INDICE
Prefazione di Francesco Vallerani
p. 7
Introduzione
p. 11
Capitolo primo: Elementi di geografia culturale
p. 15
1.1. Evoluzione storica della geografia culturale
1.2. Definizione e paradigmi della geografia culturale
1.3. Definizione e strumenti di analisi del paesaggio culturale
1.4. I beni culturali
p. 15
p. 16
p. 22
p. 24
Capitolo secondo: Le minoranze etnico-linguistiche
p. 27
2.1. L'interesse geografico per le lingue
2.2 Fondamenti di geografia delle lingue
2.3. La comunità etnica
2.4. La salvaguardia di lingue e di culture "minoritarie"
2.5. Le comunità alloglotte del territorio italiano:
problemi e prospettive
p. 27
p. 30
p. 32
p. 36
Capitolo terzo: Origine e percorsi del popolo cimbro
p. 41
3.1. Le ipotesi sull'origine del popolo cimbro
3.2. I percorsi del popolo cimbro
p. 41
p. 53
Capitolo quarto: Asiago Sette Comuni
p. 57
4.1. Analisi geografica e territoriale dell'Altopiano di Asiago
4.2. I Cimbri dei Sette Comuni Vicentini: analisi storica e
situazione attuale
4.3. Visita all'Istituto di Cultura Cimbra di Roana
4.4. Il dialetto cimbro dei Sette Comuni Vicentini
4.5. La letteratura cimbra dei Sette Comuni Vicentini
4.6. Credenze mitiche e credenze popolari nell'immaginario
collettivo dei Cimbri
p. 57
Capitolo quinto: Il Comune di Luserna
p. 85
5.1. Analisi geografica e territoriale dell' Altopiano di Luserna
5.2. I Cimbri di Luserna: analisi storica e situazione attuale
5.3. Visita al Centro Documentazione di Luserna
p. 85
p. 90
p. 95
p. 37
p. 62
p. 67
p. 72
p. 76
p. 82
5
5.4. Luserna: ultima roccaforte del Taitsche Sproche
5.5. Tradizioni luserne
p. 98
p. 104
Capitolo sesto: I Tredici Comuni Veronesi
p. 107
6.1. Analisi geografica e territoriale
del Parco Naturale Regionale della Lessinia
p. 107
6.2. I Cimbri dei Tredici Comuni Veronesi:
analisi storica e situazione attuale
p. 113
6.3. Visita al Museo dei Cimbri di Giazza
p. 117
6.4. Attività tradizionali: la giassàra, la calcàra, la carbonara
p. 119
6.5. Sculture popolari sacre nell'area dei Tredici Comuni Veronesi p. 127
6.6. Il Taucias Garëida
p. 130
Capitolo settimo: I Cimbri del Cansiglio
p. 135
7.1. Analisi geografica e territoriale della Piana del Cansiglio
7.2. I Cimbri del Cansiglio: analisi storica e situazione attuale
7.3. Visita al Museo Etnografico di Cultura Cimbra
di Pian Osteria
7.4. Vocaboli e toponimi cimbri
7.5. I "Cimbri scatoleri" del Cansiglio
7.6. Storie e avventure dei Cimbri del Cansiglio
p. 135
p. 140
Conclusioni
p. 155
Bibliografia
p. 159
p. 144
p. 147
p. 148
p. 151
6
Prefazione
di Francesco Vallerani
All’interno del discorso geografico culturale è possibile avvalersi di
suggestivi strumenti interpretativi provenienti dalle altre scienze umane. Si
tratta di utilizzare un multiforme patrimonio metodologico che consenta di
indagare i fatti territoriali andando oltre il semplice susseguirsi delle
apparenze e quindi addentrarsi tra le sfumature di senso che giacciono,
troppo spesso trascurate e invisibili, tra le certezze delle narrazioni
geografiche tradizionali. L’interesse per la distribuzione territoriale degli
aspetti culturali di un dato gruppo umano apparenta in modo evidente la
geografia alle discipline antropologiche. Ciò significa avviare non solo
attente riflessioni metodologiche, ma rivedere anche lo stesso statuto
epistemologico della disciplina. E su questo fondamentale aspetto non è
mancata da parte di Alice Giulia Dal Borgo una sintetica, ma accurata,
introduzione ai possibili e affascinanti percorsi della geografia culturale.
Conoscendo la particolare e profonda affezione – o “topofilia” come direbbe
Yi Fu Tuan – dell’Autrice nei confronti dei luoghi evocati in questo saggio,
è quasi automatico soffermarsi su come l’approccio geoculturale tenda
spesso a coinvolgere in modo totale le percezioni dello studioso, rinnovando
il potere esplicativo dell’osservazione partecipante codificata da Bronislaw
Malinowski tra i “suoi” isolani delle Trobriand già nei primi decenni del
secolo scorso. In questo caso le identità linguistiche e culturali dei Cimbri
del Veneto costituiscono le coordinate per l’identificazione di una peculiare
geografia mentale, che è certamente un patrimonio condiviso non solo tra le
comunità prealpine che ancora conservano i segni materiali e immateriali di
quella specificità culturale, ma anche tra coloro che si avvicinano per la
prima volta a quei luoghi, per lo più a seguito di motivazioni connesse alla
residenzialità turistica. Ma il rigoroso impegno di “evidenziare la necessità
di preservare, di non dimenticare e di non temere la ricchezza della
diversità” conduce la narrazione di Alice Giulia Dal Borgo un po’ al di fuori
dall’estatico flusso geo-poetico delle immagini e del tumultuoso addensarsi
delle sensazioni evocate dalle specifiche suggestioni dei luoghi, e in
particolare il Cansiglio, dove ancora allignano profonde le radici esistenziali
dell’Autrice.
In questo saggio, così articolato e preciso nel presentare la ricca
sedimentazione di una territorialità marginale e relitta, prevale infatti un
efficace e solido approccio disciplinare, del tutto immune dalla presunzione
di offrire al lettore esplorazioni poetiche dei luoghi, con il rischio di ricadere
in rischiosi atomismi autobiografici, nonostante che Eric Dardel abbia
elaborato già negli anni ’50 del Novecento la legittimazione delle intuizioni
soggettive, vera essenza di ciò che si è soliti definire “spazio vissuto”.
Eppure la citazione nel testo di alcuni racconti brevi di Mario De Nale, ma
7
anche di poesie, evocanti lo specifico contesto culturale cimbro, stanno a
indicare la presenza di un altro tipo di memoria dei luoghi, e cioè le infinite
e anonime biografie rinvenibili tra gli abitanti, nella maggior parte dei casi
irrimediabilmente disperse se non si ricorre al loro recupero grazie agli
stimoli suscitati da un curioso e paziente colloquio davanti a un registratore.
I Cimbri nel Veneto dei Veneti, nella regione del progetto istituzionale per
la tutela delle tradizioni locali, dove l’assessorato alla cultura non si
accontenta di una generica dicitura, ma enfatizza che qui la cultura è
strettamente legata all’Identità Veneta, con le iniziali maiuscole. L’eredità
della Serenissima, il valore aggiunto di una venezianità di Terraferma, ma
anche il mito del Medioevo, con le città murate qui così numerose come in
nessun’altra regione europea: da Cittadella a Castelfranco, da Soave a
Montagnana, da Marostica a Bassano e poi Conegliano, Collalto e Susegana.
L’odierno individualismo del modello economico, i suoi successi, ma anche
gli evidenti rischi di un irrimediabile declino. Le ferite al paesaggio, non
solo fisionomiche, ma anche strutturali e alla qualità ambientale. Di tutto ciò
bisogna tenere conto per capire appieno il ruolo di un impegno di ricerca
dedicato alle nicchie geo-antropiche dei cimbri. Non credo si tratti di uno
sforzo antiquario o, nella migliore delle ipotesi, di sana nostalgia attivata
contro gli effetti nichilisti dell’oblio. Il lavoro della Dal Borgo può essere
visto come una opportunità per riflettere sugli effetti negativi della brusca
rottura con il passato rurale, con la civiltà legata al settore primario, in
questo caso la realtà produttiva dei boschi e dei pascoli prealpini, da
valutare ben oltre i ristretti confini dei microcosmi tra Lessinia e Cansiglio
evocati nel testo. Qui, come in gran parte dei settori montani all’interno dei
paesi più industrializzati, dai Pirenei alle Highlands, dal Giura agli
Appalachi, le più attraenti opportunità economiche sviluppatesi nelle vicine
pianure a partire dal secondo dopoguerra hanno condotto all’esodo rurale,
producendo il trauma del trasloco dei nuclei familiari, la dispersione delle
unità patriarcali, le alterazioni delle socialità di villaggio, la perdita della
rassicurante eredità delle culture vernacolari e linguistiche e, nei fondo
valle, il dilagare delle lottizzazioni artigianali e residenziali.
Il contrasto tra ciò che resta della realtà cimbra e le vigorose dinamiche
socioeconomiche attive nella sottostante pianura veneta è fin troppo
evidente, anche se le pagine che seguono possono ritenersi un tentativo ben
riuscito per frenare la continua dispersione di microstorie individuali che
vanno di pari passo con l’obsolescenza formale e funzionale di specifiche
strutture insediative e paesaggistiche. Non resta che sperare nel recente
affermarsi del fascino del dimesso o di strategie di governo dei luoghi
animate dalla sostenibilità turistica o della ricerca del pittoresco nostrano da
intendersi come icona di una migliore qualità della vita. E infatti, nelle sere
invernali, provenendo dalla brulicante e fitta luminosità della pianura di
Vittorio Veneto, la visione più palese per capire l’estensione della città
diffusa, l’isolato e fioco luccicare delle finestrelle di Montaner, o della
8
borgata di Piai, pensando al Bachelard della Poetica dello spazio, è ancora
in grado di inviare messaggi di misteri e di antiche consuetudini, con il
paesaggio olfattivo di focolari accesi e minestroni rustici che gorgogliano
sulle cucine economiche, accrescendo in chi osserva il senso di intimità e di
poesia dell’abitare.
9
10
Introduzione
Al principio dell'ultimo novembre del XX secolo ho avuto modo di
riflettere sui contenuti di una ricerca di geografia culturale, su quale sarebbe
potuto essere lo scopo di uno studio del genere e su chi sarebbero potuti
essere i protagonisti di tale indagine. Le risposte a siffatti quesiti erano già
dentro di me, ma ancora non ne ero consapevole: solo dopo qualche giorno,
in seguito a un breve soggiorno nel piccolo comune di montagna che ha dato
i natali a mio nonno (Quers d'Alpago), mi è improvvisamente tornato alla
memoria il ricordo dei racconti del nonno sui boscaioli che vivevano nella
vicina Foresta del Cansiglio: lavoravano il legno fino a sera e la gente
dell'Alpago, in grado di avvertirne l'alterità culturale, ma forse non di
comprenderla fino in fondo, li chiamava "zhimber"1.
Lo scopo più urgente della presente ricerca di geografia culturale è
quello di evidenziare la necessità di preservare, di non dimenticare e di non
temere la ricchezza della diversità, sia essa etnica, linguistica, culturale,
politica o religiosa. Proprio per raggiungere tale scopo, si è deciso di
studiare, sia dal punto di vista geografico (e geografico-culturale) che da
quello storico, le vicende di uno dei numerosi gruppi etno-linguistici
presenti sul territorio italiano: i Cimbri.
Il volume consta di sette capitoli, ogni capitolo è composto da più
paragrafi, per meglio contestualizzare gli innumerevoli ambiti di ricerca che
caratterizzano l'argomento di analisi. Nel primo capitolo, intitolato Elementi
di geografia culturale, si analizzano le fondamentali tematiche indagate
dalla geografia culturale: partendo dallo studio della sua evoluzione storica
come disciplina geografica, si affronta la questione relativa alla definizione
della geografia culturale stessa e alla sua differenziazione rispetto alla
geografia umana; inoltre, si esaminano i paradigmi principali della geografia
culturale, prestando particolare attenzione ai concetti di "acculturazione", di
"diffusione delle innovazioni", di "paesaggio culturale" e di "bene
culturale".
Il secondo capitolo, intitolato Le minoranze etnico-linguistiche, tratta
dell'interesse della geografia per le lingue, in quanto elementi di
differenziazione culturale tra i popoli della Terra, e della differenza tra la
geografia linguistica (appartenente all'ambito delle scienze glottologiche) e
la geografia delle lingue (interessata al sostrato culturale di cui la lingua
stessa è espressione fondamentale). Una parte del capitolo, inoltre, affronta i
problemi studiati dalla geografia delle lingue, nonché le metodologie di cui
tale disciplina si avvale nel corso delle proprie indagini. Spunti di riflessione
della geografia delle lingue riguardano, ad esempio, il problema relativo al
1
Il termine significa "cimbro" in dialetto bellunese (alpagotto).
11
rapporto tra l'origine delle lingue europee e l'evoluzione dei popoli europei, i
problemi di classificazione delle lingue, la toponomastica di determinati
luoghi, i processi culturali che portano alla scomparsa delle aree linguistiche
minori e, infine, le problematiche relative alle minoranze etnico-linguistiche,
con particolare riguardo nei confronti delle comunità alloglotte presenti sul
territorio italiano. Grande attenzione, infine, si dedica al concetto di
"comunità etnica", fondamentale per la comprensione delle diversità
linguistiche e culturali.
Con il terzo capitolo, e i seguenti, dal titolo Origine e percorsi del
popolo cimbro, si entra nel vivo del caso di studio. Il terzo capitolo tratta
della controversa questione, e non ancora definitivamente chiarita, relativa
alle origini delle genti che hanno abitato, e che in parte ancora abitano, i
monti veneti e trentini. Si prendono, dunque, in esame le innumerevoli
ipotesi proposte, nel corso di secoli, da studiosi e da appassionati e, in un
secondo tempo, si ripercorrono i luoghi di popolamento delle genti cimbre.
Nei quattro capitoli che seguono si approfondiscono le tematiche
attinenti a ogni territorio, oggetto della colonizzazione dei Cimbri: ogni
capitolo consta di più paragrafi, il primo dei quali è sempre dedicato
all'analisi geografica e territoriale della regione esaminata, mentre il
secondo è sempre dedicato all'analisi storica relativa ai nuclei di
popolazione cimbra che hanno scelto di vivere in quella specifica regione.
Tale indagine storica vuole approfondire non solo l'origine e l'evoluzione del
popolo considerato, ma vuole anche valutarne la condizione attuale e tentare
di comprenderne l'atteggiamento nei confronti del rapporto tra memoria
storica e realtà presente.
Il quarto capitolo, intitolato Asiago Sette Comuni, tratta delle genti
cimbre che, per lungo tempo, hanno vissuto sull'Altopiano di Asiago: oggi,
come facilmente intuibile, non sono rimasti che pochi discendenti degli
antichi coloni cimbri. Nel capitolo si trova il resoconto della visita
all'Istituto di Cultura Cimbra di Roana, avvenuta nell'agosto 2000. In questa
occasione ho avuto modo di conoscere il Prof. S.Bonato, responsabile
dell'Istituto e grande studioso del popolo cimbro, con il quale ho avuto una
illuminante conversazione a proposito degli studi attuali sulle minoranze
etnico-linguistiche presenti in Italia. Nei paragrafi successivi del capitolo, si
analizzano le peculiarità del dialetto cimbro dei Sette Comuni Vicentini
attraverso lo studio di quella che può essere considerata la letteratura tipica
di questi luoghi. Nell'ultima parte del capitolo trova posto una disanima
delle credenze mitiche e popolari dei cimbri settecomunigiani.
Nel quinto capitolo, dal titolo Il Comune di Luserna, al consueto
studio geografico-territoriale e storico-sociologico segue una riflessione
ispirata alla particolare condizione linguistica del luogo: Luserna è, infatti,
l'ultimo comune dove il cimbro è parlato e capito dalla totalità della
popolazione. Come nel capitolo precedente, anche in questo caso vengono
riportate alcune testimonianze in lingua cimbra, come fiabe o proverbi; ma
12
in questo caso, e solo in questo, tali testimonianze non trasmettono la
sensazione di qualcosa di antico e di lontano perché ancora oggi si sentono
raccontare. Il capitolo si conclude con un esame delle tradizioni tipiche del
Comune di Luserna, prestando grande attenzione alle usanze e ai rituali
legati al volgere delle stagioni.
Nel sesto capitolo, intitolato I Tredici Comuni Veronesi e dedicato ai
comuni cimbri che si trovano sui Monti Lessini, vengono ripercorse le tappe
che formano la griglia interpretativa dei capitoli precedenti. Tuttavia, negli
ultimi tre paragrafi del capitolo, i contenuti assumono una fisionomia
aderente alla realtà specifica di questi luoghi. Nel quarto paragrafo, infatti,
si analizzano le attività tradizionali, un tempo ampiamente diffuse nella zona
e oggi quasi del tutto scomparse: la produzione di ghiaccio, di calce e di
carbone. Il capitolo prosegue con alcune riflessioni sulle sculture popolari
presenti sul territorio dei Tredici Comuni, con particolare attenzione alle
antiche colonne votive in pietra tipiche della zona. L'ultimo paragrafo non
solo approfondisce alcuni degli aspetti particolari del dialetto cimbro che,
un tempo, tutti gli abitanti dei Tredici Comuni parlavano; ma presenta anche
una breve raccolta di testimonianze di questo antichissimo idioma.
L'ultimo capitolo è dedicato alla storia dei Cimbri del Cansiglio:
proprio quei Cimbri che hanno ispirato la presente indagine. Quest'ultimo
capitolo, intitolato appunto I Cimbri del Cansiglio, differisce dai precedenti
per l'assenza di testimonianze in lingua cimbra: si trovano invece,
nell'ultimo paragrafo, alcune storie e avventure realmente accadute, le quali
forniscono un'idea di quella che doveva essere la vita quotidiana del tempo.
Durante il viaggio attraverso i luoghi di popolamento cimbro, ho
avuto la possibilità di accumulare una grande quantità di materiale
fotografico: nel volume, infatti, sono stati inseriti gli scatti più significativi,
personali e storici, raccolti in occasione di visite a musei e a centri culturali.
Nella bibliografia sono elencati non solo i testi fondamentali della
geografia umana; ma anche tutti i testi che hanno scandito le tappe del già
citato viaggio: tali testi rappresentano la fonte principale e preziosa della
mia conoscenza del popolo cimbro; tuttavia, contributo fondamentale e
irrinunciabile per una maggiore comprensione è stato il confronto diretto
con le opinioni, le paure e le speranze che la gente, di ogni luogo da me
visitato, ha saputo comunicarmi.
Con il presente volume non si ha certamente la pretesa di esaurire e di
concludere il discorso sul popolo cimbro: il discorso sul popolo cimbro,
infatti, rimarrà aperto finché i Cimbri di oggi continueranno a dimostrare la
tenace volontà di conservare e di tramandare l'orgoglio della propria
diversità culturale.
Desidero ringraziare sentitamente il Prof. G. Corna Pellegrini per aver
permesso la pubblicazione del volume e per i preziosi consigli; il Prof. G.
Scaramellini e il Prof. F. Lucchesi per la disponibilità e per il sostengo.
13
Desidero, inoltre, ringraziare il Prof. G. Botta per i suggerimenti
bibliografici relativi alla geografia delle lingue e il Dott. L. Bonardi per la
lettera del Conte Scipione Maffei2. Ringrazio vivamente il Prof. G.
Bonfadini per le preziose indicazioni glottologiche. Un ringraziamento
speciale va a tutte le persone che ho incontrato durante il mio viaggio nei
territori cimbri. In particolare, ringrazio il Prof. S. Bonato, responsabile
dell'"Istituto di Cultura Cimbra di Roana"; il Prof. G. Molinari, direttore del
"Museo dei Cimbri di Giazza"; il Dott. C. Prezzi, consulente presso il
"Centro Documentazione di Luserna" e il M. Azzalini, membro del
"Comitato per il Parco del Cansiglio". Ringrazio anche il Dott. A. Mainardi
e il Dott. A. Pagani per la consulenza informatica, la Dott.ssa M. Carpinelli
e Laura Mecca.
Infine, un ringraziamento sincero al Prof. F. Vallerani, che ha voluto
accompagnarmi nei percorsi della geografia culturale.
Milano, Giugno 2004
2
Cfr. Capitolo terzo.
14
CAPITOLO PRIMO
Elementi di geografia culturale
1.1. Evoluzione storica della geografia culturale
Secondo il geografo P. Claval, il termine "geografia culturale" si
diffonde inizialmente negli Stati Uniti dove, nel quindicennio precedente la
Prima Guerra Mondiale, è conosciuto dai geografi americani con un preciso
significato, diverso rispetto a quello attuale. Tale significato deriva dalle
carte topografiche americane, nelle quali le opere dell'uomo (edifici, strade,
ponti ecc.) vengono designate con la parola "cultura"; mentre la parola
"natura" viene utilizzata in riferimento a particolari geomorfologici o
idrografici del territorio. Le legende delle carte topografiche americane del
primo Novecento sono costituite, dunque, da due serie di simboli
cartografici, quelli relativi alla "cultura" e quelli relativi alla "natura", da cui
avrebbe origine l'espressione "geografia culturale", che si contrappone alla
espressione "geografia naturale". Inoltre va tenuto presente che, secondo le
concezioni elaborate dal determinismo ambientale degli ultimi decenni del
XIX secolo e dei primi del XX secolo, la cultura non è altro che la risposta
data dall'uomo in reazione agli stimoli e alle leggi della natura.
Solo dopo il primo conflitto mondiale, tra gli anni Venti e Trenta, si
assiste all'evoluzione del concetto di geografia culturale, il quale inizia ad
acquisire il significato attuale. Una tale evoluzione si registra sia in
Germania, attraverso gli studi di Siegfried Passarge, sia negli Stati Uniti,
grazie alle teorie di Carl Ortwin Sauer e dei suoi allievi della scuola
californiana di Berkeley. Dal 1931, anno della pubblicazione di un articolo
di Sauer sulla Cultural Geography, il rinnovato concetto di geografia
culturale comincia a circolare nell'America del Nord e trova la sua prima
applicazione empirica in un lavoro di Jan O. M. Broek sulla Santa Clara
Valley (1932).
Carl O. Sauer può essere considerato il padre fondatore della
geografia culturale in quanto autore di un lavoro pioniere, datato 1924 e
intitolato The survey method in geography and its objectives, dove, per la
prima volta in America, viene presa in esame la concezione di paesaggio
culturale3.
Il geografo M. Ortolani, in contrasto con Claval, si oppone
fortemente all'opinione che considera gli Stati Uniti la patria natale della
geografia culturale, negando inoltre alla scuola nordamericana il merito di
3
La concezione di paesaggio culturale è ampiamente e dettagliatamente analizzata da
Sauer nel saggio del 1925 intitolato The morphology of landscape.
15
aver scoperto tale disciplina. Merito che Ortolani riconosce alla scuola
tedesca: egli, infatti, afferma che il termine Kulturgeographie è presente
nella letteratura geografica tedesca sin dal 18454.
Secondo Giuliana Andreotti, il motivo per cui Claval e Ortolani
hanno espresso due pareri diametralmente opposti è dovuto essenzialmente
alla eterogeneità della nozione di geografia culturale:
"...probabilmente Ortolani mette al centro del concetto
sunnominato il fattore spirituale che per la scuola americana
sembra secondario. Se il termine di Kulturgeographie viene coniato
nel 1845, tale termine sembra logico derivi da quella fucina
spirituale che fu il Romanticismo, in specie quello tedesco."
(Andreotti G., 1994, p. 55)
Tra le due guerre mondiali, "paesaggio culturale" e "geografia
culturale" diventano espressioni fondamentali verso cui si indirizza
l'attenzione crescente dei geografi tedeschi: tra di essi vanno ricordati
Norbert Krebs, Alfred Hettner e, in particolare, Siegfried Passarge,
caposcuola della Landschaftskunde che studia le forme e gli aspetti di
un'area, in base sia alla sua struttura interna, sia agli agenti esterni
(vegetazione, azione umana).
Agli studi geografici nordamericani e tedeschi, relativi alla geografia
culturale e allo studio del paesaggio culturale, vanno aggiunti quelli
francesi: i geografi francesi ritengono, infatti, il paesaggio caratterizzato non
solo dalla natura, ma soprattutto dalla storia e dalla cultura dell'uomo.
Inoltre alcuni studiosi, tra cui Max Sorre, P.L. Michotte e Lucien Febvre,
tendono a identificare la geografia tout court come scienza del paesaggio,
identificazione che resiste fino alla fine degli anni Sessanta. Gli anni
Sessanta rappresentano un periodo di momentaneo declino della geografia
culturale, che viene accusata di passatismo. Oggi gli studi di geografia
culturale vivono una nuova stagione di fioritura: la riflessione sulla diversità
è oggigiorno una necessità irrinunciabile, un prerequisito necessario per la
comprensione e il rispetto dell'altro da sé.
1.2. Definizione e paradigmi della geografia culturale
La geografia culturale è una disciplina dedicata allo studio delle
diversità che i popoli del pianeta manifestano esprimendosi, sviluppando
una concezione metafisica e seguendo determinati stili di vita (way of life,
genre de vie) in rapporto a una porzione di territorio che, conseguentemente
alla presenza dell’uomo, diviene regione culturale. La geografia culturale,
dunque, indaga e studia le espressioni della cultura sulla superficie terrestre,
4
Ortolani M., Geografia della popolazione, Padova, Piccin, 1992.
16
espressioni che comprendono sia la cultura materiale, sia l’insieme dei
valori non materiali tipici di una data società.
Il compito principale di un’analisi di geografia culturale è quello di
contestualizzare ogni cultura nello specifico ambito territoriale, ottenendo,
come risultato di una tale contestualizzazione, un vero e proprio mosaico di
unità culturali. Tale opera di assegnazione di un tratto di superficie terrestre
a una certa cultura (o viceversa) può avvenire su quattro livelli di scala
geografica: lo spazio nazionale, la regione culturale, l’area culturale e la
comunità. Lo spazio nazionale rappresenta la dimensione spaziale più ampia
e, nel contempo, maggiormente visibile: esso è caratterizzato da una
sostanziale uniformità culturale fondata talvolta dall’unità di religione, ma
più spesso dall’unità di lingua; inoltre, il popolo che abita lo spazio
nazionale esprime la consapevolezza di appartenere a una specifica e
autonoma identità culturale (e politica) e tende a escludere interferenze da
parte di gruppi diversi. Lo spazio nazionale, quindi lo Stato, basa la propria
unità non esclusivamente sul potere politico, ma anche su un processo di
assimilazione culturale che porta all’uniformazione dei modelli di
comportamento ma che, allo stesso modo, stimola reazioni centrifughe di
matrice regionalista.
Assai più complesso risulta fornire una definizione di regione
culturale: infatti, i confini concettuali tra regione culturale e area culturale
tendono a dissolversi fino a perdersi del tutto. Nel suo testo Geografia
Umana (1996), C. Caldo definisce la regione culturale come
“…un’area uniforme, abitata da gente che ha uno o più
tratti culturali comuni. I suoi confini possono essere tracciati sulla
carta geografica: ad esempio, il tratto di superficie terrestre in cui
si parla il turco è una regione culturale, quella turca appunto,
basata sul linguaggio. Se però consideriamo un altro tratto
culturale, ad esempio la religione dei Turchi, l’Islam, disegnamo
una regione molto vasta che comprende sia la Turchia sia molti
altri paesi.” (p. 276)
Tuttavia, secondo altri geografi, come G. Barbina, la regione
culturale è rappresentata da una specifica Weltanschaung, dai significati che
la comunità che la abita attribuisce alla vita personale e ai destini collettivi e
dal consapevole senso di appartenenza a una peculiare identità etnica.
Dunque, secondo G. Barbina (La geografia delle lingue, 1993):
"La regione culturale è caratterizzata non solo per la
presenza al suo interno di una comunità dotata di una sua propria
e originale espressione culturale (che potrebbe anche non essere
una lingua ma un’altra espressione mentale di forte segno come
una religione), ma anche perché sul suo territorio si avverte
17
l’impronta sia dei prodotti sociali della cultura (cioè delle
particolari norme che regolano i rapporti interni al gruppo), sia
dei prodotti materiali che danno forma non casuale al paesaggio
culturale (come le tipologie delle colture agricole, le dimore
spontanee, gli attrezzi di uso comune, la foggia dell’abbigliamento
ecc.)." (p. 79)
Nondimeno, la definizione di regione culturale di G. Barbina è assai
vicina all'idea di area culturale teorizzata da C. Caldo:
"...per arrivare a delineare l'area culturale vera e propria,
bisogna identificare (e tracciare sulla carta) tutto l'insieme dei
tratti culturali che individuano un gruppo e che delimitano la sua
area geografica. La scala dell'area è quindi per forza più ristretta
di quella della regione culturale di cui sopra, e l'area stessa finisce
con l'essere una parte della regione. [...] Perciò si può affermare
che un'area culturale è quella abitata da un popolo con molti tratti
culturali comuni e che ha trasformato l'ambiente in modo
caratteristico e riconoscibile." (1996, p.277)
Infine, l'ultimo dei quattro livelli di scala geografica, in base ai quali
è possibile condurre un'analisi di geografia culturale, è rappresentato dalla
comunità: essa è considerata dalle scienze antropologiche e sociologiche
come un microcosmo, nucleo primigenio a partire dal quale si struttura una
società (ad esempio la comunità di villaggio). Nell'ambito della geografia
culturale, gli studi condotti sulle comunità permettono di elaborare
microanalisi territoriali, fornendo al geografo la possibilità di riflettere
adeguatamente non solo sul rapporto che intercorre tra l'unità di luogo e la
comunità stessa, ma anche sui processi di 'innovazione' e di 'acculturazione'
legati all'introduzione di nuovi modelli culturali comportamentali.
Regione culturale e area culturale, dunque, come milieux territoriali
nei quali si manifesta una specifica cultura: ma qual è il senso ultimo del
sostantivo ‘cultura’? Il concetto di cultura, che costituisce il cardine della
geografia culturale, non è certo un concetto univoco, bensì polisemico,
ambiguo e relativo. Nel corso del tempo, il termine di cultura ha acquisito
svariati significati: cultura come paideia (arte dell’elevazione spirituale)
presso i Greci, cultura come cultura animi presso i Latini, cultura come
humanitas nel pensiero rinascimentale e, ancora, cultura come civilisation
nel pensiero illuminista francese, dove con civilisation si intende la capacità
potenziale di ogni individuo di giungere alla cultura tramite la ragione.
Proprio a partire dall’Illuminismo il concetto di cultura comincia ad
arricchirsi delle cangianti tonalità cromatiche, appartenenti a un’immensa
tavolozza di colori, che differenziano i popoli della Terra: avviene, dunque,
il passaggio concettuale dal singolare (cioè la “Cultura” comune
18
all’umanità) al plurale (cioè una molteplicità di “culture”, ciascuna
derivante da un particolare processo storico).
Le scienze sociali e umane presentano due diverse accezioni del
concetto di cultura: la prima, condivisa da etnologi, da archeologi e da
paletnologi, considera la cultura come la sommatoria delle attività relative a
un determinato gruppo umano e i prodotti di tali attività; la seconda,
espressa dagli antropologi culturali, definisce la cultura come:
“il modo particolare dell’uomo in quanto membro di una
società di organizzare il suo pensiero e il suo comportamento in
relazione all’ambiente.” (Fabietti U., Malighetti R., Matera V.,
2000, p.9)
Tale definizione del concetto di cultura rivela tre aspetti particolari
del concetto stesso: comportamentale, cognitivo e materiale (Signorini,
1992). L’aspetto comportamentale si riferisce alle modalità di interazione
tra gli individui; l’aspetto cognitivo rimanda alle idee che gli uomini hanno
del mondo e agli effetti che tali idee hanno sulla comprensione del mondo;
l’aspetto materiale, infine, è in relazione agli oggetti fisici prodotti
all’interno di un certo contesto socioculturale. La validità metodologica
dell’antropologia culturale è fondata sul necessario riconoscimento della
pluralità delle culture, riconoscimento che implica la presa di coscienza
della pluridirezionalità dello sviluppo storico, dimostrata dalle diverse forme
di vita sociale che si sono evolute in luoghi e in epoche differenti.
La profonda consapevolezza della molteplicità culturale,
l’accettazione dell’alterità e della diversità non come pericolo da rifuggire o
come elemento nemico da contrastare, ma come frutto della infinita
ricchezza di ogni espressione umana e, infine, la volontà di indagare il non
noto per meglio comprendere il noto e per rispettare ciò che può sembrare
incomprensibile, ebbene tutto ciò rappresenta il comune sostrato teorico che,
nonostante le differenze, geografia culturale e antropologia culturale
condividono.
Nel campo degli studi geografici non è ancora stato possibile
raggiungere un accordo circa il concetto di cultura come specificazione di
geografia in generale e di paesaggio in particolare; una tale situazione di
incertezza, inoltre, rende, arduo stabilire cosa si debba intendere per
geografia culturale: se lo studio e l’analisi di fatti relativi a una determinata
cultura, o piuttosto lo studio e l’analisi di fatti relativi a una determinata
civiltà. Problema, questo, che sembra destinato a restare insoluto, dal
momento che i concetti stessi di cultura e di civiltà soffrono di un dualismo
antico. Come afferma, infatti, G. Andreotti:
“I concetti di Kultur e Zivilisation sono concetti
ottocenteschi: furono pensati in quel periodo dell’intellettualità
19
germanica che voleva esprimere l’evidenza, anzi, l’originale
evidenza di quel fenomeno tutto tedesco attraverso il quale si era
giunti a impensabili raffinatezze della speculazione intellettuale.
[…] Pertanto è ben comprensibile che gli stessi tedeschi abbiano
rivitalizzato il termine di Kultur - già forgiato intorno alla metà del
1700 - quando lo stesso termine non stava come un sostantivo
qualsiasi, ma veniva riferito a un miracolo culturale ben distinto
nel tempo e nella storia con pochi altri esempi nel mondo, se non
quelli dell’Atene di Pericle, della Firenze di Lorenzo il Magnifico e
della Francia degli enciclopedisti.” (1994, p. 34)
La polisemia semantica della parola cultura influenza la letteratura
geografica e la geografia stessa: nel momento in cui la disciplina geografica
si interessa della cultura e diviene geografia culturale, ebbene in quel
momento è possibile notare gli eterogenei risultati raggiunti dai geografi che
di cultura trattano. Inoltre, la generale inadeguatezza delle concezioni
riguardanti la cultura rappresenta la motivazione principale della difficoltà
di spiegare e di delimitare la geografia culturale, difficoltà acuita dalla
diffusa tendenza che porta a confondere la geografia culturale con la
geografia umana.5
Nella letteratura geografica esistono numerose definizioni del
termine di cultura; tra esse, quelle convenzionali si basano sul paradigma del
genere di vita di scuola vidaliana: con l'espressione "genere di vita" Vidal de
la Blache vuole indicare il complesso degli elementi materiali e spirituali di
adattamento dei gruppi umani all’ambiente naturale, dunque tutto ciò che
riguarda le abitudini, le tecniche, l’organizzazione sociale, politica ed
economica, le credenze religiose e i modi di pensare. Carl Ortwin Sauer,
fondatore, come noto, sul finire degli anni Venti della scuola di geografia
culturale dell’Università di Berkeley, considera la cultura come l’impronta
dei lavori dell’uomo su una certa area; dove area è intesa come regione
5
Un tentativo chiarificatore di un tale equivoco viene affrontato da C. Caldo
(Geografia Umana, 1996), il quale afferma:
"La geografia culturale secondo noi si ispira al concetto relativista di cultura, la
geografia umana a quello universalista. [...] La concezione universalista di cultura
-cultura intesa in senso antropologico o cultura popolare, che scaturisce da un
intero popolo- ricerca nei fenomeni uno strato di invarianza. [...] Solo comparando
tra loro regioni e popoli diversi si troveranno regole e leggi universali, esplicazione
di fenomeni comuni a tutta l'umanità (geografia umana). Nel caso della geografia
culturale, il punto d'approccio di tutte le analisi geografiche è invece la ricerca
della diversità. Esiste una molteplicità di culture che differenziano le diverse
regioni tra loro, non come fatto casuale ma in base al diverso sviluppo storico delle
situazioni economico-sociali, anche perché cultura e società sono due facce della
stessa medaglia. L'unica regolarità, l'unico elemento universale, è proprio il
ripetersi di questa diversità culturale, tanto che la cultura stessa può essere definita
come l'espressione delle diversità (e quindi delle società diverse)." (pp. 55-56)
20
dotata di tratti originali che una cultura originale è stata in grado di
imprimere. Tale assunto espresso da Sauer rivela la grande influenza di
Vidal de le Blache sul geografo e sulla scuola nordamericana: Vidal, infatti,
parla della cultura come principale strumento di identificazione e, quindi, di
differenziazione di una regione rispetto ad altre. Molto interessante è la
definizione che C. Caldo dà della cultura:
"La cultura è un sistema di norme create per dare
all'umanità un ordine, ossia fornire uno stato meno probabile alle
condizioni di disordine, nella lotta che l'uomo affronta per la vita. I
singoli gruppi si differenziano per il variare di alcune di queste
norme, che sono fornite attraverso un intreccio di comunicazioni
spesso molto complesso. [...] Le norme possono essere forti ed
esplicite (leggi, istituzioni), ma sono soprattutto valide come
connotato culturale quando non sono imposte, ma condivise ed
interiorizzate da tutto il gruppo." (p. 275)
La geografia culturale non si occupa esclusivamente dello studio di
una data cultura in rapporto a un certo luogo, ma rivolge la propria
attenzione anche verso i fenomeni di 'diffusione delle innovazioni' e di
'acculturazione'. La vicinanza tra culture diverse, infatti, può comportare
l'influenza dell'una sull'altra, con conseguenze di trasformazione sociale e
culturale. Tale processo di contatto culturale può portare a risultati differenti
che vanno da una prima fase di 'acculturazione' (durante la quale il gruppo
più forte impone gradualmente le proprie caratteristiche culturali al gruppo
più debole), a una fase di 'assimilazione' (le due culture diventano uguali e si
trasformano reciprocamente), che può anche portare alla 'incorporazione' (la
cultura più debole perde la propria originaria autonomia fino a estinguersi
completamente).
Il fenomeno della 'diffusione delle innovazioni' è stato studiato dal
geografo svedese Torsten Hägerstrand, ideatore della 'teoria delle
innovazioni': l'innovazione si diffonde in quanto l'informazione che la
riguarda viene trasmessa successivamente a gruppi di persone, in un arco
temporale più o meno lungo, e adottata attraverso una propagazione a ondate
che coinvolge un'area sempre più vasta. Il processo che porta alla diffusione
dell'innovazione è condizionato sia dalle distanze, sia dalle barriere fisiche
del territorio. Tuttavia, il fattore che rallenta e ostacola maggiormente la
diffusione di un'innovazione è rappresentato dalle resistenze culturali e
politiche. Inizialmente il processo è lento e interessa solo una minoranza, in
seguito registra una accelerazione che vede coinvolto un numero cospicuo di
persone, infine rallenta e si esaurisce. Esistono tre tipi di diffusione
dell'innovazione: per contatto, per rilocalizzazione, gerarchico. Nel caso
della diffusione per contatto, l'espansione dell'innovazione avviene come
una sorta di contagio su un territorio continuo. Nel caso della
21
rilocalizzazione, l'innovazione si diffonde in quanto "trasportata" da
"portatori" (emigranti), i quali appunto stabiliscono una nuova
localizzazione dell'innovazione stessa. Infine, la diffusione gerarchica
comporta la trasmissione dell'innovazione da un centro maggiore a centri
minori: dalla località centrale fino ai più piccoli e lontani comuni rurali.
'Diffusione delle innovazioni' (o diffusione culturale) e 'acculturazione' sono
concetti simili, ma non coincidenti o intercambiabili: mentre il concetto
della diffusione di un'innovazione si riferisce alla traslazione di uno o pochi
elementi culturali; il concetto dell'acculturazione implica un processo di
osmosi che comporta una palingenesi della cultura più debole sul modello di
quella più forte.
1.3. Definizione e strumenti di analisi del paesaggio culturale
"Il paesaggio culturale è il paesaggio artificiale che i
gruppi culturali creano nell'abitare la Terra. Le varie culture
hanno modellato i propri paesaggi sui materiali grezzi forniti dalla
Terra. Ogni area abitata ha un paesaggio culturale, che modifica il
paesaggio naturale, ed ognuna riflette in modo unico la cultura che
l'ha creato. Il paesaggio rispecchia la cultura, e il geografo
culturale può apprendere molto su un gruppo di persone proprio
osservando attentamente il paesaggio. [...] Il paesaggio culturale
riflette anche i diversi atteggiamenti dei popoli nell'affrontare la
modificazione della Terra. In più, il paesaggio contiene notevoli
testimonianze dell'origine, diffusione e sviluppo delle culture, in
quanto di solito conserva forme residue dei vari tipi. [...] Studiato
in modo appropriato, questa testimonianza visibile può insegnare
molto all'osservatore intorno agli aspetti della cultura che restano
invisibili, intorno a un passato da tempo dimenticato dagli abitanti
attuali, su scelte fatte e su cambiamenti operati dai popoli." (Jordan
T., Rowntree L.,1990, pp.27-28, citato in Caldo C., 1996, p. 279)
Questa lunga definizione di paesaggio culturale rappresenta la
posizione della scuola di geografia culturale nordamericana. Il paesaggio
culturale, così definito, può essere considerato un'astrazione ottenuta
isolando i segni della cultura presenti nelle forme antropogene del paesaggio
stesso6. Tuttavia, un'analisi completa di geografia culturale non deve perdere
di vista le relazioni con l'ambiente fisico il quale, senza voler fare del
determinismo ambientale, innegabilmente condiziona le scelte dell'uomo.
L'analisi del paesaggio culturale ha come scopo prioritario la
rilevazione degli insiemi antropogeni che hanno un significato culturale.
6
Tali segni possiedono uno sviluppo di matrice culturale o spirituale, come una
concezione religiosa, etica o politica, come uno stile architettonico o come una moda
e, ancora, come un elemento etnico o sociale.
22
Un'analisi di questo tipo è incentrata su caratteri difficilmente quantificabili
e, nonostante la densità delle impronte culturali non sia un fattore da
trascurare, fondata su criteri qualitativi. La prima fase di un'analisi di
paesaggio culturale prevede la stesura di un inventario di tutti i segni
paesistici connotati da una considerevole valenza culturale (scuole, case
editrici, chiese, musei, accademie, teatri, cinema, circoli culturali e politici,
elementi architettonici urbani o rurali, abitazioni, edifici pubblici, giardini,
foreste protette, impianti sportivi, strutture agricole, stazioni, porti,
aeroporti, reticoli stradali). A tale inventario deve seguire la classificazione
e aggregazione dei dati raccolti in relazione al territorio. La fase successiva
è dedicata non solo allo studio e alla interpretazione genetica dei segni e
delle forme culturali presenti sul territorio, ma anche all'indagine relativa
alle correlazioni di tali segni con altri fatti antropici e fisici. Infine, la fase
conclusiva dello studio degli insiemi paesistici culturali si basa sul tentativo
di definire il significato complessivo dei paesaggi e di scoprirne i contenuti
culturali dominanti, i quali costituiscono la parte essenziale dei messaggi
che pervengono all'osservatore.
I paesaggi culturali assumono diverse caratteristiche a seconda dei moventi
che li generano: esistono, infatti, paesaggi agrari e industriali, che
rispecchiano le strategie e i processi economici e produttivi di un territorio;
ma esistono anche forme paesistiche che sono espressione di una volontà
estetizzante (ad esempio le ville venete). Inoltre, tra le impronte paesistiche
non economiche si annoverano quelle legate a fedi religiose: numerosi sono
i paesaggi dominati da spiritualismo e da fervore religioso, basti pensare alle
città sante, alle mete di pellegrinaggio e ai luoghi di culto collettivo (La
Mecca, Lourdes, Assisi, il Monte Athos, le città tibetane ecc.). Nel corso del
tempo sono sorti anche paesaggi il cui scopo primario è quello di esprimere
determinate ideologie politiche, il più delle volte destinati a esaltare un
potere assoluto o dittatoriale (come la reggia di Versailles, gli edifici
pubblici voluti dal fascismo o le monumentali costruzioni hitleriane).
Esistono anche paesaggi che sono espressione di altre esigenze: i paesaggi
del turismo di massa, i paesaggi dello sport (autodromi, stadi, palestre), i
paesaggi della trasmissione culturale (città universitarie europee e colleges
statunitensi) e, infine, i paesaggi legati alla cultura sociale dell'assistenza, in
particolare sanitaria, come le cittadelle ospedaliere.
Gli strumenti adeguati tramite i quali elaborare un'analisi di geografia
culturale e uno studio di paesaggio culturale sono molteplici:
all'osservazione diretta dei luoghi, essenziale, deve accompagnarsi non solo
l'esame della produzione geografica e parageografica (relazioni di viaggio),
urbanistica, letteraria, storico-artistica, archeologica e storica attinente
all'area di cui si vogliono conoscere i segni culturali, ma anche indagini di
toponomastica, di geografia e di cartografia linguistica, di cartografia
archeologica e generale (carte topografiche, militari, stradali e turistiche
23
costituiscono un aiuto prezioso). Non va dimenticata, infine, la fotografia,
uno dei mezzi più utilizzati per acquisire la realtà.
1.4. I beni culturali
Nell'ambito di uno specifico territorio possono esistere alcuni
elementi che custodiscono, per gli abitanti del territorio stesso, un preciso
significato simbolico. Questo dato di fatto permette l'instaurazione di un
rapporto complesso e unico tra una comunità e l'area da essa abitata;
rapporto che si concretizza nell'acquisizione, da parte degli abitanti, di una
propria identità geografica e culturale.
Svariati sono gli elementi rappresentativi che simboleggiano
l'identità geografica e culturale di un gruppo: monumenti, piazze, edifici,
opere d'arte, letterarie e musicali. Tali elementi vengono chiamati con il
termine "beni culturali", termine il cui significato rimanda implicitamente ai
prodotti della cultura "alta", prodotti da tutelare e da salvaguardare.
Tuttavia, come giustamente sostiene C. Caldo:
"Per introdurre un nuovo e più ampio significato del
concetto di bene culturale è necessario estendere il concetto di
cultura al suo senso antropologico, un valore globale che
comprende i comportamenti di un gruppo, l'insieme delle
comunicazioni interpersonali, le norme dell'agire sociale e i
prodotti di questo. In tal modo si arriva a identificare con la
cultura anche l'oggetto, inteso come segno della cultura stessa, che
non è solo prodotto dalla cultura dotta. L'espressione della cultura
nel suo senso geografico può quindi leggersi in un manufatto
inserito nel paesaggio, nella localizzazione di un particolare
oggetto costruito ed anche nello spazio stesso che diventa disegno
di un'idea, materializzazione della cultura e quindi spazio
culturale." (1996, pp. 285-286)
Secondo C. Caldo, inoltre, lo spazio non va considerato come
semplice scenario dell'azione umana, ma come sua rappresentazione, che
assume in sé i valori della cultura che vi si produce.
Una volta riconosciuta e accettata l'esigenza di considerare come
"bene culturale" non solo il prodotto della cultura "alta", ma di tutta la
cultura, si rende necessario affrontare il problema relativo alla duplice
possibilità di fruizione di un bene culturale e, di conseguenza, alla doppia
valenza dello stesso. Un bene culturale, infatti, rappresenta sia un fattore di
identità per l'insider, sia un semplice oggetto fruibile da parte di un
occasionale outsider. La percezione del luogo, evidentemente, è più
complessa e completa per colui che abita il luogo stesso, che non per il
casuale visitatore, il quale presta la propria attenzione all'unica caratteristica
che lo ha portato in quel luogo.
24
Ciò che interessa sottolineare è il fatto che i valori simbolici di un
luogo riflettono talune strutture sociali, le quali sono a loro volta legate a
certi simboli culturali. Un bene culturale diventa tale in quanto elevato a
simbolo di identità collettiva, ciò avviene attraverso un processo di
conservazione che si sviluppa in fasi successive: da una isolata volontà di
salvaguardia sostenuta da una élite intellettuale, si attraversa un momento di
contrasto tra gruppi diversi, per giungere alla serena accettazione, condivisa
da tutti gli strati sociali, della necessità di preservare l'"oggetto" in
questione.
Oggi si è soliti dare al bene culturale del passato un valore e un
significato spesso divergenti da quelli che possedeva, arricchendo così il
processo conservativo di nuove motivazioni sociali e culturali. Tra queste
motivazioni, vi è quella che consegue a un momento di stress dovuto,
solitamente, a trasformazioni ambientali. Se tali trasformazioni sono
improvvise e distruttive, può verificarsi uno stravolgimento di punti di
riferimento che, a sua volta, causa uno stress paragonabile a quello fisico o
nervoso. Tale situazione di "stress" può avere luogo anche quando un
gruppo locale si sente minacciato e assediato da una cultura "altra", dunque
estranea. In questo caso lo "stress" diventa "stress culturale" in quanto la
minaccia di mutamento viene percepita come minaccia di esproprio della
propria cultura. In risposta a tale pericolo percepito, il gruppo tende ad
assegnare rinnovati valori simbolici ad un punto forte, ad esempio un
elemento monumentale: simbolizzazione e interventi di conservazione sono
dunque occasioni di difesa culturale.
25
26
CAPITOLO SECONDO
Le minoranze etnico-linguistiche
2.1. L'interesse geografico per le lingue
Qualsiasi indagine di geografia culturale (ma anche di geografia
umana) sarebbe incompleta senza uno studio appropriato della lingua
relativa al territorio, cui l'indagine stessa si riferisce. La lingua, infatti,
costituisce il primo elemento di differenziazione culturale tra i popoli della
Terra; elemento che può anche influire sul paesaggio culturale, lasciando
testimonianze indelebili (come avviene nella toponomastica di alcuni
luoghi). Questa affermazione è necessaria premessa alla spiegazione del
fatto che solo in tempi recenti l'interesse della geografia per i differenti modi
di esprimersi dei popoli è coinciso con il tentativo di cercare un nesso tra
lingua e area in cui essa viene parlata. Certo, l'interesse della geografia per
le lingue è di antica origine: esso, infatti, è presente nelle descrizioni
geografiche dell'età classica, nelle quali si riscontrano frequenti annotazioni
di tipo linguistico, annotazioni che però non vanno oltre il semplice dovere
di cronaca.
Un primo passo, nella direzione di una comprensione complessiva
del fenomeno linguistico e del relativo ambito territoriale, viene mosso da
alcuni studiosi di glottologia verso la fine dell'Ottocento, i quali reagiscono
contro i metodi seguiti fino a quel momento dai linguisti nello studio delle
differenze linguistiche. Le critiche sono rivolte, soprattutto, alla scuola
tedesca dei neogrammatici, scuola che basa l'analisi linguistica solo sugli
aspetti formali e strutturali degli idiomi, tralasciando ogni tipo di
contestualizzazione sociale e territoriale. L'esigenza di ampliare il campo di
indagine dello studio linguistico, dalle strutture interne di una lingua
all'intorno spaziale in cui essa viene utilizzata, conduce alla nascita di un
nuovo ramo della glottologia, che considera anche le caratteristiche del
territorio relativo alla lingua esaminata. Tale nuovo approccio della
glottologia, che trova le proprie scaturigini nell'ambito di studi di linguistica
romanza, ha tra i suoi primi sostenitori il friulano Graziadio Isaia Ascoli,
autore dell'opera Saggi ladini (1873) nella quale propone un paradigma di
ricerca linguistica storico-geografico, ancora attuale per la sua validità.
Nello stesso scorcio di fine Ottocento, nasce un ulteriore prezioso
strumento per l'analisi linguistica, mutuato dalla geografia: la cartografia
linguistica. Jules Gilliéron è il primo studioso che si rende conto delle
possibilità che sarebbero derivate da ricerche linguistiche condotte con il
27
supporto della carta geografica7. Tuttavia, la prima carta linguistica è opera
del grammatico tedesco Georg Wenkerl che, nel 1899, comincia a
cartografare i dialetti tedeschi nel suo Deutscher Sprachatlas. Il primo vero
e proprio atlante linguistico viene pubblicato da J. Gilliéron e da E. Edmont,
tra il 1900 e il 1912, a Parigi: l'Atlas Linguistique de la France, opera che
conferma la prima intuizione di Gilliéron riguardo l'importanza delle carte
geografiche come strumenti di comprensione dei fenomeni linguistici.
L'entusiasmo nei confronti del nuovo metodo della linguistica dilaga, al
punto che Gilliéron, nel 1912, pubblica un'opera intitolata Etudes de
géographie linguistique: per la prima volta uno studioso utilizza
l'espressione "geografia linguistica".
Ben presto, la geografia linguistica diventa un ramo specializzato
delle scienze linguistiche: un numero crescente di studi dialettologici facilita
la redazione di carte e atlanti linguistici e stimola, in alcuni linguisti,
riflessioni di tipo geografico sulla distribuzione territoriale dei vari dialetti.
Attraverso le indagini di geografia linguistica e l'osservazione degli atlanti
linguistici è possibile constatare che, nella maggior parte dei casi, vocaboli e
pronunce simili non seguono una distribuzione spaziale casuale, ma tendono
a concentrarsi in aree ben precise e, per questo, più facilmente delimitabili
sulla carta attraverso approssimative linee di confine tra i diversi fenomeni
linguistici (isoglosse). Osservando attentamente l'andamento spaziale delle
isoglosse, in relazione a fenomeni territoriali sia fisici (catene montuose,
fiumi ecc.), sia antropici (ad esempio forme di insediamento particolari), è
possibile comprendere i rapporti che intercorrono tra fatti prettamente
linguistici e dati geografici. In questo modo, gli studiosi sono stati in grado
di dimostrare, in innumerevoli casi, l'esistenza di un legame tra lingua e
organizzazione territoriale. Tuttavia, la connotazione positivista della
geografia di inizio Novecento implica una visione fortemente determinista
del rapporto lingua-territorio, visione che porta anche a disinganni e a
ripensamenti dovuti a una più matura consapevolezza della complessità dei
fenomeni linguistici e della loro non facile interpretazione attraverso
paradigmi troppo rigidi. Nondimeno, sia la comunità scientifica
appartenente alla linguistica, sia la comunità scientifica geografica
concordano sull'utilità delle carte geografiche nello studio dei fatti
linguistici.
A questo punto, è necessaria una chiarificazione terminologica e
concettuale: geografia linguistica e geografia delle lingue non sono
sinonimi. Mentre, infatti, la geografia linguistica appartiene alle scienze
glottologiche e si occupa dei fenomeni linguistici nella loro estensione e
distribuzione geografica, attraverso l'ausilio di strumenti geografici (carte,
atlanti); la geografia delle lingue studia il sostrato culturale di cui la lingua è
espressione.
7
Nel 1895, infatti, Gilliéron inizia la registrazione su carte geografiche delle varianti
dialettali di un certo numero di vocaboli francesi.
28
Il primo geografo a interessarsi del rapporto lingua-territorio è il
portoghese C.M. Delgado de Carvalho: lo studioso, in una memoria scritta
in portoghese nel 1943 e tradotta in inglese solo nel 1962, definisce
nettamente i confini tra la geografia linguistica e la geografia delle lingue, la
quale focalizza la propria attenzione sulla genesi storica delle aree
geografiche relative a determinate lingue, con particolare riguardo per il
rapporto tra gli aspetti sociali e la lingua stessa.
In Italia, un importante e autorevole contributo alla conoscenza dei
metodi e delle possibilità della geografia delle lingue è dato, alla fine degli
anni '60, da Vittorina Langella nel suo testo Geografia e Lingue in Europa
(1969). In esso l'autrice evidenzia non solo la rilevanza dei fatti linguistici
per la comprensione della regionalizzazione del territorio europeo, ma anche
l'intima correlazione tra lingua, storia e società delle diverse regioni culturali
d'Europa.
Oggi, il fatto che ogni lingua abbia una propria dimensione
territoriale è ampiamente accettato e condiviso da maggior parte degli
studiosi di geografia8. Come afferma C. Caldo:
"La geografia dunque si occupa di questo elemento non
materiale della cultura, anche se non è visibile sul terreno alla
stregua di una città o di una coltivazione. In ogni caso le lingue
contribuiscono a segmentare il mondo, ma questa segmentazione
non è solo un puro fatto distributivo. In qualche misura, ogni lingua
corrisponde ad una concezione del mondo. Si può dire che il
sistema linguistico di ciascun gruppo sia dettato dalla realtà e dal
modo di vita proprio dello stesso gruppo. Se ad esempio si tratta di
un popolo della foresta, esso avrà centinaia di termini relativi
all'ambiente forestale." (1996, p.294)
Ciò che interessa il geografo, dunque, non sono tanto morfologia e
sintassi di una lingua, quanto piuttosto le relazioni che si sviluppano tra la
lingua stessa e i fattori sociali, politici ed economici di un data regione. E
veramente, soltanto studiando la lingua di un intero popolo, così come il
8
Secondo G. Barbina, infatti:
"...non tutti i geografi (e fra questi alcuni italiani) sono convinti
dell'importanza del dato linguistico nello studio della geografia umana. Alcuni di
essi infatti continuano a vedere nella lingua solo un elemento descrittivo, da darsi
come semplice informazione a proposito di uno stato: quasi che per comprendere
da geografi le isole britanniche non abbia alcuna importanza la frammentazione
linguistica delle stesse e le vicende che hanno portato alla progressiva riduzione
delle aree delle lingue celtiche a vantaggio di quella della lingua inglese, ma sia
sufficiente avvertire che la lingua ufficiale del Regno Unito è l'inglese." (1998, p.
26)
In particolare Barbina si riferisce a Baldacci, secondo il quale in geografia vanno
considerate solo le lingue ufficiali e possono essere trascurate quelle minoritarie.
29
patois di una minuscola comunità, il geografo ha la possibilità di avvicinarsi
alla comprensione di quei pensieri che, una volta raggiunta la propria forma
concreta, hanno modellato il paesaggio, rendendolo paesaggio culturale.
2.2. Fondamenti di geografia delle lingue
Gli studi di geografia delle lingue comprendono un campo di
indagine assai vasto e, proprio per questo motivo, si avvalgono
incessantemente dell'aiuto di altre scienze, come la storia e la filologia, nel
tentativo di comprendere i processi attraverso i quali una lingua interviene
nel modello organizzativo di un gruppo sociale. L'interesse geografico per
l'analisi e per la diffusione di una lingua è estremamente elevato: infatti,
partendo dal presupposto che tutta l'opera umana di costruzione e di
organizzazione si riflette nella lingua, lo studio di tale lingua permette al
geografo di valutare il complesso legame che unisce lingua, popolo e
progetto sociale. Il progetto sociale, cioè l'obiettivo comune, di un popolo
non può certo essere perseguito e quindi raggiunto senza la comunicazione
interpersonale e, dunque, senza una lingua comune.
Uno tra i problemi affrontati dalla geografia delle lingue è quello
relativo al rapporto tra l'origine delle lingue europee e l'evoluzione dei
popoli europei. Gli studi svolti in questa direzione hanno dimostrato
chiaramente le interazioni tra popoli e ambiente fisico nel periodo in cui
hanno avuto origine i linguaggi indoeuropei e, in un secondo momento, le
differenziazioni di tali linguaggi causate dalle invasioni prima celtiche, poi
germaniche, quindi slave e infine ugro-finniche ( Langella, 1969). Grazie a
questo tipo di studi, a cui contribuiscono anche la geografia storica e la
linguistica, è possibile non solo tracciare le prime grandi vie relative al
transito di popoli avvenuto in Europa nel corso di millenni, ma anche
localizzare le aree dei primi grandi stanziamenti, dimostrare l'importanza del
tipo di suolo, della presenza o meno di barriere montuose e dell'idrografia
come fattori condizionanti il processo evolutivo di lingue e popolazioni
europee dall'età dei metalli fino al 1500.
Un altro ambito di riflessione che interessa gli studiosi di geografia
delle lingue, ma che è condiviso anche dagli studiosi di altre discipline, è
costituito dai problemi di classificazione delle lingue del mondo. Tra gli
svariati modelli di classificazione linguistica, elaborati via via nel corso di
decenni di ricerche storico-linguistiche, uno solo è particolarmente utile alla
geografia delle lingue e alla geografia culturale in genere: il modello di
classificazione genealogica delle lingue. Questo metodo di classificazione
linguistica, che secondo i suoi primi teorizzatori doveva scoprire l'antico
linguaggio comune a tutti gli uomini prima della divisione biblica, è utile
alla geografia in quanto considera il fenomeno del frazionamento territoriale
in regioni linguistiche. Secondo il modello di classificazione genealogica
della lingue, dunque, due lingue sono affini (o parenti) quando l'una è la
30
continuazione storica dell'altra: in sintesi, i vari idiomi sono suddivisi in
famiglie in base alla somiglianza lessicale, che deriva da un'origine comune,
talvolta remota. Dal punto di vista della distribuzione territoriale, due lingue
affini sono presenti di solito in regioni contigue; tuttavia non vanno
dimenticati i flussi migratori e i movimenti di espansione o di regressione
territoriale, che tendono a distanziare le lingue in questione. Il grado di
parentela tra due lingue è misurabile attraverso un criterio statistico: un
indice di parentela superiore all'80% indica la contiguità delle due lingue
(varietà delle medesima lingua), un indice compreso tra l'80% e il 30%
indica l'appartenenza delle due lingue alla stessa famiglia e, infine, un indice
inferiore al 30%, ma con somiglianze non trascurabili, indica l'appartenenza
delle due lingue a famiglie diverse ma dello stesso ceppo linguistico.
Secondo la classificazione genealogica, esistono sette grandi ceppi
linguistici: lingue indoeuropee (famiglie neolatina, germanica, slava, celtica,
iranica, indiana, greca, albanese), lingue sino-tibetane (famiglia cinese,
birmano, tibetano), lingue uralo-altaiche (famiglie di lingue turco-tatare,
ugrofinniche e, secondo alcuni, coreano e giapponese), lingue austronesiane
(famiglie indonesiana, malese, polinesiana), lingue niger-kordofan (famiglie
bantù e sudanesi), lingue afroasiatiche o camito-semitiche (arabo, ebraico,
lingue etiopiche) e lingue dravidiche (telugu e tamil)9. Tuttavia, è necessario
precisare che tale classificazione non è definitiva e presenta numerose zone
d'ombra, dovute al fatto che ancora sfugge agli studiosi l'origine genealogica
di centinaia di lingue parlate da ristretti gruppi di persone.
La geografia delle lingue affronta, inoltre, le problematiche relative
ai processi culturali, attualmente in atto in tutto il mondo, che coinvolgono
diverse realtà territoriali e che, inesorabilmente, portano a fenomeni di
acculturazione delle comunità più deboli, alla progressiva e inarrestabile
scomparsa delle aree linguistiche minori, alla perdita di identità culturali
antiche che, incapaci di sostenere l'impari confronto con la straripante
cultura del progresso informatizzato e massificante, sono destinate a
sbiadirsi nel tempo come la fotografia di un ricordo lontano. Ciò non
significa che la geografia delle lingue, qui indentificabile con la geografia
culturale, sia solo un sorta di denuncia nostalgica o di ostinato rifiuto della
realtà: quello che interessa questo tipo di studi geografici è rappresentato
dalle conseguenze derivanti dagli attuali processi di contaminazione
linguistico-culturale, conseguenze che possono rivelarsi devastanti come
anche inaspettatamente positive.
Lo studio dei toponimi costituisce un importante campo di indagine
della geografia delle lingue: la toponomastica, infatti, è spesso connessa alle
forme dell'ambiente, sia naturale che antropico, e dunque il suo studio
rappresenta un significativo strumento di interpretazione. Esistono due
tipologie fondamentali di toponimi su cui è interessante riflettere: la prima
9
Il testo di C. Caldo Geografia umana (1996) rappresenta la fonte della
classificazione dei ceppi linguistici.
31
comprende i toponimi propri, riferiti a città, regioni e località rilevanti, i
quali non rimandano a peculiarità del paesaggio, ma piuttosto a decisioni
principesche o ecclesiastiche (come i luoghi con nomi di santi); la seconda
tipologia comprende i toponimi comuni, solitamente di origine dialettale e
legati alla cultura popolare, i quali indicano un tratto di territorio o un
particolare elemento di quest'ultimo. I toponimi comuni sono classificati in
due categorie: una relativa ai nomi dell'ambiente fisico, l'altra alle opere
degli uomini. La prima categoria (ambiente naturale) si compone di alcune
sottoclassi: rilievi, morfologia, vegetazione e acque. La categoria antropica
annovera nomi di edifici, coltivazioni, strade e ripartizioni territoriali (C.
Caldo, 1996). Uno degli aspetti più utili dell'analisi della toponomastica di
una regione è che, proprio attraverso essa, è possibile conoscere la
stratificazione etnica e culturale dei luoghi esaminati.
Infine, un altro grande tema di cui si occupa la geografia delle
lingue è quello delle minoranze etnico-linguistiche10, sia in riferimento alle
minoranze presenti sul territorio italiano, sia alle minoranze sparse nel
mondo.
Dunque, le politiche nazionalistiche o quelle regionalistiche, le
trasformazioni territoriali che avvengono in conseguenza di spostamenti di
confine o di mutamenti istituzionali e, ancora, le tormentate vicende legate
alla colonizzazione o alla decolonizzazione sono tutti fenomeni che possono
trovare negli studiosi di geografia delle lingue nuovi e attenti interlocutori,
in grado di elaborare più approfondite interpretazioni delle realtà studiate e
capaci di suggerire più adatte soluzioni per problemi politici, la cui
comprensione non è sempre immediata.
2.3. La comunità etnica
Il concetto di comunità etnica è fondamentale per la comprensione
delle diversità linguistiche e culturali. Secondo Barbina
"Una comunità umana legata al suo interno dalla coscienza
di avere un comune patrimonio storico e da vincoli culturali così
forti e consolidatisi nel tempo, e tali da improntare in modo
significativo il modo di pensare e il comportamento di tutti gli
appartenenti alla stessa, viene definita comunità etnica, o gruppo
etnico, o gruppo etnico-linguistico (in quanto normalmente alla
comune cultura di base corrisponde l'uso della stessa lingua).
" (Barbina G., 1998, p. 37)
Barbina, inoltre, attribuisce a R. Breton il merito di aver definito i
caratteri generali di una comunità o gruppo etnico, dimostrando che il
gruppo etnico-linguistico non si distingue unicamente per lingua e per
10
Cfr. il paragrafo 2.4.
32
cultura, ma anche per una sommatoria di elementi strettamente
interconnessi. Ebbene tali elementi, i quali appunto rappresentano le
caratteristiche generali della struttura etnica, vengono teorizzati da Breton
nel testo intitolato Les ethnies (1981). L'autore ne elenca nove: la prima
serie di elementi, chiamati prestrutture, comprende i dati demografici del
gruppo, la sua lingua e il suo territorio; la seconda serie di elementi,
chiamati strutture, è data dalla cultura non materiale, dalle classi sociali e
dal sistema economico; infine l'ultima serie di elementi, chiamati poststrutture, è costituita dalle istituzioni, dalla metropoli e dalla rete urbana.
Dato demografico, lingua e territorio sono le condizioni necessarie ed
essenziali per l'esistenza della comunità etnica stessa: essa, infatti, non
potrebbe sopravvivere senza una consistenza demografica (trend
demografico positivo), senza un territorio in relazione al quale vivere e
senza una propria lingua. La cultura non materiale, come noto, comprende
tutto il patrimonio spirituale del gruppo, la visione metafisica, il senso della
storia comune, ma anche le manifestazioni del folclore e le tradizioni legate
a musica e a letteratura popolare. Dal tipo di strutturazione sociale
dipendono la circolazione della cultura e l’omogeneità della lingua: ad
esempio, all’interno di un gruppo fortemente diviso in classi sociali chiuse,
la classe superiore cercherà di distinguersi dalle classi subalterne sia sul
piano culturale, sia su quello economico. E proprio dall’economia dipende
la capacità di espandersi del gruppo, ma anche la sua dinamica culturale e
linguistica. Infine, istituzioni politiche, metropoli (intesa come il centro
decisionale più consistente nell’area di insediamento del gruppo etnico) e
rete urbana rappresentano i “luoghi” dell’elaborazione di nuove idee e di
nuovi paradigmi comportamentali, del rinnovamento culturale e linguistico.
L’analisi di una comunità etnica si basa, dunque, sullo studio di tutti
gli elementi che la costituiscono e che la rendono unica, prestando
particolare attenzione alle relazioni tra gli elementi stessi, in quanto una
qualsiasi variazione del singolo elemento condiziona necessariamente la
reazione degli altri. Nonostante l’ovvietà di questa considerazione, non di
rado le forze politiche sembrano ignorare completamente l’esigenza di
interventi che rispettino il carattere olistico della comunità etnica.
Il concetto di etnia non va confuso con quello di nazione: il termine
etnia rimanda al profondo senso di appartenenza a una specifica
individualità culturale e linguistica, mentre il termine nazione si riferisce
alla volontà dei membri di una comunità etnica di essere soggetti attivi del
proprio divenire storico, attraverso azioni politiche atte a raggiungere una
completa autonomia. Dai concetti di etnia e di nazione derivano i fenomeni
dell’etnismo e del nazionalismo, fenomeni che hanno una diversa natura:
esistono, infatti, molte comunità etniche che non manifestano alcun
sentimento nazionalistico in quanto prive di una porzione di territorio
sufficientemente estesa, o in quanto numericamente poco consistenti o,
infine, perché appartenenti a una diversa nazione. Secondo Barbina, spesso,
33
termini come minoranza nazionale, minoranza etnica o minoranza
linguistica (strettamente legati ai concetti di etnia e di nazione) vengono
usati come sinonimi, oppure vengono investiti di una determinata carica
espressiva a seconda delle circostanze e dell’impatto che si vuole ottenere
sull’opinione pubblica.
Se, dunque, sovente accade di sentir parlare di 'minoranza
linguistica' in analogia con 'minoranza nazionale', ciò è dovuto al fatto che i
due concetti vengono erroneamente equiparati, dimenticando che, in realtà,
il termine 'minoranza' è di origine politico-parlamentare. La 'minoranza'
presuppone, infatti, una contrapposizione dialettica con la 'maggioranza': per
questo motivo è corretto parlare di 'minoranza nazionale', che si
contrappone al gruppo della nazione maggioritaria; ma è concettualmente
errato parlare 'minoranza linguistica' dal momento che fra due gruppi
linguistici o etnico-linguistici non può esservi contrapposizione, ma solo
differenziazione. E dunque, in questo caso, sembra più giusto parlare di
'comunità etnica' o di 'comunità etnico-linguistica'.
La consapevolezza dei membri di una comunità etnica minore (che
non coincide con la nazione dominante nello Stato di cui fa parte) di
appartenere a una precisa identità culturale è alla base di quei fenomeni di
etnismo, comprensibili alla luce del pericolo di alienazione culturale
avvertito dai membri stessi della comunità. Di fronte alla massificazione dei
modelli socio-culturali, che tende ad annullare le molteplici differenze tra i
popoli della Terra, la reazione delle piccole realtà culturali non va dunque
interpretata come un estremismo nazionalista, ma come una diffusa volontà
di salvaguardia della propria alterità culturale. Gli etnismi dei nostri tempi
non rappresentano certamente una minaccia per l’integrità degli Stati
nazionali (minaccia che, al contrario, i nazionalismi del passato hanno
tramutato in pericolo reale per gli Stati imperiali) e vanno capiti per quello
che realmente sono: una richiesta accorata di tutela di patrimoni culturali e
linguistici unici e preziosi. Non bisogna dimenticare, infatti, che proprio
queste piccole comunità etniche, che sono portatrici di valori spirituali più
originali e più profondi, percepiscono con maggior vigore il pericolo
dell'alienazione culturale. Tuttavia, è necessario considerare anche il fatto
che una seria ed efficace politica di tutela dell'inestimabile patrimonio
culturale, del quale ogni piccola comunità è depositaria, non può aver luogo
senza una preliminare valutazione del significato e delle motivazioni che
sottostanno alla richiesta di tutela.
Un importante punto di vista, dal quale analizzare una comunità
etnica, è fornito dall'intensità con cui i membri della comunità stessa
percepiscono il territorio che abitano. Nell'ambito della "patria etnica"
(Barbina, 1998), infatti, memoria storica e sensibilità culturale del gruppo
possono avere riferimenti difformi: esistono aree del territorio che
rappresentano l'identità culturale del gruppo in modo immediato, mentre
altre sono prive di valore.
34
Tra i vari criteri attraverso i quali è possibile definire la diversa
intensità della "etnicità" di un'area geografica, è utile seguire quello
proposto da Barbina11 (La geografia delle lingue): l'autore istituisce un
parallelismo tra il territorio etnico e quello di uno Stato che, nella maggior
parte dei casi, si è formato a partire da un nucleo territoriale centrale, dal
quale in seguito si è più o meno estesamente sviluppato. Anche nel territorio
etnico è possibile localizzare un nucleo centrale, nel quale si concentrano le
forze ideali che hanno dato vita a una particolare cultura. Nel nucleo
centrale si rileva una più intensa attività socio-politica, in esso si trovano le
principali strutture atte alla produzione e alla conservazione del patrimonio
culturale collettivo e, ancora, esso è la sede dei centri di sviluppo e di
continua elaborazione della cultura. Inoltre, il nucleo centrale costituisce
l'area di più antico e consistente popolamento e, conseguentemente, l'area
dove i riferimenti storico-culturali sono chiaramente riconoscibili. Attorno
al nucleo centrale si estende la cosiddetta "area del dominio culturale", ossia
la porzione di superficie terrestre dove quella cultura risulta dominante,
anche se con un minore grado di intensità, rispetto ad altre culture che
coesistono accanto alla principale. All'esterno dell'"area di dominio
culturale" è possibile registrare la presenza di cospicui gruppi di persone,
che appartengono alla cultura dominante, in piccoli tratti di territori
chiamati "sfere di influenza" della cultura stessa, che possono anche essere
isolati e trovarsi in ambiti territoriali dominati da una cultura diversa.
Questo criterio si rivela molto utile per la comprensione della
dinamica geografica relativa a un determinato territorio etnico:
"... il nucleo centrale è quello percepito nella psiche e nel
sentimento comune come il territorio patrio e, di norma, quello in
cui la lingua etnica possiede maggiore forza ed è meno intaccata
da influenze esterne, mentre il dominio è quello del contatto con
altre culture, nel quale avviene un continuo confronto e dove
l'interferenza con esse richiede una costante verifica competitiva
del valore della propria cultura, le sfere di influenza o sono residui
più resistenti di un nucleo centrale un tempo più allargato e poi
intaccato da una cultura diventata più forte, o sono aree in cui
parte della popolazione proveniente dal nucleo centrale è andata
ad abitare stabilmente, trasferendovi l'impronta della propria
cultura etnica." (1998, pp. 78-79)
Un ultimo spunto di analisi, relativo alla comunità etnica e alla
regione abitata da quest'ultima, riguarda il problema della percezione e della
definizione dei confini dei territori etnici. Un tale problema è, tuttavia, di
difficile soluzione in quanto il territorio etnico è esteso, quasi sempre, su
11
Barbina rimanda alla lettura del testo di N. J. G. Pounds (Political Geography,
1963) e al modello di regione culturale elaborato dall'americano Donald Meinig.
35
un'area la cui delimitazione risulta spesso imprecisa a causa della presenza,
nelle zone situate ai margini del nucleo centrale, di una frangia
caratterizzata dalla fusione degli elementi dell'etnia dominante con quelli
delle etnie circostanti, da bilinguismo di confine e dal confronto-scontro tra
culture diverse. Proprio il tema del confronto-scontro tra culture rappresenta
uno dei capitoli più appassionanti e insieme complessi degli studi di
geografia culturale e di geografia delle lingue; un tema sempre attuale che
permette di approfondire la consapevolezza dei motivi che, sempre,
dividono e insanguinano la storia di molti, troppi popoli.
2.4. La salvaguardia di lingue e di culture “minoritarie”
La tutela di lingue e di culture "minoritarie" dipende da interventi
politici e amministrativi ben precisi, ma non solo: il declino di una lingua, e
dunque di una cultura, può essere evitato grazie alla capacità di una
determinata comunità di continuare a essere autrice immediata della propria
cultura (Barbina, 1998). Il declino linguistico-culturale è il sintomo più
evidente di un processo, legato a dinamiche spesso invisibili, che porta a
una radicale trasformazione dell'organizzazione sociale ed economica della
comunità. La percezione da parte dei membri della comunità di vivere un
simile processo, percezione che la propria lingua e cultura sono in preda a
una lenta agonia, rappresenta un'esperienza traumatica, la quale si tramuta
in richiesta di aiuto e di protezione.
Gli interventi di politica linguistica, che rientrano nell'ambito delle
politiche culturali, possono essere inquadrati in base a tre diverse
prospettive. La prima si basa su una visione evoluzionista (di tipo
darwiniano) delle lingue: come le specie animali e vegetali, anche le lingue
si evolvono seguendo le leggi della lotta per la sopravvivenza che sono
fondate sul principio del più forte; dunque l'eliminazione delle lingue minori
va accettata in quanto aspetto di una regia ecologica universale. La seconda
prospettiva, al contrario, deriva da una visione di tipo conservazionista:
lingue e culture minori devono essere custodite e protette alla stessa stregua
di specie animali in via di estinzione. Infine, la terza prospettiva proviene da
un atteggiamento protettivo di tipo ecologico: le lingue fanno parte di un
complesso sistema socio-ecologico costituito da una molteplicità di
elementi; la trasformazione di uno solo di questi elementi compromette
anche gli altri e, dunque, per conservare una lingua è necessario conservare
anche tutte le forme della cultura (materiale e non) di cui la lingua stessa è
espressione. Come facilmente intuibile, questa ultima prospettiva è quella
più sensata, proprio per il richiamo alla visione multidimensionale dell'etnia
teorizzata dal Breton (cfr. il paragrafo 2.3), ma anche più facilmente
criticabile, in quanto può portare a interventi che male si adattano ai ritmi
della società odierna.
36
Oggi la salvaguardia di lingue e culture minori è un problema molto
sentito, e ciò grazie anche a un più diffuso spirito di tolleranza, che suscita
in quasi tutti una sorta di esigenza morale di difendere e rispettare anche la
cultura degli altri. Negli Stati europei, dove esistono numerose comunità
etnico-linguistiche minoritarie, sono in atto svariate iniziative di difesa,
anche grazie a specifiche decisioni del Parlamento europeo e alla preziosa
attività di enti e organizzazioni locali. Il Parlamento europeo affronta per la
prima volta il problema della tutela delle lingue minori nel 1981 e nel 1983
con le due Risoluzioni Arfè; ma il documento più importante, adottato dal
Parlamento europeo, è la Risoluzione Kuijpers, datata 30 ottobre 1987. In
tale documento viene chiesto agli Stati membri di proteggere ufficialmente
le lingue minori, favorendone l'uso scolastico e amministrativo, ammettendo
la toponomastica nella lingua locale e sostenendo finanziariamente tutte le
iniziative dedicate alla difesa della lingua minore. Il maggiore ente europeo
per la tutela delle lingue minori si chiama European Bureau for Lesser
Used Languages: esso, finanziato dalla Comunità economica europea,
svolge una intensa opera di informazione e di animazione che coinvolge
numerose realtà linguistiche e culturali.
Tuttavia, resta molto difficile dare una valutazione serena sulla reale
efficacia delle pur numerose iniziative in favore delle lingue minori; ad
esempio, secondo Barbina
"... la tutela delle lingue minori è quasi sempre una
semplice dichiarazione di democratica buona volontà, ma
raramente raggiunge i risultati per cui è stata messa in atto."
(1998, p. 95)
Questa affermazione è, purtroppo, indubbiamente vera; nonostante
ciò esistono anche testimonianze, di cui ho avuto personale esperienza e che
sono oggetto del presente studio, di una tenace volontà di difesa della
propria identità culturale, volontà di difesa che parte dai membri stessi delle
comunità minoritarie e che, forse proprio per questo motivo, si rivela più
efficace di molti altri provvedimenti generosamente concessi, ma
difficilmente realizzati.
2.5. Le comunità alloglotte del territorio italiano: problemi e prospettive
Sul territorio italiano sono presenti numerose comunità alloglotte e
proprio questa caratteristica rende la situazione linguistico-culturale italiana
uno dei casi più complessi di tutto il panorama dell’Europa occidentale.
Partendo dal nord della penisola italiana, quindi partendo dalle Alpi,
si possono incontrare coloro che la scrittrice Wolftraud De Concini chiama
“gli altri delle Alpi”, le dieci minoranze linguistico-culturali che abitano da
secoli varie regioni dell’arco alpino italiano:
37
“… i Carinziani nel Veneto e nel Friuli, i Cimbri nel
Trentino e nel Veneto, i Francoprovenzali in Valle d’Aosta e nel
Piemonte, i Friulani nel Friuli, i Ladini nelle tre province
dolomitiche di Belluno, Bolzano e Trento, i Mòcheni nella Valle del
Fersina nel Trentino, gli Occitani in una dozzina di vallate Alpine
del Piemonte, gli Sloveni lungo la frontiera nord-orientale
dell’Italia, i Sudtirolesi nel Sudtirol, l’<<Alto Adige>> degli
italiani, e i Walser in alcune vallate d’alta montagna della Valle
d’Aosta e del Piemonte.” (1997, p. 9)
Si tratta di comunità etniche, costituite da oltre un milione di
persone, plasmate fortemente dalla vita di montagna, spesso assai difficile,
fatta di lavoro e di sacrifici. Ed è proprio la montagna a rappresentare il filo
rosso che unisce queste comunità, rendendone simile l’architettura, fatta di
legno e di pietra, e le loro usanze, fondate su un sincero senso religioso e su
un antico patrimonio di miti e di leggende.
Spostandosi verso Sud e sulle isole maggiori si incontrano altre
minoranze linguistico-culturali che, insieme a quelle dell’arco alpino,
contribuiscono ad arricchire enormemente il quadro culturale del territorio
italiano: gli Albanesi in Campania, Calabria e Sicilia, i Catalani e i Sardi in
Sardegna, i Croati in Molise, piccoli gruppi di Francoprovenzali in Puglia, i
Grecani in Puglia e in Calabria, alcuni Provenzali in Calabria, gli Zingari
(Rom e Sinti) presenti su tutto il territorio nazionale.
La difesa del retaggio culturale di queste minoranze alloglotte è un
preciso dovere dello Stato italiano e degli Enti regionali, che hanno il
compito di favorire e di promuovere una legislazione rispettosa delle
differenti tradizioni culturali. Un esempio in questo senso proviene dalla
Regione Veneto che il 23 dicembre 1994 ha approvato la legge regionale n.
73 per la “promozione delle minoranze etniche e linguistiche del Veneto”.
Con questa legge, la Regione
“…riconosce nelle comunità etniche e linguistiche
storicamente presenti nel Veneto, le quali aspirano ad un
approfondimento delle ragioni della loro identità e allo sviluppo
della loro cultura in tutte le sue manifestazioni, un segno di vitalità
per la stessa civiltà veneta e uno stimolo al suo arricchimento. A tal
fine, la Regione promuove la tutela e la valorizzazione del
patrimonio storico culturale delle comunità […] e sostiene
finanziariamente le iniziative intese a garantire la conservazione, il
recupero e lo sviluppo della loro identità culturale e linguistica.”
(Palla L., 1997, p. 191)
38
La stessa legge propone, tra l’altro, una serie di iniziative culturali
degne di nota, che costituiscono uno stimolo anche per le altre Regioni
italiane:
“… la Giunta regionale è autorizzata a concedere contributi per
la realizzazione di iniziative riguardanti:
a. la tutela, il recupero, la conservazione e la valorizzazione di testimonianze
storiche che legano le comunità al proprio territorio;
b .lo sviluppo della ricerca storica e linguistica, la pubblicazione di studi,
ricerche e documenti, l’istituzione di corsi di cultura locale, la
valorizzazione della lingua e della toponomastica;
c. la costituzione e valorizzazione di musei locali o di istituti culturali
specifici;
d. l’organizzazione di manifestazioni rivolte alla valorizzazione di usi,
costumi e tradizioni proprie della comunità.” (Palla L., 1997, pp. 191-192)
Nonostante oggi sia sempre più difficile fermare il processo che
porta alla progressiva scomparsa, o trasformazione, o ancora
contaminazione, delle lingue e delle culture minori; questa legge rappresenta
la risposta concreta alle continue richieste di tutela che provengono da tutte
le comunità etniche presenti in Italia. Certo, la travolgente massificazione
linguistica e l'alienazione culturale sono due fenomeni difficilmente
contrastabili e la loro "aggressione" colpisce, ovviamente, le espressioni
culturali più deboli e meno difese. Tuttavia, oggi più che mai, in tempi di
globalizzazione l'esigenza di conservare una propria specifica identità
culturale è ancora più urgente e condivisa dalle piccole comunità, come
dalle grandi Nazioni. Una indiscriminata omologazione culturale, così come
il suo opposto incarnato da etnismi e da nazionalismi pericolosi, non può
che portare al progressivo esaurimento di antichi e inestimabili patrimoni
culturali che non appartengono solo a piccole comunità, ma a tutta l'umanità.
39
40
CAPITOLO TERZO
Origine e percorsi del popolo cimbro
3.1. Le ipotesi sull'origine del popolo cimbro
Il mistero riguardante l'origine del popolo cimbro non è ancora stato
svelato: le innumerevoli e contrastanti ipotesi, avanzate nel corso dei secoli
da studiosi ed esperti, rappresentano la dimostrazione incontrovertibile della
fallacia di ogni tentativo teso a dimostrare, al di fuori di ogni dubbio, quale
sia l'origine dei Cimbri che hanno scelto di abitare le montagne venete e
trentine. Tale situazione è dovuta alla mancanza quasi completa di fonti
storiche certe che possano sciogliere definitivamente gli intricati nodi della
questione.
Una delle teorie più diffuse sull'origine delle genti alloglotte,
residenti sulle montagne del Vicentino, del Veronese e del Trentino
meridionale, identifica tali popolazioni con i discendenti degli antichi
Cimbri, i temibili nemici di Roma sconfitti e distrutti dall'esercito del
console Caio Mario in una cruenta battaglia ai Campi Raudii, presso
Vercelli, nel 101 a. C. I Cimbri sconfitti dai Romani provengono dalla
Penisola dello Jutland; circa duecento anni prima di Cristo il popolo cimbro
deve emigrare verso sud, spinto dall'onda dei grandi flussi migratori dei
popoli germanici: essi invadono i territori delle attuali Germania, Francia e
Spagna, infliggendo disastrose sconfitte ai Romani. I Cimbri penetrano in
Italia dalle Alpi Occidentali ma, dopo aver raccolto il grosso della
popolazione che si trovava nella Gallia Narbonese in virtù dell'alleanza
stretta con i Teutoni, incontrano appunto l'invincibile opposizione
dell'esercito romano. La leggenda vuole che uno sparuto gruppo di guerrieri
cimbri sia riuscito a salvarsi dall'orrendo massacro (Plutarco parla di
140.000 morti e di 60.000 prigionieri12) e si sia rifugiato sulle montagne del
Vicentino e del Veronese, vivendo indisturbato e protetto grazie all'asperità
dei luoghi: i guerrieri fuggitivi sarebbero quindi i progenitori degli attuali
Cimbri. Primo sostenitore di questa teoria è il letterato veronese Antonio
Marzagaja, vissuto tra il XIV e il XV secolo. L'ipotesi di un'origine cimbra
degli abitanti delle montagne venete e trentine trova fortuna e si diffonde
rapidamente, al punto che, nel 1314, il poeta vicentino Ferreto de' Ferreti
nomina ripetutamente i Cimbri nelle sue opere e rivolge alla città di Vicenza
l'appellativo di Cymbria.
12
Plutarco, Flor. Epit. 68, Pavin. I. 2. c. 7.
41
Tuttavia, questa ipotesi è stata ampiamente smentita13: approfonditi
studi storici e linguistici hanno dimostrato le numerose lacune di tale
leggenda creata dalla fervida immaginazione di storici ed eruditi medievali.
Innegabilmente l'alone di mistero che avvolge la saga dei bellicosi Cimbri,
venuti dalla remota Penisola dello Jutland per conquistare terre e
sottomettere popolazioni, attrae l'appassionato di oggi come, un tempo, deve
avere attratto lo studioso del Medioevo.
I primi tentativi di rischiarare le tenebre che oscuravano, e che
ancora oscurano, la vera origine dei Cimbri odierni vengono compiuti dagli
illuminati pensatori settecenteschi. L'abate Agostino Dal Pozzo Prunner
(1732-1798), nato a Rotzo sull'Altopiano di Asiago e vissuto nell'ultimo
secolo della Serenissima Repubblica di Venezia, è autore della notevole
opera Memorie istoriche dei Sette Comuni vicentini (opera postuma
dell'abate Agostino Dal Pozzo) pubblicata a cura del cimbro Angelo Rigoni
Stern nel 1820. L'opera consta di tre parti: la prima parte tratta della storia
cimbra nelle sue linee generali, la seconda parte è dedicata allo studio dei
comuni e delle frazioni dell'Altopiano di Asiago, nella terza parte, infine,
l'autore prende in esame i territori contigui all'Altopiano, abitati da gente
cimbra. Nella prima parte sono presenti gli elementi più innovativi delle
teorie dell'abate: non solo, infatti, vengono affrontate tutte le problematiche
generali (storia, lingua14, fede, carattere, usi e costumi, geografia) che
13
Nonostante ciò, tale ipotesi è sorprendentemente radicata nell'immaginario
collettivo degli attuali Cimbri. Nerio de Carlo, studioso del popolo cimbro, nel suo
testo I Cimbri del Cansiglio riporta, attraverso le parole dei discendenti dei Cimbri,
la leggenda che i padri tramandano ai figli:
"De ünzarn eltarn habent hortan kchöt, dass ünsar stam vun zimbarn ist von
taüschen lentarn af an nort kömet i des bellische lant, in zait vom krige, ba dar
grosse stroach ist den gant übel.
Des grosseste toal von krigarn ist gevallet toat, un de andarn haben sich verporget
in balt ate perge von draizen kamaün oben vern un dandare ate perge von ünzarn
züben kamaün oben vitschenz.
Übar disa hoge ebene in daü zait ist gabest alles an balt, ba habent genestet de
pearen un de wölve, un koane làüte."
"I nostri genitori hanno sempre raccontato che la nostra stirpe di Cimbri è giunta
nel paese latino dai territori tedeschi del nord, in tempi di guerra, non essendo loro
riuscita la grande battaglia.
La maggior parte dei guerrieri è caduta e gli altri si sono nascosti nel bosco sui
monti dei tredici Comuni sopra Verona ed altri sui monti dei nostri sette Comuni
sopra Vicenza.
Su questo Altipiano a quel tempo c'era una grande foresta, dove proliferavano orsi
e lupi, e non la gente."
14
L'abate Dal Pozzo è, inoltre, autore di un vocabolario della lingua cimbra,
purtroppo andato perduto. Inoltre, l'abate è sempre stato un appassionato sostenitore
del valore della parlata cimbra e la seguente riflessione, tratta dalla sua opera
42
riguardano l'Altopiano e i suoi abitanti, ma soprattutto viene trattata la
difficile questione delle origini dei Cimbri. L'autore si sofferma ad
analizzare le diverse ipotesi avanzate dagli studiosi per spiegare l'origine dei
Cimbri. La prima ipotesi vede nella popolazione dei Reti i progenitori dei
Cimbri: gli altipiani dei monti Lessini si trovano al centro dell'antica Rezia, i
primi abitatori di tale zona erano Celti e celtiche sono le origini dei Reti;
tale popolo, divenuto aggressivo nei confronti dell'Impero Romano, suscita
le ire dell'imperatore Ottaviano Augusto che decide di inviare un esercito a
sottometterli. Le cruente battaglie che si verificano in seguito alla decisione
imperiale, portano allo sterminio dei Reti: i pochi sopravvissuti si sarebbero
rifugiati sui monti Lessini e da essi deriverebbero i Cimbri.
La seconda ipotesi è basata sulla convinzione, di cui ho già avuto
modo di parlare precedentemente, della discendenza dei Cimbri attuali dai
superstiti degli antichi Cimbri sterminati dall'esercito romano nel 101 a. C.
L'abate nota che proprio a causa di questa errata opinione si è cominciato a
riferirsi alle genti che vivono nei luoghi in questione con il nome di
"cimbri". I sostenitori dell'ipotesi cimbra vengono accusati dall'autore di
avere erroneamente trasferito la battaglia dei Campi Raudii dalla piana di
Vercelli alla campagna veronese, dove si trovava una località anticamente
chiamata Raldone, scambiata per Raudium. Inoltre, Dal Pozzo sottolinea il
grave errore commesso da un copista di Tito Livio nella trascrizione di un
passo fondamentale, che Tito Livio stesso riprende da Plutarco e che
costituisce il primo anello della catena di errori storici commessi in seguito.
Plutarco, nella sua opera Fortuna dei Romani, narra di come nel 102 a. C. il
console Quinto Lutazio Càtulo venga inviato a fronteggiare i Cimbri
penetrati in Italia dalle Alpi Occidentali: abbandonato dai soldati, il console
non riesce ad allontanare i Cimbri dalla riva sinistra dell'Atisone, "apud
Memorie storiche dei Sette Comuni, esprime a pieno la sua posizione a riguardo:
"Eppure chi il crederebbe! In un angolo de' Sette Comuni, dove attesa la situazione,
il linguaggio tedesco potrebbesi conservare e più puro, e più a lungo che in altri
luoghi, gli abitanti sono venuti da qualche tempo a tale riscaldamento di fantasia,
che odiano e vilipendono la propria lingua, vergognandosi di parlarla quasi fosse
un disonore e una infamia il servirsene. Non basta proibiscono ai figli di
apprenderla, e agli ospiti di parlarla nelle loro case, a fine di abolirla ed
annientarla. E non è questa una barbara e inaudita crudeltà detestare il linguaggio,
che succhiarono col latte: che fu sì caro ai loro antenati: che caratterizza e
distingue la nostra privilegiata nazione dalle vicine, e ch'è l'argomento più decisivo
che abbiamo della nostra antichità ed origine: Argumentum originis? Ben si può
applicare a costoro il rimprovero che Cicerone scagliò contro a que' Romani che
trascurarono di coltivare il proprio idioma, appellandoli scimuniti e vanarelli!
Questi tali in pena di aver cooperato alla perdita della nativa lor lingua,
meriterebbero d'esser privati per sempre del beneficio di godere dei privilegj
accordati alla nazione de' Sette Comuni, di cui si vergognano d'esser parte
disdegnando di parlarne la lingua." (citato in Bonato S., Rigoni P., 1987, p. 59).
43
Athisonem flumen" scrive Plutarco. L'Atisone è un modesto corso d'acqua
che nasce nelle Alpi Pennine, scorre lungo la Valle d'Ossola fino al Lago
Maggiore. Tale fiume ha cambiato nome nel corso dei secoli: Atibona,
Atisone, Atosa, Tose e oggi Toce. Il copista di Tito Livio si è reso colpevole
di aver trascritto "ad flumen Athesim" in luogo di "ad flumen Athisonem";
errore che Dal Pozzo reputa comprensibile in considerazione del fatto che i
copisti del tempo ben conoscevano il fiume Athesim ossia l'Adige,
facilmente confuso con il meno noto Athisonem. L'abate Dal Pozzo
attribuisce allo scrittore Lucio Anneo Floro, autore di un'opera scritta a
distanza di un secolo e mezzo dalla battaglia ai Campi Raudii e composta da
due libri in cui si racconta la storia delle guerre di Roma nei settecento anni
che vanno dalla fondazione ad Augusto, l'imprudenza di avere accettato tale
versione senza una necessaria indagine preliminare tesa ad accertare la
correttezza della fonte. Questa serie di equivoci costituisce le fragili
fondamenta della "ipotesi cimbra" teorizzata da eruditi e scrittori veronesi
tra cui il già citato Marzagaja, il veronese Marco Pezzo15 e il marchese
Scipione Maffei16.
15
Autore dell'opera Dei Cimbri veronesi e vicentini pubblicata nel 1763.
Autore dell'opera in cinque volumi Verona illustrata pubblicata nel 1732. Il
marchese Maffei, inoltre, è autore di una importante lettera indirizzata a Hans Gram,
bibliotecario del Re di Danimarca e professore di lingua greca all'università di
Copenaghen, nella quale viene ribadita la sua posizione sull'origine delle genti che
abitano i Monti Lessini. Tralasciando le parti meno rilevanti, riporto di seguito il
brano saliente della citata epistola, datata 20 febbraio 1748:
"[...] V. S. Ill.ma desidera notizie precise della lingua che si parla in alcune terre
delle nostre montagne; a buona stagione io anderò là di nuovo, e procurerò
ricavarne quanto sarà possibile, e di tutto le darò ragguaglio: ma sappia, che tal
lingua si va perdendo, e i pochi che fra loro la parlano, non sanno dire in essa se
non le cose triviali e usuali. Non sarà possibile però trarne quanto ella vorrebbe. Il
fondo è certamente germanico, e il pronunziare ià e non iò, basser e non bosser mi
fa credere che non venissero dalle province prossime all'Italia, ma dalle parti di
Sassonia vicine al mare, dove stettero prima i popoli usciti dalla penisola Cimbrica
e dalle isole del Baltico, che passarono poi nell'Italia. Il nostro popolo per
antichissima tradizione li ha sempre chiamati Cimbri.
Non mi è possibile di scrivere più oltre. Mi conservi la sua grazia e mi creda pieno
di stima del suo ingegno e del suo sapere.
Mi comandi con piena libertà ove mai volesse.
Di V. S. Ill.ma
deditissimo observantissimo servitore
Scipione Maffei
Fonte: Marchi G.P., "L'origine danese dei <<cimbri>> veronesi in una lettera di
Scipione Maffei ad Hans Gram", in Gaburro G., Robiglio Rizzo C., Zalin G. (a cura
di), Per Vittorio Castagna. Scritti di geografia e di economia, Cedam, 2000, pp.237238.
16
44
La terza ipotesi, riportata dall'abate e avanzata da storici padovani e
veronesi17, poggia sull'affermazione di una discendenza degli attuali Cimbri
dai Tigurini18, antichi abitanti dell'Elvezia. La bellicosa popolazione dei
Tigurini, spinta dal bisogno di nuove terre, invade a ovest la valle del
Rodano sconfiggendo i Romani guidati dal console Lucio Cassio, e
attraversa a est le Alpi Noriche irrompendo sui monti Lessini e preparandosi
a calare nella pianura padana. Lo storico Lucio Anneo Floro narra di come i
Tigurini, stretta un'alleanza con i Cimbri, quando questi si trovano in
difficoltà ai Campi Raudii, non rispettino il patto di reciproco aiuto
preferendo stabilirsi definitivamente nel Norico e dando origine alla schiatta
delle genti che oggi chiamiamo cimbre. Dal Pozzo evidenzia l'inconsistenza
di tale teoria; secondo il suo parere i Tigurini, in seguito alla sconfitta dei
Cimbri, sarebbero infatti tornati alle loro terre d'Elvezia proseguendo la loro
corsa per la conquista che ne causerà lo sterminio qualche decennio dopo.
Numerose e controverse sono le fonti storiche a cui attinge l'autore
per illustrare la quarta opinione fondata sull'ipotesi di una radice alemanna
dei popoli Cimbri. L'origine degli Alemanni va ricollegata alla conquista
romana della Germania, alla distruzione dei Sicambri19 e all'emigrazione di
Marcomanni20 e Svevi verso la Boemia, spinti dalla minacciosa e
inarrestabile avanzata delle legioni romane. Un tale movimento di popoli
determina un vuoto nel territorio situato nel tratto di Svevia lungo il Reno,
delimitato a nord dal Meno e a est dall'alto corso del Danubio. In seguito
all'occupazione di questo territorio, i Romani si adoperano per il
ripopolamento della zona richiamando genti vicine, in particolare Elveti,
Sequani21, Galli e Germani. Da un simile coacervo di popoli nasce la
17
Cfr. le ipotesi di Giovanni Costa Pruck riportate in seguito.
Antica popolazione celtica, i Tigurini formano il ramo più importante degli Elvezi.
Sospinti dai Cimbri, minacciano la Gallia meridionale (108 a. C.) e attaccano un
esercito romano (107 a. C.), che distruggono, uccidendo anche il console Lucio
Cassio Longino. Capo di tali imprese è Divico, lo stesso che viene gravemente
sconfitto da Cesare nel 58 a. C.
19
Popolo della Germania antica, stanziato sulla destra del Reno. Si salvano da una
spedizione punitiva di Cesare, fuggendo verso oriente, nel 55 a. C. Nell'8 a. C.
vengono sconfitti da Tiberio, il quale trasferisce i prigionieri sulla riva opposta del
Reno.
20
Popolo germanico della stirpe dei Suebi, stanziato tra il medio corso dell'Elba e
l'Oder. Durante l'ultimo decennio avanti Cristo, i Marcomanni emigrano nel paese
dei Boi, l'odierna Boemia, dove, grazie all'opera energica del loro re Maroboduo,
raggiungono l'apogeo della loro potenza estendendo il loro dominio su molti popoli
vicini. Dopo la morte di re Maroboduo, i Marcomanni vengono dominati da principi
spesso imposti da Roma. Numerose guerre vengono combattute sul Danubio
dall'imperatore Marco Aurelio contro i Marcomanni. Tra il V e il VI secolo d.C. il
loro nome scompare: probabilmente, sospinti da altri popoli, si spostano in Baviera.
21
Antica popolazione gallica abitante gli odierni territori del Giura, Doubs, Alta
Saona e parte dell'alto Reno, con capitale in Vesontio (Besançon). Sono ricordati
durante le campagne galliche di Cesare (58-52 a. C.) come avversari degli Edui e
18
45
nazione degli Alemanni, o Allemanni, termine che significa appunto <<ogni
sorta di uomini>>; dal nome della regione abitata, gli Alemanni vengono
chiamati anche Svevi. A distanza di due secoli dalla sua formazione, il
popolo degli Alemanni comincia a spostarsi verso le terre del sud e, nella
prima metà del primo millennio dopo Cristo, invade la Rezia e irrompe in
Italia. Tra le numerose battaglie che gli Alemanni combattono sul territorio
italiano contro l'Impero Romano, i sostenitori dell'origine alemanna dei
Cimbri riportano quella del 368 d. C., presso il Lago di Garda, battaglia che
vede gli Alemanni soccombere di fronte alla superiorità dell'esercito
romano. Secondo i sostenitori dell'ipotesi alemanna, dunque, i sopravvissuti
al massacro avrebbero riparato sulle montagne veronesi e vicentine e sono
quindi da considerarsi i padri dei Cimbri di oggi. L'abate Dal Pozzo fornisce
un ulteriore elemento che costituisce il cavallo di battaglia dei sostenitori di
questa quarta ipotesi: in conseguenza dell'emigrazione massiccia degli Angli
verso la Bretagna, lo spopolato territorio della Sassonia viene occupato da
consistenti nuclei di Svevi o Alemanni. I nuovi popoli prendono il nome di
Sassoni, ma continuano a parlare il proprio dialetto alemanno, dialetto del
quale si trovano interessanti coincidenze nel dialetto cimbro veneto.
Solitamente l'abate Dal Pozzo mantiene una certa prudenza e
obiettività nell'esposizione delle varie opinioni riguardanti l'origine dei
Cimbri; tuttavia, nei confronti della quinta ipotesi, il registro dell'autore
cambia del tutto esprimendo apertamente un forte dissenso. La quinta teoria
viene formulata dall'umanista vicentino Antonio Loschi il quale, nella sua
opera Compendio storico, dichiara essere "...gli abitanti dei Sette Comuni
terribili e cervicosi, reliquie degli Unni...". Tale ipotesi, che trova molti
sostenitori, dimostra la scarsa conoscenza non solo della storia, ma anche
delle abitudini e della lingua di questi popoli, decisamente lontane da
abitudini e lingua degli Unni. L'autore nota infatti che la crudeltà, la ferocia
e le violente consuetudini degli Unni sono assolutamente estranee all'indole
delle genti che popolano i monti veneti e trentini.
Tra i teorici della sesta ipotesi sono presenti letterati vicentini:
Francesco Scoto, nell'opera Itiner Italiae edita a Vicenza nel 1610, a
proposito degli abitanti dei Sette Comuni afferma che "...molti credono che
queste genti siano reliquie de' Goti...". Già nel 1598, il conte Francesco
Caldogno, colonnello delle milizie dei Sette Comuni, viene inviato dalla
Repubblica di Venezia a esaminare i confini territoriali con l'impero
asburgico nelle Alpi vicentine. Nella sua Relazione manoscritta sulle Alpi
vicentine, Caldogno scrive:
"Questi uomini delli Sette Comuni, siccome tutti gli altri
delli monti vicentini, per l'ordinario, parlano in tedesco, con
tuttoché molti abbiano anco la lingua italiana; ed è comune
opinione che siano di nazione Goti, Ostrogoti, ovvero Cimbri, che
quindi dei Romani, e più tardi come alleati di Vercingetorige.
46
già vennero per debellare l'Italia, e, da' Capitani Romani rotti e
vinti, si ridussero sopra li monti vicentini. Né sono molte decine di
anni, che parte di loro vicini alla città hanno persa quella lor
lingua, che appunto è la medesima de' Goti, co' quali parlando
insieme, benissimo l'intendono; sebbene anco, in qualche parte,
hanno questa intelligenza di lingua con il resto delle genti
d'Alemagna, da' quali anco poco discordano, tenendo questi come
quelli del selvatico, e servando ancora la fortezza e robustezza di
corpo ed animi loro; molto disposti per le bene qualificate membra
a tollerar qualunque fatica e disagio." (citato in Bonato S., Rigoni
p., 1987, p. 57)
Secondo tale ipotesi, dei Goti scampati alla sconfitta inflitta loro dai
generali Belisario e Narsete, durante la guerra greco-gotica (535-555 d. C.)
voluta dall'imperatore Giustiniano, alcuni si sottomettono, altri fuggono tra
le montagne della Rezia e altri ancora trovano ricovero sui monti vicentini e
veronesi. L'autore afferma che esiste una memoria manoscritta lasciata da
Gianmaria Forte, antico Rettore della Chiesa di San Rocco di Asiago, che
contiene nomi di famiglie di stirpe gota, prime abitatrici della piana dove in
seguito è sorta Asiago.
L'ultima ipotesi presa in esame dall'abate Dal Pozzo si impernia
sulla convinzione che l'origine degli attuali Cimbri sia da far risalire a una
immigrazione secondaria, avvenuta sotto gli Ottoni. Nel 952 d. C. Ottone I
separa dal regno d'Italia tutto il territorio fra l'Adige, il mare e l'Isonzo e, con
i nomi di <<Marca di Verona>> e <<Marca del Friuli>>, lo annette al
Margraviato di Carinzia, dipendente dal Ducato di Baviera, retto allora da
Enrico, fratello di Ottone. Scopo dell'imperatore sassone è quello di
assicurare un varco agevole e sicuro per ogni eventuale transito degli
eserciti tedeschi; inoltre Ottone I manda coloni con l'intento di germanizzare
la zona. Da tali coloni, quindi, deriverebbero gli odierni Cimbri.
Il grande merito dell'abate Agostino Dal Pozzo è quello di avere
riportato le sette ipotesi nel pieno rispetto di una autentica imparzialità: tale
atteggiamento è dimostrato dalla serena esposizione delle sette teorie e dalla
libertà lasciata al lettore nella scelta dell'ipotesi a cui dare credito. Uniche
eccezioni a tale spirito di obiettività sono le critiche rivolte alla seconda
opinione, che come ormai noto deriva da un errore storico, e le critiche alla
quinta opinione, che scaturisce da una superficiale conoscenza dei fatti
storici. Degne di nota sono anche la forma dimessa, l'assenza di posizioni
cattedratiche e la volontà di non imporre alcuna verità assoluta: ogni facoltà
decisionale viene rimessa al lettore.
47
Cronologicamente22 il primo studioso che, sulla base delle proprie
conoscenze di idiomi germanici, abbia negato sistematicamente l'origine
cimbra delle genti che popolano i monti veneti e trentini è l'abate Giovanni
Costa Pruck, nato ad Asiago nel 1737 e morto nel 1816. L'abate sostiene non
solo l'infondatezza della presunta fuga dei Cimbri, sconfitti e sterminati dai
Romani nelle valli alpine, e la nostra quasi completa ignoranza rispetto alla
lingua parlata da questo antico popolo, ma soprattutto il fatto che il danese,
parlato da secoli nella patria originaria degli antichi Cimbri, non ha nessuna
somiglianza con i dialetti germanici parlati sul versante italiano delle Alpi,
simili piuttosto a quelli parlati in Svizzera, Austria e Germania meridionale.
In virtù di tali convinzioni, l'abate tenta di ricollegare l'idioma parlato in
Veneto e Trentino a qualcuno dei dialetti germanici sopra ricordati: nella
sua Dissertazione sulla origine cimbrica delle popolazioni delle Alpi
vicentine, veronesi, trentine e sauriche, datata 5 febbraio 1789, l'autore
sostiene che progenitori degli attuali cimbri potrebbero essere i Tigurini, che
avrebbero parlato un dialetto simile a quello parlato dai Cimbri veneti e
trentini. Tuttavia, l'autore non è in possesso di dati storici e linguistici certi,
dati necessari a dare una base di verità a una intuizione non del tutto errata. I
numerosi studi successivi hanno, infatti, confermato la tesi generale di una
stretta parentela del "cimbro" con i dialetti tedeschi meridionali.
La ricerca delle perdute origini delle genti germanofone, conosciute
dai più con il nome di <<cimbri>>, ma che Cimbri23 non sono, annovera un
cospicuo gruppo di studiosi che continua a crescere anche oggigiorno.
Conseguentemente, risulta impossibile, oltre che poco utile, analizzare ogni
singola posizione a riguardo, a maggior ragione in considerazione del fatto
che molte di esse sono prive del minimo senso storico e quindi fuorvianti.
Tuttavia, prima di passare all'analisi dei percorsi seguiti dal popolo
Cimbro, trovo utile soffermarmi a esporre le teorie di una importante
personalità del panorama di conoscitori della <<questione cimbra>>: il
glottologo tedesco Bruno Schweizer (1867-1958).
22
Il motivo per cui ho deciso di trattare per prima la figura dell'abate Agostino Dal
Pozzo è dovuto, semplicemente, alla mia volontà di maggior chiarezza espositiva: la
dettagliata analisi di Dal Pozzo rende, infatti, decisamente più agevole la
comprensione delle successive opere relative agli studiosi analizzati in seguito. Va
notato, tuttavia, che i due religiosi sono contemporanei e che mentre l'opera di Costa
Pruck è stata pubblicata quando l'autore era ancora in vita (1789), l'opera di Dal
Pozzo è postuma ed è stata scritta nell'arco di una vita intera. Inoltre, i due si
conoscevano ed erano al corrente dei rispettivi studi.
23
In considerazione del fatto che il popolo in esame è conosciuto da molti con il
nome di Cimbro, continuerò a chiamare il suddetto popolo con tale denominazione,
pur nella consapevolezza di compiere una imprecisione terminologica. Va comunque
detto che la denominazione di <<Cimbri>> è ampiamente accettata anche dai vari
musei e istituti di cultura a essi dedicati: pare proprio che i sostenitori della seconda
ipotesi abbiano in parte vinto!
48
Lo Schweizer è autore di un copioso numero di studi che
abbracciano tutti i campi di indagine sulla storia e sulla lingua dei Cimbri
che popolano Veneto e Trentino: le analisi del glottologo, infatti,
comprendono non solo accurate riflessioni squisitamente linguistiche, ma
anche ricerche sulla religiosità di queste genti, sulle tradizionali attività
legate al volgere delle stagioni, sulle credenze popolari, sull'abbigliamento,
sull'alimentazione e su quant'altro caratterizza questa particolare
popolazione. Gli scritti dello Schweizer sono il frutto di osservazioni dirette
sul territorio e, quindi, di meditazioni condotte alla luce di una vasta
conoscenza storica e linguistica. Di grande interesse è il metodo di
screening scientifico ideato e utilizzato dal glottologo: esso è fondato su un
questionario, minuziosamente diviso per argomenti sulla base di una
preliminare ricognizione della materia di studio, che lo studioso sottopone
oralmente alla gente dei comuni e che egli stesso compila. Gli argomenti
contenuti in tale questionario riguardano tutti gli aspetti che possono
stimolare non solo la notizia, ma anche uno spontaneo fervore narrativo
nella persona interpellata: i temi principali sono dunque la lingua (capacità
di parlarla e capirla), la vox populi sull'origine dei Cimbri, le superstizioni,
le tradizioni, le creature fantastiche, la concezione dei rapporti familiari, le
arti, i mestieri, la musica, gli antichi proverbi, la rappresentazione della
natura e il folclore. In questo modo, lo studioso ottiene non solo una ima
ricostruzione socio-culturale di queste remote comunità alloglotte, ma
soprattutto consegue la consapevolezza di quel fenomeno di contaminazione
linguistica che avviene attraverso il graduale adattamento della parlata
cimbra alla morfologia della lingua italiana. I risultati sintattici,
grammaticali e fonetici di un simile processo vengono, in un secondo tempo,
classificati e codificati secondo precisi canoni glottologici. Il fenomeno
linguistico maggiormente studiato dallo Schweizer è quello del
consonantismo, ma non mancano dissertazioni sulla comparazione
sistematica tra l'Antico e il Medio Alto Tedesco e sulle relative
delucidazioni etimologiche.
Per quanto concerne la questione dell'origine dei Cimbri, la
posizione dello Schweizer è riconducibile alla sua profonda competenza nel
campo della dialettologia tedesca e della filologia germanica: tale posizione
è espressa, con il supporto di fondate analisi, nel testo di una conferenza che
l'autore tiene a Zurigo nel 1948. Il testo è interessante non tanto per novità
di contenuto, quanto piuttosto per la chiara sintesi della posizione dello
Schweizer sulla <<Questione longobarda>> che è anche <<Questione
Cimbra>>24. Infatti, l'autore scrive:
24
I termini <<Questione longobarda>> e <<Questione Cimbra>> sono riportati
direttamente dal testo della conferenza del 1948. Per quanto riguarda la traduzione di
tale testo, mi rifaccio a quella di Vinicio Filippi in Nordera C. (a cura di), Settecento
anni di Taucias Gareida, Giazza (Verona), Edizioni Taucias Gareida, 1987.
49
"Per <<Questione longobarda>> intendo semplicemente
quella della sopravvivenza di tale popolo dopo il crollo del suo
regno con la caduta di Pavia nel 774. I longobardi non vennero né
estirpati né trasferiti, ma rimasero dov'erano, e si sa che si erano
mostrati sorprendentemente sani, di persistenti caratteristiche e
fecondi. E' del tutto irragionevole che siano scomparsi, e l'usuale
espressione per scusare la nostra ignoranza è che <<i longobardi
sono stati assorbiti nel popolo italiano>>."25 (p. 13)
Queste riflessioni iniziali anticipano il punto di vista da cui l'autore
intende affrontare il problema relativo all'origine dei Cimbri; egli è, infatti,
persuaso di una possibile discendenza delle genti alloglotte di Veneto e
Trentino dai Longobardi. Lo Schweizer, attraverso un complesso itinerario
storico-linguistico, giunge ad asserire la decisiva influenza di duecento anni
di regno longobardo sullo sviluppo culturale italiano e occidentale; prova ne
siano le rimarchevoli tracce lessicali longobarde presenti nella lingua
italiana. E proprio una lunga e particolareggiata serie di analisi linguistiche
porta l'autore ad affermare:
"Ricavando da queste e simili constatazioni le conseguenze
conclusive riguardo all'origine, pervengo al risultato che i cimbri
sono saliti alla loro patria odierna da un territorio a coltura di
cereale e con case di pietra nella pianura meridionale della Val
Padana: ne offre testimonianza anche l'appartenenza delle
parrocchie. Essi devono, inoltre, venire da un luogo dove sono
vissuti per secoli assieme a gente neolatina in area a lingua mista."
(p.27)
Lo Schweizer, dopo aver spiegato che durante il regno longobardo si
era formata in Italia una grande isola linguistica e dopo aver documentato
che Vicenza era il principale centro di irradiazione di nomi longobardi,
conclude la prima parte della conferenza con le seguenti parole:
"Poiché ora da una parte possiamo supporre fra i
longobardi un continuarsi della loro lingua fin entro il X-XI secolo
e dall'altra, in base a criteri storici e linguistici, dobbiamo porre la
prima comparsa dei cimbri proprio in questo tempo e in questo
luogo, così non c'è alcun motivo ragionevole per doversi negare
che i due popoli siano entrati in reciproca connessione.
Il problema dell'origine dei cimbri va in qualche modo
collegato con la questione della scomparsa dei restanti longobardi,
25
Schweizer B., "Questione longobarda questione <<cimbra>>", Settecento anni di
Taucias Gareida, Giazza (Verona), Ed. Taucias Gareida, 1987.
50
benché si debba lasciar aperta la possibilità di un certo influsso
aggiuntivo dell'etnia franca, alemanna e bavarese." (p. 28)
Nella seconda parte della conferenza, lo Schweizer si propone di
dare una soluzione plausibile a due interrogativi fondamentali: il primo
esprime l'esigenza di indagare le cause della presenza dei Cimbri sulle
montagne (dal momento che l'autore afferma che i Cimbri sono venuti dalla
pianura), il secondo interrogativo esige un canone interpretativo
dell'evidente differenza tra il cimbro attuale e la lingua longobarda,
ricostruibile in base ai termini dei documenti e agli imprestiti linguistici.
Per rispondere al primo dei due interrogativi, l'autore rimanda alla
consuetudine del popolo longobardo, ma non solo, di proteggere i confini
del regno tramite insediamenti limitanei di arimanni, a cui viene dato un
lembo di terra da coltivare. Gli arimanni ricevono, inoltre, il possesso di
monti boschivi e di alti pascoli, gli stessi dove oggi vivono i Cimbri. Tali
insediamenti portano a una concentrazione dell'elemento etnico germanico:
non è dunque da escludersi che nel territorio occupato dagli arimanni si sia
conservato qualche resto della lingua e della cultura longobarda più a lungo
che altrove. Con il passare del tempo, gli arimanni decidono di prolungare il
soggiorno nelle malghe anche durante la stagione invernale:
"Singoli figli tardivi delle comunità arimanne - che nel
medioevo finale i dotti ascrissero di cimbri di Mario, poiché ci si
vergognava di discendere dai decaduti longobardi - alcuni di tali
figli, i quali altrimenti avrebbero dovuto guadagnarsi la vita
lavorando come pastori e giornalieri, si stabilirono nella terra
comunale fino ad allora disabitata e appena utilizzata, che avevano
conosciuto durante il lavoro estivo. Divennero pertanto coloni
indipendenti da fratelli e parenti." (p. 30)
Prima di rispondere al secondo interrogativo, l'autore si sofferma a
considerare i punti di contatto tra Bavaresi e Longobardi: secondo lo
Schweizer, infatti, le due stirpi sono strettamente imparentate e, per un certo
periodo, divengono solidali a causa dei minacciosi Franchi, nemici comuni.
"Naturalmente, questo portò ad un vivo scambio culturale,
che in prima linea si operò da sud a nord, come testimoniano molti
ritrovamenti in tombe a schiera bavaresi. Più tardi la Baviera
persino adì una parte dell'eredità longobarda, quando vennero
sotto la sua signoria per cinquant'anni le marche di Verona, Trento
e del Friuli costituite nel 951. Per l'ormai maggior influsso
bavarese possiamo determinare un progredire in direzione a sud di
fenomeni linguistici e culturali bavaresi." (p. 31)
51
Tale reciproca influenza spiegherebbe, secondo l'autore, la presenza nella
parlata cimbra di sedimenti linguistici risalenti all'antico bavarese. Inoltre, lo
Schweizer narra di come abbia scoperto, durante un periodo di studi
trascorso a Roana nel 1942, tra le numerose parole cimbre di possibile
origine longobarda, una sorta di espressione composta il cui suono e
significato rimanderebbero al longobardo antico. Quindi, secondo quanto
detto in conclusione dall'autore
"Corrono, dunque, immediate relazioni linguistiche
risalenti dai cimbri odierni ai veri longobardi antichi. Va senz'altro
supposta l'inclusione di preesistenti frammenti etnici di goti, gepidi,
alemanni, franchi e bavari, come il forte influsso dell'anteriore
popolo latino autoctono. [...] In ogni caso, con la mia ipotesi di
lavoro poggiante su nuovo materiale credo di offrire agli studiosi
futuri una guida, con la quale indicare daccapo il problema
longobardo in connessione con quello cimbro. Se le linee tracciate
si dimostrino conclusive, dev'esser provato ancora a livello storico,
giuridico, folcloristico e onomastico." (p. 33)
52
3.2. I percorsi del popolo cimbro
Le indagini, tese a chiarire l'origine dei Cimbri, nella transizione
attuale non hanno ancora fornito elementi di assoluta evidenza che possano
motivare una scelta definitiva tra il florilegio di tesi e di argomentazioni in
proposito. La tendenza generale da parte di ricercatori e di appassionati è
quella di dare credito ad alcuni documenti che testimoniano uno stretto
collegamento, già a partire dal X secolo, tra l'area linguistica tedesca e i
territori delle province di Trento, Verona e Vicenza. É quasi certo che,
proprio tramite tali relazioni (la diocesi di Frisinga, ad esempio, possedeva
terre confinanti con i Sette Comuni vicentini), siano giunti, a partire dall' XI
e dal XII secolo e in tempi successivi, coloni provenienti dalla Baviera e
dall'Austria occidentale e diretti nelle province trentine e venete.
La più antica colonia cimbra è quella dei Sette Comuni, che si
trovano sull'Altopiano di Asiago; purtroppo, nessuno studioso è ancora
riuscito a stabilire il periodo preciso di questa prima ondata immigratoria,
anche se sembra che questa sia da collegarsi agli incentivi offerti da vescovi,
di origine tedesca e appartenenti alle diocesi di Vicenza e di Verona (9831122 d.C.), ai coloni che decidono di stabilirsi sul territorio e di renderlo
coltivabile. La variante linguistica parlata nei Sette Comuni presenta alcune
caratteristiche dell'Antico Alto Tedesco26, idioma della Germania
meridionale parlato tra il 750 e il 1050 d. C. circa: tale circostanza ha
permesso agli studiosi di dichiarare che i coloni sono originari del Tirolo
occidentale. Dopo un certo periodo di tempo, alcuni di questi coloni
decidono di lasciare l'Altopiano di Asiago e di spingersi verso ovest, nella
zona di Posina27, probabilmente sollecitati dalla necessità di trovare nuove
terre da coltivare e da abitare. Tuttavia, trascorso qualche anno, un gruppo
di coloni raggiunge l'altopiano della Folgaria e si insedia nella zona di
26
La lingua tedesca si divide in due gruppi principali: il basso tedesco, parlato nelle
pianure settentrionali, e l'alto tedesco, parlato nelle zone montuose meridionali. I due
aggettivi "basso" e "alto" si riferiscono, dunque, a pianura e a montagna.
Approssimativamente, la linea che divide le due parlate va da Colonia, a ovest, fino
a Dresda, a est. L'alto tedesco si divide ulteriormente in due gruppi: il medio tedesco
e il tedesco meridionale (o superiore). Il tedesco meridionale abbraccia le regioni
dell'Alsazia, della Germania meridionale, della Svizzera e dell'Austria; esso è a sua
volta diviso in tre sottogruppi che sono il francone superiore, l'alemannico e il
bavarese. Gli studiosi hanno appurato che le parlate cimbre derivano dall'ultimo dei
tre sottogruppi: il bavarese. Inoltre, si è potuto stabilire che esse provengono da uno
specifico punto geografico dove il bavarese si trova a stretto contatto con
l'alemannico, vale a dire dal Tirolo occidentale.
27
Posina, che si trova a sud-ovest rispetto ai Sette Comuni Vicentini, forma, assieme
alla zona di Recoaro e della Valdagno, il cosiddetto "corridoio cimbro di Recoaro".
Tale termine è stato coniato per testimoniare il temporaneo insediamento dei coloni
settecomunigiani in questa porzione di terra veneta, prima della loro definitiva
destinazione in Folgaria.
53
Lavarone, per poi occupare la zona di Luserna. Inoltre, sempre partendo da
Posina, altri coloni trovano una dimora definitiva in varie zone dei monti
vicentini.
Nel 1216 il vescovo e principe di Trento, Friedrich von Wangen,
discendente da una nobile famiglia bavarese e illustre personalità della
storia trentina, promuove un'ulteriore immigrazione di coloni, provenienti
dall'Altopiano di Asiago, sulle alture di Folgaria e di Lavarone i quali hanno
il compito di bonificare il territorio e di costruirvi venti masi: il documento
del 1216 può essere considerato, dunque, l'atto di nascita della colonia
cimbra del Trentino meridionale. Tuttavia, va notato che, nonostante questi
coloni siano giunti dai Sette Comuni, la variante linguistica della loro
parlata è decisamente più vicina al Medio Alto Tedesco (parlato nella
Germania meridionale dopo il 1050 d. C.), che non all'Antico Alto Tedesco,
motivo per cui la maggioranza degli studiosi ritiene che questi immigranti
siano membri di un gruppo arrivato nei Sette Comuni intorno al 1100 d. C.,
molto tempo dopo il primo stanziamento cimbro sull'altopiano
settecomunigiano. Ciò sta a sottolineare le proporzioni e la costanza di un
tale fenomeno immigratorio, un fenomeno che ha coinvolto per secoli il
territorio italiano, lasciando una traccia indelebile nella memoria storica di
un intero popolo.
Un altro documento, fondamentale per la ricostruzione delle
vicissitudini legate alle genti alloglotte che caratterizzano e arricchiscono il
sostrato socio-culturale tipico dei monti veneti e trentini, è costituito
dall'autorizzazione alla fondazione di una terza colonia cimbra (quella, cioè,
dei Tredici Comuni), sui monti Lessini, concessa il 5 febbraio 1287 dal
vescovo di Verona, Bartolomeo della Scala, a due uomini entrambi di nome
Olderico, provenienti dai Sette Comuni vicentini. Essi ricevono, in qualità di
rappresentanti del loro gruppo, il beneficio di costruire un numero
imprecisato di masi (dai venticinque ai cinquanta e più) nella zona
dell'odierna Roveré di Velo, in provincia di Verona. Sia l'atto di concessione
che la sua conferma, avvenuta il 6 agosto 1376 per iniziativa del vescovo di
Verona Pietro della Scala, estendono il beneficio a tutti coloro che si
sarebbero trovati, anche in futuro, nel suddetto territorio.
Il cammino del popolo cimbro sembra arrestarsi per un lungo arco di
tempo; ma, trascorsi svariati secoli di quiete, un clan di Cimbri di Roana
decide di abbandonare il piccolo comune e di cercare un nuovo lembo di
terra veneta su cui costruire la propria dimora. Agli albori del 1800 il
piccolo drappello cimbro si ferma ai margini di una fitta foresta di abeti e
faggi: è il "Bosco del Cansiglio", eterno e suggestivo sito popolato da ombre
e attraversato da venti gelidi.
L'Altopiano di Asiago, i monti di Folgaria e di Lavarone, i Monti
Lessini e la Foresta del Cansiglio: sono questi i luoghi che i Cimbri hanno
scelto di abitare e di vivere; luoghi difficili, luoghi dove la natura è più
matrigna che madre, luoghi dove l'esistenza è scandita dai ritmi antichi del
54
lavoro nei boschi e nei prati. Qui i Cimbri hanno vissuto isolati per molto
tempo, preservando e difendendo la propria alterità etnica, culturale e
linguistica. Oggi i discendenti del popolo cimbro non abitano più i villaggi
che i loro padri avevano costruito; i percorsi seguiti dagli attuali Cimbri non
sono più orientati verso la montagna, ma verso la valle, verso la città: nuove
mete che rischiano di annullare l'identità di una stirpe remota, la cui storia è
ancora in parte sconosciuta.
Purtroppo, il fenomeno di graduale spopolamento che coinvolge i
comuni cimbri si sta verificando su tutto il territorio montano italiano, che
sta vivendo una fase di deruralizzazione: l'abbandono delle aree marginali,
l'estensione degli insediamenti di fondovalle, il proliferare di strutture
turistiche ad alta quota, il cessato uso della rete viaria minore o la sua
riconversione a uso turistico e, ancora, il declino delle usanze tipiche, la
rottura del legame risorse locali-popolamento sono tutti elementi che hanno
portato alla destrutturazione dei sistemi economici, sociali e culturali
caratteristici di queste zone.
Tuttavia, coloro che hanno deciso di non lasciare i luoghi natii
dimostrano una tenace volontà di recuperare il sostrato etno-culturale,
appartenente al popolo cimbro, per custodirlo e per tramandarlo alle
generazioni future. Testimonianza tangibile di tale spirito di conservazione
sono le vibranti parole pronunciate da Renzo Dal Bosco, membro
dell'istituto Curatorium Cimbricum Veronense, in occasione dei
festeggiamenti tenutisi a Roana nel 1999 per i venticinque anni di
fondazione dell'Istituto di Cultura Cimbra:
"Noi siamo qui con voi per gridare, ancora una volta
usando la nostra antica parlata Tauch, quanto è importante il
lavoro di tutte le persone che hanno a cuore la cultura dei Cimbri.
La nostra è una delle culture dette "minoritarie" ma noi pensiamo
che nessuna cultura può pensare di essere superiore ad un'altra;
può essere solo diversa ed in quanto tale difesa come un grande
patrimonio della specie umana. Siamo contenti di festeggiare i 25
anni del vostro importante lavoro e per questo oggi siamo qui con
voi, vicini, uniti. [...] Questi momenti devono servire a rafforzare il
lavoro comune per la difesa delle nostre stesse origini nella
speranza di poter costruire un Centro culturale unico per tutte le
realtà cimbre, che superi tutti i confini, e che nessuno mai voglia
sfruttare la storia dei Cimbri per scopi non culturali." (1999, p.19)
55
56
CAPITOLO QUARTO
Asiago Sette Comuni
4.1. Analisi geografica e territoriale dell'Altopiano di Asiago28
L'Altopiano di Asiago [Fig. I] costituisce un vasto territorio, senza
dubbio la maggiore estensione montuosa del Vicentino, compreso nella
catena delle Prealpi Venete. Esso è racchiuso a ovest dalla Valle del Centa e
dalla Valle del fiume Astico, a nord dalla Val di Sella e dalla Valsugana, a
est dal Canale del fiume Brenta e a sud da un susseguirsi di rilievi e di
avvallamenti che, in lenta successione, degradano armoniosamente verso la
pianura vicentina. La regione è caratterizzata da un insieme di monti e di
colline che danno vita a un paesaggio privo di contrasti netti: i profili dei
rilievi non sono mai aspri e le cime delle vette sono per lo più arrotondate
(fatta eccezione per le cime del margine settentrionale), testimonianza di
una certa antichità orografica. I monti e le colline dell'acrocoro convergono
verso una spaziosa conca centrale, lievemente mossa. Nella sua estremità
nord-occidentale l'Altopiano di Asiago si collega all'Altopiano di Lavarone,
in Trentino, attraverso la breve sella di Monterovere.
A settentrione si trova la catena montuosa più elevata
dell'Altopiano: essa è disposta ad arco ed è formata, da ovest a est, da una
serie di cime, che oltrepassano quasi tutte i duemila metri, tra le quali la
maggiore è Cima 12 (2.336 m.). Da questa catena montuosa, che costituisce
un vero e proprio bastione naturale, si diramano verso la conca centrale
(verso sud, dunque) numerose dorsali e valli tra cui le più profonde sono, a
ovest, la Val d'Assa e, a est, la Valle di Campomulo-Val Frenzela. La catena
montuosa meridionale, prospiciente la pianura vicentina, è caratterizzata da
altitudini minori, che non superano i 1.400-1.500 metri: la cima più elevata è
Cima Fonte con i suoi 1.518 m.
28
Cfr. Bonato S.,- Rigoni P., 1987.
57
Fig. I I VII Comuni Vicentini
Elaborazione grafica a cura dell’autrice
Complessivamente, la superficie dell'Altopiano di Asiago è di
466,68 kmq., tale misura è relativa al patrimonio territoriale degli antichi
Prüdere libe29: i sette Comuni di Asiago, Gallio, Roana, Rotzo, Foza, Enego
e Lusiana [Fig. II].
29
Espressione in dialetto cimbro settecomunigiano che significa "fratelli cari", tale
espressione si riferisce al profondo legame che vincola e unisce i comuni
dell'altopiano, testimonianza tangibile della consapevolezza di appartenere ad una
regione culturale ben definita.
58
Fig. II
Stemma dei Sette Comuni di Asiago
Scatto privato
L'intera regione è interessata dal fenomeno del carsismo: il suolo è
calcareo, pur con inclusioni silicee nel Biancone30, ed è vistosamente
fessurato e fratturato da numerose spaccature che, nell'insieme, danno vita a
un sistema carsico caratterizzato da grotte e da voragini molto sviluppate
(carsismo antico e profondo). Tali cavità naturali, chiamate loch in dialetto
cimbro settecomunigiano e buse in dialetto vicentino, presentano in
superficie un ingresso circolare seguito da uno sviluppo per lo più verticale:
la più abissale di tutte è la Busa di Malga Fossetta, con 492 metri esplorati
30
Il termine Biancone si riferisce al calcare compatto caratterizzato da un colore
bianco latteo e da una struttura molto fine. Tale tipo di calcare è povero di fossili,
esso è tipico del Giura superiore e si trova nel Veneto.
59
finora; ma decisamente profondi sono anche il Tanzerloch presso
Camporovere di Roana, il Barloch in Val d'Assa, il Tagaloch presso Rotzo e
la Busa dei Boi vicino Asiago.
Il tavolato dell'Altopiano è composto da rocce di origine
sedimentaria: di tali rocce, i tipi più diffusi sono il Rosso Ammonitico e il
già citato Biancone, risalenti al Giurese e al Cretaceo. Le cime
maggiormente elevate, che circoscrivono la conca centrale, sono formante
dalla dolomia del Trias, la quale costituisce le fondamenta di tutto il
complesso montuoso.
L'Altopiano di Asiago, nonostante l'abbondante piovosità (due metri
annui circa), è povero di sorgenti attive e stabili: le poche presenti sono,
infatti, risorgive che si gonfiano di acqua durante il disgelo primaverile ed
estivo, o in occasione di cospicue precipitazioni; tali risorgive possono
trovarsi in alta montagna, nei boschi e anche in prati e in pascoli dove
formano acquitrini e terreni molli31. La più importante di tali risorgive, per
portata e continuità di acqua, è la Renzola, la quale scaturisce dalle falde
rocciose che si trovano tra Cima Larici e il Monte Erba. L'assetto
idrografico della zona è modellato dall'azione del torrente Astico e dai suoi
affluenti; l'Astico nasce a nord-ovest, sull'Altopiano di Folgaria a quota
1614 m., e attraversa tutta la vallata omonima fino a Pedescala, dove riceve
sulla sinistra il torrente Assa, e fino ad Arsiero, dove riceve sulla destra il
torrente Posina (che scaturisce dalle pendici orientali del Gruppo del
Pasubio, a quota 1300 m.). L'Assa, che nasce presso Vezzena a quota 1438
m., è un torrente che si presenta quasi del tutto privo di acqua per la maggior
parte dell'anno, tuttavia esso può diventare anche molto violento durante la
stagione piovosa.
Una conformazione idrografica così irregolare e di carattere
prevalentemente torrentizio è la causa principale del problema che concerne
l'abbeveraggio del bestiame e delle mandrie al pascolo; ciononostante, tale
difficile situazione è stata definitivamente risolta grazie alla formazione di
conche artificiali dalla superficie limitata e dalla profondità scarsa (dal
metro al metro e mezzo): le pozze d'alpeggio, unici ambienti acquatici
dell'altopiano, sottoposte a un avvicendarsi di tracimazioni e di inaridimenti
pressoché completi, a cui vanno aggiunti dai tre ai cinque mesi circa di
gelata invernale. Le pozze d'alpeggio rappresentano un fattore determinante
non solo per il delicato equilibrio ecologico dell'ambiente circostante, ma
anche per le peculiari forme di vita che da esse dipendono. Tali specchi
d'acqua, infatti, costituiscono l'habitat ideale per specie a larga valenza
31
Un esempio di tale fenomeno è dato dalle cosiddette torbiere: porzioni di terreno
umido e cedevole tipico di pianori erbosi che, a causa di una debole inclinazione del
suolo, favoriscono il ristagno dell'acqua delle risorgive. Le torbiere non sono molto
diffuse sull'Altopiano di Asiago, essendo zona prevalentemente carsica; nonostante
ciò esiste una torbiera di ampie dimensioni nella Piana di Marcesina.
60
ecologica, cioè specie in grado di resistere e di adattarsi a condizioni
ambientali sfavorevoli.
I rappresentanti principali della microfauna e della fauna minuta
sono Protozoi e Rotiferi, Insetti (in massima parte allo stato larvale), come
Coleotteri, Ditteri, Libellule, Ditisci (coleotteri acquatici), piccoli vertebrati,
come il Tritone alpino (esile lucertola colorata), Ciclopos e Dafnie
(minuscoli crostacei trasparenti, visibili anche a occhio nudo), Sanguisughe
e Limnee (tipiche chioccioline dell'acqua stagnante). Inoltre, la pozza
d'alpeggio è frequentata anche dall'Ululone dal ventre giallo (anfibio simile
al rospo), dalla Rana verde, dalla Rana agile, dalla Rana temporaria e dal
Rospo comune che, durante la stagione primaverile, utilizzano la pozza per
deporvi le uova. Per quanto riguarda la flora di questo originale milieu
naturale, essa consta di caratteristiche piante acquatiche (generalmente
diffuse in specchi di acque stagnanti), riunibili in fasce concentriche che
vanno dai margini esterni fino alla zona più interna della pozza stessa. La
fascia più esterna è formata da piante parzialmente acquatiche come il Pepe
d'acqua e il Nontiscordardime palustre; la seconda fascia, più prossima
all'acqua, comprende numerose piante appartenenti alla famiglia dei
Giunchi; infine, nella fascia più interna, vivono piante acquatiche come la
Lingua d'acqua e la Gamberaia e, sul fondale, si trovano vari tipi di alghe.
Il verde intenso di prati e di pascoli si alterna al verde più scuro dei
boschi che ricoprono i rilievi dell'altopiano, estendendosi sia a nord che a
sud. Si tratta, per la maggior parte, di boschi di conifere, ma anche di faggio
oppure di boschi misti. I boschi di abete32 sono, senza dubbio, i luoghi che
più incantano il visitatore che vi si addentra: gli antichi abeti sono immersi
in un silenzio remoto, rotto solo dalla voce del vento o dal canto di una
cincia.
La fauna che popola l'Altopiano comprende tutte le specie di uccelli
e di mammiferi tipici delle Prealpi: pernice, aquila reale (3-4 coppie), gufo
reale, nibbio reale, poiana, astore, sparviero, falco pellegrino, civetta,
picchio, corvo imperiale e, ancora, volpe, martora, ermellino, donnola, faina,
tasso, lepre, capriolo, camoscio, muflone, cervo e cinghiale.
L'economia locale si basa prettamente su agricoltura, allevamento,
industria estrattiva, lavorazione del legno e turismo. Sull'Altopiano sono
attive quattrocento aziende agro-alimentari33 specializzate in vari settori,
primo fra tutti quello della produzione casearia: cinque caseifici lavorano,
ogni anno, 240.000 ettolitri di latte per la produzione del celeberrimo
"Formaggio Asiago". Molto sviluppati sono, inoltre, il settore destinato alla
produzione di miele e di marmellate e quello destinato alla produzione di
spek e di altri salumi. Notevole importanza riveste anche il settore
32
Sull'Altopiano di Asiago sono presenti venti milioni di abeti bianchi e rossi, con
altezza che supera i 50 m.
33
La maggior parte di tali aziende segue criteri biologici, limitando l'uso di pesticidi
chimici dannosi per l'equilibrio ecologico della regione.
61
dell'allevamento bovino, che conta circa 8.000 capi di bestiame, regolato
tutt'oggi dalle antiche consuetudini legate alla alpeggio estivo e autunnale
verso i pascoli di alta montagna: le malghe, aree di proprietà collettiva dove
si trovano anche strutture adibite al ricovero degli animali. Un altro settore
determinante per l'economia dell'Altopiano è quello afferente all'industria
estrattiva di marmi (marmo rosso di Asiago e Biancone), il commercio dei
quali è sviluppato sia nel mercato locale, sia in quello extra-europeo.
L'industria del turismo, infine, registra una costante espansione, favorita non
solo dalla possibilità di praticare una vasta gamma di discipline sportive,
come alpinismo, sci di fondo, trekking, equitazione e deltaplano, ma anche
dal rinnovato interesse per la storia e la cultura delle genti che abitano
l'Altopiano. Il maggior numero di impiegati nel settore del turismo lavora
nei comuni di Asiago, di Roana, di Gallio e di Enego: in queste località si
trova la maggioranza dei servizi alberghieri, qui è avvenuta la più forte e
talvolta disordinata crescita di seconde case e, infine, in questi comuni sono
sorti campeggi, ostelli e colonie. Secondo alcune persone di questi luoghi, il
turismo
"... è un'attività che sta cambiando non solo il volto del
paesaggio e l'economia, ma anche il costume e la mentalità della
popolazione dei Sette Comuni, con pericoli di sviluppo squilibrato e
disordinato e con possibilità di nuovo e più sicuro progresso."
(Bonato S., Rigoni p., 1987, p.50)
4.2. I Cimbri dei Sette Comuni Vicentini: analisi storica e situazione
attuale34
Le testimonianze più antiche della presenza dell'uomo sull'Altopiano
di Asiago risalgono alla preistoria: nella Valdassa, infatti, sono state trovate
numerose incisioni rupestri, raffiguranti uomini, armi e animali, fatte,
probabilmente, da cacciatori che attraversavano la valle, diretti verso
l'Altopiano o verso la montagna trentina, oltre duemila anni prima di Cristo.
Inoltre, a nord del Comune di Rotzo si trova un reperto megalitico: una sorta
di dolmen costituito da imponenti massi, disposti in forma di altare.
I primi resti di insediamenti umani sul territorio dei Sette Comuni
risalgono a qualche secolo prima di Cristo (sul periodo preciso permane
tutt'oggi una grande incertezza) e si trovano nei pressi di Castelletto di
Rotzo: si tratta del cosiddetto Bostel35 di Rotzo36, un villaggio anticamente
abitato da popolazioni di origine retica o veneta e formato da circa 600
casette, interrate, con il pavimento di sabbia battuta, dotate di una piccola
porta e con il tetto costruito con tronchi di albero.
34
Cfr. Bonato S.,- Rigoni P., 1987.
Il termine cimbro significa stalla, rifugio o luogo nascosto.
36
Il Bostel è stato scoperto nel 1781 dall'Abate Agostino Dal Pozzo.
35
62
Il villaggio del Bostel viene abbandonato, probabilmente, al tempo
dell'espansione di Roma sulle Alpi; periodo durante il quale boscaioli e
pastori si insediano stabilmente sull'Altopiano.
Come già affermato37, i Sette Comuni rappresentano la più antica
colonia cimbra, costituitasi, a partire dal X secolo d.C. circa, in seguito agli
incentivi che alcuni vescovi di origine tedesca hanno offerto a tutti coloro
che decidevano di stabilirsi in quella regione e di renderla coltivabile. I
Comuni di Rotzo (a ovest) e di Enego (a nord-est) sono i più antichi
insediamenti dell'Altopiano; la posizione marginale dei due comuni
dimostra come lo sboscamento e la bonifica siano avvenuti lentamente, dalle
aree più periferiche verso il centro. Tra il XIII e il XIV secolo, i villaggi
sparsi sull'Altopiano si organizzano nella Federazione dei Sette Comuni, il
cui compito fondamentale è quello di difendere le esenzioni da imposte
fiscali e i privilegi di ordine economico che, in passato, i vescovi di cui
sopra avevano accordato ai primi coloni.
Gli anni che vanno dal 1311 al 1387 d.C. vedono la Federazione dei
Sette Comuni sotto la protezione degli Scaligeri, i grandi signori di Verona
ai quali va il merito di aver organizzato i sistemi di difesa dell'Altopiano38;
mentre dal 1387 al 1404 d.C la Federazione passa sotto la protezione dei
Visconti, signori di Milano, i quali ne rispettano lo statuto, assicurandone
autonomia amministrativa, esenzioni e privilegi. Nel 1404 d.C. la
Federazione dei Sette Comuni fa "atto di dedizione" alla Serenissima
Repubblica di Venezia: tale gesto, lungi dall'essere simbolico, impegna
Venezia a conservare esenzioni e privilegi dei Sette Comuni i quali, a loro
volta, sono investiti dell'obbligo di difendere i confini settentrionali, la cui
importanza era strategica.
La Federazione dei Sette Comuni è formata da tanti consigli quanti
sono i comuni; ogni consiglio comunale ha la facoltà di discutere e di
risolvere le questioni relative al proprio territorio. Le decisioni di interesse
generale vengono prese da una sorta di consiglio generale, chiamato
Spettabile Reggenza dei Sette Comuni, composto da quattordici agenti (due
per comune), i quali tengono le proprie adunanze nel comune di Asiago. I
comuni sono governati da un sindaco e da consiglieri, i quali vengono eletti
ogni anno nel corso di una riunione di tutti i capifamiglia. La maggior parte
del territorio è di proprietà del comune, mentre solo una ridotta area
adiacente alle case è di proprietà del privato. Le malghe, di proprietà
collettiva, annualmente vengono concesse in uso per l'alpeggio. Il comune,
inoltre, si fa carico del dovere di fornire a ogni famiglia il legname
necessario per i bisogni legati al vivere quotidiano, ma anche di dare aiuto
agli indigenti, di mantenere chiese e sacerdoti39 e di sostenere ogni spesa di
pubblico interesse. L'economia dei Sette Comuni si basa, prevalentemente,
37
Cfr. capitolo terzo, paragrafo 3.2.
Si sono conservate fino a oggi le torri di Rotzo, nella Valdastico, e la grande Torre
di Enego, in Valsugana.
38
63
sull'attività boschiva, la quale fornisce carbone e legno per l'artigianato di
scatole (destinate a contenere i prodotti caseari), di mastelli e di altri
attrezzi. I Cimbri dei Sette Comuni vivono anche dell'allevamento di pecore
e di bovini, preziosi fornitori di lana, di carne e di latte. In questo periodo,
inoltre, si assiste alla diffusione di alcune forme protoindustriali come
quella relativa alla trecciatura della paglia, nei comuni di Lusiana e di
Conco, o come le diverse concerie attive nel comune di Gallio.
Durante gli ultimi anni del XV secolo, un grave avvenimento
sconvolge l'Altopiano: l'arciduca Sigismondo, conte del Tirolo e fratello
dell'imperatore d'Austria, muove guerra contro la Serenissima Repubblica di
Venezia, decidendo di attraversare il territorio dei Sette Comuni, che
vengono colti di sorpresa. I Comuni di Roana, di Camporovere e di Asiago
vengono distrutti dalla furia degli eserciti invasori, il Comune di Rotzo
riesce a difendersi, mentre il Comune di Gallio è costretto alla resa.
Fortunatamente, l'invasione tedesca si arresta poiché l'imperatore d'Austria,
resosi conto dei danni che la guerra arrecava ai commerci dell'impero,
decide di sospendere le ostilità. Proprio in seguito a questi avvenimenti,
Venezia comprende l'importanza strategica della posizione geografica dei
Sette Comuni e, per questo motivo, organizza alcune milizie stanziali, che
hanno il compito di difendere i confini dell'Altopiano.
Nel 1508 d.C il territorio dei Sette Comuni è sottoposto a una nuova
invasione da parte dell'esercito imperiale guidato da Massimiliano I, il quale
discende lungo la Valdassa e travolge le difese dell'Altopiano, seminando
distruzione e terrore. Una improvvisa e provvidenziale nevicata costringe la
ritirata delle truppe imperiali verso Lavarone e Caldonazzo; tuttavia, poco
dopo, l'imperatore riprende l'invasione dell'Altopiano con lo scopo di
raggiungere Venezia, ma la strenua difesa dei Sette Comuni, divenuti una
trincea inespugnabile dalla Valdastico alla Valsugana, costringe il definitivo
ritiro dell'imperatore e del suo esercito. La Repubblica di Venezia, in segno
di riconoscenza per la fedeltà dimostrata dai Sette Comuni, ha donato a
questi ultimi la bandiera della Serenissima, la quale è conservata ancor oggi
in una sala del municipio di Asiago.
Il XVII secolo si apre con un evento alquanto significativo per le
genti cimbre, che abitano i paesi dell'Altopiano: nel 1602 d.C., il Vescovo di
Padova provvede alla pubblicazione del primo catechismo della dottrina
cristiana in lingua cimbra; riconoscendo e, dunque, accettando la diversità
culturale e linguistica di questo popolo. Qualche anno più tardi, nel 1605, un
altro importante fatto interessa i Cimbri dell'Altopiano: un accordo tra il
Vescovo di Trento e la Repubblica di Venezia, noto col nome di "Sentenza
Roveretana", pone fine alle secolari liti per i confini settentrionali dei Sette
Comuni. In base a questo accordo, il territorio di Vezzena viene sottratto al
39
Da notare il fatto che, fino al 1600 d.C., le parrocchie sono curate da sacerdoti
tedeschi, i soli in grado di comprendere la lingua parlata dalle popolazioni dei Sette
Comuni.
64
Comune di Rotzo e assegnato a quello di Levico, mentre una parte della
pianura di Marcesina viene tolta al Comune di Enego per essere unita al
Comune di Grigno, nella Valsugana. La vita degli abitanti dei Sette Comuni
scorre tranquilla, regolata dai ritmi dei lavori stagionali, fino a quando la
peste non arriva anche sull'Altopiano: corre l'anno 1631, nell'arco di qualche
mese la popolazione dei Comuni di Roana, di Asiago e di Gallio viene
decimata.
La seconda metà del secolo non è caratterizzata da eventi di
particolare importanza; mentre i primi anni del XVIII secolo sono ricordati
ancora oggi per in curioso episodio, avvenuto nel 1709. Il re di Danimarca
Federico IV, in visita in Italia, venendo a conoscenza del fatto che gli
abitanti dei Sette Comuni parlano un idioma nordico e trovandosi nella città
di Vicenza, decide di recarsi ad Asiago, dove viene accolto festosamente
dalle genti cimbre, che lo salutano con le parole "Is leben unser König"
(viva il nostro re). Tale reazione, da parte dei Cimbri di Asiago nei confronti
del re danese, rappresenta la prova tangibile di quanto fosse radicata la
convinzione di discendere da quel gruppo di guerrieri cimbri (originari della
Penisola dello Jutland, in Danimarca), scampati al massacro dei Campi
Raudii40.
Durante il 1700, le condizioni economiche degli abitanti
dell'Altopiano diventano sempre più critiche: data la decadenza della
Serenissima Repubblica, gli antichi privilegi e le esenzioni da tasse e tributi
vari vengono riconosciuti con difficoltà sempre maggiori. Inoltre, a causa di
un costante aumento della popolazione, che non corrisponde a un altrettanto
costante aumento delle risorse alimentari ed economiche, numerosi gruppi
familiari sono costretti ad abbandonare i propri paesi e a trasferirsi in
pianura.
Durante gli anni della dominazione dell'Impero austriaco (18151866), privilegi ed esenzioni non vengono più riconosciuti, nonostante i
disperati appelli che i rappresentanti dei Sette Comuni rivolgono
all'imperatore d'Austria in persona. Inoltre, sulla popolazione vengono a
pesare nuove imposte, che aggravano la miseria e la fame al punto da
spingere molti alla fuga dai paesi dell'Altopiano verso nuove destinazioni,
verso nuove possibilità di lavoro e di vita. Molti sono, in questo periodo, gli
emigranti stagionali in varie regioni d'Europa e altrettanti sono coloro che, a
partire dalla seconda metà dell'Ottocento, decidono di spingersi oltreoceano,
verso gli Stati Uniti e verso il Brasile, abbandonando definitivamente i
luoghi aviti. Coloro che restano continuano a occuparsi delle attività
tradizionali: il lavoro nei boschi, l'allevamento di bovini e la preparazione di
prodotti caseari, l'artigianato della lana, del legno, della paglia e delle pelli,
ebbene tutte queste attività rappresentano ancora la base dell'economia di
queste terre.
40
Cfr. capitolo terzo, nota 11.
65
I primi catasti dei paesi dell'Altopiano vengono fatti sotto il governo
austriaco, che vuole assicurarsi una capillare ed equa distribuzione delle
imposte, suscitando il malcontento della popolazione. Il dominio austriaco è
mal tollerato non solo per la pesante pressione fiscale, ma anche per i
sospetti, per le perquisizioni, per le catture e per le condanne contro coloro
che combattono per l'indipendenza del Veneto e dell'Italia tutta. Diversi,
infatti, sono i volontari di Asiago e di Gallio che partecipano alla Seconda
Guerra di Indipendenza, e altrettanti sono quelli che seguono Garibaldi nella
spedizione dei Mille. Nel 1864 viene steso un progetto di "Azione di
Volontari sull'Altopiano dei Sette Comuni" per liberare il veneto dal
dominio austriaco; ma nel 1866 la Terza Guerra di Indipendenza porta il
Veneto all'Italia.
In seguito all'annessione del Veneto all'Italia, anche l'Altopiano
conosce una fase di trasformazioni, tra nuove e antiche difficoltà: la rete
viaria viene ampliata, le abitazioni vengono ristrutturate (rimangono pochi
tetti fatti di paglia, che viene sostituita da scandole e tegole), viene costruita
la ferrovia che dalla pianura vicentina sale ad Asiago41, nel 1906 viene
costruito il ponte di Roana sulla Valdassa, che viene abbattuto dieci anni
dopo per ragioni di guerra e nuovamente ricostruito nel 1924; inoltre, tutti i
paesi sono serviti da nuovi sistemi di fornitura d'acqua, nonostante le
difficoltà derivanti dal territorio carsico caratteristico dell'intera regione. In
tutti i paesi dell'Altopiano arriva l'energia elettrica che, oltre
all'illuminazione pubblica e privata, serve ad azionare qualche piccola
industria, come le segherie. Le attività tradizionali, legate all'artigianato e
all'allevamento bovino, vengono affiancate da nuove attività, come la
distillazione degli alcolici e come l'estrazione e la lavorazione dei marmi.
Inoltre, vengono fondate numerose associazioni di cooperazione economica
e circoli con finalità culturali e ricreative. Nonostante la qualità della vita
tenda a migliorare, non diminuisce l'emigrazione sia verso mete lontane
come gli Stati Uniti, il Brasile, l'Argentina, sia verso mete più vicine come
Vicenza, Padova e Venezia: nel solo 1909 partono da Asiago ben 558
emigranti.
La Prima Guerra Mondiale colpisce profondamente le popolazioni
dei Sette Comuni42, i quali proprio per la posizione strategica diventano
teatro di estenuanti e cruente battaglie. Dopo oltre ottant'anni dalla fine della
Grande Guerra, il ricordo di quei terribili avvenimenti è ancora vivo nella
memoria e negli occhi degli anziani come nelle ferite inflitte al territorio. A
guerra finita, la popolazione comincia a ritornare nei paesi dell'Altopiano.
Uno scenario desolante si rivela agli occhi dei profughi: paesi distrutti,
cadaveri di soldati sparsi ovunque, boschi e pascoli sconvolti, residui bellici
41
La ferrovia viene ideata nel 1882 e ultimata nel 1909; essa è rimasta in esercizio
fino al 1958, anno in cui è stata sostituita da un servizio di autocorriere.
42
L'aereo austriaco che sorvola continuamente l'Altopiano viene chiamato Toibel, che
in lingua cimbra significa demonio.
66
accumulati in ogni dove. Vengono avviati i lavori di ricostruzione, ma le
condizioni economiche sono terribilmente difficili e, per questo motivo,
molti tornano a fuggire verso le Americhe e verso l'Australia. Negli anni del
primo dopoguerra, dunque, l'economia tradizionale agricolo-boschiva è
sempre meno sufficiente e il commercio è piuttosto limitato.
Il 1926 rappresenta una data particolarmente significativa per la
gente dell'Altopiano: il patrimonio territoriale dei Sette Comuni viene diviso
e, così, la Federazione, che aveva unito per tanti secoli il destino di un
popolo così peculiare, viene sciolta per sempre.
Dopo la caduta del fascismo e la fine della Seconda Guerra
Mondiale, la vita sull'Altopiano riprende tra le difficoltà di sempre. Molte
famiglie emigrano a causa delle sempre maggiori difficoltà economiche,
causando un ulteriore spopolamento della regione.
Negli gli anni Sessanta si verifica un consistente aumento
dell'attività turistica e dei processi economici a essa connessi come la
costruzione di ville e appartamenti, la diffusione di una rete commerciale
capillare, l'organizzazione di servizi sociali, l'allestimento di numerosi
impianti sportivi e di molte infrastrutture destinate al tempo libero.
Oggi, nonostante l'antica Federazione dei Sette Comuni non esista
più, i problemi generali dell'Altopiano sono affrontati dalla Comunità
Montana, che unisce i comuni e quasi continua la storia della Federazione di
un tempo. Numerose, ad esempio, sono le attività economiche coordinate a
livello di altopiano, secondo una tradizione di unione e di solidarietà che
resiste, nonostante i contrasti e gli ostacoli. Significative sono, in questo
senso, le parole del Prof. Sergio Bonato, responsabile dell'Istituto di Cultura
Cimbra di Roana:
"L'impegno di sviluppo economico e di autonomia
amministrativa, lo sforzo di salvaguardia del proprio patrimonio
naturalistico e della propria identità culturale, chiedono di essere
legate sempre più con una profonda integrazione sul piano
regionale, nazionale ed europeo." (1997, pp.47-48)
4.3. Visita all'Istituto di Cultura Cimbra di Roana
Nell'agosto 2000, in occasione del mio viaggio attraverso i luoghi
abitati dal popolo cimbro, ho avuto modo di fermarmi nel Comune di Roana,
sede dell'Istituto di Cultura Cimbra [Fig. III A, B, C]. Quest'ultimo è stato
fondato, intorno al 1970, da un gruppo di appassionati cultori della storia e
delle tradizioni dei Sette Comuni che, di fronte alle trasformazioni che
hanno investito anche l'Altopiano e che hanno recato profondi cambiamenti
nell'economia, nel costume, nella mentalità e nella lingua, hanno sentito
l'urgenza di attivarsi perché il loro patrimonio culturale non andasse
completamente perduto e dimenticato. Così, il 7 luglio 1973, sorge l'Istituto
67
di Cultura Cimbra denominato Istituto di Ricerca e Documentazione Storica
delle Prealpi Venete e della Lingua Cimbra e intitolato ad Agostino Dal
Pozzo, il grande studioso della storia dei Cimbri43. Tra i fondatori e
promotori dell'Istituto, due sono le personalità che spiccano con più
evidenza: la prima è quella di Hugo Resch di Landshut, grande conoscitore
del popolo cimbro, e la seconda è quella del cimbro Umberto Martello
Martalar autore, oltre che di un insostituibile Dizionario della lingua
cimbra dei Sette Comuni Vicentini (1974), di questa breve e sempre attuale
riflessione:
"Riandare al proprio passato e riflettere su quanto ci ha
differenziati non è involuzione, ma riscoperta della nostra identità
e riaffermazione della capacità autonoma di comunità anche
piccole e di modeste risorse di avere una cultura creativa."44
43
Cfr. il capitolo terzo.
Queste parole sono tratte dal testo pubblicato a cura dell'Associazione Culturale
Cimbri del Cansiglio, intitolato Un anno con i Cimbri scatoleri del Cansiglio
(2000).
44
68
Fig. III A
Sede dell’Istituto di Cultura Cimbra di Roana
Scatto privato
Fig. III B e C
Istituto di Cultura Cimbra di Roana, particolari
Scatto privato
69
Le attività dell'Istituto comprendono una imponente opera di ricerca
storica e linguistica, che si concretizza non solo con la pubblicazione di
numerosi studi45, ma anche attraverso l'organizzazione di conferenze, di
incontri e di manifestazioni che, spesso, coinvolgono gli altri enti di cultura
cimbra46. Inoltre, l'Istituto è responsabile della preparazione di corsi di
lingua e di cultura cimbra, oltre che di corsi di aggiornamento riservati ai
cultori della materia. Di fondamentale importanza sono i rapporti tra
l'Istituto e le associazioni di altre minoranze etnico-linguistiche d'Italia,
riunite nel Confemili, e d'Europa, rappresentate dallo European Bureau for
Lesser Used Languages, associazioni che, secondo il Prof. Sergio Bonato
"... ci hanno aiutato a capire e a vivere la bellezza della
diversità, la bellezza della appartenenza ad una specificità
culturale linguistica, in questo periodo travolgente di
globalizzazione, in cui ci sentiamo integrati in un mondo sempre
più dilatato, tra tensioni e conflitti, e in cui sentiamo nello stesso
tempo il bisogno di appartenere ad una zolla di terra, ad un lembo
di cielo, ad una tradizione di vita che può ancora generare vita."
(1999, p. 6)
Il mio incontro con il Prof. Bonato, di origine cimbra, è stato
illuminante e la lunga conversazione che abbiamo avuto mi ha fatto
comprendere la complessità della questione relativa al popolo cimbro. A
questo proposito, ritengo particolarmente significative le parole espresse dal
Professore in occasione dei festeggiamenti tenutisi a Roana per i
venticinque anni di fondazione dell'Istituto di Cultura Cimbra, parole che
riassumono e specificano il contenuto della citata conversazione:
" [...] La conservazione e ancora più la valorizzazione di
una tradizione locale deve fare i conti con diversi fattori, con
diverse dinamiche, come un nuovo equilibrio tra ambiente,
popolazione e risorse; come un nuovo equilibrio tra bisogni di
quelli del luogo e di quelli fuori; come un nuovo equilibrio tra
cultura della tradizione e cultura della modernità; come un nuovo
equilibrio tra turismo e localismo, senza ridurre la cultura locale a
un teatrino per gli ospiti. É necessario riscoprire in modo nuovo, in
45
Dagli anni Settanta ad oggi, oltre al dizionario di U. Martello Martalar, sono stati
pubblicati una trentina di volumi di interesse linguistico, storico e folclorico, 45
Quaderni di Cultura Cimbra (rivista semestrale dell'Istituto), documenti audiovisivi,
audiocassette e raccolte fotografiche.
46
Tra cui il Curatorium Cimbricum Veronense, il Curatorium Cimbricum Bavarense,
il Museo dei Cimbri di Giazza, il Centro Documentazione di Luserna, l'Istituto
Mòcheno-Cimbro di Luserna e l'Associazione Culturale Cimbri del Cansiglio.
70
modo critico la nostra tradizione e la nostra situazione. La nostra
tradizione non è tanto una lingua e una cultura provenienti dalla
Germania e tramandate lungo dieci secoli fino ai nostri giorni, ma
risulta invece una lunga sedimentazione, una lunga integrazione
evolutiva di lingue e di culture diverse. [...] La nostra storia, come
quella di tante regioni del mondo, apparentemente autonoma, è
storia di migrazioni, di incontri, di integrazioni; come la nostra
geografia, apparentemente isolata orograficamente, è una
geografia di sentieri, di percorsi, di cammini senza fine. Così la
nostra identità culturale non è qualcosa di fisso, di chiuso, di
definitivo, ma qualcosa di dinamico, di aperto, di creativo. Oggi si
parla di identità complessa, di pluralità di identità in una stessa
persona, in una stessa comunità, che si sente cimbra, altopianese,
ma insieme veneta, italiana, europea e, con i tempi che corrono,
anche globale, planetaria. E la lingua, anche una lingua in
estinzione come la nostra lingua cimbra, resta punto focale della
nostra cultura, resta bussola insostituibile di connotazione e di
orientamento in queste metamorfosi così confuse e in queste
incerte, ma anche affascinanti peregrinazioni." (1999, pp.6-7)
Sembra quasi superfluo commentare ulteriormente le considerazioni
del Prof. Bonato; tuttavia, in veste di osservatrice esterna, o meglio di
outsider, sento di poter aggiungere qualche spunto di meditazione.
Nell'accostarmi allo studio delle minoranze etnico-linguistiche in
generale, e della minoranza etnico-linguistica cimbra in particolare, ho
avuto modo di convincermi, ancora più profondamente, di quanto davvero la
diversità culturale sia sinonimo di ricchezza culturale e di quanto sia
necessario divulgare e sostenere questa semplice verità. Oggigiorno tutti, o
quasi, pensano alla globalizzazione, all'omologazione delle abitudini e dei
bisogni, alla standardizzazione della produzione e dei consumi senza,
tuttavia, rendersi veramente conto di cosa questo possa significare. I
processi di 'diffusione delle innovazioni'47 fanno parte di ogni dinamica
culturale e, dunque, è corretto pensare che ciò accada anche su una scala
globale, planetaria. Nondimeno, a mio parere, non bisogna mai perdere di
vista il fatto che la condivisione, sia essa politica, economica o culturale,
presenta molti rischi e incertezze. Solo quando condividere significa
rispettare e non imporre, solo quando condividere significa comprendere e
non solo tollerare e, infine, solo quando condividere significa essere disposti
ad abbandonare il proprio etnocentrismo, ebbene solo a queste condizioni è
possibile accettare il concetto di globalizzazione in tutte le sue sfumature di
significato.
47
Cfr. il capitolo primo.
71
4.4. Il dialetto cimbro dei Sette Comuni Vicentini
L'antico idioma parlato nelle enclaves cimbre di Asiago Sette
Comuni, Verona Tredici Comuni, Luserna e Cansiglio presenta alcune
differenze lessicali, fonetiche e morfologiche in ciascuna delle quattro
località citate48.
Il dialetto cimbro parlato nei Sette Comuni vicentini è chiamato,
dagli stessi cimbri, toitzes gaprecht: con il termine "gaprecht" si intende
"parlata" o "dialetto"; mentre il significato del termine "toitz" non è univoco
in quanto può indicare sia "tedesco", sia "austriaco". Nei Tredici Comuni
veronesi, il dialetto cimbro è chiamato taucias garëida (o anche tautchas
garëida); mentre la varietà dialettale parlata a Luserna è il taitsche sproche;
infine, in Cansiglio si parla un dialetto quasi del tutto simile al toitzes
gaprecht dei Sette Comuni, patria originaria dei Cimbri del Cansiglio.
Prima di procedere all'analisi di qualche aspetto tipico del dialetto
cimbro settecomunigiano49, sono necessarie ulteriori considerazioni di
valenza generale. Il cimbro, come detto, presenta peculiarità uniche e poco
importa considerarlo lingua o dialetto:
"Tralasciamo, perché puramente accademico e a volte
pretestuoso, il problema della differenziazione fra lingua e dialetto:
una simile distinzione, peraltro impossibile, non ci porterebbe
certamente a chiarire il problema di una corretta classificazione
dei casi di difformità linguistica italiani." (Barbina, 1998, p.140)
Ciò che, al contrario, va tenuto presente è che, nonostante
l'appartenenza dei Cimbri a una cultura altra rispetto a quella italiana, i
cognomi di questi ultimi (in tutte le quattro province), fino a quando è
possibile retrocedere nel tempo, sono italiani o italianizzati, accompagnati
da soprannomi cimbri per distinguere i vari rami di uno stesso gruppo
familiare. É evidente che la permanenza del popolo cimbro sul territorio
italiano, permanenza che dura oramai da nove o dieci secoli, ha avuto come
fondamentale effetto una certa contaminazione linguistico-culturale, a
48
A questo punto è necessario ricordare che, delle quattro località, solo Luserna, in
Trentino, è tuttora considerata isola alloglotta in quanto la totalità della popolazione
parla correntemente il dialetto cimbro. Negli altri comuni, solo un'esigua minoranza
conosce e parla la lingua cimbra, in quanto la popolazione è completamente
italianizzata. Tuttavia, la volontà di non perdere definitivamente il valore culturale
della propria parlata ha spinto studiosi e appassionati a tenere regolarmente corsi di
cimbro.
49
Sia in questo paragrafo, sia nei successivi paragrafi dedicati alla medesima
questione, presenti nei prossimi capitoli, metterò in luce solo pochi aspetti del
dialetto cimbro in quanto la presente ricerca non ha la pretesa di essere uno studio
glottologico, ma vuole semplicemente offrire qualche esempio significativo.
72
scapito della lingua più debole. Molto interessante è, a questo punto,
riportare alcune riflessioni dello studioso Vinicio Filippi:
"I cimbri chiamano la loro lingua tedesco. E così altri, in
un passato più o meno lontano. Sono, quindi, i cimbri da ritenersi
tedeschi? Indipendentemente dal significato (anche il più ampio
possibile), che si voglia dare al termine tedesco, di per sé tutt'altro
che specifico, è da considerare lo spirito cimbro. Per i cimbri,
parlar tedesco non significa tout court essere tedeschi, il che essi
affermano con inequivocabile chiarezza. Parlar tedesco è per i
cimbri consapevolezza delle proprie origini, mantenimento dei
legami culturali e affettivi con i padri, [...]. I cimbri, in altre
parole, sentono la loro diversità non come opposizione, ma come
integrazione, eredi, i cimbri di oggi, dell'atteggiamento civile e del
comportamento militare dei loro antenati, vicini e lontani nel
tempo." (1982, p. 19)
Le particolarità del dialetto cimbro dei Sette Comuni sono state
studiate dal Prof. Mario Scovazzi, grande conoscitore di lingue nordeuropee, il quale ha lasciato una pagina significativa che attesta l'antichità
della parlata cimbra settecomunigiana, da collegare con l'antico germanico
e, particolarmente, con la lingua parlata dai Longobardi:
"Nelle osterie di Roana si può udire di frequente
un'espressione di chi gioca alle carte: alles ögner <<tutto nostro
(di noi)>>. [...] Qui ögner è un genitivo plurale <<di noi>> [...].
Nell'affine dialetto cimbro di Giazza non c'è un corrispettivo: nei
Tredici Comuni il concetto di nostro è espresso normalmente con
üsar. L'ögner di Roana (e dei Sette Comuni) ci riporta, invece, a un
relitto della grammatica e del lessico germanici. La mente corre
subito alle forme del pronome duale, così distribuite nei dialetti
antichi: anglosassone uncer (di noi due), antico sassone unkero (di
noi due), antico nordico okkar (di noi due), gotico ugkis (a noi
due). A Roana si ebbe, evidentemente, un fenomeno di metatesi50:
-gn-, in luogo di -ng-. Il tratto arcaico della parlata di Roana è
tanto più interessante, in quanto nell'area antico alto tedesca la
sola corresponsione è offerta dall'isolato unkër (di noi due). (citato
in Bonato S., Rigoni P., 1987, p. 79)
Come affermato nel capitolo secondo, uno dei momenti salienti di
un'indagine di geografia delle lingue (e anche di geografia culturale)
riguarda lo studio della toponomastica. Moltissimi luoghi dell'Altopiano di
50
Fenomeno che prevede l'inversione nell'ordine di successione dei suoni di una
parola.
73
Asiago conservano la propria origine cimbra e sono conosciuti anche da
coloro che non parlano il cimbro. La toponomastica cimbra resta, dunque, il
documento più prezioso della lingua cimbra dei Sette Comuni. Di seguito
sono riportati alcuni esempi, presenti in ciascuno dei Comuni
dell'Altopiano51:
-Asiago
Büscar: boscaioli; Hintergruba: conca di dietro; Snealoch: buco
nella neve; Hinterbech: strada di dietro; Raitele: posto scivoloso, posto
disboscato; Ebene: luogo pianeggiante; Rendela: sorgente con ruscello;
Hintertal: valle di dietro; Peroloch: tana dell'orso; Mörar: luogo paludoso;
Mosele: piccole paludi; Pöslen: luogo di terra secca, magra; Perghele:
piccolo monte; Törle: piccolo passaggio; Raitertal: valle carrozzabile;
Prunno: sorgente, fontana.
-Rotzo
Rotz, rotzo: roccia, scoglio, rupe; Spitz: cima, vetta; Altenburg:
antico villaggio; Altarknotto: altare di sasso o scoglio dell'altare; Ulbach:
bosco in mezzo a due prati; Kroisle: crocetta; Tellale: piccola valle;
Valvalstall: rifugio del lupo; Safhaus: casa del pastore; Kuvale: piccola
collina; Kear: curva; Eke: collina, dosso; Mendarle: mandria; Orgaltall:
valle dell'orco; Bostel, Postel: stalla, luogo nascosto, rifugio sicuro; Talecke:
campi vicini alla valle; Gruba: terreno a forma di conca; Kalche: fornace
della calce; Perch: monte, altura; Raut: bosco erto; Laiten: pascolo erto;
Hobarbisa: prato alto (di sopra); Hute: posto di guardia; Lomase: collina
rocciosa.
-Roana
Grabo: fossa; Koolgruba: buca del carbone; Löchar: buchi; Espen:
betulle; Tanzerloch: buca delle danze; Boichte: abeti rossi; Pach: ruscello,
sorgente; Engherle: piccolo prato vicino a casa; Prucka: ponte, scala; Pübel:
collina; Slumpa: abisso; Oba: pascolo, fondo; Kamaunbise: prati del
Comune; Lerch: larice; Ocsabek: strada dei buoi; Sunnalaita: Pendio del
Sole; Kesarle: piccola casara; Perballa: trappola dell'orso; Bisa: prato;
Kemming: camino; Kaltaprunno: sorgente fredda; Kalkara: luogo della
calce; Kellarle: cantinetta.
-Gallio
Pach: ruscello; Kanottele: piccolo scoglio; Spil: capitello; Perk:
monete; Sbarbatal: valle dell'orso; Tiftellele: piccola valle profonda; Stellar:
stalle; Laben: pozze.
-Foza
Tonderecar: monte del tuono; Schintengrube: conca delle cortecce;
Sonental: valle del sole; Gozar: caprai; Slunf: strettoia; Roanar: contrada,
dosso; Crosebech: crocicchio.
-Lusiana e Conco
51
Fonte: Bonato S., Rigoni P., 1987.
74
Anghebisele: località prativa; Banghertele: orticello; Galaita:
declivio; Puffele: piccola cima; Rameston: sasso del corvo; Soster:
calzolaio; Xauza: brontolone.
-Enego
Bisele: piccolo prato; Chemple: piccolo campo; Rindole: ruscello;
Stonar: sassi; Ulbel: pozza.
Si tratta, come evidente, di toponimi il cui significato è strettamente
collegato alla morfologia dei luoghi, al lavoro nei boschi e sui prati, al
mondo animale e vegetale, alle credenze popolari: toponimi il cui fascino
antico sembra quasi stridere con la chiassosa invasione di turisti che, troppo
poco spesso, sanno apprezzare e rispettare il patrimonio culturale di questa
terra.
75
4.5. La letteratura cimbra dei Sette Comuni Vicentini
É corretto parlare di "letteratura cimbra"? Se con il termine
"letteratura" si intende, al di là di una valutazione prettamente estetica, tutto
ciò che un popolo scrive e lascia di sé, della sua storia, delle sue aspirazioni
e delle sue credenze, consapevolmente o indirettamente, allora è possibile
affermare l'esistenza di una letteratura cimbra. Certo, non si tratta di una
letteratura alta, o di un movimento letterario significativo, se paragonata alla
letteratura italiana, o a quella francese, inglese o tedesca, spagnola e
americana. Quello che il popolo cimbro ha voluto scrivere è dato da
catechismi, da inni sacri, da canti popolari, da fiabe e da proverbi:
documenti rari, talvolta anche molto antichi, che rappresentano un
patrimonio culturale di grandissimo valore.
I testi più antichi della letteratura cimbra si trovano sull'Altopiano di
Asiago e risalgono al Cinquecento: si tratta di canti religiosi, caratterizzati
da metro e rima irregolari. Un esempio tra tutti è costituito da un inno sacro,
di cui è riportata una strofa di seguito, che è stato cantato ad Asiago fino
all'Ottocento:
Cristo è risorto
Certamente da tutti i martiri,
Dobbiamo esserne tutti felici
E Cristo dev'essere nostra consolazione
Kyrie eleison52
La prima opera a stampa in lingua cimbra settecomunigiana
compare nel 1602 d.C.: essa è la Kristlike unt korzze Dottrina, traduzione
del Catechismo cristiano. Tale opera è voluta dal Vescovo di Padova, Marco
Cornaro, il quale, in occasione di una visita pastorale nei Sette Comuni,
esprime la preoccupazione di dare anche alla popolazione cimbra, che non è
in grado di capire la lingua italiana (o meglio il dialetto veneto), la
possibilità di ricevere una adeguata istruzione riguardo ai principi della fede
cristiana. A tal scopo, il Vescovo incarica alcuni cimbri, coadiuvati dai
parroci che conoscono sia il cimbro sia il veneto, di tradurre il catechismo
composto dal gesuita Roberto Bellarmino (1532-1621). Nelle ultime pagine
del testo sono riportati quindici lobonghen (laudi): semplici versi che
testimoniano una visione religiosa e fideistica della vita.
52
Christ ist erstanden
Woll von der marter allen,
Des sollen wir alle fro seyn
Un Christ soll unser trost seyn
Kyrie eleison
Fonte: Filippi V., 1982, pp. 32-34.
76
Oltre al catechismo del 1602, esistono altri due catechismi in lingua
cimbra che datano 1813 e 1842. In questi ultimi due testi è possibile notare
sia l'evoluzione che il cimbro ha seguito nel tempo, sia le influenze
esercitate su di esso dalla lingua italiana. Di seguito è riportato un breve
brano del catechismo del 1813:
Che cos'è la Speranza? La Speranza è una virtù, che ci ha donato
Dio il signore, che ci fa attendere il Cielo che egli ha promesso a quegli
stessi che lo seguono.
Fate un atto di Speranza.53
Rimanendo nell'ambito della letteratura di carattere sacro, esiste un
antico canto di Pentecoste, registrato ad Asiago, di cui non è possibile
fornire una datazione precisa. É un inno alla bellezza della natura, in ogni
suo aspetto, che si conclude con una preghiera allo Spirito Santo. Molto
interessante è il costante uso del diminutivo che, oltre a creare la rima, dona
una grande musicalità alle parole:
O della terra piccoli insetti,
Voi strisciate fra le erbette
E volate sopra le avene
e vivete fra le zolle.
O in alto uccelletti,
Voi volate tra i boschetti,
E cantate sopra i ramicelli
Vivendo tra le vallicciuole.
Dio dia a voi buone briciole,
E doni a voi lunghi giorni,
E la salute nei piccoli insetti,
E mai chiuda a voi le stradicciuole.
Lo Spirito è oggi venuto
Giù dal cielo
Per togliere dal mondo
53
Baz ist de Speranza? De Speranza ist an virtù, ba da hatüz gaschénket Gott dar
Herre, da màchtüz pàiten in Hümmel, ba ear hat vorhòacet den selben, da
volghentme.
Machet an atten von dar Sperànzen.
Fonte: Bonato S., Rigoni P., 1987, p. 58.
77
Ogni ferocia e malvagità.54
La letteratura cimbra annovera anche raccolte di proverbi e di
favole: tutta la saggezza popolare è contenuta in brevi e semplici versi, che
gli anziani recitavano ai più giovani durante i filò serali.
Alcuni esempi di proverbi:
traduzione
La volontà non può stare senza intelligenza.
testo
De bole mag net stenan ane sinne.
traduzione
Il risparmio è il primo guadagno.
testo
'Z spareen ist dar earste gavin.
traduzione
La felicità di questo mondo si dilegua come il fumo.
testo
'Z galustach von disar belte vorschbindet abia dar roch.
traduzione
Vuoi tu invecchiare? Non sforzarti troppo.
testo
Bill du doreltern? Boheftedich net zu viil.
traduzione
La verità si lascia ben piegare e non rompere.
54
Oh von dar earden kébelern,
Iart krabelt dort de greselen
Un vludart af de hébberlen
Un lebet dort de béselen.
Oh von dar hoghe vöghellen,
Iart vludart dort de béllelen,
Un singhet af di pöghelen
Lebenten dort de téllelen.
Gott gebach gute prösemlem,
Un schenkach langhe täghelen,
Un de ghesunt in Kösemlem,
Un sperach nia de bëghelen.
Dar Gaist ist heüte Kemmet
Abe vumme hümele
Zu von dar belte nemen
Alla de bille un de übele.
Fonte: Op. Cit., p. 56.
78
testo
De baarot lazzet sich bool pûken un net prechen.
traduzione
Chi ha un cattivo vicino, non ha mai un buon mattino.
testo
Bear hat an pôsen nagenar, hat nia an guten morgont. 55
Un esempio di fiaba cimbra:
L'orso
Una volta io ed un altro mio compagno siamo andati su nel bosco
insieme a custodire le pecore. Alla mattina presto abbiamo lasciato le
pecore fuori della stalla, e le abbiamo spinte su nel bosco. Poi è comparso
fuori da un cespuglio un grande orso e ha preso una pecora al mio
compagno e l'ha condotta nel cespuglio e l'ha mangiata. E noi altri
abbiamo sempre cercato, perché questa pecora aveva intorno al collo un
sonaglio, e come l'orso la mangiava, il sonaglio titinnava, e allora siamo
andati e abbiamo trovato questa pecora quasi tutta mangiata, e questo orso
dallo spavento è fuggito su una gran rupe. E il mio compagno è scappato su
un abete, e questo orso ha sempre guaito e il mio compagno gli ha gettato
giù la sua giacchetta. E questo orso ha creduto di avere l'uomo ed è fuggito
su per il bosco e ha portato dietro la giacchetta.56
Il XX secolo è caratterizzato da due fenomeni opposti, ma
intimamente correlati: la decadenza e il rifiorire della cultura cimbra. La
Prima Guerra Mondiale costituisce il punto di cesura: l'evento bellico
55
Fonte: Op. Cit., pp. 61-62.
Dar Pèero
56
An botta ich un an andarar main ksell saint gant au in balt petanandar tzo
hüütan d'ööben. As morgasen vrüün haba bar galasst ghéenan d'ööben aus 'me
stalle un haba se gatraibet au in balt. Un denne ist khent aussar von anara sbrikken
an gròassar pèero un hat gasnappet an ööba vomme main kselle un hat se 'me
gavüart inn in de sain sbrikken un hat se ghesset. Un ba andare haba se saldo
gasüüchet, ambrumme disa ööba hat gahat umme in hals an schéllele. Un biar dar
péero hat se ghesst, 's schéllele hat gagillet un asò sai bar gant un haba bar
gavunnet diisa ööba schiir ghesst alla. Un diisar pèero vomme khlupfe ist inkant au
in an gròassa stéela. Un dar main ksell ist inkant au af an voichta. Un dar pèero
hat saldo galüünt un dar main ksell hamme gajukhet abar's sain rökhle. Un asò hat
diisar pèero gamòant, haban in mann, un ist inkant au vor in balt un hat gapracht
naach's rökhle.
Fonte: Op. Cit., p.66.
79
sconvolge profondamente l'Altopiano, provocando non solo ingenti perdite
umane, ma anche definitive perdite di documenti e di testimonianze (sia
letterarie, sia architettoniche) della cultura cimbra. La conseguenza di tale
situazione si concretizza in un lungo periodo di ristagno culturale, che si
prolunga ben oltre la fine della guerra, al termine del quale si può parlare di
"risveglio" della cultura cimbra.
Due sono i rappresentanti e i protagonisti principali del "risveglio"
culturale cimbro durante il Novecento: Umberto Martello Martalar e
Simeone Domenico Frigo.
Umberto Martello Martalar (1899-1981) è originario di Mezzaselva
di Roana e, come affermato in precedenza, è stato un grande animatore della
cultura cimbra dedicandosi, oltre alla compilazione di un fondamentale
dizionario cimbro, anche alla composizione di favole e poesie. Tra le poesie
di U. Martello, la più conosciuta, considerata anche il testamento spirituale
dell'autore, è la seguente, di cui riporto qualche verso:
"Un albero per lapide"
Non gravar mio tumulo con sepolcrali lastroni,
sulla mia tomba un albero piantate, abete o larice pur sia,
Non versar quindi lacrime, né sincere, né false,
mentr'io con angeli o con demoni eseguo lor danze.
Fratelli bianchi, rossi, neri, ecco l'ultimo passo,
l'immortalità vien solo dopo il nostro trapasso!57
Simeone Domenico Frigo (1903-1976) è nato a Roana e, come U.
Martello, è stato un grande appassionato della cultura e del popolo cimbro.
É autore della raccolta di Favole Cimbre, pubblicata a Vicenza nel 1977,
dalla quale è tratto il seguente testo:
57
"An pòom bor grabstòan"
Basset net 's main grap met khnòtten un platten,
Zétzamart an pòom, bòichta, tanna odar lérch,
Azo süttet net séeghen, net baare net baltze,
bail ich metten enghellen odar toiballen tantze.
Un bìsset och lòite, baise, sbartze odar ròote,
de unstèrbinghe khìmmet darnaach m'ögnarn tòote!
Fonte: Filippi V., 1982, p.102.
80
Lo scoiattolo risparmiatore
Tanti anni fa un vispo e furbo scoiattolino se ne stava tutti i giorni
sotto gli abeti del bosco a giocherellare. L'aria era fresca, il cielo sereno e
lucente. Era bello correre, saltare e divertirsi. Ma un giorno passò da
quelle parti un capriolo e vedendo il piccolo scoiattolo così vispo e
spensierato gli chiese: <<Tuo padre e tua madre dove sono?>>. Lo
scoiattolino, sconsolato rispose: <<Da molte settimane non li vedo. Un
brutto uomo li ha fatti sparire.>> Allora il capriolo capì ed ebbe
compassione di quel povero orfano. E pertanto gli disse: <<Tu non devi
vivere così spensieratamente. Ricordati che presto il bel tempo cesserà e
verranno giorni piovosi e nebbiosi. Cadrà la neve che tutto seppellirà sotto
il suo mantello bianco e allora tu resterai senza cibo e morirai di fame.>>
Lo scoiattolino capì e, pur non perdendo la sua gioia, scelse una vecchia
pianta, scavò sotto il suo tronco un buco e là dentro depose per una intera
estate e per un intero autunno tante noccioline, cibo e altre cose. Quando
venne l'inverno lo scoiattolino ebbe cibo in abbondanza così da poter
aiutare, durante l'inverno, qualche altra bestiola del bosco. Da quel giorno,
molti animali imitarono lo scoiattolino risparmiatore.58
58
Dar sparare haselkätzle
Belz jar an lustiges un bals haselkätzle is all tage gastant untar de woichten
won walde, so machan moke. D'ear war vrische; dar hümmel hotar un lichtenten,
war shön lofan, springan un närrensich so spilan. Bedar an tag ginget zua an
willegoaz un segenten de klone haselkatza so lustig un ane gedanke, vòrstetme.
<<Wa saint dain vatar un daine mutar?>> 's haselkätze laidet anködtet. <<Se
saint vile woche de segese net mear. An ornar man hatse gemacht genan dehin>>.
Aso, de willegoaz hat vostant un hat gahat laid vor des armen woso. Un asò hatme
köt: <<Du man net leban aso ane wissan nicht. Gadenkedich: de schönzait inget
palle un kimmet's regenwetter, dar hümmel machetsich gahilwe. Wallet dar schnea
un bograbet alles untar sain waizbantel un denne du bolaibest ane obes un darnach
du sterbest von hungare>>. De haselkatza hat vostant un ane froa vorloran, hat
gasüchet ausar an alten pom untar sain berg hat gaholt aus an loch un da innont
hat sallo lògart vor an ganzen herbest, an haufen nüzzlen, obes un andare dinkete.
Un wenne is kent dar wintar's haselkätzlehat gahat obes in überhülle da so mögan
helfan pa wintare eppadarandar altes sächle von walde. Von demme tage vile
sachen machent wia's sparare haselkätzle.
Fonte: Bonato S., Rigoni P., 1987, p. 70.
81
4.6. Credenze mitiche e credenze popolari nell'immaginario collettivo dei
Cimbri
L'immaginario collettivo dei Cimbri è popolato da figure mitiche di
vario genere, retaggio sia della tradizione appartenente all'area germanica e
nordica in generale, sia di quella parte della tradizione cristiana che
conserva reminescenze pagane.
Un approfondito studio sulle credenze dei Cimbri nelle figure
mitiche è stato condotto da Bruno Schweizer, il famoso glottologo del
popolo cimbro morto nel 1958. Proprio a tale studio, intitolato Le credenze
dei Cimbri nelle figure mitiche59, intendo riferirmi nel corso della seguente
analisi.
Il primo genere di figure mitiche studiato dallo Schweizer è quello
delle "figure mitiche indeterminate": si tratta di figure prive di una
fisionomia precisa, presenti in tutta l'area di popolamento cimbro. Tra di
esse, lo Schweizer cita le voci:
"La voce è la personificazione più semplice: è, per così
dire, la personificazione in sé. Talvolta, il relatore lascia intuire
quali figure mitiche suppone sotto la voce, ma più spesso non si
danno affatto precisazioni. Suoni naturali inspiegabili, voci umane
sconosciute ed inoltre allucinazioni di qualsiasi tipo si presentano
alla gente nell'oscurità della notte come manifestazioni dell'altro
mondo." (1989, p. 11)
Tra le voci, ve ne sono alcune comuni alle varie aree di
insediamento dei Cimbri; lo Schweizer ne elenca alcune: voce di donna che
chiama una capra, voce di uomo che urla nel bosco, voce di Dio o della
coscienza, voce del diavolo e voci di selvaggi (esseri demoniaci). Molte
sono le storie, raccontate dagli anziani, che narrano di voci misteriose; lo
Schweizer riporta numerosi esempi, come il seguente:
"Andai una volta a Roana con mia sorella a prelevare la
levatrice. Trovandoci a passare presso il bosco in alto, udimmo
come un urlo di uomo minaccioso. La voce veniva giù verso di noi;
impauriti, restammo silenziosi, non osando aprir bocca. Ma poi ci
chiedemmo: <<Hai sentito?>>. <<Non senti l'urlatore che ci si
avvicina dall'alto?>>. Mia sorella mi disse: <<Sento bene, ma
cos'è!>> Nel frattempo eravamo giunti all'abitato, dove ancora si
udiva la voce. Tornati a casa, chiudemmo l'entrata pieni di paura:a
tuttora non sappiamo di che si trattasse." (p. 12)
59
Di tale opera possiedo la copia, tradotta da Vinicio Filippi, edita nel 1989 per le
Edizioni Taucias Gareida di Giazza, in occasione del trentesimo anniversario della
morte dello Schweizer.
82
Un altro tipo di figure mitiche indeterminate è rappresentato dagli
spiriti, o spettri, in generale. Gli spettri dei Cimbri hanno tutte le
caratteristiche tipiche degli spettri di altre tradizioni culturali: essi si
muovono volando attraverso il vento, hanno la capacità di mutare la propria
sembianza e sono in grado di trasformarsi in svariati animali, tranne che in
pecore o agnelli (simboli di Cristo). Tra i Cimbri è diffusa l'opinione che, un
tempo, gli spettri fossero più numerosi e più potenti di oggi: il Concilio di
Trento viene indicato come l'evento che ha notevolmente diminuito la
potenza degli spettri. Quest'ultima, inoltre, non ha la medesima intensità a
tutte le ore del giorno: infatti, al termine del suono delle campane che
accompagna la benedizione serale, gli spettri hanno il dominio. Nei posti
solitari, come sulle malghe, gli uomini sono esposti più che altrove agli
assalti degli spettri; per questo motivo è necessario essere particolarmente
guardinghi, evitare liti con i propri compagni e pregare con zelo. La recita
del rosario è considerata molto efficace contro gli spettri in quanto, date le
molte ripetizioni, presenta una certa affinità con le ripetizioni delle formule
magiche e, dunque, nel sentire popolare il rosario, oltre alla potenza della
parola, possiede quella del ritmo.
Tra le figure mitiche indeterminate, troviamo anche alcuni tipi di
demoni come i demoni della malattia, che acquistano maggior forza quando
si verifica una pestilenza (peste, colera e tifo), o come i Wilisten. Il termine
rimanda, secondo lo Schweizer, al nome popolare antico del ceppo slavo dei
Welatabi, abitanti le coste del Mar Baltico. L'autore ritiene di poter
affermare che la figura di questi demoni è di eredità longobarda, in quanto i
Longobardi entrarono in molteplici contatti con i popoli slavi. I Wilisten
sono demoni-stregoni che attaccano donne e bambini; se questi ultimi non
sono benedetti, i Wilisten li rapiscono.
Esistono, inoltre, figure mitiche dotate di una specifica identità:
giganti, nani, orchi e streghe sono i protagonisti di molte leggende e degli
incubi dei bambini. La figura del gigante è riconducibile, secondo lo
Schweizer, all'esperienza umana delle potenze superiori della natura. Ai
giganti nordici del gelo e del ghiaccio corrispondono, tra i Cimbri, i giganti
del tempo, i quali hanno il potere di scatenare tempeste di grandine. Inoltre,
i giganti, che secondo la credenza comune abitano sulle nuvole, hanno una
voce potente e sono così grandi da poter stare in piedi, con le gambe
divaricate, sulle cime di due montagne. Per quanto concerne la figura mitica
del nano, non esiste tra i Cimbri il corrispettivo degli elfi celtici o dei
Nörkele tirolesi; tuttavia, lo Schweizer crede di poter comprendere in questa
categoria una figura chiamata Salvanell o Sanguinell: si tratta di un piccolo
essere di colore verde o rosso, che deriva il proprio nome dal fatto di essere
uno spirito del bosco. Il Salvanell vive nelle caverne, nascoste dalla fitta
vegetazione del bosco, dove tiene numerosi greggi di pecore. Di notte,
questo esserino vaga sulle malghe e si introduce nei ricoveri dove viene
83
conservato il latte per impadronirsene e per berlo. Inoltre, il Salvanell ama
straordinariamente le bambine di due o tre anni, che rapisce e porta nella
sua caverna dove le nutre con cura e le cresce con grande affetto. Questo
essere ha un carattere allegro e dispettoso, canta spesso e ride in
continuazione; si diverte a leccare la fronte degli uomini scompigliandone i
capelli e spaventa i bambini, suonando un campanellino.
L'orco rappresenta il classico spauracchio per i bambini: esso è un
essere enorme, il cui corpo è ricoperto da lunghi peli e le cui unghie sono
artigli affilati. Al posto dei denti l'orco ha delle grandi zanne, che
terrorizzano adulti e bambini. Nelle credenze cimbre, l'orco può anche
manifestarsi come luce nei campi, come gatto, asino, cane o caprone; ma
anche come gomitolo di lana, la qual cosa spaventa non poco le donne e i
bambini durante i filò.
A metà strada tra il gigante e l'orco sta la figura mitica del Beatrìc:
un uomo di incredibile statura, che vive nelle caverne delle più erte e
scoscese montagne o nelle più fitte foreste. Nessuno può dire come sia il
suo volto perché chiunque vi si imbatta non osa guardarlo in faccia, tanto
egli è terribile. Durante il giorno il Beatrìc rimane nella sua caverna, per
uscirne solo di notte. Questo essere, di per sé, non è malvagio e non odia gli
uomini (come i giganti e gli orchi); ciò che è nocivo è lo spavento che
provoca in chi lo incontra. Il Beatrìc è accompagnato da un gran numero di
cagnolini così pelosi che non se ne possono distinguere né le zampe, né il
muso. Ciò che più spaventa di questa figura, è il richiamo che il mostro urla
ai suoi cagnolini, affinché non si disperdano. Chi vede o sente il Beatrìc
nelle vicinanze, deve allontanarsi dalla strada e stare immobile con le gambe
strette: se un cagnolino corresse attraverso le gambe del malcapitato,
quest'ultimo verrebbe immediatamente tramutato in sasso.
"Una sera un sacrestano, dopo aver suonato le campane
per la preghiera, stava tornando a casa, quando udì il richiamo del
Beatrìc. Senza riflettere, gridò anch'egli per divertimento <<hophop!>>. Ma si mise subito a correre a spron battuto e,
precipitandosi in casa per sua fortuna aperta, afferrò un crocifisso.
In quel preciso istante vide alla finestra un uomo spaventoso; era il
Beatrìc, che urlò:<<Se tu non avessi in mano quel che hai, ti
ridurrei in pezzi piccoli come chicchi di miglio!>>. Poi scomparve,
e il decano si salvò con una grande paura." (p. 91)
84
CAPITOLO QUINTO
Il Comune di Luserna
5.1. Analisi geografica e territoriale dell'Altopiano di Luserna
Il Comune di Luserna è situato sul confine centro-meridionale
dell'Altopiano di Luserna-Vezzena (1.300/1.5000 m.s.l.m.), in posizione
intermedia tra l'Altopiano di Asiago Sette Comuni e quello di LavaroneFolgaria, a sud-est di Trento, tra la Valsugana e la Valdastico [Fig. IV].
L'Altopiano di Luserna si snoda nelle circostanti zone di Folgaria e
di Lavarone, fino al Passo di Vézzena (1.402 m.) da dove, attraverso
l'angusta forcella della Valle dell'Assa, è possibile giungere fino ai non
lontani Sette Comuni Vicentini. L'Altopiano di Luserna, assolata terrazza
calcarea con inclinazione sud-ovest, è circondato da una imponente corona
di cime che, partendo da sud in direzione sud-ovest, nord, nord-est, sono: il
Monte Spitz di Tonezza (1.696 m.), il Monte Campolòn (1.855 m.), il Monte
Cimòn (1.486 m.) sull'Altopiano di Lavarone, la Cima Vézzena (1.908 m.),
la Cima Mandriolo (2.051 m.), la Cima Pòrtule (2.310 m.) e il Monte
Verena (2.015 m.). I confini naturali del territorio, caratterizzato da
terrazzamenti che creano profonde valli e strapiombi (con dislivelli che
arrivano anche ai 600 m.), sono costituiti dal solco della Val Torra (a
oriente) e dal Rio Torto (a occidente). La superficie dell'altopiano misura,
circa, 20 kmq.; tuttavia, solo 8 kmq. (compresi tra le quote di 1.200 e 1550
m.) fanno amministrativamente parte del Comune di Luserna. I rimanenti 12
kmq. fanno parte, sempre dal punto di vista amministrativo, dei numerosi
comuni che usufruiscono di diritti di proprietà: Levico Terme, Caldonazzo,
Monterovere e Lavarone. Il Comune di Luserna è costituito da due
insediamenti: Luserna [Fig. V A], che si trova a 1.333 m. di quota, è
adagiata su un piccolo lembo di terra pianeggiante, a cavallo della Valle di
Sant'Antonio, e Tezze [Fig. V B], a 1.288 m., che sorge in una valletta,
situata a ovest di Luserna. La struttura dei due insediamenti è quella tipica
del "villaggio di strada", o Strassendorf: anche a Luserna, infatti, è presente
una sola strada diritta lungo la quale sono allineate le abitazioni, mentre gli
orti sono posti dietro le abitazioni stesse. Sulle alture a monte dell'abitato, su
porzioni di territorio pianeggiante, si trovano insiemi di costruzioni isolate
che, nel dialetto cimbro di Luserna, sono chiamati Hüttn, ovvero baite.
85
Fig. IV Il Comune di Luserna
Fonte: elaborazione grafica a cura dell’autrice
86
Fig. V A
Comune di Luserna
Fonte: Centro Documentazione
di Luserna
Fig. V B
Veduta di Tezze al crepuscolo
Fonte: Prezzi C., 1998, p. 13
87
In passato le vie di comunicazione, che collegavano l'Altopiano di
Luserna con gli altri comuni della regione, erano molto poche e in pessime
condizioni: si trattava, per lo più, di sentieri che, durante la lunga stagione
invernale, diventavano impraticabili. La strada che conduce a Lavarone,
attualmente la principale via di collegamento con il fondovalle, è stata
realizzata solo tra il 1882 e il 1885; mentre, agli albori del Novecento, è
stata costruita la strada carrozzabile che da Monterovere porta a
Caldonazzo.
Dal punto di vista dell'idrografia, l'Altopiano di Luserna è
attraversato da due torrenti: il Rio Torto e il Torra. L'approvvigionamento
idrico della comunità è garantito da due antiche cisterne ristrutturate, una a
Luserna e l'altra a Tezze, delle quali non è possibile stabilire con esattezza la
data di fabbricazione, dal momento che la data che si può leggere su di esse
(1885 sulla cisterna di Tezze e 1870 su quella di Luserna) rimanda, quasi
certamente, a un restauro. Flora e fauna dell'Altopiano di Luserna sono
tipicamente alpine: la vegetazione, infatti, è costituita principalmente da
boschi misti di faggio, di abete (bianco e rosso), di pino mugo, di pino
silvestre e di larice, il sottobosco è ricco di muschi, di felci, di cespugli di
sambuco, di mirtilli, di lamponi e di fragole e sui pascoli, in primavera, è
tutto un susseguirsi di infinite tonalità di colore, dal giallo oro dell'Arnica
montana e delle ginestrine al viola delle genziane e delle campanelle e,
ancora, dal rosso degli astri alpini e dei rododendri al bianco della stella
alpina; mentre le tra specie animali che abitano questi luoghi incantevoli si
trovano caprioli, camosci, volpi, lepri, tassi, marmotte, faine, tassi, falchi
pellegrini, aquile reali, poiane, civette, gufi, urogalli, galli cedroni e
passeriformi di innumerevoli famiglie.
Uno degli aspetti caratteristici del territorio di Luserna è
rappresentato dagli immensi pascoli che, con malghe e baite, danno vita a un
paesaggio indimenticabile. A circa 1000 m. dal paese di Luserna si trova
Malga Campo60 (1.455 m.), il più antico alpeggio della zona di proprietà del
Comune di Luserna, che oggi, non venendo più utilizzata, è oggetto di lavori
di ristrutturazione che ne faranno un rifugio alpino. Proseguendo oltre si
incontra Malga Millegrobbe61 (1.470 m.) [Fig. VI], una tra le più estese
dell'altopiano, che nella stagione invernale si trasforma nel noto Centro
Fondo Millegrobbe, con piste lunghe fino a 15 km.
60
Dar Camp nel dialetto cimbro di Luserna.
Millegruan (dal Milch-gruam che significa pozza del latte) nel dialetto cimbro di
Luserna.
61
88
Fig. VI Malga Millegrobbe
Fonte: Prezzi C., 1998, p. 46
Partendo da Tezze e dirigendosi a nord, verso Monterovere, si arriva
a Malga Laghetto62 (1.193 m.), così chiamata per la presenza del Laghetto di
Monterovere, la quale è considerata un biotopo di grande interesse per la
sopravvivenza di un ecosistema umido alpino intatto. Inoltre, non lontano
dal piccolo specchio d'acqua, si trova un bosco secolare dove vive da 230
anni l'"Avez del Prinzep": un immenso abete bianco che, con i suoi 52 m. di
altezza e i suoi 4,80 m. di circonferenza, è considerato il più grande
d'Europa. Tra Luserna e Passo Vezzena, adagiate su di un'ampia valle, si
trovano le baite del Bisele (1.383 m.), antico alpeggio costituito da tre
nuclei: Case di Sotto63 (1.364 m.), Galeni64 (1.370 m.) e Case di Sopra65
(1.383 m.). A 1.541 m. di quota si trova Malga Costalta66 che, durante la
stagione estiva, ospita una famiglia di Luserna la quale, da molte
generazioni, porta i propri bovini su questo alpeggio. Infine, vanno
sicuramente nominati i pascoli e le malghe del Passo Vezzena67 (1.402 m.):
il passo conta, attualmente, 14 malghe situate dai 1.381 m. di Malga Palù ai
1.657 m. di Malga Marcai di Sopra. In numerose malghe, tutt'oggi, si lavora
il latte, seguendo una antica tradizione, per produrre il rinomato Formaggio
Vezzena.
62
Sea vo Monteruf nel dialetto cimbro di Luserna.
Untarhaüsar nel cimbro di Luserna.
64
Galen in cimbro.
65
Obarhaüsar nel cimbro di Luserna.
66
Di grümmane bisan vo Kostalta (i verdi prati di Costalta) nel cibro di Luserna.
67
Vesan (da Wiesen cioè prati) in cimbro.
63
89
In passato l'economia di Luserna si fondava, oltre che sull'allevamento
bovino e sulla produzione casearia, anche su attività ormai non più praticate:
il lavoro dello scalpellino e l'arte di ricamare il pizzo con il tombolo. Oggi
l'economia della zona si basa, essenzialmente, sull'allevamento bovino, sulla
produzione casearia, sull'industria del turismo e sull'artigianato locale.
L'industria del turismo è, senza dubbio, più fiorente sui vicini Altipiani di
Lavarone e di Folgaria; tuttavia, nella stagione estiva dello scorso 2000, il
Centro Documentazione di Luserna ha registrato il non trascurabile dato di
6.500 visitatori: un tale successo dimostra che la scelta di offrire un turismo
culturale ed ecologico, in grado di proporre tutte le possibilità del territorio,
dai forti austro-ungarici alle malghe e alle tradizioni cimbre, è quella
vincente. I 6.000 visitatori annui permettono ai 320 abitanti di Luserna, che
in realtà sono 200 dal momento che gli altri vivono a Trento e a Rovereto
durante la settimana e tornano a Luserna nel fine settimana e per le vacanze,
di tenere aperti tutto l'anno ben cinque ristoranti e un agriturismo che, con le
sue 35 mucche allevate ecologicamente, costituisce una delle due aziende
zootecniche del paese.
5.2. I Cimbri di Luserna: analisi storica e situazione attuale68
Quando, agli albori del XIII secolo, le popolazioni cimbre giungono
sull'altopiano, esse si trovano di fronte, con ogni probabilità, a un'immensa
foresta, silenziosa e remota.
Tuttavia, questo bosco sconfinato era già stato abitato dall'uomo: già
a partire dal Neolitico, infatti, il bacino che circonda la Valsugana vede lo
sviluppo dell'attività estrattiva e della fusione del rame. Sull'Altopiano di
Luserna sono rimaste alcune testimonianze di tale attività: in un sito non
distante dall'abitato di Tezze, in località "Pletz von Mozze", sono stati
rinvenuti, nel corso di una campagna di scavi, alcuni cocci di ceramiche e i
resti di forni per la fusione del rame risalenti al 1200 a.C. Sono anche state
ritrovate le scorie prodotte in seguito alle fusioni del metallo, che sembrano
essere di due tipi successivi: la prima fusione ha prodotto un materiale
grezzo e poroso, di colore scuro e rinvenuto sotto forma di piastre; la
seconda fusione ha prodotto un materiale levigato e lucido, di colore grigio
fumo e rinvenuto sotto forma di schegge di piccole dimensioni. In occasione
dei citati scavi, sono stati rinvenuti anche una macina per minerali e, nei
pressi di Malga Millegrobbe di Sotto, alcuni frammenti di selce.
In località Obarbisele sono state ritrovate alcune lastre di pietra che,
secondo molti, costituirebbero ben due Menhir e un Dolmen [Fig. VII]: i due
presunti (anche se è quasi certo che lo siano) Menhir sono formati da pietre
conficcate nel terreno, secondo una precisa angolazione, che segue gli assi
cardinali, e secondo un'inclinazione di 60° verso est, al sorgere del sole
durante l'equinozio di primavera, impedisce alle lastre di proiettare la loro
68
Cfr. Prezzi C., 1998.
90
ombra sul suolo; il Dolmen consta di una imponente lastra di pietra posta
sopra due pietre più piccole, conficcate nel terreno. La superficie della
pietra di maggiori dimensioni presenta una scanalatura che segue
l'inclinazione dei Menhir. L'età dei due Menhir e del Dolmen sembra essere
di 6500 anni circa.
Fig. VII
Dolmen, località Obarbisele
Fonte: Prezzi C., 1998, p. 18
91
Tornando alla storia del popolo cimbro di Luserna, come affermato
in precedenza69, nel 1216 il Vescovo e Principe di Trento Friederich von
Wangen concede ad alcuni coloni, provenienti dai Sette Comuni Vicentini,
di stabilirsi sull'Altopiano di Lavarone e su quello di Folgaria, con la
possibilità di costruirvi una ventina di masi e di mettere a coltura il
territorio.
Il piccolo insediamento di Luserna viene citato, per la prima volta,
in un documento datato 24 gennaio 1442: si tratta di un atto di vendita dal
quale risulta che tale Ser Biagio vende al Duca d'Austria e Conte del Tirolo
Federico (detto il Tasca Vuota) i suoi quattro masi, che si trovano sul Monte
di Luserna, per una somma di 55 ducati d'oro.
Trascorso un certo periodo di tempo, alcuni gruppi famigliari di
Lavarone decidono di trasferirsi sull'Altopiano di Luserna. Probabilmente
tale trasferimento si era reso necessario per il fatto che, al tempo dell'arrivo
dei coloni cimbri, il Comune di Lavarone e quello di Folgaria erano già
relativamente sviluppati e popolati: dunque, non è improbabile che una parte
delle genti cimbre abbia scelto di cercare altrove la propria dimora
definitiva.
Per un lungo periodo, tra gli abitanti dell'"Onoranda Vicinia di
Luserna" e quelli della "Magnifica Comunità di Lavarone" hanno luogo
numerose dispute non solo riguardanti i confini territoriali, ma anche
relative all'autonomia amministrativa: Luserna, infatti, dal punto di vista
amministrativo, a quel tempo dipende dal vicino Comune di Lavarone. Tale
situazione di contrasto viene risolta il 4 agosto 1780, quando il Comune di
Lavarone e quello di Luserna vengono definitivamente separati attraverso un
vero e proprio atto di divisione.
L'isolamento di Luserna permette ai suoi abitanti cimbri di condurre
un'esistenza relativamente tranquilla, dedicata al lavoro nei boschi,
all'allevamento e all'artigianato.
A partire dal 1715, i Cimbri di Luserna iniziano i lavori per la
costruzione della chiesa e, già nel 1723, si ha notizia di una chiesa
campestre dedicata a Santa Giustina, eretta a proprie spese dalla
popolazione stessa. Si tratta, presumibilmente, di un edificio a carattere
provvisorio, di modeste dimensioni e costruito con la tecnica del Blockbau.
Nel 1745 viene eretta una chiesa in pietra nella piazza principale di Luserna;
tuttavia, tale chiesa viene abbattuta all'inizio della Prima Guerra Mondiale
dalle artiglierie italiane le quali, a causa del muro di nebbia, sbagliano più
volte la traiettoria delle cannonate che avrebbero dovuto colpire gli
austriaci. Intorno agli anni Venti viene costruita la nuova chiesa, dedicata a
Sant'Antonio da Padova, situata in posizione intermedia tra l'abitato di
Luserna e quello di Tezze.
69
Cfr. il Capitolo terzo.
92
La Grande Guerra rappresenta, senza dubbio, l'evento più
significativo della storia di questi luoghi: gli Altipiani di Lavarone, di
Folgaria e di Luserna sono stati linea di confine e fronte fino al maggio del
1916. Quasi contemporaneamente alla dichiarazione di guerra da parte
dell'Italia, nel maggio del 1915, tutti gli abitanti di Luserna sono costretti ad
abbandonare il proprio paese, che si trovava dalla parte austriaca del fronte,
sotto una pioggia di granate. I 900 abitanti di Luserna vengono accolti in
Boemia, nella circoscrizione di Aussig: il loro ritorno a Luserna deve
attendere fino al 1919. Sull'altopiano rimangono solo i soldati della
compagnia degli Standschützen di Luserna, alcuni operai e il curato di
campo Josef Pardatscher da Salorno/Salurn, ultimo parroco tedesco del
Comune.
Durante gli anni precedenti lo scoppio del conflitto, il governo
austriaco ordina l'edificazione di sette fortezze tra Folgaria e Vezzena, opere
che rappresentano il massimo della tecnica militare dell'epoca. Tra il 1908 e
il 1912 viene costruito il Forte Campo di Luserna (Werk Lusérn), costituito
da un'opera principale, situata sull'altura di Cima Campo (1.549 m.), e da
due avamposti situati uno a est, Viaz (1.507 m.), e uno a ovest, Oberwiesen
(1.517 m.). Il Forte Campo, soprannominato "Il Padreterno" per la mole
poderosa e per il grande potere offensivo, riveste un ruolo centrale, data la
sua posizione strategica, soprattutto nei primi giorni del conflitto. Oggi del
Forte Campo non restano che tristi ruderi, quasi un monito contro ogni
guerra, i quali nell'agosto del 1993 sono stati teatro dell'Incontro ItaloAustriaco della Pace.
A nord-est del Passo Vezzena, su di un'altura, sorge un altro
"monumento" bellico austro-ungarico: il Forte Verle, a 1.554 m. di quota.
L'opera era stata costruita per impedire che la Val d'Assa diventasse punto
di facile accesso per le milizie italiane dirette a Trento. Infine, un'ultima
fortezza austro-ungarica si trova a 1.908 m. di quota: si tratta
dell'Osservatorio fortificato di Cima Vezzena (Spitz vo leve) che, posto sulla
sommità di un precipizio, domina la Valsugana e, per questo motivo, è stato
soprannominato "occhio degli altipiani".
Durante la Grande Guerra, Luserna viene completamente distrutta:
quando, nel 1919, i Cimbri vi fanno ritorno, non trovano che cumuli di
macerie. L'intero paese, compresa la chiesa, viene ricostruito; la strada di
Monterovere viene prolungata, permettendo un più agevole collegamento di
Luserna con Lavarone e con Trento; illuminazione elettrica e acqua vengono
introdotte in gran parte delle abitazioni. In breve tempo si registra un
miglioramento della qualità della vita e un aumento della popolazione che,
negli anni Venti, raggiunge i 1.200 individui. Tuttavia, con l'avvento del
Fascismo, la situazione cambia radicalmente: molte persone decidono di
lasciare il paese avito e di stabilirsi in Svizzera o in Sudtirolo; nel 1935, a
Luserna, sono rimaste 859 anime. Il governo fascista, nel 1939, impone
anche ai Cimbri di Luserna l’opzione: si deve scegliere se partire per uno
93
Stato di lingua tedesca o se rimanere in Italia, dove viene proibito di parlare
nella lingua natia anche tra le mura domestiche. Così, 280 Cimbri lasciano
Luserna e optano per la Germania, ma ne partono solo un centinaio:
probabilmente gli altri non riescono ad accettare l'idea di un abbandono
definitivo.
Alla fine della Seconda Guerra Mondiale, e fino al 1967, Luserna
conta 650 abitanti; ma, a partire dal 1968 con l'introduzione della scuola
media unica, il paese comincia a spopolarsi: molte famiglie si trasferiscono
a Lavarone e a Trento, dove ci sono scuole e opportunità di impiego stabile.
Attualmente, come accennato in precedenza, Luserna ha 320 iscritti
all'anagrafe: una minuscola comunità dove tutti ancora, incredibilmente,
parlano il cimbro. A questo proposito Maria B. Bertoldi, nel suo libro
intitolato Luserna: una cultura che resiste, afferma:
"... il lusernese è introverso ma disponibile all'apertura
verso lo straniero. C'è la coscienza di essere un'isola linguistica e
si collabora volentieri con chi ad essa è interessato. [...] L'alta
stima di sé che è propria del lusernese fa sì che egli giudichi il
proprio patrimonio linguistico come una preziosa rarità e ciò
spiega come tutto il paese cerchi con ogni sforzo di preservare la
propria lingua." (1983, p. 35)
Nonostante siano passati vent'anni dalla pubblicazione del testo
della Bertoldi, le osservazioni dell'autrice sono, oggi più che mai, cariche di
significati validi: durante il mio soggiorno a Luserna, infatti, ho avuto la
possibilità di constatare personalmente quanto ancora la cultura cimbra sia
viva e quanto sia profonda, e radicata in tutti, l'esigenza di custodire e di
valorizzare con ogni mezzo la propria alterità culturale e linguistica.
94
5.3. Visita al Centro Documentazione di Luserna
La fondazione del Centro Documentazione di Luserna -ONLUS
(Organizzazione Non Lucrativa di Utilità Sociale) [Fig. VIII] è stata decisa
dal Consiglio Comunale di Luserna/Lusérn il 5 luglio 1996, in attuazione
del "Piano di sviluppo turistico di Luserna" (approvato dal Consiglio
Comunale e dalla Giunta Provinciale nella primavera del 1994). Finalità
principale del Centro è quella di studiare e di far conoscere tutti gli
avvenimenti che riguardano Luserna e i territori circostanti. Come si legge
nello "Statuto della Fondazione", essa non ha scopi di lucro e persegue i
seguenti obiettivi:
"- Acquisire, raccogliere, catalogare, elaborare, tradurre,
pubblicare, esporre, rendere usufruibili e gestire, anche con i più
moderni strumenti informatici (banca dati, banca immagini,
collegamenti in rete, ecc.), tutti i documenti di qualsiasi genere
(oggetti materiali mobili ed immobili compresi) relativi agli
avvenimenti di qualsiasi epoca, che hanno interessato Luserna e il
territorio circostante, con particolare riferimento agli insediamenti
antichi e a quelli cimbri, agli avvenimenti relativi allle guerre e
agli spostamenti di popolazione (colonizzazioni, evacuazioni,
opzioni, emigrazioni);
- provvedere al ripristino, manutenzione, gestione dei
manufatti e testimonianze materiali storiche, immobili e mobili, con
particolare riferimento a quelli connessi con la Guerra 1914/18, di
entrambi i lati del fronte, site sul territorio di Luserna, dei comuni
vicini e della Provincia di Trento, al fine di conservarle come
testimonianze fruibili anche in futuro;
- organizzare soggiorni culturali, visite guidate, lezioni,
seminari, convegni, prioritariamente a Luserna ma anche nei
comuni vicini e nel territorio della Provincia di Trento e della
Regione Trentino Alto Adige, al fine di promuovere la conoscenza e
lo studio obiettivo dei predetti avvenimenti storici, con adeguata
considerazione dei punti di vista e dei documenti di tutte le parti
coinvolte, anche al fine di promuovere la pace, la comprensione e
amicizia tra i popoli e l'integrazione europea;
- promuovere l'occupazione e lo sviluppo economico della
locale comunità germanofona cimbra tramite le attività sopra
elencate, similari o ad esse collegate o conseguenti."70
In occasione della mia permanenza a Luserna, tra luglio e agosto del
2000, ho avuto modo di visitare le quattro esposizioni presenti all'interno del
Centro Documentazione: un'esposizione permanente su "Reperti ed
70
Fonte: Centro Documentazione di Luserna.
95
Oggettistica della Grande Guerra 1915-18", le altre temporanee su "La
Grande Guerra: Luserna e la Val dei Mòcheni", "Die Soldatenzeitungen e i
Giornali di Trincea" e, infine, "I pittori della Grande Guerra: Francesco
Rizzi e Albin Egger-Lienz". Il Dott. Christian Prezzi, giovane antropologo
cimbro, mi ha accompagnato attraverso le varie esposizioni, rispondendo a
ogni mia domanda relativa al popolo cimbro. É stata un'esperienza unica e
indimenticabile: conversare con una persona la cui diversità culturale era
così tangibile ed evidente, ascoltarla parlare l'antico idioma cimbro con altre
persone del Centro, provando inutilmente a intuire il senso della loro
conversazione, ebbene, tutto questo è stato motivo di profondo
arricchimento culturale e morale.
Il Dott. Prezzi, raccontandomi la storia del suo popolo, ha voluto
sottolineare il fatto che a Luserna non esistono musei dedicati alla cultura
cimbra: essi non sono necessari perché gli sforzi di tutti hanno permesso alla
cultura cimbra di non morire, di non diventare una materia studiata solo da
pochi appassionati.
96
Fig.VIII
Centro Documentazione di Luserna
Scatto privato
97
5.4. Luserna: ultima roccaforte del Taitsche Sproche
É difficile spiegare lo stato d'animo di chi, come me, si è trovato a
percorrere le strade di Luserna e, osservando i volti delle persone e
ascoltandone i discorsi, si è reso conto, quasi come un personaggio di Joyce
colto da improvvisa e subitanea epifany, di aver dischiuso la soglia di un
microcosmo culturale assolutamente unico, forte e fragile allo stesso tempo:
forte perché antico di quasi mille anni e fragile perché costantemente
minacciato da certa arroganza dei nostri tempi e dall'ombra dell'abbandono.
É difficile spiegare lo stato d'animo di chi, come me, ha guardato
negli occhi un cimbro di Luserna abbastanza a lungo da potervi scorgere la
fierezza di appartenere a quel microcosmo culturale. Questa fierezza, in un
primo momento solo intravista, ben presto diventa materiale, palpabile: la si
può quasi afferrare, per guardarla da vicino, per tentare di comprenderne la
forza; poi, per un breve istante, ci si sente parte della comunità cimbra
subito, l'istante successivo, la consapevolezza della reciproca alterità
culturale torna, inevitabilmente, alla mente.
Gli uomini e le donne di Luserna, con i loro tratti somatici così
marcati, con gli occhi verdi e intensi, con i capelli castani e con la
carnagione abbronzata, sono gli ultimi rappresentanti delle genti cimbre che,
un tempo, abitavano anche l'Altopiano di Asiago, i Monti Lessini e la
Foresta del Cansiglio. Quando questi uomini e queste donne parlano tra
loro, o con i loro bambini, nel Taitsche Sproche di Luserna, quella
sensazione, che si prova arrivando a Luserna, di vivere l'esperienza
dell'outsider, nonostante non ci si sia mossi dall'Italia, è ormai diventata
certezza. A Luserna sentirsi un outsider è inevitabile; ma non si tratta,
ovviamente, dell'esperienza traumatica o alienante che, spesso, hanno
vissuto gli emigranti del passato come quelli dei giorni nostri. A Luserna ci
si sente un outsider non perché la comunità locale ci rifiuta, al contrario la
gente è molto ospitale, non solo con i visitatori occasionali, ma anche con
chi decide di trasferirsi nel paese71; a Luserna ci si sente un outsider perché
71
A questo proposito, trovo assai significativo un lungo e appassionato articolo
apparso il 19 gennaio 2001 sul quotidiano Alto Adige, scritto da Franco de Battaglia,
di cui riporto, di seguito, alcuni capoversi:
"Luserna è un avamposto del Trentino, un paese che ne racchiude come un simbolo
tutta la storia, passata ma anche futura. Chi entra a Luserna non può fare a meno
di avvertire subito una sensazione, di pelle: fin tanto che un paese così resiste, con
la sua gente, vive anche il Trentino. Se Luserna cade invece, anche il Trentino
finisce conglobato, appiattito, omologato. Finisce una storia millenaria, un'identità.
Il pensiero non viene per malinconia di minoranze o per nostalgia dei vecchi tempi
[...]. No, il pensiero viene proprio rincorrendo il nuovo, riflettendo su come, nel
pianeta del 2000 e dei sei miliardi di abitanti, debbano essere <<reinventati>> i
modi di vita, le forme di residenza. Viene pensando alla crisi dei modelli di sviluppo
industrializzati [...]. Viene pensando alle <<settimane blu>> delle crociere ai
98
cultura e lingua locale lo impongono e, nonostante i lusernesi parlino
perfettamente la lingua italiana (insieme alla tedesca), è difficile
abbandonare l'idea di aver quasi violato, con la propria presenza, il confine
sottile che protegge questa remota comunità dagli assalti dell'omologazione
culturale. Eppure, questa idea così insistente e la paura, quasi, di
"contaminare" culturalmente i cimbri di Luserna, gli ultimi cimbri, si
rivelano infondate e, forse, anche puerili: ogni giorno infatti, gli abitanti di
Luserna vincono la battaglia contro l'oblio, parlando la propria lingua e
rispettando tradizioni secolari, pur nella continuità del presente.
Il dialetto cimbro parlato a Luserna, il Taitsche Sproche, è una
lingua antica72, dotata di una precisa struttura grammaticale; tuttavia, non
essendo questa la sede adeguata per una dettagliata analisi linguistica, mi
limiterò a esporre alcune delle peculiarità che rendono unico tale idioma,
Caraibi, con inglobati, sulle navi in rotta verso i tropici, i ghiacci delle piste di
pattinaggio [...]. Il mondo nuovo sarà invece quello in cui le vecchie marginalità
torneranno a riproporsi come centrali. Modeste, ma sicure di se stesse. Non musei
del passato (neppure Luserna, che pur potrebbe esserlo, e che di musei sta
costruendone di importanti vuol porsi come tabernacolo solo della cultura cimbra)
ma luoghi antichi che oggi mettono in gioco tutte le loro potenzialità.
É quanto a Luserna sta avvenendo. Lo ha capito perfettamente una famiglia che
viene di lontano, dall'estremità opposta della penisola, dalla Sicilia, [...]. L'ha
capito Giuseppe Margiotta, con la moglie Orietta e i figli [...]. Sono incappati in
Luserna quasi per caso, cliccando su Internet le località del Trentino. Hanno
trovato un paese con cinque ristoranti e neppure un albergo, solo un cordiale
agriturismo. Si sono incuriositi e sono venuti per Natale. Si sono fermati fino
all'Epifania. Non hanno trovato un presepio consumistico fasullo, ma un paese
vero. Niente folla, niente macchine, tanta cordialità degli abitanti.[...]
<<Ritorneremo>>, ha detto Giuseppe Margiotta, e si è subito interessato se c'era
da comperare qualche seconda casa. Ma Luserna, a differenza di tanti paesi del
Trentino, non è in vendita. I cimbri antichi capiscono meglio degli altri, perché
credono in sé stessi, i tempi nuovi. [...] Non vogliono vendere, quelli di Luserna,
non vogliono cadere nell'errore di tante vallate trentine, dove le seconde case
trascinano l'economia turistica nel vortice di continui rilanci, fino alla crisi finale.
Meglio un passo alla volta, porte aperte per tutti, ma <<dentro>> la comunità e la
loro storia.[...]
Luserna è un paese dal quale la gente ha dovuto andarsene. Ora ritorna. É così
anche la montagna trentina: va <<ricolonizzata>> un poco alla volta, come hanno
fatto gli antichi roncatori cimbri. Va dissodato il futuro. Non serve assistere il paese
come zona svantaggiata. Piuttosto i paesi vanno seguiti passo per passo, con
fantasia, perché le strutture produttive corrispondano a radicamenti di vita, di
famiglie. La scommessa è di respingere le aperture stagionali, che creano il deserto
intorno a sé, per puntare invece a residenze familiari, che possano creare
continuità, riferimento per tutto l'anno. [...] Occorre salire a Luserna per capire.
[...]."
Fonte: Archivio stampa del Centro Documentazione di Luserna.
72
Cfr. Capitolo terzo, nota 15.
99
supportando l'esposizione con qualche esempio tratto dalla letteratura
popolare.
Il Taitsche Sproche segue la flessione nominale per i nomi, per i
pronomi e per gli aggettivi secondo il genere (maschile, femminile e neutro),
secondo il numero (singolare e plurale) e secondo il caso (nominativo,
dativo e accusativo). L'articolo è di due tipi: determinato, che segue la
declinazione secondo il genere, il numero e il caso; indeterminato, che si
declina secondo il genere e il caso. Inoltre, l'articolo indeterminato presenta
due varianti: "a", che si usa davanti ai sostantivi che iniziano per consonante
("a bèrge", cioè "una montagna"); "an", che viene usato per i sostantivi che
iniziano per vocale ("an ovan", cioè "una stufa"). I pronomi personali, che si
declinano nelle sei persone e nei tre casi, presentano svariate forme: per
esempio al nominativo il pronome "tu" si traduce con "du, do, tu, to" a
seconda del contesto nel quale viene inserito. Per quanto concerne gli
aggettivi possessivi, nel dialetto cimbro di Luserna non sono mai preceduti
da alcun tipo di articolo; inoltre, anche gli aggettivi possessivi seguirebbero
una declinazione specifica, ma, per la legge del minimo sforzo, essa viene
sistematicamente trascurata. L'aggettivo qualificativo, invece, segue tre
diversi tipi di declinazione a seconda della posizione occupata all'interno
della frase. Di norma, l'aggettivo qualificativo occupa lo spazio tra l'articolo
e il sostantivo e, a seconda dell'articolo che lo precede, vi si aggiungono
desinenze diverse.
Il Taitsche Sproche contempla quattro verbi ausiliari e svariati modi
(infinito, gerundio, participio, indicativo, congiuntivo, condizionale e
imperativo) e tempi verbali (presente per i primi due modi; passato per il
participio; presente, passato, trapassato prossimo, futuro semplice e
anteriore per l'indicativo; presente per l'imperativo e per il congiuntivo;
presente e passato per il condizionale). Infine, va notato che, nel dialetto
cimbro di Luserna, l'uso delle preposizioni è piuttosto complesso: la
particolarità più evidente, infatti, è data dall'assimilazione della preposizione
all'articolo determinato e a quello indeterminato; ma va anche detto che, a
complicare ulteriormente la situazione, si aggiunge una frequente
sostituzione delle preposizioni cimbre con quelle italiane.
Nella consapevolezza di non aver fornito un quadro esauriente della
lingua cimbra di Luserna, riporto alcuni esempi di fiabe, filastrocche e canti
in Taitsche Sproche.
Due fiabe di J. Bacher:
L'uomo che si vede dalla luna
Una volta un uomo aveva raggiunto un suo campo coltivato allo
scopo di vedere (se crescevano) le lenticchie e si accorse che quelle degli
altri erano molto più belle delle sue. A vedere questo fu presto pieno
d'invidia e stette a pensare come potesse fare ad avere anche lui così belle
100
lenticchie e (con quel pensiero) tornò a casa. Tornando a casa gli venne a
mente che era tempo di luna piena e che di notte la luna sarebbe stata bella
splendente ed egli avrebbe potuto andarne a rubare. E così fece. Quando si
fece notte tarda uscì e andò nel campo, dove si trovavano le lenticchie,
guardò intorno e non vide nessuno e allora disse: "Bene, nessuno mi vede,
perché sono solo soletto, se proprio non è la luna a guardarmi; ma della
luna non ho paura, perché quella non mi può far niente". Allora si mise
rannicchiato a strappare le lenticchie. Quando ne ebbe una bracciata piena
pensò di portarsele a casa. Ma all'improvviso arrivò la luna, prese l'uomo e
se lo portò su nel cielo,... e quando essa è piena noi vediamo ancora l'uomo
sulla luna con le lenticchie sotto il braccio73.
La campanella di Sant'Antonio
La campanella di Sant'Antonio a Luserna, detta anche tintinnabolo,
è destinata al cattivo tempo (è stata benedetta per annunciare il cattivo
tempo). Una volta la suonavano mentre grandinava e all'improvviso diede
col batacchio un colpo in testa ad una strega e la fece cadere dalle nubi. Da
quella volta in poi la strega non andò più in giro a provocare il cattivo
tempo74.
Fonte: Prezzi C., 1998, pp. 10-12.
73
Dar man in maa
In an stròach is da gebeest a man aus af'nan akhar z'sega di liisan, on hat geseek ke
di liisan vo'n andarn (vo den andarn) laut sain viil schuanar bas de sain. On er
isse-se darzurnt to (zo) sega aso on hatten pensaart bia d'ar mogat tuan zo haba er
o' darsèln schuan liisan, on denna issar gekheart bodrum huam. Gianante huam
issen khent in sint ke dar maa is groas un abas lauchtet-ar aso schua ke d'ar héttat
gemak gian z'stoolan-ar sollane schuane liisan. On aso hattar getant. Bal's is
gebeest her speet pa dar nacht, issar gant aus at's vèlt bo da soin gebeest di schuan
liisan on hat geschau-get umanum on hat niamat geseek, on hat khot: "Bèn, da siikme niamat, umbrom i pin muatresch alua (aluma), bal da mar nèt zuar schauget dar
maa; on vo'n maa vort'e-me nicht, umbrom darsèl mog-mar nicht tuan". On denna
issar-se nidar-gehukht on hat aus-gezerrt liisan. Bal d'ar-ar hat stroach is da khent
dar maa on hat genump in man on hatten gheqtrak au in humbl pit imen, ... on balda dar maa is groas, seekma' no' hèrta in man au in maa pet'n liisan untar in arm.
74
'S klökkle vo Sant Antone
'S klökkle vo Sant Antone at's Lusérn, odar dar tcintcinnavano, is gebaiget vor das
schaüla bèttar. In an stroach ham-sa's gelaütet bal's hat geschaurt, on
balamanhat's gèt an stroach pet'n khlechl in khopf vo' nar stria on hat-se gemèkket
vo'n bolkhnen abe. On vo darsèln vèrt aus se ne-mear gant zo macha's bettar.
101
Filastrocche luserne:
Mamma mia
cosa mi date per cena?
Un mestolo sul naso.
Dov'è la mia pappa?
L'ha mangiata il gatto.
Dov'è il gatto?
Sotto la stufa.
Dov'è la stufa?
L'ha rotta il bastone.
Dov'è il bastone?
L'ha bruciato il fuoco.
Dov'è il fuoco?
L'ha spento l'acqua.
Dov'è l'acqua?
L'hanno bevuta i buoi.
Dove sono i buoi?
Attaccati al carro
per portare un carro
di uova al prete75!
Ringa rènga
polenta e caglio
il gatto nell'orto
il cane nell'ombra
chi vogliamo sposare?
La Mariota Sela
a chi la vogliamo dare?
Al mugnaio76.
Rümbl rümbl
chi dà qualcosa
va in cielo
raübl raübl
chi nulla dà
75
Mama maina/ bas gettamar tschòina?/ A kheel afte nas./ Bo ista mai töale?/
Gevrésst di katz./ Bo ista di katz?/ In untar in ovan./ Bo ista dar ovan?/ Abe
geschlakt schlegele./ Bo ista schlegele?/ Vorpprunt s vaür./ Bo ista s vaür?/ Darlest
s bassar./ Bo ista s bassar?/ Getrunkt di öchsla./ Bo sain di öchsla?/ Au afan krojar/
tzo nemma an bagn/ ojar in faff!
76
Ringa rènga/ pult on tosela/ di katz in gart/ dar hunt in schatn/ den böll bar
boratn?/ s Mabele von Sela/ bem böll bar s gem?/ In lentz von mel.
102
va all'inferno77.
Fonte: Bertoldi M. B., 1983, pp. 83-86.
Canto cimbro78:
Luserna
Una montagna alta e vasta,
prati, pascoli e boschi,
grande il sole in cielo
ha questo piccolo paese;
si trova molto lontano da tutti
e possiede ancora una sua lingua;
qui parliamo il Cimbro,
qui si trova la mia Luserna.
Ti saluto patria mia,
ti saluto cara mia Luserna,
oggi devo nuovamente andarmene,
potrò nuovamente vederti?
Ma io ti ricordo sempre
ovunque andrò,
si da nessuna parte è bello
come da te.
Gli uomini costruiscono case
e lasciano il paese,
le donne lavorano i prati,
i campi e la legna;
i bambini pascolano le mucche
quando non vanno a scuola
e quando arriva l'estate
tutti vanno per funghi.
77
Rümbl rümbl/ ber da eppas git/ geat in hümbl/ raübl raübl/ ber da nicht git/ geat
kan taüvl.
78
Il vanto riportato fa parte del repertorio della Corale Polifonica Cimbra,
associazione nata nel 1992, sotto la direzione del maestro Giacobbe Nicolussi
Paolaz, con lo scopo di salvaguardare la lingua e la cultura di Luserna anche in un
ambito che, fino a quel momento, non era stato adeguatamente considerato: i canti in
lingua cimbra che tramandano la memoria di un popolo. Degno di nota è il costume
adottato dalla Corale: si tratta, infatti, della fedele riproduzione di quello che la gente
di Luserna indossava sul finire dell'Ottocento.
103
Ti saluto...79
Fonte: Prezzi C., 1998, p. 59.
5.5. Tradizioni luserne80
La comunità cimbra di Luserna custodisce un prezioso patrimonio
folcloristico, nel quale svariati elementi della remota cultura nordica si sono
fusi con le credenze e con le tradizioni del mondo romanzo.
A Luserna ogni mese dell'anno è caratterizzato da una usanza
particolare o da un rituale augurale di antica memoria. Nondimeno, esistono
due argomenti comuni, che rivestono un ruolo centrale nella cultura
popolare dei Cimbri: i bambini e la luce. I bambini sono, infatti i
protagonisti di indiscussi di miti, leggende e tradizioni; mentre la luce rivela
il legame con il nome stesso del paese.
Numerose sono le ipotesi atte a spiegare l'origine del nome di
Luserna e, tra tutte, tre sono ugualmente probabili e plausibili. La prima
ipotesi fa derivare il nome di Luserna dal toponimo cimbro Laas, termine
che indica la porta dell'altopiano verso la sottostante Valsugana, vale a dire
il Valico del Menador. Tale teoria è supportata dalle testimonianze di alcuni
anziani del paese, i quali sostengono che, anticamente, Luserna veniva
chiamata Laasern. La seconda ipotesi considera il nome di Luserna di
origine celtica: esso potrebbe derivare da Lis Erna, che significa valico.
Infine, la terza ipotesi considera il nome di Luserna di origine neolatina: nel
dialetto del vicino Veneto esiste la parola "slusar", che significa luccicare;
potrebbe non essere un caso, dunque, il fatto che Luserna sia situata su un
altopiano soleggiato e che il termine stesso di "Luserna" si avvicini molto al
termine veneto "slusar".
Nel mese di gennaio, durante i tre giorni che precedono l'Epifania,
non appena si fa buio, tre bambini girano di casa in casa, vestiti come i Re
Magi, portando con loro una scatola di cartone con una stella intagliata su
un lato e cantando una canzone, che ricorda il lungo viaggio che li ha portati
alla grotta di Nazareth. Dentro la scatola di cartone viene accesa una
candela: quando i bambini entrano in casa, le luci artificiali vengono spente,
79
Lusérn
An hoachan baitn perge,/ bisan, etzan un balt,/ groas di sunn in hümbl/ hat ditza
klumma lant;/ is vinze ganz vort bait vo alln/ un hat no a zung vor is;/ da biar ren di
tzimbar zung,/ da steata mai Lusérn./ I grüaste maine huamat,/ i grüaste liabes mai
Lusérn,/ haüt moche bidar gian vort,/ bartede bidar segn?/ Ma i gedenkte herta/
bobral bode bart gian,/ ja's is nindart schümma/ as be ka diar./ Di mannen machan
haüsar/ un gian vort von lant,/ di baibar no in bisan,/ in äckar un in holz;/ di kindar
vür pin küha/ balsa net gian ka schual/ un balda kint dar summar/ alle gian no in
sbemm./ I grüaste...
80
Cfr. Prezzi C., 1998.
104
per permettere alla tenue luce della candela di propagarsi nell'ambiente
circostante.
L'ultimo giorno di febbraio viene dato fuoco a una catasta di legno,
preparata in precedenza dai giovani del paese e posta su un'altura, sopra il
paese: si tratta di un antico rito purificatorio, chiamato Dar Martzo, con il
quale si "brucia" l'inverno in attesa della primavera.
In aprile, il lunedì dell'Angelo, i bambini di Luserna ricevono alcune
uova decorate; con tali uova essi girano per il paese, sfidando gli adulti a
colpirle con una monetina: chi riesce a conficcare la moneta vince l'uovo,
chi sbaglia deve lasciare la monetina al bambino.
Maggio è il mese ideale per andare a catturare le rane vicino agli
stagni: quando il sole è tramontato, bambini e adulti vanno sui pascoli e
accendono un fuoco vicino a uno stagno; armati di una torcia elettrica,
camminano lungo il bordo dello specchio d'acqua e, non appena vedono una
rana, la abbagliano e la catturano con facilità. Quando ritengono di averne
trovate a sufficienza, le portano a casa e le mangiano con la polenta.
Nei primi giorni di giugno ha inizio la monticazione: tutti i malgari
portano i loro animali sugli alti pascoli circostanti, dove possono pascolare
per tre mesi circa. Luglio e agosto sono i mesi dedicati alla fienagione:
attività alla quale partecipa tutto il paese.
In settembre, i bambini aiutano gli adulti a raccogliere le patate:
queste vengono divise in tre mucchi, a seconda che siano grandi, medie o
piccole. Le patate vengono, quindi, riposte in tre sacchi diversi e portate
nelle cantine. Le patate più grandi sono quelle destinate all'alimentazione
quotidiana, le più piccole vengono cotte e date ai maiali e le medie vengono
conservate per la semina dell'anno successivo.
A novembre, in occasione della festività di Ognissanti, la tradizione
vuole che le tombe del cimitero vengano abbellite con ghirlande di fiori e
con candele. Alla sera, i bambini vanno nel cimitero per raccogliere la cera
colata dalle candele: la cera raccolta viene messa in una scatolina, appesa a
un filo di ferro, e viene accesa. Il fumo che esce dalla scatolina ricorda
quello dell'incenso.
Infine, la notte del 13 dicembre Santa Lucia attraversa il paese sul
dorso di un asinello: tutti i bambini mettono un piattino colmo di sale e di
farina sul davanzale della finestra, per donarlo all'asinello. Il mattino
seguente, i bambini che sono stati buoni trovano sul piattino noci, arance,
caramelle e cioccolata; mentre i bambini che si sono comportati male
trovano sul piattino solo un bastone.
105
106
CAPITOLO SESTO
I Tredici Comuni Veronesi
6.1. Analisi geografica e territoriale del Parco Naturale Regionale della
Lessinia
Il Parco Naturale Regionale della Lessinia, istituito con la Legge
Regionale n. 12 del 30.01.1990, è collocato nell'ambito di un grande
altopiano che si estende dalle pendici della Valle dell'Adige fino ai piedi dei
Monti Lessini. Questi ultimi costituiscono il confine settentrionale di quella
regione che, un tempo, era conosciuta come "Vicariato delle Montagne dei
Tredici Comuni", antica area di insediamento cimbro [Fig. IX]. I Tredici
Comuni Veronesi fanno parte della Comunità Montana della Lessinia, la
quale si estende nell'area montana della provincia di Verona su una
superficie di 472,14 kmq., delimitata a ovest dalla Valle dell'Adige, a nord
dal confine con la Provincia di Trento e a est dal confine con la Provincia di
Vicenza. La Comunità Montana della Lessinia si estende sul territorio di 18
Comuni veronesi, dei quali fanno parte anche i Tredici Comuni cimbri:
Velo, Roveré Veronese, Erbezzo, Selva di Progno, Boscochiesanuova,
Badia Calavena, Cerro Veronese, San Mauro delle Saline, Azzarino, San
Bortolo, Valdiporro, Tavernole e Camposilvano.
Dal punto di vista morfologico, la Lessinia è un altopiano di natura
calcarea caratterizzato dalla presenza di evidenti fenomeni carsici ed erosivi.
La zona orientale della Comunità Montana, la Val d'Illasi, presenta
caratteristiche morfologiche e climatiche tipicamente alpine, in quanto è
proprio in quest'area che si trovano le altitudini maggiori (dagli 800 m. in
su). Nella Val d'Illasi si trova Giazza [Fig. X], frazione del Comune di Selva
di Progno, ultima roccaforte del Taucias Garëida: proprio per questo
motivo, l'analisi territoriale seguente è dedicata alla regione della valle sopra
nominata. La porzione di territorio presa in considerazione, la Val d'Illasi, è
compresa tra le Valli di Revolto e di Fraselle fino all'ampia conca di
Campobrun a nord e, a sud, il paese di Giazza. Il massiccio del Carega
(2.259 m.), il Monte Obante (2.020 m.), il Monte Plische (1.991 m.), Cima
Tre Croci (1.942 m.), il Monte Zevola (1.975 m.), il Monte Gramolon (1.814
m.), il Monte Laghetto (1.652 m.), Cima Lobbia (1.650 m.), il Monte
Telegrafo (1.564 m.) e il Monte Spitz (1284 m.) chiudono, coronandola, la
valle.
107
Fig. IX I XIII Comuni Veronesi
Fonte: elaborazione grafica a cura dell’autrice
108
Fig. X
Scatto privato
Scorcio del Comune di Giazza
L'area di Giazza appartiene alla parte più occidentale dei Monti
Lessini orientali ed è costituita da un sistema di dorsali, le quali si
sviluppano in direzione N-S e NO-SE con una certa asimmetria dei versanti.
I versanti delle valli (Fraselle, Revolto e Illasi) sono per lo più caratterizzati
da profili a gradinata nei quali, tra le pareti verticali, si trovano pendii
estremamente irti. Il tavolato dell'altopiano è costituito, in prevalenza, da
rocce di origine sedimentaria secondaria, dalle triassiche alle cretacee. Il
fondo vallivo, su cui poggia Giazza, è costituito dalla Dolomia principale
del Trias. Sui versanti vallivi la Dolomia è sovrastata dai Calcari Grigi, a
loro volta sormontati dai Calcari Oolitici, che spesso formano scarpate
scoscese e vere e proprie pareti verticali. I Calcari Grigi non solo sono ricchi
di fossili di molluschi, ma hanno anche rivelato la presenza di alcune
impronte di dinosauro. La morfologia attuale dell'intera zona può essere
attribuita principalmente all'erosione fluviale e, secondariamente,
all'erosione glaciale, a fenomeni gravitativi e di dissoluzione.
Dal punto di vista dell'idrografia, la regione è attraversata dai
torrenti Revolto e Fraselle che confluiscono, presso Giazza, nel torrente
Progno d'Illasi, in assoluto il bacino idrografico più sviluppato in lunghezza
dei Monti Lessini e, inoltre, quello che si spinge più a nord. Gli alvei delle
valli del Revolto, del Fraselle e del Progno di Illasi possiedono una forte
pendenza e sono incisi entro litotipi intensamente fratturati, causando diffusi
fenomeni di instabilità superficiale (frane), accompagnati da una notevole
produzione di materiale detritico, anche di dimensioni rilevanti. Le coltri di
frana più appariscenti sono localizzate tra M. Scalette e Malga Lobbia, tra le
valli delle Mandrette e Chempler (paleofrana di M. Terrazzo) e nel tratto
109
medio della Val di Revolto (paleofrana del Lago Secco). Si tratta,
generalmente, di antichi corpi franosi che hanno sbarrato il fondovalle,
dando origine a bacini lacustri colmati, in tempi successivi, da materiali
alluvionali trasportati dai corsi d'acqua locali (Zorzin, 1999).
Caratteristica fondamentale della zona, a esclusione della Val
Fraselle, è, per la maggior parte dell'anno, la carenza di scorrimenti idrici
superficiali. Infatti, nonostante le abbondanti precipitazioni (1.300-2.000
mm. annui), la consistente quantità di materiali detritici trasportati e
depositati dai torrenti Fraselle e Revolto, nonché la forte permeabilità degli
stessi detriti e del suolo fa sì che, da Giazza in avanti, prenda forma una non
trascurabile circolazione di subalveo. La carenza di acque superficiali,
dunque, deriva dall'azione sinergica di processi fluviali, carsici e tettonici.
La particolare situazione tettonica, infatti, ha condizionato notevolmente la
circolazione idrica profonda e l'idrografia del territorio considerato. Tra i
principali assi vallivi e le più importanti direttrici tettoniche esiste una
indubbia corrispondenza, che trova riscontro nella presenza di un importante
sistema di faglie, il quale interessa prevalentemente il substrato roccioso, in
direzione N-S, morfologicamente evidenziato dall'andamento rettilineo della
Val d'Illasi, lunga oltre 20 km. Alcuni controlli eseguiti sul terreno hanno
limitato l'attività di queste faglie al pre-Olocene; tuttavia, alcuni dati sismici
rilevati suggeriscono un'attività recente nei non distanti territori comunali di
Badia Calavena e di Tregnago. Un altro fenomeno tettonico di importanza
ed estensione regionale, presente nell'area di Giazza, è dato dalla faglia
subverticale a direzione NNO-SSE denominata faglia "CampofontanaRoncà".
Come già accennato, la zona è interessata dal fenomeno del
carsismo: l'area in esame comprende i versanti idrografici della Val Fraselle
e della Val di Revolto e la dorsale M. Zevola-Terrazzo-Corno, che separa le
due valli; ebbene, tale dorsale è interessata da strette incisioni vallive, in
prevalenza costituite dai calcari del Lias e della Dolomia, che presentano
rimarchevoli caratteri di canyon e numerose doline e inghiottitoi. Un'altra
area di intenso carsismo, dove sono rinvenibili numerose e vaste depressioni
carsiche, è situata tra Cima Lobbia, M. Scalette, M. Porto, M. Formica e M.
Torla. Come risulta dal Catasto Grotte della Provincia di Verona, aggiornato
al dicembre 1998, sono state trovate 21 cavità divise tra il Veronese e il
Vicentino; la maggior parte di tali grotte si apre nei Calcari Grigi di
Noriglio, ma anche nell'Oolite di S. Vigilio e nella Dolomia Principale. Le
più conosciute grotte presenti nei dintorni di Giazza e nelle valli contermini
sono le seguenti81:
Perlouch82, o Grotta del Berklja83, o Grotta dei Prusti, n. catasto 3
V VR., Comune di Selva di Progno
81
Fonte: Rama, Zorzin, 1999, pp. 29-32.
In italiano: Caverna dell'orso.
83
In italiano: Grotta della montagnola.
82
110
Spluga del Monte Gozze84, o Buso del Diaolo, n. catasto 480 V VR.,
Comune di Roveré Veronese
Schefarkuval85, o Abisso Angelo Pasa, n. catasto 1407 V VR.,
Comune di Selva di Progno
Langabant Loach86, n. catasto 1412 V VR., Comune di Selva di
Progno
Il territorio circostante Giazza, che fa parte del Parco Naturale
Regionale della Lessinia, è reso unico dalla "Foresta Demaniale di Giazza",
i cui pascoli e boschi rivestono le pendici meridionali del Carega, dal Passo
Pertica alla Sengia Rossa, dal Monte Plische al Terrazzo e alla Madonnina
nella Val di Revolto; mentre dal Monte Zevola digradano verso la Val
Fraselle e dalla Scagina verso la Malga Laghetto, nell'Alta Valle del
Chiampo. Nonostante la Foresta Demaniale sia situata a cavallo di tre
province (Verona, Vicenza e Trento), la si può considerare senza dubbio la
"Foresta dei veronesi" per antonomasia, sia perché la maggior parte della
sua superficie (1.097 ettari su 1904 ettari complessivi) ricade nella provincia
di Verona, sia perché la sua origine e la sua valorizzazione sono state
fortemente volute e perseguite dai veronesi87.
La Foresta Demaniale di Giazza, che si estende tra gli 800 e i 2000
metri di quota, presenta (come tutto il Parco Naturale della Lessinia) una
grande varietà di aspetti microclimatici, pedologici e morfologici. Per
quanto concerne il mondo vegetale, alle quote più basse crescono il
nocciolo88, che si sviluppa soprattutto sui prati abbandonati, il carpino
nero89, il frassino90, il faggio91 e l'acero montano92. Queste specie
costituiscono i boschi cedui, sotto i quali cresce una vasta gamma di fiori,
come il bucaneve93, i campanellini94, che formano una suggestiva coltre
bianca, e i ciclamini95. Presso i corsi d'acqua crescono il salice96, il
maggiociondolo97, i cui fiori gialli creano stupefacenti macchie di colore, e
l'ontano. Oltre i 1000 m. di quota si trovano i boschi puri di faggio che, in
84
Grotta verticale del monte delle capre (goatz significa capra).
In italiano: Grotta dei pastori.
86
In italiano: Grotta della roccia lunga.
87
La Foresta Demaniale nasce ufficialmente il 10 agosto 1911, con la solenne
inaugurazione del Ministro dell'Agricoltura, Industria e Commercio del tempo,
Saverio Nitti.
88
Nel dialetto cimbro dei Tredici Comuni il nocciolo è chiamato eisal.
89
Nel dialetto cimbro dei Tredici Comuni è chiamato haghe puache.
90
Nel dialetto cimbro dei Tredici Comuni è chiamato eisch.
91
Nel dialetto cimbro dei Tredici Comuni è chiamato puache.
92
Nel dialetto cimbro dei Tredici Comuni è chiamato hahorn.
93
Nel dialetto cimbro dei Tredici Comuni questi fiori vengono chiamati loucharsnea.
94
Nel dialetto cimbro dei Tredici Comuni i campanellini si chiamano snea-kljouklja.
95
I ciclamini si chiamano leischarla in cimbro tredicicomunigiano.
96
Il salice si chiama baide in cimbro tredicicomunigiano.
97
Il maggiociondolo è chiamato jal nel dialetto cimbro locale.
85
111
parte, vengono regolarmente sottoposti a tagli di conversione per creare
boschi di alto fusto, sotto i quali crescono numerose specie di anemoni e di
orchidee. I boschi puri di conifere, in particolare di abete rosso, sono stati in
molti casi piantati dall'uomo; mentre antichissimo e spontaneo è il bosco di
abeti bianchi98 situato tra Malga Terrazzo e Campostrin. Salendo in quota, si
trovano esemplari di pino silvestre e, proseguendo oltre, si incontra
l'intricato e quasi impenetrabile regno del pino mugo, fondamentale per
l'azione di consolidamento che esercita su terreni altrimenti instabili. Infine,
ad alta quota, crescono il ginepro nano, il rododendro e la stella alpina.
La fauna che popola la Foresta Demaniale di Giazza, è costituita, tra
i mammiferi, dal capriolo, la cui presenza è frequente tanto nelle zone
boschive circostanti Giazza, quanto nei siti più impervi o resi inaccessibili
dal pino mugo. Accanto al capriolo, va citato anche il camoscio che, giunto
spontaneamente dalla Val dei Ronchi (TN), pare aver trovato il proprio
habitat preferito sul fianco destro della Val di Revolto e i cui esemplari,
secondo gli ultimi censimenti, sono in costante aumento sia sul Monte
Terrazzo, sia in Val Fraselle. Altri mammiferi tipici di questi luoghi sono la
marmotta, la volpe99, la lepre100, la martora101 (più rara), la faina, il tasso, la
donnola, il ghiro102 e lo scoiattolo103. L'avifauna è caratterizzata dalla
presenza di varie specie come il merlo acquaiolo, che frequenta il torrente
Fraselle alla ricerca delle larve che si trovano sotto la superficie dell'acqua,
il pettirosso, lo scricciolo, la cinciallegra, l'allodola, la rondine montana, il
tordo, il corvo imperiale, la ghiandaia, il fagiano di monte, il gallo forcello,
il picchio nero e, ancora, alcuni rapaci come l'allocco, il gufo comune, la
civetta, la poiana, l'astore, il falco pellegrino e l'aquila reale. Infine, tra i
rettili sono presenti la vipera, l'orbettino e la biscia dal collare e tra gli anfibi
va citata la salamandra, che frequenta le zone umide.
L'economia della zona, un tempo fondata principalmente su attività
tradizionali come la fabbricazione del ghiaccio, del carbone e della calce104,
si basa, attualmente, sulla produzione vinicola (nel fondovalle e in collina),
sul settore agricolo, sull'allevamento bovino, sulla produzione casearia,
sull'artigianato locale e sull'industria del turismo, alla quale sono collegate
le strutture alberghiere, i ristoranti, gli agriturismi e le iniziative culturali
promosse da vari enti locali, dalla Comunità Montana e dal Parco Naturale
Regionale della Lessinia.
98
L'abete bianco si chiama tanne baizz in cimbro tredicicomunigiano.
La volpe si chiama vocs nel dialetto cimbro locale.
100
La lepre è chiamata hase nel dialetto cimbro locale.
101
Chiamata martar nel cimbro dei Tredici Comuni.
102
Chiamato muade-maus nel dialetto cimbro locale.
103
Chiamato kniste-maus nel dialetto cimbro locale.
104
Cfr. il paragrafo 6.4. del presente capitolo.
99
112
Di grande valore sono le attività patrocinate e svolte dal Parco
Regionale della Lessinia, le cui finalità principali sono elencate nell'articolo
2 della Legge Regionale n. 12 del 30.01.1990:
"a) la protezione del suolo e del sottosuolo, della flora,
della fauna, dell'acqua;
b) la tutela, il mantenimento, il restauro e la valorizzazione
dell'ambiente naturale, storico, architettonico e paesaggistico
considerato nella sua unitarietà, e il recupero delle parti
eventualmente alterate;
c) la salvaguardia delle specifiche particolarità
antropologiche, paleontologiche, geomorfologiche, vegetazionali,
faunistiche e archeologiche delle zone;
d) la fruizione a fini scientifici, culturali e didattici;
e) la promozione, anche mediante la predisposizione di
adeguati sostegni tecnici e finanziari, delle attività di manutenzione
degli elementi naturali e storici costituenti il Parco, nonché delle
attività economiche tradizionali, turistiche e di servizio compatibili
con l'esigenza primaria della tutela dell'ambiente naturale e
storico;
f) lo sviluppo sociale, culturale ed economico delle
popolazioni comprese nell'ambito del Parco e su di esso gravitanti;
g) la promozione delle funzioni di servizio per il tempo
libero e di organizzazione dei flussi turistici;
h) la tutela e la valorizzazione del patrimonio etnico,
storico, culturale e linguistico delle popolazioni <<Cimbre>>."105
6.2. I Cimbri dei Tredici Comuni Veronesi: analisi storica e situazione
attuale
Come affermato in precedenza106, il 5 febbraio 1287 due uomini,
entrambi di nome Olderico e provenienti dai Sette Comuni Vicentini,
ricevono da parte del vescovo di Verona, Bartolomeo della Scala,
l'autorizzazione a fondare un insediamento nella regione dei Monti Lessini.
Il testo originale del suddetto documento scaligero, che pare fosse
conservato nell'Archivio della Chiesa di Santa Maria in Organo, è andato
perduto durante un'alluvione avvenuta nel 1630 d. C. Tuttavia, ciò che ha
consentito agli studiosi di affermare con estrema sicurezza l'esistenza di tale
documento è stato il ritrovamento di un altro documento scaligero, datato 6
agosto 1376, nel quale viene confermato, dal vescovo Pietro della Scala, il
contenuto del precedente documento, che viene ripreso nei suoi punti
salienti. Il documento scaligero del 1376 è custodito nell'Archivio
105
Fonte: AA.VV., Il Parco Naturale Regionale della Lessinia, Verona, Edizioni
Comunità Montana della Lessinia, 1990, p. 6.
106
Cfr. Capitolo terzo.
113
parrocchiale del Comune di Roveré Veronese; di seguito sono riportati
alcuni passi degni di nota107:
"Nel nome di Dio Onnipotente, del Signore nostro Gesù
Cristo figlio suo, dello Spirito Santo, della beata, gloriosa e sempre
Vergine Maria, di tutti i santi e le sante, e in onore della curia
celeste, il venerabile Padre, Signore e fratello Bartolomeo per
grazia di Dio vescovo di Verona, per l'utilità e l'aumento dei frutti,
redditi, entrate e proventi dell'episcopato di Verona, viste e
comprese le richieste e petizioni fatte alla sua presenza e messe per
iscritto da me notaio sottoscritto, per volontà dello stesso Signor
Vescovo, concede in favore dei tedeschi Olderico di Altissimo e
Olderico dell'episcopato di Vicenza, per loro stessi e per altri loro
compagni che volessero venire, di costruire casa e abitare, usare,
fruire ed usufruire degli infrascritti luoghi e contrade, terre,
possessi, monti, valli, pianure, selve, pascoli, terre incolte, deserte
e disabitate, comprese le acque e acquedotti che vi nascono e
scorrono. [...] Tali luoghi deserti e disabitati sono i seguenti:
Opledo, Roveré con Quarcanteri e Cuarerolo, Plugnino, Caucaria
con la Valle Grassa, Porcara e Salaorno e tutte le pertinenze di
detti luoghi [...]. I confini di questi luoghi, contrade e possessi sono
i seguenti: da una parte lo Squaranto che proviene da Zago e
conduce a Pigotto, dalla seconda parte il lessino e il Comune di
Verona, dalla terza Velo o Curia di Velo, dalla quarta le contrade
dette saline e Porcara, dalla quinta i comuni di San Mauro e
Cancelli con Varano e altre contrade."
Nel resto del testo del documento vengono elencate le condizioni
cui i destinatari della concessione devono sottostare, le regole che devono
rispettare, gli oneri di cui si devono fare carico e, molto importante, i
privilegi che la concessione stessa prevede:
"Prima di tutto il Signor Vescovo deve dare a nome proprio
e dell'Episcopato di Verona ai predetti Olderici e loro compagni
che abitano nelle stesse contrade, zone e luoghi, un sacerdote
cattolico, buono e idoneo, scelto da loro, tedesco, e scelto secondo
la loro libera volontà. [...]
Parimenti il predetto Signor Vescovo dichiara fin da ora i
due Olderici castaldi suoi e dell'Episcopato. [...]
Parimenti deve dare a ognuno dei detti castaldi un manso
di venticinque campi, giacenti vicino alla casa, di terra arativa e
prativa, come feudo onorifico, senza alcuna condizione, ad
eccezione della decima da versare come tutti. [...]
107
Fonte e traduzione dal testo originale latino: Nordera, 1987, vol. III, pp. 46-57.
114
Dopo due anni i lavoratori sono tenuti a pagare il fitto dei
mansi [...]: il Signor Vescovo ha il diritto di avere da tutti gli
abitanti e lavoratori di quelle contrade tre parti della decima per
l'Episcopato. Tale decima deve essere raccolta dal castaldo [...],
che terrà per sé la decima delle decime delle biade e dei frutti da
lui raccolti, come ricompensa per il suo lavoro, e il resto deve
essere portato a Verona o alla Camera dell'Episcopato. [...]
Parimenti il Signor Vescovo, passati i due anni, deve avere
dagli abitanti dei luoghi e zone predette e cioè da ogni manso di
venticinque campi di terra arativa e prativa, due libbre e mezza di
denari piccoli veronesi. [...]
Parimenti il detto Vescovo è tenuto a fare in modo che
effettivamente i predetti abitanti che si trovano in predette contrade
non siano tenuti a subire alcun peso o tributi o a pagare imposte o
dazi per la città di Verona o altri paesi del veronese, a meno che la
città di Verona non faccia l'esercito generale, al quale devono
prendere parte come cittadini. [...]
Parimenti il predetto Vescovo di Verona, e successori, è
tenuto a esigere effettivamente dal Signor Capitano e dal Podestà e
loro successori che gli abitanti di quelle contrade non siano
obbligati a pagare il toloneo o dazio alle porte o ponti e alle
entrate in città e borghi, sia che si tratti di alimenti, animali o
legname, sia di qualunque altra cosa, salvo l'obbligo di versare i
tolonei al Comune di Verona come gli altri cittadini. [...]
Nell'anno del Signore 1287, io Bonzuano da Diverso,
notaio del Signor Federico II Imperatore, fui chiamato a essere
presente e sottoscrissi. [...]
Inoltre il Signor Pietro della Scala Vescovo di Verona ha
incaricato me notaio Antonio, figlio di Nicola de Rico da Bodolono
di San Fostino di Verona, perché di tutti e singoli i punti precedenti
ne facessi pubblico istrumento.
Nell'anno del Signore 1376."
I due documenti, dunque, costituiscono la testimonianza preziosa del
periodo di insediamento dei coloni Cimbri sui Monti Lessini. I coloni, ben
presto, si spostano dalla prima sede di Roveré (Roveràit) verso varie
direzioni: alcuni di essi, i quali vengono chiamati dall'abate dell'abbazia
della Calavena con il compito di coltivarne il terreno circostante, fondano
tra il 1301 e il 1333 d.C. l'attuale paese di Badia Calavena (kam' Abato);
altri si insediano presso centri italiani costruendovi, tutt'attorno, capanne e
casupole che diventano, col tempo, contrade. Ciò spiega il motivo per cui i
comuni maggiori hanno anche una denominazione cimbra, derivata da
quella italiana, come Selva di Progno (Brünge), San Bortolo (San Bùrtal),
115
Boscochiesanuova (Nauge Kirche), Erbezzo (Bìsan), Cerro (Cìre), Giazza
(Ljetzan) e Campofontana (Fùntan).
Nel 1403 d.C. il territorio veronese viene diviso in diciannove
vicariati e tra di essi si trova anche il Vicariatus Montanearum
Theotonicorum, ovvero il Vicariato delle Montagne dei Tedeschi, noto
anche con l'appellativo di "Montagna Alta del Carbon". I rappresentanti del
Vicariato si riuniscono in assemblee e, assistiti politicamente dal Vicario
inviato dalla Città di Verona, il quale ha l'obbligo di risiedere a Roveré o a
Velo e ha il compito di amministrare la giustizia, si dedicano alla
risoluzione di tutti i problemi riguardanti la collettività. Tuttavia, il Vicario
rispetta solo raramente la norma di risiedere in loco, negandosi così la
possibilità di comprendere meglio le esigenze della popolazione che è
chiamato a governare e, di conseguenza, emettendo sentenze assai spesso
contestate e criticate. I Comuni, dunque, non solo mirano all'elezione in loco
di un proprio rappresentante (vicario), ma manifestano anche una aperta
sfiducia nei confronti di quelli inviati da Verona.
Nel 1405 d.C., dopo la dominazione scaligera e dopo un breve
periodo di dominazione viscontea, Verona entra a far parte della
Serenissima Repubblica di Venezia.
Le popolazioni cimbre conducono, almeno fino ai primi anni del
Novecento, una vita scandita dai ritmi di attività tradizionali quali la
coltivazione di cereali, l'allevamento del bestiame, il taglio del bosco, la
fabbricazione di carbone, di ghiaccio e di calce e la produzione casearia.
Obblighi e privilegi degli abitanti dei Tredici Comuni vengono
mantenuti anche sotto il governo della Serenissima Repubblica di Venezia,
nei confronti della quale i Cimbri osservano un atteggiamento di profonda
lealtà. La popolazione dei Monti Lessini cresce in modo costante, almeno
fino alle due gravi pestilenze del 1576 e del 1630/31 quando il tasso di
mortalità raggiunge livelli altissimi, causando gravi perdite in vite umane.
Tuttavia, passata la crisi della peste, la popolazione torna a crescere tanto
che si verifica una situazione di squilibrio tra la popolazione stessa e le
risorse disponibili. I prodotti alimentari derivanti dall'allevamento e i frutti
dell'agricoltura, la quale viene praticata in condizioni morfologiche e
climatiche assai difficili, non bastano a soddisfare l'aumentato fabbisogno
alimentare. Due sono le conseguenze derivanti da un tale stato di cose: la
prima è una maggiore dipendenza delle genti montane dalla città, la seconda
conseguenza è data dall'emigrazione, temporanea o definitiva, che comincia
a manifestarsi proprio verso la fine della Serenissima Repubblica.
Gli anni della dominazione dell'Impero austriaco (1815-1866)
segnano la fine di qualsiasi privilegio o esenzione tributaria, situazione che
si verifica anche nell'area dei Sette Comuni Vicentini. A partire
dall'annessione del Veneto al Regno d'Italia e più ancora, a partire dagli
ultimi due decenni dell'Ottocento, l'aumento della popolazione in Lessinia,
grazie alle migliori condizioni igienico-sanitarie e all'alto tasso di natalità,
116
costringe la società tradizionale dei cimbri a seguire due strade: la prima
strada è quella dello sfruttamento delle zone abbandonate o incolte e della
pratica di attività poco lecite (contrabbando); la seconda, come anticipato
sopra, è la strada dell'emigrazione stagionale o permanente verso l'estero.
L'emigrazione rallenta solo tra le due guerre mondiali, sia per la politica del
governo fascista, sia per la crisi del '29, che crea problemi di occupazione
anche negli Stati europei e d'oltreoceano. Dopo la Seconda Guerra
Mondiale, infatti, il fenomeno migratorio riprende con vigore, coinvolgendo
un numero sempre maggiore di individui e causando il definitivo abbandono
dei luoghi natii da parte di numerose famiglie.
Attualmente, il confronto tra la società tradizionale e la società dei
consumi, che è la società urbana, ha causato la crisi della società
tradizionale stessa: nonostante ci sia una forte volontà di recupero dei valori
tradizionali e culturali, non è possibile ignorare il fatto che il contatto tra le
due società (tradizionale e urbana) ha comportato uno spostamento di punti
di riferimento in una buona parte della popolazione per cui, da una
prospettiva sociale, politica ed economica, il centro non è rappresentato più
dalla comunità locale, ma dalla più vasta società industriale. Da una società
quasi completamente autosufficiente e autogestita, secondo precise regole, si
è passati a una società integrata in una realtà più ampia, la quale ha il suo
centro nelle aree urbane.
6.3. Visita al Museo dei Cimbri di Giazza
Il Museo Etnografico dei Cimbri di Giazza [Fig. XI], che ho avuto
modo di visitare personalmente in occasione del mio viaggio attraverso i
luoghi popolati dai Cimbri, viene fondato nel 1972 grazie alla tenace
volontà di un gruppo di appassionati studiosi della cultura cimbra. Come
spiegatomi dal Prof. Giovanni Molinari, direttore del Museo e delle attività
ad esso afferenti, il Museo (un edificio di tre piani) è di proprietà della
Comunità Montana della Lessinia, la quale ne ha affidato la gestione al
Curatorium Cimbricum Veronense108. L'obiettivo primario del Museo dei
Cimbri di Giazza è quello di illustrare le caratteristiche della comunità
cimbra insediata nel territorio montano veronese, attraverso uno specifico
percorso che ne evidenzi la vita familiare, lavorativa, sociale ed economica,
ma anche religiosa e politica. Tale obiettivo è stato raggiunto tramite
l'allestimento di uno spazio espositivo (situato al primo piano) all'interno del
quale, su appositi pannelli, sono stati svolti 21 argomenti storico-culturali,
divisi in tre sezioni:
108
Cfr. Capitolo quarto, nota 44.
117
Fig. XI
Museo Etnografico dei Cimbri di Giazza
Scatto privato
SEZIONE I: gli uomini nell'ambiente montano
1) Insediamento; 2) La casa e la terra; 3) Demografia, ambiente e
risorse; 4) Emigrazione
SEZIONE II: la convivenza umana
5) La famiglia; 6) Organizzazione politica e sociale; 7) Le istituzioni
ecclesiastiche e la religiosità; 8) Il culto dei santi; 9) Il culto di S. Leonardo;
10) Credenze e immaginario popolari
SEZIONE III: le attività economiche
11) Agricoltura; 12) Allevamento; 13) Caccia; 14) Lo sfruttamento
del bosco; 15) La produzione del carbone; 16) La produzione della calce;
17) La produzione del ghiaccio; 18) Il commercio ambulante; 19) Il
contrabbando; 20) La toponomastica; 21) Le testimonianze della lingua.
Ciascun argomento è svolto su uno o più pannelli, in modo tale da
consentire un approccio caratterizzato da vari livelli di approfondimento: da
quello più immediato e sintetico legato al materiale iconografico e
didascalico, sufficiente per ottenere una prima idea del popolo cimbro, a un
livello di maggior consapevolezza della storia cimbra, raggiungibile
mediante la lettura del testo posto all'interno del pannello. Il tutto è
corredato da un'ampia raccolta di materiale fotografico, storico e recente, e
dall'esposizione di tutta una serie di oggetti antichi relativi alla vita
quotidiana dei Cimbri. Al secondo piano si trovano una sala, dotata
dell'attrezzatura per videoproiezioni e convegni, e una biblioteca fornita non
solo dei più disparati e curiosi testi sul popolo cimbro, ma anche di riviste,
di cd-rom e di videocassette. Il pian terreno è dedicato a una mostra di
oggetti tipici dell'arte sacra della Lessinia, tra cui si trovano anche le
118
riproduzioni di numerose colonnette votive109, che sono disseminate su tutto
il territorio esaminato.
Tra le svariate attività organizzate dal Museo, una è particolarmente
rilevante: si tratta del corso di "cimbro vivo" (Tzimbar lentak) condotto da
Renzo Dal Bosco e da Giovanni Molinari presso il Museo stesso. Il Prof.
Molinari mi ha raccontato che l'esperienza non solo è risultata assai positiva,
vista l'assidua partecipazione di molti abitanti di Giazza, ma è anche stata
motivo di riscoperta e di approfondimento dell'antica parlata cimbra, il
Taicias Garëida: grazie a questa fondamentale iniziativa, una parlata che
sembrava quasi estinta è tornata alla vita, evitando così di essere dimenticata
in un angolo polveroso di qualche sperduta biblioteca di montagna.
Infine, secondo il Prof. Molinari:
"Il Museo di Giazza non è solo un luogo dove si conserva
quello che è stato, ma è anche uno spazio in continua evoluzione:
collegato alla rete informatica mondiale è alla continua ricerca di
nuovi studi e risultati che potranno ricostruire la storia delle
comunità cimbre, sia in ambito regionale, che internazionale. Si
pone quindi come punto di riferimento per coloro che ancora oggi
parlano l'antica lingua cimbra e per chi da queste persone
discende, creando un anello di congiunzione tra passato e presente.
Si arricchisce, inoltre, con iniziative rivolte all'aggregazione di
giovani e vecchi, di Giazza e non, i quali partecipano ai corsi di
"cimbro vivo", promossi dal museo stesso, che alimentano
l'orgoglio di appartenere a questa antica comunità." (1999, p. 104)
6.4. Attività tradizionali: la giassàra, la calcàra, la carbonara
Visitando la Lessinia, ci si può imbattere in peculiari costruzioni
circolari, in massima parte ipogee, sporgenti dal suolo poco più di un metro:
sono le giassàre, chiamate aisgrùabe in dialetto cimbro [Fig. XII e XIII].
Tali costruzioni rappresentano la testimonianza tangibile di un'antica
attività, la conservazione e il commercio del ghiaccio, che, per secoli, è stata
fonte di sostentamento per gli abitanti di questi luoghi.
Durante l'alpeggio estivo sugli alti pascoli della Lessinia, i malghesi
dovevano soddisfare la necessità di procurarsi ghiaccio o neve per la
conservazione del latte e per la produzione del burro; per questo motivo essi
si calavano nei numerosi inghiottitoi, causati dalla natura carsica della zona,
nei quali la neve caduta d'inverno si manteneva per tutta l'estate e facevano
provvista di ghiaccio e di neve. Si pensa che i malghesi, stanchi di
affrontare i pericoli della discesa nei pericolosi loch110, avessero tratto
ispirazione proprio da questi inghiottitoi per la costruzione delle loro
109
Cfr. paragrafo 6.5. del presente capitolo.
Si ricorda che il termine cimbro loch significa buco in italiano.
110
119
giassàre: attorno alla malga, vicino alla pozza per l'abbeveraggio degli
animali, veniva costruita una costruzione profonda dai 3 ai 15 metri e larga
dai 3 ai 10 metri di diametro, il cui rivestimento interno era costituito di
pietre, mentre il tetto era fatto di lastre di Rosso ammonitico, a sua volta
ricoperto da zolle di terra.
In generale, le giassàre111 più grosse, 8-15 metri di profondità e 6-10
metri di diametro, si trovano a un'altitudine compresa tra i 1200 e i 500
metri; mentre le giassàre più piccole (giassaréte) si trovano sugli alti
pascoli, sopra i 1200 metri. La giassàra presenta due aperture, una per
immettere il ghiaccio, l'altra, verso la strada, per estrarlo; inoltre la
costruzione deve essere a nord, per favorire la conservazione del ghiaccio, e
deve essere posta su un declivio naturale, per facilitare le operazioni di
svuotamento dell'invaso. La costruzione di una ghiacciaia, dunque, avveniva
nel seguente modo: gli uomini scavavano una fossa, togliendo la terra la
allargavano e la rendevano profonda, quindi impermeabilizzavano il fondo
attraverso uno strato di terra argillosa, che veniva compressa a dovere; per
dare una forma cilindrica alla ghiacciaia veniva piantato, al centro dello
scavo, un lungo palo e con uno spago se ne controllava l'equidistanza;
quindi si procedeva alla costruzione del muro perimetrale, utilizzando grossi
blocchi di pietra, squadrati e sovrapposti l'uno sull'altro a secco; attorno al
muro veniva scavato un canale per impedire l'infiltrazione dell'acqua e,
infine, veniva costruito il tetto. Il tetto poteva avere uno o due spioventi in
lastre di pietra, sostenute da grosse travi di castagno o di abete. La forma
circolare della ghiacciaia aveva la funzione di scaricare le spinte centripete
del terreno.
111
Le ghiacciaie sono, ancora oggi, presenti su varie zone del territorio della Lessinia.
120
Fig. XII
Giassàra del Modesto, Roveré Veronese
Fonte: Piccotti N., 1997, p. 28
121
Fig. XIII
Giassàra di Boscochiesanuova
Fonte: Piccotti N., 1997, p. 10
122
Come già anticipato, la ghiacciaia veniva costruita vicino alla pozza
in quanto, durante la stagione invernale, la superficie della pozza si
ghiacciava e, dunque, era possibile tagliare il ghiaccio e trasportarlo nella
vicina ghiacciaia. Il lavoro dei giassaròi cominciava in autunno con la
pulizia della pozza che, in seguito, veniva ulteriormente riempita di acqua.
La scarsa profondità della pozza facilitava la formazione di una lastra di
ghiaccio dello spessore medio di 10-12 cm. Il taglio del ghiaccio, che
coinvolgeva gruppi di 8-10 persone, prevedeva due fasi: nella prima il
ghiaccio veniva segato seguendo la circonferenza della pozza, nella seconda
fase il ghiaccio veniva tagliato in blocchi delle dimensioni di 80x80 cm. A
questo punto, alcuni uomini trascinavano i blocchi di ghiaccio con un
attrezzo particolare (il rampìn da giasso) fino all'imbocco della ghiacciaia,
da dove un altro uomo li faceva scivolare sul fondo, assicurandosi che
cadessero in piedi. Altri uomini, sul fondo della ghiacciaia, avevano il
compito di sistemare le lastre formando tre strati sovrapposti, separati da un
sottile letto di foglie. Nelle pozze di dimensioni maggiori, il primo taglio
forniva circa 500 quintali di ghiaccio, mentre in quelle più piccole la
produzione era di 300-350 quintali. Trascorsi 8-10 giorni dal primo taglio,
era possibile procedere a un secondo taglio e così via, fino a che la
ghiacciaia era completamente riempita. Nella tarda primavera, i proprietari
delle giassàre iniziavano a stipulare contratti per la vendita del ghiaccio:
talvolta poteva trattarsi di un solo acquirente, il quale comprava tutta la
produzione di un'intera ghiacciaia; più spesso i clienti erano macellai, lattai,
esportatori e soprattutto ospedali. Il ghiaccio era spesso venduto anche al
dettaglio, sia nei paesi di produzione, sia per le strade di Verona. Il ghiaccio
veniva trasportato in città di notte: alla sera, infatti, i blocchi di ghiaccio
venivano caricati, tramite un argano, su un carro situato sotto l'apertura della
ghiacciaia posta sulla strada. I blocchi, una volta sistemati accuratamente,
venivano ricoperti di paglia e di tele per proteggerli dal caldo, riducendo al
minimo le perdite, comunque inevitabili.
Il ghiaccio era portato a Verona già a partire dal 1300, ma il
commercio vero e proprio fiorisce dal XVIII secolo, quando Venezia
richiede ingenti quantità di ghiaccio per conservare il pesce e per i fastosi
banchetti che si tenevano nelle ville palladiane degli aristocratici veneziani.
Il commercio del ghiaccio proveniente dalla Lessinia resiste fiorente fino al
1911, data in cui viene avviata a Verona l'Azienda Municipalizzata per la
produzione del ghiaccio artificiale. Da questo momento in avanti inizia il
progressivo declino di questa antichissima attività: l'ultimo trasporto si ha
nell'estate del 1955 quando, per un guasto all'impianto dell'Azienda
Municipalizzata, viene richiesto con urgenza il ghiaccio della Lessinia.
Tra il 25 aprile e il 5 maggio, 1996 si è tenuta a Giazza una
manifestazione di grande significato storico-culturale: la manifestazione per
la riscoperta e la conoscenza dell'antico mestiere dei calcaroti, con
123
l'accensione della calcàra (kalachgrùabe) situata il località Buskangrùabe
[Fig. XIV]. Tale manifestazione è stata possibile grazie alla collaborazione
tra il Comune di Selva di Progno, la Pro Loco Ljetzan-Giazza, la Comunità
Montana della Lessinia, il Bacino Imbrifero Montano dell'Adige di Verona,
il Gruppo Alpini di Giazza, il Curatorium Cimbricum Veronense, la
Protezione Civile di Selva di Progno, l'Azienda Regionale delle Foreste, i
Servizi Forestali Regionali e l'Azienda di Promozione Turistica di Verona.
Fig. XIV
Calcàra della Buskangrùabe
Fonte: Crisma A., 1996, p. 4
124
La calcàra era una fornace a forma di botte costruita in pietra, alta
circa 4,30 metri e del diametro di 2,30 metri nel punto più largo e di 1,75
metri alla base, utilizzata in Lessinia fino all'inizio degli anni Cinquanta,
dalla quale, dopo la cottura del calcare (roccia sedimentaria costituita da
carbonato di calcio), si otteneva la calce. La fornace era costituita da un
pozzo circolare, in parte seminterrato, costruito con grossi massi resistenti al
calore del fuoco; al suo interno, il pozzo era suddiviso in due livelli da una
sorta di cupola: sul livello inferiore si deponeva la legna da ardere, sul
livello superiore venivano disposti i sassi che, con la cottura, si sarebbero
trasformati in calce. Come facilmente intuibile, la costruzione della volta
rappresentava un momento estremamente importante e delicato, in quanto
essa doveva sostenere tutto il peso dei sassi sovrastanti. Anche la scelta
dell'ubicazione della calcàra era fondamentale: essa, infatti, doveva sorgere
dove era possibile reperire facilmente il materiale necessario, cioè i sassi e
la legna, e in prossimità di una via di comunicazione, che agevolasse il
trasporto della calce. Il lavoro per produrre la calce iniziava in autunno con
la raccolta della legna da ardere, la quale doveva essere abbondante dal
momento che, per la cottura di 100-150 quintali di sassi, servivano dalle
5000 alle 8000 fascine di legna. Una volta riempita la calcàra, facendo
attenzione a disporre i sassi più grossi dove il calore era più forte, si
ricopriva il tutto con un leggero strato di malta. E finalmente, dopo aver
aspettato la benedizione del prete con l'acqua santa, la calcàra era pronta
per essere accesa. La legna doveva bruciare ininterrottamente per circa tre
giorni e tre notti; trascorso un giorno dall'accensione, cominciavano a uscire
dalla fornace delle vampe di fuoco che, in relazione alla cottura dei sassi,
assumevano colorazioni suggestive. Quando il colore delle vampe di fuoco
diventava turchese la calce era quasi pronta: l'esperienza del calcaroto
avrebbe poi stabilito il momento più opportuno per spegnere il fuoco. La
calce così prodotta, dopo essere stata fatta raffreddare per una settimana,
veniva in parte utilizzata dai calcaroti stessi e, in parte, veniva venduta in
paese a chi ne aveva bisogno per costruire la stalla, il fienile e anche la casa.
Oggi questa tradizionale attività è andata perduta: nessuno fa più la
calce, come nessuno fa più il ghiaccio e il carbone; tuttavia, il ricordo
collettivo di ciò che è stato è ancora ben nitido nella memoria della gente
della Lessinia e nelle forme del territorio.
Quando, sul finire del Duecento, i Cimbri hanno cominciato a
stabilirsi sui Monti Lessini si sono trovati di fronte a un ambiente molto
diverso da quello attuale: il territorio, senza abitatori stabili, era ricoperto
per tutta la sua estensione, da ovest a est, da foreste secolari. I coloni,
dunque, per poter coltivare la terra e allevare il bestiame, hanno dovuto
prima disboscare estese porzioni di foresta. Il legname ricavato veniva in
parte utilizzato dai Cimbri stessi e in parte venduto; tuttavia, c'era sempre
una parte di legname che non poteva essere venduta: si trattava della
125
ramaglia e del sottobosco che i Cimbri, abilmente, trasformavano in
utilissimo carbone. La pratica di fare il carbone, che veniva inoltre
proficuamente venduto, si diffonde a tal punto che l'altopiano dei Monti
Lessini veniva anche chiamato "Montagna Alta del Carbon".
La trasformazione della legna in carbone seguiva regole e rituali ben
precisi, la cui origine si perde nella conoscenza collettiva di un intero
popolo. In un primo momento, il carbonaro sceglieva un sito pianeggiante,
vicino al bosco, dove costruire la carbonara (haufe) [Fig. XV]; quindi
l'uomo procedeva al taglio della legna, in prevalenza di faggio, ma anche di
carpino, di frassino e di nocciolo. La legna, una volta trasportata vicino al
luogo destinato alla costruzione della carbonara, veniva disposta attorno a
quattro lunghe pertiche che costituivano il camino. In questo modo, si
formava una catasta conica alta circa 2-2,5 metri che, in un secondo tempo,
veniva ricoperta di fogliame secco e di zolle di terra, la cui funzione era
quella di favorire una combustione lenta.
Fig. XV
Carbonara
Fonte: Nordera C., 1987, vol. II, p. 316
126
Tramite una scala appoggiata alla carbonara, il carbonaro
introduceva nel camino alcune braci, che innescavano la combustione. Per
trasformare la legna in carbone erano necessari tre giorni e tre notti: durante
questo arco di tempo, il carbonaio doveva sorvegliare attentamente il fumo
che usciva dalla carbonara, perché fiammelle di colore troppo acceso
indicavano che il fuoco era troppo forte e che, quindi, era necessario
aggiungere terra all'esterno, in corrispondenza delle fiammelle, per
rallentare nuovamente la combustione. Ogni tanto, andavano anche aggiunti
dei ceppi di legno per mantenere acceso il fuoco nel camino. Per sorvegliare
le proprie carbonare, gli uomini costruivano nei dintorni una sorta di
capanna (hute), la quale serviva da ricovero e permetteva di fare qualche
breve riposo. Il lavoro dei carbonai si svolgeva, in massima parte, dalla
primavera all'autunno, quando le condizioni climatiche erano più favorevoli.
Il carbone ricavato -per esempio da una carbonara di 50 quintali di legna si
ottenevano circa 8 quintali di carbone- veniva messo in sacchi e venduto sia
sul mercato locale, sia su quello cittadino. Il lavoro di carbonaio si è diffuso,
più che altrove, nel Comune di Selva di Progno e particolarmente a Giazza.
Alla fine degli anni Cinquanta, anche questo mestiere di un tempo
scompare: un'attività largamente praticata nel corso di secoli sembra
destinata a diventare un ricordo lontano. Ma ecco che inaspettatamente, nel
1980, è ricomparso un filo di fumo nel cielo di Giazza: Nello Boschi,
proprietario di un ristorante, ha deciso di accendere una carbonaia per
produrre da sé il carbone di legna, che intende utilizzare per arrostire le trote
e le braciole riservate ai clienti del suo ristorante. Così ogni anno Nello
Boschi, con l'aiuto di due anziani cimbri che in passato erano stati esperti
carbonai, ha restituito al presente un'arte che sembrava appartenere,
definitivamente, al passato.
6.5. Sculture popolari sacre nell'area dei Tredici Comuni Veronesi
In tutto il territorio situato a oriente della Val d'Illasi si trovano,
lungo le strade o i sentieri, pilastrini monolitici di pietra che, sulla sommità,
si allargano sino a formare un'edicola a capanna: si tratta di colonnette
votive, alte dal metro al metro e mezzo, che sul pilastro hanno scolpita una
croce, mentre incisa sull'edicola si trova la raffigurazione a bassorilievo
della Beata Vergine col Bambino (XVII sec.) [Fig. XVI A]. Questo tipo di
colonnetta pare essere la semplificazione di un tipo precedente e più
complesso, che figura esclusivamente in tavolette di tufo: il tipo con Beata
Vergine e Bambino tra San Rocco e San Sebastiano. Una colonnetta di
questo tipo è presente in Contrada Venchi di Sotto [Fig. XVI B]: la data
incisa è 1539. La presenza di San Rocco e di San Sebastiano è assai
significativa, trattandosi di due riconosciuti protettori contro la peste,
terribile flagello dell'epoca. Le colonnette più tarde (XVIII sec.) sono
127
dedicate al tema della Crocifissione e alla Madonna Addolorata, ma ne
esistono anche alcune dedicate a motivi religiosi meno trattati.
Le colonnette della Lessinia sono, tra le innumerevoli testimonianze
di originalità del popolo cimbro, una delle più emozionanti e, allo stesso
tempo, enigmatiche: ciò che sfugge è il messaggio complessivo che deriva
dal loro insieme e dalla loro ubicazione. Significato che, al contemporaneo
visitatore occasionale, è concesso solo di intuire e non di comprendere a
pieno; significato legato all'intimo rapporto tra l'uomo e il territorio che
abita, rapporto oggi quasi del tutto dimenticato, rapporto del quale le
colonnette dovevano rappresentare importanti segni, pregnanti punti di
coagulo.
Il contenuto figurativo delle colonnette rimanda, come accennato
sopra, all'iconografia cristiana, riprendendone personaggi e situazioni
ricorrenti, i quali costituiscono simboli e temi alla base della
rappresentazione scultorea. Tuttavia, se il soggetto appare familiare, il modo
arcaico e ieratico delle figure evoca remote presenze di immagini
paganeggianti e un sostrato culturale animistico, che affonda le proprie
radici nelle lontane origini di questo popolo.
128
Fig. XVI A
Colonnetta del Finco
Fonte: Franzoni L., 1991, p. 12
Fi g. XVI B
Colonnetta Venchi di Sotto
Fonte: Franzoni L., 1991, p. 11
Le colonnette votive della Lessinia caratterizzano a tal punto il
territorio da renderlo assolutamente unico e gravido di verità ancora celate:
in molti casi, infatti, non è possibile dare una giustificazione certa della
motivazione per la quale una colonnetta si trovi proprio in un determinato
sito; mentre a volte è possibile leggere, incise sul pilastro, parole come <<in
morte di...>>, sorprendendosi a fare congetture sulla morte del soggetto,
sulle sue cause e circostanze. A volte queste colonnette, che possono anche
essere prive di soggetti sacri, si trovano al centro di crocicchi, dove i
sentieri si biforcano e la direzione diventa incerta: sembrano circoscrivere
un punto sacro, all'interno del quale il boscaiolo può racchiudersi in solitaria
preghiera prima di proseguire il proprio cammino. Si può supporre che tali
colonnette, oltre a segnare sentieri, vie e confini, abbiano anche avuto lo
scopo di indicare antichi tracciati di percorsi devozionali, che dovevano
condurre le genti delle diverse vallate in luoghi connotati da particolare
valore sacro.
Le colonnette sacre di questi luoghi così affascinanti, poste a
protezione di popoli e di terre, ricoprono il ruolo simbolico di elementi
propiziatori e di segni di contatto tra il mondo dei fenomeni e il mondo del
noumeno e del soprannaturale.
129
6.6. Il Taucias Garëida
Giazza è rimasta, oggi, la sola località dei Tredici Comuni Veronesi
dove qualcuno, venti anime sì e no, conosce e parla ancora il cimbro.
Eppure, tutti parlavano cimbro fino a cinquanta -sessanta anni or sono:
come è possibile, dunque, che questi pochi anni siano bastati a cancellare
quasi del tutto un idioma così antico come quello cimbro che, nelle sue tre
varianti112, è considerato una parlata altotedesca113? Probabilmente,
nonostante l'isolamento di questi luoghi, il processo di acculturazione114, che
si avvia in situazioni di vicinanza tra culture diverse, sta rapidamente
portando all'estinzione di almeno uno degli aspetti della cultura cimbra e,
cioè, la lingua.
Il Taucias Garëida, infatti, mostra profondi segni dell'influenza del
dialetto veronese e numerosi sono i termini veronesi penetrati nell'idioma
cimbro. Di seguito sono riportati alcuni esempi:
italiano: volta (in frasi come "quante volte...?")
dialetto cimbro: bòte
dialetto veronese: bòta
italiano: vipera
dialetto cimbro: bìpar
dialetto veronese: vìpara
italiano: vincere
dialetto cimbro: véntzarn
dialetto veronese: vénzar
italiano: cassetto
dialetto cimbro: kalte
dialetto veronese: calto
Il dialetto veronese ha influito sulla parlata cimbra attraverso varie
vie, quali i continui contatti con la popolazione italiana residente nei comuni
cimbri, i matrimoni tra Cimbri e Italiani e le relazioni con la popolazione
italiana, fuori dei XIII Comuni, dovute agli scambi commerciali e all'attività
lavorativa in generale. Tuttavia, nonostante prestiti o influenze italiane, il
Taucias Grëida mantiene una propria decisa connotazione linguistica, che
lo rende così particolare e unico [Fig. XVII]
112
Cfr. paragrafo 4.4., capitolo quarto.
Cfr. capitolo terzo, nota 24.
114
Cfr. capitolo primo.
113
130
Fig. XVII
Libreria Nordera, scatto privato
Una conoscenza non superficiale della lingua tedesca permette di
notare quanto il dialetto cimbro (nelle sue tre varianti di Giazza, Roana e
Luserna) sia simile a essa non solo dal punto di vista sintattico, ma anche da
quello morfologico e fonetico. Ad esempio, anche nell'idioma cimbro i
sostantivi possono essere di genere maschile, femminile o neutro; come
anche in cimbro il sostantivo è sempre preceduto dall'articolo, sia esso
determinativo o indeterminativo. Sostantivi e pronomi si declinano non solo
secondo il genere (maschile, femminile e neutro), ma anche secondo il
numero (singolare e plurale) e secondo il caso ( nominativo, dativo e
accusativo). Anche in cimbro, come in tedesco (ma anche come in italiano),
esistono parole composte: ad esempio, la parola pergarlaut, gente di
montagna, è formata da perg (montagna), da cui deriva pergar (montanaro),
e da laut (gente).
Lo studio grammaticale, lessicale, sintattico e fonetico della lingua
cimbra risale, in massima parte, al Novecento115 ed è stato possibile grazie
alla titanica opera di ricerca di glottologi, linguisti e storici. I Cimbri, infatti,
erano in gran parte analfabeti o semianalfabeti e, dunque, hanno tramandato
solo oralmente fonetica e grafia della loro parlata116. La maggior parte dei
115
Tuttavia, non mancano studi di questo genere anche nei due secoli precedenti,
come quelli intrapresi da Agostino Dal Pozzo, da Giovanni Costa Pruck e dallo
storico Carlo Cipolla.
116
A questo punto mi si potrebbe obiettare il fatto che, nel paragrafo 4 del Capitolo
quinto, io abbia sostenuto l'esistenza di una letteratura cimbra, che dovrebbe
presupporre un'alfabetizzazione della popolazione. Per evitare ogni equivoco,
dunque, ritengo opportuno ricordare che le prime testimonianze della letteratura
131
testi di grammatica e lessico cimbro, composti da eminenti studiosi tra i
quali lo Schweizer, sono in lingua tedesca o, addirittura, cimbra, e dunque
di difficile divulgazione. Nondimeno, esiste un testo che può essere
facilmente letto e compreso anche dal non specialista: si tratta della
Grammatica popolare del Taucias Garëida, scritta da Carlo Nordera con il
chiaro intento di far conoscere il dialetto cimbro di Giazza. L'autore, infatti,
dedica, sia in cimbro che in italiano, la sua opera:
"A tutti gli scolari, agli insegnanti, agli amici che vogliono
contribuire a mantenere in vita la lingua e le tradizioni dei nostri
antenati."117
Molto interessante è il capitolo dedicato alle "curiosità linguistiche"
del Taucias Garëida. Ad esempio, molti vocaboli che in tedesco iniziano
con la lettera -B, in cimbro iniziano con l'elemento fonico -P118: ponte in
tedesco si dice Brücke, in cimbro pruke; libro in tedesco si dice Buch, in
cimbro puach; montagna in tedesco si dice Berg, in cimbro perg. Un'altra
particolarità del Taucias Garëida è data dal fatto che i sostantivi che in
tedesco iniziano con la lettera -W, in cimbro iniziano con l'elemento fonico
-B119: bosco, che in tedesco si dice Wald, in cimbro diventa balt; acqua, che
in tedesco si dice Wasser, in cimbro diventa bàssar; vento, che in tedesco si
dice Wind, in cimbro diventa bint. Infine i Cimbri, in particolare quelli
veronesi, tendono a far cadere le consonanti doppie120, come -nn, -mm o -ll,
sostituendone una con un'altra lettera: così il sole, che in tedesco si dice
Sonne, nella parlata cimbra si è trasformato in sònde; agnello, Lamm in
tedesco, in cimbro diventa lamp; lana, che in tedesco si dice Wolle, in
cimbro si è trasformata in bolje; gallina, Henne in tedesco, in cimbro si dice
henje.
Come nei capitoli precedente della presente ricerca, di seguito sono
riportate alcune testimonianze della lingua cimbra dei Tredici Comuni
Veronesi: proverbi, canzoni, poesie e brevi racconti, che studiosi
instancabili hanno ascoltato e trascritto durante lunghi anni di attività. Se il
Taucias Garëida ancora sopravvive lo si deve a questi uomini ostinati e se,
cimbra sono esclusivamente di carattere sacro, provenienti di conseguenza da un
ambiente erudito. Le successive testimonianze appartengono alla tradizione orale,
mentre numerose poesie citate anche nei capitoli successivi sono state scritte da poeti
cimbri viventi, o vissuti nel Novecento.
117
"In alje de skoularn, de leararn, da gaseljan bo boun haltan lentach is gareida un
de gadenke 'un usarne altan."
118
Fenomeno di rotazione consonantica, per il quale la consonante da sonora diventa
sorda: si tratta di un fenomeno avvenuto nell'Alto Medioevo, nell'area meridionale
della Germania.
119
Si tratta di un fenomeno tipico dell'area tirolese.
120
Fenomeno di riduzione, o degeminazione, delle doppie dovuto all'influsso dei
dialetti latini circostanti.
132
come ho avuto modo di capire durante il mio viaggio tra i Cimbri, basta che
qualcuno ricordi anche solo una parola in cimbro, affinché questo non
muoia; allora ecco che risulta evidente la necessità di riportare non solo la
traduzione italiana, ma anche il testo cimbro, contribuendo così a proteggere
questa lingua antica dalla minaccia dell'oblio.
Proverbi:
"Chi va al mulino, s'infarina."121
"Un uovo marcio fa puzzare una casa intera."122
"Quando non c'è la gatta i topi ballano."123
Fonte: Molinari, 1999, p. 110.
Una canzone:
I contrabbandieri
Come faremo ad attraversare i confini
senza documenti come siamo?
Supereremo dossi e declivi,
ma due finanzieri ci hanno sorpresi.
Ci hanno arrestati,
ci hanno ammanettati,
ci hanno condotti
in una tetra prigione.
Se potremo evadere
da questa prigione
le nostre fidanzate
vorremo baciare.124
Fonte: Nordera, 1987, vol. II, p. 229.
Una poesia del cimbro Rino Lucchi:
121
"Ber gheat in de mul bumelci."
"A vaulaz oa darstinkat a gantzaz haus."
123
"Begne dista nist de katze, de maus tantzan."
124
De tragar
Bia tuabar txe tritziln pa pergan/ ante briefe asbia bar sain?/ Bar springan-hi
eikadar un laitan/ un tzoa pintar hen-uns gavangat./ Se hen-uns gavangat,/ se henuns gapintat,/ se hen-uns gavuart/ in an tunkan presaun./ Ta bar mougan ken
aussar/ 'un disame presaune/ unsare schuane/ boun bar busan.
122
133
Chiccolino di frumento
Chiccolino dove stai?
Sono qui sotto, non lo sai?
E là sotto non fai nulla?
Dormo dentro la culla?
E se tanto dormirai,
chiccolino, che farai?
Una spiga metterò,
e tanti chiccolini ti darò!
In un buon pane mi farò!125
Fonte: Molinari, 1999, p. 116.
La leggenda dell'orco:
Una volta l'Orco abitava nella contrada Ravaro126 e volle scendere
alla contrada Luche127. Scese per il sentiero a zig zag, stretto e sassoso fino
al torrente. Il torrente era in piena. L'Orco balzò sul ponticello di legno,
cantando e ballando: <<ponticello rompiti, cagnolino abbaia, gattino
miagola, campanina suona.>> Prach! Il ponticello si ruppe e l'Orco venne
scaraventato nel torrente.128
Fonte: Nordera, La grammatica popoalre del Taucias Garëida, s.d.,
pp.94-95.
125
Korniglia un boatze
Korniglia, bo pisto-du?/ I pi untar hia, boazzast-du nist?/ Un untar-da, machasto
nist?/ I schlafe ign de maine haighe!/ Un mo vi schlaffast-du,/ Korniglia, ba
machast du?/ An roase-boatze i leighi,/ un iebala kornigliar i gain-da!/ Un an
goutaz proat i machada.
126
Contrada di Giazza siutata sulla sinistra del torrente Fraselle.
127
Contrada disabitata di Giazza, situata all'imbocco della Val di Fraselle.
128
An bote in Orke ist gabest 'un Rakabar un hat gabout ghian kar Luche. Er ist ken
abar pa trouge funtze kan pache. In pach ist gabest groas. In Orke ist gasprùngat
'uz prùkala tànzinje un sìnghinje: prùkala prech, hùtla pilj, kétzala mauch,
Kljouklja laut. Prach! Is prùkala ist gaprecht un in Orke ist gapljundart in pache.
134
CAPITOLO SETTIMO
I Cimbri del Cansiglio
7.1. Analisi geografica e territoriale della Piana del Cansiglio
Non credo che esistano parole migliori di quelle scritte dal poeta
Mario De Nale per descrivere questo incantevole sito:
"Il Cansiglio è un magnifico lembo di terra veneta e
<<cimbria>>, adagiato su di un suggestivo letto di faggeti e pinete
sparse in un alternarsi di valli e pendii oscillanti tra i 781 metri
della chiesetta del Runal e i 1694 del Croseraz, un tempo silenziosa
dimora di lupi e di orsi, bucherellato di caverne abitate da fate."
(1984, p.7)
Il Cansiglio, altopiano carsico delle Prealpi Carniche, si presenta
come una sorta di piattaforma concava, dominante la pianura veneto-friulana
e divisa tra le province di Treviso, Belluno e Pordenone [Fig. XVIII].
L'altopiano è delimitato a Sud e a Sud-Est dalla pianura veneto-friulana, a
Nord-Est dal gruppo del Monte Cavallo (2.251 m.), a Nord dalla conca
dell'Alpago e a Ovest dalla Val Lapisina, con la sella del Fadalto.
La Piana del Cansiglio è costituita da tre depressioni centrali, le
quali hanno avuto origine da una inflessione della regione, avvenuta in
lontane ere geologiche: Pian Cansiglio, la più estesa, raggiunge la quota
minima di 976 m. dei "Bech" e la massima di 1.060 m. dei "Pich";
Valmenera e Cornesega, dove si registra la quota minima dell'altopiano con
898 m. I rilievi che racchiudono la Piana del Cansiglio sono più elevati nei
versanti orientali, con la quota massima del territorio toccata dal Monte
Croseraz (1.694 m.), e in quelli occidentali, con il Monte Pizzoc (1.565 m.)
e il Monte Millifret (1.581 m.). Esistono due valichi: uno a Sud, chiamato
Crosetta (1.118 m.) e uno a Nord, chiamato Campon (1.050 m.); attraverso i
due valichi transita la Strada Statale n° 422, unico asse viario del Cansiglio.
L'altopiano del Cansiglio presenta un aspetto ondulato e raramente
vengono raggiunte pendenze elevate; tuttavia, i fianchi esterni sono molto
più scoscesi, fatta eccezione per il fianco settentrionale dell'Alpago, che
scende gradatamente verso la valle del Piave e il Lago di Santa Croce.
135
Fig. XVIII Il Bosco del Cansiglio
Fonte: elaborazione grafica a cura dell’autrice
136
Tutto l'altopiano è caratterizzato dalla presenza del fenomeno del
carsismo, dovuto a una lenta dissoluzione del carbonato di calcio contenuto
nelle rocce di natura calcarea e alla conseguente fratturazione di tali rocce,
in risposta a sollecitazioni tettoniche. Gli effetti del carsismo sono molto più
evidenti sul versante sud-orientale: in questa zona è possibile rilevare il
maggior numero di doline e di inghiottitoi in superficie e di voragini in
profondità. Le voragini principali sono il "Bus de la Lum", la cui profondità
è di 185 m., e l'abissale "Bus della Genziana", con 587 m. di profondità e
ben 3 km. di sviluppo, dichiarata "Riserva speleologica" unica in Europa nel
suo genere. Durante la stagione piovosa si verifica una saturazione delle
fenditure del sottosuolo (causate dai fenomeni carsici) che, in aggiunta al
normale accumulo di materiale impermeabile e argilloso sul fondo delle
doline meno profonde, provoca la trasformazione di queste ultime in piccoli
specchi d'acqua, chiamati "lame". Tale processo è completato da un lento e
graduale affossamento del terreno, che porta alla formazione di torbiere.
Nella zona occidentale dell'altopiano, in virtù di una attenuazione dei
fenomeni carsici, si trovano le uniche tracce di una idrografia superficiale,
costituite dal torrente che scorre nel "vallone di Vallorch".
Uno degli aspetti che più caratterizza il Cansiglio, rispetto alla
regione circostante, è dato dal particolare microclima: esso, influenzato
dalla sottostante pianura, rientra nella categoria di clima temperato freddo,
con estati fresche e una marcata impronta oceanica, dovuta alla vicinanza
del Mare Adriatico. Una corrente di aria fredda, che scende dai versanti
interni dei rilievi, si deposita nelle tre grandi depressioni centrali, rimanendo
ivi imprigionata. Questo fenomeno è all'origine sia del ristagno delle nebbie,
sia dell'inversione termica, vale a dire della diminuzione delle temperature
procedendo dalla sommità dei rilievi fino al fondo della conca, costituita
dalle tre depressioni. Di conseguenza, la temperatura media annua registrata
sulla Piana del Cansiglio risulta essere di 2°C inferiore rispetto alla
temperatura che si dovrebbe registrare normalmente. L'escursione termica
annuale è di 17°/18°C circa, mentre gli estremi termici sono compresi tra i
+29° di luglio e i -20°C di gennaio.
Il fenomeno dell'inversione termica determina la conseguente
inversione delle serie vegetazionali: sul fondo delle tre grandi depressioni,
infatti, sono presenti prati e pascoli che, solitamente, si trovano ad altitudini
maggiori; mentre le aree superiori sono occupate dalla vegetazione forestale.
Sul fondo delle tre grandi depressioni è presente una vegetazione erbacea di
origine naturale; tuttavia, la loro superficie è stata modificata sia dai
disboscamenti attuati per creare nuovi pascoli, sia dai rimboschimenti di
abete rosso avvenuti soprattutto nel Novecento. I pascoli, infatti, sono
circondati, soprattutto nel lato orientale, da un bosco artificiale formato
appunto da alberi di abete rosso della medesima età e dimensioni: tali alberi
sono stati piantati, durante un periodo che va dai 30 agli 80 anni fa, su
porzioni di terreno precedentemente destinate al pascolo.
137
Il tipo di bosco che più rappresenta il Cansiglio è la faggeta
montana: sono le foreste di faggi, infatti, a caratterizzare, rendendolo unico,
il paesaggio, in particolare durante la stagione autunnale, quando le foglie si
incendiano di colori. La faggeta montana del Cansiglio cresce tutto attorno
alla conca formata dalle tre depressioni, a un'altitudine che va dai 1.100 ai
1.400 m., e sui rilievi meridionali, come sulle pendici del Monte Pizzoc e
del Monte Millifret, dove trova l'habitat ideale per esprimere la sua forma
migliore. La faggeta è costituita, quasi esclusivamente, da alberi della stessa
età: l'aspetto del bosco è, dunque, omogeneo, con le chiome degli alberi
della stessa altezza che formano una volta continua e regolare.
Spostando lo sguardo verso Nord, si può notare la progressiva
sostituzione della faggeta montana da parte del cosiddetto abieti-faggeto: si
tratta di un bosco formato da faggio e da abete bianco, i quali prevalgono
l'uno sull'altro, a seconda delle variazioni climatiche ed ecologiche, in
continua competizione. Nell'abieti-faggeto sono presenti alberi di diverse età
e dimensioni: questo fa sì che la volta del bosco non sia fitta e omogenea,
come quella della faggeta montana, permettendo alla luce di filtrare. Una
maggior quantità di luce favorisce la crescita di un sottobosco più ricco,
caratterizzato dalla presenza di piante arbustive ed erbacee, rispetto al
sottobosco della faggeta, composto quasi esclusivamente dalle foglie morte
dei faggi. In Cansiglio si trovano anche altri tipi di bosco, sebbene occupino
superfici di estensione minore: la faggeta altimontana, ad esempio, cresce
sulle pendici del Monte Croseraz ed è costituita da faggi dallo sviluppo assai
modesto; mentre in Val Faldina e Valpiccola si trova un'abetina montana,
formata esclusivamente da alberi di abete bianco, esempio quasi unico
rinvenibile sull'arco alpino.
Con una superficie di oltre 6000 ha. il "Bosco dei Dogi", come viene
anche chiamato il Bosco del Cansiglio, è -dopo la Foresta Nera- la seconda
foresta più grande d'Europa.
Grazie al divieto di caccia, che da più di un secolo protegge la
regione del Cansiglio, è stato possibile il riaffermarsi di una fauna molto
ricca e diversificata, legata all'habitat forestale. Per quanto concerne i
mammiferi, la specie più rappresentativa della zona è sicuramente quella del
cervo: l'ultimo censimento ne ha contati circa 100 esemplari. I cervi sono
soliti frequentare la parte nord-orientale del territorio; essi prediligono la
Valmenera come sito per i combattimenti durante il periodo degli amori
(primo autunno), mentre si spostano verso le pendici orientali esterne al
bosco per svernare. Il capriolo è un altro mammifero diffuso in tutto il
Bosco del Cansiglio; mentre la presenza del daino, introdotto inizialmente in
un recinto faunistico e liberato successivamente nella foresta, è meno
frequente. Tra gli altri mammiferi si trovano la lepre comune, la lepre
alpina, lo scoiattolo (che si nutre dei semi degli abeti rossi), il ghiro, il
riccio, la talpa, la puzzola, la donnola, l'ermellino, il tasso, la martora e
numerose volpi.
138
L'avifauna è caratterizzata dalla presenza di moltissime specie, sia
stanziali che migratorie, queste ultime più numerose data la scarsità di cibo
offerta dal bosco durante la lunga stagione invernale. Tra le specie stanziali,
le più diffuse sono l'astore, lo sparviero, la poiana, il gheppio, l'aquila reale
(che nidifica sul non lontano Monte Cavallo), l'allocco, la civetta nana, la
civetta capogrosso, il gufo comune e quello reale (anche se più raro).
L'animale che simboleggia il Cansiglio è il gallo cedrone e, sempre tra i
galliformi, sono presenti il francolino di monte, il fagiano di monte e la
pernice bianca. Innumerevoli sono i passeriformi che abitano la foresta:
rondini, balestrucci (simili alle rondini), allodole, storni, scriccioli, capinere,
fringuelli, cince, ghiandaie, cornacchie, pettirossi, cardellini e merli. Tra i
rettili sono presenti la vipera, il ramarro, la lucertola vivipara, la biscia dal
collare e l'orbettino; mentre tra gli anfibi, che vivono in prossimità degli
specchi di acqua stagnante, si trovano la salamandra nera, la rana temporaria
e la rana verde.
In Cansiglio, ormai da svariati anni vengono prodotti, seguendo le
regole dell'agricoltura biologica, latte e derivati di alta qualità dal Centro
Caseario Allevatori dell’Altopiano Tambre-Spert-Cansiglio, situato in
località Valmenera e non distante dal Comune di Tambre. Qui, ogni giorno,
vengono prodotti 35 quintali di latte e vengono lavorati dai 4 ai 5 quintali di
formaggi, ricotte e mozzarelle, prodotti che per un quarto del totale sono
destinati al mercato estero. Il Centro Allevatori raccoglie il latte proveniente
da una ventina di stalle del Cansiglio e del vicino Alpago, ma non quello
dall'Azienda Vallorch, che conferisce altrove i 15 quintali di latte biologico
prodotto quotidianamente dalle sue 70 vacche. Il Centro Caseario Allevatori
fattura, annualmente, circa tre miliardi di lire: un volume di affari notevole,
se si considerano le ridotte dimensioni dell'azienda stessa. Questo innegabile
successo, secondo i direttori del Centro Caseario, non è ancora definitivo:
per essere tale, infatti, è necessario convincere i proprietari dell'Azienda
Vallorch del fatto che una produzione biologica unitaria non solo
amplierebbe notevolmente le prospettive di mercato, ma aumenterebbe
ulteriormente il prestigio della regione.
Infine, in località Vallorch, all'interno della Foresta del Cansiglio, si
trova il Centro di Educazione Ambientale "Vallorch": il Centro, dotato di
una sala polifunzionale, di aule e di laboratori, si propone come luogo di
soggiorno ideale per lo studio e per le attività di ricerca. Il Centro, infatti,
organizza visite guidate nel bosco, soggiorni tematici (flora, fauna, geologia,
ambiente, archeologia e storia), seminari, corsi di formazione, convegni e
campi di lavoro nella foresta.
139
7.2. I Cimbri del Cansiglio: analisi storica e situazione attuale
Prima di ripercorrere, a ritroso nel tempo, la storia dei Cimbri che
hanno scelto i boschi del Cansiglio come luogo dove costruire la propria
dimora (una storia relativamente recente, come spiegato più avanti), ritengo
opportuno dare un quadro generale di quella che è stata la storia della
Foresta del Cansiglio, storia che è molto più antica.
Esistono numerose ipotesi riguardanti l'etimologia del nome
"Cansiglio", tra queste: "Campus silius", "Campus silens" cioè "campo,
luogo piano e silenzioso"; "Campus silvae" cioè "spiazzo tra i boschi";
"Campus silis" cioè "campo del Piave". Tuttavia, la più attendibile fa
derivare il coronimo “Cansiglio” da “concilium”, che indica una terra
consortile indivisa di boschi e di pascoli, appartenente e più comunità. Il
toponimo "Foresta del Cansiglio" è più recente, infatti il nome "Cansiglio" o
"Cansegio" era riferito esclusivamente alla conca centrale, ovvero all'attuale
Piana del Cansiglio; mentre la zona circostante veniva chiamata "Bosco
d'Alpago" e aveva una superficie superiore a quella dell'odierna Foresta del
Cansiglio, ricadendo in gran parte sotto la giurisdizione del Rettore di
Belluno.
Le origini del profondo legame, che ha unito intimamente l'uomo
alla Foresta del Cansiglio, risalgono a più di 10.000 anni fa, quando l'Uomo
di Cromagnon utilizzava l'altopiano come riserva di caccia, risalendovi dalla
pianura, durante la stagione estiva. Questo è testimoniato dai diversi reperti
di punte di selce ritrovati nel 1994 in Pian Cansiglio e a Palughetto e,
precedentemente, nella vicina zona di Piancavallo: le armi venivano
utilizzate per cacciare i grossi erbivori presenti nell'area, in particolare
stambecchi. Gli insediamenti successivi, dai Paleoveneti, ai Romani fino ai
Barbari, vedono un avvicinamento al Cansiglio soprattutto da parte degli
abitanti dell'Alpago; tuttavia, manca ancora, probabilmente, un razionale
sfruttamento delle risorse della foresta.
Il primo documento scritto riguardante il Cansiglio risale al 923
d.C., allorché Berengario I, Re d'Italia, assegna il feudo del Cansiglio al
Vescovo e Conte di Belluno il quale, in un secondo tempo, stabilisce le
concessioni dei diritti di pascolo ai privati e alle comunità. Con lo sviluppo
dei Comuni, il Bosco dell'Alpago (come viene chiamato nel documento di
Berengario) passa alle "Regole della Comunità dell'Alpago"; per poi
passare, nel 1404 e con tutta la Comunità di Belluno, sotto la Serenissima
Repubblica di Venezia. Tuttavia, l'annessione ufficiale alla Serenissima
avviene nel 1548, anno in cui viene nominato il primo "Capitano Forestale"
del Cansiglio.
Dal 1797 al 1866 si alternano il governo francese e quello austriaco
e nel 1871, in seguito all'annessione del Veneto al Regno d'Italia avvenuta
140
nel 1866, il Cansiglio diventa "Foresta demaniale inalienabile" dello Stato
italiano, sotto la gestione dell'Azienda di Stato per le Foreste Demaniali.
Il bosco del Cansiglio è conosciuto anche con il nome di "Bosco dei
Dogi": durante il governo della Serenissima, il Consiglio dei Dieci emette
numerosi editti e proclami in difesa della foresta, con pene estremamente
severe per i trasgressori. Gli imponenti alberi di faggio del bosco vengono
abbattuti per la produzione di <<remi da galere>>: i "Proti dell'Arsenale",
infatti, in occasione dei sopraluoghi iniziali avevano giudicato il faggio
adatto allo scopo. Per svolgere questo lavoro, vengono istituite delle
compagnie di boscaioli detti <<remeri>>. Il pascolo viene completamente
bandito dalle zone boschive e tutte le costruzioni atte alla monticazione, fino
a un miglio all'esterno del confine del bosco, vengono distrutte.
Le continue lamentele e i soprusi subiti dalle popolazioni, che
abitano le zone limitrofe al bosco, portano alla creazione del
"Mezzomiglio": un anello esterno al confine nel quale è permesso pascolare,
mentre le casere e le carbonaie devono stare al di là del mezzo miglio. Tale
decisione viene presa nel 1576, quando il Rettore di Belluno Giovanni
Dolfin intraprende una nuova confinazione della zona. Con una successiva
confinazione, risalente al 1660, voluta dal Podestà e Capitano di Belluno
Marin Zorzi, Provveditore dei Boschi, viene modificato il diritto di pascolo:
viene concesso il mezzo miglio interno della foresta, "fino all'orlo del bosco
folto". Tutto ciò provoca un grave danno alla foresta; ma il periodo di
degrado e di decadenza del bosco, iniziato con il provvedimento di Marin
Zorzi, si acutizza sia a causa delle vicende storiche di Venezia, in guerra
con i Turchi, sia a causa del passaggio del governo dei boschi dal Consiglio
dei Dieci all'Arsenale. In seguito a tale passaggio, infatti, la sorveglianza del
bosco e l'attenzione da parte di Venezia si allentano e, per contro, crescono
gli abusi e le usurpazioni.
Nel 1797 la Serenissima Repubblica di Venezia cade e, per qualche
tempo, la foresta rimane indifesa: essa diventa, ben presto, oggetto delle
predazioni delle popolazioni autoctone e dei militari francesi. Sotto la
dominazione austriaca, a partire dal 1815, vengono eseguite nuove
confinazioni, anche allo scopo di risolvere la questione legata al
"Mezzomiglio". Tuttavia, la risoluzione della questione del "Mezzomiglio"
deve attendere il 1873, quando l'Amministrazione Forestale dell'Azienda di
Stato per le Foreste Demaniali procede a una ulteriore confinazione e
liquida la questione cedendo 550 ha. ai comuni limitrofi e affrancando i
rimanenti ettari, facenti parte dei pascoli interni, con corrispettivi in denaro.
Nel 1870 erano cominciati, tra l'altro, i lavori per la costruzione della Strada
Statale n° 422, lavori che vengono ultimati nel 1881, con una spesa di £
350.000; la strada favorisce notevolmente il commercio di legname.
Con l'attuazione delle Regioni, la proprietà è stata smembrata: nel
1965 i 1555 ha. ricadenti nei propri confini sono stati trasferiti alla Regione
Friuli-Venezia Giulia; tra il 1979 e il 1980 sono andati alla Regione Veneto
141
3931 ha.; mentre i restanti 1086 ha., costituiti da Riserve Naturali ricadenti
nella Regione Veneto, sono rimasti Demanio dello Stato.
Tra la fine del Settecento e l'inizio dell'Ottocento, non è dato di
sapere la data precisa, uno sparuto gruppi di Cimbri decide di partire da
Roana, paese natio, per dirigersi verso la Foresta del Cansiglio:
"Giunto il giorno fissato per la fatidica partenza che
doveva aggiungere un'altra pagina di fatiche e di sudori alla
millenaria storia di una tribù travagliata, all'ora in cui l'alba stava
per lasciare il posto all'aurora, mentre nel cielo della mezza estate
si incrociavano ancora i lunghi fili rossastri delle stelle cadenti, la
cassa degli attrezzi a tracolla e un sacchetto di farina e il paiolo
penzolanti sul dorso da usare per fare la polenta lungo la strada,
nelle soste volute dalla fatica, guardando in avanti come per
scoprire la visione di un orizzonte migliore, il piccolo drappello
cimbro [...] abbandonò alle spalle il muto paesello, la casa, gli
affetti e si avviò silenzioso verso il nuovo lembo di terra veneta
fatto di ombre, di selve e privazioni [...]." (De Nale, 1984, p. 101)
Questa prima emigrazione ha, inizialmente, un carattere stagionale: i
rigidi inverni del Cansiglio spaventano ancora i primi Cimbri. Verso il 1820
una seconda emigrazione, in questo caso definitiva, conduce altre famiglie
cimbre di Roana verso il Cansiglio: Pian dei Lovi, Canaie e Val Bona sono
le località scelte come siti ideali per costruire le proprie abitazioni. I
cognomi di queste famiglie, fondatrici della comunità cimbra del Cansiglio,
sono Azzalini, Slaviero, Bonato e Gandin: tali cognomi sono ancor oggi i
più diffusi in tutta la zona del Cansiglio. I nuovi coloni cimbri [Fig. XIX]
conservano gli usi e le attività tradizionali di Roana: lavorazione del legno e
costruzione di scatole per contenere le forme di formaggio. Per lungo tempo
la comunità cimbra vive quasi completamente isolata: un profondo senso di
indipendenza sociale induce le giovani madri cimbre a tornare a Roana per il
parto, piuttosto che chiedere aiuto alle donne dei paesi vicini. Gli unici
contatti con le comunità limitrofe sono, almeno in un primo periodo, quelli
legati alla vendita delle scatole per il formaggio e degli utensili in legno.
142
Fig. XIX Famiglia Gandin
Fonte: De Nale M., 1984, p. 104
143
Il 1887 sembra essere l'anno dell'esodo dai primitivi villaggi cimbri,
in favore di nuovi insediamenti, situati non solo più vicino alle vie di
comunicazione, ma anche ad aree ricche di faggi (utilizzati, appunto per la
produzione delle scatole per il formaggio): Campon, Le Rotte, Pian Osteria,
Vallorch e Pich sono i nuovi villaggi cimbri, dei quali restano, ancora oggi,
le antiche costruzioni ormai quasi del tutto disabitate.
Con il trascorrere del tempo, i rapporti tra la comunità cimbra e
quella veneta diventano più frequenti e intensi: gli scambi commerciali, i
matrimoni tra giovani appartenenti alle due diverse comunità e la frequenza
alle scuole italiane da parte dei bambini cimbri sono tutti fattori che,
inevitabilmente, influenzano profondamente la cultura più debole129, ovvero
la cultura cimbra.
A partire dagli anni Venti, il fenomeno dell'emigrazione coinvolge
anche le genti che abitano i villaggi cimbri del Cansiglio: molti, infatti,
soprattutto giovani, abbandonano i paesi natii per andare a stabilirsi nelle
città della pianura veneta, nelle metropoli degli Stati Uniti, in Brasile, in
Belgio e qualcuno anche in Sudafrica130.
Oggi numerosi discendenti degli antichi Cimbri risiedono nelle valli
limitrofe e utilizzano le abitazioni degli antichi villaggi cimbri solo durante
il periodo estivo. Degno di nota è il fatto che essi siano coinvolti in attività o
associazioni che, in modi diversi e talvolta contrastanti, sono dedicate alla
salvaguardia della cultura cimbra e della Foresta del Cansiglio.
7.3. Visita al Museo Etnografico di Cultura Cimbra di Pian Osteria
Il Museo Etnografico di Cultura Cimbra [Fig. XX], chiamato anche
Centro di Etnografia Cimbra, è stato inaugurato nell'agosto del 1984 e si
trova in località Pian Osteria, al centro della Foresta del Cansiglio.
In occasione del mio già citato viaggio attraverso i luoghi di
insediamento del popolo cimbro, ho avuto modo di visitare il Museo, sede
tra l'altro dell'Associazione Culturale Cimbri del Cansiglio, ente privato
sorto con atto notarile del 21.12.1983, che ha per scopo primario il recupero
del patrimonio storico-culturale dei Cimbri del Cansiglio.
129
Cfr. Capitolo primo, paragrafo 1.2.
Cfr. di seguito.
130
144
Fig. XX Ingresso Museo Etnografico di Cultura Cimbra
Scatto privato
All'interno del Museo si trovano esposti gli innumerevoli attrezzi
usati dai boscaioli per il taglio degli alberi e per la lavorazione del legno,
nonché una serie di fotografie storiche dei villaggi cimbri e un grande
plastico di tutta la zona del Cansiglio.
Il Museo, di concerto con l'Associazione Culturale, si occupa anche della
pubblicazione di svariati testi relativi alla storia e alle tradizioni culturali del
popolo Cimbro, dell'organizzazione di manifestazioni in occasione delle
quali i discendenti degli antichi Cimbri ripropongono le tradizionali tecniche
della lavorazione del legno (come durante l'annuale Festa dei Cimbri [Fig.
XXI], che si celebra nel mese di agosto), dell'organizzazione di corsi di
lingua cimbra e, infine, del recupero dei villaggi cimbri di Vallorch e Le
Rotte (entrambi facenti parte del Comune di Fregona).
145
Fig. XXI “6° Festa dei Cimbri”
Scatto privato
Proprio la situazione che riguarda questi due villaggi desta grande
preoccupazione nei membri dell'Associazione Culturale: il Comune di
Fregona, infatti, non dà alcuna possibilità per le necessarie ristrutturazioni
delle baite che, attualmente, sono adibite a residenza stagionale. Il piano
regolatore del Comune di Fregona prevede, per i due villaggi, solo la
possibilità di svolgere la manutenzione ordinaria, escludendo
categoricamente qualsiasi tipo di ristrutturazione e di ampliamento. Il
problema è aggravato dalle pessime condizioni in cui versano le varie
costruzioni, la maggior parte delle quali è oramai inagibile. Inoltre, gli
interventi di manutenzione o di ampliamento, attuati negli ultimi decenni,
hanno alterato le tipologie insediative originarie, causando un ingente danno
al patrimonio storico-architettonico della zona. Pertanto, l'Associazione
Culturale chiede al Comune di Fregona e alle autorità competenti di
provvedere alla risoluzione di tale paradossale situazione, adottando un
piano di regolamentazione degli interventi, per il recupero edilizio del
Cansiglio tutto, rigoroso e particolareggiato.
146
7.4. Vocaboli e toponimi cimbri
Nonostante in Cansiglio non si parli più il dialetto cimbro, numerosi
sono i vocaboli e i toponimi dell'antico idioma conosciuti dai discendenti dei
Cimbri che, duecento anni fa circa, giunsero in Cansiglio da Roana, uno dei
Sette Comuni Vicentini. E dunque, ancora una volta, per non dimenticare la
lingua cimbra, per non perdere un patrimonio culturale così prezioso e
unico, ho ritenuto opportuno riportare, di seguito, un breve elenco di
sostantivi in cimbro:
Baden: filo
Bait: letto, giaciglio
Balade: giacca
Balt: bosco
Baltmen: legnaiolo
Belf: grosso bavero, pettorale
Bina: mazzo di sedici assicelle di legno
Brent: madia cilindrica
Broat: pane
Cimbali: assicelle legnose
Eser: scandola grossa e grezza
Fliek: toppa
Folcza: picchio nero
Haka: scure
Hamar: martello
Hauta: oggi
Hert: focolare
Huta: capanna
Kal: cuneo
Kaserofan: scatola per il formaggio
Kaufa: mucchio di legna per fare il carbone
Kesal: paiolo
Kiz: formaggio
Koular: carbonaio
Kuchel: trecce
Mel: farina
Morga: domani
Nadal: ago
Nadel: ferro da calze
Negal: chiodo
Pich: lisciapiante (nome di un villaggio cimbro fondato da Matteo
Bonato, il quale era un esperto lisciapiante.)
Poserkal: piccolo cuneo legnoso
147
Puche: faggio
Pulta: polenta
Rench: anello
Roch: fumo
Sbrica: fessura
Schupe: scandole finissime
Schuzzal: scodella
Slirenar: affilare i coltelli e l'ascia
Spizmaus: topolino di bosco
Spert: chiusa, luogo stretto, ma anche sperduto
Stiga: scala tipica dell'artigiano cimbro
Straen: matassa
Stuk: schioppo
Trefer: botta
Vallorch: valle dell'uragano
Fonte: De Nale, 1984.
7.5. I "Cimbri scatoleri" del Cansiglio131
Come già accennato, i Cimbri del Cansiglio erano famosi, e lo sono
tuttora, per la loro abilità nella lavorazione del legno di faggio, attraverso la
quale si producevano vari oggetti (brent, tamisi e scatole per il
formaggio132), che venivano venduti o barattati in cambio di prodotti
alimentari. Da qui il soprannome di "Cimbri scatoleri" [Fig. XXII].
131
Cfr. Un anno con i Cimbri scatoleri del Cansiglio, Associazione Culturale Cimbri
del Cansiglio, 2000.
132
Cfr. di seguito la spiegazione delle fasi della produzione di tali oggetti e del loro
utilizzo.
148
Fig. XXII Scatole per il formaggio
Museo Etnografico di Cultura Cimbra, scatto privato
Tradizionalmente, ogni capo famiglia aveva il permesso di tagliare un certo
numero di piante di faggio, situate su una determinata porzione di territorio
e adatte alla lavorazione specifica cui i "Cimbri scatoleri" le avrebbero
destinate. Una volta stabilito il sito più consono, veniva eretta la baracca da
lavoro, contenente tutti gli attrezzi necessari al taglio degli alberi e alla
successiva lavorazione del legname, chiamata in cimbro huta.
La giornata di lavoro cominciava alle prime luci del giorno: tutta la
famiglia, in questo caso la cosiddetta famiglia "estesa" o "allargata", era
chiamata dal capofamiglia a contribuire al lavoro. Così, mentre gli uomini
preparavano gli attrezzi da lavoro, le donne e i bambini raccoglievano la
legna necessaria per accendere il fuoco, che doveva ardere per tutta la
giornata. Il capofamiglia, dopo aver scelto la pianta che un preliminare
esame visivo aveva rivelato idonea alla lavorazione, ne prelevava un tassello
allo scopo di verificare la qualità del legno, che doveva avere una fibra
parallela ed essere completamente privo di nodi interni. I boscaioli cimbri
erano incredibilmente abili nell'individuazione dell'albero più adatto alla
149
lavorazione: tale abilità era frutto di una antica esperienza, tramandata da
padre in figlio, la quale permetteva di effettuare una scelta, che poteva già
essere considerata definitiva, basata sul solo esame visivo. I Cimbri, infatti,
reputavano un gesto irresponsabile prelevare un tassello da un albero che
avrebbe potuto anche non essere idoneo, in quanto il prelievo del tassello
danneggiava irrimediabilmente il faggio, causandone il taglio prematuro.
Il capofamiglia, con l'aiuto del cimbro più anziano ed esperto,
procedeva quindi al taglio del faggio, utilizzando una attrezzo chiamato
segon (una grande sega). Una volta abbattuto, l'albero veniva ripulito dai
rami, che donne e bambini avevano il compito di raccogliere, e sezionato in
vari elementi, chiamati zoncole, di diverse dimensioni, che a loro volta
venivano sezionate in tante assicelle, chiamate aster. Tutto il legname
veniva poi trasportato nella capanna degli attrezzi, la huta, e con il
sopraggiungere della prima neve il taglio degli alberi veniva sospeso. A
questo punto, si cominciava la lavorazione del legname accumulato nella
huta; tale attività continuava fino a primavera inoltrata. Solitamente, l'uomo
più anziano aveva il compito di squadrare le assicelle di faggio (aster), per
dare loro una forma il più regolare possibile. Il capofamiglia era impegnato
al banco da lavoro (zoc da s'ciapàr), costituito da due cavalletti sui quali
poggiava un grosso tronco squadrato con tre incavi centrali e due laterali
incisi sulla sua superficie. Questo tavolo da lavoro serviva per lavorare
ulteriormente le varie assicelle di legno, che erano state precedentemente
squadrate dal cimbro più anziano: ogni aster veniva sezionata in sedici
assicelle sottili le quali, in un secondo momento, venivano rese uniformi
attraverso un lavoro di lisciatura (s'ciapàr). Una volta terminata l'operazione
di lisciatura, le assicelle di legno venivano messe ad asciugare al sole, nei
pressi della huta. Quando le condizioni atmosferiche lo permettevano, il
capofamiglia faceva accendere il fuoco vicino al suo tavolo da lavoro, sul
quale era stato installato il piegador, un attrezzo dotato di un rullo dentato e
azionato da una manovella, che serviva a dare forma circolare alle assicelle
di legno, scaldate preliminarmente sul fuoco. Le assicelle circolari così
ottenute venivano utilizzate per confezionare svariati oggetti: i brent erano
madie di legno dotate di coperchio, usate come contenitori; le scatole per il
formaggio, richieste dai malgari e i tamisi, setacci di varie dimensioni.
Scatole per il formaggio, brent e tamisi venivano venduti o barattati
nel villaggi vicini: per ogni brent, ad esempio, venivano barattati quattro
chili di fagioli e per ogni scatola da formaggio, si poteva ricevere in cambio
mezzo chilo di formaggio. Il compito di vendere o di barattare i propri
prodotti era riservato al capofamiglia, il quale partiva ogni mattina prima
dell'alba e faceva ritorno solo quando aveva esaurito la merce, che gli era
costata tanto lavoro.
150
7.6. Storie e avventure dei Cimbri del Cansiglio
Di seguito sono riportate alcune storie e avventure che hanno come
protagonisti i Cimbri del Cansiglio: si tratta di storie, realmente accadute,
che venivano raccontate dalle donne anziane durante i filò serali. Lo
scrittore Mario De Nale, nel suo libro Cansiglio <<terra cimbria>> (1984),
presenta un gran numero di queste storie; ho scelto le più rappresentative,
quelle che, secondo la mia opinione, riescono a trasmettere un'idea più
precisa di quella che doveva essere la vita dei Cimbri in Cansiglio:
La lunga attesa
Tutto filava bene in casa Gandin, finché era in vita il vecchio Luigi,
ma quando questi morì, le cose andarono per un altro verso. Il figlio
Serafino Giobatta si era fidanzato con una simpatica biondina di Pala,
Osvalda Bortoluzzi, e da qualche tempo si parlava pure di matrimonio. Ma
ecco che, qualche giorno dopo la morte del padre, in una sera di grande
bufera, egli si presentò in casa di Osvalda più nero della bufera, taciturno,
sconsolato: e ce ne vollero di premure per fargli aprire la bocca. Il fiato
affannoso, lungo e lento fece dunque uscire le parole fioche e sorde, ma che
tuonarono alle gentili orecchie, così da passare al dolce cuore, per far
comprendere il dramma, in tutta la sua entità, alla ragazza: <<Domani
partirò per il Brasile!>>. Un pietoso sguardo, una lunga pausa e poi la
benigna risposta: <<Ed io!>>. Ancora una pausa e, quindi, la
conclusione: <<Me ne starò dieci anni: poi ritornerò e, se attenderai,
allora ti sposerò>>. Giunse in Brasile per passare poi a Montevideo, dove
fece il cuoco e accumulò fior di quattrini. Trascorsi dieci anni esatti, come
tiepida carezza, giunse ad Osvalda il desiato appuntamento: <<Aspettami a
metà del tratto che dal bivio per Spert si collega alla strada che da Broz va
a Tambre133>>. L'incontro fu dei più felici: a Pasqua si sposarono e vissero
felici. (p. 133)
Il lupo in agguato
Anche se la luna non aveva ancora fatto la sua comparsa
all'orizzonte, la notte era rischiarata dalla limpidezza di miriadi di stelle,
tanto da consentire un passo sicuro al viandante che osasse cimentarsi nel
sentiero della foresta. Un leggero e pungente venticello, spirante da
tramontana, annunciava che la giornata di quel tardo autunno sarebbe
stata fredda ma anche bella, e quindi il cimbro Cristiano Zenobio Azzalini,
controllata la lancetta dell'orologio che segnava le quattro, si vestì, accese
133
Spert, Broz e Tambre sono centri abitati, situati nella Foresta del Cansiglio.
151
l'esca, sistemò il voluminoso carico di brent e crivelli sulle larghe e
quadrate spalle e, lasciando dietro di sé i casoni di Val Bona, si avviò
lentamente verso Farra nella direzione di Palughetto, come di consuetudine
con l'orecchio sempre attento se qualche indiscreto intruso gli si
accompagnasse.
E l'intruso (un lupo), come se già da tempo avesse atteso in
agguato, non tardò a seguirlo da vicino, ma non al punto di aggredirlo,
perché il lume dell'esca lo disturbava. Non si spaventò comunque il cimbro,
forse anche uso a sorprese del genere, e nel silenzio della notte raramente
turbato dalle ultime foglie cadenti del faggio, continuava il suo passo senza
nemmeno girarsi per accertare se fosse uno solo o se fossero invece diversi:
l'esca infuocata era per lui un'arma fin troppo sicura per difenderlo da quei
selvatici e famelici quadrupedi, oltremodo timorosi del fuoco. Anche se
ridotta a semplice fiammella, l'esca era alimentata dal soffio persistente del
venticello e ardeva più del solito, minacciando così di consumarsi prima del
giorno, anche se doveva essere abbastanza prossimo. Il pericolo fu subito
intuito dall'accorto artigiano del legno, che allungò il passo per poter
raggiungere almeno la stretta salitella di Campon, la quale poteva offrire
validi vantaggi a suo favore e incolmabili svantaggi al lupo. Raggiunto
quindi il culmine della salita che immetteva al pianoro di Palughetto,
ripose il suo carico sistemandolo davanti a sé come un muro difensivo e
attese che la fiaccola fattasi ormai labile si spegnesse per sempre. Furono
attimi di attesa nel più assoluto silenzio: alto e immobile dietro a quel muro
di <<skatui>>134, con la mano alzata abbracciante un bastone, egli
guardava la grossa bestiaccia posta di traverso al sentiero a una decina di
metri di distanza con la testa bassa, essa pure silenziosa, immobile e scura.
Come l'esca si spense, il lupo rispose con un ululato talmente lungo da far
supporre che si trattasse di un richiamo del branco. Si girò quindi il lupo
verso l'uomo, nella posizione di testa a testa, osservò quello strano
muricciolo alto poco più di mezza persona come per prendere la misura del
salto in quel punto reso obbligatorio e mosse finalmente deciso verso di lui,
il quale per nulla intimorito gli rotolò giù un crivello135 che, investendolo
alle zampe, lo fece indietreggiare disorientato e imbarazzato. Dopo una
specie di breve ripensamento, con maggior decisione, senza tuttavia
prorompere in ululati di bramosia famelica, riprese l'attacco, ma un altro
crivello lo rimandò, allo stesso modo, al punto di partenza. E la curiosa, ma
prodigiosa cerimonia continuò fino all'apparire del giorno salvatore, che
indusse il vorace carnivoro a scomparire nel bosco, lasciando
definitivamente la preda agli indisturbati passi. (pp. 139-140)
134
Sono le scatole per il formaggio, i brent e i tamisi.
Assicella di legno di faggio.
135
152
L'orologio della Pasqua
Quel limpido mattino del sabato santo, la Ermilia di Romano
rimase alquanto sorpresa allorché, aprendo la porta per portare il
becchime ai tacchini, si vide davanti alla casa i venti giovani del villaggio,
quasi tutti sulla ventina. <<Ma guardali, come sono bene attillati questa
mattina!>> osservò incuriosita. Quindi chiese: <<Dove andate così bene
attillati?>>. <<Andiamo a Vittorio Veneto, a comperarci l'orologio per
domani>>, disse Giulio, l'organizzatore della sortita. Seguì quindi un
fischio e poi eccoli tutti in corsa giù per la stradina.
Un'ora più tardi il gioioso drappello, che ha da poco superato la
Val Salega, è allineato sul ciglio della strada ad osservare il panorama
novello del piano. Tutto è silenzio, l'emozione sembra aver chiuso a tutti la
bocca. Ogni tanto qualcuno alza il braccio ad indicare con l'indice un
campanile, un paese, una fascia azzurra che si perde lontano nell'orizzonte:
sono cose che prima di allora potevano essere soltanto nell'immaginazione;
era infatti la prima volta che i giovani cimbri uscivano dalla foresta. Verso
sera, dopo lunghe ore trascorse a gareggiare alla <<mora>> in un'osteria
di Fregona con quelli di là, risalgono la strada che li riporta a Vallorch, e
ognuno di loro, ogni tanto, toglie l'orologio dal taschino e lo accosta
all'orecchio per goderne il tic-tac." (pp. 135-136)
153
154
Conclusioni
Un grande viaggiatore contemporaneo136 ha paragonato il mondo a un
mosaico: innumerevoli popoli, diverse culture, lingue, concezioni
metafisiche, politiche e filosofiche rappresentano i tasselli che lo
compongono. Un holon organico e complesso dunque, governato da una
regia misteriosa e dotato di un'armonia interna. Armonia che l'inarrestabile
diffusione del progresso informatizzato e massificante, che la vulnerabilità
di molte popolazioni che cedono, a volte soccombendo, di fronte
all'illusione di un futuro senza povertà (futuro che tale progresso facilmente
promette, sovente dimentico dei propri limiti) e che, ancora, l'arroganza
etnocentrica di tanta parte della cosiddetta "civiltà occidentale" e la
presunzione di molti di poter rendere tutto "globale" e tutto accessibile
rischiano di annullare, con conseguenze assolutamente non prevedibili.
L'intento fondamentale della presente indagine, sia chiaro, non è stato
certo quello di rinnegare o di rifiutare ostinatamente tutto ciò che la civiltà
contemporanea elabora e propone: la "diffusione delle innovazioni", e tutto
ciò che essa comporta, è un fenomeno inevitabile, auspicabile anche e non
necessariamente negativo anzi, spesso, positivo. Semplicemente, si è voluto
proporre una riflessione critica sulla realtà attuale, consapevolmente
personale, meditata alla luce di quanto appreso dalla disciplina geografica in
generale e dalla geografia culturale in particolare.
Attraverso l'indagine sul popolo cimbro, si è voluto fornire un
esempio, concreto e tangibile, di quanto ancora sia necessario non perdere di
vista il concetto di diversità culturale, sinonimo di ricchezza culturale. Solo
attraverso la consapevolezza del molteplice e dell'altro da sé è possibile
mantenere un atteggiamento cauto di fronte a ogni facile entusiasmo
globalizzante: non deve essere per forza tutto "globale" e tutto accessibile.
Quando, a partire dalla fine del XV secolo, i viaggi e le scoperte
geografiche stravolgono, ampliandola, la rappresentazione del mondo nella
quale l'uomo medievale aveva fino ad allora creduto, ebbene, in quel
momento avviene la prima europeizzazione di quelle terre incognite, di cui
sovente si favoleggiava. Non si intende, in questa sede, aggiungere altre
parole a quelle che già sono state dette o scritte a proposito di tutte le stragi
di popoli spesso inermi che, in nome della conoscenza, del progresso e della
ricchezza, sono state compiute dal "civilizzato" uomo europeo. Quello che,
invece, preme sottolineare è che, a partire da questa prima europeizzazione
(quasi un preludio dell'attuale globalizzazione), si è avviata una sorta di
"desacralizzazione" di tanti luoghi e di tante culture del mondo: la volontà di
136
Mi riferisco al Prof. Giacomo Corna Pellegrini.
155
rendere ogni luogo e ogni cultura accessibile comporta, da sempre, il rischio
di danneggiare profondamente quel luogo e quella cultura137.
Come si è avuto modo di affermare nel secondo capitolo, uno dei
problemi principali affrontati dalla geografia culturale, ma anche dalla
geografia delle lingue, riguarda quello relativo alla tutela delle minoranze
etnico-linguistiche e la popolazione cimbra, grazie all'approvazione della
Legge n. 482 del 15.12.1999, è stata formalmente e legalmente riconosciuta
(insieme alle altre minoranze presenti sul territorio nazionale) come
"minoranza etnica". Tuttavia, nei capitoli dedicati alle genti cimbre, è stato
possibile testimoniare come la tenace volontà di salvaguardare la propria
peculiarità culturale sia stata manifestata molto tempo addietro e,
soprattutto, dai Cimbri stessi. Fin dagli anni Settanta, infatti, i Cimbri
decidono di promuovere la fondazione di enti e di associazioni votati alla
tutela del loro patrimonio linguistico e culturale: grazie alla lungimiranza e
alla sensibilità di pochi, è stato così possibile mantenere viva la cultura
cimbra che appartiene non a molti, ma all'umanità tutta.
Durante il viaggio attraverso i luoghi di insediamento cimbro, ho
avuto occasione di incontrare persone diverse, ma tutte accomunate da un
unico, grande obiettivo: la difesa della cultura cimbra. Grazie
all'impareggiabile aiuto di queste persone, è stato possibile approfondire la
conoscenza di un microcosmo linguistico e culturale assolutamente ricco e
vario. Motivo di grande interesse personale è stata la lettura delle
testimonianze appartenenti alla letteratura popolare cimbra e, proprio per
contribuire alla salvaguardia della lingua cimbra, si è voluto riportare,
accanto alla traduzione in lingua italiana, anche il testo nell'idioma
originale.
Tra gli svariati luoghi visitati (Giazza, Selva di Progno, Roana,
Asiago, Rotzo, Vallorch, Pich, Pian Osteria, Le Rotte e Luserna), uno in
particolare ha trasmesso grande emozione: Luserna, un minuscolo comune
situato sul confine sud-orientale tra Trentino e Veneto, abitato da 300
Cimbri, gli ultimi.
137
Un concetto del tutto simile, anche se specificamente riferito alle popolazioni
tribali, è espresso da J Bodley nel suo testo Vittime del progresso (1991). L'autore,
infatti, afferma:
"É generalmente riconosciuto che il processo di civilizzazione
colpisce in modo drastico le popolazioni tribali, i cui modelli culturali
vanno scomparendo al suo avanzare, e che uguale sorte è in molti casi
riservata alle popolazioni stesse. [...]
Questo libro si propone di rimuovere le diffuse ed erronee
concezioni etnocentriche sulla scomparsa delle culture tribali e di
focalizzare l'attenzione sulle cause di fondo del fenomeno, che
denunciano l'esistenza di gravi problemi all'interno della stessa
cultura industriale e che devono quindi essere ben comprese prima
che il mondo si sia sbarazzato di tutte le diversità culturali." (p.37)
156
Infine, vorrei dedicare ancora qualche parola all'incantevole sito che
ha ispirato la presente tesi: la Foresta del Cansiglio. É stato l'ultimo luogo
che ho visitato, ma che già conoscevo bene, durante il mio già citato viaggio
e la scelta di visitarlo per ultimo non è stata casuale, ma è dipesa dalla mia
volontà di voler seguire, cronologicamente, le peregrinazioni del popolo
cimbro. Il bosco del Cansiglio, come affermato nel terzo e nel settimo
capitolo, è stata infatti l'ultima tappa del cammino dei Cimbri: un cammino
durato quasi mille anni, un cammino attraverso regioni difficili, impervie e
isolate. Il bosco, luogo che, da sempre, i popoli più diversi hanno investito
di significati simbolici, rappresenta un elemento naturale costante nelle zone
che i Cimbri hanno scelto di abitare.
E così, ancora oggi, quando nelle scuole elementari di Fregona (TV)
si chiede ai bambini di scrivere un pensiero sui boscaioli cimbri, è possibile
leggere poesie come la seguente:
"Il bosco è la casa del Cimbro,
il tetto è il cielo,
le finestre gli spazi tra le foglie
e le porte
le ha rubate il vento"138
Questi brevi versi, scritti da un bambino di nove anni, permettono di
sperare che, anche in un futuro globale, ci sarà sempre qualcuno in grado di
comprendere il molteplice e l'altro da sé.
138
Fonte: Associazione Culturale Cimbri Cansiglio, 2000.
157
158
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