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Q U A D E R N I D I «S T U D I S E N E S I» Raccolti da PAOLO NARDI 139 STEFANO BERNI - GIOVANNI COSI FARE GIUSTIZIA DUE SCRITTI SULLA VENDETTA M I L A N O - D O T T. A . G I U F F R È E D I T O R E - 2 0 1 4 [ISBN 978-88-00-00000-0] COMITATO SCIENTIFICO ANDREW ASHWORTH – EMANUELE CASTRUCCI – GIULIO CIANFEROTTI – FLORIANA COLAO GIANDOMENICO COMPORTI – GIOVANNI COSI – PETER DENLEY – ENRICO DICIOTTI LORENZO GAETA – DENIS GALLIGAN – MARTIN GEBAUER – BERNARDO GIORGIO MATTARELLA LEONARDO MAZZA – STEFANIA PACCHI – VALERIA PIERGIGLI – FRANCESCO PISTOLESI JUANA PULGAR – VITTORIO SANTORO – GIULIANO SCARSELLI – GERALD SPINDLER EMANUELE STOLFI – MARCO VENTURA DIRETTORE PAOLO NARDI VICE – DIRETTORI SONIA CARMIGNANI - STEFANO PAGLIANTINI COMITATO DI REDAZIONE GIANDOMENICO COMPORTI – ROBERTO GUERRINI – PAOLO NARDI MARIA LUISA PADELLETTI – ANDREA PISANESCHI – STEFANIA PACCHI SEGRETARI DI REDAZIONE GIAN LUCA NAVONE - MARIO PERINI © Dott. A. Giuffrè Editore, S.P.A. Milano La traduzione, l’adattamento totale o parziale, la riproduzione con qualsiasi mezzo (compresi i microfilm, i film, le fotocopie), nonché la memorizzazione elettronica, sono riservati per tutti i Paesi. (2014) Tipografia «PISTOLESI Editrice IL LECCIO srl» 53035 Monteriggioni, loc. Badesse (Siena) - Via della Resistenza, 117 SOMMARIO Introduzione .......................................................... pag. 001 PARTE PRIMA ELOGIO DELL’IRA Stefano Berni 1. Il sentimento di giustizia ....................................... » 007 2. Archeologia della vendetta .................................... » 010 3. Le origini del diritto ............................................ » 020 4. La forma del diritto ............................................. » 025 5. La giustizia come ragione ...................................... » 034 6. La rimozione della vendetta ................................... » 041 7. Il ritorno alla violenza ......................................... » 047 8. La vendetta della vittima ...................................... » 050 9. Il tradimento comunitario ..................................... » 056 10. La sublime giustizia ............................................. » 059 PARTE SECONDA ORDINE, VENDETTA, PENA Giovanni Cosi 1. Forma e sostanza ................................................ » 066 2. La vendetta come procedura .................................. » 069 3. Vergogna e colpa ................................................. » 074 4. L’emergere della responsabilità .............................. » 082 5. Verso la pena ..................................................... » 096 6. Oltre la pena (e il processo)? .................................. » 104 7. La vittima, il reo e la comunità ............................... » 116 8. Vittimologia e abolizionismo processuale ................... » 123 Indice dei nomi ....................................................... » 000 Bibliografia ............................................................ » 000 INTRODUZIONE Energia primordiale del vivente, reazione vitale all’offesa ricevuta. La vendetta è degli dei e degli uomini, dei vivi e dei defunti. Essa si situa tra le famiglie e tra le nazioni, la si incontra nelle periferie e nei tribunali. Talvolta virtù, quando difende la dignità violata; talvolta vizio, quando diviene cieca furia distruttrice. Tra aggressore e vittima, la violenza intreccia un nodo legato con la corda dell’offesa. Come scioglierlo altrimenti che con la violenza della ritorsione? Da tempo lo Stato si è sostituito all’offeso: ha imparato a punire, ma ha dimenticato la vittima. Oggi le vittime talvolta rivendicano (appunto) di tornare a essere protagoniste a pieno titolo di una giustizia di riparazione che ripristini il faccia a faccia con l’aggressore, in luogo della giustizia meramente repressiva dello Stato. In epoche e culture tra loro diverse e lontane, la vendetta è sempre stata ritualizzata per poter costituire un modo di regolazione della violenza ed evitarne l’esplosione incontrollata prodotta dal risentimento. Quando ancora lo Stato non c’è, o s’interessa d’altro, la vendetta non è un optional, una scelta o un accessorio: è un obbligo sociale. Ci si deve vendicare; ma non ci si deve vendicare ‘troppo’. E deve sempre essere prevista, come in ogni relazione in cui la comunicazione non sia stata artificialmente interrotta, la possibilità della mediazione rappresentata dal risarcimento diretto che sia stato accettato e accolto dalla vittima. 2 INTRODUZIONE Vindicare, dopotutto, deriva da venum-dicare: offrire il prezzo (del sangue). Parlare di vendetta significa riconoscere la “natura” dell’offeso all’interno di una costellazione di “affetti” “percetti”, con-cetti, per usare espressioni care a Deleuze, in cui si collocano altre importanti parole come: giustizia, diritto, legge, violenza, aggressività, passioni, (ira, paura, orgoglio) e sentimenti. Definire la natura della vendetta in relazione a temi così complessi non è un’impresa facile. Non a caso della vendetta si sono occupati psicologi, sociologi, antropologi, giuristi. Noi non pretendiamo di poter stabilire una volta per tutte cosa sia “veramente” la vendetta, ma più semplicemente mostrare come essa, nel corso della storia, non abbia mai cessato di ripresentarsi come problema, come tema cruciale con cui fare i conti. Questo perché si era supposto, all’interno di un paradigma moderno, statuale, razionalistico, che essa fosse ormai destinata a non ripresentarsi se non come “rimosso”, come sintomo di una patologia arcaica ma oramai definitivamente sepolta dal progresso e dalla scienza. Invece la natura stessa della vendetta si ripresenta, nella società postmoderna o tardo moderna, come emergenza di bisogni mai sopiti, solo in apparenza arcaici o antichi, primitivi e incivili. Capire non significa avallare, significa semmai riconoscere che, nella fase da noi attraversata, riemergono funzioni vitali, sopravvivenze storiche, mitologie, culture diverse, narrazioni che si oppongono, si incontrano, si scontrano, si elidono. La natura essenzialmente biopolitica prima ancora che giuridica della vendetta, da un lato ci deve avvertire della complessità e della natura interdisciplinare del problema, dall’altro, che una possibile risoluzione dei conflitti passa da una mediazione in cui si deve individuare l’alterità, non come altro da sé, come fuori, mera esteriorità, ma come riconoscimento dell’altro entro lo stesso orizzonte politico. INTRODUZIONE 3 È nel politico appunto, è nello spazio più prossimo e vitale, che può riemergere sempre la vendetta. Ma segnalarne la natura ontologica, prima ancora che antropologica è compito di noi filosofi e può significare per il diritto porre le basi per una conciliazione e una messa in forma della violenza. GLI AUTORI PARTE PRIMA ELOGIO DELL’IRA Stefano Berni ELOGIO DELL’IRA 7 L’ira, che è il desiderio della vendetta, spetta solo agli animali perfetti S. Tommaso 1. Il sentimento di giustizia Alla base di ogni azione umana risiede da qualche parte un impulso emotivo la cui origine risale all’evoluzione dell’animalità. La porzione del cervello che guida i nostri comportamenti più ancestrali è data dalla amigdala. Essa attiva determinati meccanismi di difesa e di adattamento all’ambiente tra cui una reazione immediata all’attacco di nemici riconosciuti come pericolosi. La maggior parte degli animali superiori reagisce con violenza ad un sopruso. Un cane, un gatto, un elefante, una scimmia si ricordano dopo molti anni se sono stati molestati o feriti e tentano di vendicarsi. Potremmo definire questa riparazione di un torto subito come un sentimento1 di giustizia che ha alla base una forza emotiva: l’ira. Infatti, “la giustizia è il desiderio retributivo di annullare un oltraggio o un’offesa dolorosa”2 ricevuta. Tale desiderio è così naturale e universale che gli uomini primitivi hanno voluto elevarlo e sublimarlo in un sentimento sacrale e divino, hanno cioè voluto che gli dei se ne impossessassero per ridistribuire e ripagare 1 La stretta correlazione tra emozioni e sentimenti su base biologica è stata mostrata da A. DAMASIO, Alla ricerca di Spinoza. Emozioni, sentimento e cervello, Milano 2003. 2 R. SOLOMON, Giustizia, compassione, vendetta, in La gioia della filosofia, Milano 2008, 101. 8 PARTE PRIMA i torti subiti. Quello che non si poteva ottenere in terra si voleva raggiungerlo dopo la morte. Da un lato gli uomini hanno promesso ai propri avi che avrebbero riparato ai torti subiti3, dall’altro si sperava che un dio intervenisse per giustificare la loro sofferenza. Che cosa c’è di più giusto e sacro di un dio che punisce sulla base della legge del contrappasso4? A ciascuno il suo; pagare i propri debiti: ‘Padre nostro che sei nei cieli, rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri creditori’. “L’ira di Dio si placa, la colpa è perdonata”5. Come si evince anche da queste poche frasi, il torto e il diritto sono stati misurati, almeno in Occidente, in termini di denaro o di compenso, così come avviene tra debitore e creditore. “Pagare il debito con la giustizia” è una proposizione che mantiene inalterato il suo significato primigenio, quando la giustizia era identificata con la ricompensa pecuniaria del torto ricevuto. Ciò significa che per delitti non troppo gravi, o ritenuti tali, si è potuti ricorrere ad un compromesso in cui l’altro potrebbe accettare del denaro o dei beni come equivalenza del danno subito. I piatti della bilancia che simboleggiano la giustizia nella nostra società (ma già presenti nell’antico Egitto) misurano le equivalenze dei beni da mettere come restituzione e indennizzo di un torto6. Probabilmente ciò è accaduto perché si è sviluppata nella cultura mediterranea una società commerciale e agricola in cui il danno maggiore era collegato alla perdita dei beni che assicuravano la sopravvivenza. Da ciò si potrebbe ipotizzare che intorno alla vendetta nelle civiltà antiche – egizia, mesopotamica, indù – si fosse organizzato un sistema economico e sociale ormai 3 Sull’obbligatorietà della vendetta nelle culture primitive si veda S. FRAGAPANE, Il problema delle origini del diritto, Roma 1896, 218. 4 F. FORLENZA, Il diritto penale nella divina commedia, Roma 2003. 5 A. PROSPERI, Giustizia bendata, Torino 2008, 15. 6 W.I. MILLER, Occhio per occhio, Torino 2008, 9. ELOGIO DELL’IRA 9 così elevato che l’indennizzo per i reati commessi veniva direttamente risolto tra famiglie. La vendetta ha pertanto una funzione circolare di retribuzione e di accomodamento all’interno delle strutture sociali, tanto che Anspach ha notato una relazione con la funzione del dono7. La vendetta infatti “appare come un sottosistema del meccanismo generale dello scambio sociale, norma elementare della giustizia che si manifesta con doni e controdoni (potlatch)”8. Non dimentichiamoci inoltre che in molte culture il delitto poteva essere sanato risarcendo con denaro o doni i familiari dell’ucciso. “Il pagamento del riscatto era considerato alternativo alla vendetta”9. Tuttavia la vendetta è anche un fenomeno transculturale, universale nel senso che attraversa tutte le culture, non soltanto quelle più ricche. In particolare gli antropologi riconoscono certe caratteristiche tipicamente violente nelle culture cosiddette pastorali. In esse i maschi si considerano “valenti”, hanno un senso dell’onore molto marcato, difendono il proprio territorio, i propri armenti, le proprie donne, e ogni sopruso è destinato ad essere ricompensato con una reazione violenta che spesso alimenta faide. Solo per rimanere vicino a noi, nel bacino mediterraneo, conosciamo l’uso della vendetta in Sardegna10, in Albania11, nel nord Africa12. 7 M. ANSPACH, A buon rendere. La reciprocità nella vendetta, nel dono e nel mercato, Torino 2007. 8 F. OST, Mosè. Eschilo, Sofocle. All’origine dell’immaginario giuridico, Bologna 2004, 130. 9 E. CANTARELLA, Dalla vendetta alla pena. Un equilibrio difficile, in Il diritto di uccidere. L’enigma della pena di morte ( a cura di P. Costa) Milano 2010, 90. Lo stesso concetto di pena, suggerisce Cantarella, significa pagare. 10 A. PIGLIARU, Il codice della vendetta barbaricina, Nuoro 2006. 11 P. RESTA, Pensare il sangue. La vendetta nella cultura albanese, Roma 2002. 12 M. R. BARTOLOMEI, Risoluzione dei conflitti e modelli di cultura. Uno schema esplicativo per lo studio della vendetta, in Antropologia giuridica, (a cura di A. De Lauri), Milano 2013. 10 PARTE PRIMA Qui ci interessa però affrontare soprattutto la questione in Occidente, per comprendere il nostro presente, la nostra attualità. Allora è il caso di indagare quel tipo di storia che ha gravato su di noi e ha potuto comporre la nostra immagine del mondo. Non analizzeremo né le varie culture extraoccidentali né indagheremo gli aspetti parziali delle subculture presenti in Europa. Né potremo analizzare le tribù germaniche presenti in Europa al cui interno vigeva un codice vendicatorio regolato da “un immenso sistema di ricompensa in denaro per il caso di omicidio13. Vedremo solamente quelle forme che hanno pesato sulla nostra identità e hanno potuto modificare la nostra auto percezione e auto rappresentazione. Occorrerà pertanto utilizzare un’archeologia della vendetta per risalire alle emergenze della sua storia. 2. Archeologia della vendetta Nella cultura ebraica per esempio, del cui spirito di vendetta abbiamo testimonianze dirette nel vecchio testamento, è possibile distinguere la vendetta di Dio dalla vendetta degli uomini. Nel primo caso, abbiamo riferimenti biblici dell’ira di Dio nei confronti dei filistei, di Edom e dei cretei in Ezechiele 25, vendetta esplosa a seguito del suo non riconoscimento: “farò su di loro terribili vendette, castighi furiosi, e sapranno che io sono il signore, quando eseguirò su di loro la vendetta”. La violenza di Dio è assoluta, radicale, extra-ordinaria, tanto che per Benjamin14 la vendetta divina non può che annientare il diritto. Ma la reazione di Dio è preceduta dalla vendetta tra gli uomini: “Edom ha sfogato la sua vendetta contro la casa di Giuda” e “i Filistei si sono vendicati con animo pieno d’o13 14 H. S. MAINE, Diritto antico, Milano 1998, 278. W. BENJAMIN, Angelus novus, Torino 1982. ELOGIO DELL’IRA 11 dio”. Pertanto la vendetta di Dio sembra collegarsi ad un atto di giustizia, riparando al torto che era stato commesso. Ma anche se si legge il famoso versetto in Esodo: (21, 23-25) “vita per vita, occhio per occhio, dente per dente, mano per mano, piede per piede, bruciatura per bruciatura, ferita per ferita, livido per livido”, si comprende che la restituzione di un’azione uguale e contraria appartiene all’ambito di un senso di giustizia. Non si pagherà di più e di meno di quanto è stato commesso. Il termine ebraico nqm potrebbe essere tradotto indifferentemente come vendetta o giustizia nel senso che “questo rispondere al male… significa precisamente contraccambiare il danno, reagire al torto subito infliggendo un male”15. Anche nell’antica Grecia la vendetta è considerata come l’unica forma di giustizia. Qui gli dei provano le stesse emozioni degli uomini: si combattono tra di loro come nel caso di Urano, il dio del cielo, che “odiava sin da principio i figli che generava”16 con la sua sposa, la Terra. Crono, allora, uno dei figli, si vendicò, tagliando il membro al padre. Dal sangue di Urano fu fecondata la terra, Gea, che partorì delle dee molto vecchie e brutte, le Erinni, il cui significato si riferisce proprio all’ira e alla vendetta17. Esse rappresentano la vendetta in tutte le opere tragiche, ma altresì “hanno grande importanza come vendicatrici degli omicidi. I processi contro gli assassini venivano tenuti nei tribunali di Stato sotto i loro auspici. All’inizio del processo, ambedue le parti giurano in nome delle Erinni, sicché, nel caso che il tribunale punisca il colpevole, in quanto spergiuro, è esposto agli spiriti della vendetta”18. La venP. BOVATI, Pena e perdono nelle procedure giuridiche dell’Antico Testamento, in Colpa e pena? la teologia di fronte alla questione criminale, (a cura di A. Acerbi e L. Eusebi), Milano 1998, 36. 16 K. KERENYI, Gli dei e gli eroi della antica Grecia, Milano 1989, 33. 17 Ivi, p. 54. 18 H. KELSEN, Società e natura, Torino 1976, 336. 15 12 PARTE PRIMA detta placa la divinità offesa e sdegnata per il reato19, dato che per i Greci, si è detto, gli dei provano le stesse emozioni umane. Poi vi era una vendetta, per così dire orizzontale, tra uomini, come accade per la guerra di Troia, scatenata dal ratto di Elena. Gli Achei chiedono dei doni in cambio di Elena o la restituzione della donna. Si può dire che la guerra di Troia è stata scatenata da un atto ingiusto che non trova riparazione. Infatti, a quell’epoca, la civiltà greca, aveva già un’idea della giustizia e della pena vera e propria. Il diritto penale in Grecia, nella stessa vendetta individuale, compare di già in veste teocratica. Pensiamo a ciò che accade nell’Odissea: Omero ci parla di lui, Odisseo, il cui significato potrebbe essere, colui che odia. Il legittimo sovrano torna in patria a Itaca, pronto a vendicarsi dei soprusi subiti dai Proci. Essi si sono appropriati della sua casa e attentano a sua moglie. Non si tratta solo di onore, di orgoglio o di virtù, ma di un senso naturale di giustizia. I Proci miravano al potere, miravano a Penelope, non avevano rispettato le leggi dell’ospitalità, erano tracotanti; pertanto Odisseo è legittimato ad ucciderli senza sfidarli a duello, non riconoscendoli come nemici da rispettare ma considerandoli solo individui ostili da disprezzare. Per “Ulisse infatti la giustizia appare spesso la sua principale preoccupazione”20: egli persegue la giustizia, la pace sociale. Non esplode mai in una rabbia incontinente come altri eroi descritti nell’Iliade. Odisseo è un uomo freddo, calcolatore, ma giusto. È l’uomo moderno, stando ad Adorno e Horkheimer21, perché diversamente dagli stessi dei, F. MECACCI, Trattato di diritto penale, Torino 1901, 12. E. CANTARELLA, Itaca. Eroi, donne, potere tra vendetta e diritto, Milano 2004, 108. 21 W. ADORNO, M. HORKHEIMER, La dialettica dell’illuminismo, Torino 1977. 19 20 ELOGIO DELL’IRA 13 contiene l’ira, controlla le passioni fino al momento giusto: procrastina la vendetta. Certamente, nel momento che la vendetta può esplodere, è devastante: non risparmia nessuno, e Ulisse si scaglia contro i Proci e chi tra i suoi servi lo aveva tradito. Il figlio Telemaco e i suoi alleati poi si lanciano con violenza contro i traditori recidendo orecchie, narici, genitali. L’interpretazione corrente è che questo tipo di comportamento particolarmente feroce rimontasse al “rituale apotropaico denominato maschalismos, praticato affinché le mutilazioni e la conseguente perdita impedissero al morto di vendicarsi”, tuttavia Omero non ne fa menzione, anzi aggiunge, concludendo la scena come per spiegare: “tanta fu l’ira”22. Si può notare che Odisseo si sente tradito. Occorre ricordare, infatti, che il tradimento, come dirò più avanti, è sempre stato considerato la più grave forma di delitto fino a Dante compreso, (che correttamente pone i traditori nel punto più profondo dell’inferno) in quanto in una società pastorale e guerriera era fondamentale poter contare sulla lealtà del socius per poter sopravvivere. Rispetto al cristianesimo, nel mondo greco la vendetta va consumata, e va consumata prima possibile: non è possibile procrastinarla più di tanto. Nei miti e nella letteratura greca la vendetta spinge quasi sempre ogni personaggio a riequilibrare e a raddrizzare il torto subito dalla natura e dalla necessità degli eventi e delle cose. Ad esempio, il detto di Anassimandro potrebbe essere interpretato in chiave naturalistico giuridica, come è plausibile, dato che l’immagine della società era proiettata sulla natura stessa. Da questo punto di vista la traduzione di Nietzsche appare la più soddisfacente: “Là dove le cose trovano la loro origine, debbono anche perire, secondo la OMERO, Odissea, Canto XXII, vv. 601-606. Sulla vendetta in Ulisse e più in generale sul concetto di vendetta in Occidente, P. MARONGIU, G. NEWMAN, Vendetta, Milano 1995. 22 14 PARTE PRIMA necessità: esse infatti devono pagare il fio ed essere condannate per le loro ingiustizie, conformemente all’ordine del tempo”23. Ciò che accade nella natura, accade e deve accadere nell’uomo. Non c’è discontinuità tra natura e morale. C’è un dato comune che collega l’interpretazione fisica con quella mistica dell’universo e con le forze ordinatrici e normative24. Non c’è responsabilità personale, ma le cose accadono perché devono accadere. Le colpe sono ripagate dagli eventi stessi, dal caso, dalla necessità che interviene per riparare ai torti subiti. Alla luce di queste considerazioni si può interpretare pure il frammento di Eraclito: “Bisogna però sapere che la guerra è comune a tutte le cose, che la giustizia è contesa e che tutto accade secondo contesa e necessità”25. La giustizia è immaginata come il risultato di una lotta perenne, sia in natura sia tra gli uomini, che sarà ristabilito necessariamente. Si legga ugualmente il seguente frammento di Eraclito: “Elios infatti non oltrepasserà le sue misure, ché altrimenti le Erinni, al servizio di Dike, lo troverebbero”26. Il sole non può comportarsi senza seguire le regole alle quali è destinato fatalmente, altrimenti la vendetta lo colpirebbe. Tuttavia il sole può essere interpretato simbolicamente come l’incarnazione del potere regio. Pertanto si potrebbe interpretare il frammento come un limite “naturale” della sovranità essa stessa sottoposta al rischio della tracotanza (hybris) la quale condurrebbe all’intervento della vendetta. Lo stesso limite lo riscontriamo nell’Orestea. Non sono tanto la vendetta e il senso naturale della giustizia a venire criticati da Eschilo, quanto F. NIETZSCHE, La filosofia nell’epoca tragica dei greci, Milano, vol. III, tomo 2, 1973, 158. 24 E. PARESCE, Storia della filosofia del diritto in Grecia, Messina 1963, 62. 25 ERACLITO, 80, Diels 26 ERACLITO, 94, Diels 23 ELOGIO DELL’IRA 15 la dismisura, il porre la vendetta in un circuito che non troverà una sua conclusione. La misura della propria forza è ciò che indica il senso della giustizia. La hybris è la dismisura dell’uomo eccellente (areté). “Chi va oltre la parte dovuta, pretende cioè quel che non gli compete, commette una hybris”27. Tale ragionamento coincide con quello di Dodds per il quale “i due imperativi: sarebbe tuo dovere e sei costretto” collimano, laddove in italiano il verbo dovere è ambivalente e nasconde ancora le due possibilità: da un lato il dovere storico-morale, dall’altro dovere inteso come necessità della natura. Da un lato le Erinni, dall’altro le Moire: “la finzione morale delle Erinni, quali ministre di vendetta, deriva da questo ufficio primitivo di esecutrici delle Moire. Chi rivendica la propria posizione nella società e nella famiglia… è soggetto di un diritto e può invocare le proprie Erinni in difesa. Parimenti le Erinni sono chiamate a testimoniare dei giuramenti, perché il giuramento predetermina una sorte, crea una moira” 28. Le Moire decidevano del fato, del caso, del destino, della fortuna, della sorte di ognuno. Tuttavia tale fato, voluto dagli dei, scaturiva soprattutto nel momento in cui un guerriero, ma anche un uomo valente, perdeva la faccia in pubblico. Ciò conduceva ad un senso di vergogna che doveva essere ripagato di fronte alla comunità in modo da riscattare l’ingiustizia. La vendetta, pertanto, non è mai un affare privato ma si pone come questione pubblica. Dobbiamo ricordare ancora una volta che la qualità più elevata dell’uomo greco-antico era rappresentata dall’areté, che lo definiva come valente, coraggioso, sincero, forte. Di fronte a queste virtù guerriere era normale dover rispondere ad un’offesa con un duello e uno scontro fisico: “il desiderio di retribuzione è assai 27 28 E. PARESCE, op. cit., 217. E. DODDS, I Greci e l’irrazionale, Milano 2009, 50. 16 PARTE PRIMA difficile da distinguere, nella cultura ateniese dalla vendetta”29. L’omicidio commesso con la forza veniva accettato, benché provocasse la reazione vendicatoria, in quanto “diminuiva il prestigio del gruppo dell’ucciso. L’omicidio commesso con l’inganno, invece, andava ad intaccare i principi fondanti e di conseguenza la stabilità e gli equilibri della compagine sociale, pertanto era riprovato dalla collettività che vedeva messo in pericolo il proprio sistema di valori”30. Nel primo caso i parenti del morto chiedevano giustizia. L’assassino poteva sottrarsi alla punizione e alla vendetta andando in esilio o pagando un riscatto. “L’esercizio della vendetta, oltre alla funzione di dare soddisfazione e appagamento ai parenti del morto e compensarne il dolore, era percepito come un dovere sociale e morale indispensabile e necessario per riacquistare l’onore”31. Tuttavia, secondo Cantarella, qui siamo ancora nel campo, per così dire, della vendetta privata, nel senso che alla fine la giustizia viene soddisfatta solo da chi ha subito (o pensato di subire) ingiustizia. Vi era invece una vendetta collettiva nei confronti di traditori della Patria o di coloro i quali erano considerati blasfemi o portatori di sciagure. In questo caso si interveniva con riti espiatori attraverso la lapidazione o l’avvelenamento, come nel caso di Socrate32. Le pene e le punizioni inflitte erano l’effetto di un desiderio di vendetta collettivo; si trattava comunque di un contesto in cui non era facile distinguere tra desiderio privato di vendetta e bisogno pubblico di pena33. La vendetta era un desiderio di 29 E. CANTARELLA, I supplizi capitali. Origini e funzioni delle pene di morte in Grecia e a Roma, Milano, 2005, XIX. 30 M. S. PORRELLO, Omicidio tra vendetta privata e punizione, in “Diritto e questioni pubbliche”, n.8, 2008, p. 143. 31 Ivi, P. 144. 32 E. CANTARELLA, I supplizi capitali, cit., 57-67. 33 F. MCHARDY, Revenge in Athenian culture, London 2008, 2. ELOGIO DELL’IRA 17 giustizia innescato dall’ira, che a sua volta scaturiva forse da un bisogno di riconoscimento sociale; ma che trovava comunque le sue radici nell’ancestrale istinto di sopravvivenza: “Protecting, reproductive, resources in order to ensure the continuation of the family line”34. Tipica è la saga di Eschilo, l’Orestea. Oreste uccide sua madre, Clitemnestra, per vendicare suo padre, Agamennone, il quale a sua volta era stato ucciso da lei per vendetta, avendo lui sacrificato sua figlia, Ifigenia, per placare l’ira della dea Artemide e partire alla volta di Troia. Agamennone infatti “osò sacrificare sua figlia, per la guerra che doveva vendicare il rapimento di una donna”35. Egli scatena la guerra a causa del rapimento di Elena da parte di Priamo, e dunque vuole ottenere la “giusta vendetta”. Tutti i protagonisti sono spinti dalla sete di vendetta e di giustizia: Agamennone contro Priamo, Clitemnestra contro Agamennone, Oreste contro Clitemnestra. Le Erinni stesse si vorrebbero vendicare a loro volta di Oreste. Di fronte a questa ineluttabilità della vendetta Eschilo sembra proporre un cambiamento paradigmatico e introdurre per la prima volta il senso di una giustizia imparziale che interrompa il circuito interminabile della faida. Scrive Eschilo: “poiché la situazione è precipitata a tal punto, io sceglierò, Ivi, p. 45. ESCHILO, Orestea, Milano 1997, p. 37. Sulla vendetta in relazione all’idea di giustizia, al passaggio cioè dal pre-diritto al diritto, è da vedere, F. OST, op.cit. La vendetta è un dovere sacro. Deve colpire i familiari della vittima per poter purificare la colpa. Per Bachofen, Clitemnestra è spinta dal diritto materno a vendicarsi, diritto materno che è un diritto naturale che fonda la società pre-ellenica. Oreste invece impersona il diritto paterno che sostituirà il vecchio diritto. Si veda, J. J. BACHOFEN, Il matriarcato, Torino 1988. “Questo diritto materno materiale è il più sanguinario di tutti i diritti. Esso impone la vendetta anche là dove mentalità superiori la fanno apparire come un delitto” (p. 164). La vendetta risalirebbe al diritto materno, ossia si riferisce al carattere femminile, emotivo, irrazionale, contrariamente al potere patriarcale, freddo, calcolatore, razionale. 34 35 18 PARTE PRIMA per gli omicidi, giudici giurati, e fonderò un istituto di giustizia che resterà saldo per sempre”36. Piuttosto che a un nuovo paradigma però siamo di fronte ad un gesto razionale che impone il controllo alla dismisura della vendetta. Essa va ricondotta entro un’azione temporale ben precisa, altrimenti rischia di distruggere l’intera vita politica e sociale della città. Pier Paolo Pasolini osserva giustamente nella postfazione alla Orestiade: “Certi elementi del mondo antico, appena superato, non andranno del tutto repressi, ignorati: andranno piuttosto, acquisiti, riassimilati, e naturalmente modificati. In altre parole: l’irrazionale, rappresentato dalle Erinni, non deve essere rimosso (che poi sarebbe impossibile) ma completamente arginato e dominato dalla ragione, passione producente e fertile”37. Ancora più convincente risulta essere la posizione di Suzanne Said che scrive: “L’Orestie souligne au contraire fortement la continuité des deux systèmes, car la vengeance est déjà une forme de justice et la justice, même administrée par un tribunal, reste vengeresse”38. Come si evince dalla lettura delle Coefore, in cui Eschilo torna sul tema della vendetta, Oreste ed Elettra debbono vendicarsi contro la loro madre Clitemnestra, la quale non solo ha ucciso il marito, ma ha assunto il potere della città. Oreste dunque deve ristabilire l’equilibrio sociale recuperando il potere che gli spetta. Così “la vendetta di Oreste ESCHILO, Eumenidi, in E. CANTARELLA, Il ritorno della vendetta, Milano 2007, 130. Tra le tante traduzioni abbiamo scelto quella di Cantarella perché più consapevole del passaggio dalla vendetta alla violenza. Bella è pure la traduzione di P.P. Pasolini: “Qui siamo in pericolo. Non mi resta che raccogliere dei giudici. Giureranno, e il tribunale così istituito, avrà valore per l’infinito tempo futuro”. ESCHILO, L’Orestiade, tr. P.P. Pasolini, Torino 1960, 148. 37 ESCHILO, L’Oresteide, cit., 177. 38 S. SAID, La tragédie de la vengeance, in La vengeance vol. 4 a cura di G. Courtois, Paris 1980, 54. 36 ELOGIO DELL’IRA 19 non rimane confinata su un piano privato, ma assume un significato pubblico e politico” 39. Anche Edipo40 vorrebbe vendicarsi per la morte di Laio, re di Tebe, che però scoprirà essere suo padre, e che era stato lui stesso ad averlo ucciso. La vendetta non consumata aveva prodotto la peste a causa degli dei adirati con gli uomini per aver versato sangue reale. Edipo, per il bene della città e per ripristinare la giustizia, è costretto a vendicarsi contro se stesso, ad accecarsi e ad abbandonare la città che stava governando: vendicarsi: riflessività della vendetta. Qui la violenza si ripiega in se stessa e Edipo si sacrifica per placare l’ira degli dei. La novità della tragedia di Sofocle non consiste tanto in una nuova concezione della giustizia; in fondo Edipo conserva tutti i comportamenti tradizionali del re: rispetto delle leggi divine, rispetto dei giuramenti presi. La novità consiste invece, come sostiene Michel Foucault, in una nuova pratica giudiziaria relativa alla ricerca dei testimoni. Non siamo più di fronte soltanto a una profezia che si (auto) avvera, ma ad una testimonianza di servitori e di schiavi che indicano il reale colpevole41. Indubbiamente in Sofocle vi è una concezione del potere più attenta e secolarizzata, la quale comincia a distinguersi dalla religione. Per dirla in termini foucaultiani, il potere sarà disgiunto dal sapere. Come si evince anche dall’Elettra sofoclea, la protagonista vorrà vendicarsi lucidamente, senza rimorsi, e lo manifesterà apertamente a Clitemnestra: “tu non hai ucciso Agamennone, per giustizia, no, tu lo hai ucciso per il potere!”42 R. SEVIERI, Introduzione, in Eschilo, Coefere, Venezia 1995, 11. SOFOCLE, Edipo re, Milano 1982. 41 M. FOUCAULT, La verità e le forme giuridiche, Napoli 1994. Id. Mal fare, dir vero. Funzione della confessione nella giustizia, Torino 2013, 48-85. 42 SOFOCLE, Elettra, Venezia, 2004, 43. 39 40 20 3. Le PARTE PRIMA origini del diritto Nei Greci “l’obbedienza alle leggi non indica un atteggiamento interiore… ma è retta dal meccanismo della reciprocità, governata dalla regola del contraccambio, fondata sul principio del rispetto del limite”43. Non siamo di fronte ad una virtù interiore volta alla ricerca di una giustizia trascendente, ma ci confrontiamo con una virtù esteriore in cui ciò che conta sono i rapporti sociali, lo sguardo dell’altro. Siamo insomma, come si è già detto, ancora in una società della vergogna e non della colpa. Osserviamo l’utilizzo di una logica interpersonale e non individualistica, una lotta per il riconoscimento e l’importanza della relazione; giocano un ruolo fondante la reciprocità, la giustizia, la vendetta, il contraccambio, il dono, il contrappasso, il patto, la fiducia. Si potrebbe dire che i Greci hanno preferito perseguire l’idea di giustizia come ricerca della verità possibile, paradigmaticamente rappresentata da Edipo. Lui cerca la verità, e si arrovella per comprendere cosa sia accaduto nella realtà degli eventi e si acceca perché i suoi occhi non gli hanno permesso di vedere la realtà. Il sentimento di giustizia viene riconosciuto, non solo nell’atteggiamento dell’altro, a cui chiediamo un’azione corretta, ma anche, come in una sorta di autoattribuzione e di rispecchiamento, a se stessi. È l’interiorizzazione della colpa che verrà sviluppata da Euripide44. Oreste è psicologicamente scosso e impazzito per il suo stesso gesto matricida di fronte alla vista delle Erinni. Il riconoscimento psicologico dei gesti e delle intenzioni segna la nascita della autocoscienza, la quale, al suo sorgere, è già ambivalente, rischiando di cadere nella follia. A. JELLAMO, Il cammino di Dike, L’idea di giustizia da Omero a Eschilo, Roma 2005, VIII. 44 EURIPIDE, Oreste, Milano 2001. 43 ELOGIO DELL’IRA 21 Lo stesso processo di interiorizzazione e razionalizzazione avviene nella Medea, in cui la vendetta diviene furiosa e mina se stessa nell’eccesso. È come se Euripide avesse precluso alla follia le sue ragioni e l’avesse scorporata rendendola incomprensibile. La vendetta di Medea45 è diventata cieca e inintelligibile. Al sorgere della ragione, la ragione stessa dimentica la sua origine, le emozioni che l’hanno prodotta, e inventa il suo doppio, la follia. Così, l’interiorizzazione partorisce, insieme alla coscienza, pure il suo opposto: la follia. Giustamente Nietzsche coglierà l’ipostatizzazione e la razionalizzazione nel teatro euripideo: “socratismo estetico: tutto deve essere razionale per essere bello”46. Socrate, infatti, è così pervaso dal suo furore razionale che si uccide per difendere la verità47, è sicuro della sua verità; come è sicuro della sua verità Cristo, il quale si fa uccidere per salvare gli uomini. Il cristianesimo perseguirà un’idea di verità come certezza nella fede demandando la giustizia a Dio. A ragione Nietzsche vede in Socrate colui che precorre Gesù. In Platone è chiarita l’anticipazione cristiana dell’importanza del perdono sull’idea di vendetta. “In nessun caso va commessa ingiustizia… Non dobbiamo ricambiare le ingiustizie, né far del male a nessuno, qualsiasi cosa gli altri facciano a noi”48. Si vuole rompere la circolarità e l’indeterminatezza della vendetta perpetua ma anche della sua reciprocità. Al pragmatismo greco il cristianesimo opporrà il soggetto, la coscienza, la fede, la speranza, la colpa, l’intenzione, l’anima divisa dal 45 EURIPIDE, Medea, Milano 1985. Secondo J. De Romilly il teatro di Euripide rappresenterebbe proprio la critica radicale alla violenza. Si veda, La Grecia antica contro la violenza, Genova 2007. 46 F. NIETZSCHE, La nascita della tragedia, Milano 1992, 85. 47 Si veda A. VOTRICO, Uccidersi per uccidere. Il suicidio per vendetta, Milano 2009. 48 Critone, 49 B. 22 PARTE PRIMA corpo. Su quest’ultimo punto Dodds fornisce una ricostruzione circa l’eredità acquisita dall’Occidente proveniente non dalla Cina o dall’Asia minore ma dalla Siberia. Questa eredità nordica di cui Pitagora sarebbe venuto in contatto avrebbe successivamente influenzato il pensiero di Platone e poi del cristianesimo. Ciò in effetti spiegherebbe perché la filosofia orientale non riveli tracce di dualismo animacorpo e abbia potuto influenzare pensatori materialisti come Schopenhauer e Nietzsche. Fu poi Platone “a costruire una nuova psicologia trascendentale. Egli operò nella tradizione del razionalismo greco un fecondo innesto delle idee magico-religiose che hanno remota origine nella civiltà sciamanistica settentrionale”49. Invece, come si è visto, il diritto greco ha una concezione della giustizia nei termini del limite, come ci ha spiegato Jellamo; e l’ingiustizia è dunque hybris, tracotanza, eccesso, superamento dei limiti. Tale interpretazione potrebbe coincidere con la teoria di Schmitt secondo la quale il diritto (nomos) si riferirebbe proprio ad un’idea di territorio, di spazio e quindi di misura, di ordine e di limite. Nemesis, non a caso, la vendetta, significa anche ripartizione. La radice di nemesis e di nomos sarebbe la stessa: nemein. “Tra la giustizia e la nemesis c’è un vincolo strutturale. Nemesis è punizione secondo giustizia, restituzione del dovuto”50. Nomos è “diritto nel senso della parte che ciascuno ha, il suum cuique”51. A ciascuno il suo. Potrebbe essere interpretato così il punto di DODDS, op. cit., 261. A. JELLAMO, op. cit., 87. 51 C. SCHMITT, Le categorie del politico, Bologna 1999, 298. Non concorda con l’interpretazione di Schmitt, G. SEMERANO, L’infinito: un equivoco millenario, Milano 2004, che fa risalire l’etimo nomos allo stesso che in latino sarà nomen, il nome, la parola e cioè la voce accadica, nabum (decretare, proclamare, nominare). Nomos basileus è appunto “la parola del re” (263). Per un inquadramento generale del termine, E. STOLFI, Introduzione allo studio dei diritti greci, Torino 2006, 127-151. 49 50 ELOGIO DELL’IRA 23 vista espresso da Cefalo all’inizio del dialogo di Platone, la Repubblica: “Che il giusto consiste nel restituire ciò che è dovuto”52. Su questa visione riparatrice rispetto ad un torto subito, e che appartiene alla vecchia virtù greca, Platone controbatte con un’argomentazione razionalistica e insieme trascendente: “In nessun caso è giusto fare del male a qualcuno”53 che anticipa chiaramente la visione evangelica cristiana. Glaucone allora prova a rilanciare le tesi di Trasimaco: La giustizia non è praticata per il gusto di praticarla come se fosse un bene ma si coltiva solo per necessità. L’idea di giustizia è vista in senso negativo e interviene solo per riparare un torto subito, perché se fosse possibile commettere ingiustizia senza essere visti (per esempio con l’utilizzo del magico anello di Gige), tutti lo farebbero. Ma dato che non si può realisticamente diventare invisibili, è più vantaggioso trovare una soluzione di compromesso. Pertanto la giustizia per Glaucone è “non causare né patire ingiustizia. Di qui, originariamente, venne l’usanza di porre leggi e convenzioni fra le persone, e quanto la legge imponeva prese il nome di giustizia e legalità. E dunque questa fu l’origine e l’essenza della giustizia; un compromesso fra ciò che è la soluzione senza pagarne il fio, e quella che è la soluzione peggiore, ossia il patire ingiustizia senza potersi vendicare”54. Conosciamo la risposta di Platone. Di fronte a tali turbolenze sociali occorre uno Stato etico che sia in grado di educare in primis i custodi e poi i cittadini, ma di educarli soprattutto ad obbedire. Non siamo di fronte ad una visione contrattualistica di tipo hobbesiano, semmai incarnata nel pensiero di Glaucone, ma ad un vero e pro- 52 53 54 PLATONE, Repubblica, I 331 E. PLATONE, Repubblica, I 335E. PLATONE, Repubblica II, 358 B. 24 PARTE PRIMA prio potere pastorale, organicistico, definito da Popper come stato totalitario teologico-politico. “La giustizia – per Platone – significa tenere il proprio posto” 55. Platone proporrebbe così, stando a Girard, “la condanna della mitologia”56 fondando un’altra cultura “non più propriamente mitologica ma razionale”, non più religiosa ma filosofica: un meccanismo formale, e per certi versi razionale, che collega l’ordine sociale ad una violenza istituzionalizzata. La violenza sociale sarebbe incarnata, come per Hobbes, in un Leviatano capace di canalizzare e condensare tutta la violenza privata in un enorme mostro, sorta di dio mortale disponibile a cedere solo piccole quantità di vendetta. Girard non tiene però conto dei suggerimenti di Benjamin57 e del paradosso di uno Stato nel quale la paura della violenza diviene una passione più pericolosa della violenza stessa. Il Leviatano non può essere un pharmacon, semmai è piuttosto un condensatore di violenza. Posto che la vendetta scaturisca dalla paura, quella dello Stato stesso, ciò da un lato esorcizza la vendetta e se ne fa carico, ma dall’altro alimenta anche il desiderio di vendetta: laddove lo Stato cede, come un argine che si rompe, mostra che al di là vi è un potenziale distruttivo e vendicativo. Lo Stato per resistere dovrebbe dotarsi di momenti importanti di sacralità e festività della violenza. Diversamente da Platone, Aristotele riconosce, più pragmaticamente, che la vendetta è necessaria all’individuo. Essa è un’azione naturale collegata alla passione dell’ira. La virtù, che è la ricerca della medietà attraverso la ragione, è data, relativamente all’ira, dalla mitezza. Un 55 K. POPPER, La società aperta e i suoi nemici, Platone totalitario, vol I, Roma 1996, 131. 56 R. GIRARD, Il capro espiatorio, Milano 1999, 127. 57 W. BENJAMIN, Per la critica della violenza, in Angelus novus, Torino 1962, 1-30. ELOGIO DELL’IRA 25 uomo mite è colui il quale è capace di controllare l’ira. “La mitezza è medietà riguardo all’ira”58. Tuttavia, sostiene ancora Aristotele, “chi si adira per giusti motivi e contro le persone giuste, inoltre come si deve, quando e per tutto il tempo appropriato, è lodato”. In effetti è giusto vendicarsi se spinti da giustizia, contro le persone che sono al nostro livello, e per un tempo limitato e stabilito. Altrimenti cadiamo nella dismisura. L’eccesso causa ingiustizia, diviene insopportabile. Iracondi, collerici e rancorosi spingono le loro passioni oltre la ragione. In questo caso l’eccesso è “più frequente, dato che il vendicarsi è più umano… e la vendetta appaga l’ira, producendo piacere al posto del dolore”. Al contrario, il pusillanime, cioè “il mite che propende piuttosto ad errare per difetto… non è vendicativo (timontikos) ma tende [troppo facilmente] al perdono”. Ma tale “difetto è biasimato, infatti quelli che non si adirano per giusti motivi sono sciocchi… e sembrano incapaci di reagire; è atteggiamento di schiavi il sopportare l’oltraggio, e far finta di nulla se gli amici sono insultati”. 4. La forma del diritto È noto che anche nella Roma antica la vendetta era un fatto incontestabile. Gli attentati fisici alle persone “esponevano il colpevole alla violenta reazione dei familiari dell’offeso, consentivano di esercitare la vendetta nei limiti del taglione”59. Uccidere un uomo libero comportava il rischio di essere perseguitati dai parenti della vittima che avevano il dovere di vendicarsi. “Nei casi più gravi (addictio) i colpevoli vengono assegnati alla vittima, che decide se metterli a morte, ridurli in schiavitù, o incatenarli nella pro58 59 ARISTOTELE, Etica nichomachea, IV, 1126a. B. SANTALUCIA, Studi di diritto penale romano, Roma 1994, 4. 26 PARTE PRIMA pria prigione privata. In caso di injuria (lesioni fisiche con conseguenze invalidanti permanenti), il tribunale consente alla vittima, nel caso non accetti una compensazione pecuniaria, di procedere senz’altro al taglione”60. Questo era l’atteggiamento che regolava la vendetta privata. Vi era, per così dire, anche una vendetta pubblica se si offendeva la comunità intera. Inizialmente il re-sacerdote non esercitava direttamente il diritto penale sul reo ma con il sistema della sacertà si attuava la vendetta divina per mezzo della vendetta del popolo. Chiunque infatti poteva vendicarsi di colui che aveva offeso la comunità per ristabilire l’ordine che regolava la vita tra uomini e dei. Per esempio “l’oltraggio recato al padre era di per sé sufficiente ad esporre il figli alla vendetta divina”61. Successivamente, “l’esercizio della vendetta da parte dei parenti della vittima ha cominciato a svolgersi sotto il controllo dell’opinione pubblica”62 eccetto ovviamente i casi di trasgressioni militari in cui il re, in veste di comandante militare, interveniva rapidamente con pene tese a reprimere rivolte, infedeltà, tradimenti, diserzioni, codardie, insubordinazioni ecc. La tesi di Mommsen secondo cui si erano istituite assemblee popolari e tribunali, viene respinta da Kunkel in quanto “solo i crimini di carattere politico erano sottoposti al iudicium populi. I delitti comuni, secondo Kunkel, sarebbero stati rimessi – ancora al II secolo a. C., e forse fino al tempo di Silla – alla vendetta privata”63. Insomma si ipotizza che l’intervento di terzi per giudicare il comportamento doloso o delittuoso avvenga tra uguali, tra patrizi, tra nobili. “Le notizie trasmes- G. COSI, Società, diritto, culture. Introduzione all’esperienza giuridica. Corso di sociologia del diritto, Firenze, 2001, 26. ID., Invece di giudicare. Scritti sulla mediazione, Milano 2007, 133-144. 61 B. SANTALUCIA, op. cit., 14. 62 Ivi, 19. 63 Ivi, 23. 60 ELOGIO DELL’IRA 27 seci dalla tradizione non offrono il più fievole indizio che la provocatio abbia originariamente costituito un’arma di difesa della plebe contro il patriziato, ma lasciano piuttosto arguire che fosse un rimedio introdotto dal patriziato nel suo stesso interesse, per cautelarsi contro i possibili abusi dei suoi magistrati”64. Così si racconta sia successo nel caso di Orazio, che uccide la sorella innamorata del nemico di Roma, Curiazio65. Chiamato in giudizio di fronte al re Tullo Ostilio, Orazio è giudicato da due magistrati che lo condannano. Orazio, vistosi perso, si appella al popolo perché sa di essere amato avendo salvato la città dalla guerra contro Albalonga, e il popolo lo assolve (provocatio). Tuttavia, interpellare il popolo non era nei fatti una procedura consuetudinaria ma del tutto eccezionale. Nell’età regia insomma “vige ancora l’arcaico costume della persecuzione criminale da parte dei parenti dell’ucciso”66. Esso non risponde tanto ad un diritto soggettivo ma, come dicevamo poc’anzi, ad un’esigenza di carattere religioso. Difficilmente si può supporre che con l’avvento delle XII tavole e con la nascita della Repubblica le leggi consuetudinarie sparissero. “Il diritto delle XII tavole non era pervenuto ad un concetto astratto di iniuria… per cui sopravviveva l’originaria vendetta sotto forma di taglione”67. Vigeva ancora la rivalsa del creditore sul debitore, del padre sui figli, del proprietario terriero sullo schiavo. Ritorsione privata e vendetta erano regolate ma non escluse. “A Roma la vendetta era una pratica così radicata che ne sarebbe stato impossibile un’eventuale eliminazione dal 64 65 Ivi, p. 163. Per un approfondimento, E. CANTARELLA, I supplizi capitali, cit., 146- 149. 66 67 320. B. SANTALUCIA, op. cit., 107. C. SANFILIPPO, Istituzioni di diritto romano, Soveria Mannelli 2002, 28 PARTE PRIMA momento che la coscienza sociale la riteneva l’unica forma di punizione-sanzione possibile”68. In effetti dobbiamo stabilire da un punto di vista linguistico e semantico la distinzione tra vindex e ulciscor, dato che spesso i termini sono tradotti in italiano allo stesso modo. Il primo termine rimanda a una reazione meditata di fronte ad un evento, da cui l’italiano vendetta, il francese vengeance e il più chiaro termine inglese revenge, quasi nel senso di una rivincita. Cicerone, ad esempio, lo utilizza riferendosi a dio che punisce gli uomini a causa del loro fasto: “qui secus faxit, deus ipse vindex erit”69. Qui dio reagisce razionalmente al comportamento sbagliato degli uomini. Il termine indica una specie di punizione mirata che esprime un’intenzione. Ulciscor deriva invece da Ulcus, la piaga, la ferita che si subisce e si vuole fare subire a qualcuno. Cicerone la utilizza nel De officiis: “est enim ulciscendi et puniendi modus”70. Inoltre Cicerone utilizza anche il termine vindicare ma che va tradotto in italiano con rivendicare nel senso di richiamare e reclamare a sé la proprietà di qualcosa, in senso lato di un’idea. Attribuire a se stesso: “pro suis vindicare”71. È probabile che via sia comunque una relazione stretta tra vendicare e rivendicare in quanto dopo la richiesta di vendetta, si finiva per accettare una compensazione, una sostituzione dietro pagamento. Ma poteva accadere pure l’opposto: all’insolvenza del creditore si interveniva con la vendetta. Pertanto venum-dicare, dire il prezzo, significa pattuire la giusta cifra da offrire al posto della reazione violenta. La pena blocca il meccanismo della violenza. La vendetta pertanto appare a Roma all’interno 68 M. S. PORRELLO, Omicidio tra vendetta e punizione, in “Diritto e questioni pubbliche”, n. 8, 2008, 160. 69 CICERONE, De legibus, II, 17-19. 70 CICERONE, De officiis, I, 34-35. 71 CICERONE, De Republica, I, 26-27. ELOGIO DELL’IRA 29 del discorso giuridico. Il vindex è la forma giuridica in cui il creditore chiede al debitore davanti al magistrato di saldare il suo debito. Egli lo dichiara e contemporaneamente lo tocca con un bastone. Se il debitore non paga è venduto al mercato come schiavo, altrimenti lo libera. In senso traslato vindicta diventa il nome del bastone utilizzato durante la cerimonia. È probabile che successivamente tale cerimonia sia stata estesa agli schiavi stessi che si volevano, per qualche forma di ringraziamento, liberare: i liberti. Di qui la cerimonia diventa: manumissio vindicta. Si collega alla vendetta il concetto di pena che in greco e poi in latino significa il prezzo del riscatto. “Nel sistema giuridico romano… tutti gli atti illeciti che non fossero crimina… erano lasciati alla persecuzione da parte della vittima e davano luogo ad una pena consistente in una somma di denaro più o meno elevata”72. La vendetta è spesso considerata un atto fondatore, che si collega al sacro. Non a caso Virgilio chiude l’Eneide con il duello tra Turno ed Enea. Turno, “già godendo la vendetta”, è impetuoso e furibondo e vuole vendicarsi di Enea che non solo voleva impossessarsi delle terre dei Latini ma altresì prendere in sposa Lavinia che era stata precedentemente promessa proprio a Turno. Del resto anche Enea voleva vendicarsi di Turno perché aveva ucciso il suo amico Pallante. Pertanto la fondazione di Roma si compie, per Virgilio, attraverso un duello che allude ad un patto, in quanto avviene tra eroi e uomini d’onore, non sparge più sangue se non quello di Turno, immolato agli dei e sacrificato per una nuova città. Benché fondato su un’ingiustizia, il sacrificio di Turno condurrà alla fine della guerra e sarà “per compor la guerra offerto”. Da ciò, R. MARTINI, Sul risarcimento del danno morale nel diritto romano, in “Rivista di Diritto Romano”, VI, 2006, 3. 72 30 PARTE PRIMA “dalla disfida” il “patto accetti, e del patto i capitoli e le leggi stabilisca e confermi”. La vittoria di Enea condurrà al rispetto dell’accordo e cioè che “questi popoli invitti aggian tra loro governo e leggi uguali, e pace eterna”. La giustizia non è il superamento della vendetta ma è il compimento della vendetta stessa. Tuttavia l’artificialità della proposta di un poeta come Virgilio risiede nel fatto che la vendetta possa avvenire tra nemici. In realtà i racconti mitologici fondativi della maggior parte delle culture propone miti fondatori fratricidi e/o familiari. Nel caso di Roma, ad esempio, di Remo e di Romolo. Ciò dimostrerebbe che la vendetta è un sentimento di giustizia che scaturisce proprio all’interno degli stessi clan; la vendetta proviene dall’ira, e l’ira come chiarisce bene Aristotele73 è un’emozione che colpisce gli amici più che i nemici, perché da essi non ci si attenderebbe il tradimento, la rottura del patto fiduciario. Rispetto alla posizione aristotelica, secondo la quale la passione non può essere cancellata ma solo temperata in armonia con la volontà razionale in vista di un fine e di un obiettivo strategico, Seneca considera l’ira come un nemico da abbattere e da non fare penetrare nel ‘fortino’ della ragione. Il tentativo nel De ira è quello, in sintonia col pensiero stoico e poi cristiano, di eliminare le passioni dalla ragione. La critica esplicita ad Aristotele rivela il desiderio di espungere per sempre l’ira. In effetti, essa non è considerata una passione (adfectus) ma un vero e proprio vizio, peggio, una malattia che va sconfitta completamente. I motivi sono che un uomo assoggettato all’ira non apparirebbe né saggio né buono perché non sarebbe in grado di governare se stesso e gli altri. Per Seneca, non si può essere irati e buoni allo stesso tempo74. L’individuo non sarebbe 73 74 ARISTOTELE, Retorica, Milano 1996, 91. SENECA, De ira, Libro II, 12. ELOGIO DELL’IRA 31 in grado di controllarsi e dunque vivrebbe in balia di una forza che non gli permetterebbe di agire correttamente. Lo sforzo di Seneca è per certi versi simile a quello di Aristotele, ma la differenza, dichiarata dallo stesso filosofo romano, è evidente e profonda: le passioni non basta temperarle, ma vanno completamente escisse. Questo perché altrimenti l’uomo si comporterebbe come un semplice animale e non seguirebbe la natura umana, che si riconosce proprio per la sua essenza razionale. Tuttavia Seneca sostiene che gli animali sono privi d’ira. Questa contraddizione, anziché rilevare un’aporia, mostra chiaramente la sua convinzione di considerare l’uomo come un unicum spirituale e divino in contatto con Dio. L’ira sarebbe una passione pericolosa perché desidera una vendetta “destinata a coinvolgere lo stesso vendicatore”75: una specie di follia incapace di distinguere la giustizia dalla violenza. Essa si accompagna alla rabbia, alla collera, alla brama di vendetta, al voler ricambiare il dolore con il dolore. L’ira è il desiderio di punire. Pertanto è una reazione rispetto ad un torto o ad un errore subito; è quindi una risposta che si collega al sentimento di giustizia (diritto). Chi ha subito un torto vuole ripristinare un diritto: “l’ira è la brama di vendicare un’offesa”76. Ricordiamoci che in latino la vendetta si dice anche ultio, che significa piaga, ferita, un’offesa fisica. Tuttavia per Seneca la vendetta non deve essere accompagnata dall’ira, ma dalla ragione, sotto la guida della quale essa interviene senza la passione, freddamente, calcolando solo i pro e i contro in vista di una giustizia più neutra e oggettiva. Dove c’è passione non c’è ragione, dove c’è ira e vendetta non c’è giustizia, e vicever- 75 76 Libro I, 1. Libro I, 3. 32 PARTE PRIMA sa; questa in definitiva la posizione di Seneca: “le passioni sono funeste”77. Esse non si possono controllare, allora vanno eliminate in vista di un comportamento razionale. Solo la ragione condurrebbe alla giustizia. Questa tesi, di derivazione stoica, costituirà la base del pensiero e della cultura cristiana per i millenni seguenti con le conseguenze nefaste di cui parlerò più avanti. Non ci si vuole liberare tanto dalla vendetta, quanto dall’ira: si vuole che la giustizia sia consumata freddamente. Per dimostrare la sua tesi, Seneca afferma che l’ira appartiene spesso ai guerrieri che si fanno trascinare dalla collera contro i nemici. Utilizzando l’esempio della guerra, il filosofo latino confonde tra una passione privata (l’ira) e un comportamento pubblico (la guerra). In effetti, in questo caso, Seneca non utilizza il termine ultio o poena, bensì vindicta, che allude ad un riferimento giuridico. Infatti, la vindicta, come si è visto, indicava anche il bastone simbolicamente utilizzato nella cerimonia giuridica romana, con cui davanti al magistrato il creditore toccava il debitore, chiedendogli di saldare il debito. È facile allora, per Seneca, dimostrare che in guerra l’ira è controproducente, perché, per affrontare il nemico, occorre la freddezza necessaria per valutare tatticamente le azioni. Ma ciò succede frequentemente perché il nemico che si combatte è un estraneo, a meno che non attenti alle nostre dimore. In quest’ultimo caso lo sforzo teso alla difesa si raddoppia proprio grazie all’ira. Così accade a Ulisse che la controlla a lungo, ma poi la fa esplodere rabbiosamente contro i Proci. Ciò non dimostra che l’ira è volontaria, come suppone Seneca, ma semplicemente che si può governare. Ulisse è spinto dall’ira suscitata per avere subito un’ingiustizia, ma la imbriglia con l’astuzia altrimenti sarebbe potuto soccombere. Se fosse stata sufficiente la for77 Libro I, 9. ELOGIO DELL’IRA 33 za, l’avrebbe utilizzata immediatamente. Correttamente per Aristotele l’ira non è espunta dalla ragione ma temperata dalla prudenza. Semmai la vendetta non è lo strumento che si utilizza in guerra, ma ne potrebbe essere la causa, come avviene per la guerra di Troia. Tuttavia raramente nelle guerre già complesse come quelle al tempo di Seneca si va in guerra per vendetta. Invece si può concordare con il filosofo romano quando dice che l’ira si collega al desiderio di vendetta, ma, nel contempo, ne è il suo ostacolo, appunto perché un eccesso d’ira non permette di vendicarsi. L’eccesso di passione infatti non permette di canalizzare le forze verso un obiettivo prestabilito. Anche un difetto di passione, tuttavia, non permetterebbe mai a nessuno di trovare soddisfazione nella vendetta. La ragione, almeno nella visione senecana, infatti, mirerebbe sempre al perdono. Ma se vi fosse solo il perdono, come auspica Seneca, non ci sarebbe giustizia: infatti, appena subito un torto, perdoneremmo immediatamente. Seneca vorrebbe che si possedesse il senso di giudizio e di obiettività di un giudice. Però il giudice non si arrabbia giacché non è stato toccato personalmente dall’offesa, così come un chirurgo non sente il dolore del paziente e può operarlo, agendo freddamente e razionalmente. Ma un padre, per esempio, non può comportarsi come un buon giudice, né può cadere negli eccessi d’ira, né nella mancanza d’ira, altrimenti il figlio sospetterebbe che il padre non abbia passioni nei suoi confronti, passioni anche positive come l’amore. Si può essere adirati con qualcuno senza necessariamente odiarlo. Anzi, ci si adira più facilmente proprio verso chi si ama, perché i sentimenti si collegano tra di loro. Dunque non è vero come sostiene Seneca che “nessuno si adira con chi si ha in cura”78. 78 Libro I, 15. 34 PARTE PRIMA Si potrebbe sostenere che la ragione come organo legislativo non esiste, ma che rappresenta solo uno strumento regolativo; esistono piuttosto passioni contrastanti che scontrandosi producono una direzione. Ho detto che la ragione del giudice o del medico può essere fredda e obiettiva perché agisce nei confronti di un problema, ma non è coinvolta personalmente contro o verso una persona. Il giudice è dunque sempre un terzo rispetto ai due contendenti, come il medico è il terzo tra il paziente e la sua malattia. Pertanto la loro ragione, almeno in questo caso specifico, è disinteressata, priva letteralmente di inter-esse e di passioni. Seneca afferma che l’ira è un moto volontario dell’animo, ma aggiunge che anche i bambini ne sono affetti. Inoltre l’ira è “uno slancio aggressivo” che però non si dà mai senza “il consenso della mente”. Ma allora i bambini subiscono l’ira o la vogliono? L’ira elude il filtro razionale o è volontaria? Seneca non vuole riconoscere le passioni, come se esse fossero qualcosa di appartenente all’animalità e non all’uomo. Ma quello che Seneca chiama ragione o mente non è altro che l’abitudine del corpo alle reazioni chimiche del corpo stesso. Non si può affermare che l’ira non è una passione e che invece sia un vizio della mente o della ragione perché apparirebbe come un gesto volontario. Seneca confonde volutamente l’ira con la vendetta. Non è infatti l’ira, come ho detto, che è volontaria ma la vendetta. Achille reagisce con rabbia alla notizia della morte di Patroclo, ma organizza successivamente e volontariamente la vendetta. Achille decide di andare verso il campo nemico, ma, nel momento in cui vede Ettore, potrebbe sentire la paura o di nuovo l’ira che monta e ucciderlo. 5. La giustizia come ragione Riprendendo il pensiero stoico, il cristianesimo vorrebbe interrompere il meccanismo vittimario del capro ELOGIO DELL’IRA 35 espiatorio tipico delle culture pagane e primitive le quali non conoscono il messaggio evangelico che consiglia di accettare l’ingiustizia più grande, quella del sacrificio di Dio, perché essa purificherà e giustificherà tutti i mali che siamo costretti a sopportare su questa terra, preparando la giustizia più grande che rende salvi nella fede interrompendo definitivamente il circuito della vendetta. La domanda del salmista nel salmo 73, che si chiede per quale motivo gli empi, i cattivi, i violenti vivano felicemente mentre i buoni, gli onesti e i giusti debbano soffrire e morire presto, trova risposta nell’accettazione e nella giustificazione della fede. La giustizia si trova nella fede. Come sostiene Paolo nella lettera ai Romani, “il giusto vivrà mediante la fede”. Coloro che si pongono fuori della fede scateneranno “l’ira di dio”, “meritano la morte”. “Non fate giustizia da voi stessi, carissimi, ma lasciate fare all’ira divina. Sta, infatti, scritto: “A me la vendetta, sono io che ricambierò, dice il Signore”. La vendetta è un’azione giusta così importante che deve essere lasciata solo a Dio. La legge è degli uomini ma la giustizia è divina. Paolo insiste sulla distinzione tra legge legale e legge del cuore, coscienza, giustizia naturale e divina. L’uomo deve rispettare la legge, obbedire, trattenere l’ira, amare il prossimo e attendere la giustizia divina, attendere “la rivelazione della giustizia di dio indipendentemente dalla legge” (Romani 3-4). La vendetta è ritardata e procrastinata indefinitamente, anzi la vendetta è disinnescata in quanto “tutti sono colpevoli”. Ciò crea secondo Nietzsche il risentimento. Non ricorrendo subito alla vendetta, non esigendo immediatamente giustizia, la coscienza si trasforma, per il filosofo tedesco, in cattiva coscienza. La violenza, anziché liberarsi all’esterno, si interiorizza, ammalando il corpo e l’anima. È la nascita del cristianesimo. Paolo critica esplicitamente i pagani e gli stessi ebrei i quali 36 PARTE PRIMA praticavano sacrifici animali, il capro espiatorio, la circoncisione per ingraziarsi immediatamente gli dei o trovare una riappacificazione all’interno del gruppo. Per Paolo invece vi deve essere “una sospensione della vendetta”79; ma questa sospensione non cancella la violenza e la frustrazione di una giustizia ritardata. Tale comportamento è descritto da Freud nei termini della rimozione. Il rimosso torna ed esplode nella nevrosi e nella psicosi. Insomma il cristianesimo si caratterizza per la sua dimensione “contronaturale”. Si capisce perché al suo annuncio gentile “dell’amore per i nemici, del perdono, della rinuncia alla vendetta” è esploso “con la sua furiosa escatologia… con la cristianizzazione dell’ira di Dio viene istituita, a tutti gli effetti, una banca trascendentale dove deporre impulsi timotici umani rinviati e progetti differiti di vendetta” 80. Abbiamo giù avuto modo di analizzare la concezione della vendetta nel vecchio testamento. Rimane da esaminare come il cristianesimo sviluppa e affronta la questione della violenza e della vendetta. Laddove la violenza (inclusa la vendetta) apparteneva costitutivamente al sociale e agli individui stessi, col cristianesimo la violenza diviene trascendente, e con la morte di Dio in croce (si noti il paradosso rilevato da Nietzsche di un Dio che sacrifica se stesso) Cristo troverebbe la possibilità di riscattare gli uomini dal male. Al posto del capro espiatorio si sostituisce Dio stesso che muore “per” redimere gli uomini. Tuttavia vi è un altro paradosso: non soltanto dio si sacrifica come uomo per gli uomini, ma muore definendosi innocente, e tuttavia pensa di catalizzare su di sé l’intera colpa dell’umanità. Questo messaggio di speranza ovviamente non si realizza, rimane un simbolo, e allora la chiesa ha bisogno di costruire una 79 80 SLOTERDIK, op. cit., 96. Ivi, 119. ELOGIO DELL’IRA 37 ulteriore simbologia, un’incarnazione del male che sembri più reale e tangibile, almeno per chi proveniva dal paganesimo: il diavolo. Quest’ultimo diventa reggitore e suggeritore del male, altrimenti i paradossi rischiano di saltare. Il diavolo è il doppio di Dio, è la sua ombra, il suo alter-ego, ma è pure il doppio di se stesso, colui che non si riconosce, il diviso, ma anche chi divide. Così i primi padri della Chiesa a partire da Tertulliano non negano la violenza, anzi la utilizzano come giustificazione per il potere temporale se connesso al potere divino. “Tertulliano non ebbe nessuno scrupolo nel far sperare alla voluttà della vendetta dei credenti”81. Alla sospensione della vendetta in terra si risponde con uno spettacolo superiore in cielo. Dio vendicherà tutti i torti subiti, giustificando il dolore e la rabbia repressa sulla terra. Cos’è l’inferno se non la rappresentazione della giusta vendetta di Dio? “Tertulliano parla delle ribellioni di Nigro e di Albino e delle vendette che seguirono, ma egli non critica affatto le repressioni di Settimio Severo, bensì vuole dimostrare che a torto i cristiani”82 subirono delle persecuzioni e quindi i loro nemici andavano puniti. Tertulliano, dunque, benché sospenda la vendetta nei confronti degli altri uomini, si richiama alla vendetta di Dio per convincere i pagani a convertirsi83. Sant’Agostino riprende Seneca nel credere che la vendetta sia una passione derivata dall’ira e dalla collera, ergo dalla parte più ferina, diabolica e animale dell’umano. Pertanto si ritiene utile che, come ogni altra passione, essa 81 P. SLOTERDIJK, Ira e tempo, cit., 123. Sul concetto di ira, R. BODEI, Ira. La passione furente, Bologna 2010. 82 C. MINELLI, Le amnistie imperiali nel III secolo, in Amnistia perdono e vendetta nel mondo antico, cit., 142. 83 Sul tema della conversione in Tertulliano si veda J. KRYKWSKI, Il richiamo alla conversione negli scritti di Tertulliano, in “Warzawkie studia teologiczne”, XIV/2001, 81-96. 38 PARTE PRIMA sia completamente tolta e annichilita. Se i Greci ricercavano la misura, e i Romani, la forma sociale e giuridica per esprimersi, nel cristianesimo le passioni devono scomparire e l’uomo vendicativo deve soffocare la sua ira e comportarsi seguendo l’esempio pacificante di Cristo. Con ciò si ha la nascita della coscienza e della pena. Non si punisce per vendetta ma per infliggere una pena che si distingue dalla vendetta perché dovrebbe suscitare il rimorso, il senso di colpa attraverso il quale si è rieducati e si impara ad accettare la giusta punizione. In ciò consiste la conversione: ci si guarda dentro per capire i nostri peccati e poterli così espiare riconoscendoli. La colpa è una vendetta contro di sé. Ci si punisce per un peccato commesso. La pena non è più un affare privato, come nel caso della vendetta, ma un problema istituzionale-religioso. Confessando i peccati, e mitigando le passioni, ci si converte e ci si prepara a vivere nella comunità (ecclesia) dei credenti. “Nella misura in cui i cristiani interiorizzano il divieto d’ira e di vendetta loro imposto, si sviluppa in essi un interesse appassionato per la facoltà dell’ira di Dio”84. S. Agostino cita spesso il passo di Paolo in cui si sostiene che “non c’è autorità se non di Dio”. Cionondimeno tale disinteresse per la giustizia terrena conduce conseguentemente a rimettersi nelle mani dell’istituzione e dell’autorità. Il riferimento all’autorità divina diventa apparentemente indifferenza verso l’autorità temporale, ma nello stesso tempo ci si rimette a lei e si rispetta come autorità in sé. Si crea il paradosso85 per il quale l’obbedienza all’autorità di Dio diventa obbedienza per qualsiasi forma di autorità; a maggior ragione se è l’autorità della chiesa dei cristiani. Si suppone, seguendo un argomento analogico, che la stessa autorità temporale sia P. SLOTERDJK, op. cit., 122. Coglie bene il paradosso, M. VILLEY, La formazione del pensiero giuridico moderno, Milano 1985, 72. 84 85 ELOGIO DELL’IRA 39 stata voluta e discenda dall’autorità divina: “Ognuno sia sottomesso all’autorità perché non c’è autorità se non da Dio”86. L’interiorizzazione della colpa permette all’individuo di vivere nella comunità retta da un potere pastorale di tipo teologico-politico. Questa concezione patriarcalistica dominerà l’Occidente e avrà la meglio sui diritti consuetudinari dei popoli germanici, in particolare Franco e Longobardo. Il loro spirito di vendetta basato sulla legge del taglione, e che spesso poteva innescare delle vere e proprie faide, viene represso e mitigato dal diritto romano canonico, prima trasformandosi in riparazioni in denaro, poi intervenendo con i giudici. Anche in S. Tommaso l’ira, come per Seneca, è un effetto secondario della vendetta. La ragione interviene per debellare l’ira e ricercare la mansuetudine. L’ira è peccaminosa quando va contro l’ordine della ragione87. La vendetta, per Tommaso, riprendendo Cicerone, sarebbe una specie di giustizia commutativa che però trova giustificazione solo se ci si affida al giudice. Quest’ultimo è la figura di un potere patriarcale, simile ad un padre che interviene rettamente per ristabilire l’equità fra figli. Vi è insomma un potere giudiziario autonomo che deriva dalla concezione familistica, patriarcalistica e teologico-politica tipica della cristianità e che imporrà la terzietà all’Occidente. Nella prima fase dell’esperienza cittadina medievale, tra XI e XIII secolo, quando si tratta di crimini di qualche rilievo, la vendetta della vittima, o del suo entourage, è un diritto”88. Il delitto è ancora una riparazione piuttosto che una punizione, perché quest’ultima implica la pena, il dolore, l’effettivo pentimento. Soltanto alla fine del XIII secoPAOLO, Romani, 13, 1-9. TOMMASO, La somma teologica, art. 9. 88 M. SBRICCOLI, Storia del diritto penale e della giustizia. Scritti editi e inediti, (1972-2007), Milano 2009, 4. 86 87 40 PARTE PRIMA lo intervengono i giudici come rappresentanti del governo e non delle vittime. “Si indebolisce il ruolo della mediazione sociale” e la giustizia ora è “diretta in primo luogo alla repressione, è fondata sulla sudditanza, regolata da norme legislative e dottrinali, amministrata da apparati e formalizzata”89. La giustizia diventa un mezzo per dissuadere, per convincere, per governare, per addestrare gli individui a seguire certi comportamenti, a fidarsi del potere centrale, che diverrà sempre più burocratico e centralizzato. Si assiste ad una crescente razionalizzazione. Tutto ciò non condurrà a seccare “d’un colpo le radici della vendetta”90. Essa perdurerà ancora a lungo e si manterrà in parte nascosta, ma pronta carsicamente a riemergere. La lotta tra l’imperatore, che intende centralizzare il potere e affermare il (suo) diritto, e gli altri principi, sconfitti o assoggettati, continua nel tentativo di annettere più territori possibile, in nome di una pretesa giustizia. Ancora Nel XV secolo, dove i confini statuali europei non erano stati definiti, i principi potevano dichiarare la faida contro l’imperatore se questi non manteneva le proprie promesse. Il diritto di faida era una lotta, ma una lotta dettata da regole precise e da patti e riconoscimenti giuridici. Insomma, per dirla con Schmitt, si era all’interno di un agire politico secondo lo schema amico-nemico. Tuttavia “i sovrani avevano tutto l’interesse a limitare il più possibile, entro il loro territorio, la faida, e si preoccuparono per secoli, impegnando il loro prestigio e la loro forza, o di comporre amichevolmente le controversie giuridiche mercé la loro mediazione, ovvero di costringere a seguire la strada del tribunale invece di 89 Ivi, p. 9. Sulla vendetta in Italia nel periodo rinascimentale si veda, M. GENTILE, La vendetta di sangue come rituale, in, La morte e i suoi riti in Italia tra Medioevo e prima Età moderna, a cura di Francesco Salvestrini, Gian Maria Varanini, Anna Zangarini, Firenze 2007, 209-241. 90 M. SBRICCOLI, op. cit., 12. ELOGIO DELL’IRA 41 quella della faida, surrogando alla vendetta espiazione e penitenza”91. In questo erano aiutati dalla chiesa, la quale aveva tutto l’interesse affinché le faide cessassero e potesse esercitare il potere spirituale sulla vita dei sudditi. A poco a poco le faide si assottigliarono restringendosi solo alla “vendetta di sangue e questa venne sostituita dalla giurisdizione criminale”. Tuttavia essa non scomparve completamente. Legata come era all’onore, essa sopravvisse a lungo, soprattutto tra i ceti aristocratici, nel duello. La vendetta non sarebbe mai stata un affare privato, un diritto privato, perché ogni azione, soprattutto di piccoli principi, possidenti, signori, era diretta a ripristinare eventuali torti di fronte alla comunità interna ed esterna. La faida stessa era tesa a difendere il proprio onore rispetto alla percezione di un torto subito92. E del resto questi torti non erano prodotti di sensibilità private e incommensurabili ma traevano linfa vitale dalla cultura del popolo. “Mentre per l’ordinamento giuridico medievale il diritto all’autodifesa insito nella faida e nel diritto di resistenza è un buon diritto, la giustizia e la polizia dello stato moderno hanno eliminato proprio questa forma di autodifesa e l’hanno convertita in figure giuridiche di crimine come l’alto tradimento”93. 6. La rimozione della vendetta Oggi si parla spesso di secolarizzazione, ma, come si è 91 O. BRUNNER, Terra e potere. Strutture pre-statuali e pre-moderne nella storia costituzionale dell’Austria medievale, Milano 1983, 25. 92 Paradigmatico, sotto questo profilo, è il racconto di H. VON KLEIST, Mchael Kohlaas, Milano 1952, in cui il protagonista, un uomo giusto e probo, che vive nel sedicesimo secolo, riceve una palese ingiustizia dal barone von Tronka. La sua sete di giustizia lo condurrà a vendicarsi non prima di aver cercato tutte le possibili procedure della legge e del diritto. 93 C. SCHMITT, Il nomos della terra, cit., 137. 42 PARTE PRIMA potuto accennare, in realtà ancora all’inizio della modernità i nuovi Stati usciti dalla lunga guerra millenaria tra principati, città, regni formatisi dopo la caduta dell’impero romano, si impongono in una forma che è ancora tutta teologico-politica. I regni si riconoscevano fra loro ponendo fine alle guerre prima territoriali poi religiose, e si impongono legittimamente impossessandosi del diritto divino. La vendetta è incorporata dal sovrano a cui solo spetta solo l’obbligo della giustizia. Se Paolo auspicava che la vendetta spettasse solo a Dio, ora i sovrani, sorta di dio in terra, provano ad esercitarla. Il nuovo Leviatano di Hobbes regge entrambi i simboli del potere. La sacralizzazione del potere non era certamente un fattore nuovo, anzi probabilmente concludeva un periodo in cui questo sforzo era già presente a livello locale94. Tuttavia trova la sua massima espressione tra XIV e XVII secolo. L’annotazione di Schmitt, per il quale nella modernità con la Riforma si escludono i teologi dalla trattazione giuridica di guerra giusta o ingiusta, non dimostra la secolarizzazione avviata da Alberico Gentile ma il suo contrario, e cioè che il sovrano (o i suoi giuristi) era esso stesso in grado di distinguere il senso teologico della guerra. La storia dei re in Europa, a partire da Carlo Magno e Ottone I, è la storia del continuo tentativo di impossessarsi del potere spirituale a scapito della chiesa: “E’ in quanto giudice, in quanto arbitro, in quanto si fa appello a lui per comporre litigi o in quanto lui stesso fa appello a cause da risolvere, che il re stabilisce il suo potere al di sopra del potere feudale o negli interstizi del potere feudale”95. La legge dei re e degli imperatori interverrà poi con 94 E. H. KANTOROWICZ, I due corpi del re. L’idea di regalità nella teologia politica medievale, Torino 1989. 95 M. FOUCAULT, Mal fare, dir vero. Funzione della confessione della giustizia, Torino 2013, 194. ELOGIO DELL’IRA 43 magnanimità, ma anche con inflessibilità, per non permettere la vendetta privata, che minaccerebbe il loro potere. Tuttavia essi non ricercano la giustizia ma l’obbedienza. E già accompagnare il termine vendetta con l’aggettivo privata, era il tentativo di inficiare ogni comportamento che non fosse giustificabile agli occhi del sovrano. Ormai il potere centralizzato tenderà a secolarizzarsi, e il potere giudiziario passerà sempre di più nelle mani di quel re che abbia avuto la forza per imporre obbedienza. Per imporre l’obbedienza era necessario, dopo aver conquistato selvaggiamente i territori, legittimare la presenza del re e del suo entourage su quella terra. La legittimazione poteva avvenire per patto di sangue con alleanze e matrimoni. Oppure poteva avvenire sacralizzando il potere stesso come se il re avesse una legittimazione divina. Già nel XIII secolo i Re francesi96 e inglesi erano considerati dei guaritori. Successivamente, l’ampiezza e la forza di un regno comportavano eo ipso il riconoscimento di una sovranità assoluta fondata sul potere divino. Ricordiamo, infatti, che l’idea stessa di sovranità assoluta, che potrebbe sembrare una concezione arcaica, è promossa invece proprio a partire dalla modernità con il consolidamento degli Stati moderni. Ora il re di questo tipo di Stato moderno non può più tollerare i crimini; detto in termini più espliciti, non può più tollerare che si agisca contro di lui e contro la sua volontà. Inoltre, non è sufficiente la forza per ben governare. Occorrerà dotarsi di una verità essenziale a cui i cittadini debbano credere. Egli non solo avrà bisogno di un apparato militare ma, per prevenire i crimini, dovrà costituire un corpo che li prevenga e una verità che li misuri. Si svilupperà un vero e proprio apparato di polizia che indagherà sui cittadini, li 96 M. BLOCH, I re taumaturghi, Torino 2005. 44 PARTE PRIMA classificherà, ne misurerà la pericolosità, vorrà conoscere la loro vita nei più piccoli dettagli, dove abitano, se lavorano, ecc. La verità teologica si affiderà al diritto, disciplina che trasformerà i precetti religiosi in verità temporali. Il diritto diventa ipertrofico97 sviluppando sempre di più leggi e regole che tendono a disciplinare98 l’individuo. La distanza dai sudditi permetterà ancora a lungo che la vendetta privata regoli i rapporti giuridici, benché diventi sempre di più negletta e permanga solo come consuetudine, osteggiata dal potere che rivendica il diritto di amministrare la giustizia e di punire99. Inoltre per prevenire i crimini occorrerà addestrare gli individui, studiarli, analizzarli sviluppando una forma di prevenzione attraverso il segreto, il sospetto, la delazione100. La funzione della vendetta è assorbita ormai dal sovrano che la detiene in modo assoluto. Un’offesa al cittadino è ora un’offesa al sovrano. Egli è riuscito a conquistare interi territori e cui chiede obbedienza. I sudditi stimano la sua personalità più di qualunque principe o signorotto. È preferibile un re lontano anche se assoluto, che un signore vicino anche se non troppo potente. L’assoggettamento è totale, la polizia e l’esercito sono a sua completa disposizione. Si forma un apparato burocratico, una macchina statuale che funziona da norma regolatrice. Gli stessi giuristi e filosofi celebrano la fine delle faide, come se la cessazione del conflitto e la dichiarazione di un re po- SBRICCOLI, op. cit., 40. M. FOUCAULT, Sorvegliare e punire, Torino 1977. 99 Di questa “stanchezza” della vendetta si fa interprete William Shakespeare, almeno, secondo la suggestiva interpretazione di René Girard, Shakespeare. Il teatro dell’invidia, Milano 1998, per il quale nell’Amleto in realtà non vi è al centro il tema della vendetta, semmai, “ciò di cui si vuole trattare è la noia della vendetta,” (435) l’eclissi della vendetta, della quale si sta perdendo la convinzione che essa sia una reale forma di giustizia, apparendo invece una contraddizione logica e dunque un’aporia della ragione. 100 Si veda I. MEREU, Storia dell’intolleranza in Europa, Milano 1988. 97 98 ELOGIO DELL’IRA 45 tente e accentratore fosse l’inizio della pace. Nel libro più celebre di Grozio, Il diritto della guerra e della pace, si osserva il passaggio dal diritto privato al diritto pubblico. La vendetta personale è accettata nei limiti dell’autodifesa personale o nella mancanza di un’autorità legittima. Invece in Hobbes si compie il passaggio completo dall’individuo privato che perde interamente il suo diritto e lo aliena in favore del monarca. Pertanto le “vendette private non possono essere propriamente definite come punizioni, poiché non procedono dall’autorità pubblica”101. A questo tipo di patto razionalizzato, paradossale, nella misura in cui si era realisticamente riconosciuta l’antropogenesi umana, il cui fine è la sicurezza ma la cui causa è la paura, Locke si spinge ancora più avanti nella rimozione delle passioni. In lui “la giustizia è l’osservanza dei contratti”102. Ciò che si può presumere fondi il contratto, non è che un’ipotetica uguaglianza naturale che consenta a uomini definiti per principio liberi di decidere responsabilmente. La vendetta, che in Hobbes era ancora riconoscibile, con Locke diventa superflua. Essa è considerata un retaggio appartenente ai briganti e ai banditi esclusi da ogni sentimento di giustizia: “Chi oserebbe concludere che questa gente, che vive soltanto di frode e di rapina, abbia dei principi innati di verità e di giustizia ai quali essi diano il loro assenso?”103 La vendetta appartiene ormai ad un mondo ferino, incivile, fuori dalla storia ma anche fuori dalla legge di natura e della ragione, legge che vuole invece un governo stabilito da Dio che reprima “la parzialità e la violenza degli uomini”104. Il potere, nei termini di Weber e Freud, si è ormai razionalizzato: potere e ragione diventano sinonimi, e tutT. HOBBES, Il Leviatano, Roma 1998, cap. 28, 255. J. LOCKE, Saggio sull’intelligenza umana, Roma 1994, 49. 103 Ibidem. 104 J. LOCKE, Due trattati del governo, I Tomo, Torino 1982, 232. 101 102 46 PARTE PRIMA to ciò che appartiene alla natura del corpo è rimosso e definitivamente espulso, a partire dal diritto di sopravvivenza. La giustizia diventa tutela della proprietà. Rousseau storicizza per così dire il ragionamento lockeano e ci racconta come gli uomini abbiano attraversato delle epoche psicoantropologiche. La vendetta sorse quando “nacquero i primi doveri della civiltà anche tra i selvaggi; e quindi ogni torto volontario diventò un oltraggio, perché col male risultante dall’ingiuria, l’offeso vedeva il disprezzo della sua persona, spesso più insopportabile del male stesso. Così, punendo ognuno le attestazioni di disprezzo in modo proporzionato alla stima che faceva di se stesso, le vendette divennero terribili, e gli uomini sanguinari e crudeli”105. Fu l’inizio della società. Sorse la moralità, che sviluppò negli uomini la stima di sé segnando il passaggio da uno stato di infanzia in cui vigeva la pietà e la bontà, ad uno stato di giovinezza in cui vigeva l’amor di sé. La maturità, infine, si collega vichianamente alle leggi e al diritto. Per Rousseau la vendetta è ormai un fenomeno desueto appartenente al passato storico e al passato psicologico. Essa è un sentimento infantile, irrazionale che travalica ed eccede la misura e la ragione e si radica in emozioni narcisistiche, fanciullesche. Kant condurrà a termine l’espulsione della vendetta dal diritto rafforzando l’idea di razionalità cartesiana, dotandola di uno statuto logico-formale e privandola completamente del suo radicamento all’emotività, all’esperienza. L’individuo maturo sarebbe totalmente responsabile della sua azione, perfettamente in grado di discernere il bene dal male. In tal senso l’azione delittuosa, quando accade, è essa stessa spinta da una volontà razionale e non emotiva. Insomma il reo poté ciò che volle. Da questo pun- J. J. ROUSSEAU, Discorso sull’origine della disuguaglianza, in Opere, (a cura di P. Rossi), Firenze 1972, 63. 105 ELOGIO DELL’IRA 47 to di vista Kant è consequenziale: il reo, conscio della sua azione nefasta, una volta scoperto, non è giustificabile e non può che pagare con una pena di tipo retributivo senza alcuna attenuante. Come per Cartesio106, ugualmente per Kant il desiderio di vendetta appartiene alle anime deboli, ai folli, che non sono in grado di giudicare serenamente e si assoggettano agli eccessi. La vendetta spetta ora solo allo Stato il cui trionfo sarà innalzato a giustizia assoluta e divina da Hegel. Esso si eleva come arbitro neutrale e universale, garante legalmente e legittimamente del meccanismo giuridico. Il passaggio dall’individuo allo Stato si è ormai realizzato. Da ora in poi la storia del diritto è la storia dello Stato. La giustizia del giudice, della terzietà, in un certo punto della storia occidentale, si afferma probabilmente perché i re e i principi temevano il disordine, la sedizione e la rivolta. Perciò il giudice, che è un terzo relativamente a due contendenti, non lo è mai rispetto al potere, anzi è in definitiva un organo di potere. 7. Il ritorno della violenza Se la vendetta, nella forma della violenza, non trova sfogo, si ripiega su se stessa, e abbiamo il risentimento. Il ri-sentito è colui che non è riuscito nel corso della sua vita a reagire, e, minacciato dalla sua paura, ha creduto che la colpa di tutte le esperienze negative e dolorose fosse sua. Il risentito ha rivolto l’ira contro se stesso. Il risentito è un sensibilizzato al fenomeno della paura, ma tutto gli fa paura. Il crudele, invece, ha rimosso le sue paure, non le riconosce e allora le fa vivere all’altro come in uno specchio. Il crudele gode della paura altrui per non riconoscere la propria. Se il risentito è un masochista, il crudele è un 106 CARTESIO, Le passioni dell’anima, Milano 2003, 419, art. CCII. 48 PARTE PRIMA sadico. E tuttavia l’abitudine al dolore ha condotto il risentito e il crudele ad esercitare una violenza senza ira, cioè in definitiva una violenza senza giustizia. Tuttavia, l’addestramento millenario del cristianesimo – attraverso le tecniche del sé, di ascesi, penitenza, confessione, – non è riuscito a domare completamente le passioni. L’uomo, insomma, possiede l’ira, e diventa impossibile estirparla: e se non debitamente manifestata, si crea il risentimento. Abbiamo visto che il cristianesimo ha concesso tutta l’ira (la vendetta, la giustizia) a Dio. Il cristianesimo non si libera dell’ira (dal mio punto di vista, come ho provato a mostrare, non ci si può liberare da una passione), ma la accumula sempre di più. Anzi, come rileva Nietzsche, il cristianesimo è attraversato da un colossale istinto di vendetta che però, non colpendo gli uomini e sperando nella giustizia divina, blocca le passioni e avvelena l’uomo stesso, intossicandolo. Anziché maledire il proprio Dio – o lo Stato confessionale – che lo ha condannato al Male, il cristiano risponde che la sua sofferenza è la conseguenza di una colpa commessa, e così si autopunisce, nella speranza di ripagare il debito nei confronti di Dio e raggiungere la felicità eterna. Nietzsche nella Genealogia della morale approfondisce le relazioni esistenti, nella nostra cultura, tra debitore-creditore, torto-diritto, uomo-Dio. Nell’ordine: morale, giustizia, religione. Il senso della giustizia nasce da questo: che tutto debba essere ripagato. Secondo Nietzsche il sentimento di giustizia è stato avviato “dal rapporto contrattuale tra debitore e creditore che è tanto antico quanto l’esistenza di soggetti di diritto”107. Attendendo la giustizia finale e ritardando la richiesta di giustizia, l’ira però si è ripiegata lentamente nel soggetto, producendo una violenza particolare, individualizzata, parcellizzata, ancora più 107 NIETZSCHE, F., Genealogia della morale. Milano 1994, 51. ELOGIO DELL’IRA 49 grave di quella immediata e naturale. A me pare che l’ira sia più una reazione – istintiva, pulsionale interna all’organismo – rispetto ad un avvenimento esterno. Pertanto, solo in seconda istanza ci può essere la consapevolezza di doversi vendicare del torto subito. La vendetta è un fenomeno secondario dell’ira: è una reazione, una rivincita. Si ha dunque un’azione esterna che colpisce i nostri sensi e provoca una reazione fisica data da un eccesso di adrenalina (ira), come nel caso della paura, e si accompagna a un meccanismo di reazione: desiderio di vendetta o di fuga. È probabile che l’ira sia associata alla paura o ne sia una conseguenza. Immaginiamo qualcuno che passeggi nel buio e improvvisamente sia assalito. Si innescherà nell’organismo un forte sentimento di paura. Immediatamente però, in base al riconoscimento dell’oggetto, potremmo scegliere di canalizzare tutta questa energia verso l’oggetto stesso, reagendo all’attacco con aggressività e violenza o decidendo di fuggire. La vendetta (non l’ira) è pertanto un fenomeno consapevole che può accompagnarsi con la volontà. Ulisse, una volta intrappolato e persi molti dei suoi compagni, si vendica volontariamente, controllando la sua rabbia e accecando Polifemo. Un guerriero come Ulisse ha imparato, grazie all’addestramento, a controllare la paura e a reagire con coraggio e con astuzia in vista di un fine (nel caso di Ulisse, la vendetta). Pertanto, l’ira è una passione che può scontrarsi con altre passioni o che può essere controllata dall’abitudine e dalla ragione per ripristinare un torto subito (vendetta o giustizia). La vendetta, effetto primario dell’ira, di per sé vorrebbe soddisfarsi subito. Ma spesso il nemico è già fuggito; ha attaccato vigliaccamente e si è allontanato. Allora la volontà (mossa dal ricordo di un dolore subito) mantiene viva la memoria dell’ingiustizia, e la vendetta può soddisfarsi se ritrova il soggetto offendente. La vendetta è una 50 PARTE PRIMA reazione ad un’offesa o ad un torto subito. Su tale reazione si basa il senso di giustizia. La giustizia è nata dal desiderio di vendetta, altrimenti non si darebbe in nessuna cultura. Semmai, il problema maggiore, che si ponevano le culture antiche e primitive, non era la vendetta ma “l’escalation della vendetta”108. Vi è un senso naturale di giustizia, che è in primo luogo desiderio di vendetta. Per questa ragione le tribù primitive e le civiltà antiche hanno sviluppato soprattutto una sorta di diritto penale. 8. La vendetta della vittima Abbiamo visto che in definitiva la giustizia non è altro che la reazione vendicativa misurata all’offesa ricevuta. La vendetta, proprio perché sorge da una passione, tende a debordare e a essere smisurata (hybris). La reazione vendicativa esige sempre di valutare il dovuto più del ricevuto. Anche questo però non è privo di giustizia, perché chi ha danneggiato, lo ha fatto ingannando, cogliendo alla sprovvista e lasciando in uno stato di agitazione e di angoscia che perdura nel tempo, che la vittima subisce e non ha voluto. Chi si vendica di un torto subito, dovrebbe essere ripagato con gli interessi. Non sempre si può essere magnanimi come Ulisse, che acceca Polifemo, avendo perso gli amici ed essendo costretto per lunghi giorni a vivere nella paura di essere divorato. La nostra cultura occidentale ci ha convinti che siamo liberi di scegliere. Avendo il libero arbitrio, possiamo scegliere il bene o il male. Ci dice che si può giudicare una persona per la sua colpa a condizione che sia libera e consapevole. Così, il delinquente opererebbe consapevolmente, R. GIRARD, La violenza e il sacro, Milano 2000, 46. Sul rapporto tra Nietzsche e Girard rimando al mio, Epigoni di Nietzsche. Sei modelli del Novecento, Firenze 2009. 108 ELOGIO DELL’IRA 51 scientemente, perché avrebbe scelto il male anziché il bene, e il giudice, braccio secolare della giustizia divina, deciderebbe di giudicarlo non tanto per l’azione nefasta, infliggendogli una pena, ma per la sua colpa interiore: quella di avere scelto erroneamente il male. Da un lato un’idea di giustizia divina priva gli individui della legittimità della giustizia terrena, dall’altro tale idea sacralizza il giudice e lo rende unico rappresentante del diritto: idolatria e feticismo del potere. La violenza divina sacralizza la giustizia terrena incarnandosi nella legge, la quale prima di tutto giudica le intenzioni. Eppure, un atto violento come per esempio l’omicidio, è da sempre considerato, anche dalla giustizia mitica dell’uomo primitivo, reprobo, perché offende, oltre a Dio, il sentimento d’amore dei familiari e della comunità cui appartiene la vittima. A tale visione cristiana si è opposta (apparentemente) la visione positivistica e marxista di derivazione illuministica, per la quale gli individui non sono mai liberi di scegliere, sono condizionati da eventi esterni o da tare biologiche; perciò, concludono i positivisti, i criminali non sono pienamente consapevoli del loro agire. Pertanto, si deduce ancora, non si possono condannare, ma tutt’al più curare. Di fronte all’occorrenza di un’azione malvagia se ne conclude o che siano malati di mente, e vanno guariti con medicine o terapie psichiatriche109, o abbiano avuto un’infanzia difficile e quindi rieducati. Il pensiero moderno non sembra in grado di uscire da queste due concezioni criminologiche. Sia i cristiani sia gli scienziati positivisti (la cui mentalità discende essa stessa dal pensiero cristiano) pensano che una pena vada comminata solo in base alla natura della causa; quindi, che 109 Si veda M. FOUCAULT, Il potere psichiatrico, Milano 2004. 52 PARTE PRIMA sia compito della società rieducare il reo. Siamo di fronte ad una vera e propria concezione cristiana della metanoia, secondo la quale si deve modificare e migliorare la personalità dell’individuo considerato deviante. L’atto di amore insito nel perdono è in primo luogo un atto di procrastinazione. In entrambe le concezioni si tende a perdonare. Nel primo caso perché sarà la giustizia divina, in ultima analisi, a vendicare, nel secondo, perché attraverso la giustificazione vi sarà anche assoluzione. Ma dalla eventuale constatazione che ci possa essere una coscienza in grado di scegliere, non discende necessariamente che si possa rieducare. Che cosa si rieduca, infatti, se il reo ha deciso consapevolmente di delinquere? Così, dalla posizione opposta che un individuo possa essere considerato non libero ma determinato dagli eventi esterni o da eventi patogeni interni, non discende necessariamente che si possa rieducarlo o addirittura che non si possa infliggergli una pena. Infatti, come si fa a rieducare un individuo che è stato condizionato pesantemente da eventi traumatici nel corso della sua vita? Inoltre, che cosa ha a che fare il libero arbitrio con il sentimento di giustizia? Perché la giustizia dovrebbe intervenire in base ad un presunto richiamo alla libertà individuale? Nella visione cristiana, cattolica e protestante, secolarizzata da Kant, la libertà coincide con la legge e con la volontà del soggetto: in una parola con la sua coscienza. Si crede al libero arbitrio per potere giudicare l’individuo, indicare la responsabilità del soggetto. Si costruisce sopra ai suoi appetiti un’idea di coscienza per poterlo addomesticare meglio, ma, come sottolinea ancora una volta Nietzsche, tale coscienza si trasforma lentamente in “cattiva coscienza”, dato che ritardare indefinitamente l’appagamento della ‘sete’ di giustizia alla fine dei giorni conduce subito al risentimento. ELOGIO DELL’IRA 53 Ritengo, invece, che il problema della libertà (inteso cristianamente) sia uno pseudo problema: che l’individuo non abbia una coscienza morale, non sia in grado cioè di decidere tra il bene e il male; sia determinato dagli eventi, condizionato dall’ambiente sociale, spinto dalla sua corporeità geneticamente inscritta. Possiamo pensare che questo individuo non sia rieducabile; tuttavia deve essere giudicato e punito. Innanzitutto perché il gruppo sociale interviene sull’azione e non sull’intenzione. La punizione potrebbe servire come deterrente contro coloro che volessero delinquere. In secondo luogo la punizione soddisfa principalmente la vittima e la sua onorabilità e serve come rinforzo positivo nei confronti degli innocenti. In terzo luogo, se il colpevole, ipoteticamente, avesse una coscienza, accetterebbe di buon grado di essere punito riconoscendo il male (come sostiene coerentemente Hegel). Infine, anche se il colpevole non avesse una coscienza, la punizione non servirebbe tanto alla società per emendare il suo senso di colpa, quanto a difenderla e garantire la sicurezza e la pace sociale. Nei due casi – sia che il colpevole abbia il libero arbitrio, sia che sia stato condizionato dalla società in cui vive – difficilmente la rieducazione avrebbe effetto, perché, se ha scelto il male, lo sceglierà di nuovo, mentre se è stato condizionato dalla società e dagli eventi, occorrerebbe resettare la sua esperienza e cambiare la società. Il tentativo di rieducazione (che fallisce quasi sempre) serve solo alla società per autodefinirsi ‘buona’ e per colpevolizzare ancora di più il criminale. Certamente le opportunità si possono dare soprattutto a coloro i quali devono essere reinseriti. Non per ideologia o teoria filosofica ma per sano pragmatismo. È chiaro che una volta scontata la pena, il reo deve pur sopravvivere e che occorra aiutarlo a trovare un lavoro e una collocazione sociale. Lasciarlo 54 PARTE PRIMA libero con la speranza di averlo rieducato è un’azione ingenua, pericolosa e anche ingiusta. È ovvio infatti che il colpevole, una volta scontata la sua pena, sia immesso nella società con la speranza che non commetta più un crimine, ma, non avendo possibilità di sopravvivere, torna spesso a compiere un reato. Se il reo ha una fonte di guadagno sicura forse è conveniente per lui lavorare piuttosto che essere un criminale professionista. Ma sperare che la sua coscienza abbia imparato la lezione e che possa essere rieducato con una vita condotta in carcere è mera ideologia cristiana. Il giudice pertanto non dovrebbe giudicare in base ai criteri di responsabilità, coscienza, libero arbitrio, ma valutare per ristabilire il dovuto alla vittima. Si è inconsapevolmente consolidata l’idea che la vittima in quanto vittima sia debole. Questo presuppone una logica evoluzionistica: si simpatizza per il colpevole che per natura appare superiore alla vittima. Tuttavia non dobbiamo dimenticare che ciò accade perché non si permette alla vittima di potersi vendicare e di avere la rivincita. Il giudice quindi deve tener presente l’atteggiamento della vittima e dei suoi familiari che concedono al giudice l’opportunità di ristabilire la giustizia. Il giudice non è tenuto pertanto a utilizzare una schiera di scienziati, preti o stregoni per capire la personalità del colpevole, il suo stato d’animo in quel momento, se sia pazzo o abbia personalità disturbata, ma semplicemente misurare il danno procurato e con-dannarlo, cioè restituirgli lo stesso danno. Certamente ci possono essere attenuanti o aggravanti, ma non si può decidere sulla personalità del colpevole. Il giudice non è uno psicologo e non deve essere sostituito da psicologi. Né svolge il ruolo del prete: deve solo riparare a un errore. La volontà tuttavia non presuppone la responsabilità o la coscienza. Chi decide volontariamente di violentare una donna, non è libero, perché è stato spinto da una forte passione sessuale; ELOGIO DELL’IRA 55 non si sente in colpa, perché considera le donne inferiori; non è responsabile, perché vive in una società maschilista, misogina e pornografica. Per tutte queste cause, se il giudice decidesse sulla base della (non) coscienza del reo, dovrebbe ammettere che il gesto è stato volontario ma non libero e dovrebbe assolverlo. Al contempo, se credesse che il violentatore ha invece una coscienza libera potrebbe condannarlo ma non rieducarlo. Che cosa rieduca, infatti, se lo stupratore ha scelto di delinquere? In ogni caso la rieducazione fallirebbe, sia che la sua personalità è stata strutturata in un certo modo dall’ambiente, sia che abbia potuto scegliere liberamente. Allora a che serve il giudice? Il bisogno del giudice risponde in realtà non ad un’esigenza di neutrale obiettività e terzietà di ascendenza divina per correggere il colpevole reinserendolo nella norma, ma per soddisfare il naturale senso di rivincita, di giustizia e di vendetta della vittima che vuole la sua riparazione. Se non si consente di vendicarsi, almeno si punisca. Il giudice poi non abita fuori dalla società, e anche lui vivrà in una società maschilista, e forse lui stesso troverebbe molte attenuanti nel colpevole. Ma si deve guardare all’azione erronea e si deve guardarla dal punto di vista della vittima. Come qui abbiamo tentato di mostrare, alcune teorie sospettano che il giudice sia nato storicamente per difendere il potere e per normalizzare i comportamenti delle persone, in modo da renderle favorevoli e consensuali al potere stesso. Questo sospetto si rafforza se il giudice non giudica dal punto di vista della vittima ma dal punto di vista del colpevole occupandosi della sua personalità. Egli vuole che confessi la sua colpa, che la riconosca, per punirlo meglio. Non si vuole condannarlo, ma convincerlo o guarirlo. Si vuole salvare la sua anima. Ma cosa ha a che fare un giudizio con la personalità di un imputato? Si deve giudicare la sua azione e non la sua vita. Cristianamente si presume che l’errore sorga 56 PARTE PRIMA da una personalità non giusta, cioè non morale. Con questo si tenta di raddrizzare un torto volendo normalizzare. Si pone il problema su un piano etico-morale quando non è che un problema di risarcimento e di riparazione. Si crede a torto che il senso di giustizia sia una prerogativa esclusiva della nostra cultura, mentre le altre culture avrebbero sviluppato solo un senso animale di vendetta. In realtà il sentimento di giustizia è sentimento naturale che pretende un immediato risarcimento del danno subito. Il cristianesimo invece ha sublimato l’idea di giustizia trasformandola in un feticcio. Vi è una moralità nel sentimento di giustizia, posto che per moralità si intendano i costumi, la tradizione, la cultura. Il giudice interviene per interrompere il circuito vendicatorio, non grazie all’avvento del cristianesimo, come presume Girard, ma per convenienza, e a patto di risarcire sufficientemente la vittima, che altrimenti potrebbe vendicarsi da sé. Per tutti è infatti più conveniente, sotto il profilo psico-economico, che intervenga il giudice: lui lavora, la vittima è risarcita senza dover reinvestire energie per combattere e vendicarsi del colpevole, e quest’ultimo incorrerà in sanzioni meno cruente di una vendetta. Tuttavia, se si abbassa troppo la soglia della pena, si rischia la sfiducia nella giustizia, nel sistema penale. La punizione va inflitta non per rieducare, ma per raddrizzare un torto subito. 9. Il tradimento comunitario Di solito il giudice interviene tra due individui, ma un problema si pone quando vi sono reati contro lo Stato, la comunità o l’ambiente. In questo caso non c’è nessuno che potrebbe reclamare la giusta vendetta, se non lo Stato stesso, che è benevolo contro tali trasgressioni anche perché non è stata presentata una denuncia. Se io distruggo un’o- ELOGIO DELL’IRA 57 pera d’arte di un museo, o devasto o incendio una pineta, non trovo nessuno che individualmente richieda i danni. Tuttavia, colpendo un oggetto di particolare interesse storico o naturale, colpisco la società intera: con un’azione riprovevole, danneggio non solo un individuo ma molti individui. Si potrebbe parlare di tradimento. Il traditore, infatti, non colpisce con la sua azione una persona, come si suppone erroneamente in un rapporto affettivo: l’affetto, infatti, non può essere collegato a una promessa (la quale ha natura razionale) che si possa mantenere durevolmente. Di fatto, a prima vista, la vendetta non sembra avere una relazione con il tradimento se per tradimento intendiamo la rottura del rapporto fiduciario con una singola persona. Qui al limite si offende il nostro narcisismo primario e si soffre per l’abbandono. Invece si deve parlare di tradimento quando si tradisce la propria comunità. Il problema non è psicologico, ma antropologico. Non è neanche una credenza nello Stato: non si è firmato nessun accordo, non si deve difendere lo Stato, la patria, la nazione, la comunità religiosa: si deve difendere invece la comunità dal pericolo che un individuo la possa minacciare e minacciandola metta a rischio la mia vita. Da sempre gli individui maschi, che cacciavano, dovevano fidarsi del compagno. Il problema è, appunto, antropologico. “Chi trasgredisce le leggi fondamentali della collettività, perde la pace e la relativa protezione”110. Insomma, vi sarebbe alla base di ogni società un principio morale di lealtà/tradimento111 che permetterebbe la coesione politica dei gruppi. Tuttavia, il tradimento è stato anche necessario per fondare una nuova società, perché esso può simboleggiare la rottura con il passato, l’autono- 110 111 O. BRUNNER, op. cit., 45. J. HAIDT, Menti tribali, Roma 2013, 175. 58 PARTE PRIMA mia e la presa d’atto di un nuovo ordine sociale rispetto alla generazione precedente, ai propri padri o fratelli112. Nell’antichità, chi tradiva, veniva bandito, diventata homo sacer, uccidibile e sacrificabile. Io ho interesse affinché chi costruisce una casa, una strada, lo faccia bene, altrimenti egli mette in pericolo la mia vita. Chi deliberatamente costruisce una casa sulla sabbia o distrugge un’intera foresta, rendendo l’aria irrespirabile, commette il reato più grave perché lo commette contro molti individui e tutti potrebbero vendicarsi contro di lui. Questo è ciò che io chiamo il tradimento. E non consiste tanto nel rompere il patto sociale, o giurare il falso, quanto nel mettere a repentaglio la vita di altri. Non interessano le sue intenzioni, se è un piromane, un malato, un soggetto psicologicamente labile. Ogni azione che danneggia qualcuno è di per sé patologica, perché ha rotto il patto implicito basato sulla fiducia. Un poliziotto che si vende alla mafia, un medico che salta i turni, un politico corrotto sono traditori non rispetto ad una morale o una promessa non mantenuta, ma perché mettono in pericolo la vita degli altri consociati. Il tradimento, da sempre è (e dovrebbe essere) considerato il reato più grave. La parola non rende giustizia alla gravità del danno. L’etimologia del verbo tradire infatti si riferisce forse a mettere i propri amici nelle mani del gruppo avversario. Esso rinvia ad un comportamento infedele rispetto alla propria comunità. Si tradisce la fiducia di qualcuno. Ma il tradimento è ancora di più: è contraffazione; è agire scientemente contro la comunità che invece ti ha nutrito. Il tradimento, come qualsiasi forma di violenza subita, procura spavento, crea un trauma, perché non ci si aspetta dall’amico che lui ci tradisca. La vittima reagisce Sull’importanza del tradimento come atto psicologico costitutivo si veda J. HILLMAN, Puer aeternus, Milano 1999. 112 ELOGIO DELL’IRA 59 con la razionalizzazione del trauma, cercando una giustificazione, un motivo per la quale ha subito un torto. Anche un bambino, abbandonato o percosso, si domanda se la colpa sia sua. Pur di giustificare il tradimento, spesso lo convergiamo su noi stessi. Siamo pronti ad amare i carnefici. Come ci spiega la psicoanalisi, interviene la compensazione, l’angoscia, il sogno che hanno una funzione riparatrice, per riequilibrare la nostra psiche. Ma anche la reazione aggressiva svolge la stessa funzione: attraverso le grida, il pianto, la rabbia, i colpi sul proprio petto o contro gli oggetti si scarica la tensione per l’ingiustizia subita. La vendetta ha una funzione riparatrice rispetto al tradimento. Di fronte alla rabbia l’offeso “ha scelto la fuga in avanti”113 rovesciando sull’altro la propria aggressività. Si spaventa l’altro che ci ha spaventato, come in una sorta di contro imitazione di con-versione. Il sacrificio del colpevole, che diventa a sua volta vittima, risolve una volta per tutte la questione giudiziaria. Il sacrificio placa l’ira degli dei. Il colpevole però, proprio per questa tendenza alla razionalizzazione e alla giustificazione del dolore da parte della vittima, viene santificato. Si fa festa al colpevole, in un cerimoniale che prepara al sacro. 10. La sublime giustizia La giustizia non può essere disinteressata, quello che è disinteressato è la ragione fredda, calcolatrice, o trascendentale, ma non la giustizia: la giustizia è un sentimento 113 C. TÜRCKE, Il sogno di Gesù, Torino 2013, 40. Sulla vendetta come riparazione psicologica del trauma è da vedere anche, F. SIRONI, Violenze collettive. Saggio di psicologia geopolitica clinica, Milano 2007, 122-139. Anche, O. OASI, F. MASSARO, Vendicatività e vendetta. Perché a volte non sappiamo dimenticare, Milano 2004. Sulla riparazione della vittima da un punto di vista giuridico si rimanda a M. BOUCHARD, G. MIEROLO, Offesa e riparazione. Per una giustizia attraverso la mediazione, Milano 2005. 60 PARTE PRIMA (se non fosse un sentimento perché i familiari e gli amici si sentirebbero essi stessi offesi?) che proviene dall’attrito prodotto tra le passioni e la ragione stessa: in termini kantiani, dovrebbe piuttosto appartenere alla critica del giudizio: la giustizia non appartiene alla critica della ragion pratica, come supponeva Kant, semmai, al limite, ha a che fare col sublime. La giustizia è un sentimento grandioso, ma soggettivo e interessato, che nasce da un desiderio piacevole (quando è appagato) o spiacevole. Tale sentimento si lega a un giudizio critico, estetico, perché il soggetto ricerca nella giustizia, una simmetria, un equilibrio perduto. È “un giudizio riflettente” perché “sa cogliere nel particolare l’universale”. Siamo infatti di fronte a casi particolari legati ad eventi quotidiani e “ci vuole del giudizio per valutare giustamente i casi concreti”114. La ricerca della giustizia si dispone così come in una tragedia. Non a caso la maggior parte delle tragedie greche ha al centro dei suoi interessi il problema della giustizia. La giustizia è lo scontro tra il desiderio naturale di vendetta personale e il pensiero razionale. Quest’ultimo ricerca un giudice, un terzo, riconosciuto dal danneggiato e dal reo. L’apparato della giustizia con la sua forza è in grado di giudicare ma anche di bloccare la vendetta dei familiari delle vittime e infine le ritorsioni dei familiari del colpevole. Infatti, i parenti delle vittime tenderebbero a vendicarsi anche su persone innocenti appartenenti alla comunità dell’accusato. Questo può creare una spirale di vendetta: la faida. La faida consiste nell’uccidere chi non è direttamente responsabile delle azioni del reo. Se chi si vendica non può perseguitare il colpevole, allora colpisce indistintamente i suoi familiari. Se non posso ottenere giustizia, posso almeno infliggere un dolore pari al mio. Di qui si potrebbe innescare la spirale vendicatoria. 114 H. GADAMER, Verità e metodo, Milano 1997, 63. ELOGIO DELL’IRA 61 Pertanto il giudice svolge un ruolo attivo e importante, ma non carichiamolo di responsabilità religiose o scientifiche che non possiede. L’idea che la pena possa servire come rieducazione, oltre che per il singolo, per l’intera comunità, è infetta da forme ideologiche. Infatti, la pena non serve come esempio o deterrente per coloro che si comportano rettamente. Non può convincere neanche coloro che si comportano male, sia che essi abbiano liberamente scelto di delinquere, sia che siano costretti dall’ambiente. Infatti, i primi avranno valutato i rischi e avranno scelto in conformità a una loro convinzione; i secondi, spinti da una necessità, non potranno che agire come hanno agito. L’unico deterrente della pena sembrerebbe dato dalla paura di perdere la libertà o di rischiare una punizione esemplare. La paura, infatti, distoglie e convince alcuni a non delinquere, ma coloro che invece delinquono, e si espongono ad una paura maggiore come quella di affrontare una persona per ucciderla, violentarla o derubarla, non possono certamente convincersi a non agire in vista di una paura possibile che potrebbe sopraggiungere nel futuro. I fatti dimostrano che la paura come deterrente non funziona per rieducare e per arginare i fenomeni delinquenziali. Ciò non significa che non si debba punire. Non si punisce in vista di un fine etico, ma semplicemente per riparare (a) un torto. La riparazione non può ripristinare il passato; può tuttavia lenire il dolore della vittima. Diversamente da ciò che crede la cultura occidentale cristiana, la vendetta è un fenomeno naturale e universale, ed è solo a partire da questo che si innesta il sentimento di giustizia. E come tutte le emozioni, non è possibile estirparla se non a rischio della propria salute; occorre invece mediare e temperare le passioni, altrimenti il rischio è la malattia e l’ingiustizia. PARTE SECONDA ORDINE, VENDETTA, PENA Giovanni Cosi ORDINE, VENDETTA, PENA 65 - La vendetta è mia, dice il Signore! - Va bene. Purché faccia presto e io possa godermela. Sam Peckinpah, La ballata di Cable Hogue, 1970 Se provassimo a percorrere a ritroso il film dell’evoluzione che ha prodotto l’attuale diritto penale, all’inizio, nei primi fotogrammi, vedremmo invariabilmente un individuo che in preda all’ira tenta di reagire a un fatto percepito come ingiusto. E che da solo, o con l’intervento del gruppo sociale cui appartiene, cerca di ‘pareggiare i conti’ raddrizzando il torto subito. Se ciò non è possibile nell’immediato, lui stesso o il suo gruppo si attiveranno per applicare quella che per lungo tempo e in ogni luogo è stata l’unica procedura per ‘fare giustizia’: la vendetta. Ancora oggi costituisce una circostanza attenuante comune “l’aver agito in stato d’ira, determinato da un fatto ingiusto altrui”1. Nella prospettiva penale modernorazionale, la previsione normativa serve a modulare, in negativo, la sanzione in funzione della ‘quantità’ di responsabilità personale attribuibile al soggetto dell’azione: di quanto la presunta, piena volontà razionale dell’attore risulterebbe eventualmente diminuita dal verificarsi della circostanza che ha determinato l’innescarsi della reazione ingiustizia-ira. In chiave antropologico-culturale, l’attenuante potrebbe però essere anche letta, in positivo, come Art. 62, comma 2, c. Già Platone riteneva che l’omicidio commesso katà tòn thumòn, cioè per collera, non fosse da ritenersi pienamente volontario (cfr. Leggi, 865b-866c-d-e). 1 66 PARTE SECONDA una sorta di riconoscimento della sopravvivenza ineliminabile dell’ira in quanto nucleo ancestrale e irriducibile di percezione soggettiva della giustizia: la ‘singolarità’ biologica in cui le strutture sociali della giustizia formale si dissolvono, implodendo in quel sentimento individuale di giustizia sostanziale che costituisce il substrato, profondo e ancestrale, del desiderio di ritorsione. 1. Forma e sostanza Quante volte abbiamo visto parenti e amici di vittime criticare duramente sentenze assolutorie o condanne ritenute troppo miti? L’impressione è che la giustizia procedurale, con tutte le sue cautele e le sue garanzie, venga sopportata come se fosse soltanto un intralcio frapposto tra il torto e l’unica ritorsione ritenuta proporzionata: quella della lex talionis. Dubbi e formalità poste a tutela del ‘presunto innocente’ sono percepiti solo come ostacoli alla soddisfazione della ritorsione, frustrata dall’attesa. Quante volte abbiamo visto folle acclamanti e incitanti in occasione dell’esecuzione di condanne capitali? Folle che, se solo avessero potuto, avrebbero probabilmente proceduto senz’altro al linciaggio, la forma estrema di sanzione sociale in luogo di quella giuridica. Sono tutte situazioni in cui il termine ‘giustizia’ significa in realtà ‘vendetta’. D’altronde il moderno proceduralismo formalista, corredato di “verità processuale”2 e di “presunzione d’in2 La verità processuale moderna è un molto particolare (e debole) tipo di verità. In realtà il vero prodotto del processo, la sentenza, non è altro che una decisione corredata della forza necessaria a renderla esecutiva. Come ogni decisione, può essere errata: ed ecco allora i gradi del giudizio, le possibilità di revisione. I quali però, per evitare un processo in infinitum, devono necessariamente – e convenzionalmente – arrestarsi nella cosa giudicata, oggetto peculiarmente giuridico che testimonia della debolezza epistemologica insita nello strumento d’indagine. Non esistono infatti ‘cose giudicate’ in matema- ORDINE, VENDETTA, PENA 67 nocenza”3, è soltanto una sorta di placcatura recente applicata alla superficie di un ben più radicato e risalente nucleo di giustizia sostanzialista. In una società antica, o tradizionale, ancora priva della separazione ‘tecnica’ tra normatività morale e normatività giuridica4, l’ethos unitario violato chiede soltanto di essere rapidamente ripristinato. Si tratta di quei contesti che l’antropologia descrive come società “dell’ordine e della marcatura”5: dove la collettività si sforza di riprodurre l’ordine originario quale è stato costituito dagli dei, dagli eroi o dagli antenati; in ogni caso, da autorità che non sono uomini viventi. Questi tipi di società, dove si cerca intica, fisica, chimica; ma neppure in psicologia, storia o filosofia. Esistono soltanto teorie che esprimono delle verità provvisorie, indicando in se stesse le possibilità di verifica; oppure delle tesi aperte alla discussione critica e alla confutazione argomentativa. 3 A differenza del processo inquisitorio, che pretende di perseguire una verità oggettiva attraverso l’ottenimento della ‘prova regina’ della confessione, il processo accusatorio è strutturalmente più orientato a evitare di condannare innocenti che a individuare degli ‘evidenti’ colpevoli. 4 Nelle società tradizionali risulta quasi sempre difficile, se non impossibile, pronunciare la frase: “questa è una norma legale”, se con essa intendiamo sostenere che “questa è soltanto una norma legale, e non una norma morale”; in simili strutture culturali, l’unica frase pronunciabile e comprensibile è piuttosto: “questa è una norma cui si deve obbedire”. Mentre in una società di tipo tradizionale l’esperienza normativa è pressoché interamente situata in un insieme unitario di legge-costume, in una società culturalmente ‘moderna’ la sfera della legge e la sfera della morale - o meglio, le sfere della morale, perché una società è moderna anche nella misura in cui risulti eticamente pluralista - sono invece abbastanza nettamente distinte, sovrapponendosi al più parzialmente in qualche limitata area comune. Gli ‘insiemi’ delle cose che si ha il diritto (o il dovere) giuridico di fare e delle cose moralmente ‘giuste’ da fare non sono più coestensivi, né l’uno inclusivo dell’altro, ma si intersecano soltanto talvolta: se affermare che non ho il diritto di aggredire fisicamente qualcuno significa normalmente sia che gli altri sono giuridicamente autorizzati a impedirmelo, sia che non è eticamente giusto farlo, dire che ho il dovere giuridico di pagare le tasse non implica necessariamente che per me debba essere moralmente giusto finanziare uno stato militarmente aggressivo. 5 Cfr. P. CLASTRES, La société contre l’Etat. Recherches d’anthropologie politique, Paris 1974. 68 PARTE SECONDA stancabilmente di mettere le cose al posto che ad esse spetta secondo l’ordine del mondo che era stato prestabilito, sono essenzialmente caratterizzati dall’eteronomia e dalla collocazione fuori di sé del proprio senso e della propria legge. Non fa gran differenza se il ripristino dell’ethos avviene per mezzo di una ritorsione privata o tramite un ‘giudizio’: l’importante è disporre di un capro espiatorio da sacrificare sull’altare dell’Ordine del gruppo. Non vi è problema di prove e cautele procedurali, perché la sentenza e la pena sono note fin dall’inizio: esse sono in qualche modo consustanziali alla violazione stessa. Lo si può vedere ancora oggi nei regimi politici in senso lato integralisti, dove esiste una contaminazione sistematica tra diritto e morale sociale ‘ufficiale’: nei luoghi dove una sola cosa può essere detta, l’esibizione di facciata della razionalità procedurale serve soltanto ad avallare giuridicamente ciò che in realtà è già stato deciso eticamente (o politicamente). Noi moderni invece cerchiamo (almeno pubblicamente) di ripudiare questa concezione di giustizia. Non volendo (o non potendo) sapere cosa sia ‘giusto’ in senso sostanziale, abbiamo escogitato complesse metodiche procedurali-formali volte a produrre la cosiddetta verità processuale; pallido riflesso del sentimento biologico-istintivo di giustizia. In altri termini, mentre ci teniamo a distanza dall’oggetto pericoloso e desiderato, tentiamo tuttavia di comportarci come se fosse ancora raggiungibile. Salvo poi smentirci clamorosamente, esibendo dei vistosi e imbarazzanti cortocircuiti culturali. Si prenda ad esempio la figura del ‘giustiziere’, tanto frequente nella letteratura e nella cinematografia (oltre che nella realtà) americane: una figura ambiguamente liberatoria per la società che forse più di ogni altra ha enfatizzato gli aspetti procedurali-formali del proprio ordinamento. Il giustiziere è coraggioso, rapido, efficiente; è insieme giudice ed esecutore; interviene là dove ORDINE, VENDETTA, PENA 69 la giustizia ordinaria (formalista) si è dimostrata pavida, lenta, incapace di punire – come l’ethos richiederebbe – l’evidente colpevole. Di fronte alle sue gesta ci sentiamo intimamente divisi. La ‘neocorteccia’ razionale-procedurale non può non condannarlo: con la sua azione, questa è la ‘massima’, egli si è reso uguale alla sua vittima. L’archetipo sostanzialista invece approva, suscitando nell’immediato un più o meno inconfessabile brivido di piacere. 2. La vendetta come procedura Se la famiglia – intesa come clan, tribù, genos – rappresenta il laboratorio di produzione della normatività sociale nell’ambito del ‘diritto sostanziale’ in tutte le società tradizionali, la vendetta a sua volta ne costituisce il principale, se non l’unico, strumento procedurale di gestione dei conflitti e di ripristino dell’ordine6. Strumento così importante e complesso da organizzare talvolta intorno a se stesso dei veri e propri ordinamenti giuridici7. Ammesso che esista una qualche simmetria strutturale tra i modi in cui nelle società tradizionali la comunità reagisce alle violazioni delle regole di costume e le forme con cui le società moderne sanzionano giuridicamente le infrazioni alle norme di condotta, allora un criterio per discernere la natura ‘giuridica’ delle regole etiche nelle società tradizionali è probabilmente da individuarsi nel fatto che le reazioni alle loro violazioni non sono mai del tutto arbitrarie, né in qualità né in quantità: se infatti è vero che in quei contesti il principale strumento di ripristino della ‘legalità’ consiste 6 Senza bisogno di rivolgersi al distante o all’esotico, basti pensare alla centralità normativa della famiglia e della vendetta per un ordinamento sicuramente tradizionale come quello mafioso. 7 Rinvio in proposito ai classici studi di Antonio Pigliaru sulla vendetta barbaricina. 70 PARTE SECONDA normalmente nella ritorsione sotto forma di vendetta privata da parte del clan dell’offeso, è però altrettanto vero che i modi e le forme di questa non vengono mai abbandonati integralmente alla sola volontà del gruppo parentale. Perché la vendetta, per giungere a buon fine, deve assicurarsi l’approvazione dell’opinione pubblica generale, o almeno di una sua componente qualificata; solo così possono venire prevenute quelle altrimenti probabili reazioni a catena ritorsive che, trasformando la vendetta in faida, sarebbero capaci di giungere a minacciare l’esistenza stessa dell’intera comunità8. La vendetta ‘misurata’ avrebbe dunque le caratteristiche di un feedback rispetto alla conservazione di un ordine omeostatico: il clan offeso deve vendicarsi, perché un’infrazione impunita e un clan frustrato dal risentimento sono fattori attualmente o potenzialmente perturbatori; il clan offeso non deve vendicarsi ‘troppo’, per non turbare a sua volta l’ordine sociale. Si tratterebbe della stessa esigenza che ricorre dalle più antiche regolamentazioni normative (tipo ‘taglione’) del rapporto tra indebita azione e consentita reazione9, fino alla moderna tendenza ad affidare monopolisticamente a uno ‘stato’ la gestione della forza indispensabile alla conservazione dell’ordine necessario: a Così anche L.T. HOBHOUSE, Morals in evolution, New York 1906, 79-89. Se mai è esistito uno di quegli ‘stati di natura’ a partire dai quali i contrattualisti del ‘6-’700 elaboravano le loro geometrie intellettuali, è assai più probabile che abbia posseduto i connotati tristi e sanguinosi immaginati da Hobbes (bellum omnium contra omnes), che non le forme idilliache vagheggiate da un Rousseau: nella terra di nessuno della non-esistenza normativa, non ci sono limiti o regole su cui modellare l’azione; né freni a una reazione che può risultare sempre smisurata. Da questo punto di vista, l’apparentemente barbaro sistema del ‘taglione’ diffuso in tutte le più antiche legislazioni penali, rappresentava in realtà una grande conquista di civiltà: “occhio per occhio, dente per dente” significava infatti che se ti era stato tolto un occhio, solo un occhio potevi chiedere; se un dente, solo un dente. Non a caso Kant considerava la giustizia commutativa dello jus talionis l’unico vero principio a priori del diritto penale. 8 9 ORDINE, VENDETTA, PENA 71 ben vedere il diritto penale, nella sua dimensione pubblica, trae origine dall’espropriazione della vittima del suo diritto alla ritorsione. Si potrebbe insomma sostenere che nelle società tradizionali siano definibili come ‘giuridiche’ quelle regole di costume il cui mancato rispetto è degno di venire misuratamente vendicato. La vendetta ‘selvaggia’, smisurata e priva di regole, esiste probabilmente soltanto nell’immaginario collettivo delle società moderne. Secondo il postulato evoluzionista dell’anteriorità della vendetta, la pena ne discenderebbe attraverso un’opera di negazione dei suoi attributi iniziali. Alla fine di un lungo processo di differenziazione e di specificazione, la pena verrebbe a definirsi per via di una radicale contrapposizione rispetto agli elementi essenziali del ‘paradigma’ vendicatorio: la vendetta è immediata, la pena è mediata (‘l’azione penale è pubblica’); la vendetta è smisurata, la pena è misurata (‘nulla poena sine lege’); la vendetta è cieca, la pena è personalizzata (‘la responsabilità penale è personale’). A questa visione storicistica di sostituzione della pena alla vendetta, in cui la prima, con la sua funzione preventiva e terapeutica, apparterrebbe alla civiltà, mentre la seconda sarebbe tipica della barbarie, corrisponde evidentemente il rifiuto della vendetta nel contesto dello stato moderno: la pubblicizzazione della giustizia penale e la statalizzazione del diritto hanno simmetricamente privatizzato e ‘psicologizzato’ la vendetta, che è stata significativamente assimilata al concetto di giustizia privata. Non è difficile comprendere come la concezione evoluzionista che ha rimosso la vendetta in quanto ‘lato oscuro’ della pena, abbia prodotto un’immagine della pena in quanto negazione della vendetta10. Cfr. in proposito R. VERDIER, Le système vindicatoire, in ID. (ed.), La Vengeance, vol. I, Paris 1980. 10 72 PARTE SECONDA Nella concezione moderna-occidentale, la vendetta viene ridotta a una pura reazione individuale, più o meno spontanea, a un’offesa; essa è suscitata da una pulsione istintiva a infliggere una sofferenza a chi ci ha causato un torto. Questa riduzione della vendetta alla semplice passione vendicativa, vale a escluderla dal campo delle pratiche compatibili col sistema di valori su cui lo stato moderno fonda il suo monopolio della forza e della sanzione: vendicare, o vendicarsi, equivale infatti a farsi giustizia da soli, e quindi a violare la legge dello stato che vuole garantire la sicurezza dei cittadini punendo coloro che violano le sue norme. In queste condizioni, non è evidentemente più possibile appellarsi alla vendetta come a un diritto, o tanto meno a un dovere; il sistema penale moderno ne ha fatto una pratica occulta, regressiva e sovversiva. I dati dell’antropologia confermano quanto sia falsa l’immagine selvaggia della vendetta che sta alla base del postulato evoluzionista. Il sistema vendicatorio tradizionale è in realtà uno strumento di regolazione e di controllo sociale che trova il suo spazio d’azione in una dimensione intermedia tra l’eccessiva prossimità e l’eccessiva distanza delle parti in conflitto: non può funzionare tra i ‘troppo vicini’ (i membri del gruppo familiare, o del clan), né tra i ‘troppo lontani’ (gli stranieri, i ‘barbari’)11. Tra i primi, data la forte identità e coesione culturale, la vendetta è impensabile perché costituirebbe un atto autolesionista, al limite un suicidio; con i secondi, per definizione privi di qualunque 11 La distinzione è particolarmente evidente nel caso della Grecia arcaica, dove esistono due connotazioni diverse del concetto di giustizia in funzione della distanza sociale: Themis è la regola di rapporto tra i prossimi del genos; Dike invece presiede alle relazioni con gli esterni, come gli ospiti. Con i barbari, ovviamente, non c’è nessuna regola. Gli esiti drammatici delle vendette descritte nelle tragedie dai classici, possono forse spiegarsi col fatto che spesso si compivano violando i confini dello spazio intermedio, invadendo quello intra-familiare presidiato da Themis. ORDINE, VENDETTA, PENA 73 identità se non quella di nemico, l’unica relazione possibile è la guerra. Lo spazio della vendetta è invece tipicamente quello dove avviene il riconoscimento dell’altro in quanto avversario; col quale è perciò anche possibile venire a patti12. Nella relazione vendicatoria, è proprio questo riconoscimento dell’avversario che consente la ritualizzazione: sia pure sotto forme diverse e diversamente sviluppate, la ritualizzazione opera in tutti i sistemi basati sulla vendetta tendendo, da un lato, a incanalare e a controllare la pulsione aggressiva, dall’altro a vincolare le parti in uno schema di reciprocità che introduce la possibilità della riconciliazione e della pace13. Alcune società – specialmente quelle a prevalente ‘capitale umano’ – hanno spinto a tal punto il processo di ritualizzazione da cercare di eliminare ogni compensazione violenta e di conservare soltanto il principio della composizione: l’offesa diventa così un delitto che comporta il ‘prezzo del sangue’ ed esclude la ritorsione violenta. I sistemi vendicatori si riconoscono sempre per due tratti fondamentali: un’idea di giustizia strettamente retributiva e centrata sul punto di vista della vittima; un danno da riparare che non è mai soltanto quello causato mateL’avversario è colui senza il quale, nel conflitto, io non esisto: solo dove lui è, anch’io posso veramente essere. Con lui ci si confronta. L’avversario mi permette infatti non solo di misurarmi con lui, ma anche con me stesso: mi fa scoprire i miei limiti e le mie possibilità. L’avversario è come me: ha i miei stessi timori e le mie stesse speranze; imparando a conoscerlo, scoprendo la sua forza e le sue ragioni, i suoi punti deboli e le sue incongruenze, imparo a conoscere anche i miei. Perciò gli devo rispetto. Il nemico è invece colui che m’impedisce di esistere: dove lui è, io non posso essere. Con lui si combatte; fino alla resa, o all’annientamento. 13 H. LÉVY-BRUHL, sottolinea l’importanza regolativa del costume nell’ambito delle società in cui manca una funzione repressiva gestita dallo stato: “espressione di un gruppo sociale più esteso (che non la famiglia), esso regolamenta imperativamente la repressione familiare, designa il vendicatore di sangue, svergogna i membri del gruppo che si astengano dal partecipare alla punizione” (L’ethnologie juridique, in J. POIRIER (ed.), Ethnologie générale, Paris 1968, 1167-68, trad. mia). 12 74 PARTE SECONDA rialmente dall’aggressore. Si tratta di sistemi complessi che coinvolgono diritto, costume, ideologie, rituali e procedure, allo scopo di rendere possibile la regolarità e l’effettività delle vendette. I sistemi vendicatori non sono la preistoria selvaggia della forma penale: convivono a lungo con essa, e mostrano come possano esistere delle procedure di regolamentazione della violenza diverse da quelle basate sullo stretto monopolio statale del diritto. La ‘crisi’ della vendetta comincia quando la distanza tra le parti sociali si riduce, e queste si rivelano composte anche da individui soggetti alla nuova autorità dello stato, in quanto ‘grande persona’. Tuttavia il sistema vendicatorio continua per lungo tempo a convivere con le strutture del sistema penale pubblico14. 3. Vergogna e colpa La vendetta è il tipico strumento di gestione della conflittualità sociale di una shame culture, di una “civiltà di vergogna”15. Com’è noto, Eric Dodds utilizzò il concetto di 14 Cfr. in proposito G. COURTOIS, La vengeance, du désir aux institutions, in La Vengeance, cit. Vol. IV. 15 Anche quella greca arcaica era essenzialmente una shame culture. Gli eroi omerici sono soprattutto degli agathoi, dei ‘migliori’, che si definiscono tali in base alla propria arete: il ‘valore’; o meglio, la fama di esso. Ciò che più temono, si direbbe oggi, è di ‘perdere la faccia’: di trovarsi degradati a kakoi per aver commesso qualcosa di aischron (di incompatibile col ruolo sociale) che li costringa a provare ‘vergogna’ (elencheie, aidos). Quando i Proci pretendono che al falso mendicante, sotto le cui spoglie si cela Odisseo, non venga consentito di tentare la prova dell’arco dove essi hanno tutti fallito, il loro capo Eurimaco non è preoccupato che Penelope vada eventualmente in sposa allo sconosciuto vincitore: “No; noi ci vergogneremo di quanto diranno uomini e donne, nel timore che un giorno qualche compagno tra i Greci dica: - Certamente degli uomini assai dappoco corteggiano la moglie di un uomo eccellente, perché non riescono a tendere l’arco; e invece un mendico errante è giunto, ha teso l’arco con facilità e ha mirato attraverso la fila delle asce -. Così diranno; e queste cose diverranno vergogna per noi” (Odissea, XXI, 323 ss.). Eurimaco teme “quanto diranno uomini e donne”: quello che il popolo dirà è ritenuto il ORDINE, VENDETTA, PENA 75 shame culture per contrapporlo a quello di guilt culture (civiltà di colpa) e tracciare così un’ipotesi di evoluzione culturale della società greca antica da una visione del mondo e dell’ordine morale come sottoposti essenzialmente all’arbitrio della volontà degli dei, fino all’emergere con Aristotele di un primo abbozzo dell’idea di responsabilità individuale16. Una contrapposizione analoga è stata utilizzata anche da Ruth Benedict per far meglio comprendere agli americani impegnati nel secondo conflitto mondiale le peculiarità delle ‘strategie di senso’ dei loro nemici giapponesi17. In generale, appartengono alle guilt cultures le moderne società individualistiche improntate sui valori della responsabilità personale; rientrano nelle shame cultures le società tradizionali di tipo collettivistico incentrate prevalentemente su un’etica ‘di gruppo’18. Un po’ rozzamente metro di valutazione più importante, perché la pubblica opinione schernirà l’insuccesso degli agathoi, ricchi e potenti guerrieri che si sono fatti superare da un mendicante, da un kakos. Quello che importa veramente non è ciò che è stato fatto, ma ciò che si dirà che è stato fatto. 16 Cfr. E.R. DODDS, The Greeks and the Irrational, Berkeley UP 1951 (trad. it Firenze 1957, I Greci e l’irrazionale). 17 R. BENEDICT, The Chrysanthemum and the Sword, London 1967. 18 Cfr. in proposito U. KIM, H.C. TRIADIS, Individualism and Collectivism, London 1994. La contrapposizione, e la presunta evoluzione, tra vergogna e colpa va presa comunque con molta cautela. Ad esempio, siamo così sicuri che il nostro mondo morale di ‘kantiani’ (o sedicenti tali) sia veramente tanto lontano dagli arcaismi culturali della civiltà di vergogna? Siamo realmente riusciti a ‘evolverci’ una volta per tutte, spostando il centro e i parametri della valutazione etica dall’esterno all’interno del soggetto agente? Proviamo a pensare quanto ancora pesa l’opinione altrui sulle nostre scelte di comportamento. Quanto può spesso contare più l’apparenza sociale delle nostre azioni, rispetto alla loro concreta sostanza: quante volte, insomma, ci troviamo ad agire non in base a una genuina riflessione morale, ma al conformismo etico; al fallace, ma potente, “così fan tutti”. Forse il rapporto tra vergogna e colpa, in quanto criteri d’individuazione della responsabilità, non è evolutivo; nel senso che si uscirebbe dall’uno per accedere definitivamente all’altro. Più probabilmente entrambi sono degli archetipi del pensiero normativo: delle strutture alternative, ma ricorrenti e costanti, per la fondazione della responsabilità. Adkins, ad esempio, nega che la cultura greca classica abbia mai realizzato 76 PARTE SECONDA potremmo ancora oggi dividere il mondo tra un Oriente a prevalenza di shame cultures collettivistiche, come quella cinese-confuciana, e un Occidente a prevalenza di guilt cultures individualistiche, come quella europea e nord-americana, segnate dalla comune ‘radice’ giudaico-cristiana19. Le differenze tra i due modelli di cultura diventano evidenti soprattutto in relazione ai diversi modi di strutturare l’imputazione dell’agire individuale e alle conseguenze derivanti dall’attribuzione della relativa responsabilità20. qualcosa di simile all’idea di responsabilità personale; e che quindi abbia mai sviluppato lo stadio di civiltà di colpa di cui parla Dodds, che ne costituisce il presupposto. A rigore, di ‘colpa’ in senso moderno si dovrebbe parlare esclusivamente a seguito del diffondersi, con il cristianesimo, dell’idea di peccato e della connessa attrezzatura di pentimenti ed espiazioni; privi di tutto ciò, i Greci antichi avrebbero conosciuto soltanto una soluzione tragica ai propri conflitti morali. (Cfr. A.W.H. ADKINS, La morale dei greci, trad.it. Bari 1987). 19 In realtà i due modelli culturali ovunque si sovrappongono e si influenzano reciprocamente. Sarebbe perciò più corretto parlare di prevalenza di un atteggiamento sull’altro, Ad esempio in Europa, nonostante il comune retaggio giudaico-cristiano, vi sono sicuramente zone con una forte componente di shame culture (quelle cattoliche) e altre con una effettivamente più forte connotazione di guilt culture (quelle protestanti). 20 Queste differenze affondano a loro volta le proprie radici in strutture psicologico-culturali che si distinguono, tra Oriente e Occidente, sul piano profondo delle strategie cognitive: “per gli asiatici il mondo è un universo complesso, composto di sostanze continue, comprensibile in relazione alla totalità più che alle parti e soggetto più al controllo collettivo che personale. Al contrario, per gli occidentali il mondo è un posto relativamente semplice, costituito da oggetti discreti, interpretabile senza un’eccessiva attenzione al contesto e ampiamente soggetto al controllo personale. I due mondi sono davvero diversi” (R.E. NISBETT, Il Tao e Aristotele, trad.it. Milano 2007, 98). Si veda in proposito anche F. JULLIEN, Strategie del senso in Cina e in Grecia, trad.it. Roma 2004. “Più sei WEIRD [acronimo per Western, Educated, Industrialized, Rich, Democratic, coniato da J. HENRICH, S. HEINE, A. NORENZAYAN in The Weirdest People in the World, “Behavioral and Brain Sciences”, 33/2010], più tendi a vedere un mondo fatto di oggetti distinti anziché di relazioni. È stato notato già da tempo che gli occidentali hanno un’idea di sé molto più indipendente e autonoma delle popolazioni dell’Estremo Oriente. Se per esempio si chiede a un soggetto di scrivere venti frasi che comincino con ‘io sono...’, in America le risposte punteranno soprattutto sulle caratteristiche psicologiche (sono felice, socievole, appassionato di jazz), in Estremo Oriente sui ruoli e sul- ORDINE, VENDETTA, PENA 77 In una guilt culture, se gli altri ritengono che io abbia commesso un illecito (morale o giuridico che sia) mentre io penso di non averlo commesso, ci si aspetta normalmente che io protesti la mia innocenza e controbatta alle accuse: un altro dei motivi su cui si fonda la struttura del processogiudizio come strumento principale di gestione del conflitto. All’opposto, se io ritengo di aver commesso un illecito mentre gli altri non lo pensano, ci si attende comunque che io provi un sentimento di colpa nel ‘foro interiore’ della mia coscienza. In una guilt culture è la mia opinione individuale di agente morale autonomo quella che conta: al limite, mi spingerà a lottare per l’affermazione della verità e della giustizia; ma potrà anche farmi ripiegare su me stesso in preda a un nevrotico e impotente senso di colpa. Invece in una shame culture se gli altri pensano che io abbia commesso un illecito mentre io ritengo di non averlo commesso, sarò comunque esposto al disonore che deriva dalla loro opinione: ne discendono tutte le forme collettivistiche di biasimo pubblico, dall’autocritica fino all’autodafé. All’inverso, se gli altri non pensano (o non sanno) che io abbia commesso un’azione illecita, per me non sorge alcun problema: nessuno lo pensa, quindi la mia ‘faccia’ è salva e la mia coscienza (ammesso che ne abbia una) tranquilla. Insomma, quello che conta in una shame culture non è ciò che io penso di aver fatto; anzi, al limite neppure ciò che realmente ho fatto. Quello che conta è soltanto ciò che gli altri credono che io abbia (o non abbia) fatto: la mia ‘fama’21. le relazioni (sono figlio, marito, dipendente Fujitsu). […] Si comprende come filosofi WEIRD, a partire da Kant o Stuart Mill, abbiano prodotto quasi sempre sistemi morali individualistici, basati su regole e universalistici: è questa infatti la morale che serve per governare una società di individui autonomi “ (J. HAIDT, Menti tribali, trad.it. Roma 2013, 124-5). 21 Anche nella cultura greca arcaica tramandataci dai poemi omerici, non solo risulta evidente che le intenzioni dei soggetti sono di importanza molto 78 PARTE SECONDA In una shame culture i principi-guida dell’agire individuale sono facilmente formalizzabili e ritualizzabili, perché discendono pressoché integralmente dal bisogno di appartenenza al gruppo. Si esiste in quanto si è ‘dentro’, conservando il proprio onore ed evitando l’esclusione che deriva dalla vergogna: per questo non basta non commettere azioni ritenute riprovevoli; si deve esibire una vita così irreprensibile dal punto di vista dei valori etici del gruppo di appartenenza, da non far neppure pensare che si potrebbe commetterle. Mentre l’individuo delle guilt cultures è potenzialmente un generatore di conflitti che tende all’affermazione della propria verità (ed è esposto pubblicamente alla pena, privatamente al senso di colpa), il soggetto che vive in una shame culture è di fatto un risolutore, talvolta un dis-solutore, di conflitti in nome dell’etica di gruppo: altrimenti sarà esposto pubblicamente al biasimo e alla vergogna, sanzioni estremamente dure ed efficaci in quel tipo di contesto sociale. Di fronte a un conflitto, il primo si chiederà sempre: ‘Qual è il mio diritto? Come posso farlo valere?’. Il secondo si domanderà: ‘Qual è il mio dovere? Dove ho sbagliato?’. È insomma evidente che una civiltà di vergogna e una civiltà di colpa declinano in maniera notevolmente diversa il significato di concetti quali ‘volontà’, ‘dovere’ o ‘responsabilità’; e che di conseguenza articolano minore dei risultati, ma anche che questi ultimi contano in realtà molto meno delle apparenze; sulle quali si fonda in definitiva il vero metro di giudizio della arete. L’eroe omerico non può valutare autonomamente se stesso, perché il valore che gli spetta è soltanto quello che gli altri gli attribuiscono: il coraggio non servirebbe a niente se i suoi ‘pari’ non credessero che è coraggioso. Quello che gli altri pensano delle sue azioni è del tutto indipendente dalle sue intenzioni; e, al limite, dai fatti stessi. In una civiltà che si fonda sul sentimento della vergogna, la conquista e il mantenimento di uno status sociale sono integralmente affidati all’opinione pubblica: non mi devo vergognare perché so di avere mancato ai miei doveri, ma perché la mia ‘immagine’ - non importa per quale motivo - viene messa in discussione. Qualora fossi particolarmente abile, potrei addirittura pensare di riuscire a trascorrere un’intera vita ingannando gli altri - se non gli stessi dei - circa la reale portata della mia arete. ORDINE, VENDETTA, PENA 79 molto diversamente anche il senso socio-culturale del nesso tra causalità di un’azione e necessità di una reazione in funzione riordinatrice. Nonostante l’Occidente sia la culla delle guilt cultures, per molti aspetti l’uomo occidentale sembra invece fare il suo ingresso sulla scena storica proprio sotto il segno dell’irresponsabilità e dell’incoscienza22: nella struttura di pensiero greco-antica, e arcaica in particolare, non si trova infatti riscontro di alcuna terminologia etica corrispondente ai nostri concetti di ‘dovere’ e di ‘responsabilità’. Non solo la lingua dei nostri antenati culturali risulta priva di parole di uguale valore semantico capaci di tradurli puntualmente, ma sarebbe stata addirittura sprovvista di termini che consentissero comunque di collocarli in un ambito espressivo dotato di un’equivalente valenza emotiva23. In una società di eroi, o sedicenti tali, è inevitabile che la forza rappresenti il principale, se non l’unico, parametro di riferimento delle virtù sociali24. Gli eroi erano coloro Irresponsabilità e in-coscienza - nel senso di mancanza di consapevolezza di sé, di auto-coscienza - vanno di pari passo. Per molti studiosi, nell’Iliade ad esempio non esisterebbe ‘coscienza’: dei termini che in seguito avrebbero designato atti e fenomeni mentali, sarebbero nel poema da intendersi con significati diversi e più ‘concreti’. Così psyche non indicherebbe l’’anima’, ma semplicemente sostanze vitali come il sangue o il respiro; thumos, che più tardi significherà qualcosa di simile all’’emozione’, designerebbe il movimento, o addirittura una sorta di ‘organo’: Apollo aiuta Sarpedonte e “infonde vigore nel suo thumos” (Iliade, XVI: 529). Lo stesso noos, la ‘mente cosciente’ dei Greci di età classica, non significherebbe altro che ‘percezione’ o ‘campo visivo’; e così via. L’uomo dell’Iliade non avrebbe dunque una percezione sintetica e globale del proprio ‘io’, ma sarebbe quasi anatomicamente diviso: il piè-veloce Achille non ‘corre’ in quanto soggetto; sono le parti anatomiche ed emotive che lo compongono a muoversi in quella che chiamiamo ‘corsa’. Mancherebbe insomma la capacità di astrarre un concetto unificato del tipo ‘vita’ o ‘io’. 23 In proposito, cfr. il classico A.W.H. ADKINS, La morale dei Greci, cit.. Cfr. anche E.R. DODDS, I Greci e l’irrazionale, cit. e E.A. HAVELOCK, Dike. La nascita della coscienza (trad.it. Bari 1981). 24 Diomede, con Nestore auriga, sta cercando di ingaggiare duello con Ettore, quando Zeus ne blocca l’azione spaventando i suoi cavalli. Nestore gli 22 80 PARTE SECONDA che si distinguevano per le loro eccezionali virtù; ma queste virtù erano essenzialmente virtù guerriere: coraggio, forza fisica, senso dell’onore. E dell’onore (timè), acquistato per fama e conservato con l’azione, faceva parte integrante la violenza25. In un mondo dominato da questo tipo di arete, l’uomo offeso nell’onore può rispondere soltanto con un atto di forza, che a sua volta costituisce una violazione dell’altrui timè: la violenza è forza; quindi, come il coraggio, fa parte dell’arete26. Si comprende perché l’omicidio fosse un fatto accettato socialmente come normale: chi uccideva un altro, compiendo apertamente un atto di forza, dimostrava di essere più forte e di conseguenza di valere più dell’ucciso. Coerentemente veniva invece biasimato e sottoposto a elencheie (vergogna) l’omicidio commesso con l’inganno27. Mentre infatti l’omicidio commesso con la forza, dimostrando la debolezza dell’avversario e andando quindi a intaccare quantitativamente il patrimonio di timè e di arete del gruppo dell’ucciso, provocava la doverosa e consiglia immediatamente di ritirarsi, e Diomede replica che così Ettore potrà schernirlo dicendo che una volta egli è fuggito di fronte a lui. Ma Nestore lo rassicura: “Che dici mai! Anche se Ettore ti chiama vile e imbelle (kakos e analkis), i Troiani e le loro donne, i cui mariti hai ucciso, non lo crederanno mai” (Iliade, VIII, 147 ss.). Nestore non può limitarsi a dire: “Non ti preoccupare. Non è vero”. Se i Troiani lo credessero tale, Diomede incorrerebbe nella elencheie e proverebbe una terribile vergogna: lo scherno di Ettore potrà anche far vacillare la sua arete; essa tuttavia, come sostiene Nestore, continuerà a riposare solida sul mucchio di cadaveri nemici che ne costituisce la tangibile testimonianza. 25 Molti secoli dopo Elias Canetti, in Massa e potere e in Potere e sopravvivenza, avrebbe dedicato pagine memorabili alla figura del potente che diviene tale soprattutto perché sopravvive e innalza il suo trono su montagne di cadaveri. 26 Spesso bia (la forza, la violenza) e kratos (il potere, la potenza) appaiono in Omero, ma anche in Esiodo, in significativa endiadi con arete e timè. Cfr. ad es. Iliade, IX, 498; Teogonia, 385-388. 27 Così nel caso dell’omicidio di Agamennone da parte di Egisto. Cfr. sul tema E. CANTARELLA, Studi sull’omicidio in diritto greco e romano, Milano 1976, 44. ORDINE, VENDETTA, PENA 81 normale reazione vendicatrice di quest’ultimo allo scopo di ristabilire un ordine turbato, l’omicidio commesso con l’inganno violava profondamente lo stesso sistema di valori della shame culture: era un miasma che contaminava l’intera compagine sociale. La vendetta spettava normalmente ai consanguinei dell’ucciso, ma in determinate circostanze veniva effettuata anche da soggetti vincolati da legami diversi da quelli di sangue, come ad esempio i commilitoni28. L’omicida poteva sottrarsi alla vendetta dandosi all’esilio volontario (phyge)29, oppure estinguere il suo debito pagando ai parenti il ‘prezzo del sangue’ (poiné), qualora questi l’avessero accettato rinunciando al loro diritto/dovere alla ritorsione diretta. Insomma l’esercizio della vendetta, oltre a dare soddisfazione e appagamento ai parenti dell’ucciso evitando l’insorgere di un frustrante e pericoloso risentimento, costituiva un vero e proprio dovere sociale volto a sanare il disordine derivato dallo squilibrio di timè. In accordo con questo quadro culturale, la maggioranza degli studiosi è concorde nel ritenere che nella società descritta dai poemi omerici non esistesse praticamente distinzione tra azione volontaria e azione involontaria: volontario o involontario che fosse, l’atto offensivo provocava comunque la vendetta, in un rapporto quasi fattuale di causa/effetto. È vero che non mancano, soprattutto nell’Odissea, gli accenni a dei tentativi di problematizzazione del tema della causalità e della responsabilità (aitia) individuale dell’azione. Ma sono, appunto, degli accenni; e per lo più contraddittori. In generale, anche quando ammette di essere colpevole l’uomo omerico non è in realtà responsabile, 28 Cfr. G. GLOTZ, La solidarité de la famille dans le droit criminel en Gréce, Paris 1904, 92. 29 Il che tuttavia sembra che lo sottraesse soltanto di fatto, e non ‘di diritto’, alla vendetta. Cfr. Iliade, II, 653-668; Odissea, XV, 272-278. 82 PARTE SECONDA perché la vera causa degli eventi risiede sempre nell’insondabile volontà degli dei30. Ai nostri occhi, gli eroi sembrano insomma comportarsi spesso come bambini che si giustificano dicendo: “non l’ho fatto apposta”. 4. L’emergere della responsabilità I poemi omerici sono delle fonti d’informazione di non semplice consultazione: redatti intorno all’VIII-VII secolo a.C., si basano sulla tradizione orale di un materiale narrativo che fa riferimento a un contesto socio-culturale scomparso quasi mezzo millennio prima ed eletto a luogo del mito. Nell’Iliade ad esempio, che è sicuramente il poema più ‘antico’, emergono a tratti degli scenari non micenei, ma tipici di quelle prime città-stato ioniche in cui esso trovò la sua stesura definitiva. Uno squarcio dello stile di vita in queste arcaiche poleis in tempo di pace lo si trova sullo scudo donato da Efesto ad Achille, dove sono raffigurati due avvenimenti civili, un matrimonio e un processo, che viene così descritto31: ‘La gente era riunita in massa nell’agorà. Lì una lite (neikos) era sorta; due uomini stavano litigando sulla pena per un uomo morto. Uno sosteneva di aver pagato tutto, spiegandolo al demos; e l’altro diceva di no, che non aveva ricevuto niente. Ambedue le parti volevano ‘uno che sapesse’ (istor) per dare un giudizio (peirar); 30 Cfr. in proposito A. JELLAMO, Il cammino di Dike. L’idea di giustizia da Omero ad Aristotele, Roma 2005. Basti ricordare le parole di Agamennone (Iliade, XIX, 86-92): “Pure non io sono colpevole, ma Zeus, la Moira e le Erinni che nella nebbia camminano; essi nell’assemblea gettarono contro di me stolto l’errore quel giorno che tolsi il suo dono ad Achille. Ma che potevo fare? Gli dei tutto compiono. Ate è la figlia maggiore di Zeus, che tutti fa errare, funesta”. 31 Iliade, XVIII, 497 ss.. ORDINE, VENDETTA, PENA 83 la gente gridava per ambedue, sostenendo l’una e l’altra parte; gli araldi tenevano la gente seduta; e gli anziani si sedettero su pietre levigate in un circolo sacro; e lo scettro degli araldi dalla voce chiara tenevano in mano. Poi corsero da loro e attentamente definirono la giustizia (dikazon) del caso; in mezzo a loro furono posati due talenti d’oro da dare a chi di loro avrebbe parlato più giustamente.’ Numerosi sono i problemi interpretativi suscitati dal testo, uno dei più discussi dalla dottrina giusgrecistica32: come viene composta la lite? Chi è l’istor e quali sono i suoi rapporti con gli ‘anziani’? Chi decide la controversia? Un fatto però è certo: si tratta di un documento di grande rilevanza, che testimonia la tendenza a un crescente controllo sociale sull’esercizio della vendetta. C’era stato un omicidio e i parenti dell’ucciso avevano evidentemente rinunciato alla vendetta e accettato la poiné sostitutiva. Chi doveva pagare il ‘prezzo del sangue’ diceva di aver adempiuto; l’altra parte negava. In una cultura ancora quasi del tutto orale non esiste alcun documento scritto che attesti l’avvenuto adempimento e le uniche fonti d’informazione sono costituite dalle memorie delle due parti; ciò genera una situazione che può facilmente dar luogo a pretese contrastanti dell’una o dell’altra parte, non suffragate da prove; ne risulta una lite che viene composta tramite un confronto di enunciati orali, per il quale non sembra esistere una procedura prestabilita. Entrambe le parti si rivolgono a ‘uno che sa’; ciò che egli ‘sa’ sono ‘giustizie e formule’ (i themistes), presumibilmente soprattutto di giuramenti, le forme di prova principali del processo ar32 Cfr. tra gli altri HAVELOCK, op.cit., 165 ss., di cui seguo la traduzione; A. BISCARDI, Diritto greco antico, Milano 1982, 275 ss.; E. CANTARELLA, “Lo scudo di Achille: considerazioni sul processo nei poemi omerici”, in Rivista italiana per le scienze giuridiche, n. 16/1972, 247 ss. 84 PARTE SECONDA caico. È una figura analoga a quella del dikaspolos, “coluiche-regola-le-giustizie e le formule in nome di Zeus conserva”33: la sua memoria contiene abbastanza informazioni di rilievo ‘legale’ da poter guidare le parti nella discussione. La questione deve tuttavia essere portata di fronte all’agorà del demos, nella quale spicca il comitato degli anziani; compito di questi ultimi sembra essere in primo luogo quello di regolare l’ordine degli oratori e di ascoltarli. Non è chiaro però se votino, o se presiedano semplicemente alla decisione, spettante all’agorà, su quale dei contendenti sia da preferire; il pubblico infatti acclamerà vincitore quello dei due litiganti che personalmente, con la sua retorica, avrà meglio sostenuto ‘la propria giustizia’, e gli attribuirà il premio che è messo in vista per essere osservato da tutti (e la cui presenza conferma ulteriormente il carattere di gara dell’intera procedura). La disciplina è amministrata dagli araldi preposti alla seduta, e dalla esibizione dello scettro nella mano tenuta sollevata per ordinare il silenzio; si può presumere che i contendenti ricevano lo scettro alternativamente dagli anziani prima di parlare. Dal punto di vista procedurale, sembra accertato che le decisioni non si basassero su precedenti ‘giurisprudenziali’: era un modo di rendere giustizia che si realizzava oralmente attraverso la persuasione e la convinzione, ogni volta rinnovato nella contesa retorica dei due litiganti di fronte all’assemblea. In generale, è verosimile che la ‘giustizia’ descritta nell’Iliade - indipendentemente dal contesto arcaicizzante - sia ancora soltanto una procedura tendente a separare con i segni dell’eccezionalità la circostanza del giudizio dalla normale quotidianità, non un principio o una qualsiasi serie di principi. La dike viene realizzata tramite un processo di negoziazione a carattere 33 Iliade, I, 238-9. ORDINE, VENDETTA, PENA 85 retorico tra le parti contendenti, le quali possono usufruire degli strumenti di ‘prova’ (formule di giuramenti e invocazioni di divinità) contenuti nei themistes depositati nella memoria di ‘uno che sa’. In quanto tale, la giustizia appare rivolta al particolare e non al generale, tanto che ci si può riferire ad essa sia al singolare che al plurale: la ‘giustizia del caso’, in una data situazione, oppure ‘le giustizie’, quali vengono discusse e accordate in circostanze diverse. Non esiste ancora un corpo giudiziario strutturato in forma di autorità indipendente, ma vi sono degli esperti di ‘legge’ orale; uomini, si penserebbe, dotati di una memoria particolarmente addestrata. Il procedimento ha luogo in pubblico, perché nelle società pre-letterarie la memoria collettiva è l’unica documentazione e testimonianza di promesse e di accordi. Sullo scudo di Achille, più che un processo in realtà è rappresentata una gara; o meglio, un duello in cui i contendenti si affrontano sul piano della forza ritualizzata del confronto dialettico. In gioco è sempre l’arete, la stima e l’onore simboleggiati nel premio da attribuire a chi risulterà vincitore, non tanto per essere riuscito ad affermare una verità (cosa particolarmente difficile, date le circostanze) ma per aver dimostrato di essere il migliore. L’importante è che si apra una parentesi non dominata direttamente dalla forza fisica, tra una violenza già consumata e causa di disordine per la diminuzione di timè che ha prodotto nel gruppo offeso e un’altra eventuale violenza ripristinatrice dell’ordine violato. Questa seconda violenza ora è socialmente approvata e controllata34. Sul finire del VII secolo 34 Secondo Biscardi, il processo descritto sullo scudo di Achille testimonierebbe una fase di passaggio verso “la concezione della pena, intesa come male inflitto dall’intero corpo sociale a chi violava le regole fondamentali di comportamento” (A. BISCARDI, op.cit., 278). Il passo successivo sarà compiuto dalla legislazione di Draconte sull’omicidio. 86 PARTE SECONDA le leggi di Draconte ufficializzeranno l’autorizzazione alla vendetta, demandando al tribunale dell’Areopago l’accertamento della volontarietà dell’omicidio: il gruppo offeso diviene una sorta di esecutore di una pena35. In Atene, al di là delle leggi di Draconte, ancora in epoca classica continuerà a sussistere una sorta di diritto penale privato molto complesso, che riunisce elementi della vendetta di sangue, di soddisfazione compensatoria e d’intervento della giustizia civile. Quest’ultima si occupa però autonomamente soltanto dei delitti di sacrilegio, di tradimento e di sovversione costituzionale, che sono puniti con la morte e il divieto di sepoltura36. Aristotele sarà un buon testimone di quest’epoca dell’esperienza normativa in cui lo stato ancora non si considera offeso da ogni ingiustizia che viene commessa al suo interno: “Si possono compiere due tipi di atti ingiusti e di atti giusti, sia contro un membro unico e determinato, sia contro la comunità; per esempio, colui che commette adulterio o aggressione, compie un delitto verso un membro determinato; colui che rifiuta il servizio militare, commette un delitto contro la comunità”37. È il consolidarsi della polis come super-individuo collettivo che sposta il baricentro della responsabilità; ed è lungo le tracce che portano verso una concezione soggettiva dell’imputazione che si gioca il passaggio culturale dalla vendetta alla pena. Cfr. A. BISCARDI, op. cit., 287 ss.; E. CANTARELLA, Studi sull’omicidio, cit., 79 ss.. Nel caso di omicidio involontario, la sanzione era l’esilio. Nel caso dell’uccisione della moglie, della concubina o di una consanguinea sorpresa in flagrante adulterio, l’atto non era sanzionato: si dava così origine a una fattispecie destinata, specie nelle culture mediterranee, a un grande futuro nella forma del cosiddetto ‘delitto d’onore’. 36 Sanzione, quest’ultima, che equivaleva a infliggere su scala eterna la pena dell’esilio. Cfr. SENOFONTE, Elleniche, I, 7, 22; LICURGO, Contro Leocrate, 124; DEMOSTENE, Contro Timocrate, 144. 37 ARISTOTELE, Retorica, I, 13, 1373 b. 35 ORDINE, VENDETTA, PENA 87 Come in ogni shame culture, agathos e arete erano i punti di riferimento cardinali della ‘assiologia’ greca arcaica. Ma non erano i soli: accanto ad essi sussistevano fin dagli inizi degli accenni significativi anche ad altri valori ‘minori’, come sophrosyne (saggezza, moderazione) e dikaiosyne (giustizia). Minori non perché il greco arcaico fosse incapace di percepire un’ingiustizia, specie quando la subiva; ma perché, ad esempio nel considerare i suoi simili, si trovava sicuramente ad anteporre il perseguimento comunque dell’arete alla moderazione di essa per mezzo della sophrosyne. L’uscita della struttura di pensiero greca dalla arcaicità coincise in gran parte proprio con lo sforzo culturale di innalzare questi valori minori al rango dei maggiori, o almeno nel trasformarli in una componente essenziale di questi ultimi38; nel cominciare a ritenere - e nel tentare di dimostrare - che essere dikaios fosse un mezzo necessario, anche se laborioso, per divenire o rimanere agathos. Il primo - lungo - passo in questa direzione consistette nello smettere di domandarsi che cosa la Giustizia fa (in quanto ipostasi numinosa che, ad esempio sotto forma di Themis o di Nemesis, assegna fatalmente e insindacabilmente a ciascuno ciò che gli spetta in funzione del mantenimento di un immobile ordine cosmico-sociale39), per iniziare a chiedersi che cosa la giustizia è40. E fu un passo fondamentale, perché interrogarsi su cosa sia ‘giustizia’, ricercarne la definizione, implica l’uscita da un contesto culturale in cui la responsabilità era, per così dire, sempre oggettiva, per accedere a una struttura mentale in V. soprattutto A.W.H. ADKINS, op.cit., 215 ss. “Da dove infatti gli esseri hanno l’origine, ivi hanno anche la distruzione secondo necessità: poiché essi pagano l’uno all’altro la pena e l’espiazione dell’ingiustizia secondo l’ordine del tempo” (ANASSIMANDRO, A 9 (DielsKranz); così tradotto da G. PASQUINELLI, I Presocratici, Torino 1958, 44). 40 V. in proposito E.A. HAVELOCK, op.cit., soprattutto 379 ss. 38 39 88 PARTE SECONDA cui diviene centrale, in prospettiva, proprio il problema dell’imputabilità soggettiva dell’agire41. Gli indizi del cambiamento sono numerosi e notevoli, specie nell’ambito del comportamento linguistico: giustizia diventa progressivamente una ‘cosa’ singola, smettendo di presentarsi al plurale, come nelle diverse ‘dikai’ omeriche; viene poi sempre più spesso contrapposta esclusivamente al suo termine negativo, adikia, anziché ad altre ‘cose’ come hybris o bia; infine appaiono delle tecniche verbali che hanno lo scopo di sottolinearne l’isolamento, la sua ‘solidità’ di elemento concettuale dotato di un’identità autosufficiente42. I primi segni di questa evoluzione si incontrano già in Esiodo; e poi nei tragici, soprattutto in Eschilo. Ma è soltanto con Platone che il campo dei significati di ‘dike’ verrà drasticamente ridotto, trasformando la giustizia, da semplice tema di riflessione intellettuale, in vero e proprio concetto stabile, affermato con coerenza. Si pensi infatti che ancora nella polis greca classica sopravviveva, indiscusso e consolidato, il concetto di un’ingiustizia ritorsiva (antadikein) la quale, pur esorbitando dai limiti del lecito, si configurava come una sorta di illecito impunibile; era come se all’attuale nozione di ‘legittima difesa’ corrispondesse nel diritto attico quella di ‘consentita reazione’: “chi apriva la via all’ingiustizia era responsabile della concatenata serie d’ingiustizie cui quella prima ingiustizia aveva dato luogo, e doveva essere perciò doppiamente colpito dalla legge, la quale gli imputava l’infrazione prima dell’ordine giuridico e si rifiutava di tutelare nei suoi riguardi il diritto che il provocato eventualmente violasse per ritorsione”43; purché Rinvio in proposito a M.A. FODDAI, Sulle tracce della responsabilità, Torino 2005. 42 Cfr. sul tema B. SNELL, La cultura greca e le origini del pensiero europeo, trad.it. Torino 1951, soprattutto Cap. X. 43 U.E. PAOLI, Problemi di diritto pubblico nel Critone platonico, in “Rivista internazionale di filosofia del diritto”, 4-5\1932, 613-4. 41 ORDINE, VENDETTA, PENA 89 ciò ovviamente non giungesse a turbare l’ordine della polis. Bisogna attendere appunto Socrate-Platone per trovare criticato eticamente il principio secondo cui era lecito restituire (eventualmente con gli ‘interessi’) l’ingiustizia patita: è nel Critone che per la prima volta l’antadikein, la reazione sotto forma di ritorsione, diviene, come l’ingiustizia da cui deriva, un’altra forma d’ingiustizia; solo Socrate oserà affermare che tra adikein e antadikein non c’è differenza, perché l’ingiustizia, sia essa iniziale o ritorsiva, è pur sempre ingiustizia, e in quanto tale deve nello stesso modo venire condannata44. Era inevitabile che Platone, interessato com’era a tentare di definire cosa fosse ‘giusto’ in senso oggettivo, dovesse giungere a riflettere sull’opportunità della pena in quanto sanzione comminata pubblicamente e alternativa alla vendetta. Nel Protagora s’incontra, forse per la prima volta nel mondo occidentale, l’esposizione argomentata dei motivi per cui un potere pubblico può infliggere un male ai cittadini. Il tema affrontato nel dialogo è se la virtù possa o meno essere insegnata. Per Protagora la risposta è affermativa, e la prova di ciò sta proprio nella funzione svolta dalla pena: “Se realmente prenderai in considerazione, o Socrate, lo scopo del punire chi compie ingiustizia, questo ti dimostrerà che gli uomini sono realmente convinti che sia possibile acquisire la virtù. Infatti nessuno punisce chi commette ingiustizie per il fatto che ha commesso ingiustizia: nessuno, almeno, che non si abbandoni a irrazionale vendetta come una belva. Chi punisce invece secondo ragione, non punisce a causa del delitto compiuto […] ma in considerazione del futuro, affinché non compia nuovamente ingiustizia quello stesso che viene punito, né altri che vedano costui punito”45. Mentre la vendetta è tutta re44 45 Cfr. Critone, 48-50. PLATONE, Protagora, 324 a-b. 90 PARTE SECONDA trospettiva, la pena sarebbe soprattutto prospettiva e non soltanto retributiva. Per usare una terminologia moderna, la pena del Protagora avrebbe insomma già una funzione di deterrenza e di prevenzione sia speciale che generale46. Com’è noto, Platone espone poi sistematicamente la sua nozione di giustizia nella Repubblica. Ad un’immagine eminentemente soggettiva-relativa - tipica di certa sofistica rappresentata da Trasimaco: giustizia è ‘l’utile del più forte’ - viene contrapposta la ricerca di una definizione essenziale e oggettivante; e il dialogo assume ben presto la forma del trattato. La riflessione platonica sulla giustizia non costituisce però l’inizio di un nuovo pensiero. Essa è piuttosto l’ultimo e più complesso tentativo di soluzione al problema della gerarchia dei valori, così come era stato impostato dalla riflessione etica greca da Omero in poi: quello di collegare la dikaiosyne e le virtù ‘minori’ al gruppo di valori saldamente fondati su arete e agathos, in modo da impedirne ogni futuro distacco. Rispetto a tutto ciò, la questione della definizione della responsabilità di un uomo riguardo ai suoi atti individuali è ancora sicuramente in secondo piano. Prima che si discutano simili ‘sottigliezze’, occorre delineare con cura il campo d’azione della morale ‘minore’: una volta trovata la soluzione a questo problema ne discenderà, quasi come un corollario, la soluzione anche a quello della responsabilità. La soluzione adottata da Platone consiste essenzialmente nel trasferire la titolarità di arete e agathos dall’individuo allo stato, e nel gerarchizzare di conseguenza tutto il restante set di valori. Al relativismo utilitarista di Trasimaco si risponde concentrando tutte le virtù nel nuovo soggetto dello stato ideale, unica vera ‘grande persona’. La definizione individuale di giustizia (e di responsabilità) Cfr. in proposito E. CANTARELLA, Il ritorno della vendetta, Milano 2007, parte prima, § 2.2.. 46 ORDINE, VENDETTA, PENA 91 che ne deriva è però, per noi moderni, sorprendentemente deludente: ‘fare la propria cosa’. Deludente soprattutto perché si tratta di una formula autoreferenziale che non consente alcuna spiegazione operativa: essa evidenzia semplicemente il fatto che il cittadino deve fare correttamente quello che sta facendo; che deve accettare, comunque, il ruolo assegnatogli. Ruolo che non può essere stato assegnato se non dal modo di vita stabilizzato e diffuso all’interno del contesto sociale nel quale vive. Non siamo dunque di fronte a nient’altro che alla tradizionale regola di buon comportamento volta a conservare e proteggere il nomos e l’ethos esistenti nella società greca: il significato di ‘giustizia’, ora che è stato concettualizzato, non appare molto diverso da quello della vecchia dike omerica ed esiodea, in quanto norma della regolarità che prescrive di non varcare i propri limiti e di evitare le azioni stravaganti ed eccessive. La giustizia di Platone, che viene scritta a grandi lettere nella città, diviene il simbolo di una stabilità così immutabile, che soltanto in nome di essa può venire ad esempio eventualmente permesso il trasferimento di figli da una classe sociale all’altra. Al di là dei contenuti del concetto platonico di giusti47 zia , resta tuttavia la novità del tentativo di ricercarne una definizione oggettiva che la sottragga sia all’arbitrio relativistico, sia al fatalismo arcaico. Inoltre, accanto a una nozione eminentemente ‘architettonica’, nella Repubblica cominciano a emergere i tratti anche di un’idea di giustizia in quanto virtù soggettiva autonoma. Quando la tensione dialogica raggiunge il culmine, e una giustizia teoricamente totale viene posta in antitesi a un’ingiustizia teoricamente totale, Socrate chiede: “C’è un’altra cosa che vorrei mi Anche troppo facilmente criticabili dal punto di vista di un contesto culturale moderno: cfr. per tutti K.R. POPPER, La società aperta e i suoi nemici, trad.it. Roma 1974; soprattutto Vol. I: “Platone totalitario”. 47 92 PARTE SECONDA diceste su di loro. Voi chiamate l’una virtù (arete) e l’altra vizio (kakia)?”48. Il campo di riferimento concettuale sembra cambiare radicalmente, perché, comunque si interpreti ‘virtù’, essa pertiene a un ambito più individuale che pubblico: è qualcosa che può forse essere posseduto anche indipendentemente dai ruoli e dalle relazioni sociali. Il nuovo significato viene evidenziato prendendo in considerazione le conseguenze della presenza del suo opposto ‘adikia’ “all’interno dell’individuo”: così come la comunità in preda all’adikia si lacera in opposte fazioni, l’uomo manca di ‘concordia con se stesso’ e diventa “nemico sia di se stesso che della gente giusta”49. Come si vede, l’ultima affermazione riunisce le nozioni di condizione interna e di relazione esteriore; per ribadire questa ‘interiorizzazione’ di dike in dikaiosyne, viene infine proposto che essa sia in realtà “una funzione di psiche”50. La ricerca a questo punto si interrompe e la discussione rimane priva di conclusione. Tuttavia Platone ha affermato che la giustizia deve assumere un significato, non riscontrabile nella tradizione, che le darà per sempre una duplice funzione: di moralità sociale, in quanto giustizia della comunità; di moralità individuale, in quanto giustizia dell’anima. Nella sostituzione di dikaiosyne a dike vi è un ampliamento del campo di significato di ‘giustizia’: il termine diventa più ricco e complesso, in quanto include un riferimento sia alla polis che all’individuo; pur rimanendo il simbolo di una struttura sociale, può rivolgersi ora anche alla soggettività personale. Il passaggio definitivo in quest’ultima direzione verrà compiuto da Aristotele quando, nell’Etica Nicomachea, descriverà la giustizia soggettiva come la totalità della virRepubblica, 348c 2; v. anche 353b 2. Ivi, 351e 6 - 352a 7. 50 Ivi, 353d 3, 6; 353e 7. 48 49 ORDINE, VENDETTA, PENA 93 tù51; e soprattutto la intenderà non come una virtù in sé, ma come una virtù che si esplica specificamente nel rapporto con gli altri: “uso di tutta la virtù verso altrui”; “sola delle virtù che sembra essere un bene altrui”. L’uomo virtuoso perché ‘giusto’ si pone come soggetto centrale della speculazione etica aristotelica. Ma in che modo si diventa giusti? “Come ad esempio costruendo case diventiamo architetti e suonando la cetra diventiamo citaredi, così altrettanto compiendo cose giuste diventiamo giusti”52: la giustizia è un habitus che si acquista con la pratica. Con l’introduzione della differenza tra giustizia-virtù e giustizia-comportamento - tra dikaios einai e dikaion prattein diviene possibile fare la cosa giusta senza per questo essere (ancora) dei ‘giusti’. E indagando metodologicamente quali siano le ‘cose giuste’ da fare, Aristotele giunge a introdurre anche le prime definizioni di giustizia in quanto eguaglianza o proporzione negli scambi: come quella ratio geometrico-matematica tra l’opera e il compenso, tra l’offerto e il ricevuto, su cui si fonderanno le forme pressoché perenni e costanti della giustizia commutativa tramandateci dalla tradizione giuridica inter-individuale e privatistica. Se il diritto è una tecnica organizzativa dell’azione umana associata, la mente aristotelica appare sicuramente una delle più adatte a produrlo53. “Spesso la giustizia sembra essere la più importante delle virtù, tanto che né la stella della sera né la stella del mattino sono così mirabili; e nel proverbio diciamo: nella giustizia è insieme compresa ogni virtù” (Etica Nicomachea, E 5, 1133 b 32 - 1134 a 1). 52 Etica Nicomachea, B 1, 1103 a 33 - b 2. 53 Lo si può verificare particolarmente bene, per contrasto, nelle difficoltà che incontra Platone quando, nella Repubblica o nel Politico, tenta di scendere dai princìpi di giustizia architettonica al livello delle proposte operative: il risultato sono quasi sempre delle norme molto esigenti e lontane dalla prassi; un positivismo giuridico piuttosto grossolano e pesantemente normativo. Cfr. in proposito M. VILLEY, La formazione del pensiero giuridico moderno, trad.it. Milano 1985, 61 ss. 51 94 PARTE SECONDA Accanto al concetto relazionale di giustizia, troviamo poi in Aristotele anche la prima formulazione di una nozione di responsabilità soggettiva, rilevante almeno per l’ambito giuridico: il concetto di imputazione, che costituisce il presupposto della stessa esistenza del diritto penale nelle forme in cui questo è diffuso all’interno delle società occidentali contemporanee, discende infatti ancora oggi nelle sue articolazioni del dolo, della colpa e della preterintenzione, senza quasi modifiche o aggiunte, dalla sua originaria formulazione aristotelica54. È per noi oggi intuitivo che un’azione non possa venirci imputata se non si trovava inizialmente in nostro potere (‘eph’emin’, dice Aristotele), così che volendo avremmo potuto agire altrimenti; ed è per noi egualmente evidente e banale la distinzione tra atto volontario e atto involontario, e all’interno del primo, l’ulteriore differenza tra atto premeditato e atto non premeditato, nel quale ultimo l’autore agisce con conoscenza di causa ma senza decisione preliminare. Tra gli atti involontari, dovuti a errore o ignoranza, Aristotele distingue poi a seconda che l’autore sia o meno egli stesso responsabile della sua ignoranza o del suo errore; e distingue ulteriormente l’errore a seconda che riguardi il divieto in se stesso, oppure le circostanze materiali. L’ignoranza della norma in quanto tale non esclude affatto l’imputabilità, mentre l’ignoranza delle circostanze materiali la potrebbe escludere, o meno, a seconda che il soggetto risulti o meno responsabile lui stesso di tale ignoranza. Tutto questo che per noi è così evidente, non era affatto tale prima di Aristotele, quando la responsabilità era, per così dire, sempre oggettiva: quando mancava la stessa pensabilità di una netta distinzione tra volontario e involontario; oltre che, a maggior ragione, di Cfr. in proposito H. WELZEL, Naturrecht und materiale Gerechtigkeit, Göttingen 1960, 35 ss. 54 ORDINE, VENDETTA, PENA 95 tutta quell’altra serie di ‘sottigliezze’ aristoteliche per noi oggi così normali ed essenziali. Per capire poi in quale senso effettivo Aristotele sia riuscito a razionalizzare la concezione occidentale dell’imputazione, non basta dire che questa discende immediatamente da una generica ‘responsabilità’, poiché non tutte le cose che apparentemente dipendono da noi, procedono in realtà ‘eph’emin’ allo stesso modo: eminentemente ‘eph’emin’ sono soltanto gli atti che compiamo con piena conoscenza di causa e dopo attenta riflessione, mentre lo sono già meno quelle azioni che compiamo certo consapevolmente, ma senza avere avuto il tempo di rifletterci; e così via55. La concezione aristotelica dell’imputazione sembra soprattutto in un altro senso ‘razionale’: è razionale secondo uno scopo; che è quello, in senso lato politico-giuridico, di dissuadere gli individui dal commettere atti considerati socialmente dannosi. Non sarebbe ingiusto punire l’atto non premeditato allo stesso modo di quello premeditato, soltanto perché risulterebbe in nostro potere meno di quest’ultimo, ma anche perché una simile condotta indebolirebbe la capacità di dissuasione sociale: se non veniamo puniti per le nostre azioni nella misura in cui queste dipendono da noi, per quale motivo dovremmo sforzarci di controllarle? Tanto varrebbe rassegnarci al bene e al male che il ‘destino’ estrae casualmente dalle nostre vite. La dottrina aristotelica dell’imputazione permise invece di sviluppare un’idea di responsabilità che, recepita dal mondo grecoromano, non poté non incidere profondamente sulle sue sorti storiche, relegando sempre più in secondo piano la rassegnazione fatalistica ai connotati statico-convenzionali delle antiche norme di comportamento sociale. Grande è evidentemente la distanza, soprattutto culturale, che separa questa complessa classificazione casistica dalla semplicistica dicotomia volontario/involontario delle leggi di Draconte. 55 96 PARTE SECONDA Il passaggio da ‘cosa fa la Giustizia’ a ‘fare la cosa giusta’. Una nozione di responsabilità soggettiva rilevante almeno nell’ambito giuridico. Sono due tra i lasciti più significativi della riflessione greca antica nel campo dell’etica pratica. 5. Verso la pena Anche in Roma antica, così come in Grecia, la vendetta costituisce uno dei principali strumenti di regolazione della conflittualità sociale, confermando le sue caratteristiche di naturale e spontanea forma di reazione al torto subito56: viene considerata una prova di coraggio e di onore doverosa, prima ancora che legittima. Il gruppo familiare cui spetta il diritto-dovere di riparare l’offesa può accettare il ‘prezzo del sangue’ eventualmente offerto dal colpevole in forma di bestiame o di metallo. La comunità interviene sporadicamente e solo per moderare gli eccessi ritorsivi57. Com’era accaduto in Grecia con Draconte, anche a Roma la nascente civitas avverte presto la necessità di sottrarre la vendetta all’arbitrio privato. Già in periodo monarchico si attribuisce a Numa una distinzione tra omicidio volontario e involontario di un uomo libero: “Se qualcuno ha volontariamente (dolo sciens) ucciso un uomo libero, paricidas esto”58. Secondo l’opinione prevalente, l’espressione paricidas esto sta a indicare l’obbligo imposto ai familiari del morto di uccidere l’omicida: in questo modo la 56 Cfr. E. CANTARELLA, I supplizi capitali in Grecia e a Roma, Milano 1991, 122 ss. 57 Cfr. B. SANTALUCIA, Dalla vendetta alla pena, in Storia di Roma, I, Torino 1988; ID., Diritto e processo penale nell’antica Roma, Milano 1989. 58 Cfr. E. CANTARELLA, op. cit., 420. Il paricidium – da non confondersi col parricidium, l’omicidio del genitore – indicava la vendetta sacrale esercitata dai parenti dell’ucciso (v. B. SANTALUCIA, voce Omocidio, dir. Rom., in Enciclopedia del Diritto, 1979). ORDINE, VENDETTA, PENA 97 vendetta comincia a essere posta sotto controllo pubblico, trasformando i parenti della vittima in delegati ad applicare la ‘pena’ di morte. Allo scopo di accertare la volontarietà dell’omicidio, si istituiscono i quaestores paricidii59. L’omicida involontario (imprudens) non poteva invece essere ucciso dai parenti della vittima: “Si telum manu fugit, magis quam iecit, aries subicitur”60. L’ariete era una poiné che aveva anche funzione di piaculum, di offerta espiatoria volta a rimuovere la maledizione divina: l’omicidio, che turbava la pax deorum, richiedeva infatti una purificazione per ristabilire l’armonia tra città e divinità. La persecuzione del colpevole era ancora più un’esigenza religiosa che di ordine pubblico. Pur con alterne vicende, almeno fino alla fine del II secolo a.C. A Roma continua a sussistere l’integrazione della vendetta in un insieme ‘penale’ complesso: il crimen in senso stretto, sanzionabile con una pena pubblica, non è una categoria del diritto privato, ma del diritto ‘costituzionale’. Come in Atene, designa essenzialmente le offese alla sovranità della città, quali tradimenti, insubordinazioni militari, diserzioni, violazioni degli istituti della plebe; omicidio, adulterio, stupro, rapimento, incesto, aggressioni fisiche, furto, sono in quest’epoca soltanto dei delitti privati61. La procedura penale non si distingue quasi da quella civile: la vittima persegue il suo aggressore davanti al magistrato (che enuncia i principi di conduzione del giudizio), poi davanti al giudice o all’arbitro, con l’intenzione di ottenere una sanzione restitutiva privata, e non la punizione pubblica di un criminale. Il tribunale si trova quindi ad agire come Cfr. B. SANTALUCIA, Diritto e processo penale, cit., 11 ss. XII Tab., 8, 24a: “se il dardo sfuggì di mano, più che essere lanciato, venga offerto un ariete”. 61 Cfr. W. KUNKEL, Untersuchungen zur Entwicklung des romischen Kriminalverfahrer in Vorsullanischer Zeit, Munich 1962. 59 60 98 PARTE SECONDA un regolatore della vendetta. Nei casi più gravi (addictio), i colpevoli vengono ‘assegnati’ alla vittima, che decide se metterli a morte, ridurli in schiavitù, o incatenarli nella propria prigione privata62. In caso di injuria (lesioni fisiche con conseguenze invalidanti permanenti), il tribunale consente alla vittima, nel caso non accetti una compensazione pecuniaria, di procedere senz’altro al ‘taglione’. Le composizioni e le transazioni sono delle vere e proprie pene private volte a soddisfare le vittime: il loro contenuto non è soltanto economico, ma comprende in larga misura la riparazione del danno etico necessaria a realizzare una ‘giusta vendetta’, la cui misura è data dunque dalla ‘somma’ della gravità materiale dell’offesa, più l’estensione dell’affronto morale subito dalla vittima. Per questo motivo, ad esempio, sia i Romani che i Greci considerano il furto colto in flagrante più grave di quello rimasto occulto. Il danno non crea insomma un semplice debito economico che potrebbe entrare a far parte degli elementi attivi o passivi di un patrimonio: l’elemento etico, l’affronto, il disonore, tutti gli elementi tipici della vendetta, continuano a riguardare direttamente i soggetti in quanto tali. L’antico diritto romano esibisce un alto grado di istituzionalizzazione della vendetta, in cui l’iniziativa delle vittime, le pene restitutive e l’azione dei tribunali, si integrano per regolarla, non per vietarla. Il tentativo di arginare gli elementi di violenza tipici della vendetta riconducendoli sotto il controllo della rete di regole legali, pur senza sostituire integralmente le seconde alla prima, si protrasse con coerenza durante l’intero arco di vita del diritto romano storico. Lo spazio della vendetta 62 Le prigioni private sono certamente esistite durante tutta la Repubblica; c’è traccia certa della loro interdizione formale soltanto in una costituzione imperiale del 388 d.C. (cfr. Y. THOMAS, Se venger au forum. Solidarité traditionnelle et système pénal à Rome, in La Vengeance, cit. vol. III). ORDINE, VENDETTA, PENA 99 veniva arginato perché non tracimasse pericolosamente, ma non si pretendeva di applicare una pena pubblica in luogo della ritorsione privata, per quanto regolamentata: insomma, non più solo violenza, ma non ancora solo legge penale. Con il disfacimento dell’Impero in Occidente, il controllo sulla vendetta da parte del sistema processuale-legale formale entrò in una crisi irreversibile: le istituzioni erano passate nelle mani di autorità troppo occupate in battaglie di tutt’altro genere da quelle forensi, e propense a un’amministrazione della giustizia di tipo sostanzialistico-personale, anziché procedurale-formale. Il diffondersi del principio della personalità della legge in luogo di quello della territorialità, faceva sì che numerosi individui si muovessero nello spazio europeo ciascuno portando con sé il proprio ordinamento; le popolazioni germaniche, in particolare, esibivano poi un culto della forza fisica che male si conciliava con i formalismi procedurali, specie in ordine alla raccolta delle prove63. Mentre sotto la dominazione ostrogotica e la riconquista bizantina si assiste a un generico semplificarsi del processo e a un suo ridursi a forme più elementari, pur nella conservazione delle strutture essenziali di origine classica, nell’Italia longobarda si instaura invece, almeno nella nazione politicamente dominatrice, un tipo di procedimento che si fonda sulla presenza fisica e sulla partecipazione non mediata delle parti in causa. Se l’esperienza giuridica longobarda presenta, specie sul piano del diritto pubblico, degli elementi di suggestiva e notevole innovazione64, in Carlo Magno affermava che nei processi “melius visum est ut in campo cum fustibus pariter contendant, quam periurium perpetrent in absconso” (Leges Longobardae, Lib. II, Tit. LV, Leg. XXV): meglio che si affrontino armati sul campo, piuttosto che continuino a spergiurare di nascosto. 64 Cfr. in proposito il mio Saggio sulla disobbedienza civile, Milano 1984, 158 ss. 63 100 PARTE SECONDA campo processuale mostra delle note arcaizzanti che possono richiamare alcune caratteristiche che abbiamo visto essere tipiche del contesto greco pre-classico: il divieto di rappresentanza discendeva infatti direttamente da uno dei principi fondamentali della procedura germanica, secondo cui la lesione del diritto anche in materia privata assumeva il carattere di una lesione della persona. Il presunto reo aveva offeso personalmente l’attore nel suo diritto, ed era l’attore stesso che doveva sostenere le proprie ragioni, senza che nessuno potesse sostituirlo. Il Martinus (actor, qui martellat) e il Petrus (reus, qui negat) che vediamo comparire nei formulari giudiziari longobardi, discutono e litigano sempre in prima persona. Faide e ordalie dominano a lungo la scena ‘giudiziaria’ alto-medievale. La faida (dall’antico tedesco fehida, ‘inimicizia’), rappresentava per la tradizione germanica un vero e proprio istituto giuridico cui ogni singolo, e insieme a lui la sua famiglia e il suo clan, poteva ricorrere per ottenere con la forza la soddisfazione riguardo a un proprio diritto leso. Come accade per tutte le procedure vendicatorie, era attentamente sorvegliata socialmente nella sua esecuzione; nella sua plurisecolare sopravvivenza65, venne sottoposta a molte limitazioni ed eccezioni; i Longobardi, nell’Editto di Rotari, le preferirono il guidrigildo, il ‘prezzo della persona’ dato come compensazione all’offeso. L’ordalia, il ‘giudizio di Dio’ consistente in una prova dolorosa o in un duello, era una procedura basata sul presupposto che Dio avrebbe aiutato l’accusato innocente facendolo uscire indenne dalla prova o vittorioso nel duello. Si trattava di una sorta di giuramento fisicamente verificato: la ragione e la verità non stanno Bisogna aspettare il 1495 per vedere affermato dalla Dieta di Worms il divieto dell’uso delle armi per la risoluzione delle liti in tutti i territori tedeschi. 65 ORDINE, VENDETTA, PENA 101 più dalla parte di chi può dimostrare la propria innocenza con fatti, documenti e testimonianze, ma dalla parte di chi, per il solo fatto di aver superato una determinata formalità, non può che essere considerato innocente. La giustizia non è il risultato astratto di una procedura e di un ragionamento dimostrativo, ma un’entità tangibile che si può vedere e toccare. A fondamento dei vari tipi di ordalia stava il giuramento, che chiamava in causa la divinità come testimone. Il duello giudiziario, o duello di Dio, era appunto una forma di ordalia che risolveva la contesa giudiziaria attraverso il combattimento tra i contendenti, o tra i loro ‘campioni’: si distingue chiaramente dalla faida, perché questa era una forma diretta di risoluzione dei conflitti tra individui o gruppi, senza implicazioni sovrannaturali né direttamente giuridiche. Si tratta di istituti che appartengono integralmente a un contesto culturale arcaico-tradizionale caratterizzato dalla sovrapposizione e dalla indistinguibilità tra i diversi piani normativi giuridico, morale e religioso. Nei confronti del giudizio di Dio ordalico, la Chiesa cattolica tenne a lungo un atteggiamento contraddittorio: non poteva certo apprezzare che Dio venisse coinvolto strumentalmente in questioni giudiziarie, per di più segnate da una massiccia dose di violenza; ma non poteva nemmeno consentire che le parti si facessero sistematicamente giustizia da sole. Più decisa fu invece la sua attività di contrasto al duello giudiziario, non solo stigmatizzandolo, ma penalizzandone i partecipanti: al III Concilio di Valenza dell’855, Leone IV indicava come assassino e suicida rispettivamente il vincitore e lo sconfitto di un combattimento dall’esito mortale. La pratica del duello giudiziario si protrasse tuttavia incontrastata per secoli - soprattutto in campo penale - finché almeno in Francia Luigi IX decise di vietarla nel 102 PARTE SECONDA 1260 con l’Ordonnance de la Chandeleure66, che insieme riformava la procedura e introduceva una prima forma di difesa d’ufficio: ‘au lieu des batailles nous mettons preuve de tesmoins’; la testimonianza diventa un obbligo e si propongono degli elementi di contraddittorio. In quegli anni insegnavano a Parigi l’averroista Sigieri e Tommaso d’Aquino: si comprende come un ambiente educato aristotelicamente tendesse a rifiutare un’epistemologia giudiziaria caratterizzata da incapacità analitica e segnata dalla tracotanza delle ‘questioni d’onore’ nobiliari. Ma il tentativo di Luigi IX era decisamente prematuro, tanto che nel 1304 Filippo il Bello sarà costretto, dietro pressione dei baroni, a riesumare il duello, ormai sempre più simile a una guerra privata che a un combattimento giudiziario. Appunto il duello tout court, che di giudiziario o di divino non avrà più nulla, sarà la forma di giustizia privata che si affermerà in Europa occidentale a partire dal XV secolo. Si tratta di un ricorso alla violenza all’interno di una rete di regole; di un utilizzo della forza che ha per così dire conosciuto la normatività, morale e sociale prima che giuridica. È il combattimento formalizzato, consensuale e prestabilito tra due persone per la difesa dell’onore, della giustizia e della rispettabilità; si svolge sempre tra individui del medesimo ceto sociale e armati nello stesso modo. Ufficialmente osteggiato, ma di fatto tollerato, dalla legge ufficiale dello stato, il duello era destinato a un grande futuro: in Italia bisogna aspettare fino al 1930 per trovare una norma che punisca direttamente il duello in sé, e non solo le sue conseguenze sui contendenti67 . 66 Cfr. A. ESMEIN, Histoire de la procédure criminelle en France, Paris 1882, 91 ss. 67 R.d.l. n. 1938 del 19.10.1930, che puniva i duellanti e i portatori di sfida con la reclusione fino a sei mesi e una contravvenzione. ORDINE, VENDETTA, PENA 103 In Occidente, tutto questo entrerà in crisi nel tardo medioevo, in coincidenza con la formazione dei primi stati assoluti e con la rivendicazione da parte di questi del monopolio dell’uso della forza e dell’applicazione della legge. Le nuove entità politiche sono assolute nel duplice senso che appaiono separate tra loro territorialmente e giuridicamente, e che sono governate da un sovrano assoluto; un sovrano cioè ‘superiorem non recognoscens’ (se non, almeno formalmente, Dio) e ‘legibus solutus’, cioè che produce la legge senza essere ad essa sottoposto: ‘Dieu et mon droit’. È in questo contesto che comincia ad affermarsi rapidamente il diritto pubblico di punire e il privilegio statale della sanzione, mentre la vendetta viene emarginata in quanto violenza privata incontrollabile68. Il fine dichiarato di voler sostituire la terzietà del giudizio all’immediatezza della ritorsione, riesce a nascondere solo in parte il fatto che la nuova entità statale sta avocando a sé il monopolio della vendetta attraverso la gestione in esclusiva della totalità dell’azione penale. Un ruolo fondamentale nell’affermarsi dei moderni concetti di ‘delitto’, ‘pena’, ‘sanzione’, ecc., è stato poi sicuramente svolto in Occidente dalla profonda penetrazione politico-istituzionale del cristianesimo e di alcuni suoi concetti-chiave culturali: tra ‘peccato’ e ‘reato’ vi è qualcosa di più di una semplice relazione analogica basata sul comune elemento della trasgressione. Il mondo antico pre-cristiano ignorava l’idea di peccato e la sua connessa attrezzatura espiatorio-penitenziale. Anche per questo, in esso le violazioni delle regole di comportamento o si risolvevano tra privati, o avevano un esito tragico. Il peccato Con l’avvento poi dello stato liberale di diritto, cambierà il ‘proprietario’ delle leggi: non più il sovrano, ma i cittadini. La situazione dal punto di vista del diritto penale rimarrà però sostanzialmente immutata. 68 104 PARTE SECONDA invece prevede non solo l’espiazione, ma anche la possibilità del pentimento e della relativa redenzione. Così il reato – ‘peccato’ contro lo stato – porta con sé la pena; che può essere retributiva, ma anche rieducativa. Ci si può pentire di peccati; ma, ormai, anche di reati. Si possono confessare sia peccati che reati, con conseguenze simili dal punto di vista dei due diversi sistemi ordinamentali, quello sacrale e quello secolare. La giustizia vendicatoria metteva in contatto come avversari i gruppi della vittima e dell’aggressore, mantenendo così in vita un rapporto che poteva anche evolversi nella direzione del riconoscimento e della conciliazione. La nuova giustizia penale isola invece immediatamente l’individuo criminale e lo separa dal resto della società. Privata del suo spazio ‘naturale’, la vendetta inevitabilmente regredisce all’etica selvaggia del giustiziere: errato tentativo di risposta a una lontana giustizia di stato che appare spesso incapace di riabilitare il criminale anche perché l’ha separato dalla sua vittima. Confiscando non solo il potere di punire, ma anche quello di perdonare, lo stato moderno arriva a confondere il ‘foro’ esterno della retribuzione e quello interno della remissione dei debiti. 6. Oltre la pena (e il processo)? Nel processo, i mezzi sono il fine. La moderna giustizia procedurale-formale non sa quale sia la verità, ma agisce come se essa fosse comunque raggiungibile, predisponendo un complesso sistema di regole del gioco. Il processo non è, il più delle volte, altro che una macchina per trasformare il verosimile in ‘certo’: per prendere una decisione che risolva il caso. Ma se lo scopo della giustizia processuale consiste nel ristabilimento della pace sociale là dove essa appare turbata, allora è difficile negare che i suoi mezzi risultino in ORDINE, VENDETTA, PENA 105 larga parte inadeguati; soprattutto la giustizia penale sembra carente di strumenti efficaci per la composizione dei conflitti. Il diritto penale, nato per affrontare la violenza, è diventato troppo simile al suo oggetto69. Un altro degli scopi del processo penale è poi quello di assicurare allo stato l’esclusiva della decisione della sanzione e della gestione della pena. Anche in questo caso i mezzi in funzione del fine sono chiari: imputato e vittima vengono immediatamente separati e posti in una condizione di assoluta incomunicabilità; il primo diventa un ‘oggetto’, di cui si discute; la seconda è relegata al ruolo di spettatore, al più di avente titolo al risarcimento. Salvo quando viene chiamata a testimoniare, diventando allora un mezzo strumentale per l’accertamento della verità processuale. Entrambi sono soltanto le cause di un evento che può benissimo dispiegare le sue conseguenze, come spesso accade, anche senza di loro. La vittima, espropriata della vendetta, parla solo di ‘giustizia’; lo stato chiama giustizia il suo privilegio della vendetta, talvolta nobilitandola in forma di ‘rieducazione’. Dal punto di vista del reo, specie se minore, uno degli argomenti che in tempi recenti più ricorrono a sostegno della necessità di istituire strumenti non giudiziari di risoluzione del conflitto penale, è quello della constatazione degli effetti stigmatizzanti e criminalizzanti del processo e della pena. Storicamente, la prima spinta alla diversion, all’estensione dei metodi della giustizia informale anche al campo penale, è venuta soprattutto dalla convinzione che gli strumenti ufficiali di decisione costituissero insieme uno spreco di risorse e un ‘eccesso di difesa’, specie nei Cfr. A. CERETTI, Progetto per un ufficio di mediazione penale presso il tribunale per i minorenni di Milano, in AA.VV. La sfida della mediazione, a cura di G.V. Pisapia - D. Antonucci, Padova 1997, 85ss. 69 106 PARTE SECONDA confronti dei reati minori: gli autori di questi ultimi, una volta introdotti nei meccanismi del processo, ne uscirebbero inevitabilmente con un marchio di esclusione sociale (lo stigma70) che, ostacolandone il recupero, li avvierebbe alla recidiva e all’escalation criminale. Un rapporto meno formale e più ‘inclusivo’ con questi soggetti, svolgerebbe invece un’azione preventiva, abbassando il livello di stigmatizzazione tipico della giustizia penale. Nel loro operare concreto, i tribunali ufficiali appaiono spesso inutilmente coercitivi e afflitti da una sorta di ossessione punitiva: i sostenitori della giustizia informale ritengono che il concentrarsi soltanto sull’accertamento della responsabilità e sull’applicazione di una pena costituisca una concezione riduttiva dell’attività di giudizio; questa dovrebbe occuparsi anche di ricostruire le relazioni sociali, di rimuovere le cause del conflitto e di incoraggiare l’accordo, piuttosto che basarsi sulla sola coercizione. In questo modo si potrebbe sviluppare un sistema più efficace e meno costoso, in senso sia economico che sociale. Sociologia e criminologia hanno ripetutamente studiato le conseguenze dell’abuso di procedure che di fatto attribuiscono a un soggetto la qualifica di deviante: “il processo penale diventa una ‘cerimonia di degradazione dello status sociale’, di cui la sentenza rappresenta la dichiarazione ufficiale”71 e i cui effetti, in particolare sul delinquente primario e sul minorenne, portano all’attivazione delle cosiddette ‘carriere criminali’. Con la sentenza poi, il giudice non imputa solo una responsabilità ma anche una identità: infatti ‘impone sempre un nome (‘condannato’, ‘prosciolto’, ‘immaturo’, ‘maturo’, ... ), che è anche un’es70 Cfr. in proposito il ‘classico’ E. GOFFMAN, Stigma. L’identità negata, trad. it. Bari 1970. 71 M. CAMPAGNINI, Note di diritto comparato e straniero, in “Rivista italiana di diritto e procedura penale”, 1983, 131 ss. ORDINE, VENDETTA, PENA 107 senza sociale, dichiarandolo innanzi a tutti, e attribuisce così con autorità una qualità ad un determinato soggetto’72. Il processo produce insomma una profezia che è destinata ad auto-avverarsi. Quanto alla vittima, spesso il processo la rende tale due volte quando, dallo sfondo dove normalmente è relegata, la riporta per qualche necessità procedurale alla ribalta dell’aula. Gli organi giudiziari vedono la vittima prevalentemente come una fonte d’informazione istruttoria: la ricostruzione degli eventi, che per il luogo e i modi in cui viene fatta lascia poco spazio a cautele psicologiche, soprattutto in alcuni tipi di crimine può risultare duramente stressante per un soggetto che non ha ancora superato il suo trauma. A ciò si aggiungono, specie nel processo accusatorio, le manovre della difesa che ne mettono in discussione la credibilità, se non addirittura l’innocenza. Abbiamo visto come la giustizia perseguita attraverso la vendetta sia di tipo essenzialmente retributivo. La pena amministrata dallo stato non nega questo tipo di giustizia, ma ne esalta e ne amplifica le componenti esemplari a fini general-preventivi. Talvolta poi la giustizia penale pretende di diventare addirittura rieducativa: di riportare il ‘deviante’ a una presunta ‘normalità’, per di più utilizzando spesso dei mezzi del tutto inadatti allo scopo, come la detenzione in condizioni spesso oggettivamente lesive della dignità personale. In tempi più recenti ha cominciato però a farsi strada una terza nozione di giustizia: una giustizia riparativa (o restitutiva) che cerca appunto di riportare la vittima e il reo al ruolo di protagonisti della loro vicenda di conflitto. Ne è principale veicolo la mediazione penale. 72 30. A. CERETTI, Come pensa il Tribunale per i minorenni, Milano 1996, 108 PARTE SECONDA Il campo operativo della mediazione penale è centrato sulla relazione instauratasi, con il verificarsi della condotta delittuosa, tra l’aggressore (al patrimonio, alla libertà personale, all’integrità fisica, ecc.) e la vittima. A seguito dell’aggressione, autore del reato e persona offesa entrano in un complesso rapporto che crea di fatto un legame personale derivante dall’esperienza comune del crimine commesso/subito73. In questa prospettiva, il conflitto si muove chiaramente anche su un piano personale-relazionale, soprattutto dal punto di vista della vittima, la quale tende inevitabilmente a provare una vasta gamma di emozioni negative nei confronti del suo aggressore: odio, desiderio di rivalsa, paura. La mediazione si occupa soprattutto di gestire queste emozioni, o meglio di gestire le emozioni di entrambi i configgenti74. La giustizia penale tradizionale non è infatti in grado di curarsi della dinamica psicologica tra vittima e offensore. Anzi, manifesta se mai una tendenza opposta: il giudice deve evitare per quanto possibile che il procedimento di accertamento della verità possa essere inquinato da considerazioni personali o alterato dall’irrompere dell’emotività75. Per raggiungere la massima obiettività, le parti vengono di fatto espropriate del loro conflitto, che viene affidato agli addetti ai lavori, gli avvocati e il pubblico ministero. TuttaSul complesso legame vittima – offensore dopo il reato, si veda in generale Con gli occhi della vittima. Approccio interdisciplinare alla vittimologia, a cura di R. BISI e P. FACCIOLI, Milano 2002. Sul confronto vittima – offensore in sede di mediazione, M. S. UMBREIT, Victim Meets Offender, New York 1994. 74 Anche un istituto tradizionale come la remissione di querela può in qualche modo rispondere a questa logica propria della mediazione: se il comportamento delittuoso non ha in realtà provocato danni alla vittima, non vi è motivo per instaurare un processo, poiché il titolare del bene giuridico protetto dalla norma incriminatrice dichiara di non aver subito la lesione cui è collegata la pena. Sul principio di offensività, cfr. D. SCATOLERO, La questione punitiva, in Punire perché, a cura di M. Cavallo, Milano 1993, 15–19. 75 M. BOUCHARD, G. MIEROLO, Offesa e riparazione, Milano 2005, 30. 73 ORDINE, VENDETTA, PENA 109 via l’evento continua a esistere sul piano personale-relazionale, e non viene certo risolto dalla sentenza. Il contenzioso giudiziario infatti, radicalizzando e istituzionalizzando il conflitto76, separa i contendenti impedendo la comunicazione e quindi, dal punto di vista della mediazione, la risoluzione autentica della vicenda. Dove lo stato reprime, la mediazione cerca invece di riparare la rottura causata dall’evento traumatico del reato. La mediazione penale è una modalità di gestione del conflitto che si sostanzia in uno scambio ritualizzato della controversia77: scambio che consiste nel tentativo di instaurare un dialogo tra la persona offesa dal reato e l’autore della condotta criminosa. I protagonisti della gestione non sono quindi le parti del processo, ma piuttosto gli attori del fatto. Ne derivano tre importanti conseguenze caratteristiche: la mediazione non evita semplicemente la lite giudiziaria, ma soprattutto l’attrazione della controversia nell’orbita esclusiva del diritto statale e quindi la sottrazione di essa al controllo diretto dei contendenti; lo stato viene messo ai margini della procedura di mediazione penale, poiché il recupero della dimensione personale dell’accadimento elimina la partecipazione dei soggetti ad esso estranei; l’emarginazione dello stato è ciò che distingue la mediazione penale dalle altre forme di mediazione endo-processuale volte a scopi prevalentemente deflattivi della giustizia ordinaria. Nella sua relazione col processo, la mediazione penale può assumere due configurazioni di base: come alternativa al processo; come alternativa nel processo78. A. CERETTI, C. MAZZUCATO, “La scommessa culturale della giustizia minorile”, in Processo penale minorile, a cura di L. De Cataldo Neuburger, Padova 2004, 164 ss. 77 M. BOUCHARD, G. MIEROLO, op. cit., 45-46. 78 Così H. ZEHR, Changing Lenses: A New Focus for Crime and Justice, Scottsdale 1990, 32; M. CHIAVARIO, Processo penale e alternative, in Accer76 110 PARTE SECONDA La prima è appunto la mediazione penale ‘pura’, che si propone di eliminare totalmente il momento giurisdizionale del conflitto per restituirlo a una dimensione il più possibile ‘privata’. La mediazione come alternativa nel processo invece ricomprende anche soluzioni diversificate già previste in diversi ordinamenti, come i riti cosiddetti premiali, o ‘speciali’ per il legislatore italiano: la mediazione è vista insomma come un procedimento incidentale all’interno del processo penale. Il modello di mediazione penale come alternativa al processo configura in sostanza una giustizia consensuale conciliativa volta a cercare un ordine negoziale che permetta l’emergere delle cause vere del conflitto, mentre i rapporti di forza, propri della dialettica del processo, ne sarebbero solo i sintomi79. Per giustizia consensuale può intendersi in senso lato il potere di definizione autonoma e concordata di questioni e situazioni delle parti80: questa giustizia si contrappone di fatto alla giustizia convenzionale pubblico-ufficiale amministrata dal giudice del processo in nome dello stato e quindi della collettività di riferimento. Ciò che si chiedono i sostenitori della mediazione penale pura, è se la collettività abbia un reale interesse a partecipare al processo penale in merito ad ogni controversia che sorga tra soggetti a lei stessa appartenenti; e rispondono negativamente81. Anzi, evidenziano se mai l’opposta tendenza a un progressivo distacco dei consociati da una tamento del fatto, alternative al processo, alternative nel processo, Atti del Convegno di Urbino 23-24 settembre 2005, Milano 2007, 13. 79 C. PERINI, La mediazione dei conflitti nella società del rischio, in Mediazione e giustizia penale: dalla punizione del reo alla composizione con la vittima, a cura di G. Mannozzi, Milano 2004, 235 ss. 80 H. ZEHR, op.cit., 65. 81 In generale, sulla pretesa punitiva dello stato a fronte di fattispecie indifferenti alla collettività, si veda R. NISBETT, Community and Power, Oxford University Press 1962. ORDINE, VENDETTA, PENA 111 giustizia gestita in maniera monopolistica e burocratica, che favorisce di fatto il senso di allontanamento e di deresponsabilizzazione dell’individuo rispetto ai fenomeni di devianza che interessano il suo ambiente sociale. La giustizia riparativa tipica della mediazione penale avrebbe poi lo scopo di riportare la vittima al ruolo di protagonista dell’evento. La restorative justice nasce infatti storicamente anche come risposta alla crescente marginalizzazione, nella giustizia penale contemporanea, della persona che è stata concretamente danneggiata dall’azione del reo: la vicenda personale della vittima, nella normale gestione processuale del conflitto, non sarebbe altro che una ‘mera occasione per l’attivarsi della reazione anti criminosa’82. Howard Zehr parla in proposito di ‘rivoluzione copernicana’ del diritto penale83: occorre rimettere al centro della vicenda criminosa la persona che l’ha generata e la persona che l’ha subita, recuperando la dimensione interpersonale del conflitto. I due momenti fondamentali del dialogo sarebbero perciò la presa di responsabilità per l’atto commesso (taking responsibility) e la riparazione dei danni cagionati secondo modalità concordate (making things right). Scopo della mediazione dovrebbe essere quindi la promozione di una comunicazione tra le parti che generi, in caso di successo, una ‘restaurazione’ della situazione bilaterale. L’espressione richiama l’idea civilistica dell’eliminazione, per quanto possibile, delle conseguenze negative del fatto ingiusto: ma nella mediazione penale c’è in più l’elemento che le parti devono volgere l’attenzione al futuro dei loro rapporti per evitare che la crisi che li coinvolge nel momento presente possa ripresentarsi. La riparazione F. REGGIO, Restorative justice e controversia penale, in Audiatur et Altera Pars, a cura di F. Puppo, M. Manzin, Milano 2008, 370. 83 H. ZEHR, op.cit., 56. 82 112 PARTE SECONDA concordata dovrà perciò ricomprendere anche elementi di accordo sul prossimo corso della relazione. La mediazione dovrebbe insomma permettere di superare la logica del castigo attraverso una lettura relazionale del fenomeno criminoso, così da trovare una cura di esso che non passi obbligatoriamente per la sola stigmatizzazione dell’autore. Tanto la mediazione appare lontana dal moderno modello penalistico-sanzionatorio, quanto sembra invece recuperare alcuni elementi di base che caratterizzano la più antica e universale procedura di gestione della conflittualità: la vendetta. Abbiamo visto come il lungo passaggio storico dal sistema vindittuale al sistema penale statuale sia consistito in una progressiva ricerca di forme specializzate per governare la violenza nelle relazioni attraverso la legge: la vendetta continua a coesistere con il nascente sistema penale per lungo tempo e comincia a tramontare solo con il sorgere degli stati assoluti84, momento nel quale l’amministrazione della giustizia viene avocata a sé dal sovrano. A ben vedere, tracce della concezione vindittuale della giustizia penale sono rinvenibili anche in epoche meno remote: in Italia, sino a pochi decenni fa, la commissione di un delitto perpetrato al fine di salvaguardare l’onore (ad esempio l’uccisione del coniuge adultero, o dell’amante di questi, o di entrambi) era sanzionata con pene attenuate rispetto all’analogo delitto di diverso movente, poiché si riconosceva che l’offesa all’onore arrecata da una condotta ‘disonorevole’ valeva come gravissima provocazione, e che la riparazione non causava riprovazione sociale eccessiva. Ancora, il rapimento era in qualche modo ‘sanato’ dal matrimonio avvenuto tra il reo e la vittima del sequestro. 84 J. Huizinga riporta esempi di riparazioni/punizioni dal valore rituale simbolico ancora in età basso medievale: “Il carattere formale inerente all’espiazione e alla vendetta faceva si che il torto commesso si potesse riparare con punizioni simboliche”. Cfr. Autunno del Medioevo, Milano 1998, pp. 333–334. ORDINE, VENDETTA, PENA 113 C’è poi un’altra differenza fondamentale tra i due sistemi: mentre la giustizia penale isola e separa i protagonisti del conflitto, cercando così di non turbare ulteriormente l’ordine complessivo, la vendetta-riconciliazione tende a riconoscere l’altro, promuovendo così indirettamente una ricompattazione del tessuto sociale. Il diritto penale ha come scopo la prevenzione-repressione, quindi si concentra soprattutto nel momento punitivo del reo. Nella giustizia riparativa, il ruolo del reo è invece notevolmente diverso: invece di ‘sprecarlo’ recludendolo, si cerca di orientarlo alla restorazione delle utilità (morali, materiali, ecc.) della vittima e di non ridurlo a un semplice centro di imputazione di sanzioni. In generale, mentre la giustizia retributiva guarda al passato e ritiene che ristabilire l’ordine sia soprattutto attribuire responsabilità e comminare sanzioni, la giustizia riparativa guarda al futuro e cerca di curare il danno nella prospettiva della relazione reo-vittima. La storia del diritto penale è in gran parte una storia di prevenzione generale e speciale del crimine che mira all’incapacitazione dell’agente di reato85 tramite politiche di neutralizzazione basate sulla minaccia e/o sull’uso della forza, senza intervenire sulle precondizioni che generano la situazione delittuosa. Da questo punto di vista, è invece proprio il diritto penale che appare incapace di riabilitare soprattutto perché segrega il reo, separandolo dalla società e soprattutto dalla sua vittima: qualsiasi forma di riparazione è preclusa fin dall’inizio, perché se i soggetti coinvolti non possono comunicare, la vittima non può spiegare la forma di restituzione cui aspirerebbe, né può il reo prendere responsabilità rispetto al danno causato. Il reo perde 85 Così L. EUSEBI, La riforma del sistema sanzionatorio penale: una priorità elusa? Sul rapporto fra riforma penale e rifondazione della politica criminale, in PICOTTI L., SPANGHER G. (a cura di), Verso una giustizia penale conciliativa, Milano 2002, p. 17. 114 PARTE SECONDA insomma la possibilità di riparare sia materialmente che moralmente. Non pochi sono gli elementi che, al di sopra della pena retributivo/rieducativa, sembrano avvicinare la vendetta e la mediazione penale. Le strategie di entrambe si sviluppano attraverso complesse tattiche di allontanamento-riavvicinamento dei protagonisti della vicenda volte a creare/ ricreare la relazione tra i soggetti del conflitto. Comporre la vicenda significa letteralmente aggiustarla, cioè cercare di ‘fare giustizia’ attraverso un metodo che consenta di non generare ulteriore disordine. Troncare lo scambio, come avviene di fatto nella logica processuale, comporta chiaramente il venir meno del contatto, per quanto problematico, relazionale e comunicativo. Sia la vendetta che la mediazione mettono poi al centro della risoluzione le parti. Il protagonismo dei soggetti è forse la novità principale introdotta della pratica di mediazione: la vittima, espropriata della vicenda nel procedimento penale, ne riacquista il controllo nella mediazione così come nella vendetta. Può negoziare la forma che considera più appropriata di riparazione, può confrontarsi direttamente con l’autore del reato, e infine può davvero verificare che gli obblighi assunti vengano rispettati. Entrambe consistono in una soluzione del conflitto di tipo non aggiudicativo. L’alternativa al risultato vincitore/ vinto è ottenuta percorrendo un doppio binario: da un lato la collettività di riferimento, riconoscendo l’avvenuta violazione dell’ordine, vigila sulla doverosa vendetta dell’offeso. La ritorsione viene però autorizzata non con riguardo al giudizio di colpevolezza di un individuo, ma sulla base della violazione oggettivamente consumata: questa giustifica la vendetta della famiglia che ha subito il torto, e solo a questa giustificazione la società è chiamata a partecipare. Non si tratta di disinteresse per le sorti dei protagonisti, ORDINE, VENDETTA, PENA 115 ma solo del prendere atto della loro esclusiva competenza a risolvere il trauma interfamiliare86. Il trauma potrà essere guarito solo dai diretti interessati, gli unici a poter giudicare la sua estensione e la cura necessaria a sanarlo. In altri termini, il gruppo sociale verifica che sia rispettata la quantità di vendetta ammissibile per il tipo di conflitto, ma lascia che le modalità di essa siano interamente nella disponibilità dei protagonisti. Questo modello in qualche modo ritorna nella mediazione moderna, così come disciplinata nei vari ordinamenti che la prevedono: il legislatore fissa le linee guida entro le quali muoversi, le parti decidono le modalità della composizione. In entrambe manca poi il giudice, il terzo estraneo alla controversia dotato di poteri decisionali. Nella mediazione, il terzo neutrale non ha il compito di attribuire responsabilità e di sanzionarne i portatori, ma si colloca in posizione intermedia tra le parti per aiutarle a focalizzare il percorso di composizione intorno a soluzioni condivise87. Analogamente, nel sistema vindittuale troviamo presenze neutrali con ruolo di negoziatori o di veri e propri ‘saggi’ che, ricordando alle parti le regole di comportamento del gruppo sociale di appartenenza, le aiutano a portare la controversia entro i confini di ragionevolezza necessari perché si possa giungere a una ‘giusta vendetta’. Un elemento fondamentale distingue tuttavia nettamente la vendetta dalla mediazione penale; elemento che attiene alla modernità individualizzante e relazionale di quest’ultima, rispetto all’antichità esclusivamente riordinatrice della prima. Lo scopo ultimo della mediazione è il raggiungimento di una metanoia, di un cambiamento della mente nei protagonisti del conflitto: non solo nel reo, ma 86 87 Si veda in proposito E. CANTARELLA, Itaca, Torino 2004. Cfr. R. FISHER, W. URY, Getting to Yes. New York 1991, 12 ss. 116 PARTE SECONDA anche nella vittima. È lo stesso fine cui vorrebbe tendere la visione della pena come ‘rieducazione’ del condannato, perseguito però attraverso un percorso dialogico non stigmatizzante e personalizzato. Nel passaggio dalla vendetta alla pena, per la prima volta l’attenzione della collettività viene indirizzata sul colpevole e distolta dalla vittima e dall’atto di aggressione. Ma, pur cambiando il punto di osservazione, non cambia la sostanza, in quanto il diritto penale mira comunque, attraverso le sue sanzioni, a soddisfare il desiderio di rappresaglia della comunità, sostituendosi ad essa nella sua esecuzione88. La pena non è che la vendetta esercitata monopolisticamente dal potere dello stato, per definizione il più forte. La mediazione penale può forse essere intesa appunto come una ‘buona vendetta’, perché di questa cerca di recuperare il solo aspetto riparativo superando quello strettamente retributivo. 7. La vittima, il reo e la comunità La concezione della mediazione penale come metodo di risoluzione delle controversie alternativo al processo e basato sull’immagine della buona vendetta, si proietta sullo sfondo della distinzione tra giustizia retributiva e giustizia riparativa89. Due concezioni della giustizia penale che realizzano sul piano ordinamentale differenti visioni della funzione giurisdizionale all’interno dello stato di diritto. La giustizia retributiva affonda le sue radici nel modello ancestrale della lex talionis: alla condotta criminosa 88 R. Girard definisce la pena inflitta dallo stato come “violenza senza rischio di vendetta”: La violenza e il sacro, trad. it. Milano 1980, 33. 89 Cfr. A. EGLASH, Beyond Restitution: Creative Restitution, in Restitution in Criminal Justice, a cura di J. Hudson e B. Galaway, Lexington 1977. Cfr. anche G. MANNOZZI, La giustizia senza spada, Milano 2003, 44. ORDINE, VENDETTA, PENA 117 corrisponde l’irrogazione di una sanzione proporzionata al male commesso/causato, tale da realizzare la punizione dell’autore del reato. Questo modello di giustizia, quasi tanto antico quanto la nascita di gruppi umani sociali stabili, si consolida all’epoca della formazione dei moderni stati assoluti ed è rivolto a colpire il conflitto come disordine potenzialmente disgregatore dello stato stesso90. Essendo il conflitto sociale concepito solo come fattore destrutturante, la giustizia penale retributiva ha come scopo principale la predisposizione di rimedi repressivi tramite l’isolamento e la neutralizzazione dei protagonisti di esso. La punizione è l’unica risposta possibile, poiché tende a reprimere la violazione che minaccia la vita pacifica dei consociati e contemporaneamente dovrebbe agire da deterrente per tutti coloro che ancora non si sono resi responsabili di violazioni dell’ordine costituto. In questa visione della giustizia non c’è spazio per la considerazione dei fattori che hanno generato il conflitto, che non viene interpretato come situazione patologica derivata, bensì originaria e come tale da trattarsi separatamente rispetto alla restante parte di società non deviante. La concezione sociale che sta alla base del modello riparativo tende invece a prendere in considerazione il conflitto nella sua dimensione globale: è “un paradigma di giustizia che coinvolge la vittima, il reo e la comunità nella ricerca di soluzioni, allo scopo di promuovere la riparazione del danno, la riconciliazione tra le parti e il rafforzamento del senso di sicurezza collettivo”91. Obbiettivo della giustizia riparativa è infatti la cura delle cause che hanno generato il conflitto, attraverso il superamento dell’identi90 E. RESTA, Conciliare, giudicare, mediare, in Il coraggio di mediare, a cura di F. Scaparro, Milano 2001, 21. 91 A. CERETTI, F. DI CIÒ, G. MANNOZZI, Giustizia riparativa e mediazione penale, in Il coraggio di mediare, cit., 309. 118 PARTE SECONDA ficazione del reato con la semplice violazione della norma giuridica: una semplificazione derivata dall’influenza delle teorie positivistiche sul reato e sulla pena, che non tiene conto delle altre numerose conseguenze connesse all’evento offensivo, soprattutto nella prospettiva della vittima del reato. Nell’ottica non riduttiva di una visione globale del conflitto privilegiata dalla mediazione penale, è possibile invece far emergere quelli che sono considerati i principali scopi di politica criminale del modello riparativo92: 1. Il riconoscimento della vittima. 2. La riparazione dell’offesa nella sua dimensione patrimoniale ed emotiva. 3. L’autoresponsabilizzazione del reo e il conseguente consenso alla riparazione. 4. Il coinvolgimento della comunità nel processo di riparazione. 5. Il rafforzamento degli standard etici collettivi. 6. Il contenimento dell’allarme sociale. I diversi modelli di giustizia riparativa possono privilegiare maggiormente l’uno o l’altro di questi scopi. Essi tuttavia coesistono tutti nella mediazione penale in quanto strategia di gestione della complessità del conflitto che cerca di superare la rigidità dicotomica della processualità standard. In estrema sintesi, è possibile riunire i diversi scopi che si propone la giustizia riparativa in due grandi gruppi: quello dei risultati a beneficio della vittima e dell’offensore; quello dei risultati a beneficio dell’intera comunità di appartenenza dei soggetti coinvolti nel fatto criminoso. Il modello si modifica in funzione dell’obbiettivo prevalente. 92 G. MANNOZZI, op.cit., 102 ss. ORDINE, VENDETTA, PENA 119 Nelle società tradizionali strutturate intorno al nucleo-base del clan familiare, il conflitto si presenta non solo come una contrapposizione di opinioni (condotta giusta/ condotta sbagliata), ma soprattutto di identità: gli appartenenti ai diversi gruppi si schierano quasi automaticamente a fianco del proprio consociato. Il retaggio di questa giustizia sostanzialista basata sull’appartenenza, comunitaria e partecipativa, sopravvive ancora oggi; perfino in Occidente. Scarseggiano però i luoghi pubblici in cui poterlo esprimere liberamente e ‘correttamente’, perché il formalismo proceduralista su cui si fonda il moderno modo di amministrazione della giustizia pubblica-ufficiale presuppone proprio la distanza da queste componenti ancestrali. Ne consegue il senso di frustrazione che deriva dalla negazione della partecipazione a una vicenda che offende, nel sentire collettivo, l’intero gruppo. Frustrazione che alimenta la diffidenza verso la giustizia pubblica-ufficiale e la tendenza verso incontrollabili sanzioni sociali. Uno degli obbiettivi delle varie forme di mediazione penale è appunto quello del coinvolgimento della comunità nel processo di riparazione. La comunità è chiamata a svolgere non più semplicemente il ruolo passivo di destinataria delle norme incriminatrici a livello generale e della riparazione a livello particolare, bensì diventa attore sociale nel percorso di composizione vittima-offensore93. Naturalmente gli interessi della vittima e della comunità possono concretizzarsi in bisogni molto diversi. La vittima vive il reato e le sue conseguenze come eventi puramente personali e ne elabora le conseguenze dirette sulla sua vita privata e pubblica. La comunità vede invece nel reato soprattutto un attacco alla propria sicurezza, intesa come l’insieme delle politiche dirette alla salvaguardia dell’integrità fisica 93 Cfr. A. CERETTI, F. DI CIÒ, G. MANNOZZI, op.cit., 312. 120 PARTE SECONDA e patrimoniale dei suoi appartenenti. Alla commissione di un crimine, scatta a livello sociale una domanda di sicurezza rivolta alle istituzioni, alle quali si chiede spesso un inasprimento delle pene e un rafforzamento dei controlli. Esse tuttavia possono fornire solo una risposta giurisdizionale, percepita dai consociati come lenta, inefficace, macchinosa. Intanto il disagio cresce, alimentato dalle distorsioni e dalle enfasi allarmistiche diffuse dagli organi d’informazione. È in quest’ambito che la presenza di strumenti di giustizia riparativa potrebbe determinare un certo contenimento dell’allarme sociale, in relazione almeno ad alcune categorie di reato. Le strategie di giustizia riparativa pongono necessariamente al proprio centro l’importanza di una corretta comunicazione sociale. Nel processo comunicativo, la comunità può davvero riacquistare un senso di sicurezza sociale attraverso due vie: da un lato, sapere cosa sia veramente accaduto serve a contenere il diffondersi di esagerazioni e inutili allarmismi; dall’altro, dei consociati effettivamente informati e consapevoli sono più propensi a ritenere che le istituzioni comprendano realmente le loro legittime preoccupazioni circa gli eventi che si verificano nel loro territorio94. Il ruolo delle comunità in tal senso è stato ad esempio riconosciuto dall’ECOSOC, il Consiglio Economico delle Nazioni Unite, nella risoluzione n.12 del 2002: Basic principles on the use of restorative justice programs in criminal matters95. Sempre nell’ambito delle politiche riparative promosse dalle Nazioni Unite, si possono poi ricordare i principali 94 Sull’argomento si veda P. MCCOLD, Restorative Justice and the Role of Community, in Restorative Justice. International Perspectives, a cura di B. Galaway, J. Hudson, New York 1996, 401. 95 L’art. I della risoluzione definisce infatti “parti della controversia” il reo, la vittima e la comunità. ORDINE, VENDETTA, PENA 121 strumenti di intervento della giustizia partecipativa elencati dall’ISPAC96 a seguito della Dichiarazione di Vienna (risoluzione n. 14 del 2000): a) VIS (Community/Neighborhood Victim Impact Statements): la vittima di un determinato reato racconta come questo abbia influenzato la sua vita sul piano personale ed economico. Il VIS è generalmente diretto all’autorità competente a decidere sulla concessione della libertà vigilata (parole), ma può essere anche l’occasione per creare un tavolo di discussione sull’impatto sociale del tipo di reato all’interno della comunità di appartenenza della vittima. b) Community Restorative Board: un piccolo consiglio composto da abitanti di una comunità, formati attraverso un programma istituzionale, conducono dei colloqui con il reo sull’evento e le sue conseguenze, allo scopo di concordare una serie di misure riparative attraverso un accordo scritto che viene poi presentato all’autorità giudiziaria a scopo informativo. c) Community/Family Group Conferencing: a questa procedura di mediazione partecipano, oltre alle parti direttamente interessate, le famiglie dei protagonisti o, nella forma ancora più allargata, alcuni rappresentanti della comunità. Anche in questo caso i colloqui vertono sul reato, le sue conseguenze e le possibili riparazioni. d) Community Sentencing Circles: si tratta di una forma di processo pubblico nel quale, nei casi più gravi, la comunità partecipa accanto all’autorità giudiziaria alla vicenda processuale e decide, insieme con le altre parti, un programma di riparazione a beneficio di tutte le parti lese. L’ISPAC, International Scientific and Professional Advisory Council, è il Consiglio delle Nazioni Unite per le politiche di prevenzione del crimine e per i programmi di giustizia penale. 96 122 PARTE SECONDA Accanto a questi istituti c’è poi tutta una serie di procedure centrate quasi esclusivamente sul momento riparativo inteso come restituzione pratica e che fanno parte in genere degli accordi stipulati con il Board o con il Council: in particolare possiamo ricordare la prestazione di lavoro, da parte del reo, a favore della comunità; la prestazione di lavoro a favore della vittima; i compensation programs, con i quali si compensano i danni da reato attraverso il pagamento delle spese mediche, di assistenza psicologica, ecc. La stragrande maggioranza, per non dire la quasi totalità, dei programmi descritti provengono dal mondo di common law, in particolare statunitense, e afferiscono al bacino delle procedure riparative. Solo il Conferencing Group realizza una vera e propria mediazione, poiché è l’unica esperienza nella quale le parti vengono aiutate a sviluppare un dialogo e il conseguente programma riparativo con l’assistenza di un mediatore. È chiaro come tutte queste procedure possano svilupparsi solo in presenza di un reale tessuto comunitario che sia in grado di occuparsi della propria sicurezza accollandosene in buona parte la responsabilità della gestione. È insomma necessario un contesto in cui il desiderio di ‘fare giustizia’ in maniera autonoma sia ancora forte e diffuso: si tratta ‘solo’ di incanalarlo verso forme non direttamente aggressive, ma dialogiche e partecipative. In Occidente, questi tipi di situazione sociale sono rari; e spesso vengono percepiti come pericolose forme di regressione verso una responsabilità oggettiva e collettiva in luogo della moderna responsabilità soggettiva e individuale97. 97 All’opposto, la cultura orientale, specie quella cinese, guarda tradizionalmente con diffidenza ai metodi esclusivamente legali-formali di gestione dei conflitti centrati sulla sola responsabilità dell’agente individuale. Rinvio in proposito al mio Invece di giudicare, Milano 2007, 145 ss. ORDINE, VENDETTA, PENA 123 8. Vittimologia e abolizionismo processuale Riconoscimento della vittima, riparazione globale dell’offesa, autoresponsabilizzazione del reo: questi sono dunque gli scopi che il modello riparativo si propone di perseguire attraverso i programmi di riconciliazione diretti alla vittima del reato e all’autore di esso. La personalizzazione del conflitto, che è alla base della teoria riparativa, ha significativamente contribuito alla diffusione della mediazione come strumento alternativo o concorrente al processo. Tale risultato non sarebbe stato possibile se due importanti correnti socio-giuridiche di pensiero non avessero in qualche modo raccolto e fatta propria la sfida della ‘giustizia senza spada’, fornendole sostegno teorico e pratico. Ci riferiamo in particolare agli studi di ‘vittimologia’ e alle teorie sull’abolizionismo processuale. È un dato di fatto che le istituzioni pubbliche lascino la vittima del reato sola ad affrontare la realtà del procedimento penale. Tale problema comincia ad essere particolarmente avvertito negli Stati Uniti e in Gran Bretagna, dove tra gli anni ‘60 e gli anni ‘70 del XX secolo si verificano massicce ondate migratorie. Il crescente fenomeno dell’immigrazione clandestina, specie negli USA alimentava il senso di insicurezza della popolazione urbana e la domanda di politiche di sicurezza e di controllo adeguate. Nel clima di allarme sociale alimentato dall’incremento della criminalità, a torto o a ragione attribuito comunque agli immigrati, le vittime continuavano e restare dimenticate: agli occhi di un pubblico preoccupato, il reo è in tutti i sensi molto più interessante98. 98 Sul punto, diffusamente, R. I. MAwby, M. L. Gill, Crime Victims, London 1987. Sulla rimozione ‘lessicale’ della vittima nella legislazione penale italiana , si veda L. Lanza, La vittima nel sistema penale, in Tutela della vittima e mediazione penale, a cura di G. PONTI, Milano 1995, 28. 124 PARTE SECONDA La macchina oggettivante e neutralizzatrice del processo contribuisce ovviamente a scoraggiare una reale partecipazione dei diretti interessati alla vicenda. Se la verità è tanto meglio accertata quanto più la formazione delle prove nel dibattimento avviene senza condizionamenti emotivi, è naturale che la persona offesa dal reato e l’autore di questo siano per la maggior parte del tempo isolate l’una dall’altro e anche spesso dal giudice. Soprattutto nel caso dei reati gravi contro la persona, la parte lesa viene vista portare con sé un bagaglio di traumi causati dalla condotta criminosa, potenzialmente in grado di influenzare emotivamente lo svolgimento del processo, quindi la formazione delle prove e la stessa decisione del giudice: il formalismo processuale tende inevitabilmente a sterilizzare i casi concreti trasformandoli in modelli. Al termine del percorso processuale, alla vittima rimane semplicemente una compensazione simbolica (la condanna e la pena dell’aggressore) e una compensazione materiale nella forma di un risarcimento economico, entrambe spesso inadeguate a riparare il danno esistenziale subito99. Il termine ‘vittimologia’ viene utilizzato per la prima volta dallo psichiatra americano Fredric Wertham, nel contesto di una pionieristica indagine di “sociologia della vittima”100. Specialista in perizie criminologiche su pluriomicidi, Wertham sosteneva la necessità di recuperare, all’interno del trattamento terapeutico del delinquente, il ruolo della vittima come imprescindibile elemento di valutazione del comportamento deviante da parte della società di riferimento. 99 La giurisprudenza americana, mostrando di recepire la risoluzione ONU 40/34 del 1985, tipizza il danno esistenziale in questi termini: loss of the capacity for enjoying life; loss of the value of life; loss of enjoyment of life. 100 F. WERTHAM, The Show of Violence, Doubleday, New York 1949, p. 102 ss. ORDINE, VENDETTA, PENA 125 Più tardi Benjamin Mendelsohn descriverà la vittimologia come una nuova branca delle scienze sociali diretta allo studio sia delle cause patogene che scatenano la commissione del reato, sia dell’evento criminoso in quanto relazione che genera sofferenza nella vittima101. La vittimologia si propone insomma di studiare la personalità, le caratteristiche psicologiche, le interrelazioni della vittima con l’autore del reato, al fine di identificare i danni causatele e l’eventuale parte avuta nella genesi del delitto102. È la prima volta che la criminologia si dedica a uno studio relazionale delle dinamiche tra la vittima e il mondo circostante: l’autore del reato, le istituzioni, i consociati. La riscoperta della vittima è insomma anche la riscoperta del suo ruolo nell’evento relazionale del reato. Già Freud aveva descritto la ‘sindrome di Abele’103 come la predisposizione a subire passivamente un destino di violenza. Mendelshon classifica le vittime a seconda del loro grado di ‘partecipazione’ al reato104: interamente innocenti, collaboratrici (comportamenti provocatori, impudenti, imprudenti), autrici (simulatrici). Non si tratta ovviamente di voler colpevolizzare la vittima e simmetricamente deresponsabilizzare il reo: è un tentativo di migliorare le prognosi vittimologiche, allo scopo di approntare una più efficace politica di sicurezza. Altre correnti vittimologiche si occupano della tipizzazione del reato, distinguendo tra reati non relazionali e reati di relazione. I primi sarebbero quelli con vittima non individualmente mirata, come ad esempio 101 B. MENDELSHON, Une Nouvelle Branche de la Science Bio – psycho – sociale, la Victimologie, Ginevra 1959. 102 Cfr. la voce “Vittimologia”, a cura di G. PONTI, in Compendio di criminologia, Milano 1999, 634. Si veda anche G. GULOTTA, La vittima, Milano 1976, 467, dove si parla di “coppia penale come situazione relazionale”. 103 S. FREUD, Introduzione alla psicanalisi, Torino 1983. 104 B. MENDELSHON, op.cit., 106 ss.. 126 PARTE SECONDA di solito nel furto; i secondi invece quelli in cui il rapporto vittima-aggressore è in varia misura determinante per la realizzazione della condotta criminosa e delle sue modalità di esecuzione: un esempio può essere la truffa, dove il reo raggira la vittima attraverso lo sfruttamento di un suo punto debole, indispensabile per portare a termine il disegno criminoso. Sono quei reati in cui il danno è aggravato dalla sensazione di tradimento. La vittimologia più recente mostra però segni di insofferenza verso questi tipi di approccio, soprattutto per i rischi che comportano di trascinare in sede processuale la persona offesa in una battaglia sulla conta delle responsabilità105. Lo scopo primario non è infatti quello di spingere per un inasprimento delle pene o delle quantificazioni dei risarcimenti, ma quello di costruire dei percorsi di riparazione che possano aiutare la vittima a elaborare l’evento traumatico del reato e le conseguenze sulla sua qualità della vita. La vittimologia più recente è centrata sullo studio del momento della vittimizzazione, intesa come presa di coscienza da parte della persona offesa di essere stata protagonista di un evento lesivo della sua sfera personale, psicologica, fisica e affettiva106. Non di rado la vittima tende a colpevolizzarsi per quanto le è accaduto107, con conseguenze negative non solo sulla sua psiche, ma anche con ripercussioni in ambito sociale: la vittimizzazione negativa della persona che ha subito l’aggressione la porta in primo luogo a non collaborare con l’autorità giudiziaria, ad esempio omettendo la denuncia; in secondo luogo, la cosiddet- Sul problema si veda G. GULOTTA, op. cit., 76. Cfr. G. MANNOZZI, op.cit., 48. Si veda inoltre D. SCATOLERO, “Gli interventi sociali in favore della vittima”, in Tutela della vittima e mediazione penale, a cura di G. PONTI, Milano 1995, 129. 107 Fenomeno che si verifica con un’alta frequenza nei delitti sessuali. Si veda in generale W. RYAN, Blaming The Victim, New York 1971. 105 106 ORDINE, VENDETTA, PENA 127 ta post–crime victimization, la vittimizzazione secondaria prodotta dalla risonanza pubblica del processo, può determinare nei consociati dei comportamenti di tipo omertoso, dei pregiudizi negativi nei confronti della vittima, e in definitiva la profonda violazione della privacy di una persona che già ha avuto da soffrire per il comportamento delittuoso del quale è stata oggetto. La strategia alternativa dovrebbe consistere nell’aiutare a rielaborare in senso positivo l’esperienza di vittimizzazione, soprattutto portando la vittima ad accettare la posizione di impotenza nella quale il crimine l’ha posta e in particolare a comprendere il senso della perdita delle sicurezze che prima la sorreggevano. Attraverso il percorso di vittimizzazione positiva la vittima accetta il vissuto traumatico connesso al reato, secondo una triplice perdita: perdita del controllo della propria vita; perdita dei sistemi sociali di difesa, aiuto e cooperazione; perdita del precedente benessere psicologico, fisico, patrimoniale. La persona offesa deve insomma cercare di accettare la sua incapacità, al tempo del compimento del reato, di attivare le misure necessarie a difesa del bene violato. La prospettiva vittimologica modifica la stessa nozione tecnico-giuridica di vittima in quanto soggetto titolare del bene giuridico protetto dalla norma penale, che è stato direttamente leso dall’evento delittuoso. La vittima ha una dimensione individuale o collettiva, primaria o secondaria. È individuale quando il reato colpisce una singola persona fisica o giuridica; è collettiva in tutti quei delitti qualificati come crimini contro la comunità o addirittura l’umanità, e nei cosiddetti crimini allargati (crimini in campo economico, eterodiretti, che coinvolgono al limite un intero sistema sociale). Per vittima primaria si intende la persona fisica o giuridica che ha direttamente subito la commissione del reato; le vittime secondarie sono tutti coloro che in varia 128 PARTE SECONDA misura risultano indirettamente danneggiati dal reato108. La vittimologia allarga il campo dei soggetti tutelabili, riattribuendo dignità di protagonisti del fatto a tutte le persone in qualche modo lese dalla condotta delittuosa. Nella prospettiva vittimologica, anche l’offesa e la sua portata lesiva viene globalmente riconsiderata nelle forme del danno primario e del danno secondario109. Il danno primario è la conseguenza immediata del reato, e può consistere nell’alterazione psicologica (stati d’ansia, panico, paura, depressione), non solo in quella fisica o patrimoniale. Il danno secondario è invece frutto della vittimizzazione secondaria, cioè degli effetti prodotti sulla vittima, già sofferente e quindi più vulnerabile, dall’indifferenza o dal pregiudizio delle istituzioni e della società di riferimento. La riparazione globale, obiettivo primario del modello riparativo-restitutivo, può essere assicurata solo a partire da una concezione del danno stesso che non si riduca alla sua mera dimensione patrimoniale: è fondamentale che la vittima possa esprimere la sua percezione del danno subito sul piano anche psicologico e sociale, attraverso la presa di coscienza dell’essere stata protagonista di un evento vittimizzatore. Riconoscere la vittima significa, nell’ottica riparativa, riconoscere la globalità del danno e quindi prendere atto del condizionamento che l’evento delittuoso esercita sulla sua esistenza. Il concetto di “vittima secondaria” è accolto anche dalla risoluzione ONU 40/34 del 1985, Declaration of Basic Principles of Justice for Victims of Crime and Abuse of Power, all’art. 2: “[…] The term victim also includes, where appropriate, the immediate family or dependant of the direct victim”. Si veda, in tema, P. MCCOLD, Restorative Justice: Variations on a Theme, in Restorative Justice for Juveniles, a cura di L. Walgrave, Leuven University Press 1998, 87: si considerano vittime secondarie anche i parenti stretti del reo e come tali “entitled to partecipate at the restorative experience”. 109 G. MANNOZZI, op. cit., p. 76. Cfr. GATTI U., MARUGO I., La vittima e la giustizia riparativa, in Marginalità e Società, 1994, n. 27, 37. 108 ORDINE, VENDETTA, PENA 129 L’altro protagonista necessario del percorso riparativo è ovviamente l’autore del reato. Il ‘furto dei conflitti’110 che si verifica nel modello standard del processo, penalizza infatti non solo la vittima, che viene derubata della possibilità di ristabilire il contatto sociale e personale turbato dal delitto, ma anche il reo, che viene privato della possibilità di riparare concretamente e/o moralmente al male compiuto. Di fronte a lui si apre prevalentemente un percorso carcerario che difficilmente potrà portarlo a una qualche riabilitazione o rieducazione, perché non può esserci vero ravvedimento dove manca la comprensione del significato e delle conseguenze della propria condotta. Per questo la giustizia riparativa non può dimenticarsi del reo: è il necessario co-protagonista della gestione del conflitto, perché una vera riparazione risulterà possibile solo se verrà posta in atto quella condotta che possa risultare la più idonea a risolvere la crisi relazionale sul piano sia morale che materiale. Per questo motivo, qualsiasi attività di riconciliazione e mediazione si fonda anzitutto sul consenso delle parti, e il consenso dell’autore del reato ha una valenza particolare: consentendo ad avviare un processo di riparazione, egli ammette implicitamente la propria responsabilità nella produzione dell’evento criminoso e nelle sue conseguenze dannose. Il momento del taking responsibility è centrale per tutte le parti in gioco. Anche la vittima, dinanzi a un’esplicita ammissione di responsabilità/colpevolezza, potrà forse ridimensionare la propria esperienza di vittimizzazione negativa e rafforzare l’immagine di persona offesa dal reato, avviandosi così meglio verso il graduale superamento del trauma. L’espressione è stata utilizzata da N. CHRISTIE, Utility and Social Values in Court Decisions on Punishment, in Crime, Criminology and Public Policy, a cura di R. Hood, Heinemann, 1974, 281ss. 110 130 PARTE SECONDA La mediazione si prende dunque cura della vittima111: le consente una comprensione diretta dell’offensore e del movente del reato; le offre l’esperienza delle scuse e dell’eventuale pentimento dell’aggressore; le riserva il “privilegio del perdono”112, che una saggezza non infondata considera ‘la miglior vendetta’. Il ristabilimento della comunicazione tra le parti favorito dal mediatore, permette alla vittima di conoscere chi è l’aggressore: “com’è fatto” e “perché l’ha fatto”. Per chi ha vissuto l’aggressione più come una violazione della propria privacy che come un danno economico, questa è un’esperienza che nessuna sentenza di risarcimento danni potrà mai offrire. L’incontro mediativo, insomma, comporta la messa in discussione degli stereotipi in base ai quali reo e vittima tendono a percepirsi113, soprattutto a causa dell’imprigionamento in un ruolo giuridico precostituito fondato sulla contrapposizione e la separazione. Eliminando i pregiudizi e interrompendo il meccanismo di neutralizzazione instaurato dal processo, la mediazione ha effetti responsabilizzanti per entrambi i soggetti. È la stessa questione della responsabilità penale che viene messa in discussione: perché nel contesto della mediazione non si tratta più tanto di essere ritenuti responsabili di o per qualcosa, ma di percorrere un itinerario che intende condurre le parti in conflitto a sentirsi responsabili verso; a rispondere l’uno all’altro. La mediazione riuscita crea Si veda, ad es., H. REEVES, The victim-support perspective, in M. WRIGHT e B. GALAWAY (eds.), Mediation and Criminal Justice. Victims, Offenders and the Community, London 1989. 112 Cfr. T. F. MARSHALL e S. MERRY, Crime and Accountability. Victim\ Offender Mediation in Practice, London 1990. 113 La vittima ha del reo un’immagine ‘lombrosiana’, amplificata dalla distanza e dalla separazione: è il deviante, aggressivo e temibile; anche fisicamente ripugnante. Il reo tende invece a giustificarsi immaginando la vittima come un soggetto senza problemi economici, in grado perciò di superare facilmente il danno causatogli. 111 ORDINE, VENDETTA, PENA 131 un fenomeno di empatia, per cui ciascuno dei due soggetti, in un certo senso, si identifica con l’altro, si ‘mette nei suoi panni’, sperimenta il vissuto della controparte. Ciascuno restituisce all’altro la dignità di essere umano. Una caratteristica importante della mediazione è infine la possibilità data al reo di riparare alle conseguenze dannose del reato114. La riparazione consiste sia nel soddisfacimento degli interessi materiali della vittima - attraverso le restituzioni, il risarcimento del danno o il lavoro sostitutivo - sia nel soddisfacimento dei suoi bisogni psicologici: nel negoziarne i contenuti, le parti realizzano in concreto la riappropriazione del conflitto. Nella riparazione è possibile cogliere anche degli elementi retribuzionistici: la prestazione riparativa sarebbe in qualche modo la punizione volta a compensare direttamente il male commesso. Essa può ricordare la vendetta: ma è una ‘buona’ vendetta, perché ha una natura positiva - restitutiva - e non repressiva. La sua ratio non è infatti quella di rispondere al male col male, perché con la riparazione si vuole piuttosto opporre al male un bene da parte sia del reo verso la vittima (attraverso il lavoro, le restituzioni o il risarcimento, le scuse), che della vittima verso il reo (attraverso la disponibilità a incontrarlo, evitandogli il coinvolgimento nel sistema penale e le relative conseguenze, e offrendogli, in alcuni casi il proprio perdono). La riparazione, a differenza della pena, tenta realisticamente di ridurre, per quanto è possibile, le conseguenze del male commesso. Essa, come diceva Hegel, davvero ‘onora il reo come essere razionale’, perché non gli infligge solo una letteralmente inutile sofferenza, o un trattamento che può risultare lesivo della sua dignità. Cfr. in proposito, tra gli altri: MARSHALL - MERRY, op. cit.: 173-189; D. WATSON – J.BOUCHERAT – G. DAVIS, Reparation for retributivists, in Mediation and Criminal Justice, cit., 212 ss. 114 BIBLIOGRAFIA ADKINS, A.W.H, La morale dei greci, Bari 1987 ADORNO, W., HORKHEIMER, M., Dialettica dell’illuminismo, Torino 1977. ANSPACH, M., A buon rendere. La reciprocità nella vendetta, nel dono e nel mercato, Torino 2007. ARISTOTELE, Retorica, Milano 1996. ARISTOTELE, Etica nichomachea, Roma-Bari, 1998. BARTOLOMEI, M. R., Risoluzione dei conflitti e modelli di cultura. Uno schema esplicativo per lo studio della vendetta, in Antropologia giuridica, a cura di A. De Lauri, Milano 2013. BENEDICT, R., The Chrysanthemum and the Sword, London 1967. BENJAMIN, W., Angelus novus, Torino 1982. 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INDICE DEI NOMI Acerbi A.: 11n Adkins A.W.H.: 76n, 79n, 87n Adorno W.: 12 Anassimandro: 13, 87n Anspach M.: 9 Antonucci D.: 105n Aristotele 24-25, 30-31, 33, 86, 92-95 Bachofen J.J.: 17n Bartolomei M.R.: 9n Benedict R.: 75 Benjamin W.: 10n, 24 Biscardi A.: 83n, 85n, 86n Bisi R.: 108n Bloch M.: 43n Bouchard M.: 59n, 108n, 109n Boucherat J.: 131n Bovati P.: 11n Brunner O.: 41n, 57n Campagnini M.: 106n Canetti E.: 80n Cantarella E.: 9n, 12n, 16, 18n, 27n, 80n, 83n, 86n, 90n, 96n, 115n Cartesio: 47 Ceretti A.: 105n, 107n, 109n, 117n, 119n Christie N.: 129n Cicerone: 28, 39 Clastres P.: 67n Cosi G.: 26n Costa P.: 9n Courtois G.: 74n Damasio A.: 7n Davis G.: 131n De Lauri A.: 9n De Romilly, J.: 21n Deleuze G.: 2 Demostene: 86n Di Ciò F.: 117n, 119n Dodds E.: 15, 22, 74-76, 79n Eglash A.: 116n Eraclito: 14 Eschilo: 14, 17-18, 88 Esiodo: 88 Esmein A.: 102n Euripide: 20-21 Eusebi L.: 11n, 113n Faccioli B.: 108n Fisher R.: 115n Foddai M.A.: 88n Forlenza F.: 8n Foucault M.: 19, 42n, 44n, 51n Fragapane S.: 8n Freud S.: 36, 45, 125n Gadamer H.: 60n Galaway B.: 116n, 120n, 130n Gatti U.: 128n Gentile A.: 42 Gentile M.: 40n Gill M.L.: 123n Girard R.: 24, 44n, 50n, 116n 142 INDICE DEI NOMI Glaucone: 23 Glotz G.: 81n Goffman E.: 106n Grozio U.: 45 Gulotta G.: 125-126 Haidt J.: 57n, 77n Havelock E.A.: 79n, 83n, 87n Hegel G.W.F.: 47, 53, 131 Heine S.: 76n Henrich J.: 76n Hillman J.: 58n Hobbes T.: 24, 42, 45, 70n Hobhouse L.T.: 70n Hood R.: 129n Horkheimer M.: 12 Hudson J.: 116n, 120n Huizinga J.: 112n Jellamo A.: 20n, 22, 82n Jullien F.: 76n Kant I.: 46-47, 52, 60, 70n Kantorowicz E.H.: 42n Kelsen H.: 11n Kerenyi K.: 11n Kim U.: 75n Krykowski J.: 37n Kunkel W.: 26, 97n Lanza L.: 123n Lévy-Bruhl H.: 73n Licurgo: 86n Locke J.: 45 Maine H.S.: 10n Mannozzi G.: 110n, 116-119, 126n, 128n Manzin M.: 111n Marongiu P.: 13n Marshall T.F.: 130-131 Martini R.: 29 Marugo I.: 128n Massaro F.: 59n Mawby R.I.: 123n Mazzucato C.: 109n McCold P.: 120n, 128n McHardy F.: 16n Mecacci F.: 12n Mendelsohn B.: 125 Mereu I.: 44n Merry S.: 130-131 Mierolo G.: 59n, 108n, 109n Miller W.I.: 8n Minelli C.: 37n Mommsen T.: 26 Newman G.: 13n Nietzsche F.: 13-14, 21-22, 48, 52 Nisbett R.E.: 76n, 110n Norenzayan A.: 76n Oasi O.: 59n Omero: 12-13, 80n Ost F.: 9n Paoli U.E.: 88n Paresce E.: 14n, 15n Pasolini P.P.: 18 Perini C.: 110n Picotti L.: 113n Pigliaru A.: 9n, 69n Pisapia G.V.: 105n Platone: 21-24, 65n, 88-93 Poirier J.: 73n Ponti G.: 123n, 125126 Popper K.: 24, 91n Porrello M.S.: 16n, 28n Puppo F.: 111n Reeves H.: 130n Reggio F.: 111n INDICE DEI NOMI Resta E.: 117n Resta P.: 9n Rousseau J.J.: 46, 70n Ryan W.: 126n S. Agostino: 37-38 S. Paolo: 35-36, 38, 39n, 42 S. Tommaso: 39, 102 Said S.: 18 Salvestrini F.: 40n Sanfilippo C.: 27n Santalucia B.: 25n, 26n, 27n, 96n, 97n Sbriccoli M.: 39n, 44n Scaparro F.: 117n Scatolero D.: 108n, 126n Schmitt C.: 22n, 40-42 Schopenhauer A.: 22 Semerano G.: 22n Seneca: 30-34, 37, 39 Senofonte: 86n Sevieri R.: 19n Shakespeare W.: 44n Silla: 26 Sironi F.: 59n Sloterdijk P.: 36n, 37n, 38n Snell B.: 88n Socrate: 16, 21, 89, 91 Sofocle: 19 Solomon R.: 7n Spanger G.: 113n Stolfi E.: 22n Tertulliano: 37 Thomas Y.: 98n Trasimaco: 23 Triadis H.C.: 75n Türcke C.: 59n Umbreit M.S.: 108n Ury W.: 115n Varanini G.M.: 40n Verdier R.: 71n Villey M.: 38n, 93n Virgilio: 29 Von Kleist H.: 41n Votrico A.: 21n Walgrave L.: 128n Watson D.: 131n Weber M.: 45 Welzel H.: 94n Wertham F.: 124 Wright M.: 130n Zangarini A.: 40n Zehr H.: 109-111 143 QUADERNI Dl «STUDI SENESI» 1. REMO MARTINI, «Mercennarius». Contributo allo studio dei rapporti di lavoro in diritto romano (1958), 8°, pag. 90, L. 5.000. 2. PIETRO MESCHINI, Sulla natura giuridica degli enti pubblici economici (1958), 8°, pag. 81 (esaurito). 3. LUISA LEPRI, Sui rapporti di parentela in diritto attico. Saggi terminologici (1959), 8°, pag. 103, L. 5.000. 4. GIUSEPPE MARCHELLO, La crisi del concetto filosofico della libertà (1959), 8°, pag. 104, L. 5.000. 5. ENZO BALOCCHI, La buona condotta (1960), 8°, pag. 150, L. 5.000. 6. ANTONELLO BRACCI, Le norme di attuazione degli statuti per le regioni ad autonomia speciale (1961), 8°, pag. 105, L. 8.000. 7. MARCO COMPORTI, Gli effetti del fallimento sui contratti di lavoro (1961), 8°, pag. 144, L. 5.000. 8. UGO ENRICO PAOLI, Comici latini e diritto attico (1962), 8°, pag. 80, L. 8.000. 9. BRUNA TALLURI, Pierre Bayle (1963), 8°, pag. 180, L. 4.000. 10. DOMENICO MAFFEI, La «Lectura super Digesto Veteri», di Cino da Pistoia. Studio sui MSS Savigny 22 e Urb. Iat. 172 (1963), 8°, pag. Vlll-76, L. 6.000. 11. PIERO BRANCOLI BUSDRACHI, La formazione storica del feudo lombardo come diritto reale (1965), 8°, pag. X-200, L. 8.000. 12. GIUSEPPE MARCHELLO, La teoria dello Stato come libertà (1965), 8°, pag. X-160, L. 6.000. 13. ANTONELLO BRACCI, Problemi concernenti il sequestro conservativo dell’universitas (1966), 8°, pag. X-158, L. 8.000. 14. LUIGI CAPOGROSSI COLOGNESI, Ricerche sulla struttura delle servitù d’acqua in diritto romano (1966), 8°, pag. Vlll-204, L. 10.000. 15. ENZO BALOCCHI, La qualificazione di povertà nel diritto amministrativo (1967), 8°, pag. Vlll140, L. 4.000. 16. CESARE MARIA MOSCHETTI, Gubernare navem - Gubernare rem publicam. Contributo alla storia del diritto marittimo e del diritto pubblico romano (1966), 8°, pag. Vlll-272, L. 10.000. 17. LUIGI BERLINGUER, Domenico Alberto Azuni giurista e politico (1749-1827) (1966), 8°, pag. XIV-292, L. 10.000. 18. MARIA TERESA CIOCCHETTI, Lo sciopero. Rassegna di giurisprudenza (1948-1965) (1967), 8°, pag. XVIII-166, L. 5.000. 19. PIER GIORGIO PONTICELLI, Intorno ai rapporti fra tutela del possesso e interesse pubblico (1968), 8°, pag. 80, L. 2.500. 20. GUIDO ZANGARI, Il recesso dal rapporto di lavoro in prova (1970), 8°, pag. Xll-340, L. 7.000. 21. FABRIZIO RAMACCI, Introduzione all’analisi del linguaggio legislativo penale (1970), 8°, pag. Xll-200, L. 8.000. 22. MARIO ASCHERI, Un maestro del ‘mos italicus’: Gianfracesco Sannazari della Ripa (1480c.-1535) (1970), 8°, pag. Xll-200, L. 7.000. 23. LUIGI BERLINGUER, Sui progetti di Codice di commercio del Regno d’ltalia (1807-1808). Consi-derazioni su un inedito di D.A. Azuni (1970), 8°, pag. 170, L. 5.000. 24. FILIPPO LIOTTA, La continenza dei chierici nel pensiero canonistico classico. Da Graziano a Gregorio IX (1971), 8°, pag. Xll-404, L. 15.000. 25. MARIO ASCHERI, Saggi sul Diplovatazio (1971), 8°, pag. 148, L. 5.000. 26. PAOLO FOIS, Obblighi comunitari e programmazione economica (1971), 8°, pag. Vlll-104, L. 5.000. 27. AURELIUS SABATTANI, De vita et operibus Alexandri Tartagni de Imola (1972), 8°, pag. 136, L. 5.000. 28. ENRICO QUADRI, La rettifica del contratto (1973), 8°, pag. 160, L. 8.000. 29. NICLA BELLOCCI, La tutela della fiducia nell’epoca repubblicana (1974), 8°, pag. 130, L. 5.000. 30. ANTONELLO BRACCI, La posizione processuale del fallito e i poteri del curatore (1974), 8°, pag. 146, L. 6.000. 31. PAOLO FOIS, L’accordo preliminare nel diritto internazionale (1974), 8°, pag. Vlll-212, L. 8.000. 32. PAOLO NARDI, Mariano Sozzini giureconsulto senese del Quattrocento (1974), 8°, pag. XVI-204, L. 10.000. 33. PIETRO MESCHINI, Profili costituzionali e amministrativi della dotazione del Presidente della Repubblica (1974), 8°, pag. 76, L. 2.500. 34. FILIPPO RANIERI, Alienatio convalescit. Contributo alla storia ed alla dottrina della convalida nel diritto dell’Europa continentale (1974), 8°, pag. Vl-90, L. 3.000. 35. LUCIA BONELLI CONENNA, Prata: Signoria rurale e comunità contadina nella maremma senese (1976), 8°, pag. XVI-164, L. 7.000. 36. FRANCESCO ALCARO, Riflessioni critiche intorno alla soggettività giuridica. Significato di un’evo-luzione (1976), 8°, pag. 116, L. 5.000. 37. GIANNETTO LONGO, Delictum e crimen (1976), 8°, pag. 180, L. 7.000. 38. UBALDO STAICO, Il pensiero politico di Teilhard de Chardin e la critica della democrazia (1976), 8°, pag. 160, L. 7.000. 39. MARCO COMPORTI, Contributo allo studio del diritto reale (1977), 8°, pag. Vlll-408, L. 15.000. 40. PAOLO VITALE, Pubblico e privato nell’ordinamento bancario (1977), 8°, pag. 180. 41. JULIUS KIRSHNER, Pursuing honor while avoiding sin. The Monte delle Doti of Florence (1978), 8°, pag. Vll-84, L. 3.500. 42. MICHELE CASSANDRO, Gli ebrei e il prestito ebraico a Siena nel Cinquecento (1979), 8°, pag. Xll-128, L. 7.000. 43. ENRICO QUADRI, Principio nominalistico e disciplina dei rapporti monetari (1979), 8°, pag. IV220, L. 12.000. 44. PAOLO NARDI, Studi sul banchiere nel pensiero dei glossatori (1979), 8°, pag. XIV-294, L. 15.000. 45. PETER RAYMOND PAZZAGLINI, The Criminal Ban of the Sienese Commune (1225-1310) (1979), 8°, pag. Vlll-196, L. 8.000. 46. ANTONIO SERRA, Unanimità e maggioranza nelle società di persone (1980), 8°, pag. Vlll-270, L. 15.000. 47. ALESSANDRO RASELLI, Riflessioni sull’oggetto e il metodo della scienza del diritto (1980), 8°, pag. 124, L. 5.000. 48. GIULIO CIANFEROTTI Il pensiero di V.E. Orlando e la giuspubblicistica italiana fra Ottocento e Novecento (1980), 8°, pag. Xll-466, L. 20.000. 49. MARIA CRISTINA MASCAMBRUNO, La polizia amministrativa (art. 19 del decreto 616) (1981), 8°, pag. Vlll-196, L. 8.000. 50. ENZO MECACCI, La biblioteca di Ludovico Petrucciani docente di diritto a Siena nel Quattrocento (1981). 8°, pag. Vlll-174, L. 10.000. 51. GIOVANNI MINNUCCI, Le lauree dello Studio senese alla fine del secolo XV (1981), 8°, pag. Vlll128, L. 7.000. 52. ANTONIO CARDINI, La cultura economica italiana e l’età dell’lmperialismo (1900-1914) (1981), 8°, pag. 96, L. 5.000. 53. LORENZO FASCIONE, Fraus legi. Indagini sulla concezione della frode alla legge nella lotta politica e nella esperienza giuridica romana (1983), 8°, pag. X-264, L. 18.000. 54. MICHELE CASSANDRO, Aspetti della storia economica e sociale degli ebrei di Livorno nel Seicento (1983), 8°, pag. Xll-202, L. 12.000. 55. GIOVANNI MINNUCCI, Le lauree dello Studio senese all’inizio del secolo XVI (1501-1506) (1984), 8°, pag. Vlll-154, L. 13.000. 56. GIULIO CIANFEROTTI, Giuristi e mondo accademico di fronte all’impresa di Tripoli (1984), 8°, pag. Vlll-168, L. 15.000. 57. DANIELE BIELLI, Competenza per connessione (1985), 8°, pag. Vlll-138, L. 13.000. 58. GIOVANNI MINNUCCI, Le lauree dello Studio senese all’inizio del secolo XVI. 11(1507-1514) (1985), 8°, pag. Vlll-128, L. 9.000. 59. FLORIANA COLAO, Il delitto politico tra Ottocento e Novecento. Da «delitto fittizio» a «nemico dello Stato» (1986), 8°, pag. X-410, L. 30.000. 60. GIORGIO COLLURA. Finanziamento agevolato e clausola di destinazione (1986), 8°, pag. 158, L. 12.000. 61. IRENE MANFREDINI, Henri Saint-Simon: Écrits sur les progrès de la civilisation, publiés d’après les manuscrits (1988), 8°, pag. L-76, L. 10.000. 62. EVA ROOK BASILE, Impresa agricola e concorrenza. Riflessioni in tema di circolazione dell’azienda (1988), 8°, pag. Xll-250, L. 20.000. 63. MARIA CRISTINA MASCAMBRUNO, Il prefetto. I: Dalle origini all’avvento delle Regioni (1988), 8°, pag. XVI-184, L. 15.000. 64. GIOVANNI DIURNI, Le situazioni possessorie nel diritto medievale. Età longobardo-franca (1988), 8°, pag. XIV-362, L. 25.000. 65. ROBERTO GUERRINI, Elementi costitutivi e circostanze del reato. I: Profili dogmatici (1988), 8°, pag. Vlll-88, L. 8.000. 66. DOMENICO SINESIO, Interessi pecuniari fra autonomia e controlli (1989), 8°, pag. Xll-286, L. 25.000. 67. RICCARDO PISILLO MAZZESCHI, “Due diligence” e responsabilità internazionale degli Stati (1989), 8°, pag. XIV-418, L. 35.000. 68. GIOVANNI MINNUCCI, La capacità processuale della donna nel pensiero canonistico classico. Da Graziano a Uguccione da Pisa (1989), 8°, pag. X-150, L. 15.000. 69. WILLIAM M. BOWSKY, Piety and Property in Medieval Florence. A House in San Lorenzo (1990), 8°, pp. Xll-88, L. 12.000. 70. ELISABETTA ANTONINI, Contributo alla dommatica delle cause estintive del reato e della pena (1990), 8°, pag. XIV-226, L. 22.000. 71. GUIDO ZANGARI, Diritto sindacale comparato dei Paesi ibero-americani (Argentina, Brasile, Cile, Spagna) (1990), 8°, pag. XX-342, L. 36.000. 72. LUCA STANGHELLINI, I diritti del danneggiato e le azioni di risarcimento nella assicurazione obbligatoria della responsabilità civile (1990), 8°, pag. X-274, L. 30.000. 73. BRUNO FIORAI, Il sistema sindacale italiano e il principio di maggioranza: ricognizione sulle regole per la gestione del conflitto (1991), 8°, pag. XLIV-284, L. 32.000. 74. ANDREA PISANESCHI, I conflitti di attribuzione tra i poteri dello Stato. Presupposti e processo, (1992), 8°, pag. Vl-426, L. 48.000 75. MARIA CRISTINA MASCAMBRUNO, Il Prefetto. II: Funzioni di rappresentanza, di coordinamento e poteri di polizia (1992), 8°, pag. IV-122, L. 14.000 76. PAOLO D’AMICO, Il danno da emozioni, (1992), 8°, pag. IV-198, L. 20.000 77. GIOVANNI BUCCIANTI, 1989: Idoli infranti, fantasmi di guerra, (1993), 8°, pag. 160, L. 18.000 78. MARCO MICCINESI, Le plusvalenze d’impresa. Inquadramento teorico e profili ricostruttivi, (1993), 8°, pag. Vll-306, L. 36.000 79. GIOVANNI MINNUCCI, La capacità processuale della donna nel pensiero canonistico classico. II. Dalle Scuole d’Oltralpe a S. Raimondo di Pennaforte, (1994), 8°, pag. XVI-308, L. 40.000 80. STEFANO MAGGI, Dalla città allo Stato nazionale. Ferrovie e modernizzazione a Siena tra Risorgimento e Fascismo, (1994), 8°, pag. VIII-356, L. 45.000 81. ANTONIO BADINI, Sovranità ed interessi nazionali nel cammino dell’Europa, (1994), 8°, pag. VIII-156, L. 20.000 82. FLORIANA COLAO, La libertà di insegnamento e l’autonomia nell’Università liberale. Norme e progetti per l’istruzione superiore in Italia (1848-1923), (1995), 8°, pag. XXXI-504, L. 62.000 83. MICHELE BARBIERI, Per un’estetica della politica. Il primo Goethe, (1996), 8°, pag. XXII-299, L. 40.000 84. MARIA CECILIA CARDARELLI, Concentrazioni. Spunti tra regole codicistiche e mercato, (1996), 8°, pag. XII-255, L. 32.000 85. GIAN DOMENICO COMPORTI, Il coordinamento infrastrutturale. Tecniche e garanzie, (1996), 8°, pag. XII-442, L. 58.000 86. LUCA STANGHELLINI, Contributo allo studio dei rapporti di fatto, (1997), 8°, pag. XI-332, L. 45.000 87. ROBERTO GUERRINI, Il contributo concorsuale di minima importanza, (1997), 8°, pag. XIII248, L. 35.000 88. GIULIO CIANFEROTTI, Storia della letteratura amministrativistica italiana. I. Dall’Unità alla fine dell’Ottocento: autonomie locali, amministrazione e costituzione, (1998), 8°, pag. XIV-854, L. 110.000 89. FULVIO MANCUSO, Exprimere causam in sententia. Ricerche sul principio di motivazione della sentenza nell’età del diritto comune classico, (1999), 8°, pag. XVIII-275, L. 40.000 090. SONIA CARMIGNANI, La società in agricoltura, (1999), 8°, pag. XVIII-317, L. 42.000 091. GIOVANNI BUCCIANTI, Libia: petrolio e indipendenza, (1999), 8°, pag. XXII-488, L. 58.000 092. ROBERTA BARGAGLI, Bartolomeo Sozzini giurista e politico (1436-1506), (2000), 8°, pag. XVI255, L. 40.000 093. ANDREA LABARDI, La Facoltà giuridica senese e la Restaurazione. Con il testo delle Istituzioni Civili di Pietro Capei, (2000), 8°, pag. XVI-288, L. 40.000 094. PAOLO SOAVE, Fezzan: il deserto conteso (1842-1921), (2001), 8°, pag. X-530, L. 68.000 095. PAOLO ROSSO, Il Semideus di Catone Sacco, (2001), 8°, pag. 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VI-140, € 00,00 Finito di stampare nel mese di Luglio 2014 dall’Industria Grafica Pistolesi Editrice “Il Leccio” srl 53035 Monteriggioni - Loc. Badesse (Siena) www.leccio.it prestampa@industriagraficapistolesi.it