Storia Eco
Storia Eco
Storia Eco
Scopo di questa seconda parte del corso è affrontare lo sviluppo economico moderno, attraverso
l’analisi di uno dei suoi attori principali: l’impresa, intesa quale nucleo originario del sistema
capitalistico.
1. Micro e Macro: intercorre una stretta relazione tra i due livelli; la maggiore protagonista del
settore industriale in cui opera è la grande impresa. In questo modo il destino di ogni singola
impresa è correlato alla ricchezza complessiva della nazione da cui proviene livello
micro-collegato al macro.
2. Rivoluzioni industriali: rappresentano le fasi di transizione da un paradigma tecnologico al
successivo. Fondamentali sono le competenze tecniche e scientifiche, le fonti di energia e
l’intensità di capitale.
3. Imprenditori e Manager: occorre distinguere tra queste due figure che possono,
inizialmente,
corrispondere. Con imprenditori si definiscono coloro che innovano, assumono rischi,
colgono opportunità e prendono decisioni ai massimi livelli aziendali. I manager sono
portatori di competenze teoriche e pratiche e hanno sviluppato un preciso sapere funzionale,
specifico della singola impresa, e si possono anche spostare da un’impresa all’altra, cosa che
non può fare l’imprenditore.
4. Mercati: ci occuperemo maggiormente di mercati nazionali, i cui fattori determinanti sono il
numero di abitanti e il reddito pro-capite.
5. Cultura: si intende l’atteggiamento di una nazione nei confronti dell’attività e del
cambiamento economico.
6. Stato: ricopre diversi ruoli, quali garante giuridico, fornitore di infrastrutture,
regolatore/imprenditore/partecipante alla competizione economica, essendone arbitro in
alcuni casi
7. Forme di impresa: si definiscono in base a struttura, dimensione, strategie, interrelazioni
reciproche. Aspetti importanti da tenere in considerazione sono la relazione tra quartier
generale e unità operative all’interno della singola impresa e la comunità di imprese, in cui
essa stessa è inserita. non tutte le imprese sono uguali, hanno forme diverse.
8. Varietà dei sistemi capitalistici: si intende l’intersezione tra economia e istituzioni di questi
diversi contesti che mi dice che non siamo di fronte ad un solo capitalismo ma diversi.
9. Imprevedibilità del cambiamento: comprenderemo l‘instabilità delle posizioni relative delle
singole nazioni, con la conseguente difficoltà di fare previsioni sulla competizione
internazionale.
10. Teoria Post-chandlerismo: Chandler è stato lo studioso che ha dato uno status accademico e
scientifico alla Business History. Il suo schema concettuale sottolinea la centralità della
tecnologia, da cui trae le fondamenta della nostra analisi, approfondendo alcuni elementi che
Chandler accantona: il contesto politico in cui si svolge l’attività economica, la
globalizzazione, la cultura, la grande impresa integrata, i problemi sociali. In conclusione, si
utilizzerà una prospettiva neo-chandleriana, che mette in relazione: tecnologia, imprenditori,
mercati, cultura, stato. Si tratta di variabili che condizionano direttamente le imprese.
Dalla prima rivoluzione industriale l’impresa è stata una delle più importanti unità di analisi per la
crescita economica moderna. Dall’inizio del XIX secolo l’impresa è identificata come “fabbrica”,
secondo la modalità inglese di organizzazione della produzione, che ha determinato un
consolidamento del potere economico e politico dell’Europa. Anche i paesi periferici hanno
sperimentato questo modello di industrializzazione e sono rimasti coinvolti con gli stessi problemi e
crescite veloci che aveva la Gran Bretagna. Alla fine del XVIII secolo, inizio della prima
rivoluzione industriale, la concentrazione di capitale e forza lavoro in un unico luogo fisico
(fabbrica) non era una novità perché già nell’età preindustriale molti lavoratori erano impegnati
nelle industrie tessili o minerarie. Nuova, invece, era la speciale combinazione di un processo
produttivo centralizzato con una tecnologia più efficiente. Le nuove fabbriche utilizzavano acqua e,
in seguito, vapore; e le nuove forme di disciplina della manodopera.
In questo modo si creò un'organizzazione d'impresa altamente produttiva ed efficiente, che diventò
l'unità produttiva fondamentale delle prime economie industriali. Con un nuovo paradigma
tecnologico, rappresentava una nuova sfida per la scienza moderna. Questi complessi fenomeni
hanno stimolato numerose teorie dell’impresa:
- Prospettiva neoclassica
- Dinamica economica in prospettiva storica
- Teoria e realtà delle grandi imprese
- Teoria dell’agenzia ed economia dei costi di transazione
- Teorie sull’impresa del XXI secolo: “da una a tante”
Verso la fine dell’Ottocento la teoria economica neoclassica cominci ad occuparsi dell’impresa, nel
farlo prevede un approccio analitico piuttosto statico, che considera il comportamento dell’impresa
un segmento temporale definito. Presupposti impliciti di questa teoria sono:
- l’impresa dispone di un’informazione perfetta e opera in maniera efficiente al punto più
basso della curva di costo marginale. Si può definire come Price-taker. con la possibilità di
influenzare i mercati settori in cui opera.
- la tecnologia è esogena, l’ha “inventata” qualcuno
- il contributo degli attori economici che agiscono all’interno dell’impresa è irrilevante,
perché l’impresa viene considerata tutta insieme
- l’impresa rappresentativa è di dimensioni medio-piccole, e svolge un numero limitato di
funzioni. (Esempi di imprese del modello neoclassico erano imprese non troppo integrate
che operavano su una singola fase del processo produttivo di industria cotoniera)
In base a questa prospettiva storica la storia d'impresa ha una specifica dimensione comparativa e
dinamica: le imprese sono viste come unità complesse che evolvono nel tempo, caratterizzate da
notevoli differenze nelle loro strutture e dinamiche interne.
- Dimensione comparativa: sebbene le imprese operino in molti Paesi diversi con distinte
strutture proprietarie e organizzative, quelle appartenenti allo stesso settore condividono
alcune caratteristiche di rilievo, quali intensità di capitale e di lavoro.
- Dimensione dinamica: dinamismo le imprese che suscitano maggiore interesse negli
storici, sono quelle che mostrano la tendenza alla crescita dimensionale. Accade sia in settori
con alta intensità di capitale che in settori con seltz intensità di lavoro.
Nel mondo reale la crescita non è un processo meccanico, soggetto solo ai calcoli economici.
Le imprese:
- possono continuare ad espandersi, alla ricerca di maggiori quote di mercato, anche in
presenza di una riduzione nel tasso di crescita dei profitti.
- possono anche volontariamente frenare la crescita limitando la loro dimensione per evitare i
problemi connessi con l’espansione.
- reagiscono in modo differente ai cambiamenti tecnologici esogeni ed endogeni capaci di
provocare i maggiori scatti di dinamismo e che influenzano il metodo, la velocità e la
direzione della crescita.
Tutte le fasi di questo processo dinamico sono rilevanti per gli studiosi dell'impresa:
- continuità,
- discontinuità,
- espansione,
- stagnazione,
- declino.
E non possono essere fotografate ed analizzate secondo il modello neoclassico che si articola in una
sola stagione, il discorso è molto più complesso.
Va considerata la complessità razionale: il processo di sviluppo economico dei due secoli passati ha
creato organizzazioni complesse, con significative relazioni interne ed esterne. Le imprese mostrano
diversi percorsi di crescita che variano nei rispettivi contesti geografici e storici.
Data una certa tecnologia, l’espansione dell'impresa può essere determinata da vari fattori:
dimensioni e dinamismo del mercato di consumo; efficienza dei mercati finanziari nel convogliare
le risorse necessarie alla stessa; presenza di una cornice giuridica che protegga i suoi asset e faciliti
l'attività economica.
L’evoluzione dell'impresa può essere collegata ai sistemi culturali e istituzionali delle diverse
società.
- Sistemi culturali: in presenza di una percezione culturale negativa nei confronti della
dimensione delle grandi organizzazioni, le imprese possono decidere di adottare alcune
tecnologie invece di altre. Questo contribuisce a spiegare le differenze nella struttura interna
dei vari settori industriali, nei diversi Paesi e in differenti contesti.
- Sistemi istituzionali: la struttura dei mercati finanziari può avere conseguenze dirette sulla
disponibilità di risorse, in termini qualitativi e quantitativi. Alcuni sono essenzialmente
basati sull'intermediazione delle Banche, mentre in altri un forte accento è posto
sull'efficienza della Borsa, quale mezzo per indirizzare risorse all'attività economica.
mentre il sistema economico, nei settori centrali sembrava tendere a un assetto oligopolistico,
piuttosto che alla concorrenza perfetta.
Peter Drucker, in Concept of the Corporation (1946), tratta l'emergere di questo tipo di impresa.
Drucker sosteneva che la grande impresa poteva essere compresa al meglio qualora si fossero
analizzate:
- le sue fondamenta tecnologiche;
- lo "sforzo" necessario al coordinamento efficiente della moltitudine di individui in essa
operante;
- l’impatto sociale che questa istituzione ha avuto sul capitalismo moderno.
Comincia ad andare oltre Schumpeter, sia dal punto di vista degli operai/dipendenti coinvolti che
dal punto di vista sociale.
Il nuovo approccio teorico presentava diverse declinazioni (Herbert Simon, Richard Cyert e
James March sono altri studiosi che se ne occuparono):
1. la prima riguardava la comprensione delle determinanti e delle dinamiche relative alla
crescita delle imprese, a livello nazionale e internazionale.
2. la seconda si concentrava sulle decisioni di fondo (strategie).
3. la terza riguardava l’architettura organizzativa ottimale dell'impresa.
4. la quarta si focalizzava sui ruoli, i modelli di comportamento e le dinamiche degli attori
operanti all’interno delle organizzazioni, non possono essere esclusi.
Un’attenzione crescente venne dedicata alla tecnologia, considerata quale motore principale del
processo di crescita. Innovazioni di prodotto e di processo resero più conveniente l’espansione della
dimensione produttiva: le più intense spinte alla crescita derivavano dalla produzione e dalla
distribuzione di massa.
Alfred Chandler ha evidenziato gli effetti di questa trasformazione indotta dalla tecnologia su
organizzazione e performance dell'impresa. Egli diede inizio a un filone di studi su uno dei
problemi di maggiore rilevanza nel quadro della teoria dell'impresa, cioè la relazione interattiva fra
la strategia e la struttura di una grande impresa. Chandler considerava implicitamente il
cambiamento tecnologico come una forza esogena che aveva un impatto decisivo sulle scelte
imprenditoriali. Nella sua prospettiva, i «regimi» o «paradigmi» tecnologici determinano l’attività e
la competitività delle imprese e le loro strutture organizzative ottimali.
Altri studiosi hanno sottolineato la natura endogena del progresso tecnologico e dell'attività
innovativa che si è svolta all'interno dei laboratori di ricerca e sviluppo delle grandi aziende.
Quest'ultima impostazione ha incluso nell’analisi lo studio di un'ampia serie di soggetti diversi
dall'impresa, quali università, associazioni e istituzioni governative. Quando la tecnologia viene
generata all'interno dell'impresa, conoscenza originale, quella tecnologia diventa una risorsa
strategica e spesso origine di uno dei più importanti vantaggi competitivi dell'impresa.
Edith Tilton Penrose nel suo libro The Theory of the Growth of the Firm, ha evidenziato un nuovo
tema: le imprese sono “stratificazioni” di risorse e competenze; l’impresa moderna è
un'organizzazione che apprende, e alla fine sa “come fare le cose”. Il processo di crescita è spiegato
dall'abilità dell'impresa di sfruttare al meglio le sue capacità materiali e umane. L'idea di
un'organizzazione capace di apprendere e perseguire un processo di crescita mediante l’uso delle
proprie competenze è diventata la base delle moderne teorie dell'impresa, che vengono poi
perfezionate da altri studiosi.
Richard Nelson e Sidney Winter hanno introdotto il concetto di routine, considerate come le
modalità con cui le organizzazioni sono in grado di «ricordare» il comportamento di successo per
mantenere le loro posizioni di vertice. Gli agenti economici (e le imprese, fra questi) cercano di
ridurre l’incertezza adottando routine che inducono a ripercorrere i «sentieri» noti e conosciuti (path
dependence). Questo spiega la diffusa resistenza al cambiamento da parte di individui e
organizzazioni.
Quando le organizzazioni economiche diventano istituzioni complesse, cruciale per il loro sviluppo
è il flusso di conoscenze e informazioni che percorre dall’interno l’organizzazione stessa. L’azienda
è ora considerata attore capace di influenzare in profondità le caratteristiche dell'ambiente
circostante.
L’accumulazione di capacità e conoscenze è cruciale per spiegare il successo di un'organizzazione:
la competitività dipende dall'abilità del management di comprendere e sfruttare al meglio il volume
di risorse accumulate all'interno dell'azienda; visione resource-based. L’idea che l’impresa
"moderna" agisca come deposito di competenze e vantaggi competitivi genera una serie di
riflessioni sulle strategie di internazionalizzazione delle grandi imprese.
Nel 1960 Stephen Hymer propose come spiegazione dell'espansione dell'impresa multinazionale,
che il vantaggio competitivo acquisito da un'impresa sul mercato interno potesse essere sfruttato, in
seguito, anche all'estero. L'analisi di Hymer venne ulteriormente sviluppata da altri studiosi.
Negli anni Settanta John Dunning propose una spiegazione dell’attività internazionale delle
imprese basata su una combinazione di:
- vantaggi competitivi sviluppati sul mercato interno (vantaggi di “proprietà);
- vantaggi presenti nel Paese ospite (vantaggi di “localizzazione”);
- ulteriori incentivi all'investimento diretto (di “internalizzazione”) derivavano dalla necessità
di mantenere conoscenze e «attività creatrici di valore» all’interno dei confini dell’impresa e
spostandosi all’esterno senza “insegnarlo” agli altri.
Nei primi anni Sessanta Robin Marris nel volume The Economic Theory of Managerial Capitalism
attribuisce la crescita dell’impresa all'interesse personale (self-interest) del management.
I manager puntano a espandere i confini dell'impresa per acquisire nuove risorse e ottenere un
migliore controllo sulle risorse esistenti. Le loro scelte arrivano però a scontrarsi con gli interessi
degli azionisti, più sensibili alle performance e all'eventuale distribuzione di dividendi.
In questa prospettiva il processo di crescita di un'impresa finisce per essere il risultato di una sorta
di contrattazione fra manager e azionisti.
La teoria del capitalismo manageriale è importante almeno per due ragioni:
- la sua analisi ha valore in relazione all'intenso processo di diversificazione, che ha
modificato il panorama delle imprese statunitensi tra gli anni Sessanta e i primi anni
Settanta, segnato da un'ondata di fusioni e dalla creazione di conglomerate
- Marris ha gettato le basi per un successivo dibattito sulla relazione tra principale e agente,
formalizzato nella teoria dell’agenzia (agency theory).
2.6 Gli Anni 70/80: Teoria dell’Agenzia Ed Economia Dei Costi Di Transizione
Il potere del top management generato dalla separazione fra proprietà e controllo nell'ambito delle
corporation americane è stato messo in discussione a partire dall'inizio degli anni Settanta.
La crisi economica mondiale e la crescente pressione competitiva delle imprese europee e
giapponesi hanno rivelato l’inadeguatezza dei dirigenti a gestire politiche capaci di generare risorse
e profitti sufficienti a finanziare sia processi di crescita dell'impresa che la distribuzione delle quote
di utili. Nel 1976 Michael Jensen e William Meckling con la pubblicazione “Theory of the Firm:
Managerial Behaviour, Agency Costs and Ownership Structure” analizzarono i problemi che
sorgono nel rapporto fra azionisti (definiti principal) e manager (definiti agent).
La teoria dell'agenzia considera l’impresa come una sorta di finzione legale utile per definire un
sistema di relazioni contrattuali, impegnata nelle produzione di un saldo positivo nelle attività e nei
flussi di cassa; la redistribuzione degli utili, in presenza di interessi potenzialmente conflittuali fra
principale e agente, spiega la necessità di un “allineamento” degli interessi personali coinvolti.
Due le implicazioni importanti di questa impostazione teorica:
- lo sviluppo ha segnato una fase di acuta critica alla gestione manageriale della grande
impresa diversificata, considerata sempre meno efficiente dagli studiosi e, soprattutto, dagli
operatori
All’inizio del nuovo millennio sono emersi diversi modelli organizzativi e differenti approcci
teorici. L’impresa è sempre più coinvolta nell’ICT e le tecnologie della terza rivoluzione industriale
(elettronica e telecomunicazioni) hanno avuto un impatto profondo su struttura e dinamiche delle
aziende, ed è inevitabile che le teorie non inseguissero queste attività:
- nuove forme di coordinamento del processo produttivo hanno acquistato importanza;
- reti di produttori specializzati indipendenti hanno mostrato di possedere la flessibilità
necessaria per fronteggiare le esigenze imposte dalle nuove tecnologie e dai nuovi prodotti.
Richard Langlois ha sostenuto che l'espansione dei mercati dovuta alla globalizzazione ha
innescato negli ultimi vent’anni un'ulteriore spinta alla specializzazione delle unità produttive e che
le nuove tecnologie informatiche hanno facilitato un processo di coordinamento fra aziende,
favorendo una riduzione dell’incertezza e dei costi di transazione.
L’esito dei recenti sviluppi è quindi il ridimensionamento del ruolo della grande impresa integrata a
guida manageriale, a favore del rafforzamento dei meccanismi di mercato. Dopo un secolo
all'insegna dei processi di integrazione sembra che il presente stia disegnando la prospettiva della
disintegrazione. Si tratta di un cambiamento in atto e largamente incompleto: nell’assetto
economico attuale la grande impresa è ancora al centro della vita economica e degli studi storici.
3. Imprenditorialità
Nel ventennio appena trascorso il tema dell'imprenditorialità ha richiamato l’attenzione generale per
diverse ragioni:
- la crisi della grande corporation, che appare governata da manager-burocrati ed ha
manifestato difficoltà di gestione
- la contemporanea scoperta della piccola impresa, pensiamo in Italia alla letteratura sul
quarto capitalismo – chi è imprenditore in questa piccola impresa?
- grandi imprenditori hanno segnato con un'impronta tipica l'imponente processo di
ristrutturazione degli anni Novanta (vedi Steve Jobs)
- veri talenti imprenditoriali sono stati capaci di cavalcare la grande ondata dell'innovazione
in quei settori - come l’elettronica e le ICT - che hanno portato il mondo nell'era della
globalizzazione (start-up)
L’imprenditorialità appare a tal punto centrale per la ricchezza e la competitività di una nazione che
in tutti i Paesi a economia avanzata c’è la tendenza a cercarne una codificazione, sia per individuare
un percorso formativo, sia per definire le politiche industriali. Solo negli Stati Uniti si trovano
centinaia di college e business school. Tuttavia, l’imprenditorialità è un fenomeno elusivo e
versatile. L’imprenditorialità emerge nelle diverse scale dimensionali e si presenta in varie forme: è
ciò che spinge un temperamento impetuoso e istintivo e rende l’imprenditore capace di anticipare la
domanda e costruire un impero economico. L'imprenditorialità può definirsi in una lunga,
quotidiana accumulazione o può presentarsi come un improvviso balzo in avanti. Infine, c’è una
sorta di confusione nel linguaggio e nei concetti generalmente diffusi quando si parla di
imprenditorialità: certamente, un buon test di verifica è rappresentato dalla capacità di creare
qualcosa di nuovo. Ma l’innovazione non è in grado di spiegare tutto.
EROE
Utilizzando il termine “eroe” in una disamina sull’imprenditorialità si ricorda Schumpeter,
esponente di un ambiente culturale di lingua tedesca del periodo fra XIX e XX secolo, in un clima
intellettuale che sottolineava il ruolo della cultura nella spiegazione dell'attività imprenditoriale.
Altri autori lo precedono:
- Max Weber, che descrive l’imprenditore come portatore di una «razionalità strumentale»
che lo rende capace di mettere sistematicamente in relazione alcuni obiettivi (il
perseguimento del profitto) con i mezzi più adatti a raggiungerli, con una diffusa attitudine
al calcolo;
- Friedrich Nietzsche che sottolineava la differenza fra coloro che sono molto più avanti
rispetto alle convenzioni morali del loro tempo e coloro che non fanno nient'altro che
adattarsi a esse, evidenziando così il ruolo di individui, i quali scelgono un percorso che non
appare razionale, spinti da una non comune forza di volontà. È una disposizione mentale
simile a quella dell'imprenditore schumpeteriano, molto distante dalla razionalità astratta e
utilitaristica. Egli è mosso da un’energia senza limiti. Per questi individui, la ricchezza non è
il fine; al contrario, essi aspirano all'ascesa sociale e sono sostenuti dalla gioia della
creazione, dal piacere della vittoria contro i loro concorrenti e dalla consapevolezza del loro
ruolo quali capi di imperi economici;
ENTITA’ INVISIBILE
- Teoria neoclassica: un’altra concezione del processo economico può essere rinvenuta sul
versante opposto dello spettro argomentativo; qui, l'imprenditorialità è assunta come
irrilevante: si fa riferimento al cosiddetto mainstream del pensiero economico. Nel The
Wealth of Nations di Smith e nei Principles di Ricardo ricaviamo l’impressione che il
processo economico avanzi per forza propria. Nell'analisi di Adam Smith, la funzione più
importante dell'uomo d'affari è quella di fornire il capitale, mentre David Ricardo sottolinea
ancora l’automatismo dei movimenti economici. Consideravano l’abilità negli affari come
un importante fattore per il successo o il fallimento delle singole iniziative, ma quelle stesse
abilità difficilmente avrebbero potuto influenzare il processo economico considerato nella
sua totalità.
- Karl Marx (“Manifesto” – 1848): Negava ogni rilevanza ai fattori soggettivi come
l’imprenditorialità. Centrale nell'intero meccanismo appare la relazione sociale che lega i
capitalisti e i lavoratori.
L'imprenditorialità è stata così sempre più trascurata a causa del successo del paradigma
neoclassico fondato sul concetto dell'equilibrio del mercato: l’impresa e il luogo in cui i
fattori produttivi sono trasformati in beni sulla base di meccanismi conosciuti e prevedibili;
l’incertezza deriva da variabili esogene quali il prezzo di vendita dei beni o il prezzo dei
fattori produttivi utilizzati. In questo schema concettuale l’imprenditore deve soltanto
scegliere la combinazione produttiva più efficiente e valutare che gli "ingredienti" siano
assemblati in modo coerente.
- J.S. Metcalfe: l’imprenditorialità è considerata "residuale", qualcosa che non può essere
misurato con gli strumenti abituali con cui l’economista indaga gli incrementi della
produttività.
- Edward Denison: Cercando di individuare l’origine della crescita degli Stati Uniti nel
periodo 1900-1960 per rendere conto dell'incremento di produttività menziona fattori quali:
o progresso tecnico,
o capitale umano,
o riallocazione delle risorse,
o cambiamento istituzionale.
Considera l’imprenditorialità automaticamente inclusa nei vari input.
UOMO QUALUNQUE
C’è una via di mezzo fra Schumpeter e la teoria neoclassica: non tutti gli economisti mainstream
hanno completamente ignorato l’imprenditore:
- Jean-Baptiste Say (“Traite d'economie politique” - inizio XIX secolo): L’abilità di far
fronte a situazioni difficili e incerte è uno degli attributi normalmente riconosciuti alla
funzione imprenditoriale, è considerata una manifestazione di capacità di leadership l’abilità
di organizzare e coordinare i fattori della produzione e della distribuzione. Say vedeva il
tratto decisivo dell'imprenditorialità nella capacità di far concorrere differenti elementi,
come il lavoro e le risorse finanziarie, in un'unica visione tesa al raggiungimento
dell’obiettivo della creazione di un prodotto.
- Alfred Marshall (“Principles of Economics” - 1890): Uno dei padri della scuola
neoclassica, colloca l’imprenditorialità all'interno della routine gestionale, sia pure
distinguendo:
o un ruolo imprenditoriale dedicato alle decisioni fondamentali;
o un ruolo manageriale caratterizzato da un potere delegato.
- Mark Casson: Definisce come il talento più importante per un imprenditore la sua abilità di
prendere decisioni appropriate riguardanti il coordinamento delle risorse in condizioni di
scarsità. L'imprenditore (al quale Casson guarda come individuo, non come team), in quanto
colui che assomma i ruoli del capitalista, del proprietario e del manager, è diverso dalle altre
persone per la sua abilità di riconoscere le situazioni in cui è possibile trarre un profitto.
Concludendo, per tutti gli autori fin qui considerati, l’imprenditore - anche se "diverso" per le sue
doti di coraggio, leadership, prontezza nel cogliere le opportunità, capacità di giudizio - è
essenzialmente "uno di noi", un uomo comune.
Nella maggioranza dei casi, per essere sicuro che le sue idee si realizzino e per sostenerle,
l’imprenditore è indotto a creare un'impresa con un'organizzazione, un sistema di risorse fisiche e
umane tenuto insieme da relazioni gerarchiche. Il tessuto connettivo dell'impresa è rappresentato
dagli strati intermedi del management - collocati fra i lavoratori e l’imprenditore; in questo modo le
direttive dell'imprenditore sono trasmesse all’intera organizzazione ed egli può controllarne la
realizzazione.
- Schumpeter (‘Capitalism, Socialism, Democracy’ – 1941): Nel caso di settori cruciali per
la competitività di un Paese, le organizzazioni crescono in misura sorprendente, spesso al di
là del controllo del leader dell'impresa: paradosso dell’imprenditorialità. Le organizzazioni,
con le loro regole burocratiche e le loro routines finiscono per soffocare lo slancio
dell'imprenditore. L’economista austriaco anticipava l’inevitabile declino del sistema
capitalistico borghese che nella forza vitale dell'imprenditore trovava la sua giustificazione.
- Taylor (Principles for Scientific Management – 1911) - Berle e Means (The Modern
Corporation and Private Property – 1931) – Burnham (The Managerial Revolution -
1941) – Whyte (The Organization Man – 1956): Negli Stati Uniti, il Paese del capitalismo
manageriale, l’ascesa delle grandi organizzazioni ha avuto l’impatto maggiore sugli studi
nella prima metà del XX secolo. Ognuno di questi importanti lavori enfatizza la centralità
dell’organizzazione rispetto a un'imprenditorialità la cui forza va svanendo, con una decisa
opposizione fra i due termini:
organizzazione significa routine, mentre l'imprendirorialità è associata alla creatività;
o l’una equivale a conformismo, mentre l’altra suggerisce originalità;
o l’una opera per la stabilità, mentre l’altra promuove il cambiamento.
- William Lazonick: La crisi della grande impresa degli anni Settanta ha portato a un
ripensamento della dicotomia tra organizzazione e imprenditorialità, in vista di una diversa
valutazione dell’organizzazione, non più considerata come una macchina senz’anima.
Lazonick ha evidenziato, nel successo dell'impresa giapponese degli anni Ottanta, l’abilità
della classe dirigente a coinvolgere nel processo innovativo tutte le componenti della vita
dell'impresa partendo dai lavoratori in fabbrica – questo è un tratto distintivo.
- Alfred D. Chandler (‘Strategy and Structure’ – 1962): Il focus degli studi di Chandler è
l’analisi delle decisioni imprenditoriali. Chandler distingue attentamente le funzioni di un
imprenditore da quelle di un manager: l’imprenditore ha la responsabilità di allocare le
risorse ai massimi livelli dell'impresa, il manager agisce all'interno di un sistema di risorse
creato dall'imprenditore. Compito imprescindibile dell'imprenditore è la creazione di
un'ampia gerarchia manageriale; questo network è essenziale per il buon funzionamento
della grande impresa, a sua volta strumento indispensabile per la crescita e la competitività
economica nell'età della seconda rivoluzione industriale.
- Robert D. Cuff (saggio "Business History Review" – 2002) spostò il proprio focus
analitico sull'esame dell'imprenditorialità all'interno delle organizzazioni. Cuff individua
fattori esterni e interni:
o fattori esterni sono da ricondurre al clima generale emerso dalla mobilitazione
durante la Seconda guerra mondiale, che enfatizza l’importanza e la pervasività delle
organizzazioni su larga scala;
o fattori interni: hanno maggiormente a che fare con l’evoluzione del clima
intellettuale nel quale operavano gli storici d'impresa.
È l'influenza del sociologo Talcott Parsons che spinge a scrivere una storia "scientifica", avalutativa.
Questi due elementi gettano nuova luce sul perché per quasi trent'anni (dagli anni Cinquanta agli
anni Ottanta) l’unità fondamentale di analisi della storia d'impresa americana sia stata la corporate
entrepreneurship.
I tempi cambiano:
o Reagan alla Casa Bianca;
o l’intensificarsi della competizione globale;
o disillusione sui manager americani e sulla formazione manageriale;
o fascino del fenomeno Silicon Valley;
o mutamento nelle forme delle organizzazioni aziendali;
o nuova valutazione positiva della piccola impresa come fonte di occupazione;
o culto dei media per l’imprenditore.
- Carlo Cipolla Secondo Carlo Cipolla non è sufficiente correlare l’incremento della
produzione a quello della quantità degli input e nemmeno l’idea di chiamare questo surplus
«reazione creativa della storia», appare convincente. Secondo Cipolla l’attività
imprenditoriale è un elemento importante e necessario, ma non sufficiente. È la «forza
vitale» di un'intera società che a un certo punto, ammesso che questo punto esista - può
entrare in gioco con un effetto decisivo, producendo la scintilla della «reazione creativa
della storia». In questo modo l’elemento residuale resta misterioso, «fattori intangibili», a
loro volta frutto di un processo sociale collettivo. Cipolla riprende la nozione durkheimiana
di «effervescenza collettiva» che si presenta quando l’intensità dell'interazione sociale
raggiunge un picco tale da traboccare in un processo di diffusione dell'innovazione.
Per quanto il fenomeno dell'imprenditorialità possa essere elusivo sono stati condotti vari
tentativi di misurazione.
così concepiti è che è veramente arduo tracciare delle linee di separazione nette fra le
variabili.
Questo è un contributo importante, ma non esaurisce tutte le questioni ancora aperte: potrebbe
essere interessante riportare l’attenzione sugli imprenditori seguendo una metodologia chandleriana,
per esempio promuovendo una ricerca comparata internazionale basata sulle biografie collettive e
sarebbe necessario riconsiderare i dizionari biografici esistenti, aggiornarli, promuovere la
compilazione di nuovi repertori, analizzando le fonti sulla base di un questionario comune pensato
allo scopo di illuminare 1'origine degli imprenditori, 1'istruzione, le motivazioni e i valori, 1'idea
iniziale, le strategie e le strutture organizzative elaborate per realizzarla, le relazioni con 1'ambiente
e in particolare con il contesto politico e sociale.
4. Prima Dell’industria
Imprenditorialità e impresa capitalistica non hanno avuto inizio con la prima rivoluzione industriale.
Molto prima dell'età dominata dalle fabbriche inglesi, gli uomini d'affari avevano sviluppato nuove
combinazioni di capitale, Lavoro e risorse naturali, per rispondere alla domanda di beni e servizi. IL
ritmo del cambiamento è stato relativamente lento. L'Europa preindustriale non si presentava come
un'area economica omogenea e tuttavia i Paesi europei condividevano alcuni tratti comuni, a partire
dalla preponderanza del settore primario, a cui le stime attribuiscono:
- una quota fra 1'80 e il 90% del prodotto interno lordo complessivo
- la maggioranza della popolazione attiva (fino al 70%).
La forza lavoro era composta soprattutto dai contadini e dalle loro famiglie. La mobilità era
contenuta, come modesto era il livello di urbanizzazione. La forza della tradizione rendeva il
panorama poco dinamico.
Queste economie non erano immobili. Gli indici di crescita, non erano comparabili con quelli che si
registreranno nel periodo della rivoluzione industriale, ma erano in movimento. La popolazione
europea totale era cresciuta da 57 milioni di persone all'inizio del Cinquecento a 132 milioni
calcolati alla fine del Settecento:
1. il tasso annuale di crescita della popolazione dell'Europa occidentale fra L'anno 1000 e il
1500 si era mantenuto vicino allo 0,16%, mentre fra il 1500 e la fine dell’Ottocento si era
attestato allo 0,26%.
2. la crescita annuale del prodotto interno lordo aveva segnato rispettivamente i valori di 0,3%
e 0,4%, ben inferiori al risultato registrato dopo il 1820, quando la crescita si stabilì su valori
superiori all’ l% annuo.
Nonostante alcuni miglioramenti nelle tecniche agricole, la produzione alimentare mostrava
incrementi minimi, simili a quelli della curva demografica.
Il potere d'acquisto era concentrato quasi esclusivamente nelle mani di un’esigua quota della
popolazione totale, cioè coloro che possedevano e controllavano l’attività economica, agricola e
industriale.
In uno scenario rurale caratterizzato dalla prevalenza di strutture economiche autarchiche, l’attività
manifatturiera assumeva forme organizzative diverse a seconda:
1. della localizzazione
2. del settore considerato
3. della specializzazione della forza lavoro impiegata.
La prima distinzione rilevante è quella che riguarda le attività svolte nelle campagne e quelle svolte
nelle aree urbane.
Le caratteristiche dell’economia rurale, che influenzavano anche la forma e la struttura delle
imprese erano:
- piccole unità produttive a conduzione familiare;
- sporadici contatti con l’esterno;
- sistemi economici chiusi;
- quasi totale assenza di transazioni di mercato e specializzazione.
Le campagne erano un importante serbatoio di manodopera eccedente: i contadini poveri potevano
infatti dedicare una parte significativa del loro tempo lavorativo ad attività non agricole e la
manifattura rappresentava un'alternativa all'emigrazione.
La presenza di una manodopera poco costosa incoraggiò quindi gli imprenditori a trasferire in
campagna alcune fasi produttive della manifattura, sviluppando il putting-out system, basato su
un'architettura organizzativa gerarchica ma flessibile:
1. al vertice dell'organizzazione era il mercante-imprenditore, proprietario delle materie prime,
che coordinava l’attività di una rete di lavoratori a domicilio;
2. il mercante-imprenditore controllava direttamente le fasi di lavorazione ad alta intensità di
capitale e quelle che consentivano più elevate economie di scala;
3. applicato in svariati comparti produttivi, il putting-out system era diffuso soprattutto nelle
lavorazioni tessili, dove il processo produttivo poteva essere facilmente segmentato in fasi
da svolgere separatamente.
L’efficienza del putting-out system derivava da:
- ampia disponibilità di manodopera rurale a basso costo;
- elevata flessibilità del sistema, infatti la rete di lavoranti coordinata dal mercante-
imprenditore poteva essere velocemente estesa o ridimensionata a seconda delle fluttuazioni
della domanda, senza aggravio di costi per lo stesso imprenditore: l’unità produttiva
coincideva infatti con la famiglia contadina, proprietaria di un capitale fisso poco costoso e
di semplice manutenzione.
Il sistema corporativo è quindi sopravvissuto in una sorta di isolamento, al riparo dalle fluttuazioni
della domanda che hanno segnato l’evoluzione generale della società europea.
Imprese di grande dimensione, con un elevato numero di lavoratori e un'alta intensità di capitale
erano presenti anche prima della rivoluzione industriale. La concentrazione di lavoratori attivi nello
stesso luogo era definita “manifattura”.
Alcuni studiosi si sono domandati se sia corretto comparare la “manifattura” con la grande impresa
che si affermerà secoli dopo (Ottocento e Novecento):
- sono concordi sul fatto che molti grandi impianti preindustriali (“manifatture”) erano in
grado di sviluppare metodi sofisticati di amministrazione e contabilità per gestire i processi
produttivi complessi.
- Risulta invece molto discussa l’idea secondo la quale si possa far derivare il sistema di
fabbrica dai grandi impianti preindustriali; per il sistema di fabbrica infatti sarebbero state
necessarie le trasformazioni tecnologiche della prima rivoluzione industriale.
Sidney Pollard sottolineò nel suo studio “The Genesis of Modern Management”, che i grandi
opifici preindustriali, spesso protetti da patenti regie e operanti in regime di monopolio, erano
l’eccezione e non la regola; inoltre, in molti di essi, solo una piccola porzione dei dipendenti
lavorava esclusivamente "dentro” l’impianto, perché la maggioranza era impegnata "fuori", nelle
lavorazioni a domicilio. Un esempio particolarmente efficace a illustrazione di questo assunto è
quello proposto da Pollard: l'impianto per la lavorazione della lana di Linz, nell'Impero Austriaco,
impiegava nel 1770 circa 26.000 lavoratori, ma solo 750 tessitori erano residenti nell'agglomerato
urbano, mentre la restante forza lavoro era rappresentata da filatori che svolgevano il lavoro a
domicilio, in unità produttive rurali disseminate fra Austria, Boemia, Moravia.
Le principali “manifatture" erano diffuse nei seguenti settori produttivi: tessile, attività mineraria,
lavorazione dei metalli, costruzioni navali, e edilizia.
Gran parte di queste "grandi imprese” preindustriali godevano di privilegi e monopoli. I governi o
più spesso la Corona garantivano vantaggi e protezioni agli imprenditori privati per stimolare
l’insediamento di manifatture e impianti specializzati nella produzione di particolari categorie di
beni.
Le motivazioni erano le seguenti:
- assicurarsi la fornitura di alcuni prodotti "strategici";
- perseguire politiche mercantilistiche dirette a contenere l’acquisto all'estero di beni ad alto
valore aggiunto.
Un caso di successo: la Saint-Gobain. Ancora oggi è uno dei maggiori produttori internazionali nel
comparto del vetro: fondata nel 1665 dal ministro delle Finanze francese Jean Baptiste Colbert con
il nome di Manifacture Royale de glaces de miroirs, la società era gestita da imprenditori privati, era
finanziata in parte dallo Stato e godeva di privilegi reali. L'obiettivo principale alla base dell'avvio
dell'attività era quello di ridurre le importazioni francesi di vetro da Venezia, e in particolare di
specchi, un prodotto che inglobava un valore aggiunto elevatissimo – skills e competenze richieste
straordinarie.
A rendere eccezionale la performance economica della Gran Bretagna, nei decenni successivi alle
guerre napoleoniche, non era solo il tasso di crescita, quanto soprattutto il modo in cui lo sviluppo si
andava realizzando. Per la prima volta nella storia l’origine della "ricchezza della nazione” non era
più riconducibile in modo esclusivo al settore primario e al commercio dei prodotti agricoli: il cuore
dell'economia era ora l’industria. Secondo le stime di Crafts, nel 1760 la quota forza lavoro
maschile britannica occupata in agricoltura era circa del 53%, contro una media europea del 66%; la
percentuale di reddito proveniente dal settore primario arrivava al 37,5%, mentre in Europa la
media era del 46,6%. Alla metà del XIX secolo, ottant'anni dopo, l’agricoltura britannica dava
lavoro a un ¼ degli occupati maschi, contro una media continentale del 55%; lo stesso settore
contribuiva al reddito totale con una quota del 25%, a fronte di un 40% a livello europeo.
L’Europa continentale seguì l’esempio britannico con ritmi di crescita diversi da Paese a Paese. Alla
fine del XIX secolo la quota di occupati nel settore primario era scesa sotto il 50% in Belgio,
Germania, Danimarca, Paesi Bassi, Svizzera e Francia, mentre nei Paesi periferici - quelli dell'area
mediterranea e scandinava -1'agricoltura restava ancora la fonte primaria di impiego della forza
lavoro disponibile. Aumentava anche il grado di specializzazione nelle esportazioni dei Paesi
coinvolti: all’inizio del XX secolo, infatti, la percentuale di esportazioni (misurata in valore)
sull’intera produzione industriale superava il 70% per la Gran Bretagna, la Svizzera e la Germania,
mentre toccava il 60% per la Francia.
Per la prima volta nella storia, alcuni Paesi europei godevano di una posizione stabile sui mercati
internazionali grazie alla loro specializzazione produttiva industriale, e si trovavano così in
condizione di finanziare1'importazione di grandi quantitativi di beni prodotti.
Il caso britannico: l’avanzata specializzazione economica nel settore tessile (cotoniero e laniero),
nella lavorazione dei metalli e nella meccanica aveva ridotto in misura corrispondente il ruolo
dell’agricoltura.
Un ruolo importante nei processi della “grande trasformazione” è svolto dagli imprenditori. Una
grande varietà caratterizza la fisionomia e le dimensioni delle imprese protagoniste del
cambiamento, così come trasversale e diversificato è l’assortimento delle origini sociali e della
formazione professionale degli imprenditori nella prima rivoluzione industriale.
La composizione di quella che già dai contemporanei veniva etichettata come "classe
imprenditoriale" variava naturalmente da Paese a Paese, in base alla combinazione di fattori
istituzionali, storici e culturali tipici di ogni ambiente economico.
In alcuni casi, infatti, cultura e istituzioni sono apparse come discriminanti, creando un sistema di
valori sociali e attitudini culturali favorevoli all'iniziativa individuale. Partendo da questi
presupposti, in molti casi, l’attività imprenditoriale ha rappresentato uno strumento potente di
ascesa sociale.
Gli imprenditori inglesi della prima rivoluzione industriale erano:
- gli artigiani e i maestri che avevano trasformato le loro botteghe in fabbriche e ampliato
l’orizzonte delle loro attività dal raggio locale a quello regionale, poi al livello nazionale e in
alcuni casi perfino internazionale (per esempio il caso di Josiah Wedgwood).
- Un gran numero di ex commercianti e mercanti, proprio quei mercanti-imprenditori che
costituivano la componente più dinamica della manifattura preindustriale (il caso di James
Walker di Wortley).
- Occasionalmente diventavano imprenditori esponenti di classi sociali che era meno usuale
associare al rischio d'impresa: molti nobili e proprietari terrieri (il caso del duca di
Bridgewater).
- I tecnici: ad esempio il caso di James Watt, dove l’imprenditorialità nasceva dalla possibilità
di brevettare il frutto del proprio ingegno e trarne un profitto attraverso il suo sfruttamento
commerciale.
La rivoluzione industriale vide emergere una schiera variegata di figure imprenditoriali chiamate a
reperire e gestire quantità di capitale fisso e forza lavoro più elevate rispetto a quelle che potevano
essere rintracciate nelle attività manifatturiere dell'età preindustriale.
Le nuove tecnologie e l’allargamento dei mercati rivoluzionavano anche le unità di produzione. La
fabbrica della prima rivoluzione industriale aveva dimensioni contenute, e raramente arrivava a
occupare più di qualche decina di dipendenti.
I suoi caratteri peculiari erano: l’assetto proprietario e l’organizzazione del processo produttivo.
L’assetto proprietario dimensioni iniziali ridotte comportavano necessità finanziarie
contenute, che venivano fornite da investitori di modeste ricchezze, ma in buone relazioni
con l’imprenditore; questa modalità di reperimento dei capitali faceva sì che proprietà e
controllo delle aziende restassero stabilmente nelle mani del fondatore e della sua cerchia
familiare.
L’organizzazione del processo produttivo le strutture organizzative della società erano
ancora relativamente elementari. Gestione e proprietà delle aziende facevano capo
unicamente al proprietario, il quale talvolta delegava alcune funzioni ai familiari o ai soci,
ma, più spesso, si valeva semplicemente del lavoro di capi officina e sorveglianti.
L’accentramento nell'imprenditore delle decisioni strategiche e delle scelte operative costituiva la
regola.
Le nuove tecnologie impiegate nei settori trainanti della rivoluzione industriale avevano generato
solo scarse economie di scala e di flusso.
Nel settore del tessile, per esempio, grappoli di innovazioni avevano interessato singole fasi o stadi
(nella filatura o nella tessitura), senza coinvolgere l’intero ciclo di trasformazione dalla materia
prima al tessuto finito. L'innovazione introdotta in una fase creava una strozzatura del flusso della
produzione e spingeva le aziende a introdurre innovazioni anche nella tessitura. Inoltre, il processo
produttivo rimase a lungo frammentato in distinte unità.
Molti imprenditori controllavano fabbriche operative nelle diverse fasi del processo produttivo,
realizzando così una sorta di integrazione verticale di natura legale, ma non tecnica.
Le unità produttive della prima rivoluzione industriale erano relativamente piccole, caratterizzate da
strutture di costo semplici, e raramente in grado di influenzare i livelli dei prezzi.
Questa configurazione del rapporto imprese-settore era tipica di alcuni insediamenti molto
conosciuti, come l’agglomerato produttivo tessile nell’area di Manchester, il distretto metallurgico
delle Midlands e quello della lavorazione delle lame a Sheffield.
Un’altra caratteristica del processo di produzione dell’impresa nella prima rivoluzione industriale
era l'importanza della “forza collettiva” derivante dalla concentrazione di attività omogenee nei
“distretti industriali”, dove le conoscenze e le innovazioni avevano una circolazione libera e veloce.
La trasformazione sul versante della produzione impose una complessa ridefinizione anche delle
funzioni distributive e commerciali.
Per gestire le relazioni con il mercato era ora necessario per l’imprenditore industriale creare reti
efficienti di agenti, rappresentanti e partner commerciali indipendenti, capaci di spingere le vendite
oltre gli stretti limiti dei mercati locali.
La creazione di organizzazioni produttive complesse poneva problemi sconosciuti a chi era abituato
ad agire nelle strutture economiche preindustriali.
Un problema da risolvere era legato al reperimento delle risorse finanziarie da tradurre in capitale
fisso e circolante necessario al funzionamento corrente dell'impresa; pertanto, i finanziamenti
indispensabili per iniziare un'attività economica all'inizio del XIX secolo rappresentavano una
barriera significativa per l’aspirante imprenditore.
I principali finanziamenti delle imprese provenivano da:
- il patrimonio personale rappresentava il serbatoio di risorse indispensabile non solo nella
fase di avvio, ma anche per le necessità correnti del1’azienda e per finanziarne l’eventuale
espansione;
- le ricchezze familiari, spesso rappresentate dalle proprietà fondiarie o originate in un'attività
mercantile;
- la ricchezza fondiaria e immobiliare;
- i circuiti di credito operativi nell'ambiente locale erano un'altra fonte di finanziamento
caratteristica dei primi stadi della "grande trasformazione";
- l’autofinanziamento e il reinvestimento dei profitti; questo canale consentiva una particolare
autonomia a quegli imprenditori fortunati che potevano contare sulle quote familiari di
controllo dell'azienda e destinare a questa le risorse necessarie alla sua espansione.
Dal punto di vista del finanziamento alle società, le somiglianze fra l’era preindustriale e la fase
della prima industrializzazione erano maggiori delle differenze.
La fabbrica moderna si impone come un modello completamente nuovo e diverso dai precedenti
luoghi e metodi di organizzazione del lavoro per i seguenti motivi:
- nella fabbrica si radunava un consistente numero di lavoratori, molto più di quanto
normalmente accadesse in ogni insediamento produttivo del passato;
Una serie di cambiamenti profondi investiva le strutture economiche e le società nel loro
complesso. Le maggiori trasformazioni a livello macroeconomico furono:
- il ritmo della crescita (sia negli indici aggregati, sia per i singoli Paesi);
- la quantità e la qualità dei flussi di commercio internazionale;
- il contributo dell'agricoltura e dell'industria alla formazione della ricchezza nazionale (PIL)
e all'occupazione.
Le maggiori trasformazioni a livello “micro” furono:
- la diffusione di nuove tecnologie e forme organizzative generava una serie di questioni a cui
erano innanzitutto chiamati a dare risposta gli imprenditori;
- il sistema di fabbrica che imponeva infatti la creazione di strutture produttive funzionali
all'elevata intensità degli investimenti;
- la sperimentazione di varie soluzioni da parte degli imprenditori;
- la definizione di regole di comportamento per una forza lavoro pendolare, composta da
persone di età, sesso ed estrazione sociale diversi, al fine di rendere veloce e scorrevole il
funzionamento del ciclo produttivo;
- l’inserimento nel sistema di fabbrica dei lavoratori, che comportava spesso un profondo
cambiamento delle abitudini e degli stili di vita;
- l'inserimento dei lavoratori nel processo continuo dei turni diurni e notturni scanditi da orari
fissi e dal ritmo delle macchine;
- il funzionamento della fabbrica introdusse progressivamente gerarchie e ruoli rigidamente
definiti.
Tale stravolgimento dello stile di vita tradizionale non poteva realizzarsi senza creare tensioni nelle
diverse società europee.
La prima rivoluzione industriale segnò così indelebilmente e in vario modo la storia dello sviluppo
economico dell'Europa occidentale: dal punto di vista sociale e politico le difficili condizioni di vita
dei lavoratori e le dinamiche talvolta laceranti della transizione al sistema di fabbrica centrato sulla
meccanizzazione furono più rilevanti dell'entità della ricchezza generata dall'efficienza delle nuove
strutture produttive.
Gli imprenditori, di fronte allo sgretolamento delle strutture sociali tradizionali sperimentarono una
serie di soluzioni per controllare i tumultuosi cambiamenti della prima industrializzazione e dare
una risposta al disagio sociale di cui erano essi stessi responsabili.
Alla fabbrica venivano così affiancati le seguenti strutture a supporto dei lavoratori:
- alloggi e dormitori per chi proveniva da villaggi lontani;
- spacci per l’acquisto di generi di prima necessità, come cibo e vestiti;
- "villaggi operai", che sorgevano presso gli impianti produttivi di maggiori dimensioni
spesso con l’intervento finanziario dell'imprenditore stesso;
- scuole e altre strutture di sussidiarietà.
Alcuni esempi di luoghi e fabbriche dove furono attuate le esperienze di “paternalismo” sopra
descritte:
- In Gran Bretagna alcuni industriali filantropi avevano contribuito già nel XVIII secolo alla
creazione di comunità di lavoratori. Interessante il caso di Saltaire, il villaggio fondato nel
1853 dall'industriale laniero Titus Salt nel West Yorkshire, che includeva case, scuole, aree
ricreative (biblioteca e sala da concerto) e altri servizi per le famiglie degli operai.
- In Italia, a Crespi d'Adda, il villaggio operaio edificato in Lombardia attorno al cotonificio
alla fine del 1870. Il villaggio, che prese il nome dalla famiglia Crespi, proprietaria del
cotonificio, includeva le case degli operai, le ville dei dirigenti, la chiesa, il cimitero, lo
spaccio, l’ospedale, i bagni pubblici.
- In Francia risale al decennio 1840 l’insediamento industriale nella cittadina francese di Le
Creuseot (Borgogna, nella Francia centrale), era cresciuto attorno all'acciaieria della
famiglia Schneider, che occupava gran parte della popolazione residente nell'area.
Le relazioni paternalistiche si radicarono quasi ovunque, ma con maggior forza in quelle aree dove
le istituzioni nazionali e locali si mostravano più deboli e impreparate a governare i processi di
mutamento.
Si affermava in Europa una classe sociale nuova, la borghesia industriale, destinata ad assumere la
leadership politica ed economica e a produrre una legislazione mirata ad attenuare gli aspetti più
aspri della vita in fabbrica.
La borghesia industriale tentava per questa via di introdurre una moderata redistribuzione dei
vantaggi che traeva dal processo di industrializzazione.
Nemmeno l’imprenditore più attento ai risvolti sociali del sistema di fabbrica era in grado di
prevenire o sanare tutti i problemi sorti con l’industrializzazione. Molti lavoratori consideravano
offensive il paternalismo e l’alto livello di controllo del nuovo sistema.
La determinazione di alcuni gruppi di operai a combattere contro il sistema di fabbrica per
recuperare un certo controllo sul proprio lavoro mise in moto lotte sindacali e movimenti politici.
Joseph Schumpeter studiò con attenzione quei conflitti: nella sua visione gli imprenditori-innovatori
erano quelli che traevano immediato vantaggio dalle nuove tecnologie e dalle nuove forme
organizzative, ma la maggiore efficienza del sistema economico aveva in definitiva portato grandi
benefici alla società in generale.
Le linee guida tracciate da Schumpeter corrispondono a quello che accadde, ma non si trattò di un
processo così semplice e definitivo: il sistema di fabbrica non soppiantò improvvisamente e
rapidamente le preesistenti forme della manifattura. Infatti, durante la prima rivoluzione industriale
la coesistenza di diverse forme di impresa era la regola.
Per esempio, la persistenza del putting-out system nel settore cotoniero era dovuta in parte
all'arretratezza tecnica e ai ritardi nella meccanizzazione della tessitura; questo rendeva vantaggioso
l’utilizzo di forza lavoro addestrata, ma a basso costo, nelle campagne. I cotonifici, quindi,
occuparono all'inizio solo poche dozzine di tessitori "interni", e centinaia di tessitori a domicilio
ancora impegnati nell'attività agricola.
Il sistema di fabbrica forniva soluzioni a molti problemi, ma contemporaneamente ne creava di
nuovi:
- il mantenimento di costosi macchinari;
- la delega dell’autorità;
- la gestione e la trasmissione delle informazioni;
- la definizione di nuove procedure e nuovi ruoli nella società.
La storiografia marxista ha delineato un diverso paradigma di analisi per spiegare la diffusione del
sistema di fabbrica, affermando che la necessità di concentrare la manodopera in un unico luogo era
legata allo sforzo degli imprenditori di accentuare il controllo e quindi l’efficiente sfruttamento dei
lavoratori.
Qui si creava il proletariato, i cui interessi di classe erano opposti a quelli della borghesia.
L’ulteriore specializzazione delle funzioni portava alla svalutazione dei livelli di professionalità del
lavoratore. I frutti del progresso economico erano alla fine sottratti alla classe operaia, che non era
in grado di acquistare i beni industriali.
Nella prospettiva di Schumpeter, invece, il sistema di fabbrica è un'innovazione positiva, una delle
innovazioni veramente epocali che generano il profitto imprenditoriale e incoraggiano l’imitazione:
- i consumatori avrebbero avuto prodotti più economici
- i lavoratori avrebbero avuto nuovo lavoro e il denaro per acquistare i beni
- i manager avrebbero continuato ad avere problemi che richiedevano soluzioni innovative.
La gestione del processo produttivo ha richiesto la formazione di una competenza specifica:
- produrre beni standardizzati in grande quantità
- nuovi metodi di distribuzione
- nuove forme di marketing e vendita al dettaglio
- nuove forme di finanziamento delle imprese.
La rivoluzione industriale aveva profondamente trasformato anche il sistema di formazione e
addestramento dei lavoratori in Europa: la fabbrica diventava luogo privilegiato di trasmissione e
riproduzione delle più importanti conoscenze, quelle legate all'utilizzo delle nuove tecnologie e dei
nuovi macchinari.
7. Le Infrastrutture
L’ultimo quarto del XIX secolo ha visto sorgere nei paesi industriali più avanzati le grandi imprese
(large corporation), destinate a diventare in poco tempo:
- multi-unitarie;
- multifunzionali;
- multiprodotto;
- multinazionali.
Queste organizzazioni richiedono una struttura di governo formata da manager salariati - non
proprietari - portatori di specifiche competenze tecniche.
Prima della rivoluzione industriale i pochi esempi di imprese di grandi dimensioni erano
rappresentati da:
- Banche
- compagnie commerciali d’oltremare
- manifatture statali.
La grande trasformazione economica iniziò con l’industrializzazione:
- l'uso di nuove fonti di energia come i combustibili fossili;
- l’applicazione del vapore ai processi produttivi
- l’introduzione di nuovi macchinari;
- l’ingrandimento delle fabbriche.
La grande impresa non è sorta in concomitanza con i cambiamenti sperimentati nell'Inghilterra della
fine del XVIII secolo. Le fabbriche nei settori tipici della prima rivoluzione industriale avevano
dimensioni limitate nonostante i tentativi di estendere i mercati di sbocco, a causa dei costi e delle
incertezze dei trasporti a largo raggio.
Come ha spiegato Sidney Pollard, nella prima industrializzazione le funzioni amministrative e
gestionali erano minime, e quindi non ha senso “una teoria manageriale della Rivoluzione
Industriale”.
I requisiti fondamentali per l’emergere della large corporation con la sua gerarchia manageriale
sono quindi da ricercare nei progressi tecnologici e nell’allargamento dei mercati che alla fine
dell’Ottocento hanno imposto alle imprese la grande dimensione e la struttura complessa, che ha
come presupposto i grandi cambiamenti nel sistema di comunicazioni e trasporti:
- la navigazione a vapore,
- la ferrovia,
- il telegrafo,
- il telefono
che hanno consentito alle imprese di compiere il salto dimensionale, di raggiungere mercati molto
più vasti facendo affidamento su relazioni sicure e costanti con i fornitori e con i clienti, ma anche
di organizzare sulla base di scadenze certe e regolari le proprie operazioni interne.
La seconda metà del XIX secolo è stata testimone di un progresso senza precedenti nei sistemi di
comunicazione e trasporto; innovazioni come il telegrafo e il telefono hanno infatti consentito uno
scambio di informazioni sempre più veloce, efficiente, esteso.
- Il telegrafo, inventato nel 1844 negli Stati Uniti, per esempio, nel 1861 erano in funzione
già 50.000 miglia di linee telegrafiche, destinate a diventare 291.000 due decenni dopo,
quando, secondo i dati del censimento, erano inviati quasi 32 milioni di messaggi ogni anno.
- Il telefono, invenzione brevettata dall'americano di origini scozzesi Alexander Graham Bell
nel 1876, all'inizio era considerato complementare al telegrafo; presto si era però rivelato
migliore del primo, perché velocizzava le comunicazioni consentendo di trasmettere 100-
200 parole al minuto contro le 15-20 contenute in un telegramma.
forza lavoro e della finanza aziendale: ancora una volta gli Stati Uniti facevano da
battistrada, innovando l’organizzazione manageriale della grande impresa.
8. Tecnologia E Organizzazione
Questo argomento è affrontato sviluppando i seguenti temi:
8.1 Le tecnologie della seconda rivoluzione industriale.
8.2 Il dualismo settoriale e le condizioni per il successo.
8.3 Gli investimenti necessari: la produzione.
8.4 Investimenti necessari: la distribuzione.
8.5 Investimenti necessari: la gerarchia manageriale.
8.6 Le nuove dinamiche della concorrenza.
Verso la fine dell’Ottocento i nuovi sistemi di trasporto e comunicazione hanno rapidamente messo
in moto la trasformazione di interi settori del1'economia, a partire dalla distribuzione delle merci:
- nuovi venditori prendevano il posto dei commercianti tradizionali,
- empori e grandi magazzini guadagnavano velocemente popolarità nel corso della seconda
metà del secolo, proponendo innovazioni quali:
o l’entrata libera,
o i prezzi fissi,
o il vasto assortimento di beni,
o le vendite in saldo, rese possibili dal rapido avvicendamento dell'inventario e
dell'assortimento.
Un analogo ruolo di pioniere è svolto dagli Stati Uniti in due settori correlati:
- la vendita per corrispondenza
- le catene di vendita al dettaglio.
La vendita per corrispondenza era popolare nelle aree lontane dai centri urbani, con leader del
settore come Montgomery Ward e Sears, che offrivano una varietà di prodotti più ampia di quella
disponibile nei negozi ed erano in grado di soddisfare quasi tutte le necessità di una famiglia
contadina. Le catene di vendita, che spesso avevano cominciato offrendo prodotti alimentari, erano
cresciute velocemente all’inizio del XX secolo.
Il maggiore impatto della rivoluzione delle infrastrutture si registrò però sul versante della
produzione. Gli Stati Uniti, la Germania e la Gran Bretagna alla fine dell’Ottocento vantavano i due
terzi della produzione manifatturiera mondiale.
- Gli anni Settanta dell’Ottocento
Nel decennio 1870 erano state introdotte numerose e varie innovazioni nei processi produttivi di
settori come quelli meccanico, chimico ed elettrico, così da essere ora completamente disponibili
per l'applicazione industriale e offrire occasioni di sviluppo.
Per esempio:
- l’invenzione delle macchine per l’inscatolamento e il packaging automatico;
- le tecniche per la distillazione del petrolio;
- le tecniche di raffinamento dello zucchero e degli oli vegetali;
- l’estensione del sistema di produzione e assemblaggio per parti intercambiabili dell'industria
meccanica;
- la disponibilità di una nuova forma di energia molto flessibile: l’elettricità.
Questo complesso di innovazioni, correntemente definito "seconda rivoluzione industriale", si
distingueva dalla precedente fase di cambiamento industriale perché coinvolgeva volumi produttivi
significativamente accresciuti, ma anche per il ritmo del cambiamento molto più rapido. Il
vantaggio competitivo deriva quindi dalle economie di scala.
Al contrario, le imprese in cui i processi di meccanizzazione erano più semplici non cambiarono né
i volumi prodotti né la velocità dei processi produttivi:
- l’abbigliamento,
- la lavorazione del legno,
- l’industria tessile,
- l’industria conciaria,
- la produzione di mobili,
- la produzioni dei rivestimenti edilizi,
- l’editoria.
Per aumentare la produzione in questi settori l’unica via era applicare altri lavoratori e altre
macchine allo stesso processo produttivo.
Al contrario, nei settori in cui gli imprenditori furono abili a sfruttare i vantaggi delle nuove
tecnologie della seconda rivoluzione industriale, le grandi imprese si diffusero rapidamente in
concomitanza con l’introduzione delle innovazioni. Per queste aziende, moltiplicare la capacità
produttiva significava abbassare i costi unitari attraverso le economie di scala. Nell’industria
petrolifera questa transizione fu particolarmente evidente: negli Stati Uniti il processo di
ristrutturazione del settore e la costruzione di raffinerie capaci di ottenere grandi economie di scala
furono decisivi: nel decennio fra il 1860 e il 1870 i costi fissi per 1'impianto di una raffineria
crebbero da 30-40.000 dollari a quasi 60.000; nello stesso decennio una raffineria passava da una
produzione di 900 barili alla settimana a 500 barili al giorno; contemporaneamente il costo era
sceso da 6 a 3 centesimi di dollaro al barile.
Tendenze simili si riscontrarono in altri settori che usavano processi simili di distillazione e
raffinazione:
- produzione di zucchero,
- produzione di whisky,
- produzione di alcol per usi industriali,
- produzione di olio di semi di cotone e di lino,
- produzione di acido solforico e altri prodotti chimici.
Gli imprenditori, alla fine del XIX secolo, ebbero l'occasione di compiere il "triplice investimento"
nelle attività correlate a:
- produzione,
- distribuzione,
- management.
Il primo obiettivo da raggiungere per le grandi aziende impegnate nello sfruttamento delle
economie di scala e di diversificazione era quello di ottenere un elevato livello di produzione.
L’iniziale investimento di capitale nei settori avanzati della seconda rivoluzione industriale e i costi
fissi necessari a mantenere operativi gli impianti erano molto più alti rispetto a quelli che si
registravano nei settori ad alta intensità di lavoro e potevano essere compensati solo attraverso
l’utilizzo pieno e continuo degli stabilimenti. L'unica via per ottenere il massimo vantaggio dalle
potenzialità di riduzione dei costi derivava quindi dal mantenimento di un flusso elevato e costante
dei materiali nello stabilimento.
Casi di successo:
- la Standard Oil. All'inizio degli anni Ottanta dell’Ottocento erano quaranta le società
operative nel settore petrolifero, entità indipendenti dal punto di vista legale e
amministrativo, ma legate alia Standard Oil Company di John D. Rockefeller attraverso
scambi di azioni e altri stratagemmi finanziari. Nel 1882 le società decisero di collegarsi
formalmente, dando vita allo Standard Oil Trust, con due funzioni specifiche:
riorganizzazione dei processi di produzione. coordinamento del flusso dei materiali non solo
all’interno delle numerose raffinerie, ma anche dai pozzi petroliferi alle raffinerie e da
queste ai clienti finali.
Gli investimenti in macchinari e impianti adeguati alla produzione su larga scala non erano tuttavia
sufficienti a garantire, da soli, i risultati economici attesi dalle grandi imprese.
Le prime grandi imprese hanno dovuto subito raggiungere un alto livello di integrazione verticale
per mantenere un costante throughput nel processo produttivo, evitando quindi ogni ostacolo o
ritardo nell'approvvigionamento o nella distribuzione.
Divenne necessario per le grandi imprese operare un secondo significativo investimento, questa
volta, nelle attività di distribuzione. Prima dell'affermazione delle nuove tecnologie, l’intermediario
tipico si occupava della commercializzazione di merci provenienti da diversi produttori, contando
così su un volume di affari elevato.
La grande varietà delle merci distribuite consentiva agli intermediari tradizionali di mantenere più
bassi costi di marketing e distribuzione.
Infine, i distributori ottenevano economie di diversificazione operando sia all'ingrosso sia al
dettaglio.
Tutti questi vantaggi che i distributori traevano dall'intermediazione tradizionale svanirono
velocemente con l’affermazione delle nuove tecnologie. I nuovi prodotti richiesero strutture di
distribuzione rinnovate e l’utilizzo di competenze specifiche di marketing e commercializzazione.
Apparve più semplice alle imprese operare su questo versante al proprio interno.
La personalizzazione delle caratteristiche di ogni articolo richiedeva infatti specifiche conoscenze
sulle modalità di vendita, installazione e manutenzione; talvolta erano richieste anche speciali
strutture di trasporto e deposito. Il vantaggio una volta detenuto dal distributore si era spostato dal
commercio al dettaglio all'imprenditore industriale, che ora poteva contare anche su queste
migliorate strutture di commercializzazione per il marketing e la distribuzione dei suoi prodotti.
Il caso delle aziende meccaniche illustra bene quanto accadde in molti settori ad alta intensità di
capitale.
- Caso di studio
Negli Stati Uniti i fabbricanti di macchine per cucire furono tra i primi a procedere nell'integrazione
verso il sistema distributivo. Cominciarono infatti a collegare all'impresa agenti indipendenti con
mandati commerciali in aree definite, impegnati a tempo pieno, retribuiti con un piccolo incentivo
supplementare per ogni commessa realizzata.
Ci fu un aumento della complessità delle grandi imprese in un arco di tempo relativamente breve.
Si rese allora indispensabile un terzo investimento, quello destinato all'assunzione e alla formazione
dei quadri manageriali con le competenze professionali necessarie ad assolvere a tutti questi
compiti. Se per l’imprenditore della prima rivoluzione industriale il successo derivava dall’abilità di
controllare la manodopera in fabbrica e coordinare l’attività produttiva, l’atto critico imprenditoriale
della seconda rivoluzione industriale è invece l’abilità di creare e controllare un'estesa gerarchia
manageriale.
Ogni manager gode di autonomia decisionale all’interno di un segmento di attività, che si possono
definire con l’acronimo POSDCORB:
- planning,
- organizing,
- staffing,
- directing,
- coordinating,
- reporting,
- budgeting.
Le gerarchie manageriali vennero inizialmente organizzate sulla base di dipartimenti, ognuno
dedicato a una specifica funzione.
Casi di successo:
Un esempio classico di questa formula organizzativa era l’impresa chimica americana DuPont, la
quale aveva un ufficio centrale con il quale collaboravano diversi staff a definire la strategia
aziendale. Le singole funzioni (finanza, vendite, produzione, acquisti, ricerca e sviluppo, traffico)
erano dirette dai dipartimenti; a ogni dipartimento facevano infine riferimento i gruppi di unità
operative. Il top management sovrintendeva al1'attività nel complesso, i manager di medio livello
erano a capo dei diversi dipartimenti e i manager di basso livello erano responsabili delle unità
operative.
Negli Stati Uniti questa combinazione era chiamata Comitato esecutivo del Consiglio di
amministrazione (Executive Committee of the Board), mentre in Germania era nota come Consiglio
di gestione (Vorstand). In Gran Bretagna i partecipanti al vertice decisionale diventarono noti come
i dirigenti esecutivi (Managing o Executive Directors).
Questa non fu comunque una fase di facile transizione perché introdusse un sistema di elevata
condivisione del potere all’interno delle grandi aziende, ma anche all'interno dei capitalismi
nazionali.
La moderna corporation industriale ha origine fra il XIX e XX secolo, quando gli imprenditori
hanno deciso di investire:
- in impianti produttivi sufficientemente grandi da realizzare economie di scala e di
diversificazione,
- in sistemi di distribuzione e lavoratori specializzati per singole linee di prodotto,
- in un'organizzazione manageriale capace di coordinare tutte queste attività.
I pionieri hanno spesso goduto notevoli vantaggi competitivi, i cosiddetti vantaggi dei first mover. I
potenziali concorrenti sono stati costretti a realizzare i necessari investimenti nella distribuzione e
nella ricerca, ad assumere e formare una gerarchia manageriale.
Gli ultimi arrivati, gli inseguitori si trovarono quindi a definire strategie per sottrarre clienti ai first
mover. Tra XIX e XX secolo le grandi imprese furono costrette a ricercare e sperimentare nuove e
varie strategica di crescita.
9. I Modelli Nazionali
All’inizio del XX secolo, la diffusione delle nuove tecnologie ad alta intensità di capitale e ad
elevati volumi produttivi aveva ormai trasformato l’economia di molti Paesi.
Gli Stati Uniti e l’Europa occidentale erano le prime aree a sperimentare il cambiamento che nei
decenni seguenti si sarebbe diffuso in tutto il mondo.
Si svilupparono esperienze diverse:
- gli Stati Uniti, favoriti dalla dotazione di materie prime e da una popolazione in continua
crescita, acquisirono la posizione di leader nello sfruttamento delle nuove tecnologie. Prima
dello scoppio della guerra mondiale la large corporation era ormai un fenomeno ampiamente
diffuso nell'economia nordamericana;
- le nazioni europee, dove le risorse erano meno abbondanti e i mercati di dimensione molto
più ridotta rispetto agli Stati Uniti, lo sviluppo delle nuove forme di impresa fu più lento
(esistevano tuttavia eccezioni, come il caso di numerose imprese della Germania).
Le opportunità offerte dalla seconda rivoluzione industriale sono state sfruttate in maniera diversa
dalle tre maggiori nazioni industriali: Stati Uniti, Germania, Gran Bretagna.
Gli Stati Uniti: alla vigilia della Prima guerra mondiale la grande impresa si era affermata
negli Stati Uniti in tutti i settori in cui lo sviluppo tecnologico lo aveva reso possibile, sia
nella produzione dei beni di consumo sia in quella dei beni intermedi o industriali.
Le caratteristiche di queste imprese erano le seguenti:
o si trattava di società per azioni,
o queste società tendevano a integrare un crescente numero di funzioni all'interno,
o il management era diverso per la prima volta si intravedeva una separazione netta
fra proprietà e controllo.
Esistevano in alcuni settori opportunità di successo per le piccole aziende: il principale vantaggio
che queste ultime potevano offrire era quello della flessibilità, che permetteva loro di differenziare,
nel senso di una migliore qualità.
Germania: prima del 1914, la grande azienda in Germania mostrava caratteri simili a quelli
della large corporation americana, ma anche evidenti tratti originali. In particolare, la
proprietà continuava a esercitare un peso nella direzione dell'impresa e a decidere gli
investimenti necessari all’espansione.
In Germania, come negli Stati Uniti, l’opinione pubblica era favorevole alla grande
dimensione d'impresa, anche grazie alla lunga tradizione dell'efficiente burocrazia al
servizio dello Stato.
I metodi di management fondati sulle tradizioni familiari o trasmessi da una persona all'altra
si erano rivelati via via inadeguati per complessi in forte espansione.
L'immissione sistematica di un management adeguato alle nuove prospettive tecnologiche
ed economiche fu allora la riposta delle élite industriali, sia pure con differenze fra settore e
settore.
La grande corporation non assunse in Germania il ruolo di leader in tutti i settori della
seconda rivoluzione industriale. La grande corporation era diffusa nei seguenti settori:
o nella produzione delle ferrovie,
o nell’economia russa,
o nella siderurgia,
o nella chimica,
o nella meccanica pesante
La grande corporation era quasi assente nella produzione dei beni di consumo.
In Germania era del tutto assente una legislazione specifica contro i monopoli e le pratiche
monopolistiche. Nel 1897, quasi negli stessi anni in cui la Corte suprema degli Stati Uniti
confermava la costituzionalità dello Sherman Act, rendendo così illegali gli accordi fra le
imprese, il Reichsgericht (l’Alta Corte tedesca) sentenziava che gli accordi contrattuali sui
prezzi, sulla produzione e sulla spartizione dei mercati potevano avere una sanzione
giuridica, in quanto non andavano solo a vantaggio di coloro che li avevano stipulati, ma
anche per l’interesse pubblico. Il pieno riconoscimento legale degli accordi ha così limitato
in Germania l’estendersi delle fusioni e delle acquisizioni, e il processo di concentrazione è
stato più contenuto di quello sperimentato in America.
Alcuni studi hanno perfino mostrato l’esito positivo dei cartelli nel campo della innovazione,
per effetto della stabilizzazione dei mercati che ha consentito alle imprese di destinare
cospicue risorse ai dipartimenti di ricerca e sviluppo.
Nel caso tedesco è importante anche sottolineare lo sviluppo di eccellenti istituzioni
educative di livello superiore:
o le università tedesche hanno ospitato alcuni dei migliori dipartimenti di ricerca;
o lo Stato ha rivestito un ruolo determinante in questo processo;
o la formazione professionale, con la formazione di una classe di artigiani
specializzati.
Come nel caso degli Stati Uniti, l’affermazione della corporation come protagonista
dell'economia tedesca ha cambiato, ma non eliminato, la piccola proprietà.
Gran Bretagna: anche nella patria della prima rivoluzione industriale le nuove tecnologie di
produzione di massa e la crescente competizione internazionale hanno avuto un forte
impatto. Negli anni immediatamente precedenti la Prima guerra mondiale grandi imprese
come la Dunlop (gomma), la Courtaulds (fibre sintetiche) e la Pilkington (vetro) avevano
integrato con successo la produzione e una buona rete di marketing, ed erano in grado di
competere a livello internazionale. Un secolo di industrializzazione aveva però fatto del
Regno Unito un Paese molto differente dagli altri.
La grande impresa aveva assunto in Gran Bretagna tratti differenti da quelli finora descritti:
era concentrata sui settori di largo consumo.
Il big business inglese spiccava per la limitata integrazione verticale e per la persistenza di
un buon numero di famiglie proprietarie, che lasciavano ben poco spazio alia creazione di
estese gerarchie manageriali.
Il percorso perseguito con maggiore frequenza dalla grande impresa britannica è stato
quindi, in buona misura, il meno efficiente, perché non ha permesso di cogliere a pieno il
vantaggio del potenziale economico, insito nell'adozione delle nuove tecnologie.
Nondimeno, si è trattato probabilmente della scelta migliore per molti imprenditori inglesi.
In generale le imprese inglesi sembravano godere dei vantaggi di un ampio mercato, sia
interno sia internazionale.
Le caratteristiche principali di questo sistema negli anni della seconda rivoluzione
industriale erano:
o il mercato interno poco dinamico, perché, dopo un secolo di ininterrotta crescita, gli
incrementi del reddito pro-capite registravano un rallentamento;
o la Gran Bretagna continuava a esportare prodotti tipici della prima rivoluzione
industriale;
o un contesto socioeconomico in cui si sarebbe potuta difficilmente affermare la large
corporation secondo il modello americano.
Un'altra differenza importante che ha reso la grande impresa inglese diversa dalle dirette
concorrenti straniere era la regolamentazione. In Gran Bretagna gli accordi per il controllo
della competizione fra imprese si erano dimostrati molto efficaci: la legge non poteva né
Senza un gruppo di interesse che percepisse come minacciati i propri diritti, non si vedeva
l’esigenza di adottare una politica antitrust. La stessa ondata di fusioni che aveva colpito
l’industria negli Stati Uniti si rilevava negli stessi anni anche in Inghilterra.
Nel Regno Unito le fusioni erano rimaste federazioni di imprese, di dimensioni più piccole
delle corrispondenti imprese americane. Le istituzioni del Regno Unito ebbero, circa il
sistema d'istruzione in relazione alle esigenze delle nuove imprese, uno sviluppo molto
lento.
Nelle imprese familiari inglesi, i proprietari si mostravano riluttanti a cedere o condividere li
controllo dell'azienda e come conseguenza, gli investimenti da loro operati erano
notevolmente inferiori rispetto a quelli realizzati parallelamente in Germania e in America.
Se comparata con i successi ottenuti dalla grande impresa negli Stati Uniti e in Germania, la
vicenda dell'industria britannica può essere descritta in larga parte come una storia di
occasioni mancate e di ritardi. Emblematico è il caso della produzione di coloranti sintetici:
nel 1870 1'lnghilterra sembrava possedere tutti i requisiti per sviluppare su larga scala questa
industria e prevalere nella competizione internazionale.
Eppure, sono state le imprese tedesche a rivestire il ruolo di first mover del settore
nell'ultimo decennio dell'Ottocento, rinnovando completamente gli impianti e investendo nel
marketing. Nel tempo, l’industria inglese ha sperimentato simili sconfitte in settori come la
siderurgia, la meccanica pesante e le produzioni di massa della meccanica leggera.
Anche se la Gran Bretagna aveva perso il primato industriale secolare, ormai ceduto agli
Stati Uniti seguiti dalla Germania, diversi settori del1'economia inglese mantenevano
posizioni forti, come quello della finanza internazionale. In Gran Bretagna il sistema del big
business si è evoluto a fianco di una vivace articolazione di piccole e medie imprese che in
alcuni campi, come il tessile, ha dato origine a estesi e ricchi distretti industriali.
9.3 I Latecomer
A causa del livello tecnologico raggiunto dalle nazioni più avanzate, i Paesi che hanno scelto la
strada dell'industrializzazione negli ultimi due decenni dell'Ottocento hanno dovuto aprirsi un varco
tra forti concorrenti. Questo ha comportato un intreccio fitto fra imprese e Stato.
L'azione dei governi si è resa necessaria per le seguenti ragioni:
- l’impatto con settori ad alta intensità di capitale,
- la carente accumulazione di capitali,
- la scarsità di risorse socioculturali indispensabili alla modernizzazione economica.
Lo Stato ha sostenuto la grande impresa con:
- sovvenzioni,
- protezionismo,
- commesse,
- salvataggi.
Lo Stato, in alcuni casi, ha addirittura avuto un impegno diretto come imprenditore.
All’inizio del Novecento anche la Francia registrava l’arrivo del big business nei settori
della seconda rivoluzione industriale. Mentre un gran numero di società, in quasi ogni
settore, restava di piccole dimensioni e a direzione familiare, alcune imprese cominciavano
ad assomigliare alle moderne corporation americane, tedesche e inglesi.
In questa prospettiva, l’economia francese si sta muovendo nella stessa direzione delle
nazioni first mover.
I settori in cui maggiormente si diffuse il big business furono:
o il siderurgico,
o il tessile,
o il vetro,
o il cemento,
o l’editoriale,
o i mezzi di trasporto.
Alla vigilia della guerra mondiale si aggiunsero anche i seguenti settori:
o il petrolifero,
o l’industria della gomma e degli pneumatici,
o l’automobilistico,
o l’elettrico,
o la produzione dell'alluminio.
Russia: La storia della grande impresa in Russia inizia prima della Rivoluzione d’ottobre del
1917. L’intervento del governo in Russia è stato decisivo per la promozione e il sussidio alle
iniziative locali, attraverso:
o l’imposizione di dazi a protezione del mercato nazionale,
o l’attrazione degli investimenti esteri,
o l'iniziativa diretta della costruzione di quelle infrastrutture fondamentali al processo
di industrializzazione e modernizzazione in un paese di dimensioni tanto vaste, a
cominciare dalle ferrovie.
Le prime grandi società industriali, create per iniziativa russa o investitori stranieri, erano
concentrate nei settori ad alta intensità di capitale:
o siderurgico,
o meccanico,
o petrolifero,
o della gomma,
o dei trasporti,
o delle costruzioni navali.
Il Giappone: Il Giappone è stato il primo Paese non occidentale a raggiungere una posizione
di primo piano nel panorama economico internazionale. A partire dalla restaurazione Meiji
del 1868, il governo ha attivamente promosso il processo di industrializzazione nei seguenti
settori:
o Minerario,
o cotoniero,
o produzione di cemento,
o vetro,
o cantieristica.
Lo Stato non era l’unico protagonista della crescita economica giapponese: le imprese
private ebbero infatti un ruolo fondamentale assumendo la gestione delle aziende create dal
governo, quando questo comprese che non poteva sostenerne lo sviluppo fino alla grande
dimensione.
La crescita dimensionale delle imprese è stata però quasi universale, come il trend verso
l’affermazione delle competenze tecniche nella direzione aziendale.
10.1 Il Cambiamento Organizzativo Nella Grande Impresa Americana: Dalla U Form Alla M
Form
Alla fine della Prima guerra mondiale gli Stati Uniti erano il Paese industriale più sviluppato a
livello mondiale: le grandi imprese americane erano in parte il risultato di percorsi di crescita
interni, in parte l’esito di fusioni. Un segnale del successo della fusione era a questo punto la
drastica diminuzione dei costi unitari di produzione e la conseguente espansione delle quote di
mercato.
La formula organizzativa e di gestione caratteristica della grande azienda americana era la U-form
(impresa unitaria), nella quale erano individuate funzioni come:
- la produzione,
- il marketing,
- la logistica,
- le risorse umane,
- la finanza,
- i servizi legali.
Significativi cambiamenti organizzativi erano poi interventi negli anni Venti, quando il ruolo del
management professionale aveva acquisito un'importanza crescente: da questa fase di
trasformazione era infine emersa la moderna impresa multidivisionale. Le imprese non avrebbero
più potuto contare esclusivamente sui fattori esterni per la loro espansione, ossia:
- la crescita della popolazione,
- la costruzione delle ferrovie,
- l’urbanizzazione.
Diventava essenziale compensare la caduta della domanda. Contemporaneamente, il processo di
crescita e le fusioni avevano portato alla creazione di un eccesso di risorse interne, a causa dei
precedenti investimenti in funzioni non direttamente correlate alla produzione.
In alcuni settori, come l’elettromeccanico e il chimico, spesso la crescita dell'impresa non si
fondava su condizioni esterne (l’andamento dei prezzi o altri fattori legati alla domanda), quanto
piuttosto sugli sviluppi interni all’azienda stessa. Per i manager, quindi, risorse sottoutilizzate
all'interno della società costituivano un continuo stimolo al1'espansione, e spesso era il management
stesso a rappresentare la risorsa più preziosa dell'impresa. Si era così avviato un processo di
diversificazione che non poteva essere governato all'interno della cornice organizzativa tradizionale.
L’espansione delle linee di produzione, già difficile da gestire nel quadro della tipica piramide della
U-form centralizzata, cominciava a creare tensioni all'interno delle imprese.
Un ruolo pionieristico svolsero allora la DuPont e la General Motors. I vertici di queste corporation
compresero le diverse sfaccettature del problema, che imponeva di considerare il focus sulla
strategia e, insieme, l’importanza di concedere ai manager un certo grado di libertà operativa nella
gestione dei rispettivi mercati. Vennero definite divisioni indipendenti; le nuove divisioni erano
dotate delle funzioni di line e staff necessarie a operare efficacemente.
Il vertice dirigente non risultava più impegnato nelle funzioni operative ordinarie; poteva quindi
concentrarsi sui seguenti aspetti:
- supervisione,
- coordinamento,
- valutazione,
- allocazione delle risorse per l’intero complesso.
Le divisioni recentemente costituite erano di norma definite sulla base di aree tecnologiche o
geografiche.
L’impresa multidivisionale raggiungeva un elevato grado di coesione, pur conservando una grande
flessibilità. Lo staff al vertice dell'impresa era così in grado di sovrintendere al processo di
diversificazione, trasferendo le risorse finanziarie, tecniche e manageriali da una divisione all'altra. I
legami fra il quartier generale e le divisioni garantivano che l’impresa multidivisionale (nota anche
come M-form) non si ponesse come discontinuità rispetto all'impresa integrata operante negli anni
precedenti la Prima guerra mondiale, ma piuttosto come il prodotto di una naturale evoluzione.
10.2 General Motors: Successo E Conflitto Interno In Una Grande Impresa Multidivisionale
La soluzione multidivisionale non ha certo rappresentato per ogni impresa un esito di successo.
Henry Ford, probabilmente il maggior imprenditore del suo tempo, aveva un'avversione per gli
organigrammi e la burocrazia aziendale, e fu incapace di compiere questo passaggio.
10.3 L’ascesa Del Capitalismo Manageriale Nel Dibattito Dei Contemporanei: La Separazione
Fra Controllo E Proprietà E Il Ruolo Manager
II 25 dicembre del 1925 alcune imprese chimiche tedesche, fra le maggiori del Paese (Agfa,
Hoechst, Bayer e BASF) definivano un accordo formale che aveva come esito una federazione
chiamata I.G. Farben (I.G. stava per Interessen Gemeinschaft, comunità di interessi).
La I.G. Farben diventava così la maggiore società chimica in Europa e una delle più grandi a livello
mondiale (aveva circa 100.000 dipendenti). Si tratta di un’impresa che è davvero in grado di
competere con le grandi industrie americane.
Uno dei principali obiettivi della sua creazione era il recupero della leadership mondiale che
l’industria chimica tedesca aveva perso dopo la Grande guerra (ricordiamo il prezzo che la
Germania ha dovuto pagare, visto che era stata riconosciuta unica colpevole e responsabile).
L'importanza assoluta della I.G. Farben è testimoniata dal fatto che prima dello scoppio del secondo
conflitto, il vertice aveva stretto alcuni accordi di cartello segreti a livello internazionale, per
esempio con i leader della Standard Oil e della DuPont.
Vi furono conseguenze anche a livello europeo: negli anni seguenti alla sua costituzione venivano
infatti creati raggruppamenti simili di imprese in Gran Bretagna e in Francia, rispettivamente con la
Imperial Chemical Industries (ICI) nel 1926 e la Rhône-Poulenc nel 1928.
I processi di aggregazione attraverso fusioni e federazioni si relazionavano a fattori di natura sia
economica sia politica, come la necessità di:
- stabilizzare i profitti, per evitare il ridimensionamento degli stessi
- ridurre i costi unitari attraverso le economie di scala e di diversificazione.
La I.G. Farben iniziava un'aggressiva politica di acquisizioni al1'estero; il primo obiettivo era il
mercato britannico. La I.G. Farben tentava di acquisire nel 1925 la British Dyestuffs Corporation
(BDC), con sede a Manchester. La mossa tedesca era considerata inaccettabile dal governo
britannico, che decideva di operare indirettamente per promuovere una fusione esclusivamente
"inglese", che si concretizzò nel 1927, con la creazione dell'ICI.
Le mosse in un ambito ristretto come quello europeo coinvolgono altre realtà nazionali che sono o
particolarmente deboli o devono rispondere. Si può constatare perciò che si tratta di un meccanismo
di convergenza “imperfetta”.
La Prima guerra mondiale aveva evidenziato la decisa modernizzazione in corso nei settori di punta
delle economie europee più avanzate (economia di guerra). I comparti tessile e della lavorazione del
ferro perdevano progressivamente terreno a favore dei settori ad alta intensità di capitale:
- chimico,
- elettrico,
- siderurgico (dell’acciaio).
La guerra aveva messo alla prova l’efficacia dei sistemi industriali nazionali a tutti i livelli. Anche
nelle economie periferiche si erano imposti gli imperativi della seconda rivoluzione industriale. Alla
vigilia del secondo conflitto, fra i 50 maggiori gruppi industriali per capitalizzazione a livello
internazionale, 32 erano negli Stati Uniti, 11 in Gran Bretagna e 4 in Germania.
Le decisioni politiche avevano assunto una connotazione protezionistica, corporativa e sempre più
interventista, sia nei governi democratici sia in quelli autoritari; gli accordi e i cartelli erano tollerati
sia a livello nazionale sia internazionale.
La seconda rivoluzione industriale in Europa presenta per lo storico alcuni punti controversi.
Gli imprenditori europei che operavano nei settori più avanzati si trovarono a:
- mettere in atto politiche di sviluppo e di integrazione,
- ricercare appropriate fonti di finanziamento e di materie prime,
- organizzare e disciplinare la forza lavoro (molto più organizzata rispetto a quella americana)
- aprire nuovi canali di distribuzione per i beni che stavano cominciando a produrre in scala
maggiore rispetto al passato (trovare mercati di sbocco, altrimenti non possono competere
con gli Americani).
Nel corso dei turbolenti anni fra le due guerre, i cartelli si erano diffusi velocemente anche a livello
internazionale, un risultato logico della stagnazione e dell'instabilità dei mercati globali.
Questi modelli sociali influenzavano le grandi imprese emerse dal processo di fusioni e
acquisizioni. Le holding britanniche, che consentivano alle famiglie di mantenere un ruolo
tradizionale nelle imprese, non erano M-form integrate e decentrate, ma un sistema federativo
radicato nelle associazioni e partnership che avevano caratterizzato il capitalismo industriale inglese
negli ultimi decenni dell’Ottocento.
In Germania lo sviluppo delle grandi imprese fu sostenuto dai seguenti fattori:
- dal mercato azionario,
- da un efficiente sistema bancario, articolato in grandi istituti di credito.
A partire dalla fine dell'Ottocento le banche erano diventate la componente chiave del capitalismo
tedesco, in qualità di importanti creditori e di influenti azionisti.
Nel resto dell'Europa continentale i mercati dei capitali assumevano intanto delle forme intermedie.
In Francia e in Italia, le famiglie imprenditrici nei settori ad alta intensità di capitale furono in grado
di mantenere uno stretto controllo sulle loro imprese, conservando la posizione di vertice.
Relazioni industriali Europa e Stati Uniti si differenziano anche per quello che riguarda le
relazioni fra capitale e lavoro. Il numero (anche nei regimi autoritari e dittatoriali), i colletti bianchi
(gli impiegati) e le tute blu (gli operai) rappresentavano componenti fondamentali per l’impresa. La
partecipazione dei lavoratori al governo dell'azienda era un tratto caratteristico dell'esperienza
europea successiva al primo grande conflitto. Anche se il riconoscimento era puramente formale, la
forza lavoro europea manteneva una posizione di rilievo nella cornice aziendale.
I lavoratori si presentavano infatti con una decisa identità politica e una forza organizzativa
sindacale superiore a quella che si poteva riscontrare nel sistema delle relazioni industriali
statunitensi prima del New Deal.
La differenza risale al fatto che in quasi tutte le grandi aziende europee la forza lavoro aveva
mantenuto un certo controllo sul processo produttivo in fabbrica, un processo guidato dagli operai
specializzati che godevano di un alto grado di autonomia.
Europa e Stati Uniti si differenziavano nettamente anche per quanto riguarda la composizione del
gruppo dirigente nelle imprese. In America le carriere manageriali rappresentavano una via di
elevazione e mobilità sociale, ed erano quindi molto attraenti per i giovani appartenenti alle classi
medie e agli strati superiori delle classi lavoratrici; le discipline manageriali erano inserite in corsi
di formazione specializzati, offerte da istituzioni ad hoc o dalle business school. In Europa, al
contrario, erano disponibili pochissimi corsi specificamente diretti alla formazione dei dirigenti.
L'addestramento avveniva generalmente nei luoghi di lavoro (on-the-job).
11.4 Strategie E Strutture Delle Imprese Europee Negli Anni Tra Le Due Guerre
In questo panorama economico, nel periodo fra le due guerre le imprese europee erano rimaste in
media più piccole delle concorrenti americane, si mostravano meno interessate a promuovere la
separazione fra proprietà e controllo, erano meno diversificate. Questo consentì a varie componenti
– individui, famiglie proprietarie, banche e anche governi - di mantenere il controllo delle aziende,
evitando alcuni dei problemi che venivano associati al sistema americano dell'impresa manageriale.
Il percorso seguito dall'Europa includeva inoltre la progressiva diffusione della H-form (struttura a
holding), che si dimostrava flessibile e adattabile a diverse situazioni. Nel caso britannico fu lo
strumento che permise di realizzare le fusioni in modo non traumatico, mantenendo in vita la
tradizione inglese delle federazioni d'imprese.
- 1868: "rivoluzione Meiji" (definita anche "restaurazione Meiji"), con la quale un gruppo di
oligarchi, aristocratici e samurai prese il controllo del governo nazionale.
Quella della rivoluzione Meiji è considerata come la data d'inizio della Storia del Giappone
moderno. Nei secoli precedenti, periodo Tokugawa:
- il Giappone era sostanzialmente chiuso alle influenze estere. Dall'inizio del XVII secolo
l'ostilità della classe dominante verso gli stranieri comportò l’esclusione degli occidentali e
l’interruzione di ogni flusso e scambio commerciale, di capitale umano e tecnologia, che
caratterizzava invece l’economia europea coeva.
Nello stesso periodo si assisteva alla trasformazione della struttura industriale: mentre il settore
tessile manteneva la testa in termini di produzione ed esportazioni, si affermava la crescente
importanza dei settori "moderni", come il chimico, il siderurgico e il meccanico.
Sul finire del decennio 1880, dopo aver svolto un ruolo fondamentale nella modernizzazione
industriale del Paese, lo Stato cominciò a vendere gli "impianti pilota" agli imprenditori privati a
prezzi e condizioni favorevoli. I successi dell'iniziativa privata convinsero il governo giapponese a
ridurre il proprio impegno diretto in alcuni settori dell'economia nazionale.
Fra gli acquirenti erano diversi i commercianti già attivi nell'era Tokugawa, che decidevano di
impiegare le ricchezze accumulate negli scambi in queste imprese industriali ex-statali,
diversificando così il loro impegno imprenditoriale.
La storia della Mitsubishi esemplifica meglio questo percorso, in quanto partendo da una
tradizionale attività di commercio marittimo, il gruppo iniziava la diversificazione entrando nel
settore minerario, assicurandosi l’approvvigionamento del carbone necessario come combustibile
delle navi. Arrivava poi al settore cantieristico acquisendo un impianto già di proprietà statale. In
seguito, investiva nella siderurgia allo scopo di provvedere in proprio alle materie prime e alle
produzioni di base necessarie ai cantieri navali. Infine, tale strategia di integrazione verticale
spingeva il gruppo a entrare nel settore delle assicurazioni. Imprese come la Mitsubishi erano
chiamate zaibatsu (gruppi finanziari).
Negli anni fra le due guerre gli zaibatsu si diffondevano:
- nei settori ad alta intensità di capitale e di lavoro;
- nei servizi finanziari;
- nel settore bancario;
- nel settore assicurativo.
La loro particolare struttura proprietaria e organizzativa consentiva di sviluppare un set diversificato
di attività, alcune delle quali condividevano un nucleo tecnologico, mentre tutte avevano in comune
le fonti di finanziamento.
Fra le due guerre i grandi gruppi imprenditoriali giapponesi assunsero una struttura definita multi-
subsidiary, basata su una serie di consociate o holding sottoposte al pieno controllo della famiglia
proprietaria di ogni zaibatsu.
Una sezione particolarmente importante di questa complicata struttura era rappresentata dalla
shosha, la trading company del gruppo, che forniva servizi d'intermediazione e assicurava la
liquidità finanziaria a tutto lo zaibatsu. Il controllo familiare su ogni gruppo era assicurato e
rafforzato dall'uso della leva azionaria, combinata con altri meccanismi di incrocio delle
partecipazioni e dei posti nei consigli di amministrazione delle società.
La house bank di ogni gruppo agiva sia come creditore sia come azionista, ma ogni istituto aveva
anche un ruolo centrale di "stanza di compensazione", quando decideva come allocare le risorse in
modo opportuno fra le varie società appartenenti allo zaibatsu.
Dal punto di vista organizzativo, ogni gruppo basava la sua capacità di gestire centinaia di società e
migliaia di dipendenti sul decentramento delle strutture produttive. L'espansione dei gruppi
giapponesi avveniva di norma attraverso la creazione di nuove consociate, talvolta in settori
completamente nuovi: lo zaibatsu poteva così crescere per via di un'espansione interna, attraverso
l’integrazione verticale o la diversificazione.
Gli zaibatsu svolsero indubbiamente una funzione cruciale nello sviluppo economico giapponese,
ma non deve essere sottostimato il contributo di altre iniziative imprenditoriali di piccole e medie
dimensioni sparse in tutto il Paese. La piccola azienda "imprenditoriale" era spesso attiva in settori
con uno specifico contenuto artigianale, come la produzione delle macchine utensili e i comparti
della meccanica leggera.
I fattori decisivi per spiegare la persistenza della piccola dimensione nel sistema produttivo
giapponese erano:
- la disponibilità di forza lavoro a basso costo
- la diffusione capillare dei motori elettrici.
Già prima della guerra, quindi, si delineava una sorta di "dualismo", tra pochi giganteschi gruppi,
circondati da una miriade di piccole imprese. Le attività industriali di dimensioni piccole e medie
non erano completamente indipendenti, ma spesso collegate ai maggiori zaibatsu, catene fondate su
relazioni di subcontracting.
12.4 "Famiglie Che Regnano, Ma Non Governano": Management, Organizzazione Del Lavoro
E Relazioni Industriali Negli Zaibatsu
I grandi gruppi diversificati giapponesi arrivarono presto a dotarsi delle gerarchie manageriali e
delle strutture organizzative indispensabili per gestire le loro attività sempre più complesse e
decentrate.
Il principio di autorità non aveva una specificazione formale, mentre cooperazione e competizione
trovavano un punto di equilibrio originale radicato nella cultura e nelle relazioni sociali del Paese.
Nel periodo precedente il secondo conflitto, la separazione fra proprietà e controllo all'interno dei
grandi gruppi era realizzata attraverso la nomina di un bantô, general manager che tecnicamente
non apparteneva alla famiglia proprietaria, ma le era legato da anni di dipendenza e da un vincolo
speciale di fedeltà. In questo modo, lentamente la proprietà si era distaccata dalle funzioni
operative, al punto che già alla fine del primo conflitto, per la maggior parte degli zaibatsu si può
parlare di "famiglie regnanti", ma ormai lontane dal governo dell’impresa.
Il processo di diversificazione ed espansione in atto nelle maggiori compagnie giapponesi negli anni
Venti e Trenta era quindi guidato da manager stipendiati, provenienti dall'amministrazione pubblica,
giovani laureati, tecnici e ingegneri.
Parallelamente, la formazione di un proletariato, provenienti in larga parte dalle campagne, poneva
le compagnie di fronte al problema di motivare, disciplinare e gestire una vasta forza lavoro. Anche
in Giappone, come altrove, il processo d'industrializzazione erodeva la cultura paternalistica.
La modernizzazione forzata portava anche all'esplosione di conflitti sociali.
La pressione sociale, insieme alla necessità del management di trattenere in fabbrica la forza lavoro
di origine contadina già addestrata al lavoro industriale, convinsero la proprietà e la direzione a
ricercare un diverso modello di relazioni industriali.
I dirigenti degli zaibatsu arrivarono quindi a promuovere la stabilità della manodopera occupata
attraverso programmi di welfare, assicurazioni, istruzione estesi anche alle famiglie dei lavoratori:
- programmi formazione interna,
- struttura salariale basata su un sistema di premi legati alle performance e ai profitti,
- permisero infine ai manager di motivare la forza lavoro e garantirne l’obbedienza
all'impresa.
12.5 Nazionalismo, Militarismo E Crescita Industriale Fra Le Due Guerre: Il Ruolo Dello Stato.
Nel corso degli anni Trenta l’accentuazione delle politiche nazionalistiche ha avvicinato l’esercito ai
vertici dei grandi gruppi industriali, in quanto maggiori beneficiari delle commesse militari.
Nel 1938 i vertici militari assumevano il pieno controllo dei settori industriali strategici.
Parallelamente, i manager dei maggiori zaibatsu erano impegnati ad acquisire dall'estero le
conoscenze tecnologiche più avanzate, ponendo particolare attenzione alle pratiche di reverse
engineering: studio e imitazione delle tecnologie occidentali per migliorare l’efficienza
dell'industria nazionale. Gli accordi con i grandi industriali europei e statunitensi rappresentavano
un momento importante di questo processo.
Il governo operava intanto a sostegno della modernizzazione tecnologica nazionale incanalando
verso il sistema industriale le scoperte e le conoscenze sviluppate nei laboratori di ricerca statali.
Importanti scoperte riguardanti l’evoluzione tecnologica furono realizzate:
- nei campi delle comunicazioni radio e radar,
- nella cantieristica,
- nell'industria aeronautica,
- nel settore siderurgico.
La preparazione e la gestione della guerra divenne così la priorità del governo anche sul versante
della produzione industriale strategica. Il coordinamento e la pianificazione della produzione e
dell'allocazione delle materie prime venivano realizzati attraverso accordi di partnership fra le
imprese, sotto il controllo del Ministero per il Commercio e l’Industria.
Negli ottant’anni trascorsi fra la fine del plurisecolare isolamento del paese e lo scoppio del secondo
conflitto mondiale il Giappone realizzò un processo di modernizzazione e operò con successo la
transizione dalla prima alla seconda rivoluzione industriale.
Determinante il ruolo svolto dallo Stato, il quale, anche dopo aver abbandonato l’intervento diretto
attraverso le proprie imprese pubbliche, ha mantenuto una forte influenza sul sistema economico nel
suo complesso, definendo le linee di sviluppo di molti settori "strategici".
La presenza di un terreno di coltura imprenditoriale estremamente variegato ha fornito nuove
opportunità di espansione anche ai grandi gruppi.
Di seguito analizziamo il caso Toyota, una delle compagnie giapponesi più famose:
- fondata da Sakichi Toyoda, figlio di un falegname, nel 1867 (un anno prima della
rivoluzione Meiji), produceva all'inizio telai meccanici e, in seguito, automatici, che
migliorarono la produttività nel settore tessile.
- Il successo industriale e commerciale dell’iniziativa - che prima della Seconda guerra
mondiale era stata riconvertita alla produzione di automobili, cambiando il nome in Toyota,
- era fondato sull'accordo dell'impresa con lo zaibatsu Mitsui, che commercializzava su larga
scala la sua produzione, mentre società minori dello stesso gruppo erano già stabili azionisti
della Toyota.
- Il vario tessuto economico formato da piccole impese giapponesi era quindi largamente
complementare al mondo dei grandi gruppi, consentendo a organizzazioni imprenditoriali
come la Toyota di portare un significativo contributo al progresso del Paese. Il successo
giapponese nei settori della seconda rivoluzione industriale aveva quindi solide fondamenta
in tutte queste conquiste.
PARTE V: Dal Dopoguerra Alla Caduta Del Muro. L’età Dello “Spazio Stretto”
(Nuove Tecnologie Riducono Le Distanze)
La situazione agli inizi della Seconda guerra mondiale: colse i paesi più industrializzati che erano
ancora indeboliti dalla grande depressione ma contemporaneamente cercavano di incoraggiare i loro
investitori a sfruttare tutti i vantaggi e le opportunità economiche generate dalla tecnologia, della
seconda rivoluzione industriale ormai mature.
Ruolo attivo dei settori capital intensive che contribuivano alla crescita del PIL di molti paesi anche
se importanti differenze nazionali ne caratterizzavano la distribuzione e l’impatto economico
diverse erano le strategie adottate da cada azienda. Uno degli aspetti più evidenti di questa
rivoluzione tecnologica era la presenza della grande impresa, capace ora di assumere un ruolo
centrale nel processo di sviluppo.
Caratteri della large corporation tre aspetti distintivi: ampia articolazione delle strutture
organizzative; constituency complessa (attori diversi); strategicità della funzione di R&S che
avevano supportato le strategie di diversificazione delle grandi imprese sviluppando nuove
soluzioni tecnologiche e nuovi prodotti = istituzionalizzazione dell’innovazione. In cui il primo
esito fu l’aumento numerico dei centri dei lavoratori con sempre più scienziati e ricercatori
concentrati nei settori della chimica, petrolio, vetro, gomma, telecomunicazione; e
sistematizzazione del suo processo sistema di ricerca collettiva, questa arrivava ad assumere il
carattere di risorsa strategica soprattutto ai settori che si basavano su una tecnologia sofisticata). Il
possesso delle più avanzate ricerche scientifiche e di una tecnologia superiore era fondamentale per
la competitività sui mercati interni e internazionali. L’efficienza dei processi innovativi veniva
progressivamente a dipendere sia dal sistema di incentivi creato dalla azienda a favore dei propri
ricercatori sia dalla capacità di sviluppare un’articolata divisione del lavoro.
Si configurano sistemi nazionali di innovazione (leader: Usa e Germania); i centri di R&S delle
maggiori imprese diventano snodi di una rete che genera effetti di spill-over a beneficio del settore
industriale che si avvantaggia dalla ripartizione dei crescenti costi d ricerca di base. Nei paesi più
coinvolti nella RS si assestava un complesso “sistema nazionale dell’innovazione” in cui diverse
istituzioni erano chiamate a cooperare per rendere il processo innovativo sempre più efficiente. La
Germania era il paese più avanzato negli anni 30, invece il sistema nazionale più sofisticato era
quello statunitense. Il National research council comincia ad operare nel 1916 con lo scopo di
promuovere e organizzare la cooperazione fra diversi centri di ricerca pubblici e privati. Tra il
primo e secondo conflitto si occupò allo sviluppo di tecnologie nuove in ambiti strategici come la
telecomunicazione e raffinazione degli idrocarburi.
Il manuale analizza poi i seguenti temi:
13.1 l’industria modellata dalla tecnologia, il ruolo della Seconda guerra mondiale.
13.2 nuovi settori per una nuova rivoluzione industriale
13.3 trend globali
13.4 imprese e imprenditori nell’era dello spazio stretto
13.5 nuove forme organizzative?
13.1 L’industria Modellata Dalla Tecnologia: Il Ruolo Della Seconda Guerra Mondiale
La guerra sollecita i sistemi nazionali dell’innovazione, aumenta le risorse disponibili per la ricerca,
mobilitando la produzione industriale.
- USA: aumento degli stanziamenti federali + nascita dell’OSRD (Office of scientific research
and development).
- Germania: avanzamenti nei settori chimico, farmaceutico, aeronautico, elettronico, fibre
sintetiche.
Innovazioni parallele, spesso dovute a scarsità di risorse: radar, motore jet, gomma sintetica, fibre e
polimeri sintetici. L’affermarsi nel dopoguerra della big science: attività innovative frutto di progetti
su larga scala, ancora legate all’industria militare in clima di guerra fredda.
La chimica come fondamento della seconda rivoluzione industriale; i processi fisici come
determinanti della terza rivoluzione industriale. Quest’ultima crea settori completamente nuovi:
- nelle comunicazioni si affermano internet e i moderni sistemi di telecomunicazione;
- nei trasporti si affermano aerei sempre più grandi, più veloci, costruiti usando plehiglas;
- nella fisica della materia si studia e si crea l’energia atomica;
- nella biologia molecolare, nella biochimica e nella genetica si aprono nuovi campi di ricerca
con risvolti anche economici rilevanti.
La necessità, sempre presente in una rivoluzione industriale, di un nucleo di tecnologie generali o
multifunzione (GPT) veniva garantita dal dispositivo a semiconduttore (transistor, poi circuito
integrato, poi microchip, poi microprocessore).
Dalla metà del decennio 1950 la terza rivoluzione industriale genera nuove opportunità
economiche, riducendo le distanze e le barriere al movimento di tutto (Vernon: shrinking of space).
Ultimo quarto del XX secolo: nuova globalizzazione con forte incremento del volume e
dell’intensità del commercio internazionale.
Altra caratteristica globale: crescita dello stock di investimenti esteri (finanziarizzazione
dell’economia mondiale); oltre ad aumentare i flussi finanziari sono cresciuti anche gli attori
protagonisti della intermediazione finanziaria.
Conseguenze anche sul piano del capitale umano: forti movimenti migratori, che hanno inciso sulle
strutture del mercato del lavoro.
Di fronte al nuovo quadro nascono risposte imprenditoriali differenziate: i first mover devono
rinnovarsi, mentre crescono le opportunità per produzioni di nicchia.
L’esempio della produzione di mainframe e minicomputer: la lunga prevalenza di imprese
americane. General Electric, AT&T, Philco, aziende di macchine per ufficio, Burroughs.
La vicenda paradigmatica della IBM: gli investimenti strategici in capitale umano per la
progettazione di nuovi pc e la contemporanea realizzazione del linguaggio operativo necessario al
loro funzionamento (software). Il caso della produzione dei semiconduttori: imprese relativamente
piccole, attive in comparti anche non direttamente correlati a quello elettronico: Fairchild,
Motorola, Texas Instruments.
Il ruolo del comparto distrettuale della Silicon Valley. La storia della Intel, da spin-off della
Fairchild a leader della memoria DRAM, cancellabile e riscrivibile.
La grande impresa rimane protagonista del periodo, diventa sempre più globale, si preoccupa
sempre di più del processi di apprendimento e di diffusione della conoscenza.
Specie dagli anni Settanta si impongono talvolta necessità di decentramento, che premiano anche le
unità di piccole e medie dimensioni a guida imprenditoriale diretta.
Le grandi imprese si propongono dunque anche come nodi centrali di una rete formata da piccole e
medie imprese, una rete dinamica in continua espansione e rimodulazione.
Gli Usa colgono in pieno i vantaggi della seconda rivoluzione industriale: alta intensità di capitale,
elevata applicazione di energia, accelerazione del processo produttivo, grandi dimensioni
produttive, in sintesi: economie di scala e di diversificazione.
Il dominio si estende su metallurgia, meccanica, chimica.
Elementi favorevoli alla large corporation: fattori naturali, dinamismo mercato interno, azione
antitrust dei pubblici poteri; cultura disponibile alle nuove forme organizzative.
Al riguardo il capitolo affronta i seguenti temi:
14.1 la “sfida” americana
14.2 i primi segnali di declino e la nuova ondata di fusioni e acquisizioni degli anni
Sessanta
14.3 la parabola della conglomerata
14.4 la ristrutturazione degli anni Ottanta.
14.2 I Primi Segnali Di Declino E La Nuova Ondata Di Fusioni E Acquisizioni Degli Anni
Sessanta
Parallelamente al quadro sin qui delineato si evidenziava una crescente ed intensa competizione alla
quale non si era più abituati negli Usa. Inoltra iniziano a calare gli investimenti patrimoniali, la
produttività cresce sempre meno, anche il pil pro-capite cresce meno rispetto ad altre nazioni.
La domanda interna diventava stabile, mentre tornava a crescere l’Europa con il Giappone.
La risposta del management (la cui cultura era basata sul metodo dei casi con il quale erano in grado
di padroneggiare qualsiasi quadro industriale) si rivelava un poco rigida e diversificata: ricerca di
processi e prodotti migliori; investimenti in campi diversi per i quali non vi erano capacità tecniche
accumulate. Nascevano strategie di fusione e acquisizioni societarie prive di criteri razionali dal
punto di vista industriale (diversificazione non correlata), anche perché la legge Celler-Kefauver del
1950 contrastava ancor di più le operazioni palesi di integrazione orizzontale e verticale mentre la
normativa fiscale appariva più benevola verso “fusioni” e acquisizioni.
L’intento era quello di crescere e generare profitto cercando di evitare la competizione esasperata.
La rivoluzione informatica rafforzava il convincimento che fosse possibile controllare i settori più
disparati. Alla fine degli anni 60 la crescita tra fusioni e acquisizioni era diventata una vera mania, il
numero di queste saliva tanto ma la cosa più importante tra il 1963-72 era che i 3/4 di tutte fusioni e
acquisizioni venivano effettuati per pervenire ad una diversificazione che nella metà dei casi
risultava non collegata (correlata).
La terza ondata di fusioni (dopo quella del primo Novecento e quella degli anni Venti) faceva
emergere un nuovo tipo d’impresa: la conglomerata, diversa dalla multidivisionale perché cercava
di operare in settori non correlati fra loro. Il caso della Litton Industries nel 1968 scomparvero
molte imprese come questa che aveva finito di occuparsi di (macchine per ufficio, navi, ristoranti,
cibi in scatola, consulenze governative per piani di sviluppo) quindi più cose dentro ad una• altro
esempio era la Textron che all’inizio era solo tessile e poi fondendosi si occupava di più cose. come
prodotti aerospaziali, meccanica pesante e prodotti di consumo.
La diversificazione non era estranea al big business, ma riguardava attività strettamente correlate al
core (business centrale, quello più importante). Negli anni ‘50 e ‘60 i top executive di molte società
Americane si trovavano con considerevoli utili non distribuiti da investire, per cui nascevano
percorsi diversi.
Investimenti esteri in Europa e Giappone per la ricostruzione. In seguito, esempi come la Xerox, la
Armco Steel, la General Mills.
Altri fattori spingono nella direzione indicata: pressione fiscale sui profitti d’impresa (sgravi fiscali
per le conglomerazioni); rivoluzione nelle scienze manageriali (metodi matematici applicati alle
scelte).
Il diffondersi delle conglomerate accende dibattiti e anche critiche: trasformazione negativa dei top
executive da responsabili dell’efficienza a dirigenti interessati quasi esclusivamente ai ritorni
finanziari.
Prevalgono però elementi teorici e pratici di favore per la conglomerazione: riduzione dei rischi;
minor costo del capitale; migliore uso delle risorse manageriali. Inoltre, tra il 1958 e il 1966 il
nuovo modello di impresa sembrava aver dato il meglio di sé. La stagflazione degli anni Settanta
mette in difficoltà le scelte effettuate: costi finanziari crescenti, culture aziendali inconciliabili in
situazioni di costi in aumento.
Debole si dimostrava in particolare la struttura amministrativa, con top executive poco addentro alle
questioni specifiche delle imprese via via acquisite. Il ROI diventava un obiettivo calato dall’alto,
incapace di comprendere la complessità delle imprese decentralizzate. Inoltre, si evidenziava una
non efficiente separazione tra vertice della conglomerata e middle management delle divisioni.
Praticamente dagli anni Settanta si assiste ad un serio declino della conglomerata statunitense.
Il caso della RCA: dalla crescente diversificazione conglomerante allo smembramento da parte
della General Electric a imprese europee (Thomson, Philips) o giapponesi (Sony, Panasonic).
Alla luce di quanto sostenuto, a partire dagli anni Ottanta iniziava un vasto movimento di
ristrutturazione, tendente a ridurre lo spettro delle attività prima concentrare nelle conglomerate. Si
estendeva il fenomeno del disinvestimento.
In questa fase si avvantaggia il mondo della finanza, con sempre nuovi e crescenti investitori
istituzionali.
Negli anni Novanta si diffonde anche un orientamento sempre più speculativo, poco preoccupato
della sorte delle imprese e quindi dell’economia reale.
Il tentativo di creare valore dove non c’era generava situazioni di grave crisi come nel caso della
Singer. Allo stesso tempo lo stato si preoccupava di altro e non di politiche industriali. Affioravano
così lati deboli che portavano gli Usa a perdere terreno in settori cruciali.
Soprattutto si riconosceva un lato debole per ciò che riguarda il capitale umano: difficoltà nel
sistema formativo alla base ed in quello professionale (analfabetismo funzionale).
La Sindrome vittoriana come base del declino negli Usa a partire dagli anni Ottanta.
Dal 1917 la sfida più radicale al sistema capitalistico basato su proprietà privata e mercato. Dal
pensiero di Marx, Lenin ricava l’idea di un nuovo ordine economico e sociale da affermare: il
comunismo. La Russia, pur senza proletariato, si presta al disegno per le forme esistenti di
comunitarismo (“obscina” - Obščina è un termine utilizzato nell'età dell’Impero russo per riferirsi
alle terre coltivate in comune dai contadini, in contrasto con la proprietà rurale individuale); inoltre,
rompendo l’ultimo anello della catena capitalistica, si sarebbe dissolto l’intero sistema.
Dal comunismo di guerra alla NEP nel 1921: imposta in natura, libero mercato dove operavano
piccole imprese, esempi di grande impresa nella forma del trust (Prodamet- metalli, Produgol-
carbone, Med- rame). Ma non era capitalismo: i trust potevano trattenere solo il 20% dei profitti, e
non potevano fare marketing (esistevano i “sindacati di vendita”).
Alla morte di Lenin si profilano tre posizioni: Trotzkij, Bukarin, Stalin. Stalin impone il suo
modello: collettivizzazione forzata delle proprietà agricole, con forte repressione dei diritti civili;
abolizione del mercato nell’industria pianificata.
Il capitolo analizza ora i seguenti temi:
15.1 la dittatura del piano;
15.2 l’assenza di una “comunità di imprese”;
15.3 una fine ingloriosa.
Il Piano (Gosplan) era un gigantesco ufficio centrale di un’impresa multi-unitaria. Stabiliva cosa,
quanto, dove e come produrre. Le imprese locali (dlavk) non si concentravano né sui profitti né
sugli investimenti, ma solo sul raggiungimento degli obiettivi fissati dal Piano. Non esisteva
mercato dove formare i prezzi: anche questi venivano prestabiliti. Il Piano si organizzava in
Dipartimenti funzionali che somigliavano allo schema di un’impresa multifunzionale. Esisteva sono
un management di livello lower (niente middle e top). Nonostante questi limiti, il modello permette
all’URSS di diventare una potenzia industriale, economica e militare. Nel ventennio 1930-1950 si
registra una crescita con tassi a due cifre, insieme ad un limitato benessere rispetto alle condizioni
di partenza.
Dopo la morte di Stalin si perseguono alcuni obiettivi di riforma. Chruscev cerca di limitare la forte
centralizzazione (organismi territoriali industriali - sovnarkhozy). Nascono poi le “associazioni per
la produzione”, fusione di impianti per cercare economie di scala e razionalizzazione. Restavano
però deboli ed indefinite le principali funzioni aziendali (marketing compreso).
Tutti gli elementi di rigidità del Piano portavano al collasso del sistema. Tranne che nei momenti di
forte tensione bellica, il Piano era meno efficiente ed efficace del mercato.
Tra l’altro, i meccanismi burocratici e politici sovietici favorivano il diffondersi di sotterfugi e
comportamenti illegali (corruzione). Nascevano allora:
- il soft budget (chiedere più materiali di quanti necessari per alimentare un mercato
parallelo);
- i tolkaschi (intermediari di beni scambiati su mercati non autorizzati – neri).
Sotto il profilo sociale, l’ultimo scorcio del regime era caratterizzato dalla repressione (gulag) e il
ferreo controllo sulla società operato dalle diverse polizie segrete: la CEKA poi la GPU e infine la
KGB queste forme di gestione terroristica del potere appaiono inevitabile una società nella quale lo
Stato, l'unico datore di lavoro a decidere dei bisogni dei cittadini. Si avverava infine la profezia di
plakanov nove il marxista ortodosso che inizio del secolo polemizzava con Lenin rimproverando di
veder costruire nelle concrete condizioni socioeconomiche russe ma l'impero Inca. Nemmeno le
aperture di Gorbaciov potevano arrestare il declino inesorabile dell’URSS e del sistema di paesi
satellite.
Dopo la conclusione della guerra il Comando alleato scioglie gli zaibatsu (trasferimento coatto delle
azioni e loro vendita sul mercato, verso l’azionariato diffuso) alla ricerca di una maggiore
democratizzazione economica; nonostante ciò, rimase intatto il modo di operare per gruppi (da parte
di aziende con scarsi vincoli formali) radicato nel sistema imprenditoriale, sociale e culturale locale.
Nascevano così i keiretsu, forme di organizzazione tra imprese sia in senso verticale che
orizzontale, che comunque conservavano molti aspetti tradizionali, mantenuti dopo l’avvio della
guerra di Corea e la piena sovranità attenuta dal Giappone nel 1952.
I gruppi orizzontali (kinyuu keiretsu) erano insiemi di imprese operanti in differenti settori
industriali, commerciali e finanziari, collegate da partecipazioni incrociate (nel 1990 ce ne sono 8).
Sostenevano il processo di collegamento le house bank appartenenti agli zaibatsu. I tre principali
keiretsu orizzontali sono Mitsubishi, Mitsui e Sumitono (partecipazioni azionarie + integrazione
gruppi dirigenti + prestiti infragruppo + strutture di coordinamento come i “club dei presidenti”).
Un ruolo crescente veniva assunto dalla main bank, la banca di riferimento del gruppo orizzontale,
capace di accedere alle informazioni aziendali e di influire sulle decisioni strategiche. I nuovi
keiretsu degli anni Settanta nascevano addirittura si iniziativa proprio di una banca (gruppi Fuyo,
Sanwa, Dai-Ichi).
Caratteristica del keiretsu era dunque la preoccupazione di assicurare la stabilità della struttura
decisionale e organizzativa interna alle imprese affiliate. Allo stesso modo era diffusa l’opinione
secondo la quale la grande impresa non apparteneva agli azionisti, ma a tutti i dipendenti: da qui
anche la filosofia dell’impiego a vita (stabilità + welfare in cambio di fedeltà dedizione produttiva).
Esistevano poi i kigyoo keiretsu, raggruppamenti verticali di imprese formati da una società
capogruppo e centinaia di società collegate che operavano come fornitori, con relazioni
commerciali consolidate e scambio di partecipazioni azionarie.
Si instaurava una forte competizione tra i citati fornitori di cui godeva, in termini di costi
decrescenti, l’impresa capogruppo.
Esempio di strategia buy, e non make, è la Toyota, che acquista sotto forma di parti meccaniche
l’80% del valore finale delle automobili vendute.
Il segreto della Toyota era la vastissima rete di imprese collegate, riunite addirittura nella
Associazione dei fornitori (168 di primo livello; 5437 di secondo; 41703 di terzo). Questo non
inibiva, anzi aumentava la competizione tra fornitori; inoltre, gli aumenti del costo del lavoro e
delle materie prime venivano assorbiti a livello di fornitura. Lo stesso controllo della qualità
competeva ai fornitori. Da qui nasceva il just-in-time: elevati volumi produttivi con magazzini
ridotti al minimo; il tutto sostenuto dalla grande elasticità dei fornitori disposti a ogni cosa pur di
rimanere nella famiglia Toyota. Esistevano poi percorsi per risalire la gerarchia dei fornitori (nei
suoi tre livelli), e questo accresceva i vantaggi per la capogruppo.
Lo stato svolge un ruolo molto importante, consistente e positivo per lo sviluppo industriale
giapponese. Il MITI è diventato oggetto di studio a livello mondiale. Tutto ciò specie con
riferimento al settore siderurgico.
Nel secondo dopoguerra l’acciaio diventa un prodotto strategico per far crescere la produzione e
ottenere valuta straniera, in modo tale da finanziare la ricostruzione.
La strategia seguita per potenziare il settore ha anzitutto distinto mercato interno da mercato
mondiale. Il primo veniva strettamente controllato dal governo (offerta, domanda, prezzi), in modo
tale da diventare incubatrice per iniziative industriali competitive.
Per questo si stabiliva: un forte protezionismo, un sistema di sostegno dei prezzi, un sistema di
autorizzazione ad ampliare la capacità produttiva legato ai risultati ottenuti dalle imprese. Si poteva
allora competere sul mercato mondiale cercando la minimizzazione dei costi mediante aumenti
successivi di produttività (visione di lungo periodo). Contribuivano a tutto questo forti sovvenzioni
statali.
Anche negli anni Sessanta e settanta il MITI svolgeva un ruolo centrale, ad esempio nell’ambito del
“Monday club”. Ne usciva una spinta all’innovazione ed una lotta senza quartiere contro
l’obsolescenza: filosofia “abbatti e ricostruisci”.
Un capitalismo manageriale e competitivo, con forti tratti di originalità. Il crescente mercato interno
alimentava la competizione; la sensibilità per la concorrenza su mercato esteri apriva spazi di
evoluzione dimensionale.
Importante è stato anche il clima di grande coesione sociale (tipico dei paesi sconfitti); il lavoro
come valore. Leadership conquistata in settori chiave: siderurgico, automobilistico, elettronica di
consumo, macchine per ufficio, componentistica elettronica, apparecchiature per elaborazione dati.
Il Giappone rimane debole in quanto a capacità innovativa e creatività del singolo.
Tra il 1954 al 1971 il pil cresce al tassi medio del 10,1% annuo: miracolo in versione giapponese.
17.L’ibrida Europa
Primi anni Settanta: la divisione ricerca della HBS avvia un progetto mirato all’analisi comparata
delle strategie e delle strutture delle grandi imprese in BG, Germania, Francia e Italia.
Al culmine dei miracoli economici, l’Europa era popolata da grandi imprese, sia private che
pubbliche, attive in settori della seconda rivoluzione industriale.
L’obiettivo era verificare se lo sviluppo di tali imprese aveva comportato una modernizzazione
organizzativa. Veniva dunque promossa l’analisi per il periodo 1950-1970 delle prime 100 imprese
per fatturato in ogni paese, in modo da classificarle in base alla strategia di diversificazione adottata
(attività unica, dominante, diversificazione correlata, non correlata) e alla struttura organizzativa
impostata (U-form, M-form, holding).
I ricercatori scommettevano sulla convergenza tra modello americano ed europeo.
Ad essa contribuivano gli aiuti dell’ERP (European ricoveri program = piano Marshall): flussi
finanziari, materie prime, beni, ma anche tecnologie e organizzazione fatto integrante del piano
Marshall era infatti la US technical assistance and productivity mission che si proponeva di rendere
l'industria europea efficiente come quella americana, con un budget modesto la missione era
responsabile del trasferimento delle tecniche delle pratiche organizzative, realizzata attraverso i
viaggi in Europa di imprenditori e manager americani, che offrivano informazioni
sull'organizzazione della produzione di sistemi di controllo e di gestione, mentre gli europei
attraversavano l'Atlantico per imparare l'american Way.
Le imprese, negli anni di crescita, erano incoraggiate a intraprendere strategie d’integrazione per
beneficiare delle economie di scala, in modo tale da rivolgersi alla produzione di beni di consumo
durevole. Il progresso tecnologico interessava quasi tutti i settori ma era principalmente evidente
nella produzione automobilistica e di altri beni di consumo durevole e soprattutto nei settori high-
tech nati con la terza rivoluzione industriale. Uno stimolo favorevole veniva anche dagli accordi
commerciali sottoscritti fra i paesi del continente (CEE). Anche per questo la filosofia fordista e
taylorista cominciava a consolidarsi.
In più, stando così le cose, cresceva l’afflusso di investimenti diretti americani: le multinazionali
USA portavano non solo soldi ma anche tecnologie, prodotti, esempi organizzativi.
17.3 Deviazioni
Con la fine degli anni Settanta cresceva la spinta verso l’adozione della forma multidivisionale:
proprio mentre nella corporation americana si iniziava a ripensarla criticamente.
Di più, negli anni 1985-1995 si incrementavano le strategie multibusiness, specie nella logica
conglomerale, a fonte di un declino delle strategie centrate sull’attività unica o dominante. Ciò
avveniva in GB e Germania, ma anche in Italia: qui la crisi degli anni Settanta veniva affrontata con
ristrutturazioni e dismissioni delle attività non profittevoli, seguite da diversificazioni e politiche
finanziarie altamente speculative.
Sempre in Italia opportunità di investimento venivano dalle privatizzazioni dei primi anni Novanta.
Caratteristica del modello europeo era la proprietà dell’impresa in mano allo stato, secondo schemi
differenti ma con tratti comuni.
In effetti in Europa le politiche di intervento avviate dopo la grande depressione negli anni Trenta
erano proseguite nel secondo dopoguerra.
Tra il 1950 e il 1970 alla proprietà statale diretta si affiancava una tendenza alla pianificazione e al
coordinamento centralizzato del settore privato. Dopo la ricostruzione nascevano dunque strumenti
“leggeri” di intervento dello stato: aperture di credito da parte di banche pubbliche; sussidi;
commesse; esenzioni fiscali.
In GB e Francia crescevano le forme di politica industriale, fino all’estremo del Commissariat
general du plan del 1946, guidato da Jean Monnet. Le economie miste europee erano motivate
anche da politiche keynesiane anticicliche, volte a tutelare domanda e occupazione. Decisiva era la
presenza dello stato in alcuni settori: siderurgia, energia, telecomunicazioni.
Crescevano anche gli esempi di nazionalizzazioni operate nel dopoguerra: in GB miniere, elettricità,
linee aeree, BP; in Francia carbone, gas, Renault. In Italia cresceva il ruolo dell’IRI e nasceva l’ENI
(Mattei), dopo la nazionalizzazione dell’energia elettrica nel 1962.
Dagli anni Novanta: privatizzazioni per alti costi (debito pubblico) ed inefficienze interne.
Alla luce di quanto detto risulta evidente l’originalità dei percorsi europei. Diversamente dagli
USA, gli assetti proprietari presentano un elevato livello di concentrazione, sono fondati su una
variegata mescolanza di controllo statale/bancario/personale, coesistono con diffuse strategie di
diversificazione messe in atto dalle maggiori imprese.
L’esperienza europea dimostra:
- che la storia nazionale è importante e influisce sui percorsi imprenditoriali;
- che esiste una via continentale alla diversificazione e alla efficienza gestionale.
- Esempio: la multi-divisione a rete, in cui la M-form viene sostituita da una federazione di
piccole e aggressive aziende imprenditoriali (Silicon Valley).
Altre varianti interessanti dell’esperienza europea: distretti industriali e cluster economici locali
(nord-est Italia); capitalismo cooperativo (economia sociale di mercato tedesca: cogestione delle
imprese rispetto alle relazioni industriali).
Il sistema ibrido europeo è dunque un’interessante e reale alternativa al modello americano.
Alla fine del decennio settanta parlare di terzo mondo indistintamente non era più possibile.
Il modello socialista sembrava sempre più inadeguato e la fortuna di avere preziose risorse naturali
come hanno le nazioni dell’OPEC, si dimostravano insufficienti a consentire una stabile prosperità.
In alcuni paesi come Africa equatoriale e sud indiano permanevano gli squilibri tra popolazione e
risorse; in America Latina effimere fasi di crescita erano ridimensionati da disordini politici e
sociali; piccoli stati dell’estremo oriente (corea del sud, Taiwan Hong Kong Singapore) che dopo la
sconfitta americani in Indocina, rischiavano di diventare comunisti ed invece si avviavano verso
forme di impetuoso sviluppo economico grazie ad intervento pubblico e il confronto con il mercato
globale. Corea del Sud e Argentina sono due casi di nazioni arretrate e periferiche che hanno avuto
performance economiche estremamente differenti.
In entrambi i casi si partiva da ristrettezza del mercato interno visto che erano troppo lontane (pochi
stimoli per la grande impresa perché non hanno usato bene l’economia di scala), diversità storiche,
di cultura ecc. e regimi politici autoritari che hanno potuto unire le risorse nella direzione che
volevano. Diverse erano invece le politiche economiche applicate ed il comportamento dei grandi
gruppi industriali.
I temi sono:
18.1 La Corea del Sud
18.2 L’Argentina
Colonia giapponese fino al 1945, senza risorse naturali, con un apparato industriale esiguo, visto
che dopo usa guerra le maggior parti di fabbriche erano nella parte settentrionale: decollo negli anni
Settanta grazie a politiche economiche volte a favorire le esportazioni ed a inibire (mettere
restrizioni) le importazioni, anche in termini di idee. Non puntava su settori leggeri ad alta intensità
per i quali aveva un vantaggio nel basso costo della manodopera perché prima o poi si sarebbe
trovata a competere con altri paesi. Per favorire le esportazioni giudicava non utile la politica
inflazionistica. in COREA lo sviluppo veniva promosso da uno stato autoritario. Lo stato interviene
non come imprenditore, ma sostenendo le imprese private (sovvenzioni, protezione, credito,
repressioni conflitti sindacali), in una società caratterizzata da una distribuzione della ricchezza
tendenzialmente egualitaria. L’unica azienda pubblica era la POSCO, che proteggeva le imprese con
elevate tariffe, concedeva credito, reprimeva i conflitti sindacali ma pretendeva la costruzione di
impianti che rispettassero i miglior standard internazionali e conseguissero le economie di scala. La
burocrazia era forte, efficiente, poco corrotta capace di far rispettare alle imprese gli obiettivi. Se
questi non venissero raggiunti non riceverebbero sussidi e protezione.
Ci si concentrava su settori ad alta intensità di capitale consolidati: siderurgia, automobili,
cantieristica, cemento. Si investivano significative risorse nella formazione di tecnici e operai.
Le imprese erano organizzate in gruppi: i chaebol, controllati da famiglie proprietarie e coadiuvate
da ampie gerarchie manageriali. Come i keiretsu giapponesi, i chaebol diversificavano le proprie
attività anche in maniera non correlata, ma non potevano possedere banche (che erano di proprietà
pubblica) così lo stato manteneva la politica creditizia. Come in molti paesi Latecomer, la
diversificazione correlata traeva origine dall’impossibilità per le aziende duis fruttare l’economia di
scala. In corea, oltre a ciò, si aggiungeva la necessità di evitare nei settori maturi la obsolescenza
tecnologica. Ma bisogna guardare alle esigenze del comando politico, infatti esso decideva di
sviluppare un nuovo settore dandolo in mano ad un grande gruppo con esperienza di realizzazione
di grande scala.
Esempi di chaebol: 1971 Hyundai essa faceva costruzioni, e poi negli anni ’60, momento della
divaricazione correlata acciaio e raffinazione petrolio, e negli anni 70 automobile. Essa traeva
molti benefici dallo stato; Samsung = negli anni 1938 commercio; dopo guerra coreana =
raffinazione zucchero; fertilizzanti; elettronica. Aveva meno benefici dallo stato.
Impressionante crescita del pil e del benessere, con qualche punto debole: staticità piccole e medie
imprese; politiche bancarie rischiose.
18.2 L’Argentina
È un Paese ricco di risorse naturali con una forte instabilità politica nel XX secolo.
Agli inizi del XX secolo era pienamente integrata nell’economia internazionale: vaste distese
agricole, export di prodotti agricoli e cibi conservati. Gli interessi agrari investono però poco nello
sviluppo industriale, mentre la libertà di importare stimolava poco la nascita dell’industria. Anche la
costruzione di una rete ferroviaria non rappresentò uno snodo per lo sviluppo dell’industria locale.
Con la crisi degli anni Trenta si adottano politiche di sostituzione delle importazioni, con attività di
lobbying da parte di imprese suddivise in quattro gruppi: grandi gruppi privati diversificati;
multinazionali estere; imprese pubbliche; piccole e medie aziende nazionali.
Agli inizi del Novecento prevalgono i grupos, (simili ai chaebol) grandi gruppi d’affari diversificati
a proprietà famigliare controllanti una banca. Molti di questi erano nelle mani di immigrati che si
erano messi a sviluppare l’attività di lavorazione esportazione di prodotti agricoli e sono arrivati a
integrare anche la banca al proprio interno (gruppo di immigrati: Banco d’Italia y Rio de la Plata
che operava nel settore bancario, fiammiferi, carne congelata); iniziano a penetrare multinazionali
soprattutto inglesi e cominciano a contendere il ruolo da protagonista ai business groups locali, con
un boom negli anni Venti.
I settori più colpiti dall’ingresso delle multinazionali erano quelli ad alta intensità di capitale come
la farmaceutica, gomme, metallurgica e meccanica. Dal 1946 sale al potere Juan Domingo Peròn,
favorevole allo sviluppo di imprese pubbliche e piccole aziende locali. l’impresa pubblica era volta
allo sviluppo alla costituzione di grandi campioni nazionali in settori strategici e in comparti militari
come acciaio auto, aereo. piccole imprese invece il governo si proponeva di proteggere e rafforzare
l’iniziativa locale. Lo stato promuove la sostituzione delle importazioni e inibisce l’attività delle
multinazionali cercando un difficile compromesso tra neoliberismo e nazionalismo.
Dagli anni Settanta la crisi porta ad una deindustrializzazione del sistema, per cui già negli anni
Ottanta non c’era più traccia del precedente sviluppo. I grupos non avevano raggiunto livelli elevati
di competitività, preoccupati non di innovare ma di ottenere risultati di lobby; le imprese pubbliche
manifestavano problemi strutturali e di sostenibilità; le piccole e medie imprese non si erano
specializzate abbastanza.
Tre fattori soprattutto spiegano l’insuccesso industriale argentino:
1. limitatezza del mercato interno per via anche della poca popolazione;
2. lobbying speculativa visto che questa portava politiche dannoseper il sistema economico sia
perché le energie dedicate a questo versante venivano sottratte l’impegno della ricerca
dell’efficienza;
3. politiche economiche non efficaci (alla ricerca di consenso = assistenzialismo).
Il governo non ha potuto far applicare una condotta che favorisse l’efficienza industriale (come
invece era accaduto in corea). Le aziende erano appoggiate indipendentemente dalla loro
performance e lo stato non richiedeva alcuna forma di reciprocità in cambio dell’appoggio che
forniva. Il settore automobilistico era dominato da multinazionali straniere (Ford, genera motors).
Nel 1959 lo stato avvia un ampio programma di incentivi per la costruzione di auto a 22 imprese,
ma il mercato interno argentino non era in grado. Il settore vinicolo nelle Ande invece aveva tre
incentivi: dare lavoro; salvaguardare il prezzo minimo per i coltivatori; fornire quantità di vino per
Buenos, Cordoba.
Negli anni Novanta il governo Menem introduce alcune riforme, che danno spazio a nuove
imprenditorialità come la privatizzazione delle imprese pubbliche, la liberalizzazione di settori a
lungo regolamentati e l’integrazione economica dell’unione doganale MERCOUR insieme al
brasile Paraguay e Uruguay. Sebbene non si riuscisse a sviluppare delle competenze tecnologiche
elevate ed avere successo in abito internazionale, avevano successo i gruppi di imprese diversificate
e capaci di eccellere anche internazionalmente.
Metallurgicas Pescarmon Techint, leader mondiale nel settore tubi e giunzioni per il
trasporto di petrolio e gas.
Partiamo dalla considerazione per la quale dagli anni Ottanta al terzo millennio il flusso totale degli
investimenti esteri è cresciuto dall’1 al 4,5% del prodotto loro mondiale.
Lo schema espositivo allora diventa il seguente:
19.1 i trend di lungo periodo;
19.2 organizzazioni multinazionali;
19.3 gli anni Settanta;
19.4 nuovi arrivati fra le multinazionali;
19.5 strategie e strutture in cambiamento;
La crescita dell’attività economica internazionale connota altre fasi della storia: rivoluzione dei
trasporti nel XIX secolo che aveva semplificato il trasporto di merci, persone e info a livello
mondiale, Golden Age nel XX. Nel secondo Novecento ad investire sono soprattutto le grandi
corporation occidentali, anche mediante la creazione di controllate estere: multi-nazionalizzazione
delle imprese, capaci di esportare capacità tecniche e capitali. anche nel vecchio mondo come
Russia, Scandinavia. Settori coinvolti: certamente industria, ma anche utility (elettricità, acqua,
gas).
Processi imitativi si sviluppano: in Europa (free-standing company: La pratica di costruire società
per azioni nei ricchi mercati europei aveva dato origine alla diffusa presenza di imprese dalla
fisionomia internazionale che non erano però cresciute su una precedente attività economica nei
paesi di origine = capitali raccolti per attività estere senza un’origine europea) e nei pvs. Tuttavia,
fino agli anni Settanta prevale il dominio dell’impero irresistibile (USA): americanizzazione
europea e non solo. Con l’aiuto dello stato gradualmente anche l’imprese europea si
internazionalizza; lo stesso vale per il Giappone (particolarmente concentrato su auto ed
elettronica).
La M-form prevaleva nella struttura delle compagnie multinazionali: il quartier generale controllava
l’apertura di consociate che aprivano impianti nuovi o acquisivano il supporto di partner locali; la
funzione di ricerca e sviluppo restava naturalmente centralizzata. Esempio classico gerarchico: in
cui la posizione di dominio della casa madre rimaneva indiscussa e le consociate straniere godevano
di un margine molto circoscritto di autonomia nella definizione strategica nell'approccio ai mercati
e nelle decisioni di investimento sia nei settori industriali sia nei servizi l’industria petrolifera
statunitense.
In Europa cresceva il numero di imprese appartenenti a paesi con mercati interni limitati che
perseguivano strategie internazionali: olandese Philips e svizzera Nestlé (in Germania e Francia).
Nel caso americano, comunque, le strategie di internazionalizzazione erano più avanzate,
soprattutto con riferimento al marketing (Singer).
In altri casi le compagnie avevano cominciato a stabilire consociate all'estero per sfruttare un
marcato. Vantaggio tecnologico come nell’esempio IBM che oltre a una consolidata posizione nel
mercato americano delle macchine per ufficio aveva da tempo un'attività multinazionale.
Nel secondo dopoguerra l’internazionalizzazione implica non solo export, ma anche forti
investimenti finanziari all’estero. I vantaggi di proprietà (ownership advantage-O) di Hymer
(superiori tecnologie, organizzazione, potenzialità finanziarie e di marketing) si aggiungevano alla
necessità di andare oltre i mercati interni saturi (Vernon: ciclo di vita del prodotto). Negli anni
Settanta si afferma il modello interpretativo di Dunning: decisione di operare all’estero come
compendio di numerose variabili. Innanzitutto l'impresa poteva contare su vantaggi derivati dalle
proprie caratteristiche interne in tese come assortimento di capacità e competenze e definite come
(vantaggi di proprietà) ownership advantage-O, altri incentivi all'impianto di attività all'estero erano
invece legati alla specificità del paese “ospite” e alle risorse disponibili: questi, definiti i vantaggi di
localizzazione (location advantage del paese ospite-L), andavano dalle dimensioni e dal dinamismo
del mercato ospite alla dotazione di infrastrutture dall'assetto politico all'ambiente culturale. A
seconda della forma assunta dalle operazioni estere si definivano infine “i vantaggi di
internalizzazione” che erano riferiti alla necessità di ridurre costi di transazione e proteggere gli
asset strategici dell'impresa multinazionale. internalizzazione dei costi-I: OLI).
Dalla seconda metà degli anni Settanta si avvia una trasformazione delle multinazionali, in
relazione all’emergere di nuove attività nel settore dei servizi che si segnalavano per le originali
strategie di marketing le tre aree protagoniste di questo nuovo andata erano quelle della finanza e
del commercio e dei servizi per l’impresa. Alla base dei primi due ci stavano processi di
deregolamentazione e liberalizzazione, tipici della terza rivoluzione industriale che induce la
seconda globalizzazione mentre il terzo che includeva la consulenza aziendale aver visto una rapida
espansione negli anni in questione. Tutto ciò coinvolge banche, imprese assicurative, imprese di
distribuzione al dettaglio si espandono, anche nell’est europeo. le strategie di sviluppo
necessitavano una gusta pianificazione al fine di selezionare il giusto approccio al mercato. Nel
caso italiano, ad esempio negli anni Cinquanta la Esselunga di ispirazione americana innovava il
settore della grande distribuzione, anche in termini di management: strategie di marketing, politiche
di prezzi bassi. (carrelli della spesa, scelta di allestimento dimesso). Nel caso della consulenza
aziendale importanti erano gli sviluppi degli anni Settanta in termini di sofisticati servizi contabili,
nuove pratiche di organizzazione e valutazione del lavoro. gli anni 70-80 alcune grandi compagnie
Usa areano perso il primato e anche alla svalutazione del dollaro. In questo stesso periodo si
concretizzava la fine del dominio americano in molti settori, specie capital intensive. Cresceva il
ruolo di Giappone, Corea, Singapore, Hong Kong e Taiwan.
L’emergere delle multinazionali asiatiche aveva motivazioni originali e diverse da prima: capacità
organizzative eccellenti, relazioni virtuose con i sistemi bancari, sostegno dello stato, fattore lavoro
fedele e produttivo.
Dagli anni Novanta: multinazionali del dragone: pur essendo di recente industrializzazione sono
realtà che si internazionalizzano subito, con strategie di intesa con l’estero (partnership e joint
venture con gruppi stranieri).
Dal 2000 crescono i BRISC (Russia brasile Cina india): conoscenza dei mercati emergenti, accesso
privilegiato alle risorse, sostegno governativo, cura di network relazionali informali.
Negli ultimi trent’anni le multinazionali hanno sviluppato una varietà ampia di strutture
organizzative. Chris Bartlett e Sumatra Ghoshal hanno individuato quattro modelli organizzativi
prevalenti delle imprese: multinazionali, internazionali, globali, transnazionali.
- Globali: consociate deboli, centro prevalente nelle funzioni essenziali: schema classico.
- Multinazionali: sussidiarie locali per controllare una sezione rilevante della catena di valore
adattando le operazioni alle condizioni del mercato ospite.
- Transnazionali: modello più virtuoso, nel quale una compagnia opera all’interno di un
network di consociate indipendenti con competenze diverse.
- Internazionali: modello poliedrico per stabilire rapporti dinamici con i mercati locali.
Influisce molto su tutte queste forme la rivoluzione di internet ha permesso alle multinazionali di
organizzarsi in maniera efficiente (riduzione costi, segmentazione catena del processo produttivo).
Nel caso italiano: multinazionali tascabili come medie imprese frutto dei distretti industriali ha
raggiunto uno stabile produzione i mercati di nicchia dedicati a produzioni specializzate in
macchinari e i componenti chimici avviando nuovi impianti o impegnandosi in intesa attività di
fusioni e acquisizioni a livello globale (Mapei: società con successo di nicchia di mercato di collanti
e adesivi). ha vissuto un processo di internazionalizzazione.
Dopo l’intensa stagione delle conglomerate multibusiness seguiva una fase di riorganizzazione delle
imprese. Invece che su espansione e diversificazione l’accento veniva posto su programmi tesi a
migliorare l’efficienza ed il risultato aziendale. Si usciva altresì da una fase intensa di operatività
per raider finanziari e società di leveraged-buyout erano pronti ad appropriarsi del guadagno del
frazionamento e vendita di divisioni scorporate delle conglomerate. Anche le tecnologie della terza
rivoluzione industriale, affermandosi, condizionavano il contesto. Lo schema espositivo per
approfondire l’argomento è il seguente:
20.1 nuove tecnologie e grandi imprese;
20.2 deverticalizzazione, outsourcing e hollowing-out.
20.3 network e nuove forme organizzative;
20.4 la grande impresa nell’era della new economy.
Ambivalente è il rapporto tra tecnologia della terza rivoluzione industriale e la struttura della grande
impresa. Tra anni Settanta e ottanta la maggior efficienza e i costi (anche di controllo) decrescenti
avevano favorito l’espansione delle aziende sia in termini geografici e in campi produttivi attraverso
la diversificazione. Multinazionali e compagnia di molti business avevano largamente beneficiato
della rivoluzione informatica che permetteva al quartier generale dell'azienda di esercitare uno
stretto controllo su molteplici attività anche quelle localizzate in aree geografiche distanti. Negli
anni 70 in avanti corporazioni come Unilever in Eu, IBM usa e Toyota Giappone erano in grado di
sostenere simultaneamente processi di diversificazione e incremento degli investimenti
internazionali in diverse parti del mondo. L’informatica favorisce dunque l’espansione: crescono gli
investimenti esteri, i confini delle multinazionali si allargano. Dagli anni Novanta le medesime
tecnologie permettono una riduzione del grado di integrazione verticale e della dimensione media
delle unità produttive, favorendo il decentramento: anche con riferimento i settori tipici della
seconda rivoluzione industriale. Il ridimensionamento della scala di produzione non portava subito
al disinvestimento, anzi induceva processi di ristrutturazione e riorganizzazione (telefonia mobile).
In questo senso operavano anche i contemporanei percorsi di deregulation e privatizzazione delle
imprese pubbliche. La riduzione della scala ottimale portava anche a strategie di specializzazione
(siderurgia di nicchia; parabola della IBM).
La maggiore efficienza nei trasporti e nelle comunicazioni influenzava anche altri aspetti
dell’attività economica con ripercussioni sull’impresa in termini di deverticalizzazione.
Outsourcing: scelta di esternalizzare e/o delocalizzare alcune attività per alleggerire la struttura dei
costi fissi/variabili (meccanica, trasporti, elettronica, farmaceutica, chimica).
Nel settore automobilistico anni 90 (anche farmaceutico) venivano esternalizzate intere fasi del
processo produttivo. Esempio AstraZeneca fusione di due società. Sviluppi simili coinvolgevano
in tanti settori impegnati direttamente con le nuove tecnologie, come vari comparti dell'elettronica
di consumo e di microelettronica: qui, ad analogamente a quanto accadeva in ambiti come la moda
e il design e molti produttori puntavano a trattenere funzioni strategiche come la progettazione e il
marketing affidandosi all'outsourcing per l'attività di produzione specializzate. Si giungeva come
conseguenza anche a reali processi di svuotamento (hollowing-out) delle grandi imprese.
Con implicazioni dirette sulla struttura del settore, in cui meccanismi di mercato erano stati in
precedenza sostituiti dai movimenti di internalizzazione e integrazione delle grandi strutture
burocratiche delle U form e delle M form.
L’outsourcing si fondava sulla presenza di fornitori specializzati a cui veniva affidata la produzione
di componenti; essi diventavano generalisti specializzati (general specialist), differenti dai terzisti
subfornitori perché dotati di competenze eccellenti ed autonome collaborando con il cliente per
avere un prodotto unico (americana Flextronics fornitrice di Casiom Dell, Xerox, Microsoft). Si
affermavano inoltre nuove e inedite architetture organizzative, per corrispondere alla realizzazione
di prodotti modulari (componenti assemblati tramite interfaccia standardizzata si affermano nel
corso degli anni 90). Uno dei vantaggi della modulari risedeva nel fatto che il processo di
innovazione si svolgeva all’interno del singolo modulo, mentre il mantenimento dello standard
dell’interfaccia ampliava il ventaglio delle soluzioni tecnologiche disponibile per il sistema o
prodotto. Esempio classico, nel campo dei pc. o elettronica del consumo. Ecco che le strategie di
produzione modulari hanno rappresentato una delle condizioni fondamentali per il superamento
della grande impresa integrata verso strutture organizzative a configurazione reticolare (comunità di
apprendimento – community of practice). All’interno del concetto di network cadono tipologie
organizzative molto diverse, che vanno dalle reti di Sub fornitura quelle che legano le case
automobilistiche a piccoli e medi produttori indipendenti della componentistica, alle reti relazionali
mobili fra piccole aziende appartenenti ai distretti industriali, legati dalla comune localizzazione
geografica, alle aggregazione di soggetti specializzati attorno a specifici progetti che richiedono
competenze tecnologiche sofisticate come nello sviluppo dei sistemi software Open Source. Il
processo di specializzazione e deverticalizzazione descritto ha avuto un impatto considerevole sulle
linee strategiche e strutturali delle società attive nel settore della new economy ma i modelli
modulari e reticolari hanno profondamente mutato anche le pratiche competitive e la forma
aziendale dei competitori più dinamici in molti settori della seconda rivoluzione industriale. Tutto
questo non è avvenuto senza problemi, ad esempio occupazionali (delocalizzazione produttiva).
Di fronte a casi di migliaia di relazioni e alleanza (tipo AstraZeneca), nella struttura manageriale si
è dovuta introdurre la figura dell’Alliance manager per definire i dipendenti incaricati di gestire la
complessità e molteplicità relazionale su cui si fonda l'attività aziendale. In sostanza la grande
corporation non è scomparsa, ha modificato la propria struttura organizzativa, l’approccio al
mercato e l’impostazione del processo di innovazione. In queste nuove configurazioni la grande
impresa ha assunto il ruolo di coordinamento e distribuzione dei compiti, mantenendo al suo interno
il controllo di funzioni cruciali come la ricerca e sviluppo. è un nuovo mondo sia per le imprese sia
per i consumatori. In tal senso la grande impresa ha assunto il ruolo di fulcro (hub), come la
CISCO, coordinatore e distributore di compiti per i lavoratori.
Agli inizi del terzo millennio gli Usa rimanevano leader mondiali sotto diversi profili: 100 reddito
pro capite 75 francese 72 GB 77 Germania; numero corporation mondiale fra le prime (e 170 erano
negli usa) tra il 95 e 200 500 tasso annuo di crescita del pil. Fattori interni (vitalità del sistema che
produce posti di lavoro); solida leadership tecnologica; dimensione mercato interno; cornice
istituzionale favorevole; politiche pubbliche di procurement di garanzia della proprietà intellettuale,
di sostegno alla ricerca scientifica; il vantaggio competitivo consentiva agli Usa di sostituire il
Giappone nella leadership mondiale per la produzione di apparecchi per telecomunicazioni e di
computer. Il suo consolidamento avviene grazie aumento investimenti esteri; crescita anche nel
settore dei servizi avanzati come sanitari, software ed esterni motivavano questa prosperità.
Proviamo ad analizzare ancora più a fondo le ragioni della conferma di questo primato seguendo il
seguente schema:
21.1 solo fortuna?
21.2 la new economy;
21.3 la ristrutturazione della grande impresa;
21.4 il capitalismo degli investitori.
Si affermava così la new economy: vengono abbandonati i settori labour-intensive per passare ad
attività con valore aggiunto maggiore.
1992-2000: La formazione di capitale fisso industriale cresceva nei comparti ad alta
intensità di tecnologia e conoscenza (ICT, elettronica, pc, biotecnologie, internet).
Conseguenze misurabili: crescita produttività del lavoro 1,5% tra il 73-74; nuovi posti di lavoro e
imprese. Particolarmente innovativo si rivela lo strumento finanziario delle società di venture
capital: spesso costituite da ex manager, investivano nelle piccole start-up scommettendo su idee
originali e nuove di imprenditorialità così da gestire un veloce processo di sviluppo fondamentale
per garantire un elevato ritorno degli investimenti un consistente incremento del valore del capitale
in vista di una quotazione in borsa. Esempio eclatante: Apple (idea-società di investimento-
investitore- proposta innovativa per il management delle stock options) cioè opportunità di
acquistare azioni della società ad un prezzo basso con la prospettiva di realizzare un guadagno sul
capitale qualora la quotazione delle stesse fosse aumentata. Questa operazione contribuiva a legare
le prestazioni dei manager alla performance della start-up e a ottiene un impegno elevato per il suo
successo). le nuove imprese high tech richiedevano cospicue risorse finanziarie dai ritorni incerti e
differiti nel tempo.
Altra decisione importante: allentare le rigide norme a tutela dei risparmiatori per far sì che
investitori istituzionali e fondi pensione aumentassero i loro interventi. Nelle aziende della new
economy negli anni 80n quasi la metà dei tre miliardi di dollari investiti nella forma di venture
capital nel settore proveniva da investitori istituzionali. la crescita di volume delle operazioni con
capitale di rischio continuava ininterrottamente per tutto il 1990, più di 5 miliardi di dollari erano
investiti nel 1994. La maggioranza di queste rifrisse era destinata ai comparti che stavano
sviluppando le ICT. Nonostante la forte crisi del 2000/2001 (bolla delle dot.com) la new economy
aveva rivoluzionato la struttura competitiva di molti settori. Nel 1995 la Nescafé una società che
produceva e commercializzava un browser cioè un software che consentiva al mio computer la
libera navigazione su Internet, veniva quotata con grande successo e nel mercato borsistico dei titoli
tecnologici.
D’altro canto, nella seconda metà del decennio novanta si moltiplicavano le imprese basate sullo
sfruttamento delle potenzialità della rete.
La new economy pativa una pesante flessione a partire dal 2001 perché c’era stato una crisi che
doveva causare numerosi fallimenti ma, nonostante ciò, un numero significativo di iniziative
imprenditoriali era in grado di beneficiare del collasso del mercato e quindi consolidare la propria
leadership (Amazon, Yahoo!, Google). La fulminea crescita del settore aveva conseguenze
importanti anche per altri rami di attività a partire dalle telecomunicazioni. sull'onda di
un'espansione senza precedenti nella domanda e nel volume delle vendite, gli investimenti nelle ICT
segnavano un andamento di crescita esponenziale. nel caso dei computer dei macchinari per ufficio
il fatturato complessivo arrivava fino ai 214 miliardi di dollari nel 2000. Un altro riflesso dello
sviluppo dell'anima economi riguarda l'introduzione di profonde trasformazioni in settori
considerati ormai stabili e consolidati. Un forte impatto avevano per esempio le nuove tecnologie
sulla grande distribuzione organizzata, un ambito in cui la gestione informatizzata delle vendite,
degli acquisti e del magazzino portava successo globale corporation come la Walmart.
La new economy influiva anche su:
- telecomunicazioni;
- grande distribuzione (gestione informatizzata di vendite, acquisti, magazzino).
Il caso Dell
L'idea alla base della start-up era di realizzare un sistema di vendita personalizzata di computer,
assemblati secondo lei le richieste di ogni cliente. Il successo della strategia portava la quotazione
della società che registrava immediatamente una capitalizzazione di mercato di 30 milioni di dollari.
all'inizio vendeva i suoi prodotti attraverso la rete di distribuzione esistente, nei super store per
computer, presto, però virava a favore di una specie di vendita diretta ogni consumatore attraverso
Internet, lanciando un sito web e in cui era possibile selezionare i diversi componenti che,
assemblati, avrebbero potuto costituire il prodotto finale da spedire direttamente a casa del cliente.
Il caso del suo successo era rappresentato dai risparmi di costo derivate dall'eliminazione di
magazzini e scorte inoltre mentre la tradizionale industria dei computer seguiva la logica della
produzione di massa, la nuova impresa si avvantaggia delle possibilità di Internet e della produzione
on- demand che le consentiva di combinare i benefici della domanda sul larga scala con la
flessibilità tipica della produzione modulare.
Ai risultati americani citati si giungeva comunque anche grazie ad una radicale ristrutturazione delle
corporation: licenziamenti, diverse strategie, nuove strutture organizzative. L'origine di tale
cambiamenti poteva essere rintracciata nelle intense pressioni che la competizione esercitava sul top
management nel periodo in cui una rivoluzione negli assetti proprietari delle grandi compagnie
modificava anche rapporto fra gli azionisti e manager. Nel contesto della new economy si rivelava
decisiva la capacità di intraprendere strategie veramente nuove: il caso GE (rifocalizzazione attorno
a poche attività: elettricità, servizi, high-tech) e Westinghouse (chiusura determinata da una
eccessiva insistenza sulla diversificazione). La new economy moltiplicava le opportunità per gli
imprenditori di talento: Gates (Microsoft), Jobs (Apple), Bezos (Amazon), Grove (Intel). Alcuni
elementi accomunavano tali esperienze:
- conoscenze scientifiche e tecnologie sofisticate;
- nuovi strumenti finanziari che mettono a disposizione di idee innovative i capitali necessari
(alleanza virtuosa tra scienza e capitale specializzato – skilled capital); il caso della
Genentech.
Molte di queste imprese arrivavano in borsa, determinando all’inizio del nuovo millennio
un’autentica bolla speculativa.
Agli inizi del decennio 90 la quota di azioni delle maggiori corporation americane detenuta da
istituzioni (fondi comuni, fondi pensioni, assicurazioni) superava quella in mano a singoli e
famiglie. Siamo una nuova categoria di investitori chiamata constituency che aveva svolto un ruolo
importante destinando risorse finanziare la new economy: il capitale di rischio e fondi di
investimento che avevano sostenuto l'espansione delle start-up della Silicon Val lei avevano infatti
canalizzato capitali raccolti da investitori istituzionali. inoltre, durante gli anni 80 proveniva dagli
investitori istituzionali anche il denaro necessario a finanziare le operazioni di Leverage by out. Gli
investitori istituzionali (prima desiderosi di obbligazioni) sono più preoccupati di massimizzare a
breve i valore delle loro azioni, meno delle sorti delle imprese.
I manager dei fondi si preoccupavano di valutare le performance delle imprese in termini di
mancata distribuzione di profitti, di eccessive diversificazioni: insieme ai consulenti aziendali
invitavano dunque a ritornare alle competenze originarie delle imprese stesse. Queste sollecitazioni
erano avanzate il nome dell'efficienza e della capacità di genere maggiori profitti e ricchezza
“valore” per gli azionisti. Sotto la spinta di queste pressioni di un'ondata di Take over ostili negli
anni 80 il top management delle grandi imprese era costretto a rivedere le proprie scelte. alla metà
del 1990 i due terzi della società censite da fortune erano tornati a concentrare le attività all'interno
di un singolo settore. La ricerca dell'efficienza finalizzata alla creazione di valore era condotta
anche attraverso il miglioramento di alcune operazioni e nuove. nuove procedure come il Total
Quality Management e le pratiche di out-Searching erano basate sulle nuove tecnologie di
comunicazione che influenzavano le possibilità di condividere l'informazione diffondere
conoscenza all'interno delle organizzazioni. Questa dinamica induceva un mutamento radicale nelle
relazioni fra management e azionisti.
L’enfasi si spostava sulla creazione di valore, e questo implicava che ai manager venissero offerti
incentivi quali i piani di retribuzione attraverso stock option. Le aziende arrivavano così a dirigere
crescenti quote della ricchezza prodotta verso gli azionisti, sia nella forma di dividendi sia
attraverso il riacquisto di azioni, con il doppio vantaggio di mantenere alto il prezzo dell'azione
offrire ai manager e i benefici derivati dal possesso delle loro quote. Nuove regole del gioco la
nuova governance dell'impresa avevano però come risultato non infrequente quello di indurre nei
manager è un forte incentivo a adottare politiche finalizzate ad aumentare il valore delle azioni nel
breve termine.
Molti dirigenti arrivavano a sottolineare la distribuzione dei dividendi mentre decurtavano
drasticamente la capacità dell’impresa di generare risorse interne da destinare agli investimenti e
alle strategie di sviluppo. In alcuni casi la necessità di trasferire agli investitori un flusso elevato,
costante sicuro di guadagno portava i manager a adottare pratiche illegali e fraudolente che finivano
per provocare fallimenti e scandali. Nel 2001 Our non una delle più famose compagnie statunitensi
nel settore dell'energia delle comunicazioni andava incontro al fallimento dopo la dimostrazione che
gli enormi profitti erano in larga parte il risultato di una complessa frode contabile. L’esito della
vicenda era una perdita secca per gli azionisti, per i creditori e ovviamente per i dipendenti.
Da qui lo scandalo Enron sollevava a tal punto l’indignazione dell’opinione pubblica che il governo
decideva di intervenire per ritoccare la legislazione relativa al governo delle imprese quotate in
borsa, ma anche legislazione federale del 2002 (SOX). Il governo quindi nel 2002 approvava una
nuova legge federale del nominata Sarbenes-oxely. La nuova legge nondimeno rifletteva la
crescente preoccupazione pubblica relativa al fatto che alle maggiori compagnie americane
mancava un punto di riferimento normativo certo e rigoroso è un regolamento necessario a
proteggere gli investitori, i lavoratori la comunità. Lo stesso sentimento tornava alla ribalta con la
crisi che travolgerà le banche del paese a partire dal 2007.
Nel corso degli anni 90, secondo la United Conference on Trade Developement quasi tutte le
economie europee perdono competitività e nel 2000 il reddito medio pro capite dell’Ue era pari al
70% di quello degli Usa. Il declino europeo non era casuale ma poneva le proprie basi nella
struttura dei due sistemi economici. Questo schema sviluppa ulteriormente l’argomento da
analizzare:
22.1 l’Europa in vendita;
22.2 il Giappone e il “decennio perduto”;
22.3 le difficoltà del sistema bancario;
22.4 smantellare i keiretsu?
22.5 lo sgretolamento delle relazioni industriali.
durante gli anni 70-80 era emersa come il modello della specializzazione dei deserti industriali e
con le produzioni made in Italy.
Effetti nel 1990 l’economia del paese era stata in grado di mantenere una bilancia commerciale
positiva per quasi tutto il decennio nonostante la Mary tardo nei comparti high-tech e soprattutto nel
settore dell'energia. Alla fine del decennio anche l'Italia cominciava a soffrire l'aspra concorrenza
del nuovo competitore cinese sui mercati globali e proprio nei suoi settori.
Il 1989 scandisce anche la storia dell’economia giapponese: si conclude una lunga fase di costante
crescita iniziata negli anni Sessanta.
Il successo precedente era dovuto a:
1. politica industriale che incoraggiava le imprese a competere sui mercati esteri;
2. i keiretsu ed il network di partecipazioni incrociate e legami informali;
3. un sistema di relazioni industriali partecipativo, rinforzato dalla pratica dell'impegno sicuro
per tutta la vita;
4. un efficiente sistema bancario che attraverso il credito interno da parte di ogni banca
collegata al suo kesetsu garantiva le risorse finanziarie necessarie alle politiche di
investimento a lungo termine dell'impresa.
Questo schema rimane però rigido parte dello Stato nei gruppi aziende si mostrarono in grado di
modificare lineamenti di quel modello per adattarlo al panorama economico in profonda
trasformazione, il paese rimaneva intrappolato in una lunga fase di stagnazione di fronte alle
trasformazioni della new economy. Si aggiunge una grave bolla speculativa sui titoli immobiliari
gonfiatasi tra 1985 e 1989 (tra le cause: politica monetaria espansiva).
La contemporanea politica di deregolamentazione finanziaria consentiva aggressive forme di
investimento delle banche nel settore immobiliare, generando speculazione e instabilità: nascono gli
spazi per una bolla finanziaria, causata da una politica di rivalutazione dello yen rispetto al dollaro e
anche al tasso di sconto per sostenere la domanda interna portato al 2,5%. Se mi derivati da questa
tendenza e non può ingigantiti dalla politica di deregolamentazione del settore finanziario intesa
come modernizzazione per favorire la concorrenza all'interno del sistema bancario tradizionalmente
rigido. E se ti di credito cominciano quindi a realizzare aggressive politiche di investimento che
andavano nella direzione del finanziamento delle società immobiliari e quindi della speculazione.
La bolla era destinata a scoppiare nel momento in cui la Banca del Giappone decideva di aumentare
nuovamente il tasso di sconto e contemporaneamente il Ministero delle Finanze fissava delle
limitazioni al coinvolgimento di istituti bancari del finanziamento dell'operazione immobiliare.
La conseguente crisi ha inciso in maniera significativa sull’economia reale e le prospettive di
crescita del modello giapponese. Ha portato quindi disoccupazione crollo del valore dei terreni in
12 mesi l’indice Nikkei si dimezzava stagnazione dei consumi privati e degli investimenti.
In particolare, le banche dei keiretsu entravano in crisi: tra il 5 e il 10% dei crediti concessi
diventava inesigibile. La ricaduta sull’industria era immediata la quale non aveva più il supporto
vitale dei finanziamenti delle banche.
Conseguenze: riduzione del credito per investimenti e concentrazioni + processi di consolidamento
all'interno del sistema bancario il quale portava da sette a quattro domande istituti maggiori.
Venendo meno il sostegno delle banche i manager dell'imprese erano portati alla ricerca di fonti di
finanziamento alternative a quelle tradizionali mediante ricorso di capitale straniero.
Bisognava dunque ridurre i costi e acquisire capitali dall’estero: ciò si risolveva in una crescita
costante della flusso di investimenti dall'estero nel corso del tutto 1990, gli investitori stranieri
controllavano quasi un quinto delle azioni delle maggiori compagnie quotate giapponesi: una
proporzione mai registrata in passato.
Investitori stranieri esercitavano subito sui manager una pressione indirizzata a modificare i rapporti
informali e la scarsa trasparenza nella gestione delle relazioni fra imprese e mettendo così in
discussione uno dei fondamenti del capitalismo giapponese cioè le pratiche cooperative e collusive.
La necessità di garantire un flusso costante di risorse finanziarie dall'estero aveva un impatto
notevole sulle istituzioni statali (noto come Meti), il Giappone aveva intrapreso la strada di
cambiamento.
I grandi keiretsu erano dunque costretti a correggere le tradizionali modalità di approccio ai mercati
di capitali e alla governance aziendale nella fase di stagnazione.
Si indeboliva di conseguenza la densa rete di partecipazioni incrociate che legavano le banche e le
imprese e le stesse imprese tra di loro. Dal punto di vista del settore produttivo la crisi metteva in
seria difficoltà i settori industriali come automobilistico elettronico a causa della sovrapproduzione.
Dalla crisi dell’economia reale uscivano invece strategie di ridimensionamento e ristrutturazione
aziendale.
Solo in parte si affermava l’orientamento verso pratiche di governance più trasparenti, per cui un
efficiente controllo sull’operato della direzione aziendale era virtualmente assente. Infatti, il
management era indotto a intraprendere radicale processo di ristrutturazione soprattutto perché si
doveva esporre al giudizio degli azionisti: proprio la presenza di capitale estero e degli investitori
istituzionali spingeva in molti casi i vertici aziendali operare scelte a favore del valore per
l'azionista in un quadro di relazioni molto diverso dal precedente modo di pensare operare delle
imprese giapponesi. Il management inefficiente non poteva essere valutato e rimosso.
Oggi possiamo constatare la prepotente ascesa dei due giganti asiatici, Cina e India. Una novità
importante per due motivi:
- dalla rivoluzione industriale per la prima volta il baricentro dell’economia mondiale si
sposta fuori dell’occidente;
- la storia rimette le cose a posto, visto il primato di Cina e India nei tre millenni precedenti al
XVIII secolo.
Una serie di elementi aiuta a comprendere la consistenza di questi nuovi protagonisti: conoscenza
più diffusa di prima; grandi popolazioni nascoste nelle campagne; riforme economiche recenti.
Non dimentichiamo che la Cina è cresciuta dal 1980 al 2005 ad un tasso medio annuo del 9,6%.
Nell’esposizione del manuale seguono due paragrafi:
23.1 la Cina;
23.2 l’India.
23.1 La Cina
Per spiegare il successo della Cina è difficile individuare un insieme coerente di azioni di politica
economica. È stato possibile capire i passi della Cina tramite i tratti salienti del miracolo e
dell’inaspettata ascesa delle tigri asiatiche.
Nel caso asiatico-giapponese si poteva parlare di:
1. rapporto do ut des fra le grandi imprese e lo stato (politiche di favore in cambio di
competizione internazionale); le prime erano protette con alte tariffe doganali, agevolate con
finanziamenti ad Hoc o con un facile accesso al credito, addirittura sottratte alle fluttuazioni
della domanda mediante un sistema di prezzi amministrati ma costrette al potere politico a
competere sul mercato globale con gli obiettivi precisi di esportazioni.
2. scelta di tecnologie medie, non difficili da applicare; così da ottenere lo sfruttamento delle
economie di scala. questa scelta era accompagnata da un'estrema attenzione alla fase
produttiva (alta qualificazione tecnica e coesione) nella convinzione che non fosse possibile
utilizzare proficuamente un impianto semplicemente acquistandolo chiavi in mano
3. sostegno finanziario ai grandi gruppi. Era ritenuto il miglior interlocutore per una politica di
rapido sviluppo; era richiesta loro una speciale abilità, quella di padroneggiare la gestione di
grandi dimensioni di impresa in processi di diversificazione non correlata.
In Cina troviamo altre originalità:
- competitività basata sul basso costo del lavoro;
- porta aperta alle imprese multinazionali;
- spazi agli animal spirits repressi negli anni della rivoluzione culturale;
- produzione legislativa dopo il 1978 con Deng Xiaoping: egli dava inizio alla liberazione
economica, da un lato concedeva sempre maggior diritto di cittadinanza all'impresa privata e
dall'altro ridimensionava il peso di quella posseduta dallo Stato.
Emergono in questo nuovo contesto alcuni imprenditori davvero schumpeteriani. Il caso Ma Yun
(Alibaba.com). Anche quando vengono rivisti esenzioni fiscali e assenza di diritti doganali rimane
la libertà imprenditoriale e l’impegno a non nazionalizzare le imprese a capitale estero.
Anche per questo cresce vertiginosamente il surplus commerciale estero.
In più si è creato un legame simbiotico fra produttori cinesi e grande distribuzione americana:
invasione di beni made in China. Alcuni timori diffusi: ambiente, sistema politico, sostenibilità del
deficit estero USA.
23.2 L’india
1. il sistema tecnologico visto nella sua evoluzione (le rivoluzioni industriali); la tecnologia è
un prodotto umano è determinato da abilità tecniche, da conoscenze scientifiche, da
attitudini sociali. In un dato momento tutto ciò precipita in un paradigma ovvero in una serie
di elementi coordinati sistematicamente che ne fanno qualcosa di altro da noi. Realmente
naturalmente un paradigma muta nel corso del tempo fino a risolversi in uno nuovo ma nella
nostra esperienza e di fatto immodificabile e quindi dobbiamo accettarlo come variabile
esogena. A questi paradigmi diamo il nome di rivoluzione industriale ed è intrinseco a esse il
carattere della globalità. Nei suoi tratti fondamentali la tecnologia è la stessa in tutto il
mondo.
Quando si entra in quella che viene definita seconda rivoluzione industriale il nostro attore
diventa ingombrante. Ciò in quanto l'evoluzione del paradigma tecnologico comporta la
nascita e il permanere sul lungo periodo di imprese gigantesche, che finiscono per
coincidere con interni settori dell’industria. A questo punto si assiste a una sorta di gioco di
scatole cinesi. l'economia ha nel settore secondario il suo elemento più dinamico, a sua volta
il settore secondario alla sua componente più importante alcuni comparti la metallurgia la
chimica la meccanica e l'industria elettronica. Naturalmente non esiste solo la grande
impresa nella seconda rivoluzione e alcuni settori non vengono toccati in ogni caso emerge
con chiarezza il fatto che un'economia per essere sano e vitale necessita della presenza di
una comunità di imprese ovvero imprese di diverse dimensioni che perseguono obiettivi
diversi. Dobbiamo dire che la grande impresa è il motore insostituibile dello sviluppo cioè lo
strumento grazie al quale le nazioni competono per l'egemonia mondiale.
3. il contesto locale, che pone in rilievo tra variabili: a) i mercati; considerati nella loro
dimensione ovvero popolazione più reddito pro capite ma soprattutto nella loro dinamicità
b) il rapporto potere politico/impresa; visto sia come regolamentazione della competizione
(antitrust) sia come un complesso di azioni da parte della politica che arrivino sino
all'intervento diretto e alla formazione dello Stato imprenditore; c) la cultura (scale di valori
più modelli di comportamento). Nell’ultimo ventennio del XIX secolo l'Inghilterra che alla
metà dell’Ottocento e l'officina del mondo non riesce a cogliere le occasioni più importanti
della seconda rivoluzione industriale. Questo accade perché l'economia inglese soffre i tipici
svantaggi del pianeta e cioè è troppo ricca, organizzata. In Europa la supera la Germania,
l'economia tedesca contrappone all'individualistico capitalismo inglese la cooperazione fra
banche, aziende e associazioni imprenditoriali. Ma sia la Germania che l'Inghilterra vengono
sopravanzata dagli Stati Uniti. Il problema più grande tra il Giappone Russia in Italia è
quello del rapporto fra Stato e mercato: in Russia il potere sovietico abolisce il mercato
instaurando una economia pianificata.
La ricostruzione cronologica compiuta in precedenze intreccia la storia di questi elementi nei
singoli casi nazionali incontrati.
L’Italia è un paese ritardatario, con poche esperienze di grande impresa, di piccole medie imprese e
in effetti fra le nazioni avanzate l'Italia ha un vero e proprio record della forza lavoro che si
concentra in imprese con numero di addetti inferiore a 50. Il nostro problema è che quest'opinione
prevalente si è introdotta anche in una prospettiva storiografica. L’idea di fondo è che esista un
modello dei paesi avanzati e l'Italia ne sia rimasta fuori. In realtà quello dell'Italia è un modellaccio.
L'Italia ha provato a inserirsi nella corrente delle nazioni di prima fila e stava per riuscire ma
qualcosa è andato storto.
Il caso italiano è quello di un approdo mancato, un paese ritardatario che era riuscito a sfruttare i
vantaggi che aveva avuto in passato ma che si trova a dover imitare, a dover eseguire un catching
up Novecentesco. Un catching up che sul finire degli anni ‘80 riesce ad arrivare a livelli come quelli
della Gran Bretagna.
L’opinione comune e il “modellaccio” modo di dire per indicare il modello classico (GB) che
l’Italia ha voluto imitare. Un modello di sviluppo ha avuto un sostegno adeguato da alcuni altri
aspetti come il proliferare di piccole e medie imprese.
Il dibattito italiano si articola in due posizioni: chi sostiene che il ruolo della grande impresa è
fondamentale e chi invece è sostenitore del motto “piccolo è bello”, si tratta di un dibattito che non
è
Erano differenti gli attori dello sviluppo in Italia. L’Italia era il terreno ideale per la verifica delle
teorie di Alexander, il quale postula l'esigenza di fattori sostitutivi dell'imprenditorialità per
promuovere l'industrializzazione dei paesi Latecomer. Questi erano la banca universale e lo Stato.
Ora in Italia attorno al 1900 era grande il contributo delle banche universali soprattutto della Banca
Commerciale Italiana del credito italiano, alla fondazione di interi settori e alle più importanti
iniziative industriali. Ma soprattutto lo Stato il fattore decisivo era, perché era colui il quale la stessa
banca guardava come rete protettiva di ultima istanza. Per l'Italia la storiografia ha parlato di
precoce capitalismo di Stato nel senso che quest'ultima si caratterizzava come il maggior operatore
economico finanziario se te l'unificazione: per la creazione di debito pubblico e per la pressione
fiscale e per il processo di privatizzazione del territorio nazionale, tutti strumenti che con i quali
finanziare infrastrutture essenziali come le ferrovie, l'apparato amministrativo, le forze armate e le
opere pubbliche. Negli anni 80 però il potere politico compiva una vera e propria forzatura verso la
nascita di serie iniziative industriali. La rivoluzione nella comunicazione e nei trasporti provocava
la massiccia immissione sul mercato italiano di prodotti agricoli provenienti da oltre oceano,
sommergendo l'Italia esportatrice di beni. Questa ragione porta nel 1884 alla creazione della prima
impresa industriale moderna del paese cioè la Terni. Si tratta di un episodio strategico della storia
economica italiana perché alla Terni lo Stato non concedeva solo sovvenzioni, commesse,
protezione doganale; quando tre anni dopo la nascita nel 1887, l'impresa era sull'orlo della
bancarotta, lo Stato provvedeva al salvataggio utilizzando la banca nazionale in seguito alla Banca
d'Italia con emissione di nuove banconote. Gli attori sono le banche, molte poche e non
grandissime, le uniche di finanziamento sono avviate e sostenuto con capitale tedesco. Poi c’è lo
Stato, un “ballerino”: destra storica (liberista), sinistra storica (protezionista), Giolitti con aperture
sociali perché il sistema democratico regga dopo le criticità degli anni 80 e le repressioni del 1898.
Anche di tutto questo bisogna tenere conto.
Si tratta di un'operazione di salvataggio attraverso l'intervento della Banca centrale. Nel 1922 il
privilegio toccava alle attività industriali afferenti a due grandi banche cioè la Banca d'Italia di
sconto e il Banco di Roma. Infine, nel 33 l'ultimo è il più grande salvataggio cioè quello delle
imprese legate alle tre banche miste cioè la commerciale di credito italiano e il Banco di Roma.
Dopo l'unione sovietica l'Italia poteva vantare la maggiore estensione di proprietà industriale
pubblica. La morale è evidente: per un'impresa ritenuta strategica negli interessi del paese, è
mancata in Italia una libertà fondamentale in un sistema capitalistico, quella fallimentare.
D’altro canto, anche il grande capitalismo privato ha a che fare costantemente con lo Stato; in esso
si
affermano grandi famiglie:
- Pirelli (gomme)
- Agnelli (Fiat, automobile)
In Italia c'era anche una grande industria orientata al mercato, Pirelli consolidava e ampliava la
propria azienda sin dall'ultimo ventennio dell’Ottocento rispondendo a commesse pubbliche nel
settore dei cavi telegrafici e telefonici. Tuttavia, costruiva ben presto un'impresa capace di
competere sul mercato internazionale, costruendo stabilimenti Spagna sud America e dirittura in
Inghilterra. La Fiat era l'impresa egemone dell'industria automobilistica italiana già alla vigilia della
Prima guerra mondiale quando produceva la metà dei veicoli nazionali grazie a un imprenditore
cioè Giovanni Agnelli a comprendere che l'automobile non sarebbe rimasta lungo un giocattolo per
ricchi ma che era destinato a diventare un tipico prodotto di massa. Agnelli, quindi, era capace di
attuare una vasta operazione di integrazione verticale che dava la Fiat un incolmabile vantaggio
sugli altri competitori nazionali.
Tutto questo perché il mercato interno era ristretto, non solo territorialmente ma anche dal punto di
vista delle ricchezze disponibili e delle ricchezze disegualmente distribuite (ricordiamoci sempre
che parliamo di un territorio che non è ancora unificato) – forte dualismo tra Nord e Sud.
Il mercato internazionale si presentava però caratterizzato da forti incertezze e fluttuazioni e quando
il governo italiano decideva di sostenere la lira, probabilmente oltre i limiti della ragionevole, il
settore automobilistico, fra gli altri, e ci avevano visto colpo ma chi è.
Questo catching up avviene miracolosamente negli anni del miracolo con premesse poste anche
nelle
stagioni precedenti. Imprese preesistenti come la Fiat o l’industria siderurgica hanno formato figure
come manager negli anni precedenti coorti manageriali: Valletta (Fiat), Sinigaglia (per la
siderurgia nazionale).
L’Italia era l'unico paese del Mediterraneo ad aver raggiunto uno stabile stato di industrializzazione
quando stava iniziando la Seconda guerra mondiale. Per l'Italia era stato il primo conflitto mondiale,
con le commesse sud della mobilitazione industriale, il punto di non ritorno, al termine del quale la
nazione era fra le otto più industrializzate del mondo.
Ma già negli anni immediatamente precedenti alla guerra il paese era autonoma per una produzione
essenziale come quella siderurgica, mentre l'impresa come l'Ansaldo, nonostante la megalomania
dei suoi capi, impianti che suscitavano l'ammirazione degli addetti militari tedeschi. Si formavano
in Italia nel XX secolo importanti forze produttive che si concretizzavano soprattutto nella
costituzione di coorti manageriali. Erano per esempio gli uomini del professore veri dirigenti della
Fiat che fa affiancheranno Vittorio valletta nella grande performance degli anni 50. Quasi tutti
entravano in azienda all'inizio degli anni 20 per rispondere alle esigenze create dall’inaugurazione
del lingotto, il più moderno impianto automobilistico di Europa. Erano i siderurgici di Oscar
Sinigaglia, il samurai che aveva individuato nell'acciaio la questione economica fondamentale
dell'economia italiana. Egli sin dal 1910 esponeva luce del programma di sviluppo e
specializzazione degli impianti a ciclo integrale capace di dare al paese prodotti siderurgici su vasta
scala, di buona qualità e a basso prezzo. Un terzo nucleo di componente di assoluta rilevanza era
costituito dai seguaci di Nitti, uomo politico lucano, il quale riteneva che solo l'industrializzazione
potesse risolvere la grande questione nazionale, cioè quella del sud. Inoltre, il più importante dei
miei piani era Alberto Beneduce, ideatore della formula Iri, ovvero di un insieme di imprese di
proprietà pubblica ma caratterizzate da uno stile manageriale privato.
25.9 La grande impresa protagonista del miracoli (auto, siderurgia, l’Eni di Mattei, l’Olivetti)
La grande impresa protagonista del miracoli (auto, siderurgia, l’Eni di Mattei, l’Olivetti).
Gli anni del 1960 sono ricordati come il periodo del miracolo economico italiano. C’erano le
economie di scala e di diversificazione lanciandosi nella costruzione di grandi impianti e grandi
organizzazioni. Non vedevano gli imprenditori nella contrattazione con il potere politico l'essenza
del proprio agire imprenditoriale. Questa era data piuttosto da produzioni di massa che rendessero
accessibili beni essenziali alla maggioranza dei consumatori. Vittorio Valletta e il lancio della 600
del 1955 per l'Italia era il raggiungimento della motorizzazione con livelli comparabili a quelli della
grande paese d'oltreoceano, un traguardo impensabili pochi anni prima. Sinigaglia realizzava un
piano per la siderurgia degno di un Jean Rockfeller: costruito un grande impianto a ciclo integrale
presso Genova secondo lo stato dell'arte della tecnologia; specializzava la produzione degli altri
impianti chiudeva quelli obsoleti licenziando migliaia di operai. Era molto sensibile ai costi sociali
e a chi obiettava le conseguenze la sua azione in quanto campo rispondeva che, offrendo acciaio di
buona qualità e a basso prezzo, avrebbe sviluppato potentemente l'industria meccanica ottenendo
quindi un massiccio incremento dell’occupazione. Un altro grande primo attore di questa fase era
leggendario Mattei il fondatore dell'Eni, che realizzava vantaggio dell'industria settentrionale una
fitta rete metaniferi, mentre attuava un'efficace politica nel settore del petrolio grazie a geniali e
rischiosi accordi con i paesi produttori. Egli si avvaleva anche della sua posizione in campo
metallifero per strappare alla Montecatini, a vantaggio degli agricoltori italiani, la leadership nei
concimi chimici azotati. Nel 1956 costruiva Ravenna un impianto petrolchimico con un
investimento di 60 miliardi. Un quarto protagonista era Adriano Olivetti, l'imprenditore più
consapevole delle conseguenze sociali dell'industrializzazione ma così concreto da realizzare nel
campo dei prodotti per ufficio una multinazionale tale da acquistare alla fine degli anni 50 una delle
maggiori imprese americane nel settore, la Underwood. Importante notare come ci sia che sia
differenza in questa golden age tra privato e pubblico.
La domanda che ci si pone allora è: si tratta di un approdo in modello giapponese? Che, come
ricordiamo, ha rincorso l’Occidente (zaibatsu e keiretsu). No, a causa dell’elemento politico-
istituzionale.
La chiave per comprendere i diversi esiti dei due paesi cioè Italia e Giappone è l'elemento politico
istituzionale.
Negli anni 30 è già pone aveva un'azione dello Stato che era troppo per passiva: una serva di leggi e
regolamentazioni finiva per ingessare l'economia nazionale. Il Giappone, dove la burocrazia era
forte mentre debole era la politica, prendeva la lezione. Nel secondo dopo guerra si assisteva al
ritiro dell'intervento pubblico diretto; i grandi ministeri dirigevano allora la politica industriale
grazie alle guide line. Delineava una sorta di quadratura del cerchio per cui lo Stato proteggeva le
grandi imprese ma le obbligava a confrontarsi con il mercato globale. Si potrebbe dire che in Italia
lo Stato avrebbe dovuto ritirarsi dall’intervento diretto e dedicarsi alla creazione di un quadro di
regole all'interno delle quali la grande impresa potesse prosperare. Sarebbe stata necessaria quindi
un'efficace protezione degli investitori in borsa, la promozione di investitori istituzionali, la
revisione della legge bancaria con il ripristino della cosiddetta house bank, una legislazione antitrust
e il governo delle trasformazioni sociali e del conflitto.
Uno Stato che non ha saputo superare il proprio limite di politicizzazione (la mediazione affidata ai
partiti che hanno frantumato la possibilità di rappresentare interessi e fare scelte).
L’approdo mancato sarebbe stato un mix derivante da:
- degenerazione dello Stato, che quando è diventato imprenditore l’ha fatto generando debito
pubblico
- fallimento progetti frontiera tecnologica, esempio è quello dell’Olivetti che ha il primato
nell’ambito della elettronica e dell’informatica
- conseguenze della nazionalizzazione energia elettrica
- crisi delle grandi famiglie e l’incapacità di gestire il big business in una prospettiva ancora
prevalentemente familiare
- il lungo autunno caldo (1969-1980), antagonismo nella contestazione del sistema
democratico che coinvolge e mette in ginocchio la capacità produttiva di un intero sistema
per un intero decennio
La società italiana si è sempre contrassegnata per la sua frammentazione localistica, tale da non
sopportare un rapporto diretto fra Stato e cittadini, necessitando invece di una mediazione da parte
della politica. Quando si parla di pubblico in Italia, quando si parla di Stato, è sempre necessario
intravedere l'azione e la discrezionalità della politica. si prende il caso di quello che diverrà il
sistema delle partecipazioni statali. La formula benedice era la brillante soluzione di un nodo
storico, la discrepanza fra la necessità di investimenti industriali e la disponibilità di capitali. Ma i
rischi non erano di poco conto. La fase della negligenza benigna da parte dei politici non durava
molto allungo e già nella metà degli anni 50 si intravedeva uno spoiler system che segnerà
pesantemente l'intera costruzione. Lo Stato imprenditore diventa in questo quadro sempre + 1
strumento per il controsenso, ovvero cresceva per incrementare l'occupazione. Nel 1956 con la
nascita del ministero delle partecipazioni statali, veniva creato una catena di comando che nel corso
degli anni si rivelerà micidiale. Per esempio, nel settore siderurgico nel quale il ministero insisteva
per la creazione di un nuovo impianto a Taranto che era la città in crisi per lo stato dei suoi cantieri.
25.13 La Scoperta Della Piccola Impresa (Distretti; Tradizione Corporativa; Istituzioni Locali)
C’è anche chi punta sul “piccolo è bello”, nel pieno degli anni 70 viene recuperato il posto della
piccola impresa, mai scomparsa e sempre capace di innovare. Chi studia i distretti (agglomerazioni
piccole-medie imprese manifatturiere) ed i cluster (concentrazione a livello geografico di istituzioni
connesse tra loro che operano in un determinato settore), chi dà ragione ad una tradizione
corporativa. C’è chi ritiene importante il ruolo delle istituzioni locali nel favorire la produzione
locale, che significa conservarla e valorizzarla. Nel caso italiano la piccola media impresa assume
un ruolo molto più importante rispetto agli altri paesi.
Si riscopriva la piccola impresa, spesso organizzata nella forma del distretto industriale, un
territorio definito e dedicato alla produzione di un bene per la quale viene realizzata una divisione
del lavoro sia orizzontale sia verticale ovvero oltre al bene, si fabbricano anche le macchine per la
sua realizzazione. Nel 1991 quando il parlamento approva una legge che intendeva tutelarli erano i
distretti e indirizzare le proprie risorse verso la produzione di beni per la persona e per l’abitazione,
fino a diventare protagonisti dell'ascesa del made in Italy. I distretti sono formati in un processo di
lungo periodo dal concorso di diversi fattori. Se la causa scatenante era l'emergere di un mercato
nazionale e internazionale nel secondo dopo guerra, le origini erano senz’altro remote.
Un forte ruolo è da attribuire alla tradizione corporativa, come al retaggio mezzadrile con l’etica del
lavoro, alle tante abilità manuali, allo spirito imprenditoriale diffuso. Importanti erano anche l'antica
consuetudine di una raffinata domanda urbana e l'attitudine al commercio cosmopolita. In ogni caso
quello dei distretti era un successo che non si spiegava solo con la quantità e la qualità dei fattori
individuali. infatti, decisivo era l'apporto di un’istituzione come la famiglia, in aziende nelle quali i
padroni operai erano spesso parenti. Così come in primo piano la comunità locale per cui la
concorrenza era bilanciata da un senso di solidarietà e le conoscenze tecniche professionali erano
nell’aria. Pertanto, importanti erano le istituzioni locali sia con interventi positivi come, per
esempio, nel campo dell'istruzione sia anche con la tolleranza verso componenti discutibili come
l'evasione fiscale. Considerando infine l'elemento relativo all'omogeneità politica: i distretti sono
fioriti in aree o Fort amente rosse o a netta prevalenza cattolica. in questo modo era possibile
attenuare il lacerante conflitto sociale che caratterizzava la grande impresa. Cioè questi virtù non
possono nascondere lati oscuri come la sottocapitalizzazione, la sclerosi produttiva, la volatilità dei
mercati al cui interno i distretti operavano, mercati soprattutto dei beni valutari e la diffusa chiara la
revisione fiscale.
Oggi è stato inventato il quarto capitalismo (o capitalismo molecolare) cioè quella categoria che
comprende le piccole imprese che nascono piccole e poi si muovono verso imprese di 500
dipendenti (questo dato scandisce il passaggio ad un’impresa medio-grande). Queste, approfittando
delle opportunità della globalizzazione, cercano di ingrandirsi. Questo tipo di impresa emerge come
novità nel contesto italiano, un contesto in cui c’è il desiderio di diventare grandi e competere con le
altre potenze. Sono stati definiti così perché non potevano essere identificati né con la grande
impresa privata né con quella pubblica e né con la piccola impresa. alla fine degli anni 90 era un
attivo in Italia un migliaio di aziende che fatturavano fra il 300 e i 3000 miliardi di lire. Una parte di
essi avevano origini che risalivano al periodo successivo al primo conflitto mondiale altri erano figli
del miracolo economico ed altri nascevano proprio con la crisi degli anni 70. Erano due le
caratteristiche fondamentali cioè una grande abilità tecnica di origine artigianale oppure una
straordinaria capacità commerciale. La formula del successo di questo quarto capitalismo era la
concentrazione sulla nicchia, ma di livello globale, come stanno i produttori fabbri Agnesi di cappe
aspiranti. Questo nuovo protagonista deve affrontare ancora due nodi irrisolti: il primo riguarda
quello che oggi viene definita governance ovvero il modo in cui si rende armonico il rapporto fra
proprietà, controllo e gestione di impresa. Il quarto capitalismo è nettamente indovinato da imprese
familiari con tutti i problemi che questo assetto comporta. Il secondo aspetto critico riguarda i
settori in cui esso attualmente opera cioè calzature abbigliamento pelli cuoio legno immobili
ceramiche marmo eccetera ovvero quelle produzioni a cui si accennava in precedenza riferendosi ai
distretti, produzioni che non sono certo quelli di frontiera e che tuttavia consensualità di collocarsi
fra le prime otto economie mondiali.
- CAPITOLO 1
I manager sono portatori di competenze teoriche e pratiche e hanno sviluppato un preciso sapere
funzionale, specifico della singola impresa. (vero)
- CAPITOLO 2
Secondo Edit Tilton Penrose l’impresa è:
o una sorta di finzione legale utile per definire un sistema di relazioni contrattuali
o un'organizzazione che apprende, e alla fine sa “come fare le cose” (ok)
o un'isola di potere consapevole in un oceano di cooperazione inconsapevole
Alfred Chandler considerava implicitamente il cambiamento tecnologico come una forza endogena
che aveva un impatto decisivo sulle scelte imprenditoriali (falso)
- CAPITOLO 3
Cantillon riconosce nell'imprenditore il vero motore dell'economia, anche se la sua definizione
abbraccia un significato così ampio che è possibile includervi addirittura i ladri e mendicanti (Vero)
Edward Denison, cercando di individuare l'origine della crescita degli Stati Uniti nel periodo 1900-
1960, per rendere conto dell'incremento di produttività menziona fattori quali:
o il progresso tecnico, (esatto)
o il capitale umano, (esatto)
o il cambiamento istituzionale, (esatto)
o la stabilità valutaria.
- CAPITOLO 4
In età preindustriale, la Corona, o direttamente o per tramite dei governi, garantivano vantaggi e
protezioni agli imprenditori privati per stimolare l'insediamento di manifatture e impianti
specializzati nella produzione di particolari categorie di beni (vero)
Le caratteristiche dell’la struttura delle corporazioni, che influenzavano anche la forma e la struttura
delle imprese erano:
o piccole unità produttive a conduzione familiare (esatto)
o sporadici contatti con l'esterno (esatto)
o sistemi economici aperti
o quasi totale assenza di transazioni di mercato e specializzazione (esatto)
- CAPITOLO 5
Occasionalmente diventavano imprenditori esponenti di classi sociali che era meno usuale associare
al rischio d'impresa, come molti nobili e proprietari terrieri (vero)
- CAPITOLO 6
Nella prima rivoluzione industriale, le macchine erano strumenti molto più sofisticati degli attrezzi
utilizzati dagli artigiani e dai maestri nell'organizzazione corporativa, infatti:
o i macchinari richiedevano, per la loro maggiore complessità tecnica, la presenza di
lavoratori specializzati nella manutenzione (esatto)
o i macchinari erano costosi: l'investimento in capitale fisso rappresentava in questa fase un
vincolo rilevante (esatto)
o le macchine utilizzate in questo periodo richiedevano l'applicazione di quantità di energia
inferiore rispetto al passato; un'energia che doveva essere a basso costo e continuamente
disponibile, quindi di origine inanimata
Evidente era la superiore efficienza del sistema di fabbrica, ma non ovunque le società erano
disposte ad abbandonare gli equilibri garantiti dagli assetti economici preindustriali. (vero)
- CAPITOLO 7
Le grandi compagnie ferroviarie statunitensi furono le prime a introdurre:
o un sistema di salari fissi e le prime forme di assicurazione e pensione per i dipendenti (ok)
o relazioni sindacali basate sulla contrattazione collettiva
o istituti di istruzione tecnica e professionale per il settore
L'ultimo quarto del XIX secolo ha visto sorgere nei paesi industriali più avanzati le grandi imprese
(large corporation), destinate a diventare in poco tempo:
o multi-unitarie (esatto)
o multifunzionali (esatto)
o monoprodotto
o multinazionali (esatto)
- CAPITOLO 8
Alla fine del XIX secolo, per raggiungere le grandi dimensioni d’impresa, occorreva effettuare
consistenti investimenti in tre ambiti tra loro correlati: produzione, formazione, innovazione (falso)
All’inizio del XX secolo le grandi imprese presenti negli Stati Uniti, in Germania e in Gran
Bretagna erano concentrate in settori che resteranno dominanti fino agli anni Settanta, quali
o Tessile
o alimentare (esatto)
o editoria
o cantieristica
- CAPITOLO 9
l Prima guerra mondiale la grande impresa si era affermata in Gran Bretagna in tutti i settori in cui
lo sviluppo tecnologico lo aveva reso possibile, sia nella produzione dei beni di consumo sia in
quella dei beni intermedi o industriali (falso)
L'intervento del governo in Russia è stato decisivo per la promozione e il sussidio alle iniziative
imprenditoriali locali, attraverso:
o l’istituzione di scuole gratuite diffuse sul territorio nazionale
o l'attrazione degli investimenti esteri (ok)
o il potenziamento degli scambi commerciali con la Cina
- CAPITOLO 10
Negli anni tra le due guerre mondiali, un forte nucleo di manager professionisti e una struttura
amministrativa ben congegnata sono le componenti chiave per mantenere la competitività di una
grande impresa industriale (vero)
- CAPITOLO 11
La risposta europea alle sfide della seconda rivoluzione industriale fu diversa da quella americana;
la diffusione del modello dell'impresa manageriale in Europa avvenne più lentamente a causa di:
o fattori culturali (esatto)
o struttura dei mercati (esatto)
o politiche industriali adottate dai governi (esatto)
o mutamento climatico
I motivi della lentezza della transizione al capitalismo manageriale in Europa furono i seguenti:
o nella prima metà del XX secolo l’Europa sprofondò nella crisi e nel caos (due guerre
mondiali, una crisi economica di vaste proporzioni, le dittature, il nazionalismo economico
degli anni Trenta) (esatto)
o la dimensione contenuta delle imprese (esatto)
o lo scarso dinamismo dei mercati nazionali (esatto)
o l’arretratezza nella contrattazione collettiva
- CAPITOLO 12
Dopo la rivoluzione Meiji, il principale obiettivo del nuovo governo giapponese divenne la
modernizzazione economica, necessaria per mantenere lo status di nazione indipendente. La
strategia della modernizzazione era articolata in diversi ambiti:
o costruzione delle infrastrutture (esatto)
o acquisizione e diffusione delle tecnologie più recenti (esatto)
o sviluppo di una politica agricola basata sull'introduzione delle leguminose
o introduzione di riforme monetarie e fiscali (esatto)
Dopo la rivoluzione Meiji, l'impegno giapponese rivolto alla formazione di un capitale umano di
alta qualità attraverso la riforma e il potenziamento del sistema scolastico ottenne risultati deludenti:
il governo giapponese decideva raramente di finanziare i viaggi di istruzione dei giovani laureati
negli Stati Uniti e in Europa. (falso)
- CAPITOLO 13
Nel secondo dopoguerra, i caratteri della large corporation sono:
o limitata articolazione delle strutture organizzative
o constituency complessa (esatto)
o strategicità della funzione di R&S (esatto)
- CAPITOLO 14
Nel secondo dopoguerra, la terza ondata di fusioni (dopo quella del primo Novecento e quella degli
anni Venti) faceva emergere un nuovo tipo d’impresa: la conglomerata, diversa dalla multi-
divisionale perché cercava di operare in settori strettamente correlati fra loro. (falso)
- CAPITOLO 15
Nel ventennio 1930-1950, in URSS si registra una crescita con tassi a due cifre, insieme ad un
limitato benessere rispetto alle condizioni di partenza. (vero)
- CAPITOLO 16
Lo zaibatsu giapponese differiva dalla large corporation per i seguenti elementi:
o limitata centralizzazione organizzativa (esatto)
o alto livello di integrazione verticale
o diversificazione mediante creazione di nuove controllate (non mediante crescita interna)
(esatto)
- CAPITOLO 17
Nel secondo dopoguerra europeo, diversamente dagli USA, gli assetti proprietari delle grandi
imprese presentano:
o presentano un basso livello di concentrazione,
o sono fondati su una variegata mescolanza di controllo statale/bancario/personale (esatto)
o coesistono con diffuse strategie di diversificazione messe in atto dalle maggiori imprese
(esatto)
- CAPITOLO 18
Come i keiretsu giapponesi, i chaebol coreani non diversificavano in maniera scorrelata, anche
perché possedevano banche (in parte di proprietà pubblica). (falso)
- CAPITOLO 19
L’emergere delle multinazionali asiatiche nel tempo della globalizzazione ha motivazioni originali e
diverse dai periodi precedenti:
o capacità organizzative eccellenti (esatto)
o relazioni virtuose con i sistemi bancari (esatto)
o assenza dello Stato
o fattore lavoro antagonista e perciò represso
- CAPITOLO 22
Il sistema di relazioni industriali giapponese era fondato su tre principi:
o impiego a vita (esatto)
o carriere per merito
o sindacato aziendale (esatto)
- CAPITOLO 23
In età contemporanea si è creato un legame simbiotico fra produttori cinesi e grande distribuzione
americana, con conseguente invasione di beni made in China. (vero)
DOMANDE ESAME
- DOMANDA 1
Nel secondo dopoguerra, i caratteri della large corporation sono:
o constituency complessa (esatto)
o strategicità della funzione di R&S (esatto)
o limitata articolazione delle strutture organizzative
- DOMANDA 2
In Cina, in età contemporanea, troviamo alcune originalità distintive:
o Porte chiuse alle imprese multinazionali
o Spazi agli animal spirits repressi negli anni della rivoluzione culturale (esatto)
o Produzione legislativa favorevole al mercato dopo il 1978 (esatto)
o Competitività basata sul basso costo del lavoro (esatto)
- DOMANDA 3
In età contemporanea si è creato un legame simbiotico fra produttori cinesi e grande distribuzione
americana, con beni made in China. (vero)
- DOMANDA 4
- DOMANDA 5
L’informatica, riducendo i costi della trasmissione di dati, favorisce la diffusione di network di
imprese legate da processi di coordinamento informale, con a capo una grande impresa. (vero)
- DOMANDA 6
Fra le due guerre mondiali, le istituzioni giuridiche assunsero una funzione importante nella
regolamentazione dei mercati e della concorrenza. Gli europei erano molto più tolleranti nei
confronti dei comportamenti collusivi rispetto agli americani. I cartelli erano la norma in Germania
e lo Stato sosteneva gli accordi fra imprese come un importante strumento di politica industriale.
Poi, nel periodo fra le due guerre, la “cartellizzazione” si diffondeva in tutta Europa. (vera)
- DOMANDA 7
Gli imprenditori, di fronte allo sgretolamento delle strutture sociali tradizionali sperimentarono una
serie di soluzioni per controllare i tumultuosi cambiamenti della prima industrializzazione e dare
una risposta al disagio sociale di cui erano essi stessi responsabili. Alla fabbrica venivano così
affiancati le seguenti strutture a supporto dei lavoratori:
o Spacci per l’acquisto di generi di prima necessità, come cibo e vestiti (esatto)
o “villaggi operai”, che sorgevano presso gli impianti produttivi di maggiori dimensioni
spesso con l’intervento finanziario dell’imprenditore stesso (esatto)
o Alloggi e dormitori per chi proveniva da villaggi lontani (esatto)
o Stazioni ferroviarie autonome
- DOMANDA 8
Le grandi compagnie ferroviarie statunitensi furono le prime a introdurre:
o Istituti di istruzione tecnica e professionale per il settore
o Relazioni sindacali basate sulla contrattazione collettiva
o Un sistema di salari fissi e le prime forme di assicurazione e pensione per i dipendenti
(esatto)
- DOMANDA 9
In età preindustriale, la Corona, o direttamente o per tramite dei governi, garantivano vantaggi e
protezioni agli imprenditori privati per stimolare l’insediamento di manifatture e impianti
specializzati nella produzione di particolari categorie di beni. (vero)
- DOMANDA 10
Negli anni tra le due guerre mondiali, un forte nucleo di manager professionisti e una struttura
amministrativa ben congegnata sono le componenti chiave per mantenere la competitività di una
grande impresa industriale (vero)
- DOMANDA 11
Alfred Chandler considerava implicitamente il cambiamento tecnologico come una forza endogena
che aveva un impatto decisivo sulle scelte imprenditoriali. (falso)
- DOMANDA 12
Il 1989 scandisce la storia dell’economia giapponese: si conclude una lunga fase di costante crescita
iniziata negli anni Sessanta. (vero)
- DOMANDA 13
Nel 1921 Ford era di gran lunga il numero uno al mondo nella produzione automobilistica.
Caratteristiche della sua impresa furono:
o L’integrazione verticale (esatto)
o La trasversalità nelle relazioni industriali
o La standardizzazione (esatto)
o Un forte sostegno finanziario da parte dello Stato
- DOMANDA 14
zioni erano rigidi e riguardavano:
o La regolazione in forma orale relativa alla quantità, alla qualità e al prezzo delle merci
(esatto)
o La composizione dei conflitti fra i membri (esatto)
o La completa libertà nell’osservanza degli standard qualitativi
o La formazione e promozione degli apprendisti (esatto)
- DOMANDA 15
Secondo Edit Tilton Penrose l’impresa è:
o Una sorta di finzione legale utile per definire un sistema di relazioni contrattuali
o Un’organizzazione che apprende, e alla fine sa come fare le cose (esatto)
o Un’isola di potere consapevole in un oceano di cooperazione inconsapevole
- DOMANDA 16
In URSS le imprese operative adottavano la seguente strategia:
o Quella proiettata verso radicali innovazioni
o Quella personalizzata (produzione locale su piccola scala)
o Quella che punta sul volume (prodotti standardizzati) – per le grandi imprese (esatto)
o Quella di nicchia (merci indispensabili per fasce limitate di consumo)
- DOMANDA 17
L’ultimo quarto del XIX secolo ha visto sorgere nei paesi industriali più avanzati le grandi imprese
(large corporation) ì, destinate a diventare in poco tempo:
o Multinazionali (esatto)
o Multifunzionali (esatto)
o Multiunitarie (esatto)
o Monoprodotto
- DOMANDA 18
Il diffondersi delle imprese conglomerate accende dibattiti e anche critiche:
o Costi delle materie prime acquistate secondo nu…
o Trasformazione negativa dei top executive da responsabili dell’efficienza a dirigenti
interessati quasi esclusivamente ai ritorni finanziari (esatto)
o Nuovi modelli di relazioni industriali
- DOMANDA 19
L’impresa multidivisionale raggiungeva un elevato grado di coesione, pur conservando una grande
flessibilità. Lo staff al vertice dell’impresa era così in grado di sovrintendere al processo di
- DOMANDA 20
Nell’ambito delle ferrovie statunitensi si osservano i primi tentativi di controllo della concorrenza
attraverso accordi di cartello, quale risposta delle compagnie all’assetto fortemente oligopolistico e
intensamente competitivo del settore. (vero)
- DOMANDA 1
Nella prima rivoluzione industriale decisive furono le tecnologie che svilupparono i seguenti settori:
o Tessile (innovazioni tecnologiche nella filatura e nella tessitura) - esatto
o Lavorazione del ferro e dell’acciaio (sia nella crescita quantitativa di prodotti, sia nella
qualità di prodotti) - esatto
o Estrazione dello zolfo del carbone
- DOMANDA 2
Il 1989 scandisce la storia dell’economia giapponese: si conclude infatti una lunga fase di costante
crescita iniziata, negli anni Sessanta. (vero)
- DOMANDA 3
Jonathan R.T. Huges sottolinea le fondamenta profonde del fenomeno dell’entrepreneurship in
America, considerando:
o La libera proprietà della terra (esatto)
o La massima flessibilità nelle transazioni economiche (esatto)
o La variabilità della cornice giuridica
o Il limitato controllo sociale (esatto)
- DOMANDA 4
Negli anni Trenta, Adolf Berle e Gardiner Means riconoscevano che le grandi compagnie ad
azionariato diffuso erano diventate la forma economica dominante del mondo moderno. In
particolare, l’opinione di questi due autori sull’azione del manager era:
o Indifferente rispetto al tema del rapporto tra controllo e proprietà dell’impresa
o Ottimista, dato che il loro ruolo rafforzava la già esistente convergenza di interessi tra il
gruppo di controllo e la maggioranza degli azionisti
o Pessimista, dato che gli altri gradi dell’azienda avevano un potere tale da non dover
giustificare con nessuno le loro scelte (Ok)
- DOMANDA 5
I manager sono portatori di competenze teoriche e pratiche e hanno sviluppato un preciso sapere
funzionale, specifico della singola impresa. (vero)
- DOMANDA 6
In Giappone, la house bank di ogni gruppo agiva sia come creditore sia come azionista, ma ogni
istituto aveva anche un ruolo centrale di stanza di compensazione, quando decideva come allocare
le risorse in modo opportuno tra le varie società appartenenti allo zaibatsu. (vero)
- DOMANDA 7
Dalla seconda metà degli anni Settanta si avvia una trasformazione delle multinazionali, in
relazione all’emergere di nuove attività nel settore dei servizi (finanza, commercio, servizi per
l’impresa compresa in consulenza aziendale). Alla base ci stavano processi di deregolamentazione e
liberalizzazione, tipici della terza rivoluzione industriale che induce la seconda globalizzazione.
(vero)
- DOMANDA 8
I principali finanziamenti delle imprese nella prima rivoluzione industriale provenivano da:
o Il patrimonio personale dell’imprenditore (esatto)
o Le ricchezze familiari, spesso originate in un’attività mercantile (esatto)
o I grandi circuiti di credito internazionali
o L’autofinanziamento e il reinvestimento dei profitti (esatto)
- DOMANDA 9
Verso la fine dell’Ottocento i nuovi sistemi di trasporti e comunicazione hanno rapidamente messo
in moto la trasformazione di interi settori dell’economia, a partire dalla distribuzione delle merci;
nuovi venditori prendevano il posto dei commercianti tradizionali, empori e grandi magazzini
guadagnavano velocemente popolarità nel corso della seconda metà del secolo, proponendo
innovazioni quali:
o L’entrata libera (esatto)
o I prezzi fissi (esatto)
o Il ridotto assortimento di beni
o Le vendite in saldo (esatto)
- DOMANDA 10
In Europa la diffusione della M-form fu piuttosto casuale e non raramente solo formale. In
Germania ad esempio permaneva:
o Un alto grado di indipendenza dei manager delle divisioni
o Una scarsa sensibilità per il marketing (esatto)
o Una esigua riferibilità dei compensi manageriali con la performance divisionale (esatto)
- DOMANDA 11
Alla fine del XIX secolo, per raggiungere le grandi dimensioni d’impresa, occorreva effettuare
consistenti investimenti in tre ambiti tra loro correlati: produzione, formazione e innovazione.
(falso)
- DOMANDA 12
Israele Kirzner, appartenente alla cosiddetta scuola austriaca, considera l’attenzione (alertness)
come l’essenza dell’agire imprenditoriale. L’attenzione è descritta come l’abilità di riconoscere le
opportunità che nascono dall’errata allocazione delle risorse sul mercato. A questo fine è necessario
possedere:
o Creatività (esatto)
o Grandi dotazioni di capitali
o Immaginazione (esatto)
o Abilità di anticipare gli eventi (esatto)
- DOMANDA 13
Il successo economico giapponese nel secondo dopoguerra era fondato su:
o Politica industriale che incoraggiava le imprese a competere sui mercati esteri (esatto)
o I keiretsu ed il network di partecipazioni incrociate e legami informali (esatto)
o Relazioni industriali non partecipative
o Un efficiente sistema bancario (esatto)
- DOMANDA 14
Dopo la rivoluzione Meiji, l’impegno giapponese rivolto alla formazione di un capitale umano di
alta qualità attraverso la riforma e il potenziamento del sistema scolastico ottenne risultati deludenti:
il governo giapponese decideva raramente di finanziare i viaggi di istruzione dei giovani laureati
negli Stati Uniti e in Europa. (falso)
- DOMANDA 15
Nel secondo dopoguerra, la terza ondata di fusioni (dopo quella del primo Novecento e quella degli
anni Venti) faceva emergere un nuovo tipo di impresa: la conglomerata, diversa dalla
multidivisionale perché cercava di operare in settori strettamente correlati tra loro. (esatto)
- DOMANDA 16
In Argentina, agli inizi del Novecento, prevalgono i grupos, grandi gruppi d’affari che risultano:
o Controllati da una banca controllanti una banca
o A proprietà familiare (esatto)
o Diversificati (esatto)
- DOMANDA 17
Occasionalmente, nell’Inghilterra tra XVIII e XIX, diventavano imprenditori esponenti di classi
sociali che era meno usuale dell’associare al rischio d’impresa, come molti nobili e proprietari
terrieri. (vero)
- DOMANDA 18
L’intervento del governo in Russia è stato decisivo per la promozione e il sussidio alle iniziative
imprenditoriali locali, attraverso:
o Il potenziamento degli scambi commerciali con la Cina
o L’attrazione degli investimenti esteri (esatto)
o L’istituzione di scuole gratuite diffuse sul territorio nazionale
- DOMANDA 19
Nel secondo dopoguerra europeo, diversamente dagli USA, gli assetti proprietari delle grandi
imprese:
o Coesistono con diffuse strategie di diversificazione messe in atto dalle maggiori imprese
(esatto)
o Presentano un basso livello di concentrazione
o Sono fondati su una variegata mescolanza di controllo statale/bancario/personale (esatto)