INSERTO DELLA RIVISTA COMUNITÀITALIANA - REALIZZATO IN COLLABORAZIONE CON I DIPARTIMENTI DI ITALIANO DELLE UNIVERSITÀ PUBBLICHE BRASILIANE
Suplemento da Revista Comunità Italiana. Não pode ser vendido separadamente.
ANO VIII - NUMERO 85
Transatlantici
e sipari
La scena italiana e il Brasile
La scena italiana
e il Brasile
Gennaio / 2011
Editora Comunità
Rio de Janeiro - Brasil
www.comunitaitaliana.com
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Pietro Petraglia
Editore
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Grafico
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di Roma “Tor Vergata”); Daniele Fioretti
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Santoro (USP); Ernesto Livorni (Univ.
Wisconsin-Madison); Fabio Pierangeli
(Univ. di Roma “Tor Vergata”); Giorgio
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Wataghin (USP); Luiz Roberto Velloso
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Mosaico italiano è aperto ai contributi
e alle ricerche di studiosi ed esperti
brasiliani, italiani e stranieri. I
collaboratori esprimono, nella massima
libertà, personali opinioni che non
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della direzione.
SI RINGRAZIANO
“Tutte le istituzioni e i collaboratori
che hanno contribuito in qualche modo
all’elaborazione del presente numero”
STAMPATORE
Editora Comunità Ltda.
ISSN 2175-9537
U
na congiunzione astrale fortunata ci offre la possibilità di aprire il 2011
di Mosaico italiano nell’anno dedicato ai rapporti tra Italia e Brasile con
un numero di particolare rilievo culturale in linea con i festeggiamenti
programmati tra i nostri due Paesi: le tournées dei grandi attori italiani in America Latina, che comprende lettere inedite di Giacinta Pezzana, l’ideatrice del
Escuela exsperimental de Arte dramático di Montevideo. La parte monografica
viene curata con grande attenzione da Donatella Orecchia, docente, all’Università di Roma Tor Vergata, di Storia del teatro italiano, da sempre impegnata a
fianco di artisti legati al teatro di ricerca e di avanguardia. I suoi studi si sono
orientati sulla figura del Grande Attore e della regia tra fine Ottocento e inizi
Novecento, producendo, tra gli altri, i volumi: Il sapore della menzogna. Rossi,
Salvini, Stanislavskij: un aspetto del dibattito sul naturalismo (Genova, 1996),
Il critico e l’attore. Silvio D’Amico e la scena italiana di inizio Novecento (Torino
2003); l’affascinante e documentata ricostruzione delle “origini” di Eleonora
Duse, La prima Duse. Nascita di un’attrice moderna, per la prestigiosa collana In
scena, diretta da Edo Bellingeri per Artemide editore, Roma, 2007. A Donatella
Orecchia va il sentito ringraziamento della redazione e del Comitato scientifico
di Mosaico per il lavoro svolto, chiamando a raccolta gli studiosi del settore,
tra cui alcuni bravissimi giovani. In questi tempi delicati e critici dell’università
italiana è una iniezione di fiducia anche, in un certo senso, “provocatoria”, rispetto ad un futuro ancora più incerto per le giovani generazioni che guardano
all’estero, e al Brasile, come sedi di lavoro e di possibilità di approfondimento
culturale in accordo con le loro sedi di provenienza italiane, spesso impossibilitate a garantire i finanziamenti necessari per la continuazione di ricerche di
interesse internazionale.
Il suggestivo titolo Transatlantici e sipari. La scena italiana e il brasile, ci trasporta in un universo eroico e anche duro, negli anni della grande migrazione,
dove l’Italia è conosciuta nel mondo per i suoi artisti, in una specie di rivalsa
nazionalistica, per chi è arrivato in umili condizioni economiche con quelle stesse navi. Fenomeno di cui, tutto sommato, a parte rari casi, come quello di De
Amicis e Pascoli, la grande letteratura si è poco occupata e che invece i grandi attori dell’epoca, dalla Ristori, alla Duse, a Giacinta Pezzana, Ernesto Rossi,
Tommaso Salvini, fino a Pirandello e alla sua compagnia, hanno potuto constatare in prima persona, in questi lunghi viaggi, tra «prevedibili e imprevedibili»
successi in America Latina. Gli articoli di questo numero ci offrono un quadro
nitido di quegli anni, e meritano ulteriori, prossimi, approfondimenti e, magari,
un convegno tematico nell’anno italo-brasileiro!!
Donatella Orecchia
Indice
SAGGI
Transatlantici e sipari. La scena italiana e il brasile
pag. 04
Livia Cavaglieri
A margine della tournée di Adelaide Ristori in Brasile:
la breve carriera dell’agente Luigi Magi
pag. 06
Laura Mariani
La Escuela experimental de Arte dramático.
Lettere inedite di Giacinta Pezzana da Montevideo (1911-1914)
pag. 09
Donatella Orecchia
Ettore Petrolini e le sue prime tournées in America Latina
pag. 13
Donatella Gavrilovich
Un bastimento carico di… opere liriche e scenografie.
Augusto ed Emma Carelli, Walter Mocchi e le tournées in Brasile
pag. 17
Yuri Brunello
Critica, autocritica e ideologia.
Su Oswald de Andrade lettore di Pirandello
pag. 20
Alessandra Vannucci
La quinta colonna. L’avventura brasiliana della “generazione dei registi”
pag. 22
Giovanna Scarsi
Filo diretto Salermo-Rio de Janeiro
pag. 26
RUBRICA
Francesco Alberoni
Solo con la forza d’animo ci liberiamo dalle ossessioni - Dopo lo sconforto bisogna
cercare soluzioni alternative
PASSATEMPO
pag. 30
pag. 31
Transatlantici
e sipari
La scena italiana e il Brasile
A
partire dalla metà del secolo XIX l’inaugurazione
delle prime vie marittime
per navi a vapore dal porto di Genova, incentivò l’emigrazione del
nord d’Italia verso le terre lontane
delle Americhe. Intanto, e proprio
in quel torno di tempo, l’America Latina iniziò a divenire meta
privilegiata di molti protagonisti
della scena teatrale nostrana che,
alla ricerca di nuovi spazi, di nuovi pubblici – oltre a quelli appena
conquistati delle principali capitali
europee – e di nuove opportuni-
4
tà artistiche nonché commerciali, individuarono in quei paesi la
possibilità di realizzare le proprie
aspirazioni e moltiplicare così il
numero delle piazze in cui esibirsi.
I musicisti e i cantanti, primi fra tutti, portarono oltre oceano con uno
straordinario successo i frutti migliori della stagione del melodramma romantico, tanto che opere di
Bellini, di Donizetti, di Rossini e di
Verdi vennero presto regolarmente eseguite nei teatri di Rio de Janeiro e delle altre capitali. Nel caso
particolare del Brasile, poi, il matri-
monio dell’Imperatore Dom Pedro
II con la principessa napoletana Teresa Cristina Maria di Borbone, nel
1843, aveva accentuato l’interesse
e l’ammirazione dell’imperatore
per la cultura italiana, incentivandolo a favorire l’inserimento sociale e professionale dei migranti
nostrani, specie se artisti. In seguito, e a partire dalla fine degli anni
sessanta con le prime importanti
tournées di Adelaide Ristori, vera
pioniera delle terre dell’America
Latina, anche gli attori del teatro
di prosa iniziarono a intraprendere
con assiduità viaggi oltreoceano,
mentre l’emigrazione post-unitaria
di contadini e braccianti italiani, incentivata e sovvenzionata dai governi locali1, vi si accompagnò per
un lungo periodo di tempo.
Sulla rotta di Rio, Buenos Aires,
Montevideo, seguirono le orme
della Ristori quasi tutti i grandi attori italiani dell’Ottocento: Tommaso Salvini, Ernesto Rossi, Giovanni Emanuel, Ermete Novelli,
Francesco Pasta, Giacinta Pezzana,
Eleonora Duse, «spartendosi le cabine dei transatlantici con i cantanti lirici, mentre nelle stive s’accalcavano le famiglie degli emigranti
con le loro miserabili carabattole»2, trascorsero molte stagioni in
tournées lunghe anche molti mesi
in America del Centro e Sud. La
tensione cosmopolita, che nutrì il
teatro d’attore italiano del secondo Ottocento, si intrecciò in questo caso con una strategia di autopromozione personale su scala internazionale, talvolta ammantata
da ideali patriottici talaltra sostenuta da progettualità culturali che
si radicarono nel territorio. Il Novecento, che pur vedrà un allentarsi
di questo fenomeno, registrerà
ancora importanti episodi a inizio
secolo e fino agli anni venti e poi,
ancora, nel secondo dopoguerra,
quando una nuova generazione di
teatranti tornerà a considerare in
particolare il Brasile terra fertile
per fare fruttare lì quanto maturato in Italia.
L’inevitabile profonda influenza che quelle esperienze ebbero
sul linguaggio teatrale degli artisti
coinvolti, sul loro stile e le loro modalità produttive e organizzative è
un dato che impedisce di guardare
alla scena teatrale italiana fra la
metà del secolo XIX e la metà di
quello successivo entro una prospettiva eurocentrica, e ci invita al
contrario a seguire quei percorsi
nei tanti rivoli in cui si diramano:
fra rapporti con grandi istituzioni
e le più alte cariche degli stati latinoamericani (è il caso della Risto-
ri), radicamenti profondi nel tessuto culturale e teatrale locale (è
il caso di Giacinta Pezzana e della
sua Scuola Sperimentale a Montevideo e poi della “generazione
dei registi” negli anni cinquanta
del Novecento), fra le astute e
complesse operazioni degli agenti
teatrali italiani (l’esempio di Luigi
Magi) e quelle di chi si trova a organizzare le tournées delle compagnie liriche (il caso particolarissimo
di Walter Mocchi); infine fra gli imprevedibili successi di chi arriva in
Sud America privo di una precisa
strategia promozionale e prima di
aver avuto un’affermazione piena
in patria (è il caso di Petrolini) e i
più prevedibili successi di un Pirandello reduce dai trionfi parigini,
che lascerà anche qui, dietro di sé,
un segno profondo capace di animare la critica e la drammaturgia,
in particolare brasiliana (è il caso di
Oswald de Andrade).
Questa storia dei teatri viaggianti o migranti in Brasile (e nelle
vicine Argentina, Uruguay, Messi-
co, Cuba), storia complessa e lunga
più di un secolo, è già stata in parte
narrata in alcuni significativi studi3.
Nei contributi che seguono abbiamo scelto di indagare, con brevi affondi storico-critici, aspetti diversi
di questo tema ampio e complesso
fino a questo momento poco frequentati, che tracciano, complessivamente, un percorso che dalla
stagione del “Grande Attore” della
metà dell’Ottocento post unitario
giunge fino alla dialettica fra avanguardia e tradizione propria della
giovane generazione di registi emigrati in Brasile della metà del secolo successivo.
Di tanta storia oggi, culturalmente e artisticamente, siamo eredi.
Alla conclusione di questo lavoro, non posso che ringraziare la
redazione di «Mosaico» per avere
accolto la nostra proposta, in particolare il prof. Fabio Pierangeli
dell’Università di Roma Tor Vergata, e tutti coloro che con grande
passione hanno collaborato alla
sua realizzazione.
Adelaide Ristori
1
L’immigrazione “sovvenzionata” in Brasile fu in vigore dal 1870 al 1930: i viaggi erano finanziati, così come l’alloggio ed il primo lavoro. Cfr. C. Vangelista, L’emigrazione dalla penisola italiana verso il Brasile, 1808-1960: una introduzione, in M. Reginato (a cura di), Da San Marino a Espirito Santo, fotografia di un’emigrazione,
Repubblica di San Marino, Centro Studi Permanente sull’Emigrazione, 2002, pp. 23-54; Trento, Angelo, In Brasile, in P. Bevilacqua, A. De Clementi, E. Franzina (a
cura di), Storia dell’emigrazione italiana Arrivi, Roma, Donzelli Editore, 2002.
2
A. Vannucci, Mattatori e primedonne che infiammarono il Brasile, in A. Vannucci (org.) «Letterature d’America», Roma, n. 97, 2003.
3
R. Jacobbi, Teatro in Brasile. Bologna, Cappelli, 1961; E. Franzina, L’immaginario degli emigranti. Miti e raffigurazioni dell’esperienza italiana all’estero tra i due
secoli, Treviso, Pagvs, 1992 e Dall’Arcadia in America. Attività letteraria ed emigrazione transoceanica in Italia (1850-1940), Torino, 1996; R. Strohm, The Eighteenth
Century Diasporas of Italian Music and Musicians, Turnhout 2001; G. Ratto, A mochila do mascate. São Paulo, Hucitec, 1997; E. Buonaccorsi, Adelaide Ristori in
America (1866-1867). Manipolazione dell’opinione pubblica e industria teatrale in una tournée dell’Ottocento, in «Teatro Archivio», 1981; S. Corsivieri, Badernao. La
ballerina dei due mondi, Roma, Odradek, 1998; infine di Alessandra Vannucci, che compare qui con un saggio, ricordiamo la cura del già citato volume Letterature
d’America n. 97, 2003, uno studio su Adelaide Ristori, La regina delle scene alla corte dell’Imperatore, in «Rivista di studi portoghesi e brasiliani», n. V. 2003, la
cura degli scritti di Jacobbi (cfr l’articolo che segue in questa raccolta); il recente Un baritono ai tropici. Diario di Giuseppe Banfi al Paranà. Pref. Emilio Franzina.
Reggio Emilia, Diabasis, 2008.
5
A margine della tournée di
Adelaide Ristori
in Brasile: la breve carriera
dell’agente
Luigi Magi
1
Livia Cavaglieri
dell’Università di Genova
Q
uando, sul finire del giugno 1868, Adelaide Ristori dà l’addio al
pubblico statunitense, chiudendo un tour colmo di trionfi che, oltre al rodato Nord America, l’aveva vista spingersi fino all’Avana,
non tutti coloro che l’avevano accompagnata nella fortunata impresa la
seguono in patria: a New York rimane l’agente Luigi Magi2 con l’incarico
di spostare di migliaia di chilometri più a sud la frontiera della ditta RistoriCapranica. Brasile, Argentina e Uruguay sono le nuove mete intraviste dal
marchese Giuliano Capranica del Grillo, l’anima manageriale della coppia3,
al quale si deve l’ideazione del primo “giro” nel Sud America nel 1869,
come si ricava da una preoccupata lettera che egli scriverà al Magi (da cui
non riceve comunicazioni da mesi, a causa probabilmente di disguidi postali), a poche settimane dalla partenza definitiva per Rio de Janeiro delle
35 persone che formeranno la compagnia:
«In questo stato di cose io mi trovo ad intraprendere un tal viaggio quasi dirò alla cieca.
Oggi pago la non lieve somma di fr. 23.000 di passaggio, e non mi basteranno 50.000
franchi per le altre spese di spedizioni, sovvenzioni agli artisti, ecc. ecc. Faccio a voi immaginare se non avevo bisogno con simili sborsi di essere un poco tranquillizzato da voi
e dal sapere che tutto è sistemato a seconda dei miei desideri. […] trattandosi specialmente che pesa intieramente sulla mia testa tutta la responsabilità di questa speculazione in faccia alla mia signora ed ai miei figli»4.
Come per la prima tournée nordamericana5, l’operazione parte con
almeno un anno di anticipo. Ma questa volta la Compagnia Drammatica
Italiana si affida a un proprio agente di fiducia6, Magi appunto, muovendosi dunque in autonomia e senza un Jacob Grau a preparare il terreno
Adelaide Ristori
in Medea, foto
Herbert Watkins
6
1
I documenti citati, salvo diversa indicazione, sono conservati presso il Museo Biblioteca dell’Attore di Genova [MBA], Fondo Ristori - Donazione Giuliano Capranica del Grillo. Ringrazio Gian Domenico
Ricaldone per la preziosa assistenza.
2
Benché fra le scritture presenti nel fondo Ristori non risultino ingaggi relativi a Magi, la lettura
della corrispondenza permette di stabilire che egli aveva partecipato alla tournée americana del
1867-68. Nell’estate del 1868 il fratello Carlo è invece impiegato come rappresentante dei Capranica in Italia; da questo incarico si dimette però nel settembre ed è sostituito da Luigi Trojani (Lettera
22 gennaio 1869 di G. Capranica a L. Magi).
3
Per la divisione dei compiti della ditta Ristori-Capranica (ad Adelaide la direzione artistica; a Giuliano l’organizzazione), si veda A. Ristori, Ricordi e Studi artistici, a cura di A. Valoroso, Roma, Audino,
2005, p. 81 [ed. or. Torino-Napoli, Roux, 1887].
4
Lettera 8 maggio 1869. Capranica rimane “al buio” per quattro mesi e con questioni fondamentali
ancora irrisolte: la determinazione dei prezzi delle recite di Rio de Janeiro e le condizioni definitive
dei contratti di Buenos Aires e Montevideo.
5
Si veda E. Buonaccorsi, Adelaide Ristori in America (1866-1867). Manipolazione dell’opinione pubblica e industria teatrale in una tournée dell’Ottocento, in «Teatro Archivio», 1981, 5, pp. 156-188.
6
Anche Tommaso Salvini manderà in avanscoperta un proprio agente esclusivo per il “giro” in Sud
America del 1874, scritturando a questo scopo Lodovico Mancini (cfr. MBA, Fondo Salvini, 822). Il
fatto interessante è che Mancini era un ex attore dei Capranica ed era stato con loro in America fin
dalla prima tournée del 1866-67.
con armamentario da marketing
ante litteram: forse perché non ce
n’è bisogno («la fama e gli affari della
sig.ra Ristori sono bene radicati nelle principali famiglie»7, rassicura la
contessa de Barral, lasciando capire
come i canali più influenti in Brasile
siano quelli tradizionali, al marchese
assai ben noti), forse perché si tratta
di un paese «ove un proficuo ma inesperto mercato teatrale non aveva
ancora reso sistematica l’intermediazione di agenti locali»8, certo anche
perché, imparata negli Stati Uniti una
magistrale lezione di professionalità
imprenditoriale, l’impresa Ristori-Capranica era pronta a spiccare un salto
in fatto di complessità organizzativa9. Così è la coppia Capranica-Magi
a gestire in proprio le relazioni con la
stampa locale: il marchese consiglia
all’agente quali articoli e quali informazioni diffondere. In prossimità
della partenza, per esempio, egli traduce per Magi, perché la faccia circolare fra i giornalisti, la cronaca della
recita di commiato dall’Europa, svoltasi all’Aja in un clima di preparazione
al grande evento, e lo ragguaglia con
dovizia sulla (peraltro nota) vicenda
Legouvé-Rachel attorno alla composizione di Medea, concludendo:
«Ora sta a voi servirvi di queste notizie per
sempre meglio preparare la prima rappresentazione»10.
Naturalmente viene inviato anche in Brasile il solito battaglione
di biografie, fotografie, litografie
e quadri della “grande attrice”.
Rispetto alla rodata strategia di
comunicazione solo il progetto di
tradurre in portoghese i libretti di
accompagnamento allo spettacolo
non potrà essere portato a termine
e il marchese deciderà alfine di portare con sé le copie con la traduzione in altre lingue (francese, spagnolo e inglese), prevenendo (sempre
nella lettera testé citata) l’agente:
«Siccome anche questa non è una lieve
spesa, così prendete le misure necessarie
perché nessun’altra traduzione o riduzione sia venduta all’infuori delle nostre».
Con il Brasile come primo obiettivo, Magi s’era dunque imbarcato
Ristori, Lettera 8
maggio 1869 da
Giuliano Capranica
a Luigi Magi (Museo
Biblioteca dell’Attore)
sul bastimento a vapore “America”
del capitano Bartolomeo Bossi (un
italiano forse da tempo emigrato
oltreoceano?), il quale, ben felice di
prestare i propri servigi ai coniugi
del Grillo, era a sua volta incaricato di
ragguagliare su Montevideo, ove era
diretto. Una disastrosa tempesta costringe però il Bossi a ritornare a Rio
de Janeiro, dopo avervi già sbarcato
il Magi e l’incidente fa subito prendere all’operazione brasiliana quella
svolta imperiale per cui è nota. Il 6
settembre 1868 scrive Bossi a Capranica – scusandosi per il suo italiano
lievemente scorretto:
«L’Imperatore mio amico senza aspetare
la mia visita venne à bordo, fu per me una
gran sorpresa, restò con me più di due
ore; e, bene, un’ora certamente non parlai che di voi, della Marchesa e dei vostri
figli, ci dimandai il permesso di presentarci il sig. Magi vostro agente il cuale mi fu
concesso nel momento».
L’imperatore conosceva il nome
della Ristori, per via dei successi raccolti a New York, e chissà che non
sia stata propria la curiosità di verificare la fondatezza della voce che,
nonostante le accortezze di Magi11,
iniziava a girare fra i più distinti emigrati italiani in merito a una possibile
tournée dell’attrice a farlo precipitare sul naviglio di Bossi, il quale era
del resto pronto a squadernargli l’album con i ritratti di tutta la famiglia
Ristori-Capranica. Certo è che, prima
ancora che Dom Pedro II e Adelaide
Ristori stringano una lunga amicizia,
la brama di trionfi mondiali dell’attrice si sposa ottimamente con l’italofilia e la teatromania di cui lui e
l’imperatrice Teresa Cristina Maria di
Borbone stavano contagiano i cittadini fluminensi.
Magi aveva nel frattempo messo
a fuoco Rio de Janeiro come piazza
Lettera 8 settembre 1868 di Magi a Capranica.
A. Vannucci, Mattatori e primedonne che infiammarono il Brasile, in «Letterature d’America», 2003, 97, p. 2.
Cfr. P. Bignami, Alle origini dell’impresa teatrale. Dalle carte di Adelaide Ristori, Bologna, Nuova Alfa Editoriale, 1988.
10
Lettera 8 maggio 1869.
11
«[…] non faccio pubblico il nome della signora Marchesa per mezzo dei periodici, ma alle persone che sono stato raccomandato lo scopo del mio viaggio non
è un mistero, gli ho raccomandato la discrezione, ma parlando in privato sono tutti unanimi nel dirmi che […] sarà una stagione Teatrale ben brillante, e non
aspettano che il momento che si possa parlarne con tutta libertà […].» Lettera 24 agosto 1868. Ma già non appena Magi era partito da New York, l’«Herald
Tribune» ne aveva dato notizia , a sua insaputa.
7
8
9
7
perfetta («Qui mi pare che ci è più
buon gusto che alla Habana, ci è più
fame di buoni spettacoli, ci è più oro
[…]» - scrive il 24 agosto 1868) e, fra
la mezza dozzina di sale che aveva
visitato, il Teatro Lirico Fluminense
(detto anche Provisório) come sala
ideale. Era il teatro primario della città, il più grande12, il più redditizio (a
teatro pieno, almeno 3.500-4.00013
dollari secondo i calcoli dell’agente):
122 palchi, 700 posti in platea, divisi
in due settori14, per una capienza totale che si aggirava sui 1500 posti a
sedere (ed è sulla capienza dei teatri
che sono ossessivamente concentrate le descrizioni di Magi). Il Provisório era la sala delle compagnie
liriche ed erano queste, in fatto di
business, la pietra di paragone elettiva: non solo Magi si fa dare dall’amministratore, José Maria do Nascimento, l’elenco degli incassi da loro
effettuati come elemento di valutazione sull’affidabilità della sala, ma
anche costruisce i prezzi a partire da
quelli delle serate d’opera.
Non si è conservato il contratto
definitivo, ma dalla bozza che Magi
Lettera 8
settembre
1868 da Luigi
Magi a Giuliano
Capranica,
(Museo
Biblioteca
dell’Attore)
trascrive per il marchese e dalle
successive lettere siamo in grado di
soffermarci, in questo poco spazio,
su un’importante condizione. A differenza di quanto accade con i teatri di
Montevideo e Buenos Aires, appaltati all’impresario Pestalardo e soggetti
alla trattativa con lui, il Lirico è preso
in locazione direttamente dall’amministrazione, il che garantisce un guadagno maggiore15.
Le venti recite a Rio de Janeiro
(l’incasso del debutto sarà pari a
15.700 franchi in oro, si affretta a scrivere la Ristori alla madre16) e l’intera
tournée nel Sud America saranno un
grande successo, per tutti, ma non
per Luigi Magi, il cui nome sparisce
dalle carte conservate nel fondo Ristori. Egli era stato un buon agente,
aveva trattato gli affari dei Capranica
con competenza a tutti i livelli (l’attrice aveva trovato deliziosa anche
l’abitazione che aveva loro procurato) e nella corrispondenza (almeno
in quella che si è conservata) Capranica si era mostrato soddisfatto del
proprio agente: che cos’era dunque
successo?
Partita la compagnia per Buenos
Aires, a Rio si era scatenato un imprevisto putiferio («qui è un generale
sparlare della sua Impresa») contro
l’attrice e la sua amministrazione,
che «pel soverchio zelo ha rovinato ed annientato il nome, la gloria e
il prestigio tutto di cotesta celebre
Compagnia», a causa di sconti chiesti ai fornitori (fra cui anche influenti giornalisti) e di conti non pagati
(«forse per dimenticanza» si affretta
ad aggiungere l’informatore). Nello
scandalo ha una parte, e di primo piano, anche Luigi Magi, che raccoglie
«la simpatia di tutti i Brasilieri»:
«Dissesi qui che Magi avendo reclamati i suoi conti, Ella non voleva
soddisfarglieli tal quale verbalmente
furono trattati: e che allora Magi non
voleva fare il versamento degl’abbonamenti incassati se non a che un
arbitro decidesse: e finalmente che,
in vista di ciò, Ella avea fatto spiccare
mandato d’arresto contro l’istesso
Magi […]»17.
Il rumore doveva essere stato
forte, se la marchesa arriverà a dolersi della vicenda con Dom Pedro,
ricomponendo la storia dal proprio
punto di vista:
«[…] ho avuto il cuore amareggiato dal tradimento del nostro
agente Luigi Magi il quale, mascheratosi per tanto tempo da uomo
onesto, aveva qui montato tale
macchina da porci nella condizione
tristissima di convertire in perdite
immense, il risultato delle mie tante
fatiche. Fortunatamente la legge ed
il paese intiero mi hanno assistita ed
è ridotto all’impotenza e al disprezzo
generale»18.
Se per noi è difficile, forse impossibile e forse anche poco rilevante,
stabilire come andò effettivamente la cosa, quel «verbalmente» che
campeggia nella lettera di Troise ci
ricorda quanto instabile, incerto e rischioso fosse l’operato di un agente
teatrale, ogni volta che, per inesperienza o superficialità o anche solo
immaturità del mercato, omettesse
di tutelarsi con un contratto.
12
Il che richiedeva un impegno supplementare: «Il teatro è grandissimo, per cui prevedo faticherò molto», scrive Adelaide alla madre, il 27 giugno 1869, il giorno
prima del debutto.
13
I proventi non sarebbero perciò scesi rispetto a quelli della tournée nordamericana del 1866-67, in cui «ogni spettacolo frutta in media 2.000 dollari ed in alcuni
casi l’incasso della serata arriva a sfiorare i 5.000 dollari». A. Valoroso, in A. Ristori, Ricordi e Studi artistici, a cura di Ead., cit., p. 20.
14
Ma, per aumentare il guadagno, «si potrebbe abbassare la divisione in modo da aumentare i posti di prima classe», consiglia Magi (Lettera 24 agosto 1868).
15
Capranica aveva assai temuto che potesse andare in porto l’appalto di Angelo Ferrari, poi sfumato: «Mi mette molto in pensiero l’idea che dovremo quasi
certamente dipendere da uno speculatore che tenterà succhiare il sangue e forse potrebbe rendere impossibile la nostra speculazione». Lettera 19 ottobre 1868.
16
Vedi nota 12.
17
Lettera 6 ottobre 1869 da Troise a Capranica (si vedano anche le lettere di Troise 22 ottobre 1869 a Capranica e 2 novembre 1869 a Luigi Trojani). I coniugi
Capranica erano già stati accusati qualche tempo prima di non aver pagato la mediazione dall’agente Luigi Enrico Tettoni (mi permetto di rimandare al mio Tra
arte e mercato. Agenti e agenzie teatrali nel XIX secolo, Roma, Bulzoni, 2006, pp. 197-201).
18
Lettera 17 ottobre 1869, in Una amizade revelada: correspondencia entre o Imperador dom Pedro II e Adelaidi Ristori, a maior atriz de seu tempo, a cura di A.
Vannucci, Rio de Janeiro, Edicoes Biblioteca nacional, 2004, p. 223.
8
Giacinta Pezzana,
Ritratto, 1908
“La Escuela experimental
de Arte dramático”
Lettere inedite di Giacinta Pezzana da Montevideo (1911-1914)
Laura Mariani
Università di Bologna
L
e lettere inedite qui proposte sono state ritrovate da un
importante cultore di manoscritti e collezionista, Renzo
Rizzi, già proprietario di una libreria antiquaria a Milano; le
ha affidate a una storica milanese, Emma Scaramazza1, che le ha
messe a mia disposizione. Non potendo pubblicare per intero le
venticinque delle cento che parlano della Escuela experimental
de Arte dramático dirigida por Giacinta Pezzana a Montevideo, ho
pensato di selezionare dei brani in modo da costruire una cronaca,
sia pure incompleta, di quell’esperienza decisiva per la nascita del
teatro rioplatense; facendo un’eccezione per la prima, presentata
integralmente, a titolo di esempio.
E’ infatti operazione discutibile tagliare i documenti epistolari
nelle parti personali, che tanto contribuiscono a far conoscere scrivente e destinataria, le loro vicende familiari e la qualità della loro
relazione, ma ho voluto privilegiare i contenuti teatrali. Un’operazione facilitata dal fatto che i diversi temi si stagliano nettamente
nelle singole lettere; non perché Giacinta Pezzana non sia consapevole di quanto sfera pubblica e sfera privata si intreccino fra
loro nella vita di un’attrice, ma per l’attenzione speciale riservata
al proprio lavoro e all’ambiente in cui si realizza. Un primato che si
mantiene anche se destinataria è un’amica del cuore, con la quale
da almeno trent’anni si parla di tutto: Alessandrina Ravizza, pro-
1
Ha scritto, fra l’altro, La santa e la spudorata. Alessandrina Ravizza e Sibilla Aleramo. Amicizia, politica e scrittura, Napoli, Liguori, 2004; e ha curato Politica e
amicizia. Relazioni, conflitti e differenze di genere (1860-1915), Milano, Franco Angeli, 2010.
9
tagonista del femminismo pratico
milanese e filantropa laica, chiamata
confidenzialmente Sacha.
Giacinta Pezzana è un’artista di
forte personalità2: legata alla dimensione della grandezza che è stata di
Adelaide Ristori ma attraversata dalle inquietudini oltre che dalle istanze politiche femministe e da vive
preoccupazioni per come la nazione
italiana si va costruendo; e dunque
consapevole di dover fare i conti con
un mondo che cambia e che impone
al teatro di cambiare. Così, da un lato,
accoglie l’eredità del romanticismo
negativo ricevuta dal mazziniano
Gustavo Modena, il precursore del
Grande attore, volgendola al femminile e, dall’altro, fa sue le istanze
del naturalismo, mentre si prepara il
nuovo della Duse (e, fuori d’Italia, la
rivoluzione registica).
Ci occuperemo qui dell’ultimo
periodo della sua attività artistica3.
Dopo il fallimento della Compagnia
romanesca, in cui ha perso tutti i suoi
denari insieme al sogno di un teatro
popolare rinnovato nel repertorio e
fatto da giovani, l’attrice sessantottenne è costretta a puntare di nuovo
sulle tournée in America latina. L’11
agosto 1909 si imbarca per il Brasile
con la compagnia di Carlo Rosaspina
e Nina Sanzi; ma in dicembre già se
ne distacca, per non andare in zone
infette da febbre gialla, dice. Nel
1910 è a Buenos Aires, dove dirige
la compagnia di Guillermo Battaglia
al Nacional Norte, con l’obiettivo di
fondare un teatro nazionale americano. Fallito questo progetto, lascia
Buenos Aires dopo una replica trionfale in spagnolo della sua Teresa Raquin, avendo al fianco Teresa Mariani
nel ruolo che era stato di Eleonora
Duse4. Si trasferisce a Montevideo
dove vive la figlia Ada Gualtieri, già
attrice in gioventù al suo fianco, ora
sposa di un emigrante ligure, Pietro
Garavagno, e madre di tre figli.
L’Uruguay è un paese in movimento grazie al suo presidente José
Battle y Ordóñez, “un vero democratico, laico per conseguenza, che stabilì il Divorzio e la separazione della
Chiesa dallo Stato” insieme ad altre
riforme per cui fu “odiato dal partito Bianco e adorato e sostenuto dal
partito Colorado (o rosso)”5. Giacinta Pezzana, sempre molto critica coi
potenti, ce ne dà un ritratto molto
umano, mostrando il coraggio con
Programma di
una serata a
Montevideo
cui porta avanti le sue battaglie e la
durezza degli attacchi che subisce.
Leggeremo i successi e le traversie della sua Scuola da cui nascerà
una Compagnia: un copione di sfide
e di delusioni non nuovo per l’attrice. Certo vorremmo dicesse di più
dei metodi di insegnamento ma, ciò
nonostante, alcune frasi e notazioni
insistite nelle lettere insieme a una
sua dichiarazione d’intenti pubblicata su “La Razon” 6 mostrano che
ci troviamo di fronte a qualcosa di
nuovo. Innanzitutto il nome, consapevolmente scelto per differenziarsi
da altre intitolazioni come la Regia
Scuola di recitazione “Tommaso Salvini” di Firenze e il Regio Conservatorio musicale di S. Cecilia a Roma7.
C’erano molte scuole di teatro alla
fine dell’Ottocento in varie città italiane ma la più importante era quella
nazionale sorta appunto a Firenze e
diretta dal 1881 al 1910 da Luigi Rasi:
un maestro stimato dalla Pezzana,
“il cui metodo di recitazione è il
semplice vero”8.
Lei non vuole conservatori, non
avendo nulla da conservare: la sua è
una Scuola sperimentale e gli spettacoli che produce sono esperimenti. Non ci sono classi divise per anni
né altre materie oltre recitazione:
perché i tempi di apprendimento
sono legati al talento e all’impegno
personali e l’insegnamento è eminentemente pratico. “Me propongo
darles desde el primer día un papel
en cualquier obra, y que de inmediato lo interpreten”, e ancora: “Tengo la firme convicción que en arte
dramático no se debe enseñar mas
que de lo que se debe hacer. […]
Que hagan el gesto como les indique
su sentimento”. Vanno solo conosciuti i “movimentios antiestéticos”
per evitarli. Dunque, allievi e allieve
vengono messi in situazione prima
di aver memorizzato il testo o ricevuto indicazioni su gesti e intonazioni,
perché si orientino dal loro intimo nel
processo creativo.
2
Rimando chi è interessato ai miei saggi precedenti su di lei, in particolare all’epistolario che pure contiene lettere significative sulla Escuela: L’attrice del cuore.
Storia di Giacinta Pezzana attraverso le lettere, Firenze, Le Lettere, 2004, pp. 461-519 e 566. Vedi anche Dramaturgias del esilio. Las Veladas Dantescas de Giacinta
Pezzana en Italia, Argentina e Uruguay, in Dante en America Latina, al cuidado de Nicola Bottiglieri, Teresa Colque, Università degli Studi di Cassino, 2007, vol. II,
pp. 585-611.
3
Questa si concluderà nel 1914 con il film Teresa Raquin, tratto dal dramma di Zola, suo storico cavallo di battagli. Insieme a lei vi recitavano Maria Carmi, Giovanni
Grasso e Dillo Lombardi.
4
Mi riferisco alle prime rappresentazioni dell’opera nel luglio 1979, al Teatro dei Fiorentini di Napoli.
5
Lettera inedita di G. Pezzana a A. Ravizza, Montevideo, 29 gennaio 1912.
6
Un rato de amable conversación con la Sra. Pezzana. La fundación de la “Escuela Experimental de Arte Dramático”. Fines que se poropone, “La Razon”, 11 ottobre 1011.
7
Dal Liceo musicale di Santa Cecilia, in cui agli insegnamenti specifici si affiancavano materie scolastiche tradizionali – dalle lingue alla storia all’aritmetica – e non,
nel 1893 si era distaccata una scuola di “declamazione e gesto” diretta da Virginia Marini. Un’attrice amica della Pezzana ma non del tutto stimata da lei; mentre
con Edoardo Boutet, che entrò a insegnarvi nel 1908, ella ebbe rapporti di autentica amicizia con alcuni conflitti.
8
Lettera di G. Pezzana a V. Bosio, Napoli, 2 febbraio 1999, in L. Mariani, L’attrice del cuore, cit., p. 305. Scrive anche di ritenere utili le scuole, a differenza di Ermete
Novelli: prova ne sia quella torinese di Carolina Gabusi Malfatti che “diede all’arte la Tessero, la Campi, l’Emanuel, la Leigheb (per tacere di me)”.
10
Nel rivendicare l’antitradizionalismo del suo metodo l’attrice precisa ancora: “[non do] l’istruzione a
spizzico, ad uno per uno degli allievi,
no: io distribuisco una commedia a
due o tre gruppi, poi li faccio provare
saltuariamente il lavoro, e da queste
prove mi rendo conto delle diverse
attitudini degli allievi, quindi dai tre
gruppi scelgo i meglio adatti per la
recita di esperimento” (10 novembre
1912). Piuttosto stimola il potere di
osservazione perché “el verdadero
arte y en el que se puede hacer derroche de detalles” e pone l’attenzione
sulle scene “tranquille”, più difficili di
quelle in cui l’autore “ha puesto tuto
so vigor”, e sulle battute banali che
spesso vengono dette orribilmente.
C’è anche un dato oggettivo che
la porta a tentare vie nuove: la sua
stranierità. Insiste con soddisfazione
sul fatto che recita in castilliano, che
legge centinaia di testi in una lingua
non sua. La stessa fatica di copiare le
parti per gli allievi sembra funzionale
al suo bisogno di acquisire la lingua
e le sue sonorità: per impratichirsi
non solo dei suoi “segreti” ma anche
“dei modismi del paese” (16 gennaio
1912). Le risulta così incomprensibile la critica fatta dalla stampa ostile
alla cattiva dizione dei suoi allievi:
“come se io dirigendo per esempio
una compagnia milanese dovessi insegnare il dialetto milanese!”, scrive
il 10 novembre 1912.
Dunque, l’aggettivo experimental, all’epoca usato raramente e per
indicare singoli tentativi di andare
oltre il tradizionale, viene dalla Pezzana inteso come una sostanza che
deve caratterizzare durevolmente
l’esperienza, legata a un progetto
generale di riforma non solo della
recitazione ma dell’arte drammatica in tutti i suoi aspetti. Sicché le
stesse insistite lamentele nei confronti di allievi e allieve, precocemente corrotti da assurde pretese
di protagonismo e di successo facile, e dunque ribelli alla maestra,
rivelano la loro natura: non si tratta delle lamentele di una vecchia
attrice ma della sua richiesta imprescindibile di legare il mestiere
da un lato alla fatica e, dall’altro,
all’etica. Non c’è nostalgia del tea-
tro del passato ma ansia di andare
oltre l’esistente, seguendo bisogni
che avrebbero portato alle sperimentazioni teatrali novecentesche.
Anche con un divertito richiamo al
futurista Marinetti.
Montevideo, 4 agosto 19119
Sacha cara
tu, apprendendo la morte di Giorgina Saffi avrai pensato a me?!10 E, dal
tuo forte dispiacere, avrai misurato
il mio dolore… dolore muto, senza
lagrime, ma profondo come un gran
senso di isolamento. Quell’amica di
tanti anni, non la vedrò più!... non
oso sperare come Lei nell’al di là…
sarebbe troppo bella la morte.
Oh la vecchiaia che fa strage intorno a noi!...
che tristezza
amara! L’anima
s’infiacchisce
ad ogni partenza di persona
amata.
Tu, la Giorgina, la Gualberta e la Candida11, foste il nucleo a cui ho sempre
consacrato un vero profondo affetto: la vera amicizia! quel sentimento
che non soffre tormenti di gelosia
come l’amore, ma che è più duraturo, più forte nella sua purezza d’essenza.
Due sono già partite!... Spero di
essere ora io ad essere rimpianta da
te e dalla Candida.
Ti scrivo ciò che mi sgorgò dal
cuore nel ricevere il tragico annunzio. Volli dalla riva opposta dell’Oceano, mandare il mio eterno saluto
all’adorata amica.
Ti arrecherà sorpresa il ricevere questa mia da Montevideo, ma
credo averti già scritto che avrei
lasciato Buenosaires, appena terminato il mio contratto con il “Teatro Nacional”.
Qui siamo in istrette trattative col Ministro della P[pubblica]
I[struzione] e con il Presidente della
Repubblica Oriental dell’Uruguay per
aprire una Scuola di Arte Drammatica con un emolumento di 30 e forse
35 mila franchi all’anno!
In vecchiaia ed in terra straniera dovevo trovare un benessere
decoroso!
Per ora non metter fuori questa
voce perché la cosa non è ancora
sanzionata dal Parlamento… ed io
non credo che ai fatti compiuti.
Ti mando una prova delle mie ultime fotografie la quale ti porterà un
grosso bacio dalla tua
Giacinta.
Montevideo, 10 novembre de
1912
[…] Giungo qui chiamata dal Presidente della Repubblica, ad educare
la gioventù, che ne sente l’inclinazione, all’Arte rappresentativa. Sul
principio la Stampa tutta approva e
canta inni alla iniziativa e si presentano nel concorso
340 alunni!... Si fa
una selezione da
una
commissione composta di
due critici teatrali,
d’una distintissima
letterata, ed altre
due o tre persone intelligentissime,
amatori d’arte drammatica, e di me,
naturalmente. Su 340 = 80 soli risultano accettabili, nella prima selezione. Nella seconda una sessantina,
ma 60 primi attori!! poiché nessuno
ammetteva di sostenere parti secondarie.
Bisogna che ti spieghi che il mio
metodo è non il solito delle scuole
in generale, in cui si da l’istruzione a
spizzico, ad uno per uno degli allievi,
no: io distribuisco una commedia a
due o tre gruppi, poi li faccio provare
saltuariamente il lavoro, e da queste
prove mi rendo conto delle diverse
attitudini degli allievi, quindi dai tre
gruppi scelgo i meglio adatti per la
recita di esperimento. Ne avviene da
ciò che gli scartati per insufficienza si
adontano e se ne vanno, perché la
vanità è la più stupida intransigenza
dello spirito umano. Tutti, ripeto, pretendono la parte di 1° attore o di prima attrice, per cui invidie, gelosie, calunnie dell’uno per demolire l’altro,
e furore contro di me. Come era da
prevedere tutti i rifiutati si voltarono
In vecchiaia ed in
terra straniera
dovevo trovare un
benessere decoroso!
Le lettere sono state trascritte con rigorosa fedeltà, mantenendo la grafia dell’originale, anche se scorretta o non più rispondente all’uso o influenzata dallo
spagnolo parlato a Montevideo.
10
Questo richiamo d’apertura a Giorgina Craufurd, vedova di Aurelio Saffi (1827-1911), rimanda alla forza delle amicizie femminili e all’ambiente risorgimentale
e mazziniano in cui entrambe si sono riconosciute.
11
Gualberta Beccari (1842-1906), scrittrice e appassionata di teatro, fondò e diresse il più importante periodico dell’emancipazionismo, “La donna”. Di Candida
conosco solo il cognome, Pergami.
9
11
in tanti nemici accaniti… e siccome
fra essi ve n’erano che hanno rapporti amichevoli con critici teatrali, cominciarono contro di me una crociata d’insolenza da disonorare facchini
e meretrici, in due o tre giornali. Gli
altri più serii, ma per ragioni politiche
e partitarie, nemici dell’attuale Presidente della Repubblica, tanto per
disapprovare tutto ciò che viene creato da lui, tacquero! Non uno prese a
difendermi. Gli allievi sgomentati mi
dicevano “e Lei non risponde a tanti
insulti?” No figlioli – dicevo loro – io
sono piemontese: rispondo a fatti
non a parole. Studiate con amore, e
voi altri risponderete per me con un
primo esperimento in pubblico! E
l’esperimento si fece nel maggior teatro della città, ed il pubblico accolse
quel primo esperimento con entusiasmo meravigliato che in sei mesi di
scuola io avessi potuto operare quel
vero miracolo.
Gli esperimenti si succedettero sempre, l’interesse del pubblico
crebbe con intensità.
Quei nemici cretini si rodevano
il fegato a cercare nuove armi contro di me… e trovarono! Aprire una
nuova Scuola! con la certezza di
gettare a terra la mia. E chi istruiva
gli alunni? (che erano tutti i rifiutati
da me) due cronisti, più che critici
teatrali! ma … o sventura! dopo
tre mesi, la Scuola di quei talentoni
andò a gambe all’aria senza aver
dato un solo esperimento. Allora
tacquero su me ed io continuai a
dare esperimenti che sempre più
acrebbero le simpatie del pubblico.
Ma i nemici tacevano aspettando
un’occasione propizia per sfogare il
loro fiele, e questo si presentò.
Il 9 di 9.bre [novembre] essendo
il secondo anniversario della morte
del più grande autore drammatico
dell’America Latina (che venne a morire costì ed è sepolto al Musocco)12
io trovai essere mio dovere il commemorare quel grande che l’America lasciò morire quasi, di fame! o almeno
patirla spesso.
L’idea mi parve anche gentile verso la città che diede i natali a Florencio Sanchez. Speravo che le vipere…
cioè i critici teatrali (che sarebbero
più adatti a fare i muratori) avrebbero rispettato ed anche gradito quel
dovuto omaggio… invece…
“Los derechos de la salud” (I
12
12
diritti della salute) forse il più bel lavoro del Sanchez, fu eseguito dai
miei alunni meglio, molto meglio di
Compagnie spagnuole costituite di
artisti… e ciò fu detto da persone intelligenti e spassionate; il pubblico ne
fu entusiasmato… chiamò fuori sei
volte nel famoso finale del 2° atto…
dovetti uscire anch’io… ero sicura
di avere l’elogio sincero della Stampa… che cantonata! e che sorpresa
fu la mia! Il giornale più cortese disse
che io guasto gli alunni col mio insegnamento… che essi trionfarono
per talento proprio, che la mia Scuola, è perniciosa… che pronunciano
male la lingua spagnuola, come se
io dirigendo per esempio una compagnia milanese dovessi insegnare il
dialetto milanese!
Tu mi chiederai il perché di questa
guerra?... Ah! I perché sono molti… e
tutti fondati sull’interesse individuale
d’ogni cronista.
Uno di questi è fratello di un alunno cane che vorrebbe fare il primo
attore e non serve a fare i servitori…
L’altro è del partito opposto a
quello del Presidente attuale della
Repubblica che si vuole buttar giù
dai Bianchi cattolici. Un altro voleva
insegnare la Storia dell’Arte nella
mia Scuola e… dividere la mia mesata… un altro è nemico di mio genero e… se la piglia con me… e per
ultimo io ho il torto di essere italiana!
Una straniera che si piglia 650 scudi
al mese!... […]
Montevideo, 6 aprile de 1913
[…] Per ora continuo a leggere
commedie e drammi Spagnuoli e
copio… copio centinaia di parti per
i miei allievi che mi fanno disperare
per la loro poca voglia di studiare e la molta di amoreggiare fra di
loro!... […] Non puoi figurarti come
le ragazze di qui siano calde nella
pubertà… ricordano molto le gatte
nei loro sinceri desideri in Febbraio.
Non vi è che una differenza…. che
qui il desiderio innocente è… in tutti
i mesi dell’anno! […]
Montevideo, 11 luglio 1913
[…] Malgrado una guerra feroce
della camorra giornalistica che non
si arresta davanti a nessuna considerazione di dignità… per quanto
Florencio Sánchez (1875-1910), autore di drammi realisti d’impegno sociale, morì a Milano.
si siano messi d’accordo giornalisti e
autori… (più o meno autori di miserie intellettuali, che essi credono poter chiamare drammi o commedie)
per quanto abbiano scritto contro
me e la mia Scuola, il Presidente della Repubblica ha preso in affitto un
teatro della città grazioso, elegante, allegro ed ecco che La Scuola è
diventata Compagnia e dai primi di
Luglio si danno recite, e gli alunni destano entusiasmo.
Figurati che quasi tutt i giornali si
son dati la voce, e nessuno parla di
questa simpatica Compagnia, che,
senza, réclàme, con pochi manifesti,
che vengono rotti appena messi, o
coperti con altri manifesti più grandi, il mio Teatro è sempre molto frequentato, e gli applausi sono costanti e rumorosi.
Concludo col dirti che ho vinto!
Ora però mi trovo oppressa da
un lavoro opprimente! Nove ore di
prove al giorno… pensare ai vestiti
di tutti… leggere lavori di giorno e di
notte… ma ho vinto! […]
Montevideo, 2 gennaio 1914
[…]Io credo di essere d’un metallo più duro del ferro! Ciò che mi
fanno passare gli alunni è incredibile!
Ora che sono artisti pagati, sono diventati prepotenti, indisciplinati, più
ribaldi dei Comici romani! Non posso
dire di più.
La Stampa continua ad essermi
nemica colla congiura del Silenzio…
e lo stesso giornale del governo, è
solidale con tutti gli altri!
Marinetti includa nel suo programma futurista la abolizione della
Stampa! la soppressione dei critici
criticanti: vera canaglia! con poche
eccezioni. […]
Montevideo, 21 febbraio de 1914
Cara incredula,
non volevo scriverti che ebbi già
il decreto del governo che mi concede tre mesi di vacanze per motivo di salute… (buona!) e nomina
altro direttore per i tre mesi della
mia assenza. […] Comprendo che
l’amore al proprio paese è grande,
potente, invincibile! Dacché ho il
mio biglietto provo una specie di
fremito così intenso che assomiglia
ad una sofferenza. […]
Ettore Petrolini
e le sue prime
tournées in America Latina
Donatella Orecchia
dell’Università di Roma “Tor Vergata”
P
rima tappa. Il re della risata.
Quando Ettore Petrolini, nel 1907, affronta la sua prima tournée in Sudamerica ha solo
ventitré anni: ancora poco conosciuto, recita in duetto con Ines Colapietro, allora compagna d’arte e moglie, in spazi teatrali e caffè concerto rinomati, come il Morisetti di Milano o
l’Eden di Napoli, ma più spesso in sale di secondo o terz’ordine. Apprezzato per lo straordinario talento comico, i suoi successi, di pubblico più che di critica, sono per il momento soprattutto il segnale di una fase felice del teatro romano di tradizione popolare nel suo incontro
con quello napoletano e con il cafè chantant francese. Nonostante il fatto che Petrolini abbia
già iniziato a impostare la propria ricerca stilistica su un comico che presto verrà definito grottesco e parodico e che, pur inserendosi nel solco della tradizione, in realtà lavora per la sua
deformazione e il suo capovolgimento1, in questi primi anni di attività poco di tutto ciò compare nelle testimonianze della critica del tempo.
La tournée in Sudamerica rappresenta in questo percorso un
spartiacque importante: e non solo
per lo straordinario trionfo del comico presso il pubblico sudamericano,
ma ancor più per l’eco che ne giunge in Italia. Ritornato in patria, infatti, l’attore potrà portare in dote un
successo su piazza internazionale
che gli permetterà una rapida affermazione sui palcoscenici nostrani e,
presto, anche i primi veri segnali di
attenzione da parte della critica. Inseritosi così all’interno di una tradizione teatrale migrante, che aveva
caratterizzato fra l’altro l’affermazione di buona parte degli attori di
prosa dell’Ottocento, Petrolini conquista al Varietà italiano il nuovo
mercato estero non europeo. E con
ciò, da un lato, si inserisce con forza
nel solco di una tradizione ben conosciuta e, dall’altro, entra all’interno di un sistema organizzativo più
esplicitamente industriale, quello
Petrolini in
camerino a
Montevideo, 1921
(Biblioteca del
Burcardo di Roma)
1
«Scolaro dei Napoletani – scrive Anton Giulio Bragaglia – egli trasformò la loro materia ottocentesca, dandole un aspetto sintetico e, dalle dorature con frange
e svolazzi, la portò alle forme dell’alluminio, la spogliò dai ghirigori, dai fronzoli, dai ricci, dai fiocchi, dalle penne, denudandola e facendola luccicare ai riverberi
della sua diabolica spietatezza»: A.G. Bragaglia, Petrolini, in E. Petrolini, Nerone. Romani de Roma, Roma, Colombo ed., 1945, p. 10.
13
delle grandi organizzazioni internazionali degli spettacoli del Varietà, che si stanno affermando nella
Parigi di quegli anni. Non a caso le
prime tournées di Petrolini in Sud
America saranno tutte organizzate
da impresari francesi.
E così accade che, l’8 aprile del
1906, compaia sul «Cafè Chantant»
questa curiosa pubblicità:
«TOURNÉE DEI CASINOS SEGUIN / Il
più lungo giro artistico dell’America
del Sud / 7 Stabilimenti di prim’ordine /
4000 artisti scritturati finora! / Viaggio
rapidissimo / Partenze da Genova 2 volte al mese / Viaggio in 2° classe andata
e ritorno / Paga in oro / Anticipo quindici giorni / Per ogni comunicazione e
schiarimento [sic] scrivere: / Agenzia
speciale della TOURNÉE SEGUIN / Parigi- 5 Rue Laffitte – PARIGI / Indirizzo
telegrafico SEGUIN TOUR PARIS»2.
E, nel febbraio dell’anno successivo, dopo aver visto Petrolini
recitare al Teatro Alcazar di Genova,
Seguin propone alla coppia Petrolini
- Ines un contratto per una tournée
in America del Sud. Firmato il 18 febbraio 1907, l’accordo prevede «deux
numero par représentation: 1° Duo
Italien, 2° Macchiete par Petrolini»3; la partenza è per il 19 maggio
e la tournèe comprende Argentina,
Uruguay, Brasile per una durata di
almeno quattro mesi; 1150 franchi
di anticipo e, per un mese di recite,
2300 franchi complessivi. Ai primi di
giugno Ettore e Ines sono al Casino
di Buenos Aires, poi in Uruguay al Casino di Montevideo in agosto, a Cuba
in ottobre e infine a dicembre in Brasile, al Moulin Rouge di Rio de Janeiro. Si narra che sia stato proprio in seguito a un clamoroso fiasco a Buenos
Aires che Petrolini abbia dato il via a
una delle sue macchiette più geniali
Margherita non sei più tu, parodia del
Faust di Gounod, sulla musica di C’era
una volta un piccolo naviglio (Habia
una vez un barco muy chiquito)4: ne
deriverà un successo straordinario
che fra l’altro accelererà il percorso
di Petrolini verso l’estremizzazione
del suo lavoro di deformazione paro-
dica della tradizione.
Alla fine del 1908, il direttore della
«Société Génerale des engagements
artistiques»5, Raoul Pitau, propone
alla coppia dieci rappresentazioni
all’Étoile di Parigi, «con la promessa
in caso di successo di un altro e maggiore contratto per l’Avana e il Messico»6; contratto che arriva a Petrolini
in data 16 ottobre 19087.
Questa seconda tournée in
America Latina decreta il definitivo
successo della coppia, tanto che
un quotidiano dell’Avana proclama
Petrolini El Rey de la risa!8.
«[…] Quando prende l’aria del falso sapiente ci fa ridere; nell’avaro che passa
per filantropo ci fa ridere; nel benefattore, nel presuntuoso ecc in tutti quei tipi
che presenta tutte le sere, ci fa ridere,
però non di quel riso che viene dall’animo deluso, non di quel riso sordo del
disprezzo… Ci fa ridere di un riso franco, sonoro e spontaneo, che è il leale
significato dell’intimo contenuto; quel
riso che ci predispone ad amare la vita;
è questo quello che ci fa godere, Petrolini con la sua inimitabile grazia»9.
E qui si potrebbe persino cadere nell’errore di leggere fra
le righe un riferimento a una
comicità bonaria: ma il critico è
attento, e scrive di assenza di disprezzo, di amore per la vita e di
grazia, tutti tratti che resteranno
quale cifra dello stile dell’attore,
impastati con altri, più graffianti
e crudi certamente, ma che non
contraddiranno mai il rifiuto del
disprezzo che, con parole del
Gastone petroliniano, richiama
l’«orrore di se stessi» di cui è
privo il bell’attore fotogenico,
il divo del varietà, ma non certo
l’attore parodico qual è Petrolini.
Certo qui, come in altre cronache a queste serate, non ci sono
riferimenti espliciti all’aspetto
grottesco e «anarchico» della
recitazione di Petrolini il quale,
qualche anno dopo, ricorderà in
una lettera a Francesco Razzi,
pubblicata sul «Cafè Chantant» il
20 luglio 1914: «Da me incominciò
In «Café Chantan», 8 aprile 1906, anno X, n. 7, p. 1.
Biblioteca del Burcardo di Roma, «Fondo Petrolini», Contratti, Cart. 30, n. 11. D’ora in poi solo «Fondo
Petrolini».
4
È Petrolini stesso a confermare la notizia nel suo libro di memorie.
5
«Fondo Petrolini», Doc. d’archivio, Cart. 31, n. 8
6
Mario Corsi, Vita di Petrolini,, Milano, Mondadori, 1944, p. 89
7
Lettera del 16 ottobre 1908, «Fondo Petrolini», Contratti, Cart. 31, n. 8
8
M. Corsi, Vita di Petrolini, cit, p. 91
9
Francisco Hermida, in «Diario Espanol», 18 settembre 1909.
10
E. Petrolini, Lettera a Francesco Razzi, pubblicata sul «Cafè Chantant» il 20 luglio 1914 (p. 1); nell’archivio
Petrolini esiste una copia dattiloscritta dell’articolo, Autografi, AUT – PETR- 04 - B01.02.
2
3
14
tutta una dinastia di re e d’imperatori della risa, Zar dell’allegria
e maghi del buon umore. La dinastia cominciò in America, dove
per ben due anni non mi chiamarono che Sua Maestà Petrolini I»
e conclude «E non si accorgevano che mentre mi elevavano a
monarca, io rappresentavo invece l’anarchia nel Varietà»10.
Quattordici anni dopo l’attore
sarà nuovamente in Centro e Sud
America a raccogliere un altro
grande successo, questa volta accompagnato, a tratti, da una riflessione sul senso della sua particolare comicità: comicità di un attore
dal temperamento tragico, scriverà qualcuno.
Un’arte che è deformazione.
Nel 1921, al tempo della sua terza lunga tournée in America Latina,
Petrolini ha iniziato già da alcuni
anni a portare in scena, accanto
alle sue macchiette-caricature più
famose, anche alcune opere di
prosa. Dal cafè chantant al teatro
di varietà a quello di prosa ecco
che la parabola dell’attore viene
ricordata anche dalle cronache sudamericane11, dove spesso il riferimento al giovane artista del 1907
fa capolino a indicare continuità e
discontinuità rispetto all’attore più
maturo e artisticamente stratificato del 1921. Ma ciò che resta ancor
oggi come interessante documento dell’incontro di due culture è la
sensibilità estetica e l’acutezza di
alcuni critici del tempo che riuscirono ad andare al di là del fascino
attorale, dell’entusiasmo esterofilo o dell’adesione dettata da facili
esotismi, per cogliere invece uno
dei nodi più profondi della recitazione di Petrolini: il suo furor grottesco deformatore, la sua potenza
parodica che investe la tradizione
riscrivendola e facendo esplodere
dall’interno la vuotezza dei valori
di cui il teatro borghese europeo
è allora espressione. Insomma, la
sua forza d’umorismo che potremmo dire “crudele”. Ed è tanto più
interessante che la cronaca sappia
cogliere tutto questo nel 1921 nonostante la distanza: perché certo
Petrolini, più che molti altri attori
italiani di passaggio dall’America
del Centro Sud, ha una poetica che
è in perenne e critico rapporto con
la cultura europea otto novecentesca e in particolare con quella italiana, un linguaggio che è riscrittura di linguaggi e instancabile operazione metalinguistica12. Segno
questo che nel 1921 la cultura europea era ormai piuttosto diffusa
in America latina tanto da permettere, almeno a parte della critica,
di cogliere le riscritture capovolte
di Petrolini. Riportiamo di seguito
due frammenti di recensioni del
tempo che mettono in particolare
evidenza questo dato.
«Petrolini è un genio inquantoché è un
creatore, un caposcuola, un precursore, un deformatore - sopra tutto. Badate che non può esistere arte senza deformazione - in tutti i campi - qualunque
sia la forma ch’essa prenda: qualunque
il modo con cui si manifesti.
Non bisogna confondere Petrolini con
i diversi ‘macchiettisti’, imitatori fotografici - anche bravi - riproduttori di
curiosi, di caratteristici, interessanti tipi
etnografici. Chi imita fotograficamente
non ha personalità, e, senza dubbio:
non crea niente. Per ciò non è mica
vero che tale macchiettista producendosi nella macchietta, supponiamo: ‘O
cucchiere, crea il tipo del vetturino napoletano; affatto; l’originale esisteva.
E’ bastato studiarlo - con osservazione,
Petrolini in
Fortunello
amore, ecc. - questo sì - e avere anche il
dono dell’imitazione, che è un dono simile al suonare ad orecchio... Ma dov’è
la creazione?
Mentre vere e proprie creazioni - di Petrolini - sono il Toreador, la Sonnambula,
Amleto, Ma l’amor mio non muore, Fortunello e tante altre...
È vero che del Toreador, della Sonnambula, e dell’Amleto esistevano gli originali - ma per Petrolini non sono stati che
semplici spunti, semplici punti di partenza, pretesti per monumentali, colossali deformazioni creatrici. Paragonato,
infatti, il toreador sivigliano a quello
Zero meno zero, diventa ridicolo, meschino e rimane eclissato dal raggiante,
sfarzoso umorismo di quello, in cui c’è
dentro tutta la personalità - sempre
esplodente - del nostro grande originalissimo Petrolini. E così per la Sonnambula. Nel suo Amleto e nel suo Ma l’amor
mio non muore, per me, e per chi non è
uno scocciatore, Petrolini è molto più
interessante di Shakespeare. Fortunello
poi non avendo precedenti, è assolutamente una creazione del genio»13.
«Còmico de gran eficacia, sôlo confìa
en su espontaneidad y a sus recurssos
personales el éxido de su labor.
Màs que lo que dice, que el contenido
de sus frases, provoca las más de las
vecezs a risa, a hilaridad, el modo cómo
dice, la forma exterior compuosto de
mímica y de gestos, con que decora y
da realce a sus palabras.
De ahí que la parodia, género en que
cultiva preferentemente los más salientes elementos de su arter, adquiera en
este actor una fuerza y una expresión
de comicidad poco comunes.
Tiene Petrolini el sentido de la caricatura, de la faz grotesca da las cosas y los
sucesos. Sabe desentrafiar ese aspecto, vestirlo con les recursos de su arte
y ofrecerlo lieno de vivacidad, de colorido y de originalidad.
Indudablemente, entre los cómicos de
su género, pocos habrá que lo superen
en cuanto a realizar con más eficacia y
con mayor originalidad una labor como
la suya»14.
Varietà e variazioni di repertorio.
Radioscopia15: ecco un interessante esempio dell’incontro di Petrolini con il futurismo italiano, incontro che, attraversato l’oceano,
trova anche in Brasile, in Messico
e all’Avana un riscontro decisamente positivo. Una buona parte
delle cronache su questa tournée
si sofferma infatti su Radioscopia
11
Il repertorio comprendeva fra gli altri: Pipino re, Acqua salata, Romani de Roma, Nerone, Cento di sti
giorni, Amori de notte, di Petrolini; Il cortile di F. M. Martini; Ottobrata di Petrolini e Pascucci; 47 morto che
parla di Granozio, D’Arborio e Petrolini; Radioscopia di Cangiullo e Petrolini e Un garofano di Ugo Ojetti.
Cfr. «Fondo Petrolini», Locandine, 29-072.
12
«Frasi fatte frasi sfatte», così come aveva scritto nei versi che aprono il suo primo libro Ti ha piaciato? del
1915: E. Petrolini, Ti ha piaciato?, Sesto San Giovanni, Madella, 1915. Cfr. G. Livio La scena italiana. Materiali
per una storia dello spettacolo dell’Otto e Novecento (Milano, Mursia, 1989) e AA.VV.,
Petrolini. La maschera e la storia, Roma-Bari, 1984.
13
F. C., A Rassegna Teatral, São Paulo, 10 ottobre 1921, riportato tradotto in E. Petrolini, Abbasso Petrolini,
Siena, Tip. Cooperativa, 1922
14
s.i.a., Urqiza. El debut de Petrolini, in «El Bien Publico», Montevideo, 2 giugno 1921.
15
Di Cangiullo e Petrolini, Radioscopia di un “duetto”, simultaneità drammatica del varietà, copione conservato presso il «Fondo Petrolini», Copioni, C 260:09.
15
fra l’uomo e la marionetta, che alla ribalta
son due forze uguali e contrarie, ma che
non distruggono il dramma - il burattino
innanzi al pubblico dovrebbe aver ragione lui ed annullare l’uomo subentrato di
un colpo nel burattino dovrebbe scoppiarlo in corpo e mandarlo in cocci - ebbene di questo conflitto alla ribalta d’un
teatro di varietà, con la simultaneità di
una risata esteriore del fantoccio e di
un ghigno interiore dell’uomo di questo
dramma che stilla a fatica attraverso i
pori di un trucco, secondo me, non è capace nessun grande attore d’Italia»17.
I Salamini,
Manifesto
Pozzati, 1914
e, in particolare, sul suo particolare
allestimento che già nel testo richiede quella divisione dello spazio
in due zone separate da un velario
dove due scene si svolgono simultaneamente: la finzione del teatro
(in proscenio) e, dietro il velario, la
realtà della miseria degli attori. Il
dramma è tutto qui: nel contrasto
tra queste due dimensioni.
Tema non originalissimo, afferma qualcuno dei critici16, eppure
reso con così raffinata abilità e rapidità da diventare agli occhi del
pubblico nuovo e sorprendente.
Ma ancor più sorprendente sembra poi essere Petrolini, che recita
il doppio e che si scompone in scena in uomo e burattino, rendendo
evidente quanto la simultaneità
visiva delle scene si incarni nel suo
corpo d’attore in una compresenza di comico e tragico, fra la risata
del fantoccio e il ghigno straziato
dell’uomo.
«Coloro che non sono della mia opinione
- pur serbando il loro parere, i loro pregiudizi - che volessero vedersi costretti ad
applaudire proprio senza restrizioni Ettore Petrolini, lo sentano nell’atto di Petrolini e Cangiullo Radioscopia, ove vedranno
con quale sfumatura di elegante drammaticità, questo grande comico esegue,
a solo, una macchietta, e un duetto con la
sua duettista - di cui è innamorato - mentre muore di gelosia perché Lei si divora
con gli occhi un habitué che è là, ogni
sera, in prima fila di poltrone. Di questo
sdoppiamento, di questa lotta innanzi al
pubblico, che ha il diritto di non vederla,
In verità la maggior parte dei
critici afferma di prediligere il Petrolini comico, delle parodie idiote o delle commedie (fra le altre
viene citata Acqua salata con un
Don Teobómba Cabrón, forse una
variazione del Teopompo Becchi
originario)18 o della rivista di Acqua
salata, piuttosto che quello protagonista di una vicenda definita,
forse un poco semplicisticamente,
«grandguignolesca» o, al converso, interessante «estudio psychologico»19, di Radioscopia. Eppure,
proprio la varietà del repertorio
dell’attore, che include e sempre
includerà pezzi anche molto diversi l’uno dall’altro e concepiti
originariamente in periodi differenti, testimonia da un lato della
sua scelta, qui come altrove, di
mantenere contemporaneamente
in scena momenti diversi del proprio percorso artistico e di saper
continuare a frequentarli appunto
simultaneamente; ma testimonia,
dall’altro, anche della sfida che Petrolini sempre continuerà a lanciare al suo pubblico: costruire per poi
ricostruire e riscrivere il già scritto
e costringere così chi guarda a riscrivere anch’egli e sempre se stesso e le proprie aspettative. In Italia
così come in Brasile.
Per esempio il critico de «La critica» di Buenos Ayres del 16 giugno 1921 (Petrolini en el Coliseo).
F. C., A Rassegna Teatral, São Paulo, 10 ottobre 1921, cit.
18
Petrolini en el Coliseo, cit.; s.i.,a, Theatros e musica, «Jornal do Commercio», Rio de Janeiro, 7 settembre 1921.
19
G.de C., Arte e Artistas, in «O Pais», Rio de Janeiro, 7 settembre 1921.
16
17
16
Un bastimento carico di…
opere liriche e scenografie
Augusto ed Emma Carelli, Walter Mocchi
e le tournées in Brasile
Donatella Gavrilovich
dell’Università di Roma “Tor Vergata”
L
e compagnie di prosa, di rivista e d’opera italiane, che da
sempre erano state caratterizzate da una certa propensione
al nomadismo, accentuarono questa loro peculiarità subito dopo
l’unità d’Italia. Il loro passaggio
fu segnalato sui palcoscenici europei e americani dove gli artisti,
il più delle volte, furono accolti in
modo trionfale. L’organizzazione
di queste trasferte in modo particolare per quanto riguarda l’opera
lirica era estremamente complessa, soprattutto se si trattava di
recarsi oltreoceano. Nell’America
Meridionale operavano impresari
italiani o d’origine italiana che cercavano di attirare nei teatri argentini, brasiliani e cileni i più famosi
cantanti lirici. I contratti stipulati
potevano impegnare un artista
da pochi mesi ad un anno, portandolo ad esibirsi in tutti i maggiori
teatri sudamericani. La «trasferta
estiva in America Latina – nel suo
itinerario classico: Buenos Aires (e
gli altri capoluoghi argentini come
Rosario, Bahia Blanca, La Plata,
Cordoba), Montevideo, San Paolo, Rio de Janeiro, e più raramente
Manhaus e Santiago – fin dall’Ottocento era diventata una consuetudine del teatro italiano di prosa,
dialettale e lirico»1.
L’opera lirica in particolare era
un genere molto apprezzato in
Brasile; già nel Settecento si erano
costituite le prime compagnie operistiche autoctone.
«Precursore dell’opera brasiliana può
essere considerato il gruppo di attoricantanti mulatti messo su dal volenteroso P. Ventura nel XVIII ed una analoga
compagnia funzionante a Cuiabá (Mato
Grosso). Tuttavia, il primo passo verso
un teatro dell’opera fu l’inaugurazione
del «Teatro Lirico Fluminense» di Rio
de Janeiro, avvenuta il 25 marzo 1852»2.
Fu in questo stabile che debuttò
nel 1900 Emma Carelli3, soprano italiano. Il successo riportato dalla sua
tournée in Argentina, Brasile e Cile fu
foriero di grandi cambiamenti per la
sua carriera artistica, per suo fratello
Augusto e suo marito Walter Mocchi, per le sorti del teatro lirico romano e per i teatri dell’America Latina.
Walter Mocchi4 era un socialista che, dopo i moti del 1898 e lo
stato d’assedio a Napoli, fu messo a domicilio coatto a Procida.
Augusto Carelli,
bozzetto di scena
per Kovancina di
Musorgskij, 1926
G. Pedullà, Il teatro italiano nel tempo del fascismo, Il Mulino, Bologna, 1994, p.289
M. Cacciaglia, Quattro secoli di teatro in Brasile, Bulzoni, Roma, 1980, p.95
Emma Carelli (Napoli 1887-Montefiascone 1928) allieva del padre, esordì nel 1895 ad Altamura in La Vestale di Mercadante. Nello stesso anno fu acclamata a
Chieti e a Napoli. Nel 1900 e nel 1901 ebbe un grande successo alla Scala in Otello, Bohéme, Mefistofele, Le Maschere. La sua attività si svolse prevalentemente in
Sud America. Dal 1913 gestì il Teatro Costanzi di Roma.
4
Walter Mocchi (Torino 1870 – Rio de Janeiro 1955) impresario teatraledl 1906. Con Carlo Séguin fondò nel 1907 la Stia (Società Teatrale Italo-Argentina) e in Italia
la Stin (Società Teatrale Internazionale e Nazionale). Nel 1910 fondò la Teatral e ne assunse la direzione con sede a Milano.
1
2
3
17
Emma lo raggiunse e non ebbe
paura, come egli stesso scrisse: «di
mettersi in guerra contro tutte le
convenzioni e i pregiudizi in cui era
stata educata, di portare a repentaglio il proprio avvenire artistico
che già dai primi bagliori appariva
brillantissimo»5. Si sposarono, ma
il matrimonio non portò serenità
nella vita della Carelli; la sua carriera stentava a decollare a causa dei
problemi politici dovuti al marito.
Dalla disperazione iniziale Emma
Carelli si riprese e con determinazione affrontò la situazione uscendone vittoriosa. Nel 1900 debuttò alla Scala accanto a Tamagno
nell’Otello di Verdi ottenendo un
clamoroso successo e la scrittura
per tre mesi al Teatro Costanzi di
Roma. Questo le schiuse la possibilità di essere chiamata in tournée
in America Latina. A metà d’aprile
1900 la Carelli s’imbarcò a Genova sulla «Regina Margherita» per
Buenos Aires, mentre la nave stava
per salpare le giunse un dispaccio
da «Giovanni Sanzone, impresario
del Lirico di Rio de Janeiro (il Municipal come il Colon in quel tempo
erano ancora in mente Dei) le offriva dieci recite, a condizioni eccezionali per quei tempi. Era dunque
la grande carriera che si apriva dinnanzi a lei»6. Sulla stessa nave era
imbarcato Enrico Caruso che aveva
cantato con lei a Napoli nel 1895 e
che insieme alla Carelli conquistò il
pubblico sudamericano portando
sulle scene per la prima volta l’Iris
e la Tosca che dovevano costituire,
per un decennio, due dei maggiori
successi degli italiani all’estero.
«Intanto i trionfi di Buenos Aires – scrisse il fratello della cantante, Augusto
Carelli, – si ripeterono a Rio de Janeiro,
con quel maggior impeto che corrisponde alla natura tropicale del paese.
Anche a Rio non esisteva quel gioiello
di architettura che è oggi il Municipal;
ma il vecchio Teatro Lirico […] che conobbe i successi di lei. Queste esplosioni di entusiasmo goliardico sono
rimaste famose nella storia teatrale
brasiliana: gli studenti […] creavano in
una sola serata celebrità che restavano
poi indimenticabili per cinquantenni, o
distruggevano fame e idoli di altri paesi
[…] Emma Carelli invece vi conobbe le
opposte espressioni di delirio collettivo. Dopo il terzo atto del Mefistofele,
dopo il secondo di Tosca, dopo Cavalleria o Iris, in mezzo al clamore delle
chiamate e degli applausi, ella vide la
Nel 1903 l’impresario Milone
del Teatro Lirico di Rio de Janeiro,
per far fronte ad una stagione lirica disastrosa, ebbe l’idea di riunire
l’opera della Carelli con quella di
Caruso. L’operazione si risolse felicemente e Caruso suscitò l’entusiasmo del pubblico brasiliano in
Rigoletto tanto da dover ripetere la
canzone del IV atto per ben cinque
volte. Questi successi convinsero
Mocchi, che nel frattempo era passato dalla politica al teatro, a tentare un’impresa mai sperimentata
prima. Il cognato Augusto Carelli
sintetizzò quanto accadde:
«Il mese di maggio italiano equivaleva
all’ottobre argentino; e i venti giorni di
viaggio trasportavano gli artisti, come a
farlo apposta, all’iniziarsi di quelle stagioni teatrali. Il giocherello, così bene
organizzato dal giro del sole, non poteva non tentare […] Walter Mocchi.
Ecco come si son venute formando
quelle società teatrali della sigla più o
meno sonante di Stia, Stin, Teatral […]
In sostanza Mocchi s’era detto:
“Riuniamo tutti questi teatri sudamericani in un trust, facente capo a una
sola società e con la base di un grande
teatro italiano, ove si possa attuare
una stagione di prim’ordine. Il fior fiore
dell’arte lirica italiana sarà facile raccoglierlo perché il miraggio d’un lavoro
stabile, prolungato e ben remunerato
attirerà a noi le masse artistiche; e dal
lato industriale l’attuazione dell’idea
non potrà non riuscire essendo così
abolite tutte le concorrenze”.
Era insomma la creazione d’un organismo teatrale interoceanico quale «non
s’è mai visto l’eguale»8.
Tra il 1908 e il 1910 la Stin e poi la
Teatral ebbero in gestione tra gli altri teatri dell’America Latina il Municipal di Rio de Janeiro e quello di
San Paolo, il Coliseo di Buenos Aires e due compagnie d’operette la
Marchetti e la Caramba; controllavano inoltre tutti i principali teatri
lirici italiani. Nel 1913 una terribile
crisi segnò l’economia del Brasile
e dell’Argentina e solo la determinazione di Mocchi riuscì a salvare
Bidu Sayao, Mimi,
in La Boheme di
Puccini
W. Mocchi, I moti italiani del 1899. Lo stato d’assedio a Napoli e le sue conseguenze, Muca, Napoli 1901, p. 382
A. Carelli, Emma Carelli. Trenta anni di vita lirica, P. Maglione editore, Roma, 1932, p. 61
Ivi, pp. 70-72
8
Ivi, pp.146-147
5
6
7
18
spaventosa coorte universitaria precipitarsi in palcoscenico, ordinare la
riapertura del sipario, l’accensione di
tutte le luci, e si sentì sollevata in alto,
in trionfo, coronata di fiori, tra l’ovazione, frenetica della sala, prolungata per
delle mezz’ore, in cui tutta la vita dello
spettacolo, con gli indispensabili mutamenti di scena, rimaneva sospesa»7.
la vita dell’organizzazione interoceanica. Disparve così la Teatral e
con personalità giuridica propria
nacque l’Impresa Teatro Costanzi
a Roma con la gerenza di Emma
Carelli, che lasciò le scene definitivamente per la dirigenza artistica
dal dicembre del 1913 fino al 19269.
Dal 1914 iniziò l’epoca d’oro delle
tournées interoceaniche collegate
strettamente alle produzioni del
Teatro Costanzi di Roma. In quello
stesso anno Augusto Carelli10, che
con la famiglia era tornato in Italia
per trascorrere le vacanze da Pietroburgo, fu costretto a rimanervi
a causa dello scoppio della Prima
Guerra Mondiale e della Rivoluzione d’Ottobre. Avviato al canto
dal padre, Augusto aveva fin da
giovane manifestato un particolare talento per la pittura, ma fu costretto a deporre i pennelli per una
colica saturnina che lo ridusse quasi in fin di vita. In Russia, dove si era
trasferito nel 1893, ricevette fama
ed onori come insegnante di canto
del Conservatorio di Pietroburgo,
partecipando attivamente alla vita
culturale e musicale dell’epoca.
«Conforme alle usanze pietroburghesi,
la loro casa era una “corte bandita” ove
ogni sera convenivano amici e conoscenti musicisti; ogni anno nel Salone
si dava un’opera lirica, gli allievi cantavano, amici e parenti sonavano chi uno
strumento, chi un altro, protagonista e
scenografo era Augusto»11.
Augusto Carelli ebbe la fortuna di vivere a Pietroburgo in un
momento magico per l’arte della
decorazione teatrale e per il teatro
in generale: era l’epoca dei Ballets
Russes di Djagilev, delle fastose
messinscene ai Teatri Imperiali.
Nel 1912 riprese a dipingere: il colorismo musicale dei pittori russi,
in modo particolare del pietroburghese Léon Bakst, l’aveva conquistato. Grazie alla passione mai
scemata per la pittura, agli anni
giovanili all’Accademia napoletana, ai corsi di nudo a Via Margut-
ta a Roma e alla partecipazione a
mostre collettive nelle quali ottenne riconoscimenti, Carelli si stabilì
definitivamente in Italia e «visse
da allora in poi come pittore professionista anziché da musico»12.
A lui Mocchi affidò la direzione dei
laboratori di scenografia del Teatro
Costanzi. I locali erano in sfacelo,
senza riscaldamento e senza alcuna comodità. Per sei anni vi lavorò
per sedici ore al giorno:
«Era una corsa folle senza badare a
spese, verso un sogno d’arte le cui soddisfazioni mi ripagavano. […] Il lavoro
era enorme. Ogni anno il teatro Costanzi varava su per giù quattro opere nuove, e di tutte bisognava creare le scene.
Oltre a ciò un paio di opere nuove si
creavano per il Brasile e per l’ Argentina, senza contare i lavori di restauro
per le scene […] che viaggiavano per il
mondo»13.
Kovancina di Musorgskij. Sorprese
il pubblico con un fantastico panorama di Rio de Janeiro e «fu Walter
Mocchi a portarne, tutto giulivo, la
gradita notizia»16 in Italia.
Nel frattempo in Brasile erano
sorti splendidi teatri lirici; e giovani promesse dell’opera brasiliana
si affacciavano sui palcoscenici internazionali. Nel 1926 la cantante
brasiliana Bidu Sayao debuttò al
Teatro Costanzi in Matrimonio segreto di Cimarosa riportando un
meritato successo. Dopo la morte improvvisa di Emma Carelli nel
1928, la Bidu sposò Mocchi che si
trasferì definitiv1amente in Brasile.
In Italia di Augusto e di Emma
Carelli, di Walter Mocchi si è perso
il ricordo; chissà se in Brasile qualcuno li rammenta ancora.
Con mezzi di fortuna e tanta
passione, Augusto Carelli allestì
nel dicembre 1921 una nuova scenografia per la Tosca andando contro l’inveterata tradizione teatrale.
Fu un successo: «Quando si alzò
il sipario sul III atto – ebbe a dire
una spettatrice – io mentalmente
pregai che quella scena d’incanto
rimanesse deserta il più a lungo
possibile: avevo la sensazione magica di trovarmi davvero in cima al
Castello in un’alba primaverile»14.
Le scene della Tosca, come quelle
d’altre opere eseguite da Carelli,
furono spedite in Sudamerica per
la tournée estiva della compagnia
del Costanzi dove il pubblico brasiliano, a differenza della critica italiana che l’aveva accusato di «soverchia tenerezza verso i russi»15, si
entusiasmò per quelle scene piene
di luce, dai timbri altissimi e dai
toni accesi. Sull’onda del successo ottenuto in Brasile, Mocchi lo
ingaggiò nel 1921 come scenografo
presso il Teatro Municipal di San
Paolo. Qui eseguì oltre le scene
delle opere di repertorio anche novità come, ad esempio, per l’opera
Emma Carelli in Iris
di Mascagni
Cfr. V. Frajese, Dal Costanzi all’Opera. Cronache, recensionie documenti in 4 volumi, Edizioni Capitolium, Roma 1977, vol. II, pp. 25-26 e pp. 74-75
Augusto Carelli (Napoli 1873 – Roma 1940) allievo di Toma, Dal Bono e Morelli. Trasferitosi in Russia, dove rimase per 21 anni, come insegnante di canto del
Conservatorio di S. Pietroburgo ed ebbe tra i suoi allievi i figli morganatici di Alessandro II.
11
A. Carelli, Augusto Carelli, in manoscritto non datato, conservato presso la Biblioteca Teatrale del Burcardo di Roma, foglio n. 3.
12
Ivi, foglio n. 4
13
A. Carelli, Emma Carelli.Trenta anni di vita lirica, op.cit., p. 202
14
A. Carelli, Augusto Carelli, foglio n. 8. La frase fu detta dalla figlia del pittore Costantini in riferimento alla scena della «Terrazza di Castel S. Angelo». Le scene
spedite in Sudamerica furono sequestrate per l’insolvenza debitoria di Mocchi.
15
A. Carelli, Emma Carelli.Trenta anni di vita lirica, op.cit., p. 203
16
A. Carelli, Augusto Carelli, foglio n. 9.
9
10
19
Tarsila do Amaral,
Oswald de
Andrade,1923.
Acervo da
Pinacoteca
Municipal de
São Paulo
Critica, autocritica
e ideologia
Su Oswald de Andrade
lettore di Pirandello
Yuri Brunello
dell’Università di Roma “La Sapienza”
A
lcuni anni fa Mariarosaria e Annateresa Fabris, in un minuzioso lavoro di scandaglio bibliografico, hanno avuto il merito di ripercorrere la storia della ricezione di Pirandello
in Brasile1. Il loro articolo prende avvio da quanto il 29 giugno 1923 Oswald de Andrade
scrive sul «Correio Paulistano», dopo aver assistito a Parigi, in qualità di recensore, all’allestimento dei Sei personaggi in cerca d’autore:
«La prima impressione di chi entra per vedere questa stupefacente riforma scenica è che non c’è spettacolo. Il teatro è
aperto e spoglio. Il sipario alzato, le quinte viste dal di dietro,
gli idranti previdenti in caso di incendio, un pianoforte, la tabella
oraria degli artisti–tutto l’ingranaggio anarchizzato di un palcoscenico in un giorno di prove»2.
Successivamente le due ricercatrici ricordano, in
nota, che vent’anni più tardi la posizione di de Andrade rispetto al drammaturgo siciliano cambierà e si farà
critica. Da de Andrade Pirandello verrà liquidato come
un autore astrattamente cerebrale: «Queste esperienze intellettualistiche sono una degenerazione della
stessa arte teatrale, della stessa finalità del teatro che
ha la sua grande linea dai greci a Goldoni, alla commedia dell’arte, e al teatro di Molière e Shakespeare»3. Se
il primo dei due brani è del 1923, l’altro è del 1943. In
mezzo ci sono i primi anni Trenta, periodo chiave nella
biografia dello scrittore di São Paolo. È allora, infatti,
che de Andrade prende la tessera del Partido Comuni-
sta Brasileiro (PCB) e lancia il giornale «O Homem do
Povo» nel pieno di un severo e capillare processo di ripensamento delle proprie idee politiche ed estetiche,
nonché della propria opera creativa.
Ma torniamo alla prima delle due precedenti citazioni. Il Pirandello che de Andrade, attraverso la mediazione del linguaggio della scena, ha modo di conoscere
a Parigi è quello dei Sei personaggi dal respiro cosmopolita; è il Pirandello, di cui si è cominciato a parlare a
Londra e a New York, che sta a un passo dal fascismo –
Mussolini è andato al potere nel 1922 e la stesura del testo dei Sei personaggi è addirittura di un anno prima –,
senza però avere ancora pubblicamente preso una posizione netta in merito ai recenti sconvolgimenti politici.
Lo farà qualche mese dopo, il 23 ottobre 1923, andando
a visitare il capo del movimento fascista e fornendogli
il proprio sostegno. Ma il Pirandello del giugno 1923
appare ancora come un ribelle antiborghese, fautore
di un teatro della dissoluzione, della messa in crisi del
1
A. Fabris-M. Fabris, Presenza di Pirandello in Brasile, in «Pirandellian Studies», n. 5, inverno 1995, pp. 43-63. Una versione ampliata e aggiornata del testo è stata
pubblicata anche in portoghese: A. Fabris-M. Fabris, Presença de Pirandello no Brasil, in J. Guinsburg, Pirandello. Do teatro no teatro, São Paulo, Perspectiva,
1999, pp. 385-405. Sulla questione del rapporto tra Pirandello e il Brasile si vedano anche il classico R. Jacobbi, Il teatro di Pirandello in Brasile, in AA.VV., Atti del
congresso internazionale di studi pirandelliani, Firenze, Le Monnier, 1967, pp. 215-222, e A. Vannucci, O palco estremece: è Pirandello que chega no Brasil, in «Revista
do Livro: órgão do Instituto Nacional do Livro do Ministério da Educação e Cultura», n. 48, 2007, pp. 63-73.
2
A. Fabris-M. Fabris, Presenza di Pirandello in Brasile, cit., p. 44.
3
O. de Andrade, Ponta de lança, Rio de Janeiro, Civilização Brasileira, 1971, p. 87. La traduzione è nostra.
20
pensiero dominante attraverso una
vivisezione del reale condotta con
matematica freddezza. Si tratta ancora in buona parte (e con tutte le
opportune cautele) del Pirandello
di cui Gramsci scriveva, recensendo
nel 1917 Il piacere dell’onestà: «è un
“ardito” del teatro. Le sue commedie sono tante bombe a mano che
scoppiano nei cervelli degli spettatori e producono crolli di banalità,
rovine di sentimenti, di pensiero»4.
Per capire meglio perché, a
vent’anni di distanza, il giudizio di
de Andrade si profila diverso può
essere utile leggere quanto Gramsci aggiunge, nella sua cronaca,
subito dopo: «Luigi Pirandello ha il
merito grande di far, per lo meno,
balenare delle immagini di vita che
escono fuori dagli schemi soliti della tradizione, e che però non possono iniziare una nuova tradizione»5.
Il lavoro e la riflessione sui rapporti
tra tradizione e rottura sono una
preoccupazione quasi ossessiva
nel lavoro di de Andrade. E l’ossessione si concentra soprattutto sul
de Andrade stesso. Ne è un esempio paradigmatico, a metà tra la
prima e la seconda valutazione su
Pirandello, la prefazione del 1933 a
Serafim Ponte Grande, uno dei testi
più provocatori dello scrittore brasiliano. L’introduzione consiste in
una violenta e impietosa – ma allo
stesso tempo lucidissima – autocritica. Scrive de Andrade:
«L’anarchismo della mia formazione
s’incorporò al cretinismo letterario della
semicolonia. […] La situazione “rivoluzionaria” di questa merda intellettuale
sudamericana si riassumeva così: contrario di borghese non era proletario
– era bohémien! […] Con pochi soldi
in tasca, ma a margine dall’asse rivoluzionaria del mondo, senza conoscere
il Manifesto comunista e non volendo
peraltro a essere borghese, divenni di
conseguenza un bohémien»6.
E ancora, evocando Emílio de
Menezes e Blaise Cendras:
«[…] con loro fui pagliaccio di classe. Eccitato da aspettative, plausi e manfrine
capitaliste, il mio essere letterario s’impantanò più volte nella trincea socialreazionaria. […] Rimasi nella borghesia,
della quale, più che alleato, fui vessillo
cretino, sentimental-poetico. […] Dalla
mia anarchia di fondo sgorgava sempre
una sorgente sana, il sarcasmo. Servii la
borghesia senza crederci. Come il cortigiano sfruttato tagliava le ridicole vesti
del Reggente. […] Preferisco semplicemente dichiarami nauseato di tutto.
E con un unico obiettivo. Essere, per lo
meno, testa di ferro della Rivoluzione
Proletaria»7.
Si intuirà dunque il motivo per cui
ora de Andrade, tutto preso da una
militanza appassionata e sincera,
non può più apprezzare quell’«ingranaggio anarchizzato» dei Sei personaggi che tanto lo entusiasmò nella
Parigi del Primo Dopoguerra. Per
comprendere a fondo, in tutta la sua
ricca originalità, la natura di un simile ripudio del giovanile anarchismo
è necessario mettere a fuoco alcuni
tratti del profilo che una simile opzione estetica e politica acquisisce nelle
mani di de Andrade. Tra la metà degli
anni Trenta e la metà del successivo
decennio (l’autore di Serafim Ponte
Grande lascia il Partito nel 1945) il PCB
abbraccia, sulla scia dello stalinismo,
un chiaro indirizzo estetico, quello del realismo socialista. Di qui, ad
esempio, il peso sempre maggiore
ottenuto da Jorge Amado nella cultura brasiliana di sinistra dell’epoca.
A tale linea de Andrade, e le sue opere di quegli anni stanno lì a dimostrarlo, si adegua solo in parte. Egli rifiuta
sì l’anarchismo bohémien funzionale
ai gruppi sociali dominanti, ma non
arriva a rigettare la sperimentazione
formale, l’attenzione agli «ingranaggi» che articolano le opere artistiche
e l’intervento su di essi.
Per riprendere quanto scritto
da Gramsci, il problema non sono le
«immagini di vita che escono fuori
dagli schemi soliti della tradizione»;
sono, semmai, le forme antitradizionali che «non possono iniziare
una nuova tradizione». De Andrade
non definisce «una degenerazione»
l’arte pirandelliana perché quest’ultima scompone e smembra molti
tra i modelli consolidati della precedente drammaturgia. Lo scrittore
brasiliano, piuttosto – come arriva ad affermare esplicitamente in
Ponta de lança sempre a proposito
di Pirandello – dell’impegno sperimentale dei Sei personaggi rigetta
la distanza ideologica «dal popolo
che vuole sapere, che ha il diritto
di conoscere e vedere»8. Ad essere
respinta è la prospettiva soggettivistica della proposta pirandelliana.
Il crollo del teatro tradizionale e le
rovine di esso che Pirandello si lascia
alle spalle si configurano come pirotecniche azioni di rivolta, ma non riescono ad assurgere ad autentici atti
rivoluzionari. Per questi è necessaria, invece, una prospettiva che sappia trascendere le angustie e i limiti
dell’individualismo, è indispensabile
una visione del mondo ampia e condivisa soprattutto dai ceti subalterni.
Altrimenti tutto si esaurisce nel solipsismo, in un’esperienza da «laboratorio modernista»9. Lo sviluppo
della tecnica, anche in letteratura,
è importante non certo perché fa
arricchire un pugno di capitalisti, ma
solo se è in grado di promuovere «la
pace e l’uguaglianza tra gli uomini»10.
Ed ecco farsi avanti il nome di
Mejerchol’d, il grande regista e teorico russo del primo Novecento che
immaginò e teorizzò un attore nuovo. De Andrade lo cita come colui
che ha saputo dare vita a «favolose
trasformazioni al fine di portare lo
spettacolo alla massa, l’allegria e l’etica dello spettacolo»11. Mejerchol’d ha
vigorosamente messo in discussione
il realismo del primo Stanislavskij,
capovolgendone le premesse: non
sono i sentimenti interiori degli attori
a produrre in questi azioni plausibili,
ma sono le azioni a dare vita ai sentimenti. E le azioni, nell’ambito della
recitazione che Mejerchol’d chiama
biomeccanica, devono essere quelle
che hanno luogo nella fabbrica socializzata: non i movimenti realistici consueti nel vecchio mondo, ma quelli
meccanici e produttivi dell’uomo
nuovo socialista. La tradizione teatrale è così decostruita e scorporata,
ma dentro un punto di vista plurale,
collettivo: aggettivi che distinguono,
nell’ottica di de Andrade, le sterili
esperienze anarchiche da «laboratorio modernista» dalle «favolose
trasformazioni» socialiste e segnano
i limiti dell’arte pirandelliana, sancendo invece la grandezza dell’«estetica collettivista di Mejerchol’d e
Tairov»12. Così come l’ingente valore
culturale, aggiungiamo noi, di sperimentazioni drammaturgiche quali O
rei da vela, O homem e o cavalo e A
morta dello stesso de Andrade.
A. Gramsci, Cronache teatrali 1915-1920, a cura di G. Davico Bonino, Torino, Aragno, 2010, p. 247.
Ibidem.
O. de Andrade, Serafino Ponte Grande, Torino, Einaudi, 1971, pp. 3-4. La traduzione utilizzata è quella, originale e brillante, di Daniela Ferioli.
7
Ivi, pp. 4-6.
8
O. de Andrade, Ponta de lança, cit., p. 87.
9
Ibidem.
10
O. de Andrade, Ponta de lança, cit., p. 24.
11
Ivi, p. 87.
12
Ivi, p. 91.
4
5
6
21
La quinta colonna.
L’avventura brasiliana
della “generazione
*
dei registi”
Alessandra Vannucci
dell’Universitá Federale di Ouro Preto e regista teatrale
D
el secolo e mezzo di espatri teatrali italiani in Brasile, ricco di trionfi, l’episodio più clamoroso è la mini-migrazione che interessa la generazione di registi usciti a vent’anni
dalla II guerra e maturati all’ombra dell’Accademia d’Arte Drammatica. Qui, nei primi
anni 40, Adolfo Celi e Luciano Salce, con Squarzina, Gassmann, Pandolfi, Guerrieri (prima
leva di registi diplomati) e l’outsider Ruggero Jacobbi, rimasticavano le sfide tra Silvio d’Amico e A.G. Bragaglia, sperimentando tutto il possibile, mentre sbarcavano il lunario facevano
gli assistenti nelle compagnie di giro.
A partire dal ’47 quei giovani,
stanchi di attendere e cogliendo
le occasioni del tempo, emigrano
dall’Italia – vecchia carcassa afflitta dall’oneroso compito della
ricostruzione democratica – verso
un Brasile mitico, terra aperta agli
esploratori, ai fondatori, agli avventurieri. Non li attrae il tropico
e l’esotica “dolce vita” carioca, ma
una metropoli (São Paulo) in pieno
sviluppo verticale ed industriale,
dove alla borghesia fondiaria s’associava l’intraprendente comunità
immigrata italiana. Una città continua a Milano, nel totalmente nuovo d’America. Perfino l’arte, da «distrazione per ricchi» (come notava
Lévi-Strauss a riguardo, nel 1935)1
s’annunciava come prodotto di
consumo nell’incipiente mercato
di massa. La vocazione della città
Os filhos de
Eduardo,
regia R. Jacobbi,
TBC-SP, 1951
* Il saggio è estratto da A quinta coluna, São Paulo, Perspectiva, 2005. Sul percorso brasiliano di Jacobbi, cfr. Strategie di transizione, in L’eclettico Jacobbi, a
cura di A. Dolfi, Roma, Bulzoni, 2003, dove si trova anche una sua bibliografia completa. Gli articoli “brasiliani” di Jacobbi sono pubblicati a mia cura in Critica da
razão teatral, São Paulo, Perspectiva, 2004. Su Gianni Ratto è uscito un mio saggio sulla rivista «Sipario», n. 666, dez/2004 (parte I) e n. 672, jul/2005 (parte II)
del titolo Lo spazio-personaggio. L’espressione “la generazione dei registi” fa esplicito riferimento al fondamentale studio di Claudio Meldolesi, Fondamenti del
teatro italiano. La generazione dei registi, Firenze, Sansoni, 1984.
1
Tristi tropici, Milano, Il Saggiatore, 2008 (ed. or. 1955).
22
A ronda dos
malandros
(Beggar’s opera),
regia R. Jacobbi,
TBC-SP, 1951
a epicentro dell’industria culturale
brasiliana è evidente: tra il 1947 e
il 1954 si fondano musei, industrie
cinematografiche, canali televisivi,
case editrici ed i teatri si moltiplicano esponenzialmente (da 2 a 88).
Iniziative che fanno capo a pochi
nomi d’impresari, per lo più italiani: come Franco Zampari e Cicillo
Matarazzo, soci nell’impresa “tra
amici” che nel ‘48 partorisce il Teatro Brasileiro de Comédia (TBC)
e nel ’50 la Cinematográfica Vera
Cruz. Tutto ciò in una città senza
tradizioni teatrali, mentre la capitale Rio de Janeiro, coi suoi 114 teatri,
resta latifondo dei comici “all’antica” e del teatro di rivista.
In tale panorama, lo sforzo modernizzatore tende a squalificare
la “vecchia” scena nazionale a favore di qualsiasi novità cosmopolita. Come importa materia prima
e ingegneri per le sue fabbriche,
Zampari – un industriale – importa registi dalla sua terra d’origine,
giudicata teatrale per antonomasia. Adolfo Celi (che indugiava a
Buenos Ayres, dove era giunto
con Aldo Fabrizi nel cast del film
Emigrantes) gli è raccomandato da
Aldo Calvo, già scenografo della
Scala, giunto a São Paulo nel ‘47
col Carosello napoletano, di Giannini e Paone, ed incaricato di decorare il nuovo teatro di Zampari.
Celi accetta l’invito previa garanzia
di un biglietto di rientro in patria.
Non solo resta, come fa scritturare Jacobbi che s’arrangiava come
critico di cinema e regista cult (con
un repertorio tutto suo) a Rio de
Janeiro, dove era giunto nel ’47
con la compagnia Torrieri-Pisu. Nel
1950, Celi convince Luciano Salce,
reduce dal successo parigino delle
“scenette” con Bonucci e Caprioli, a raggiungerlo nella “diaspora”
brasiliana che già conta con una
casa cinematografica. Nel ’51 è
la volta di “Flem” Bollini, che per
ciò non pochi invidiarono a Roma.
All’appello, gli scenografi Tullio Costa (che arriva nel 1950) e Bassano
Vaccarini (1946), oltre a tecnici, costumiste, truccatori e sceneggiatori come Fabio Carpi (1949) e Dino
Risi (1950). Per un pelo (un ritardo
delle poste) non arriva addirittura
Vittorio Gassmann, cui Zampari
offre nel 1952 una scrittura per un
film: partirà invece per Hollywood.
Inizia il mito della “quinta colonna”: l’avamposto dei registi italiani
in Brasile, così potente da motivare dissidenze. Gianni Ratto, scenografo del Piccolo Teatro di Milano
dalla fondazione al ’54, arriva a São
Paulo per altra via e vi apre un altro
teatro (il Teatro Popular de ArteTPA) in franca concorrenza con il
TBC. Alberto d’Aversa, assistente
di Jacobbi a Roma, vi approda nel
’57 convocato a tappare i buchi
delle dimissioni di Celi che quell’anno, dopo quasi un decennio di potere assoluto, abbandona il TBC e
si sposta a Rio, con due attori dei
migliori (Tônia Carrero, anche sua
moglie, e Paulo Autran).
La gigantesca dimensione che il
“teatro degli italiani” a São Paulo
assume in pochi anni, proiettandosi come portavoce di un euforico
clima cosmopolita, è fenomeno
che neppure lo stesso impresario
(Zampari) sarebbe stato in grado di prevedere. Messo in moto
dall’arrivo dei giovani italiani, la
macchina moderna funziona per
23
proprio conto, facendo levitare
i ricchissimi presupposti locali. È
l’America, anzi (come spiega Celi)
il «sogno d’America, che in Brasile
si traduce con la frase: plantando,
dá». L’America, la sua immensa
verginità, una civiltà teatrale senza padri né padroni, un metaforico
“palco vuoto” da riempire di parole, voci, volti, corpi. Fu (dichiara
Ratto) un senso di «involuzione
esaustiva, dovuta al successo ed
alla sicurezza, che mi fece desiderare di cercare un altro campo di
lavoro in cui l’erotismo teatrale
fosse ancora vergine».2 E fu (suggerisce Jacobbi) il presentimento
di poter essere, ad altre latitudini,
«non solo continuatori di un sapere, di una tradizione, ma anche creatori di nuovi linguaggi»3 a far percepire l’emigrazione come destino
affatto penoso, anzi, straordinario.
Molto più che una destinazione, il
Brasile significa una missione pioniera: lasciarsi alle spalle un sistema stabilizzato per rifondare qualcosa di qualitativamente primordiale. Trattandosi di una medesima
generazione, l’avventura brasiliana
rivela d’esser mossa dalla nostalgia
della fondazione registica e dal desiderio di perpetuare il progetto
generazionale: riprodurre «il clima
dei primi tempi – ricorda Salce – in
quei paesi dove c’era ancora tutto
da fare».4 Il senso seminale della
missione alimenta una speciale
fertilità creativa e una proposta rivoluzionaria, con il pieno appoggio
Studi della casa
Cinematografica
Vera Cruz, Sao
Bernardo do
Campo, 1952-56
dell’elite intellettuale e della platea di soci-abbonati: la rifondazione da zero della scena nazionale,
su basi professionali ed estetiche
europee. La polemica maturata
durante la formazione accademica, se esser ribelli o essere eredi
della propria scuola e tradizione,
è riproposta al di là dell’oceano.
Celi esordisce nel 1949 a São Paulo con lo stesso Nick Bar (I giorni
della vita) di W. Saroyan che aveva
segnato la sua iniziazione registica
a Roma e poi, a Milano. Salce nel
1950 realizza al TBC il Teatro del Lunedì, un progetto sognato (come
“Teatro di Casa”) e mai compiuto
a Roma. Nel suo primo film per la
Vera Cruz (Caiçara, 1951), Celi adatta a Ilha Bela un soggetto scritto
con Jacobbi per Capri, mantenendo stilemi neorealisti al montaggio. La memoria eroica, da esuli, si
salda al presente costruttivo tramite commosse rievocazioni delle
premesse poetiche in un passato
offuscato dalle bombe, che ora
si compiono in un “altro mondo”
soleggiato e cordiale ove i sogni
divengono realtà; mentre l’alterità
reale del territorio viene appena
rilevata. Sbarcato dall’altra parte
dell’oceano, Salce gioisce al ritrovarsi davanti il solito Fils d’Eduard
che aveva appena allestito a Parigi,
come se «un miracolo fosse avvenuto qui e, scomparse le migliaia di
chilometri percorse, un filo magico
avesse unito i palchi da un continente all’altro» (ibidem). Come
s’era dato il “miracolo” americano
che esaudisce agli antipodi i sogni
della generazione?
Con giovanile baldanza di demolitore (a Roma era stato militante delle “squadre di fischiatori”)
Celi s’era messo a far piazza pulita
dei modi tradizionali della scena
brasiliana. Giudicava l’istrionismo
ivi imperante, come sulle vecchie
scene italiane, colpevole di rallentare il ritmo dello spettacolo e di
distogliere l’attenzione dal testo;
e gli opponeva il gran rifiuto (ereditato da D’Amico) dell’arte asservita alla personalità dell’interprete.
Seguiva l’idea (di Jouvet) dell’attore disposto a incarnare il personaggio, spogliandosi di se stesso.
Responsabile non solo del teatro,
ma della riqualificazione dell’arte,
stabiliva criteri disciplinari funzionali ad un regime che garantisse
l’auspicato “livello internazionale”
e li imponeva come paradigmi pratici di “buon teatro”. Dopo l’arrivo
di Jacobbi e Salce, affida loro il teatro leggero (Savoir, Sauvajon e un
Goldoni “pittoresco” per il primo;
Anhouil e Dumas per il secondo)
e allestisce spettacoli-manifesto,
lavorando con gli attori “a porte
chiuse”. Il primo, Huis clos di J.P.
Sartre (1950), è un’esplosione di
carnalità strutturata su ritmi violenti e rapidi che sconcertano il
pubblico. Poi, è nei drammi «più
vivi nell’arte che nella vita» di Pirandello (Sei personaggi nel 1951,
Così è se vi pare nel 1952) che Celi
travasa la sua utopia del teatro
come «luogo umanizzante di discussione e poesia»5. La funzione
del regista è maieutica, a lui si devono i mirabili risultati plastici che
conquistano agli artisti l’applauso
di una platea d’industriali. Celi è
elogiato come una “fabbrica d’attori”;6 il TBC è una “officina” il cui
prodotto può essere venduto senza vergogna in qualsiasi capitale
europea. Tutto ciò grazie ai registi
italiani; anche perché registi, in
quegli anni a São Paulo, sono solo
i giovani italiani.
Pure Jacobbi, fra tutti il più
“letterato” (era critico e saggista
Gianni Ratto, intervista all’autrice, São Paulo, 15 giugno 1997.
R. Jacobbi, Lungo viaggio dentro al teatro, conferenza dattiloscritta, Rio de Janeiro, 26.7.1948.
Salce, programma di sala di Os filhos de Eduardo, di M-G. Sauvaujon, regia Jacobbi. TBC-SP, mar/1951.
5
Programma di sala di Seis personagens a procura de um autor, TBC-SP, nov/1951.
6
Innumerevoli le testimonianze su Celi regista. Cfr. il mio La sensazione d’America, in Adolfo Celi un mito da riscoprire, Catalogo della mostra a cura di Alessandra
Celi, Roma, Fondazione Scuola Nazionale di Cinema, 2003.
2
3
4
24
fin dai tempi di Campo di Marte),
sogna il teatro come «poema sceso in piazza»7. Però nel senso di
arte impura e degna proprio in
virtù del suo destino d’impurità: di necessaria ibridazione con
la soggettività degli interpreti e
con la società materiale che vi
si specchia. Intellettuale militante, Jacobbi era stato compagno
di Strehler e Paolo Grassi fino
alla fondazione “civica” del Piccolo Teatro e in Brasile pareva
seguire la stessa traccia, popolar-realista, scegliendo pure lui
Goldoni come cavallo di battaglia. Si afferma come regista a
Rio de Janeiro con l’Arlecchino,
servitore di due padroni (1948), a
São Paulo con Il bugiardo (1949 e
’52); poi allestisce La locandiera
(1954) per il Teatro Popular de
Arte, con scene di Gianni Ratto.
Nel bel mezzo, adatta la Beggar’s
opera di J.Gay (1951) facendone
pretesto per una vigorosa polemica sulla congiuntura politica brasiliana contemporanea. Il
fattaccio gli costa le dimissioni
forzate dal TBC – alla fin fine, un
ente privato e borghese e non
“civico” come il Piccolo. I suoi
adattamenti – quell’Arlecchino
«né bragagliano né reinhardtiano
bensì brasiliano, anzi carioca»,8
il bugiardo Lelio come un cinico
rappresentante dell’irresistibile
ascesa della borghesia, Mirandolina «né buona né cattiva: semplicemente una proletaria, vista
alla luce della ragione storica»,9
per non dire del «coro di poveri»
della Beggar’s opera con il pugno
chiuso levato come una minaccia – fanno scandalo. Sintomatici
della sua diversità in quel contesto, tali adattamenti tracciano
per lui un percorso autonomo ed
una proposta di modernità teatrale alternativa a quella dominante (conosciuta peraltro come
“italiana”) quanto al repertorio e
al modo di leggerlo. Proponeva
l’antropofagia, l’assorbimento
dialettico della cultura europea.
Come regista, sollecitava gli at-
tori allo sfondamento del recinto
psicologico del realismo “puro”
e li spingeva ad un realismo “critico”.
Irregolare come da ragazzo,
Jacobbi riconduceva i suoi molteplici talenti – il mestiere critico, la
vocazione pedagogica e la regia,
intesa come mediazione tra arte
e civiltà – ad un unico presupposto politico: cioè che «l’arte debba ancora essere una relazione
diretta tra l’uomo e la sua realtà.
Uomo storico, realtà concreta.
Uff! L’ho detto»10. Pure come critico procedeva in contro-tendenza.
Batteva tutti i generi offerti dal
mercato, facendo circolare le idee
e mettendo in dubbio valori di eccellenza alienati dallo stato reale
del mercato. Mise in crisi perfino
il modello di costruzione psicologica del personaggio («stanislawskismo suburbano») avvisando
del fatto che il realismo, mistificato dal feticcio della spontaneità, si avviasse a divenire «una
grandiosa scuola di mediocrità».11
Rinnegava l’autorità del regista a
favore dei processi collaborativi e
incitava gli attori a riappropriarsi
del palcoscenico, come luogo di
cittadinanza e di mestiere. Il suo
percorso, pur segnato da “eresie” e spettacoli “sbagliati”, gli ha
garantito fama di mentore della
generazione brasiliana che ha fatto teatro durante la dittatura militare. Sotto la sua guida, nel ‘54, i
giovani del Teatro de Arena licenziano il palco “italiano” (frontale)
ed adottano l’arena (circolare)
come reazione alla “ristrettezza
mentale di un mondo artistico
che perde il contatto con il popolo e si abitua a riconoscere come
sola realtà quella del gruppetto
cui appartiene”.12
L’inevitabile revisionismo che
investe il clan italiano, nella bufera
scatenata dal fallimento della Vera
Cruz nel 1956, provocando il rientro in Italia di alcuni artisti, fomenta una polemica di emancipazione,
con toni nazionalisti, dal “culturalismo cosmopolita” proposto dal
TBC e ora da molti giudicato inefficiente all’analisi del sottosviluppo
del paese. In questa fase, si rivela
vincente l’eccezionalità di Gianni
Ratto, che era sbarcato in Brasile
più tardi degli altri (nel 1954) e, pur
passandovi, non si era fermato al
TBC. In fuga dal perfezionismo che
(secondo lui) intrappolava il suo
lavoro al Piccolo, Ratto era partito «non per fare l’America, ma per
scoprire il Brasile».13 Il suo percorso artistico si radica al territorio di
cui va alla scoperta, senza preconcetti né progetti di sorta: pur con
sensibilità vivamente italiana, s’immerge nell’esuberante materiale
offerto dal Brasile, dalla sua realtà,
drammaturgia e pratiche tradizionali. Come ai suoi primi tempi al
Piccolo, riparte sempre dall’idea
concreta di “palco vuoto” (restituito agli attori) cercando la “scenapersonaggio” (non decorativa ma
viva) senza farsi condizionare dal
super-obiettivo del “bello stile” o
della modernità ad ogni costo. A
Rio de Janeiro, fonda una compagnia (Teatro dos Sete), si afferma
come regista per l’autorevolezza
del suo “saper fare” teatro e dirige
spettacoli miliari nel processo d’invenzione del linguaggio teatrale
brasiliano. Poi desiste senza sforzo, anzi con vantaggio, dall’autorità assoluta di regista. Si ribattezza
«allestitore di spazi drammatici» lavorando con gruppi impegnati nella resistenza alla dittatura, come
il Grupo Opinião o il Teatro Novo
a Rio de Janeiro, per cui inventa
nuovi e più coinvolgenti patti con il
pubblico (quale la reversibilità palco/platea) che lo salvano dallo sterile perfezionismo dello spettacolo
“ben fatto”. Risolve così l’impasse
che aveva interrotto il suo lavoro al
Piccolo e poi al Teatro dos Sete.
A voler tirare le somme sull’episodio della diaspora brasiliana dei
registi, è evidente il contributo alla
riforma del teatro di quel paese
nella fase cruciale della modernizzazione e l’influenza sul mercato
del gusto, sulla formazione di pubblico e dei futuri artisti.
R. Jacobbi, Lungo viaggio dentro al teatro, cit.
R. Jacobbi, «Correio da Manhã», Rio de Janeiro, 11 marzo1949.
R. Jacobbi, programma di sala di Mirandolina, TPA-SP, maggio 1955.
10
R.Jacobbi, «Ultima Hora», São Paulo, 15 marzo 1952.
11
R. Jacobbi, «Correio do Povo», Porto Alegre, 17 gennaio 1959.
12
R. Jacobbi, «Folha da Noite», São Paulo, 11 marzo 1952.
13
G. Ratto, intervista cit.
7
8
9
25
Filo diretto
Salerno-Rio de Janeiro
Giovanna Scarsi
“C
onversazione in
una stanza chiusa con Leonardo
Sciascia” a cura di Fabio Pierangeli, ripubblicata in occasione del ventennale della
morte dello scrittore’, ha
opportunamente aperto il
ciclo “Il futuro della libertà”
promosso e scientificamente curato da Giovanna Scarsi, fondatrice e presidente
de I Martedì letterari di
Salerno, con lo scopo di riproporre ai giovani gli scrittori che hanno presagito o
concretamente contribuito
alla formazione dell’unità
d’Italia: Dante, Machiavelli,
Foscolo, Gli Scapigliati, Nievo, Manzoni, Verdi ed il melodramma..
26
Quale scrittore meglio di Sciascia, a parte l’occasione celebrativa, ripropone la funzione civile
e politica della letteratura e della scrittura.? Innanzitutto, per il
modello che ci offre, di rigorosa
coerenza fra letteratura e vita,
fra scrittura ed attività civile di
parlamentare, ispirato a costanti
e pregnanti valori etici e sociali,
professati e difesi fino alla morte
“ E ce ne ricorderemo di questo
scrittore”. Di qui l’opportunità
e l’intelligenza di Pierangeli a ripubblicare “Conversazione” ed a
riproporne l’attualità del messaggio, ampiamente e con sintesi illuminata e chiara in una sua dotta
ed appassionata introduzione. La
lunga intervista-colloquio di Lajolo con Sciascia, apparsa per la
prima volta nel 1981, nasce dalla
sintonia etica e socio-politica dei
due scrittori, che si ritrovano ac-
comunati, pur nella diversità di
carattere e di intervento in letteratura e politica, dal substrato di
valori comuni.
Conversazione si cala in anni
tormentati della nostra storia:
1978 - uccisione di Moro- 1982, uccisione di Dalla Chiesa. Pierangeli
evidenzia con serenità il messaggio di italianità che promana da
questo scritto prezioso ai giovani,
soprattutto, sottolineando i momenti di riflessione più significativi ed attuali. Coscienza?
“Sì, la coscienza come primo
e, in definitiva, unico partito. Ma
una coscienza, direi,fortemente
improntata al diritto”. Ed in tema
di anniversari di unità d’Italia:
”Sento la costituzione della repubblica italiana come un’oggettivazione della mia coscienza,
come la carta che la mia coscienza
non può né travalicare né tradire
e tanto meno possono travalicarla e tradirla le mie azioni. Poichè
intorno è tutto un travalicarla e
tradirla, la mia coscienza si ritrae
sempre più, si fa sempre più solitaria”.La coscienza, in effetti, è
per Sciascia “il meglio del passato” e solo conservando il passato
si può costruire il futuro, ”il futuro della libertà” “Lo scrittore vive
disvivendo” cioè il pirandelliano
”La vita, o la si vive o la si scrive,
è un messaggio forte che ”si conclude con l’augurio che “almeno
aiuti gli altri a viverla”.
Il volume, in elegante veste
editoriale, provocatoriamente in
rosso vivo si pregia di un’appendice di articoli densi ed intensi fra i
quali riluce per toccante memoria
“P. P .Pasolini ucciso dalla violenza che si ostinava a combattere “
in cui D. Lajolo scrive coniugando
l’impegno civile di Sciascia e di
Pasolini. ”Per questo suo amore
all’uomo, all’umano, al Calvario,
egli non ha voluto evitare il suo
Golgota. La sua è una morte violenta, più ancora della crocefissione di quel Cristo in cui egli non
credeva, perché animato da una
religiosità e da una spiritualità
che non ammetteva ipocrisie di
epigoni e di sepolcri imbiancati.
”Ed anche questa scelta antologica operata da Pierangeli è felice
per coerenza ed utilità etico-socio-culturale”
La conferma della validità e
dell’utilità socio-culturale del volume è sancita dal plauso e dalla
partecipazione viva dei tantissimi
studenti che affollavano la presentazione .
Volume innovativo, anzi singolare, di Fabio Pierangeli, edito nello stesso anno 2009 è “In
attesa della festa” Universitalia
Roma. Finalmente, una parola
chiara ed un’applicazione concreta di scrittura creativa, termine usato ed abusato, su cui questo testo fornisce una lezione
autorevole, grazie anche e soprattutto all’introduzione coinvolgente di Pierangeli ed ai saggi
luminosi : ”Il dono di raccontare” di Marzia Consalvi e “La voce
degli spazi indefiniti” di Daniela
Iuppa. Si raccolgono esercizi e
letture degli stessi studenti derivanti direttamente dai laboratori
di creatività dell’autore, lo stesso che ha fornito la prima lezione
di scrittura creativa all’inaugurazione di questa mia palestra letteraria, sulla scorta illuminante
degli esempi vivi contenuti nel
volume, suscitando palpiti di
emozioni ed entusiasmi di progetti creativi nei giovani.
La farfalla vola capricciosamente dove vuole e non si fa inseguire: come la poesia che va e
viene, arriva quando non si cerca
e muore senza che tu lo voglia,
come l’amore e la vita stessa.
Talento ed ispirazione, creatività
e passione, libertà interiore ed
approdo di ricerca, rifugio nel sogno: questo significa letteratura
ed arte, perché la letteratura è
arte. La passione per la letteratura e l’arte è un dono gratuito,
forse per vocazione genetica e
biologica; si ha il dovere di trasmetterla ma non si insegna se
non porgendo, con umiltà, modelli di comportamenti, progettualità di ricerca ed elaborazioni
di metodologie. La passione non
si insegna ma si comunica, sollecitando l’introspezione e la concentrazione, suscitando interessi
culturali ed emozioni artistiche,
stimolando la creatività in chi la
possiede per dono di natura ed
accendendola in chi la ricerca
dentro di sé, soprattutto scoprendo ed incoraggiando talenti
ed aiutando insegnanti e genitori
a sostenerli. Conservare intatta
la meraviglia dell’infanzia, fondamento di ogni atto creativo, è una
strategia utile ai giovani ed agli
adulti per salvare la forza della
comunicazione e dell’emozione,
il coraggio dei sentimenti, il gusto della bellezza. In tal senso,
unire ed unirsi per esprimersi ed
esprimere superando schemi di
inutili burocrazie, coercizioni, aridità di disquisizioni filologiche o
di querelles metodologiche, fuori
dell’accademia e dell’accademismo, significa restituire ai giovani
la fiducia e la gioia del creare per il
gusto del creare, senza vanità né
velleitarismi, rompendo la prigione dei significati e dei significanti.
Un’opera aperta in cui le tre arti
sorelle: poesia, pittura e musica,
superati i limiti espressivi di ciascuna, interferiscono nell’obiettivo comune e primario di esprimere la forza della natura che crea.
L’atto creativo, infatti, è uno
ed assoluto, qualunque siano le
tecniche ed il linguaggio in cui
si traduce come uno ed assoluto è il Bello. Insegnare a leggere
ed a scrivere significa sollecitare
l’amore alla lettura come avviene
per il calcio o il gioco:significa incoraggiare i giovani ad aprirsi alla
scrittura corretta ed esteticamente curata, quale atto anche terapeutico di impressione del flusso
di coscienza, cioè aiutarli a crescere e per chi giovane non è più,
venire in soccorso per vivere e,
talvolta, per sopravvivere.(…….)
Ma occorre “preparare la pista”,
perché l’ispirazione arriva solo
quando è festa, occorre fornire le
ali per far volare l’immaginazione.
“Figli del Sud” di Pompeo
Onesti nelle edizioni Mursia 2009
reca un sottotitolo che già orienta alla lettura: ”Romanzo” L’autore, avvocato umanista ovvero
scrittore-avvocato, è da sempre
impegnato sui problemi del Sud,
cui le sue opere danno un contributo sociale, sia pure attraverso
il ricordo autobiografico di un cittadino del Sud che sulle proprie
spalle ha sopportato, lottato e
scelto. E’ infatti, nativo di Campagna, un paese piccolo della provincia di Salerno la cui esperienza
e frequentazione fino alla scelta
di abbandonarlo per il mondo lo
accompagnano in una dimensione
memorialistica di presenza costan-
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te, che risulta scevra da ogni indulgenza sentimentale o retorica.
“Figli del Sud è l’ampliamento di
un lungo racconto “La Chiena”
pubblicato nel 1993. Merita, di fatto, il sottotitolo di romanzo che
in toni crudi quanto intensi ripercorre il percorso formativo di un
uomo che, nonostante tutto, ha
l’orgoglio di essere figlio del Sud.
Dopo quarant’anni di assenza,
Roberto torna al paese dove si ritrova a fare i conti col ricordo di
un’infanzia drammatica, nutrita
di miseria, ignoranza e violenza.
Sullo sfondo, le storie degli amici d’infanzia finiti male: Bruno,
diventato militante comunista e
Fiore caduto nella delinquenza.
Affiorano nelle storie, volti cari:
il padre di Roberto, segnato irrimediabilmente dalla guerra,
la madre dura e forte, pronta al
sacrificio completo, le lotte contadine, i tanti pretesti per sopravvivere, infine, l’opportunità
di una vita diversa. Nella storia di
Roberto-Pompeo si rivive la storia di una condizione cronologica
ed etico-sociale:.quella di un sud
deprivato e condannato a crescente depressione.
Un Sud purtroppo sempre
perdente su cui il romanzo di
Onesti, nonostante tutto, intona
il suo peana di vittoria. La scelta
definitiva suona, infatti, vittoria
dei suoi valori:la tenacia e la laboriosità, l’ingegno e la creatività,
l’amore e la famiglia, l’amicizia e
la solidarietà, la bellezza ed il paesaggio.
Il romanzo si inserisce a buon
titolo nella narrativa meridionalistica dal verismo lirico di Verga
al realismo duro di Alvaro e si
presenta come la maturazione di
un percorso narrativo fedele e
costante di Onesti che,dalle sue
prime pubblicazioni: ”La Chiena”,
La Gramigna”, ”La Fenice “ e “Via
dei principati”ha impresso alla
sua narrativa uno spiccato taglio
sociale,sempre a difesa del Sud
e delle sue genti. L’epilogo de” I
figli del sud” è significativo, riconferma la del sud e del suo patrimonio etico e socio-culturale:, apre il
cuore del lettore alla speranza ed
all’impegno per renderlo migliore
“Vorrei non pensare, non ricordare la mia infanzia. Temo di scoprire cose che preferirei non conoscere: la consapevolezza che
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sarebbe stato meglio non andare
via dal paese,non allontanarmi
dai miei amici, non studiare. A che
è servito? Avrei avuto una vita
come la loro. Era la mia vita, però.
Questa che sto vivendo non mi
appartiene”.
La dimensione lirica sottende
sempre e dovunque la scrittura che
si distingue per la cifra colta scandita da chiarezza ed efficacia: fra
pause di memorie,morbidezze di
sentimenti e vibranti messaggi sociali, fra riposi descrittivi e suspences drammatiche ,il ritmo narrativo
si snoda con piacevole amenità.
“Lex de caelo,ego de terra:
vince letterariamente la cultura
umanistica,trionfa moralmente la
cultura del Sud.
“La voce del cuore” di Vincenzo Giordano esce nella collana dei
“Martedì letterari” a cura di Giovanna Scarsi edizioni “Edigraf”
Salerno.
E’ un prezioso libricino che
reca nella copertina un’immagine
di via Tasso, derivata da “Salierno
bella; c’era una volta”, fra acquarelli ed elzeviri di Alfredo Plachesi
e Giovanna Scarsi,in veste editoriale elegante e preziosa.
Nel retro copertina, una didascalia così recita: ”Via Tasso- Era
la strada dei nobili, non di censo
ma di tradizioni, di arte e di cultura. Dal Duomo al largo Abate Conforti si sviluppa,parallelamente
a via Trotula, fino alla fontana
del “mascherone” adiacente l’ex
istituto Genovesi. Di fronte, si innalza il palazzo n.59 di storica memoria. All’ultimo piano, a fianco il
pittore Antonio Ferrigno, illustre
costaiolo, di fronte, la nobile famiglia Conforti, al centro il salotto artistico-culturale-politico di
don Giacomo Scarsi che nel dopoguerra ha svolto opera intensa di
animazione artistico-culturale “.
La dedica, toccante, sottolinea l’indole intimista e diaristica
del libricino, subito, ad apertura
dello stesso, in caratteri scuri e
grandi:
“Dove i Paradisi sono favole
spente, si accende la vostra signorilità.
A Voi, principessa triste dall’animo nobile e dal cuore d’oro dedico
questi pensieri frutto di momenti che
hanno attraversato il mio vivere”
Affettuosamente
Vincenzo
Giordano
Un cavaliere del lavoro ed un
gentiluomo della poesia, scomparso pochi giorni or sono, lasciandomi un messaggio personale di
saluto alla vita della poesia. Dalla
mia prefazione al volumetto:
“La principessa triste ed il poeta di Salierno bella: è un poeta
che reca l’anima del passato ed
il saluto di via Tasso, la presenza
della memoria di un mondo sepolto che si risveglia per supportare
il presente.
E’questo il motivo per cui ho
sostenuto la pubblicazione di
questo libricino con l’aiuto di Ettore Castellano, anche lui cantore
delle radici nobili della nostra città, l’Hippocratica civitas che in un
Medioevo oscuro inaugurò il Rinascimento scientifico attraverso
la Scuola medica salernitana che
per primo coniugò umanesimo
letterario ed umanesimo scientifico. Enzo Giordano, ancor più in
questi giorni tristi della sua scomparsa materiale, resta un testimone perenne di arte e di poesia,
che seppe innalzare,, nelle viuzze
nobili del centro storico l’artigianato ad arte
ll nostro fu un incontro breve ed intenso, in un melanconico pomeriggio prenatalizio.
La principessa triste si fermò
ad ammirare le sue “ pazzielle” natalizie:presepi ed abetini, befane, bambole e carillons,
soprattutto i suoi magici papà
Natale che nell’abbondanza e
varietà multicolore esprimono la
sua gioia di donare. L’artista delle luci con cui illumina la miseria
decente della povera gente capì
subito che la principessa triste
frugava in quelle sue fantasie di
arte,in esse ricercando memorie
di un’infanzia giammai goduta
di un drammatico dopoguerra.
Mi rammentò via Tasso ed i personaggi di allora, in un itinerario
della memoria che ripropongo in
ogni occasione. La commozione
ci affratellò allorchè il percorso
si fermò, attraverso i suoi ricordi
sul mitico salotto artistico-culturale di don Giacomo Scarsi, in cui
si raccoglieva il meglio della politica, dell’arte e della cultura di
allora, In particolare, si illuminò
raccontando degli storici concerti in casa che col trio Scarsi: mio
padre Italo, tenore e le zie Leonia
ed Elsa, soprani accompagnati al
piano dall’altra sorella pianista,
Flora, tutti dal glorioso conservatorio S:Pietro a Maiella di Napoli, riuniva i maestri e gli artisti
nazionali ed internazionali che
quel salotto onorarono. Parlava
con fervore di Nicola Fiore che
in quella casa visse e morì, esaltando la sua coerenza nelle battaglie a difesa degli umili, quale
martire indimenticato dell’Idea
del più puro socialismo. Il suo
ritratto, ancora perlato negli occhi umidi di pianto accoglie il visitatore nello studio della nipote
Giovanna Scarsi(…………)
Fu questo incontro l’occasione lirica che mi portò alla scoperta degli scritti di Giordano che ho
voluto si conoscessero per due
motivi fondamentali:
1)Motivo letterario:” significa
che la poesia non è solo quella dei
dotti; appartiene anche a tante
voci inedite che affidano sentimenti e valori all’immediatezza
della scrittura di cui il vernacolo
è la forma più diretta. Ho lasciato
i testi di Giordano intatti quali mi
sono stati consegnati senza operare alcuna revisione, al fine di
evidenziarne la valenza artistica
più che letteraria.
2)Motivo socio-culturale: Ritengo che questa voce del cuore sia necessaria e utile in questi
tempi bui, soprattutto ai giovani
che cercano e hanno bisogno di
canti del cuore, di coraggio per
sognare, di cultura dei valori.
“Poesie” di Mario Scotti a cura
di Aureliana Scotti e Mara Pacella
con presentazione di Arnaldo Di
Benedetto è un volume prezioso
che ho ricevuto dalle mani della
figlia, in occasione della presentazione del mio ultimo libro: ”La
leggenda dell’artista nella belle
epoque” a Roma..
Un dono prezioso all’amicizia
e alla letteratura che oggi più di
ieri scandisce l’immortalità del
Maestro, del suo magistero e della sua opera, in particolare del suo
insostituibile e diletto Foscolo
“Studium” gli ha dedicato un convegno ed un numero della rivista
in cui compare, fra gli altri, anche
il mio ricordo.
In generale, siamo abituati a
ricordare il professore ed il critico,
lo studioso egregio che ha attraversato buona parte della nostra
letteratura,in particolare,il cin-
quecento ed il seicento,parimenti
l’ottocento, lasciando contributi
autorevoli definitivi.
Questo volume di poesie, nella gran parte inedite , apre una
pagina nuova: sull’uomo e la sua
avventura di vita vissuta all’insegna dell’impegno e della testimonianza, getta luce sulla sua
personalità mite e fiera,nel contempo, accende bagliori e suscita
palpiti di emozioni sui sentimenti
e sui valori che lo hanno ispirato
tanto da proiettarne l’immagine
viva ed intensa su quanti –come
me- hanno avuto il privilegio di incontrarlo e di conoscerlo “Tonalità d’autunno”, ”Sera al lago””,
”Baneasa”,. ”Ritorno a scrivere
di te”, ”A Giorgio Petrocchi” La
primavera”, Estate”, ”Canto di
amore”, ”Viaggio nella sera”,
”Caffè al Tritone”etc, sono altrettanti frammenti di cuore. prima
che di alta letterarietà. Scavano
nella memoria altrettanti barlumi di luce interiore dell’amico al
tavolo di Gardone di Riviera, assorto nella contemplazione del
lago silente, o inebriato al brindisi della “Traviata” nell’edizione
parigina di Zeffirelli o gioioso e
sensuale assaggiatore di inedite
pietanze marine dopo la generosa fatica di uno dei miei ultimi
libri nelle edizioni di Studium a
Salerno dove con puntigliosa fedeltà all’impegno assunto arrivò
in macchina,puntualissimo con i
comuni grandi amici Ulivi e Cappelletti. Ma non è solo il cuore,
il grande e nobile cuore di Mario
che vibra e canta melodie inedite in questo libro dove l’emozione si trattiene quasi in punta di
penna e perviene al lettore come
raggelata dal controllo critico.
Rimpianti e nostalgie, il Dolore e
la Morte, l’austerità del silenzio
agli interrogativi senza risposta,
la Melanconia compagna del brivido della Bellezza pura, l’ebbrezza della contemplazione, il
paesaggio e la natura, gli affetti
e l’amore, cioè la Vita,fra abissi
di “lucida disperazione “ed esaltazioni di sublimità stellari; tutto
è Poesia, perché poesia è per lui
Amore della vita e come tale nutrimento di ogni uomo e sostanza
della civiltà .Ed Amore è Assoluto
della Bellezza e purità del sentire,
è l’epifania della Donna, è il canto
universale della famiglia attraver-
so lei, la sposa-madre. Una vera
novità è questo”Canzoniere” nel
senso petrarchesco dove l’amore
è quello coniugale, è la sua Stefania grande nell’umiltà. Si dispiega
in tutto lo spessore la severità
del filologo e si chiarisce come
e quanto il rigore etico dell’uomo e l’amore della poesia come
espressione di pienezza di vita
sostanzino la sua visione religiosa
della vita e supportino la sua operazione critica, ispirata sempre e
dovunque a profonda onestà intellettuale.
Concordo con Arnaldo Di Benedetto che non è opportuno innestare un discorso critico sull’opera
di un maestro della critica.
Alla luce di queste rapide osservazioni, ai margini di una lettura interiorizzata delle Poesie di
Scotti, mi sento di affermare che
siamo di fronte all’epifania di una
vera opera poetica, dettata da
una vocazione artistica autentica che felicemente si imbriglia in
un contesto strutturale ed in un
apparato filologico solido; è un ritorno vero alle radici della grande
poesia dei padri della letteratura.
E non solo perl’intonazione aulica
e per la ripresa degli schemi classici, ivi compreso il sonetto che si
affiancano leggiadramente anche
al verso libero quanto per il supporto della visione metafisica-trascendente che sorregge in unità
la varietà dei temi.
Tanto quanto mi consente
di aggiungere che la poesia di
Scotti entra, a pieno titolo di
autorità nel panorama della poesia del Novecento ,quale voce
unica ed autentica di poesia
“classica” la cui connotazione
specifica è l’eleganza. In questa
dimensione si incontrano,anzi si
inverano in reciprocità e non in
conflitto, l’uomo ed il professore, il critico-filologo ed il Poeta:
Un ringraziamento speciale per
questo dono speciale alla diletta
figlia Aureliana che tutto questo
ha voluto e sostenuto, curando
l’edizione in collaborazione con
Mara Pacella, ispirandosi all’alto
concetto della philologia-philosophia del maestro Scotti ed
interpretandone con amore di figlia la visione religiosa della vita
che commenta subito la scelta
della copertina: S. Chiara, richiamata nella lirica omonima.
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La forza dell’amore totale
nei tempi del sesso libero
Si fa strada una nuova etica dei
rapporti tra uomini e donne
Fino a ora in tutte le società conosciute l’attività sessuale veniva
regolata minuziosamente dalla morale e dalla legge. Dei maschi si pensava che desiderassero accoppiarsi
con tutte le donne piacenti, delle
donne invece si pensava che desiderassero farlo solo con chi amavano oppure per dovere col marito.
Ma oggi questo costume sta rapidamente cambiando. Moltissime
donne dicono apertamente che
quando vedono un uomo che piace
loro cercano di non farselo scappare. Esattamente come i maschi. Ma
vi sono gruppi femminili che cercano di comportarsi come facevano i
maschi nei bordelli. In alcuni college americani le ragazze celebrano
le feste di fine d’anno ingaggiando
dei «prostituti» che si aggirano nudi fra loro e hanno rapporti sessuali
prima con una e poi con l’altra mentre le compagne applaudono. E vi
sono studentesse che fanno a gara
sul numero dei ragazzi che si portano a letto in un anno.
Questo mi fa pensare che nel giro di pochi decenni maschi e femmine potranno accoppiarsi come
loro piace, in privato o in pubblico, senza nessun freno morale.
Ciò, però, non vuol dire che vi sarà
una totale promiscuità. Infatti esiste una forza che vi si oppone, ma
non la Chiesa, non la famiglia, non
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la scuola, non la morale né la legge. L’unica forza che vi si oppone
è l’amore dell’innamoramento monogamico, esclusivo e geloso. Anche se un uomo o una donna sono
abituati ad avere rapporti sessuali
promiscui, quando si innamorano
desiderano solo la persona amata
e non sopportano che questa possa
avere contatti sessuali con un altro.
L’amore dell’innamoramento chiede la fedeltà assoluta. Una donna
innamorata scrive: «Non andrò mai
con un altro perché non voglio sciupare, inquinare le stupende sensazioni che provo con te. Basterebbe
un contatto per intossicare irreparabilmente la loro purezza. E lo stesso vale per te».
È solo perché esistono ’innamoramento e l’amore totale che la gente si sposa ancora, va ancora a convivere, ha dei figli. Anche se poi litiga e
divorzia. Il sesso libero, il sesso che
non ha né regole né freni, mette in
pericolo questo amore, che però resiste, lo respinge, lo frena e lo costringe a disciplinarsi. Dal conflitto fra
il sesso promiscuo e amore esclusivo oggi sta lentamente nascendo, a
poco a poco, un nuovo sapere e una
nuova etica dell’amore e del sesso. E
io sono orgoglioso di aver dedicato
la mia vita a scrivere su questo argomento che diventerà sempre più importante nel futuro.
PASSA
TEMPO
DIVERTIMENTO
Aleatico - Sorta d’uva squisita di color nero blua¬stro e
di aroma caratteristico da cui si ricava il vino medesimo.
Il no¬me deriva dell’emiliano “aliadga” con cui veniva
indicata I’uva raccolta in luglio.
CRUCIVERBA
CURIOSITÀ
SOLUZIONI
CRUCIVERBA
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