Nothing Special   »   [go: up one dir, main page]

Slide Le Mani Sul Cuore

Scarica in formato pdf o txt
Scarica in formato pdf o txt
Sei sulla pagina 1di 93

LE MANI SUL CUORE

Pedagogia e biopolitiche
del lavoro
Oggetto di studio

Il rapporto tra il lavoro produttivo di


marca industriale e le così dette
biopolitiche del lavoro.
Perché il lavoro
industriale?
• Per l’architettura organizzativa
strutturata che esso presenta;
• Perché offre uno sfondo
antropologico comune;
• Per il suo essere paradigma sociale e
socializzante.
Il lavoro invenzione
della modernità
«Ciò che noi chiamiamo ‘lavoro’ è un’invenzione della modernità.
La forma in cui lo conosciamo, lo pratichiamo e lo poniamo al
centro della vita individuale e sociale, è stata inventata e
successivamente generalizzata con l’industrialismo» e le sue
caratteristiche, a muovere dal lavoro salariato, sono quelle di
essere «un’attività richiesta […] e riconosciuta utile da altri»,
quindi remunerata e «che si svolge in una sfera pubblica»,
attraverso la quale «acquisiamo un’esistenza e un’identità
sociale». A. GORZ, Metamorfosi del lavoro. Critica della ragione
economica, trad. it., Bollati Boringhieri, Torino, 1992, p. 21.
Le caratteristiche del
lavoro post-fordista
1. In primo luogo, si può affermare che,
rispetto al fordismo, cambia il rapporto
dell’uomo con la macchina.
Le caratteristiche del
lavoro post-fordista
2. In secondo luogo, cambia il modo di
produrre (dalla produzione di massa alla lean
production).
Le caratteristiche del
lavoro post-fordista
3. In terzo luogo, cambia la natura stessa della
prestazione. Contrariamente alla mansione
tayloriana, il ruolo si interfaccia con
aspettative di intraprendenza, flessibilità e
relazionalità connesse con una specifica trama
interpersonale e, in aggiunta, esige
un’integrazione di più compiti.
Le caratteristiche del
lavoro post-fordista
4. In quarto luogo, cambia e si dilata lo
spazio d’interazione lavorativa e
collaborativa (imprese-reti e
outsourcing).
Le caratteristiche del
lavoro post-fordista
5. In quinto luogo, cambia la relazione con
la clientela (da estranea ai processi si
inserisce significativamente in essi).
Le caratteristiche del
lavoro post-fordista
6. In sesto luogo, cambia la “disponibilità lavorativa” del
dipendente (condizionata dalle innovazioni tecnologiche,
dalla globalizzazione, dalla pervasività dei flussi
informativi e comunicativi, dalla così detta economia della
conoscenza, dal team work, dalla premura costante della
competitività, dalla focalizzazione sul ruolo, dal
confronto diretto e indiretto con i clienti e i fornitori,
ecc.).
Facciamo un passo
indietro: la rigidità
fordista
• 1) Razionalità organizzativa (Taylor)
• 2) Mass production – economia di scala (il mercato è
tendenzialmente illimitato e vorace e, in quanto tale,
maggiori sono i beni ivi immessi, maggiori sono le
possibilità di riassorbire i costi e abbassare i prezzi
al pubblico, generando all’infinito nuova domanda)
• 3) Move the metal
Dalla rigidità alla
flessibilità –
Le ragioni una crisi
. Il mercato dei beni di massa andò
incontro ad una densa saturazione
che si portò dietro stagnazione
produttiva (con annessa
disoccupazione) e decremento dei Pil
nazionali
Dalla rigidità alla
flessibilità –
Le ragioni una crisi

. Ostacoli nel rinvenimento delle


materie prime (shock petrolifero e
sfruttamento risorse naturali)
Dalla rigidità alla
flessibilità –
Le ragioni una crisi

. Movimenti sociali di protesta nei


confronti della vita di fabbrica
Dalla rigidità alla
flessibilità –
Le ragioni una crisi

. Cambiamento delle esigenze


consumistiche
Dalla rigidità alla
flessibilità –
Le ragioni una crisi
. L’incipiente internazionalizzazione dei
mercati, insieme alle predetta
saturazione e alle predette esigenze,
incominciò a spingere verso l’aggancio a
tecnologie innovative abili a tenere testa
alle modificazioni di contesto e consumo,
in opposizione alle tecnologie fordiste
Dalla rigidità alla
flessibilità –
Le ragioni una crisi

. Insostenibilità delle spese legate al


welfare connesso con la società del
lavoro fordista
Prime risposte – metà
Settanta/anni Ottanta
1. Accorpamento tra imprese per attenuare gli oneri
recessivi;
2. spostamento in zone geografiche parzialmente o
totalmente libere dalla lotta operaia e dalla tutela
sindacale;
3. investimento su linee produttive originali;
4. aggressione di nicchie di mercato;
5. impiego delle novità tecnologiche.
Seconde risposte - dagli
anni Novanta

1. Post guerra fredda e apertura di nuovi


mercati;
2. sviluppo tecnologie infocom;
3. globalizzazione;
4. evoluzione radicale dei bisogni consumistici;
5. imprese-reti, outsourcing, delocalizzazione,
affinamento tecnologico, “produzione snella”.
Risposte flessibili

Dal punto di vista strettamente


lavorativo…
1. Importazione del JIT e sua fusione con
un nucleo tecnologico aperto.
JIT e sprechi
Il Jit è «un sistema produttivo che garantisce
la continua e perfetta simmetria tra l’offerta
dei beni prodotti e la domanda che proviene dal
mercato». Al contrario di quello fordista, che è
un sistema push che «procede ‘per spinta’ da
monte a valle», è quindi un sistema pull che
consente «aggiustamenti continui alle
fluttuazioni della domanda che ‘tira’ la
produzione».
JIT e sprechi
Alla sua base si situa l’eliminazione dello spreco. Nella
filosofia giapponese, con spreco non si intende soltanto
l’abbattimento dei costi o la riduzione di quell’opulenza
di risorse che facevano della fabbrica fordista
un’«officina ridondante», bensì la pulsione all’essenziale,
dunque pure l’annullamento dei magazzini di stoccaggio,
dei tempi morti di attesa, degli spostamenti inutili, di
spazi e capitali immobilizzati, delle manutenzioni
eseguite in vista di un ipotetico guasto, degli incarichi
di controllo superflui.
Risposte flessibili

Dal punto di vista strettamente


lavorativo…
2. JIT, tecnologie e coordinamento
orizzontale
Riflessi orizzontali
Il JIT, unitamente all’alta tecnologia, impone il passaggio:

- dal governo centralizzato ad autonomi gruppi poli-competenti ed


interrelati che agiscono responsabilmente per traguardare obiettivi
interiorizzati e coerenti con quelli complessivi dell’azienda;
- dalla gerarchia verticale alla “gerarchia piatta” o gerarchia compressa;
- dalla mono-dimensionalità routinante e l’isolamento silenzioso della
mansione alla suddetta integrazione dei compiti e alla necessità di un
incessante dialogo intersoggettivo ed intra/inter-gruppale;
- dall’esecuzione “secca” a un’esecuzione corredata di riflessione
individuale e collettiva al fine di condividerne i problemi (finding e
solving) e pro-agire nell’ottica del miglioramento continuo;
- dalla conoscenza codificata, trasmessa ad imbuto dal management, alla
conoscenza negoziata.
Risposte flessibili
Dal punto di vista strettamente lavorativo… se fin qui abbiamo
potuto ricomprendere i cambiamenti del rapporto con la macchina,
del modo di produrre e della prestazione, e se abbiamo potuto
ampliare, senza esaurirlo, il senso del cambiamento della
“disponibilità lavorativa” del dipendente (senza contare il surplus
informativo che deriverà dai due punti seguenti), è doveroso
concentrarci più da vicino sulla relazione con la clientela e sulla
dilatazione dello spazio d’interazione.
3. Interazione con la clientela (customer satisfaction, interfaccia
informatiche, luoghi reali e virtuali di ascolto, configuratori di
prodotti, service, assistenza … attention economy – collimazione
tra domanda e offerta)
Risposte flessibili

4. Morfologia reticolare dell’impresa post-


fordista (dal gigantismo edilizio a dimensioni più
contenute, forma a network, occupazione di più
territori e sfruttamento delle loro risorse, core
business interno e piccole/medie imprese
esterne…)
In sintesi, la flessibilità
come….
Flessibilità tecno-produttiva,
flessibilità organizzativa,
flessibilità comunicativo-interattiva,
flessibilità architettonica
flessibilità spazio-gestionale.
Ancora più in breve, riassumendo, eccetto quella
architettonica,
Flessibilità tecno-produttiva e organizzativa
Fare ed essere

Le innovazioni predette - in testa


quella tecnologica, l’avvento del
mercato globale e le trasformazioni
organizzative – «favoriscono la
ricerca di una feconda unione tra
fare e essere» nei contesti di lavoro.
Fare ed essere: il valore
dell’immateriale
. La conoscenza rappresenta un atout
imprescindibile (lavoro cognitivo,
apprendimento continuo, kaizen come
impegno intellettuale in primis,
conoscenza co-costruita in azione,
riflessione individuale e comune,
esplicitazione del tacito, riflessività
e creatività)
Fare ed essere: il valore
dell’immateriale
. La dimensione psico-emotiva
(presenza psicologica, impegno
emotivo sul piano intrapersonale,
delle differenze individuali,
interpersonale, gruppale e dell’intera
organizzazione)
Fare ed essere: il valore
dell’immateriale

. Forze espressive e cooperative


alimentate dal vissuto (citazione
Gorz)
Fare ed essere: il valore
dell’immateriale

. Il bisogno di personalità
autonome e responsabili
Spazi di educabilità

Si aprono inediti spazi di educabilità -


che sembrano preludere all’eventualità di
appagare un duplice interesse (aziendale
e personale) – e questa apertura è
supportata dalla richiesta di
implementare nel lavoro…
Spazi di educabilità e
competenze

1) Competenze apprenditive, meta-apprenditive
(apprendere ad apprendere), riflessive e creative;
2) competenze comunicative, emotive, etiche e
interculturali;
3) competenze per così dire di auto-fiducia (emersione
e consolidamento della fiducia in sé e nei poteri
autonomi), discrezionali (che richiamano quelle etiche
in senso lato per la responsabilità dell’agire), valutative
ed auto-valutative, organizzative ed auto-
organizzative.
Il dilemma
«Il vero dilemma che impone l’attualità del lavoro post-
fordista non è l’individuare spazi di educabilità, che ad ogni
modo si appalesano nitidamente, né il trovare impedimenti
ad una certa propensione formativa, giacché c’è e cresce
pur con le sue pecche e i suoi ritardi eminentemente italiani,
e non è nemmeno il disconoscere l’importanza di avanzare
sul fronte dell’integralità formativa, poiché è un’occorrenza
inscritta nel Dna dell’impresa moderna, bensì è il discernere
il percorso di senso che siffatti spazi ed intraprese
spalancano alla persona nel lavoro e, di riflesso,
nell’apprendimento e nella formazione non formale e
formale. Il dilemma è il senso che acquisisce il lavoro per
la persona.
Il dilemma

«Il dilemma, quindi, non


riguarda il che cosa
succede nel lavoro e per
il lavoro di oggi, ma
perché, con quale fine».
Regolazione

La regolazione svolge una «funzione


poietica» nei confronti
dell’“economico”, ne argina i risvolti
viziosi e ne stabilizza i processi
rendendoli accettabili (F. Chicchi).
Regolazione fordista
Il patto sociale o compromesso fordista:
1) «adesione alla teoria economica keinesiana, tesa
all’interventismo statale in economia e
all’occupazione piena;
2) consolidamento occupazionale mediante il “posto
fisso” e sua razionalizzazione (tayloristica);
3) distinzione tra inattivi parziali o totali, che sono
comunque da recuperare e integrare con strumenti
ad hoc, ed attivi;
Regolazione fordista
Il patto sociale o compromesso fordista:
1) «adesione alla teoria economica keinesiana, tesa
all’interventismo statale in economia e
all’occupazione piena;
2) consolidamento occupazionale mediante il “posto
fisso” e sua razionalizzazione (tayloristica);
3) distinzione tra inattivi parziali o totali, che sono
comunque da recuperare e integrare con strumenti
ad hoc, ed attivi;
Regolazione fordista
4) «abbattimento della barriera tipica della prima fase
della rivoluzione industriale tra produttori e
consumatori, grazie alla redistribuzione del reddito e
all’aumento del potere d’acquisto delle masse lavoratrici,
e quindi supporto al consumo assicurato dai salariati;
5) legittimazione pubblica e formale della posizione e
della funzione sociale del lavoratore per mezzo del
diritto del lavoro;
6) riconoscimento del ruolo svolto dai sindacati;
Regolazione fordista
7) creazione del welfare state ed opportunità, per gli
attivi, di accedere a servizi pubblici (assistenza
sanitaria, istruzione, previdenza, ecc.)».

Cfr. Cfr. R. CASTEL, Les métamorphes de la question


sociale. Une chronique du salariat, Fayard, Paris, 1995,
pp. 525-547, F. CHICCHI, Lavoro e capitale simbolico.
Una ricerca empirica sul lavoro operaio nella società
post-fordista, cit., p. 21 e M. REVELLI, Oltre il
Novecento. La politica, le ideologie e le insidie del
lavoro, cit., p. 62.
Dalla regolazione alla
deregolazione
Visti i fattori di crisi illustrati in precedenza, il
capitalismo abbandonò la regolazione per la
deregolazione. Nell’arco di un quarantennio, quindi, si è
transitati:
1) «dal keynesismo al neo-liberismo, centrato sulla
supposta efficacia auto-regolativa dei mercati, con
annessa e graduale privatizzazione delle imprese
dapprima sottoposte al controllo statale;
2) dalla curvatura sui diritti del lavoro alla
deregolamentazione degli stessi;
Dalla regolazione alla
deregolazione

3) dalla rilevanza della mediazione sindacale alla


graduale deistituzionalizzazione dei sindacati;

4) dal welfare state al suo lento ma intenso


smantellamento».
Ipertrofia della sfera
finanziaria

Inoltre, visti l’insuccesso in cui s’imbatté la mass


production, la recessione che seguì, l’incapacità, ormai,
dell’economia reale di fornire tassi di profitto
soddisfacenti e considerato che
l’internazionalizzazione si prestava all’ingaggio di un
precipuo campo speculativo, si è assistito pure
all’ipertrofia dell’economia finanziaria, che negli anni
ha conquistato sempre più autonomia.
Un mutamento epocale

Il ripensarsi del capitalismo nell’uscita dal


fordismo non si alimenta soltanto di
tecnologie all’avanguardia e di rinnovate
modalità organizzativo-produttive, ma di
un’inversione di marcia che al contempo le
sostiene e le trascende, apportando un
mutamento epocale.
Un’altra flessibilità

Una delle prime conseguenze della logica


deregolativa dal punto di vista strettamente
lavorativo è la flessibilità occupazionale o
numerica, ovvero la variazione del numero
degli occupati in base all’andamento
produttivo.
Deregolazione
occupazionale
«Dal punto di vista della deregolazione
occupazionale non è che la precarietà e la
disoccupazione non siano avvertite come
problemi. È che sono problemi secondari
rispetto a quelli che riguardano l’elasticità dei
mercati, per esempio. Deregolamentare e
deistituzionalizzare, in fin dei conti, serve a
estinguere sullo sfondo quelle costrizioni sociali
che, nei casi di depressione economica,
osteggiano il conveniente disfarsi di quello che
è in eccedenza, inclusa la manodopera».
Deregolare e
deistituzionalizzare
Deregolamentare e deistituzionalizzare serve
ad affrancare l’azione capitalista, l’incedere
senza freni dell’agire economico, mentre la
disoccupazione assurge paradossalmente ad
«effetto virtuoso dovuto alla efficienza dei
mercati liberati dai lacci e lacciuoli di natura
sociale».
Cfr. F. CHICCHI, Lavoro e capitale simbolico. Una
ricerca empirica sul lavoro operaio nella società
post-fordista, cit., p. 37. Cfr. pensiero Gallino e
Bauman
Deregolazione,
deistituzionalizzazione
e politica

-Tendenze politiche nell’era neoliberista


- Dominazione economica e complicità
- Solitudine del lavoratore
Crucialità della merce e
solidarietà intaccata
Il mondo del lavoro totale fordista e la
crucialità simbolica della merce secondo Revelli,
la quale tende a mercificare il reale e i legami
umani.
Di contro persiste la solidarietà del gruppo
omogeneo nel lavoro, alimentata dalle ingiustizie
e dalle fatiche patite.
Precarietà e solidarietà
annientata
- Tripartizione antropologica arendtiana (animal
laborans, homo fabre, zoon politikon) e lettura di
M. Miegge.
- Il ruolo della precarietà nel vanificare le
motivazioni d’ordine interattivo e, quindi, nel
frantumare la solidarietà del gruppo omogeneo.
- Il disegno politico della precarietà secondo Gallino:
l’eliminazione della solidarietà di classe a livello
globale (conflitto intersoggettivo acuito dalla
globalizzazione).
Risvolti psico-identitari
della precarietà
La costruzione identitaria e il suo divenire è naturalmente ostacolato
dalla precarietà dei legami.
Inoltre, le riflessioni di G. Lipovetsky e J. Serroy aiutano a
comprendere meglio l’insicurezza del lavoratore:
«avvalorando l’idea che il successo o lo smacco in fatto di competenza
dipendano del tutto dall’individuo in prima persona, l’impresa post-
taylorista suscita angoscia, disistima e sottovalutazione di sé» e, in un
ambiente in cui le pressioni del breve termine crescono
incessantemente unitamente a quelle della flessibilità salariale (la
variazione del costo del lavoro a seconda delle personali modalità di
partecipazione produttiva), «gli individui vivono con il timore della
valutazione permanente e con la paura di non essere all’altezza delle
esigenze dell’impresa».
Risvolti psico-identitari
della precarietà
Il dileguarsi dell’appiglio solidale acutizza una fragilità
post-fordisticamente endogena (altrimenti
interpretabile con la suddetta ansia da “presenza”, da
collaborazione e da integrazione dei compiti), e, se non
bastasse, il dileguarsi di questo appiglio nelle sue vesti
di prassi politica, tornando quasi beffardamente alla
causa principe, fa affrontare la spada di Damocle della
precarietà con «un sentimento di umiliazione e un senso
di colpa personale». Cfr. G. LIPOVETSKY, J. SERROY, La
cultura-mondo. Risposta a una società disorientata, trad.
it., O barra O, Milano, 2010, pp. 36-37.
Risvolti operativi della
precarietà
La precarietà, la disoccupazione,
ovviamente frammentano i tempi e gli
spazi e impediscono paradossalmente il
raggiungimento della maestria
sennettiana, ossia il farsi «artigiano
tecnologico» preteso dal lavorare post-
fordista.
Riassumendo:
precarietà e solitudine
«I legami precari ascrivibili al lavoro post-fordista risultano
congeniali ad un capitalismo che voglia minimizzare un’ipotetica
onda d’urto dal basso, atrofizzando una pulsione motivazionale
diretta all’opposizione politica e a ricreare “appartenenza”. Al
contempo, la precarietà impone nomadismo biografico,
destrutturazione temporale e progettualità esistenziali a
scadenza, mentre questo nomadismo e la frammentarietà
relazionale impediscono il soggettivarsi della persona nella
duratura apertura agli altri e alle pratiche condivisibili,
accrescendo perlopiù un’ansia prestazionale non attenuabile da
una solidarietà perseverante. Davanti a tutto questo, l’uomo
sente corrodersi il carattere e, nel lavoro, «porta sempre più da
solo il peso della propria condizione sociale e professionale».
Oltre la precarietà:
gruppi a scadenza

La composizione dei gruppi


di lavoro e la pratica
manageriale del «breve
termine»
(Sennett)
La persistenza della
merce: un nuovo
orizzonte valoriale
Il lavoratore potrà anche cambiare occupazione, potrà
entrare ed uscire da differenti contesti lavorativi,
potrà spezzare e riedificare continuamente molti
rapporti di breve durata, ma la «cosa consumabile», nella
sua fissità, non scomparirà mai dalla sua vista,
assurgendo ad una sorta di dimora ospitale e
confortevole dell’essere, o come dice S. Labate, “un
mondo dove sentirsi a casa”.
La persistenza della
merce: la
colonizzazione
dell’immaginario
Più che un luogo di relazioni educative, il luogo di lavoro
diventa lo spazio per una nuova “centralità identitaria”,
lo spazio privilegiato per attuare «una colonizzazione
della produzione dei valori – che appartiene alla
asocialità della colonizzazione dell’immaginario – e ne è
perfettamente funzionale».
La persistenza della
merce: scene da un film
They live: «caro lavoratore, non perdere tempo a
ricercare motivazioni nel rapporto con i tuoi simili e
lascia che il loro effondersi sia delegato all’immaginario
omologato del consumismo. Tieni fisso lo sguardo sulla
merce, che è l’unica cosa permanente nella tua esistenza
[…]. Sei il primo dei nostri clienti, noi teniamo alla tua
soddisfazione. Rassegnati al consumo, ti aspetta la
felicità, lasciati cullare dal vero benessere»
La merce, il consumo,
l’iperconsumo
Dal consumo e dal passaggio dalla società del lavoro alla
società del consumo (Buman) all’iperconsumo e alla
mertce come tramite per la ricerca di felicità private
(Lipovetsky).

Il bene non è materia, è il tramite simbolico per un


appagamento riservato che l’impresa deve far proprio
tramutandolo in «world-making» e «sense-making», in
«un mondo di significati» per dirla con E. Rullani.
Il lavoro e
l’immaginario
dell’iperconsumo
Colui che partecipa direttamente con il corpo, la
conoscenza, la creatività, le emozioni, in breve con tutto
se stesso, alla sua produzione, si nutre di questo world-
making e sense-making, si abbevera alla fonte del
predetto immaginario (l’immaginario omologato del
consumismo).
Il lavoro e
l’immaginario
dell’iperconsumo
È indubbio che non vi sia distacco ma alleanza tra l’intra
e l’extra-lavorativo nel puntellare un’identità modellata
sul consumo o sull’iperconsumo, sull’«io compro, dunque
so che sono» o sul «consumo, dunque sono», ed è
indubbio, ricongiungendosi con il pensiero di S. Labate,
che il lavoro attualizzi una colonizzazione valoriale.
Consumo e ansia da
precariato
È possibile aggiungere che
«L’ansia da perdita del senso di comunità e da eventuale
perdita del posto è riducibile dalla soddisfazione del
desiderio iperconsumistico».
Legami precari e
crucialità della merce: il
fine
C’è altro oltre il già analizzato circa la rivincita, per così
dire, sul “lavoro politico” e la rimodulazione del capitale
simbolico dei lavoratori? L’inaridimento politico della sfera
relazionale e la colonizzazione valoriale puntano a qualcosa
di ulteriore?
Trasformare l’impresa/fabbrica in una «comunità
simbolica omogenea» e «culturalmente egemone» che dia
luogo all’auto-alienazione non conflittuale del lavoratore al
servizio della fidelizzazione al brand, del valore da
infondere ai prodotti, del circolo produzione-consumo.
La trappola
biopolitica
Se si parla di auto-alienazione si parla di
trappola biopolitica, comprendendo con essa,
in primissima battuta, il significato di
“economia dell’immateriale”, concepito nella
complessità di quell’essere che si accompagna
al fare, come uso strumentale della totalità
delle risorse umane.
La trappola biopolitica
«La trappola biopolitica è correlata ad un capitale che abdica ad una
società del lavoro per lasciare una «società di lavoratori senza
lavoro»; che, passando nella sua metamorfosi dalla
«secolarizzazione» (ossia inventando con il lavoro salariato una
società e una socializzazione secolarizzate) alla «spiritualizzazione»
(finanziarizzazione dell’economia e non necessità assoluta del lavoro
salariato per potersi accumulare), rivisita il ruolo del lavoro stesso
al netto della propria, relativa autosufficienza nel perpetuarsi ed
espandersi; che risponde a compromessi altri ed autoreferenziali; e
che, di conseguenza, ad un lavoro radicalmente cambiato e aleatorio
può pure permettersi di far corrispondere la sterilizzazione politica
della “socialità” del labor e, nel senso dell’autoalienazione integrale,
financo la sterilizzazione educativa di doti umane prima rigettate
dall’organizzazione scientifica e ora incorporate agli effetti della
flessibilità funzionale».
Biopolitica del lavoro
La fabbrica fordista divorava la vita, ossia la spossava,
la lacerava, la induriva, la vincolava nell’automatismo,
nel tempo e metodo, nella ripetizione dell’identico.
L’impresa/fabbrica post-fordista la prosciuga. Questa,
nella sostanza lavorativa, è biopolitica. Ed è biopolitica
del lavoro in senso più ampio quell’insieme di
accorgimenti, strategie, situazioni di fatto e normative
di cui l’“economico” si serve o sollecita per prosciugare
la vita nella sua interezza, le sue energie, le dimensioni
della personalità e dell’interpersonale dapprima non
inglobate, agendo dentro e fuori dal contesto
lavorativo.
Biopolitica del lavoro

In sintesi, biopolitica
del lavoro = governo
del «bios» per il
lavoro
Nascita della
biopolitica
Quello biopolitico è un concetto d’imprinting marxiano, rivisitato
nel profondo da Foucault.
1) Il primo passaggio degno di nota che egli sottolinea riguarda la
ricomprensione neoliberista del lavoro all’interno di una rinnovata
visione dell’oggetto dell’analisi economica. Poiché questa analisi,
secondo i neoliberisti e diversamente dalla teoria economica
classica, non deve interessarsi ai processi, ai meccanismi
relazionali tra capitale, investimento e produzione, ma all’«attività
degli individui», alla sua «razionalità interna» e alla sua
«programmazione strategica», il lavoro deve essere concepito e
studiato come «comportamento economico, e come
comportamento pratico, messo in atto, razionalizzato, calcolato,
dallo stesso individuo che lavora».
Nascita della
biopolitica
2) Il secondo passaggio, consequenziale al primo, riguarda
l’approfondimento di tale curvatura sull’individuo: per i
neoliberisti, indagare l’“attività” lavorativa richiede di porsi
nell’ottica del lavoratore, di interrogare il significato che
assume il lavoro, di domandarsi «a quale sistema di scelte e
razionalità obbedisce questa attività» e, così, di giungere a
capire «in che cosa e come le differenze qualitative del lavoro
possono avere un effetto di tipo economico». In definitiva, il
lavoratore, da «oggetto di una domanda e di una offerta in
forma di forza lavoro», è “osservato” in qualità di «soggetto
economico attivo».
Nascita della
biopolitica
3) Il terzo ed ultimo passaggio riguarda proprio questa
soggettivazione e, nello specifico, la trasfigurazione neoliberista
del lavoratore (e del suo lavoro) in capitale. Per gli studiosi
americani – scrive M. Foucalt – l’uomo lavora per il salario e il salario
«non è il prezzo di vendita della sua forza lavoro, ma è un reddito»;
il reddito, a sua volta, è il «rendimento di un capitale» e il capitale
«consiste nell’insieme di tutti i fattori fisici e psicologici, che
rendono qualcuno capace di guadagnare un certo salario piuttosto
che un altro, di modo che, visto dalla prospettiva del lavoratore, il
lavoro non è una merce ridotta per astrazione alla forza lavoro e al
tempo impiegato per utilizzarla»; il capitale, insomma, è
«un’attitudine, una competenza», è il lavoratore medesimo in quanto
«macchina» che produce «flussi di salari» (Ibi: 178, 183-185).
Nascita della
biopolitica
Da questa disamina foucaultiana, capace di precorrere i tempi, possiamo
agevolmente delineare gli aspetti costitutivi della nascita di una biopolitica –
segnatamente di una biopolitica del lavoro – che contrassegnerà l’attualità
dell’agire economico del capitalismo neoliberista tout court.
• Il primo e il più importante di questi aspetti è sicuramente la traduzione
antropologica del lavoratore in un “soggetto economico” che si fa
capitale e dispone di un capitale su cui investire (le attitudini, le
competenze). Questa individualizzazione – così la potremmo chiamare –
consente di sganciare il lavoro dalla dialettica con il capitale, definendolo
direttamente nei termini del capitale, e di superare il concetto di lavoro
astratto, dissimulando l’affiorare di problematiche correlate allo
sfruttamento ed erodendo al contempo la “cornice pubblica” (Gorz,
2004) che conteneva quella dialettica (fatta di interazione e di
conflitti). Ma, soprattutto, questa individualizzazione sollecita l’imporsi
di una teoria e di una pratica del governo del lavoratore.
Nascita della
biopolitica
In effetti, il passaggio dai processi all’attività implica il passaggio
dalle politiche del lavoro (in rapporto al capitale) alle politiche del
lavoratore (come capitale che deve rendere); ossia, come
chiaramente esplicitato dalla posizione neoliberista, implica il far
breccia, strategicamente, nella “razionalità interna” dell’attività e,
dunque, di colui che la compie, per provocare un determinato
“effetto economico”. In breve, quello che prefigura l’approccio
neoliberista – riprendendo le parole dell’economista liberale J.-B.
Say (2002: 199) – è l’ingresso nel «cuore degli uomini» per
garantirne una determinata condotta. Per favorirlo, a monte v’è per
l’appunto l’assunto per cui se il lavoro non è una merce, ma un
capitale, il lavoratore dovrà metterlo a profitto, identificandosi e
profondendosi integralmente in esso.
Nascita della
biopolitica
Quest’ultima annotazione ci riconduce all’espressione “soggetto
economico attivo”, la quale è stata più recentemente rivisitata da
A. Gorz. Poiché è necessario che nel lavoro odierno l’uomo metta
tutto se stesso, tutte le sue capacità (come anticipato), occorre
implementare uno «“sfruttamento di secondo grado”» diretto a
canalizzare il «“prodursi”» umano. Tuttavia, è pressoché
impossibile che un lavoratore si impegni in un «coinvolgimento
totale» e in una «identificazione senza riserve», perché il rapporto
salariale comporta giocoforza una separazione degli interessi in
campo, preservando di fatto la frontiera tra il lavoro e la vita
personale. Allora – sosteneva A. Gorz –, per abbattere questa
barriera il salariato deve scomparire e il lavoratore dovrà
sostanzialmente assurgere ad «imprenditore di se stesso» (Gorz,
2003: 14, 17-21).
Nascita della
biopolitica
Ecco, il “soggetto economico”, mutatis mutandis, è il soggetto che è
portato a riconoscersi come “imprenditore di se stesso” e che, come
tale, ha da mettere a frutto la globalità dei propri talenti. Così
facendo, in realtà non si verifica alcuna emancipazione, bensì un
asservimento delle funzioni squisitamente personali in favore di
precise modificazioni organizzative e produttive che hanno a che
fare con l’importanza acquisita dalla comunicazione, dalle reti di
informazione, dalla risoluzione dei problemi e dal simbolico. In
questa transizione verso l’autoalienazione, la concessione di
autonomia gestionale (con annessa responsabilità) gioca un ruolo
basilare nella partita dell’autoattivazione al servizio del capitale.
Biopolitica del lavoro e
letteratura
Approfondimenti su:
- Leghissa, Demichelis
- Greblo
- Gallino,
- Marazzi,
- Combes, Aspe
- Lazzarato,
- Moulier Boutang
- Fumagalli
Dispositivi di
assoggettamento
. La politica del Q.B. (pratica del breve
termine/intervallare presenza-assenza
psicologica, tecniche video di controllo,
eterogeneità della forza lavoro per
effetto della morfologia reticolare come
arma per contrastare organizzazione e
solidarietà dei gruppi omogenei.
. Management dell’anima (Dardot, Laval)
Gorz (ancora) e
biopolitica del lavoro
«È il […] sapere vernacolare che l’impresa
postfordista mette al lavoro e sfrutta»,
insieme a quella «principale forza
produttiva» che è la «conoscenza», al
«giudizio», all’«intuizione», al «livello di
formazione e d’informazione», alla
«facoltà di apprendimento e di
adattamento a situazioni impreviste».
(Da L’immateriale)
Tetris e la biopolitica
del lavoro
«Il capitale post-fordista somiglia a quel videogioco cult
che ha il nome di Tetris. Per andare avanti e vincere
(puntando, oltre che su stesso e la propria riproduzione
finanziaria, su un lavoro che sia snello, flessibile, in
sintonia temporale e qualitativa con la domanda,
competitivo, ecc.), occorre giustapporre
progressivamente una serie di mattoncini (deregolazione,
baricentro spostato sull’universo simbolico della merce e
costituzione di comunità omogenee), smaltire file di
mattoncini (costi umani e sociali) e accatastare nuove
file di mattoncini (assorbire l’integralità dell’umano)».
Lavoro e capitalismo
antropofago
«È nell’aggettivo la sua ambizione a fagocitare
il propriamente umano nella multidimensionalità
delle sue funzioni e dei suoi spazi, spingendosi
verso territori inesplorati che si credevano
inviolabili. La significativa profondità
dell’essere era prima disfunzionale» Ora è
tutto l’essere, razionale e non, logos e pathos
che viene risucchiato, traducendolo dall’extra-
lavorativo (specie il pathos) verso il luogo di
lavoro, per porlo a valore.
Le mani sul cuore
• «Il capitalismo antropofago risucchia padronanze maturate
nella formazione e, per di più, le ricerca al di là, nel vissuto,
prendendo alla lettera il curriculum vitae.
• Dopo la mano e la testa ha messo le mani sul cuore, investendo
il lavoro di un’ipertrofia senza precedenti e senza limiti. Lo
tiene stretto, lo sente battere e rimbombare e sembra che
dica: anche questo è mio, non puoi farci niente. Per paura che la
presa si stringa troppo, l’uomo si piega, si inchina, sperando che
oltre l’orario di lavoro – e sperando che permanga un orario –
ritorni a pulsare regolarmente, ma pure in questo caso le mani
sono sul cuore. L’asservimento all’utile, attraverso il lavoro (e
non solo), è ormai radicato nel midollo e si riflette nel
quotidiano e nella sua pervasiva mercificazione (relazionale,
accrescendo l’egoistica “interdipendenza funzionale”, e di
consumo)».
La vita-lavoro

«La vita che assurge a lavoro e il


lavoro che mangia la vita lo possiamo
vedere quasi ovunque, compresi le
piccole imprese e il lavoro autonomo (il
cui moltiplicarsi è sintomo del
diffondersi del precario-impresa
gorziano)».
Il capitalismo antropofago
non azzanna…
«Il capitalismo antropofago non “azzanna” a campo
aperto, attende che sia la “preda” ad immolarsi,
operando per mezzo di stratagemmi persuasivi. Il
terrore della disoccupazione, la scintilla del denaro che
accende un modello di desiderio tarato sull’accesso
all’iperconsumo e, più sottilmente, la stimolazione del
desiderio di sollecitudine e rispecchiamento che
parrebbe soddisfarsi in un lavoro “sociale”, ma che è
invece avvizzito dal controllo, dalla parvenza della cura
e dall’esortazione competitiva a rendersi “e-gregi” per
sopravvivere».
La caduta nella trappola
biopolitica…
«… assume le sembianze di quelle sabbie mobili che si
vedono nei film d’avventura, spesso attorniate da una
vegetazione lussureggiante, custode di acqua e frutti
succosi che possono ristorare dopo un lungo
peregrinare per lande deserte e che, per questo,
attirano lo sguardo e fanno accelerare l’andatura,
finché con gli occhi ancora gioiosi si sprofonda nella
trappola nascosta. Nolenti si viene trascinati giù e
lentamente ma inesorabilmente fagocitati».
La struttura triadica
del capitalismo
1) Sistema organizzativo per la sopravvivenza, per la
produzione, distribuzione e consumo di beni, per la
circolazione del denaro;
2) Capitalismo come cultura (egemonia dell’economico,
dell’utile, della riduzione dell’altro a mezzo);
3) Capitalismo come mito (radicato sul concetto di
natura ostile e avara e su quello di homo
oeconomicus – massimizzazione della funzione di
utilità)
Homo oeconomicus
vs.
noi
Per L. Bruni il concetto di homo oeconomicus ha
assolutizzato un frammento di realtà, ponendo
nell’oblio la dimensione del noi, nonché oscurando il
valore dei beni relazionali come beni economici primari,
ivi compresa la sua ricusazione nei contesti lavorativi.
Soggiogare l’altro

«L’altro, oltre ad essere il “prossimo” sul quale avere la


meglio, è innanzitutto il lavoratore, che deve essere
soggiogato per l’interesse del capitale (e l’espansione
del capitalismo come cultura)».
«Le qualità umane altrimenti destinate ad altri fini non
possono che essere indirizzate alla costanza della
supremazia di una parte (l’“economico) sul tutto
(l’“umano”), spostando perennemente l’equilibro a
discapito della persona».
Precisazioni
È necessario rimarcare che il mercato in sé non è un
male. Ugualmente, il profitto non è il male. E neppure il
consumo. Il problema resta sempre quello di ricondurre
a fine esclusivo le distorsioni utilitaristiche del
mercato, il cortocircuito produzione-iperconsumo e il
profitto. Il problema resta un’antropologia
produttivistica che non concede la soddisfazione
convergente di un doppio bisogno e che, tramite la
distruzione del “noi” possibile nel lavoro,
strumentalizza un bisogno e le capacità che
potrebbero agevolarne l’esaudimento realizzativo per
appagare soltanto l’altro.
Che fare?
- Recupero educativo del lavoro;
- Educazione economica (il cui perno è il lavoro
educativo);
- Educazione alla collaborazione (il cui perno è ancora
il lavoro educativo).
> Lavorare e lavorare insieme dovrebbe servire a
prendere coscienza della ricchezza educativa insita nel
lavoro e a posizionare il fare entro un’ermeneutica
sociale consentendo così di riconoscere il suo esistere
per le persone e la loro crescita in umanità
Che fare?

- Critica e resistenza formativa (esempio


dell’Iefp-Cfp, lifelong education vs. lifelong
learning, ruolo del pedagogico a livello di
ricerca e culturale, pedagogizzazione degli
ambienti lavorativi – attraverso stage,
tirocini, master, formazione professionale,
ecc.)
Che fare?
Promuovere una cultura educativa
della produzione e del “prodursi” e
una cultura educativa dell’esistenza
attraverso la formazione di un homo
col-laborans opposto all’homo
oeconomicus
Homo col-laborans
«Per homo col-laborans, giocando con le parole, si intende
un uomo formato secondo i principi (etici) di una
cooperazione interpersonale valorizzati e potenziati
dall’utilizzo del lavoro come veicolo educativo. Si intende un
uomo che apprende fin dalla più tenera età a collaborare
con il prossimo e che nel fare con lui apprende a fortificare
la propensione educata alla collaborazione. Crucialità della
collaborazione, riappropriazione pedagogica del lavoro con
annessa presa di coscienza della sua umanità e impiego del
lavoro come medium educativo e motore collaborativo
rappresentano il nutrimento di un homo col-laborans che
potrebbe percorrere con successo tre piste di
cambiamento interagenti: …
Homo col-laborans
1) quella economica, smantellando lo strato antropologico
cementificato dal capitalismo come mito e riconducendo (da
comprimario) l’agire economico nell’etica;
2) quella lavorativa, riposizionando il lavoro nella careggiata dei
vettori educativi che contribuiscono a manifestare l’intero
umano, restituendo agli elementi costitutivi del lavoro post-
fordista e specialmente alla sua conformazione relazionale una
condizione di genuina attuabilità, inserendo tra gli assunti
organizzativi la gratuità del dono ed ammettendo la libertà di
essere e di essere per l’altro;
3) quella sociale, oscurando le inclinazioni egoistiche ed
individualistiche, togliendo ossigeno alla mercificazione del
reale, prevenendo l’incipiente isolamento tecnologico delle
persone e soddisfacendo le esigenze sopite di reciprocità, di
intesa dialogica, di solidarietà, di comunità.

Potrebbero piacerti anche