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Il teatro dell’imprevisto, Mosaico Italiano, ISSN 21759537, ANO XIII -NUMERO 172

2018, Mosaico Italiano, ISSN 21759537

«Me ne vado/sapendo/chi sono» Il teatro dell’imprevisto In ogni caso il romanzo non è esclusivamente un excursus parodistico sulla nostrana Repubblica della Lettere, ma una riflessione sul senso di colpa.[…]: il diavolo pare saperlo assai bene e, con un sorprendente coup de theatre conclusivo, gioca tutte le sue carte finendo con l’accattivarsi la simpatia, se non il consenso, del lettore. Così chiude il suo bel saggio Marco Camerini, attraversando gli ultimi libri di narrativi di due autori di spicco nel panorama odierno: Paolo Maurensig e Leonardo Colombati. Lo scambio di tecnica e struttura tra romanzo e teatro è anche a tema nel bel romanzo di Dario Buzzolan (non a caso anche drammaturgo e saggista cinematografico) La vita degna, che ci pone di fronte ad un interrogativo assai interessante e necessario: la felicità consiste esclusivamente nella realizzazione dei propri desideri o in altro, che magari si palesa attraverso imprevisti e strade non previste e precisate? Colpi di teatro insomma, sul palcoscenico imprevedibile della vita. Ne è maestro Gigi Proietti, in queste pagine di Mosaico ritratto da Katiuscia Torquati nel suo spettacolo dedicato a Ettore Petrolini. Una narrazione “teatrale” nella sua drammaticità e esemplarità, forgiata sulla attesa e sulla domanda di senso, è la vita di Kafka come raccontata da Sabino Caronia in La consolazione della sera, romanzo presentato qui da Giorgio Taffon, non a caso docente di Letteratura teatrale, saggista, e drammaturgo, ma anche scrittore di racconti incentrati, argutamente, sul teatro e la teatralità: Una proposta (in)credibile e la recentissima raccolta Fatti d’amore teatro e di sogni di cui ci ripromettiamo di parlare prossimamente. Apre questo numero di maggio il saggio sulla giornalista, attrice, scrittrice Adele Cambria, parte di un lavoro più ampio di cui auspichiamo la pubblicazione integrale. La giovane autrice dell’intervento sulla Cambria, Eleonora Proietti, non potrà continuare gli studi. Una malattia incurabile l’ha portata via nell’estate del 2017. A lei e alla sua famiglia dedichiamo questo numero di Mosaico. Eleonora lascia anche una bellissima raccolta di versi, Faccia di velluto, corredata dai suoi disegni (come quello in copertina di Mosaico) e da un sorprendente CD audio, il suo testamento, dove parla della sua esperienza di vita, breve ma intensa, in termini di gratitudine e non di rabbiosa ribellione. Come in una delle sue ultime poesie, intitolata semplicemente Vita: Questa bella vita non mi ha raggirata: è stato un assaggio giunto ad aprile e terminato a maggio. Eleonora Proietti INDICE Istambul e altri viaggi in compagnia di Adele Cambria Eleonora Proietti Gigi Proietti e... “Caro Petrolini” Katiuscia Torquati Il teatro dell’imprevisto La vita degna di Dario Buzzolan Fabio Pierangeli Amori, viaggi, diavoli: Colombati e Maurensig Marco Camerini La consolazione della sera di Sabino Caronia Giorgio Taffon Max Gobbo e la riscrittura fantastica Franco Zangrilli Scaffale Laboratorio di scrittura Università Tor Vergata-Istituto Villa Flaminia-Roma Rubrica Amore Francesco Alberoni PASSATEMPO Maggio 2018 Editora Comunità Rio de Janeiro - Brasil www.comunitaitaliana.com mosaico@comunitaitaliana.com.br Direttore responsabile Pietro Petraglia Editori Andrea Santurbano Fabio Pierangeli Patricia Peterle Revisore Elena Santi Grafico Wilson Rodrigues

ANO XIII - NUMERO 172 Il teatro dell’imprevisto «Me ne vado/sapendo/chi sono» Maggio 2018 Editora Comunità Rio de Janeiro - Brasil Il teatro dell’imprevisto www.comunitaitaliana.com mosaico@comunitaitaliana.com.br Direttore responsabile Pietro Petraglia Editori Andrea Santurbano Fabio Pierangeli Patricia Peterle Revisore Elena Santi Grafico Wilson Rodrigues COMITATO SCIENTIFICO Andrea Gareffi (Univ. di Roma “Tor Vergata”); Andrea Santurbano (UFSC); Andrea Lombardi (UFRJ); Beatrice Talamo (Univ. della Tuscia di Viterbo) Cecilia Casini (USP); Cristiana Lardo (Univ. di Roma “Tor Vergata”); Daniele Fioretti (Univ. Wisconsin-Madison); Elisabetta Santoro (USP); Ernesto Livorni (Univ. WisconsinMadison); Fabio Pierangeli (Univ. di Roma “Tor Vergata”); Giorgio De Marchis (Univ. di Roma III); Lucia Wataghin (USP); Mauricio Santana Dias (USP); Maurizio Babini (UNESP); Patricia Peterle (UFSC); Paolo Torresan (Univ. Ca’ Foscari); Roberto Francavilla (Univ. di Genova); Sergio Romanelli (UFSC); Silvia La Regina (UFBA); Wander Melo Miranda (UFMG). COMITATO EDITORIALE Affonso Romano de Sant’Anna; Alberto Asor Rosa; Beatriz Resende; Dacia Maraini; Elsa Savino (in memoriam); Everardo Norões; Floriano Martins; Francesco Alberoni; Giacomo Marramao; Giovanni Meo Zilio; Giulia Lanciani; Leda Papaleo Ruffo; Maria Helena Kühner; Marina Colasanti; Pietro Petraglia; Rubens Piovano; Sergio Michele; Victor Mateus ESEMPLARI ANTERIORI Redazione e Amministrazione Rua Marquês de Caxias, 31 Centro - Niterói - RJ - 24030-050 Tel/Fax: (55+21) 2722-0181 / 2719-1468 Mosaico italiano è aperto ai contributi e alle ricerche di studiosi ed esperti brasiliani, italiani e stranieri. I collaboratori esprimono, nella massima libertà, personali opinioni che non riflettono necessariamente il pensiero della direzione. In ogni caso il romanzo non è esclusivamente un excursus parodistico sulla nostrana Repubblica della Lettere, ma una riflessione sul senso di colpa.[…]: il diavolo pare saperlo assai bene e, con un sorprendente coup de theatre conclusivo, gioca tutte le sue carte finendo con l’accattivarsi la simpatia, se non il consenso, del lettore. Così chiude il suo bel saggio Marco Camerini, attraversando gli ultimi libri di narrativi di due autori di spicco nel panorama odierno: Paolo Maurensig e Leonardo Colombati. Lo scambio di tecnica e struttura tra romanzo e teatro è anche a tema nel bel romanzo di Dario Buzzolan (non a caso anche drammaturgo e saggista cinematografico) La vita degna, che ci pone di fronte ad un interrogativo assai interessante e necessario: la felicità consiste esclusivamente nella realizzazione dei propri desideri o in altro, che magari si palesa attraverso imprevisti e strade non previste e precisate? Colpi di teatro insomma, sul palcoscenico imprevedibile della vita. Ne è maestro Gigi Proietti, in queste pagine di Mosaico ritratto da Katiuscia Torquati nel suo spettacolo dedicato a Ettore Petrolini. Una narrazione “teatrale” nella sua drammaticità e esemplarità, forgiata sulla attesa e sulla domanda di senso, è la vita di Kafka come raccontata da Sabino Caronia in La consolazione della sera, romanzo presentato qui da Giorgio Taffon, non a caso docente di Letteratura teatrale, saggista, e drammaturgo, ma anche scrittore di racconti incentrati, argutamente, sul teatro e la teatralità: Una proposta (in)credibile e la recentissima raccolta Fatti d’amore teatro e di sogni di cui ci ripromettiamo di parlare prossimamente. Apre questo numero di maggio il saggio sulla giornalista, attrice, scrittrice Adele Cambria, parte di un lavoro più ampio di cui auspichiamo la pubblicazione integrale. La giovane autrice dell’intervento sulla Cambria, Eleonora Proietti, non potrà continuare gli studi. Una malattia incurabile l’ha portata via nell’estate del 2017. A lei e alla sua famiglia dedichiamo questo numero di Mosaico. Eleonora lascia anche una bellissima raccolta di versi, Faccia di velluto, corredata dai suoi disegni (come quello in copertina di Mosaico) e da un sorprendente CD audio, il suo testamento, dove parla della sua esperienza di vita, breve ma intensa, in termini di gratitudine e non di rabbiosa ribellione. Come in una delle sue ultime poesie, intitolata semplicemente Vita: SI RINGRAZIANO “Tutte le istituzioni e i collaboratori che hanno contribuito in qualche modo all’elaborazione del presente numero” STAMPATORE Editora Comunità Ltda. ISSN 2175-9537 2 Questa bella vita non mi ha raggirata: è stato un assaggio giunto ad aprile e terminato a maggio. Eleonora Proietti Indice Istambul e altri viaggi in compagnia di Adele Cambria Eleonora Proietti pag. 04 Gigi Proietti e... “Caro Petrolini” Katiuscia Torquati pag. 12 Il teatro dell’imprevisto La vita degna di Dario Buzzolan Fabio Pierangeli pag. 18 Amori, viaggi, diavoli: Colombati e Maurensig Marco Camerini pag. 22 La consolazione della sera di Sabino Caronia Giorgio Taffon pag. 26 Max Gobbo e la riscrittura fantastica Franco Zangrilli pag. 29 Scaffale Laboratorio di scrittura Università Tor Vergata-Istituto Villa Flaminia-Roma pag. 35 Rubrica Amore Francesco Alberoni pag. 38 PASSATEMPO pag. 39 3 Istambul e altri viaggi in compagnia di Adele Cambria Eleonora Proietti Pubblichiamo una parte del lungo saggio di Eleonora Proietti su Adele Cambria, auspicando una prossima pubblicazione integrale in volume. Il lavoro ha impegnato Eleonora per la tesi Magistrale in Letteratura Italiana all’Università di Roma “Tor Vergata, con il professore Nicola Longo. La sorte non gli ha concesso di continuare il lavoro. Eleonora Proietti ci ha lasciati, serenamente, convinta di aver vissuta secondo le proprie idee fino all’ultimo, nell’estate del 2017. Era anche poetessa e pittrice, come dimostra il bellissimo volume illustrato con le sue tavole Faccia di velluto. Il corsivo qui sotto è tratto dalla introduzione al lavoro di Eleonora, il cui titolo complessivo è La questione sociale e politica nella vita di Adele Cambria e di cui pubblichiamo la parte sulla letteratura di viaggio. In considerazione dei mutamenti storico-politici che hanno caratterizzato l’evoluzione delle dinamiche sociali e degli indirizzi ideologico-culturali entro il contesto italiano, lungo quasi tutta la seconda metà del Novecento, ho ritenuto opportuno indagare sull’influenza, diretta e indiretta, che questi stessi cambiamenti hanno esercitato sulla figura di Adele Cambria (Reggio Calabria, 12 luglio 1931- Roma 5 novembre 2015), giornalista e scrittrice italiana, la quale, abbracciando i principali aspetti delle teorie e dei movimenti del femminismo, ha contribuito ad una rilettura originale di alcuni temi, sia di ambito letterario, in particolar modo per quel che concerne le versioni della mitologia classica, sia di quello storico, concentrandosi soprattutto, in questo secondo caso, su alcune personalità protagoniste, in diversi momenti storici, del panorama politico italiano e internazionale, come Antonio Gramsci (Ales, 1891 - Roma, 1937) e Karl Heinrich Marx (Treviri, 1818 - Londra, 1883). L’intera produzione letteraria e saggistica della giornalista reggina è da intendersi come materiale organico che testimonia la sua evoluzione personale e professionale, non solo in relazione alle teorie femministe, bensì anche al processo di maturazione e consapevolezza politica, ridefinendo i contorni di un progredire storico che scardina le tradizionali modalità ideologizzanti con cui ci viene tramandata la Storia ufficiale. Il club di Montevecchio (ubicato nell’omonima piazza romana) ha dedicato un ciclo di eventi al tema Oriente e Occidente: così lontano, così vicino. È stata l’occasione per dialogare con Adele Cambria visto che Il 23 aprile 2012, la rassegna ha ospitato la presentazione di Istanbul, romanzo che la scrittrice ha composto in due momenti diversi della sua vita. 4 Più che di un romanzo, in verità, si potrebbe definirlo una sorta di diario di viaggio, o meglio di due viaggi, intrapresi dalla scrittrice a distanza di ventotto anni l’uno dall’altro: il primo, avvenuto nel settembre 1983, e il secondo, nel settembre 2011. La meta è sempre la stessa, Istanbul; tutto il resto, invece, è mutato nel corso degli anni: la storia, la politica, la guerra, Adele Cambria e la cultura della città stessa. “Come ho potuto lasciar passare tutto questo tempo senza rivedere Istanbul!” esclama mentre varchiamo la soglia del club. Infatti, all’interno del volume, i due viaggi sono distinti da due caratteri tipografici diversi: quelli che riportano l’esperienza dell’ ’83 ricordano le vecchie macchine da scrivere, oggi non facenti più parte dell’armamentario dello scrittore, rimpiazzate dai computer, che stampano caratteri come quelli impressi sulle pagine riguardanti il secondo viaggio. Una differenza non casuale, ma tesa a sottolineare che si tratta di momenti distinti. Di un altro viaggio. Nel 1983, approfittando di una mostra organizzata dal Consiglio d’Europa (intitolata Diecimila anni di Civiltà in Anatolia), parte insieme agli Amici della Galleria nazionale d’Arte moderna di Roma. Da due anni si era dimessa dal <<Giorno>> e, pur essendo la Turchia un paese scosso da terremoti fisici e politici, l’intento principale di Adele Cambria è quello di evadere dai problemi del suo paese (all’inizio di quell’anno si era concluso il processo Moro) e di contemplare le bellezze esotiche che l’altro aveva da offrire, fascino di natura e arte, fruiti senza farsi condizionare né dal turismo di massa né da alcuna “cecità tecnologica”: <<Credo che sia importante ricominciare a vedere le cose con i propri occhi “corporali” senza più delegare il senso principe, quello della vista, alla macchina fotografica. Cerchiamo di re-imparare a usare gli occhi, ricollocando la fotografia nella sua giusta dimensione documentaria. […] Le mie nozioni sul paese erano men che vaghe. L’immagine di Bisanzio confusamente collegata all’origine del fondo oro, nei mosaici – Monreale, Ravenna – e nella pittura italiana, Cimabue, Giotto>>.1 Il primo elemento che attira la sua attenzione, appena giunta a Istanbul il 6 settembre, sono le cupole delle moschee che aleggiano numerose sulla città e che rievocano, seppur differenti, quelle della Chiesa di Roma: <<Le cupole galleggiano leggere, ampie, d’un grigio inaspettato che sfuma nel celeste, costellando il profilo della città come una flotta di astronavi planate sul Bosforo da milioni di anni, e sono le cupole delle cinque-seicento moschee di Istanbul. […] La prima volta non sapevo quasi niente della triplice città che allaccia Europa e Asia, ma la visione delle cupole islamiche aveva segnalato subito per me un contrasto persino “mistico” – un sovrappiù di spiritualità – istintivamente paragonato al profilo insieme autoritario e carnale della Chiesa di Roma […] cupole […] muscolose, terrestri, sode, con capezzoli erti, come mammelle popolane>>.2 La “triplice città”, così definita perché la sua stratificazione storico-culturale consiste in una triplice eredità: quella romana, quella cristiana e, infine, quella musulmana. Tale commistione di elementi è stata favorita, nel corso dei secoli, dalla sua posizione geografica; affacciandosi sullo stretto del Bosforo, acquisisce la funzione di “città-ponte” tra due continenti, l’Europa e l’Asia, l’Occidente e l’Oriente: Istanbul è infatti intesa come “Porta dell’Oriente”. A rappresentare questa doppia appartenenza, unione-scissione d’identità e di culture, è lo scrittore Orhan Pamuk, nato a Istanbul nel 1952 (e il primo scrittore turco a ricevere il premio Nobel per la Letteratura, nel 2006), viene adottato da Adele Cambria come modello di scrittore-viaggiatore, insieme a Edmondo De Amicis3, Pierre Loti (ufficiale della Marina militare francese d’origine li- 1 A. Cambria, Istanbul. Il doppio viaggio, op. cit. pp. 5-11 2 Ivi, pp. 3-4 3 L’autore fece un viaggio a Istanbul nel 1875. Le sue cronache di viaggio, dove la città viene definita “mostruosa”, “un sovraffollamento visivo”, “una Babilonia”, appariranno su <<L’Illustrazione Italiana>>, per poi essere raccolte in un unico volume intitolato Costantinopoli (Treves 1877) 5 gure) e altri scrittori facenti parte della lunga tradizione della letteratura di viaggio in Occidente: <<Orhan Pamuk, che diffida dell’esotismo dei viaggiatori occidentali […] ma la sfilza di autori “del Nord”, che Pamuk prende a controprova della sua idea che il Mediterraneo sia una leggenda nordica, mi disorienta. Dunque Goethe e Stendhal, che aprono l’elenco, sono indiscutibili, ma come costruttori del mito mediterraneo si limitano all’Italia, mentre George Byron non viene neppure nominato nell’elenco, eppure si spinse fino alla Grecia […]. Lo scrittore condanna il mito del Mediterraneo in una chiave che oserei definire “difensiva”>>.4 Pamuk si dimostra tenace difensore dei diritti civili del suo paese e mostra spiccata indignazione per molti aspetti caratterizzanti il mondo occidentale, che non è affatto estraneo alla sua generazione, la prima, sostiene, della neociviltà di Istanbul dopo il crollo dell’impero ottomano nel 1922. Quando venne costruito il ponte che collega le due rive del Bosforo, quella asiatica a quella europea, lo scrittore scopre che il suo posto nel mondo non era determinato da nessuna rigida appartenenza ma con l’istinto, e forse l’obbligo, di “rivolgersi 4 A. Cambria, Istanbul. Il doppio viaggio, op. cit. pp. 10-145-146 5 Ivi, pp. 150-151 6 Ivi, p. 194 7 Ivi, p. 152 8 Ivi, p. 19 9 Ivi, pp. 39-41 6 alle due rive senza appartenere”: <<Ecco, mi è parso che lo scrittore esprimesse così un potere che gli spettava proprio per la sua equità […] e che il dono della scrittura ne rafforzasse ed esaltasse la lucidità, scongiurando le ombre del nazionalismo>>.5 Partendo da questa prospettiva, la letteratura acquista una funzione ben precisa, che sconfinando il campo dell’espressione artistica, diviene strumento di ricerca dell’appartenenza ad una determinata patria, ad una cultura fondante la nostra identità. Una simile spaccatura interiore si verifica, seppur con altre modalità, anche in Cambria: la scrittrice reggina, infatti, oscilla tra due universi in perenne contraddizione, il mondo del femminismo e dell’emancipazione e la sua irriducibile meridionalità; contraddizione che, in entrambi, tenta di risolversi sulla pagina: <<scrivendo, tra il malessere della tradizione […] e l’impossibilità di una memoria che consenta la conciliazione con la storia del proprio paese>>.6 La scrittura intesa anche come specchio e testimonianza della desolazione che la Storia lascia dietro di sé, come quella lasciata dal crollo dell’impero ottomano o come quella che ha strappato gli emigranti del sud Italia, Cambria stessa, alle loro radici: <<Tornata dalla Turchia, mi interrogavo sul tema dell’identità perduta o almeno a rischio – se persino il “mio” adorato premio Nobel ne aveva sofferto – tema tanto più grave nel rapporto con gli immigrati in un paese come l’Italia […] rimettendo in gioco, tanto per cominciare, la discriminazione dei nostri emigrati dal Sud nel cosiddetto “triangolo industriale negli anni del boom […]>>.7 Anche la questione femminista non viene trascurata dall’occhio della scrittrice, che indaga sulla condizione delle donne turche, soprattutto quelle che hanno abbracciato la fede islamica: <<Impossibile non notare la grazia e l’eleganza con cui le “ammantate”, sedute a un caffè, sollevano con una mano il triangolo di stoffa pesante che nasconde anche le loro labbra, e nell’altra reggono il manico della tazzina, per sorbire la densa bevanda […]>>.8 Pur trattandosi di un viaggio d’evasione che avrebbe voluto essere puramente contemplativo, è sulla scia del femminismo che la galleria d’arte romana organizza la mostra della civiltà anatolica, una civiltà in cui il ruolo della donna veniva riconosciuto e venerato tramite il culto della Dea Madre: <<E qui infatti sono le dee madri (ex voto per impetrare la fecondità) che dominano: grasse, rannicchiate nella loro esuberanza rassicurante di mammelle, ventre, fianchi […] tutte […] prive di testa […] abbaglianti conferme di intuizioni – troppe volte tacciate di scarsa scientificità – sulla primogenitura di una mitologia femminile: perciò Atena che sconfigge i giganti […] o il combattimento tra i Greci e le Amazzoni […] è tutto vero ciò che le donne faticosamente hanno cercato di portare alla luce […] sulla loro epopea sommersa, ed è qui, materializzato, tangibile, inscritto su questi marmorei, mutilati corpi di donna>>.9 Ancora una volta, dunque, la Storia, e la preistoria, si intrecciano con il mito, con i dogmi della religione cristiana e islamica, e sono tutti questi elementi a determinare la storia delle donne e il capovolgimento degli originari paradigmi, una consapevolezza che si rafforza nel secondo viaggio: <<Mi chiedo […] se fosse pura e semplice avidità – l’Oriente come cassaforte di tesori favolosi e favoleggiati – quella che muoveva i Crociati; o se li guidasse davvero, nell’ambito del progetto di riconquista dei Luoghi Santi, anche una del resto largamente condivisa misoginia: “Io porrò inimicizia tra te e la donna”, non recita così il Creatore rivolto al Serpente? […] partendo da Eva e dal suo “peccato”, che oggi possiamo leggere tranquillamente come passione della conoscenza>>.10 In questa sua seconda esperienza, Istanbul appare allo sguardo di Adele Cambria come “un altro astro”. Accompagnata dall’amica Bianca Galvan e dal compagno olandese, avrà modo di osservare in maniera più dettagliata e “partecipe” il fascino delle donne turche e la loro prigionia: <<[…] infazzolettate e con gli spolverini che le insaccano, dal collo quasi fino ai piedi, chiacchierano fitto, dopo la preghiera. […] Di solito le donne, di giorno, non vengono alla moschea, ma non sono dispensate dalla pratica religiosa musulmana: tanto si può pregare benissimo a casa, tra un cambio di panni al bambino e una rimestata allo yoghurt; […] Con un lieve brusio le donne si sistemano ora dietro a una tenda di garza verde, ripiegando i piedi scalzi sotto le gonne, in modo che non si vedano […]>>.11 A dimostrare che non si tratta solo di un diario di viaggio, Istanbul racconta di un paese che ha subito l’oltraggio di numerosi tragici conflitti12, il più delle volte affrontati per mezzo della scelta terroristica13, che racchiude i più antichi segreti dell’Occidente e del Cristianesimo; una città, Istanbul che, per colmare i vuoti lasciati dalla decadenza dell’impero, precipita verso 10 11 12 13 14 15 un febbrile processo di occidentalizzazione, distruttore di ogni fede in favore di banalità e utilitarismi, senza però riuscire ad acquisire una fisionomia identitaria ben definita, in un tempo che ora abbraccia tutto ciò che in passato rinnegava: <<Spariti i caicchi dai colori brillanti e le case di legno scuro coi bovindi […] tutt’intorno si sono moltiplicati gli stand di souvenir, i banchetti dei paninari, le rivendite di francobolli, sigarette e cartoline illustrate […] nell’immensa città in cui i grattacieli sono venuti ad affiancare i minareti delle moschee>>.14 Tuttavia, l’evoluzione della città, sotto alcuni aspetti, rallenta la sua corsa, conservando limitazioni su ogni forma di libertà, come la questione sulla libertà di stampa e della difesa dei diritti delle minoranze che accesero gli animi durante il soggiorno dell’autrice e fece prigionieri più di cento giornalisti, in maggioranza curdi: <<Ma se è vero, come è vero, che in questo paese – respinto purtroppo per l’Europa dall’Unione europea, ma non per motivi etici – anche molti osservatori occidentali confidano (o confidavano) nella capacità di mediazione politica in Medio Oriente di un governo islamista che insiste a definirsi “mode- rato”, la realtà carceraria di massa in cui vivono giornalisti (e giornaliste), gli arresti che si susseguono, anche degli editori di giornali ed emittenti televisive, e persino degli edicolanti, non possono essere ignorati […] Oggi i politici e coloro che gestiscono i media sostengono che il mondo è un villaggio globale; ma per difendere i confini del Villaggio con le armi, spendono miliardi di dollari. In Turchia il governo di Tayyp Erdogan bombarda il Kurdistan, e per questo pretende che gli Stati Uniti gli diano i droni gratis, ed arresta diecimila politici curdi. E tutto questo accade mentre la Turchia viene presentata al mondo come un modello di democrazia per i paesi musulmani. […] Oggi stiamo assistendo a un massacro ai danni del popolo curdo. La stampa di sinistra e di destra, quella dei conservatori e quella dei liberali, sostiene all’unisono le politiche dello Stato>>.15 Come già affermava Pamuk, interrogandosi sul rapporto tra letteratura e politica, “la politica implica una determinazione a non capire chi è diverso da noi”. La letteratura, invece, è il secondo viaggio che, per mezzo della scrittura, reinterpreta l’elemento del reale compartecipe della personale e artistica evoluzione; Ivi, p. 72 Ivi, pp. 32-35 Compreso il primo genocidio del Novecento, la scomparsa del popolo armeno durante la prima guerra mondiale L’autrice stessa apprende la notizia di un attentato nella città di Ankara, proprio durante il suo soggiorno A. Cambria, Istanbul. Il doppio viaggio, op. cit. pp. 75-76-77 Ivi, pp. 225-226 7 questo libro vuole essere una “interlocuzione fra identità originaria e curiosità dell’altrove”.16 L’arte diviene dunque un ponte comunicativo fra culture e religioni differenti; un’arma capace anche di scatenare scontri e rivalità ingiustificate e ingiustificabili, per inseguire quell’illusione di patria di cui parlava Corrado Alvaro. <<Il tempo corre, non posso lasciarmi sfuggire Istanbul dalle mani, ho paura che svaniscano le sue immagini, i pensieri che mi ha suggerito, giusti o sbagliati che siano: questa è la città che ho inseguito, visto, scritto, e poi seppellito in un archivio, per quasi trent’anni, e che ho ricominciato a scrutare […]; infine devo placarmi, con umiltà, davanti al suo enigma>>.17 Il secondo libro collocabile entro la letteratura di viaggio viene pubblicato, nello stesso anno, dall’editore Franco Arcidiaco (Città del Sole, Reggio Calabria). In viaggio con la zia riprende il titolo dall’omonimo romanzo dello scrittore inglese Graham Greene (Tra- vels with My Aunt, 1969) e dal film di George Cukor (1972, con Maggie Smith nel ruolo di protagonista). Le protagoniste della storia sono una Zia (di cui non viene specificato il nome, presentando il sostantivo che designa il personaggio con la maiuscola), la sua nipotina appena adolescente (Nora) e l’amica, coetanea, di quest’ultima (Yelena18). La scelta del ruolo di zia non è casuale. Volontariamente, Cambria decide di far assumere al personaggio tale veste simbolica. Infatti, la “zia” non è altro che l’adulto affidabile e rassicurante con cui ci si può divertire ed affidare allo stesso tempo perché, non essendo né un amico né un genitore, riesce a mantenere la giusta distanza emotiva e il giusto equilibrio tra regole e spensieratezza. Tutto parte da un’intenzione: istruire le due ragazzine sulla storia e sui miti della Magna Grecia. Decidono allora di compiere un viaggio nel Sud Italia, rintracciando, tra monumenti e macerie (che segnano la Storia ufficiale, quella scritta dagli uomini e che tutti conosciamo), innumerevoli vicende al femminile, passate silenti sotto la lente degli studiosi ma che testimoniano l’evoluzione del ruolo della donna in rapporto alle politiche e alle società che si sono susseguite nel tempo. <<Ho detto loro che andremo alla scoperta di donne dimenticate, eppure presenti nella memoria dei luoghi, dee, amazzoni, ninfe, filosofe, regine […], ci immergeremo nel mare della Storia sconosciuta delle donne, viaggiando per l’Italia… Cominceremo dalla Magna Grecia […]>>.19 La prima tappa del viaggio è Locri Epizefiri, città fondata nel VII secolo a.C., ultima delle colonie greche corrispondenti al territorio della Calabria. Il mito di Nosside che narra della fondazione di questo luogo, vuole che per iniziativa di alcune donne greche, imbarcatesi con i loro schiavi per ribellarsi all’autorità dei propri mariti, fu costruita la città e sviluppata una società di tipo matriarcale: <<[…] il matriarcato come comando (autoritario) delle donne, corrispondente perciò al patriarcato, non è mai esistito […] in secoli e millenni così lontani da noi, è impossibile distinguere la Storia dal Mito. Eppure proprio ora, dopo alcuni decenni di rivisitazione della Storia da parte delle donne – abbiamo cercato di svelare l’altra faccia della luna… - comincia a profilarsi una vittoria nostra… che nessuno ci riconoscerà, ovviamente, almeno per i prossimi mille anni… Ma intanto il fatto è che gli Storici “autorizzati” – in prevalenza maschi – hanno scoperto per conto loro […] nientedimeno che la Microstoria: cioè la storia di tutti i giorni, la piccola storia quotidiana, che sono le donne a fabbricare […] il Mito non è una fandonia, una chiacchiera di donnicciole ignoranti ma, al contrario, aiuta gli specialisti (loro) a leggere meglio, a capire i significati profondi delle vicende umane, e anche delle civilizzazioni e delle società che si sono succedute nelle Grande Storia del Mondo>>.20 Con questa affermazione la scrittrice reggina mette in discussione la veridicità della Storia stessa, o perlomeno la sua esaustività, dato che solo una parte di umanità, quella maschile, si è occupata di imprimerla sulla pagina, facendo in modo di tramandare una versione dei fatti, afferma, ideologicamente manipolata, come del resto la stessa tradizione del poema epico. Per quanto riguarda le principesse locresi, secondo Aristotele, i locresi in Calabria conoscerebbero la loro origine dall’insediamento di donne adultere, briganti e schiavi fuggiaschi, senza fare alcun accenno ad una qualsiasi autorità femminile; gli storici moderni sono rimasti su questa linea. Tuttavia, un’eccezione è rappresentata da Robert Graves:21 <<[…] lui è stato il primo a teorizzare la superiorità della donna nella fase arcaica della civilizzazione greca>>.22 Graves parla del Tempo delle Madri, ma gli stessi riti praticati in 16 Ivi, p. 147 17 Ivi, p. 159 18 Ovvero, Kashya (figlia della governante polacca che accudiva l’anziana madre dell’autrice), alla quale dedicherà il romanzo 19 A. Cambria, In viaggio con la zia, Reggio Calabria, Città del Sole, 2012, p. 11 20 Ivi, pp. 16-17 21 Studioso britannico (1895-1985) che nel 1954 pubblicò una raccolta sulla mitologia greca intitolata I Miti greci, pubblicato in italiano da Longanesi nel 1983 22 A. Cambria, In viaggio con la zia, op. cit. p. 18 8 quei luoghi, legati al culto di Afrodite (la divinità principalmente venerata a Locri), svelano i meccanismi economici legati alla prostituzione sacra: fanciulle vergini che sacrificavano la loro innocenza nel tempio della Dea con il fine di espiare la colpa di Ajace, la violenza su Cassandra23 nel tempio di Atena durante l’invasione di Troia da parte dei greci, ma che probabilmente, attraverso un vero e proprio traffico sessuale, servivano a finanziare il tempio. Dunque, una qualche forma di “emancipazione” femminile, probabilmente solo apparente, che affonda le sue radici in tempi così remoti da celarsi alla memoria, e che pure, oggi, appare non solo come traccia di un antico passato ma anche come una chimera da sempre rincorsa e mai raggiunta; ne è un valido esempio la figura di Didone, ancora rievocata fra queste pagine quando giungono in Sicilia, nel luogo fondato da Enea che vide bruciare le navi dei troiani, sulla spiaggia di Erice. La regina, combattuta fra l’amore di Enea e la responsabilità che sente nei confronti del suo popolo, è un simbolo attuale. Il suo suicidio è un atto di lucida modernità. Anche il “pio” Enea assume, agli occhi dell’autrice, le caratteristiche proprie di quell’opportunismo ma- schile che noi, oggi, definiremmo “tipico dell’uomo moderno”: <<Il problema di Didone […] non è soltanto quello dell’opportunismo di Enea. L’eroe troiano, per compiere il suo “glorioso destino”, deve sposare Lavinia, la figlia di Re Latino, e dare il via alla fondazione di Roma… Ma Didone si sente responsabile del suo popolo… Ed anche se Enea “potesse” sposarla e portarla via con sé […] lei sente che non sarebbe giusto trascinare la sua gente in un’altra avventura, verso un’altra terra sconosciuta e probabilmente ostile… Perché i Fenici, in terra d’Africa, erano già degli immigrati. […] E Didone, che li aveva guidati fin lì da Tiro, e per loro e con loro, aveva fondato una città raffinata e splendida, non voleva strapparli, ancora una volta, da quelle che erano diventate le loro radici […]. E proprio qui, su questa spiaggia […], si ripropone il tema della relazione difficile, complicata, che le donne hanno sempre avuto con il Viaggio>>.24 Ciò implica di imporre delle differenze tra il viaggio fine a se stesso, intrapreso come percorso di conoscenza del mondo o di crescita interiore, e il viaggio come raggiungimento di una meta concreta, stabile, approdo di certezze e rifugio degli affetti; a differenza dei grandi condottieri di cui ci narra la storia, che giungevano in terre sconosciute con l’intenzione di fare razzie e massacri, Didone compie il viaggio insieme alla sua gente per trovare un luogo in cui stabilirsi. Opposto alla distruzione, il fine è costruttivo e l’esigenza di ricreare altrove nuove radici, è maggiore rispetto al bisogno di soddisfare i suoi personali desideri: <<[…] pur essendo una condottiera, una donna audace, che non esita a mettersi per mare e a trovare e a costruire, per sé ma anche per le persone di cui si sente responsabile, un destino migliore, non ama il viaggio-per-il-viaggio […]. Gli uomini hanno sempre avuto un feeling speciale per il Viaggio con la maiuscola… A cominciare da Ulisse […]. Per le donne invece il Viaggio era un dilemma… C’è una lacerazione, nella psiche femminile, tra l’essere casa, l’essere famiglia, e conoscere il mondo […]. Questo conflitto sembrava “eterno”>>.25 Ed è lo stesso tipo di conflitto che caratterizza il pensiero di Adele Cambria, in cui il forte senso di appartenenza legato alle sue origini meridionali, impedisce il superamento di certi valori in contrasto con il concetto di emancipazione 23 Anche se, secondo la versione di Eschilo, fu Agamennone a farla prigioniera 24 A. Cambria, In viaggio con la zia, op. cit. p. 86 25 Ibidem 9 femminista. Saranno le due ragazzine a stimolare nella “Zia” riflessioni sulla sua ideologizzazione del mito. Non si tratta infatti di una pedagogia, di una conoscenza unidirezionale, dall’adulto al giovane, ma proprio la scarto generazionale tra la zia e le due adolescenti, implica uno scambio, un ridimensionamento, un confronto continuo, che si concretizza senza perdere i toni ironici che predominano nei dialoghi tra i personaggi. Le amazzoni, altro, potente, archetipo in contrasto al potere maschile e ispiratore del modello di matriarcato adottato dalla donne di Locri, veneravano principalmente la dea della caccia, Artemide: <<Galoppavano su queste spiagge migliaia di anni fa […] il mito delle Regine-Amazzoni precedette la fondazione delle città della Magna Grecia… Tra lo Jonio 26 27 10 Ivi, p. 116 Ivi, p. 13 e il Tirreno… Anche Bagnara e Scilla sarebbero state fondate da queste dinastie di donne guerriere […]. Gli storici antichi, per esempio Licofrone, narrano che la prima Regina-Amazzone di cui si abbia memoria in questi luoghi fu Cleta […] approdò proprio su questa spiaggia, fuggendo dalle rovine fumanti di Troia>>.26 In epoca moderna, l’eredità lasciata da queste donne stanziatesi nella regione della Sizia e dell’Anatolia, finchè la giovenca, castigo di Era, non si spingerà fino al Bosforo, sono le “bagnarote” (che l’autrice definisce le “Amazzoni della Marinella”), mogli di pescatori sulla riva di Monasterace Marina; dalle loro nere ed ampie gonne faceva capolino un lembo di stoffa rossa, simbolo di “bellezza e bandiera”: <<[…] diventate le fimminote, sensuali e predatrici, nel roman- zo di Stefano D’Arrigo, Horcynus Orca, sono state le ultime discendenti “riconoscibili”, almeno fino allo scadere del secondo millennio, delle Amazzoni che percorrevano questa terra, emersa tra due mari, lo Jonio e il Tirreno […] capitanate, nel Mito, da Cleta, regina di Caulonia – oggi Monasterace Marina, dove affiorano, dalla sabbia scintillante, le esatte, bionde rovine del Tempio di Apollo – via via fino allo scoglio custodito dalle guerriere di Scilla. E poi, disarcionate ma non arrese, loro, le bagnarote, hanno dominato i traffici mercantili tra Reggio e Messina, nascondendo sotto le cento sottane il sale clandestino, in tempo di guerra… Ma ancora qualcuna resiste, a gridare, all’alba, per le strade dei paesi rivieraschi, le chistardelle appena pescate>>.27 Mentre, a prova della de-generazione del Mito, con il consolida- mento del patriarcato, la figura di Scilla, “orrendamente latra”, innamorata di Minosse e trasformata in un mostro che terrorizza i viaggiatori che si avventurano per mare e, insieme a Criddi, rappresenta il processo di demonizzazione della figura della donna, che da ninfa a mostro, diventa uno dei simboli più terrificanti tra i personaggi femminili dell’intera mitologia: <<[…] il fantasma di Scilla si è accampato nell’immaginario maschile, fin da quando i primi uomini, o eroi o semidei che fossero, affrontarono i rischi della navigazione… Dagli Argonauti a Ulisse, Scilla, con il suo doppio, Cariddi, era il segno inquietante del femminile […]. Scilla annegò sotto gli occhi indifferenti dell’amato e la sua anima volò via come un uccello purpureo… È l’uccello marino dalle piume rosse… ciris è il nome che gli hanno dato gli eruditi… un uccello che qualche volta, dicono, si vede volare al tramonto attorno alla rupe […]>>.28 28 29 Effettivamente anche il Mito, nelle sue mille versioni, fu tramandato da Erodoto, Eschilo, Luciano e da molti altri, tutti uomini. Come uomini erano quelli che trascinarono credenze pagane nelle trame del Cristianesimo, distorcendole nei loro tratti, impoverendole della loro ricchezza, piegandole alla dottrina teologica. Il tour della Zia, e delle due giovanissime accompagnatrici, è un percorso che non tende ad attraversare solo il territorio, il dato geografico, ma consiste nell’attraversare il Mito, percorrendo strade più impervie e profonde, scorgendo le sue numerose tracce, disseminate in tutta la Magna Grecia; esse testimoniano, ora, il loro frutto, ovvero, la società odierna. Ma il Mito è capace anche di risalire la linea temporale a ritroso, fino ad oltrepassarla: la storia prima della Storia che, pur sopravvivendo nel Genius loci, ha perso la sua aura sacra, in un’attualità che non si ritualizza, che ha smarrito ogni simbolizzazione del suo culto, chiave di lettura ed essenza di ogni civiltà. Ed ecco che la morte del Mito viene a coincidere con la nostalgia del ritorno, tradotta nell’immagine dell’antico lago di Proserpina, ormai prosciugato in favore di una pista di formula uno, o in quella, più romantica, di un vascello dalle sette vele: <<Marciamo tra alberi di fichi e di limoni […]: alle nostre spalle, il mare Jonio azzurrissimo, dove sempre appare – in coincidenza con i miei “ritorni” qui – il misterioso vascello dalle sette vele […]: ritorno come nostos, nostalgia, il dolore del ritorno […] alla fine del millennio, sparite le ingannevoli romantiche vele, all’orizzonte dello Jonio hanno cominciato a profilarsi carrette dei mari, gommoni, pescherecci in avaria, , colmi di curdi disperati e bruni, con le mogli incinte e, nonostante tutto, regali, i capelli nascosti da veli leggeri, le nobili fronti scoperte>>.29 Ivi, pp. 107-108 Ivi, p. 9 11 Gigi Proietti e... “Caro Petrolini” Katiuscia Torquati Il teatro di Petrolini nel panorama dell'epoca Agli inizi del Novecento quando Ettore Petrolini inizia la sua esperienza teatrale, il teatro di Varietà italiano è in piena maturità e molti nuovi spazi sono stati aperti per sopperire alle nuove esigenze. Sono i Cafè concerto che contribuiscono alla nascita del Varietà, inizialmente a Napoli, città influenzata sin dall'epoca napoleonica dalla cultura francese, e dove tale nascita coincide con l'epoca d'oro della canzone napoletana, per poi passare ad un'altra importantissima piazza che è quella romana, dove verrà fondato successivamente un altro Salone Margherita, poi teatro Sala Umberto. All'inizio non si può dire che esista un solo modello né dal punto di vista delle strutture in cui portarlo in scena, né dal punto di vista della struttura stessa dello spettacolo e del pubblico. Anzi esso è caratterizzato da una certa flessibilità degli elementi strutturali: assenza del rispetto delle convenzioni; osmosi tra pubblico e attore, spettatore e spettacolo; scenografia essenziale e neutra che mette in evidenza gli elementi più prettamente espressivi come mimica, costumi, trucco; orari di apertura non convenzionali; pubblico vario. Il Varietà si configura quindi come luogo di intreccio tra culture e costumi. Anche l'esperienza di Petrolini la si comprende a partire dai diversi pubblici, i diversi luoghi, i differenti tessuti culturali e sociali con cui egli viene a contatto, nel rapporto cioè tra cultura del singolo e cultura collettiva. All'inizio il teatro delle Varietà consiste esclusivamente in varie canzonette o monologhi, successivamente si arricchisce con ritratti “macchiettistici”, per ampliarsi poi con balletti, numeri di magia e trasformismo, divenendo una successione di numeri scanditi a metà spettacolo da un intervallo, con il numero più importante alla fine dell'intero spettacolo. Si inizia generalmente infatti con le canzonettiste, seguono attrazioni varie accompagnate da musica; poi le divette, i comici, le sciantose e le romanze, per arrivare al culmine della serata con le vedette, oppure con l'attore comico o la cantante. 12 Possiamo definire il teatro delle Varietà come un teatro che sintetizza l'esperienza sia del teatro futurista che quella di un teatro per così dire a sorpresa e antipsicologico, dove risulta più importante l'aspetto fisico, muscolare e meccanico che quello psicologico. Il Varietà è un genere di spettacolo che vive del, e si mantiene sul, reale godimento dimostrato dagli spettatori: l'evento teatrale si appoggia sulla collettività. Vi è una vera e propria commistione tra pubblico e attore: il pubblico partecipa, interviene anche con fischi oltreché con applausi, come è evidente in Petrolineide. Siamo di fronte ad un teatro antipsicologico dove il pubblico vuole ridere, stupire ed essere stupito, emozionarsi attivamente. Il teatro di Varietà segna la nascita dell'attore-scrittore, come Petrolini, Viviani, Totò, e dell'attore in grado di mettere in gioco il suo corpo dinamico, come il trasformista Leopoldo Fregoli. Nel teatro delle Varietà più linguaggi espressivi coesistono contemporaneamente: unica cornice dello spettacolo è la serata in se stessa e lo spazio condiviso con gli altri artisti. Non sussiste né unità narrativa né tematica, in quanto i numeri risultano accostati in una “successione paratattica”. L'attore comico, contrariamente al teatro di regia, è solo, solo non esclusivamente durante la rappresentazione ma anche prima, quando inventa il suo repertorio, i suoi costumi, il suo trucco. Egli vive di “auto-tradizione”, si riferisce cioè ad una serie di tradizioni individuali che richiama, riscrive o sovrappone. L'attore scrittore si trova infatti nell'impossibilità “di adottare in maniera esclusiva e completa un solo modello” (ivi, p.158), mettendosi egli stesso in relazione alle tradizioni del teatro attuali e del passato, spesso di matrice popolare, con l'intento di recuperarle reinterpretandole o capovolgendole in senso parodico. L'attore costruisce un intertesto plurilinguistico; lavora sulla sintesi, a volte su piccoli frammenti, in quanto il suo tempo a disposizione è brevissimo. Anche il pubblico viene educato ad una fruizione frammentata e a rapidi cambiamenti, in cui possono verificarsi anche la distrazione, l'intervento diretto, le grida, gli applau- si e la consumazione di qualcosa da bere. Il pubblico è il soggetto su cui viene testata serata dopo serata la bravura dei comici. Il Varietà è espressione della cultura popolare, si verifica anzi complessivamente un rinnovamento dal basso del teatro anche se, dopo l'apice raggiunto intorno agli anni 1910-1920, soprattutto in Italia con l'avvento del fascismo, che favorisce la trasformazione di molti teatri in cinema dove i brevi spettacoli che si tengono sono solo preambolo della proiezione del film, scompare presto dai teatri per esitare dapprima nell'Avanspettacolo, dove perde la carica ironica e critica rispetto a questioni cruciali dell'attualità, e successivamente nella Rivista, puro divertimento e insieme di prosa, musica, ballo, generalmente firmata da attori e critici famosi, ispirata a Operette o altri spettacoli teatrali senza impegno politico o morale, che a sua volta evolverà nella Commedia musicale. Nel teatro di Varietà Petrolini, malgrado il fascismo, non perde la funzione di critica sociale ironizzando proprio sul fascismo stesso nella macchietta di Nerone: entra vestito e truccato da Nerone pedalando su una bicicletta. Petrolini sedicenne, in linea con le compagnie che nel panorama teatrale a cavallo tra i due secoli mettono in scena drammi popolari ispirati alla letteratura Popolare o d'Appendice, inizia con un re- pertorio di drammoni e operette. Queste esperienze pongono le basi della sua formazione non solo attoriale ma anche musicale e canora. Ma le esperienze che maggiormente definiscono la sua personalità artistica sono però: gli spettacoli di piazza Guglielmo Pepe che, a strettissimo contatto con il pubblico, gli permettono di acquisire un'idea di teatro come pratica delle emozioni; la maschera di Pulcinella che, già all'epoca ampiamente rivisitata e contaminata da attori non strettamente napoletani, Petrolini adotta adattandola alle sue caratteristiche e, in linea con la tecnica dell'invenzione libera, dell'infedeltà al testo, del non senso e dei giochi di parole, capovolge, contamina, scompone, denuda e smaschera fino a farla diventare un Pulcinella disperato, sospeso tra il riso e il pianto; il Varietà, le scemenzuole, ossia quella pratica bassa del teatwro che gli permette di inscenare con le sue macchiette la gente disorientata, disperata dalla tragedia della guerra e nutrita di luoghi comuni, fornendogli il sentire e il materiale vivo del suo teatro, non allo scopo di rappresentare il vero, perché è proprio l'idea di un teatro come rappresentazione del vero che egli combatte, ma allo scopo di far emergere ciò che non esisteva prima. Dalle prime esperienze, in cui affina vista e udito, fino ad arrivare all'acquisita capacità di tradurre 13 in emozioni teatrali esperienze e punti di vista, Petrolini ci fornisce e lascia non solo un campionario di espressioni caratteristiche in cui tutti si riconoscono, ma soprattutto un modus operandi tipico dei grandi, la libertà e la capacità di trasgredire. Possiamo indicare Petrolini come rinnovatore teatrale o di costume? C'è chi riconosce esclusivamente l'operazione satirica sulla realtà prodotta da Petrolini, che culmina nella critica del fascismo e di Mussolini effettuata nel suo Nerone, e chi sostiene, come lo scrittore e critico Edoardo Sanguineti che, eliminando ogni riferimento alla realtà, l'operazione principale effettuata da Petrolini con le sue maschere consista soprattutto in un rinnovamento teatrale. Petrolini assume la tradizione di famosi poeti romani, Belli, Pascarella, Trilussa la tradizione teatrale napoletana; Maldacea e le sue macchiette, per arrivare poi, allontanandosi dalla “macchietta” napoletana, alla parodia della macchietta, alla satira sui macchiettisti suoi contemporanei, alla riscrittura parodica del Melodramma italiano, del teatro di prosa Ottocentesco, della canzone romanesca, del Cinema muto, del divismo cinematogra1 P. Pancrazi, Abbaiamenti alla Luna, in “La Voce”, 31 Gennaio, 1916. 2 Piero Pancrazi (Cortona, 1893-Firenze, 1952) Scrittore e critico letterario. 14 fico in genere, del futurismo (Fortunello), della canzone francese, delle canzonette dolciastre dei divi del Cafè concerto (di cui Gastone sarà la più completa espressione), dell'antico mito della romanità (Nerone), e del romanzo popolare. Parte cioè dalla tradizione per arrivare alla sua completa dissoluzione. Certo è che la parodia è sottesa a tutta l'opera di Petrolini: voce, corpo, gesti, costumi, trucco, mimica sono essi stessi parodici, tutti elementi stravolti di un linguaggio proprio della parodia, costruito dalla parodia; elementi antinaturalistici che, nella loro combinazione spesse volte improbabile, sono lì a parodiare ora il cantante aristocratico, ora il “ricercato nel vestire” (GASTONE), ora l'attore del teatro di Varietà. La parodia è cioè una costante nella sua arte, nella sua moderna e straziante comicità, arrivando a comprendere dolorosamente anche se stesso: sono un uom dei più cretini, sono Petrolini (FORTUNELLO). Riferendosi alla sua cretineria come all'ultimo stadio dell'umorismo, quando cioè l'umorismo, il riso, l'ironia si svuotano di contenuto e diventano fini a se stessi, reclinati su se stessi, esercizio vacuo e specchio di una società che vive la “catastrofe del senso” (Pancrazi, 1916)1. Il Pancrazi2 definisce sublime idiozia quell'atteggiamento che mette a nudo l'insensatezza, che è sublime e tragica insieme. Il comico sfocia nell'anticomico, non più in grado di far ridere, espressione di un “grottesco” portato ai suoi estremi. Il linguaggio, sfruttando la struttura libera del Varietà, stravolto nelle sue regole fondamentali, si fa veicolo di questo senso svuotato, diventa catalizzatore di tutta la comicità fino a toccare i vertici del non-sense. Quando parliamo del teatro di Petrolini, decade ogni distinzione tra macchiette e parodie: tutto è parodia. Attraverso lo slittamento, che nella sua accezione consiste nell'uscire “dalle dimensioni della finzione scenica passando per un momento in quella della realtà” arrivando a mostrare ogni cosa e il suo contrario, egli esercita la sua critica nel momento stesso in cui recita, connotando la sua tecnica con il sentimento, cifra della sua grandezza artistica. Questo distingue Petrolini da operazioni strettamente tecniche, come quelle dello straniamento brechtiano. In Petrolini l'uscita a sorpresa dalla dimensione della finzione per passare a quella della realtà è momentanea e proprio per questo efficace. E' il contrasto tra la finzione e la realtà, contrasto suggerito da qualsiasi minimo accidente di teatro, una poltrona che scricchiola, una risata eccessiva, che permette il commento. Al modo falso e manierato di recitare, tipico del teatro colto dei suoi tempi, egli contrappone la verità e la vita. La stessa operazione ritorna in Gigi Proietti che all'occorrenza esce dalla finzione scenica per passare alla realtà, sfruttando qualsiasi occasione o contingenza capiti in sala: in A me gli occhi please, per esempio, nel bel mezzo dello spettacolo coglie l'occasione di un rumore per uscire dal personaggio e commentare la realtà del pubblico apostrofandolo come ritardatario. Tornando a Petrolini dunque, egli sempre si riferisce alla realtà, anche in quelle che potremmo definire esclusivamente parodie teatrali. L'autenticità della vita che prepotentemente si presenta con gli slittamenti è da lui preferita a qualsiasi altra intrusione volgare e oscena, che tanto piacerebbe ad un pubblico poco colto. E proprio nella ricerca dell'autenticità, gli slittamenti risulteranno tanto più efficaci quanto più il personaggio da lui creato sarà autentico, intendendo egli per autenticità una costruzione puntuale ma esagerata e teatrale, costruzione che non coincide più esclusivamente con la realtà ma che è il significato profondo e nascosto di essa. Egli sceglie liberamente dalla realtà una parte, mette sotto la lente d'ingrandimento caratteri umani, categorie morali, stereotipi, perché libero è il teatro di Varietà, stravolge quella parte, la esaspera fino ad arrivare ad una forma di inautenticità costruita e, facendo procedere parallelamente costruzione teatrale e autenticità della sua recitazione, complice il pubblico che garantisce tale operazione di slittamento, entra fino in fondo nella parte, si immedesima con gli aspetti più profondi della realtà e denuncia l'inautenticità attraverso l'autenticità. L'operazione finale che ne risulta riguarda la critica dei miti e degli eroi di tutta la cultura a lui contemporanea, un'operazione volta a denunciare l'intero sistema. I tipi grotteschi di Petrolini sono veri perché “dicono, attraverso la propria finzione, una verità più complessiva sul mondo e sulla storia contemporanea” (Orecchia, 2014, p.164), sono una possibile lettura deformata della realtà che il parodista attua attraverso il linguaggio. I suoi tipi riportano deformati o sintetizzati tratti precipui della realtà osservata. Altro elemento caratteristico del suo teatro e del Varietà in genere è la variazione del testo che egli liberamente opera, inserendo spesso elementi tratti dall'attualità, anche se questi stridono con la realtà effettiva come quando, nella trasposizione cinematografica di Nerone, PETROLINI (entrando in scena in bicicletta) si al pubblico con queste parole: Che c'è da ridere, mai visto un imperatore? Risulta qui chiara l'operazione da lui eseguita: partendo da un elemento dell'attualità arriva a fare una parodia non solo del teatro di costume e del Melodramma, ma anche dei discorsi mussoliniani; anzi siamo di fronte a un insieme di parodie legate insieme e corredate da sberleffi, lazzi e giochi di parole che culminano in un autentico “grottesco” quando Nerone assume l'espressione della paura tipica dei bambini e smette per un attimo di farci sorridere, infondendo in noi solo tenerezza. Ma se in Nerone l'attore-autore assume il personaggio dall'interno fingendo di essere Nerone ed uscendo dal ruolo per parodiare, in Gastone egli fa Gastone mascherato da Gastone (Livio, 1989, p.228), tutta la parte è recitata in maschera, critica gli artisti del Varietà e del Cinema muto, ma soprattutto esercita direttamente la funzione grottesca, parodica e umoristica senza l'intento di far ridere per liberare nel riso ogni affetto, ma allo scopo di indurre il sentimento del contrario, un sen- timento penoso che rimanda a Petrolini stesso. Sintetizzando, tre sono gli elementi che concorrono al suo teatro: la sua diretta esperienza personale, che riversa nel teatro e da cui attinge battute, azioni e canzoni; la cura estrema nella caratterizzazione dei personaggi, realizzata immagazzinando stati d'animo ed espressioni dalla realtà, in modo da poterle rendere riconoscibili al pubblico, che riproduce, tra ironia, satira e critica acerrima, nei giochi di sguardi, espressioni e parole, e nei climi tragicissimi e comici evocati in teatro; la trasgressione: egli si prende gioco del pubblico e di quanto narra, ma trasgredendo la tradizione non fa altro che affermarla e dichiararsi facente parte di essa. Petrolini ha rinnovato a tal punto il teatro che esso non è più rappresentazione del vero ma rappresentazione di ciò che prima non c'era affatto. A parte la stampa specializzata nel Varietà e nella Rivista, dove subito egli ricopre un posto di primo piano, è solo dopo la tournee in Sud America che viene però a gran voce apprezzato ed onorato per la sua bravura e che la critica teatrale ufficiale se ne occupa. Gigi Proietti e il “... Caro Petrolini” E' il 1983 e Proietti, con la collaborazione di Ugo Gregoretti3 mette in scena, in occasione delle manifestazioni indette dall'allora sindaco di Roma Ugo Vetere per il cinquantenario della morte di Ettore Petrolini, uno spettacolo intitolato Caro Petrolini. Insieme iniziano a studiare il personaggio Petrolini e la sua satira ancora attuale e vibrante. Una satira non a imitazione di qualcun altro, ma interamente inventata da lui ed incentrata su un tipo di linguaggio inedito e rinnovato; su un modo di raccontare improvvisato e orientato dal suono delle parole, che per via analogica lo portano ben al di là del punto di attacco; un modo che Proietti ha già sperimentato in A me gli occhi please. Intorno a Petrolini Gregoretti inventa uno spettacolo bellissimo organizzato in due tempi: seleziona delle macchiette e delle canzoni per la prima parte e taglia sapientemente tre commedie, Romani de Roma, Benedetto fra le donne e Il padiglione delle meraviglie, montandole l'una dentro l'altra per la seconda parte. Il risultato finale, dopo numerosi rimaneggia- 3 Ugo Gregoretti: (Roma, 1930) Regista, attore, giornalista, drammaturgo e intellettuale. 15 menti elaborati insieme a Proietti, è un testo piacevolissimo e particolare che viene portato in scena con successo al teatro Stabile di Roma e successivamente in altri teatri. In questo spettacolo Proietti sfrutta tutto il vastissimo repertorio di volti, maschere e luoghi non solo dell'esperienza teatrale petroliniana ma di tutta la tradizione culturale italiana, come per esempio la tradizione della “piazzetta” come luogo deputato alla rappresentazione di narrazioni farsesche incentrate sui mestieri svolti all'aperto, cosa che possiamo apprezzare nel II atto quando il nostro artista impersona il calzolaio Archimede, un po' bevitore un po' filosofo, che sproloquia senza freni. Lo spettacolo così montato non si discosta molto da quello originale di Petrolini, ancora attuale e funzionale, e ricrea, nell'intenzione dei due autori, lo stesso 16 clima e soprattutto lo stesso afflato con il pubblico in sala, nell'intento di ridare al nuovo pubblico le stesse immagini e le stesse sensazioni di allora. PROIETTI inizia (rivolgendo in “romanesco” al pubblico l'invito a partecipare a una manifestazione culturale in onore del grande Petrolini): la mostra io me la vado a vede'. Si succedono, alternate e accompagnate da musiche originali di Petrolini, una serie di “macchiette”, parodie, situazioni che ricalcano in modo preciso, o in qualche modo ricordano, le macchiette, le parodie e le situazioni teatrali create da Petrolini. Sin dall'inizio il pubblico è avvertito del fatto che verranno riprodotti pezzi famosi di Petrolini: subito Proietti assume un'andatura marionettistica che lo ricorda in vivo. Durante lo spettacolo si susseguono le tante e famose pa- rodie di Petrolini, Cyrano de Bergerac, Paggio Fernando, Amleto, parodie degli attori affettati e manierati e del Melodramma, del Faust per esempio, infarcite con giochi di parole, espressioni mimiche, commenti con il pubblico, slittamenti, frasi in dialetto, gorgheggiamenti, tutti elementi tipici del Varietà, che egli fa suoi e ripropone in diverse combinazioni. Rilevanti le due macchiette petroliniane, Fortunello e Gastone, che riproduce in un modo che permette non solo di ritrovare l'impronta del teatro “grottesco” di Petrolini, ma anche la sua personale interpretazione di quel teatro, nella quale rintracciare il suo deferente tributo. In Fortunello il testo rimane invariato ma cambia il ritmo che a tratti, a differenza di quanto avveniva con Petrolini che recitava Fortunello in un modo talmente lento che il pubblico poteva cogliere ogni singola parola, si fa talmente veloce e incalzante da far quasi perdere il filo del discorso, come a sottolineare che si tratta di una citazione e non di una pedissequa riproduzione. Gastone soprattutto merita un commento più articolato. Gastone, come già lo era stata per Petrolini, è la caricatura dell'attore del Varietà che si atteggia ad attore ricercato. Interpreta tale “macchietta” camminando in modo “marionettistico”. Malgrado il costume utilizzato per Gastone sia identico nei due autori, anche se Proietti a differenza di Petrolini si veste in scena per sottolineare il passaggio a questa importante e famosissima macchietta, in Proietti la “macchietta” assume contorni ancor più accentuati: la mimica facciale si fa più intensa, a dispetto del trucco che invece sparisce; gli occhi e la bocca non restano fissi come nell'originale; modifica alcune parti del testo reinterpretandole e modificandole in chiave moderna; toglie e aggiunge battute per rendere ancora più divertente la macchietta; gioca con i nomi delle donne, gioco non presente nell'originale di Petrolini: gemma ama la mia flemma, dice PROIETTI (rivolgendosi al pubblico); accelera il ritmo; smussa la tristezza; dinamicizza il corpo; taglia una parte del testo per renderlo più fruibile; aggiunge scenografia, per esempio un attaccapanni da cui prende il costume di Gastone che indossa in scena. Segue la proiezione di una pellicola di un film muto e subito dopo un pezzo simil-drammatico pieno di doppi sensi erotici e comicità quasi clownesca: me dispiace der fazzoletto che nun è mio ma è de batista, recita PROIETTI. Si tratta de L'amor mio non muore, un pezzo originale di Petrolini, un film muto riproposto con una musica melodrammatica come sottofondo. Segue la “macchietta” Nerone, molto simile a quella di Petrolini, a parte il pezzo in cui l'imperatore gioca a morra, ma che a ben guardare se ne differenzia in molti aspetti. Intanto Proietti accorcia il testo, recitando dell'originale solo le battute più significative e divertenti: il suo intento è omaggiare Petrolini, non farne una copia che per l'odierno pubblico potrebbe risultare pesante e noiosa. La ricca scenografia della macchietta di Petrolini si riduce a un'immagine di Petrolini stesso vestito da Nerone. Si tratta di un altro pezzo tipicamente “grottesco”, ma, se il costume e il trucco in Petrolini sono curati nel dettaglio per ricordare l'antica Roma, e di rimando il potere fascista, in Proietti spariscono le gote rosse e il nasone a patata e il personaggio risulta meno caricaturale: basta il suo normale vestito, una tunica rosso porpora che lo copre e la corona d'alloro in testa per creare Nerone. Come già detto per Gastone, il ritmo in Proietti si fa più veloce e il linguaggio più incline al dialetto “romanesco”. Segue il pezzo tipicamente “grottesco” della parodia de Il Piacere di D'Annunzio, in cui Proietti fa la caricatura di Andrea Sperelli, protagonista appunto dell'opera menzionata, e tra atteggiamento compassato e risa del pubblico, divagazioni e battute, canta la Canzone delle cose morte di Petrolini. In questo spettacolo Proietti ha quindi incarnato tutti gli stilemi recitativi di Petrolini, addirittura superandoli: giochi di parole che si susseguono fino ad allontanare, come in Petrolini, il senso e il suono dalla parola di partenza, come variazioni dalla sua autotradizione; alternanza di macchiette, parodie, caricature e pezzi di recitazione aulica, nella quale, pur mantenendo nel verbale l'aulicità, il contenuto risulta degradato a puro dato di realtà (per esempio quando in modo solenne e altisonante parla di piedi); linguaggi multipli, dall'italiano ai vari dialetti, al “romanesco” so- prattutto; gestualità e mimica come in Petrolini, quando addirittura più accentuate; camminata “marionettistica”; canzoni, stornelli; pezzi di meta-teatro in cui scivola dalla riflessione seria sul teatro alla parodia della stessa riflessione; slittamenti; tableaux vivant come quando, prima della parodia di Amleto, in disparte rispetto agli altri attori, presenta la scena come fosse un quadro fisso e immutabile. Più si va avanti nello spettacolo più i pezzi risultano un po' meno petroliniani e sempre più tipicamente suoi, con maggiore presenza di dialetto, richiami al romanesco e numerosi doppi sensi. La scena è soprattutto occupata da personaggi come il calzolaio Archimede, che torna quindi nel II atto alternandosi alle apparizioni di Benedetto, figura tipica del borghese recitato anche da Petrolini. Arriva nel finale il richiamo agli stilemi tipici del Café concerto, del Varietà e della Rivista: lo spettacolo finisce con una sua dichiarazione aperta diretta al pubblico in cui è lui stesso a spiegare i tanti finali possibili. Uno dei tanti finali potrebbe essere quello lieto: ed infatti balla insieme a un'attrice accompagnato da una musica lieve fingendo allegria. Come lui stesso afferma, questo finale tra il patetico e il drammatico potrebbe non soddisfare il pubblico, quindi passa al secondo finale, quello tipico da Caffè concerto, dove tutti gli attori ballano insieme muovendosi in modo meccanico, con battute tipo botta e risposta e un siparietto finale cantato e ballato da lui, l'attrice e l'attore di spalla. Dopo aver solo accennato, senza ulteriori spiegazioni, i finali terzo e quarto, arriva finalmente al finale maggiormente in stile petroliniano, il più indicato non solo per omaggiare il maestro ma anche per rimanere in linea con la sua recitazione e i temi proposti: è qui che si dichiara apertamente ispirato a Petrolini. Si tratta di un finale corale con tutti gli attori presenti sulla scena, attori che si producono in un serrato dialogo che alla fine lascia il posto a una canzone dedicata espressamente a Petrolini. 17 Il teatro dell’imprevisto La vita degna di Dario Buzzolan Fabio Pierangeli Seguo fin dall'esordio del 1999 la narrativa di Dario Buzzolan. In questi vent'anni, insieme alla pregevole collaborazione con i programmi di RAI TRE e l’impegno di recensore e saggistica cinematografico, lo scrittore torinese ma da tempo romano di adozione, ha collezionato otto romanzi, pubblicati con diversi, sempre di livello nazionale, da Mursia a Baldini & Castoldi, da Fandango a Manni. Gli ultimi due romanzi, intensi e molto ben riusciti, Malapianta (Baldini&Castoldi, 2016) e La vita degna (Manni, 2018) ne confermano le principali doti. Ad livello stilistico generale innanzitutto sottolineo una rara capacità camaleontica di variare ambienti e personaggi in modo radicale, con una sostanziale fedeltà a nuclei tematici ritornanti e l'abilità strutturale, sostenuta da una scrittura incalzante, verticale, sia a livello della trama che della psicologia dei personaggi. Tra i motivi ritornanti la passione per il cinema e per il teatro che non resta elemento di cornice o relativo ad hobby dei personaggi, ma si ripercuote profondamente sull’ordito della narrazione. Del primo accoglie la velocità del montaggio, del secondo la studiata caratterizzazione, lo studio del rapporto tra le idee e le azioni fisiche, la cinetica e il pensiero. Velocità e verticalità si fondono in modo direi unico nel ricco e cangiante panorama della narrativa di oggi. Emerge, nel caso dei due ultimi libri, in filigrana, anche un’altra caratteristica fondante della ispirazione di Buzzolan: la preparazione filosofica, la volontà di presentare al lettore le domande più sentite della agire umano di fronte ad una realtà, quella contemporanea, mutevole e complessa. Senza appesantire la trama, descrivendo il pensiero in atto, nello scontro tra l’effimero e la teoria, il dovere o l’incoscienza di agire di fronte a impulsi e 18 istinti inoculati da altri, compresi le false autorità dei mass media. Tutte storie di oggi quelli di Buzzolan, con un passato che emerge a volte, prepotente come in I nostri occhi sporchi di terra la Resistenza o dalla storia del cinema muto in Tutto brucia non per rimanere relegato nelle retrovie ma per influenzare il presente. I richiami alla tragedia greca, con le sue forti e inaspettate agnizioni, sono abilmente nascosti sottotraccia, ma restano modelli duraturi, dove cadono quelle domande radicali che il presente innesta. Stilemi ritornanti suggestivi fondano la caratteristica visività l'elogio del guardare come azione primaria di conoscenza alla condizione che si resti capace di meravigliarsi di aprirsi agli imprevisti. In questa ottica, la ricerca del candore ha il suo centro poetico in quel bellissimo libro per bambini e per grandi, Favola dei due che divennero uno, suggestiva e moderna ripresa del Visconte dimezzato di Italo Calvino, autore presente nell’immaginario di Buzzolan. Nella durissima storia, con una ascesa redentiva a sorpresa, di Malapianta, tutto sembrerebbe cospirare a tacere quel candore dell'adolescenza. Eppure, ci sembra indicare l'autore, sempre “dall'altra parte degli occhi” , non è possibile eliminare del tutto una visione creaturale: essa riemerge sempre, in qualche modo; sta al singolo dargli spazio, non ricacciarla via. Decisivi, con tutta evidenza, sono anche gli incontri che capitano e che possono dilatare il palpito del cuore o relegarlo in una zona morta, di una vita non vita, come accade nel recente La vita degna. Il percorso di Leonardo Bolina, nato il 12 ottobre 1954, e pensionato in anticipo grazie allo “scivolo” conduce alla scelta decisiva tra due opposte visioni della vita: l'annullamento totale, con l'idea del suicidio; oppure riabbracciare le occasioni di creaturalità che si presentano in modo imprevisto, dopo tanti fallimenti, per Leonardo diventare il regista improvvisato ma acuto di alcuni ragazzini per il loro saggio finale. L'uomo maturo si dimostra capace di accompagnare la fantasia senza regole di questi attori dilettanti ma pieni di estro e passione. Cosa sceglie Leonardo tra queste due strade opposte? Lo lasciamo ai lettori incitandoli convintamente alla lettura di questo romanzo, tra i più belli usciti in questa prima parte del 2018. Nella sapiente scrittura, ancora una volta, il cinema e il teatro convergono nella particolare partitura del montaggio strutturale che forma la prima parte del libro: Compendio della vita di Leonardo Bolina in dodici foto mai scattate. In dodici istantanee, argutamente, specificando che si tratta di scatti mai veramente eseguiti, lasciati dunque alla libertà di ricostruzione dell’autore, all’autonomia della scrittore nel campo amorevole del verisimile, imitando il meccanismo baluginante dei ricordi, Buzzolan ricostruisce la vita di Leonardo. Tappe fondamentali, fino al pensionamento, con la prima importante storia con Adele maturata in palcoscenico, il matrimonio, con Giulia, i due figli Matteo e Maddalena e soprattutto il teatro, con lo strepitoso successo, fermo ad un primo fortunato testo e in seguito mai più ripetuto, lasciando Leonardo nel dubbio di quale sia la sua autentica vocazione. Poi la scelta di impiegarsi, per venti lunghi anni, allo sportello giovani, da semplice funzionario a direttore. Non era riuscito, dopo il primo clamoroso successo, a trovare un produttore per un altro suo testo, Il lungo viaggio verso dove, prima di abbandonare ogni velleità di regista e drammaturgo. 19 Effettivamente non sappiamo mai dove il viaggio ci spinga. Specie nel campo della creatività. Una traccia autobiografica muove certamente il personaggio di Leonardo per chi, come Buzzolan ha con successo messo in scena un testo teatrale e deve averne altri nel cassetto. La nostalgia del teatro è una forte saudade: si ha la necessità di tornare sulla scena. Lo stesso autore, in una intervista alla Rai, dice di essere partito proprio dall’interesse del personaggio dal quale ha preso forma la narrazione e ancora si chiede se è un predestinato (la grande promessa della drammaturgia italiana) o un condannato, all’insuccesso, ad una vita normale, alla delusione di quello che sentiva come urgente vocazione. La felicità, si chiede con molta intelligenza l’autore, è veramente far coincidere i nostri desideri con il conseguimento degli stessi? Non sarà proprio nella deviazione, nell’imprevisto che acquistiamo coscienza del nostro destino? Intanto, Leonardo pensa, dopo tutti questi anni, di dover appaga- 20 re il desiderio della sua antica vocazione. Contro il parere della famiglia, con uno scontro fortissimo con Giulia e Matteo, con la comprensione della sola Maddalena, Leonardo investe la liquidazione, con il suo vecchio produttore Max per mettere in scena Il lungo viaggio verso dove. Dal contrasto tra un'arte vitale, prorompente, ingabbiata in meccanismi concreti, parte l'avventura esaltante (solo per qualche giorno) di Leonardo. Per Max, viceversa, in tutti quegli anni, il teatro è diventato un mestiere, con il quale ha fatto soldi, in qualche modo snaturandolo immettendosi trovate, attori, impresari del mondo commerciale e televisivo. Buzzolan, come suo carattere precipuo, sfiora sempre la soluzione più facile e quando ci sta arrivando, devia sempre da un'altra parte. Ecco che la felicità si allontana, per rendersi forse più concreta e inaspettata, o per rendersi invisibile. Così Leonardo verrà a sapere che la bravissima e giovane attrice che crede nel suo testo, Lis, è la figlia di Adele e con lei è destinata a reincontrarsi. Il lungo viaggio degli imprevisti non condurrà a quel porto, ad una nuova relazione tra il protagonista e la sua prima fiamma. La realtà è sempre più ampia delle previsioni dopo il fallito esito dell'impresa teatrale, Leonardo ragiona sulla sua stessa vocazione, scacciato di casa dalla famiglia. In uno dei dialoghi più drammatici con Adele discute sulla inconciliabilità fra vita pratica e desiderio artistico. Responsabilità economiche rispetto alla famiglia e compimento di un progetto artistico in una società materialista sembrano inconciliabili. Lo stesso drammaturgo è costretto a pensare in termini di danaro. Lei alzò gli occhi al cielo, stizzita. «Che ci faccio. Come lo sfrutto. Che me ne viene in tasca. Ti rendi conto che non sai pensare ad altro che a cose pratiche?» «Adele, forse non mi sono spiegato. Io non ho più un quattrino, non so dove andare a sbattere. In quella cosa ho buttato la mia vita. Liquidazione, famiglia...» «E questo ce lo siamo già detto...fammi pensare: un milione di volte?» «Anche un miliardo. Perché è quello che è successo. Allora, di fronte a una specie di bomba atomica che ha raso al suolo tutto il mondo, voglio dire il mio mondo, quanto credi possa contare la consapevolezza di aver fatto un buon lavoro? Vale la pena sacrificare tutto a un buon lavoro?» «Perché no?» «No Adele, non è come tagliarsi i capelli. Ma sì, perché no, tanto ricrescono. Mia moglie non mi parla più, i miei figli nemmeno. Persi per sempre. Non ho più una casa e non ho più soldi. Chi se ne frega del buon lavoro. E comunque manco lo so se era un buon lavoro. Quello che penso io non è oro colato.» In un fecondo scambio di opinioni con il sottoscritto lo stesso autore, immagina il romanzo composto di due parti: “prima parte il teatro propriamente detto; nella seconda il teatro della vita”. Entrambi, però, teatro della vita e vita del teatro, convergono su una coscienza suprema, ridesta- ta ancora una volta dall'abbraccio del candore dei ragazzini con il risvegliarsi dello stupore in alcuni momenti dell'esistenza dei grandi. Uscire da se stessi e giocare fra vicini con gli altri. Come in teatro. Come nella vita. «A tutti, nessuno escluso, Leonardo avrebbe detto che non si era rifugiato lì, alla Catapecchia, per scappare, né soltanto per contemplare o per non fare nulla; al contrario, il suo era un compito cruciale. A tutti, nessuno escluso, avrebbe parlato di un Elenco di persone e di un suo impegno solenne: sarebbe diventato, ogni giorno, uno di loro. Sarebbe uscito da se stesso – finalmente aveva afferrato il vero senso di quella spinta che lo aveva accompagnato da sempre – e sarebbe entrato di volta in volta nelle persone che si era giocato; avrebbe camminato per ore, per giorni, per chilometri, guardando le cose e il cielo e la terra con i loro occhi e pensando con la loro testa e parlando con le loro parole muovendosi con i loro corpi e standosene disciplinatamente nei loro contorni. Si sarebbe impegnato a essere loro. Se la parla redenzione aveva un senso, non poteva essere che quello. Non aveva altro compito, avrebbe detto e ripetuto a ciascuno dei visitatori: stare lì, in alto, e abbandonarsi ogni giorno: allenarsi per quando lei, la sua compagna, avesse trovato la strada per raggiungere anche quel luogo, l'unico dove non l'aveva mai scorta al tempo della loro convivenza forzata. Lo avrebbero preso per pazzo, sicuramente. Ma era mai stato altrimenti?». Un romanzo di formazione tardiva, dice ancora nelle stessa intervista Buzzolan. Essere altro, sembra la sintesi di quella dimensione della vita come insieme di false piste, indotte dalla propria negligenza o dal caso, che possono formare un disegno non previsto all’inizio ma capace di renderti magari non felice ma consapevole. Ancora una volta, il teatro, finzione nella finzione romanzesca, afferma verità non ovvie, che parlano all’uomo di oggi e all’uomo di sempre. 21 Amori, viaggi, diavoli: Colombati e Maurensig Marco Camerini “Estate”: Il 1980 di Leonardo Colombati Precipita in un presente assorto e alienato, scandito da gran parte delle patologie elencate nel bugiardino del Serotax (o della Paroxetina?...indifferente, come le varianti dei distillati) l’esistenza di Jacopo D’Alverno, voce narrante complice del lettore (vi si rivolge spesso) e quarantenne protagonista di Estate (Mondadori, 2017). Narcisista, altezzoso, pigro e viziato proprietario di un lussuoso Relais anni ’70 nascosto fra buganvillee, orti di rosmarino e boschi di pini e lecci, a strapiombo sul mare di un Argentario mai esplicitamente nominato – edenico “non luogo” ben riconoscibile dai nomi esotici e minacciosi di calette e dirupi, dai borghi d’epoca fascista e i porticcioli con i cabinati dei “romani” (polo Ralph Lauren d’ordinanza) – dopo una “vita felice” hemingwayanamente breve si trova, come può e sa farlo un egoista afflitto da immaturità cronica, a tracciare un bilancio delle proprie paure/incapacità (coincidono): di volare come di tollerare un futuro da separato fatto di cibi precotti o di scrutare con sincerità dentro se stesso, almeno una volta. Impossibile più esorcizzarle a forza di fantastiche proiezioni autogratificanti e oblomoviani sogni eroici, scorciatoie canoniche di chi “trova l’umanità deludente, preferendo la compagnia dei divi del cinema o degli assi dello sport” e se deve proiettarsi in una vita di coppia scomoda S Tracy e A. Hepburn o (peggio) Alvy/Allen e Annie. Ad imporre la verifica, possibilmente senza barare, l’incendio dell’Hotel di famiglia dal nome suggestivo (colta crasi letterario-musicale spiegata nella nota finale, p. 257), da tempo in declino, a corto di stelle sulle guide che contano e di amenità a base di astice e champagne per il jet set internazionale: rimangono ombrelloni intaccati dalla ruggine, divise mal stirate, sbornie, analgesici, bagni di sole per bassisti di gruppi brit-pop, impresentabili arricchiti grossier, industriali con amante slovena al seguito, attrici, attriciescort…solo escort. Improvvisamente, poco prima del tempo della scrittura (2012), “un’aria sbagliata, 22 acre e pungente”, l’indecisione di chi non sa gestire nemmeno se stesso, una grave responsabilità verso la moglie Eleonora che gli costa il matrimonio e l’immagine di una bambina dal mitico nome che sorride e disegna i ricordi prima di divenire lei stessa uno dei più strazianti, non immagine reale ma ossessivo fantasma destinato a riflettersi in altre epifanie colpevoli del medesimo archetipo infantile: Galatea come la cugina Francesca e la figlia Sofia. Poi solo i creditori, il commercialista, l’avvocato, lo zio squalo in cerca di rivincite sociali e il sospetto, per Jacopo, di non aver mai amato veramente nessuno. Anaffettivo per eccesso d’amore verso le tante figure femminili (Estate è un libro di donne) cui vengono riservati i profili più intriganti e felici: la nonna, “principessa trasognata dal lungo collo” amante dei fiori (anche, forse soprattutto, secchi), la madre, regina superstite di un regno in disfacimento e despota assai meno illuminata della sua esistenza, Eleonora – occhi blu, slanciata, previdente, concreta, umorale…scontata forse, amata certamente – la sorella Alexandra, determinata e coraggiosa, fiera e fantasiosa complice di un’adolescenza spensierata (agriturismo bio, ma suona Chopin) e, infine, Astrid. Giornalista, capelli biondo cenere, occhi nocciola, intelligen- za maschile, rigorosa e schietta, amore dei 15 anni afflitta da latente complesso di Elettra per un padre troppo perfetto e severo. Con lei il viaggio in Norvegia per sfuggire all’angoscia/sconfitta della separazione ed assistere al processo intentato al terrorista Breivik, responsabile il 22 luglio 2011 della strage di 77 persone nel paese “dai cento verdi diversi e dal cielo troppo azzurro”, un filo rosso che percorre l’intero intreccio e, a nostro avviso, non si integra perfettamente con le sue costanti di fondo né, crediamo, riesce ad assumere particolari valenze simbolico/identificative. “Queste donne sono la mia vita. E la consapevolezza dell’impossibilità di amarle ognuno come vorrei (come dovrei) è l’unica forma d’amore che sento di poter riconoscere” (p. 254). Incapace, per sua stessa ammissione, di amare chiunque, D’Alverno, tranne.…il Passato, di cui l’albergo è solo uno degli emblemi/feticcio: faustianamente (edipicamente?) difficile da abbandonare, coincide con quello di Colombati (classe 1970) – di cinque anni più giovane del personaggio (1965), suo (in)consapevole doppio – e, cifra identificativa dell’intera produzione narrativa successiva a Perceber, alimenta il proustiano recupero di un’epoca intensamente vissuta e mai veramente rimossa attraverso l’appas- sionata rievocazione delle sue icone filmiche, musicali, di costume. Se in 1960 era evidentemente stato necessario un meticoloso, encomiabile apparato di riferimenti/ citazioni/fonti storico-documentali per ricostruire un periodo altrettanto mitizzato ma non anagraficamente attraversato,1 gli anni ’80 vengono, in Estate, riecheggiati e descritti con la partecipazione di chi, pur giovanissimo, ne ha fatto diretta esperienza. Così – attraverso il filtro di un raffinato gioco memoriale nel quale svolgono un ruolo essenziale lettere (sincere o fasulle non importa), quaderni di scuola (biro blu e “guizzi romantici derubati alle antologie”), foto (bruciate, sfuocate, comunque salvate e salvifiche nella temibile lotta contro il Tempo), vecchie case di famiglia dalle massicce porte tarlate, l’infanzia dei giochi in cantine “ricolme di cianfrusaglie e animali impagliati, paure e segreti” – eccola la Roma bene con i suoi locali, il Jackie’O e il Tartarughino, il Much More e le terribili “pennette alla vodka”, gli occhiali a specchio (più terribili delle pennette) e il Galestro “capsula blu (o era viola?)”, l’Albos di Fregene “perché solo lì fanno gli spaghetti con le telline”, il calcetto over ’40 e le feste private nelle palazzine A, B, E delle tante Via Nemea, con i tappeti Zinouzi e i genitori che compaiono all’improvvi- 1 E non è il solo omaggio agli anni ’60 la descrizione del corteggiamento di Eleonora nel capannone di Cinecittà con il Cristo della Dolce vita (pp. 136-138). 23 so per salutare gli amici dei figli con i quali amano pateticamente competere (Cecchetti, il padre di Astrid, è un carattere molto riuscito in questo senso). Eccola la musica degli Eagles e degli Imagination, di Ch. Cross e, inevitabilmente, di Bruce Sprigsteen per il quale ci limitiamo a confessare il sospetto che Kari, la sorella di Astrid, sia stata creata letterariamente dall’autore al solo fine di potersi accanire contro quanti non venerano il Boss: potere della Letteratura, sfizio consentito e concesso a chi, come lui, può contare sul consenso di pubblico e critica. Ancora il cinema di W. Matthau e J. Nicholson (rigorosamente nelle sale: fantascienza i DVD rimasterizzati e gli schermi giganti al plasma), grandi come le Speranze, Lebowski e la fuga di S. McQueen o il tennis, sport di riferimento del protagonista che palleggia con attempati, improbabili maestri forse classificati di circoli pretenziosi e sonnolenti (mica è sempre Foro Italico) e stravede per l’Agassi di B. Shields, McEnroe, Connors, fra Dunlop in legno da modernariato, avveniristiche racchette tubolari e cemento blu come la laguna in cui nuotava la rivale sentimentale di Steffi Graf. Agli “amati e dorati” anni ’80 subentreranno i ’90, contrabbandati come un “ritorno alla purezza e alla pace”, mentre si impongono l’etnico e lo street-fashion, il grunge e il vintage, l’ecologismo New Age della Generazione X e le facili illusioni della New Economy: alla fine un Boeing 767 s’infilerà nella Torre Nord del World Trade Center, in una sequenza epocale inizialmente scambiata dai più per il fotogramma di un film catastrofico assai ben girato. Quanto accadrà a Jacopo D’Alverno lo lasciamo alla curiosità dei lettori, che si troveranno coinvolti in un plot narrativo emotivamente coinvolgente e tecnicamente impeccabile, anche per la sapiente alternanza di piani temporali. Comunque, pur con il sostegno di alcuni cocktail, si qualificherà ad un certo momento scrittore. Mentendo, certo… Maurensig, il diavolo e (ancora) Calvino Insomma, per l’autore della Variante di Luneburg il Diavolo (magari) nel cassetto (Einaudi, 2018) esiste. Nessun pittoresco e convenzionale armamentario, datate cortine di zolfo e risibili rituali: si incarna, creato a nostra immagine e somiglianza, nella quotidianità. Figlio abbandonato di coppie “pie e morigerate”, proverbialmente povero o erede di famiglie blasonate, sin da piccolo mente a oltranza ed è crudele verso gli animali (dissezione sadica e gratuita, non gioco infantile…comunque il “maligno” Rosso verghiano “uccideva lucertole e bestie che non gli avevano fatto nulla”). Crescendo ritorce i pensieri contro la persona che li ha formulati, trascina tutti in una “ridda di odio, orgoglio, esaltazione e dolore”, manifesta natura istrionesca che si traduce in “riso sgangherato e gesto teatrale” mentre, in genere, i suoi tratti fisici dominanti sono costituiti da “capelli tinti [di nero, ovviamente], labbra purpuree e affilate, incisivi grossi, voce rotonda, impostata, senza asperità”: qui sì cadiamo un po’ nello stereotipo, ma le tradizioni – popolari e iconografiche – vanno in qualche modo onorate. Venuti meno i sontuosi, scenografici palcoscenici romantici (per non parlare di quelli medioevali), in tempi di hi tech e indici finanziari quale luogo migliore per attecchire e diffondersi della società letteraria, autoreferenziale, vanagloriosa, invidiosa, in cui si esercita la più sfrenata e grottesca delle competizioni per imporre la verità e “cucinare a fuoco lento”, come onnipotenti cuochi, le proprie idee, gelosi come sono gli scrittori delle loro ricette e disposti a vendere la propria anima (Satana è un acquirente formidabile) con lo scopo di soddisfare “un’orda di crapuloni-lettori dal palato troppo spesso assai poco fine”? Mentre si intensificano i bilanci provvisori sulla funzione attuale del romanzo in Italia,2 Il diavolo nel cassetto si presenta anzitutto come una divertente e divertita parodia sulla sterminata galassia dell’odierna produzione narrativa, dislocata dallo scrittore – alla fine fuori dal tempo (una sola indicazione, ’91… troppo poco) – a Dichtersruhe, “non luogo” apparentemente 2 Basterà qui citare l’esaustiva, stimolante analisi/inchiesta di G. Simonetti La letteratura circostante, comparsa sul “Sole 24 ore” nei mesi di luglio-ottobre 2017, e il dibattito in corso sulle pagine dell’”Espresso” avviato da W. Goldkorn nel numero 13, 2018, con gli ultimi interventi di R. Milone e A. Garlini (nn. 14 e 15, 2018). 24 edenico di un Cantone svizzero. Qui tutti – dal norcino al fornaio, dal borgomastro al consigliere comunale sino al parroco dal manzoniano nome Cristoforo – scrivono, nel ricordo di un memorabile e mai accertato soggiorno di Goethe (scrittore caro al Demonio): lo fanno con sincerità, candore, latenti ambizioni e scarsissimi esiti, se si esclude il riconoscimento conseguito da Marta che, figlia menomata di un parto difficile, “guarda gli uomini con implacabile stupore” (una prerogativa del vero scrittore per Maurensig? sarebbe in ottima compagnia) e dipinge con i colori dell’Anima e della Poesia. E all’ironico, nemmeno troppo mascherato, appello non manca proprio nulla e nessuno: dai sermoni tenuti in chiesa dal giovane vice-Parroco, parodia delle scuole di scrittura creativa tanto in voga, ai caratteri/ vizi/vezzi dell’attuale narrativa militante (“più alto è il numero delle persone che si dedicano a questa attività, più essa decade. Frustrante la paura dell’indifferenza […] bisogna mostrarsi, far circolare il proprio nome e la propria immagine, la parola scritta è il mezzo ideale per coltivare la folle speranza di imprimersi sulla lastra metafisica dell’universo”), dalla frenesia dei premi letterari (l’esclusione da quello indetto nel paese provoca ritorsioni violente e parossistiche degne delle pagine di Cecità di Saramago), alla figura centrale dell’editore, il cui ruolo spetta di diritto a Lucifero in persona che si materializza per soddisfare le aspirazioni di ciascuno. Il Prezzo è alto e, del resto, ben noto. Divertissement colto e raffinato – con rimandi godibilmente retrò alla letteratura gotica tardo-romantica e al fantastico di Von Chamisso, Hoffmann, l’ultimo Schitzler del Diario di Redegonda – ma insieme apologo pungente e attualissimo, il libro si avvale di una intrigante struttura metatestuale che sembra consentire a Maurensig di prendere ulteriormente le distanze da quello che è anche il suo ambiente. Così, in un incipit calviniano privo di coordinate spaziotemporali, la voce narrante di un affermato e indefinito romanziere, narratore di I grado e probabile doppio dell’autore reale, con un tono sospeso fra nostalgia memoriale e il paternalismo un po’ supponente di chi dispensa consigli a giovani talenti – più J. London che Čechov, comunque – 3 riscopre un manoscritto, Il diavolo nel cassetto, di autore anonimo cui attribuisce lui stesso il nome Friederich, riportandone fedelmente interi passi, riassumendone altri e introducendo così un narratore di II grado dai connotati più dettagliati e realistici: un appassionato di letteratura, ovviamente. Che questo si riveli poi il resoconto della confessione di un sacerdote moltiplica i livelli della narrazione, per la gioia dei semiologi strutturalisti: noi, giunti al III grado, smettiamo di tenerne il conto anche perché nel racconto di Padre Cornelius compare il suo diario…può bastare. In ogni caso il romanzo non è esclusivamente un excursus parodistico sulla nostrana Repubblica della Lettere, ma una riflessione sul senso di colpa mai rimosso che sopravvive nell’inconscio collettivo per il male commesso, anche da “insospettabili” (Friederich incontra padre Cornelius ad un convegno su Jung): il diavolo pare saperlo assai bene e, con un sorprendente coup de theatre conclusivo, gioca tutte le sue carte finendo con l’accattivarsi la simpatia, se non il consenso, del lettore. 3 Pronto soccorso per scrittori esordienti di London e 99 consigli di scrittura di Čechov sono entrambi pubblicati nella collana “Filigrane” della Minimum fax, dedicata a fondamentali testi programmatici sulle tecniche e l’arte della scrittura. 25 La consolazione della sera di Sabino Caronia Giorgio Taffon Sul finire dello scorso anno, 2017, l’editore Schena ha fatto uscire con pieno merito il volumetto di Sabino Caronia, La consolazione della sera. Volumetto lo scrivo per il numero delle pagine, 123, non molte, ma il libro, per la qualità della scrittura, per le soluzioni immaginative, per diversi tocchi stilistici di godibile fattura, il libro merita un’attenzione particolare. Mi metto ipoteticamente dalla parte dell’autore (siamo della stessa età, formazione culturale molto simile, ambiente di vita pure), chiedendomi: come intrecciare i fili di un testo, di una tessitura, creando un mélange coerente e formalmente giustificato di pagine d’impronta saggistica, di passaggi diaristici, di intuizioni poetiche? E mi rispondo che il modo di procedere nella costruzione del testo di Sabino Caronia è valido ed esemplare. E uso il termine costruzione non a caso, essendo la parola una parola chiave di uno dei protagonisti assoluti di La consolazione della sera, cioè Kafka, che sentiva la necessità assoluta di “costruire”, nella vita e nella scrittura. Dunque, la sera può portare consolazione, ci dice l’autore fin dal titolo, e va da sé che il complemento di specificazione non può non avere connotazioni metaforiche: la sera è la sera della vita dell’io narrante, poeticante, scri- 26 vente; magari solo immaginata, a ben considerare l’età anagrafica; ma è anche indicazione di un momento che nella biografia dell’autore è stato a volte magico, sospeso, denso, non cronologizzabile. E, inoltre, il trascorrere del tempo cronologico comporta esperienze, belle e brutte, esaltanti e deprimenti, di vita, di conoscenze, di incontri: se Kafka è stato un incontro in forma di libri e pagine lette, un altro personaggio ha costituito un rapporto vitale assai corroborante la mente e lo spirito del nostro autore: qui si parla di Italo Alighiero Chiusano, scrittore, drammaturgo e studioso germanista di gran valore, scomparso prematuramente nel 1995. Se Kafka viene considerato da Caronia il suo “alter ego”, Chiusano è il suo “padre spirituale”. Ne consegue che per la triade comune è, di nuovo, la “consolazione” della scrittura, che “mantiene comunque viva in noi la meraviglia della vita”. Forse in Caronia si declina intelligentemente in un certo modo uno dei paradigmi pirandelliani: la vita o si vive o si scrive. Per cui, nel tramonto biologico dell’esistenza, forse la scrittura, se ancora abbiamo vivo in noi il senso poetico del vivere, può offrire a sua volta una forma anche appena delibata di felicità: “Certo non si diventa felici soltanto con la scrittura ma ci vuole anche un po’ di felicità per essere felici, e tuttavia, a dispetto del fallimento di ogni tentativo di fuga, essa mantiene comunque viva in noi la meraviglia della vita”. Parole kafkiane fatte proprie dal nostro autore d’oggi. Eppure la vita reclama i suoi pieni diritti, ed ecco, allora, che l’autore ne scandisce le fasi, dalla sua giovinezza alla maturità, alla luce non solo di questi due incontri quali fonti di cultura e spiritualità, ma anche dell’amore coniugale, e filiale, sia quello dato che quello ricevuto (per e da, insomma). Opportunamente Caronia si tiene libero da una scansione cronologica, e si crea uno spaziotempo immaginativo le cui coordinate non rispettano una stretta consecutività. Negli otto capitoli, “Caffè Kafka”, “La notte della cometa”, “Una conoscenza tra gli angeli”, “La costruzione della storia”, “Il sostenitore della famiglia”, “Il paese della speranza”, “La meraviglia della vita”, “La consolazione della sera”, si dipanano eventi speciali, dal significato a volte recondito e misterioso, dove il ripetersi di “particolari” crea similitudini che si insediano nell’interiorità. Sono eventi, a volte anche cosmologici (la cometa di Halley), o storici, cioè che vanno oltre la cronaca quotidiana, come la morte di Lady Diana (lo stesso nome della moglie di Sabino), nell’agosto del 1997; o sono scelte di vita, come quella da parte della figlia che si trasferisce con la sua famiglia in Palestina, desiderio che Kafka, invece, non riuscì a realizzare. Insomma, non immemore della lezione dei poeti romantici e tardo ottocenteschi, la realtà è ricca di simboli: il simbolo, nell’antichità, è il congiungersi di due metà di una medaglia o moneta che combaciano perfettamente e permettono il riconoscimento di due persone. Qui nel libro di Caronia, per il principio di transitività, il simbolo passa dall’uno all’altro dei tre principali protagonisti. “Sentiva [Kafka] che anche per lui era ormai giunto il tempo di passare il testimone. C’è un momento 27 della vita in cui ogni uomo scopre di essere vissuto. In quel momento l’uomo di solito è pronto a morire, a lasciare la vita agli altri, perché questo veramente significa morire: accorgersi che i giorni e le notti, le musiche e i rumori, la pioggia e il sole accadranno sempre senza di noi”: in questo magnifico passo, dove risuonano in profondità parole di antica e biblica saggezza, e dove chiunque di noi che non sia più né giovane né maturo non può non trovare una irrefutabile e commovente verità, possiamo ben commisurare come, attraverso il suo “alter ego” praghese, l’autore comprende che vita e letteratura, sentimenti e scrittura non sono altro che vasi comunicanti, dimensioni distinte ma non separabili mai del tutto. Ripeto, la dimensione simbolica è diffusa un po’ in tutto il libro di Caronia, magari in picco- 28 li particolari (Dio si nasconde in essi, ci ricorda l’autore): come le colonne mariane, quella di Praga, costruita nel 1650 nella piazza del mercato, poi buttata giù e in attesa di riedificazione; e quella romana di piazza di Spagna, locus di un incontro chiave dell’autore col pater Chiusano. L’identificazione di Sabino Caronia con Kafka è dichiarata dal primo assoluta, naturalmente non sul piano dell’opera narrativa ma su quello della vita, del sentimento dell’esistenza, e del suo senso. Pagine bellissime sono tutte quelle in cui, con abilità d’invenzione poetica, il nostro autore, per il tramite del “padre” Chiusano, si rifà, ricorda, commenta la frase kafkiana, che in Chiusano diviene titolo di una sua opera, Consideratemi un sogno. E a ragione! Il tema della vita come sogno percorre tutta l’esistenza dell’uomo, e dei poeti, raggiungendo il suo culmine nella cultura barocca europea, e da lì giunge fino alle labbra del grande praghese che ha disturbato il sonno del padre passandogli accanto: “Consideratemi un sogno”! Un ottonario perfetto, da danzare in punta di piedi, lievissimi! Una battuta teatrale di una pazzesca ambiguità di senso! Un’implorazione ed un’affermazione del nulla che può apparire la vita! Il desiderio che la vita sia solo semplicemente un sogno, perché ben altra è la Verità! O asserzione modernissima che arriva fino agli universi paralleli della fisica d’oggi! Per finire non posso che raccomandare la lettura del piccolo ma affascinante libro di Sabino Caronia, libro al quale auguro una lunga vita meritevole dell’attenzione che si dedica a quelle opere che non si consumano nello spazio d’un mattino! Max Gobbo e la riscrittura fantastica Franco Zangrilli Oltre a collaborare su varie riviste on line (“Andromeda”, “True Fantasy”, “Barbadillo”, ecc.), Max Gobbo ha pubblicato due romanzi: Protocollo Genesi (2010), Capitan Acciaio, supereroe d’Italia (2011), una raccolta di racconti, Storie del Necronomicon (2016) e il romanzo episodico Alasia, La Vergine di Ferro (2017). L’occhio di Krishna (Milano, Edizioni Bietti, 2017, pp. 217) è un romanzo avvincente e non comune nel panorama narrativo dei tempi attuali. Esso arricchisce l’ispirazione dell’autore ascrivibile all’area del fantastico. È composto di trenta capitoli intitolati e per lo più brevi; ogni capitolo si apre con una descrizione, lievitante anche di sprazzi lirici, di un dato personaggio o di un particolare paesaggio. È esposto in terza persona, e con un approccio cronologico. Utilizza una lingua forbita, asciutta, meditata, e la stilizzazione di una rete di topoi, di cliché, di canoni. Fa ampio uso sia del dialogo spesso costellato dalle sfumature, dalle metafore, dai toni più variopinti, inclusi quelli assurdi, comici, sarcastici, dalle movenze di un’ironia multicolore; sia della rappresentazione dettagliata alimentata talvolta dal linguaggio scientifico, dalla similitudine e dal groviglio di immagini efficace a rinforzare la portata del grottesco fantastico. Come una serie di scrittori postmoderni, da Borges a Sciascia, da Bonaviri a Tabucchi, a Campailla, Gobbo sa che tutto è stato scritto e allora si devono riscrivere vecchi miti, favole e storie in un nuovo contesto, in un modo che vengano rinfrescati e rivitalizzati, in una maniera che il lettore abbia la solida impressione di leggerli per la prima volta. La poetica della scrittura di questo romanzo porta l’autore postmoderno a giocare con “la 29 presenza della storia”, spesso derisa anche con ironia bonaria, immaginando uno strano fine Ottocento e inizio Novecento, in una vicenda di straordinari viaggi, peripezie, esperienze, cui partecipano una folla di personaggi ir-reali, bizzarri, misteriosi, appartenenti a mondi differenti: corsaro, regale, culturale, ecc.; l’avventura che in parecchie circostanze richiama quella dell’epopea tradizionale, è l’anima della loro vita. 30 Il romanzo si apre con una giornalista del “Secolo XIX”, Vera Merlin, che sembra modellata sulla figura di Oriana Fallaci. È uno dei personaggi più felici del romanzo. Ha un carattere metà maschile e metà femminile, della giovane umile e focosa, bella e intelligente, della professionista controcorrente, emancipata, strana, che aspira a cambiare le cose, che nutre alti principi, che non si fa né intimidire né discriminare da nessuno, ed è disposta a sacrificarsi per qualsiasi causa. È un emblema archetipico della femminista che riscatta i diritti dell’universo femminile, della donna odierna che ancora non è trattata pari all’uomo, né ben accettata ed inserita nelle professioni maschili. I moduli umoristici sostengono la sua azione di donna che battaglia contro le assurdità dei costumi convenzionali, dei tabù, dei pregiudizi, e sfida a duello il principe Guerrini che l’ha offesa. Indugiando a lungo sul duello, Gobbo riscrive aspetti di quello epico cavalleresco, dà adito a una comicità divertita, ilare, che sa cedere al ridicolo, e si mette dalla parte della giornalista che assapora la vittoria ferendo gravemente l’avversario: “l’arma di Guerrini in aria, mentre la lama della giornalista cercava il petto dello sventurato […], evitando d’un tratto il colpo fatale, e a quel punto, cacciato un urlo di spavento, prese a correre in cerca di scampo. «Fermatevi, codardo, se continuate a scappare come farò a infilzarvi?!» gridò Vera gettandosi all’inseguimento dell’avversario […], gli si avventò contro come una tigre, e affondò la sua arma […]. Il giovane strillò, mentre la lama saettava nelle sue carni” (p. 19-20). Anche certi ammiratori di Vera, come il suo fotografo, ne individuano l’aspetto di una maliarda sui generis, molto abile anche nel difendere i diritti ontologici e del proprio mestiere giornalistico. Particolarmente rilevante è l’episodio in cui Vera confronta in misura drammatica il direttore del “Secolo XIX” che si rifiuta di pubblicare il suo pezzo scritto sul duello. Episodio reso dalla penna bizzarra dell’autore una metafora della realtà postmoderna, specie dei media e dei loro potenti rappresentanti che proteggono i propri interessi affaristici invece di produrre notizie utili a istruire e a informare il pubblico, invece di sostenere i corrispondenti a fare il loro lavoro, a ricercare e a comunicare la verità dei fatti, un motivo molto diffuso nelle opere di scrittori contemporanei, da Tabucchi a Franchini, a Pincio: “Ma siete impazzita? Voi siete una donna, almeno credo, e le signore di solito non duellano”. “Arguisco che non avete inten- zione di pubblicarlo”. “Giammai! Non coprirò di ridicolo questa testata!» urlò il direttore con enfasi eroica” […] “Per l’appunto, mi si proibisce di scrivere la verità sol perché son donna”. “Siete un’ingrata”. “E voi un maschilista” […] “Preferirei camminare sui carboni ardenti piuttosto che pubblicarlo”. (p. 36-37) Nel frattempo Vera riceve una lettera dal rinomato narratore Emilio Salgari che la invita ad assecondarlo nelle sue avventure in paesi esotici e lontani. Da qui la poetica della riscrittura di Gobbo comincia sempre più a perseguire i sentieri labirintici del fantastico. Non solo egli ricrea a modo suo una figura strampalata di Salgari, ma anche del poeta-guerriero Gabriele D’Annunzio e del capitano Francesco Viganò, autore di fantasmagorici racconti sottomarini. Una trinità di scrittori amanti dell’avventura che impressiona Vera quando li incontra nella residenza di Salgari a Torino. Servendosi delle tecniche del racconto nel racconto, della contaminazione, del pastiche, del manierismo, lo scrittore riscrive un fascio di miti del fantastico, di profili del personaggio bricconesco, picaresco, piratesco. Tra cui spicca, grazie anche agli intrighi polizieschi, la figura di Sandokan con una doppia personalità, buono e cattivo, di un suo amico d’avventura portoghese, e di un politico che fa rubare il noto diamante, l’occhio di Krishna, e vuol essere un’allegoria della corruzione politica che è il cancro dei tempi presenti. Il piano di Salgari è quello di ricercare il diamante. E, mentre pianifica l’avventura verso il mondo delle Indie, con gli amici scrittori e Vera, vengono a disquisire anche delle “creazioni” fantastiche di Julie Verne, indice dell’interesse dell’autore di tener desto il filo dell’intertestualità, dell’autoreferenzialità e della metaletterarietà, topos della scrittura postmoderna. La partenza dovrebbe svolgersi all’insegna della segretezza e invece, grazie anche alla mimesi del linguaggio altosonante di stampo dannunziano, diventa un evento pomposo e rumoroso, un ambien- te da circo che si trasforma in una protesta di femministe indemoniate, contestate dal maschilista D’Annunzio; il fantastico umoristico mette piede con Vera immersa a declamare il suo sogno di libertà, metamorfizzandosi in una sorta di corifeo alla Mary Willstonecraft che anima il corteo delle protestatrici: “Amiche, colleghe, compagne! Oggi siam qui riunite per gridar forte un grido di protesta contro l’uomo che soffoca il nostro diritto di libertà! Siamo stanche di soprusi, stufe di chinare sempre il capo di fronte a mustacchi e bombette: il secolo volge all’epilogo, e qui siamo ancora in pieno medioevo. Gli uomini ci vorrebbero assegnate in eterna sudditanza: confinate in cucina, tra branchi di marmocchi piagnucolanti. Io, però, vi dico: mai più la donna italiana sarà doma; ci ribelleremo a questo giuoco, infine. Nel nuovo mondo già se ne parla: le donne hanno diritti pari agli uomini” […] Poi, rivolgendosi a D’Annunzio: “È ora che comprenda che noi donne non siamo solo delle bamboline per il trastullo degli uomini, non siamo solo delicati fiori odorosi, le materne consolatrici e delle loro afflizioni. Basta dunque con questo vetusto mondo maschilista”. (p. 42-43) Si imbarcano nel sottomarino guidato dal capitano Viganò. Il tragitto si fa fitto di elementi fan- 31 tastici: con gli incontri di paesaggi incantevoli e meravigliosi, di località simili a quelle delle Mille e una notte; di personaggi eccentrici e artefici di inconsueti spettacoli, come quello realizzato da un incantatore di serpenti: “l’uomo accovacciato in terra suonava uno strumento ricordante un piffero: dinanzi a lui v’era un magnifico esemplare di cobra dagli occhiali; serpe velenosissimo, famigerato, oltre che per il morso letale, per la sciagurata abitudine di spruzzare il suo fluido tossico negli occhi delle vittime” (p. 64); di personaggi misteriosi che perseguitano i compagni di Salgari, li pedinano, li piano, li tengono sotto osservazione, forse ombre diaboliche dei servizi segreti, e li trascinano nel gioco giallistico delle apparenze, delle finzioni, dei travestimenti; di personaggi arabi, bricconi e nemici, con cui i viaggiatori salgariani combattono come se si stesse riscrivendo, talvolta in chiave umoristica, una lotta degli eroi classici o dei cavalieri medievali, una scena violenta di un incontro pugilistico o di un action movie: vi appare anche una Vera indemoniata alla guida di una moto. In maniera magica questa viene 32 rapita dalla banda di malviventi di uno sceicco che prima la fa parte del suo harem e poco dopo la vende. La vicenda culmina con gli amici di viaggio che recuperano Vera. Ma tutto ciò è svelato con indizi vaghi che lasciano il destinatario all’oscuro, come succede in altri episodi. La brigata dei viaggiatori di Salgari hanno a che fare con una dovizia di vicissitudini, di frangenti, di pericoli, che rafforzano la materia ispiratrice del fantastico. Spesso le loro azioni in terra e in mare battono la cifra dell’epica grottesca, ridicola, semiseria, a volte contraddistinte da un’ironia sottile. Come si nota quando il sottomarino perde la pressione e precipita verso gli abissi marini. O quando viene urtato violentemente, forse per aver cozzato contro una scogliera o per essere stato investito da un gigantesco squalo, pur mentre Vera scrive i suoi articoli di viaggio, e gli altri avventurieri trascorrono il tempo nella biblioteca adornata di centinaia di volumi, compreso un D’Annunzio che si trova faccia a faccia con i suoi testi al punto che lo fanno apparire un don Chisciotte che incontra se stesso, l’ombra del suo sosia. L’ampia rappresentazione de- dicata alle avventure e alle sventure sia del sottomarino che della nave del Capitano Viganò, come quelle in cui i viaggiatori si vedono in balia di orrorosi naufragi, di attacchi perpetrati da feroci pirati, circondati da pescicani e squali famelici, da balene mostruose, da apparizioni di terribili leviatani, si porta avanti con una fine penna indebita alla reminiscenza dei classici dell’avventura fantastica, tesa a riscrivere e quindi a creare sulle orme di un passato che non invecchia mai, perché è sempre un presente proiettato verso il futuro. Per lo più esercita, questa penna, un processo inventivo di riscrittura che spazia nei testi di Robinson Crusoe di De Foe, di Gordon Pym di Poe, di Moby Dick di Melville, per non dire di quelli di Conrad, di Stevenson, di Verne, e di quelli che hanno a che fare con la mitologia indiana. Nella sua lunga vita di marinaio, Viganò incontra tante cose orrende, spesso esposte con tecnica intermittente ed elencatoria (“esseri spaventosi da corpo colossali: orche sanguinarie, calamari giganti, polpi mostruosi, capodogli smisurati e dalla ferocia inaudita”, p. 81), che simboleggiano il male presente nel corso della storia. Nonostante nello spazio narrativo le tragedie si accumulino in ogni ambiente, dal cuore nero di una foresta a un isolotto splendente, lo scrittore fa trapelare la speranza che il male possa essere vinto dell’intervento di un fenomeno misterioso, alchemico e taumaturgico. Ne è testimone anche l’avvenimento di un D’Annunzio paladino che lotta con un mostro marino e portentosamente se la cava. A volte questa sua speranza sembra alimentata dalla filosofia di certe religioni indiane. Approdando nell’universo indiano, i compagni di Salgari esperiscono insolite conoscenze, scoperte, rivelazioni, anche quando incontrano vecchi amici malesi, fedeli messaggeri di Sandokan: “la notte si animava delle sue creature: lupi indiani, pantere e qualche sciacallo in cerca di prede; gli ululati e ruggiti s’espandevano nell’aria. Tremal-Naik faceva da guida all’audace drappello tra le insidie della giungla” (p. 99). La guida accompagna il drappello salgariano nella pagoda induista della dea Kali, dove continua la ricerca dell’oggetto desiderato e lo trova epifanicamente: dall’altare della dea scatta “un meccanismo che fece uscire dalla statua un cofanetto d’oro incrostato di gemme. Lentamente Salgari lo aprì. All’interno, luminosissimo, v’era un diamante di eccezionale dimensione e d’incredibile fulgore. “«L’occhio di Krishna è nostro» sussurrò il romanziere” (p. 106). Se ciò si rivela una trappola dei fedeli della dea che rende prigionieri i ricercatori, il potere magico di D’Annunzio, acquisito bevendo “un siero che l’ha reso invisibile” (p. 108), restituisce subito a compagni la libertà. Il drappello salgariano riprende con entusiasmo il viaggio di ricerca approdando in luoghi ora edenici ora infernali. E vengono assaliti finanche dai soldati britannici in terra e in mare. Ai loro scontri l’autore dedica una vistosa attenzione, e traduce le loro battaglie in una sorta di spettacolo fantasmagorico, e fa riparare l’immagine di un D’Annunzio paladino che, come una fenice, rinasce dalle ceneri, spaventando a morte gli amici che lo hanno creduto passato nell’altro mondo. Durante il loro viaggio, D’Annunzio spesso appare appartato, assorto nelle proprie riflessioni e meditazione. Quando a volte viene portato fuori dal suo silenzio e trascinato nella conversazione, egli sembra il portavoce di Gobbo che predilige sia articolare dichiarazioni di metascrittura sia tracciare elementi sarcastici con una Vera che illumina il carattere d’“altruismo” del Vate: “È dunque nel mare che cercate la vostra ispirazione?” domandò Vera Merlin. “Nel mare, sulla terra, ovunque. Essa è come un dio onnipresente” rispose il poeta senza voltarsi. “Lo credo, quantunque questa notte marina sembri avere un qualche potere su di voi”. “Dite?” domandò D’Annunzio aggrottando la fronte. “Be’, ve ne state impalato da mezz’ora a rimirar l’onde, senza profferir parola: in fede mia non vi vidi mai così taciturno”. “Il verso abbisogna del silenzio, come il seme dell’acqua per germogliare” ribatté l’uomo. “Ma voi, mia cara, non siete qui per poetare… Non è così” (p. 130) sono in procinto di cadere in trappola mortale. (p. 137) E durante il loro viaggio, Viganò riesce a farsi confessare da un prigioniero anglosassone la trama dei piani segreti e polizieschi con cui intende agire il comando inglese contro i seguaci di Salgari e del suo amico Sandokan, alias la Tigre della Malesia: “Emilio, qual è il vostro pensiero su queste rivelazioni?” chiese D’Annunzio con aria preoccupata. “Signori, è peggio di quanto sospettassi. Siamo tutti in grave pericolo: Mompracem sta per essere travolta da un’orda nemica, mentre Sandokan e i suoi Approdati all’isola Mompracen, il gruppo di Salgari è ben accolto e festeggiato dalla popolazione dei pirati. Ma nell’isola, configurata paradossalmente sul mito del paradiso terrestre, non trovano il suo Dio, cioè Sandokan, che si trova lontano e in un luogo misterioso a svolgere un’altra eroica impresa. E sospettando l’eminente attacco nemico degli inglesi, tutti si mettono a operare sotto la guida dinamica di Salgari, “ottimo generale” e sagace “Tigre bianca”, a costruire barriere, muri, fortezze, trincee da cui possono spuntare “selve di bocche da fuo- 33 co”, piani difensivi di ogni genere (p. 147). Anche D’Annunzio si trasfigura incorporando un misto di miti: dal guerriero cavalleresco al “corsaro nero”, dal Buffalo Bill ad altri pistoleri e cowboys del Far West. Tutto arriva al livello del parossismo di un grottesco assurdo con i membri della flotta di Salgari che saltano in una mongolfiera e armati di bombe le seminano sugli inglesi nemici; e quasi tutto risulta come se si stesse realizzando un ritratto mimetico di una guerra odierna, e come se si volesse suggerire che l’uomo non sa vivere in pace con se stesso e con i suoi simili: Le navi nemiche furono costrette a manovrare per sottrarsi a quel bombardamento furioso, e a diminuire la cadenza delle cannonate. “Vittoria!” urlò il poeta. “L’attacco aereo devasta i navigli e atterrisce gli equipaggi!”. “E infine beccatevi questa!” fece Vera lasciando cadere l’ultimo ordigno. “E tanti saluti alla regina”!” (p. 156) E ancora: A Mompracem infuriava un uragano di fuoco […] Le tigri malesi si slanciavano in attacchi suicidi verso le baionette dei ranger, scrivendo col loro sangue le più gloriose pagine d’eroismo d’ogni pirateria. (p. 159) Nello stile narrativo cominciano ad affacciarsi andamenti ripetitivi, prolessi, retorici, che annoiano il destinatario sagace, dato che da qui in avanti l’autore si concentra quasi esclusivamente sulla rappresentazione della battaglia tra gli inglesi e gli amici di Salgari e di Sandokan. In alcuni capitoli che avviano verso lo scioglimento la penna gobbiana sembra riacquisire le proprie ammalianti qualità diegetiche. Come illustra l’avventura di D’Annunzio e di Vera che con la mongolfiera arrivano in un’isola vulcanica e in una sua zona remota abitata da un popolo primitivo. Anche con l’ibridazione dei toni comici e tragici il procedimento della mimesi, spesso prediletto dall’autore, di una serie di miti dispiega un perfetto equilibrio. Spiccano i miti della cattura degli stranieri, della danza febbrile ed euforica degli indigeni, del processo dell’antropofagia. La potenza magica del Vate si impone producendo l’atto catartico e liberando Vera dal terrore di essere un pasto delizioso per i selvaggi, proprio nel momento in cui si accingono a calarla nell’acqua ribollente. “Gabriele! Aiutami, questi mi lessano come una gallina!” “Qui ci vuole una bella idea” mormorò D’Annunzio. “Ci sono, il siero dell’invisibilità. Deve esserne rimasta ancora qualche goccia nell’ampolla che reco in tasca” […] Riuscì ad agguantare la fiala e a scolarne il contenuto. “Gabriele, qualunque cosa stiate architettando, fate 34 in fretta, mi stanno per cucinare. (p. 184) La magica metamorfosi di D’Annunzio in parte invisibile e in parte visibile come creature aerea commuove il popolo antropofago, ed è accolto come una loro divinità, un Dio. Il quale si mette a conversare con il capo della tribù, un saggio che ha imparato l’italiano da un prete missionario impegnato a convertire tutti alla fede cattolica. Felicemente liberi, D’Annunzio e Vera partono per riunirsi agli amici di Salgari e di Sandokan che stanno combattendo con grande determinazione, in mare e in terra, contro la supremazia diabolica dei britannici. Dove si mescolano i motivi della battaglia epica, della cavalleria rusticana, della guerra moderna; si riproducono le lotte dei cartoni animati e dei film del noir, del gangster, del giallo, ecc.; si osservano persino macchiette che si comportano da Sherlock Holmes, come un Sandokan che assume la fisionomia di Superman, di un Ercole postmoderno. Dove arriva una folla di animali di ogni specie (“elefanti, tigri, pantere, bande di lupi, drappelli di sciacalli, e ancora selvagge mandrie di bufali e furiosi rinoceronti che tutto travolgono col loro corno”, p. 207) che, dando una mano a guerrieri di Sandokan e di Salgari, facilitano la loro vittoria: ora il linguaggio metonimico, allusivo e allegorico, costante della riscrittura gobbiana, si irrobustisce esplicando la fenomenologia del manicheismo, in un gioco simbolico in cui il bene e il male si scambiano i ruoli non solo attraverso le varie razze di esseri umani, le bestie che diventano umane e gli uomini diventano bestie. E dove tutto è reale e irreale al contempo, è il romanzesco della storia, è il fantastico della vita. I due estremi del romanzo si cuciono e si concludono con la raffigurazione della sfera giornalistica in cui il direttore del “New York Times” parla con il direttore del “Secolo XIX” e gli rivela il desiderio di far apparire i pezzi di Vera Merlin sul suo quotidiano americano. Un’altra sfaccettatura del sosia della Fallaci firma del giornalismo internazionale. Scaffale Laboratorio di scrittura Università Tor Vergata-Istituto Villa Flaminia-Roma Senza pesi sul cuore di Luca Latini Se ci si dovesse chiedere cosa sia “leggerezza” potremmo imbatterci nelle più disparate definizioni: “esiguità di peso”, “agilità”, “liberta di movimento”, oppure, in accezione negativa “frivolezza”, “superficialità”. Bene direi che dopo aver letto l’antologia Con l’augurio di molte farfalle, progetto di laboratorio creativo curato dal professor Fabio Pierangeli, le ultime due definizioni del lessema “leggerezza” non riesco a farle più mie. Potrebbe sembrare banale, ma il concetto stesso di leggerezza per me ha subito un rovesciamento semantico. Sinceramente ho sempre pensato che il “leggero” avesse a che fare con il faceto, il superficiale e l’inconsistente: mi sbagliavo, e anche di grosso. Questo progetto, raccolta di testi edita da Paolo Loffredo, è nato grazie all’impegno e la dedizione di alcuni ragazzi e professori dell’Università di Tor Vergata, dell’associazione CARIS (Commissione d’Ateneo per l’inclusione degli studenti con disabilità e DSA) e dell’istituto di Villa Flaminia, in collaborazione con il laboratorio integrato dell’Università degli studi di Roma2. Il titolo di questa antologia si rifà a quello dell’opera di Jean Dominique Bauby Lo scafandro e la farfalla ed il suo obiettivo è semplice ed efficace allo stesso tempo: la ricerca della libertà individuale attraverso la creatività narrativa. Chi si imbatte in questa antologia non potrà non notare la bellezza e il senso che i ragazzi coinvolti in questo progetto hanno dato a concetto di libertà, di amicizia, di cementificazione di un gruppo che è riuscito a costruire qualcosa di sconvolgente. La Libertà di cui qui si parla è legata talmente bene alla leggerezza che le due quasi si confondono e fondono i propri confini semantici e simbolici. Quel senso che Italo Calvino definì in maniera così ottimale nelle Lezioni Americane quando intuì che la leggerezza era questo: “…non superficialità, ma planare le cose dall’alto, senza avere macigni sul cuore”. Proprio su questo concetto del “planare” si è soffermata la mia attenzione. Questa azione è compiuta da una particolare categoria di uccelli che mentre si lanciano in volo non compiono alcuno sforzo cinetico con le ali per librarsi nell’aria, ma semplicemente si lasciano cullare dallo “spirito pneumatico” che avvolge il cielo. La fantasia con la quale i ragazzi del Laboratorio di didattiche integrate- in collaborazione con il progetto CARIS- hanno scritto i loro racconti, personalmente non posso non accostarla a quel “planare” di cui sopra ho parlato. Tutti loro hanno lasciato che la fantasia fosse quella corrente area che lasciava librare la loro creatività ed il loro talento. Sui “…macigni nel cuore” poi si potrebbero dire altrettante cose; ragazzi che ogni giorno si trovano ad accettare una sfida che non avrebbero mai scelto- ma che li vede in ogni modo più che vincitori- hanno dimostrato di saper mettere a nudo il loro cuore senza imbarazzi, remore o inibizioni di una società che forse avrebbe bisogno quantomeno di ridefinire i suoi parametri di “normalità”. Il termine “diversamente abile” personalmente non lo ritengo veritiero al cento per cento, perché anche il concetto di “abilità” cosi come suo cugino “normalità”, non esplicitano molto bene la realtà di fondo. Magari sì, le cose per questi ragazzi sono molto più difficili, a livello fisico, sociale e psicologico, ma il modo in cui ogni giorno vincono contro queste barriere rende loro persone non “diversamente abili” ma “più abili”, di quegli indi- 35 vidui che magari contro altre tipologie di “macigni sul cuore”, che occludono e schiacciano la loro libertà individuale non saprebbero reagire allo stesso modo. Stress, inibitori sociali e rincorsa al “contagio mimetico” di massa rendono la vita più pesante; si guarda tutto dalla medesima prospettiva e non si riesce a uscirne (nemmeno il sottoscritto fa eccezione a volte). Quello che le difficoltà cercano di rendere più pesante nella vita di questi giovani studenti, la scrittura lo ha reso leggero. Sul valore di quest’ultima si sono concentrate le brevi narrazioni del capitolo I, intitolato per l’appunto “Scrivere”. Spesso non si dà la giusta importanza a ciò che questa azione comporta, ma un fatto non certamente di poco conto fu che nel momento in cui l’uomo adoperò per la prima volta questo sistema di simboli linguistici avvenne una netta cesura tra preistoria e storia. Lo stesso Jack Kerouac, nello scambio epistolare con Alexandros Sampas- quest’ultimo morto durante lo sbarco degli alleati ad Anzio- definì il valore scritturale come “sacro”, elevando la semplicità di carta e inchiostro ad una sfera quasi metafisica (lettere ripubblicate nel racconto Il mare è mio fratello). Quello che ragazzi hanno avuto il coraggio di fare è proprio questo; riuscire a ridare l’importanza prioritaria all’atto della scrittura, alleggerendola da quella pseudofunzionalità a cui oggi siamo troppo abituati. Il capitolo II, “Incontri piacevoli” è incentrato sulla quotidianità di quei piccoli gesti che, grazie all’affetto e all’interazione personale, non odorano di “abitudine”, ma acquistano la loro giusta dignità. Il terzo capitolo ruota attorno al dipinto del pittore Jan Vermeer “La ragazza con il turbante” e si intitola “Storia di uno sguardo e di un orecchino” (meglio nota come la “Ragazza con l’orecchino di per- 36 la”) nel quale gli studenti hanno dato prova di saper inventare le più eterogenee storie, fantasiose o meno, utilizzando uno stesso minimo comun denominatore: la storia di una ragazza e del suo orecchino di perla. Seguono i microracconti racchiusi nel capitolo “Brevi”, nei quali ognuno è riuscito a dar voce alle proprie preferenze stilisticonarrative, senza il bisogno di dover scegliere un tema per poi costruirvi sopra. Segue poi il capitolo finale “Liberi”, ben collegato con il precedente ma che parla sufficientemente con il suo titolo. Anche in questo caso gli studenti hanno dato voce al proprio cuore senza freni e ostacoli alla propria creatività, meritandosi in pieno questo aggettivo con il quale è stato scelto il punto conclusivo dell’antologia. Questi ragazzi, coadiuvati dal saggio aiuto dei docenti impegnati in questo progetto, hanno avuto il merito di dar vita ad un lavoro nel suo complesso semplice ma libero, sciolto e leggero. Il lettore non ne risulterà annoiato, tutt’altro sarà la curiosità mista ad strana sensazione di felicità a pervadere il suo intelletto. Il contenuto maggiore del testo è nella penna che lo ha realizzato, soprattutto con la fantasia e l’assenza di peso degli scriventi, che hanno compiuto la loro metamorfosi in farfalle. Come il bozzolo e la crisalide delle difficoltà non hanno impedito che dei semplici bruchi compiano la trasformazione in quei lepidotteri che tanto amiamo, così le difficoltà non hanno impedito a questi ragazzi che la pesantezza li schiacciasse verso il basso, ma sono riusciti a compiere quel movimento antigravitazionale che ha permesso a questo progetto di venire alla luce. Un grande merito va sicuramente a tutti coloro che hanno incentivato la fantasia e la creatività di questi studenti, come il professor Fabio Pierangeli, docente di Letteratura Italiana e responsabile di questo laboratorio. Un’antologia che rappresenta l’” Elogio della leggerezza”, un planare dall’alto le verità di questa vita, senza scivolare tuttavia nell’apatia o nel cinismo. Senza pesi sul cuore Il sole fra le dita di Ludovica Festino In un mondo così freddo insostenibile il giovane Dario e il suo amico in carrozzina Andy cercano solo un po’ di libertà e tranquillità. Sono questi i tratti fondamentali di Il sole fra le dita di Gabriele Clima, un romanzo di formazione pubblicato nel 2016 da San Paolo Editore. In un quadro moderno di freddezza ed efficienza l’autore dipinge due personaggi completamente diversi ma accomunati dalla stessa voglia di libertà: Dario è un ragazzo difficile che deve affrontare l’abbandono di suo padre ed Andy è un giovane disabile costretto alla carrozzina, che gli impedisce di percepire il sole sulla pelle; lo sfondo è la campagna tra San Vincenzo e Torre Spaccata. La storia di questa incredibile amicizia inizia quando Dario finisce in presidenza per l’ennesima volta ma al posto della solita punizione, gli viene affidato Andy; la scuola spera di placare l’animo ribelle di Dario con il servizio sociale. Dopo appena pochi giorni i due ragazzi si rendono conto di avere molte cose in comune e finiscono per scappare insieme nella campagna piena di tranquillità che tanto desideravano; il viaggio giunge al suo fine quando Dario riesce a rincontrare suo padre rimanendo estremamente deluso da come il suo genitore sia diverso dai suoi ricordi. Dopo essere tornati in città i tuoi amici vengono bruscamente separati ma dopo alcuni giorni i genitori di Andrea si presentano a casa di Dario spiegandogli che non hanno mai visto loro figlio parlare e tantomeno muoversi, eppure da quando frequenta il suo nuovo amico ha fatto dei progressi incredibili. Ora che non ci sono più ostacoli alla loro amicizia Dario ed Andy continueranno la loro spassionata ricerca di semplice pace in un mondo così caotico. Nonostante l’inizio posso sembrare banale questo libro a molto da offrire: il personaggio di Dario è dilaniato dai ricordi di suo padre e non riesce a vivere in pace con il mondo a causa di questo traumatico abbandono; allo stesso modo Andy desidera vivere una normale adolescenza che la carrozzina gli continua a negare,ma una volta che i due personaggi capiscono di essere uguali nonostante le loro storie estremamente diverse appare per entrambi uno spiraglio di tranquillità e di placida quiete che gli permette di arrivare ad una crescita. La semplicità e la modernità con cui l’autore parla di personaggi così realistici rende il libro scorrevole e leggero aiutando il lettore a riflettere su come in un mondo così evoluto e all’avanguardia vengano a mancare i valori umani necessari per una sana crescita degli adolescenti. In fondo ad ogni studente piacerebbe poter vivere una vita calma e serena, magari in disordine e impulsiva ma pur sempre una vita tranquilla,come un fiore che cresce in un frigorifero. La notte dei Ragazzi Cattivi di Letizia Hassan “A volte, quando il cielo era estremamente limpido e i fantasmi lo strapazzavano troppo, se ne usciva sul balcone e si sedeva su uno sgabello a parlare con la ma- dre” è certamente uno dei passi più persuasivi dell’ultima fatica del romanziere Massimo Cacciapuoti, La notte dei ragazzi cattivi. La narrazione si sviluppa nel contesto di Guggiano, un piccolo paese di matrice interamente fantastica; in questo ambiente vive e cresce il protagonista Fabio Romano, circondato da personaggi più o meno avversi alla sua indole di ragazzo tranquillo e relativamente innocuo. La sorella di Fabio, Valentina, è l’unico personaggio della storia che matura un sentimento di responsabilità e protezione nei confronti del fratello assistendolo in un complesso ma graduale percorso di consapevolezza della malattia incurabile della loro madre. Fabio, affetto da gravi problemi di integrazione, troverà riparo dall’alcolismo della rassegnata e fallita figura paterna e dai violenti compagni di classe in Giulia, sua insegnante di sostegno. Ciò che sfortunatamente Fabio non sa è che la vita di quest’ultima e quella di suo padre si sono già incrociate in passato e non per essere coinvolte in un piacevole evento, anzi. La violenza è fattore influenzante della vita abitudinaria dei paesani a Guggiano e controlla trasversalmente la società determinando spesso episodi spiacevoli; vedremo come, ad esempio, durante l’evolversi della narrazione, il padre di Fabio farà utilizzo di alcol e sostanze stupefacenti per rispondere ai suoi scatti d’ira e per cercare di ignorare le debolezze del fragile figlio. L’episodio centrale della storia è rappresentato dal furto da parte di Fabio di un ordigno, che era nella disponibilità del padre; i suoi compagni di classe lo obbligheranno poi a far esplodere l’arma all’interno di un istituto scolastico e dall’avvenimento rimarrà gravemente ferita la sua insegnante Giulia. Tale evento conduce al triste epilogo del romanzo, nel quale Fabio non riuscirà a conservare l’unità familiare. La trama originale e molto articolata si risolve in una concatenazione di eventi talvolta improbabili, come ad esempio la singolare coincidenza che porta Giulia a rincontrare all’ospedale l’uomo che la violentò quando era giovane. Quanto ai personaggi, essi incarnano vizi e virtù degli esseri umani: Ascanio Lombardi, soprannominato il Maiale, delinea l’arroganza causata dalla scarsa cultura; Giulia rappresenta l’onestà e la misericordia nel tentativo di mettere in salvo Fabio dal contesto umano in cui vive; la figura del padre di Fabio ritrae i difetti dell’uomo per eccellenza, come la dipendenza, l’aggressività e l’ignoranza; per concludere Valeria, la tenera compagna di classe del protagonista, incarna grande bontà e benevolenza che esprime con atti di grande generosità. Lo stile letterario dell’autore è prevalentemente piano poiché i periodi utilizzati sono semplici; domina il testo la paratassi, un uso della punteggiatura adeguato e la forma del dialogo; il lessico è immediato e usufruisce di parole di uso comune rendendo agevole la lettura al lettore. Il romanzo, per quanto concerne le tematiche, affronta problematiche quanto mai attuali, quali il disagio giovanile, il bullismo e la violenza sulle donne; ciò nonostante penso che la modalità con la quale lo scrittore abbia trattato questi argomenti sia stata a tratti cruda e semplificata. Ritengo che il romanzo sia semplice e autentico, forse una maggiore accuratezza nella stesura dell’intreccio avrebbe attribuito alla storia più fascino e avrebbe giovato al coinvolgimento del lettore. 37 Amore I giornalisti, quando mi intervistano, mi chiedono sempre “Come è cambiato l’amore?” Perchè è solo il cambiamento che fa notizia. Se una cosa non cambia, non c’è nulla da dire perchè la sai già. Ma è vero? E’ vero che la sai già? Anche in amore? Incominciamo dalla novità: i giovani vogliono liberarsi dalla dipendenza amorosa. Ciascuno vuol essere libero di andare dove vuole, quando vuole e con chi vuole. E, fra la coppia e la propria riuscita personale, gli studi, il lavoro, la carriera, sono questi che vengono al primo posto. Sono loro che danno stabilità, non l’amore. Un altra novità: oggi la sessualità è più libera, tanto nei maschi come nelle femmine e incomincia prima. Un altra novità: l’omosessualità e la bisessualità sono più visibili, manifeste e forse più diffuse E si vede che,mentre gli omosessuali maschi, in genere, dopo un periodo di ambiguità fanno una scelta definitiva, le donne sembra abbiano delle fluttuazioni maggiori : anche in età adulta e dopo anni di esperienze eterosessuali possono averne di omosessuali e poi tornare a quelle etero. Ma poi è anche vero che, ad un certo punto questa stessa gente si innamora e poi ama. Ed allora che sia maschio o femmina, giovane o vecchio, omosessuale o eterosessuale sente il bisogno disperato di quella sola persona, ed unicamente di lei, perche non è sostituibile da nessun altra e vuole averla vicina, e quando è lontana è come se gli mancasse l’aria e il respiro. E le domanda se lo ama, ed è stupito di questo incantesimo E, in qualsiasi modo sia cominciato questo suo amore, se prima non dava nessuna importanza alla fedeltà, e il sesso gli sembrava una cosa libera, facile e leggera, ora gli appare incredibile ed inquietante perche è diventato possessivo, geloso. Ebbene, mentre ciò che abbiamo detto all’inizio sui giovani, sul sesso precoce, sull’ambiguità sessuale era una novità, questa esperienza è sempre stata così, anche se ogni generazione la deve riscoprire. Perche era vero nel passato ed è vero oggi quanto scriveva Roland Barthes. che “l’altro che io amo e che mi affascina è atopos. Io non posso classificarlo, poiché egli è precisamente l’Unico, l’Immagine irrepetibile che corrisponde miracolosamente alla specificità del mio desiderio”. Vissuto e raccontato in mille modi diversi, in Europa in America o in Asia, questo è l’innamoramento e l’amore. Non ha novità ed è sempre nuovo. Non fa notizia ma è alla base di quasi tutte le notizie. Francesco Alberoni 38 PASSA TEMPO DIVERTIMENTO I candidati alle elezioni nelle isole Ebridi venivano bastonati dagli elettori, che assegnavano la carica a colui che meglio sopportava il dolore. PUZZLE CURIOSITÀ SOLUZIONI PUZZLE 39