 1). Figura 1. Divisione degli spazi e del testo nel pannello frontale del Franks Casket (con traslitterazione dei caratteri runici). Questa particolare suddivisione fa sì che le due porzioni di testo risultino separate dagli enunciati principali del lato superiore e inferiore, quasi a volerle evidenziare e metterle in rapporto tra loro. Nella porzione sul lato destro, tralasciando il nesso ‘-en’, desinenza della radice ferg-, rimane la parola berig, testa del composto e quindi costituente dal maggior peso semantico. Berig è la variante northumbrica di beorg “montagna; rifugio, protezione” (vedi Sezione 2.2.3.). Se provassimo a leggere le due porzioni, di sinistra e di destra, come se fossero un unico enunciato, otterremmo: hronæs banen berig, traducibile come “protezione dell’osso di balena”47. In effetti, le parole ban e beorg co-occorrono in altri contesti. In primo luogo, si uniscono nel sostantivo bānbeorg “schiniere, ocrea”, letteralmente “protezione dell’osso” dove per ‘osso’ si intende la tibia, quindi la gamba (cfr. tedesco Bein). In poesia, le ritroviamo affiancate in diverse opere, tra le quali Guthlac («þis banfæt beorge Banen potrebbe essere variante di banan, genitivo singolare neutro di ban “osso”. Oppure potrebbe essere inteso come banen(a), genitivo plurale. 47 Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https://rhesis.it/ Linguistics and Philology, 8.1: 22-53, 2017 47 bifæste»48 v. 1193 [KRAPP – DOBBIE 1936: 83]) ed Elene («geywdest […] under beorhhliðe ban Iosephes»49 vv. 786b-787 [KRAPP 1932: 88]), anche se l’occorrenza più significativa è in Beowulf («seo ðe bancofan beorgan cuþe»50 v. 1445 [DOBBIE 1953: 45]), in un passo in cui l’eroe si batte contro alcuni mostri marini certo che l’armatura che indossa sia in grado di difendere (beorgan) il suo corpo (bancofan) dai loro attacchi. Tuttavia, come si evince in particolare da quest’ultimo esempio, di solito sono le ossa a essere protette per mezzo di qualcosa, ad esempio un tumulo o un’armatura. Il concetto che siano le ossa stesse a fungere da protezione, come nel caso del Cofanetto Franks, sembrerebbe quindi essere originale nella produzione letteraria anglosassone. La convinzione che l’osso di balena possedesse un potere protettivo contro nemici e malintenzionati potrebbe essere collegata a una credenza sui cetacei anticamente diffusa e riportata da alcuni bestiari e opere naturalistiche. Nel bestiario di Aberdeen (Aberdeen University Library MS 24, XIII secolo), ad esempio, nel capitolo dedicato ai pesci si legge (folio 74r): Alii vivos fetus edunt, de suo corpore ut cete ingentia, delphines et foce aliaque cetera huiusmodi, que cum ediderint partus siquid forte insidiarum terrorisque presenserint circa catulos suos unquam moliri, quo tueantur eos vel tenere etatis pavorem materno affectu comprimant, aperire ora et innoxio partus suos dente suspendere, interno quoque recipere corpore, et genitali feruntur alvo abscondere. Quis humanus affectus hanc piscium pietatem possit imitari? Oscula nobis sacietati sunt, illis non satis est aperire viscera, natosque recipere, ac revocare integros, atque iterum fotu quodam sui caloris animare, et spiritu adolere suo duosque in corpore uno vivere donec aut [ad] securitatem deferant, aut corporis sui obiectu natos suos defendant a periculis51. (Aberdeen Bestiary, University of Aberdeen 1995) La balena, nonostante la sua presunta attitudine malvagia, è capace di provare un forte amore materno nei confronti dei suoi cuccioli, che protegge ad ogni costo, arrivando perfino ad inghiottirli per poi espellerli integri una volta passato il pericolo. Ricapitolando, secondo la tradizione popolare la balena è un animale terribile contro i suoi nemici, ma amorevole verso la propria prole, manifestando una duplice natura al contempo malvagia e benevola – adatta ad impersonare il gioco di antitesi tra bene e male presente nell’indovinello del Cofanetto – che conferisce alle sue ossa un potere apotropaico. Si potrebbe dire, in conclusione, che l’osso di balena sia un materiale pregiato, ma soprattutto arcano. “Questo vascello d’ossa (= corpo) ella affidi ad un tumulo”. “Mostrasti le ossa di Giuseppe sotto le pendici della collina”. 50 “Essa (l’armatura) sapeva come proteggere la sua camera d’ossa (= corpo)”. 51 “Altri generano piccoli viventi dai loro corpi, come i grandi cetacei, i delfini e le foche e altri di tale natura; quando essi hanno partorito, se mai ad esempio presagiscono insidie e pericoli attorno ai loro cuccioli, per proteggerli o placare con l’affetto materno la paura (tipica) della tenera età, aprono la bocca e mantengono fra i denti i loro piccoli, in maniera innocua, e li riprendono dentro il loro corpo, nascondendoli nel loro ventre. Quale sentimento umano potrebbe mai eguagliare la dedizione dei pesci? Per noi i baci sono sufficienti, per essi non è abbastanza esporre le proprie viscere, ricevervi i loro nati, dunque restituirli integri, rianimandoli con il conforto del proprio calore, riscaldandoli col proprio respiro, vivendo insieme in un unico corpo finché non li abbiano condotti in salvo o, frapponendo il loro stesso corpo, abbiano difeso i loro nati dal pericolo”. 48 49 Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https://rhesis.it/ Linguistics and Philology, 8.1: 22-53, 2017 48 3.3. Il ‘principio etimologico’: il Cofanetto Franks come ‘arca’ L’individuazione di una natura ‘arcana’ dell’osso di balena può rivelarsi assai utile ai fini di delineare meglio l’associazione tra il Franks Casket e la narrazione biblica del Diluvio universale che qui si è proposta; in questo compito può guidarci e sorreggerci il metodo d’indagine etimologica impiegato da Isidoro di Siviglia nelle sue Etymologiae (VII secolo), testo che conobbe una grande diffusione durante tutto il Medioevo. In questa sua opera monumentale, Isidoro mira a fornire una summa delle conoscenze fino ad allora disponibili sulle componenti dell’universo, a partire dai nomi delle cose e delle creature, in una sorta di enciclopedia ante litteram in cui ogni lemma viene spiegato sulla base del suo significato presunto – che in molti casi è frutto di una etimologia ingenua, fantasiosa e fondata su assonanze accidentali. La mancanza di attendibilità, così come noi la intendiamo oggi, non preoccupava tuttavia gli uomini medievali, intenti ad interpretare la realtà circostante secondo le categorie di pensiero esistenti all’epoca, ancora ben lontane da una rigorosa descrizione scientifica. Le Etymologiae divennero dunque un testo di riferimento, un imprescindibile strumento didattico. Inoltre, l’ampio repertorio di etimologie venne a costituire per letterati e studiosi una chiave di lettura del mondo e uno stimolo ad indagare le ragioni ultime delle cose proprio per mezzo dell’analisi linguistica. L’opera di Isidoro, quindi, non si limitava a dispensare nozioni e conoscenze, ma introduceva un nuovo modo di intendere la realtà, che contribuì sensibilmente a foggiare il pensiero medievale. Se dunque immaginassimo di calarci nei panni di un monaco anglosassone, istruito e per questo avvezzo a ricercare l’origine delle parole secondo l’esempio di Isidoro, potremmo ritrovarci a riflettere sul fatto che l’aggettivo latino arcanus, che ben si addice all’osso di balena di cui il Cofanetto è fatto, è strettamente collegato al sostantivo arca. È infatti lo stesso Isidoro a constatarlo in due passi del suo testo: «Thorax a Graecis dicitur anterior pars trunci a collo usque ad stomachum, quam nos dicimus arcam eo quod ibi arcanum sit, id est secretum, quo ceteri arcentur. Vnde et arca et ara dicta, quasi res secretae»52 (ISIDORUS, XI. i, LINDSAY 1911: 11); «Arca dicta quod arceat visum atque prohibeat. Hinc et arcivum, hinc et arcanum, id est secretum, unde ceteri arcentur»53 (ISIDORUS, XX. ix, LINDSAY 1911: 359). L’associazione tra i due vocaboli, arcanum e arca, rientra tra le felici intuizioni di Isidoro, in quanto essi sono effettivamente corradicali: arcanus “segreto, privato, occulto, celato” e arca “scatola o scrigno, luogo dove riporre al sicuro qualcosa” derivano infatti entrambi dal radicale PIE *ark- “mantenere, contenere, salvaguardare” (da cui si origina anche il verbo arcere “chiudere, racchiudere, contenere, celare / difendere, respingere”). La parola arca nel linguaggio comune viene oggi prevalentemente usata in riferimento all’imbarcazione di Noè, ma originariamente e primariamente designava una scatola nella quale si conservano oggetti preziosi e denaro, una sorta di ‘cassaforte’, quale quella che si poteva trovare nelle case delle gentes patrizie dell’antica Roma. Il termine venne poi impiegato nella traduzione latina della Bibbia per rendere sia l’Arca di Noè (intesa come ‘cassa galleggiante’ che contiene l’inestimabile carico attraverso il quale l’umanità “Presso i Greci è detta torace la parte anteriore del tronco, dal collo fino allo stomaco, che noi chiamiamo arca poiché vi si trova il luogo arcano, cioè segreto, in cui tutti gli altri [organi] sono nascosti (arcentur). Da questo prendono il nome l’arca [= dell'Alleanza?] e l’altare (ara), intese come cose segrete”. 53 “L’arca [= scatola] è così detta poiché cela alla vista e protegge. Da ciò l’archivio, e il luogo arcano, cioè segreto, in cui vengono conservate le cose”. 52 Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https://rhesis.it/ Linguistics and Philology, 8.1: 22-53, 2017 49 potrà continuare a propagarsi) sia l’Arca dell’Alleanza54, preziosa cassa che contiene le Tavole della Legge – ed è per questo motivo che esso entra come prestito nell’antico inglese (earc), utilizzato proprio nei testi biblici per indicare questi stessi oggetti. Tuttavia, la parola earc è anche attestata, sebbene in poche occasioni, con l’accezione ‘profana’ di “scatola, contenitore”, un uso senz’altro mutuato dal latino e promosso anche dall’opera di Isidoro. Una di queste occorrenze ricorre nel Riddle 61, che descrive un oggetto, forse una camicia, che viene spesso tenuto chiuso on earce “in una cassa” (v. 2 [KRAPP – DOBBIE 1936: 229]); il testo, pur non essendo di argomento religioso è comunque da leggersi, come si è visto, tenendo in considerazione l’ambiente monastico in cui esso presumibilmente venne redatto, e ciò lascia intendere che il termine earc fosse tipico di un registro alto. Un registro che è plausibile possedesse anche l’autore dell’enigma dell’osso di balena, poiché forse chierico e dunque colto, conoscitore della lingua e delle opere latine destinate all’educazione dei monaci, tra le quali figuravano, come testo fondamentale, le Etymologiae di Isidoro. A questo punto, continuando a ragionare come avrebbe potuto fare il nostro ipotetico monaco anglosassone, si cominciano a comprendere le motivazioni che possono aver guidato la scelta di inserire un riferimento al Diluvio universale nell’iscrizione del pannello frontale del Franks Casket. Quest’ultimo, infatti, nella sua funzione di contenitore nel quale riporre al sicuro uno o più oggetti preziosi, altro non è che un’arca, destinata a celare e proteggere qualcosa di grande valore, confezionata utilizzando un materiale ‘arcano’ come l’osso di balena, dal valore apotropaico, e dunque particolarmente adatto allo scopo di occultare e proteggere un tesoro. Quello del Diluvio, del resto, è un motivo iconografico che ha goduto di molta fortuna, in virtù della facilità con la quale è possibile rappresentarlo in maniera anche semplice, ma inequivocabile: l’Arca di Noè con i suoi passeggeri (umani e animali) è senza dubbio la scena più emblematica dell’episodio, e infinite sono le sue raffigurazioni nei manoscritti medievali, negli affreschi e nelle decorazioni all’interno delle chiese. Ancora oggi, l’associazione tra l’Arca e le acque del Diluvio, nell’immaginario collettivo, è salda e immediata; per questo motivo, sembra legittimo supporre che l’autore dell’indovinello della balena se ne sia servito per creare un enigma che metaforicamente suggerisse una definizione del Cofanetto, fondando il suo ragionamento su un’arguta riflessione concernente le relazioni di significato esistenti tra il veicolo della salvezza sui flutti del Diluvio, il nome che lo designa nella Bibbia (‘arca’) e il prezioso manufatto destinato a contenere al suo esterno l’iscrizione e, al suo interno, un pregiato ‘carico’. A mio parere, nell’indovinello è quindi ravvisabile l’accortezza linguistica e l’attenzione per l’etimologia proprie della cultura medievale che si è formata sul testo di Isidoro, osservabili anche e soprattutto nei Riddles dell’Exeter Book. BITTERLI (2009: Nel testo masoretico, la parola usata per definire l’Arca di Noè è tebah “scatola, cassa”, mentre per l’Arca dell’Alleanza è utilizzato arown “cassa, arca, scrigno”; non è ben chiaro se la parola tebah significhi propriamente “scatola” o se invece voglia dire “rifugio, salvezza”, dato che lo stesso termine è usato per indicare anche la cesta in cui venne riposto il piccolo Mosè per essere affidato alle acque del Nilo. Il significato di tebah deve essere risultato oscuro anche a coloro che per primi tradussero la Bibbia in greco; nella versione dei Settanta, infatti, la parola utilizzata sia per l’Arca di Noè sia per l’Arca dell’Alleanza è kibotos “scatola, cassa, scrigno”, mentre la parola per indicare la cesta di Mosè è qibin “cesta”. La difficoltà della traduzione di questi termini potrebbe essere stata soprattutto culturale; forse i Greci trovavano più accettabile riporre un neonato in una cesta, anziché in una cassa, mentre l’Arca di Noè poteva pure somigliare ad una grande cassa, poiché priva di timoni e vele, e quindi essere rapportata all’Arca dell’Alleanza. Questa è, di conseguenza, la versione che i Settanta hanno tramandato e che è stata posta alla base della tradizione latina in occidente, dato che la Vulgata si conforma alla versione greca. 54 Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https://rhesis.it/ Linguistics and Philology, 8.1: 22-53, 2017 50 35-56) è infatti convinto che, proprio perché l’etimologia di una parola poteva aiutare a comprendere fino in fondo la natura dell’oggetto che designava, alcuni indovinelli vernacolari siano stati composti seguendo un ‘principio etimologico’, secondo il quale il soggetto da indovinare verrebbe presentato scegliendo sostantivi che spieghino l’origine e il significato del suo nome55. Un procedimento simile sembra essere stato applicato anche nel primo verso dell’enigma del hronæs ban. È probabile che il termine fergenberig sia stato coniato per l’occasione al fine di suggerire un preciso rimando a uno specifico contesto. Il composto può significare “alta montagna”, oppure “montagna dello spirito” (vedi Sezione 1.1.1.); seguendo questa seconda interpretazione, esso potrebbe configurarsi come una trasposizione del nome Ararat, che in armeno vale appunto “luogo creato da Dio, luogo sacro”. Nella sua prima accezione, invece, esso potrebbe ugualmente definire il monte Ararat, con funzione di apposizione del nome, intesa a sottolinearne la caratteristica precipua, ovvero l’altezza, e fungere dunque da superlativo, con il valore di “la montagna più alta”. La nostra ipotesi, in conclusione, è che l’ideatore dell’indovinello abbia con abilità confezionato un enigma dalla duplice lettura e funzione: da una parte, rivelare il materiale utilizzato per la realizzazione del Cofanetto e attivarne il potere apotropaico, dall’altra, suggerire una metafora del Diluvio universale. Questo traslato non solo, come si è detto, avrebbe suggerito una interpretazione del cofanetto come ‘arca’ e chiarito lo scopo al quale esso era destinato, ma avrebbe anche reso l’indovinello portatore di un rilevante senso teologico. Il Diluvio rappresenta, infatti, un momento cruciale nella storia della salvezza, la cui importanza può essere misurata sia sul piano storico (in quanto con esso ha inizio una nuova era del mondo, durante la quale i discendenti dei figli di Noè costituiranno le attuali nazioni), sia su quello religioso ed etico, poiché esso si configura, tra le altre cose, come un’anticipazione della fine dei tempi e del giudizio divino. L’indovinello dell’osso di balena, inteso come espressione figurata del Diluvio universale, si carica pertanto di forti valenze escatologiche, agendo da monito morale – in linea con l’interpretazione già proposta da WEBSTER (vedi Sezione 1.1.1.) – e conformandosi così alle finalità pedagogiche tipiche degli ænigmata anglo-latini e dei Riddles. Da ciò consegue che la sintassi ambivalente del testo metrico non richieda di essere chiarita in maniera univoca, privilegiando una lettura a scapito di un’altra, bensì essa deve essere considerata come spia di una intenzionale e ingegnosa dicotomia di senso che collega il sacro al profano e permea di sé i vari strati di significato di cui si compone l’enigma, come si può rilevare, ad un macro-livello, dall’accostamento, nello stesso pannello, della leggenda pagana di Weland il fabbro all’episodio biblico dell’Adorazione dei Magi. L’indovinello del Franks Casket, dunque, parrebbe imitare, nella propria struttura sintattica, l’ambigua realizzazione grafica di quelle immagini enigmatiche, così diffuse nell’arte anglosassone, che vengono percepite in modi diversi e con referenti diversi a seconda della angolatura dalla quale le si osserva. Allo stesso modo, infatti, l’enigma dell’osso di balena sembra contenere una voluta duplicità di senso e di implicazioni, che Sarebbe questo il caso, per esempio, del Riddle 8 (KRAPP – DOBBIE 1936: 185), in cui l’usignolo (lat. luscinia < *luci-cinia “che canta al crepuscolo”, aingl. nihtegale < germ. *naht- “notte”, *gal-a “canto, grido”) si definisce prima un æfensceop “poeta della sera”, che corrisponde infatti al significato del suo nome, e poi una scirenige “attrice”, alludendo questa volta al genere del suo nome, che sia in latino sia in antico inglese è femminile (BITTERLI 2009: 49). 55 Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https://rhesis.it/ Linguistics and Philology, 8.1: 22-53, 2017 51 si svelano al lettore a seconda che lo si consideri in una prospettiva secolare, come il testo suggerisce in prima istanza, oppure che lo si legga in una prospettiva di esegesi biblica. Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https://rhesis.it/ Linguistics and Philology, 8.1: 22-53, 2017 52 Riferimenti bibliografici Testi ABERDEEN BESTIARY (1995), Aberdeen University MS 24, The Aberdeen Bestiary Project» <http://abdn.ac.uk>, University of Aberdeen. ALDHELMUS, JUSTER, A. Mike (ed.) (2015), Saint Aldhelm’s ‘Riddles’. Toronto: University of Toronto Press. AUGUSTINUS HIPPONENSIS, De Civitate Dei contra Paganos libri XXII. Nuova Biblioteca Agostiniana, Città Nuova Editrice, <http://www.augustinus.it> [aprile 2016]. AUSONIUS, Decimus Magnus, GREEN, R.P.H. (ed.) 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International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https://rhesis.it/ Linguistics and Philology, 8.1: 22-53, 2017 54 Nuovi anglicismi nel discorso politico su Twitter Eleonora Mamusa (Università di Cagliari) Abstract This work aims at investigating the use of anglicisms in Italian political communication on the microblogging website Twitter. In particular, it focuses on neologisms, which play a rather significant role: more than 30% of the English loans detected in the analysed corpus is represented by words that have not been included in the most recent Italian dictionaries (2014), proving how these terms can rapidly enter everyday language without having achieved any official acknowledgement or gone through a standardization process. Although the main ascertained tendencies involving the process of lexical borrowing are mostly respected, it has also been possible to identify some peculiar and innovative traits in the use of anglicisms, not only from a strictly grammatical point of view but also as far as pragmatics is concerned. For instance, in a number of cases English loans are used to express key elements of political communication such as slogans, titles and announcements, which also confirms the fact that Italian speakers attribute a highly stylistic and pragmatic value to these adopted words. Novelty, freshness and cosmopolitanism are then often considered to be more important than other aspects of communication, namely transparency and the possibility for the addressee to fully understand the message. Key Words – loanwords; anglicisms; neologisms; political communication; Twitter In questo articolo viene indagato l’uso degli anglicismi nella comunicazione politica sul sito di microblogging Twitter. In particolare, ci si concentra sulla produttività neologica presente nel corpus, che risulta piuttosto alta: ci sono infatti numerosi termini inglesi (più del 30%) che non sono presenti in nessuno dei due vocabolari più aggiornati della lingua italiana. Nonostante la tradizione legata al fenomeno linguistico del prestito venga per lo più rispettata sia da un punto di vista squisitamente grammaticale, sia per quanto riguarda le caratteristiche semantiche e pragmatiche dei termini, con abbondanza di tecnicismi e termini che non trovano un corrispettivo nella lingua d’arrivo, è stato comunque possibile individuare alcuni caratteri peculiari ed in parte innovativi dell’uso dell’inglese nella comunicazione politica: sono diversi i casi in cui alcuni elementi chiave come gli slogan, i titoli e gli annunci sono infatti espressi attraverso tale lingua, considerata evidentemente più efficace dal punto di vista pragmatico. Si osserva dunque una sempre maggiore propensione dei politici a rincorrere gli effetti di innovatività, sensazionalità ed originalità, sacrificando spesso comprensibilità e trasparenza. Parole chiave – prestiti; anglicismi; neologismi; comunicazione politica; Twitter 1. Introduzione Nonostante ormai da più di mezzo secolo si discuta, tra linguisti e non, della copiosità di prestiti che la lingua italiana accoglie da quella inglese1, scatenando spesso un dibattito che molto semplicisticamente possiamo dire opponga puristi e descrittivisti, la questione 1 E, d’altra parte, il rilevante influsso della lingua inglese viene spesso segnalato anche rispetto a numerose altre lingue, come ben illustrato, ad esempio, in GÖRLACH (2001; 2002), SAN VICENTE (2002), STAMMERJOHANN (2003), o in MARAZZINI e PETRALLI (2015). Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https://www.rhesis.it/ Linguistics and Philology, 8.1: 54-76, 2017 55 rimane oggi fortemente attuale sia da un punto di vista squisitamente linguistico-formale, sulla base ad esempio della sempre più spiccata propensione all’uso di anglicismi integrali piuttosto che adattati; sia (e forse soprattutto) da un punto di vista politicoculturale e sociale, in relazione alla supremazia esercitata dalla lingua inglese rispetto alle altre lingue del mondo a numerosissimi livelli, da quello istituzionale a quello mediatico, fino a settori più specifici e tecnici quali lo sport, la moda, la ricerca scientifica e così via. Se nel tempo si è ampiamente parlato anche della abbondanza di anglicismi nella lingua della politica (cfr., ad esempio, ANTONELLI 2000; GUALDO 2009 [2006]; TAGLIALATELA 2012), intesa qui come area semantica afferente sia alla teoria che alla prassi politiche, scarsi sono invece gli studi che si sono concentrati sull’uso che i politici fanno, nel proprio discorso, di qualsiasi tipo di anglicismo, ed è su questo secondo aspetto che vuole concentrarsi il nostro studio. In particolare, verrà presentata un’analisi dei termini inglesi rilevati in un corpus raccolto sul sito di microblogging Twitter e che non fanno parte dei vocabolari più aggiornati della lingua italiana, cercando di individuarne le caratteristiche principali e di sottolineare alcune tendenze innovative. 2. Corpus e metodo L’analisi che presentiamo è stata effettuata su un corpus costituito da tutti i post pubblicati da duecento rappresentanti politici italiani durante il periodo compreso tra agosto e dicembre 2014 sui loro profili personali tenuti sul sito di microblogging Twitter2. Una volta terminata un’operazione di estrazione dei messaggi, che sono stati “ripuliti” da tutti gli elementi superflui quali link, intestazione, commenti di altri utenti e numero di retweet3, tutti i file sono stati inseriti nel software AntConc (ANTHONY 2005) e si è ricavata la lista delle parole (word list) presenti nel corpus, che è risultato essere costituito da 601.220 word tokens, per un totale di 38.912 word types. Scorrendo manualmente l’elenco, sono stati individuati quelli che definiamo anglicismi integrali o non adattati, quelli cioè in cui l’elemento straniero (inglese in questo particolare caso) è totalmente visibile e riconoscibile in quanto non vi è alcun tipo di adattamento morfologico o ortografico alle regole e alla forma della lingua di ricezione. Tra questi, sono stati inclusi anche gli pseudoanglicismi, termini «per cui non è possibile trovare una precisa corrispondenza formale e/o semantica in inglese» (BISTARELLI 2008: 8), nonostante il loro aspetto sia conforme alla fonetica, alla grafia ed alla morfologia di tale lingua4; e gli ibridi, poiché presentano seppur solo in parte un aspetto integrale. Si tratta di termini che testimoniano la tendenza a creare neologismi sulla base del lessico e delle regole grammaticali tipiche della lingua inglese, e per questo motivo particolarmente rilevanti ai fini dell’analisi. Si è scelto di escludere dall’elenco degli anglicismi e quindi dalla nostra analisi alcuni elementi di origine angloamericana, in particolare nomi propri di qualsiasi genere (incluse le parole 2 È giusto ricordare che a curare i profili degli esponenti politici sono, non di rado, degli staff esperti in comunicazione e nuovi media; in alcuni profili, i messaggi prodotti dagli staff vengono firmati per essere differenziati da quelli scritti personalmente dall’intestatario, mentre in altri questa distinzione non viene effettuata, perciò non si può avere certezza assoluta sull’autorialità del post. 3 Si tratta di quei messaggi che il titolare del profilo legge su altri profili e ripubblica sul proprio per diffonderli a tutti i suoi seguaci. 4 Per un approfondimento sul tema, è utile FURIASSI (2010). Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https://www.rhesis.it/ Linguistics and Philology, 8.1: 54-76, 2017 56 precedute dal simbolo @, ovvero le menzioni o tag); proposizioni e testi completamente in lingua inglese; messaggi automatici di Twitter o provenienti da altri siti e social network e postati su Twitter; le sigle (o acronimi) di vario tipo. Nel riportare i messaggi a mo’ di esempio, i tag sono stati trascritti nella forma @utente per tutelare la privacy delle persone menzionate. Per comodità, si è inoltre scelto di abbreviare i link con la sigla http, in modo da non sovraccaricare l’esempio con url eccessivamente lunghe che non hanno rilevanza ai fini dell’analisi. 3. Scopo e cifre generali Il numero totale di anglicismi in tutte le occorrenze rilevate nel nostro corpus è di 6.792. Data la presenza nell’intero corpus di 601.220 parole (token), come precedentemente indicato, l’incidenza totale di anglicismi è pari a circa l’1,13%. L’obiettivo dell’analisi è, come già accennato, quello di verificare il rapporto tra gli anglicismi utilizzati dai nostri rappresentanti politici e la presenza (o l’assenza) degli stessi nei vocabolari più comuni e più aggiornati della lingua italiana, in modo da riscontrare quali siano le caratteristiche delle acquisizioni più recenti. Per effettuare questo tipo di analisi, sono stati utilizzati gli unici due vocabolari della lingua italiana che vengono costantemente aggiornati, ovvero lo Zingarelli (2014; d’ora in poi Z) ed il Devoto-Oli (2014; DO da adesso in poi). I risultati mostrano che la maggior parte degli anglicismi presenti nel nostro corpus (60%) figurano in entrambi i vocabolari consultati. Tuttavia, i termini assenti sia dall’uno che dall’altro vocabolario raggiungono una percentuale piuttosto alta, quella del 36%. Il restante 4% è rappresentato da quei termini che sono registrati soltanto in uno dei due vocabolari, con una leggera prevalenza di presenze nel DO (15 termini contro i 10 dello Z). Visti i dati presentati, possiamo affermare che nel nostro corpus la produttività neologica è piuttosto alta. 4. Risultati Come prevedibile, costituiscono dei neologismi tutti i termini inglesi rappresentativi di quelle parti del discorso tendenzialmente meno soggette al prestito linguistico, ovvero preposizioni, congiunzioni e verbi5. Si tratta, infatti, di un uso motivato da ragioni di tipo stilistico e pragmatico, ma che riguarda termini che non possiedono le caratteristiche adatte ad una eventuale adozione nel vocabolario italiano: non sono presenti né tecnicismi che potrebbero facilmente migrare nel lessico comune, né prestiti necessari che indicano un oggetto nuovo estraneo alla nostra cultura, né tanto meno termini con caratteristiche linguistiche che conferiscano una particolare convenienza rispetto ai corrispettivi italiani. 4.1. Preposizioni e congiunzioni Tabella 1. Anglicismi appartenenti alle categorie di preposizioni e congiunzioni Occorrenze 23 2 5 Anglicismo by and Per una gerarchia di ‘prestabilità’ delle varie parti del discorso, cfr. MUYSKEN (1981). Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https://www.rhesis.it/ Linguistics and Philology, 8.1: 54-76, 2017 57 La preposizione by, che viene usata in inglese per esprimere il complemento d’agente, sta prendendo piede in italiano soprattutto per affermare autorialità, responsabilità, e come firma per indicare la fonte di qualcosa. Nel nostro corpus sono presenti 23 occorrenze di questa preposizione, di cui mostriamo alcuni esempi: (1) Intervallo. Non è un uovo. Voilá la cheesecake by @utente (2) In aula per la nuova fiducia by Renzi! Aiutatemi nel conteggio: dovrebbe essere la 18a!!! Un intera Camera... http (3) I Governi italiani al servizio della Troika. Il discorso-denuncia in versione remix by utente http (4) Mappa, 1989 by Alighiero #Boetti impressionante come cambia la mappa del mondo #laguerracheverrà @mart_museum I casi illustrati mostrano come la preposizione inglese sostituisca quelle italiane di e da, entrambe utilizzate con uguale funzione. L’uso, quindi, non è necessario in quanto esiste un corrispondente italiano che fa parte degli elementi di base della lingua ospite (come accade per tutti i prestiti grammaticali, per questa ragione molto poco diffusi); inoltre, anche la brevità non giustifica, in questo caso, l’importazione dall’inglese, poiché il corrispettivo italiano è altrettanto breve. Si tratta, quindi, di un uso con fini esclusivamente stilistici, ovvero con l’intento di comunicare originalità, modernità, vivacità, tutti caratteri attribuiti alla lingua inglese e di cui viene ritenuta evidentemente povera, al contrario, la lingua italiana. Negli esempi 1 e 3, possiamo ipotizzare che l’uso sia stato indotto dalla volontà di mantenere una certa continuità con l’elemento precedente: si tratta di due prestiti con un grado piuttosto alto di acclimatamento nella nostra lingua, il primo riguardante la cucina, ovvero cheesecake, e il secondo proveniente dall’ambito musicale, remix. Nell’esempio (1), in particolare, l’aggiunta di un francesismo molto conosciuto come voilà, spesso utilizzato per rafforzare l’effetto sorpresa e celebrare la riuscita di un esperimento, sembra avere lo scopo di aggiungere un tocco di brillantezza al messaggio, attraverso un accostamento linguistico che non passa di certo inosservato. L’uso della congiunzione and appare più ambiguo: (5) LA POLITICA DI COESIONE E L’ITALIA 1.3 mdl euro (Sardegna, Abruzzo and Molise) #Comi (6) LA POLITICA DI COESIONE E L’ITALIA 22.2 mdl euro (Campania, Puglia, Basilicata, Calabria and Sicilia) Si tratta di due messaggi pubblicati dalla stessa autrice nella medesima giornata, come commento ad una immagine che illustra dei dati relativi a progetti di applicazione della politica di coesione dell’Unione Europea da parte dell’Italia. Come è possibile osservare, l’uso di and per concludere i due elenchi appare una scelta quantomeno singolare: il corrispettivo italiano e è palesemente più breve ed avrebbe quindi permesso di risparmiare alcuni caratteri; inoltre, entrambi i messaggi sono completamente in lingua italiana, così come le informazioni riportate nello schema presentato. Un’ipotesi può essere avanzata: è possibile che l’autrice, che ricopre il ruolo di rappresentante del Parlamento Europeo e utilizza quindi spesso l’inglese per i suoi messaggi, sia stata in qualche modo vittima dell’abitudine. Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https://www.rhesis.it/ Linguistics and Philology, 8.1: 54-76, 2017 58 4.2. Verbi Tabella 2. Anglicismi appartenenti alla categoria dei verbi Occorrenze 12 9 5 4 2 1 Anglicismo stay save free occupy, win go home, remember, run be different, bless, block, enjoy, following, go, grow up, keep calm, living together, start, switch off, think global act local, to never forget Una breve panoramica sui verbi derivanti dall’inglese rilevati nel nostro corpus sarà utile per chiarire il loro status e in che modo vengano utilizzati nei messaggi telematici. Come ricorda Virginia PULCINI (2002: 160), il sistema dei verbi della lingua italiana è più complesso di quello della lingua inglese, con terminazioni che specificano modo, tempo, persona, genere e numero, e perciò i prestiti appartenenti a tale categoria devono necessariamente essere adattati alle regole dell’italiano (in genere vengono assegnati alla prima coniugazione). Nonostante tale regola tenda ad essere rispettata, vi sono tuttavia delle eccezioni: i verbi costituiscono infatti circa il 3,5% degli anglicismi individuati nel corpus, e si tratta ovviamente di prestiti non adattati. I casi vanno però analizzati per spiegare i motivi alla base dell’apparente allontanamento dalla tendenza quasi obbligatoria all’adattamento per questa categoria grammaticale: si tratta sia di locuzioni verbali che di verbi monorematici; la maggior parte di essi, tuttavia, viene utilizzata come slogan, descrizioni di immagini o come quelli che possiamo chiamare dei catalizzatori del post in quanto, attraverso l’uso dell’hashtag, utilizzano la singola parola e/o locuzione per inserire il messaggio in un certo circuito tematico. Si tratta quindi di espressioni a se stanti che non vengono introdotte come elementi prestati all’interno di una frase in italiano, e per questo possono rimanere esenti da qualsiasi tipo di adattamento: così ad esempio abbiamo gli slogan switch off muos (con grafia univerbata e utilizzo del simbolo #), occupy e save seguiti da vari complementi oggetto (ad es. #occupygoverno, #occupystabilità, ecc.; e #saveTorreGuaceto e #savepompei), think global act local, free Palestine, block BCE, GOP bless America, be different be NCD, keep calm, stay tuned, stay human, save the date, stay on the road, Renzi go home e #legaremember. Sulla propensione all’uso dell’inglese, anche in abbinamento a termini italiani come si può osservare in alcuni di questi esempi, in slogan e varie formule politiche, torneremo a discutere nel paragrafo 6.1. I verbi start e go vengono usati rispettivamente per celebrare l’avvio di un progetto del governo, ovvero la riforma della scuola: (7) Abbiamo deciso di investire su #LaBuonaScuola. #Start! #Passodopopasso e come incitamento col significato di “vai”, “forza”, ecc.: (8) #Grecia #elezioni GO @tsipras_eu #Tsipras e #Syriza! #cambialaGrecia Un ruolo descrittivo e di inquadramento tematico hanno i verbi enjoy e grow up, usati come didascalia di due fotografie, una scattata in Puglia e condivisa per sponsorizzare le bellezze di questa regione: Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https://www.rhesis.it/ Linguistics and Philology, 8.1: 54-76, 2017 59 (9) Masseria. #relax #food #enjoy & more ... Tour #meravigliosaPuglia e l’altra per celebrare il rientro a scuola di una figlia: (10) Si torna a scuola! Buon primo giorno Amore mio! Via verso nuove avventure! #growup Uguale la funzione dell’espressione run and run, ovvero “correre e ancora correre”, usata a descrizione di una foto dove l’autrice tiene le proprie scarpe in mano: (11) E per non perdere il Traghetto...via i tacchi...run And run Con la stessa forma viene usato, in un caso, anche il verbo win: (12) “@IlMattinale: #Win and win – Parlando egoisticamente degli utili per la nostra bottega, va bene tutto, vinciamo sempre.” Il verbo like viene utilizzato nell’espressione I like, tipica di Internet ed in particolare dei social network, in cui ricopre una precisa funzione, ovvero quella di esprimere il consenso verso i contenuti che vengono condivisi da coloro con cui siamo in contatto. L’espressione viene quindi sostantivata e viene preferita a quella italiana “mi piace”, con l’accorgimento, tuttavia, delle virgolette: (13) 5000 "I like" sulla mia pagina Facebook. GRAZIE GRAZIE GRAZIE!!! Non molleremo MAI, e vi ringrazio 1 per 1!!!!!!! A costituire delle eccezioni che sembrano eludere del tutto la regola dell’adattamento vi sono tre esempi che riportiamo di seguito: (14) Marchionne chiede a @matteorenzi di andare a velocità massima. Più che un auspicio sembra una minaccia. Do you remember Pomigliano? #SEL (15) Ma perché ricevo i tweet della Coca Cola se non è fra quelli che sto following? (16) Grazie Marco, quando qui si prova a dormire tu stai già running! Missione molto istruttiva #ffback @utente Nel primo caso, l’espressione interrogativa do you remember? si inserisce in un contesto linguistico completamente italiano in sostituzione di un eventualmente più breve “Ricordate…?”. Uno dei motivi ipotizzabili alla base di questa scelta è la volontà di attirare l’attenzione su una questione importante come quella della gestione delle fabbriche di automobili di proprietà della casa Fiat sul territorio italiano. Graficamente e pragmaticamente parlando, quindi, l’espressione anglosassone sarebbe più efficace nel catturare lo sguardo e di conseguenza l’interesse del lettore. Inoltre, l’intenzione dell’autore potrebbe essere anche quella di alludere alla fusione della Fiat con la statunitense Chrysler, realizzata durante la gestione Marchionne e da molti fortemente criticata. Il secondo caso è ancora più ‘sovversivo’ per quanto riguarda le regole della lingua italiana, in quanto un gerundio inglese, ovvero following, viene abbinato al verbo italiano stare per formare la perifrasi che indica che l’azione descritta è in corso di svolgimento, creando un ibrido fortemente atipico, totalmente escluso dalle regole di accoglimento dei Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https://www.rhesis.it/ Linguistics and Philology, 8.1: 54-76, 2017 60 prestiti e anche cacofonico. La sostituzione dell’italiano seguendo con il suo corrispettivo inglese è sicuramente dettata dalla volontà di restringerne il contenuto semantico: seguire, in questo contesto, ha infatti soltanto il significato di “essere registrati su una particolare pagina di Twitter”, in questo caso quella della Coca Cola, per riceverne tutti gli aggiornamenti. Coloro che sono iscritti ad una pagina ne sono infatti i “seguaci”, in inglese followers, da cui l’uso del verbo to follow per indicare questo tipo di azione. Lo stesso procedimento risultante nella formazione di un ibrido viene applicato nell’esempio 16. È probabile che il verbo correre sia stato sostituito per l’influenza del sostantivo running, che si sta diffondendo in maniera rapida nella nostra lingua per indicare un particolare tipo di corsa svolta da molti atleti ed appassionati. Nonostante la tendenza più evidente sia senza dubbio quella di utilizzare verbi che, pur derivanti dall’inglese, vengono adattati alle regole morfologiche dell’italiano, notiamo quindi che anche l’uso di espressioni verbali in forma originale non viene del tutto escluso dai politici italiani su Twitter. Questo riguarda soprattutto gli slogan e le espressioni prive di un cotesto immediato, ma è da sottolineare anche la sussistenza di alcuni casi di ibridi (ad esempio verbo inglese+complemento oggetto italiano) e di inserimento in frasi e testi completamente in lingua italiana. 4.3. Avverbi e interiezioni Anche avverbi ed interiezioni tendono più difficilmente ad integrarsi nel vocabolario della lingua target6, e infatti i vocaboli appartenenti a queste due parti del discorso sono quasi tutti presenti nella lista dei neologismi del nostro corpus. Tabella 3. Anglicismi appartenenti alla categoria delle interiezioni Occorrenze 11 7 4 3 2 1 Anglicismi please bye bye no words welcome thanks, welcome home congratulations, good girl!, good luck, good news!, happy birthday, happy new year, happy xmas, help!, hey, no problem, no war, no way, not bad!, oh my God, sorry, yes Le interiezioni rappresentano «una categoria di parole (tradizionalmente, una parte del discorso) invariabili con il valore di frase, usata per esprimere emozioni o stati soggettivi del parlante». Essendo «priv[e] di legami sintattici con le altre parti del discorso, corrispond[ono], da un punto di vista pragmatico, a un intero atto linguistico» (CIGNETTI 2010). Con riferimento alla suddivisione tra interiezioni proprie (prive di autonomia semantica e usate con valore olofrastico, come ad esempio ah!, eh!, wow, ecc.) ed improprie (termini appartenenti ad altre categorie grammaticali e aventi autonomia semantica ma utilizzate, in alcuni contesti, con funzione di interiezione, ovvero con Sebbene vi siano alcune interiezioni che, nel tempo, hanno conosciuto il passaggio da una lingua all’altra diventando dei veri e propri prestiti linguistici (come ad es. l’interiezione angloamericana wow, entrata a far parte dell’italiano attraverso il linguaggio giovanile ed ormai diffusa a tutti i livelli del linguaggio informale), si tratta di una categoria che, generalmente, non tende a subire migrazioni da una lingua all’altra. Semmai, come ci ricorda sempre CIGNETTI (2010), alcune interiezioni possono avere la stessa forma in lingue diverse e mantenere anche stessa o simile funzione, come ad esempio l’espressione ah!, presente in francese, spagnolo e portoghese oltre che in italiano. 6 Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https://www.rhesis.it/ Linguistics and Philology, 8.1: 54-76, 2017 61 valore olofrastico, come congratulazioni!, peccato!), tra i nostri anglicismi prevalgono nettamente le seconde, e alcune di esse potrebbero essere considerate più propriamente delle formule rituali e/o identitarie. Ne vediamo alcuni esempi: (17) Congratulations #Malala ! Onorata di averti conosciuto! #nobelprize2014 @MalalaFund (18) “@GiovanniToti: Caro Senatore D'Ali, welcome home!” Mi associo! (19) "@utente: @utente sorry, solo al Senato. Pare..." allora sono tanti ;) Grazie per la precisazione, buona giornata... (20) In legge stabilità serve "clausola salva-contribuenti" contro aumenti tasse da parte delle Regioni. @matteorenzi provvedi please! (21) Happy Birthday M5S! Il movimento è nato il 4 ottobre di cinque anni fa, nel giorno in cui si festeggia S.... http Essendo tipiche del parlato informale per esprimere, come detto, l’emotività del parlante, il loro uso in tali messaggi è rappresentativo di alcune caratteristiche del discorso digitale, il quale tende a simulare l’oralità per conferire un maggior effetto di spontaneità. Inoltre, possiamo notare che il loro impiego è spesso diretto ad attirare l’attenzione di altri utenti presenti sul social network (nei primi tre esempi sono presenti menzioni che specificano a chi viene rivolto il messaggio), aumentando l’indice di ‘dialogicità’ e di ‘conversazionalità’ del discorso su Twitter (SPINA 2012: 133-139). La scelta della lingua inglese rispetto a quella italiana potrebbe dipendere da diversi fattori, di cui il principale è sicuramente l’effetto stilistico insito nell’uso di quasi tutti gli altri anglicismi che abbiamo analizzato e che tratteremo più avanti. Anche il contesto specifico del messaggio può darci degli indizi importanti: nel messaggio contenuto nell’esempio 17 i complimenti sono riferiti a Malala Yousafzai, giovane attivista pakistana vincitrice del Premio Nobel per la pace nel 2014, perciò è sembrato probabilmente più consono esprimere in lingua inglese almeno le congratulazioni per il riconoscimento ricevuto, tanto più che si tratta della lingua utilizzata dalla ragazza stessa per diffondere i propri ideali di pace e uguaglianza. Tabella 4. Anglicismi appartenenti alla categoria degli avverbiali Occorrenze 3 2 1 Anglicismi forever thanks, welcome home, now, politically incorrect, as usual, better together, & more, how to spend, out of touch, under pressure, up, why not? Non sono numerosi gli avverbi e le locuzioni avverbiali inglesi rilevati nel nostro corpus. A prevalere è l’espressione del modo, ma abbiamo un caso interessante in cui è il tempo a venire esplicitato attraverso questa lingua: (22) Larghe intese forever http 4.4. Sostantivi e aggettivi Il numero di neologismi più consistente appartiene tuttavia alle categorie grammaticali degli aggettivi e dei nomi. Questi ultimi hanno sicuramente maggiori possibilità di essere ufficialmente adottati come prestiti nella nostra lingua: alcuni di essi, infatti, sono già Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https://www.rhesis.it/ Linguistics and Philology, 8.1: 54-76, 2017 62 piuttosto conosciuti e il loro uso è abbastanza diffuso, ed hanno quindi buone probabilità di essere inseriti nelle prossime edizioni dei vocabolari; altri, al contrario, manterranno sicuramente lo status di occasionalismi, magari perché troppo settoriali, oppure perché scalzati da una alternativa in forma adattata o di origine italiana. Nelle Tabelle 5 e 6 presentiamo l’elenco dei neologismi rispettivamente di tipo aggettivale e sostantivale presenti nel nostro corpus, indicandone il numero di occorrenze; per alcuni termini che vengono utilizzati per la formazione di composti, espressioni polirematiche e/o locuzioni, in particolare act, bonus, day, open e tax, si è scelto di assimilarli in un’unica categoria facente capo alla componente principale dell’espressione, e poiché solo alcuni di tali composti costituiscono dei neologismi, abbiamo scelto di escluderli dalla presente analisi7. Dedichiamo le due sezioni seguenti ad una discussione sintetica riguardante le caratteristiche principali riscontrate nell’uso degli anglicismi rilevati, per poi procedere con alcune conclusioni. Tabella 5. Anglicismi appartenenti alla categoria degli aggettivi Occorrenze 5 4 3 2 1 Anglicismi independent, same sex smart green digital, free abnormal, antigay, arranged, no food, freak, last, natural, next time, self built Tabella 6. Anglicismi appartenenti alla categoria dei sostantivi. Occorrenze 73 20 16 13 12 11 10 7 6 5 4 3 2 1 7 Anglicismi sharing economy fact checking bill of rights route climate change, ice bucket challenge smart city midterm flex precarity, tweet storm e-news stepchild adoption flexsecurity, press obituary, shale gas, volley, whistleblowing call to action, digital champion, food, foreign fighter, free speech, green job, hate speech, italian job, maxijob, redemption fund, speech, spin, summer, two-pack credit default swap, epic fail, family, fest, focus, food waste, fundraiser, green investment bank, legal team, plastic bag, project bond, review, Saturday night, split payment, style, upcycling, vision, voluntary disclosure, whistleblower affordability, air-gun, banking on values, bidon valley, big moon, big tent, bike, bike pride, biodiversity, bomb jammer, budget plan, call for ideas, capacity payment, coding, company, co-worker, cyber defence, de-hubbing, dinner in cave, down/up, draft report, dynasty, education, energy, fesso card, food maker, free energy, fuckoff, glyphosate, grand old party, green car, green diplomacy, green new deal, honeymoon, house of three cards, impact assessment, inclusion, instant photo, internet governance, internet of everything, italian dream, job revolution, last call, lesson one, match fixing, minibox, minijob, mini playstation, mobil home, net neutrality, new year, night, novel food, person of the year, prayer therapy, premier time, reminder, reunion, robotic journalism, rule of law, running, selfie man, sex Per un’analisi di tali composti, cfr. Mamusa (2016b). Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https://www.rhesis.it/ Linguistics and Philology, 8.1: 54-76, 2017 63 worker, slot mob, slow school, science bucket challenge, smart technology, social bombing, social compact, social forum, societing, star wars, storage, storyteller, stream of consciousness, supermanager, supermoon, superticket, talk tv, trade secret, trail running, trash-horror, trending topic, vip club, war, work book, working group, xmas 5. Discorso politico e anglicismi: un connubio in fase di consolidamento 5.1. Tecnicismi Sulla spinta sempre più pressante del fenomeno della globalizzazione, che porta ad una tendenziale omogeneizzazione dei prodotti culturali, sociali, politici ed economici, la classe politica italiana si mostra piuttosto propensa ad importare termini e concetti relativi a numerosi ambiti direttamente da quella che è la cultura dominante dei nostri tempi, ovvero quella angloamericana. Molti dei termini di origine inglese rintracciati nel nostro corpus rispecchiano numerose caratteristiche generali individuate già da tempo attraverso lo studio del fenomeno del prestito: la presenza significativa dei cosiddetti tecnicismi in lingua inglese, ad esempio, viene spiegata dal fatto che, soprattutto a partire dal secondo dopoguerra, gli Stati Uniti d’America siano divenuti la prima potenza mondiale nei campi più moderni ed innovativi, ovvero l’industria ed il commercio prima (e, di conseguenza, in generale in campo economico-finanziario) e la tecnologia e l’informatica poi, coniando neologismi settoriali in continuazione e diffondendoli in tutto il resto del mondo insieme ai prodotti stessi. Al di là della loro precisione e referenzialità, i tecnicismi assumono spesso, grazie alla loro espansione nella lingua comune, una certa espressività, elevando il discorso e conferendogli un’aura di prestigio difficilmente raggiungibile attraverso altre strategie comunicative8; tale effetto si intensifica ulteriormente quando si sfruttano dei tecnicismi in lingua inglese, visto il più alto credito che viene loro attribuito, a cui si aggiungono una attrattività superiore dal punto di vista grafico ed un vantaggio dato dalla frequente concisione. Sono infatti diversi i tecnicismi di cui è stato riscontrato un uso più o meno frequente, soprattutto quelli relativi al linguaggio economico, in cui l’estensione gioca a favore dell’anglicismo piuttosto che di un eventuale corrispettivo italiano: ad esempio, per quanto riguarda i neologismi, budget plan, fundraiser, rule of law, shale gas, spin, trade secret, trail running, two pack, whistleblowing sono tutte formule che permettono di risparmiare spazio, dote particolarmente importante in un contesto come quello analizzato. Inoltre, l’uso dei tecnicismi, specie quelli di natura economico-finanziaria, da parte dei politici, avrebbe da un lato lo scopo di rassicurare gli utenti sul fatto che il governo e le istituzioni siano in mano a persone altamente esperte e competenti, che possano quindi assicurare una gestione efficiente e positiva della cosa pubblica, e dall’altro quello di ‘velare’ il proprio discorso senza permetterne una completa comprensione, in modo che il pubblico recepisca soltanto la sensazione di essere informato senza in realtà conoscere a fondo ciò che accade ai livelli più alti9. 8 9 Qui ANTONELLI (2007: 25) oppone tecnicismi ‘necessari’ per la loro univocità a tecnicismi ‘di lusso’ usati in funzione connotativa. Cfr. ANTONELLI (2007: 86-87); sulla sospetta «volontà di camuffare la realtà» cfr. anche PETRALLI (2015: 169). Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https://www.rhesis.it/ Linguistics and Philology, 8.1: 54-76, 2017 64 Alcuni termini, infine, appartengono al linguaggio specialistico dell’informatica, di Internet e dei social network, i quali sono propensi a rimanere invariati a livello internazionale data l’essenza globale della rete e la sua capacità di mettere in comunicazione persone da ogni angolo del pianeta10. Così call to action, coding, down/up, e-news, epic fail, Internet of everything, social bombing, tweet storm sono tutti vocaboli il cui uso è indotto, spesso e volentieri, dal fatto che si sta utilizzando una piattaforma web per trasmettere i propri messaggi. 5.2. Internazionalismi Il predominio politico-economico e culturale degli USA, che ha conosciuto una impennata significativa a partire dalla Seconda Guerra Mondiale, ha avuto un riscontro anche nell’ambito delle relazioni internazionali, dove la volontà di cooperazione si è spesso unita, forse inevitabilmente, ad uno squilibrio di forze tra le diverse parti, di cui la supremazia della lingua inglese come lingua franca è solo uno dei tanti effetti visibili. Se ci limitiamo all’ambito europeo, ad esempio, si può osservare come da una sostanziale parità nell’uso delle lingue nazionali dei paesi membri si sia passati ad un uso quasi esclusivo, di fatto, dell’inglese, lasciando alle altre lingue una pari dignità che ormai rischia di essere affermata soltanto sulla carta. Alcuni dei tecnicismi in lingua inglese che abbiamo rilevato nel nostro corpus possono quindi essere considerati degli internazionalismi, coniati a livello centrale europeo (e per questo definibili anche europeismi) e diffusisi in forma originale nei vari stati membri, o per lo meno, per quanto abbiamo osservato, in Italia: da cyber defence a digital champion, da impact assessment a redemption fund fino a two-pack, il mantenimento della forma inglese è legata alla forte abitudine ad utilizzarla in ambito transnazionale, oltre che al fatto che essa trasmette sicuramente un senso di maggiore ufficialità. Non è un caso che la grande maggioranza di questi vocaboli sia utilizzata proprio da rappresentanti italiani nelle istituzioni europee, i quali dimostrano anche una marcata tendenza generale all’utilizzo dell’inglese. Altri termini sono legati a delle questioni che coinvolgono la società e la politica ad un livello globale, e mantengono quindi la loro forma inglese: parliamo, ad esempio, di climate change, foreign fighter, green diplomacy e gli altri composti con l’aggettivo green, ice bucket challenge, internet governance, net neutrality, plastic bag, spesso impiegati anch’essi da chi partecipa costantemente ai lavori degli organismi internazionali. 5.3. Imitazione culturale L’apertura dell’italiano, considerato da molti lingua eccessivamente accogliente verso gli anglicismi11, è rilevabile anche a livello culturale, ad esempio nel campo della musica, del cinema e della televisione, dove si dà spesso per scontata una comprensione dell’inglese che in realtà non è così diffusa come si potrebbe pensare12. 10 Sulle tendenze lessicali che riflettono le innovazioni tecnologiche, cfr. anche PISTOLESI (2014: 269-271). Ma anche verso tutto ciò che culturalmente vi è legato: cfr. ECO (1984) per un’analisi critica dell’adozione del ‘modello americano’ in Italia; PULCINI (1997) per una sintesi sull’influenza della cultura e della lingua angloamericane in Italia. 12 Su questi aspetti, cfr. COCO (2008: 83-94). 11 Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https://www.rhesis.it/ Linguistics and Philology, 8.1: 54-76, 2017 65 Ciò che ci interessa particolarmente, tuttavia, è il modo in cui l’ambito politico appare fortemente condizionato dall’esempio anglo-americano: l’analisi dei dati ha dimostrato come la tendenza all’importazione di termini in questo campo sia ugualmente molto forte: prestiti anche piuttosto datati e oramai integrati nella lingua italiana convivono nell’uso con altri che ancora non sono presenti nei nostri vocabolari. Non soltanto la prassi politica adotta neologismi quali bill of rights, speech, grand old party ed altri composti creati con confissi che si stanno rivelando particolarmente produttivi, come ad esempio -act e -tax, ma anche la teoria politica e l’ambito sindacale sono interessati da questo processo, come dimostrato, ad esempio, dai termini spin e whistleblowing. 6. Specificità e nuove tendenze Altri vocaboli, che non possono essere considerati dei veri e propri prestiti ma rappresentano solamente un utilizzo estemporaneo della lingua inglese per particolari fini pragmatici, possono invece diventare il simbolo di ulteriori tendenze riscontrabili nella lingua utilizzata dai rappresentanti politici, e questo ci porta ad altri argomenti finora meno battuti rispetto a quelli descritti precedentemente, ma che ci paiono particolarmente rappresentativi in questa analisi. La prova della comunicazione online è stata e continua ad essere, per buona parte della classe politica italiana, una sfida non facile da affrontare, in quanto ha portato a rivoluzionare degli schemi e delle abitudini che l’uso assiduo dei media tradizionali per diffondere le proprie idee e cercare di guadagnare il consenso delle masse aveva reso ormai abituali. Il successo ottenuto dalla rete e dai suoi rivoluzionari strumenti di comunicazione ha reso tuttavia inevitabile un rapido allargamento della comunicazione politica anche su questo versante: l’avvento del web 2.0, ed in particolare dei social network, dà nuovo stimolo alla comunicazione pubblica, che diventa più diretta grazie alla possibilità della partecipazione del fruitore attraverso apprezzamenti, commenti e condivisione dei contenuti (ciò che viene definito interattività); inoltre la multimodalità e l’ipertestualità, tratti fondamentali della comunicazione attuata sul web 2.0, permettono di sfruttare e combinare diversi modi di trasmissione a seconda dei contenuti, attraverso l’uso di link e la condivisione di foto, audio e video che si affiancano alla videoscrittura. 6.1. Slogan Abbiamo già visto che una buona parte dei verbi inglesi viene impiegata proprio per formulare degli slogan, particolare tipo di messaggio definito dal DO come «frase concettosa e sintetica, orecchiabile e suggestiva, destinata a rimanere impressa nella mente e a persuadere l’ascoltatore, usata spec. nella propaganda politica e in pubblicità»; gli slogan sono spesso caratterizzati, oltre che da una notevole brevità, dall’uso del modo imperativo; a volte essi vengono creati in ambito angloamericano e poi sfruttati anche da parlanti italiani (in questo caso i rappresentanti politici scelti per la nostra analisi) 13; in altri casi invece, nonostante la coniazione avvenga in ambito italiano e sia destinata prevalentemente o esclusivamente ad un pubblico italiano, viene ugualmente prediletta la 13 Comportamento già segnalato, peraltro, da DARDANO et al. (2008: 77) per quanto riguarda l’acquisizione di slogan quali I care e yes, we can da parte di rappresentanti leader del centro-sinistra italiano. Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https://www.rhesis.it/ Linguistics and Philology, 8.1: 54-76, 2017 66 lingua inglese, il che ne testimonia la forte influenza in questo specifico campo. Vediamo alcuni esempi: (23) MUOS SPENTO SUBITO! http grazie a @utente e agli altri tecnici ed ora #switchoffmuos Il M.U.O.S. (Mobile User Objective System) è un innovativo sistema di comunicazioni satellitari utilizzato in ambito militare. L’installazione di dispositivi MUOS nell’area di Niscemi, in provincia di Caltanissetta, ha suscitato numerose proteste legate a questioni ambientali perché particolarmente vicina ad una riserva naturale. È a questo che si riferisce lo slogan switch off muos, ovvero spegnete il muos, di cui una alternativa italiana è fornita nel testo del messaggio al di fuori dell’hashtag, e consiste nell’espressione nominale muos spento subito, derivante dall’ormai diffusissimo modello x santo subito, slogan utilizzato dai fedeli in occasione della morte di Papa Giovanni Paolo II nel 2005 per chiederne l’immediata beatificazione. Come spesso accade, all’inglese viene affidata la parte del messaggio che ha il compito di farlo divenire ‘virale’, di diffonderlo e di renderlo immediatamente rintracciabile, ovvero lo slogan con hashtag. (24) #OccupyGoverno Oggi sono stato espulso insieme ad altri colleghi #M5S durante la NON-discussione della... http (25) Semel in anno licet occupare i banchi del governo.. #occupystabilita' http (26) CAOS AST: #occupy autostrada da parte delle tute blu. In arrivo le divise blu. Benfatto Renzi. Ottima la tua... http Queste formule derivano tutte dallo slogan Occupy Wall Street, nome del famoso movimento di contestazione politica nato negli Stati Uniti nel 2011, ma sono tutte seguite, com’è visibile, da complementi oggetto in lingua italiana, andando così a formare dei motti ibridi dal punto di vista linguistico. Più che un vantaggio dal punto di vista dell’economia, eventualmente per la concisione di occupy rispetto a occupiamo, è evidente la volontà di sfruttare uno slogan che ha avuto una amplissima risonanza a livello mondiale e di rievocare tutti i significati che ad esso vengono associati, ovvero la rivendicazione dei diritti attraverso azioni concrete di occupazione di luoghi pubblici (in origine le piazze e le strade, nel caso del M5S i banchi del Parlamento). (27) Un selfie per #SaveTorreGuaceto http (28) #savepompei di Pompei leggiamo solo dei crolli, ma quanti conoscono il Grande Progetto Pompei e a che punto... http (29) #savethedate venerdì Milano @CascinaCuccagna presento il mio libro #latruffadeldebito @DeriveApprodiEd con @utente Il verbo save “salvare” viene utilizzato nei primi due casi col suo significato letterale, creando degli slogan che incitano a proteggere, e quindi salvare, l’area protetta di Torre Guaceto e quella degli scavi di Pompei, di grandissima importanza storico-culturale, a rischio per lo stato di abbandono in cui versano. Diversa è la terza formula, completamente in inglese, ovvero save the date, in cui save ha il significato di memorizzare, molto comune in informatica dove si parla di salvare i dati per ritrovarli successivamente quando vengono cercati nella memoria del computer. In questo caso, il corrispondente più vicino in italiano sarebbe forse segnare, nel senso di segnarsi una Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https://www.rhesis.it/ Linguistics and Philology, 8.1: 54-76, 2017 67 data come promemoria per un importante evento. La formula inglese risulta molto breve ed efficace e probabilmente per questo motivo viene preferita: ve ne sono 5 occorrenze nel nostro corpus, di cui 4 presentano la grafia univerbata e l’hashtag proprio come nell’esempio proposto mentre in quella restante si opta per la grafia separata: (30) SAVE THE DATE: “Cittadinanza, una legge per i diritti” Sabato 8 Novembre, alle ore 17 nella Sala Circolo Murri... http Tipico caso di utilizzo di uno slogan nato in lingua inglese che fa presa a livello, appunto, globale, la formula think global act local viene spesso riprodotta in contesto linguistico italiano, preferita al corrispettivo italiano pensa globale agisci locale14, che pure è molto simile. Probabilmente a spingere all’uso dell’angloamericano non sono tanto i verbi del motto, quanto gli aggettivi: è infatti abbastanza comune ritrovarne l’uso anche al di fuori di frasi fatte e slogan, con riferimento specifico al fenomeno della globalizzazione e di un approccio ad essa che tenga conto anche della tutela e della valorizzazione delle identità locali, il cosiddetto glocal. (31) Think global, act local! Ecco perché bisogna partecipare agli incontri dei gruppi locali, come quello di... http Lo sfruttamento dell’inglese per condividere, attraverso l’hashtag, uno slogan legato ad un problema di importanza internazionale viene realizzato nei seguenti casi: (32) la nostra più ferma condanna per l'omicidio del ministro palestinese Ziad Abu Ein. Servono sanzioni contro governo israeliano #FreePalestine (33) “@ckyenge: Abolire in tutto il mondo la #penadimorte #StayHuman @Europarl_IT @SD” Ma soprattutto abolire dittature. Nel primo esempio, un eventuale corrispettivo italiano avrebbe probabilmente sfruttato un aggettivo al posto del verbo, quindi non avremmo avuto liberate/liberiamo la Palestina, bensì Palestina libera, secondo uno schema piuttosto diffuso15. Nel secondo caso, in relazione al tema della pena di morte, l’hashtag stay human, ovvero rimani umano/rimaniamo umani viene lanciato a livello mondiale per sostenere l’abolizione di una condanna che viene ritenuta da molti eccessiva e, appunto, disumana. Il verbo stay è utilizzato in un altro caso di slogan completamente in lingua inglese: (34) Ci vediamo domani al Park Hotel di Perugia per parlare della trasformazione della E45 in autostrada. Stay on the road http L’espressione on the road, famosissima grazie al romanzo di Kerouac, si è diffusa in italiano ed è entrata ufficialmente a far parte anche dei nostri vocabolari. Nel messaggio riportato si gioca combinando l’espressione con l’imperativo stay (spesso usato, così come keep, per incitare gli utenti a svolgere una certa azione, ad esempio per rimanere O, come suggerito da GUALDO (2003: 51), “pensare globalmente – agire localmente”, motto coniato da René Dubos, Consigliere al Congresso delle Nazioni Unite sullo Human Environment nel 1972. 15 Lo stile nominale è comunissimo nelle frasi fatte e nei motti, e il suo uso si sta intensificando, in generale, nella lingua italiana, alcuni sostengono proprio a causa dell’influsso inglese (cfr. PINNAVAIA 2005). 14 Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https://www.rhesis.it/ Linguistics and Philology, 8.1: 54-76, 2017 68 informati è comune l’espressione stay tuned, letteralmente rimani sintonizzato) per pubblicizzare un progetto del Movimento 5 Stelle che riguarda concretamente una strada, la E45. È tutto italiano anche l’ambito di coniazione dello slogan block BCE, tant’è che l’acronimo utilizzato è proprio quello italiano per indicare la Banca Centrale Europea. Il motto si diffonde in occasione di un vertice dell’istituto organizzato a Napoli nell’ottobre 2014, contro il quale si è tenuta una manifestazione di protesta da parte di chi è in disaccordo con le politiche adottate dalla BCE e in generale contro il sistema finanziario dell’UE. Il nome dato alla manifestazione costituisce sì un incitamento a bloccare il vertice, ma richiama anche il nome black bloc, con cui ci si riferisce a gruppi di protesta, in genere di matrice antiglobalizzazione (o, come viene più comunemente detto con l’ennesimo anglicismo, no global), che agiscono attraverso irruzioni violente durante le manifestazioni, completamente vestiti ed incappucciati di nero, arrivando spesso a compiere atti di tipo vandalico. (35) Sto dalla parte di chi manifesta contro la Bce: stop precarietà, tagli alle spese sociali e regali alle banche! Jatevenne! #BlockBce #Napoli Ad adottare una formula molto diffusa in lingua inglese, probabilmente per conferire al proprio partito un aspetto moderno e per attirare l’attenzione del pubblico, è il Nuovo Centro Destra, che consiglia di entrare a far parte del partito per essere different, ovvero diversi, e quindi originali: (36) da @utente BE DIFFERENT BE NCD by Anna Dalla Tor http È molto significativo che uno slogan diretto ad utenti italiani, gli unici a poter eventualmente votare o entrare a far parte del partito, sia in inglese; la comprensione dell’espressione non è scontata, ma probabilmente lo è una maggiore attrattività della frase. Anche la sollecitazione alle dimissioni verso il capo del governo è espressa in due occasioni attraverso la lingua inglese, in particolare con l’imperativo go home, ovvero vai a casa (o forse in italiano sarebbe più spontaneamente utilizzata l’alternativa torna a casa)16. Dei due casi rilevati, soltanto uno presenta l’hashtag, che tra l’altro servirà ad unire il messaggio ad un topic fortemente variegato, non certo afferente esclusivamente all’ambito politico o alle azioni del governo Renzi. (37) A Montezemolo 26 milioni, ai lavoratori bassi salari precarietà abolizione art.18. Questo è l'apartheid italiano caro @matteorenzi. #gohome (38) RENZI .....GO HOME!!!! http 16 Poco tempo prima della caduta del governo Berlusconi, avvenuta nel novembre del 2011, si è diffuso l’hashtag #acasa con lo stesso scopo (SPINA 2012: 157), ovvero quello di esprimere in maniera forte un dissenso sempre più diffuso verso l’allora presidente del consiglio ed il suo operato. Diverso è invece il contesto in cui sceglie di inserirlo Matteo Renzi, riferendosi con esso a notizie non squisitamente politiche che tuttavia mettono in luce un buon operato del governo nell’ambito delle relazioni internazionali e degli affari esteri, ovvero il rientro dall’Africa di due missionari e di un cooperante sequestrati e lo sblocco delle adozioni dei bambini congolesi da parte di famiglie italiane (REGA and LORUSSO 2014). Questo dimostra la tendenza a riutilizzare hashtag che si sono dimostrati particolarmente efficaci, soprattutto da un punto di vista della partecipazione emotiva, ma anche la loro intrinseca ambiguità per la possibilità di adattarli a numerosissimi temi e contesti. Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https://www.rhesis.it/ Linguistics and Philology, 8.1: 54-76, 2017 69 Per quanto riguarda i verbi, l’ultimo esempio che presentiamo è quello che utilizza il termine remember, sfruttato per incoraggiare il partito di Salvini a fare memoria su un episodio risalente al 2010. Si tratta palesemente di un uso non necessario, dove la posizione in apertura di messaggio e l’hashtag confermano ancora una volta il valore pragmatico dell’inglese: (39) #LegaRemember: nel luglio 2010 #Maroni taglia 600 milioni al comparto #sicurezza.... avete la memoria corta http Altri slogan sfruttano lo stile nominale per favorire brevità e facile memorizzazione: (40) DDl #lavoro esame irregolare emendamenti, provvedimento torni in Commissione #opensenato #JobRevolution #SEL (41) #nohatespeech biblioteca vivente a Strasburgo ognuno di loro è un libro, racconta di rifugiati o uscita da neonazismo (42) I Parlamentari per la pace in conferenza stampa a Montecitorio dopo la visita in Medio Oriente. #Gaza #peacenow http (43) #Socialbombing #Renzi paghiamo in sicurezza alla macchinette della metro, #NoalPizzoRom! http via @socialbombing La scelta di sfruttare la lingua inglese e le sue caratteristiche per creare e/o per diffondere formule che hanno un ruolo chiave nella comunicazione politica è fortemente significativa. Gli slogan rappresentano delle formule verbali cristallizzate, di solito molto brevi, che vanno a costituire un rituale in un particolare contesto comunicativo, diventando un tutt’uno percepito nella sua totalità da ascoltare e ripetere in materia meccanica, senza che venga più scisso nelle sue parti componenti (SPINA 2012: 38). Essi vengono utilizzati da tempo in politica come importanti strumenti retorici, ed assolvono funzioni sia di tipo espressivo che persuasivo, alcuni di essi riuscendo a raggiungere l’obiettivo di coinvolgere totalmente il destinatario dell’atto comunicativo nella causa che viene supportata, tanto da creare una vera e propria identificazione personale ed indurre all’azione17 (STEWART et al. 1995). Quando questa identificazione avviene a livello collettivo, attraverso slogan che diventano l’emblema di valori sociali e culturali anche fortemente radicati all’interno di un gruppo, la funzione di queste formule diviene non soltanto quella di convincere le masse, ma soprattutto quella di rappresentarle, di diventarne il simbolo, allo scopo di unire e sollevare delle reazioni sulla base di un ideale già diffuso e particolarmente sentito (LU 1999). È perciò significativo che partiti ed esponenti politici italiani mostrino di voler raggiungere questi obiettivi attraverso una lingua diversa da quella nazionale, attribuendo all’inglese un valore aggiunto sulla capacità di attrazione e di esortazione all’azione. Da un punto di vista strettamente linguistico, ancora una volta brevità ed istantaneità della lingua inglese sembrano farla da padrone. Se è vero che l’effetto stilistico sembra riuscire, c’è tuttavia il rischio che l’immediatezza sia soltanto formale e non ottenga una piena e rapida comprensione da parte dell’utente, il quale non ha necessariamente una totale dimestichezza con una lingua diversa da quella materna. In questo caso fallisce quindi quella che è, secondo DENTON (1980: 13), una delle funzioni principali dello 17 Altre funzioni importanti degli slogan sono state individuate da DENTON (1980) e poi riprese e commentate da BOWERS et al. (2010 [1971]: 33-35). Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https://www.rhesis.it/ Linguistics and Philology, 8.1: 54-76, 2017 70 slogan, ovvero la semplificazione di una ideologia in modo che essa sia facilmente comprensibile da tutti. 6.2. Inglese in cima L’osservazione dei dati conferma quindi il fatto che l’uso della lingua inglese non riguarda soltanto il fenomeno del prestito linguistico in senso stretto e il valore denotativo degli anglicismi utilizzati (che possiede maggiore centralità, ad esempio, nel caso di tecnicismi e internazionalismi), ma è spesso frutto di una precisa strategia linguistica che interessa alcune particolari componenti del testo, in modo da raggiungere determinati effetti pragmatici. Oltre all’abbondanza dell’inglese negli slogan, che ricoprono un ruolo fondamentale nel discorso politico, è stata infatti rilevata una marcata tendenza ad impiegare termini di questa lingua in determinate posizioni del testo che possiedono una certa salienza (non soltanto dal punto di vista sintattico-testuale ma anche da quello grafico): stiamo parlando di titoli, didascalie, apertura o chiusura di frase, ecc., in pratica il fenomeno che ANDROUTSOPOULOS (2012) ha definito “English on top”, letteralmente “inglese in cima”, segnalando come nei media (intendendo in senso lato numerosi mezzi e prodotti della comunicazione come notizie e pubblicità trasmesse attraverso giornali, radio, televisione, volantini, ecc.) l’attribuzione di queste posizioni chiave spetti quasi sempre all’inglese nei casi in cui venga affiancato alla lingua nazionale come codice aggiuntivo. Numerosi sono gli esempi che, nel nostro corpus, attestano la propensione ad applicare questo tipo di strategia: (44) Open Access: libero accesso alle #Ricerche scientifiche http (45) #plasticbags, monitoraggio emissioni Co2 navi e "secondo periodo di impegno Kyoto": da Consiglio #Ambiente grandi risultati x #Ue @IT2014EU (46) #Project bond : 300 miliardi #investimentiinfrastrutturali + disegno espansivo Draghi = fiducia in ripresa http (47) MAIL BOMBING. ABBIAMO BISOGNO DI VOI!! La prescrizione è la norma che libera i corrotti, l’assurda legge che... http (48) #Backstage #QuintaColonna. Ora in onda su #Rete4 (49) Call center: il Movimento Cinque Stelle sta lavorando ad una legge per tutelare i lavoratori, ma anche i clienti.... http (50) #Crowdfunding:dal 2005 raccolti 30 milioni di euro. http " @utente @Collaboriamo (51) Workshop "linguaggio di #genere ". Per il corretto utilizzo di un linguaggio non discriminatorio. #pariOpportunita' (52) #sexting e #cyberbullismo, a Milano azioni per capire gli adolescenti in rete @utente @utente Il fatto che l’uso di questa tattica sia finora stato individuato nella comunicazione pubblicitaria e in quella dell’informazione ci permette di affermare che alcune loro caratteristiche si ripresentano nei messaggi politici diffusi attraverso Twitter18. 18 La disintermediazione porta infatti i rappresentanti politici a produrre personalmente le informazioni relative all’attualità politica, coi media che inseguono i tweet per diffondere e commentare le notizie (REGA and LORUSSO 2014). Lo stile richiesto dal sito di microblogging che stiamo analizzando porta ad Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https://www.rhesis.it/ Linguistics and Philology, 8.1: 54-76, 2017 71 Innanzitutto, la richiesta di brevità e l’immediatezza del mezzo portano alla predilezione dello stile nominale, ormai diffusissimo nella stampa e nella pubblicità soprattutto in parti specifiche come titoli di articoli e di réclame (PINNAVAIA 2005: 5219). In secondo luogo, lo scopo del messaggio politico è sempre di più quello di ‘vendere’ un’idea, di convincere l’utente (che è sempre visto come un potenziale elettore20) che la propria posizione è quella più appetibile, e per questo tende a trasformarsi in un vero e proprio spot che invogli il destinatario a ‘comprare’ tale idea attraverso l’espressione del proprio voto: l’inglese ha un forte potere catalizzatore già solo per il fatto di rappresentare, in un messaggio rivolto ad un pubblico di lingua italiana, una lingua straniera; se aggiungiamo a questo tutti i caratteri di tipo connotativo che vengono attribuiti ai termini angloamericani, ovvero modernità, cosmopolitismo, stile, brillantezza e così via, è facile capire perché essi vengano sfruttati in posizioni testuali strategiche e per frasi di importanza cruciale per la propaganda politica, ovvero gli slogan. Infine, è comune individuare anche un certo abbandono, da parte dei politici, alle ‘mode’ imposte dai social network e dalle loro regole di utilizzo: dalla divulgazione di selfie alla condivisione della vita privata (MAMUSA: 2016a), dagli aggiornamenti in tempo reale ai messaggi anche di contenuto politico-istituzionale fortemente personalizzati, sembrerebbe che ‘essere social’ sia diventato un obiettivo primario nella nuova frontiera della comunicazione politica. L’uso della lingua inglese in quelli che abbiamo definito gli ‘hashtag descrittivi’ (ma anche in termini privi di hashtag che fungono da didascalia per immagini oppure descrivono fatti, oggetti, sentimenti, ecc.) costituisce parte integrante di questo nuovo modello comunicativo. Riproponiamo qui alcuni esempi relativi all’ultimo punto descritto: (53) La maggioranza ha votato un #maxiemendamento di 138 pagine alle 2 di notte 10 minuti dopo averlo ricevuto. Fiducia sulla fiducia. #nowords (54) Il video della Camera di Commercio di #arezzo che promuove il territorio della nostra bella provincia. #Tuscany http (55) #M5S #slotmob #salute Evento con portavoce su slot machine e giocatori patologici http http (56) Dinner in cave. No words. Tour #meravigliosaItalia #ilmioSud #lamiaPuglia (57) Aspettando l'alba. #aurora di #Ferragosto #summer2014 (58) È arrivato e ha pure gradito... Latte e biscotti per lui...carote per le renne.. Babbo Natale ti adoro! #xmastime 6.3. Hashtag Qualunque sia la categoria di appartenenza degli anglicismi individuati, per ciascuna di esse è comunissima la presenza dell’hashtag. È quindi evidente che l’influenza di questo strumento della comunicazione online sia piuttosto rilevante nella scelta dell’uso della lingua inglese. Tale scelta non riguarda esclusivamente la classe politica, che una netta somiglianza dei messaggi con i ‘flash’ delle agenzie di stampa, a cui Twitter si starebbe in parte sostituendo (MANCINI and MAZZONI 2014). 19 Ma anche GUALDO (2008: 110), in riferimento alla stampa, afferma che «colpisce soprattutto il fatto che gli anglicismi occupano le posizioni di massimo risalto: titoli, didascalie, messaggi pubblicitari, cioè le parti più lette e meglio memorizzate del giornale», e la tendenza è rilevata anche in CAROSELLA and FRESU (2005) e in FRENGUELLI (2005: 162) per quanto riguarda i composti. 20 A questo proposito è interessante il concetto di «campagna permanente», per cui cfr. BLUMENTHAL (1982) e, più recentemente, CACCIOTTO (2011). Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https://www.rhesis.it/ Linguistics and Philology, 8.1: 54-76, 2017 72 sembrerebbe piuttosto adeguarsi ad una tendenza generale sempre più affermata nell’ambito dei social network e della comunicazione online. Volendo analizzare questa situazione innanzitutto da un punto di vista quantitativo, senza ancora una volta fornire dati altamente precisi per fini statistici, abbiamo fatto un breve calcolo relativo agli esempi contenenti gli anglicismi presenti con più di 10 occorrenze nel nostro corpus: su un totale di 5526 occorrenze, ben 2665 sono precedute dal simbolo #, ovvero il 48% degli anglicismi utilizzati dai politici diventa ‘cliccabile’ per ricollegarsi ad un preciso topic diffuso sulla rete. L’hashtag ha come scopo quello di rendere «esplicito l’argomento dei […] tweet» (SPINA 2012: 71), fornendo quindi informazioni sul testo che si sta scrivendo ed assumendo una funzione metatestuale. Fondamentale è poi la sua tracciabilità, che contribuisce ad aggregare gli utenti di Twitter attorno a quel determinato argomento; oltre ad una funzione testuale ed una metatestuale ne viene rilevata quindi anche una di tipo sociale. Secondo ZAPPAVIGNA (2012: 84-87), una volta inserito nella rete con lo scopo di essere seguito da altri utenti, l’hashtag può disperdersi acquisendo ulteriori significati, dati dall’uso personale che ne fanno tali nuovi utenti21. Il fine ultimo sarebbe comunque l’affiliazione a quel significato e a quel tema che si sono voluti diffondere, ma anche una certa rappresentazione di se stessi, dato che attraverso i profili sui social network ognuno di noi costruisce la propria identità come preferisce. Da una parte, sembrerebbe quindi che la lingua inglese venga considerata, nella comunicazione politica italiana su Twitter, come un’arma efficace nella ricerca di affiliazione, fondamentale per qualsiasi partito ed esponente politico, e questo è dimostrato soprattutto dal suo uso abbondante in slogan e frasi ad effetto per richiamare l’attenzione. Il potenziale dell’hashtag come catalizzatore di fiducia viene infatti spesso denunciato da chi accusa alcuni esponenti politici di voler condurre una campagna ingannevole proprio attraverso i social network, che attraverso parole e frasi ad effetto che accompagnano (o, a volte, costituiscono) un post privo di approfondimenti di alcun genere comunicherebbero messaggi brevi ed effimeri, privi di un contenuto corrispondente a fatti concreti. Questo tema è esplicitato, ad esempio, nel seguente messaggio rilevato nel nostro corpus: «ripartono i lavori alla Camera: ad attenderci slogan e hashtag. di testi delle riforme non se ne ha notizia #concalma http». D’altra parte, l’uso dell’inglese per descrivere, interagire, esprimere la partecipazione ad eventi, ma anche per produrre discorsi con un certo grado di tecnicità appare come un modo per trasmettere un’immagine fortemente positiva di se stessi, delle proprie conoscenze e delle proprie possibilità, un’immagine che viene venduta al potenziale elettore al quale molto spesso non interessa tanto comprendere il significato di ciò che gli viene proposto, ma si ferma alla forma esterna delle parole e delle frasi. Rendere brillante il messaggio e, di conseguenza, la propria immagine senza fornire un alto grado di chiarezza è una tecnica molto sfruttata, già da tempo, nella costruzione dell’immagine in politica: la ristrettezza linguistica viene quindi utilizzata su Twitter per comunicare in maniera rapida ed efficace, e la lingua inglese si mostra una alleata ideale nella trasmissione di questo tipo di messaggi: da qui le frequenti catene di hashtag, spesso a commento di fotografie, video ed altri elementi di tipo visivo, che proiettano verso l’utente un insieme di temi senza in realtà approfondirne neanche uno, sapendo che il 21 Sono numerosissimi gli hashtag temporanei, i quali durano dalle poche ore ad un periodo comunque limitato di tempo, generalmente legati alla transitorietà di un evento o di un oggetto che perde di importanza in quanto non più attuale e scompare dal discorso di Twitter. Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https://www.rhesis.it/ Linguistics and Philology, 8.1: 54-76, 2017 73 messaggio verrà rapidamente abbandonato per dedicarsi alla lettura di quello successivo. Anche gli aspetti più personali, da tempo parte integrante dell’immagine pubblica del personaggio politico, sono frequentemente abbinati ad hashtag e descrizioni in lingua inglese, probabilmente per mostrare una totale integrazione con il mezzo, che implica modernità e maggiore ‘socialità’. 7. Conclusioni Attraverso l’analisi dell’uso degli anglicismi non ancora presenti nei vocabolari più aggiornati della lingua italiana, questo studio ha rivelato come tendenze ormai affermate nell’ambito del prestito linguistico, in particolare l’uso della lingua inglese in discorsi ad alto grado di tecnicità o con contenuti riguardanti problemi e questioni di carattere internazionale, si stiano affiancando ad alcune novità legate soprattutto al mezzo utilizzato. Internet è infatti il simbolo per eccellenza della comunicazione internazionale, e l’abbondanza della lingua inglese nell’uso delle parole chiave di Twitter, ovvero gli hashtag, conferma il fatto che questa comunicazione converga in maniera sempre più evidente verso un’unica lingua franca, che sta quindi assumendo un potere sempre maggiore. Anche alcuni campi semantici solitamente esenti dal prestito linguistico, come quello riguardante la famiglia e l’espressione dei sentimenti, hanno dimostrato di non essere completamente impermeabili, vittime di una moda linguistica che attribuisce maggiore efficacia alla lingua inglese. D’altro canto, possiamo affermare che gli effetti di innovatività, sensazionalità, originalità e modernità vengono spesso anteposti alla comprensibilità ed alla trasparenza, grazie soprattutto alla consapevolezza che siano proprio i tratti più superficiali della comunicazione a suscitare l’attenzione e la curiosità del pubblico e a lasciare un segno più efficace nella sua memoria, soprattutto in un’epoca in cui l’analisi e l’approfondimento vengono quasi sempre evitati in favore di un continuo ricambio di notizie ed avvenimenti. Di qui, l’uso dell’inglese anche in parole e formule chiave della comunicazione propagandistica, ovvero negli slogan di partito e negli annunci riguardanti azioni che rivestono un’importanza fondamentale nella propria attività politica. Tutto ciò testimonia, senza dubbio, che la percezione generale di prestigio rispetto alla lingua inglese non accenna a diminuire, anzi, si intensifica man mano che i tempi portano ad una significativa evoluzione dei mezzi di comunicazione e dei modi in cui essa viene gestita. Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https://www.rhesis.it/ Linguistics and Philology, 8.1: 54-76, 2017 74 Bibliografia ANDROUTSOPOULOS, Jannis (2012), “English ‘on top’: discourse functions of English resources in the German mediascape”, in «Sociolinguistics Studies» 6 (2), 209238. ANTHONY, Laurence (2005), “Design and development of a freeware corpus analysis toolkit for the technical writing classroom”, in IPCC 2005. Proceedings. International Professional Communication Conference, 2005, USA: IEEE, 729737. 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International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https://www.rhesis.it/ Linguistics and Philology, 8.1: 54-76, 2017 77 La morfologia verbale nel Breve Portus Kallaretani (ASP, Archivio Roncioni, ms. 322) Giulia Murgia (Università di Cagliari) Abstract The so-called Breve Portus Kallaretani is a collection of provisions issued by the Comune of Pisa at the beginning of the 14th century to regulate the merchant activities of the port of Cagliari (Sardinia), at that moment under the Pisan control. Transmitted by a single witness (Pisa, Archivio di Stato, Archivio Roncioni, MS. 322), the Breve shows a Pisan phono-morfological basis, as evidenced by the analysis of its verbal system, although the presence of different copists makes it possible to notice some rare, but significant, phenomenons of interference with the Sardinian language. Key Words – Breve Portus Kallaretani; ASP, Archivio Roncioni, ms. 322; edition; Pisan language; verbal morphology Il cosiddetto Breve Portus Kallaretani è una raccolta di disposizioni emanate dal Comune di Pisa all’inizio del Trecento per regolamentare le attività mercantili del porto di Cagliari, allora sotto il controllo pisano. Tràdito da un unico testimone (il ms. Pisa, Archivio di Stato, Archivio Roncioni, 322), il testo del Breve esibisce una base fono-morfologica schiettamente pisana, com’è dimostrato dall’analisi del suo sistema verbale, anche se la presenza di più mani e di più copisti consente di scorgere qualche raro, ma significativo fenomeno di interferenza con il sardo. Parole chiave – Breve Portus Kallaretani; ASP, Archivio Roncioni, ms. 322; volgare pisano; morfologia verbale 1. Gli ordinamenti pisani trecenteschi per il porto di Cagliari Con il titolo di Breve Portus Kallaretani si indica una raccolta di disposizioni emanate dal Comune di Pisa all’inizio del Trecento al fine di regolamentare le attività mercantili del porto di Cagliari e di definire i compiti dei consoli, dei sensali e dei mercanti che in esso operavano. Il testo del Breve è tràdito da un unico testimone, il ms. Pisa, Archivio di Stato, Archivio Roncioni, 3221. L’appartenenza del codice – un volume pergamenaceo che consta di 35 carte che misurano cm 30,5 x 23,2 (più una carta di una guardia che accoglie il testo, mutilo, di una laude) – alla nobile famiglia pisana dei Roncioni è testimoniata da una piccola nota manoscritta, che si legge alla c. 2v, in cui figura il nome di Girolamo Roncioni. 1 Per le informazioni codicologiche sul ms. ASP, Archivio Roncioni, 322, cfr. VITELLI (1902: 141, n. 34), ASTUTI (1984 [1939]: 1559), ARTIZZU (1979), CASTELLANI (1990: 186-187). Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https://rhesis.it/ Linguistics and Philology, 8.1: 77-110, 2017 78 Di seguito si fornisce una schematica illustrazione della complessa composizione del manoscritto: 1) cc. 2r-28v: accolgono il testo – scritto con una littera textualis, in volgare pisano – del vero e proprio Breve Portus Kallaretani2, secondo la redazione del febbraio 13183, poi rivisto nell’aprile del 13194 (secondo lo stile dell’incarnazione al modo pisano, corrispondente dunque al 1318). Il Breve si apre con un rubricario (cc. 2r2v) che consta di 39 rubriche e si presenta suddiviso al suo interno nel modo seguente: - 1.1. cc. 5r-16v: i capitoli compresi tra l’1 e il 38 (cc. 5r-16v) costituiscono il vero e proprio ‘Breve dei consoli del Porto di Cagliari’, al quale si aggiungono altre disposizioni comprese tra le cc. 25r-28v (i capitoli 58-68); - 1.2. cc. 17r-25r: a partire dal cap. 39, la rubrica «Capitulo dei Sensali» (c. 17r) segnala il passaggio a un blocco di disposizioni, comprese tra i capp. 39-57 (cc. 17r-25r5), redatte per regolamentare l’attività dei sensali che operavano al porto di Cagliari; - 1.3. cc. 25r-28v: i capp. 58-68 (cc. 25r-28r) contengono altre disposizioni ordinate e giurate dai consoli del porto cagliaritano, mentre alla c. 29r si legge l’annotazione relativa alla correzione e all’emendamento del testo effettuato a Pisa nell’aprile del 13196. 2) c. 29r: si tratta di un capitolo scritto in latino (in corsiva notarile, con mano diversa da quella delle precedenti carte) – inviato il 6 settembre 1320 (= 1319) dal console dei mercanti di Cagliari, Guido Fauglia – il cui incipit sottolinea che si tratta di una sezione pensata per integrare il cap. 45 del Breve Portus Kallaretani7. Un confronto con il cap. 45 svela subito l’incongruenza, dato che in esso si tratta dei sensali, mentre in quest’aggiunta più tarda redatta in latino sono chiamati in causa gli stessi consoli del porto di Cagliari, tenuti, secondo quanto si legge nel capitolo in latino, a rispettare fedelmente gli ordini provenienti dai consoli del porto pisano8; 2 È questo il titolo posto ad apertura del primo blocco normativo accolto nel ms. 322 (c. 5r). «In no(m)i(n)e patris et filii et sp(irit)us s(an)c(t)i. Am(en). | Questo Breve fu co(m)posto, facto et ordinato a man|dare a correggere a Pisa, in tenpo delli discreti e savi | homini mess(er) Nero di Gontulino et mess(er) Bindo Faccha, con||suli del Porto di Kallari, et corretto et emendato p(er) li discre|ti et savi homini s(er) Cellino dal Colle, s(er) Pellaio dilla Sita, | s(er) Guidone da Faulgla et s(er) Bacciameo di Malglo. Corre(n)|te allora li anni D(omi)ni .mcccxviij. del mese di fer|raio. || S(er) Piero Porcellino, camarli(n)gho del dicto Porto. | Notaio, s(er) Gaddo da Fagiano. | » (4v,1-11). Le citazioni, qui e nel resto del contributo, saranno tratte dall’edizione critica del ms. 322, attualmente in corso di preparazione da parte di chi scrive. 4 «Correcto e amendato in della città di Pisa, p(er) | ser Ligo di Masseo e p(er) s(er) Donato Sechamerenda | e p(er) s(er) Guido del Tignoso. A dì .xv. d’aprile | .mcccxviiij., ched è consulo al dicto Porto i(n) Pisa || ser Becto Agliata. | » (28v,1-5). 5 Il passaggio da un capitolo all’altro è segnalato da titoli e numeri di capitoli in rosso, mentre le iniziali si presentano «alternatamente azzurre e rosse con filettature del colore opposto» (CASTELLANI 1990: 187). 6 Cfr. supra, nota 4. Il testo del Breve è disposto a piena pagina all’interno di uno specchio di scrittura organizzato su 27 righi (con qualche intervallo tra capitolo e capitolo) fino alla c. 28v; dopo di che, cambiano le mani (se ne possono individuare perlomeno tre) e la grafia e l’organizzazione dello specchio di scrittura si fa più libera. 7 «Inter cetera, que (con)tine(n)t(ur) in Brevi Po(r)tus de Kallari, vid(elicet) inter capit(u)la | d(i)c(t)i Brevis p(er)tinentia co(n)sulibus de Kallari, vid(elicet) capit(u)lo quadragesimo q(ui)nto | » (29r,1-2). 8 Si rimanda ad ASTUTI per una possibile spiegazione dell’incongruenza: «Il Tola congettura al riguardo che anziché 45 debba leggersi 35; ma l’ipotesi non persuade lo Schaube, il quale pensa invece che il richiamo al cap. 45 debba riferirsi ad altra parte a noi ignota della legislazione pisana relativa al porto di Cagliari, e precisamente, come risulterebbe dalla rubrica di questo capitolo latino, ad un Breve Portus Kallaretani, di cui i capitoli pertinenti ai consoli del porto, che costituiscono il Breve a noi pervenuto, sarebbero soltanto una parte. […] non credo però che si debba senz’altro aderire alle illazioni ch’egli [Schaube] trae da questo 3 Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https://rhesis.it/ Linguistics and Philology, 8.1: 77-110, 2017 79 3) c. 29v: un breve preambolo + 3 capitoli in volgare, contenenti le disposizioni per l’elezione dei consoli. Si tratta di capitoli non datati, ma secondo T OLA (1861: 655, n. 4) risalenti al 1318-1319. Sono redatti in littera textualis; 4) c. 30r: capitolo redatto in volgare il 14 settembre 1320 (= 1319) con disposizioni relative al nolo di imbarcazioni. La mano delle cc. 30r-34v è la stessa che trascrive le cc. 29r e 35 e impiega una lettera bastarda su base cancelleresca9; 5) cc. 30v-31r: disposizione del 17 gennaio del 132010 relativa ai cimatori di panni (coloro che eseguivano le operazioni di cimatura dei tessuti, radendo il pelo del panno per pareggiarlo); 6) cc. 31v-32v: contengono 5 capitoli in volgare provenienti dal «Breve delli Castellani p(er)tengnente alli Consuli del Po(r)to di Kallari» (31v,1-2)11. Di seguito si fornisce l’elenco dei capitoli riportati: XLI. Del Breve exenplato; XLIJ. Delli consuli delli me(r)canti; XLIIIJ. Delle pese e misure; LXXIIIJ. Delli consuli delli me(r)canti del Po(r)to di Kallari; CLXIIJ. Delli consuli delli me(r)canti12; 7) cc. 32v-33v: piccolo gruppo di disposizioni in volgare, datato 18 febbraio 1321, con le quali si disciplina il commercio e l’esportazione del grano, dell’orzo e dello zafferano; 8) c. 33v: verso la fine della c. 33v, è stato aggiunto, vergandolo con una grafia su modulo più piccolo, un capitolo redatto in latino che dovrebbe provenire dagli Ordinamenta Pisani Communis («Ita (con)tinetur in O(r)dinamentis Pis(ani) Co(mun)is», c. 33v). Il capitolo regolamenta gli eventuali casi di liti e risse tra ufficiali del Porto; 9) cc. 34r-34v: frammenti di cronaca pisana in latino13, attinenti a Pisa e alla Sardegna14, risalenti al XIV secolo15. Tali frammenti sono stati pubblicati da MURATORI (1725) nei Chronica varia pisana e da TOLA (1975, I.2: 658-659) nel Codex Diplomaticus Sardiniae. Sono bianche le cc. 1r, 1v, 3r, 3v, 4r, 35r e 35v. Il manoscritto ASP, Roncioni, 322 si presenta, dunque, come una collezione16 di testi di materia normativa (la cui stesura si può collocare a cavaliere tra gli anni Dieci e Venti del Trecento), di ambito marittimo-portuale17, vergata da mani diverse che fanno ricorso richiamo al cap. 45, che potrebbe ben altrimenti essere spiegato, rispetto ad altra più antica redazione del Breve, verosimilmente in latino, a noi ignota» (ASTUTI 1984 [1939]: 1562). 9 CASTELLANI (1990: 187). 10 Si tratta dunque di una disposizione cronologicamente anteriore, per emanazione, alla precedente. Secondo ASTUTI (1984 [1939]: 1563), si tratterebbe di un errore del copista. 11 Per una ricostruzione della fisionomia del Breve dei Castellani del Castello di Cagliari, cfr. SOLMI (2001 [1917]: 320-325). Si veda inoltre ZEDDA (2006: 384-386) e relativa bibliografia. 12 Il fatto che le disposizioni riportino il loro originario numero d’ordine, «autorizza a pensare che il breve dei castellani di Cagliari, costituito da un solo libro, contenesse tuttavia non meno di 158 rubriche, ciò che forma già un vasto complesso legislativo» (SOLMI 2001 [1917]: 324). 13 Questa sezione del manoscritto non verrà compresa all’interno dell’edizione critica in corso di allestimento. 14 Il frammento «è composto di due brani distinti, contenenti la cronaca di avvenimenti gloriosi per la repubblica pisana, degli anni 1165-1175 (concessione da parte dell’imperatore Federigo ad Uguiccione console «pro pisana civitate» di tutta l’isola di Sardegna in feudo, conquista dell’isola, sconfitta dei Genovesi), e degli anni 1088-1138 (partecipazione alle Crociate, e conquista e distruzione di Amalfi, per cui «habuerant Pisani pandettam»)» (ASTUTI 1984 [1939]: 1559). 15 ARTIZZU (1979: 8). 16 Per collezione si intende una «serie di testi indipendenti la cui associazione forma un insieme coerente, che può essere trattato come un testo unico» (MANIACI 1996: 211). 17 Fatta eccezione per il frammento di cronaca pisana e per la laude, che occupa guardia e controguardia del ms. Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https://rhesis.it/ Linguistics and Philology, 8.1: 77-110, 2017 80 a codici linguistici diversi (volgare e latino), ma caratterizzata da un’evidente organicità di contenuto. Il manoscritto non può, infatti, essere definito come una miscellanea, cioè come «un volume composito formato da unità codicologiche associate per ragioni puramente esterne o casuali» (MANIACI 1996: 76); dal momento che accoglie disposizioni legate agli ordinamenti pisani predisposti per il porto di Cagliari, è più correttamente inquadrabile attraverso la definizione di ‘raccolta organizzata’18. Quanto alla sua destinazione d’uso, potrebbe essersi trattato di un libro di servizio, adoperato, con tutta verosimiglianza, da uno dei magistrati del Porto nello svolgimento della propria attività. L’allestimento della raccolta, dunque, potrebbe essere stato commissionato da un funzionario che aveva necessità di possedere un volume che radunasse le disposizioni del Breve e le aggiunte a esso successive, nonché una selezione di passaggi provenienti da un altro Breve allora in uso, quello dei Castellani del Castello di Cagliari. Ciò che, insomma, siamo soliti chiamare Breve Portus Kallaretani risulta essere «un coacervo di disposizioni, talvolta non ordinate, afferenti a materie diverse […]» (ARTIZZU 1979: 21). 2. Il pisano in Sardegna. La lingua del Breve Portus Kallaretani La storia dei rapporti tra Pisa e la Sardegna è documentata a partire da un’epoca decisamente antica, fin dal cosiddetto Privilegio Logudorese19 (1080-1085 ca.), che attesta l’esenzione, a favore di Pisa, dal versamento del teloneo (dazio che colpiva l’entrata e la circolazione delle merci destinate al consumo) nel Giudicato di Torres, una delle quattro entità territoriali in cui era suddivisa l’isola nel Medioevo. Si è di recente ridimensionato il predominio pisano nel controllo delle rotte tirreniche ad un’altezza cronologica così antica, a favore di una visione dei Pisani (insieme ai Genovesi) nelle vesti di «principali partner commerciali dei giudici sardi» (ZEDDA 2015a: 229), almeno fino a quando, a partire dagli anni Quaranta del XII secolo, i Toscani raggiungeranno un’effettiva posizione di monopolio (ZEDDA 2015a: 232). I Pisani esercitarono una forte influenza nel Giudicato più meridionale, quello di Cagliari: nel sud dell’Isola, infatti, il caso di Cagliari è particolare, perché Castello di Castro, il rione fortificato sorto a partire dal 1215 sulla sommità dell’attuale Cagliari, di fatto soppianterà, quale nuovo centro di potere, l’antica capitale del regno giudicale cagliaritano, Santa Igia, rasa al suolo tra il 1257 e il 125820. Il predominio pisano avrà però vita breve perché già nel 1326 i Pisani saranno spodestati dai nuovi conquistatori aragonesi. In questo quadro, il porto di Cagliari rivestirà una funzione di estrema importanza: già all’indomani «della presa del colle detto Mons de Castro e della fondazione “sopra Bagnaria” del Castello Nuovo pisano nel 1215, si creano le condizioni per la radicale riorganizzazione della portualità dell’area giudicale cagliaritana, questa volta in senso pisano» (CADINU 2015: 129)21. Nel momento in cui viene composta la redazione in volgare del Breve del porto di Cagliari, i Pisani avevano già acquisito, insomma, una notevole libertà di movimento, a discapito dell’autorità locale: è proprio a partire dal suo 18 MANIACI (1996: 211). Cfr. PETRUCCI and MASTRUZZO (1996 e 2002) e BLASCO FERRER (2001). 20 Sull’antica capitale giudicale di Santa Igia, cfr. FOIS (1986), PINNA (2010), CADINU (2015), ZEDDA (2015b). 21 Per un approfondimento sulla topografia della Cagliari medievale e sulle sue strutture portuali, oltre a CADINU (2015), cfr. SIMBULA (2001). 19 Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https://rhesis.it/ Linguistics and Philology, 8.1: 77-110, 2017 81 porto che «la nuova città, vera e propria appendice pisana in Sardegna, si proietterà con vigore verso il Mediterraneo e verso le vicine coste africane, terminale del corridoio tirrenico pisano» (ZEDDA 2015a: 251). A partire da questo rapido quadro storico, è facile allora comprendere per quali ragioni, nel Trecento, il pisano sia divenuto «la varietà alta del repertorio linguistico cagliaritano, s’intende dopo il latino» (PAULIS 2013: 41), scalando agevolmente la vetta dei codici a disposizione dei parlanti, in un contesto, come quello isolano, in cui è riscontrabile una precocissima toscanizzazione, almeno nell’organizzazione del segmento alto, in senso diafasico, della lingua, segmento che è appunto rappresentato nei testi a carattere giuridico-amministrativo sardi (LOI CORVETTO 1992 e 2000). È, inoltre, cosa risaputa, che ci è confermata dall’esistenza stessa del nostro Breve, che gli ufficiali pisani inviati in Sardegna dal Comune di Pisa fossero tenuti a reggere e ad amministrare «ciascun territorio dei possedimenti oltremarini toscani secundum formam sui brevis» (ZEDDA 2003: 1)22. Ecco allora che, all’interno di comunità in cui la penetrazione del pisano e la sua interazione con il sardo si fanno particolarmente prolungate e insistite, si giunge in Sardegna alla produzione di testi di ambito giuridico-amministrativo che esibiscono un alto grado di ibridismo linguistico, in cui emergono forme di interferenza che sono riscontrabili a tutti i livelli dell’analisi linguistica. È il caso del Breve di Villa di Chiesa, testo statutario anteriore al 1327, concepito per la città di Villa di Chiesa, la moderna Iglesias, di recente oggetto di edizione da parte di Sara RAVANI (2011a): si tratta di un testo pensato per una città sarda, ma redatto in una sorta di ‘pisano coloniale’, fortemente intriso di sardismi (RAVANI 2011b; LUPINU 2013). In base all’analisi linguistica della sua editrice, infatti, sebbene il Breve di Villa di Chiesa esibisca «una base fono-morfologica […] toscana occidentale, più nello specifico pisana», è stata anche appurata «la presenza di tratti peculiari estranei al tipo toscano occidentale e riconducibili all’influsso del sardo» (RAVANI 2011b: 15). Il caso del Breve Portus Kallaretani è però differente. Anche solo arrestandoci a una lettura superficiale appare evidente che non ci troviamo in presenza di un documento redatto in una sorta di ‘pisano coloniale’, ma concepito e promulgato dall’autorità pisana per i cittadini del Comune toscano trapiantati a Castello di Castro. Lo studio della morfologia verbale che in questo contributo sarà condotto, corroborato dall’analisi degli altri livelli linguistici, dimostra, infatti, la sostanziale pisanità del testo, fatta eccezione per qualche isolato scarto dalle forme che sarebbe lecito attendersi, peraltro spesso limitato ad alcune carte. Il Breve Portus Kallaretani non va osservato esclusivamente alla luce della dialettica tra il sardo e il pisano. L’ipotesi più accreditata, infatti, è che il Breve sia stato originariamente composto in latino e, solo in un secondo momento, tradotto in volgare. Com’è facilmente intuibile, il volgarizzamento del testo si sarebbe reso necessario per ragioni eminentemente pratiche: il latino notarile in cui erano redatti gli statuti medievali non doveva essere alla portata di tutti, men che meno in un ambiente mercantile come quello del porto, e quando, come in questo caso, non si aveva a che fare con un grande monumento legislativo, ma con una ben più umile raccolta di disposizioni normative a carattere prevalentemente amministrativo23. 22 Zedda cita a partire da BONAINI (1870, vol. II: 70). Tra gli affioramenti delle norme statutarie di epoca pisana, si ricorderà perlomeno il Liber Fondachi, contenente disposizioni del Comune di Pisa (emanate tra il 1317 e il 1319) relative all’amministrazione della Gallura e alle rendite della curatoria di Galtellì (ARTIZZU 1961-1965). 23 Cfr. SALVESTRINI and TANZINI (2015). Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https://rhesis.it/ Linguistics and Philology, 8.1: 77-110, 2017 82 A confortare l’ipotesi della discendenza della redazione in volgare del Breve da un antigrafo latino, secondo gli studiosi che se ne sono occupati, ci sarebbero ragioni stilistiche e storico-documentarie. Da una parte, secondo ARTIZZU (1979), l’andamento del periodo e una costruzione della frase ch’egli, sullo scorta di PARDESSUS (1839), reputa “sconnessa” sarebbero la prova di un’incerta e inesperta gestione del volgarizzamento dal latino al pisano (ARTIZZU 1979: 20-21); d’altra parte, ASTUTI (1984 [1939]) sottolinea come un’allusione a un Breve consulum portus Kallaretani sia contenuta già nella parte più antica del Breve curiae maris di Pisa24, il che consentirebbe non solo di ipotizzarne un’originaria stesura in latino, ma anche di retrodatarne la cronologia, dato che la redazione in volgare sarebbe da considerarsi come il «rifacimento di un altro [testo] considerevolmente più antico» (ASTUTI 1984 [1939]: 1566). Non mancano, comunque, argomenti che si potrebbero contrapporre a queste posizioni. L’idea che «la traduzione dal latino [sia] stata condotta in modo molto affrettato, da persona che forse non aveva troppa dimestichezza con la lingua, la quale, comunque, ha trascurato di rileggere la traduzione e di collazionarla con il testo originale», avanzata da ARTIZZU (1979: 21), potrebbe porsi in conflitto con quanto si legge in apertura e in conclusione del Breve vero e proprio, cioè che il testo sia stato «co(m)posto, facto et ordinato a mandare a correggere a Pisa» (cc. 4v,2-3, e si veda anche la c. 28v): di fronte all’invio a Pisa di un testo in volgare che si poteva facilmente mettere a confronto con il suo modello latino, è lecito supporre che i giurisperiti chiamati a revisionare il Breve difficilmente si sarebbero arrestati alla correzione e all’emendamento del mero livello contenutistico, ma, verosimilmente, sarebbero potuti intervenire anche a limarne le asperità sintattiche, con il preciso obiettivo, non certo trascurabile, di salvaguardarne la chiarezza espositiva, condizione necessaria in un testo di legge. D’altra parte, il giudizio di Artizzu sulla mancanza di dimestichezza con la lingua da parte del presunto volgarizzatore del Breve appare oggi troppo rigido, soprattutto alla luce dei notevoli cambiamenti di prospettiva che hanno investito gli studi linguistici sulla produzione delle origini. Di recente, è stata infatti evidenziata, da più parti25, la necessità di ridefinire, da un punto di vista teorico, la visione della costruzione dell’architettura testuale medievale, che si presenta decisamente fluida e meno attenta alla razionalizzazione geometrica propria della testualità moderna, essendo ancora, tra Due e Trecento, aperta a costrutti intermedi tra coordinazione e subordinazione, come la paraipotassi, e tollerante verso fenomeni oggi ritenuti marcati in diastratia e in diafasia, come le concordanze a senso o le focalizzazioni (MARRA 2003). Inoltre, la citazione di un riferimento in latino al Breve Portus Kallaretani contenuto nel Breve curiae maris pisano non rappresenta di per sé una prova dirimente dell’esistenza di una primigenia redazione in latino dell’intero statuto: anche il manoscritto 322 che ci tramanda il Breve Portus Kallaretani si apre con un titolo in latino, ma, al di sotto di un’etichetta convenzionalmente redatta nella lingua di massimo prestigio per la scienza giuridica, si cela una redazione in volgare. Più determinante, invece, per comprendere la storia redazionale del Breve, è quanto si legge a chiusura della sezione del manoscritto dedicata ai sensali (cc. 17r-25r, capitoli 39-57): «Et iuro alle s(an)c(t)e Dio vaela questo mio Bre|ve appo me se(m)pre tenere e avere se(m)pre vo|lgarisato e quello mostrare e mostrare | fare a ciascheduno dimandante e volente q(ue)|llo vedere» (cc. 24v,21-25). L’impiego del verbo volgarisare, adoperato 24 ASTUTI (1984 [1939]: 1566). Nel testo del Breve curiae maris, si legge: «secundum formam Brevis comunis Castelli Castri, et consulum portus Kallaretani» (BONAINI 1857: 383, § XLIV). 25 Per fare un solo esempio, tra i molti possibili, si vedano DARDANO and FRENGUELLI (2004). Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https://rhesis.it/ Linguistics and Philology, 8.1: 77-110, 2017 83 qui nel senso specifico di ‘tradurre in lingua volgare’ (cfr. TLIO, s.v. volgarizzare), non lascia adito a dubbi: i sensali erano tenuti a portare sempre con sé il Breve nella sua redazione in volgare, in modo da poterne mostrare il contenuto a chiunque ne facesse richiesta. Non solo: poco sotto il testo specifica che i sensali, durante l’ufficio del sensalatico, erano tenuti a dare pubblica lettura del Breve ogni tre mesi, pena una sanzione pecuniaria e la sospensione immediata dall’incarico26. Resta da capire a quale Breve si faccia qui riferimento: se, cioè, le disposizioni dedicate ai sensali costituissero l’oggetto di uno statuto autonomo e a se stante oppure se fossero da considerarsi parte integrante del cosiddetto Breve Portus Kallaretani. Andrà comunque notato che ad apertura della sezione incentrata sul sensalatico (cap. 39) non si specifica se il testo sia stato sottoposto al vaglio dell’autorità pisana competente. È, insomma, se non sicuro, perlomeno altamente probabile che il nostro Breve abbia partecipato alla grande operazione di messa in volgare degli statuti latini che caratterizza il Trecento, secolo aureo per i volgarizzamenti di testi giuridici nel frammentato contesto italiano (LUBELLO 2017: 71-77; cfr. FROSINI et al. 2014). 3. La morfologia verbale nel Breve Portus Kallaretani In ragione dell’evidente interesse storico che riveste nella storia delle relazioni tra l’Isola e Pisa, il Breve Portus Kallaretani ha attirato l’attenzione di insigni studiosi, che, nel corso del tempo, ne hanno pubblicato diverse edizioni a stampa: per citare solo alcune di quelle più recenti, si ricorderanno le edizioni di PARDESSUS (1839, t. V: 267-315), TOLA (1861, vol. I.2: 644-659), BONAINI (1870, vol. II: 1083-1131) e ARTIZZU (1979)27. L’alto numero di edizioni a nostra disposizione potrebbe indurre a ritenere non strettamente necessaria una nuova trascrizione del testo e un nuovo studio critico. A ben guardare, però, anche l’edizione più recente e affidabile, apparsa per le cure di Francesco Artizzu, uno dei massimi specialisti dei rapporti tra Pisa e la Sardegna nel Medioevo, presenta il limite di essere stata concepita con un obiettivo eminentemente storico: è infatti priva di un’analisi linguistica e di un glossario approfondito, e il testo viene fornito in una veste grafica spesso ammodernata, obliterando così alcuni fenomeni linguistici. Per rispondere, dunque, alla necessità di disporre di un testo che soddisfi più compiutamente le esigenze di filologi, linguisti e storici della lingua (che possono trovare in questo antico documento non solo un’interessante testimonianza del pisano trecentesco, ma anche uno squarcio sul lessico tecnico delle attività marinare e mercantili medievali), chi scrive sta attualmente lavorando a una nuova edizione critica del ms. ASP, Archivio Roncioni, 322, che ci si augura possa vedere la luce entro il prossimo anno. L’obiettivo del presente contributo è dunque quello di fornire un’anticipazione dello studio linguistico che sarà posto ad accompagnamento della nuova edizione critica (che sarà corredata anche di un’introduzione e di un glossario); di questo studio si decide, per ovvie ragioni di spazio, di selezionare solo una parte, quella dedicata, come dichiarato appunto nel titolo, alla morfologia verbale. L’analisi prenderà in considerazione l’intero manoscritto 322 (escluse le sezioni in latino): si farà riferimento alla versione del testo 26 «E quello mio Breve legerò e legge|re farò e alle genti lo dirò chetamente e pacef|ficame(n)te ciascheduni .iij. mesi di tucto lo te(m)po | del mio officio. E se questo no(n) farò e non obser|verò, possa e debbia dalli consuli essere puni|to e condanato in s(oldi) .xl. d(ena)r(i) pisani e nondisme(n)o | essere dal dicto officio cacciato. || » 24v,25-27 e 25r,1-4. 27 Qualche passo e una breve analisi linguistica del Breve Portus Kallaretani si possono leggere anche in LOI CORVETTO and NESI (1993: 117-121). Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https://rhesis.it/ Linguistics and Philology, 8.1: 77-110, 2017 84 che è stata messa a punto in vista dell’edizione critica, citando i passi attraverso l’indicazione della carta, seguita dal numero del rigo. 3.1. Indicativo presente 1a persona singolare: in -are: iuro 17r,6; 18r,1; 18r,24; 18v,11; 18v,25; 19r,8; 19v,2; 19v,21; 20r,6; 20v,1; 20v,13; 21r,7; 21r,18; 21v,13; 22r,8; 22v,2; 24v,7; 24v,21; procuro 22r,24; in -ere: oe 6v,1; 16r,23; 21v,18; debbo 24r,24; posso(lo) 22r,21; 3a persona singolare: in -are: compera 27v,24; fa 10r,8; 26r,1; monta 31v,16; recha 33r,19; rifiuta 10v,16-17; in -ere: ae 33r,11; congnosce 29v,12; 29v,16; contiene 7r,21; 14r,27; 19v,10; 28r,23; piace 27r,24; 29v,23; 30r,19; vende 33v,9; vuole 22r,22; in -ire: dice 32r,13; viene 30r,18; 1a persona plurale: in -are: iuriamo 5r,4-5; 5v,4; 5v,11; 6v,23; 6v,27; 8r,3; 8v,18; 8v,24; 9r,4; 9v,14; 9v,22; 10r,12; 10r,22; 11r,5; 11r,21; 11v,2; 11v,15; 12r,5; 12r,25; 13r,8; 13v,12; 13v,21; 14v,5; 14v,12; 14v,20; 15r,1; 15r,8; 15r,18; 15v,7; 25r,19; 26v,10; 26v,21; ordiniamo 15v,15; 25r,7; 27v,21; 29v,5; 29v,9; 29v,26; 32v,16; 33r,20; in -ere: cadiamo 12r,17; 14r,12; perdiamo 10r,19; 11v,10; tegnamo 26v,23; in -ire: statuimo 29v,5; 3a persona plurale: in -are: bisongnano 30v,26; comprano 28r,7; dimorano 29v,4; mesurano 23v,2; nauleggiano 33r,2 accanto a naulegiano 25v,20; ordinono 30v,24; portano 9r,27; usano 29v,33; in -ere: ànno 5r,15 (ma anche àno 19r,27; 33v,1); deno 12v,7; 13r,16 ma anche devono 29v,5-6; riceveno 33r,19; tegnono 9r,22. In merito alla 3a persona singolare dell’indicativo presente, si osserva una terminazione in -a per i verbi della 1a classe e in -e per tutti gli altri. Per via della sua derivazione da FACĔRE, gode di uno statuto particolare la 3a persona singolare del verbo ‘fare’, fa, che deriva da FACIT con apocope della sillaba finale, e che si decide in questa sede di far rientrare tra i verbi irregolari della I coniugazione. Alla 1a persona plurale28, si osserva l’uso della terminazione in -iamo per i verbi della I coniugazione, in -iamo per i verbi della II, in -imo per l’unica attestazione di un verbo della III. Non è presente nessuna attestazione della desinenza in -emo, che pure è attestata nello stesso periodo in altri testi pisani29. Per i verbi della II coniugazione, sembra fare eccezione la terminazione di tegnamo30: la desinenza in -amo potrebbe essere imputabile a una scelta del copista del manoscritto, che potrebbe aver percepito la i, in presenza di un digramma che indica nasale palatale, 28 CASTELLANI (1963-1964: 83). CASTELLANI (1980 [1965]: 36); DARDANO (1992 [1967]: 71). 30 La forma tegnamo si legge, per fare qualche esempio di ambito pisano, anche nel volgarizzamento pisano della Storia di Barlaam e Iosafas (FROSINI 2001) e in Domenico Cavalca (DELCORNO 1992). 29 Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https://rhesis.it/ Linguistics and Philology, 8.1: 77-110, 2017 85 come meramente diacritica e dunque non graficamente necessaria31. Similmente, in un altro testo di impianto morfologico sostanzialmente pisano come il Breve di Villa di Chiesa, osserviamo l’oscillazione tra pognamo (30v.26, 121r.6) e pogniamo (90v.18)32. Si osserva, inoltre, in tegnamo il passaggio alla palatale, con una modificazione del tema attribuibile, con buona probabilità, «all’incontro della nasale del tema con la vocale palatale della desinenza» (BOCCHI 2006: 199). Per quanto riguarda la 3a persona plurale del presente indicativo, nel caso di verbi della 1a classe si osserva il tipo con desinenza in ˊ̵ ano (con l’eccezione di ordinono 30v,24). In pisano (e anche in lucchese) i verbi di 2a, 3a e 4a classe presentano invece un’oscillazione alla 3a persona plurale del presente indicativo tra i tre tipi ˊ̵ eno (che corrisponde alla 3a persona singolare + -no), ˊ̵ano (analogico sulla desinenza di 1a classe) e ˊ̵ono (originario)33. Nel nostro testo, si registrano sia le forme etimologiche in -ono, come tegnono 9r,22, devono 29v,5-6, che le forme in -eno, quali deno 12v,7; 13r,16 e riceveno 33r,19. In merito alle forme bisillabiche della 3a persona plurale, andrà inoltre rilevata l’oscillazione tra n scempia e doppia nella 3a persona plurale del presente indicativo (che nel pisano antico si ritrova nei presenti di verbi tra cui ‘avere’, ‘dare’, ‘fare’, ‘stare’, ‘andare’) del verbo avere: nel nostro testo si legge ànno 5r,15 ma anche àno 19r,27; 33v,1. La tendenza al rafforzamento della nasale pare essere una tendenza tipica del Trecento34. Sono attestate, invece, unicamente nella forma scempia: sono 9r,25; 14v,2; 15v,18; 17r,8; 24r,25; 27r,16; 27r,19-20; 29v,18; 29v,19; 29v,21; 30r,1; 30v,1 (e mai sonno); deno 12v,7; 13r,16 (e mai denno) per il verbo ‘dovere’. Tale opposizione scempia/doppia dipende dall’eventuale potere rafforzativo della 3a persona singolare da cui la 3a persona plurale si origina35. Per quanto riguarda il verbo ‘essere’, alla 3a persona singolare è attestata esclusivamente la forma è (15 occorrenze); non compaiono, invece, altre forme quali est o este, attestate in altri testi medievali di area pisana36. Il verbo ‘avere’ si presenta alla 1a e alla 3a persona singolare esclusivamente nelle forme oe (mai o oppure abbo) e ae (mai a e neanche ave). Interessante l’oscillazione che colpisce l’indicativo presente del verbo ‘dovere’. Si noterà la forma labiale della 1a persona singolare dell’indicativo presente in debbo 24r,24, contro la forma con labiodentale della 3a persona plurale dell’indicativo presente devono 29v,5-6. A questa oscillazione si aggiunge la forma della 3a persona plurale dell’indicativo presente deno (12v,7; 13r,16), costituita dalla terza persona singolare apocopata + no37. 31 Di contro, nel volgarizzamento pisano del Liber peregrinationis di Riccoldo da Monte di Croce, per esempio, si osserva la forma pongniamo in cui viene inserita una i che l’editore ritiene non sia da considerarsi meramente diacritica (BOCCHI 2017: 96). 32 RAVANI (2011a). 33 CASTELLANI (2000: 321-322); FRANCESCHINI (1985: 30-33); BOCCHI (2017: 157). 34 CASTELLANI (2000: 322-323). 35 CASTELLANI (2000: 322-323); SESSA (1980: 127-128); BOCCHI (2006: 197); BOCCHI (2017: 158). 36 Per es., CRESPO (1972: 61); DARDANO (1992 [1967]: 73-74) 37 SESSA (1980: 126-128); CASTELLANI (2000: 321-322); BOCCHI (2006: 197); BOCCHI (2017: 157). Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https://rhesis.it/ Linguistics and Philology, 8.1: 77-110, 2017 86 3.2. Futuro 1a persona singolare: in -are: andrò 18r,27; 20r,6-7; 20v,1-2; cacerò 8r,23; casserò 19v,26; cesserò 18v,2; condannerò 15r,11; darabbo 31v,4; 31v,9; farò 6r,23; 7r,13; 8r,26; 13r,1; 13v,16; 17r,8; 17v,24; 18v,4; 18v,13-14; 18v,14; 18v,15; 19r,2; 19r,8; 19r,11; 19v,7; 19v,8; 19v,13; 19v,24 (2 volte); 20r,1; 20r,7; 20r,14; 20v,5; 20v,17; 20v,2021; 21r,13; 21v,1; 21v,2; 21v,6; 21v,8; 22r,3; 22r,20; 22r,25; 24v,10; 24v,16; 24v,26; 25r,1; 32r,2 (faroe 31v,4); guarderò 32r,17; impacerò 21r,26; iurerò 18r,67; laserò 19v,8; mandrò 20r,7; manifesterò 17v,3; 17v,17; 17v,23; 21v,19; 22r,3; 22r,17; menerò 20v,18; mercatrò 18v,13; oserverò 21v,1 (osserveroe 32v,3; observerò 25r,1-2); pagherò 21r,25; piglierò 19v,7; portrò 17r,9; 21r,11; procurerò 22r,19; recherò 24v,10 (recrò 15v,1-2); rinonserò 21v,24; salverò 32r,17; tracterò 17r,8; 19v,27; troverò 8r,22; 32r,5; in -ere: arò 17r,19; 18r,7; 18r,8; 24v,13 (aroe 31v,5); cognoscerò 5v,17; 14v,22; 17r,26; 21v,20; 21v,23 (cognosgerò 19v,10-11); costringerò 31v,21; esercerò 21v,7; gerrò 17r,8; imporrò 13v,13; intromecterò 21v,6; legerò 24v,25; manterroe 32r,17; 32v,3; potrò 5v,18; 10r,25; riceverò 5v,15; 18r,2; 18v,26 (ricevrò 20v,16; receverò 19r,9); saprò 17v,10; 17v,16; 17v,22; 21v,14; 22r,13; 22r,18 (saperò 32r,8); sosterrò 8r,24; terrò 13v,14; 19v,27; 22r,2; 24v,13; tollerò 19v,7; 32r,7 (toglerò 6r,26; ttoglierò 15r,11-12); vedrò 20v,5; 21v,13-14; in -ire: amonirò 8r,26; dirò 17r,25; 17v,2; 17v,17; 17v,23; 21v,19; 22r,17; 22r,18; 24v,26; difinirò 14v,22 (definirò 5v,15); finirò 17v,9; verroe 32r,18; 3a persona singolare: in -are: bisognerà 8v,6; conterà 11v,27; denegheràe 31v,19; dimandrà 11v,22; 11v,24-25; 27r,25; farà 6v,23; 9v,14; 10r,5; 18r,12; 20v,15; 24r,22; laserà 18r,16; richiamerà 5v,20; 5v,22; 6v,3; rinunserà 13r,26-27; 15r,2-3; signoregerà 5r,21; starà 7r,13; troverà 11r,25 (troverrae 33r,22); in -ere: arà 10r,3; 11r,24; 14v,15; 21r,2 (arrà 13r,25; arae 5r,16); imporrà 20v,27; parrà 5v,17; 6v,20; 7r,3; 8r,12; 11v,25; 16v,13-14; 26r,14; 26v,13; 27r,26; 27v,14; 28r,11; 28r,16 (parrae 31v,23); perdrà 6r,17; 6r,19-20; piacerà 12r,12; 13,2; 15v,34; 16v,8; 16v,10; 24r,24; potrà 14r,12; procedrà 10r,8; rimarrà 6v,2-3 (rimarà 6r,21); vendrà 21r,8 (vendrae 33r,21); vorrà 5v,26; 10r,23 (vorà 5v,21); in -ire: converrà 12r,10; dirà 8r,11; 11v,22; 15r,9; punirà 18r,17; scirà 7r,12-13; verrà 13r,10-11; 13r,15; 1a persona plurale: in -are: acatremo 14r,17; alogheremo 26v,12-13; andremo 12r,10; cercheremo 15v,7; chiameremo 7r,1; 7r,20; 8r,3-4; 9v,20; 11r,6; 11r,21; comandremo 9r,20; 10v,17-18; 11r,9; 25r,21; 25v,26 (comanderemo 7r,15); conpieremo 13v,24; consentiremo 10r,12-13; dremo 13v,14; 14r,27; dimandremo 9v,24; 11v,19-20; distorneremo 5r,19-20; domanderemo 7r,16-17; faremo 6r,20-21; 6v,2; 7r,1; 7r,17; 7r,20; 7r,22; 8v,25; 9r,8; 9r,10; 9v,26; 10r,19; 10v,7; 11v,10; 11v,18; 11v,21; 11v,26; 11v,27-12r,1; 12r,1; 12r,17; 12r,26; 12v,23; 13r,8; 13r,27; 13v,23-24; 14r,9; 15r,3; 15r,14; 15v,4; 25r,22; fiacheremo 9v,10; guarderemo 5r,8; 26v,11; investrigremo 15v,7-8; laseremo 8v,19 (lasseremo 9v,19); mandremo 10r,26-27; manifesteremo 5r,22-23; opereremo 5r,23 (operremo 15v,10); oserveremo 7r,19 (osserveremo 12r,1; observeremo 9r,10-11; 14r,7; 15v,4); pagheremo 14r,8-9; 15r,3; salveremo 5r,7; serveremo 27r,20; studieremo 5r,23; 9r,4; 15v,11; 17r,12; tracteremo 5v,6; troveremo 9v,8; 15r,18-19; 28r,4; in -ere: aremo 6r,27-6v,1; 6v,27-28; 11v,24; difenderemo 10r,18 (difendremo 5r,78); manterremo 26v,27; possedremo 26v,12; potremo 5r,20; 5r,22; 5v,6; 6r,3; 8v,27; Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https://rhesis.it/ Linguistics and Philology, 8.1: 77-110, 2017 87 proporemo 12r,12; renderemo 6v,25 (rendremo 6r,20); rrichiereremo 9v,25; rimoveremo 7r,19; sapremo 5r,17; 15r,18; terremo 26v,11; 26v,26-27; tolleremo 6r,18; 9v,11; 11v,9; 12r,26; 14r,5 (togleremo 10v,1-2; torremo 12r,20); in -ire: diremo 10r,12; 12r,11; 3a persona plurale: in -are: andranno 7r,8-9; 21r,21; 26r,14; caricaranno 25v,20; cercherano 32r,3; comandranno 27v,9; comperanno 15v,17; 15v,21; domandrano 31v,6; faranno 8r,9; 21r,20; 24v,8; habitranno 5r,10; 5r,13; laseranno 18v,21; naulegerano 25r,26 (nauleggerano 32v,17); osserverano 18v,19; stimeranno 11r,14; tagleranno 10v,10; trateranno 8r,9; in -ere: aranno 5r,16 (arano 30r,11); cognosceranno 7r,18; imporrano 14r,10; prometterano 32v,17; provedranno 19r,20; rendranno 10v,11; sapranno 7r,18; 11r,11-12; terrano 6v,21; vendranno 15v,17; 15v,21; vorranno 6r,24; 8v,4. Frequente l’alternanza tra forme di futuro in cui si osserva l’epitesi di -e e forme non epitetiche e, dunque, ossitone: aroe 31v,5 accanto ad arò 17r,19; 18r,7; 18r,8; 24v,13; arae 5r,16 accanto ad arà 10r,3; 11r,24; 14v,15; 21r,2 e arrà 13r,25; parrae 31v,23 accanto a parrà 5v,17; 6v,20; 7r,3; 8r,12; 11v,25; 16v,13-14; 26r,14; 26v,13; 27r,26; 27v,14; 28r,11; 28r,16; vendrae 33r,21 accanto a vendrà 21r,8; troverrae 33r,22 accanto a troverà 11r,25; faroe 31v,4 accanto a farò (38 ess.); osserveroe 32v,3 accanto a oserverò 21v,1 e observerò 25r,1-2. Sono attestate nella sola variante epitetica: denegherae 31v,19, manterroe 32r,17; 32v,3 e verroe 32r,18. Ben attestata è anche la sincope della vocale atona tra occlusiva e vibrante nelle voci del futuro38, che è tratto considerato tipico del toscano occidentale, dov’è più sistematico che nel fiorentino39. Numerosi sono i verbi appartenenti alla I coniugazione: acatremo 14r,17; andrò 18r,27; 20r,6-7; 20v,1-2; andremo 12r,10; andranno 7r,8-9; 21r,21; 26r,14; comandremo 9r,20; 10v,17-18; 11r,9; 25r,21; 25v,26 (accanto a comanderemo 7r,15); comandranno 27v,9; dremo 13v,14; 14r,27 (ma 1a pers. sing. darabbo 31v,4; 31v,9); dimandrà 11v,22; 11v,24-25; 27r,25; dimandremo 9v,24; 11v,19-20; domanderemo 7r,16-17 (ma 6a pers. domandrano 31v,6); habitranno 5r,10; 5r,13; investrigremo 15v,7-8; mandrò 20r,7; mandremo 10r,26-27; mercatrò 18v,13; operremo 15v,10 accanto a opereremo 5r,23; portrò 17r,9; 21r,11; recrò 15v,1-2 accanto a recherò 24v,10. La sincope è frequente anche nei verbi appartenenti alla II coniugazione: difendremo 5r,7-8 accanto a difenderemo 10r,18; perdrà 6r,17; 6r,19-20; possedremo 26v,12; potrò 5v,18; 10r,25; potrà 14r,12; potremo 5r,20; 5r,22; 5v,6; 6r,3; 8v,27; procedrà 10r,8; provedranno 19r,20; rendremo 6r,20 accanto a renderemo 6v,25; rendranno 10v,11; ricevrò 20v,16 accanto a riceverò 5v,15; 18r,2; 18v,26 e receverò 19r,9; rimarrà 6v,2-3 e rimarà 6r,21; saprò 17v,10; 17v,16; 17v,22; 21v,14; 22r,13; 22r,18 accanto a saperò 32r,8; sapremo 5r,17; 15r,18; sapranno 7r,18; 11r,11-12; terrò 13v,14; 19v,27; 22r,2; 24v,13; terremo 26v,11; 26v,26-27; terrano 6v,21; vedrò 20v,5; 21v,13-14; vorrà 5v,26; 10r,23 e vorà 5v,21; vorranno 6r,24; 8v,4; torremo 12r,20 accanto a tolleremo 6r,18; 38 La sincope della vocale atona tra occlusiva e vibrante è, nei testi pisani, largamente attestata anche nel condizionale, del quale, però, nel nostro testo, non abbiamo alcun esempio. 39 Cfr. CASTELLANI (1963-1964: 83); BALDELLI (1965: 78); TAVONI (1976: 836-839); SESSA (1979: 109111); CASTELLANI (2000: 311); BOCCHI (2006: 191); BOCCHI (2017: 130-131). Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https://rhesis.it/ Linguistics and Philology, 8.1: 77-110, 2017 88 9v,11; 11v,9; 12r,26; 14r,5 e togleremo 10v,1-2; vendrà 21r,8 e vendrae 33r,21; vendranno 15v,17; 15v,21. Nelle forme del futuro dei verbi della 1a classe -ar- intertonico diventa -er-40: bisognerà 8v,6; cacerò 8r,23; casserò 19v,26; cercheremo 15v,7; cercherano 32r,3; cesserò 18v,2; chiameremo 7r,1; 7r,20; 8r,3-4; 9v,20; 11r,6; 11r,21; comanderemo 7r,15; condannerò 15r,11; conterà 11v,27; denegheràe 31v,19; distorneremo 5r,19-20; domanderemo 7r,16-17; fiacheremo 9v,10; guarderò 32r,17; guarderemo 5r,8; 26v,11; impacerò 21r,26; iurerò 18r,6-7; laserò 19v,8; laserà 18r,16; laseremo 8v,19 e lasseremo 9v,19); laseranno 18v,21; manifesterò 17v,3; 17v,17; 17v,23; 21v,19; 22r,3; 22r,17; manifesteremo 5r,22-23; menerò 20v,18; naulegerano 25r,26 e nauleggerano 32v,17; opereremo 5r,23; oserverò 21v,1 (e osserveroe 32v,3 e observerò 25r,1-2); oserveremo 7r,19 (observeremo 9r,10-11; 14r,7; 15v,4 e osserveremo 12r,1); osserverano 18v,19; pagherò 21r,25; pagheremo 14r,8-9; 15r,3; piglierò 19v,7; procurerò 22r,19; recherò 24v,10; richiamerà 5v,20; 5v,22; 6v,3; rinonserò 21v,24; rinunserà 13r,26-27; 15r,2-3; salverò 32r,17; salveremo 5r,7; serveremo 27r,20; signoregerà 5r,21; stimeranno 11r,14; studieremo 5r,23; 9r,4; 15v,11; 17r,12; tagleranno 10v,10; tracterò 17r,8; 19v,27; tracteremo 5v,6; trateranno 8r,9; troverò 8r,22; 32r,5; troverà 11r,25 e troverrae 33r,22; troveremo 9v,8; 15r,18-19; 28r,4. Si osservi, inoltre, la 3a persona plurale del verbo ‘comperare’ comperanno 15v,17; 15v,21. Nel manoscritto, la presenza, in entrambi i casi, di un tratto orizzontale di penna a tagliare il tratto discendente della p non lascia adito a dubbi sul fatto che il copista intendesse inserire il compendio di per e che dunque la voce sia attestata nella specifica veste grafica comperanno, forma che si può peraltro confrontare con i futuri, attestati nel Breve di Villa di Chiesa, conparanno e conparranno (Ravani 2011a: 222 [c. 107v,23] e 56 [c. 28r,22]). La vocale a del gruppo -ar- risulta essere conservata in un solo esempio: caricaranno 25v,20. Nelle forme del futuro dei verbi in -ire, figurano esclusivamente esempi in -ir-, mai in -er-41: amonirò 8r,26; consentiremo 10r,12-13; difinirò 14v,22 e definirò 5v,15; finirò 17v,9; punirà 18r,17; scirà 7r,12-13. Alla prima persona singolare si registrano due soli casi di impiego di -abbo, forma piena di ‘avere’, come desinenza42: darabbo 31v,4; 31v,9. Alla 3a persona plurale prevale il tipo -anno (17 forme) sul tipo -ano (8 forme). Di seguito si elencano gli esempi con -nn- (26 occorrenze): andranno 7r,8-9; 21r,21; 26r,14; aranno 5r,16; caricaranno 25v,20; comandranno 27v,9; comperanno 15v,17; 15v,21; cognosceranno 7r,18; faranno 8r,9; 21r,20; 24v,8; habitranno 5r,10; 5r,13; laseranno 18v,21; provedranno 19r,20; rendranno 10v,11; sapranno 7r,18; 11r,11-12; stimeranno 11r,14; tagleranno 10v,10; trateranno 8r,9; vendranno 15v,17; 15v,21; vorranno 6r,24; 8v,4. 40 SESSA (1979: 107-108). SESSA (1980: 130). Si noti però che, nel caso del futuro (e del condizionale) dei verbi in -ire, la maggior parte dei testi pisani predilige il tipo –erò (CASTELLANI 1980 [1965]: 322). Castellani rileva che si ha sempre -ir- nel Breve del Porto di Cagliari e nel Breve del popolo e delle compagne del Comune di Pisa (1980 [1965]: 322). 42 SESSA (1980: 128-131); CASTELLANI (2000: 329-331); BIASCI (2013: 99-101); BOCCHI (2017: 160). 41 Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https://rhesis.it/ Linguistics and Philology, 8.1: 77-110, 2017 89 Meno numerosi gli esempi di futuri alla 3a persona plurale in -ano (9 occorrenze): arano 30r,11; cercherano 32r,3; domandrano 31v,6; imporrano 14r,10; naulegerano 25r,26 (anche nauleggerano 32v,17); osserverano 18v,19; prometterano 32v,17; terrano 6v,21. Tipicamente pisana è l’alternanza tra diverse forme del futuro del verbo ‘essere’. Accanto alle forme di 3a persona singolare serà 5v,16; 11v,3; 11v,3-4; 14r,6; 14v,21; 14v,24; 17v,18; 18r,26; 20r,22; 20v,19; 29v,10 e di 3a persona plurale seranno 6r,24; 8r,5; 9v,16; 17v,21 (anche sserano 11r,12; serano 15v,9; 29v,21; 29v,22), si osservano anche le forme di 1a persona singolare sarò 17r,21; 17v,14; 18r,3; 18r,7; 18r,9; 18v,13; 19r,1, di 3a persona singolare sarà 14v,5; 31v,18; 31v,19, di 1a persona plurale saremo 5r,11; 12r,6 e di 3a persona plurale sarano 17v,18; 31v,15; 31v,16. Queste ultime (sarò, sarà, saremo, sarano) sembrano esemplate sulle forme del futuro darò, farò e starò e compaiono nella Toscana occidentale verso la fine del XIII secolo43. La sovrapposizione tra futuri con vocale in -e- e in -a- non è l’unica oscillazione che si rileva analizzando il futuro del verbo ‘essere’. Altro tratto tipicamente pisano (e lucchese) è l’espressione del futuro del verbo ‘essere’ alla 3a persona singolare con la forma fi ‘sarà’ (2r,27; 2v,3; 5v,15; 9v,11; 12r,16; 13v,20; 14v,11; 17r,22; 17v,11; 18v,1; 19v,17; 20v,5; 21r,23; 21r,26; 31v,14; 32v,6; 33v,6), impiegata accanto a fie (5v,23), e alla 3a persona plurale con la forma fino ‘saranno’ (5v,8; 6v,17; 7v,18; 8v,1; 17v,22; 33v,6) e finno (9r,7; 25v,25)44. La forma fi (< fie) mostra l’apocope di e ed è considerata da Castellani uno dei caratteri tipici del pisano e del lucchese antichi; fie deriva infatti «da FIET, oppure, attraverso fia, da FIAT (in lat. volg. presumibilmente anche futuro in luogo di FIET)» (CASTELLANI 2000: 311); la 3a persona plurale finno è costruita a partire dalla terza singolare fi; e così da fie, alla 3a persona plurale, si hanno, nel nostro testo, anche fienno 9r,22; 21v,25 e fieno 21v,18. Per il verbo ‘avere’, si osserva la riduzione alla seconda componente -r- del gruppo consonantico secondario -vr-, ottenuto per spirantizzazione di -B- latina e sincope vocalica45, come in arò, arà, aremo, aranno: rappresenta un tratto caratteristico dei dialetti toscani occidentali fin dall’epoca più antica (e da qui è penetrato poi nel fiorentino tra Trecento e Quattrocento46). Si rileva, inoltre, la presenza di un caso di futuro analitico, ottenuto cioè a partire dalla perifrasi futurale esemplata sullo schema futuro di ‘avere’ + infinito: e al salvame(n)to del venditore e | co(m)peratore studieremo d’acrescere e megliorare | tucte merce le quali alcuna alcuno pisa(n)o | cittadino e del su’ distrecto vendesse u co(m)peras||se u, me non sapiente, di co(m)p(er)are o di ven|dere vollesse a utilità e proficto e acresci|mento di tucti li pisani cittadini e borghesi del dicto Castello e nigossante del pisano di|strecto. Et me lealemente e puramente arò || in tucti mercati fare e co(m)piere [ = farò e compierò] a ssalvame(n)to d(e)l|le parti p(er) le quali a ffare sarò. E che veritade, la | quale dal co(m)peratore e venditore a me data fi | sopra lo facto o vero quantità del pre|gio del mercato, a lloro e a ci[a]scheduno di loro || sansa fraude dirò. (17r,11-25) 43 Cfr. CRESPO (1972: 62); SESSA (1980: 130-131); BIASCI (2013: 99-100); BALDELLI (1965: 80); CRESPO (1972: 307); SESSA (1980: 134); BOCCHI (2006: 200); BIASCI (2013: 100); BOCCHI (2017: 160). 45 BIASCI (2013: 100-101). 46 MANNI (1979: 141). 44 Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https://rhesis.it/ Linguistics and Philology, 8.1: 77-110, 2017 90 Come si vede, il futuro analitico è inserito in un contesto in cui figurano anche altri futuri (che sono stati sottolineati). Nell’esempio appena citato, la perifrasi sembra possedere il senso di ‘dovere’47. 3.3. Perfetto 1a persona singolare: diedi 22r,8; fei 19v,25; 22r,9; promisi 22r,9; 3a persona singolare: diede 20v,20; 3a persona plurale: ebbeno 5r,15-16. Il perfetto dell’indicativo è un tempo scarsamente rappresentato nel nostro testo, data la tipologia testuale di appartenenza. Per la 1a persona singolare, sono attestati i perfetti del verbo ‘dare’, ‘fare’, ‘promettere’: diedi 22r,8; fei (sulla 3a apocopata fé48) 19v,25; 22r,9; promisi 22r,9. Le forme fei e promisi rientrano tra i perfetti forti; promisi non presenta la geminazione, che si ritrova invece in altri documenti medievali di area pisana (come in missi, con -ss- ricondotta all’influsso del participio passato messo, normale nell’antico pisano e lucchese ed entrato anche nel fiorentino della metà del Trecento49). Per la 3a persona singolare sono attestati i perfetti del verbo ‘dare’, diede 20v,20, e del verbo ‘essere’, fu 4v,2. La 3a persona plurale del perfetto, nei pochi esempi a nostra disposizione, risulta costruita sulla 3a persona singolare: così se la 3a persona singolare del perfetto del verbo ‘essere’ è fu 4v,2, la 3a persona plurale è attestata nelle varianti funno 7r,7 e funo 31v,14, con o senza geminazione50; allo stesso modo, la 3a persona plurale del verbo ‘avere’ è ebbeno 5r,15-16. Non è presente alcun esempio della formazione dei perfetti deboli di 2a e 3a classe, tipica del pisano, con le desinenze -etti e -ette, e in quelli di 4a con -itti e -itte (CASTELLANI 2000: 325). 3.4. Congiuntivo presente51 1a persona: in -ere: debbia 18v,8; 18v,27; 19r,3; 19v,7; 20r,1; 20r,15; 21v,8; 22r,4; 22r,20 accanto a debia 19r,10-11; 19r,11-12; possa 18v,3; 18v,8; 18v,8; 18v,27; 19r,3; 19r,11; 20r,1; 20r,15; 21v,8; 22r,4; 24v,12; 24v,15; 25r,2; 47 Sul futuro analitico, cfr. PIERI (1890-1892: 178); BALDELLI (1965: 81); SESSA (1980: 129 E 153-154); DARDANO (1992 [1967]: 62, N. 43). 48 CASTELLANI (2000: 333). 49 MANNI (1979: 139-141). 50 CASTELLANI (2000: 326). 51 Per il congiuntivo presente, si vedano LIMENTANI (1962: LVIII); CASTELLANI (1963-1964: 84); SESSA (1980: 131-132); CASTELLANI (2000: 331); BOCCHI (2006: 198); BOCCHI (2017: 163-164). Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https://rhesis.it/ Linguistics and Philology, 8.1: 77-110, 2017 91 3a persona: in -are: alloghi(si) 26v,16; aproprii 8v,20; asengni 9r,15; cerchi 20v,27; chiami 7v,17; cominci 16r,18; duri 31r,14; 33v,20; faccia 8r,22; 11v,5; 19r,2; 22r,16; 26r,5; 26r,16; 29v,15 (e anche facia 29v,13; 30r,20 e faccia(si) 27v,15); habiti 26r,19; menimi 5v,1; monti 6r,16; paghi 10v,13; 33r,14; 33r,16; presti 19r,1-2; sodisfaccia 12v,2; suoni 26r,23-24; tracti 11v,5; vachi 19r,10; vasti (cong. del verbo ‘vastare’) 5v,21; 18r,10; in -ere: abbia 7v,1; 18r,10; 24r,23; 26v,25; 27r,12; 29v,28; 30r,18; 31r,15; 33v,20; acresca(si) 5v,1; appaia 5v,22; 6r,5 (apaia 27v,12); caggia (cong. di ‘cadere’) 18r,17; 19v,12; consenta 26r,5-6; contegna 8r,8; debbia 6r,8; 6v,25; 7r,26; 7v,10; 7v,1-2; 7v,14; 7v,24; 7v,25; 8v,5; 8v,13; 8v,16; 13r,21; 13v,3; 14r,18; 14v,7; 16v,3; 16v,12; 17v,23; 24v,12-13; 24v,15; 25r,2; 25r,13; 25v,2; 26r,21; 26v,2; 27r,7; 27v,1; 27v,21; 27v,27; 28r,1; 29v,10-11; 29v,24; 30r,8; 31r,14; 33r,4; 33r,6; 33r,21 (e anche debia 7r,24; 20r,23; 27r,5; 27r,6; debba 29v,8); dica 8v,15; 12r,15; 22r,21; discerna 25r,10; intenda 6v,4; 8v,15; 10r,2-3; 10v,25; 19r,27; 22v,7; 25v,7; 26v,5; 26v,14; 28r,7; 30r,22; 33r,9 (intenda(si) 10v,22; 11r,2; 15v,24; 16v,14); lega (cong. del verbo ‘leggere’) 29v,23; pogna 10r,14 (pongna(la) 30r,19); possa 5v,20; 7r,24; 7r,26; 7v,20; 7v,24; 8v,7; 10v,3; 13v,2-3; 13v,4; 13v,26; 14v,7; 16r,15; 16v,16-17; 16v,19; 20r,19; 20r,23; 21r,1; 25v,8; 26v,2; 26v,15; 28r,24; 29v,24; 29v,26; 29v,32; 31r,13; 31r,14; 33r,4; 33r,6; 33r,10; 33r,11; 33r,23; 33r,27; 33v,11 (ma anche posa 6v,12); propona 29v,17; riceva 27v,16; tegna 19r,25; 27v,18 (tegna(si) 5v,1); vaglia 19r,24-25; venda 33r,22; 1a persona plurale: abbiamo 15v,24 (abiamo 11v,21)52; 3a persona plurale: in -are: chiamino 31r,11; 33r,20; fermino 25v,1-2; iurino 14r,26; oservino 19r,21; seguitino 27r,23; trattino 7r,3; in -ere: abbiano 7r,3; 11r,15; 17v,2; 30r,24; caggiano 18v,19; cogliano (cong. di ‘cogliere’) 9r,23; comettano 8r,11-12; debbiano 8r,16 (2 volte); 8r,27; 9r,1; 9v,1; 10r,1; 10v,18-19; 10v,20-21; 10v,27; 11r,7; 11r,10; 11r,22-23; 12v,16-17; 15v,19; 15v,22; 16r,20; 16v,1; 17v,1; 17v,25; 18r,12-13; 18v,5; 19v,14; 20v,21; 25r,14; 25v,21-22; 26r,1; 27v,23; 28r,2; 28r,14; 30r,29; 30v,17; 30v,25; 31r,2; 32r,12; 32v,18; 33v,1; 33v,7, accanto a debiano 6v,8; 7r,17; 8v,2; 9r,13; 16v,10; 18v,16; 19r,15; 21r,14; 24v,17; 25v,6; 25v,16-17; 27r,17 e debbian(si) 19r,16; facciano 9r,23; 12v,5; 33v,8; intendano 33r,1 accanto a intendano(si) 30v,13; mectano 25v,1; perdano 5r,14; possano 7v,27-8r,1; 8r,6-7; 11r,16; 17v,25; 18r,12; 18v,5; 18v,16; 19r,15; 19v,14; 20v,6; 20v,21; 21r,13-14; 24v,17; 25v,6; 25v,21; 31r,10; 33v,3 (ma anche posano 25r,14); solgnano (cong. di ‘solere’) 32v,14; tegnano 16v,18; valglano (cong. di ‘valere’) 30v,20 accanto a valgnano 30v,15); in -ire: dicano 29v,19; vegnano 15v,11. Alla 3a persona singolare, tra i verbi in -are si nota l’uso costante della terminazione in i, mentre tra i verbi appartenenti a classi diverse dalla 1a, in -ere e in -ire, si nota l’uso costante, senza alcuna eccezione, di -a. 52 Anche se si tratta di forme che potrebbero essere scambiate con la 4a persona del presente indicativo, il contesto d’uso non pare lasciare adito a dubbi sul fatto che si tratti di congiuntivo presente: «e intendasi che noi ci abbiamo una | statea grossa a cantare e una di centinaio, cio|è quella del dicto Comune» 15v,2426; «E sse-l || dicto piato alcuna delle parti mi dirà u dimandrà | che noi n’abiamo consiglio di savio» 11v,21-23. Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https://rhesis.it/ Linguistics and Philology, 8.1: 77-110, 2017 92 Si consideri poi il congiuntivo presente di 3a persona singolare del verbo ‘dare’, dia 10v,13; 18v,7; 19r,2; 20v,9; 30v,10, in cui si osserva il passaggio, tipico delle varietà occidentali (ma figura anche nel pistoiese53 e poi nel fiorentino argenteo54), di e tonica in iato a i55. Il congiuntivo presente del verbo ‘essere’ alla 3a persona singolare è sia (59 occorrenze + 1 di sia(ne) 29v,35) e siano alla 3a persona plurale (45 occorrenze + 1 di ssiano 7r,8). Non si registrano esempi di sie o sieno, attestati nel pisano antico, come effetto del passaggio di ia in ie56. Alla 3a persona plurale tra i verbi in -are si osserva sempre la desinenza in -ino, mentre tra i verbi appartenenti a classe diversa dalla 1a, in -ere e in -ire, si osserva sempre la desinenza in -ano57. 3.5. Congiuntivo imperfetto 3a persona singolare: in -are: accimasse 30v,18; 30v,22; adimandasse 6r,6; andasse 10r,26; asengnasse 9r,16; caricasse 16r,24; chiamasse 26v,4; comperasse 17r,14-15; desse 19v,4; 32v,21; 32v,23; dimorasse 7r,26; domandasse 6r,13; 24v,11; giocasse 16v,20; incominciasse 30r,25; lassasse 32v,21; magagnasse 28r,12-13; mancasse 12v,5; mandasse 9v,18; misurasse 8v,9; naulegiasse 24v,3 (naulegiase 12v,12); prestasse 26r,3; provasse 6r,6; recusasse 32r,10; rifiutasse 7v,25; stesse 7r,26; in -ere: avesse 2v,7; 6r,7; 9v,18; 10r,2; 10v,1; 10v,5; 15r,17; 15r,24; 15r,26; 16r,1415; 29v,13; 29v,30; 29v,31; 32v,20; cometesse 28r,13; contendesse 16v,24; dovesse 33r,13; facesse 8v,11; 8v,21; 10v,4; 10v,13; 11r,3; 11v,7-8; 12r,21; 19r,22; 20r,22; 24v,2; 25r,8; 25r,14; 26r,3; 26r,5; 26v,18; 28r,4-5; 30r,26; 31v,23; 33r,11 (faccesse 14r,5; ffacesse 28r,10; feccesse 27v,13); piacesse 26v,23-24; potesse 19v,5-6; 28r,17; 32r,18; producesse 6r,5; ricevesse 26v,4-5; rimanesse 13v,24; 25r,9; rompesse 13v,27; spendesse 13r,18; vedesse 27r,22; vendesse 17r,14; 23v,25; volesse 2r,15; 10r,21; 12r,20; 26r,12; 28r,1 (vollesse 17r,16; 33r,14); in -ire: dicesse 2v,6; 6r,1; 12r,15; 15r,7; partisse 25v,12; vennisse 30r,28; 1a persona plurale: in -are: lasciasemo 14r,13; in -ere: facessemo 12r,19; 14r,2; imponessemo 14r,3; volessemo 27r,22; 3a persona plurale: in -are: acatasseno 23v,11 (accatasseno 23v,12); comandasseno 21v,3; nauleggiasseno 30r,12; recasseno 12v,3; stimasseno 11r,16-17; in -ere: avesseno 10v,12 (aveseno 19r,21); facesseno 32r,24; imponnesseno 31v,13; tennesseno 32r,4; volesseno 6v,7; in -ire: sentiseno 26r,11; vedesseno 26r,11; 28r,11 (videssino 29v,20). 53 MANNI (2003: 54). Di contro il fiorentino, almeno fino alla metà del Trecento, conserva la e tonica in iato (SESSA 1980: 98). 54 MANNI (1979: 142-143). 55 Cfr. MANNI (2003: 41). Accade lo stesso alla 3a persona del congiuntivo presente di ‘stare’, che diventa stia, di cui però nel nostro testo non si osservano esempi (SESSA 1980: 98). 56 SESSA (1979: 99-100). 57 Cfr. CASTELLANI (1980 [1965], II: 370). Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https://rhesis.it/ Linguistics and Philology, 8.1: 77-110, 2017 93 La terminazione della 3a persona singolare è sempre -e; in altri testi medievali pisani (come nel Breve dell’arte della Lana o nella versione pisana del Bestiaire d’amours58), tale desinenza è anche la marca della 1a persona singolare, di cui però, nel nostro testo, non vi sono attestazioni. Alla 1a persona plurale è impiegata la desinenza in -emo59. Non si registra alcun esempio della desinenza -imo, attestata in altri testi pisani trecenteschi (BOCCHI 2017: 164). Alla 3a persona plurale, l’unica terminazione attestata è quella in -eno. Si hanno due soli esempi della desinenza in -ino in fossino 29v,20 contro fusseno (6 occorrenze) e fosseno (2 occorrenze), e in videssino 29v,20 contro vedesseno 26r,11; 28r,11. Non si rilevano invece esempi di altre desinenze possibili nel pisano antico, come quella in ono60 o in -ero61. Il verbo ‘essere’ presenta un’alternanza tra le vocali u ed o alla 3a persona singolare e plurale: 3a persona singolare fusse (33 occorrenze) contro fosse (13 occorrenze); 3a persona plurale fusseno (6 occorrenze) contro fosseno (2 occorrenze). Alla 3a persona plurale si ricorderà, inoltre, la già rilevata forma fossino 29v,20. 3.6. Infinito in -are: accattare 30v,25; accimare 30v,12; accusare 15r,14 (acusare 28r,19-20); allogare 26v,15; andare 2r,21; 10r,7; 12r,4; 12r,7; 12r,14; 16r,8; 16r,19; 25r,26; 25v,9; 25v,20; 28r,18; 33v,7; appellare 6v,12; asegnare 9r,13-14; cacciare 18r,14; 18v,18; 28r,15; calcare 23v,15; caricare 2v,10; 16r,1; 16r,15; 16r,18; 30r,25; 30v,26; 31r,1; 31r,9; 33r,2; cercare 2v,8; 9r,12-13; 9v,3; 9v,4; 11r,23; 11v,7; 15v,6; 16r,9; 16r,21; 33v,8; cessare 32v,14; chiamare 2r,6; 2r,18; 6v,26; 7r,1; 7r,14; 7r,27; 11r,20; 19r,16; 26v,2; 27v,21-22; 32r,21 (2 volte); comandare 2r,11; 9r,18; 25r,21-22; 30r,8; comprare 18v,1 (comperare 17r,15; 33v,12); condannare 8v,10-11; 19v,1415; 20v,6-7; 20v,21-22; 21r,14; 25r,16; 28r,15 (condanare 24v,17); congregare 29v,11; dare 5v,26; 5v,27; 6r,3 (2 volte); 7r,17; 7r,22; 7v,10; 7v,20; 10v,19; 11r,18; 11r,26; 11v,17; 12v,11; 12v,17; 13r,14; 13r,16; 13v,16; 17v,23; 19r,2; 19v,5; 20v,20; 22r,9; 22r,22; 25v,18; 30v,17; 31r,2; 31r,8; 31v,4; 32v,19; 32v,22; 33r,4; 33r,6; 33r,12; 33r,13; 33r,14; dimandare 5v,20-21; 5v,24; 7r,17; 11v,7; dimorare 27r,6; distornare 5r,20; durare 16v,3; 31r,14; estimare 11r,13; fare 2r,3; 2r,5; 2r,9; 2r,16; 2r,19; 2r,20; 2r,25; 2r,27; 5r,17-18; 5v,3; 6r,11; 6v,5; 6v,22; 8r,21; 8r,26; 8v,23; 10r,9; 10v,17; 10r,23; 10v,4; 10v,6; 10v,8; 11v,1; 11v,14; 12r,1; 12r,13; 12v,11; 12v,23; 13r,7; 13v,20; 14v,2; 14v,13; 16r,3; 16r,25; 16v,17; 17r,20; 18r,16; 18r,26; 18v,14 (3 volte); 19v,7; 19v,16; 19v,24; 20r,12 (2 volte); 20r,12-13; 20r,20; 20v,3-4; 21v,15; 21v,22; 22r,19; 22r,24; 22v,3-4; 24v,15; 24v,24; 26r,2; 27v,1; 28r,2; 28r,9; 28r,24-25; 28r,27; 29v,11; 30r,8; 30r,20; 30r,22 (2 volte); 31r,10; 31v,18; 31v,19; 31v,21; 32r,12; 32r,14; 32r,21; 32v,10; 33r,12; 33v,10 (ffare 17r,21); giocare 16v,19; 26r,12; guardare 9v,27; 13r,12; 30v,11; investigare 2v,8; 58 SESSA (1980: 132); CRESPO (1972: 63). PIERI (1890-1892: 179); CASTELLANI (1963-1964: 138); DARDANO (1992 [1967]: 64); CASTELLANI (2000: 331); BOCCHI (2006: 198). 60 SESSA (1980: 132). 61 BIASCI (2013: 102-103); BOCCHI (2017: 165). 59 Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https://rhesis.it/ Linguistics and Philology, 8.1: 77-110, 2017 94 11r,23; 15v,6; 28r,9; iurare 2r,15; 2r,16; 2r,20; 2r,25; 7r,21; 10r,21; 10v,6; 10v,7; 11v,14; 11v,18; 13r,7; 13r,8; 13v,5; lassare 2r,8; 8v,17; levare 30r,29; 32v,18; 33r,10; mandare 4v,2-3; 16r,21; 20r,7; manifestare 13v,15; megliorare 17r,12; menare 25v,3; mercatantare 18v,13; misurare 8v,4; 8v,7; 9v,1; mostrare 24v,23 (2 volte) (mossare 24v,12); naulegiare 25v,6; 25v,17; 25v,21 (naulegare 20r,11); navigare 16r,12; operare 26r,15; 31v,18; ordinare 28r,20; 32v,10; 33v,8; oservare 8r,26; 8v,13; 12r,1; 25v,10-11; 27r,18; 28r,27 (osservare 6v,1; observare 14v,13); pagare 2v,5; 6v,25; 7v,20; 8r,21; 14r,9; 14v,27; 15r,3; 16v,12; 23v,12; 25v,14; 26r,25; 32v,19; 33r,25; pensare 32r,18; pesare 2v,9; 15v,14; 15v,18-19; 15v,19; 15v,22; 33r,23; 33v,2; 33v,3; 33v,12; pigliare 7v,15; 19v,8; 19v,18; 24v,15 (2 volte); portare 14r,18; 14r,23-24; 32v,17; prestare 13v,3; 19r,2; 26r,2 (2 volte); 26r,3; procurare 16v,7; rasgionare 21r,1-2; recare 24v,10 (rechare 33r,12); rifiutare 7v,24; rinunsare 11r,26; 13r,14; salvare 13r,12; 30v,11; scaricare 16r,26; sentensare 6v,15; 11r,10-11; sigurare 6r,11; 6r,22-23; 20r,11; stare 6r,24; 7v,27; 8v,16; 9r,8; 10v,19; 16v,11; 27r,5; terminare 6v,15; tirare 8r,17; trovare 2r,10; 9r,3; 9r,5; 14r,11; vacare 19r,10; in -ere (sia con vocale tematica tonica -ére sia con vocale tematica atona -ere): acrescere 17r,12; ardere 32r,14; avere 2v,3; 2v,11; 6r,1; 7r,24; 7v,1; 7v,16; 8v,27; 10v,21; 11r,15-16; 12v,6-7; 14v,11; 14v,13; 15r,23; 16v,1; 16v,5; 16v,6; 18v,8; 21r,9; 21r,11; 21v,23; 22r,13; 22r,21-22; 22v,3 (2 volte); 24r,24; 24v,22; 25r,12; 25v,3; 27v,27 (havere 32r,5); coglere 9r,23-24; combattere 26r,12-13; comectere 13r,13; compiere 17r,20; comprendere 29v,32; conoscere 2v,4 (cognoscere 14v,19); correggere 4v,3; dicere 29v,32 (ma si veda anche dire 12r,10; 16r,20; 32r,18); elegere 2v,10; 16r,1; 16r,4; 29v,6; 29v,8; esercere 20r,20 (exercere 21v,15); intendere 18r,10; intromectere 21v,4; leggere 2r,9; 24v,25-26 (legere 8r,25-26; 8v,23; 8v,25; 29v,15); mettere 16r,22; 30r,26; nascere 32v,14; oferere 7v,12-13; ponere 2r,14; 10r,11; 16r,17; prendere 7r,26; 22v,2-3; 22v,3; procedere 28r,14; 28r,18; promectere 22r,9; provedere 33r,21; rendere 2r,5; 6r,20; 6v,22; 13r,27; 13v,3-4; 25v,18; ricevere 12r,15; 17v,19; 18v,26-27; 28r,1; 33r,10; 33r,11; richierere 12r,19 (richiere 9r,1); ricogliere 14r,14 (ricolglere 31v,10); rispondere 5v,24; rompere 13v,26; 32r,14; scrivere 10r,9; 11v,21; 11v,26; 14r,25; sedere 27r,67; soctoponere 6v,7; tenere 5v,12; 6v,1; 9v,27; 12v,23; 24v,22; 26r,21; 27v,27; 30r,21; 32r,5; togliere 2r,22; 16r,26; 16v,22; 18v,5; 19v,8 (toglere 10v,27; tollere 12r,24; 12r,26; 17v,25; 18r,13; 25r,12-13; 31v,10; 31v,23; 32r,21; tolere 18v,1617); tragere 8v,5; vedere 11r,7-8; 11r,10; 16r,9; 16r,22; 24v,25; 27r,22; 27v,23; 31r,12; vendere 17r,15-16; 17v,1; 31r,13; 31r,14; 32r,6; 33r,27; 33v,11; in -ire: bandire 30r,12; 30r,18; 30r,22; 33v,10; dire 12r,10; 16r,20; 32r,18 (ma si veda anche dicere 29v,32); difinire 11r,8 (disfinire 6v,8; 6v,15); obedire 6v,1; 13r,21 (ubidire 27v,8); partire 25v,9; pervenire 9v,26; punire 19v,14; 19v,17; 25r,15; venire 12r,19; 12r,20; 13r,1; 15r,13. Si nota la presenza di un infinito apocopato: richiere 9r,1 contro richierere 12r,1962. Si registra inoltre oscillazione tra la forma piena dicere 29v,32 contro la forma sincopata dire 12r,10; 16r,20; 32r,1863. Si presentano, invece, esclusivamente nella forma piena l’infinito ponere 2r,14; 10r,11; 16r,17 e il suo derivato soctoponere 6v,7. 62 63 SESSA (1980: 133). BIASCI (2013: 104). Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https://rhesis.it/ Linguistics and Philology, 8.1: 77-110, 2017 95 In sovrapposizione allotropica sono: mostrare (24v,23) e mossare (24v,12), in cui si nota la riduzione del nesso consonantico str > ss, tratto tipico del toscano occidentale64; togliere/toglere, con radice tematica in consonante laterale palatale geminata, contro tollere/tollere, forma etimologica. Si osserva modificazione del tema in tragere 8v,5, che rappresenta una voce tipica del lessico pisano65. Allo spoglio vanno aggiunti inoltre, gli infiniti con enclisi dei pronomi: acusarli 16v,25; avervi 6v,20; 16v,13; avervelo 27r,27; darli 28r,25; 32v,23; cometervi 10v,10; fareli 15r,13; farlo 25v,10; 30r,12; farla 25v,13; 26r,25; levarlo 26r,23; pagarli 32v,23; tenervi 26v,25; toglierli 13r,23-24. 3.7. Participio presente in -are: dimandante 24v,24: «e quello mostrare e mostrare | fare a ciascheduno dimandante e volente q(ue)||llo vedere» 24v,23-25; stante 20r,10; 27v,5; «ad alcuno legno vegnente | al Porto di Bagnaia di Castello di Castro, u vero || stante in del dicto Porto» 20r,8-10; «ciascuno mercatante stante in Castello | di Castro» 27v,5-6; in -ere: sapiente 17r,15: «e al salvame(n)to del venditore e | co(m)peratore studieremo d’acrescere e megliorare | tucte merce le quali alcuna alcuno pisa(n)o | cittadino e del su’ distrecto vendesse u co(m)peras||se u, me non sapiente, di co(m)p(er)are o di ven|dere vollesse a utilità e proficto e acresci|mento di tucti li pisani cittadini e borghesi | del dicto Castello e nigossante del pisano di|strecto» 17r,11-19; vendente 17v,20: «E tucte le cose vendente dei forestieri» 17v,20; volente 24v,24: «e quello mostrare e mostrare | fare a ciascheduno dimandante e volente q(ue)||llo vedere» 24v,23-25; in -ire: vegnente 20r,8: «ad alcuno legno vegnente | al Porto di Bagnaia di Castello di Castro, u vero || stante in del dicto Porto» 20r,8-10; vengnenti 30r,9: «et ciaschaduno padroni di lengni pisani vengnenti || al Po(r)to di Bangnaia di Castello di Castro» 30r,9-10. Il participio presente dei verbi della 1a coniugazione presenta la terminazione in -ànte/-i, mentre i verbi della 2a e della 3a in -ènte/-i. Il verbo fare, risalendo a FĂCĔRE, presenta il participio presente facienti, con forma dal tema corrispondente a quello del presente congiuntivo, così come vegnente. Di contro, volente è forma senza alterazione tematica (mentre nel pisano antico è attestato anche vogliente)66. 64 CRESPO (1972: 39); SESSA (1979: 122); DARDANO (1992 [1967]: 64) CASTELLANI (2000: 304); BIASCI (2013: 115). 65 CASTELLANI (2000: 344, con numerosi esempi alla n. 181); BOCCHI (2006: 199). 66 CASTELLANI (1963-1964: 85). Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https://rhesis.it/ Linguistics and Philology, 8.1: 77-110, 2017 96 3.8. Participio passato in -ato: acusato 8r,22; 11v,3; 28r,12; accusati 11v,6; adimandato 6r,4; 17v,4; 17v,14; adomandato 17r,25-26; aministrato 11r,24; aparechiata 16r,13; aprovati 33v,14; armati 26r,6; cacciato 19r,5; 20r,4; 20r,17; 20r,24-25; 20v,25; 21r,15; 21v,10; 25r,4; 28r,22-23; 29v,35 (caciato 7v,26); casato 19r,14; cavato 6v,4; 8v,7-8; 8v,9; cessato 18r,11; chiamato 13v,4-5; 13v,5; 17r,3; 17r,6; 17r,8; 17v,16; 19r,24; 20r,22; 27r,10; chiamati 8v,2; 21v,17; 30r,3; 32v,8; condannato 18r,9; 19r,3-4; 19r,25; 20r,2; 20r,23-24; 21v,9; 22r,5; 22r,20; 22r,25; 26r,3-4; 28r,21-22 (condanato 6r,8; 11r,3-4; 19r,12; 20r,16; 25r,3; 26v,18; 28r,5; condennato 30r,26); considerata 29v,17; dato 2r,27; 5v,25; 13v,20; 13v,21; 15r,24; 19v,4; 19v,11; 20v,14; 27r,26; 28r,1; 33v,4; dati 30v,11; data 6v,10; 17r,22; date 17v,22; diliberato 12r,16; dimandato 6r,7; divietato 10v,2; 16v,20; 28r,23; domandato 5v,23; emendato 4v,5; stimati 10r,16; exenplato 31v,3; 31v,4; incominciati 11v,16; intrati 7v,18; iurato 6v,27; lasato 21r,4 (llasato 10r,3); levato 26r,23; magagnato 31r,12-13; 33r,26; 33v,10 (magagniato 27v,26); magagnata 28r,4; magagnate 17v,1; mandate 9r,7; nato 18r,4; nauleggiato 30r,11; 32v,19; 33r,9 (naulegiato 16r,10; 16r,14); negato 29v,31; ordinato 4v,2; 31r,11; ordinati 30r,1; ordinata 27v,10; observate 29v,7; pagato 7r,26; 10v,5; pagata 18r,7; pagate 32v,24; passati 15r,21; portate 9r,8; provato 11v,4; raunati 30v,4-5; 33v,18; recate 15v,16; retificati 33v,14; sforsati 6r,24; stato 13v,6-7; 29v,27; trovato 19v,17; 28r,3; 28r,21; 33r,26; trovate 32r,14; usato 7v,15-16; 31v,18; usati 31v,14; usate 15v,18; volgarisato 24v,22-23; in -ito: odita 29v,18; partito 21r,3; 27v,1; punito 8v,22; 19r,3; 19r,12; 20r,2; 20r,16; 21v,89; 22r,5; 25r,2-3; 28r,5; 28r,21; in -uto: avuto 15r,23; caduto 14r,6; compiuto 21r,12; conceduto 21r,26; proveduto 19r,21; 33v,12 (providuto 29v,4); renduta 20v,19; ricevuto 2v,7; 6r,14; 15r,17; 15r,23; 19v,12; tenuto 5v,23; 5v,27; 6r,22; 7v,9; 8r,20; 9v,24; 10r,7; 10r,8-9; 11r,25; 13r,26; 16r,19; 20v,26; 26r,22-23; 29v,10; tenuti 5v,8; 6r,2; 6v,5; 6v,8; 6v,13; 7r,8; 8v,10; 9r,12; 9r,22; 9v,2; 9v,4; 10r,15; 11r,18; 11v,6; 12r,13; 12v,11; 13r,23; 14v,2; 16r,2; 16r,7; 16r,25; 16v,6; 16v,22; 16v,25; 19v,16; 25v,10; 25v,13; 25v,18; 26r,9; 26r,25; 26v,21-22; 27r,17; 28r,2; 28r,8; 28r,14; 28r,18; 28r,27; 30v,25; 31v,16; 32r,12; 32r,19; 33v,6; tenute 5v,9; 27v,24; veduto 18v,3; venduto 33r,9; venduti 10v,12; vendute 17r,27; 17v,7; 17v,21; 17v,22; venute 15v,9; in -to: colta 9v,2; colte 9r,25; tolto 9r,17; in -tto (anche con grafie latineggianti -ct- e -pt-): corretto 4v,5 (correcto 28v,1); constrecti 31v,22; dicto 6r,27; 6v,1; 8r,14; 14r,10; 16r,23 (detto 20r,21-22); electo 7v,21-22; 9v,16; 29v,32; 29v,34 (eletto 29v,26; 29v,34); electi 11r,12; 16r,21; 16v,1 (ellecti 16r,7; eletti 7r,15); facto 2v,3; 4v,2; 5r,11; 5v,14-15; 10r,3; 10v,1; 13v,25; 14r,3; 14v,11; 14v,15; 15r,26; 17r,23; 17v,13; 18r,10; 19v,11; 21r,12; 21r,23; 21v,4; 21v,23; 21v,26; 29v,31; 29v,32; 31v,13; 32v,11; facti 13r,25; 14r,6-7; 30r,1; 30v,1; 32v,6; facta 12r,9; 13r,26; 18r,8; 29v,13; 30v,9; 30v,24; scripti 17v,10; f. sing. scripta 22v,8; in -(s)so: comesso 28r,17; inteso 8r,15; messi 8v,2-3. Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https://rhesis.it/ Linguistics and Philology, 8.1: 77-110, 2017 97 Allo spoglio vanno aggiunti inoltre: - i participi passati di I coniugazione a suffisso zero, con funzione di aggettivo verbale67: concio 23v,17; 23v,18 e concia 16r,12; 16r,13; 16r,16; - il participio passato di ‘porre’ (e parole composte a partire da ‘porre’), che presenta una radice tematica peculiare del participio, distinta da quella del presente e del perfetto: posto 5v,16; 13v,16; 14v,24; 20v,7; 20v,23; 29v,27; posta 17v,9; poste 17v,18; 24r,25; imposta 14r,4; 21r,2-3; imposte 21v,25; soctoposto 29v,27; composto 4v,2; composti 30r,1; 30v,1; 32v,6; simile anche il comportamento del participio di ‘richiedere’: richiesto 10r,25; richiesti 7r,10; 12r,6; richieste 11v,19; - tipicamente pisano è il participio di ‘muovere’, attestato nelle forme * MOVITUS > mocto 6v,17 e motti 6v,17 (2 volte)68. Tra i participi in -uto andranno sottolineate le forme deboli del verbo ‘concedere’, in conceduto 21r,26 e del verbo ‘rendere’ in renduta 20v,19. È debole anche il participio passato di ‘vedere’, che nel nostro testo è veduto 18v,3 (e mai visto). Va evidenziata inoltre il latinismo dicto, in sovrapposizione allotropica con detto. 3.9. Gerundio69 in -are: consigliando 29v,19; facendo 18r,19; pagando 27r,2; reformando 29v,2021; salvando 8r,13-14; tirando 8r,10; tocchando 5r,6; in -ere: aviendo 21r,3; tenendo 8r,14; in -ire: dicendo 10r,27. I verbi della 1a coniugazione presentano la desinenza in -àndo, mentre per quelli della 2a e della 3a la terminazione è -èndo. Si noterà che fa eccezione il gerundio aviendo, di cui il corpus TLIO fornisce, in questa specifica veste grafica, solamente due casi, attestati nel nostro testo e in un testo senese, la Teologia mistica di Bonaventura da Bagnorea (SORIO 1852: 45); molto comune era, invece, la forma abiendo70, comune gerundio analogico rifatto su abbia (BIASCI 2013: 105). 3.10. Forme verbali perifrastiche Tra le perifrasi verbali del Breve si osserva l’impiego di due perifrasi che esprimono abitualità71, una costruita attraverso ‘usare’/‘essere usato di’ + infinito (ess. 1 e 2) e l’altra attraverso l’uso del verbo ‘solere’ seguito dall’infinito (es. 3): (1) E se alcuno me(r)catante | lo quale usato sarà di fare e operare mercantia in del detto Castello | e contumace sarà e fare denegherae lo saramento s(oprascrip)to alli co(n)suli || del d(i)c(t)o Po(r)to ad petitione delli detti consuli, overo dell’uno di loro, | costringerò lo denegante fare lo detto saramento alli co(n)suli s(oprascrip)ti. | (31v,17-21) 67 SESSA (1980: 133); BIASCI (2013: 104). CASTELLANI (2000: 333). 69 PIERI (1890-1892: 180); LIMENTANI (1962: LVIII); SESSA (1980: 132); 70 Si confrontino gli esiti della ricerca sul TLIO. 71 Cfr. SQUARTINI (2010: 540-544). 68 Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https://rhesis.it/ Linguistics and Philology, 8.1: 77-110, 2017 98 (2) Et ordiniamo che tucte le mercantie così | sardesche come l’aut(r)e fusseno recate che | si co(m)p(er)a(n)no u vendra(n)no in Castello di Castro, | cioè quelle mercatantie che sono usate di pesa|re a cantari si debbiano pesare a cantari del Co|mune di Castello di Castro (15v,15-20) Di seguito l’esempio della perifrasi formata da ‘solere’ + infinito: (3) In prima che conciosiacosa che tra lli padroni delli lengni e lli | me(r)catanti di loro nauleggiamento questione spesse volte | ne solgnano nascere, e a cessare che lite né q(ue)stione tra loro || no(n) sia, | ordiniamo che tucti li padroni delli legni che tucte le pondate | che lli nauleggerano et prometterano di po(r)tare alli me(r)catanti, overo | ad altrui, che tucte le debbiano levare ad pena e bando di soldi vinti | di pisani dare et pagare allo d(i)c(t)o me(r)catante che nauleggiato || l’avesse, e soldi q(ui)nque di pisani p(er) ongni po(n)do a vuopo del Po(r)to. | (32v,12-20) 3.11. Verbi irregolari Buona parte delle particolarità dei verbi irregolari di cui tratteremo in questo paragrafo è stata già affrontata nei paragrafi precedenti. Di seguito ci si limiterà dunque a fornire i paradigmi completi dei verbi irregolari del nostro testo72; verranno inoltre analizzate le radici tematiche impiegate nella flessione e i casi di sovrapposizione allotropica. Andare fut. 1a andrò 18r,27; 20r,6-7; 20v,1-2; 4a andremo 12r,10; 6a andranno 7r,8-9; 21r,21; 26r,14; cong. imperf. 3a andasse 10r,26; inf. andare 2r,21; 10r,7; 12r,4; 12r,7; 12r,14; 16r,8; 16r,19; 25r,26; 25v,9; 25v,20; 28r,18; 33v,7. Avere ind. pres. 1a oe 6v,1; 16r,23; 21v,18; 3a ae 33r,11; 6a ànno 5r,15 (àno 19r,27; 33v,1); fut. 1a arò 17r,19; 18r,7; 18r,8; 24v,13 (aroe 31v,5); 3a arà 10r,3; 11r,24; 14v,15; 21r,2 (arrà 13r,25; arae 5r,16); 4a aremo 6r,27-6v,1; 6v,27-28; 11v,24; 6a aranno 5r,16 (arano 30r,11); perf. 6a ebbeno 5r,15-16; cong. pres. 3a abbia 7v,1; 18r,10; 24r,23; 26v,25; 27r,12; 29v,28; 30r,18; 31r,15; 33v,20; 4a abbiamo 15v,24 (abiamo 11v,23); 6a abbiano 7r,3; 11r,15; 17v,2; 30r,24; cong. imperf. 3a avesse 2v,7; 6r,7; 9v,18; 10r,2; 10v,1; 10v,5; 15r,17; 15r,24; 15r,26; 16r,14-15; 29v,13; 29v,30; 29v,31; 32v,20; 6a avesseno 10v,12 (aveseno 19r,21); inf. avere 2v,3; 2v,11; 6r,1; 7r,24; 7v,1; 7v,16; 8v,27; 10v,21; 11r,15-16; 12v,6-7; 14v,11; 14v,13; 15r,23; 16v,1; 16v,5; 16v,6; 18v,8; 21r,9; 21r,11; 21v,23; 22r,13; 22r,21-22; 22v,3 (2 volte); 24r,24; 24v,22; 25r,12; 25v,3; 27v,27 (havere 32r,5; avervi 6v,20; 16v,13; avervelo 27r,27); part. pass. m. sing. avuto 15r,23; gerundio aviendo 21r,3. 72 Cfr. TEKAVČIĆ (1972: 454-496); SESSA (1980: 133-135); PENELLO et al. (2010: 1470-1487). Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https://rhesis.it/ Linguistics and Philology, 8.1: 77-110, 2017 99 Dare fut. 1a darabbo 31v,4; 31v,9; 4a dremo 13v,14; 14r,27; perf. 1a diedi 22r,8; 3a diede 20v,20; cong. pres. 3a dia 10v,13; 18v,7; 19r,2; 20v,9; 30v,10; cong. imperf. 3a desse 19v,4; 32v,21; 32v,23; inf. dare 5v,26; 5v,27; 6r,3 (2 volte); 7r,17; 7r,22; 7v,10; 7v,20; 10v,19; 11r,18; 11r,26; 11v,17; 12v,11; 12v,17; 13r,14; 13r,16; 13v,16; 17v,23; 19r,2; 19v,5; 20v,20; 22r,9; 22r,22; 25v,18; 30v,17; 31r,2; 31r,8; 31v,4; 32v,19; 32v,22; 33r,4; 33r,6; 33r,12; 33r,13; 33r,14 (dar(li) 28r,25; 32v,23); part. pass. m. sing. dato 2r,27; 5v,25; 13v,20; 13v,21; 15r,24; 19v,4; 19v,11; 20v,14; 27r,26; 28r,1; 33v,4; m. plur. dati 30v,11; f. sing. data 6v,10; 17r,22; f. plur. date 17v,22. Dire ind. pres. 3a dice 32r,13; fut. 1a dirò 17r,25; 17v,2; 17v,17; 17v,23; 21v,19; 22r,17; 22r,18; 24v,26; 3a dirà 8r,11; 11v,22; 15r,9; 4a diremo 10r,12; 12r,11; cong. pres. 3a dica 8v,15; 12r,15; 22r,21; 6a dicano 29v,19; cong. imperf. 3a dicesse 2v,6; 6r,1; 12r,15; 15r,7; inf. dire 12r,10; 16r,20; 32r,18 (dicere 29v,32); part. pass. m. sing. dicto 6r,27; 6v,1; 8r,14; 14r,10; 16r,23 (detto 20r,21-22); gerundio dicendo 10r,27. Dovere ind. pres. 1a debbo 24r,24; 6a deno 12v,7; 13r,16 (devono 29v,5-6); cong. pres. 1a debbia 18v,8; 18v,27; 19r,3; 19v,7; 20r,1; 20r,15; 21v,8; 22r,4; 22r,20 (debia 19r,10-11; 19r,11-12); 3a debbia 6r,8; 6v,25; 7r,26; 7v,10; 7v,1-2; 7v,14; 7v,24; 7v,25; 8v,5; 8v,13; 8v,16; 13r,21; 13v,3; 14r,18; 14v,7; 16v,3; 16v,12; 17v,23; 24v,12-13; 24v,15; 25r,2; 25r,13; 25v,2; 26r,21; 26v,2; 27r,7; 27v,1; 27v,21; 27v,27; 28r,1; 29v,10-11; 29v,24; 30r,8; 31r,14; 33r,4; 33r,6; 33r,21 (debia 7r,24; 20r,23; 27r,5; 27r,6; debba 29v,8); 6a debbiano 8r,16 (2 volte); 8r,27; 9r,1; 9v,1; 10r,1; 10v,18-19; 10v,20-21; 10v,27; 11r,7; 11r,10; 11r,22-23; 12v,16-17; 15v,19; 15v,22; 16r,20; 16v,1; 17v,1; 17v,25; 18r,12-13; 18v,5; 19v,14; 20v,21; 25r,14; 25v,21-22; 26r,1; 27v,23; 28r,2; 28r,14; 30r,29; 30v,17; 30v,25; 31r,2; 32r,12; 32v,18; 33v,1; 33v,7 (debiano 6v,8; 7r,17; 8v,2; 9r,13; 16v,10; 18v,16; 19r,15; 21r,14; 24v,17; 25v,6; 25v,16-17; 27r,17; debbiansi 19r,16); cong. imperf. 3a dovesse 33r,13. Essere ind. pres. 3a è 8r,14; 13r,26; 13v,4; 14r,10; 19v,26; 20r,10; 20r,21; 21v,10; 22v,8; 27r,3; 27v,25; 28v,4; 31r,11; 33v,10; 33v,12; 4a siamo 6r,2; 6v,5; 6v,13; 9r,12; 9v,2; 12v,11; 16r,2; 16v,6; 26v,21; 32r,19; 6a sono 9r,25; 14v,2; 15v,18; 17r,8; 24r,25; 27r,16; 27r,19-20; 29v,18; 29v,19; 29v,21; 30r,1; 30v,1; fut. 1a sarò 17r,21; 17v,14; 18r,3; 18r,7; 18r,9; 18v,13; 19r,1; 3a serà 5v,16; 11v,3; 11v,3-4; 14r,6; 14v,21; 14v,24; 17v,18; 18r,26; 20r,22; 20v,19; 29v,10 (sarà 14v,5; 31v,18; 31v,19); 3a fi 2r,27; 2v,3; 5v,15; 9v,11; 12r,16; 13v,20; 14v,11; 17r,22; 17v,11; 18v,1; 19v,17; 20v,5; 21r,23; 21r,26; 31v,14; 32v,6; 33v,6 (fie 5v,23); 4a saremo 5r,11; 12r,6; 6a seranno 6r,24; 8r,5; 9v,16; 17v,21 (sserano 11r,12; serano 15v,9; 29v,21; 29v,22; sarano 17v,18; 31v,15; 31v,16); 6a fino 5v,8; 6v,17; 7v,18; 8v,1; 17v,22; 33v,6 (finno 9r,7; 25v,25; fienno 9r,22; 21v,25; fieno 21v,18); perf. 3a fu 4v,2; 6a funno 7r,7 (funo 31v,14); cong. pres. sia 5v,1; 5v,14; 5v,23; 5v,25; 5v,26; 6r,22; 7r,4; 7v,9; 7v,16; 8r,13; 8r,14; 8r,20; 8r,24; 8v,22; 9r,17; 10r,4; 10r,6-7; 10r,8; 10v,2; 11r,3; 11r,25; 11v,17; Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https://rhesis.it/ Linguistics and Philology, 8.1: 77-110, 2017 100 13v,6; 16r,19; 16v,15; 17v,13; 18r,6; 19r,25; 20v,26; 21r,3; 22r,15; 22r,25; 26r,3; 26r,22; 26r,23; 26v,3; 26v,18; 27r,7; 27r,8; 27r,10; 27r,11; 27r,26; 27v,9; 28r,5; 28r,21; 28r,23; 29v,4; 29v,10; 29v,27 (3 volte); 29v,32; 29v,33; 29v,34; 30r,26; 32v,4; 32v,15; 32v,25; 33v,4 (sia(ne) 29v,35); 6a siano 6v,7-8; 7r,7; 8r,6; 8r,7; 8r,15; 8v,10; 9v,4; 10r,15; 10r,16; 11r,18; 11v,6 (2 volte); 11v,19; 12r,13; 13r,23; 16r,7; 16r,25; 16v,21; 16v,25; 17v,1 (2 volte); 17v,22; 19v,16; 21r,20; 21v,27; 25v,10; 25v,13; 25v,17; 26r,6; 26r,9; 26r,25; 27r,17; 27v,24-25; 28r,2; 28r,8; 28r,14; 28r,18; 28r,27; 29v,7; 29v,12; 29v,16; 30v,25; 31v,22; 32r,12; 33v,6 (ssiano 7r,8); cong. imperf. 3a fusse 6r,4; 6r,9; 6r,10; 6v,10; 6v,18; 7r,11; 7v,21; 8r,21; 8v,8; 8v,9; 9v,16; 9v,17; 9v,24; 10r,25; 10v,14; 12r,9; 13v,3; 13v,25; 16r,15; 18r,11; 20v,14; 25r,27; 27v,27; 28r,3; 28r,11; 28r,21; 31r,13; 32r,10; 33r,8; 33r,14; 33r,26; 33v,4 (fosse 13v,21-22; 16r,10; 16r,13; 17r,5; 17v,5; 17v,6; 17v,8; 17v,9; 19r,22-23; 27r,4; 28r,17; 29v,24; 29v,34); 6a fusseno 5v,9; 7r,9; 11v,16; 15v,16; 17v,7-8; 30v,12 (fosseno 6v,9; 16r,11; fossino 29v,20); inf. essere 2r,8; 2v,2; 6r,8; 7r,26; 7v,26; 8r,6; 8r,15; 8v,2; 8v,17; 8v,19; 9v,9; 9v,19; 11r,7; 14v,4; 14v,7; 18v,3; 19r,3; 19r,12; 19r,15; 19v,11; 20r,2; 20r,3; 20r,16; 20r,17; 20r,23; 20v,24-25; 21r,15; 22r,5; 22r,13; 22r,20; 25r,2; 25r,7; 28r,1; 29v,24; 29v,26 (esere 21v,8; 27r,7); part. pass. m. sing. stato 18r,6. Fare ind. pres. 3a fa 10r,8; 26r,1; perf. 1a fei 19v,25; 22r,9; fut. 1a farò 6r,23; 7r,13; 8r,26; 13r,1; 13v,16; 17r,8; 17v,24; 18v,4; 18v,13-14; 18v,14; 18v,15; 19r,2; 19r,8; 19r,11; 19v,7; 19v,8; 19v,13; 19v,24 (2 volte); 20r,1; 20r,7; 20r,14; 20v,5; 20v,17; 20v,20-21; 21r,13; 21v,1; 21v,2; 21v,6; 21v,8; 22r,3; 22r,20; 22r,25; 24v,10; 24v,16; 24v,26; 25r,1; 32r,2 (faroe 31v,4); 3a farà 6v,23; 9v,14; 10r,5; 18r,12; 20v,15; 24r,22; 4a faremo 6r,20-21; 6v,2; 7r,1; 7r,17; 7r,20; 7r,22; 8v,25; 9r,8; 9r,10; 9v,26; 10r,19; 10v,7; 11v,10; 11v,18; 11v,21; 11v,26; 11v,27-12r,1; 12r,1; 12r,17; 12r,26; 12v,23; 13r,8; 13r,27; 13v,23-24; 14r,9; 15r,3; 15r,14; 15v,4; 25r,22; 6a faranno 8r,9; 21r,20; 24v,8; cong. pres. 3a faccia 8r,22; 11v,5; 19r,2; 22r,16; 26r,5; 26r,16; 29v,15 (facia 29v,13; 30r,20; facciasi 27v,15); 6a facciano 9r,23; 12v,5; 33v,8; cong. imperf. 3a facesse 8v,11; 8v,21; 10v,4; 10v,13; 11r,3; 11v,7-8; 12r,21; 19r,22; 20r,22; 24v,2; 25r,8; 25r,14; 26r,3; 26r,5; 26v,18; 28r,4-5; 30r,26; 31v,23; 33r,11 (faccesse 14r,5; ffacesse 28r,10; feccesse 27v,13); 4a facessemo 12r,19; 14r,2; 6a facesseno 32r,24; inf. fare 2r,3; 2r,5; 2r,9; 2r,16; 2r,19; 2r,20; 2r,25; 2r,27; 5r,17-18; 5v,3; 6r,11; 6v,5; 6v,22; 8r,21; 8r,26; 8v,23; 10r,9; 10v,17; 10r,23; 10v,4; 10v,6; 10v,8; 11v,1; 11v,14; 12r,1; 12r,13; 12v,11; 12v,23; 13r,7; 13v,20; 14v,2; 14v,13; 16r,3; 16r,25; 16v,17; 17r,20; 18r,16; 18r,26; 18v,14 (3 volte); 19v,7; 19v,16; 19v,24; 20r,12 (2 volte); 20r,12-13; 20r,20; 20v,3-4; 21v,15; 21v,22; 22r,19; 22r,24; 22v,3-4; 24v,15; 24v,24; 26r,2; 27v,1; 28r,2; 28r,9; 28r,24-25; 28r,27; 29v,11; 30r,8; 30r,20; 30r,22 (2 volte); 31r,10; 31v,18; 31v,19; 31v,21; 32r,12; 32r,14; 32r,21; 32v,10; 33r,12; 33v,10 (ffare 17r,21; fareli 15r,13; farlo 25v,10; 30r,12; farla 25v,13; 26r,25); part. pres. plur. facienti 18r,17; part. pass. m. sing. facto 2v,3; 4v,2; 5r,11; 5v,14-15; 10r,3; 10v,1; 13v,25; 14r,3; 14v,11; 14v,15; 15r,26; 17r,23; 17v,13; 18r,10; 19v,11; 21r,12; 21r,23; 21v,4; 21v,23; 21v,26; 29v,31; 29v,32; 31v,13; 32v,11; m. plur. facti 13r,25; 14r,6-7; 30r,1; 30v,1; 32v,6; f. sing. facta 12r,9; 13r,26; 18r,8; 29v,13; 30v,9; 30v,24; gerundio facendo 18r,19. Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https://rhesis.it/ Linguistics and Philology, 8.1: 77-110, 2017 101 Potere ind. pres. 1a possolo 22r,21; fut. 1a potrò 5v,18; 10r,25; 3a potrà 14r,12; 4a potremo 5r,20; 5r,22; 5v,6; 6r,3; 8v,27; cong. pres. 1a possa 18v,3; 18v,8; 18v,27; 19r,3; 19r,11; 20r,1; 20r,15; 21v,8; 22r,4; 24v,12; 24v,15; 25r,2; 3a possa 5v,20; 7r,24; 7r,26; 7v,20; 7v,24; 8v,7; 10v,3; 13v,2-3; 13v,4; 13v,26; 14v,7; 16r,15; 16v,16-17; 16v,19; 20r,19; 20r,23; 21r,1; 25v,8; 26v,2; 26v,15; 28r,24; 29v,24; 29v,26; 29v,32; 31r,13; 31r,14; 33r,4; 33r,6; 33r,10; 33r,11; 33r,23; 33r,27; 33v,11 (posa 6v,12); 6a possano 7v,27-8r,1; 8r,6-7; 11r,16; 17v,25; 18r,12; 18v,5; 18v,16; 19r,15; 19v,14; 20v,6; 20v,21; 21r,13-14; 24v,17; 25v,6; 25v,21; 31r,10; 33v,3 (posano 25r,14); cong. imperf. 3a potesse 19v,5-6; 28r,17; 32r,18. Sapere fut. 1a saprò 17v,10; 17v,16; 17v,22; 21v,14; 22r,13; 22r,18 (saperò 32r,8); 4a sapremo 5r,17; 15r,18; 6a sapranno 7r,18; 11r,11-12; part. pres. sapiente 17r,15. Stare fut. 3a starà 7r,13; cong. imperf. 3a stesse 7r,26; inf. stare 6r,24; 7v,27; 8v,16; 9r,8; 10v,19; 16v,11; 27r,5; part. pass. m. sing. stato 13v,6-7; 29v,27; part. pres. sing. stante 20r,10; 27v,5. Volere ind. pres. 3a vuole 22r,22; fut. 3a vorrà 5v,26; 10r,23 (vorà 5v,21); 6a vorranno 6r,24; 8v,4; cong. pres. 3a voglia 5r,17; 27r,25; 6a volglano 31r,1; 31r,8; cong. imperf. 3a volesse 2r,15; 10r,21; 12r,20; 26r,12; 28r,1 (vollesse 17r,16; 33r,14); 4a volessemo 27r,22; 6a volesseno 6v,7; part. pres. m. sing. volente 24v,24. Tutte le voci del verbo ‘andare’ attestate nel nostro testo sono formate a partire dalla radice tematica non marcata /and-/, che troviamo impiegata per il futuro (andrò, andremo, andranno), per il congiuntivo imperfetto (andasse 10r,26) e per l’infinito (andare). Per quanto riguarda il verbo ‘avere’, sulla radice /ave-/ si forma anche il congiuntivo imperfetto avesse, avesseno. Per la forma del gerundio aviendo, cfr. supra (§ 3.9). Il congiuntivo presente si costruisce a partire dal tema /abbi-/: abbia, abbiamo ecc. Il futuro presenta invece il tema in /a-/: arò, arà ecc., mentre il perfetto è attestato nella forma forte con la radice /ebb-/: ebbeno (5r,15-16). Simile alla flessione del verbo ‘avere’ è quella del verbo ‘sapere’: il futuro si presenta formato a partire dal tema /sape-/, come in saperò (32r,8), in alternanza allotropica con le forme sincopate, più numerose, saprò, sapremo, sapranno. I verbi ‘stare’ e ‘dare’ sono verbi a “coniugazione mista”: nella maggior parte dei tempi verbali presentano la vocale tematica /a/ (propria dei verbi della I coniugazione), alla quale si alterna la /e/ nei casi del perfetto e del congiuntivo imperfetto. Per il verbo ‘dare’ si registra il cong. imperf. di 3a pers. sing. desse (19v,4; 32v,21; 32v,23), mentre per il verbo ‘stare’ è attestato stesse (7r,26). ‘Dare’ presenta inoltre il perfetto forte con radice tematica /died-/: 1a pers. sing. diedi 22r,8; 3a pers. sing. diede 20v,20. Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https://rhesis.it/ Linguistics and Philology, 8.1: 77-110, 2017 102 Il tema non marcato di ‘dire’ è /dice-/: ind. pres. 3a pers. sing. dice 32r,13. Questo tema, in un caso, è utilizzato anche all’infinito, nella forma dicere 29v,32 contro l’infinito sincopato dire 12r,10; 16r,20; 32r,18; si ritrova anche nel gerundio (dicendo 10r,27) e nel congiuntivo imperfetto (3a pers. sing. dicesse 2v,6; 6r,1; 12r,15; 15r,7). Il futuro impiega il tema /di-/; presenta, invece, la radice tematica /dett-/ in detto (20r,2122) che si alterna con l’allotropo dotto dicto (6r,27; 6v,1; 8r,14; 14r,10; 16r,23). Per il verbo ‘dovere’, si osserva l’impiego della radice tematica /dov-/ nel congiuntivo imperfetto dovesse (33r,13). Interessante l’oscillazione che colpisce l’indicativo presente. Si noterà infatti la forma labiale della 1a persona singolare dell’indicativo presente in debbo 24r,24 (radice tematica /debb-/), contro la forma con labiodentale della 3a persona plurale dell’indicativo presente devono 29v,5-6 (con radice tematica /dev-/). In allotropia con devono alla 3a persona plurale dell’indicativo, si registra la forma deno (12v,7; 13r,16) costituita dalla terza persona singolare apocopata + no. Sono varianti allotropiche anche le forme attestate della 3a persona singolare del congiuntivo presente: largamente maggioritaria è la forma debbia/debia con radice tematica /debbi-/ che alterna con un unico caso di debba, con tema /debb-/. Particolarmente complessa è la flessione del verbo ‘essere’. La radice tematica /ess-/ consente la formazione dell’infinito. Sono in sovrapposizione allotropica il tema /sar-/ che alterna con il tema /ser-/ nella costruzione del futuro (cfr. supra, § 3.2). Tipicamente pisano (e lucchese) è poi il futuro con la forma fi (cfr. supra, § 3.2). La radice tematica /si-/ è impiegata per la costruzione del congiuntivo presente: sia, siano. Al congiuntivo imperfetto si osserva un’oscillazione tra temi in /fu-/ e in /fo-/: fusse contro fosse alla 3a persona singolare e fusseno contro fosseno/fossino alla 3a persona plurale. Il participio perfetto si presenta esclusivamente nella forma forte, stato (18r,6), che è forma suppletiva mutuata dal verbo stare. Simile è il comportamento del verbo ‘fare’. Il tema /face-/ si ritrova nel gerundio facendo (18r,19) e nel congiuntivo imperfetto (facesse 8v,11; 8v,21; 10v,4; 10v,13; 11r,3; 11v,7-8; 12r,21; 19r,22; 20r,22; 24v,2; 25r,8; 25r,14; 26r,3; 26r,5; 26v,18; 28r,4-5; 30r,26; 31v,23; 33r,11; faccesse 14r,5; ffacesse 28r,10; feccesse 27v,13); 4a facessemo 12r,19; 14r,2; 6a facesseno 32r,24). Si osserverà che fa eccezione l’allotropo feccesse che sarà da interpretarsi o come forma di compromesso con la forma debole del perfetto che presenta la vocale tematica /e/ (come in fei 19v,25; 22r,9) oppure come forma latineggiante esemplata sul congiuntivo piuccheperfetto latino FECISSET. L’infinito si presenta esclusivamente nella variante apocopata, così come il futuro. Risale invece alla radice tematica /facci-/ la flessione del congiuntivo presente: cong. pres. 3a faccia 8r,22; 11v,5; 19r,2; 22r,16; 26r,5; 26r,16; 29v,15 (facia 29v,13; 30r,20; facciasi 27v,15); 6a facciano 9r,23; 12v,5; 33v,8. È forte anche la forma del participio passato, che fa capo alla radice tematica /fatt-/: nel nostro testo, si osserva la conservazione, in tutte le occorrenze (facto, facti, facta), del nesso etimologico -ct-. Per quanto riguarda il verbo ‘potere’, a partire dalla radice tematica /poss-/ si formano la 1a persona singolare dell’indicativo presente (possolo 22r,21) e tutta la flessione del congiuntivo presente (possa, possano). Il futuro (nel nostro testo sempre sincopato) e il congiuntivo imperfetto fanno capo, invece, al tema /pot-/: potrò, potrà, potremo; potesse. Il verbo ‘volere’ si comporta in maniera simile al verbo ‘potere’. All’indicativo presente è attestata una forma dittongata, in quanto rizotonica, con tema in /vuol-/: vuole (22r,22). Da /vol-/, monottongata perché rizoatona, si forma il congiuntivo imperfetto: volesse, volessemo, volesseno. La radice del futuro /vorr-/ si spiega a partire da un fenomeno di assimilazione consonantica che avrebbe coinvolto il tema sincopato Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https://rhesis.it/ Linguistics and Philology, 8.1: 77-110, 2017 103 /*volr-/: vorrà, vorranno. Il congiuntivo presente si forma, invece, con la radice /vogl-/: voglia e volglano. 4. Conclusioni La morfologia verbale del ms. ASP, Archivio Roncioni, 322 esibisce tratti che sono inequivocabilmente propri del pisano trecentesco. Ne sono la riprova, tra quelli sopra analizzati: la frequente sincope vocalica davanti a vibrante nei futuri, più diffusa che nel fiorentino (cfr. supra: § 3.2); la desinenza in -eno della 3a persona plurale del presente indicativo dei verbi di 2a, 3a, 4a classe, preferita a -ono (etimologica) e -ano (mutuata dalla I coniugazione) (§ 3.1); le forme serà, seranno accanto a saranno nel futuro del verbo ‘essere’ (§ 3.2); la desinenza in -n- della 3a persona plurale del perfetto e del congiuntivo imperfetto; la desinenza in -emo per la 1a persona plurale del congiuntivo imperfetto (§ 3.5). Se la pisanità del testo non è, quindi, in discussione, essendo peraltro confermata dall’analisi dei fenomeni del vocalismo e del consonantismo, d’altra parte, alcune oscillazioni nella morfologia verbale andranno, almeno in parte, ricondotte alla presenza di più mani e, quindi, di più sistemi linguistici e idioletti che presiedono alla trascrizione del testo. Si è visto come il manoscritto 322, a cui si assegna per comodità il titolo di Breve Portus Kallaretani, sia un testimone altamente disomogeneo, ottenuto attraverso l’assemblaggio di disposizioni, emanate in tempi diversi (seppur molto ravvicinati), e trascritte in pisano, ma anche in latino, da mani differenti (perlomeno tre). Sebbene un certo grado di polimorfismo sia il presupposto implicito di ogni lingua naturale, ancor più se medievale, poiché non ancora passata al setaccio di quel processo di standardizzazione che prende avvio con l’imporsi di una norma collegata a una varietà avvertita, per ragioni di varia natura, come prestigiosa, d’altra parte alcune varianti allomorfiche che nel testo rappresentano degli hapax possono essere circoscritte ad alcune carte in particolare. Questa constatazione apparentemente banale ci obbliga a spingerci oltre nello scavo delle stratigrafie testuali del nostro Breve73. Un caso emblematico è rappresentato dalla c. 29v, di cui già Castellani aveva, seppur in modo cursorio, sottolineato l’eccentricità: «La c. 29v contiene tre capitoli in volgare, di mano non pisana, in littera textualis» (CASTELLANI 1990: 187). Sebbene l’insigne studioso non abbia avuto modo di tornare sulla questione in maniera più approfondita, basta arrestarsi alla lettura anche solo dei primi righi della carta per riscontrare l’affiorare di forme che hanno tutta l’aria di sardismi74: al livello del vocalismo tonico, in forme come ammino (29v,14), mino (29v,28), admino (29v,29), la conservazione della Ĭ tonica è verosimilmente da ricondurre all’influsso fonetico del sardo, come peraltro già osservato da RAVANI (2011b: 26), che mette proficuamente in relazione queste forme del nostro testo con attestazioni analoghe presenti nel Breve di Villa di Chiesa e nella cosiddetta Carta de Logu del Giudicato di Cagliari75; o ancora, al livello della 73 Per un lavoro analogo condotto, seppur in ambito diverso, su un altro testo giuridico del Medioevo sardo qual è la Carta de Logu d’Arborea, mi permetto di rinviare a MURGIA (2017). 74 Per uno studio approfondito delle forme che figurano in questa carta si rimanda all’edizione critica in corso di preparazione. 75 La presunta Carta de Logu del Giudicato di Cagliari rappresenterebbe l’unica testimonianza dell’esistenza di un corpus legislativo ascrivibile al meridione dell’isola, probabilmente risalente al 1355 (TANGHERONI 2004). La lingua dei pochi frammenti superstiti è il volgare pisano, pur venato di numerosi sardismi (RAVANI 2013). Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https://rhesis.it/ Linguistics and Philology, 8.1: 77-110, 2017 104 morfologia nominale, saltano subito agli occhi la forma statu (29v,1) che occorre a breve distanza da stato (29v,2), e la forma modu (29v,22) contro modo (29v,7 e 8), le cui terminazioni in -u tradiscono una chiara interferenza con il sardo (cfr. RAVANI 2011b: 32). Alla luce di queste osservazioni, non sarà allora del tutto fuori luogo guardare con attenzione altri scarti che si rilevano nella carta 29v. Occorrono esclusivamente nella c. 29v: le uniche occorrenze della forma piena dell’infinito dicere (29v,32) contro la forma sincopata (dire 12r,10; 16r,20; 32r,18); la 3a persona plurale dell’indicativo presente devono (29v,5-6) contro deno (12v,7; 13r,16); la 3a persona singolare del congiuntivo presente debba (29v,8) contro le numerose attestazioni di debbia e debia; la forma etimologica della 3a persona singolare del congiuntivo presente propona (29v,17) contro pogna (10r,14) e pongnala (30r,19). Tali rilievi, insieme all’evidenza paleografica, confermano che siamo in presenza di uno scrivente diverso da colui che verga le carte precedenti. Inoltre, merita forse qualche attenzione in più, nella direzione della ricerca delle possibili interferenze tra il pisano e il sardo, nell’ambito della morfologia verbale, la forma videssino (29v,20), 3a persona plurale del congiuntivo imperfetto del verbo ‘vedere’. Insieme a fossino (29v,20), si tratta delle due sole occorrenze, nel nostro testo, della terminazione in -ino per la 3a persona plurale del congiuntivo imperfetto, dato che, come si è visto, altrove è usata in via esclusiva la desinenza con -eno postonico (come in fusseno, fosseno e vedesseno, presenti nel nostro testo), considerata indigena per il pisano (BIASCI 2013: 102). Va detto che la terminazione con -ino è possibile e attestata nel pisano antico, come esito di un meccanismo analogico sulla terminazione in -i della 3a persona singolare (cfr. BIASCI 2013: 102; BOCCHI 2017: 164-165). Colpisce, però, accanto alla desinenza -ino, il cui impiego è circoscritto alla sola c. 29v, anche la vocale tematica impiegata in videssino, che non è -e- come ci si aspetterebbe, ma -i-, e rappresenta l’unica attestazione per il pisano presente nel corpus TLIO. Forme del congiuntivo imperfetto con i protonica per il verbo ‘vedere’, si trovano, in base alla documentazione TLIO, solo in due volgarizzamenti, uno di area messinese (UGOLINI 1967) e uno di area napoletana (DE BLASI 1983); per l’area pisana, il nostro testo sembra essere l’unica attestazione. Tale forma sarebbe però perfettamente compatibile con il vocalismo di area sarda, in cui si osserva il mancato passaggio di I latina atona (sia essa breve o lunga) ad e: per fare qualche esempio, nell’incunabolo della Carta de Logu si legge l’infinito videre (MURGIA 2016: § 112.1), mentre nel manoscritto dello stesso testo si legge la forma con betacismo biere (LUPINU 2010: § CXII.1), attestata anche nel Condaghe di Bonarcado (VIRDIS 2002: § 36). A questo si potrebbe poi aggiungere che anche nel Breve di Villa di Chiesa (RAVANI 2011a) non mancano esempi di congiuntivo imperfetto alla 3a persona plurale con l’uscita in -ino, per quanto sia maggioritario l’allomorfo in -eno. Una singola carta che esibisce qualche raro sardismo fonetico e morfologico all’interno di un intero manoscritto scritto in pisano potrebbe sembrare niente più che un accidente, di certo interessante e significativo, ma comunque isolato. Di fatto, però, non si tratta di una caso meramente fortuito se confrontato con altri documenti che provengono dalle cancellerie sarde (e non solo della parte meridionale dell’isola76) o che a quegli stessi uffici erano destinati (MELONI 1995), documenti che non sono di certo estranei a una prassi scrittoria, propria delle cancellerie, in cui si evidenziano fenomeni di plurilinguismo. 76 Si pensi alla situazione arborense illustrata in LOI CORVETTO (1992). Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https://rhesis.it/ Linguistics and Philology, 8.1: 77-110, 2017 105 Con un piede saldamente ancorato al Continente e un altro sull’Isola, il Breve Portus Kallaretani rivela insomma la sua natura di testo “ancipite”: documento sostanzialmente pisano nella matrice e nell’ideologia politica che vi è sottesa, è però di fondamentale importanza anche per la storia della Sardegna medievale, e la sua lingua, che almeno in un punto si fa stratificata e polimorfica, è la conferma delle due anime che confluiscono in questo manoscritto. Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https://rhesis.it/ Linguistics and Philology, 8.1: 77-110, 2017 106 Riferimenti bibliografici ARTIZZU, Francesco (1961-1965), “Liber Fondachi. 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[Ultimo accesso: 6 ottobre 2017] Giulia Murgia Università di Cagliari giulia.murgia@hotmail.it Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https://rhesis.it/ Linguistics and Philology, 8.1: 77-110, 2017 111 Il clitico [ŋkɛ] in sardo orgolese: dalla deissi all’aspetto Carminu Pintore (Università di Cagliari) Abstract The study above focuses mainly on the function of the clitic [ŋkɛ] and its use in ‘Orgolesu’, a variety of the Sardinian language. It has been the purpose of this study to provide a first overview of the function, semantics and grammaticalization of this clitic, which ranges from the spatial to the actional and the aspectual domains. The research framework chosen for this research is the theory of grammaticalization, defined as «an approach to language study, one that highlights the interaction of use with structure, and the non-discreteness of many properties of language» (HOPPER and TRAUGOTT (2003 [1993]: xvi). The clitic [ŋkɛ] showed to be an example of ‘polygrammaticalization’ as it has developed different grammatical functions in different constructions. As a matter of fact, it can encode ‘distance’ in locative and existential constructions as well as directional meanings such as ‘motion from’ and ‘motion towards’. In the aspectual domain, the clitic [ŋkɛ] codifies telic meaning and is therefore used to express change of state and perfective meanings. To sum up, the aim of this research is to show that the multi-functionality and polysemy of the clitic [ŋkɛ] can be explained diachronically by examining its original meaning, and synchronically through its diverse uses. From an originally deictic basic meaning, the clitic [ŋkɛ] has grammaticalized and spread to perform actional, temporal and aspectual functions. Key Words – Sardinian syntax; deixis; aspect; grammaticalization; clitics In questo lavoro, senza alcuna pretesa di esaustività, ho effettuato una prima indagine della funzione del clitico [ŋkɛ] in orgolese. Il clitico in oggetto è un elemento polifunzionale, il cui utilizzo è andato espandendosi dal dominio spaziale a quello azionale e tempo-aspettuale. Nonostante si sia conservato il suo utilizzo in alcuni dei contesti originari, la funzione di [ŋkɛ] è stata generalizzata, rendendo il clitico disponibile a un suo utilizzo in molti altri contesti, alcuni dei quali di natura del tutto differente da quelli originari. Il fine ultimo di questa ricerca è mostrare come la polifunzionalità di [ŋkɛ] possa essere spiegata sincronicamente analizzando il legame fra i suoi diversi utilizzi; e diacronicamente individuando un significato basilare originario dal quale il clitico ha espanso il suo significato, passando a codificare valori azionali, temporali e aspettuali. In prospettiva futura, sarebbe auspicabile una ricerca volta a monitorare la variazione diatopica nel panorama della lingua sarda, correlata all’ampliamento dell’analisi agli altri clitici avverbiali sardi. Parole chiave – Sintassi del sardo; deissi; aspetto; grammaticalizzazione; clitici Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https://rhesis.it/ Linguistics and Philology, 8.1: 111-137, 2017 112 1. L’indagine Il presente lavoro indaga le funzioni del clitico [ŋkɛ] in sardo orgolese e, secondariamente, in baroniese1. Nonostante questo lavoro sia focalizzato sull’uso di [ŋkɛ] in orgolese, i dati raccolti tra i parlanti baroniesi si sono rivelati estremamente preziosi, principalmente per due motivi: - 1: l’utilizzo di [ŋkɛ] coincide regolarmente nelle due parlate, l’orgolese e l’oroseino. - 2: molte occorrenze divergono nelle due parlate solo nella scelta (fra sinonimi) del verbo che ospita il clitico, mentre il profilo funzionale di [ŋkɛ] rimane pressoché inalterato. Gli enunciati illustrativi di cui è costituito il questionario non sono frutto di una mia libera invenzione, ma derivano piuttosto da una serie di inchieste preparatorie sul campo, svolte tramite interviste libere tra il 2009 e il 2012, miranti a individuare i diversi contesti di occorrenza di [ŋkɛ]. Pertanto, almeno nella maggior parte dei casi, ho usato come stimolo enunciati già formulati da altri parlanti di madre lingua orgolese, da me registrati nelle prime fasi di raccolta dati. In questo caso, il fine immediato era quello di verificare quali fossero i significati attualmente codificati da [ŋkɛ] (dunque, inscritti nel suo profilo semantico, non sensibili a variazioni contestuali) e quali fossero, invece, le informazioni contestuali contingenti e dunque le implicazioni pragmatiche dipendenti dal contesto2. L’attenzione verso la bipartizione fra semantica e pragmatica è giustificata dalla natura deittica del clitico oggetto dell’analisi3. Partendo da questo presupposto, ho dedicato particolare attenzione all’uso del clitico nelle sue occorrenze all’interno di interazioni spontanee. 1.1. Il questionario In questo paragrafo verrà presentato il questionario; vedremo in dettaglio come sia composto il campione, la forma e i contenuti del questionario, e i metodi con cui è stato somministrato. Il campione. I questionari sono stati somministrati tra dicembre 2013 e gennaio 2014 a Orgosolo. Il campione di riferimento dello studio risulta costituito da 20 informatori, di cui 8 di sesso maschile e 12 di sesso femminile. Fra l’informatore più giovane e quello più anziano c’è uno scarto di 68 anni. Una gamma d’informatori così tanto differenziata in base alla loro età anagrafica è funzionale al monitoraggio di eventuali variazioni intergenerazionali nell’uso del clitico. Inoltre, sono stati intervistati informatori provenienti da diversi trichinzos (piccoli quartieri) al fine di valutare se esistessero variazioni micro-diatopiche nell’utilizzo del clitico. Nella scelta degli informatori non sono stati presi in considerazione parametri legati al loro livello di istruzione o alla loro professione. Ho considerato come unico parametro 1 Per la classificazione dialettale del sardo, si fa riferimento a VIRDIS (1988). Nel suo articolo sui dimostrativi del lao, ENFIELD (2003: 85) sottolinea che per una più precisa comprensione delle espressioni deittiche è necessaria una distinzione fra significati effettivamente codificati (indipendenti dal contesto in cui il segno linguistico viene enunciato) e significati dipendenti dal contesto. Il che ben si comprende in ragione della stretta e peculiare interfaccia di semantica e pragmatica nel dominio della deissi. Peraltro, nonostante questa polarizzazione pragmatica/semantica, i due ambiti vanno considerati complementari e interdipendenti, e devono essere studiati simultaneamente. 3 Si veda, ad esempio, ENFIELD (2003), DIESSEL (1999), LYONS (1977). 2 Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https://rhesis.it/ Linguistics and Philology, 8.1: 111-137, 2017 113 valido il livello di competenza linguistica, prediligendo gli informatori che avessero vissuto la maggior parte della loro vita nel paese d’origine. Struttura. Il profilo funzionale del clitico [ŋkɛ] è stato suddiviso in categorie e tratti semantici, per facilitarne la classificazione e per affrontare una discussione critica maggiormente precisa. Tuttavia, tali categorie non funzionano fattualmente per compartimenti stagni, sono piuttosto collegate l’una con l’altra. A questo proposito, l’interdipendenza e complementarietà di deissi, azionalità e aspetto verranno affrontate nei paragrafi 4 e 5. Il questionario è composto da 48 quesiti, alcuni a risposta chiusa, altri a risposta multipla. Le domande a risposta chiusa si basano su coppie oppositive basate sul parametro [±ŋkɛ], oppure su un semplice test sulla grammaticalità delle frasi proposte. Le domande a risposta multipla propongono una gamma più vasta di esempi, in cui lo stesso concetto è espresso in diverse versioni. In alcuni quesiti, sia che essi prevedano una risposta chiusa o multipla, si propongono un contesto o una situazione che ne guidano l’interpretazione. I contenuti di alcuni quesiti si ripetono con formulazioni diverse per accertare l’affidabilità delle risposte date. Per esempio i quesiti 5, 37 e 45 indagano tutti l’opposizione b’at versus bi [ŋkɛ] at. Sono inoltre presenti: (a) un test sulla struttura morfologica: verbo + clitici + [ŋkɛ] sul modello [βatti-mmikˈkɛ-ɳɖɛ], analizzato nelle sue varianti: [βatti-kˈkɛ-lu], [βatti-kkɛ-ɳˈɖɛ-li], ecc. (b) un test con un sistema di coppie oppositive basate sul parametro [±ŋkɛ], ad esempio [abˈbista] versus [abˈbista-kkɛ]. (c) un breve test di scrittura (4 frasi) per monitorare la rianalisi dei costrutti [ŋkɛ] + ausiliari. Contenuti. I contenuti presenti nel questionario sono divisibili in 4 categorie principali: (a) istanze in cui [ŋkɛ] svolge una funzione spaziale. (b) istanze in cui [ŋkɛ] svolge una funzione azionale e va a creare opposizioni semantiche fra costruzioni non-marcate e costruzioni marcate morfologicamente. (c) istanze in cui [ŋkɛ] svolge una funzione tempo-aspettuale. (d) istanze in cui [ŋkɛ] indica un cambiamento di stato. Se gli argomenti corrispondessero ai semi delle carte, sarebbe corretto dire che io ho mischiato il mazzo. Ho evitato cioè di ordinare le domande per argomenti, al fine di sfavorire l’individuazione, da parte degli informatori, dell’argomento di indagine. Modalità di somministrazione. Le interviste sono state effettuate integralmente in sardo, sia per avvicinare l’informatore all’intervistatore ma principalmente perché Orgosolo è una comunità fondamentalmente sardofona, in cui il rapporto di diglossia fra sardo e italiano pende a favore della lingua autoctona. Le interviste sono state, previo consenso degli informatori, registrate in tracce audio. Il supporto audio garantisce, fra gli altri vantaggi, la raccolta di occorrenze del fenomeno in esame al di fuori dello schema previsto dal questionario. Queste occorrenze hanno una valenza ancora maggiore rispetto a quelle elicitate attraverso i quesiti previsti nel testo, in quanto frutto di interazioni spontanee. Durante la somministrazione dei questionari ho utilizzato frequentemente frasi agrammaticali (queste, ovviamente, di mia formulazione), in particolare all’inizio dell’intervista, in modo tale da permettere all’informatore di formulare frasi grammaticali in maniera più spontanea. Il rischio insito nel proporre frasi agrammaticali è quello di vederle accettate da parlanti privi di un controllo pieno della lingua Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https://rhesis.it/ Linguistics and Philology, 8.1: 111-137, 2017 114 analizzata. In questo caso è un rischio calcolato, in quanto per tutti gli informatori la lingua sarda (e in particolare la variante orgolese) è L1, la loro lingua madre della quale hanno competenza piena. Il metodo che ho adottato prevede una progressiva riduzione delle frasi agrammaticali lungo lo svolgimento dell’intervista, con continue citazioni delle frasi precedentemente formulate dal ‘maestro-informatore’. Questo accorgimento, oltre a dare all’informatore fiducia nella sua competenza linguistica, concede allo stesso la possibilità di autocorreggere eventuali errori o ambiguità manifestatesi precedentemente. Una volta accertata la competenza linguistica dell’intervistato e la coerenza interna dei dati da lui proposti si possono chiedere spiegazioni ‘teoriche’, da non considerarsi come regole grammaticali assolute bensì come indicazioni utili. Tali ‘regole grammaticali’ in un quadro teorico incentrato sulla grammaticalizzazione si sono spesso rivelate casi di rianalisi4. 2. Basi teoriche 2.1. Definizioni I linguisti e i lessicografi che si sono occupati dell’argomento concordano nel far risalire il clitico [ŋkɛ] all’avverbio latino hinc. Scegliamo come punto di partenza la definizione che Max Lepold Wagner dà del clitico nel suo Dizionario Etimologico Sardo5. Nella definizione di Wagner troviamo preziosissime testimonianze dell’utilizzo del clitico già nei condaghes e nelle Carte volgari dell’Archivio Arcivescovile di Cagliari. Data la natura descrittiva e sincronica del mio lavoro, mi son astenuto dall’analizzare il clitico nei documenti sardi antichi, riservandomi di operare in questo senso in futuro. Ci basti sottolineare la presenza del clitico lungo l’ultimo millennio di storia del sardo. Le indicazioni d’uso più precise e più dettagliate, fra quelle esaminate, appartengono certamente al Ditzionàriu de sa limba e de sa cultura sarda di Mario Puddu6. In questo caso siamo di fronte a un’analisi assai più profonda del clitico; si sottolinea il significato distale di [ŋkɛ] in funzione spaziale: «si narat pessendhe a logu atesu de ue unu este» (si Vedi HOPPER AND TRAUGOTT (2003 [1993]: 39): «In reanalysis, the grammatical – syntactic and morphological – and semantic properties of forms are modified. These modifications comprise changes in interpretation, such as syntactic bracketing and meaning, but not at first change in form. Reanalysis is the most important mechanism for grammaticalization, as for all change, because it is a prerequisite for the implementation of the change through analogy». 5 WAGNER (1960-64, sub voce): «inke e spesso con assimilazione ìkke log. (HLS, 362); ìnči camp. ‘ci’, usato frequentemente come enclitico ed anche pleonasticamente come nell’ital. Mer. (CSP 27: Therkis de Nureki, kì’nke fuit curatore in Romania; […]) […] = HINC(E). Il MEYER-LÜBKE. Altlog., § 41, p. 38 crede che inke corrisponda a HICCE e che debba il suo n a inde, ed’è ben possibile che inde abbia influito nella forma e nel significato di inke. Ma pure non si può dubitare che originariamente inke risale a HINC, perché occorre anche nel significato di ‘da qui’: CSP 42: et ffugiruninke a Gallul ‘e fuggirono da qui alla Gallura’». 6 PUDDU (2000, sub voce): «íche, avb: inche, inci ♦ avb. de logu indeterminadu, prus che àteru postu totu a unu cun su vrb.: sas tres formas a solas s’imprean torradas azummai semper a che, nche, nci. che, avb: chei, nce ♦ avb. o prn. de logu indefinidu, no sempre reale (pessendhe a unu "innantis" e a unu "apustis" de su èssere de una cosa): prus che àteru inditat istesionzu de ue unu est (o si narat pessendhe a logu atesu de ue unu este), ma fintzas logu inue unu este: postu apustis de unu vrb. a s’impr. e totu a unu chentz’àteru elementu (as. prn.) si fúrriat in "chei" e inditat sempre logu acurtzu a chie est faedhendhe e a bortas si ponet totu a unu fintzas cun àteru avb. de logu (as. Cudhàeche)/ […] ci, ce, ne (avverbi di luogo)». 4 Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https://rhesis.it/ Linguistics and Philology, 8.1: 111-137, 2017 115 dice pensando a un luogo distante da dove si è) e, ancora più importante, si evidenzia il valore tempo-aspettuale di [ŋkɛ], definendolo un: «prn. de logu indefinidu, no sempre reale (pessendhe a unu “innantis” e a unu “apustis” de su èssere de una cosa)»7. Anche in questo caso, abbiamo il ben documentato sviluppo del valore del clitico da luogo a tempo (si veda, per esempio, HASPELMATH [1997]). Partiamo dalla considerazione che, fatta eccezione per la definizione data da Puddu, le etichette finora applicate al clitico [ŋkɛ] non si sposano con i dati ricavati dalla nostra ricerca sul campo. Definiremo [ŋkɛ] come un modificatore del verbo, come un avverbiale sia spaziale che temporale. [ŋkɛ] non occorre nei sintagmi nominali, si lega sempre semanticamente (e spesso morfologicamente) all’elemento verbale, in assenza del quale non può occorrere. Il clitico seleziona una gamma di significati ben definiti, all’interno delle possibili connotazioni di una forma verbale. 2.2. Quadro teorico La teoria della grammaticalizzazione costituisce l’impalcatura che regge tutto il mio lavoro, nonché il punto di vista da me eletto per indagare il funzionamento del clitico [ŋkɛ]. Da un punto di vista diacronico, si possono considerare gli studi sulla grammaticalizzazione come incentrati sul processo linguistico attraverso il quale un elemento lessicale assume caratteristiche grammaticali e, una volta grammaticalizzato, assume valori sempre ‘più grammaticali’8. In questo studio assumiamo che il clitico [ŋkɛ] derivi dall’avverbio latino HINC, un elemento di per sé già grammaticale, considerando che oltre al valore locale/ablativo aveva anche valore temporale e causativo. Pertanto, questa tesi intende spiegare come questo elemento già grammaticalizzato abbia assunto nuove funzioni grammaticali, tra le quali valore di moto a luogo, valore telico e valore aspettuale perfettivo. La teoria della grammaticalizzazione ci permette di comprendere al meglio la funzione di un elemento linguistico basandoci sull’analisi del suo mutamento lungo l’asse diacronico. Il funzionamento di un elemento linguistico in una certa sincronia è in larga parte condizionato dal suo significato precedente che talvolta ‘persiste’ ancora nella forma attuale, operandosi così una sorta di ‘compressione’ paradossa delle diverse fasi dello sviluppo diacronico9. Grazie al processo di generalizzazione semantica10, il clitico [ŋkɛ] è passato da un uso limitato ai contesti in cui è presente un verbo di movimento a contesti sempre più diversificati. Il risultato più evidente di questa “prn. di luogo indefinito, non sempre reale (pensando a un ‘prima’ e a un ‘dopo’ nell’esistenza di una cosa)”. 8 Vedi HOPPER and TRAUGOTT (2003 [1993]: 1): «As a term referring to a research framework, ‘grammaticalization’ refers to that part of the study of language change that is concerned with such questions as how lexical items and constructions come in certain linguistic contexts to serve grammatical functions or how grammatical items develop new grammatical functions». 9 Vedi HOPPER and TRAUGOTT (2003 [1993]: 96): «[...] later constraints on structure or meaning can only be understood in the light of earlier meanings. In other words, when a form undergoes grammaticalization from a lexical to a grammatical item, some traces of its original lexical meanings tend to adhere to it, and details of its lexical history may be reflected in constraints on its grammatical distribution. This phenomenon has been called “persistence” (HOPPER 1991)». 10 In questo paragrafo utilizzo il termine ‘generalizzazione’ nel senso in cui viene utilizzato in HOPPER and TRAUGOTT (2003 [1993]: 101): «Generalization is a process which can be characterized, in part, as an increase in the polysemies of a form, and in part as: “an increase of the range of a morpheme advancing from a lexical to a grammatical or from a less grammatical to a more grammatical status” (K URYŁOWICZ 1976 [1965]: 69)». 7 Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https://rhesis.it/ Linguistics and Philology, 8.1: 111-137, 2017 116 generalizzazione è un graduale slittamento della semantica di [ŋkɛ] da un piano concreto (movimento, direzione) a un piano sempre più astratto (cambiamento di stato, valore egressivo dell’aspetto perfettivo). L’arricchimento pragmatico di [ŋkɛ] lo ha reso polisemico. Le implicazioni conversazionali inizialmente legate ai contesti degli enunciati, sono state convenzionalizzate (o ‘semanticizzate’) trasformandosi in significati secondari. La trafila di grammaticalizzazione che ha interessato il clitico [ŋkɛ] ha origine deittica e, attraverso l’assunzione di tratti azionali, ha concluso il suo percorso nel dominio aspettuale. Per quanto concerne la deissi, abbiamo utilizzato come punto di riferimento il classico LYONS (1977: 637): «The term ‘deixis’ [...] refers to the function of personal and demonstrative pronouns, of tense and of a variety of other grammatical and lexical features which relate utterances to the spatio-temporal co-ordinates of the act of utterance». Inoltre, nel presente lavoro condividiamo la prospettiva di JUNGBLUTH (2003)11, che introduce la nozione di «dyad of conversation» per inserire il parlante e l’ascoltatore all’interno di uno spazio comune e sottolineare l’importanza che ricopre l’ascoltatore nella scelta e nell’utilizzo, da parte del parlante, degli elementi deittici. Sia quando facciamo riferimento al dominio azionale, sia quando ci riferiamo al dominio aspettuale, adotteremo (questa volta da COMRIE 1976: 13) il termine ‘situazione’: «In the present work the term ‘situation’ is used as this general cover-term, i.e. a situation may be either a state, or an event, or a process». Utilizzeremo il termine ‘situazione’ per descrivere ciò che viene espresso da un verbo corredato dai suoi argomenti, a prescindere dalle caratteristiche azionali e aspettuali del verbo stesso. 2.3. Introduzione agli esempi L’esposizione degli argomenti nel presente lavoro si svolge secondo il seguente ordine: si parte dall’uso spaziale di [ŋkɛ], si prosegue con la sua interazione col profilo azionale del verbo e si conclude con gli usi aspettuali del clitico. In altri termini, percorreremo con ordine la trafila di grammaticalizzazione che ha interessato il clitico: dalla deissi all’aspetto. Ogni enunciato illustrativo estrapolato dal corpus sarà riportato in trascrizione fonetica IPA, p.es.: [ˈuð a kk isˈʔirɛ zar ˈnɔβas]. Seguirò questa scelta nel riportare testualmente il clitico oggetto della mia indagine, e le sue varianti allomorfe su base fonologica ([k], [kk], [kɛ], [kkɛ], [ŋkɛ]) all’interno degli enunciati provenienti dal corpus, e adotterò all’interno della trattazione, per ragioni di chiarezza espositiva, la forma etimologica [ŋkɛ]. Nell’esposizione degli esempi abbiamo adottato le seguenti convenzioni: – <>: fra virgolette a caporale singole vengono inserite le frasi pronunciate da chi scrive. – []: fra parentesi quadre vengono inserite le trascrizioni fonetiche degli enunciati degli informatori. – ‘’: fra virgolette singole (apici) vengono inserite le traduzioni in italiano degli enunciati. – (): fra parentesi tonde vengono inserite informazioni aggiuntive utili alla comprensione degli enunciati; per esempio, laddove parte della risposta viene omessa dall’informatore perché considerata superflua o sottointesa. 11 Per l’impostazione generale, si veda anche JUNGBLUTH and DA MILANO (2015) con specifico riferimento alle lingue romanze. Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https://rhesis.it/ Linguistics and Philology, 8.1: 111-137, 2017 117 – La formula (Q., Inf.) indica il n° del quesito e il n° dell’informatore. Quando tale formula è preceduta da una lettera, significa che l’informatore, nel rispondere al quesito, ha fornito più di un esempio, per cui ‘-a’ = 1° esempio, ‘-b’ = 2° esempio, ecc. Pertanto, la formula: –b (Q.3, Inf.1), indica che si tratta del 2° esempio fornito dal 1° informatore al 3° quesito. 3. Uso spaziale di [ŋkɛ] Come abbiamo già ricordato, il dominio d’origine del clitico [ŋkɛ] è quello spaziale. All’interno del dominio spaziale, [ŋkɛ] ha funzione locativa o direzionale; i parametri correlati all’uso di [ŋkɛ] nella sua funzione locativa sono legati alla distanza rispetto al centro deittico, riassumibile con il parametro [±DISTALE], e all’accessibilità sensoriale del referente ‘indicato’ dal clitico, che indicheremo servendoci del parametro [±VISIBILE]. In questo ambito, i tratti selezionati da [ŋkɛ] sono [+DISTALE] e [‒VISIBILE]; tuttavia, in presenza del tratto [‒VISIBILE], il clitico può codificare anche il tratto [‒DISTALE]. In questo caso può occorrere in costruzioni del tipo: [inˈnɔʔɛ βi kˈk aða], il cui senso, sulla base dei parametri da noi indicati, è traducibile come ‘qui [‒VISIBILE] c’è’, o più semplicemente ‘qui [DENTRO] c’è’. Possiamo pertanto proporre una prima generalizzazione, per cui: (a): [‒ŋkɛ] = generale. (b): [+ŋkɛ] = restrittivo, specifico. 3.1. Locazione distale, locazione inaccessibile I tratti selezionati da [ŋkɛ] nella sua funzione locativa sono accomunabili concettualmente se facciamo affidamento sulla nozione di here-space introdotta da ENFIELD (2003: 89). La nozione di here-space (‘qui’) è stata utilizzata in quanto ha a che fare sia col tratto [‒DISTALE] che col tratto [+VISIBILE]. Lo here-space definisce una locazione o un’area in maniera concettuale, non necessariamente correlata a fatti fisici. Si tratta piuttosto di un luogo o un’area che il parlante considera parte del suo ‘qui’ in un determinato momento e per un determinato scopo. Il clitico [ŋkɛ] si riferisce prototipicamente a referenti considerati ‘non qui’ dal locutore, perché distanti dal centro deittico o irraggiungibili alla vista. Nella sua funzione locale-direzionale il clitico [ŋkɛ] conserva più chiaramente il suo significato originario. Quando agisce nel dominio spaziale, [ŋkɛ] serve principalmente a indicare un luogo (o un elemento) distante o inaccessibile alla vista, perciò si ha un’opposizione fra [ˈɛst inˈnɔʔɛ] ʻè quiʼ e [ˈk ɛst iŋˈkuʔɛ / iˈniβɛ / iŋkuɖˈɖaɛ] ʻ[ŋkɛ] è lì / là / laggiùʼ. Nel caso di un oggetto vicino ma [‒VISIBILE] si ha la forma [ˈk ɛst inˈnɔʔɛ] ʻ[ŋkɛ] è qui [DENTRO]ʼ. È a questo punto necessaria una precisazione. Il quesito n° 15 del questionario proponeva una frase del tipo: ʻDov’è Tizio? Non lo vedo da anni!ʼ. Tale quesito poggiava su quella che per un orgolese è un’implicazione logica: se una persona fa parte del nostro nucleo familiare o della nostra cerchia di amici, e non vediamo tale persona da molto tempo, si presuppone che tale persona non sia più nel nostro paese, quindi il nostro referente avrà una locazione [DISTALE] rispetto a noi. Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https://rhesis.it/ Linguistics and Philology, 8.1: 111-137, 2017 118 Qui si palesa il legame fra i tratti [‒VISIBILE] e [DISTALE]: un referente che rimane con continuità al di fuori del nostro campo visivo viene catalogato concettualmente come [DISTALE]. (1) (Q.15, Inf.2): [inuβ ˈɛstɛ zi ˈnara ˈʔaɳɖɔ maŋˈkari ˈɛstɛ akˈkurʦu ˈʔaɳɖɔ ɳɖ ˈisʔi ʔi ˈɛst akˈkurʦu ˈʔaɳɖɔ ˈl ɛs ʔilˈʔaɳɖɛ ˈproppiu ikˈkuʔɛ]. [zi ˈnɔ zi ˈnaraða iˈnuβɛ kˈk ɛstɛ]. ʻ[inuβ ˈɛstɛ] si dice quando magari (il referente) si trova vicino, quando si sa che è vicino, quando lo si sta cercando proprio lì. Se no si dice [iˈnuβɛ kˈk ɛstɛ]ʼ12. Per il 2° informatore, l’uso dell’avverbiale [ŋkɛ] codifica il tratto [DISTALE], mentre la forma semplice [inuβ ˈɛstɛ] è applicata a referenti prossimali. Questa distinzione fra la forma semplice e quella combinata col clitico è confermata anche dall’8° informatore: (2) -a (Q.15, Inf.8): ˂Se non vedete Bannantoni da anni potete chiedere [inuˈβ ɛr bbannanˈtoni zɔ ˈannɔz ˈʔɛnɛ lu ˈβiɛrɛ]? ˃ [nɔ ˈnɔ]. [iˈjuβɛ ŋˈk ɛ iˈjuβɛ kˈk ɛstɛ ɛ bˈbasta]. ‘No, no. [iˈjuβɛ ŋˈk ɛ iˈjuβɛ kˈk ɛstɛ] e basta’. -b ˂Quando potreste chiedere [inuˈβ ɛr bbannanˈtoni]? ˃ ʻQuando la persona è vicina a voi, se non è qui sarà laggiùʼ. È da sottolineare come in questo caso il clitico venga pronunciato con la nasale etimologica [iˈjuβɛ ŋˈk ɛ], da questa prima analisi del corpus sembra essere questa l’unica occorrenza di [ŋkɛ] nella sua forma piena con la nasale. L’informatore n° 13 dà una spiegazione pragmatica per l’utilizzo della forma semplice [inuβ ˈɛstɛ] mettendola in relazione con il tratto [‒DISTALE]: (3) -a (Q.15, Inf.13): ˂Se non vedete una persona da anni potete chiedere qualcosa come [iˈnuβɛ kˈk ɛr bbannanˈtoni zɔ ˈannɔz ˈʔɛnɛ lu ˈβiɛrɛ]? ˃ [ˈɛja]. ʻSìʼ. -b ˂Se non vedete una persona da anni potete chiedere [inuβ ˈɛstɛ bbannanˈtoni zɔ ˈannɔz ˈʔɛnɛ lu ˈβiɛrɛ]? ˃ [ˈnɔ] [iˈnuβɛ kˈk ɛstɛ ]. [a ɳɖ ˈisʔis pruˈittɛ]? [ˈʔa inuβ ˈɛstɛ ˈl uzaza […]ˈzi prɛ ɛsˈempiu ˈzɛmmɔs im ˈmɛðas inˈnɔʔɛ a unu tˈʦertu pˈpuntu juˈβanni anˈtoni zi kˈk ɛssiði ˈɛɔ mi ˈʣirɔ ɛ nˈnarɔ ma inuβ ˈɛstɛ juβannanˈtoni pesˈsaɳɖɛ ʔi ˈziað pɛˈrɔ akˈkurʦu]. ʻNo, [iˈnuβɛ kˈk ɛstɛ ]. Sai perché? Perché [inuβ ˈɛstɛ] lo usi […] per esempio se qui siamo in tanti e a un certo punto Giovanni Antonio [zi kk] esce, io mi giro e dico: ˂ma... [inuβ ˈɛstɛ] Giovannantonio? Pensando però che sia vicino˃ʼ. Quando il punto di riferimento indicato da [ŋkɛ] viene percepito dal parlante come [akˈkurʦu], ʻvicinoʼ a sé, egli usa la forma priva di clitico [inuβ ˈɛstɛ]. La funzione di [ŋkɛ] è quella di indicare un punto di riferimento [+DISTALE]; in assenza di una ʻbarrieraʼ che separi il nostro ʻquiʼ dal nostro ʻnon quiʼ, al clitico manca un punto di riferimento da indicare. 12 Per facilitare la fruizione dei dati, le mie domande e le mie osservazioni sono state tradotte dal sardo all’italiano o proposte direttamente in italiano. Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https://rhesis.it/ Linguistics and Philology, 8.1: 111-137, 2017 119 Il quesito 15 prevedeva anche un’opposizione basata sul parametro [±ŋkɛ]: [afˈfiza ˈk ɛst iŋ kontiˈnɛntɛ] ʻAfisa [ŋkɛ] è in continente13ʼ vs. [ˈrɔma ˈɛst iŋ kontiˈnɛntɛ]. Tale distinzione esula dal parametro [±DISTALE], tuttavia, un chiaro esempio di codifica del tratto [+DISTALE] è emerso dall’indagine di tale opposizione: (4) -a. (Q.15, Inf.17) :<Se vi chiedono: ʻdov’è Afisa?ʼ, voi cosa rispondete: [k ˈɛst iŋ kontiˈnɛntɛ] o [ˈɛst iŋ kontiˈnɛntɛ]?> [k ˈɛst iŋ kontiˈnɛntɛ ʔa kˈk ɛstɛ ]. [naˈraɳɖɛ ˈɛstɛ ˈɛst inˈnɔʔɛ ˈɛst ikˈkuʔɛ ˈɛst iŋkuɖˈɖanɛ imˈbɛtʦɛs naˈraɳɖɛ ˈk ɛstɛ ˈʔɛrɛ nˈnarrɛrɛ ʔi kˈk ɛ in ˈfɔras ˈk ɛ iŋkuɖˈɖanɛ iɳɖ un ˈattɛru ˈloʔu kˈk ɛ]. ʻ[ˈk ɛst iŋ kontiˈnɛntɛ] perché [kˈk ɛstɛ ]. Se diciamo [ɛstɛ] è qui, è lì, è là; se invece diciamo [k ˈɛstɛ] vuol dire che [ŋkɛ] è fuori (dalla Sardegna), [ŋkɛ] è laggiù, [ŋkɛ] è in un altro luogoʼ -b. <Quindi non potete dire [ˈɛst iŋ kontiˈnɛntɛ], ma potete dire [ˈɛst inˈnɔʔɛ]> [zi ˈɛst inˈnɔʔɛ zi ˈnaraða ˈɛst inˈnɔʔɛ ja ˈɛst inˈnɔʔɛ zi ˈnaraða]. [zi imˈbɛtʦɛs ˈk ɛst iŋ kontiˈnɛntɛ si ˈnara ˈk ɛst iŋ kontiˈnɛntɛ]. ʻSe è qui si dice [ˈɛst inˈnɔʔɛ]. Se invece [ŋkɛ] è in continente si dice [k ˈɛst iŋ kontiˈnɛntɛ].ʼ Quindi: [ŋkɛ]+[essere] significa letteralmente ʻessere in un altro luogoʼ e semanticamente ʻessere [NON QUI]ʼ (ENFIELD 2003: 82), anche quando il nostro ʻquiʼ include tutta la Sardegna e non solo lo spazio a noi visibile. È emblematica la tautologia [k ˈɛst iŋ kontiˈnɛntɛ ʔa kˈk ɛstɛ] ʻ[ŋkɛ] è in continente perché [ŋkɛ] èʼ, in cui il nesso [ŋkɛ] + verbo [ˈɛssɛrɛ] viene pronunciato e probabilmente percepito come un unico elemento lessicale. Il tratto [‒ŋkɛ] è semanticamente più generale, mentre il tratto [+ŋkɛ] codifica solitamente una locazione ‘distante’ o ‘inaccessibile’, come esemplificato anche dall’opposizione [ˈβ aða] vs [βi kˈk aða]. Tale opposizione è trattata, ad esempio, nei quesiti 5 e 45. Consideriamo quindi la coppia oppositiva ʻ[ˈβ aða] vs [βi kˈk aða]ʼ: entrambe le forme potrebbero essere tradotte in italiano come ʻc’èʼ14. Il quesito 5 del questionario intendeva scoprire cosa cambia grammaticalmente tra dire [abˈbista ˈpetʦi βi kˈkɛ ɳɖ að ˈattɛrɔs] e [abˈbista petʦi ˈβi ɳɖ að ˈattɛrɔs] ʻguarda se ce [±ŋkɛ] ne sono altriʼ. In questo caso il referente a cui [ŋkɛ] si riferisce consiste negli [ˈattɛrɔs] ʻaltriʼ. Iniziamo col 4° informatore: (5) -a (Q.5, Inf.4): <Per voi c’è qualche differenza fra dire [abˈbista ˈpetʦi βi kˈkɛ ɳɖ að ˈattɛrɔs] e [abˈbista ˈpetʦi ˈβi ɳɖ að ˈattɛrɔs]?> [zi βi kˈkɛ ɳɖ að ˈɛstɛ iɳˈɖ unu ˈloʔuzu]. ʻ[zi βi kˈkɛ ɳɖ að] è riferito a un luogoʼ. -b [zi ˈβi ɳɖ aða ˈɛstɛ zi ˈβi ɳɖ aða in ˈfattu mˈmeu]. ʻ[zi ˈβi ɳɖ aða] lo uso quando mi stanno appresso15ʼ. -c [ˈzi βi kˈkɛ ɳɖ aða iŋ ˈkalʔi asʔuˈzorʝu iŋ kalʔi tˈtrettu iɳɖ un isˈtansia]. ʻ[ˈzi βi kˈkɛ ɳɖ aða] in qualche nascondiglio, in qualche posto, in una stanzaʼ. Con il termine ʻcontinenteʼ si definisce, per opposizione, ciò che non è Sardegna. ʻ(lett.) ci [±ŋkɛ] haʼ 15 ʻ(lett.) ce ne ha appresso mioʼ. 13 14 Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https://rhesis.it/ Linguistics and Philology, 8.1: 111-137, 2017 120 -d ʻ(Quando si dice) [zi ˈβi ɳɖ að ˈattɛrɔzɔ] si dà per inteso che io non sappia che essi mi stanno appressoʼ Qui è da notare l’uso del termine [asʔuˈzorʝu], per cui PUDDU16 dà la seguente definizione: «aschisórju, nm: ascusógliu, ascusorju cosa de valore mannu cuada de s’antigóriu […]; logu a cuare […] tesòro nascósto». La forma [βi kˈkɛ ɳɖ aða] si applica ad unu logu a cuare ʻnascondiglioʼ, un luogo per definizione inaccessibile alla vista. Non deve sorprenderci la definizione [ˈzi βi kˈkɛ ɳɖ að ˈɛstɛ iɳˈɖ unu ˈloʔuzu]. ʻ(lett.) [ˈzi βi kˈkɛ ɳɖ aða] è in un luogoʼ. È chiaro che in entrambi i casi (sia [ˈβi ɳɖ aða] che [βi kˈkɛ ɳɖ aða]) abbiamo a che fare con locazioni, c’è infatti l’altro clitico locativo ([βi]) a indicare una locazione; possiamo tradurre entrambi i nessi: b’at ([ˈβ aða]) e b’est ([ˈβ ɛstɛ]) con l’italiano ʻc’èʼ. La definizione data dal 4° informatore è motivata dal fatto che [ŋkɛ] specifica la natura della locazione: non si tratta solamente di una locazione [+DISTALE] e [‒VISIBILE], ma anche di una locazione ʻspecifica e definitaʼ, di un luogo ben determinato e ben delimitato. [ˈβ aða] è generico, [βi kˈk aða] è restrittivo e specifico. Per opposizione, in [ˈβi ɳɖ að ˈattɛrɔs] la locazione implicata non è né specifica né definita. Di conseguenza possiamo affermare che le forme con [ŋkɛ] servono a precisare la natura del luogo a cui ci si vuole riferire: [‒ŋkɛ] → locazione [+ŋkɛ] → locazione + luogo definito/luogo specifico/luogo inaccessibile/luogo distante (6) -a (Q.5, Inf.8): <Cosa cambia tra dire [abˈbista ˈpetʦi βi kˈkɛ ɳɖ að ˈattɛrɔs] e dire [abˈbista ˈpetʦi ˈβi ɳɖ að ˈattɛrɔs]?> ʻSe andiamo in un posto, dal dottore, io posso dire (a un’altra persona) [abˈbista a ˈpetʦi βi kˈkɛ ɳɖ að ˈattɛrɔs].ʼ -b <Mentre [abˈbista ˈpetʦi ˈβi ɳɖ að ˈattɛrɔs]?> [ˈʔussu lu pˈpɔðɔ ˈnarrɛr ˈʤai ˈʔaɳɖɔ kkɛ ˈzɛz inˈintrɔ ʔi mˈm ɛ ðimaɳˈɖaɳɖɛ un ˈatteru ɛ ˈɛɔ li riˈspɔɳɖɔ ˈɛi ˈβi ɳɖ að ˈattɛrɔs ˈprimma tˈtuo]. ʻQuello posso dirlo quando già [ŋkɛ] sono dentro e un altro mi sta facendo una domanda e io rispondo: sì, ce ne sono altri prima di te.ʼ < [zi kˈk aʣɛr ˈʤai ˈβiðu]?> [ɛʔˈ zi kˈk a bˈbiðu] ʻSì, se ha già guardato.ʼ In questo caso è chiara la distinzione fra un referente inaccessibile o distale e un referente incluso nel nostro ʻquiʼ ([+PROSSIMALE] o [+VISIBILE]). Nel primo contesto, i protagonisti dell’interazione si recano nello studio di un dottore e uno invita l’altro ad entrare (guadagnando visibilità) e a guardare se dentro ci sia altra gente: [abˈbista a ˈpetʦi βi kˈkɛ ɳɖ að ˈattɛrɔs]. L’ambiente dentro cui c’è da guardare se ci siano altre persone fa parte del ʻnon quiʼ degli interlocutori. La forma [ˈβi ɳɖ að ˈattɛrɔs], al contrario, è utilizzata nel caso in cui il parlante si trovi già all’interno dello studio, il quale fa parte del suo ʻquiʼ, per cui egli non può indicare tale luogo con [ŋkɛ]. 16 PUDDU 2000, sub voce. Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https://rhesis.it/ Linguistics and Philology, 8.1: 111-137, 2017 121 3.2. Funzione direzionale Quando il clitico [ŋkɛ] adempie a una funzione ‘direzionale’, piuttosto che locativa, esso può indicare movimenti sia dalla fonte sia verso la meta. C’è da notare come i locativi distali e i direzionali siano semanticamente legati dal concetto di ‘distanza’, intesa come ‘intervallo spaziale’ o come ‘distanza del referente spaziale rispetto al centro deittico’. Quando indichiamo una direzione, implichiamo un cambiamento di locazione: loc¹ → loc², fra questi referenti spaziali, almeno uno è necessariamente diverso dal centro deittico. Iniziamo col riportare una battuta dal Miles gloriosus di Plauto per poi confrontarla con l’esempio (7) in cui il clitico [ŋkɛ] codifica un allontanamento dalla fonte: Scel. Haec mulier, quae hinc exit modo, estne erilis concubina Philocomasium, an non est ea? [Pl. Mil. 416] (7) (Q.3, Inf.20): [primiðiβ ˈɛɔ ˈʔa mi kk esˈsiɔ ˈʔiθɔ]. ʻIo ero mattiniero (o tempestivo) perché uscivo presto (di casa)ʼ. Nell’esempio (7) abbiamo una fonte implicita, non lessicalizzata: la casa da cui il soggetto della frase esce. In casi come questo, in cui il clitico [ŋkɛ] ha funzione ablativa, esso è prossimo al suo significato basilare originario; tuttavia, abbiamo sottolineato come l’avverbio [ŋkɛ] si sia generalizzato semanticamente, per cui può essere utilizzato sia col suo significato ablativo originario che con significato telico. Nei due esempi seguenti il clitico [ŋkɛ] viene applicato allo stesso verbo ([aˈɳɖarɛ]) per indicare due movimenti di natura diversa: (8) (Q.3, Inf.5): [ˈzi ði kkɛ ˈβɔlɛz aˈɳɖarɛ ði kˈk aɳɖas ˈpuru ˈvinas ˈʔɛnɛ mˈmimmi]. ʻSe vuoi andartene puoi anche andartene senza di meʼ. (9) [ˈatta li ˈaza a kk aɳˈɖarɛ a ˈʔussu ˈloʔus]. ʻSei riuscito ad andare in quel luogo?ʼ Nell’esempio (8) il clitico [ŋkɛ] ha nuovamente una funzione ablativa, mentre nell’esempio (9) il clitico [ŋkɛ] indica il raggiungimento di una meta e ha pertanto valore telico. Questa generalizzazione semantica (l’acquisizione da parte di [ŋkɛ] del valore telico) si rivelerà cruciale per l’evoluzione del clitico, aprendogli la strada verso la codifica dei tratti [PUNTUALE] e [EGRESSIVO]. 4. Fra deissi e azionalità Il clitico [ŋkɛ] funziona come un ‘selettore’, ossia come un dispositivo che consente di operare una selezione tra funzioni semantico-pragmatiche diverse. Le funzioni sono connesse al verbo a cui il clitico si lega, che ha nelle sue connotazioni modalità alternative di funzionamento. Ad esempio, se consideriamo il verbo [ʔɔˈlarɛ], possiamo rilevare tra le sue connotazioni ‘passare’, ‘transitare’, ‘filtrare’, ‘trascorrere’, ‘oltrepassare’, ‘sorpassare’. Il clitico [ŋkɛ], applicato al verbo [ʔɔˈlarɛ], seleziona quei significati che implicano semanticamente un cambiamento di locazione o una situazione telica. Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https://rhesis.it/ Linguistics and Philology, 8.1: 111-137, 2017 122 Il clitico [ŋkɛ] viene utilizzato in orgolese con una funzione simile a quella degli avverbi locativi nei verbi sintagmatici italiani e, in alcuni casi, con funzioni simili alle adposizioni / avverbi dei phrasal verbs inglesi (SPREAFICO 2009). La sua peculiarità è che viene utilizzato sia con un senso locativo sia con un senso direzionale; lo stesso clitico vale per gli avverbi italiani: ‘via’, ‘dentro’, ‘lontano’, ‘giù’, ‘oltre’ e, nel dominio tempo-aspettuale, vale per gli avverbi italiani ‘già’, ‘totalmente’, ‘completamente’. Prima di proseguire, al fine di chiarire meglio l’espansione dello spettro semanticofunzionale di [ŋkɛ] sarà utile proporre alcuni esempi che ne chiariscano la polisemia, accompagnandoli a forme equivalenti in italiano. Come appena detto, se si aggiunge il clitico [ŋkɛ] al verbo [ʔɔˈlarɛ] ‘passare’, otteniamo il significato: ‘passare andando oltre’, come nella forma [ˈk ammɔs ʔoˈlau z isʔansaˈðorʝu], traducibile come: ‘abbiamo oltrepassato il bivio’, o ‘ci siamo lasciati dietro il bivio’. Nel paragrafo 3 abbiamo visto come il clitico [ŋkɛ] possa valere anche per l’avverbio italiano ‘dentro’ ([‒VISIBILE]); nello specifico, abbiamo detto che la forma [inˈnɔʔɛ βi kk aða] è traducibile come ‘qui dentro c’è’. Similmente, il clitico [ŋkɛ] può valere per l’avverbio italiano ‘via’. In orgolese, il verbo [ˈjuʔɛrɛ] ‘portare’, ha un profilo argomentale che prevede una funzione argomentale ‘locale’, che viene lessicalizzata da [ŋkɛ], per cui [kɛ ˈjuʔɛrɛ] significa ‘portare via’. Il verbo vede modificata la sua semantica in virtù del fatto che il clitico [ŋkɛ] introduce fra gli argomenti del verbo stesso una meta da raggiungere (dunque, viene modificata innanzitutto la struttura argomentale del predicato). Veniamo al dominio aspettuale e agli avverbi ‘già’, ‘totalmente’, ‘completamente’. Fra le funzioni del clitico c’è quella di aggiungere alla struttura verbale in cui va ad inserirsi il tratto semantico [+TELICO] e, di conseguenza, di caratterizzare la situazione come completa in quanto ‘giunta a termine’. La forma [ˈissu kˈk ɛstɛ isˈtraʔu], pertanto, è da intendersi come ‘lui è già stanco’, o ‘lui è completamente / del tutto stanco’. 4.1. Interazione fra [ŋkɛ] e i verbi di percezione I verbi di percezione possono avere nel proprio bagaglio semantico una possibile realizzazione puntuale; il clitico [ŋkɛ] seleziona questa realizzazione puntuale. Pertanto, esiste un significato del verbo ‘vedere’ che indica una facoltà e un significato che esprime una percezione di carattere puntuale, quella che VENDLER (1967: 155) chiama «spotting sense of seeing», un senso del verbo ‘vedere’ inteso come ‘scorgere’. Negli esempi seguenti, analizzeremo l’interazione fra [ŋkɛ] e i verbi [abbisˈtarɛ] ‘guardare’ e [ˈβiɛrɛ] ‘vedere’: (10) -a (Q.B, Inf.14): [abˈbista ikˈkuʔɛ ˈʔaɳɖɔ liu ˈzɛz ammɔˈaɳɖɛ]. ʻ[abˈbista] quando stai mostrando (qualcosa)ʼ. -b [abˈbistakkɛ] vuol dire andare a controllare in un posto. [ʔa maŋˈkari ˈttuɛ ˈnɔŋ kɛ ˈzɛr βiˈɛɳɖɛ]. ʻPerché magari tu non riesci a vederloʼ17. Nell’esempio (10) vediamo come il verbo [abbisˈtarɛ] privo di clitico serva per mostrare ([ammɔˈarɛ]) un punto di riferimento [VISIBILE], mentre la sua forma col clitico [abˈbistakkɛ] indichi un punto di riferimento fuori dal nostro campo visivo. In (10)-b, 17 ʻ(lett.) perché magari tu non [ŋkɛ] sei vedendoʼ. Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https://rhesis.it/ Linguistics and Philology, 8.1: 111-137, 2017 123 abbiamo un caso di interazione fra il clitico [ŋkɛ] e il verbo [ˈβiɛrɛ]: [ˈnɔŋ kɛ ˈzɛr βiˈɛɳɖɛ]. In questo caso il verbo [ˈβiɛrɛ] denota una percezione puntuale e non una facoltà: per questo motivo la forma è stata tradotta ad sensum ‘non riesci a vederlo’. Se volessimo negare una facoltà piuttosto che una realizzazione puntuale, dovremmo combinare il verbo [ˈβiɛrɛ] con il clitico [βi] e non con il clitico [ŋkɛ]: [ˈnɔm bi ˈzɛr βiˈɛɳɖɛ] = ‘non ci stai vedendo (sei accecato)’. Nell’esempio (11) siamo di fronte a una funzione puramente distale del clitico, la quale tuttavia comporta la deliberatezza e la puntualità della percezione: (11) -a (Q.B, Inf.17): [abˈbista inˈnɔʔɛ etˈtottu]. ʻGuarda proprio qui, esattamente quiʼ. -b [abˈbistakkɛ iŋkuɖˈɖanɛ]. ʻGuarda [ŋkɛ] laggiùʼ. -c ʻ[abˈbistakkɛ] si dice sempre per qualcosa più distante, per qualcosa che non vedi. Di solito quando si dice [abˈbistakkɛ] si tratta di qualcosa che non stai vedendo, [abˈbistakkɛ ikˈkuʔɛ]ʼ. (12) -a (Q.B, Inf.19): <Se ti riferisci a qualcosa vicino a noi, che vediamo entrambi cosa dici?> ʻ[abˈbista], [abˈbistakkɛ] se mando te a guardare qualcosaʼ. -b <Se qualcosa è vicina cosa dici?> [abˈbistala]. -c <Se qualcosa è vicina ma sta dentro un cassetto?> [abbistakˈkɛla]. Nell’esempio (12) è interessante il fatto che la forma marcata implichi pragmaticamente il movimento fisico dell’interlocutore; dire [abˈbistakkɛ] equivale a dire: ‘vai e guarda’. In un’indagine futura sarebbe interessante scoprire fino a che punto si tratti esclusivamente di pragmatica o se tale implicazione si sia semanticizzata. In orgolese si è sviluppato un sistema di presentativi apparentemente molto complesso. Le occorrenze registrate nelle interviste sono [ˈβi], [ˈβidʣɛ], [ˈβillu], [ˈβikkɛ], [ˈβidʣɛkkɛ], [ˈβikkɛkkɛ], [βikkɛkˈkɛllu]. Il tutto può essere ricondotto a un sistema tripartito organizzato sulla base di un gradiente di distanza crescente: [ˈβillu][ˈβikkɛ]- [ˈβikkɛkkɛ], con il termine distale [ˈβikkɛkkɛ] in cui la reduplicazione del clitico dà un’idea di maggiore distanza. I presentativi orgolesi sono formati dall’imperativo del verbo vedere [ˈβiɛrɛ] e da elementi deittici, come succede nel francese con voici e voilà. Vediamo come funzionano tali presentativi: (13) -a (Q.9, Inf.12): <Cosa dici se vedi una persona lontana?> [ˈβikkɛ a ˈissu] ʻEcco là luiʼ, oppure [βikkɛkˈkɛllu a ˈissu]. ʻEccolo laggiù luiʼ. -b <Se la persona è vicina?> [ˈβill a ˈissu]. ʻEccolo luiʼ. (14) -a (Q.9, Inf.13): <Cosa dici se vedi una persona lontana?> [βikkɛkˈkɛl a ˈissu]. ʻEccolo laggiù luiʼ. Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https://rhesis.it/ Linguistics and Philology, 8.1: 111-137, 2017 124 -b <Se la persona è vicina?> [iŋˈkuʔɛ ttˈaɳɖɔ nɔ ˈɛstɛ βikkɛkˈkɛlu ˈɛstɛ ˈβikkɛ a ˈissu ʔa lu ˈjuʔɛz a kˈkurʦu]. [ˈʔaɳɖɔ kˈk ɛst iɳˈɖɛɖɖa zimˈbɛtʦɛs ˈɛstɛ βikkɛkˈkɛlu ˈβi]. ʻIn quel caso (se la persona è vicina) allora non è [βikkɛkˈkɛlu], è [ˈβikkɛ aˈ issu], perché ce l’hai vicino. Quando ([ŋkɛ]) è lontano invece è [βikkɛkˈkɛlu ˈβi]ʼ. -c <[ˈβillu] si usa per vicino o per lontano?> [ˈprɔ a kˈkurtʦu ˈβillu]. ʻPer vicinoʼ. [ˈβikkɛ] è il termine medio della serie, un elemento neutro rispetto a [ˈβillu] (esclusivamente prossimale) e [ˈβikkɛkkɛ] (esclusivamente distale). 4.2. Funzione direzionale e opposizioni semantiche In questo paragrafo vedremo come il profilo semantico di [ŋkɛ] vada a creare opposizioni semantiche quando interagisce con un verbo. Il clitico [ŋkɛ] contiene nel suo bagaglio semantico il tratto [TELICO] e il tratto [PUNTUALE], perciò, quando un verbo ha tra le sue connotazioni una realizzazione durativa e una puntuale, il clitico selezionerà la connotazione puntuale. Se invece un verbo può connotare sia un’attività che una realizzazione, quando co-occorre con il clitico [ŋkɛ], il verbo indicherà una realizzazione, ossia una situazione telica. Come si può notare si tratta sempre di estensioni o evoluzioni della funzione deittica (o indicale) di [ŋkɛ]: se io indico il punto finale di una situazione con ogni probabilità sto indicando una situazione conclusa. Inizieremo con l’analisi dell’interazione fra il clitico [ŋkɛ] e il verbo [ˈjuʔɛrɛ]. Il verbo [ˈjuʔɛrɛ] ha due connotazioni principali, una ascrivibile al dominio direzionale e l’altra riconducibile al dominio locativo-possessivo e, per estensione, psicologico: (a) portare verso un luogo (dominio direzionale). (b) portare addosso/ dentro/ nell’animo (dominio locativo-possessivo-psicologico). Il verbo [ˈjuʔɛrɛ] combinato con il clitico [ŋkɛ] andrà a selezionare il significato intrinsecamente direzionale. (15) -a (Q.12, Inf.3): <Quando si fa la domanda [ˈittɛ ˈjuʔɛzɛ]?> [zi ˈɛɔ ˈβiɔ una ppesˈsɔnɛ […] la ˈβiɔ ʔi ˈɛstɛ a maluˈmɔrɛ la ˈβiɔ zoffɛˈrɛntɛ […] li ˈaʔɔ ˈʔusta ðimˈmaɳɖa]. ‘Se vedo una persona che è di malumore, la vedo sofferente […] faccio questa domanda’. -b <Quando si fa la domanda [ˈitt a ˈʣuttu]?> […], [ˈitt að ˈappiu ðɛ ˈzolitu ˈɛ zu ˈnostru], [ˈitt að ˈappiu prus ˈʔi itt a ˈʣuttu]. ‘(A Orgosolo) noi diciamo [ˈitt að ˈappiu] piuttosto che [ˈitt a ˈʣuttu]’. Nell’esempio (15)-a, il verbo [ˈjuʔɛrɛ] privo di clitico codifica il significato verbale più astratto, ascrivibile al dominio locativo-possessivo-psicologico; [ˈittɛ ˈjuʔɛzɛ] è una domanda che si pone a una persona quando la si vede sofferente o di malumore, come nell’italiano ʻcosa hai?ʼ. L’esempio (15)-b mostra come la forma [ˈitt a ˈʣuttu] sia da Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https://rhesis.it/ Linguistics and Philology, 8.1: 111-137, 2017 125 considerarsi agrammaticale. Evidentemente, siamo di fronte a una restrizione semantica legata alla dimensione tempo-aspettuale del verbo. Nell’esempio (16) invece, vediamo come il verbo [ˈjuʔɛrɛ], nella sua forma combinata con l’avverbiale [ŋkɛ], codifichi un cambiamento di locazione e un movimento. Nella forma [kk a ˈʣuttu], il clitico [ŋkɛ] introduce nella situazione un oggetto e modifica la semantica verbale selezionando il significato ʻportare / recareʼ: (16) (Q.12, Inf.11): [ˈittɛ kk a ˈʣuttu ˈunu preˈzɛntɛ]? ʻ[ŋkɛ] ha portato un regalo?ʼ. La polifunzionalità di [ŋkɛ] si manifesta anche nella sua interazione con un singolo verbo. Infatti, accanto alla precedente funzione di carattere azionale, è possibile anche un’altra codifica per il clitico applicato al verbo [ˈjuʔɛrɛ]: (17) (Q.12, Inf.4): [ˈittɛ kkɛ ˈjuʔɛzɛ ˈɛstɛ kurioziˈðaðɛ]. [ˈittɛ βi kˈk aða in ˈintrɔ ðɛ ˈʔussa ʔorˈβɛɖɖa ˈittɛ kkɛ ˈjuʔɛzɛ]? [ɔ ˈittɛ kkɛ ˈjuʔɛzɛ im budˈʣakka]? ʻ[ˈittɛ kkɛ ˈjuʔɛzɛ] indica curiosità. Cosa c’è dentro quel cestino, cosa [ŋkɛ] porti? O [ˈittɛ kkɛ ˈjuʔɛzɛ] in tasca?ʼ. Per l’esempio (17), possiamo servirci nuovamente del concetto di here-space: la forma [ˈittɛ kkɛ ˈjuʔɛzɛ] indica un oggetto portato appresso o addosso ma nascosto alla vista del parlante; ancora una volta, il clitico [ŋkɛ] è legato al tratto [‒VISIBILE]; [ˈittɛ kkɛ ˈjuʔɛzɛ] è da tradursi come ʻcosa porti [in un luogo non visibile]ʼ. In diacronia, la trafila semantica sarà stata questa: da non visibile in quanto lontano [DISTALE] a non visibile tout court (a prescindere dalla distanza). Si passa da un punto di riferimento distante dal centro deittico a un punto di riferimento non visibile a causa di una barriera (fisica o no, vd. sopra, nota 2) che si frappone fra esso e il centro deittico. Il ventunesimo quesito chiedeva agli informatori se ci fossero differenze fra le due frasi: (a) Pesa cuss’ampulla18 ‘solleva quella bottiglia’. (b) Pesa·nche cuss’ampulla ‘togli quella bottiglia’.   Dall’analisi degli esempi estrapolati dal corpus, apparirà chiaro come l’opposizione ʻ[±ŋkɛ] [ˈpɛzarɛ]ʼ abbia a che fare con l’opposizione fra un’azione contingente o temporanea (tratto [‒ŋkɛ]) e un’azione assoluta o definitiva (tratto [+ŋkɛ]). Iniziamo col 4° informatore: (18) -a (Q.21, Inf.4): [ˈpɛza ˈʔuss amˈpulla ʔa aˈʔɔntʦɔ za ttiˈβaʣa]. ʻ[ˈpɛza ˈʔuss amˈpulla] così metto bene la tovagliaʼ. -b [ˈpɛzakkɛ ˈʔuss amˈpulla ˈβɔlɛ nnaˈrrɛs piʔakˈkɛla ɛ ʣuʔekˈkɛla a un ˈatteru tˈtrettu]. ʻ[ˈpɛzakkɛ ˈʔuss amˈpulla] vuol dire prendi [ŋkɛ] la e porta [ŋkɛ] la altroveʼ. 18 Il questionario è stato redatto in Limba Sarda Comuna (LSC), norma ortografica adottata nel 2006 dalla Regione Autonoma della Sardegna per la redazione di documenti ufficiali in uscita. Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https://rhesis.it/ Linguistics and Philology, 8.1: 111-137, 2017 126 In (18)-a [ˈpɛza ˈʔuss amˈpulla] il verbo privo di clitico codifica l’allontanamento temporaneo da una fonte e l’implicito ritorno alla locazione originaria. Se si usa la forma combinata con il clitico [ŋkɛ] la situazione prevede un allontanamento definitivo dalla fonte e un relativo cambio di locazione. (19) (Q.21, Inf.2): [ˈpɛza zi ˈnaraða zi ˈɛstɛ ˈa la ppɛˈzarɛ unu mamɛnˈteɖɖu ˈproppriu ʔa mmaŋˈkari ˈðɛppɛ pˈponnɛr ˈʔɔza ɔ ˈittɛ ˈpɛrɔ ʔaɳɖ ˈɛstɛ ˈa kkɛ la ʔatˈʦarɛ ðɛ sˈsu tˈtottu ˈɛstɛ ˈpɛzakkɛ ˈʔuss amˈpulla]. ‘[ˈpɛza] si dice se la si deve sollevare solo per un attimo, perché magari si deve mettere qualcosa, però quando la si deve spostare definitivamente si dice [ˈpɛzakkɛ ˈʔuss amˈpulla]’ Anche in questo caso, la forma semplice [ˈpɛza] si usa quando si deve sollevare la bottiglia solo per un attimo ([unu mamɛnˈteɖɖu]); la forma col clitico [ˈpɛzakkɛ] si usa quando la bottiglia va spostata definitivamente ([ðɛ sˈsu tˈtottu]). In questa sua occorrenza, nel clitico [ŋkɛ] convivono una funzione deittica (moto da luogo) e una funzione telico-perfettiva (azione definitiva). Il parametro [±ŋkɛ] va a creare un opposizione semantica per cui: [ˈpɛzarɛ] significa ʻsollevareʼ (momentaneamente), mentre [kkɛ ˈpɛzarɛ] significa ʻtogliere / levareʼ (definitivamente). La parte finale del questionario era costituita da una serie di coppie oppositive basate sul parametro [±ŋkɛ]. Due di queste coppie prevedevano verbi coniugati all’imperativo: [abˈbista]-[±ŋkɛ] e [ˈmɔɛði]-[±ŋkɛ]. In questa sede ci concentreremo sull’interazione fra il clitico [ŋkɛ] e il verbo [ˈmɔɛrɛ] ‘muovere, partire, spostare’. Le forme [ˈmɔɛ-ði] e [mɔɛ-ˈði-kkɛ], differenziate tra loro dall’uso del clitico [ŋkɛ], costituiscono un’opposizione semantica di carattere lessicale: [ˈmɔɛ-ði] significa ʻmuoviti / accelera / sbrigatiʼ, [mɔɛ-ˈði-kkɛ] significa ʻspostati / togliti / vai via da quiʼ: (20) -a (Q.B, Inf.9): [ˈmɔɛði ˈβɔlɛ nˈnarɣɛrɛ a kkottiˈarɛ]. ʻ[ˈmɔɛði] vuol dire spicciati / fai in frettaʼ. -b [mɔɛˈðikkɛ a ˈði kk isʔosˈtiarɛ a ˈði kkɛ dɔˈgarɛ ðaɛ ˈʔussu ˈtrettu]. ʻ[mɔɛˈðikkɛ] (vuol dire) spostati, levati da quel postoʼ. (21) -a (Q.B, Inf.15) [ˈmɔɛði ˈɛstɛ atˈʦɛllɛra]. ʻ[ˈmɔɛði] vuol dire acceleraʼ. -b [mɔɛˈðikkɛ ˈɛstɛ tiraˈðikkɛ]. ʻ[mɔɛˈðikkɛ] vuol dire spostati da lìʼ. Possiamo considerare [ˈmɔɛði] un verbo riflessivo diretto in quanto l’azione compiuta dal soggetto ricade sul soggetto stesso e in esso si esaurisce (‘tu muovi te’); in altri termini, il soggetto e l’oggetto coincidono. Nella forma col clitico [mɔɛˈðikkɛ], l’azione prevede un cambiamento di locazione, la fonte è spesso lessicalizzata, per esempio [ðaɛ ˈʔussu ˈtrettu], e coincide con la locazione del soggetto. In questo caso, il clitico [ŋkɛ] conserva un significato ablativo propriamente detto. Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https://rhesis.it/ Linguistics and Philology, 8.1: 111-137, 2017 127 5. Uso aspettuale di [ŋkɛ] Sarà utile, per evidenziare il ponte concettuale che congiunge la dimensione spaziale a quella temporale, fare riferimento a HOPPER and TRAUGOTT (2003 [1993]: 85): Probably the most appealing examples of metaphoric processes in grammaticalization are provided by the development of spatiotemporal terms. Claudi and Heine (1986) and Heine, Claudi and Hünnemeyer (1991a, b), discuss the development of body part terms into locatives, of spatials into temporals, etc. in terms of metaphores such as SPACE IS AN OBJECT, TIME IS SPACE (capitals indicate abstract cross-linguistic meanings, as opposed to language-specific lexical items). Gli esseri umani vivono contemporaneamente nello spazio e nel tempo; tuttavia, mentre la nostra percezione spaziale si appoggia su concrete realtà oggettuali o su rapporti oggettivi primari (luoghi, distanze, ecc.), nel rapportarci con la dimensione temporale siamo spesso costretti all’astrazione, ossia, in termini psico-percettivi e cognitivi, a riorganizzare i dati sensoriali sulla base di processi secondari che implicano la percezione spaziale (il tempo come movimento, come cambiamento, come progressione). Coerentemente con tali presupposti, una delle strategie per esprimere concetti legati al tempo fisico, di per sé astratti, è quello di adoperare materiale linguistico utilizzato in origine per descrivere il dominio spaziale19 (più in generale, è d’altronde risaputo (vedi già TAGIURI and PETRULLO 1958) che si usano elementi concreti in via metaforica per esprimere concetti astratti, per esternare le nostre percezioni e renderle ‘percepibili’). Un cambiamento di ‘locazione nel tempo’, o meglio di locazione temporale equivale a un movimento; perciò non desta alcuna sorpresa che gli avverbi e le locuzioni delegate all’espressione del movimento valgano frequentemente per il dominio spaziale e per quello temporale ad un tempo. È questo il caso del clitico [ŋkɛ], la cui funzione è originariamente e principalmente deittica; invero, la maggior parte degli usi di [ŋkɛ] può essere ricondotta a una funzione deittica estremamente generalizzata, riassumibile nell’indicazione di un referente di qualsiasi natura nel contesto comunicativo. Il significato originario di allontanamento dalla fonte, nella parlata orgolese, è stato generalizzato da un lato per includere il moto a luogo e, dall’altro lato, il riferimento a un referente distante e/o non visibile. Oltre a questa funzione locale generalizzata, il clitico ha assunto nuove funzioni riconducibili al suo ‘significato basilare’20 e frutto di un ‘avanzamento’ nel cline di grammaticalizzazione. Se assumiamo che [ŋkɛ] indichi una direzione o codifichi un 19 L’assunzione da parte di un elemento deittico di valenze tempo-aspettuali è facilmente spiegabile se consideriamo l’abitudine interlinguistica di trattare linguisticamente il tempo come se si trattasse di uno spazio. Un’espressione direzionale che indichi il moto da luogo può essere usata per indicare l’aspetto perfetto. A questo proposito, lo stretto rapporto concettuale fra la direzionalità e l’aspetto verbale è indicato da COMRIE (1976: 106): «Similar to, though apparently less common than, the use of locative expressions for progressive meaning, is the use of directional expressions for prospective aspectual meaning and for perfect meaning, or at least a subset of these: motion towards serving as a model for prospective meaning, and motion from as the model for perfect meaning. […] In French, venir de, literally ‘come from’, is used to express recent perfect meaning, as in je viens d’écrire la lettre ‘I have just written the letter’, as if I were emerging from being engaged in some activity ». 20 Vedi COMRIE (1976: 11): «Where a form is said to have more than one meaning, it is often the case that one of these meanings seems more central, more typical than the others. In such cases, it is usual to speak of this central meaning as the basic meaning». Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https://rhesis.it/ Linguistics and Philology, 8.1: 111-137, 2017 128 movimento, quando estendiamo il suo uso al dominio tempo-aspettuale, il clitico potrà essere impiegato per indicare un cambiamento di stato, una situazione telica o l’aspetto perfettivo. Di conseguenza, la correlazione fra l’uso clitico [ŋkɛ] e la presenza di una distanza non sussiste solamente nel dominio spaziale; le forme con il clitico [ŋkɛ] codificano distanza tempo-aspettuale oltre che spaziale. Anche gli aspetti perfettivo e imperfettivo sono collegati a un’idea di distanza. Segnatamente, l’aspetto imperfettivo codifica una situazione con il parlante al suo interno; di conseguenza la situazione verrà percepita dal parlante come facente parte del proprio ‘qui’. Al contrario, una situazione perfettiva viene presentata da una prospettiva esterna e quindi appartiene al ‘non qui’ del parlante. Tale opposizione aspettuale si può ricondurre alla nozione di here-space: il clitico [ŋkɛ], riferendosi prototipicamente a uno spazio distante dal centro deittico, viene utilizzato per la codifica dell’aspetto perfettivo. Torniamo per un attimo alla teoria della grammaticalizzazione. Non tutti i casi di grammaticalizzazione si sviluppano lungo un singolo cline (o una singola trafila). Il clitico [ŋkɛ] è un caso di poligrammaticalizzazione, nel senso inteso da HOPPER and TRAUGOTT (2003 [1993]: 114): Some show development along two or possibly more different clines. Craig has given the name ‘polygrammaticalization’ to such multiple developments, where a single form develops different grammatical functions in different constructions. Dunque, il clitico [ŋkɛ], come abbiamo visto, si carica di funzioni grammaticali differenti in base alla struttura in cui va a inserirsi. Questo fenomeno si spiega se accettiamo il fatto che la rianalisi sia collegata a un processo cognitivo di carattere metonimico. La relazione fra rianalisi e metonimia è ben trattata da HOPPER and TRAUGOTT (2003 [1993] 87-92); in questa sede ci limiteremo a dire che quando due forme contigue – nel nostro caso: verbo+clitico – vengono rianalizzate come un’unica struttura, quest’ultima avrà caratteristiche semantiche influenzate da entrambe le forme linguistiche originarie. Di conseguenza, gli usi di [ŋkɛ] relativi al cambiamento di stato e al valore egressivo dell’aspetto perfettivo non sono frutto di una ‘grammaticalizzazione di [ŋkɛ]’, ma della grammaticalizzazione di due costrutti indipendenti: ‘[ŋkɛ] + [ˈɛssɛrɛ] + participio passato / aggettivo’, ‘[ŋkɛ] + passato composto (àere + participio passato)’. Analizziamo i due costrutti uno alla volta, giustapponendo a ogni elemento i tratti semantici che gli competono: (a) [ŋkɛ] [DIREZIONALE / contingente. TELICO] + [ˈɛssɛrɛ] [STATIVO] = cambiamento di stato / stato (b) [ŋkɛ] [DIREZIONALE / valore egressivo. TELICO] + passato composto [tempo passato/ ± PERFETTIVO] = Possiamo quindi considerare queste due funzioni di [ŋkɛ] come il frutto dell’interazione della sua semantica con il bagaglio semantico degli elementi a cui si accompagna, i quali hanno avuto un ruolo centrale nella grammaticalizzazione dei nuovi costrutti. Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https://rhesis.it/ Linguistics and Philology, 8.1: 111-137, 2017 129 5.1. Cambiamento di stato Gli stativi sono solitamente legati all’aspetto imperfettivo; tuttavia, esiste una possibile interazione fra gli stativi e l’aspetto perfettivo; segnatamente, la descrizione di uno stato con la sua fase incettiva e la sua fase terminativa (COMRIE 1976: 50). Uno stato con il suo inizio e la sua fine. Il cambiamento di stato è strettamente legato al significato deittico di [ŋkɛ], ciò che cambia rispetto a una situazione locativa è il referente: non s’indica più un luogo ma un referente di natura temporale. Formalizziamo questo cambiamento del referente: [ðaɛ inˈnɔʔɛ - ŋkɛ - a ˈuʔɛ] ‘da qui a là’ → [ðaɛ tˈtandɔ - ŋkɛ - a ʔɔmmɔ] ‘da allora a adesso’. Se applichiamo questo schema a un verbo stativo diventa chiara la funzione di [ŋkɛ]: lo stato espresso è frutto di un ‘movimento’ (cambiamento) da uno stato precedente. Questo avviene nei costrutti del tipo [ŋkɛ] + [ˈɛstɛ ˈmannu], in cui il clitico aggiunge tale valore a [ˈɛstɛ ˈmannu] ‘è grande’, trasformandone il significato in ‘è diventato grande’. Si tratta di un procedimento della stessa natura di quello riportato da COMRIE (1976: 20) riguardante il cinese mandarino: «a number of predicates, both adjectives and verbs, that normally refer to a state can have ingressive meaning in the Perfective, e.g. tā gāo ‘he is tall’, tā gāo-le (Pfv.) ‘he became tall, has become tall’». L’analisi di questo valore semantico di [ŋkɛ] era l’intento di alcuni quesiti del questionario, tra i quali il primo, che indaga l’opposizione [ˈɛstɛ ˈmannu] vs. [ˈk ɛstɛ ˈmannu]. Il primo termine dell’opposizione può essere usato per esprimere un concetto come: [ɛr ˈmannu ðɛ ʔaˈrɛna] ‘è grande di corporatura’ in cui si descrive una qualità fisica del soggetto. L’elemento marcato [k ɛr ˈmannu] indica che la qualità in questione è il frutto di un processo che ha comportato un cambiamento di stato; tale forma può essere usata più facilmente per esprimere un concetto come: [k ɛr ˈmannu ðɛ ɛˈðaðɛ] ‘è già grande di età / è diventato grande di età / si è fatto grande di età’. Una situazione di questo tipo, che implica una fonte temporale e una meta temporale, circoscrive naturalmente l’evento coadiuvando una visione dello stesso come un’unità indivisibile in sottoinsiemi. La proposizione minima in questo caso è [k ɛr ˈmannu] o [ˈmannu ʔi kˈk ɛstɛ] ‘come è grande!’; tuttavia, come appena sotto si vedrà, alcuni informatori aggiungono uno o entrambi i momenti della situazione. Il punto di riferimento presente è indicato dall’avverbio [ˈʔɔmmɔ] ‘adesso’, mentre il secondo momento è indicato dalla forma [ðaɛ mˈmɛða ˈʔɛnɛ ði ˈβiɛrɛ] (non ti vedevo da molto tempo). Consideriamo nel particolare questi tre esempi: (a). [abˈbista mˈmannu ˈʔɔmmɔ ʔi zi kˈk ɛst ˈattu]. ‘(lett.) guarda grande adesso che si [ŋkɛ] è fatto’ (guarda com’è diventato grande adesso). (b). [ˈuppɔ ðaɛ mˈmɛða ˈʔɛnɛ ði ˈβiɛrɛ ɛ kkɛ ˈzɛr ˈʣa unu ˈʣɔβanu ˈattu]. ‘(lett.) ero da molto senza vederti e [ŋkɛ] sei già un giovane fatto’. (c). [ˈuppɔ ðaɛ mˈmɛða ˈʔɛnɛ ði ˈβiɛrɛ ɛ ˈʔɔmmɔ kkɛ ˈzɛz unu ˈʣɔβanu attu ˈattu ]. ‘(lett.) ero da molto senza vederti e adesso [ŋkɛ] sei già un giovane fatto’. Nell’esempio (a) l’informatore esplicita il momento d’enunciazione (la meta temporale), nell’esempio (b) viene esplicitata la fonte temporale, mentre nell’esempio (c) vengono esplicitate sia la fonte e sia la meta. Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https://rhesis.it/ Linguistics and Philology, 8.1: 111-137, 2017 130 Vediamo due esempi estrapolati dal corpus: (22) (Q.1, Inf.18): [kɛ ˈzɛr mˈmannu]. [liu ˈnarɔ a ssa mˈmamma e liu ˈnarɔ a ˈissu pˈpuru, maŋˈkari ˈnɔn lu ˈβiɔ ðaɛ mˈmɛða ɛ ˈβiɔ za ddiffeˈrɛnttsja ɛ tˈtandɔ mmi ˈβeniði isponˈtaneu a ˈliu ˈnarrɛrɛ]. ‘Sei diventato grande! Lo dico alla madre e lo dico anche a lui. Magari non lo vedo da tanto e vedo la differenza. Allora mi viene spontaneo dirlo’. La ‘differenza’ di cui parla l’informatore è quella fra uno stato precedente e lo stato attuale del ragazzo protagonista dell’esempio. (23) (Q.1, Inf.20): [ɛss aˈʔeɳɖɛzi mˈmannu]. ‘Si sta facendo grande’. In (23), vediamo che quando il processo ‘sta diventando grande’ è visto in maniera imperfettiva, ossia viene descritto durante il suo svolgimento, si può usare una forma continua priva di clitico: [ɛss aˈʔeɳɖɛzi mˈmannu]. Nelle strutture copulari del tipo ‘[ˈissu ± ŋkɛ ˈɛstɛ ˈmannu]’, la forma priva di clitico indica uno stato assoluto, mentre la forma cliticizzata codifica uno stato contingente o un cambiamento di stato. Quando nelle strutture copulari è presente un participio e non un aggettivo, il clitico svolge una funzione più complessa. A questo proposito JONES (2003 [1993]: 246) scrive: «con alcuni verbi sinche serve a distinguere l’uso verbale, perfettivo, del participio passato da quello aggettivale: per es. Sinch’est mortu ‘È spirato’ vs. Est mortu che può solo significare ‘È morto’». Concordo con Jones (che tuttavia applica la sua analisi alla forma composta ‘sinche’) nell’accordare al clitico la proprietà di selezionare un valore verbale, piuttosto che aggettivale, al participio. Si dovrebbe tuttavia considerare che la funzione del clitico è quella di aggiungere alla struttura copulare il tratto semantico [+TELICO] e, di conseguenza, di caratterizzare la situazione come completa in quanto ‘giunta a termine’; pertanto, la struttura assume una funzione verbale piena. Come abbiamo visto nel paragrafo 4, la forma [ˈissu kˈk ɛstɛ isˈtraʔu] è da intendersi come ‘lui si è stancato’, nel senso ‘lui è già stanco’, o ‘lui è completamente / del tutto stanco’. Per riassumere, proponiamo la formalizzazione: ‘stato + [ŋkɛ] = cambiamento di stato’. 5.2. Valore egressivo dell’aspetto perfettivo Aspetto verbale e azionalità sono legati dai parametri [±TELICO], [±STATIVO] e [±DURATIVO]; io sostengo che il clitico [ŋkɛ] abbia nel suo ‘bagaglio semantico’ i tratti azionali [‒DURATIVO] e [+TELICO], in virtù dei quali ha la facoltà di aggiungere ai verbi a cui si applica i tratti aspettuali [+PERFETTIVO] e [+PUNTUALE]. Partiamo dai tratti azionali [+TELICO] e [‒DURATIVO] e vediamo in che modo la loro applicazione renda perfettivo un verbo. Il clitico [ŋkɛ] aggiunge a stati e processi i tratti [+TELICO] e [‒DURATIVO] indicando il raggiungimento della meta o, in altri termini, una situazione conclusa. I processi, situazioni dinamiche considerate in maniera imperfettiva, Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https://rhesis.it/ Linguistics and Philology, 8.1: 111-137, 2017 131 vengono in tal modo modificati da [ŋkɛ] diventando eventi, situazioni dinamiche viste perfettivamente21. Facciamo un esempio: il verbo [ˈaʔɛrɛ] ʻfareʼ è un processo che, in assenza di argomenti verbali (complementi oggetto) non implica il raggiungimento di un punto finale, dobbiamo aggiungere al verbo degli argomenti per trasformare [ˈaʔɛrɛ] in un evento, come per esempio [ˈappɔ ˈattu ʔuss imˈperʝu ] ʻho fatto quella commissioneʼ (esempio mio). La maggior parte degli informatori hanno indicato la forma senza argomenti *[ˈappɔ ˈattu] come agrammaticale, indicando come forma corretta quella con il clitico [ŋkɛ]: [ˈk appɔ ˈattu]. Se aggiungiamo [ŋkɛ] al passato prossimo del verbo [ˈaʔɛrɛ] indichiamo il raggiungimento del punto finale dell’azione, in altre parole, aggiungiamo al verbo i tratti [+TELICO] e [‒DURATIVO]. A questo proposito, consideriamo quanto affermato da COMRIE (1976: 46) con particolare attenzione all’esempio latino: In some languages, it is possible to derive verbs to specifically telic situations from verbs that do not necessarily refer to telic situations, usually as part of the derivational morphology. In German, for instance, there is a contrast between kämpfen ‘fight’ (possibly without achieving anything) and erkämpfen ‘achieve by means of a fight’, the latter referring to a process of fighting that leads to some terminal point. A similar difference exists between essen and the specifically telic aufessen, and between the English glosses thereto: eat and eat up. In Latin, the same relation obtains between facere ‘make, do’ and its derivative conficere ‘complete’. A questo punto possiamo considerare ciò che avviene con i verbi fraseologici italiani e confrontarli con l’uso di [ŋkɛ]. L’italiano può aggiungere a un verbo lessicale o ʻnucleareʼ, una struttura composta da un verbo fraseologico e una preposizione per designare il carattere aspettuale di un verbo. Tali perifrasi descrivono una fase del processo indicato dal verbo lessicale, che può essere la fase incettiva: ʻincomincia a lavorareʼ, continuativa: ‘continua a lavorare’, terminativa: ‘finisce di lavorare’, ecc. Nel nostro caso ci interessa la fase terminativa e il clitico [ŋkɛ], in orgolese, ha il ruolo che in italiano ricopre la perifrasi terminativa ‘finire di’. In orgolese ‘ha finito di fare (qualcosa)’ si dice: [ˈk a fˈfattu]. Questa strategia sintattica permette all’orgolese di risolvere l’ambivalenza del passato prossimo italiano rilevata da BERTINETTO (1997: 186): «Il Passato Composto mostra una natura aspettuale ambivalente, poiché le sue primigenie valenze di compiutezza continuano a convivere con quelle aoristiche di successiva acquisizione». (24) (Q.4, Inf.2): <Facciamo finta che sia sera e che abbiate finito di lavorare, direste [ɔjɛ pˈpuru kˈk app ˈattu] o [ɔjɛ pˈpuru apˈp attu]> . ‘No, [ɔjɛ pˈpuru kˈk appɔ ˈattu]’. Il 2° informatore motiva in questo modo l’agrammaticalità di [ˈappɔ ˈattu]: ‘[ˈappɔ ˈattu] non specifica quanto ho fatto, invece [kˈk appɔ ˈattu] indica che ho concluso ciò che dovevo fare’. La forma priva di clitico non funziona senza argomenti aggiuntivi, mentre 21 Vedi COMRIE (1976: 13): «events are dynamic situations viewed as a complete whole (perfectively), whereas processes are dynamic situations viewed in progress, from within (imperfectively)». Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https://rhesis.it/ Linguistics and Philology, 8.1: 111-137, 2017 132 in [kˈk appɔ ˈattu] il clitico [ŋkɛ] specifica che il processo si è compiuto integralmente. Potremmo proporre per [kˈk appɔ ˈattu] la traduzione ‘ho fatto tutto’. Il quesito n°22 proponeva la frase [maˈria kˈk a maɳɖiˈʔau] ‘Maria [ŋkɛ] ha mangiato’, indagandone la grammaticalità. Come abbiamo visto il clitico [ŋkɛ] trasforma i processi in eventi, indicando un telos e coadiuvando una visione perfettiva della situazione; anche in questo caso, il clitico [ŋkɛ] indica la fase terminativa di una situazione. Il 1° informatore ha confermato la correttezza della forma [maˈria kˈk a maɳɖiˈʔau]: (25) -a (Q.22, Inf.1): <‘È la stessa cosa dire [maˈria kˈk a maɳɖiˈʔau] e [maˈria a ˈʤai maɳɖiˈʔau] > [ˈnɔ maˈria kˈk a maɳɖiˈʔau].[…]. ‘No, (si dice) [maˈria kˈk a maɳɖiˈʔau]’. Lo stesso informatore propone anche una coniugazione del verbo [maɳɖiˈʔarɛ]: (26) -b (Q.22, Inf.1): [kˈk a maɳɖiˈʔau ʔɔˈlau], [ˈðɛppɛ maɳɖiˈʔarɛ futˈturɔ], [ˈɛr maɳɖiˈʔaɳɖɛ prɛˈzɛntɛ]. ‘[kˈk a maɳɖiˈʔau] al passato, [ˈðɛppɛ maɳɖiˈʔarɛ] al futuro e [ˈɛr maɳɖiˈʔaɳɖɛ] al presente’. È estremamente significativo il fatto che, nell’espressione di un tempo passato, il ricorso al clitico [ŋkɛ] sia sistematico, tanto da comparire in un paradigma. Il quesito 39 intendeva capire se la forma [apˈpompja za lavaˈtriʧɛ zi kˈk a ssappuˈnau] corrispondesse alla forma italiana ‘guarda se la lavatrice ha finito di lavare’; ovvero, se il clitico [ŋkɛ] indicasse la fase terminativa del processo in esame. Iniziamo con il 5° informatore: (27) (Q.39, Inf.5): < [apˈpompja za lavaˈtriʧɛ zi ˈa ssappuˈnau].> [zi kˈk a ssappuˈnau ɛ mmorikˈkɛla22 ɛ tˈtɛɳɖɛkkɛ za ˈrɔbba]. ‘Se ha finito di lavare, spegnila e vai a stendere i panni’. Si può notare come io abbia proposto una forma priva del clitico [ŋkɛ]: [apˈpompja za lavaˈtriʧɛ zi ˈa ssappuˈnau]; la quale è stata corretta sistematicamente da ogni informatore: (28) (Q.39, Inf.14): < Ti suona meglio [apˈpompja za lavaˈtriʧɛ zi kˈk a ssappuˈnau] o [apˈpompja za lavaˈtriʧɛ zi ˈa ssappuˈnau]?> ‘[apˈpompja za lavaˈtriʧɛ zi kˈk a ssappuˈnau]. Ma userei di più [zi kˈk að ˈattu]’. <[zi kˈk a ssappuˈnau] significa: ‘se ha finito’?> ‘Sì, (significa) se ha finito il ciclo’. Applichiamo la nozione di ‘marcatezza23’ all’uso tempo-aspettuale di [ŋkɛ]: la forma marcata è più specifica, aggiunge qualcosa alla forma non marcata e, in questo modo, 22 L’applicazione del parametro [±ŋkɛ] al verbo [ˈmɔrrɛrɛ]’morire/uccidere/spegnere’ va a creare un’opposizione semantica: [ˈmori] ‘uccidi’ vs. [ˈmorikkɛ] ‘spegni’. 23 COMRIE (1976: 111): «The intuition behind the notion of markedness in linguistics is that, where we have an opposition with two or more members (e.g. perfective versus imperfective), it is often the case that one member of the opposition is felt to be usual, more normal, less specific than the other (in markedness terminology, it is unmarked, the others marked)». Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https://rhesis.it/ Linguistics and Philology, 8.1: 111-137, 2017 133 restringe il suo campo d’azione, selezionando solo alcune connotazioni fra il bagaglio semantico della forma non marcata. Quindi, per il verbo [ziˈɣirɛ] ‘seguire’, la forma marcata [kˈk ɛstɛ ziˈɣiɳɖɛ] seleziona il significato ‘raggiungere’ e non può codificare, ad esempio, il significato ‘continuare’. Pertanto, una forma marcata contiene un’informazione aggiuntiva rispetto alla sua controparte non-marcata. Facciamo un esempio servendoci di una coppia oppositiva basata sul parametro [±ŋkɛ]: (a): [ˈleʣiu ˈl as su ʤɔrˈnalɛ]. ‘Hai letto il giornale?’. (b): [ˈleʣiu kkɛ ˈl as su ʤɔrˈnalɛ]. ‘[ŋkɛ] hai letto il giornale?’. L’informazione aggiuntiva codificata da [ŋkɛ] è il tratto [TELICO], di conseguenza, mentre con (a) stiamo chiedendo al nostro interlocutore se egli abbia letto o meno il giornale, con (b) gli stiamo chiedendo se abbia finito di leggerlo. In contesti reali, useremo (b) se, per esempio, volessimo leggere il giornale e chiedessimo indirettamente al nostro interlocutore se serva ancora a lui. Ho scelto il verbo [ˈlɛʣɛrɛ] ‘leggere’ per confrontare gli esempi da me proposti con quello citato da COMRIE (1976: 113) riferito al russo: [...] the question vy čitali ‘Vojnu I mir’? ‘have you read War and peace’ […] with the Imperfective, simply enquire about register the fact that the person in question has indeed read the book mentioned; whereas the Perfective vy pročitali ‘Vojnu I mir’? Is more specific, asking whether the addressee has finished War and Peace. Qual è il meccanismo attivato dal clitico [ŋkɛ]? Riassumiamolo prendendo ad esempio il quesito 22 e utilizzando i corrispondenti semantici italiani: la forma ‘mangiare’ indica un processo, ossia una situazione dinamica vista nel suo svolgimento; ma la forma ‘ho già mangiato’ indica un evento, vale a dire una situazione dinamica vista come una totalità circoscritta. Anche in questo caso, ciò che cambia è la maniera di concepire la struttura temporale interna di una data situazione. Usando il clitico [ŋkɛ] fissiamo un punto di stazione dal quale considerare la porzione di processo a cui ci riferiamo come un’unità discreta. In breve: ‘processo’ + [ŋkɛ] = ‘evento’. 6. Conclusioni In questo lavoro abbiamo compiuto una prima analisi del profilo semantico e funzionale del clitico [ŋkɛ]. I risultati ottenuti sono frutto della ricerca sul campo effettuata a Orgosolo, la quale ha prodotto dati derivanti da un questionario sottoposto a 20 informatori madre lingua orgolese e dalle interazioni spontanee scaturite durante la somministrazione dei questionari. Il clitico [ŋkɛ] è un elemento polisemico e poligrammaticalizzato, il cui profilo semantico è stato descritto tenendo a mente i domini in cui agisce, ovvero quello spaziale, quello azionale e quello aspettuale. Abbiamo formalizzato una generalizzazione utile a semplificare la polifunzionalità del clitico inscrivendola entro i limiti definiti da Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https://rhesis.it/ Linguistics and Philology, 8.1: 111-137, 2017 134 parametri il più possibile semplici e chiari. Tale generalizzazione è stata concepita perché funzioni efficacemente a prescindere dal dominio a cui viene applicata. La generalizzazione in questione è: (a): [‒ŋkɛ] = generale. (b): [+ŋkɛ] = restrittivo, specifico. Riepiloghiamo brevemente il modo in cui questa generalizzazione va applicata ai vari domini, iniziando da quello spaziale. Ci si attende che fra due elementi, di cui uno prossimale e uno distale, sia più naturale specificare la locazione di quello distale, ossia quello percepito come ‘non qui’ dalla diade conversazionale. Il nostro ‘qui’ è meno vasto dello spazio non incluso al suo interno; talvolta, per identificare dei referenti inclusi all’interno del nostro ‘qui’ è sufficiente nominarli. Lo stesso vale in presenza di due elementi di cui uno visibile e uno non visibile: quello non visibile necessita di essere ‘indicato’ in una maniera più specifica. A livello azionale, l’assunto di fondo è che una forma verbale priva di clitico sia semanticamente più generale, ovvero abbia la facoltà di esprimere una gamma maggiore di significati rispetto a una forma verbale combinata con il clitico [ŋkɛ]. Se, al contrario, combiniamo una forma verbale con il clitico [ŋkɛ], essa vedrà restringersi la sua gamma di significati, dal momento che il clitico selezionerà e specificherà determinate connotazioni fra le varie disponibili. Il clitico [ŋkɛ] raramente aggiunge al verbo solamente il significato perfettivo. Nella maggior parte dei casi influisce sulla semantica del verbo, specificandone una connotazione o modificandone il significato in maniera più marcata. Si tratta di un comportamento comune a lingue non correlate al sardo. Vediamo cosa scrive COMRIE (1976: 89) a proposito del russo moderno: In some such cases of prefixation, the difference in meaning was purely aspectual (especially with po-, the most neutral prefix semantically); elsewhere, the addition of the prefix, in addition to changing the aspect of the verb, also changed its meaning, as in the relation between rezat’ ‘cut’ and ot-rezat’ ‘cut-off’, raz-rezat’ ‘cut-up’, etc. For certain verbs where, in the modern language, the prefix is simply aspectual, it is possible that at an earlier period there was also a semantic difference, or at least that the prefix, though semantically non-empty, simply reiterated some inherent semantic feature of the verb […]. Only where the prefix adds nothing to the meaning of the Imperfective verb other than perfective meaning do we have strict aspectual pairs. Anche a livello aspettuale, l’aggiunta di materiale morfologico a una forma verbale ha come risultato naturale una restrizione del bagaglio semantico di tale forma. La restrizione in questione coincide con la specificazione di determinati significati. A questo riguardo, riportiamo cosa scrive COMRIE (1976: 94) circa la prefissazione verbale nelle lingue baltiche, slave e in ungherese: This same arrangement of languages can also give some insight into the way in which this prefixal formations developed aspectual meaning: the addition of a prefix to a simple verb normally results in a restriction of the meaning of that verb, and one way in which such a restriction can be interpreted is as a restriction to a single unified complete action. Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https://rhesis.it/ Linguistics and Philology, 8.1: 111-137, 2017 135 Il tratto [+SPECIFICO] funziona conformemente alla struttura in cui [ŋkɛ] va ad inserirsi. Nella Sezione 5 abbiamo proposto due formalizzazioni che verranno ora riproposte inserendo il tratto [+SPECIFICO] in funzione del clitico [ŋkɛ]: (a) [+SPECIFICO] + ‘[ˈɛssɛrɛ] + aggettivo/participio passato’ = cambiamento di stato / stato contingente / aspetto puntuale (b) [+SPECIFICO] + ‘passato composto (àere + participio passato)’ = valore egressivo / aspetto compiuto La specificazione operata da [ŋkɛ] è della stessa natura in entrambe le strutture: il riferimento a una situazione vista nella sua interezza. Abbiamo utilizzato la nozione di here-space (‘qui’) per spiegare la funzione locativa e direzionale di [ŋkɛ], in quanto tale nozione ha a che fare sia col tratto [‒DISTALE] che col tratto [+VISIBILE], entrambi necessari per comprendere il funzionamento di [ŋkɛ]. Da un punto di vista puramente spaziale, il clitico [ŋkɛ] è legato al tratto [DISTALE], come esemplificato dalla seguente occorrenza: (29) (Q.15, Inf.18): <Cosa direste se Afisa fosse nella stanza vicina?> ‘ [ja ˈɛstɛ iŋˈkuʔɛ], per dire che è vicina. Se è lontana diciamo: [ˈk ɛst iŋkuɖˈɖoru]’. A partire dall’idea di ‘distanza spaziale’, attraverso metafore e astrazioni, si arriva fino alla codifica dell’aspetto perfettivo. Abbiamo parlato di una prospettiva ‘interna’ legata all’aspetto imperfettivo e di una prospettiva ‘esterna’ correlata all’aspetto perfettivo. La prospettiva ‘esterna’ del parlante rispetto alla situazione ne permette una visione completa, la distanza concede una visuale della situazione nella sua interezza. Quando agisce nel dominio aspettuale, il clitico non indica un punto di riferimento spaziale o temporale, ma piuttosto una situazione, ossia un’entità (seppur astratta) dotata di struttura24. Il clitico [ŋkɛ] è pertanto funzionale alla codifica di una situazione la cui struttura è compatta, completa, la quale viene localizzata in posizione [+DISTALE] rispetto al centro deittico. Se consideriamo il profilo semantico del clitico [ŋkɛ], qui siamo al livello più alto di astrazione e, con buona probabilità, allo stadio più recente del suo processo di grammaticalizzazione25. Tutte queste fasi evolutive convivono nell’attuale profilo funzionale di [ŋkɛ], un profilo di certo più ricco e complesso di quanto fosse in origine. D’altronde, come ci ricorda COMRIE (1976: 11): In certain cases the existence of both basic and secondary meanings can be shown to be the result of a historical process where the basic meaning is the original meaning, while secondary meanings have been acquired as extensions of this original meaning, often leading ultimately to the same form acquiring a new basic meaning much wider than the original basic meaning, and incorporating a number of uses that were originally secondary meanings. Un nuovo significato basilare molto più vasto. 24 È interessante a questo proposito la definizione di COMRIE (1976: 18): «the perfective reduces a situation to a blob, rather to a point: a blob is a three-dimensional object, and can therefore have internal complexity, although it is nonetheless a single object with clearly circumscribed limits». 25 In prospettiva futura, mi riservo di effettuare una disamina completa della trafila di poligrammaticalizzazione che ha interessato il clitico [ŋkɛ]. Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https://rhesis.it/ Linguistics and Philology, 8.1: 111-137, 2017 136 Per concludere, proponiamo una tabella riassuntiva in cui mettiamo in relazione un sistema di coppie oppositive basate sul parametro [±ŋkɛ]. Si individuano due principali modalità di funzionamento del verbo, una legata alla presenza del clitico nel sintagma verbale e una legata alla sua assenza: [‒ŋkɛ] [+ŋkɛ] [prossimale] (‘qui’) [locazione statica] [+visibile] (‘qui’) [presente] [descrizione] [atelico] [imperfettivo] [generale] [distale] (‘non qui’) [direzione] [‒visibile] (‘non qui’) [passato] [narrazione] [telico] [perfettivo] [specifico] In prospettiva futura, sarebbe auspicabile una ricerca volta a monitorare la variazione diatopica nel panorama generale del sardo, correlando lo studio di [ŋkɛ] all’ampliamento dell’analisi degli altri clitici avverbiali sardi. Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https://rhesis.it/ Linguistics and Philology, 8.1: 111-137, 2017 137 Riferimenti bibliografici BERTINETTO, Pier Marco (1986), Tempo, Aspetto e Azione del verbo italiano: il sistema dell’indicativo (Studi di grammatica italiana pubblicati dall’Accademia della Crusca). Firenze: Accademia della Crusca. BERTINETTO, Pier Marco (1997), Il dominio tempo-aspettuale. Demarcazioni, intersezioni, contrasti. Torino: Rosenberg & Sellier. COMRIE, Bernard (1976), Aspect. Cambridge: Cambridge University Press. ENFIELD, Nick (2003), “Demonstratives in Space and Interaction: Data from Lao Speakers and Implications for Semantic Analysis”, in «Language» 79, 1, 82-117. HASPELMATH, Martin (1997), From Space to Time. Temporal Adverbs in the World’s Languages. München & Newcastle: Lincom Europa. HOPPER, Paul J. and Elizabeth TRAUGOTT CLOSS (1993), Grammaticalization. Cambridge: Cambridge University Press. 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Contesti culturali, riflessi linguistici, evidenze testuali Domenico Silvestri (Università degli studi di Napoli L’Orientale) Abstract The recognition of exposed children and the subsequent legitimisation of their identity through similarity with their mother’s feet was not an uncommon occurrence in the ancient Indo-Mediterranean area. More generally, it can be said that after being recognised, these children were often destined to accomplish great and sometimes terrible enterprises during their adulthood. Such endeavours often coincided with dynastic change or real turning points in history, while lack of recognition often resulted in even greater disasters. This important cultural trait is common to India (the stories of Karna and Rama), Iran (the story of Cyrus), Mesopotamia (stories of Gilgamesh and Sargon), Anatolia (the story of Suppiluliuma), Egypt and Israel (stories of Moses and Jesus), Greece (the stories of Paris, Melampus, Theseus, Oedipus, Orestes) and Rome (stories of Silvio and Romulus and Remus). These complex events share many cultural traits along with the associated linguistic reflections. The tragic story of Oedipus is one of the most striking, since his failed recognition (precisely because of his deliberately deformed feet at the time of his exposure as an infant) is transformed into incest and blindness as a form of self-punishment, which are both the negative reverse side of this coin. Key Words – exposure; similarity of feet; (non) recognition; (de) legitimisation Il riconoscimento di un bambino esposto e la conseguente sua legittimazione identitaria avviene con una frequenza non casuale nell’antichissimo spazio indomediterraneo mediante la constatazione che i suoi piedi sono in tutto simili a quelli della propria madre. Più in generale si può dire che i bambini, una volta riconosciuti quando sono ormai diventati adulti, sono destinati a grandi e a volte terribili imprese, spesso coincidenti con un cambio dinastico o una vera e propria svolta storica, mentre una loro mancata agnizione si converte in sciagure ancora più grandi. Questo importante tratto culturale accomuna l’India (storie di Karna e di Rāma), l’Iran (storia di Ciro), la Mesopotamia (storie di Gilgameš e di Sargon), l’Anatolia (storia di Suppiluliuma), l’Egitto e Israele (storie di Mosé e di Gesù), la Grecia (storie di Paride, Melampo, Teseo, Edipo, Oreste), Roma (storie di Silvio e di Romolo e Remo). Queste complesse vicende hanno in comune molti tratti culturali e i connessi riflessi linguistici. Tra tutte spicca la tragica storia di Edipo, la cui agnizione mancata (proprio in conseguenza dei suoi piedi volutamente deformati nel momento dell’esposizione di lui neonato) si converte nell’incesto e nella cecità autopunitiva, entrambi rovescio negativo di un mancato riconoscimento. Parole chiave – esposizione; somiglianza dei piedi; (non/) riconoscimento; (de/) legittimazione Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https://rhesis.it/ Linguistics and Philology, 8.1: 138-175, 2017 139 Agnizioni indomediterranee. Contesti culturali, riflessi linguistici, evidenze testuali1 Premesse generali L’agnizione L’agnizione, cioè il riconoscimento dell’identità di qualcuno che prima, per vari motivi, era stata ignorata o solo da qualcuno conosciuta, è un tema forte che percorre diversi momenti della letteratura antica e moderna. Del problema mi sono a suo tempo occupato in margine alla vicenda di Edipo e se ora su di esso ritorno è perché sono stato indotto a farlo dal bellissimo libro di Piero BOITANI (2014), da cui ho tratto più di uno spunto di rivisitazione del problema nel mondo antico indomediterraneo, sia pure da un punto di vista del tutto particolare, a cui Boitani dedica attenzione, senza tuttavia una focalizzazione specifica (l’indizio dirimente della somiglianza dei piedi)2. Gravidanze e nascite particolari nel mondo antico Non tutte (ma quasi tutte) le esposizioni di neonati o le separazioni di figli dai loro genitori (mediante esilio o invio, a vario titolo, in terra straniera o in situazione extraurbana) sono precedute da gravidanze e nascite particolari: in ogni caso sono queste le circostanze che qui ci interessano in via prioritaria. Modalità del riconoscimento Ci sono diverse tipologie di riconoscimento: si va da quelle unidirezionali (x riconosce y) a quelle reciproche e per così dire paritarie (senza un soggetto e un oggetto dell’agnizione). Nella prima categoria spicca la funzione femminile, soprattutto materna, dell’agnizione attiva: così in India Kunti riconosce Karna ma non fanno altrettanto i suoi fratelli-rivali (nel Mahābhārata), mentre a Troia Cassandra riconosce Paride (secondo il racconto di Igino) ma a lui si oppone e ne ignora l’identità suo fratello Deifobo (poi suo sostituto con Elena); Elena riconosce Menelao (nell’omonima tragedia di Euripide) e fa altrettanto con Telemaco nell’Odissea (ci torneremo ancora sopra, perché in questo caso è in gioco la salienza del piede). Questa antichissima procedura agnitiva indomediterranea coinvolge anche Euriclea, sia pure con motivazioni seriori, quando riconosce Odisseo ed Elettra fa altrettanto con Oreste nella rappresentazione tragica di Eschilo, mentre Euripide ironizza su questa circostanza e Sofocle la ignora, l’uno e l’altro nelle tragedie dedicate alla luttuosa eroina. Questi riconoscimenti sono per lo più forieri di esiti positivi. Invece Giocasta non riconosce Edipo con le ben note tragiche e 1 Questo testo costituisce la rielaborazione di due conferenze da me tenute presso le università di Macerata e di Cagliari. Colgo l’occasione per ringraziare i colleghi Poli e Maggi di Macerata e Paulis, Putzu, Pontillo e Szőke di Cagliari per i loro puntuali interventi e per i loro preziosi suggerimenti. 2 Segnalato a suo tempo da PISANI (1953: 134-135). Sull’argomento rinvio anche ai miei contributi (1974: 72-73, 1986: 144-148, 2000a: 139-150). Per la verità Boitani tocca ‘tangenzialmente’ il problema che qui mi interessa in due luoghi del suo lavoro (2014: 24-28: la storia di Cenerentola e della sua scarpetta emblematica); 112-115: la storia del presunto Martin Guerre, nella Francia del Cinquecento, che non viene ‘riconosciuto’ quando torna al suo paese perché – come sostiene un calzolaio, cioè uno… che se ne intende, «la misura del piede è cambiata», cfr. ivi, p. 26. In ogni caso Boitani è perfettamente consapevole che «il piede e le sue impronte sono importanti per le scene di riconoscimento e per la discussione intorno a esse nella Grecia classica», cfr. ivi, pp. 25-26 e, più avanti, sp. pp. 140-151. Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https://rhesis.it/ Linguistics and Philology, 8.1: 138-175, 2017 140 prolungate conseguenze (v. avanti). Un altro caso particolare di agnizione mancata proprio da parte di Elena nei confronti della figlia Ermione al suo rientro a Sparta è magistralmente descritto da Ovidio, Heroides, ep. 8. La scena di questa particolare agnizione è veramente stupenda nei suoi particolari: la madre notoriamente “bellissima” (pulcherrima) cerca tra la pluralità dei volti anonimi la figlia ma non la riconosce perché questa non è altrettanto “bellissima”; la figlia invece ‘comprende’ immediatamente (ma sensi, messo da Ovidio in bocca a Ermione è più intimo e più intenso) che la donna che le sta davanti è ancor più che sua madre, è Elena. I riconoscimenti possono essere meronimici o per ‘continuità’ referenziale (tale è quello basato sulla somiglianza dei piedi o sull’impiego della ciocca di capelli rispetto alla totalità corporea) e metonimici o per ‘contiguità’ referenziale (la scarpetta di Cenerentola, le impronte di Oreste nell’agnizione di Elettra), ma possono essere anche totali (Kunti nei confronti del figlio Karna, Elena nei confronti di Menelao). In questa prospettiva plurima soltanto la prima modalità (quella meronimica con riferimento ai piedi) si rivela come peculiarmente indomediterranea. Facciamo ora, proprio in questa prospettiva, una rassegna areale per concentrarci poi – mediante una puntuale analisi testuale – su tre agnizioni riuscite con peculiare intervento femminile (Odisseo, Telemaco, Oreste) e due agnizioni mancate (Karna ed Edipo), dove le madri, come vedremo, non vogliono o non possono riconoscere. Agnizioni indomediterranee India In India Kunti (Mahābhārata, Adi Parva 12, 1) prima moglie di Pandu (l’altra è Madri) e madre dei tre Pandava più importanti (Madri genera gli altri due), è anche – all’insaputa di tutti – madre di Karna, loro principale avversario. Il padre di Karna è il dio Surya, il sole, e il concepimento è avvenuto nel modo più miracoloso, cioè senza perdita o più esattamente con recupero della virginità da parte di Kunti (circostanza che ne ricorda un’altra di ben altra portata nella storia religiosa del mondo antico…)3. Poi avviene la sua esposizione in un cesto nel fiume Gange. Il neonato è raccolto dal cocchiere Adhiratha, che ne diventa padre putativo (circostanza questa, come vedremo, tipicamente indomediterranea). Sulle modalità del tardivo riconoscimento di Karna mediante la somiglianza dei suoi piedi con quelli della madre Kunti, torneremo in dettaglio più avanti. Altro tratto indomediterraneo che riguarda la figura di Karna è la sua partecipazione alla gara con l’arco per ottenere la mano di Draupadi: la vittoria mancata e la mancata legittimazione agnitiva richiamano e contrario la gara vittoriosa con l’arco di Odisseo nei confronti dei Proci e quella parimenti vittoriosa e legittimante di Paride, ancora non riconosciuto, nei confronti dei fratelli (v. avanti). Una vicenda analoga in cui alla continuità meronimica della somiglianza dei piedi (Karna) si sostituisce la contiguità metonimica di sandali emblematici (Rāma) è quella contenuta nell’altro grande poema epico indiano (Rāmāyaṇa)4. L’eroe protagonista è 3 Tutta la storia di Gesù rivela componenti indomediterranee (v. avanti, nel testo). Sono totalmente debitore di questa ‘agnizione testuale’ alla Prof. Tiziana Pontillo dell’università di Cagliari che me ne ha segnalato la rilevanza e documentato la consistenza prima in un suo puntuale intervento al termine della mia conferenza cagliaritana, poi con il cortese e prezioso invio di un’ampia documentazione. A lei vanno il mio caloroso ringraziamento per la sua generosa cortesia e il mio pieno apprezzamento per la sua sapienza indianistica. 4 Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https://rhesis.it/ Linguistics and Philology, 8.1: 138-175, 2017 141 costretto ad un esilio di quattordici anni nella foresta, ben noto emblema di marginalità e di estraniazione, ma suo fratello Bharata si considera solo un reggente e governa solo in suo nome. Egli esprime simbolicamente la sua posizione dando una particolare collocazione ai sandali (!) che aveva indossato Rāma e realizzando in tal modo una prima e fondante (ri)legittimazione del fratello esiliato5. L’enfasi sui sandali (e metonimicamente sui piedi) ritorna più avanti e in più luoghi: così, ad esempio, Bharata (R. 2. 107. 15) esprime la sua aspirazione più grande: «Presto... vedrò i piedi di Rāma con i loro sandali». Come è evidente nella storia di Rāma non abbiamo l’esposizione canonica, ma un suo equivalente (l’esilio) e nel suo ritorno dall’esilio una sua piena rilegittimazione. Quanto ai sandali basti ricordare che Bharata riporta i sandali nella reggia, li colloca sul trono e governa in nome di essi. Poi, quando il re esiliato ritorna, egli infila i sandali ai piedi del fratello e ne consacra in tal modo e per sempre la condizione regale6. Iran Ciro, ‘il re dei re’ della Persia Achemenide (590 a C. – 529 a.C.: cfr. ERODOTO 1,107122) alla sua nascita dovrebbe essere ucciso per impedirgli di regnare al posto di suo nonno Astiage, ma poi viene affidato da chi aveva ricevuto l’incarico al mandriano Mitridate, da questo momento suo padre putativo e la cui compagna si chiama in lingua greca Κυνώ e in lingua meda Σπακώ, cioè “cagna” (anticipazione della celebre ‘lupa’ delle origini romane di Romolo e Remo!). La sua ‘esposizione’ deve avvenire, come documenta ERODOTO (1, 110, 3) «là dove i monti sono più deserti, perché muoia al più Cfr. BHATT - SHAH (1960-1975), che è un’edizione critica del Rāmāyaṇa, qui citato come R. Di grande salienza nella mia prospettiva è appunto R. 2. 104. 21-23 che riporto nella traduzione di Tiziana Pontillo: «Fa montare ai [tuoi] piedi questi sandali ornati d’oro! In verità questi qui garantiranno l’acquisizione e la conservazione [dei beni] del mondo intero. Quell’uomo che era una tigre [in vero], dotato di grandissima energia, dopo aver montato e poi smontato i sandali, li offrì al magnanimo Bharata. Il potente e giusto Bharata, dopo aver accettato i sandali ben ornati, compì proprio un giro [rituale] verso destra intorno al discendente di Raghu e li pose giusto sulla testa di un eccellente elefante». Importante è anche R. 2. 105. 1, qui ugualmente citato nella traduzione di Tiziana Pontillo: «In seguito, avendo posto i sandali sulla testa allora, Bharata montò sul carro, compiaciuto, in compagnia di ṡatrughna». Tiziana Pontillo per lettera mi fa notare che «Secondo POLLOCK (2007: 520 note) il primo gesto di porre i sandali di Rāma sulla testa dell’elefante significherebbero un simbolico ritornare nella capitale da parte di Rāma su questa cavalcatura regale ossia sullo splendido elefante. Il secondo gesto sarebbe invece un gesto di auto-umiliazione perché toccare una persona con le scarpe effettivamente è considerato un grande oltraggio. Forse però – alla luce della Sua ricerca che così chiaramente illustra la relazione antica che esiste tra l’agnizione di un legittimo leader e i suoi piedi – potrebbe esserci un supplementare continuum tra il primo e il secondo gesto: Bharata potrebbe così paragonarsi simbolicamente sotto gli occhi degli astanti all’elefante ovvero potrebbe presentarsi visivamente come uno che porta su di sé il potere regale del fratello, senza essere un vero re, come l’elefante, che è la cavalcatura del re non il re. I piedi di Rāma poserebbero simbolicamente su di lui come su un animale destinato al trasporto». Tiziana Pontillo mi fa inoltre notare nella sua lettera che nella Kauṣītaki-Upaniṣad 1. 5 che è terza per antichità dopo Bṛhad-Āraṇyaka-Upaniṣad e ChāndogyaUpaniṣad, «si sta rappresentando il cammino del trapassato nel cielo come una sorta di processione regale per giungere ad essere insignito del gioiello del Bráhman nel mondo di Brahmán, sedendo sul suo trono/divano. Siamo in altre parole di fronte a una incoronazione regale dell’anima». E aggiunge «Finora non ho mai capito l’enfasi posta sul piede che lett. ‘monta’ sul divano». Il testo suona in traduzione così: «Giunge al divano Amitaujas. [...] Su quello siede Brahman. Chi ha questa conoscenza monta su di esso prima proprio con il piede. Il Brahman allora gli dice: “Chi sei?”. Dovrebbe rispondergli [etc. etc....]». Confesso che il riferimento al piede in questo evidente contesto di legittimazione è piuttosto intrigante… 6 I sandali, come fattore agnitivo e come strumento di legittimazione, ritornano nel mondo greco nella storia della nascita (impropria, in quanto conseguenza di un mancato rispetto di un oracolo) di Teseo, secondo la versione di Plutarco (v. avanti, nel testo). 5 Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https://rhesis.it/ Linguistics and Philology, 8.1: 138-175, 2017 142 presto». In questa vicenda un tratto ulteriormente indomediterraneo è costituito dal doppio sogno di Astiage: nel primo (ERODOTO 1, 107, 1) egli vede la figlia Mandane «orinare tanto da riempire la sua città, da inondare addirittura tutta l’Asia»; nel secondo (ERODOTO 1, 108, 1) «gli parve che dai genitali di questa figlia crescesse una vite e che la vite coprisse tutta l’Asia» (tr. di Virginio Antelami). In realtà queste due immagini oniriche richiamano il motivo indomediterraneo della Dea Madre, così come appare «in un sigillo di Harappa, dove questa dea sembra identificarsi con la Madre Terra, fonte di ogni forma di vita, in quanto essa è rappresentata distesa rispetto alle altre figure e dal suo sesso esce una pianta» (cfr. SILVESTRI 1974: 38). Mesopotamia Un caso di gravidanza particolare che per le sue modalità si propone come antecedente diretto della vicenda di Ciro appena trattata riguarda il grande re sumerico Gilgameš, che si può ben definire ‘eroe nazionale’ mesopotamico nonché prototipico ‘eroe di viaggi’. Secondo il tardo racconto di Eliano, La natura degli animali 12, 21 (tr. di Francesco Maspero): Quando era re di Babilonia Sevecoro, gli oracoli dei Caldei gli predissero che il figlio nato da sua figlia avrebbe tolto il regno al nonno. Gli si rizzarono i capelli alla predizione (mi sia permessa questa battuta) e si comportò verso la figlia come il re Acrisio7: la sottopose, cioè, a strettissima sorveglianza. Ma nonostante ciò, il destino si mostrò più astuto del re di Babilonia; la principessa infatti fu messa incinta, nascostamente, da un uomo di oscura condizione sociale e partorì un bambino. Coloro che l’avevano in custodia, temendo la reazione del re, lo gettarono giù dall’acropoli8. Là infatti la principessa era tenuta prigioniera. Ma un’aquila con la sua vista acutissima, scorgendo il neonato che stava precipitando, intervenne prima che si schiantasse al suolo e volando sotto di lui lo raccolse sulla schiena e lo portò in un giardino, dove lo depose al suolo con la massima cura. Quando il custode del luogo vide quel bambino così grazioso, se ne innamorò e volle allevarlo9. Fu chiamato Ghilgamo e divenne re di Babilonia. Se a qualcuno tutto ciò sembra una favola, io, dopo ben ponderato esame, concordo con lui. Tuttavia ho sentito che il persiano Achemene, dal quale ha avuto origine la nobiltà dei Persiani, ebbe come nutrice un’aquila10. 7 «Acrisio fece rinchiudere in una torre la figlia Danae, ma Zeus, sottoforma di pioggia d’oro, la rese incinta di Perseo, che fu poi la causa involontaria della morte del nonno». Cfr. PINDARO, Pitiche, 12, 17 sgg.; SIMONIDE DI CEO, 13; APOLLODORO, Biblioteca, 2, 2, 1 sgg.; IGINO, Favole, 63 (nota di Francesco Maspero). 8 Non si tratta, in senso stretto, di ‘esposizione’ ma di un suo equivalente di più immediata efficacia rispetto alle vicende analoghe di Ciro (v. sopra, nel testo) e di Edipo (v. sotto, nel testo). 9 Il giardiniere che alleva Gilgameš è come altri personaggi consimili (già visti o da vedere) una sorta di ‘padre putativo’ che induce con voluto depistaggio a pensare ad origini umili del bambino ‘eletto’ a grandissime imprese! 10 Il racconto di Eliano, che abbiamo riportato per intero, è citato da PETTINATO (1992a: 140-141) secondo due modalità piuttosto sconcertanti: in primo luogo secondo una traduzione o meglio parafrasi in versi liberi, che si discosta in vari punti dal testo in prosa di Eliano anche se a questo fa esplicito riferimento (cfr. o.c., nota 7 a cap. V a pag. 403!); in secondo luogo con l’aggiunta di un cappello iniziale («Vi era una volta, in tempi lontani, un re, / il suo nome era Enmerkar, signore della città di Uruk…») che non è presente nel testo di Eliano. Qui mi limito a far notare che il cenno di Eliano al «persiano Achemene» fondatore della dinastia di cui è primo re Ciro il Grande (v. sopra, nel testo) e al suo rapporto con l’aquila nutrice crea un’ulteriore e specifica isoìda iranico-mesopotamica di quota indomediterranea. In questo orizzonte culturale mitostorico si inscrive anche la vicenda del re di Kiš Etana, il «primo re dell’umanità Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https://rhesis.it/ Linguistics and Philology, 8.1: 138-175, 2017 143 Come possiamo immaginare una non documentata ‘agnizione’ di Gilgameš o almeno (ma è lo stesso) una sua legittimazione? In realtà Enmerkar, se lo assumiamo come suo nonno materno a prescindere da una sua difficile antecedenza onomastica rispetto al Sevecoro di Eliano (PETTINATO 1992a: 140) precede Gilgameš nella Lista Reale Sumerica relativa alla Prima Dinastia di Uruk, ma fra di loro ci sono altri due re (Lugalbanda, il «re pastore» della Lista, (PETTINATO 1992a: 137) che poi Gilgameš riconoscerà come padre, v. avanti, nel testo; e Dumuzi, il «re pescatore», della Lista (PETTINATO 1992a: 137) che verosimilmente subentra a Lugalbanda prima che avvenga l’agnizione di Gilgameš. Se si accetta questa nostra interpretazione si risolve nel modo migliore da una parte lo iato dinastico tra Lugalbanda e Gilgameš e, dall’altra, il problema posto dal fatto che secondo la Lista Enmerkar, figlio del protodinasta Meskiengar (a sua volta figlio del dio solare Utu!) regna per 420 anni, il ‘divino’ (!) Lugalbanda (che non è suo figlio, anzi è un suo subalterno militare, ma ne ha ‘sposato’ – per così dire – la figlia, come si potrebbe evincere dal racconto di Eliano!) regna per 1200 anni, il ‘divino’ (!) Gilgameš a sua volta regna per 126 anni, ma il ‘divino’ (!) Dumuzi (che non è dichiarato figlio di Lugalbanda anzi a lui si contrappone come ‘pescatore’ a ‘pastore’!) regna per… soli 100 anni e il suo… ‘togliersi di mezzo’ è verosimilmente imputabile al suo matrimonio con la dea Inanna e al suo divenire – in questo prototipo della dea greca Persefone – un dio del ciclo stagionale della vegetazione, ma in realtà corrisponde ad un vero e proprio cambio di dinastia o, meglio, se vale il nostro assunto, ad una restaurazione dinastica. In questa interpretazione ci conforta l’inattesa, ma per noi significativa dichiarazione della Lista, che di Gilgameš dice «suo padre è uno sconosciuto» (Eliano non ha inventato nulla!). Una volta avvenuta l’agnizione, in tempi e modi che i testi non ci trasmettono11, la successiva vicenda di Gilgameš è sotto il segno di una progressiva divinizzazione. Nella tav. I dell’Epopea Classica (PETTINATO 1992b: 125) egli è – per così dire – ‘riabilitato’ rispetto alla Lista Reale Sumerica con la dichiarazione (v. 46) «Per due terzi egli è dio, e per un terzo uomo» e questa dichiarazione è ribadita al v. 42 della tav. IX. In ogni caso Lugalbanda è qualificato come padre di Gilgameš nei testi della III dinastia di Ur (PETTINATO 1992a: 142), mentre «tutta la tradizione posteriore considera Gilgamesh figlio della dea Ninsun, cui viene assegnato come sposo il divino Lugalbanda» (PETTINATO 1992a: 143). D’altra parte lo stesso Gilgameš si dichiara figlio di Ninsun e Lugalbanda nei poemetti sumerici che lo riguardano: in quello intitolato Gilgamesh e Khubaba (PETTINATO 1992b: 316 e 318) egli dice di sé (v. 91) «Nel nome di Ninsun la madre che mi ha partorito e di mio padre il santo Lugalbanda» e (vv. 137 e 141): «Per la vita di mia madre Ninsun che mi ha partorito e di mio padre, il santo Lugalbanda». Non ci potrebbe essere legittimazione più piena non solo per Gilgameš ma anche per i suoi genitori, l’ignota figlia del re Sevecoro di Eliano (in realtà l’Enmerkar della Lista sprovvisto di figli maschi!) e il solerte (in tutti i sensi!) subalterno militare Lugalbanda che, a parte l’intermezzo di Dumuzi, assicura una discendenza… matrilineare ad Enmerkar12. postdiluviana» (PETTINATO 1992a: 91) che aiuta ed è aiutato da un’aquila con la quale compie voli favolosi verso i cieli più alti molto prima di quelli poi immaginati da Ariosto e che come Gilgameš diventa dopo morto giudice del mondo dei defunti (PETTINATO 1992a: 181-182). 11 Ma per me è oltremodo significativo che nella tav. I della versione ittita (PETTINATO 1992b: 287) si dica testualmente di Gilgameš «Tutte le terre egli percorre. Arrivò ad Uruk…» dopo essere stato creato da «grandi dei» (che, se si vuole, è un modo per nobilitare un… trovatello!). 12 Le vicende e i meriti di Lugalbanda sono bene illustrati nei poemetti sumerici che lo riguardano, cfr. PETTINATO (1992a: 153-162). Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https://rhesis.it/ Linguistics and Philology, 8.1: 138-175, 2017 144 Una peculiare vicenda di esposizione riguarda il grande re Sargon (cfr. LEWIS 1980), fondatore della dinastia accadica in Mesopotamia (2335 a.C. – 2279 a.C.). Egli è figlio di una sacerdotessa di Inanna (una ēnetu) e di un padre sconosciuto (presumibilmente un dio)13. Poi avviene la sua esposizione sul fiume Eufrate in una cesta di giunchi (!). Le circostanze della nascita e dell’esposizione ripetono quelle indiane di Karna (v. sopra) e anticipano, come è evidente, le analoghe vicende di Mosé prima, di Romolo e Remo poi. Il neonato è poi raccolto dall’acquaiolo Akki, che ne diventa padre putativo. Faccio notare che Akki (acc. aq-qi) è in qualche modo un ‘nome parlante’, data la sua non pertinenza semitica e il suo evidente riferimento ad un nome antichissimo dell’acqua. In più il suo esito in -i non rientra nella tipologia del nominativo accadico in -u, semmai allude ad una sua ‘rilettura’ currita, lingua a grafia cuneiforme di area paracaucasica, dove regolarmente l’uscita accadica in -u è convertita in -i, circostanza questa che ci fa intuire una circolazione assai antica di questa storia. Un altro fatto significativo in tema di esposizioni indomediterranee è il carattere innovativo dell’ascesa al potere di Sargon con le sue implicazioni di alterità ‘montanara’ (tratto che ritorna nelle vicende di esposizione di Ciro, Edipo, Paride e si cela anche nel nome di Oreste, v. avanti). Nel testo accadico edito da Lewis leggiamo infatti (vv. 2-3) «Mia madre era una ēnetu, mio padre non lo conosco. / Il fratello di mio padre abita la montagna».14 Anatolia Nella nostra lista può forse ora entrare il grande re ittito Suppiluliuma, che elimina intorno al 1350 a.C. l’erede designato, il fratello Tudhaliya il Giovane, e muore di peste intorno al 1322 a.C. Suppiluliuma è un eversore, come per diversi ma congruenti aspetti lo sono Karna sul piano mitico in India e, in un preciso contesto storico, Sargon di Akkad e Ciro, ‘re dei re’ in Persia (v. sopra), ma nulla si sa di una sua eventuale esposizione, prima della presa del potere. Tuttavia ha un nome parlante, sia nel sintagma nominale costitutivo (itt. suppi- “sacro” + luli- “stagno”) sia nel suffisso derivativo -uma che esprime in ittito un etnico di provenienza (“colui che viene dallo stagno sacro”),15 secondo la puntuale interpretazione di LAROCHE (1966: 257, 300) e questo – in tema di peculiari luoghi di esposizione – dà da pensare… Ancora più importante è il fatto che in grafia logografica questo re sia indicato con la sequenza dei sumerogrammi + complementazione fonetica IKUG.TÚL-ma (KUB XXVI 25, 8), dove KUG ha appunto il valore di “sacro”, dal momento che TÚL “fonte, sorgente, acqua” ricompare nell’emblematica espressione sumerica t ú l.t a.p à.d a lett. “colui è stato trovato (e portato via) da una sorgente, fonte, canale e sim.”, cioè il “trovatello”, secondo la puntuale e persuasiva interpretazione di FALKENSTEIN (1969: 56). 13 Non si può non pensare alla tarda replica latina costituita dalla notissima vicenda di Rea Silvia e del suo fatidico parto gemellare (v. avanti, nel testo)! 14 Faccio notare che il nome accadico di Sargon suona šarrukin, cioè il “re vero, legittimo” con un’evidente allusione ad un sua legittimazione dopo il superamento della sua altrettanto evidente condizione di alterità. In ogni caso la formula «mio padre non lo conosco» richiama quella «suo padre è uno sconosciuto» applicata a Gilgameš nella Lista Reale Sumerica (v. sopra, nel testo). 15 L’etnico di appartenenza ha invece come marca morfologica il suffisso -ili (cfr., ad esempio, Hattusili, etnico rispetto al poleonimo Hattusa e nome di un re). Per la questione rinvio a SILVESTRI (2005-2006, 2009). Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https://rhesis.it/ Linguistics and Philology, 8.1: 138-175, 2017 145 Egitto Un altro nome parlante è quello del biblico Mosé, salvatore e rifondatore della nazione ebrea in Egitto. La sua storia di esposto è ben nota, tanto da essere diventata prototipica. Il nome di Mosé è chiaramente un riflesso delle sue origini (Esodo 2, 1): esso corrisponde, infatti, ad eg. mšw “figlio” in quanto “partorito, allevato” (cfr. la radice m-š-j “partorire, allevare”), termine che ha una specifica incidenza onomastica e che compare, ad es., nei nomi dei famosi faraoni Twtmš “figlio di Thot” e R’mš “figlio di Ra”, più comunemente noti come Tutmosi e Ramsete. Ci si può chiedere quale fosse il ‘vero’ nome egiziano di Mosé e se il determinante di “figlio” non fosse per caso proprio il nome del Nilo o, comunque sia, un qualche riferimento alle “acque” da cui era stato “estratto, salvato”. D’altra parte la forma ebraica di questo nome (Mōšeh) è chiaramente frutto di una reinterpretazione, che con ogni probabilità ‘censura’ l’ipotizzabile prima parte del nome e ricollega il resto ad ebr. mašah “estrarre”, intendendo appunto Mosé come “l’estratto, il salvato (dalle acque)”. Israele Abbiamo già fatto cenno ai motivi indomediterranei riscontrabili nella vicenda mitostorica di Gesù, in particolare abbiamo fatto notare che Maria, ‘vergine e madre’ per diretto intervento divino, ricorda l’analoga vicenda indiana di Kunti, che non perde o – se si preferisce – riacquista la virginità dopo il rapporto con il dio Sole, da cui nasce Karna. Un’altra affinità di Maria con la pratica indiana dello svayamvara (la gara in cui si sceglie per una fanciulla lo sposo) è la vicenda narrata nei vangeli apocrifi (cfr. in particolare il Protovangelo di Giacomo, capp. VIII-IX, in cui Giuseppe risulta miracolosamente vincitore nella gara bandita per l’affidamento della vergine; v. anche Vangelo dello Pseudo-Matteo, cap. VIII, e il Libro sulla natività di Maria, capp. VIIVIII)16, che è prodromo all’evento miracoloso della nascita di Cristo. Naturalmente in questo caso non è in gioco l’esposizione, ma un suo equivalente funzionale (la marginalità estraniante), in cui sono protagonisti al momento della nascita emblemi tipici (i pastori) e ritorna il motivo già visto nel caso di Ciro il Grande del re (Erode) che si impegna in difesa del suo potere nella strage degli innocenti, il cui corollario è l’esilio di Gesù in Egitto. Proprio questo esilio, se paragonato con le vicende anticipatrici di Giuseppe prima e di Mosé poi, recupera i parametri indomediterranei dell’agnizione (nel caso di Giuseppe) e dell’esposizione (nel caso di Mosé), con ovvie riscritture culturali. D’altra parte Giuseppe, nella sua funzione di padre putativo, ha evidenti e già sottolineati precedenti indomediterranei, mentre Gesù (per me il più grande ‘eversore’ della storia, non solo quella occidentale, e in quanto tale pienamente indomediterraneo) è nella sua reale paternità prima misconosciuto («non è egli forse il figlio del falegname?», MATTEO 13, 55), poi definitivamente ‘riconosciuto’ attraverso le fondanti parole di Pietro («Tu sei il Cristo, Figlio del Dio Vivente», MATTEO 16, 16), che equivalgono ad una vera e propria agnizione, cioè una piena legittimazione del suo Progetto di redenzione e del suo Destino di trascendenza17. 16 Per la documentazione si rinvia a CRAVERI (2014). BETTINI e BORGHINI (1979: 133-134) colgono molto bene alcuni degli aspetti qui da me messi in evidenza. 17 Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https://rhesis.it/ Linguistics and Philology, 8.1: 138-175, 2017 146 Grecia Meno nota è la storia dell’esposizione di Paride sul monte Ida «a motivo del terribile sogno premonitore avuto da sua madre Ecuba (la fascina di legna ricolma di serpenti e la fiaccola ardente che appicca il fuoco alla città)», su cui il rinvio d’obbligo è a BETTINI e BORGHINI (1979: 138-146) e le cui fonti più importanti sono IGINO, Fabulae 92 e OVIDIO, Heroides 5, 11ss., 79ss. Paride, tornato a Troia, risulta vincitore nei giochi funebri che sono stati indetti per lui creduto morto e rischia di essere ucciso dal fratello Deifobo, ma viene salvato da Cassandra che sola conosce la sua vera identità e la rivela a Priamo. Riguardo alla partecipazione dell’eroe ancora sconosciuto ad una qualche forma di agone ‘legittimante’ faccio notare che questa circostanza riguarda anche con esiti negativi in India Karna e con esiti positivi in Grecia Odisseo (gara con l’arco) e può rappresentare – proprio perché appare in ‘aree laterali’ – un arcaismo del mondo indomediterraneo. Ancora meno nota è la storia di Melampo. Secondo il racconto di APOLLODORO, Biblioteca 1, 9, 96-97 «Melampo (Μελάμπους “piede nero”!)18 viveva in campagna e davanti alla sua casa vi era una quercia in cui avevano fatto il nido dei serpenti; i suoi servi uccisero i serpenti e lui raccolse della legna e li bruciò, ma allevò i loro piccoli. Cresciuti, essi gli si avvicinarono mentre dormiva e, da una parte all’altra delle spalle, si misero a lambirgli le orecchie con le lingue. Melampo si svegliò e rimase atterrito, ma si accorse di comprendere i versi degli uccelli che volavano sopra di lui; istruito da loro, prediceva il futuro agli uomini. Imparò anche la ieroscopia e, dopo il suo incontro con Apollo sulle rive dell’Alfeo, divenne il migliore degli indovini». Ma, in tema di esposizione, anche il nome di questo indovino (μάντις ἀμύμων secondo Omero, Odissea λ 291, cfr. anche Odissea ο 225, dove un μάντις è definito Μελάμποδος ἔγκονος “nipote di Melampo” con flessione del nome proprio che evidenzia la natura di composto trasparente) è in qualche modo parlante, se ci si ricorda di una sua abbastanza evidente esposizione: cfr. lo scolio ad Apollonio Rodio 118-21 d: «come lo partorì, la madre lo depose in un luogo fittamente alberato (εἰς σύνδενδρον... τόπον), ma accadde che i suoi piedi furono anneriti dal sole, perché non erano all’ombra» (tr. di Paolo Scarpi). Su questa base si può affermare che i piedi sono un evidente contrassegno identitario di Melampo19. Un’implicazione (sia pure indiretta) con il riconoscimento mediante somiglianza dei piedi è contenuta nella storia dell’esposizione di Teseo (PLUTARCO, Vite parallele: Teseo 5): «Si racconta che ad Egeo, desideroso di aver figli, la Pizia rispondesse con quel famoso vaticinio con cui gli prescriveva di non avere contatti con alcuna donna prima di giungere ad Atene. Ma a lui il vaticinio sembrò formulato in maniera poco comprensibile, per cui, giunto a Trezene, riferì a Pitteo le parole del dio, che così suonavano: «non sciogliere, o grande reggitore di popoli, il piede sporgente dell’otre 18 Qui troviamo per la prima volta un riferimento al piede come contrassegno identitario a livello onomastico nel mondo greco. Diversamente sempre APOLLODORO, Biblioteca 2, 1, 11-12 ci fa sapere che Egitto, figlio di Belo e fratello gemello di Danao, «sottomise anche il territorio dei Melampodi (τὴν Μελαμπόδων χώραν), cui diede il suo nome, Egitto». In questo caso l’identità è etnica e il riferimento meronimico è ovviamente al colore scuro della pelle del piede. 19 Melampo è in ogni caso anche un nome di cane nel mondo antico: cfr. OVIDIO, Metamorphoses 3, 206 e 208: Spartana gente Melampus “Melampo di razza spartana”) e il nome rimbalza in letteratura fino al Melampo del Pinocchio di Collodi e alla sua inquietante replica del Melampus del racconto di FLAIANO (cfr. Il gioco e il massacro, ed. Adelphi, Piccola Biblioteca 664, pp. 97-266, cfr. Appendice, p. 280 per l’ascendenza collodiana). Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https://rhesis.it/ Linguistics and Philology, 8.1: 138-175, 2017 147 (ἀσκοῦ τὸν προὔχοντα πόδα) prima di giungere nella città di Atene».20 Avendo pensato Pitteo che queste parole erano oscure, indusse, o piuttosto ingannò, Egeo a congiungersi con Etra. Egli si congiunse con lei e venuto a sapere che si era unito con la figlia di Pitteo, supponendo che ella avrebbe dato alla luce un bimbo, lasciò i calzari (πέδιλα) e la spada nascosti sotto un grande masso…21 Palesò poi la cosa alla donna soltanto e le ordinò che se fosse nato da lui un figlio, appena questi fosse divenuto grande e capace di sollevare la pietra e di portar via ciò che era stato lasciato sotto di essa, di mandarlo da lui con questi oggetti, di cui nessuno conosceva l’esistenza». Insomma: spada a parte, i calzari di Egeo assumono una funzione identitaria (cfr. in Vite parallele: Teseo 6, 2 la definizione τὰ πατρῷα σύμβολα “i contrassegni del padre”, in cui σύμβολον sembra rivendicare il suo valore etimologico fondante di controparte fattuale)22 un po’ come la successiva e assai più nota scarpetta di Cenerentola… Per la precisione va però detto che l’agnizione di Teseo da parte del padre Egeo avviene mediante il solo riconoscimento della spada23. Qui troviamo un fatto significativo: nelle riscritture culturali di motivi mitologici tendono a sparire proprio quelli più arcaici. Altrimenti detto: il piede, che è un elemento agnitivo in Omero (riconoscimenti di Telemaco e Odisseo) e in Eschilo (riconoscimento di Oreste nelle Coefore), viene ridicolizzato rispetto alla sua antica funzione nell’Elettra di Euripide ed ignorato nell’omonima tragedia di Sofocle. Segnalo a questo punto un altro tratto culturale indomediterraneo: PLUTARCO, Vite parallele: 20 L’enigma è riproposto, per bocca di Egeo, in modo identico nella Medea di Euripide (v. 679) ed ha un’ulteriore versione nella Biblioteca di APOLLODORO (III, 15, 70). A mio giudizio in questo caso il ‘piede’ è designazione eufemistica dell’organo sessuale, che non deve essere ‘sciolto’ mediante il contatto con una donna prima del rientro di Egeo ad Atene. La nascita di Teseo e la sua ritardata agnizione sono la conseguenza di un mancato rispetto dell’oracolo della Pizia. Ma forse si può dire di più secondo una proiezione ‘mediterranea’ di forte antichità presumibile. Il Collega Giulio Paulis, presente alla mia conferenza cagliaritana, così mi scrive al riguardo: «… il cap. 21 della Carta de Logu di Arborea… prevede il taglio del piede per il reo di stupro. Il rinvio bibliografico è il seguente: Carta de Logu dell’Arborea. Nuova edizione critica secondo il manoscritto di Cagliari (BUC 211) con traduzione italiana a cura di G. LUPINU con la collaborazione di G. STRINNA, S’Alvure, Oristano 2012, pp. 78-9. Forse può essere interessante rilevare che gli Statuti Sassaresi, più influenzati dalle norme del diritto italiano, puniscono invece il reo di stupro con il taglio della testa». Per questa seconda notizia Paulis rinvia a Stat. Sass. III, 31 nell’edizione di Pier Enea GUARNERIO, Gli statuti della Repubblica Sassarese. Testo logudorese del secolo XIV, “AGI” 13, 1892-94, p. 98. Sono assai grato a Giulio Paulis per queste informazioni che aprono un’intrigante prospettiva sulle implicazioni erotico-sessuali del piede maschile in area (indo)mediterranea e giunti a questo punto non posso fare a meno di notare che i piedi riconosciuti o misconosciuti in questo spazio culturale antichissimo sono invariabilmente maschili. 21 PLUTARCO, Vite parallele, Teseo 4, 1 parla al riguardo di τῶν γνωρισμάτων θέσις “deposito dei segni di riconoscimento”. In realtà γνώρισμα è parola di forte densità semantica nella nostra prospettiva solo se ci si ricorda che in greco essa fa parte di una famiglia di parole tra le quali si possono ricordare ἀί “riconosco”, ἀναγνώρισις ma anche ἀναγνώρισμα “riconoscimento”, in cui il prefisso ἀνα- è diagramma sintagmatico di una ‘risalita cognitiva’ ad un’identità pregressa e momentaneamente sospesa. Qui vale la pena di ricordare che le calzature sono un contrassegno identitario antico (si ricordi il caso già visto di Rāma in India) e meno antico (si ricordino la scarpetta di Cenerentola e il caso di Martin Guerre evocati in apertura del nostro discorso). 22 Per un mio approfondimento sul valore pregnante e più antico di σύμβολον rinvio a SILVESTRI (2011: 82-83). 23 Cfr. PLUTARCO, Vite parallele: Teseo 12, 4. La salienza della spada e l’omissione dei calzari sono già in BACCHILIDE, Ditirambo 4 I. (= c. 18 m.), 47-8, cfr. Odi e frammenti a cura di Massimo GIUSEPPETTI, BUR classici greci e latini, Milano 2015, pp. 96-97. Si ricordino a conferma OVIDIO, Metamorphoses 7, 422-3 (… pater in capulo gladii cognovit eburno / signa sui generis…) e SENECA, Phaedra 899-900 (che è una conferma in tal senso): «Dell’insegna paterna intagliato, l’avorio regale / sull’elsa risplende, onore dell’antica stirpe», cfr. SENECA, Tutte le opere a cura di Giovanni REALE, Bompiani, Il Pensiero Occidentale, Milano 2000/2012, p. 1197. Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https://rhesis.it/ Linguistics and Philology, 8.1: 138-175, 2017 148 Teseo 6, 1 dichiara che «Etra per tutto il tempo tenne nascosta la vera origine di Teseo: correva la voce, messa in giro da Pitteo, che fosse figlio di Poseidone» (per analoghi interventi divini si ricordino mutatis mutandis le vicende analoghe di Karna, Sargon, Gesù, Romolo e Remo). Roma Per la Roma arcaica, anzi per i suoi antefatti latini, BETTINI e BORGHINI (1979: 123-124) segnalano il caso di Silvio (DIONIGI DI ALICARNASSO 1, 70): «Alla morte di Enea, il regno passa ad Ascanio, figlio della moglie troiana. Lavinia però (la moglie latina di Enea) è incinta, e teme che Ascanio possa nuocere a lei e al nascituro… ella si affida quindi ad un pastore di porci» (funzione positiva anche nelle agnizioni rispetto a quella negativa del pastore di capre, cfr. il caso di Eumeo ‘porcaio’ opposto a Melanteo ‘capraio’ nell’Odissea!) «che custodirà e alleverà il bambino, in una casa celata tra le selve. Di qui il nome di Silvio, futuro re di Alba Longa…» (p. 123). A me pare che il nome Silvius sia molto significativo in prospettiva indomediterranea (v. sopra) e altrettanto significativo per la sua profondità cronologica mi sembra il fatto che esso potrebbe celarsi nella notizia esiodea (Teogonia 1011-1016) secondo la quale «Circe, figlia del Sole Iperionìde, / Partorì dall’amore di Odisseo paziente nel cuore / Agrio (Ἄγριον) e Latino (Λατῖνον) senza macchia e potente / e generò Telegono per opera dell’aurea Afrodite, / i quali, ben lontano, all’interno di isole sacre / signoreggiavano su tutti i celebri Tirreni (πᾶσιν Τυρσηνοῖσιν ἀγακλειτοσῖν)» (tr. di Cesare Cassanmagnago). Infatti è fuor di dubbio l’equipollenza designativa di gr. Ἄγριος (cfr. ἄγριος “selvatico, selvaggio”) e di lat. Silvius, dentro la dimensione dell’alterità dell’esposto (v. sopra) come pure non sono da sottovalutare certe corrispondenze ‘troiane’ e ‘lidie’ nella genealogia regale albana così come ci viene proposta da LIVIO (1, 3, 6-11). L’elenco si apre appunto con Silvius… casu quodam in silvis natus (ma noi ormai sappiamo che in questo non c’è niente di casuale!) e si conclude con Rea Silvia, che è l’antefatto generativo di Romolo e Remo ‘indomediterranei’ (cfr. sotto). Immediato successore è Latinus Silvius (perfetta fusione onomastica dei due mitici personaggi esiodei), poi Livio precisa Mansit Silviis postea omnibus cognomen, qui Albae regnarunt (una ‘denominazione di origine controllata’, se posso esprimermi così!) e aggiunge: Latino Alba ortus24, Alba Atys25, Atye Capys26, Capye Capetus27, a cui segue una lista di nomi decisamente latini (con la presumibile eccezione ‘sabina’ di Proca, padre di Numitore e Amulio, quest’ultimo usurpatore nei confronti del fratello e zio ‘cattivo’ di Rea Silvia). Infine la storia dell’esposizione di Romolo e Remo e del loro concepimento da parte della vestale Rea Silvia28 è nella versione di Livio (1, 3-4) l’ennesima e conclusiva replica di un motivo che ritorna identico in India (aree laterali!). Amulio, suo zio, «cacciato il fratello (sc. Numitore) regna in sua vece. Egli aggiunge misfatto a misfatto; sopprime i nipoti maschi, e alla nipote Rea Silvia nominata Vestale sotto pretesto di onorarla, toglie con la sua perpetua verginità la speranza di generare… La Vestale, Si noti la movenza ‘sabina’ (cfr. Atta Clausus) di questa formazione nominale. Per le origini ‘lidie’ di Atys rinvio a SILVESTRI (2012: 65-66) e in particolare alla notizia di PF 106,11 M, che a proposito di un altro nome dell’Italia antica (Atua) dichiara: ab Atye Lydo Atya appellata. 26 Per le origini ‘troiane’ di Capys cfr. VIRGILIO, Aen. 1, 183; 2, 35; 6, 768; 9, 576; 10, 145. 27 Capetus potrebbe essere un etnico primario: cfr. per una forma secondaria i toponimi, presumibilmente da etnici, Σκυλλήτιον e Ἀρρήτιον. 28 Una ultima eco ‘troiana’ a livello onomastico potrebbe essere il fatto che altro nome della vestale è Ilia, secondo Ennio. 24 25 Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https://rhesis.it/ Linguistics and Philology, 8.1: 138-175, 2017 149 essendole stata fatta violenza e avendo dato alla luce due gemelli, sia che ne fosse realmente convinta, sia perché meno disonorevole apparisse una colpa di cui era responsabile un dio, attribuisce a Marte la paternità della sua illegittima prole. Ma né gli dei né gli uomini sottraggono lei e la sua prole alla crudeltà del re: la sacerdotessa, in catene, viene imprigionata; quanto ai bimbi, egli ordina che siano gettati nella corrente del fiume». Così Livio e il resto è noto proprio dal seguito del suo racconto (la cesta che ondeggia sulle acque, il pastore Faustolo e la sua compagna Larenzia alias ‘la Lupa’ (e qui si noti la strettissima coincidenza onomastica con la compagna di Mitridate, pastore iranico, nella vicenda dell’esposizione di Ciro), infine la notizia che i due gemelli «amavano errare cacciando per le selve», tutto ciò è replica di un tema ormai noto. Una particolarissima modalità di riconoscimento Se parliamo ora dell’importanza dei piedi e delle sue premesse ancestrali, possiamo e dobbiamo farlo subito con un viaggio nella preistoria più remota fino all’homo Naledi, i cui resti fossili sono stati trovati nel 2013 in Sudafrica, circa cinquanta chilometri a nordovest di Johannesburg, e che sembra in parte contraddire e in parte confermare quanto sappiamo o crediamo di saper sull’evoluzione, proprio in quanto presenta una scatola cranica piccolissima, una corporatura tutt’altro che piccola, mani con dita incurvate e ancora prensili in funzione della brachiazione, ma piedi già in tutto simili ai nostri e pertanto adattati dalla deambulazione. Ma perché questa agnizione di area indomediterranea coinvolge i piedi? Per rispondere bisogna tornare alla nostra storia evolutiva profonda: i piedi, in realtà, sono il primo contrassegno metamorfico certo che l’antico scimmione si era messo nella giusta posizione evolutiva, quella eretta, per capirci; e, del resto, Marvin HARRIS (1991: 13) lo ha detto nel modo più icastico nell’apertura del suo libro, proprio per descrivere questa trafila evolutiva: «In principio era il piede». La particolare anatomia del piede umano è infatti una conseguenza evolutiva della stazione eretta ed è «l’adattamento della struttura corporea alla marcia in bipedia», come dice un altro grande antropologo, LEROI-GOURHAN (1977: 73), nel suo libro seminale e densissimo di implicazioni linguistiche29. A questo punto diventa evidente che il piede è un fattore agnitivo ancestrale per il riconoscimento reciproco tra esseri umani in quanto in prima istanza solo in tal modo distinti dalle ‘altre’ scimmie antropomorfe. L’agnizione indomediterranea basata sulla somiglianza dei piedi è allora una ‘riscrittura culturale’ protostorica relativamente recente di questa procedura di identificazione antichissima. L’ultima riscrittura, in tempi decisamente moderni, è a mia conoscenza la scarpetta (di vetro e pertanto non adattabile se non al suo giustissimo piede!) grazie alla quale il Principe riconosce in Cenerentola la bellissima fanciulla di cui si è innamorato30. 29 Di LEROI-GOURHAN (1977: 78) mi piace anche citare il fortissimo asserto, che chiaramente anticipa quello di Harris appena visto («Eravamo disposti ad ammettere qualsiasi cosa, ma non di essere stati cominciati dai piedi»). 30 Un’altra riscrittura, assai peculiare, riferibile al mondo germanico nordico, mi viene cortesemente segnalata dalla Prof. Veronka Szőke dell’università di Cagliari, presente alla mia conferenza, che mi scrive così: «Si tratta della vicenda di una gigantessa della montagna, chiamata Skaði, cui gli Asi consentono di scegliere un marito dal loro gruppo,» (e questa, aggiungo io, è in qualche modo una replica dell’usanza indomediterranea e in particolare indiana dello svayamvara!) «per placare l’ira della gigantessa, il cui padre, Þjázi, era stato ucciso degli dèi, come ‘compensazione-guidrigildo’, questi le offrono la possibilità, il ‘privilegio’, di potere prendere come sposo uno di loro; le unioni tra le due famiglie mitologiche, quella degli Asi e quella dei giganti, erano di norma fortemente stigmatizzate, e tra le due classi dominava una condizione di perenne ostilità. Su questa caratteristica strutturale si reggono di fatto molti dei miti che ci Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https://rhesis.it/ Linguistics and Philology, 8.1: 138-175, 2017 150 Tre agnizioni riuscite (Odisseo, Telemaco, Oreste) e due agnizioni mancate (Karna ed Edipo) Odisseo il nome In ι 366 la dichiarazione onomastica di Odisseo diventa nella nostra prospettiva assai sintomatica: Οὗτις ἐμοί γ᾽ὄνομα «Nessuno è il mio nome». Non si tratta di esposizione ma di un suo equivalente funzionale, la deprivazione onomastica appunto, a cui è posto Odisseo nel suo remoto vagare in luoghi di non appartenenza. luoghi testuali In τ 378-381 la vecchia nutrice Euriclea corona il riconoscimento dell’ancora a lei ignoto eroe con specifico riferimento alla somiglianza dei suoi piedi con quelli di Odisseo anche se poi il momento agnitivo risolutivo è legato alla (ri)scoperta di una ben nota cicatrice su una gamba del reduce secondo un’evidente riscrittura motivante di una marca agnitiva che affonda in una preistoria evolutiva profonda. Ma guardiamo le cose più da vicino: in τ 343-348 Odisseo, ancora non riconosciuto, dichiara a Penelope: «Nemmeno un lavacro ai piedi (ποδάνιπτρα ποδῶν) è gradito / al cuore: nessuna donna toccherà i piedi miei (ποδὸς ἄψεται ἡμετέροιο) / tra quelle che qui in palazzo ti servono, / se non c’è qualche vecchia antica, fedele, / una che in cuore abbia tanto sofferto, quanto io ho sofferto: / a questa non vieterei di toccare i miei piedi (ποδῶν ἄψασθαι ἐμεῖο)» (tr. di Rosa Calzecchi Onesti). Questa dichiarazione così recisa e determinata dell’eroe sembra motivarsi in vista dell’unica agnizione possibile, quella affidata ad Euriclea, che ben conosce gli antefatti ed è chiamata a riconoscere. Si noti qui la salienza testuale del «piede» rammentato tre volte in sei versi. La ‘saggia Penelope’ accoglie immediatamente la richiesta (τ 350-360): sarà la ‘prudente Euriclea’ a lavare i piedi di Odisseo (τ 356: ἥ σε πόδας νίψει) e la stessa Penelope aggiunge una notazione di grande finezza agnitiva (τ 358-359: «un coetaneo / del tuo signore lava; e certo Odisseo / ormai è così nelle gambe, così nelle braccia»). Così nella traduzione di Calzecchi Onesti, ma il testo omerico dichiara in modo inequivocabile (e per noi decisamente perspicuo) ἤδη τοιόσδ᾽ ἐστὶ sono giunti dall’area germanica settentrionale. Alla concessione fatta dagli Asi è legata una condizione, ovvero che la scelta dello sposo dovrà avvenire solo ed esclusivamente sulla base dei piedi, unica parte del corpo mostrata alla ‘pretendente’. La gigantessa sceglie i piedi più belli pensando che essi non possano che appartenere all’ambito Baldr, dio avvenente e buono, salvo scoprire poi che il ‘padrone’ degli arti è, invece, il dio del mare Njörðr (dai piedi levigati dal contatto costante con l’acqua). La storia è raccontata nel trattato mitologico noto come Edda di Snorri Sturluson (riconducibile approssimativamente al 12211225). L’episodio compare nella seconda parte del trattato, chiamata Skáldskaparmál “Discorso sull’arte poetica” 56 (Anthony FAULKES [ed.], Edda. Skáldskaparmál. Introduction, Text and Notes. 1998, London: Viking Society for Northern Research, University College London, p. 2). Come apprendiamo sempre da Snorri (Gylfaginning 23), il matrimonio si rivela fallimentare per incompatibilità di carattere visto che le esigenze della ‘rupestre’ gigantessa mal si conciliano con la predilezione del marito per l’ambiente marino: Skaði sceglie dunque di tornare nel montuoso regno paterno decretando così la fine dell’unione» (Anthony FAULKES [ed.], Edda. Prologue and Gylfaginning. 20052, London: Viking Society for Northern Research, University College London, pp. 23-24). Per parte mia faccio notare che si tratta in questo caso di un’agnizione illusoria e in quanto tale destinata ad avere un esito negativo perché di fatto non è legittimante. Ringrazio di cuore la Prof. Szőke per l’informazione preziosa e per le indicazioni bibliografiche connesse. Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https://rhesis.it/ Linguistics and Philology, 8.1: 138-175, 2017 151 πόδας τοιόσδ᾽ τε χεῖρας “tale e quale è ormai nei piedi e tale e quale egli è nelle mani”, in pratica secondo la stessa movenza intratestuale in virtù della quale era già avvenuta l’agnizione di Telemaco, in quanto figlio di Odisseo, da parte di Elena e Menelao: cfr. δ 137-150, in particolare v. 149 κείνου γὰρ τοιοίδε πόδες τοιαίδε τε χεῖρες “tali e quali i piedi di lui (sc. di Odisseo) e tali e quali le mani”. In entrambi i casi si noti l’andamento formulare dell’asserto e la topicalizzazione dei piedi rispetto alle mani. Euriclea fa la sua parte e parla (per noi!) con assoluta chiarezza: cfr. τ 376-381 «Ti laverò i piedi (τῷ σε πόδας νίψω), sì, per Penelope / e anche per te, perché batte, dentro, il mio cuore / d’angoscia. Ah! Comprendi la parola che dico: / molti stranieri infelici e tapini qui giunsero, / ma nessuno, ti dico, così somigliante a vedersi, / come tu, corpo, voce, piedi, somigli a Odisseo (ὡς σὺ δέμας φωνήν τε πόδας τ᾽ Ὀδυσῆϊ ἔοικας)». Siamo già un pezzo avanti nell’agnizione in cui gioca un ruolo decisivo, senza ombra di dubbio, la salienza del piede. Più avanti, nel corso del lavacro dei piedi, avviene la svolta agnitiva, sia pure attraverso la riscrittura motivante della scoperta della cicatrice: cfr. τ 467-468 «Ora la vecchia, toccando la cicatrice con le due mani aperte, / la riconobbe palpandola, e lasciò andare il piede (πόδα δὲ προέηκε φέρεσθαι)». Come si vede, il ‘piede’ è ancora una volta protagonista e così giunge la dichiarazione confirmatoria (τ 474 «Oh sí, Odisseo tu sei, cara creatura!» tr. di Rosa Calzecchi Onesti). Gli sviluppi successivi dell’agnizione costituiscono un’altra storia e restano fuori dal nostro discorso. sintesi conclusiva Il riconoscimento di Odisseo è senz’altro un momento topico di queste ‘agnizioni indomediterranee’ e si inserisce in un contesto di altre isoìde (la gara con l’arco equifunzionale allo svayamvara indiano e non solo indiano, cfr. il già detto a proposito dell’affidamento della vergine Maria a Giuseppe; ma si consideri da un punto di vista indomediterraneo anche la fedeltà di Penelope e soprattutto il suo nome eloquente!)31. Un altro motivo indomediterraneo, nella vicenda del riconoscimento di Odisseo, potrebbe essere scorto nella funzione svolta dal porcaio Eumeo (v. sopra, a proposito dell’esposizione di Silvio) e, forse, nel peculiare riconoscimento dell’eroe da parte del cane Argo (ρ 291-327), uno degli episodi più belli del grande poema32. Dico questo perché alla fine del Mahābhārata c’è un episodio analogo di uno straordinario rapporto tra uomo e cane, quando l’eroe Yudhisthira, capo dei Pandava, si rifiuta di ascendere in cielo senza il suo cane, che Indra considera impuro; ed ecco che il cane si trasforma in un dio, anzi nel dio della giustizia, Dharma, e con lui entra in cielo. Telemaco il nome Τηλέμαχος è con ogni evidenza “colui che combatte lontano” e questo è un contrassegno non di esposizione ma di un suo equivalente funzionale, l’estraniazione appunto, in cui è collocato rispetto ad Itaca il figlio di Odisseo. 31 Su questo nome ha fatto puntuali osservazioni PISANI (1946) con ripresa ed approfondimento di un precedente suggerimento di KRETSCHMER (1945). Per una sintesi ed una rivisitazione problematica rinvio a SILVESTRI (in stampa). 32 Cfr. in tal senso ALLEN (2000). Sono debitore di questa e di altre preziose e circostanziate indicazioni indianistiche all’amico Daniele Maggi dell’università di Macerata, che ringrazio di cuore. Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https://rhesis.it/ Linguistics and Philology, 8.1: 138-175, 2017 152 luoghi testuali In δ 137-150 Telemaco è riconosciuto da Elena, quando si reca in visita alla reggia di Menelao e quest’ultimo felicemente lo legittima come figlio di Odisseo riconoscendo innanzi tutto la ‘somiglianza dei piedi’ (τοιοίδε πόδες “tali e quali i piedi”, cfr. il v. 149 e v. dietro a proposito del riconoscimento di Odisseo). Notevole mi sembra il fatto, proprio in termini di cancellazione di una marca agnitiva (i piedi, appunto) ormai demotivata (o forse in termini di voluta omissione di una marca ben altrimenti motivante?), che VIRGILIO (Aen. 3, 489-490) ricalchi solo in parte questo luogo (anzi questi luoghi odissiaci), quando fa dire ad Andromaca, rivolta ad Ascanio o mihi sola mei super Astyanactis imago: / sic oculos, sic ille manus, sic ora ferebat “o unica superstite a me immagine del mio Astianatte: / così aveva il volto, così gli occhi e le mani” (tr. di Luca Canali). Infatti, in termini indomediterranei, somiglianze di mani, di occhi e di volto non costituiscono da sole prove decisive di consanguineità, come invece fa la somiglianza dei piedi! D’altra parte Astianatte e Ascanio non sono fratelli come lo sono invece in India Karna e i Pandava e in Grecia Oreste ed Elettra per non parlare della parentela di primo grado che intercorre tra Odisseo e Telemaco. E questo mi pare che basti. sintesi conclusiva Anche Telemaco è indomediterraneo non solo per il nome estraniante e per i suoi contrassegni agnitivi, ma anche perché ha un fratello dal nome altrettanto estraniante, cioè “nato lontano” (Τηλέγονος, appunto) dall’amore di suo padre con la dea solare Circe, proprio in quel vasto e affascinante quadro dell’ultimo approdo occidentale della dimensione culturale che stiamo indagando. Forse vale la pena di ricordare infine che il mancato riconoscimento tra Odisseo e suo figlio Telegono, giunto ad Itaca, si risolverà nella morte dell’emblematico ‘eroe di viaggi’ proprio per mano del figlio nato in una terra lontana (cfr. APOLLODORO, Bibl. Ep. 7, 36). Agnizioni riuscite e specifica salienza del ‘piede’ Oreste il nome Oreste (gr. Ὀρέστης) porta un nome parlante che è marca di alterità e di estraniazione dalla sua patria di origine, il “montanaro” appunto, cfr. gr. ὄρος “monte” così come il πολίτης, il “cittadino” appunto, è l’abitante della πολίς cioè della “città”. luoghi testuali In ogni caso il motivo della somiglianza dei piedi ritorna nelle Coefore di ESCHILO (vv. 205ss), dove Elettra identifica il fratello Oreste, grazie alle impronte impresse dai piedi di questo, in quanto corrispondono esattamente alle sue. Euripide nell’Elettra (vv. 534ss) trova strano e ridicolo questo procedimento agnitivo il cui carattere arcaico e, in una certa misura, ‘esotico’ si rispecchierebbe deformato in questo suo atteggiamento razionalista. Sofocle nella sua Elettra sembra invece ignorare completamente questa procedura agnitiva. In ogni caso è possibile registrare in tutti e tre i grandi tragediografi Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https://rhesis.it/ Linguistics and Philology, 8.1: 138-175, 2017 153 una diversa e sintomatica salienza del piede anche in relazione ad altre procedure agnitive. La rassegna che qui si propone si muove esattamente in tal senso. Eschilo Agamennone (tr. di Enrico Medda) 79-81 «e l’estrema vecchiezza (ὑπέργηρων), quando ormai il fogliame si raggrinza, procede per vie dai tre piedi (τρίποδας μὲν ὁδοὺς / στείχει)». Qui mi sembra che il riferimento del Coro al piede consista in una evidente identificazione categoriale di età di appartenenza (la stessa, più che ovvia, che appare, tanto per fare un esempio, nei geroglifici egiziani!), che ritorna per altro nel ben noto indovinello della Sfinge secondo la modulazione del ‘tetrapode’, del ‘bipede’ e del ‘tripode’ o delle diverse età dell’uomo. 905-907 «Ma ora, mio caro, scendi da questo carro, senza però posare a terra il tuo piede che ha distrutto Troia, mio signore (τὸν σὸν ποδ᾽, ὦναξ, πορθήτορα)». Clitemestra, rivolta ad Agamennone, qui opportunamente sottolinea il rispetto che si deve ad un ‘piede’ così determinante per l’ultimo destino di Troia. Bisogna che le ancelle ricoprano di drappi il suolo su cui deve camminare… 944-949 «Ebbene, se così vuoi, qualcuno mi sciolga i calzari (ἀρβύλας), presto, [sì, e provveda un servo, sì, i calzari quelli in cui si mette il piede (πρόδουλον ἔμβασιν ποδός)]33 e che mentre cammino su queste porpore degli dèi nessuno sguardo invidioso mi colpisca da lontano. Provo grande ritegno a rovinare con i piedi (ποσὶν) i beni della mia casa, sciupando ricchezze e tessuti comprati a caro prezzo». Qui si noti l’insistenza sul ‘piede’ insieme al subliminale timore di Agamennone di calcare con un ‘piede distruttore’ di Troia (v. sopra) uno spazio di fatto al suo ‘piede’ definitivamente negato dall’uxoricidio imminente… 1594-1597 «Egli sminuzzava i piedi (ποδήρη) e le estremità delle mani †.....† che sedeva da solo, prende senza rendersene conto le loro carni irriconoscibili e le mangia, cibo rovinoso, come vedi, per la stirpe». Si tratta dell’orribile banchetto allestito da Atreo a Tieste con le carni dei suoi figli, rievocato da Egisto davanti al cadavere di Agamennone. Nel testo greco il termine ποδήρη, se inteso banalmente come “piedi” (così fa Medda!) si configura come hapax eschileo. In realtà qui con esso (neutro plurale!) si deve intendere che lo sminuzzamento avviene sulle “estremità inferiori” (lett. “fino ai piedi”), perché questo è il valore referenziale di ποδήρης, ες “lungo fino ai piedi” detto di vesti, dello scudo, della barba, in coerenza testuale con l’analogo sminuzzamento che riguarda le dita, cioè “le estremità delle mani” (v. sopra). La traduzione parla, semplificando, di “carni irriconoscibili”, ma nel testo greco, sia pure in un luogo di nuovo leggermente corrotto, i termini dell’agnizione mancata sono due: ἄσημα “non significanti” (riferito alle carni) e ἀγνοίαι “con inconsapevolezza, senza riconoscerle” (riferito a Tieste). Si tratta di due parole-chiave nella nostra prospettiva agnitiva, in cui sono in gioco i contrassegni umani identificanti, mani e piedi appunto, in quanto programmaticamente negati. Notevolissimo mi sembra il fatto che l’episodio qui accennato da Eschilo trovi un preciso antecedente in quello narrato da ERODOTO (1, 119) proprio in margine alla storia diversamente indomediterranea di Ciro il Grande, quando Arpago viene punito da Astiage che gli fa mangiare – lui inconsapevole – le carni del figlio. Erodoto racconta 33 La parte riportata tra parentesi quadre non è stata tradotta da Medda. Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https://rhesis.it/ Linguistics and Philology, 8.1: 138-175, 2017 154 che giunta l’ora di cena «per gli altri e per lo stesso Astiage furono apprestate tavole colme di carni di pecora, per Arpago colme delle carni di suo figlio, tutte ad eccezione della testa, delle mani e dei piedi» e poi, una volta Arpago «sazio di cibo», Astiage gli fa portare davanti «la testa del figlio che era coperta, e le mani e i piedi» (tr. di Virginio Antelami). Anche in questo caso sono in gioco, oltre alla testa (ma coperta!), due precisi contrassegni antropici (mani e piedi!), che sono stati sottratti – proprio per la loro capacità identificativa – al ‘fiero pasto’ di un’agnizione mancata. Coefore (tr. di Luigi Battezzato) 6-7: «Un ricciolo (πλόκαμον) per l’Inaco, a ripagarne il nutrimento, e quest’altro (δεύτερον) in segno di lutto». Qui è Oreste, non ancora riconosciuto, che parla stando davanti alla tomba di Agamennone, ma – si badi bene! – la funzione dei due riccioli recisi non è in nessun modo quella del suo riconoscimento e non con questa intenzione viene compiuto l’atto. 20: Oreste qui suggerisce a Pilade di nascondersi all’arrivo di Elettra e del coro: l’espressione usata ἐκποδών “in disparte” (lett. “fuori dai piedi”) è fortemente allusiva alle impronte appena lasciate o almeno a quanto dirà di esse Elettra, da lei definite δεύτερον τεκμήριον con evidente rimbalzo testuale al δεύτερον... πλόκαμον delle prime battute di Oreste (v. sopra, i vv. 6-7!). Va anche ricordato che ἐκποδών ritorna con ben altra salienza allusiva (e con riferimento ai piedi di Edipo!) in quanto perentoriamente rivolto al v. 40 delle Fenicie di Euripide dall’auriga di Laio ad Edipo misconosciuto, e subito dopo gli emblematici piedi dell’infelice appariranno (nuovamente!) insanguinati dal passaggio sopra di essi delle ruote del carro (v. avanti, nel testo)… 168-182: «ELETTRA Ecco, vedo una ciocca (βόστρυκον) recisa sulla tomba. CORO A quale uomo appartiene o a quale ragazza dalla profonda cintura? ELETTRA Questo è facile per tutti supporlo. CORO Come posso imparare, io vecchia, da una più giovane? ELETTRA Non esiste chi l’avrebbe potuta tagliare, al di fuori di me. CORO È infatti nemico chi aveva il dovere di offrire in lutto i suoi capelli. ELETTRA Ma questa ha proprio l’identico aspetto… CORO Di quali chiome? È questo che voglio sapere. ELETTRA A noi stessi è proprio simile di aspetto. CORO È forse questa un’offerta in segreto di Oreste? ELETTRA Alle sue ciocche somiglia moltissimo. CORO E lui come ebbe il coraggio di giungere qui? ELETTRA Mandò la chioma tagliata come onore per il padre. CORO Quello che mi dici non merita meno pianto, se lui non toccherà mai questa terra con il piede (ποδί)». Qui va ricordato subito che l’agnizione di Oreste implica tre indizi di assai diversa natura probante: la ciocca di capelli (βόστρυκον), che non è indizio decisivo, come certifica la stessa Elettra («Mandò la chioma tagliata come onore per il padre»): si tratterebbe di un riconoscimento non decisivo, in quanto in absentia; le impronte dei piedi (v. avanti), che invece hanno valore discriminante, in quanto sono in praesentia; il tessuto fatto da Elettra (cfr. vv. 231-232), indizio che insieme a quello delle impronte sarà razionalisticamente smontato nell’Elettra di Euripide (v. avanti), ma che in ogni caso non è dirimente perché è messo in bocca a Oreste e giunge a riconoscimento già avvenuto, sia pure in forma prudenzialmente dubitativa (cfr. v. 224: «ELETTRA Sei tu Oreste? È con Oreste che parlo?»). Non si dimentichi che anche rispetto alla ciocca di capelli Elettra ha espresso un giudizio riduttivo rispetto ad un suo valore probante circa l’effettiva presenza di Oreste ad Argo («Mandò la chioma tagliata come onore per il padre»). Dal mio punto di vista il riferimento finale al piede di Oreste («CORO Quello che mi dici non merita meno pianto, se lui non toccherà mai questa terra Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https://rhesis.it/ Linguistics and Philology, 8.1: 138-175, 2017 155 con il piede (ποδί)») ha invece un forte valore cataforico allusivo, proprio in vista di quanto ci accingiamo a leggere. 205-211 «ELETTRA Ma ecco le impronte dei piedi (στίβοι... ποδῶν), secondo segnale (δεύτερον τεκμήριον), simili ai miei e somiglianti (ὁμοῖοι, τοῖς τ᾽ἐμοῖσιν ἐμφερεῖς). E difatti sono due questi contorni dei piedi (περιγραφὰ ποδοῖν): di lui in persona e di un compagno di viaggio. Se misuriamo i talloni e il contorno dei tendini hanno misura uguale alle mie impronte (πτέρναι τενὁντον θ᾽ὑπογραφαὶ μετρούμεναι / εἰς ταὐτὸ συμβαίνουσι τοῖς ἐμοῖς στίβοις)». La precisione o – per usare un linguaggio attuale – l’altissima definizione di questo procedimento agnitivo, proprio in quanto coniugato ad una credenza antichissima di cui già all’epoca di Eschilo sfuggiva completamente la motivazione (a parte i non trascurabili echi omerici delle agnizioni di Telemaco e Odisseo!), ha creato imbarazzi antichi (Euripide) e moderni (l’agguerritissima ma non sempre raffinatissima filologia tedesca). Ma questi imbarazzi sono infondati, dipendono tutti da una superficiale ‘lettura’ di un contesto innegabile che il testo indizia con evidenza assoluta. Le ‘impronte’ sono per altro, da un punto di vista banalmente semiotico, indici necessari per contiguità rispetto a un referente (il piede di Oreste) e l’agnizione è qui compiutamente metonimica (v. sopra, nel testo). Invece il riconoscimento della ‘cicatrice’ sul piede di Odisseo funziona come icona motivata per continuità meronimica (v. sopra, nel testo) proprio perché cicatrice e piede si costituiscono come combinazione eloquente nel segno identitario di Odisseo. Qui va piuttosto sottolineata un’incongruenza (solo) apparente: nel testo si parla di «talloni» e «contorno dei tendini» (v. sopra) quando rispetto alle ‘impronte dei piedi’ il tratto anatomico pertinente è la ‘pianta’. Ma qui si vuole sottolineare la conformazione complessiva del piede nella sua implicita funzione nella procedura agnitiva: più che le impronte sono insomma i piedi di Oreste che Elettra sa ormai di avere davanti! Del resto i “tendini” (τένοντας... ποδῶν) ritornano non casualmente nelle Fenicie (v. 40) di Euripide in un momento topico della mancata agnizione di Edipo e con subliminale riferimento al sangue sgorgato al momento della perforazione dei suoi piedi (v. avanti, nel testo) e dietro c’è innegabilmente un modello omerico. Mi riferisco a quando Achille infierisce sul cadavere di Ettore allo scopo di trascinarlo con il suo carro (Iliade Χ 396397 “gli forò i tendini (τένοντε) dietro ai due piedi / dalla caviglia (ἐκ πτέρνης) al calcagno, vi passò due corregge di cuoio”, tr. di Rosa Calzecchi Onesti). A mio giudizio questo è il modello non tanto remoto dell’analogo (e apparentemente inesplicabile) trattamento subito da Edipo. 225-232: «ORESTE mi vedi in persona e fai fatica a riconoscermi, mentre quando vedesti questa ciocca di capelli come segno di lutto ti vennero le ali e pensavi di vedermi; e cercando le tracce nelle mie impronte (ἰχνοσκοποῦσά τ᾽ἐν στίβοισι τοῖς ἐμοῖς) <…> di tuo fratello, che assomiglia (σύμμετρον) al tuo capo; accosta al taglio la ciocca di capelli ed osserva; e guarda questo tessuto, opera della tua mano, e i colpi del battente e le figure di animali». In questo sviluppo ed esito dell’agnizione (cfr. al v. 235 «O carissimo amore della casa paterna…» in bocca a Elettra) mi preme far notare il punto in cui Oreste descrive Elettra impegnata a cercare le «tracce» del fratello proprio nelle «impronte» da lui lasciate e proprio in questo io vorrei scorgere il primo seme di una topicità che viene riproposta nel mondo antico e arriva ben oltre34. 34 Valga un esempio per tutti. LUCIANO, Storia vera 7, immagina che i suoi avventurosi navigatori arrivino a un isola, dove scorgono «una colonna di bronzo, portante un’iscrizione in caratteri greci poco chiari e logorati, la quale diceva: «Fino a qui giunsero Ercole e Dioniso». Vi erano anche, là vicino sulla roccia, Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https://rhesis.it/ Linguistics and Philology, 8.1: 138-175, 2017 156 439-440 «CORO mani e piedi gli tagliarono (ἐμασχαλίσθη), sappilo; / lo fece quella che così lo seppellisce». Si tratta di un rituale funerario, in base al quale coloro che uccidevano scientemente qualcuno (in questo caso Agamennone), gli tagliavano le estremità e gliele appendevano al collo facendole passare sotto le ascelle (secondo la notizia di Aristofane di Bisanzio) probabilmente per scongiurare un suo ritorno vendicativo. Qui il cenno del Coro ha un’implicazione subliminale anche con la funzione identificativa di mani e piedi nel caso del defunto. 575-576. Qui Oreste, vagheggiando l’uccisione di Egisto, dichiara: «morto lo faccio, lo avvolgo col ferro dal piede veloce (ποδώκει... χαλκεύματι)». Il trasferimento della salienza agnitiva del ‘piede’ ad un epiteto, di sapore omerico, della bronzea spada vendicatrice, di cui in ogni caso è legittimo detentore Oreste, è in un certo modo alquanto significativo… 674-679: «Sono uno straniero (ξένος) di Daulis della Focide, camminavo caricato dal peso del mio bagaglio verso Argo, proprio verso questo luogo in cui ho sciolto i miei piedi dal giogo (ὥσπερ δεῦρ᾽ ἀπεζύγην πόδας), e mi disse un uomo capitatomi incontro (né io lui né lui mi conosceva), dopo aver chiesto la mia strada, e spiegatami la sua, – era Strofio focese, lo seppi parlando…». Qui Oreste – reso ‘straniero’ in danno suo e di Agamennone (e questa espressione è allo stesso tempo una simulazione e un’accusa!) dà la sua versione a Clitemestra della pretesa morte di se stesso. L’espressione enigmatica «ho sciolto i miei piedi dal giogo» può banalmente alludere al suo arrivo ad Argo, ma anche – in modo assai più criptico e assai più sottile – sottintendere il riconoscimento dei suoi piedi e la conseguente legittimazione da parte di Elettra: si tratta, insomma, di ‘piedi liberati’ dal giogo dell’estraneità, dalla condizione più sotto dichiarata (v. 677) di ἀγνὼς πρὸς ἀγνῶτα “sconosciuto che si intrattiene con uno sconosciuto”, che è propria dell’esiliato (e dell’esposto!). 696-697: la replica di Clitemestra è di nuovo fortemente e involontariamente allusiva, quando dice: «Ed ora Oreste – era infatti prudente e teneva fuori il suo piede (πόδα) dal fango della morte…» e non sa (non può sapere, perché non lo riconosce!) che il ‘piede’ di Oreste calca ormai – pienamente legittimato – il ben più solido terreno di una giusta vendetta! 980-982: «ORESTE: guardate, inoltre, voi che sapete questi mali, l’astuzia che fu catena per mio padre infelice, e i ceppi per le mani e il giogo per i piedi (ποδοῖν ξυνωρίδα)». Queste parole di Oreste sono dette davanti ai cadaveri di Egisto e Clitemestra: l’allusione al «giogo per i piedi» nel caso di Agamennone conferma e contrario la nostra due orme di piedi, una di un pletro, l’altra più piccola – a mio credere, l’una di Dioniso, quella più piccola, l’altra di Ercole» (tr. di Quintino Cataudella). Si noti che il pletro corrisponde a cento piedi, in pratica trenta metri circa, una misura sicuramente conveniente al… ‘piedone’ di Ercole. Qui «nel dare le misure del piede di Ercole, Luciano ha inteso, verosimilmente, farsi gioco di Erodoto, che nel libro IV, 52, aveva scritto: “si mostra impressa su una roccia una traccia di Ercole, la quale ha la forma di un piede umano, della lunghezza di due cubiti”» (Cataudella). Per parte mia faccio notare che l’impronta rituale di un… ‘piedino’ appare su un tegolone sannita di Pietrabbondante (cfr. Paolo POCCETTI, Nuovi documenti italici a complemento del Manuale di E. Vetter, Pisa 1979, n. 21) dove in grafia epicorica si dice HN. SATTIEIS DETFRI / SEGANATTED. PLAVTAD, in pratica «la detfri di Erennio Sattio ha marcato (sc. la tegola) con la pianta (sc. del suo piedino)». Di altre impronte… ‘pedestri’ di attori e attrici su cemento fresco hollywoodiano, in funzione sfragistica commemorativa, è appena il caso di ricordarci… Per un’acuta e puntuale rivisitazione della nozione di ‘traccia’ nell’arcaismo greco con opportune proiezioni indoeuropee cfr. POLI (1994). Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https://rhesis.it/ Linguistics and Philology, 8.1: 138-175, 2017 157 interpretazione dello scioglimento dei piedi dal giogo nel caso di Oreste (cfr. sopra, nel testo). 998-1000: qui si fa riferimento, sempre per bocca di Oreste, al tessuto che intrappolò Agamennone nel bagno e si dice «Come lo devo chiamare, se anche mi capitasse di usare parole troppo miti? Trappola per belva, o copertura da bagno che vestì il morto fino ai piedi (ποδένδυτον)? Lo potresti chiamare rete da pesca e rete da caccia, piuttosto, e pepli che legano i piedi (ποδιστῆρας πέπλους)». Si ricordi, se si vuole correttamente valorizzare questa insistenza sui piedi di Agamennone, l’analoga insistenza nella tragedia omonima (v. sopra, nel testo), quando l’eroe ritorna ad Argo ed è accolto con ingannevoli parole da Clitemestra… Eumenidi (tr. di Maria Pia Pattoni) 34-37: «PIZIA Ah, Orrendo a dirsi, orrendo a vedersi con lo sguardo lo spettacolo che mi ha ricacciato indietro dal santuario del Lossia! Non ho più forze né so reggermi in piedi: corro con l’aiuto delle mani, non con veloci gambe (τρέχω δὲ χερσίν, οὐ ποδωκείαι σκελῶν)». La Pizia qui è proposta secondo un’efficace immagine tetrapode (quasi animalesca!) proprio in quanto il terrore l’ha deprivata della rapidità delle gambe che si fonda sull’impiego veloce dei piedi, se è normalmente in gioco la stazione eretta. Il piede è insomma anche qui come altrove la marca più certa della condizione antropica. 74-77: «APOLLO Ma tu fuggi, non lasciarti cogliere dalla debolezza. Attraverso l’immenso continente, esse ti incalzeranno ovunque calpesterai col tuo piede errante la terra (τὴν πλανοστιβῆ χθόνα), senza tregua, anche al di là del mare, anche in città circondate dalle acque». Le parole che Apollo rivolge ad Oreste costituiscono una minaccia terribile: la terra che porta le impronte di piedi erranti non è più quella in cui Elettra aveva riconosciuto e legittimato le impronte del fratello (cfr. Coefore 225-232 e v. sopra, nel testo). Oreste è paradossalmente e necessariamente di nuovo esule, la sua terra nuovamente non è più Argo, ma τὴν πλανοστιβῆ χθόνα di un rinnovato esilio! 162-165: «CORO Questo fanno i più giovani dèi / che occupano, del tutto / al di là di giustizia, / un trono grondante sangue / ai piedi, al vertice (περὶ πόδα, περὶ κάρα)». Le Erinni qui si rivolgono con aspri rimbrotti ad Apollo, accomunato al comportamento irrispettoso dei «più giovani dèi», il cui trono gronda sangue «dalla testa ai piedi». Questa antropizzazione del trono dell’iniquità ci spinge ancora più lontano da quello che abbiamo imparato a riconoscere come ‘legittimo piede’. 294 «ORESTE Ella appoggi diritto o coperto il piede (τίθησιν ὀρθὸν ἢ κατηρεφῆ πόδα) pronta ad aiutare gli amici». L’auspicio è rivolto ad Athena, perché venga in soccorso, ma l’espressione è enigmatica, in ogni caso con una forte salienza del piede. «Probabilmente “diritto” alla stazione eretta o all’incedere della dea, “coperto”, invece, allo star seduta, con le vesti che le ricoprono i piedi» (Pattoni). A parer mio qui si vuole dire che la dea può soccorrere Oreste sia che si muova (la verticalizzazione, cfr. τίθησιν ὀρθὸν!, del piede è un’inequivocabile allusione alla movenza del passo, anzi del passo in corsa), sia che scelga l’alternativa della stasi del κατηρεφῆ πόδα (il piede immobile sotto la copertura delle vesti)… In ogni caso il ‘piede’ di Atena può, anzi deve essere propizio! 368-376 «CORO Le glorie umane, per quanto solenni sotto il cielo, / decrescono e svaniscono, umiliate, per terra / ai nostri attacchi in neri veli, / ai ritmi ostili del piede Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https://rhesis.it/ Linguistics and Philology, 8.1: 138-175, 2017 158 (ὀρχησμοῖς τ᾽ἐπιφθόνοις ποδός) / Violentemente balzo dall’alto / e giù trascino l’impeto del mio piede (καταφέρω ποδὸς ἀκμάν) / che s’abbatte pesante, membra / che fan vacillare anche chi corre veloce, / sciagura dura a subirsi!». Qui si noti il fortissimo contrasto tra il ‘piede’ (positivo!) di Athena e quello (negativo!) delle Erinni, per altro enfatizzato dalla ripetizione35. 403-404 «ATHENA di là giunsi, muovendo l’instancabile piede (ἄτρυτον πόδα)»: per la positività del ‘piede’ di Athena v. sopra. 538-540 «CORO Per ogni circostanza io ti esorto: rispetta / l’altare di Giustizia e non disonorarlo / a calci con sacrilego piede (ἀθέωι ποδὶ)». Tale è per le Erinni il ‘piede’ di Oreste, prima legittimante e legittimato dall’agnizione, poi reso sacrilego e delegittimato dal matricidio. Sofocle Elettra (tr. di Maria Pia Patroni) 47-53 «ORESTE poi annuncia, giurando, che Oreste è morto per un caso fatale, rotolando da un carro in corsa durante i giochi Pitici. Tale dev’essere il tuo discorso. Noi, intanto, secondo l’ordine del dio, incoroneremo per prima cosa il sepolcro del padre con libagioni e con una ciocca di capelli recisa dal capo (καρατόμοις χλιδαῖς); poi ritorneremo di nuovo». In Coefore 6-7 si era parlato, in un identico contesto votivo, di un “ricciolo” (πλόκαμον). Successivamente Elettra (v. 168) aveva parlato di un τομαῖον... βόστρυκον, cioè di una “ciocca recisa”. Qui sono in gioco in senso stretto ‘recisi ornamenti del capo’, in tutti i casi – come si è detto – solo indirettamente informativi sull’identità di Oreste proprio in quanto performativamente orientati in senso diverso. 448-452 «ELETTRA … recidi l’estremità di un ricciolo dal tuo capo, e anche questa ciocca dal mio, sventurata che sono, – povera cosa, ma è tutto quello che posseggo – e offri a lui, insieme ai miei negletti capelli, questa mia cintura priva di ornamenti». Elettra, rivolta alla sorella Crisotemi, dopo averla dissuasa dall’offrire sacrifici alla tomba di Agamennone per conto della madre assassina, ritorna sul tema del ‘ricciolo’ e della ‘ciocca’, tema che accomuna i tre fratelli senza essere un elemento di riconoscimento primario. 487-491 «CORO verrà, con piedi innumerevoli (πολύπους) / ed innumerevoli mani (πολύχειρ), / colei che in tremendi agguati si nasconde, / l’Erinni dal passo implacabile (χαλκόπους)». Il ‘piede’ rimosso come fattore agnitivo nella versione sofoclea della vicenda di Oreste (v. avanti) qui si prende una sua subliminale rivincita, sia in termini di una vertiginosa pluralità insieme a quella delle mani (ed è immagine di straordinaria potenza) sia come ‘rumore di fondo’: è questo infatti il senso profondo dell’espressione χαλκόπους che io tradurrei come “dal piede di bronzo” e che per me è evocativa del sordo, incessante fragore di innumerevoli piedi che marciano per una vendetta implacabile. Un altro interessantissimo aggettivo sofocleo di analoga formazione è κοινόπους (v. avanti, nel testo). D’altra parte nell’Edipo re di Sofocle troveremo, proprio parlando di Edipo (Οἰδίπους!) altri aggettivi assai evocativi composti con -πους “piede” come nel caso della δεινόπους ἀρά, cioè “la maledizione dal piede terribile” o dei νόμοι... ὑψίποδες, cioè “le leggi… dal piede eccelso” (v. avanti, nel testo). 35 Di ostilità del piede e della sua potenza d’urto si parla anche nei Persiani (163-164 e 515-516). Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https://rhesis.it/ Linguistics and Philology, 8.1: 138-175, 2017 159 774: qui, in bocca a Clitemestra, ritorna nel (per lei!) confortante sintagma πίστ᾽ἔχων τεκμήρια “con prove sicure” (sc. della morte di Oreste) la parola che Elettra nelle Coefore (v. 205) aveva usata con riferimento ad un indizio sicuro della presenza di Oreste felicemente in vita (il δεύτερον τεκμήριον costituito dagli στίβοι... ποδῶν, v. sopra). Sofocle non poteva ignorare la pregnanza cotestuale di questa parola in Eschilo in rapporto all’agnizione mediante somiglianza dei piedi (v. sopra), ma qui abbiamo un’ulteriore prova che questo motivo proprio per la sua arcaicità verrà da lui omesso o, più esattamente, ‘rimosso’ (v. sotto, nel testo). 886-887: qui Crisotemi dichiara all’incredula Elettra che lei ha personalmente acquisito, anzi ‘visto’ σαφῆ σημεῖα “chiari segni” della presenza di Oreste. Subito dopo, a vv. 901 e 904 ritornano parole di Eschilo ormai note (βόστρυκον e τεκμήριον rispettivamente). Ma il brano che segue è ancora più importante. Mi riferisco ai versi 932-933 «ELETTRA Molto probabilmente, credo, qualcuno le avrà portate in memoria del morto Oreste», da cui si evince che per Elettra la ciocca e le offerte sulla tomba del padre non sono prove sicure della presenza di Oreste, non sono elementi agnitivi decisivi. Ma vediamo come quasi per avventura, quando Oreste e Pilade fanno il loro ingresso sulla scena, si esprima il figlio vendicatore di Agamennone, rivolto ad Elettra e non ancora riconosciuto 1104 «E chi di voi vorrà annunciare a quelli della reggia la nostra tanto attesa presenza (κοινόπουν παρουσίαν)?». La domanda è ambigua, proprio perché le aspettative sono quelle che sappiamo. Ma soprattutto la traduzione è sbagliata o quantomeno fuorviante: la παρουσία di Oreste e Pilade, quella che in termini di coesistenza di impronte di piedi presso la tomba di Agamennone era già stata sottolineata nelle Coefore (vv. 205-211 e v. sopra, nel testo) è nuovamente e risolutivamente qui κοινόπους (in ciò si veda quanto è debitore Sofocle ad Eschilo ed alla salienza agnitiva del ‘piede’ proprio nella sue non complete omissioni-rimozioni testuali!); Oreste sembrerebbe voler dire: “Ci siamo e ci mettiamo insieme i nostri piedi’ o, in traduzione più ortodossa, egli fa di fatto riferimento a “una presenza che accomuna i nostri piedi”: e mi pare che basti. 1108-1109 «ELETTRA Ahimé, infelice! Venite forse a portare la prova manifesta (ἐμφανῆ τεκμήρια) della voce che abbiamo sentita?». Ritorna non casualmente un termine eschileo di forte densità semantica36. 1123 «ORESTE Portatela qui e dategliela, chiunque sia questa donna». Il riferimento è alla millantata urna con le ceneri di Oreste, ma con ogni evidenza la reciproca agnizione (bidirezionale!) non è ancora avvenuta… 1177 «ORESTE È dunque la nobile figura di Elettra questa che vedo in te?». Si noti che contrariamente al canone indomediterraneo la prima agnizione è dalla parte non solo maschile ma anche dell’esiliato! Qui Sofocle innova decisamente e la ‘prova’ è quella umanissima della reazione di Elettra di fronte alle presunte ceneri del fratello. 1222-1223 «ELETTRA Tu sei Oreste? ORESTE Guarda questo sigillo che era di mio padre, e giudica se dico la verità». Il “sigillo” (σφραγίς) a questo punto non è altro che conferma o ‘scioglimento’ di un’agnizione già avvenuta nei fatti e sancita da una domanda confirmatoria finale. La parola greca τεκμήριον ha accertate implicazioni etimologiche con la ‘vista’; cfr. CHANTRAINE (1984: s.v.). Per un suo perspicuo inquadramento morfosemantico rimando a DEDÈ (2013: 172-174). 36 Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https://rhesis.it/ Linguistics and Philology, 8.1: 138-175, 2017 160 1357-1358 «ELETTRA O mani carissime, o amico che mi hai reso con i tuoi piedi il più prezioso dei servigi (ἥδιστον δ᾽ἔχων ποδῶν ὑπηρέτημα)». Qui Elettra si rivolge al Pedagogo che a suo tempo ha salvato la vita di Oreste ed ora collabora alla vendetta risolutiva. Il cenno alle mani e ai piedi costituisce nuovamente una specifica marca identitaria, riassume in tratti pertinenti la totalità dell’agire di una persona. Euripide Elettra (tr. di Umberto Albini e Vico Faggi) 91: Oreste, parlando a Pilade, fa riferimento alla «ciocca di capelli» offerta sulla tomba di Agamennone, che – come ormai sappiamo – non svolge una funzione agnitiva primaria. 127 «ELETTRA Affretta il passo, è l’ora (Σύντειν᾽, ὥρα, ποδὸς ὁρμάν)». Elettra qui si rivolge a se stessa, ma nel caso suo il riferimento al piede è irrilevante. 283-287 «ORESTE Oh, se Oreste fosse qui a sentirti! ELETTRA Ma, straniero, non lo riconoscerei (ὦ ξέν᾽, οὐ γνοίην), se lo vedessi. ORESTE Te ne meravigli? Bambina (νέα), sei stata divisa da lui bambino (νέου). ELETTRA Uno solo, tra i miei cari, potrebbe riconoscerlo (γνοίη). ORESTE L’uomo che lo ha sottratto, dicono, alla morte?». Si noti l’andamento assolutamente ‘razionale’ di questo confronto tra fratelli che non si sono riconosciuti e delegano questa funzione ad altri… 513-546 «AIO Ma sul tumulo, ho visto, c’era una pecora nera immolata, e sangue versato da non molto, e una ciocca di riccioli biondi (ξανθῆς τε χαίτης βοστρύχους). Figlia, mi sono chiesto con stupore chi aveva avuto il coraggio di accostarsi alla tomba: certo non uno di Argo! Forse è tornato di nascosto tuo fratello e ha voluto vedere il misero tumulo del padre, rendergli onore. Questa ciocca, accostala ai tuoi capelli e guarda se il colore è identico: di solito hanno molti tratti fisici in comune i nati dal medesimo sangue paterno. ELETTRA Vecchio, tu non parli da saggio, se credi che un fratello coraggioso come il mio sia venuto in questa terra di nascosto per paura di Egisto. E poi, che somiglianza può esserci tra i capelli di un nobile, educato nelle palestre, e quelli di una donna abituati al pettine? No, non ha senso! Capigliature che si assomigliano puoi trovarle, vecchio, anche tra persone che non abbiano il medesimo sangue. AIO Allora, figlia, va a vedere l’impronta della scarpa, se combacia con quella del tuo piede (Σὺ δ᾽εἰς ἴχνος βᾶσ᾽ἀρβύλης σκέψαι βάσιν / εἰ σύμμετρος σῷ ποδὶ γενήσεται, τέκνον). ELETTRA Impronte (ποδῶν ἔκμακτρον) su un terreno roccioso? E come possono rimanerci? Ma anche se fosse così, l’impronta (ποὺς!) del fratello e della sorella non sarebbero uguali: l’orma maschile è più grande! AIO Ma se tuo fratello tornasse, non c’è un indumento, tessuto da te, da cui potresti riconoscerlo? Il mantello in cui io lo ho avvolto quando lo sottrassi alla morte? ELETTRA Non lo sai che quando Oreste fu scacciato da questa casa, io ero una bambina (νέαν)? E se anche gli avessi tessuto degli abiti, come potrebbe lui, che allora era piccolo (παῖς), portarli ancora oggi? O crescono insieme col corpo? No, forse fu uno straniero pietoso a offrire una ciocca dei suoi capelli alla tomba, o qualcuno di Argo, sfuggito alle spie». In questo brano, da me citato per esteso proprio per la sua importanza nell’economia complessiva del nostro discorso, lo smontaggio dei tre indizi agnitivi (ciocca di capelli, impronte di piedi, abito) colloca al secondo posto (δεύτερον τεκμήριον) l’indizio dirimente per Eschilo, ma Euripide (che potrebbe dire di Elettra c’est moi!) svilisce anche la forza probante degli altri. Elettra non ha perso la speranza, Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https://rhesis.it/ Linguistics and Philology, 8.1: 138-175, 2017 161 ma non manifesta ancora in alcun modo la fede in qualcosa che continua a non essere evidente. 567-569 «AIO Ma guardalo, figlia, è l’uomo che ami di più. ELETTRA È un po’, temo, che tu sia uscito di senno. AIO Uscito di senno io, che vedo tuo fratello?». Anche qui si noti che Elettra resiste proprio a colui che poco prima ha dichiarato, insieme al fratello, in grado di riconoscere Oreste! 572-578 «ELETTRA C’è un segno (χαρακτῆρ᾽), in lui, che mi possa persuadere? AIO Qui, vicino al sopracciglio, la cicatrice. Se la fece cadendo, era con te, mentre inseguiva un cerbiatto nel cortile di casa. ELETTRA Come dici? Sì, vedo il segno della cicatrice. AIO E aspetti ancora a gettarti nelle braccia del tuo caro? ELETTRA Non più, vecchio: la tua prova mi ha convinto, dentro». Ecco lo scioglimento della vicenda, ecco l’agnizione legittimante; e non si può fare a meno di notare che la ‘cicatrice’ era già stata in Omero un indizio risolutivo per il riconoscimento di Odisseo. Più avanti, senza bisogno di segni speciali, Oreste, dopo aver consumato la sua vendetta, è riconosciuto e ulteriormente legittimato da un vecchio servitore (cfr. vv. 852-855), anche in questo caso secondo un modello omerico. Una riscrittura razionale, dunque, ma dentro un ben saldo sistema letterario37. 859-861: qui il Coro invita Elettra ad esultare e dice: «muovi, o cara, il piede alla danza, / balza come un cerbiatto verso il cielo, / leggera nella bellezza». In realtà nel testo euripideo non si parla di ‘piede’ ma di ἴχνος, in prima istanza “impronta, orma” e solo in seconda istanza “pianta del piede”. Non possiamo fare a meno di chiederci, dato che qui sono in gioco i piedi di Elettra in tutto simili a quelli di Oreste come si evince per Eschilo proprio dalle ‘impronte’, se questo peculiare impiego del termine in Euripide non sia una traccia, forse inconsapevole, della rigettata procedura agnitiva di Eschilo. Anche questo è, nei suoi splendori evidenti e nelle sue miserie nascoste, il ‘sistema letterario’!38 sintesi conclusiva Oreste è ‘indomediterraneo’ perché porta un nome che ne denuncia l’alterità nella sua condizione di esule, la quale costituisce di fatto un’equivalenza con la condizione dell’esposizione. Lo è anche perché è riconosciuto, nella versione più antica data da Eschilo, dalla sorella Elettra attraverso la somiglianza dei piedi, mentre questa circostanza è omessa, se non addirittura ‘rimossa’ nelle versioni di Sofocle ed Euripide (ma, come si è visto, in qualche modo traspare, se non addirittura ‘riappare’). Lo è infine perché con lui si pone un ordine nuovo e persino le Erinni si convertono in Eumenidi. Per la nozione di ‘sistema letterario’ rinvio al bel libro di CONTE (2012). Su questa densa nozione, che si coniuga in modo perfetto con quella di ‘arte allusiva’, il rinvio d’obbligo è al libro citato nella nota precedente. 37 38 Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https://rhesis.it/ Linguistics and Philology, 8.1: 138-175, 2017 162 Agnizioni non riuscite e specifica salienza del ‘piede’ Karna39 il nome In sanscrito kárna è s. m. con il valore primario di “orecchio” (già nel RV). Nel caso del personaggio in questione il Mahābhārata documenta una nascita miracolosa con una corazza luccicante e degli orecchini (da cui il nome), due talismani che ne garantirebbero l’immortalità, ma a cui l’eroe rinuncia per avere da Indra un dardo invincibile. Del personaggio si è già detto nell’ottica che qui ci interessa (v. sopra, nel testo) e anche altri suoi aspetti sono importanti40. luoghi testuali Mahābhārata (12, 1, 13-42; 18, 2, 7-8)41 12, 1, 13-42 (parla il più importante dei Pandava, cioè Yudhisthira e qui si riporta l’aspetto saliente del suo discorso): «Mentre io ero tormentato in mezzo all’assemblea dai figli di Dhritarashtra pieni di malanimo, la mia collera, improvvisamente suscitata, si raffreddò alla vista di Karna. Pur nell’ascolto delle aspre e amare parole dello stesso Karna in occasione della nostra sfida, parole che Karna aveva pronunciato nel desiderio di compiacere Duryodhana, la mia collera si raffreddò alla vista dei piedi di Karna. Mi sembrò che i piedi di Karna somigliassero ai piedi della nostra madre Kunti. Desideroso di trovare il motivo di quella somiglianza tra lui e nostra madre, ho riflettuto a lungo. Ma nonostante i miei migliori sforzi non sono riuscito a trovarne la causa. In verità, perché la terra inghiottì le ruote del suo cocchio nel momento della battaglia? Perché mio fratello fu maledetto?». In questo brano mi sembra particolarmente significativo il fatto che la somiglianza dei piedi risulti certa, ma ormai inesplicabile, proprio perché è avvenuta già nell’India antica la cancellazione (o la rimozione?) di un tratto culturale antichissimo (v. anche avanti, a proposito di Edipo). D’altra parte l’attenzione di Yudhisthira si sposta su altri particolari, per altro anch’essi per lui inesplicabili. 18, 2, 7-8 (parla ancora Yudhisthira e ritorna con angoscia sull’argomento): «Al momento dello svolgimento dei rituali acquatici (dopo la battaglia), io udii mia madre dire: “Fai oblazioni d’acqua a Karna”. Dopo che ebbi udito quelle parole di mia madre, io bruciavo di angoscia. Mi angosciavo senza posa per questo, o dei!, che quando io avevo notato la somiglianza tra i piedi di mia madre e quelli di Karna dall’anima smisurata, io non mi ero immediatamente posto al servizio di quel tormentatore delle schiere ostili». In realtà il mancato atto di sottomissione di Yudhisthira, dopo la fondante agnizione dei piedi, è tanto più grave perché Karna è il primo figlio di Kunti e quindi suo 39 Per un perspicuo inquadramento della figura eroica di Karna cfr. MCGRATH (2004). Importante è il Karnaparvan (ottavo libro del Mahābhārata) tradotto con testo a fronte da A. Bowles nella ‘Clay Sanskrit Library’, New York University Press in due volumi (2006 e 2008) con utilissimi rimandi, in sede introduttiva, ad altri passi del poema in cui si tratta del personaggio. Per Karna nell’ottica della ‘quarta funzione’ (cioè ‘alterità e marginalità nell’ideologia degli Indoeuropei’) cfr. SAUZEAU (2012: sp. 45-47), dove è trattato “Un cas paradigmatique: les enfants de Kunti, épuse du roi Pandu” e v. anche l’importante recensione di ALLEN (2013). 41 La dimensione compiutamente indomediterranea di questi luoghi del Mahābhārata è stata puntualmente segnalata e commentata da PISANI (1953: 134-135). 40 Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https://rhesis.it/ Linguistics and Philology, 8.1: 138-175, 2017 163 fratello maggiore. Qui riconosciamo un altro tratto caratteristico della cultura indomediterranea, cioè la discendenza matrilineare legittimante, indiziata anche dal fatto che in greco come in sanscrito la nozione di ‘fratello’ è espressa con riferimento alla nozione di ‘couterino’ (cfr. gr. ἀδελφός, lett. “dello stesso utero”, sanscr. sodaraformato con sa- “con” e udara- “grembo materno”). sintesi conclusiva Spunti ulteriori di riflessione sono: - la mancata partecipazione di Karna alla gara con l’arco, dove Kunti riconosce il figlio ma non palesa l’agnizione, mentre Karna saluta rispettosamente il padre adottivo Adhiratha, che è un cocchiere che lo ha raccolto dal Gange, e per ciò stesso resta escluso; - lo svayamvara di Draupadi e il rifiuto di costei di sposare il figlio di un cocchiere, per cui Karna rinuncia a partecipare (si ricordi che la gara consiste nel piegare un arco durissimo e far passare una freccia attraverso un anello posto a grandissima altezza, circostanza che ritorna quasi identica nella prova conclusiva del rientro di Odisseo a Itaca!); - il tentativo fallito di Karna di fare accettare alla madre Kunti che egli prevalga su Arjuna in base al ragionamento che i fratelli Pandava (tre figli di Kunti, due figli di Madri) resterebbero in ogni caso cinque, cioè ‘tutti’ se 5 è appunto il numero della totalità nelle antichità indoeuropee di area indomediterranea…42 Edipo il nome Οἰδίπους Si tratta di un composto evidente, ma in qualche modo ‘rimosso’ per quanto riguarda la testa reggente (cfr. i casi con nominativo in -ος in Eschilo e Sofocle e quelli con accusativo in -ουν!). La dipendenza, se si parte da un attestato οἶδος, ους “gonfiezza, tumore” e non si esclude una forma concorrente non attestata *οἶδος, ου, potrebbe rappresentare con l’esito -ι (che non è ‘tematico’ come sostiene CHANTRAINE (1984, 1990, ad es. s. vv. ἀργός, καλός)43 la stessa situazione riscontrabile in ἀργίπους e καλλιόπη in cui -ι sembra marcare la condizione di dipendenza aggettivale44. In questa 42 Per la salienza dei piedi come fattore identificante in India si ricordi anche che uno dei simboli più diffusi in India sono i “piedi di Buddha” o Buddhapada, mediante la rappresentazione delle impronte lasciate dai piedi del profeta. Vale appena la pena di ricordare che in scrittori latini di quarto e quinto secolo d.C. l’impronta dei piedi di Gesù è un motivo ricorsivo come pure per l’Islam conta la tradizione dell’impronta dei piedi di Maometto. Per restare nello spazio indomediterraneo ricorderò infine che a Itanos, nel santuario di Atena Sammonia, sono visibili impronte di piedi incise sulla roccia (sesto sec. a.C.!), mentre a Lavinium è stata rinvenuta una lastra di marmo con dedica a Isis Regina e doppia impronta di piedi nudi e di piedi calzati. 43 Sull’aspetto formale di questi composti cfr. la recentissima rassegna critica di Francesca DELL’ORO (2015). 44 Questa condizione di dipendenza risulta invece non marcata in analoghi aggettivi sofoclei già trattati nel nostro commento all’Elettra (χαλκόπους, κοινόπους) e per la stessa situazione si consideri anche il δεινόπους dell’Edipo re (v. avanti, nel testo). In via del tutto provvisoria avanzo l’ipotesi che la marca di dipendenza -i si costituisca precocemente in composti, per così dire, ‘consolidati’, mentre l’esito tematico in -o dell’aggettivo dipendente potrebbe essere proprio di composti di formazione più recente o addirittura Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https://rhesis.it/ Linguistics and Philology, 8.1: 138-175, 2017 164 prospettiva possiamo presupporre un non attestato aggettivo *οἰδός “che si gonfia, che è gonfiato” che starebbe con il sostantivo *οἶδος, ου “gonfiore” nello stesso rapporto che collega τόμος “taglio” (stativo-risultativo) e τομός “che taglia” (processuale-eventivo). Nel caso di -ι possiamo parlare di ‘marca sulla dipendenza’ (cfr. NICHOLS 1986) e possiamo trovare numerosi paralleli formali in ambito mediterraneo antico e moderno (un altro caso in greco è rappresentato da Αἰθίοψ “dal volto bruciato dal sole”, se lo si mette in rapporto con αἰθός “infiammato, bruciato” e αἷθος, ου di Euripide, ma anche – e importantissimo per il nostro assunto! – con αἷθος, ους, “fiamma, ardore, incendio” di Apollonio Rodio). Un esito -i della dipendenza aggettivale ritorna in latino (ad es. albiin albicolor, albicomus, albicērus, albipedius, etc.; alti- in altitonans, altilāneus, alticomus, etc.; magni- in magnidicus, magniloquus, magnisonus, etc.; cfr. anche boniloquium, maliloquium, soliloquium, vaniloquium)45. Per il tipo italiano pettirosso ROHLFS (1969: 339, par. 992. Il tipo pettirosso) dichiara: «L’unione di un sostantivo con un aggettivo può darsi anche cambiando in i la desinenza del primo. Questa i diventa in tal modo una sorta di contrassegno compositivo», che io chiamo appunto (v. sopra) ‘marca sulla dipendenza’. Rohlfs aggiunge più avanti (p. 340) «nelle formazioni che qui ci interessano il sostantivo ha il valore funzionale di una relazione: rosso di petto…». Ma, se si assume l’ordine basico determinans-determinatum e si riconosce nel determinans la condizione di dipendenza sintagmatica, gli aggettivi greci e latini in -i nei composti sopra esaminati e la ‘desinenza’ sostantivale in -i nel tipo composizionale esaminato da Rohlfs, costituiscono di fatto una coincidenza sia formale sia semantica, proprio in quanto petti- in pettirosso cioè “rosso di petto” è formalmente caratterizzato dall’esito -i ed è un determinans in condizione di dipendenza sintagmatica. Il fenomeno in ambito romanzo è particolarmente presente «in alcune zone dell’Italia meridionale», «nel corso», «anche in Sardegna», «nello spagnolo», «nel guascone moderno» (ROHLFS), cioè in zone marginali e conservative, anche se «l’origine di queste formazioni non è ben chiara» (ROHLFS, l. c.). Per me le due fenomenologie rinviano indipendentemente in greco e latino da una parte, nelle lingue neolatine qui discusse dall’altra, ad un procedimento formativo antichissimo di marcatura della dipendenza in composti in cui vige l’ordine basico determinans-determinatum. In questa prospettiva Οἰδίπους si candida decisamente al valore primario di “piede gonfio”, che è poi l’interpretazione più antica e più accreditata del nome46. di neoformazione. Sui composti greci ‘inversi’ con ποδ- “piede” in posizione iniziale si veda anche STEFANELLI (1997). 45 Per un tentativo recentissimo di spiegazione del nome di Edipo rinvio a Claudia FABRIZIO (in stampa), che prende le mosse da un’ipotesi etimologica di PROSDOCIMI (2002, poi 2004: 882). Prendo le distanze da questa spiegazione, che mi sembra brillante ma non convincente: il monopedismo di Edipo è un’illusione, in nessun modo sostenuta dalla documentazione antica. Il gonfiore e la deformazione di entrambi i suoi piedi sono invece evidenti! 46 Per un’analisi assai puntuale di analoghi composti nel sardo, che giunge indipendentemente alle stesse conclusioni a cui sono pervenuto io, rinvio a PINTO, PAULIS e PUTZU (2012). Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https://rhesis.it/ Linguistics and Philology, 8.1: 138-175, 2017 165 luoghi testuali Sofocle Edipo re (tr. di Franco Ferrari)47 108-109 «EDIPO... E dove mai rintracciare l’orma indecifrabile (ἴχνος... δυστέκμαρτον) di questo antico delitto?». Qui Edipo si riferisce all’uccisione di Laio e avanza un sintomatico dubbio. Ma è la sua formulazione che qui conta: essendo lui l’inconsapevole assassino colpisce il riferimento per contiguità indessicale proprio al suo “piede” (ἴχνος) in tutti i sensi compromesso e colpisce ancora di più l’aggettivo impiegato (δυστέκμαρτον) che è corradicale proprio dell’eschileo τεκμήριον (v. sopra, nel testo) riferito, come abbiamo visto, al sicuro indizio delle impronte di Oreste! 221 «EDIPO Io qui parlerò come estraneo (ξένος) a quanto è stato detto e a quanto avvenne: da solo, senza alcun indizio (ούκ ἔχων τι σύμβολον), non farei molta strada (μακρὰν ἴχνευον) in questa indagine». L’estraneità di Edipo in realtà non è quella a cui lui pensa, semmai quella che ne caratterizza premesse ed esiti esistenziali. Intrigante è l’impiego del semionimo48 σύμβολον, se si assume (e qui mi sembra lecito, se non addirittura opportuno) il suo valore più antico di ‘contromarca’ o di ‘segno di contiguità fattuale’. Abbiamo già visto una situazione di impiego analoga in PLUTARCO, Vite parallele: Teseo 6, 2 in cui ricorre l’espressione τὰ πατρῷα σύμβολα “i contrassegni del padre” e in cui σύμβολον sembra avere lo stesso impiego (v. anche SILVESTRI 2011: 8283). In più l’impiego dell’espressione μακρὰν ἴχνευον, in cui il secondo elemento è corradicale di ἴχνος appena visto crea una vera e propria ‘densità’ allusiva al ‘piede’ che Edipo non conosce e non riconosce (v. avanti la nostra ‘sintesi conclusiva’). 417-423 «TIRESIA Lo staffile doppio della maledizione (ἀρά), e di padre e di madre, ti caccerà da questa terra con piede inesorabile (δεινόπους). Adesso guardi dritto, ma presto non vedrai che tenebra. Quale plaga non sarà un porto alle tue grida, quale Citerone non farà eco alla tua voce (σύμφωνος), quando comprenderai l’imeneo a cui veleggiasti in questa casa, con fortunata rotta ma sfortunato approdo?». Si potrebbe dire che con questo discorso di Tiresia cominci o si palesi ulteriormente quella che chiamerò ‘l’ossessione del piede’: insieme va registrata l’evocazione della «tenebra» futura e, in forma perversamente sottile, quella del pianto disperato di Edipo neonato ed esposto sul Citerone. In ogni caso δεινόπους senza marca sulla dipendenza è un composto estemporaneo nell’allusivo linguaggio di Sofocle (come i già visti χαλκόπους e κοινόπους, per i quali rinvio alle considerazioni già fatte sopra, nel testo). In ogni caso vale la pena far notare che solo il Citerone è σύμφωνος di Edipo, ne condivide insomma esasperazione ed emarginazione. 444-446 «TIRESIA Bene. Andrò. E tu, ragazzo, conducimi via. EDIPO Giusto: se lo porti via! La tua presenza mi dà fastidio. Lévati di torno: mi libererai da un peso». In bocca ad Edipo il fastidio indotto dalla presenza di Tiresia si compendia nell’assai espressivo ἐμποδών, che letteralmente è detto di uno “che sta tra i piedi”. In realtà Tiresia che 47 La redazione dell’Edipo re si può fissare intorno al 412. Il neologismo metasemiotico è stato proposto da Tullio De Mauro in parallelo con quello metalinguistico di logonimo, da me proposto in occasione dello stesso convegno, cfr. DE MAURO (2000) e SILVESTRI (2000b). 48 Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https://rhesis.it/ Linguistics and Philology, 8.1: 138-175, 2017 166 conosce fatti, antefatti e… misfatti di Edipo, ‘sta tra i suoi piedi’ molto più di quanto Edipo stesso non creda! 467-482 «CORO Chi / la rupe fatidica di Delfi / accusa d’aver compiuto / con le mani sanguinanti / il delitto più nefando? / L’ora è giunta per lui / di volgere in fuga un piede più gagliardo (σθεναρώτερον... πόδα) / di procellose cavalle. / Armato di folgori balenanti / su lui si avventa / il figlio di Zeus / e tremende lo incalzano / le Chere inesorabili. // Or ora squillò / nitida del Parnaso / la parola del dio: “braccate l’ignoto assassino”. / E già lui, toro solitario, / misero col misero piede (μέλεος μελέωι ποδὶ) / erra per selve selvagge, / per grotte, fra rocce, / per schivare il responso dettato / dall’ombelico del mondo; ma l’oracolo vive in eterno / e perennemente gli vola d’attorno». Continua l’ossessione del piede: Edipo, nel suo (vano) fuggire deve (lui “piedi gonfi” di nome e di fatto!) avere paradossalmente «un piede più gagliardo» di cavalle che corrono veloci come il vento in una tempesta. Ma (cambio di immagine non meno efficace) in realtà lui è solo un «toro solitario» (e si veda come è forte qui il tema della sua irrimediabile solitudine!) che vaga «misero col misero piede» (e si noti come ancora una volta il ‘piede’ torni in primo piano con la sua identità effettiva)! 718-719 «GIOCASTA E non erano trascorsi tre giorni dalla nascita del bimbo che il padre lo fece abbandonare (ἔρριψεν ἄλλων χερσὶν), con le caviglie legate (ἄρθρα ἐνζεύξας ποδοῖν), sopra un monte inaccessibile». Così il valente traduttore, che con «lo fece abbandonare» di fatto ipotraduce l’espressivo ἔρριψεν ἄλλων χερσὶν lett. “lo gettò nelle mani di estranei” di Giocasta, che tuttavia prima con la formula ἄρθρα ἐνζεύξας ποδοῖν lett. “avendo aggiogato le articolazioni dei piedi” aveva notevolmente attenuato l’atto cruento della perforazione delle caviglie di Edipo.49 865-866 «CORO Mi sia dato serbare reverente purezza, / di atti e di parole, / secondo le leggi che vigono eccelse (νόμοι... ὑψίποδες), / nell’alto cielo generate». Qui è proprio il caso di dire: con ben altro ‘piede’ rispetto a quelli sfigurati di Edipo le ‘leggi’ sovrastano le umane vicende… 872-879 «CORO La dismisura (Ὕβρις) genera il tiranno, / la dismisura, se ciecamente / in eccesso si sazia / senza cura del bene e dell’utile, / una volta ascesa agli spalti supremi, / precipita in un fato scosceso, / dove appoggio non ha di valido piede (οὐ ποδὶ χρησίμωι)». Constatiamo nelle parole del Coro, che prestano voce al pensiero di Sofocle, di nuovo un’allusione ben mirata alla fatale invalidità dei piedi di Edipo! 1031-1032 «EDIPO Di quale menomazione ero afflitto quando mi raccogliesti? NUNZIO Possono testimoniarlo le giunture dei tuoi piedi (Ποδῶν ἂν ἄρθρα μαρτυρήσειεν τὰ σά)». In questa enigmatica allusione del Nunzio è tutto compendiato l’ἀδύνατον (in senso indomediterraneo!) di una felice agnizione di Edipo, che può essere tardivamente riconosciuto, ma non può essere felicemente legittimato. 1059: qui Edipo dichiara di aver raccolto segni (σημεῖα) più che sufficienti e di non poter rinunciare a far luce sulla sua nascita… Faccio notare che la semiosi delle agnizioni Si noti che in questo caso l’espressione ἄρθρα ἐνζεύξας ποδοῖν lett. “avendo aggiogato le articolazioni dei piedi” richiama e contrario l’espressione piuttosto enigmatica messa in bocca ad Oreste nelle Coefore di Eschilo «ho sciolto i miei piedi dal giogo» (ἀπεζύγην πόδας), v. sopra nel testo il mio commento al passo relativo. Nel primo caso abbiamo una costrizione e un’identità negata, nel secondo – e con ogni evidenza – una liberazione e un’identità restituita. In entrambi i casi va apprezzata la salienza del piede. 49 Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https://rhesis.it/ Linguistics and Philology, 8.1: 138-175, 2017 167 riuscite o mancate è di grande importanza per la mia rivisitazione linguistica di questo grande motivo culturale. 1313-1318 «EDIPO Oh, mia nuvola di tenebra / abominevole, nuvola senza nome / discesa implacabile / con vento di tempesta! / Ahimé, / e ancora ahimé! / Oh come parimenti mi penetra / l’assillo degli aculei / e la memoria dei mali!». Tutto si è compiuto: Giocasta suicida, Edipo accecato. Come sottrarsi alla tentazione di collegare – attraverso «la memoria dei mali» – «l’assillo degli aculei (κέντρων τε τῶνδ᾽οἴστρημα)» (in questo caso le fibbie d’oro strappate alla veste di Giocasta con le quali Edipo si acceca) con gli altri ‘aculei’ (cfr. i σιδηρᾶ κέντρα delle Fenicie di Euripide, v. avanti, nel testo), che avevano perforato i suoi piedi di neonato e segnato per sempre il suo destino di uomo?50 Edipo a Colono (tr. di Franco Ferrari)51 716-719 «CORO E sul mare l’agile remo saldo alla mano / balza meraviglioso, / seguace a i cento piedi / delle Nereidi (τῶν ἐκατομπόδῶν Νηρῄδων ἀκόλουθος)». Questa bellissima raffigurazione della navigazione a remi con l’evocazione della velocità vertiginosa dei cento piedi delle Nereidi ‘cancella’ di fatto la miseria e l’impotenza dei piedi di Edipo. 890: Qui Teseo fa un generico riferimento al fatto che si è dovuto affrettare più di quanto gli avrebbe fatto piacere (καθ᾽ἡδονὴν ποδός). Antigone (tr. di Franco Ferrari)52 224 «GUARDIA Mio sovrano, non posso dire di esser giunto trafelato per la fretta, sollevando l’agile piede (κοῦφον ἐξάρας πόδα)». La guardia si rivolge a Creonte e ammette di non aver corso, anzi di aver più volte esitato a portare una cattiva notizia. In questo caso la positività del piede, totalmente negata nella tragica vicenda di Edipo, è – per così dire – ‘sospesa’, proprio in quanto il male continua ad agire nei confronti dei figli di Edipo… 615-625 «CORO Per molti è un vantaggio / l’irrequieta speranza, / ma per molti è illusione / di labili sogni: / nell’uomo s’insinua, che nulla intuisce / prima che il piede si bruci / nel fuoco candente (πρὶν πυρὶ θερμῷ πόδα τις προσαύσηι)». Questa è un’altra nota negativa con riferimento al piede, al piede di ogni uomo (il cui prototipo è Edipo!), che è destinato a scottarsi, proprio perché il male continua ad agire. Poco prima il coro 50 Questi κέντρα sono le già rammentate «fibbie d’oro» (χρυσηλάτους περόνας di Oid. T. 1268-1269) di Giocasta, ma anche le «spille d’oro» (χρυσηλάτοις πόρπαισιν di EURIPIDE, Fenicie 62, richiamate dalle χρυσοδέτοις περόναις di Fenicie 805 che a mio giudizio non si possono in alcun modo riferire alla cruenta operazione compiuta al momento dell’esposizione di Edipo). L’ultimo passo qui ricordato ha creato difficoltà a commentatori antichi e moderni, difficoltà che si possono superare se si tiene conto del fatto che nella triste storia di Edipo il suo corpo è violato due volte: la prima riguarda i suoi piedi, la seconda i suoi occhi con interdizione di ogni futura identificazione nel primo caso, di ogni futura conoscenza nel secondo. A ben pensare i due fatti sono profondamente connessi, sono cioè – secondo la fortissima formulazione eraclitea – «principio e fine nel cerchio». In ogni caso il corto circuito designativo si conferma con la notizia di APOLLODORO (Bibl. 3, 5, 97) dell’esposizione sul Citerone περόναις διατρήσας τὰ σφυρά. 51 L’Edipo a Colono fu rappresentato postumo nel 401 a cura del nipote Sofocle il Giovane. 52 L’Antigone è la prima tragedia rappresentata (442 a.C.) nella trilogia tebana di Sofocle, ma qui viene da me trattata per ultima perché tale è nell’economia complessiva della vicenda. Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https://rhesis.it/ Linguistics and Philology, 8.1: 138-175, 2017 168 aveva detto: «Vedo che nuove sofferenze / sulle sofferenze dei morti / nella casa dei Labdacidi / da tempo remoto si accalcano / e progenie non libera progenie, / ma un dio li prostra / e non ha requie la stirpe. / La luce soffusa / sull’estrema radice / della casa di Edipo, / polvere insanguinata / sacra agli dei sotterranei, / e dissennate parole e cupo delirio, / ora la falciano via». Euripide Fenicie (tr. di Enrico Medda) 25-27: «GIOCASTA (Laio) resosi conto dell’errore e del compiersi della profezia del dio, affidò il neonato (βρέφος) a dei pastori perché lo esponessero sul prato di Hera, tra le rocce del Citerone, dopo avergli trapassato i tendini nel mezzo con punte di ferro (σφυρῶν σιδηρᾶ κέντρα διαπείρας μέσων): per questo i Greci lo chiamarono Edipo (ὅθεν νιν Ἑλλὰς ὠνόμαζεν Οἰδίπουν)». Abbiamo qui, per bocca di Giocasta, l’eziologia del nome e constatiamo in essa la salienza del piede proprio in quanto essa è in rapporto con un’agnizione resa impossibile. La resa del traduttore di σφυρῶν... μέσων con “i tendini nel mezzo” è piuttosto fuorviante, se si tiene conto del passo che commenteremo tra breve, dove ‘tendini’ trova una diversa e più pertinente designazione. Qui il riferimento è più precisamente alle ‘caviglie’. 35-42: «GIOCASTA …Laio, mio marito… voleva sapere del figlio che era stato esposto, se fosse morto. Le loro strade si incrociarono (καὶ ξυνάπτετον πόδα!) presso la Via Divisa (Σχιστῆς ὁδοῦ) della Focide. L’auriga di Laio gli ordina: “Straniero (Ὦ ξένε), fatti da parte (ἐκποδὼν!) e lascia la strada al re”. Lui continuò a camminare senza rispondere, orgogliosamente. Ma i cavalli con gli zoccoli gli insanguinarono i tendini dei piedi (τένοντας... ποδῶν!)». Nel giro di otto versi scatta non casualmente per ben tre volte la salienza del ‘piede’. Nel primo caso la traduzione molto libera «le loro strade si incrociarono» ci sottrae la plastica evidenza di piedi che vengono assai pericolosamente per entrambi a contatto (questo è il valore letterale fortemente allusivo di ξυνάπτετον πόδα!). Poi viene il perentorio ἐκποδὼν, che è sì un «fatti da parte» ma è innanzi tutto e soprattutto un espressivo e sintomatico “fuori dai piedi!”. Infine gli zoccoli dei cavalli che insanguinano (che rinnovano il sangue!) dei piedi di Edipo (ma i ‘tendini’ evocano il primo e decisivo evento cruento, v. sopra) pongono il suggello a questa agnizione mancata. Edipo è irrimediabilmente «straniero» o, se si preferisce, «estraneo» (e così lo apostrofa l’auriga!), le strade tra padre e figlio sono irrimediabilmente ‘divise’ e il loro incontro-scontro non casualmente avviene «presso la Via Divisa». E altro sangue deve scorrere conclusivamente dalle pupille di Edipo (cfr. in particolare il v. 63 e l’espressione αἱμάξας κόρας “avendo insanguinato le pupille”). 100 «SERVITORE Sali dunque col piede (ποδί) fino in cima la vetusta scala di cedro». L’invito è rivolto ad Antigone perché possa contemplare «l’immensità dell’esercito nemico». Il passo (o, se si vuole, il ‘piede’ che lo compie) ha in ogni caso una valenza negativa… 103-105: «ANTIGONE Stendi dunque, stendi la vecchia / tua mano alla giovane, / dalla scala sollevando / il mio piede (ποδὸς ἴχνος)». Qui Antigone allude ad una situazione apparentemente paradossale: è un anziano che deve aiutare una giovane a sollevare dai gradini di una scala “la pianta del piede” (ποδὸς ἴχνος). Ma la situazione diventa meno Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https://rhesis.it/ Linguistics and Philology, 8.1: 138-175, 2017 169 paradossale solo che ci si ricordi che il piede non fermo di Antigone è la tragica replica dell’altrettanto tragico piede infermo di Edipo! 270-271: «POLINICE A chi affronta un’impresa audace tutto fa paura, quando il piede (ποὺς) si muove in terra nemica». Si noti che il piede di Polinice, come quello di suo padre Edipo, è condannato all’alterità quando calca il terreno nemico di Tebe che sarebbe dovuta essere sua patria e suo regno. 301-303: «GIOCASTA All’udire un grido fenicio, / giovinette, col mio piede di vecchia (γεραιῷ ποδὶ) trascino il passo tremante (τρομερὰν ἕλκω ποδὸς βάσιν)». Qui abbiamo un’altra variazione sul tema: anche il piede di Giocasta è ormai incerto e senile, anche sui suoi passi si riverbera la maledizione del ‘piede’ di Edipo… 695: in questo verso l’arrivo di Creonte fa risparmiare ai piedi di un messaggero la fatica di andare a cercarlo (ma si tratta in questo caso di piedi anonimi e assolutamente irrilevanti nella tragica economia del discorso complessivo). 845-848: «CREONTE Sta’ tranquillo: puoi condurre il tuo piede (σὸν πόδα) all’approdo vicino ai tuoi amici, Tiresia. Tu, figlio mio, sorreggilo, poiché come ogni carro, anche il piede di un vecchio (πούς τε πρεσβύτου) volentieri attende il sollievo di una mano estranea». L’altro personaggio rilevante della tragedia di Edipo, l’indovino Tiresia, è come ora Giocasta ancora più vecchio: di piedi incerti e senili (che l’età rende simili a quelli deformi di Edipo!) qui ancora si tratta… 1390: «SECONDO MESSAGGERO A un tratto Eteocle, cercando di spazzar via col piede (ποδὶ) un sasso finitogli tra i piedi (πέτρον ἴχνους ὑπόδρομον), espose l’arto fuori dello scudo. Polinice lo assalì con l’asta, vedendo offerta al proprio ferro l’occasione di colpire». Si potrebbe dire che qui Eteocle mette un… piede in fallo! Il sasso che è rotolato sotto le piante dei suoi piedi (ἴχνους)53 e la conseguente mossa del piede gli arrecheranno un primo e sicurissimo danno. 1407-1411: «SECONDO MESSAGGERO E per qualche ragione pensò all’astuzia tessala, perché era stato in quella terra, e la mise in atto. Ritirandosi per un momento dalla lotta in atto, porta indietro il piede sinistro (λαιὸν... πόδα), proteggendo sul davanti la cavità del ventre». Si tratta di una mossa particolare del duello, che risulta fatale a Polinice, e ancora una volta l’attore primario e decisivo è il ‘piede’, in qualche modo ingannevole, in ogni caso ‘sinistro’ (per non parlare dell’allusivo nome del nonno paterno!). 1530-1538: «ANTIGONE Ohi! Ohi! Lascia la tua casa / con lo sguardo cieco, / mio vecchio padre, mostra, / Edipo, la tua misera esistenza, / tu che in casa ancora trascini una lunga vita / dopo aver gettato sugli occhi un velo di tenebra. / Mi senti, tu che nella corte / fai vagare il passo di vecchio (γεραιὸν πόδα), / o riposi su un letto, sventurato?». Con questa allusione di Antigone il triangolo di piedi e passi senili (Giocasta, Tiresia, Edipo) si chiude e si conclude. Ma del piede di Edipo Euripide continua a parlare, secondo un’ossessione tematica sempre più eloquente… 1539-42: «EDIPO Perché, figlia mia, con le tue lacrime miserevoli / mi hai fatto uscire alla luce / dalle stanze oscure in cui giacevo, / col sostegno del bastone per il passo cieco (τυφλοῦ ποδός)…?». In realtà, fatta salva la piena legittimità della traduzione, qui in 53 Questa è la traduzione più esatta della parola greca ed è quella che in modo più efficace rende la situazione di fatto. Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https://rhesis.it/ Linguistics and Philology, 8.1: 138-175, 2017 170 senso stretto non si tratta di ‘passo’ di Edipo, ma del suo ‘cieco piede’! In questo modo occhi accecati e piedi storpiati diventano sindesignativi della reale miseria di Edipo… 1549: «ANTIGONE Stai per ricevere una triste notizia, / padre: i tuoi figli non vedono più la luce, / e neppure la tua sposa, che sempre accanto al bastone / prodigava le sue cure per il tuo cieco passo (σὸν τυφλόπουν)». Le parole di Antigone, tenerissime anche per il coinvolgimento affettivo nei confronti della madre Giocasta, confermano pienamente la nostra analisi. In più si può notare che il composto τυφλόπους probabile neoformazione in Euripide è modellato su analoghi composti sofoclei (δεινόπους, χαλκόπους e κοινόπους) per i quali vale il già detto. 1714-1715: «EDIPO Ecco, m’incammino, figlia. / tu sii la mia guida infelice (ποδαγὸς ἀθλία)». Ma letteralmente ποδαγὸς significa “che conduce il piede” e ancora una volta si tratta del peculiarissimo piede di Edipo… 1721: «ANTIGONE Qui, qui avanza, / qui, qui poni il piede (πόδα), simile nella forza a un sogno». Confesso che il riferimento alla forza di un sogno e alla somiglianza che con questa forza avrebbe il piede di Edipo è per me straordinariamente intrigante. Sarà forse il caso di dire (non troppo a sproposito) che… la vida es sueño?54 sintesi conclusiva Ma torniamo ora alla Sfinge greca e al suo fatale incontro con Edipo. Seduto davanti a lei c’è ora solo un uomo dai piedi orribilmente rigonfi, un uomo che sa sciogliere tutti gli enigmi, compreso quello che la Sfinge propone e che riguarda tutti gli uomini, ma non sa risolvere il proprio: un uomo che è l’Uomo e che porta il nome ambiguo e eloquente di Edipo (greco Οἰδίπους “il piede gonfio”, cfr. gr. οἶδος “gonfiore” o “io so, (è) il piede!”, cfr. gr. οἶδα “io so” o ancora – proviamo a dirlo senza la i dopo la o iniziale, magari con una leggera aspirazione di questa! – ὁ δίπους “il bipede” appunto, l’“uomo” in definitiva). Perché Edipo che tutto conosce e riconosce, che è saggio e solutore di enigmi, non si conosce, in altri termini ignora la sua vera identità, e proprio per questo uccide il padre Laio, compie l’incesto con la madre Giocasta, si toglie infine la vista? Il buio è forse l’agnizione suprema del nostro inesausto viaggiare con la mente? Il segreto di Edipo, la sua non superata ‘sfinge’ interiore, cioè il suo essere, egli stesso, un insolubile enigma o più esattamente un enigma la cui soluzione arriva troppo tardi, è nei suoi piedi sfigurati: i piedi infatti sono – e l’abbiamo visto – nel più antico mondo indomediterraneo (dalla Grecia all’India), il più sicuro segno di identità, la via del più certo riconoscimento in quanto è comune opinione che ogni figlio ha i piedi identici a quelli della propria madre ed eventualmente dei suoi fratelli (così Eschilo nelle Coefore fa riconoscere Oreste da Elettra, così Euriclea riconosce Odisseo ed Elena Telemaco!). Faccio nuovamente notare che le agnizioni riuscite sono nel mondo greco opera di donne (Cassandra, Elettra, Elena, Euriclea), ma di ciò non è capace Giocasta nel suo fatale incontro con Edipo proprio perché ciò le è precluso da una circostanza apparentemente incomprensibile, in realtà significativa e decisiva, come vedremo tra breve. 54 Ancora più intrigante è il fatto che secondo alcuni critici (ad es. Peter SZONDI, Saggio sul tragico. 1996, Torino: Giulio Einaudi editore) il capolavoro di Pedro Calderon de la Barca sarebbe una replica ‘cristiana’ della vicenda di Edipo. Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https://rhesis.it/ Linguistics and Philology, 8.1: 138-175, 2017 171 Edipo non può riconoscere i propri piedi, non può essere riconosciuto a partire dai suoi piedi, perché al momento della sua esposizione questi sono stati sfigurati con punte metalliche (σιδηρᾶ κέντρα, cfr. EURIPIDE, Fenicie vv. 25-27)55 con il motivato (e finora non chiarito, ma ora per me chiaro) scopo di renderli irriconoscibili. Il dato accadimentale cioè che i malleoli di Edipo fossero trapassati al momento dell’esposizione (e non per impedirgli di camminare, perché egli era ancora troppo piccolo e in ogni caso non in grado di farlo), apparentemente immotivato, mi interessa invece moltissimo, non in sé ma per le sue conseguenze (il “gonfiore dei piedi” è una delle spiegazioni etimologiche del nome di Edipo, anzi è per me e per le ragioni linguistiche già dette quella più corretta!). Dal mio punto di vista, infatti, tale gonfiore ed il conseguente ‘nome parlante’ sono segni eloquenti di un’identità negata e di un’agnizione resa per ciò stesso impossibile. Edipo non si conosce, perché non conosce e soprattutto non può riconoscere il suo vero piede; Edipo, conseguentemente, non può (ri)conoscere il suo vero padre e la sua vera madre; e il suo destino (e quello dei suoi genitori insieme a lui) è la catarsi tragica di una identificazione altrimenti impossibile. Del resto l’ossessione del ‘piede’ scandisce i momenti essenziali della sua vicenda terribile, nei contesti complementari dell’ambiguità e del rovesciamento, come ha mostrato nel modo migliore VERNANT (1975: 85)56: «Persino il nome di Edipo si presta a questi effetti di rovesciamento. Ambiguo esso porta in sé lo stesso carattere enigmatico che contrassegna tutta la tragedia. Edipo è l’uomo dal piede gonfio (oidos), infermità che ricorda il bambino maledetto, rifiutato dai genitori, esposto, per morirvi, alla natura selvaggia» e, aggiungiamo noi, tale gonfiore è, nel quadro della credenza indomediterranea qui discussa, scientemente indotto per negare l’identità, per interdire l’identificazione, cioè un’esito felice della vicenda. «Ma» – e sono ancora parole di VERNANT (1975: 85-86) – «Edipo è anche l’uomo che sa (oida) l’enigma del piede, che riesce a decifrare, senza interpretarlo male, l’“oracolo” della sinistra profetessa, della Sfinge dal canto oscuro» ma paradossalmente, diciamo noi, non conosce se stesso, cioè non ottempera al dovere primario imposto ad ogni greco dall’oracolo di Delfi, in altri termini e in chiave indomediterranea non (ri)conosce il suo autentico piede perché è stato messo nell’impossibilità di conoscersi. Ma leggiamo ancora VERNANT (1975: 86): «Il doppio senso di Oidipus si ritrova all’interno del nome stesso, nell’opposizione tra le prime due sillabe e la terza. Oida: “io so”, una delle parole principi in bocca ad Edipo trionfante, ad Edipo tiranno (cfr. Oid. T. 58-9, 84, 105, 397). Pus: “il piede”, segno imposto fin dalla nascita a colui il cui destino è di finire come ha cominciato, da escluso, simile alla bestia selvaggia che il suo piede fa fuggire (Oid. T. 468), che il suo piede isola dagli umani, nella vana speranza di sfuggire gli oracoli (ivi, 479ss.), inseguito dalla maledizione dal piede terribile (ivi, 418) per aver infranto le leggi sacre dal piede eccelso (ivi, 865-6) e incapace ormai di fare uscire il piede dai mali in cui è precipitato al L’atto di perforare i piedi di Edipo neonato ha uno straordinario antecedente omerico (Iliade Χ 396-397, quando Achille perfora (τέτρηνε) facendo passare da un punto all’altro (τερ-!) i tendini (τένοντας) dei piedi di Ettore, cfr. EURIPIDE, Fenicie 42, dove si parla di τένοντας... ποδῶν, con non casuale riferimento proprio ad Edipo quando subisce una violenza da parte dell’auriga di Laio (v. dietro, nel testo). Del resto nella stessa tragedia di Euripide il duello tra Eteocle e Polinice è modellato su quello che nell’Iliade avviene tra Ettore e Aiace. Faccio notare che la salienza identificativa del piede è implicita nel motivo mitologico della vulnerabilità del tallone di Achille! 56 Faccio riferimento all’edizione italiana del saggio, comparso in una prima versione in Exchanges et Communications. Mélanges offerts à Claude Lévi-Strauss, 1970, Paris-La Haye: Mouton, tome II, pp. 1253-1279. La citazione che segue è doverosa, ma il lettore attento saprà anche cogliere il fatto che la mia analisi testuale complessiva dilata in modo sostanziale la prospettiva su questo peculiarissimo argomento. 55 Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https://rhesis.it/ Linguistics and Philology, 8.1: 138-175, 2017 172 culmine del potere (ivi, 878). Tutta la tragedia di Edipo è dunque come contenuta nel gioco cui si presta l’enigma del suo nome», nome non casuale – diciamo noi – e, forse, non più tanto per noi moderni ‘enigmatico’ se, come abbiamo visto, coinvolge in negativo una dimensione culturale indomediterranea … «Il sapere di Edipo, quando egli decifra l’enigma della sfinge, già riguarda in certo modo lui stesso. Chi è, domanda la sinistra cantatrice, l’essere che è al contempo dipus, tripus, tetrapus? Per Oi-dipus» come dire ‘il bipede’ secondo un ulteriore e già registrato gioco paretimologico «il mistero non è tale se non in apparenza: si tratta certamente di lui, si tratta dell’uomo. Ma questa risposta non è un sapere che in apparenza; essa maschera il vero problema: che cosa è allora l’uomo, che cos’è Edipo?». Così VERNANT (1975: 86) che, dopo una lucidissima analisi che ovviamente non tiene conto delle implicazioni indomediterranee da me mostrate, ci lascia con un dubbio di fondo. In realtà il solutore di enigmi è prigioniero del fatto di essere egli stesso un enigma insolubile e una volta consumato l’incesto egli, diventato finalmente consapevole, cerca l’espiazione catartica nel suo emblematico togliersi la vista: la cruda luce della verità diventa così per lui (e forse non solo per lui!) fonte di tenebra eterna. Allo stesso modo Fetonte, nel momento in cui attinge il momento più alto e più rischioso del suo inesausto ascendere verso un traguardo impossibile, viene travolto dal suo limite e (chi lo potrebbe dire meglio di OVIDIO, Metamorphoses 2, 181?) Suntque oculis tenebrae per tantum lumen obortae “e gli cadde sugli occhi, nel cuore di tanta luce, la tenebra” (tr. di Ludovica Koch) Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https://rhesis.it/ Linguistics and Philology, 8.1: 138-175, 2017 173 Riferimenti bibliografici ALLEN, Nick J. (2000), “Argos and Hanuman: Odysseus’ dog in the light of Mahabharata”, in «Journal of Indo-European Studies» 28, 1-2, 3-16. ALLEN, Nick J. (2013), rec. a SAUZEAU, in «Journal of Indo-European Studies» 41, 3-4, 535-538. BETTINI, Maurizio, Alberto BORGHINI (1979), “Il bambino e l’eletto. Logica di una peripezia culturale”, in «Materiali e discussioni per l’analisi dei testi classici» 3, 121-153. BHATT, G. H., U.P. SHAH (eds.) (1960-1975), The Vālmīki Rāmāyaṇ. 7 vols., Baroda: University of Baroda. BOITANI, Piero (2014), Riconoscere è un dio. Scene e temi del riconoscimento nella letteratura, Torino: Giulio Einaudi editore. CHANTRAINE, Pierre (1984, 1990), Dictionnaire étymologique de la langue grecque. Histoire des mots. Paris: Editions Klincksieck. 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International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https://rhesis.it/ Linguistics and Philology, 8.1: 138-175, 2017 176 Un recente contributo su Marziale e l’epigramma longum Sabrina Sinis (Università di Cagliari) Un recente contributo su Marziale e l’epigramma longum Negli ultimi decenni diversi studiosi si sono cimentati nella stesura di commenti più o meno sistematici ai singoli libri del corpus marzialiano, seguendo la strada del fondamentale commento di Mario Citroni al primo libro, lavoro uscito nel 1975. Non sempre i risultati si sono dimostrati all’altezza del compito di cui ci si era fatti carico, come evidenziano alcuni recensori1. Non è il caso del commento al libro V di Marziale curato da Alberto Canobbio, M. Valerii Martialis Epigrammaton liber quintus. Introduzione, edizione critica, traduzione e commento, «Studi Latini» 75, Loffredo, Napoli 2011, pp. 634, che si configura come strumento di consultazione utile ai fini di una migliore comprensione dell’opera del poeta di Bilbilis. Partendo dalla recensione di tale commento, mi propongo di approfondire alcuni aspetti relativi a determinate problematiche destate dagli epigrammi marzialiani, in particolare quella afferente gli epigrammata longa. Canobbio segue l’impostazione già proficuamente sperimentata per la pubblicazione degli epigrammi del libro V sulla Lex Roscia theatralis2: al commento ai singoli epigrammi si abbina l’edizione critica degli stessi, costituita sulla base di un riesame autoptico di tutti i testimoni fondamentali e corredata da un apparato che documenta lo status effettivo del testo nella tradizione manoscritta e nelle prime edizioni a stampa fino all’Aldina del 1501. L’impegnativo lavoro ecdotico permette di ottenere un testo e un apparato critico attendibile e necessario a un’analisi scientifica dei testi marzialiani e, inoltre, dimostra che sussistono ancora dei margini di miglioramento, o quanto meno di discussione, per quanto concerne la costituzione del testo di Marziale. Il commento di Canobbio risulta molto corposo (634 pp.) e accurato: a una significativa premessa (pp. 5-9) segue un’introduzione (pp. 11-63) divisa in capitoli, che permette di capire la specificità e la peculiarità del libro V del poeta di Bilbilis. Il primo capitolo dell’introduzione (pp. 11-20) presenta temi e caratteristiche della produzione marzialiana in generale (cap. 1.1) e del libro V in particolare (1.2). Da evidenziare è il fatto che Canobbio individui ed espliciti subito i modelli marzialiani (p. 12): Catullo e i grandi poeti augustei – Virgilio, Orazio, Ovidio – sono gli autori di riferimento grazie ai quali Marziale vuole dare al genere epigrammatico latino una sua fisionomia peculiare e 1 Tra le tante recensioni ricordiamo quella di Fusi in «Res Publica Litterarum» 26, 2003, pp. 201-209, al commento del libro VII fatto da Guillermo Galán Vioque, in cui si sottolinea fin da subito il fatto che «la qualità del lavoro delude completamente le aspettative» (p. 201). 2 Gli epigrammi sulla Lex Roscia appartengono a un ‘ciclo’ significativo all’interno del liber quintus e a questi si farà cenno anche nel seguito della trattazione. Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https://rhesis.it/ Linguistics and Philology, 8.1: 176-183, 2017 177 riconoscibile, dal momento che questo tipo di poesia a Roma non era ancora considerata un genere letterario a tutti gli effetti3, e, allo stesso tempo, cerca di allentare i legami ‘genealogici’ con la pur prestigiosa tradizione dell’epigramma greco. Nel libro quinto la varietas e il realismo sono indispensabili: la pluralità è «insita nello stesso concetto di Epigrammaton liber allo scopo di rappresentare in modo adeguato l’effettiva e irriducibile molteplicità di cose, persone, situazioni che la Roma dell’ultimo dei Flavi propone all’attenzione del poeta» (cit. p. 12). Il fine dell’autore è quello di soddisfare i diversi tipi di pubblico proprio attraverso la varietas epigrammatica che solo apparentemente è senza regole, ma in realtà è sempre sottoposta al vigile senso estetico e comunicativo dell’autore che allestisce raccolte variegate ma equilibrate. Il libro V è un esempio di tale equilibrio, ottenuto attraverso la varietas: ai testi dedicati alla celebrazione imperiale, che improntano l’impostazione del liber, tanto che Marziale dichiara nell’incipit di rinunciare alla lascivia, diffusa nei libri precedenti, per rivolgersi a un pubblico puro e pudico4, se ne affiancano altri che affrontano temi d’attualità come la celebrazione del recente successo militare sui Daci e dell’incontro tra Domiziano e il fratello del re barbaro al quale l’imperatore appare come un deus; c’è anche posto per un ciclo dedicato al rinnovo della Lex Roscia theatralis, in cui la stretta attualità politica e divertenti scenette tratte dalla vita quotidiana si uniscono ad elementi ripresi dalla palliata plautina. Nel libro V si trovano però anche testi scommatici, sebbene in quantità inferiore rispetto agli altri libri, e altri di argomento letterario in cui Marziale riflette sulla condizione del poeta e sulla difficile situazione economica dovuta a questa professione. È proprio in tale contesto, come individua giustamente Canobbio, che Marziale tradisce lo scopo della dedica del liber al principe e la presenza dell’adulazione cortigiana: secondo una logica prettamente romana che prevede l’acquisizione di un bene come contropartita di un servizio reso in precedenza, Marziale dopo aver offerto un ampio saggio della sua poesia cortigiana, che abbina il recupero di illustri precedenti augustei alla specificità umoristica del genere epigrammatico, nella seconda decina di testi passa dall’adulazione imperiale alla riflessione letteraria e con essa all’esplicita richiesta di Patronage. Canobbio sottolinea come nel libro V, a tutti i livelli, sia fondamentale il precetto del do ut des, concetto riscontrabile anche nella reazione di Domiziano alla richiesta di amicitia. È anche il modo ‘mercantile’ con cui Marziale interpreta le dinamiche sociali, da lui stesso sperimentate nella vita da cliente, cosicché il rapporto tra poeta e principe non è altro se non un tipo di relazione in cui l’utilità propagandistica (dal punto di vista dell’imperatore) e il tornaconto economico (dal punto di vista del poeta) risultano significativi accanto al valore culturale dell’opera letteraria che fa da medium tra i due e il cui atout è rappresentato soprattutto dal grande successo di pubblico. Il secondo capitolo dell’introduzione (pp. 20-31) è dedicato all’analisi del metro, della misura e dell’ordinamento degli epigrammi del libro V. Gli 84 epigrammi sono composti nei tre metri canonici per l’epigramma di Marziale che abbina al nettamente prevalente distico elegiaco (58 testi), metro tipico dell’epigramma greco, due schemi presenti in minore quantità, caratteristici della poesia di Catullo: l’endecasillabo falecio (16 testi) e il trimetro giambico scazonte (10 testi). Anche in questo caso si ottiene un’equilibrata varietas all’interno del liber epigrammatico: le riflessioni di Canobbio sono precise e accurate per quanto riguarda l’analisi dei diversi metri, scelti anche in relazione alle tematiche, e, dalla lunghezza dei singoli componimenti, si evince che sono soltanto 7 (su 58) gli epigrammi in distici elegiaci che contano più di 10 versi, a fronte di due testi in 3 4 Ne è una prova il fatto che l’epigramma non compare nella rassegna eidografica di Quintiliano. Mart. V, 2, 1: Matronae puerique virginesque, / vobis pagina nostra dedicatur. Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https://rhesis.it/ Linguistics and Philology, 8.1: 176-183, 2017 178 scazonti (su 10) e di ben 11 epigrammi in faleci (su 16) che superano tale estensione. Entriamo così nella problematica dell’epigramma breve, longum e longissimum. La discussione sulla dimensione degli epigrammi e l’individuazione degli epigrammata longa, nell’ultimo decennio, si è mostrata centrale per la critica e l’analisi di questi è fondamentale per comprendere fino in fondo Marziale, che li utilizza come sedi privilegiate dell’intertestualità5. Canobbio fa nel suo commento una distinzione tra epigrammata longa, per i quali la soglia minima e simbolica sarebbero i 10 versi, ed epigrammata longissima, la cui dimensione sarebbe più che doppia. Probabilmente questa è solo una ‘distinzione di comodo’ che permette all’autore di catalogare diversi tipi di testi, cosa indispensabile all’interno del suo commento sistematico. Ma è lo stesso Canobbio che in un contributo del 2008, Epigrammata longa e breves libelli. Dinamiche formali nell’epigramma marzialiano, in MORELLI 2008, I, pp. 169-193, propone, in modo originale, di considerare longa quegli epigrammi sicuramente definiti e difesi come tali dal poeta stesso, ovvero quelli che raggiungono o superano la misura minima di 22 versi: nei carmi metapoetici che talvolta Marziale fa seguire a epigrammi di considerevoli dimensioni, egli esprime la difesa più coerente e articolata di questa morfologia epigrammatica. In effetti, in quei carmi ad essere difesa è la lunghezza come fatto notevole e relativamente raro anche nello stesso corpus marzialiano e si tratta di carmi cui è sicuramente affidato un ruolo di spicco nell’arrangement del libro. Dunque, se è vero che nella tradizione greca l’epigramma superiore agli 8 versi era limitato a tipi e tematiche particolari e molto rari risultano i carmi composti da più di 12 versi, è altrettanto vero che sono molto numerosi gli epigrammi marzialiani che raggiungono o superano i 10 versi e se dovessimo considerare tutti questi testi come epigrammata longa, avremmo un corpus che non ci permetterebbe di trarre conclusioni significative sull’utilizzo di testi di tali dimensioni da parte dell’autore e sul loro valore nell’economia generale dei libri. All’interno del quinto libro risultano, a mio parere, veri e propri epigrammata longa soltanto il 78, costituito da 32 versi, precisamente endecasillabi faleci, il componimento più lungo dell’intero liber, e il 37, di 24 versi (giambi scazonti): si tratta senza dubbio di due tra gli epigrammi più significativi di tale libro e dell’intera produzione marzialiana. Il primo è l’invito a cena rivolto all’amico Toranio e si potrebbe inserire all’interno di un breve ciclo di componimenti di invito a cena, di cui fanno parte anche gli epigrammi X, 48, un altro longum costituito da 12 distici elegiaci, e XI, 52, di 9 distici, lunghezza leggermente inferiore, che presentano una struttura similare (vedi il contributo di E. Merli, “Cenabis belle. Rappresentazione e struttura negli epigrammi di invito a cena di Marziale”, in MORELLI [2008], I, pp. 299-326). È significativo che tali componimenti marzialiani presentino un ampliamento sintomatico rispetto ai modelli forniti dalla tradizione, in particolare l’epigramma di Filodemo indirizzato a Pisone in occasione di un δεῖπνον per celebrare il ricordo di Epicuro (A. P. XI, 44), costituito da 4 distici, e il carme 13 di Catullo, di 14 endecasillabi, che consiste in una sorta di parodia dell’epigramma di invito di Filodemo. Quella della vocatio ad cenam è senza dubbio una tematica cara a Marziale dal momento che gli permette di porsi nel solco della tradizione e di innovarla dal suo interno, grazie all’inserzione di un elemento originale come il lungo catalogo dei cibi che saranno presenti durante il banchetto, elenco arricchito grazie a minuziosi dettagli sensoriali che permettono di saziare gli occhi prima del palato ed elemento estraneo alla tradizione precedente. Il V, 78 è il primo dei tre componimenti di Dimostrazione dell’importanza del dibattito sugli epigrammata longa è stato il Convegno internazionale Epigramma longum. Da Marziale alla tarda antichità. From Martial to Late Antiquity, svoltosi a Cassino dal 29 al 31 maggio 2006, i cui atti sono stati pubblicati nel 2008 a cura di A.M. Morelli. 5 Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https://rhesis.it/ Linguistics and Philology, 8.1: 176-183, 2017 179 invito a cena e, pur essendo cronologicamente precedente rispetto agli altri, contiene in sé già tutti gli elementi caratteristici di tale tematica e una struttura peculiare, facilmente individuabile. L’altro epigramma longum del libro è il V, 37, composto da 24 giambi scazonti: si tratta di un metro insolito per un componimento che affronta il tema funerario, dal momento che è stato composto in lode e in morte di Erotion, vernula di Marziale, destinataria di altri due epigrammi, il V, 34 e il X, 61: si potrebbe parlare di vero e proprio ‘ciclo’6. Il testo di V, 37, tuttavia, risulta bipartito, tanto che dopo la prima parte funeraria si trova una sezione satirica indirizzata a un vedovo ipocrita, una vera e propria satira di costume in cui si critica Peto che, dopo aver disapprovato la lunga sofferenza di Marziale per una vernula, viene smascherato per il suo falso dolore dovuto alla morte della moglie, che in realtà gli ha lasciato una cospicua eredità. È significativo che anche un tema tipico della poesia sepolcrale come quello funerario sia rinnovato da Marziale con l’inserzione di elementi satirici proprio all’interno di un epigramma longum, a dimostrazione di quanto questa sia una sede privilegiata dall’autore per entrare in competizione con i modelli, innovarli e superarli, grazie anche all’uso della ποικιλία permessa dall’epigramma. Tornando all’introduzione del commento al liber quintus, nel secondo capitolo, a p. 24 Canobbio afferma giustamente che: «Lunghezza e brevità […] non sono né tantomeno rappresentano per Marziale dei valori assoluti e, tutto sommato, nemmeno dei valori (o disvalori) in sé, sebbene a livello di dichiarazioni programmatiche sia proprio la brevitas a essere spesso presentata come componente caratteristica e positiva del genere epigrammatico». Si potrebbe però affermare, in modo altrettanto corretto, che nonostante la predominanza all’interno del corpus di epigrammi brevi, in buona parte è agli epigrammata longa che Marziale assegna il compito di entrare in competizione con la tradizione poetica precedente, in particolare con le esperienze neoterica ed elegiaca, ma di rilievo sono anche i legami con la satira, e sono proprio questi testi, dunque, il luogo privilegiato per l’intertestualità e la messa in discussione o la riformulazione di alcuni topoi tradizionali, che saranno innovati dal loro interno per creare nuovi modelli, i quali, a loro volta, saranno presi come punto di riferimento dalle esperienze poetiche successive. Il capitolo 2.2 è dedicato all’ordinamento degli epigrammi, riconducibile all’esigenza estetica di ottenere un’equilibrata e piacevole varietà all’interno dei singoli libri dal punto di vista sia contenutistico sia metrico-formale e sviluppa le strategie d’approccio adottate da Marziale nei confronti dei destinatari contemporanei. A questo proposito risulta assai significativa la nota 69, p. 25. È interessante notare anche, come ha fatto giustamente Canobbio, che «l’istanza comunicativa tende a produrre una gerarchia tra lettore comune, amici e patroni, l’imperatore e la sua corte, mentre la varietas viene spesso controbilanciata dalla ricerca di un’interazione tra epigrammi distanti che si realizza nelle forme del dittico e più ancora del ciclo epigrammatico» (cit., pp. 25-26). Come bene dimostrato e appurato da Canobbio, niente nell’ordinamento degli epigrammi è casuale, né dal punto di vista metrico, né da quello tematico, né per la lunghezza. Canobbio individua i motivi conduttori del libro V che sono quello cortigiano, quello letterario e quello saturnalicio: questi tre filoni tematici compaiono in quest’ordine e nell’ultimo quarto del libro usciranno di scena nella medesima sequenza, per cui abbiamo prima la scomparsa del motivo cortigiano, poi di quello letterario e, infine, Come afferma lo stesso Canobbio, il ‘ciclo’ epigrammatico in Marziale è un luogo privilegiato per la rappresentazione della varietas su uno stesso tema o motivo e, dunque, per mostrare ai lettori la propria originalità artistica. 6 Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https://rhesis.it/ Linguistics and Philology, 8.1: 176-183, 2017 180 chiuderà la raccolta la tematica dei Saturnali. Anche questa modalità di presentazione e chiusura delle tematiche permette di comprendere l’estrema cura nell’ordinamento degli epigrammi. Il capitolo 3 (pp. 32-40) è dedicato alla datazione del libro e su questo aspetto il contributo di Canobbio risulta fondamentale per risolvere un problema dibattuto da diversi studiosi che non erano riusciti a trarre conclusioni certe ed esaustive. La proposta di Canobbio risulta, invece, molto interessante e convincente. FRIEDLÄNDER (1886) aveva proposto una datazione del libro V all’autunno 89 (I, p. 56), dal momento che focalizzava la sua attenzione sul doppio trionfo, sui Catti e sui Daci, che riteneva aver avuto luogo verso la fine di quell’anno. Di contro, SYME (1980), sulla base di altri elementi come la celebrazione delle nozze di Stella, importante amico e patrono tanto di Stazio quanto di Marziale, che potrebbero essere avvenute alla fine dell’89, e sulla base del banchetto delle Kalendae Decembres, conseguente al trionfo sui Daci e collocato sicuramente nell’89, aveva proposto la collocazione del libro IV di Marziale nell’89 e, di conseguenza, del libro V nel 90 (dopo il doppio trionfo dell’89, al quale alluderebbe l’epigramma V, 49, dove si parla di un fatto avvenuto nel dicembre precedente) e del libro VI nel 91. La proposta di Citroni (1989; 1992) però, secondo Canobbio, era la più convincente: collocando il libro V nel dicembre 89 metteva in evidenza lo stretto legame che questo intratteneva con i Saturnali, con la fine dei quali finisce il libro stesso, in cui si fa inoltre costante riferimento a tale festa. È una datazione compatibile anche con la ricostruzione della rivolta di Saturnino (già in essere sul finire dell’88 ma esplosa il primo gennaio successivo, giorno del consueto giuramento di fedeltà all’imperatore) e inoltre è stata corroborata, per così dire, a latere dai commentatori dei libri prossimi al V, i quali hanno di fatto confermato la scansione cronologica già delineata da Friedländer e precisata poi dallo stesso Citroni. Il merito di Canobbio è quello di aver saputo dare una risposta convincente anche alle altre perplessità che rimanevano nella proposta di Citroni: se si ipotizza la stesura del libro V nell’autunno 89 e la sua pubblicazione nella prima metà del dicembre dello stesso anno, per superare il silenzio, o quanto meno la velata menzione, dei trionfi imperiali di quell’anno, si potrebbe ipotizzare che Marziale avesse concluso il libro quando il trionfo, che era nell’aria da tempo, non era ancora stato celebrato, pur essendo imminente. Inoltre per Canobbio, dato che è probabile che il libro sia uscito nella prima metà di dicembre e visto che è ugualmente verosimile che Marziale lo abbia consegnato al libraio-editore con un certo anticipo rispetto a tale data, se effettivamente il doppio trionfo degli ultimi mesi dell’89 ebbe luogo in novembre (accettando l’ipotesi secondo cui Dio 67, 8, 4, ma non Mart. V, 49, si riferirebbe al banchetto indetto per le Kalendae Decembres di cui parla Stat. Silv. 1, 6), sarebbe intercorso davvero pochissimo tempo tra l’uscita del libro e la celebrazione del trionfo e quindi è anche probabile che, nell’imminenza di un grande evento che non poteva però cantare adeguatamente (ma soprattutto puntualmente, ovverosia con riferimenti agli aspetti più caratteristici e meno stereotipati del medesimo), Marziale abbia scelto soltanto di ‘accennare’ ai dignos triumphos imperiali (V, 19, 3), un cenno inevitabilmente generico, ma riscattato da una posizione di rilievo all’interno della laus Caesaris sviluppata nell’epigramma 19, proprio quello, fondamentale nell’economia dell’intero libro V, in cui il poeta chiede apertis verbis a Domiziano di essere suo amicus. Se è vero che un poeta cortigiano avrebbe comunque avuto a disposizione la topica panegiristica, è altrettanto vero che non bisogna dimenticare l’attitudine realistica e l’attrattiva per l’attualità tipiche di Marziale, restio, forse, a proporre all’imperatorededicatario una celebrazione stereotipata e ‘in astratto’ di un avvenimento di tale portata. Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https://rhesis.it/ Linguistics and Philology, 8.1: 176-183, 2017 181 Dunque, accettando l’ipotesi della posteriorità dello svolgimento, ma non della notizia, del trionfo rispetto all’uscita del libro V, riusciremmo a giustificarne non solo il silenzio, ma anche il ricordo, sporadico e non troppo evidente, del doppio trionfo nel libro VI, che conseguentemente a questa ipotesi sarebbe stato pubblicato nel 90. Canobbio dedica il capitolo 4 della sua introduzione (pp. 40-46) alla tradizione del testo, il 5 (pp. 46-48) all’analisi delle edizioni critiche precedenti, il 6 (pp. 49-51) alla spiegazione dei criteri utilizzati per la sua edizione e il 7 (pp. 51-58) all’elencazione dei testimoni utilizzati. Il maggiore merito del commentatore è quello di aver costituito l’edizione del libro V sulla base di un riesame autoptico di ventiquattro testimoni: i dieci manoscritti appartenenti alle tre famiglie antiche, otto recentiores, i lemmi del commento di Calderini, le prime edizioni a stampa fino all’Aldina del 1501. Egli ha visionato personalmente tutti i testimoni conservati nelle biblioteche italiane, gli altri tramite microfilm. È significativo che Canobbio abbia dato ampio spazio alla tradizione umanistica, finora piuttosto trascurata: le prime edizioni a stampa sono un prezioso punto di riferimento per riflettere sull’attività congetturale degli umanisti che, come ha evidenziato Canobbio, arrivano talvolta a restituire il testo corretto o comunque concordano su un testo diverso rispetto a quello delle tre famiglie antiche. Egli ha considerato anche alcuni manoscritti di particolare interesse, tra cui un autografo di Perotti (v3) e il manoscritto originale del commento di Calderini (Cald.). Per quanto riguarda l’apparato critico, Canobbio ha ritenuto opportuno procedere alla costituzione di un apparato che, sulla falsariga di quello di Citroni, riflette lo status effettivo della tradizione manoscritta e distingue gli apporti dei singoli testimoni. Egli pertanto registra sistematicamente tutte le varianti dei dieci codici antiquiores ad eccezione di quelle ortografiche; per quanto riguarda, invece, recentiores ed edizioni a stampa, segnala solo le lezioni accolte a testo non attestate (o poco attestate) nella tradizione più antica, nonché una scelta di varianti che possono comunque risultare di qualche interesse per la storia del testo. Ne risulta un apparato critico che riesce a garantire un’informazione più completa e precisa rispetto ad altri ben più sommari e talvolta lacunosi. L’introduzione termina con il capitolo 8 dedicato al conspectus siglorum (p. 59) e il 9 (pp. 60-63) dove viene presentata una tavola comparativa, in cui sono segnalati i loci nei quali il testo proposto da Canobbio si differenzia da quello delle principali edizioni critiche di Marziale, nella fattispecie l’oxoniense di LINDSAY (1903; editio altera 1929) e le teubneriane curate da HERAEUS (1925; editio correctior 1976) e da SHACKLETON BAILEY (1990), il quale ha poi lievemente modificato il suo testo nell’edizione uscita nel 1993 per i tipi della Loeb. Meritano di essere segnalati alcuni interventi personali dell’autore: nell’epigramma 6 Canobbio mette tra virgolette i vv. 3-17, contenenti le parole che Marziale fa pronunciare alle Muse, chiarificazione importante per la comprensione del testo; in 30, 4, egli scrive Elegia con iniziale maiuscola, proponendo una personificazione del genere letterario, soluzione plausibile ed efficace nel suo contesto; in 49, 9, corregge un lessema, imperator, che, secondo le sue parole, di edizione in edizione ricorre ‘inerzialmente’ sempre con una non motivata iniziale maiuscola. Infine, lezioni diverse da quelle accettate dai tre editori sopra menzionati si trovano in 14, 2, dove per la prima volta Canobbio porta a testo una variante umanistica (licebat), 20, 11, dove difende il testo dei codici (neüter) contro un fortunato emendamento di SCHNEIDEWIN (necuter), e soprattutto nel molto discusso epigramma 38, per il quale Canobbio ritorna al testo tràdito e adotta per l’ultimo verso l’interpunzione dell’editio Perottina (Romae, 1473). Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https://rhesis.it/ Linguistics and Philology, 8.1: 176-183, 2017 182 La parte principale del volume (pp. 65-593) è dedicata al commento sistematico ai singoli epigrammi del liber quintus: l’epigramma è seguito dall’apparato critico, da una traduzione in prosa ‘di servizio’ e da un commento, prima generale dell’epigramma, in cui si mettono in luce i modelli e i temi principali, poi parola per parola. La cura e la precisione con cui Canobbio svolge la sua analisi è esemplare. La bibliografia, a cui sono dedicate le pagine 595-611, è ricchissima e molto aggiornata. Chiude il volume un Indice generale (pp. 613-629) grazie al quale la ricerca dei loci risulta più agevole e immediata, in modo da permettere al lettore di non perdersi nella ricerca delle problematiche che lo interessano, e un Indice (p. 631) in cui sono indicate le pagine relative alle diverse sezioni del commento. Il giudizio complessivo sull’immane lavoro di Canobbio non può che essere completamente positivo. Senza entrare nel merito del commento ai singoli componimenti, ritengo si possa fare un’ulteriore riflessione sull’epigramma longum V, 37, a cui ho fatto cenno in precedenza: essendo il secondo per estensione dell’intero libro quinto nonché uno dei più originali e controversi tra quelli composti dal poeta di Bilbilis, offre un interessante materiale di discussione. Come ha ben evidenziato Canobbio, essendo composto da una parte funeraria e da una satirica, è un epigramma tipicamente ‘doppio’: l’incipit, dall’andamento spiccatamente priamelico, propone la celebrazione di una puella dall’identità inizialmente ignota raffigurata con i tratti tipici dell’amante elegiaca, tanto che risulta stretto nei vv. 1-13 il legame con l’elegia erotica e non mancano neanche suggestioni bucoliche, come sottolinea il commentatore; si apre poi un momento commemorativo più sobrio e composto in cui si scopre che in realtà si tratta di un epicedio in onore di un’immatura, una bambina già nota ai lettori del liber perché celebrata in V, 34. Erotion è stata una vernula di Marziale, non una sua amante, come parrebbe dalla lettura dei primi versi e come l’autore vuol far credere, riuscendo ad ingannare anche alcuni commentatori7. Il poeta è abile nella sua azione di depistaggio ma i comparativi iperbolici e l’estensione dei paragoni, oltre che la presenza del metro scazonte, dovrebbero insospettire il lettore: il primo elemento di sorpresa è posto al v. 14, quando compare il nome della puella, termine volutamente ambiguo in incipit, e si scopre che non si tratta di una giovane donna ma di una bimba che non era arrivata neanche al sesto anno di età. Il suo epicedio è elevato e sublime e Marziale la definisce «nostros amores gaudiumque lususque», dimostrando tutto il suo affetto e seguendo la convenzione funeraria epigrafica. Al v. 18 inizia la seconda parte dell’epigramma, quella satirica che risulta ugualmente bipartita: inizialmente un certo Peto indirizza a Marziale una consolatio insolita poiché sminuisce il dolore del poeta per una schiavetta e gli contrappone la sua condizione di vedovo. Tuttavia, le parole con cui descrive la moglie gettano una luce ambigua sul suo sentimento: la donna è detta «notam, superbam, nobilem, locupletem», nessun termine denota affetto o partecipazione per la disgrazia subita. E infatti, Marziale smaschera Peto che in realtà non è altro che un captator testamenti. Lo spunto satirico in clausola si potrebbe intuire dalla descrizione della defunta moglie ma, allo stesso tempo, la chiusura scommatica in un epigramma funerario è inattesa. Tra gli altri si potrebbe vedere Patricia WATSON, “Erotion: puella delicata?”, in «The Classical Quarterly» 42, 1992, pp. 253-268, in cui lo studioso cade nella trappola costruita ad arte da Marziale, dal momento che interpreta l’affetto del poeta per la vernula come un attaccamento più intimo. La sua analisi dell’epigramma non riesce ad essere oggettiva e distaccata e, dunque, ne risulta un’interpretazione soggettiva e sentimentale (contro questa esegesi si pone anche Olivier THÉVENAZ, “Flebilis lapis? Gli epigrammi funerari per Erotion in Marziale”, in «Materiali e discussioni per l’analisi dei testi classici» 48, 2002, pp. 167-191). 7 Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https://rhesis.it/ Linguistics and Philology, 8.1: 176-183, 2017 183 In questo componimento Marziale dimostra tutta la sua originalità di epigrammista: dopo un epigramma funebre tradizionale come il V, 34, egli si propone di innovare il genere con la commistione di elementi ripresi dall’elegia erotica ma anche dalla satira di costume e compone qualcosa di talmente inedito da non essere neanche apprezzato da alcuni lettori. La poesia funeraria e l’epicedio vengono in un certo senso quasi ‘snaturati’ perché la commemorazione della defunta non è che un pretesto per introdurre la battuta satirica rivolta a un ipocrita captator testamenti, smascherato grazie al tipico fulmen in clausola epigrammatico. L’enigmaticità del componimento dimostra l’abilità artistica dell’autore, come anche i ricchi rimandi intertestuali, puntualmente evidenziati da Canobbio. È significativo che in un epigramma longum siano presenti tanti moduli tipici della scrittura di Marziale, a cominciare dall’andamento priamelico della prima parte in cui i paragoni sono estesi in maniera iperbolica per inserire il maggior numero possibile di confronti ripresi dalla letteratura ma anche da oggetti quotidiani, descritti con l’abituale accuratezza ritrattistica marzialiana attraverso la quale sono stimolati tutti e cinque i sensi del lettore, grazie alla doviziosa aggettivazione; il momento celebrativo, nei vv. 14-17, riprende l’andamento e il tono accorato e affettuoso tipico della commemorazione epigrafica per lasciare poi posto, però, alla comparsa di un inatteso e inopportuno interlocutore che si intromette nel dolore di Marziale per criticarlo e rimproverarlo. È il pretesto che permette l’inserimento di un elemento caratteristico dell’epigrammatica come quello della satira di costume. L’epigramma V, 37, è un’ulteriore conferma che permette di comprendere come Marziale non utilizzi temi originali ma sfrutti l’immenso bacino letterario a sua disposizione. L’originalità del poeta di Bilbilis si manifesta soprattutto nel modo in cui le tematiche scelte vengono rappresentate, dal momento che i motivi tradizionali sono arricchiti grazie a un’accurata attenzione per il reale e le sue sfaccettature, spesso catalogati in modo minuzioso mediante una serie di elenchi sconosciuti al resto della tradizione, proprio come avviene nei vv. 1-13 di questo epicedio sui generis8. Si potrebbe affermare che il poeta di Bilbilis non inserisce nulla di completamente nuovo, ma rielabora i modelli che aveva a disposizione per produrre qualcosa di originale, non è un semplice imitatore ma crea nuovi paradigmi e compete con i precedenti, in forma più o meno apertamente allusiva: è il massimo omaggio che un imitatore possa offrire ai suoi modelli. Egli stesso sarà in seguito ripreso e imitato e, nonostante la sua arte sia stata spesso sminuita, offre un importante saggio del modo in cui gli antichi si relazionavano con la produzione a loro precedente e contemporanea. Dunque, complessità che si cela dietro l’apparentemente “semplice” produzione del poeta di Bilbilis: senza dubbio il commento di Canobbio è uno strumento fondamentale per l’interpretazione degli epigrammi marzialiani, non solo del quinto libro, e permette di accostarsi all’immenso materiale a disposizione con una chiave di lettura oggettiva e puntuale e allo stesso tempo porta a interpretare la varietas e la molteplicità di forme, temi e personaggi rappresentati non come sintomo di confusione e grossolanità ma come specchio del mondo che circonda gli uomini. Sabrina Sinis Università di Cagliari (Italy) sinis.sabrina@gmail.com 8 Per uno studio su catalogo e priamel in Marziale resta imprescindibile il contributo di Antonio LA PENNA, “L’oggetto come moltiplicatore di immagini. Uno studio su Priamel e catalogo in Marziale”, in «Maia» 44, 1992, pp. 7-44. Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569) https://rhesis.it/ Linguistics and Philology, 8.1: 176-183, 2017