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MARIA DOLORES GARCIA SANCHEZ, ANTONIETTA MARRA, GIULIA MURGIA, MAURO PALA, NICOLETTA
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International Journal
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8.2
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Università degli Studi di Cagliari
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Literature 8.2
ISSN: 2037-4569
© Copyright 2017
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Sede amministrativa: via Is Mirrionis, 1 – 09123, Cagliari
LITERATURE 8.2
CONTENTS
CONFERENCE PROCEEDINGS
6
Prefazione – A partire dalla Sardegna: una diversa geografia letteraria
MAURIZIO VIRDIS
8
La narrativa sarda recente: uno sguardo dall’interno
† GIULIO ANGIONI
17
Geostorica sarda. Produzione letteraria nella e nelle lingue di Sardegna
MAURIZIO VIRDIS
28
Dagli africani ai sardi, o viceversa. Undici e Ogni madre, di Savina Dolores Massa
SILVIA CONTARINI
38
Nuovi modi e forme di raccontare la Diversità in Mia figlia follia di Savina
Dolores Massa
MARGHERITA MARRAS
49
Raccontare l’isola immaginata dagli altri. Metarappresentazioni del particolarismo
culturale sardo nella narrativa contemporanea
GIULIANA PIAS
62
Classi popolari e subalternità. Alcune questioni sull’influenza di Gramsci nella
poetica di Pasolini attraverso L’Italiano è ladro
PAOLO DESOGUS
76
Poesia come isola: una lettura psicoanalitica della geografia di Antonella Anedda
MADDALENA BERGAMIN
91
Un’onda infranta? Considerazioni sulla parabola della nouvelle vague sarda
LAURA NIEDDU
103
Viaggio attraverso la grande disgregazione: antropologia e filologia gramsciane,
geografia e letteratura sarde
MAURO PALA
128
La «fonetica del sentimento» di Benvenuto Lobina: dal futurismo a Po Cantu
Biddanoa (e due poesie inedite)
GIULIA MURGIA
155
Come ci raccontiamo? Retoriche di un’identità narrata
SUSANNA PAULIS
STUDIES
171
Prime ipotesi di classificazione dei volgarizzamenti di area italiana del Libro di
Sidrac
PATRIZIA SERRA
204
L’incanto agiografico nella produzione in volgare. Il caso delle Considerazioni
sulle stimmate
MAURO BADAS
222
In search of a female identity: the suppressed mother in Elizabeth Bowen’s The
Last September
CLAUDIA CAO
237
Nel magazzino della evaporazione. Intertestualità apocalittica tra Guido Morselli
e Antonio Porta
IRENE PALLADINI
17
Geostorica sarda.
Produzione letteraria nella e nelle lingue di Sardegna
Maurizio Virdis
(Università di Cagliari)
Abstract
The question of a Sardinian literature and of a literary language begins to appear in the 16 th century and is
affirmed in the 18th. The 19th century shows a split, a schisis, in Sardinian intellectuality, which was divided
between loyalty to the Sardinian national values and the new Italian nationality. This fracture is still
unresolved, and also manifests itself in a diversified literary production: one in the Sardinian language, and
another one in an Italian mixed with Sardinian, so typical today of Sardinian nouvelle vague. The two
“tribes” often look at each other with mutual suspicion, without seeking a fruitful connection.
Key words – Sardinia; the language question; Sardinian literature; literatures of Sardinia
La questione di una letteratura e di una lingua letteraria sarda comincia ad apparire nel XVI secolo, e si
afferma nel secolo XVIII. L’Ottocento mostra una scissione, una schisi, all’interno dell’intellettualità
sarda, che si divide fra la fedeltà ai valori nazionali sardi e la nuova nazionalità italiana. Frattura tutt’oggi
irrisolta, che si manifesta anche in una diversificata produzione letteraria: in lingua sarda, e in un Italiano
mescidato di sardo, così proprio della nouvelle vague isolana odierna. Le due “tribù” spesso si guardano
con reciproco sospetto, senza cercare un fruttuoso punto d’incontro.
Parole chiave – Sardegna: questione della lingua; letteratura sarda; letterature di Sardegna
Scrivere in lingua sarda oggigiorno può essere, a seconda dei casi o dello sguardo
con cui si voglia guardare al fenomeno, un’operazione snob, oppure un atto di pervicace
ostinazione; un atteggiamento retrò, o, al contrario, un gesto di coraggio. E forse tutte, o
più d’una di queste cose insieme.
Adire alla “genuinità”, più profonda, di una cultura, ancorché “dialettale”? Marcare
una differenziazione identitaria? Tenere teso il filo della nazionalità (qualunque
connotazione, temporale/intemporale/atemporale, storica o astorica, si voglia dare alla
parola)? Ma è comunque una percezione e una nozione – quella di nazione – che in
Sardegna data almeno dal XVIII secolo, seppure, e ce ne sarebbe pure il tanto, non si
voglia risalire indietro al XVI secolo.
Scrivere in Sardo, comunque, significa innanzitutto stabilire un rapporto, sempre
complicato, con la lingua dominante. Con la sua semantica e la sua semiotica, con le sue
ideologie. E significa necessariamente fare i conti con la storia.
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La questione si estende su di un arco di tempo di alquanto ampia profondità ed
estensione: ed è sul metro di questa estensione che tale problema e tale problematica
vanno letti e compresi. Ed è una questione, questa, che ha una lunga vicenda dietro di
sé, che non si pone dunque nel puro oggi, ma che costeggia la storia, anche europea.
Non è dunque un’emergenza della cultura contemporanea, ma semmai una riemergenza,
in tempi e in termini nuovi, di una storia antica, accidentata e radicata. È il riproporsi di
una questione irrisolta.
Ecco allora: è da questa irrisoluzione, è a partire da essa che si deve guardare e
cercare di comprendere il senso della produzione in lingua sarda e il suo fondamento.
Che va compreso in un quadro specifico e particolare quale è quello odierno, quello
della situazione di attualità storica in cui ci troviamo; e in cui le istanze plurivoche
dell’attualità rendono il quadro complesso e intricato. Le istanze identitarie, intendo
dire. Il tutto in un quadro di complessa geografia culturale.
La cultura e la socialità sarda sono state e sono sottoposte a spinte diverse e
contrastanti, non è certo oggi la prima volta che ciò capita. Quanto meno l’epoca
spagnola, nella sua fase matura, sottoponeva la società sarda ad una scissione intima e
costitutiva, fra desiderio di assimilazione omologante ed emergenza della propria
specificità, anche sotto il profilo linguistico e letterario. E già dal XVI secolo vedeva per
la prima volta la luce, nell’Isola, una produzione letteraria in lingua sarda, accanto a una
produzione, pure di una qualche consistenza, in Spagnolo, oltre che una riflessione
umanistico-scientifica sulla Sardegna (mi limito a citare i nomi di Francesco Fara e di
Girolamo Araolla). Tale situazione di tensione, di duplicità e di scissione non fu certo
né speciale né unica, tutt’altro: così come avviene laddove vi sia stato e vi sia un
rapporto di potere asimmetrico e sbilanciato; e allorché vi sia e vi sia stato, come in
quell’epoca accadde ed oggi si ripropone, un radicamento nel “sé”, collettivo e
culturale, ed una elaborazione storica interna che autorifletteva su questo “sé” e sul suo
esser-ci: allora entro una geografia politica consistente in una costellazione federata di
regni, ciascuno con le proprie istituzioni, e tutti riuniti sotto la corona e la regia del
sovrano di Spagna, costellazione entro la quale l’aristocrazia locale ambiva ad acquisire
status anche attraverso la promozione della cultura locale, o direi meglio ‘propria’, da
accostare a quella iberica in un rapporto di parità, e di pari dignità con essa1; ed oggi
all’interno dello Stato italiano, in una dimensione e in una prospettiva di plurilinguismo
nazionale ed europeo.
Una costante pertanto. Ma il ripresentarsi nel tempo di una tale costante, porta, come
ovvio, differenza, perché l’oggi non è dunque l’ieri, evidentemente. Diversa è la
situazione storica, diversa la situazione e la collocazione della Sardegna nella geografia
culturale europea, e forse magari planetaria.
Ma scrivere in sardo oggi non è comunque un’operazione che salti fuori dal nulla,
non un’evenienza o un’emergenza dell’attualità, né tanto meno è un capriccio: è invece
qualcosa che scaturisce da un processo storico di lunga durata, e che si radica e si nutre
in un terreno predisposto, ancorché spesso obliterato: e di questa obliterazione si deve
necessariamente tener conto.
Cfr. Paolo MANINCHEDDA, “Nazionalismo, cosmopolitismo e provincialismo nella tradizione letteraria
della Sardegna (secc. XV-XVIII)”, «Revista de Filología Románica», 17 (2000), pp. 171-196, e ID., “La
letteratura del Cinquecento”, in Francesco MANCONI (a cura di), La Società sarda in età spagnola,
Cagliari, Edizioni del Consiglio Regionale della Sardegna, 1993, vol. II, pp. 56-65.
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La scrittura sarda odierna deve innanzitutto fare i conti con la questione della lingua,
quando se ne voglia comprendere la fenomenologia.
È nello scorcio del secolo XVIII che si pone per la prima volta in Sardegna, in
maniera cosciente e riflessa, il problema della lingua, uno fra gli intenti e degli obiettivi
primari dell’aspirazione e del tentativo di costituire una nazionalità sarda: tentativo che
metteva fra i due termini, lingua e nazione, il segno d’uguale. Tutto ciò in una
situazione che da molti punti di vista era di contrapposizione; e che vedeva la realtà
sarda ancora intrisa di una ispanicità linguistico culturale, che la politica sabauda
tendeva a stingere e a estinguere; ma in una Sardegna in cui pure permaneva il
sottofondo della produzione letteraria, e non solo, nella lingua locale: produzione forse
prevalentemente orale, ma di una oralità specifica e propria, caratterizzata da un grado
alquanto elevato di elaborazione retorica, come poi lo Spano, in maniera praticamente
indiretta, metterà in luce. Il che accadeva e si poneva in una situazione di sostanziale
diglossia. L’ispanicità era costituita, oltre che da una reminiscenza ancora attiva del
Castigliano, anche dalle istituzioni giuridico politiche ancora vigenti, e che i Sabaudi
tendevano a svalutare e a superare, ma sulle quali, per molti versi, si appuntava
l’attenzione e la memoria, magari con punte di nostalgia, da parte di chi, in una sorta di
cortocircuito à rébours, rivendicava ed elaborava, nella seconda metà del Settecento,
una nozione moderna di sardità2.
È in questo quadro di instabilità (politico-)glottologica, e comunque non lineare, che
si possono comprendere le istanze linguistiche e pure letterarie del secolo XVIII. La
Sardegna si trova a un incrocio linguistico in senso ampio, cui forse non era mai
sottostata. Essa si trovava posta all’incrocio fra queste lingue d’uso: il Sardo, lo
Spagnolo e l’Italiano (mettendo a parte il Latino naturalmente), ciascuna con il proprio
status e il proprio retroterra storico. Lo Spagnolo è il polo alto della diglossia, lingua
ancora compresa da strati diversi della popolazione e comunque ritenuta storicamente
propria; l’Italiano è di fatto lingua ancora straniera, propria della amministrazione e, via
via, della classe intellettuale indigena che si viene man mano (ri)costituendo su basi
nuove, ma che ha più che memoria del Castigliano quale lingua non solo della cultura,
ma anche espressione di ciò che esorbita dalla quotidianità pragmatica3; e infine il
Sardo, lingua tradizionale, e anch’essa storica, di tutte le classi sociali, polo basso di una
Sulla questione linguistica nel XVIII secolo si vedano Antonietta DETTORI, “Italiano e Sardo dal
Settecento al Novecento”, in Luigi BERLINGUER, Antonello MATTONE (a cura di), Storia d’Italia. Le
regioni dall’Unità a oggi. La Sardegna, Torino, Einaudi, 1998, pp. 1155-1197; e Maurizio VIRDIS, La
lingua batte dove il dente duole. Riflessioni sul nodo lingua-nazione in Sardegna, in Ignazio PUTZU,
Gabriella MAZZON (a cura di), Lingue, letterature, nazioni. Centri e periferie fra Europa e Mediterraneo,
Milano, FrancoAngeli, 2012, pp. 594-611. Sulla questione storico politica, si veda Luciano CARTA, La
“sarda rivoluzione”. Studi e ricerche sulla crisi politica in Sardegna tra Settecento e Ottocento, Cagliari,
Condaghes, 2001, pp. 28-29; ed inoltre, sulla posizione storico-giuridica del Regno di Sardegna in epoca
sabauda, sarà certamente da tenere in conto il lavoro di Italo BIROCCHI, “La questione autonomistica dalla
«fusione perfetta» al primo dopoguerra”, in Luigi BERLINGUER, Antonello MATTONE (a cura di), Storia
d’Italia. Le regioni dall’Unità a oggi. La Sardegna cit., pp. 133-199, segnatamente alle pp. 133-152. Per
una problematica più generale sulla scrittura letteraria in Srdegna, si veda Patrizia SERRA (a cura di),
Questioni di letteratura sarda. Un paradigma da definire, Milano, FrancoAngeli, 2012; per una
panoramica sulla letteratura in lingua sarda, si veda Salvatore TOLA, La letteratura in lingua sarda. Testi,
autori, vicende, Cagliari, CUEC, 2006.
3 Si veda, a tal proposito, Joaquín ARCE, España en Cerdeña, Aportación cultural y testimonios de su
influjo, Madrid, Centro Superior de Investigaciones Cientificas, Instituto “Geronimo Zurita”, 1960.
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situazione diglottica (o magari ‘triglottica’), ma non ancora ridotta a ‘dialetto’, almeno
non nel senso odierno del termine.
Questa situazione linguistica, posta a reagire con le istanze di rinnovamento
latamente illuministe e protoromantiche, sul finire del Settecento, e in un contesto, che è
primariamente europeo, di rivolta contro l’antico regime e che aspira a nuove forme di
governo, ma soprattutto di diversa aggregazione e identità sociale, produsse
composizioni nuove e forse inaspettate: la difesa della lingua sarda, cioè, «viene intesa
come difesa di un’identità nazionale, che il Madao ricerca e individua nelle espressioni
della poesia e dei canti popolari, riuscendo anche – anticipando concezioni che saranno
poi dei romantici – a stabilire una distinzione tra espressioni culturali popolari, che egli
è portato a considerare più genuinamente sarde, ed espressioni dei ceti più colti»4.
Nasceva insomma anche in Sardegna e per la Sardegna il concetto e l’idea di nazione 5:
di una nazione fondata primariamente sulla lingua, sulla lingua sua propria, la lingua
sarda, unico e solo vero elemento che per Matteo Madao poteva unificare tutti Sardi, di
tutti gli strati sociali e di ogni grado di acculturazione 6. Non solo, ma il Madao fondava
l’idea di nazione sarda anche sul dato letterario; forse basato non su di una idea di
letteratura quale potremmo intenderla noi oggi, ma su una letteratura in buona misura
folclorica7. E d’altra parte siamo in tempi pre-hegeliani, e soprattutto, l’idea di
letteratura popolare nella Sardegna, anche poi ottocentesca, è diversa da quella che si
sarebbe poi avuta nel resto d’Italia, come la posizione e l’opera di Giovanni Spano
dimostreranno8. Il confine fra poesia popolare e poesia colta è, o almeno era a
quell’epoca, in Sardegna, più labile che non altrove: da un lato sono diffuse, anche a
livello orale e popolare, forme poetiche complesse ed elaborate, dall’altro queste forme
non davano luogo ad un corpus formalizzato, fissato e stabilizzato in una scrittura
testuale; ma questo veniva tramandato eminentemente per via appunto orale o attraverso
un’editoria precaria. Fu questa la significativa confusione che oppose lo Spano ai
coordinatori delle raccolte italiane di poesia popolare, i quali giudicavano non popolari
le composizioni fornite dallo Spano, in quanto, appunto, altamente elaborate rispetto a
una poesia ‘spontanea’ (per così dire) che gli intellettuali di terraferma si aspettavano. Il
che testimonia una rimarcata peculiarità geostorica della Sardegna.
È a partire da qui che possono trovarsi, io credo, le ragioni e le radici della
produzione letteraria in lingua sarda, nelle epoche successive e fino ai nostri giorni,
attuali dell’oggi.
Gli stessi falsi d’Arborea, che truffaldinamente “regalavano” all’intellettualità sarda
un passato di luminosa cultura anche letteraria, espressa tanto in Italiano che in Sardo,
oltre che in Latino, pretendevano di porre le antichità letterarie sarde medievali al centro
4
Cfr. Girolamo SOTGIU, Storia della Sardegna sabauda, Roma-Bari, Laterza, 1984, p. 108.
Sulla nascita del “mito” della nazione sarda, si veda Aldo ACCARDO, La nascita del mito della nazione
sarda, Cagliari, AM&D Edizioni, 1996.
6
Cfr. Matteo MADAO, Saggio d’un’opera intitolata Il Ripulimento della lingua sarda lavorato sopra la
sua analogia colle due matrici lingue, la greca e la latina, Cagliari, Bernardo Titard, 1782.
7
Cfr. Matteo MADAO, Le armonie de’ Sardi, Cagliari, Stamperia Reale, 1787; rist. a cura di Cristina
LAVINIO, Nuoro, Ilisso, 1997.
8
Cfr. Giovanni SPANO, Canzoni popolari di Sardegna, a cura di Salvatore TOLA, 4 voll., Nuoro, Ilisso,
1999, e Alberto Maria CIRESE, Prefazione, in Giovanni SPANO, Canzoni popolari di Sardegna cit., vol. I,
pp. 11-39.
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del Mediterraneo e cioè, data l’epoca, al centro dell’Europa 9. Tali falsi, pur nella loro
falsità e – al di là dell’obiettivo iniziale e reale, che era l’imbroglio e la venalità –
blandivano il desiderio di tanta intellettualità sarda, che nella sua scissione storica e
culturale voleva essere e dirsi sarda e italiana in pari tempo: fu proprio questo dato che
fece scattare la molla dei falsari. Le Carte d’Arborea sono indicative dell’atteggiamento
di molti intellettuali isolani nei confronti del Risorgimento italiano. Costoro erano
spartiti fra il desiderio di un nazionalismo sardo quale eredità recente degli eventi di fine
Settecento, da un lato, e la costruzione della nuova nazione italiana di cui volevano
essere parte attiva, dall’altro, pur senza che nulla venisse loro sottratto delle idealità del
nazionalismo sardo del secolo precedente. Il che era dettato dalle nuove condizioni
politiche, venutesi a creare nel corso della prima metà dell’Ottocento, che imponevano
un controllo politico e censorio sull’attività intellettuale e sulle sue aspirazioni; per cui
pareva che l’unica maniera per salvare tali aspirazioni nazional-identitarie sarde fosse
quella di diluirle e stemperarle entro il nascente nazionalismo italiano. Tanto che ne
derivò una sorta di situazione schizofrenica, magari di una schizofrenia composta e
quieta, per cui si cercava la sardità entro l’italianità, o si pretendeva di comporre, quanto
più armonicamente fosse possibile, le due componenti di questa duplice polarità.
I tempi sono certo mutati e l’italianizzazione compiuta, oltre che a livello linguistico,
anche a livello letterario, e in genere multi-mediatico. Tuttavia la composizione della
suddetta, e più o meno inquieta, duplicità e finanche scissione intellettuale non pare
essere avvenuta. Il ricordo del passato più o meno sbiadito permane: più o meno
fortemente e più o meno consapevolmente. L’esigenza identitaria continua a permanere,
pur prendendo forme ed assumendo atteggiamenti diversi.
La situazione sociolinguistica odierna vede un progressivo ritrarsi del Sardo e,
parimenti alla diffusione dell’Italiano, la nascita dell’Italiano regionale di Sardegna, e
quella pure di molti codici fra gergali e slang, e di codici di un plurilinguismo variamente
mescidato: codici più o meno consapevoli e più o meno effimeri ed episodici. Molto
spesso è su questa mescidanza, con gradi e modi diversi di codificazione e di
elaborazione, che si esercita la scrittura letteraria di questi anni o decenni, di carattere
spesso sperimentale. Si è tante volte parlato, a questo proposito, di nouvelle vague sarda,
che attraverso la mescolanza più o meno stilizzata, e consapevolmente impiegata con
l’intento mimetico di riprodurre un parlato realmente in uso, assume e prende in carico
tali codici, quale segnale e magari manifesto di identità. E tuttavia, proprio da questo
punto di vista, il metodo e lo strumento pretesamente identitario, mostra, sotto questo
riguardo, il suo limite, che sta proprio nel suo impiego e nel suo intento mimetico
espressivo; il quale è retto da uno sguardo retrostante, e soprattutto da una parola che tale,
identitaria, non è, qualunque siano le, più o meno buone e sincere, intenzioni che la
muovono: è questa parola, questa voce a reggere il discorso da cui è veicolata la mimesi
linguistica; ed è questa voce, altra ed esterna, a darle la parola, e ad assumerne la regia. È
una volontà di rappresentazione dell’identità, o della specificità se si vuole, non
un’espressione primaria di essa, e tantomeno ne è un’affermazione. L’identità,
l’identitarietà, che, in letteratura almeno, passa eminentemente e inevitabilmente non solo
attraverso la lingua ma pure e soprattutto attraverso la semiosi discorsivo linguistica, resta
così oggetto dello sguardo, e non lo sguardo che vede, che osserva, che ordina. Essa resta
9
Sui falsi d’Arborea si veda Luciano MARROCU (a cura di), Le Carte d’Arborea. Falsi e falsari nella
Sardegna del XIX secolo, Cagliari, AM&D, 1997.
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sotto la tutela di una lingua e di un codice altro che se ne fa carico. È indice di una
geografia linguistico culturale costruita da e su di uno sguardo se non alieno certo
estrinseco, e non autonomamente costituita dall’interno.
È a partire da qui che si deve comprendere e valutare la produzione letteraria in
lingua sarda. Per vederla sotto la plurivoca problematica che essa propone.
Certamente tale produzione può apparire un fenomeno residuale, marginale, e forse
pure inattuale. Pochi sono i suoi lettori; praticamente nulla, o quasi, la risonanza che
desta nell’ambito dell’informazione e della pubblicistica culturale letteraria, della
critica; scarsa o nulla l’attenzione degli addetti ai lavori e della comunità scientifica.
Tutto ciò al contrario di quell’altro tipo di produzione di cui appena s’è detto, quella che
impiega la mescidazione linguistica, che, invece, e comprensibilmente e ad ogni buon
diritto si può e si deve dire, suscita curiosità e riflessione intellettuale, aprendo scenari
di problematicità letteraria e parimenti linguistica, suscitando dibattito di idee e di
ragionamento critico.
Tale disparità di attenzione ben si spiega. Prima di tutto va messa in conto la sempre
minore capacità, fra i lettori colti ed esperti ed anche fra gli addetti ai lavori, anzi forse
proprio fra di essi, di saper leggere un testo sardo, specie se elaborato ed esorbitante dalla
pragmaticità usuale e dagli stilemi ed idiomatismi più tradizionali e tràditi, con in più il
carico della variazione linguistica in diatopia che rende ancor più difficile, da parte del
lettore, la fruizione di un testo scritto in una variante locale diversa dalla sua. Ma c’è – e
certo, io credo, ancor di più – il pregiudizio della “dialettalità”. Il pregiudizio, cioè, che un
testo in Sardo, proprio in quanto tale, appartenga alla sfera (ultra)localistica, magari
prossima al (neo)folclore, e quindi, di per se stesso, di valore inferiore, e che esprime,
necessariamente o quasi, valori superati e fuori tempo. Pertanto, incapacità di lettura e
pregiudizio culturale entrano fra loro in cortocircuito, producendo illeggibilità, rifiuto e
rigetto, o al massimo, per bene che vada, sguardo compiacente.
Un quadro del genere dovrebbe dunque portare a definire pressoché inutile
l’operazione dello scrivere, letterariamente, in Sardo, operazione limitata nella ricezione
e dunque marginale nelle funzioni socioletterarie e più latamente culturali. E tuttavia
questa produzione, o meglio l’insieme dei due tipi di produzione letteraria in Sardegna
(quella in lingua sarda e quella che usa l’italiano fortemente connotato di sardità in
funzione mimetico-espressiva), fanno parte di quella scissione storica di cui parlavamo
prima, e che si è generata nell’Ottocento. Quel voler essere sardi e italiani parimenti e in
un medesimo tempo, sebbene ciascuno o ciascun gruppo in maniera diversa. Se gli uni,
da una parte, esprimono la sardità come fattore eminentemente mimetico: la sardità
come oggetto di osservazione, retta da una parola che è italiana; gli altri, da parte loro e
al contrario, si esprimono direttamente tramite una scrittura in Sardo, magari in maniera
improbabilmente o solo parzialmente mimetica, ma in una modalità comunque retta,
impostata e diretta da una voce propria. Quest’ultimo aspetto può essere non negativo in
se stesso, dato che non ogni rappresentazione narrativa è/deve essere mimeticamente
impostata; la rappresentazione può essere filtrata dalla voce del narratore, che aggira
quella dei personaggi, né si accomuna con essi.
È allora a partire da qui, e dunque prescindendo dalla marginalità di questa produzione,
che quest’ultima acquisisce un senso. Un senso di insoddisfazione relativo ad una
rappresentazione della sardità che non sia fatta in Sardo, ma devoluta ad altre tipologie di
espressione, nel fluttuare, ormai di lunga e plurisecolare, durata fra i due poli, quello sardo
e quello esterno, fluttuazione in cui il secondo dei due poli non sempre è stato il
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medesimo, spagnolo prima e poi italiano. Se la produzione della cosiddetta nouvelle
vague sarda10, presa nel suo complesso e prescindendo dalle pur variegate soluzioni dei
singoli, trovava, entro questo moto pendolare, un punto di equilibrio nella soluzione
stilistico linguistica che abbiamo visto, e che consiste nell’operazione espressiva di un
italiano fortemente connotato di regionalità con valenza stilistico-mimetica, e in linea con
altre consimili esperienze italiane, e certo non solo (ciò che l’ha imposta a un’attenzione
che oltrepassa i confini isolani regionali, per giungere all’attenzione nazionale ed
internazionale); l’altra soluzione, apparentemente tradizionale, ma a mio avviso
sperimentale e fortemente innovativa, esprime l’insoddisfazione – diretta o indiretta,
consapevole o inconsapevole, ideologica o libera – nei confronti sia di una parola
giudicata e sentita come esogena, allolinguistica ed eteronoma, sia nei confronti di un
mimetismo che resta appunto tale, e dietro il quale si cela, ma ne fa più che capolino,
un’istanza diegetica ‘non-propria’ e forse impropria. Tale soluzione-reazione si condanna
così ad una ricezione limitata, di nicchia, underground, al più, rimanendo soddisfatta di
essa e in essa, nell’ambito di una ristretta geografia letteraria.
Ma tale soluzione può essere un lievito o un germe da non trascurare e da far
germogliare quando e qualora ve ne siano le condizioni, le quali, ovviamente, non
possono essere solo di ambito letterario, ma più in generale sociale e politico culturale, è
ben ovvio. Oppure può essere solo un conato, un’aspirazione e un auspicio votato forse
al fallimento, al pio desiderio, magari nobile ma fuori tempo, residuale e in ultima
analisi insignificante. Ma ci sono altre possibilità e altre sfumature, altri percorsi,
magari non lineari, magari non immediati e che richiedono sistemazione elaborante,
considerazione, riflessione e concentrazione.
Innanzitutto, potremmo dire, anche ingenuamente, che questa produzione, e intendo
ora in particolare riferirmi a quella più recente e in prosa (penso a narratori quali Lobina,
Falconi, Alcioni-Pala, Ladu, Pintore, Carlini, Pillonca) raggiunge livelli di buona qualità
ed ha dunque tutte le carte in regola per esser presa in considerazione da uno sguardo
critico e storico letterario, anche perché guarda la Sardegna e la sua ‘cultura’ con sguardo
semioticamente interno, e non solo come oggetto problematico da comprendere.
Altro pure si può e si deve aggiungere in un discorso più generale e rivolto alle
dinamiche letterarie. Una produzione di tal genere ha tutti i limiti oggettivi che abbiamo
visto: scarsa e difficile ricezione soprattutto, e quindi circoscritta visibilità, e per di più
in un contesto socioletterario scarsamente ad essa predisposto; essa, è vero, non è né
inesistente né a-valutabile, ma è altrettanto vero che, riguardo ad essa, tale difficoltà
ricettiva determina la disattenzione da parte delle istanze di giudizio e di valutazione di
una geografia letteraria più vasta; in una specie di circolo vizioso, inconcludente e
irresolubile, e la cui eventuale risoluzione, se mai ci sarà, esorbita, come appena detto,
dall’ambito strettamente letterario. Ma una produzione letteraria di tal genere resta pur
tuttavia un dato di fatto all’interno di una identità plurima. Porla in senso
contrappositivo sarebbe inutile e sterile, porla come emblema della ‘vera’ sardità
sarebbe sciocco e certamente fuori dal contesto culturale non solo italiano, ma direi pure
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Sul fenomeno della nuova produzione letteraria sarda si veda Amalia Maria AMENDOLA, L’isola che
sorprende. La narrativa sarda in italiano (1974-2006), Cagliari, CUEC, 2006; Margherita MARRAS,
“Dall’Ottocento ai nostri giorni: la parabola del romanzo a tema storico in Sardegna tra coloniale e
postcoloniale”, in Patrizia SERRA (a cura di), Questioni di letteratura sarda, pp. 195-214. Per un dibattito
più generale sulla questione si può vedere Silvia CONTARINI, Margherita MARRAS, Giuliana PIAS (a cura di),
L’identità sarda del XXI secolo tra globale, locale e postcoloniale, Nuoro, Il Maestrale, 2012.
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europeo e magari, se vogliamo, globale. Porla invece come elemento di una cultura
plurivoca, che sia inter- ed intra- dialogante, che ne riconosca il valore e le radici
storiche che la generano, sarebbe azione sensata. Si tratterebbe in pratica di istituire un
continuum di duplice valenza: sincronica e diacronica.
Sincronicamente significherebbe istituire e riconoscere una continuità e una
completezza interna alla cultura sarda, considerandone la complessità propria ed
intrinseca: riconoscere che vi è un gradazione linguistica sul filo appunto di un
continuum; amputare questa complessità significherebbe non soltanto recidere le radici
di essa, ma anche deprivarla di una possibilità ed effettualità in atto; impedire od
occultare il patrimonio plurilinguistico che essa possiede, nel senso della gamma e della
tastiera delle sue possibilità espressive; tenerla in debita considerazione significherebbe
invece dare visibilità a quello sguardo dall’interno, linguisticamente intradiegetico, che
dall’interno parla ed agisce la lingua, assumendola primariamente su di sé, e non come
mimesi di un dato linguistico oggettivamente osservato ed esteriormente assunto.
Diacronicamente significherebbe tenere vivo uno di quei poli di quello sdoppiamento
storico di cui si parlava innanzi, uno di quei siti in cui si acqueta la divisione e
l’insoddisfazione di una doppia e spesso irrisolta appartenenza di cui pure si diceva; al
fine comporre questa duplicità nella sintesi (se non proprio personale individuale, certo
sì, laddove possibile, almeno socioculturale); significherebbe mantenere vive le
diramazioni plurivoche che ne derivano.
Il tutto, sia sincronicamente che diacronicamente, eliminerebbe la frattura che si era
generata nel secolo XIX, come abbiamo visto. Se, naturalmente, le cose siano poste per
il verso giusto.
Le due “tribù”, infatti – quella sardofona/sardografa e quella che impiega l’italiano
più o meno connotato di sardità – assai spesso si guardano con diffidenza e reciproco
sospetto. I primi accusano più o meno dichiaratamente i secondi di aver tradito e di
continuare a tradire l’essenza e la proprietà intima della sardità: la sua lingua in sostanza
e il pensiero che ne promana; i secondi, con miglior gioco, e per le ragioni più volte
dette, rimproverano agli altri di compiere un’azione culturale di retroguardia, sterile e
nostalgica, ai limiti del folclorismo, facendo uso di una lingua perenta e alla lunga
destinata a scomparire, e forse, ad avviso di più d’uno di essi, incapace di poter
esprimere la modernità. I due “poli” storicamente creatisi, e frutto pertanto della
specificità originale della storia della Sardegna e della sua peculiare geografia storica,
frutto postumo di quella irrisolta scissione culturale e politica, più o meno cosciente
nell’intellettualità sarda, ma pur sempre e comunque latente, ancorché e allorché
rimossa, potrebbero trovare non soltanto una convivenza, ma anche una armonica
composizione. Intanto se cominciassero a parlarsi. E se si parlassero cominciando ad
assumere, con reciproca conoscenza e attenzione, la consapevolezza dei tempi nuovi e
della loro forma storica. Intanto disincrostando ogni residuo otto-novecentesco, a partire
dall’idea di nazione concepita in maniera contrappositiva. E questo da entrambe le parti:
da parte dei sardografi, che spesso coltivano la frustrazione della nazione
ottocentescamente concepita e mancata; da parte degli italografi che considerano
dialettale e residuale la produzione in lingua sarda, e in sostanza non veramente
nazionale nel senso moderno del termine, e comunque non moderna tout court.
Una prospettiva che vedesse la forma attuale della storia, dovrebbe schivare entrambi
questi scogli. Dovrebbe appunto vedere il continuum di una cultura complessa, come
anche quella sarda è; dovrebbe prestare attenzione all’interazione di istanze diverse e
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dialettiche ma non intrinsecamente né necessariamente confliggenti; dovrebbe scorgere
l’aspetto prismatico e magari frattale (va di moda dirlo…) che ogni istanza identitaria
presenta e con cui ed in cui essa si manifesta: aspetto non lineare né piano. L’inverso
sarebbe, da entrambe le parti, la caduta nella sfera dell’ideologia, e dunque della
semplificazione fallace. E tutto ciò non deve valere soltanto in senso antropodemologico, per importante e imprescindibile che esso pur sia, ma anche, e per quanto
qui concerne, nel senso della lingua e della poetica letteraria.
Ci si dovrebbe render conto che la produzione sardofona/sardografa, attuale e in
prosa, ha un valore sperimentale notevole, in quanto essa sonda territori linguistico
espressivi e semantici fin qui non ancora verificati, e che essa ha un valore che funge
non solo da supporto, ma anche da sostrato, all’attività italografa che vuol dirsi, magari
compiacendosene, meticcia, e assai spesso anche non a torto. Tale produzione
costituisce non già, o comunque non solo, la fin troppo retoricamente abusata radice
storica che continua a sviluppare e a svilupparsi, ma costituisce invece quel substrato
senza il quale non vi sarebbe meticciato reale, o comunque, senza il quale verrebbe a
mancare o ad esserne occultata o sottratta una sua componente essenziale, grazie alla
quale esso vive. Le operazioni di ibridazione hanno e mantengono il loro senso se non
diventano una moda o una scappatoia, che tante volte è più politica che letteraria, ma se
si fanno espressione di una complessità. Certo nessuno può prevedere quali saranno gli
sviluppi linguistici, in senso ampio e dunque anche letterario, in Sardegna (e non solo),
ma prenderne in carico tale sua specifica complessità, poter mantenere un continuum
interiorizzato e non mutilato, sarebbe azione auspicabile e proficua. La corsa e la
rincorsa all’omologazione è perniciosa ovunque, il confronto aperto e non scontroso è
comunque latore di frutto positivo.
E si può anche seguire e prestare attenzione alla formazione di nuovi codici, tanto
quelli linguistici quanto quelli letterari che ne derivano, nel senso che la letteratura
impiega questi nuovi codici linguistici all’interno della propria attività creatrice, ma in
modo per lo più stilizzato e, come già dicevo, per lo più mimetico.
Una produzione che si limiti a fotografare, pur con tutte le ‘distorsioni’, una situazione
linguistica di fatto, senza caricarsela su di sé e senza appropriarsene, ha pure il suo valore
di focalizzazione, di rappresentazione e di comunicazione, ma non può che rimanere
estrinseca. Quel che magari si auspicherebbe vedere invece sarebbe l’impiego di tali
codici, i nuovi codici mescidati e connotati, i nuovi slang, in funzione diretta e primaria, e,
nel caso della produzione narrativa, anche e soprattutto in funzione e quale espressione
della regia diegetica, o meglio del pensiero che la muove. Si tratterebbe di portare a
nascita reale, attraverso questo idioma ‘di mezzo’, quel continuum linguistico, letterario e
semiotico, di cui si diceva; di renderlo tangibile, operante e soprattutto autonomo agente
soggettivo: sì che i vulgares diventino eloquentes. Sarebbe instaurare un trait d’union
entro la schisi sarda, i cui opposti e contrapposti poli, lungi dall’ammutolirsi, dovrebbero
e potrebbero continuare il loro saper e il loro voler dire, in armonica complessità e in
felice aggregazione. Rendendo produttiva e fortunata, e non dunque malata e perversa,
questa scissione, trovando un metodo e un senno in tale follia.
Ma tutto questo sarà, se lo sarà, per la storia prossima ventura. In una geografia dai
margini magari più ampi e in maggior continuità col mondo universo. Ma pur sempre
nella geografia di sempre.
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Maurizio Virdis
Università di Cagliari (Italia)
virdis@unica.it
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