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INDICE Prefazione di Francesco Vallerani p. 7 Introduzione p. 11 Capitolo primo: Elementi di geografia culturale p. 15 1.1. Evoluzione storica della geografia culturale 1.2. Definizione e paradigmi della geografia culturale 1.3. Definizione e strumenti di analisi del paesaggio culturale 1.4. I beni culturali p. 15 p. 16 p. 22 p. 24 Capitolo secondo: Le minoranze etnico-linguistiche p. 27 2.1. L'interesse geografico per le lingue 2.2 Fondamenti di geografia delle lingue 2.3. La comunità etnica 2.4. La salvaguardia di lingue e di culture "minoritarie" 2.5. Le comunità alloglotte del territorio italiano: problemi e prospettive p. 27 p. 30 p. 32 p. 36 Capitolo terzo: Origine e percorsi del popolo cimbro p. 41 3.1. Le ipotesi sull'origine del popolo cimbro 3.2. I percorsi del popolo cimbro p. 41 p. 53 Capitolo quarto: Asiago Sette Comuni p. 57 4.1. Analisi geografica e territoriale dell'Altopiano di Asiago 4.2. I Cimbri dei Sette Comuni Vicentini: analisi storica e situazione attuale 4.3. Visita all'Istituto di Cultura Cimbra di Roana 4.4. Il dialetto cimbro dei Sette Comuni Vicentini 4.5. La letteratura cimbra dei Sette Comuni Vicentini 4.6. Credenze mitiche e credenze popolari nell'immaginario collettivo dei Cimbri p. 57 Capitolo quinto: Il Comune di Luserna p. 85 5.1. Analisi geografica e territoriale dell' Altopiano di Luserna 5.2. I Cimbri di Luserna: analisi storica e situazione attuale 5.3. Visita al Centro Documentazione di Luserna p. 85 p. 90 p. 95 p. 37 p. 62 p. 67 p. 72 p. 76 p. 82 5 5.4. Luserna: ultima roccaforte del Taitsche Sproche 5.5. Tradizioni luserne p. 98 p. 104 Capitolo sesto: I Tredici Comuni Veronesi p. 107 6.1. Analisi geografica e territoriale del Parco Naturale Regionale della Lessinia p. 107 6.2. I Cimbri dei Tredici Comuni Veronesi: analisi storica e situazione attuale p. 113 6.3. Visita al Museo dei Cimbri di Giazza p. 117 6.4. Attività tradizionali: la giassàra, la calcàra, la carbonara p. 119 6.5. Sculture popolari sacre nell'area dei Tredici Comuni Veronesi p. 127 6.6. Il Taucias Garëida p. 130 Capitolo settimo: I Cimbri del Cansiglio p. 135 7.1. Analisi geografica e territoriale della Piana del Cansiglio 7.2. I Cimbri del Cansiglio: analisi storica e situazione attuale 7.3. Visita al Museo Etnografico di Cultura Cimbra di Pian Osteria 7.4. Vocaboli e toponimi cimbri 7.5. I "Cimbri scatoleri" del Cansiglio 7.6. Storie e avventure dei Cimbri del Cansiglio p. 135 p. 140 Conclusioni p. 155 Bibliografia p. 159 p. 144 p. 147 p. 148 p. 151 6 Prefazione di Francesco Vallerani All’interno del discorso geografico culturale è possibile avvalersi di suggestivi strumenti interpretativi provenienti dalle altre scienze umane. Si tratta di utilizzare un multiforme patrimonio metodologico che consenta di indagare i fatti territoriali andando oltre il semplice susseguirsi delle apparenze e quindi addentrarsi tra le sfumature di senso che giacciono, troppo spesso trascurate e invisibili, tra le certezze delle narrazioni geografiche tradizionali. L’interesse per la distribuzione territoriale degli aspetti culturali di un dato gruppo umano apparenta in modo evidente la geografia alle discipline antropologiche. Ciò significa avviare non solo attente riflessioni metodologiche, ma rivedere anche lo stesso statuto epistemologico della disciplina. E su questo fondamentale aspetto non è mancata da parte di Alice Giulia Dal Borgo una sintetica, ma accurata, introduzione ai possibili e affascinanti percorsi della geografia culturale. Conoscendo la particolare e profonda affezione – o “topofilia” come direbbe Yi Fu Tuan – dell’Autrice nei confronti dei luoghi evocati in questo saggio, è quasi automatico soffermarsi su come l’approccio geoculturale tenda spesso a coinvolgere in modo totale le percezioni dello studioso, rinnovando il potere esplicativo dell’osservazione partecipante codificata da Bronislaw Malinowski tra i “suoi” isolani delle Trobriand già nei primi decenni del secolo scorso. In questo caso le identità linguistiche e culturali dei Cimbri del Veneto costituiscono le coordinate per l’identificazione di una peculiare geografia mentale, che è certamente un patrimonio condiviso non solo tra le comunità prealpine che ancora conservano i segni materiali e immateriali di quella specificità culturale, ma anche tra coloro che si avvicinano per la prima volta a quei luoghi, per lo più a seguito di motivazioni connesse alla residenzialità turistica. Ma il rigoroso impegno di “evidenziare la necessità di preservare, di non dimenticare e di non temere la ricchezza della diversità” conduce la narrazione di Alice Giulia Dal Borgo un po’ al di fuori dall’estatico flusso geo-poetico delle immagini e del tumultuoso addensarsi delle sensazioni evocate dalle specifiche suggestioni dei luoghi, e in particolare il Cansiglio, dove ancora allignano profonde le radici esistenziali dell’Autrice. In questo saggio, così articolato e preciso nel presentare la ricca sedimentazione di una territorialità marginale e relitta, prevale infatti un efficace e solido approccio disciplinare, del tutto immune dalla presunzione di offrire al lettore esplorazioni poetiche dei luoghi, con il rischio di ricadere in rischiosi atomismi autobiografici, nonostante che Eric Dardel abbia elaborato già negli anni ’50 del Novecento la legittimazione delle intuizioni soggettive, vera essenza di ciò che si è soliti definire “spazio vissuto”. Eppure la citazione nel testo di alcuni racconti brevi di Mario De Nale, ma 7 anche di poesie, evocanti lo specifico contesto culturale cimbro, stanno a indicare la presenza di un altro tipo di memoria dei luoghi, e cioè le infinite e anonime biografie rinvenibili tra gli abitanti, nella maggior parte dei casi irrimediabilmente disperse se non si ricorre al loro recupero grazie agli stimoli suscitati da un curioso e paziente colloquio davanti a un registratore. I Cimbri nel Veneto dei Veneti, nella regione del progetto istituzionale per la tutela delle tradizioni locali, dove l’assessorato alla cultura non si accontenta di una generica dicitura, ma enfatizza che qui la cultura è strettamente legata all’Identità Veneta, con le iniziali maiuscole. L’eredità della Serenissima, il valore aggiunto di una venezianità di Terraferma, ma anche il mito del Medioevo, con le città murate qui così numerose come in nessun’altra regione europea: da Cittadella a Castelfranco, da Soave a Montagnana, da Marostica a Bassano e poi Conegliano, Collalto e Susegana. L’odierno individualismo del modello economico, i suoi successi, ma anche gli evidenti rischi di un irrimediabile declino. Le ferite al paesaggio, non solo fisionomiche, ma anche strutturali e alla qualità ambientale. Di tutto ciò bisogna tenere conto per capire appieno il ruolo di un impegno di ricerca dedicato alle nicchie geo-antropiche dei cimbri. Non credo si tratti di uno sforzo antiquario o, nella migliore delle ipotesi, di sana nostalgia attivata contro gli effetti nichilisti dell’oblio. Il lavoro della Dal Borgo può essere visto come una opportunità per riflettere sugli effetti negativi della brusca rottura con il passato rurale, con la civiltà legata al settore primario, in questo caso la realtà produttiva dei boschi e dei pascoli prealpini, da valutare ben oltre i ristretti confini dei microcosmi tra Lessinia e Cansiglio evocati nel testo. Qui, come in gran parte dei settori montani all’interno dei paesi più industrializzati, dai Pirenei alle Highlands, dal Giura agli Appalachi, le più attraenti opportunità economiche sviluppatesi nelle vicine pianure a partire dal secondo dopoguerra hanno condotto all’esodo rurale, producendo il trauma del trasloco dei nuclei familiari, la dispersione delle unità patriarcali, le alterazioni delle socialità di villaggio, la perdita della rassicurante eredità delle culture vernacolari e linguistiche e, nei fondo valle, il dilagare delle lottizzazioni artigianali e residenziali. Il contrasto tra ciò che resta della realtà cimbra e le vigorose dinamiche socioeconomiche attive nella sottostante pianura veneta è fin troppo evidente, anche se le pagine che seguono possono ritenersi un tentativo ben riuscito per frenare la continua dispersione di microstorie individuali che vanno di pari passo con l’obsolescenza formale e funzionale di specifiche strutture insediative e paesaggistiche. Non resta che sperare nel recente affermarsi del fascino del dimesso o di strategie di governo dei luoghi animate dalla sostenibilità turistica o della ricerca del pittoresco nostrano da intendersi come icona di una migliore qualità della vita. E infatti, nelle sere invernali, provenendo dalla brulicante e fitta luminosità della pianura di Vittorio Veneto, la visione più palese per capire l’estensione della città diffusa, l’isolato e fioco luccicare delle finestrelle di Montaner, o della 8 borgata di Piai, pensando al Bachelard della Poetica dello spazio, è ancora in grado di inviare messaggi di misteri e di antiche consuetudini, con il paesaggio olfattivo di focolari accesi e minestroni rustici che gorgogliano sulle cucine economiche, accrescendo in chi osserva il senso di intimità e di poesia dell’abitare. 9 10 Introduzione Al principio dell'ultimo novembre del XX secolo ho avuto modo di riflettere sui contenuti di una ricerca di geografia culturale, su quale sarebbe potuto essere lo scopo di uno studio del genere e su chi sarebbero potuti essere i protagonisti di tale indagine. Le risposte a siffatti quesiti erano già dentro di me, ma ancora non ne ero consapevole: solo dopo qualche giorno, in seguito a un breve soggiorno nel piccolo comune di montagna che ha dato i natali a mio nonno (Quers d'Alpago), mi è improvvisamente tornato alla memoria il ricordo dei racconti del nonno sui boscaioli che vivevano nella vicina Foresta del Cansiglio: lavoravano il legno fino a sera e la gente dell'Alpago, in grado di avvertirne l'alterità culturale, ma forse non di comprenderla fino in fondo, li chiamava "zhimber"1. Lo scopo più urgente della presente ricerca di geografia culturale è quello di evidenziare la necessità di preservare, di non dimenticare e di non temere la ricchezza della diversità, sia essa etnica, linguistica, culturale, politica o religiosa. Proprio per raggiungere tale scopo, si è deciso di studiare, sia dal punto di vista geografico (e geografico-culturale) che da quello storico, le vicende di uno dei numerosi gruppi etno-linguistici presenti sul territorio italiano: i Cimbri. Il volume consta di sette capitoli, ogni capitolo è composto da più paragrafi, per meglio contestualizzare gli innumerevoli ambiti di ricerca che caratterizzano l'argomento di analisi. Nel primo capitolo, intitolato Elementi di geografia culturale, si analizzano le fondamentali tematiche indagate dalla geografia culturale: partendo dallo studio della sua evoluzione storica come disciplina geografica, si affronta la questione relativa alla definizione della geografia culturale stessa e alla sua differenziazione rispetto alla geografia umana; inoltre, si esaminano i paradigmi principali della geografia culturale, prestando particolare attenzione ai concetti di "acculturazione", di "diffusione delle innovazioni", di "paesaggio culturale" e di "bene culturale". Il secondo capitolo, intitolato Le minoranze etnico-linguistiche, tratta dell'interesse della geografia per le lingue, in quanto elementi di differenziazione culturale tra i popoli della Terra, e della differenza tra la geografia linguistica (appartenente all'ambito delle scienze glottologiche) e la geografia delle lingue (interessata al sostrato culturale di cui la lingua stessa è espressione fondamentale). Una parte del capitolo, inoltre, affronta i problemi studiati dalla geografia delle lingue, nonché le metodologie di cui tale disciplina si avvale nel corso delle proprie indagini. Spunti di riflessione della geografia delle lingue riguardano, ad esempio, il problema relativo al 1 Il termine significa "cimbro" in dialetto bellunese (alpagotto). 11 rapporto tra l'origine delle lingue europee e l'evoluzione dei popoli europei, i problemi di classificazione delle lingue, la toponomastica di determinati luoghi, i processi culturali che portano alla scomparsa delle aree linguistiche minori e, infine, le problematiche relative alle minoranze etnico-linguistiche, con particolare riguardo nei confronti delle comunità alloglotte presenti sul territorio italiano. Grande attenzione, infine, si dedica al concetto di "comunità etnica", fondamentale per la comprensione delle diversità linguistiche e culturali. Con il terzo capitolo, e i seguenti, dal titolo Origine e percorsi del popolo cimbro, si entra nel vivo del caso di studio. Il terzo capitolo tratta della controversa questione, e non ancora definitivamente chiarita, relativa alle origini delle genti che hanno abitato, e che in parte ancora abitano, i monti veneti e trentini. Si prendono, dunque, in esame le innumerevoli ipotesi proposte, nel corso di secoli, da studiosi e da appassionati e, in un secondo tempo, si ripercorrono i luoghi di popolamento delle genti cimbre. Nei quattro capitoli che seguono si approfondiscono le tematiche attinenti a ogni territorio, oggetto della colonizzazione dei Cimbri: ogni capitolo consta di più paragrafi, il primo dei quali è sempre dedicato all'analisi geografica e territoriale della regione esaminata, mentre il secondo è sempre dedicato all'analisi storica relativa ai nuclei di popolazione cimbra che hanno scelto di vivere in quella specifica regione. Tale indagine storica vuole approfondire non solo l'origine e l'evoluzione del popolo considerato, ma vuole anche valutarne la condizione attuale e tentare di comprenderne l'atteggiamento nei confronti del rapporto tra memoria storica e realtà presente. Il quarto capitolo, intitolato Asiago Sette Comuni, tratta delle genti cimbre che, per lungo tempo, hanno vissuto sull'Altopiano di Asiago: oggi, come facilmente intuibile, non sono rimasti che pochi discendenti degli antichi coloni cimbri. Nel capitolo si trova il resoconto della visita all'Istituto di Cultura Cimbra di Roana, avvenuta nell'agosto 2000. In questa occasione ho avuto modo di conoscere il Prof. S.Bonato, responsabile dell'Istituto e grande studioso del popolo cimbro, con il quale ho avuto una illuminante conversazione a proposito degli studi attuali sulle minoranze etnico-linguistiche presenti in Italia. Nei paragrafi successivi del capitolo, si analizzano le peculiarità del dialetto cimbro dei Sette Comuni Vicentini attraverso lo studio di quella che può essere considerata la letteratura tipica di questi luoghi. Nell'ultima parte del capitolo trova posto una disanima delle credenze mitiche e popolari dei cimbri settecomunigiani. Nel quinto capitolo, dal titolo Il Comune di Luserna, al consueto studio geografico-territoriale e storico-sociologico segue una riflessione ispirata alla particolare condizione linguistica del luogo: Luserna è, infatti, l'ultimo comune dove il cimbro è parlato e capito dalla totalità della popolazione. Come nel capitolo precedente, anche in questo caso vengono riportate alcune testimonianze in lingua cimbra, come fiabe o proverbi; ma 12 in questo caso, e solo in questo, tali testimonianze non trasmettono la sensazione di qualcosa di antico e di lontano perché ancora oggi si sentono raccontare. Il capitolo si conclude con un esame delle tradizioni tipiche del Comune di Luserna, prestando grande attenzione alle usanze e ai rituali legati al volgere delle stagioni. Nel sesto capitolo, intitolato I Tredici Comuni Veronesi e dedicato ai comuni cimbri che si trovano sui Monti Lessini, vengono ripercorse le tappe che formano la griglia interpretativa dei capitoli precedenti. Tuttavia, negli ultimi tre paragrafi del capitolo, i contenuti assumono una fisionomia aderente alla realtà specifica di questi luoghi. Nel quarto paragrafo, infatti, si analizzano le attività tradizionali, un tempo ampiamente diffuse nella zona e oggi quasi del tutto scomparse: la produzione di ghiaccio, di calce e di carbone. Il capitolo prosegue con alcune riflessioni sulle sculture popolari presenti sul territorio dei Tredici Comuni, con particolare attenzione alle antiche colonne votive in pietra tipiche della zona. L'ultimo paragrafo non solo approfondisce alcuni degli aspetti particolari del dialetto cimbro che, un tempo, tutti gli abitanti dei Tredici Comuni parlavano; ma presenta anche una breve raccolta di testimonianze di questo antichissimo idioma. L'ultimo capitolo è dedicato alla storia dei Cimbri del Cansiglio: proprio quei Cimbri che hanno ispirato la presente indagine. Quest'ultimo capitolo, intitolato appunto I Cimbri del Cansiglio, differisce dai precedenti per l'assenza di testimonianze in lingua cimbra: si trovano invece, nell'ultimo paragrafo, alcune storie e avventure realmente accadute, le quali forniscono un'idea di quella che doveva essere la vita quotidiana del tempo. Durante il viaggio attraverso i luoghi di popolamento cimbro, ho avuto la possibilità di accumulare una grande quantità di materiale fotografico: nel volume, infatti, sono stati inseriti gli scatti più significativi, personali e storici, raccolti in occasione di visite a musei e a centri culturali. Nella bibliografia sono elencati non solo i testi fondamentali della geografia umana; ma anche tutti i testi che hanno scandito le tappe del già citato viaggio: tali testi rappresentano la fonte principale e preziosa della mia conoscenza del popolo cimbro; tuttavia, contributo fondamentale e irrinunciabile per una maggiore comprensione è stato il confronto diretto con le opinioni, le paure e le speranze che la gente, di ogni luogo da me visitato, ha saputo comunicarmi. Con il presente volume non si ha certamente la pretesa di esaurire e di concludere il discorso sul popolo cimbro: il discorso sul popolo cimbro, infatti, rimarrà aperto finché i Cimbri di oggi continueranno a dimostrare la tenace volontà di conservare e di tramandare l'orgoglio della propria diversità culturale. Desidero ringraziare sentitamente il Prof. G. Corna Pellegrini per aver permesso la pubblicazione del volume e per i preziosi consigli; il Prof. G. Scaramellini e il Prof. F. Lucchesi per la disponibilità e per il sostengo. 13 Desidero, inoltre, ringraziare il Prof. G. Botta per i suggerimenti bibliografici relativi alla geografia delle lingue e il Dott. L. Bonardi per la lettera del Conte Scipione Maffei2. Ringrazio vivamente il Prof. G. Bonfadini per le preziose indicazioni glottologiche. Un ringraziamento speciale va a tutte le persone che ho incontrato durante il mio viaggio nei territori cimbri. In particolare, ringrazio il Prof. S. Bonato, responsabile dell'"Istituto di Cultura Cimbra di Roana"; il Prof. G. Molinari, direttore del "Museo dei Cimbri di Giazza"; il Dott. C. Prezzi, consulente presso il "Centro Documentazione di Luserna" e il M. Azzalini, membro del "Comitato per il Parco del Cansiglio". Ringrazio anche il Dott. A. Mainardi e il Dott. A. Pagani per la consulenza informatica, la Dott.ssa M. Carpinelli e Laura Mecca. Infine, un ringraziamento sincero al Prof. F. Vallerani, che ha voluto accompagnarmi nei percorsi della geografia culturale. Milano, Giugno 2004 2 Cfr. Capitolo terzo. 14 CAPITOLO PRIMO Elementi di geografia culturale 1.1. Evoluzione storica della geografia culturale Secondo il geografo P. Claval, il termine "geografia culturale" si diffonde inizialmente negli Stati Uniti dove, nel quindicennio precedente la Prima Guerra Mondiale, è conosciuto dai geografi americani con un preciso significato, diverso rispetto a quello attuale. Tale significato deriva dalle carte topografiche americane, nelle quali le opere dell'uomo (edifici, strade, ponti ecc.) vengono designate con la parola "cultura"; mentre la parola "natura" viene utilizzata in riferimento a particolari geomorfologici o idrografici del territorio. Le legende delle carte topografiche americane del primo Novecento sono costituite, dunque, da due serie di simboli cartografici, quelli relativi alla "cultura" e quelli relativi alla "natura", da cui avrebbe origine l'espressione "geografia culturale", che si contrappone alla espressione "geografia naturale". Inoltre va tenuto presente che, secondo le concezioni elaborate dal determinismo ambientale degli ultimi decenni del XIX secolo e dei primi del XX secolo, la cultura non è altro che la risposta data dall'uomo in reazione agli stimoli e alle leggi della natura. Solo dopo il primo conflitto mondiale, tra gli anni Venti e Trenta, si assiste all'evoluzione del concetto di geografia culturale, il quale inizia ad acquisire il significato attuale. Una tale evoluzione si registra sia in Germania, attraverso gli studi di Siegfried Passarge, sia negli Stati Uniti, grazie alle teorie di Carl Ortwin Sauer e dei suoi allievi della scuola californiana di Berkeley. Dal 1931, anno della pubblicazione di un articolo di Sauer sulla Cultural Geography, il rinnovato concetto di geografia culturale comincia a circolare nell'America del Nord e trova la sua prima applicazione empirica in un lavoro di Jan O. M. Broek sulla Santa Clara Valley (1932). Carl O. Sauer può essere considerato il padre fondatore della geografia culturale in quanto autore di un lavoro pioniere, datato 1924 e intitolato The survey method in geography and its objectives, dove, per la prima volta in America, viene presa in esame la concezione di paesaggio culturale3. Il geografo M. Ortolani, in contrasto con Claval, si oppone fortemente all'opinione che considera gli Stati Uniti la patria natale della geografia culturale, negando inoltre alla scuola nordamericana il merito di 3 La concezione di paesaggio culturale è ampiamente e dettagliatamente analizzata da Sauer nel saggio del 1925 intitolato The morphology of landscape. 15 aver scoperto tale disciplina. Merito che Ortolani riconosce alla scuola tedesca: egli, infatti, afferma che il termine Kulturgeographie è presente nella letteratura geografica tedesca sin dal 18454. Secondo Giuliana Andreotti, il motivo per cui Claval e Ortolani hanno espresso due pareri diametralmente opposti è dovuto essenzialmente alla eterogeneità della nozione di geografia culturale: "...probabilmente Ortolani mette al centro del concetto sunnominato il fattore spirituale che per la scuola americana sembra secondario. Se il termine di Kulturgeographie viene coniato nel 1845, tale termine sembra logico derivi da quella fucina spirituale che fu il Romanticismo, in specie quello tedesco." (Andreotti G., 1994, p. 55) Tra le due guerre mondiali, "paesaggio culturale" e "geografia culturale" diventano espressioni fondamentali verso cui si indirizza l'attenzione crescente dei geografi tedeschi: tra di essi vanno ricordati Norbert Krebs, Alfred Hettner e, in particolare, Siegfried Passarge, caposcuola della Landschaftskunde che studia le forme e gli aspetti di un'area, in base sia alla sua struttura interna, sia agli agenti esterni (vegetazione, azione umana). Agli studi geografici nordamericani e tedeschi, relativi alla geografia culturale e allo studio del paesaggio culturale, vanno aggiunti quelli francesi: i geografi francesi ritengono, infatti, il paesaggio caratterizzato non solo dalla natura, ma soprattutto dalla storia e dalla cultura dell'uomo. Inoltre alcuni studiosi, tra cui Max Sorre, P.L. Michotte e Lucien Febvre, tendono a identificare la geografia tout court come scienza del paesaggio, identificazione che resiste fino alla fine degli anni Sessanta. Gli anni Sessanta rappresentano un periodo di momentaneo declino della geografia culturale, che viene accusata di passatismo. Oggi gli studi di geografia culturale vivono una nuova stagione di fioritura: la riflessione sulla diversità è oggigiorno una necessità irrinunciabile, un prerequisito necessario per la comprensione e il rispetto dell'altro da sé. 1.2. Definizione e paradigmi della geografia culturale La geografia culturale è una disciplina dedicata allo studio delle diversità che i popoli del pianeta manifestano esprimendosi, sviluppando una concezione metafisica e seguendo determinati stili di vita (way of life, genre de vie) in rapporto a una porzione di territorio che, conseguentemente alla presenza dell’uomo, diviene regione culturale. La geografia culturale, dunque, indaga e studia le espressioni della cultura sulla superficie terrestre, 4 Ortolani M., Geografia della popolazione, Padova, Piccin, 1992. 16 espressioni che comprendono sia la cultura materiale, sia l’insieme dei valori non materiali tipici di una data società. Il compito principale di un’analisi di geografia culturale è quello di contestualizzare ogni cultura nello specifico ambito territoriale, ottenendo, come risultato di una tale contestualizzazione, un vero e proprio mosaico di unità culturali. Tale opera di assegnazione di un tratto di superficie terrestre a una certa cultura (o viceversa) può avvenire su quattro livelli di scala geografica: lo spazio nazionale, la regione culturale, l’area culturale e la comunità. Lo spazio nazionale rappresenta la dimensione spaziale più ampia e, nel contempo, maggiormente visibile: esso è caratterizzato da una sostanziale uniformità culturale fondata talvolta dall’unità di religione, ma più spesso dall’unità di lingua; inoltre, il popolo che abita lo spazio nazionale esprime la consapevolezza di appartenere a una specifica e autonoma identità culturale (e politica) e tende a escludere interferenze da parte di gruppi diversi. Lo spazio nazionale, quindi lo Stato, basa la propria unità non esclusivamente sul potere politico, ma anche su un processo di assimilazione culturale che porta all’uniformazione dei modelli di comportamento ma che, allo stesso modo, stimola reazioni centrifughe di matrice regionalista. Assai più complesso risulta fornire una definizione di regione culturale: infatti, i confini concettuali tra regione culturale e area culturale tendono a dissolversi fino a perdersi del tutto. Nel suo testo Geografia Umana (1996), C. Caldo definisce la regione culturale come “…un’area uniforme, abitata da gente che ha uno o più tratti culturali comuni. I suoi confini possono essere tracciati sulla carta geografica: ad esempio, il tratto di superficie terrestre in cui si parla il turco è una regione culturale, quella turca appunto, basata sul linguaggio. Se però consideriamo un altro tratto culturale, ad esempio la religione dei Turchi, l’Islam, disegnamo una regione molto vasta che comprende sia la Turchia sia molti altri paesi.” (p. 276) Tuttavia, secondo altri geografi, come G. Barbina, la regione culturale è rappresentata da una specifica Weltanschaung, dai significati che la comunità che la abita attribuisce alla vita personale e ai destini collettivi e dal consapevole senso di appartenenza a una peculiare identità etnica. Dunque, secondo G. Barbina (La geografia delle lingue, 1993): "La regione culturale è caratterizzata non solo per la presenza al suo interno di una comunità dotata di una sua propria e originale espressione culturale (che potrebbe anche non essere una lingua ma un’altra espressione mentale di forte segno come una religione), ma anche perché sul suo territorio si avverte 17 l’impronta sia dei prodotti sociali della cultura (cioè delle particolari norme che regolano i rapporti interni al gruppo), sia dei prodotti materiali che danno forma non casuale al paesaggio culturale (come le tipologie delle colture agricole, le dimore spontanee, gli attrezzi di uso comune, la foggia dell’abbigliamento ecc.)." (p. 79) Nondimeno, la definizione di regione culturale di G. Barbina è assai vicina all'idea di area culturale teorizzata da C. Caldo: "...per arrivare a delineare l'area culturale vera e propria, bisogna identificare (e tracciare sulla carta) tutto l'insieme dei tratti culturali che individuano un gruppo e che delimitano la sua area geografica. La scala dell'area è quindi per forza più ristretta di quella della regione culturale di cui sopra, e l'area stessa finisce con l'essere una parte della regione. [...] Perciò si può affermare che un'area culturale è quella abitata da un popolo con molti tratti culturali comuni e che ha trasformato l'ambiente in modo caratteristico e riconoscibile." (1996, p.277) Infine, l'ultimo dei quattro livelli di scala geografica, in base ai quali è possibile condurre un'analisi di geografia culturale, è rappresentato dalla comunità: essa è considerata dalle scienze antropologiche e sociologiche come un microcosmo, nucleo primigenio a partire dal quale si struttura una società (ad esempio la comunità di villaggio). Nell'ambito della geografia culturale, gli studi condotti sulle comunità permettono di elaborare microanalisi territoriali, fornendo al geografo la possibilità di riflettere adeguatamente non solo sul rapporto che intercorre tra l'unità di luogo e la comunità stessa, ma anche sui processi di 'innovazione' e di 'acculturazione' legati all'introduzione di nuovi modelli culturali comportamentali. Regione culturale e area culturale, dunque, come milieux territoriali nei quali si manifesta una specifica cultura: ma qual è il senso ultimo del sostantivo ‘cultura’? Il concetto di cultura, che costituisce il cardine della geografia culturale, non è certo un concetto univoco, bensì polisemico, ambiguo e relativo. Nel corso del tempo, il termine di cultura ha acquisito svariati significati: cultura come paideia (arte dell’elevazione spirituale) presso i Greci, cultura come cultura animi presso i Latini, cultura come humanitas nel pensiero rinascimentale e, ancora, cultura come civilisation nel pensiero illuminista francese, dove con civilisation si intende la capacità potenziale di ogni individuo di giungere alla cultura tramite la ragione. Proprio a partire dall’Illuminismo il concetto di cultura comincia ad arricchirsi delle cangianti tonalità cromatiche, appartenenti a un’immensa tavolozza di colori, che differenziano i popoli della Terra: avviene, dunque, il passaggio concettuale dal singolare (cioè la “Cultura” comune 18 all’umanità) al plurale (cioè una molteplicità di “culture”, ciascuna derivante da un particolare processo storico). Le scienze sociali e umane presentano due diverse accezioni del concetto di cultura: la prima, condivisa da etnologi, da archeologi e da paletnologi, considera la cultura come la sommatoria delle attività relative a un determinato gruppo umano e i prodotti di tali attività; la seconda, espressa dagli antropologi culturali, definisce la cultura come: “il modo particolare dell’uomo in quanto membro di una società di organizzare il suo pensiero e il suo comportamento in relazione all’ambiente.” (Fabietti U., Malighetti R., Matera V., 2000, p.9) Tale definizione del concetto di cultura rivela tre aspetti particolari del concetto stesso: comportamentale, cognitivo e materiale (Signorini, 1992). L’aspetto comportamentale si riferisce alle modalità di interazione tra gli individui; l’aspetto cognitivo rimanda alle idee che gli uomini hanno del mondo e agli effetti che tali idee hanno sulla comprensione del mondo; l’aspetto materiale, infine, è in relazione agli oggetti fisici prodotti all’interno di un certo contesto socioculturale. La validità metodologica dell’antropologia culturale è fondata sul necessario riconoscimento della pluralità delle culture, riconoscimento che implica la presa di coscienza della pluridirezionalità dello sviluppo storico, dimostrata dalle diverse forme di vita sociale che si sono evolute in luoghi e in epoche differenti. La profonda consapevolezza della molteplicità culturale, l’accettazione dell’alterità e della diversità non come pericolo da rifuggire o come elemento nemico da contrastare, ma come frutto della infinita ricchezza di ogni espressione umana e, infine, la volontà di indagare il non noto per meglio comprendere il noto e per rispettare ciò che può sembrare incomprensibile, ebbene tutto ciò rappresenta il comune sostrato teorico che, nonostante le differenze, geografia culturale e antropologia culturale condividono. Nel campo degli studi geografici non è ancora stato possibile raggiungere un accordo circa il concetto di cultura come specificazione di geografia in generale e di paesaggio in particolare; una tale situazione di incertezza, inoltre, rende, arduo stabilire cosa si debba intendere per geografia culturale: se lo studio e l’analisi di fatti relativi a una determinata cultura, o piuttosto lo studio e l’analisi di fatti relativi a una determinata civiltà. Problema, questo, che sembra destinato a restare insoluto, dal momento che i concetti stessi di cultura e di civiltà soffrono di un dualismo antico. Come afferma, infatti, G. Andreotti: “I concetti di Kultur e Zivilisation sono concetti ottocenteschi: furono pensati in quel periodo dell’intellettualità 19 germanica che voleva esprimere l’evidenza, anzi, l’originale evidenza di quel fenomeno tutto tedesco attraverso il quale si era giunti a impensabili raffinatezze della speculazione intellettuale. […] Pertanto è ben comprensibile che gli stessi tedeschi abbiano rivitalizzato il termine di Kultur - già forgiato intorno alla metà del 1700 - quando lo stesso termine non stava come un sostantivo qualsiasi, ma veniva riferito a un miracolo culturale ben distinto nel tempo e nella storia con pochi altri esempi nel mondo, se non quelli dell’Atene di Pericle, della Firenze di Lorenzo il Magnifico e della Francia degli enciclopedisti.” (1994, p. 34) La polisemia semantica della parola cultura influenza la letteratura geografica e la geografia stessa: nel momento in cui la disciplina geografica si interessa della cultura e diviene geografia culturale, ebbene in quel momento è possibile notare gli eterogenei risultati raggiunti dai geografi che di cultura trattano. Inoltre, la generale inadeguatezza delle concezioni riguardanti la cultura rappresenta la motivazione principale della difficoltà di spiegare e di delimitare la geografia culturale, difficoltà acuita dalla diffusa tendenza che porta a confondere la geografia culturale con la geografia umana.5 Nella letteratura geografica esistono numerose definizioni del termine di cultura; tra esse, quelle convenzionali si basano sul paradigma del genere di vita di scuola vidaliana: con l'espressione "genere di vita" Vidal de la Blache vuole indicare il complesso degli elementi materiali e spirituali di adattamento dei gruppi umani all’ambiente naturale, dunque tutto ciò che riguarda le abitudini, le tecniche, l’organizzazione sociale, politica ed economica, le credenze religiose e i modi di pensare. Carl Ortwin Sauer, fondatore, come noto, sul finire degli anni Venti della scuola di geografia culturale dell’Università di Berkeley, considera la cultura come l’impronta dei lavori dell’uomo su una certa area; dove area è intesa come regione 5 Un tentativo chiarificatore di un tale equivoco viene affrontato da C. Caldo (Geografia Umana, 1996), il quale afferma: "La geografia culturale secondo noi si ispira al concetto relativista di cultura, la geografia umana a quello universalista. [...] La concezione universalista di cultura -cultura intesa in senso antropologico o cultura popolare, che scaturisce da un intero popolo- ricerca nei fenomeni uno strato di invarianza. [...] Solo comparando tra loro regioni e popoli diversi si troveranno regole e leggi universali, esplicazione di fenomeni comuni a tutta l'umanità (geografia umana). Nel caso della geografia culturale, il punto d'approccio di tutte le analisi geografiche è invece la ricerca della diversità. Esiste una molteplicità di culture che differenziano le diverse regioni tra loro, non come fatto casuale ma in base al diverso sviluppo storico delle situazioni economico-sociali, anche perché cultura e società sono due facce della stessa medaglia. L'unica regolarità, l'unico elemento universale, è proprio il ripetersi di questa diversità culturale, tanto che la cultura stessa può essere definita come l'espressione delle diversità (e quindi delle società diverse)." (pp. 55-56) 20 dotata di tratti originali che una cultura originale è stata in grado di imprimere. Tale assunto espresso da Sauer rivela la grande influenza di Vidal de le Blache sul geografo e sulla scuola nordamericana: Vidal, infatti, parla della cultura come principale strumento di identificazione e, quindi, di differenziazione di una regione rispetto ad altre. Molto interessante è la definizione che C. Caldo dà della cultura: "La cultura è un sistema di norme create per dare all'umanità un ordine, ossia fornire uno stato meno probabile alle condizioni di disordine, nella lotta che l'uomo affronta per la vita. I singoli gruppi si differenziano per il variare di alcune di queste norme, che sono fornite attraverso un intreccio di comunicazioni spesso molto complesso. [...] Le norme possono essere forti ed esplicite (leggi, istituzioni), ma sono soprattutto valide come connotato culturale quando non sono imposte, ma condivise ed interiorizzate da tutto il gruppo." (p. 275) La geografia culturale non si occupa esclusivamente dello studio di una data cultura in rapporto a un certo luogo, ma rivolge la propria attenzione anche verso i fenomeni di 'diffusione delle innovazioni' e di 'acculturazione'. La vicinanza tra culture diverse, infatti, può comportare l'influenza dell'una sull'altra, con conseguenze di trasformazione sociale e culturale. Tale processo di contatto culturale può portare a risultati differenti che vanno da una prima fase di 'acculturazione' (durante la quale il gruppo più forte impone gradualmente le proprie caratteristiche culturali al gruppo più debole), a una fase di 'assimilazione' (le due culture diventano uguali e si trasformano reciprocamente), che può anche portare alla 'incorporazione' (la cultura più debole perde la propria originaria autonomia fino a estinguersi completamente). Il fenomeno della 'diffusione delle innovazioni' è stato studiato dal geografo svedese Torsten Hägerstrand, ideatore della 'teoria delle innovazioni': l'innovazione si diffonde in quanto l'informazione che la riguarda viene trasmessa successivamente a gruppi di persone, in un arco temporale più o meno lungo, e adottata attraverso una propagazione a ondate che coinvolge un'area sempre più vasta. Il processo che porta alla diffusione dell'innovazione è condizionato sia dalle distanze, sia dalle barriere fisiche del territorio. Tuttavia, il fattore che rallenta e ostacola maggiormente la diffusione di un'innovazione è rappresentato dalle resistenze culturali e politiche. Inizialmente il processo è lento e interessa solo una minoranza, in seguito registra una accelerazione che vede coinvolto un numero cospicuo di persone, infine rallenta e si esaurisce. Esistono tre tipi di diffusione dell'innovazione: per contatto, per rilocalizzazione, gerarchico. Nel caso della diffusione per contatto, l'espansione dell'innovazione avviene come una sorta di contagio su un territorio continuo. Nel caso della 21 rilocalizzazione, l'innovazione si diffonde in quanto "trasportata" da "portatori" (emigranti), i quali appunto stabiliscono una nuova localizzazione dell'innovazione stessa. Infine, la diffusione gerarchica comporta la trasmissione dell'innovazione da un centro maggiore a centri minori: dalla località centrale fino ai più piccoli e lontani comuni rurali. 'Diffusione delle innovazioni' (o diffusione culturale) e 'acculturazione' sono concetti simili, ma non coincidenti o intercambiabili: mentre il concetto della diffusione di un'innovazione si riferisce alla traslazione di uno o pochi elementi culturali; il concetto dell'acculturazione implica un processo di osmosi che comporta una palingenesi della cultura più debole sul modello di quella più forte. 1.3. Definizione e strumenti di analisi del paesaggio culturale "Il paesaggio culturale è il paesaggio artificiale che i gruppi culturali creano nell'abitare la Terra. Le varie culture hanno modellato i propri paesaggi sui materiali grezzi forniti dalla Terra. Ogni area abitata ha un paesaggio culturale, che modifica il paesaggio naturale, ed ognuna riflette in modo unico la cultura che l'ha creato. Il paesaggio rispecchia la cultura, e il geografo culturale può apprendere molto su un gruppo di persone proprio osservando attentamente il paesaggio. [...] Il paesaggio culturale riflette anche i diversi atteggiamenti dei popoli nell'affrontare la modificazione della Terra. In più, il paesaggio contiene notevoli testimonianze dell'origine, diffusione e sviluppo delle culture, in quanto di solito conserva forme residue dei vari tipi. [...] Studiato in modo appropriato, questa testimonianza visibile può insegnare molto all'osservatore intorno agli aspetti della cultura che restano invisibili, intorno a un passato da tempo dimenticato dagli abitanti attuali, su scelte fatte e su cambiamenti operati dai popoli." (Jordan T., Rowntree L.,1990, pp.27-28, citato in Caldo C., 1996, p. 279) Questa lunga definizione di paesaggio culturale rappresenta la posizione della scuola di geografia culturale nordamericana. Il paesaggio culturale, così definito, può essere considerato un'astrazione ottenuta isolando i segni della cultura presenti nelle forme antropogene del paesaggio stesso6. Tuttavia, un'analisi completa di geografia culturale non deve perdere di vista le relazioni con l'ambiente fisico il quale, senza voler fare del determinismo ambientale, innegabilmente condiziona le scelte dell'uomo. L'analisi del paesaggio culturale ha come scopo prioritario la rilevazione degli insiemi antropogeni che hanno un significato culturale. 6 Tali segni possiedono uno sviluppo di matrice culturale o spirituale, come una concezione religiosa, etica o politica, come uno stile architettonico o come una moda e, ancora, come un elemento etnico o sociale. 22 Un'analisi di questo tipo è incentrata su caratteri difficilmente quantificabili e, nonostante la densità delle impronte culturali non sia un fattore da trascurare, fondata su criteri qualitativi. La prima fase di un'analisi di paesaggio culturale prevede la stesura di un inventario di tutti i segni paesistici connotati da una considerevole valenza culturale (scuole, case editrici, chiese, musei, accademie, teatri, cinema, circoli culturali e politici, elementi architettonici urbani o rurali, abitazioni, edifici pubblici, giardini, foreste protette, impianti sportivi, strutture agricole, stazioni, porti, aeroporti, reticoli stradali). A tale inventario deve seguire la classificazione e aggregazione dei dati raccolti in relazione al territorio. La fase successiva è dedicata non solo allo studio e alla interpretazione genetica dei segni e delle forme culturali presenti sul territorio, ma anche all'indagine relativa alle correlazioni di tali segni con altri fatti antropici e fisici. Infine, la fase conclusiva dello studio degli insiemi paesistici culturali si basa sul tentativo di definire il significato complessivo dei paesaggi e di scoprirne i contenuti culturali dominanti, i quali costituiscono la parte essenziale dei messaggi che pervengono all'osservatore. I paesaggi culturali assumono diverse caratteristiche a seconda dei moventi che li generano: esistono, infatti, paesaggi agrari e industriali, che rispecchiano le strategie e i processi economici e produttivi di un territorio; ma esistono anche forme paesistiche che sono espressione di una volontà estetizzante (ad esempio le ville venete). Inoltre, tra le impronte paesistiche non economiche si annoverano quelle legate a fedi religiose: numerosi sono i paesaggi dominati da spiritualismo e da fervore religioso, basti pensare alle città sante, alle mete di pellegrinaggio e ai luoghi di culto collettivo (La Mecca, Lourdes, Assisi, il Monte Athos, le città tibetane ecc.). Nel corso del tempo sono sorti anche paesaggi il cui scopo primario è quello di esprimere determinate ideologie politiche, il più delle volte destinati a esaltare un potere assoluto o dittatoriale (come la reggia di Versailles, gli edifici pubblici voluti dal fascismo o le monumentali costruzioni hitleriane). Esistono anche paesaggi che sono espressione di altre esigenze: i paesaggi del turismo di massa, i paesaggi dello sport (autodromi, stadi, palestre), i paesaggi della trasmissione culturale (città universitarie europee e colleges statunitensi) e, infine, i paesaggi legati alla cultura sociale dell'assistenza, in particolare sanitaria, come le cittadelle ospedaliere. Gli strumenti adeguati tramite i quali elaborare un'analisi di geografia culturale e uno studio di paesaggio culturale sono molteplici: all'osservazione diretta dei luoghi, essenziale, deve accompagnarsi non solo l'esame della produzione geografica e parageografica (relazioni di viaggio), urbanistica, letteraria, storico-artistica, archeologica e storica attinente all'area di cui si vogliono conoscere i segni culturali, ma anche indagini di toponomastica, di geografia e di cartografia linguistica, di cartografia archeologica e generale (carte topografiche, militari, stradali e turistiche 23 costituiscono un aiuto prezioso). Non va dimenticata, infine, la fotografia, uno dei mezzi più utilizzati per acquisire la realtà. 1.4. I beni culturali Nell'ambito di uno specifico territorio possono esistere alcuni elementi che custodiscono, per gli abitanti del territorio stesso, un preciso significato simbolico. Questo dato di fatto permette l'instaurazione di un rapporto complesso e unico tra una comunità e l'area da essa abitata; rapporto che si concretizza nell'acquisizione, da parte degli abitanti, di una propria identità geografica e culturale. Svariati sono gli elementi rappresentativi che simboleggiano l'identità geografica e culturale di un gruppo: monumenti, piazze, edifici, opere d'arte, letterarie e musicali. Tali elementi vengono chiamati con il termine "beni culturali", termine il cui significato rimanda implicitamente ai prodotti della cultura "alta", prodotti da tutelare e da salvaguardare. Tuttavia, come giustamente sostiene C. Caldo: "Per introdurre un nuovo e più ampio significato del concetto di bene culturale è necessario estendere il concetto di cultura al suo senso antropologico, un valore globale che comprende i comportamenti di un gruppo, l'insieme delle comunicazioni interpersonali, le norme dell'agire sociale e i prodotti di questo. In tal modo si arriva a identificare con la cultura anche l'oggetto, inteso come segno della cultura stessa, che non è solo prodotto dalla cultura dotta. L'espressione della cultura nel suo senso geografico può quindi leggersi in un manufatto inserito nel paesaggio, nella localizzazione di un particolare oggetto costruito ed anche nello spazio stesso che diventa disegno di un'idea, materializzazione della cultura e quindi spazio culturale." (1996, pp. 285-286) Secondo C. Caldo, inoltre, lo spazio non va considerato come semplice scenario dell'azione umana, ma come sua rappresentazione, che assume in sé i valori della cultura che vi si produce. Una volta riconosciuta e accettata l'esigenza di considerare come "bene culturale" non solo il prodotto della cultura "alta", ma di tutta la cultura, si rende necessario affrontare il problema relativo alla duplice possibilità di fruizione di un bene culturale e, di conseguenza, alla doppia valenza dello stesso. Un bene culturale, infatti, rappresenta sia un fattore di identità per l'insider, sia un semplice oggetto fruibile da parte di un occasionale outsider. La percezione del luogo, evidentemente, è più complessa e completa per colui che abita il luogo stesso, che non per il casuale visitatore, il quale presta la propria attenzione all'unica caratteristica che lo ha portato in quel luogo. 24 Ciò che interessa sottolineare è il fatto che i valori simbolici di un luogo riflettono talune strutture sociali, le quali sono a loro volta legate a certi simboli culturali. Un bene culturale diventa tale in quanto elevato a simbolo di identità collettiva, ciò avviene attraverso un processo di conservazione che si sviluppa in fasi successive: da una isolata volontà di salvaguardia sostenuta da una élite intellettuale, si attraversa un momento di contrasto tra gruppi diversi, per giungere alla serena accettazione, condivisa da tutti gli strati sociali, della necessità di preservare l'"oggetto" in questione. Oggi si è soliti dare al bene culturale del passato un valore e un significato spesso divergenti da quelli che possedeva, arricchendo così il processo conservativo di nuove motivazioni sociali e culturali. Tra queste motivazioni, vi è quella che consegue a un momento di stress dovuto, solitamente, a trasformazioni ambientali. Se tali trasformazioni sono improvvise e distruttive, può verificarsi uno stravolgimento di punti di riferimento che, a sua volta, causa uno stress paragonabile a quello fisico o nervoso. Tale situazione di "stress" può avere luogo anche quando un gruppo locale si sente minacciato e assediato da una cultura "altra", dunque estranea. In questo caso lo "stress" diventa "stress culturale" in quanto la minaccia di mutamento viene percepita come minaccia di esproprio della propria cultura. In risposta a tale pericolo percepito, il gruppo tende ad assegnare rinnovati valori simbolici ad un punto forte, ad esempio un elemento monumentale: simbolizzazione e interventi di conservazione sono dunque occasioni di difesa culturale. 25 26 CAPITOLO SECONDO Le minoranze etnico-linguistiche 2.1. L'interesse geografico per le lingue Qualsiasi indagine di geografia culturale (ma anche di geografia umana) sarebbe incompleta senza uno studio appropriato della lingua relativa al territorio, cui l'indagine stessa si riferisce. La lingua, infatti, costituisce il primo elemento di differenziazione culturale tra i popoli della Terra; elemento che può anche influire sul paesaggio culturale, lasciando testimonianze indelebili (come avviene nella toponomastica di alcuni luoghi). Questa affermazione è necessaria premessa alla spiegazione del fatto che solo in tempi recenti l'interesse della geografia per i differenti modi di esprimersi dei popoli è coinciso con il tentativo di cercare un nesso tra lingua e area in cui essa viene parlata. Certo, l'interesse della geografia per le lingue è di antica origine: esso, infatti, è presente nelle descrizioni geografiche dell'età classica, nelle quali si riscontrano frequenti annotazioni di tipo linguistico, annotazioni che però non vanno oltre il semplice dovere di cronaca. Un primo passo, nella direzione di una comprensione complessiva del fenomeno linguistico e del relativo ambito territoriale, viene mosso da alcuni studiosi di glottologia verso la fine dell'Ottocento, i quali reagiscono contro i metodi seguiti fino a quel momento dai linguisti nello studio delle differenze linguistiche. Le critiche sono rivolte, soprattutto, alla scuola tedesca dei neogrammatici, scuola che basa l'analisi linguistica solo sugli aspetti formali e strutturali degli idiomi, tralasciando ogni tipo di contestualizzazione sociale e territoriale. L'esigenza di ampliare il campo di indagine dello studio linguistico, dalle strutture interne di una lingua all'intorno spaziale in cui essa viene utilizzata, conduce alla nascita di un nuovo ramo della glottologia, che considera anche le caratteristiche del territorio relativo alla lingua esaminata. Tale nuovo approccio della glottologia, che trova le proprie scaturigini nell'ambito di studi di linguistica romanza, ha tra i suoi primi sostenitori il friulano Graziadio Isaia Ascoli, autore dell'opera Saggi ladini (1873) nella quale propone un paradigma di ricerca linguistica storico-geografico, ancora attuale per la sua validità. Nello stesso scorcio di fine Ottocento, nasce un ulteriore prezioso strumento per l'analisi linguistica, mutuato dalla geografia: la cartografia linguistica. Jules Gilliéron è il primo studioso che si rende conto delle possibilità che sarebbero derivate da ricerche linguistiche condotte con il 27 supporto della carta geografica7. Tuttavia, la prima carta linguistica è opera del grammatico tedesco Georg Wenkerl che, nel 1899, comincia a cartografare i dialetti tedeschi nel suo Deutscher Sprachatlas. Il primo vero e proprio atlante linguistico viene pubblicato da J. Gilliéron e da E. Edmont, tra il 1900 e il 1912, a Parigi: l'Atlas Linguistique de la France, opera che conferma la prima intuizione di Gilliéron riguardo l'importanza delle carte geografiche come strumenti di comprensione dei fenomeni linguistici. L'entusiasmo nei confronti del nuovo metodo della linguistica dilaga, al punto che Gilliéron, nel 1912, pubblica un'opera intitolata Etudes de géographie linguistique: per la prima volta uno studioso utilizza l'espressione "geografia linguistica". Ben presto, la geografia linguistica diventa un ramo specializzato delle scienze linguistiche: un numero crescente di studi dialettologici facilita la redazione di carte e atlanti linguistici e stimola, in alcuni linguisti, riflessioni di tipo geografico sulla distribuzione territoriale dei vari dialetti. Attraverso le indagini di geografia linguistica e l'osservazione degli atlanti linguistici è possibile constatare che, nella maggior parte dei casi, vocaboli e pronunce simili non seguono una distribuzione spaziale casuale, ma tendono a concentrarsi in aree ben precise e, per questo, più facilmente delimitabili sulla carta attraverso approssimative linee di confine tra i diversi fenomeni linguistici (isoglosse). Osservando attentamente l'andamento spaziale delle isoglosse, in relazione a fenomeni territoriali sia fisici (catene montuose, fiumi ecc.), sia antropici (ad esempio forme di insediamento particolari), è possibile comprendere i rapporti che intercorrono tra fatti prettamente linguistici e dati geografici. In questo modo, gli studiosi sono stati in grado di dimostrare, in innumerevoli casi, l'esistenza di un legame tra lingua e organizzazione territoriale. Tuttavia, la connotazione positivista della geografia di inizio Novecento implica una visione fortemente determinista del rapporto lingua-territorio, visione che porta anche a disinganni e a ripensamenti dovuti a una più matura consapevolezza della complessità dei fenomeni linguistici e della loro non facile interpretazione attraverso paradigmi troppo rigidi. Nondimeno, sia la comunità scientifica appartenente alla linguistica, sia la comunità scientifica geografica concordano sull'utilità delle carte geografiche nello studio dei fatti linguistici. A questo punto, è necessaria una chiarificazione terminologica e concettuale: geografia linguistica e geografia delle lingue non sono sinonimi. Mentre, infatti, la geografia linguistica appartiene alle scienze glottologiche e si occupa dei fenomeni linguistici nella loro estensione e distribuzione geografica, attraverso l'ausilio di strumenti geografici (carte, atlanti); la geografia delle lingue studia il sostrato culturale di cui la lingua è espressione. 7 Nel 1895, infatti, Gilliéron inizia la registrazione su carte geografiche delle varianti dialettali di un certo numero di vocaboli francesi. 28 Il primo geografo a interessarsi del rapporto lingua-territorio è il portoghese C.M. Delgado de Carvalho: lo studioso, in una memoria scritta in portoghese nel 1943 e tradotta in inglese solo nel 1962, definisce nettamente i confini tra la geografia linguistica e la geografia delle lingue, la quale focalizza la propria attenzione sulla genesi storica delle aree geografiche relative a determinate lingue, con particolare riguardo per il rapporto tra gli aspetti sociali e la lingua stessa. In Italia, un importante e autorevole contributo alla conoscenza dei metodi e delle possibilità della geografia delle lingue è dato, alla fine degli anni '60, da Vittorina Langella nel suo testo Geografia e Lingue in Europa (1969). In esso l'autrice evidenzia non solo la rilevanza dei fatti linguistici per la comprensione della regionalizzazione del territorio europeo, ma anche l'intima correlazione tra lingua, storia e società delle diverse regioni culturali d'Europa. Oggi, il fatto che ogni lingua abbia una propria dimensione territoriale è ampiamente accettato e condiviso da maggior parte degli studiosi di geografia8. Come afferma C. Caldo: "La geografia dunque si occupa di questo elemento non materiale della cultura, anche se non è visibile sul terreno alla stregua di una città o di una coltivazione. In ogni caso le lingue contribuiscono a segmentare il mondo, ma questa segmentazione non è solo un puro fatto distributivo. In qualche misura, ogni lingua corrisponde ad una concezione del mondo. Si può dire che il sistema linguistico di ciascun gruppo sia dettato dalla realtà e dal modo di vita proprio dello stesso gruppo. Se ad esempio si tratta di un popolo della foresta, esso avrà centinaia di termini relativi all'ambiente forestale." (1996, p.294) Ciò che interessa il geografo, dunque, non sono tanto morfologia e sintassi di una lingua, quanto piuttosto le relazioni che si sviluppano tra la lingua stessa e i fattori sociali, politici ed economici di un data regione. E veramente, soltanto studiando la lingua di un intero popolo, così come il 8 Secondo G. Barbina, infatti: "...non tutti i geografi (e fra questi alcuni italiani) sono convinti dell'importanza del dato linguistico nello studio della geografia umana. Alcuni di essi infatti continuano a vedere nella lingua solo un elemento descrittivo, da darsi come semplice informazione a proposito di uno stato: quasi che per comprendere da geografi le isole britanniche non abbia alcuna importanza la frammentazione linguistica delle stesse e le vicende che hanno portato alla progressiva riduzione delle aree delle lingue celtiche a vantaggio di quella della lingua inglese, ma sia sufficiente avvertire che la lingua ufficiale del Regno Unito è l'inglese." (1998, p. 26) In particolare Barbina si riferisce a Baldacci, secondo il quale in geografia vanno considerate solo le lingue ufficiali e possono essere trascurate quelle minoritarie. 29 patois di una minuscola comunità, il geografo ha la possibilità di avvicinarsi alla comprensione di quei pensieri che, una volta raggiunta la propria forma concreta, hanno modellato il paesaggio, rendendolo paesaggio culturale. 2.2. Fondamenti di geografia delle lingue Gli studi di geografia delle lingue comprendono un campo di indagine assai vasto e, proprio per questo motivo, si avvalgono incessantemente dell'aiuto di altre scienze, come la storia e la filologia, nel tentativo di comprendere i processi attraverso i quali una lingua interviene nel modello organizzativo di un gruppo sociale. L'interesse geografico per l'analisi e per la diffusione di una lingua è estremamente elevato: infatti, partendo dal presupposto che tutta l'opera umana di costruzione e di organizzazione si riflette nella lingua, lo studio di tale lingua permette al geografo di valutare il complesso legame che unisce lingua, popolo e progetto sociale. Il progetto sociale, cioè l'obiettivo comune, di un popolo non può certo essere perseguito e quindi raggiunto senza la comunicazione interpersonale e, dunque, senza una lingua comune. Uno tra i problemi affrontati dalla geografia delle lingue è quello relativo al rapporto tra l'origine delle lingue europee e l'evoluzione dei popoli europei. Gli studi svolti in questa direzione hanno dimostrato chiaramente le interazioni tra popoli e ambiente fisico nel periodo in cui hanno avuto origine i linguaggi indoeuropei e, in un secondo momento, le differenziazioni di tali linguaggi causate dalle invasioni prima celtiche, poi germaniche, quindi slave e infine ugro-finniche ( Langella, 1969). Grazie a questo tipo di studi, a cui contribuiscono anche la geografia storica e la linguistica, è possibile non solo tracciare le prime grandi vie relative al transito di popoli avvenuto in Europa nel corso di millenni, ma anche localizzare le aree dei primi grandi stanziamenti, dimostrare l'importanza del tipo di suolo, della presenza o meno di barriere montuose e dell'idrografia come fattori condizionanti il processo evolutivo di lingue e popolazioni europee dall'età dei metalli fino al 1500. Un altro ambito di riflessione che interessa gli studiosi di geografia delle lingue, ma che è condiviso anche dagli studiosi di altre discipline, è costituito dai problemi di classificazione delle lingue del mondo. Tra gli svariati modelli di classificazione linguistica, elaborati via via nel corso di decenni di ricerche storico-linguistiche, uno solo è particolarmente utile alla geografia delle lingue e alla geografia culturale in genere: il modello di classificazione genealogica delle lingue. Questo metodo di classificazione linguistica, che secondo i suoi primi teorizzatori doveva scoprire l'antico linguaggio comune a tutti gli uomini prima della divisione biblica, è utile alla geografia in quanto considera il fenomeno del frazionamento territoriale in regioni linguistiche. Secondo il modello di classificazione genealogica della lingue, dunque, due lingue sono affini (o parenti) quando l'una è la 30 continuazione storica dell'altra: in sintesi, i vari idiomi sono suddivisi in famiglie in base alla somiglianza lessicale, che deriva da un'origine comune, talvolta remota. Dal punto di vista della distribuzione territoriale, due lingue affini sono presenti di solito in regioni contigue; tuttavia non vanno dimenticati i flussi migratori e i movimenti di espansione o di regressione territoriale, che tendono a distanziare le lingue in questione. Il grado di parentela tra due lingue è misurabile attraverso un criterio statistico: un indice di parentela superiore all'80% indica la contiguità delle due lingue (varietà delle medesima lingua), un indice compreso tra l'80% e il 30% indica l'appartenenza delle due lingue alla stessa famiglia e, infine, un indice inferiore al 30%, ma con somiglianze non trascurabili, indica l'appartenenza delle due lingue a famiglie diverse ma dello stesso ceppo linguistico. Secondo la classificazione genealogica, esistono sette grandi ceppi linguistici: lingue indoeuropee (famiglie neolatina, germanica, slava, celtica, iranica, indiana, greca, albanese), lingue sino-tibetane (famiglia cinese, birmano, tibetano), lingue uralo-altaiche (famiglie di lingue turco-tatare, ugrofinniche e, secondo alcuni, coreano e giapponese), lingue austronesiane (famiglie indonesiana, malese, polinesiana), lingue niger-kordofan (famiglie bantù e sudanesi), lingue afroasiatiche o camito-semitiche (arabo, ebraico, lingue etiopiche) e lingue dravidiche (telugu e tamil)9. Tuttavia, è necessario precisare che tale classificazione non è definitiva e presenta numerose zone d'ombra, dovute al fatto che ancora sfugge agli studiosi l'origine genealogica di centinaia di lingue parlate da ristretti gruppi di persone. La geografia delle lingue affronta, inoltre, le problematiche relative ai processi culturali, attualmente in atto in tutto il mondo, che coinvolgono diverse realtà territoriali e che, inesorabilmente, portano a fenomeni di acculturazione delle comunità più deboli, alla progressiva e inarrestabile scomparsa delle aree linguistiche minori, alla perdita di identità culturali antiche che, incapaci di sostenere l'impari confronto con la straripante cultura del progresso informatizzato e massificante, sono destinate a sbiadirsi nel tempo come la fotografia di un ricordo lontano. Ciò non significa che la geografia delle lingue, qui indentificabile con la geografia culturale, sia solo un sorta di denuncia nostalgica o di ostinato rifiuto della realtà: quello che interessa questo tipo di studi geografici è rappresentato dalle conseguenze derivanti dagli attuali processi di contaminazione linguistico-culturale, conseguenze che possono rivelarsi devastanti come anche inaspettatamente positive. Lo studio dei toponimi costituisce un importante campo di indagine della geografia delle lingue: la toponomastica, infatti, è spesso connessa alle forme dell'ambiente, sia naturale che antropico, e dunque il suo studio rappresenta un significativo strumento di interpretazione. Esistono due tipologie fondamentali di toponimi su cui è interessante riflettere: la prima 9 Il testo di C. Caldo Geografia umana (1996) rappresenta la fonte della classificazione dei ceppi linguistici. 31 comprende i toponimi propri, riferiti a città, regioni e località rilevanti, i quali non rimandano a peculiarità del paesaggio, ma piuttosto a decisioni principesche o ecclesiastiche (come i luoghi con nomi di santi); la seconda tipologia comprende i toponimi comuni, solitamente di origine dialettale e legati alla cultura popolare, i quali indicano un tratto di territorio o un particolare elemento di quest'ultimo. I toponimi comuni sono classificati in due categorie: una relativa ai nomi dell'ambiente fisico, l'altra alle opere degli uomini. La prima categoria (ambiente naturale) si compone di alcune sottoclassi: rilievi, morfologia, vegetazione e acque. La categoria antropica annovera nomi di edifici, coltivazioni, strade e ripartizioni territoriali (C. Caldo, 1996). Uno degli aspetti più utili dell'analisi della toponomastica di una regione è che, proprio attraverso essa, è possibile conoscere la stratificazione etnica e culturale dei luoghi esaminati. Infine, un altro grande tema di cui si occupa la geografia delle lingue è quello delle minoranze etnico-linguistiche10, sia in riferimento alle minoranze presenti sul territorio italiano, sia alle minoranze sparse nel mondo. Dunque, le politiche nazionalistiche o quelle regionalistiche, le trasformazioni territoriali che avvengono in conseguenza di spostamenti di confine o di mutamenti istituzionali e, ancora, le tormentate vicende legate alla colonizzazione o alla decolonizzazione sono tutti fenomeni che possono trovare negli studiosi di geografia delle lingue nuovi e attenti interlocutori, in grado di elaborare più approfondite interpretazioni delle realtà studiate e capaci di suggerire più adatte soluzioni per problemi politici, la cui comprensione non è sempre immediata. 2.3. La comunità etnica Il concetto di comunità etnica è fondamentale per la comprensione delle diversità linguistiche e culturali. Secondo Barbina "Una comunità umana legata al suo interno dalla coscienza di avere un comune patrimonio storico e da vincoli culturali così forti e consolidatisi nel tempo, e tali da improntare in modo significativo il modo di pensare e il comportamento di tutti gli appartenenti alla stessa, viene definita comunità etnica, o gruppo etnico, o gruppo etnico-linguistico (in quanto normalmente alla comune cultura di base corrisponde l'uso della stessa lingua). " (Barbina G., 1998, p. 37) Barbina, inoltre, attribuisce a R. Breton il merito di aver definito i caratteri generali di una comunità o gruppo etnico, dimostrando che il gruppo etnico-linguistico non si distingue unicamente per lingua e per 10 Cfr. il paragrafo 2.4. 32 cultura, ma anche per una sommatoria di elementi strettamente interconnessi. Ebbene tali elementi, i quali appunto rappresentano le caratteristiche generali della struttura etnica, vengono teorizzati da Breton nel testo intitolato Les ethnies (1981). L'autore ne elenca nove: la prima serie di elementi, chiamati prestrutture, comprende i dati demografici del gruppo, la sua lingua e il suo territorio; la seconda serie di elementi, chiamati strutture, è data dalla cultura non materiale, dalle classi sociali e dal sistema economico; infine l'ultima serie di elementi, chiamati poststrutture, è costituita dalle istituzioni, dalla metropoli e dalla rete urbana. Dato demografico, lingua e territorio sono le condizioni necessarie ed essenziali per l'esistenza della comunità etnica stessa: essa, infatti, non potrebbe sopravvivere senza una consistenza demografica (trend demografico positivo), senza un territorio in relazione al quale vivere e senza una propria lingua. La cultura non materiale, come noto, comprende tutto il patrimonio spirituale del gruppo, la visione metafisica, il senso della storia comune, ma anche le manifestazioni del folclore e le tradizioni legate a musica e a letteratura popolare. Dal tipo di strutturazione sociale dipendono la circolazione della cultura e l’omogeneità della lingua: ad esempio, all’interno di un gruppo fortemente diviso in classi sociali chiuse, la classe superiore cercherà di distinguersi dalle classi subalterne sia sul piano culturale, sia su quello economico. E proprio dall’economia dipende la capacità di espandersi del gruppo, ma anche la sua dinamica culturale e linguistica. Infine, istituzioni politiche, metropoli (intesa come il centro decisionale più consistente nell’area di insediamento del gruppo etnico) e rete urbana rappresentano i “luoghi” dell’elaborazione di nuove idee e di nuovi paradigmi comportamentali, del rinnovamento culturale e linguistico. L’analisi di una comunità etnica si basa, dunque, sullo studio di tutti gli elementi che la costituiscono e che la rendono unica, prestando particolare attenzione alle relazioni tra gli elementi stessi, in quanto una qualsiasi variazione del singolo elemento condiziona necessariamente la reazione degli altri. Nonostante l’ovvietà di questa considerazione, non di rado le forze politiche sembrano ignorare completamente l’esigenza di interventi che rispettino il carattere olistico della comunità etnica. Il concetto di etnia non va confuso con quello di nazione: il termine etnia rimanda al profondo senso di appartenenza a una specifica individualità culturale e linguistica, mentre il termine nazione si riferisce alla volontà dei membri di una comunità etnica di essere soggetti attivi del proprio divenire storico, attraverso azioni politiche atte a raggiungere una completa autonomia. Dai concetti di etnia e di nazione derivano i fenomeni dell’etnismo e del nazionalismo, fenomeni che hanno una diversa natura: esistono, infatti, molte comunità etniche che non manifestano alcun sentimento nazionalistico in quanto prive di una porzione di territorio sufficientemente estesa, o in quanto numericamente poco consistenti o, infine, perché appartenenti a una diversa nazione. Secondo Barbina, spesso, 33 termini come minoranza nazionale, minoranza etnica o minoranza linguistica (strettamente legati ai concetti di etnia e di nazione) vengono usati come sinonimi, oppure vengono investiti di una determinata carica espressiva a seconda delle circostanze e dell’impatto che si vuole ottenere sull’opinione pubblica. Se, dunque, sovente accade di sentir parlare di 'minoranza linguistica' in analogia con 'minoranza nazionale', ciò è dovuto al fatto che i due concetti vengono erroneamente equiparati, dimenticando che, in realtà, il termine 'minoranza' è di origine politico-parlamentare. La 'minoranza' presuppone, infatti, una contrapposizione dialettica con la 'maggioranza': per questo motivo è corretto parlare di 'minoranza nazionale', che si contrappone al gruppo della nazione maggioritaria; ma è concettualmente errato parlare 'minoranza linguistica' dal momento che fra due gruppi linguistici o etnico-linguistici non può esservi contrapposizione, ma solo differenziazione. E dunque, in questo caso, sembra più giusto parlare di 'comunità etnica' o di 'comunità etnico-linguistica'. La consapevolezza dei membri di una comunità etnica minore (che non coincide con la nazione dominante nello Stato di cui fa parte) di appartenere a una precisa identità culturale è alla base di quei fenomeni di etnismo, comprensibili alla luce del pericolo di alienazione culturale avvertito dai membri stessi della comunità. Di fronte alla massificazione dei modelli socio-culturali, che tende ad annullare le molteplici differenze tra i popoli della Terra, la reazione delle piccole realtà culturali non va dunque interpretata come un estremismo nazionalista, ma come una diffusa volontà di salvaguardia della propria alterità culturale. Gli etnismi dei nostri tempi non rappresentano certamente una minaccia per l’integrità degli Stati nazionali (minaccia che, al contrario, i nazionalismi del passato hanno tramutato in pericolo reale per gli Stati imperiali) e vanno capiti per quello che realmente sono: una richiesta accorata di tutela di patrimoni culturali e linguistici unici e preziosi. Non bisogna dimenticare, infatti, che proprio queste piccole comunità etniche, che sono portatrici di valori spirituali più originali e più profondi, percepiscono con maggior vigore il pericolo dell'alienazione culturale. Tuttavia, è necessario considerare anche il fatto che una seria ed efficace politica di tutela dell'inestimabile patrimonio culturale, del quale ogni piccola comunità è depositaria, non può aver luogo senza una preliminare valutazione del significato e delle motivazioni che sottostanno alla richiesta di tutela. Un importante punto di vista, dal quale analizzare una comunità etnica, è fornito dall'intensità con cui i membri della comunità stessa percepiscono il territorio che abitano. Nell'ambito della "patria etnica" (Barbina, 1998), infatti, memoria storica e sensibilità culturale del gruppo possono avere riferimenti difformi: esistono aree del territorio che rappresentano l'identità culturale del gruppo in modo immediato, mentre altre sono prive di valore. 34 Tra i vari criteri attraverso i quali è possibile definire la diversa intensità della "etnicità" di un'area geografica, è utile seguire quello proposto da Barbina11 (La geografia delle lingue): l'autore istituisce un parallelismo tra il territorio etnico e quello di uno Stato che, nella maggior parte dei casi, si è formato a partire da un nucleo territoriale centrale, dal quale in seguito si è più o meno estesamente sviluppato. Anche nel territorio etnico è possibile localizzare un nucleo centrale, nel quale si concentrano le forze ideali che hanno dato vita a una particolare cultura. Nel nucleo centrale si rileva una più intensa attività socio-politica, in esso si trovano le principali strutture atte alla produzione e alla conservazione del patrimonio culturale collettivo e, ancora, esso è la sede dei centri di sviluppo e di continua elaborazione della cultura. Inoltre, il nucleo centrale costituisce l'area di più antico e consistente popolamento e, conseguentemente, l'area dove i riferimenti storico-culturali sono chiaramente riconoscibili. Attorno al nucleo centrale si estende la cosiddetta "area del dominio culturale", ossia la porzione di superficie terrestre dove quella cultura risulta dominante, anche se con un minore grado di intensità, rispetto ad altre culture che coesistono accanto alla principale. All'esterno dell'"area di dominio culturale" è possibile registrare la presenza di cospicui gruppi di persone, che appartengono alla cultura dominante, in piccoli tratti di territori chiamati "sfere di influenza" della cultura stessa, che possono anche essere isolati e trovarsi in ambiti territoriali dominati da una cultura diversa. Questo criterio si rivela molto utile per la comprensione della dinamica geografica relativa a un determinato territorio etnico: "... il nucleo centrale è quello percepito nella psiche e nel sentimento comune come il territorio patrio e, di norma, quello in cui la lingua etnica possiede maggiore forza ed è meno intaccata da influenze esterne, mentre il dominio è quello del contatto con altre culture, nel quale avviene un continuo confronto e dove l'interferenza con esse richiede una costante verifica competitiva del valore della propria cultura, le sfere di influenza o sono residui più resistenti di un nucleo centrale un tempo più allargato e poi intaccato da una cultura diventata più forte, o sono aree in cui parte della popolazione proveniente dal nucleo centrale è andata ad abitare stabilmente, trasferendovi l'impronta della propria cultura etnica." (1998, pp. 78-79) Un ultimo spunto di analisi, relativo alla comunità etnica e alla regione abitata da quest'ultima, riguarda il problema della percezione e della definizione dei confini dei territori etnici. Un tale problema è, tuttavia, di difficile soluzione in quanto il territorio etnico è esteso, quasi sempre, su 11 Barbina rimanda alla lettura del testo di N. J. G. Pounds (Political Geography, 1963) e al modello di regione culturale elaborato dall'americano Donald Meinig. 35 un'area la cui delimitazione risulta spesso imprecisa a causa della presenza, nelle zone situate ai margini del nucleo centrale, di una frangia caratterizzata dalla fusione degli elementi dell'etnia dominante con quelli delle etnie circostanti, da bilinguismo di confine e dal confronto-scontro tra culture diverse. Proprio il tema del confronto-scontro tra culture rappresenta uno dei capitoli più appassionanti e insieme complessi degli studi di geografia culturale e di geografia delle lingue; un tema sempre attuale che permette di approfondire la consapevolezza dei motivi che, sempre, dividono e insanguinano la storia di molti, troppi popoli. 2.4. La salvaguardia di lingue e di culture “minoritarie” La tutela di lingue e di culture "minoritarie" dipende da interventi politici e amministrativi ben precisi, ma non solo: il declino di una lingua, e dunque di una cultura, può essere evitato grazie alla capacità di una determinata comunità di continuare a essere autrice immediata della propria cultura (Barbina, 1998). Il declino linguistico-culturale è il sintomo più evidente di un processo, legato a dinamiche spesso invisibili, che porta a una radicale trasformazione dell'organizzazione sociale ed economica della comunità. La percezione da parte dei membri della comunità di vivere un simile processo, percezione che la propria lingua e cultura sono in preda a una lenta agonia, rappresenta un'esperienza traumatica, la quale si tramuta in richiesta di aiuto e di protezione. Gli interventi di politica linguistica, che rientrano nell'ambito delle politiche culturali, possono essere inquadrati in base a tre diverse prospettive. La prima si basa su una visione evoluzionista (di tipo darwiniano) delle lingue: come le specie animali e vegetali, anche le lingue si evolvono seguendo le leggi della lotta per la sopravvivenza che sono fondate sul principio del più forte; dunque l'eliminazione delle lingue minori va accettata in quanto aspetto di una regia ecologica universale. La seconda prospettiva, al contrario, deriva da una visione di tipo conservazionista: lingue e culture minori devono essere custodite e protette alla stessa stregua di specie animali in via di estinzione. Infine, la terza prospettiva proviene da un atteggiamento protettivo di tipo ecologico: le lingue fanno parte di un complesso sistema socio-ecologico costituito da una molteplicità di elementi; la trasformazione di uno solo di questi elementi compromette anche gli altri e, dunque, per conservare una lingua è necessario conservare anche tutte le forme della cultura (materiale e non) di cui la lingua stessa è espressione. Come facilmente intuibile, questa ultima prospettiva è quella più sensata, proprio per il richiamo alla visione multidimensionale dell'etnia teorizzata dal Breton (cfr. il paragrafo 2.3), ma anche più facilmente criticabile, in quanto può portare a interventi che male si adattano ai ritmi della società odierna. 36 Oggi la salvaguardia di lingue e culture minori è un problema molto sentito, e ciò grazie anche a un più diffuso spirito di tolleranza, che suscita in quasi tutti una sorta di esigenza morale di difendere e rispettare anche la cultura degli altri. Negli Stati europei, dove esistono numerose comunità etnico-linguistiche minoritarie, sono in atto svariate iniziative di difesa, anche grazie a specifiche decisioni del Parlamento europeo e alla preziosa attività di enti e organizzazioni locali. Il Parlamento europeo affronta per la prima volta il problema della tutela delle lingue minori nel 1981 e nel 1983 con le due Risoluzioni Arfè; ma il documento più importante, adottato dal Parlamento europeo, è la Risoluzione Kuijpers, datata 30 ottobre 1987. In tale documento viene chiesto agli Stati membri di proteggere ufficialmente le lingue minori, favorendone l'uso scolastico e amministrativo, ammettendo la toponomastica nella lingua locale e sostenendo finanziariamente tutte le iniziative dedicate alla difesa della lingua minore. Il maggiore ente europeo per la tutela delle lingue minori si chiama European Bureau for Lesser Used Languages: esso, finanziato dalla Comunità economica europea, svolge una intensa opera di informazione e di animazione che coinvolge numerose realtà linguistiche e culturali. Tuttavia, resta molto difficile dare una valutazione serena sulla reale efficacia delle pur numerose iniziative in favore delle lingue minori; ad esempio, secondo Barbina "... la tutela delle lingue minori è quasi sempre una semplice dichiarazione di democratica buona volontà, ma raramente raggiunge i risultati per cui è stata messa in atto." (1998, p. 95) Questa affermazione è, purtroppo, indubbiamente vera; nonostante ciò esistono anche testimonianze, di cui ho avuto personale esperienza e che sono oggetto del presente studio, di una tenace volontà di difesa della propria identità culturale, volontà di difesa che parte dai membri stessi delle comunità minoritarie e che, forse proprio per questo motivo, si rivela più efficace di molti altri provvedimenti generosamente concessi, ma difficilmente realizzati. 2.5. Le comunità alloglotte del territorio italiano: problemi e prospettive Sul territorio italiano sono presenti numerose comunità alloglotte e proprio questa caratteristica rende la situazione linguistico-culturale italiana uno dei casi più complessi di tutto il panorama dell’Europa occidentale. Partendo dal nord della penisola italiana, quindi partendo dalle Alpi, si possono incontrare coloro che la scrittrice Wolftraud De Concini chiama “gli altri delle Alpi”, le dieci minoranze linguistico-culturali che abitano da secoli varie regioni dell’arco alpino italiano: 37 “… i Carinziani nel Veneto e nel Friuli, i Cimbri nel Trentino e nel Veneto, i Francoprovenzali in Valle d’Aosta e nel Piemonte, i Friulani nel Friuli, i Ladini nelle tre province dolomitiche di Belluno, Bolzano e Trento, i Mòcheni nella Valle del Fersina nel Trentino, gli Occitani in una dozzina di vallate Alpine del Piemonte, gli Sloveni lungo la frontiera nord-orientale dell’Italia, i Sudtirolesi nel Sudtirol, l’<<Alto Adige>> degli italiani, e i Walser in alcune vallate d’alta montagna della Valle d’Aosta e del Piemonte.” (1997, p. 9) Si tratta di comunità etniche, costituite da oltre un milione di persone, plasmate fortemente dalla vita di montagna, spesso assai difficile, fatta di lavoro e di sacrifici. Ed è proprio la montagna a rappresentare il filo rosso che unisce queste comunità, rendendone simile l’architettura, fatta di legno e di pietra, e le loro usanze, fondate su un sincero senso religioso e su un antico patrimonio di miti e di leggende. Spostandosi verso Sud e sulle isole maggiori si incontrano altre minoranze linguistico-culturali che, insieme a quelle dell’arco alpino, contribuiscono ad arricchire enormemente il quadro culturale del territorio italiano: gli Albanesi in Campania, Calabria e Sicilia, i Catalani e i Sardi in Sardegna, i Croati in Molise, piccoli gruppi di Francoprovenzali in Puglia, i Grecani in Puglia e in Calabria, alcuni Provenzali in Calabria, gli Zingari (Rom e Sinti) presenti su tutto il territorio nazionale. La difesa del retaggio culturale di queste minoranze alloglotte è un preciso dovere dello Stato italiano e degli Enti regionali, che hanno il compito di favorire e di promuovere una legislazione rispettosa delle differenti tradizioni culturali. Un esempio in questo senso proviene dalla Regione Veneto che il 23 dicembre 1994 ha approvato la legge regionale n. 73 per la “promozione delle minoranze etniche e linguistiche del Veneto”. Con questa legge, la Regione “…riconosce nelle comunità etniche e linguistiche storicamente presenti nel Veneto, le quali aspirano ad un approfondimento delle ragioni della loro identità e allo sviluppo della loro cultura in tutte le sue manifestazioni, un segno di vitalità per la stessa civiltà veneta e uno stimolo al suo arricchimento. A tal fine, la Regione promuove la tutela e la valorizzazione del patrimonio storico culturale delle comunità […] e sostiene finanziariamente le iniziative intese a garantire la conservazione, il recupero e lo sviluppo della loro identità culturale e linguistica.” (Palla L., 1997, p. 191) 38 La stessa legge propone, tra l’altro, una serie di iniziative culturali degne di nota, che costituiscono uno stimolo anche per le altre Regioni italiane: “… la Giunta regionale è autorizzata a concedere contributi per la realizzazione di iniziative riguardanti: a. la tutela, il recupero, la conservazione e la valorizzazione di testimonianze storiche che legano le comunità al proprio territorio; b .lo sviluppo della ricerca storica e linguistica, la pubblicazione di studi, ricerche e documenti, l’istituzione di corsi di cultura locale, la valorizzazione della lingua e della toponomastica; c. la costituzione e valorizzazione di musei locali o di istituti culturali specifici; d. l’organizzazione di manifestazioni rivolte alla valorizzazione di usi, costumi e tradizioni proprie della comunità.” (Palla L., 1997, pp. 191-192) Nonostante oggi sia sempre più difficile fermare il processo che porta alla progressiva scomparsa, o trasformazione, o ancora contaminazione, delle lingue e delle culture minori; questa legge rappresenta la risposta concreta alle continue richieste di tutela che provengono da tutte le comunità etniche presenti in Italia. Certo, la travolgente massificazione linguistica e l'alienazione culturale sono due fenomeni difficilmente contrastabili e la loro "aggressione" colpisce, ovviamente, le espressioni culturali più deboli e meno difese. Tuttavia, oggi più che mai, in tempi di globalizzazione l'esigenza di conservare una propria specifica identità culturale è ancora più urgente e condivisa dalle piccole comunità, come dalle grandi Nazioni. Una indiscriminata omologazione culturale, così come il suo opposto incarnato da etnismi e da nazionalismi pericolosi, non può che portare al progressivo esaurimento di antichi e inestimabili patrimoni culturali che non appartengono solo a piccole comunità, ma a tutta l'umanità. 39 40 CAPITOLO TERZO Origine e percorsi del popolo cimbro 3.1. Le ipotesi sull'origine del popolo cimbro Il mistero riguardante l'origine del popolo cimbro non è ancora stato svelato: le innumerevoli e contrastanti ipotesi, avanzate nel corso dei secoli da studiosi ed esperti, rappresentano la dimostrazione incontrovertibile della fallacia di ogni tentativo teso a dimostrare, al di fuori di ogni dubbio, quale sia l'origine dei Cimbri che hanno scelto di abitare le montagne venete e trentine. Tale situazione è dovuta alla mancanza quasi completa di fonti storiche certe che possano sciogliere definitivamente gli intricati nodi della questione. Una delle teorie più diffuse sull'origine delle genti alloglotte, residenti sulle montagne del Vicentino, del Veronese e del Trentino meridionale, identifica tali popolazioni con i discendenti degli antichi Cimbri, i temibili nemici di Roma sconfitti e distrutti dall'esercito del console Caio Mario in una cruenta battaglia ai Campi Raudii, presso Vercelli, nel 101 a. C. I Cimbri sconfitti dai Romani provengono dalla Penisola dello Jutland; circa duecento anni prima di Cristo il popolo cimbro deve emigrare verso sud, spinto dall'onda dei grandi flussi migratori dei popoli germanici: essi invadono i territori delle attuali Germania, Francia e Spagna, infliggendo disastrose sconfitte ai Romani. I Cimbri penetrano in Italia dalle Alpi Occidentali ma, dopo aver raccolto il grosso della popolazione che si trovava nella Gallia Narbonese in virtù dell'alleanza stretta con i Teutoni, incontrano appunto l'invincibile opposizione dell'esercito romano. La leggenda vuole che uno sparuto gruppo di guerrieri cimbri sia riuscito a salvarsi dall'orrendo massacro (Plutarco parla di 140.000 morti e di 60.000 prigionieri12) e si sia rifugiato sulle montagne del Vicentino e del Veronese, vivendo indisturbato e protetto grazie all'asperità dei luoghi: i guerrieri fuggitivi sarebbero quindi i progenitori degli attuali Cimbri. Primo sostenitore di questa teoria è il letterato veronese Antonio Marzagaja, vissuto tra il XIV e il XV secolo. L'ipotesi di un'origine cimbra degli abitanti delle montagne venete e trentine trova fortuna e si diffonde rapidamente, al punto che, nel 1314, il poeta vicentino Ferreto de' Ferreti nomina ripetutamente i Cimbri nelle sue opere e rivolge alla città di Vicenza l'appellativo di Cymbria. 12 Plutarco, Flor. Epit. 68, Pavin. I. 2. c. 7. 41 Tuttavia, questa ipotesi è stata ampiamente smentita13: approfonditi studi storici e linguistici hanno dimostrato le numerose lacune di tale leggenda creata dalla fervida immaginazione di storici ed eruditi medievali. Innegabilmente l'alone di mistero che avvolge la saga dei bellicosi Cimbri, venuti dalla remota Penisola dello Jutland per conquistare terre e sottomettere popolazioni, attrae l'appassionato di oggi come, un tempo, deve avere attratto lo studioso del Medioevo. I primi tentativi di rischiarare le tenebre che oscuravano, e che ancora oscurano, la vera origine dei Cimbri odierni vengono compiuti dagli illuminati pensatori settecenteschi. L'abate Agostino Dal Pozzo Prunner (1732-1798), nato a Rotzo sull'Altopiano di Asiago e vissuto nell'ultimo secolo della Serenissima Repubblica di Venezia, è autore della notevole opera Memorie istoriche dei Sette Comuni vicentini (opera postuma dell'abate Agostino Dal Pozzo) pubblicata a cura del cimbro Angelo Rigoni Stern nel 1820. L'opera consta di tre parti: la prima parte tratta della storia cimbra nelle sue linee generali, la seconda parte è dedicata allo studio dei comuni e delle frazioni dell'Altopiano di Asiago, nella terza parte, infine, l'autore prende in esame i territori contigui all'Altopiano, abitati da gente cimbra. Nella prima parte sono presenti gli elementi più innovativi delle teorie dell'abate: non solo, infatti, vengono affrontate tutte le problematiche generali (storia, lingua14, fede, carattere, usi e costumi, geografia) che 13 Nonostante ciò, tale ipotesi è sorprendentemente radicata nell'immaginario collettivo degli attuali Cimbri. Nerio de Carlo, studioso del popolo cimbro, nel suo testo I Cimbri del Cansiglio riporta, attraverso le parole dei discendenti dei Cimbri, la leggenda che i padri tramandano ai figli: "De ünzarn eltarn habent hortan kchöt, dass ünsar stam vun zimbarn ist von taüschen lentarn af an nort kömet i des bellische lant, in zait vom krige, ba dar grosse stroach ist den gant übel. Des grosseste toal von krigarn ist gevallet toat, un de andarn haben sich verporget in balt ate perge von draizen kamaün oben vern un dandare ate perge von ünzarn züben kamaün oben vitschenz. Übar disa hoge ebene in daü zait ist gabest alles an balt, ba habent genestet de pearen un de wölve, un koane làüte." "I nostri genitori hanno sempre raccontato che la nostra stirpe di Cimbri è giunta nel paese latino dai territori tedeschi del nord, in tempi di guerra, non essendo loro riuscita la grande battaglia. La maggior parte dei guerrieri è caduta e gli altri si sono nascosti nel bosco sui monti dei tredici Comuni sopra Verona ed altri sui monti dei nostri sette Comuni sopra Vicenza. Su questo Altipiano a quel tempo c'era una grande foresta, dove proliferavano orsi e lupi, e non la gente." 14 L'abate Dal Pozzo è, inoltre, autore di un vocabolario della lingua cimbra, purtroppo andato perduto. Inoltre, l'abate è sempre stato un appassionato sostenitore del valore della parlata cimbra e la seguente riflessione, tratta dalla sua opera 42 riguardano l'Altopiano e i suoi abitanti, ma soprattutto viene trattata la difficile questione delle origini dei Cimbri. L'autore si sofferma ad analizzare le diverse ipotesi avanzate dagli studiosi per spiegare l'origine dei Cimbri. La prima ipotesi vede nella popolazione dei Reti i progenitori dei Cimbri: gli altipiani dei monti Lessini si trovano al centro dell'antica Rezia, i primi abitatori di tale zona erano Celti e celtiche sono le origini dei Reti; tale popolo, divenuto aggressivo nei confronti dell'Impero Romano, suscita le ire dell'imperatore Ottaviano Augusto che decide di inviare un esercito a sottometterli. Le cruente battaglie che si verificano in seguito alla decisione imperiale, portano allo sterminio dei Reti: i pochi sopravvissuti si sarebbero rifugiati sui monti Lessini e da essi deriverebbero i Cimbri. La seconda ipotesi è basata sulla convinzione, di cui ho già avuto modo di parlare precedentemente, della discendenza dei Cimbri attuali dai superstiti degli antichi Cimbri sterminati dall'esercito romano nel 101 a. C. L'abate nota che proprio a causa di questa errata opinione si è cominciato a riferirsi alle genti che vivono nei luoghi in questione con il nome di "cimbri". I sostenitori dell'ipotesi cimbra vengono accusati dall'autore di avere erroneamente trasferito la battaglia dei Campi Raudii dalla piana di Vercelli alla campagna veronese, dove si trovava una località anticamente chiamata Raldone, scambiata per Raudium. Inoltre, Dal Pozzo sottolinea il grave errore commesso da un copista di Tito Livio nella trascrizione di un passo fondamentale, che Tito Livio stesso riprende da Plutarco e che costituisce il primo anello della catena di errori storici commessi in seguito. Plutarco, nella sua opera Fortuna dei Romani, narra di come nel 102 a. C. il console Quinto Lutazio Càtulo venga inviato a fronteggiare i Cimbri penetrati in Italia dalle Alpi Occidentali: abbandonato dai soldati, il console non riesce ad allontanare i Cimbri dalla riva sinistra dell'Atisone, "apud Memorie storiche dei Sette Comuni, esprime a pieno la sua posizione a riguardo: "Eppure chi il crederebbe! In un angolo de' Sette Comuni, dove attesa la situazione, il linguaggio tedesco potrebbesi conservare e più puro, e più a lungo che in altri luoghi, gli abitanti sono venuti da qualche tempo a tale riscaldamento di fantasia, che odiano e vilipendono la propria lingua, vergognandosi di parlarla quasi fosse un disonore e una infamia il servirsene. Non basta proibiscono ai figli di apprenderla, e agli ospiti di parlarla nelle loro case, a fine di abolirla ed annientarla. E non è questa una barbara e inaudita crudeltà detestare il linguaggio, che succhiarono col latte: che fu sì caro ai loro antenati: che caratterizza e distingue la nostra privilegiata nazione dalle vicine, e ch'è l'argomento più decisivo che abbiamo della nostra antichità ed origine: Argumentum originis? Ben si può applicare a costoro il rimprovero che Cicerone scagliò contro a que' Romani che trascurarono di coltivare il proprio idioma, appellandoli scimuniti e vanarelli! Questi tali in pena di aver cooperato alla perdita della nativa lor lingua, meriterebbero d'esser privati per sempre del beneficio di godere dei privilegj accordati alla nazione de' Sette Comuni, di cui si vergognano d'esser parte disdegnando di parlarne la lingua." (citato in Bonato S., Rigoni P., 1987, p. 59). 43 Athisonem flumen" scrive Plutarco. L'Atisone è un modesto corso d'acqua che nasce nelle Alpi Pennine, scorre lungo la Valle d'Ossola fino al Lago Maggiore. Tale fiume ha cambiato nome nel corso dei secoli: Atibona, Atisone, Atosa, Tose e oggi Toce. Il copista di Tito Livio si è reso colpevole di aver trascritto "ad flumen Athesim" in luogo di "ad flumen Athisonem"; errore che Dal Pozzo reputa comprensibile in considerazione del fatto che i copisti del tempo ben conoscevano il fiume Athesim ossia l'Adige, facilmente confuso con il meno noto Athisonem. L'abate Dal Pozzo attribuisce allo scrittore Lucio Anneo Floro, autore di un'opera scritta a distanza di un secolo e mezzo dalla battaglia ai Campi Raudii e composta da due libri in cui si racconta la storia delle guerre di Roma nei settecento anni che vanno dalla fondazione ad Augusto, l'imprudenza di avere accettato tale versione senza una necessaria indagine preliminare tesa ad accertare la correttezza della fonte. Questa serie di equivoci costituisce le fragili fondamenta della "ipotesi cimbra" teorizzata da eruditi e scrittori veronesi tra cui il già citato Marzagaja, il veronese Marco Pezzo15 e il marchese Scipione Maffei16. 15 Autore dell'opera Dei Cimbri veronesi e vicentini pubblicata nel 1763. Autore dell'opera in cinque volumi Verona illustrata pubblicata nel 1732. Il marchese Maffei, inoltre, è autore di una importante lettera indirizzata a Hans Gram, bibliotecario del Re di Danimarca e professore di lingua greca all'università di Copenaghen, nella quale viene ribadita la sua posizione sull'origine delle genti che abitano i Monti Lessini. Tralasciando le parti meno rilevanti, riporto di seguito il brano saliente della citata epistola, datata 20 febbraio 1748: "[...] V. S. Ill.ma desidera notizie precise della lingua che si parla in alcune terre delle nostre montagne; a buona stagione io anderò là di nuovo, e procurerò ricavarne quanto sarà possibile, e di tutto le darò ragguaglio: ma sappia, che tal lingua si va perdendo, e i pochi che fra loro la parlano, non sanno dire in essa se non le cose triviali e usuali. Non sarà possibile però trarne quanto ella vorrebbe. Il fondo è certamente germanico, e il pronunziare ià e non iò, basser e non bosser mi fa credere che non venissero dalle province prossime all'Italia, ma dalle parti di Sassonia vicine al mare, dove stettero prima i popoli usciti dalla penisola Cimbrica e dalle isole del Baltico, che passarono poi nell'Italia. Il nostro popolo per antichissima tradizione li ha sempre chiamati Cimbri. Non mi è possibile di scrivere più oltre. Mi conservi la sua grazia e mi creda pieno di stima del suo ingegno e del suo sapere. Mi comandi con piena libertà ove mai volesse. Di V. S. Ill.ma deditissimo observantissimo servitore Scipione Maffei Fonte: Marchi G.P., "L'origine danese dei <<cimbri>> veronesi in una lettera di Scipione Maffei ad Hans Gram", in Gaburro G., Robiglio Rizzo C., Zalin G. (a cura di), Per Vittorio Castagna. Scritti di geografia e di economia, Cedam, 2000, pp.237238. 16 44 La terza ipotesi, riportata dall'abate e avanzata da storici padovani e veronesi17, poggia sull'affermazione di una discendenza degli attuali Cimbri dai Tigurini18, antichi abitanti dell'Elvezia. La bellicosa popolazione dei Tigurini, spinta dal bisogno di nuove terre, invade a ovest la valle del Rodano sconfiggendo i Romani guidati dal console Lucio Cassio, e attraversa a est le Alpi Noriche irrompendo sui monti Lessini e preparandosi a calare nella pianura padana. Lo storico Lucio Anneo Floro narra di come i Tigurini, stretta un'alleanza con i Cimbri, quando questi si trovano in difficoltà ai Campi Raudii, non rispettino il patto di reciproco aiuto preferendo stabilirsi definitivamente nel Norico e dando origine alla schiatta delle genti che oggi chiamiamo cimbre. Dal Pozzo evidenzia l'inconsistenza di tale teoria; secondo il suo parere i Tigurini, in seguito alla sconfitta dei Cimbri, sarebbero infatti tornati alle loro terre d'Elvezia proseguendo la loro corsa per la conquista che ne causerà lo sterminio qualche decennio dopo. Numerose e controverse sono le fonti storiche a cui attinge l'autore per illustrare la quarta opinione fondata sull'ipotesi di una radice alemanna dei popoli Cimbri. L'origine degli Alemanni va ricollegata alla conquista romana della Germania, alla distruzione dei Sicambri19 e all'emigrazione di Marcomanni20 e Svevi verso la Boemia, spinti dalla minacciosa e inarrestabile avanzata delle legioni romane. Un tale movimento di popoli determina un vuoto nel territorio situato nel tratto di Svevia lungo il Reno, delimitato a nord dal Meno e a est dall'alto corso del Danubio. In seguito all'occupazione di questo territorio, i Romani si adoperano per il ripopolamento della zona richiamando genti vicine, in particolare Elveti, Sequani21, Galli e Germani. Da un simile coacervo di popoli nasce la 17 Cfr. le ipotesi di Giovanni Costa Pruck riportate in seguito. Antica popolazione celtica, i Tigurini formano il ramo più importante degli Elvezi. Sospinti dai Cimbri, minacciano la Gallia meridionale (108 a. C.) e attaccano un esercito romano (107 a. C.), che distruggono, uccidendo anche il console Lucio Cassio Longino. Capo di tali imprese è Divico, lo stesso che viene gravemente sconfitto da Cesare nel 58 a. C. 19 Popolo della Germania antica, stanziato sulla destra del Reno. Si salvano da una spedizione punitiva di Cesare, fuggendo verso oriente, nel 55 a. C. Nell'8 a. C. vengono sconfitti da Tiberio, il quale trasferisce i prigionieri sulla riva opposta del Reno. 20 Popolo germanico della stirpe dei Suebi, stanziato tra il medio corso dell'Elba e l'Oder. Durante l'ultimo decennio avanti Cristo, i Marcomanni emigrano nel paese dei Boi, l'odierna Boemia, dove, grazie all'opera energica del loro re Maroboduo, raggiungono l'apogeo della loro potenza estendendo il loro dominio su molti popoli vicini. Dopo la morte di re Maroboduo, i Marcomanni vengono dominati da principi spesso imposti da Roma. Numerose guerre vengono combattute sul Danubio dall'imperatore Marco Aurelio contro i Marcomanni. Tra il V e il VI secolo d.C. il loro nome scompare: probabilmente, sospinti da altri popoli, si spostano in Baviera. 21 Antica popolazione gallica abitante gli odierni territori del Giura, Doubs, Alta Saona e parte dell'alto Reno, con capitale in Vesontio (Besançon). Sono ricordati durante le campagne galliche di Cesare (58-52 a. C.) come avversari degli Edui e 18 45 nazione degli Alemanni, o Allemanni, termine che significa appunto <<ogni sorta di uomini>>; dal nome della regione abitata, gli Alemanni vengono chiamati anche Svevi. A distanza di due secoli dalla sua formazione, il popolo degli Alemanni comincia a spostarsi verso le terre del sud e, nella prima metà del primo millennio dopo Cristo, invade la Rezia e irrompe in Italia. Tra le numerose battaglie che gli Alemanni combattono sul territorio italiano contro l'Impero Romano, i sostenitori dell'origine alemanna dei Cimbri riportano quella del 368 d. C., presso il Lago di Garda, battaglia che vede gli Alemanni soccombere di fronte alla superiorità dell'esercito romano. Secondo i sostenitori dell'ipotesi alemanna, dunque, i sopravvissuti al massacro avrebbero riparato sulle montagne veronesi e vicentine e sono quindi da considerarsi i padri dei Cimbri di oggi. L'abate Dal Pozzo fornisce un ulteriore elemento che costituisce il cavallo di battaglia dei sostenitori di questa quarta ipotesi: in conseguenza dell'emigrazione massiccia degli Angli verso la Bretagna, lo spopolato territorio della Sassonia viene occupato da consistenti nuclei di Svevi o Alemanni. I nuovi popoli prendono il nome di Sassoni, ma continuano a parlare il proprio dialetto alemanno, dialetto del quale si trovano interessanti coincidenze nel dialetto cimbro veneto. Solitamente l'abate Dal Pozzo mantiene una certa prudenza e obiettività nell'esposizione delle varie opinioni riguardanti l'origine dei Cimbri; tuttavia, nei confronti della quinta ipotesi, il registro dell'autore cambia del tutto esprimendo apertamente un forte dissenso. La quinta teoria viene formulata dall'umanista vicentino Antonio Loschi il quale, nella sua opera Compendio storico, dichiara essere "...gli abitanti dei Sette Comuni terribili e cervicosi, reliquie degli Unni...". Tale ipotesi, che trova molti sostenitori, dimostra la scarsa conoscenza non solo della storia, ma anche delle abitudini e della lingua di questi popoli, decisamente lontane da abitudini e lingua degli Unni. L'autore nota infatti che la crudeltà, la ferocia e le violente consuetudini degli Unni sono assolutamente estranee all'indole delle genti che popolano i monti veneti e trentini. Tra i teorici della sesta ipotesi sono presenti letterati vicentini: Francesco Scoto, nell'opera Itiner Italiae edita a Vicenza nel 1610, a proposito degli abitanti dei Sette Comuni afferma che "...molti credono che queste genti siano reliquie de' Goti...". Già nel 1598, il conte Francesco Caldogno, colonnello delle milizie dei Sette Comuni, viene inviato dalla Repubblica di Venezia a esaminare i confini territoriali con l'impero asburgico nelle Alpi vicentine. Nella sua Relazione manoscritta sulle Alpi vicentine, Caldogno scrive: "Questi uomini delli Sette Comuni, siccome tutti gli altri delli monti vicentini, per l'ordinario, parlano in tedesco, con tuttoché molti abbiano anco la lingua italiana; ed è comune opinione che siano di nazione Goti, Ostrogoti, ovvero Cimbri, che quindi dei Romani, e più tardi come alleati di Vercingetorige. 46 già vennero per debellare l'Italia, e, da' Capitani Romani rotti e vinti, si ridussero sopra li monti vicentini. Né sono molte decine di anni, che parte di loro vicini alla città hanno persa quella lor lingua, che appunto è la medesima de' Goti, co' quali parlando insieme, benissimo l'intendono; sebbene anco, in qualche parte, hanno questa intelligenza di lingua con il resto delle genti d'Alemagna, da' quali anco poco discordano, tenendo questi come quelli del selvatico, e servando ancora la fortezza e robustezza di corpo ed animi loro; molto disposti per le bene qualificate membra a tollerar qualunque fatica e disagio." (citato in Bonato S., Rigoni p., 1987, p. 57) Secondo tale ipotesi, dei Goti scampati alla sconfitta inflitta loro dai generali Belisario e Narsete, durante la guerra greco-gotica (535-555 d. C.) voluta dall'imperatore Giustiniano, alcuni si sottomettono, altri fuggono tra le montagne della Rezia e altri ancora trovano ricovero sui monti vicentini e veronesi. L'autore afferma che esiste una memoria manoscritta lasciata da Gianmaria Forte, antico Rettore della Chiesa di San Rocco di Asiago, che contiene nomi di famiglie di stirpe gota, prime abitatrici della piana dove in seguito è sorta Asiago. L'ultima ipotesi presa in esame dall'abate Dal Pozzo si impernia sulla convinzione che l'origine degli attuali Cimbri sia da far risalire a una immigrazione secondaria, avvenuta sotto gli Ottoni. Nel 952 d. C. Ottone I separa dal regno d'Italia tutto il territorio fra l'Adige, il mare e l'Isonzo e, con i nomi di <<Marca di Verona>> e <<Marca del Friuli>>, lo annette al Margraviato di Carinzia, dipendente dal Ducato di Baviera, retto allora da Enrico, fratello di Ottone. Scopo dell'imperatore sassone è quello di assicurare un varco agevole e sicuro per ogni eventuale transito degli eserciti tedeschi; inoltre Ottone I manda coloni con l'intento di germanizzare la zona. Da tali coloni, quindi, deriverebbero gli odierni Cimbri. Il grande merito dell'abate Agostino Dal Pozzo è quello di avere riportato le sette ipotesi nel pieno rispetto di una autentica imparzialità: tale atteggiamento è dimostrato dalla serena esposizione delle sette teorie e dalla libertà lasciata al lettore nella scelta dell'ipotesi a cui dare credito. Uniche eccezioni a tale spirito di obiettività sono le critiche rivolte alla seconda opinione, che come ormai noto deriva da un errore storico, e le critiche alla quinta opinione, che scaturisce da una superficiale conoscenza dei fatti storici. Degne di nota sono anche la forma dimessa, l'assenza di posizioni cattedratiche e la volontà di non imporre alcuna verità assoluta: ogni facoltà decisionale viene rimessa al lettore. 47 Cronologicamente22 il primo studioso che, sulla base delle proprie conoscenze di idiomi germanici, abbia negato sistematicamente l'origine cimbra delle genti che popolano i monti veneti e trentini è l'abate Giovanni Costa Pruck, nato ad Asiago nel 1737 e morto nel 1816. L'abate sostiene non solo l'infondatezza della presunta fuga dei Cimbri, sconfitti e sterminati dai Romani nelle valli alpine, e la nostra quasi completa ignoranza rispetto alla lingua parlata da questo antico popolo, ma soprattutto il fatto che il danese, parlato da secoli nella patria originaria degli antichi Cimbri, non ha nessuna somiglianza con i dialetti germanici parlati sul versante italiano delle Alpi, simili piuttosto a quelli parlati in Svizzera, Austria e Germania meridionale. In virtù di tali convinzioni, l'abate tenta di ricollegare l'idioma parlato in Veneto e Trentino a qualcuno dei dialetti germanici sopra ricordati: nella sua Dissertazione sulla origine cimbrica delle popolazioni delle Alpi vicentine, veronesi, trentine e sauriche, datata 5 febbraio 1789, l'autore sostiene che progenitori degli attuali cimbri potrebbero essere i Tigurini, che avrebbero parlato un dialetto simile a quello parlato dai Cimbri veneti e trentini. Tuttavia, l'autore non è in possesso di dati storici e linguistici certi, dati necessari a dare una base di verità a una intuizione non del tutto errata. I numerosi studi successivi hanno, infatti, confermato la tesi generale di una stretta parentela del "cimbro" con i dialetti tedeschi meridionali. La ricerca delle perdute origini delle genti germanofone, conosciute dai più con il nome di <<cimbri>>, ma che Cimbri23 non sono, annovera un cospicuo gruppo di studiosi che continua a crescere anche oggigiorno. Conseguentemente, risulta impossibile, oltre che poco utile, analizzare ogni singola posizione a riguardo, a maggior ragione in considerazione del fatto che molte di esse sono prive del minimo senso storico e quindi fuorvianti. Tuttavia, prima di passare all'analisi dei percorsi seguiti dal popolo Cimbro, trovo utile soffermarmi a esporre le teorie di una importante personalità del panorama di conoscitori della <<questione cimbra>>: il glottologo tedesco Bruno Schweizer (1867-1958). 22 Il motivo per cui ho deciso di trattare per prima la figura dell'abate Agostino Dal Pozzo è dovuto, semplicemente, alla mia volontà di maggior chiarezza espositiva: la dettagliata analisi di Dal Pozzo rende, infatti, decisamente più agevole la comprensione delle successive opere relative agli studiosi analizzati in seguito. Va notato, tuttavia, che i due religiosi sono contemporanei e che mentre l'opera di Costa Pruck è stata pubblicata quando l'autore era ancora in vita (1789), l'opera di Dal Pozzo è postuma ed è stata scritta nell'arco di una vita intera. Inoltre, i due si conoscevano ed erano al corrente dei rispettivi studi. 23 In considerazione del fatto che il popolo in esame è conosciuto da molti con il nome di Cimbro, continuerò a chiamare il suddetto popolo con tale denominazione, pur nella consapevolezza di compiere una imprecisione terminologica. Va comunque detto che la denominazione di <<Cimbri>> è ampiamente accettata anche dai vari musei e istituti di cultura a essi dedicati: pare proprio che i sostenitori della seconda ipotesi abbiano in parte vinto! 48 Lo Schweizer è autore di un copioso numero di studi che abbracciano tutti i campi di indagine sulla storia e sulla lingua dei Cimbri che popolano Veneto e Trentino: le analisi del glottologo, infatti, comprendono non solo accurate riflessioni squisitamente linguistiche, ma anche ricerche sulla religiosità di queste genti, sulle tradizionali attività legate al volgere delle stagioni, sulle credenze popolari, sull'abbigliamento, sull'alimentazione e su quant'altro caratterizza questa particolare popolazione. Gli scritti dello Schweizer sono il frutto di osservazioni dirette sul territorio e, quindi, di meditazioni condotte alla luce di una vasta conoscenza storica e linguistica. Di grande interesse è il metodo di screening scientifico ideato e utilizzato dal glottologo: esso è fondato su un questionario, minuziosamente diviso per argomenti sulla base di una preliminare ricognizione della materia di studio, che lo studioso sottopone oralmente alla gente dei comuni e che egli stesso compila. Gli argomenti contenuti in tale questionario riguardano tutti gli aspetti che possono stimolare non solo la notizia, ma anche uno spontaneo fervore narrativo nella persona interpellata: i temi principali sono dunque la lingua (capacità di parlarla e capirla), la vox populi sull'origine dei Cimbri, le superstizioni, le tradizioni, le creature fantastiche, la concezione dei rapporti familiari, le arti, i mestieri, la musica, gli antichi proverbi, la rappresentazione della natura e il folclore. In questo modo, lo studioso ottiene non solo una ima ricostruzione socio-culturale di queste remote comunità alloglotte, ma soprattutto consegue la consapevolezza di quel fenomeno di contaminazione linguistica che avviene attraverso il graduale adattamento della parlata cimbra alla morfologia della lingua italiana. I risultati sintattici, grammaticali e fonetici di un simile processo vengono, in un secondo tempo, classificati e codificati secondo precisi canoni glottologici. Il fenomeno linguistico maggiormente studiato dallo Schweizer è quello del consonantismo, ma non mancano dissertazioni sulla comparazione sistematica tra l'Antico e il Medio Alto Tedesco e sulle relative delucidazioni etimologiche. Per quanto concerne la questione dell'origine dei Cimbri, la posizione dello Schweizer è riconducibile alla sua profonda competenza nel campo della dialettologia tedesca e della filologia germanica: tale posizione è espressa, con il supporto di fondate analisi, nel testo di una conferenza che l'autore tiene a Zurigo nel 1948. Il testo è interessante non tanto per novità di contenuto, quanto piuttosto per la chiara sintesi della posizione dello Schweizer sulla <<Questione longobarda>> che è anche <<Questione Cimbra>>24. Infatti, l'autore scrive: 24 I termini <<Questione longobarda>> e <<Questione Cimbra>> sono riportati direttamente dal testo della conferenza del 1948. Per quanto riguarda la traduzione di tale testo, mi rifaccio a quella di Vinicio Filippi in Nordera C. (a cura di), Settecento anni di Taucias Gareida, Giazza (Verona), Edizioni Taucias Gareida, 1987. 49 "Per <<Questione longobarda>> intendo semplicemente quella della sopravvivenza di tale popolo dopo il crollo del suo regno con la caduta di Pavia nel 774. I longobardi non vennero né estirpati né trasferiti, ma rimasero dov'erano, e si sa che si erano mostrati sorprendentemente sani, di persistenti caratteristiche e fecondi. E' del tutto irragionevole che siano scomparsi, e l'usuale espressione per scusare la nostra ignoranza è che <<i longobardi sono stati assorbiti nel popolo italiano>>."25 (p. 13) Queste riflessioni iniziali anticipano il punto di vista da cui l'autore intende affrontare il problema relativo all'origine dei Cimbri; egli è, infatti, persuaso di una possibile discendenza delle genti alloglotte di Veneto e Trentino dai Longobardi. Lo Schweizer, attraverso un complesso itinerario storico-linguistico, giunge ad asserire la decisiva influenza di duecento anni di regno longobardo sullo sviluppo culturale italiano e occidentale; prova ne siano le rimarchevoli tracce lessicali longobarde presenti nella lingua italiana. E proprio una lunga e particolareggiata serie di analisi linguistiche porta l'autore ad affermare: "Ricavando da queste e simili constatazioni le conseguenze conclusive riguardo all'origine, pervengo al risultato che i cimbri sono saliti alla loro patria odierna da un territorio a coltura di cereale e con case di pietra nella pianura meridionale della Val Padana: ne offre testimonianza anche l'appartenenza delle parrocchie. Essi devono, inoltre, venire da un luogo dove sono vissuti per secoli assieme a gente neolatina in area a lingua mista." (p.27) Lo Schweizer, dopo aver spiegato che durante il regno longobardo si era formata in Italia una grande isola linguistica e dopo aver documentato che Vicenza era il principale centro di irradiazione di nomi longobardi, conclude la prima parte della conferenza con le seguenti parole: "Poiché ora da una parte possiamo supporre fra i longobardi un continuarsi della loro lingua fin entro il X-XI secolo e dall'altra, in base a criteri storici e linguistici, dobbiamo porre la prima comparsa dei cimbri proprio in questo tempo e in questo luogo, così non c'è alcun motivo ragionevole per doversi negare che i due popoli siano entrati in reciproca connessione. Il problema dell'origine dei cimbri va in qualche modo collegato con la questione della scomparsa dei restanti longobardi, 25 Schweizer B., "Questione longobarda questione <<cimbra>>", Settecento anni di Taucias Gareida, Giazza (Verona), Ed. Taucias Gareida, 1987. 50 benché si debba lasciar aperta la possibilità di un certo influsso aggiuntivo dell'etnia franca, alemanna e bavarese." (p. 28) Nella seconda parte della conferenza, lo Schweizer si propone di dare una soluzione plausibile a due interrogativi fondamentali: il primo esprime l'esigenza di indagare le cause della presenza dei Cimbri sulle montagne (dal momento che l'autore afferma che i Cimbri sono venuti dalla pianura), il secondo interrogativo esige un canone interpretativo dell'evidente differenza tra il cimbro attuale e la lingua longobarda, ricostruibile in base ai termini dei documenti e agli imprestiti linguistici. Per rispondere al primo dei due interrogativi, l'autore rimanda alla consuetudine del popolo longobardo, ma non solo, di proteggere i confini del regno tramite insediamenti limitanei di arimanni, a cui viene dato un lembo di terra da coltivare. Gli arimanni ricevono, inoltre, il possesso di monti boschivi e di alti pascoli, gli stessi dove oggi vivono i Cimbri. Tali insediamenti portano a una concentrazione dell'elemento etnico germanico: non è dunque da escludersi che nel territorio occupato dagli arimanni si sia conservato qualche resto della lingua e della cultura longobarda più a lungo che altrove. Con il passare del tempo, gli arimanni decidono di prolungare il soggiorno nelle malghe anche durante la stagione invernale: "Singoli figli tardivi delle comunità arimanne - che nel medioevo finale i dotti ascrissero di cimbri di Mario, poiché ci si vergognava di discendere dai decaduti longobardi - alcuni di tali figli, i quali altrimenti avrebbero dovuto guadagnarsi la vita lavorando come pastori e giornalieri, si stabilirono nella terra comunale fino ad allora disabitata e appena utilizzata, che avevano conosciuto durante il lavoro estivo. Divennero pertanto coloni indipendenti da fratelli e parenti." (p. 30) Prima di rispondere al secondo interrogativo, l'autore si sofferma a considerare i punti di contatto tra Bavaresi e Longobardi: secondo lo Schweizer, infatti, le due stirpi sono strettamente imparentate e, per un certo periodo, divengono solidali a causa dei minacciosi Franchi, nemici comuni. "Naturalmente, questo portò ad un vivo scambio culturale, che in prima linea si operò da sud a nord, come testimoniano molti ritrovamenti in tombe a schiera bavaresi. Più tardi la Baviera persino adì una parte dell'eredità longobarda, quando vennero sotto la sua signoria per cinquant'anni le marche di Verona, Trento e del Friuli costituite nel 951. Per l'ormai maggior influsso bavarese possiamo determinare un progredire in direzione a sud di fenomeni linguistici e culturali bavaresi." (p. 31) 51 Tale reciproca influenza spiegherebbe, secondo l'autore, la presenza nella parlata cimbra di sedimenti linguistici risalenti all'antico bavarese. Inoltre, lo Schweizer narra di come abbia scoperto, durante un periodo di studi trascorso a Roana nel 1942, tra le numerose parole cimbre di possibile origine longobarda, una sorta di espressione composta il cui suono e significato rimanderebbero al longobardo antico. Quindi, secondo quanto detto in conclusione dall'autore "Corrono, dunque, immediate relazioni linguistiche risalenti dai cimbri odierni ai veri longobardi antichi. Va senz'altro supposta l'inclusione di preesistenti frammenti etnici di goti, gepidi, alemanni, franchi e bavari, come il forte influsso dell'anteriore popolo latino autoctono. [...] In ogni caso, con la mia ipotesi di lavoro poggiante su nuovo materiale credo di offrire agli studiosi futuri una guida, con la quale indicare daccapo il problema longobardo in connessione con quello cimbro. Se le linee tracciate si dimostrino conclusive, dev'esser provato ancora a livello storico, giuridico, folcloristico e onomastico." (p. 33) 52 3.2. I percorsi del popolo cimbro Le indagini, tese a chiarire l'origine dei Cimbri, nella transizione attuale non hanno ancora fornito elementi di assoluta evidenza che possano motivare una scelta definitiva tra il florilegio di tesi e di argomentazioni in proposito. La tendenza generale da parte di ricercatori e di appassionati è quella di dare credito ad alcuni documenti che testimoniano uno stretto collegamento, già a partire dal X secolo, tra l'area linguistica tedesca e i territori delle province di Trento, Verona e Vicenza. É quasi certo che, proprio tramite tali relazioni (la diocesi di Frisinga, ad esempio, possedeva terre confinanti con i Sette Comuni vicentini), siano giunti, a partire dall' XI e dal XII secolo e in tempi successivi, coloni provenienti dalla Baviera e dall'Austria occidentale e diretti nelle province trentine e venete. La più antica colonia cimbra è quella dei Sette Comuni, che si trovano sull'Altopiano di Asiago; purtroppo, nessuno studioso è ancora riuscito a stabilire il periodo preciso di questa prima ondata immigratoria, anche se sembra che questa sia da collegarsi agli incentivi offerti da vescovi, di origine tedesca e appartenenti alle diocesi di Vicenza e di Verona (9831122 d.C.), ai coloni che decidono di stabilirsi sul territorio e di renderlo coltivabile. La variante linguistica parlata nei Sette Comuni presenta alcune caratteristiche dell'Antico Alto Tedesco26, idioma della Germania meridionale parlato tra il 750 e il 1050 d. C. circa: tale circostanza ha permesso agli studiosi di dichiarare che i coloni sono originari del Tirolo occidentale. Dopo un certo periodo di tempo, alcuni di questi coloni decidono di lasciare l'Altopiano di Asiago e di spingersi verso ovest, nella zona di Posina27, probabilmente sollecitati dalla necessità di trovare nuove terre da coltivare e da abitare. Tuttavia, trascorso qualche anno, un gruppo di coloni raggiunge l'altopiano della Folgaria e si insedia nella zona di 26 La lingua tedesca si divide in due gruppi principali: il basso tedesco, parlato nelle pianure settentrionali, e l'alto tedesco, parlato nelle zone montuose meridionali. I due aggettivi "basso" e "alto" si riferiscono, dunque, a pianura e a montagna. Approssimativamente, la linea che divide le due parlate va da Colonia, a ovest, fino a Dresda, a est. L'alto tedesco si divide ulteriormente in due gruppi: il medio tedesco e il tedesco meridionale (o superiore). Il tedesco meridionale abbraccia le regioni dell'Alsazia, della Germania meridionale, della Svizzera e dell'Austria; esso è a sua volta diviso in tre sottogruppi che sono il francone superiore, l'alemannico e il bavarese. Gli studiosi hanno appurato che le parlate cimbre derivano dall'ultimo dei tre sottogruppi: il bavarese. Inoltre, si è potuto stabilire che esse provengono da uno specifico punto geografico dove il bavarese si trova a stretto contatto con l'alemannico, vale a dire dal Tirolo occidentale. 27 Posina, che si trova a sud-ovest rispetto ai Sette Comuni Vicentini, forma, assieme alla zona di Recoaro e della Valdagno, il cosiddetto "corridoio cimbro di Recoaro". Tale termine è stato coniato per testimoniare il temporaneo insediamento dei coloni settecomunigiani in questa porzione di terra veneta, prima della loro definitiva destinazione in Folgaria. 53 Lavarone, per poi occupare la zona di Luserna. Inoltre, sempre partendo da Posina, altri coloni trovano una dimora definitiva in varie zone dei monti vicentini. Nel 1216 il vescovo e principe di Trento, Friedrich von Wangen, discendente da una nobile famiglia bavarese e illustre personalità della storia trentina, promuove un'ulteriore immigrazione di coloni, provenienti dall'Altopiano di Asiago, sulle alture di Folgaria e di Lavarone i quali hanno il compito di bonificare il territorio e di costruirvi venti masi: il documento del 1216 può essere considerato, dunque, l'atto di nascita della colonia cimbra del Trentino meridionale. Tuttavia, va notato che, nonostante questi coloni siano giunti dai Sette Comuni, la variante linguistica della loro parlata è decisamente più vicina al Medio Alto Tedesco (parlato nella Germania meridionale dopo il 1050 d. C.), che non all'Antico Alto Tedesco, motivo per cui la maggioranza degli studiosi ritiene che questi immigranti siano membri di un gruppo arrivato nei Sette Comuni intorno al 1100 d. C., molto tempo dopo il primo stanziamento cimbro sull'altopiano settecomunigiano. Ciò sta a sottolineare le proporzioni e la costanza di un tale fenomeno immigratorio, un fenomeno che ha coinvolto per secoli il territorio italiano, lasciando una traccia indelebile nella memoria storica di un intero popolo. Un altro documento, fondamentale per la ricostruzione delle vicissitudini legate alle genti alloglotte che caratterizzano e arricchiscono il sostrato socio-culturale tipico dei monti veneti e trentini, è costituito dall'autorizzazione alla fondazione di una terza colonia cimbra (quella, cioè, dei Tredici Comuni), sui monti Lessini, concessa il 5 febbraio 1287 dal vescovo di Verona, Bartolomeo della Scala, a due uomini entrambi di nome Olderico, provenienti dai Sette Comuni vicentini. Essi ricevono, in qualità di rappresentanti del loro gruppo, il beneficio di costruire un numero imprecisato di masi (dai venticinque ai cinquanta e più) nella zona dell'odierna Roveré di Velo, in provincia di Verona. Sia l'atto di concessione che la sua conferma, avvenuta il 6 agosto 1376 per iniziativa del vescovo di Verona Pietro della Scala, estendono il beneficio a tutti coloro che si sarebbero trovati, anche in futuro, nel suddetto territorio. Il cammino del popolo cimbro sembra arrestarsi per un lungo arco di tempo; ma, trascorsi svariati secoli di quiete, un clan di Cimbri di Roana decide di abbandonare il piccolo comune e di cercare un nuovo lembo di terra veneta su cui costruire la propria dimora. Agli albori del 1800 il piccolo drappello cimbro si ferma ai margini di una fitta foresta di abeti e faggi: è il "Bosco del Cansiglio", eterno e suggestivo sito popolato da ombre e attraversato da venti gelidi. L'Altopiano di Asiago, i monti di Folgaria e di Lavarone, i Monti Lessini e la Foresta del Cansiglio: sono questi i luoghi che i Cimbri hanno scelto di abitare e di vivere; luoghi difficili, luoghi dove la natura è più matrigna che madre, luoghi dove l'esistenza è scandita dai ritmi antichi del 54 lavoro nei boschi e nei prati. Qui i Cimbri hanno vissuto isolati per molto tempo, preservando e difendendo la propria alterità etnica, culturale e linguistica. Oggi i discendenti del popolo cimbro non abitano più i villaggi che i loro padri avevano costruito; i percorsi seguiti dagli attuali Cimbri non sono più orientati verso la montagna, ma verso la valle, verso la città: nuove mete che rischiano di annullare l'identità di una stirpe remota, la cui storia è ancora in parte sconosciuta. Purtroppo, il fenomeno di graduale spopolamento che coinvolge i comuni cimbri si sta verificando su tutto il territorio montano italiano, che sta vivendo una fase di deruralizzazione: l'abbandono delle aree marginali, l'estensione degli insediamenti di fondovalle, il proliferare di strutture turistiche ad alta quota, il cessato uso della rete viaria minore o la sua riconversione a uso turistico e, ancora, il declino delle usanze tipiche, la rottura del legame risorse locali-popolamento sono tutti elementi che hanno portato alla destrutturazione dei sistemi economici, sociali e culturali caratteristici di queste zone. Tuttavia, coloro che hanno deciso di non lasciare i luoghi natii dimostrano una tenace volontà di recuperare il sostrato etno-culturale, appartenente al popolo cimbro, per custodirlo e per tramandarlo alle generazioni future. Testimonianza tangibile di tale spirito di conservazione sono le vibranti parole pronunciate da Renzo Dal Bosco, membro dell'istituto Curatorium Cimbricum Veronense, in occasione dei festeggiamenti tenutisi a Roana nel 1999 per i venticinque anni di fondazione dell'Istituto di Cultura Cimbra: "Noi siamo qui con voi per gridare, ancora una volta usando la nostra antica parlata Tauch, quanto è importante il lavoro di tutte le persone che hanno a cuore la cultura dei Cimbri. La nostra è una delle culture dette "minoritarie" ma noi pensiamo che nessuna cultura può pensare di essere superiore ad un'altra; può essere solo diversa ed in quanto tale difesa come un grande patrimonio della specie umana. Siamo contenti di festeggiare i 25 anni del vostro importante lavoro e per questo oggi siamo qui con voi, vicini, uniti. [...] Questi momenti devono servire a rafforzare il lavoro comune per la difesa delle nostre stesse origini nella speranza di poter costruire un Centro culturale unico per tutte le realtà cimbre, che superi tutti i confini, e che nessuno mai voglia sfruttare la storia dei Cimbri per scopi non culturali." (1999, p.19) 55 56 CAPITOLO QUARTO Asiago Sette Comuni 4.1. Analisi geografica e territoriale dell'Altopiano di Asiago28 L'Altopiano di Asiago [Fig. I] costituisce un vasto territorio, senza dubbio la maggiore estensione montuosa del Vicentino, compreso nella catena delle Prealpi Venete. Esso è racchiuso a ovest dalla Valle del Centa e dalla Valle del fiume Astico, a nord dalla Val di Sella e dalla Valsugana, a est dal Canale del fiume Brenta e a sud da un susseguirsi di rilievi e di avvallamenti che, in lenta successione, degradano armoniosamente verso la pianura vicentina. La regione è caratterizzata da un insieme di monti e di colline che danno vita a un paesaggio privo di contrasti netti: i profili dei rilievi non sono mai aspri e le cime delle vette sono per lo più arrotondate (fatta eccezione per le cime del margine settentrionale), testimonianza di una certa antichità orografica. I monti e le colline dell'acrocoro convergono verso una spaziosa conca centrale, lievemente mossa. Nella sua estremità nord-occidentale l'Altopiano di Asiago si collega all'Altopiano di Lavarone, in Trentino, attraverso la breve sella di Monterovere. A settentrione si trova la catena montuosa più elevata dell'Altopiano: essa è disposta ad arco ed è formata, da ovest a est, da una serie di cime, che oltrepassano quasi tutte i duemila metri, tra le quali la maggiore è Cima 12 (2.336 m.). Da questa catena montuosa, che costituisce un vero e proprio bastione naturale, si diramano verso la conca centrale (verso sud, dunque) numerose dorsali e valli tra cui le più profonde sono, a ovest, la Val d'Assa e, a est, la Valle di Campomulo-Val Frenzela. La catena montuosa meridionale, prospiciente la pianura vicentina, è caratterizzata da altitudini minori, che non superano i 1.400-1.500 metri: la cima più elevata è Cima Fonte con i suoi 1.518 m. 28 Cfr. Bonato S.,- Rigoni P., 1987. 57 Fig. I I VII Comuni Vicentini Elaborazione grafica a cura dell’autrice Complessivamente, la superficie dell'Altopiano di Asiago è di 466,68 kmq., tale misura è relativa al patrimonio territoriale degli antichi Prüdere libe29: i sette Comuni di Asiago, Gallio, Roana, Rotzo, Foza, Enego e Lusiana [Fig. II]. 29 Espressione in dialetto cimbro settecomunigiano che significa "fratelli cari", tale espressione si riferisce al profondo legame che vincola e unisce i comuni dell'altopiano, testimonianza tangibile della consapevolezza di appartenere ad una regione culturale ben definita. 58 Fig. II Stemma dei Sette Comuni di Asiago Scatto privato L'intera regione è interessata dal fenomeno del carsismo: il suolo è calcareo, pur con inclusioni silicee nel Biancone30, ed è vistosamente fessurato e fratturato da numerose spaccature che, nell'insieme, danno vita a un sistema carsico caratterizzato da grotte e da voragini molto sviluppate (carsismo antico e profondo). Tali cavità naturali, chiamate loch in dialetto cimbro settecomunigiano e buse in dialetto vicentino, presentano in superficie un ingresso circolare seguito da uno sviluppo per lo più verticale: la più abissale di tutte è la Busa di Malga Fossetta, con 492 metri esplorati 30 Il termine Biancone si riferisce al calcare compatto caratterizzato da un colore bianco latteo e da una struttura molto fine. Tale tipo di calcare è povero di fossili, esso è tipico del Giura superiore e si trova nel Veneto. 59 finora; ma decisamente profondi sono anche il Tanzerloch presso Camporovere di Roana, il Barloch in Val d'Assa, il Tagaloch presso Rotzo e la Busa dei Boi vicino Asiago. Il tavolato dell'Altopiano è composto da rocce di origine sedimentaria: di tali rocce, i tipi più diffusi sono il Rosso Ammonitico e il già citato Biancone, risalenti al Giurese e al Cretaceo. Le cime maggiormente elevate, che circoscrivono la conca centrale, sono formante dalla dolomia del Trias, la quale costituisce le fondamenta di tutto il complesso montuoso. L'Altopiano di Asiago, nonostante l'abbondante piovosità (due metri annui circa), è povero di sorgenti attive e stabili: le poche presenti sono, infatti, risorgive che si gonfiano di acqua durante il disgelo primaverile ed estivo, o in occasione di cospicue precipitazioni; tali risorgive possono trovarsi in alta montagna, nei boschi e anche in prati e in pascoli dove formano acquitrini e terreni molli31. La più importante di tali risorgive, per portata e continuità di acqua, è la Renzola, la quale scaturisce dalle falde rocciose che si trovano tra Cima Larici e il Monte Erba. L'assetto idrografico della zona è modellato dall'azione del torrente Astico e dai suoi affluenti; l'Astico nasce a nord-ovest, sull'Altopiano di Folgaria a quota 1614 m., e attraversa tutta la vallata omonima fino a Pedescala, dove riceve sulla sinistra il torrente Assa, e fino ad Arsiero, dove riceve sulla destra il torrente Posina (che scaturisce dalle pendici orientali del Gruppo del Pasubio, a quota 1300 m.). L'Assa, che nasce presso Vezzena a quota 1438 m., è un torrente che si presenta quasi del tutto privo di acqua per la maggior parte dell'anno, tuttavia esso può diventare anche molto violento durante la stagione piovosa. Una conformazione idrografica così irregolare e di carattere prevalentemente torrentizio è la causa principale del problema che concerne l'abbeveraggio del bestiame e delle mandrie al pascolo; ciononostante, tale difficile situazione è stata definitivamente risolta grazie alla formazione di conche artificiali dalla superficie limitata e dalla profondità scarsa (dal metro al metro e mezzo): le pozze d'alpeggio, unici ambienti acquatici dell'altopiano, sottoposte a un avvicendarsi di tracimazioni e di inaridimenti pressoché completi, a cui vanno aggiunti dai tre ai cinque mesi circa di gelata invernale. Le pozze d'alpeggio rappresentano un fattore determinante non solo per il delicato equilibrio ecologico dell'ambiente circostante, ma anche per le peculiari forme di vita che da esse dipendono. Tali specchi d'acqua, infatti, costituiscono l'habitat ideale per specie a larga valenza 31 Un esempio di tale fenomeno è dato dalle cosiddette torbiere: porzioni di terreno umido e cedevole tipico di pianori erbosi che, a causa di una debole inclinazione del suolo, favoriscono il ristagno dell'acqua delle risorgive. Le torbiere non sono molto diffuse sull'Altopiano di Asiago, essendo zona prevalentemente carsica; nonostante ciò esiste una torbiera di ampie dimensioni nella Piana di Marcesina. 60 ecologica, cioè specie in grado di resistere e di adattarsi a condizioni ambientali sfavorevoli. I rappresentanti principali della microfauna e della fauna minuta sono Protozoi e Rotiferi, Insetti (in massima parte allo stato larvale), come Coleotteri, Ditteri, Libellule, Ditisci (coleotteri acquatici), piccoli vertebrati, come il Tritone alpino (esile lucertola colorata), Ciclopos e Dafnie (minuscoli crostacei trasparenti, visibili anche a occhio nudo), Sanguisughe e Limnee (tipiche chioccioline dell'acqua stagnante). Inoltre, la pozza d'alpeggio è frequentata anche dall'Ululone dal ventre giallo (anfibio simile al rospo), dalla Rana verde, dalla Rana agile, dalla Rana temporaria e dal Rospo comune che, durante la stagione primaverile, utilizzano la pozza per deporvi le uova. Per quanto riguarda la flora di questo originale milieu naturale, essa consta di caratteristiche piante acquatiche (generalmente diffuse in specchi di acque stagnanti), riunibili in fasce concentriche che vanno dai margini esterni fino alla zona più interna della pozza stessa. La fascia più esterna è formata da piante parzialmente acquatiche come il Pepe d'acqua e il Nontiscordardime palustre; la seconda fascia, più prossima all'acqua, comprende numerose piante appartenenti alla famiglia dei Giunchi; infine, nella fascia più interna, vivono piante acquatiche come la Lingua d'acqua e la Gamberaia e, sul fondale, si trovano vari tipi di alghe. Il verde intenso di prati e di pascoli si alterna al verde più scuro dei boschi che ricoprono i rilievi dell'altopiano, estendendosi sia a nord che a sud. Si tratta, per la maggior parte, di boschi di conifere, ma anche di faggio oppure di boschi misti. I boschi di abete32 sono, senza dubbio, i luoghi che più incantano il visitatore che vi si addentra: gli antichi abeti sono immersi in un silenzio remoto, rotto solo dalla voce del vento o dal canto di una cincia. La fauna che popola l'Altopiano comprende tutte le specie di uccelli e di mammiferi tipici delle Prealpi: pernice, aquila reale (3-4 coppie), gufo reale, nibbio reale, poiana, astore, sparviero, falco pellegrino, civetta, picchio, corvo imperiale e, ancora, volpe, martora, ermellino, donnola, faina, tasso, lepre, capriolo, camoscio, muflone, cervo e cinghiale. L'economia locale si basa prettamente su agricoltura, allevamento, industria estrattiva, lavorazione del legno e turismo. Sull'Altopiano sono attive quattrocento aziende agro-alimentari33 specializzate in vari settori, primo fra tutti quello della produzione casearia: cinque caseifici lavorano, ogni anno, 240.000 ettolitri di latte per la produzione del celeberrimo "Formaggio Asiago". Molto sviluppati sono, inoltre, il settore destinato alla produzione di miele e di marmellate e quello destinato alla produzione di spek e di altri salumi. Notevole importanza riveste anche il settore 32 Sull'Altopiano di Asiago sono presenti venti milioni di abeti bianchi e rossi, con altezza che supera i 50 m. 33 La maggior parte di tali aziende segue criteri biologici, limitando l'uso di pesticidi chimici dannosi per l'equilibrio ecologico della regione. 61 dell'allevamento bovino, che conta circa 8.000 capi di bestiame, regolato tutt'oggi dalle antiche consuetudini legate alla alpeggio estivo e autunnale verso i pascoli di alta montagna: le malghe, aree di proprietà collettiva dove si trovano anche strutture adibite al ricovero degli animali. Un altro settore determinante per l'economia dell'Altopiano è quello afferente all'industria estrattiva di marmi (marmo rosso di Asiago e Biancone), il commercio dei quali è sviluppato sia nel mercato locale, sia in quello extra-europeo. L'industria del turismo, infine, registra una costante espansione, favorita non solo dalla possibilità di praticare una vasta gamma di discipline sportive, come alpinismo, sci di fondo, trekking, equitazione e deltaplano, ma anche dal rinnovato interesse per la storia e la cultura delle genti che abitano l'Altopiano. Il maggior numero di impiegati nel settore del turismo lavora nei comuni di Asiago, di Roana, di Gallio e di Enego: in queste località si trova la maggioranza dei servizi alberghieri, qui è avvenuta la più forte e talvolta disordinata crescita di seconde case e, infine, in questi comuni sono sorti campeggi, ostelli e colonie. Secondo alcune persone di questi luoghi, il turismo "... è un'attività che sta cambiando non solo il volto del paesaggio e l'economia, ma anche il costume e la mentalità della popolazione dei Sette Comuni, con pericoli di sviluppo squilibrato e disordinato e con possibilità di nuovo e più sicuro progresso." (Bonato S., Rigoni p., 1987, p.50) 4.2. I Cimbri dei Sette Comuni Vicentini: analisi storica e situazione attuale34 Le testimonianze più antiche della presenza dell'uomo sull'Altopiano di Asiago risalgono alla preistoria: nella Valdassa, infatti, sono state trovate numerose incisioni rupestri, raffiguranti uomini, armi e animali, fatte, probabilmente, da cacciatori che attraversavano la valle, diretti verso l'Altopiano o verso la montagna trentina, oltre duemila anni prima di Cristo. Inoltre, a nord del Comune di Rotzo si trova un reperto megalitico: una sorta di dolmen costituito da imponenti massi, disposti in forma di altare. I primi resti di insediamenti umani sul territorio dei Sette Comuni risalgono a qualche secolo prima di Cristo (sul periodo preciso permane tutt'oggi una grande incertezza) e si trovano nei pressi di Castelletto di Rotzo: si tratta del cosiddetto Bostel35 di Rotzo36, un villaggio anticamente abitato da popolazioni di origine retica o veneta e formato da circa 600 casette, interrate, con il pavimento di sabbia battuta, dotate di una piccola porta e con il tetto costruito con tronchi di albero. 34 Cfr. Bonato S.,- Rigoni P., 1987. Il termine cimbro significa stalla, rifugio o luogo nascosto. 36 Il Bostel è stato scoperto nel 1781 dall'Abate Agostino Dal Pozzo. 35 62 Il villaggio del Bostel viene abbandonato, probabilmente, al tempo dell'espansione di Roma sulle Alpi; periodo durante il quale boscaioli e pastori si insediano stabilmente sull'Altopiano. Come già affermato37, i Sette Comuni rappresentano la più antica colonia cimbra, costituitasi, a partire dal X secolo d.C. circa, in seguito agli incentivi che alcuni vescovi di origine tedesca hanno offerto a tutti coloro che decidevano di stabilirsi in quella regione e di renderla coltivabile. I Comuni di Rotzo (a ovest) e di Enego (a nord-est) sono i più antichi insediamenti dell'Altopiano; la posizione marginale dei due comuni dimostra come lo sboscamento e la bonifica siano avvenuti lentamente, dalle aree più periferiche verso il centro. Tra il XIII e il XIV secolo, i villaggi sparsi sull'Altopiano si organizzano nella Federazione dei Sette Comuni, il cui compito fondamentale è quello di difendere le esenzioni da imposte fiscali e i privilegi di ordine economico che, in passato, i vescovi di cui sopra avevano accordato ai primi coloni. Gli anni che vanno dal 1311 al 1387 d.C. vedono la Federazione dei Sette Comuni sotto la protezione degli Scaligeri, i grandi signori di Verona ai quali va il merito di aver organizzato i sistemi di difesa dell'Altopiano38; mentre dal 1387 al 1404 d.C la Federazione passa sotto la protezione dei Visconti, signori di Milano, i quali ne rispettano lo statuto, assicurandone autonomia amministrativa, esenzioni e privilegi. Nel 1404 d.C. la Federazione dei Sette Comuni fa "atto di dedizione" alla Serenissima Repubblica di Venezia: tale gesto, lungi dall'essere simbolico, impegna Venezia a conservare esenzioni e privilegi dei Sette Comuni i quali, a loro volta, sono investiti dell'obbligo di difendere i confini settentrionali, la cui importanza era strategica. La Federazione dei Sette Comuni è formata da tanti consigli quanti sono i comuni; ogni consiglio comunale ha la facoltà di discutere e di risolvere le questioni relative al proprio territorio. Le decisioni di interesse generale vengono prese da una sorta di consiglio generale, chiamato Spettabile Reggenza dei Sette Comuni, composto da quattordici agenti (due per comune), i quali tengono le proprie adunanze nel comune di Asiago. I comuni sono governati da un sindaco e da consiglieri, i quali vengono eletti ogni anno nel corso di una riunione di tutti i capifamiglia. La maggior parte del territorio è di proprietà del comune, mentre solo una ridotta area adiacente alle case è di proprietà del privato. Le malghe, di proprietà collettiva, annualmente vengono concesse in uso per l'alpeggio. Il comune, inoltre, si fa carico del dovere di fornire a ogni famiglia il legname necessario per i bisogni legati al vivere quotidiano, ma anche di dare aiuto agli indigenti, di mantenere chiese e sacerdoti39 e di sostenere ogni spesa di pubblico interesse. L'economia dei Sette Comuni si basa, prevalentemente, 37 Cfr. capitolo terzo, paragrafo 3.2. Si sono conservate fino a oggi le torri di Rotzo, nella Valdastico, e la grande Torre di Enego, in Valsugana. 38 63 sull'attività boschiva, la quale fornisce carbone e legno per l'artigianato di scatole (destinate a contenere i prodotti caseari), di mastelli e di altri attrezzi. I Cimbri dei Sette Comuni vivono anche dell'allevamento di pecore e di bovini, preziosi fornitori di lana, di carne e di latte. In questo periodo, inoltre, si assiste alla diffusione di alcune forme protoindustriali come quella relativa alla trecciatura della paglia, nei comuni di Lusiana e di Conco, o come le diverse concerie attive nel comune di Gallio. Durante gli ultimi anni del XV secolo, un grave avvenimento sconvolge l'Altopiano: l'arciduca Sigismondo, conte del Tirolo e fratello dell'imperatore d'Austria, muove guerra contro la Serenissima Repubblica di Venezia, decidendo di attraversare il territorio dei Sette Comuni, che vengono colti di sorpresa. I Comuni di Roana, di Camporovere e di Asiago vengono distrutti dalla furia degli eserciti invasori, il Comune di Rotzo riesce a difendersi, mentre il Comune di Gallio è costretto alla resa. Fortunatamente, l'invasione tedesca si arresta poiché l'imperatore d'Austria, resosi conto dei danni che la guerra arrecava ai commerci dell'impero, decide di sospendere le ostilità. Proprio in seguito a questi avvenimenti, Venezia comprende l'importanza strategica della posizione geografica dei Sette Comuni e, per questo motivo, organizza alcune milizie stanziali, che hanno il compito di difendere i confini dell'Altopiano. Nel 1508 d.C il territorio dei Sette Comuni è sottoposto a una nuova invasione da parte dell'esercito imperiale guidato da Massimiliano I, il quale discende lungo la Valdassa e travolge le difese dell'Altopiano, seminando distruzione e terrore. Una improvvisa e provvidenziale nevicata costringe la ritirata delle truppe imperiali verso Lavarone e Caldonazzo; tuttavia, poco dopo, l'imperatore riprende l'invasione dell'Altopiano con lo scopo di raggiungere Venezia, ma la strenua difesa dei Sette Comuni, divenuti una trincea inespugnabile dalla Valdastico alla Valsugana, costringe il definitivo ritiro dell'imperatore e del suo esercito. La Repubblica di Venezia, in segno di riconoscenza per la fedeltà dimostrata dai Sette Comuni, ha donato a questi ultimi la bandiera della Serenissima, la quale è conservata ancor oggi in una sala del municipio di Asiago. Il XVII secolo si apre con un evento alquanto significativo per le genti cimbre, che abitano i paesi dell'Altopiano: nel 1602 d.C., il Vescovo di Padova provvede alla pubblicazione del primo catechismo della dottrina cristiana in lingua cimbra; riconoscendo e, dunque, accettando la diversità culturale e linguistica di questo popolo. Qualche anno più tardi, nel 1605, un altro importante fatto interessa i Cimbri dell'Altopiano: un accordo tra il Vescovo di Trento e la Repubblica di Venezia, noto col nome di "Sentenza Roveretana", pone fine alle secolari liti per i confini settentrionali dei Sette Comuni. In base a questo accordo, il territorio di Vezzena viene sottratto al 39 Da notare il fatto che, fino al 1600 d.C., le parrocchie sono curate da sacerdoti tedeschi, i soli in grado di comprendere la lingua parlata dalle popolazioni dei Sette Comuni. 64 Comune di Rotzo e assegnato a quello di Levico, mentre una parte della pianura di Marcesina viene tolta al Comune di Enego per essere unita al Comune di Grigno, nella Valsugana. La vita degli abitanti dei Sette Comuni scorre tranquilla, regolata dai ritmi dei lavori stagionali, fino a quando la peste non arriva anche sull'Altopiano: corre l'anno 1631, nell'arco di qualche mese la popolazione dei Comuni di Roana, di Asiago e di Gallio viene decimata. La seconda metà del secolo non è caratterizzata da eventi di particolare importanza; mentre i primi anni del XVIII secolo sono ricordati ancora oggi per in curioso episodio, avvenuto nel 1709. Il re di Danimarca Federico IV, in visita in Italia, venendo a conoscenza del fatto che gli abitanti dei Sette Comuni parlano un idioma nordico e trovandosi nella città di Vicenza, decide di recarsi ad Asiago, dove viene accolto festosamente dalle genti cimbre, che lo salutano con le parole "Is leben unser König" (viva il nostro re). Tale reazione, da parte dei Cimbri di Asiago nei confronti del re danese, rappresenta la prova tangibile di quanto fosse radicata la convinzione di discendere da quel gruppo di guerrieri cimbri (originari della Penisola dello Jutland, in Danimarca), scampati al massacro dei Campi Raudii40. Durante il 1700, le condizioni economiche degli abitanti dell'Altopiano diventano sempre più critiche: data la decadenza della Serenissima Repubblica, gli antichi privilegi e le esenzioni da tasse e tributi vari vengono riconosciuti con difficoltà sempre maggiori. Inoltre, a causa di un costante aumento della popolazione, che non corrisponde a un altrettanto costante aumento delle risorse alimentari ed economiche, numerosi gruppi familiari sono costretti ad abbandonare i propri paesi e a trasferirsi in pianura. Durante gli anni della dominazione dell'Impero austriaco (18151866), privilegi ed esenzioni non vengono più riconosciuti, nonostante i disperati appelli che i rappresentanti dei Sette Comuni rivolgono all'imperatore d'Austria in persona. Inoltre, sulla popolazione vengono a pesare nuove imposte, che aggravano la miseria e la fame al punto da spingere molti alla fuga dai paesi dell'Altopiano verso nuove destinazioni, verso nuove possibilità di lavoro e di vita. Molti sono, in questo periodo, gli emigranti stagionali in varie regioni d'Europa e altrettanti sono coloro che, a partire dalla seconda metà dell'Ottocento, decidono di spingersi oltreoceano, verso gli Stati Uniti e verso il Brasile, abbandonando definitivamente i luoghi aviti. Coloro che restano continuano a occuparsi delle attività tradizionali: il lavoro nei boschi, l'allevamento di bovini e la preparazione di prodotti caseari, l'artigianato della lana, del legno, della paglia e delle pelli, ebbene tutte queste attività rappresentano ancora la base dell'economia di queste terre. 40 Cfr. capitolo terzo, nota 11. 65 I primi catasti dei paesi dell'Altopiano vengono fatti sotto il governo austriaco, che vuole assicurarsi una capillare ed equa distribuzione delle imposte, suscitando il malcontento della popolazione. Il dominio austriaco è mal tollerato non solo per la pesante pressione fiscale, ma anche per i sospetti, per le perquisizioni, per le catture e per le condanne contro coloro che combattono per l'indipendenza del Veneto e dell'Italia tutta. Diversi, infatti, sono i volontari di Asiago e di Gallio che partecipano alla Seconda Guerra di Indipendenza, e altrettanti sono quelli che seguono Garibaldi nella spedizione dei Mille. Nel 1864 viene steso un progetto di "Azione di Volontari sull'Altopiano dei Sette Comuni" per liberare il veneto dal dominio austriaco; ma nel 1866 la Terza Guerra di Indipendenza porta il Veneto all'Italia. In seguito all'annessione del Veneto all'Italia, anche l'Altopiano conosce una fase di trasformazioni, tra nuove e antiche difficoltà: la rete viaria viene ampliata, le abitazioni vengono ristrutturate (rimangono pochi tetti fatti di paglia, che viene sostituita da scandole e tegole), viene costruita la ferrovia che dalla pianura vicentina sale ad Asiago41, nel 1906 viene costruito il ponte di Roana sulla Valdassa, che viene abbattuto dieci anni dopo per ragioni di guerra e nuovamente ricostruito nel 1924; inoltre, tutti i paesi sono serviti da nuovi sistemi di fornitura d'acqua, nonostante le difficoltà derivanti dal territorio carsico caratteristico dell'intera regione. In tutti i paesi dell'Altopiano arriva l'energia elettrica che, oltre all'illuminazione pubblica e privata, serve ad azionare qualche piccola industria, come le segherie. Le attività tradizionali, legate all'artigianato e all'allevamento bovino, vengono affiancate da nuove attività, come la distillazione degli alcolici e come l'estrazione e la lavorazione dei marmi. Inoltre, vengono fondate numerose associazioni di cooperazione economica e circoli con finalità culturali e ricreative. Nonostante la qualità della vita tenda a migliorare, non diminuisce l'emigrazione sia verso mete lontane come gli Stati Uniti, il Brasile, l'Argentina, sia verso mete più vicine come Vicenza, Padova e Venezia: nel solo 1909 partono da Asiago ben 558 emigranti. La Prima Guerra Mondiale colpisce profondamente le popolazioni dei Sette Comuni42, i quali proprio per la posizione strategica diventano teatro di estenuanti e cruente battaglie. Dopo oltre ottant'anni dalla fine della Grande Guerra, il ricordo di quei terribili avvenimenti è ancora vivo nella memoria e negli occhi degli anziani come nelle ferite inflitte al territorio. A guerra finita, la popolazione comincia a ritornare nei paesi dell'Altopiano. Uno scenario desolante si rivela agli occhi dei profughi: paesi distrutti, cadaveri di soldati sparsi ovunque, boschi e pascoli sconvolti, residui bellici 41 La ferrovia viene ideata nel 1882 e ultimata nel 1909; essa è rimasta in esercizio fino al 1958, anno in cui è stata sostituita da un servizio di autocorriere. 42 L'aereo austriaco che sorvola continuamente l'Altopiano viene chiamato Toibel, che in lingua cimbra significa demonio. 66 accumulati in ogni dove. Vengono avviati i lavori di ricostruzione, ma le condizioni economiche sono terribilmente difficili e, per questo motivo, molti tornano a fuggire verso le Americhe e verso l'Australia. Negli anni del primo dopoguerra, dunque, l'economia tradizionale agricolo-boschiva è sempre meno sufficiente e il commercio è piuttosto limitato. Il 1926 rappresenta una data particolarmente significativa per la gente dell'Altopiano: il patrimonio territoriale dei Sette Comuni viene diviso e, così, la Federazione, che aveva unito per tanti secoli il destino di un popolo così peculiare, viene sciolta per sempre. Dopo la caduta del fascismo e la fine della Seconda Guerra Mondiale, la vita sull'Altopiano riprende tra le difficoltà di sempre. Molte famiglie emigrano a causa delle sempre maggiori difficoltà economiche, causando un ulteriore spopolamento della regione. Negli gli anni Sessanta si verifica un consistente aumento dell'attività turistica e dei processi economici a essa connessi come la costruzione di ville e appartamenti, la diffusione di una rete commerciale capillare, l'organizzazione di servizi sociali, l'allestimento di numerosi impianti sportivi e di molte infrastrutture destinate al tempo libero. Oggi, nonostante l'antica Federazione dei Sette Comuni non esista più, i problemi generali dell'Altopiano sono affrontati dalla Comunità Montana, che unisce i comuni e quasi continua la storia della Federazione di un tempo. Numerose, ad esempio, sono le attività economiche coordinate a livello di altopiano, secondo una tradizione di unione e di solidarietà che resiste, nonostante i contrasti e gli ostacoli. Significative sono, in questo senso, le parole del Prof. Sergio Bonato, responsabile dell'Istituto di Cultura Cimbra di Roana: "L'impegno di sviluppo economico e di autonomia amministrativa, lo sforzo di salvaguardia del proprio patrimonio naturalistico e della propria identità culturale, chiedono di essere legate sempre più con una profonda integrazione sul piano regionale, nazionale ed europeo." (1997, pp.47-48) 4.3. Visita all'Istituto di Cultura Cimbra di Roana Nell'agosto 2000, in occasione del mio viaggio attraverso i luoghi abitati dal popolo cimbro, ho avuto modo di fermarmi nel Comune di Roana, sede dell'Istituto di Cultura Cimbra [Fig. III A, B, C]. Quest'ultimo è stato fondato, intorno al 1970, da un gruppo di appassionati cultori della storia e delle tradizioni dei Sette Comuni che, di fronte alle trasformazioni che hanno investito anche l'Altopiano e che hanno recato profondi cambiamenti nell'economia, nel costume, nella mentalità e nella lingua, hanno sentito l'urgenza di attivarsi perché il loro patrimonio culturale non andasse completamente perduto e dimenticato. Così, il 7 luglio 1973, sorge l'Istituto 67 di Cultura Cimbra denominato Istituto di Ricerca e Documentazione Storica delle Prealpi Venete e della Lingua Cimbra e intitolato ad Agostino Dal Pozzo, il grande studioso della storia dei Cimbri43. Tra i fondatori e promotori dell'Istituto, due sono le personalità che spiccano con più evidenza: la prima è quella di Hugo Resch di Landshut, grande conoscitore del popolo cimbro, e la seconda è quella del cimbro Umberto Martello Martalar autore, oltre che di un insostituibile Dizionario della lingua cimbra dei Sette Comuni Vicentini (1974), di questa breve e sempre attuale riflessione: "Riandare al proprio passato e riflettere su quanto ci ha differenziati non è involuzione, ma riscoperta della nostra identità e riaffermazione della capacità autonoma di comunità anche piccole e di modeste risorse di avere una cultura creativa."44 43 Cfr. il capitolo terzo. Queste parole sono tratte dal testo pubblicato a cura dell'Associazione Culturale Cimbri del Cansiglio, intitolato Un anno con i Cimbri scatoleri del Cansiglio (2000). 44 68 Fig. III A Sede dell’Istituto di Cultura Cimbra di Roana Scatto privato Fig. III B e C Istituto di Cultura Cimbra di Roana, particolari Scatto privato 69 Le attività dell'Istituto comprendono una imponente opera di ricerca storica e linguistica, che si concretizza non solo con la pubblicazione di numerosi studi45, ma anche attraverso l'organizzazione di conferenze, di incontri e di manifestazioni che, spesso, coinvolgono gli altri enti di cultura cimbra46. Inoltre, l'Istituto è responsabile della preparazione di corsi di lingua e di cultura cimbra, oltre che di corsi di aggiornamento riservati ai cultori della materia. Di fondamentale importanza sono i rapporti tra l'Istituto e le associazioni di altre minoranze etnico-linguistiche d'Italia, riunite nel Confemili, e d'Europa, rappresentate dallo European Bureau for Lesser Used Languages, associazioni che, secondo il Prof. Sergio Bonato "... ci hanno aiutato a capire e a vivere la bellezza della diversità, la bellezza della appartenenza ad una specificità culturale linguistica, in questo periodo travolgente di globalizzazione, in cui ci sentiamo integrati in un mondo sempre più dilatato, tra tensioni e conflitti, e in cui sentiamo nello stesso tempo il bisogno di appartenere ad una zolla di terra, ad un lembo di cielo, ad una tradizione di vita che può ancora generare vita." (1999, p. 6) Il mio incontro con il Prof. Bonato, di origine cimbra, è stato illuminante e la lunga conversazione che abbiamo avuto mi ha fatto comprendere la complessità della questione relativa al popolo cimbro. A questo proposito, ritengo particolarmente significative le parole espresse dal Professore in occasione dei festeggiamenti tenutisi a Roana per i venticinque anni di fondazione dell'Istituto di Cultura Cimbra, parole che riassumono e specificano il contenuto della citata conversazione: " [...] La conservazione e ancora più la valorizzazione di una tradizione locale deve fare i conti con diversi fattori, con diverse dinamiche, come un nuovo equilibrio tra ambiente, popolazione e risorse; come un nuovo equilibrio tra bisogni di quelli del luogo e di quelli fuori; come un nuovo equilibrio tra cultura della tradizione e cultura della modernità; come un nuovo equilibrio tra turismo e localismo, senza ridurre la cultura locale a un teatrino per gli ospiti. É necessario riscoprire in modo nuovo, in 45 Dagli anni Settanta ad oggi, oltre al dizionario di U. Martello Martalar, sono stati pubblicati una trentina di volumi di interesse linguistico, storico e folclorico, 45 Quaderni di Cultura Cimbra (rivista semestrale dell'Istituto), documenti audiovisivi, audiocassette e raccolte fotografiche. 46 Tra cui il Curatorium Cimbricum Veronense, il Curatorium Cimbricum Bavarense, il Museo dei Cimbri di Giazza, il Centro Documentazione di Luserna, l'Istituto Mòcheno-Cimbro di Luserna e l'Associazione Culturale Cimbri del Cansiglio. 70 modo critico la nostra tradizione e la nostra situazione. La nostra tradizione non è tanto una lingua e una cultura provenienti dalla Germania e tramandate lungo dieci secoli fino ai nostri giorni, ma risulta invece una lunga sedimentazione, una lunga integrazione evolutiva di lingue e di culture diverse. [...] La nostra storia, come quella di tante regioni del mondo, apparentemente autonoma, è storia di migrazioni, di incontri, di integrazioni; come la nostra geografia, apparentemente isolata orograficamente, è una geografia di sentieri, di percorsi, di cammini senza fine. Così la nostra identità culturale non è qualcosa di fisso, di chiuso, di definitivo, ma qualcosa di dinamico, di aperto, di creativo. Oggi si parla di identità complessa, di pluralità di identità in una stessa persona, in una stessa comunità, che si sente cimbra, altopianese, ma insieme veneta, italiana, europea e, con i tempi che corrono, anche globale, planetaria. E la lingua, anche una lingua in estinzione come la nostra lingua cimbra, resta punto focale della nostra cultura, resta bussola insostituibile di connotazione e di orientamento in queste metamorfosi così confuse e in queste incerte, ma anche affascinanti peregrinazioni." (1999, pp.6-7) Sembra quasi superfluo commentare ulteriormente le considerazioni del Prof. Bonato; tuttavia, in veste di osservatrice esterna, o meglio di outsider, sento di poter aggiungere qualche spunto di meditazione. Nell'accostarmi allo studio delle minoranze etnico-linguistiche in generale, e della minoranza etnico-linguistica cimbra in particolare, ho avuto modo di convincermi, ancora più profondamente, di quanto davvero la diversità culturale sia sinonimo di ricchezza culturale e di quanto sia necessario divulgare e sostenere questa semplice verità. Oggigiorno tutti, o quasi, pensano alla globalizzazione, all'omologazione delle abitudini e dei bisogni, alla standardizzazione della produzione e dei consumi senza, tuttavia, rendersi veramente conto di cosa questo possa significare. I processi di 'diffusione delle innovazioni'47 fanno parte di ogni dinamica culturale e, dunque, è corretto pensare che ciò accada anche su una scala globale, planetaria. Nondimeno, a mio parere, non bisogna mai perdere di vista il fatto che la condivisione, sia essa politica, economica o culturale, presenta molti rischi e incertezze. Solo quando condividere significa rispettare e non imporre, solo quando condividere significa comprendere e non solo tollerare e, infine, solo quando condividere significa essere disposti ad abbandonare il proprio etnocentrismo, ebbene solo a queste condizioni è possibile accettare il concetto di globalizzazione in tutte le sue sfumature di significato. 47 Cfr. il capitolo primo. 71 4.4. Il dialetto cimbro dei Sette Comuni Vicentini L'antico idioma parlato nelle enclaves cimbre di Asiago Sette Comuni, Verona Tredici Comuni, Luserna e Cansiglio presenta alcune differenze lessicali, fonetiche e morfologiche in ciascuna delle quattro località citate48. Il dialetto cimbro parlato nei Sette Comuni vicentini è chiamato, dagli stessi cimbri, toitzes gaprecht: con il termine "gaprecht" si intende "parlata" o "dialetto"; mentre il significato del termine "toitz" non è univoco in quanto può indicare sia "tedesco", sia "austriaco". Nei Tredici Comuni veronesi, il dialetto cimbro è chiamato taucias garëida (o anche tautchas garëida); mentre la varietà dialettale parlata a Luserna è il taitsche sproche; infine, in Cansiglio si parla un dialetto quasi del tutto simile al toitzes gaprecht dei Sette Comuni, patria originaria dei Cimbri del Cansiglio. Prima di procedere all'analisi di qualche aspetto tipico del dialetto cimbro settecomunigiano49, sono necessarie ulteriori considerazioni di valenza generale. Il cimbro, come detto, presenta peculiarità uniche e poco importa considerarlo lingua o dialetto: "Tralasciamo, perché puramente accademico e a volte pretestuoso, il problema della differenziazione fra lingua e dialetto: una simile distinzione, peraltro impossibile, non ci porterebbe certamente a chiarire il problema di una corretta classificazione dei casi di difformità linguistica italiani." (Barbina, 1998, p.140) Ciò che, al contrario, va tenuto presente è che, nonostante l'appartenenza dei Cimbri a una cultura altra rispetto a quella italiana, i cognomi di questi ultimi (in tutte le quattro province), fino a quando è possibile retrocedere nel tempo, sono italiani o italianizzati, accompagnati da soprannomi cimbri per distinguere i vari rami di uno stesso gruppo familiare. É evidente che la permanenza del popolo cimbro sul territorio italiano, permanenza che dura oramai da nove o dieci secoli, ha avuto come fondamentale effetto una certa contaminazione linguistico-culturale, a 48 A questo punto è necessario ricordare che, delle quattro località, solo Luserna, in Trentino, è tuttora considerata isola alloglotta in quanto la totalità della popolazione parla correntemente il dialetto cimbro. Negli altri comuni, solo un'esigua minoranza conosce e parla la lingua cimbra, in quanto la popolazione è completamente italianizzata. Tuttavia, la volontà di non perdere definitivamente il valore culturale della propria parlata ha spinto studiosi e appassionati a tenere regolarmente corsi di cimbro. 49 Sia in questo paragrafo, sia nei successivi paragrafi dedicati alla medesima questione, presenti nei prossimi capitoli, metterò in luce solo pochi aspetti del dialetto cimbro in quanto la presente ricerca non ha la pretesa di essere uno studio glottologico, ma vuole semplicemente offrire qualche esempio significativo. 72 scapito della lingua più debole. Molto interessante è, a questo punto, riportare alcune riflessioni dello studioso Vinicio Filippi: "I cimbri chiamano la loro lingua tedesco. E così altri, in un passato più o meno lontano. Sono, quindi, i cimbri da ritenersi tedeschi? Indipendentemente dal significato (anche il più ampio possibile), che si voglia dare al termine tedesco, di per sé tutt'altro che specifico, è da considerare lo spirito cimbro. Per i cimbri, parlar tedesco non significa tout court essere tedeschi, il che essi affermano con inequivocabile chiarezza. Parlar tedesco è per i cimbri consapevolezza delle proprie origini, mantenimento dei legami culturali e affettivi con i padri, [...]. I cimbri, in altre parole, sentono la loro diversità non come opposizione, ma come integrazione, eredi, i cimbri di oggi, dell'atteggiamento civile e del comportamento militare dei loro antenati, vicini e lontani nel tempo." (1982, p. 19) Le particolarità del dialetto cimbro dei Sette Comuni sono state studiate dal Prof. Mario Scovazzi, grande conoscitore di lingue nordeuropee, il quale ha lasciato una pagina significativa che attesta l'antichità della parlata cimbra settecomunigiana, da collegare con l'antico germanico e, particolarmente, con la lingua parlata dai Longobardi: "Nelle osterie di Roana si può udire di frequente un'espressione di chi gioca alle carte: alles ögner <<tutto nostro (di noi)>>. [...] Qui ögner è un genitivo plurale <<di noi>> [...]. Nell'affine dialetto cimbro di Giazza non c'è un corrispettivo: nei Tredici Comuni il concetto di nostro è espresso normalmente con üsar. L'ögner di Roana (e dei Sette Comuni) ci riporta, invece, a un relitto della grammatica e del lessico germanici. La mente corre subito alle forme del pronome duale, così distribuite nei dialetti antichi: anglosassone uncer (di noi due), antico sassone unkero (di noi due), antico nordico okkar (di noi due), gotico ugkis (a noi due). A Roana si ebbe, evidentemente, un fenomeno di metatesi50: -gn-, in luogo di -ng-. Il tratto arcaico della parlata di Roana è tanto più interessante, in quanto nell'area antico alto tedesca la sola corresponsione è offerta dall'isolato unkër (di noi due). (citato in Bonato S., Rigoni P., 1987, p. 79) Come affermato nel capitolo secondo, uno dei momenti salienti di un'indagine di geografia delle lingue (e anche di geografia culturale) riguarda lo studio della toponomastica. Moltissimi luoghi dell'Altopiano di 50 Fenomeno che prevede l'inversione nell'ordine di successione dei suoni di una parola. 73 Asiago conservano la propria origine cimbra e sono conosciuti anche da coloro che non parlano il cimbro. La toponomastica cimbra resta, dunque, il documento più prezioso della lingua cimbra dei Sette Comuni. Di seguito sono riportati alcuni esempi, presenti in ciascuno dei Comuni dell'Altopiano51: -Asiago Büscar: boscaioli; Hintergruba: conca di dietro; Snealoch: buco nella neve; Hinterbech: strada di dietro; Raitele: posto scivoloso, posto disboscato; Ebene: luogo pianeggiante; Rendela: sorgente con ruscello; Hintertal: valle di dietro; Peroloch: tana dell'orso; Mörar: luogo paludoso; Mosele: piccole paludi; Pöslen: luogo di terra secca, magra; Perghele: piccolo monte; Törle: piccolo passaggio; Raitertal: valle carrozzabile; Prunno: sorgente, fontana. -Rotzo Rotz, rotzo: roccia, scoglio, rupe; Spitz: cima, vetta; Altenburg: antico villaggio; Altarknotto: altare di sasso o scoglio dell'altare; Ulbach: bosco in mezzo a due prati; Kroisle: crocetta; Tellale: piccola valle; Valvalstall: rifugio del lupo; Safhaus: casa del pastore; Kuvale: piccola collina; Kear: curva; Eke: collina, dosso; Mendarle: mandria; Orgaltall: valle dell'orco; Bostel, Postel: stalla, luogo nascosto, rifugio sicuro; Talecke: campi vicini alla valle; Gruba: terreno a forma di conca; Kalche: fornace della calce; Perch: monte, altura; Raut: bosco erto; Laiten: pascolo erto; Hobarbisa: prato alto (di sopra); Hute: posto di guardia; Lomase: collina rocciosa. -Roana Grabo: fossa; Koolgruba: buca del carbone; Löchar: buchi; Espen: betulle; Tanzerloch: buca delle danze; Boichte: abeti rossi; Pach: ruscello, sorgente; Engherle: piccolo prato vicino a casa; Prucka: ponte, scala; Pübel: collina; Slumpa: abisso; Oba: pascolo, fondo; Kamaunbise: prati del Comune; Lerch: larice; Ocsabek: strada dei buoi; Sunnalaita: Pendio del Sole; Kesarle: piccola casara; Perballa: trappola dell'orso; Bisa: prato; Kemming: camino; Kaltaprunno: sorgente fredda; Kalkara: luogo della calce; Kellarle: cantinetta. -Gallio Pach: ruscello; Kanottele: piccolo scoglio; Spil: capitello; Perk: monete; Sbarbatal: valle dell'orso; Tiftellele: piccola valle profonda; Stellar: stalle; Laben: pozze. -Foza Tonderecar: monte del tuono; Schintengrube: conca delle cortecce; Sonental: valle del sole; Gozar: caprai; Slunf: strettoia; Roanar: contrada, dosso; Crosebech: crocicchio. -Lusiana e Conco 51 Fonte: Bonato S., Rigoni P., 1987. 74 Anghebisele: località prativa; Banghertele: orticello; Galaita: declivio; Puffele: piccola cima; Rameston: sasso del corvo; Soster: calzolaio; Xauza: brontolone. -Enego Bisele: piccolo prato; Chemple: piccolo campo; Rindole: ruscello; Stonar: sassi; Ulbel: pozza. Si tratta, come evidente, di toponimi il cui significato è strettamente collegato alla morfologia dei luoghi, al lavoro nei boschi e sui prati, al mondo animale e vegetale, alle credenze popolari: toponimi il cui fascino antico sembra quasi stridere con la chiassosa invasione di turisti che, troppo poco spesso, sanno apprezzare e rispettare il patrimonio culturale di questa terra. 75 4.5. La letteratura cimbra dei Sette Comuni Vicentini É corretto parlare di "letteratura cimbra"? Se con il termine "letteratura" si intende, al di là di una valutazione prettamente estetica, tutto ciò che un popolo scrive e lascia di sé, della sua storia, delle sue aspirazioni e delle sue credenze, consapevolmente o indirettamente, allora è possibile affermare l'esistenza di una letteratura cimbra. Certo, non si tratta di una letteratura alta, o di un movimento letterario significativo, se paragonata alla letteratura italiana, o a quella francese, inglese o tedesca, spagnola e americana. Quello che il popolo cimbro ha voluto scrivere è dato da catechismi, da inni sacri, da canti popolari, da fiabe e da proverbi: documenti rari, talvolta anche molto antichi, che rappresentano un patrimonio culturale di grandissimo valore. I testi più antichi della letteratura cimbra si trovano sull'Altopiano di Asiago e risalgono al Cinquecento: si tratta di canti religiosi, caratterizzati da metro e rima irregolari. Un esempio tra tutti è costituito da un inno sacro, di cui è riportata una strofa di seguito, che è stato cantato ad Asiago fino all'Ottocento: Cristo è risorto Certamente da tutti i martiri, Dobbiamo esserne tutti felici E Cristo dev'essere nostra consolazione Kyrie eleison52 La prima opera a stampa in lingua cimbra settecomunigiana compare nel 1602 d.C.: essa è la Kristlike unt korzze Dottrina, traduzione del Catechismo cristiano. Tale opera è voluta dal Vescovo di Padova, Marco Cornaro, il quale, in occasione di una visita pastorale nei Sette Comuni, esprime la preoccupazione di dare anche alla popolazione cimbra, che non è in grado di capire la lingua italiana (o meglio il dialetto veneto), la possibilità di ricevere una adeguata istruzione riguardo ai principi della fede cristiana. A tal scopo, il Vescovo incarica alcuni cimbri, coadiuvati dai parroci che conoscono sia il cimbro sia il veneto, di tradurre il catechismo composto dal gesuita Roberto Bellarmino (1532-1621). Nelle ultime pagine del testo sono riportati quindici lobonghen (laudi): semplici versi che testimoniano una visione religiosa e fideistica della vita. 52 Christ ist erstanden Woll von der marter allen, Des sollen wir alle fro seyn Un Christ soll unser trost seyn Kyrie eleison Fonte: Filippi V., 1982, pp. 32-34. 76 Oltre al catechismo del 1602, esistono altri due catechismi in lingua cimbra che datano 1813 e 1842. In questi ultimi due testi è possibile notare sia l'evoluzione che il cimbro ha seguito nel tempo, sia le influenze esercitate su di esso dalla lingua italiana. Di seguito è riportato un breve brano del catechismo del 1813: Che cos'è la Speranza? La Speranza è una virtù, che ci ha donato Dio il signore, che ci fa attendere il Cielo che egli ha promesso a quegli stessi che lo seguono. Fate un atto di Speranza.53 Rimanendo nell'ambito della letteratura di carattere sacro, esiste un antico canto di Pentecoste, registrato ad Asiago, di cui non è possibile fornire una datazione precisa. É un inno alla bellezza della natura, in ogni suo aspetto, che si conclude con una preghiera allo Spirito Santo. Molto interessante è il costante uso del diminutivo che, oltre a creare la rima, dona una grande musicalità alle parole: O della terra piccoli insetti, Voi strisciate fra le erbette E volate sopra le avene e vivete fra le zolle. O in alto uccelletti, Voi volate tra i boschetti, E cantate sopra i ramicelli Vivendo tra le vallicciuole. Dio dia a voi buone briciole, E doni a voi lunghi giorni, E la salute nei piccoli insetti, E mai chiuda a voi le stradicciuole. Lo Spirito è oggi venuto Giù dal cielo Per togliere dal mondo 53 Baz ist de Speranza? De Speranza ist an virtù, ba da hatüz gaschénket Gott dar Herre, da màchtüz pàiten in Hümmel, ba ear hat vorhòacet den selben, da volghentme. Machet an atten von dar Sperànzen. Fonte: Bonato S., Rigoni P., 1987, p. 58. 77 Ogni ferocia e malvagità.54 La letteratura cimbra annovera anche raccolte di proverbi e di favole: tutta la saggezza popolare è contenuta in brevi e semplici versi, che gli anziani recitavano ai più giovani durante i filò serali. Alcuni esempi di proverbi: traduzione La volontà non può stare senza intelligenza. testo De bole mag net stenan ane sinne. traduzione Il risparmio è il primo guadagno. testo 'Z spareen ist dar earste gavin. traduzione La felicità di questo mondo si dilegua come il fumo. testo 'Z galustach von disar belte vorschbindet abia dar roch. traduzione Vuoi tu invecchiare? Non sforzarti troppo. testo Bill du doreltern? Boheftedich net zu viil. traduzione La verità si lascia ben piegare e non rompere. 54 Oh von dar earden kébelern, Iart krabelt dort de greselen Un vludart af de hébberlen Un lebet dort de béselen. Oh von dar hoghe vöghellen, Iart vludart dort de béllelen, Un singhet af di pöghelen Lebenten dort de téllelen. Gott gebach gute prösemlem, Un schenkach langhe täghelen, Un de ghesunt in Kösemlem, Un sperach nia de bëghelen. Dar Gaist ist heüte Kemmet Abe vumme hümele Zu von dar belte nemen Alla de bille un de übele. Fonte: Op. Cit., p. 56. 78 testo De baarot lazzet sich bool pûken un net prechen. traduzione Chi ha un cattivo vicino, non ha mai un buon mattino. testo Bear hat an pôsen nagenar, hat nia an guten morgont. 55 Un esempio di fiaba cimbra: L'orso Una volta io ed un altro mio compagno siamo andati su nel bosco insieme a custodire le pecore. Alla mattina presto abbiamo lasciato le pecore fuori della stalla, e le abbiamo spinte su nel bosco. Poi è comparso fuori da un cespuglio un grande orso e ha preso una pecora al mio compagno e l'ha condotta nel cespuglio e l'ha mangiata. E noi altri abbiamo sempre cercato, perché questa pecora aveva intorno al collo un sonaglio, e come l'orso la mangiava, il sonaglio titinnava, e allora siamo andati e abbiamo trovato questa pecora quasi tutta mangiata, e questo orso dallo spavento è fuggito su una gran rupe. E il mio compagno è scappato su un abete, e questo orso ha sempre guaito e il mio compagno gli ha gettato giù la sua giacchetta. E questo orso ha creduto di avere l'uomo ed è fuggito su per il bosco e ha portato dietro la giacchetta.56 Il XX secolo è caratterizzato da due fenomeni opposti, ma intimamente correlati: la decadenza e il rifiorire della cultura cimbra. La Prima Guerra Mondiale costituisce il punto di cesura: l'evento bellico 55 Fonte: Op. Cit., pp. 61-62. Dar Pèero 56 An botta ich un an andarar main ksell saint gant au in balt petanandar tzo hüütan d'ööben. As morgasen vrüün haba bar galasst ghéenan d'ööben aus 'me stalle un haba se gatraibet au in balt. Un denne ist khent aussar von anara sbrikken an gròassar pèero un hat gasnappet an ööba vomme main kselle un hat se 'me gavüart inn in de sain sbrikken un hat se ghesset. Un ba andare haba se saldo gasüüchet, ambrumme disa ööba hat gahat umme in hals an schéllele. Un biar dar péero hat se ghesst, 's schéllele hat gagillet un asò sai bar gant un haba bar gavunnet diisa ööba schiir ghesst alla. Un diisar pèero vomme khlupfe ist inkant au in an gròassa stéela. Un dar main ksell ist inkant au af an voichta. Un dar pèero hat saldo galüünt un dar main ksell hamme gajukhet abar's sain rökhle. Un asò hat diisar pèero gamòant, haban in mann, un ist inkant au vor in balt un hat gapracht naach's rökhle. Fonte: Op. Cit., p.66. 79 sconvolge profondamente l'Altopiano, provocando non solo ingenti perdite umane, ma anche definitive perdite di documenti e di testimonianze (sia letterarie, sia architettoniche) della cultura cimbra. La conseguenza di tale situazione si concretizza in un lungo periodo di ristagno culturale, che si prolunga ben oltre la fine della guerra, al termine del quale si può parlare di "risveglio" della cultura cimbra. Due sono i rappresentanti e i protagonisti principali del "risveglio" culturale cimbro durante il Novecento: Umberto Martello Martalar e Simeone Domenico Frigo. Umberto Martello Martalar (1899-1981) è originario di Mezzaselva di Roana e, come affermato in precedenza, è stato un grande animatore della cultura cimbra dedicandosi, oltre alla compilazione di un fondamentale dizionario cimbro, anche alla composizione di favole e poesie. Tra le poesie di U. Martello, la più conosciuta, considerata anche il testamento spirituale dell'autore, è la seguente, di cui riporto qualche verso: "Un albero per lapide" Non gravar mio tumulo con sepolcrali lastroni, sulla mia tomba un albero piantate, abete o larice pur sia, Non versar quindi lacrime, né sincere, né false, mentr'io con angeli o con demoni eseguo lor danze. Fratelli bianchi, rossi, neri, ecco l'ultimo passo, l'immortalità vien solo dopo il nostro trapasso!57 Simeone Domenico Frigo (1903-1976) è nato a Roana e, come U. Martello, è stato un grande appassionato della cultura e del popolo cimbro. É autore della raccolta di Favole Cimbre, pubblicata a Vicenza nel 1977, dalla quale è tratto il seguente testo: 57 "An pòom bor grabstòan" Basset net 's main grap met khnòtten un platten, Zétzamart an pòom, bòichta, tanna odar lérch, Azo süttet net séeghen, net baare net baltze, bail ich metten enghellen odar toiballen tantze. Un bìsset och lòite, baise, sbartze odar ròote, de unstèrbinghe khìmmet darnaach m'ögnarn tòote! Fonte: Filippi V., 1982, p.102. 80 Lo scoiattolo risparmiatore Tanti anni fa un vispo e furbo scoiattolino se ne stava tutti i giorni sotto gli abeti del bosco a giocherellare. L'aria era fresca, il cielo sereno e lucente. Era bello correre, saltare e divertirsi. Ma un giorno passò da quelle parti un capriolo e vedendo il piccolo scoiattolo così vispo e spensierato gli chiese: <<Tuo padre e tua madre dove sono?>>. Lo scoiattolino, sconsolato rispose: <<Da molte settimane non li vedo. Un brutto uomo li ha fatti sparire.>> Allora il capriolo capì ed ebbe compassione di quel povero orfano. E pertanto gli disse: <<Tu non devi vivere così spensieratamente. Ricordati che presto il bel tempo cesserà e verranno giorni piovosi e nebbiosi. Cadrà la neve che tutto seppellirà sotto il suo mantello bianco e allora tu resterai senza cibo e morirai di fame.>> Lo scoiattolino capì e, pur non perdendo la sua gioia, scelse una vecchia pianta, scavò sotto il suo tronco un buco e là dentro depose per una intera estate e per un intero autunno tante noccioline, cibo e altre cose. Quando venne l'inverno lo scoiattolino ebbe cibo in abbondanza così da poter aiutare, durante l'inverno, qualche altra bestiola del bosco. Da quel giorno, molti animali imitarono lo scoiattolino risparmiatore.58 58 Dar sparare haselkätzle Belz jar an lustiges un bals haselkätzle is all tage gastant untar de woichten won walde, so machan moke. D'ear war vrische; dar hümmel hotar un lichtenten, war shön lofan, springan un närrensich so spilan. Bedar an tag ginget zua an willegoaz un segenten de klone haselkatza so lustig un ane gedanke, vòrstetme. <<Wa saint dain vatar un daine mutar?>> 's haselkätze laidet anködtet. <<Se saint vile woche de segese net mear. An ornar man hatse gemacht genan dehin>>. Aso, de willegoaz hat vostant un hat gahat laid vor des armen woso. Un asò hatme köt: <<Du man net leban aso ane wissan nicht. Gadenkedich: de schönzait inget palle un kimmet's regenwetter, dar hümmel machetsich gahilwe. Wallet dar schnea un bograbet alles untar sain waizbantel un denne du bolaibest ane obes un darnach du sterbest von hungare>>. De haselkatza hat vostant un ane froa vorloran, hat gasüchet ausar an alten pom untar sain berg hat gaholt aus an loch un da innont hat sallo lògart vor an ganzen herbest, an haufen nüzzlen, obes un andare dinkete. Un wenne is kent dar wintar's haselkätzlehat gahat obes in überhülle da so mögan helfan pa wintare eppadarandar altes sächle von walde. Von demme tage vile sachen machent wia's sparare haselkätzle. Fonte: Bonato S., Rigoni P., 1987, p. 70. 81 4.6. Credenze mitiche e credenze popolari nell'immaginario collettivo dei Cimbri L'immaginario collettivo dei Cimbri è popolato da figure mitiche di vario genere, retaggio sia della tradizione appartenente all'area germanica e nordica in generale, sia di quella parte della tradizione cristiana che conserva reminescenze pagane. Un approfondito studio sulle credenze dei Cimbri nelle figure mitiche è stato condotto da Bruno Schweizer, il famoso glottologo del popolo cimbro morto nel 1958. Proprio a tale studio, intitolato Le credenze dei Cimbri nelle figure mitiche59, intendo riferirmi nel corso della seguente analisi. Il primo genere di figure mitiche studiato dallo Schweizer è quello delle "figure mitiche indeterminate": si tratta di figure prive di una fisionomia precisa, presenti in tutta l'area di popolamento cimbro. Tra di esse, lo Schweizer cita le voci: "La voce è la personificazione più semplice: è, per così dire, la personificazione in sé. Talvolta, il relatore lascia intuire quali figure mitiche suppone sotto la voce, ma più spesso non si danno affatto precisazioni. Suoni naturali inspiegabili, voci umane sconosciute ed inoltre allucinazioni di qualsiasi tipo si presentano alla gente nell'oscurità della notte come manifestazioni dell'altro mondo." (1989, p. 11) Tra le voci, ve ne sono alcune comuni alle varie aree di insediamento dei Cimbri; lo Schweizer ne elenca alcune: voce di donna che chiama una capra, voce di uomo che urla nel bosco, voce di Dio o della coscienza, voce del diavolo e voci di selvaggi (esseri demoniaci). Molte sono le storie, raccontate dagli anziani, che narrano di voci misteriose; lo Schweizer riporta numerosi esempi, come il seguente: "Andai una volta a Roana con mia sorella a prelevare la levatrice. Trovandoci a passare presso il bosco in alto, udimmo come un urlo di uomo minaccioso. La voce veniva giù verso di noi; impauriti, restammo silenziosi, non osando aprir bocca. Ma poi ci chiedemmo: <<Hai sentito?>>. <<Non senti l'urlatore che ci si avvicina dall'alto?>>. Mia sorella mi disse: <<Sento bene, ma cos'è!>> Nel frattempo eravamo giunti all'abitato, dove ancora si udiva la voce. Tornati a casa, chiudemmo l'entrata pieni di paura:a tuttora non sappiamo di che si trattasse." (p. 12) 59 Di tale opera possiedo la copia, tradotta da Vinicio Filippi, edita nel 1989 per le Edizioni Taucias Gareida di Giazza, in occasione del trentesimo anniversario della morte dello Schweizer. 82 Un altro tipo di figure mitiche indeterminate è rappresentato dagli spiriti, o spettri, in generale. Gli spettri dei Cimbri hanno tutte le caratteristiche tipiche degli spettri di altre tradizioni culturali: essi si muovono volando attraverso il vento, hanno la capacità di mutare la propria sembianza e sono in grado di trasformarsi in svariati animali, tranne che in pecore o agnelli (simboli di Cristo). Tra i Cimbri è diffusa l'opinione che, un tempo, gli spettri fossero più numerosi e più potenti di oggi: il Concilio di Trento viene indicato come l'evento che ha notevolmente diminuito la potenza degli spettri. Quest'ultima, inoltre, non ha la medesima intensità a tutte le ore del giorno: infatti, al termine del suono delle campane che accompagna la benedizione serale, gli spettri hanno il dominio. Nei posti solitari, come sulle malghe, gli uomini sono esposti più che altrove agli assalti degli spettri; per questo motivo è necessario essere particolarmente guardinghi, evitare liti con i propri compagni e pregare con zelo. La recita del rosario è considerata molto efficace contro gli spettri in quanto, date le molte ripetizioni, presenta una certa affinità con le ripetizioni delle formule magiche e, dunque, nel sentire popolare il rosario, oltre alla potenza della parola, possiede quella del ritmo. Tra le figure mitiche indeterminate, troviamo anche alcuni tipi di demoni come i demoni della malattia, che acquistano maggior forza quando si verifica una pestilenza (peste, colera e tifo), o come i Wilisten. Il termine rimanda, secondo lo Schweizer, al nome popolare antico del ceppo slavo dei Welatabi, abitanti le coste del Mar Baltico. L'autore ritiene di poter affermare che la figura di questi demoni è di eredità longobarda, in quanto i Longobardi entrarono in molteplici contatti con i popoli slavi. I Wilisten sono demoni-stregoni che attaccano donne e bambini; se questi ultimi non sono benedetti, i Wilisten li rapiscono. Esistono, inoltre, figure mitiche dotate di una specifica identità: giganti, nani, orchi e streghe sono i protagonisti di molte leggende e degli incubi dei bambini. La figura del gigante è riconducibile, secondo lo Schweizer, all'esperienza umana delle potenze superiori della natura. Ai giganti nordici del gelo e del ghiaccio corrispondono, tra i Cimbri, i giganti del tempo, i quali hanno il potere di scatenare tempeste di grandine. Inoltre, i giganti, che secondo la credenza comune abitano sulle nuvole, hanno una voce potente e sono così grandi da poter stare in piedi, con le gambe divaricate, sulle cime di due montagne. Per quanto concerne la figura mitica del nano, non esiste tra i Cimbri il corrispettivo degli elfi celtici o dei Nörkele tirolesi; tuttavia, lo Schweizer crede di poter comprendere in questa categoria una figura chiamata Salvanell o Sanguinell: si tratta di un piccolo essere di colore verde o rosso, che deriva il proprio nome dal fatto di essere uno spirito del bosco. Il Salvanell vive nelle caverne, nascoste dalla fitta vegetazione del bosco, dove tiene numerosi greggi di pecore. Di notte, questo esserino vaga sulle malghe e si introduce nei ricoveri dove viene 83 conservato il latte per impadronirsene e per berlo. Inoltre, il Salvanell ama straordinariamente le bambine di due o tre anni, che rapisce e porta nella sua caverna dove le nutre con cura e le cresce con grande affetto. Questo essere ha un carattere allegro e dispettoso, canta spesso e ride in continuazione; si diverte a leccare la fronte degli uomini scompigliandone i capelli e spaventa i bambini, suonando un campanellino. L'orco rappresenta il classico spauracchio per i bambini: esso è un essere enorme, il cui corpo è ricoperto da lunghi peli e le cui unghie sono artigli affilati. Al posto dei denti l'orco ha delle grandi zanne, che terrorizzano adulti e bambini. Nelle credenze cimbre, l'orco può anche manifestarsi come luce nei campi, come gatto, asino, cane o caprone; ma anche come gomitolo di lana, la qual cosa spaventa non poco le donne e i bambini durante i filò. A metà strada tra il gigante e l'orco sta la figura mitica del Beatrìc: un uomo di incredibile statura, che vive nelle caverne delle più erte e scoscese montagne o nelle più fitte foreste. Nessuno può dire come sia il suo volto perché chiunque vi si imbatta non osa guardarlo in faccia, tanto egli è terribile. Durante il giorno il Beatrìc rimane nella sua caverna, per uscirne solo di notte. Questo essere, di per sé, non è malvagio e non odia gli uomini (come i giganti e gli orchi); ciò che è nocivo è lo spavento che provoca in chi lo incontra. Il Beatrìc è accompagnato da un gran numero di cagnolini così pelosi che non se ne possono distinguere né le zampe, né il muso. Ciò che più spaventa di questa figura, è il richiamo che il mostro urla ai suoi cagnolini, affinché non si disperdano. Chi vede o sente il Beatrìc nelle vicinanze, deve allontanarsi dalla strada e stare immobile con le gambe strette: se un cagnolino corresse attraverso le gambe del malcapitato, quest'ultimo verrebbe immediatamente tramutato in sasso. "Una sera un sacrestano, dopo aver suonato le campane per la preghiera, stava tornando a casa, quando udì il richiamo del Beatrìc. Senza riflettere, gridò anch'egli per divertimento <<hophop!>>. Ma si mise subito a correre a spron battuto e, precipitandosi in casa per sua fortuna aperta, afferrò un crocifisso. In quel preciso istante vide alla finestra un uomo spaventoso; era il Beatrìc, che urlò:<<Se tu non avessi in mano quel che hai, ti ridurrei in pezzi piccoli come chicchi di miglio!>>. Poi scomparve, e il decano si salvò con una grande paura." (p. 91) 84 CAPITOLO QUINTO Il Comune di Luserna 5.1. Analisi geografica e territoriale dell'Altopiano di Luserna Il Comune di Luserna è situato sul confine centro-meridionale dell'Altopiano di Luserna-Vezzena (1.300/1.5000 m.s.l.m.), in posizione intermedia tra l'Altopiano di Asiago Sette Comuni e quello di LavaroneFolgaria, a sud-est di Trento, tra la Valsugana e la Valdastico [Fig. IV]. L'Altopiano di Luserna si snoda nelle circostanti zone di Folgaria e di Lavarone, fino al Passo di Vézzena (1.402 m.) da dove, attraverso l'angusta forcella della Valle dell'Assa, è possibile giungere fino ai non lontani Sette Comuni Vicentini. L'Altopiano di Luserna, assolata terrazza calcarea con inclinazione sud-ovest, è circondato da una imponente corona di cime che, partendo da sud in direzione sud-ovest, nord, nord-est, sono: il Monte Spitz di Tonezza (1.696 m.), il Monte Campolòn (1.855 m.), il Monte Cimòn (1.486 m.) sull'Altopiano di Lavarone, la Cima Vézzena (1.908 m.), la Cima Mandriolo (2.051 m.), la Cima Pòrtule (2.310 m.) e il Monte Verena (2.015 m.). I confini naturali del territorio, caratterizzato da terrazzamenti che creano profonde valli e strapiombi (con dislivelli che arrivano anche ai 600 m.), sono costituiti dal solco della Val Torra (a oriente) e dal Rio Torto (a occidente). La superficie dell'altopiano misura, circa, 20 kmq.; tuttavia, solo 8 kmq. (compresi tra le quote di 1.200 e 1550 m.) fanno amministrativamente parte del Comune di Luserna. I rimanenti 12 kmq. fanno parte, sempre dal punto di vista amministrativo, dei numerosi comuni che usufruiscono di diritti di proprietà: Levico Terme, Caldonazzo, Monterovere e Lavarone. Il Comune di Luserna è costituito da due insediamenti: Luserna [Fig. V A], che si trova a 1.333 m. di quota, è adagiata su un piccolo lembo di terra pianeggiante, a cavallo della Valle di Sant'Antonio, e Tezze [Fig. V B], a 1.288 m., che sorge in una valletta, situata a ovest di Luserna. La struttura dei due insediamenti è quella tipica del "villaggio di strada", o Strassendorf: anche a Luserna, infatti, è presente una sola strada diritta lungo la quale sono allineate le abitazioni, mentre gli orti sono posti dietro le abitazioni stesse. Sulle alture a monte dell'abitato, su porzioni di territorio pianeggiante, si trovano insiemi di costruzioni isolate che, nel dialetto cimbro di Luserna, sono chiamati Hüttn, ovvero baite. 85 Fig. IV Il Comune di Luserna Fonte: elaborazione grafica a cura dell’autrice 86 Fig. V A Comune di Luserna Fonte: Centro Documentazione di Luserna Fig. V B Veduta di Tezze al crepuscolo Fonte: Prezzi C., 1998, p. 13 87 In passato le vie di comunicazione, che collegavano l'Altopiano di Luserna con gli altri comuni della regione, erano molto poche e in pessime condizioni: si trattava, per lo più, di sentieri che, durante la lunga stagione invernale, diventavano impraticabili. La strada che conduce a Lavarone, attualmente la principale via di collegamento con il fondovalle, è stata realizzata solo tra il 1882 e il 1885; mentre, agli albori del Novecento, è stata costruita la strada carrozzabile che da Monterovere porta a Caldonazzo. Dal punto di vista dell'idrografia, l'Altopiano di Luserna è attraversato da due torrenti: il Rio Torto e il Torra. L'approvvigionamento idrico della comunità è garantito da due antiche cisterne ristrutturate, una a Luserna e l'altra a Tezze, delle quali non è possibile stabilire con esattezza la data di fabbricazione, dal momento che la data che si può leggere su di esse (1885 sulla cisterna di Tezze e 1870 su quella di Luserna) rimanda, quasi certamente, a un restauro. Flora e fauna dell'Altopiano di Luserna sono tipicamente alpine: la vegetazione, infatti, è costituita principalmente da boschi misti di faggio, di abete (bianco e rosso), di pino mugo, di pino silvestre e di larice, il sottobosco è ricco di muschi, di felci, di cespugli di sambuco, di mirtilli, di lamponi e di fragole e sui pascoli, in primavera, è tutto un susseguirsi di infinite tonalità di colore, dal giallo oro dell'Arnica montana e delle ginestrine al viola delle genziane e delle campanelle e, ancora, dal rosso degli astri alpini e dei rododendri al bianco della stella alpina; mentre le tra specie animali che abitano questi luoghi incantevoli si trovano caprioli, camosci, volpi, lepri, tassi, marmotte, faine, tassi, falchi pellegrini, aquile reali, poiane, civette, gufi, urogalli, galli cedroni e passeriformi di innumerevoli famiglie. Uno degli aspetti caratteristici del territorio di Luserna è rappresentato dagli immensi pascoli che, con malghe e baite, danno vita a un paesaggio indimenticabile. A circa 1000 m. dal paese di Luserna si trova Malga Campo60 (1.455 m.), il più antico alpeggio della zona di proprietà del Comune di Luserna, che oggi, non venendo più utilizzata, è oggetto di lavori di ristrutturazione che ne faranno un rifugio alpino. Proseguendo oltre si incontra Malga Millegrobbe61 (1.470 m.) [Fig. VI], una tra le più estese dell'altopiano, che nella stagione invernale si trasforma nel noto Centro Fondo Millegrobbe, con piste lunghe fino a 15 km. 60 Dar Camp nel dialetto cimbro di Luserna. Millegruan (dal Milch-gruam che significa pozza del latte) nel dialetto cimbro di Luserna. 61 88 Fig. VI Malga Millegrobbe Fonte: Prezzi C., 1998, p. 46 Partendo da Tezze e dirigendosi a nord, verso Monterovere, si arriva a Malga Laghetto62 (1.193 m.), così chiamata per la presenza del Laghetto di Monterovere, la quale è considerata un biotopo di grande interesse per la sopravvivenza di un ecosistema umido alpino intatto. Inoltre, non lontano dal piccolo specchio d'acqua, si trova un bosco secolare dove vive da 230 anni l'"Avez del Prinzep": un immenso abete bianco che, con i suoi 52 m. di altezza e i suoi 4,80 m. di circonferenza, è considerato il più grande d'Europa. Tra Luserna e Passo Vezzena, adagiate su di un'ampia valle, si trovano le baite del Bisele (1.383 m.), antico alpeggio costituito da tre nuclei: Case di Sotto63 (1.364 m.), Galeni64 (1.370 m.) e Case di Sopra65 (1.383 m.). A 1.541 m. di quota si trova Malga Costalta66 che, durante la stagione estiva, ospita una famiglia di Luserna la quale, da molte generazioni, porta i propri bovini su questo alpeggio. Infine, vanno sicuramente nominati i pascoli e le malghe del Passo Vezzena67 (1.402 m.): il passo conta, attualmente, 14 malghe situate dai 1.381 m. di Malga Palù ai 1.657 m. di Malga Marcai di Sopra. In numerose malghe, tutt'oggi, si lavora il latte, seguendo una antica tradizione, per produrre il rinomato Formaggio Vezzena. 62 Sea vo Monteruf nel dialetto cimbro di Luserna. Untarhaüsar nel cimbro di Luserna. 64 Galen in cimbro. 65 Obarhaüsar nel cimbro di Luserna. 66 Di grümmane bisan vo Kostalta (i verdi prati di Costalta) nel cibro di Luserna. 67 Vesan (da Wiesen cioè prati) in cimbro. 63 89 In passato l'economia di Luserna si fondava, oltre che sull'allevamento bovino e sulla produzione casearia, anche su attività ormai non più praticate: il lavoro dello scalpellino e l'arte di ricamare il pizzo con il tombolo. Oggi l'economia della zona si basa, essenzialmente, sull'allevamento bovino, sulla produzione casearia, sull'industria del turismo e sull'artigianato locale. L'industria del turismo è, senza dubbio, più fiorente sui vicini Altipiani di Lavarone e di Folgaria; tuttavia, nella stagione estiva dello scorso 2000, il Centro Documentazione di Luserna ha registrato il non trascurabile dato di 6.500 visitatori: un tale successo dimostra che la scelta di offrire un turismo culturale ed ecologico, in grado di proporre tutte le possibilità del territorio, dai forti austro-ungarici alle malghe e alle tradizioni cimbre, è quella vincente. I 6.000 visitatori annui permettono ai 320 abitanti di Luserna, che in realtà sono 200 dal momento che gli altri vivono a Trento e a Rovereto durante la settimana e tornano a Luserna nel fine settimana e per le vacanze, di tenere aperti tutto l'anno ben cinque ristoranti e un agriturismo che, con le sue 35 mucche allevate ecologicamente, costituisce una delle due aziende zootecniche del paese. 5.2. I Cimbri di Luserna: analisi storica e situazione attuale68 Quando, agli albori del XIII secolo, le popolazioni cimbre giungono sull'altopiano, esse si trovano di fronte, con ogni probabilità, a un'immensa foresta, silenziosa e remota. Tuttavia, questo bosco sconfinato era già stato abitato dall'uomo: già a partire dal Neolitico, infatti, il bacino che circonda la Valsugana vede lo sviluppo dell'attività estrattiva e della fusione del rame. Sull'Altopiano di Luserna sono rimaste alcune testimonianze di tale attività: in un sito non distante dall'abitato di Tezze, in località "Pletz von Mozze", sono stati rinvenuti, nel corso di una campagna di scavi, alcuni cocci di ceramiche e i resti di forni per la fusione del rame risalenti al 1200 a.C. Sono anche state ritrovate le scorie prodotte in seguito alle fusioni del metallo, che sembrano essere di due tipi successivi: la prima fusione ha prodotto un materiale grezzo e poroso, di colore scuro e rinvenuto sotto forma di piastre; la seconda fusione ha prodotto un materiale levigato e lucido, di colore grigio fumo e rinvenuto sotto forma di schegge di piccole dimensioni. In occasione dei citati scavi, sono stati rinvenuti anche una macina per minerali e, nei pressi di Malga Millegrobbe di Sotto, alcuni frammenti di selce. In località Obarbisele sono state ritrovate alcune lastre di pietra che, secondo molti, costituirebbero ben due Menhir e un Dolmen [Fig. VII]: i due presunti (anche se è quasi certo che lo siano) Menhir sono formati da pietre conficcate nel terreno, secondo una precisa angolazione, che segue gli assi cardinali, e secondo un'inclinazione di 60° verso est, al sorgere del sole durante l'equinozio di primavera, impedisce alle lastre di proiettare la loro 68 Cfr. Prezzi C., 1998. 90 ombra sul suolo; il Dolmen consta di una imponente lastra di pietra posta sopra due pietre più piccole, conficcate nel terreno. La superficie della pietra di maggiori dimensioni presenta una scanalatura che segue l'inclinazione dei Menhir. L'età dei due Menhir e del Dolmen sembra essere di 6500 anni circa. Fig. VII Dolmen, località Obarbisele Fonte: Prezzi C., 1998, p. 18 91 Tornando alla storia del popolo cimbro di Luserna, come affermato in precedenza69, nel 1216 il Vescovo e Principe di Trento Friederich von Wangen concede ad alcuni coloni, provenienti dai Sette Comuni Vicentini, di stabilirsi sull'Altopiano di Lavarone e su quello di Folgaria, con la possibilità di costruirvi una ventina di masi e di mettere a coltura il territorio. Il piccolo insediamento di Luserna viene citato, per la prima volta, in un documento datato 24 gennaio 1442: si tratta di un atto di vendita dal quale risulta che tale Ser Biagio vende al Duca d'Austria e Conte del Tirolo Federico (detto il Tasca Vuota) i suoi quattro masi, che si trovano sul Monte di Luserna, per una somma di 55 ducati d'oro. Trascorso un certo periodo di tempo, alcuni gruppi famigliari di Lavarone decidono di trasferirsi sull'Altopiano di Luserna. Probabilmente tale trasferimento si era reso necessario per il fatto che, al tempo dell'arrivo dei coloni cimbri, il Comune di Lavarone e quello di Folgaria erano già relativamente sviluppati e popolati: dunque, non è improbabile che una parte delle genti cimbre abbia scelto di cercare altrove la propria dimora definitiva. Per un lungo periodo, tra gli abitanti dell'"Onoranda Vicinia di Luserna" e quelli della "Magnifica Comunità di Lavarone" hanno luogo numerose dispute non solo riguardanti i confini territoriali, ma anche relative all'autonomia amministrativa: Luserna, infatti, dal punto di vista amministrativo, a quel tempo dipende dal vicino Comune di Lavarone. Tale situazione di contrasto viene risolta il 4 agosto 1780, quando il Comune di Lavarone e quello di Luserna vengono definitivamente separati attraverso un vero e proprio atto di divisione. L'isolamento di Luserna permette ai suoi abitanti cimbri di condurre un'esistenza relativamente tranquilla, dedicata al lavoro nei boschi, all'allevamento e all'artigianato. A partire dal 1715, i Cimbri di Luserna iniziano i lavori per la costruzione della chiesa e, già nel 1723, si ha notizia di una chiesa campestre dedicata a Santa Giustina, eretta a proprie spese dalla popolazione stessa. Si tratta, presumibilmente, di un edificio a carattere provvisorio, di modeste dimensioni e costruito con la tecnica del Blockbau. Nel 1745 viene eretta una chiesa in pietra nella piazza principale di Luserna; tuttavia, tale chiesa viene abbattuta all'inizio della Prima Guerra Mondiale dalle artiglierie italiane le quali, a causa del muro di nebbia, sbagliano più volte la traiettoria delle cannonate che avrebbero dovuto colpire gli austriaci. Intorno agli anni Venti viene costruita la nuova chiesa, dedicata a Sant'Antonio da Padova, situata in posizione intermedia tra l'abitato di Luserna e quello di Tezze. 69 Cfr. il Capitolo terzo. 92 La Grande Guerra rappresenta, senza dubbio, l'evento più significativo della storia di questi luoghi: gli Altipiani di Lavarone, di Folgaria e di Luserna sono stati linea di confine e fronte fino al maggio del 1916. Quasi contemporaneamente alla dichiarazione di guerra da parte dell'Italia, nel maggio del 1915, tutti gli abitanti di Luserna sono costretti ad abbandonare il proprio paese, che si trovava dalla parte austriaca del fronte, sotto una pioggia di granate. I 900 abitanti di Luserna vengono accolti in Boemia, nella circoscrizione di Aussig: il loro ritorno a Luserna deve attendere fino al 1919. Sull'altopiano rimangono solo i soldati della compagnia degli Standschützen di Luserna, alcuni operai e il curato di campo Josef Pardatscher da Salorno/Salurn, ultimo parroco tedesco del Comune. Durante gli anni precedenti lo scoppio del conflitto, il governo austriaco ordina l'edificazione di sette fortezze tra Folgaria e Vezzena, opere che rappresentano il massimo della tecnica militare dell'epoca. Tra il 1908 e il 1912 viene costruito il Forte Campo di Luserna (Werk Lusérn), costituito da un'opera principale, situata sull'altura di Cima Campo (1.549 m.), e da due avamposti situati uno a est, Viaz (1.507 m.), e uno a ovest, Oberwiesen (1.517 m.). Il Forte Campo, soprannominato "Il Padreterno" per la mole poderosa e per il grande potere offensivo, riveste un ruolo centrale, data la sua posizione strategica, soprattutto nei primi giorni del conflitto. Oggi del Forte Campo non restano che tristi ruderi, quasi un monito contro ogni guerra, i quali nell'agosto del 1993 sono stati teatro dell'Incontro ItaloAustriaco della Pace. A nord-est del Passo Vezzena, su di un'altura, sorge un altro "monumento" bellico austro-ungarico: il Forte Verle, a 1.554 m. di quota. L'opera era stata costruita per impedire che la Val d'Assa diventasse punto di facile accesso per le milizie italiane dirette a Trento. Infine, un'ultima fortezza austro-ungarica si trova a 1.908 m. di quota: si tratta dell'Osservatorio fortificato di Cima Vezzena (Spitz vo leve) che, posto sulla sommità di un precipizio, domina la Valsugana e, per questo motivo, è stato soprannominato "occhio degli altipiani". Durante la Grande Guerra, Luserna viene completamente distrutta: quando, nel 1919, i Cimbri vi fanno ritorno, non trovano che cumuli di macerie. L'intero paese, compresa la chiesa, viene ricostruito; la strada di Monterovere viene prolungata, permettendo un più agevole collegamento di Luserna con Lavarone e con Trento; illuminazione elettrica e acqua vengono introdotte in gran parte delle abitazioni. In breve tempo si registra un miglioramento della qualità della vita e un aumento della popolazione che, negli anni Venti, raggiunge i 1.200 individui. Tuttavia, con l'avvento del Fascismo, la situazione cambia radicalmente: molte persone decidono di lasciare il paese avito e di stabilirsi in Svizzera o in Sudtirolo; nel 1935, a Luserna, sono rimaste 859 anime. Il governo fascista, nel 1939, impone anche ai Cimbri di Luserna l’opzione: si deve scegliere se partire per uno 93 Stato di lingua tedesca o se rimanere in Italia, dove viene proibito di parlare nella lingua natia anche tra le mura domestiche. Così, 280 Cimbri lasciano Luserna e optano per la Germania, ma ne partono solo un centinaio: probabilmente gli altri non riescono ad accettare l'idea di un abbandono definitivo. Alla fine della Seconda Guerra Mondiale, e fino al 1967, Luserna conta 650 abitanti; ma, a partire dal 1968 con l'introduzione della scuola media unica, il paese comincia a spopolarsi: molte famiglie si trasferiscono a Lavarone e a Trento, dove ci sono scuole e opportunità di impiego stabile. Attualmente, come accennato in precedenza, Luserna ha 320 iscritti all'anagrafe: una minuscola comunità dove tutti ancora, incredibilmente, parlano il cimbro. A questo proposito Maria B. Bertoldi, nel suo libro intitolato Luserna: una cultura che resiste, afferma: "... il lusernese è introverso ma disponibile all'apertura verso lo straniero. C'è la coscienza di essere un'isola linguistica e si collabora volentieri con chi ad essa è interessato. [...] L'alta stima di sé che è propria del lusernese fa sì che egli giudichi il proprio patrimonio linguistico come una preziosa rarità e ciò spiega come tutto il paese cerchi con ogni sforzo di preservare la propria lingua." (1983, p. 35) Nonostante siano passati vent'anni dalla pubblicazione del testo della Bertoldi, le osservazioni dell'autrice sono, oggi più che mai, cariche di significati validi: durante il mio soggiorno a Luserna, infatti, ho avuto la possibilità di constatare personalmente quanto ancora la cultura cimbra sia viva e quanto sia profonda, e radicata in tutti, l'esigenza di custodire e di valorizzare con ogni mezzo la propria alterità culturale e linguistica. 94 5.3. Visita al Centro Documentazione di Luserna La fondazione del Centro Documentazione di Luserna -ONLUS (Organizzazione Non Lucrativa di Utilità Sociale) [Fig. VIII] è stata decisa dal Consiglio Comunale di Luserna/Lusérn il 5 luglio 1996, in attuazione del "Piano di sviluppo turistico di Luserna" (approvato dal Consiglio Comunale e dalla Giunta Provinciale nella primavera del 1994). Finalità principale del Centro è quella di studiare e di far conoscere tutti gli avvenimenti che riguardano Luserna e i territori circostanti. Come si legge nello "Statuto della Fondazione", essa non ha scopi di lucro e persegue i seguenti obiettivi: "- Acquisire, raccogliere, catalogare, elaborare, tradurre, pubblicare, esporre, rendere usufruibili e gestire, anche con i più moderni strumenti informatici (banca dati, banca immagini, collegamenti in rete, ecc.), tutti i documenti di qualsiasi genere (oggetti materiali mobili ed immobili compresi) relativi agli avvenimenti di qualsiasi epoca, che hanno interessato Luserna e il territorio circostante, con particolare riferimento agli insediamenti antichi e a quelli cimbri, agli avvenimenti relativi allle guerre e agli spostamenti di popolazione (colonizzazioni, evacuazioni, opzioni, emigrazioni); - provvedere al ripristino, manutenzione, gestione dei manufatti e testimonianze materiali storiche, immobili e mobili, con particolare riferimento a quelli connessi con la Guerra 1914/18, di entrambi i lati del fronte, site sul territorio di Luserna, dei comuni vicini e della Provincia di Trento, al fine di conservarle come testimonianze fruibili anche in futuro; - organizzare soggiorni culturali, visite guidate, lezioni, seminari, convegni, prioritariamente a Luserna ma anche nei comuni vicini e nel territorio della Provincia di Trento e della Regione Trentino Alto Adige, al fine di promuovere la conoscenza e lo studio obiettivo dei predetti avvenimenti storici, con adeguata considerazione dei punti di vista e dei documenti di tutte le parti coinvolte, anche al fine di promuovere la pace, la comprensione e amicizia tra i popoli e l'integrazione europea; - promuovere l'occupazione e lo sviluppo economico della locale comunità germanofona cimbra tramite le attività sopra elencate, similari o ad esse collegate o conseguenti."70 In occasione della mia permanenza a Luserna, tra luglio e agosto del 2000, ho avuto modo di visitare le quattro esposizioni presenti all'interno del Centro Documentazione: un'esposizione permanente su "Reperti ed 70 Fonte: Centro Documentazione di Luserna. 95 Oggettistica della Grande Guerra 1915-18", le altre temporanee su "La Grande Guerra: Luserna e la Val dei Mòcheni", "Die Soldatenzeitungen e i Giornali di Trincea" e, infine, "I pittori della Grande Guerra: Francesco Rizzi e Albin Egger-Lienz". Il Dott. Christian Prezzi, giovane antropologo cimbro, mi ha accompagnato attraverso le varie esposizioni, rispondendo a ogni mia domanda relativa al popolo cimbro. É stata un'esperienza unica e indimenticabile: conversare con una persona la cui diversità culturale era così tangibile ed evidente, ascoltarla parlare l'antico idioma cimbro con altre persone del Centro, provando inutilmente a intuire il senso della loro conversazione, ebbene, tutto questo è stato motivo di profondo arricchimento culturale e morale. Il Dott. Prezzi, raccontandomi la storia del suo popolo, ha voluto sottolineare il fatto che a Luserna non esistono musei dedicati alla cultura cimbra: essi non sono necessari perché gli sforzi di tutti hanno permesso alla cultura cimbra di non morire, di non diventare una materia studiata solo da pochi appassionati. 96 Fig.VIII Centro Documentazione di Luserna Scatto privato 97 5.4. Luserna: ultima roccaforte del Taitsche Sproche É difficile spiegare lo stato d'animo di chi, come me, si è trovato a percorrere le strade di Luserna e, osservando i volti delle persone e ascoltandone i discorsi, si è reso conto, quasi come un personaggio di Joyce colto da improvvisa e subitanea epifany, di aver dischiuso la soglia di un microcosmo culturale assolutamente unico, forte e fragile allo stesso tempo: forte perché antico di quasi mille anni e fragile perché costantemente minacciato da certa arroganza dei nostri tempi e dall'ombra dell'abbandono. É difficile spiegare lo stato d'animo di chi, come me, ha guardato negli occhi un cimbro di Luserna abbastanza a lungo da potervi scorgere la fierezza di appartenere a quel microcosmo culturale. Questa fierezza, in un primo momento solo intravista, ben presto diventa materiale, palpabile: la si può quasi afferrare, per guardarla da vicino, per tentare di comprenderne la forza; poi, per un breve istante, ci si sente parte della comunità cimbra subito, l'istante successivo, la consapevolezza della reciproca alterità culturale torna, inevitabilmente, alla mente. Gli uomini e le donne di Luserna, con i loro tratti somatici così marcati, con gli occhi verdi e intensi, con i capelli castani e con la carnagione abbronzata, sono gli ultimi rappresentanti delle genti cimbre che, un tempo, abitavano anche l'Altopiano di Asiago, i Monti Lessini e la Foresta del Cansiglio. Quando questi uomini e queste donne parlano tra loro, o con i loro bambini, nel Taitsche Sproche di Luserna, quella sensazione, che si prova arrivando a Luserna, di vivere l'esperienza dell'outsider, nonostante non ci si sia mossi dall'Italia, è ormai diventata certezza. A Luserna sentirsi un outsider è inevitabile; ma non si tratta, ovviamente, dell'esperienza traumatica o alienante che, spesso, hanno vissuto gli emigranti del passato come quelli dei giorni nostri. A Luserna ci si sente un outsider non perché la comunità locale ci rifiuta, al contrario la gente è molto ospitale, non solo con i visitatori occasionali, ma anche con chi decide di trasferirsi nel paese71; a Luserna ci si sente un outsider perché 71 A questo proposito, trovo assai significativo un lungo e appassionato articolo apparso il 19 gennaio 2001 sul quotidiano Alto Adige, scritto da Franco de Battaglia, di cui riporto, di seguito, alcuni capoversi: "Luserna è un avamposto del Trentino, un paese che ne racchiude come un simbolo tutta la storia, passata ma anche futura. Chi entra a Luserna non può fare a meno di avvertire subito una sensazione, di pelle: fin tanto che un paese così resiste, con la sua gente, vive anche il Trentino. Se Luserna cade invece, anche il Trentino finisce conglobato, appiattito, omologato. Finisce una storia millenaria, un'identità. Il pensiero non viene per malinconia di minoranze o per nostalgia dei vecchi tempi [...]. No, il pensiero viene proprio rincorrendo il nuovo, riflettendo su come, nel pianeta del 2000 e dei sei miliardi di abitanti, debbano essere <<reinventati>> i modi di vita, le forme di residenza. Viene pensando alla crisi dei modelli di sviluppo industrializzati [...]. Viene pensando alle <<settimane blu>> delle crociere ai 98 cultura e lingua locale lo impongono e, nonostante i lusernesi parlino perfettamente la lingua italiana (insieme alla tedesca), è difficile abbandonare l'idea di aver quasi violato, con la propria presenza, il confine sottile che protegge questa remota comunità dagli assalti dell'omologazione culturale. Eppure, questa idea così insistente e la paura, quasi, di "contaminare" culturalmente i cimbri di Luserna, gli ultimi cimbri, si rivelano infondate e, forse, anche puerili: ogni giorno infatti, gli abitanti di Luserna vincono la battaglia contro l'oblio, parlando la propria lingua e rispettando tradizioni secolari, pur nella continuità del presente. Il dialetto cimbro parlato a Luserna, il Taitsche Sproche, è una lingua antica72, dotata di una precisa struttura grammaticale; tuttavia, non essendo questa la sede adeguata per una dettagliata analisi linguistica, mi limiterò a esporre alcune delle peculiarità che rendono unico tale idioma, Caraibi, con inglobati, sulle navi in rotta verso i tropici, i ghiacci delle piste di pattinaggio [...]. Il mondo nuovo sarà invece quello in cui le vecchie marginalità torneranno a riproporsi come centrali. Modeste, ma sicure di se stesse. Non musei del passato (neppure Luserna, che pur potrebbe esserlo, e che di musei sta costruendone di importanti vuol porsi come tabernacolo solo della cultura cimbra) ma luoghi antichi che oggi mettono in gioco tutte le loro potenzialità. É quanto a Luserna sta avvenendo. Lo ha capito perfettamente una famiglia che viene di lontano, dall'estremità opposta della penisola, dalla Sicilia, [...]. L'ha capito Giuseppe Margiotta, con la moglie Orietta e i figli [...]. Sono incappati in Luserna quasi per caso, cliccando su Internet le località del Trentino. Hanno trovato un paese con cinque ristoranti e neppure un albergo, solo un cordiale agriturismo. Si sono incuriositi e sono venuti per Natale. Si sono fermati fino all'Epifania. Non hanno trovato un presepio consumistico fasullo, ma un paese vero. Niente folla, niente macchine, tanta cordialità degli abitanti.[...] <<Ritorneremo>>, ha detto Giuseppe Margiotta, e si è subito interessato se c'era da comperare qualche seconda casa. Ma Luserna, a differenza di tanti paesi del Trentino, non è in vendita. I cimbri antichi capiscono meglio degli altri, perché credono in sé stessi, i tempi nuovi. [...] Non vogliono vendere, quelli di Luserna, non vogliono cadere nell'errore di tante vallate trentine, dove le seconde case trascinano l'economia turistica nel vortice di continui rilanci, fino alla crisi finale. Meglio un passo alla volta, porte aperte per tutti, ma <<dentro>> la comunità e la loro storia.[...] Luserna è un paese dal quale la gente ha dovuto andarsene. Ora ritorna. É così anche la montagna trentina: va <<ricolonizzata>> un poco alla volta, come hanno fatto gli antichi roncatori cimbri. Va dissodato il futuro. Non serve assistere il paese come zona svantaggiata. Piuttosto i paesi vanno seguiti passo per passo, con fantasia, perché le strutture produttive corrispondano a radicamenti di vita, di famiglie. La scommessa è di respingere le aperture stagionali, che creano il deserto intorno a sé, per puntare invece a residenze familiari, che possano creare continuità, riferimento per tutto l'anno. [...] Occorre salire a Luserna per capire. [...]." Fonte: Archivio stampa del Centro Documentazione di Luserna. 72 Cfr. Capitolo terzo, nota 15. 99 supportando l'esposizione con qualche esempio tratto dalla letteratura popolare. Il Taitsche Sproche segue la flessione nominale per i nomi, per i pronomi e per gli aggettivi secondo il genere (maschile, femminile e neutro), secondo il numero (singolare e plurale) e secondo il caso (nominativo, dativo e accusativo). L'articolo è di due tipi: determinato, che segue la declinazione secondo il genere, il numero e il caso; indeterminato, che si declina secondo il genere e il caso. Inoltre, l'articolo indeterminato presenta due varianti: "a", che si usa davanti ai sostantivi che iniziano per consonante ("a bèrge", cioè "una montagna"); "an", che viene usato per i sostantivi che iniziano per vocale ("an ovan", cioè "una stufa"). I pronomi personali, che si declinano nelle sei persone e nei tre casi, presentano svariate forme: per esempio al nominativo il pronome "tu" si traduce con "du, do, tu, to" a seconda del contesto nel quale viene inserito. Per quanto concerne gli aggettivi possessivi, nel dialetto cimbro di Luserna non sono mai preceduti da alcun tipo di articolo; inoltre, anche gli aggettivi possessivi seguirebbero una declinazione specifica, ma, per la legge del minimo sforzo, essa viene sistematicamente trascurata. L'aggettivo qualificativo, invece, segue tre diversi tipi di declinazione a seconda della posizione occupata all'interno della frase. Di norma, l'aggettivo qualificativo occupa lo spazio tra l'articolo e il sostantivo e, a seconda dell'articolo che lo precede, vi si aggiungono desinenze diverse. Il Taitsche Sproche contempla quattro verbi ausiliari e svariati modi (infinito, gerundio, participio, indicativo, congiuntivo, condizionale e imperativo) e tempi verbali (presente per i primi due modi; passato per il participio; presente, passato, trapassato prossimo, futuro semplice e anteriore per l'indicativo; presente per l'imperativo e per il congiuntivo; presente e passato per il condizionale). Infine, va notato che, nel dialetto cimbro di Luserna, l'uso delle preposizioni è piuttosto complesso: la particolarità più evidente, infatti, è data dall'assimilazione della preposizione all'articolo determinato e a quello indeterminato; ma va anche detto che, a complicare ulteriormente la situazione, si aggiunge una frequente sostituzione delle preposizioni cimbre con quelle italiane. Nella consapevolezza di non aver fornito un quadro esauriente della lingua cimbra di Luserna, riporto alcuni esempi di fiabe, filastrocche e canti in Taitsche Sproche. Due fiabe di J. Bacher: L'uomo che si vede dalla luna Una volta un uomo aveva raggiunto un suo campo coltivato allo scopo di vedere (se crescevano) le lenticchie e si accorse che quelle degli altri erano molto più belle delle sue. A vedere questo fu presto pieno d'invidia e stette a pensare come potesse fare ad avere anche lui così belle 100 lenticchie e (con quel pensiero) tornò a casa. Tornando a casa gli venne a mente che era tempo di luna piena e che di notte la luna sarebbe stata bella splendente ed egli avrebbe potuto andarne a rubare. E così fece. Quando si fece notte tarda uscì e andò nel campo, dove si trovavano le lenticchie, guardò intorno e non vide nessuno e allora disse: "Bene, nessuno mi vede, perché sono solo soletto, se proprio non è la luna a guardarmi; ma della luna non ho paura, perché quella non mi può far niente". Allora si mise rannicchiato a strappare le lenticchie. Quando ne ebbe una bracciata piena pensò di portarsele a casa. Ma all'improvviso arrivò la luna, prese l'uomo e se lo portò su nel cielo,... e quando essa è piena noi vediamo ancora l'uomo sulla luna con le lenticchie sotto il braccio73. La campanella di Sant'Antonio La campanella di Sant'Antonio a Luserna, detta anche tintinnabolo, è destinata al cattivo tempo (è stata benedetta per annunciare il cattivo tempo). Una volta la suonavano mentre grandinava e all'improvviso diede col batacchio un colpo in testa ad una strega e la fece cadere dalle nubi. Da quella volta in poi la strega non andò più in giro a provocare il cattivo tempo74. Fonte: Prezzi C., 1998, pp. 10-12. 73 Dar man in maa In an stròach is da gebeest a man aus af'nan akhar z'sega di liisan, on hat geseek ke di liisan vo'n andarn (vo den andarn) laut sain viil schuanar bas de sain. On er isse-se darzurnt to (zo) sega aso on hatten pensaart bia d'ar mogat tuan zo haba er o' darsèln schuan liisan, on denna issar gekheart bodrum huam. Gianante huam issen khent in sint ke dar maa is groas un abas lauchtet-ar aso schua ke d'ar héttat gemak gian z'stoolan-ar sollane schuane liisan. On aso hattar getant. Bal's is gebeest her speet pa dar nacht, issar gant aus at's vèlt bo da soin gebeest di schuan liisan on hat geschau-get umanum on hat niamat geseek, on hat khot: "Bèn, da siikme niamat, umbrom i pin muatresch alua (aluma), bal da mar nèt zuar schauget dar maa; on vo'n maa vort'e-me nicht, umbrom darsèl mog-mar nicht tuan". On denna issar-se nidar-gehukht on hat aus-gezerrt liisan. Bal d'ar-ar hat stroach is da khent dar maa on hat genump in man on hatten gheqtrak au in humbl pit imen, ... on balda dar maa is groas, seekma' no' hèrta in man au in maa pet'n liisan untar in arm. 74 'S klökkle vo Sant Antone 'S klökkle vo Sant Antone at's Lusérn, odar dar tcintcinnavano, is gebaiget vor das schaüla bèttar. In an stroach ham-sa's gelaütet bal's hat geschaurt, on balamanhat's gèt an stroach pet'n khlechl in khopf vo' nar stria on hat-se gemèkket vo'n bolkhnen abe. On vo darsèln vèrt aus se ne-mear gant zo macha's bettar. 101 Filastrocche luserne: Mamma mia cosa mi date per cena? Un mestolo sul naso. Dov'è la mia pappa? L'ha mangiata il gatto. Dov'è il gatto? Sotto la stufa. Dov'è la stufa? L'ha rotta il bastone. Dov'è il bastone? L'ha bruciato il fuoco. Dov'è il fuoco? L'ha spento l'acqua. Dov'è l'acqua? L'hanno bevuta i buoi. Dove sono i buoi? Attaccati al carro per portare un carro di uova al prete75! Ringa rènga polenta e caglio il gatto nell'orto il cane nell'ombra chi vogliamo sposare? La Mariota Sela a chi la vogliamo dare? Al mugnaio76. Rümbl rümbl chi dà qualcosa va in cielo raübl raübl chi nulla dà 75 Mama maina/ bas gettamar tschòina?/ A kheel afte nas./ Bo ista mai töale?/ Gevrésst di katz./ Bo ista di katz?/ In untar in ovan./ Bo ista dar ovan?/ Abe geschlakt schlegele./ Bo ista schlegele?/ Vorpprunt s vaür./ Bo ista s vaür?/ Darlest s bassar./ Bo ista s bassar?/ Getrunkt di öchsla./ Bo sain di öchsla?/ Au afan krojar/ tzo nemma an bagn/ ojar in faff! 76 Ringa rènga/ pult on tosela/ di katz in gart/ dar hunt in schatn/ den böll bar boratn?/ s Mabele von Sela/ bem böll bar s gem?/ In lentz von mel. 102 va all'inferno77. Fonte: Bertoldi M. B., 1983, pp. 83-86. Canto cimbro78: Luserna Una montagna alta e vasta, prati, pascoli e boschi, grande il sole in cielo ha questo piccolo paese; si trova molto lontano da tutti e possiede ancora una sua lingua; qui parliamo il Cimbro, qui si trova la mia Luserna. Ti saluto patria mia, ti saluto cara mia Luserna, oggi devo nuovamente andarmene, potrò nuovamente vederti? Ma io ti ricordo sempre ovunque andrò, si da nessuna parte è bello come da te. Gli uomini costruiscono case e lasciano il paese, le donne lavorano i prati, i campi e la legna; i bambini pascolano le mucche quando non vanno a scuola e quando arriva l'estate tutti vanno per funghi. 77 Rümbl rümbl/ ber da eppas git/ geat in hümbl/ raübl raübl/ ber da nicht git/ geat kan taüvl. 78 Il vanto riportato fa parte del repertorio della Corale Polifonica Cimbra, associazione nata nel 1992, sotto la direzione del maestro Giacobbe Nicolussi Paolaz, con lo scopo di salvaguardare la lingua e la cultura di Luserna anche in un ambito che, fino a quel momento, non era stato adeguatamente considerato: i canti in lingua cimbra che tramandano la memoria di un popolo. Degno di nota è il costume adottato dalla Corale: si tratta, infatti, della fedele riproduzione di quello che la gente di Luserna indossava sul finire dell'Ottocento. 103 Ti saluto...79 Fonte: Prezzi C., 1998, p. 59. 5.5. Tradizioni luserne80 La comunità cimbra di Luserna custodisce un prezioso patrimonio folcloristico, nel quale svariati elementi della remota cultura nordica si sono fusi con le credenze e con le tradizioni del mondo romanzo. A Luserna ogni mese dell'anno è caratterizzato da una usanza particolare o da un rituale augurale di antica memoria. Nondimeno, esistono due argomenti comuni, che rivestono un ruolo centrale nella cultura popolare dei Cimbri: i bambini e la luce. I bambini sono, infatti i protagonisti di indiscussi di miti, leggende e tradizioni; mentre la luce rivela il legame con il nome stesso del paese. Numerose sono le ipotesi atte a spiegare l'origine del nome di Luserna e, tra tutte, tre sono ugualmente probabili e plausibili. La prima ipotesi fa derivare il nome di Luserna dal toponimo cimbro Laas, termine che indica la porta dell'altopiano verso la sottostante Valsugana, vale a dire il Valico del Menador. Tale teoria è supportata dalle testimonianze di alcuni anziani del paese, i quali sostengono che, anticamente, Luserna veniva chiamata Laasern. La seconda ipotesi considera il nome di Luserna di origine celtica: esso potrebbe derivare da Lis Erna, che significa valico. Infine, la terza ipotesi considera il nome di Luserna di origine neolatina: nel dialetto del vicino Veneto esiste la parola "slusar", che significa luccicare; potrebbe non essere un caso, dunque, il fatto che Luserna sia situata su un altopiano soleggiato e che il termine stesso di "Luserna" si avvicini molto al termine veneto "slusar". Nel mese di gennaio, durante i tre giorni che precedono l'Epifania, non appena si fa buio, tre bambini girano di casa in casa, vestiti come i Re Magi, portando con loro una scatola di cartone con una stella intagliata su un lato e cantando una canzone, che ricorda il lungo viaggio che li ha portati alla grotta di Nazareth. Dentro la scatola di cartone viene accesa una candela: quando i bambini entrano in casa, le luci artificiali vengono spente, 79 Lusérn An hoachan baitn perge,/ bisan, etzan un balt,/ groas di sunn in hümbl/ hat ditza klumma lant;/ is vinze ganz vort bait vo alln/ un hat no a zung vor is;/ da biar ren di tzimbar zung,/ da steata mai Lusérn./ I grüaste maine huamat,/ i grüaste liabes mai Lusérn,/ haüt moche bidar gian vort,/ bartede bidar segn?/ Ma i gedenkte herta/ bobral bode bart gian,/ ja's is nindart schümma/ as be ka diar./ Di mannen machan haüsar/ un gian vort von lant,/ di baibar no in bisan,/ in äckar un in holz;/ di kindar vür pin küha/ balsa net gian ka schual/ un balda kint dar summar/ alle gian no in sbemm./ I grüaste... 80 Cfr. Prezzi C., 1998. 104 per permettere alla tenue luce della candela di propagarsi nell'ambiente circostante. L'ultimo giorno di febbraio viene dato fuoco a una catasta di legno, preparata in precedenza dai giovani del paese e posta su un'altura, sopra il paese: si tratta di un antico rito purificatorio, chiamato Dar Martzo, con il quale si "brucia" l'inverno in attesa della primavera. In aprile, il lunedì dell'Angelo, i bambini di Luserna ricevono alcune uova decorate; con tali uova essi girano per il paese, sfidando gli adulti a colpirle con una monetina: chi riesce a conficcare la moneta vince l'uovo, chi sbaglia deve lasciare la monetina al bambino. Maggio è il mese ideale per andare a catturare le rane vicino agli stagni: quando il sole è tramontato, bambini e adulti vanno sui pascoli e accendono un fuoco vicino a uno stagno; armati di una torcia elettrica, camminano lungo il bordo dello specchio d'acqua e, non appena vedono una rana, la abbagliano e la catturano con facilità. Quando ritengono di averne trovate a sufficienza, le portano a casa e le mangiano con la polenta. Nei primi giorni di giugno ha inizio la monticazione: tutti i malgari portano i loro animali sugli alti pascoli circostanti, dove possono pascolare per tre mesi circa. Luglio e agosto sono i mesi dedicati alla fienagione: attività alla quale partecipa tutto il paese. In settembre, i bambini aiutano gli adulti a raccogliere le patate: queste vengono divise in tre mucchi, a seconda che siano grandi, medie o piccole. Le patate vengono, quindi, riposte in tre sacchi diversi e portate nelle cantine. Le patate più grandi sono quelle destinate all'alimentazione quotidiana, le più piccole vengono cotte e date ai maiali e le medie vengono conservate per la semina dell'anno successivo. A novembre, in occasione della festività di Ognissanti, la tradizione vuole che le tombe del cimitero vengano abbellite con ghirlande di fiori e con candele. Alla sera, i bambini vanno nel cimitero per raccogliere la cera colata dalle candele: la cera raccolta viene messa in una scatolina, appesa a un filo di ferro, e viene accesa. Il fumo che esce dalla scatolina ricorda quello dell'incenso. Infine, la notte del 13 dicembre Santa Lucia attraversa il paese sul dorso di un asinello: tutti i bambini mettono un piattino colmo di sale e di farina sul davanzale della finestra, per donarlo all'asinello. Il mattino seguente, i bambini che sono stati buoni trovano sul piattino noci, arance, caramelle e cioccolata; mentre i bambini che si sono comportati male trovano sul piattino solo un bastone. 105 106 CAPITOLO SESTO I Tredici Comuni Veronesi 6.1. Analisi geografica e territoriale del Parco Naturale Regionale della Lessinia Il Parco Naturale Regionale della Lessinia, istituito con la Legge Regionale n. 12 del 30.01.1990, è collocato nell'ambito di un grande altopiano che si estende dalle pendici della Valle dell'Adige fino ai piedi dei Monti Lessini. Questi ultimi costituiscono il confine settentrionale di quella regione che, un tempo, era conosciuta come "Vicariato delle Montagne dei Tredici Comuni", antica area di insediamento cimbro [Fig. IX]. I Tredici Comuni Veronesi fanno parte della Comunità Montana della Lessinia, la quale si estende nell'area montana della provincia di Verona su una superficie di 472,14 kmq., delimitata a ovest dalla Valle dell'Adige, a nord dal confine con la Provincia di Trento e a est dal confine con la Provincia di Vicenza. La Comunità Montana della Lessinia si estende sul territorio di 18 Comuni veronesi, dei quali fanno parte anche i Tredici Comuni cimbri: Velo, Roveré Veronese, Erbezzo, Selva di Progno, Boscochiesanuova, Badia Calavena, Cerro Veronese, San Mauro delle Saline, Azzarino, San Bortolo, Valdiporro, Tavernole e Camposilvano. Dal punto di vista morfologico, la Lessinia è un altopiano di natura calcarea caratterizzato dalla presenza di evidenti fenomeni carsici ed erosivi. La zona orientale della Comunità Montana, la Val d'Illasi, presenta caratteristiche morfologiche e climatiche tipicamente alpine, in quanto è proprio in quest'area che si trovano le altitudini maggiori (dagli 800 m. in su). Nella Val d'Illasi si trova Giazza [Fig. X], frazione del Comune di Selva di Progno, ultima roccaforte del Taucias Garëida: proprio per questo motivo, l'analisi territoriale seguente è dedicata alla regione della valle sopra nominata. La porzione di territorio presa in considerazione, la Val d'Illasi, è compresa tra le Valli di Revolto e di Fraselle fino all'ampia conca di Campobrun a nord e, a sud, il paese di Giazza. Il massiccio del Carega (2.259 m.), il Monte Obante (2.020 m.), il Monte Plische (1.991 m.), Cima Tre Croci (1.942 m.), il Monte Zevola (1.975 m.), il Monte Gramolon (1.814 m.), il Monte Laghetto (1.652 m.), Cima Lobbia (1.650 m.), il Monte Telegrafo (1.564 m.) e il Monte Spitz (1284 m.) chiudono, coronandola, la valle. 107 Fig. IX I XIII Comuni Veronesi Fonte: elaborazione grafica a cura dell’autrice 108 Fig. X Scatto privato Scorcio del Comune di Giazza L'area di Giazza appartiene alla parte più occidentale dei Monti Lessini orientali ed è costituita da un sistema di dorsali, le quali si sviluppano in direzione N-S e NO-SE con una certa asimmetria dei versanti. I versanti delle valli (Fraselle, Revolto e Illasi) sono per lo più caratterizzati da profili a gradinata nei quali, tra le pareti verticali, si trovano pendii estremamente irti. Il tavolato dell'altopiano è costituito, in prevalenza, da rocce di origine sedimentaria secondaria, dalle triassiche alle cretacee. Il fondo vallivo, su cui poggia Giazza, è costituito dalla Dolomia principale del Trias. Sui versanti vallivi la Dolomia è sovrastata dai Calcari Grigi, a loro volta sormontati dai Calcari Oolitici, che spesso formano scarpate scoscese e vere e proprie pareti verticali. I Calcari Grigi non solo sono ricchi di fossili di molluschi, ma hanno anche rivelato la presenza di alcune impronte di dinosauro. La morfologia attuale dell'intera zona può essere attribuita principalmente all'erosione fluviale e, secondariamente, all'erosione glaciale, a fenomeni gravitativi e di dissoluzione. Dal punto di vista dell'idrografia, la regione è attraversata dai torrenti Revolto e Fraselle che confluiscono, presso Giazza, nel torrente Progno d'Illasi, in assoluto il bacino idrografico più sviluppato in lunghezza dei Monti Lessini e, inoltre, quello che si spinge più a nord. Gli alvei delle valli del Revolto, del Fraselle e del Progno di Illasi possiedono una forte pendenza e sono incisi entro litotipi intensamente fratturati, causando diffusi fenomeni di instabilità superficiale (frane), accompagnati da una notevole produzione di materiale detritico, anche di dimensioni rilevanti. Le coltri di frana più appariscenti sono localizzate tra M. Scalette e Malga Lobbia, tra le valli delle Mandrette e Chempler (paleofrana di M. Terrazzo) e nel tratto 109 medio della Val di Revolto (paleofrana del Lago Secco). Si tratta, generalmente, di antichi corpi franosi che hanno sbarrato il fondovalle, dando origine a bacini lacustri colmati, in tempi successivi, da materiali alluvionali trasportati dai corsi d'acqua locali (Zorzin, 1999). Caratteristica fondamentale della zona, a esclusione della Val Fraselle, è, per la maggior parte dell'anno, la carenza di scorrimenti idrici superficiali. Infatti, nonostante le abbondanti precipitazioni (1.300-2.000 mm. annui), la consistente quantità di materiali detritici trasportati e depositati dai torrenti Fraselle e Revolto, nonché la forte permeabilità degli stessi detriti e del suolo fa sì che, da Giazza in avanti, prenda forma una non trascurabile circolazione di subalveo. La carenza di acque superficiali, dunque, deriva dall'azione sinergica di processi fluviali, carsici e tettonici. La particolare situazione tettonica, infatti, ha condizionato notevolmente la circolazione idrica profonda e l'idrografia del territorio considerato. Tra i principali assi vallivi e le più importanti direttrici tettoniche esiste una indubbia corrispondenza, che trova riscontro nella presenza di un importante sistema di faglie, il quale interessa prevalentemente il substrato roccioso, in direzione N-S, morfologicamente evidenziato dall'andamento rettilineo della Val d'Illasi, lunga oltre 20 km. Alcuni controlli eseguiti sul terreno hanno limitato l'attività di queste faglie al pre-Olocene; tuttavia, alcuni dati sismici rilevati suggeriscono un'attività recente nei non distanti territori comunali di Badia Calavena e di Tregnago. Un altro fenomeno tettonico di importanza ed estensione regionale, presente nell'area di Giazza, è dato dalla faglia subverticale a direzione NNO-SSE denominata faglia "CampofontanaRoncà". Come già accennato, la zona è interessata dal fenomeno del carsismo: l'area in esame comprende i versanti idrografici della Val Fraselle e della Val di Revolto e la dorsale M. Zevola-Terrazzo-Corno, che separa le due valli; ebbene, tale dorsale è interessata da strette incisioni vallive, in prevalenza costituite dai calcari del Lias e della Dolomia, che presentano rimarchevoli caratteri di canyon e numerose doline e inghiottitoi. Un'altra area di intenso carsismo, dove sono rinvenibili numerose e vaste depressioni carsiche, è situata tra Cima Lobbia, M. Scalette, M. Porto, M. Formica e M. Torla. Come risulta dal Catasto Grotte della Provincia di Verona, aggiornato al dicembre 1998, sono state trovate 21 cavità divise tra il Veronese e il Vicentino; la maggior parte di tali grotte si apre nei Calcari Grigi di Noriglio, ma anche nell'Oolite di S. Vigilio e nella Dolomia Principale. Le più conosciute grotte presenti nei dintorni di Giazza e nelle valli contermini sono le seguenti81: Perlouch82, o Grotta del Berklja83, o Grotta dei Prusti, n. catasto 3 V VR., Comune di Selva di Progno 81 Fonte: Rama, Zorzin, 1999, pp. 29-32. In italiano: Caverna dell'orso. 83 In italiano: Grotta della montagnola. 82 110 Spluga del Monte Gozze84, o Buso del Diaolo, n. catasto 480 V VR., Comune di Roveré Veronese Schefarkuval85, o Abisso Angelo Pasa, n. catasto 1407 V VR., Comune di Selva di Progno Langabant Loach86, n. catasto 1412 V VR., Comune di Selva di Progno Il territorio circostante Giazza, che fa parte del Parco Naturale Regionale della Lessinia, è reso unico dalla "Foresta Demaniale di Giazza", i cui pascoli e boschi rivestono le pendici meridionali del Carega, dal Passo Pertica alla Sengia Rossa, dal Monte Plische al Terrazzo e alla Madonnina nella Val di Revolto; mentre dal Monte Zevola digradano verso la Val Fraselle e dalla Scagina verso la Malga Laghetto, nell'Alta Valle del Chiampo. Nonostante la Foresta Demaniale sia situata a cavallo di tre province (Verona, Vicenza e Trento), la si può considerare senza dubbio la "Foresta dei veronesi" per antonomasia, sia perché la maggior parte della sua superficie (1.097 ettari su 1904 ettari complessivi) ricade nella provincia di Verona, sia perché la sua origine e la sua valorizzazione sono state fortemente volute e perseguite dai veronesi87. La Foresta Demaniale di Giazza, che si estende tra gli 800 e i 2000 metri di quota, presenta (come tutto il Parco Naturale della Lessinia) una grande varietà di aspetti microclimatici, pedologici e morfologici. Per quanto concerne il mondo vegetale, alle quote più basse crescono il nocciolo88, che si sviluppa soprattutto sui prati abbandonati, il carpino nero89, il frassino90, il faggio91 e l'acero montano92. Queste specie costituiscono i boschi cedui, sotto i quali cresce una vasta gamma di fiori, come il bucaneve93, i campanellini94, che formano una suggestiva coltre bianca, e i ciclamini95. Presso i corsi d'acqua crescono il salice96, il maggiociondolo97, i cui fiori gialli creano stupefacenti macchie di colore, e l'ontano. Oltre i 1000 m. di quota si trovano i boschi puri di faggio che, in 84 Grotta verticale del monte delle capre (goatz significa capra). In italiano: Grotta dei pastori. 86 In italiano: Grotta della roccia lunga. 87 La Foresta Demaniale nasce ufficialmente il 10 agosto 1911, con la solenne inaugurazione del Ministro dell'Agricoltura, Industria e Commercio del tempo, Saverio Nitti. 88 Nel dialetto cimbro dei Tredici Comuni il nocciolo è chiamato eisal. 89 Nel dialetto cimbro dei Tredici Comuni è chiamato haghe puache. 90 Nel dialetto cimbro dei Tredici Comuni è chiamato eisch. 91 Nel dialetto cimbro dei Tredici Comuni è chiamato puache. 92 Nel dialetto cimbro dei Tredici Comuni è chiamato hahorn. 93 Nel dialetto cimbro dei Tredici Comuni questi fiori vengono chiamati loucharsnea. 94 Nel dialetto cimbro dei Tredici Comuni i campanellini si chiamano snea-kljouklja. 95 I ciclamini si chiamano leischarla in cimbro tredicicomunigiano. 96 Il salice si chiama baide in cimbro tredicicomunigiano. 97 Il maggiociondolo è chiamato jal nel dialetto cimbro locale. 85 111 parte, vengono regolarmente sottoposti a tagli di conversione per creare boschi di alto fusto, sotto i quali crescono numerose specie di anemoni e di orchidee. I boschi puri di conifere, in particolare di abete rosso, sono stati in molti casi piantati dall'uomo; mentre antichissimo e spontaneo è il bosco di abeti bianchi98 situato tra Malga Terrazzo e Campostrin. Salendo in quota, si trovano esemplari di pino silvestre e, proseguendo oltre, si incontra l'intricato e quasi impenetrabile regno del pino mugo, fondamentale per l'azione di consolidamento che esercita su terreni altrimenti instabili. Infine, ad alta quota, crescono il ginepro nano, il rododendro e la stella alpina. La fauna che popola la Foresta Demaniale di Giazza, è costituita, tra i mammiferi, dal capriolo, la cui presenza è frequente tanto nelle zone boschive circostanti Giazza, quanto nei siti più impervi o resi inaccessibili dal pino mugo. Accanto al capriolo, va citato anche il camoscio che, giunto spontaneamente dalla Val dei Ronchi (TN), pare aver trovato il proprio habitat preferito sul fianco destro della Val di Revolto e i cui esemplari, secondo gli ultimi censimenti, sono in costante aumento sia sul Monte Terrazzo, sia in Val Fraselle. Altri mammiferi tipici di questi luoghi sono la marmotta, la volpe99, la lepre100, la martora101 (più rara), la faina, il tasso, la donnola, il ghiro102 e lo scoiattolo103. L'avifauna è caratterizzata dalla presenza di varie specie come il merlo acquaiolo, che frequenta il torrente Fraselle alla ricerca delle larve che si trovano sotto la superficie dell'acqua, il pettirosso, lo scricciolo, la cinciallegra, l'allodola, la rondine montana, il tordo, il corvo imperiale, la ghiandaia, il fagiano di monte, il gallo forcello, il picchio nero e, ancora, alcuni rapaci come l'allocco, il gufo comune, la civetta, la poiana, l'astore, il falco pellegrino e l'aquila reale. Infine, tra i rettili sono presenti la vipera, l'orbettino e la biscia dal collare e tra gli anfibi va citata la salamandra, che frequenta le zone umide. L'economia della zona, un tempo fondata principalmente su attività tradizionali come la fabbricazione del ghiaccio, del carbone e della calce104, si basa, attualmente, sulla produzione vinicola (nel fondovalle e in collina), sul settore agricolo, sull'allevamento bovino, sulla produzione casearia, sull'artigianato locale e sull'industria del turismo, alla quale sono collegate le strutture alberghiere, i ristoranti, gli agriturismi e le iniziative culturali promosse da vari enti locali, dalla Comunità Montana e dal Parco Naturale Regionale della Lessinia. 98 L'abete bianco si chiama tanne baizz in cimbro tredicicomunigiano. La volpe si chiama vocs nel dialetto cimbro locale. 100 La lepre è chiamata hase nel dialetto cimbro locale. 101 Chiamata martar nel cimbro dei Tredici Comuni. 102 Chiamato muade-maus nel dialetto cimbro locale. 103 Chiamato kniste-maus nel dialetto cimbro locale. 104 Cfr. il paragrafo 6.4. del presente capitolo. 99 112 Di grande valore sono le attività patrocinate e svolte dal Parco Regionale della Lessinia, le cui finalità principali sono elencate nell'articolo 2 della Legge Regionale n. 12 del 30.01.1990: "a) la protezione del suolo e del sottosuolo, della flora, della fauna, dell'acqua; b) la tutela, il mantenimento, il restauro e la valorizzazione dell'ambiente naturale, storico, architettonico e paesaggistico considerato nella sua unitarietà, e il recupero delle parti eventualmente alterate; c) la salvaguardia delle specifiche particolarità antropologiche, paleontologiche, geomorfologiche, vegetazionali, faunistiche e archeologiche delle zone; d) la fruizione a fini scientifici, culturali e didattici; e) la promozione, anche mediante la predisposizione di adeguati sostegni tecnici e finanziari, delle attività di manutenzione degli elementi naturali e storici costituenti il Parco, nonché delle attività economiche tradizionali, turistiche e di servizio compatibili con l'esigenza primaria della tutela dell'ambiente naturale e storico; f) lo sviluppo sociale, culturale ed economico delle popolazioni comprese nell'ambito del Parco e su di esso gravitanti; g) la promozione delle funzioni di servizio per il tempo libero e di organizzazione dei flussi turistici; h) la tutela e la valorizzazione del patrimonio etnico, storico, culturale e linguistico delle popolazioni <<Cimbre>>."105 6.2. I Cimbri dei Tredici Comuni Veronesi: analisi storica e situazione attuale Come affermato in precedenza106, il 5 febbraio 1287 due uomini, entrambi di nome Olderico e provenienti dai Sette Comuni Vicentini, ricevono da parte del vescovo di Verona, Bartolomeo della Scala, l'autorizzazione a fondare un insediamento nella regione dei Monti Lessini. Il testo originale del suddetto documento scaligero, che pare fosse conservato nell'Archivio della Chiesa di Santa Maria in Organo, è andato perduto durante un'alluvione avvenuta nel 1630 d. C. Tuttavia, ciò che ha consentito agli studiosi di affermare con estrema sicurezza l'esistenza di tale documento è stato il ritrovamento di un altro documento scaligero, datato 6 agosto 1376, nel quale viene confermato, dal vescovo Pietro della Scala, il contenuto del precedente documento, che viene ripreso nei suoi punti salienti. Il documento scaligero del 1376 è custodito nell'Archivio 105 Fonte: AA.VV., Il Parco Naturale Regionale della Lessinia, Verona, Edizioni Comunità Montana della Lessinia, 1990, p. 6. 106 Cfr. Capitolo terzo. 113 parrocchiale del Comune di Roveré Veronese; di seguito sono riportati alcuni passi degni di nota107: "Nel nome di Dio Onnipotente, del Signore nostro Gesù Cristo figlio suo, dello Spirito Santo, della beata, gloriosa e sempre Vergine Maria, di tutti i santi e le sante, e in onore della curia celeste, il venerabile Padre, Signore e fratello Bartolomeo per grazia di Dio vescovo di Verona, per l'utilità e l'aumento dei frutti, redditi, entrate e proventi dell'episcopato di Verona, viste e comprese le richieste e petizioni fatte alla sua presenza e messe per iscritto da me notaio sottoscritto, per volontà dello stesso Signor Vescovo, concede in favore dei tedeschi Olderico di Altissimo e Olderico dell'episcopato di Vicenza, per loro stessi e per altri loro compagni che volessero venire, di costruire casa e abitare, usare, fruire ed usufruire degli infrascritti luoghi e contrade, terre, possessi, monti, valli, pianure, selve, pascoli, terre incolte, deserte e disabitate, comprese le acque e acquedotti che vi nascono e scorrono. [...] Tali luoghi deserti e disabitati sono i seguenti: Opledo, Roveré con Quarcanteri e Cuarerolo, Plugnino, Caucaria con la Valle Grassa, Porcara e Salaorno e tutte le pertinenze di detti luoghi [...]. I confini di questi luoghi, contrade e possessi sono i seguenti: da una parte lo Squaranto che proviene da Zago e conduce a Pigotto, dalla seconda parte il lessino e il Comune di Verona, dalla terza Velo o Curia di Velo, dalla quarta le contrade dette saline e Porcara, dalla quinta i comuni di San Mauro e Cancelli con Varano e altre contrade." Nel resto del testo del documento vengono elencate le condizioni cui i destinatari della concessione devono sottostare, le regole che devono rispettare, gli oneri di cui si devono fare carico e, molto importante, i privilegi che la concessione stessa prevede: "Prima di tutto il Signor Vescovo deve dare a nome proprio e dell'Episcopato di Verona ai predetti Olderici e loro compagni che abitano nelle stesse contrade, zone e luoghi, un sacerdote cattolico, buono e idoneo, scelto da loro, tedesco, e scelto secondo la loro libera volontà. [...] Parimenti il predetto Signor Vescovo dichiara fin da ora i due Olderici castaldi suoi e dell'Episcopato. [...] Parimenti deve dare a ognuno dei detti castaldi un manso di venticinque campi, giacenti vicino alla casa, di terra arativa e prativa, come feudo onorifico, senza alcuna condizione, ad eccezione della decima da versare come tutti. [...] 107 Fonte e traduzione dal testo originale latino: Nordera, 1987, vol. III, pp. 46-57. 114 Dopo due anni i lavoratori sono tenuti a pagare il fitto dei mansi [...]: il Signor Vescovo ha il diritto di avere da tutti gli abitanti e lavoratori di quelle contrade tre parti della decima per l'Episcopato. Tale decima deve essere raccolta dal castaldo [...], che terrà per sé la decima delle decime delle biade e dei frutti da lui raccolti, come ricompensa per il suo lavoro, e il resto deve essere portato a Verona o alla Camera dell'Episcopato. [...] Parimenti il Signor Vescovo, passati i due anni, deve avere dagli abitanti dei luoghi e zone predette e cioè da ogni manso di venticinque campi di terra arativa e prativa, due libbre e mezza di denari piccoli veronesi. [...] Parimenti il detto Vescovo è tenuto a fare in modo che effettivamente i predetti abitanti che si trovano in predette contrade non siano tenuti a subire alcun peso o tributi o a pagare imposte o dazi per la città di Verona o altri paesi del veronese, a meno che la città di Verona non faccia l'esercito generale, al quale devono prendere parte come cittadini. [...] Parimenti il predetto Vescovo di Verona, e successori, è tenuto a esigere effettivamente dal Signor Capitano e dal Podestà e loro successori che gli abitanti di quelle contrade non siano obbligati a pagare il toloneo o dazio alle porte o ponti e alle entrate in città e borghi, sia che si tratti di alimenti, animali o legname, sia di qualunque altra cosa, salvo l'obbligo di versare i tolonei al Comune di Verona come gli altri cittadini. [...] Nell'anno del Signore 1287, io Bonzuano da Diverso, notaio del Signor Federico II Imperatore, fui chiamato a essere presente e sottoscrissi. [...] Inoltre il Signor Pietro della Scala Vescovo di Verona ha incaricato me notaio Antonio, figlio di Nicola de Rico da Bodolono di San Fostino di Verona, perché di tutti e singoli i punti precedenti ne facessi pubblico istrumento. Nell'anno del Signore 1376." I due documenti, dunque, costituiscono la testimonianza preziosa del periodo di insediamento dei coloni Cimbri sui Monti Lessini. I coloni, ben presto, si spostano dalla prima sede di Roveré (Roveràit) verso varie direzioni: alcuni di essi, i quali vengono chiamati dall'abate dell'abbazia della Calavena con il compito di coltivarne il terreno circostante, fondano tra il 1301 e il 1333 d.C. l'attuale paese di Badia Calavena (kam' Abato); altri si insediano presso centri italiani costruendovi, tutt'attorno, capanne e casupole che diventano, col tempo, contrade. Ciò spiega il motivo per cui i comuni maggiori hanno anche una denominazione cimbra, derivata da quella italiana, come Selva di Progno (Brünge), San Bortolo (San Bùrtal), 115 Boscochiesanuova (Nauge Kirche), Erbezzo (Bìsan), Cerro (Cìre), Giazza (Ljetzan) e Campofontana (Fùntan). Nel 1403 d.C. il territorio veronese viene diviso in diciannove vicariati e tra di essi si trova anche il Vicariatus Montanearum Theotonicorum, ovvero il Vicariato delle Montagne dei Tedeschi, noto anche con l'appellativo di "Montagna Alta del Carbon". I rappresentanti del Vicariato si riuniscono in assemblee e, assistiti politicamente dal Vicario inviato dalla Città di Verona, il quale ha l'obbligo di risiedere a Roveré o a Velo e ha il compito di amministrare la giustizia, si dedicano alla risoluzione di tutti i problemi riguardanti la collettività. Tuttavia, il Vicario rispetta solo raramente la norma di risiedere in loco, negandosi così la possibilità di comprendere meglio le esigenze della popolazione che è chiamato a governare e, di conseguenza, emettendo sentenze assai spesso contestate e criticate. I Comuni, dunque, non solo mirano all'elezione in loco di un proprio rappresentante (vicario), ma manifestano anche una aperta sfiducia nei confronti di quelli inviati da Verona. Nel 1405 d.C., dopo la dominazione scaligera e dopo un breve periodo di dominazione viscontea, Verona entra a far parte della Serenissima Repubblica di Venezia. Le popolazioni cimbre conducono, almeno fino ai primi anni del Novecento, una vita scandita dai ritmi di attività tradizionali quali la coltivazione di cereali, l'allevamento del bestiame, il taglio del bosco, la fabbricazione di carbone, di ghiaccio e di calce e la produzione casearia. Obblighi e privilegi degli abitanti dei Tredici Comuni vengono mantenuti anche sotto il governo della Serenissima Repubblica di Venezia, nei confronti della quale i Cimbri osservano un atteggiamento di profonda lealtà. La popolazione dei Monti Lessini cresce in modo costante, almeno fino alle due gravi pestilenze del 1576 e del 1630/31 quando il tasso di mortalità raggiunge livelli altissimi, causando gravi perdite in vite umane. Tuttavia, passata la crisi della peste, la popolazione torna a crescere tanto che si verifica una situazione di squilibrio tra la popolazione stessa e le risorse disponibili. I prodotti alimentari derivanti dall'allevamento e i frutti dell'agricoltura, la quale viene praticata in condizioni morfologiche e climatiche assai difficili, non bastano a soddisfare l'aumentato fabbisogno alimentare. Due sono le conseguenze derivanti da un tale stato di cose: la prima è una maggiore dipendenza delle genti montane dalla città, la seconda conseguenza è data dall'emigrazione, temporanea o definitiva, che comincia a manifestarsi proprio verso la fine della Serenissima Repubblica. Gli anni della dominazione dell'Impero austriaco (1815-1866) segnano la fine di qualsiasi privilegio o esenzione tributaria, situazione che si verifica anche nell'area dei Sette Comuni Vicentini. A partire dall'annessione del Veneto al Regno d'Italia e più ancora, a partire dagli ultimi due decenni dell'Ottocento, l'aumento della popolazione in Lessinia, grazie alle migliori condizioni igienico-sanitarie e all'alto tasso di natalità, 116 costringe la società tradizionale dei cimbri a seguire due strade: la prima strada è quella dello sfruttamento delle zone abbandonate o incolte e della pratica di attività poco lecite (contrabbando); la seconda, come anticipato sopra, è la strada dell'emigrazione stagionale o permanente verso l'estero. L'emigrazione rallenta solo tra le due guerre mondiali, sia per la politica del governo fascista, sia per la crisi del '29, che crea problemi di occupazione anche negli Stati europei e d'oltreoceano. Dopo la Seconda Guerra Mondiale, infatti, il fenomeno migratorio riprende con vigore, coinvolgendo un numero sempre maggiore di individui e causando il definitivo abbandono dei luoghi natii da parte di numerose famiglie. Attualmente, il confronto tra la società tradizionale e la società dei consumi, che è la società urbana, ha causato la crisi della società tradizionale stessa: nonostante ci sia una forte volontà di recupero dei valori tradizionali e culturali, non è possibile ignorare il fatto che il contatto tra le due società (tradizionale e urbana) ha comportato uno spostamento di punti di riferimento in una buona parte della popolazione per cui, da una prospettiva sociale, politica ed economica, il centro non è rappresentato più dalla comunità locale, ma dalla più vasta società industriale. Da una società quasi completamente autosufficiente e autogestita, secondo precise regole, si è passati a una società integrata in una realtà più ampia, la quale ha il suo centro nelle aree urbane. 6.3. Visita al Museo dei Cimbri di Giazza Il Museo Etnografico dei Cimbri di Giazza [Fig. XI], che ho avuto modo di visitare personalmente in occasione del mio viaggio attraverso i luoghi popolati dai Cimbri, viene fondato nel 1972 grazie alla tenace volontà di un gruppo di appassionati studiosi della cultura cimbra. Come spiegatomi dal Prof. Giovanni Molinari, direttore del Museo e delle attività ad esso afferenti, il Museo (un edificio di tre piani) è di proprietà della Comunità Montana della Lessinia, la quale ne ha affidato la gestione al Curatorium Cimbricum Veronense108. L'obiettivo primario del Museo dei Cimbri di Giazza è quello di illustrare le caratteristiche della comunità cimbra insediata nel territorio montano veronese, attraverso uno specifico percorso che ne evidenzi la vita familiare, lavorativa, sociale ed economica, ma anche religiosa e politica. Tale obiettivo è stato raggiunto tramite l'allestimento di uno spazio espositivo (situato al primo piano) all'interno del quale, su appositi pannelli, sono stati svolti 21 argomenti storico-culturali, divisi in tre sezioni: 108 Cfr. Capitolo quarto, nota 44. 117 Fig. XI Museo Etnografico dei Cimbri di Giazza Scatto privato SEZIONE I: gli uomini nell'ambiente montano 1) Insediamento; 2) La casa e la terra; 3) Demografia, ambiente e risorse; 4) Emigrazione SEZIONE II: la convivenza umana 5) La famiglia; 6) Organizzazione politica e sociale; 7) Le istituzioni ecclesiastiche e la religiosità; 8) Il culto dei santi; 9) Il culto di S. Leonardo; 10) Credenze e immaginario popolari SEZIONE III: le attività economiche 11) Agricoltura; 12) Allevamento; 13) Caccia; 14) Lo sfruttamento del bosco; 15) La produzione del carbone; 16) La produzione della calce; 17) La produzione del ghiaccio; 18) Il commercio ambulante; 19) Il contrabbando; 20) La toponomastica; 21) Le testimonianze della lingua. Ciascun argomento è svolto su uno o più pannelli, in modo tale da consentire un approccio caratterizzato da vari livelli di approfondimento: da quello più immediato e sintetico legato al materiale iconografico e didascalico, sufficiente per ottenere una prima idea del popolo cimbro, a un livello di maggior consapevolezza della storia cimbra, raggiungibile mediante la lettura del testo posto all'interno del pannello. Il tutto è corredato da un'ampia raccolta di materiale fotografico, storico e recente, e dall'esposizione di tutta una serie di oggetti antichi relativi alla vita quotidiana dei Cimbri. Al secondo piano si trovano una sala, dotata dell'attrezzatura per videoproiezioni e convegni, e una biblioteca fornita non solo dei più disparati e curiosi testi sul popolo cimbro, ma anche di riviste, di cd-rom e di videocassette. Il pian terreno è dedicato a una mostra di oggetti tipici dell'arte sacra della Lessinia, tra cui si trovano anche le 118 riproduzioni di numerose colonnette votive109, che sono disseminate su tutto il territorio esaminato. Tra le svariate attività organizzate dal Museo, una è particolarmente rilevante: si tratta del corso di "cimbro vivo" (Tzimbar lentak) condotto da Renzo Dal Bosco e da Giovanni Molinari presso il Museo stesso. Il Prof. Molinari mi ha raccontato che l'esperienza non solo è risultata assai positiva, vista l'assidua partecipazione di molti abitanti di Giazza, ma è anche stata motivo di riscoperta e di approfondimento dell'antica parlata cimbra, il Taicias Garëida: grazie a questa fondamentale iniziativa, una parlata che sembrava quasi estinta è tornata alla vita, evitando così di essere dimenticata in un angolo polveroso di qualche sperduta biblioteca di montagna. Infine, secondo il Prof. Molinari: "Il Museo di Giazza non è solo un luogo dove si conserva quello che è stato, ma è anche uno spazio in continua evoluzione: collegato alla rete informatica mondiale è alla continua ricerca di nuovi studi e risultati che potranno ricostruire la storia delle comunità cimbre, sia in ambito regionale, che internazionale. Si pone quindi come punto di riferimento per coloro che ancora oggi parlano l'antica lingua cimbra e per chi da queste persone discende, creando un anello di congiunzione tra passato e presente. Si arricchisce, inoltre, con iniziative rivolte all'aggregazione di giovani e vecchi, di Giazza e non, i quali partecipano ai corsi di "cimbro vivo", promossi dal museo stesso, che alimentano l'orgoglio di appartenere a questa antica comunità." (1999, p. 104) 6.4. Attività tradizionali: la giassàra, la calcàra, la carbonara Visitando la Lessinia, ci si può imbattere in peculiari costruzioni circolari, in massima parte ipogee, sporgenti dal suolo poco più di un metro: sono le giassàre, chiamate aisgrùabe in dialetto cimbro [Fig. XII e XIII]. Tali costruzioni rappresentano la testimonianza tangibile di un'antica attività, la conservazione e il commercio del ghiaccio, che, per secoli, è stata fonte di sostentamento per gli abitanti di questi luoghi. Durante l'alpeggio estivo sugli alti pascoli della Lessinia, i malghesi dovevano soddisfare la necessità di procurarsi ghiaccio o neve per la conservazione del latte e per la produzione del burro; per questo motivo essi si calavano nei numerosi inghiottitoi, causati dalla natura carsica della zona, nei quali la neve caduta d'inverno si manteneva per tutta l'estate e facevano provvista di ghiaccio e di neve. Si pensa che i malghesi, stanchi di affrontare i pericoli della discesa nei pericolosi loch110, avessero tratto ispirazione proprio da questi inghiottitoi per la costruzione delle loro 109 Cfr. paragrafo 6.5. del presente capitolo. Si ricorda che il termine cimbro loch significa buco in italiano. 110 119 giassàre: attorno alla malga, vicino alla pozza per l'abbeveraggio degli animali, veniva costruita una costruzione profonda dai 3 ai 15 metri e larga dai 3 ai 10 metri di diametro, il cui rivestimento interno era costituito di pietre, mentre il tetto era fatto di lastre di Rosso ammonitico, a sua volta ricoperto da zolle di terra. In generale, le giassàre111 più grosse, 8-15 metri di profondità e 6-10 metri di diametro, si trovano a un'altitudine compresa tra i 1200 e i 500 metri; mentre le giassàre più piccole (giassaréte) si trovano sugli alti pascoli, sopra i 1200 metri. La giassàra presenta due aperture, una per immettere il ghiaccio, l'altra, verso la strada, per estrarlo; inoltre la costruzione deve essere a nord, per favorire la conservazione del ghiaccio, e deve essere posta su un declivio naturale, per facilitare le operazioni di svuotamento dell'invaso. La costruzione di una ghiacciaia, dunque, avveniva nel seguente modo: gli uomini scavavano una fossa, togliendo la terra la allargavano e la rendevano profonda, quindi impermeabilizzavano il fondo attraverso uno strato di terra argillosa, che veniva compressa a dovere; per dare una forma cilindrica alla ghiacciaia veniva piantato, al centro dello scavo, un lungo palo e con uno spago se ne controllava l'equidistanza; quindi si procedeva alla costruzione del muro perimetrale, utilizzando grossi blocchi di pietra, squadrati e sovrapposti l'uno sull'altro a secco; attorno al muro veniva scavato un canale per impedire l'infiltrazione dell'acqua e, infine, veniva costruito il tetto. Il tetto poteva avere uno o due spioventi in lastre di pietra, sostenute da grosse travi di castagno o di abete. La forma circolare della ghiacciaia aveva la funzione di scaricare le spinte centripete del terreno. 111 Le ghiacciaie sono, ancora oggi, presenti su varie zone del territorio della Lessinia. 120 Fig. XII Giassàra del Modesto, Roveré Veronese Fonte: Piccotti N., 1997, p. 28 121 Fig. XIII Giassàra di Boscochiesanuova Fonte: Piccotti N., 1997, p. 10 122 Come già anticipato, la ghiacciaia veniva costruita vicino alla pozza in quanto, durante la stagione invernale, la superficie della pozza si ghiacciava e, dunque, era possibile tagliare il ghiaccio e trasportarlo nella vicina ghiacciaia. Il lavoro dei giassaròi cominciava in autunno con la pulizia della pozza che, in seguito, veniva ulteriormente riempita di acqua. La scarsa profondità della pozza facilitava la formazione di una lastra di ghiaccio dello spessore medio di 10-12 cm. Il taglio del ghiaccio, che coinvolgeva gruppi di 8-10 persone, prevedeva due fasi: nella prima il ghiaccio veniva segato seguendo la circonferenza della pozza, nella seconda fase il ghiaccio veniva tagliato in blocchi delle dimensioni di 80x80 cm. A questo punto, alcuni uomini trascinavano i blocchi di ghiaccio con un attrezzo particolare (il rampìn da giasso) fino all'imbocco della ghiacciaia, da dove un altro uomo li faceva scivolare sul fondo, assicurandosi che cadessero in piedi. Altri uomini, sul fondo della ghiacciaia, avevano il compito di sistemare le lastre formando tre strati sovrapposti, separati da un sottile letto di foglie. Nelle pozze di dimensioni maggiori, il primo taglio forniva circa 500 quintali di ghiaccio, mentre in quelle più piccole la produzione era di 300-350 quintali. Trascorsi 8-10 giorni dal primo taglio, era possibile procedere a un secondo taglio e così via, fino a che la ghiacciaia era completamente riempita. Nella tarda primavera, i proprietari delle giassàre iniziavano a stipulare contratti per la vendita del ghiaccio: talvolta poteva trattarsi di un solo acquirente, il quale comprava tutta la produzione di un'intera ghiacciaia; più spesso i clienti erano macellai, lattai, esportatori e soprattutto ospedali. Il ghiaccio era spesso venduto anche al dettaglio, sia nei paesi di produzione, sia per le strade di Verona. Il ghiaccio veniva trasportato in città di notte: alla sera, infatti, i blocchi di ghiaccio venivano caricati, tramite un argano, su un carro situato sotto l'apertura della ghiacciaia posta sulla strada. I blocchi, una volta sistemati accuratamente, venivano ricoperti di paglia e di tele per proteggerli dal caldo, riducendo al minimo le perdite, comunque inevitabili. Il ghiaccio era portato a Verona già a partire dal 1300, ma il commercio vero e proprio fiorisce dal XVIII secolo, quando Venezia richiede ingenti quantità di ghiaccio per conservare il pesce e per i fastosi banchetti che si tenevano nelle ville palladiane degli aristocratici veneziani. Il commercio del ghiaccio proveniente dalla Lessinia resiste fiorente fino al 1911, data in cui viene avviata a Verona l'Azienda Municipalizzata per la produzione del ghiaccio artificiale. Da questo momento in avanti inizia il progressivo declino di questa antichissima attività: l'ultimo trasporto si ha nell'estate del 1955 quando, per un guasto all'impianto dell'Azienda Municipalizzata, viene richiesto con urgenza il ghiaccio della Lessinia. Tra il 25 aprile e il 5 maggio, 1996 si è tenuta a Giazza una manifestazione di grande significato storico-culturale: la manifestazione per la riscoperta e la conoscenza dell'antico mestiere dei calcaroti, con 123 l'accensione della calcàra (kalachgrùabe) situata il località Buskangrùabe [Fig. XIV]. Tale manifestazione è stata possibile grazie alla collaborazione tra il Comune di Selva di Progno, la Pro Loco Ljetzan-Giazza, la Comunità Montana della Lessinia, il Bacino Imbrifero Montano dell'Adige di Verona, il Gruppo Alpini di Giazza, il Curatorium Cimbricum Veronense, la Protezione Civile di Selva di Progno, l'Azienda Regionale delle Foreste, i Servizi Forestali Regionali e l'Azienda di Promozione Turistica di Verona. Fig. XIV Calcàra della Buskangrùabe Fonte: Crisma A., 1996, p. 4 124 La calcàra era una fornace a forma di botte costruita in pietra, alta circa 4,30 metri e del diametro di 2,30 metri nel punto più largo e di 1,75 metri alla base, utilizzata in Lessinia fino all'inizio degli anni Cinquanta, dalla quale, dopo la cottura del calcare (roccia sedimentaria costituita da carbonato di calcio), si otteneva la calce. La fornace era costituita da un pozzo circolare, in parte seminterrato, costruito con grossi massi resistenti al calore del fuoco; al suo interno, il pozzo era suddiviso in due livelli da una sorta di cupola: sul livello inferiore si deponeva la legna da ardere, sul livello superiore venivano disposti i sassi che, con la cottura, si sarebbero trasformati in calce. Come facilmente intuibile, la costruzione della volta rappresentava un momento estremamente importante e delicato, in quanto essa doveva sostenere tutto il peso dei sassi sovrastanti. Anche la scelta dell'ubicazione della calcàra era fondamentale: essa, infatti, doveva sorgere dove era possibile reperire facilmente il materiale necessario, cioè i sassi e la legna, e in prossimità di una via di comunicazione, che agevolasse il trasporto della calce. Il lavoro per produrre la calce iniziava in autunno con la raccolta della legna da ardere, la quale doveva essere abbondante dal momento che, per la cottura di 100-150 quintali di sassi, servivano dalle 5000 alle 8000 fascine di legna. Una volta riempita la calcàra, facendo attenzione a disporre i sassi più grossi dove il calore era più forte, si ricopriva il tutto con un leggero strato di malta. E finalmente, dopo aver aspettato la benedizione del prete con l'acqua santa, la calcàra era pronta per essere accesa. La legna doveva bruciare ininterrottamente per circa tre giorni e tre notti; trascorso un giorno dall'accensione, cominciavano a uscire dalla fornace delle vampe di fuoco che, in relazione alla cottura dei sassi, assumevano colorazioni suggestive. Quando il colore delle vampe di fuoco diventava turchese la calce era quasi pronta: l'esperienza del calcaroto avrebbe poi stabilito il momento più opportuno per spegnere il fuoco. La calce così prodotta, dopo essere stata fatta raffreddare per una settimana, veniva in parte utilizzata dai calcaroti stessi e, in parte, veniva venduta in paese a chi ne aveva bisogno per costruire la stalla, il fienile e anche la casa. Oggi questa tradizionale attività è andata perduta: nessuno fa più la calce, come nessuno fa più il ghiaccio e il carbone; tuttavia, il ricordo collettivo di ciò che è stato è ancora ben nitido nella memoria della gente della Lessinia e nelle forme del territorio. Quando, sul finire del Duecento, i Cimbri hanno cominciato a stabilirsi sui Monti Lessini si sono trovati di fronte a un ambiente molto diverso da quello attuale: il territorio, senza abitatori stabili, era ricoperto per tutta la sua estensione, da ovest a est, da foreste secolari. I coloni, dunque, per poter coltivare la terra e allevare il bestiame, hanno dovuto prima disboscare estese porzioni di foresta. Il legname ricavato veniva in parte utilizzato dai Cimbri stessi e in parte venduto; tuttavia, c'era sempre una parte di legname che non poteva essere venduta: si trattava della 125 ramaglia e del sottobosco che i Cimbri, abilmente, trasformavano in utilissimo carbone. La pratica di fare il carbone, che veniva inoltre proficuamente venduto, si diffonde a tal punto che l'altopiano dei Monti Lessini veniva anche chiamato "Montagna Alta del Carbon". La trasformazione della legna in carbone seguiva regole e rituali ben precisi, la cui origine si perde nella conoscenza collettiva di un intero popolo. In un primo momento, il carbonaro sceglieva un sito pianeggiante, vicino al bosco, dove costruire la carbonara (haufe) [Fig. XV]; quindi l'uomo procedeva al taglio della legna, in prevalenza di faggio, ma anche di carpino, di frassino e di nocciolo. La legna, una volta trasportata vicino al luogo destinato alla costruzione della carbonara, veniva disposta attorno a quattro lunghe pertiche che costituivano il camino. In questo modo, si formava una catasta conica alta circa 2-2,5 metri che, in un secondo tempo, veniva ricoperta di fogliame secco e di zolle di terra, la cui funzione era quella di favorire una combustione lenta. Fig. XV Carbonara Fonte: Nordera C., 1987, vol. II, p. 316 126 Tramite una scala appoggiata alla carbonara, il carbonaro introduceva nel camino alcune braci, che innescavano la combustione. Per trasformare la legna in carbone erano necessari tre giorni e tre notti: durante questo arco di tempo, il carbonaio doveva sorvegliare attentamente il fumo che usciva dalla carbonara, perché fiammelle di colore troppo acceso indicavano che il fuoco era troppo forte e che, quindi, era necessario aggiungere terra all'esterno, in corrispondenza delle fiammelle, per rallentare nuovamente la combustione. Ogni tanto, andavano anche aggiunti dei ceppi di legno per mantenere acceso il fuoco nel camino. Per sorvegliare le proprie carbonare, gli uomini costruivano nei dintorni una sorta di capanna (hute), la quale serviva da ricovero e permetteva di fare qualche breve riposo. Il lavoro dei carbonai si svolgeva, in massima parte, dalla primavera all'autunno, quando le condizioni climatiche erano più favorevoli. Il carbone ricavato -per esempio da una carbonara di 50 quintali di legna si ottenevano circa 8 quintali di carbone- veniva messo in sacchi e venduto sia sul mercato locale, sia su quello cittadino. Il lavoro di carbonaio si è diffuso, più che altrove, nel Comune di Selva di Progno e particolarmente a Giazza. Alla fine degli anni Cinquanta, anche questo mestiere di un tempo scompare: un'attività largamente praticata nel corso di secoli sembra destinata a diventare un ricordo lontano. Ma ecco che inaspettatamente, nel 1980, è ricomparso un filo di fumo nel cielo di Giazza: Nello Boschi, proprietario di un ristorante, ha deciso di accendere una carbonaia per produrre da sé il carbone di legna, che intende utilizzare per arrostire le trote e le braciole riservate ai clienti del suo ristorante. Così ogni anno Nello Boschi, con l'aiuto di due anziani cimbri che in passato erano stati esperti carbonai, ha restituito al presente un'arte che sembrava appartenere, definitivamente, al passato. 6.5. Sculture popolari sacre nell'area dei Tredici Comuni Veronesi In tutto il territorio situato a oriente della Val d'Illasi si trovano, lungo le strade o i sentieri, pilastrini monolitici di pietra che, sulla sommità, si allargano sino a formare un'edicola a capanna: si tratta di colonnette votive, alte dal metro al metro e mezzo, che sul pilastro hanno scolpita una croce, mentre incisa sull'edicola si trova la raffigurazione a bassorilievo della Beata Vergine col Bambino (XVII sec.) [Fig. XVI A]. Questo tipo di colonnetta pare essere la semplificazione di un tipo precedente e più complesso, che figura esclusivamente in tavolette di tufo: il tipo con Beata Vergine e Bambino tra San Rocco e San Sebastiano. Una colonnetta di questo tipo è presente in Contrada Venchi di Sotto [Fig. XVI B]: la data incisa è 1539. La presenza di San Rocco e di San Sebastiano è assai significativa, trattandosi di due riconosciuti protettori contro la peste, terribile flagello dell'epoca. Le colonnette più tarde (XVIII sec.) sono 127 dedicate al tema della Crocifissione e alla Madonna Addolorata, ma ne esistono anche alcune dedicate a motivi religiosi meno trattati. Le colonnette della Lessinia sono, tra le innumerevoli testimonianze di originalità del popolo cimbro, una delle più emozionanti e, allo stesso tempo, enigmatiche: ciò che sfugge è il messaggio complessivo che deriva dal loro insieme e dalla loro ubicazione. Significato che, al contemporaneo visitatore occasionale, è concesso solo di intuire e non di comprendere a pieno; significato legato all'intimo rapporto tra l'uomo e il territorio che abita, rapporto oggi quasi del tutto dimenticato, rapporto del quale le colonnette dovevano rappresentare importanti segni, pregnanti punti di coagulo. Il contenuto figurativo delle colonnette rimanda, come accennato sopra, all'iconografia cristiana, riprendendone personaggi e situazioni ricorrenti, i quali costituiscono simboli e temi alla base della rappresentazione scultorea. Tuttavia, se il soggetto appare familiare, il modo arcaico e ieratico delle figure evoca remote presenze di immagini paganeggianti e un sostrato culturale animistico, che affonda le proprie radici nelle lontane origini di questo popolo. 128 Fig. XVI A Colonnetta del Finco Fonte: Franzoni L., 1991, p. 12 Fi g. XVI B Colonnetta Venchi di Sotto Fonte: Franzoni L., 1991, p. 11 Le colonnette votive della Lessinia caratterizzano a tal punto il territorio da renderlo assolutamente unico e gravido di verità ancora celate: in molti casi, infatti, non è possibile dare una giustificazione certa della motivazione per la quale una colonnetta si trovi proprio in un determinato sito; mentre a volte è possibile leggere, incise sul pilastro, parole come <<in morte di...>>, sorprendendosi a fare congetture sulla morte del soggetto, sulle sue cause e circostanze. A volte queste colonnette, che possono anche essere prive di soggetti sacri, si trovano al centro di crocicchi, dove i sentieri si biforcano e la direzione diventa incerta: sembrano circoscrivere un punto sacro, all'interno del quale il boscaiolo può racchiudersi in solitaria preghiera prima di proseguire il proprio cammino. Si può supporre che tali colonnette, oltre a segnare sentieri, vie e confini, abbiano anche avuto lo scopo di indicare antichi tracciati di percorsi devozionali, che dovevano condurre le genti delle diverse vallate in luoghi connotati da particolare valore sacro. Le colonnette sacre di questi luoghi così affascinanti, poste a protezione di popoli e di terre, ricoprono il ruolo simbolico di elementi propiziatori e di segni di contatto tra il mondo dei fenomeni e il mondo del noumeno e del soprannaturale. 129 6.6. Il Taucias Garëida Giazza è rimasta, oggi, la sola località dei Tredici Comuni Veronesi dove qualcuno, venti anime sì e no, conosce e parla ancora il cimbro. Eppure, tutti parlavano cimbro fino a cinquanta -sessanta anni or sono: come è possibile, dunque, che questi pochi anni siano bastati a cancellare quasi del tutto un idioma così antico come quello cimbro che, nelle sue tre varianti112, è considerato una parlata altotedesca113? Probabilmente, nonostante l'isolamento di questi luoghi, il processo di acculturazione114, che si avvia in situazioni di vicinanza tra culture diverse, sta rapidamente portando all'estinzione di almeno uno degli aspetti della cultura cimbra e, cioè, la lingua. Il Taucias Garëida, infatti, mostra profondi segni dell'influenza del dialetto veronese e numerosi sono i termini veronesi penetrati nell'idioma cimbro. Di seguito sono riportati alcuni esempi: italiano: volta (in frasi come "quante volte...?") dialetto cimbro: bòte dialetto veronese: bòta italiano: vipera dialetto cimbro: bìpar dialetto veronese: vìpara italiano: vincere dialetto cimbro: véntzarn dialetto veronese: vénzar italiano: cassetto dialetto cimbro: kalte dialetto veronese: calto Il dialetto veronese ha influito sulla parlata cimbra attraverso varie vie, quali i continui contatti con la popolazione italiana residente nei comuni cimbri, i matrimoni tra Cimbri e Italiani e le relazioni con la popolazione italiana, fuori dei XIII Comuni, dovute agli scambi commerciali e all'attività lavorativa in generale. Tuttavia, nonostante prestiti o influenze italiane, il Taucias Grëida mantiene una propria decisa connotazione linguistica, che lo rende così particolare e unico [Fig. XVII] 112 Cfr. paragrafo 4.4., capitolo quarto. Cfr. capitolo terzo, nota 24. 114 Cfr. capitolo primo. 113 130 Fig. XVII Libreria Nordera, scatto privato Una conoscenza non superficiale della lingua tedesca permette di notare quanto il dialetto cimbro (nelle sue tre varianti di Giazza, Roana e Luserna) sia simile a essa non solo dal punto di vista sintattico, ma anche da quello morfologico e fonetico. Ad esempio, anche nell'idioma cimbro i sostantivi possono essere di genere maschile, femminile o neutro; come anche in cimbro il sostantivo è sempre preceduto dall'articolo, sia esso determinativo o indeterminativo. Sostantivi e pronomi si declinano non solo secondo il genere (maschile, femminile e neutro), ma anche secondo il numero (singolare e plurale) e secondo il caso ( nominativo, dativo e accusativo). Anche in cimbro, come in tedesco (ma anche come in italiano), esistono parole composte: ad esempio, la parola pergarlaut, gente di montagna, è formata da perg (montagna), da cui deriva pergar (montanaro), e da laut (gente). Lo studio grammaticale, lessicale, sintattico e fonetico della lingua cimbra risale, in massima parte, al Novecento115 ed è stato possibile grazie alla titanica opera di ricerca di glottologi, linguisti e storici. I Cimbri, infatti, erano in gran parte analfabeti o semianalfabeti e, dunque, hanno tramandato solo oralmente fonetica e grafia della loro parlata116. La maggior parte dei 115 Tuttavia, non mancano studi di questo genere anche nei due secoli precedenti, come quelli intrapresi da Agostino Dal Pozzo, da Giovanni Costa Pruck e dallo storico Carlo Cipolla. 116 A questo punto mi si potrebbe obiettare il fatto che, nel paragrafo 4 del Capitolo quinto, io abbia sostenuto l'esistenza di una letteratura cimbra, che dovrebbe presupporre un'alfabetizzazione della popolazione. Per evitare ogni equivoco, dunque, ritengo opportuno ricordare che le prime testimonianze della letteratura 131 testi di grammatica e lessico cimbro, composti da eminenti studiosi tra i quali lo Schweizer, sono in lingua tedesca o, addirittura, cimbra, e dunque di difficile divulgazione. Nondimeno, esiste un testo che può essere facilmente letto e compreso anche dal non specialista: si tratta della Grammatica popolare del Taucias Garëida, scritta da Carlo Nordera con il chiaro intento di far conoscere il dialetto cimbro di Giazza. L'autore, infatti, dedica, sia in cimbro che in italiano, la sua opera: "A tutti gli scolari, agli insegnanti, agli amici che vogliono contribuire a mantenere in vita la lingua e le tradizioni dei nostri antenati."117 Molto interessante è il capitolo dedicato alle "curiosità linguistiche" del Taucias Garëida. Ad esempio, molti vocaboli che in tedesco iniziano con la lettera -B, in cimbro iniziano con l'elemento fonico -P118: ponte in tedesco si dice Brücke, in cimbro pruke; libro in tedesco si dice Buch, in cimbro puach; montagna in tedesco si dice Berg, in cimbro perg. Un'altra particolarità del Taucias Garëida è data dal fatto che i sostantivi che in tedesco iniziano con la lettera -W, in cimbro iniziano con l'elemento fonico -B119: bosco, che in tedesco si dice Wald, in cimbro diventa balt; acqua, che in tedesco si dice Wasser, in cimbro diventa bàssar; vento, che in tedesco si dice Wind, in cimbro diventa bint. Infine i Cimbri, in particolare quelli veronesi, tendono a far cadere le consonanti doppie120, come -nn, -mm o -ll, sostituendone una con un'altra lettera: così il sole, che in tedesco si dice Sonne, nella parlata cimbra si è trasformato in sònde; agnello, Lamm in tedesco, in cimbro diventa lamp; lana, che in tedesco si dice Wolle, in cimbro si è trasformata in bolje; gallina, Henne in tedesco, in cimbro si dice henje. Come nei capitoli precedente della presente ricerca, di seguito sono riportate alcune testimonianze della lingua cimbra dei Tredici Comuni Veronesi: proverbi, canzoni, poesie e brevi racconti, che studiosi instancabili hanno ascoltato e trascritto durante lunghi anni di attività. Se il Taucias Garëida ancora sopravvive lo si deve a questi uomini ostinati e se, cimbra sono esclusivamente di carattere sacro, provenienti di conseguenza da un ambiente erudito. Le successive testimonianze appartengono alla tradizione orale, mentre numerose poesie citate anche nei capitoli successivi sono state scritte da poeti cimbri viventi, o vissuti nel Novecento. 117 "In alje de skoularn, de leararn, da gaseljan bo boun haltan lentach is gareida un de gadenke 'un usarne altan." 118 Fenomeno di rotazione consonantica, per il quale la consonante da sonora diventa sorda: si tratta di un fenomeno avvenuto nell'Alto Medioevo, nell'area meridionale della Germania. 119 Si tratta di un fenomeno tipico dell'area tirolese. 120 Fenomeno di riduzione, o degeminazione, delle doppie dovuto all'influsso dei dialetti latini circostanti. 132 come ho avuto modo di capire durante il mio viaggio tra i Cimbri, basta che qualcuno ricordi anche solo una parola in cimbro, affinché questo non muoia; allora ecco che risulta evidente la necessità di riportare non solo la traduzione italiana, ma anche il testo cimbro, contribuendo così a proteggere questa lingua antica dalla minaccia dell'oblio. Proverbi: "Chi va al mulino, s'infarina."121 "Un uovo marcio fa puzzare una casa intera."122 "Quando non c'è la gatta i topi ballano."123 Fonte: Molinari, 1999, p. 110. Una canzone: I contrabbandieri Come faremo ad attraversare i confini senza documenti come siamo? Supereremo dossi e declivi, ma due finanzieri ci hanno sorpresi. Ci hanno arrestati, ci hanno ammanettati, ci hanno condotti in una tetra prigione. Se potremo evadere da questa prigione le nostre fidanzate vorremo baciare.124 Fonte: Nordera, 1987, vol. II, p. 229. Una poesia del cimbro Rino Lucchi: 121 "Ber gheat in de mul bumelci." "A vaulaz oa darstinkat a gantzaz haus." 123 "Begne dista nist de katze, de maus tantzan." 124 De tragar Bia tuabar txe tritziln pa pergan/ ante briefe asbia bar sain?/ Bar springan-hi eikadar un laitan/ un tzoa pintar hen-uns gavangat./ Se hen-uns gavangat,/ se henuns gapintat,/ se hen-uns gavuart/ in an tunkan presaun./ Ta bar mougan ken aussar/ 'un disame presaune/ unsare schuane/ boun bar busan. 122 133 Chiccolino di frumento Chiccolino dove stai? Sono qui sotto, non lo sai? E là sotto non fai nulla? Dormo dentro la culla? E se tanto dormirai, chiccolino, che farai? Una spiga metterò, e tanti chiccolini ti darò! In un buon pane mi farò!125 Fonte: Molinari, 1999, p. 116. La leggenda dell'orco: Una volta l'Orco abitava nella contrada Ravaro126 e volle scendere alla contrada Luche127. Scese per il sentiero a zig zag, stretto e sassoso fino al torrente. Il torrente era in piena. L'Orco balzò sul ponticello di legno, cantando e ballando: <<ponticello rompiti, cagnolino abbaia, gattino miagola, campanina suona.>> Prach! Il ponticello si ruppe e l'Orco venne scaraventato nel torrente.128 Fonte: Nordera, La grammatica popoalre del Taucias Garëida, s.d., pp.94-95. 125 Korniglia un boatze Korniglia, bo pisto-du?/ I pi untar hia, boazzast-du nist?/ Un untar-da, machasto nist?/ I schlafe ign de maine haighe!/ Un mo vi schlaffast-du,/ Korniglia, ba machast du?/ An roase-boatze i leighi,/ un iebala kornigliar i gain-da!/ Un an goutaz proat i machada. 126 Contrada di Giazza siutata sulla sinistra del torrente Fraselle. 127 Contrada disabitata di Giazza, situata all'imbocco della Val di Fraselle. 128 An bote in Orke ist gabest 'un Rakabar un hat gabout ghian kar Luche. Er ist ken abar pa trouge funtze kan pache. In pach ist gabest groas. In Orke ist gasprùngat 'uz prùkala tànzinje un sìnghinje: prùkala prech, hùtla pilj, kétzala mauch, Kljouklja laut. Prach! Is prùkala ist gaprecht un in Orke ist gapljundart in pache. 134 CAPITOLO SETTIMO I Cimbri del Cansiglio 7.1. Analisi geografica e territoriale della Piana del Cansiglio Non credo che esistano parole migliori di quelle scritte dal poeta Mario De Nale per descrivere questo incantevole sito: "Il Cansiglio è un magnifico lembo di terra veneta e <<cimbria>>, adagiato su di un suggestivo letto di faggeti e pinete sparse in un alternarsi di valli e pendii oscillanti tra i 781 metri della chiesetta del Runal e i 1694 del Croseraz, un tempo silenziosa dimora di lupi e di orsi, bucherellato di caverne abitate da fate." (1984, p.7) Il Cansiglio, altopiano carsico delle Prealpi Carniche, si presenta come una sorta di piattaforma concava, dominante la pianura veneto-friulana e divisa tra le province di Treviso, Belluno e Pordenone [Fig. XVIII]. L'altopiano è delimitato a Sud e a Sud-Est dalla pianura veneto-friulana, a Nord-Est dal gruppo del Monte Cavallo (2.251 m.), a Nord dalla conca dell'Alpago e a Ovest dalla Val Lapisina, con la sella del Fadalto. La Piana del Cansiglio è costituita da tre depressioni centrali, le quali hanno avuto origine da una inflessione della regione, avvenuta in lontane ere geologiche: Pian Cansiglio, la più estesa, raggiunge la quota minima di 976 m. dei "Bech" e la massima di 1.060 m. dei "Pich"; Valmenera e Cornesega, dove si registra la quota minima dell'altopiano con 898 m. I rilievi che racchiudono la Piana del Cansiglio sono più elevati nei versanti orientali, con la quota massima del territorio toccata dal Monte Croseraz (1.694 m.), e in quelli occidentali, con il Monte Pizzoc (1.565 m.) e il Monte Millifret (1.581 m.). Esistono due valichi: uno a Sud, chiamato Crosetta (1.118 m.) e uno a Nord, chiamato Campon (1.050 m.); attraverso i due valichi transita la Strada Statale n° 422, unico asse viario del Cansiglio. L'altopiano del Cansiglio presenta un aspetto ondulato e raramente vengono raggiunte pendenze elevate; tuttavia, i fianchi esterni sono molto più scoscesi, fatta eccezione per il fianco settentrionale dell'Alpago, che scende gradatamente verso la valle del Piave e il Lago di Santa Croce. 135 Fig. XVIII Il Bosco del Cansiglio Fonte: elaborazione grafica a cura dell’autrice 136 Tutto l'altopiano è caratterizzato dalla presenza del fenomeno del carsismo, dovuto a una lenta dissoluzione del carbonato di calcio contenuto nelle rocce di natura calcarea e alla conseguente fratturazione di tali rocce, in risposta a sollecitazioni tettoniche. Gli effetti del carsismo sono molto più evidenti sul versante sud-orientale: in questa zona è possibile rilevare il maggior numero di doline e di inghiottitoi in superficie e di voragini in profondità. Le voragini principali sono il "Bus de la Lum", la cui profondità è di 185 m., e l'abissale "Bus della Genziana", con 587 m. di profondità e ben 3 km. di sviluppo, dichiarata "Riserva speleologica" unica in Europa nel suo genere. Durante la stagione piovosa si verifica una saturazione delle fenditure del sottosuolo (causate dai fenomeni carsici) che, in aggiunta al normale accumulo di materiale impermeabile e argilloso sul fondo delle doline meno profonde, provoca la trasformazione di queste ultime in piccoli specchi d'acqua, chiamati "lame". Tale processo è completato da un lento e graduale affossamento del terreno, che porta alla formazione di torbiere. Nella zona occidentale dell'altopiano, in virtù di una attenuazione dei fenomeni carsici, si trovano le uniche tracce di una idrografia superficiale, costituite dal torrente che scorre nel "vallone di Vallorch". Uno degli aspetti che più caratterizza il Cansiglio, rispetto alla regione circostante, è dato dal particolare microclima: esso, influenzato dalla sottostante pianura, rientra nella categoria di clima temperato freddo, con estati fresche e una marcata impronta oceanica, dovuta alla vicinanza del Mare Adriatico. Una corrente di aria fredda, che scende dai versanti interni dei rilievi, si deposita nelle tre grandi depressioni centrali, rimanendo ivi imprigionata. Questo fenomeno è all'origine sia del ristagno delle nebbie, sia dell'inversione termica, vale a dire della diminuzione delle temperature procedendo dalla sommità dei rilievi fino al fondo della conca, costituita dalle tre depressioni. Di conseguenza, la temperatura media annua registrata sulla Piana del Cansiglio risulta essere di 2°C inferiore rispetto alla temperatura che si dovrebbe registrare normalmente. L'escursione termica annuale è di 17°/18°C circa, mentre gli estremi termici sono compresi tra i +29° di luglio e i -20°C di gennaio. Il fenomeno dell'inversione termica determina la conseguente inversione delle serie vegetazionali: sul fondo delle tre grandi depressioni, infatti, sono presenti prati e pascoli che, solitamente, si trovano ad altitudini maggiori; mentre le aree superiori sono occupate dalla vegetazione forestale. Sul fondo delle tre grandi depressioni è presente una vegetazione erbacea di origine naturale; tuttavia, la loro superficie è stata modificata sia dai disboscamenti attuati per creare nuovi pascoli, sia dai rimboschimenti di abete rosso avvenuti soprattutto nel Novecento. I pascoli, infatti, sono circondati, soprattutto nel lato orientale, da un bosco artificiale formato appunto da alberi di abete rosso della medesima età e dimensioni: tali alberi sono stati piantati, durante un periodo che va dai 30 agli 80 anni fa, su porzioni di terreno precedentemente destinate al pascolo. 137 Il tipo di bosco che più rappresenta il Cansiglio è la faggeta montana: sono le foreste di faggi, infatti, a caratterizzare, rendendolo unico, il paesaggio, in particolare durante la stagione autunnale, quando le foglie si incendiano di colori. La faggeta montana del Cansiglio cresce tutto attorno alla conca formata dalle tre depressioni, a un'altitudine che va dai 1.100 ai 1.400 m., e sui rilievi meridionali, come sulle pendici del Monte Pizzoc e del Monte Millifret, dove trova l'habitat ideale per esprimere la sua forma migliore. La faggeta è costituita, quasi esclusivamente, da alberi della stessa età: l'aspetto del bosco è, dunque, omogeneo, con le chiome degli alberi della stessa altezza che formano una volta continua e regolare. Spostando lo sguardo verso Nord, si può notare la progressiva sostituzione della faggeta montana da parte del cosiddetto abieti-faggeto: si tratta di un bosco formato da faggio e da abete bianco, i quali prevalgono l'uno sull'altro, a seconda delle variazioni climatiche ed ecologiche, in continua competizione. Nell'abieti-faggeto sono presenti alberi di diverse età e dimensioni: questo fa sì che la volta del bosco non sia fitta e omogenea, come quella della faggeta montana, permettendo alla luce di filtrare. Una maggior quantità di luce favorisce la crescita di un sottobosco più ricco, caratterizzato dalla presenza di piante arbustive ed erbacee, rispetto al sottobosco della faggeta, composto quasi esclusivamente dalle foglie morte dei faggi. In Cansiglio si trovano anche altri tipi di bosco, sebbene occupino superfici di estensione minore: la faggeta altimontana, ad esempio, cresce sulle pendici del Monte Croseraz ed è costituita da faggi dallo sviluppo assai modesto; mentre in Val Faldina e Valpiccola si trova un'abetina montana, formata esclusivamente da alberi di abete bianco, esempio quasi unico rinvenibile sull'arco alpino. Con una superficie di oltre 6000 ha. il "Bosco dei Dogi", come viene anche chiamato il Bosco del Cansiglio, è -dopo la Foresta Nera- la seconda foresta più grande d'Europa. Grazie al divieto di caccia, che da più di un secolo protegge la regione del Cansiglio, è stato possibile il riaffermarsi di una fauna molto ricca e diversificata, legata all'habitat forestale. Per quanto concerne i mammiferi, la specie più rappresentativa della zona è sicuramente quella del cervo: l'ultimo censimento ne ha contati circa 100 esemplari. I cervi sono soliti frequentare la parte nord-orientale del territorio; essi prediligono la Valmenera come sito per i combattimenti durante il periodo degli amori (primo autunno), mentre si spostano verso le pendici orientali esterne al bosco per svernare. Il capriolo è un altro mammifero diffuso in tutto il Bosco del Cansiglio; mentre la presenza del daino, introdotto inizialmente in un recinto faunistico e liberato successivamente nella foresta, è meno frequente. Tra gli altri mammiferi si trovano la lepre comune, la lepre alpina, lo scoiattolo (che si nutre dei semi degli abeti rossi), il ghiro, il riccio, la talpa, la puzzola, la donnola, l'ermellino, il tasso, la martora e numerose volpi. 138 L'avifauna è caratterizzata dalla presenza di moltissime specie, sia stanziali che migratorie, queste ultime più numerose data la scarsità di cibo offerta dal bosco durante la lunga stagione invernale. Tra le specie stanziali, le più diffuse sono l'astore, lo sparviero, la poiana, il gheppio, l'aquila reale (che nidifica sul non lontano Monte Cavallo), l'allocco, la civetta nana, la civetta capogrosso, il gufo comune e quello reale (anche se più raro). L'animale che simboleggia il Cansiglio è il gallo cedrone e, sempre tra i galliformi, sono presenti il francolino di monte, il fagiano di monte e la pernice bianca. Innumerevoli sono i passeriformi che abitano la foresta: rondini, balestrucci (simili alle rondini), allodole, storni, scriccioli, capinere, fringuelli, cince, ghiandaie, cornacchie, pettirossi, cardellini e merli. Tra i rettili sono presenti la vipera, il ramarro, la lucertola vivipara, la biscia dal collare e l'orbettino; mentre tra gli anfibi, che vivono in prossimità degli specchi di acqua stagnante, si trovano la salamandra nera, la rana temporaria e la rana verde. In Cansiglio, ormai da svariati anni vengono prodotti, seguendo le regole dell'agricoltura biologica, latte e derivati di alta qualità dal Centro Caseario Allevatori dell’Altopiano Tambre-Spert-Cansiglio, situato in località Valmenera e non distante dal Comune di Tambre. Qui, ogni giorno, vengono prodotti 35 quintali di latte e vengono lavorati dai 4 ai 5 quintali di formaggi, ricotte e mozzarelle, prodotti che per un quarto del totale sono destinati al mercato estero. Il Centro Allevatori raccoglie il latte proveniente da una ventina di stalle del Cansiglio e del vicino Alpago, ma non quello dall'Azienda Vallorch, che conferisce altrove i 15 quintali di latte biologico prodotto quotidianamente dalle sue 70 vacche. Il Centro Caseario Allevatori fattura, annualmente, circa tre miliardi di lire: un volume di affari notevole, se si considerano le ridotte dimensioni dell'azienda stessa. Questo innegabile successo, secondo i direttori del Centro Caseario, non è ancora definitivo: per essere tale, infatti, è necessario convincere i proprietari dell'Azienda Vallorch del fatto che una produzione biologica unitaria non solo amplierebbe notevolmente le prospettive di mercato, ma aumenterebbe ulteriormente il prestigio della regione. Infine, in località Vallorch, all'interno della Foresta del Cansiglio, si trova il Centro di Educazione Ambientale "Vallorch": il Centro, dotato di una sala polifunzionale, di aule e di laboratori, si propone come luogo di soggiorno ideale per lo studio e per le attività di ricerca. Il Centro, infatti, organizza visite guidate nel bosco, soggiorni tematici (flora, fauna, geologia, ambiente, archeologia e storia), seminari, corsi di formazione, convegni e campi di lavoro nella foresta. 139 7.2. I Cimbri del Cansiglio: analisi storica e situazione attuale Prima di ripercorrere, a ritroso nel tempo, la storia dei Cimbri che hanno scelto i boschi del Cansiglio come luogo dove costruire la propria dimora (una storia relativamente recente, come spiegato più avanti), ritengo opportuno dare un quadro generale di quella che è stata la storia della Foresta del Cansiglio, storia che è molto più antica. Esistono numerose ipotesi riguardanti l'etimologia del nome "Cansiglio", tra queste: "Campus silius", "Campus silens" cioè "campo, luogo piano e silenzioso"; "Campus silvae" cioè "spiazzo tra i boschi"; "Campus silis" cioè "campo del Piave". Tuttavia, la più attendibile fa derivare il coronimo “Cansiglio” da “concilium”, che indica una terra consortile indivisa di boschi e di pascoli, appartenente e più comunità. Il toponimo "Foresta del Cansiglio" è più recente, infatti il nome "Cansiglio" o "Cansegio" era riferito esclusivamente alla conca centrale, ovvero all'attuale Piana del Cansiglio; mentre la zona circostante veniva chiamata "Bosco d'Alpago" e aveva una superficie superiore a quella dell'odierna Foresta del Cansiglio, ricadendo in gran parte sotto la giurisdizione del Rettore di Belluno. Le origini del profondo legame, che ha unito intimamente l'uomo alla Foresta del Cansiglio, risalgono a più di 10.000 anni fa, quando l'Uomo di Cromagnon utilizzava l'altopiano come riserva di caccia, risalendovi dalla pianura, durante la stagione estiva. Questo è testimoniato dai diversi reperti di punte di selce ritrovati nel 1994 in Pian Cansiglio e a Palughetto e, precedentemente, nella vicina zona di Piancavallo: le armi venivano utilizzate per cacciare i grossi erbivori presenti nell'area, in particolare stambecchi. Gli insediamenti successivi, dai Paleoveneti, ai Romani fino ai Barbari, vedono un avvicinamento al Cansiglio soprattutto da parte degli abitanti dell'Alpago; tuttavia, manca ancora, probabilmente, un razionale sfruttamento delle risorse della foresta. Il primo documento scritto riguardante il Cansiglio risale al 923 d.C., allorché Berengario I, Re d'Italia, assegna il feudo del Cansiglio al Vescovo e Conte di Belluno il quale, in un secondo tempo, stabilisce le concessioni dei diritti di pascolo ai privati e alle comunità. Con lo sviluppo dei Comuni, il Bosco dell'Alpago (come viene chiamato nel documento di Berengario) passa alle "Regole della Comunità dell'Alpago"; per poi passare, nel 1404 e con tutta la Comunità di Belluno, sotto la Serenissima Repubblica di Venezia. Tuttavia, l'annessione ufficiale alla Serenissima avviene nel 1548, anno in cui viene nominato il primo "Capitano Forestale" del Cansiglio. Dal 1797 al 1866 si alternano il governo francese e quello austriaco e nel 1871, in seguito all'annessione del Veneto al Regno d'Italia avvenuta 140 nel 1866, il Cansiglio diventa "Foresta demaniale inalienabile" dello Stato italiano, sotto la gestione dell'Azienda di Stato per le Foreste Demaniali. Il bosco del Cansiglio è conosciuto anche con il nome di "Bosco dei Dogi": durante il governo della Serenissima, il Consiglio dei Dieci emette numerosi editti e proclami in difesa della foresta, con pene estremamente severe per i trasgressori. Gli imponenti alberi di faggio del bosco vengono abbattuti per la produzione di <<remi da galere>>: i "Proti dell'Arsenale", infatti, in occasione dei sopraluoghi iniziali avevano giudicato il faggio adatto allo scopo. Per svolgere questo lavoro, vengono istituite delle compagnie di boscaioli detti <<remeri>>. Il pascolo viene completamente bandito dalle zone boschive e tutte le costruzioni atte alla monticazione, fino a un miglio all'esterno del confine del bosco, vengono distrutte. Le continue lamentele e i soprusi subiti dalle popolazioni, che abitano le zone limitrofe al bosco, portano alla creazione del "Mezzomiglio": un anello esterno al confine nel quale è permesso pascolare, mentre le casere e le carbonaie devono stare al di là del mezzo miglio. Tale decisione viene presa nel 1576, quando il Rettore di Belluno Giovanni Dolfin intraprende una nuova confinazione della zona. Con una successiva confinazione, risalente al 1660, voluta dal Podestà e Capitano di Belluno Marin Zorzi, Provveditore dei Boschi, viene modificato il diritto di pascolo: viene concesso il mezzo miglio interno della foresta, "fino all'orlo del bosco folto". Tutto ciò provoca un grave danno alla foresta; ma il periodo di degrado e di decadenza del bosco, iniziato con il provvedimento di Marin Zorzi, si acutizza sia a causa delle vicende storiche di Venezia, in guerra con i Turchi, sia a causa del passaggio del governo dei boschi dal Consiglio dei Dieci all'Arsenale. In seguito a tale passaggio, infatti, la sorveglianza del bosco e l'attenzione da parte di Venezia si allentano e, per contro, crescono gli abusi e le usurpazioni. Nel 1797 la Serenissima Repubblica di Venezia cade e, per qualche tempo, la foresta rimane indifesa: essa diventa, ben presto, oggetto delle predazioni delle popolazioni autoctone e dei militari francesi. Sotto la dominazione austriaca, a partire dal 1815, vengono eseguite nuove confinazioni, anche allo scopo di risolvere la questione legata al "Mezzomiglio". Tuttavia, la risoluzione della questione del "Mezzomiglio" deve attendere il 1873, quando l'Amministrazione Forestale dell'Azienda di Stato per le Foreste Demaniali procede a una ulteriore confinazione e liquida la questione cedendo 550 ha. ai comuni limitrofi e affrancando i rimanenti ettari, facenti parte dei pascoli interni, con corrispettivi in denaro. Nel 1870 erano cominciati, tra l'altro, i lavori per la costruzione della Strada Statale n° 422, lavori che vengono ultimati nel 1881, con una spesa di £ 350.000; la strada favorisce notevolmente il commercio di legname. Con l'attuazione delle Regioni, la proprietà è stata smembrata: nel 1965 i 1555 ha. ricadenti nei propri confini sono stati trasferiti alla Regione Friuli-Venezia Giulia; tra il 1979 e il 1980 sono andati alla Regione Veneto 141 3931 ha.; mentre i restanti 1086 ha., costituiti da Riserve Naturali ricadenti nella Regione Veneto, sono rimasti Demanio dello Stato. Tra la fine del Settecento e l'inizio dell'Ottocento, non è dato di sapere la data precisa, uno sparuto gruppi di Cimbri decide di partire da Roana, paese natio, per dirigersi verso la Foresta del Cansiglio: "Giunto il giorno fissato per la fatidica partenza che doveva aggiungere un'altra pagina di fatiche e di sudori alla millenaria storia di una tribù travagliata, all'ora in cui l'alba stava per lasciare il posto all'aurora, mentre nel cielo della mezza estate si incrociavano ancora i lunghi fili rossastri delle stelle cadenti, la cassa degli attrezzi a tracolla e un sacchetto di farina e il paiolo penzolanti sul dorso da usare per fare la polenta lungo la strada, nelle soste volute dalla fatica, guardando in avanti come per scoprire la visione di un orizzonte migliore, il piccolo drappello cimbro [...] abbandonò alle spalle il muto paesello, la casa, gli affetti e si avviò silenzioso verso il nuovo lembo di terra veneta fatto di ombre, di selve e privazioni [...]." (De Nale, 1984, p. 101) Questa prima emigrazione ha, inizialmente, un carattere stagionale: i rigidi inverni del Cansiglio spaventano ancora i primi Cimbri. Verso il 1820 una seconda emigrazione, in questo caso definitiva, conduce altre famiglie cimbre di Roana verso il Cansiglio: Pian dei Lovi, Canaie e Val Bona sono le località scelte come siti ideali per costruire le proprie abitazioni. I cognomi di queste famiglie, fondatrici della comunità cimbra del Cansiglio, sono Azzalini, Slaviero, Bonato e Gandin: tali cognomi sono ancor oggi i più diffusi in tutta la zona del Cansiglio. I nuovi coloni cimbri [Fig. XIX] conservano gli usi e le attività tradizionali di Roana: lavorazione del legno e costruzione di scatole per contenere le forme di formaggio. Per lungo tempo la comunità cimbra vive quasi completamente isolata: un profondo senso di indipendenza sociale induce le giovani madri cimbre a tornare a Roana per il parto, piuttosto che chiedere aiuto alle donne dei paesi vicini. Gli unici contatti con le comunità limitrofe sono, almeno in un primo periodo, quelli legati alla vendita delle scatole per il formaggio e degli utensili in legno. 142 Fig. XIX Famiglia Gandin Fonte: De Nale M., 1984, p. 104 143 Il 1887 sembra essere l'anno dell'esodo dai primitivi villaggi cimbri, in favore di nuovi insediamenti, situati non solo più vicino alle vie di comunicazione, ma anche ad aree ricche di faggi (utilizzati, appunto per la produzione delle scatole per il formaggio): Campon, Le Rotte, Pian Osteria, Vallorch e Pich sono i nuovi villaggi cimbri, dei quali restano, ancora oggi, le antiche costruzioni ormai quasi del tutto disabitate. Con il trascorrere del tempo, i rapporti tra la comunità cimbra e quella veneta diventano più frequenti e intensi: gli scambi commerciali, i matrimoni tra giovani appartenenti alle due diverse comunità e la frequenza alle scuole italiane da parte dei bambini cimbri sono tutti fattori che, inevitabilmente, influenzano profondamente la cultura più debole129, ovvero la cultura cimbra. A partire dagli anni Venti, il fenomeno dell'emigrazione coinvolge anche le genti che abitano i villaggi cimbri del Cansiglio: molti, infatti, soprattutto giovani, abbandonano i paesi natii per andare a stabilirsi nelle città della pianura veneta, nelle metropoli degli Stati Uniti, in Brasile, in Belgio e qualcuno anche in Sudafrica130. Oggi numerosi discendenti degli antichi Cimbri risiedono nelle valli limitrofe e utilizzano le abitazioni degli antichi villaggi cimbri solo durante il periodo estivo. Degno di nota è il fatto che essi siano coinvolti in attività o associazioni che, in modi diversi e talvolta contrastanti, sono dedicate alla salvaguardia della cultura cimbra e della Foresta del Cansiglio. 7.3. Visita al Museo Etnografico di Cultura Cimbra di Pian Osteria Il Museo Etnografico di Cultura Cimbra [Fig. XX], chiamato anche Centro di Etnografia Cimbra, è stato inaugurato nell'agosto del 1984 e si trova in località Pian Osteria, al centro della Foresta del Cansiglio. In occasione del mio già citato viaggio attraverso i luoghi di insediamento del popolo cimbro, ho avuto modo di visitare il Museo, sede tra l'altro dell'Associazione Culturale Cimbri del Cansiglio, ente privato sorto con atto notarile del 21.12.1983, che ha per scopo primario il recupero del patrimonio storico-culturale dei Cimbri del Cansiglio. 129 Cfr. Capitolo primo, paragrafo 1.2. Cfr. di seguito. 130 144 Fig. XX Ingresso Museo Etnografico di Cultura Cimbra Scatto privato All'interno del Museo si trovano esposti gli innumerevoli attrezzi usati dai boscaioli per il taglio degli alberi e per la lavorazione del legno, nonché una serie di fotografie storiche dei villaggi cimbri e un grande plastico di tutta la zona del Cansiglio. Il Museo, di concerto con l'Associazione Culturale, si occupa anche della pubblicazione di svariati testi relativi alla storia e alle tradizioni culturali del popolo Cimbro, dell'organizzazione di manifestazioni in occasione delle quali i discendenti degli antichi Cimbri ripropongono le tradizionali tecniche della lavorazione del legno (come durante l'annuale Festa dei Cimbri [Fig. XXI], che si celebra nel mese di agosto), dell'organizzazione di corsi di lingua cimbra e, infine, del recupero dei villaggi cimbri di Vallorch e Le Rotte (entrambi facenti parte del Comune di Fregona). 145 Fig. XXI “6° Festa dei Cimbri” Scatto privato Proprio la situazione che riguarda questi due villaggi desta grande preoccupazione nei membri dell'Associazione Culturale: il Comune di Fregona, infatti, non dà alcuna possibilità per le necessarie ristrutturazioni delle baite che, attualmente, sono adibite a residenza stagionale. Il piano regolatore del Comune di Fregona prevede, per i due villaggi, solo la possibilità di svolgere la manutenzione ordinaria, escludendo categoricamente qualsiasi tipo di ristrutturazione e di ampliamento. Il problema è aggravato dalle pessime condizioni in cui versano le varie costruzioni, la maggior parte delle quali è oramai inagibile. Inoltre, gli interventi di manutenzione o di ampliamento, attuati negli ultimi decenni, hanno alterato le tipologie insediative originarie, causando un ingente danno al patrimonio storico-architettonico della zona. Pertanto, l'Associazione Culturale chiede al Comune di Fregona e alle autorità competenti di provvedere alla risoluzione di tale paradossale situazione, adottando un piano di regolamentazione degli interventi, per il recupero edilizio del Cansiglio tutto, rigoroso e particolareggiato. 146 7.4. Vocaboli e toponimi cimbri Nonostante in Cansiglio non si parli più il dialetto cimbro, numerosi sono i vocaboli e i toponimi dell'antico idioma conosciuti dai discendenti dei Cimbri che, duecento anni fa circa, giunsero in Cansiglio da Roana, uno dei Sette Comuni Vicentini. E dunque, ancora una volta, per non dimenticare la lingua cimbra, per non perdere un patrimonio culturale così prezioso e unico, ho ritenuto opportuno riportare, di seguito, un breve elenco di sostantivi in cimbro: Baden: filo Bait: letto, giaciglio Balade: giacca Balt: bosco Baltmen: legnaiolo Belf: grosso bavero, pettorale Bina: mazzo di sedici assicelle di legno Brent: madia cilindrica Broat: pane Cimbali: assicelle legnose Eser: scandola grossa e grezza Fliek: toppa Folcza: picchio nero Haka: scure Hamar: martello Hauta: oggi Hert: focolare Huta: capanna Kal: cuneo Kaserofan: scatola per il formaggio Kaufa: mucchio di legna per fare il carbone Kesal: paiolo Kiz: formaggio Koular: carbonaio Kuchel: trecce Mel: farina Morga: domani Nadal: ago Nadel: ferro da calze Negal: chiodo Pich: lisciapiante (nome di un villaggio cimbro fondato da Matteo Bonato, il quale era un esperto lisciapiante.) Poserkal: piccolo cuneo legnoso 147 Puche: faggio Pulta: polenta Rench: anello Roch: fumo Sbrica: fessura Schupe: scandole finissime Schuzzal: scodella Slirenar: affilare i coltelli e l'ascia Spizmaus: topolino di bosco Spert: chiusa, luogo stretto, ma anche sperduto Stiga: scala tipica dell'artigiano cimbro Straen: matassa Stuk: schioppo Trefer: botta Vallorch: valle dell'uragano Fonte: De Nale, 1984. 7.5. I "Cimbri scatoleri" del Cansiglio131 Come già accennato, i Cimbri del Cansiglio erano famosi, e lo sono tuttora, per la loro abilità nella lavorazione del legno di faggio, attraverso la quale si producevano vari oggetti (brent, tamisi e scatole per il formaggio132), che venivano venduti o barattati in cambio di prodotti alimentari. Da qui il soprannome di "Cimbri scatoleri" [Fig. XXII]. 131 Cfr. Un anno con i Cimbri scatoleri del Cansiglio, Associazione Culturale Cimbri del Cansiglio, 2000. 132 Cfr. di seguito la spiegazione delle fasi della produzione di tali oggetti e del loro utilizzo. 148 Fig. XXII Scatole per il formaggio Museo Etnografico di Cultura Cimbra, scatto privato Tradizionalmente, ogni capo famiglia aveva il permesso di tagliare un certo numero di piante di faggio, situate su una determinata porzione di territorio e adatte alla lavorazione specifica cui i "Cimbri scatoleri" le avrebbero destinate. Una volta stabilito il sito più consono, veniva eretta la baracca da lavoro, contenente tutti gli attrezzi necessari al taglio degli alberi e alla successiva lavorazione del legname, chiamata in cimbro huta. La giornata di lavoro cominciava alle prime luci del giorno: tutta la famiglia, in questo caso la cosiddetta famiglia "estesa" o "allargata", era chiamata dal capofamiglia a contribuire al lavoro. Così, mentre gli uomini preparavano gli attrezzi da lavoro, le donne e i bambini raccoglievano la legna necessaria per accendere il fuoco, che doveva ardere per tutta la giornata. Il capofamiglia, dopo aver scelto la pianta che un preliminare esame visivo aveva rivelato idonea alla lavorazione, ne prelevava un tassello allo scopo di verificare la qualità del legno, che doveva avere una fibra parallela ed essere completamente privo di nodi interni. I boscaioli cimbri erano incredibilmente abili nell'individuazione dell'albero più adatto alla 149 lavorazione: tale abilità era frutto di una antica esperienza, tramandata da padre in figlio, la quale permetteva di effettuare una scelta, che poteva già essere considerata definitiva, basata sul solo esame visivo. I Cimbri, infatti, reputavano un gesto irresponsabile prelevare un tassello da un albero che avrebbe potuto anche non essere idoneo, in quanto il prelievo del tassello danneggiava irrimediabilmente il faggio, causandone il taglio prematuro. Il capofamiglia, con l'aiuto del cimbro più anziano ed esperto, procedeva quindi al taglio del faggio, utilizzando una attrezzo chiamato segon (una grande sega). Una volta abbattuto, l'albero veniva ripulito dai rami, che donne e bambini avevano il compito di raccogliere, e sezionato in vari elementi, chiamati zoncole, di diverse dimensioni, che a loro volta venivano sezionate in tante assicelle, chiamate aster. Tutto il legname veniva poi trasportato nella capanna degli attrezzi, la huta, e con il sopraggiungere della prima neve il taglio degli alberi veniva sospeso. A questo punto, si cominciava la lavorazione del legname accumulato nella huta; tale attività continuava fino a primavera inoltrata. Solitamente, l'uomo più anziano aveva il compito di squadrare le assicelle di faggio (aster), per dare loro una forma il più regolare possibile. Il capofamiglia era impegnato al banco da lavoro (zoc da s'ciapàr), costituito da due cavalletti sui quali poggiava un grosso tronco squadrato con tre incavi centrali e due laterali incisi sulla sua superficie. Questo tavolo da lavoro serviva per lavorare ulteriormente le varie assicelle di legno, che erano state precedentemente squadrate dal cimbro più anziano: ogni aster veniva sezionata in sedici assicelle sottili le quali, in un secondo momento, venivano rese uniformi attraverso un lavoro di lisciatura (s'ciapàr). Una volta terminata l'operazione di lisciatura, le assicelle di legno venivano messe ad asciugare al sole, nei pressi della huta. Quando le condizioni atmosferiche lo permettevano, il capofamiglia faceva accendere il fuoco vicino al suo tavolo da lavoro, sul quale era stato installato il piegador, un attrezzo dotato di un rullo dentato e azionato da una manovella, che serviva a dare forma circolare alle assicelle di legno, scaldate preliminarmente sul fuoco. Le assicelle circolari così ottenute venivano utilizzate per confezionare svariati oggetti: i brent erano madie di legno dotate di coperchio, usate come contenitori; le scatole per il formaggio, richieste dai malgari e i tamisi, setacci di varie dimensioni. Scatole per il formaggio, brent e tamisi venivano venduti o barattati nel villaggi vicini: per ogni brent, ad esempio, venivano barattati quattro chili di fagioli e per ogni scatola da formaggio, si poteva ricevere in cambio mezzo chilo di formaggio. Il compito di vendere o di barattare i propri prodotti era riservato al capofamiglia, il quale partiva ogni mattina prima dell'alba e faceva ritorno solo quando aveva esaurito la merce, che gli era costata tanto lavoro. 150 7.6. Storie e avventure dei Cimbri del Cansiglio Di seguito sono riportate alcune storie e avventure che hanno come protagonisti i Cimbri del Cansiglio: si tratta di storie, realmente accadute, che venivano raccontate dalle donne anziane durante i filò serali. Lo scrittore Mario De Nale, nel suo libro Cansiglio <<terra cimbria>> (1984), presenta un gran numero di queste storie; ho scelto le più rappresentative, quelle che, secondo la mia opinione, riescono a trasmettere un'idea più precisa di quella che doveva essere la vita dei Cimbri in Cansiglio: La lunga attesa Tutto filava bene in casa Gandin, finché era in vita il vecchio Luigi, ma quando questi morì, le cose andarono per un altro verso. Il figlio Serafino Giobatta si era fidanzato con una simpatica biondina di Pala, Osvalda Bortoluzzi, e da qualche tempo si parlava pure di matrimonio. Ma ecco che, qualche giorno dopo la morte del padre, in una sera di grande bufera, egli si presentò in casa di Osvalda più nero della bufera, taciturno, sconsolato: e ce ne vollero di premure per fargli aprire la bocca. Il fiato affannoso, lungo e lento fece dunque uscire le parole fioche e sorde, ma che tuonarono alle gentili orecchie, così da passare al dolce cuore, per far comprendere il dramma, in tutta la sua entità, alla ragazza: <<Domani partirò per il Brasile!>>. Un pietoso sguardo, una lunga pausa e poi la benigna risposta: <<Ed io!>>. Ancora una pausa e, quindi, la conclusione: <<Me ne starò dieci anni: poi ritornerò e, se attenderai, allora ti sposerò>>. Giunse in Brasile per passare poi a Montevideo, dove fece il cuoco e accumulò fior di quattrini. Trascorsi dieci anni esatti, come tiepida carezza, giunse ad Osvalda il desiato appuntamento: <<Aspettami a metà del tratto che dal bivio per Spert si collega alla strada che da Broz va a Tambre133>>. L'incontro fu dei più felici: a Pasqua si sposarono e vissero felici. (p. 133) Il lupo in agguato Anche se la luna non aveva ancora fatto la sua comparsa all'orizzonte, la notte era rischiarata dalla limpidezza di miriadi di stelle, tanto da consentire un passo sicuro al viandante che osasse cimentarsi nel sentiero della foresta. Un leggero e pungente venticello, spirante da tramontana, annunciava che la giornata di quel tardo autunno sarebbe stata fredda ma anche bella, e quindi il cimbro Cristiano Zenobio Azzalini, controllata la lancetta dell'orologio che segnava le quattro, si vestì, accese 133 Spert, Broz e Tambre sono centri abitati, situati nella Foresta del Cansiglio. 151 l'esca, sistemò il voluminoso carico di brent e crivelli sulle larghe e quadrate spalle e, lasciando dietro di sé i casoni di Val Bona, si avviò lentamente verso Farra nella direzione di Palughetto, come di consuetudine con l'orecchio sempre attento se qualche indiscreto intruso gli si accompagnasse. E l'intruso (un lupo), come se già da tempo avesse atteso in agguato, non tardò a seguirlo da vicino, ma non al punto di aggredirlo, perché il lume dell'esca lo disturbava. Non si spaventò comunque il cimbro, forse anche uso a sorprese del genere, e nel silenzio della notte raramente turbato dalle ultime foglie cadenti del faggio, continuava il suo passo senza nemmeno girarsi per accertare se fosse uno solo o se fossero invece diversi: l'esca infuocata era per lui un'arma fin troppo sicura per difenderlo da quei selvatici e famelici quadrupedi, oltremodo timorosi del fuoco. Anche se ridotta a semplice fiammella, l'esca era alimentata dal soffio persistente del venticello e ardeva più del solito, minacciando così di consumarsi prima del giorno, anche se doveva essere abbastanza prossimo. Il pericolo fu subito intuito dall'accorto artigiano del legno, che allungò il passo per poter raggiungere almeno la stretta salitella di Campon, la quale poteva offrire validi vantaggi a suo favore e incolmabili svantaggi al lupo. Raggiunto quindi il culmine della salita che immetteva al pianoro di Palughetto, ripose il suo carico sistemandolo davanti a sé come un muro difensivo e attese che la fiaccola fattasi ormai labile si spegnesse per sempre. Furono attimi di attesa nel più assoluto silenzio: alto e immobile dietro a quel muro di <<skatui>>134, con la mano alzata abbracciante un bastone, egli guardava la grossa bestiaccia posta di traverso al sentiero a una decina di metri di distanza con la testa bassa, essa pure silenziosa, immobile e scura. Come l'esca si spense, il lupo rispose con un ululato talmente lungo da far supporre che si trattasse di un richiamo del branco. Si girò quindi il lupo verso l'uomo, nella posizione di testa a testa, osservò quello strano muricciolo alto poco più di mezza persona come per prendere la misura del salto in quel punto reso obbligatorio e mosse finalmente deciso verso di lui, il quale per nulla intimorito gli rotolò giù un crivello135 che, investendolo alle zampe, lo fece indietreggiare disorientato e imbarazzato. Dopo una specie di breve ripensamento, con maggior decisione, senza tuttavia prorompere in ululati di bramosia famelica, riprese l'attacco, ma un altro crivello lo rimandò, allo stesso modo, al punto di partenza. E la curiosa, ma prodigiosa cerimonia continuò fino all'apparire del giorno salvatore, che indusse il vorace carnivoro a scomparire nel bosco, lasciando definitivamente la preda agli indisturbati passi. (pp. 139-140) 134 Sono le scatole per il formaggio, i brent e i tamisi. Assicella di legno di faggio. 135 152 L'orologio della Pasqua Quel limpido mattino del sabato santo, la Ermilia di Romano rimase alquanto sorpresa allorché, aprendo la porta per portare il becchime ai tacchini, si vide davanti alla casa i venti giovani del villaggio, quasi tutti sulla ventina. <<Ma guardali, come sono bene attillati questa mattina!>> osservò incuriosita. Quindi chiese: <<Dove andate così bene attillati?>>. <<Andiamo a Vittorio Veneto, a comperarci l'orologio per domani>>, disse Giulio, l'organizzatore della sortita. Seguì quindi un fischio e poi eccoli tutti in corsa giù per la stradina. Un'ora più tardi il gioioso drappello, che ha da poco superato la Val Salega, è allineato sul ciglio della strada ad osservare il panorama novello del piano. Tutto è silenzio, l'emozione sembra aver chiuso a tutti la bocca. Ogni tanto qualcuno alza il braccio ad indicare con l'indice un campanile, un paese, una fascia azzurra che si perde lontano nell'orizzonte: sono cose che prima di allora potevano essere soltanto nell'immaginazione; era infatti la prima volta che i giovani cimbri uscivano dalla foresta. Verso sera, dopo lunghe ore trascorse a gareggiare alla <<mora>> in un'osteria di Fregona con quelli di là, risalgono la strada che li riporta a Vallorch, e ognuno di loro, ogni tanto, toglie l'orologio dal taschino e lo accosta all'orecchio per goderne il tic-tac." (pp. 135-136) 153 154 Conclusioni Un grande viaggiatore contemporaneo136 ha paragonato il mondo a un mosaico: innumerevoli popoli, diverse culture, lingue, concezioni metafisiche, politiche e filosofiche rappresentano i tasselli che lo compongono. Un holon organico e complesso dunque, governato da una regia misteriosa e dotato di un'armonia interna. Armonia che l'inarrestabile diffusione del progresso informatizzato e massificante, che la vulnerabilità di molte popolazioni che cedono, a volte soccombendo, di fronte all'illusione di un futuro senza povertà (futuro che tale progresso facilmente promette, sovente dimentico dei propri limiti) e che, ancora, l'arroganza etnocentrica di tanta parte della cosiddetta "civiltà occidentale" e la presunzione di molti di poter rendere tutto "globale" e tutto accessibile rischiano di annullare, con conseguenze assolutamente non prevedibili. L'intento fondamentale della presente indagine, sia chiaro, non è stato certo quello di rinnegare o di rifiutare ostinatamente tutto ciò che la civiltà contemporanea elabora e propone: la "diffusione delle innovazioni", e tutto ciò che essa comporta, è un fenomeno inevitabile, auspicabile anche e non necessariamente negativo anzi, spesso, positivo. Semplicemente, si è voluto proporre una riflessione critica sulla realtà attuale, consapevolmente personale, meditata alla luce di quanto appreso dalla disciplina geografica in generale e dalla geografia culturale in particolare. Attraverso l'indagine sul popolo cimbro, si è voluto fornire un esempio, concreto e tangibile, di quanto ancora sia necessario non perdere di vista il concetto di diversità culturale, sinonimo di ricchezza culturale. Solo attraverso la consapevolezza del molteplice e dell'altro da sé è possibile mantenere un atteggiamento cauto di fronte a ogni facile entusiasmo globalizzante: non deve essere per forza tutto "globale" e tutto accessibile. Quando, a partire dalla fine del XV secolo, i viaggi e le scoperte geografiche stravolgono, ampliandola, la rappresentazione del mondo nella quale l'uomo medievale aveva fino ad allora creduto, ebbene, in quel momento avviene la prima europeizzazione di quelle terre incognite, di cui sovente si favoleggiava. Non si intende, in questa sede, aggiungere altre parole a quelle che già sono state dette o scritte a proposito di tutte le stragi di popoli spesso inermi che, in nome della conoscenza, del progresso e della ricchezza, sono state compiute dal "civilizzato" uomo europeo. Quello che, invece, preme sottolineare è che, a partire da questa prima europeizzazione (quasi un preludio dell'attuale globalizzazione), si è avviata una sorta di "desacralizzazione" di tanti luoghi e di tante culture del mondo: la volontà di 136 Mi riferisco al Prof. Giacomo Corna Pellegrini. 155 rendere ogni luogo e ogni cultura accessibile comporta, da sempre, il rischio di danneggiare profondamente quel luogo e quella cultura137. Come si è avuto modo di affermare nel secondo capitolo, uno dei problemi principali affrontati dalla geografia culturale, ma anche dalla geografia delle lingue, riguarda quello relativo alla tutela delle minoranze etnico-linguistiche e la popolazione cimbra, grazie all'approvazione della Legge n. 482 del 15.12.1999, è stata formalmente e legalmente riconosciuta (insieme alle altre minoranze presenti sul territorio nazionale) come "minoranza etnica". Tuttavia, nei capitoli dedicati alle genti cimbre, è stato possibile testimoniare come la tenace volontà di salvaguardare la propria peculiarità culturale sia stata manifestata molto tempo addietro e, soprattutto, dai Cimbri stessi. Fin dagli anni Settanta, infatti, i Cimbri decidono di promuovere la fondazione di enti e di associazioni votati alla tutela del loro patrimonio linguistico e culturale: grazie alla lungimiranza e alla sensibilità di pochi, è stato così possibile mantenere viva la cultura cimbra che appartiene non a molti, ma all'umanità tutta. Durante il viaggio attraverso i luoghi di insediamento cimbro, ho avuto occasione di incontrare persone diverse, ma tutte accomunate da un unico, grande obiettivo: la difesa della cultura cimbra. Grazie all'impareggiabile aiuto di queste persone, è stato possibile approfondire la conoscenza di un microcosmo linguistico e culturale assolutamente ricco e vario. Motivo di grande interesse personale è stata la lettura delle testimonianze appartenenti alla letteratura popolare cimbra e, proprio per contribuire alla salvaguardia della lingua cimbra, si è voluto riportare, accanto alla traduzione in lingua italiana, anche il testo nell'idioma originale. Tra gli svariati luoghi visitati (Giazza, Selva di Progno, Roana, Asiago, Rotzo, Vallorch, Pich, Pian Osteria, Le Rotte e Luserna), uno in particolare ha trasmesso grande emozione: Luserna, un minuscolo comune situato sul confine sud-orientale tra Trentino e Veneto, abitato da 300 Cimbri, gli ultimi. 137 Un concetto del tutto simile, anche se specificamente riferito alle popolazioni tribali, è espresso da J Bodley nel suo testo Vittime del progresso (1991). L'autore, infatti, afferma: "É generalmente riconosciuto che il processo di civilizzazione colpisce in modo drastico le popolazioni tribali, i cui modelli culturali vanno scomparendo al suo avanzare, e che uguale sorte è in molti casi riservata alle popolazioni stesse. [...] Questo libro si propone di rimuovere le diffuse ed erronee concezioni etnocentriche sulla scomparsa delle culture tribali e di focalizzare l'attenzione sulle cause di fondo del fenomeno, che denunciano l'esistenza di gravi problemi all'interno della stessa cultura industriale e che devono quindi essere ben comprese prima che il mondo si sia sbarazzato di tutte le diversità culturali." (p.37) 156 Infine, vorrei dedicare ancora qualche parola all'incantevole sito che ha ispirato la presente tesi: la Foresta del Cansiglio. É stato l'ultimo luogo che ho visitato, ma che già conoscevo bene, durante il mio già citato viaggio e la scelta di visitarlo per ultimo non è stata casuale, ma è dipesa dalla mia volontà di voler seguire, cronologicamente, le peregrinazioni del popolo cimbro. Il bosco del Cansiglio, come affermato nel terzo e nel settimo capitolo, è stata infatti l'ultima tappa del cammino dei Cimbri: un cammino durato quasi mille anni, un cammino attraverso regioni difficili, impervie e isolate. Il bosco, luogo che, da sempre, i popoli più diversi hanno investito di significati simbolici, rappresenta un elemento naturale costante nelle zone che i Cimbri hanno scelto di abitare. E così, ancora oggi, quando nelle scuole elementari di Fregona (TV) si chiede ai bambini di scrivere un pensiero sui boscaioli cimbri, è possibile leggere poesie come la seguente: "Il bosco è la casa del Cimbro, il tetto è il cielo, le finestre gli spazi tra le foglie e le porte le ha rubate il vento"138 Questi brevi versi, scritti da un bambino di nove anni, permettono di sperare che, anche in un futuro globale, ci sarà sempre qualcuno in grado di comprendere il molteplice e l'altro da sé. 138 Fonte: Associazione Culturale Cimbri Cansiglio, 2000. 157 158 BIBLIOGRAFIA                  AA.VV., "Le relazioni del convegno di Asiago: <<Lingua e cultura cimbra>>", Terra Cimbra, 29, (1977), pp. 5-17 ADAMO, F., "Patrimonio culturale e sviluppo economico locale", Bollettino della Società Geografica Italiana, XII, IV, fasc. 4, 1999, pp. 635-652 ANDERLONI, A., "I canti cimbri", Cimbri-Tzimbar, 21, (gennaiogiugno 1999), pp. 149-158 ANDREOTTI, G., Riscontri di geografia culturale, Trento, Colibrì, 1994 ANDREOTTI, G., Paesaggi culturali. 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