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ANO VIII -NUMERO 85 Transatlantici e sipari La scena italiana e il Brasile

2011, Mosaico Italiano

Una congiunzione astrale fortunata ci offre la possibilità di aprire il 2011 di Mosaico italiano nell’anno dedicato ai rapporti tra Italia e Brasile con un numero di particolare rilievo culturale in linea con i festeggiamenti programmati tra i nostri due Paesi: le tournées dei grandi attori italiani in America Latina, che comprende lettere inedite di Giacinta Pezzana, l’ideatrice del Escuela exsperimental de Arte dramático di Montevideo. La parte monografica viene curata con grande attenzione da Donatella Orecchia, docente, all’Università di Roma Tor Vergata, di Storia del teatro italiano, da sempre impegnata a fianco di artisti legati al teatro di ricerca e di avanguardia. I suoi studi si sono orientati sulla figura del Grande Attore e della regia tra fine Ottocento e inizi Novecento, producendo, tra gli altri, i volumi: Il sapore della menzogna. Rossi, Salvini, Stanislavskij: un aspetto del dibattito sul naturalismo (Genova, 1996), Il critico e l’attore. Silvio D’Amico e la scena italiana di inizio Novecento (Torino 2003); l’affascinante e documentata ricostruzione delle “origini” di Eleonora Duse, La prima Duse. Nascita di un’attrice moderna, per la prestigiosa collana In scena, diretta da Edo Bellingeri per Artemide editore, Roma, 2007. A Donatella Orecchia va il sentito ringraziamento della redazione e del Comitato scientifico di Mosaico per il lavoro svolto, chiamando a raccolta gli studiosi del settore, tra cui alcuni bravissimi giovani. In questi tempi delicati e critici dell’università italiana è una iniezione di fiducia anche, in un certo senso, “provocatoria”, rispetto ad un futuro ancora più incerto per le giovani generazioni che guardano all’estero, e al Brasile, come sedi di lavoro e di possibilità di approfondimento culturale in accordo con le loro sedi di provenienza italiane, spesso impossibilitate a garantire i finanziamenti necessari per la continuazione di ricerche di interesse internazionale. Il suggestivo titolo Transatlantici e sipari. La scena italiana e il brasile, ci trasporta in un universo eroico e anche duro, negli anni della grande migrazione, dove l’Italia è conosciuta nel mondo per i suoi artisti, in una specie di rivalsa nazionalistica, per chi è arrivato in umili condizioni economiche con quelle stesse navi. Fenomeno di cui, tutto sommato, a parte rari casi, come quello di De Amicis e Pascoli, la grande letteratura si è poco occupata e che invece i grandi attori dell’epoca, dalla Ristori, alla Duse, a Giacinta Pezzana, Ernesto Rossi, Tommaso Salvini, fino a Pirandello e alla sua compagnia, hanno potuto constatare in prima persona, in questi lunghi viaggi, tra «prevedibili e imprevedibili» successi in America Latina. Gli articoli di questo numero ci offrono un quadro nitido di quegli anni, e meritano ulteriori, prossimi, approfondimenti e, magari, un convegno tematico nell’anno italo-brasileiro!! Donatella Orecchia INDICE SAGGI Transatlantici e sipari. La scena italiana e il brasile Livia Cavaglieri A margine della tournée di Adelaide Ristori in Brasile: la breve carriera dell’agente Luigi Magi Laura Mariani La Escuela experimental de Arte dramático. Lettere inedite di Giacinta Pezzana da Montevideo (1911-1914) Donatella Orecchia Ettore Petrolini e le sue prime tournées in America Latina Donatella Gavrilovich Un bastimento carico di… opere liriche e scenografie. Augusto ed Emma Carelli, Walter Mocchi e le tournées in Brasile Yuri Brunello Critica, autocritica e ideologia. Su Oswald de Andrade lettore di Pirandello Alessandra Vannucci La quinta colonna. L’avventura brasiliana della “generazione dei registi” Giovanna Scarsi Filo diretto Salermo-Rio de Janeiro RUBRICA Francesco Alberoni Solo con la forza d’animo ci liberiamo dalle ossessioni - Dopo lo sconforto bisogna cercare soluzioni alternative PASSATEMPO Gennaio / 2011 Editora Comunità Rio de Janeiro - Brasil www.comunitaitaliana.com mosaico@comunitaitaliana.com.br Direttore responsabile Pietro Petraglia Editore Fabio Pierangeli Grafico Wilson Rodrigues Immagine di copertina: Vittorio Pavoncello

INSERTO DELLA RIVISTA COMUNITÀITALIANA - REALIZZATO IN COLLABORAZIONE CON I DIPARTIMENTI DI ITALIANO DELLE UNIVERSITÀ PUBBLICHE BRASILIANE Suplemento da Revista Comunità Italiana. Não pode ser vendido separadamente. ANO VIII - NUMERO 85 Transatlantici e sipari La scena italiana e il Brasile La scena italiana e il Brasile Gennaio / 2011 Editora Comunità Rio de Janeiro - Brasil www.comunitaitaliana.com mosaico@comunitaitaliana.com.br Direttore responsabile Pietro Petraglia Editore Fabio Pierangeli Grafico Wilson Rodrigues Immagine di copertina: Vittorio Pavoncello COMITATO SCIENTIFICO Alexandre Montaury (PUC-Rio); Alvaro Santos Simões Junior (UNESP); Andrea Gareffi (Univ. di Roma “Tor Vergata”); Andrea Santurbano (UFSC); Andréia Guerini (UFSC); Anna Palma (UFSC); Cecilia Casini (USP); Cristiana Lardo (Univ. di Roma “Tor Vergata”); Daniele Fioretti (Univ. Wisconsin-Madison); Elisabetta Santoro (USP); Ernesto Livorni (Univ. Wisconsin-Madison); Fabio Pierangeli (Univ. di Roma “Tor Vergata”); Giorgio De Marchis (Univ. di Roma III); Lucia Wataghin (USP); Luiz Roberto Velloso Cairo (UNESP); Maria Eunice Moreira (PUC-RS); Mauricio Santana Dias (USP); Maurizio Babini (UNESP); Patricia Peterle (UFSC); Paolo Torresan (Univ. Ca’ Foscari); Rafael Zamperetti Copetti (UFSC); Roberto Francavilla (Univ. de Siena); Roberto Mulinacci (Univ. di Bologna); Sandra Bagno (Univ. di Padova); Sergio Romanelli (UFSC); Silvia La Regina (Univ. “G. d’Annunzio”); Wander Melo Miranda (UFMG). COMITATO EDITORIALE Affonso Romano de Sant’Anna; Alberto Asor Rosa; Beatriz Resende; Dacia Maraini; Elsa Savino; Everardo Norões; Floriano Martins; Francesco Alberoni; Giacomo Marramao; Giovanni Meo Zilio; Giulia Lanciani; Leda Papaleo Ruffo; Maria Helena Kühner; Marina Colasanti; Pietro Petraglia; Rubens Piovano; Sergio Michele; Victor Mateus ESEMPLARI ANTERIORI Redazione e Amministrazione Rua Marquês de Caxias, 31 Centro - Niterói - RJ - 24030-050 Tel/Fax: (55+21) 2722-0181 / 2719-1468 Mosaico italiano è aperto ai contributi e alle ricerche di studiosi ed esperti brasiliani, italiani e stranieri. I collaboratori esprimono, nella massima libertà, personali opinioni che non riflettono necessariamente il pensiero della direzione. SI RINGRAZIANO “Tutte le istituzioni e i collaboratori che hanno contribuito in qualche modo all’elaborazione del presente numero” STAMPATORE Editora Comunità Ltda. ISSN 2175-9537 U na congiunzione astrale fortunata ci offre la possibilità di aprire il 2011 di Mosaico italiano nell’anno dedicato ai rapporti tra Italia e Brasile con un numero di particolare rilievo culturale in linea con i festeggiamenti programmati tra i nostri due Paesi: le tournées dei grandi attori italiani in America Latina, che comprende lettere inedite di Giacinta Pezzana, l’ideatrice del Escuela exsperimental de Arte dramático di Montevideo. La parte monografica viene curata con grande attenzione da Donatella Orecchia, docente, all’Università di Roma Tor Vergata, di Storia del teatro italiano, da sempre impegnata a fianco di artisti legati al teatro di ricerca e di avanguardia. I suoi studi si sono orientati sulla figura del Grande Attore e della regia tra fine Ottocento e inizi Novecento, producendo, tra gli altri, i volumi: Il sapore della menzogna. Rossi, Salvini, Stanislavskij: un aspetto del dibattito sul naturalismo (Genova, 1996), Il critico e l’attore. Silvio D’Amico e la scena italiana di inizio Novecento (Torino 2003); l’affascinante e documentata ricostruzione delle “origini” di Eleonora Duse, La prima Duse. Nascita di un’attrice moderna, per la prestigiosa collana In scena, diretta da Edo Bellingeri per Artemide editore, Roma, 2007. A Donatella Orecchia va il sentito ringraziamento della redazione e del Comitato scientifico di Mosaico per il lavoro svolto, chiamando a raccolta gli studiosi del settore, tra cui alcuni bravissimi giovani. In questi tempi delicati e critici dell’università italiana è una iniezione di fiducia anche, in un certo senso, “provocatoria”, rispetto ad un futuro ancora più incerto per le giovani generazioni che guardano all’estero, e al Brasile, come sedi di lavoro e di possibilità di approfondimento culturale in accordo con le loro sedi di provenienza italiane, spesso impossibilitate a garantire i finanziamenti necessari per la continuazione di ricerche di interesse internazionale. Il suggestivo titolo Transatlantici e sipari. La scena italiana e il brasile, ci trasporta in un universo eroico e anche duro, negli anni della grande migrazione, dove l’Italia è conosciuta nel mondo per i suoi artisti, in una specie di rivalsa nazionalistica, per chi è arrivato in umili condizioni economiche con quelle stesse navi. Fenomeno di cui, tutto sommato, a parte rari casi, come quello di De Amicis e Pascoli, la grande letteratura si è poco occupata e che invece i grandi attori dell’epoca, dalla Ristori, alla Duse, a Giacinta Pezzana, Ernesto Rossi, Tommaso Salvini, fino a Pirandello e alla sua compagnia, hanno potuto constatare in prima persona, in questi lunghi viaggi, tra «prevedibili e imprevedibili» successi in America Latina. Gli articoli di questo numero ci offrono un quadro nitido di quegli anni, e meritano ulteriori, prossimi, approfondimenti e, magari, un convegno tematico nell’anno italo-brasileiro!! Donatella Orecchia Indice SAGGI Transatlantici e sipari. La scena italiana e il brasile pag. 04 Livia Cavaglieri A margine della tournée di Adelaide Ristori in Brasile: la breve carriera dell’agente Luigi Magi pag. 06 Laura Mariani La Escuela experimental de Arte dramático. Lettere inedite di Giacinta Pezzana da Montevideo (1911-1914) pag. 09 Donatella Orecchia Ettore Petrolini e le sue prime tournées in America Latina pag. 13 Donatella Gavrilovich Un bastimento carico di… opere liriche e scenografie. Augusto ed Emma Carelli, Walter Mocchi e le tournées in Brasile pag. 17 Yuri Brunello Critica, autocritica e ideologia. Su Oswald de Andrade lettore di Pirandello pag. 20 Alessandra Vannucci La quinta colonna. L’avventura brasiliana della “generazione dei registi” pag. 22 Giovanna Scarsi Filo diretto Salermo-Rio de Janeiro pag. 26 RUBRICA Francesco Alberoni Solo con la forza d’animo ci liberiamo dalle ossessioni - Dopo lo sconforto bisogna cercare soluzioni alternative PASSATEMPO pag. 30 pag. 31 Transatlantici e sipari La scena italiana e il Brasile A partire dalla metà del secolo XIX l’inaugurazione delle prime vie marittime per navi a vapore dal porto di Genova, incentivò l’emigrazione del nord d’Italia verso le terre lontane delle Americhe. Intanto, e proprio in quel torno di tempo, l’America Latina iniziò a divenire meta privilegiata di molti protagonisti della scena teatrale nostrana che, alla ricerca di nuovi spazi, di nuovi pubblici – oltre a quelli appena conquistati delle principali capitali europee – e di nuove opportuni- 4 tà artistiche nonché commerciali, individuarono in quei paesi la possibilità di realizzare le proprie aspirazioni e moltiplicare così il numero delle piazze in cui esibirsi. I musicisti e i cantanti, primi fra tutti, portarono oltre oceano con uno straordinario successo i frutti migliori della stagione del melodramma romantico, tanto che opere di Bellini, di Donizetti, di Rossini e di Verdi vennero presto regolarmente eseguite nei teatri di Rio de Janeiro e delle altre capitali. Nel caso particolare del Brasile, poi, il matri- monio dell’Imperatore Dom Pedro II con la principessa napoletana Teresa Cristina Maria di Borbone, nel 1843, aveva accentuato l’interesse e l’ammirazione dell’imperatore per la cultura italiana, incentivandolo a favorire l’inserimento sociale e professionale dei migranti nostrani, specie se artisti. In seguito, e a partire dalla fine degli anni sessanta con le prime importanti tournées di Adelaide Ristori, vera pioniera delle terre dell’America Latina, anche gli attori del teatro di prosa iniziarono a intraprendere con assiduità viaggi oltreoceano, mentre l’emigrazione post-unitaria di contadini e braccianti italiani, incentivata e sovvenzionata dai governi locali1, vi si accompagnò per un lungo periodo di tempo. Sulla rotta di Rio, Buenos Aires, Montevideo, seguirono le orme della Ristori quasi tutti i grandi attori italiani dell’Ottocento: Tommaso Salvini, Ernesto Rossi, Giovanni Emanuel, Ermete Novelli, Francesco Pasta, Giacinta Pezzana, Eleonora Duse, «spartendosi le cabine dei transatlantici con i cantanti lirici, mentre nelle stive s’accalcavano le famiglie degli emigranti con le loro miserabili carabattole»2, trascorsero molte stagioni in tournées lunghe anche molti mesi in America del Centro e Sud. La tensione cosmopolita, che nutrì il teatro d’attore italiano del secondo Ottocento, si intrecciò in questo caso con una strategia di autopromozione personale su scala internazionale, talvolta ammantata da ideali patriottici talaltra sostenuta da progettualità culturali che si radicarono nel territorio. Il Novecento, che pur vedrà un allentarsi di questo fenomeno, registrerà ancora importanti episodi a inizio secolo e fino agli anni venti e poi, ancora, nel secondo dopoguerra, quando una nuova generazione di teatranti tornerà a considerare in particolare il Brasile terra fertile per fare fruttare lì quanto maturato in Italia. L’inevitabile profonda influenza che quelle esperienze ebbero sul linguaggio teatrale degli artisti coinvolti, sul loro stile e le loro modalità produttive e organizzative è un dato che impedisce di guardare alla scena teatrale italiana fra la metà del secolo XIX e la metà di quello successivo entro una prospettiva eurocentrica, e ci invita al contrario a seguire quei percorsi nei tanti rivoli in cui si diramano: fra rapporti con grandi istituzioni e le più alte cariche degli stati latinoamericani (è il caso della Risto- ri), radicamenti profondi nel tessuto culturale e teatrale locale (è il caso di Giacinta Pezzana e della sua Scuola Sperimentale a Montevideo e poi della “generazione dei registi” negli anni cinquanta del Novecento), fra le astute e complesse operazioni degli agenti teatrali italiani (l’esempio di Luigi Magi) e quelle di chi si trova a organizzare le tournées delle compagnie liriche (il caso particolarissimo di Walter Mocchi); infine fra gli imprevedibili successi di chi arriva in Sud America privo di una precisa strategia promozionale e prima di aver avuto un’affermazione piena in patria (è il caso di Petrolini) e i più prevedibili successi di un Pirandello reduce dai trionfi parigini, che lascerà anche qui, dietro di sé, un segno profondo capace di animare la critica e la drammaturgia, in particolare brasiliana (è il caso di Oswald de Andrade). Questa storia dei teatri viaggianti o migranti in Brasile (e nelle vicine Argentina, Uruguay, Messi- co, Cuba), storia complessa e lunga più di un secolo, è già stata in parte narrata in alcuni significativi studi3. Nei contributi che seguono abbiamo scelto di indagare, con brevi affondi storico-critici, aspetti diversi di questo tema ampio e complesso fino a questo momento poco frequentati, che tracciano, complessivamente, un percorso che dalla stagione del “Grande Attore” della metà dell’Ottocento post unitario giunge fino alla dialettica fra avanguardia e tradizione propria della giovane generazione di registi emigrati in Brasile della metà del secolo successivo. Di tanta storia oggi, culturalmente e artisticamente, siamo eredi. Alla conclusione di questo lavoro, non posso che ringraziare la redazione di «Mosaico» per avere accolto la nostra proposta, in particolare il prof. Fabio Pierangeli dell’Università di Roma Tor Vergata, e tutti coloro che con grande passione hanno collaborato alla sua realizzazione. Adelaide Ristori 1 L’immigrazione “sovvenzionata” in Brasile fu in vigore dal 1870 al 1930: i viaggi erano finanziati, così come l’alloggio ed il primo lavoro. Cfr. C. Vangelista, L’emigrazione dalla penisola italiana verso il Brasile, 1808-1960: una introduzione, in M. Reginato (a cura di), Da San Marino a Espirito Santo, fotografia di un’emigrazione, Repubblica di San Marino, Centro Studi Permanente sull’Emigrazione, 2002, pp. 23-54; Trento, Angelo, In Brasile, in P. Bevilacqua, A. De Clementi, E. Franzina (a cura di), Storia dell’emigrazione italiana Arrivi, Roma, Donzelli Editore, 2002. 2 A. Vannucci, Mattatori e primedonne che infiammarono il Brasile, in A. Vannucci (org.) «Letterature d’America», Roma, n. 97, 2003. 3 R. Jacobbi, Teatro in Brasile. Bologna, Cappelli, 1961; E. Franzina, L’immaginario degli emigranti. Miti e raffigurazioni dell’esperienza italiana all’estero tra i due secoli, Treviso, Pagvs, 1992 e Dall’Arcadia in America. Attività letteraria ed emigrazione transoceanica in Italia (1850-1940), Torino, 1996; R. Strohm, The Eighteenth Century Diasporas of Italian Music and Musicians, Turnhout 2001; G. Ratto, A mochila do mascate. São Paulo, Hucitec, 1997; E. Buonaccorsi, Adelaide Ristori in America (1866-1867). Manipolazione dell’opinione pubblica e industria teatrale in una tournée dell’Ottocento, in «Teatro Archivio», 1981; S. Corsivieri, Badernao. La ballerina dei due mondi, Roma, Odradek, 1998; infine di Alessandra Vannucci, che compare qui con un saggio, ricordiamo la cura del già citato volume Letterature d’America n. 97, 2003, uno studio su Adelaide Ristori, La regina delle scene alla corte dell’Imperatore, in «Rivista di studi portoghesi e brasiliani», n. V. 2003, la cura degli scritti di Jacobbi (cfr l’articolo che segue in questa raccolta); il recente Un baritono ai tropici. Diario di Giuseppe Banfi al Paranà. Pref. Emilio Franzina. Reggio Emilia, Diabasis, 2008. 5 A margine della tournée di Adelaide Ristori in Brasile: la breve carriera dell’agente Luigi Magi 1 Livia Cavaglieri dell’Università di Genova Q uando, sul finire del giugno 1868, Adelaide Ristori dà l’addio al pubblico statunitense, chiudendo un tour colmo di trionfi che, oltre al rodato Nord America, l’aveva vista spingersi fino all’Avana, non tutti coloro che l’avevano accompagnata nella fortunata impresa la seguono in patria: a New York rimane l’agente Luigi Magi2 con l’incarico di spostare di migliaia di chilometri più a sud la frontiera della ditta RistoriCapranica. Brasile, Argentina e Uruguay sono le nuove mete intraviste dal marchese Giuliano Capranica del Grillo, l’anima manageriale della coppia3, al quale si deve l’ideazione del primo “giro” nel Sud America nel 1869, come si ricava da una preoccupata lettera che egli scriverà al Magi (da cui non riceve comunicazioni da mesi, a causa probabilmente di disguidi postali), a poche settimane dalla partenza definitiva per Rio de Janeiro delle 35 persone che formeranno la compagnia: «In questo stato di cose io mi trovo ad intraprendere un tal viaggio quasi dirò alla cieca. Oggi pago la non lieve somma di fr. 23.000 di passaggio, e non mi basteranno 50.000 franchi per le altre spese di spedizioni, sovvenzioni agli artisti, ecc. ecc. Faccio a voi immaginare se non avevo bisogno con simili sborsi di essere un poco tranquillizzato da voi e dal sapere che tutto è sistemato a seconda dei miei desideri. […] trattandosi specialmente che pesa intieramente sulla mia testa tutta la responsabilità di questa speculazione in faccia alla mia signora ed ai miei figli»4. Come per la prima tournée nordamericana5, l’operazione parte con almeno un anno di anticipo. Ma questa volta la Compagnia Drammatica Italiana si affida a un proprio agente di fiducia6, Magi appunto, muovendosi dunque in autonomia e senza un Jacob Grau a preparare il terreno Adelaide Ristori in Medea, foto Herbert Watkins 6 1 I documenti citati, salvo diversa indicazione, sono conservati presso il Museo Biblioteca dell’Attore di Genova [MBA], Fondo Ristori - Donazione Giuliano Capranica del Grillo. Ringrazio Gian Domenico Ricaldone per la preziosa assistenza. 2 Benché fra le scritture presenti nel fondo Ristori non risultino ingaggi relativi a Magi, la lettura della corrispondenza permette di stabilire che egli aveva partecipato alla tournée americana del 1867-68. Nell’estate del 1868 il fratello Carlo è invece impiegato come rappresentante dei Capranica in Italia; da questo incarico si dimette però nel settembre ed è sostituito da Luigi Trojani (Lettera 22 gennaio 1869 di G. Capranica a L. Magi). 3 Per la divisione dei compiti della ditta Ristori-Capranica (ad Adelaide la direzione artistica; a Giuliano l’organizzazione), si veda A. Ristori, Ricordi e Studi artistici, a cura di A. Valoroso, Roma, Audino, 2005, p. 81 [ed. or. Torino-Napoli, Roux, 1887]. 4 Lettera 8 maggio 1869. Capranica rimane “al buio” per quattro mesi e con questioni fondamentali ancora irrisolte: la determinazione dei prezzi delle recite di Rio de Janeiro e le condizioni definitive dei contratti di Buenos Aires e Montevideo. 5 Si veda E. Buonaccorsi, Adelaide Ristori in America (1866-1867). Manipolazione dell’opinione pubblica e industria teatrale in una tournée dell’Ottocento, in «Teatro Archivio», 1981, 5, pp. 156-188. 6 Anche Tommaso Salvini manderà in avanscoperta un proprio agente esclusivo per il “giro” in Sud America del 1874, scritturando a questo scopo Lodovico Mancini (cfr. MBA, Fondo Salvini, 822). Il fatto interessante è che Mancini era un ex attore dei Capranica ed era stato con loro in America fin dalla prima tournée del 1866-67. con armamentario da marketing ante litteram: forse perché non ce n’è bisogno («la fama e gli affari della sig.ra Ristori sono bene radicati nelle principali famiglie»7, rassicura la contessa de Barral, lasciando capire come i canali più influenti in Brasile siano quelli tradizionali, al marchese assai ben noti), forse perché si tratta di un paese «ove un proficuo ma inesperto mercato teatrale non aveva ancora reso sistematica l’intermediazione di agenti locali»8, certo anche perché, imparata negli Stati Uniti una magistrale lezione di professionalità imprenditoriale, l’impresa Ristori-Capranica era pronta a spiccare un salto in fatto di complessità organizzativa9. Così è la coppia Capranica-Magi a gestire in proprio le relazioni con la stampa locale: il marchese consiglia all’agente quali articoli e quali informazioni diffondere. In prossimità della partenza, per esempio, egli traduce per Magi, perché la faccia circolare fra i giornalisti, la cronaca della recita di commiato dall’Europa, svoltasi all’Aja in un clima di preparazione al grande evento, e lo ragguaglia con dovizia sulla (peraltro nota) vicenda Legouvé-Rachel attorno alla composizione di Medea, concludendo: «Ora sta a voi servirvi di queste notizie per sempre meglio preparare la prima rappresentazione»10. Naturalmente viene inviato anche in Brasile il solito battaglione di biografie, fotografie, litografie e quadri della “grande attrice”. Rispetto alla rodata strategia di comunicazione solo il progetto di tradurre in portoghese i libretti di accompagnamento allo spettacolo non potrà essere portato a termine e il marchese deciderà alfine di portare con sé le copie con la traduzione in altre lingue (francese, spagnolo e inglese), prevenendo (sempre nella lettera testé citata) l’agente: «Siccome anche questa non è una lieve spesa, così prendete le misure necessarie perché nessun’altra traduzione o riduzione sia venduta all’infuori delle nostre». Con il Brasile come primo obiettivo, Magi s’era dunque imbarcato Ristori, Lettera 8 maggio 1869 da Giuliano Capranica a Luigi Magi (Museo Biblioteca dell’Attore) sul bastimento a vapore “America” del capitano Bartolomeo Bossi (un italiano forse da tempo emigrato oltreoceano?), il quale, ben felice di prestare i propri servigi ai coniugi del Grillo, era a sua volta incaricato di ragguagliare su Montevideo, ove era diretto. Una disastrosa tempesta costringe però il Bossi a ritornare a Rio de Janeiro, dopo avervi già sbarcato il Magi e l’incidente fa subito prendere all’operazione brasiliana quella svolta imperiale per cui è nota. Il 6 settembre 1868 scrive Bossi a Capranica – scusandosi per il suo italiano lievemente scorretto: «L’Imperatore mio amico senza aspetare la mia visita venne à bordo, fu per me una gran sorpresa, restò con me più di due ore; e, bene, un’ora certamente non parlai che di voi, della Marchesa e dei vostri figli, ci dimandai il permesso di presentarci il sig. Magi vostro agente il cuale mi fu concesso nel momento». L’imperatore conosceva il nome della Ristori, per via dei successi raccolti a New York, e chissà che non sia stata propria la curiosità di verificare la fondatezza della voce che, nonostante le accortezze di Magi11, iniziava a girare fra i più distinti emigrati italiani in merito a una possibile tournée dell’attrice a farlo precipitare sul naviglio di Bossi, il quale era del resto pronto a squadernargli l’album con i ritratti di tutta la famiglia Ristori-Capranica. Certo è che, prima ancora che Dom Pedro II e Adelaide Ristori stringano una lunga amicizia, la brama di trionfi mondiali dell’attrice si sposa ottimamente con l’italofilia e la teatromania di cui lui e l’imperatrice Teresa Cristina Maria di Borbone stavano contagiano i cittadini fluminensi. Magi aveva nel frattempo messo a fuoco Rio de Janeiro come piazza Lettera 8 settembre 1868 di Magi a Capranica. A. Vannucci, Mattatori e primedonne che infiammarono il Brasile, in «Letterature d’America», 2003, 97, p. 2. Cfr. P. Bignami, Alle origini dell’impresa teatrale. Dalle carte di Adelaide Ristori, Bologna, Nuova Alfa Editoriale, 1988. 10 Lettera 8 maggio 1869. 11 «[…] non faccio pubblico il nome della signora Marchesa per mezzo dei periodici, ma alle persone che sono stato raccomandato lo scopo del mio viaggio non è un mistero, gli ho raccomandato la discrezione, ma parlando in privato sono tutti unanimi nel dirmi che […] sarà una stagione Teatrale ben brillante, e non aspettano che il momento che si possa parlarne con tutta libertà […].» Lettera 24 agosto 1868. Ma già non appena Magi era partito da New York, l’«Herald Tribune» ne aveva dato notizia , a sua insaputa. 7 8 9 7 perfetta («Qui mi pare che ci è più buon gusto che alla Habana, ci è più fame di buoni spettacoli, ci è più oro […]» - scrive il 24 agosto 1868) e, fra la mezza dozzina di sale che aveva visitato, il Teatro Lirico Fluminense (detto anche Provisório) come sala ideale. Era il teatro primario della città, il più grande12, il più redditizio (a teatro pieno, almeno 3.500-4.00013 dollari secondo i calcoli dell’agente): 122 palchi, 700 posti in platea, divisi in due settori14, per una capienza totale che si aggirava sui 1500 posti a sedere (ed è sulla capienza dei teatri che sono ossessivamente concentrate le descrizioni di Magi). Il Provisório era la sala delle compagnie liriche ed erano queste, in fatto di business, la pietra di paragone elettiva: non solo Magi si fa dare dall’amministratore, José Maria do Nascimento, l’elenco degli incassi da loro effettuati come elemento di valutazione sull’affidabilità della sala, ma anche costruisce i prezzi a partire da quelli delle serate d’opera. Non si è conservato il contratto definitivo, ma dalla bozza che Magi Lettera 8 settembre 1868 da Luigi Magi a Giuliano Capranica, (Museo Biblioteca dell’Attore) trascrive per il marchese e dalle successive lettere siamo in grado di soffermarci, in questo poco spazio, su un’importante condizione. A differenza di quanto accade con i teatri di Montevideo e Buenos Aires, appaltati all’impresario Pestalardo e soggetti alla trattativa con lui, il Lirico è preso in locazione direttamente dall’amministrazione, il che garantisce un guadagno maggiore15. Le venti recite a Rio de Janeiro (l’incasso del debutto sarà pari a 15.700 franchi in oro, si affretta a scrivere la Ristori alla madre16) e l’intera tournée nel Sud America saranno un grande successo, per tutti, ma non per Luigi Magi, il cui nome sparisce dalle carte conservate nel fondo Ristori. Egli era stato un buon agente, aveva trattato gli affari dei Capranica con competenza a tutti i livelli (l’attrice aveva trovato deliziosa anche l’abitazione che aveva loro procurato) e nella corrispondenza (almeno in quella che si è conservata) Capranica si era mostrato soddisfatto del proprio agente: che cos’era dunque successo? Partita la compagnia per Buenos Aires, a Rio si era scatenato un imprevisto putiferio («qui è un generale sparlare della sua Impresa») contro l’attrice e la sua amministrazione, che «pel soverchio zelo ha rovinato ed annientato il nome, la gloria e il prestigio tutto di cotesta celebre Compagnia», a causa di sconti chiesti ai fornitori (fra cui anche influenti giornalisti) e di conti non pagati («forse per dimenticanza» si affretta ad aggiungere l’informatore). Nello scandalo ha una parte, e di primo piano, anche Luigi Magi, che raccoglie «la simpatia di tutti i Brasilieri»: «Dissesi qui che Magi avendo reclamati i suoi conti, Ella non voleva soddisfarglieli tal quale verbalmente furono trattati: e che allora Magi non voleva fare il versamento degl’abbonamenti incassati se non a che un arbitro decidesse: e finalmente che, in vista di ciò, Ella avea fatto spiccare mandato d’arresto contro l’istesso Magi […]»17. Il rumore doveva essere stato forte, se la marchesa arriverà a dolersi della vicenda con Dom Pedro, ricomponendo la storia dal proprio punto di vista: «[…] ho avuto il cuore amareggiato dal tradimento del nostro agente Luigi Magi il quale, mascheratosi per tanto tempo da uomo onesto, aveva qui montato tale macchina da porci nella condizione tristissima di convertire in perdite immense, il risultato delle mie tante fatiche. Fortunatamente la legge ed il paese intiero mi hanno assistita ed è ridotto all’impotenza e al disprezzo generale»18. Se per noi è difficile, forse impossibile e forse anche poco rilevante, stabilire come andò effettivamente la cosa, quel «verbalmente» che campeggia nella lettera di Troise ci ricorda quanto instabile, incerto e rischioso fosse l’operato di un agente teatrale, ogni volta che, per inesperienza o superficialità o anche solo immaturità del mercato, omettesse di tutelarsi con un contratto. 12 Il che richiedeva un impegno supplementare: «Il teatro è grandissimo, per cui prevedo faticherò molto», scrive Adelaide alla madre, il 27 giugno 1869, il giorno prima del debutto. 13 I proventi non sarebbero perciò scesi rispetto a quelli della tournée nordamericana del 1866-67, in cui «ogni spettacolo frutta in media 2.000 dollari ed in alcuni casi l’incasso della serata arriva a sfiorare i 5.000 dollari». A. Valoroso, in A. Ristori, Ricordi e Studi artistici, a cura di Ead., cit., p. 20. 14 Ma, per aumentare il guadagno, «si potrebbe abbassare la divisione in modo da aumentare i posti di prima classe», consiglia Magi (Lettera 24 agosto 1868). 15 Capranica aveva assai temuto che potesse andare in porto l’appalto di Angelo Ferrari, poi sfumato: «Mi mette molto in pensiero l’idea che dovremo quasi certamente dipendere da uno speculatore che tenterà succhiare il sangue e forse potrebbe rendere impossibile la nostra speculazione». Lettera 19 ottobre 1868. 16 Vedi nota 12. 17 Lettera 6 ottobre 1869 da Troise a Capranica (si vedano anche le lettere di Troise 22 ottobre 1869 a Capranica e 2 novembre 1869 a Luigi Trojani). I coniugi Capranica erano già stati accusati qualche tempo prima di non aver pagato la mediazione dall’agente Luigi Enrico Tettoni (mi permetto di rimandare al mio Tra arte e mercato. Agenti e agenzie teatrali nel XIX secolo, Roma, Bulzoni, 2006, pp. 197-201). 18 Lettera 17 ottobre 1869, in Una amizade revelada: correspondencia entre o Imperador dom Pedro II e Adelaidi Ristori, a maior atriz de seu tempo, a cura di A. Vannucci, Rio de Janeiro, Edicoes Biblioteca nacional, 2004, p. 223. 8 Giacinta Pezzana, Ritratto, 1908 “La Escuela experimental de Arte dramático” Lettere inedite di Giacinta Pezzana da Montevideo (1911-1914) Laura Mariani Università di Bologna L e lettere inedite qui proposte sono state ritrovate da un importante cultore di manoscritti e collezionista, Renzo Rizzi, già proprietario di una libreria antiquaria a Milano; le ha affidate a una storica milanese, Emma Scaramazza1, che le ha messe a mia disposizione. Non potendo pubblicare per intero le venticinque delle cento che parlano della Escuela experimental de Arte dramático dirigida por Giacinta Pezzana a Montevideo, ho pensato di selezionare dei brani in modo da costruire una cronaca, sia pure incompleta, di quell’esperienza decisiva per la nascita del teatro rioplatense; facendo un’eccezione per la prima, presentata integralmente, a titolo di esempio. E’ infatti operazione discutibile tagliare i documenti epistolari nelle parti personali, che tanto contribuiscono a far conoscere scrivente e destinataria, le loro vicende familiari e la qualità della loro relazione, ma ho voluto privilegiare i contenuti teatrali. Un’operazione facilitata dal fatto che i diversi temi si stagliano nettamente nelle singole lettere; non perché Giacinta Pezzana non sia consapevole di quanto sfera pubblica e sfera privata si intreccino fra loro nella vita di un’attrice, ma per l’attenzione speciale riservata al proprio lavoro e all’ambiente in cui si realizza. Un primato che si mantiene anche se destinataria è un’amica del cuore, con la quale da almeno trent’anni si parla di tutto: Alessandrina Ravizza, pro- 1 Ha scritto, fra l’altro, La santa e la spudorata. Alessandrina Ravizza e Sibilla Aleramo. Amicizia, politica e scrittura, Napoli, Liguori, 2004; e ha curato Politica e amicizia. Relazioni, conflitti e differenze di genere (1860-1915), Milano, Franco Angeli, 2010. 9 tagonista del femminismo pratico milanese e filantropa laica, chiamata confidenzialmente Sacha. Giacinta Pezzana è un’artista di forte personalità2: legata alla dimensione della grandezza che è stata di Adelaide Ristori ma attraversata dalle inquietudini oltre che dalle istanze politiche femministe e da vive preoccupazioni per come la nazione italiana si va costruendo; e dunque consapevole di dover fare i conti con un mondo che cambia e che impone al teatro di cambiare. Così, da un lato, accoglie l’eredità del romanticismo negativo ricevuta dal mazziniano Gustavo Modena, il precursore del Grande attore, volgendola al femminile e, dall’altro, fa sue le istanze del naturalismo, mentre si prepara il nuovo della Duse (e, fuori d’Italia, la rivoluzione registica). Ci occuperemo qui dell’ultimo periodo della sua attività artistica3. Dopo il fallimento della Compagnia romanesca, in cui ha perso tutti i suoi denari insieme al sogno di un teatro popolare rinnovato nel repertorio e fatto da giovani, l’attrice sessantottenne è costretta a puntare di nuovo sulle tournée in America latina. L’11 agosto 1909 si imbarca per il Brasile con la compagnia di Carlo Rosaspina e Nina Sanzi; ma in dicembre già se ne distacca, per non andare in zone infette da febbre gialla, dice. Nel 1910 è a Buenos Aires, dove dirige la compagnia di Guillermo Battaglia al Nacional Norte, con l’obiettivo di fondare un teatro nazionale americano. Fallito questo progetto, lascia Buenos Aires dopo una replica trionfale in spagnolo della sua Teresa Raquin, avendo al fianco Teresa Mariani nel ruolo che era stato di Eleonora Duse4. Si trasferisce a Montevideo dove vive la figlia Ada Gualtieri, già attrice in gioventù al suo fianco, ora sposa di un emigrante ligure, Pietro Garavagno, e madre di tre figli. L’Uruguay è un paese in movimento grazie al suo presidente José Battle y Ordóñez, “un vero democratico, laico per conseguenza, che stabilì il Divorzio e la separazione della Chiesa dallo Stato” insieme ad altre riforme per cui fu “odiato dal partito Bianco e adorato e sostenuto dal partito Colorado (o rosso)”5. Giacinta Pezzana, sempre molto critica coi potenti, ce ne dà un ritratto molto umano, mostrando il coraggio con Programma di una serata a Montevideo cui porta avanti le sue battaglie e la durezza degli attacchi che subisce. Leggeremo i successi e le traversie della sua Scuola da cui nascerà una Compagnia: un copione di sfide e di delusioni non nuovo per l’attrice. Certo vorremmo dicesse di più dei metodi di insegnamento ma, ciò nonostante, alcune frasi e notazioni insistite nelle lettere insieme a una sua dichiarazione d’intenti pubblicata su “La Razon” 6 mostrano che ci troviamo di fronte a qualcosa di nuovo. Innanzitutto il nome, consapevolmente scelto per differenziarsi da altre intitolazioni come la Regia Scuola di recitazione “Tommaso Salvini” di Firenze e il Regio Conservatorio musicale di S. Cecilia a Roma7. C’erano molte scuole di teatro alla fine dell’Ottocento in varie città italiane ma la più importante era quella nazionale sorta appunto a Firenze e diretta dal 1881 al 1910 da Luigi Rasi: un maestro stimato dalla Pezzana, “il cui metodo di recitazione è il semplice vero”8. Lei non vuole conservatori, non avendo nulla da conservare: la sua è una Scuola sperimentale e gli spettacoli che produce sono esperimenti. Non ci sono classi divise per anni né altre materie oltre recitazione: perché i tempi di apprendimento sono legati al talento e all’impegno personali e l’insegnamento è eminentemente pratico. “Me propongo darles desde el primer día un papel en cualquier obra, y que de inmediato lo interpreten”, e ancora: “Tengo la firme convicción que en arte dramático no se debe enseñar mas que de lo que se debe hacer. […] Que hagan el gesto como les indique su sentimento”. Vanno solo conosciuti i “movimentios antiestéticos” per evitarli. Dunque, allievi e allieve vengono messi in situazione prima di aver memorizzato il testo o ricevuto indicazioni su gesti e intonazioni, perché si orientino dal loro intimo nel processo creativo. 2 Rimando chi è interessato ai miei saggi precedenti su di lei, in particolare all’epistolario che pure contiene lettere significative sulla Escuela: L’attrice del cuore. Storia di Giacinta Pezzana attraverso le lettere, Firenze, Le Lettere, 2004, pp. 461-519 e 566. Vedi anche Dramaturgias del esilio. Las Veladas Dantescas de Giacinta Pezzana en Italia, Argentina e Uruguay, in Dante en America Latina, al cuidado de Nicola Bottiglieri, Teresa Colque, Università degli Studi di Cassino, 2007, vol. II, pp. 585-611. 3 Questa si concluderà nel 1914 con il film Teresa Raquin, tratto dal dramma di Zola, suo storico cavallo di battagli. Insieme a lei vi recitavano Maria Carmi, Giovanni Grasso e Dillo Lombardi. 4 Mi riferisco alle prime rappresentazioni dell’opera nel luglio 1979, al Teatro dei Fiorentini di Napoli. 5 Lettera inedita di G. Pezzana a A. Ravizza, Montevideo, 29 gennaio 1912. 6 Un rato de amable conversación con la Sra. Pezzana. La fundación de la “Escuela Experimental de Arte Dramático”. Fines que se poropone, “La Razon”, 11 ottobre 1011. 7 Dal Liceo musicale di Santa Cecilia, in cui agli insegnamenti specifici si affiancavano materie scolastiche tradizionali – dalle lingue alla storia all’aritmetica – e non, nel 1893 si era distaccata una scuola di “declamazione e gesto” diretta da Virginia Marini. Un’attrice amica della Pezzana ma non del tutto stimata da lei; mentre con Edoardo Boutet, che entrò a insegnarvi nel 1908, ella ebbe rapporti di autentica amicizia con alcuni conflitti. 8 Lettera di G. Pezzana a V. Bosio, Napoli, 2 febbraio 1999, in L. Mariani, L’attrice del cuore, cit., p. 305. Scrive anche di ritenere utili le scuole, a differenza di Ermete Novelli: prova ne sia quella torinese di Carolina Gabusi Malfatti che “diede all’arte la Tessero, la Campi, l’Emanuel, la Leigheb (per tacere di me)”. 10 Nel rivendicare l’antitradizionalismo del suo metodo l’attrice precisa ancora: “[non do] l’istruzione a spizzico, ad uno per uno degli allievi, no: io distribuisco una commedia a due o tre gruppi, poi li faccio provare saltuariamente il lavoro, e da queste prove mi rendo conto delle diverse attitudini degli allievi, quindi dai tre gruppi scelgo i meglio adatti per la recita di esperimento” (10 novembre 1912). Piuttosto stimola il potere di osservazione perché “el verdadero arte y en el que se puede hacer derroche de detalles” e pone l’attenzione sulle scene “tranquille”, più difficili di quelle in cui l’autore “ha puesto tuto so vigor”, e sulle battute banali che spesso vengono dette orribilmente. C’è anche un dato oggettivo che la porta a tentare vie nuove: la sua stranierità. Insiste con soddisfazione sul fatto che recita in castilliano, che legge centinaia di testi in una lingua non sua. La stessa fatica di copiare le parti per gli allievi sembra funzionale al suo bisogno di acquisire la lingua e le sue sonorità: per impratichirsi non solo dei suoi “segreti” ma anche “dei modismi del paese” (16 gennaio 1912). Le risulta così incomprensibile la critica fatta dalla stampa ostile alla cattiva dizione dei suoi allievi: “come se io dirigendo per esempio una compagnia milanese dovessi insegnare il dialetto milanese!”, scrive il 10 novembre 1912. Dunque, l’aggettivo experimental, all’epoca usato raramente e per indicare singoli tentativi di andare oltre il tradizionale, viene dalla Pezzana inteso come una sostanza che deve caratterizzare durevolmente l’esperienza, legata a un progetto generale di riforma non solo della recitazione ma dell’arte drammatica in tutti i suoi aspetti. Sicché le stesse insistite lamentele nei confronti di allievi e allieve, precocemente corrotti da assurde pretese di protagonismo e di successo facile, e dunque ribelli alla maestra, rivelano la loro natura: non si tratta delle lamentele di una vecchia attrice ma della sua richiesta imprescindibile di legare il mestiere da un lato alla fatica e, dall’altro, all’etica. Non c’è nostalgia del tea- tro del passato ma ansia di andare oltre l’esistente, seguendo bisogni che avrebbero portato alle sperimentazioni teatrali novecentesche. Anche con un divertito richiamo al futurista Marinetti. Montevideo, 4 agosto 19119 Sacha cara tu, apprendendo la morte di Giorgina Saffi avrai pensato a me?!10 E, dal tuo forte dispiacere, avrai misurato il mio dolore… dolore muto, senza lagrime, ma profondo come un gran senso di isolamento. Quell’amica di tanti anni, non la vedrò più!... non oso sperare come Lei nell’al di là… sarebbe troppo bella la morte. Oh la vecchiaia che fa strage intorno a noi!... che tristezza amara! L’anima s’infiacchisce ad ogni partenza di persona amata. Tu, la Giorgina, la Gualberta e la Candida11, foste il nucleo a cui ho sempre consacrato un vero profondo affetto: la vera amicizia! quel sentimento che non soffre tormenti di gelosia come l’amore, ma che è più duraturo, più forte nella sua purezza d’essenza. Due sono già partite!... Spero di essere ora io ad essere rimpianta da te e dalla Candida. Ti scrivo ciò che mi sgorgò dal cuore nel ricevere il tragico annunzio. Volli dalla riva opposta dell’Oceano, mandare il mio eterno saluto all’adorata amica. Ti arrecherà sorpresa il ricevere questa mia da Montevideo, ma credo averti già scritto che avrei lasciato Buenosaires, appena terminato il mio contratto con il “Teatro Nacional”. Qui siamo in istrette trattative col Ministro della P[pubblica] I[struzione] e con il Presidente della Repubblica Oriental dell’Uruguay per aprire una Scuola di Arte Drammatica con un emolumento di 30 e forse 35 mila franchi all’anno! In vecchiaia ed in terra straniera dovevo trovare un benessere decoroso! Per ora non metter fuori questa voce perché la cosa non è ancora sanzionata dal Parlamento… ed io non credo che ai fatti compiuti. Ti mando una prova delle mie ultime fotografie la quale ti porterà un grosso bacio dalla tua Giacinta. Montevideo, 10 novembre de 1912 […] Giungo qui chiamata dal Presidente della Repubblica, ad educare la gioventù, che ne sente l’inclinazione, all’Arte rappresentativa. Sul principio la Stampa tutta approva e canta inni alla iniziativa e si presentano nel concorso 340 alunni!... Si fa una selezione da una commissione composta di due critici teatrali, d’una distintissima letterata, ed altre due o tre persone intelligentissime, amatori d’arte drammatica, e di me, naturalmente. Su 340 = 80 soli risultano accettabili, nella prima selezione. Nella seconda una sessantina, ma 60 primi attori!! poiché nessuno ammetteva di sostenere parti secondarie. Bisogna che ti spieghi che il mio metodo è non il solito delle scuole in generale, in cui si da l’istruzione a spizzico, ad uno per uno degli allievi, no: io distribuisco una commedia a due o tre gruppi, poi li faccio provare saltuariamente il lavoro, e da queste prove mi rendo conto delle diverse attitudini degli allievi, quindi dai tre gruppi scelgo i meglio adatti per la recita di esperimento. Ne avviene da ciò che gli scartati per insufficienza si adontano e se ne vanno, perché la vanità è la più stupida intransigenza dello spirito umano. Tutti, ripeto, pretendono la parte di 1° attore o di prima attrice, per cui invidie, gelosie, calunnie dell’uno per demolire l’altro, e furore contro di me. Come era da prevedere tutti i rifiutati si voltarono In vecchiaia ed in terra straniera dovevo trovare un benessere decoroso! Le lettere sono state trascritte con rigorosa fedeltà, mantenendo la grafia dell’originale, anche se scorretta o non più rispondente all’uso o influenzata dallo spagnolo parlato a Montevideo. 10 Questo richiamo d’apertura a Giorgina Craufurd, vedova di Aurelio Saffi (1827-1911), rimanda alla forza delle amicizie femminili e all’ambiente risorgimentale e mazziniano in cui entrambe si sono riconosciute. 11 Gualberta Beccari (1842-1906), scrittrice e appassionata di teatro, fondò e diresse il più importante periodico dell’emancipazionismo, “La donna”. Di Candida conosco solo il cognome, Pergami. 9 11 in tanti nemici accaniti… e siccome fra essi ve n’erano che hanno rapporti amichevoli con critici teatrali, cominciarono contro di me una crociata d’insolenza da disonorare facchini e meretrici, in due o tre giornali. Gli altri più serii, ma per ragioni politiche e partitarie, nemici dell’attuale Presidente della Repubblica, tanto per disapprovare tutto ciò che viene creato da lui, tacquero! Non uno prese a difendermi. Gli allievi sgomentati mi dicevano “e Lei non risponde a tanti insulti?” No figlioli – dicevo loro – io sono piemontese: rispondo a fatti non a parole. Studiate con amore, e voi altri risponderete per me con un primo esperimento in pubblico! E l’esperimento si fece nel maggior teatro della città, ed il pubblico accolse quel primo esperimento con entusiasmo meravigliato che in sei mesi di scuola io avessi potuto operare quel vero miracolo. Gli esperimenti si succedettero sempre, l’interesse del pubblico crebbe con intensità. Quei nemici cretini si rodevano il fegato a cercare nuove armi contro di me… e trovarono! Aprire una nuova Scuola! con la certezza di gettare a terra la mia. E chi istruiva gli alunni? (che erano tutti i rifiutati da me) due cronisti, più che critici teatrali! ma … o sventura! dopo tre mesi, la Scuola di quei talentoni andò a gambe all’aria senza aver dato un solo esperimento. Allora tacquero su me ed io continuai a dare esperimenti che sempre più acrebbero le simpatie del pubblico. Ma i nemici tacevano aspettando un’occasione propizia per sfogare il loro fiele, e questo si presentò. Il 9 di 9.bre [novembre] essendo il secondo anniversario della morte del più grande autore drammatico dell’America Latina (che venne a morire costì ed è sepolto al Musocco)12 io trovai essere mio dovere il commemorare quel grande che l’America lasciò morire quasi, di fame! o almeno patirla spesso. L’idea mi parve anche gentile verso la città che diede i natali a Florencio Sanchez. Speravo che le vipere… cioè i critici teatrali (che sarebbero più adatti a fare i muratori) avrebbero rispettato ed anche gradito quel dovuto omaggio… invece… “Los derechos de la salud” (I 12 12 diritti della salute) forse il più bel lavoro del Sanchez, fu eseguito dai miei alunni meglio, molto meglio di Compagnie spagnuole costituite di artisti… e ciò fu detto da persone intelligenti e spassionate; il pubblico ne fu entusiasmato… chiamò fuori sei volte nel famoso finale del 2° atto… dovetti uscire anch’io… ero sicura di avere l’elogio sincero della Stampa… che cantonata! e che sorpresa fu la mia! Il giornale più cortese disse che io guasto gli alunni col mio insegnamento… che essi trionfarono per talento proprio, che la mia Scuola, è perniciosa… che pronunciano male la lingua spagnuola, come se io dirigendo per esempio una compagnia milanese dovessi insegnare il dialetto milanese! Tu mi chiederai il perché di questa guerra?... Ah! I perché sono molti… e tutti fondati sull’interesse individuale d’ogni cronista. Uno di questi è fratello di un alunno cane che vorrebbe fare il primo attore e non serve a fare i servitori… L’altro è del partito opposto a quello del Presidente attuale della Repubblica che si vuole buttar giù dai Bianchi cattolici. Un altro voleva insegnare la Storia dell’Arte nella mia Scuola e… dividere la mia mesata… un altro è nemico di mio genero e… se la piglia con me… e per ultimo io ho il torto di essere italiana! Una straniera che si piglia 650 scudi al mese!... […] Montevideo, 6 aprile de 1913 […] Per ora continuo a leggere commedie e drammi Spagnuoli e copio… copio centinaia di parti per i miei allievi che mi fanno disperare per la loro poca voglia di studiare e la molta di amoreggiare fra di loro!... […] Non puoi figurarti come le ragazze di qui siano calde nella pubertà… ricordano molto le gatte nei loro sinceri desideri in Febbraio. Non vi è che una differenza…. che qui il desiderio innocente è… in tutti i mesi dell’anno! […] Montevideo, 11 luglio 1913 […] Malgrado una guerra feroce della camorra giornalistica che non si arresta davanti a nessuna considerazione di dignità… per quanto Florencio Sánchez (1875-1910), autore di drammi realisti d’impegno sociale, morì a Milano. si siano messi d’accordo giornalisti e autori… (più o meno autori di miserie intellettuali, che essi credono poter chiamare drammi o commedie) per quanto abbiano scritto contro me e la mia Scuola, il Presidente della Repubblica ha preso in affitto un teatro della città grazioso, elegante, allegro ed ecco che La Scuola è diventata Compagnia e dai primi di Luglio si danno recite, e gli alunni destano entusiasmo. Figurati che quasi tutt i giornali si son dati la voce, e nessuno parla di questa simpatica Compagnia, che, senza, réclàme, con pochi manifesti, che vengono rotti appena messi, o coperti con altri manifesti più grandi, il mio Teatro è sempre molto frequentato, e gli applausi sono costanti e rumorosi. Concludo col dirti che ho vinto! Ora però mi trovo oppressa da un lavoro opprimente! Nove ore di prove al giorno… pensare ai vestiti di tutti… leggere lavori di giorno e di notte… ma ho vinto! […] Montevideo, 2 gennaio 1914 […]Io credo di essere d’un metallo più duro del ferro! Ciò che mi fanno passare gli alunni è incredibile! Ora che sono artisti pagati, sono diventati prepotenti, indisciplinati, più ribaldi dei Comici romani! Non posso dire di più. La Stampa continua ad essermi nemica colla congiura del Silenzio… e lo stesso giornale del governo, è solidale con tutti gli altri! Marinetti includa nel suo programma futurista la abolizione della Stampa! la soppressione dei critici criticanti: vera canaglia! con poche eccezioni. […] Montevideo, 21 febbraio de 1914 Cara incredula, non volevo scriverti che ebbi già il decreto del governo che mi concede tre mesi di vacanze per motivo di salute… (buona!) e nomina altro direttore per i tre mesi della mia assenza. […] Comprendo che l’amore al proprio paese è grande, potente, invincibile! Dacché ho il mio biglietto provo una specie di fremito così intenso che assomiglia ad una sofferenza. […] Ettore Petrolini e le sue prime tournées in America Latina Donatella Orecchia dell’Università di Roma “Tor Vergata” P rima tappa. Il re della risata. Quando Ettore Petrolini, nel 1907, affronta la sua prima tournée in Sudamerica ha solo ventitré anni: ancora poco conosciuto, recita in duetto con Ines Colapietro, allora compagna d’arte e moglie, in spazi teatrali e caffè concerto rinomati, come il Morisetti di Milano o l’Eden di Napoli, ma più spesso in sale di secondo o terz’ordine. Apprezzato per lo straordinario talento comico, i suoi successi, di pubblico più che di critica, sono per il momento soprattutto il segnale di una fase felice del teatro romano di tradizione popolare nel suo incontro con quello napoletano e con il cafè chantant francese. Nonostante il fatto che Petrolini abbia già iniziato a impostare la propria ricerca stilistica su un comico che presto verrà definito grottesco e parodico e che, pur inserendosi nel solco della tradizione, in realtà lavora per la sua deformazione e il suo capovolgimento1, in questi primi anni di attività poco di tutto ciò compare nelle testimonianze della critica del tempo. La tournée in Sudamerica rappresenta in questo percorso un spartiacque importante: e non solo per lo straordinario trionfo del comico presso il pubblico sudamericano, ma ancor più per l’eco che ne giunge in Italia. Ritornato in patria, infatti, l’attore potrà portare in dote un successo su piazza internazionale che gli permetterà una rapida affermazione sui palcoscenici nostrani e, presto, anche i primi veri segnali di attenzione da parte della critica. Inseritosi così all’interno di una tradizione teatrale migrante, che aveva caratterizzato fra l’altro l’affermazione di buona parte degli attori di prosa dell’Ottocento, Petrolini conquista al Varietà italiano il nuovo mercato estero non europeo. E con ciò, da un lato, si inserisce con forza nel solco di una tradizione ben conosciuta e, dall’altro, entra all’interno di un sistema organizzativo più esplicitamente industriale, quello Petrolini in camerino a Montevideo, 1921 (Biblioteca del Burcardo di Roma) 1 «Scolaro dei Napoletani – scrive Anton Giulio Bragaglia – egli trasformò la loro materia ottocentesca, dandole un aspetto sintetico e, dalle dorature con frange e svolazzi, la portò alle forme dell’alluminio, la spogliò dai ghirigori, dai fronzoli, dai ricci, dai fiocchi, dalle penne, denudandola e facendola luccicare ai riverberi della sua diabolica spietatezza»: A.G. Bragaglia, Petrolini, in E. Petrolini, Nerone. Romani de Roma, Roma, Colombo ed., 1945, p. 10. 13 delle grandi organizzazioni internazionali degli spettacoli del Varietà, che si stanno affermando nella Parigi di quegli anni. Non a caso le prime tournées di Petrolini in Sud America saranno tutte organizzate da impresari francesi. E così accade che, l’8 aprile del 1906, compaia sul «Cafè Chantant» questa curiosa pubblicità: «TOURNÉE DEI CASINOS SEGUIN / Il più lungo giro artistico dell’America del Sud / 7 Stabilimenti di prim’ordine / 4000 artisti scritturati finora! / Viaggio rapidissimo / Partenze da Genova 2 volte al mese / Viaggio in 2° classe andata e ritorno / Paga in oro / Anticipo quindici giorni / Per ogni comunicazione e schiarimento [sic] scrivere: / Agenzia speciale della TOURNÉE SEGUIN / Parigi- 5 Rue Laffitte – PARIGI / Indirizzo telegrafico SEGUIN TOUR PARIS»2. E, nel febbraio dell’anno successivo, dopo aver visto Petrolini recitare al Teatro Alcazar di Genova, Seguin propone alla coppia Petrolini - Ines un contratto per una tournée in America del Sud. Firmato il 18 febbraio 1907, l’accordo prevede «deux numero par représentation: 1° Duo Italien, 2° Macchiete par Petrolini»3; la partenza è per il 19 maggio e la tournèe comprende Argentina, Uruguay, Brasile per una durata di almeno quattro mesi; 1150 franchi di anticipo e, per un mese di recite, 2300 franchi complessivi. Ai primi di giugno Ettore e Ines sono al Casino di Buenos Aires, poi in Uruguay al Casino di Montevideo in agosto, a Cuba in ottobre e infine a dicembre in Brasile, al Moulin Rouge di Rio de Janeiro. Si narra che sia stato proprio in seguito a un clamoroso fiasco a Buenos Aires che Petrolini abbia dato il via a una delle sue macchiette più geniali Margherita non sei più tu, parodia del Faust di Gounod, sulla musica di C’era una volta un piccolo naviglio (Habia una vez un barco muy chiquito)4: ne deriverà un successo straordinario che fra l’altro accelererà il percorso di Petrolini verso l’estremizzazione del suo lavoro di deformazione paro- dica della tradizione. Alla fine del 1908, il direttore della «Société Génerale des engagements artistiques»5, Raoul Pitau, propone alla coppia dieci rappresentazioni all’Étoile di Parigi, «con la promessa in caso di successo di un altro e maggiore contratto per l’Avana e il Messico»6; contratto che arriva a Petrolini in data 16 ottobre 19087. Questa seconda tournée in America Latina decreta il definitivo successo della coppia, tanto che un quotidiano dell’Avana proclama Petrolini El Rey de la risa!8. «[…] Quando prende l’aria del falso sapiente ci fa ridere; nell’avaro che passa per filantropo ci fa ridere; nel benefattore, nel presuntuoso ecc in tutti quei tipi che presenta tutte le sere, ci fa ridere, però non di quel riso che viene dall’animo deluso, non di quel riso sordo del disprezzo… Ci fa ridere di un riso franco, sonoro e spontaneo, che è il leale significato dell’intimo contenuto; quel riso che ci predispone ad amare la vita; è questo quello che ci fa godere, Petrolini con la sua inimitabile grazia»9. E qui si potrebbe persino cadere nell’errore di leggere fra le righe un riferimento a una comicità bonaria: ma il critico è attento, e scrive di assenza di disprezzo, di amore per la vita e di grazia, tutti tratti che resteranno quale cifra dello stile dell’attore, impastati con altri, più graffianti e crudi certamente, ma che non contraddiranno mai il rifiuto del disprezzo che, con parole del Gastone petroliniano, richiama l’«orrore di se stessi» di cui è privo il bell’attore fotogenico, il divo del varietà, ma non certo l’attore parodico qual è Petrolini. Certo qui, come in altre cronache a queste serate, non ci sono riferimenti espliciti all’aspetto grottesco e «anarchico» della recitazione di Petrolini il quale, qualche anno dopo, ricorderà in una lettera a Francesco Razzi, pubblicata sul «Cafè Chantant» il 20 luglio 1914: «Da me incominciò In «Café Chantan», 8 aprile 1906, anno X, n. 7, p. 1. Biblioteca del Burcardo di Roma, «Fondo Petrolini», Contratti, Cart. 30, n. 11. D’ora in poi solo «Fondo Petrolini». 4 È Petrolini stesso a confermare la notizia nel suo libro di memorie. 5 «Fondo Petrolini», Doc. d’archivio, Cart. 31, n. 8 6 Mario Corsi, Vita di Petrolini,, Milano, Mondadori, 1944, p. 89 7 Lettera del 16 ottobre 1908, «Fondo Petrolini», Contratti, Cart. 31, n. 8 8 M. Corsi, Vita di Petrolini, cit, p. 91 9 Francisco Hermida, in «Diario Espanol», 18 settembre 1909. 10 E. Petrolini, Lettera a Francesco Razzi, pubblicata sul «Cafè Chantant» il 20 luglio 1914 (p. 1); nell’archivio Petrolini esiste una copia dattiloscritta dell’articolo, Autografi, AUT – PETR- 04 - B01.02. 2 3 14 tutta una dinastia di re e d’imperatori della risa, Zar dell’allegria e maghi del buon umore. La dinastia cominciò in America, dove per ben due anni non mi chiamarono che Sua Maestà Petrolini I» e conclude «E non si accorgevano che mentre mi elevavano a monarca, io rappresentavo invece l’anarchia nel Varietà»10. Quattordici anni dopo l’attore sarà nuovamente in Centro e Sud America a raccogliere un altro grande successo, questa volta accompagnato, a tratti, da una riflessione sul senso della sua particolare comicità: comicità di un attore dal temperamento tragico, scriverà qualcuno. Un’arte che è deformazione. Nel 1921, al tempo della sua terza lunga tournée in America Latina, Petrolini ha iniziato già da alcuni anni a portare in scena, accanto alle sue macchiette-caricature più famose, anche alcune opere di prosa. Dal cafè chantant al teatro di varietà a quello di prosa ecco che la parabola dell’attore viene ricordata anche dalle cronache sudamericane11, dove spesso il riferimento al giovane artista del 1907 fa capolino a indicare continuità e discontinuità rispetto all’attore più maturo e artisticamente stratificato del 1921. Ma ciò che resta ancor oggi come interessante documento dell’incontro di due culture è la sensibilità estetica e l’acutezza di alcuni critici del tempo che riuscirono ad andare al di là del fascino attorale, dell’entusiasmo esterofilo o dell’adesione dettata da facili esotismi, per cogliere invece uno dei nodi più profondi della recitazione di Petrolini: il suo furor grottesco deformatore, la sua potenza parodica che investe la tradizione riscrivendola e facendo esplodere dall’interno la vuotezza dei valori di cui il teatro borghese europeo è allora espressione. Insomma, la sua forza d’umorismo che potremmo dire “crudele”. Ed è tanto più interessante che la cronaca sappia cogliere tutto questo nel 1921 nonostante la distanza: perché certo Petrolini, più che molti altri attori italiani di passaggio dall’America del Centro Sud, ha una poetica che è in perenne e critico rapporto con la cultura europea otto novecentesca e in particolare con quella italiana, un linguaggio che è riscrittura di linguaggi e instancabile operazione metalinguistica12. Segno questo che nel 1921 la cultura europea era ormai piuttosto diffusa in America latina tanto da permettere, almeno a parte della critica, di cogliere le riscritture capovolte di Petrolini. Riportiamo di seguito due frammenti di recensioni del tempo che mettono in particolare evidenza questo dato. «Petrolini è un genio inquantoché è un creatore, un caposcuola, un precursore, un deformatore - sopra tutto. Badate che non può esistere arte senza deformazione - in tutti i campi - qualunque sia la forma ch’essa prenda: qualunque il modo con cui si manifesti. Non bisogna confondere Petrolini con i diversi ‘macchiettisti’, imitatori fotografici - anche bravi - riproduttori di curiosi, di caratteristici, interessanti tipi etnografici. Chi imita fotograficamente non ha personalità, e, senza dubbio: non crea niente. Per ciò non è mica vero che tale macchiettista producendosi nella macchietta, supponiamo: ‘O cucchiere, crea il tipo del vetturino napoletano; affatto; l’originale esisteva. E’ bastato studiarlo - con osservazione, Petrolini in Fortunello amore, ecc. - questo sì - e avere anche il dono dell’imitazione, che è un dono simile al suonare ad orecchio... Ma dov’è la creazione? Mentre vere e proprie creazioni - di Petrolini - sono il Toreador, la Sonnambula, Amleto, Ma l’amor mio non muore, Fortunello e tante altre... È vero che del Toreador, della Sonnambula, e dell’Amleto esistevano gli originali - ma per Petrolini non sono stati che semplici spunti, semplici punti di partenza, pretesti per monumentali, colossali deformazioni creatrici. Paragonato, infatti, il toreador sivigliano a quello Zero meno zero, diventa ridicolo, meschino e rimane eclissato dal raggiante, sfarzoso umorismo di quello, in cui c’è dentro tutta la personalità - sempre esplodente - del nostro grande originalissimo Petrolini. E così per la Sonnambula. Nel suo Amleto e nel suo Ma l’amor mio non muore, per me, e per chi non è uno scocciatore, Petrolini è molto più interessante di Shakespeare. Fortunello poi non avendo precedenti, è assolutamente una creazione del genio»13. «Còmico de gran eficacia, sôlo confìa en su espontaneidad y a sus recurssos personales el éxido de su labor. Màs que lo que dice, que el contenido de sus frases, provoca las más de las vecezs a risa, a hilaridad, el modo cómo dice, la forma exterior compuosto de mímica y de gestos, con que decora y da realce a sus palabras. De ahí que la parodia, género en que cultiva preferentemente los más salientes elementos de su arter, adquiera en este actor una fuerza y una expresión de comicidad poco comunes. Tiene Petrolini el sentido de la caricatura, de la faz grotesca da las cosas y los sucesos. Sabe desentrafiar ese aspecto, vestirlo con les recursos de su arte y ofrecerlo lieno de vivacidad, de colorido y de originalidad. Indudablemente, entre los cómicos de su género, pocos habrá que lo superen en cuanto a realizar con más eficacia y con mayor originalidad una labor como la suya»14. Varietà e variazioni di repertorio. Radioscopia15: ecco un interessante esempio dell’incontro di Petrolini con il futurismo italiano, incontro che, attraversato l’oceano, trova anche in Brasile, in Messico e all’Avana un riscontro decisamente positivo. Una buona parte delle cronache su questa tournée si sofferma infatti su Radioscopia 11 Il repertorio comprendeva fra gli altri: Pipino re, Acqua salata, Romani de Roma, Nerone, Cento di sti giorni, Amori de notte, di Petrolini; Il cortile di F. M. Martini; Ottobrata di Petrolini e Pascucci; 47 morto che parla di Granozio, D’Arborio e Petrolini; Radioscopia di Cangiullo e Petrolini e Un garofano di Ugo Ojetti. Cfr. «Fondo Petrolini», Locandine, 29-072. 12 «Frasi fatte frasi sfatte», così come aveva scritto nei versi che aprono il suo primo libro Ti ha piaciato? del 1915: E. Petrolini, Ti ha piaciato?, Sesto San Giovanni, Madella, 1915. Cfr. G. Livio La scena italiana. Materiali per una storia dello spettacolo dell’Otto e Novecento (Milano, Mursia, 1989) e AA.VV., Petrolini. La maschera e la storia, Roma-Bari, 1984. 13 F. C., A Rassegna Teatral, São Paulo, 10 ottobre 1921, riportato tradotto in E. Petrolini, Abbasso Petrolini, Siena, Tip. Cooperativa, 1922 14 s.i.a., Urqiza. El debut de Petrolini, in «El Bien Publico», Montevideo, 2 giugno 1921. 15 Di Cangiullo e Petrolini, Radioscopia di un “duetto”, simultaneità drammatica del varietà, copione conservato presso il «Fondo Petrolini», Copioni, C 260:09. 15 fra l’uomo e la marionetta, che alla ribalta son due forze uguali e contrarie, ma che non distruggono il dramma - il burattino innanzi al pubblico dovrebbe aver ragione lui ed annullare l’uomo subentrato di un colpo nel burattino dovrebbe scoppiarlo in corpo e mandarlo in cocci - ebbene di questo conflitto alla ribalta d’un teatro di varietà, con la simultaneità di una risata esteriore del fantoccio e di un ghigno interiore dell’uomo di questo dramma che stilla a fatica attraverso i pori di un trucco, secondo me, non è capace nessun grande attore d’Italia»17. I Salamini, Manifesto Pozzati, 1914 e, in particolare, sul suo particolare allestimento che già nel testo richiede quella divisione dello spazio in due zone separate da un velario dove due scene si svolgono simultaneamente: la finzione del teatro (in proscenio) e, dietro il velario, la realtà della miseria degli attori. Il dramma è tutto qui: nel contrasto tra queste due dimensioni. Tema non originalissimo, afferma qualcuno dei critici16, eppure reso con così raffinata abilità e rapidità da diventare agli occhi del pubblico nuovo e sorprendente. Ma ancor più sorprendente sembra poi essere Petrolini, che recita il doppio e che si scompone in scena in uomo e burattino, rendendo evidente quanto la simultaneità visiva delle scene si incarni nel suo corpo d’attore in una compresenza di comico e tragico, fra la risata del fantoccio e il ghigno straziato dell’uomo. «Coloro che non sono della mia opinione - pur serbando il loro parere, i loro pregiudizi - che volessero vedersi costretti ad applaudire proprio senza restrizioni Ettore Petrolini, lo sentano nell’atto di Petrolini e Cangiullo Radioscopia, ove vedranno con quale sfumatura di elegante drammaticità, questo grande comico esegue, a solo, una macchietta, e un duetto con la sua duettista - di cui è innamorato - mentre muore di gelosia perché Lei si divora con gli occhi un habitué che è là, ogni sera, in prima fila di poltrone. Di questo sdoppiamento, di questa lotta innanzi al pubblico, che ha il diritto di non vederla, In verità la maggior parte dei critici afferma di prediligere il Petrolini comico, delle parodie idiote o delle commedie (fra le altre viene citata Acqua salata con un Don Teobómba Cabrón, forse una variazione del Teopompo Becchi originario)18 o della rivista di Acqua salata, piuttosto che quello protagonista di una vicenda definita, forse un poco semplicisticamente, «grandguignolesca» o, al converso, interessante «estudio psychologico»19, di Radioscopia. Eppure, proprio la varietà del repertorio dell’attore, che include e sempre includerà pezzi anche molto diversi l’uno dall’altro e concepiti originariamente in periodi differenti, testimonia da un lato della sua scelta, qui come altrove, di mantenere contemporaneamente in scena momenti diversi del proprio percorso artistico e di saper continuare a frequentarli appunto simultaneamente; ma testimonia, dall’altro, anche della sfida che Petrolini sempre continuerà a lanciare al suo pubblico: costruire per poi ricostruire e riscrivere il già scritto e costringere così chi guarda a riscrivere anch’egli e sempre se stesso e le proprie aspettative. In Italia così come in Brasile. Per esempio il critico de «La critica» di Buenos Ayres del 16 giugno 1921 (Petrolini en el Coliseo). F. C., A Rassegna Teatral, São Paulo, 10 ottobre 1921, cit. 18 Petrolini en el Coliseo, cit.; s.i.,a, Theatros e musica, «Jornal do Commercio», Rio de Janeiro, 7 settembre 1921. 19 G.de C., Arte e Artistas, in «O Pais», Rio de Janeiro, 7 settembre 1921. 16 17 16 Un bastimento carico di… opere liriche e scenografie Augusto ed Emma Carelli, Walter Mocchi e le tournées in Brasile Donatella Gavrilovich dell’Università di Roma “Tor Vergata” L e compagnie di prosa, di rivista e d’opera italiane, che da sempre erano state caratterizzate da una certa propensione al nomadismo, accentuarono questa loro peculiarità subito dopo l’unità d’Italia. Il loro passaggio fu segnalato sui palcoscenici europei e americani dove gli artisti, il più delle volte, furono accolti in modo trionfale. L’organizzazione di queste trasferte in modo particolare per quanto riguarda l’opera lirica era estremamente complessa, soprattutto se si trattava di recarsi oltreoceano. Nell’America Meridionale operavano impresari italiani o d’origine italiana che cercavano di attirare nei teatri argentini, brasiliani e cileni i più famosi cantanti lirici. I contratti stipulati potevano impegnare un artista da pochi mesi ad un anno, portandolo ad esibirsi in tutti i maggiori teatri sudamericani. La «trasferta estiva in America Latina – nel suo itinerario classico: Buenos Aires (e gli altri capoluoghi argentini come Rosario, Bahia Blanca, La Plata, Cordoba), Montevideo, San Paolo, Rio de Janeiro, e più raramente Manhaus e Santiago – fin dall’Ottocento era diventata una consuetudine del teatro italiano di prosa, dialettale e lirico»1. L’opera lirica in particolare era un genere molto apprezzato in Brasile; già nel Settecento si erano costituite le prime compagnie operistiche autoctone. «Precursore dell’opera brasiliana può essere considerato il gruppo di attoricantanti mulatti messo su dal volenteroso P. Ventura nel XVIII ed una analoga compagnia funzionante a Cuiabá (Mato Grosso). Tuttavia, il primo passo verso un teatro dell’opera fu l’inaugurazione del «Teatro Lirico Fluminense» di Rio de Janeiro, avvenuta il 25 marzo 1852»2. Fu in questo stabile che debuttò nel 1900 Emma Carelli3, soprano italiano. Il successo riportato dalla sua tournée in Argentina, Brasile e Cile fu foriero di grandi cambiamenti per la sua carriera artistica, per suo fratello Augusto e suo marito Walter Mocchi, per le sorti del teatro lirico romano e per i teatri dell’America Latina. Walter Mocchi4 era un socialista che, dopo i moti del 1898 e lo stato d’assedio a Napoli, fu messo a domicilio coatto a Procida. Augusto Carelli, bozzetto di scena per Kovancina di Musorgskij, 1926 G. Pedullà, Il teatro italiano nel tempo del fascismo, Il Mulino, Bologna, 1994, p.289 M. Cacciaglia, Quattro secoli di teatro in Brasile, Bulzoni, Roma, 1980, p.95 Emma Carelli (Napoli 1887-Montefiascone 1928) allieva del padre, esordì nel 1895 ad Altamura in La Vestale di Mercadante. Nello stesso anno fu acclamata a Chieti e a Napoli. Nel 1900 e nel 1901 ebbe un grande successo alla Scala in Otello, Bohéme, Mefistofele, Le Maschere. La sua attività si svolse prevalentemente in Sud America. Dal 1913 gestì il Teatro Costanzi di Roma. 4 Walter Mocchi (Torino 1870 – Rio de Janeiro 1955) impresario teatraledl 1906. Con Carlo Séguin fondò nel 1907 la Stia (Società Teatrale Italo-Argentina) e in Italia la Stin (Società Teatrale Internazionale e Nazionale). Nel 1910 fondò la Teatral e ne assunse la direzione con sede a Milano. 1 2 3 17 Emma lo raggiunse e non ebbe paura, come egli stesso scrisse: «di mettersi in guerra contro tutte le convenzioni e i pregiudizi in cui era stata educata, di portare a repentaglio il proprio avvenire artistico che già dai primi bagliori appariva brillantissimo»5. Si sposarono, ma il matrimonio non portò serenità nella vita della Carelli; la sua carriera stentava a decollare a causa dei problemi politici dovuti al marito. Dalla disperazione iniziale Emma Carelli si riprese e con determinazione affrontò la situazione uscendone vittoriosa. Nel 1900 debuttò alla Scala accanto a Tamagno nell’Otello di Verdi ottenendo un clamoroso successo e la scrittura per tre mesi al Teatro Costanzi di Roma. Questo le schiuse la possibilità di essere chiamata in tournée in America Latina. A metà d’aprile 1900 la Carelli s’imbarcò a Genova sulla «Regina Margherita» per Buenos Aires, mentre la nave stava per salpare le giunse un dispaccio da «Giovanni Sanzone, impresario del Lirico di Rio de Janeiro (il Municipal come il Colon in quel tempo erano ancora in mente Dei) le offriva dieci recite, a condizioni eccezionali per quei tempi. Era dunque la grande carriera che si apriva dinnanzi a lei»6. Sulla stessa nave era imbarcato Enrico Caruso che aveva cantato con lei a Napoli nel 1895 e che insieme alla Carelli conquistò il pubblico sudamericano portando sulle scene per la prima volta l’Iris e la Tosca che dovevano costituire, per un decennio, due dei maggiori successi degli italiani all’estero. «Intanto i trionfi di Buenos Aires – scrisse il fratello della cantante, Augusto Carelli, – si ripeterono a Rio de Janeiro, con quel maggior impeto che corrisponde alla natura tropicale del paese. Anche a Rio non esisteva quel gioiello di architettura che è oggi il Municipal; ma il vecchio Teatro Lirico […] che conobbe i successi di lei. Queste esplosioni di entusiasmo goliardico sono rimaste famose nella storia teatrale brasiliana: gli studenti […] creavano in una sola serata celebrità che restavano poi indimenticabili per cinquantenni, o distruggevano fame e idoli di altri paesi […] Emma Carelli invece vi conobbe le opposte espressioni di delirio collettivo. Dopo il terzo atto del Mefistofele, dopo il secondo di Tosca, dopo Cavalleria o Iris, in mezzo al clamore delle chiamate e degli applausi, ella vide la Nel 1903 l’impresario Milone del Teatro Lirico di Rio de Janeiro, per far fronte ad una stagione lirica disastrosa, ebbe l’idea di riunire l’opera della Carelli con quella di Caruso. L’operazione si risolse felicemente e Caruso suscitò l’entusiasmo del pubblico brasiliano in Rigoletto tanto da dover ripetere la canzone del IV atto per ben cinque volte. Questi successi convinsero Mocchi, che nel frattempo era passato dalla politica al teatro, a tentare un’impresa mai sperimentata prima. Il cognato Augusto Carelli sintetizzò quanto accadde: «Il mese di maggio italiano equivaleva all’ottobre argentino; e i venti giorni di viaggio trasportavano gli artisti, come a farlo apposta, all’iniziarsi di quelle stagioni teatrali. Il giocherello, così bene organizzato dal giro del sole, non poteva non tentare […] Walter Mocchi. Ecco come si son venute formando quelle società teatrali della sigla più o meno sonante di Stia, Stin, Teatral […] In sostanza Mocchi s’era detto: “Riuniamo tutti questi teatri sudamericani in un trust, facente capo a una sola società e con la base di un grande teatro italiano, ove si possa attuare una stagione di prim’ordine. Il fior fiore dell’arte lirica italiana sarà facile raccoglierlo perché il miraggio d’un lavoro stabile, prolungato e ben remunerato attirerà a noi le masse artistiche; e dal lato industriale l’attuazione dell’idea non potrà non riuscire essendo così abolite tutte le concorrenze”. Era insomma la creazione d’un organismo teatrale interoceanico quale «non s’è mai visto l’eguale»8. Tra il 1908 e il 1910 la Stin e poi la Teatral ebbero in gestione tra gli altri teatri dell’America Latina il Municipal di Rio de Janeiro e quello di San Paolo, il Coliseo di Buenos Aires e due compagnie d’operette la Marchetti e la Caramba; controllavano inoltre tutti i principali teatri lirici italiani. Nel 1913 una terribile crisi segnò l’economia del Brasile e dell’Argentina e solo la determinazione di Mocchi riuscì a salvare Bidu Sayao, Mimi, in La Boheme di Puccini W. Mocchi, I moti italiani del 1899. Lo stato d’assedio a Napoli e le sue conseguenze, Muca, Napoli 1901, p. 382 A. Carelli, Emma Carelli. Trenta anni di vita lirica, P. Maglione editore, Roma, 1932, p. 61 Ivi, pp. 70-72 8 Ivi, pp.146-147 5 6 7 18 spaventosa coorte universitaria precipitarsi in palcoscenico, ordinare la riapertura del sipario, l’accensione di tutte le luci, e si sentì sollevata in alto, in trionfo, coronata di fiori, tra l’ovazione, frenetica della sala, prolungata per delle mezz’ore, in cui tutta la vita dello spettacolo, con gli indispensabili mutamenti di scena, rimaneva sospesa»7. la vita dell’organizzazione interoceanica. Disparve così la Teatral e con personalità giuridica propria nacque l’Impresa Teatro Costanzi a Roma con la gerenza di Emma Carelli, che lasciò le scene definitivamente per la dirigenza artistica dal dicembre del 1913 fino al 19269. Dal 1914 iniziò l’epoca d’oro delle tournées interoceaniche collegate strettamente alle produzioni del Teatro Costanzi di Roma. In quello stesso anno Augusto Carelli10, che con la famiglia era tornato in Italia per trascorrere le vacanze da Pietroburgo, fu costretto a rimanervi a causa dello scoppio della Prima Guerra Mondiale e della Rivoluzione d’Ottobre. Avviato al canto dal padre, Augusto aveva fin da giovane manifestato un particolare talento per la pittura, ma fu costretto a deporre i pennelli per una colica saturnina che lo ridusse quasi in fin di vita. In Russia, dove si era trasferito nel 1893, ricevette fama ed onori come insegnante di canto del Conservatorio di Pietroburgo, partecipando attivamente alla vita culturale e musicale dell’epoca. «Conforme alle usanze pietroburghesi, la loro casa era una “corte bandita” ove ogni sera convenivano amici e conoscenti musicisti; ogni anno nel Salone si dava un’opera lirica, gli allievi cantavano, amici e parenti sonavano chi uno strumento, chi un altro, protagonista e scenografo era Augusto»11. Augusto Carelli ebbe la fortuna di vivere a Pietroburgo in un momento magico per l’arte della decorazione teatrale e per il teatro in generale: era l’epoca dei Ballets Russes di Djagilev, delle fastose messinscene ai Teatri Imperiali. Nel 1912 riprese a dipingere: il colorismo musicale dei pittori russi, in modo particolare del pietroburghese Léon Bakst, l’aveva conquistato. Grazie alla passione mai scemata per la pittura, agli anni giovanili all’Accademia napoletana, ai corsi di nudo a Via Margut- ta a Roma e alla partecipazione a mostre collettive nelle quali ottenne riconoscimenti, Carelli si stabilì definitivamente in Italia e «visse da allora in poi come pittore professionista anziché da musico»12. A lui Mocchi affidò la direzione dei laboratori di scenografia del Teatro Costanzi. I locali erano in sfacelo, senza riscaldamento e senza alcuna comodità. Per sei anni vi lavorò per sedici ore al giorno: «Era una corsa folle senza badare a spese, verso un sogno d’arte le cui soddisfazioni mi ripagavano. […] Il lavoro era enorme. Ogni anno il teatro Costanzi varava su per giù quattro opere nuove, e di tutte bisognava creare le scene. Oltre a ciò un paio di opere nuove si creavano per il Brasile e per l’ Argentina, senza contare i lavori di restauro per le scene […] che viaggiavano per il mondo»13. Kovancina di Musorgskij. Sorprese il pubblico con un fantastico panorama di Rio de Janeiro e «fu Walter Mocchi a portarne, tutto giulivo, la gradita notizia»16 in Italia. Nel frattempo in Brasile erano sorti splendidi teatri lirici; e giovani promesse dell’opera brasiliana si affacciavano sui palcoscenici internazionali. Nel 1926 la cantante brasiliana Bidu Sayao debuttò al Teatro Costanzi in Matrimonio segreto di Cimarosa riportando un meritato successo. Dopo la morte improvvisa di Emma Carelli nel 1928, la Bidu sposò Mocchi che si trasferì definitiv1amente in Brasile. In Italia di Augusto e di Emma Carelli, di Walter Mocchi si è perso il ricordo; chissà se in Brasile qualcuno li rammenta ancora. Con mezzi di fortuna e tanta passione, Augusto Carelli allestì nel dicembre 1921 una nuova scenografia per la Tosca andando contro l’inveterata tradizione teatrale. Fu un successo: «Quando si alzò il sipario sul III atto – ebbe a dire una spettatrice – io mentalmente pregai che quella scena d’incanto rimanesse deserta il più a lungo possibile: avevo la sensazione magica di trovarmi davvero in cima al Castello in un’alba primaverile»14. Le scene della Tosca, come quelle d’altre opere eseguite da Carelli, furono spedite in Sudamerica per la tournée estiva della compagnia del Costanzi dove il pubblico brasiliano, a differenza della critica italiana che l’aveva accusato di «soverchia tenerezza verso i russi»15, si entusiasmò per quelle scene piene di luce, dai timbri altissimi e dai toni accesi. Sull’onda del successo ottenuto in Brasile, Mocchi lo ingaggiò nel 1921 come scenografo presso il Teatro Municipal di San Paolo. Qui eseguì oltre le scene delle opere di repertorio anche novità come, ad esempio, per l’opera Emma Carelli in Iris di Mascagni Cfr. V. Frajese, Dal Costanzi all’Opera. Cronache, recensionie documenti in 4 volumi, Edizioni Capitolium, Roma 1977, vol. II, pp. 25-26 e pp. 74-75 Augusto Carelli (Napoli 1873 – Roma 1940) allievo di Toma, Dal Bono e Morelli. Trasferitosi in Russia, dove rimase per 21 anni, come insegnante di canto del Conservatorio di S. Pietroburgo ed ebbe tra i suoi allievi i figli morganatici di Alessandro II. 11 A. Carelli, Augusto Carelli, in manoscritto non datato, conservato presso la Biblioteca Teatrale del Burcardo di Roma, foglio n. 3. 12 Ivi, foglio n. 4 13 A. Carelli, Emma Carelli.Trenta anni di vita lirica, op.cit., p. 202 14 A. Carelli, Augusto Carelli, foglio n. 8. La frase fu detta dalla figlia del pittore Costantini in riferimento alla scena della «Terrazza di Castel S. Angelo». Le scene spedite in Sudamerica furono sequestrate per l’insolvenza debitoria di Mocchi. 15 A. Carelli, Emma Carelli.Trenta anni di vita lirica, op.cit., p. 203 16 A. Carelli, Augusto Carelli, foglio n. 9. 9 10 19 Tarsila do Amaral, Oswald de Andrade,1923. Acervo da Pinacoteca Municipal de São Paulo Critica, autocritica e ideologia Su Oswald de Andrade lettore di Pirandello Yuri Brunello dell’Università di Roma “La Sapienza” A lcuni anni fa Mariarosaria e Annateresa Fabris, in un minuzioso lavoro di scandaglio bibliografico, hanno avuto il merito di ripercorrere la storia della ricezione di Pirandello in Brasile1. Il loro articolo prende avvio da quanto il 29 giugno 1923 Oswald de Andrade scrive sul «Correio Paulistano», dopo aver assistito a Parigi, in qualità di recensore, all’allestimento dei Sei personaggi in cerca d’autore: «La prima impressione di chi entra per vedere questa stupefacente riforma scenica è che non c’è spettacolo. Il teatro è aperto e spoglio. Il sipario alzato, le quinte viste dal di dietro, gli idranti previdenti in caso di incendio, un pianoforte, la tabella oraria degli artisti–tutto l’ingranaggio anarchizzato di un palcoscenico in un giorno di prove»2. Successivamente le due ricercatrici ricordano, in nota, che vent’anni più tardi la posizione di de Andrade rispetto al drammaturgo siciliano cambierà e si farà critica. Da de Andrade Pirandello verrà liquidato come un autore astrattamente cerebrale: «Queste esperienze intellettualistiche sono una degenerazione della stessa arte teatrale, della stessa finalità del teatro che ha la sua grande linea dai greci a Goldoni, alla commedia dell’arte, e al teatro di Molière e Shakespeare»3. Se il primo dei due brani è del 1923, l’altro è del 1943. In mezzo ci sono i primi anni Trenta, periodo chiave nella biografia dello scrittore di São Paolo. È allora, infatti, che de Andrade prende la tessera del Partido Comuni- sta Brasileiro (PCB) e lancia il giornale «O Homem do Povo» nel pieno di un severo e capillare processo di ripensamento delle proprie idee politiche ed estetiche, nonché della propria opera creativa. Ma torniamo alla prima delle due precedenti citazioni. Il Pirandello che de Andrade, attraverso la mediazione del linguaggio della scena, ha modo di conoscere a Parigi è quello dei Sei personaggi dal respiro cosmopolita; è il Pirandello, di cui si è cominciato a parlare a Londra e a New York, che sta a un passo dal fascismo – Mussolini è andato al potere nel 1922 e la stesura del testo dei Sei personaggi è addirittura di un anno prima –, senza però avere ancora pubblicamente preso una posizione netta in merito ai recenti sconvolgimenti politici. Lo farà qualche mese dopo, il 23 ottobre 1923, andando a visitare il capo del movimento fascista e fornendogli il proprio sostegno. Ma il Pirandello del giugno 1923 appare ancora come un ribelle antiborghese, fautore di un teatro della dissoluzione, della messa in crisi del 1 A. Fabris-M. Fabris, Presenza di Pirandello in Brasile, in «Pirandellian Studies», n. 5, inverno 1995, pp. 43-63. Una versione ampliata e aggiornata del testo è stata pubblicata anche in portoghese: A. Fabris-M. Fabris, Presença de Pirandello no Brasil, in J. Guinsburg, Pirandello. Do teatro no teatro, São Paulo, Perspectiva, 1999, pp. 385-405. Sulla questione del rapporto tra Pirandello e il Brasile si vedano anche il classico R. Jacobbi, Il teatro di Pirandello in Brasile, in AA.VV., Atti del congresso internazionale di studi pirandelliani, Firenze, Le Monnier, 1967, pp. 215-222, e A. Vannucci, O palco estremece: è Pirandello que chega no Brasil, in «Revista do Livro: órgão do Instituto Nacional do Livro do Ministério da Educação e Cultura», n. 48, 2007, pp. 63-73. 2 A. Fabris-M. Fabris, Presenza di Pirandello in Brasile, cit., p. 44. 3 O. de Andrade, Ponta de lança, Rio de Janeiro, Civilização Brasileira, 1971, p. 87. La traduzione è nostra. 20 pensiero dominante attraverso una vivisezione del reale condotta con matematica freddezza. Si tratta ancora in buona parte (e con tutte le opportune cautele) del Pirandello di cui Gramsci scriveva, recensendo nel 1917 Il piacere dell’onestà: «è un “ardito” del teatro. Le sue commedie sono tante bombe a mano che scoppiano nei cervelli degli spettatori e producono crolli di banalità, rovine di sentimenti, di pensiero»4. Per capire meglio perché, a vent’anni di distanza, il giudizio di de Andrade si profila diverso può essere utile leggere quanto Gramsci aggiunge, nella sua cronaca, subito dopo: «Luigi Pirandello ha il merito grande di far, per lo meno, balenare delle immagini di vita che escono fuori dagli schemi soliti della tradizione, e che però non possono iniziare una nuova tradizione»5. Il lavoro e la riflessione sui rapporti tra tradizione e rottura sono una preoccupazione quasi ossessiva nel lavoro di de Andrade. E l’ossessione si concentra soprattutto sul de Andrade stesso. Ne è un esempio paradigmatico, a metà tra la prima e la seconda valutazione su Pirandello, la prefazione del 1933 a Serafim Ponte Grande, uno dei testi più provocatori dello scrittore brasiliano. L’introduzione consiste in una violenta e impietosa – ma allo stesso tempo lucidissima – autocritica. Scrive de Andrade: «L’anarchismo della mia formazione s’incorporò al cretinismo letterario della semicolonia. […] La situazione “rivoluzionaria” di questa merda intellettuale sudamericana si riassumeva così: contrario di borghese non era proletario – era bohémien! […] Con pochi soldi in tasca, ma a margine dall’asse rivoluzionaria del mondo, senza conoscere il Manifesto comunista e non volendo peraltro a essere borghese, divenni di conseguenza un bohémien»6. E ancora, evocando Emílio de Menezes e Blaise Cendras: «[…] con loro fui pagliaccio di classe. Eccitato da aspettative, plausi e manfrine capitaliste, il mio essere letterario s’impantanò più volte nella trincea socialreazionaria. […] Rimasi nella borghesia, della quale, più che alleato, fui vessillo cretino, sentimental-poetico. […] Dalla mia anarchia di fondo sgorgava sempre una sorgente sana, il sarcasmo. Servii la borghesia senza crederci. Come il cortigiano sfruttato tagliava le ridicole vesti del Reggente. […] Preferisco semplicemente dichiarami nauseato di tutto. E con un unico obiettivo. Essere, per lo meno, testa di ferro della Rivoluzione Proletaria»7. Si intuirà dunque il motivo per cui ora de Andrade, tutto preso da una militanza appassionata e sincera, non può più apprezzare quell’«ingranaggio anarchizzato» dei Sei personaggi che tanto lo entusiasmò nella Parigi del Primo Dopoguerra. Per comprendere a fondo, in tutta la sua ricca originalità, la natura di un simile ripudio del giovanile anarchismo è necessario mettere a fuoco alcuni tratti del profilo che una simile opzione estetica e politica acquisisce nelle mani di de Andrade. Tra la metà degli anni Trenta e la metà del successivo decennio (l’autore di Serafim Ponte Grande lascia il Partito nel 1945) il PCB abbraccia, sulla scia dello stalinismo, un chiaro indirizzo estetico, quello del realismo socialista. Di qui, ad esempio, il peso sempre maggiore ottenuto da Jorge Amado nella cultura brasiliana di sinistra dell’epoca. A tale linea de Andrade, e le sue opere di quegli anni stanno lì a dimostrarlo, si adegua solo in parte. Egli rifiuta sì l’anarchismo bohémien funzionale ai gruppi sociali dominanti, ma non arriva a rigettare la sperimentazione formale, l’attenzione agli «ingranaggi» che articolano le opere artistiche e l’intervento su di essi. Per riprendere quanto scritto da Gramsci, il problema non sono le «immagini di vita che escono fuori dagli schemi soliti della tradizione»; sono, semmai, le forme antitradizionali che «non possono iniziare una nuova tradizione». De Andrade non definisce «una degenerazione» l’arte pirandelliana perché quest’ultima scompone e smembra molti tra i modelli consolidati della precedente drammaturgia. Lo scrittore brasiliano, piuttosto – come arriva ad affermare esplicitamente in Ponta de lança sempre a proposito di Pirandello – dell’impegno sperimentale dei Sei personaggi rigetta la distanza ideologica «dal popolo che vuole sapere, che ha il diritto di conoscere e vedere»8. Ad essere respinta è la prospettiva soggettivistica della proposta pirandelliana. Il crollo del teatro tradizionale e le rovine di esso che Pirandello si lascia alle spalle si configurano come pirotecniche azioni di rivolta, ma non riescono ad assurgere ad autentici atti rivoluzionari. Per questi è necessaria, invece, una prospettiva che sappia trascendere le angustie e i limiti dell’individualismo, è indispensabile una visione del mondo ampia e condivisa soprattutto dai ceti subalterni. Altrimenti tutto si esaurisce nel solipsismo, in un’esperienza da «laboratorio modernista»9. Lo sviluppo della tecnica, anche in letteratura, è importante non certo perché fa arricchire un pugno di capitalisti, ma solo se è in grado di promuovere «la pace e l’uguaglianza tra gli uomini»10. Ed ecco farsi avanti il nome di Mejerchol’d, il grande regista e teorico russo del primo Novecento che immaginò e teorizzò un attore nuovo. De Andrade lo cita come colui che ha saputo dare vita a «favolose trasformazioni al fine di portare lo spettacolo alla massa, l’allegria e l’etica dello spettacolo»11. Mejerchol’d ha vigorosamente messo in discussione il realismo del primo Stanislavskij, capovolgendone le premesse: non sono i sentimenti interiori degli attori a produrre in questi azioni plausibili, ma sono le azioni a dare vita ai sentimenti. E le azioni, nell’ambito della recitazione che Mejerchol’d chiama biomeccanica, devono essere quelle che hanno luogo nella fabbrica socializzata: non i movimenti realistici consueti nel vecchio mondo, ma quelli meccanici e produttivi dell’uomo nuovo socialista. La tradizione teatrale è così decostruita e scorporata, ma dentro un punto di vista plurale, collettivo: aggettivi che distinguono, nell’ottica di de Andrade, le sterili esperienze anarchiche da «laboratorio modernista» dalle «favolose trasformazioni» socialiste e segnano i limiti dell’arte pirandelliana, sancendo invece la grandezza dell’«estetica collettivista di Mejerchol’d e Tairov»12. Così come l’ingente valore culturale, aggiungiamo noi, di sperimentazioni drammaturgiche quali O rei da vela, O homem e o cavalo e A morta dello stesso de Andrade. A. Gramsci, Cronache teatrali 1915-1920, a cura di G. Davico Bonino, Torino, Aragno, 2010, p. 247. Ibidem. O. de Andrade, Serafino Ponte Grande, Torino, Einaudi, 1971, pp. 3-4. La traduzione utilizzata è quella, originale e brillante, di Daniela Ferioli. 7 Ivi, pp. 4-6. 8 O. de Andrade, Ponta de lança, cit., p. 87. 9 Ibidem. 10 O. de Andrade, Ponta de lança, cit., p. 24. 11 Ivi, p. 87. 12 Ivi, p. 91. 4 5 6 21 La quinta colonna. L’avventura brasiliana della “generazione * dei registi” Alessandra Vannucci dell’Universitá Federale di Ouro Preto e regista teatrale D el secolo e mezzo di espatri teatrali italiani in Brasile, ricco di trionfi, l’episodio più clamoroso è la mini-migrazione che interessa la generazione di registi usciti a vent’anni dalla II guerra e maturati all’ombra dell’Accademia d’Arte Drammatica. Qui, nei primi anni 40, Adolfo Celi e Luciano Salce, con Squarzina, Gassmann, Pandolfi, Guerrieri (prima leva di registi diplomati) e l’outsider Ruggero Jacobbi, rimasticavano le sfide tra Silvio d’Amico e A.G. Bragaglia, sperimentando tutto il possibile, mentre sbarcavano il lunario facevano gli assistenti nelle compagnie di giro. A partire dal ’47 quei giovani, stanchi di attendere e cogliendo le occasioni del tempo, emigrano dall’Italia – vecchia carcassa afflitta dall’oneroso compito della ricostruzione democratica – verso un Brasile mitico, terra aperta agli esploratori, ai fondatori, agli avventurieri. Non li attrae il tropico e l’esotica “dolce vita” carioca, ma una metropoli (São Paulo) in pieno sviluppo verticale ed industriale, dove alla borghesia fondiaria s’associava l’intraprendente comunità immigrata italiana. Una città continua a Milano, nel totalmente nuovo d’America. Perfino l’arte, da «distrazione per ricchi» (come notava Lévi-Strauss a riguardo, nel 1935)1 s’annunciava come prodotto di consumo nell’incipiente mercato di massa. La vocazione della città Os filhos de Eduardo, regia R. Jacobbi, TBC-SP, 1951 * Il saggio è estratto da A quinta coluna, São Paulo, Perspectiva, 2005. Sul percorso brasiliano di Jacobbi, cfr. Strategie di transizione, in L’eclettico Jacobbi, a cura di A. Dolfi, Roma, Bulzoni, 2003, dove si trova anche una sua bibliografia completa. Gli articoli “brasiliani” di Jacobbi sono pubblicati a mia cura in Critica da razão teatral, São Paulo, Perspectiva, 2004. Su Gianni Ratto è uscito un mio saggio sulla rivista «Sipario», n. 666, dez/2004 (parte I) e n. 672, jul/2005 (parte II) del titolo Lo spazio-personaggio. L’espressione “la generazione dei registi” fa esplicito riferimento al fondamentale studio di Claudio Meldolesi, Fondamenti del teatro italiano. La generazione dei registi, Firenze, Sansoni, 1984. 1 Tristi tropici, Milano, Il Saggiatore, 2008 (ed. or. 1955). 22 A ronda dos malandros (Beggar’s opera), regia R. Jacobbi, TBC-SP, 1951 a epicentro dell’industria culturale brasiliana è evidente: tra il 1947 e il 1954 si fondano musei, industrie cinematografiche, canali televisivi, case editrici ed i teatri si moltiplicano esponenzialmente (da 2 a 88). Iniziative che fanno capo a pochi nomi d’impresari, per lo più italiani: come Franco Zampari e Cicillo Matarazzo, soci nell’impresa “tra amici” che nel ‘48 partorisce il Teatro Brasileiro de Comédia (TBC) e nel ’50 la Cinematográfica Vera Cruz. Tutto ciò in una città senza tradizioni teatrali, mentre la capitale Rio de Janeiro, coi suoi 114 teatri, resta latifondo dei comici “all’antica” e del teatro di rivista. In tale panorama, lo sforzo modernizzatore tende a squalificare la “vecchia” scena nazionale a favore di qualsiasi novità cosmopolita. Come importa materia prima e ingegneri per le sue fabbriche, Zampari – un industriale – importa registi dalla sua terra d’origine, giudicata teatrale per antonomasia. Adolfo Celi (che indugiava a Buenos Ayres, dove era giunto con Aldo Fabrizi nel cast del film Emigrantes) gli è raccomandato da Aldo Calvo, già scenografo della Scala, giunto a São Paulo nel ‘47 col Carosello napoletano, di Giannini e Paone, ed incaricato di decorare il nuovo teatro di Zampari. Celi accetta l’invito previa garanzia di un biglietto di rientro in patria. Non solo resta, come fa scritturare Jacobbi che s’arrangiava come critico di cinema e regista cult (con un repertorio tutto suo) a Rio de Janeiro, dove era giunto nel ’47 con la compagnia Torrieri-Pisu. Nel 1950, Celi convince Luciano Salce, reduce dal successo parigino delle “scenette” con Bonucci e Caprioli, a raggiungerlo nella “diaspora” brasiliana che già conta con una casa cinematografica. Nel ’51 è la volta di “Flem” Bollini, che per ciò non pochi invidiarono a Roma. All’appello, gli scenografi Tullio Costa (che arriva nel 1950) e Bassano Vaccarini (1946), oltre a tecnici, costumiste, truccatori e sceneggiatori come Fabio Carpi (1949) e Dino Risi (1950). Per un pelo (un ritardo delle poste) non arriva addirittura Vittorio Gassmann, cui Zampari offre nel 1952 una scrittura per un film: partirà invece per Hollywood. Inizia il mito della “quinta colonna”: l’avamposto dei registi italiani in Brasile, così potente da motivare dissidenze. Gianni Ratto, scenografo del Piccolo Teatro di Milano dalla fondazione al ’54, arriva a São Paulo per altra via e vi apre un altro teatro (il Teatro Popular de ArteTPA) in franca concorrenza con il TBC. Alberto d’Aversa, assistente di Jacobbi a Roma, vi approda nel ’57 convocato a tappare i buchi delle dimissioni di Celi che quell’anno, dopo quasi un decennio di potere assoluto, abbandona il TBC e si sposta a Rio, con due attori dei migliori (Tônia Carrero, anche sua moglie, e Paulo Autran). La gigantesca dimensione che il “teatro degli italiani” a São Paulo assume in pochi anni, proiettandosi come portavoce di un euforico clima cosmopolita, è fenomeno che neppure lo stesso impresario (Zampari) sarebbe stato in grado di prevedere. Messo in moto dall’arrivo dei giovani italiani, la macchina moderna funziona per 23 proprio conto, facendo levitare i ricchissimi presupposti locali. È l’America, anzi (come spiega Celi) il «sogno d’America, che in Brasile si traduce con la frase: plantando, dá». L’America, la sua immensa verginità, una civiltà teatrale senza padri né padroni, un metaforico “palco vuoto” da riempire di parole, voci, volti, corpi. Fu (dichiara Ratto) un senso di «involuzione esaustiva, dovuta al successo ed alla sicurezza, che mi fece desiderare di cercare un altro campo di lavoro in cui l’erotismo teatrale fosse ancora vergine».2 E fu (suggerisce Jacobbi) il presentimento di poter essere, ad altre latitudini, «non solo continuatori di un sapere, di una tradizione, ma anche creatori di nuovi linguaggi»3 a far percepire l’emigrazione come destino affatto penoso, anzi, straordinario. Molto più che una destinazione, il Brasile significa una missione pioniera: lasciarsi alle spalle un sistema stabilizzato per rifondare qualcosa di qualitativamente primordiale. Trattandosi di una medesima generazione, l’avventura brasiliana rivela d’esser mossa dalla nostalgia della fondazione registica e dal desiderio di perpetuare il progetto generazionale: riprodurre «il clima dei primi tempi – ricorda Salce – in quei paesi dove c’era ancora tutto da fare».4 Il senso seminale della missione alimenta una speciale fertilità creativa e una proposta rivoluzionaria, con il pieno appoggio Studi della casa Cinematografica Vera Cruz, Sao Bernardo do Campo, 1952-56 dell’elite intellettuale e della platea di soci-abbonati: la rifondazione da zero della scena nazionale, su basi professionali ed estetiche europee. La polemica maturata durante la formazione accademica, se esser ribelli o essere eredi della propria scuola e tradizione, è riproposta al di là dell’oceano. Celi esordisce nel 1949 a São Paulo con lo stesso Nick Bar (I giorni della vita) di W. Saroyan che aveva segnato la sua iniziazione registica a Roma e poi, a Milano. Salce nel 1950 realizza al TBC il Teatro del Lunedì, un progetto sognato (come “Teatro di Casa”) e mai compiuto a Roma. Nel suo primo film per la Vera Cruz (Caiçara, 1951), Celi adatta a Ilha Bela un soggetto scritto con Jacobbi per Capri, mantenendo stilemi neorealisti al montaggio. La memoria eroica, da esuli, si salda al presente costruttivo tramite commosse rievocazioni delle premesse poetiche in un passato offuscato dalle bombe, che ora si compiono in un “altro mondo” soleggiato e cordiale ove i sogni divengono realtà; mentre l’alterità reale del territorio viene appena rilevata. Sbarcato dall’altra parte dell’oceano, Salce gioisce al ritrovarsi davanti il solito Fils d’Eduard che aveva appena allestito a Parigi, come se «un miracolo fosse avvenuto qui e, scomparse le migliaia di chilometri percorse, un filo magico avesse unito i palchi da un continente all’altro» (ibidem). Come s’era dato il “miracolo” americano che esaudisce agli antipodi i sogni della generazione? Con giovanile baldanza di demolitore (a Roma era stato militante delle “squadre di fischiatori”) Celi s’era messo a far piazza pulita dei modi tradizionali della scena brasiliana. Giudicava l’istrionismo ivi imperante, come sulle vecchie scene italiane, colpevole di rallentare il ritmo dello spettacolo e di distogliere l’attenzione dal testo; e gli opponeva il gran rifiuto (ereditato da D’Amico) dell’arte asservita alla personalità dell’interprete. Seguiva l’idea (di Jouvet) dell’attore disposto a incarnare il personaggio, spogliandosi di se stesso. Responsabile non solo del teatro, ma della riqualificazione dell’arte, stabiliva criteri disciplinari funzionali ad un regime che garantisse l’auspicato “livello internazionale” e li imponeva come paradigmi pratici di “buon teatro”. Dopo l’arrivo di Jacobbi e Salce, affida loro il teatro leggero (Savoir, Sauvajon e un Goldoni “pittoresco” per il primo; Anhouil e Dumas per il secondo) e allestisce spettacoli-manifesto, lavorando con gli attori “a porte chiuse”. Il primo, Huis clos di J.P. Sartre (1950), è un’esplosione di carnalità strutturata su ritmi violenti e rapidi che sconcertano il pubblico. Poi, è nei drammi «più vivi nell’arte che nella vita» di Pirandello (Sei personaggi nel 1951, Così è se vi pare nel 1952) che Celi travasa la sua utopia del teatro come «luogo umanizzante di discussione e poesia»5. La funzione del regista è maieutica, a lui si devono i mirabili risultati plastici che conquistano agli artisti l’applauso di una platea d’industriali. Celi è elogiato come una “fabbrica d’attori”;6 il TBC è una “officina” il cui prodotto può essere venduto senza vergogna in qualsiasi capitale europea. Tutto ciò grazie ai registi italiani; anche perché registi, in quegli anni a São Paulo, sono solo i giovani italiani. Pure Jacobbi, fra tutti il più “letterato” (era critico e saggista Gianni Ratto, intervista all’autrice, São Paulo, 15 giugno 1997. R. Jacobbi, Lungo viaggio dentro al teatro, conferenza dattiloscritta, Rio de Janeiro, 26.7.1948. Salce, programma di sala di Os filhos de Eduardo, di M-G. Sauvaujon, regia Jacobbi. TBC-SP, mar/1951. 5 Programma di sala di Seis personagens a procura de um autor, TBC-SP, nov/1951. 6 Innumerevoli le testimonianze su Celi regista. Cfr. il mio La sensazione d’America, in Adolfo Celi un mito da riscoprire, Catalogo della mostra a cura di Alessandra Celi, Roma, Fondazione Scuola Nazionale di Cinema, 2003. 2 3 4 24 fin dai tempi di Campo di Marte), sogna il teatro come «poema sceso in piazza»7. Però nel senso di arte impura e degna proprio in virtù del suo destino d’impurità: di necessaria ibridazione con la soggettività degli interpreti e con la società materiale che vi si specchia. Intellettuale militante, Jacobbi era stato compagno di Strehler e Paolo Grassi fino alla fondazione “civica” del Piccolo Teatro e in Brasile pareva seguire la stessa traccia, popolar-realista, scegliendo pure lui Goldoni come cavallo di battaglia. Si afferma come regista a Rio de Janeiro con l’Arlecchino, servitore di due padroni (1948), a São Paulo con Il bugiardo (1949 e ’52); poi allestisce La locandiera (1954) per il Teatro Popular de Arte, con scene di Gianni Ratto. Nel bel mezzo, adatta la Beggar’s opera di J.Gay (1951) facendone pretesto per una vigorosa polemica sulla congiuntura politica brasiliana contemporanea. Il fattaccio gli costa le dimissioni forzate dal TBC – alla fin fine, un ente privato e borghese e non “civico” come il Piccolo. I suoi adattamenti – quell’Arlecchino «né bragagliano né reinhardtiano bensì brasiliano, anzi carioca»,8 il bugiardo Lelio come un cinico rappresentante dell’irresistibile ascesa della borghesia, Mirandolina «né buona né cattiva: semplicemente una proletaria, vista alla luce della ragione storica»,9 per non dire del «coro di poveri» della Beggar’s opera con il pugno chiuso levato come una minaccia – fanno scandalo. Sintomatici della sua diversità in quel contesto, tali adattamenti tracciano per lui un percorso autonomo ed una proposta di modernità teatrale alternativa a quella dominante (conosciuta peraltro come “italiana”) quanto al repertorio e al modo di leggerlo. Proponeva l’antropofagia, l’assorbimento dialettico della cultura europea. Come regista, sollecitava gli at- tori allo sfondamento del recinto psicologico del realismo “puro” e li spingeva ad un realismo “critico”. Irregolare come da ragazzo, Jacobbi riconduceva i suoi molteplici talenti – il mestiere critico, la vocazione pedagogica e la regia, intesa come mediazione tra arte e civiltà – ad un unico presupposto politico: cioè che «l’arte debba ancora essere una relazione diretta tra l’uomo e la sua realtà. Uomo storico, realtà concreta. Uff! L’ho detto»10. Pure come critico procedeva in contro-tendenza. Batteva tutti i generi offerti dal mercato, facendo circolare le idee e mettendo in dubbio valori di eccellenza alienati dallo stato reale del mercato. Mise in crisi perfino il modello di costruzione psicologica del personaggio («stanislawskismo suburbano») avvisando del fatto che il realismo, mistificato dal feticcio della spontaneità, si avviasse a divenire «una grandiosa scuola di mediocrità».11 Rinnegava l’autorità del regista a favore dei processi collaborativi e incitava gli attori a riappropriarsi del palcoscenico, come luogo di cittadinanza e di mestiere. Il suo percorso, pur segnato da “eresie” e spettacoli “sbagliati”, gli ha garantito fama di mentore della generazione brasiliana che ha fatto teatro durante la dittatura militare. Sotto la sua guida, nel ‘54, i giovani del Teatro de Arena licenziano il palco “italiano” (frontale) ed adottano l’arena (circolare) come reazione alla “ristrettezza mentale di un mondo artistico che perde il contatto con il popolo e si abitua a riconoscere come sola realtà quella del gruppetto cui appartiene”.12 L’inevitabile revisionismo che investe il clan italiano, nella bufera scatenata dal fallimento della Vera Cruz nel 1956, provocando il rientro in Italia di alcuni artisti, fomenta una polemica di emancipazione, con toni nazionalisti, dal “culturalismo cosmopolita” proposto dal TBC e ora da molti giudicato inefficiente all’analisi del sottosviluppo del paese. In questa fase, si rivela vincente l’eccezionalità di Gianni Ratto, che era sbarcato in Brasile più tardi degli altri (nel 1954) e, pur passandovi, non si era fermato al TBC. In fuga dal perfezionismo che (secondo lui) intrappolava il suo lavoro al Piccolo, Ratto era partito «non per fare l’America, ma per scoprire il Brasile».13 Il suo percorso artistico si radica al territorio di cui va alla scoperta, senza preconcetti né progetti di sorta: pur con sensibilità vivamente italiana, s’immerge nell’esuberante materiale offerto dal Brasile, dalla sua realtà, drammaturgia e pratiche tradizionali. Come ai suoi primi tempi al Piccolo, riparte sempre dall’idea concreta di “palco vuoto” (restituito agli attori) cercando la “scenapersonaggio” (non decorativa ma viva) senza farsi condizionare dal super-obiettivo del “bello stile” o della modernità ad ogni costo. A Rio de Janeiro, fonda una compagnia (Teatro dos Sete), si afferma come regista per l’autorevolezza del suo “saper fare” teatro e dirige spettacoli miliari nel processo d’invenzione del linguaggio teatrale brasiliano. Poi desiste senza sforzo, anzi con vantaggio, dall’autorità assoluta di regista. Si ribattezza «allestitore di spazi drammatici» lavorando con gruppi impegnati nella resistenza alla dittatura, come il Grupo Opinião o il Teatro Novo a Rio de Janeiro, per cui inventa nuovi e più coinvolgenti patti con il pubblico (quale la reversibilità palco/platea) che lo salvano dallo sterile perfezionismo dello spettacolo “ben fatto”. Risolve così l’impasse che aveva interrotto il suo lavoro al Piccolo e poi al Teatro dos Sete. A voler tirare le somme sull’episodio della diaspora brasiliana dei registi, è evidente il contributo alla riforma del teatro di quel paese nella fase cruciale della modernizzazione e l’influenza sul mercato del gusto, sulla formazione di pubblico e dei futuri artisti. R. Jacobbi, Lungo viaggio dentro al teatro, cit. R. Jacobbi, «Correio da Manhã», Rio de Janeiro, 11 marzo1949. R. Jacobbi, programma di sala di Mirandolina, TPA-SP, maggio 1955. 10 R.Jacobbi, «Ultima Hora», São Paulo, 15 marzo 1952. 11 R. Jacobbi, «Correio do Povo», Porto Alegre, 17 gennaio 1959. 12 R. Jacobbi, «Folha da Noite», São Paulo, 11 marzo 1952. 13 G. Ratto, intervista cit. 7 8 9 25 Filo diretto Salerno-Rio de Janeiro Giovanna Scarsi “C onversazione in una stanza chiusa con Leonardo Sciascia” a cura di Fabio Pierangeli, ripubblicata in occasione del ventennale della morte dello scrittore’, ha opportunamente aperto il ciclo “Il futuro della libertà” promosso e scientificamente curato da Giovanna Scarsi, fondatrice e presidente de I Martedì letterari di Salerno, con lo scopo di riproporre ai giovani gli scrittori che hanno presagito o concretamente contribuito alla formazione dell’unità d’Italia: Dante, Machiavelli, Foscolo, Gli Scapigliati, Nievo, Manzoni, Verdi ed il melodramma.. 26 Quale scrittore meglio di Sciascia, a parte l’occasione celebrativa, ripropone la funzione civile e politica della letteratura e della scrittura.? Innanzitutto, per il modello che ci offre, di rigorosa coerenza fra letteratura e vita, fra scrittura ed attività civile di parlamentare, ispirato a costanti e pregnanti valori etici e sociali, professati e difesi fino alla morte “ E ce ne ricorderemo di questo scrittore”. Di qui l’opportunità e l’intelligenza di Pierangeli a ripubblicare “Conversazione” ed a riproporne l’attualità del messaggio, ampiamente e con sintesi illuminata e chiara in una sua dotta ed appassionata introduzione. La lunga intervista-colloquio di Lajolo con Sciascia, apparsa per la prima volta nel 1981, nasce dalla sintonia etica e socio-politica dei due scrittori, che si ritrovano ac- comunati, pur nella diversità di carattere e di intervento in letteratura e politica, dal substrato di valori comuni. Conversazione si cala in anni tormentati della nostra storia: 1978 - uccisione di Moro- 1982, uccisione di Dalla Chiesa. Pierangeli evidenzia con serenità il messaggio di italianità che promana da questo scritto prezioso ai giovani, soprattutto, sottolineando i momenti di riflessione più significativi ed attuali. Coscienza? “Sì, la coscienza come primo e, in definitiva, unico partito. Ma una coscienza, direi,fortemente improntata al diritto”. Ed in tema di anniversari di unità d’Italia: ”Sento la costituzione della repubblica italiana come un’oggettivazione della mia coscienza, come la carta che la mia coscienza non può né travalicare né tradire e tanto meno possono travalicarla e tradirla le mie azioni. Poichè intorno è tutto un travalicarla e tradirla, la mia coscienza si ritrae sempre più, si fa sempre più solitaria”.La coscienza, in effetti, è per Sciascia “il meglio del passato” e solo conservando il passato si può costruire il futuro, ”il futuro della libertà” “Lo scrittore vive disvivendo” cioè il pirandelliano ”La vita, o la si vive o la si scrive, è un messaggio forte che ”si conclude con l’augurio che “almeno aiuti gli altri a viverla”. Il volume, in elegante veste editoriale, provocatoriamente in rosso vivo si pregia di un’appendice di articoli densi ed intensi fra i quali riluce per toccante memoria “P. P .Pasolini ucciso dalla violenza che si ostinava a combattere “ in cui D. Lajolo scrive coniugando l’impegno civile di Sciascia e di Pasolini. ”Per questo suo amore all’uomo, all’umano, al Calvario, egli non ha voluto evitare il suo Golgota. La sua è una morte violenta, più ancora della crocefissione di quel Cristo in cui egli non credeva, perché animato da una religiosità e da una spiritualità che non ammetteva ipocrisie di epigoni e di sepolcri imbiancati. ”Ed anche questa scelta antologica operata da Pierangeli è felice per coerenza ed utilità etico-socio-culturale” La conferma della validità e dell’utilità socio-culturale del volume è sancita dal plauso e dalla partecipazione viva dei tantissimi studenti che affollavano la presentazione . Volume innovativo, anzi singolare, di Fabio Pierangeli, edito nello stesso anno 2009 è “In attesa della festa” Universitalia Roma. Finalmente, una parola chiara ed un’applicazione concreta di scrittura creativa, termine usato ed abusato, su cui questo testo fornisce una lezione autorevole, grazie anche e soprattutto all’introduzione coinvolgente di Pierangeli ed ai saggi luminosi : ”Il dono di raccontare” di Marzia Consalvi e “La voce degli spazi indefiniti” di Daniela Iuppa. Si raccolgono esercizi e letture degli stessi studenti derivanti direttamente dai laboratori di creatività dell’autore, lo stesso che ha fornito la prima lezione di scrittura creativa all’inaugurazione di questa mia palestra letteraria, sulla scorta illuminante degli esempi vivi contenuti nel volume, suscitando palpiti di emozioni ed entusiasmi di progetti creativi nei giovani. La farfalla vola capricciosamente dove vuole e non si fa inseguire: come la poesia che va e viene, arriva quando non si cerca e muore senza che tu lo voglia, come l’amore e la vita stessa. Talento ed ispirazione, creatività e passione, libertà interiore ed approdo di ricerca, rifugio nel sogno: questo significa letteratura ed arte, perché la letteratura è arte. La passione per la letteratura e l’arte è un dono gratuito, forse per vocazione genetica e biologica; si ha il dovere di trasmetterla ma non si insegna se non porgendo, con umiltà, modelli di comportamenti, progettualità di ricerca ed elaborazioni di metodologie. La passione non si insegna ma si comunica, sollecitando l’introspezione e la concentrazione, suscitando interessi culturali ed emozioni artistiche, stimolando la creatività in chi la possiede per dono di natura ed accendendola in chi la ricerca dentro di sé, soprattutto scoprendo ed incoraggiando talenti ed aiutando insegnanti e genitori a sostenerli. Conservare intatta la meraviglia dell’infanzia, fondamento di ogni atto creativo, è una strategia utile ai giovani ed agli adulti per salvare la forza della comunicazione e dell’emozione, il coraggio dei sentimenti, il gusto della bellezza. In tal senso, unire ed unirsi per esprimersi ed esprimere superando schemi di inutili burocrazie, coercizioni, aridità di disquisizioni filologiche o di querelles metodologiche, fuori dell’accademia e dell’accademismo, significa restituire ai giovani la fiducia e la gioia del creare per il gusto del creare, senza vanità né velleitarismi, rompendo la prigione dei significati e dei significanti. Un’opera aperta in cui le tre arti sorelle: poesia, pittura e musica, superati i limiti espressivi di ciascuna, interferiscono nell’obiettivo comune e primario di esprimere la forza della natura che crea. L’atto creativo, infatti, è uno ed assoluto, qualunque siano le tecniche ed il linguaggio in cui si traduce come uno ed assoluto è il Bello. Insegnare a leggere ed a scrivere significa sollecitare l’amore alla lettura come avviene per il calcio o il gioco:significa incoraggiare i giovani ad aprirsi alla scrittura corretta ed esteticamente curata, quale atto anche terapeutico di impressione del flusso di coscienza, cioè aiutarli a crescere e per chi giovane non è più, venire in soccorso per vivere e, talvolta, per sopravvivere.(…….) Ma occorre “preparare la pista”, perché l’ispirazione arriva solo quando è festa, occorre fornire le ali per far volare l’immaginazione. “Figli del Sud” di Pompeo Onesti nelle edizioni Mursia 2009 reca un sottotitolo che già orienta alla lettura: ”Romanzo” L’autore, avvocato umanista ovvero scrittore-avvocato, è da sempre impegnato sui problemi del Sud, cui le sue opere danno un contributo sociale, sia pure attraverso il ricordo autobiografico di un cittadino del Sud che sulle proprie spalle ha sopportato, lottato e scelto. E’ infatti, nativo di Campagna, un paese piccolo della provincia di Salerno la cui esperienza e frequentazione fino alla scelta di abbandonarlo per il mondo lo accompagnano in una dimensione memorialistica di presenza costan- 27 te, che risulta scevra da ogni indulgenza sentimentale o retorica. “Figli del Sud è l’ampliamento di un lungo racconto “La Chiena” pubblicato nel 1993. Merita, di fatto, il sottotitolo di romanzo che in toni crudi quanto intensi ripercorre il percorso formativo di un uomo che, nonostante tutto, ha l’orgoglio di essere figlio del Sud. Dopo quarant’anni di assenza, Roberto torna al paese dove si ritrova a fare i conti col ricordo di un’infanzia drammatica, nutrita di miseria, ignoranza e violenza. Sullo sfondo, le storie degli amici d’infanzia finiti male: Bruno, diventato militante comunista e Fiore caduto nella delinquenza. Affiorano nelle storie, volti cari: il padre di Roberto, segnato irrimediabilmente dalla guerra, la madre dura e forte, pronta al sacrificio completo, le lotte contadine, i tanti pretesti per sopravvivere, infine, l’opportunità di una vita diversa. Nella storia di Roberto-Pompeo si rivive la storia di una condizione cronologica ed etico-sociale:.quella di un sud deprivato e condannato a crescente depressione. Un Sud purtroppo sempre perdente su cui il romanzo di Onesti, nonostante tutto, intona il suo peana di vittoria. La scelta definitiva suona, infatti, vittoria dei suoi valori:la tenacia e la laboriosità, l’ingegno e la creatività, l’amore e la famiglia, l’amicizia e la solidarietà, la bellezza ed il paesaggio. Il romanzo si inserisce a buon titolo nella narrativa meridionalistica dal verismo lirico di Verga al realismo duro di Alvaro e si presenta come la maturazione di un percorso narrativo fedele e costante di Onesti che,dalle sue prime pubblicazioni: ”La Chiena”, La Gramigna”, ”La Fenice “ e “Via dei principati”ha impresso alla sua narrativa uno spiccato taglio sociale,sempre a difesa del Sud e delle sue genti. L’epilogo de” I figli del sud” è significativo, riconferma la del sud e del suo patrimonio etico e socio-culturale:, apre il cuore del lettore alla speranza ed all’impegno per renderlo migliore “Vorrei non pensare, non ricordare la mia infanzia. Temo di scoprire cose che preferirei non conoscere: la consapevolezza che 28 sarebbe stato meglio non andare via dal paese,non allontanarmi dai miei amici, non studiare. A che è servito? Avrei avuto una vita come la loro. Era la mia vita, però. Questa che sto vivendo non mi appartiene”. La dimensione lirica sottende sempre e dovunque la scrittura che si distingue per la cifra colta scandita da chiarezza ed efficacia: fra pause di memorie,morbidezze di sentimenti e vibranti messaggi sociali, fra riposi descrittivi e suspences drammatiche ,il ritmo narrativo si snoda con piacevole amenità. “Lex de caelo,ego de terra: vince letterariamente la cultura umanistica,trionfa moralmente la cultura del Sud. “La voce del cuore” di Vincenzo Giordano esce nella collana dei “Martedì letterari” a cura di Giovanna Scarsi edizioni “Edigraf” Salerno. E’ un prezioso libricino che reca nella copertina un’immagine di via Tasso, derivata da “Salierno bella; c’era una volta”, fra acquarelli ed elzeviri di Alfredo Plachesi e Giovanna Scarsi,in veste editoriale elegante e preziosa. Nel retro copertina, una didascalia così recita: ”Via Tasso- Era la strada dei nobili, non di censo ma di tradizioni, di arte e di cultura. Dal Duomo al largo Abate Conforti si sviluppa,parallelamente a via Trotula, fino alla fontana del “mascherone” adiacente l’ex istituto Genovesi. Di fronte, si innalza il palazzo n.59 di storica memoria. All’ultimo piano, a fianco il pittore Antonio Ferrigno, illustre costaiolo, di fronte, la nobile famiglia Conforti, al centro il salotto artistico-culturale-politico di don Giacomo Scarsi che nel dopoguerra ha svolto opera intensa di animazione artistico-culturale “. La dedica, toccante, sottolinea l’indole intimista e diaristica del libricino, subito, ad apertura dello stesso, in caratteri scuri e grandi: “Dove i Paradisi sono favole spente, si accende la vostra signorilità. A Voi, principessa triste dall’animo nobile e dal cuore d’oro dedico questi pensieri frutto di momenti che hanno attraversato il mio vivere” Affettuosamente Vincenzo Giordano Un cavaliere del lavoro ed un gentiluomo della poesia, scomparso pochi giorni or sono, lasciandomi un messaggio personale di saluto alla vita della poesia. Dalla mia prefazione al volumetto: “La principessa triste ed il poeta di Salierno bella: è un poeta che reca l’anima del passato ed il saluto di via Tasso, la presenza della memoria di un mondo sepolto che si risveglia per supportare il presente. E’questo il motivo per cui ho sostenuto la pubblicazione di questo libricino con l’aiuto di Ettore Castellano, anche lui cantore delle radici nobili della nostra città, l’Hippocratica civitas che in un Medioevo oscuro inaugurò il Rinascimento scientifico attraverso la Scuola medica salernitana che per primo coniugò umanesimo letterario ed umanesimo scientifico. Enzo Giordano, ancor più in questi giorni tristi della sua scomparsa materiale, resta un testimone perenne di arte e di poesia, che seppe innalzare,, nelle viuzze nobili del centro storico l’artigianato ad arte ll nostro fu un incontro breve ed intenso, in un melanconico pomeriggio prenatalizio. La principessa triste si fermò ad ammirare le sue “ pazzielle” natalizie:presepi ed abetini, befane, bambole e carillons, soprattutto i suoi magici papà Natale che nell’abbondanza e varietà multicolore esprimono la sua gioia di donare. L’artista delle luci con cui illumina la miseria decente della povera gente capì subito che la principessa triste frugava in quelle sue fantasie di arte,in esse ricercando memorie di un’infanzia giammai goduta di un drammatico dopoguerra. Mi rammentò via Tasso ed i personaggi di allora, in un itinerario della memoria che ripropongo in ogni occasione. La commozione ci affratellò allorchè il percorso si fermò, attraverso i suoi ricordi sul mitico salotto artistico-culturale di don Giacomo Scarsi, in cui si raccoglieva il meglio della politica, dell’arte e della cultura di allora, In particolare, si illuminò raccontando degli storici concerti in casa che col trio Scarsi: mio padre Italo, tenore e le zie Leonia ed Elsa, soprani accompagnati al piano dall’altra sorella pianista, Flora, tutti dal glorioso conservatorio S:Pietro a Maiella di Napoli, riuniva i maestri e gli artisti nazionali ed internazionali che quel salotto onorarono. Parlava con fervore di Nicola Fiore che in quella casa visse e morì, esaltando la sua coerenza nelle battaglie a difesa degli umili, quale martire indimenticato dell’Idea del più puro socialismo. Il suo ritratto, ancora perlato negli occhi umidi di pianto accoglie il visitatore nello studio della nipote Giovanna Scarsi(…………) Fu questo incontro l’occasione lirica che mi portò alla scoperta degli scritti di Giordano che ho voluto si conoscessero per due motivi fondamentali: 1)Motivo letterario:” significa che la poesia non è solo quella dei dotti; appartiene anche a tante voci inedite che affidano sentimenti e valori all’immediatezza della scrittura di cui il vernacolo è la forma più diretta. Ho lasciato i testi di Giordano intatti quali mi sono stati consegnati senza operare alcuna revisione, al fine di evidenziarne la valenza artistica più che letteraria. 2)Motivo socio-culturale: Ritengo che questa voce del cuore sia necessaria e utile in questi tempi bui, soprattutto ai giovani che cercano e hanno bisogno di canti del cuore, di coraggio per sognare, di cultura dei valori. “Poesie” di Mario Scotti a cura di Aureliana Scotti e Mara Pacella con presentazione di Arnaldo Di Benedetto è un volume prezioso che ho ricevuto dalle mani della figlia, in occasione della presentazione del mio ultimo libro: ”La leggenda dell’artista nella belle epoque” a Roma.. Un dono prezioso all’amicizia e alla letteratura che oggi più di ieri scandisce l’immortalità del Maestro, del suo magistero e della sua opera, in particolare del suo insostituibile e diletto Foscolo “Studium” gli ha dedicato un convegno ed un numero della rivista in cui compare, fra gli altri, anche il mio ricordo. In generale, siamo abituati a ricordare il professore ed il critico, lo studioso egregio che ha attraversato buona parte della nostra letteratura,in particolare,il cin- quecento ed il seicento,parimenti l’ottocento, lasciando contributi autorevoli definitivi. Questo volume di poesie, nella gran parte inedite , apre una pagina nuova: sull’uomo e la sua avventura di vita vissuta all’insegna dell’impegno e della testimonianza, getta luce sulla sua personalità mite e fiera,nel contempo, accende bagliori e suscita palpiti di emozioni sui sentimenti e sui valori che lo hanno ispirato tanto da proiettarne l’immagine viva ed intensa su quanti –come me- hanno avuto il privilegio di incontrarlo e di conoscerlo “Tonalità d’autunno”, ”Sera al lago””, ”Baneasa”,. ”Ritorno a scrivere di te”, ”A Giorgio Petrocchi” La primavera”, Estate”, ”Canto di amore”, ”Viaggio nella sera”, ”Caffè al Tritone”etc, sono altrettanti frammenti di cuore. prima che di alta letterarietà. Scavano nella memoria altrettanti barlumi di luce interiore dell’amico al tavolo di Gardone di Riviera, assorto nella contemplazione del lago silente, o inebriato al brindisi della “Traviata” nell’edizione parigina di Zeffirelli o gioioso e sensuale assaggiatore di inedite pietanze marine dopo la generosa fatica di uno dei miei ultimi libri nelle edizioni di Studium a Salerno dove con puntigliosa fedeltà all’impegno assunto arrivò in macchina,puntualissimo con i comuni grandi amici Ulivi e Cappelletti. Ma non è solo il cuore, il grande e nobile cuore di Mario che vibra e canta melodie inedite in questo libro dove l’emozione si trattiene quasi in punta di penna e perviene al lettore come raggelata dal controllo critico. Rimpianti e nostalgie, il Dolore e la Morte, l’austerità del silenzio agli interrogativi senza risposta, la Melanconia compagna del brivido della Bellezza pura, l’ebbrezza della contemplazione, il paesaggio e la natura, gli affetti e l’amore, cioè la Vita,fra abissi di “lucida disperazione “ed esaltazioni di sublimità stellari; tutto è Poesia, perché poesia è per lui Amore della vita e come tale nutrimento di ogni uomo e sostanza della civiltà .Ed Amore è Assoluto della Bellezza e purità del sentire, è l’epifania della Donna, è il canto universale della famiglia attraver- so lei, la sposa-madre. Una vera novità è questo”Canzoniere” nel senso petrarchesco dove l’amore è quello coniugale, è la sua Stefania grande nell’umiltà. Si dispiega in tutto lo spessore la severità del filologo e si chiarisce come e quanto il rigore etico dell’uomo e l’amore della poesia come espressione di pienezza di vita sostanzino la sua visione religiosa della vita e supportino la sua operazione critica, ispirata sempre e dovunque a profonda onestà intellettuale. Concordo con Arnaldo Di Benedetto che non è opportuno innestare un discorso critico sull’opera di un maestro della critica. Alla luce di queste rapide osservazioni, ai margini di una lettura interiorizzata delle Poesie di Scotti, mi sento di affermare che siamo di fronte all’epifania di una vera opera poetica, dettata da una vocazione artistica autentica che felicemente si imbriglia in un contesto strutturale ed in un apparato filologico solido; è un ritorno vero alle radici della grande poesia dei padri della letteratura. E non solo perl’intonazione aulica e per la ripresa degli schemi classici, ivi compreso il sonetto che si affiancano leggiadramente anche al verso libero quanto per il supporto della visione metafisica-trascendente che sorregge in unità la varietà dei temi. Tanto quanto mi consente di aggiungere che la poesia di Scotti entra, a pieno titolo di autorità nel panorama della poesia del Novecento ,quale voce unica ed autentica di poesia “classica” la cui connotazione specifica è l’eleganza. In questa dimensione si incontrano,anzi si inverano in reciprocità e non in conflitto, l’uomo ed il professore, il critico-filologo ed il Poeta: Un ringraziamento speciale per questo dono speciale alla diletta figlia Aureliana che tutto questo ha voluto e sostenuto, curando l’edizione in collaborazione con Mara Pacella, ispirandosi all’alto concetto della philologia-philosophia del maestro Scotti ed interpretandone con amore di figlia la visione religiosa della vita che commenta subito la scelta della copertina: S. Chiara, richiamata nella lirica omonima. 29 La forza dell’amore totale nei tempi del sesso libero Si fa strada una nuova etica dei rapporti tra uomini e donne Fino a ora in tutte le società conosciute l’attività sessuale veniva regolata minuziosamente dalla morale e dalla legge. Dei maschi si pensava che desiderassero accoppiarsi con tutte le donne piacenti, delle donne invece si pensava che desiderassero farlo solo con chi amavano oppure per dovere col marito. Ma oggi questo costume sta rapidamente cambiando. Moltissime donne dicono apertamente che quando vedono un uomo che piace loro cercano di non farselo scappare. Esattamente come i maschi. Ma vi sono gruppi femminili che cercano di comportarsi come facevano i maschi nei bordelli. In alcuni college americani le ragazze celebrano le feste di fine d’anno ingaggiando dei «prostituti» che si aggirano nudi fra loro e hanno rapporti sessuali prima con una e poi con l’altra mentre le compagne applaudono. E vi sono studentesse che fanno a gara sul numero dei ragazzi che si portano a letto in un anno. Questo mi fa pensare che nel giro di pochi decenni maschi e femmine potranno accoppiarsi come loro piace, in privato o in pubblico, senza nessun freno morale. Ciò, però, non vuol dire che vi sarà una totale promiscuità. Infatti esiste una forza che vi si oppone, ma non la Chiesa, non la famiglia, non 30 la scuola, non la morale né la legge. L’unica forza che vi si oppone è l’amore dell’innamoramento monogamico, esclusivo e geloso. Anche se un uomo o una donna sono abituati ad avere rapporti sessuali promiscui, quando si innamorano desiderano solo la persona amata e non sopportano che questa possa avere contatti sessuali con un altro. L’amore dell’innamoramento chiede la fedeltà assoluta. Una donna innamorata scrive: «Non andrò mai con un altro perché non voglio sciupare, inquinare le stupende sensazioni che provo con te. Basterebbe un contatto per intossicare irreparabilmente la loro purezza. E lo stesso vale per te». È solo perché esistono ’innamoramento e l’amore totale che la gente si sposa ancora, va ancora a convivere, ha dei figli. Anche se poi litiga e divorzia. Il sesso libero, il sesso che non ha né regole né freni, mette in pericolo questo amore, che però resiste, lo respinge, lo frena e lo costringe a disciplinarsi. Dal conflitto fra il sesso promiscuo e amore esclusivo oggi sta lentamente nascendo, a poco a poco, un nuovo sapere e una nuova etica dell’amore e del sesso. E io sono orgoglioso di aver dedicato la mia vita a scrivere su questo argomento che diventerà sempre più importante nel futuro. PASSA TEMPO DIVERTIMENTO Aleatico - Sorta d’uva squisita di color nero blua¬stro e di aroma caratteristico da cui si ricava il vino medesimo. Il no¬me deriva dell’emiliano “aliadga” con cui veniva indicata I’uva raccolta in luglio. CRUCIVERBA CURIOSITÀ SOLUZIONI CRUCIVERBA 31