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UNIOR Sara de Simone e Maria Cristina Ercolessi ISBN 978-88-6719-153-6 NAPOLI 2017 Napoli 2017 € 24,00 Il porto delle idee Il porto delle idee A questa deinizione prescrittiva del ruolo del governo locale e delle relazioni tra centro e località corrisponde una realtà africana molto più incerta e variegata. Questo volume raccoglie i contributi di una nuova generazione di studiosi emersa da una base formativa comune con l’obiettivo di andare oltre l’approccio normativo, esplorando attraverso casi empirici il ruolo dei governi locali nella gestione dei conlitti legati all’accesso alle risorse tanto nelle aree rurali quanto in quelle urbane. a cura di Le autorità locali in Africa Negli ultimi vent’anni, un dibattito molto ampio si è sviluppato sulla relazione tra democrazia, conlitti e sviluppo emersa dalle politiche di good governance che hanno spinto molti paesi dell’Africa subsahariana a intraprendere riforme di decentramento. Nell’attribuire ai governi locali un’importanza crescente nella promozione di politiche di sviluppo, queste riforme avrebbero dovuto raforzare la democrazia, migliorare la trasparenza e l’accountability dei governanti e rendere più semplice la gestione non violenta dei conlitti. A questo processo corrisponde una più generale svolta localistica dei donatori internazionali, che sempre più adottano la nozione di comunità locale come quadro di riferimento amministrativo sia della rappresentanza politica delle popolazioni rurali, sia delle politiche partecipative di gestione della terra e dell’erogazione di servizi pubblici. Le autorità locali in Africa: governance e pratiche di accesso alle risorse Università degli studi di Napoli “L’Orientale” Dipartimento Asia, Africa e Mediterraneo 1 Università degli studi di Napoli “L’Orientale” Dipartimento Asia, Africa e Mediterraneo collana Il porto delle idee Indice Università degli studi di Napoli “L’Orientale” Dipartimento Asia, Africa e Mediterraneo Le autorità locali in Africa: governance e pratiche di accesso alle risorse a cura di Sara de Simone e Maria Cristina Ercolessi NAPOLI 2017 3 4 Indice In copertina: © Benedetta Lepore: Western Region, Ghana (2015) Il volume è parte del lavoro dell’unità di ricerca dell’Università di Napoli L’Orientale del Progetto di ricerca di interesse nazionale PRIN -2011 dal titolo Stato, pluralità, cambiamento in Africa, coordinato a livello nazionale dal prof. Pierluigi Valsecchi e finanziato dal MIUR. Collana: Il porto delle idee Dipartimento Asia, Africa e Mediterraneo Direttore: Silvana De Maio Comitato editoriale: Maria Cristina Ercolessi, Noemi Lanna, Lea Nocera, Paola Paderni, Riccardo Palmisciano, Maria Siddivò, Roberto Tottoli Consiglio scientifico: Massimo Fusillo (Universita degli Studi dell'Aquila), Matthias Kappler (Ca' Foscari, Universita di Venezia), Maria Suriano (University of the Witwatersrand), Luigi Tomba (Sidney University), Mizuko Ugo (Gakushuin Women's College) Tutte le pubblicazioni della collana sono sottoposte ad una doppia procedura anonima di referaggio. ISBN 978-88-6719-153-6 © Università degli studi di Napoli L’Orientale Napoli 2017 Tutti i diritti di riproduzione sono riservati. Sono pertanto vietate la conservazione in sistemi reperimento dati e la riproduzione o la trasmissione anche parziale, in qualsiasi forma e mezzo (elettronico, meccanico, incluse fotocopie e registrazioni) senza il previo consenso scritto dell’editore. Indice 5 INDICE Lista degli acronimi ............................................................................... MARIA CRISTINA ERCOLESSI - Introduzione ...................................... 9 11 ELISA GRECO - Politiche fondiarie ed eredità dell’ujamaa in Tanzania 1. Introduzione ...................................................................................... 2. Autorità di villaggio e questioni fondiarie: le eredità politiche e istituzionali dell’ujamaa ............................................................................ 3. L’eredità dell’ujamaa/1: le istituzioni di villaggio ........................... 4. L’eredità dell’ujamaa/2: l’abolizione delle autorità tradizionali ...... 5. L’eredità dell’ujamaa/3: reinsediamenti forzati e istituzioni di villaggio come spazi di dissenso politico ..................................................................... 6. Il lascito dell’ujamaa e le politiche neoliberiste ............................... 7. Rivendicazioni collettive sulla terra e politica di villaggio .............. 8. Le allocazioni della terra di villaggio: privatizzazione della terra comune .............................................................................................. 9. Autorità di villaggio, corruzione, terra e dinamiche di classe .......... 10. Village Land Use Plans (VLUP) e terre comuni .............................. 11. Conclusioni ....................................................................................... 21 22 24 25 27 29 33 34 36 39 42 SARA DE SIMONE - Governance della terra e diritti locali in Sud Sudan 1. Introduzione ...................................................................................... 2. La retorica della governance locale in un contesto di state building post-conflitto .............................................................................................. 3. Le riforme della terra sostenute dalla comunità internazionale: dalla proprietà privata ai diritti locali ................................................................ 4. Due riforme intrecciate nel Sud Sudan “post-conflitto”: terra e governo locale ................................................................................... 5. Dispute di confine, tra espansionismo e tentativi di omogeneità etnica ................................................................................................. 6. Dispute di confine nelle aree rurali: il caso di Manga, stato di Unity 49 50 53 57 63 64 6 Indice 7. Dispute di confine nelle aree urbane e accesso individuale alla terra: esempi da Bentiu e Rumbek .................................................... 8. Conclusioni ....................................................................................... 66 71 ANNA CALTABIANO - Governance locale della terra: le sfide della nuova legge fondiaria in Burkina Faso 1. Introduzione ...................................................................................... 2. La colonizzazione francese e il sistema duale di regimi fondiari ..... 3. Un contesto rurale in trasformazione: il pluralismo giuridico e istituzionale ................................................................................................ 4. Il processo di riforma fondiaria: il dibattito sui diritti e le istituzioni fondiarie ............................................................................................ 5. I principali strumenti di formalizzazione dei diritti esistenti ............ 6. La questione di genere ...................................................................... 7. La problematica questione dell’autoctonia ....................................... 8. Il ruolo dei servizi decentrati e deconcentrati dello stato ................. 9. Conclusioni ....................................................................................... 79 81 84 87 89 91 94 97 99 VALERIA ALFIERI - Rientro dei rifugiati e accesso alla terra in Burundi: strumentalizzazioni etno-politiche e logiche elettorali 1. Introduzione ...................................................................................... 2. Il ritorno dei rifugiati e la questione fondiaria: incongruenze della legislazione e pluralismo giuridico ........................................................... 3. Dalla CNRS alla CNTB: nascita ed evoluzione del principale attore delle politiche di reintegrazione dei sinistrati ................................... 4. La CNTB tra restituzione e riconciliazione: strumentalizzazioni etno-politiche e dinamiche elettorali ................................................. 5. La problematica degli sfollati e il braccio di ferro con l’UPRONA . 6. Conclusioni ....................................................................................... 105 108 111 113 118 123 BENEDETTA LEPORE - Tra prescrizione e immaginazione: gli spazi della governance tradizionale nel Ghana contemporaneo 1. Introduzione ...................................................................................... 2. Oltre lo statuto costituzionale della chieftaincy nel Ghana contemporaneo .................................................................................. 3. Spazi di responsabilità condivisa ...................................................... 4. Definirsi e ridefinirsi: il chief e il nana ............................................. 5. Conclusioni ....................................................................................... 127 129 132 137 144 Indice 7 RAFFAELE URSELLI - La gestione dei rifiuti a Dakar: contesa politica, cittadinanza urbana e moralità del lavoro 1. Introduzione ...................................................................................... 2. Premessa metodologica .................................................................... 3. Le politiche coloniali di assainissement: ragione sanitaria e igiene sociale ............................................................................................... 4. Dalla transizione all’indipendenza: i servizi urbani tra corporativismo e frenesia autoritaria ................................................ 5. Set Setal e Y’en a marre: partecipazione, moralità e identità urbana 6. Contro la discarica: il principio di prossimità e il processo di decentramento 7. La contesa per la gestione dei rifiuti nella capitale ........................... 8. Mbeubeuss: la cultura della debrouille e la santificazione del lavoro ................................................................................................ 9. Un percorso multiforme di legittimazione sociale ............................ 10. Conclusioni ....................................................................................... 151 152 153 155 157 160 162 165 168 170 ANTONIO PEZZANO - Il governo locale in Sudafrica tra retorica e pratiche partecipative 1. 2. 3. 4. Introduzione ...................................................................................... Modelli istituzionali di partecipazione locale ................................... Relazioni stato-società ...................................................................... Relazioni tra politiche e pratiche quotidiane di accesso allo stato nella governance locale ..................................................................... 5. Il ruolo della politica dei partiti ........................................................ 6. Conclusioni ....................................................................................... 179 180 186 SARA DE SIMONE - Conclusioni ............................................................ 203 Profilo autori ......................................................................................... 211 188 193 196 8 Indice Lista degli acronimi AFD: Agence Française de Développement ANC: African National Congress (Sudafrica) APFR: Attestation de Possession Foncière (Burkina Faso) APIX: Agence pour la promotion des investissements et des grands travaux (Senegal) APR: Alliance pour la République (Senegal) ARD: Associates in Rural Development B-BBEE: Broad-Based Black Economic Empowerment (Sudafrica) BEE: Black Economic Empowerment (Sudafrica) CADAK: Communautés des Agglomérations de Dakar CALS: Centre for Applied Legal Studies (Sudafrica) CANS: Civil Authority of the New Sudan CAR: Communautés des Agglomérations de Rufisque CCFV: Commission de Conciliation Foncière Villageoise (Burkina Faso) CCM: Chama Cha Mapinduzi (Tanzania) CFV: Commissions Foncières Villageoises (Burkina Faso) CGCT: Code Général des Collectivités Territoriales (Burkina Faso) CGVT: Commission Villageois de Gestion de Terroirs (Burkina Faso) CNDD-FDD: Conseil national pour la défense de la démocratie-Forces de défense de la démocratie (Burundi) CNRS: Commission Nationale pour la Réintegration des Sinistrés (Burundi) CNTB: Commission Nationale Terres et autres Biens (Burundi) CORUS: Coopération pour la Recherche Universitaire et Scientifique (Francia) CPA: Comprehensive Peace Agreement (Sud Sudan) CUBES: Centre for Urbanism and Built Environment Studies CUD: Communauté urbaine de Dakar CVD: Conseils Villageois de Développement (Burkina Faso) FAO: Food and Agriculture Organization GEAR: Growth, Employment and Redistribution (Sudafrica) GRAF: Groupe de Recherche et d’Action sur le Foncier (Burkina Faso) IFI: Istituzioni Finanziarie Internazionali 10 Lista degli acronimi INSD: Institut National de la Statistique et de la Démographie (Burkina Faso) IRD: Institut de Recherche pour le Dévelopmment (Francia) ITR: Individuazione Titolazione e Registrazione LA: Land Act (Tanzania) LGA: Local Government Act (Sud Sudan) MCA: Millennium Challenge Account NPA: Norwegian People’s Aid NPM: New Public Management OBC: Organizzazione a Base Comunitaria OCSE: Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico ONG: Organizzazione Non Governativa PNDC: Provisional National Defence Council (Ghana) PNGT: Programme National de Gestion des Terroirs (Burkina Faso) RAF: Réforme Agraire et Foncière (Burkina Faso) SAGCOT: Southern Agricultural Growth Corridor of Tanzania SANCO: South African National Civic Organization SFR: Services Fonciers Rurales (Burkina Faso) SIAS: Société Industrielle d’Aménagement du Sénégal SNTN: Syndicat National des Travailleurs du Nettoiement (Senegal) SOADIP: Société Africaine de Diffusion et de Promotion (Senegal) SOPRESEN: Société pour la Propreté du Sénégal SPILL: Strategic Plan for Implementation of Land Laws (Tanzania) SPLM/A: Sudan People’s Liberation Movement/Army UCG : Unité de coordination des déchets (Senegal) UNDP: United Nations Development Programme UNHCR: United Nations High Commissioner for Refugees URT: United Republic of Tanzania USAID: United States Agency for International Development VLA: Village Land Act (Tanzania) VLUP: Village Land Use Plans (Tanzania) INTRODUZIONE MARIA CRISTINA ERCOLESSI Il volume che si presenta costituisce uno dei prodotti del lavoro dell’unità di ricerca, da me diretta, dell’Università degli Studi di Napoli “L’Orientale” all’interno del Progetto di ricerca di interesse nazionale (PRIN) dal titolo Stato, pluralità, cambiamento in Africa, coordinato a livello nazionale dal prof. Pierluigi Valsecchi dell’Università di Pavia e finanziato dal Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca. In particolare, le riflessioni confluite in questo volume sono state inizialmente sviluppate in un seminario tenutosi il 14 aprile 2015 che ha visto la partecipazione di dottorandi, dottori di ricerca e giovani ricercatori italiani che, con una sola eccezione, si sono formati all’interno dell’Università di Napoli “L’Orientale”.1 Il seminario si proponeva un duplice scopo: avviare una discussione e uno scambio di risultati scientifici da parte di una nuova generazione di studiosi emersa da una base formativa comune, e valorizzare e confrontare le esperienze di ricerca di terreno maturate dai ricercatori nel corso di diverse missioni durante e dopo il dottorato. L’aderenza al lavoro di campo è stato sin dall’inizio uno dei presupposti del confronto avviato nel seminario, il filo conduttore della riflessione e del dibattito tra i contributi presentati e poi rielaborati per la pubblicazione in volume. Da tale confronto, sono scaturite alcune linee di riflessione, non necessariamente sempre convergenti, che rendono conto della pluralità e diversificazione degli sviluppi in corso nell’Africa subsahariana contemporanea in particolare attorno alla questione centrale di questo volume, ossia il ruolo ricoperto da autorità locali di diversa natura nella ristrutturazione della governance e nella gestione dello sviluppo su scala nazionale e locale. Dagli anni ’90 in poi, molto del dibattito internazionale in tema di sviluppo e di relazioni tra sviluppo e democrazia si è concentrato sulle riforme di decen1 Molti degli autori sono stati studenti del dottorato di ricerca in Africanistica, oggi sostituito da un più ampio dottorato in Asia, Africa, Mediterraneo, nell’omonimo dipartimento dell’Università degli Studi di Napoli “L’Orientale”. 12 Maria Cristina Ercolessi tramento e sul ruolo dei governi locali. Il dibattito – e le conseguenti policies raccomandate – è stato promosso tanto dalle istituzioni finanziarie internazionali (in particolare la Banca Mondiale) e da agenzie e programmi internazionali di sviluppo come lo United Nations Development Programme (UNDP, 2004), quanto da organizzazioni non governative (ONG) internazionali e nazionali con la sottolineatura della nozione di comunità locale come referente, target e beneficiario degli interventi di sviluppo. Si tratta di una svolta localistica dei donatori internazionali, precedentemente interessati a lavorare principalmente con i governi centrali, che si è tradotta nella retorica dello sviluppo comunitario o partecipativo (Otayek, 2007). Nel 2004, un rapporto commissionato dalla Banca Mondiale a due studiosi dell’Università di Berna affermava: (…) è chiaro che una decentralizzazione di successo non ha a che fare solo con la costruzione di buone istituzioni politiche, occorre anche migliorare la governance a livello locale. Ciò significa aumentare la partecipazione della popolazione locale e la sua inclusione nei processi decisionali in modo da migliorare la trasparenza, l’accountability e la reattività (…) (Lutz e Linder, 2004, p. 2). Per quanto riguarda più in particolare l’Africa subsahariana, l’enfasi sull’utilità di processi partecipativi più decentrati, con un maggior coinvolgimento di attori, comunità e autorità locali rispetto a modelli fortemente centralizzati tipici dello stato post-coloniale africano, emerge in connessione a tre macro-fenomeni che investono il continente alla fine del millennio: 1) Le cosiddette transizioni democratiche, con il passaggio di un elevato numero di paesi africani da regimi monopartitici o di origine militare a sistemi elettorali multipartitici e competitivi. 2) Un incremento dei livelli di conflittualità armata e del numero di guerre civili apparentemente irriducibili a soluzioni negoziate stabili. 3) Una persistente crisi dello sviluppo, che i programmi di aggiustamento strutturale di prima generazione non riescono a contrastare ma che semmai alimentano, producendo nuovi fattori di diseguaglianza, povertà ed esclusione sociale. Non è compito di questa introduzione, né di questo lavoro nel suo insieme, ricostruire la discussione infinita sulle relazioni tra democratizzazioneconflittualità-crisi dello sviluppo che ha prodotto centinaia e centinaia di contributi di accademici, politici e operatori dello sviluppo. È però importante notare che nelle strategie delineate dalle agenzie internazionali e sempre più anche dai maggiori donatori internazionali di area OCSE questi tre termini siano stati visti come in grado di rafforzarsi a vicenda sia negativamente nella produzione di crisi, conflitto e instabilità, sia positivamente, per la Introduzione 13 loro risoluzione attraverso un rafforzamento dei meccanismi di partecipazione democratica e di gestione dei conflitti a livello locale (Crawford e Hartmann, 2008). A partire dagli anni ’90, la retorica della good governance e la crescente finalizzazione dell’aiuto internazionale a questi obiettivi hanno spinto molti stati africani a intraprendere riforme di decentralizzazione, considerate in grado di rafforzare la democrazia, migliorare la trasparenza e l’accountability dei governanti avvicinandoli ai cittadini, gestire i conflitti a livello locale in modo non violento. In molti paesi africani, caratterizzati da situazioni di instabilità politica, carenze infrastrutturali e alti tassi di povertà, ai governi locali è stato ufficialmente attribuito un ruolo di crescente importanza nella promozione di e partecipazione a politiche di sviluppo locale, anche attraverso il dirottamento di finanziamenti internazionali verso il governo locale e attori non-governativi rispetto allo stato centrale. Come si potrà vedere dai saggi che seguono, e come è stato messo in evidenza da altre ricerche su questi temi,2 a questa definizione prescrittiva del ruolo del governo locale e delle relazioni tra centro e località corrisponde una realtà molto più ambivalente e variegata. Nonostante il sostegno (in alcuni casi anche molto consistente) da parte dei donatori internazionali, i governi locali africani soffrono in genere della mancanza di una base fiscale autonoma e dipendono dai contributi elargiti dai budget nazionali, i quali, oltre ad essere insufficienti ad adempiere alle funzioni costituzionali dei governi locali, vengono spesso intercettati da élites locali in conflitto tra loro. Lo spostamento dell’accento (e di parte dei finanziamenti) dallo stato centrale e centralizzato al governo locale decentrato non ha tanto contribuito a superare le pratiche neopatrimoniali dello stato post-coloniale quanto a ristrutturarle con l’attivazione di nuove o rinnovate «catene neopatrimoniali» all’interno delle quali si svolge un costante confronto di forze tra patrons centrali e autorità locali (Hoon e Mac Lean, 2014, p. 3). Nel tentativo di rendere più legittime le istituzioni governative e di avvicinarle a una popolazione che spesso, soprattutto nelle zone rurali, resta tagliata fuori dalla distribuzione delle risorse statali, si è andata affermando una nuova tendenza che Catherine Boone (2014) ha definito «neoconsuetudinaria», e che consiste nel cooptare le cosiddette autorità tradizionali nel sistema di governo formale creando una biforcazione che sembra riproporre, legalizzandola e istituzionalizzandola, quella descritta da Mamdani 2 Si segnalano in particolare i lavori di Bierschenk e Olivier de Sardan (2014), De Herdt e Olivier de Sardan (2015). 14 Maria Cristina Ercolessi (1996). Uno dei nodi centrali di questa tendenza risiede nella riaffermazione del concetto di comunità locale come unità di base di un modello di governance riformato in cui lo stato si relaziona con una molteplicità di comunità che si auto-amministrano. Dominique Darbon (1998) l’ha chiamata «tendenza comunitarista», basata su una visione della società composta da gruppi i cui membri accedono ai diritti individuali unicamente attraverso l’appartenenza a questi stessi gruppi. Questa visione (e la relativa strategia di sviluppo e riforma della governance) sottovaluta almeno due problemi: il primo ha a che vedere con il fatto che i significati attribuiti ai termini “comunità” e “locale” variano fortemente sia sul piano politico che su quello degli approcci allo sviluppo partecipativo; in secondo luogo, i processi partecipativi e di sviluppo possono non solo coinvolgere simultaneamente più comunità, con la conseguente attivazione di processi formali o informali di negoziazione politica, ma la stessa singola comunità non è generalmente omogenea bensì attraversata da stratificazioni di interessi competitivi o conflittuali (Peters, 1996). La questione della comunità e degli interessi che in essa interagiscono appare particolarmente rilevante quando essa è assunta come quadro di riferimento amministrativo sia della rappresentanza politica delle popolazioni rurali, sia delle politiche “partecipative” che concernono le riforme fondiarie e la legislazione sui diritti alla terra. Come sostiene C. Boone (2007), le riforme fondiarie avviate in diversi paesi africani a partire dagli anni ’90 che hanno ridefinito i diritti di accesso alla risorsa terra si collocano all’interno di quadri concettuali e politici che chiamano in causa la natura della cittadinanza, in particolare delle popolazioni rurali, e la definizione delle relazioni tra comunità e stato. Questo appare tanto più vero a fronte di crescenti fenomeni di espropriazione delle terre ad opera di attori economici interni ed esterni e di individualizzazione/privatizzazione de facto dei diritti di uso e proprietà. Come ben ricostruito da S. Berry (2002, 2004), le politiche di riforma agraria sostenute dalla Banca Mondiale hanno insistito principalmente sulla ridefinizione dei diritti di proprietà sulla terra attraverso estesi programmi di registrazione e attribuzione di titoli formali. In molti casi l’introduzione di nuove e comprensive leggi fondiarie si è costituita sulla tripartizione tra terra dello stato, terra della comunità e terra di proprietà privata individuale (riguardante spesso investimenti di una certa scala a opera di operatori stranieri o interni e giustificati dall’ “interesse nazionale”). Tale ripartizione non ha mancato di creare conflitti sia sulla stratificazione storica dei diritti sulla terra derivanti dalle politiche coloniali e post-coloniali e sulla conseguente riapertura di dispute anche legali, sia sulle relazioni tra istitu- Introduzione 15 zioni e amministrazioni centrali e locali nei processi decisionali relativi appunto alla distribuzione e classificazione della terra. La questione di quale organo sia deputato a decidere legittimamente, e attraverso quali procedure e forme di partecipazione e negoziazione, su eventuali processi di privatizzazione della terra a scapito dei diritti delle comunità ha teso a presentarsi con una certa regolarità in sistemi fondiari anche molto diversi tra loro, sottolineandone l’aspetto più squisitamente politico, legato cioè ai diritti di cittadinanza tout court (Gentili, 2008) e all’accesso alle risorse. Elisa Greco nel capitolo Politiche fondiarie ed eredità dell’ujamaa in Tanzania introduce un’interessante prospettiva quando si interroga su quali siano le eredità politiche e istituzionali della politica di villaggizzazione di Nyerere, e più in particolare se e come queste eredità stiano fornendo un’alternativa legale e politica al regime di proprietà individuale della terra. La ricerca, condotta in tre diverse regioni della Tanzania, analizza gli impatti in termini di individualizzazione ed espropri delle terre delle politiche neoliberiste seguite alla legge di riforma fondiaria del 1999 e dei piani di utilizzo della village land. L’analisi mostra come le amministrazioni di villaggio siano qualcosa di più che semplici canali amministrativi volti ad attuare le direttive ministeriali; le assemblee di villaggio in particolare possono rivelarsi strumenti di empowerment politico e sociale e funzionare come spazi di politicizzazione dei residenti rurali. Ai casi di confronto sulla sorte di aziende agricole statali privatizzate a favore di investitori capitalistici esterni alle comunità locali con l’espulsione di squatters senza terra o di nazionalizzazione di terre per “superiori interessi nazionali” (aree protette, parchi, costruzione di infrastrutture, ecc.) si affiancano infatti da tempo fenomeni di accaparramento e individualizzazione della terra (spesso regolati informalmente, talvolta prodotto di relazioni di potere e di espulsioni/occupazioni dovute a processi estremamente violenti come quelli legati ai conflitti armati e ai movimenti di profughi) che né leggi fondiarie nazionali né le strutture di governo locale sembrano riuscire a contenere e regolare in modo soddisfacente e percepito come “giusto”.3 Il saggio di Valeria Alfieri, Rientro dei rifugiati e accesso alla terra: strumentalizzazioni etno-politiche e logiche elettorali nel Burundi postconflitto, analizza la relazione tra la questione fondiaria e il rientro di significativi numeri di rifugiati burundesi dopo la firma nel 2000 dell’Accordo di Arusha che stabiliva il diritto di profughi e sfollati a recuperare i propri beni Per un’interessante analisi di un caso di studio specifico, quello del Mozambico, si rimanda a Pellizzoli (2014). 3 16 Maria Cristina Ercolessi e la propria terra. Oltre che sulle incongruenze legislative, il capitolo si concentra sull’operato della CNTB, la Commissione Nazionale Terre e altri Beni, che si occupa più nello specifico delle dispute sulla terra e altri beni contesi da rifugiati e sfollati. L’evoluzione delle pratiche della Commissione in relazione agli obiettivi della riconciliazione nazionale stabilita dai trattati di pace illustra bene quanto la questione fondiaria e la sua strumentalizzazione etnica rimangano centrali nella raccolta del consenso nella competizione elettorale multipartitica in Burundi. I temi delle forme di autorità e della loro legittimazione e della partecipazione delle comunità e dei diversi attori alla definizione delle decisioni risultano cruciali per almeno tre motivi, che sono variamente affrontati nei saggi qui presentati. Un primo aspetto riguarda l’ambiguità che continua a riprodurre la categoria delle autorità locali che riveste tipologie formalmente differenziate (autorità “tradizionali” su base consuetudinaria, organi elettivi, autorità nominate, deconcentrazione di poteri statali, autorità amministrative, ecc.) ma che nella realtà possono sovrapporsi e confondersi all’interno di schemi complessi di competizione e negoziazione (Lund, 2006). Troppo spesso la focalizzazione sulle autorità tradizionali o consuetudinarie come chiave di volta di processi partecipativi e di governance locale più “autentici” sottovaluta quella che Blundo (2006, p. 1) chiama «la multicentricità e la complessità delle arene politiche locali investite dal progetto di decentralizzazione» e «l’assenza di terreni istituzionali vergini». Anche il “locale” ha dunque una storia stratificata che si relaziona ai processi specifici di costruzione dello stato centrale nel corso del tempo, come mostra bene C. Boone (2003) per il caso dell’Africa occidentale, mentre i modelli di relazione tra centro e locale previsti dai progetti di decentralizzazione possono variare nello spazio e nel tempo tra tentativi di cancellazione e strategie di cooptazione delle autorità consuetudinarie, con un’ampia gamma di accomodamenti intermedi. Come mostra bene Benedetta Lepore nel suo saggio Tra prescrizione e immaginazione: gli spazi della governance tradizionale nel Ghana contemporaneo nel quale il ruolo della chieftancy nell’area nzema del Ghana è analizzato attraverso il caso di studio del festival Kundum, le relazioni tra capi e stato hanno conosciuto momenti alterni nella storia indipendente del paese. La chieftancy cerca di manipolare lo spazio della propria leadership all’interno di un quadro giuridico e istituzionale come quello del Ghana contemporaneo che pur riconoscendone la legittimità mira nel contempo a inquadrarlo nelle forme burocratiche della macchina statale. Le retoriche e le pratiche esercitate nel festival Kundum sono interpretabili come forme di Introduzione 17 agency che rimodulano la legittimità “ancestrale” del potere tradizionale con le istanze sviluppiste e la partecipazione all’economia nazionale. Il “locale” si connota poi, contrariamente alle semplificazioni applicate al mondo rurale africano, per l’estrema complessità degli attori coinvolti, quegli attori che le riforme di decentramento dovrebbero aiutare a partecipare attivamente nella assunzione di decisioni e nella rappresentanza degli interessi locali; la retorica internazionale della governance attribuisce alle forme di governo locale la capacità di avvicinare il governo ai governati e di tutelare le fasce più deboli della popolazione attraverso la definizione delle politiche di sviluppo e di livelli più strutturati di partecipazione e concertazione degli interessi locali. Nella realtà, quelli che il gergo internazionale preferisce definire stakeholders costituiscono uno spettro estremamente ampio di attori di diversa natura (locali, nazionali, internazionali, di società civile) la cui base di legittimità e rappresentatività è perlomeno dubbia e i cui posizionamenti influiscono sui processi di intercettazione delle risorse per lo sviluppo locale, quando non le creano direttamente (come è il caso delle agenzie e delle ONG internazionali). Anna Caltabiano, nel capitolo Governance locale della terra: le sfide della nuova legge fondiaria in Burkina Faso, ricostruisce dettagliatamente la complessità degli attori coinvolti nei processi di individualizzazione dell’accesso alla terra. In un contesto caratterizzato da pluralismo giuridico e istituzionale, si sono andate verificando profonde trasformazioni di individualizzazione dell’accesso alla terra da parte soprattutto di attori non autoctoni o esterni, costituiti da investitori e imprese dell’agrobusiness ma anche da ONG e agenzie internazionali. Il saggio ricostruisce il dibattito attorno alla nuova legge fondiaria approvata nel 2009 e alla sua implementazione, mostrando come sotto la superficie di politiche di consultazione e partecipazione dei gruppi vulnerabili si annidino rischi di esclusione e marginalizzazione. Infine, i programmi di sviluppo che le autorità locali dovrebbero implementare si connotano per una pretesa “neutralità tecnica”. Oltre alla già ricordata questione della terra, un’area decisiva è rappresentata dalla fornitura di servizi (service delivery) e dall’accesso a risorse intermediate dalle autorità pubbliche, sempre più delegata in linea teorica alle amministrazioni decentrate senza che a questo corrisponda una reale base fiscale autonoma. Il vantaggio dei governi locali, rispetto a quello centrale, sarebbe da un lato quello di poter fare una più accurata ricognizione dei bisogni della comunità grazie alla migliore conoscenza del terreno locale, e dall’altro di facilitare la partecipazione della cittadinanza e dei gruppi di interesse alla formulazione delle politiche. In qualche modo, l’assunzione implicita è che il livello loca- 18 Maria Cristina Ercolessi le, della “comunità”, permetta di esercitare approcci partecipativi allo sviluppo e gestione di progetti per l’accesso a servizi o risorse attraverso appunto l’interazione con la “comunità” come corpo relativamente indistinto anche se suddiviso in stakeholders spesso individuati in base a categorie largamente definite dal sistema dei donatori (giovani, donne, minoranze, autorità tradizionali, e così via). Come sottolinea Peters (1996), la partecipazione viene spoliticizzata, ridotta a una metodologia o a un insieme di tecniche di facilitazione, negandone gli aspetti di contestazione e conflitto tra diversi gruppi con diversi interessi e diverse rivendicazioni. Il saggio di Sara de Simone, Governance della terra e diritti locali in Sud Sudan, mostra bene come il progetto di state building del nuovo stato indipendente si sia articolato su una relazione tra questione della terra in una situazione di post-conflitto e ridefinizione dei poteri locali che ha teso a cristallizzare le identità etniche come strumento di rivendicazione all’accesso alle risorse contribuendo ad inasprire contenziosi sui confini amministrativi interni sia nelle aree rurali che nelle zone peri-urbane in diverse aree del paese.4 La crucialità di questi aspetti ha portato il progetto di ricerca, originariamente orientato soprattutto all’analisi delle autorità e del governo a livello locale nelle aree rurali, a includere alcuni casi studio di ambiente urbano, come quello del governo metropolitano in Sudafrica (Pezzano) e quello della gestione dei rifiuti a Dakar (Urselli), in quanto particolarmente rappresentativi delle relazioni sia tra stato centrale e governo locale, sia tra amministrazioni pubbliche e società (attività informali di sopravvivenza, rivendicazioni e movimenti sociali, processi di partecipazione, ruolo di intermediari politici o partitici, associazionismo, ecc.). Il ricco saggio di Antonio Pezzano, Il governo locale in Sudafrica tra retorica e pratiche partecipative, riporta l’esperienza del Sudafrica postapartheid all’interno della storia della formazione specifica dello stato sudafricano e del suo superamento da parte del governo democratico per mettere in evidenza le ambiguità delle pratiche di partecipazione relativamente alle politiche di service delivery urbane affidate alle amministrazioni decentrate. A una nozione della governance intesa come insieme di tecniche di gestione si affianca e si sovrappone una penetrazione dello stato e della burocrazia da parte del partito di maggioranza, l’African National Congress (ANC), che finisce per ripoliticizzare la relazione amministrazione-società. Lo stato, ri4 Si rimanda anche alla tesi di dottorato di de Simone (2016) che ricostruisce sulla base di molti casi empirici la superficialità e la ritualità dei processi di partecipazione associati alle riforme di governance locale promossi da agenzie e ONG internazionali. Introduzione 19 corda Pezzano, rimane centrale nelle aspettative e nelle rivendicazioni dei gruppi sociali più deboli e poveri, mentre lo stesso stato sviluppa meccanismi di partecipazione subalterna di tipo cooptativo che alimentano circuiti clientelistici. Nonostante il protagonismo di un’ampia varietà di lotte sociali dal basso nelle aree urbane, è interessante notare quanto risulti rilevante l’intermediazione dei partiti politici e segnatamente dall’ANC rispetto all’autonomia sia dei movimenti sociali sia dell’amministrazione pubblica deputata a implementare le politiche sociali urbane. Anche il capitolo di Raffaele Urselli, La gestione dei rifiuti a Dakar. Contesa politica, cittadinanza urbana e moralità del lavoro, propone una lettura storica della politica sui rifiuti nella capitale senegalese in periodo coloniale e post-coloniale con una particolare attenzione al tema della costruzione di un’identità, e di una cittadinanza, urbana e del ruolo di movimenti popolari e associativi. Il caso della vecchia discarica di Mbeubeuss appare significativo delle pratiche sociali di gruppi subalterni per i quali l’accesso ai rifiuti rappresenta una risorsa e una fonte di reddito. Ma risulta cruciale anche per l’analisi delle relazioni tra il governo metropolitano, lo stato centrale, la società municipalizzata di gestione dei rifiuti e il ruolo delle alte gerarchie politiche e partitiche nel vivo dell’alternanza al potere a seguito della vittoria di Wade nel 2000. Nel loro insieme i saggi qui presentati mettono in evidenza, sulla base di ricerche empiriche e di terreno, la superficialità e inadeguatezza degli approcci internazionali dominanti ai problemi di governance, partecipazione e diritti che si vorrebbe risolvere attraverso il potenziamento del governo decentrato e del ruolo di autorità locali più o meno “tradizionali”. La specificità storica dello stato in tutte le sue articolazioni nei diversi casi studiati si presenta come un quadro di analisi ineludibile per la comprensione delle dinamiche sociali che si manifestano dentro i processi contemporanei di state building e i conflitti che da essi sono generati, contrariamente a una visione tecnocratica e armonica della comunità come soggetto della partecipazione e dello sviluppo. Riferimenti bibliografici Berry S. (2002). “Debating the land question in Africa”. Comparative Studies in Society and History, 4, pp. 638-668. Berry S. (2004). “Reinventing the Local? 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Introduzione I villaggi tanzani prodotti dalla villaggizzazione, in passato oggetto di molte ricerche, sono stati relativamente poco studiati negli ultimi vent’anni. Questo capitolo tratta delle eredità politiche e istituzionali della villaggizzazione, probabilmente la politica più controversa dell’ujamaa di Nyerere. Si pone qui la questione di quanto e come queste eredità stiano fornendo un’alternativa legale e politica all’individualizzazione della terra, seguendo la pista di ricerca aperta da Lionel Cliffe negli ultimi suoi scritti (Cliffe, 2012, pp.101-102). Quali sono i lasciti della villaggizzazione sulla questione fondiaria in Tanzania? Quali sono le differenze specifiche portate dall’esperienza dell’ujamaa alle opzioni attuali? Se i villaggi non sono diventati cooperative di produzione, come previsto dal modello ujamaa, possono offrire una base locale e legale per un’alternativa alla completa individualizzazione della terra? In un paese dalle ampie variazioni regionali come la Tanzania, rispondere a queste domande richiederebbe un progetto di ricerca su scala nazionale. 1 Questo capitolo è una traduzione abbreviata e rivista di un articolo apparso nel 2016 nella Review of African Political Economy (RoAPE) intitolato “Village land politics and the legacy of ujamaa” (vol. 43, supplemento 1, p. 22-40). Si ringrazia la rivista e Taylor and Francis per aver permesso la parziale riproduzione del materiale; il dottorato in Africanistica dell’Università degli Studi di Napoli “L’Orientale” per aver finanziato la ricerca che ha generato parte dei dati presentati e il seminario “Autorità locali in Africa: pratiche di gestione e accesso alle risorse”. Si ringrazia il Leverhulme Centre for the Study of Value (LCSV) dell’Università di Manchester (Regno Unito) per aver finanziato parte del lavoro sul campo alla base di questo lavoro. Grazie agli assistenti di ricerca, a Maria Cristina Ercolessi, a Phil Woodhouse e Sarah Bracking per il sostegno dato alle diverse fasi della ricerca. Questo lavoro è in memoria del mio mentor Lionel Cliffe. 22 Elisa Greco Questo contributo non può offrire risposte esaustive e si limita ad analizzare dei dati etnografici sulla politica della terra di villaggio, raccolti tramite una ricerca di campo condotta in tre regioni del paese. I dati sulle regioni di Mbeya e Tanga sono stati raccolti durante la mia ricerca di dottorato nel 2007/2008. A Mbeya, l’osservazione partecipante è stata integrata da un’inchiesta socio-economica di 67 nuclei abitativi, 60 storie di vita e circa 200 interviste semi-strutturate. A Tanga, l’osservazione partecipante è stata integrata da 123 interviste semi-strutturate e dall’analisi di 50 documenti d’archivio su rivendicazioni fondiarie collettive, oltre che su un’altra breve missione nel marzo 2014. I dati sulla regione di Morogoro sono stati raccolti durante un lavoro di campo finanziato dal Leverhulme Centre for the Study of Value (LCSV) nel 2014/2015; lo studio è stato condotto con l’osservazione partecipante nelle assemblee di villaggio, 44 interviste semistrutturate e l’analisi tematica di 60 documenti di archivio dei villaggi sulle questioni fondiarie locali. La prima sezione del saggio esplora le eredità politiche e istituzionali della villaggizzazione e si concentra sulle istituzioni di villaggio, l’abolizione delle autorità consuetudinarie e le politiche di reinsediamento come arma politica. La seconda parte analizza la politica della terra di villaggio e l’impatto degli aspetti neoliberisti della legge di riforma della terra del 1999. Dopo aver brevemente illustrato tale riforma, si passa a esemplificare il ruolo delle autorità di villaggio nelle rivendicazioni fondiarie collettive in un’area della regione di Tanga, caratterizzata da un passato di espropri. Si esplora inoltre la pratica di assegnazione dei terreni di villaggio. La terza sezione riflette sulla importanza della politica della terra di villaggio e dei Village Land Use Plans (VLUP, ovvero piani di utilizzazione dei terreni di villaggio) su una base di dati raccolti in un distretto pilota nella regione di Morogoro, per poi concludere con alcune osservazioni finali. 2. Autorità di villaggio e questioni fondiarie: le eredità politiche e istituzionali dell’ujamaa Tre generazioni di studiosi hanno fatto ricerca sui villaggi ujamaa e la villaggizzazione. Nel 1981 una bibliografia sui villaggi ujamaa vantava 469 titoli (McHenry, 1981). Fino alla fine degli anni ’80, l’ujamaa e la villaggizzazione sono stati studiati con approcci fortemente ideologici, in un dibattito pro e contro i socialismi del terzo mondo e le teorie dell’azione collettiva (Lofchie, 1978; Putterman, 1986). In questo breve Politiche fondiarie e ujamaa in Tanzania 23 saggio non possiamo dar conto dell’intera storiografia della villaggizzazione in Tanzania; ci limiteremo quindi a segnalare alcuni studi fondamentali, quali quelli sugli aspetti politici e sociali della collettivizzazione agricola (Von Freyhold, 1979; Abrahams, 1985); le conseguenze sull’economia in generale (Briggs, 1979; Weaver e Kronemer, 1981); le pratiche autoritarie e verticistiche, compreso l’uso della forza, in particolare dopo che la villaggizzazione divenne sinonimo di reinsediamento forzato (Boesen et al., 1977; Kjekshus, 1977; Moore, 1979), destinati a essere ricordati, alternativamente, come una distruzione diretta dallo stato di pratiche ambientali ed ecologiche locali (Kikula, 1997; Lawi, 2007), un piano «altamente modernista» attuato dallo stato per controllare politicamente ed economicamente i contadini (Hyden, 1980; Scott, 1998), o come uno schema di ingegneria sociale segnato da inevitabili contraddizioni (Schneider, 2003, 2004). Mentre si andava sviluppando la politica dell’ujamaa, Lionel Cliffe e John Saul coordinarono un lavoro collettivo che produsse lo studio più completo e sistematico delle dinamiche socio-politiche del socialismo in Tanzania. I tre volumi di questo studio rappresentarono la complessità dell’ujamaa e della villaggizzazione e le loro differenze regionali (Cliffe e Saul, 1972a, 1972b; Cliffe et al. 1973). Ironicamente, poco dopo la pubblicazione di questi volumi, la villaggizzazione entrò nella sua terza fase, quella dei reinsediamenti forzati (1973-1975). Fu solo dopo il 1973 che l’implementazione burocratica ebbe il sopravvento sulle pratiche di collettivizzazione dal basso (Coulson, 1982) e l’inclinazione all’uso della forza sulle popolazioni rurali divenne più aperta. Nel 1975 la legislazione introdusse una netta distinzione tra i villaggi ujamaa e i villaggi creati dalle operazioni di villaggizzazione, benché entrambe le tipologie fossero sottoposte alla stessa struttura amministrativa e politica (URT, 1975). Dal punto di vista delle istituzioni politiche, l’ujamaa ha lasciato una doppia eredità: i villaggi e le cooperative. Una discussione sulle cooperative non rientra negli obiettivi di questo articolo, ma può essere utile notare che, insieme a una pesante gestione verticistica delle relazioni industriali, la scelta di distruggere il movimento cooperativo resta una delle decisioni autoritarie più discusse dei tempi dell’ujamaa (Coulson, 1982; Maghimbi, 1992). Pur consapevole di questo aspetto della questione, la discussione si concentra qui sui villaggi; mentre molto è stato scritto sulla villaggizzazione e i reinsediamenti, sappiamo molto poco sull’eredità e l’importanza degli stessi villaggi sulle attuali strutture di villaggio in Tanzania. 24 Elisa Greco 3. L’eredità dell’ujamaa/1: le istituzioni di villaggio L’eredità più immediata della villaggizzazione è quella delle istituzioni di villaggio. Queste replicano a livello locale la stessa struttura delle amministrazioni decentrate alle quali fanno capo. Infatti a ciascun livello – il villaggio, la circoscrizione, il distretto e la regione – esiste una struttura che opera su due piani, uno politico e l’altro amministrativo. La caratteristica delle istituzioni di villaggio è che esse si basano su uno strumento fondamentale di democrazia diretta: l’assemblea di villaggio. L’assemblea è costituita da tutti gli adulti residenti nel villaggio e si riunisce ogni trimestre, offrendo ai residenti uno spazio pubblico per discutere la condotta e le decisioni della leadership di villaggio. Questa è costituita da un consiglio di villaggio (con un numero massimo di 25 rappresentanti); un segretario di villaggio e i sottosegretari di quartiere (URT, 1975). Tutte queste figure politiche locali sono elette attraverso elezioni politiche a livello di villaggio.2 Ogni insediamento residenziale può essere registrato come nuovo villaggio a partire da un minimo di 250 nuclei abitativi. Quando viene registrato un nuovo villaggio, il Ministero dei Governi Locali nomina un amministratore stipendiato: il funzionario esecutivo di villaggio. Questo funzionario pubblico, che spesso proviene da un altro distretto o da un’altra regione, gestisce il bilancio del villaggio e i fondi del ministero attraverso un conto bancario ed è tenuto a pubblicare il budget trimestrale e la revisione dei conti. Il funzionario esecutivo deve garantire l’attuazione delle direttive del governo centrale e il rispetto delle procedure amministrative pubbliche. Le amministrazioni di villaggio ricevono un numero di registrazione dal Ministero dei Governi Locali (URT, 1982) e un Certificato della Terra di Villaggio che include una descrizione dei confini del villaggio. Nel 1999, la riforma delle leggi fondiarie (URT, 1999) ha stabilito che tutti i terreni utilizzati ininterrottamente per i 12 anni precedenti alla riforma da un dato villaggio siano considerati legalmente come terre di villaggio.3 Questa clausola 2 Due decenni dopo l’introduzione nel 1994 delle elezioni multipartitiche, il Chama Cha Mapinduzi (CCM) è ancora il partito dominante, ma non è raro trovare consiglieri di villaggio appartenenti ai partiti di opposizione. Nelle elezioni amministrative del 2014 il CCM ha perso circa il 20% dei seggi a favore dei partiti di opposizione (Mwananchi, 2014b). 3 Dopo le riforme fondiarie del 1999 (URT, 1999), la proprietà fondiaria in Tanzania è stata suddivisa in tre categorie legali: i terreni di villaggio, i terreni generali e i terreni riservati. I terreni di villaggio sono sotto la giurisdizione dell’amministrazione di villaggio; quelli generali cadono sotto la giurisdizione diretta di enti ministeriali; quelli riservati sotto la giursdizione di enti statali per la protezione ambientale. Politiche fondiarie e ujamaa in Tanzania 25 del Village Land Act (VLA) del 1999, operativa dal 2001, mirava a risolvere una volta per tutte le innumerevoli dispute nate dopo la villaggizzazione. Una legge successiva, la Land Disputes Courts Act (Legge sulle corti per le dispute sulla terra), fu approvata nel 2002; essa istituiva il Consiglio della Terra di villaggio, un comitato a livello di villaggio che tratta in prima istanza le questioni fondiarie. In linea di principio, dunque, una volta registrato il villaggio, la sua amministrazione diventa l’unità più piccola dell’amministrazione della terra nel paese. Nella pratica, le decisioni degli amministratori spesso si scontrano con la politica della terra nel villaggio. La riforma del governo locale della metà degli anni ’90 ha ulteriormente accresciuto il potere degli amministratori di distretto rispetto alle amministrazioni di villaggio. I funzionari di distretto possono intervenire direttamente nella politica del villaggio e disciplinare i funzionari esecutivi del villaggio (Pallotti, 2006), spesso arrivando a trasferirli nei casi più gravi come l’appropriazione indebita di fondi pubblici o quando non riescono a mediare le divergenze con il consiglio o l’assemblea di villaggio. La pratica dei trasferimenti amministrativi è un’altra eredità dell’ujamaa nell’impiego pubblico, utilizzata in passato per ridurre il patronage politico e la corruzione a livello locale. Da un lato, questa doppia struttura è un lascito del governo autoritario e verticistico. Gli amministratori di villaggio devono rendere conto agli amministratori di circoscrizione e di divisione, che a loro volta riferiscono agli amministratori di distretto e via dicendo fino al livello regionale e ministeriale. D’altro lato, l’esistenza delle assemblee di villaggio garantisce uno spazio per il dibattito politico democratico. Radicate nella filosofia politica dell’ujamaa, le assemblee sono uno strumento caratteristico che in genere amplia la partecipazione politica a livello locale e ha dimostrato di riuscire a canalizzare lo scontento e il dissenso su questioni importanti come le acquisizioni di terra. Grazie all’eredità dell’ujamaa, da un punto di vista amministrativo e legale la giurisdizione di villaggio è un campo istituzionale consolidato piuttosto che una entità territoriale vaga e indefinita. Dato che le assemblee di villaggio hanno poteri di voto e di veto e non sono semplici istituzioni consultive, possono in principio promuovere l’azione collettiva di base e rafforzare la democrazia popolare. 4. L’eredità dell’ujamaa/2: l’abolizione delle autorità tradizionali Il progetto di costruzione dell’identità nazionale in Tanzania si è accompagnato a scelte istituzionali improntate al socialismo dell’ujamaa. Il cambiamento istituzionale più importante a livello di governo locale è stato, nel 26 Elisa Greco 1964, l’abolizione dell’istituzione della chieftainship che ha annullato il controllo delle autorità tradizionali sull’accesso alla terra e all’acqua. Parte della filosofia politica dell’ujamaa, la condanna dell’uso politico delle identità culturali ed etniche trova le sue radici nella teoria socialista, che vede nelle identità etniche delle sopravvivenze arcaiche, ostacoli sulla via verso l’unificazione del genere umano e la liberazione dall’oppressione di classe. Una recente analisi neoistituzionalista ha sostenuto che è stato l’elemento “statalista” degli assetti fondiari ad aver portato alla de-politicizzazione dell’etnicità e quindi all’assenza di una politica etnica sulla terra in Tanzania (Boone e Nyeme, 2015). Questa tesi apprezza la specificità tanzana rispetto a molti altri paesi africani in cui le politiche etniche hanno speso strumentalizzato la questione fondiaria. Allo stesso tempo, non tiene in considerazione il fatto che la decisione di opporsi alla manipolazione politica dell’etnicità fu ispirata dalla condanna socialista del tribalismo in quanto ideologia politicamente divisiva. L’analisi neoistituzionalista studia le istituzioni come se fossero indipendenti da specifiche ideologie politiche e così facendo cancella in modo selettivo gli elementi progressisti dei passati progetti ideologici dal presente scenario istituzionale. L’eredità di questa decisione politica sulla politica contemporanea sulla terra di villaggio è notevole. Le assemblee di villaggio funzionano come spazi politici inclusivi anche nelle zone in cui i modelli di insediamento residenziale mostrano delle concentrazioni etniche a livello di sotto-villaggio. Dall’inizio degli anni ’90, importanti sezioni di gruppi agro-pastorali come i sukuma e i maasai sono migrate dalle regioni settentrionali, soprattutto verso le regioni di Mbeya e Morogoro. Nei nuovi insediamenti, questi gruppi migranti acquisiscono terreni sotto la giurisdizione delle autorità di villaggio locali. Mentre in alcuni casi si sono creati nuovi villaggi abitati esclusivamente da pastori, in altri casi i villaggi hanno creato specifici quartieri riservati ai gruppi agro-pastorali. Questi quartieri, contrariamente alla natura in genere multi-etnica dei villaggi, mostrano un aspetto di omogeneità etnoculturale. Nella regione di Mbeya (distretto di Mbarali) le autorità di villaggio hanno incoraggiato i gruppi agro-pastorali, in particolare quelli in possesso di grandi mandrie, a insediarsi in aree più remote, separate dalle zone centrali del villaggio. Questo modello d’insediamento deriva almeno in parte dalla pratica passata, istituita durante la villaggizzazione, di creare delle zone cuscinetto tra i pascoli e i campi agricoli, in modo da minimizzare i conflitti sull’uso della terra, il pericolo di contaminazione dei terreni agricoli e il danno ai raccolti causato dalle mandrie. Sfortunatamente, le preoccupazioni agro-ecologiche hanno spesso rafforzato un’eredità politica di emarginazione Politiche fondiarie e ujamaa in Tanzania 27 sociale e politica dei gruppi agro-pastorali, in un’atmosfera di ostilità e pregiudizio nei loro confronti da parte del governo centrale (Benjaminsen et al., 2009; Askew et al., 2013). Nella regione di Morogoro (distretto di Kilombero) l’osservazione partecipante ha fatto emergere che nelle assemblee di due villaggi che hanno sotto-sezioni di pastori, questi tendono a non accettare la propria emarginazione in maniera passiva, ma piuttosto a confrontarsi con le istituzioni di villaggio. I pastori più giovani spesso registrano le assemblee con il telefono cellulare, per poi riprodurle per informare gli assenti; intervengono su questioni divisive; e si richiamano attivamente all’eredità politica dell’ujamaa per difendere i propri argomenti. La decisa condanna della manipolazione politica delle identità etnico-culturali è una parte centrale dell’eredità politica dell’ujamaa e un principio al centro del funzionamento quotidiano delle assemblee di villaggio (note di campo, luglio-agosto 2014). La parità di genere e il divieto di utilizzare l’appartenenza e le identità religiose ed etniche sono rispettati nelle riunioni del consiglio e nelle assemblee di villaggio. Questo naturalmente non significa che le istituzioni di villaggio siano egualitarie e rispettose della parità di genere. Negli stessi villaggi nel 2014 due sotto-sezioni pastorali hanno chiesto e ottenuto di diventare villaggi separati, in modo da avere un maggior controllo sulle questioni legate alle assegnazioni di terreni di villaggio. La stessa dinamica è stata rilevata nel 2007/8 nella regione di Mbeya (distretto di Mbarali) dove le sotto-sezioni pastorali, guidate da ricchi commercianti di bestiame, hanno gradualmente ottenuto la registrazione come villaggi autonomi (Greco, 2010). Questi conflitti latenti, spesso rappresentati come conflitti fra gruppi di agricoltori e gruppi di pastori, nascondono una dinamica a più livelli, che include un conflitto di classe fra gruppi di ricchi commercianti di bestiame e gruppi meno ricchi di agricoltori. Le dinamiche di classe, accorpate e spesso confuse con le identità culturali, si riflettono nel funzionamento delle amministrazioni di villaggio. D’altro canto, queste istituzioni talvolta offrono spazi per azioni correttive perchè esistono regole e pratiche specifiche che enfatizzano i principi di eguaglianza e non-discriminazione. 5. L’eredità dell’ujamaa/3: reinsediamenti forzati e istituzioni di villaggio come spazi di dissenso politico Nella Tanzania contemporanea, il reinsediamento forzato della popolazione rurale è ancora considerato una politica di sviluppo accettabile. Quando il governo delibera l’ampliamento dei confini di un’area protetta, la popo- 28 Elisa Greco lazione rurale viene reinsediata e spesso espulsa con la forza attraverso la deregistrazione e il reinsediamento forzato di interi villaggi (Brockington, 2002; Neumann, 1998; 2001; Tenga et al., 2008). Dato che la legge prevede che il governo possa de-registrare i villaggi, la deregistrazione avviene spesso a seguito di decisioni arbitrarie e verticistiche. Ad esempio, nella regione di Mbeya (distretto di Mbarali), la revoca della registrazione del villaggio è stata usata come arma di ricatto politico, laddove le assemblee di villaggio si siano opposte alle decisioni del governo sulla questione degli espropri di terre a favore di imprenditori privati. Per esempio, dal 2005 al 2008, alcune assemblee di villaggio del distretto di Mbarali organizzarono una protesta contro la privatizzazione di un’azienda agricola statale dell’area. Il governo aveva deciso di venderla a un imprenditore privato, rifiutando di dare una possibilità alla locale cooperativa di agricoltori. In questa protesta si esprimevano molte tensioni di classe perché la cooperativa era stata creata soprattutto da agricoltori commerciali i cui interessi si scontravano con quelli dei piccoli contadini e dei braccianti. Benché questi interessi in competizione siano emersi nelle assemblee di villaggio, le istituzioni di villaggio sono state sedi fondamentali nelle quali coordinare l’azione politica collettiva ed esprimere il dissenso politico nei confronti della decisione governativa. In questo contesto, è emersa un’intricata disputa di confine e sulla terra tra il villaggio più vicino e l’azienda agricola, attorno alla quale si è organizzato il dissenso politico. Questa disputa fondiaria è stata portata avanti soprattutto attraverso negoziati politici e i complessi aspetti giuridici, aggravati dall’esistenza di molteplici e sovrapposti titoli sulla terra dell’azienda agricola, non sono mai stati esaminati da un tribunale (Greco, 2010). Dopo un’escalation di tensione, il governo ha minacciato di annullare la registrazione del villaggio e di reinsediare forzatamente tutti i residenti, trasformando un villaggio regolarmente registrato con la sua amministrazione e il suo consiglio in un «villaggio di abusivi», come riportato dalla stampa (Greco, 2010). La disputa ha dato luogo a una saga politica che si trascina da più di un decennio, con ministri e membri del parlamento che periodicamente intervengono con visite ufficiali, dichiarazioni politiche e occasionali promesse populiste di restituzione della terra (The Guardian TZ, 2011; Mwananchi, 2014a; ION, 2014), uno scenario comune ad altre dispute sulla terra dello stesso tipo. Questo caso mostra che le istituzioni di villaggio si trovano spesso a svolgere un ruolo contraddittorio. Da un lato, sono spazi per l’espressione del dissenso politico e di interessi di classe in conflitto (Greco, 2015a). Dato che le istituzioni di villaggio funzionano sulla base di una forma di democra- Politiche fondiarie e ujamaa in Tanzania 29 zia diretta, alimentano la possibilità di inclusione politica. Dall’altro lato, a causa della supremazia dei poteri esecutivi in materia di amministrazione della terra, il governo ha il potere di non tener conto del dissenso politico che si esprime nei villaggi. Molte decisioni arbitrarie sono spesso trasmesse alle assemblee di villaggio attraverso un’abile manipolazione della politica sulla terra, oppure con azioni autoritarie. Talvolta la politica di villaggio può apparire separata dalle decisioni dei poteri esecutivi delle autorità centrali di governo, o ad esse subordinata. I funzionari amministrativi di villaggio possono essere incaricati di imporre decisioni scomode ai villaggi, in una sorta di «dispotismo decentralizzato» (Mamdani, 1996). La domanda è: è possibile realizzare il potenziale democratico delle assemblee di villaggio? In passato, l’autoritarismo, la prevalenza di un potere arbitrario nella formazione di decisioni e la debolezza dello stato di diritto hanno portato a una risposta prevalentemente negativa (Shivji, 2002). 6. Il lascito dell’ujamaa e le politiche neoliberiste Alla fine degli anni ’80, le istituzioni finanziarie internazionali (IFI) condannarono le precedenti politiche socialiste sostenendo che lo sviluppo economico del paese era stato danneggiato dalla mancaza di chiari diritti di proprietà privata, dall’incertezza dello statuto della proprietà fondiaria e dalle dispute sulla terra. Un’agenda neoliberista emergente, promossa in particolare dalla Banca Mondiale, cominciò a premere sul governo tanzano per una riforma dei diritti di proprietà, per garantire la sicurezza del possesso fondiario e una più forte protezione della proprietà privata. Questa agenda ebbe l’effetto di mettere da parte altre urgenti priorità politiche interne, come ad esempio la crisi alimentare (Sundet, 1997). È indubbio che in alcune regioni la villaggizzazione avesse mandato in crisi le strutture fondiarie preesistenti, soprattuto tramite gli espropri e il reinsediamento forzato della popolazione, spesso senza alcun tipo di risarcimento; e che il carattere arbitrario delle assegnazioni e degli espropri fondiari avesse dato luogo a dispute fondiarie, molte delle quali erano emerse negli anni ’80. Ma mentre queste dispute sono significative, la loro esatta importanza spesso non è stata capita. Nei primi anni ’90 una Commissione di Inchiesta sulla Questione Fondiaria condusse una vasta indagine su scala nazionale (URT, 1994). La sua relazione stabilì che le dispute fondiarie erano endemiche in tutte le regioni del paese e che molte erano state causate non tanto dalle dispute post-villaggizzazione, quanto dagli ampi poteri discrezionali dell’esecutivo in materia di questioni 30 Elisa Greco fondiarie. Dalla relazione emergeva uno scenario in cui la maggioranza della popolazione rurale non premeva per ottenere titoli di proprietà, ma piuttosto chiedeva delle misure di protezione dell’accesso ai terreni comunitari di villaggio. Quello che importava ai residenti delle zone rurali era la salvaguardia legale dell’accesso ai terreni comunitari di villaggio, minacciati dal potere arbitrario dell’esecutivo; e la creazione di misure legali per contrastare la crescente corruzione di un sistema di amministrazione della terra centralizzato, verticistico e complicato dall’esistenza di molteplici autorità spesso in contrasto fra loro. Questi due fattori – e non tanto le dispute postvillaggizzazione – erano considerati la causa delle dispute sulla terra. Mentre diversi gruppi al governo accettarono queste conclusioni, il programma politico neoliberale promosso dai donatori continuò a insistere che la priorità poltica doveva essere data ai titoli di proprietà e al rafforzamento della sicurezza della proprietà fondiaria. Lo stesso programma fu promosso in molti altri paesi africani, in una “terza ondata” di riforme della legge fondiaria, tese a rafforzare i diritti di proprietà privata attraverso una creazione di sistemi ibridi, o cosiddetti neo-tradizionali (McAuslan, 2013; Manji, 2006). Nel regime di condizionalità della metà degli anni ’90, l’agenda di formalizzazione dei diritti fondiari ha prevalso su altre priorità politiche, quali ad esempio una più ampia democratizzazione del sistema di proprietà fondiaria. In Tanzania, il governo ha dato molto credito alle teorie formulate da Hernando De Soto sul ruolo giocato dalla formalizzazione dei diritti di proprietà nella riduzione la povertà (De Soto, 2001).4 È da chiarire che l’idea di introdurre titoli di proprietà fondiaria non è nuova ai molti paesi africani – in particolare quelli di ex colonizzazione inglese – in cui il modello di Individualizzazione, Titolazione e Registrazione (ITR) è stato imposto in epoca tardo-coloniale. Nella versione neoliberale dell’ITR proposta da De Soto, la formalizzazione dei diritti di proprietà diventa non uno dei tanti elementi del processo di sviluppo capitalista, ma il suo elemento fondante. Secondo De Soto, la formalizzazione è un intervento semplice e relativamente poco costoso che permette di ridurre la povertà attraverso lo sviluppo del sistema creditizio. Alla base di questa teoria c’è l’idea che i poveri, una volta ottenuti i titoli di proprietà, possano utilizzarli come garanzia per ottenere prestiti dalle banche. La formalizzazione divenne in Tanzania quindi la parola d’ordine, dimenticando i precedenti fallimenti del modello 4 Le risposte di De Soto alle critiche degli studiosi sulla applicabilità di questo approccio all’Africa (Mathieu, 2002; Benjaminsen e Sjaastad, 2002; De Soto, 2002) appaiono ancor più fuori luogo un decennio dopo alla luce del fallimento dei progetti pilota come quelli attivati in Tanzania. Politiche fondiarie e ujamaa in Tanzania 31 ITR sul continente (Nyamu-Musembi, 2009). Il riformato sistema di amministrazione della terra prevedeva la creazione di registri della terra di villaggio che fornivano titoli sulla terra ai residenti rurali. Due decenni dopo, i registri della terra di villaggio, che sono costosi e richiedono una conoscenza delle procedure da parte degli amministratori locali, sono ben lontani dall’essere la norma nei villaggi tanzaniani. Due programmi specifici che si occupano delle questioni di applicazione - Mkurabita (www.mkurabita.go.tz, 27/11/2017) e lo Strategic Plan for Implementation of Land Laws (SPILL) del Ministero della Terra – si sono dimostrati costosi e hanno prodotto risultati incerti. Inoltre, i progetti pilota di attribuzione di titoli di proprietà sulla terra hanno avuto effetti non voluti. A causa delle dinamiche di classe nelle aree rurali, i titoli di proprietà possono tradursi nella formalizzazione di espropriazioni a livello locale giacché professionisti e grandi agricoltori si avvantaggiano dell’attribuzione di titoli di proprietà per accaparrarsi la terra dei contadini poveri (Ole Kosyando, 2007; LHRC, 2006). Le leggi sulla terra del 1999 evidenziarono le contraddizioni di una eredità ambivalente. Da un lato, consolidarono il ruolo delle amministrazioni di villaggio e le pratiche stabilite durante il periodo dell’ujamaa; dall’altro, riaffermarono la supremazia sulle questioni fondiarie del Ministero della Terra e di tutti gli organi esecutivi, non ultimo creando la figura del commissario per la terra, e lasciando ampi margini di azione discrezionale dall’alto (Shivji, 1998, 1999a, 1999b, 1999c). Le riforme stabilirono che le amministrazioni di villaggio avevano giurisdizione sulla terra del villaggio e introdussero una nuova categoria giuridica, quella della «terra di villaggio», distinta dalla «terra generale», che ricade sotto la giurisdizione del Ministero della Terra, e dalla «terra riservata», controllata da agenzie pubbliche a scopo di conservazione ambientale (URT, 1999). Una delle conseguenze di questa categorizzazione è la disputa ancora attuale su cosa sia incluso e cosa sia invece escluso dalla terra di villaggio. L’esistenza della categoria giuridica di «terra di villaggio» potenzialmente potrebbe rafforzare il ruolo delle autorità di villaggio nell’amministrazione e nella politica sulla terra. Se un imprenditore vuole acquisire della terra che non sia né generale né riservata, deve ottenere l’approvazione delle assemblee di villaggio interessate, che devono riunirsi, discutere il trasferimento della terra e mettere ai voti la decisione. La stessa procedura si applica alle concessioni di terra di villaggio ai residenti (se superano i 50 acri) e a tutti i trasferimenti a non residenti. Per tutte queste deliberazioni l’assemblea di vilaggio deve raggiungere un quorum minimo del 75% dei membri (URT, 1999). Nello stesso tempo, tuttavia, il Ministero della Terra può autorizzare il trasferimento di terra di villaggio 32 Elisa Greco nella categoria di terra generale per ragioni di interesse pubblico, definite nel Village Land Act come «investimento, o interesse nazionale» (VLA n.5, part III, 4.I.2). Questo significa che quando il Ministero delle Terre decide in merito a un trasferimento di terra, le assemblee di villaggio possono fornire solo pareri non vincolanti e sono quindi relegate al ruolo di organi consultivi. Nella corsa globale alla terra scatenata dalla crisi finanziaria del 2007/8 la Tanzania è diventata uno dei paesi più colpiti dagli accaparramenti di terra (Benjaminsen e Bryceson, 2012). Sostenuta da politiche di promozione degli investimenti esteri e da un quadro legale che lascia ampio spazio alle decisioni dall’alto, quando un investimento fallisce e una compagnia si ritira da un affare fondiario, l’agenzia statale interessata in genere non restituisce la terra ai villaggi che l’avevano concessa, ma la rende disponibile per nuovi investitori (Mwami e Kamata, 2011). I residenti locali spesso cominciano a coltivare le terre abbandonate, per essere di nuovo espulsi se arriva un nuovo investitore. In molti casi, concessioni di terra sono state approvate da singoli membri dell’amministrazione di villaggio senza consultare le assemblee. È relativamente facile corrompere amministratori e consigli di villaggio al fine di ottenere documenti falsificati. Una situazione comune è quella in cui i dirigenti producono dei falsi verbali delle riunioni delle assemblee di villaggio che dichiarano l’approvazione dei trasferimenti fondiari mentre le assemblee non si sono mai riunite o non hanno raggiunto il quorum previsto dalla legge. Forme di piccola corruzione dei presidenti e dei consiglieri di villaggio, che non ricevono uno stipendio, e la mancanza di trasparenza da parte degli amministratori esecutivi sono i pericoli maggiori che insidiano la nuova architettura dell’amministrazione della terra di villaggio introdotto dal Village Land Act (Shivji 1999b; Manji 1998, 2001). L’amministrazione riformata della terra di villaggio può rafforzare aspetti del governo locale che possono risultare in un «dispotismo decentralizzato» (Mamdani, 1996). Va anche aggiunto che il fatto che queste posizioni non prevedano un salario incoraggia la corruzione. Le riunioni del villaggio possono essere lunghe e richiedere molto tempo; cionostante, i rappresentanti eletti non ricevono uno stipendio ma solo gettoni di presenza, un fatto che li rende vulnerabili alla corruzione. In questo contesto, le allocazioni della terra di villaggio possono diventare un affare remunerativo. Gli abitanti dei villaggi spesso prendono iniziative perché siano puniti gli episodi di corruzione. Da questo punto di vista, le assemblee di villaggio sono importanti spazi politici per politiche di emancipazione, essendo l’arena nella quale sono sollevate sia la corruzione che la contestazione e la negoziazione degli affari sulla terra, un aspetto che analizziamo nel prossimo paragrafo. Politiche fondiarie e ujamaa in Tanzania 33 7. Rivendicazioni collettive sulla terra e politica di villaggio Nelle aree caratterizzate storicamente da espropriazione della terra, l’impegno dell’ujamaa contro l’individualizzazione e la privatizzazione della terra ha sollecitato la mobilitazione per ottenere la restituzione della terra. È questo il caso di tre distretti del sisal nella regione di Tanga (Korogwe, Lushoto e Muheza) dove prevalevano le piantagioni di sisal ereditate dalla colonizzazione (URT, 1994; Greco, 2016). Dalla metà degli anni ’80, gli amministratori di villaggio e i politici locali hanno sostenuto diverse rivendicazioni collettive per rientrare in possesso delle terre delle piantagioni, cercando una mediazione politica con il governo e organizzando commissioni di villaggio per la redistribuzione della terra. All’inizio degli anni ’90, la Commissione sulla terra aveva raccomandato una «mini-riforma fondiaria» nei distretti del sisal. Nel 1997, al momento della privatizzazione delle aziende statali di sisal, i programmi di redistribuzione della terra finirono sotto la doppia pressione di una accelerata dinamica di classe e delle politiche neoliberiste. In questa area di storiche rivendicazioni fondiarie sulla terra, negli anni ’80 le assemblee di villaggio erano diventate gli agenti dell’azione collettiva per la redistribuzione della terra. Le rivendicazioni collettive sulla terra continuarono per tutti i ’90 fino a quando la prevalenza dell’agenda neoliberista portò i villaggi a rinunciare negli anni 2000. La ricerca etnografica condotta nel 2007/8 ha rivelato che le rivendicazioni collettive sulla terra alimentate dall’eredità politica dell’ideologia dell’ujamaa sono continuate fino ai primi anni 2000, per poi trasformarsi in dispute individuali tra aziende del sisal e squatter (Greco 2010). Alcune aziende privatizzate avevano concesso terra ad agricoltori a contratto che coltivavano sisal; questi diventarono i beneficiari di una forma privatizzata di redistribuzione della terra. Ironicamente, si trattava soprattutto di grandi agricoltori commerciali e di professionisti urbani che sostituirono precedenti rivendicazioni su terre fortemente contestate e misero in moto nuove dispute fondiarie con precedenti occupanti e richiedenti della terra. Per concludere, le istituzioni di villaggio hanno svolto un ruolo fondamentale nell’organizzazione delle rivendicazioni fondiarie collettive nella regione di Tanga. Usando in maniera efficace il proprio potere istituzionale, le istituzioni di villaggio hanno evitato di ricadere nel localismo, rivolgendosi ai livelli superiori del governo locale. In ultima istanza, tuttavia, la svolta neoliberista del governo ha ristretto sempre più lo spazio politico di negoziazione sulla redistribuzione della terra, dando priorità alla salvaguardia legale e politica del diritto di proprietà privata delle aziende privatizzate. La pros- 34 Elisa Greco sima sezione esamina alcuni dati etnografici sulle assegnazioni fondiarie di villaggio, per prendere in considerazione il potenziale dei villaggi come spazi per l’emergere di alternative alla individualizzazione della terra. 8. Le allocazioni della terra di villaggio: privatizzazione della terra comune Le amministrazioni di villaggio sono responsabili delle terre comuni del villaggio all’interno dei loro confini. Queste terre sono definite come tutte le aree che non sono sotto il controllo di individui, famiglie o clan. Ma come si realizza in concreto il processo di gestione delle terre comuni all’interno delle amministrazioni di villaggio? Una risposta parziale a questa domanda deriva da dati di storia orale raccolti nel 2007/8 da anziani del distretto di Mbarali (regione di Mbeya). Come esempio prendo due villaggi vicini caratterizzati da usi della terra molto diversi nel distretto di Mbarali (Greco, 2010), in una zona di confine dove negli ultimi quarant’anni aree paludose e umide, fino agli anni ’50 destinate esclusivamente alla pastorizia e alla pesca, sono state gradualmente convertite in campi irrigati di riso (Greco, 2010). In quest’area la storia orale evidenzia che fino agli ultimi anni ’80 la distribuzione della terra non era formalizzata e avveniva su basi collettive. Gli anni ’90 segnarono invece una svolta: l’intensificazione della coltura del riso, l’espropriazione di terre a causa della creazione di grandi aziende agricole e l’immigrazione di gruppi agro-pastorali scatenarono una corsa locale alla terra. La distribuzione della terra di villaggio si trasformò da esercizio collettivo in pratiche di individualizzazione della terra. L’amministrazione del villaggio cominciò a convocare gli individui che avevano richiesto la terra in giorni specifici, allo scopo di concedere campi individuali nelle terre di frontiera in cambio del pagamento di una tassa nominale, certificata da una ricevuta e registrata nei documenti del villaggio. A causa di una scarsità di terra a livello locale, le amministrazioni di villaggio divennero lo strumento di una individualizzazione di fatto dei terreni comunitari di villaggio. Va tenuto conto che le assegnazioni di terreni di villaggio possono offrire accesso a terreni di buona qualità, relativamente a basso costo. In aree agricole di frontiera che stavano sperimentando una massiccia conversione dalla pastorizia alla coltura irrigata del riso, questo si è dimostrato l’elemento chiave che ha influenzato le scelte di insediamento dei migranti (Greco, 2010). A causa di questo processo di assegnazione di terreni di villaggio, le aree comuni sono state gradualmente oggetto di una individualizzazione di fatto. La storia orale ha messo in evidenza che il mutamento nell’uso della terra di villaggio è un fattore importante del mo- Politiche fondiarie e ujamaa in Tanzania 35 do in cui le terre comuni sono gestite e che il ritmo della distribuzione della terra nelle aree comuni si accelera con la commercializzazione della terra. Per la parte più povera della popolazione rurale, l’assegnazione dei terreni comunitari di villaggio è un modo accessibile, equo e poco costoso per ottenere un terreno. Queste assegnazioni non sono transazioni commerciali e si svolgono in maniera indipendente dal mercato fondiario locale, che pure è esistito per decenni in maniera informale. Per questo motivo, sono state per lungo tempo una modalità di redistribuzione fondiaria fondamentale per la parte più povera della popolazione, che ha potuto così acquisire diritti fondiari senza ricorrere al mercato fondiario. Vista la crescente commercializzazione della terra e l’affermarsi di dinamiche di classe sempre più marcate, queste pratiche si sono in alcuni casi prestate a processi di accaparramento di terra da parte dei capitalisti rurali locali che corrompono i funzionari di villaggio. Questi episodi di corruzione hanno avvantaggiato un gruppo sociale molto ristretto e potente: i capitalisti rurali, che in questa zona sono imprenditori che gestiscono aziende agricole al di sopra di 100 acri, spesso con crediti commerciali dalle banche, e che spesso sono anche commercianti all’ingrosso di riso.5 La corruzione delle amministrazioni di villaggio in relazione alla distribuzione della terra è un fatto molto comune (Greco, 2010). In quet’area grandi agricoltori commerciali e proprietari di bestiame hanno ripetutamente corrotto le amministrazioni di villaggio per ottenere concessioni vantaggiose di terra. Sotto pagamento, gli amministratori accettano di «anticipare le assegnazioni» (kutangulia mgao), un eufemismo per indicare accordi privati fra funzionari del governo locale e i capitalisti rurali, che hanno i soldi per corromperli. Questi accordi danno la precedenza sulle assegnazioni collettive ai capitalisti rurali che ricevono i terreni migliori qualche mese prima del calendario ufficiale delle assegnazioni di villaggio. Tramite questo meccanismo, i capitalisti rurali sono spesso riusciti a garantirsi l’assegnazione di terreni più ampi e di maggiore qualità, serviti da canali di irrigazione e collocati nelle aree più accessibili del villaggio. Gruppi marginali, come i settori più poveri di pastori e agricoltori, tendono a perdere l’accesso alla terra quando le aree comuni cominciano a ridursi a causa delle concessioni individuali di terra. L’esempio mostra come la corruzione su piccola scala delle amministrazioni di villaggio può diventare il vettore di un processo di accumulazione primitiva attraverso l’accaparramento invidivuale di terreni comunitari. Nelle aree in cui la pastorizia e l’agricoltura utilizzano le stesse terre irrigate e la competizione per le risorse è acuta, i villaggi in genere emanano decreti che consentono di multare i pastori non residenti nel villaggio quando 5 Per maggiori dettagli, si veda Greco, 2015b. 36 Elisa Greco vengono trovati a usare i pascoli comunitari. Il potere di esclusione conferito ai consigli di villaggio dai Village Land Acts è stato giudicato potenzialmente lesivo per gruppi che utilizzano risorse che attraversano i confini dei villaggi, come appunto i pascoli usati dai pastori transumanti (Flintan, 2012, 2013). I consigli di villaggio hanno poteri legislativi in quanto possono approvare decreti (URT, 1982) coi quali impongono tasse e contravvenzioni, regolamentando l’accesso ai terreni comunitari. I decreti di villaggio devono essere approvati dalle autorità di distretto e un funzionario legale controlla la loro coerenza con la legislazione nazionale. Ciononostante non è inusuale scoprire che questi decreti sono già operativi a livello di villaggio in attesa della loro approvazione da parte del distretto o anche quando l’approvazione non è avvenuta. Nel prossimo paragrafo discuterò la questione della corruzione nelle distribuzione di terra del villaggio e la relativa politica dal basso sulla base di dati ricavati da una ricerca di terreno condotta nel 2014 nel distretto di Kilombero, nella regione di Morogoro. 9. Autorità di villaggio, corruzione, terra e dinamiche di classe Le cronache politiche di villaggio sono state raccolte nel 2014 nel distretto di Kilombero, nell’area adiacente a una vasta azienda agricola di circa 5.800 ettari recentemente riattivata. L’azienda agricola, originariamente creata a metà degli anni ’80 da una compagnia parastatale, era stata abbandonata per più di un decennio durante il quale i residenti locali se ne erano riappropriati, la coltivavano, la utilizzavano come pascolo e vi avevano costruito nuove case. Nel 2006 il governo la vendette a una compagnia privata; i residenti locali furono ricollocati attraverso uno schema volontario di reinsediamento che causò molte contestazioni nel villaggio (Chachage, 2010). Ai consigli di villaggio nell’area attorno all’azienda agricola non fu lasciata possibilità di scelta sul trasferimento fondiario. Tecnicamente avevano dovuto riconoscere che il contratto di affitto sulla terra degli anni ’80 aveva posto queste terre al di fuori della giurisdizione delle amministrazioni di villaggio e sotto l’autorità del Ministero della Terra. Successivi dati raccolti nel 2014 mostrano che, dopo la riattivazione di una azienda agricola su larga scala e il reinsediamento dei residenti locali, molti furono espropriati della terra e nell’area si determinò una scarsità di terra.6 6 I dati qualitativi, raccolti a maggio-giugno 2014, comprendono 36 interviste in profondità con informatori chiave in tre villaggi adiacenti all’azienda agricola. L’identità dei villaggi e Politiche fondiarie e ujamaa in Tanzania 37 Tale scarsità di terra ha avuto tre conseguenze principali nei villaggi attorno all’azienda agricola. La prima è che i prezzi della terra nel mercato fondiario informale sono aumentati. La seconda è che vi è stata una escalation delle dispute sulla terra attorno all’azienda agricola (Greco, 2015b); queste sono di natura diversa, sia individuali (tra singoli contadini, tra un contadino e un pastore, tra un contadino e il consiglio di villaggio) che collettive (tra gruppi di contadini e un singolo contadino, tra gruppi di contadini e il consiglio di villaggio). Le amministrazioni di villaggio sono sommerse dal lavoro causato dalla risoluzione delle dispute sulla terra. La terza conseguenza è che le amministrazioni di villaggio hanno condotto in rapida successione allocazioni della terra di villaggio. In pratica, le restanti terre comuni sono state privatizzate attraverso allocazioni di terra individuali per soddisfare le domande di terra dei residenti. I consigli di villaggio hanno inoltre stabilito una pratica politica in base alla quale se a un residente è attribuito un campo attraverso una distribuzione di terra del villaggio e non lo coltiva, l’assegnazione è revocata per rendere la terra disponibile a un altro utilizzatore. Le autorità di villaggio sostengono che questa pratica è stata stabilita sulla base di un decreto di villaggio anche se non ci sono prove che il distretto lo abbia approvato, il che è in evidente violazione delle Land Laws del 1999. Questa pratica ha spinto molti ad affittare i loro campi affinché siano coltivati per evitare di perderli. Nello stesso tempo, l’espropriazione causata dallo stabilimento della grande azienda agricola ha accelerato il processo di concentrazione della terra a livello locale. I capitalisti rurali hanno beneficiato delle allocazioni di villaggio per acquisire terra di villaggio; professionisti urbani, commercianti e impiegati pubblici non residenti hanno ottenuto terra utilizzando prestanome locali o pagando un parente povero che si stabiliva nel villaggio e utilizzava i suoi diritti di residenza per acquisire il diritto a partecipare alle distribuzioni di terra. Villaggio 1. Il funzionario amministrativo del villaggio fu trasferito dopo essere stato accusato di essersi appropriato di parte dei fondi sborsati dalla compagnia agricola al consiglio di villaggio per costruire una scuola e un punto d’acqua. In questo villaggio, molte concessioni di terra a privati non rispettano il limite legale di 50 acri pro capite. Si sa di allocazioni di dimensioni fino a 185 acri, con diversi casi di persone che utilizzano dei prestanome per ottenere allocazioni multiple. Questo processo di concentrazione deldei singoli è volutamente omessa, allo scopo di evitare possibili ripercussioni sugli informatori, dato che le dispute qui analizzate sono ancora in corso. 38 Elisa Greco la terra sulle aree comuni del villaggio si verifica grazie alla corruzione dei membri della commissione sulla terra del villaggio. Villaggio 2. Dal 2007 al 2014 si sono avute in rapida successione diverse distribuzioni della terra di villaggio. Nel 2012, a seguito di voci su concessioni ottenute con la corruzione da parte di ricchi individui, l’assemblea di villaggio decise di istituire una commissione di revisori dei conti (kamati ya uhakiki) per esaminare questi sospetti. La commissione esaminò una per una le concessioni di terra, visitando i beneficiari per controllare l’autenticità dei certificati di concessione, la localizzazione del campo e i suoi confini. Molte allocazioni furono giudicate irregolari, a causa sia di false ricevute emesse per coprire la corruzione, sia perché i terreni ottenuti superavano i limiti superiori fissati dalla legge. Dato che le concessioni irregolari furono annullate, l’intero esercizio divenne oggetto di contestazioni ed emersero voci a proposito della corruzione di membri della stessa commissione d’inchiesta. Residenti del villaggio, esasperati, organizzarono una protesta guidata da un ex-consigliere di un partito di opposizione; l’agitazione crebbe sino a una manifestazione davanti agli uffici del villaggio di una massa di circa 500 residenti che chiedevano le dimissioni sia del funzionario esecutivo che del presidente del villaggio. I residenti chiusero simbolicamente l’ufficio dell’amministrazione con un lucchetto, tennero le chiavi e dichiararono fuori servizio sia l’amministratore esecutivo che il presidente del villaggio. La commissaria di distretto fu immediatamente chiamata e in un’assemblea d’emergenza del villaggio le fu chiesto di investigare i fatti. Accertato che l’amministratore esecutivo aveva ricevuto bustarelle in cambio di concessioni di terra, decise di trasferirlo in un’altra località. Il discreditato presidente del villaggio mantenne la sua posizione ma i residenti rifiutarono di riconoscere la sua autorità e risposero con la resistenza passiva rifiutandosi di partecipare alle assemblee di villaggio. Villaggio 3. Il presidente del villaggio fu deposto in circostanze simili da una folla di cittadini arrabbiati dopo che era stato accusato di appropriazione di fondi pubblici. Questa volta il villaggio si ritrovò senza un presidente perché il commissario di distretto rifiutò di autorizzare nuove elezioni nel villaggio. Questo tipo di azione autoritaria da parte del distretto nei confronti di un presidente di villaggio eletto si spiega col fatto che lo stesso presidente apparteneva a un partito di opposizione. Per concludere, in tutti e tre i casi la corruzione delle autorità di villaggio appare correlata ai processi di concentrazione della terra da parte di un gruppo di capitalisti rurali che ricorrono alla corruzione per appropriarsi delle terre comuni. La corruzione è in qualche modo incoraggiata dal fatto Politiche fondiarie e ujamaa in Tanzania 39 che solo l’amministratore esecutivo del villaggio riceve uno stipendio, mentre tutte le altre posizioni non sono retribuite, ma questo non deve portare a sottovalutare la conclusione analitica principale: la corruzione è solo una conseguenza e un canale dell’accumulazione primitiva da parte dei capitalisti rurali che sono pronti a corrompere per ottenere la terra di villaggio. Tutti e tre i villaggi studiati hanno elaborato nel 2012 i Village Land Use Plans ma questo non sembra aver contribuito a ridurre i conflitti sulla terra. Il processo di redazione dei piani è stato al centro della politica locale sulla terra ed è diventato una fonte di ulteriori conflitti fondiari. 10. Village Land Use Plans (VLUP) e terre comuni Nella grande maggioranza dei villaggi tanzaniani i VLUP non sono stati applicati; le distribuzioni di terra avvengono sulla base della legislazione sulla terra di villaggio e le pratiche consuetudinarie, e possono essere revocate da decreti approvati dalle autorità di villaggio. Da questo punto di vista i VLUP e il loro utilizzo per emanare diritti consuetudinari di occupazione possono trasformare la gestione attuale delle terre comuni di villaggio, relativamente flessibile, in un sistema più rigido e formalizzato basato sulla concessione di titoli sulla terra individuali, formali e non revocabili. Le Land Laws del 1999 hanno formalizzato la giurisdizione territoriale delle amministrazioni di villaggio con la creazione di una nuova categoria giuridica, quella della terra di villaggio. Si tratta di una categoria residuale che esclude tutte le terre pubbliche e quelle riservate.7 Sulla terra di villaggio titoli individuali di proprietà della terra possono essere attribuiti solo dopo che il villaggio ha ottenuto un VLUP approvato con i suoi confini controllati da operatori del Ministero della Terra. Se emergono dispute di confine tra villaggi vicini queste devono essere risolte in prima istanza, l’ultimo passo è quindi l’emanazione di un Certificato della terra di villaggio. Quando un villaggio ha ottenuto il suo certificato, residenti individuali possono fare richiesta per ottenere un diritto consuetudinario di Negli anni ’80 e ’90 le dispute più acute hanno riguardato la definizione dei confini dei villaggi (URT, 1994), perché questa spesso definisce quanta e quale terra è controllata dai residenti del villaggio, o dal governo come terra generale o riservata. Un’analisi puramente tecnica delle legge può portare alla conclusione che è vero il contrario, ossia che a essere una categoria residuale è la terra generale (Sundet, 2005), ma la pratica amministrativa dell’ultimo decennio indica l’opposto. 7 40 Elisa Greco occupazione. Un’agenzia apposita, la National Land Use Planning Commission, è stata creata all’interno del Ministero della Terra per occuparsi dei VLUP che sono la precondizione tecnica per consentire alle amministrazioni di villaggio di emettere titoli individuali sulla terra a residenti del villaggio. Un’amministrazione di villaggio in grado di emettere titoli di proprietà senza passare per tutta la trafila gerarchica dell’amministrazione della terra (ufficio distrettuale della terra, ufficio regionale della terra, Ministero della Terra) sarebbe la concretizzazione di due ideali neoliberisti: quello di De Soto di una formalizzazione a basso costo della proprietà e quello della decentralizzazione enfatizzata dal Washington Consensus delle IFI, in quanto la formalizzazione sarebbe implementata al livello più decentralizzato possibile. Questa sofisticata legislazione ha proposto un modello di formalizzazione dei diritti consuetudinari sulla terra senza ricorrere a una legge a livello nazionale. Da un punto di vista legale, i diritti consuetudinari di occupazione non sono forme di proprietà o affitto di terra pubblica ma diritti individuali sulla terra di villaggio. Ben presto è diventato chiaro che le procedure di redazione di un VLUP sono troppo complicate e costose per cui è probabile che la loro applicazione continui a un ritmo molto lento. Vi è ormai un’ampia base di dati che mostrano l’inadeguatezza di questo ideale neoliberista nel contesto rurale tanzano e che indicano un aumento delle dispute e dell’accaparramento di terra a seguito della titolazione, per esempio tramite i progetti pilota come Mkurabita e SPILL (Chachage, 2006; LHRC, 2006). Altri studiosi hanno visto nella lenta implementazione dei VLUP una decisione politica deliberata, anche se silenziosa e coperta, volta a rallentare i processi di attribuzione di diritti individuali sulla terra (Stein e Askew, 2009). Ad oggi solo pochi villaggi tanzani hanno un VLUP, non ultimo a causa del costo proibitivo e degli aspetti tecnici relativi alla redazione dei piani, che comportano l’utilizzo di GPS e di satelliti per mappare i confini dei villaggi. Per queste ragioni, redigere un VLUP è possibile solo se si trovano fondi di donatori e i villaggi cercano spesso degli sponsor, in genere agenzie ambientaliste o donatori che possono avere un interesse a risolvere dispute di confine o di altro tipo. Il distretto di Kilombero si segnala rispetto alla media nazionale, poiché 73 villaggi su 97 hanno completato il VLUP alla data di maggio 2014. Due sembrano le ragioni. La prima è connessa alla risoluzione di dispute tra un centinaio di villaggi e un sito RAMSAR;8 per poter definire la disputa tutti 8 I siti RAMSAR sono zone umide di elevato interesse ambientale internazionale, protetti dalla convenzione tenutasi a Ramsar nel 1971 (Ramsar, 1971). Politiche fondiarie e ujamaa in Tanzania 41 i villaggi coinvolti devono ottenere un VLUP. La seconda ragione riguarda lo status di Kilombero come distretto pilota per il SAGCOT,9 un mega-progetto che mira ad attrarre società dell’agribusiness nella Tanzania centrale e meridionale (SAGCOT, 2013). Le compagnie private desiderose di creare grandi aziende agricole nel distretto hanno interesse ad evitare eccessive spese legali e la cattiva pubblicità che spesso risulta da dispute sulla terra con i residenti locali. Fare in modo che il distretto pilota abbia VLUP operativi rende lo stesso distretto una scommessa più affidabile per gli investitori in quanto i VLUP facilitano le operazioni di reinsediamento volontario dei residenti in caso di trasferimenti di terra dai villaggi alle compagnie. Benché gli investitori previsti dal SAGCOT non si siano ancora materializzati a Kilombero, il megaprogetto ha convinto i donatori a finanziare i VLUP del distretto. In conclusione, la rapida realizzazione dei VLUP nel distretto di Kilombero sembra indicare che tali piani trovano più facilmente delle sponsorizzazioni quando sono coinvolti forti interessi di compagnie private, che richiedono una rapida ed efficace formalizzazione della proprietà fondiaria, probabilmente per garantirsi l’esistenza dei prerequisiti legali per i trasferimenti della terra di villaggio. Se i villaggi hanno i VLUP e i Certificati sulla terra le compagnie private che acquistano terra di villaggio possono ottemperare alle condizioni legali richieste per procedere a reinsediamenti dei residenti locali, ed evitare il tipo di dispute ed arbitrati infiniti che costituiscono lo scenario abituale nelle località in cui i confini dei villaggi non sono ben definiti. Appare quindi appropriato porsi la domanda: a che bisogni rispondono i VLUP? Pensati per formalizzare la proprietà della terra della parte più povera della popolazione attraverso registri della terra di villaggio, i VLUP non sembrano mantenere questa promessa. Piuttosto, sembrano offrire la base legale per l’esproprio della terra dei più poveri tra i poveri. Da questo punto di vista, vi è una sostanziale differenza tra la legge e la pratica. La legge che regola i VLUP è chiara circa la priorità di preservare le terre comuni di villaggio. Nel corso dei processi partecipativi per definire i piani di uso della terra ai residenti dei villaggi è chiesto di identificare e demarcare le aree comuni (ardhi ya akiba). Quello che sembra stia avvenendo è che nelle aree di frontiera, dove la scarsità di terra è più acuta, i VLUP saranno attuati a posteriori, ovvero dopo l’avvenuta privatizzazione dei terreni comunitari di villaggio. Molti villaggi dichiareranno di non avere più terreni non assegnati. In zone come queste i VLUP si limiteranno a essere uno strumento per formalizzare la privatizzazione dei terreni comunitari di villaggio. SAGCOT è l’acronimo di Southern Agricultural Growth Corridor of Tanzania (SAGCOT), ovvero Corridoio Meridionale per la Crescita Agricola della Tanzania. 9 42 Elisa Greco 11. Conclusioni Le amministrazioni di villaggio sono molto di più che semplici canali amministrativi volti ad attuare le direttive ministeriali. Le assemblee di villaggio sono potenzialmente degli strumenti di empowerment politico e sociale e, nonostante il fatto che il sistema a due livelli possa essere un mezzo per imporre decisioni verticistiche, le assemblee di villaggio funzionano come spazi di politicizzazione dei residenti rurali. I casi di mobilitazione per la restituzione della terra nelle regioni di Mbeya e Tanga dimostrano che la stessa esistenza delle assemblee di villaggio permette di costruire degli spazi per la politica di base e che esse possono diventare luoghi alternativi per azione collettive e mobilitazioni politiche dal basso. L’ideologia politica manifestata dai rappresentanti locali ruota attorno all’eredità emancipatoria dell’ujamaa: un impegno reiterato verso la promozione della parità di genere, una ferma condanna del tribalismo e della mobilitazione dell’etnicità come strumento politico, e l’idea di una democrazia come partecipazione diretta, fondata sull’azione di base e basata sul dibattito. Allo stesso tempo, le politiche sui terreni di villaggio rispecchiano una società rurale segnata da conflitti di genere e di classe. I terreni di villaggio sono spesso espropriati e ceduti a imprenditori privati, in base a direttive ministeriali che, a livello tecnico, possono aggirare le amministrazioni di villaggio. Qualora le decisioni esecutive prevalgano sullo stato di diritto, andando contro le decisioni prese a livello di villaggio, emergono complesse dispute fondiarie. In molti casi, le amministrazioni di villaggio incoraggiano l’accumulazione primitiva. La limitata autonomia finanziaria dalle amministrazioni centrali incoraggia la corruzione e l’appropriazione indebita di fondi nelle amministrazioni di villaggio, i cui membri in genere non percepiscono un salario e impongo tasse sui residenti per autofinanziarsi. Non si vuole qui idealizzare le amministrazioni di villaggio e la politica di base, ma ricordare che l’esistenza di questo spazio politico dal basso è importante perché rende possibile una partecipazione politica di base e diretta, che spesso porta alla contestazione di direttive autoritarie, alla mobilitazione collettiva e a un dibattito pubblico su questioni riguardanti la giustizia sociale a difesa dei gruppi sociali più vulnerabili. Dopo la fine delle operazioni di reinsediamento forzato, quando la collettivizzazione e la produzione collettiva sono passati in secondo piano, l’ujamaa e la villaggizzazione sono stati liquidati come schemi di ingegneria sociale e come programmi di sviluppo fallimentari. Documentare la politica sulla terra a livello di villaggio può contribuire a riconsiderare alcune eredità politiche e istituziona- Politiche fondiarie e ujamaa in Tanzania 43 li. Senza sottovalutare l’autoritarismo, il dirigismo burocratico e la violenza di stato che hanno caratterizzato il periodo dell’ujamaa, questa riconsiderazione storica risponde a una narrazione dominante che tende a relegare l’ujamaa alla lista delle politiche di sviluppo fallimentari. In Tanzania esiste una continuità storica tra la villaggizzazione e la realtà politica dei villaggi, una realtà che presenta potenzialità per una democratizzazione dal basso. Le istituzioni amministrative e politiche della Tanzania di oggi sono in gran parte un’eredità delle riforme istituzionali introdotte dalla villaggizzazione. Detto ciò, è importante riconoscere anche che esiste una continuità tra l’autoritarismo, la centralizzazione dei processi decisionali e le politiche verticistiche di allora e di oggi. Lo studio della politica di villaggio mostra che i villaggi rurali non sono esattamente dei luoghi in cui le direttive del governo o dei progetti dei donatori internazionali vengono accettate in maniera passiva. Quando si aprono spazi democratici, i villaggi dimostrano di essere luoghi di consapevolezza politica. Questa è una eredità distintiva dell’ujamaa e se anche un tale potenziale democratico rimane spesso non realizzato, questa tratto distintivo della politica di base della Tanzania non deve essere sottovalutato. Questa analisi della politica fondiaria di villaggio ha dimostrato che le dinamiche di classe nelle campagne stanno portando a una crescente e significativa concentrazione di terra. A fronte di questo processo, le amministrazioni di villaggio sono diventate l’ultima istanza di negoziazione sulle acquisizioni di terra. Le loro dinamiche interne riflettono le inevitabili contraddizioni di più ampi processi di cambiamento delle strutture sociali, legate alle dinamiche di genere, etniche e di classe. Queste dinamiche si situano all’interno di dinamiche più ampie e complesse, tipiche del capitalismo contemporaneo, che considera i villaggi della Tanzania come mere località per acquisire terra a poco prezzo a fini speculativi. Riferimenti bibliografici Abrahams R. (1985) (ed.). Villagers, Villages and the State in Modern Tanzania. Cambridge, Cambridge Centre for African Studies. Askew K. (2008). “Les villages tanzaniens ujamaa 40 ans plus tard: moralisation et commémoration du collectivisme”. Anthropologie et Sociétés, 12, pp. 103-132. Askew K. et al. (2013). “Of Land and Legitimacy: a Tale of two Lawsuits”, Africa, 1, pp. 120-141. Benjaminsen T. e Sjaastad T. (2002). “Mathieu versus de Soto: A Comment.” Forum for Development Studies, 1, pp. 89-92. 44 Elisa Greco Benjaminsen, T. et al. 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Introduzione Dopo la firma del Comprehensive Peace Agreement (CPA) tra il governo del Sudan e i ribelli del Sudan People’s Liberation Movement/Army (SPLM/A)1 nel 2005, in Sud Sudan i conflitti locali legati al processo di costruzione dello stato hanno cominciato ad aumentare (Schomerus e Allen, 2010; ACLED, 2015). Durante la guerra civile, i diritti alle risorse naturali dei cittadini del sud erano stati una delle principali rivendicazioni del movimento; di conseguenza, la riforma della terra era diventata una delle priorità dell’SPLM/A come parte della strategia di peacebuilding sostenuta anche dalla comunità internazionale. Pensato per proteggere i gruppi più vulnerabili della popolazione, il riconoscimento legale dei diritti consuetudinari alla terra su base comunitaria ha in realtà intensificato le tensioni tra gruppi etnici e clan, riproducendo qualcosa di simile alle “colonial ethnic homelands” che rendevano la società «leggibile» agli occhi dell’apparato statale (Alexander, 2006), e fornendo una sponda a rivendicazioni identitarie sia su terra urbana che su terra rurale (Guok, 2008a; Schomerus e Allen, 2010; Leonardi, 2013). Questo articolo mette in evidenza il potenziale di conflitto, spesso ignorato, derivante dal riconoscimento dei diritti consuetudinari alla terra su base comunitaria, che crea una corrispondenza tra comunità etniche, controllo del territorio e accesso alla terra. La riforma della terra sembra infatti riprodurre quello che Jean-Pierre Chauveau (1992) ha chiamato «populismo burocratico»: la coesistenza, in politiche e programmi di sviluppo, dell’ideal-tipo legal-razionale che definisce il quadro di azione, con Nel resto dell’articolo, l’SPLM/A sarà spesso citato unicamente come SPLM. Questa scelta è dettata non solo da ragioni di praticità, ma anche dalla volontà di focalizzare l’attenzione sul ramo politico del movimento ribelle. 1 50 Sara de Simone un’attitudine idealistica nei confronti dei valori e delle capacità “locali”. In questo caso, l’attitudine positiva verso il concetto di “comunità locale” rafforza una definizione locale di cittadinanza concepita in termini etnici e approfondisce le cosiddette diseguaglianze orizzontali (Stewart, 2009), aumentando la potenziale competizione violenta sui diritti di accesso alle risorse. La prima parte del saggio esaminerà lo spostamento dell’attenzione dei donatori internazionali da modelli centralizzati di governance a modelli più decentrati, più reattivi alle esigenze del locale, a partire dagli anni ’90 in molti paesi africani (Lentz, 2006; Boone, 2014). Questo spostamento è visibile anche nella governance della terra, dove riforme agrarie che legalizzano i diritti consuetudinari su base comunitaria sono state incoraggiate da donatori internazionali a partire dai primi anni 2000 (Lund e Boone, 2013; Gentili, 2008). Nella seconda parte, si descriveranno le riforme della terra e del governo locale nel Sud Sudan postCPA, evidenziando le discrepanze tra le disposizioni legali, la loro reale applicazione e la percezione comune di cosa significhi la celebre frase del leader storico dell’SPLM/A John Garang che «la terra appartiene alla comunità». Basandosi su alcuni mesi di ricerca sul campo negli Stati di Unity e Lakes, la terza parte proporrà una serie di esempi a sostegno dell’idea che la proprietà consuetudinaria e comunitaria della terra contribuisce a trasformare l’identità etnica in uno strumento di rivendicazione all’accesso alle risorse. 2. La retorica della governance locale in un contesto di state building post-conflitto «Il locale», sostiene S. Berry, «è diventato un termine polivalente, utilizzato per identificare persone, luoghi, istituzioni o pratiche culturali – o tutti questi elementi insieme, sottintendendo la loro coincidenza o intercambiabilità, che spesso non è però confermata nella pratica» (Berry, 2004, p. 82). Questa svolta locale si esprime prima di tutto attraverso la decentralizzazione di funzioni amministrative e di governo nel tentativo di rendere la governance più efficace. Se discorsi sul decentramento avevano cominciato a diffondersi in Africa già a partire dagli anni ’70-’80 in chiave privatistica,2 negli anni ’90 si af2 Negli anni ’70 cominciano infatti ad essere evidenti i fallimenti degli stati centralizzati del periodo post-indipendenza. Il decentramento dunque compare come una strategia finalizzata a ridurre la concentrazione amministrativa e la diseguaglianza tra aree urbane e rurali, in modo da razionalizzare le attività di governo e renderle più efficienti. L’idea era anche che il decentramento avrebbe portato ad una riduzione generale del ruolo dello stato, lasciando spazio alla Terra e diritti locali in Sud Sudan 51 ferma un’idea di decentramento democratico sostenuta da organizzazioni internazionali in paesi beneficiari di aiuti allo sviluppo.3 L’affermazione di questa idea di decentramento era il risultato, da un lato, di dinamiche interne in molti paesi africani, in cui era in corso un’ondata di democratizzazione; dall’altro, di cambiamenti globali che avevano da poco visto la fine della guerra fredda e, con essa, la riduzione del sostegno ufficiale a regimi centralizzati e autoritari da parte dei paesi occidentali (Olowu e Wunsch, 2004). La good governance, che includeva anche riforme di decentramento amministrativo, è diventata prima una condizionalità degli aiuti allo sviluppo, e poi parte integrante nelle “partnership” tra donatori e i paesi riceventi (Crawford e Hartmann, 2008; Harrison, 2001; Abrahamsen, 2004). Tra i primi anni ’90 e la prima metà degli anni 2000, l’UNDP ha sostenuto programmi di decentralizzazione in cento paesi (UNDP, 2004), molti dei quali in Africa subsahariana (Olowu e Wunsch, 2004; Crawford e Hartmann, 2008), cosa che ha spinto C. Lentz a parlare di una vera e propria «dencentralization mania» (Lentz, 2006). Molte altre agenzie hanno sostenuto programmi del genere, che sono stati ben accolti o addirittura richiesti da governi preoccupati di mantenere inalterato il flusso di aiuti allo sviluppo (Esser, 2012). Tuttavia, le riforme di decentramento sostenute da organizzazioni internazionali sono state generalmente animate più dalla ricerca di efficacia ed efficienza amministrativa che da una reale volontà di devolvere potere politico, inteso come la capacità di partecipare ai processi decisionali da parte di gruppi marginali (Samoff, 1990). Ad esempio, un rapporto sul decentramento in Africa preparato da Associates in Rural Development (ARD) Inc. per conto dell’agenzia statunitense di cooperazione internazionale USAID porta l’organizzazione di elezioni sub-nazionali e il trasferimento formale del potere di spesa a testimonianza della effettiva decentralizzazione politica e fiscale, fermandosi dunque ad aspetti procedurali e tecnici senza mai guardare al trasferimento di fatto di poteri.4 “creatività sociale”, idea rafforzatasi poi negli anni ’80 con i Programmi di Aggiustamento Strutturale. È in effetti solo negli anni ’90 che si comincia a parlare di decentramento democratico. 3 Benché simile a quella definita da Rondinelli, Nellis e Cheema (1983) come «devolution», questa forma di decentramento è stata definita «decentramento amministrativo» da Joel Samoff (1990) che ne ha sottolineato l’approccio problem-solving a questioni di efficacia ed efficienza delle funzioni di governo. 4 Associates in Rural Development (ARD) Inc. è stata coinvolta nella riforma della governance locale in Sud Sudan finanziata da USAID. L’impresa è stata assorbita dalla corporation Tetra Tech e dal 2011 opera sotto il nome di ARD Tetra Tech nel settore della governance della terra. Si veda il sito http://www.tetratech.com/en/international-development (15/10/2017). 52 Sara de Simone L’approccio tecnicistico di queste riforme è stato accompagnato da una «tendenza comunitaria» (Darbon, 1998)5 che ha progressivamente posto al centro della retorica sui processi di sviluppo e di sostegno alla partecipazione politica le cosiddette comunità locali, anziché gli individui (Otayek, 2007). Non diversamente da molti altri paesi africani, in Sud Sudan, l’identità locale è spesso espressa in termini etnici e primordiali a causa delle molteplici eredità (coloniale, di guerra, ecc.) che hanno provocato un’etnicizzazione della politica. L’idea di comunità locali riflette la concezione populista di un’entità non chiaramente definita, simile a quella descritta da Harrison nei discorsi della Banca Mondiale a proposito dei «poveri» (Harrison, 2004), che dà per scontata l’omogeneità e l’a-storicità di questi gruppi sociali e lascia spazio alla tentazione di fare affidamento sulle strutture di governo locale pre-esistenti, variamente definite tradizionali o consuetudinarie. Questa tendenza a fare affidamento sulla sfera dei poteri tradizionali o consuetudinari ignora non soltanto la complessità interna delle cosiddette comunità locali, ma anche i processi e le dinamiche che portano alla definizione e alla riproduzione dei confini di queste stesse comunità. Ciò nonostante, a partire dagli anni 2000, le autorità tradizionali sono spesso state coinvolte in programmi di rafforzamento della governance locale negli “stati fragili” sulla base dell’idea che l’inclusione della “comunità” in un sistema di governance partecipativa potesse passare attraverso la tradizione.6 Questa inclusione è avvenuta nell’ambito di riforme di decentramento, grazie alla convinzione che i capi locali potessero garantire un’alternativa sostenibile alla debolezza delle istituzioni statali (Lutz e Linder, 2004; Kyed, 2008). Come illustra Kyed nel caso del Mozambico, le autorità tradizionali sono spesso descritte nei documenti di policy in termini essenzialistici, come se esistessero indipendentemente da qualsiasi altra forma di autorità sociale e politica in quanto espressione di una comunità primordiale. Anche se questa definizione è stata ampiamente discussa e criticata dalla letteratura accademica (Bellagamba e Klute, 2008; Ranger, 1994; Mamdani, 1996; Ranger, Darbon parla di «tendenza comunitaria» con un riferimento all’idea di gruppi titolari di diritti collettivi sviluppatasi in Nord America negli anni ’70 come critica all’individualismo liberale, e caratterizzata dall’accesso a diritti individuali attraverso l’appartenenza a un gruppo. Questa idea, applicata all’Africa post-coloniale, ha portato l’identità etnica in primo piano come principale espressione di identità locale. 6 In realtà, questa «rinascita tradizionale», come è stata definita da Englebert (2002), era cominciata già negli anni ’90, quando diversi stati africani (tra cui Sudafrica, Ghana, Botswana e Uganda) hanno cooptato le autorità tradizionali nei sistemi di governo locale invertendo la tendenza che le aveva per alcuni decenni descritte come residuo di un passato pre-moderno destinato a scomparire (Darbon, 1998; Englebert, 2002). 5 Terra e diritti locali in Sud Sudan 53 2014; Olivier de Sardan, 2010), l’idea di tradizione alla base del rapporto tra i capi e i loro sottoposti resta molto forte nel mondo coinvolto nella produzione di policy (Luntz e Linder, 2004; Prah, 2013). In realtà, una delle questioni più problematiche dell’inclusione dei capi tradizionali nei sistemi di governo locale, oltre alla loro legittimità e tipologia di poteri, è rappresentata dalla definizione della giurisdizione entro la quale essi esercitano i propri poteri. In altre parole, si rende necessario identificare precisamente la “comunità locale” che, attraverso la rappresentanza garantita dall’autorità tradizionale, può prendere parte alla governance locale e alle iniziative di sviluppo, in un contesto in cui essa è spesso definita in termini etnici e in cui, di conseguenza, l’identificazione in un contesto di stato moderno implica necessariamente una sua territorializzazione. 3. Le riforme della terra sostenute dalla comunità internazionale: dalla proprietà privata ai diritti locali Le riforme della governance della terra in Sud Sudan risentono particolarmente di questo tipo di contesto. Esse riflettono una tendenza generale al riconoscimento di diritti consuetudinari su base comunitaria alle popolazioni rurali africane con il sostegno della comunità internazionale impegnata in questo settore per un insieme variegato di ragioni (rafforzamento della sicurezza alimentare, aumento della produttività, difesa dei diritti collettivi di popolazioni marginali, ecc.). Benché non strettamente legato ai programmi di state building, il settore fondiario ha visto un crescente coinvolgimento della comunità internazionale nel corso degli ultimi anni, prendendo una piega coerente con la “svolta locale” più generale che caratterizza gli interventi legati al settore della governance. Nel settore fondiario, questa svolta si esprime attraverso il riconoscimento legale di «diritti locali» attraverso programmi di sostegno alla formulazione di leggi e di policy, nonché attraverso progetti destinati all’educazione civica delle “comunità locali” sulla rivendicazione dei propri diritti. I «diritti locali» sono complessi perché derivano da molteplici fonti di autorità, e sono spesso stati definiti come “fasci” di diritti (bundles of rights) concatenati gli uni agli altri, piuttosto che come diritti singoli. La loro inclusione nella formulazione di policy deriva da una problematizzazione del concetto di sicurezza della proprietà della terra, che per lungo tempo è stato associato all’individualizzazione e alla formalizzazione del titolo di proprietà in una prospettiva modernista (Lavigne Delville, 2010). 54 Sara de Simone In epoca pre-coloniale, nella regione meridionale del Sudan, la terra era amministrata da un sistema flessibile di accordi stagionali tra le popolazioni pastorali e agricole dell’area che regolavano l’accesso ai pascoli e all’acqua. Secondo Francis Mading Deng (1972), tra le popolazioni nilotiche il concetto di proprietà non si applicava alla terra, ma solo al bestiame: l’autorità era esercitata sulla popolazione più che sul territorio, e la terra non era considerata una risorsa scarsa né individuale. Nelle società agricole, l’autorità era più vincolata al territorio: ad esempio, tra gli azande, chiunque risiedesse nell’area sotto la giurisdizione di un capo era tenuto a prestare la propria manodopera come segno di fedeltà verso quel capo (Guttmann, 1956). Con l’avvento del colonialismo britannico, tutte le terre “inutilizzate” sono poi state dichiarate di proprietà del governo. A partire dal 1899, tutte le leggi emanate sull’argomento testimoniavano lo sforzo di imporre un controllo centralizzato sulla terra nelle aree rurali.7 In realtà, però, questo controllo è stato esercitato in alcune aree della zona settentrionale dove la presenza del governo era più forte, rimanendo invece molto relativo nel sud. Qui la gestione della terra è rimasta sotto il controllo dei capi locali, i quali, cooptati ufficialmente nel sistema di governo coloniale attraverso la Southern Policy (1930), hanno in molti casi accresciuto i propri poteri in materia di attribuzione di diritti individuali alla terra ai membri delle loro rispettive comunità (Leonardi, 2013). Il governo post-coloniale del Sudan, così come molti altri governi africani, ha lasciato in gran parte inalterato questo sistema, ereditando la struttura biforcata dello stato: le aree urbane governate in base ai principi burocratici e legali dello stato moderno, le aree rurali lasciate al dominio di una tradizione in gran parte di matrice coloniale (Mamdani, 1996). La gestione della terra ha cominciato ad essere considerata un problema di competenza della comunità internazionale quando, negli anni ’70, la persistente scarsa produttività dell’agricoltura africana ha spinto le grandi organizzazioni internazionali a prendere posizione sulle questioni legate al sistema di proprietà. L’approccio mainstream della Banca Mondiale sosteneva che l’individualizzazione del diritto alla terra e il conseguente rafforzamento della sicurezza della proprietà avrebbe incentivato l’accesso al credito finalizzato a investimenti produttivi. Queste riforme non hanno però portato i risultati sperati in termini di crescita economica, aumentando invece la corruzione e la diseguaglianza interna ai paesi, e creando un numero sempre cre7 Titles of Land Ordinance, 1899; Land Acquisition Ordinance, 1903; Land Settlement Ordinance, 1905; Land Resettlement and Registration Act, 1925; Land Acquisition Act, 1930. Terra e diritti locali in Sud Sudan 55 scente di società contadine escluse dalla proprietà e dall’accesso alla terra a causa del loro limitato potere d’acquisto (Berman, 1998; Gentili, 2008; Zamponi, 2011). Nel tentativo di invertire questa tendenza, negli anni ’90 e 2000 l’attenzione delle organizzazioni internazionali si è spostata verso i «diritti locali» (Lavigne Delville, 2010) e verso forme di governance più inclusive sia nelle strutture di governo locale che nelle politiche di gestione della terra. La spinta al decentramento e la riemersione delle autorità tradizionali coloniali, descritte nel paragrafo precedente, ha coinvolto anche il settore fondiario e a molti capi locali sono stati attribuiti poteri specifici sulla terra (Cotula et al., 2004; sulle autorità tradizionali in Africa si vedano anche: Berman e Lonsdale, 1992; Ranger, 1994; Mamdani, 1996; Leonardi, 2013). La cooptazione delle autorità tradizionali nello stato decentrato e il riconoscimento della proprietà consuetudinaria su base comunitaria possono dunque essere considerati come due facce della stessa tendenza «neoconsuetudinaria» (Boone, 2014). Questa tendenza influenza particolarmente la formulazione di politiche e il processo di institution-building in paesi post-conflitto beneficiari di aiuti internazionali, in un contesto in cui lo sviluppo locale viene sempre più considerato come un “dividendo della pace” necessario per mitigare i potenziali effetti destabilizzanti della povertà (Duffield, 2001). Una ricerca commissionata dalla Banca Mondiale sulle politiche di gestione della terra utili per la riduzione della povertà nel 2003 notava che il 90% della terra africana è amministrata attraverso sistemi consuetudinari. Questi sistemi vengono descritti come efficaci ed equi nell’allocazione della terra, capaci di garantire la sussistenza delle popolazioni rurali e allo stesso tempo di incentivare investimenti e crescita economica per la riduzione della povertà (World Bank, 2003). Un paio d’anni dopo, uno studio condotto da un esperto internazionale di politiche sulla terra per conto della FAO ha confermato questa apertura verso il riconoscimento della proprietà consuetudinaria della terra nelle aree rurali, rendendola il nuovo approccio mainstream delle agenzie di sviluppo internazionali (Odhiambo, 2006). I sistemi consuetudinari garantirebbero infatti una maggiore efficacia ed equità nell’allocazione della terra, in un modo funzionale alla riduzione della povertà: non soltanto renderebbero più stabili le strategie di sussistenza delle popolazioni locali, ma garantirebbero loro anche un coinvolgimento diretto in eventuali investimenti. Anche se non risolvono il problema della sicurezza della proprietà di per sé che, secondo questo approccio, rimane comunque la precondizione necessaria alla riduzione della povertà e alla crescita economica, questi sistemi spostano il potere decisionale sull’allocazione di terra dalle burocrazie statali alle autorità consuetudinarie, considerate di gran lunga più legittime. 56 Sara de Simone Tuttavia, nonostante i suoi presunti effetti benefici per le popolazioni locali, la legalizzazione dei diritti consuetudinari alla terra su base comunitaria apre tutta una serie di problematicità che Paulina Peters ha sintetizzato con una domanda: «chi è locale?» (Peters, 1996). Essa si basa sull’idea di comunità omogenee e senza conflitti, con interessi, istituzioni e regole interne condivise (Berry, 2004). Tuttavia, la presunta autenticità dei sistemi consuetudinari, così come delle tradizioni, è stata messa in discussione da vari studiosi che ne hanno sottolineato la storicità (Ranger, 1994; Mamdani, 1996). Mamdani (1996, p. 22) ha parlato, ad esempio, di un «costrutto ideologico» utilizzato dai governi coloniali alla ricerca di punti di riferimento su cui edificare il proprio sistema di governo locale. I sistemi di autorità tradizionali sono dunque stati riprodotti e reinventati dai governi fino ad oggi, sempre a partire dall’idea che esistesse un gruppo di persone che condivide un sistema di regolazione sociale comune, a-conflittuale e pre-moderno, che è sopravvissuto, nonostante alcune ovvie modifiche, da un imprecisato passato lontano. Nel tentativo di armonizzare sistemi legali consuetudinari con un sistema di governo “moderno”, si è occasionalmente cercato di codificare selettivamente i principi del diritto consuetudinario per poter escludere quegli aspetti considerati inaccettabili dal punto di vista dell’inclusività e dell’uguaglianza (De Wit et al., 2009). Altri autori hanno anche messo in guardia contro il carattere esclusivo di un sistema che considera l’appartenenza ad una comunità particolare come fonte del diritto alla terra (Odhiambo, 2006; Cotula et al., 2004; Knight, 2010; USAID, 2012; McAuslan, 2007). Tuttavia, grazie alla loro supposta flessibilità, i sistemi consuetudinari di proprietà della terra hanno cominciato ad essere riconosciuti legalmente come una buona combinazione di economia neoliberista, basata su investimenti privati e titoli di proprietà trasferibili, e preoccupazioni “sociali” delle comunità locali: tra il 2002 e il 2013, venti paesi africani hanno riconosciuto ufficialmente il sistema consuetudinario di proprietà della terra nei loro ordinamenti giuridici.8 Il riconoscimento legale dei diritti consuetudinari alla terra rende però necessaria la demarcazione dei confini della terra comunitaria, organizzando e formalizzando la composizione delle comunità (Byamugisha, 2013), in modo da evitare, o almeno regolare, lo sconfinamento di “outsiders” sulla terra comunitaria di altri gruppi. Secondo C. Lentz (2011), la territorializzazione delle comunità è una conseguenza «naturale» della creazione e del 8 Si veda il sito della Banca Mondiale http://www.worldbank.org/en/news/pressrelease/2013/07/22/how-africa-can-transform-land-tenure-revolutionize-agriculture-endpoverty (25/10/2014). Terra e diritti locali in Sud Sudan 57 funzionamento dello stato moderno, dove il godimento di pieni diritti di cittadinanza è soggetto al radicamento dell’individuo in un luogo particolare. Tuttavia, alla difficoltà di realizzare questo obiettivo sulla base di una presunta appartenenza identitaria che trascende il semplice criterio geografico si aggiunge anche la criticità, tipica di contesti post-bellici come quello sud sudanese, rappresentata dalla una forte mobilità causata dalla guerra. 4. Due riforme intrecciate nel Sud Sudan “post-conflitto”: terra e governo locale Il Sud Sudan è diventato uno stato indipendente il 9 luglio 2011 dopo una guerra civile durata ventidue anni tra il governo di Khartoum e l’SPLM/A. L’indipendenza è scaturita da un processo di pace durato sei anni a partire dalla firma del CPA nel 2005, e da un referendum tenuto nel 2011 nel quale il 98,8% della popolazione meridionale ha votato a favore della secessione dal Sudan. Dal 2005 al 2011, la regione è stata amministrata da un governo semi-autonomo. L’SPLM, diventato partito di governo, aveva combattuto tutta la guerra civile denunciando la marginalizzazione politica ed economica dei sud sudanesi e rivendicando l’autogoverno (self-rule). La retorica dell’autogoverno era anche una strategia per tenere insieme le numerose fazioni militari all’interno del movimento stesso, promettendo di “sistemare” i loro leader all’interno dello spazio politico per evitare che le loro rivendicazioni minacciassero la pace (de Waal, 2014; Lacher, 2012). Fin dalla sua nascita, nel 1983, l’SPLM/A non era mai stato un movimento ribelle coeso. Nel 1991, una scissione particolarmente rovinosa tra la fazione principale, guidata da John Garang, e un gruppo minoritario guidato da Riek Machar, ha contribuito alla sua ulteriore frammentazione e ad una maggiore etnicizzazione delle sue varie componenti. Le identità etniche di Garang e di Machar, rispettivamente dinka e nuer, hanno permesso loro di utilizzare i propri gruppi di origine come bacini di reclutamento per combattere la loro faida.9 Questa linea di faglia etnica non era netta, e nuer e dinka hanno anche avuto numerose guerre intestine tra sezioni e clan che hanno provocato una drammatica politicizzazione e militarizzazione dell’identità etnica (Jok e Hutchinson, 1999). La violenza intercomunitaria è diventata una caratteristica costante della guerra negli anni ’90 (Johnson, 2003; Young, 2006; Human Rights La stessa dinamica si è riproposta nell’attuale scontro tra il Governo del Sud Sudan e l’SPLM-In-Opposition guidato da Riek Machar, cominciato a dicembre 2013. 9 58 Sara de Simone Watch, 2003), perpetrata spesso da milizie alleate col governo di Khartoum in chiave anti-SPLM/A, le quali non sono comunque riuscite a provocare la sconfitta militare del movimento ribelle. Di fronte ad uno sforzo bellico che si prolungava nel tempo, ad un costante aumento degli attori militari impegnati nella guerra e alla necessità di controllare porzioni crescenti di territorio, l’SPLM istituì l’Autorità Civile del Nuovo Sudan (CANS) per radicarsi maggiormente sul territorio e mostrare il proprio impegno alla creazione di un sistema di governo civile e democratico e attirare così maggiori simpatie internazionali rispetto alle altre milizie attive nella regione (Rolandsen, 2005). Il territorio controllato dall’SPLM fu dunque diviso in unità amministrative organizzate gerarchicamente in contee, payam (distretti) e boma (villaggi), che grosso modo riflettevano le divisioni territoriali delle “aree d’origine” dei gruppi etnici identificate dagli inglesi. In realtà, l’assenza di mappe affidabili ha lasciato la definizione di questi confini a storie orali spesso contraddittorie, che hanno a loro volta lasciato ampio spazio all’SPLM per la manipolazione delle testimonianze per fini politici e militari. Amministratori civili dell’SPLM furono nominati a tutti i livelli del nuovo governo. Nonostante ciò, i capi locali sono rimasti gli attori principali in grado non soltanto di mediare tra il movimento ribelle, alla costante ricerca di tasse e reclute, e le comunità locali, ma anche di risolvere le controversie attraverso tre livelli di corti consuetudinarie (Leonardi et al., 2010; Leonardi, 2013). L’amministrazione della terra costituiva una parte importante delle loro responsabilità, e i racconti dei sud sudanesi sullo sfollamento della popolazione dalle aree di conflitto sono pieni di aneddoti sugli accordi tra capi tradizionali per il reinsediamento delle comunità sfollate in aree considerate sotto il controllo di altre comunità, oppure di individui che chiedevano ospitalità al capo di una certa area dove volevano stabilirsi pur non essendo quella che tradizionalmente “apparteneva” alla loro comunità di origine.10 Nonostante la creazione di tre livelli di corti militari dell’SPLM con una funzione di appello, le dispute sulla terra rimanevano confinate alla sfera del diritto consuetudinario (Mampilly, 2007). Come durante il colonialismo, l’accesso e l’utilizzo della terra erano concessi sulla base dell’appartenenza a una comunità etnica legata a un territorio specifico. L’appartenenza etnica era dunque il principale canale attraverso cui era possibile accedere alla terra sia a livello collettivo che individuale (Branch e Mampilly, 2005). 10 Intervista collettiva con gli abitanti di Mankien, Contea di Mayom (stato di Unity), e Turalei, contea di Twic (stato di Warrap), novembre 2010; intervista a Daniel Mangal Ayod, amministratore del payam di Geng-Geng, Yirol, 05/12/2013; intervista collettiva ai capi della Corte Regionale di Watchabath, Yirol, 04/12/2013. Terra e diritti locali in Sud Sudan 59 A settembre 2004, quando la fine della guerra era ormai vicina e le questioni relative al reinsediamento degli sfollati cominciavano ad essere all’ordine del giorno, un workshop consultivo sulle politiche della terra riunì a Nairobi rappresentanti dell’SPLM, della FAO, di USAID, e delle ONG Pact e Norwegian People’s Aid (NPA) per discutere della formulazione di una land policy che avrebbe dovuto riconoscere i diritti consuetudinari alla terra della popolazione nelle proprie “aree d’origine”. Un rapporto commissionato dalla FAO suggeriva inoltre di formalizzare la sovrapposizione tra le unità amministrative della CANS e le aree controllate e gestite dalle autorità tradizionali in base al diritto consuetudinario: «Nel contesto dell’accesso alla terra, le “aree d’origine” corrispondono con i territori amministrati sotto il diritto consuetudinario che grossomodo coincidono con il territorio del payam. Le istituzioni consuetudinarie locali regolano l’accesso, il possesso e il trasferimento di terra» (De Wit, 2004, p. 26). Il ruolo delle autorità tradizionali nella gestione della terra era anche enfatizzato da John Garang, il quale, nel 2004, aveva ringraziato i capi per il loro sostegno all’SPLM durante la guerra, incoraggiandoli ad assumersi la responsabilità su: «possesso e proprietà della terra e delle altre risorse appartenenti alle rispettive comunità» (SPLM, 2004, art. 12). La rivendicazione di self-rule e l’affermazione che «la terra appartiene alla comunità»11 sono poi diventate due componenti fondamentali delle rivendicazioni dell’SPLM in sede di colloqui di pace a Naivasha. Dopo la firma del CPA e la creazione del governo regionale del Sud Sudan, le strutture decentrate di governo della CANS si sono fuse con il livello sub-nazionale di governo degli stati, che erano stati introdotti dal governo di Khartoum alcuni anni prima. Gli stati sono dunque diventati un livello di governo intermedio tra il Governo del Sud Sudan e il governo locale, non soltanto per assicurare la massima indipendenza possibile dal governo del nord, ma anche per rispettare l’enfasi sull’autogoverno delle comunità.12 Il Local Government Act (LGA), approvato nel 2009, definisce i Consigli di Gover11 Questa frase è stata inserita nel Land Act (2009) e nella Bozza di Land Policy (2015) nella forma: «la terra appartiene al popolo», eliminando il riferimento alla comunità generalmente definita in termini etnici, in modo da rendere il principio meno “divisivo”, su pressione degli attori internazionali coinvolti nel processo (intervista a Robert Ladu Luki, Presidente della South Sudan Land Commission, Juba, 05/11/2013; conversazione con un consulente internazionale, 2015). 12 La struttura di governo è inoltre enunciata in uno dei protocolli del CPA, nella Interim Constitution of Southern Sudan (2005), nella Local Government Framework (2006) e nella Transitional Constitution of the Republic of South Sudan (2011). 60 Sara de Simone no Locale, come «governi della comunità che esistono al livello di governo più vicino alla popolazione» (art. 6), col compito di prendere decisioni sull’amministrazione delle risorse locali inclusa la terra. Il Land Act, approvato lo stesso anno con il supporto della FAO, di NPA, del Norwegian Refugee Council, del Dipartimento dell’Agricoltura degli Stati Uniti, della Commissione Europea, dell’UNHCR e di ARD Tetra Tech, ha confermato il riconoscimento della proprietà comunitaria e del diritto consuetudinario nella gestione della terra (McMichael, 2010). Sia il LGA che il Land Act prevedono un sistema di governance duale che differenzia tra amministrazione delle aree urbane e delle aree rurali, con queste ultime poste sotto un regime di amministrazione consuetudinaria (Land Act 2009, artt.9, 10, 11, 12, 15, 16; Local Government Act 2009, art.19; Draft Land Policy 2014, art. 4.1). A livello di boma, l’unità più piccola nelle aree rurali, le funzioni amministrative dello stato sono delegate ai capi locali in quanto essi esercitano «poteri deconcentrati nello svolgimento di funzioni esecutive a livello di governo locale all’interno delle loro rispettive giurisdizioni» (LGA, 2009, art. 114). Il boma è considerato come «il dominio principale dell’autorità tradizionale dove i leader tradizionali svolgono le loro funzioni amministrative e consuetudinarie» (art. 19). I capi rappresentano «l’autorità tradizionale della comunità attraverso cui la popolazione si auto-governa» (art. 114). Il territorio governato dal capo si trova all’interno del territorio del Consiglio di Governo Locale, ed è diviso in una serie di altre unità consuetudinarie organizzate in modo gerarchico i cui leader «sono eletti sulla base dei sistemi elettorali convenzionali o selezionati sulla base di pratiche tradizionali (…)» (art. 117). In accordo con il Rapporto della FAO del 2004, le istituzioni statutarie hanno un ruolo più importante nelle aree urbane. Amministratori di block nominati dall’esecutivo e Consigli di quarter eletti dai residenti dovrebbero sostituire completamente i capi locali (ai quali resterebbero funzioni giudiziarie solamente nelle aree urbane più piccole, i Town Council), sottraendo alla comunità etnica il “possesso” dell’unità amministrativa in questione che è invece controllata dallo stato (Mennen, 2012). Tuttavia, in tutti i casi in cui le municipalità sono state istituite a partire dal 2013, le autorità tradizionali sono state comunque cooptate nel sistema di governo locale in mancanza di personale qualificato e di fondi per retribuire altri funzionari governativi.13 L’applicazione del LGA nelle aree urbane tuttavia è molto variabile e spesso incoerente col testo della legge. Nella città di Bentiu, ad esempio, nel 2013 non esistevano amministratori di block nominati dall’esecutivo del governo locale (che era formalmente ancora un Rural 13 Terra e diritti locali in Sud Sudan 61 L’enfasi dell’SPLM sull’autogoverno, unita alla tendenza «neoconsuetudinaria» (Boone, 2014) nel processo di elaborazione delle politiche a livello internazionale, ha contribuito a dare al concetto di comunità un ruolo centrale nelle riforme della governance locale, identificando la comunità come l’unità fondamentale della società rurale e influenzando l’approccio di gestione delle risorse naturali. Il Land Act prevede tre regimi di proprietà della terra: pubblica, comunitaria e privata. Il regime di proprietà pubblica consiste nella terra «posseduta collettivamente da tutta la popolazione del Sud Sudan e affidata al livello appropriato di governo» (Land Act, 2009. art.10). Sia il Land Act che il LGA distribuiscono l’autorità sulla terra pubblica tra diverse istituzioni a vari livelli di governo, inclusi contee e payam. Il regime di proprietà comunitaria è riconosciuto nelle aree rurali attraverso il sistema di diritto consuetudinario: «Le autorità tradizionali in una comunità specifica possono allocare diritti consuetudinari alla terra per finalità residenziali, agricole, forestali e di pascolo» (Land Act, 2009, art.15). Nelle aree urbane, invece, i titoli di proprietà della terra sono generalmente individuali (regime di proprietà privata): la terra viene mappata e demarcata dai ministeri delle Infrastrutture degli Stati attraverso dei meccanismi di esproprio e compensazione determinati a livello di ciascuno stato attraverso una negoziazione ad hoc con i leader delle comunità vittime dell’esproprio.14 Questi due regimi di proprietà fanno riferimento a diversi principi di diritto alla terra. Il regime di proprietà comunitaria si basa sull’autoctonia e su un’idea di identità primordiale basata sull’esistenza di antenati comuni. I diritti alla terra degli individui dipendono dall’appartenenza ad una specifica comunità, e le dispute sono principalmente affrontate attraverso il lavoro delle corti tradizionali. Il regime di proprietà privata individuale, nelle aree urbane controllate dallo stato, garantisce l’accesso individuale alla terra attraverso meccanismi di mercato: chi riesce a far fronte alle tariffe richieste per accedere ai lotti demarcati dal ministero, può ottenere un pezzo di terra senza bisogno di dimostrare la propria appartenenza ad una comunità specifica (Boone, 2014). La distinzione tra i due regimi di proprietà della terra, tuttavia, sembra essere piuttosto problematica in Sud Sudan, dove aree urbane estremamente Council) ma “block leaders” che venivano eletti dagli abitanti. Visite alle città di Bentiu e Rumbek condotte nel 2013; visite alle Municipalità di Yei, Yambio, Torit e Juba condotte nel 2016. 14 Intervista a William Garjang Gieng, Commissario della Contea di Rubkhona, Bentiu, 06/02/2013; conversazione con un attivista della società civile contro gli espropri, Bentiu, novembre 2013. 62 Sara de Simone limitate si stanno espandendo rapidamente e caoticamente. La frontiera tra le aree urbane e quelle rurali è confusa: a causa dell’altissima mobilità provocata dalla guerra e dall’insicurezza che ha continuato a caratterizzare la regione anche nel dopoguerra, molti gruppi cercano di sistemarsi nelle zone peri-urbane per garantirsi un migliore accesso ai privilegi che derivano dalla vita in città. Questi privilegi, come ad esempio la maggiore disponibilità di servizi pubblici, opportunità di lavoro nell’economia formale e maggiore visibilità a chi distribuisce le risorse (in primis le ONG), derivano proprio dall’essere «vicino allo Stato».15 Nonostante la teorica biforcazione introdotta dal quadro legislativo sud sudanese che disciplina la governance locale, in realtà, la debolezza delle istituzioni amministrative dello stato spesso lascia spazio a rivendicazioni avanzate da “comunità locali” anche sulla terra urbana.16 Il concetto di comunità ritorna in molti documenti ufficiali e testi di legge sud sudanesi. Il Land Act fornisce una definizione molto vaga di comunità locale come di «un gruppo di famiglie o individui che vivono in un’area territoriale circoscritta a livello di località, che hanno un interesse comune nella protezione dell’area abitativa, agricola, sia coltivata che non, forestale, colturale, di pascolo e di espansione» (Land Act, 2009, art.4). Allo stesso tempo, il LGA la definisce come il gruppo che esprime l’autorità tradizionale sulla base di consuetudini e tradizioni condivise, e definisce il boma come l’area dove vive il clan, definendo dunque una corrispondenza tra i tre livelli di chieftainship e le unità amministrative locali (contee, payam e boma) (LGA, 2009, art. 115). Anche se questa corrispondenza non è esplicita, in pratica le “comunità” sono spesso identificate con il territorio di unità amministrative o di governo locale in diverse aree del paese.17 Per dirla con un funzionario del Ministero dell’Agricoltura dello stato di Unity: «La terra appartiene alla 15 Cherry Leonardi usa questa espressione per descrivere come, fin dall’epoca coloniale, molti capi preferissero risiedere vicino agli uffici governativi, considerati il simbolo del potere distributivo dello stato (Leonardi, 2013, p. 197). Questa espressione è inoltre stata usata molto spesso dai miei interlocutori parlando della scelta di risiedere in città piuttosto che nelle aree rurali. 16 Ad esempio, la pratica di vendere lo stesso lotto urbano a più acquirenti lascia coloro che non hanno una protezione forte nelle istituzioni governative dello stato in balìa di decisioni arbitrarie che di solito favoriscono i membri della comunità a cui la terra su cui sorge la città apparteneva tradizionalmente. 17 Intervista a Issa Ali, Direttore Generale nel Ministero dell’Agricoltura e delle Risorse Forestali, Unity State. Bentiu, 05/03/2013; intervista a Peter Dak Khan, Membro dell’Assemblea Legislativa dello Stato di Unity, Bentiu 08/02/2013; intervista collettiva con i capi della Corte Regionale di Watchabath, Yirol, 04/12/2013. Terra e diritti locali in Sud Sudan 63 comunità significa che le nove contee [dello stato di Unity] appartengono ai nove clan nuer».18 Questo significa che gli “esterni” sono esclusi dall’allocazione di terra nelle aree considerate come di proprietà di un’altra comunità, i cui membri sono generalmente favoriti anche nella risoluzione delle dispute, a volte anche in contraddizione con la legge (Mennen, 2012). 5. Dispute di confine, tra espansionismo e tentativi di omogeneità etnica A giudicare dalla documentazione coloniale disponibile, le dispute sulla terra non legate all’accesso ai pascoli e all’acqua appaiono un fenomeno piuttosto recente (Leonardi, 2013). Si tratta in effetti di un fenomeno che sembra essersi sviluppato dopo il CPA a causa della formalizzazione di una struttura di governo locale territorializzata col potere di distribuire risorse, a fronte di una situazione caratterizzata da grandi masse di sfollati interni (Guok, 2008a; Schomerus e Allen, 2010; Leonardi, 2013). Queste dispute sono aumentate durante il primo censimento condotto nel 2008 dopo la fine della guerra, cosa che le collega ancora di più alla creazione della struttura di uno stato moderno (Lentz, 2006). Secondo David Koak Guok, presidente del Local Government Board, l’istituzione di nuovi payam e la definizione delle aree di enumerazione per il censimento avrebbe provocato nuovi conflitti, perché le persone «avevano paura di essere divise o mescolate ad altre persone con cui non volevano essere contate» (Guok, 2008a). Poiché le comunità venivano identificate come proprietarie della terra che occupavano, molte dispute sulla terra hanno cominciato a prendere la forma di dispute di confine.19 La sovrapposizione dei confini delle comunità etniche con quelle delle unità amministrative locali trasforma questi confini nell’oggetto di conflitti che riguardano in realtà l’accesso alle risorse. Come testimonia la riorganizzazione del governo locale con l’istituzione di 28 stati sancita da un decreto presidenziale a dicembre 2015,20 l’idea di creare unità amministrative omo18 Intervista a Issa Ali, Direttore Generale nel Ministero dell’Agricoltura e delle Risorse Forestali, Unity State. Bentiu, 05/03/2013. 19 Intervista a Marial Amoum Malek, membro dell’Assemblea Legislativa dello stato di Lakes, presidente del Comitato per il Governo Locale. Rumbek, 6/12/2013; conversazione con staff di UNDP, Juba, novembre 2013. Si veda anche Guok, 2008b. 20 La decisione, presa unilateralmente dal presidente Salva Kiir, rappresenta una violazione dell’accordo di pace firmato ad agosto 2015 ad Addis Abeba con il capo dell’opposizione armata Riek Machar, ma da più parti è stata descritta come una mossa motivata da interessi “etnici” (Mayai et al. 2015; Radio Tamazuj 2015). 64 Sara de Simone genee è molto diffusa tra i membri dell’elite politica a tutti i livelli, i quali insistono sulla necessità di questo tipo di organizzazione territoriale per rispettare il diritto all’autogoverno.21 In realtà, la realizzazione di un progetto del genere non è solo estremamente complicata, ma anche causa di una serie di nuovi conflitti a tutti i livelli di governo e di amministrazione, la cui natura violenta sembra essere direttamente collegata al livello a cui si sviluppano: più è elevato il livello, più violento sarà il conflitto perché maggiori risorse saranno in gioco.22 6. Dispute di confine nelle aree rurali: il caso di Manga, stato di Unity Lo stato di Unity, un’area ricca di petrolio abitata da circa 590.000 persone (South Sudan National Bureau of Statistics, 2011) nella regione settentrionale del Sud Sudan, a cavallo tra l’Upper Nile e il Bahr el Ghazal, è una delle aree in cui le divisioni etniche sono state particolarmente tese. Abitato da una maggioranza nuer, esso è suddiviso in nove contee, due delle quali sono considerate “contee dinka”, mentre le altre “appartengono” a sette sezioni nuer. Durante la guerra civile, la maggior parte delle zone nuer erano diventate roccaforti del gruppo scissionista dell’SPLM guidato da Riek Machar e di altre milizie nuer. Sebbene il governo del Sudan non avesse mai perso il controllo della capitale Bentiu, nel 2005 Taban Deng Gai, un comandante di zona nuer jikany fedele a Riek Machar, è stato nominato governatore e confermato al potere nelle elezioni di aprile 2010. Poiché la percezione della sovrapposizione tra comunità e contee è molto forte nello stato di Unity, diverse dispute di confine si sono sviluppate sia nelle aree rurali che in quelle urbane, e le contee vengono spesso accusate di “sconfinare” sul territorio di altre contee. Le narrazioni di queste dispute si concentrano su diversi elementi come rivendicazioni di autoctonia, accesso alle risorse, interpretazioni scorrette del diritto consuetudinario. Voci diffuse suggeriscono anche una tendenza espansionistica della contea nuer jikany alimentata dal governatore. Un esempio interessante a questo proposito è il caso di Manga, area contesa tra le contee di Guit e Pariang, la prima “appartenente” ai nuer jikany, la seconda ai ruweng dinka. Manga è una regione mol21 Intervista a Ezechiel Thiang, consigliere per la pace e la sicurezza del governatore dello stato di Lakes, Rumbek, 07/12/2013; Peter Dak Khan, membro dell’Assemblea Legislativa dello stato di Unity, Bentiu, 08/02/2013; William Garjang Gieng, Commissario della Contea di Rubkhona, Bentiu, 06/02/2013. 22 Intervista a Nikodemo Arou Man, membro del Local Government Board, Juba, 23/10/2013. Terra e diritti locali in Sud Sudan 65 to fertile situata sulla sponda settentrionale del fiume Naam (Bahr el Ghazal) a circa 40 km da Bentiu. Secondo alcuni interlocutori dinka, la zona veniva chiamata Minyang e apparteneva ai ruweng dinka che la utilizzavano come area di pascolo e di pesca.23 Quando l’SPLM ha istituito la CANS, durante la guerra, l’area è stata dichiarata un boma e posta sotto la giurisdizione del payam di Nyeel, nella contea di Pariang nonostante non vi fossero insediamenti permanenti. Il nome corrente è stato imposto durante la guerra dagli “arabi” (l’esercito nord sudanese) e dai loro “alleati nuer”.24 Durante la guerra, una parte della comunità jikani, sfollata dagli scontri armati, è arrivata nella zona e, poiché a Manga non c’era nessun insediamento dinka permanente, ha ricevuto il permesso di insediarvisi attraverso un accordo consuetudinario senza grosse frizioni con la comunità dinka.25 Tuttavia, quando la guerra è finita, i nuer jikani non hanno lasciato Manga. Al contrario, il loro numero ha cominciato a crescere. Secondo l’amministratore di payam di Nyeel: Durante il censimento [nel 2008] i nuer che vivevano lì sono stati contati lì, quindi ci appartengono. Dovrebbero essere considerati una minoranza nuer in un’area dinka, ma non vogliono. Durante la guerra, i dinka di Pariang erano pochi, quindi non c’erano problemi con i nuer. I nuer vivevano nell’area di Manga, ma dopo la guerra si sono rifiutati di andarsene. 26 Secondo quanto riportato da vari interlocutori, il governatore avrebbe incoraggiato l’insediamento di nuer jikani fin dal 2006 e reso più visibile il suo controllo dell’area attraverso la costruzione di una grande casa per la sua famiglia, l’avviamento di un’azienda agricola, e la negoziazione unilaterale di un accordo di leasing con un’impresa australiana che paga un affitto direttamente al governo dello stato (senza passare attraverso il governo locale e senza nessuna considerazione per le rivendicazioni di proprietà consuetudinaria della terra) (Deng, 2011).27 Dalla fine del 2009, Manga è stata annessa 23 Intervista a Peter Makuaj, membro dell’Assemblea Legislativa dello stato di Unity, Bentiu, 08/02/2013; Elijah Wal Chol, vice-amministratore del payam di Nyel, Pariang County, 25/02/2013. 24 Negli anni ’90, la fazione SPLM di Riek Machar e altre milizie nuer si sono alleate con il governo di Khartoum per combattere l’SPLM e mantenere il controllo dei pozzi di petrolio nella zona degli attuali stati di Unity e di Upper Nile. La contea di Pariang è invece rimasta in gran parte sotto il controllo dell’SPLM. 25 Intervista a Elijah Wal Chol, vice-amministratore del payam di Nyel, Pariang County, 25/02/2013. 26 Ibidem. 27 Questa situazione è stata confermata anche nel corso di una conversazione privata con attivisti della società civile a Bentiu nel 2013. 66 Sara de Simone dalla contea di Guit attraverso la pratica di estrazione fiscale da parte dei suoi esattori che hanno cominciato a tassare le barche che transitavano sul fiume.28 Le tensioni tra le due comunità sono aumentate sotto forma di razzie di bestiame reciproche, mentre una serie di petizioni scritte da individui residenti all’estero che si autodefiniscono appartenenti alla comunità ruweng denunciavano lo sconfinamento della contea di Guit sul territorio di Pariang. Il riferimento al diritto consuetudinario non è però utilizzato unicamente dalla “parte lesa” di questa vicenda: nel ripercorrere gli eventi storici, anche individui che si identificano in quanto membri della comunità di Guit fanno spesso riferimento alla violazione di accordi consuetudinari e della proprietà comunitaria dell’area. Un membro del parlamento dello stato di Unity originario di Guit, per esempio, racconta la storia di suo nonno, un nuer jikany che era nato a Manga, come prova del diritto consuetudinario dei jikani a risiedere nell’area.29 Se l’appoggio del governatore, vero o presunto, avrebbe potuto rendere meno necessario il ricorso al passato come strumento di giustificazione delle rivendicazioni sulla terra della comunità jikany, esso è comunque sempre invocato, per quanto in forma meno definita rispetto a quello fatto di date ed eventi storici dei membri della comunità dinka ruweng. 7. Dispute di confine nelle aree urbane e accesso individuale alla terra: esempi da Bentiu e Rumbek Anche se la maggior parte della popolazione sud sudanese risiede ancora nelle aree rurali, le zone urbane vivono una crescita rapida e disordinata che rende la proprietà della terra nelle aree peri-urbane particolarmente importante. Situazioni simili a quella descritta a Manga si verificano anche nelle aree urbane, nonostante esse siano teoricamente amministrate da un regime che privilegia un sistema burocratizzato di accesso alla terra a discapito delle rivendicazioni di autoctonia su cui si basa il diritto consuetudinario. In realtà, il processo di demarcazione e mappatura come strumento di trasformazione della terra da rurale a urbana non è regolamentato né nel Land Act, né nella Intervista a Peter Makuaj, membro dell’Assemblea Legislativa dello stato di Unity, Bentiu, 08/02/2013; Elijah Wal Chol, vice-amministratore del payam di Nyel, Pariang County, 25/02/2013; John Kawais, membro dell’Assemblea Legislativa dello stato di Unity, Bentiu, 08/02/2013; conversazione personale con un attivista della società civile della contea di Pariang. 29 Intervista a John Kawais, membro dell’Assemblea Legislativa dello stato di Unity, Bentiu, 08/02/2013. 28 Terra e diritti locali in Sud Sudan 67 bozza di Land Policy. Si tratta più che altro di una prassi che prevede un certo livello di negoziazione con le autorità tradizionali della comunità che è identificata come proprietaria della terra in base al diritto consuetudinario, arrivando ad accordi che generalmente prevedono la concessione di lotti edificabili gratuiti ai membri di quella specifica comunità. Anche dove la terra è stata sottoposta al processo di mappatura e demarcazione, i sistemi di amministrazione appaiono molto più ibridi di quanto previsto dalle leggi, e contribuiscono a tenere nella sfera collettiva anche le rivendicazioni sulla terra urbana. In aree dove queste rivendicazioni possono essere supportate da narrazioni competitive sull’autoctonia di diversi gruppi, come a Bentiu, esse sono rinforzate dall’appoggio di politici ed esponenti dell’elite locale. La mancata implementazione di alcune parti del Land Act, come ad esempio la creazione di Consigli di Città non etnici, spesso dipende dalla volontà di tenere la terra urbana sotto il controllo comunitario, dove l’accesso alla terra è più facilmente negoziabile senza l’interferenza del governo centrale. A Bentiu, il processo di mappatura e demarcazione dei lotti abitativi e destinati all’erogazione di servizi pubblici è cominciato nel 2004. Il processo è stato condotto attraverso una negoziazione coi capi della “comunità locale”, che ha ricevuto un certo numero di lotti abitativi gratuiti confermando l’importanza del poter affermare la proprietà consuetudinaria della terra nella zona peri-urbana. Nel 2013 era in corso un nuovo processo di mappatura per espandere la città verso est e verso sud. Così come in molte altre città sud sudanesi, il consiglio municipale di Bentiu (testimonianza della natura urbana dell’insediamento e del diverso regime di proprietà della terra) non era ancora stato istituito, e il controllo della città era conteso tra i nuer leek e i nuer jikani attraverso una disputa di confine tra le loro “rispettive” contee di Rubkhona e Guit. Nel 2010 circa, la contea di Guit ha cominciato a rivendicare la zona orientale della città, chiamata Bim Ruo. L’area era stata mappata e demarcata nel 2005 e i lotti erano stati concessi a una varietà di persone provenienti da diverse zone dello stato, così come anche a stranieri (darfuriani ed eritrei). In base al diritto consuetudinario, la terra era considerata di proprietà dei nuer leek, i quali hanno di conseguenza ricevuto una percentuale di lotti gratuitamente.30 Nel 2012, però, il Ministero delle Infrastrutture dello stato di Unity ha deciso di ri-demarcare l’area, sostenendo che le case non fossero state costruite nel rispetto degli standard appropriati. Gli abitanti di Bim Ruo hanno opposto resistenza ma, nonostante una serie di scontri violenti, il processo di ridemarcazione è stato portato a compimento. Poiché 30 Conversazione con abitanti di Bim Ruo e attivisti della società civile, Bentiu, 2013. 68 Sara de Simone l’operazione è stata condotta dopo che la comunità jikany aveva cominciato a rivendicare la terra di Bim Ruo, era convinzione piuttosto diffusa tra gli abitanti del quartiere che essa nascondesse lo zampino del governatore e che fosse in realtà finalizzata a soddisfare le rivendicazioni jikany redistribuendo la terra urbana in un modo a loro più favorevole, per aumentare la loro presenza nella città in modo da giustificare le rivendicazioni della contea di Guit di controllare parte della città. Un caso simile ha coinvolto un’area periferica di Bentiu, Yoanyang, a nord di Bim Ruo e vicino al fiume Naam. Yoanyang era abitata da due subclan nuer, leek e jinaky. Entrambi sono stati sfollati durante la guerra negli anni ’90, quando gli scontri tra le due fazioni dell’SPLM/A si erano intensificati. Quando il gruppo scissionista di Riek Machar è stato riassorbito nell’SPLM/A nel 2002, l’area è diventata un mercato.31 Dopo la firma dell’accordo di pace, la zona è rimasta sotto il controllo di milizie armate fino al 2007. Quando anch’esse sono state riassorbite nell’SPLA, la contea di Rubkhona ha cominciato ad inviare i propri esattori fiscali al mercato fluviale esercitando il proprio potere amministrativo sull’area. La comunità jikany, i cui membri si consideravano i first-comers dell’area, ha cominciato fin da subito a manifestare il proprio scontento. Una storia particolarmente diffusa raccontava di un nuer leek che aveva ricevuto in concessione della terra da un capo jikany sulla sponda sud del fiume (l’attuale Yoanyang), ma aveva violato l’accordo consuetudinario di non piantare alberi sulla terra ricevuta in concessione da altri coltivando manghi. Usando gli alberi di mango come prova del fatto che la terra appartenesse alla sua comunità, il leek ha mostrato una grande mancanza di rispetto verso le autorità tradizionali e gli accordi negoziati nell’ambito del diritto consuetudinario.32 Nel 2008, la contea di Guit ha deciso di inviare i propri esattori fiscali a Yoanyang per affermare la propria legittima giurisdizione sulla zona considerata come terra jikani. Una disputa tra gli esattori delle due contee si è rapidamente evoluta in un vero e proprio conflitto inter-comunitario. Sei persone hanno perso la vita e molte altre sono state ferite e sfollate, il mercato è stato distrutto. Per interrompere gli scontri, il governatore ha mandato l’esercito e ordinato la costruzione di un avamposto militare. Scontri violenti si sono ripetuti di nuovo nel 2009 e nel 2011, spesso con il coinvolgimento dell’esercito, si dice, a favore della 31 Intervista a John Kawais, membro dell’Assemblea Legislativa dello stato di Unity, Bentiu, 08/02/2013; Mary Paul Ngundeng, membro dell’Assemblea Legislativa dello stato di Unity, Bentiu, 09/02/2013; William Garjang Gieng, Commissario della Contea di Rubkhona, Bentiu, 06/02/2013; conversazione con commercianti del mercato di Yoanyang, 2013. 32 Conversazione con residenti di Yoanyang, Bentiu, marzo 2013. Terra e diritti locali in Sud Sudan 69 comunità jikany. Secondo un membro del parlamento di Unity State originario della contea di Guit: «Adesso [all’inizio del 2013] non ci sono scontri, ma non c’è neppure un accordo. [Il problema è che] i due sottoclan non vogliono appartenere alla stessa contea». 33 In entrambi i casi, la comunità jikany fa riferimento a principi del diritto consuetudinario nel rivendicare diritti su un’area in cui la terra è stata mappata e demarcata come terra urbana, e che sarebbe teoricamente sotto la giurisdizione delle istituzioni dello stato. Queste rivendicazioni vengono inoltre avanzate con il presunto sostegno dell’ex governatore in quanto membro della comunità jikany. Considerando la contea di Guit come di proprietà della comunità, i jikani usano il confine della contea come strumento per rivendicare una parte della terra urbana disponibile, considerando dunque l’unità di governo locale come espressione della comunità etnica. Benché la demarcazione dei confini tra contee non fosse ancora stata effettuata al momento della ricerca sul campo, erano i funzionari della contea di Guit a raccogliere le tasse dai commercianti e dai clienti del mercato di Yoanyang, esprimendo così la loro autorità sulla zona anche se in discontinuità con le prassi affermatesi nell’immediato dopo-guerra. Dinamiche simili si ritrovano anche in altre aree del paese. Nella città di Rumbek34 (stato di Lakes), dopo la mappatura e la demarcazione della terra, completate nel 2013, la “comunità locale” ha ottenuto un numero molto elevato di lotti dal Ministero delle Infrastrutture dello stato di Lakes facendo leva sull’autoctonia.35 Ciò ha reso ancora più difficile per le persone originarie di altre comunità ottenere terra in città. Un uomo impiegato come educatore in una ONG a Rumbek – un buon lavoro cittadino – sostiene, ad esempio, di non essere riuscito ad ottenere un lotto di terra in città a causa della sua provenienza dalla contea di Cueibet: La terra rappresenta un grosso problema. Se uno non è di qui, è molto difficile ottenere terra. Prendi me, per esempio: io sono di Cueibet, ma lavoro qui a Rumbek, quindi volevo un pezzo di terra. Ho fatto domanda [al Ministero delle Infrastrutture dello stato di Lakes], e poi ho aspettato e aspettato finché non mi hanno mostrato un pezzetto di terra minuscolo, lontano dalla città, e mi hanno chiesto Intervista a John Kawais, membro dell’Assemblea Legislativa dello stato di Unity, Bentiu, 08/02/2013. 34 Non esistono dati ufficiali sulla popolazione delle città: il National Bureau of Statistics infatti rilascia solo dati aggregati a livello di contea. 35 Intervista a Long Majok, Ispettore per la mappatura, Ministero delle Infrastrutture dello stato di Lakes, Rumbek, 19/11/2013; Nyantoic, segretaria generale del Comitato per la Terra, Rumbek, 19/11/2013. 33 70 Sara de Simone 15.000 SSP.36 Ovviamente non potevo permettermelo, quindi sono stato costretto a tornare nel capoluogo della mia contea per chiedere un pezzo di terra. Lì me ne hanno dato un pezzo molto più grande per la metà del denaro, e adesso sto costruendo una casa.37 È interessante notare che, in tutti questi casi, le rivendicazioni sulla terra non sono avanzate dalle autorità tradizionali, ma piuttosto da funzionari e impiegati delle istituzioni statali. Ciò contribuisce alla rappresentazione di queste dispute come dispute amministrative, quando invece esse influenzano profondamente la possibilità di accesso alla terra “buona” da parte di individui appartenenti a comunità in conflitto tra loro. I funzionari e gli impiegati delle istituzioni pubbliche si considerano in effetti responsabili della “protezione” del diritto alla terra e ad altre risorse delle loro comunità anche più delle autorità tradizionali. Essi riescono a portare le rivendicazioni delle comunità fino ai livelli più alti di governo, dove le decisioni vengono prese, e dove i capi non riescono sempre ad arrivare. In questo modo, i funzionari pubblici alimentano la legittimità del discorso consuetudinario, sottolineando però che le rivendicazioni sono tanto più convincenti quanto più sono sostenute da rappresentanti dello stato. L’etnicità in Sud Sudan è quindi reinventata dai funzionari dello stato piuttosto che dalle autorità tradizionali. Infatti, il commissario di contea di Rubkhona conferma che la disputa tra la sua contea e la contea di Guit è cominciata come un contenzioso tra “politici” e che le comunità sono state coinvolte solo quando l’idea che «la terra appartiene alla comunità» si è affermata ed è stata inserita nella legge. 38 Questo mette in discussione l’esistenza di una dicotomia tra sistema consuetudinario e sistema statutario nella governance sulla terra in Sud Sudan, suggerendo che una volta che il principio consuetudinario-comunitario viene affermato, esso tende a prevalere anche sul principio statutario traendo forza dal carattere estremamente frammentario della società sud sudanese. In simili circostanze, il riconoscimento dei diritti comunitari alla terra approfondisce facilmente le diseguaglianze orizzontali e la competizione etnica sui cosiddetti “dividendi della pace” (come l’accesso alla terra) piuttosto che contribuire al processo di peacebuilding. 36 Circa 3.800 dollari. Il salario medio di un impiegato locale di un’ONG in una posizione non manageriale è di circa 250-300 dollari al mese (dati di novembre 2013). 37 Conversazione personale, Rumbek, 2013. 38 Intervista a William Garjang Gieng, Commissario della Contea di Rubkhona, Bentiu, 06/02/2013. Terra e diritti locali in Sud Sudan 71 8. Conclusioni Il riconoscimento dei diritti comunitari alla terra, inserito nelle politiche internazionali di governance locale e di riforma fondiaria, ha un impatto sulle società locali che va ben oltre la semplice amministrazione della terra. In Sud Sudan, il riconoscimento legale dei diritti consuetudinari alla terra era stato progettato per ridurre la povertà e promuovere uno sviluppo economico trainato dagli investimenti privati, ma in realtà fornisce nuove risorse simboliche a sostegno a rivendicazioni non solo per l’accesso alla terra, ma anche per il controllo di territori. La coesistenza dei due discorsi sull’autoctonia e sui diritti universali di residenza per i cittadini del Sud Sudan, che dovrebbe caratterizzare l’accesso alla terra nelle aree urbane, contribuisce a riprodurre i confini tra le varie comunità, elemento centrale del progetto di costruzione dello stato sud sudanese. Esistono quindi due idee di cittadinanza che corrispondono a ciascun principio: una locale e una nazionale, ed entrambe sono negoziate attraverso l’uso strumentale del carattere ambiguo della frontiera tra zone rurali e urbane. Secondo Geschiere: «L’enfasi sulla cittadinanza nazionale del passato avrà anche avuto le sue criticità, ma almeno quel tipo di identificazione aveva una base formale chiara, che invece manca completamente al tipo di identità regionali o locali favorite dal decentramento» (Geschiere, 2009, p. 95). In effetti, la tendenza comunitaria nel processo di state building favorisce indubbiamente l’appartenenza etnica e la definizione di diritti di cittadinanza locali che incoraggiano lo svilupparsi di rivendicazioni identitarie molto locali, in contrapposizione con un’identità nazionale caratterizzata dalla relazione individuale con lo stato. Nonostante il dibattito sull’etnicità e l’autoctonia sia stato ampiamente sviluppato nell’ambito degli studi di africanistica, le politiche sostenute dalla comunità internazionale per l’istituzionalizzazione di strutture di governo basate sui sistemi consuetudinari non sembrano tenerne conto neanche quando si tratta di delegare alla sfera consuetudinaria e tradizionale la gestione di una risorsa importante come la terra. Intrecciandosi con il progetto di costruzione dello stato, la riforma della terra ha esacerbato due caratteristiche della politica sud sudanese: la frammentazione identitaria e il patronage su basi etniche come principali canali di accesso al potere e alle risorse. Pur riconoscendo la possibile funzione rappresentativa del legame clientelare, la dinamica che deriva da queste due caratteristiche tende a trasformare i diritti di cittadinanza in un “attributo dell’autoctonia”, condannando gli individui a restare legati alla propria identità etnica nel tentativo di accedere a diritti e risorse. Se si tiene conto della militarizzazione delle identità etniche ereditata dalla guerra civile, questo incoraggia l’emersione di una cittadinanza definita localmente 72 Sara de Simone ed etnicamente rispetto ad una nazionale più ampia. La sovrapposizione dei confini amministrativi e dei confini delle comunità etniche radicalizza l’identità etnica e la rende uno strumento di competizione sulla terra, creando gruppi che possono essere facilmente mobilitati in “difesa” delle proprie risorse contro la presunta minaccia di altri gruppi. Ciò dà al processo di formazione dello stato un carattere estremamente frammentario, potenziale fonte di nuovi conflitti. Riferimenti bibliografici Abrahamsen R. (2004). “The Power of Partnerships in Global Governance”. Third World Quarterly, 8, pp. 1453-1467. ACLED (2015). Country Report: Sudan and South Sudan. Armed Conflict Location & Event Data Project. Alexander J. (2006). The Unsettled Land: State-Making and the Politics of Land in Zimbabwe, 1893-2003. Harare, Weaver Press. Bellagamba A. e Klute G. (2008) (eds.). Besides the State. Emergent powers in contemporary Africa, Cologne, Rudiger Koppe Verlag. Berman B. 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La popolazione rurale rappresenta il 79,6% della popolazione totale del paese ed è nelle aree rurali che si registra la percentuale più elevata di poveri, dal momento che più della metà (50,6%) delle persone che risiedono nelle zone rurali vive al di sotto della soglia di povertà (INSD, 2010).2 Nonostante in ambito rurale la gran parte della popolazione svolga principalmente attività di tipo agricolo e agropastorale, più del 90% degli abitanti non possiede alcun atto amministrativo legalmente riconosciuto che possa testimoniare l’esistenza di diritti esercitati sulla terra utilizzata o posseduta (INSD, 2011). Infatti, in Burkina Faso il riconoscimento dei diritti fondiari si articola su due livelli. Da un lato il sistema legale prevede la possibilità di identificare il possesso fondiario e attribuire titoli di proprietà privata sulle terre dello stato, dall’altro esiste un sistema di riconoscimento di diritti localmente rego1 Si veda il sito della Banca Mondiale: http://www.worldbank.org/en/country/burkinafaso (16/08/2016). 2 L’Istituto Nazionale di Statistica e Demografia (INSD) calcola la povertà assoluta riferendosi a una cifra di 82.672 franchi CFA annui pro capite. Tale cifra è stimata tenendo conto delle risorse economiche necessarie per soddisfare i bisogni di base, alimentari e non, di ogni singolo individuo. Le stime dell’INSD differiscono da quelle adottate a livello internazionale, che considerano in condizioni di povertà assoluta chi dispone di meno di 1,25 dollari al giorno, calcolati a parità di potere di acquisto. 80 Anna Caltabiano lamentato, all’interno del quale la terra molto raramente viene registrata seguendo le procedure previste dalla legge (Ouedraogo, 2011). I sistemi “consuetudinari” di gestione della terra nelle aree rurali continuano così ad evolvere nell’informalità, rispondendo ai cambiamenti demografici, ambientali ed economici e a contesti regionali molto differenti (Lavigne Delville et al., 2002; Toulmin et al., 2002; Mathieu et al., 2002; Paré, 2001). Il pluralismo e la sovrapposizione di norme e istituzioni fondiarie derivanti da questa duplicità di sistemi sono causa di conflitti fondiari tra diversi soggetti che interagiscono costantemente e rivendicano la propria autorità sul territorio. Nel tentativo di limitare tali conflitti, il Burkina Faso ha intrapreso negli ultimi anni un importante processo di riforma introducendo, con la legge fondiaria del 2009,3 strumenti a garanzia di una maggiore sicurezza nel riconoscimento dei diritti fondiari esistenti a livello locale. In un sistema di tipo patriarcale, in cui i diritti sulla terra vengono riconosciuti tenendo conto dello status sociale, dell’età, del genere, ma anche dell’appartenenza degli individui ad uno specifico territorio e comunità, lo stato diventa responsabile di conciliare visioni contrastanti e di risolvere le ambiguità derivanti da un sistema istituzionale e giuridico plurale, che ha le sue radici nel periodo coloniale. In questo articolo si mettono in luce le principali sfide che emergono dal tentativo di riforma intrapreso negli ultimi anni e ci si focalizza in particolare su due questioni: le problematiche di genere e la questione dell’autoctonia. Entrambe sfidano un sistema “consuetudinario” basato sull’autorità di capi che traggono legittimazione socio-politica dal controllo e dalla gestione della terra a livello locale. L’analisi viene condotta tenendo conto dei processi storici che hanno portato all’adozione della riforma fondiaria e dei risultati di una fase di ricerca sul campo condotta nel gennaio-maggio 2014 e nell’agosto-settembre 2015 nei comuni di Bama e Léo, collocati rispettivamente nella provincia di Houet, zona occidentale, e nella provincia di Sissili, zona centro-meridionale del paese. Partendo da un breve resoconto dei cambiamenti introdotti in periodo coloniale nel settore fondiario e delle ripercussioni che questi hanno avuto in periodo post-coloniale, si entra nel vivo del processo di riforma fondiaria, formalmente inaugurato con l’approvazione della Politique Nationale de Sécurisation Foncière nel 2007, dalla quale scaturisce la legge fondiaria del 2009 e i successivi decreti. Per l’analisi dell’intero processo, attuato allo scopo di garantire una maggiore democraticità nella gestione della terra e delle risorse naturali, si fa rife3 Loi n° 034-2009/AN portant régime foncier rural au Burkina Faso. Terra e legge fondiaria in Burkina Faso 81 rimento al concetto di governance della terra, intesa come l’insieme dei processi attraverso cui vengono prese decisioni riguardanti l’accesso e l’utilizzo della terra, delle modalità attraverso cui tali decisioni vengono implementate e delle strategie adottate per conciliare gli interessi multipli e potenzialmente conflittuali relativi alla gestione della terra e delle risorse naturali. 2. La colonizzazione francese e il sistema duale di regimi fondiari L’impatto della colonizzazione francese sulla gestione di territori e risorse naturali in Burkina Faso (ex Alto Volta) fu determinante nel creare un sistema duale di regimi fondiari e nel configurare i rapporti di forza e di potere non solo locali, ma anche tra l’amministrazione statale e le autorità consuetudinarie, alle quali venne affidato di fatto, nel periodo successivo all’indipendenza, il controllo del territorio nelle aree rurali (Ouedraogo, 2011; Ribot, 1999; Lavigne Delville, 1998). In linea con le teorie assimilazioniste che caratterizzarono la prima fase coloniale, l’intenzione dei colonizzatori fu quella di spezzare il legame socio-culturale che vincolava le società agrarie alle proprie “comunità”, per crearne uno economico tra l’uomo e la terra, promuovendo l’iniziativa individuale, incrementando la produttività e gettando le basi dello sviluppo complessivo delle colonie. Per raggiungere tale obiettivo nel 1904 fu introdotto un sistema di registrazione delle terre, il sistema Torrens, che mirava a conferire, al termine di un processo complesso di individualizzazione fisica (delimitazione) e giuridica (attribuzione di un numero di identificazione) di un terreno, il riconoscimento di un titolo fondiario di proprietà privata a chi ne avrebbe fatto richiesta. Al contempo, venivano identificate come «vacantes et sans maître» le terre formalmente inoccupate, non coltivate e non «possedute» secondo i criteri del Codice civile francese. Sebbene il concetto di terra «vuota o vacante» fosse in contrasto con la realtà esistente, poiché i territori dichiarati «inoccupati» dalle autorità coloniali erano di fatto territori coltivati a maggese, utilizzati per il pascolo o per la raccolta della legna, e su di essi venivano esercitate forme di controllo e di autorità da parte di capi locali (Coquery-Vidrovitch, 1985), le terre vacantes et sans maître entrarono a far parte del demanio fondiario francese, assicurando ai colonizzatori il diritto di controllare il territorio e di attribuire la terra alle principali società francesi interessate a investire in Africa occidentale. Nel periodo coloniale pochissimi furono gli «indigeni» che procedettero alla registrazione di titoli di proprietà della terra (Fouchard, 2003) e gran 82 Anna Caltabiano parte della popolazione rimase soggetta alle regole dei regimi fondiari esistenti a livello locale, che non vennero legalmente riconosciuti dal sistema francese. Alla base di tali regimi fondiari vi era una molteplicità di diritti socialmente attribuiti ai membri di una stessa “comunità”, esercitati attraverso sistemi più o meno centralizzati di organizzazione della società e di distribuzione del potere tra autorità localmente riconosciute (Kuba et al., 2003). Gli amministratori coloniali sfruttarono però il potere esercitato dalle autorità locali, o le crearono laddove le strutture sociali non le prevedevano, per raccogliere le tasse a livello locale e al fine di controllare la produzione e la forza lavoro della colonia. La presenza di capi “consuetudinari” venne considerata necessaria e ad essi l’amministrazione coloniale riconobbe con il tempo diversi privilegi, tra cui il controllo e la gestione delle terre rurali, pur mantenendoli subordinati al potere coloniale (Korbéogo, 2013). Lo stato indipendente ereditò di fatto un territorio dai confini ben definiti, poiché tracciati dalla potenza coloniale, ma sul quale l’apparato statale non esercitava un potere assoluto. La gestione della maggior parte delle terre rimase infatti soggetta all’autorità di capi locali. In assenza di risorse economiche e umane necessarie ad esercitare un controllo diffuso del territorio, i governi nella fase successiva all’indipendenza, proclamata ufficialmente nel 1960, si limitarono a controllare i sistemi di produzione nei territori considerati più strategici dal punto di vista economico e a investire nei settori produttivi destinati all’esportazione (Thiam, 1989). Nonostante un timido tentativo iniziale da parte del primo governo Yameogo (1960-1966) di adottare una politica di decentramento, attraverso la creazione di comuni, i cui membri sarebbero stati eletti a suffragio universale, il progressivo accentramento del potere statale nelle mani delle élite politiche nazionali e di un unico partito limitarono lo sviluppo di processi democratici nelle aree rurali. A partire dal 1966 il susseguirsi di regimi civili e militari e il moltiplicarsi di colpi di stato per la conquista del potere, lasciarono di fatto il mondo rurale in una condizione di semi-isolamento (SavonnetGuyot, 1986). Le élite al governo, capeggiate da generali provenienti dal mondo militare, rispondevano infatti agli interessi di un entourage politico ed economico ristretto e l’opposizione ai regimi si muoveva nel contesto urbano, ruotando intorno a movimenti sindacali e studenteschi. La gestione delle terre non sottoposte all’intervento diretto dello stato continuò ad essere affidata ai capi locali, non riconosciuti però all’interno del sistema amministrativo e politico statale. Il rapporto dello stato con le autorità locali rimase così ambiguo e funzionale al controllo della produzione e dei sistemi di tassazione. Terra e legge fondiaria in Burkina Faso 83 Soltanto nel 1983, sotto il regime “rivoluzionario” di Thomas Sankara, lo sviluppo del mondo rurale nel suo complesso riemerse come priorità politica. Nel Discorso d’Orientamento Politico del 2 ottobre 1983 (CNR, 1983), che costituì il punto di riferimento teorico del periodo rivoluzionario, venne espressa la volontà di eliminare qualsiasi forma di riconoscimento delle autorità consuetudinarie quali legittime intermediarie dello stato in ambito rurale. Venne inoltre messa in evidenza la necessità di attuare una riforma agraria e fondiaria (RAF) che riconoscesse lo stato come unico proprietario della terra e identificasse un unico demanio, quello nazionale, all’interno del quale categorizzare tutte le terre, anche quelle soggette alle regole di regimi fondiari “consuetudinari” o precedentemente oggetto di registrazione di titoli di proprietà.4 Attraverso la nazionalizzazione della terra si negò di fatto la legittimità dei diritti “consuetudinari” vigenti in ambito rurale e la legalità dei diritti di proprietà privata registrati precedentemente alla riforma. Lo stato attribuiva alla sua popolazione unicamente diritti di usufrutto sulla terra, in accordo con il principio di mise en valeur, che presupponeva l’impegno di ognuno a rendere produttiva la terra ottenuta in concessione. La RAF venne successivamente modificata sotto il regime di Blaise Compaoré nel 1991 e nel 1996, come conseguenza di accordi firmati con il Fondo Monetario Internazionale e in seguito all’adozione, nel 1991, del Programma di Aggiustamento Strutturale, che impegnava lo stato alla reintroduzione della proprietà privata e al riconoscimento delle procedure di registrazione di titoli fondiari. Nonostante il tentativo del regime sankarista di porre fine ad un sistema di potere “consuetudinario” di cui lo stesso Sankara denunciò il carattere feudale e retrogrado di controllo e gestione della terra,5 l’autorità dei capi locali rimase forte nel definire i principi alla base dei regimi fondiari e nel riconoscere i diritti di accesso, possesso e utilizzo della terra. I capi locali continuarono a ricoprire funzioni e giurisdizioni che formalmente avrebbe dovuto ricoprire lo stato. Il loro potere venne poi in una certa maniera rafforzato dalle stesse riforme neoliberiste degli anni ’80-’90 che, in risposta alle ripetute crisi dello stato africano, finanziarono programmi di sviluppo rurale che miravano a pro4 Ordonnance n° 84-050/CNR/PRES du 4 aout 1984 portant Réforme Agraire Foncière. «La feodalité, en bas!» era lo slogan recitato dai partigiani di Thomas Sankara durante gli incontri popolari. Esso testimoniava la virulenta opposizione del potere rivoluzionario alla chefferie tradizionale. 5 84 Anna Caltabiano muovere la gestione locale della terra e delle risorse naturali e ad identificare nella gestione “comunitaria” una possibile risposta alla necessità di promuovere la partecipazione della popolazione rurale allo sviluppo. 3. Un contesto rurale in trasformazione: il pluralismo giuridico e istituzionale La realtà rurale del Burkina Faso visse, a partire dal periodo coloniale, importanti cambiamenti sociali ed economici e i diritti fondiari formalmente riconosciuti ai diversi attori furono oggetto di rivendicazioni e contestazioni su più fronti e a più livelli nel periodo successivo all’indipendenza (Juul e Lund, 2002; Lavigne Delville et al., 2002). Nella quasi totale assenza di diritti fondiari legalmente registrati nelle aree rurali, si svilupparono forme ibride e localizzate di riconoscimento del possesso della terra, da cui risultò una costante lotta tra giurisdizioni in competizione per l’accesso alla terra e alle risorse (Evers, Spierenburg e Wels, 2005). Soprattutto nelle aree soggette a una sostenuta pressione demografica, come conseguenza di precedenti ondate migratorie e della crescita della popolazione, e nei territori in cui il livello di commercializzazione dei prodotti agricoli e manifatturieri divenne più elevato, non solo incrementarono le transazioni fondiarie monetizzate, ma si sviluppò un vero e proprio mercato della terra.6 La terra veniva ceduta in accordo con le regole dettate dai regimi consuetudinari, a cui facevano seguito tentativi di «formalizzazione dell’informale» tramite la produzione di petits papiers, ovvero di documenti che certificavano gli accordi sui trasferimenti di terra avvenuti e che venivano firmati da un’autorità consuetudinaria (capo villaggio, chef de terre) o statale (prefetto) ed effettuati in presenza di testimoni locali (Zougouri e Mathieu, 2002). Nella zona occidentale del Burkina Faso, nota per la produzione del cotone, il mercato della terra si sviluppò in seguito a un consistente flusso migratorio proveniente dalle aride regioni centrali e settentrionali verso la zona occidentale del paese (Boone 2014, pp. 101-109; Chauveau, 2007). Come 6 Distinguiamo qui le due accezioni poiché le transazioni fondiarie monetizzate presuppongono una transazione di terra in cui il denaro entra a far parte degli obblighi sociorelazionali che chi riceve la terra deve rispettare nei confronti di chi gliel’ha ceduta. Con “mercato della terra” si intende invece identificare una situazione in cui la terra, divenuta merce di scambio, viene venduta e comprata ed è svincolata dal rapporto sociale tra gli individui che effettuano la compravendita. Terra e legge fondiaria in Burkina Faso 85 conseguenza della rapida espansione urbana della città di Bobo Dioulasso incrementarono le richieste di terra per la costruzione di abitazioni, ma anche per lo sviluppo di forme di agricoltura peri-urbana, dando avvio a fenomeni sempre più diffusi di speculazione fondiaria, visto il rapido incremento del valore monetario dei lotti di terra. Gli attori coinvolti nelle transazioni di terra rispondevano alla crescente pressione demografica cercando nuovi modi di assicurarsi il possesso, diversi da quelli “consuetudinari”, tendendo sempre più a richiedere una registrazione scritta dei propri diritti fondiari. Il fatto che la compravendita della terra rimanesse vincolata ai regimi fondiari consuetudinari creava però tensioni tra i vari gruppi sociali e sollevava problematiche di genere, generazionali e anche di appartenenza locale, etnica e religiosa. A ricorrere ai meccanismi di “formalizzazione dell’informale” erano infatti prevalentemente persone identificate dal villaggio come “non autoctone”. In particolare, alla fine degli anni ’90, oltre ai migranti rurali che si spostavano in cerca di terra da coltivare, un’altra tipologia di attori, esterni alle comunità rurali, cominciò a intraprendere l’iter di formalizzazione dei diritti fondiari precedentemente acquisiti tramite contrattazione con le autorità consuetudinarie. Questi nouveaux acteurs provenivano dalla città ed erano principalmente funzionari statali, militari e commercianti (GRAF, 2011; Zongo, 2010). I nouveaux acteurs, che nel linguaggio politico indicavano gli investitori privati nel settore agricolo, si preoccupavano di ottenere un riconoscimento informale del trasferimento di terra a livello locale, con l’obiettivo di procedere successivamente alla registrazione legale di un titolo di proprietà privata. Gli abitanti delle zone rurali, invece, a causa dei lunghi tempi d’attesa necessari all’adempimento delle procedure di registrazione e dell’elevato costo della registrazione di titoli fondiari, tendevano a dimostrare il possesso della terra continuando a coltivarla e rendendola produttiva. Ad una situazione di pluralismo giuridico faceva seguito un pluralismo di istituzioni responsabili della gestione della terra e delle risorse naturali. Soprattutto a partire dagli anni ’90 i programmi statali di sviluppo rurale, adottati in accordo con la Banca Mondiale, crearono organismi “partecipativi” ai quali venne conferita una certa autonomia nella gestione della terra e delle risorse naturali, mentre l’inserimento di nuovi attori non statali, come gli investitori privati, le ONG, le agenzie di cooperazione e sviluppo, contribuì a moltiplicare la presenza di istituzioni formali e informali in ambito rurale. Ad esempio, con la promozione del Programma Nazionale di Gestione dei Territori (PNGT) vennero create commissioni di villaggio di gestione dei territori (Commissions Villageois de Gestion de Terroirs - CVGT), ovvero 86 Anna Caltabiano organi locali, incaricati di preservare e proteggere le principali risorse naturali nei diversi territori.7 Il miglioramento delle procedure di gestione locale delle risorse naturali venne poi promosso dai principali donatori come elemento fondamentale per garantire una buona governance della terra e venne associato ai processi di democratizzazione in atto in tutta l’Africa subsahariana (Larson e Ribot, 2005). In concomitanza con le dinamiche strettamente legate alla gestione della terra e la partecipazione locale alla protezione e conservazione delle risorse naturali, a partire dagli anni ’90 il governo diede avvio ad un processo di decentramento amministrativo, che condusse nel 2004 all’approvazione del Codice Generale delle Collettività Territoriali (CGCT).8 Il CGCT prevedeva il conferimento di parte del demanio nazionale agli enti decentrati dello stato e la delega di alcune competenze statali, tra le quali anche quella relativa alla gestione del fondiario, inizialmente alle regioni e alle province e, successivamente, alle regioni e ai comuni. Nel 2006, a seguito di un processo di decentramento politico avviato a partire dal 1996, ebbero luogo le prime elezioni democratiche nei 302 comuni rurali9 e vennero quindi eletti i primi consigli municipali. Questi furono affiancati da organi consultivi, i consigli di sviluppo del villaggio (Conseils Villageois de Développement - CVD), eletti durante le assemblee di villaggio ad alzata di mano o per allineamento a fila indiana alle spalle del candidato prediletto (sistema a queue leu-leu). Ai CVD venne affidato il compito di convogliare le richieste dei diversi portatori di interessi del villaggio a livello comunale. Si trattava di un’operazione fondamentale per le politiche di decentralizzazione poiché venivano istituiti governi locali, nel presupposto che questi garantissero una maggiore rappresentatività dei contesti rurali a livello nazionale, una mag7 Con il sostegno dei donatori internazionali venne adottato nel 1986 il primo Programma Nazionale di Gestione dei Territori (PNGT) il cui approccio faceva parte di una nuova concezione dello sviluppo rurale adottata in ambito internazionale. Esso delegava alle comunità locali la gestione delle risorse naturali, promuovendo un sistema di amministrazione decentralizzato, basato sulle CVGT. Tale approccio permetteva di conciliare le scarse risorse finanziarie a disposizione dello stato, e quindi la limitata capacità di investimento nella conservazione e protezione delle risorse naturali, con la promozione della partecipazione popolare attraverso istituzioni locali legalmente riconosciute (Batterbury, 1998, p. 872). 8 Loi n° 055-2004/AN portant code général des collectivités territoriales au Burkina Faso et textes d’applications. 9 Con il termine comune rurale si intende identificare quello che in Burkina Faso prende il nome di commune rurale, ovvero un gruppo di villaggi con una popolazione di almeno 5000 abitanti e attività economiche che generano risorse pari ad almeno 5 milioni di franchi CFA. Terra e legge fondiaria in Burkina Faso 87 giore partecipazione ai processi di sviluppo politico e agevolassero le procedure di attuazione delle politiche statali.10 La decentralizzazione politica creò tuttavia ulteriori ambiguità nei meccanismi di gestione del territorio. Le istituzioni statali, a cui precedentemente era stato affidato il compito di eseguire le direttive provenienti dai diversi ministeri, sulla base di quello che Ribot e Agrawal avrebbero definito un meccanismo di upward accountability (Agrawal e Ribot, 1999), furono “sfidate” da nuovi enti locali, eletti a suffragio universale, a cui però lo stato non accordò né il peso politico né le risorse economiche e umane necessarie per garantire la sostenibilità dei loro interventi di sviluppo. I nuovi enti locali entrarono poi in conflitto con le autorità consuetudinarie, che continuavano ad esercitare la propria influenza sulla vita politica, economica e sociale di gran parte della popolazione rurale. Con il processo di decentralizzazione si moltiplicarono così le istituzioni socio-politiche responsabili della gestione della terra, alimentando di fatto la possibilità per i diversi attori di rivendicare i propri interessi specifici sull’accesso alle risorse, rivolgendosi simultaneamente a più organi e in assenza di una chiara e definita gerarchia di potere. 4. Il processo di riforma fondiaria: il dibattito sui diritti e le istituzioni fondiarie È in questo contesto di pluralismo giuridico e istituzionale che si inserisce il tentativo dello stato di regolamentare la questione fondiaria nelle zone rurali e di rispondere principalmente a due esigenze: la promozione di investimenti agricoli e la risoluzione dei conflitti fondiari. Se da un lato si doveva far fronte alla pressione politica proveniente dagli investitori agricoli nazionali e internazionali, che necessitavano di un riconoscimento incontestabile dei propri diritti fondiari per potere avviare attività legate all’agribusiness o all’estrazione mineraria (Lavigne Delville e Thieba, 2015, p. 218), dall’altro l’emergere di conflitti più violenti tra agricoltori e pastori, tra migranti e autoctoni, fungeva da campanello d’allarme di una crisi sociale. A partire dal nuovo millennio, in seno al Ministero dell’Agricoltura, e con il supporto dell’Agence Française de Développement (AFD) e del Grou10 I CVD, che erano emanazione del consiglio municipale, vennero incaricati di contribuire all’elaborazione e all’attuazione dei piani comunali di sviluppo, di co-promuovere lo sviluppo locale dei villaggi e di partecipare alle attività delle diverse commissioni create dal consiglio municipale per la gestione e la promozione dello sviluppo locale. 88 Anna Caltabiano pe de Recherche et d’Action sur le Foncier (GRAF), si decise di affrontare la problematica questione fondiaria utilizzando un approccio di sécurisation foncière, nel tentativo di far luce sulle diversità dei contesti locali, sulla molteplicità dei diritti che sottendevano all’accesso, all’utilizzo e al possesso della terra. La particolarità di tale approccio risiedeva nella sua dimensione sociale, legata alla necessità di garantire «la pace e la coabitazione tra i diversi gruppi esistenti in ambito rurale» (Mathieu et al., 2003, p. 23). Tale visione arricchiva, ma non sostituiva, l’ortodossia economicista sostenuta dalla Banca Mondiale e basata sulla presunta necessità di registrare titoli di proprietà privata a garanzia di maggiori investimenti agricoli. Per “mettere in sicurezza” gli attori che operavano in ambito rurale l’approccio di sécurisation foncière si proponeva di riconoscere legalmente non solo i diritti di proprietà, ma di formalizzare quell’insieme di diritti “consuetudinari” alla base dei regimi fondiari locali in ambito rurale. La procedura di formalizzazione dei diritti consuetudinari sulla terra poneva però una serie di questioni salienti. La prima era legata alla difficoltà di identificare i diritti fondiari da formalizzare e di creare istituzioni responsabili del loro riconoscimento. Per potere rispondere a tale difficoltà bisognava infatti comprendere come si strutturavano i regimi fondiari a livello locale e prendere consapevolezza della grande diversità delle caratteristiche ambientali, economiche e sociali dei territori su cui lo stato era chiamato a intervenire. Ciò che emergeva dalle prime consultazioni, messe in atto dal governo a partire dal 2005 attraverso numerosi atelier a livello nazionale e regionale, era un contesto rurale in mutamento, caratterizzato da una competizione crescente e conflittuale tra gli attori per il controllo e l’utilizzo delle terre. Al verificarsi ed intensificarsi di migrazioni agricole e di spostamenti periodici da parte di pastori transumanti si accompagnavano il moltiplicarsi e aggravarsi di conflitti tra pastori e agricoltori per l’utilizzo della terra e delle risorse naturali. In alcuni territori, soprattutto nella parte occidentale e meridionale del paese, erano poi in corso processi di accumulazione delle terre nelle mani di imprenditori agricoli e nouveaux acteurs, accompagnati da una scarsa efficacia dei meccanismi giuridici e istituzionali di gestione della terra e dei conflitti fondiari. Uno dei nodi più difficili da sbrogliare era proprio legato alle relazioni di potere che influivano sul riconoscimento non solo dei diritti fondiari, ma anche delle autorità a cui veniva riconosciuto il ruolo di includere o escludere gli individui dall’accesso, il possesso o l’utilizzo della terra. Il funzionamento dei regimi fondiari a livello locale era infatti regolato attraverso sistemi socio-politici in cui la relazione tra il riconoscimento Terra e legge fondiaria in Burkina Faso 89 dell’autorità e della proprietà era simbiotica. In sostanza, la proprietà della terra era tale soltanto se riconosciuta dalle istituzioni socialmente legittimate a sancirla, ma le stesse istituzioni erano considerate legittime soltanto se esse diventavano effettivamente interpreti delle norme sociali esistenti. Tale dinamica rendeva particolarmente precario non solo il sistema di riconoscimento della proprietà, ma anche quello delle istituzioni socio-politiche che la legittimavano (Lund, 2002). La formalizzazione dei diritti fondiari “consuetudinari” appariva poi un’operazione molto delicata poiché il riconoscimento del diritto di accesso, utilizzo e possesso della terra era «socialmente integrato» (Berry, 1989) e quindi interpretabile soltanto alla luce delle relazioni sociali, dei rapporti di forza e di potere esistenti tra diversi attori su uno stesso territorio. Includendo a pieno titolo i capi locali nel processo di riforma lo stato rischiava di legittimare un sistema patriarcale e talvolta clientelistico di gestione delle risorse, andando contro gli stessi principi fondanti della democrazia rappresentativa. 5. I principali strumenti di formalizzazione dei diritti esistenti Con l’approvazione, nel 2009, della nuova legge fondiaria11 venivano create istituzioni di villaggio responsabili di seguire l’iter di registrazione dei diritti fondiari e di gestire i conflitti sulla terra. Le commissioni di conciliazione dei conflitti (CCFV) e le commissioni fondiarie di villaggio (CFV) entravano a pieno titolo nel processo di riforma. I membri delle commissioni dovevano formalmente includere non solo le autorità consuetudinarie, ma anche un rappresentante delle autorità religiose, un rappresentante dei pastori, due dei giovani, due delle organizzazioni di donne, e due delle organizzazioni contadine, nel presupposto che la semplice presenza di tali membri avrebbe garantito l’effettiva rappresentanza delle categorie sociali del villaggio e la loro partecipazione indiretta. Lo stato attribuiva di fatto il potere di riconoscimento dei diritti locali a organi eterogenei, i cui rappresentanti avevano però rapporti di forza ineguali. Tali organi non erano eletti democraticamente a livello locale, ma i membri venivano selezionati a votazione, non segreta, e vincolata al rispetto dei sistemi di autorità, in seno alle assemblee di villaggio. La legge si dotava poi di due strumenti principali per formalizzare i diritti fondiari esistenti: il certificato di possesso della terra (attestation de posses11 Loi n° 034-2009/AN portant régime foncier rural au Burkina Faso. 90 Anna Caltabiano sion foncière - APFR) e la carta fondiaria locale (charte foncière locale). Attraverso il certificato di possesso della terra si legalizzava una sorta di diritto di usufrutto, che attestava la legittimità, per chi ne entrava in possesso, di coltivare e di portare avanti le attività rurali sulla terra, in assenza di rivendicazioni e contestazioni del proprio diritto. L’APFR rappresentava poi la prima tappa di un iter burocratico finalizzato alla registrazione di un titolo di proprietà privata. La richiesta di un’APFR poteva avvenire in maniera individuale o collettiva, veniva registrata nei villaggi dai segretari delle CFV e riportata a livello comunale per verificare che la terra richiesta non fosse stata oggetto di registrazione in precedenza. La terra registrata tramite APFR poteva poi essere trasferita a terzi attraverso certificati di prestito o di affitto, o ceduta definitivamente attraverso “atti di vendita”. Tale meccanismo avrebbe di fatto consentito di svincolare la terra, quale bene materiale, da quel legame sociale che nei regimi fondiari “consuetudinari” continuava a vincolare chi “possedeva” la terra a colui a cui essa veniva ceduta (Jacob, 2013). Con la legge del 2009 si istituzionalizzava inoltre lo strumento della carta fondiaria (charte foncière), un atto municipale finalizzato alla regolazione della gestione e dell’utilizzo collettivo delle risorse naturali dei villaggi e dei comuni rurali. Si sarebbe proceduto ad un’operazione di trascrizione dei diritti vigenti su tali territori e individuate le autorità responsabili di far rispettare tali diritti. La carta fondiaria poteva essere elaborata sia in seno ad un villaggio, sia in seno a diversi villaggi, a livello comunale e inter-comunale, allo scopo di migliorare la gestione delle risorse naturali delle collettività territoriali. Nel documento legislativo del 2009 e nel successivo decreto del 2010 venivano di fatto distinte due tipologie di carte fondiarie: la carta fondiaria di villaggio (charte foncière villageoise) e la carta fondiaria locale (charte foncière locale).12 In entrambi i casi lo scopo era quello di formalizzare una «convenzione locale ispirata alle consuetudini, alle pratiche e alle modalità di utilizzo della terra elaborate a livello locale e che mirava, nel quadro dell’applicazione della legge, a prendere in considerazione la diversità dei contesti ecologici, economici, sociali e culturali a livello rurale» (Legge 034, art. 6). Le carte fondiarie avrebbero dovuto contribuire a: «responsabilizzare la popolazione, le strutture locali e le istituzioni consuetudinarie alla gestione delle risorse naturali; recensire e applicare in maniera efficace tutte le consuetudini e le modalità di utilizzo locale della terra a favore di 12 Decret n. 2010-400/PRES/PM/MAHRH/MRA/MECV/MEF/MATD portant modalités d’élaboration et de validation des chartes foncières locales. Terra e legge fondiaria in Burkina Faso 91 una gestione razionale e sostenibile della terra e delle risorse naturali» (Decreto n. 2010-400, art. 3). Lo strumento della carta fondiaria veniva ritenuto il principale elemento di novità al momento dell’elaborazione della legge (Tallet, 2011; Hochet e Sanou, 2012). Attraverso un processo di stesura affidato alle CFV in accordo con le autorità consuetudinarie dei singoli villaggi, sarebbe stato possibile riconoscere e formalizzare le regole consuetudinarie concernenti la gestione della terra e delle risorse naturali comunitarie e riconciliare così il pluralismo di diritti esistenti sulla terra e sulle risorse naturali. Qualsiasi tipologia di carta fondiaria doveva essere discussa in seno alle assemblee di villaggio, presiedute dal presidente del CVD, e convalidata attraverso la delibera del consiglio municipale. Concluso l’iter di approvazione i territori sarebbero stati delimitati e mappati a livello comunale. In teoria attraverso la formalizzazione delle norme locali di gestione delle risorse, le collettività territoriali sarebbero entrate in possesso di elementi importanti per la comprensione del funzionamento dei regimi fondiari, necessari non solo a garantire una pianificazione territoriale più sostenibile, ma anche ad esercitare un maggior controllo sui territori da parte dello stato. 6. La questione di genere La questione di genere rappresentava uno dei nodi più delicati del dibattito sul riconoscimento dei diritti fondiari. Dibattere sulla sécurisation foncière delle donne significava indagare sul funzionamento dei regimi fondiari locali e rimetterli in discussione. Infatti, pur assicurando alle donne l’accesso alla terra e riconoscendo loro diritti specifici, come ad esempio il diritto di raccolta dei frutti di karité, i sistemi consuetudinari richiedevano alle donne di negoziare il proprio accesso alla terra all’interno di una società di tipo patriarcale, le cui stesse fondamenta erano basate sull’ineguaglianza di genere (Whitehead e Tsikata, 2003; Kevane e Gray, 1999; Udry et al., 1995; Argawal, 1994). Le pratiche locali di accesso, utilizzo e possesso della terra, ad esempio, non riconoscevano alle donne la possibilità di ereditare la terra.13 13 Come chiaritomi più volte nel corso delle interviste semi-strutturate (65) e dei focus group (10) effettuati nel comune di Bama, nello specifico in 6 villaggi facenti parte del perimetro comunale (Bama, Badara, Desso, Sourokoudougou, Diarradougou, Toukoro), e nel comune di Léo e nello specifico in 4 villaggi (Sissili, Wan, Sanga, Diansia), i motivi per cui le donne non potevano ereditare la terra erano molteplici. In primo luogo esse dovevano sposarsi e, al momento del matrimonio, trasferirsi nel villaggio del marito. Il loro accesso alla terra era a quel punto vincolato ai possedimenti del marito e del suo lignaggio. In linea 92 Anna Caltabiano Allo stesso tempo, le leggi fondiarie che, in passato, avevano promosso il riconoscimento di titoli di proprietà della terra sulla base di un sistema di diritti individuali, teoricamente accordati ad entrambi i sessi senza alcuna distinzione di genere, non avevano consentito alle donne che vivevano nelle aree rurali di “emanciparsi” dal sistema di regole che definivano i diritti esercitati sulla terra che coltivavano o utilizzavano. Di fatto, il riconoscimento e la formalizzazione dei diritti fondiari rappresentavano poi soltanto uno degli elementi che consentivano alle donne di modificare i rapporti di forza all’interno di nuclei familiari, lignaggi e comunità.14 Con la stesura della legge fondiaria del 2009 il dibattito relativo alla condizione femminile in ambito rurale e al riconoscimento di diritti fondiari specifici per le donne veniva canalizzato in una serie di interventi e misure il cui carattere politico era occultato da soluzioni formali, apparentemente tecniche e a-politiche (Lanzano, 2013). La legge del 2009 riconosceva alle donne la possibilità di richiedere certificati di possesso della terra (APFR) anche se il possesso non era riconosciuto come loro diritto dalle autorità che gestivano i regimi fondiari nel contesto rurale. La legge prevedeva la presenza di donne all’interno di organi consultivi istituiti dalla riforma nei villaggi (CFV e CCFV), affidando loro il compito di seguire dall’ “interno” i processi di attuazione della legge e di difendere gli interessi della loro “categoria”. Tali misure venivano però contemplate dalla legge nel presupposto che la semplice presenza femminile all’interno delle commissioni avrebbe conferito loro maggiore potere negoziale e rafforzato le capacità di contrattazione dei propri diritti fondiari in seno alle comunità rurali. Il fatto che tali procedure fossero presenti nel testo di legge consentiva poi ai decisori politici di potersi proclamare “difensori” dei diritti fondiari delle donne, ma a livello operativo tutelarli risultava più complicato. generale era attraverso i legami familiari con i padri prima, con i mariti poi, e con i figli in ultima istanza che le donne acquisivano il diritto di accedere alla terra. Nel presupposto che le donne divenissero proprietarie di un pezzo di terra concesso loro dal marito e decidessero poi di separarsi dal coniuge, esse avrebbero potuto rivendicare diritti di possesso su terre che non appartenevano alla loro famiglia/lignaggio di origine. Ciò rappresentava una preoccupazione per i membri dei lignaggi che temevano di perdere la terra sulla quale esercitavano un controllo. 14 Ad esempio, anche le abilità e le competenze che alcune donne sviluppavano nel settore della produzione e della vendita di prodotti agricoli erano funzionali a rafforzare il loro status sociale e la loro possibilità di contrattare la terra con la famiglia e con le autorità consuetudinarie (Jones, 1986; Udry et al., 1995; Agarwal, 1997). Terra e legge fondiaria in Burkina Faso 93 In fase di attuazione della legge gli elementi di dibattito sulla questione di genere si limitarono alla mera rivendicazione del diritto femminile di ottenere certificati di possesso della terra. Gli operatori del Millennium Challenge Account (MCA), agenzia di cooperazione statunitense responsabile della fase iniziale dell’attuazione della legge in 47 comuni, e i funzionari comunali interpretavano le richieste di registrazione di certificati di possesso da parte delle donne come un simbolo di emancipazione e insistevano sulla loro possibilità di sfidare i contesti consuetudinari in nome di un diritto di uguaglianza i cui contenuti non erano mai stati dibattuti in ambito rurale. Così facendo le donne rischiavano di perdere l’accesso e l’utilizzo su terre su cui esercitavano diritti diversi da quello di possesso, come ad esempio il diritto di raccogliere legna nelle aree messe a riposo o a maggese, nonché il diritto di raccolta e utilizzo di risorse forestali e arboree (frutti di karité, piante officinali, ecc.). La possibilità di accedere a tali risorse veniva infatti ridimensionata dalle operazioni di certificazione del possesso di terra che avrebbero riconosciuto ai “possessori della terra” un maggiore potere di esclusione di alcuni membri della comunità dall’accesso alla terra di loro proprietà. In tale condizione di sovrapposizione tra, da un lato, un sistema legale basato sull’uguaglianza di genere e una dimensione individuale del possesso e, dall’altro, un sistema consuetudinario all’interno del quale la subordinazione delle donne era legata a regole che non le prendevano in considerazione in quanto “individui” ma in quanto “membri di una famiglia”, di un lignaggio e di una comunità di villaggio (Kevane e Gray 1999, p. 2; Mizzau, 2001, pp. 149-153), alle donne non restava che giocare entrambe le carte, quella della “legalità” e quella della “legittimità”, per continuare a ritagliare i propri spazi di autonomia e difendere i propri interessi sulla terra (Lanzano, 2013, p. 107). I risultati dipendevano poi non soltanto dall’abilità di negoziazione delle donne a livello locale, ma anche dalla capacità dello stato e dei suoi servizi decentrati nel saperle accompagnare in fase di negoziazione.15 Nei comuni di 15 Ad esempio, il Groupe de Recherche et Action sur le Foncier (GRAF), che aveva seguito a partire dal 2011 il processo di attuazione della legge in due villaggi del comune di Cassou, nella provincia di Ziro, aveva cercato di agire in questa direzione, sostenendo le donne nel loro processo di negoziazione con i mariti e all’interno delle loro comunità affinché ottenessero il consenso per la registrazione degli APFR a loro nome. Finanziato dal governo attraverso il Fonds Commun Genre, il progetto messo in atto dal GRAF istituiva la doppia certificazione del possesso di terra (GRAF Infos, 2013). Inizialmente la domanda di APFR veniva effettuata a nome dei mariti e, successivamente, attraverso un certificato di cessione, le donne 94 Anna Caltabiano Bama e Léo, nel settembre 2015, delle 970 richieste di APFR complessive, soltanto 6 erano state fatte a nome di donne e tutte nel comune di Bama. Il ruolo del Millennium Challenge Account nell’insistere sulla registrazione dei certificati per le donne a Bama aveva certamente influito su questi, seppur minimi, risultati. 7. La problematica questione dell’autoctonia Nel documento di Politique Nationale de Sécurisation Foncière venivano utilizzate categorie sociali come «migranti» e «autoctoni» in riferimento a cittadini burkinabé, creando di fatto una discrepanza tra un sistema di appartenenza locale che vincolava ogni individuo ad una comunità, il cui criterio di autoctonia era negoziato attraverso l’accesso alla terra, e uno di cittadinanza nazionale, in cui i diritti sulla terra potevano essere riconosciuti indiscriminatamente a tutti i cittadini del paese, indipendentemente dal luogo di provenienza. In accordo con la legge fondiaria, chi faceva richiesta di un APFR doveva dimostrare di essere “proprietario” della terra, ma la proprietà a livello locale era riconosciuta molto raramente ai “non autoctoni” poiché la terra si trasmetteva di lignaggio in lignaggio per via ereditaria. Il riconoscimento della proprietà era vincolato infatti al parere favorevole delle autorità consuetudinarie dei singoli villaggi in quanto presunte conoscitrici della storia dei lignaggi e dei confini territoriali sui quali queste esercitavano il controllo. Inoltre la legge fondiaria del 2009 riconosceva la «valorizzazione» continuativa, pacifica e inequivocabile di un terreno produttivo, coltivato per almeno 30 anni, come ulteriore criterio per legittimare la richiesta di un certificato di possesso della terra. Tale criterio veniva però contestato da chi vedeva nella possibilità di registrare un APFR per un “non autoctono”, il rischio di perdere i diritti consuetudinariamente esercitati sulla terra (Hochet et al., 2014, p. 126). Cominciavano ad emergere dispute soprattutto in quelle zone del paese, come nel comune di Bama, in cui i flussi migratori, incentivati dallo stato negli anni ’60-’70, avevano creato situazioni in cui i migranti di seconda e di terza generazione coltivavano la terra e facevano ormai parte dei villaggi ospitanti. In contesti in cui i diritti riconosciuti erano negoziabili potevano fare richiesta di registrazione degli appezzamenti di terra loro concessi. Quello del GRAF rappresentava un tentativo di attivare processi di negoziazione che potevano assicurare la legittimità del riconoscimento dei diritti fondiari posseduti dalle donne nelle aree rurali. Terra e legge fondiaria in Burkina Faso 95 e in cui i rapporti di forza erano importanti per ottenere il riconoscimento di un diritto, il timore di coloro che avevano ceduto la terra ai “migranti” era appunto quello di potere perdere l’autorità esercitata su tali terreni a causa della nuova legge. Alcune persone decidevano così di riappropriarsi della terra precedentemente concessa, per evitare che i “migranti” facessero ricorso alle procedure legali. Paradossalmente, per coloro che appartenevano alle ultime ondate migratorie era più facile richiedere la registrazione di un certificato di possesso, poiché era più semplice ripercorrere la storia delle negoziazioni che avevano portato all’ottenimento della terra. Nel comune di Bama, ad esempio, si registrava una tendenza a riconoscere più facilmente il diritto di richiedere un APFR al migrante che aveva ottenuto l’accesso alla terra attraverso una transazione di tipo monetizzato. I “doni” di terra venivano invece rimessi in discussione dalle nuove generazioni, con cui i migranti si trovavano a rinegoziare gli accordi precedentemente stipulati dai loro padri. Infatti, farsi riconoscere il possesso della terra con la nuova legge significava per un migrante rinegoziare accordi fondiari con chi, anche 50 anni prima, aveva ceduto il terreno e tale procedura risultava complessa. I precedenti accordi presi dagli ormai anziani proprietari venivano rimessi in discussione dalle nuove generazioni, favorendo fenomeni di recupero della terra da parte degli eredi dei proprietari o alimentando le richieste di denaro per il riconoscimento del diritto del migrante di utilizzare o possedere la terra. Tuttavia, dalle 37 interviste semi-strutturate da me effettuate nei 6 villaggi del comune di Bama tra marzo e aprile 2014 emergeva che la possibilità di certificare il possesso della terra a nome del “migrante” non era categoricamente negata. Il risultato della negoziazione dipendeva dalle relazioni che questo era riuscito ad istaurare e consolidare nel tempo con il “proprietario” della terra e con la comunità nella quale si insediava. La definizione dell’appartenenza locale attraverso la registrazione di certificati di possesso a nome dei presunti “autoctoni” del villaggio faceva emergere però un’altra grande problematica. Definendo l’appartenenza di chi faceva richiesta di APFR ad un villaggio si presupponeva che fossero globalmente riconosciuti i confini territoriali che delimitavano i singoli villaggi. Tuttavia, la riforma si trovava ad operare in contesti in cui la delimitazione territoriale non era mai avvenuta in maniera sistematica. I confini tra villaggi rimanevano porosi e prevalevano le forme “consuetudinarie” di gestione e delimitazione del territorio, in assenza di una capacità di controllo dei confini da parte dello stato. Storicamente era attraverso la capacità di far insediare nuove persone sulla terra che i capi si 96 Anna Caltabiano assicuravano il controllo e la gestione del territorio. La concessione di terra ai migranti era fonte di legittimazione per le autorità consuetudinarie, che attraverso le relazioni con i migranti insediati, si garantivano al contempo il controllo sul territorio concesso (Kopytoff, 1987; Jacob, 2007; Chauveau, 2008; Arnaldi, 2010). In sostanza l’indeterminatezza dei confini tra villaggi consentiva di ridefinire l’autorità esercitata dai capi locali sui diversi territori e conquistata attraverso il controllo dei processi di insediamento di nuovi abitanti all’interno di uno spazio socialmente definito. La legge richiedeva a coloro che facevano domanda di APFR di indicare il villaggio a cui appartenevano ma, nelle zone di confine tra villaggi, procedere con la delimitazione delle superfici coltivate dai singoli nuclei familiari diventava un’opportunità per le autorità consuetudinarie di rinegoziare il proprio controllo sul territorio. Alcuni capi locali esercitavano infatti la propria maitrîse foncière su territori che oltrepassavano i confini dei villaggi definiti dall’amministrazione statale, ma il processo di mappatura dei terreni di cui sarebbe stato registrato il possesso vincolava i singoli ad iscriversi all’interno dei confini del villaggio formalmente definiti dallo stato. Se nella fase di registrazione di un APFR un appezzamento di terra veniva formalmente dichiarato appartenente ad un villaggio e tale appezzamento ricadeva all’interno di un perimetro territoriale conteso tra le autorità consuetudinarie di due villaggi, sarebbe stato interesse di ogni singolo villaggio far risultare l’appezzamento come facente parte del territorio “controllato” dalle rispettive autorità consuetudinarie. Il fatto che le commissions foncières villageoises venissero monopolizzate dalle autorità consuetudinarie era quindi strumentale a mantenere il controllo sui territori. I capi locali si appropriavano così delle procedure legislative per rafforzare il proprio potere nelle aree contese. Per questo motivo nel corso delle 28 interviste semi-strutturate e dei 4 focus group effettuati nel comune di Léo con i CFV dei villaggi di Sissili, Wan, Diansia e Sanga, alcune persone invocavano l’intervento dell’amministrazione comunale a difesa dei confini territoriali formalmente definiti dallo stato. Ad esempio, a febbraio 2014 nei villaggi di Sissili e Wan era in corso una disputa fondiaria sulla definizione dei confini dei due villaggi. Nel corso di un focus group con il CFV di Wan, le autorità consuetudinarie e i notabili del villaggio facevano emergere le problematiche legate alla definizione di tali confini. Come sottolineava uno dei membri del focus group: «gli abitanti di Sissili non vogliono riconoscere che la terra che stanno coltivando appartiene al villaggio di Terra e legge fondiaria in Burkina Faso 97 Wan».16 Il fatto che esistessero confini formalmente definiti dallo stato che delimitavano i territori dei diversi villaggi e che questi non corrispondessero a quelli socialmente definiti attraverso i sistemi di maîtrise foncière era causa di dispute tra le autorità consuetudinarie. La legge non risolveva tale problematica, ma al contrario risvegliava le dispute tra villaggi limitrofi, in cui i conflitti fondiari erano facilmente riconducibili alla volontà dei capi consuetudinari di esercitare un’autorità sul territorio attraverso il controllo della popolazione e, in primo luogo, dei migranti. Chi richiedeva il riconoscimento del “proprio” appezzamento all’interno di un territorio “conteso” tra diverse autorità e tra differenti villaggi, si trovava immediatamente imbrigliato all’interno di logiche di potere potenzialmente inesauribili. Tali dinamiche diventavano ancor più problematiche alla luce del fatto che coloro che detenevano il potere all’interno degli organismi responsabili della conciliazione dei conflitti fondiari erano proprio quelle autorità che tentavano di rivendicare il proprio controllo sul territorio. Se legalmente chiunque avrebbe potuto fare richiesta di registrazione di un certificato, di fatto la risoluzione di questo tipo di dispute fondiarie era impensabile in assenza di un governo locale in grado di includere le società rurali in un reale processo di decentramento amministrativo e politico. 8. Il ruolo dei servizi decentrati e deconcentrati dello stato La legge prevedeva la creazione di Servizi Fondiari Rurali (Services Fonciers Rurales - SFR) in seno ad ogni comune del paese. Ogni SFR era composto da un agent domanial, un operatore responsabile della comunicazione e un topografo. I SFR dovevano occuparsi non solo di ricevere le domande di APFR provenienti dai villaggi, ma anche di svolgere i servizi necessari alla formalizzazione dei diritti di usufrutto della terra (delimitazione dei terreni, raccolta delle tasse, registrazione degli APFR a livello comunale). I SFR fungevano quindi da organi statali a servizio della popolazione rurale e da anelli di congiunzione tra le realtà locali e i comuni rurali per tutti gli aspetti legati alla diffusione e all’implementazione della legge fondiaria. In quanto organi rappresentativi dello stato essi avrebbero dovuto garantire una certa eticità nello svolgere il loro operato, tuttavia le condizioni in cui i membri dei SFR si trovavano ad operare li 16 Focus group con il CFV di Wan effettuato il 17 febbraio 2014 nel villaggio di Wan. 98 Anna Caltabiano rendevano particolarmente soggetti a dinamiche di corruzione o ricerca di interessi personali. Ad esempio, il salario riconosciuto loro dal comune era giudicato troppo basso dagli operatori comunali, soprattutto in proporzione al ruolo che essi dovevano svolgere. Di conseguenza si moltiplicavano gli episodi in cui gli agents domaniales richiedevano un surplus agli abitanti dei villaggi interessati alla registrazione dei titoli, per poter coprire le spese di spostamento. 17 Nel comune di Bama, ad esempio, tramite accordi informali, l’agent domanial esigeva cospicue somme di denaro (fino a 15.000 franchi) dagli abitanti delle aree rurali che richiedevano di delimitare il proprio terreno, in aggiunta a quelle già previste dai decreti applicativi del 2010. Sebbene fossero stati formati per affiancare la popolazione nella fase di attuazione della legge, i membri del SFR lamentavano la scarsità di fondi a sostegno del loro operato. Questi erano inoltre soggetti a pressioni da parte di chi voleva formalizzare il proprio titolo fondiario e desiderava farlo non rispettando le procedure legislative necessarie per ottenere un APFR. Nell’agosto 2015 Souleymane Nebié, segretario del CFV di Sissili nel comune di Léo, dichiarava che parallelamente alle procedure di registrazione legali continuavano a verificarsi vendite informali di terra. Souleymane Nebié aveva assistito nel luglio 2015 ad un atto di vendita informale in cui un proprietario aveva ceduto una superficie di 49 ettari di terra ad un signore francese. Egli si esprimeva in questo modo in merito all’avvenuta contrattazione: Era da tempo che non mi capitava di vedere un “bianco” truffato in questo modo. Ha pagato il suo pezzo di terra 3-4 milioni di franchi e non ha ancora nessun documento valido in mano. Il consigliere municipale di Sissili gli ha chiesto 500.000 franchi per occuparsi delle procedure di registrazione della terra presso il comune, ma fino ad ora non si è mosso per fare la registrazione. Poi “il bianco” è venuto a lamentarsi da me. Ma io gliel’avevo detto di non fidarsi.18 L’opportunità di trarre profitto personale dai processi di rilascio dei certificati andava poi a sommarsi alla fragilità dei sistemi giudiziari in grado di 17 Come hanno sottolineato Hochet et al. (2014, p. 19): «gli agenti sostengono di essere scarsamente pagati, poco formati e di non avere necessariamente i mezzi per finanziare i propri servizi. Il carburante e le spese di missione sono pagate con un ritardo che va dai 3 ai 6 mesi». Il salario netto mensile degli agenti del Servizio Fondiario Rurale ammontava a 64.000 franchi CFA e di questi soldi una quota che variava dai 12.000 ai 15.000 franchi doveva essere anticipata personalmente dagli agents domaniales per poter portare avanti le operazioni di delimitazione dei campi a livello locale. 18 Intervista a Souleymane Niebé, segretario del CFV di Sissili, Sissili, 26/08/2015. Terra e legge fondiaria in Burkina Faso 99 sanzionare tali atti e alla complicità di alcuni attori, come i consiglieri comunali, nell’eseguire tali operazioni. In merito alle istituzioni politico-legali dello stato, vi era uno scarso coinvolgimento dei servizi tecnici nell’implementazione della riforma. A confronto con i recenti processi di decentramento politico i consiglieri municipali non erano in grado di esercitare un ruolo di responsabilità (accountability) nei confronti dei gruppi più vulnerabili nei villaggi e non agivano in nome del principio di rappresentanza democratica. 9. Conclusioni A otto anni dall’approvazione della legge fondiaria del 2009 emergono diverse problematiche, messe in evidenza dall’osservazione dei processi di attuazione della legge nei comuni di Bama e Léo. L’intenzione della legge di favorire processi “partecipativi” si scontra con forti deficit di rappresentanza. Le commissioni fondiarie (CFV) e le commissioni di conciliazione dei conflitti (CCFV) che erano state create appositamente in ogni villaggio per garantire l’avvio delle procedure di registrazione dei certificati di possesso fondiario e che dovevano provvedere alla stesura delle carte fondiarie e alla conciliazione dei conflitti in corso, lungi dall’essere rappresentative delle diverse categorie sociali del contesto rurale, sono state monopolizzate da chi desidera rivendicare una propria autorità sui territori coinvolti dal processo di riforma. Le autorità consuetudinarie si posizionano all’interno degli organi consultivi e attraverso le nuove istituzioni fondiarie trovano nuovi canali per esercitare la propria influenza. Ad esempio, nel corso dei 10 focus group effettuati nei comuni di Bama e di Léo con le CFV di 10 villaggi emergeva che i soggetti che prendevano parola erano di fatto gli attori “influenti” del villaggio. Il processo di riforma era mediato dalle chefferie locali che esprimevano il loro punto di vista in merito alla legge fondiaria per conto dell’intero villaggio e influivano sull’adesione della loro comunità al processo di riforma. Il processo di riforma fondiaria in Burkina Faso deve poi fare i conti con l’incompiutezza istituzionale e giuridica dello stato (Ouattara, 2010) e con l’irrisolta questione politica della relazione tra lo stato e le autorità consuetudinarie che continuano ad esercitare un controllo sul territorio a livello locale. I rapporti di forza tra istituzioni fondiarie locali e membri che ne fanno parte predominano sulla legge, in mancanza di un sistema di “responsabilità” (accountability) dei membri delle istituzioni nei confronti dei rappresentati e 100 Anna Caltabiano di spazi di negoziazione democratica in cui i rappresentati possano richiedere una maggiore responsabilità a chi li rappresenta. Le questioni del riconoscimento delle donne e dei migranti quali cittadini di uno stato in grado di conferire pari diritti a tutti gli attori operanti in ambito rurale si scontra con realtà locali in cui i gruppi sociali devono rispondere a regole fondiarie localmente definite e i “gruppi vulnerabili” sono costretti a negoziare i propri diritti con le autorità locali, i nuclei familiari e lignaggi, in una posizione di subordinazione. La negoziazione dei diritti sulla terra avviene su più fronti e a più livelli, ma il campo di azione viene limitato dalla procedura di certificazione della terra, riconosciuta come strumento principale di sécurisation foncière al momento dell’attuazione della legge. La questione delle istituzioni politico-legali legittimate ad esprimersi in merito alla validità delle richieste di registrazione dei diritti fondiari e alla conciliazione delle dispute sulla terra continua poi a rimanere ambigua poiché le nuove istituzioni fondiarie non rappresentano la sola arena di rivendicazione dei diritti fondiari. Ad esempio, chi ha interesse ad acquisire la terra e ad avviare investimenti agricoli può infatti appellarsi ad altre istituzioni politico-legali o fare pressione sui membri dei Servizi fondiari rurali (SFR) e sui consiglieri comunali per ottenere dei certificati di possesso della terra in tempi ridotti rispetto a quelli previsti dall’iter legislativo. I servizi tecnici decentrati dello stato tendono a delegare il loro ruolo alle agenzie esterne a cui il governo ha affidato, almeno in una prima fase, le procedure di attuazione della legge. Nessuno di questi organi sembra però preoccuparsi di garantire la democraticità del processo di riforma messo in atto, compromettendo in questo modo la possibilità del governo di garantire una governance della terra inclusiva e democratica. Riferimenti bibliografici Agrawal B. (1994). “Gender and Command over Property: a Critical Gap in Economic Analysis and Policy in South Asia”. World Development, 22, pp. 1455-1478. Agrawal B. (1997). ““Bargaining” and Gender Relations: Within and Beyond the Household”. Feminist Economics 3, pp. 1-51. Agrawal A. and Ribot J.C. (1999). “Accountability in Decentralization: A Framework with South Asian and African cases.” Journal of Developing Areas, 33, Summer, pp. 473-502. Terra e legge fondiaria in Burkina Faso 101 Arnaldi di Balme L. (2010). “Migrations internes et construction d’un espace politique local. Le cas des villages moose de la vallée du Mouhoun, Burkina Faso”. In Jacob J.P. e Le Meur P.Y. 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Una «bomba a orologeria pronta ad esplodere» – recita il titolo di un articolo apparso su AribNews, un sito d’informazione locale.1 «Una spina nel fianco per la riconciliazione in Burundi», si legge in un articolo di RFI (Radio France International) intitolato «Il ritorno delle rivalità etniche sullo sfondo dei conflitti fondiari».2 La questione fondiaria è effettivamente una delle più controverse in un paese che ha conosciuto ondate successive di rifugiati nei paesi limitrofi sin dagli anni ’60, e che registra una crescita demografica incalzante. La problematica non è nuova ed è stata oggetto di accesi dibattiti all’interno della classe dirigente burundese sin dai primi anni ’90. Ma l’attenzione sulla questione si è particolarmente rinnovata dopo le elezioni nazionali del 2010, e le inquietudini della comunità internazionale nonché le denunce di numerose associazioni e personalità burundesi si sono acuite nel 2013, in seguito al riaccendersi di polemiche a carattere etnico e al verificarsi di scontri tra residenti e polizia in alcune zone del paese. Il rientro dei rifugiati sin dai primi anni 2000 e il disaccordo sulle strategie di riconciliazione fondiaria da adottare hanno esasperato le tensioni già esistenti. AribNews, “Une bombe à retardement prête à exploser au Burundi”. http://www.arib.info/index2.php?option=com_content&do_pdf=1&id=7306 (16/02/2017). 2 RFI, “Burundi: les conflits fonciers provoquent des émeutes sur fond de tensions ethniques”, 29/05/2013, http://www.rfi.fr/afrique/20130529-burundi-conflits-fonciers-hutus-tutsis (16/02/2017); RFI, “Retour des rivalités ethniques au Burundi sur fond de conflits fonciers”, 30/03/2013, http://www.rfi.fr/afrique/20130530-retour-rivalites-ethniques-conflits-fonciers-burundi (16/02/2017). 1 106 Valeria Alfieri Due avvenimenti in particolare hanno riacceso le polemiche. Il 26 maggio 2013 una famiglia residente a Ngagara, quartiere situato a nord della capitale Bujumbura, è stata espulsa dalla sua proprietà con l’accusa di aver illegittimamente occupato il terreno di un cittadino hutu ucciso nel 1972 e il bene in questione è stato consegnato «ai suoi proprietari, cioè i successori di Mpitabakana», dichiarava un responsabile della CNTB (Commissione Nazionale Terra e Altri Beni), Pierre-Claver Sinzinkayo.3 L’azione della CNTB è apparsa agli abitanti del quartiere come un vero e proprio atto di forza. Il fatto che il rappresentante della CNTB per quella zona fosse Pasteur Habimana, ex-portavoce del PALIPEHUTU-FNL (Partito per la Liberazione del Popolo Hutu - Forze Nazionali di Liberazione) (Alfieri, 2014) - una formazione politica etichettata per molto tempo come razzista e genocidaria - ha sicuramente contribuito ad inasprire gli animi. Decine di giovani si sono mobilitati per impedire lo sfratto dei residenti lanciando pietre contro la polizia e cantando slogan a sfondo etnico. La polizia ha reagito utilizzando gas lacrimogeni e sparando in aria. «Secondo fonti giudiziarie, almeno quattro poliziotti e una decina di civili sono stati feriti e più di 20 giovani sono stati arrestati». 4 Poco tempo prima, un episodio analogo era accaduto in un quartiere vicino, Nyakabiga, dove un’anziana donna era stata espulsa dalla sua casa. Il fatto che gli occupanti fossero per la gran parte tutsi e i nuovi proprietari hutu ha portato alla ribalta dei media la questione etnica. Il Presidente della CNTB, Serapion Bambonanire, e i suoi rappresentanti, sono stati accusati di odio razziale, discriminazioni etniche, di despotismo, di combutta con il partito al governo, ecc. Sul web sono state diffuse numerose immagini accompagnate da commenti virulenti e incitazioni all’odio etnico, tanto da spingere il governo a bloccare i forum di alcuni giornali per un mese. Eppure la questione etnica sembrava non trovare più grande spazio nel dibattito politico del dopoguerra, a favore di rivendicazioni direttamente legate ai diritti civili e politici, come la lotta contro la corruzione, il rispetto della libertà d’espressione, e cosi via. Effettivamente, tutti gli analisti concordano nell’affermare che le discriminazioni etniche del passato non sono più oggetto di rivendicazioni politiche nel Burundi contemporaneo, e le fonti d’instabilità politica hanno a che fare con il mal3 Intervista rilasciata a RFI: http://www.rfi.fr/afrique/20130529-burundi-conflits-fonciershutus-tutsis (16/02/2017). 4 RFI, “Burundi: les conflits fonciers provoquent des émeutes sur fond de tensions ethniques”, 29/05/2013, http://www.rfi.fr/afrique/20130529-burundi-conflits-fonciers-hutustutsis (16/02/2017). Rifugiati e accesso alla terra in Burundi 107 governo piuttosto che con il riaccendersi della questione etnica. Questo periodico riemergere di discorsi mediatici sull’etnismo trova una spiegazione in due fenomeni: da un lato il rientro dei rifugiati e la restituzione delle terre è diventata una questione politica ed elettorale; dall’altro l’etnicità è utilizzata come una categoria passe-partout mobilitata all’occorrenza da molteplici attori per dare forza e visibilità alle proprie rivendicazioni e discreditare l’operato dell’avversario. L’evocazione dello spettro etnico provoca allarmismi e attira l’attenzione degli attori locali e internazionali, portando contemporaneamente alla ribalta le questioni che rappresentano il vero oggetto del dibattito. L’etnicità, lontano dall’essere una pratica come in passato, è diventata un registro discorsivo, mobilitato all’occorrenza, che nel nostro caso si è palesato sulla questione dell’accesso alla terra ma che cela strategie politiche e logiche elettorali in un paese in cui i rifugiati (rientrati nel paese a partire dagli anni 2000) e gli sfollati rappresentano più del 10% della popolazione totale, un notevole bacino elettorale. Questo testo si propone di analizzare la questione del rientro dei rifugiati e dell’accesso alla terra mettendola in relazione alle logiche politiche ed elettorali del Burundi post-conflitto, svelando così le strumentalizzazioni di cui è oggetto l’etnicità e il modo in cui è utilizzata in quanto repertorio discorsivo, e mediatizzata all’occorrenza. Per far ciò è necessario anzitutto un breve riferimento all’evoluzione della questione fondiaria nelle diverse fasi della storia socio-politica del paese, nonché al modo in cui la problematica dell’accesso alla terra è stata affrontata nel processo di ricostruzione “post-conflitto”.5 Successivamente metteremo in evidenza i diversi attori in gioco, concentrandoci in particolare sull’operato della CNTB. Infine analizzeremo le dinamiche politiche che sostengono e nutrono la problematica dell’accesso alla terra. Si usa virgolettare il termine “post-conflitto” al fine di rilevarne l’ambiguità. Esso si riferisce alla cessazione ufficiale delle ostilità in seguito alla ratifica di un accordo di pace. Tuttavia, la stipulazione di un accordo non implica necessariamente la fine delle violenze. In Burundi l’Accordo di pace di Arusha ha posto ufficialmente fine a più di un decennio di guerra civile, ma le violenze non sono cessate. Agguati, scontri a fuoco, assassinii politici, deportazioni arbitrarie, hanno segnato tutta l’evoluzione del Burundi del dopo-guerra. Attualmente nel paese si assiste al riemergere di una forte tensione politica accompagnata da gravi episodi di violenza, che si manifestano in maniera sporadica e irregolare, ma che fanno egualmente temere il rischio del riaccendersi di un conflitto armato. Per tale motivo noi preferiamo utilizzare il termine post-conflitto tra virgolette. 5 108 Valeria Alfieri 2. Il ritorno dei rifugiati e la questione fondiaria: incongruenze della legislazione e pluralismo giuridico L’Accordo di pace di Arusha, firmato il 28 agosto 2000, stabilisce nel protocollo IV il diritto dei rifugiati e degli sfollati di rientrare in possesso dei loro beni: «ogni rifugiato e/o sfollato ha diritto a recuperare i propri beni, in particolare la propria terra». Tuttavia il testo resta vago sulle modalità, limitandosi ad annunciare la creazione di un ente ad hoc preposto alla risoluzione dei conflitti fondiari, e prevedendo degli indennizzi qualora il recupero dei beni risulti impossibile: «qualora il recupero dei propri beni risulti impossibile, ogni avente diritto deve ricevere une giusta compensazione e/o un giusto indennizzo», ma senza specificare oltremodo le condizioni di questo impedimento. Nel 2005, con l’insediamento del governo neo-eletto, la questione è stata riconosciuta come prioritaria. Già dal 2002, infatti, una parte dei rifugiati aveva cominciato a rientrare nel paese, tanto che il giorno della presentazione ufficiale del programma di governo, il 23 dicembre 2005, il Presidente della Repubblica citava, tra le azioni prioritarie, la risoluzione della questione fondiaria legata al rientro dei rifugiati ed alla situazione degli sfollati: «portare a termine la reinstallazione completa dei rimpatriati e degli sfollati che hanno perduto la loro abitazione o la loro terra a causa della guerra civile, così come dei gruppi tradizionalmente emarginati come i batwa, sebbene la domanda è di gran lunga superiore all’offerta, a causa della penuria di terre». Le violente crisi socio-politiche che hanno colpito il paese sin dagli anni ’60 (1962, 1965, 1969, 1972, 1988) e che sono sfociate nel conflitto etnopolitico del 1993 (Chretien e Dupaquier, 2007; Chretien, 2002; Chretien et al., 1989; Lemarchand e Martin, 1974; Reyntjens, 1994) hanno causato l’afflusso di circa 800.000 rifugiati nei paesi vicini, in particolar modo in Tanzania, e la guerra del 1993 ha prodotto circa 200.000 sfollati interni (International Crisis Group, 1999). Se i rifugiati del 1993 hanno, nella maggior parte dei casi, ritrovato e recuperato i loro beni,6 la questione è molto più complessa per quelli del ventennio precedente, le cui terre sono state occupate da altre persone, spesso in conformità con la legge, o legalmente vendute, anche varie volte. La legislazione in materia è molto confusa e contraddittoria. Nel 1977, l’allora presidente Bagaza varò una legge che avrebbe dovuto 6 «Tutti gli interlocutori confermano che nell’insieme, questa categoria di rifugiati reintegra la sua proprietà senz’altra forma di processo. Quando il rimpatriato trova la sua proprietà occupata – affermano i funzionari amministrativi di Ruyigi – si fa sloggiare l’occupante. Il nuovo occupante non ha dunque nessuna protezione giuridica, viene semplicemente espulso» (RCN Justice & Démocratie, 2004). Rifugiati e accesso alla terra in Burundi 109 consentire ai rifugiati il diritto di rientrare in possesso di parte dei loro beni che sarebbero stati oggetto di una divisione con gli occupanti. Di fatto, il numero di rifugiati ritornati nel paese fu insignificante e il decreto non fece che convalidare l’occupazione delle terre rimaste abbandonate (International Crisis Group, 2013; RCN Justice & Démocratie, 2004). Nel 1986 fu approvato un Codice Fondiario con l’obiettivo ufficiale di regolamentare sia l’accesso alla terra per i rifugiati che le questioni fondiarie ordinarie, ma questo ha finito a sua volta col consacrare, da un lato, la possibilità d’ingerenza dello stato nella gestione di una proprietà privata, e dall’altro l’occupazione delle terre abbandonate negli anni precedenti. L’articolo 2 e l’articolo 8 recitano rispettivamente: «Nonostante i diritti riconosciuti ai privati, lo stato dispone di un diritto preminente di gestione del patrimonio fondiario nazionale» e che «il patrimonio fondiario nazionale comprende delle terre demaniali e delle terre non demaniali», e cioè quelle che «appartengono a delle persone fisiche o morali di diritto privato». Inoltre l’articolo 29 stabilisce: «Colui che occupa un bene immobile e ne usufruisce per trent’anni ne acquisisce la proprietà per prescrizione», garantendo così una sorta di usucapione a coloro che hanno occupato un appezzamento di terra per più di trent’anni. Situazione che è comune alla maggior parte di coloro che hanno occupato o acquistato la terra dei rifugiati del 1972, ad esempio. L’articolo 8 del Protocollo IV dell’Accordo di Arusha prevedeva la revisione del Codice Fondiario al fine di adattarlo alle nuove esigenze. Tuttavia tale progetto di riforma ha subito numerosi ritardi che manifestano un deficit di volontà politica. Il processo di revisione è stato ampiamente dibattuto da vari attori internazionali che hanno redatto diversi testi i quali non sono mai stati sottoposti al voto del parlamento. Nel 2008 diversi attori internazionali si sono finalmente associati col governo per dar via ad un progetto di riforma consensuale. Nel 2011 è stata promulgata solo una dichiarazione d’intenti, La lettera di politica fondiaria, senza valore giuridico, che prevedeva la decentralizzazione della gestione fondiaria. In questo quadro l’Unione Europea, la Svizzera e, in piccola parte, il Belgio hanno finanziato e messo in opera in ventiquattro comuni un servizio fondiario con il compito di rilasciare certificati di proprietà laddove inesistenti,7 cioè di formalizzare un diritto acquisito per consuetudine. A tal proposito, almeno tre problematiche sono da rilevare: anzitutto i servizi creati non sono destinati anche alla risoluzione dei conflitti fondiari; in secondo luogo l’erogazione del servizio soffre della mancanza di reale volontà politica da parte del governo, per cui alla progres7 In Burundi solo il 5% dei proprietari dispone di un titolo di proprietà. 110 Valeria Alfieri siva riduzione o interruzione dei finanziamenti esterni il servizio s’interrompe; inoltre, secondo alcuni analisti (Kolhagen, 2010) sembrerebbe che i conflitti si siano acuiti dato che la produzione di ulteriori documenti giuridici da parte dei comuni ha amplificato il fenomeno del pluralismo giuridico e i conflitti di legittimità tra le varie autorità competenti. Come si vede la problematica fondiaria va ben al di là delle dispute tra rimpatriati e occupanti. A dispetto dell’attenzione mediatica, infatti, la problematica del ritorno dei rifugiati sulle proprie terre è in percentuale poco rilevante rispetto a quella delle dispute fondiarie nel loro complesso (Kolhagen, 2011). Quest’ultime riguardano, nel 72% dei casi, litigi di successione e di vicinato (International Crisis Group, 2014), che si acuiscono a causa della mancanza di una legislazione chiara. La questione del pluralismo giuridico è un fenomeno che riguarda sia l’accesso alla terra dei rimpatriati sia le questioni fondiarie ordinarie: «Non passa giorno senza che i media trasmettano la notizia che dei mediatori della Commissione Nazionale Terra e altri Beni (CNTB) disapprovino le decisioni dei giudici, che dei mediatori di ONG si lamentino delle decisioni di certe autorità, che dei mediatori religiosi deplorino le decisioni dei mediatori tradizionali, ecc.» - scrivono A. Nyenyezi Bisoka e A. Ansoms (2013), che aggiungono «in altri termini, in tali contesti, i conflitti fondiari si accompagnano a dei conflitti di legittimità tra le autorità preposte alla loro risoluzione». Una pluralità di attori, infatti, interviene in materia fondiaria: da quelli classici, come corti e tribunali, a quelli alternativi, come i notabili locali, le autorità locali, la chiesa, le ONG, e così via. Se nella capitale la supervisione dei media e delle associazioni civili consente, in una certa misura, di mitigare gli abusi politici, nelle altre province del paese, invece, spesso gli equilibri tra le forze politiche a livello locale, celati dalla questione etnica, fanno da ago della bilancia. Nyenyezi Bisoka e Ansoms riportano l’esempio eloquente del comune di Mwakiro, provincia di Muyinga, dove cinque agricoltori, militanti del partito al potere, hanno contattato una ONG locale al fine di risolvere il contenzioso riguardante la proprietà di una terra occupata da un insegnante, Nahimana Fulbert. L’ONG decreta a favore dell’insegnante, per «mancanza di prove sufficienti», ma la decisione non viene accettata dai cinque coltivatori che si rivolgono alle autorità locali. Fulbert riteneva che la questione non potesse essere risolta dalle autorità locali, accusate di parzialità, in quanto appartenenti allo stesso partito dei cinque coltivatori. Viceversa, per i cinque coltivatori i membri dell’ONG erano tutti upronisti, come Fulbert, che di conseguenza era stato favorito. Nell’immaginario comune, i membri dell’UPRONA, l’ex partito unico, sono tutsi, mentre quelli del CNDD-FDD, il partito al potere, maggioritariamente hutu. Ma prima ancora che la questione Rifugiati e accesso alla terra in Burundi 111 trovasse una soluzione giuridica, Fulbert è costretto ad abbandonare la proprietà contesa temendo rappresaglie. Racconta, infatti, di minacce di morte ricevute dai giovani imbonerakure (Human Rights Watch, 2016), il gruppo giovani del partito al potere che agisce, in realtà, come una vera e propria milizia del CNDD-FDD. Questa situazione è molto comune, e gli esempi si moltiplicano. In generale, i giudici vengono accusati di essere ancora in maggioranza tutsi affiliati all’ex partito unico, l’UPRONA, e dunque di favorire i residenti, mentre le autorità locali vengono accusate di favorire gli interessi dei militanti del CNDD-FDD. E nonostante i deboli tentativi di decentralizzazione, l’ingerenza del potere centrale resta forte. In funzione delle vere o presunte appartenenze politiche, i conflitti fondiari sono politicizzati e le persone coinvolte si appellano all’una o l’altra autorità a seconda di dove pensano di avere più possibilità di successo. Spesso, inoltre, a livello locale sono le minacce e la forza ad avere la meglio, come nel caso di Fulbert, dato che le autorità locali o i membri influenti del partito al potere tendono a imporre le loro decisioni con la legge della paura e non di rado i governatori provinciali e i parlamentari interferiscono anche laddove sono stati previsti dei meccanismi di decentramento. Tali interferenze rispondono ad una duplice necessità: quella di consolidare il potere del partito di maggioranza favorendo i propri militanti, e quella di conquistare nuove fette di elettorato, in un paese che è perennemente in campagna elettorale, come vedremo più avanti. Tra la molteplicità di attori coinvolti nella risoluzione dei conflitti fondiari, quello che ha canalizzato tutta l’attenzione negli ultimi anni è sicuramente la CNTB, che rientra nella categoria degli enti giuridici “speciali” ma il cui status giuridico nei confronti della giustizia ordinaria è sempre stato poco chiaro e controverso. Il modus operandi della CNTB è cambiato nel corso degli anni, in seguito soprattutto ad un cambio di direzione e una sempre più forte ingerenza del Presidente della Repubblica, in particolare in prossimità delle elezioni del 2010. Prima di entrare nel merito della questione, è opportuno analizzare brevemente la nascita e l’evoluzione della CNTB, le cui attività hanno per lungo tempo risentito del fenomeno del pluralismo giuridico. 3. Dalla CNRS alla CNTB: nascita ed evoluzione del principale attore delle politiche di reintegrazione dei sinistrati La creazione della CNTB è stata prevista ad Arusha, con lo scopo di mediare nei conflitti legati al ritorno dei rifugiati e all’accesso alla terra. Una prima commissione era stata creata nel 2002, durante la fase di transizione, e 112 Valeria Alfieri aveva il nome di CNRS (Commissione Nazionale per la Riabilitazione dei Sinistrati), la cui finalità era di organizzare e coordinare il rientro dei rifugiati e occuparsi della loro accoglienza e integrazione. Successivamente, nel 2006, la CNRS è divenuta CNTB, Commissione Nazionale Terre e altri Beni, che si occupa più nello specifico dei litigi relativi alla terra e altri beni contesi da rifugiati e sfollati. A capo della commissione è stato nominato un prelato, l’abate Aster Kana, di etnia hutu, affiancato da un vice-presidente civile, di etnia tutsi e membro dell’ex partito unico UPRONA, di modo da garantire l’equilibro etnico e politico e dunque l’indipendenza della commissione nei confronti del partito al potere, il CNDD-FDD, vincitore delle elezioni del 2005. Proprio per tutelare la sua imparzialità, la Commissione è stata posta sotto la tutela della Vice Presidenza della Repubblica. L’Accordo di Arusha prevede infatti che il presidente sia affiancato da due vice presidenti, di etnia e appartenenza politica differente. La tutela della vice presidenza intendeva così rafforzare l’indipendenza della commissione. Al di là della finalità, la sola differenza tra le due successive commissioni si trova nella loro composizione: mentre la CNRS era composta dai rappresentanti di tutti i partiti firmatari l’Accordo di Arusha, la CNTB si compone dei rappresentanti dei soli partiti al governo. L’abate Kana è rimasto a capo della CNTB fino alla sua morte, sopravvenuta nel luglio 2011, quando è stato nominato monsignor Serapion Bambonanire, all’indomani delle elezioni del 2010 che hanno consolidato il potere del CNDD-FDD e confermato la presidenza di Pierre Nkurunziza. I due prelati sono entrambi hutu, ma hanno dei percorsi biografici molto diversi, e hanno orientato le azioni della CNTB su due binari differenti. Mentre Aster Kana è stato raramente oggetto di critiche per il suo operato ed era considerato nell’opinione pubblica come un riunificatore, la nomina di Serapion Bambonanire è venuta a coincidere con la forte mediatizzazione delle attività della commissione, e con le accuse di discriminazioni etniche, nonché con una sempre maggiore ingerenza del Presidente della Repubblica nella gestione dei conflitti fondiari legati al rientro dei rifugiati e alla questione degli sfollati. Ciò accade a cavallo delle elezioni del 2010. Nel 2009 e nel 2011, rispettivamente alla vigilia e all’indomani delle elezioni nazionali del 2010, e dunque ancor prima del cambio di direzione alla testa della commissione, due decreti legge modificano profondamente la composizione e la valenza giuridica delle decisioni della CNTB, che viene messa sotto la tutela diretta del Presidente della Repubblica. La nomina di Serapion Bambonanire, dunque, portatore di un’ideologia e un approccio alla risoluzione dei conflitti fon- Rifugiati e accesso alla terra in Burundi 113 diari divergenti rispetto a quello del suo predecessore, coincide con la tendenza all’accentramento politico già in corso da tempo, e per ragioni che hanno a che vedere più con una perdita di consensi elettorali che con una questione etnica. L’operato del nuovo presidente della CNTB, tuttavia, non sembra rispondere a delle finalità politiche, ma piuttosto ad una temporanea congiunzione di interessi. Le convinzioni ideologiche di monsignor Bambonanire e la sua concezione della giustizia e della pacificazione nazionale confacevano alle esigenze politiche del partito al potere. La morte di Aster Kana sopraggiunge nel mezzo di un processo di revisione del modus operandi della commissione che era già in corso. E la nomina di Serapion Bambonanire non è soltanto il frutto di un suo presunto orientamento politico a favore del CNDD-FDD, quanto del circonstanziato connubio tra le convinzioni ideologiche di monsignor Bambonanire e l’orientamento voluto dal Presidente della Repubblica. Connubio destinato a sciogliersi a partire dal momento in cui gli interessi politici dell’uno e le convinzioni ideologiche dell’altro non trovano più un terreno di intesa, come è avvenuto nel marzo 2015, alla vigilia delle elezioni nazionali, quando le attività della CNTB, ed il modus operandi del suo presidente, finiscono con lo scontrarsi con le logiche elettorali del governatore di Makamba, membro influente del partito al potere. Le pressioni politiche non servono a smuovere Serapion Bambonanire dalle sue posizioni,8 come vedremo in dettaglio nel paragrafo che segue, provocando inesorabilmente la revoca di quest’ultimo dalla presidenza della CNTB ed il suo allontanamento dalle alte sfere di potere. 4. La CNTB tra restituzione e riconciliazione: strumentalizzazioni etnopolitiche e dinamiche elettorali Nella maggior parte dei documenti e degli studi relativi al funzionamento della CNTB, che essi siano stati redatti da enti burundesi o internazionali, si legge che il primo presidente della commissione, l’abate Aster Kana, un hutu di Gitega che si era fatto conoscere come portavoce della commissione elettorale indipendente nel 2005 e aveva partecipato alle negoziazioni di Arusha, fosse un uomo di dialogo, un riconciliatore, che aveva optato per un regolaRSF Bonesha F.M. (2015). “Le Président de la CNTB s’inscrit en faux contre les récentes décisions du gouverneur de Makamba”. http://www.bonesha.bi/Le-President-de-laCNTB-s-inscrit.html (16/02/2017). 8 114 Valeria Alfieri mento “consensuale” dei conflitti sulla terra, privilegiando una ripartizione del bene conteso tra il residente e il rimpatriato. E si legge di come tale approccio godesse di un largo consenso tra la popolazione. Effettivamente, l’analisi statistica di Gilbert Bigirimana, mostra che oltre il 70% delle controversie è stato risolto grazie a una intesa tra le parti (Bigirimana, 2013). L’idea di pacificazione di Kana passava dunque per una conciliazione attraverso la divisione del bene in questione. L’enfasi era posta sul concetto di riconciliazione anziché su quello di giustizia, e l’orientamento era la ricerca di un equilibrio tra restituzione e conciliazione. Serapion Bambonanire ha, invece, da subito portato in primo piano l’esigenza di giustizia. In un discorso pronunciato nel settembre 2012, afferma senza mezzi termini il suo approccio alla questione della pacificazione: Per quanto mi riguarda, e per tornare alla questione che ci interessa, la mia formazione teologica, in particolare, ha impresso dentro di me delle convinzioni che è difficile demolire e tradire. La prima è una breve frase latina «opus justitiae pax» tratta dal libro del Profeta Isaia, capitolo 32, versetto 17, da cui ho tratto le due seguenti traduzioni: L’opera della giustizia è la pace, oppure Il frutto della giustizia sarà la pace (…). Nel frattempo, ho anche spesso ripetuto, come recita il salmo 84, v.11, che «Giustizia e Pace vanno a braccetto» (…). Questo lavoro di riflessione mi ha portato alla convinzione che «senza giustizia non c’è pace», in altri termini, senza la giustizia la pace resta una parola priva di contenuto, una chimera, un bel sogno, ma niente di più.9 Il nuovo presidente della commissione ha vissuto, come molti, l’esilio, e condivide l’idea che «senza giustizia non può esservi riconciliazione». Tale visione non sembra essere propria ad un particolare gruppo etnico o politico, tanto che sia l’UPRONA che il suo vecchio antagonista, il partito FRODEBU (Fronte per la Democrazia in Burundi),10 abbracciano lo stesso punto di vista. Se per l’UPRONA «è necessario che gli interessati siedano insieme e trovino una soluzione comune dividendo i beni contesi»11 per il FRODEBU 9 Discorso di Serapion Bambonanire tenuto in occasione della Conferenza sul ruolo delle Confessioni Religiose, Hôtel Source du Nil, Bujumbura, 12 settembre 2012. Documento trovato su internet ma non più reperibile. 10 Il FRODEBU è il partito che ha vinto le elezioni nel 1993, il cui leader, Melchior Ndadaye, è stato assassinato da membri dell’esercito, con il benestare di influenti personalità uproniste, dopo appena 3 mesi di governo, scatenando così la sanguinosa guerra civile del 1993. 11 Intervista a Bonaventure Niyoyankana, deputato upronista, in La terre Promise, Magazine del giornale Iwacu, agosto 2012, giornale cartaceo e acquistabile on-line su http://www.iwacu-burundi.org (16/02/2017). Rifugiati e accesso alla terra in Burundi 115 «è necessario che le persone trovino un punto d’intesa senza ricorrere alla giustizia. Il popolo attende dal governo la riconciliazione».12 L’esigenza di giustizia, come preambolo ad una vera riconciliazione, in Burundi è sentita da molti, soprattutto nel mondo cattolico a cui appartiene monsignor Bambonanire, ma non si è mai tradotta in azioni concrete, come accade nella maggior parte dei processi di ricostruzione post-conflitto dove la giustizia è subordinata all’esigenza di pacificazione, come lascia intendere lo stesso Serapion Bambonanire: A un certo punto, abbiamo avuto la percezione di essere soli nella nostra lotta contro un’ingiustizia così palese, soprattutto quando i nostri migliori amici hanno avuto veramente paura per noi e ci hanno consigliato chi la prudenza, chi il silenzio, chi le dimissioni, e non vado oltre. La ragione è che la maggior parte di loro aveva finito col cadere nella trappola di coloro che continuano a pensare che la pace e l’armonia sociale possano nascere da un’ingiustizia, quale ad esempio la situazione di quei sinistrati costretti a dividere o cedere le loro terre all’occupante sebbene costui fosse, in molti casi, proprietario di altri beni fondiari. Ad oggi, grazie alla perseveranza della CNTB, i burundesi aderiscono progressivamente e massivamente all’idea della restituzione come l’unica garanzia per una pace duratura; e la Commissione favorisce una coabitazione sicura e serena tra coloro che un tempo erano nemici. Allo stesso tempo, un gran numero di burundesi si rendono finalmente conto che la divisione forzata o il mantenimento dello status quo corrispondono a un evidente diniego della giustizia che, alla lunga, genererà frustrazioni destinate a sfociare necessariamente sulla rivolta e la vendetta.13 La ferma convinzione nella sua idea di giustizia, intesa come restituzione senza compromesso alcuno di ogni bene sottratto in cattiva fede, prerequisito per la pace e l’armonia sociale, ha reso Serapion Bambonanire una personalità controversa e poco amata sia agli occhi della società civile burundese che della comunità internazionale. Il suo linguaggio franco, in una cultura del non-detto e del sottinteso, è stato criticato anche da coloro che, in fondo, non la pensavano molto diversamente da lui. Fatto sta, che il suo approccio alla questione dei rifugiati divergeva notevolmente da quello del suo predecessore che, invece, cercava un compromesso che potesse accordare tutti, e che aveva dunque il benestare degli upronisti e della comunità internazionale. 12 Intervista a Frederic Bamvuginyumvira, vice presidente del FRODEBU, in La terre Promise, Magazine del giornale Iwacu, agosto 2012. 13 Discorso di Serapion Bambonanire tenuto in occasione della Conferenza sul ruolo delle Confessioni Religiose, Hôtel Source du Nil, Bujumbura, il 12 settembre 2012, documento trovato su internet ma non più reperibile. 116 Valeria Alfieri A difesa della politica della restituzione, monsignor Bambonanire avanza anche un’altra motivazione, più pratica, che ha che fare con il numero di ricorsi presentati sia alla stessa CNTB che alla giustizia ordinaria anche in seguito a divisioni “apparentemente consensuali” del bene conteso, a dimostrazione, a suo avviso, che la modalità adottata da Kana non fosse la più appropriata: «La divisione equa del bene conteso è una soluzione ipocrita, coloro che hanno adottato tale metodo sanno bene che successivamente l’occupante e il rimpatriato arrivano alle mani perché restano insoddisfatti. E finiscono col ricorrere ugualmente al tribunale» - dichiara il presidente della CNTB in un’intervista.14 Tale motivazione, e il conseguente diffuso malcontento tra i rimpatriati, sembrerebbe essere ciò che ha spinto il Presidente della Repubblica ad affrontare la questione in modo più incisivo. Monsignor Bambonanire è una vecchia conoscenza del Presidente della Repubblica, Pierre Nkurunziza. Dopo una lunga carriera all’estero, in esilio, è rientrato in Burundi per sostenere il CNDD-FDD durante la ribellione degli anni ’90, come guida religiosa. Il pensiero di questo prelato doveva essere ben conosciuto e la sua nomina il risultato di una attenta scelta politica. Ma per quale motivo il partito al potere aveva interesse a modificare lo status quo correndo il rischio di attirarsi le critiche sia di media e associazioni burundesi che di organismi internazionali? Sembrerebbe che, in realtà, le soluzioni consensuali effettuate sotto la presidenza di Kana fossero spesso imposte o vissute come un’imposizione dalle parti in conflitto: «lodata dalla Radio Nazionale, sostenuta dalle autorità locali e praticata anche dai paesi vicini, la divisione del bene conteso poteva difficilmente essere contestata dagli interessati» (International Crisis Group, 2014). Da numerose interviste effettuate da International Crisis Group è emerso come molte persone si siano sentite costrette ad accettare la divisione come soluzione “consensuale” pur ritenendo di subire un’ingiustizia; tale stato d’animo era forte sia tra i rimpatriati che tra i residenti. Accadeva spesso che dopo la decisione di una divisione “unanime” i casi di ricorso sia dinnanzi alla CNTB nazionale15 che ai tribunali ordinari fossero molto frequenti. Il risultato era un notevole malcontento tra i rimpatriati che non giovava all’immagine e, soprattutto, al consenso elettorale del partito al potere. Al tempo stesso, la questione era sfruttata anche da altre forze politiche, e in particolare proprio dall’ex partito unico che tentava di 14 Intervista a Serapion Bambonanire pubblicata sul giornale IWACU, La terre promise, Magazine del giornale Iwacu, agosto 2012. 15 Il meccanismo decisionale della CNTB prevede che le decisioni vengano prese dalle delegazioni provinciali. In seguito, le parti hanno due mesi di tempo per presentare ricorso alla CNTB nazionale. Rifugiati e accesso alla terra in Burundi 117 strumentalizzare la situazione degli sfollati. Se infatti la quasi totalità dei rifugiati rientrati nel paese sono di etnia hutu, la maggior parte degli sfollati interni che ancora vivono nei siti ad essi adibiti sono dei tutsi che hanno lasciato le loro terre a causa della guerra del 1993. Ad aggravare il malcontento vi era il fatto che lo status giuridico della CNTB e la sua posizione nei confronti del sistema giuridico burundese non sono mai stati chiari. La commissione non era considerata un organo giuridico e tutte le decisioni potevano essere subordinate al controllo della giustizia ordinaria. Una sentenza di un tribunale poteva dunque annullare ogni decisione presa dalla CNTB. Data la valenza giuridica della norma della prescrizione, accadeva spesso che il tribunale sentenziasse a favore del residente, annullando l’azione della CNTB. Inoltre se la CNTB non poteva intervenire laddove era già stato presentato ricorso dinnanzi a un tribunale, viceversa la giustizia poteva legiferare laddove vi era ancora un’azione della CNTB in corso. Sebbene secondo Bigirimana l’invalidazione delle decisioni della CNTB non avvenisse in modo sistematico, ciò provocava l’ira dei rimpatriati, anche perché i ricorsi alla giustizia ordinaria significavano la sospensione dell’esecuzione delle decisioni della CNTB. Alla vigilia delle elezioni del 2010, dunque, il Presidente della Repubblica vara una legge, la n. 1/17 del 4 settembre 2009, che modifica il regolamento della CNTB. I membri permanenti passano da 23 a 50, mentre si riducono i membri delle delegazioni provinciali, dalle quali vengono esclusi i rappresentanti ecclesiastici e i magistrati. Inoltre alla CNTB si consente di rendere esecutive le sue decisioni anche nel caso in cui siano in corso delle cause giudiziarie e sino allo sfinimento delle possibilità di ricorso (Bigirimana, 2013). L’allargamento dei membri permanenti è ufficialmente giustificato con l’esigenza di accelerare le pratiche ma nasconde anche un’altra impellenza: quella di “riassorbire” nel sistema del CNDD-FDD delle personalità politiche che appartenevano in precedenza all’opposizione o che vivevano ancora in esilio e reclutate dal partito al potere con promesse economiche di vario tipo in cambio di sostegno elettorale e al fine di dividere e indebolire gli oppositori. L’esclusione, invece, dalle delegazioni provinciali di membri indipendenti e il rafforzamento della posizione CNTB nei confronti della giustizia ordinaria hanno come finalità una maggiore autonomia della commissione e un maggiore accentramento delle sue attività. È chiaro l’obiettivo di racimolare consensi elettorali tra gli oltre 500.000 exrifugiati rientrati nel paese tra il 2002 ed il 2009. All’indomani delle elezioni, una nuova legge spinge ancora più avanti questo processo di accentramento, e tenta di rafforzare la presa su questo cospicuo bacino di mobilitazione (e strumentalizzazione) politica. Con la legge n.1/01 del 4 118 Valeria Alfieri gennaio 2011 la commissione passa sotto la tutela diretta del Presidente della Repubblica, e quasi immediatamente il vice presidente della CNTB, l’upronista Pontien Niyongabo, lascia il posto a Sophonie Ngendakuriyo, un pastore evangelico vicino al presidente Nkurunziza, mentre ad aprile Serapion Bambonanire prende le redini della commissione. Inoltre a capo di quasi tutte le delegazioni provinciali vengono nominati membri del partito al governo. La posizione della CNTB rispetto alla giustizia ordinaria si delinea sempre più a favore della supremazia della commissione, a cui viene attribuito il potere di sottrarre alla giurisdizione ordinaria un ricorso già esaminato dalla commissione. Al tempo stesso il ministro della giustizia chiede ai presidenti dei tribunali di non applicare più la regola della prescrizione, facendo leva sul principio «nei confronti di colui che non può agire, la prescrizione non può essere applicata» (International Crisis Group, 2014), ripreso di frequente in molti documenti della CNTB.16 La commissione comincia dunque a influenzare il funzionamento dei tribunali, rovesciando i rapporti di forza e scatenando le proteste di molti rappresentanti dei media e della società civile burundese. All’indomani delle elezioni del 2010, il presidente ha bisogno di consolidare l’influenza e il controllo sui gruppi di ex rifugiati. Le elezioni del 2010 sono state, infatti, molto turbolente. I principali partiti d’opposizione hanno boicottato il processo elettorale (Alfieri, 2010), accusando il CNDD-FDD di frode, e alcuni gruppi politici hanno tentato di mettere in piedi un movimento armato. Il timore del partito al potere era che i rifugiati potessero diventare un bacino di reclutamento da parte degli oppositori facendo leva sul loro malcontento e sulla mancata integrazione socio-economica. Il presidente tenta dunque di rafforzare la presa del partito sulle masse di rimpatriati. Sul versante politico opposto, il partito UPRONA tenta a sua volta di manipolare la situazione degli sfollati a proprio vantaggio. 5. La problematica degli sfollati e il braccio di ferro con l’UPRONA Tra i principali partiti politici le critiche più aspre all’operato della CNTB sono giunte dall’UPRONA, che si contendeva soprattutto il controllo politi16 Per esempio il Mémorandum sur les réalités de la CNTB. Contexte historique et juridique, fonctionnement et réalisations, grands défis et propositions de solutions, (Bujumbura, dicembre 2012). https://www.uantwerpen.be/images/uantwerpen/container2143/files/DPP %20Burundi/Justice%20Transitionnelle/R%C3%A9paration%20et%20CNTB/analyses/Mem orandum_1212.pdf (16/02/2017). Rifugiati e accesso alla terra in Burundi 119 co sui campi di sfollati. Al pari della questione dei rifugiati, quella degli sfollati risulta molto delicata e rientra nelle prerogative della CNTB. All’indomani della stipulazione dell’Accordo di Arusha, gli sfollati a causa della guerra del 1993 erano circa 500.000. All’epoca il 90% di essi non desiderava tornare nel luogo di origine, temendo per la propria incolumità fisica e sentendosi più protetto da eventuali attacchi se raggruppato in un unico sito (Observatoire de l’Action Gouvernamentale, 2003). Effettivamente, la situazione degli sfollati originari delle province occidentali di Cibitoke e Bubanza era molto critica, dato che gli “assalitori” avevano saccheggiato e occupato le loro terre, o le avevano vendute illegalmente. La situazione era meno tesa per quelli provenienti dalle province centro-settentrionali, come Muramvya e Kayanza, dove gli sfollati riuscivano a mantenere il controllo sui propri beni e dedicarsi di giorno alla coltivazione dei propri campi. Progressivamente, con lo stabilizzarsi della situazione politica la maggior parte di essi ha recuperato le proprietà ed è ritornato a vivere sulla propria terra (Observatoire de l’Action Gouvernamentale, 2003), cosicché nell’agosto 2012 il loro numero era di 78.948, ripartiti in 120 siti (Observatoire de l’Action Gouvernamentale, 2013). La percentuale di coloro che non potevano avere accesso alle proprie terre per motivi di lontananza geografica o di sicurezza si era notevolmente ridotta (Observatoire de l’Action Gouvernamentale, 2013). Le terre occupate dagli sfollati sono in gran parte terre demaniali che lo stato vorrebbe recuperare, ma alcune appartengono a proprietari privati, e i conflitti tra gli sfollati, le autorità locali e la popolazione vicina sono numerosi. L’esempio più eloquente riguarda il sito di Ruhororo (provincia di Ngozi), uno dei più grandi siti di sfollati, che ospita quasi 6.000 persone (Observatoire de l’Action Gouvernamentale, 2013). Gli sfollati di Ruhororo rifiutano di ritornare nelle loro residenze di origine, facendo leva sulla paura di possibili vendette, la difficoltà a vivere circondati da un vicinato hutu, e i traumi causati dalla guerra. Vivono così nel sito, che non dista molto dalle loro proprietà, dove si recano quotidianamente per coltivare i campi. Non di rado il sito è stato luogo di scontri con le forze dell’ordine, e sulla questione si sono pronunciati a varie riprese i rappresentanti dell’UPRONA a sostegno delle rivendicazioni degli sfollati. In un memorandum dell’allora presidente del partito, Charles Nditije, si legge: È normale che una persona voglia recuperare la sua terra, ma non è normale costringere uno sfollato che teme per la sua sicurezza a tornare sulla propria collina d’origine. Questa è una violazione della Convenzione dell’Unione Africana sulla Protezione e l’Assistenza agli Sfollati in Africa (…). La pressione esercitata sugli sfollati rappresenta ugualmente una violazione dei Principi Direttivi riguardanti il trasferimento di persone all’interno del proprio paese e del Protocollo 120 Valeria Alfieri dell’Assistenza agli sfollati interni della CIRGL adottato dal Burundi nell’ambito del patto sulla sicurezza, la stabilità e lo sviluppo nella regione dei Grandi Laghi (…). Pur rispettando il principio della restituzione delle terre, la CNTB deve trattare gli sfollati con dignità, tenendo conto della loro integrazione nella società. Le popolazioni si aspettano che la Commissione ricopra il ruolo di riconciliatrice, ponendo le basi alla fiducia ed alla speranza tra burundesi (Nditije, 2013). Per monsignor Bambonanire, tuttavia, le motivazioni dell’UPRONA sono esclusivamente elettorali: «l’UPRONA oramai è un partito debole e si batte per garantire la sua sopravvivenza»,17 dichiara il presidente della CNTB. E in un articolo apparso su Iwacu, uno dei pochi giornali privati e indipendenti in Burundi, il giornalista si chiede: «Cosa c’è di più logico che vedere l’UPRONA scendere in campo per difendere gli interessi degli sfollati? Certi osservatori ritengono che tutto ruota intorno alle elezioni del 2015».18 Confrontando i risultati elettorali dell’UPRONA alle elezioni del 2010, ad esempio, emerge con evidenza la coincidenza tra alcuni siti di sfollati e la presenza politica del partito. In alcuni di questi comuni l’UPRONA ha avuto un seggio alle elezioni comunali, per circa mille o duemila voti. A Ruhororo, il sito di sfollati più grande del paese, l’UPRONA ha ottenuto due seggi. Data la notevole perdita di consensi del partito in seguito al consolidamento del multipartitismo negli anni 2000 la questione diventa determinante per la sopravvivenza politica dell’UPRONA. Tale dinamica è chiara agli occhi dei principali leader politici e dello stesso Serapion Bambonanire, che non esita a muovere accuse in questo senso: «Me medesimo, la persona che vi sta parlando, ha avuto a che fare con i responsabili di partiti politici, avvocati, consiglieri di vari servizi pubblici, personale dell’amministrazione nelle alte sfere, parlamentari, che volevano tutti darmi degli ordini, indicarmi quale decisione prendere, e sempre a favore del loro cliente o del loro socio in affari».19 Il braccio di ferro tra il presidente della CNTB e l’UPRONA, e le critiche a sfondo etnico rivolte dai media e dalla società civile, sono state fomentate anche dalla convinzione che tutti i residenti siano dei tutsi, e che dunque, essendo la maggioranza dei rimpatriati degli hutu, la CNTB favorisca questo gruppo etnico. Monsignor Bambonanire ha più volte ribadito che «ci sono coloro che pensano che gli occupanti siano tutti dell’etnia tutsi, ma non è così»20 - ripor17 Intervista a Serapion Bambonanire, Bujumbura, 06/2012. Iwacu, http://www.iwacu-burundi.org/deplaces-sites-1993-hutu-tutsi-guerre/ (04/11/2015). 19 Discorso di Serapion Bambonanire a Rumonge, 6 novembre 2012, https://www.uantwerpen.be/images/uantwerpen/container2143/files/DPP%20Burundi/Justice%20Transition nelle/R%C3%A9paration%20et%20CNTB/analyses/Bambonanire%20061112.pdf (16/02/2017). 20 Iwacu, La terre Promise, Magazine, agosto 2012. 18 Rifugiati e accesso alla terra in Burundi 121 ta il giornale Iwacu, che scrive anche che «a Makamba, ad esempio, i fatti mostrano che le denunce e i litigi fondiari hanno come protagonisti persone appartenenti alla stessa etnia, gli hutu. Ed è proprio in questa provincia che la CNTB ha un gran numero di casi da risolvere».21 Sembrerebbe, dunque, che una parte dei residenti siano hutu, talvolta si tratta persino degli stessi parenti dei rimpatriati. Non disponiamo di dati precisi, ma l’incidente che ha portato alla destituzione di Serapion Bambonanire e la sospensione delle decisioni della CNTB da parte del Presidente della Repubblica è eloquente al riguardo e conferma le nostre ipotesi di partenza. Nel marzo 2015, qualche mese prima della tenuta delle elezioni nazionali, il portavoce del Presidente della Repubblica, Leonidas Hatungimana, dichiara alla RTNB (Radio-Tele Nazionale del Burundi) che tutte le decisioni della CNTB sono sospese per tutto il periodo elettorale, ad eccezione delle misure prese con il consenso delle parti in causa. Una decisione che va esattamente nel senso inverso a quello difeso e garantito dalla Presidenza della Repubblica sino ad allora e che sembra voler tutelare, per la prima volta, il diritto dei residenti. La sospensione fa seguito a una serie di manifestazioni popolari contro la CNTB organizzate a Makamba, e a un acerbo scontro tra il Presidente della CNTB da un lato, e il Governatore di Makamba ed alcuni parlamentari del CNDDFDD, dall’altro. Questi ultimi avrebbero preteso dalla CNTB la sospensione nell’esecuzione di alcune decisioni riguardanti la restituzione di terre ai rimpatriati perché ciò avrebbe danneggiato i loro interessi elettorali. Nonostante il fatto che tali personalità fossero membri influenti del partito al potere, Serapion Bambonanire ha portato avanti con determinazione la sua linea di condotta. In una conferenza stampa22 dichiara apertamente: Queste persone credono, a torto, che la buona reputazione di cui gode la CNTB nell’opinione pubblica generale e presso le popolazioni interessate, possa coprire le loro deficienze e mancanze. Gli onorevoli Bucumi Pasteur, Ntasano Oscar e Ndayizeye Rénovat eletti a Makamba, sono venuti nel mio ufficio, il 12 febbraio 2015, per chiedermi di soprassedere all’esecuzione programmata delle decisioni della CNTB per la sola ragione che ciò danneggerebbe il loro consenso elettorale. Successivamente, l’onorevole Réverien Ndikuriyo ha letteralmente aggredito un membro della commissione in opera a Kibago, intimandogli che tali azioni giocano negativamente sulle sue per21 Ibidem. RSF Bonesha F.M. (2015). “Le Président de la CNTB s’inscrit en faux contre les récentes décisions du gouverneur de Makamba”. http://www.bonesha.bi/Le-President-de-laCNTB-s-inscrit.html (16/02/2017). 22 122 Valeria Alfieri formance elettorali. Anche tra le più alte cariche del paese ci sono autorità che, in accordo con tale genere di personaggi, ci hanno chiesto di arrestare immediatamente il nostro meraviglioso lavoro di ristabilire i diritti dei sinistrati per questioni di sicurezza del tutto fantasiose. Questa dichiarazione di accusa aperta contro delle personalità politiche candidate alle elezioni del 2015 per il partito al governo non poteva passare inosservata senza scatenare importanti conseguenze politiche. Dopo la sospensione delle decisioni della CNTB per tutto il periodo elettorale, il 20 aprile monsignor Bambonanire è dimesso dalle sue funzioni. Queste circostanze si susseguono senza fare molto rumore sui media e sui social network. Quasi nessun mezzo d’informazione burundese ha dedicato spazio alla revoca di Serapion Bambonanire da parte del Presidente della Repubblica. Se fino a pochi mesi prima la CNTB era considerata nel linguaggio mediatico come un prolungamento del partito al potere, stranamente la sostituzione del suo presidente passa sotto banco, senza destare stupore né clamore. Nel clima teso della vigilia delle elezioni nazionali del 2015 la questione, probabilmente, destava poco interesse, la presa di posizione anti-governativa di Serapion Bambonanire finiva con lo screditare le tesi sostenute fino a quel momento da alcuni partiti d’opposizione e da una frazione della società civile burundese. La fortuita congiuntura che aveva permesso alla CNTB di lavorare fino a quel momento con il benestare del partito al potere era cambiata con l’avvicinarsi delle elezioni del 2015, quando le convinzioni ideologiche del presidente della CNTB diventavano un intralcio alle manovre elettorali di alcuni membri del partito al potere. Il connubio tra gli interessi del partito al potere e le convinzioni ideologiche di monsignor Bambonanire termina dunque con l’evolversi delle circostanze che gli avevano dato vita. Da quel momento non si è più parlato della CNTB né della questione dei rimpatriati nei media, e il registro dell’etnicità si è trasferito su di un altro piano. Il rapido deteriorarsi della situazione socio-politica alla vigilia delle elezioni del 2015 caratterizzata da un’escalation di violenze che fanno temere l’esplosione di una nuova guerra civile hanno canalizzato tutta l’attenzione mediatica, ma la tematica della strumentalizzazione dell’etnicità a fini politici e mediatici resta ancora più d’attualità,23 essa è utilizzata dai diversi attori politici, al governo come all’opposizione, al fine di fomentare paura e insicurezza per mobilitare risorse 23 France24, “Burundi’s worsening crisis ‘is political, not ethnic’”, 11 dicembre 2015, http://www.france24.com/en/20151214-burundi-crisis-civil-war-pierre-nkurunziza-hrw (16/02/2017); Alfieri V. “I media, la retorica del genocidio ed i profeti dello scontro etnico in Burundi”. Frontiere News, 22 novembre 2015. http://frontierenews.it/2015/11/i-media-laretorica-del-genocidio-ed-i-profeti-dello-scontro-etnico-in-burundi/ (16/02/2017). Rifugiati e accesso alla terra in Burundi 123 umane. L’etnicità resta, al tempo stesso, una categoria fortemente mediatizzata dai giornalisti burundesi e occidentali allo scopo di attrarre l’attenzione della comunità internazionale su di una crisi altresì “dimenticata”. L’uso politico e mediatico delle categorie etniche resta un gioco pericoloso, ma attualmente la popolazione sembra solidale e dimostra di resistere alle manipolazioni identitarie. 6. Conclusioni L’analisi dell’evoluzione della CNTB e dei suoi rapporti con il sistema politico burundese mostra bene quanto l’etnicità sia una costruzione politica, un registro discorsivo mobilitato all’occorrenza e da cui attingono varie tipologie di attori, anche concorrenti fra loro. Ciò non significa che le categorie etniche abbiano poca o alcuna rilevanza, ma indica soltanto che l’etnicità, pur restando un elemento di analisi politica rilevante, non può essere considerata in termini essenzialisti. Essa non rappresenta la sostanza delle problematiche sociopolitiche del Burundi. La questione etnica, relegata ai margini della politica burundese, è riapparsa in relazione alla questione fondiaria in tempi e modi precisi, legati a delle circostanze particolari e circoscritte. L’esistenza storica incontestabile di due gruppi umani, gli hutu ed i tutsi, e il pesante fardello delle violenze etniche del passato che consentono tutt’oggi di far leva sulla paura, giustificano l’utilizzo di un registro etnico che pur non avendo più, almeno finora, una reale presa nella società burundese, impedisce agli analisti di cogliere con maggior facilità dinamiche più strettamente politiche, inerenti alle modalità di competizione elettorale messe in opera dagli attori in campo, le cui alleanze sembrano sempre meno afferenti a uno spirito comunitaristico che a logiche politiche strategiche e congiunturali. Riferimenti bibliografici Alfieri V. (2010). “Ruanda e Burundi: due paesi e due esperienze elettorali a confronto”. afriche e orienti, 3-4, pp. 127-135. Alfieri V. 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Introduzione Guardando al panorama istituzionale e alle articolazioni locali del potere nel Ghana contemporaneo, non si può evitare di rivolgere l’attenzione all’operato dei cosiddetti capi tradizionali.1 Si tratta di soggetti che si propongono come particolarmente attivi nel promuovere il benessere della “propria gente” secondo i dettami della “tradizione” e le esigenze della “modernità”, talvolta stabilendo forme di cooperazione, talaltra entrando in competizione con altri attori non solo sulla scena locale, ma anche nazionale e, sempre più spesso, transnazionale.2 L’argomento che mi propongo di sviluppare fa dunque riferimento al dibattito sulla posizione oggi assunta dalle auNonostante la problematicità dell’attributo tradizionale, preferisco questa definizione a quella di neotradizionale, spesso utilizzata per sottolineare l’invenzione di strutture di potere che non esistevano affatto o che erano presumibilmente molto diverse prima dell’intervento coloniale. “Autorità tradizionali” è senz’altro una locuzione nata dallo sforzo immaginativo del potere coloniale, ma è ormai parte della storia istituzionale del paese e della sensibilità e percezione diffuse in Ghana tanto tra i suoi rappresentanti quanto tra la popolazione. Nello scritto si farà riferimento anche alla nozione di chieftaincy, secondo il linguaggio della Costituzione del Ghana, ancora una volta memore delle categorizzazioni inglesi. 2 Quella tra “tradizione” e “modernità” è, naturalmente, un’opposizione fittizia e proprio le pratiche in cui sono coinvolti i capi, così come le retoriche che essi promuovono, dimostrano molto bene come non ci sia da parte loro la percezione di alcuna contraddizione tra il compito di preservare la prima e l’obiettivo di assicurare la seconda. Per gli argomenti proposti in queste pagine, è opportuno fare riferimento a un modello transazionalista (Binsbergen, 1999, pp. 98-101) che, superando il dualismo tra logiche o sistemi nettamente distinti, assume che i confini tra le sfere politiche moderna e tradizionale siano piuttosto porosi, permeabili e soprattutto manipolabili, di volta in volta costruiti attraverso le pratiche. D’altro canto bisogna tener presenti le eredità istituzionali del dualismo legale fondato in epoca coloniale (Mamdani, 1996). 1 128 Benedetta Lepore torità tradizionali in Ghana nei processi di governance che implicano la mobilitazione di risorse per lo sviluppo dei territori su cui la chieftaincy, coesistendo con le strutture del governo locale, esercita i propri diritti e poteri. Un osservatorio particolare da cui guardare a queste dinamiche è offerto da eventi generalmente noti come festival tradizionali, ovvero insiemi articolati di cerimonie pubbliche e private dal carattere sacrale e politico, celebrati localmente in tutto il Ghana. Nel perseguire i propri obiettivi di sviluppo, i capi costruiscono e rimodulano costantemente sulla scena dei festival un rapporto complesso con esponenti del governo, istituzioni o soggetti economici, espresso tanto attraverso retoriche della complementarità quanto di proposta alternativa, in una commistione dei linguaggi della politica, dell’economia e della tradizione che fa dei festival stessi un foro in cui si negozia la «distribuzione dell’autorità pubblica» (Lund, 2006, p. 686). Così la chieftaincy manipola lo spazio della propria leadership all’interno di un contesto istituzionale, giuridico e politico quale quello del Ghana contemporaneo, che ne riconosce la legittimità mirando al tempo stesso a stabilirne i confini. La storia degli alterni rapporti tra stato e chieftaincy – condensata con tutte le sue ambiguità prima nelle ordinanze coloniali, poi nei diversi testi costituzionali e atti legislativi del Ghana indipendente – è segnata dal tentativo di individuare lo spazio della governance tradizionale, modellandone la struttura secondo le forme burocratiche della macchina statale.3 Ciò la porta ad avere nell’attuale assetto istituzionale regolato dalle disposizioni costituzionali del 1992 lo statuto di un potere autonomo eppure interno allo stato. Non intendo in questa sede ripercorrere la storia della relazione tra stato e chieftaincy in Ghana, né affrontare il tema dello sviluppo nelle realtà postcoloniali africane. Tenterò piuttosto di problematizzare alcune rappresentazioni sostenute dai capi tradizionali rispetto al loro ruolo nella gestione delle risorse e nell’attivazione di processi di sviluppo, emerse nel corso della mia ricerca etnografica nell’area nzema del Ghana sud-occidentale. Le retoriche e pratiche promosse dai capi nzema durante la celebrazione del festival Kundum4 sono infatti indicative del modo in cui essi definiscono se stessi e la 3 Vedi Arhin Brempong e M. Pavanello (2002) per il processo di burocratizzazione del potere tradizionale da parte inglese, in particolare nell’Asante. 4 Il Kundum viene celebrato annualmente nel periodo compreso tra luglio e novembre in diverse aree attigue, a cominciare dai più orientali territori ahanta fino a quelli nzema in Ghana e Costa d’Avorio. Generalmente le celebrazioni hanno una durata media di una settimana in ognuno dei centri che il festival attraversa e sono precedute da un periodo più lungo di preparazione in cui si osservano alcune interdizioni rituali. Il Kundum ha una notevole profondità Governance tradizionale nel Ghana contemporaneo 129 propria immagine pubblica e costituiscono perciò una buona base di partenza per una lettura che ponga l’accento sulla loro agency nella costruzione di spazi d’azione rimodulati sui doveri che derivano al potere tradizionale dalle sue qualità “ancestrali”. Per poter procedere nell’analisi, ritengo opportuno fornire innanzitutto qualche breve nota sulle peculiarità del quadro normativo all’interno del quale agisce la chieftaincy nel Ghana contemporaneo. Sarà così possibile riflettere sullo spazio che intercorre tra le prescrizioni statutarie e la dinamica delle pratiche creative del potere consuetudinario che van Rouveroy van Nieuwaal e van Dijk (1999b, p. 5) hanno sintetizzato coniando il verbo chiefing. 2. Oltre lo statuto costituzionale della chieftaincy nel Ghana contemporaneo Il quadro normativo che regola l’esercizio del potere della chieftaincy ghanese ne sancisce l’autonomia e sottolinea il presunto isolamento del suo sistema di governo rispetto alle istituzioni politiche dello stato, sebbene le stesse norme statutarie la inquadrino all’interno dell’ordinamento statale e le pratiche quotidiane dimostrino a più livelli il suo peso nella vita politica del paese. Le prerogative della chieftaincy sono attualmente stabilite e regolate dal capitolo 22 della Costituzione della Quarta Repubblica, la cui promulgazione nel 1992 ha segnato la cosiddetta transizione democratica, e dal Chieftaincy Act (759) del 2008. L’art. 270 della Costituzione riconosce e garantisce la chieftaincy, stabilendo che il parlamento non ha potere di emanare alcuna legge che consenta a qualsivoglia persona o autorità di accordare o ritirare il riconoscimento a un capo. Il principio di non ingerenza del governo rispetto alla nomina o deposizione di un capo fu introdotto dalla Costituzione del 1979, mentre l’esistenza della chieftaincy era già stata assicurata dai precedenti dettati costituzionali del Ghana indipendente.5 Nel testo del 1992 il capo viene definito, in modo piuttosto vago, come persona che provenendo dalla famiglia appropriata sia stata validamente nominata, eletta, selezionata, intronizzata come chief, o queenmother storica, riconducibile nelle fonti scritte alla descrizione delle cerimonie osservate ad Axim da Willem Bosman (1967 [1705]). 5 Per una sintetica ma efficace ricognizione dei cambiamenti nella struttura del potere tradizionale a partire dalle disposizioni della Coussey Committee fino alla Costituzione del 1992 si veda Arhin (2007). Vedi Brobbey (2008) per un approfondimento sullo statuto giuridico della chieftaincy nel Ghana contemporaneo. 130 Benedetta Lepore (rappresentante femminile del potere tradizionale) secondo le norme consuetudinarie (art. 277). La legge può invece fornire disposizioni affinché le istituzioni della chieftaincy procedano alla formulazione di regole per la nomina o deposizione dei capi e per la loro registrazione ufficiale. Il Chieftaincy Act (759) del 2008 precisa infatti che per quel che riguarda la performance delle funzioni stabilite dall’atto stesso una persona non può essere considerata capo qualora non sia stata prima registrata per lo svolgimento di quella funzione nel Registro Nazionale dei Capi e il suo nome non sia stato inserito nel Bollettino pubblicato dal più alto organo di auto-governo della chieftaincy, la National House of Chiefs (art. 57, comma 5). I capi, riconosciuti come tali in base alle procedure del diritto consuetudinario, non hanno quindi bisogno di altro tipo di legittimazione dinanzi ai propri sudditi e allo stato; tuttavia devono passare per la procedura della registrazione per poter svolgere funzioni statutarie, ad esempio essere riconosciuti membri di un Traditional Council – il consiglio che riunisce i capi di una data area ed è presieduto dal Paramount Chief 6 – e delle camere dei capi. Queste ultime sono organizzate sia su base regionale (le Regional Houses of Chiefs create nel 1958) che nazionale (la già citata National House of Chiefs istituita dalla Costituzione del 1969), e sono espressione del processo di creazione di una struttura intesa a circoscrivere lo spazio del potere tradizionale all’interno dell’assetto statale, sottolineandone l’autoreferenzialità e divenendo strumento della sua autonomia.7 L’inclusione all’interno di questi organi di commissioni di giudizio per la gestione delle materie riguardanti la chieftaincy stessa e l’arbitrato dei casi secondo il diritto consuetudinario (art. 271 e segg.) definisce le competenze giudiziali dei capi. Nondimeno, il presidente della National House of Chiefs è anche membro del Consiglio di Stato e la rappresentanza del poteƆmanhene (pl. Amanhene) in twi, la lingua akan più diffusa in Ghana. Si tratta della più alta carica riconosciuta nella gerarchia del potere tradizionale, fatta eccezione per l’Asantehene e altri capi di statuto simile, che presiedono consigli formati da più Paramount Chief. L’Act 759 (art. 58) riconosce i seguenti livelli della gerarchia tradizionale: Asantehene e Paramount Chiefs; Divisional Chiefs; Sub-divisional chiefs; Adikrofo (sing. odikro); altri capi riconosciuti dalla National House of Chiefs. Il sistema di governo akan è in realtà molto più complesso e si articola in numerose cariche (Arhin, 2002). 7 Tuttavia, a dispetto della loro presunta autonomia, esiste un apposito ministero per la chieftaincy, che coordina queste istituzioni. Pavanello (2003; 2007, pp. 33-52) ha sottolineato il paradosso di un potere tradizionale la cui autonomia può essere garantita solo dallo stato. Il paradosso della chieftaincy costituzionale sarebbe però ancora più evidente a un altro livello: la legittimità costituzionale del potere tradizionale è stata costruita sulla retorica della continuità con forme di potere precoloniali, sebbene la chieftaincy sia stata di fatto modellata, se non inventata, in epoca coloniale. Al tempo stesso essa è stata individuata come strumento fondamentale dell’operazione di costruzione dell’unità nazionale. 6 Governance tradizionale nel Ghana contemporaneo 131 re tradizionale è prevista in altre istituzioni statali, come il Prison Council, i Regional Coordinating Councils e le Lands Commissions. Il retorico isolamento della chieftaincy è però ribadito dalla clausola costituzionale (art. 276) che vieta ai capi di partecipare alla vita politica attiva, ovvero essere membri di partiti politici, mentre è loro riconosciuto il diritto a occupare uffici pubblici per i quali siano qualificati. I compiti amministrativi della chieftaincy, che furono fondamentali nell’architettura del potere coloniale,8 sono stati riformulati in accordo con il processo di ristrutturazione del governo locale iniziato già dagli anni precedenti l’indipendenza.9 Il principale organo del governo locale, discusso al capitolo 20 della Costituzione, sono oggi le District Assemblies – e le varianti di Metropolitan e Municipal Assemblies nelle aree più popolose – nate dalle riforme di decentramento attuate da Rawlings alla fine degli anni ’80 (Ayee, 1996; Manuh e Asante, 2012). La composizione delle assemblee di distretto (art. 242) prevede che, oltre al District Chief Executive di nomina presidenziale e ai membri eletti, un trenta per cento dei componenti sia nominato dal Presidente in consultazione con le autorità tradizionali e altri gruppi di interesse nel distretto.10 Tra i vari compiti affidati alle assemblee, è utile sottolineare il ruolo attribuito loro di massima autorità a livello locale per l’elaborazione e realizzazione di piani di sviluppo e il reperimento dei fondi necessari allo sviluppo complessivo del distretto (art. 245, comma a). All’assemblea deve poi essere versato il 55% dei redditi derivanti dalle stool land, mentre il 25% spetta al seggio11 e il 20% all’autorità tradizionale, ov8 Von Trotha (1996) ha individuato i caratteri di una “chieftaincy amministrativa” fondata sui principi di devoluzione, gerarchia e distretto amministrativo, il cui progetto di unificazione era parte del processo di statebuilding coloniale. Così il governo coloniale modificò i principi di autorità e leadership dei capi e li collocò come intermediari tra i funzionari dell’amministrazione locale e la popolazione. 9 Nel 1951, in seguito alle elezioni che videro la vittoria di Nkrumah e l’inizio del suo governo ancora sotto il controllo inglese, si ebbe l’emanazione della Local Government Ordinance, che affidava ai consigli di capi solo funzioni consuetudinarie e istituiva dei nuovi consigli locali incaricati anche dell’amministrazione delle terre dei seggi, riducendo così i poteri precedentemente esercitati dalla chieftaincy. Un terzo dei membri era riservato a persone selezionate dalle autorità tradizionali (Rathbone, 2000, pp. 29 e segg.). 10 I distretti coincidono talvolta, ma non sempre, con le aree tradizionali, definizione che ha sostituito quella coloniale di Native State e si riferisce all’area di giurisdizione di un Traditional Council. A un livello superiore della struttura amministrativa troviamo invece le dieci regioni in cui è suddiviso l’intero territorio nazionale. 11 Il seggio o stool è il simbolo del potere dei capi oltre che l’elemento fisico che lo rappresenta; in altre aree l’equivalente dello stool è la skin (pelle di animale). 132 Benedetta Lepore vero il capo che detiene temporaneamente il seggio (art. 267, comma 6). La Costituzione riconosce infatti al capitolo 21 la giurisdizione dei seggi, quindi del potere tradizionale, sulle stool land (art. 267). Al tempo stesso, però, limita l’autonomia dei capi nella gestione delle terre e dei redditi che ne derivano attraverso l’istituzione dell’Office of the Administrator of Stool Lands, e sottoponendo le concessioni e i piani di sviluppo delle terre all’approvazione delle Regional Lands Commissions. In definitiva, ponendo in stretta successione nel testo costituzionale i capitoli dedicati a governo locale, terra e chieftaincy, vengono così definite le competenze delle diverse autorità locali nella gestione delle risorse, precisandone i rispettivi obblighi e limiti.12 Tuttavia, gli spazi della governance tradizionale sono spesso occupati, costruiti o immaginati anche al di là delle prescrizioni del testo costituzionale e delle altre disposizioni legislative cui ho accennato. Ciò avviene principalmente attraverso l’esercizio di quelle che Nana Arhin Brempong e Pavanello (2006, pp. 32-35) hanno definito «funzioni non statutarie» della chieftaincy, tra le quali gli autori annoverano il coinvolgimento dei capi nella selezione di membri degli organi del governo centrale e locale, l’alleanza personale – aperta o nascosta – con un partito politico e la celebrazione dei festival tradizionali, che consentirebbero loro di agire come rappresentanti delle proprie comunità verso il mondo esterno, nonché come “attivisti nel processo di sviluppo”. 3. Spazi di responsabilità condivisa Spesso teatro dell’affermazione della legittimità e autorità dei capi – fondate su un’ideale unità tra questi e la popolazione – la scena dei festival tradizionali viene impiegata per modellare rappresentazioni identitarie che vei12 La posizione attribuita alle autorità tradizionali rispetto agli organi del governo locale è talvolta percepita dai capi stessi come un’usurpazione dei loro poteri, come lamenta Annor Adjaye III (1999, pp. 90-93), Paramount Chief della Western Nzema Traditional Area, che sottolinea come i compiti affidati alle assemblee di distretto – che includono la mobilitazione di risorse per lo sviluppo dell’area – fossero una volta esercitati dai capi. Ciononostante la chieftaincy – peculiare perché caratterizzata da “qualità sacrali” così come da “doveri politici” – conserva “potere e influenza”, come dimostrerebbero la titolarità del diritto allodiale sulla terra e il coinvolgimento nella celebrazione dei festival locali. Inoltre la clausola della nomina del 30% dei membri delle assemblee sulla base di una consultazione con le autorità tradizionali di fatto non sarebbe quasi mai rispettata (Arhin Brempong e Pavanello, 2006, p. 30). Si veda Ayee (2006) per il problema della rappresentanza dei capi nelle assemblee di distretto. Governance tradizionale nel Ghana contemporaneo 133 colino, tra l’altro, le istanze dello sviluppo locale. In particolare, la cerimonia pubblica del durbar of chiefs and people è un’occasione in cui le autorità tradizionali lanciano raccolte di fondi per la realizzazione di progetti, presentano le attività intraprese per il miglioramento delle condizioni di vita nella propria area e ne discutono i bisogni con i numerosi esponenti politici e rappresentanti del governo che vengono appositamente invitati insieme a ONG e imprenditori privati. Il durbar costituisce perciò un’arena in cui si realizza la partecipazione all’economia nazionale (Clarke-Ekong, 1997) e si negoziano le relazioni tra appartenenze locali, regionali e nazionale (Lentz, 2001), divenendo così mezzo di costruzione della statualità (Pichillo, 2012).13 In questo contesto si rende particolarmente visibile l’ambiguità tra l’interdipendenza di governo e capi e l’asserita e rivendicata autonomia della chieftaincy. Generalmente l’organizzazione del festival è in buona parte diretta dalle autorità tradizionali e affidata a commissioni nominate nell’ambito del Traditional Council. Per quanto concerne il Kundum delle aree ahanta e nzema, la commissione è incaricata sia della programmazione delle attività che della gestione finanziaria delle risorse che derivano dai contributi versati dai villaggi dell’area tradizionale e dalla sponsorizzazione dell’evento da parte di aziende e marchi commerciali. Essa – solitamente composta in massima parte di capi e anziani con particolari cariche e compiti rituali – procederà anche alla successiva ripartizione dei fondi che verranno raccolti durante il durbar, facendo così del potere tradizionale il referente ultimo delle attività di sviluppo lanciate in occasione del festival. Tuttavia il gruppo responsabile della pianificazione può essere più ampio e articolato al suo interno, come avvenuto nel Western Nzema (distretto di Jomoro) per il Kundum 2015, dove esso era formato da due sotto-commissioni di cui una annoverava tra i suoi membri numerosi rappresentanti dei cosiddetti corporate bodies.14 Questo dato è indicativo del ruolo 13 Pichillo (2012) analizza il ruolo dei capi sulla scena del Kundum nel rapporto con lo stato postcoloniale e le dinamiche dell’economia politica globale. L’autore interpreta lo sviluppo come «la forma egemone di economia morale» nel Ghana postcoloniale, dove anche i capi, colmando i vuoti lasciati dallo stato in materia di politiche sociali, contribuirebbero al rafforzamento di una precisa idea-stato, in fondo riproducendo la «logica depoliticizzante dell’economia dello sviluppo tipica dell’ideologia neoliberale» (pp. 169-176). 14 Il Kundum 2015 della Western Nzema Traditional Area è stato immaginato come un evento speciale, che avrebbe fatto coincidere le celebrazioni del festival con il venticinquesimo anniversario del regno di Annor Adjaye III e della District Assembly. Nei documenti elaborati dal Traditional Council in fase di organizzazione del festival si sottolineavano perciò i traguardi raggiunti tanto dal Paramount Chief quanto dall’assemblea nello sviluppo del distretto, che in questo caso coincide con l’area tradizionale. 134 Benedetta Lepore sempre più centrale che stanno assumendo le imprese e agenzie pubbliche e private con interessi economici nell’area – specie rispetto alla filiera turistica e allo sfruttamento delle risorse naturali – nel finanziamento delle attività dei festival, e ancor più nella realizzazione di progetti di sviluppo ideati, concertati e negoziati con le autorità tradizionali. Non mancano infatti letture (Knierzinger, 2011) che vedono negli attuali capi ghanesi dei mediatori dello sviluppo (Bierschenk, Chauveau e Olivier de Sardan, 2000). Ovviamente l’acquisizione di una simile posizione da parte dei capi va inquadrata nello scenario globale che tra gli anni ’80 e ’90 ha prodotto le riforme di decentramento e i processi di democratizzazione, e in cui, perseguendo e promuovendo l’ideale della good governance, l’attenzione delle agenzie internazionali dello sviluppo si è rivolta alle autorità locali, individuando gradualmente dei partner anche nei capi tradizionali.15 Negli stessi anni il mondo accademico ha iniziato a interessarsi alla resilienza della chieftaincy, che è progressivamente apparsa come una vera e propria reviviscenza (van Rouveroy van Nieuwaal e van Dijk, 1999a; Perrot e Fauvelle-Aymar, 2003), caratterizzata dall’emergere di una nuova figura di capo, ormai diventata la tipica immagine della moderna autorità tradizionale: sono numerose infatti le nomine di chief tra gli intellettuali e molto spesso si tratta di figure pubbliche con curricula notevoli, che occupano o hanno occupato cariche di prestigio in organismi nazionali e internazionali. Il curriculum è così divenuto un fattore rilevante nella negoziazione dello spazio di manovra della leadership dei capi dentro e fuori a quanto stabilito dalla Costituzione. A definire il carattere composito dei festival tradizionali (Adjaye, 2002; Odotei, 2002) concorre poi una serie di elementi che ne fanno un palinsesto per la sanzione e costante rimodulazione dei rapporti interni alla gerarchia del potere tradizionale, anche nel confronto con le articolazioni locali dello stato (Savoldi, 2003). A un altro livello, il rituale rappresenta lo scenario nel quale si affermano identità storico-politiche specifiche e la performance stessa diventa un “commentario politico” per il pubblico attraverso la sapiente manipolazione dei simboli (Gilbert, 1994, p. 100). Il Kundum in particolare – percepito in area nzema come uno degli elementi fondativi di un’entità politica di lungo corso, sebbene mutata nel tempo – è il luogo della rappresentazione di un orizzonte storico egemonico, nonché della sua contestazione.16 15 Emblematico è a questo proposito il caso del progetto Promoting Partnership with Traditional Authorities Project (PPTAP) promosso dalla Banca Mondiale nel 2003, in cui la negoziazione, anche finanziaria, è avvenuta direttamente tra questa e l’Asantehene, una delle maggiori cariche tradizionali in Ghana (Knierzinger, 2011, pp. 18-20). 16 Oltre alla sua rilevanza nell’attuale contesto socio-economico, il Kundum, come altri festival, veicola attraverso le pratiche rituali un forte contenuto storico-politico. Esso mette in Governance tradizionale nel Ghana contemporaneo 135 Non è possibile entrare qui nel merito di questi problemi, ma è utile sottolineare che i festival mettono in scena una serie di pratiche che nel loro farsi formulano e riformulano rapporti di potere, appartenenze multiple – all’area tradizionale, al distretto, alla regione, alla nazione – e rappresentazioni delle identità storico-politiche. Molte tra queste qualità caratterizzarono la celebrazione del Kundum nell’ottobre 2014 a Esiama, importante centro dell’Eastern Nzema Traditional Area (distretto di Ellembele). In un momento in cui si temeva l’espansione del virus ebola in Africa occidentale e in varie zone del Ghana erano esplosi focolai di colera, i Paramount Chief di Eastern e Western Nzema dichiararono dinanzi al consiglio che riunisce i capi delle sette aree nzema del Ghana,17 lo Nzema Maanle Council, la loro decisione di sospendere la celebrazione del festival. La proposta fu estesa anche agli altri Paramount Chief, che tuttavia decisero di procedere ugualmente con il programma delle attività. Era invece implicito nella scelta dei due amanhene che tutti i capi subordinati di Eastern e Western Nzema dovessero rinunciare alle celebrazioni nei propri villaggi. Ciononostante Esiama celebrò il festival, compiendo così un forte atto di insubordinazione che si sarebbe poi tradotto in una vera e propria istanza indipendentista in seguito alla decisione di Amihere Kpanyinli III, Ɔmanhene della Eastern Nzema Traditional Area, di degradare il capo di Esiama, Nana Kofi Ampoe IV, a un livello inferiore della gerarchia del potere tradizionale, privandolo così di alcuni privilegi.18 Il durbar celebrato a Esiama disegnò la trama di uno scontro tra autorità tradizionali che si poteva leggere già dalla scelta degli invitati, tra cui figurava il principale oppositore del Paramount Chief che, nell’ambito di una disputa di lungo corso, contesta il suo diritto al seggio. Parte di quello scacchiere in cui si giocava l’autorità del capo di Esiama in opposizione a quella dell’Ɔmanhene erano anche le altre personalità scena gerarchie di potere (ad es. la subordinazione e alleanza di un capo al Paramount Chief), priorità di stanziamento (ad es. tra lignaggi o altri gruppi sociali), privilegi e doveri di alcune categorie sociali (ad es. operatori con particolari competenze rituali). La sua celebrazione, pertanto, può catalizzare una serie di dispute che trova espressione tanto nella performance, quanto in generale nei momenti più sensibili della sua organizzazione. 17 L’area nzema si identifica in un’accezione ristretta con il territorio compreso tra i fiumi Ankobra e Tano, che include Eastern e Western Nzema. Tuttavia, anche le aree di Lower e Upper Axim, Nsein, Ajomoro, Gwira, tutte a est del fiume Ankobra, si riconoscono in una comune identità nzema rappresentata dallo Nzema Maanle Council. Si tratta di un organo a partecipazione volontaria costituito dai capi delle sette aree, cui idealmente si aggiunge il seggio nzema di Kyapum in Costa d’Avorio. A eccezione di Gwira, il Kundum è celebrato in tutti questi territori. 18 Dal rango di divisional chief a quello di odikro, che non gode di una rappresentanza diretta nel Traditional Council. 136 Benedetta Lepore presenti, tra cui alcuni esponenti politici e membri di varie aziende e istituzioni con interessi nello sfruttamento del gas, principale attività in crescita nell’area e concentrata soprattutto ad Atuabo, la capitale tradizionale dell’Eastern Nzema. In questo modo la cerimonia rappresentava anche un momento importante nel gioco di poteri e doveri tra capi, governo e rappresentanti del mondo dell’economia. Il festival fu pertanto presentato in una veste retorica che faceva dialogare sapientemente le sue componenti “tradizionali” con la dimensione dello “sviluppo”, e sottolineando opportunamente la seconda, ne rendeva la celebrazione un atto di responsabilità del capo nei confronti della popolazione. Tanto nei discorsi pubblici tenuti dagli esponenti dell’Esiama Development Committee – che aveva presieduto all’organizzazione del festival – quanto nella successiva battaglia mediatica, si sottolineò infatti il carattere dell’evento quale irrinunciabile mezzo per assicurare lo sviluppo locale.19 Il momento centrale del durbar fu dedicato all’ospite d’onore, George Sipa-Adjah Yankey, ex-ministro e attuale CEO della società nazionale Ghana Gas, nominato in quell’occasione nkosuohene, ovvero chief for development per la comunità di Esiama. La carica di nkosuohene, non derivante da diritti di nascita, fu istituita nel 1985 dall’Asantehene Opoku Ware II, che riformulò il concetto akan di progresso (nkosoɔ), strettamente connesso a quello di unità (nkabɔmu), declinandolo nel senso di una spinta al self development per «integrare gli sforzi del governo» (Wilks, 1999, pp. 66-67).20 Da allora i chiefs for development, personalità in grado di mobilitare fondi per le comunità locali, si sono moltiplicati in tutto il Ghana e, come alcuni hanno evidenziato (Steegstra, 2006; Bob-Milliar, 2009), non sono rari i casi di attribuzione della carica a europei e americani bianchi. Altrettanto interessante è il fenomeno della nomina a nkosuohene di esponenti politici e addirittura ministri, come nel caso del Ministro per l’Energia e il Petrolio creato chief for development nell’area tradizionale di Nsein.21 Questa pratica – generalmente presentata dai capi “Esiama declares indipendence from Eastern Nzema area”, http://www.ghanaiantimes.com.gh/esiama-declares-independence-from-eastern-nzema-area/ (11/09/2016); “Tension at Ellembele over chieftaincy”, https://www.modernghana.com/news/594960/1/tension-atellembelle-over-chieftaincy.html (11/09/2016). 20 Wilks (1999) ha sottolineato come concetti quali quello di nkosoɔ, che nelle lingue akan non è percepito come oppositivo ad atetekwaa, “preserving the old time” (p. 44), possano essere compresi solo assumendo una prospettiva temporale ampia che renda conto della variazione del loro significato in accordo con i più generali cambiamenti del panorama socio-politico. 21 Il ministro, Emmanuel Armah Kofi Buah, è anche membro del Parlamento per il vicino distretto di Ellembele nel quale si stanno verificando intensi processi di sfruttamento delle risorse energetiche, in particolare di gas naturale. La regione sud-occidentale del paese ha as19 Governance tradizionale nel Ghana contemporaneo 137 come un modo per esprimere il loro apprezzamento a personaggi che si sono spesi per il miglioramento delle condizioni di vita nell’area – può essere letta come una modalità lecita di espressione del consenso politico, che permette alla chieftaincy di non compromettere eccessivamente il ruolo super partes attribuitole dalla Costituzione. Al tempo stesso si può considerare come un’operazione che, riducendo il gap tra la popolazione e i rappresentanti politici, crea un efficace strumento di accountability a livello locale. A ogni modo, essa delinea uno scenario che porta a riflettere sulle modalità della reciproca assimilazione delle élite al potere (Bayart, 2009),22 in cui però forme originali di cooptazione sembrano indirizzare l’attenzione all’agency e creatività di un potere tradizionale che assorbe alcuni dei suoi principali interlocutori all’interno della propria struttura, in una posizione eccentrica di cui è sempre possibile manipolare le potenzialità. Nel 2015 il Kundum di Esiama, in un momento di assenza di Nana Kofi Ampoe IV, è stato celebrato con lo nkosuohene a farne le veci in veste di principale rappresentante del “potere tradizionale”, accompagnato da anziani e altri dignitari: la sovrapposizione di compiti e simboli in nome dello sviluppo non poteva essere più completa.23 Del resto, come ricordava lo slogan stampato sulle magliette realizzate per il Kundum di Nsein l’anno precedente, lo sviluppo locale è una «shared responsibility». Una responsabilità in cui si condividono anche potere e risorse e in cui conflitti e alleanze tagliano trasversalmente mondi dai confini sfumati. 4. Definirsi e ridefinirsi: il chief e il nana Le retoriche messe in campo dai capi sulla scena dei festival tendono a presentarli, talvolta senza soluzione di continuità, come facilitatori delle posunto nuova visibilità e rilevanza per l’economia nazionale in seguito alla scoperta nel 2007 di giacimenti petroliferi al largo della costa, in quello che è stato battezzato Jubilee Field. 22 Valsecchi (2006), analizzando il panorama contemporaneo della cultura politica ghanese in cui non troverebbe posto la pesante opposizione tra “tradizionale” e “moderno”, ha indicato la possibilità che questo fenomeno sia stato superato dalla formazione di un’unica struttura di élite che ingloba anche la chieftaincy, così come di un unico linguaggio della politica che si esprime in registri diversi in accordo con la complessità del reale. 23 Lund (2006) sottolinea l’importanza dei «linguaggi simbolici della governance» e ci ricorda come, nell’arena dello sviluppo, istituzioni diverse spesso si sovrappongano e trasformino l’una nell’altra. D’altro canto è stato messo in evidenza come l’élite politica, tra cui gli stessi capi di stato e di governo, si sia spesso fregiata della legittimità che deriva dai simboli del potere tradizionale (van Rouveroy van Nieuwaal, 1996, p. 54). 138 Benedetta Lepore litiche di sviluppo del governo, ma anche come potenziali sostituti, laddove siano in grado di mostrare una maggiore capacità di mobilitazione di risorse attraverso fonti di finanziamento esterne. Questa duplice prospettiva informa il discorso di benvenuto tenuto dal già citato Annor Adjaye III al durbar del Kundum di Beyin (Western Nzema) il 4 novembre 2012, da me registrato e trascritto, di cui riporto qui un passaggio particolarmente significativo: […] Riconosciamo tutti che il Kundum non è solo per divertimento. Ci dice qualcosa della nostra storia e della nostra cultura, ma in questa circostanza il Kundum dovrebbe essere usato come mezzo per lo sviluppo [...] e per questo il Traditional Council ha istituito questi tre progetti che verranno perseguiti fino a quando non saranno portati a termine. Vogliamo usare questa occasione per darvi il benvenuto e per chiedervi di donare materiali o fondi per completare i tre progetti in tempo. Questa iniziativa è complementare agli sforzi del governo, perché non possiamo, e noi, nel Western Nzema, non vogliamo incrociare le braccia e aspettare che venga il governo. Dobbiamo fare affidamento sulla nostra spinta, [altrimenti] il principio di autodeterminazione morirebbe [...] [enfasi aggiunta].24 Annor Adjaye III mette qui in comunicazione due registri a prima vista contrastanti: da un lato esprime il senso di appartenenza alla nazione ghanese e di solidarietà rispetto agli “sforzi” del governo, dall’altro insiste sull’identità di gruppo specifica della Western Nzema Traditional Area. La costruzione di un’identità composita è, come detto, caratteristica dei festival tradizionali, e nel caso del Kundum si arricchisce anche di una dimensione regionale che si intreccia a quelle locali e nazionale, cui gli attori coinvolti fanno alternativamente riferimento nei diversi momenti rituali del festival. In questo senso il richiamo al Kundum che «dice qualcosa della nostra storia e cultura», sebbene sia declinato dal Paramount Chief come tratto specifico della dimensione propriamente nzema, assume valore anche rispetto al gioco di relazioni tra i diversi piani della storia e della cultura, nazionale e locale. Qui, infatti, è propriamente inscritta la condizione storica della chieftaincy ghanese così come si è andata definendo dopo l’indipendenza: un’istituzione percepita come espres24 I tre progetti menzionati dal Paramount Chief consistono nella costruzione di un centro comunitario e di strutture ICT, sponsorizzati principalmente da imprese private e dall’allora membro del parlamento per il distretto di Jomoro, Samia Yaba Nkrumah, e nel fund-raising per il supporto al Fort Apollonia Museum of Nzema Culture and History, realizzato grazie alla cooperazione con il Ministero degli Affari Esteri italiano. Essi rispondono all’esigenza di fornitura di servizi, ma sono soprattutto inseriti all’interno di un più vasto programma culturale. I progetti lanciati rientravano infatti tutti nella cornice dell’educazione, scelta come tema per le celebrazioni e spesso centrale nelle preoccupazioni espresse dai capi nel corso dei dibattiti del durbar day. Governance tradizionale nel Ghana contemporaneo 139 sione di identità particolari messa al servizio della costruzione di un ethos nazionale per la realizzazione della «unità nella diversità» (Cultural Policy of Ghana, 2004) in accordo con la politica culturale elaborata negli stessi anni. Il peso della storia emerge anche ad altri livelli nel discorso di Annor Adjaye III, che sembrerebbe un manifesto della vocazione della chieftaincy allo sviluppo e del suo rapporto con le istituzioni dello stato: l’Ɔmanhene lo disegna nel senso della complementarità rispetto ai piani di sviluppo del governo e al tempo stesso come un’alternativa percorribile dinanzi al loro fallimento. In queste parole si potrebbe quindi individuare la proposta di un potere tradizionale che, nella sua veste istituzionale, si presenta ai suoi sudditi come sostituto di uno stato assente;25 al contempo esso si pone, nell’unità di chiefs and people, come portavoce delle istanze della società. L’esortazione del Paramount Chief ad affidarsi alla propria spinta ricorda la postura assunta dall’Asantehene già nel 1985 e ha infatti un’eco significativa nella tendenza mostrata dal governo del Provisional National Defence Council (PNDC) proprio nella seconda metà degli anni ’80 a spingere i cittadini verso il self-help, invece che delegare completamente allo stato la soddisfazione dei bisogni (Nugent, 1996, pp. 219-220). In questo orientamento del PNDC Nugent ha visto un ritorno alle caratteristiche dello “stato minimo” di stampo coloniale che si accompagna nelle retoriche del regime di Rawlings a un “atteggiamento neotradizionalista” che insiste sulla bontà delle istituzioni fondate su tradizioni indigene. Del resto il durbar fu ampiamente utilizzato dai regimi militari come strumento per la costruzione del consenso politico e i festival divennero in particolare con il governo Rawlings mezzo per ricomporre le diversità culturali e discutere questioni legate allo sviluppo (Lentz, 2001, p. 54). Nell’attuale scenario politico questo ritorno al self-help, che assume la veste dell’“autodeterminazione”, è sicuramente espressione del ruolo di uno stato che delega parte delle sue responsabilità, 25 Il rischio è di ricadere in letture che costringono l’agentività della chieftaincy negli spazi lasciati vuoti dallo stato. Come avverte Valsecchi (2006, p. 35): «La trattazione della chieftaincy da parte dell’analisi politologica più applicativa e operativa continua ad essere spesso connotata dalla persistenza di una forte pregiudiziale di tipo evoluzionistico. Insomma, se i capi sono inaspettatamente sopravvissuti, non è certo per merito loro: la ragione vera è piuttosto da ricercare nella fragilità e nei fallimenti dello stato postcoloniale». Invece bisognerebbe tener presente che «[…] oggigiorno molti capi sono in grado di svolgere il proprio ruolo di interpreti attivi della località che impersonano a un grado mai uguagliato in tutti i decenni passati dall’indipendenza: questa possibilità discende dal loro successo nel gestire – in maniera formale o informale – aspetti dell’articolazione del discorso politico e sociale delle loro comunità, ma anche e specialmente dal loro attivismo crescente nel ridefinire i “confini” dei propri uffici e delle proprie competenze in maniere che vanno “oltre lo stato”» (id., p. 44). 140 Benedetta Lepore così come il sintomo del maggior peso progressivamente accordato alle autorità locali nella definizione e implementazione dei piani di sviluppo anche da parte delle agenzie internazionali. Al tempo stesso concorre alla definizione dello statuto di un’autorità tradizionale che afferma la propria autonomia nel determinare le direttive del progresso nel territorio su cui esercita, dentro e fuori le prescrizioni statutarie, “potere e influenza”. È dunque evidente come la stessa chieftaincy abbia fatto suo il linguaggio di una cultura politica che, sedimentatasi negli ultimi decenni, viene piegata alle esigenze dei diversi attori istituzionali che la promuovono. Essa mostra al contempo la sua abilità nel connettere e risignificare retoriche apparentemente in opposizione ed esogene. I capi «[…] convertono il potere del “passato” in quello del presente, il potere del secretato in quello pubblico, la legge della “tradizione” nel diritto “consuetudinario” codificato e il potere del rituale in attività politica manifesta» (van Rouveroy Nieuwaal e van Dijk, 1999b, p. 5). Tuttavia, il loro ruolo non si esaurisce nella traduzione del linguaggio della politica e delle istituzioni – di cui in virtù di un ricco curriculum sono spesso partecipi – e di quello proprio della chieftaincy, che includendo tutte le determinazioni della leadership non può identificarsi esclusivamente con il lessico della tradizione. In un processo di costante mediazione tra i codici espressivi propri dei molteplici domini identitari di cui essi stessi sono portatori, i capi devono essere considerati anche “interpreti” degli interessi di diversi gruppi sociali, spesso in competizione gli uni con gli altri, e delle aspettative connesse alla definizione dell’istituzione di cui sono i rappresentanti (Valsecchi, 2003, p. 79). Nel compiere queste operazioni di conversione e interpretazione, la chieftaincy non solo mostra la sua capacità adattiva, che è spesso stata evidenziata, ma enuncia attraverso un linguaggio composito – che ne informa le pratiche quanto le retoriche – i caratteri ritenuti fondanti della sua identità storica. Tra questi un certo peso è accordato al compito del capo di farsi garante della sostenibilità della gestione delle risorse naturali a salvaguardia delle generazioni future. In occasione di eventi pubblici quali il Kundum, l’autorità tradizionale esprime pertanto l’impegno nel garantire il benessere della propria gente,26 assiOvviamente al di là di questa asserita comunanza di interessi, l’operato dei capi, che non sono gli unici attori in grado di mobilitare risorse a livello locale, può essere anche aspramente contestato. È il caso occorso ad Axim, dove la Axim Youth Alliance – che sta portando avanti dei propri progetti di sviluppo – ha vissuto un momento di contrasto con l’autorità tradizionale in seguito ad alcune iniziative, e per divergenze rispetto alla gestione delle risorse finanziarie raccolte in occasione del Kundum del 2014. Per il ruolo delle associazioni giovanili nello sviluppo locale si veda tra gli altri Lentz (1995). 26 Governance tradizionale nel Ghana contemporaneo 141 curandosi che i suoi bisogni siano soddisfatti in accordo con lo stile di vita, le aspettative e l’assetto sociale dell’area, anche se ciò implica contestare le linee di sviluppo economico adottate a livello nazionale e perseguite da organismi governativi e imprese private. Ne è un esempio il discorso tenuto da Amihere Kpanyinli III, Paramount Chief della Eastern Nzema Traditional Area, durante il Kundum di Atuabo del 2015, dedicato significativamente al tema della salvaguardia dell’ambiente in un momento in cui il territorio è attraversato da un ingente processo di sfruttamento delle risorse.27 L’Ɔmanhene ha rivisitato in quell’occasione il tema dell’unità spesso centrale nei discorsi del potere tradizionale, sottolineando l’urgenza di concordia e pace per realizzare lo sviluppo economico e controllare una crescita rapida attraverso strumenti che derivano dagli insegnamenti degli antenati. Tale retorica è utilizzata anche in considerazione della necessità di non perdere potere contrattuale rispetto alla terra, che ovviamente è un bene prezioso per mantenere l’autorità stessa del Paramount Chief a livello locale e nel confronto con altre istituzioni. La costruzione di un impianto di lavorazione del gas – che ha fatto di Atuabo un luogo di forte mobilità, di immigrazione di manodopera specializzata dalle città e di attrazione per gli interessi di aziende pubbliche e private – ha infatti comportato l’utilizzo di ampie porzioni di terra rispetto alle quali il processo di negoziazione tra le agenzie nazionali e l’autorità tradizionale ha conosciuto momenti di forte tensione.28 27 «Oggi siete qui per il Kundum, e Kundum per noi significa unità. […] Vogliamo migliorare, vogliamo fare ciò che hanno fatto i nostri antenati per mantenere la pace in questo posto. Se siete qui in cerca di terra, per favore assicuratevi di recarvi alla casa del capo, se avete problemi sono certo che la leadership vi aiuterà a risolverli. In questo modo le dispute per la terra si ridurranno. Noi siamo molto attenti al nostro ambiente. Vogliamo la crescita, ma vogliamo anche proteggere l’ambiente e non possiamo riuscirci se non ci impegniamo direttamente. Continueremo a fare quello che possiamo per proteggere il nostro ambiente e lavoreremo con quanti sono venuti a imbrogliarci, a prendere la nostra terra e a dirci che è un’entità superiore che dispone che la nostra terra sia presa. Sappiamo che non è vero. […] E per favore ricordate che il Kundum è unità e che la crescita senza unità, la crescita senza protezione dell’ambiente, non ci porterà da nessuna parte.» [dal discorso di benvenuto di Amihere Kpanyinli III, Atuabo, 1 novembre 2015, registrazione e trascrizione dell’autore]. 28 Secondo l’art. 257, comma 6, della Costituzione del 1992, le risorse minerarie del suolo e del sottosuolo sono in ogni caso proprietà della Repubblica; si può pertanto procedere all’espropriazione delle terre che li contengono dietro compensazione. Molta risonanza mediatica hanno avuto la richiesta di fermare i lavori presso l’impianto del gas, presentata da Amihere Kpanyinli III alla corte di Sekondi-Takoradi per la mancata negoziazione delle compensazioni, e le successive vicende avvenute tra aprile e giugno 2014, che hanno procurato al Paramount Chief anche l’accusa di voler rallentare lo sviluppo del paese: “Chief stabs Ghanaians in the back”, http://www.ghanaweb.com/GhanaHomePage/NewsArchive/Bui-projectcould-have-produced-622megawats-of-solar-313239 (11/09/2016). 142 Benedetta Lepore Il titolo scelto per le celebrazioni, «Tradition, our heritage: Sustainable Economic Development through the protection of our environment», sembra inoltre voler esprimere una relazione diretta tra “tradizione” e “sviluppo sostenibile”. 29 Nel corso di interviste e conversazioni occorse durante la mia permanenza ad Atuabo, Amihere Kpanyinli III ha precisato la sua visione riguardo alla gestione delle risorse del territorio, affermando che il ruolo che il capo può e deve assumere nei processi di sviluppo economico della sua area di giurisdizione è quello di stimolare la consapevolezza della popolazione rispetto ai fenomeni in corso e ai propri bisogni: Immagino che la sfida più grande sia di assicurarsi che lo sviluppo economico che arriva nell’area possa essere sostenuto e che un numero crescente di persone possa beneficiarne. Credo che questa sia la sfida più grande. Dunque, bisogna cercare di coinvolgere la gente ma non è facile perché quello che stiamo facendo adesso sembra un gioco da bambini, ma non lo è. Ha degli effetti di lungo termine sull’ambiente e anche sulle nostre tradizioni e consuetudini. Se le persone non sono accompagnate al punto in cui possono comprendere e rendersi conto di che cosa stiamo parlando, non finirà bene […]. Un Paramount Chief può avere un ruolo. Ovviamente dipende da quanto riesce a farsi coinvolgere e quanto spazio il governo e altri gli lasceranno […]. La forma di controllo che da parte mia posso esercitare consiste nel discutere queste cose con i capi e i capi a loro volta discuteranno con la popolazione dei propri villaggi e questa comprenderà che il governo o i nostri leader non stanno facendo abbastanza per noi e ciò li spingerà a dire: “Ok, ecco cosa vogliamo”. Ma questo dovrebbe essere un interesse nazionale. È tutto ciò che puoi fare come Paramount Chief, perché hai bisogno di avere una buona rete e anche se ce l’hai, non è comunque abbastanza.30 Da queste parole emerge dunque una percezione di marginalità rispetto ai processi decisionali avviati in seno a istituzioni dalle quali i capi sarebbero 29 Amihere Kpanyinli III è esponente della nuova generazione di capi tradizionali: formatosi negli Stati Uniti in materie economiche e cooperazione internazionale, è rientrato dopo molti anni in Ghana per essere intronizzato come Paramount Chief. Non è sorprendente, quindi, che abbia introdotto una nozione come quella di sviluppo sostenibile nel tema delle celebrazioni. Tuttavia, va precisato che questa locuzione sembra essere sempre più diffusa tra i capi nzema, compresi i più anziani, come dimostra il cartellone pubblicitario realizzato nel 2012 a Nsein per il quarantacinquesimo anno di regno di Agyefi Kwame II. Esso declamava i successi del Paramount Chief nell’aver saputo unire tradizione e modernità per realizzare lo “sviluppo sostenibile” («Blending traditionalism with modernity for Sustainable Development. 45 years of quality leadership»). Per il rapporto tra sviluppo sostenibile e gestione delle risorse, in particolare la terra, da parte dei capi si veda Alhassan (2006). 30 Intervista ad Amihere Kpanyinli III, Atuabo, 14/11/2015. Governance tradizionale nel Ghana contemporaneo 143 esclusi.31 Tuttavia, questo senso di impotenza che talvolta travolge i capi nzema non impedisce loro di proporsi come interlocutori attivi nella negoziazione con il governo: i Paramount Chief della Western Region, esprimendo le proprie istanze attraverso l’istituzione che li rappresenta, la Regional House of Chiefs, si sono da tempo uniti in una battaglia volta a ottenere che una parte dei guadagni derivanti dallo sfruttamento delle risorse energetiche del territorio sia dedicato alla regione.32 Su un altro fronte, lo stesso Amihere Kpanyinli III ha mostrato il suo attivismo come “agente dello sviluppo”, mobilitando personalmente risorse finanziarie e umane per un progetto di costruzione di una stazione di polizia. Provvedendo autonomamente a un servizio percepito come sempre più necessario in un’area con una crescente immigrazione e fornendo una struttura a una delle principali agenzie statali, il Paramount Chief compie un’operazione altamente significativa sul piano simbolico, che assume la forma di una sfida lanciata dall’autorità tradizionale. Eppure lo sviluppo resta una responsabilità condivisa da «tutta la leadership, i capi, i distretti e il governo tutto»; inoltre, in accordo con l’idea di garantire il benessere delle generazioni future, deve essere “sostenibile” e inclusivo, ovvero tenere conto dei fattori ambientali e umani per mezzo di una pianificazione economica delle risorse del territorio informata a una prospettiva di lunga durata (intervista ad Amihere Kpanyinli III, Atuabo, 14 novembre 2015). Ancora una volta – nelle parole di un capo che del resto si è formato nell’ambiente della cooperazione allo sviluppo – risuona con forza l’eco di un discorso elaborato altrove, nelle sedi delle agenzie internazionali: un regime discorsivo in cui anche i capi sono sempre più imbricati. Tuttavia, lungi dal trattarsi di un concetto moderno travestito da tradizione, o al contrario di un principio tradizionale veicolato con il linguaggio della modernità, la densità della nozione di sostenibilità si rivela all’incrocio delle aspirazioni di un potere legato all’immaginario di un passato perduto e di un futuro incerto, dei ruoli che gli sono attribuiti dallo stato e delle aspettative di una popolazione che deCiò non esclude che anche da parte dei capi ci sia un’insistenza retorica sulla necessità di tenere separate politica e chieftaincy. La loro presunta distanza dai centri decisionali può essere del resto alternativamente annullata, esaltata, manipolata o strumentalizzata dai diversi attori coinvolti, come sembra suggerire il recente ingresso (febbraio 2016) dello stesso Amihere Kpanyinli III nel consiglio di amministrazione di Ghana Gas. 32 Valsecchi (2008, p. 163) definisce l’operazione di lobbying per la difesa degli interessi nzema a livello regionale come espressione delle relazioni che fanno dello Nzema una “regione funzionale”. Va notato che Annor Adjaye III ha addirittura minacciato la secessione e l’annessione alla vicina Costa d’Avorio, se la richiesta di vedersi riconosciuti parte dei guadagni derivanti dallo sfruttamento delle risorse petrolifere fosse stata disattesa. 31 144 Benedetta Lepore ve fare i conti con il gioco di responsabilità tra i diversi attori istituzionali. È lì che si situa lo sforzo di auto-definizione del potere tradizionale; i capi si propongono così con decisione nel proprio ruolo di nana. Come afferma Nana Kobina Nketsia V, intellettuale e Ɔmanhene dell’area tradizionale di Essikado, nell’Ahanta, nana – che è l’appellativo usato nelle lingue akan per i capi, ma anche per gli antenati – nel suo stesso nome «attira l’attenzione sul rapporto tra il passato e il futuro nel presente», esprimendo la relazione tra gli antenati e i non ancora nati (Kobina Nketsia V 2013, p. 839).33 Nana Kobina Nketsia V – in un testo volto al recupero di una nozione di “africanità” che porta all’estremo il rifiuto di ogni tipo di influenza esogena – delinea le qualità ideali di una nanahood o nanaship, più che di una chieftaincy, caratterizzata dalla profonda unione di caratteri sacrali e secolari,34 su cui dovrebbero a suo avviso basarsi forme di governance indigene che egli vede come del tutto antitetiche a quelle di derivazione europea (Kobina Nketsia V, 2013, pp. 833-837). Sebbene gli studiosi avvertano che il carattere originario e autentico di certe pratiche è una rappresentazione frutto di tradizioni “inventate” (Hobsbawm e Ranger, 1983) o “immaginate” (Ranger, 1993), i capi rievocano un simile scenario ben consapevoli degli spazi che la loro leadership può occupare o conquistare nell’immaginario e negli assetti socio-politici contemporanei. Così essi definiscono e ridefiniscono se stessi nell’oscillazione costante tra virtù e doveri del nana e capacità e vincoli del chief, recuperando e risemantizzando gli spazi della governance, o aprendone di nuovi. 5. Conclusioni La partecipazione della chieftaincy ghanese a politiche culturali e di sviluppo è divenuta parte integrante della legittimità del suo potere, accanto al riconoscimento ufficiale della sua struttura di governo nell’orbita dello stato postcoloniale. Questo coinvolgimento, sebbene assuma oggi forme inedite, è 33 La parola esprime anche rapporti di parentela (Kobina Nketsia V, 2013, p. 839). Sebbene non si possano qui analizzare i caratteri della regalità akan e gli aspetti politico-sacrali delle celebrazioni rituali che la caratterizzano, va precisato che la dimensione del rapporto con gli antenati è molto forte nel Kundum, come in altri festival. Si veda ad esempio Gilbert (1987; 1994). 34 Pavanello e Aria (2012, p. 339) hanno definito i capi tradizionali akan come «mediatori del sacro e del politico», ovvero «personaggi di rilevante caratura sociale e simbolica che si propongono come interpreti di un nuovo modo di declinare la sacralità tradizionale del politico e, al tempo stesso, l’ineludibile valenza politica del sacro». Governance tradizionale nel Ghana contemporaneo 145 immaginato in continuità con i compiti assolti già dal passato precoloniale. Nel perpetuare il proprio status di guida politico-morale – che si mostra sommamente nella celebrazione dei festival tradizionali – i capi operano al confine tra la realtà politica e spirituale che ne delinea l’orizzonte etico di riferimento, le prerogative loro attribuite dalla Costituzione e i mondi della politica e dell’economia globale. Essi attraversano questo confine a più riprese, assumendo talvolta ruoli diversi contemporaneamente (capi e imprenditori ad esempio) oppure avvicinando gli “altri” a sé (politici e ONG tra tutti). Si palesa così l’ambiguità della rivendicata autonomia della chieftaincy, asserita anche nelle disposizioni statutarie, di contro alla sua partecipazione ai diversi piani della vita pubblica e politica. Questa apparente contraddizione si esprime altresì attraverso forme retoriche di competizione con gli altri attori istituzionali, che definiscono lo sviluppo come un campo in cui si gioca il peso della leadership tradizionale al punto da diventare un’arma di negoziazione all’esterno e all’interno della stessa chieftaincy. Tuttavia, la porosità del panorama istituzionale nel Ghana contemporaneo – che apre a forme di cooperazione, cooptazione, assimilazione – fa largo alla percezione dello sviluppo locale come uno spazio di responsabilità condivisa. All’interno di questo spazio il potere tradizionale “converte” e “interpreta”, conservando la coscienza della propria identità storica e ridefinendola costantemente. Ho ritenuto perciò utile analizzare le retoriche impiegate dalle stesse autorità tradizionali, specie rispetto a quella che viene percepita come loro responsabilità precipua: garantire la continuità tra passato e futuro, promuovendo uno sviluppo sostenibile in accordo con la conoscenza trasmessa dagli antenati. In tal senso, si può leggere l’attivismo del potere tradizionale nella mobilitazione e nel controllo delle risorse come l’impegno nel preservare una delle prerogative ritenute storicamente fondanti della leadership politica dei capi. Riferimenti bibliografici Adjaye J.K. (2002). “Rituals, Postmodernity and Development”. Transactions of the Historical Society of Ghana, n. s., 6, pp. 1-15. Alhassan O. (2006). “Traditional Authorities and Sustainable Development: Chiefs and Resource Management in Ghana”. In Odotei I.K. e Awedoba A.K. (eds.). Chieftaincy in Ghana. Culture, Governance and Development. Accra, Sub-Saharan Publishers. 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Chieftaincy Act 759. 150 Benedetta Lepore LA GESTIONE DEI RIFIUTI A DAKAR: CONTESA POLITICA, CITTADINANZA URBANA E MORALITÀ DEL LAVORO1 RAFFAELE URSELLI 1. Introduzione La gestione dei rifiuti in Africa rappresenta un aspetto cruciale del sistema di governance urbana (Onibokun, 2001) ponendosi al centro del rapporto tra le autorità di governo locale nate dal processo di decentramento, la società urbana e l’autoritarismo dello stato centrale (Fourchard, 2007; Grest, Baudouin, Bjerkli e Quénot-Suarez, 2013; Marie, 1988). Collocandosi in un campo, tra spazio pubblico e privato, dove molteplici espressioni della cittadinanza urbana prendono corpo (Bekker e Fourchard, 2013; Blundo, 2009; Bouju, 2008; Samson, 2008; Van der Geest e Obirih-Opareh, 2009), negli ultimi anni la gestione dei rifiuti si è dimostrata essere strettamente correlata all’agenda politica internazionale (UN-Habitat, 2014), in quanto sempre più spesso funge da catalizzatore della realtà sociale e del disagio urbano. Come sottolineato da Omar Cissé, infatti, «la gestione dei rifiuti nelle città africane sembra una questione tecnica, finanziaria ed organizzativa che comporta una dimensione culturale nascosta, in quanto costituisce uno strumento di potere» (Cissé, 2007, p. 36). In questo settore, la commistione tra pubblico e privato e la discrepanza tra condotte sociali e abitudini domestiche portano a confrontarsi con una nozione di governance molto elastica, composta da configurazioni originali e multiattoriali che rendono obsoleta la classica distinzione tra stato e società civile; quest’ultima, di fronte ai limiti dell’iniziativa pubblica, spesso si trova ad integrarne le carenze o addirittura a rimpiazzarne l’azione. Tuttavia, nella 1 Questo articolo è in parte frutto del lavoro di ricerca etnografica, svolto a Dakar tra il 2014 e il 2015, per il dottorato in Africanistica presso l’Università degli Studi di Napoli “L’Orientale”. 152 Raffaele Urselli retorica della “buona governance”, il ruolo delle forze sociali non viene specificato né strutturato seriamente, ma viene solo ricondotto a vaghi principi di funzionamento tecnico, di efficienza amministrativa e di potenziamento delle politiche pubbliche (Blundo e Le Meur, 2008). Nel caso del Senegal, che qui si prenderà in esame, si tratta di rivisitare tale relazione pubblico/privato prestando attenzione al rapporto tra i dibattiti della società contemporanea e le riformulazioni popolari rispetto alle dinamiche di ri-orientamento del vecchio contratto sociale senegalese (Cruise O’Brien, Diop e Diouf, 2002). Negli ultimi vent’anni questi sviluppi hanno portato il settore dei rifiuti della capitale ad essere ristrutturato almeno 14 volte: dietro questa storia tumultuosa si nascondono le lotte di potere interne allo stato e le complicate negoziazioni con la società civile, in modo specifico rispetto al processo di riordino della governance urbana. In particolare, sin dall’indipendenza le strategie di riproduzione della classe dirigente hanno compromesso la gestione amministrativa della istituzione municipale alla quale compete la gestione dei rifiuti, «influendo peraltro sulle condotte quotidiane dei cittadini» (Goerg, 2006, p. 21). 2. Premessa metodologica In questo articolo la questione-rifiuti2 verrà analizzata a partire dall’esperienza coloniale: è infatti impossibile comprendere funzionamento e rappresentazione sociale di certi servizi dello stato senza ripercorrerne la traiettoria storica (Bayart,1989,1996) che ne ha determinato la cooptazione nel campo politico. Nella prima parte verranno analizzate le modalità di questo processo di politicizzazione: la commistione tra ragione sanitaria e igiene sociale, il cor2 La comprensione di tale fatto sociale impone una necessaria multidisciplinarietà: la prospettiva storica è fondamentale per dare continuità sul lungo periodo all’esperienza coloniale (Diop, 2013, p. 42), ai dispositivi di controllo sociale (Bernault, Boilley e Thioub, 1999; Salem, 1992) e, nel caso specifico, ai servizi di igiene e alle politiche sanitarie (Fassin, 1992; Poloni, 1990), e alle tracce che questi hanno lasciato nella «situazione post-coloniale». La sociologia storica e urbana (Balandier, 1955; Coquery-Vidrovitch, 2006) contribuisce all’analisi delle logiche di funzionamento dei suddetti dispositivi, mentre la geografia ne disamina criticamente l’ineguale distribuzione spaziale e le nuove espressioni della cittadinanza (Samson, 2008; Verniére, 1973; 1977); la socio-antropologia è infine utile per dare una forma sufficientemente articolata al rapporto tra la trasformazione di determinati aspetti della vita urbana, le rappresentazioni culturali e i comportamenti morali (Blundo e Le Meur, 2008; Bouju, 2008; Olivier de Sardan, 2003). Gestione dei rifiuti a Dakar 153 porativismo dei servizi tecnici urbani, la partecipazione popolare e la costituzione di nuove identità urbane saranno declinati rispetto alla questione di prossimità, alle difficoltà del decentramento amministrativo, alla percezione pubblica degli spazi e alla contesa tra i vari fazionalismi di partito. Nella seconda parte verranno ripercorse le traiettorie sociali, politiche ed economiche che hanno determinato la diffusione su scala delle attività informali di valorizzazione dei rifiuti e che, attraverso il processo di popolamento della grande discarica di Mbeubeuss, hanno determinato il proteiforme processo di legittimazione sociale dei recuperatori, riconosciuti come “forza sociale” nelle strategie di governance urbana. Data la complessità di un tale contesto multiattoriale, si farà riferimento alla nozione di arena per analizzare la gestione dei rifiuti come terreno privilegiato di competizione politica, di confronto elettorale e di costituzione della cittadinanza - un ambito specifico delle politiche municipali che, nel caso di Dakar, è stato costantemente al centro del dibattito pubblico. Tale concetto è molto vicino a quello di campo; spesso, infatti, entrambi sono usati in maniera interscambiabile: quest’ultimo, così come definito da Bourdieu, contiene un significato polisemico applicato ad uno spazio in cui gli attori sociali dotati di diversi tipi di capitale (simbolico, economico, culturale) sono in concorrenza (Bourdieu, 1971). Tuttavia, se la nozione di campo resta troppo astratta e dispersiva, quella di arena utilizza una scala empirica più ristretta che fornisce un’immagine più chiara dell’interazione tra attori sociali. L’arena infatti fa emergere un contenuto empirico molto ben definito (un progetto, una cooperativa, un settore delle politiche municipali, ecc.) la cui valenza più importante sta nel suo «carattere esplorativo» (Olivier de Sardan, 2003, p. 23). L’approccio esplorativo deve considerarsi come il punto d’avvio dell’etnografia dei servizi pubblici, che tenga conto della maniera in cui gli attori sociali vedono ed articolano la governance. 3. Le politiche coloniali di assainissement: ragione sanitaria e igiene sociale L’amministrazione municipale di Dakar costituisce una modalità di governance amministrativa che affonda le sue radici nella relazione tra procedure burocratiche coloniali e azione politica locale. Nel progetto coloniale il compito dell’autorità municipale era infatti quello di creare un campo politico locale che favorisse una certa autonomia degli attori, la creazione di una élite locale (gli évolué), l’emergere di notabili e clientele, e dunque 154 Raffaele Urselli l’esercizio di una cittadinanza che presupponesse un coinvolgimento nella gestione della città (economica, sociale e fiscale) come forma di partecipazione alla civiltà urbana (Coquery-Vidrovitch, 2001; Diouf, 1999). In questo senso, le politiche di assainissement nel contesto urbano coloniale non rappresentavano solo un progetto di “salute pubblica”, motivato da ragioni igienico-sanitarie, ma rientravano in un disegno egemonico volto ad instaurare la supremazia, biologica e culturale, della potenza europea. Le politiche coloniali francesi erano orientate da due tendenze principali, una che preferiva adottare misure sanitarie, temporanee e immediate, contro specifici gruppi indigeni, ed un’altra che strumentalizzava le emergenze igieniche per arrivare ad una «soluzione finale» rispetto al problema della coabitazione, e quindi del primato sull’indigeno (Bigon, 2012, pp. 10-11). È su questo presupposto che la storia coloniale di Dakar si distingue sin da subito per i déguerpissement 3 dei villaggi indigeni e per il confinamento dei migranti (per lo più rurali) in habitat precari, localizzati in luoghi sufficientemente distanti dal centro coloniale. 4 I respingimenti e gli allontanamenti non riguardavano solo le popolazioni che riproducevano un modo di vita rurale e anti-igienico, ma assumevano una connotazione politica e socio-sanitaria (Faye, 1989). Già l’epidemia di peste del 1914 aveva fornito l’occasione alle autorità coloniali per costruire un luogo definito di segregazione, destinato a ospitare gli appartenenti alle «classi pericolose» che abitavano gli slum della città, attraverso un processo di esodo urbano forzato (Bernault, Boilleye Thioub, 1999; Diédhiou, 1991; Diop, 1994). L’emergenza sanitaria favorì una pericolosa connivenza tra «ragione medica» (contenere e prevenire il contagio) e «ragione politica» (cogliere l’occasione per ripulire la città da mendicanti, déchets humaines, irregolari e presunti criminali) (Mbokolo, 1982, p. 18; Echenberg, 2002, p. 36; ANS, 1914). Uno dei primi provvedimenti del Comitato di igiene e di salubrità pubblica 5 consistette nelle ispezioni delle abitazioni e nei controlli periodici sull’esecuzione delle «buone pra3 I deguerpissement (sfratti violenti), le deportazioni, i rastrellamenti e la distruzione degli insediamenti irregolari hanno caratterizzato le politiche urbane coloniali della Francia in Africa occidentale. 4 Su questo tema, si veda Sinou A. (1993); tra i documenti d’archivio: Archives Nationales du Senegal (ANS), P 190: Assainissement et urbanisme de Dakar, village de Médina, création de village, 1915-1919. 5 Sull’attività del comitato, si veda ANS, Gouvernement Général de l’AOF (1913). Comité Supérieur d’Hygiène et de Salubrité de l’AOF; e ANS, H22, l’Hygiène à Dakar, 1919-1920 (Rapport sur l’hygiène à Dakar de 1899–1920). Gestione dei rifiuti a Dakar 155 tiche igieniche» in ambito domestico, fra cui le «disposizioni sulla raccolta di rifiuti», 6 la cui gestione disciplinata viene posta come elemento essenziale del discorso coloniale sulla pulizia, fondato sul presupposto ideologico della incompatibilità di prossimità tra europei ed indigeni. 7 Oltre alla funzione di assainissament, il Service d’Hygiène si vide rafforzare le prerogative di azione pubblica in seguito alla vasta «crociata di igiene sociale» (Diawara, 2009, p. 188) dove l’osmosi tra salute urbana e morale condannava sia la proliferazione di miasmi che la depravazione morale, il disordine estetico e la devianza sociale (ladri, malviventi, mendicanti, prostitute e folli furono così perseguitati in quanto “rifiuti della società”).8 4. Dalla transizione all’indipendenza: i servizi urbani tra corporativismo e frenesia autoritaria Con la decolonizzazione le modalità della discriminazione sanitaria non cambiarono nella sostanza, anzi la nuova classe dominante formatasi con le indipendenze, in netta continuità con l’esperienza coloniale, riprodusse la strumentalizzazione dei dispositivi sanitari per difendere i propri interessi e per estendere il controllo su determinate istanze politiche (di partito), entità amministrative (ministeri, distretti e direzioni) o territoriali (comuni, dipartimenti, regioni). L’analisi di Seck (1970) sulla storia urbana di Dakar evidenzia a tal proposito la funzione «corporativista» e le ramificazioni di una macchina politica che entrava in maniera prepotente nel cuore del servizio municipale: I servizi urbanistici […] impiegavano oltre 1300 persone (tra cui, in particolare, conducenti di veicoli, operatori e manovali). Questo servizio gestisce normalmente la distribuzione viaria (strade, marciapiedi, piazze), ma so6 Per le ispezioni domestiche si veda Gouvernement Général de l’AOF (1904). Colonie du Sénégal. Inspection des Services Sanitaires Civils. Rapport Médical annuel 1904. Anche Blundo (2009) riporta, in una ricerca sulla gestione dei rifiuti in Niger, i controlli periodici svolti dagli ispettori sanitari circa le “buone abitudini” di igiene domestica, fra cui una corretta separazione dei rifiuti. 7 Anche a Saint Louis, Faidherbe aveva utilizzato il dispositivo igienista per attuare un progetto politico ben definito nelle sue linee segregazioniste, attraverso la creazione del Service d’Hygiène: il tema della “classe insalubre” (Sinou, 1993) diede legittimità alle prime operazioni urbanistiche nella vecchia capitale con lo scopo di relegare al di fuori della “città europea” le popolazioni indigene (Dalberto, Charton e Goerg, 2013). 8 L’espressione déchét humaine (rifiuti umani) è stata particolarmente utilizzata anche dalle autorità di governo senegalesi nei primi decenni successivi all’indipendenza. 156 Raffaele Urselli prattutto è incaricato della pulizia. Prima dell’indipendenza era il più criticato di tutti i servizi municipali: infatti, al di fuori dei quartieri del Plateau, che in qualche maniera erano comunque serviti, Dakar appariva una città sporca, particolarmente nei quartieri della Medina. Tutti spiegavano questa carenza accusando i funzionari amministrativi di rendere il servizio di pulizia un semplice paravento adoperato come strumento di cooptazione e retribuzione degli agenti elettorali (Seck, 1970, pp. 33-34). Al momento della decolonizzazione la responsabilità discrezionale della classe dirigente nella realizzazione o meno delle operazioni di salubrità e la radicale politicizzazione di questo settore non si attenuarono affatto, ma anzi si accentuarono a causa del forte centralismo autoritario dello stato, la cui azione di controllo e cooptazione ricadrà direttamente sulle municipalità, «le prime a pagare il prezzo della frenesia autoritaria delle autorità post-coloniali africane» (Diouf, 1999, p.14). Già all’epoca della Loi-Cadre9 l’allora presidente del consiglio, Mamadou Dia, rimproverava i servizi municipali responsabili della pulizia urbana di mantenere deliberatamente e strumentalmente insalubre lo spazio pubblico per finalità politiche. Secondo Seck (1970, pp. 33-34), ripreso da Diawara (2009, p. 189), le valutazioni politiche di Dia sull’amministrazione del servizio urbano rientravano nell’ambito di un «regolamento di conti con il gruppo politico di Lamine Gueye», allora sindaco di Dakar e capo dei servizi tecnici municipali, la cui strategia politica era inserita nel progetto senghoriano di costruzione di un «sistema organico» a partito unico (Boone, 1992; Fatton, 1987), che si fondava sull’assorbimento e sul controllo dei vari fazionalismi locali e delle clientele, con la finalità di costruire un apparato complementare di governance. Il ruolo fondamentale della gestione dei rifiuti nel campo dei servizi pubblici urbani si dimostra in questo modo sin dalla transizione verso le indipendenze come arena politica per la competizione partitica, visti i notevoli risvolti nelle politiche occupazionali (già all’epoca, i Services Techniques Communaux garantivano un organico di quasi 1500 impiegati -Diop, 1988, p. 54), nelle strategie di governo locale quindi nei processi di inclusione e di esclusione di determinati settori della cittadinanza e nelle dinamiche socio-spaziali: «occupazione irregolare dei terreni, riproduzione di stili di vita rurale, esodo dalle campagne e migrazione intra-urbana» (Verniére, 1973; Verniére, 1977). 9 Si tratta della legge proposta dal Ministro della Francia d’Oltremare Gaston Defferre, adottata nel giugno del 1956, che viene spesso indicata come l’inizio del processo di decolonizzazione intrapreso dalla Francia nel secondo dopoguerra. Essa consentiva l’istituzione, nei possedimenti coloniali francesi, di organismi governativi locali. Gestione dei rifiuti a Dakar 157 Dopo la prima esperienza di privatizzazione con la SOADIP10 (Société Africaine de Diffusion et de Promotion), è certamente nel periodo della SIAS (Société Industrielle d’Aménagement du Sénégal), che l’esasperato coinvolgimento della politica nel funzionamento di questo servizio pubblico diviene particolarmente evidente: se nel precedente periodo i “vincoli” politici erano apparsi in maniera chiara, fu in questi anni che i legami divennero spregiudicati. Dalla fine degli anni ’60 era infatti iniziato un processo di “senegalizzazione” delle strutture amministrative, sino ad allora «accompagnate dall’amministrazione parallela francese» (Cruise O’Brien R., 1979, p.14), che favorì la crescita di una nuova generazione di tecnocrati che da «amministratori di alto rango, una volta negli uffici di governo, si trasformavano in politici» (Adamelokun, 1971, p. 556). Mamadou Diop, sindaco socialista di Dakar, riorganizzò dunque il settore dei rifiuti, letteralmente prosciugato dalle clientele, rimpiazzando la SOADIP, ormai fallita, con la SIAS nel 1985. La società ricevette la gestione esclusiva del settore sotto la supervisione di una nuova entità che federava i vari comuni e dipartimenti della ragione di Dakar (Dakar, Pikine, Rufisque e Guédiawaye): la CUD (Comunità Urbana di Dakar) amministrava una popolazione di oltre due milioni di abitanti. La gestione della SIAS mostrò sin da subito gli effetti di un sistema a geometria variabile: la differenza di copertura della raccolta tra i quartieri centrali e la sterminata banlieue era aumentata in maniera spudorata. In seguito ad un enorme deficit di bilancio, alla mancanza di attrezzature e a un organico in soprannumero, la società entra in crisi; in un paesaggio urbano totalmente inedito e rapidamente modificato dalle condizioni congiunturali, nella prima metà degli anni ’80 Dakar è completamente invasa dai rifiuti. Contestualmente il clima sociale nel paese si fa sempre più incandescente: la contestata rielezione di Diouf del 1988, «l’anno perduto» di scuole e università (Diop, 1996, p. 27), l’aggravarsi della condizione finanziaria e il calo inesorabile della produzione dell’arachide diventano le condizioni per un inconsueto deterioramento della qualità della vita nel paese. 5. Set Setal e Y’en a marre: partecipazione, moralità e identità urbana In un tale quadro di incertezza sociale, come evidenziato da Diop e Waas (1990), la mancanza di immaginazione nel cercare soluzioni adeguate nella 10 La SOADIP era una società anonima che lavorava con i servizi tecnici municipali e il genio militare. Presieduta da Abdoulaye Fofana, ex ministro dell’interno, fu dissolta nel 1971. 158 Raffaele Urselli gestione dei rifiuti ha creato tali vuoti e lacune nel sistema “formale” della metropoli moderna, che le iniziative popolari si sono spesso integralmente sostituite ad un campo di intervento che è stato storicamente di competenza del governo locale. Le azioni di pulizia promosse dal movimento del Set Setal (in wolof: «pulire ed essere puliti») divennero infatti indispensabili per far fronte ai vuoti istituzionali lasciati dalla società in via di fallimento; il sindaco Diop approfittò di questa soluzione popolare patrocinando l’incorporazione degli attivisti del movimento nel sistema urbano di gestione, per questa ragione retoricamente denominato “partecipativo”. A partire dalla seconda metà degli anni ’90 l’impostazione partecipativa era diventata infatti «strumento privilegiato di definizione delle politiche pubbliche» (Diop, 2013, p. 67). Il rafforzamento del tessuto associativo aveva l’obiettivo di ridurre la distanza tra individui e poteri istituzionali. Questo cambio nelle politiche pubbliche fu imposto dalle istituzioni finanziarie internazionali e dagli attori dello sviluppo come contromisura necessaria a bilanciare il peso sociale degli aggiustamenti strutturali e del debito. Come tuttavia sottolineato da Fredericks (2014), un secondo capitolo, meno noto, del Set Setal riguardava proprio la manovra politica che si celava dietro la retorica della partecipazione e della promozione di un movimento giovanile come attore istituzionale di un settore così fondamentale:11 la mossa del sindaco Diop aveva l’obiettivo di tenere insieme, da una parte, il sostegno politico che proveniva dal bacino elettorale collegato al movimento, e dall’altra di far fronte, in maniera conveniente per le casse del comune, alla riduzione del budget finanziario. Tuttavia questa mobilitazione popolare non fu semplicemente parte della strategia interventista dello stato inscritta nel progetto politico nazionalista, ma era anche parte di una modalità retorica e celebrativa di mobilitazione della società civile. L’aspetto più rilevante del movimento, rispetto alla rielaborazione delle politiche municipali e alla contestuale metamorfosi della società urbana, stava infatti nella riconfigurazione dell’ordine metropolitano e nel riassetto della governance: il Set Setal oltre ad incarnare una nuova modalità estetica ed espressiva dei giovani senegalesi alla ricerca di un punto di riferimento in un paesaggio urbano in perenne cambiamento, fu anche un processo sociale e politico che portò ad una ridefinizione dei rapporti tra stato, classe dirigente locale e gioventù (Bagnicourt e Diallo, 1991). 11 Il movimento raggiunse fama internazionale quando nel 1994 una delegazione di attivisti fu invitata al Forum Globale di Manchester su “Città e sviluppo sostenibile” (Fredericks, 2014, p. 537), e grazie al successo del cantante Youssou N’dour con l’album Set (1990). Gestione dei rifiuti a Dakar 159 Il movimento costituiva «un investimento umano con la vocazione di fare pulizia» (Diouf, 2002, p. 12); nasceva in opposizione al degrado urbano, e allo stesso tempo rappresentava una reazione violenta e moralizzante alla crisi della transizione democratica. Se da una parte la caratteristica saliente del movimento aveva una connotazione positiva di messa in ordine dello spazio urbano, dall’altra il disordine creativo e l’azione deliberata di sporcare e occupare provocatoriamente la via pubblica (Tilim Tilimeul) fu l’aspetto meno noto e più contestato delle iniziative di protesta. Queste azioni simboliche esprimevano una «eresia popolare» (Diouf, 2005, p. 13) che metteva in evidenza l’immaginazione estetica, la messa in ordine o in disordine degli spazi condivisi e l’indisciplina consapevole dei nuovi cittadini urbani. Un aspetto particolarmente rilevante di queste “rivolte dei rifiuti” è infatti l’inversione del principio di riservatezza che limita l’esposizione pubblica dell’immondizia: dalla vergogna e dal «pericolo» di mostrare pubblicamente i propri rifiuti (Douglas, 2007), si passa contestualmente all’utilizzo degli stessi come strumento legittimo di protesta, di contestazione e di azione politica diretta. L’obiettivo era quello di preservare la salubrità dei quartieri rimuovendo collettivamente l’immondizia, tentando, parallelamente, di «ripulire» e riformare le pratiche politiche e sociali. Il Set Setal ispirava la continua riproduzione della storia della città, proclamata territorio privilegiato per la costruzione di nuove identità ed eletta come nuovo repertorio di invenzione di una nuova tradizione. Tuttavia, come sottolineato da Diouf, la produzione culturale del movimento non è da interpretare solo in termini di rottura rispetto al retaggio tradizionale e nazionalista, piuttosto come una «riorganizzazione e ricomposizione della memoria storica declinata in chiave urbana» (Diouf, 2005, pp. 1-2). L’esperienza sociale del Set Setal ha dunque costituito un momento decisivo nell’evoluzione dei movimenti popolari in Senegal ed ha lasciato una eredità storica che negli ultimi anni è stata ripresa e rielaborata, attraverso diversi elementi di continuità, dal movimento Y’en a marre.12 Oltre all’utilizzo comune di certe forme comunicative (se il genere musicale mbalax, creato dal celebre cantante Youssou Ndour, divenne espressione del Set Setal, la voce critica del rap costituisce lo strumento privilegiato e il riferi12 Y’en a marre (“Ora basta!”) nasce nel 2011 per raccogliere il malcontento popolare in seguito alle ripetute interruzioni di erogazione di energia elettrica; l’obiettivo politico del movimento è quello di contestare la terza candidatura presidenziale di Abdoulaye Wade, che viola la riforma costituzionale promossa dallo stesso presidente e che impone il limite di due mandati. Coordinato dal giornalista Fadel Barro, il movimento è guidato da rapper e giornalisti. 160 Raffaele Urselli mento comune dei giovani di Y’en a marre),13 i temi della sicurezza, dell’erogazione dei servizi pubblici, della trasparenza politica, della salvaguardia ambientale e della coscienza civica sono ugualmente presenti. Anche per Y’en a marre il controllo della spazialità e del territorio (il quartiere in particolare) è parte integrante del processo di affermazione della gioventù come categoria sociale riconosciuta.14 Riprendendo l’impostazione del Set Setal, Y’en a marre ha formato una rete decentralizzata di gruppi di quartiere (espirit) col fine di supportare una rigenerazione della società (attraverso lo slogan NTS: “un nuovo tipo di senegalese”) e di sostenere le diverse istanze territoriali sparse sul territorio nazionale (Ndiaye, 2012; Savané e Sarr, 2012). Tra queste, a Diass e Sindia (a sud della capitale), Y’en a marre ha creato una cellula territoriale che fornisce appoggio e coordinamento alla lotta delle comunità rurali contro il progetto di costruzione di una nuova discarica, ponendo questa come «terreno privilegiato di lotta e confronto politico»15 con lo stato e con una classe politica di cui si chiede il rinnovamento. 6. Contro la discarica: il principio di prossimità e il processo di decentramento I problemi legati alla discarica (inquinamento, combustione di rifiuti, ambiente sgradevole per il vicinato, compromissione dei terreni agricoli, presunta malvivenza, ecc.) hanno trovato una vasta eco nel dibattito pubblico senegalese da quando lo stato ha deciso di chiudere quella storica (Mbeubeuss), e oramai esausta, ed aprirne una nuova regolare nei pressi di Sindia; la chiusura, oltre ad essere motivata da questioni ambientali e sanitarie, è principalmente legata ad affari economici tra l’agenzia nazionale di investimenti (APIX) e Banca Mondiale, che a loro volta prevedono la costruzione di un’autostrada a pagamento che colleghi Dakar con Diamniadio, e sul cui tragitto si trova Mbuebeuss. Questo progetto si è scontrato sin 13 L’Hip-Hop è la voce del malcontento della gioventù urbana, in particolare delle banlieue: i testi impegnati delle canzoni si differenziano dallo stile violento, scatologico e nichilistico caratteristico del genere, mettendo in risalto le virtù del civismo e della giustizia sociale e denunciando l’ipocrisia della classe politica senegalese (Gellar, 2013, p. 123). 14 Già attraverso il movimento bul faale (“non ti preoccupare”) il desiderio di emancipazione, la spinta all’innovazione sociale e la promozione dell “etica del successo” erano diventate le istanze maggiori portate avanti dalle nuove generazioni delle banlieue (Harvard, 2001). 15 Intervista con un attivista del comitato contro la discarica di Sindia, Dakar, febbraio 2014. Gestione dei rifiuti a Dakar 161 dall’inizio con la feroce opposizione delle collettività locali destinatarie del nuovo sito scelto per ospitare il centro di trattamento, contrarie a «una nuova Mbeubeuss sul territorio».16 Dal 2005 il progetto è in stallo per via della violenta contestazione delle comunità, ragion per cui la vecchia discarica continua a funzionare come unico deposito di rifiuti (non controllato) della grande regione di Dakar.17 Un «conflitto di prossimità» questo, che si è dimostrato particolarmente «produttivo», nel proteggere la causa di Sindia e Diass (Melé et al., 2013), e che ha messo in evidenza come le diverse implicazioni legate a questo genere di contrapposizioni non siano soltanto da ricondurre alla dimensione spaziale delle conseguenze ambientali o all’impatto dei progetti, ma rivestono una particolare importanza rispetto alla percezione e alla rappresentazione dei rischi e dei pericoli (Douglas, 2007). La salubrità e lo smaltimento dei rifiuti sono infatti di per sé indice dello stato dei rapporti sociali urbani, ma allo stesso tempo costituiscono un marcatore della soglia tra luogo «intimo privato e spazio pubblico esterno» (Bouju, Ouattara, Touré e Bocoum, 2004, p. 70), limite che si impone attraverso la rappresentazione simbolica dello spazio che si vuole proteggere dall’immondizia e quello che deve necessariamente riceverlo. Nei primi anni 2000 si apre dunque un nuovo fronte, sino ad allora inedito, in relazione al rapporto tra politica e rifiuti: se sino ad allora la gestione della salubrità urbana aveva rappresentato sia un elemento di contesa politicoelettorale, sia un argomento per denunciare un “difetto” nell’azione locale dello stato, ora ad essere messa in causa è anche l’ingerenza dello stato centrale nel tentativo di attribuirsi un settore che compete per legge alle autorità locali. Un punto cruciale in merito alla discussione sulla discarica riguarda infatti la riforma sul decentramento e sull’autonomia delle comunità locali in ba16 I toni catastrofisti e la campagna pubblica di denigrazione contro Mbeubeuss hanno determinato una strumentalizzazione della questione ambientale e sanitaria. Molti articoli giornalistici della stampa nazionale hanno demonizzato la discarica parlando di Mbeubeuss come «una bomba pronta ad esplodere», descrivendola come un luogo macabro e pericoloso. Si vedano i seguenti articoli: “Horreur à la décharge de Mbeubeuss: 14 cadavres de bébés retrouvés”, Xibaaru”, settembre 2014 (http://xibaaru.com/people/horreur-a-la-decharge-dembeubeuss-14-cadavres-de-bebes-retrouves/) (26/06/2016), e “Réunion interministérielle sur une bombe écologique: la décharge de Mbeubeuss”, in Rewmi.com, marzo 2011, http://www.rewmi.com/reunion-interministerielle-sur-une-bombe-ecologiquela-decharge-de mbeubeuss.html (26/06/2016). 17 Si veda, fra gli altri, l’articolo di stampa “Centre d’enfouissement technique de Diass: L’Etat renonce au projet mais les problèmes demeurent” del 20-12-2013, Lagazette.sn http://www.lagazette.sn/centre-denfouissement-technique-de-diass-letat-renonce-au-projetmais-les-problemes-demeurent/ (26/06/2016). 162 Raffaele Urselli se alla legge sulla decentralizzazione del 1996 (Legge n° 96-06, 22 marzo 1996, che istituisce il Codice delle Collettività locali). Il Professor Cheikh Ngom, geografo dell’Università di Dakar, sostiene che l’accordo tra CADAK-CAR18 e il promotore Gta (l’azienda italiana che ha vinto l’appalto per la gestione) impone la nuova discarica a Sindia, «calpestando il codice del governo locale e i principi fondamentali del decentramento in materia di autogestione e autogoverno». Secondo il codice, nessun governo locale può esercitare la sua autorità su un altro: «Chi decide che la spazzatura di Dakar venga trasferita in un’altra località senza che vi siano relazioni intercomunali? L’ambiente è una competenza trasferita. Ogni autorità locale deve gestire i propri rifiuti. È uno dei principi-chiave del decentramento».19 Sottolineando che i cittadini si aspettano «progetti di sviluppo e non un centro di trattamento dei rifiuti», Ngom sostiene che le popolazioni rurali subiscono le scelte delle autorità pubbliche centrali che sviluppano progetti a prescindere dalle attività di sussistenza, tradendo lo spirito della politica di decentramento, che invece dovrebbe favorire l’appropriazione, da parte delle comunità coinvolte, delle istanze di sviluppo locale. 7. La contesa per la gestione dei rifiuti nella capitale L’esautoramento delle prerogative del decentramento costituiva uno dei principali obiettivi del governo di Abdoulaye Wade nell’impresa di smantellamento dell’apparato socialista a Dakar e di instaurazione del sopi:20 in base all’eccezionalismo della capitale i finanziamenti del settore dei rifiuti, così come le decisioni considerate strategiche, dovevano passare con decreto dello stato centrale.21 Poche settimane dopo le elezioni del 2000 Wade sciolse la 18 L’intesa tra la CADAK (Communautés des Agglomérations de Dakar) e CAR (Communautés des Agglomérations de Rufisque) ha fornito il servizio di pulizia urbana per l’intera regione di Dakar sino al 2014, quando l’attuale presidente Macky Sall ha nuovamente affidato la gestione dei rifiuti all’UCG (Unité de coordination des déchets), sotto la supervisione diretta del governo. 19 Intervista con Cheich Ngom, Dakar (UCAD), gennaio 2015. 20 La campagna del Sopi (“cambiamento” in wolof) portò la coalizione guidata dal Partito Democratico Senegalese di Abdoulaye Wade alla vittoria nelle elezioni presidenziali del 2000, inaugurando per la prima volta nella storia repubblicana l’alternanza al dominio quarantennale del Partito Socialista. 21 La capitale è l’unico comune a poter ricevere un supplemento finanziario dallo stato per la gestione dei rifiuti; il resto dei comuni deve coprire questa spesa con la tassa comunale sui rifiuti. Per una analisi dettagliata della gestione dei rifiuti durante il periodo di Wade si veda Cissé e Seck (2013). Gestione dei rifiuti a Dakar 163 CUD, mettendo fuori gioco un’importante base di potere e consenso per il sindaco socialista e istituendo la CADAK-CAR, con un carattere inizialmente meno politico e più “tecnico”. Tuttavia la molteplicità di attori istituzionali coinvolti, tra cui le agenzie governative e una lunga serie di imprenditori privati22 che fornivano camion e autisti, copriva le responsabilità e comprometteva il raggiungimento di soluzioni efficaci. Nelle elezioni comunali del 2002 il sindaco Mamadou Diop, dopo oltre 18 anni come primo cittadino, perse le elezioni in favore di Pape Diop, stretto alleato del nuovo presidente. Wade accelerò quindi il processo di politicizzazione della sua amministrazione, confondendo i confini tra istituzioni politiche e amministrative (Coulibaly, 2006; Dahou e Foucher, 2004; Gellar, 2012; Diop, 2012). La situazione si sbloccò nel 2009, con l’elezione del candidato socialista Khalifa Sall a sindaco di Dakar, che sancì la fine del monopolio del partito liberale di Wade sull’ufficio del sindaco della capitale. Da quel momento, sino alle elezioni del 2012, gli accordi istituzionali e contrattuali nel settore tornarono al centro del confronto politico fra il governo centrale di Wade e la città di Dakar. Uno dei primi provvedimenti del nuovo sindaco consistette proprio nell’assunzione dei lavoratori del settore direttamente alle dipendenze di CADAK-CAR, regolarizzando gli stipendi arretrati e fornendo l’assicurazione sociale. In contrapposizione agli sforzi del sindaco Sall di consolidare la sua autorità sul settore, dopo pochi mesi Wade ne annunciò l’ennesimo rimpasto: nei primi mesi del 2011 il conflitto politico era ormai dichiarato, ed entrambi i contendenti proclamavano apertamente “guerra” su questo terreno. Alla fine del mandato Wade arrivò addirittura ad annunciare che avrebbe sottratto la gestione dei rifiuti alla città attraverso la creazione di un’entità senza precedenti: una agenzia chiamata SOPRESEN (Société pour la Propreté du Sénégal) successivamente votata dall’assemblea nazionale.23 Sall protestò vivacemente contro l’istituzione dell’agenzia, affermando che, in qualità di presidente di CADAK-CAR, non era mai stato consultato; que22 Tra queste, la multi-servizi Veolia, che gestiva pochi quartieri centrali, veniva pagata sino a quattro volte rispetto agli altri concessionari che operavano nelle periferie, mentre il contratto di AMA-Senegal prevedeva, irrealisticamente, la produzione di acqua minerale, compost, gas ed elettricità oltre alle mansioni di pulizia, raccolta e trasporto. Si veda l’articolo di stampa “Contrats d’ama-senegal et de veolia. Les plus gros scandales jamais connus dans le secteur des ordures”, Senetoile, 7 juin 2012 senetoile.net/clients/16998—contrats-dama-senegal-et-deveolia—les-plus-gros-scandales-jamais-connus-dans-le-secteur-des-ordures.html (28/06/2016). 23 Il crescente utilizzo di agenzie autonome, vista la relativa autonomia di gestione, rimane poco chiara nei testi di legge. Le risorse trasferite alle agenzie autonome rappresentavano nel 2006 quasi il 10% del bilancio totale (Banca Mondiale, 2006, p. 8). 164 Raffaele Urselli sto provvedimento inoltre, a detta del sindaco, contraddiceva palesemente le leggi sul decentramento del 1996. Come sottolineato ironicamente dallo stesso Sall, vi erano delle contraddizioni di fondo nelle scelte politicoamministrative di un presidente liberale «che invece di promuovere deregolamentazione, semplificazione e decentramento», promuoveva un processo di «centralizzazione e nazionalizzazione» di comparti, già di per sé complessi, della pubblica amministrazione (Fredericks, 2013, p. 449). Parallelamente a queste vicende, nel 2000, intuita l’imminente ristrutturazione del settore dei rifiuti, gli operatori formarono un sindacato politicamente indipendente, il SNTN (Syndicat National des Travailleurs du Nettoiement). Madany Sy divenne segretario generale e leader del Fronte Unitario (che federava altri quattro piccoli sindacati del settore) sino al 2006, periodo che i lavoratori ricordano come “l’età dell’oro” della gestione dei rifiuti. In quegli anni si creò una perfetta sintonia e comunione di interessi tra il sindacato e l’azienda AMA-Senegal, esperimento di internazionalizzazione della municipalizzata AMA-Roma; quest’ultima in particolare regolarizzò ed estese i benefit dei lavoratori che per dieci anni avevano avuto contratti precari che risalivano al periodo del Set Setal. Quando però i problemi con AMA iniziarono (ritardi sui pagamenti, mancanza di mezzi, cattiva organizzazione, malcontento popolare, rischi sanitari, ecc.), gli operai, dietro la guida carismatica di Sy, iniziarono scioperi, manifestazioni e sit-in, facendo leva sul potenziale sociale di mobilitazione che esercitava l’immondizia nello spazio pubblico urbano, in particolare rispetto alla sensibilità dei dakarois. Un indicatore chiave della presa delle azioni sindacali sulla comunità urbana era il fatto che agli scioperi spesso si accompagnavano contemporaneamente le rivolte di quartiere, attraverso l’occupazione contestataria di immondizia nelle strade (tilim tilimeul), pratica che abbiamo già visto fare da contrappunto al Set Setal. Attraverso un’instancabile azione educativa, anche col supporto strategico delle radio, Sy e il sindacato si conquistarono l’attenzione pubblica strappando una serie di concessioni importanti. L’articolazione politicizzata del campo dei rifiuti e la sua incorporazione nell’arena politica nazionale continuarono con l’elezione nel 2012 del liberale Macky Sall. Appena eletto, uno dei primi provvedimenti d’ufficio di Sall è stato infatti quello di riformare gli organismi e le istituzioni responsabili della gestione dei rifiuti.24 La dissoluzione del sistema messo in piedi da Wade 24 Macy Sall era stato già primo ministro dal 2004 al 2007, succedendo al delfino di Wade, Idrissa Seck. Più volte ministro, presidente dell’assemblea nazionale, sindaco di Fatick e responsabile della campagna elettorale di Wade nel 2007, nel 2008 Sall si stacca dal Partito Gestione dei rifiuti a Dakar 165 aveva un alto valore simbolico, quello cioè di purificare la nuova amministrazione dalle precedenti storture e fallimenti per inaugurare un nuovo corso politico, quello del «Senegal emergent».25 Il governo liberale di Macky Sall si adattò presto al gioco della contesa: Abdoulaye Diouf Sarr, ministro della governance locale, nel 2014 ha demandato la gestione dei rifiuti solidi urbani al CADAK-CAR, affidandola a una struttura posta sotto la supervisione diretta del governo (UCG), riproducendo lo scontro politico tra potere centrale dello stato e autorità municipale sul terreno dei rifiuti.26 All’imposizione di questa ennesima sottrazione forzata, il sindaco Khalifa Sall rispondeva ribadendo che «l’autorità naturale, competente per occuparsi dei rifiuti, è costituita dalle collettività locali. Il comune di Dakar si occupa dei suoi rifiuti, perché quando la città è sporca non ci si rivolge al ministero, non ci si rivolge alle autorità governative, ma ci si chiede che fine ha fatto il sindaco? Deuk bi saleté na, ana maire bi» (in wolof: “la la città è sporca, dov’è il sindaco?”).27 8. Mbeubeuss: la cultura della debrouille e la santificazione del lavoro Se, come sin qui mostrato, il terreno dei rifiuti da una parte costituisce uno spazio sociale di protesta e confronto tra stato e società civile, tra autoritarismo centrale e autonomia del governo locale, dall’altro è necessario introdurre un ulteriore elemento di riflessione e di caratterizzazione: l’accesso al campo dei rifiuti rappresenta una risorsa per le fasce di popolazione subalterne (Chari, 2005), un fattore di produzione informale solitamente negletto dalle teorie economiche (Blincow, 1986) che si è particolarmente intensificaDemocratico Senegalese per fondare un suo partito, l’APR (Alliance pour la République) che vince le elezioni presidenziali del 2012 al secondo turno, col 65% dei voti - dopo il primo turno elettorale, Sall aveva riunito tutti i candidati sconfitti nella coalizione Benno Bokk Yakkar (Uniti per la stessa speranza). L’inizio del suo mandato è caratterizzato da una severa ricomposizione delle strutture dello stato (in particolare di determinate agenzie e commissioni) e dall’annullamento di numerosi decreti e contratti firmati da Wade. 25 Dal nome del programma politico ed elettorale di Sall, indirizzato verso una crescita economica guidata dagli investimenti stranieri (Plan Senegal emergent). 26 Si veda l’articolo “Sall Macky contre Sall Khalifa” del 15 dicembre 2015, in jeuneafrique.com http://www.jeuneafrique.com/mag/284481/politique/senegal-sall-macky-contre-sallkhalifa/ (28/06/2016). 27 Intervista a sudonline.sn del 26/11/2015, “La ville de Dakar va s’occuper de ses ordures”, http://www.sudonline.sn/la-ville-de-dakar-va-s-occuper-de-ses-ordures_a_27341.html (28/06/2016). 166 Raffaele Urselli to negli anni della recessione (Diop, 1996) quando, contestualmente, stavano cambiando anche gli stili di consumo – quindi le caratteristiche di produzione ed accumulazione dei rifiuti, il rapporto urbano/rurale e la considerazione pubblica di un aspetto della società la cui caratteristica principale è quella di affermare o negare un dato ordine sociale (Douglas, 2007; Gidwani, 2014; Guitard, 2015). Mentre per le popolazioni di Sindia, quindi, la discarica costituisce un pericolo da respingere e tenere a distanza, per la comunità di recuperatori di rifiuti che lavora al suo interno, la chiusura di Mbeubeuss significherebbe perdere il posto di lavoro e l’unica fonte di sussistenza. Per spiegare questa ambiguità, è utile rintracciare le traiettorie sociali, politiche ed economiche che hanno determinato la diffusione su scala delle attività informali di valorizzazione dei rifiuti, nonché del processo di popolamento della discarica. Negli ultimi trent’anni la trasformazione della struttura economica della società e l’esponenziale crescita urbana stanno esercitando una pressione straordinaria sulle già limitate risorse destinate alla fornitura di servizi urbani di base, favorendo l’espansione delle pratiche informali di recupero dei rifiuti (Blundo, 2009; Grest, Baudouin, Bjerkli e Quénot-Suarez, 2013; Onibokun, 2001; UN-Habitat, 2014). Allo stesso modo, laddove le politiche di sviluppo promosse dalle istituzioni internazionali non tengono conto dei «limiti relativi a certi paradigmi globali di gestione e di governo delle città» (Fourchard, 2007, p. 10), non attribuendo il giusto peso al continuum che si è creato tra istituzioni formali ed informali all’interno del settore della gestione municipale dei rifiuti,28 la cultura della debrouille (l’arte di cavarsela) e l’accesso al settore informale sono diventate l’unica chance, per le masse di disoccupati urbani e di migranti rurali in cerca di fortuna, di ingresso nel mondo del lavoro: «le popolazioni urbane non sono restate inattive di fronte alla povertà; esse hanno imparato a cavarsela» (Diop, 1992, p. 36) sosteneva a questo proposito Momar Coumba Diop in uno studio sulla povertà urbana a Dakar negli anni degli effetti della svalutazione del franco CFA e degli aggiustamenti strutturali. Il contesto socio-urbano e politico-economico della capitale ha creato una condizione di precarietà strutturale che ha gonfiato a dismisura un sottoproletariato urbano che si riversava esponenzialmente nel centro della città e diventava sempre meno gestibile dalle autorità di governo, e che per queste ragioni doveva essere dirottato nelle banlieue per tutelare la sicurezza urbana e le esigenze di un settore turistico in continua espan28 Secondo Cissé, infatti, la moltiplicazione delle fonti di produzione di rifiuti ha superato in molte città africane la capacità istituzionale di gestione (Cissé, 2012, p. 123). Gestione dei rifiuti a Dakar 167 sione.29 Questo processo continua ad alimentare una economia informale oramai sproporzionatamente inflazionata. Fra le varie attività disponibili nel settore non strutturato (Marie, 1982), molti dei refoulé si sono sin da subito costituiti come forza-lavoro nelle attività di recupero e valorizzazione dei rifiuti urbani. Questo fenomeno, ascrivibile a un contesto più ampio di economia spontanea e di sussistenza (De Miras, 1987; Diop, 1994; Morice, 1985; Fall, 2010; Waas e Diop, 1990), si è intensificato in maniera significativa a partire dagli anni ’90 trovando nella grande discarica un luogo particolarmente favorevole alla riproduzione di queste dinamiche. Mbeubeuss, unico deposito pubblico di rifiuti dell’intera regione di Dakar in funzione da oltre quarant’anni, riceve oggi una media annua di oltre 400.000 tonnellate di ogni genere di rifiuti (speciali, industriali, ospedalieri, solidi urbani, ecc.) che non vengono trattati, separati o smaltiti, se non dalla comunità dei recuperatori che opera informalmente al suo interno. Come sottolineato da Omar Cissé, direttore dell’Istituto africano di gestione urbana di Dakar, «urbanizzazione e crescita demografica, combinati a modi di produzione e modelli di consumo urbani e moderni», sono gli elementi caratterizzanti di un crescente e sempre meno gestibile volume di rifiuti (Cissé, 2012, p. 16) che dà da vivere agli oltre 1500 boudiouman30 della discarica. Questa è intelaiata nell’abnorme periferia di Dakar attraverso una serie di scambi e commerci che fanno fulcro sui maggiori mercati della banlieue, la cui intensità di traffici è in continua crescita.31 Al suo interno si possono identificare tre principali poli di attività: i quartieri di Guye Gui e Baol, articolati in più di cinquanta pakk,32 e la piattaforma di sversamento. A Baol,33 elemento interessante, è parti- Già negli anni ’50 e ’60 migliaia di «proletari urbani» furono espulsi dalla Medina sovrappopolata (e in via di ristrutturazione) e trasferiti nei quartieri di emergenza dell’estesa banlieue. Pikine, la nuova città nata dal nulla nel 1952, contava da subito al suo interno oltre 200.000 persone precedentemente sgomberate dai quartieri centrali, costituendosi come «immagine in negativo» di Dakar (Verniére, 1977, p. 53). 30 Letteralmente in wolof: “chi immerge le mani”; il termine è usato comunemente per indicare i recuperatori di rifiuti. 31 I micro-imprenditori, che costituiscono piccole unità di produzione domestica, si riforniscono a Mbeubeuss di sacchi di juta, bottiglie, recipienti, contenitori, ecc., per sostenere la vendita al dettaglio e le micro-attività di trasformazione alimentare. Grazie a questi circuiti la discarica è diventata il punto di approvvigionamento di numerose reti di auto-produzione collegate ai maggiori mercati della regione (in particolare quelli di Sandaga, Colobane e Thiaroye). 32 Il pakk è l’unità produttiva di riferimento nella catena della valorizzazione informale dei rifiuti. Oltre a quelli all’interno di Mbeubeuss, i pakk sono situati vicino ai mercati, nelle zone industriali e nei pochi spazi interstiziali lasciati dall’urbanizzazione pressante. I circuiti 29 168 Raffaele Urselli colarmente diffuso un daa’ira appartenente alla confraternita sufi dei muridi.34 «Ligey thi diamou yalla la boke» («lavorare è uno dei comportamenti dello schiavo di Dio») recita una famosa massima che riassume in maniera emblematica uno degli aspetti più importanti dell’etica del muridismo, un’etica alimentata dal sacrificio e dalla santificazione del lavoro, e che mostra la confluenza tra i processi popolari di adattamento socio-urbano e la riproduzione delle economie morali. La radicalizzazione di questo fattore è diventato l’elemento dominante di una «frangia liminale» del muridismo (Piga, 2000, p. 85), ispirata alla figura di Cheickh Ibra Fall, uno dei discepoli più importanti di Cheich Amadou Bamba, padre del muridismo, la cui popolarità trova una vasta risonanza tra i boudiouman; l’ideologia bayfalista (dei seguaci di Ibra Fall) funge da base morale che spinge i recuperatori a lavorare sodo in un ambiente ostile come quello della discarica perché, come sostiene il capo del daa’ira, «grazie alla buona volontà e al sacrificio ogni lavoro diventa nobile».35 Il riconoscimento da parte del marabutto è in questo senso percepito dai recuperatori come una forma di accettazione e di validazione sociale di un mestiere altrimenti fortemente stigmatizzato. 9. Un percorso multiforme di legittimazione sociale Oltre ad una legittimazione di tipo etico-religioso, la presenza dei recuperatori in discarica è ufficializzata dall’associazione dei recuperatori Bokk Diom (in wolof: avere la stessa visione). La ricostruzione degli eventi e delle ragioni che all’inizio degli anni ’90 portarono al graduale processo di riconoscimento e alla nascita dell’associazione dei recuperatori Bokk Diom, è ben riassunta da P.N., socio fondatore Un giorno la polizia è venuta per fare una retata. La sera abbiamo visto nell’unica televisione che c’era, che si parlava di noi [dei recuperatori] come di banditi e malviventi. Abbiamo discusso con Haziz, uno degli anziani, per capire come difenderci da queste dicerie, in forza del fatto che tutti lavoravamo onestamente. di rifornimento sono molto complessi e ogni pakk è specializzato in una determinata filiera (Cissé, 2007, p. 54). 33 Il quartiere prende il nome dall’omonima regione del paese, sede del muridismo, da dove provengono la maggior parte dei migranti rurali. 34 I daa’ira sono associazioni religiose muridi che proliferano in contesto urbano (Piga, 2000, p. 90). 35 Intervista con B.F., recuperatore e capo del daa’ira a Baol, Mbeubeuss-Dakar, dicembre 2014. La decisione di omettere i nomi per esteso degli intervistati è stata presa per rispettare le richieste di anonimato. Gestione dei rifiuti a Dakar 169 Siamo partiti in nove persone e siamo andati a presentarci al prefetto: abbiamo detto che siamo recuperatori e lavoratori onesti. (...) Il prefetto ha preso i nostri nomi e la polizia ci ha schedati. (…) Dopo tre mesi ci hanno dato la ricevuta di registrazione e siamo divenuti i referenti istituzionali della discarica.36 Le ragioni per cui i recuperatori attribuiscono un tale peso al riconoscimento pubblico della società è da ricondurre al percorso di popolamento della discarica, inizialmente segnato da una violenta stigmatizzazione dell’opinione pubblica senegalese, terrorizzata dalla commistione tra “rifiuti umani” e “immondizia”. Nello specifico, il quadro socio-urbano all’interno del quale si è sviluppata Mbeubeuss pone in rilievo come questa sia un luogo di particolare rilevanza sociologica (Cissé, 2007; Diawara, 2009), il cui interesse si articola tra dinamiche migratorie interne e soluzioni popolari di adattamento urbano (Marie, 1982; Verniére, 1973). La crescita spaziale della periferia di Dakar nel periodo coloniale e postcoloniale è stata infatti scandita dalle operazioni di déguerpissement (sfratti violenti) e da politiche brutali e stigmatizzanti che hanno profondamente segnato la memoria collettiva delle comunità espulse. I déguerpissement, il respingimento e l’isolamento della sovrappopolazione urbana nelle periferie, l’«hausmanizzazione» (Verniére, 1977) del centro della capitale, l’esodo rurale e l’adattamento spontaneo delle classi subalterne all’ambiente urbano (Fall, 2010; Morice, 1985), costituiscono il quadro storico del processo di popolamento della discarica, in quanto questa, trovandosi a ridosso della periferia, attirava chi, respinto dal centro e in cerca di un posto nella città, non aveva alternativa se non quella di «fare un ultimo tentativo»37 a Mbeubeuss. La testimonianza di H.N., giovane recuperatore di Mbeubeuss, descrive chiaramente questa soluzione: «Le persone che arrivano in città spesso non sanno dove andare (…) allora vedono che c’è tanta gente qui in discarica che vive dignitosamente, quindi capiscono che qui ci deve essere qualcosa. Guadagni da vivere e mantieni la famiglia».38 Seppur inscritta in un quadro di subalternità economica (in quanto parte più debole nella catena di valorizzazione dei rifiuti), di marginalizzazione urbana e di repulsione sociale, Mbeubeuss si è trasformata in un luogo di lavoro, di possibilità e di riscatto (Honwana, 2012). Le autorità municipali di Dakar, dopo decenni di ostilità e riprovazione, hanno infatti lentamente iniziato a riconsiderare il ruolo che i boudiouman 36 Intervista con P.N., recuperatore a Guye Gui, Mbeubeuss-Dakar, novembre 2014. Intervista con A. Z., recuperatore a Baol, Mbeubeuss-Dakar, gennaio 2014. 38 Intervista con H.N., giovane recuperatore a Guye Gui, Mbeubeuss-Dakar, gennaio 2014. 37 170 Raffaele Urselli svolgono nella società senegalese attraverso timidi e ancora limitati cenni di riconoscimento rispetto ai benefici economici, sociali e ambientali che deriverebbero dalle attività di recupero informale di rifiuti.39 Oltre a vedersi parzialmente legittimati come forza sociale dalle istituzioni, politiche o religiose, senegalesi, i boudiouman, coscienti di giocare un ruolo chiave nelle strategie di governance urbana e consapevoli delle enormi implicazioni economiche, sanitarie e ambientali derivanti dalla produzione di rifiuti,40 fanno parte di un coordinamento internazionale che riunisce le organizzazioni di recuperatori di più di 40 paesi.41 10. Conclusioni Sin dalle riforme strutturali degli anni ’80, l’elemento materiale dei rifiuti, oltre alla rilevanza che gioca nello spazio pubblico urbano e nelle molteplici trame del settore informale, ha costituito il casus belli per massicce mobilitazioni popolari di opposizione al regime e contemporaneamente ha rappresentato uno strumento di competizione politica e di partito. In queste occasioni, la sovrapposizione tra la percezione popolare del disordine urbano (l’inefficiente gestione dei rifiuti) e la corruzione morale della classe politica, ha creato una formula inedita di protesta sociale nella storia repubblicana del paese. La combinazione tra questi due fattori appare essere esplosiva nella sua capacità immediata di convogliare le storture dello stato africano e di mostrare allo stesso tempo le capacità di mobilitazione della società civile. Tuttavia, la “questione rifiuti” continua ad essere oggetto di riforme del settore, promosse da classi dirigenti che fanno un uso strumentale e clientelare del rapporto osmotico che si è istituito tra le autorità di governo e i nuovi attori emergenti delle politiche di gestione dei rifiuti, che si tratti di partecipazione popolare o di economia informale.42 39 Una delegazione di recuperatori è sempre presente nei tavoli di trattative per il nuovo piano di gestione dei rifiuti e per la costruzione del centro di trattamento. Inoltre la Banca Mondiale e APIX hanno accordato un risarcimento, seppur modesto, in vista dell’eventuale chiusura di Mbeubeuss. 40 Una quota tra il 3% e il 5% delle emissioni mondiali di gas serra sono legate al settore dei rifiuti (EEA, 2011); il recente Report Waste Atlas (2014) stima invece che le vite di oltre 64 milioni di persone subiscono quotidianamente le conseguenze della prossimità con le 50 discariche più grandi del mondo, tra cui Mbeubeuss (Waste Atlas, 2014, p. 4). 41 Si veda il progetto http://globalrec.org/ (26/07/2016). 42 Al Cairo, similmente, le autorità municipali, dopo aver forzatamente formalizzato il settore, sono ritornate sui propri passi riassegnando una cospicua parte della gestione dei rifiuti della megalopoli egiziana alla comunità copta degli zabbalyn che per decenni si è specializza- Gestione dei rifiuti a Dakar 171 L’ambiguità del caso della discarica, in particolare, ha evidenziato da una parte la produttività di un conflitto sociale che, attraverso il tema dell’autonomia locale e del principio di prossimità, rivela gli aspetti socioculturali di una modernità complessa (tutela ambientale, cittadinanza, autonomia di governo), e dall’altra ha messo in luce la continuità di un percorso storico che trova nel fenomeno di Mbeubeuss le contraddizioni della contemporaneità politica senegalese (marginalizzazione urbana, disoccupazione, esodo rurale, economia informale). Tuttavia, da tali frizioni è emersa una nuova realtà sociale in via di legittimazione: attraverso il processo di interazione col sistema di gestione urbana, la «moralità positiva» (Graeber, 2011, p. 282) sostanziata nelle attività svolte dai recuperatori si inscrive in un processo globale di riproduzione sociale volto a trasformare gli stessi rifiuti della produzione capitalista in risorsa (Chari, 2005; Medina, 2005; Samson, 2009). Grazie al lavoro di rianimazione e di messa in valore (Appadurai, 2009), i rifiuti sono recuperati all’interno di «circuiti secondari del capitale» (Gidwani, 2014, p. 3), fornendo una nicchia di sopravvivenza per le sub-popolazioni urbane, riconosciute come attori legittimi della governance urbana. Riferimenti bibliografici Adamelokun L. (1971). “Bureaurocrats and the Senegalese Political Process”. Journal of Modern African Studies, 4, pp. 543-559. Appadurai A. (2009). “Les marchandises et les politiques de la valeur”. 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Introduzione La fine dell’apartheid e la costruzione di un nuovo Sudafrica democratico sono avvenute, non a caso, in un momento storico di profondi cambiamenti dell’ordine mondiale, dopo la fine della Guerra Fredda. In quegli anni, tra l’altro, si stavano affermando i paradigmi fondanti delle teorie politicoeconomiche della neo-liberalizzazione, basate su un modello di governance locale, che aveva come assunti la service delivery (fornitura di servizi) e lo sviluppo territoriale (World Bank, 1990). Tuttavia, la costruzione moderna dello stato e della società sudafricani si fondava sulla stretta relazione tra capitalismo razziale e dominio politico della minoranza bianca, che lasciava in eredità al paese una pesante storia di esclusione razziale, sociale, economica e politica. Questa eredità ha comportato un processo di democratizzazione che coniugasse istituzionalmente un sistema di diritti civili e di cittadinanza socioeconomica con processi partecipativi di inclusione sociale e di lotta alla povertà. Ma, sin dagli inizi, il sistema ha evidenziato forti contraddizioni: da una parte, i diritti sanciti dalla nuova Costituzione del 1996; dall’altra, l’attuazione di pratiche statali, amministrative e politiche, che non sempre si sono tradotte in responsabilità attiva dei cittadini e accountability realmente democratica di chi governa. Come risultato, ampie sezioni di popolazione rimangono a livelli estremi di povertà, escluse socialmente, politicamente ed economicamente. Il caso sudafricano è, dunque, interessante nello studio delle pratiche reali di democrazia locale perché dimostra come i processi di democratizzazione, basati su una ristrutturazione del governo locale post-apartheid orientata alla good governance (decentramento, new public management), non beneficino tout-court i poveri e i gruppi socialmente esclusi, ma spesso alimentano forme di autorità politiche che svolgono funzioni di intermediazione e patronage. 180 Antonio Pezzano 2. Modelli istituzionali di partecipazione locale La sfida cruciale per gli assetti politici e sociali del nuovo Sudafrica democratico era la riforma dello stato, o il «progetto dello stato» postapartheid, come definito da Wafer e Oldfield (2015),1 che avveniva in un contesto internazionale in cui si stavano affermando i nuovi paradigmi dello sviluppo, che mettevano in discussione il ruolo stesso dello stato (Ferguson, 2006; Harrison, 2004). Quando il Sudafrica ha avviato la ristrutturazione dello stato postapartheid ha, progressivamente, incorporato i principi e le modalità del New Public Management (NPM)2 che si stavano imponendo a livello globale, senza che si elaborasse una critica radicale al sistema di governo e alla forma e alle pratiche dello stato ereditate dall’apartheid. La riforma del settore pubblico, a parte gli strumenti di riequilibrio dell’equità razziale come l’affirmative action, si è concentrata piuttosto su un obiettivo secondario: la burocrazia della pubblica amministrazione. La riforma o meglio la trasformazione della forma burocratica, all’insegna dello slogan undoing bureaucracy (annullare la burocrazia), è diventata il discorso portante della ristrutturazione del settore pubblico di fine millennio. Questa nozione neoliberale della governance locale è diventata ben presto3 un assunto, indimostrato nel processo, ma considerato capace di superare di per sé le pesanti eredità dell’apartheid. Secondo Chipkin (2016), per districare il nodo teorico che si è formato alla base dell’approccio riformista nel nuovo Sudafrica, bisogna osservare le relazioni tra istituzioni e carattere dello stato sudafricano in una prospettiva storica. Per lo studioso sudafricano, la principale contraddizione in materia 1 Per i due autori, si deve parlare di «progetto di stato post-apartheid» in Sudafrica perché esso è «una potente aspirazione politica con effetti materiali, senza dubbio, ma sempre in uno stato in divenire», per cui l’incontro o confronto (encounter) tra lo stato e i cittadini in Sudafrica è frutto di una lotta per i servizi essenziali che riflette immaginari e concezioni di cittadinanza differenti. In questo senso, lo stato è un progetto ancora incompleto, che cerca così di motivare la propria esistenza ed egemonia (Wafer e Oldfield, 2015, p. 235). 2 Il New Public Management è un modo di governance emerso nei primi anni ’80 del XX secolo nei lavori di alcuni studiosi statunitensi (Hood, 1991, 1995) per poi essere esportato anche in altri contesti; introduceva il modo di governance aziendale nel settore pubblico in nome di una maggiore efficienza e accountability. 3 Uno dei punti di svolta che ha segnato anche il cambio di paradigma nella politica economica e di sviluppo del nuovo Sudafrica è l’adozione delle politiche neo-liberiste orientate alla crescita di mercato, con l’adozione del Growth, Employment and Redistribution (GEAR), nel 1996. Governo locale in Sudafrica 181 di pubblica amministrazione ha le sue radici nelle diverse visioni politiche che coabitano nella cultura di governo dell’African National Congress (ANC): una leninista, che ha formato la lotta all’apartheid e buona parte dei quadri dirigenti dell’allora movimento di liberazione nazionale, secondo cui l’obiettivo primario era abbattere o trasformare radicalmente lo stato autoritario e razzista dell’apartheid; una liberale, che ha invece origini esterne al movimento di liberazione, anche se non propriamente recenti,4 secondo cui una riforma della burocrazia condotta in termini di valori manageriali sarebbe stata sufficiente a garantire un riequilibrio delle pesanti eredità dell’apartheid. Il tentativo di sintesi tra queste visioni ha visto perseguire all’inizio del nuovo millennio una “terza via” che manteneva il ruolo guida dello stato attraverso un’agenda sviluppista e democratica della riforma dello stato, in cui partecipazione ed empowerment diventavano le parole d’ordine, nel tentativo di evitare inefficienza e corruzione. Tuttavia, nella pratica, si è sempre più evidenziata la contraddizione tra azioni amministrative, che hanno riguardato il servizio pubblico, ispirate ai principi liberali della neutralità e imparzialità dello stato, e azioni politiche, soprattutto nella nomina dei quadri dirigenti delle amministrazioni locali, che invece rispondevano alla volontà di rafforzare il controllo politico dell’ANC sulla burocrazia. Questa contraddizione, secondo Chipkin, non ha fatto altro che indebolire le istituzioni stesse e pregiudicare la stessa service delivery. La mancata risoluzione del nodo teorico che è alla base della riforma neoliberale sta nell’aver sovrapposto nell’analisi, e quindi nella produzione delle politiche (policy-making), il modo «burocratico» con quello «coloniale». Lo stato dell’apartheid era evidentemente molto burocratizzato e corrotto, ma era soprattutto autoritario. Seguendo Mamdani (1996), lo stato coloniale non produceva tanto un modo «burocratico» di governo, quanto piuttosto un sistema «di comando e controllo», in cui l’autorità concentrava la funzione politica, giudiziaria e amministrativa. Dunque, lo stato dell’apartheid era autoritario, inefficiente e corrotto perché, in funzione di una relazione di produzione che aveva bisogno di forza lavoro a basso costo, imponeva una struttura violenta e coercitiva che riduceva i cittadini africani a sudditi e stranieri in patria. Le pesanti eredità storiche di un controllo gerarchico e autoritario ancora definiscono il dibattito sulla partecipazione nell’attuale sistema di governan4 L’introduzione dei principi del NPM nell’organizzazione del servizio pubblico alla fine degli anni ‘90, ispirata ai principi aziendali di “efficienza” e “innovazione”, in un approccio di gestione pubblica orientata al valore (value oriented public management approach), aveva in realtà avuto un suo prodromo nel tardo apartheid riformista (Chipkin e Lipietz, 2012). 182 Antonio Pezzano ce democratica locale. Picard e Mogale (2015) considerano che il modello coloniale basato su una forma «prefettizia» si è legato al modello opposto di liberazione incarnato dall’ANC, che comunque perseguiva il cambiamento politico attraverso strutture centralizzate. La contraddizione è fluita fino al livello sub-nazionale dove la promessa, o richiesta, di governance partecipativa è stata intercettata dalle élite politiche che hanno imposto dall’alto strutture e processi alle comunità locali.5 L’approccio iper-normativo della governance, intesa come insieme di “tecniche”, destoricizza lo stato, offuscando gli interessi in gioco nella sua costruzione, ossia nel cosiddetto processo di state building, che andrebbe inteso invece come un insieme di pratiche e relazioni sociali. Nella fattispecie, in Sudafrica, bisogna situare l’institution building, ossia la costruzione delle nuove istituzioni democratiche, nella più ampia storia dello state building, in cui va necessariamente esplicitato che il modo di governance, o meglio di governo, ereditato dall’apartheid è un sistema biforcato di amministrazioni in cui i modi che combinano e organizzano persone, risorse e beni, per formare le istituzioni sono e sono stati differenti tra le diverse aree urbane razzializzate, tra ambienti urbani e rurali, tra homeland e il resto del paese, tra ordinamenti giuridici di diritto (common law) e sistemi tradizionali o consuetudinari (customary law). Le grandi trasformazioni istituzionali in Sudafrica, formalizzate nei dettami normativi del Municipal Systems Act del 2000,6 hanno riguardato i confini delle municipalità, la finanza, le strutture politiche e partecipative, la service delivery, la gestione delle risorse umane. Tuttavia, queste riforme istituzionali non sempre e necessariamente hanno comportato un consolidamento delle forme democratiche e/o sviluppiste della governance locale, a causa sia di una scarsa memoria istituzionale che di una sottovalutazione delle complessità delle realtà locali, in cui era evidente una disuguaglianza di opportunità e di capacità di partecipazione e accesso allo stato, nonché una capacità disuguale e parziale dello stesso stato di assistere e rappresentare i diversi attori sociali, più o meno organizzati collettivamente. Il problema dunque è che, nel nuovo Sudafrica post-apartheid, la ristrutturazione delle relazioni di potere è stata considerata come un problema tec5 Dinamica questa non diversa da quanto osservato altrove in Africa, vedi per esempio: Olowu e Wunsch (2004), Otayek (2005), Crawford e Hartmann (2008). 6 La partecipazione è un dettato costituzionale che prevede il coinvolgimento dei cittadini nelle sfere di governo, in particolare di quello locale. Il Municipal Systems Act prevede che le municipalità debbano creare spazi e condizioni per la partecipazione delle comunità locali negli affari municipali. Governo locale in Sudafrica 183 nico, preferendo una via procedurale della democrazia piuttosto che una radicale trasformazione politica. Per questo si è pensato che potesse bastare una formalizzazione dei processi partecipativi di sviluppo, secondo un’ideologia non-razziale ed equa, che privilegiasse una dimensione tecnocratica della fornitura di servizi e beni fisici a spese di processi sociali, meno tangibili e misurabili, ma mirati a creare inclusione attraverso la costruzione di una cultura democratica della negoziazione, della libera espressione delle opinioni e della coesione sociale. La formalizzazione e normalizzazione dei meccanismi partecipativi, attraverso regole per la trasparenza, la responsabilità, la rappresentazione e l’autorità decisionale, è una necessità costituente dei processi democratici. Tuttavia, se limitata alla sua natura procedurale e tecnica, questa stessa formalizzazione può avere, a livello locale, l’effetto opposto di ridurre gli spazi e i processi attraverso cui i cittadini, specialmente quelli meno potenti e più periferici, partecipano e si relazionano alle strutture statali. Molti studi7 hanno dimostrato come le numerose opportunità formali per migliorare i livelli di partecipazione nella governance non abbiano integrato realmente i cittadini nei processi di policy-making, soprattutto nelle aree più svantaggiate, né le strutture partecipative come i ward committee (comitati di circoscrizione) sono state in grado di colmare la distanza tra cittadini, funzionari amministrativi e consiglieri politici (Oldfield, 2008). Nella pratica quotidiana, avviene, difatti, che le diverse situazioni e posizioni delle relazioni sociali finiscano con il trasporsi nei diversi tipi di istituzioni, che vengono così caratterizzate piuttosto da relazioni patronoclientelari e burocrazie politicizzate. Tutto ciò rende il settore pubblico il principale terreno di contestazione. Infatti, laddove non è garantita la normale dialettica politica, si sono create strutture di gestione contigue alle istituzioni pubbliche, che mediano tra diverse condizioni materiali e posizioni politiche nella società o nelle sue diverse sezioni locali.8 Di conseguenza, la 7 Vedi i saggi pubblicati in Critical Dialogue, rivista edita dal Centre for Public Participation di Durban nel primo decennio degli anni 2000; o anche i saggi della Part IV. Institutional Models of Developmental Local Government in van Donk et al. (2008); o quelli dello Special Issue del Journal of Asian and African Studies, curato da Bénit-Gbaffou e Oldfield (2011). 8 Numerosi sono gli studi che hanno fatto luce su queste strutture: per i ward committee, vedi Oldfield (2008), e Piper e Deacon (2008); per i Community Policing Forum, vedi BénitGbaffou (2008) e Berg et al. (2013); per l’Informal Traders Forum di Johannesburg, vedi Pezzano (2016a, b) e Matjomane (2013); per la piattaforma delle associazioni per le risorse idriche vedi Smith (2011), per i comitati civici per i servizi, vedi Etzo (2004) e Ballard et al. (2006). 184 Antonio Pezzano partecipazione dei cittadini finisce con l’essere mediata dalla politica locale attraverso forme più personalizzate che istituzionalizzate. Questi meccanismi, condotti dallo stato o da suoi agenti, formalizzano e regolarizzano la partecipazione, da un lato depoliticizzando i processi partecipativi e depotenziando così le istanze espresse dal basso dai cittadini ma, allo stesso tempo, ri-politicizzando gli spazi di partecipazione, secondo meccanismi di cooptazione o incorporazione più che di partecipazione, per legittimare strumentalmente decisioni politiche predeterminate dall’alto o semplicemente singoli attori politici impegnati nella governance. Non è detto però che questa politicizzazione avvenga solo in maniera controllata dall’alto; ne sono un esempio evidente le migliaia di proteste per la service delivery che si sono moltiplicate nel nuovo millennio. Più che nella concretizzazione degli obiettivi, non sempre raggiunti, questi movimenti potrebbero avere un valore simbolicamente sovversivo in certi contesti sociali, come nel caso di Abahlali base Mjondolo (AbM) a Durban, per cui Pithouse (2006) ha coniato il termine di «politica popolare», ossia forme di partecipazione pubblica dal basso che occupano le strade e altri luoghi pubblici. Sono, in effetti, quei movimenti che la forza di governo dell’ANC tende a vedere come forme distruttive e anti-democratiche piuttosto che come forme di legittima protesta, e a cui risponde con la riproduzione di vecchi schemi di cooptazione e repressione tesi a limitare e frammentare l’azione (agency) popolare, in continuità con pratiche storicamente sperimentate durante l’apartheid. Dunque gli stessi beneficiari di queste politiche, da un lato, partecipano a spazi «invitati» (Cornwall, 2008) e, dall’altro, li contestano nelle forme e nei contenuti politici, ma soprattutto nella pratica dell’implementazione, finendo col creare nuovi spazi «inventati» di partecipazione. La questione degli spazi di partecipazione è stata al centro di un lavoro di ricerca di un gruppo di studiosi del Centre for Urbanism and Built Environment Studies (CUBES) dell’University of the Witwatersrand di Johannesburg (Wits), che hanno analizzato i processi partecipativi non solo in base al tipo di spazi usati (invitati/inventati, formali/informali, istituzionali/spontanei), ma anche di “società civile” coinvolta (ONG, OBC,9 movimenti sociali) e ai modi di interazione con lo stato (antagonistico/cooperativo). L’analisi approfondisce le funzioni e i ruoli che questi spazi di partecipazione svolgono, non solo in termini di capacità di cambiamento delle politiche urbane ma anche in più ampi termini sociali e politici. 9 Organizzazioni a base comunitaria. Governo locale in Sudafrica 185 Da un punto di vista teorico, pur partendo dai lavori di Cornwall, Coelho (2007) e Corbridge et al. (2005), che considerano i processi partecipativi aperti, nonostante la loro natura soggetta al potere, e danno rilievo all’impegno profuso dagli abitanti con basso reddito nelle pratiche quotidiane, alcuni di questi autori sudafricani tentano di andare oltre la dicotomia delle categorie di spazi «inventati» (spesso visti o come autentici e rivoluzionari o come ribelli e pericolosi) e «invitati» (spesso visti come sterili o peggio narcotizzanti). In particolare, Wafer e Oldfield (2015, p. 235), preferiscono definirli come luoghi di «incontri/confronti» (encounters) con il «progetto di stato», ponendo lo stato al centro dell’analisi; in questo modo, prendono paradigmaticamente le distanze dagli aspetti prescrittivi e normativi dell’analisi «democratica» mainstream a sostegno della società civile. Spostando, dunque, il focus dell’analisi verso lo stato, si deve considerare che questi non esercita univocamente e coerentemente un potere repressivo ma, nella sua pluralità di azioni, si combina con la molteplicità di posizioni dei movimenti urbani comunitari (Lindell, 2008; 2010a, b), producendo politiche spesso contraddittorie e disuguali che, però, nella loro complessa articolazione, contribuiscono anche ad aprire nuovi spazi d’interazione e partecipazione con gli attori sociali che, a loro volta, possono influenzare l’attuazione delle stesse politiche pubbliche, ri-politicizzando i processi condotti dallo stato. Una ricerca condotta sui commercianti informali a Johannesburg (Pezzano, 2016a, 2016b) evidenzia la diversità e contraddittorietà dei comportamenti degli attori della governance locale: da un lato, la «doppia agenda» delle autorità municipali; dall’altro, l’azione diversificata dei commercianti informali, che cercano di trarre vantaggio dalla pluralità dello stato, così come dalle dinamiche della politica locale. Le autorità municipali di Johannesburg hanno storicamente adottato una strategia «doppia»: una «cooptativa», funzionale allo sviluppo capitalista e modernista della città, che ha incorporato segmenti di commercianti informali “regolarizzati” nella governance urbana e nei processi di accesso alla cittadinanza; e una «repressiva», basata tanto su apparati burocraticolegislativi quanto su pratiche “corrotte”, che ha teso a escludere la maggioranza degli stessi, identificati come “illegali”. In pratica, nel momento in cui il comune cerca di attuare una nuova strategia, definita come «coesiva, inclusiva e partecipativa» e sostenuta da discorsi di sostenibilità e resilienza, contemporaneamente riattiva repertori e pratiche restrittive e repressive consequenziali a un «riordino neo-coloniale dello spazio» (Steck et al., 2013). L’esempio dell’Operation Clean Sweep (Operazione Piazza Pulita) di ottobre 186 Antonio Pezzano 2013 è emblematico. Il sindaco, prima di annunciare la riformulazione di una politica più “proattiva”, che coinvolgesse tutti gli stakeholder in un processo inclusivo, ha sentito la necessità di procedere a un’operazione di “piazza pulita” per tener fuori gli attori sociali indesiderati e incorporarne un numero ristretto. Tuttavia, in questo caso, i commercianti criminalizzati hanno reagito con un’azione conflittuale che, in una certa misura, ha ostacolato e messo in discussione la strategia municipale (Pezzano, 2016a, pp. 507-508). 3. Relazioni stato-società I processi e i meccanismi partecipativi che lo stato attua riflettono la complessità delle relazioni che esso ha con la società, per cui l’analisi deve decostruire e andare oltre una visione dicotomica stato-società civile. Lo stato è un insieme complesso e multiscalare di processi, in cui una pluralità di soggetti agisce, non sempre e necessariamente in modo unitario e univoco. Attraverso un approccio empirico ed esplorativo, molti studi etnografici hanno cercato di evidenziare le sfumature e le complessità dei processi che avvengono nelle pratiche quotidiane e nelle politiche che lo stato, in quanto generatore di risorse, ma anche luogo di conflitti per le stesse, ingaggia con i cittadini (Corbridge et al., 2005; Bierschenk e Olivier de Sardan, 2014). Quest’interazione produce normalizzazione e dissenso, dialogo e scontro, inclusione ed esclusione. Assumendo, dunque, la natura relazionale dello stato (Jessop, 2007), si possono considerare le azioni degli attori locali – siano essi stato o cittadini – come processi selettivi che avvengono su più scale a seconda delle diverse situazioni e tematiche (le politiche abitative, le risorse idriche, il commercio informale) e delle reti che le comunità di attivisti creano all’interno e all’esterno del Sudafrica, per cui esse possono essere a volte cooperative e collaborative, altre oppositive e conflittuali. La contestazione dei meccanismi partecipativi, delle politiche e delle pratiche dello stato, però, non significa necessariamente opposizione anti-egemonica o anti-statale. In contesti di povertà e marginalizzazione sociale, come quelli sudafricani, potrebbe essere utile riprendere la nozione di società politica di Chatterjee (2004) in contrapposizione a quella di società civile, spesso idealizzata e ristretta a una élite che si basa su principi e linguaggi di diritti individuali. La società politica proposta da Chatterjee, per il caso indiano, definisce invece le forme transitorie di negoziazione tra la maggioranza degli abitanti, che non hanno piena cittadinanza a causa del loro status informale, e i politici Governo locale in Sudafrica 187 locali e analizza la natura eterogenea, contradditoria e relazionale dei rapporti che questi hanno con lo stato, inteso come un’entità plurale, non unitaria. Partendo da questo concetto, ma ponendo l’accento sulle dinamiche del cambiamento politico che la stessa partecipazione comunitaria crea, BénitGbaffou e Oldfield (2011) hanno studiato la partecipazione nella governance urbana e la mobilitazione nella politica locale dei cosiddetti poveri urbani. Questi studi hanno così analizzato il divario tra i principi della good governance, basati sui diritti umani individuali, sull’empowerment personale e sulla partecipazione democratica, e le pratiche quotidiane di accesso allo stato, e alle risorse da esso gestite, dei gruppi sociali con redditi più bassi. I rapporti che questi gruppi hanno con lo stato e i suoi rappresentanti (politici e amministrativi) a livello locale sono spesso caratterizzati da forme di intermediazione di tipo clientelare, soprattutto in un contesto di informalità, di povertà di massa e di scarse risorse pubbliche. Attraverso un’osservazione complessa dello stato, che consideri la specificità dei contesti e delle memorie storiche e dia spazio all’agency delle popolazioni locali, si possono analizzare le negoziazioni che avvengono alla base delle pratiche statali di sviluppo e che determinano anche il modo in cui le persone abitano il territorio, percepiscono e si relazionano con lo stato, modellano le nozioni e l’accesso alla cittadinanza (cittadino, cliente o suddito). La centralità dello stato nelle aspettative e nelle rappresentazioni delle masse di poveri o di cittadini con basso reddito è l’elemento centrale che caratterizza il contesto sudafricano, tanto che le numerose proteste degli ultimi decenni sono state interpretate come espressione di insoddisfazione della capacità dello stato di redistribuire ed erogare servizi abitativi, infrastrutturali e sociali (Alexander, 2010). Bisogna, dunque, riportare il dibattito sulla dimensione politica del decentramento e della partecipazione (Bénit-Gbaffou et al., 2013), considerando i legami e il coinvolgimento tra stato e società, per comprendere come lo stato si adatti alle dinamiche locali, invischiato e intrappolato (entangled) tra una rigida pianificazione e le realtà urbane, dando vita a pratiche quotidiane di negoziazione, spesso clientelare, che modellano le forme di accesso alle risorse statali, e in senso più ampio la rappresentazione dello stato e la costruzione della cittadinanza urbana. A tal proposito è interessante citare il progetto di ricerca del programma di cooperazione francese CORUS (Coopération pour la Recherche Universitaire et Scientifique), dal titolo Voices of the Poor in Urban Governance: Participation, Mobilisation and Politics in South African Cities, che ha visto 188 Antonio Pezzano coinvolti studiosi del CUBES di Wits e giovani ricercatori francesi,10 e che ha prodotto numerose ricerche empiriche su diversi casi studio, pubblicate poi in volumi o numeri speciali di riviste internazionali.11 L’analisi degli spazi di partecipazione e delle pratiche quotidiane è avvenuta attraverso una ricerca empirica di tipo etnografico basata sull’osservazione partecipata, secondo un approccio tipico della grounded theory, che contemplasse anche una prospettiva di lunga durata. Per valutare la natura della partecipazione comunitaria, sfidando i modelli teorici e gli approcci normativi delle politiche di empowerment e partecipazione imposte dal NPM neoliberale, si sono considerate nell’analisi, prima di tutto, le relazioni di potere all’interno delle stesse comunità e il ruolo della politica locale dei partiti, non più considerata come un elemento corruttivo dei processi partecipativi, ma anche le condizioni attraverso le quali le forze sociali e gli attori politici diventerebbero potenziali agenti di trasformazione, superando le disuguaglianze strutturali. Il focus dell’analisi è sulle città sudafricane in quanto luogo privilegiato dell’incontro/confronto con il «progetto di stato post-apartheid», in cui le aspettative di cambiamento delle profonde disuguaglianze spaziali e sociali sono più dichiarate per la presenza dello stato, relativamente e parzialmente capace di ridistribuire risorse. Proprio su quest’aspetto, vale la pena soffermarsi per evidenziare alcune linee di contiguità tra gli approcci normativi della governance neo-liberale che puntano su empowerment, partecipazione e accountability e i reali processi e modi della governance urbana, in cui democrazia e clientelismo/patronage convivono. In questo quadro, il partito dominante, l’African National Congress (ANC), svolge un ruolo chiave. 4. Relazioni tra politiche e pratiche quotidiane di accesso allo stato nella governance locale Le riforme di decentramento degli ultimi decenni hanno enfatizzato i discorsi sulla partecipazione come elemento positivo per promuovere la democrazia e l’accountability, in un’ottica di “prossimità” e “adattamenIl progetto è stato finanziato dal Ministero degli Esteri francese e gestito dall’Istituto di ricerca per lo sviluppo (IRD) francese, con le due università coinvolte di Paris X Nanterre e la University of the Witswatersrand a Johannesburg. Il progetto ha avuto validità di 3 anni dal 2009 al 2012. 11 Una prima serie di case studies sono stati pubblicati nel numero speciale del Journal of Asian and African Studies del 2011; l’ultima pubblicazione che ha tirato le fila dell’enorme messe di lavoro etnografico, anche ex post, è il volume curato da Claire Bénit-Gbaffou (2015). 10 Governo locale in Sudafrica 189 to al contesto locale”. L’approccio normativo adottato tende a enfatizzare il ruolo di una società civile autonoma dallo stato e dalla politica dei partiti, destinataria delle politiche di empowerment e partecipazione costruite dall’alto. Il paradosso di quest’approccio si manifesta nella denuncia della corruzione e del clientelismo come frutto della “personalizzazione” e dell’arbitrarietà delle pratiche degli attori statali locali, soprattutto in relazione con i gruppi sociali con più basso reddito, e della “bassa politica”, mentre, allo stesso tempo, si promuovono discorsi di autonomia che sfidano, in parte, i concetti weberiani di stato neutrale e universale basato sui principi di legalità e di buona amministrazione, cui la stessa governance liberale si ispira. Questa contraddizione, che si evidenzia nella sottile linea teorico-pratica tra decentramento-partecipazione e clientelismo, è più evidente nei paesi del sud del mondo, dove lo stato weberiano (piuttosto un ideale che una realizzazione) è spesso messo in discussione dagli stessi principi della globalizzazione neo-liberista. Le nuove strutture di governo locale in Sudafrica hanno vissuto la nascita e il consolidamento di forme di democrazia sia rappresentativa che partecipativa, sulla scia dei processi di democratizzazione avviati negli anni ’90, con una crescente pressione partecipativa delle comunità. Le nuove strutture statali locali hanno dovuto, quindi, affrontare, senza le necessarie esperienze e competenze, gli enormi problemi che una ridistribuzione del potere solleva; questo ha spesso generato conflitti a livello locale tra leader di comunità, rappresentanti politici e amministrazione statale. L’azione dello stato dunque si è andata definendo nell’interazione con l’agency dei cittadini, intesa anche come capacità degli stessi di mobilitarsi e influenzare le politiche che li riguardano, in un gioco tra partecipazione dei cittadini e accountability/responsiveness delle istituzioni statali. Le analisi delle ricerche del gruppo del programma CORUS si sono focalizzate sugli spazi di incontro/interazione tra le autorità statali e gli abitanti delle città sudafricane, analizzando l’articolazione tra i principi della good governance di uno stato “aggiustato” e le pratiche e rappresentazioni quotidiane dello stato locale ristrutturato. In questo senso, è molto interessante l’analisi teorica che Bénit-Gbaffou (2011) fa su democrazia locale e clientelismo, nei casi di studio esaminati a un micro-livello di quartiere a Johannesburg, in cui si assiste a processi di negoziazione tra gli abitanti, che cercano di avere accesso alle risorse pubbliche o di evitare gli sfratti, e gli attori statali e politici (consiglieri municipali, funzionari comunali, leader locali di partito). La complessità delle relazioni che s’instaurano, all’interno della po- 190 Antonio Pezzano litica urbana, nell’interazione tra gruppi di abitanti con basso reddito e i loro rappresentanti politici, che cercano di sedare le forme più radicali di mobilitazione popolare, mettono in discussione la dicotomia liberale tra i concetti di democrazia locale e clientelismo. L’analisi di Bénit-Gbaffou dimostra come la democrazia locale e il clientelismo, in realtà, condividano gli stessi assunti teorici: personalizzazione dei rapporti tra stato e cittadini; flessibilità e adattabilità delle politiche alla realtà locale. La prossimità pratica e teorica tra clientelismo, decentramento e partecipazione va affrontata, prima di tutto, ricostruendo i meccanismi complessi dei rapporti di potere a livello locale, in cui va riconosciuto il ruolo fondamentale dei partiti politici, che non vanno contrapposti, in una visione ideologicamente manichea, a una “società civile”, rappresentata principalmente dalle “comunità”, in particolare quelle dei cosiddetti “poveri”, ridotte a un soggetto sociale indifferenziato e spesso considerato intrinsecamente inclusivo e partecipante. In questo modo, si può considerare che la partecipazione può avere anche una natura moderata o conservatrice. In realtà, le politiche di sviluppo locale in Africa, in cui le risorse pubbliche sono scarse anche per decennali politiche di aggiustamento strutturale imposte dalle istituzioni finanziarie internazionali, presentano una discreta varietà, che si conforma alle diverse realtà locali, per cui vanno considerate, non nella loro natura immutabile, ma nella loro variazione come processo, in un continuum tra «politiche programmate», che beneficiano un certo gruppo sociale a priori e in principio, quindi indirettamente e astrattamente, e «politiche clientelari», che invece beneficiano un certo gruppo sociale in modo diretto attraverso una relazione più personale tra i politici e gli elettori (Kitschelt e Wilkinson, 2007). I processi di decentramento e partecipazione influenzati dalle istituzioni internazionali aumentano le opportunità che gli abitanti hanno di reclamare i propri bisogni e di avere accesso ai beni pubblici, ma non necessariamente in maniera trasformativa. Infatti, le opportunità politiche rimangono molto spesso legate a relazioni personali di tipo patrono/cliente, con l’effetto di un aumento della frammentazione dei movimenti sociali e di un autocontrollo nelle rivendicazioni di cambiamenti politici e sociali; l’aggravante di questi effetti perpetua uno status quo in cui coloro che sono più marginalizzati e politicamente meno inseriti in reti di potere continuano a rimanere esclusi dai pieni diritti di cittadinanza. Il meccanismo chiave analizzato da Bénit-Gbaffou (2011, pp. 458-461), per dimostrare come il decentramento e le istituzioni partecipative in sé non conducano a forme di governo più democratiche, è quello dell’accountability, concetto alla base delle riforme neo-liberali di good governance. Analizzando due casi a Governo locale in Sudafrica 191 Johannesburg, l’autrice dimostra come anche il clientelismo in certe condizioni è una forma di accountability. L’analisi deve scomporre il concetto nelle sue due dimensioni: la «responsabilità» (ossia dare conto delle proprie azioni ai cittadini) e la «sanzionabilità» (la possibilità di essere deposti in caso di mancata ottemperanza). A livello dello stato locale, la reattività e rispondenza a determinate realtà punta più all’efficienza della governance, mentre la trasparenza e la possibilità dei cittadini di contestare le politiche e le pratiche locali fa riferimento a un interesse politico e democratico. Dunque, la personalizzazione dei rapporti e la flessibilità delle politiche alla negoziazione con le realtà locali possono portare a una maggiore accountability nel senso di maggiore capacità di risposta ai bisogni, ma anche a una minore accountability nel senso della trasparenza e della possibilità di contestazione. La prossimità dei principi tra decentramento/partecipazione e clientelismo si può differenziare nel fatto che la flessibilità e l’adattamento del sistema alle circostanze e al contesto locale devono presupporre un forte indirizzo delle leggi e delle regole statali. Se la devoluzione assegna poteri, che riguardano la redistribuzione delle risorse pubbliche in un regime di scarsità e inefficienza, ad autorità che non sono democraticamente elette, per quanto esse possano essere legittime, allora tendenzialmente si va verso pratiche in cui il clientelismo collettivo diventa la forma dominante di accountability dello stato verso i cosiddetti poveri. Il caso studiato da Bénit-Gbaffou (2011, pp. 454-455, 460) degli sfratti imposti dalla riqualificazione urbana del quartiere a ridosso dello stadio di Ellis Park a Johannesburg in vista dei mondiali di calcio del 2010 è un esempio di come i residenti sotto minaccia di sfratto riescono a usare diverse forme di azione e mobilitazione negoziate con una pluralità di attori della governance, sia pubblici che privati, per raggiungere con successo un proprio interesse pratico, quello di non essere sfrattati, e un particolare interesse politico, quello di rafforzare i legami con il partito di governo (l’ANC), i cui leader locali sono stati interpellati per impedire la demolizione di un blocco di case a ridosso degli impianti sportivi. Ma questa mobilitazione non persegue un risultato politico per il bene collettivo della “comunità” locale, considerata, nella sua accezione più ampia, come tutti coloro che sono toccati dalle minacce di sfratto imposte dalle politiche di riqualificazione urbana del centro di Johannesburg. L’aver prima richiesto l’intervento del CALS (Center for Applied Legal Studies), una ONG di assistenza legale, legata all’University of the Witwatersrand, molto attiva sui temi della giustizia sociale, e poi averlo sconfessato a favore di una soluzione “politica”, ha reso sicuramente più difficile un’azione collettiva imperniata sulla rivendicazione di diritti più 192 Antonio Pezzano universali, soprattutto per quelle fasce di popolazione che non hanno capacità di mobilitazione e risorse politiche da giocarsi. Pur tuttavia, questo caso può essere visto come una forma di partecipazione di successo dei residenti locali, anche se questa non è avvenuta attraverso un dibattito pubblico e una mobilitazione collettiva dei movimenti sociali che utilizzasse un linguaggio legale di diritti universali, ma è stata una negoziazione privata tra un gruppo di residenti, attivisti politici, e alcuni attori politici locali, secondo uno schema tipico di clientelismo collettivo. La negoziazione che avviene a livello locale può produrre vantaggi contingenti, sia individuali che collettivi, anche se spesso questa forma di partecipazione decentrata aumenta la frammentazione dei movimenti sociali e comporta una repressione delle forme di rivendicazione più radicali e indipendenti dal potere politico dei partiti (Bénit-Gbaffou, 2012; Buire, 2015; Sinwell, 2010; Staniland, 2008), riproducendo le stesse strutture disuguali di potere, a favore di una stabilità politica che conferma figure e relazioni di potere basate su rapporti di patronage. Le complesse relazioni tra le organizzazioni della società civile, i consiglieri comunali e i funzionari amministrativi sono ben illustrate da Smith (2011) a proposito dei progetti pilota di istituzione di piattaforme di utenti dei servizi idrici a eThekwini (Durban) e Cape Town. Nei diversi contesti politici, queste relazioni assumono forme diverse e impattano in maniera diversa sui processi partecipativi e sulla formazione stessa di una piattaforma comune degli utenti dei servizi idrici. Le relazioni contrastanti non sono solo tra attori sociali e attori politici, ma anche tra questi e gli altri attori statali, ossia i funzionari amministrativi, e questa conflittualità e competitività mettono in discussione il concetto stesso della governance cooperativa e partecipativa. A Cape Town, i rapporti di forza e le relazioni di potere in seno all’amministrazione comunale hanno inficiato la buona riuscita della piattaforma, perché i funzionari amministrativi hanno cercato di tenere ai margini del processo i consiglieri politici, a causa della forte competizione politica presente a livello municipale e circoscrizionale,12 pregiudicando quindi l’istituzionalizzazione del progetto pilota. A eThekwini, invece, la capacità tecnico-manageriale dei funzionari amministrativi, che hanno formato i consiglieri circoscrizionali alla governance aziendale, introducendo quindi nello spazio “invitato” di partecipazione della piatta12 A Cape Town, unico caso in Sudafrica, nella ristrutturazione del governo metropolitano, sono stati creati dei sub-consigli per ragioni puramente politiche, tese a premiare la fedeltà, consolidare le alleanze e allargare il controllo politico. Per un’analisi empirica dei subconsigli a Cape Town vedi Buire (2015). Governo locale in Sudafrica 193 forma anche gli attori politici, ha fatto sì che la stessa avesse voce nelle strutture partecipate dei ward committee. Tuttavia questo processo ha escluso i movimenti sociali radicali dalla possibilità di rivendicare, attraverso un’azione politica, le proprie istanze contro la mercificazione dell’acqua. Anche negli studi che hanno cercato di evidenziare l’agency dei gruppi di abitanti con più basso reddito non si tratta di cercare ottimisticamente, cadendo nella tentazione di un approccio prescrittivo, in questo non dissimile da quello della governance delle istituzioni internazionali, la capacità dei cosiddetti poveri di utilizzare le contraddizioni e complessità dello stato per raggiungere il bene comune. La complessità dello stato locale ristrutturato secondo i modelli di decentramento degli ultimi decenni moltiplica e diversifica le opportunità di accesso per questi gruppi di residenti, ma allo stesso tempo rimane opaco e inaccessibile in molti degli interventi di governance, come dimostrano anche i casi studiati da Rubin (2011) sulle politiche abitative a Johannesburg ed Ekurhuleni, da Pezzano (2016a, b) e Morange (2015) sul commercio informale a Johannesburg e Cape Town, da Smith (2011) sulle risorse idriche a eThekiwni e Cape Town o da Buire (2015) sulle strutture istituzionali di decentramento a Cape Town. 5. Il ruolo della politica dei partiti Da quanto detto finora, appare evidente il ruolo che i partiti politici hanno nelle forme di partecipazione decentrata e quanto questo si traduca in Sudafrica, in un sistema con partito dominante, seppur con qualche recente incrinatura, nel ruolo che l’ANC svolge nella politica locale. Nonostante l’apparente fluidità che alcuni meccanismi di competizione pluralista hanno avviato all’interno del partito e che hanno prodotto numerosi e continui avvicendamenti nelle posizioni direttive del partito sia a livello nazionale che locale, la mancanza di una reale alternativa politica nel paese fa sì che la tendenza a usare l’ANC come strumento di accumulazione individuale, sia attraverso lo stato, che diventa luogo centrale di lotta per il potere e il controllo delle risorse, sia attraverso le imprese, favorite dalla ristrutturazione delle politiche economiche del Black Economic Empowerment (BEE),13 fa13 Il Black Economic Empowerment è un programma che nelle intenzioni del legislatore doveva riequilibrare le disuguaglianze strutturali nell’economia sudafricana, ridistribuendo quote di proprietà, gestione e controllo delle risorse economiche e finanziarie nazionali a favore dei gruppi precedentemente svantaggiati (africani, coloured, indiani). Il programma fu ufficialmente avviato nel 2003 con l’approvazione dell’omonima legge. In realtà, questa, co- 194 Antonio Pezzano vorisca un blocco conservatore, che perpetua un’organizzazione interna centralistica e scarsamente democratica e una accountability asimmetrica dello stato verso i cittadini, soprattutto quelli con più basso reddito. La presenza dell’ANC nello stato e nella società è difatti capillare e, attraverso relazioni di patronage e retorica esclusiva della liberazione, limita la concorrenza e fa sì che le organizzazioni civiche diventino uno strumento della lotta politica a livello locale (Piper, 2015). Tuttavia la relazione tra società e partiti politici rimane ambigua, anche per la dinamicità della società sudafricana che ha risposto al tentativo egemone dell’ANC: se, da un lato, le strutture partecipative del governo locale, su cui molto si è basata la costruzione democratica post-apartheid, non sempre mantengono le promesse per cui sono state istituite, depotenziando la capacità di rivendicazione degli abitanti, dall’altro, forniscono agli stessi altre modalità di accesso allo stato, non sempre però apertamente democratiche. Le dinamiche comunitarie e associative e le strategie da esse adottate nei confronti dello stato sono molteplici e plurali, legate alla politica dei partiti, per quanto non sempre in maniera diretta, e dipendono da una serie di fattori che vanno dalla posizione strutturale delle organizzazioni, dalle loro scelte ideologiche o dall’opportunità politica. Tendenzialmente si può dire che gli esempi di associazioni più collaborative con lo stato riguardano le ONG o alcune associazioni civiche più interessate a soluzioni pragmatiche immediate (vedi i casi illustrati da Piper, 2015; Bénit-Gbaffou, 2011; Bénit-Gbaffou e Mkwanazi, 2015, della SANCO o di altre associazioni civiche di quartiere, come quelle di Yeoville), mentre i movimenti sociali più radicali sono generalmente più oppositivi (come il Landless People’s Movement, vedi Greenberg, 2006; Sinwell, 2015; o la Coalition against Water Privatisation, vedi Smith e Rubin, 2015). I lavori empirici sulla politica e sui leader locali svelano la molteplicità di interessi e costrizioni, a volte anche contraddittori, che formano la loro azione. Queste figure sono strutturalmente compresse tra inme l’altra strategia tesa a riequilibrare i livelli occupazionali nell’impiego pubblico, l’affirmative action, si sono rivelate uno strumento per incorporare più ampi strati della crescente media borghesia africana nel sistema politico dominato dall’ANC, inasprendo le divisioni di classe e le disuguaglianze di reddito all’interno della popolazione africana, sulla scia di un processo iniziato già negli anni ’80, verso la fine dell’apartheid. Gli evidenti insuccessi di questa politica, che hanno favorito una ristretta cerchia di uomini d’affari legati all’ANC, senza un sostanziale aumento dell’occupazione o un miglioramento delle qualifiche per la popolazione africana, hanno fatto sì che il programma fosse rivisto e rilanciato più volte, fino alla recente legge del 2013 che istituiva il nuovo Broad-Based Black Economic Empowerment (B-BBEE). Governo locale in Sudafrica 195 teressi collettivi e personali, tra “alta” e “bassa” politica, e danno vita a forme diverse e contradditorie di lealtà politica: gli attivisti radicali combattuti tra la lealtà all’ANC della lotta di liberazione e l’opposizione all’attuale partito al potere (Matlala e Bénit-Gbaffou, 2015); le strategie di leader locali finalizzate ad accumulare un capitale politico ed economico (Katsaura, 2015) più che a creare forme di sviluppo partecipato.14 La molteplicità degli spazi pubblici di partecipazione favorisce anche l’emergere di alternative politiche, per cui Sinwell (2015) e Piper (2015) mostrano come i leader siano capaci di giocare con la competizione tra partiti per spingere le proprie rivendicazioni e pressare le autorità a distribuire i servizi e le risorse. Il contraltare del rapporto stretto con la politica si nota nelle posizioni xenofobe di alcuni leader dei movimenti in cerca di sostegno dall’ANC o in fase di negoziazione per ottenere vantaggi per la propria comunità, spesso in maniera escludente per gli “outsider” (Bénit-Gbaffou e Mkwanazi, 2015; Misago, 2011; Monson, 2015; Glaser 2015).15 In ambienti caratterizzati da profonde disuguaglianze, da eterne rivendicazioni di diritti promessi e mai garantiti, da rapida crescita demografica e incontrollati fenomeni di urbanizzazione, il concetto di cittadinanza diviene sempre più escludente e proliferano i processi di discriminazione, separazione, esclusione, soppressione e mobilitazione nei confronti dei cosiddetti outsider, contro i quali prendono corpo fenomeni di xenofobia (Fourchard e Segatti, 2015). Una visione di più lunga durata consente di vedere come spesso l’inerzia delle strutture di potere abbia la meglio sulle istanze del cambiamento dei processi partecipativi, alle volte consolidando strutture di potere che si basano su reti clientelari e patronage. Questo mancato cambiamento genera frustrazione, che a sua volta genera violenza. Glaser (2015) basa la sua riflessione sull’incertezza dei processi partecipativi, non necessariamente democratici nella struttura né progressisti negli esiti, su due momenti storici, secondo l’autore interrelati tra loro e contraddistinti da violenza e autoritarismo: il periodo della lotta che ha visto la pratica del «potere popolare» e gli Bénit-Gbaffou e Katsaura utilizzano il concetto di “doppio gioco” di Bourdieu (1981) per spiegare la tensione tra il rispondere ai bisogni del proprio elettorato e mettersi in una posizione di potere che gli consenta di farlo, nello stato, nel partito e con i finanziatori. 15 Mentre Misago (2011) pone l’attenzione sull’uso strumentale dei leader e delle organizzazioni locali, Monson (2015) evidenzia le radici politiche della partecipazione popolare nelle mobilitazioni collettive contro gli “stranieri”. Glaser (2015), a sua volta, usa la cornice teorica del «movimento democratico» per comprendere la violenza xenofoba. 14 196 Antonio Pezzano attacchi xenofobi dell’ultimo decennio. L’analisi di Monson (2015) è più interessante perché lega questa storia locale alla lotta per una cittadinanza sostanziale, che politicizza i confini tra i residenti già stabilitisi in loco e i nuovi arrivati stranieri. Analizzando le dinamiche degli attacchi in un informal settlement di Atteridgeville a Tswhane (Pretoria), si nota che essi sono avvenuti solo dopo che l’azione e mobilitazione di massa degli abitanti abusivi è stata impedita o frustrata all’ultimo minuto, con la complicità o meno dei leader, che invece hanno continuato la protesta e la negoziazione con le autorità governative. Questa sorta di “autoctonia civile” è articolata più come rivendicazione per l’inclusione da parte di coloro che sono stati strutturalmente esclusi piuttosto che come rivendicazioni esclusive da parte di coloro che sentono di appartenere a una “comunità”. 6. Conclusioni La ristrutturazione del governo locale in Sudafrica secondo una visione sviluppista, che conciliasse i dettami del NPM neo-liberale con la pressione “comunitaria” per una più efficiente e partecipata fornitura dei servizi, non si è tradotta in una maggiore democraticità degli spazi di partecipazione istituzionalizzati né ha comportato quei cambiamenti strutturali verso una maggiore uguaglianza. Sono state sicuramente avviate politiche che hanno puntato all’equità, secondo un’idea liberale di pari opportunità, che si sono tradotte nel BEE o nell’affirmative action. Tuttavia, non è avvenuta una trasformazione radicale delle relazioni di potere, fortemente disuguali, ereditate dall’apartheid. Il limite dell’approccio normativo adottato sta nell’ignorare la natura relazionale della cosiddetta governance, che è frutto dell’interazione tra stato e società. Lo stato, come luogo, agente e prodotto di lotte sociali, economiche e politiche, si relaziona alla società in una molteplicità di modi, che formano un’infrastruttura sociale e istituzionale. Nella governance neoliberale, queste infrastrutture diventano sempre più formali e tecniche, rendendo l’accesso allo stato più permeabile per alcuni e più impenetrabile per altri. In molti casi, questa permeabilità passa, in nome dell’empowerment e della partecipazione, per un addomesticamento dei movimenti sociali e delle rivendicazioni all’interno di un sistema “tecnico” e burocratizzato, o attraverso altre modalità non pienamente democratiche. I nuovi spazi d’interazione e partecipazione, che si sono aperti per gli abitanti con basso reddito, sono stati catturati dalle dinamiche della politica locale, in cui un ruolo dominante svolge l’ANC, che media l’accesso allo stato e la stessa par- Governo locale in Sudafrica 197 tecipazione dei cittadini, attraverso forme più personalizzate che istituzionalizzate. La negoziazione a livello locale avviene, più o meno direttamente, attraverso la politica dei partiti, che riproduce, a favore di una stabilità politica, strutture e relazioni di potere disuguali, basate su rapporti di patronage. Le riforme neoliberali che hanno contraddistinto le politiche del governo locale negli ultimi decenni in Sudafrica, dunque, se, da un lato, hanno risposto ai bisogni delle comunità locali in termini di maggiore delivery di beni e servizi fisici, puntando a un dato quantitativo di maggiore efficienza, dall’altro, non sono state altrettanto rispondenti in termini di trasparenza e possibilità di contestazione, per cui si possono avere forme partecipative degli abitanti locali che riscuotono un certo successo, anche se avvengono secondo schemi tipici del clientelismo collettivo, più che attraverso un dibattito pubblico e una mobilitazione democratica che utilizzino il linguaggio dei diritti per la realizzazione di una cittadinanza, non solo politica, ma economica e sociale. Riferimenti bibliografici Alexander P. (2010). “Rebellion of the Poor: South Africa’s Service Delivery Protests – a Preliminary Analysis”. Review of African Political Economy, 123, pp. 25-40. 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CONCLUSIONI SARA DE SIMONE Negli ultimi quindici anni, i processi di decentramento in Africa sono stati oggetto di numerose analisi e dibattiti accademici sulla loro buona riuscita e sul tipo di governance a cui danno luogo. Rafforzando un’immagine dello stato africano lontana tanto dall’idealtipo legal-razionale dello stato weberiano quanto da una visione opposta che considera anarchico e caotico il suo funzionamento, i contributi raccolti in questo volume mostrano che esiste un divario, talvolta molto consistente, tra teoria e pratica dello stato a livello locale. Allo stesso tempo, se ne evidenzia la logica, che va ben oltre semplici pratiche corruttive e risponde ad un assetto di relazioni di potere che funziona attraverso meccanismi più o meno riconoscibili e riconosciuti. Sulla scia dei lavori di Bierschenk e Olivier de Sardan (2014), Olivier de Sardan (2008) e De Herdt e Olivier de Sardan (2015), questo volume si è concentrato in particolar modo sul funzionamento dello stato a livello locale e sulla funzione delle autorità locali. Andando oltre l’approccio normativo grazie a sette casi studio empirici, abbiamo voluto esplorare il ruolo delle autorità locali nella ristrutturazione della governance seguita alle riforme di decentramento degli anni ’90 e nella gestione dello sviluppo su scala nazionale e locale. In particolare, ci siamo concentrati sull’accesso alle risorse e sui conflitti ad esso legati, chiedendoci in che misura il funzionamento dello stato decentrato e dei molteplici attori che partecipano alla governance locale passi attraverso il rafforzamento dei meccanismi di partecipazione democratica. I saggi raccolti analizzano contesti diversi in una molteplicità di paesi dell’Africa subsahariana, presentando materiale empirico originale e conclusioni stimolanti che contribuiscono a rispondere alle nostre domande di ricerca iniziali. I sette saggi affrontano una serie di questioni presentate nell’introduzione a questo volume, ma si concentrano fondamentalmente sull’accesso a due tipologie di risorse, su cui la ristrutturazione della governance locale influi- 204 Sara de Simone sce in modo rilevante: la terra e i servizi pubblici. Il ruolo che i governi locali ricoprono nella mediazione dell’accesso a queste due tipologie di risorse è da inquadrare in un contesto più ampio, caratterizzato da una forte spinta a riforme di decentramento. Queste ultime sono state approvate, quantomeno sulla carta, in gran parte dei paesi dell’Africa subsahariana su spinta non tanto (o non solo) di processi di mutamento interni, quanto di logiche internazionali sostenute dalle istituzioni finanziarie internazionali a partire dalla seconda metà degli anni ’90. Come mostra Maria Cristina Ercolessi nell’introduzione a questo volume, queste riforme rappresentano una svolta “locale” nelle politiche pubbliche internazionali che si presenta come un’ulteriore spinta all’ outsourcing di funzioni statali ad altri soggetti di varia natura. Essa si traduce, tra l’altro, in una serie di dinamiche che rafforzano la biforcazione dello stato ereditata dall’epoca coloniale tra aree rurali e urbane. Se le prime sono caratterizzate da un sempre crescente disimpegno dello stato centrale, le cui espressioni locali sono catturate dalla politica locale e imbrigliate nelle relazioni di potere conflittuali tra i potenti, nelle seconde si assiste invece a un tentativo di retromarcia nella decentralizzazione delle funzioni statali, con uno stato centrale che si impegna per re-imporre il proprio controllo sui processi decisionali e sugli spazi di partecipazione. Nel loro complesso, i saggi presentati in questo volume analizzano le dinamiche caratteristiche sia degli ambienti rurali che di quelli urbani, concentrandosi sull’accesso alla terra come principale fonte di conflitto nelle aree rurali (Greco, de Simone, Caltabiano, Lepore) e sulle dinamiche che caratterizzano la governance urbana in contesti metropolitani (Urselli e Pezzano). Lepore e Alfieri si posizionano a cavallo tra questi due gruppi di saggi, analizzando l’una la distribuzione di risorse per lo sviluppo in un ambito rurale molto internazionalizzato quale quello dei festival tradizionali in Ghana; l’altra la politicizzazione delle dispute sulla terra in ambito urbano in Burundi. Nonostante la natura potenzialmente conflittuale di tutti i processi di governance analizzati, è possibile trarre alcune conclusioni specifiche seguendo l’asse della biforcazione urbano-rurale. In primo luogo, se nelle aree urbane le riforme di decentramento hanno portato alla creazione di strutture statali più visibili e forti a livello locale, è nelle aree rurali che la biforcazione dello stato emerge più chiaramente grazie alla cooptazione, in molti paesi, delle cosiddette autorità tradizionali nelle strutture di governance locale. I capi locali vedono dunque confermato il loro potere di intermediari tra le comunità locali e le entità che operano ad una scala più ampia, siano esse lo stato centrale o le agenzie di sviluppo, come mostra molto chiaramente Benedetta Lepore nel suo saggio sul Ghana Conclusioni 205 occidentale. L’intermediazione che i capi svolgono nell’attrarre risorse verso le proprie aree descritta da Lepore non è però l’unica funzione che le autorità tradizionali svolgono nel quadro dello stato decentrato. Ad esse è infatti attribuita, in molti casi, anche l’autorità sull’amministrazione della “terra comunitaria”, una categoria fondiaria che a partire dagli anni 2000 ha cominciato ad essere riconosciuta negli ordinamenti giuridici di molti stati africani con il sostegno delle principali organizzazioni internazionali (si veda il saggio di de Simone sul Sud Sudan). Sebbene l’idea di riconoscere i diritti fondiari alle comunità locali sia in parte legata alla necessità di proteggere il diritto alla terra di gruppi sociali vulnerabili, il modo in cui essa viene messa in atto nel contesto dello stato burocratico rivela in realtà il suo carattere neoliberista: essa scarica lo stato centrale del problema dell’accesso alla terra delle comunità locali e delega la distribuzione individuale della terra ad autorità locali non sempre rappresentative. Queste autorità locali sono, in alcuni casi, quelle “tradizionali”: spesso non elette, esse derivano la propria autorità da un complesso sistema di regole e credenze che si mescolano con il potere temporale derivante dall’essere inglobati dalla struttura statale, la quale a sua volta territorializza la loro giurisdizione sulla scia del processo già avviato in epoca coloniale, come ricostruito da de Simone per il Sud Sudan e Caltabiano per il Burkina Faso. Allo stesso tempo, per certi versi, queste riforme facilitano – anziché ostacolare – investimenti fondiari da parte di capitali nazionali o internazionali, perché la complessità degli iter burocratici istituiti rende molto difficile per le comunità rurali la regolarizzazione della propria situazione fondiaria (Caltabiano e Greco sulla Tanzania). A quest’ultima, come mostra Elisa Greco nel suo saggio, rivolge la sua attenzione la cooperazione allo sviluppo proprio quando esiste un interesse dichiarato da parte di investitori internazionali, in modo da garantire un quadro legale favorevole al capitale straniero. La nebulosità e il modo acritico con cui si utilizza il concetto di “comunità locale” è un argomento affrontato sia dal saggio di Caltabiano che da quello di de Simone, che evidenzia in particolar modo come questa indeterminatezza risulti particolarmente problematica nel momento in cui essa diventa una categoria fondamentale dell’assetto decentralizzato dello stato da cui dipende l’accesso ai diritti fondiari degli individui residenti nelle aree rurali. È questa stessa nebulosità che fa sì che il concetto di “comunità locale”, che dovrebbe restare confinato alle aree rurali in cui l’amministrazione si “appoggia” alle autorità tradizionali, venga invece utilizzato strumentalmente anche da pezzi dello stato che non appartengono alla sfera consuetudinaria, ma che sfruttano la dicotomia tradizionale-consuetudinario/moderno-statu- 206 Sara de Simone tario per estendere la propria influenza o capacità di controllo del territorio (de Simone). In realtà, questa dicotomia è utilizzata in modo opportunistico da entrambe le parti. Nel saggio di de Simone si legge come essa venga impiegata da funzionari appartenenti alla sfera statutaria per rivendicare la proprietà della terra delle loro comunità di appartenenza definite in modo etnico, in una sorta di biforcazione imperfetta dello stato; in quello di Lepore, sono invece gli stessi capi a sfruttare la propria posizione di custodi della tradizione, trascinando nella sfera consuetudinaria anche esponenti dello stato e del settore privato attraverso l’istituto del chief for development. La retorica tradizionalista viene dunque utilizzata per il perseguimento di finalità tutt’altro che tradizionali, a volte in aperta contestazione delle strategie di sviluppo nazionale. I festival di cui ci parla Lepore, ad esempio, servono principalmente a mobilitare risorse esterne per lo sviluppo dei territori sotto la giurisdizione dei capi tradizionali, e queste risorse sempre più provengono dal settore privato profit (aziende e agenzie interessate a investire nel turismo e nello sfruttamento di risorse naturali). La rivendicazione dell’alterità rispetto allo stato da parte del potere tradizionale come veicolo di accesso a risorse si evince nel saggio di Lepore ma è richiamata anche dal discorso sul pluralismo giuridico di Caltabiano. In realtà, ai capi tradizionali sono attribuiti dallo stato compiti che apparterrebbero tradizionalmente allo stato stesso, ed è proprio in virtù di questo (cioè dell’esistenza di questa dicotomia) che essi accedono a nuove fonti di legittimità. Infatti, proprio per migliorare la propria capacità di relazionarsi con il potere statutario e col mondo degli aiuti, Lepore ci descrive un processo di “mimetismo” dei capi, sempre più spesso scelti tra figure in grado di interagire “alla pari” col potere statutario e col mondo degli aiuti, con buona conoscenza dell’inglese, esperienza in ONG o nel mondo degli affari, ecc. Il saggio di Elisa Greco si distingue in parte dagli altri che affrontano tematiche relative alla governance rurale e ai diritti fondiari. In Tanzania, a causa di una forte eredità socialista (ujamaa), la tendenza “neoconsuetudinaria”, come l’ha definita Catherine Boone (2014), è pressoché assente e i capi tradizionali non svolgono un ruolo preminente nella governance fondiaria delle aree rurali. Queste ultime sono invece suddivise in “terre di villaggio”, la cui amministrazione è delegata alle assemblee di villaggio locali, anch’esse eredità socialista. Le “terre di villaggio” sono dunque formalmente amministrate da istituzioni statutarie dalla composizione variegata, di cui Greco descrive il potenziale democratico. Benché legato più esplicitamente alla residenza in un luogo specifico, piuttosto che alla più aleatoria appartenenza ad una comunità, questa definizione presenta le stesse problematiche Conclusioni 207 relative alla demarcazione e distribuzione interna agli individui. In questo modo, la biforcazione dello stato resta evidente anche in mancanza di richiami al consuetudinario e alla tradizione. L’amministrazione delle aree rurali è relegata interamente a istituzioni locali che non hanno teoricamente nessun nesso con il sistema centrale, anche se il governo centrale può in ogni momento interferire, alquanto arbitrariamente, con i processi decisionali locali attraverso lo strumento della de-registrazione dei villaggi. L’interferenza dello stato centrale si fa più evidente ancora nelle aree urbane, dove, dopo l’implementazione di riforme di decentramento, lo stato centrale tende ad una ricentralizzazione del potere attraverso cui controllare – e addomesticare – gli spazi di partecipazione democratica. Nei contesti analizzati da Urselli (Dakar) e Pezzano (aree metropolitane in Sudafrica), e nel caso di istituzioni create ad hoc per adempiere a determinate funzioni statali (la Commissione Nazionale Terra e altri Beni burundese), la tendenza ri-centralizzatrice dello stato è più marcata: a causa della prossimità dei luoghi del potere centrale a quelli dei processi decisionali locali, assistiamo ad una sovrapposizione di giurisdizioni e ambiti di azione che spesso provoca conflitti tra livelli di governance diversi. Da un lato, questo può manifestarsi in una sorta di cooptazione dell’iniziativa locale, come avviene nel caso della discarica di Dakar, in cui i recuperatori vengono “assunti” come funzionari addetti alla gestione dei rifiuti urbani e quella che prima era un’attività ai margini viene descritta come esempio di partecipazione. In altri casi, invece, gli spazi risultano decisamente ristretti: in Sudafrica la proliferazione di spazi di partecipazione invited, resa possibile dalle riforme di decentramento, non ha portato ad un aumento reale della democraticità della presa di decisioni, né ad una maggiore capacità dei cittadini di incidere sui processi decisionali. Secondo Pezzano, ciò dipende dal fatto che la democrazia è stata trattata come un problema fondamentalmente tecnico, e le politiche adottate sono state orientate al risultato di aumentare l’erogazione di servizi pubblici senza tener conto, nella formalizzazione dei processi partecipativi, delle relazioni di potere che questi processi implicavano. Il tema delle riforme di decentramento gestite come un problema squisitamente tecnico, e delle relative tensioni emergenti dalle relazioni di potere tra i vari attori che devono adattarsi al nuovo quadro istituzionale senza di fatto cambiare la loro sostanza, può essere considerato un trait d’union tra tutti e sette i saggi raccolti in questo volume. Riforme tecnocratiche che non scalfiscono le relazioni di potere non sono certamente sufficienti a liberare lo stato dalle logiche di funzionamento politico, come invece sembrerebbero aspettarsi da una prospettiva normativa le agenzie internazionali che finan- 208 Sara de Simone ziano programmi di sostegno alle riforme di decentramento e di “rafforzamento” della governance locale. Queste logiche persistono, e talvolta diventano eclatanti attraverso l’utilizzo strumentale delle istituzioni statali. In Burundi, ad esempio, la CNTB, che dovrebbe essere un’istituzione tecnocratica creata ad hoc per la gestione della terra e invece rimane imbrigliata in uno scontro tra gruppi di potere nel governo centrale. Ancora, nel caso descritto da de Simone la retorica consuetudinaria viene utilizzata in modo opportunistico da parte di rappresentanti dello stato come gli esattori fiscali. Queste riforme ampliano il numero di sedi istituzionali e non in cui è possibile intraprendere un rapporto negoziale con lo stato, provocando fenomeni di pluralismo giuridico (Caltabiano, Alfieri) e di pluralismo politico, in cui il numero di autorità a cui appellarsi per accedere a questi nuovi spazi aumenta. Non sovvertendo i rapporti di potere, l’accesso a questi nuovi spazi resta comunque legato a relazioni personali che Pezzano definisce di clientelismo collettivo. Il clientelismo collettivo si manifesta quando le autorità locali, alle quali viene formalmente delegata l’autorità sulla gestione delle risorse a livello locale, non sono elette né rappresentative di gruppi più ampi. Il clientelismo si può sviluppare su base territoriale o, in alcuni casi in cui la politicizzazione dell’etnicità è particolarmente intensa come in Sud Sudan e in Burundi, su base etnica. Questa diventa la modalità partecipativa prevalente, quella che definisce, di fatto, l’accesso alla cittadinanza sostanziale che le autorità locali avrebbero il compito di mediare. In questo modo, la cittadinanza è sempre più locale, sempre più legata alla capacità di negoziare il proprio spazio con i detentori di potere a livello sub-nazionale e alla partecipazione diretta della popolazione all’adempimento di funzioni che una volta erano prerogative degli stati (il cosiddetto delivery). In un contesto in cui la cittadinanza è sempre più definita sulla base dell’accesso effettivo a servizi e risorse, la trasparenza, la democraticità e l’inclusività dei processi decisionali vengono messi in secondo piano rispetto all’efficacia e all’efficienza. Ciò provoca nuove forme di disuguaglianza sociale, economica e politica che possono essere sia verticali (con una polarizzazione sempre più accentuata della capacità di accedere alle risorse e l’esclusione di gruppi sociali “deboli”, come avviene nel caso delle donne e dei migranti in Burkina Faso, penalizzati dal diritto consuetudinario nella loro capacità di accesso alla terra) che orizzontali (con differenze vere o percepite nella possibilità di gruppi definiti su base territoriale o etnica come nel caso del Ghana o del Sud Sudan). Data l’estrema eterogeneità dei processi di governance post-riforme di decentramento e la proliferazione di attori che ne sono coinvolti, questa raccolta di saggi non si prefiggeva l’obiettivo di fornire risposte esaustive ma Conclusioni 209 piuttosto di contribuire a un dibattito in continua evoluzione. Tuttavia, è possibile delineare alcune conclusioni comuni che scaturiscono dall’analisi fin qui condotta. In primo luogo, emerge abbastanza chiaramente il modo in cui il riconoscimento delle “comunità locali” – comunque siano definite – come soggetti di diritto non porti necessariamente beneficio alla popolazione ma sia piuttosto funzionale ad interessi economici altri (dello stato centrale, del capitale straniero). Ciò nonostante, la biforcazione dello stato tra aree urbane e rurali, spesso legittimata e istituzionalizzata dalle riforme di decentramento, è utilizzata in modo strumentale, in un mercato politico sempre più competitivo, da parte di molteplici tipologie di autorità locali alla ricerca di legittimità. Anche laddove prevale una tendenza alla ricentralizzazione del potere, come accade nelle aree urbane, le riforme di decentramento hanno favorito una rimodulazione del concetto di cittadinanza sempre più locale, basata sulla negoziazione dell’accesso alle risorse attraverso canali di clientelismo collettivo che ben poco hanno a che vedere con forme di democrazia sostanziale, a dispetto di quanto professato da riforme istituzionali tecnocratiche intraprese negli ultimi 20 anni. Queste conclusioni suggeriscono alcuni spunti per nuove piste di ricerca che necessitano senz’altro di ulteriori studi. La prima riguarda il livello e le modalità di politicizzazione delle burocrazie pubbliche ai diversi livelli di governo in un contesto che si dimostra particolarmente favorevole per l’emersione di élites tecnocratiche che controllano i gangli del potere amministrativo. Il saggio di Alfieri si inserisce in questa direzione attraverso l’analisi del funzionamento della CNTB, ma è senz’altro opportuno incoraggiare ulteriori ricerche che investano anche istituzioni tecnocratiche subnazionali. Una seconda pista di ricerca riguarda il ruolo che, in alcuni casi caratterizzati da una storica impostazione “statalista” (come la Tanzania), i partici politici o loro esponenti tendono ad assumere ponendosi come interfaccia con le autorità pubbliche per la soddisfazione delle domande dal basso, contribuendo in tal modo alla “informalizzazione” dei processi politici. Si tratterebbe di riproporre una metodologia di analisi simile a quella applicata nelle etnografie delle burocrazie statali (si veda ad esempio Bierschenk e Olivier de Sardan, 2014; Blundo e Le Meur, 2009) ai partiti o loro esponenti. Infine, una terza pista riguarda le relazioni tra il centro e le molteplici forme di autorità locali che partecipano ai processi di governance locale. Studi illustri hanno dimostrato la natura spesso ambigua di queste autorità, a cavallo tra pubblico e privato, tra “moderno” e “tradizionale” (Lund, 2006); tuttavia, riteniamo che il modo in cui esse si relazionano allo stato centrale 210 Sara de Simone potrebbe essere ulteriormente approfondito a partire da una prospettiva storica, in cui si tenga conto del sistema complesso di relazioni costruitosi nel tempo che inevitabilmente impatta sulle interazioni odierne tra stato e autorità locali. Riferimenti bibliografici Bierschenk T. e Olivier de Sardan J.P. (2014) (eds.). States at work: dynamics of African bureaucracies. Boston, Brill. Blundo G. e Le Meur P.Y. (2009) (eds.). The governance of daily life in Africa: ethnographic explorations of public and collective services. Leiden, Brill Boone C. (2014). Property and Political Order in Africa: Land Rights and the Structure of Politics. Cambridge, Cambridge University Press. De Herdt T. e Olivier de Sardan J.P. (2015) (eds.). Real Governance and Practical Norms in Sub-Saharan Africa: The game of the rules. LondonNew York, Routledge. Lund C. (2006). “Twilight Institutions: Public Authority and Local Politics in Africa”. Development and Change, 4, pp. 685-705. Olivier de Sardan J.P. (2008). Researching the Practical Norms of Real Governance in Africa. London, Overseas Development Institute. PROFILO AUTORI Maria Cristina Ercolessi è dal 1992 professore associato di Storia e istituzioni dell’Africa presso l’Università degli Studi di Napoli “L’Orientale” dove dirige anche il Centro studi sull’Africa contemporanea (CeSAC). Già coordinatore del dottorato di ricerca in Africanistica, è attualmente membro del dottorato “Asia, Africa e Mediterraneo” nella stessa università. È stata direttore della rivista afriche e orienti del cui comitato scientifico continua a fare parte. I suoi principali interessi di ricerca riguardano le relazioni tra conflitti, sviluppo e interventi umanitari in Africa; i processi di riforma politica e di democratizzazione (in particolare in Africa australe e in Angola); le relazioni internazionali dell’Africa; la politica dell’Italia verso l’Africa. Sara de Simone è assegnista di ricerca presso il Dipartimento di Sociologia e Ricerca Sociale dell’Università di Trento con una borsa di studio postdottorale della Fondazione Gerda Henkel. È membro del Centro Studi sull’Africa Contemporanea (CeSAC) dell’Università degli Studi di Napoli “L’Orientale” e research affiliate del Makerere Institute of Social Research dell’Università di Makerere in Uganda. Ha un Dottorato di Ricerca in Africanistica e Scienze Politiche conseguito all’Università degli Studi di Napoli “L’Orientale” in cotutela con l’Università di Parigi 1 Panhtéon-Sorbonne. I suoi interessi di ricerca riguardano i meccanismi di governance locale e la sicurezza umana in contesti di conflitto e post-conflitto, la relazione tra interventi umanitari, programmi di sviluppo e processi di accumulazione di potere. Elisa Greco è ricercatrice in economia politica del cambiamento agrario al Sustainability Research Institute (SRI) dell’Università di Leeds (Regno Unito). Si occupa di accaparramento di terra e regimi di lavoro agricolo e bracciantato in Africa, con particolare attenzione a Uganda e Tanzania. Ha ricoperto incarichi di ricerca presso il Global Development Institute (GDI) dell’Università di Manchester (Regno Unito) e di insegnamento presso Politics and International Studies (POLIS, Leeds) e Makerere Institute of Social 212 Gli autori Research (MISR), Università di Makerere (Uganda). Si è formata in Africanistica all’Università degli Studi di Napoli “L’Orientale” e presso SOAS (Londra). Anna Caltabiano è dottoressa di ricerca in Politica, Istituzioni, Storia presso l’Università di Bologna. Esperta di politiche di sviluppo rurale e di politiche fondiarie in Africa sub-sahariana, ha approfondito le implicazioni politico-sociali della gestione della terra in Burkina Faso, focalizzandosi sulle questioni di genere e sulle problematiche legate ai flussi migratori in relazione alla recente riforma fondiaria. Valeria Alfieri sta per terminare una tesi di dottorato in Scienza Politica presso l’Università di Parigi Panthéon-Sorbonne in co-tutela con l’Università degli Studi di Napoli “L’Orientale”. Si interessa della sociologia delle mobilitazioni, della sociologia della partecipazione politica, dei partiti politici e dei movimenti politico-militari in Africa subsahariana. In particolare le sue ricerche vertono sulla violenza e la partecipazione politica in Burundi. Attualmente insegna presso la facoltà di Scienza Politica dell’Università Lille2 Droit et Santé. Benedetta Lepore è dottore di dicerca in “Asia, Africa e Mediterraneo” presso l’Università degli Studi di Napoli “L’Orientale” e ha conseguito la laurea magistrale in Discipline Etno-antropologiche presso “La Sapienza”, Università di Roma. Dal 2010 svolge indagini etnografiche e d’archivio nella regione sud-occidentale del Ghana, dove ha compiuto numerosi viaggi di ricerca. Nel corso dei suoi studi dottorali ha analizzato le rappresentazioni della storia e dello spazio politico che caratterizzano la celebrazione annuale del festival tradizionale dell’area. Raffaele Urselli è dottore di ricerca in Africanistica presso l’Università degli Studi di Napoli “L’Orientale”, collabora con la cattedra di Antropologia culturale de “La Sapienza”, Università di Roma e Cassino. Oltre ad occuparsi di Senegal e questione israelo-palestinese, sta partecipando a un progetto di ricerca sugli insediamenti informali dei braccianti africani in Italia per la Fondazione Franceschi dell’Università Bocconi di Milano. Antonio Pezzano insegna Politiche di sviluppo locale in Africa all’Università degli Studi di Napoli “L’Orientale”, dove è anche membro del consiglio scientifico del CeSAC (Centro Studi sull’Africa Contemporanea). Gli autori 213 Le sue aree di interesse sono la governance e l’informalità urbana, lo sviluppo e il governo locale in Africa. Svolge ricerca in Sudafrica, dove è stato ripetutamente come visiting research associate presso la University of the Witwatersrand di Johannesburg. Fa parte del comitato editoriale di afriche e orienti. Prodotto da IL TORCOLIERE • Officine Grafico-Editoriali d’Ateneo UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI NAPOLI “L’Orientale” finito di stampare nel mese di Dicembre 2017