ANO XIII - NUMERO 172
Il teatro dell’imprevisto
«Me ne vado/sapendo/chi sono»
Maggio 2018
Editora Comunità
Rio de Janeiro - Brasil
Il teatro dell’imprevisto
www.comunitaitaliana.com
mosaico@comunitaitaliana.com.br
Direttore responsabile
Pietro Petraglia
Editori
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Revisore
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Grafico
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Mosaico italiano è aperto ai contributi
e alle ricerche di studiosi ed esperti
brasiliani, italiani e stranieri. I
collaboratori esprimono, nella massima
libertà, personali opinioni che non
riflettono necessariamente il pensiero
della direzione.
In ogni caso il romanzo non è esclusivamente un excursus parodistico sulla
nostrana Repubblica della Lettere, ma una riflessione sul senso di colpa.[…]: il
diavolo pare saperlo assai bene e, con un sorprendente coup de theatre conclusivo, gioca tutte le sue carte finendo con l’accattivarsi la simpatia, se non il consenso, del lettore.
Così chiude il suo bel saggio Marco Camerini, attraversando gli ultimi libri
di narrativi di due autori di spicco nel panorama odierno: Paolo Maurensig e
Leonardo Colombati.
Lo scambio di tecnica e struttura tra romanzo e teatro è anche a tema nel
bel romanzo di Dario Buzzolan (non a caso anche drammaturgo e saggista
cinematografico) La vita degna, che ci pone di fronte ad un interrogativo assai
interessante e necessario: la felicità consiste esclusivamente nella realizzazione dei propri desideri o in altro, che magari si palesa attraverso imprevisti e
strade non previste e precisate?
Colpi di teatro insomma, sul palcoscenico imprevedibile della vita. Ne è
maestro Gigi Proietti, in queste pagine di Mosaico ritratto da Katiuscia Torquati nel suo spettacolo dedicato a Ettore Petrolini.
Una narrazione “teatrale” nella sua drammaticità e esemplarità, forgiata
sulla attesa e sulla domanda di senso, è la vita di Kafka come raccontata da Sabino Caronia in La consolazione della sera, romanzo presentato qui da Giorgio
Taffon, non a caso docente di Letteratura teatrale, saggista, e drammaturgo,
ma anche scrittore di racconti incentrati, argutamente, sul teatro e la teatralità: Una proposta (in)credibile e la recentissima raccolta Fatti d’amore teatro e
di sogni di cui ci ripromettiamo di parlare prossimamente.
Apre questo numero di maggio il saggio sulla giornalista, attrice, scrittrice
Adele Cambria, parte di un lavoro più ampio di cui auspichiamo la pubblicazione integrale.
La giovane autrice dell’intervento sulla Cambria, Eleonora Proietti, non
potrà continuare gli studi.
Una malattia incurabile l’ha portata via nell’estate del 2017. A lei e alla sua
famiglia dedichiamo questo numero di Mosaico. Eleonora lascia anche una
bellissima raccolta di versi, Faccia di velluto, corredata dai suoi disegni (come
quello in copertina di Mosaico) e da un sorprendente CD audio, il suo testamento, dove parla della sua esperienza di vita, breve ma intensa, in termini di
gratitudine e non di rabbiosa ribellione.
Come in una delle sue ultime poesie, intitolata semplicemente Vita:
SI RINGRAZIANO
“Tutte le istituzioni e i collaboratori
che hanno contribuito in qualche modo
all’elaborazione del presente numero”
STAMPATORE
Editora Comunità Ltda.
ISSN 2175-9537
2
Questa bella vita
non mi ha raggirata:
è stato un assaggio
giunto ad aprile e terminato a maggio.
Eleonora Proietti
Indice
Istambul e altri viaggi in compagnia di Adele Cambria
Eleonora Proietti
pag. 04
Gigi Proietti e... “Caro Petrolini”
Katiuscia Torquati
pag. 12
Il teatro dell’imprevisto La vita degna di Dario Buzzolan
Fabio Pierangeli
pag. 18
Amori, viaggi, diavoli: Colombati e Maurensig
Marco Camerini
pag. 22
La consolazione della sera di Sabino Caronia
Giorgio Taffon
pag. 26
Max Gobbo e la riscrittura fantastica
Franco Zangrilli
pag. 29
Scaffale
Laboratorio di scrittura Università Tor Vergata-Istituto Villa Flaminia-Roma
pag. 35
Rubrica
Amore
Francesco Alberoni
pag. 38
PASSATEMPO
pag. 39
3
Istambul e altri viaggi in
compagnia di Adele Cambria
Eleonora Proietti
Pubblichiamo una parte del lungo saggio di Eleonora Proietti su Adele Cambria, auspicando una prossima pubblicazione integrale
in volume. Il lavoro ha impegnato Eleonora per la tesi Magistrale in Letteratura Italiana all’Università di Roma “Tor Vergata, con
il professore Nicola Longo. La sorte non gli ha concesso di continuare il lavoro. Eleonora Proietti ci ha lasciati, serenamente, convinta di aver vissuta secondo le proprie idee fino all’ultimo, nell’estate del 2017. Era anche poetessa e pittrice, come dimostra il
bellissimo volume illustrato con le sue tavole Faccia di velluto.
Il corsivo qui sotto è tratto dalla introduzione al lavoro di Eleonora, il cui titolo complessivo è La questione sociale e politica
nella vita di Adele Cambria e di cui pubblichiamo la parte sulla letteratura di viaggio.
In considerazione dei mutamenti storico-politici che hanno caratterizzato l’evoluzione delle dinamiche sociali e degli indirizzi ideologico-culturali
entro il contesto italiano, lungo quasi tutta la seconda metà del Novecento, ho ritenuto opportuno
indagare sull’influenza, diretta e indiretta, che
questi stessi cambiamenti hanno esercitato sulla
figura di Adele Cambria (Reggio Calabria, 12 luglio
1931- Roma 5 novembre 2015), giornalista e scrittrice italiana, la quale, abbracciando i principali aspetti delle teorie e dei movimenti del femminismo,
ha contribuito ad una rilettura originale di alcuni
temi, sia di ambito letterario, in particolar modo
per quel che concerne le versioni della mitologia
classica, sia di quello storico, concentrandosi soprattutto, in questo secondo caso, su alcune personalità protagoniste, in diversi momenti storici,
del panorama politico italiano e internazionale,
come Antonio Gramsci (Ales, 1891 - Roma, 1937) e
Karl Heinrich Marx (Treviri, 1818 - Londra, 1883).
L’intera produzione letteraria e saggistica della
giornalista reggina è da intendersi come materiale
organico che testimonia la sua evoluzione personale e professionale, non solo in relazione alle
teorie femministe, bensì anche al processo di maturazione e consapevolezza politica, ridefinendo i
contorni di un progredire storico che scardina le
tradizionali modalità ideologizzanti con cui ci viene
tramandata la Storia ufficiale.
Il club di Montevecchio (ubicato nell’omonima
piazza romana) ha dedicato un ciclo di eventi al
tema Oriente e Occidente: così lontano, così vicino. È
stata l’occasione per dialogare con Adele Cambria
visto che Il 23 aprile 2012, la rassegna ha ospitato la
presentazione di Istanbul, romanzo che la scrittrice
ha composto in due momenti diversi della sua vita.
4
Più che di un romanzo, in verità, si potrebbe definirlo una sorta
di diario di viaggio, o meglio di due
viaggi, intrapresi dalla scrittrice
a distanza di ventotto anni l’uno
dall’altro: il primo, avvenuto nel
settembre 1983, e il secondo, nel
settembre 2011. La meta è sempre
la stessa, Istanbul; tutto il resto,
invece, è mutato nel corso degli
anni: la storia, la politica, la guerra,
Adele Cambria e la cultura della città stessa. “Come ho potuto lasciar
passare tutto questo tempo senza
rivedere Istanbul!” esclama mentre varchiamo la soglia del club.
Infatti, all’interno del volume,
i due viaggi sono distinti da due
caratteri tipografici diversi: quelli
che riportano l’esperienza dell’ ’83
ricordano le vecchie macchine da
scrivere, oggi non facenti più parte
dell’armamentario dello scrittore,
rimpiazzate dai computer, che stampano caratteri come quelli impressi
sulle pagine riguardanti il secondo
viaggio. Una differenza non casuale,
ma tesa a sottolineare che si tratta di
momenti distinti. Di un altro viaggio.
Nel 1983, approfittando di una
mostra organizzata dal Consiglio
d’Europa (intitolata Diecimila anni
di Civiltà in Anatolia), parte insieme
agli Amici della Galleria nazionale
d’Arte moderna di Roma.
Da due anni si era dimessa dal
<<Giorno>> e, pur essendo la Turchia
un paese scosso da terremoti fisici
e politici, l’intento principale di Adele Cambria è quello di evadere dai
problemi del suo paese (all’inizio di
quell’anno si era concluso il processo
Moro) e di contemplare le bellezze
esotiche che l’altro aveva da offrire, fascino di natura e arte, fruiti senza farsi
condizionare né dal turismo di massa
né da alcuna “cecità tecnologica”:
<<Credo che sia importante ricominciare a vedere le cose con i
propri occhi “corporali” senza più
delegare il senso principe, quello della vista, alla macchina fotografica. Cerchiamo di re-imparare
a usare gli occhi, ricollocando la
fotografia nella sua giusta dimensione documentaria. […] Le mie
nozioni sul paese erano men che
vaghe. L’immagine di Bisanzio confusamente collegata all’origine del
fondo oro, nei mosaici – Monreale,
Ravenna – e nella pittura italiana,
Cimabue, Giotto>>.1
Il primo elemento che attira la
sua attenzione, appena giunta a
Istanbul il 6 settembre, sono le cupole delle moschee che aleggiano
numerose sulla città e che rievocano, seppur differenti, quelle della
Chiesa di Roma:
<<Le cupole galleggiano leggere, ampie, d’un grigio inaspettato
che sfuma nel celeste, costellando
il profilo della città come una flotta di astronavi planate sul Bosforo
da milioni di anni, e sono le cupole
delle cinque-seicento moschee di
Istanbul. […] La prima volta non sapevo quasi niente della triplice città
che allaccia Europa e Asia, ma la visione delle cupole islamiche aveva
segnalato subito per me un contrasto persino “mistico” – un sovrappiù di spiritualità – istintivamente
paragonato al profilo insieme autoritario e carnale della Chiesa di
Roma […] cupole […] muscolose,
terrestri, sode, con capezzoli erti,
come mammelle popolane>>.2
La “triplice città”, così definita perché la sua stratificazione
storico-culturale consiste in una
triplice eredità: quella romana,
quella cristiana e, infine, quella
musulmana. Tale commistione di
elementi è stata favorita, nel corso
dei secoli, dalla sua posizione geografica; affacciandosi sullo stretto
del Bosforo, acquisisce la funzione
di “città-ponte” tra due continenti, l’Europa e l’Asia, l’Occidente e
l’Oriente: Istanbul è infatti intesa
come “Porta dell’Oriente”.
A rappresentare questa doppia
appartenenza, unione-scissione d’identità e di culture, è lo scrittore
Orhan Pamuk, nato a Istanbul nel
1952 (e il primo scrittore turco a ricevere il premio Nobel per la Letteratura, nel 2006), viene adottato da
Adele Cambria come modello di scrittore-viaggiatore, insieme a Edmondo
De Amicis3, Pierre Loti (ufficiale della
Marina militare francese d’origine li-
1 A. Cambria, Istanbul. Il doppio viaggio, op. cit. pp. 5-11
2 Ivi, pp. 3-4
3 L’autore fece un viaggio a Istanbul nel 1875. Le sue cronache di viaggio, dove la città viene definita “mostruosa”, “un sovraffollamento visivo”, “una Babilonia”, appariranno su <<L’Illustrazione Italiana>>, per poi essere raccolte in un unico volume intitolato Costantinopoli (Treves 1877)
5
gure) e altri scrittori facenti parte della lunga tradizione della letteratura di
viaggio in Occidente:
<<Orhan Pamuk, che diffida
dell’esotismo dei viaggiatori occidentali […] ma la sfilza di autori “del
Nord”, che Pamuk prende a controprova della sua idea che il Mediterraneo sia una leggenda nordica,
mi disorienta. Dunque Goethe e
Stendhal, che aprono l’elenco, sono
indiscutibili, ma come costruttori
del mito mediterraneo si limitano
all’Italia, mentre George Byron non
viene neppure nominato nell’elenco, eppure si spinse fino alla Grecia
[…]. Lo scrittore condanna il mito
del Mediterraneo in una chiave che
oserei definire “difensiva”>>.4
Pamuk si dimostra tenace difensore dei diritti civili del suo paese e
mostra spiccata indignazione per
molti aspetti caratterizzanti il mondo occidentale, che non è affatto
estraneo alla sua generazione, la
prima, sostiene, della neociviltà di
Istanbul dopo il crollo dell’impero
ottomano nel 1922. Quando venne costruito il ponte che collega le
due rive del Bosforo, quella asiatica a quella europea, lo scrittore
scopre che il suo posto nel mondo
non era determinato da nessuna
rigida appartenenza ma con l’istinto, e forse l’obbligo, di “rivolgersi
4 A. Cambria, Istanbul. Il doppio viaggio, op. cit. pp. 10-145-146
5 Ivi, pp. 150-151
6 Ivi, p. 194
7 Ivi, p. 152
8 Ivi, p. 19
9 Ivi, pp. 39-41
6
alle due rive senza appartenere”:
<<Ecco, mi è parso che lo scrittore esprimesse così un potere che
gli spettava proprio per la sua equità […] e che il dono della scrittura
ne rafforzasse ed esaltasse la lucidità, scongiurando le ombre del
nazionalismo>>.5
Partendo da questa prospettiva, la letteratura acquista una
funzione ben precisa, che sconfinando il campo dell’espressione
artistica, diviene strumento di ricerca dell’appartenenza ad una
determinata patria, ad una cultura
fondante la nostra identità.
Una simile spaccatura interiore si
verifica, seppur con altre modalità,
anche in Cambria: la scrittrice reggina, infatti, oscilla tra due universi in
perenne contraddizione, il mondo
del femminismo e dell’emancipazione e la sua irriducibile meridionalità;
contraddizione che, in entrambi,
tenta di risolversi sulla pagina:
<<scrivendo, tra il malessere
della tradizione […] e l’impossibilità di una memoria che consenta la
conciliazione con la storia del proprio paese>>.6
La scrittura intesa anche come
specchio e testimonianza della
desolazione che la Storia lascia
dietro di sé, come quella lasciata
dal crollo dell’impero ottomano o
come quella che ha strappato gli
emigranti del sud Italia, Cambria
stessa, alle loro radici:
<<Tornata dalla Turchia, mi interrogavo sul tema dell’identità
perduta o almeno a rischio – se
persino il “mio” adorato premio
Nobel ne aveva sofferto – tema
tanto più grave nel rapporto con
gli immigrati in un paese come l’Italia […] rimettendo in gioco, tanto per cominciare, la discriminazione dei nostri emigrati dal Sud nel
cosiddetto “triangolo industriale
negli anni del boom […]>>.7
Anche la questione femminista
non viene trascurata dall’occhio
della scrittrice, che indaga sulla
condizione delle donne turche, soprattutto quelle che hanno abbracciato la fede islamica:
<<Impossibile non notare la
grazia e l’eleganza con cui le “ammantate”, sedute a un caffè, sollevano con una mano il triangolo di
stoffa pesante che nasconde anche le loro labbra, e nell’altra reggono il manico della tazzina, per
sorbire la densa bevanda […]>>.8
Pur trattandosi di un viaggio
d’evasione che avrebbe voluto essere puramente contemplativo, è
sulla scia del femminismo che la
galleria d’arte romana organizza la
mostra della civiltà anatolica, una
civiltà in cui il ruolo della donna veniva riconosciuto e venerato tramite il culto della Dea Madre:
<<E qui infatti sono le dee madri
(ex voto per impetrare la fecondità)
che dominano: grasse, rannicchiate
nella loro esuberanza rassicurante
di mammelle, ventre, fianchi […]
tutte […] prive di testa […] abbaglianti conferme di intuizioni – troppe volte tacciate di scarsa scientificità – sulla primogenitura di una
mitologia femminile: perciò Atena
che sconfigge i giganti […] o il combattimento tra i Greci e le Amazzoni
[…] è tutto vero ciò che le donne faticosamente hanno cercato di portare alla luce […] sulla loro epopea
sommersa, ed è qui, materializzato,
tangibile, inscritto su questi marmorei, mutilati corpi di donna>>.9
Ancora una volta, dunque, la
Storia, e la preistoria, si intrecciano
con il mito, con i dogmi della religione cristiana e islamica, e sono
tutti questi elementi a determinare la storia delle donne e il capovolgimento degli originari paradigmi,
una consapevolezza che si rafforza
nel secondo viaggio:
<<Mi chiedo […] se fosse pura
e semplice avidità – l’Oriente come
cassaforte di tesori favolosi e favoleggiati – quella che muoveva i
Crociati; o se li guidasse davvero,
nell’ambito del progetto di riconquista dei Luoghi Santi, anche una
del resto largamente condivisa misoginia: “Io porrò inimicizia tra te
e la donna”, non recita così il Creatore rivolto al Serpente? […] partendo da Eva e dal suo “peccato”,
che oggi possiamo leggere tranquillamente come passione della
conoscenza>>.10
In questa sua seconda esperienza, Istanbul appare allo sguardo
di Adele Cambria come “un altro
astro”. Accompagnata dall’amica Bianca Galvan e dal compagno
olandese, avrà modo di osservare
in maniera più dettagliata e “partecipe” il fascino delle donne turche
e la loro prigionia:
<<[…] infazzolettate e con gli
spolverini che le insaccano, dal
collo quasi fino ai piedi, chiacchierano fitto, dopo la preghiera. […]
Di solito le donne, di giorno, non
vengono alla moschea, ma non
sono dispensate dalla pratica religiosa musulmana: tanto si può
pregare benissimo a casa, tra un
cambio di panni al bambino e una
rimestata allo yoghurt; […] Con un
lieve brusio le donne si sistemano
ora dietro a una tenda di garza verde, ripiegando i piedi scalzi sotto le
gonne, in modo che non si vedano
[…]>>.11
A dimostrare che non si tratta
solo di un diario di viaggio, Istanbul
racconta di un paese che ha subito l’oltraggio di numerosi tragici
conflitti12, il più delle volte affrontati per mezzo della scelta terroristica13, che racchiude i più antichi
segreti dell’Occidente e del Cristianesimo; una città, Istanbul che, per
colmare i vuoti lasciati dalla decadenza dell’impero, precipita verso
10
11
12
13
14
15
un febbrile processo di occidentalizzazione, distruttore di ogni fede
in favore di banalità e utilitarismi,
senza però riuscire ad acquisire
una fisionomia identitaria ben definita, in un tempo che ora abbraccia
tutto ciò che in passato rinnegava:
<<Spariti i caicchi dai colori brillanti e le case di legno scuro coi
bovindi […] tutt’intorno si sono
moltiplicati gli stand di souvenir, i
banchetti dei paninari, le rivendite di francobolli, sigarette e cartoline illustrate […] nell’immensa
città in cui i grattacieli sono venuti
ad affiancare i minareti delle moschee>>.14
Tuttavia, l’evoluzione della città, sotto alcuni aspetti, rallenta la
sua corsa, conservando limitazioni
su ogni forma di libertà, come la
questione sulla libertà di stampa
e della difesa dei diritti delle minoranze che accesero gli animi durante il soggiorno dell’autrice e fece
prigionieri più di cento giornalisti,
in maggioranza curdi:
<<Ma se è vero, come è vero,
che in questo paese – respinto purtroppo per l’Europa dall’Unione
europea, ma non per motivi etici –
anche molti osservatori occidentali confidano (o confidavano) nella
capacità di mediazione politica in
Medio Oriente di un governo islamista che insiste a definirsi “mode-
rato”, la realtà carceraria di massa
in cui vivono giornalisti (e giornaliste), gli arresti che si susseguono,
anche degli editori di giornali ed
emittenti televisive, e persino degli edicolanti, non possono essere
ignorati […] Oggi i politici e coloro che gestiscono i media sostengono che il mondo è un villaggio
globale; ma per difendere i confini
del Villaggio con le armi, spendono
miliardi di dollari. In Turchia il governo di Tayyp Erdogan bombarda
il Kurdistan, e per questo pretende
che gli Stati Uniti gli diano i droni
gratis, ed arresta diecimila politici
curdi. E tutto questo accade mentre la Turchia viene presentata al
mondo come un modello di democrazia per i paesi musulmani. […]
Oggi stiamo assistendo a un massacro ai danni del popolo curdo.
La stampa di sinistra e di destra,
quella dei conservatori e quella dei
liberali, sostiene all’unisono le politiche dello Stato>>.15
Come già affermava Pamuk,
interrogandosi sul rapporto tra
letteratura e politica, “la politica
implica una determinazione a non
capire chi è diverso da noi”.
La letteratura, invece, è il secondo viaggio che, per mezzo della scrittura, reinterpreta l’elemento del reale compartecipe della
personale e artistica evoluzione;
Ivi, p. 72
Ivi, pp. 32-35
Compreso il primo genocidio del Novecento, la scomparsa del popolo armeno durante la prima guerra mondiale
L’autrice stessa apprende la notizia di un attentato nella città di Ankara, proprio durante il suo soggiorno
A. Cambria, Istanbul. Il doppio viaggio, op. cit. pp. 75-76-77
Ivi, pp. 225-226
7
questo libro vuole essere una “interlocuzione fra identità originaria
e curiosità dell’altrove”.16
L’arte diviene dunque un ponte
comunicativo fra culture e religioni
differenti; un’arma capace anche
di scatenare scontri e rivalità ingiustificate e ingiustificabili, per inseguire quell’illusione di patria di cui
parlava Corrado Alvaro.
<<Il tempo corre, non posso
lasciarmi sfuggire Istanbul dalle
mani, ho paura che svaniscano le
sue immagini, i pensieri che mi ha
suggerito, giusti o sbagliati che siano: questa è la città che ho inseguito, visto, scritto, e poi seppellito in
un archivio, per quasi trent’anni,
e che ho ricominciato a scrutare
[…]; infine devo placarmi, con
umiltà, davanti al suo enigma>>.17
Il secondo libro collocabile
entro la letteratura di viaggio viene pubblicato, nello stesso anno,
dall’editore Franco Arcidiaco (Città del Sole, Reggio Calabria). In
viaggio con la zia riprende il titolo
dall’omonimo romanzo dello scrittore inglese Graham Greene (Tra-
vels with My Aunt, 1969) e dal film
di George Cukor (1972, con Maggie
Smith nel ruolo di protagonista).
Le protagoniste della storia sono
una Zia (di cui non viene specificato
il nome, presentando il sostantivo
che designa il personaggio con la
maiuscola), la sua nipotina appena
adolescente (Nora) e l’amica, coetanea, di quest’ultima (Yelena18).
La scelta del ruolo di zia non è
casuale. Volontariamente, Cambria
decide di far assumere al personaggio tale veste simbolica. Infatti,
la “zia” non è altro che l’adulto affidabile e rassicurante con cui ci si
può divertire ed affidare allo stesso tempo perché, non essendo né
un amico né un genitore, riesce a
mantenere la giusta distanza emotiva e il giusto equilibrio tra regole
e spensieratezza.
Tutto parte da un’intenzione:
istruire le due ragazzine sulla storia
e sui miti della Magna Grecia. Decidono allora di compiere un viaggio
nel Sud Italia, rintracciando, tra monumenti e macerie (che segnano la
Storia ufficiale, quella scritta dagli
uomini e che tutti conosciamo),
innumerevoli vicende al femminile,
passate silenti sotto la lente degli
studiosi ma che testimoniano l’evoluzione del ruolo della donna in
rapporto alle politiche e alle società
che si sono susseguite nel tempo.
<<Ho detto loro che andremo alla
scoperta di donne dimenticate, eppure presenti nella memoria dei luoghi, dee, amazzoni, ninfe, filosofe, regine […], ci immergeremo nel mare
della Storia sconosciuta delle donne,
viaggiando per l’Italia… Cominceremo dalla Magna Grecia […]>>.19
La prima tappa del viaggio è
Locri Epizefiri, città fondata nel VII
secolo a.C., ultima delle colonie
greche corrispondenti al territorio
della Calabria.
Il mito di Nosside che narra
della fondazione di questo luogo,
vuole che per iniziativa di alcune
donne greche, imbarcatesi con i
loro schiavi per ribellarsi all’autorità dei propri mariti, fu costruita
la città e sviluppata una società di
tipo matriarcale:
<<[…] il matriarcato come comando (autoritario) delle donne,
corrispondente perciò al patriarcato, non è mai esistito […] in secoli e millenni così lontani da noi,
è impossibile distinguere la Storia
dal Mito. Eppure proprio ora, dopo
alcuni decenni di rivisitazione della
Storia da parte delle donne – abbiamo cercato di svelare l’altra faccia
della luna… - comincia a profilarsi
una vittoria nostra… che nessuno
ci riconoscerà, ovviamente, almeno per i prossimi mille anni… Ma
intanto il fatto è che gli Storici “autorizzati” – in prevalenza maschi
– hanno scoperto per conto loro
[…] nientedimeno che la Microstoria: cioè la storia di tutti i giorni, la
piccola storia quotidiana, che sono
le donne a fabbricare […] il Mito
non è una fandonia, una chiacchiera di donnicciole ignoranti ma, al
contrario, aiuta gli specialisti (loro)
a leggere meglio, a capire i significati profondi delle vicende umane,
e anche delle civilizzazioni e delle
società che si sono succedute nelle
Grande Storia del Mondo>>.20
Con questa affermazione la
scrittrice reggina mette in discussione la veridicità della Storia stessa, o perlomeno la sua esaustività,
dato che solo una parte di umanità, quella maschile, si è occupata di
imprimerla sulla pagina, facendo in
modo di tramandare una versione
dei fatti, afferma, ideologicamente
manipolata, come del resto la stessa tradizione del poema epico.
Per quanto riguarda le principesse locresi, secondo Aristotele, i
locresi in Calabria conoscerebbero
la loro origine dall’insediamento di
donne adultere, briganti e schiavi
fuggiaschi, senza fare alcun accenno ad una qualsiasi autorità
femminile; gli storici moderni sono
rimasti su questa linea. Tuttavia,
un’eccezione è rappresentata da
Robert Graves:21
<<[…] lui è stato il primo a teorizzare la superiorità della donna
nella fase arcaica della civilizzazione greca>>.22
Graves parla del Tempo delle
Madri, ma gli stessi riti praticati in
16 Ivi, p. 147
17 Ivi, p. 159
18 Ovvero, Kashya (figlia della governante polacca che accudiva l’anziana madre dell’autrice), alla quale dedicherà il romanzo
19 A. Cambria, In viaggio con la zia, Reggio Calabria, Città del Sole, 2012, p. 11
20 Ivi, pp. 16-17
21 Studioso britannico (1895-1985) che nel 1954 pubblicò una raccolta sulla mitologia greca intitolata I Miti greci, pubblicato in italiano da Longanesi nel 1983
22 A. Cambria, In viaggio con la zia, op. cit. p. 18
8
quei luoghi, legati al culto di Afrodite (la divinità principalmente venerata a Locri), svelano i meccanismi
economici legati alla prostituzione
sacra: fanciulle vergini che sacrificavano la loro innocenza nel tempio
della Dea con il fine di espiare la colpa di Ajace, la violenza su Cassandra23 nel tempio di Atena durante
l’invasione di Troia da parte dei greci, ma che probabilmente, attraverso un vero e proprio traffico sessuale, servivano a finanziare il tempio.
Dunque, una qualche forma di
“emancipazione” femminile, probabilmente solo apparente, che affonda le sue radici in tempi così remoti
da celarsi alla memoria, e che pure,
oggi, appare non solo come traccia
di un antico passato ma anche come
una chimera da sempre rincorsa e
mai raggiunta; ne è un valido esempio la figura di Didone, ancora rievocata fra queste pagine quando giungono in Sicilia, nel luogo fondato da
Enea che vide bruciare le navi dei
troiani, sulla spiaggia di Erice.
La regina, combattuta fra l’amore di Enea e la responsabilità
che sente nei confronti del suo popolo, è un simbolo attuale. Il suo
suicidio è un atto di lucida modernità. Anche il “pio” Enea assume, agli
occhi dell’autrice, le caratteristiche
proprie di quell’opportunismo ma-
schile che noi, oggi, definiremmo
“tipico dell’uomo moderno”:
<<Il problema di Didone […]
non è soltanto quello dell’opportunismo di Enea. L’eroe troiano, per
compiere il suo “glorioso destino”,
deve sposare Lavinia, la figlia di Re
Latino, e dare il via alla fondazione di Roma… Ma Didone si sente
responsabile del suo popolo… Ed
anche se Enea “potesse” sposarla
e portarla via con sé […] lei sente
che non sarebbe giusto trascinare
la sua gente in un’altra avventura,
verso un’altra terra sconosciuta e
probabilmente ostile… Perché i
Fenici, in terra d’Africa, erano già
degli immigrati. […] E Didone, che
li aveva guidati fin lì da Tiro, e per
loro e con loro, aveva fondato una
città raffinata e splendida, non voleva strapparli, ancora una volta,
da quelle che erano diventate le
loro radici […]. E proprio qui, su
questa spiaggia […], si ripropone il
tema della relazione difficile, complicata, che le donne hanno sempre avuto con il Viaggio>>.24
Ciò implica di imporre delle differenze tra il viaggio fine a se stesso, intrapreso come percorso di
conoscenza del mondo o di crescita interiore, e il viaggio come raggiungimento di una meta concreta, stabile, approdo di certezze e
rifugio degli affetti; a differenza dei
grandi condottieri di cui ci narra la
storia, che giungevano in terre sconosciute con l’intenzione di fare
razzie e massacri, Didone compie il
viaggio insieme alla sua gente per
trovare un luogo in cui stabilirsi.
Opposto alla distruzione, il fine è
costruttivo e l’esigenza di ricreare
altrove nuove radici, è maggiore
rispetto al bisogno di soddisfare i
suoi personali desideri:
<<[…] pur essendo una condottiera, una donna audace, che
non esita a mettersi per mare e
a trovare e a costruire, per sé ma
anche per le persone di cui si sente
responsabile, un destino migliore,
non ama il viaggio-per-il-viaggio
[…]. Gli uomini hanno sempre avuto un feeling speciale per il Viaggio
con la maiuscola… A cominciare da
Ulisse […]. Per le donne invece il
Viaggio era un dilemma… C’è una
lacerazione, nella psiche femminile, tra l’essere casa, l’essere famiglia,
e conoscere il mondo […]. Questo
conflitto sembrava “eterno”>>.25
Ed è lo stesso tipo di conflitto
che caratterizza il pensiero di Adele Cambria, in cui il forte senso di
appartenenza legato alle sue origini meridionali, impedisce il superamento di certi valori in contrasto
con il concetto di emancipazione
23 Anche se, secondo la versione di Eschilo, fu Agamennone a farla prigioniera
24
A. Cambria, In viaggio con la zia, op. cit. p. 86
25
Ibidem
9
femminista. Saranno le due ragazzine a stimolare nella “Zia” riflessioni sulla sua ideologizzazione del
mito. Non si tratta infatti di una
pedagogia, di una conoscenza unidirezionale, dall’adulto al giovane,
ma proprio la scarto generazionale
tra la zia e le due adolescenti, implica uno scambio, un ridimensionamento, un confronto continuo,
che si concretizza senza perdere
i toni ironici che predominano nei
dialoghi tra i personaggi.
Le amazzoni, altro, potente, archetipo in contrasto al potere maschile e ispiratore del modello di
matriarcato adottato dalla donne
di Locri, veneravano principalmente la dea della caccia, Artemide:
<<Galoppavano su queste
spiagge migliaia di anni fa […] il
mito delle Regine-Amazzoni precedette la fondazione delle città
della Magna Grecia… Tra lo Jonio
26
27
10
Ivi, p. 116
Ivi, p. 13
e il Tirreno… Anche Bagnara e
Scilla sarebbero state fondate da
queste dinastie di donne guerriere
[…]. Gli storici antichi, per esempio
Licofrone, narrano che la prima Regina-Amazzone di cui si abbia memoria in questi luoghi fu Cleta […]
approdò proprio su questa spiaggia, fuggendo dalle rovine fumanti
di Troia>>.26
In epoca moderna, l’eredità lasciata da queste donne stanziatesi
nella regione della Sizia e dell’Anatolia, finchè la giovenca, castigo di
Era, non si spingerà fino al Bosforo,
sono le “bagnarote” (che l’autrice
definisce le “Amazzoni della Marinella”), mogli di pescatori sulla riva
di Monasterace Marina; dalle loro
nere ed ampie gonne faceva capolino un lembo di stoffa rossa, simbolo di “bellezza e bandiera”:
<<[…] diventate le fimminote,
sensuali e predatrici, nel roman-
zo di Stefano D’Arrigo, Horcynus
Orca, sono state le ultime discendenti “riconoscibili”, almeno fino
allo scadere del secondo millennio,
delle Amazzoni che percorrevano
questa terra, emersa tra due mari,
lo Jonio e il Tirreno […] capitanate,
nel Mito, da Cleta, regina di Caulonia – oggi Monasterace Marina,
dove affiorano, dalla sabbia scintillante, le esatte, bionde rovine del
Tempio di Apollo – via via fino allo
scoglio custodito dalle guerriere di
Scilla. E poi, disarcionate ma non arrese, loro, le bagnarote, hanno dominato i traffici mercantili tra Reggio e Messina, nascondendo sotto
le cento sottane il sale clandestino,
in tempo di guerra… Ma ancora
qualcuna resiste, a gridare, all’alba,
per le strade dei paesi rivieraschi, le
chistardelle appena pescate>>.27
Mentre, a prova della de-generazione del Mito, con il consolida-
mento del patriarcato, la figura di
Scilla, “orrendamente latra”, innamorata di Minosse e trasformata in
un mostro che terrorizza i viaggiatori che si avventurano per mare
e, insieme a Criddi, rappresenta il
processo di demonizzazione della
figura della donna, che da ninfa a
mostro, diventa uno dei simboli più terrificanti tra i personaggi
femminili dell’intera mitologia:
<<[…] il fantasma di Scilla si è
accampato nell’immaginario maschile, fin da quando i primi uomini,
o eroi o semidei che fossero, affrontarono i rischi della navigazione…
Dagli Argonauti a Ulisse, Scilla, con
il suo doppio, Cariddi, era il segno
inquietante del femminile […]. Scilla annegò sotto gli occhi indifferenti dell’amato e la sua anima volò via
come un uccello purpureo… È l’uccello marino dalle piume rosse…
ciris è il nome che gli hanno dato
gli eruditi… un uccello che qualche
volta, dicono, si vede volare al tramonto attorno alla rupe […]>>.28
28
29
Effettivamente anche il Mito,
nelle sue mille versioni, fu tramandato da Erodoto, Eschilo, Luciano
e da molti altri, tutti uomini. Come
uomini erano quelli che trascinarono credenze pagane nelle trame
del Cristianesimo, distorcendole
nei loro tratti, impoverendole della
loro ricchezza, piegandole alla dottrina teologica.
Il tour della Zia, e delle due giovanissime accompagnatrici, è un
percorso che non tende ad attraversare solo il territorio, il dato geografico, ma consiste nell’attraversare il Mito, percorrendo strade più
impervie e profonde, scorgendo le
sue numerose tracce, disseminate
in tutta la Magna Grecia; esse testimoniano, ora, il loro frutto, ovvero, la società odierna. Ma il Mito
è capace anche di risalire la linea
temporale a ritroso, fino ad oltrepassarla: la storia prima della Storia
che, pur sopravvivendo nel Genius
loci, ha perso la sua aura sacra, in
un’attualità che non si ritualizza,
che ha smarrito ogni simbolizzazione del suo culto, chiave di lettura
ed essenza di ogni civiltà. Ed ecco
che la morte del Mito viene a coincidere con la nostalgia del ritorno,
tradotta nell’immagine dell’antico
lago di Proserpina, ormai prosciugato in favore di una pista di formula uno, o in quella, più romantica, di un vascello dalle sette vele:
<<Marciamo tra alberi di fichi
e di limoni […]: alle nostre spalle,
il mare Jonio azzurrissimo, dove
sempre appare – in coincidenza
con i miei “ritorni” qui – il misterioso vascello dalle sette vele […]:
ritorno come nostos, nostalgia, il
dolore del ritorno […] alla fine del
millennio, sparite le ingannevoli
romantiche vele, all’orizzonte dello Jonio hanno cominciato a profilarsi carrette dei mari, gommoni,
pescherecci in avaria, , colmi di
curdi disperati e bruni, con le mogli
incinte e, nonostante tutto, regali,
i capelli nascosti da veli leggeri, le
nobili fronti scoperte>>.29
Ivi, pp. 107-108
Ivi, p. 9
11
Gigi Proietti e...
“Caro Petrolini”
Katiuscia Torquati
Il teatro di Petrolini nel panorama dell'epoca
Agli inizi del Novecento quando Ettore Petrolini
inizia la sua esperienza teatrale, il teatro di Varietà
italiano è in piena maturità e molti nuovi spazi sono
stati aperti per sopperire alle nuove esigenze. Sono
i Cafè concerto che contribuiscono alla nascita del
Varietà, inizialmente a Napoli, città influenzata sin
dall'epoca napoleonica dalla cultura francese, e
dove tale nascita coincide con l'epoca d'oro della
canzone napoletana, per poi passare ad un'altra
importantissima piazza che è quella romana, dove
verrà fondato successivamente un altro Salone
Margherita, poi teatro Sala Umberto. All'inizio non
si può dire che esista un solo modello né dal punto
di vista delle strutture in cui portarlo in scena, né
dal punto di vista della struttura stessa dello spettacolo e del pubblico. Anzi esso è caratterizzato
da una certa flessibilità degli elementi strutturali:
assenza del rispetto delle convenzioni; osmosi tra
pubblico e attore, spettatore e spettacolo; scenografia essenziale e neutra che mette in evidenza gli
elementi più prettamente espressivi come mimica,
costumi, trucco; orari di apertura non convenzionali; pubblico vario. Il Varietà si configura quindi come
luogo di intreccio tra culture e costumi. Anche l'esperienza di Petrolini la si comprende a partire dai
diversi pubblici, i diversi luoghi, i differenti tessuti
culturali e sociali con cui egli viene a contatto, nel
rapporto cioè tra cultura del singolo e cultura collettiva. All'inizio il teatro delle Varietà consiste
esclusivamente in varie canzonette o monologhi,
successivamente si arricchisce con ritratti “macchiettistici”, per ampliarsi poi con balletti, numeri di
magia e trasformismo, divenendo una successione
di numeri scanditi a metà spettacolo da un intervallo, con il numero più importante alla fine dell'intero
spettacolo. Si inizia generalmente infatti con le canzonettiste, seguono attrazioni varie accompagnate
da musica; poi le divette, i comici, le sciantose e le
romanze, per arrivare al culmine della serata con le
vedette, oppure con l'attore comico o la cantante.
12
Possiamo definire il teatro delle Varietà come un teatro che sintetizza
l'esperienza sia del teatro futurista
che quella di un teatro per così dire
a sorpresa e antipsicologico, dove
risulta più importante l'aspetto fisico, muscolare e meccanico che
quello psicologico. Il Varietà è un
genere di spettacolo che vive del,
e si mantiene sul, reale godimento
dimostrato dagli spettatori: l'evento teatrale si appoggia sulla collettività. Vi è una vera e propria commistione tra pubblico e attore: il
pubblico partecipa, interviene anche con fischi oltreché con applausi, come è evidente in Petrolineide.
Siamo di fronte ad un teatro antipsicologico dove il pubblico vuole ridere, stupire ed essere stupito,
emozionarsi attivamente. Il teatro
di Varietà segna la nascita dell'attore-scrittore, come Petrolini, Viviani, Totò, e dell'attore in grado di
mettere in gioco il suo corpo dinamico, come il trasformista Leopoldo Fregoli. Nel teatro delle Varietà
più linguaggi espressivi coesistono
contemporaneamente: unica cornice dello spettacolo è la serata in
se stessa e lo spazio condiviso con
gli altri artisti. Non sussiste né unità narrativa né tematica, in quanto
i numeri risultano accostati in una
“successione paratattica”.
L'attore comico, contrariamente al teatro di regia, è solo, solo
non esclusivamente durante la
rappresentazione ma anche prima,
quando inventa il suo repertorio,
i suoi costumi, il suo trucco. Egli
vive di “auto-tradizione”, si riferisce cioè ad una serie di tradizioni
individuali che richiama, riscrive
o sovrappone. L'attore scrittore
si trova infatti nell'impossibilità
“di adottare in maniera esclusiva
e completa un solo modello” (ivi,
p.158), mettendosi egli stesso in
relazione alle tradizioni del teatro
attuali e del passato, spesso di
matrice popolare, con l'intento di
recuperarle reinterpretandole o
capovolgendole in senso parodico.
L'attore costruisce un intertesto
plurilinguistico; lavora sulla sintesi, a volte su piccoli frammenti, in
quanto il suo tempo a disposizione
è brevissimo.
Anche il pubblico viene educato
ad una fruizione frammentata e a
rapidi cambiamenti, in cui possono
verificarsi anche la distrazione, l'intervento diretto, le grida, gli applau-
si e la consumazione di qualcosa da
bere. Il pubblico è il soggetto su cui
viene testata serata dopo serata
la bravura dei comici. Il Varietà è
espressione della cultura popolare,
si verifica anzi complessivamente
un rinnovamento dal basso del teatro anche se, dopo l'apice raggiunto
intorno agli anni 1910-1920, soprattutto in Italia con l'avvento del fascismo, che favorisce la trasformazione di molti teatri in cinema dove i
brevi spettacoli che si tengono sono
solo preambolo della proiezione del
film, scompare presto dai teatri per
esitare dapprima nell'Avanspettacolo, dove perde la carica ironica e
critica rispetto a questioni cruciali
dell'attualità, e successivamente
nella Rivista, puro divertimento e
insieme di prosa, musica, ballo, generalmente firmata da attori e critici famosi, ispirata a Operette o altri
spettacoli teatrali senza impegno
politico o morale, che a sua volta
evolverà nella Commedia musicale. Nel teatro di Varietà Petrolini,
malgrado il fascismo, non perde la
funzione di critica sociale ironizzando proprio sul fascismo stesso nella
macchietta di Nerone: entra vestito
e truccato da Nerone pedalando su
una bicicletta.
Petrolini sedicenne, in linea con
le compagnie che nel panorama
teatrale a cavallo tra i due secoli
mettono in scena drammi popolari ispirati alla letteratura Popolare
o d'Appendice, inizia con un re-
pertorio di drammoni e operette.
Queste esperienze pongono le basi
della sua formazione non solo attoriale ma anche musicale e canora.
Ma le esperienze che maggiormente definiscono la sua personalità
artistica sono però: gli spettacoli di
piazza Guglielmo Pepe che, a strettissimo contatto con il pubblico, gli
permettono di acquisire un'idea di
teatro come pratica delle emozioni; la maschera di Pulcinella che, già
all'epoca ampiamente rivisitata e
contaminata da attori non strettamente napoletani, Petrolini adotta
adattandola alle sue caratteristiche
e, in linea con la tecnica dell'invenzione libera, dell'infedeltà al testo,
del non senso e dei giochi di parole,
capovolge, contamina, scompone,
denuda e smaschera fino a farla diventare un Pulcinella disperato, sospeso tra il riso e il pianto; il Varietà,
le scemenzuole, ossia quella pratica
bassa del teatwro che gli permette
di inscenare con le sue macchiette
la gente disorientata, disperata dalla tragedia della guerra e nutrita di
luoghi comuni, fornendogli il sentire e il materiale vivo del suo teatro,
non allo scopo di rappresentare il
vero, perché è proprio l'idea di un
teatro come rappresentazione del
vero che egli combatte, ma allo
scopo di far emergere ciò che non
esisteva prima.
Dalle prime esperienze, in cui
affina vista e udito, fino ad arrivare all'acquisita capacità di tradurre
13
in emozioni teatrali esperienze e
punti di vista, Petrolini ci fornisce
e lascia non solo un campionario
di espressioni caratteristiche in cui
tutti si riconoscono, ma soprattutto un modus operandi tipico dei
grandi, la libertà e la capacità di
trasgredire.
Possiamo indicare Petrolini
come rinnovatore teatrale o di costume?
C'è chi riconosce esclusivamente l'operazione satirica sulla realtà
prodotta da Petrolini, che culmina
nella critica del fascismo e di Mussolini effettuata nel suo Nerone, e
chi sostiene, come lo scrittore e critico Edoardo Sanguineti che, eliminando ogni riferimento alla realtà,
l'operazione principale effettuata
da Petrolini con le sue maschere
consista soprattutto in un rinnovamento teatrale. Petrolini assume la
tradizione di famosi poeti romani,
Belli, Pascarella, Trilussa la tradizione teatrale napoletana; Maldacea e
le sue macchiette, per arrivare poi,
allontanandosi dalla “macchietta”
napoletana, alla parodia della macchietta, alla satira sui macchiettisti
suoi contemporanei, alla riscrittura
parodica del Melodramma italiano,
del teatro di prosa Ottocentesco,
della canzone romanesca, del Cinema muto, del divismo cinematogra1 P. Pancrazi, Abbaiamenti alla Luna, in “La Voce”, 31 Gennaio, 1916.
2 Piero Pancrazi (Cortona, 1893-Firenze, 1952) Scrittore e critico letterario.
14
fico in genere, del futurismo (Fortunello), della canzone francese, delle
canzonette dolciastre dei divi del
Cafè concerto (di cui Gastone sarà la
più completa espressione), dell'antico mito della romanità (Nerone),
e del romanzo popolare. Parte cioè
dalla tradizione per arrivare alla sua
completa dissoluzione. Certo è che
la parodia è sottesa a tutta l'opera di Petrolini: voce, corpo, gesti,
costumi, trucco, mimica sono essi
stessi parodici, tutti elementi stravolti di un linguaggio proprio della
parodia, costruito dalla parodia;
elementi antinaturalistici che, nella
loro combinazione spesse volte improbabile, sono lì a parodiare ora il
cantante aristocratico, ora il “ricercato nel vestire” (GASTONE), ora
l'attore del teatro di Varietà. La parodia è cioè una costante nella sua
arte, nella sua moderna e straziante
comicità, arrivando a comprendere
dolorosamente anche se stesso:
sono un uom dei più cretini,
sono Petrolini (FORTUNELLO).
Riferendosi alla sua cretineria
come all'ultimo stadio dell'umorismo, quando cioè l'umorismo, il
riso, l'ironia si svuotano di contenuto e diventano fini a se stessi, reclinati su se stessi, esercizio vacuo e
specchio di una società che vive la
“catastrofe del senso” (Pancrazi,
1916)1. Il Pancrazi2 definisce sublime idiozia quell'atteggiamento che
mette a nudo l'insensatezza, che è
sublime e tragica insieme. Il comico
sfocia nell'anticomico, non più in
grado di far ridere, espressione di un
“grottesco” portato ai suoi estremi.
Il linguaggio, sfruttando la struttura
libera del Varietà, stravolto nelle sue
regole fondamentali, si fa veicolo di
questo senso svuotato, diventa catalizzatore di tutta la comicità fino a
toccare i vertici del non-sense.
Quando parliamo del teatro di
Petrolini, decade ogni distinzione
tra macchiette e parodie: tutto è
parodia. Attraverso lo slittamento,
che nella sua accezione consiste
nell'uscire “dalle dimensioni della
finzione scenica passando per un
momento in quella della realtà”
arrivando a mostrare ogni cosa e
il suo contrario, egli esercita la sua
critica nel momento stesso in cui
recita, connotando la sua tecnica
con il sentimento, cifra della sua
grandezza artistica. Questo distingue Petrolini da operazioni strettamente tecniche, come quelle dello
straniamento brechtiano. In Petrolini l'uscita a sorpresa dalla dimensione della finzione per passare a
quella della realtà è momentanea
e proprio per questo efficace. E' il
contrasto tra la finzione e la realtà,
contrasto suggerito da qualsiasi
minimo accidente di teatro, una
poltrona che scricchiola, una risata
eccessiva, che permette il commento. Al modo falso e manierato
di recitare, tipico del teatro colto
dei suoi tempi, egli contrappone la
verità e la vita.
La stessa operazione ritorna
in Gigi Proietti che all'occorrenza
esce dalla finzione scenica per passare alla realtà, sfruttando qualsiasi occasione o contingenza capiti
in sala: in A me gli occhi please, per
esempio, nel bel mezzo dello spettacolo coglie l'occasione di un rumore per uscire dal personaggio e
commentare la realtà del pubblico
apostrofandolo come ritardatario.
Tornando a Petrolini dunque,
egli sempre si riferisce alla realtà,
anche in quelle che potremmo definire esclusivamente parodie teatrali. L'autenticità della vita che
prepotentemente si presenta con
gli slittamenti è da lui preferita a
qualsiasi altra intrusione volgare
e oscena, che tanto piacerebbe
ad un pubblico poco colto. E proprio nella ricerca dell'autenticità,
gli slittamenti risulteranno tanto
più efficaci quanto più il personaggio da lui creato sarà autentico,
intendendo egli per autenticità
una costruzione puntuale ma esagerata e teatrale, costruzione che
non coincide più esclusivamente
con la realtà ma che è il significato
profondo e nascosto di essa. Egli
sceglie liberamente dalla realtà
una parte, mette sotto la lente
d'ingrandimento caratteri umani,
categorie morali, stereotipi, perché libero è il teatro di Varietà,
stravolge quella parte, la esaspera fino ad arrivare ad una forma di
inautenticità costruita e, facendo
procedere parallelamente costruzione teatrale e autenticità della
sua recitazione, complice il pubblico che garantisce tale operazione di slittamento, entra fino in
fondo nella parte, si immedesima
con gli aspetti più profondi della
realtà e denuncia l'inautenticità
attraverso l'autenticità. L'operazione finale che ne risulta riguarda la critica dei miti e degli eroi
di tutta la cultura a lui contemporanea, un'operazione volta a
denunciare l'intero sistema. I tipi
grotteschi di Petrolini sono veri
perché “dicono, attraverso la propria finzione, una verità più complessiva sul mondo e sulla storia
contemporanea” (Orecchia, 2014,
p.164), sono una possibile lettura
deformata della realtà che il parodista attua attraverso il linguaggio. I suoi tipi riportano deformati
o sintetizzati tratti precipui della
realtà osservata.
Altro elemento caratteristico
del suo teatro e del Varietà in genere è la variazione del testo che
egli liberamente opera, inserendo
spesso elementi tratti dall'attualità, anche se questi stridono con
la realtà effettiva come quando,
nella trasposizione cinematografica di Nerone, PETROLINI (entrando
in scena in bicicletta) si al pubblico con queste parole: Che c'è da
ridere, mai visto un imperatore?
Risulta qui chiara l'operazione da
lui eseguita: partendo da un elemento dell'attualità arriva a fare
una parodia non solo del teatro di
costume e del Melodramma, ma
anche dei discorsi mussoliniani;
anzi siamo di fronte a un insieme
di parodie legate insieme e corredate da sberleffi, lazzi e giochi di
parole che culminano in un autentico “grottesco” quando Nerone
assume l'espressione della paura
tipica dei bambini e smette per un
attimo di farci sorridere, infondendo in noi solo tenerezza. Ma se in
Nerone l'attore-autore assume il
personaggio dall'interno fingendo
di essere Nerone ed uscendo dal
ruolo per parodiare, in Gastone egli
fa Gastone mascherato da Gastone
(Livio, 1989, p.228), tutta la parte è
recitata in maschera, critica gli artisti del Varietà e del Cinema muto,
ma soprattutto esercita direttamente la funzione grottesca, parodica e umoristica senza l'intento di
far ridere per liberare nel riso ogni
affetto, ma allo scopo di indurre il
sentimento del contrario, un sen-
timento penoso che rimanda a Petrolini stesso.
Sintetizzando, tre sono gli
elementi che concorrono al suo
teatro: la sua diretta esperienza
personale, che riversa nel teatro
e da cui attinge battute, azioni e
canzoni; la cura estrema nella caratterizzazione dei personaggi,
realizzata immagazzinando stati
d'animo ed espressioni dalla realtà, in modo da poterle rendere
riconoscibili al pubblico, che riproduce, tra ironia, satira e critica acerrima, nei giochi di sguardi,
espressioni e parole, e nei climi
tragicissimi e comici evocati in
teatro; la trasgressione: egli si
prende gioco del pubblico e di
quanto narra, ma trasgredendo la
tradizione non fa altro che affermarla e dichiararsi facente parte
di essa. Petrolini ha rinnovato a
tal punto il teatro che esso non è
più rappresentazione del vero ma
rappresentazione di ciò che prima
non c'era affatto.
A parte la stampa specializzata
nel Varietà e nella Rivista, dove subito egli ricopre un posto di primo
piano, è solo dopo la tournee in
Sud America che viene però a gran
voce apprezzato ed onorato per la
sua bravura e che la critica teatrale
ufficiale se ne occupa.
Gigi Proietti e il “...
Caro Petrolini”
E' il 1983 e Proietti, con la collaborazione di Ugo Gregoretti3
mette in scena, in occasione delle
manifestazioni indette dall'allora
sindaco di Roma Ugo Vetere per il
cinquantenario della morte di Ettore Petrolini, uno spettacolo intitolato Caro Petrolini. Insieme iniziano
a studiare il personaggio Petrolini
e la sua satira ancora attuale e vibrante. Una satira non a imitazione
di qualcun altro, ma interamente
inventata da lui ed incentrata su
un tipo di linguaggio inedito e rinnovato; su un modo di raccontare
improvvisato e orientato dal suono
delle parole, che per via analogica
lo portano ben al di là del punto di
attacco; un modo che Proietti ha
già sperimentato in A me gli occhi
please. Intorno a Petrolini Gregoretti inventa uno spettacolo bellissimo organizzato in due tempi:
seleziona delle macchiette e delle
canzoni per la prima parte e taglia
sapientemente tre commedie,
Romani de Roma, Benedetto fra le
donne e Il padiglione delle meraviglie, montandole l'una dentro l'altra per la seconda parte. Il risultato
finale, dopo numerosi rimaneggia-
3 Ugo Gregoretti: (Roma, 1930) Regista, attore, giornalista, drammaturgo e intellettuale.
15
menti elaborati insieme a Proietti,
è un testo piacevolissimo e particolare che viene portato in scena con
successo al teatro Stabile di Roma
e successivamente in altri teatri. In
questo spettacolo Proietti sfrutta tutto il vastissimo repertorio di
volti, maschere e luoghi non solo
dell'esperienza teatrale petroliniana ma di tutta la tradizione culturale italiana, come per esempio la
tradizione della “piazzetta” come
luogo deputato alla rappresentazione di narrazioni farsesche incentrate sui mestieri svolti all'aperto,
cosa che possiamo apprezzare nel
II atto quando il nostro artista impersona il calzolaio Archimede, un
po' bevitore un po' filosofo, che
sproloquia senza freni.
Lo spettacolo così montato
non si discosta molto da quello
originale di Petrolini, ancora attuale e funzionale, e ricrea, nell'intenzione dei due autori, lo stesso
16
clima e soprattutto lo stesso afflato con il pubblico in sala, nell'intento di ridare al nuovo pubblico
le stesse immagini e le stesse sensazioni di allora.
PROIETTI inizia (rivolgendo in
“romanesco” al pubblico l'invito a
partecipare a una manifestazione
culturale in onore del grande Petrolini): la mostra io me la vado a
vede'. Si succedono, alternate e accompagnate da musiche originali
di Petrolini, una serie di “macchiette”, parodie, situazioni che ricalcano in modo preciso, o in qualche
modo ricordano, le macchiette, le
parodie e le situazioni teatrali create da Petrolini. Sin dall'inizio il
pubblico è avvertito del fatto che
verranno riprodotti pezzi famosi
di Petrolini: subito Proietti assume
un'andatura marionettistica che lo
ricorda in vivo.
Durante lo spettacolo si susseguono le tante e famose pa-
rodie di Petrolini, Cyrano de Bergerac, Paggio Fernando, Amleto,
parodie degli attori affettati e
manierati e del Melodramma,
del Faust per esempio, infarcite
con giochi di parole, espressioni
mimiche, commenti con il pubblico, slittamenti, frasi in dialetto,
gorgheggiamenti, tutti elementi
tipici del Varietà, che egli fa suoi
e ripropone in diverse combinazioni. Rilevanti le due macchiette
petroliniane, Fortunello e Gastone, che riproduce in un modo che
permette non solo di ritrovare
l'impronta del teatro “grottesco” di Petrolini, ma anche la sua
personale interpretazione di quel
teatro, nella quale rintracciare il
suo deferente tributo.
In Fortunello il testo rimane
invariato ma cambia il ritmo che
a tratti, a differenza di quanto avveniva con Petrolini che recitava
Fortunello in un modo talmente
lento che il pubblico poteva cogliere ogni singola parola, si fa talmente veloce e incalzante da far quasi
perdere il filo del discorso, come
a sottolineare che si tratta di una
citazione e non di una pedissequa
riproduzione.
Gastone soprattutto merita
un commento più articolato. Gastone, come già lo era stata per
Petrolini, è la caricatura dell'attore del Varietà che si atteggia
ad attore ricercato. Interpreta
tale “macchietta” camminando in modo “marionettistico”.
Malgrado il costume utilizzato
per Gastone sia identico nei due
autori, anche se Proietti a differenza di Petrolini si veste in scena per sottolineare il passaggio
a questa importante e famosissima macchietta, in Proietti la
“macchietta” assume contorni
ancor più accentuati: la mimica facciale si fa più intensa, a
dispetto del trucco che invece
sparisce; gli occhi e la bocca
non restano fissi come nell'originale; modifica alcune parti
del testo reinterpretandole e
modificandole in chiave moderna; toglie e aggiunge battute
per rendere ancora più divertente la macchietta; gioca con
i nomi delle donne, gioco non
presente nell'originale di Petrolini: gemma ama la mia flemma, dice PROIETTI (rivolgendosi
al pubblico); accelera il ritmo;
smussa la tristezza; dinamicizza il corpo; taglia una parte
del testo per renderlo più fruibile; aggiunge scenografia, per
esempio un attaccapanni da cui
prende il costume di Gastone
che indossa in scena.
Segue la proiezione di una
pellicola di un film muto e subito
dopo un pezzo simil-drammatico
pieno di doppi sensi erotici e comicità quasi clownesca: me dispiace der fazzoletto che nun è
mio ma è de batista, recita PROIETTI. Si tratta de L'amor mio non
muore, un pezzo originale di Petrolini, un film muto riproposto
con una musica melodrammatica
come sottofondo.
Segue la “macchietta” Nerone,
molto simile a quella di Petrolini,
a parte il pezzo in cui l'imperatore gioca a morra, ma che a ben
guardare se ne differenzia in molti
aspetti. Intanto Proietti accorcia il
testo, recitando dell'originale solo
le battute più significative e divertenti: il suo intento è omaggiare
Petrolini, non farne una copia che
per l'odierno pubblico potrebbe
risultare pesante e noiosa. La ricca scenografia della macchietta di
Petrolini si riduce a un'immagine di
Petrolini stesso vestito da Nerone.
Si tratta di un altro pezzo tipicamente “grottesco”, ma, se il costume e il trucco in Petrolini sono
curati nel dettaglio per ricordare
l'antica Roma, e di rimando il potere fascista, in Proietti spariscono le
gote rosse e il nasone a patata e il
personaggio risulta meno caricaturale: basta il suo normale vestito,
una tunica rosso porpora che lo copre e la corona d'alloro in testa per
creare Nerone. Come già detto per
Gastone, il ritmo in Proietti si fa più
veloce e il linguaggio più incline al
dialetto “romanesco”.
Segue il pezzo tipicamente
“grottesco” della parodia de Il Piacere di D'Annunzio, in cui Proietti
fa la caricatura di Andrea Sperelli,
protagonista appunto dell'opera
menzionata, e tra atteggiamento
compassato e risa del pubblico, divagazioni e battute, canta la Canzone delle cose morte di Petrolini.
In questo spettacolo Proietti ha quindi incarnato tutti gli
stilemi recitativi di Petrolini, addirittura superandoli: giochi di
parole che si susseguono fino ad
allontanare, come in Petrolini, il
senso e il suono dalla parola di
partenza, come variazioni dalla
sua autotradizione; alternanza di
macchiette, parodie, caricature e
pezzi di recitazione aulica, nella
quale, pur mantenendo nel verbale l'aulicità, il contenuto risulta
degradato a puro dato di realtà
(per esempio quando in modo solenne e altisonante parla di piedi);
linguaggi multipli, dall'italiano ai
vari dialetti, al “romanesco” so-
prattutto; gestualità e mimica
come in Petrolini, quando addirittura più accentuate; camminata
“marionettistica”; canzoni, stornelli; pezzi di meta-teatro in cui
scivola dalla riflessione seria sul
teatro alla parodia della stessa
riflessione; slittamenti; tableaux
vivant come quando, prima della
parodia di Amleto, in disparte rispetto agli altri attori, presenta la
scena come fosse un quadro fisso
e immutabile.
Più si va avanti nello spettacolo più i pezzi risultano un po'
meno petroliniani e sempre più
tipicamente suoi, con maggiore presenza di dialetto, richiami
al romanesco e numerosi doppi sensi. La scena è soprattutto
occupata da personaggi come il
calzolaio Archimede, che torna
quindi nel II atto alternandosi
alle apparizioni di Benedetto, figura tipica del borghese recitato
anche da Petrolini. Arriva nel finale il richiamo agli stilemi tipici
del Café concerto, del Varietà e
della Rivista: lo spettacolo finisce con una sua dichiarazione
aperta diretta al pubblico in cui
è lui stesso a spiegare i tanti finali possibili. Uno dei tanti finali
potrebbe essere quello lieto: ed
infatti balla insieme a un'attrice
accompagnato da una musica
lieve fingendo allegria. Come
lui stesso afferma, questo finale tra il patetico e il drammatico
potrebbe non soddisfare il pubblico, quindi passa al secondo
finale, quello tipico da Caffè concerto, dove tutti gli attori ballano insieme muovendosi in modo
meccanico, con battute tipo
botta e risposta e un siparietto
finale cantato e ballato da lui,
l'attrice e l'attore di spalla. Dopo
aver solo accennato, senza ulteriori spiegazioni, i finali terzo e
quarto, arriva finalmente al finale maggiormente in stile petroliniano, il più indicato non solo per
omaggiare il maestro ma anche
per rimanere in linea con la sua
recitazione e i temi proposti: è
qui che si dichiara apertamente
ispirato a Petrolini. Si tratta di un
finale corale con tutti gli attori
presenti sulla scena, attori che si
producono in un serrato dialogo
che alla fine lascia il posto a una
canzone dedicata espressamente a Petrolini.
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Il teatro dell’imprevisto
La vita degna di
Dario Buzzolan
Fabio Pierangeli
Seguo fin dall'esordio del 1999 la narrativa di
Dario Buzzolan.
In questi vent'anni, insieme alla pregevole collaborazione con i programmi di RAI TRE e l’impegno
di recensore e saggistica cinematografico, lo scrittore torinese ma da tempo romano di adozione, ha
collezionato otto romanzi, pubblicati con diversi,
sempre di livello nazionale, da Mursia a Baldini &
Castoldi, da Fandango a Manni.
Gli ultimi due romanzi, intensi e molto ben riusciti, Malapianta (Baldini&Castoldi, 2016) e La vita
degna (Manni, 2018) ne confermano le principali
doti.
Ad livello stilistico generale innanzitutto sottolineo una rara capacità camaleontica di variare
ambienti e personaggi in modo radicale, con una
sostanziale fedeltà a nuclei tematici ritornanti e
l'abilità strutturale, sostenuta da una scrittura incalzante, verticale, sia a livello della trama che della
psicologia dei personaggi.
Tra i motivi ritornanti la passione per il cinema
e per il teatro che non resta elemento di cornice
o relativo ad hobby dei personaggi, ma si ripercuote profondamente sull’ordito della narrazione.
Del primo accoglie la velocità del montaggio, del
secondo la studiata caratterizzazione, lo studio del
rapporto tra le idee e le azioni fisiche, la cinetica e il
pensiero. Velocità e verticalità si fondono in modo
direi unico nel ricco e cangiante panorama della
narrativa di oggi.
Emerge, nel caso dei due ultimi libri, in filigrana, anche un’altra caratteristica fondante della
ispirazione di Buzzolan: la preparazione filosofica,
la volontà di presentare al lettore le domande più
sentite della agire umano di fronte ad una realtà,
quella contemporanea, mutevole e complessa.
Senza appesantire la trama, descrivendo il pensiero in atto, nello scontro tra l’effimero e la teoria, il
dovere o l’incoscienza di agire di fronte a impulsi e
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istinti inoculati da altri, compresi le
false autorità dei mass media.
Tutte storie di oggi quelli di Buzzolan, con un passato che emerge
a volte, prepotente come in I nostri
occhi sporchi di terra la Resistenza
o dalla storia del cinema muto in
Tutto brucia non per rimanere relegato nelle retrovie ma per influenzare il presente.
I richiami alla tragedia greca,
con le sue forti e inaspettate agnizioni, sono abilmente nascosti sottotraccia, ma restano modelli duraturi, dove cadono quelle domande
radicali che il presente innesta.
Stilemi ritornanti suggestivi
fondano la caratteristica visività
l'elogio del guardare come azione
primaria di conoscenza alla condizione che si resti capace di meravigliarsi di aprirsi agli imprevisti. In
questa ottica, la ricerca del candore ha il suo centro poetico in quel
bellissimo libro per bambini e per
grandi, Favola dei due che divennero uno, suggestiva e moderna
ripresa del Visconte dimezzato
di Italo Calvino, autore presente
nell’immaginario di Buzzolan.
Nella durissima storia, con una
ascesa redentiva a sorpresa, di Malapianta, tutto sembrerebbe cospirare a tacere quel candore dell'adolescenza. Eppure, ci sembra
indicare l'autore, sempre “dall'altra parte degli occhi” , non è possibile eliminare del tutto una visione
creaturale: essa riemerge sempre,
in qualche modo; sta al singolo dargli spazio, non ricacciarla via.
Decisivi, con tutta evidenza,
sono anche gli incontri che capitano e che possono dilatare il palpito
del cuore o relegarlo in una zona
morta, di una vita non vita, come
accade nel recente La vita degna.
Il percorso di Leonardo Bolina,
nato il 12 ottobre 1954, e pensionato in anticipo grazie allo “scivolo”
conduce alla scelta decisiva tra
due opposte visioni della vita: l'annullamento totale, con l'idea del
suicidio; oppure riabbracciare le
occasioni di creaturalità che si presentano in modo imprevisto, dopo
tanti fallimenti, per Leonardo diventare il regista improvvisato ma
acuto di alcuni ragazzini per il loro
saggio finale. L'uomo maturo si dimostra capace di accompagnare
la fantasia senza regole di questi
attori dilettanti ma pieni di estro
e passione. Cosa sceglie Leonardo
tra queste due strade opposte? Lo
lasciamo ai lettori incitandoli convintamente alla lettura di questo
romanzo, tra i più belli usciti in questa prima parte del 2018.
Nella sapiente scrittura, ancora una volta, il cinema e il teatro
convergono nella particolare partitura del montaggio strutturale
che forma la prima parte del libro:
Compendio della vita di Leonardo
Bolina in dodici foto mai scattate.
In dodici istantanee, argutamente,
specificando che si tratta di scatti
mai veramente eseguiti, lasciati
dunque alla libertà di ricostruzione dell’autore, all’autonomia della
scrittore nel campo amorevole del
verisimile, imitando il meccanismo
baluginante dei ricordi, Buzzolan
ricostruisce la vita di Leonardo.
Tappe fondamentali, fino al
pensionamento, con la prima importante storia con Adele maturata in palcoscenico, il matrimonio, con Giulia, i due figli Matteo e
Maddalena e soprattutto il teatro,
con lo strepitoso successo, fermo
ad un primo fortunato testo e in
seguito mai più ripetuto, lasciando
Leonardo nel dubbio di quale sia la
sua autentica vocazione.
Poi la scelta di impiegarsi, per
venti lunghi anni, allo sportello
giovani, da semplice funzionario a
direttore.
Non era riuscito, dopo il primo
clamoroso successo, a trovare un
produttore per un altro suo testo,
Il lungo viaggio verso dove, prima di
abbandonare ogni velleità di regista e drammaturgo.
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Effettivamente non sappiamo
mai dove il viaggio ci spinga. Specie nel campo della creatività.
Una traccia autobiografica
muove certamente il personaggio
di Leonardo per chi, come Buzzolan ha con successo messo in scena un testo teatrale e deve averne
altri nel cassetto. La nostalgia del
teatro è una forte saudade: si ha la
necessità di tornare sulla scena.
Lo stesso autore, in una intervista alla Rai, dice di essere partito
proprio dall’interesse del personaggio dal quale ha preso forma
la narrazione e ancora si chiede
se è un predestinato (la grande
promessa della drammaturgia italiana) o un condannato, all’insuccesso, ad una vita normale, alla delusione di quello che sentiva come
urgente vocazione. La felicità, si
chiede con molta intelligenza l’autore, è veramente far coincidere i
nostri desideri con il conseguimento degli stessi?
Non sarà proprio nella deviazione, nell’imprevisto che acquistiamo coscienza del nostro destino?
Intanto, Leonardo pensa, dopo
tutti questi anni, di dover appaga-
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re il desiderio della sua antica vocazione. Contro il parere della famiglia, con uno scontro fortissimo
con Giulia e Matteo, con la comprensione della sola Maddalena,
Leonardo investe la liquidazione,
con il suo vecchio produttore Max
per mettere in scena Il lungo viaggio verso dove.
Dal contrasto tra un'arte vitale,
prorompente, ingabbiata in meccanismi concreti, parte l'avventura
esaltante (solo per qualche giorno)
di Leonardo. Per Max, viceversa, in
tutti quegli anni, il teatro è diventato un mestiere, con il quale ha fatto soldi, in qualche modo snaturandolo immettendosi trovate, attori,
impresari del mondo commerciale
e televisivo.
Buzzolan, come suo carattere
precipuo, sfiora sempre la soluzione più facile e quando ci sta
arrivando, devia sempre da un'altra parte. Ecco che la felicità si
allontana, per rendersi forse più
concreta e inaspettata, o per rendersi invisibile.
Così Leonardo verrà a sapere
che la bravissima e giovane attrice che crede nel suo testo, Lis, è
la figlia di Adele e con lei è destinata a reincontrarsi. Il lungo viaggio degli imprevisti non condurrà
a quel porto, ad una nuova relazione tra il protagonista e la sua
prima fiamma.
La realtà è sempre più ampia
delle previsioni dopo il fallito esito dell'impresa teatrale, Leonardo
ragiona sulla sua stessa vocazione,
scacciato di casa dalla famiglia. In
uno dei dialoghi più drammatici
con Adele discute sulla inconciliabilità fra vita pratica e desiderio
artistico. Responsabilità economiche rispetto alla famiglia e compimento di un progetto artistico in
una società materialista sembrano
inconciliabili. Lo stesso drammaturgo è costretto a pensare in termini di danaro. Lei alzò gli occhi al
cielo, stizzita.
«Che ci faccio. Come lo sfrutto.
Che me ne viene in tasca. Ti rendi
conto che non sai pensare ad altro
che a cose pratiche?»
«Adele, forse non mi sono spiegato. Io non ho più un quattrino,
non so dove andare a sbattere. In
quella cosa ho buttato la mia vita.
Liquidazione, famiglia...»
«E questo ce lo siamo già detto...fammi pensare: un milione di
volte?»
«Anche un miliardo. Perché è
quello che è successo. Allora, di
fronte a una specie di bomba atomica che ha raso al suolo tutto il
mondo, voglio dire il mio mondo,
quanto credi possa contare la consapevolezza di aver fatto un buon
lavoro? Vale la pena sacrificare tutto a un buon lavoro?»
«Perché no?»
«No Adele, non è come tagliarsi
i capelli. Ma sì, perché no, tanto ricrescono. Mia moglie non mi parla
più, i miei figli nemmeno. Persi per
sempre. Non ho più una casa e non
ho più soldi. Chi se ne frega del
buon lavoro. E comunque manco
lo so se era un buon lavoro. Quello
che penso io non è oro colato.»
In un fecondo scambio di opinioni con il sottoscritto lo stesso
autore, immagina il romanzo composto di due parti: “prima parte il
teatro propriamente detto; nella
seconda il teatro della vita”.
Entrambi, però, teatro della
vita e vita del teatro, convergono
su una coscienza suprema, ridesta-
ta ancora una volta dall'abbraccio
del candore dei ragazzini con il risvegliarsi dello stupore in alcuni
momenti dell'esistenza dei grandi.
Uscire da se stessi e giocare fra
vicini con gli altri. Come in teatro.
Come nella vita.
«A tutti, nessuno escluso, Leonardo avrebbe detto che non si
era rifugiato lì, alla Catapecchia,
per scappare, né soltanto per contemplare o per non fare nulla; al
contrario, il suo era un compito
cruciale.
A tutti, nessuno escluso, avrebbe parlato di un Elenco di persone
e di un suo impegno solenne: sarebbe diventato, ogni giorno, uno
di loro. Sarebbe uscito da se stesso – finalmente aveva afferrato il
vero senso di quella spinta che lo
aveva accompagnato da sempre –
e sarebbe entrato di volta in volta
nelle persone che si era giocato;
avrebbe camminato per ore, per
giorni, per chilometri, guardando le cose e il cielo e la terra con
i loro occhi e pensando con la loro
testa e parlando con le loro parole
muovendosi con i loro corpi e standosene disciplinatamente nei loro
contorni. Si sarebbe impegnato a
essere loro. Se la parla redenzione
aveva un senso, non poteva essere
che quello.
Non aveva altro compito,
avrebbe detto e ripetuto a ciascuno dei visitatori: stare lì, in alto, e
abbandonarsi ogni giorno: allenarsi per quando lei, la sua compagna,
avesse trovato la strada per raggiungere anche quel luogo, l'unico
dove non l'aveva mai scorta al tempo della loro convivenza forzata.
Lo avrebbero preso per pazzo,
sicuramente. Ma era mai stato altrimenti?».
Un romanzo di formazione tardiva, dice ancora nelle stessa intervista Buzzolan.
Essere altro, sembra la sintesi di
quella dimensione della vita come
insieme di false piste, indotte dalla propria negligenza o dal caso,
che possono formare un disegno
non previsto all’inizio ma capace di
renderti magari non felice ma consapevole.
Ancora una volta, il teatro, finzione nella finzione romanzesca, afferma
verità non ovvie, che parlano all’uomo
di oggi e all’uomo di sempre.
21
Amori, viaggi, diavoli:
Colombati e Maurensig
Marco Camerini
“Estate”: Il 1980
di Leonardo Colombati
Precipita in un presente assorto e alienato,
scandito da gran parte delle patologie elencate nel
bugiardino del Serotax (o della Paroxetina?...indifferente, come le varianti dei distillati) l’esistenza di
Jacopo D’Alverno, voce narrante complice del lettore (vi si rivolge spesso) e quarantenne protagonista di Estate (Mondadori, 2017). Narcisista, altezzoso, pigro e viziato proprietario di un lussuoso Relais
anni ’70 nascosto fra buganvillee, orti di rosmarino
e boschi di pini e lecci, a strapiombo sul mare di un
Argentario mai esplicitamente nominato – edenico
“non luogo” ben riconoscibile dai nomi esotici e minacciosi di calette e dirupi, dai borghi d’epoca fascista e i porticcioli con i cabinati dei “romani” (polo
Ralph Lauren d’ordinanza) – dopo una “vita felice”
hemingwayanamente breve si trova, come può e
sa farlo un egoista afflitto da immaturità cronica, a
tracciare un bilancio delle proprie paure/incapacità
(coincidono): di volare come di tollerare un futuro
da separato fatto di cibi precotti o di scrutare con
sincerità dentro se stesso, almeno una volta. Impossibile più esorcizzarle a forza di fantastiche proiezioni autogratificanti e oblomoviani sogni eroici,
scorciatoie canoniche di chi “trova l’umanità deludente, preferendo la compagnia dei divi del cinema o degli assi dello sport” e se deve proiettarsi in
una vita di coppia scomoda S Tracy e A. Hepburn o
(peggio) Alvy/Allen e Annie. Ad imporre la verifica,
possibilmente senza barare, l’incendio dell’Hotel di
famiglia dal nome suggestivo (colta crasi letterario-musicale spiegata nella nota finale, p. 257), da
tempo in declino, a corto di stelle sulle guide che
contano e di amenità a base di astice e champagne
per il jet set internazionale: rimangono ombrelloni intaccati dalla ruggine, divise mal stirate, sbornie, analgesici, bagni di sole per bassisti di gruppi
brit-pop, impresentabili arricchiti grossier, industriali con amante slovena al seguito, attrici, attriciescort…solo escort. Improvvisamente, poco prima
del tempo della scrittura (2012), “un’aria sbagliata,
22
acre e pungente”, l’indecisione
di chi non sa gestire nemmeno se
stesso, una grave responsabilità
verso la moglie Eleonora che gli
costa il matrimonio e l’immagine
di una bambina dal mitico nome
che sorride e disegna i ricordi prima di divenire lei stessa uno dei più
strazianti, non immagine reale ma
ossessivo fantasma destinato a riflettersi in altre epifanie colpevoli
del medesimo archetipo infantile:
Galatea come la cugina Francesca
e la figlia Sofia. Poi solo i creditori,
il commercialista, l’avvocato, lo zio
squalo in cerca di rivincite sociali e
il sospetto, per Jacopo, di non aver
mai amato veramente nessuno.
Anaffettivo per eccesso d’amore verso le tante figure femminili
(Estate è un libro di donne) cui vengono riservati i profili più intriganti
e felici: la nonna, “principessa trasognata dal lungo collo” amante
dei fiori (anche, forse soprattutto,
secchi), la madre, regina superstite
di un regno in disfacimento e despota assai meno illuminata della
sua esistenza, Eleonora – occhi blu,
slanciata, previdente, concreta,
umorale…scontata forse, amata
certamente – la sorella Alexandra,
determinata e coraggiosa, fiera e
fantasiosa complice di un’adolescenza spensierata (agriturismo
bio, ma suona Chopin) e, infine,
Astrid. Giornalista, capelli biondo
cenere, occhi nocciola, intelligen-
za maschile, rigorosa e schietta,
amore dei 15 anni afflitta da latente
complesso di Elettra per un padre
troppo perfetto e severo. Con lei
il viaggio in Norvegia per sfuggire
all’angoscia/sconfitta della separazione ed assistere al processo
intentato al terrorista Breivik, responsabile il 22 luglio 2011 della
strage di 77 persone nel paese “dai
cento verdi diversi e dal cielo troppo azzurro”, un filo rosso che percorre l’intero intreccio e, a nostro
avviso, non si integra perfettamente con le sue costanti di fondo né,
crediamo, riesce ad assumere particolari valenze simbolico/identificative. “Queste donne sono la mia
vita. E la consapevolezza dell’impossibilità di amarle ognuno come
vorrei (come dovrei) è l’unica forma d’amore che sento di poter riconoscere” (p. 254). Incapace, per
sua stessa ammissione, di amare
chiunque, D’Alverno, tranne.…il
Passato, di cui l’albergo è solo uno
degli emblemi/feticcio: faustianamente (edipicamente?) difficile da
abbandonare, coincide con quello di Colombati (classe 1970) – di
cinque anni più giovane del personaggio (1965), suo (in)consapevole doppio – e, cifra identificativa
dell’intera produzione narrativa
successiva a Perceber, alimenta il
proustiano recupero di un’epoca
intensamente vissuta e mai veramente rimossa attraverso l’appas-
sionata rievocazione delle sue icone filmiche, musicali, di costume.
Se in 1960 era evidentemente stato necessario un meticoloso, encomiabile apparato di riferimenti/
citazioni/fonti storico-documentali
per ricostruire un periodo altrettanto mitizzato ma non anagraficamente attraversato,1 gli anni ’80
vengono, in Estate, riecheggiati e
descritti con la partecipazione di
chi, pur giovanissimo, ne ha fatto
diretta esperienza. Così – attraverso il filtro di un raffinato gioco
memoriale nel quale svolgono un
ruolo essenziale lettere (sincere o
fasulle non importa), quaderni di
scuola (biro blu e “guizzi romantici derubati alle antologie”), foto
(bruciate, sfuocate, comunque salvate e salvifiche nella temibile lotta contro il Tempo), vecchie case di
famiglia dalle massicce porte tarlate, l’infanzia dei giochi in cantine
“ricolme di cianfrusaglie e animali
impagliati, paure e segreti” – eccola la Roma bene con i suoi locali, il
Jackie’O e il Tartarughino, il Much
More e le terribili “pennette alla
vodka”, gli occhiali a specchio (più
terribili delle pennette) e il Galestro
“capsula blu (o era viola?)”, l’Albos
di Fregene “perché solo lì fanno gli
spaghetti con le telline”, il calcetto over ’40 e le feste private nelle
palazzine A, B, E delle tante Via Nemea, con i tappeti Zinouzi e i genitori che compaiono all’improvvi-
1 E non è il solo omaggio agli anni ’60 la descrizione del corteggiamento di Eleonora nel capannone di Cinecittà con il Cristo della Dolce vita (pp. 136-138).
23
so per salutare gli amici dei figli
con i quali amano pateticamente
competere (Cecchetti, il padre
di Astrid, è un carattere molto
riuscito in questo senso). Eccola la musica degli Eagles e degli
Imagination, di Ch. Cross e, inevitabilmente, di Bruce Sprigsteen
per il quale ci limitiamo a confessare il sospetto che Kari, la sorella di Astrid, sia stata creata letterariamente dall’autore al solo
fine di potersi accanire contro
quanti non venerano il Boss: potere della Letteratura, sfizio consentito e concesso a chi, come
lui, può contare sul consenso di
pubblico e critica. Ancora il cinema di W. Matthau e J. Nicholson
(rigorosamente nelle sale: fantascienza i DVD rimasterizzati e
gli schermi giganti al plasma),
grandi come le Speranze, Lebowski e la fuga di S. McQueen
o il tennis, sport di riferimento
del protagonista che palleggia
con attempati, improbabili maestri forse classificati di circoli
pretenziosi e sonnolenti (mica
è sempre Foro Italico) e stravede per l’Agassi di B. Shields,
McEnroe, Connors, fra Dunlop
in legno da modernariato, avveniristiche racchette tubolari e
cemento blu come la laguna in
cui nuotava la rivale sentimentale di Steffi Graf. Agli “amati e
dorati” anni ’80 subentreranno i
’90, contrabbandati come un “ritorno alla purezza e alla pace”,
mentre si impongono l’etnico e
lo street-fashion, il grunge e il
vintage, l’ecologismo New Age
della Generazione X e le facili illusioni della New Economy: alla
fine un Boeing 767 s’infilerà nella
Torre Nord del World Trade Center, in una sequenza epocale inizialmente scambiata dai più per
il fotogramma di un film catastrofico assai ben girato. Quanto
accadrà a Jacopo D’Alverno lo
lasciamo alla curiosità dei lettori, che si troveranno coinvolti in
un plot narrativo emotivamente
coinvolgente e tecnicamente impeccabile, anche per la sapiente
alternanza di piani temporali.
Comunque, pur con il sostegno
di alcuni cocktail, si qualificherà
ad un certo momento scrittore.
Mentendo, certo…
Maurensig, il diavolo
e (ancora) Calvino
Insomma, per l’autore della Variante di Luneburg il Diavolo (magari) nel cassetto (Einaudi, 2018)
esiste. Nessun pittoresco e convenzionale armamentario, datate
cortine di zolfo e risibili rituali: si incarna, creato a nostra immagine e
somiglianza, nella quotidianità. Figlio abbandonato di coppie “pie e
morigerate”, proverbialmente povero o erede di famiglie blasonate,
sin da piccolo mente a oltranza ed
è crudele verso gli animali (dissezione sadica e gratuita, non gioco
infantile…comunque il “maligno”
Rosso verghiano “uccideva lucertole e bestie che non gli avevano
fatto nulla”). Crescendo ritorce i
pensieri contro la persona che li ha
formulati, trascina tutti in una “ridda di odio, orgoglio, esaltazione e
dolore”, manifesta natura istrionesca che si traduce in “riso sgangherato e gesto teatrale” mentre, in
genere, i suoi tratti fisici dominanti
sono costituiti da “capelli tinti [di
nero, ovviamente], labbra purpuree e affilate, incisivi grossi, voce
rotonda, impostata, senza asperità”: qui sì cadiamo un po’ nello stereotipo, ma le tradizioni – popolari
e iconografiche – vanno in qualche
modo onorate. Venuti meno i sontuosi, scenografici palcoscenici romantici (per non parlare di quelli
medioevali), in tempi di hi tech e
indici finanziari quale luogo migliore per attecchire e diffondersi della
società letteraria, autoreferenziale, vanagloriosa, invidiosa, in cui si
esercita la più sfrenata e grottesca
delle competizioni per imporre
la verità e “cucinare a fuoco lento”, come onnipotenti cuochi, le
proprie idee, gelosi come sono gli
scrittori delle loro ricette e disposti
a vendere la propria anima (Satana
è un acquirente formidabile) con
lo scopo di soddisfare “un’orda di
crapuloni-lettori dal palato troppo
spesso assai poco fine”? Mentre
si intensificano i bilanci provvisori
sulla funzione attuale del romanzo in Italia,2 Il diavolo nel cassetto
si presenta anzitutto come una
divertente e divertita parodia sulla sterminata galassia dell’odierna
produzione narrativa, dislocata
dallo scrittore – alla fine fuori dal
tempo (una sola indicazione, ’91…
troppo poco) – a Dichtersruhe,
“non luogo” apparentemente
2 Basterà qui citare l’esaustiva, stimolante analisi/inchiesta di G. Simonetti La letteratura circostante, comparsa sul “Sole 24 ore” nei mesi di luglio-ottobre 2017, e il dibattito in corso
sulle pagine dell’”Espresso” avviato da W. Goldkorn nel numero 13, 2018, con gli ultimi interventi di R. Milone e A. Garlini (nn. 14 e 15, 2018).
24
edenico di un Cantone svizzero.
Qui tutti – dal norcino al fornaio,
dal borgomastro al consigliere comunale sino al parroco dal manzoniano nome Cristoforo – scrivono,
nel ricordo di un memorabile e
mai accertato soggiorno di Goethe
(scrittore caro al Demonio): lo fanno con sincerità, candore, latenti
ambizioni e scarsissimi esiti, se si
esclude il riconoscimento conseguito da Marta che, figlia menomata di un parto difficile, “guarda gli
uomini con implacabile stupore”
(una prerogativa del vero scrittore
per Maurensig? sarebbe in ottima
compagnia) e dipinge con i colori
dell’Anima e della Poesia. E all’ironico, nemmeno troppo mascherato, appello non manca proprio
nulla e nessuno: dai sermoni tenuti
in chiesa dal giovane vice-Parroco,
parodia delle scuole di scrittura
creativa tanto in voga, ai caratteri/
vizi/vezzi dell’attuale narrativa militante (“più alto è il numero delle
persone che si dedicano a questa
attività, più essa decade. Frustrante la paura dell’indifferenza […]
bisogna mostrarsi, far circolare il
proprio nome e la propria immagine, la parola scritta è il mezzo ideale per coltivare la folle speranza
di imprimersi sulla lastra metafisica dell’universo”), dalla frenesia
dei premi letterari (l’esclusione da
quello indetto nel paese provoca
ritorsioni violente e parossistiche
degne delle pagine di Cecità di Saramago), alla figura centrale dell’editore, il cui ruolo spetta di diritto a
Lucifero in persona che si materializza per soddisfare le aspirazioni di
ciascuno. Il Prezzo è alto e, del resto, ben noto. Divertissement colto e raffinato – con rimandi godibilmente retrò alla letteratura gotica
tardo-romantica e al fantastico di
Von Chamisso, Hoffmann, l’ultimo
Schitzler del Diario di Redegonda
– ma insieme apologo pungente e
attualissimo, il libro si avvale di una
intrigante struttura metatestuale
che sembra consentire a Maurensig di prendere ulteriormente le distanze da quello che è anche il suo
ambiente. Così, in un incipit calviniano privo di coordinate spaziotemporali, la voce narrante di un
affermato e indefinito romanziere,
narratore di I grado e probabile
doppio dell’autore reale, con un
tono sospeso fra nostalgia memoriale e il paternalismo un po’ supponente di chi dispensa consigli a
giovani talenti – più J. London che
Čechov, comunque – 3 riscopre un
manoscritto, Il diavolo nel cassetto,
di autore anonimo cui attribuisce
lui stesso il nome Friederich, riportandone fedelmente interi passi,
riassumendone altri e introducendo così un narratore di II grado dai
connotati più dettagliati e realistici: un appassionato di letteratura,
ovviamente. Che questo si riveli
poi il resoconto della confessione
di un sacerdote moltiplica i livelli
della narrazione, per la gioia dei
semiologi strutturalisti: noi, giunti
al III grado, smettiamo di tenerne
il conto anche perché nel racconto
di Padre Cornelius compare il suo
diario…può bastare. In ogni caso
il romanzo non è esclusivamente
un excursus parodistico sulla nostrana Repubblica della Lettere,
ma una riflessione sul senso di
colpa mai rimosso che sopravvive
nell’inconscio collettivo per il male
commesso, anche da “insospettabili” (Friederich incontra padre
Cornelius ad un convegno su
Jung): il diavolo pare saperlo assai bene e, con un sorprendente
coup de theatre conclusivo, gioca tutte le sue carte finendo con
l’accattivarsi la simpatia, se non
il consenso, del lettore.
3 Pronto soccorso per scrittori esordienti di London e 99 consigli di scrittura di Čechov sono entrambi pubblicati nella collana “Filigrane” della Minimum fax, dedicata a fondamentali testi
programmatici sulle tecniche e l’arte della scrittura.
25
La consolazione della sera
di Sabino Caronia
Giorgio Taffon
Sul finire dello scorso anno,
2017, l’editore Schena ha fatto uscire con pieno merito il volumetto di
Sabino Caronia, La consolazione
della sera. Volumetto lo scrivo per
il numero delle pagine, 123, non
molte, ma il libro, per la qualità della scrittura, per le soluzioni immaginative, per diversi tocchi stilistici
di godibile fattura, il libro merita
un’attenzione particolare.
Mi metto ipoteticamente dalla
parte dell’autore (siamo della stessa età, formazione culturale molto
simile, ambiente di vita pure), chiedendomi: come intrecciare i fili di
un testo, di una tessitura, creando
un mélange coerente e formalmente giustificato di pagine d’impronta saggistica, di passaggi diaristici,
di intuizioni poetiche? E mi rispondo che il modo di procedere nella
costruzione del testo di Sabino Caronia è valido ed esemplare. E uso
il termine costruzione non a caso,
essendo la parola una parola chiave di uno dei protagonisti assoluti
di La consolazione della sera, cioè
Kafka, che sentiva la necessità assoluta di “costruire”, nella vita e
nella scrittura.
Dunque, la sera può portare
consolazione, ci dice l’autore fin
dal titolo, e va da sé che il complemento di specificazione non
può non avere connotazioni metaforiche: la sera è la sera della vita
dell’io narrante, poeticante, scri-
26
vente; magari solo immaginata, a
ben considerare l’età anagrafica;
ma è anche indicazione di un momento che nella biografia dell’autore è stato a volte magico, sospeso, denso, non cronologizzabile.
E, inoltre, il trascorrere del tempo
cronologico comporta esperienze,
belle e brutte, esaltanti e deprimenti, di vita, di conoscenze, di incontri: se Kafka è stato un incontro
in forma di libri e pagine lette, un
altro personaggio ha costituito un
rapporto vitale assai corroborante
la mente e lo spirito del nostro autore: qui si parla di Italo Alighiero
Chiusano, scrittore, drammaturgo
e studioso germanista di gran valore, scomparso prematuramente
nel 1995.
Se Kafka viene considerato da
Caronia il suo “alter ego”, Chiusano è il suo “padre spirituale”. Ne
consegue che per la triade comune
è, di nuovo, la “consolazione” della scrittura, che “mantiene comunque viva in noi la meraviglia della
vita”. Forse in Caronia si declina intelligentemente in un certo modo
uno dei paradigmi pirandelliani: la
vita o si vive o si scrive. Per cui, nel
tramonto biologico dell’esistenza,
forse la scrittura, se ancora abbiamo vivo in noi il senso poetico del
vivere, può offrire a sua volta una
forma anche appena delibata di
felicità: “Certo non si diventa felici soltanto con la scrittura ma ci
vuole anche un po’ di felicità per
essere felici, e tuttavia, a dispetto
del fallimento di ogni tentativo di
fuga, essa mantiene comunque
viva in noi la meraviglia della vita”.
Parole kafkiane fatte proprie dal
nostro autore d’oggi. Eppure la
vita reclama i suoi pieni diritti, ed
ecco, allora, che l’autore ne scandisce le fasi, dalla sua giovinezza alla
maturità, alla luce non solo di questi due incontri quali fonti di cultura e spiritualità, ma anche dell’amore coniugale, e filiale, sia quello
dato che quello ricevuto (per e da,
insomma). Opportunamente Caronia si tiene libero da una scansione
cronologica, e si crea uno spaziotempo immaginativo le cui coordinate non rispettano una stretta
consecutività. Negli otto capitoli,
“Caffè Kafka”, “La notte della cometa”, “Una conoscenza tra gli angeli”, “La costruzione della storia”,
“Il sostenitore della famiglia”, “Il
paese della speranza”, “La meraviglia della vita”, “La consolazione
della sera”, si dipanano eventi speciali, dal significato a volte recondito e misterioso, dove il ripetersi di
“particolari” crea similitudini che
si insediano nell’interiorità. Sono
eventi, a volte anche cosmologici (la cometa di Halley), o storici,
cioè che vanno oltre la cronaca
quotidiana, come la morte di Lady
Diana (lo stesso nome della moglie
di Sabino), nell’agosto del 1997; o
sono scelte di vita, come quella da
parte della figlia che si trasferisce
con la sua famiglia in Palestina,
desiderio che Kafka, invece, non
riuscì a realizzare. Insomma, non
immemore della lezione dei poeti
romantici e tardo ottocenteschi, la
realtà è ricca di simboli: il simbolo,
nell’antichità, è il congiungersi di
due metà di una medaglia o moneta che combaciano perfettamente
e permettono il riconoscimento di
due persone. Qui nel libro di Caronia, per il principio di transitività, il
simbolo passa dall’uno all’altro dei
tre principali protagonisti.
“Sentiva [Kafka] che anche per
lui era ormai giunto il tempo di passare il testimone. C’è un momento
27
della vita in cui ogni uomo scopre
di essere vissuto. In quel momento
l’uomo di solito è pronto a morire,
a lasciare la vita agli altri, perché
questo veramente significa morire:
accorgersi che i giorni e le notti, le
musiche e i rumori, la pioggia e il
sole accadranno sempre senza di
noi”: in questo magnifico passo,
dove risuonano in profondità parole di antica e biblica saggezza,
e dove chiunque di noi che non
sia più né giovane né maturo non
può non trovare una irrefutabile e
commovente verità, possiamo ben
commisurare come, attraverso il
suo “alter ego” praghese, l’autore
comprende che vita e letteratura,
sentimenti e scrittura non sono
altro che vasi comunicanti, dimensioni distinte ma non separabili mai
del tutto.
Ripeto, la dimensione simbolica è diffusa un po’ in tutto il
libro di Caronia, magari in picco-
28
li particolari (Dio si nasconde in
essi, ci ricorda l’autore): come le
colonne mariane, quella di Praga,
costruita nel 1650 nella piazza del
mercato, poi buttata giù e in attesa di riedificazione; e quella romana di piazza di Spagna, locus di
un incontro chiave dell’autore col
pater Chiusano.
L’identificazione di Sabino Caronia con Kafka è dichiarata dal
primo assoluta, naturalmente non
sul piano dell’opera narrativa ma
su quello della vita, del sentimento dell’esistenza, e del suo senso.
Pagine bellissime sono tutte quelle in cui, con abilità d’invenzione
poetica, il nostro autore, per il tramite del “padre” Chiusano, si rifà,
ricorda, commenta la frase kafkiana, che in Chiusano diviene titolo
di una sua opera, Consideratemi
un sogno. E a ragione! Il tema della vita come sogno percorre tutta
l’esistenza dell’uomo, e dei poeti,
raggiungendo il suo culmine nella
cultura barocca europea, e da lì
giunge fino alle labbra del grande
praghese che ha disturbato il sonno del padre passandogli accanto:
“Consideratemi un sogno”! Un
ottonario perfetto, da danzare in
punta di piedi, lievissimi! Una battuta teatrale di una pazzesca ambiguità di senso! Un’implorazione ed
un’affermazione del nulla che può
apparire la vita! Il desiderio che la
vita sia solo semplicemente un sogno, perché ben altra è la Verità! O
asserzione modernissima che arriva fino agli universi paralleli della
fisica d’oggi!
Per finire non posso che raccomandare la lettura del piccolo
ma affascinante libro di Sabino
Caronia, libro al quale auguro una
lunga vita meritevole dell’attenzione che si dedica a quelle opere
che non si consumano nello spazio
d’un mattino!
Max Gobbo e la
riscrittura fantastica
Franco Zangrilli
Oltre a collaborare su varie riviste on line (“Andromeda”, “True
Fantasy”, “Barbadillo”, ecc.), Max
Gobbo ha pubblicato due romanzi:
Protocollo Genesi (2010), Capitan
Acciaio, supereroe d’Italia (2011),
una raccolta di racconti, Storie del
Necronomicon (2016) e il romanzo
episodico Alasia, La Vergine di Ferro (2017).
L’occhio di Krishna (Milano,
Edizioni Bietti, 2017, pp. 217) è un
romanzo avvincente e non comune nel panorama narrativo dei
tempi attuali. Esso arricchisce l’ispirazione dell’autore ascrivibile
all’area del fantastico. È composto
di trenta capitoli intitolati e per lo
più brevi; ogni capitolo si apre con
una descrizione, lievitante anche di
sprazzi lirici, di un dato personaggio o di un particolare paesaggio.
È esposto in terza persona, e con
un approccio cronologico. Utilizza
una lingua forbita, asciutta, meditata, e la stilizzazione di una rete di
topoi, di cliché, di canoni. Fa ampio
uso sia del dialogo spesso costellato dalle sfumature, dalle metafore, dai toni più variopinti, inclusi
quelli assurdi, comici, sarcastici,
dalle movenze di un’ironia multicolore; sia della rappresentazione
dettagliata alimentata talvolta dal
linguaggio scientifico, dalla similitudine e dal groviglio di immagini
efficace a rinforzare la portata del
grottesco fantastico.
Come una serie di scrittori postmoderni, da Borges a Sciascia, da
Bonaviri a Tabucchi, a Campailla,
Gobbo sa che tutto è stato scritto
e allora si devono riscrivere vecchi
miti, favole e storie in un nuovo contesto, in un modo che vengano rinfrescati e rivitalizzati, in una maniera
che il lettore abbia la solida impressione di leggerli per la prima volta.
La poetica della scrittura di
questo romanzo porta l’autore
postmoderno a giocare con “la
29
presenza della storia”, spesso derisa anche con ironia bonaria, immaginando uno strano fine Ottocento
e inizio Novecento, in una vicenda
di straordinari viaggi, peripezie,
esperienze, cui partecipano una
folla di personaggi ir-reali, bizzarri,
misteriosi, appartenenti a mondi
differenti: corsaro, regale, culturale, ecc.; l’avventura che in parecchie circostanze richiama quella
dell’epopea tradizionale, è l’anima
della loro vita.
30
Il romanzo si apre con una
giornalista del “Secolo XIX”, Vera
Merlin, che sembra modellata sulla figura di Oriana Fallaci. È uno dei
personaggi più felici del romanzo.
Ha un carattere metà maschile
e metà femminile, della giovane
umile e focosa, bella e intelligente,
della professionista controcorrente, emancipata, strana, che aspira
a cambiare le cose, che nutre alti
principi, che non si fa né intimidire
né discriminare da nessuno, ed è
disposta a sacrificarsi per qualsiasi
causa. È un emblema archetipico
della femminista che riscatta i diritti dell’universo femminile, della
donna odierna che ancora non è
trattata pari all’uomo, né ben accettata ed inserita nelle professioni maschili. I moduli umoristici
sostengono la sua azione di donna
che battaglia contro le assurdità dei costumi convenzionali, dei
tabù, dei pregiudizi, e sfida a duello il principe Guerrini che l’ha offesa. Indugiando a lungo sul duello,
Gobbo riscrive aspetti di quello
epico cavalleresco, dà adito a una
comicità divertita, ilare, che sa cedere al ridicolo, e si mette dalla
parte della giornalista che assapora la vittoria ferendo gravemente
l’avversario: “l’arma di Guerrini in
aria, mentre la lama della giornalista cercava il petto dello sventurato […], evitando d’un tratto il colpo fatale, e a quel punto, cacciato
un urlo di spavento, prese a correre in cerca di scampo. «Fermatevi,
codardo, se continuate a scappare come farò a infilzarvi?!» gridò
Vera gettandosi all’inseguimento
dell’avversario […], gli si avventò
contro come una tigre, e affondò
la sua arma […]. Il giovane strillò,
mentre la lama saettava nelle sue
carni” (p. 19-20).
Anche certi ammiratori di Vera,
come il suo fotografo, ne individuano l’aspetto di una maliarda sui
generis, molto abile anche nel difendere i diritti ontologici e del proprio mestiere giornalistico. Particolarmente rilevante è l’episodio in
cui Vera confronta in misura drammatica il direttore del “Secolo XIX”
che si rifiuta di pubblicare il suo
pezzo scritto sul duello. Episodio
reso dalla penna bizzarra dell’autore una metafora della realtà postmoderna, specie dei media e dei
loro potenti rappresentanti che
proteggono i propri interessi affaristici invece di produrre notizie utili
a istruire e a informare il pubblico,
invece di sostenere i corrispondenti a fare il loro lavoro, a ricercare e
a comunicare la verità dei fatti, un
motivo molto diffuso nelle opere di
scrittori contemporanei, da Tabucchi a Franchini, a Pincio:
“Ma siete impazzita? Voi siete
una donna, almeno credo, e le
signore di solito non duellano”.
“Arguisco che non avete inten-
zione di pubblicarlo”.
“Giammai! Non coprirò di ridicolo questa testata!» urlò il direttore con enfasi eroica” […]
“Per l’appunto, mi si proibisce
di scrivere la verità sol perché
son donna”.
“Siete un’ingrata”.
“E voi un maschilista” […]
“Preferirei camminare sui carboni ardenti piuttosto che pubblicarlo”. (p. 36-37)
Nel frattempo Vera riceve una
lettera dal rinomato narratore Emilio Salgari che la invita ad assecondarlo nelle sue avventure in paesi
esotici e lontani. Da qui la poetica
della riscrittura di Gobbo comincia
sempre più a perseguire i sentieri
labirintici del fantastico. Non solo
egli ricrea a modo suo una figura
strampalata di Salgari, ma anche
del poeta-guerriero Gabriele D’Annunzio e del capitano Francesco
Viganò, autore di fantasmagorici
racconti sottomarini. Una trinità
di scrittori amanti dell’avventura
che impressiona Vera quando li incontra nella residenza di Salgari a
Torino.
Servendosi delle tecniche del
racconto nel racconto, della contaminazione, del pastiche, del manierismo, lo scrittore riscrive un fascio
di miti del fantastico, di profili del
personaggio bricconesco, picaresco, piratesco. Tra cui spicca, grazie anche agli intrighi polizieschi, la
figura di Sandokan con una doppia
personalità, buono e cattivo, di un
suo amico d’avventura portoghese, e di un politico che fa rubare il
noto diamante, l’occhio di Krishna,
e vuol essere un’allegoria della corruzione politica che è il cancro dei
tempi presenti.
Il piano di Salgari è quello di ricercare il diamante. E, mentre pianifica l’avventura verso il mondo
delle Indie, con gli amici scrittori
e Vera, vengono a disquisire anche delle “creazioni” fantastiche
di Julie Verne, indice dell’interesse dell’autore di tener desto il filo
dell’intertestualità, dell’autoreferenzialità e della metaletterarietà,
topos della scrittura postmoderna.
La partenza dovrebbe svolgersi
all’insegna della segretezza e invece, grazie anche alla mimesi del
linguaggio altosonante di stampo
dannunziano, diventa un evento
pomposo e rumoroso, un ambien-
te da circo che si trasforma in una
protesta di femministe indemoniate, contestate dal maschilista
D’Annunzio; il fantastico umoristico mette piede con Vera immersa
a declamare il suo sogno di libertà,
metamorfizzandosi in una sorta di
corifeo alla Mary Willstonecraft che
anima il corteo delle protestatrici:
“Amiche, colleghe, compagne!
Oggi siam qui riunite per gridar
forte un grido di protesta contro l’uomo che soffoca il nostro
diritto di libertà! Siamo stanche
di soprusi, stufe di chinare sempre il capo di fronte a mustacchi e bombette: il secolo volge
all’epilogo, e qui siamo ancora
in pieno medioevo. Gli uomini ci
vorrebbero assegnate in eterna
sudditanza: confinate in cucina,
tra branchi di marmocchi piagnucolanti. Io, però, vi dico: mai
più la donna italiana sarà doma;
ci ribelleremo a questo giuoco,
infine. Nel nuovo mondo già se
ne parla: le donne hanno diritti
pari agli uomini” […]
Poi, rivolgendosi a D’Annunzio:
“È ora che comprenda che noi
donne non siamo solo delle
bamboline per il trastullo degli
uomini, non siamo solo delicati
fiori odorosi, le materne consolatrici e delle loro afflizioni. Basta dunque con questo vetusto
mondo maschilista”. (p. 42-43)
Si imbarcano nel sottomarino guidato dal capitano Viganò. Il
tragitto si fa fitto di elementi fan-
31
tastici: con gli incontri di paesaggi
incantevoli e meravigliosi, di località simili a quelle delle Mille e una
notte; di personaggi eccentrici e
artefici di inconsueti spettacoli,
come quello realizzato da un incantatore di serpenti: “l’uomo accovacciato in terra suonava uno
strumento ricordante un piffero:
dinanzi a lui v’era un magnifico
esemplare di cobra dagli occhiali;
serpe velenosissimo, famigerato,
oltre che per il morso letale, per
la sciagurata abitudine di spruzzare il suo fluido tossico negli occhi
delle vittime” (p. 64); di personaggi misteriosi che perseguitano
i compagni di Salgari, li pedinano,
li piano, li tengono sotto osservazione, forse ombre diaboliche dei
servizi segreti, e li trascinano nel
gioco giallistico delle apparenze,
delle finzioni, dei travestimenti; di
personaggi arabi, bricconi e nemici, con cui i viaggiatori salgariani
combattono come se si stesse riscrivendo, talvolta in chiave umoristica, una lotta degli eroi classici
o dei cavalieri medievali, una scena
violenta di un incontro pugilistico o
di un action movie: vi appare anche
una Vera indemoniata alla guida di
una moto.
In maniera magica questa viene
32
rapita dalla banda di malviventi di
uno sceicco che prima la fa parte
del suo harem e poco dopo la vende. La vicenda culmina con gli amici
di viaggio che recuperano Vera. Ma
tutto ciò è svelato con indizi vaghi
che lasciano il destinatario all’oscuro, come succede in altri episodi.
La brigata dei viaggiatori
di Salgari hanno a che fare con una
dovizia di vicissitudini, di frangenti,
di pericoli, che rafforzano la materia ispiratrice del fantastico. Spesso
le loro azioni in terra e in mare battono la cifra dell’epica grottesca,
ridicola, semiseria, a volte contraddistinte da un’ironia sottile. Come
si nota quando il sottomarino perde la pressione e precipita verso
gli abissi marini. O quando viene
urtato violentemente, forse per
aver cozzato contro una scogliera o per essere stato investito da
un gigantesco squalo, pur mentre
Vera scrive i suoi articoli di viaggio,
e gli altri avventurieri trascorrono
il tempo nella biblioteca adornata
di centinaia di volumi, compreso
un D’Annunzio che si trova faccia a
faccia con i suoi testi al punto che
lo fanno apparire un don Chisciotte
che incontra se stesso, l’ombra del
suo sosia.
L’ampia rappresentazione de-
dicata alle avventure e alle sventure sia del sottomarino che della
nave del Capitano Viganò, come
quelle in cui i viaggiatori si vedono in balia di orrorosi naufragi, di
attacchi perpetrati da feroci pirati, circondati da pescicani e squali
famelici, da balene mostruose, da
apparizioni di terribili leviatani,
si porta avanti con una fine penna indebita alla reminiscenza dei
classici dell’avventura fantastica,
tesa a riscrivere e quindi a creare
sulle orme di un passato che non
invecchia mai, perché è sempre un
presente proiettato verso il futuro.
Per lo più esercita, questa penna,
un processo inventivo di riscrittura che spazia nei testi di Robinson
Crusoe di De Foe, di Gordon Pym
di Poe, di Moby Dick di Melville,
per non dire di quelli di Conrad, di
Stevenson, di Verne, e di quelli che
hanno a che fare con la mitologia
indiana. Nella sua lunga vita di marinaio, Viganò incontra tante cose
orrende, spesso esposte con tecnica intermittente ed elencatoria
(“esseri spaventosi da corpo colossali: orche sanguinarie, calamari
giganti, polpi mostruosi, capodogli
smisurati e dalla ferocia inaudita”,
p. 81), che simboleggiano il male
presente nel corso della storia.
Nonostante nello spazio narrativo
le tragedie si accumulino in ogni
ambiente, dal cuore nero di una
foresta a un isolotto splendente,
lo scrittore fa trapelare la speranza che il male possa essere vinto
dell’intervento di un fenomeno
misterioso, alchemico e taumaturgico. Ne è testimone anche l’avvenimento di un D’Annunzio paladino che lotta con un mostro marino
e portentosamente se la cava. A
volte questa sua speranza sembra
alimentata dalla filosofia di certe
religioni indiane.
Approdando nell’universo indiano, i compagni di Salgari esperiscono insolite conoscenze, scoperte, rivelazioni, anche quando
incontrano vecchi amici malesi,
fedeli messaggeri di Sandokan: “la
notte si animava delle sue creature: lupi indiani, pantere e qualche
sciacallo in cerca di prede; gli ululati e ruggiti s’espandevano nell’aria. Tremal-Naik faceva da guida
all’audace drappello tra le insidie
della giungla” (p. 99). La guida
accompagna il drappello salgariano nella pagoda induista della
dea Kali, dove continua la ricerca
dell’oggetto desiderato e lo trova
epifanicamente: dall’altare della
dea scatta “un meccanismo che
fece uscire dalla statua un cofanetto d’oro incrostato di gemme.
Lentamente Salgari lo aprì. All’interno, luminosissimo, v’era un diamante di eccezionale dimensione
e d’incredibile fulgore. “«L’occhio
di Krishna è nostro» sussurrò il romanziere” (p. 106). Se ciò si rivela
una trappola dei fedeli della dea
che rende prigionieri i ricercatori,
il potere magico di D’Annunzio, acquisito bevendo “un siero che l’ha
reso invisibile” (p. 108), restituisce
subito a compagni la libertà.
Il drappello salgariano riprende con entusiasmo il viaggio di
ricerca approdando in luoghi ora
edenici ora infernali. E vengono assaliti finanche dai soldati britannici
in terra e in mare. Ai loro scontri
l’autore dedica una vistosa attenzione, e traduce le loro battaglie in
una sorta di spettacolo fantasmagorico, e fa riparare l’immagine di
un D’Annunzio paladino che, come
una fenice, rinasce dalle ceneri,
spaventando a morte gli amici che
lo hanno creduto passato nell’altro
mondo.
Durante il loro viaggio, D’Annunzio spesso appare appartato,
assorto nelle proprie riflessioni e
meditazione. Quando a volte viene
portato fuori dal suo silenzio e trascinato nella conversazione, egli
sembra il portavoce di Gobbo che
predilige sia articolare dichiarazioni di metascrittura sia tracciare elementi sarcastici con una Vera che
illumina il carattere d’“altruismo”
del Vate:
“È dunque nel mare che cercate
la vostra ispirazione?” domandò Vera Merlin.
“Nel mare, sulla terra, ovunque.
Essa è come un dio onnipresente” rispose il poeta senza voltarsi.
“Lo credo, quantunque questa
notte marina sembri avere un
qualche potere su di voi”.
“Dite?” domandò D’Annunzio
aggrottando la fronte.
“Be’, ve ne state impalato da
mezz’ora a rimirar l’onde, senza
profferir parola: in fede mia non
vi vidi mai così taciturno”.
“Il verso abbisogna del silenzio,
come il seme dell’acqua per germogliare” ribatté l’uomo. “Ma
voi, mia cara, non siete qui per
poetare… Non è così” (p. 130)
sono in procinto di cadere in
trappola mortale. (p. 137)
E durante il loro viaggio, Viganò
riesce a farsi confessare da un prigioniero anglosassone la trama dei piani
segreti e polizieschi con cui intende
agire il comando inglese contro i seguaci di Salgari e del suo amico Sandokan, alias la Tigre della Malesia:
“Emilio, qual è il vostro pensiero su queste rivelazioni?” chiese D’Annunzio con aria preoccupata.
“Signori, è peggio di quanto sospettassi. Siamo tutti in grave
pericolo: Mompracem sta per
essere travolta da un’orda nemica, mentre Sandokan e i suoi
Approdati all’isola Mompracen,
il gruppo di Salgari è ben accolto e
festeggiato dalla popolazione dei
pirati. Ma nell’isola, configurata paradossalmente sul mito del paradiso terrestre, non trovano il suo Dio,
cioè Sandokan, che si trova lontano
e in un luogo misterioso a svolgere
un’altra eroica impresa. E sospettando l’eminente attacco nemico degli
inglesi, tutti si mettono a operare
sotto la guida dinamica di Salgari,
“ottimo generale” e sagace “Tigre
bianca”, a costruire barriere, muri,
fortezze, trincee da cui possono
spuntare “selve di bocche da fuo-
33
co”, piani difensivi di ogni genere (p.
147). Anche D’Annunzio si trasfigura
incorporando un misto di miti: dal
guerriero cavalleresco al “corsaro
nero”, dal Buffalo Bill ad altri pistoleri
e cowboys del Far West. Tutto arriva
al livello del parossismo di un grottesco assurdo con i membri della flotta
di Salgari che saltano in una mongolfiera e armati di bombe le seminano
sugli inglesi nemici; e quasi tutto risulta come se si stesse realizzando
un ritratto mimetico di una guerra
odierna, e come se si volesse suggerire che l’uomo non sa vivere in pace
con se stesso e con i suoi simili:
Le navi nemiche furono costrette a manovrare per sottrarsi a
quel bombardamento furioso,
e a diminuire la cadenza delle
cannonate.
“Vittoria!” urlò il poeta. “L’attacco aereo devasta i navigli e
atterrisce gli equipaggi!”.
“E infine beccatevi questa!”
fece Vera lasciando cadere l’ultimo ordigno. “E tanti saluti alla
regina”!” (p. 156)
E ancora:
A Mompracem infuriava un uragano di fuoco […]
Le tigri malesi si slanciavano in
attacchi suicidi verso le baionette dei ranger, scrivendo col
loro sangue le più gloriose pagine d’eroismo d’ogni pirateria.
(p. 159)
Nello stile narrativo cominciano
ad affacciarsi andamenti ripetitivi,
prolessi, retorici, che annoiano il
destinatario sagace, dato che da
qui in avanti l’autore si concentra
quasi esclusivamente sulla rappresentazione della battaglia tra gli
inglesi e gli amici di Salgari e di Sandokan. In alcuni capitoli che avviano verso lo scioglimento la penna
gobbiana sembra riacquisire le proprie ammalianti qualità diegetiche.
Come illustra l’avventura di D’Annunzio e di Vera che con la mongolfiera arrivano in un’isola vulcanica
e in una sua zona remota abitata
da un popolo primitivo. Anche con
l’ibridazione dei toni comici e tragici il procedimento della
mimesi, spesso prediletto
dall’autore, di una serie di
miti dispiega un perfetto
equilibrio. Spiccano i miti
della cattura degli stranieri, della danza febbrile ed
euforica degli indigeni, del
processo dell’antropofagia. La potenza magica del
Vate si impone producendo l’atto catartico e liberando Vera dal terrore di
essere un pasto delizioso
per i selvaggi, proprio nel
momento in cui si accingono a calarla nell’acqua
ribollente.
“Gabriele! Aiutami, questi
mi lessano come una gallina!”
“Qui ci vuole una bella
idea” mormorò D’Annunzio. “Ci sono, il siero
dell’invisibilità. Deve esserne rimasta ancora qualche goccia nell’ampolla
che reco in tasca” […]
Riuscì ad agguantare la
fiala e a scolarne il contenuto.
“Gabriele, qualunque cosa
stiate architettando, fate
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in fretta, mi stanno per cucinare. (p. 184)
La magica metamorfosi di
D’Annunzio in parte invisibile e
in parte visibile come creature
aerea commuove il popolo antropofago, ed è accolto come
una loro divinità, un Dio. Il quale
si mette a conversare con il capo
della tribù, un saggio che ha imparato l’italiano da un prete missionario impegnato a convertire
tutti alla fede cattolica.
Felicemente liberi, D’Annunzio e Vera partono per riunirsi agli
amici di Salgari e di Sandokan che
stanno combattendo con grande
determinazione, in mare e in terra,
contro la supremazia diabolica dei
britannici. Dove si mescolano i motivi della battaglia epica, della cavalleria rusticana, della guerra moderna; si riproducono le lotte dei
cartoni animati e dei film del noir,
del gangster, del giallo, ecc.; si osservano persino macchiette che si
comportano da Sherlock Holmes,
come un Sandokan che assume
la fisionomia di Superman, di un
Ercole postmoderno. Dove arriva
una folla di animali di ogni specie
(“elefanti, tigri, pantere, bande di
lupi, drappelli di sciacalli, e ancora
selvagge mandrie di bufali e furiosi
rinoceronti che tutto travolgono
col loro corno”, p. 207) che, dando
una mano a guerrieri di Sandokan e
di Salgari, facilitano la loro vittoria:
ora il linguaggio metonimico, allusivo e allegorico, costante della riscrittura gobbiana, si irrobustisce
esplicando la fenomenologia del
manicheismo, in un gioco simbolico in cui il bene e il male si scambiano i ruoli non solo attraverso le varie razze di esseri umani, le bestie
che diventano umane e gli uomini
diventano bestie. E dove tutto è
reale e irreale al contempo, è il romanzesco della storia, è il fantastico della vita.
I due estremi del romanzo si
cuciono e si concludono con la
raffigurazione della sfera giornalistica in cui il direttore del “New
York Times” parla con il direttore
del “Secolo XIX” e gli rivela il desiderio di far apparire i pezzi di Vera
Merlin sul suo quotidiano americano. Un’altra sfaccettatura del sosia
della Fallaci firma del giornalismo
internazionale.
Scaffale
Laboratorio di scrittura Università
Tor Vergata-Istituto Villa Flaminia-Roma
Senza pesi sul cuore
di Luca Latini
Se ci si dovesse chiedere cosa sia
“leggerezza” potremmo imbatterci
nelle più disparate definizioni: “esiguità di peso”, “agilità”, “liberta di
movimento”, oppure, in accezione
negativa “frivolezza”, “superficialità”. Bene direi che dopo aver letto
l’antologia Con l’augurio di molte
farfalle, progetto di laboratorio creativo curato dal professor Fabio
Pierangeli, le ultime due definizioni
del lessema “leggerezza” non riesco a farle più mie. Potrebbe sembrare banale, ma il concetto stesso
di leggerezza per me ha subito un
rovesciamento semantico. Sinceramente ho sempre pensato che il
“leggero” avesse a che fare con il
faceto, il superficiale e l’inconsistente: mi sbagliavo, e anche di grosso.
Questo progetto, raccolta di testi edita da Paolo Loffredo, è nato
grazie all’impegno e la dedizione di
alcuni ragazzi e professori dell’Università di Tor Vergata, dell’associazione CARIS (Commissione d’Ateneo per l’inclusione degli studenti
con disabilità e DSA) e dell’istituto
di Villa Flaminia, in collaborazione
con il laboratorio integrato dell’Università degli studi di Roma2.
Il titolo di questa antologia si
rifà a quello dell’opera di Jean Dominique Bauby Lo scafandro e la
farfalla ed il suo obiettivo è semplice ed efficace allo stesso tempo:
la ricerca della libertà individuale
attraverso la creatività narrativa.
Chi si imbatte in questa antologia
non potrà non notare la bellezza
e il senso che i ragazzi coinvolti
in questo progetto hanno dato a
concetto di libertà, di amicizia, di
cementificazione di un gruppo che
è riuscito a costruire qualcosa di
sconvolgente.
La Libertà di cui qui si parla è
legata talmente bene alla leggerezza che le due quasi si confondono e fondono i propri confini
semantici e simbolici. Quel senso
che Italo Calvino definì in maniera
così ottimale nelle Lezioni Americane quando intuì che la leggerezza
era questo: “…non superficialità,
ma planare le cose dall’alto, senza
avere macigni sul cuore”.
Proprio su questo concetto del
“planare” si è soffermata la mia
attenzione. Questa azione è compiuta da una particolare categoria
di uccelli che mentre si lanciano in
volo non compiono alcuno sforzo
cinetico con le ali per librarsi nell’aria, ma semplicemente si lasciano
cullare dallo “spirito pneumatico”
che avvolge il cielo.
La fantasia con la quale i ragazzi del Laboratorio di didattiche
integrate- in collaborazione con
il progetto CARIS- hanno scritto i
loro racconti, personalmente non
posso non accostarla a quel “planare” di cui sopra ho parlato. Tutti
loro hanno lasciato che la fantasia fosse quella corrente area che
lasciava librare la loro creatività
ed il loro talento. Sui “…macigni
nel cuore” poi si potrebbero dire
altrettante cose; ragazzi che ogni
giorno si trovano ad accettare una
sfida che non avrebbero mai scelto- ma che li vede in ogni modo più
che vincitori- hanno dimostrato di
saper mettere a nudo il loro cuore
senza imbarazzi, remore o inibizioni di una società che forse avrebbe
bisogno quantomeno di ridefinire
i suoi parametri di “normalità”.
Il termine “diversamente abile”
personalmente non lo ritengo veritiero al cento per cento, perché
anche il concetto di “abilità” cosi
come suo cugino “normalità”, non
esplicitano molto bene la realtà di
fondo. Magari sì, le cose per questi ragazzi sono molto più difficili, a
livello fisico, sociale e psicologico,
ma il modo in cui ogni giorno vincono contro queste barriere rende
loro persone non “diversamente
abili” ma “più abili”, di quegli indi-
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vidui che magari contro altre tipologie di “macigni sul cuore”, che
occludono e schiacciano la loro
libertà individuale non saprebbero
reagire allo stesso modo. Stress,
inibitori sociali e rincorsa al “contagio mimetico” di massa rendono
la vita più pesante; si guarda tutto
dalla medesima prospettiva e non
si riesce a uscirne (nemmeno il
sottoscritto fa eccezione a volte).
Quello che le difficoltà cercano di
rendere più pesante nella vita di
questi giovani studenti, la scrittura lo ha reso leggero. Sul valore di
quest’ultima si sono concentrate le
brevi narrazioni del capitolo I, intitolato per l’appunto “Scrivere”.
Spesso non si dà la giusta importanza a ciò che questa azione comporta, ma un fatto non certamente
di poco conto fu che nel momento
in cui l’uomo adoperò per la prima
volta questo sistema di simboli linguistici avvenne una netta cesura tra
preistoria e storia. Lo stesso Jack Kerouac, nello scambio epistolare con
Alexandros Sampas- quest’ultimo
morto durante lo sbarco degli alleati
ad Anzio- definì il valore scritturale
come “sacro”, elevando la semplicità di carta e inchiostro ad una sfera
quasi metafisica (lettere ripubblicate
nel racconto Il mare è mio fratello).
Quello che ragazzi hanno avuto il coraggio di fare è proprio questo; riuscire a ridare l’importanza prioritaria
all’atto della scrittura, alleggerendola da quella pseudofunzionalità a cui
oggi siamo troppo abituati.
Il capitolo II, “Incontri piacevoli” è incentrato sulla quotidianità di
quei piccoli gesti che, grazie all’affetto e all’interazione personale,
non odorano di “abitudine”, ma
acquistano la loro giusta dignità. Il
terzo capitolo ruota attorno al dipinto del pittore Jan Vermeer “La
ragazza con il turbante” e si intitola “Storia di uno sguardo e di un
orecchino” (meglio nota come la
“Ragazza con l’orecchino di per-
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la”) nel quale gli studenti hanno
dato prova di saper inventare le
più eterogenee storie, fantasiose o
meno, utilizzando uno stesso minimo comun denominatore: la storia
di una ragazza e del suo orecchino
di perla. Seguono i microracconti
racchiusi nel capitolo “Brevi”, nei
quali ognuno è riuscito a dar voce
alle proprie preferenze stilisticonarrative, senza il bisogno di dover
scegliere un tema per poi costruirvi sopra.
Segue poi il capitolo finale
“Liberi”, ben collegato con il precedente ma che parla sufficientemente con il suo titolo. Anche
in questo caso gli studenti hanno
dato voce al proprio cuore senza
freni e ostacoli alla propria creatività, meritandosi in pieno questo aggettivo con il quale è stato scelto
il punto conclusivo dell’antologia.
Questi ragazzi, coadiuvati dal
saggio aiuto dei docenti impegnati
in questo progetto, hanno avuto il
merito di dar vita ad un lavoro nel
suo complesso semplice ma libero,
sciolto e leggero. Il lettore non ne
risulterà annoiato, tutt’altro sarà la
curiosità mista ad strana sensazione di felicità a pervadere il suo intelletto. Il contenuto maggiore del
testo è nella penna che lo ha realizzato, soprattutto con la fantasia
e l’assenza di peso degli scriventi,
che hanno compiuto la loro metamorfosi in farfalle.
Come il bozzolo e la crisalide
delle difficoltà non hanno impedito
che dei semplici bruchi compiano la
trasformazione in quei lepidotteri
che tanto amiamo, così le difficoltà
non hanno impedito a questi ragazzi che la pesantezza li schiacciasse
verso il basso, ma sono riusciti a
compiere quel movimento antigravitazionale che ha permesso a questo progetto di venire alla luce.
Un grande merito va sicuramente a tutti coloro che hanno incentivato la fantasia e la creatività
di questi studenti, come il professor Fabio Pierangeli, docente di
Letteratura Italiana e responsabile
di questo laboratorio.
Un’antologia che rappresenta l’” Elogio della leggerezza”, un
planare dall’alto le verità di questa
vita, senza scivolare tuttavia nell’apatia o nel cinismo.
Senza pesi sul cuore
Il sole fra le dita
di Ludovica Festino
In un mondo così freddo insostenibile il giovane Dario e il suo
amico in carrozzina Andy cercano
solo un po’ di libertà e tranquillità.
Sono questi i tratti fondamentali di
Il sole fra le dita di Gabriele Clima,
un romanzo di formazione pubblicato nel 2016 da San Paolo Editore.
In un quadro moderno di freddezza ed efficienza l’autore dipinge
due personaggi completamente
diversi ma accomunati dalla stessa
voglia di libertà: Dario è un ragazzo
difficile che deve affrontare l’abbandono di suo padre ed Andy è
un giovane disabile costretto alla
carrozzina, che gli impedisce di
percepire il sole sulla pelle; lo sfondo è la campagna tra San Vincenzo
e Torre Spaccata.
La storia di questa incredibile
amicizia inizia quando Dario finisce
in presidenza per l’ennesima volta
ma al posto della solita punizione,
gli viene affidato Andy; la scuola
spera di placare l’animo ribelle di
Dario con il servizio sociale. Dopo
appena pochi giorni i due ragazzi
si rendono conto di avere molte
cose in comune e finiscono per
scappare insieme nella campagna piena di tranquillità che tanto
desideravano; il viaggio giunge
al suo fine quando Dario riesce a
rincontrare suo padre rimanendo
estremamente deluso da come il
suo genitore sia diverso dai suoi ricordi. Dopo essere tornati in città
i tuoi amici vengono bruscamente
separati ma dopo alcuni giorni i
genitori di Andrea si presentano a
casa di Dario spiegandogli che non
hanno mai visto loro figlio parlare
e tantomeno muoversi, eppure
da quando frequenta il suo nuovo
amico ha fatto dei progressi incredibili. Ora che non ci sono più ostacoli alla loro amicizia Dario ed Andy
continueranno la loro spassionata
ricerca di semplice pace in un mondo così caotico.
Nonostante l’inizio posso sembrare banale questo libro a molto
da offrire: il personaggio di Dario
è dilaniato dai ricordi di suo padre
e non riesce a vivere in pace con il
mondo a causa di questo traumatico abbandono; allo stesso modo
Andy desidera vivere una normale
adolescenza che la carrozzina gli
continua a negare,ma una volta
che i due personaggi capiscono di
essere uguali nonostante le loro
storie estremamente diverse appare per entrambi uno spiraglio di
tranquillità e di placida quiete che
gli permette di arrivare ad una crescita. La semplicità e la modernità
con cui l’autore parla di personaggi
così realistici rende il libro scorrevole e leggero aiutando il lettore a
riflettere su come in un mondo così
evoluto e all’avanguardia vengano
a mancare i valori umani necessari
per una sana crescita degli adolescenti. In fondo ad ogni studente
piacerebbe poter vivere una vita
calma e serena, magari in disordine
e impulsiva ma pur sempre una vita
tranquilla,come un fiore che cresce
in un frigorifero.
La notte dei Ragazzi Cattivi
di Letizia Hassan
“A volte, quando il cielo era
estremamente limpido e i fantasmi lo strapazzavano troppo, se ne
usciva sul balcone e si sedeva su
uno sgabello a parlare con la ma-
dre” è certamente uno dei passi
più persuasivi dell’ultima fatica del
romanziere Massimo Cacciapuoti,
La notte dei ragazzi cattivi.
La narrazione si sviluppa nel
contesto di Guggiano, un piccolo
paese di matrice interamente fantastica; in questo ambiente vive e
cresce il protagonista Fabio Romano, circondato da personaggi più
o meno avversi alla sua indole di
ragazzo tranquillo e relativamente
innocuo. La sorella di Fabio, Valentina, è l’unico personaggio della
storia che matura un sentimento
di responsabilità e protezione nei
confronti del fratello assistendolo in un complesso ma graduale
percorso di consapevolezza della
malattia incurabile della loro madre. Fabio, affetto da gravi problemi di integrazione, troverà riparo
dall’alcolismo della rassegnata e
fallita figura paterna e dai violenti
compagni di classe in Giulia, sua insegnante di sostegno. Ciò che sfortunatamente Fabio non sa è che la
vita di quest’ultima e quella di suo
padre si sono già incrociate in passato e non per essere coinvolte in
un piacevole evento, anzi.
La violenza è fattore influenzante della vita abitudinaria dei
paesani a Guggiano e controlla
trasversalmente la società determinando spesso episodi spiacevoli;
vedremo come, ad esempio, durante l’evolversi della narrazione,
il padre di Fabio farà utilizzo di alcol e sostanze stupefacenti per rispondere ai suoi scatti d’ira e per
cercare di ignorare le debolezze
del fragile figlio.
L’episodio centrale della storia
è rappresentato dal furto da parte di Fabio di un ordigno, che era
nella disponibilità del padre; i suoi
compagni di classe lo obbligheranno poi a far esplodere l’arma
all’interno di un istituto scolastico
e dall’avvenimento rimarrà gravemente ferita la sua insegnante
Giulia. Tale evento conduce al triste epilogo del romanzo, nel quale
Fabio non riuscirà a conservare l’unità familiare.
La trama originale e molto articolata si risolve in una concatenazione di eventi talvolta improbabili, come ad esempio la singolare
coincidenza che porta Giulia a rincontrare all’ospedale l’uomo che la
violentò quando era giovane.
Quanto ai personaggi, essi
incarnano vizi e virtù degli esseri umani: Ascanio Lombardi, soprannominato il Maiale, delinea
l’arroganza causata dalla scarsa
cultura; Giulia rappresenta l’onestà e la misericordia nel tentativo
di mettere in salvo Fabio dal contesto umano in cui vive; la figura
del padre di Fabio ritrae i difetti
dell’uomo per eccellenza, come
la dipendenza, l’aggressività e l’ignoranza; per concludere Valeria,
la tenera compagna di classe del
protagonista, incarna grande bontà e benevolenza che esprime con
atti di grande generosità.
Lo stile letterario dell’autore
è prevalentemente piano poiché
i periodi utilizzati sono semplici;
domina il testo la paratassi, un uso
della punteggiatura adeguato e la
forma del dialogo; il lessico è immediato e usufruisce di parole di
uso comune rendendo agevole la
lettura al lettore.
Il romanzo, per quanto concerne le tematiche, affronta problematiche quanto mai attuali, quali
il disagio giovanile, il bullismo e
la violenza sulle donne; ciò nonostante penso che la modalità con
la quale lo scrittore abbia trattato
questi argomenti sia stata a tratti
cruda e semplificata.
Ritengo che il romanzo sia
semplice e autentico, forse una
maggiore accuratezza nella stesura dell’intreccio avrebbe attribuito
alla storia più fascino e avrebbe giovato al coinvolgimento del lettore.
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Amore
I giornalisti, quando mi intervistano, mi chiedono sempre “Come è cambiato l’amore?” Perchè è solo il cambiamento che fa notizia. Se una cosa non
cambia, non c’è nulla da dire perchè la sai già. Ma è vero? E’ vero che la sai
già? Anche in amore?
Incominciamo dalla novità: i giovani vogliono liberarsi dalla dipendenza
amorosa. Ciascuno vuol essere libero di andare dove vuole, quando vuole
e con chi vuole. E, fra la coppia e la propria riuscita personale, gli studi, il
lavoro, la carriera, sono questi che vengono al primo posto. Sono loro che
danno stabilità, non l’amore. Un altra novità: oggi la sessualità è più libera,
tanto nei maschi come nelle femmine e incomincia prima. Un altra novità: l’omosessualità e la bisessualità sono più visibili, manifeste e forse più
diffuse E si vede che,mentre gli omosessuali maschi, in genere, dopo un
periodo di ambiguità fanno una scelta definitiva, le donne sembra abbiano
delle fluttuazioni maggiori : anche in età adulta e dopo anni di esperienze
eterosessuali possono averne di omosessuali e poi tornare a quelle etero.
Ma poi è anche vero che, ad un certo punto questa stessa gente si innamora e poi ama. Ed allora che sia maschio o femmina, giovane o vecchio, omosessuale o eterosessuale sente il bisogno disperato di quella sola persona,
ed unicamente di lei, perche non è sostituibile da nessun altra e vuole averla vicina, e quando è lontana è come se gli mancasse l’aria e il respiro.
E le domanda se lo ama, ed è stupito di questo incantesimo E, in qualsiasi modo sia cominciato questo suo amore, se prima non dava nessuna
importanza alla fedeltà, e il sesso gli sembrava una cosa libera, facile e
leggera, ora gli appare incredibile ed inquietante perche è diventato possessivo, geloso.
Ebbene, mentre ciò che abbiamo detto all’inizio sui giovani, sul sesso precoce, sull’ambiguità sessuale era una novità, questa esperienza è sempre
stata così, anche se ogni generazione la deve riscoprire. Perche era vero
nel passato ed è vero oggi quanto scriveva Roland Barthes. che “l’altro
che io amo e che mi affascina è atopos. Io non posso classificarlo, poiché
egli è precisamente l’Unico, l’Immagine irrepetibile che corrisponde miracolosamente alla specificità del mio desiderio”. Vissuto e raccontato in mille modi diversi, in Europa in America o in Asia, questo è l’innamoramento
e l’amore. Non ha novità ed è sempre nuovo. Non fa notizia ma è alla base
di quasi tutte le notizie.
Francesco Alberoni
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PASSA
TEMPO
DIVERTIMENTO
I candidati alle elezioni nelle isole Ebridi venivano bastonati
dagli elettori, che assegnavano la carica a colui che meglio
sopportava il dolore.
PUZZLE
CURIOSITÀ
SOLUZIONI
PUZZLE
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