A venti anni dal Nobel
Atti del convegno su Dario Fo
Pavia, Collegio Ghislieri, 23-24 maggio 2017
a cura di
Pietro Benzoni – Layla Colamartino –
Fabrizio Fiaschini – Matteo Quinto
20 Years after the Nobel Prize
Proceedings of the Conference on Dario Fo
Pavia, Collegio Ghislieri, 23rd-24th May 2017
Edited by
Pietro Benzoni – Layla Colamartino –
Fabrizio Fiaschini – Matteo Quinto
A venti anni dal Nobel : Atti del convegno su Dario Fo : Pavia, Collegio
Ghislieri, 23-24 maggio 2017 / a cura di Pietro Benzoni, Layla Colamartino,
Fabrizio Fiaschini, Matteo Quinto = 20 Years after the Nobel Prize :
Proceedings of the Conference on Dario Fo / edited by Pietro Benzoni, Layla
Colamartino, Fabrizio Fiaschini, Matteo Quinto. - Pavia : Pavia University
Press, 2018. – XIII, 118 p. ; 24 cm.
(Scientifica. Atti)
http://archivio.paviauniversitypress.it/oa/9788869520907.pdf
ISBN 9788869520891 (brossura)
ISBN 9788869520907 (ebook PDF)
© 2018 Pavia University Press, Pavia
ISBN: 978-88-6952-089-1
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In copertina: Ritratto di Dario Fo, Giulia Monti, Pavia, 2018
Prima edizione: luglio 2018
Pavia University Press – Edizioni dell’Università degli Studi di Pavia
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Printed in Italy
Sommario
Ringraziamenti ............................................................................................................................ VII
Premessa
Pietro Benzoni, Fabrizio Fiaschini ................................................................................................. IX
Prima parte
Fo, Ruzante e il mito della «lingua composita»
Luca D’Onghia .................................................................................................................................3
Dario Fo e la «pancera flanellata»:
scheda linguistica su Aveva due pistole con gli occhi bianchi e neri
Pietro Trifone ..................................................................................................................................15
Carlo Goldoni e Dario Fo:
il caso del Servitore di due padroni (Arlecchino), appunti sparsi
Angelo Romano ..............................................................................................................................21
Dario Fo: italiano e reinvenzione del dialetto
Stefania Stefanelli ...........................................................................................................................29
Seconda parte
Dario Fo e il ‘monologo mimico’: strategie multiple del comico
Eva Marinai ....................................................................................................................................41
L’arte come impegno: l’antico gioco del teatro
nella macchina teatrale di Dario Fo e Franca Rame
Marisa Pizza....................................................................................................................................51
Fo e i suoi figli: il teatro di narrazione
Paolo Puppa ....................................................................................................................................63
Dario Fo attore eurasiano: un maestro dello sguardo
Marco De Marinis ...........................................................................................................................73
Petrolini e Dario Fo: il teatro dell’autore-attore
Simone Soriani................................................................................................................................85
«Ogni idea me sortéva capovolzüda»
Roberto Cuppone ............................................................................................................................99
Indice dei nomi ........................................................................................................................... 111
Abstract.........................................................................................................................................115
Petrolini e Dario Fo: il teatro dell’autore-attore
Simone Soriani
Qualche anno fa stavo parlando con Davide Enia di Dario Fo a proposito dell’influenza
esercitata dall’autore-attore milanese nei confronti dei cosiddetti ‘teatri della narrazione’:1
espressione con cui – è ormai noto – si indica un’eterogenea produzione scenica incentrata
sul racconto di un attore che, solo alla ribalta o al più accompagnato da alcuni musicisti,
rievoca fatti e vicende attraverso la diegesi e non per mezzo della tradizionale mimesi
drammatica.2 Enia, autore e interprete di alcuni tra i più importanti monologhi affabulativi
del XXI secolo, aveva innanzitutto sottolineato che, «andando a fare gli spettacoli in giro
per l’Europa», si era accorto di come «fuori dall’Italia» fosse assente la figura di «un autore, interprete e regista di se stesso» (Enia in Soriani 2006, p. 122). Dalle parole di Enia
emerge tutta la peculiarità del teatro italiano rispetto al contesto europeo: il teatro italiano,
infatti, si fonda sulla figura dell’attore, di solito anche autore e regista delle proprie produzioni, mentre nel teatro europeo – già caratterizzato dalla preminenza del drammaturgo
– si afferma il ruolo del regista come coordinatore della compagnia e interprete-ermeneuta
del testo da allestire (come noto, la Regia si imporrà sulle scene italiane solo nel secondo
Novecento, a partire dalle creazioni di Strehler e Visconti). La centralità del performer –
autore del suo stesso repertorio – deriva da una tradizione nazionale che risale alle origini
stesse dello spettacolo italiano: dal comico di Varietà e Avanspettacolo del primo Novecento ai guitti dell’Arte in Età Moderna fino al giullare medievale. Quella dell’autoreattore, quindi, è una specificità tutta italiana che costituisce «il filone più originale nella
nostra arte scenica di un XX secolo che prosegue (non senza scarti) nel XXI» (Barsotti
2007, p. 15): da Ettore Petrolini a Dario Fo, passando per Raffaele Viviani ed Eduardo De
Filippo, fino ad arrivare ai ‘narratori’ di oggi come Marco Paolini e Ascanio Celestini.3
Le creazioni dell’attore-autore non si fondano su una concezione logocentrica del teatro e la stessa scrittura non si presenta come un sistema espressivo svincolato dall’oralità e, quindi, dalla successiva messinscena. Per questo i testi dell’autore-attore, di solito,
contemplano lunghe didascalie che definiscono i vari elementi, paralinguistici ed extralinguistici, che concorrono a determinare l’evento spettacolare: la gestualità, il suono, il
ritmo, il rapporto con lo spazio, ecc. Tuttavia, per quanto si tratti di materiale destinato
alla performance, le drammaturgie dell’autore-attore possono anche assumere il valore
Sul teatro dei narratori cfr. Soriani (2009).
Qui e di seguito utilizzo il termine ‘drammatico’ per indicare ciò che è «pertinente al dramma», inteso
come quel genere teatrale regolato dalle prescrizioni desunte dalla Poetica aristotelica e affermatosi in
Età Moderna, mentre i lemmi ‘drammaturgia’/‘drammaturgico’ indicheranno «tutto ciò che è scritto per il
teatro» (Szondi 1962, p. 7).
3
Sulle dinamiche compositive e sul rapporto tra scrittura e performance nel teatro dei narratori cfr. Soriani (2014 e 2016).
1
2
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Simone Soriani
di «opera letteraria, autonomamente fruibile» (De Marinis 2004, p. 99), come testimonia
l’assegnazione del Premio Nobel per la Letteratura a Dario Fo nel 1997: del resto, lo stesso
Fo è sempre stato convinto dell’importanza del copione perché «in teatro, senza testo, non
c’è niente da fare» (Fo, Allegri 1990, p. 88). Anzi, la qualità letteraria delle migliori produzioni d’attore-autore risiede proprio nella capacità di mantenere, anche nei testi editi, i
tratti e gli elementi della comunicazione orale e, di conseguenza, la spontaneità e l’immediatezza del parlato,4 al punto che lo stesso Fo ha giustificato il Premio Nobel come «un
riconoscimento al valore della parola sul palcoscenico», perché «la parola può diventare
scritta dopo che è stata usata, che è stata masticata molte volte sulla scena» (Fo in Farrell
2014, p. 342).
Non essendo destinate prioritariamente alla lettura, ma anzi essendo finalizzate a una
messinscena che si colloca all’interno di un contesto professionale regolato dalle leggi del
mercato, le drammaturgie d’attore sono progettate, da una parte, in considerazione delle
esigenze della compagnia di cui l’autore-attore stesso è – di solito – anche il direttore/
capocomico; dall’altra, tenendo conto anche degli spazi in cui realizzare l’evento performativo. Nel caso di Petrolini, ad esempio, il pubblico della Prosa è più conservatore
e maggiormente legato alle convenzioni rispetto all’audience del Varietà e, forse, questo
può essere uno dei motivi che hanno spinto il comico romano a cimentarsi nella creazione
e allestimento di commedie più tradizionali, dopo aver abbandonato l’ambito del Varietà
e aver iniziato a circuitare nei teatri ufficiali più prestigiosi d’Italia (e non solo). Allo
stesso modo, dopo aver rotto col circuito dei teatri gestiti dall’Ente Teatrale Italiano e aver
iniziato a esibirsi nei circoli ARCI con Nuova Scena oppure nel circuito alternativo degli
anni Settanta (cinema, palazzetti dello sport, fabbriche e università occupate, ecc.), Fo si
è confrontato con un pubblico di consumatori non abituali di teatro e, quindi, maggiormente recettivo alla sperimentazione e all’innovazione, al punto di realizzare – proprio
all’interno di questi spazi off – spettacoli ed eventi di rottura rispetto al codice drammatico
tradizionale: dal monologo affabulativo con Mistero buffo, al dramma didascalico con
L’operaio conosce 300 parole… e Fedayn, all’evento agit-prop con Guerra di popolo in
Cile (similmente, il ritorno nei teatri ufficiali nei primi anni Ottanta coincide con il recupero di una forma più tradizionale, a metà tra farsa e commedia). Nel caso di Fo, inoltre,
non si può ignorare come certe soluzioni scenico-performative si siano venute definendo a
causa dei condizionamenti e delle esigenze tecniche imposte dalla scelta post-sessantottina di recitare al di fuori dei teatri istituzionali: «Noi siamo andati scoprendo alcune forme
espressive in conseguenza della situazione che si è andata determinando in relazione allo
spazio, al pubblico». Ad esempio, per esibirsi in spazi di grandi dimensioni, come i palazzetti dello sport davanti a migliaia di spettatori, per Fo è stato necessario «allestire una
scenografia frontale» e «utilizzare per forza un mezzo acustico, un’amplificazione su larga
scala» al punto che l’emissione vocale ha finito per determinare «una particolare relazione
con la gestualità e pertanto un’epicità e un distacco ancora maggiore» (Fo in Matteini,
Heras 1980, pp. 10-11, trad. mia). Senza dimenticare che gli stessi personaggi interpretati
da Fo vengono elaborati in considerazione delle caratteristiche fisiche dello stesso autore4
Cfr. Taviani (1995).
Petrolini e Dario Fo: il teatro dell’autore-attore
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attore, a cominciare dall’archetipo del ‘balordo’ che può essere fatto risalire al Lungo de
Gli arcangeli non giocano a flipper. Il soprannome del personaggio, e tutte le gag legate
alla sua statura e ai suoi movimenti goffi, sono strettamente legati alla figura e alle attitudini comportamentali del giovane Fo, che negli anni Cinquanta era alto e magrissimo:
«Per il mio personaggio mi ispiro a me stesso. […] Sono un timido, un impacciato, faccio
continuamente gaffe, mi dimentico di tutto» (Fo 1992, p. 22). Allo stesso modo, i ruoli
femminili delle commedie di Fo sono stati costruiti attorno alle doti attoriali e fisiche della
Rame, moglie e compagna d’arte di Fo, al punto che per l’autore-attore sarebbe «veramente impossibile pensare la scrittura di un testo», recitato dalla Rame, senza considerare «le
sue chiavi, i suoi modi espressivi, la sua […] personalità di teatrante» (Fo 1977, p. 148).
Anche nel caso di Petrolini, la scrittura non è mai svincolata dalla successiva destinazione scenica: anzi, i personaggi petroliniani sono strettamente legati alle specifiche qualità performative del comico romano, come si nota in trasparenza dalla riscrittura dell’atto
unico Lumie di Sicilia di Pirandello, ribattezzato Agro de limone. La riduzione petroliniana, infatti, mantiene inalterato il plot drammatico, le didascalie, il sistema e la caratterizzazione dei personaggi dell’originale pirandelliano, ma innanzitutto Petrolini traspone in
‘cispadano’ le battute di Menicuccio (Micuccio nell’originale), così da riprodurre la lingua
di solito utilizzata dal comico romano sulla scena (e forse nella vita); in secondo luogo,
all’interno della struttura pirandelliana, Petrolini inserisce tutti quei frizzi e quei giochi di
parole che avevano rappresentato la cifra più caratteristica della sua poetica fin dagli anni
di Varietà. Nel testo di Pirandello, si legge:
FERDINANDO: […] Mi ha domandato se stava qui «Teresina la cantante».
MICUCCIO: E che è? Non è cantante? Se si chiama così... Volete insegnarmelo a me, lei?
FERDINANDO: Ma dunque la conoscete proprio bene? (Grilli 1993, p. 5).
Nella riduzione di Petrolini, si legge invece:
FERDINANDO: [...] Mi ha domandato se stava qui Teresina la cantante.
MENICUCCIO: Embè? Come la vuoi chiamà? Non è cantante! Si canta è cantante! Si balla è
ballante! Che vòi insegnà ’ste cose a me?
FERDINANDO: Sì, va bene, ma adesso è un’artista illustre.
MENICUCCIO: Va bè, sarà lustra, sarà quello che te pare a te...
FERDINANDO: Ma dunque la conoscete proprio bene? (Giovanardi, Consales 2010, p. 89).
Il teatro d’attore-autore, inoltre, si basa su una testualità in costante metamorfosi dal
momento che finisce per assorbire le sollecitazioni e gli stimoli derivati dalla pratica del
palco e dal contatto con il pubblico. La drammaturgia d’attore, quindi, non si fonda sull’elaborazione ‘preventiva’5 di un drammaturgo-demiurgo che stabilisce aprioristicamente
la partitura testuale, ma scaturisce da un processo ‘consuntivo’ per cui i testi accolgono e
fissano soluzioni che si sono definite direttamente sulla scena e sulla base delle reazioni
degli spettatori, magari durante un’improvvisazione a soggetto. Se per l’attore-interprete il
5
Sulla nozione di drammaturgia ‘preventiva’ e ‘consuntiva’, cfr. Ferrone (1988, pp. 37-44).
88
Simone Soriani
testo è ‘condizionante’, dal momento che la performance deve attenersi a quanto prescritto
su carta, per l’autore-attore il testo è ‘condizionato’ dall’hic et nunc in cui si realizza l’atto
scenico.6 Quelle dell’autore-attore, dunque, sono drammaturgie sempre in fieri e mai conclusive, al punto che persino i copioni a stampa sono solo una variante tra le centinaia di
repliche messe in scena sulle assi del palcoscenico: anzi, nemmeno le versioni cartacee
si offrono come ultimative, poiché possono essere aggiornate e riviste in caso di riprese a
distanza di anni dal momento della scrittura, come nel caso di Sotto paga! Non si paga!
in cui Fo rielabora la commedia Non si paga! Non si paga!.7 Il teatro dell’autore-attore,
quindi, non si presenta come un ‘prodotto’ da fruire e consumare, quanto semmai come
un ‘processo’, organicamente legato all’attore-artefice che scrivendo agisce, perché la parola scritta è pensata per essere detta e incarnata in un corpo che si muove nello spazio, e
agendo scrive, perché l’azione fisica o verbale sperimentata sulla scena rifluisce nel testo
scritto e lo rinnova di continuo.
Alla preminenza accordata al copione nel teatro di Prosa, ad esempio, Petrolini contrappone una testualità che si determina nel momento del contatto con l’audience, al punto
che, nel 1920, Mario Dessy osservava come una delle qualità migliori del comico romano
fosse «quella dell’improvvisazione» e di come Petrolini fosse in grado di «improvvisare,
sulla scena, lunghi discorsi scuciti e divinamente illogici»: anzi, «la maggior parte delle sue macchiette vengono improvvisate lì per lì sul palcoscenico» (Dessy in Antonucci
1993a, p. 108). Nel teatro di Petrolini, l’inscindibilità dell’autore dall’attore (e viceversa)
deriva dalla specificità del Teatro di Varietà, in cui il comico romano muove i suoi primi
passi fin dai primissimi del Novecento: infatti, per l’attore di Varietà l’innovazione è un’esigenza necessaria per blandire un pubblico popolare che apprezza soprattutto l’originalità
e l’eccentricità dei vari entertainer, stimolandoli indirettamente a innovare costantemente
il proprio repertorio piuttosto che a conservare e tramandare una tradizione codificata. Lo
stesso Raffaele Viviani – a lungo attivo nel Varietà – scrive nella sua autobiografia che «il
comico di Varieté non deve assomigliare a nessun altro […], deve avere una figura a sé, un
genere a sé, un repertorio a sé; più riesce nuovo, più sorprende, più il suo successo è clamoroso» (Viviani 1977, p. 58). Anche l’apprendistato di Fo matura, negli anni Cinquanta,
nell’ambito del ‘teatro minore’, ovvero all’interno di quell’eterogeneo universo spettacolare e di intrattenimento popolare in cui – secondo Fo – si sarebbe riversata l’eredità della
Commedia dell’Arte: «In Italia abbiamo la grande fortuna di avere una grande (ed ancora
viva) tradizione di Teatro di Varietà. […] Io ho questa tradizione popolare dentro di me,
come parte del mio apprendistato» (Fo, Rame 1983, pp. 6-7, trad. mia). In particolare, Fo
annovera proprio Petrolini tra i modelli di riferimento per le ‘antiriviste’ Il dito nell’occhio e Sani da legare, realizzate con Parenti e Durano nel biennio 1953-1954: «Alcuni
critici ci chiamarono saltimbanchi e proprio questo volevamo essere. […] Ma tenevamo
presente anche il grande insegnamento di Petrolini» (Fo in Mazzucco 1976, p. 92). Senza
dimenticare l’importanza della lezione di Totò che Fo dichiara di aver visto numerose
volte «ai varietà, alle riviste di quart’ordine, dove devi essere non bravo ma bravissimo
6
7
Cfr. Di Palma (2011, p. 67).
Sull’aggiornamento e la costante riscrittura del copione nella produzione di Fo cfr. Soriani (2011).
Petrolini e Dario Fo: il teatro dell’autore-attore
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per saper padroneggiare il pubblico e le sue intemperanze» e dove Fo si è accorto di come
il performer napoletano «non solo recitasse la sua parte, ma innescasse anche una serie di
‘incidenti’ veri solo in apparenza» (Fo, Manin 2013, p. 63).
Insomma, il teatro dell’autore-attore si presenta come un luogo aperto all’improvvisazione e all’interazione con la sala, per cui il «rapporto tra osservatore e oggetto» diviene
preponderante rispetto all’«opera conclusa in se stessa» (Lehman 2010, p. 7): il pubblico
non assiste a uno spettacolo che si ripete replica dopo replica, ma partecipa a un evento
performativo che si offre ogni sera come originale e unico. Qualsiasi imprevisto che si
produca durante la rappresentazione diviene materia spettacolare attraverso lo ‘slittamento’ per Petrolini, ovvero «l’uscire dalla dimensione della finzione scenica passando per un
momento in quella della realtà» (Petrolini in Antonucci 1993a, p. 198); oppure attraverso
l’abbattimento della ‘quarta parete’ per Fo, ovvero «quel momento magico determinato
dalla cornice del palcoscenico che divide di fatto gli spettatori da chi recita» (Fo 1992,
p. 80). L’imprevisto – una particolare reazione di uno spettatore, il malfunzionamento
dell’impianto acustico, un guasto all’impianto luci, una papera di un compagno di scena,
ecc. – stimola l’autore-attore a interrompere lo svolgimento della pièce per esibirsi in
intere sequenze improvvisate, per quanto si tratti spesso di improvvisazioni ‘simulate’
secondo la lezione dei comici dell’Arte. L’attore-autore, infatti, dispone di un repertorio di
lazzi e frizzi da adattare ai vari contesti e alle varie situazioni estemporanee che si trova ad
affrontare dal palco: «Per un attore niente è più faticoso, più elaborato, più studiato, che
improvvisare» (Fo 2007, p. 78). Del resto, gli attori della compagnia sono invece tenuti a
un rispetto totale del canovaccio: nel caso di Petrolini, l’attore-autore-musicista Alfredo
Polacci – che Petrolini scritturò come ‘generico-utilité’ per la propria compagnia nella
stagione 1926-1927 – rammenta che, durante una rappresentazione di una sua commedia,
Petrolini interruppe d’improvviso la recita dal momento che gli attori della compagnia si
erano «scordati della battuta essenziale» prevista sul copione e senza la quale gli spettatori
non avrebbero capito nulla «della situazione scenica» (Polacci 1990, p. 43). A questo punto, col copione in mano Petrolini scese in mezzo alla platea, ora illuminata, e intimò agli
attori di ricominciare lo spettacolo che proseguì con il comico romano che, dalla platea,
diceva le sue battute e suggeriva agli attori le loro. Allo stesso modo, Franca Rame precisa che gli attori della compagnia «devono stare molto attenti ed essere rigorosi» e, «se
a loro viene in mente una battuta, prima devono chiedere a noi e, se è bella, la inseriamo
nello spettacolo» (Rame in Fo, Rame 2014, p. 162). In Mamma! I sanculotti!, il divieto
per gli attori del cast di cimentarsi in sequenze a soggetto è addirittura rivendicato con
toni scherzosi, quando Fo – che interpreta un giudice – rimprovera un attore di non aver
seguito il copione:
ATTORE: Ho pensato di improvvisare un po’ […]. Io credevo che questo fosse un teatro dove
si improvvisa, si va a soggetto…
GIUDICE: Sì, si va a soggetto… ma solo i capocomici! (Fo 1998, pp. 461-462).
L’improvvisazione, quindi, non è affatto una modalità di rappresentazione del tutto
affidata all’estro momentaneo dell’attore, ma è piuttosto la capacità di contestualizzare
all’impronta alcune ‘unità’ elaborate e concepite prima dell’esibizione e che, nell’atto per-
90
Simone Soriani
formativo, si combinano secondo varianti potenzialmente infinite. Nel caso di Petrolini, ad
esempio, si racconta che durante una rappresentazione, infastidito dai giudizi provenienti
dal loggione, il comico romano abbia sospeso la recitazione e si sia così rivolto all’incauto
spettatore: «Nun ce l’ho co’ te. Tu non ciai colpa: ce sei nato. Io ce l’ho co’ quello che te
sta accanto […] perché non te butta de sotto». Poi, rivolto a quest’ultimo: «Bùttalo giù
in platea, che nun je faccio pagà manco la differenza» (Petrolini in Corsi 1944, p. 171).
Risulta che Petrolini abbia utilizzato la stessa gag anche in altre circostanze, al punto che
ancora Polacci rammenta di uno spettatore che dal loggione invitò il comico ad alzare
la voce e di come Petrolini, interrotta la recita, avesse così ribattuto: «Se vuoi sentimme
mejo, buttete de sotto, qui in platea. Nun te faccio manco pagà la differenza der prezzo der
bijetto» (Petrolini in Polacci 1990, p. 45).
Lo stesso Fo ha spesso dichiarato di essere in grado di recitare a soggetto proprio perché, durante la lunga carriera, avrebbe «registrato come un computer migliaia di azioni, di
dialoghi possibili, gag, gesti adattabili a qualunque tipo di situazione» (Fo 1992, pp. 124125): così, Fo dispone di diversi modi per sfruttare a proprio favore qualsiasi eventuale
‘incidente’ che accada durante la rappresentazione. Del resto, anche la Rame ha definito
«l’arte antica di andar all’improvvisa» come la capacità di uscire dal copione per adattare
ai vari contesti scenici un «codice di situazioni» apprese nel corso degli anni (Rame, Fo
2009, p. 19). Si prenda ad esempio la gag che Dario utilizza ogni volta che le condizioni
atmosferiche minacciano lo svolgimento di una rappresentazione all’aperto. Le recensioni
dell’epoca testimoniano di come, durante una replica di Mistero buffo a Venezia nel luglio
del 1977, Fo avesse inglobato all’interno della performance l’improvviso scoppio di un
temporale e avesse tranquillizzato il pubblico con una boutade: «Boni, state boni, che tra
poco passa. Ho avuto notizie riservate (e col dito ha fatto segno al cielo) che è acqua passeggera» (Fo in Salvalaggio 1977). Similmente, in occasione della rappresentazione della
lezione-spettacolo Mantegna, il trionfo e lo sghignazzo, ripresa nel luglio del 2006 per Rai
Tre, Fo ha apostrofato la platea con una gag affine a quella utilizzata quasi trent’anni prima
in Mistero buffo: «Non preoccupatevi del problema della pioggia. Ho fatto un contratto e
qui non pioverà» (Fo in Contorno 2010, p. 104).
Nel teatro dell’autore-attore, la recitazione non mira tanto a «tradurre con gesti e parole la scrittura», ma piuttosto ambisce a «comunicare» (Rame, Fo 2009, p. 109): si tratta,
quindi, di una modalità spettacolare anti-drammatica8 in cui l’«asse del teatro», ossia la
linea di contatto tra il performer e il suo pubblico, risulta predominante rispetto all’«asse
della messa in scena», cioè il dialogo tra i personaggi d’invenzione che agiscono alla
ribalta (Lehmann 2010, p. 6). Si potrebbe dire che, nel lavoro dell’autore-attore, il segno
scenico non è esclusivamente finalizzato alla rappresentazione di una realtà esterna, ma
trova il suo senso e il suo fine principali nell’accadere che si produce nel momento unico
8
Utilizzo l’espressione ‘anti-drammatica’ per indicare sia una teatralità post-drammatica, cfr. Lehmann
(2006), sia una teatralità che potremmo dire ‘pre-drammatica’ in quanto, letteralmente, precedente all’instaurazione del codice drammatico-aristotelico: come noto, sia Petrolini sia Fo sono stati largamente ispirati dalla spettacolarità popolare che – dal Medioevo al Novecento – si è manifestata parallelamente al
dramma, in particolare – come vedremo – dalla Commedia dell’Arte.
Petrolini e Dario Fo: il teatro dell’autore-attore
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e irripetibile dell’atto teatrale e nella relazione che si instaura tra la scena e la sala. Dal
momento che il dialogo tra performer e spettatore presuppone il costante disvelamento
della finzione scenica (cioè l’illusione di assistere a un evento reale che accade in diretta
sulle assi del palco), il teatro dell’attore-autore è prevalentemente antinaturalistico: nel
teatro dell’attore interprete del suo stesso copione, infatti, la rappresentazione drammatica
– fondata sul principio dell’illusione – cede il passo alla «rappresentazione della presenza» (Bouko 2010, p. 47, trad. mia) per cui è la realtà stessa a irrompere nella finzione,
frammentandola oppure negandola del tutto (nel caso delle giullarate di Fo). Per questo
l’attore-autore si serve di espedienti e soluzioni che permettano di ‘straniare’ la vicenda
rappresentata, come nel caso di Nerone di Petrolini in cui il protagonista eponimo telefona
ai vigili del fuoco per informarli dell’incendio che sta bruciando Roma. È anche il caso
di Petronio che, sempre nel Nerone, si presenta alla ribalta «con una pipa in bocca» (Petrolini in Antonucci 1993b, p. 86): l’anacronismo decontestualizza la situazione scenica
in modo antinaturalistico, similmente – verrebbe quasi da dire – alla sigaretta che Charles
Laughton fumava nel Galileo di Brecht. Ancora nel Nerone, l’attore-autore inserisce persino alcune allocuzioni dirette alla sala, come nella scena settima quando, spogliandosi
d’improvviso del ruolo di Nerone e agendo in qualità di «capocomico», con una certa
compiacenza autoironica fa notare agli spettatori la bravura degli interpreti della propria
compagnia nell’eseguire un coretto: «Queste voci interne le fanno proprio bene» (Petrolini in Antonucci 1993b, p. 88). Persino nel riadattamento cinematografico del Nerone,
Petrolini non rinuncia allo slittamento e al dialogo con la platea: il film, girato all’interno
di un teatro in presenza del pubblico, è costituito dal montaggio di alcuni dei ‘numeri’ più
noti del repertorio teatrale petroliniano (tra cui Fortunello, Gastone e Pulcinella). Alla fine
della recita del Nerone, l’autore-attore si cambia di costume per terminare la performance
con una canzone romana; tornato in palcoscenico viene accolto da un tiepido applauso per
cui, prima di intonare la canzone prevista, si rivolge agli spettatori chiedendo un applauso
più convinto: «Quest’applauso è stato un poco flebile […]. Pensate solamente al sacrificio,
struccarsi da Nerone e presentarmi in questa guisa […]. (Applausi) Bene, bene, bene, a me
le cose piacciono sincere, spontanee, naturali» (Petrolini in Livio 2007, p. 166).
Similmente, Fo si serve di soluzioni epicizzanti di derivazione brechtiana, ma anche
popolare (dalla performance giullaresca alla Sacra Rappresentazione, dalla Commedia
dell’Arte al numero dell’attor comico del primo Novecento), che permettono di palesare
la finzione scenica e, in conseguenza delle intenzioni civili e politiche che l’autore-attore
assegna al proprio lavoro di teatrante, esplicitare il messaggio antagonista indirizzato al
pubblico.9 Innanzitutto, Fo non affida la comunicazione esclusivamente al dialogo (il mezzo più adatto a esprimere l’attualità intersoggettiva, su cui nel teatro drammatico si fonda
l’illusione di realtà), ma ricorre all’interazione di linguaggi che garantiscano all’Io-epico
– per dirla con Szondi – di manifestarsi e rivolgersi alla platea, a cominciare dalla musica:
fin dalle commedie del cosiddetto ‘decennio borghese’ (1959-1967), infatti, Fo si è avvalso di canzoni e coretti con funzione di commento autoriale nei confronti della vicenda
inscenata. Talora, invece, è per mezzo dell’allocuzione diretta alla sala che Fo esplicita
9
Sull’epicizzazione nel teatro di Fo, cfr. Soriani (2007).
92
Simone Soriani
l’interpretazione morale e politica dei fatti rappresentati, come nel caso di Il ratto della
Francesca in cui l’attrice che impersona la protagonista si spoglia del ruolo interpretato
nella finzione e si rivolge agli spettatori «per svelarvi qualcosa che reputo importante
in merito al testo dello spettacolo» (Fo 1994, pp. 157-158). In alcuni casi, per garantire
l’osmosi tra la sala e la scena, Fo si serve dell’espediente della ‘finestra’ (oppure della
finestra immaginaria), alla quale i personaggi si affacciano per parlare con presunti interlocutori collocati in direzione della platea, come nel caso di Non si paga! Non si paga! in
cui l’Appuntato si rivolge al fondo della sala: «Ehi, laggiù, voi sulla scarpata! […] Andate
via… andate a lavorare!» (Fo 1998, p. 49). Fo utilizza anche la trovata dell’attore-investe-di-spettatore, collocando in platea uno o più attori che interagiscono con l’azione
che si svolge alla ribalta, come nel caso esemplare di Morte accidentale di un anarchico:
GIORNALISTA: Ne avete molti di questi agenti-spia preparatissimi seminati qua e là nei vari
gruppetti extraparlamentari? […]
QUESTORE: […] Sì, ne abbiamo molti, […] anche questa sera fra il pubblico (indica la platea)
[…] ne abbiamo qualcuno, come sempre… vuol vedere? (Batte un colpo secco con le mani)
Dalla platea si sentono delle voci provenienti da punti diversi.
VOCI: Dica dottore! Comandi! Agli ordini!
Il Matto ride e si rivolge al pubblico uscendo dal personaggio.
MATTO: Non preoccupatevi, questi sono attori… quelli veri ci sono e stanno zitti e seduti (Fo
2000, pp. 600-601).
Se quello dell’autore-attore è un teatro fondato sulla relazione tra palco e platea, non
sorprende che il performer interprete dei suoi stessi copioni evidenzi una tendenza a privilegiare il monologo rispetto al dialogo drammatico, anche se talora il fenomeno si presenta come tensione a costruire dialoghi ‘apparenti’: si tratta di un espediente che consiste
nell’interpolare, in un racconto svolto dal personaggio principale, alcune battute di una
spalla che si limitano a rilanciare il racconto stesso. Così, Petrolini non ha mai abbandonato
il repertorio monologico degli anni del Varietà, anche dopo aver compiuto il passaggio al
teatro di Prosa: alle riviste e alle commedie allestite dalla compagnia di Petrolini negli anni
Venti-Trenta, infatti, seguivano le macchiette e le parodie che il comico aveva creato agli
esordi della carriera e che interpretava da solo in proscenio, a sipario chiuso. Nel caso di
Fo, a partire dall’elaborazione dello schema della ‘giullarata’ con Mistero buffo, nella produzione dell’attore-autore milanese si sono alternate commedie e spettacoli basati sull’affabulazione monologica (da La storia della tigre a Lu Santo Jullàre Françesco): anzi, in
occasione di un evento commemorativo in onore di Eduardo De Filippo nel 1986, Fo ha
riconosciuto come il futuro del teatro dovesse essere individuato proprio nel ‘racconto’
(cfr. Farrell 2014, p. 301). Del resto, rispetto al dialogo drammatico, il monologo esprime
l’emergenza di una soggettività epica che si assume la responsabilità dell’enunciazione, ora
a scopo parodico-satirico (Petrolini), ora a scopo civile e politico (Fo); inoltre, favorisce
una comunicazione verticale con la sala che ora è funzionale al ludus scenico e all’intrattenimento del pubblico (Petrolini), ora si fa vettore di controinformazione antagonista (Fo).
Le modalità stesse del monologo, infatti, permettono all’attore-autore un contatto con l’audience più diretto e immediato rispetto alla mimesi: se l’attore-interprete «deve assicurare
Petrolini e Dario Fo: il teatro dell’autore-attore
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un triplice investimento energetico, verso il personaggio, verso il collega durante lo scambio dialogico […] e infine verso il pubblico»; l’attore solista, liberatosi «del personaggio
per essere se stesso, non può che intensificare il lavoro colla sala» (Puppa 2010, p. 23).
La ricerca di una sistematica relazione tra la scena e la sala traspare anche dal rapporto straniato che l’autore-attore instaura col personaggio interpretato: «la capacità di dare
corpo a un personaggio diviene meno rilevante […] nell’idea di attore, mentre acquista
importanza la sua abilità di comunicazione che condivide con altre figure di intrattenitori»
come comici, cabarettisti, satirici, ecc. (Lehmann 2001, p. 9). L’autore-attore non nasconde la propria identità dietro al personaggio interpretato, ma anzi esibisce la propria presenza per sedurre il pubblico così da garantire il successo alla performance (Petrolini), oppure
per veicolare un commento morale (Fo). Petrolini, ad esempio, non appare «in scena per
rappresentare (interpretare) ma, semmai, per rappresentarsi» (De Marinis 1988, p. 175):
dal momento che – come ha rammentato l’amico Raffaele Viviani – avverte costantemente «il bisogno di evadere dal personaggio» (Viviani 1950), Petrolini gioca di continuo
sull’alternanza della prima con la terza persona, mettendo in scena il proprio mondo e
rielaborando spunti autobiografici al fine di inserire nello spettacolo il proprio punto di
vista. Nell’incipit della versione cinematografica di Gastone, ad esempio, Petrolini dice:
Gastone è una satira efferata al bell’attore fotogenico, affranto, compunto, pallido di cipria e
di vizio. Vuoto, senza orrore di se stesso. Gastone il diseur, il danseur, l’uomo rovinato dalla
guerra, sempre ricercato, ricercato nel parlare, ricercato nel vestire, ricercato dalla Questura. Il
divo del Varietà […], autore, interprete del suo repertorio, “creatore”: creare significa mettere
al mondo una cosa che prima non c’era. Io vengo da una famiglia di creatori, mio padre è un
inventore: ha inventato la macchina per tagliare il burro […]. [Mostra alla camera un guanto
attaccato a quello che invece calza] Questa cosuccia qui è mia, l’ho inventata io. Non l’ho
neanche fatta registrare. È di dominio pubblico. Anche mio fratello è un inventore: adesso ha
inventato un apparecchio per la distruzione delle zanzare. […] [Cantando] Gastone, sei davvero
un bell’Adone; Gastone, […] ho le donne a profusione e ne faccio collezione.10
Insomma, Petrolini entra ed esce continuamente dal personaggio e proprio questa sua
posizione ambigua gli permette di realizzare (davanti e con il pubblico) l’atto di costruzione del personaggio e al contempo di decostruzione dello stesso, di azione-interpretazione e
commento straniato. Persino nella registrazione su disco di Gastone, d’improvviso l’attore
sveste i panni della dramatis persona e si rivolge direttamente agli ascoltatori: «Voltare il
disco che vi darò un saggio della mia dizione» (cfr. Livio 1989, p. 229). Anche le esibizioni di Fo si fondano sulla costante rottura dell’immedesimazione, per cui l’attore epico
Fo si garantisce sempre la possibilità di prendere le distanze dal personaggio interpretato,
riflettendo e valutando il comportamento e le azioni che questi compie. In Il papa e la
Ho trascritto l’incipit della versione cinematografica di Gastone, inserita in Nerone diretto da Alessandro Blasucci nel 1930 perché meglio mostra la dialettica tra interpretazione e straniamento che si
realizzava nelle performance del primo Petrolini: nella versione a stampa, infatti, il passo citato è scisso
in due sequenze, rispettivamente collocate all’inizio del primo e del secondo atto ed attribuite, la prima, a
un presentatore esterno e la seconda al personaggio di Gastone (cfr. Antonucci 1993b, pp. 151, 161-163).
10
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strega, ad esempio, l’attore si spoglia d’improvviso del ruolo assolto e rivolto al pubblico
dice: «Perdonate, ma sotto questi panni, batte il cuore di un attore da sempre anticlericale»
(Fo 1994, p. 240).
Inoltre, l’autore-attore esibisce una performatività antinaturalistica che non ambisce
alla restituzione mimetica del reale: piuttosto, si serve di una mimica allusiva che trasfigura la realtà attraverso la deformazione, la caricatura, l’iperbole. È un’attorialità antiaccademica: uno stile che si definisce innanzitutto attraverso la pratica del mestiere e che,
eventualmente, in seguito si arricchisce di suggestioni derivate dallo studio e dalla ricerca. L’attorialità di Petrolini si fonda su di un’originalità di continuo ostentata (e perfino
millantata) per cui, a tutti quei critici che lo facevano discendere dalla tradizione della
Commedia dell’Arte, il comico romano rispondeva sarcastico che «ognuno discende da
le scale de casa sua» (Petrolini in Antonucci 1993a, p. 209). Per questo nel 1914, in una
lunga lettera al periodico «Il Cafè-Chantant», Petrolini rivendicava l’originalità del proprio lavoro di attore-creatore e, per smarcarsi dal modello della macchietta alla Maldacea,
sottolineava come a partire dal 1910 circa avesse importato per primo la ‘parodia’ sulle
scene italiane, dando così vita a un genere innovativo (anche nelle locandine dell’epoca
Petrolini si presenta come «comico originale, creatore del genere»). Anche l’attorialità di
Fo si fonda su uno stile originale e personale, per cui Fo ricerca e si serve di «una gestualità che non sia fatta di schemi, ma sia reinventata, reale ma al tempo stesso “falsificata”
dall’immaginazione» perché «il teatro è finzione, è ricostruzione della realtà, reinvenzione
della realtà» (Fo in Celestini 2010, p. 18). Dopo una certa influenza del mimo espressionistico agli esordi della carriera, la performatività del Fo maturo si fonda su un’auto-tradizione che individua nelle figure popolari dei giullari e dei Comici dell’Arte un riferimento
pre-drammatico in cui riconoscere (e affermare) la propria unicità e alterità rispetto, ad
esempio, al modello brechtiano. Il riferimento giullaresco e guittesco si riflette nel ‘corpo
dilatato’ di Fo che – soprattutto nei monologhi – salta da una parte all’altra del palco, rotea
gli arti in modo forsennato, esaspera la mimica facciale in una successione di maschere
deformate e deformanti, si serve di una vocalità non imitativa che oscilla tra falsetto e
tonalità gutturali, aspre e zannesche. Tuttavia, il modello della Commedia dell’Arte agisce
come suggestione sottile anche nel teatro di Petrolini, al fondo della cui attorialità si può
infatti riconoscere una qualità extraquotidiana del corpo, basata sull’alterazione dell’equilibrio e sullo spreco delle energie fisiche, anche quando assume posizioni di (apparente)
immobilità. Si pensi, solo per fare qualche esempio, alla macchietta di Giggier bullo, che
Petrolini raffigura con la mascella protesa in avanti, in modo da amplificare la tensione dei
muscoli facciali e del collo, e con la testa insaccata tra le spalle rigide in un atteggiamento
non dissimile da quello tipico dell’Arlecchino di Martinelli; agli occhi sbarrati di Mustafà
(oppure, a maggior ragione, agli occhi posticci di Fortunello) per cui Petrolini non si limita a guardare ma – con un dispendio di energia muscolare – esibisce l’azione stessa del
guardare; a Fortunello che recita le sue ‘scemenze’ in proscenio con i piedi paralleli ben
piantati a terra e le mani simmetricamente in tasca, ma il busto proteso in avanti a comunicare la sensazione di un immobilismo dinamico; al modo di stare in piedi di Gastone,
con un piede a terra e l’altro appoggiato sulla punta delle scarpe, con una mano in tasca e
l’altra sul bastone.
Petrolini e Dario Fo: il teatro dell’autore-attore
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Il rifiuto della tradizione si riflette anche nell’idioma usato sulla scena, per cui l’autore-attore non si serve di un italiano letterario, ma anzi la lingua con cui si esprime
sul palco sembra recare le tracce della sua provenienza biografica. Dal proprio luogo
d’origine l’autore-attore trae ispirazione per elaborare una koinè linguistica del tutto
personale, per cui il dialetto natio è reinventato e ricreato in modo soggettivo. È quindi
una «lingua del corpo» (Puppa 2007, p. 11), aperta al plurilinguismo e al vernacolo: si
pensi, in Petrolini, all’alternanza tra italiano e romanesco che non riflette solo l’estrazione socioculturale dei personaggi, ma contribuisce a connotarli da un punto di vista
morale, con l’italofono che incarna i vizi della modernizzazione sociale (astuzia, cinismo, ipocrisia) e il dialettofono che invece rappresenta i valori positivi e popolari dell’onestà, della lealtà, della generosità. Oppure, si pensi all’italiano da «periferia lombarda»
(Trifone 2000, p. 154) in cui si esprimono i personaggi delle commedie di Fo, con la
presenza costante di elementi regionalistici quali – solo per fare qualche esempio – «povera stella» per ‘poverino’, «magone» per ‘nodo alla gola’, «smarrono» per ‘faccio un
errore’, «di sguincio» per ‘di striscio’ (cfr. D’Onghia 2014, p. 196). Infine, si pensi al
‘padano’ che Fo utilizza per i suoi monologhi: una «lingua passe-partout», ovvero un
«linguaggio franco» (Fo 2003, p. 34) che mescola tratti lombardi, veneti ed emiliani, ma
in cui si inseriscono anche prestiti da differenti idiomi come latino, francese, napoletano, spagnolo, ecc. Si prenda, ad esempio, l’incipit della Nascita del villano da Mistero
buffo in cui termini veneti, come «desmentegà» per ‘dimenticato’, si alternano a lemmi
lombardi, come «descasciada» per ‘cacciata’, latini come «liber» per ‘libro’, napoletani
come «campà» per ‘vivere’, spagnoli come «reconta» per ‘racconta’, ecc. Insomma, la
lingua di Fo non riproduce naturalisticamente un determinato dialetto, ma si presenta
come una parlata soggettiva che, alludendo all’idioma dei giullari medievali di area
settentrionale, si offre come un ideale idioletto di tutti quei ‘poveri Cristi’ che – in un
tempo senza tempo – hanno subito o subiscono l’oppressione e lo sfruttamento dei potentes (lo stesso discorso vale, a maggior ragione, per il grammelot). Quelle di Petrolini
e di Fo, quindi, sono lingue artificiali e non imitative: l’autore-attore manipola soggettivamente i tratti dell’oralità fino a elaborare un linguaggio personale e formalizzato,
che si presenta come la manifestazione dell’identità dell’attore che parla sul palco, ma
anche (e al contempo) come la voce di una comunità di ‘ultimi’ che non conoscono – o
rifiutano – la lingua del Potere.
La produzione e la carriera di Petrolini e di Dario Fo coprono (e oltrepassano) i limiti
temporali del XX secolo: il comico romano debutta proprio nel 1900 col nome d’arte Ettore Loris e, sebbene sia stato poco studiato dalla critica contemporanea, il suo teatro riveste
un ruolo non secondario nella definizione delle dinamiche della drammaturgia d’attore,
soprattutto perché – maturando e determinandosi sulle tavole dei baracconi del teatro popolare e del Varietà – si è nutrito dell’eredità della Commedia dell’Arte, che attraverso la
farsa e il circo si è riversata nelle pratiche performativo-spettacolari dell’intrattenimento
popolare del secolo scorso. Al contrario, il teatro di Fo è stato oggetto di numerosi studi
e pubblicazioni (soprattutto negli ultimi dieci/venti anni): tuttavia, la centralità di Fo nel
teatro novecentesco deve essere individuata soprattutto nell’elaborazione e nella realizzazione, con Mistero buffo, di una modalità monologico-affabulativa che, da una parte,
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Simone Soriani
col riferimento alla giulleria medievale si ricollega alle radici stesse della drammaturgia
d’attore; dall’altra, ha aperto la strada ai numerosi solisti che si sono affermati sulle scene
degli ultimi venti/trent’anni (soprattutto in riferimento al teatro dei narratori, senza dimenticare i solisti della comicità come Roberto Benigni, Beppe Grillo, Paolo Rossi, ecc.),
rilanciando nel nuovo millennio la plurisecolare tradizione italiana dell’attore che scrive
i suoi copioni, oppure – ma in fondo è la stessa cosa – dell’autore che interpreta i propri
testi.
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