Q U A D E R N I
D I
«S T U D I
S E N E S I»
Raccolti da PAOLO NARDI
139
STEFANO BERNI - GIOVANNI COSI
FARE GIUSTIZIA
DUE SCRITTI SULLA VENDETTA
M I L A N O - D O T T. A . G I U F F R È E D I T O R E - 2 0 1 4
[ISBN 978-88-00-00000-0]
COMITATO SCIENTIFICO
ANDREW ASHWORTH – EMANUELE CASTRUCCI – GIULIO CIANFEROTTI – FLORIANA COLAO
GIANDOMENICO COMPORTI – GIOVANNI COSI – PETER DENLEY – ENRICO DICIOTTI
LORENZO GAETA – DENIS GALLIGAN – MARTIN GEBAUER – BERNARDO GIORGIO MATTARELLA
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La traduzione, l’adattamento totale o parziale, la riproduzione con qualsiasi mezzo
(compresi i microfilm, i film, le fotocopie), nonché la memorizzazione elettronica,
sono riservati per tutti i Paesi.
(2014) Tipografia «PISTOLESI Editrice IL LECCIO srl»
53035 Monteriggioni, loc. Badesse (Siena) - Via della Resistenza, 117
SOMMARIO
Introduzione .......................................................... pag. 001
PARTE PRIMA
ELOGIO DELL’IRA
Stefano Berni
1. Il sentimento di giustizia .......................................
» 007
2. Archeologia della vendetta ....................................
» 010
3. Le origini del diritto ............................................
» 020
4. La forma del diritto .............................................
» 025
5. La giustizia come ragione ......................................
» 034
6. La rimozione della vendetta ...................................
» 041
7. Il ritorno alla violenza .........................................
» 047
8. La vendetta della vittima ......................................
» 050
9. Il tradimento comunitario .....................................
» 056
10. La sublime giustizia .............................................
» 059
PARTE SECONDA
ORDINE, VENDETTA, PENA
Giovanni Cosi
1. Forma e sostanza ................................................
» 066
2. La vendetta come procedura ..................................
» 069
3. Vergogna e colpa .................................................
» 074
4. L’emergere della responsabilità ..............................
» 082
5. Verso la pena .....................................................
» 096
6. Oltre la pena (e il processo)? ..................................
»
104
7. La vittima, il reo e la comunità ...............................
»
116
8. Vittimologia e abolizionismo processuale ...................
»
123
Indice dei nomi .......................................................
»
000
Bibliografia ............................................................
»
000
INTRODUZIONE
Energia primordiale del vivente, reazione vitale
all’offesa ricevuta. La vendetta è degli dei e degli uomini,
dei vivi e dei defunti. Essa si situa tra le famiglie e tra le
nazioni, la si incontra nelle periferie e nei tribunali. Talvolta
virtù, quando difende la dignità violata; talvolta vizio,
quando diviene cieca furia distruttrice. Tra aggressore e
vittima, la violenza intreccia un nodo legato con la corda
dell’offesa. Come scioglierlo altrimenti che con la violenza
della ritorsione?
Da tempo lo Stato si è sostituito all’offeso: ha
imparato a punire, ma ha dimenticato la vittima. Oggi le
vittime talvolta rivendicano (appunto) di tornare a essere
protagoniste a pieno titolo di una giustizia di riparazione
che ripristini il faccia a faccia con l’aggressore, in luogo
della giustizia meramente repressiva dello Stato.
In epoche e culture tra loro diverse e lontane, la
vendetta è sempre stata ritualizzata per poter costituire un
modo di regolazione della violenza ed evitarne l’esplosione
incontrollata prodotta dal risentimento. Quando ancora lo
Stato non c’è, o s’interessa d’altro, la vendetta non è un
optional, una scelta o un accessorio: è un obbligo sociale.
Ci si deve vendicare; ma non ci si deve vendicare ‘troppo’.
E deve sempre essere prevista, come in ogni relazione in cui
la comunicazione non sia stata artificialmente interrotta, la
possibilità della mediazione rappresentata dal risarcimento
diretto che sia stato accettato e accolto dalla vittima.
2
INTRODUZIONE
Vindicare, dopotutto, deriva da venum-dicare: offrire il
prezzo (del sangue).
Parlare di vendetta significa riconoscere la “natura”
dell’offeso all’interno di una costellazione di “affetti”
“percetti”, con-cetti, per usare espressioni care a Deleuze,
in cui si collocano altre importanti parole come: giustizia,
diritto, legge, violenza, aggressività, passioni, (ira, paura,
orgoglio) e sentimenti. Definire la natura della vendetta in
relazione a temi così complessi non è un’impresa facile.
Non a caso della vendetta si sono occupati psicologi,
sociologi, antropologi, giuristi. Noi non pretendiamo di
poter stabilire una volta per tutte cosa sia “veramente” la
vendetta, ma più semplicemente mostrare come essa, nel
corso della storia, non abbia mai cessato di ripresentarsi
come problema, come tema cruciale con cui fare i conti.
Questo perché si era supposto, all’interno di un paradigma
moderno, statuale, razionalistico, che essa fosse ormai
destinata a non ripresentarsi se non come “rimosso”, come
sintomo di una patologia arcaica ma oramai definitivamente
sepolta dal progresso e dalla scienza. Invece la natura stessa
della vendetta si ripresenta, nella società postmoderna
o tardo moderna, come emergenza di bisogni mai sopiti,
solo in apparenza arcaici o antichi, primitivi e incivili.
Capire non significa avallare, significa semmai riconoscere
che, nella fase da noi attraversata, riemergono funzioni
vitali, sopravvivenze storiche, mitologie, culture diverse,
narrazioni che si oppongono, si incontrano, si scontrano, si
elidono. La natura essenzialmente biopolitica prima ancora
che giuridica della vendetta, da un lato ci deve avvertire della
complessità e della natura interdisciplinare del problema,
dall’altro, che una possibile risoluzione dei conflitti passa
da una mediazione in cui si deve individuare l’alterità, non
come altro da sé, come fuori, mera esteriorità, ma come
riconoscimento dell’altro entro lo stesso orizzonte politico.
INTRODUZIONE
3
È nel politico appunto, è nello spazio più prossimo e vitale,
che può riemergere sempre la vendetta. Ma segnalarne
la natura ontologica, prima ancora che antropologica è
compito di noi filosofi e può significare per il diritto porre
le basi per una conciliazione e una messa in forma della
violenza.
GLI AUTORI
PARTE PRIMA
ELOGIO DELL’IRA
Stefano Berni
ELOGIO DELL’IRA
7
L’ira, che è il desiderio della vendetta,
spetta solo agli animali perfetti
S. Tommaso
1. Il sentimento di giustizia
Alla base di ogni azione umana risiede da qualche parte un impulso emotivo la cui origine risale all’evoluzione
dell’animalità. La porzione del cervello che guida i nostri
comportamenti più ancestrali è data dalla amigdala. Essa
attiva determinati meccanismi di difesa e di adattamento
all’ambiente tra cui una reazione immediata all’attacco di
nemici riconosciuti come pericolosi. La maggior parte degli
animali superiori reagisce con violenza ad un sopruso. Un
cane, un gatto, un elefante, una scimmia si ricordano dopo
molti anni se sono stati molestati o feriti e tentano di vendicarsi. Potremmo definire questa riparazione di un torto subito come un sentimento1 di giustizia che ha alla base
una forza emotiva: l’ira. Infatti, “la giustizia è il desiderio
retributivo di annullare un oltraggio o un’offesa dolorosa”2 ricevuta. Tale desiderio è così naturale e universale
che gli uomini primitivi hanno voluto elevarlo e sublimarlo
in un sentimento sacrale e divino, hanno cioè voluto che
gli dei se ne impossessassero per ridistribuire e ripagare
1
La stretta correlazione tra emozioni e sentimenti su base biologica è
stata mostrata da A. DAMASIO, Alla ricerca di Spinoza. Emozioni, sentimento e
cervello, Milano 2003.
2
R. SOLOMON, Giustizia, compassione, vendetta, in La gioia della filosofia, Milano 2008, 101.
8
PARTE PRIMA
i torti subiti. Quello che non si poteva ottenere in terra si
voleva raggiungerlo dopo la morte. Da un lato gli uomini
hanno promesso ai propri avi che avrebbero riparato ai
torti subiti3, dall’altro si sperava che un dio intervenisse
per giustificare la loro sofferenza. Che cosa c’è di più giusto e sacro di un dio che punisce sulla base della legge del
contrappasso4? A ciascuno il suo; pagare i propri debiti:
‘Padre nostro che sei nei cieli, rimetti a noi i nostri debiti
come noi li rimettiamo ai nostri creditori’. “L’ira di Dio
si placa, la colpa è perdonata”5. Come si evince anche da
queste poche frasi, il torto e il diritto sono stati misurati,
almeno in Occidente, in termini di denaro o di compenso,
così come avviene tra debitore e creditore. “Pagare il debito con la giustizia” è una proposizione che mantiene inalterato il suo significato primigenio, quando la giustizia era
identificata con la ricompensa pecuniaria del torto ricevuto. Ciò significa che per delitti non troppo gravi, o ritenuti
tali, si è potuti ricorrere ad un compromesso in cui l’altro
potrebbe accettare del denaro o dei beni come equivalenza
del danno subito. I piatti della bilancia che simboleggiano
la giustizia nella nostra società (ma già presenti nell’antico
Egitto) misurano le equivalenze dei beni da mettere come
restituzione e indennizzo di un torto6. Probabilmente ciò è
accaduto perché si è sviluppata nella cultura mediterranea
una società commerciale e agricola in cui il danno maggiore
era collegato alla perdita dei beni che assicuravano la sopravvivenza. Da ciò si potrebbe ipotizzare che intorno alla
vendetta nelle civiltà antiche – egizia, mesopotamica, indù
– si fosse organizzato un sistema economico e sociale ormai
3
Sull’obbligatorietà della vendetta nelle culture primitive si veda S.
FRAGAPANE, Il problema delle origini del diritto, Roma 1896, 218.
4
F. FORLENZA, Il diritto penale nella divina commedia, Roma 2003.
5
A. PROSPERI, Giustizia bendata, Torino 2008, 15.
6
W.I. MILLER, Occhio per occhio, Torino 2008, 9.
ELOGIO DELL’IRA
9
così elevato che l’indennizzo per i reati commessi veniva
direttamente risolto tra famiglie. La vendetta ha pertanto
una funzione circolare di retribuzione e di accomodamento all’interno delle strutture sociali, tanto che Anspach ha
notato una relazione con la funzione del dono7. La vendetta
infatti “appare come un sottosistema del meccanismo generale dello scambio sociale, norma elementare della giustizia
che si manifesta con doni e controdoni (potlatch)”8. Non
dimentichiamoci inoltre che in molte culture il delitto poteva essere sanato risarcendo con denaro o doni i familiari
dell’ucciso. “Il pagamento del riscatto era considerato alternativo alla vendetta”9.
Tuttavia la vendetta è anche un fenomeno transculturale, universale nel senso che attraversa tutte le culture,
non soltanto quelle più ricche. In particolare gli antropologi riconoscono certe caratteristiche tipicamente violente
nelle culture cosiddette pastorali. In esse i maschi si considerano “valenti”, hanno un senso dell’onore molto marcato, difendono il proprio territorio, i propri armenti, le proprie donne, e ogni sopruso è destinato ad essere ricompensato con una reazione violenta che spesso alimenta faide.
Solo per rimanere vicino a noi, nel bacino mediterraneo,
conosciamo l’uso della vendetta in Sardegna10, in Albania11,
nel nord Africa12.
7
M. ANSPACH, A buon rendere. La reciprocità nella vendetta, nel dono
e nel mercato, Torino 2007.
8
F. OST, Mosè. Eschilo, Sofocle. All’origine dell’immaginario giuridico,
Bologna 2004, 130.
9
E. CANTARELLA, Dalla vendetta alla pena. Un equilibrio difficile, in Il
diritto di uccidere. L’enigma della pena di morte ( a cura di P. Costa) Milano
2010, 90. Lo stesso concetto di pena, suggerisce Cantarella, significa pagare.
10
A. PIGLIARU, Il codice della vendetta barbaricina, Nuoro 2006.
11
P. RESTA, Pensare il sangue. La vendetta nella cultura albanese,
Roma 2002.
12
M. R. BARTOLOMEI, Risoluzione dei conflitti e modelli di cultura. Uno
schema esplicativo per lo studio della vendetta, in Antropologia giuridica, (a
cura di A. De Lauri), Milano 2013.
10
PARTE PRIMA
Qui ci interessa però affrontare soprattutto la questione in Occidente, per comprendere il nostro presente, la
nostra attualità. Allora è il caso di indagare quel tipo di storia che ha gravato su di noi e ha potuto comporre la nostra
immagine del mondo. Non analizzeremo né le varie culture
extraoccidentali né indagheremo gli aspetti parziali delle
subculture presenti in Europa. Né potremo analizzare le
tribù germaniche presenti in Europa al cui interno vigeva
un codice vendicatorio regolato da “un immenso sistema
di ricompensa in denaro per il caso di omicidio13. Vedremo solamente quelle forme che hanno pesato sulla nostra
identità e hanno potuto modificare la nostra auto percezione e auto rappresentazione. Occorrerà pertanto utilizzare
un’archeologia della vendetta per risalire alle emergenze
della sua storia.
2. Archeologia della vendetta
Nella cultura ebraica per esempio, del cui spirito di
vendetta abbiamo testimonianze dirette nel vecchio testamento, è possibile distinguere la vendetta di Dio dalla vendetta degli uomini. Nel primo caso, abbiamo riferimenti
biblici dell’ira di Dio nei confronti dei filistei, di Edom e
dei cretei in Ezechiele 25, vendetta esplosa a seguito del
suo non riconoscimento: “farò su di loro terribili vendette,
castighi furiosi, e sapranno che io sono il signore, quando
eseguirò su di loro la vendetta”. La violenza di Dio è assoluta, radicale, extra-ordinaria, tanto che per Benjamin14
la vendetta divina non può che annientare il diritto. Ma
la reazione di Dio è preceduta dalla vendetta tra gli uomini: “Edom ha sfogato la sua vendetta contro la casa di
Giuda” e “i Filistei si sono vendicati con animo pieno d’o13
14
H. S. MAINE, Diritto antico, Milano 1998, 278.
W. BENJAMIN, Angelus novus, Torino 1982.
ELOGIO DELL’IRA
11
dio”. Pertanto la vendetta di Dio sembra collegarsi ad un
atto di giustizia, riparando al torto che era stato commesso. Ma anche se si legge il famoso versetto in Esodo: (21,
23-25) “vita per vita, occhio per occhio, dente per dente,
mano per mano, piede per piede, bruciatura per bruciatura, ferita per ferita, livido per livido”, si comprende che
la restituzione di un’azione uguale e contraria appartiene
all’ambito di un senso di giustizia. Non si pagherà di più
e di meno di quanto è stato commesso. Il termine ebraico
nqm potrebbe essere tradotto indifferentemente come vendetta o giustizia nel senso che “questo rispondere al male…
significa precisamente contraccambiare il danno, reagire al
torto subito infliggendo un male”15.
Anche nell’antica Grecia la vendetta è considerata
come l’unica forma di giustizia. Qui gli dei provano le stesse emozioni degli uomini: si combattono tra di loro come
nel caso di Urano, il dio del cielo, che “odiava sin da principio i figli che generava”16 con la sua sposa, la Terra. Crono, allora, uno dei figli, si vendicò, tagliando il membro al
padre. Dal sangue di Urano fu fecondata la terra, Gea, che
partorì delle dee molto vecchie e brutte, le Erinni, il cui
significato si riferisce proprio all’ira e alla vendetta17. Esse
rappresentano la vendetta in tutte le opere tragiche, ma
altresì “hanno grande importanza come vendicatrici degli
omicidi. I processi contro gli assassini venivano tenuti nei
tribunali di Stato sotto i loro auspici. All’inizio del processo, ambedue le parti giurano in nome delle Erinni, sicché, nel caso che il tribunale punisca il colpevole, in quanto
spergiuro, è esposto agli spiriti della vendetta”18. La venP. BOVATI, Pena e perdono nelle procedure giuridiche dell’Antico Testamento, in Colpa e pena? la teologia di fronte alla questione criminale, (a
cura di A. Acerbi e L. Eusebi), Milano 1998, 36.
16
K. KERENYI, Gli dei e gli eroi della antica Grecia, Milano 1989, 33.
17
Ivi, p. 54.
18
H. KELSEN, Società e natura, Torino 1976, 336.
15
12
PARTE PRIMA
detta placa la divinità offesa e sdegnata per il reato19, dato
che per i Greci, si è detto, gli dei provano le stesse emozioni
umane.
Poi vi era una vendetta, per così dire orizzontale, tra
uomini, come accade per la guerra di Troia, scatenata dal
ratto di Elena. Gli Achei chiedono dei doni in cambio di
Elena o la restituzione della donna. Si può dire che la guerra di Troia è stata scatenata da un atto ingiusto che non
trova riparazione. Infatti, a quell’epoca, la civiltà greca,
aveva già un’idea della giustizia e della pena vera e propria. Il diritto penale in Grecia, nella stessa vendetta individuale, compare di già in veste teocratica. Pensiamo a ciò
che accade nell’Odissea: Omero ci parla di lui, Odisseo, il
cui significato potrebbe essere, colui che odia. Il legittimo
sovrano torna in patria a Itaca, pronto a vendicarsi dei
soprusi subiti dai Proci. Essi si sono appropriati della sua
casa e attentano a sua moglie. Non si tratta solo di onore,
di orgoglio o di virtù, ma di un senso naturale di giustizia. I Proci miravano al potere, miravano a Penelope, non
avevano rispettato le leggi dell’ospitalità, erano tracotanti;
pertanto Odisseo è legittimato ad ucciderli senza sfidarli a
duello, non riconoscendoli come nemici da rispettare ma
considerandoli solo individui ostili da disprezzare. Per
“Ulisse infatti la giustizia appare spesso la sua principale
preoccupazione”20: egli persegue la giustizia, la pace sociale. Non esplode mai in una rabbia incontinente come altri
eroi descritti nell’Iliade. Odisseo è un uomo freddo, calcolatore, ma giusto. È l’uomo moderno, stando ad Adorno e Horkheimer21, perché diversamente dagli stessi dei,
F. MECACCI, Trattato di diritto penale, Torino 1901, 12.
E. CANTARELLA, Itaca. Eroi, donne, potere tra vendetta e diritto, Milano 2004, 108.
21
W. ADORNO, M. HORKHEIMER, La dialettica dell’illuminismo, Torino
1977.
19
20
ELOGIO DELL’IRA
13
contiene l’ira, controlla le passioni fino al momento giusto:
procrastina la vendetta. Certamente, nel momento che la
vendetta può esplodere, è devastante: non risparmia nessuno, e Ulisse si scaglia contro i Proci e chi tra i suoi servi lo
aveva tradito. Il figlio Telemaco e i suoi alleati poi si lanciano con violenza contro i traditori recidendo orecchie, narici, genitali. L’interpretazione corrente è che questo tipo
di comportamento particolarmente feroce rimontasse al
“rituale apotropaico denominato maschalismos, praticato
affinché le mutilazioni e la conseguente perdita impedissero
al morto di vendicarsi”, tuttavia Omero non ne fa menzione, anzi aggiunge, concludendo la scena come per spiegare:
“tanta fu l’ira”22. Si può notare che Odisseo si sente tradito. Occorre ricordare, infatti, che il tradimento, come dirò
più avanti, è sempre stato considerato la più grave forma
di delitto fino a Dante compreso, (che correttamente pone
i traditori nel punto più profondo dell’inferno) in quanto
in una società pastorale e guerriera era fondamentale poter contare sulla lealtà del socius per poter sopravvivere.
Rispetto al cristianesimo, nel mondo greco la vendetta va
consumata, e va consumata prima possibile: non è possibile
procrastinarla più di tanto.
Nei miti e nella letteratura greca la vendetta spinge
quasi sempre ogni personaggio a riequilibrare e a raddrizzare il torto subito dalla natura e dalla necessità degli eventi
e delle cose. Ad esempio, il detto di Anassimandro potrebbe
essere interpretato in chiave naturalistico giuridica, come è
plausibile, dato che l’immagine della società era proiettata
sulla natura stessa. Da questo punto di vista la traduzione
di Nietzsche appare la più soddisfacente: “Là dove le cose
trovano la loro origine, debbono anche perire, secondo la
OMERO, Odissea, Canto XXII, vv. 601-606. Sulla vendetta in Ulisse e
più in generale sul concetto di vendetta in Occidente, P. MARONGIU, G. NEWMAN,
Vendetta, Milano 1995.
22
14
PARTE PRIMA
necessità: esse infatti devono pagare il fio ed essere condannate per le loro ingiustizie, conformemente all’ordine del
tempo”23. Ciò che accade nella natura, accade e deve accadere nell’uomo. Non c’è discontinuità tra natura e morale.
C’è un dato comune che collega l’interpretazione fisica con
quella mistica dell’universo e con le forze ordinatrici e normative24. Non c’è responsabilità personale, ma le cose accadono perché devono accadere. Le colpe sono ripagate dagli
eventi stessi, dal caso, dalla necessità che interviene per
riparare ai torti subiti. Alla luce di queste considerazioni
si può interpretare pure il frammento di Eraclito: “Bisogna però sapere che la guerra è comune a tutte le cose, che
la giustizia è contesa e che tutto accade secondo contesa e
necessità”25. La giustizia è immaginata come il risultato di
una lotta perenne, sia in natura sia tra gli uomini, che sarà
ristabilito necessariamente. Si legga ugualmente il seguente
frammento di Eraclito: “Elios infatti non oltrepasserà le
sue misure, ché altrimenti le Erinni, al servizio di Dike,
lo troverebbero”26. Il sole non può comportarsi senza seguire le regole alle quali è destinato fatalmente, altrimenti
la vendetta lo colpirebbe. Tuttavia il sole può essere interpretato simbolicamente come l’incarnazione del potere regio. Pertanto si potrebbe interpretare il frammento come
un limite “naturale” della sovranità essa stessa sottoposta
al rischio della tracotanza (hybris) la quale condurrebbe
all’intervento della vendetta. Lo stesso limite lo riscontriamo nell’Orestea. Non sono tanto la vendetta e il senso naturale della giustizia a venire criticati da Eschilo, quanto
F. NIETZSCHE, La filosofia nell’epoca tragica dei greci, Milano, vol.
III, tomo 2, 1973, 158.
24
E. PARESCE, Storia della filosofia del diritto in Grecia, Messina 1963,
62.
25
ERACLITO, 80, Diels
26
ERACLITO, 94, Diels
23
ELOGIO DELL’IRA
15
la dismisura, il porre la vendetta in un circuito che non
troverà una sua conclusione. La misura della propria forza
è ciò che indica il senso della giustizia. La hybris è la dismisura dell’uomo eccellente (areté). “Chi va oltre la parte
dovuta, pretende cioè quel che non gli compete, commette una hybris”27. Tale ragionamento coincide con quello di
Dodds per il quale “i due imperativi: sarebbe tuo dovere e
sei costretto” collimano, laddove in italiano il verbo dovere
è ambivalente e nasconde ancora le due possibilità: da un
lato il dovere storico-morale, dall’altro dovere inteso come
necessità della natura. Da un lato le Erinni, dall’altro le
Moire: “la finzione morale delle Erinni, quali ministre di
vendetta, deriva da questo ufficio primitivo di esecutrici
delle Moire. Chi rivendica la propria posizione nella società e nella famiglia… è soggetto di un diritto e può invocare
le proprie Erinni in difesa. Parimenti le Erinni sono chiamate a testimoniare dei giuramenti, perché il giuramento
predetermina una sorte, crea una moira” 28. Le Moire decidevano del fato, del caso, del destino, della fortuna, della
sorte di ognuno. Tuttavia tale fato, voluto dagli dei, scaturiva soprattutto nel momento in cui un guerriero, ma anche
un uomo valente, perdeva la faccia in pubblico. Ciò conduceva ad un senso di vergogna che doveva essere ripagato di
fronte alla comunità in modo da riscattare l’ingiustizia. La
vendetta, pertanto, non è mai un affare privato ma si pone
come questione pubblica. Dobbiamo ricordare ancora una
volta che la qualità più elevata dell’uomo greco-antico era
rappresentata dall’areté, che lo definiva come valente, coraggioso, sincero, forte. Di fronte a queste virtù guerriere
era normale dover rispondere ad un’offesa con un duello
e uno scontro fisico: “il desiderio di retribuzione è assai
27
28
E. PARESCE, op. cit., 217.
E. DODDS, I Greci e l’irrazionale, Milano 2009, 50.
16
PARTE PRIMA
difficile da distinguere, nella cultura ateniese dalla vendetta”29. L’omicidio commesso con la forza veniva accettato,
benché provocasse la reazione vendicatoria, in quanto “diminuiva il prestigio del gruppo dell’ucciso. L’omicidio commesso con l’inganno, invece, andava ad intaccare i principi
fondanti e di conseguenza la stabilità e gli equilibri della
compagine sociale, pertanto era riprovato dalla collettività
che vedeva messo in pericolo il proprio sistema di valori”30.
Nel primo caso i parenti del morto chiedevano giustizia.
L’assassino poteva sottrarsi alla punizione e alla vendetta
andando in esilio o pagando un riscatto. “L’esercizio della
vendetta, oltre alla funzione di dare soddisfazione e appagamento ai parenti del morto e compensarne il dolore, era
percepito come un dovere sociale e morale indispensabile
e necessario per riacquistare l’onore”31. Tuttavia, secondo Cantarella, qui siamo ancora nel campo, per così dire,
della vendetta privata, nel senso che alla fine la giustizia
viene soddisfatta solo da chi ha subito (o pensato di subire) ingiustizia. Vi era invece una vendetta collettiva nei
confronti di traditori della Patria o di coloro i quali erano
considerati blasfemi o portatori di sciagure. In questo caso
si interveniva con riti espiatori attraverso la lapidazione o
l’avvelenamento, come nel caso di Socrate32. Le pene e le
punizioni inflitte erano l’effetto di un desiderio di vendetta
collettivo; si trattava comunque di un contesto in cui non
era facile distinguere tra desiderio privato di vendetta e
bisogno pubblico di pena33. La vendetta era un desiderio di
29
E. CANTARELLA, I supplizi capitali. Origini e funzioni delle pene di
morte in Grecia e a Roma, Milano, 2005, XIX.
30
M. S. PORRELLO, Omicidio tra vendetta privata e punizione, in “Diritto e questioni pubbliche”, n.8, 2008, p. 143.
31
Ivi, P. 144.
32
E. CANTARELLA, I supplizi capitali, cit., 57-67.
33
F. MCHARDY, Revenge in Athenian culture, London 2008, 2.
ELOGIO DELL’IRA
17
giustizia innescato dall’ira, che a sua volta scaturiva forse
da un bisogno di riconoscimento sociale; ma che trovava
comunque le sue radici nell’ancestrale istinto di sopravvivenza: “Protecting, reproductive, resources in order to
ensure the continuation of the family line”34.
Tipica è la saga di Eschilo, l’Orestea. Oreste uccide
sua madre, Clitemnestra, per vendicare suo padre, Agamennone, il quale a sua volta era stato ucciso da lei per
vendetta, avendo lui sacrificato sua figlia, Ifigenia, per placare l’ira della dea Artemide e partire alla volta di Troia.
Agamennone infatti “osò sacrificare sua figlia, per la guerra che doveva vendicare il rapimento di una donna”35. Egli
scatena la guerra a causa del rapimento di Elena da parte
di Priamo, e dunque vuole ottenere la “giusta vendetta”.
Tutti i protagonisti sono spinti dalla sete di vendetta e di
giustizia: Agamennone contro Priamo, Clitemnestra contro
Agamennone, Oreste contro Clitemnestra. Le Erinni stesse
si vorrebbero vendicare a loro volta di Oreste. Di fronte
a questa ineluttabilità della vendetta Eschilo sembra proporre un cambiamento paradigmatico e introdurre per la
prima volta il senso di una giustizia imparziale che interrompa il circuito interminabile della faida. Scrive Eschilo:
“poiché la situazione è precipitata a tal punto, io sceglierò,
Ivi, p. 45.
ESCHILO, Orestea, Milano 1997, p. 37. Sulla vendetta in relazione
all’idea di giustizia, al passaggio cioè dal pre-diritto al diritto, è da vedere, F.
OST, op.cit. La vendetta è un dovere sacro. Deve colpire i familiari della vittima per poter purificare la colpa. Per Bachofen, Clitemnestra è spinta dal diritto materno a vendicarsi, diritto materno che è un diritto naturale che fonda la
società pre-ellenica. Oreste invece impersona il diritto paterno che sostituirà il
vecchio diritto. Si veda, J. J. BACHOFEN, Il matriarcato, Torino 1988. “Questo
diritto materno materiale è il più sanguinario di tutti i diritti. Esso impone la
vendetta anche là dove mentalità superiori la fanno apparire come un delitto”
(p. 164). La vendetta risalirebbe al diritto materno, ossia si riferisce al carattere femminile, emotivo, irrazionale, contrariamente al potere patriarcale,
freddo, calcolatore, razionale.
34
35
18
PARTE PRIMA
per gli omicidi, giudici giurati, e fonderò un istituto di giustizia che resterà saldo per sempre”36.
Piuttosto che a un nuovo paradigma però siamo di
fronte ad un gesto razionale che impone il controllo alla
dismisura della vendetta. Essa va ricondotta entro un’azione temporale ben precisa, altrimenti rischia di distruggere
l’intera vita politica e sociale della città. Pier Paolo Pasolini osserva giustamente nella postfazione alla Orestiade:
“Certi elementi del mondo antico, appena superato, non
andranno del tutto repressi, ignorati: andranno piuttosto,
acquisiti, riassimilati, e naturalmente modificati. In altre
parole: l’irrazionale, rappresentato dalle Erinni, non deve
essere rimosso (che poi sarebbe impossibile) ma completamente arginato e dominato dalla ragione, passione producente e fertile”37. Ancora più convincente risulta essere la
posizione di Suzanne Said che scrive: “L’Orestie souligne
au contraire fortement la continuité des deux systèmes,
car la vengeance est déjà une forme de justice et la justice,
même administrée par un tribunal, reste vengeresse”38.
Come si evince dalla lettura delle Coefore, in cui Eschilo
torna sul tema della vendetta, Oreste ed Elettra debbono
vendicarsi contro la loro madre Clitemnestra, la quale non
solo ha ucciso il marito, ma ha assunto il potere della città.
Oreste dunque deve ristabilire l’equilibrio sociale recuperando il potere che gli spetta. Così “la vendetta di Oreste
ESCHILO, Eumenidi, in E. CANTARELLA, Il ritorno della vendetta, Milano 2007, 130. Tra le tante traduzioni abbiamo scelto quella di Cantarella
perché più consapevole del passaggio dalla vendetta alla violenza. Bella è pure
la traduzione di P.P. Pasolini: “Qui siamo in pericolo. Non mi resta che raccogliere dei giudici. Giureranno, e il tribunale così istituito, avrà valore per l’infinito tempo futuro”. ESCHILO, L’Orestiade, tr. P.P. Pasolini, Torino 1960, 148.
37
ESCHILO, L’Oresteide, cit., 177.
38
S. SAID, La tragédie de la vengeance, in La vengeance vol. 4 a cura
di G. Courtois, Paris 1980, 54.
36
ELOGIO DELL’IRA
19
non rimane confinata su un piano privato, ma assume un
significato pubblico e politico” 39.
Anche Edipo40 vorrebbe vendicarsi per la morte di
Laio, re di Tebe, che però scoprirà essere suo padre, e che
era stato lui stesso ad averlo ucciso. La vendetta non consumata aveva prodotto la peste a causa degli dei adirati
con gli uomini per aver versato sangue reale. Edipo, per il
bene della città e per ripristinare la giustizia, è costretto a
vendicarsi contro se stesso, ad accecarsi e ad abbandonare
la città che stava governando: vendicarsi: riflessività della
vendetta. Qui la violenza si ripiega in se stessa e Edipo si
sacrifica per placare l’ira degli dei. La novità della tragedia
di Sofocle non consiste tanto in una nuova concezione della giustizia; in fondo Edipo conserva tutti i comportamenti
tradizionali del re: rispetto delle leggi divine, rispetto dei
giuramenti presi. La novità consiste invece, come sostiene
Michel Foucault, in una nuova pratica giudiziaria relativa
alla ricerca dei testimoni. Non siamo più di fronte soltanto
a una profezia che si (auto) avvera, ma ad una testimonianza di servitori e di schiavi che indicano il reale colpevole41.
Indubbiamente in Sofocle vi è una concezione del potere
più attenta e secolarizzata, la quale comincia a distinguersi
dalla religione. Per dirla in termini foucaultiani, il potere
sarà disgiunto dal sapere. Come si evince anche dall’Elettra sofoclea, la protagonista vorrà vendicarsi lucidamente,
senza rimorsi, e lo manifesterà apertamente a Clitemnestra: “tu non hai ucciso Agamennone, per giustizia, no, tu
lo hai ucciso per il potere!”42
R. SEVIERI, Introduzione, in Eschilo, Coefere, Venezia 1995, 11.
SOFOCLE, Edipo re, Milano 1982.
41
M. FOUCAULT, La verità e le forme giuridiche, Napoli 1994. Id. Mal
fare, dir vero. Funzione della confessione nella giustizia, Torino 2013, 48-85.
42
SOFOCLE, Elettra, Venezia, 2004, 43.
39
40
20
3. Le
PARTE PRIMA
origini del diritto
Nei Greci “l’obbedienza alle leggi non indica un atteggiamento interiore… ma è retta dal meccanismo della reciprocità, governata dalla regola del contraccambio, fondata
sul principio del rispetto del limite”43. Non siamo di fronte
ad una virtù interiore volta alla ricerca di una giustizia trascendente, ma ci confrontiamo con una virtù esteriore in cui
ciò che conta sono i rapporti sociali, lo sguardo dell’altro.
Siamo insomma, come si è già detto, ancora in una società
della vergogna e non della colpa. Osserviamo l’utilizzo di
una logica interpersonale e non individualistica, una lotta
per il riconoscimento e l’importanza della relazione; giocano un ruolo fondante la reciprocità, la giustizia, la vendetta, il contraccambio, il dono, il contrappasso, il patto, la
fiducia. Si potrebbe dire che i Greci hanno preferito perseguire l’idea di giustizia come ricerca della verità possibile, paradigmaticamente rappresentata da Edipo. Lui cerca
la verità, e si arrovella per comprendere cosa sia accaduto nella realtà degli eventi e si acceca perché i suoi occhi
non gli hanno permesso di vedere la realtà. Il sentimento
di giustizia viene riconosciuto, non solo nell’atteggiamento
dell’altro, a cui chiediamo un’azione corretta, ma anche,
come in una sorta di autoattribuzione e di rispecchiamento, a se stessi. È l’interiorizzazione della colpa che verrà
sviluppata da Euripide44. Oreste è psicologicamente scosso
e impazzito per il suo stesso gesto matricida di fronte alla
vista delle Erinni. Il riconoscimento psicologico dei gesti
e delle intenzioni segna la nascita della autocoscienza, la
quale, al suo sorgere, è già ambivalente, rischiando di cadere nella follia.
A. JELLAMO, Il cammino di Dike, L’idea di giustizia da Omero a Eschilo, Roma 2005, VIII.
44
EURIPIDE, Oreste, Milano 2001.
43
ELOGIO DELL’IRA
21
Lo stesso processo di interiorizzazione e razionalizzazione avviene nella Medea, in cui la vendetta diviene
furiosa e mina se stessa nell’eccesso. È come se Euripide
avesse precluso alla follia le sue ragioni e l’avesse scorporata rendendola incomprensibile. La vendetta di Medea45
è diventata cieca e inintelligibile. Al sorgere della ragione,
la ragione stessa dimentica la sua origine, le emozioni che
l’hanno prodotta, e inventa il suo doppio, la follia. Così,
l’interiorizzazione partorisce, insieme alla coscienza, pure
il suo opposto: la follia. Giustamente Nietzsche coglierà l’ipostatizzazione e la razionalizzazione nel teatro euripideo:
“socratismo estetico: tutto deve essere razionale per essere bello”46. Socrate, infatti, è così pervaso dal suo furore
razionale che si uccide per difendere la verità47, è sicuro
della sua verità; come è sicuro della sua verità Cristo, il
quale si fa uccidere per salvare gli uomini. Il cristianesimo
perseguirà un’idea di verità come certezza nella fede demandando la giustizia a Dio. A ragione Nietzsche vede in
Socrate colui che precorre Gesù. In Platone è chiarita l’anticipazione cristiana dell’importanza del perdono sull’idea
di vendetta. “In nessun caso va commessa ingiustizia…
Non dobbiamo ricambiare le ingiustizie, né far del male a
nessuno, qualsiasi cosa gli altri facciano a noi”48. Si vuole
rompere la circolarità e l’indeterminatezza della vendetta
perpetua ma anche della sua reciprocità. Al pragmatismo
greco il cristianesimo opporrà il soggetto, la coscienza, la
fede, la speranza, la colpa, l’intenzione, l’anima divisa dal
45
EURIPIDE, Medea, Milano 1985. Secondo J. De Romilly il teatro di
Euripide rappresenterebbe proprio la critica radicale alla violenza. Si veda,
La Grecia antica contro la violenza, Genova 2007.
46
F. NIETZSCHE, La nascita della tragedia, Milano 1992, 85.
47
Si veda A. VOTRICO, Uccidersi per uccidere. Il suicidio per vendetta,
Milano 2009.
48
Critone, 49 B.
22
PARTE PRIMA
corpo. Su quest’ultimo punto Dodds fornisce una ricostruzione circa l’eredità acquisita dall’Occidente proveniente
non dalla Cina o dall’Asia minore ma dalla Siberia. Questa
eredità nordica di cui Pitagora sarebbe venuto in contatto
avrebbe successivamente influenzato il pensiero di Platone
e poi del cristianesimo. Ciò in effetti spiegherebbe perché
la filosofia orientale non riveli tracce di dualismo animacorpo e abbia potuto influenzare pensatori materialisti
come Schopenhauer e Nietzsche. Fu poi Platone “a costruire una nuova psicologia trascendentale. Egli operò nella
tradizione del razionalismo greco un fecondo innesto delle
idee magico-religiose che hanno remota origine nella civiltà
sciamanistica settentrionale”49. Invece, come si è visto, il
diritto greco ha una concezione della giustizia nei termini del limite, come ci ha spiegato Jellamo; e l’ingiustizia è
dunque hybris, tracotanza, eccesso, superamento dei limiti. Tale interpretazione potrebbe coincidere con la teoria
di Schmitt secondo la quale il diritto (nomos) si riferirebbe
proprio ad un’idea di territorio, di spazio e quindi di misura, di ordine e di limite. Nemesis, non a caso, la vendetta,
significa anche ripartizione. La radice di nemesis e di nomos sarebbe la stessa: nemein. “Tra la giustizia e la nemesis c’è un vincolo strutturale. Nemesis è punizione secondo
giustizia, restituzione del dovuto”50. Nomos è “diritto nel
senso della parte che ciascuno ha, il suum cuique”51. A ciascuno il suo. Potrebbe essere interpretato così il punto di
DODDS, op. cit., 261.
A. JELLAMO, op. cit., 87.
51
C. SCHMITT, Le categorie del politico, Bologna 1999, 298. Non concorda con l’interpretazione di Schmitt, G. SEMERANO, L’infinito: un equivoco
millenario, Milano 2004, che fa risalire l’etimo nomos allo stesso che in latino
sarà nomen, il nome, la parola e cioè la voce accadica, nabum (decretare, proclamare, nominare). Nomos basileus è appunto “la parola del re” (263). Per un
inquadramento generale del termine, E. STOLFI, Introduzione allo studio dei
diritti greci, Torino 2006, 127-151.
49
50
ELOGIO DELL’IRA
23
vista espresso da Cefalo all’inizio del dialogo di Platone, la
Repubblica: “Che il giusto consiste nel restituire ciò che è
dovuto”52. Su questa visione riparatrice rispetto ad un torto subito, e che appartiene alla vecchia virtù greca, Platone
controbatte con un’argomentazione razionalistica e insieme trascendente: “In nessun caso è giusto fare del male a
qualcuno”53 che anticipa chiaramente la visione evangelica
cristiana. Glaucone allora prova a rilanciare le tesi di Trasimaco: La giustizia non è praticata per il gusto di praticarla come se fosse un bene ma si coltiva solo per necessità.
L’idea di giustizia è vista in senso negativo e interviene solo
per riparare un torto subito, perché se fosse possibile commettere ingiustizia senza essere visti (per esempio con l’utilizzo del magico anello di Gige), tutti lo farebbero. Ma dato
che non si può realisticamente diventare invisibili, è più
vantaggioso trovare una soluzione di compromesso. Pertanto la giustizia per Glaucone è “non causare né patire ingiustizia. Di qui, originariamente, venne l’usanza di porre
leggi e convenzioni fra le persone, e quanto la legge imponeva prese il nome di giustizia e legalità. E dunque questa
fu l’origine e l’essenza della giustizia; un compromesso fra
ciò che è la soluzione senza pagarne il fio, e quella che è la
soluzione peggiore, ossia il patire ingiustizia senza potersi
vendicare”54.
Conosciamo la risposta di Platone. Di fronte a tali
turbolenze sociali occorre uno Stato etico che sia in grado di educare in primis i custodi e poi i cittadini, ma di
educarli soprattutto ad obbedire. Non siamo di fronte ad
una visione contrattualistica di tipo hobbesiano, semmai
incarnata nel pensiero di Glaucone, ma ad un vero e pro-
52
53
54
PLATONE, Repubblica, I 331 E.
PLATONE, Repubblica, I 335E.
PLATONE, Repubblica II, 358 B.
24
PARTE PRIMA
prio potere pastorale, organicistico, definito da Popper
come stato totalitario teologico-politico. “La giustizia – per
Platone – significa tenere il proprio posto” 55. Platone proporrebbe così, stando a Girard, “la condanna della mitologia”56 fondando un’altra cultura “non più propriamente
mitologica ma razionale”, non più religiosa ma filosofica:
un meccanismo formale, e per certi versi razionale, che collega l’ordine sociale ad una violenza istituzionalizzata. La
violenza sociale sarebbe incarnata, come per Hobbes, in
un Leviatano capace di canalizzare e condensare tutta la
violenza privata in un enorme mostro, sorta di dio mortale
disponibile a cedere solo piccole quantità di vendetta. Girard non tiene però conto dei suggerimenti di Benjamin57 e
del paradosso di uno Stato nel quale la paura della violenza
diviene una passione più pericolosa della violenza stessa. Il
Leviatano non può essere un pharmacon, semmai è piuttosto un condensatore di violenza. Posto che la vendetta
scaturisca dalla paura, quella dello Stato stesso, ciò da un
lato esorcizza la vendetta e se ne fa carico, ma dall’altro
alimenta anche il desiderio di vendetta: laddove lo Stato
cede, come un argine che si rompe, mostra che al di là vi è
un potenziale distruttivo e vendicativo. Lo Stato per resistere dovrebbe dotarsi di momenti importanti di sacralità e
festività della violenza.
Diversamente da Platone, Aristotele riconosce, più
pragmaticamente, che la vendetta è necessaria all’individuo. Essa è un’azione naturale collegata alla passione
dell’ira. La virtù, che è la ricerca della medietà attraverso
la ragione, è data, relativamente all’ira, dalla mitezza. Un
55
K. POPPER, La società aperta e i suoi nemici, Platone totalitario, vol
I, Roma 1996, 131.
56
R. GIRARD, Il capro espiatorio, Milano 1999, 127.
57
W. BENJAMIN, Per la critica della violenza, in Angelus novus, Torino
1962, 1-30.
ELOGIO DELL’IRA
25
uomo mite è colui il quale è capace di controllare l’ira. “La
mitezza è medietà riguardo all’ira”58. Tuttavia, sostiene ancora Aristotele, “chi si adira per giusti motivi e contro le
persone giuste, inoltre come si deve, quando e per tutto il
tempo appropriato, è lodato”. In effetti è giusto vendicarsi
se spinti da giustizia, contro le persone che sono al nostro
livello, e per un tempo limitato e stabilito. Altrimenti cadiamo nella dismisura. L’eccesso causa ingiustizia, diviene insopportabile. Iracondi, collerici e rancorosi spingono
le loro passioni oltre la ragione. In questo caso l’eccesso
è “più frequente, dato che il vendicarsi è più umano… e
la vendetta appaga l’ira, producendo piacere al posto del
dolore”. Al contrario, il pusillanime, cioè “il mite che propende piuttosto ad errare per difetto… non è vendicativo
(timontikos) ma tende [troppo facilmente] al perdono”. Ma
tale “difetto è biasimato, infatti quelli che non si adirano
per giusti motivi sono sciocchi… e sembrano incapaci di
reagire; è atteggiamento di schiavi il sopportare l’oltraggio,
e far finta di nulla se gli amici sono insultati”.
4. La forma del diritto
È noto che anche nella Roma antica la vendetta era un
fatto incontestabile. Gli attentati fisici alle persone “esponevano il colpevole alla violenta reazione dei familiari dell’offeso, consentivano di esercitare la vendetta nei limiti del
taglione”59. Uccidere un uomo libero comportava il rischio
di essere perseguitati dai parenti della vittima che avevano il dovere di vendicarsi. “Nei casi più gravi (addictio) i
colpevoli vengono assegnati alla vittima, che decide se metterli a morte, ridurli in schiavitù, o incatenarli nella pro58
59
ARISTOTELE, Etica nichomachea, IV, 1126a.
B. SANTALUCIA, Studi di diritto penale romano, Roma 1994, 4.
26
PARTE PRIMA
pria prigione privata. In caso di injuria (lesioni fisiche con
conseguenze invalidanti permanenti), il tribunale consente
alla vittima, nel caso non accetti una compensazione pecuniaria, di procedere senz’altro al taglione”60. Questo era
l’atteggiamento che regolava la vendetta privata. Vi era,
per così dire, anche una vendetta pubblica se si offendeva
la comunità intera. Inizialmente il re-sacerdote non esercitava direttamente il diritto penale sul reo ma con il sistema
della sacertà si attuava la vendetta divina per mezzo della
vendetta del popolo. Chiunque infatti poteva vendicarsi di
colui che aveva offeso la comunità per ristabilire l’ordine
che regolava la vita tra uomini e dei. Per esempio “l’oltraggio recato al padre era di per sé sufficiente ad esporre il figli
alla vendetta divina”61. Successivamente, “l’esercizio della
vendetta da parte dei parenti della vittima ha cominciato a
svolgersi sotto il controllo dell’opinione pubblica”62 eccetto
ovviamente i casi di trasgressioni militari in cui il re, in
veste di comandante militare, interveniva rapidamente con
pene tese a reprimere rivolte, infedeltà, tradimenti, diserzioni, codardie, insubordinazioni ecc. La tesi di Mommsen
secondo cui si erano istituite assemblee popolari e tribunali, viene respinta da Kunkel in quanto “solo i crimini di carattere politico erano sottoposti al iudicium populi. I delitti
comuni, secondo Kunkel, sarebbero stati rimessi – ancora
al II secolo a. C., e forse fino al tempo di Silla – alla vendetta privata”63. Insomma si ipotizza che l’intervento di terzi
per giudicare il comportamento doloso o delittuoso avvenga tra uguali, tra patrizi, tra nobili. “Le notizie trasmes-
G. COSI, Società, diritto, culture. Introduzione all’esperienza giuridica. Corso di sociologia del diritto, Firenze, 2001, 26. ID., Invece di giudicare.
Scritti sulla mediazione, Milano 2007, 133-144.
61
B. SANTALUCIA, op. cit., 14.
62
Ivi, 19.
63
Ivi, 23.
60
ELOGIO DELL’IRA
27
seci dalla tradizione non offrono il più fievole indizio che
la provocatio abbia originariamente costituito un’arma di
difesa della plebe contro il patriziato, ma lasciano piuttosto
arguire che fosse un rimedio introdotto dal patriziato nel
suo stesso interesse, per cautelarsi contro i possibili abusi
dei suoi magistrati”64. Così si racconta sia successo nel caso
di Orazio, che uccide la sorella innamorata del nemico di
Roma, Curiazio65. Chiamato in giudizio di fronte al re Tullo
Ostilio, Orazio è giudicato da due magistrati che lo condannano. Orazio, vistosi perso, si appella al popolo perché sa
di essere amato avendo salvato la città dalla guerra contro
Albalonga, e il popolo lo assolve (provocatio). Tuttavia, interpellare il popolo non era nei fatti una procedura consuetudinaria ma del tutto eccezionale. Nell’età regia insomma
“vige ancora l’arcaico costume della persecuzione criminale da parte dei parenti dell’ucciso”66. Esso non risponde
tanto ad un diritto soggettivo ma, come dicevamo poc’anzi,
ad un’esigenza di carattere religioso.
Difficilmente si può supporre che con l’avvento delle
XII tavole e con la nascita della Repubblica le leggi consuetudinarie sparissero. “Il diritto delle XII tavole non
era pervenuto ad un concetto astratto di iniuria… per cui
sopravviveva l’originaria vendetta sotto forma di taglione”67. Vigeva ancora la rivalsa del creditore sul debitore,
del padre sui figli, del proprietario terriero sullo schiavo.
Ritorsione privata e vendetta erano regolate ma non escluse. “A Roma la vendetta era una pratica così radicata che
ne sarebbe stato impossibile un’eventuale eliminazione dal
64
65
Ivi, p. 163.
Per un approfondimento, E. CANTARELLA, I supplizi capitali, cit., 146-
149.
66
67
320.
B. SANTALUCIA, op. cit., 107.
C. SANFILIPPO, Istituzioni di diritto romano, Soveria Mannelli 2002,
28
PARTE PRIMA
momento che la coscienza sociale la riteneva l’unica forma
di punizione-sanzione possibile”68. In effetti dobbiamo stabilire da un punto di vista linguistico e semantico la distinzione tra vindex e ulciscor, dato che spesso i termini sono
tradotti in italiano allo stesso modo. Il primo termine rimanda a una reazione meditata di fronte ad un evento, da
cui l’italiano vendetta, il francese vengeance e il più chiaro termine inglese revenge, quasi nel senso di una rivincita. Cicerone, ad esempio, lo utilizza riferendosi a dio che
punisce gli uomini a causa del loro fasto: “qui secus faxit,
deus ipse vindex erit”69. Qui dio reagisce razionalmente al
comportamento sbagliato degli uomini. Il termine indica
una specie di punizione mirata che esprime un’intenzione.
Ulciscor deriva invece da Ulcus, la piaga, la ferita che si
subisce e si vuole fare subire a qualcuno. Cicerone la utilizza nel De officiis: “est enim ulciscendi et puniendi modus”70. Inoltre Cicerone utilizza anche il termine vindicare
ma che va tradotto in italiano con rivendicare nel senso
di richiamare e reclamare a sé la proprietà di qualcosa,
in senso lato di un’idea. Attribuire a se stesso: “pro suis
vindicare”71. È probabile che via sia comunque una relazione stretta tra vendicare e rivendicare in quanto dopo
la richiesta di vendetta, si finiva per accettare una compensazione, una sostituzione dietro pagamento. Ma poteva
accadere pure l’opposto: all’insolvenza del creditore si interveniva con la vendetta. Pertanto venum-dicare, dire il
prezzo, significa pattuire la giusta cifra da offrire al posto
della reazione violenta. La pena blocca il meccanismo della
violenza. La vendetta pertanto appare a Roma all’interno
68
M. S. PORRELLO, Omicidio tra vendetta e punizione, in “Diritto e
questioni pubbliche”, n. 8, 2008, 160.
69
CICERONE, De legibus, II, 17-19.
70
CICERONE, De officiis, I, 34-35.
71
CICERONE, De Republica, I, 26-27.
ELOGIO DELL’IRA
29
del discorso giuridico. Il vindex è la forma giuridica in cui
il creditore chiede al debitore davanti al magistrato di saldare il suo debito. Egli lo dichiara e contemporaneamente
lo tocca con un bastone. Se il debitore non paga è venduto al mercato come schiavo, altrimenti lo libera. In senso
traslato vindicta diventa il nome del bastone utilizzato durante la cerimonia. È probabile che successivamente tale
cerimonia sia stata estesa agli schiavi stessi che si volevano,
per qualche forma di ringraziamento, liberare: i liberti. Di
qui la cerimonia diventa: manumissio vindicta. Si collega
alla vendetta il concetto di pena che in greco e poi in latino
significa il prezzo del riscatto. “Nel sistema giuridico romano… tutti gli atti illeciti che non fossero crimina… erano
lasciati alla persecuzione da parte della vittima e davano
luogo ad una pena consistente in una somma di denaro più
o meno elevata”72.
La vendetta è spesso considerata un atto fondatore,
che si collega al sacro. Non a caso Virgilio chiude l’Eneide con il duello tra Turno ed Enea. Turno, “già godendo
la vendetta”, è impetuoso e furibondo e vuole vendicarsi
di Enea che non solo voleva impossessarsi delle terre dei
Latini ma altresì prendere in sposa Lavinia che era stata
precedentemente promessa proprio a Turno. Del resto anche Enea voleva vendicarsi di Turno perché aveva ucciso
il suo amico Pallante. Pertanto la fondazione di Roma si
compie, per Virgilio, attraverso un duello che allude ad un
patto, in quanto avviene tra eroi e uomini d’onore, non
sparge più sangue se non quello di Turno, immolato agli
dei e sacrificato per una nuova città. Benché fondato su
un’ingiustizia, il sacrificio di Turno condurrà alla fine della guerra e sarà “per compor la guerra offerto”. Da ciò,
R. MARTINI, Sul risarcimento del danno morale nel diritto romano, in
“Rivista di Diritto Romano”, VI, 2006, 3.
72
30
PARTE PRIMA
“dalla disfida” il “patto accetti, e del patto i capitoli e le
leggi stabilisca e confermi”. La vittoria di Enea condurrà al rispetto dell’accordo e cioè che “questi popoli invitti
aggian tra loro governo e leggi uguali, e pace eterna”. La
giustizia non è il superamento della vendetta ma è il compimento della vendetta stessa. Tuttavia l’artificialità della
proposta di un poeta come Virgilio risiede nel fatto che la
vendetta possa avvenire tra nemici. In realtà i racconti mitologici fondativi della maggior parte delle culture propone
miti fondatori fratricidi e/o familiari. Nel caso di Roma, ad
esempio, di Remo e di Romolo. Ciò dimostrerebbe che la
vendetta è un sentimento di giustizia che scaturisce proprio
all’interno degli stessi clan; la vendetta proviene dall’ira,
e l’ira come chiarisce bene Aristotele73 è un’emozione che
colpisce gli amici più che i nemici, perché da essi non ci
si attenderebbe il tradimento, la rottura del patto fiduciario. Rispetto alla posizione aristotelica, secondo la quale
la passione non può essere cancellata ma solo temperata
in armonia con la volontà razionale in vista di un fine e
di un obiettivo strategico, Seneca considera l’ira come un
nemico da abbattere e da non fare penetrare nel ‘fortino’
della ragione. Il tentativo nel De ira è quello, in sintonia
col pensiero stoico e poi cristiano, di eliminare le passioni
dalla ragione. La critica esplicita ad Aristotele rivela il desiderio di espungere per sempre l’ira. In effetti, essa non è
considerata una passione (adfectus) ma un vero e proprio
vizio, peggio, una malattia che va sconfitta completamente.
I motivi sono che un uomo assoggettato all’ira non apparirebbe né saggio né buono perché non sarebbe in grado di
governare se stesso e gli altri. Per Seneca, non si può essere
irati e buoni allo stesso tempo74. L’individuo non sarebbe
73
74
ARISTOTELE, Retorica, Milano 1996, 91.
SENECA, De ira, Libro II, 12.
ELOGIO DELL’IRA
31
in grado di controllarsi e dunque vivrebbe in balia di una
forza che non gli permetterebbe di agire correttamente.
Lo sforzo di Seneca è per certi versi simile a quello
di Aristotele, ma la differenza, dichiarata dallo stesso filosofo romano, è evidente e profonda: le passioni non basta
temperarle, ma vanno completamente escisse. Questo perché altrimenti l’uomo si comporterebbe come un semplice
animale e non seguirebbe la natura umana, che si riconosce proprio per la sua essenza razionale. Tuttavia Seneca
sostiene che gli animali sono privi d’ira. Questa contraddizione, anziché rilevare un’aporia, mostra chiaramente
la sua convinzione di considerare l’uomo come un unicum
spirituale e divino in contatto con Dio.
L’ira sarebbe una passione pericolosa perché desidera
una vendetta “destinata a coinvolgere lo stesso vendicatore”75: una specie di follia incapace di distinguere la giustizia
dalla violenza. Essa si accompagna alla rabbia, alla collera, alla brama di vendetta, al voler ricambiare il dolore
con il dolore.
L’ira è il desiderio di punire. Pertanto è una reazione
rispetto ad un torto o ad un errore subito; è quindi una
risposta che si collega al sentimento di giustizia (diritto).
Chi ha subito un torto vuole ripristinare un diritto: “l’ira
è la brama di vendicare un’offesa”76. Ricordiamoci che in
latino la vendetta si dice anche ultio, che significa piaga,
ferita, un’offesa fisica. Tuttavia per Seneca la vendetta non
deve essere accompagnata dall’ira, ma dalla ragione, sotto
la guida della quale essa interviene senza la passione, freddamente, calcolando solo i pro e i contro in vista di una
giustizia più neutra e oggettiva. Dove c’è passione non c’è
ragione, dove c’è ira e vendetta non c’è giustizia, e vicever-
75
76
Libro I, 1.
Libro I, 3.
32
PARTE PRIMA
sa; questa in definitiva la posizione di Seneca: “le passioni sono funeste”77. Esse non si possono controllare, allora
vanno eliminate in vista di un comportamento razionale.
Solo la ragione condurrebbe alla giustizia. Questa tesi, di
derivazione stoica, costituirà la base del pensiero e della
cultura cristiana per i millenni seguenti con le conseguenze
nefaste di cui parlerò più avanti. Non ci si vuole liberare
tanto dalla vendetta, quanto dall’ira: si vuole che la giustizia sia consumata freddamente.
Per dimostrare la sua tesi, Seneca afferma che l’ira
appartiene spesso ai guerrieri che si fanno trascinare dalla
collera contro i nemici. Utilizzando l’esempio della guerra,
il filosofo latino confonde tra una passione privata (l’ira) e
un comportamento pubblico (la guerra). In effetti, in questo caso, Seneca non utilizza il termine ultio o poena, bensì
vindicta, che allude ad un riferimento giuridico. Infatti, la
vindicta, come si è visto, indicava anche il bastone simbolicamente utilizzato nella cerimonia giuridica romana, con cui
davanti al magistrato il creditore toccava il debitore, chiedendogli di saldare il debito. È facile allora, per Seneca, dimostrare che in guerra l’ira è controproducente, perché, per
affrontare il nemico, occorre la freddezza necessaria per valutare tatticamente le azioni. Ma ciò succede frequentemente
perché il nemico che si combatte è un estraneo, a meno che
non attenti alle nostre dimore. In quest’ultimo caso lo sforzo
teso alla difesa si raddoppia proprio grazie all’ira. Così accade a Ulisse che la controlla a lungo, ma poi la fa esplodere
rabbiosamente contro i Proci. Ciò non dimostra che l’ira è
volontaria, come suppone Seneca, ma semplicemente che si
può governare. Ulisse è spinto dall’ira suscitata per avere
subito un’ingiustizia, ma la imbriglia con l’astuzia altrimenti
sarebbe potuto soccombere. Se fosse stata sufficiente la for77
Libro I, 9.
ELOGIO DELL’IRA
33
za, l’avrebbe utilizzata immediatamente. Correttamente per
Aristotele l’ira non è espunta dalla ragione ma temperata
dalla prudenza. Semmai la vendetta non è lo strumento che
si utilizza in guerra, ma ne potrebbe essere la causa, come
avviene per la guerra di Troia. Tuttavia raramente nelle
guerre già complesse come quelle al tempo di Seneca si va in
guerra per vendetta.
Invece si può concordare con il filosofo romano quando dice che l’ira si collega al desiderio di vendetta, ma, nel
contempo, ne è il suo ostacolo, appunto perché un eccesso
d’ira non permette di vendicarsi. L’eccesso di passione infatti non permette di canalizzare le forze verso un obiettivo prestabilito. Anche un difetto di passione, tuttavia, non
permetterebbe mai a nessuno di trovare soddisfazione nella
vendetta. La ragione, almeno nella visione senecana, infatti,
mirerebbe sempre al perdono. Ma se vi fosse solo il perdono,
come auspica Seneca, non ci sarebbe giustizia: infatti, appena subito un torto, perdoneremmo immediatamente.
Seneca vorrebbe che si possedesse il senso di giudizio
e di obiettività di un giudice. Però il giudice non si arrabbia giacché non è stato toccato personalmente dall’offesa,
così come un chirurgo non sente il dolore del paziente e
può operarlo, agendo freddamente e razionalmente. Ma un
padre, per esempio, non può comportarsi come un buon
giudice, né può cadere negli eccessi d’ira, né nella mancanza d’ira, altrimenti il figlio sospetterebbe che il padre non
abbia passioni nei suoi confronti, passioni anche positive
come l’amore. Si può essere adirati con qualcuno senza
necessariamente odiarlo. Anzi, ci si adira più facilmente
proprio verso chi si ama, perché i sentimenti si collegano
tra di loro. Dunque non è vero come sostiene Seneca che
“nessuno si adira con chi si ha in cura”78.
78
Libro I, 15.
34
PARTE PRIMA
Si potrebbe sostenere che la ragione come organo legislativo non esiste, ma che rappresenta solo uno strumento
regolativo; esistono piuttosto passioni contrastanti che scontrandosi producono una direzione. Ho detto che la ragione
del giudice o del medico può essere fredda e obiettiva perché
agisce nei confronti di un problema, ma non è coinvolta personalmente contro o verso una persona. Il giudice è dunque
sempre un terzo rispetto ai due contendenti, come il medico
è il terzo tra il paziente e la sua malattia. Pertanto la loro
ragione, almeno in questo caso specifico, è disinteressata,
priva letteralmente di inter-esse e di passioni.
Seneca afferma che l’ira è un moto volontario dell’animo, ma aggiunge che anche i bambini ne sono affetti. Inoltre l’ira è “uno slancio aggressivo” che però non si dà mai
senza “il consenso della mente”. Ma allora i bambini subiscono l’ira o la vogliono? L’ira elude il filtro razionale o è
volontaria? Seneca non vuole riconoscere le passioni, come
se esse fossero qualcosa di appartenente all’animalità e non
all’uomo. Ma quello che Seneca chiama ragione o mente
non è altro che l’abitudine del corpo alle reazioni chimiche
del corpo stesso. Non si può affermare che l’ira non è una
passione e che invece sia un vizio della mente o della ragione perché apparirebbe come un gesto volontario. Seneca
confonde volutamente l’ira con la vendetta. Non è infatti
l’ira, come ho detto, che è volontaria ma la vendetta. Achille reagisce con rabbia alla notizia della morte di Patroclo,
ma organizza successivamente e volontariamente la vendetta. Achille decide di andare verso il campo nemico, ma,
nel momento in cui vede Ettore, potrebbe sentire la paura
o di nuovo l’ira che monta e ucciderlo.
5. La giustizia come ragione
Riprendendo il pensiero stoico, il cristianesimo vorrebbe interrompere il meccanismo vittimario del capro
ELOGIO DELL’IRA
35
espiatorio tipico delle culture pagane e primitive le quali
non conoscono il messaggio evangelico che consiglia di accettare l’ingiustizia più grande, quella del sacrificio di Dio,
perché essa purificherà e giustificherà tutti i mali che siamo
costretti a sopportare su questa terra, preparando la giustizia più grande che rende salvi nella fede interrompendo
definitivamente il circuito della vendetta. La domanda del
salmista nel salmo 73, che si chiede per quale motivo gli
empi, i cattivi, i violenti vivano felicemente mentre i buoni, gli onesti e i giusti debbano soffrire e morire presto,
trova risposta nell’accettazione e nella giustificazione della
fede. La giustizia si trova nella fede. Come sostiene Paolo
nella lettera ai Romani, “il giusto vivrà mediante la fede”.
Coloro che si pongono fuori della fede scateneranno “l’ira di dio”, “meritano la morte”. “Non fate giustizia da voi
stessi, carissimi, ma lasciate fare all’ira divina. Sta, infatti,
scritto: “A me la vendetta, sono io che ricambierò, dice il
Signore”.
La vendetta è un’azione giusta così importante che
deve essere lasciata solo a Dio. La legge è degli uomini ma
la giustizia è divina. Paolo insiste sulla distinzione tra legge
legale e legge del cuore, coscienza, giustizia naturale e divina. L’uomo deve rispettare la legge, obbedire, trattenere
l’ira, amare il prossimo e attendere la giustizia divina, attendere “la rivelazione della giustizia di dio indipendentemente dalla legge” (Romani 3-4). La vendetta è ritardata
e procrastinata indefinitamente, anzi la vendetta è disinnescata in quanto “tutti sono colpevoli”. Ciò crea secondo
Nietzsche il risentimento. Non ricorrendo subito alla vendetta, non esigendo immediatamente giustizia, la coscienza
si trasforma, per il filosofo tedesco, in cattiva coscienza. La
violenza, anziché liberarsi all’esterno, si interiorizza, ammalando il corpo e l’anima. È la nascita del cristianesimo.
Paolo critica esplicitamente i pagani e gli stessi ebrei i quali
36
PARTE PRIMA
praticavano sacrifici animali, il capro espiatorio, la circoncisione per ingraziarsi immediatamente gli dei o trovare
una riappacificazione all’interno del gruppo. Per Paolo
invece vi deve essere “una sospensione della vendetta”79;
ma questa sospensione non cancella la violenza e la frustrazione di una giustizia ritardata. Tale comportamento è
descritto da Freud nei termini della rimozione. Il rimosso
torna ed esplode nella nevrosi e nella psicosi. Insomma il
cristianesimo si caratterizza per la sua dimensione “contronaturale”. Si capisce perché al suo annuncio gentile
“dell’amore per i nemici, del perdono, della rinuncia alla
vendetta” è esploso “con la sua furiosa escatologia… con
la cristianizzazione dell’ira di Dio viene istituita, a tutti gli
effetti, una banca trascendentale dove deporre impulsi timotici umani rinviati e progetti differiti di vendetta” 80.
Abbiamo giù avuto modo di analizzare la concezione
della vendetta nel vecchio testamento. Rimane da esaminare come il cristianesimo sviluppa e affronta la questione
della violenza e della vendetta. Laddove la violenza (inclusa la vendetta) apparteneva costitutivamente al sociale e
agli individui stessi, col cristianesimo la violenza diviene
trascendente, e con la morte di Dio in croce (si noti il paradosso rilevato da Nietzsche di un Dio che sacrifica se stesso)
Cristo troverebbe la possibilità di riscattare gli uomini dal
male. Al posto del capro espiatorio si sostituisce Dio stesso
che muore “per” redimere gli uomini. Tuttavia vi è un altro
paradosso: non soltanto dio si sacrifica come uomo per gli
uomini, ma muore definendosi innocente, e tuttavia pensa
di catalizzare su di sé l’intera colpa dell’umanità. Questo
messaggio di speranza ovviamente non si realizza, rimane
un simbolo, e allora la chiesa ha bisogno di costruire una
79
80
SLOTERDIK, op. cit., 96.
Ivi, 119.
ELOGIO DELL’IRA
37
ulteriore simbologia, un’incarnazione del male che sembri
più reale e tangibile, almeno per chi proveniva dal paganesimo: il diavolo. Quest’ultimo diventa reggitore e suggeritore del male, altrimenti i paradossi rischiano di saltare. Il
diavolo è il doppio di Dio, è la sua ombra, il suo alter-ego,
ma è pure il doppio di se stesso, colui che non si riconosce,
il diviso, ma anche chi divide. Così i primi padri della Chiesa a partire da Tertulliano non negano la violenza, anzi la
utilizzano come giustificazione per il potere temporale se
connesso al potere divino. “Tertulliano non ebbe nessuno
scrupolo nel far sperare alla voluttà della vendetta dei credenti”81. Alla sospensione della vendetta in terra si risponde con uno spettacolo superiore in cielo. Dio vendicherà
tutti i torti subiti, giustificando il dolore e la rabbia repressa sulla terra. Cos’è l’inferno se non la rappresentazione
della giusta vendetta di Dio? “Tertulliano parla delle ribellioni di Nigro e di Albino e delle vendette che seguirono,
ma egli non critica affatto le repressioni di Settimio Severo,
bensì vuole dimostrare che a torto i cristiani”82 subirono
delle persecuzioni e quindi i loro nemici andavano puniti.
Tertulliano, dunque, benché sospenda la vendetta nei confronti degli altri uomini, si richiama alla vendetta di Dio
per convincere i pagani a convertirsi83.
Sant’Agostino riprende Seneca nel credere che la vendetta sia una passione derivata dall’ira e dalla collera, ergo
dalla parte più ferina, diabolica e animale dell’umano.
Pertanto si ritiene utile che, come ogni altra passione, essa
81
P. SLOTERDIJK, Ira e tempo, cit., 123. Sul concetto di ira, R. BODEI,
Ira. La passione furente, Bologna 2010.
82
C. MINELLI, Le amnistie imperiali nel III secolo, in Amnistia perdono
e vendetta nel mondo antico, cit., 142.
83
Sul tema della conversione in Tertulliano si veda J. KRYKWSKI, Il richiamo alla conversione negli scritti di Tertulliano, in “Warzawkie studia teologiczne”, XIV/2001, 81-96.
38
PARTE PRIMA
sia completamente tolta e annichilita. Se i Greci ricercavano la misura, e i Romani, la forma sociale e giuridica per
esprimersi, nel cristianesimo le passioni devono scomparire e l’uomo vendicativo deve soffocare la sua ira e comportarsi seguendo l’esempio pacificante di Cristo. Con ciò si ha
la nascita della coscienza e della pena. Non si punisce per
vendetta ma per infliggere una pena che si distingue dalla
vendetta perché dovrebbe suscitare il rimorso, il senso di
colpa attraverso il quale si è rieducati e si impara ad accettare la giusta punizione. In ciò consiste la conversione:
ci si guarda dentro per capire i nostri peccati e poterli così
espiare riconoscendoli. La colpa è una vendetta contro di
sé. Ci si punisce per un peccato commesso. La pena non è
più un affare privato, come nel caso della vendetta, ma un
problema istituzionale-religioso. Confessando i peccati, e
mitigando le passioni, ci si converte e ci si prepara a vivere nella comunità (ecclesia) dei credenti. “Nella misura in
cui i cristiani interiorizzano il divieto d’ira e di vendetta
loro imposto, si sviluppa in essi un interesse appassionato
per la facoltà dell’ira di Dio”84. S. Agostino cita spesso il
passo di Paolo in cui si sostiene che “non c’è autorità se
non di Dio”. Cionondimeno tale disinteresse per la giustizia
terrena conduce conseguentemente a rimettersi nelle mani
dell’istituzione e dell’autorità. Il riferimento all’autorità
divina diventa apparentemente indifferenza verso l’autorità temporale, ma nello stesso tempo ci si rimette a lei e
si rispetta come autorità in sé. Si crea il paradosso85 per il
quale l’obbedienza all’autorità di Dio diventa obbedienza
per qualsiasi forma di autorità; a maggior ragione se è l’autorità della chiesa dei cristiani. Si suppone, seguendo un
argomento analogico, che la stessa autorità temporale sia
P. SLOTERDJK, op. cit., 122.
Coglie bene il paradosso, M. VILLEY, La formazione del pensiero giuridico moderno, Milano 1985, 72.
84
85
ELOGIO DELL’IRA
39
stata voluta e discenda dall’autorità divina: “Ognuno sia
sottomesso all’autorità perché non c’è autorità se non da
Dio”86. L’interiorizzazione della colpa permette all’individuo di vivere nella comunità retta da un potere pastorale di
tipo teologico-politico. Questa concezione patriarcalistica
dominerà l’Occidente e avrà la meglio sui diritti consuetudinari dei popoli germanici, in particolare Franco e Longobardo. Il loro spirito di vendetta basato sulla legge del
taglione, e che spesso poteva innescare delle vere e proprie
faide, viene represso e mitigato dal diritto romano canonico, prima trasformandosi in riparazioni in denaro, poi
intervenendo con i giudici.
Anche in S. Tommaso l’ira, come per Seneca, è un effetto secondario della vendetta. La ragione interviene per
debellare l’ira e ricercare la mansuetudine. L’ira è peccaminosa quando va contro l’ordine della ragione87. La vendetta, per Tommaso, riprendendo Cicerone, sarebbe una
specie di giustizia commutativa che però trova giustificazione solo se ci si affida al giudice. Quest’ultimo è la figura
di un potere patriarcale, simile ad un padre che interviene
rettamente per ristabilire l’equità fra figli. Vi è insomma un
potere giudiziario autonomo che deriva dalla concezione
familistica, patriarcalistica e teologico-politica tipica della
cristianità e che imporrà la terzietà all’Occidente.
Nella prima fase dell’esperienza cittadina medievale,
tra XI e XIII secolo, quando si tratta di crimini di qualche
rilievo, la vendetta della vittima, o del suo entourage, è un
diritto”88. Il delitto è ancora una riparazione piuttosto che
una punizione, perché quest’ultima implica la pena, il dolore, l’effettivo pentimento. Soltanto alla fine del XIII secoPAOLO, Romani, 13, 1-9.
TOMMASO, La somma teologica, art. 9.
88
M. SBRICCOLI, Storia del diritto penale e della giustizia. Scritti editi e
inediti, (1972-2007), Milano 2009, 4.
86
87
40
PARTE PRIMA
lo intervengono i giudici come rappresentanti del governo e
non delle vittime. “Si indebolisce il ruolo della mediazione
sociale” e la giustizia ora è “diretta in primo luogo alla repressione, è fondata sulla sudditanza, regolata da norme
legislative e dottrinali, amministrata da apparati e formalizzata”89. La giustizia diventa un mezzo per dissuadere,
per convincere, per governare, per addestrare gli individui
a seguire certi comportamenti, a fidarsi del potere centrale, che diverrà sempre più burocratico e centralizzato. Si
assiste ad una crescente razionalizzazione. Tutto ciò non
condurrà a seccare “d’un colpo le radici della vendetta”90.
Essa perdurerà ancora a lungo e si manterrà in parte nascosta, ma pronta carsicamente a riemergere. La lotta tra
l’imperatore, che intende centralizzare il potere e affermare il (suo) diritto, e gli altri principi, sconfitti o assoggettati,
continua nel tentativo di annettere più territori possibile,
in nome di una pretesa giustizia. Ancora Nel XV secolo,
dove i confini statuali europei non erano stati definiti, i
principi potevano dichiarare la faida contro l’imperatore
se questi non manteneva le proprie promesse. Il diritto di
faida era una lotta, ma una lotta dettata da regole precise
e da patti e riconoscimenti giuridici. Insomma, per dirla
con Schmitt, si era all’interno di un agire politico secondo
lo schema amico-nemico. Tuttavia “i sovrani avevano tutto
l’interesse a limitare il più possibile, entro il loro territorio,
la faida, e si preoccuparono per secoli, impegnando il loro
prestigio e la loro forza, o di comporre amichevolmente le
controversie giuridiche mercé la loro mediazione, ovvero
di costringere a seguire la strada del tribunale invece di
89
Ivi, p. 9. Sulla vendetta in Italia nel periodo rinascimentale si veda,
M. GENTILE, La vendetta di sangue come rituale, in, La morte e i suoi riti in
Italia tra Medioevo e prima Età moderna, a cura di Francesco Salvestrini,
Gian Maria Varanini, Anna Zangarini, Firenze 2007, 209-241.
90
M. SBRICCOLI, op. cit., 12.
ELOGIO DELL’IRA
41
quella della faida, surrogando alla vendetta espiazione e
penitenza”91. In questo erano aiutati dalla chiesa, la quale aveva tutto l’interesse affinché le faide cessassero e potesse esercitare il potere spirituale sulla vita dei sudditi. A
poco a poco le faide si assottigliarono restringendosi solo
alla “vendetta di sangue e questa venne sostituita dalla giurisdizione criminale”. Tuttavia essa non scomparve completamente. Legata come era all’onore, essa sopravvisse a
lungo, soprattutto tra i ceti aristocratici, nel duello.
La vendetta non sarebbe mai stata un affare privato,
un diritto privato, perché ogni azione, soprattutto di piccoli principi, possidenti, signori, era diretta a ripristinare
eventuali torti di fronte alla comunità interna ed esterna.
La faida stessa era tesa a difendere il proprio onore rispetto alla percezione di un torto subito92. E del resto questi
torti non erano prodotti di sensibilità private e incommensurabili ma traevano linfa vitale dalla cultura del popolo.
“Mentre per l’ordinamento giuridico medievale il diritto
all’autodifesa insito nella faida e nel diritto di resistenza
è un buon diritto, la giustizia e la polizia dello stato moderno hanno eliminato proprio questa forma di autodifesa
e l’hanno convertita in figure giuridiche di crimine come
l’alto tradimento”93.
6. La rimozione della vendetta
Oggi si parla spesso di secolarizzazione, ma, come si è
91
O. BRUNNER, Terra e potere. Strutture pre-statuali e pre-moderne nella storia costituzionale dell’Austria medievale, Milano 1983, 25.
92
Paradigmatico, sotto questo profilo, è il racconto di H. VON KLEIST,
Mchael Kohlaas, Milano 1952, in cui il protagonista, un uomo giusto e probo,
che vive nel sedicesimo secolo, riceve una palese ingiustizia dal barone von
Tronka. La sua sete di giustizia lo condurrà a vendicarsi non prima di aver
cercato tutte le possibili procedure della legge e del diritto.
93
C. SCHMITT, Il nomos della terra, cit., 137.
42
PARTE PRIMA
potuto accennare, in realtà ancora all’inizio della modernità i nuovi Stati usciti dalla lunga guerra millenaria tra
principati, città, regni formatisi dopo la caduta dell’impero romano, si impongono in una forma che è ancora tutta
teologico-politica. I regni si riconoscevano fra loro ponendo fine alle guerre prima territoriali poi religiose, e si impongono legittimamente impossessandosi del diritto divino.
La vendetta è incorporata dal sovrano a cui solo spetta solo
l’obbligo della giustizia. Se Paolo auspicava che la vendetta spettasse solo a Dio, ora i sovrani, sorta di dio in terra,
provano ad esercitarla. Il nuovo Leviatano di Hobbes regge
entrambi i simboli del potere. La sacralizzazione del potere
non era certamente un fattore nuovo, anzi probabilmente
concludeva un periodo in cui questo sforzo era già presente
a livello locale94. Tuttavia trova la sua massima espressione tra XIV e XVII secolo. L’annotazione di Schmitt, per il
quale nella modernità con la Riforma si escludono i teologi
dalla trattazione giuridica di guerra giusta o ingiusta, non
dimostra la secolarizzazione avviata da Alberico Gentile
ma il suo contrario, e cioè che il sovrano (o i suoi giuristi)
era esso stesso in grado di distinguere il senso teologico della guerra. La storia dei re in Europa, a partire da Carlo
Magno e Ottone I, è la storia del continuo tentativo di impossessarsi del potere spirituale a scapito della chiesa: “E’
in quanto giudice, in quanto arbitro, in quanto si fa appello a lui per comporre litigi o in quanto lui stesso fa appello
a cause da risolvere, che il re stabilisce il suo potere al di
sopra del potere feudale o negli interstizi del potere feudale”95. La legge dei re e degli imperatori interverrà poi con
94
E. H. KANTOROWICZ, I due corpi del re. L’idea di regalità nella teologia politica medievale, Torino 1989.
95
M. FOUCAULT, Mal fare, dir vero. Funzione della confessione della
giustizia, Torino 2013, 194.
ELOGIO DELL’IRA
43
magnanimità, ma anche con inflessibilità, per non permettere la vendetta privata, che minaccerebbe il loro potere.
Tuttavia essi non ricercano la giustizia ma l’obbedienza. E
già accompagnare il termine vendetta con l’aggettivo privata, era il tentativo di inficiare ogni comportamento che non
fosse giustificabile agli occhi del sovrano.
Ormai il potere centralizzato tenderà a secolarizzarsi,
e il potere giudiziario passerà sempre di più nelle mani di
quel re che abbia avuto la forza per imporre obbedienza.
Per imporre l’obbedienza era necessario, dopo aver conquistato selvaggiamente i territori, legittimare la presenza
del re e del suo entourage su quella terra. La legittimazione poteva avvenire per patto di sangue con alleanze e matrimoni. Oppure poteva avvenire sacralizzando il potere
stesso come se il re avesse una legittimazione divina. Già
nel XIII secolo i Re francesi96 e inglesi erano considerati dei guaritori. Successivamente, l’ampiezza e la forza di
un regno comportavano eo ipso il riconoscimento di una
sovranità assoluta fondata sul potere divino. Ricordiamo,
infatti, che l’idea stessa di sovranità assoluta, che potrebbe
sembrare una concezione arcaica, è promossa invece proprio a partire dalla modernità con il consolidamento degli
Stati moderni. Ora il re di questo tipo di Stato moderno
non può più tollerare i crimini; detto in termini più espliciti, non può più tollerare che si agisca contro di lui e contro
la sua volontà. Inoltre, non è sufficiente la forza per ben
governare. Occorrerà dotarsi di una verità essenziale a cui
i cittadini debbano credere.
Egli non solo avrà bisogno di un apparato militare
ma, per prevenire i crimini, dovrà costituire un corpo che
li prevenga e una verità che li misuri. Si svilupperà un vero
e proprio apparato di polizia che indagherà sui cittadini, li
96
M. BLOCH, I re taumaturghi, Torino 2005.
44
PARTE PRIMA
classificherà, ne misurerà la pericolosità, vorrà conoscere
la loro vita nei più piccoli dettagli, dove abitano, se lavorano, ecc. La verità teologica si affiderà al diritto, disciplina
che trasformerà i precetti religiosi in verità temporali. Il
diritto diventa ipertrofico97 sviluppando sempre di più leggi
e regole che tendono a disciplinare98 l’individuo. La distanza dai sudditi permetterà ancora a lungo che la vendetta
privata regoli i rapporti giuridici, benché diventi sempre di
più negletta e permanga solo come consuetudine, osteggiata
dal potere che rivendica il diritto di amministrare la giustizia e di punire99. Inoltre per prevenire i crimini occorrerà
addestrare gli individui, studiarli, analizzarli sviluppando
una forma di prevenzione attraverso il segreto, il sospetto,
la delazione100. La funzione della vendetta è assorbita ormai dal sovrano che la detiene in modo assoluto. Un’offesa al cittadino è ora un’offesa al sovrano. Egli è riuscito a
conquistare interi territori e cui chiede obbedienza. I sudditi stimano la sua personalità più di qualunque principe o
signorotto. È preferibile un re lontano anche se assoluto,
che un signore vicino anche se non troppo potente. L’assoggettamento è totale, la polizia e l’esercito sono a sua completa disposizione. Si forma un apparato burocratico, una
macchina statuale che funziona da norma regolatrice. Gli
stessi giuristi e filosofi celebrano la fine delle faide, come
se la cessazione del conflitto e la dichiarazione di un re po-
SBRICCOLI, op. cit., 40.
M. FOUCAULT, Sorvegliare e punire, Torino 1977.
99
Di questa “stanchezza” della vendetta si fa interprete William Shakespeare, almeno, secondo la suggestiva interpretazione di René Girard, Shakespeare. Il teatro dell’invidia, Milano 1998, per il quale nell’Amleto in realtà
non vi è al centro il tema della vendetta, semmai, “ciò di cui si vuole trattare è
la noia della vendetta,” (435) l’eclissi della vendetta, della quale si sta perdendo la convinzione che essa sia una reale forma di giustizia, apparendo invece
una contraddizione logica e dunque un’aporia della ragione.
100
Si veda I. MEREU, Storia dell’intolleranza in Europa, Milano 1988.
97
98
ELOGIO DELL’IRA
45
tente e accentratore fosse l’inizio della pace. Nel libro più
celebre di Grozio, Il diritto della guerra e della pace, si
osserva il passaggio dal diritto privato al diritto pubblico.
La vendetta personale è accettata nei limiti dell’autodifesa
personale o nella mancanza di un’autorità legittima. Invece in Hobbes si compie il passaggio completo dall’individuo privato che perde interamente il suo diritto e lo aliena
in favore del monarca. Pertanto le “vendette private non
possono essere propriamente definite come punizioni, poiché non procedono dall’autorità pubblica”101. A questo tipo
di patto razionalizzato, paradossale, nella misura in cui si
era realisticamente riconosciuta l’antropogenesi umana, il
cui fine è la sicurezza ma la cui causa è la paura, Locke
si spinge ancora più avanti nella rimozione delle passioni.
In lui “la giustizia è l’osservanza dei contratti”102. Ciò che
si può presumere fondi il contratto, non è che un’ipotetica uguaglianza naturale che consenta a uomini definiti per
principio liberi di decidere responsabilmente. La vendetta,
che in Hobbes era ancora riconoscibile, con Locke diventa
superflua. Essa è considerata un retaggio appartenente ai
briganti e ai banditi esclusi da ogni sentimento di giustizia: “Chi oserebbe concludere che questa gente, che vive
soltanto di frode e di rapina, abbia dei principi innati di
verità e di giustizia ai quali essi diano il loro assenso?”103 La
vendetta appartiene ormai ad un mondo ferino, incivile,
fuori dalla storia ma anche fuori dalla legge di natura e
della ragione, legge che vuole invece un governo stabilito
da Dio che reprima “la parzialità e la violenza degli uomini”104. Il potere, nei termini di Weber e Freud, si è ormai
razionalizzato: potere e ragione diventano sinonimi, e tutT. HOBBES, Il Leviatano, Roma 1998, cap. 28, 255.
J. LOCKE, Saggio sull’intelligenza umana, Roma 1994, 49.
103
Ibidem.
104
J. LOCKE, Due trattati del governo, I Tomo, Torino 1982, 232.
101
102
46
PARTE PRIMA
to ciò che appartiene alla natura del corpo è rimosso e definitivamente espulso, a partire dal diritto di sopravvivenza.
La giustizia diventa tutela della proprietà. Rousseau storicizza per così dire il ragionamento lockeano e ci racconta
come gli uomini abbiano attraversato delle epoche psicoantropologiche. La vendetta sorse quando “nacquero i primi doveri della civiltà anche tra i selvaggi; e quindi ogni
torto volontario diventò un oltraggio, perché col male risultante dall’ingiuria, l’offeso vedeva il disprezzo della sua
persona, spesso più insopportabile del male stesso. Così,
punendo ognuno le attestazioni di disprezzo in modo proporzionato alla stima che faceva di se stesso, le vendette
divennero terribili, e gli uomini sanguinari e crudeli”105. Fu
l’inizio della società. Sorse la moralità, che sviluppò negli
uomini la stima di sé segnando il passaggio da uno stato
di infanzia in cui vigeva la pietà e la bontà, ad uno stato di giovinezza in cui vigeva l’amor di sé. La maturità,
infine, si collega vichianamente alle leggi e al diritto. Per
Rousseau la vendetta è ormai un fenomeno desueto appartenente al passato storico e al passato psicologico. Essa è
un sentimento infantile, irrazionale che travalica ed eccede
la misura e la ragione e si radica in emozioni narcisistiche,
fanciullesche. Kant condurrà a termine l’espulsione della
vendetta dal diritto rafforzando l’idea di razionalità cartesiana, dotandola di uno statuto logico-formale e privandola
completamente del suo radicamento all’emotività, all’esperienza. L’individuo maturo sarebbe totalmente responsabile della sua azione, perfettamente in grado di discernere
il bene dal male. In tal senso l’azione delittuosa, quando
accade, è essa stessa spinta da una volontà razionale e non
emotiva. Insomma il reo poté ciò che volle. Da questo pun-
J. J. ROUSSEAU, Discorso sull’origine della disuguaglianza, in Opere,
(a cura di P. Rossi), Firenze 1972, 63.
105
ELOGIO DELL’IRA
47
to di vista Kant è consequenziale: il reo, conscio della sua
azione nefasta, una volta scoperto, non è giustificabile e
non può che pagare con una pena di tipo retributivo senza
alcuna attenuante. Come per Cartesio106, ugualmente per
Kant il desiderio di vendetta appartiene alle anime deboli,
ai folli, che non sono in grado di giudicare serenamente e
si assoggettano agli eccessi. La vendetta spetta ora solo allo
Stato il cui trionfo sarà innalzato a giustizia assoluta e divina da Hegel. Esso si eleva come arbitro neutrale e universale, garante legalmente e legittimamente del meccanismo
giuridico. Il passaggio dall’individuo allo Stato si è ormai
realizzato. Da ora in poi la storia del diritto è la storia dello
Stato. La giustizia del giudice, della terzietà, in un certo
punto della storia occidentale, si afferma probabilmente
perché i re e i principi temevano il disordine, la sedizione e
la rivolta. Perciò il giudice, che è un terzo relativamente a
due contendenti, non lo è mai rispetto al potere, anzi è in
definitiva un organo di potere.
7. Il ritorno della violenza
Se la vendetta, nella forma della violenza, non trova
sfogo, si ripiega su se stessa, e abbiamo il risentimento. Il
ri-sentito è colui che non è riuscito nel corso della sua vita
a reagire, e, minacciato dalla sua paura, ha creduto che la
colpa di tutte le esperienze negative e dolorose fosse sua.
Il risentito ha rivolto l’ira contro se stesso. Il risentito è
un sensibilizzato al fenomeno della paura, ma tutto gli fa
paura. Il crudele, invece, ha rimosso le sue paure, non le
riconosce e allora le fa vivere all’altro come in uno specchio. Il crudele gode della paura altrui per non riconoscere
la propria. Se il risentito è un masochista, il crudele è un
106
CARTESIO, Le passioni dell’anima, Milano 2003, 419, art. CCII.
48
PARTE PRIMA
sadico. E tuttavia l’abitudine al dolore ha condotto il risentito e il crudele ad esercitare una violenza senza ira,
cioè in definitiva una violenza senza giustizia. Tuttavia,
l’addestramento millenario del cristianesimo – attraverso
le tecniche del sé, di ascesi, penitenza, confessione, – non
è riuscito a domare completamente le passioni. L’uomo,
insomma, possiede l’ira, e diventa impossibile estirparla:
e se non debitamente manifestata, si crea il risentimento.
Abbiamo visto che il cristianesimo ha concesso tutta l’ira
(la vendetta, la giustizia) a Dio. Il cristianesimo non si libera dell’ira (dal mio punto di vista, come ho provato a
mostrare, non ci si può liberare da una passione), ma la
accumula sempre di più. Anzi, come rileva Nietzsche, il
cristianesimo è attraversato da un colossale istinto di vendetta che però, non colpendo gli uomini e sperando nella
giustizia divina, blocca le passioni e avvelena l’uomo stesso, intossicandolo. Anziché maledire il proprio Dio – o lo
Stato confessionale – che lo ha condannato al Male, il cristiano risponde che la sua sofferenza è la conseguenza di
una colpa commessa, e così si autopunisce, nella speranza
di ripagare il debito nei confronti di Dio e raggiungere la
felicità eterna. Nietzsche nella Genealogia della morale approfondisce le relazioni esistenti, nella nostra cultura, tra
debitore-creditore, torto-diritto, uomo-Dio. Nell’ordine:
morale, giustizia, religione. Il senso della giustizia nasce da
questo: che tutto debba essere ripagato. Secondo Nietzsche
il sentimento di giustizia è stato avviato “dal rapporto contrattuale tra debitore e creditore che è tanto antico quanto
l’esistenza di soggetti di diritto”107. Attendendo la giustizia
finale e ritardando la richiesta di giustizia, l’ira però si è
ripiegata lentamente nel soggetto, producendo una violenza particolare, individualizzata, parcellizzata, ancora più
107
NIETZSCHE, F., Genealogia della morale. Milano 1994, 51.
ELOGIO DELL’IRA
49
grave di quella immediata e naturale. A me pare che l’ira
sia più una reazione – istintiva, pulsionale interna all’organismo – rispetto ad un avvenimento esterno. Pertanto,
solo in seconda istanza ci può essere la consapevolezza di
doversi vendicare del torto subito. La vendetta è un fenomeno secondario dell’ira: è una reazione, una rivincita. Si
ha dunque un’azione esterna che colpisce i nostri sensi e
provoca una reazione fisica data da un eccesso di adrenalina (ira), come nel caso della paura, e si accompagna a un
meccanismo di reazione: desiderio di vendetta o di fuga.
È probabile che l’ira sia associata alla paura o ne sia una
conseguenza. Immaginiamo qualcuno che passeggi nel buio
e improvvisamente sia assalito. Si innescherà nell’organismo un forte sentimento di paura. Immediatamente però,
in base al riconoscimento dell’oggetto, potremmo scegliere
di canalizzare tutta questa energia verso l’oggetto stesso,
reagendo all’attacco con aggressività e violenza o decidendo di fuggire. La vendetta (non l’ira) è pertanto un fenomeno consapevole che può accompagnarsi con la volontà.
Ulisse, una volta intrappolato e persi molti dei suoi compagni, si vendica volontariamente, controllando la sua rabbia
e accecando Polifemo. Un guerriero come Ulisse ha imparato, grazie all’addestramento, a controllare la paura e a
reagire con coraggio e con astuzia in vista di un fine (nel
caso di Ulisse, la vendetta). Pertanto, l’ira è una passione
che può scontrarsi con altre passioni o che può essere controllata dall’abitudine e dalla ragione per ripristinare un
torto subito (vendetta o giustizia).
La vendetta, effetto primario dell’ira, di per sé vorrebbe soddisfarsi subito. Ma spesso il nemico è già fuggito; ha attaccato vigliaccamente e si è allontanato. Allora la
volontà (mossa dal ricordo di un dolore subito) mantiene
viva la memoria dell’ingiustizia, e la vendetta può soddisfarsi se ritrova il soggetto offendente. La vendetta è una
50
PARTE PRIMA
reazione ad un’offesa o ad un torto subito. Su tale reazione
si basa il senso di giustizia. La giustizia è nata dal desiderio
di vendetta, altrimenti non si darebbe in nessuna cultura.
Semmai, il problema maggiore, che si ponevano le culture
antiche e primitive, non era la vendetta ma “l’escalation
della vendetta”108. Vi è un senso naturale di giustizia, che è
in primo luogo desiderio di vendetta. Per questa ragione le
tribù primitive e le civiltà antiche hanno sviluppato soprattutto una sorta di diritto penale.
8. La vendetta della vittima
Abbiamo visto che in definitiva la giustizia non è altro
che la reazione vendicativa misurata all’offesa ricevuta. La
vendetta, proprio perché sorge da una passione, tende a
debordare e a essere smisurata (hybris). La reazione vendicativa esige sempre di valutare il dovuto più del ricevuto.
Anche questo però non è privo di giustizia, perché chi ha
danneggiato, lo ha fatto ingannando, cogliendo alla sprovvista e lasciando in uno stato di agitazione e di angoscia che
perdura nel tempo, che la vittima subisce e non ha voluto.
Chi si vendica di un torto subito, dovrebbe essere ripagato con gli interessi. Non sempre si può essere magnanimi
come Ulisse, che acceca Polifemo, avendo perso gli amici
ed essendo costretto per lunghi giorni a vivere nella paura
di essere divorato.
La nostra cultura occidentale ci ha convinti che siamo
liberi di scegliere. Avendo il libero arbitrio, possiamo scegliere il bene o il male. Ci dice che si può giudicare una persona per la sua colpa a condizione che sia libera e consapevole. Così, il delinquente opererebbe consapevolmente,
R. GIRARD, La violenza e il sacro, Milano 2000, 46. Sul rapporto tra
Nietzsche e Girard rimando al mio, Epigoni di Nietzsche. Sei modelli del Novecento, Firenze 2009.
108
ELOGIO DELL’IRA
51
scientemente, perché avrebbe scelto il male anziché il bene,
e il giudice, braccio secolare della giustizia divina, deciderebbe di giudicarlo non tanto per l’azione nefasta, infliggendogli una pena, ma per la sua colpa interiore: quella
di avere scelto erroneamente il male. Da un lato un’idea
di giustizia divina priva gli individui della legittimità della
giustizia terrena, dall’altro tale idea sacralizza il giudice e
lo rende unico rappresentante del diritto: idolatria e feticismo del potere. La violenza divina sacralizza la giustizia
terrena incarnandosi nella legge, la quale prima di tutto
giudica le intenzioni.
Eppure, un atto violento come per esempio l’omicidio, è da sempre considerato, anche dalla giustizia mitica
dell’uomo primitivo, reprobo, perché offende, oltre a Dio,
il sentimento d’amore dei familiari e della comunità cui appartiene la vittima.
A tale visione cristiana si è opposta (apparentemente)
la visione positivistica e marxista di derivazione illuministica, per la quale gli individui non sono mai liberi di scegliere, sono condizionati da eventi esterni o da tare biologiche;
perciò, concludono i positivisti, i criminali non sono pienamente consapevoli del loro agire. Pertanto, si deduce ancora, non si possono condannare, ma tutt’al più curare. Di
fronte all’occorrenza di un’azione malvagia se ne conclude
o che siano malati di mente, e vanno guariti con medicine o
terapie psichiatriche109, o abbiano avuto un’infanzia difficile e quindi rieducati.
Il pensiero moderno non sembra in grado di uscire da
queste due concezioni criminologiche. Sia i cristiani sia gli
scienziati positivisti (la cui mentalità discende essa stessa
dal pensiero cristiano) pensano che una pena vada comminata solo in base alla natura della causa; quindi, che
109
Si veda M. FOUCAULT, Il potere psichiatrico, Milano 2004.
52
PARTE PRIMA
sia compito della società rieducare il reo. Siamo di fronte
ad una vera e propria concezione cristiana della metanoia,
secondo la quale si deve modificare e migliorare la personalità dell’individuo considerato deviante. L’atto di amore
insito nel perdono è in primo luogo un atto di procrastinazione. In entrambe le concezioni si tende a perdonare.
Nel primo caso perché sarà la giustizia divina, in ultima
analisi, a vendicare, nel secondo, perché attraverso la giustificazione vi sarà anche assoluzione.
Ma dalla eventuale constatazione che ci possa essere
una coscienza in grado di scegliere, non discende necessariamente che si possa rieducare. Che cosa si rieduca, infatti, se il reo ha deciso consapevolmente di delinquere?
Così, dalla posizione opposta che un individuo possa
essere considerato non libero ma determinato dagli eventi
esterni o da eventi patogeni interni, non discende necessariamente che si possa rieducarlo o addirittura che non si
possa infliggergli una pena. Infatti, come si fa a rieducare un individuo che è stato condizionato pesantemente da
eventi traumatici nel corso della sua vita?
Inoltre, che cosa ha a che fare il libero arbitrio con
il sentimento di giustizia? Perché la giustizia dovrebbe intervenire in base ad un presunto richiamo alla libertà individuale? Nella visione cristiana, cattolica e protestante,
secolarizzata da Kant, la libertà coincide con la legge e con
la volontà del soggetto: in una parola con la sua coscienza. Si crede al libero arbitrio per potere giudicare l’individuo, indicare la responsabilità del soggetto. Si costruisce
sopra ai suoi appetiti un’idea di coscienza per poterlo addomesticare meglio, ma, come sottolinea ancora una volta
Nietzsche, tale coscienza si trasforma lentamente in “cattiva coscienza”, dato che ritardare indefinitamente l’appagamento della ‘sete’ di giustizia alla fine dei giorni conduce
subito al risentimento.
ELOGIO DELL’IRA
53
Ritengo, invece, che il problema della libertà (inteso
cristianamente) sia uno pseudo problema: che l’individuo
non abbia una coscienza morale, non sia in grado cioè di
decidere tra il bene e il male; sia determinato dagli eventi,
condizionato dall’ambiente sociale, spinto dalla sua corporeità geneticamente inscritta. Possiamo pensare che questo
individuo non sia rieducabile; tuttavia deve essere giudicato e punito.
Innanzitutto perché il gruppo sociale interviene sull’azione e non sull’intenzione. La punizione potrebbe servire
come deterrente contro coloro che volessero delinquere. In
secondo luogo la punizione soddisfa principalmente la vittima e la sua onorabilità e serve come rinforzo positivo nei
confronti degli innocenti. In terzo luogo, se il colpevole,
ipoteticamente, avesse una coscienza, accetterebbe di buon
grado di essere punito riconoscendo il male (come sostiene coerentemente Hegel). Infine, anche se il colpevole non
avesse una coscienza, la punizione non servirebbe tanto
alla società per emendare il suo senso di colpa, quanto a
difenderla e garantire la sicurezza e la pace sociale.
Nei due casi – sia che il colpevole abbia il libero arbitrio, sia che sia stato condizionato dalla società in cui vive
– difficilmente la rieducazione avrebbe effetto, perché, se
ha scelto il male, lo sceglierà di nuovo, mentre se è stato
condizionato dalla società e dagli eventi, occorrerebbe resettare la sua esperienza e cambiare la società.
Il tentativo di rieducazione (che fallisce quasi sempre)
serve solo alla società per autodefinirsi ‘buona’ e per colpevolizzare ancora di più il criminale. Certamente le opportunità si possono dare soprattutto a coloro i quali devono
essere reinseriti. Non per ideologia o teoria filosofica ma
per sano pragmatismo. È chiaro che una volta scontata la
pena, il reo deve pur sopravvivere e che occorra aiutarlo
a trovare un lavoro e una collocazione sociale. Lasciarlo
54
PARTE PRIMA
libero con la speranza di averlo rieducato è un’azione ingenua, pericolosa e anche ingiusta. È ovvio infatti che il
colpevole, una volta scontata la sua pena, sia immesso nella
società con la speranza che non commetta più un crimine,
ma, non avendo possibilità di sopravvivere, torna spesso a
compiere un reato. Se il reo ha una fonte di guadagno sicura forse è conveniente per lui lavorare piuttosto che essere
un criminale professionista. Ma sperare che la sua coscienza abbia imparato la lezione e che possa essere rieducato
con una vita condotta in carcere è mera ideologia cristiana.
Il giudice pertanto non dovrebbe giudicare in base ai
criteri di responsabilità, coscienza, libero arbitrio, ma valutare per ristabilire il dovuto alla vittima. Si è inconsapevolmente consolidata l’idea che la vittima in quanto vittima
sia debole. Questo presuppone una logica evoluzionistica:
si simpatizza per il colpevole che per natura appare superiore alla vittima. Tuttavia non dobbiamo dimenticare che
ciò accade perché non si permette alla vittima di potersi
vendicare e di avere la rivincita. Il giudice quindi deve tener presente l’atteggiamento della vittima e dei suoi familiari che concedono al giudice l’opportunità di ristabilire la
giustizia. Il giudice non è tenuto pertanto a utilizzare una
schiera di scienziati, preti o stregoni per capire la personalità del colpevole, il suo stato d’animo in quel momento,
se sia pazzo o abbia personalità disturbata, ma semplicemente misurare il danno procurato e con-dannarlo, cioè
restituirgli lo stesso danno. Certamente ci possono essere
attenuanti o aggravanti, ma non si può decidere sulla personalità del colpevole. Il giudice non è uno psicologo e non
deve essere sostituito da psicologi. Né svolge il ruolo del
prete: deve solo riparare a un errore. La volontà tuttavia
non presuppone la responsabilità o la coscienza. Chi decide volontariamente di violentare una donna, non è libero, perché è stato spinto da una forte passione sessuale;
ELOGIO DELL’IRA
55
non si sente in colpa, perché considera le donne inferiori;
non è responsabile, perché vive in una società maschilista,
misogina e pornografica. Per tutte queste cause, se il giudice decidesse sulla base della (non) coscienza del reo, dovrebbe ammettere che il gesto è stato volontario ma non
libero e dovrebbe assolverlo. Al contempo, se credesse che
il violentatore ha invece una coscienza libera potrebbe
condannarlo ma non rieducarlo. Che cosa rieduca, infatti, se lo stupratore ha scelto di delinquere? In ogni caso la
rieducazione fallirebbe, sia che la sua personalità è stata
strutturata in un certo modo dall’ambiente, sia che abbia
potuto scegliere liberamente. Allora a che serve il giudice?
Il bisogno del giudice risponde in realtà non ad un’esigenza
di neutrale obiettività e terzietà di ascendenza divina per
correggere il colpevole reinserendolo nella norma, ma per
soddisfare il naturale senso di rivincita, di giustizia e di
vendetta della vittima che vuole la sua riparazione. Se non
si consente di vendicarsi, almeno si punisca. Il giudice poi
non abita fuori dalla società, e anche lui vivrà in una società maschilista, e forse lui stesso troverebbe molte attenuanti nel colpevole. Ma si deve guardare all’azione erronea e si
deve guardarla dal punto di vista della vittima. Come qui
abbiamo tentato di mostrare, alcune teorie sospettano che
il giudice sia nato storicamente per difendere il potere e per
normalizzare i comportamenti delle persone, in modo da
renderle favorevoli e consensuali al potere stesso. Questo
sospetto si rafforza se il giudice non giudica dal punto di
vista della vittima ma dal punto di vista del colpevole occupandosi della sua personalità. Egli vuole che confessi la sua
colpa, che la riconosca, per punirlo meglio. Non si vuole
condannarlo, ma convincerlo o guarirlo. Si vuole salvare la
sua anima. Ma cosa ha a che fare un giudizio con la personalità di un imputato? Si deve giudicare la sua azione e non
la sua vita. Cristianamente si presume che l’errore sorga
56
PARTE PRIMA
da una personalità non giusta, cioè non morale. Con questo
si tenta di raddrizzare un torto volendo normalizzare. Si
pone il problema su un piano etico-morale quando non è
che un problema di risarcimento e di riparazione. Si crede
a torto che il senso di giustizia sia una prerogativa esclusiva della nostra cultura, mentre le altre culture avrebbero
sviluppato solo un senso animale di vendetta. In realtà il
sentimento di giustizia è sentimento naturale che pretende
un immediato risarcimento del danno subito. Il cristianesimo invece ha sublimato l’idea di giustizia trasformandola
in un feticcio.
Vi è una moralità nel sentimento di giustizia, posto che
per moralità si intendano i costumi, la tradizione, la cultura. Il giudice interviene per interrompere il circuito vendicatorio, non grazie all’avvento del cristianesimo, come
presume Girard, ma per convenienza, e a patto di risarcire
sufficientemente la vittima, che altrimenti potrebbe vendicarsi da sé. Per tutti è infatti più conveniente, sotto il profilo psico-economico, che intervenga il giudice: lui lavora, la
vittima è risarcita senza dover reinvestire energie per combattere e vendicarsi del colpevole, e quest’ultimo incorrerà
in sanzioni meno cruente di una vendetta. Tuttavia, se si
abbassa troppo la soglia della pena, si rischia la sfiducia
nella giustizia, nel sistema penale. La punizione va inflitta
non per rieducare, ma per raddrizzare un torto subito.
9. Il tradimento comunitario
Di solito il giudice interviene tra due individui, ma un
problema si pone quando vi sono reati contro lo Stato, la
comunità o l’ambiente. In questo caso non c’è nessuno che
potrebbe reclamare la giusta vendetta, se non lo Stato stesso, che è benevolo contro tali trasgressioni anche perché
non è stata presentata una denuncia. Se io distruggo un’o-
ELOGIO DELL’IRA
57
pera d’arte di un museo, o devasto o incendio una pineta,
non trovo nessuno che individualmente richieda i danni.
Tuttavia, colpendo un oggetto di particolare interesse storico o naturale, colpisco la società intera: con un’azione
riprovevole, danneggio non solo un individuo ma molti individui. Si potrebbe parlare di tradimento. Il traditore, infatti, non colpisce con la sua azione una persona, come si
suppone erroneamente in un rapporto affettivo: l’affetto,
infatti, non può essere collegato a una promessa (la quale
ha natura razionale) che si possa mantenere durevolmente.
Di fatto, a prima vista, la vendetta non sembra avere una
relazione con il tradimento se per tradimento intendiamo
la rottura del rapporto fiduciario con una singola persona. Qui al limite si offende il nostro narcisismo primario e
si soffre per l’abbandono. Invece si deve parlare di tradimento quando si tradisce la propria comunità. Il problema
non è psicologico, ma antropologico. Non è neanche una
credenza nello Stato: non si è firmato nessun accordo, non
si deve difendere lo Stato, la patria, la nazione, la comunità religiosa: si deve difendere invece la comunità dal pericolo che un individuo la possa minacciare e minacciandola
metta a rischio la mia vita. Da sempre gli individui maschi,
che cacciavano, dovevano fidarsi del compagno. Il problema è, appunto, antropologico. “Chi trasgredisce le leggi
fondamentali della collettività, perde la pace e la relativa
protezione”110.
Insomma, vi sarebbe alla base di ogni società un principio morale di lealtà/tradimento111 che permetterebbe la
coesione politica dei gruppi. Tuttavia, il tradimento è stato
anche necessario per fondare una nuova società, perché
esso può simboleggiare la rottura con il passato, l’autono-
110
111
O. BRUNNER, op. cit., 45.
J. HAIDT, Menti tribali, Roma 2013, 175.
58
PARTE PRIMA
mia e la presa d’atto di un nuovo ordine sociale rispetto
alla generazione precedente, ai propri padri o fratelli112.
Nell’antichità, chi tradiva, veniva bandito, diventata
homo sacer, uccidibile e sacrificabile. Io ho interesse affinché chi costruisce una casa, una strada, lo faccia bene,
altrimenti egli mette in pericolo la mia vita. Chi deliberatamente costruisce una casa sulla sabbia o distrugge un’intera foresta, rendendo l’aria irrespirabile, commette il reato più grave perché lo commette contro molti individui e
tutti potrebbero vendicarsi contro di lui. Questo è ciò che
io chiamo il tradimento. E non consiste tanto nel rompere
il patto sociale, o giurare il falso, quanto nel mettere a repentaglio la vita di altri. Non interessano le sue intenzioni,
se è un piromane, un malato, un soggetto psicologicamente labile. Ogni azione che danneggia qualcuno è di per sé
patologica, perché ha rotto il patto implicito basato sulla
fiducia. Un poliziotto che si vende alla mafia, un medico
che salta i turni, un politico corrotto sono traditori non
rispetto ad una morale o una promessa non mantenuta, ma
perché mettono in pericolo la vita degli altri consociati. Il
tradimento, da sempre è (e dovrebbe essere) considerato il
reato più grave. La parola non rende giustizia alla gravità
del danno. L’etimologia del verbo tradire infatti si riferisce
forse a mettere i propri amici nelle mani del gruppo avversario. Esso rinvia ad un comportamento infedele rispetto
alla propria comunità. Si tradisce la fiducia di qualcuno.
Ma il tradimento è ancora di più: è contraffazione; è agire
scientemente contro la comunità che invece ti ha nutrito.
Il tradimento, come qualsiasi forma di violenza subita, procura spavento, crea un trauma, perché non ci si
aspetta dall’amico che lui ci tradisca. La vittima reagisce
Sull’importanza del tradimento come atto psicologico costitutivo si
veda J. HILLMAN, Puer aeternus, Milano 1999.
112
ELOGIO DELL’IRA
59
con la razionalizzazione del trauma, cercando una giustificazione, un motivo per la quale ha subito un torto. Anche un bambino, abbandonato o percosso, si domanda se
la colpa sia sua. Pur di giustificare il tradimento, spesso
lo convergiamo su noi stessi. Siamo pronti ad amare i carnefici. Come ci spiega la psicoanalisi, interviene la compensazione, l’angoscia, il sogno che hanno una funzione
riparatrice, per riequilibrare la nostra psiche. Ma anche
la reazione aggressiva svolge la stessa funzione: attraverso le grida, il pianto, la rabbia, i colpi sul proprio petto
o contro gli oggetti si scarica la tensione per l’ingiustizia
subita. La vendetta ha una funzione riparatrice rispetto al
tradimento. Di fronte alla rabbia l’offeso “ha scelto la fuga
in avanti”113 rovesciando sull’altro la propria aggressività.
Si spaventa l’altro che ci ha spaventato, come in una sorta
di contro imitazione di con-versione. Il sacrificio del colpevole, che diventa a sua volta vittima, risolve una volta per
tutte la questione giudiziaria. Il sacrificio placa l’ira degli dei. Il colpevole però, proprio per questa tendenza alla
razionalizzazione e alla giustificazione del dolore da parte
della vittima, viene santificato. Si fa festa al colpevole, in
un cerimoniale che prepara al sacro.
10. La sublime giustizia
La giustizia non può essere disinteressata, quello che
è disinteressato è la ragione fredda, calcolatrice, o trascendentale, ma non la giustizia: la giustizia è un sentimento
113
C. TÜRCKE, Il sogno di Gesù, Torino 2013, 40. Sulla vendetta come
riparazione psicologica del trauma è da vedere anche, F. SIRONI, Violenze collettive. Saggio di psicologia geopolitica clinica, Milano 2007, 122-139. Anche,
O. OASI, F. MASSARO, Vendicatività e vendetta. Perché a volte non sappiamo
dimenticare, Milano 2004. Sulla riparazione della vittima da un punto di vista
giuridico si rimanda a M. BOUCHARD, G. MIEROLO, Offesa e riparazione. Per
una giustizia attraverso la mediazione, Milano 2005.
60
PARTE PRIMA
(se non fosse un sentimento perché i familiari e gli amici
si sentirebbero essi stessi offesi?) che proviene dall’attrito
prodotto tra le passioni e la ragione stessa: in termini kantiani, dovrebbe piuttosto appartenere alla critica del giudizio: la giustizia non appartiene alla critica della ragion
pratica, come supponeva Kant, semmai, al limite, ha a che
fare col sublime. La giustizia è un sentimento grandioso,
ma soggettivo e interessato, che nasce da un desiderio piacevole (quando è appagato) o spiacevole. Tale sentimento si
lega a un giudizio critico, estetico, perché il soggetto ricerca nella giustizia, una simmetria, un equilibrio perduto. È
“un giudizio riflettente” perché “sa cogliere nel particolare
l’universale”. Siamo infatti di fronte a casi particolari legati ad eventi quotidiani e “ci vuole del giudizio per valutare
giustamente i casi concreti”114. La ricerca della giustizia si
dispone così come in una tragedia. Non a caso la maggior
parte delle tragedie greche ha al centro dei suoi interessi il
problema della giustizia. La giustizia è lo scontro tra il desiderio naturale di vendetta personale e il pensiero razionale. Quest’ultimo ricerca un giudice, un terzo, riconosciuto
dal danneggiato e dal reo. L’apparato della giustizia con
la sua forza è in grado di giudicare ma anche di bloccare
la vendetta dei familiari delle vittime e infine le ritorsioni
dei familiari del colpevole. Infatti, i parenti delle vittime
tenderebbero a vendicarsi anche su persone innocenti appartenenti alla comunità dell’accusato. Questo può creare
una spirale di vendetta: la faida. La faida consiste nell’uccidere chi non è direttamente responsabile delle azioni del
reo. Se chi si vendica non può perseguitare il colpevole, allora colpisce indistintamente i suoi familiari. Se non posso
ottenere giustizia, posso almeno infliggere un dolore pari al
mio. Di qui si potrebbe innescare la spirale vendicatoria.
114
H. GADAMER, Verità e metodo, Milano 1997, 63.
ELOGIO DELL’IRA
61
Pertanto il giudice svolge un ruolo attivo e importante, ma
non carichiamolo di responsabilità religiose o scientifiche
che non possiede.
L’idea che la pena possa servire come rieducazione,
oltre che per il singolo, per l’intera comunità, è infetta da
forme ideologiche. Infatti, la pena non serve come esempio
o deterrente per coloro che si comportano rettamente. Non
può convincere neanche coloro che si comportano male, sia
che essi abbiano liberamente scelto di delinquere, sia che
siano costretti dall’ambiente. Infatti, i primi avranno valutato i rischi e avranno scelto in conformità a una loro convinzione; i secondi, spinti da una necessità, non potranno
che agire come hanno agito.
L’unico deterrente della pena sembrerebbe dato dalla
paura di perdere la libertà o di rischiare una punizione
esemplare. La paura, infatti, distoglie e convince alcuni
a non delinquere, ma coloro che invece delinquono, e si
espongono ad una paura maggiore come quella di affrontare una persona per ucciderla, violentarla o derubarla, non
possono certamente convincersi a non agire in vista di una
paura possibile che potrebbe sopraggiungere nel futuro. I
fatti dimostrano che la paura come deterrente non funziona per rieducare e per arginare i fenomeni delinquenziali.
Ciò non significa che non si debba punire. Non si punisce
in vista di un fine etico, ma semplicemente per riparare (a)
un torto. La riparazione non può ripristinare il passato;
può tuttavia lenire il dolore della vittima. Diversamente da
ciò che crede la cultura occidentale cristiana, la vendetta
è un fenomeno naturale e universale, ed è solo a partire
da questo che si innesta il sentimento di giustizia. E come
tutte le emozioni, non è possibile estirparla se non a rischio
della propria salute; occorre invece mediare e temperare
le passioni, altrimenti il rischio è la malattia e l’ingiustizia.
PARTE SECONDA
ORDINE, VENDETTA, PENA
Giovanni Cosi
ORDINE, VENDETTA, PENA
65
- La vendetta è mia, dice il Signore!
- Va bene. Purché faccia presto e io possa godermela.
Sam Peckinpah, La ballata di Cable Hogue, 1970
Se provassimo a percorrere a ritroso il film dell’evoluzione che ha prodotto l’attuale diritto penale, all’inizio, nei primi fotogrammi, vedremmo invariabilmente un
individuo che in preda all’ira tenta di reagire a un fatto
percepito come ingiusto. E che da solo, o con l’intervento
del gruppo sociale cui appartiene, cerca di ‘pareggiare i
conti’ raddrizzando il torto subito. Se ciò non è possibile
nell’immediato, lui stesso o il suo gruppo si attiveranno per
applicare quella che per lungo tempo e in ogni luogo è stata
l’unica procedura per ‘fare giustizia’: la vendetta.
Ancora oggi costituisce una circostanza attenuante comune “l’aver agito in stato d’ira, determinato da un
fatto ingiusto altrui”1. Nella prospettiva penale modernorazionale, la previsione normativa serve a modulare, in
negativo, la sanzione in funzione della ‘quantità’ di responsabilità personale attribuibile al soggetto dell’azione:
di quanto la presunta, piena volontà razionale dell’attore
risulterebbe eventualmente diminuita dal verificarsi della
circostanza che ha determinato l’innescarsi della reazione
ingiustizia-ira. In chiave antropologico-culturale, l’attenuante potrebbe però essere anche letta, in positivo, come
Art. 62, comma 2, c. Già Platone riteneva che l’omicidio commesso
katà tòn thumòn, cioè per collera, non fosse da ritenersi pienamente volontario (cfr. Leggi, 865b-866c-d-e).
1
66
PARTE SECONDA
una sorta di riconoscimento della sopravvivenza ineliminabile dell’ira in quanto nucleo ancestrale e irriducibile di
percezione soggettiva della giustizia: la ‘singolarità’ biologica in cui le strutture sociali della giustizia formale si
dissolvono, implodendo in quel sentimento individuale di
giustizia sostanziale che costituisce il substrato, profondo e
ancestrale, del desiderio di ritorsione.
1. Forma e sostanza
Quante volte abbiamo visto parenti e amici di vittime criticare duramente sentenze assolutorie o condanne
ritenute troppo miti? L’impressione è che la giustizia procedurale, con tutte le sue cautele e le sue garanzie, venga
sopportata come se fosse soltanto un intralcio frapposto tra
il torto e l’unica ritorsione ritenuta proporzionata: quella della lex talionis. Dubbi e formalità poste a tutela del
‘presunto innocente’ sono percepiti solo come ostacoli alla
soddisfazione della ritorsione, frustrata dall’attesa. Quante volte abbiamo visto folle acclamanti e incitanti in occasione dell’esecuzione di condanne capitali? Folle che, se
solo avessero potuto, avrebbero probabilmente proceduto
senz’altro al linciaggio, la forma estrema di sanzione sociale in luogo di quella giuridica. Sono tutte situazioni in cui il
termine ‘giustizia’ significa in realtà ‘vendetta’.
D’altronde il moderno proceduralismo formalista,
corredato di “verità processuale”2 e di “presunzione d’in2
La verità processuale moderna è un molto particolare (e debole) tipo
di verità. In realtà il vero prodotto del processo, la sentenza, non è altro che
una decisione corredata della forza necessaria a renderla esecutiva. Come ogni
decisione, può essere errata: ed ecco allora i gradi del giudizio, le possibilità
di revisione. I quali però, per evitare un processo in infinitum, devono necessariamente – e convenzionalmente – arrestarsi nella cosa giudicata, oggetto
peculiarmente giuridico che testimonia della debolezza epistemologica insita
nello strumento d’indagine. Non esistono infatti ‘cose giudicate’ in matema-
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67
nocenza”3, è soltanto una sorta di placcatura recente applicata alla superficie di un ben più radicato e risalente nucleo
di giustizia sostanzialista.
In una società antica, o tradizionale, ancora priva
della separazione ‘tecnica’ tra normatività morale e normatività giuridica4, l’ethos unitario violato chiede soltanto
di essere rapidamente ripristinato. Si tratta di quei contesti che l’antropologia descrive come società “dell’ordine
e della marcatura”5: dove la collettività si sforza di riprodurre l’ordine originario quale è stato costituito dagli dei,
dagli eroi o dagli antenati; in ogni caso, da autorità che non
sono uomini viventi. Questi tipi di società, dove si cerca intica, fisica, chimica; ma neppure in psicologia, storia o filosofia. Esistono soltanto teorie che esprimono delle verità provvisorie, indicando in se stesse le
possibilità di verifica; oppure delle tesi aperte alla discussione critica e alla
confutazione argomentativa.
3
A differenza del processo inquisitorio, che pretende di perseguire
una verità oggettiva attraverso l’ottenimento della ‘prova regina’ della confessione, il processo accusatorio è strutturalmente più orientato a evitare di
condannare innocenti che a individuare degli ‘evidenti’ colpevoli.
4
Nelle società tradizionali risulta quasi sempre difficile, se non impossibile, pronunciare la frase: “questa è una norma legale”, se con essa intendiamo sostenere che “questa è soltanto una norma legale, e non una norma morale”; in simili strutture culturali, l’unica frase pronunciabile e comprensibile è
piuttosto: “questa è una norma cui si deve obbedire”. Mentre in una società di
tipo tradizionale l’esperienza normativa è pressoché interamente situata in un
insieme unitario di legge-costume, in una società culturalmente ‘moderna’ la
sfera della legge e la sfera della morale - o meglio, le sfere della morale, perché
una società è moderna anche nella misura in cui risulti eticamente pluralista
- sono invece abbastanza nettamente distinte, sovrapponendosi al più parzialmente in qualche limitata area comune. Gli ‘insiemi’ delle cose che si ha il diritto (o il dovere) giuridico di fare e delle cose moralmente ‘giuste’ da fare non
sono più coestensivi, né l’uno inclusivo dell’altro, ma si intersecano soltanto
talvolta: se affermare che non ho il diritto di aggredire fisicamente qualcuno
significa normalmente sia che gli altri sono giuridicamente autorizzati a impedirmelo, sia che non è eticamente giusto farlo, dire che ho il dovere giuridico
di pagare le tasse non implica necessariamente che per me debba essere moralmente giusto finanziare uno stato militarmente aggressivo.
5
Cfr. P. CLASTRES, La société contre l’Etat. Recherches d’anthropologie politique, Paris 1974.
68
PARTE SECONDA
stancabilmente di mettere le cose al posto che ad esse spetta
secondo l’ordine del mondo che era stato prestabilito, sono
essenzialmente caratterizzati dall’eteronomia e dalla collocazione fuori di sé del proprio senso e della propria legge.
Non fa gran differenza se il ripristino dell’ethos avviene per mezzo di una ritorsione privata o tramite un ‘giudizio’: l’importante è disporre di un capro espiatorio da
sacrificare sull’altare dell’Ordine del gruppo. Non vi è problema di prove e cautele procedurali, perché la sentenza e
la pena sono note fin dall’inizio: esse sono in qualche modo
consustanziali alla violazione stessa. Lo si può vedere ancora oggi nei regimi politici in senso lato integralisti, dove
esiste una contaminazione sistematica tra diritto e morale
sociale ‘ufficiale’: nei luoghi dove una sola cosa può essere
detta, l’esibizione di facciata della razionalità procedurale
serve soltanto ad avallare giuridicamente ciò che in realtà è
già stato deciso eticamente (o politicamente).
Noi moderni invece cerchiamo (almeno pubblicamente) di ripudiare questa concezione di giustizia. Non
volendo (o non potendo) sapere cosa sia ‘giusto’ in senso
sostanziale, abbiamo escogitato complesse metodiche procedurali-formali volte a produrre la cosiddetta verità processuale; pallido riflesso del sentimento biologico-istintivo
di giustizia. In altri termini, mentre ci teniamo a distanza
dall’oggetto pericoloso e desiderato, tentiamo tuttavia di
comportarci come se fosse ancora raggiungibile. Salvo poi
smentirci clamorosamente, esibendo dei vistosi e imbarazzanti cortocircuiti culturali. Si prenda ad esempio la figura
del ‘giustiziere’, tanto frequente nella letteratura e nella
cinematografia (oltre che nella realtà) americane: una figura ambiguamente liberatoria per la società che forse più di
ogni altra ha enfatizzato gli aspetti procedurali-formali del
proprio ordinamento. Il giustiziere è coraggioso, rapido,
efficiente; è insieme giudice ed esecutore; interviene là dove
ORDINE, VENDETTA, PENA
69
la giustizia ordinaria (formalista) si è dimostrata pavida,
lenta, incapace di punire – come l’ethos richiederebbe –
l’evidente colpevole. Di fronte alle sue gesta ci sentiamo intimamente divisi. La ‘neocorteccia’ razionale-procedurale
non può non condannarlo: con la sua azione, questa è la
‘massima’, egli si è reso uguale alla sua vittima. L’archetipo sostanzialista invece approva, suscitando nell’immediato un più o meno inconfessabile brivido di piacere.
2. La vendetta come procedura
Se la famiglia – intesa come clan, tribù, genos – rappresenta il laboratorio di produzione della normatività sociale nell’ambito del ‘diritto sostanziale’ in tutte le società
tradizionali, la vendetta a sua volta ne costituisce il principale, se non l’unico, strumento procedurale di gestione
dei conflitti e di ripristino dell’ordine6. Strumento così importante e complesso da organizzare talvolta intorno a se
stesso dei veri e propri ordinamenti giuridici7. Ammesso
che esista una qualche simmetria strutturale tra i modi in
cui nelle società tradizionali la comunità reagisce alle violazioni delle regole di costume e le forme con cui le società
moderne sanzionano giuridicamente le infrazioni alle norme di condotta, allora un criterio per discernere la natura ‘giuridica’ delle regole etiche nelle società tradizionali
è probabilmente da individuarsi nel fatto che le reazioni
alle loro violazioni non sono mai del tutto arbitrarie, né in
qualità né in quantità: se infatti è vero che in quei contesti
il principale strumento di ripristino della ‘legalità’ consiste
6
Senza bisogno di rivolgersi al distante o all’esotico, basti pensare alla
centralità normativa della famiglia e della vendetta per un ordinamento sicuramente tradizionale come quello mafioso.
7
Rinvio in proposito ai classici studi di Antonio Pigliaru sulla vendetta
barbaricina.
70
PARTE SECONDA
normalmente nella ritorsione sotto forma di vendetta privata da parte del clan dell’offeso, è però altrettanto vero
che i modi e le forme di questa non vengono mai abbandonati integralmente alla sola volontà del gruppo parentale.
Perché la vendetta, per giungere a buon fine, deve assicurarsi l’approvazione dell’opinione pubblica generale, o
almeno di una sua componente qualificata; solo così possono venire prevenute quelle altrimenti probabili reazioni
a catena ritorsive che, trasformando la vendetta in faida,
sarebbero capaci di giungere a minacciare l’esistenza stessa dell’intera comunità8.
La vendetta ‘misurata’ avrebbe dunque le caratteristiche di un feedback rispetto alla conservazione di un
ordine omeostatico: il clan offeso deve vendicarsi, perché
un’infrazione impunita e un clan frustrato dal risentimento sono fattori attualmente o potenzialmente perturbatori;
il clan offeso non deve vendicarsi ‘troppo’, per non turbare
a sua volta l’ordine sociale. Si tratterebbe della stessa esigenza che ricorre dalle più antiche regolamentazioni normative (tipo ‘taglione’) del rapporto tra indebita azione e
consentita reazione9, fino alla moderna tendenza ad affidare monopolisticamente a uno ‘stato’ la gestione della forza
indispensabile alla conservazione dell’ordine necessario: a
Così anche L.T. HOBHOUSE, Morals in evolution, New York 1906, 79-89.
Se mai è esistito uno di quegli ‘stati di natura’ a partire dai quali i
contrattualisti del ‘6-’700 elaboravano le loro geometrie intellettuali, è assai
più probabile che abbia posseduto i connotati tristi e sanguinosi immaginati da
Hobbes (bellum omnium contra omnes), che non le forme idilliache vagheggiate
da un Rousseau: nella terra di nessuno della non-esistenza normativa, non
ci sono limiti o regole su cui modellare l’azione; né freni a una reazione che
può risultare sempre smisurata. Da questo punto di vista, l’apparentemente
barbaro sistema del ‘taglione’ diffuso in tutte le più antiche legislazioni penali,
rappresentava in realtà una grande conquista di civiltà: “occhio per occhio,
dente per dente” significava infatti che se ti era stato tolto un occhio, solo un
occhio potevi chiedere; se un dente, solo un dente. Non a caso Kant considerava la giustizia commutativa dello jus talionis l’unico vero principio a priori
del diritto penale.
8
9
ORDINE, VENDETTA, PENA
71
ben vedere il diritto penale, nella sua dimensione pubblica,
trae origine dall’espropriazione della vittima del suo diritto alla ritorsione.
Si potrebbe insomma sostenere che nelle società tradizionali siano definibili come ‘giuridiche’ quelle regole di
costume il cui mancato rispetto è degno di venire misuratamente vendicato. La vendetta ‘selvaggia’, smisurata e priva di regole, esiste probabilmente soltanto nell’immaginario collettivo delle società moderne.
Secondo il postulato evoluzionista dell’anteriorità
della vendetta, la pena ne discenderebbe attraverso un’opera di negazione dei suoi attributi iniziali. Alla fine di un
lungo processo di differenziazione e di specificazione, la
pena verrebbe a definirsi per via di una radicale contrapposizione rispetto agli elementi essenziali del ‘paradigma’
vendicatorio: la vendetta è immediata, la pena è mediata
(‘l’azione penale è pubblica’); la vendetta è smisurata, la
pena è misurata (‘nulla poena sine lege’); la vendetta è
cieca, la pena è personalizzata (‘la responsabilità penale
è personale’). A questa visione storicistica di sostituzione
della pena alla vendetta, in cui la prima, con la sua funzione preventiva e terapeutica, apparterrebbe alla civiltà,
mentre la seconda sarebbe tipica della barbarie, corrisponde evidentemente il rifiuto della vendetta nel contesto dello
stato moderno: la pubblicizzazione della giustizia penale e
la statalizzazione del diritto hanno simmetricamente privatizzato e ‘psicologizzato’ la vendetta, che è stata significativamente assimilata al concetto di giustizia privata. Non è
difficile comprendere come la concezione evoluzionista che
ha rimosso la vendetta in quanto ‘lato oscuro’ della pena,
abbia prodotto un’immagine della pena in quanto negazione della vendetta10.
Cfr. in proposito R. VERDIER, Le système vindicatoire, in ID. (ed.), La
Vengeance, vol. I, Paris 1980.
10
72
PARTE SECONDA
Nella concezione moderna-occidentale, la vendetta
viene ridotta a una pura reazione individuale, più o meno
spontanea, a un’offesa; essa è suscitata da una pulsione
istintiva a infliggere una sofferenza a chi ci ha causato un
torto. Questa riduzione della vendetta alla semplice passione vendicativa, vale a escluderla dal campo delle pratiche
compatibili col sistema di valori su cui lo stato moderno
fonda il suo monopolio della forza e della sanzione: vendicare, o vendicarsi, equivale infatti a farsi giustizia da soli,
e quindi a violare la legge dello stato che vuole garantire la
sicurezza dei cittadini punendo coloro che violano le sue
norme. In queste condizioni, non è evidentemente più possibile appellarsi alla vendetta come a un diritto, o tanto
meno a un dovere; il sistema penale moderno ne ha fatto
una pratica occulta, regressiva e sovversiva.
I dati dell’antropologia confermano quanto sia falsa
l’immagine selvaggia della vendetta che sta alla base del postulato evoluzionista. Il sistema vendicatorio tradizionale è
in realtà uno strumento di regolazione e di controllo sociale
che trova il suo spazio d’azione in una dimensione intermedia tra l’eccessiva prossimità e l’eccessiva distanza delle
parti in conflitto: non può funzionare tra i ‘troppo vicini’
(i membri del gruppo familiare, o del clan), né tra i ‘troppo lontani’ (gli stranieri, i ‘barbari’)11. Tra i primi, data la
forte identità e coesione culturale, la vendetta è impensabile perché costituirebbe un atto autolesionista, al limite un
suicidio; con i secondi, per definizione privi di qualunque
11
La distinzione è particolarmente evidente nel caso della Grecia arcaica, dove esistono due connotazioni diverse del concetto di giustizia in funzione
della distanza sociale: Themis è la regola di rapporto tra i prossimi del genos;
Dike invece presiede alle relazioni con gli esterni, come gli ospiti. Con i barbari, ovviamente, non c’è nessuna regola. Gli esiti drammatici delle vendette
descritte nelle tragedie dai classici, possono forse spiegarsi col fatto che spesso si compivano violando i confini dello spazio intermedio, invadendo quello
intra-familiare presidiato da Themis.
ORDINE, VENDETTA, PENA
73
identità se non quella di nemico, l’unica relazione possibile
è la guerra. Lo spazio della vendetta è invece tipicamente
quello dove avviene il riconoscimento dell’altro in quanto avversario; col quale è perciò anche possibile venire a
patti12. Nella relazione vendicatoria, è proprio questo riconoscimento dell’avversario che consente la ritualizzazione:
sia pure sotto forme diverse e diversamente sviluppate, la
ritualizzazione opera in tutti i sistemi basati sulla vendetta
tendendo, da un lato, a incanalare e a controllare la pulsione aggressiva, dall’altro a vincolare le parti in uno schema
di reciprocità che introduce la possibilità della riconciliazione e della pace13. Alcune società – specialmente quelle
a prevalente ‘capitale umano’ – hanno spinto a tal punto
il processo di ritualizzazione da cercare di eliminare ogni
compensazione violenta e di conservare soltanto il principio
della composizione: l’offesa diventa così un delitto che comporta il ‘prezzo del sangue’ ed esclude la ritorsione violenta.
I sistemi vendicatori si riconoscono sempre per due
tratti fondamentali: un’idea di giustizia strettamente retributiva e centrata sul punto di vista della vittima; un danno
da riparare che non è mai soltanto quello causato mateL’avversario è colui senza il quale, nel conflitto, io non esisto: solo
dove lui è, anch’io posso veramente essere. Con lui ci si confronta. L’avversario mi permette infatti non solo di misurarmi con lui, ma anche con me stesso:
mi fa scoprire i miei limiti e le mie possibilità. L’avversario è come me: ha i
miei stessi timori e le mie stesse speranze; imparando a conoscerlo, scoprendo
la sua forza e le sue ragioni, i suoi punti deboli e le sue incongruenze, imparo
a conoscere anche i miei. Perciò gli devo rispetto. Il nemico è invece colui che
m’impedisce di esistere: dove lui è, io non posso essere. Con lui si combatte;
fino alla resa, o all’annientamento.
13
H. LÉVY-BRUHL, sottolinea l’importanza regolativa del costume
nell’ambito delle società in cui manca una funzione repressiva gestita dallo
stato: “espressione di un gruppo sociale più esteso (che non la famiglia), esso
regolamenta imperativamente la repressione familiare, designa il vendicatore
di sangue, svergogna i membri del gruppo che si astengano dal partecipare alla
punizione” (L’ethnologie juridique, in J. POIRIER (ed.), Ethnologie générale,
Paris 1968, 1167-68, trad. mia).
12
74
PARTE SECONDA
rialmente dall’aggressore. Si tratta di sistemi complessi che
coinvolgono diritto, costume, ideologie, rituali e procedure, allo scopo di rendere possibile la regolarità e l’effettività delle vendette. I sistemi vendicatori non sono la preistoria selvaggia della forma penale: convivono a lungo con
essa, e mostrano come possano esistere delle procedure di
regolamentazione della violenza diverse da quelle basate
sullo stretto monopolio statale del diritto.
La ‘crisi’ della vendetta comincia quando la distanza
tra le parti sociali si riduce, e queste si rivelano composte
anche da individui soggetti alla nuova autorità dello stato,
in quanto ‘grande persona’. Tuttavia il sistema vendicatorio continua per lungo tempo a convivere con le strutture
del sistema penale pubblico14.
3. Vergogna e colpa
La vendetta è il tipico strumento di gestione della conflittualità sociale di una shame culture, di una “civiltà di
vergogna”15. Com’è noto, Eric Dodds utilizzò il concetto di
14
Cfr. in proposito G. COURTOIS, La vengeance, du désir aux institutions, in La Vengeance, cit. Vol. IV.
15
Anche quella greca arcaica era essenzialmente una shame culture. Gli
eroi omerici sono soprattutto degli agathoi, dei ‘migliori’, che si definiscono
tali in base alla propria arete: il ‘valore’; o meglio, la fama di esso. Ciò che più
temono, si direbbe oggi, è di ‘perdere la faccia’: di trovarsi degradati a kakoi
per aver commesso qualcosa di aischron (di incompatibile col ruolo sociale)
che li costringa a provare ‘vergogna’ (elencheie, aidos). Quando i Proci pretendono che al falso mendicante, sotto le cui spoglie si cela Odisseo, non venga
consentito di tentare la prova dell’arco dove essi hanno tutti fallito, il loro capo
Eurimaco non è preoccupato che Penelope vada eventualmente in sposa allo
sconosciuto vincitore: “No; noi ci vergogneremo di quanto diranno uomini e
donne, nel timore che un giorno qualche compagno tra i Greci dica: - Certamente degli uomini assai dappoco corteggiano la moglie di un uomo eccellente,
perché non riescono a tendere l’arco; e invece un mendico errante è giunto, ha
teso l’arco con facilità e ha mirato attraverso la fila delle asce -. Così diranno;
e queste cose diverranno vergogna per noi” (Odissea, XXI, 323 ss.). Eurimaco
teme “quanto diranno uomini e donne”: quello che il popolo dirà è ritenuto il
ORDINE, VENDETTA, PENA
75
shame culture per contrapporlo a quello di guilt culture
(civiltà di colpa) e tracciare così un’ipotesi di evoluzione culturale della società greca antica da una visione del
mondo e dell’ordine morale come sottoposti essenzialmente all’arbitrio della volontà degli dei, fino all’emergere con
Aristotele di un primo abbozzo dell’idea di responsabilità
individuale16. Una contrapposizione analoga è stata utilizzata anche da Ruth Benedict per far meglio comprendere
agli americani impegnati nel secondo conflitto mondiale le
peculiarità delle ‘strategie di senso’ dei loro nemici giapponesi17. In generale, appartengono alle guilt cultures le moderne società individualistiche improntate sui valori della
responsabilità personale; rientrano nelle shame cultures le
società tradizionali di tipo collettivistico incentrate prevalentemente su un’etica ‘di gruppo’18. Un po’ rozzamente
metro di valutazione più importante, perché la pubblica opinione schernirà
l’insuccesso degli agathoi, ricchi e potenti guerrieri che si sono fatti superare
da un mendicante, da un kakos. Quello che importa veramente non è ciò che è
stato fatto, ma ciò che si dirà che è stato fatto.
16
Cfr. E.R. DODDS, The Greeks and the Irrational, Berkeley UP 1951
(trad. it Firenze 1957, I Greci e l’irrazionale).
17
R. BENEDICT, The Chrysanthemum and the Sword, London 1967.
18
Cfr. in proposito U. KIM, H.C. TRIADIS, Individualism and Collectivism, London 1994. La contrapposizione, e la presunta evoluzione, tra vergogna e colpa va presa comunque con molta cautela. Ad esempio, siamo così
sicuri che il nostro mondo morale di ‘kantiani’ (o sedicenti tali) sia veramente
tanto lontano dagli arcaismi culturali della civiltà di vergogna? Siamo realmente riusciti a ‘evolverci’ una volta per tutte, spostando il centro e i parametri
della valutazione etica dall’esterno all’interno del soggetto agente? Proviamo a
pensare quanto ancora pesa l’opinione altrui sulle nostre scelte di comportamento. Quanto può spesso contare più l’apparenza sociale delle nostre azioni,
rispetto alla loro concreta sostanza: quante volte, insomma, ci troviamo ad
agire non in base a una genuina riflessione morale, ma al conformismo etico; al
fallace, ma potente, “così fan tutti”. Forse il rapporto tra vergogna e colpa, in
quanto criteri d’individuazione della responsabilità, non è evolutivo; nel senso
che si uscirebbe dall’uno per accedere definitivamente all’altro. Più probabilmente entrambi sono degli archetipi del pensiero normativo: delle strutture
alternative, ma ricorrenti e costanti, per la fondazione della responsabilità.
Adkins, ad esempio, nega che la cultura greca classica abbia mai realizzato
76
PARTE SECONDA
potremmo ancora oggi dividere il mondo tra un Oriente a
prevalenza di shame cultures collettivistiche, come quella
cinese-confuciana, e un Occidente a prevalenza di guilt cultures individualistiche, come quella europea e nord-americana, segnate dalla comune ‘radice’ giudaico-cristiana19.
Le differenze tra i due modelli di cultura diventano evidenti soprattutto in relazione ai diversi modi di strutturare l’imputazione dell’agire individuale e alle conseguenze
derivanti dall’attribuzione della relativa responsabilità20.
qualcosa di simile all’idea di responsabilità personale; e che quindi abbia mai
sviluppato lo stadio di civiltà di colpa di cui parla Dodds, che ne costituisce il
presupposto. A rigore, di ‘colpa’ in senso moderno si dovrebbe parlare esclusivamente a seguito del diffondersi, con il cristianesimo, dell’idea di peccato
e della connessa attrezzatura di pentimenti ed espiazioni; privi di tutto ciò, i
Greci antichi avrebbero conosciuto soltanto una soluzione tragica ai propri
conflitti morali. (Cfr. A.W.H. ADKINS, La morale dei greci, trad.it. Bari 1987).
19
In realtà i due modelli culturali ovunque si sovrappongono e si influenzano reciprocamente. Sarebbe perciò più corretto parlare di prevalenza
di un atteggiamento sull’altro, Ad esempio in Europa, nonostante il comune
retaggio giudaico-cristiano, vi sono sicuramente zone con una forte componente di shame culture (quelle cattoliche) e altre con una effettivamente più forte
connotazione di guilt culture (quelle protestanti).
20
Queste differenze affondano a loro volta le proprie radici in strutture
psicologico-culturali che si distinguono, tra Oriente e Occidente, sul piano profondo delle strategie cognitive: “per gli asiatici il mondo è un universo complesso, composto di sostanze continue, comprensibile in relazione alla totalità più
che alle parti e soggetto più al controllo collettivo che personale. Al contrario,
per gli occidentali il mondo è un posto relativamente semplice, costituito da oggetti discreti, interpretabile senza un’eccessiva attenzione al contesto e ampiamente soggetto al controllo personale. I due mondi sono davvero diversi” (R.E.
NISBETT, Il Tao e Aristotele, trad.it. Milano 2007, 98). Si veda in proposito
anche F. JULLIEN, Strategie del senso in Cina e in Grecia, trad.it. Roma 2004.
“Più sei WEIRD [acronimo per Western, Educated, Industrialized,
Rich, Democratic, coniato da J. HENRICH, S. HEINE, A. NORENZAYAN in The
Weirdest People in the World, “Behavioral and Brain Sciences”, 33/2010], più
tendi a vedere un mondo fatto di oggetti distinti anziché di relazioni. È stato
notato già da tempo che gli occidentali hanno un’idea di sé molto più indipendente e autonoma delle popolazioni dell’Estremo Oriente. Se per esempio si
chiede a un soggetto di scrivere venti frasi che comincino con ‘io sono...’, in
America le risposte punteranno soprattutto sulle caratteristiche psicologiche
(sono felice, socievole, appassionato di jazz), in Estremo Oriente sui ruoli e sul-
ORDINE, VENDETTA, PENA
77
In una guilt culture, se gli altri ritengono che io abbia
commesso un illecito (morale o giuridico che sia) mentre io
penso di non averlo commesso, ci si aspetta normalmente
che io protesti la mia innocenza e controbatta alle accuse:
un altro dei motivi su cui si fonda la struttura del processogiudizio come strumento principale di gestione del conflitto. All’opposto, se io ritengo di aver commesso un illecito
mentre gli altri non lo pensano, ci si attende comunque che
io provi un sentimento di colpa nel ‘foro interiore’ della
mia coscienza. In una guilt culture è la mia opinione individuale di agente morale autonomo quella che conta: al limite, mi spingerà a lottare per l’affermazione della verità e
della giustizia; ma potrà anche farmi ripiegare su me stesso
in preda a un nevrotico e impotente senso di colpa.
Invece in una shame culture se gli altri pensano che io
abbia commesso un illecito mentre io ritengo di non averlo
commesso, sarò comunque esposto al disonore che deriva
dalla loro opinione: ne discendono tutte le forme collettivistiche di biasimo pubblico, dall’autocritica fino all’autodafé. All’inverso, se gli altri non pensano (o non sanno)
che io abbia commesso un’azione illecita, per me non sorge
alcun problema: nessuno lo pensa, quindi la mia ‘faccia’ è
salva e la mia coscienza (ammesso che ne abbia una) tranquilla. Insomma, quello che conta in una shame culture
non è ciò che io penso di aver fatto; anzi, al limite neppure
ciò che realmente ho fatto. Quello che conta è soltanto ciò
che gli altri credono che io abbia (o non abbia) fatto: la mia
‘fama’21.
le relazioni (sono figlio, marito, dipendente Fujitsu). […] Si comprende come
filosofi WEIRD, a partire da Kant o Stuart Mill, abbiano prodotto quasi sempre sistemi morali individualistici, basati su regole e universalistici: è questa
infatti la morale che serve per governare una società di individui autonomi “
(J. HAIDT, Menti tribali, trad.it. Roma 2013, 124-5).
21
Anche nella cultura greca arcaica tramandataci dai poemi omerici,
non solo risulta evidente che le intenzioni dei soggetti sono di importanza molto
78
PARTE SECONDA
In una shame culture i principi-guida dell’agire individuale sono facilmente formalizzabili e ritualizzabili,
perché discendono pressoché integralmente dal bisogno di
appartenenza al gruppo. Si esiste in quanto si è ‘dentro’,
conservando il proprio onore ed evitando l’esclusione che
deriva dalla vergogna: per questo non basta non commettere azioni ritenute riprovevoli; si deve esibire una vita così
irreprensibile dal punto di vista dei valori etici del gruppo
di appartenenza, da non far neppure pensare che si potrebbe commetterle. Mentre l’individuo delle guilt cultures
è potenzialmente un generatore di conflitti che tende all’affermazione della propria verità (ed è esposto pubblicamente alla pena, privatamente al senso di colpa), il soggetto che
vive in una shame culture è di fatto un risolutore, talvolta
un dis-solutore, di conflitti in nome dell’etica di gruppo:
altrimenti sarà esposto pubblicamente al biasimo e alla
vergogna, sanzioni estremamente dure ed efficaci in quel
tipo di contesto sociale. Di fronte a un conflitto, il primo si
chiederà sempre: ‘Qual è il mio diritto? Come posso farlo
valere?’. Il secondo si domanderà: ‘Qual è il mio dovere?
Dove ho sbagliato?’. È insomma evidente che una civiltà di
vergogna e una civiltà di colpa declinano in maniera notevolmente diversa il significato di concetti quali ‘volontà’,
‘dovere’ o ‘responsabilità’; e che di conseguenza articolano
minore dei risultati, ma anche che questi ultimi contano in realtà molto meno
delle apparenze; sulle quali si fonda in definitiva il vero metro di giudizio della
arete. L’eroe omerico non può valutare autonomamente se stesso, perché il
valore che gli spetta è soltanto quello che gli altri gli attribuiscono: il coraggio non servirebbe a niente se i suoi ‘pari’ non credessero che è coraggioso.
Quello che gli altri pensano delle sue azioni è del tutto indipendente dalle sue
intenzioni; e, al limite, dai fatti stessi. In una civiltà che si fonda sul sentimento
della vergogna, la conquista e il mantenimento di uno status sociale sono integralmente affidati all’opinione pubblica: non mi devo vergognare perché so di
avere mancato ai miei doveri, ma perché la mia ‘immagine’ - non importa per
quale motivo - viene messa in discussione. Qualora fossi particolarmente abile,
potrei addirittura pensare di riuscire a trascorrere un’intera vita ingannando
gli altri - se non gli stessi dei - circa la reale portata della mia arete.
ORDINE, VENDETTA, PENA
79
molto diversamente anche il senso socio-culturale del nesso tra causalità di un’azione e necessità di una reazione in
funzione riordinatrice.
Nonostante l’Occidente sia la culla delle guilt cultures, per molti aspetti l’uomo occidentale sembra invece
fare il suo ingresso sulla scena storica proprio sotto il segno
dell’irresponsabilità e dell’incoscienza22: nella struttura di
pensiero greco-antica, e arcaica in particolare, non si trova
infatti riscontro di alcuna terminologia etica corrispondente ai nostri concetti di ‘dovere’ e di ‘responsabilità’. Non
solo la lingua dei nostri antenati culturali risulta priva di
parole di uguale valore semantico capaci di tradurli puntualmente, ma sarebbe stata addirittura sprovvista di termini che consentissero comunque di collocarli in un ambito
espressivo dotato di un’equivalente valenza emotiva23.
In una società di eroi, o sedicenti tali, è inevitabile che
la forza rappresenti il principale, se non l’unico, parametro di riferimento delle virtù sociali24. Gli eroi erano coloro
Irresponsabilità e in-coscienza - nel senso di mancanza di consapevolezza di sé, di auto-coscienza - vanno di pari passo. Per molti studiosi, nell’Iliade ad esempio non esisterebbe ‘coscienza’: dei termini che in seguito avrebbero designato atti e fenomeni mentali, sarebbero nel poema da intendersi con
significati diversi e più ‘concreti’. Così psyche non indicherebbe l’’anima’, ma
semplicemente sostanze vitali come il sangue o il respiro; thumos, che più tardi
significherà qualcosa di simile all’’emozione’, designerebbe il movimento, o addirittura una sorta di ‘organo’: Apollo aiuta Sarpedonte e “infonde vigore nel
suo thumos” (Iliade, XVI: 529). Lo stesso noos, la ‘mente cosciente’ dei Greci
di età classica, non significherebbe altro che ‘percezione’ o ‘campo visivo’; e
così via. L’uomo dell’Iliade non avrebbe dunque una percezione sintetica e
globale del proprio ‘io’, ma sarebbe quasi anatomicamente diviso: il piè-veloce
Achille non ‘corre’ in quanto soggetto; sono le parti anatomiche ed emotive
che lo compongono a muoversi in quella che chiamiamo ‘corsa’. Mancherebbe
insomma la capacità di astrarre un concetto unificato del tipo ‘vita’ o ‘io’.
23
In proposito, cfr. il classico A.W.H. ADKINS, La morale dei Greci, cit..
Cfr. anche E.R. DODDS, I Greci e l’irrazionale, cit. e E.A. HAVELOCK, Dike. La
nascita della coscienza (trad.it. Bari 1981).
24
Diomede, con Nestore auriga, sta cercando di ingaggiare duello con
Ettore, quando Zeus ne blocca l’azione spaventando i suoi cavalli. Nestore gli
22
80
PARTE SECONDA
che si distinguevano per le loro eccezionali virtù; ma queste
virtù erano essenzialmente virtù guerriere: coraggio, forza
fisica, senso dell’onore. E dell’onore (timè), acquistato per
fama e conservato con l’azione, faceva parte integrante la
violenza25. In un mondo dominato da questo tipo di arete, l’uomo offeso nell’onore può rispondere soltanto con
un atto di forza, che a sua volta costituisce una violazione
dell’altrui timè: la violenza è forza; quindi, come il coraggio, fa parte dell’arete26. Si comprende perché l’omicidio
fosse un fatto accettato socialmente come normale: chi uccideva un altro, compiendo apertamente un atto di forza,
dimostrava di essere più forte e di conseguenza di valere
più dell’ucciso. Coerentemente veniva invece biasimato e
sottoposto a elencheie (vergogna) l’omicidio commesso con
l’inganno27. Mentre infatti l’omicidio commesso con la forza, dimostrando la debolezza dell’avversario e andando
quindi a intaccare quantitativamente il patrimonio di timè
e di arete del gruppo dell’ucciso, provocava la doverosa e
consiglia immediatamente di ritirarsi, e Diomede replica che così Ettore potrà
schernirlo dicendo che una volta egli è fuggito di fronte a lui. Ma Nestore lo
rassicura: “Che dici mai! Anche se Ettore ti chiama vile e imbelle (kakos e
analkis), i Troiani e le loro donne, i cui mariti hai ucciso, non lo crederanno
mai” (Iliade, VIII, 147 ss.). Nestore non può limitarsi a dire: “Non ti preoccupare. Non è vero”. Se i Troiani lo credessero tale, Diomede incorrerebbe nella
elencheie e proverebbe una terribile vergogna: lo scherno di Ettore potrà anche far vacillare la sua arete; essa tuttavia, come sostiene Nestore, continuerà
a riposare solida sul mucchio di cadaveri nemici che ne costituisce la tangibile
testimonianza.
25
Molti secoli dopo Elias Canetti, in Massa e potere e in Potere e sopravvivenza, avrebbe dedicato pagine memorabili alla figura del potente che
diviene tale soprattutto perché sopravvive e innalza il suo trono su montagne
di cadaveri.
26
Spesso bia (la forza, la violenza) e kratos (il potere, la potenza) appaiono in Omero, ma anche in Esiodo, in significativa endiadi con arete e timè.
Cfr. ad es. Iliade, IX, 498; Teogonia, 385-388.
27
Così nel caso dell’omicidio di Agamennone da parte di Egisto. Cfr.
sul tema E. CANTARELLA, Studi sull’omicidio in diritto greco e romano, Milano
1976, 44.
ORDINE, VENDETTA, PENA
81
normale reazione vendicatrice di quest’ultimo allo scopo
di ristabilire un ordine turbato, l’omicidio commesso con
l’inganno violava profondamente lo stesso sistema di valori
della shame culture: era un miasma che contaminava l’intera compagine sociale.
La vendetta spettava normalmente ai consanguinei
dell’ucciso, ma in determinate circostanze veniva effettuata anche da soggetti vincolati da legami diversi da quelli
di sangue, come ad esempio i commilitoni28. L’omicida poteva sottrarsi alla vendetta dandosi all’esilio volontario
(phyge)29, oppure estinguere il suo debito pagando ai parenti il ‘prezzo del sangue’ (poiné), qualora questi l’avessero accettato rinunciando al loro diritto/dovere alla ritorsione diretta. Insomma l’esercizio della vendetta, oltre a
dare soddisfazione e appagamento ai parenti dell’ucciso
evitando l’insorgere di un frustrante e pericoloso risentimento, costituiva un vero e proprio dovere sociale volto
a sanare il disordine derivato dallo squilibrio di timè. In
accordo con questo quadro culturale, la maggioranza degli
studiosi è concorde nel ritenere che nella società descritta
dai poemi omerici non esistesse praticamente distinzione
tra azione volontaria e azione involontaria: volontario o involontario che fosse, l’atto offensivo provocava comunque
la vendetta, in un rapporto quasi fattuale di causa/effetto.
È vero che non mancano, soprattutto nell’Odissea,
gli accenni a dei tentativi di problematizzazione del tema
della causalità e della responsabilità (aitia) individuale
dell’azione. Ma sono, appunto, degli accenni; e per lo più
contraddittori. In generale, anche quando ammette di essere colpevole l’uomo omerico non è in realtà responsabile,
28
Cfr. G. GLOTZ, La solidarité de la famille dans le droit criminel en
Gréce, Paris 1904, 92.
29
Il che tuttavia sembra che lo sottraesse soltanto di fatto, e non ‘di diritto’, alla vendetta. Cfr. Iliade, II, 653-668; Odissea, XV, 272-278.
82
PARTE SECONDA
perché la vera causa degli eventi risiede sempre nell’insondabile volontà degli dei30. Ai nostri occhi, gli eroi sembrano
insomma comportarsi spesso come bambini che si giustificano dicendo: “non l’ho fatto apposta”.
4. L’emergere della responsabilità
I poemi omerici sono delle fonti d’informazione di non
semplice consultazione: redatti intorno all’VIII-VII secolo a.C., si basano sulla tradizione orale di un materiale
narrativo che fa riferimento a un contesto socio-culturale
scomparso quasi mezzo millennio prima ed eletto a luogo
del mito. Nell’Iliade ad esempio, che è sicuramente il poema più ‘antico’, emergono a tratti degli scenari non micenei, ma tipici di quelle prime città-stato ioniche in cui esso
trovò la sua stesura definitiva. Uno squarcio dello stile di
vita in queste arcaiche poleis in tempo di pace lo si trova
sullo scudo donato da Efesto ad Achille, dove sono raffigurati due avvenimenti civili, un matrimonio e un processo,
che viene così descritto31:
‘La gente era riunita in massa nell’agorà. Lì una lite (neikos)
era sorta; due uomini stavano litigando sulla pena
per un uomo morto. Uno sosteneva di aver pagato tutto,
spiegandolo al demos; e l’altro diceva di no, che non aveva ricevuto niente.
Ambedue le parti volevano ‘uno che sapesse’ (istor) per dare un
giudizio (peirar);
30
Cfr. in proposito A. JELLAMO, Il cammino di Dike. L’idea di giustizia
da Omero ad Aristotele, Roma 2005. Basti ricordare le parole di Agamennone (Iliade, XIX, 86-92): “Pure non io sono colpevole, ma Zeus, la Moira e le
Erinni che nella nebbia camminano; essi nell’assemblea gettarono contro di me
stolto l’errore quel giorno che tolsi il suo dono ad Achille. Ma che potevo fare?
Gli dei tutto compiono. Ate è la figlia maggiore di Zeus, che tutti fa errare,
funesta”.
31
Iliade, XVIII, 497 ss..
ORDINE, VENDETTA, PENA
83
la gente gridava per ambedue, sostenendo l’una e l’altra parte;
gli araldi tenevano la gente seduta; e gli anziani
si sedettero su pietre levigate in un circolo sacro;
e lo scettro degli araldi dalla voce chiara tenevano in mano.
Poi corsero da loro e attentamente definirono la giustizia (dikazon) del caso;
in mezzo a loro furono posati due talenti d’oro
da dare a chi di loro avrebbe parlato più giustamente.’
Numerosi sono i problemi interpretativi suscitati dal
testo, uno dei più discussi dalla dottrina giusgrecistica32:
come viene composta la lite? Chi è l’istor e quali sono i suoi
rapporti con gli ‘anziani’? Chi decide la controversia? Un
fatto però è certo: si tratta di un documento di grande rilevanza, che testimonia la tendenza a un crescente controllo
sociale sull’esercizio della vendetta.
C’era stato un omicidio e i parenti dell’ucciso avevano
evidentemente rinunciato alla vendetta e accettato la poiné
sostitutiva. Chi doveva pagare il ‘prezzo del sangue’ diceva di aver adempiuto; l’altra parte negava. In una cultura
ancora quasi del tutto orale non esiste alcun documento
scritto che attesti l’avvenuto adempimento e le uniche fonti d’informazione sono costituite dalle memorie delle due
parti; ciò genera una situazione che può facilmente dar luogo a pretese contrastanti dell’una o dell’altra parte, non
suffragate da prove; ne risulta una lite che viene composta
tramite un confronto di enunciati orali, per il quale non
sembra esistere una procedura prestabilita. Entrambe le
parti si rivolgono a ‘uno che sa’; ciò che egli ‘sa’ sono ‘giustizie e formule’ (i themistes), presumibilmente soprattutto
di giuramenti, le forme di prova principali del processo ar32
Cfr. tra gli altri HAVELOCK, op.cit., 165 ss., di cui seguo la traduzione;
A. BISCARDI, Diritto greco antico, Milano 1982, 275 ss.; E. CANTARELLA, “Lo
scudo di Achille: considerazioni sul processo nei poemi omerici”, in Rivista
italiana per le scienze giuridiche, n. 16/1972, 247 ss.
84
PARTE SECONDA
caico. È una figura analoga a quella del dikaspolos, “coluiche-regola-le-giustizie e le formule in nome di Zeus conserva”33: la sua memoria contiene abbastanza informazioni di
rilievo ‘legale’ da poter guidare le parti nella discussione.
La questione deve tuttavia essere portata di fronte all’agorà del demos, nella quale spicca il comitato degli anziani;
compito di questi ultimi sembra essere in primo luogo quello di regolare l’ordine degli oratori e di ascoltarli. Non è
chiaro però se votino, o se presiedano semplicemente alla
decisione, spettante all’agorà, su quale dei contendenti sia
da preferire; il pubblico infatti acclamerà vincitore quello dei due litiganti che personalmente, con la sua retorica,
avrà meglio sostenuto ‘la propria giustizia’, e gli attribuirà
il premio che è messo in vista per essere osservato da tutti
(e la cui presenza conferma ulteriormente il carattere di
gara dell’intera procedura). La disciplina è amministrata
dagli araldi preposti alla seduta, e dalla esibizione dello
scettro nella mano tenuta sollevata per ordinare il silenzio;
si può presumere che i contendenti ricevano lo scettro alternativamente dagli anziani prima di parlare.
Dal punto di vista procedurale, sembra accertato che
le decisioni non si basassero su precedenti ‘giurisprudenziali’: era un modo di rendere giustizia che si realizzava
oralmente attraverso la persuasione e la convinzione, ogni
volta rinnovato nella contesa retorica dei due litiganti di
fronte all’assemblea. In generale, è verosimile che la ‘giustizia’ descritta nell’Iliade - indipendentemente dal contesto arcaicizzante - sia ancora soltanto una procedura
tendente a separare con i segni dell’eccezionalità la circostanza del giudizio dalla normale quotidianità, non un
principio o una qualsiasi serie di principi. La dike viene
realizzata tramite un processo di negoziazione a carattere
33
Iliade, I, 238-9.
ORDINE, VENDETTA, PENA
85
retorico tra le parti contendenti, le quali possono usufruire
degli strumenti di ‘prova’ (formule di giuramenti e invocazioni di divinità) contenuti nei themistes depositati nella
memoria di ‘uno che sa’. In quanto tale, la giustizia appare
rivolta al particolare e non al generale, tanto che ci si può
riferire ad essa sia al singolare che al plurale: la ‘giustizia
del caso’, in una data situazione, oppure ‘le giustizie’, quali vengono discusse e accordate in circostanze diverse. Non
esiste ancora un corpo giudiziario strutturato in forma di
autorità indipendente, ma vi sono degli esperti di ‘legge’
orale; uomini, si penserebbe, dotati di una memoria particolarmente addestrata. Il procedimento ha luogo in pubblico, perché nelle società pre-letterarie la memoria collettiva
è l’unica documentazione e testimonianza di promesse e di
accordi.
Sullo scudo di Achille, più che un processo in realtà
è rappresentata una gara; o meglio, un duello in cui i contendenti si affrontano sul piano della forza ritualizzata del
confronto dialettico. In gioco è sempre l’arete, la stima e
l’onore simboleggiati nel premio da attribuire a chi risulterà vincitore, non tanto per essere riuscito ad affermare una
verità (cosa particolarmente difficile, date le circostanze)
ma per aver dimostrato di essere il migliore. L’importante è che si apra una parentesi non dominata direttamente
dalla forza fisica, tra una violenza già consumata e causa
di disordine per la diminuzione di timè che ha prodotto nel
gruppo offeso e un’altra eventuale violenza ripristinatrice
dell’ordine violato. Questa seconda violenza ora è socialmente approvata e controllata34. Sul finire del VII secolo
34
Secondo Biscardi, il processo descritto sullo scudo di Achille testimonierebbe una fase di passaggio verso “la concezione della pena, intesa come
male inflitto dall’intero corpo sociale a chi violava le regole fondamentali di
comportamento” (A. BISCARDI, op.cit., 278). Il passo successivo sarà compiuto
dalla legislazione di Draconte sull’omicidio.
86
PARTE SECONDA
le leggi di Draconte ufficializzeranno l’autorizzazione alla
vendetta, demandando al tribunale dell’Areopago l’accertamento della volontarietà dell’omicidio: il gruppo offeso
diviene una sorta di esecutore di una pena35.
In Atene, al di là delle leggi di Draconte, ancora in
epoca classica continuerà a sussistere una sorta di diritto
penale privato molto complesso, che riunisce elementi della
vendetta di sangue, di soddisfazione compensatoria e d’intervento della giustizia civile. Quest’ultima si occupa però
autonomamente soltanto dei delitti di sacrilegio, di tradimento e di sovversione costituzionale, che sono puniti con
la morte e il divieto di sepoltura36. Aristotele sarà un buon
testimone di quest’epoca dell’esperienza normativa in cui
lo stato ancora non si considera offeso da ogni ingiustizia
che viene commessa al suo interno: “Si possono compiere
due tipi di atti ingiusti e di atti giusti, sia contro un membro
unico e determinato, sia contro la comunità; per esempio,
colui che commette adulterio o aggressione, compie un delitto verso un membro determinato; colui che rifiuta il servizio militare, commette un delitto contro la comunità”37.
È il consolidarsi della polis come super-individuo collettivo
che sposta il baricentro della responsabilità; ed è lungo le
tracce che portano verso una concezione soggettiva dell’imputazione che si gioca il passaggio culturale dalla vendetta
alla pena.
Cfr. A. BISCARDI, op. cit., 287 ss.; E. CANTARELLA, Studi sull’omicidio,
cit., 79 ss.. Nel caso di omicidio involontario, la sanzione era l’esilio. Nel caso
dell’uccisione della moglie, della concubina o di una consanguinea sorpresa in
flagrante adulterio, l’atto non era sanzionato: si dava così origine a una fattispecie destinata, specie nelle culture mediterranee, a un grande futuro nella
forma del cosiddetto ‘delitto d’onore’.
36
Sanzione, quest’ultima, che equivaleva a infliggere su scala eterna la
pena dell’esilio. Cfr. SENOFONTE, Elleniche, I, 7, 22; LICURGO, Contro Leocrate,
124; DEMOSTENE, Contro Timocrate, 144.
37
ARISTOTELE, Retorica, I, 13, 1373 b.
35
ORDINE, VENDETTA, PENA
87
Come in ogni shame culture, agathos e arete erano i
punti di riferimento cardinali della ‘assiologia’ greca arcaica. Ma non erano i soli: accanto ad essi sussistevano fin
dagli inizi degli accenni significativi anche ad altri valori
‘minori’, come sophrosyne (saggezza, moderazione) e dikaiosyne (giustizia). Minori non perché il greco arcaico fosse incapace di percepire un’ingiustizia, specie quando la
subiva; ma perché, ad esempio nel considerare i suoi simili,
si trovava sicuramente ad anteporre il perseguimento comunque dell’arete alla moderazione di essa per mezzo della
sophrosyne. L’uscita della struttura di pensiero greca dalla
arcaicità coincise in gran parte proprio con lo sforzo culturale di innalzare questi valori minori al rango dei maggiori,
o almeno nel trasformarli in una componente essenziale di
questi ultimi38; nel cominciare a ritenere - e nel tentare di
dimostrare - che essere dikaios fosse un mezzo necessario,
anche se laborioso, per divenire o rimanere agathos.
Il primo - lungo - passo in questa direzione consistette
nello smettere di domandarsi che cosa la Giustizia fa (in
quanto ipostasi numinosa che, ad esempio sotto forma di
Themis o di Nemesis, assegna fatalmente e insindacabilmente a ciascuno ciò che gli spetta in funzione del mantenimento di un immobile ordine cosmico-sociale39), per
iniziare a chiedersi che cosa la giustizia è40. E fu un passo
fondamentale, perché interrogarsi su cosa sia ‘giustizia’,
ricercarne la definizione, implica l’uscita da un contesto
culturale in cui la responsabilità era, per così dire, sempre oggettiva, per accedere a una struttura mentale in
V. soprattutto A.W.H. ADKINS, op.cit., 215 ss.
“Da dove infatti gli esseri hanno l’origine, ivi hanno anche la distruzione secondo necessità: poiché essi pagano l’uno all’altro la pena e l’espiazione dell’ingiustizia secondo l’ordine del tempo” (ANASSIMANDRO, A 9 (DielsKranz); così tradotto da G. PASQUINELLI, I Presocratici, Torino 1958, 44).
40
V. in proposito E.A. HAVELOCK, op.cit., soprattutto 379 ss.
38
39
88
PARTE SECONDA
cui diviene centrale, in prospettiva, proprio il problema
dell’imputabilità soggettiva dell’agire41. Gli indizi del cambiamento sono numerosi e notevoli, specie nell’ambito del
comportamento linguistico: giustizia diventa progressivamente una ‘cosa’ singola, smettendo di presentarsi al plurale, come nelle diverse ‘dikai’ omeriche; viene poi sempre
più spesso contrapposta esclusivamente al suo termine negativo, adikia, anziché ad altre ‘cose’ come hybris o bia;
infine appaiono delle tecniche verbali che hanno lo scopo
di sottolinearne l’isolamento, la sua ‘solidità’ di elemento
concettuale dotato di un’identità autosufficiente42.
I primi segni di questa evoluzione si incontrano già in
Esiodo; e poi nei tragici, soprattutto in Eschilo. Ma è soltanto con Platone che il campo dei significati di ‘dike’ verrà
drasticamente ridotto, trasformando la giustizia, da semplice tema di riflessione intellettuale, in vero e proprio concetto stabile, affermato con coerenza. Si pensi infatti che
ancora nella polis greca classica sopravviveva, indiscusso e
consolidato, il concetto di un’ingiustizia ritorsiva (antadikein) la quale, pur esorbitando dai limiti del lecito, si configurava come una sorta di illecito impunibile; era come se
all’attuale nozione di ‘legittima difesa’ corrispondesse nel
diritto attico quella di ‘consentita reazione’: “chi apriva la
via all’ingiustizia era responsabile della concatenata serie
d’ingiustizie cui quella prima ingiustizia aveva dato luogo,
e doveva essere perciò doppiamente colpito dalla legge, la
quale gli imputava l’infrazione prima dell’ordine giuridico
e si rifiutava di tutelare nei suoi riguardi il diritto che il
provocato eventualmente violasse per ritorsione”43; purché
Rinvio in proposito a M.A. FODDAI, Sulle tracce della responsabilità,
Torino 2005.
42
Cfr. sul tema B. SNELL, La cultura greca e le origini del pensiero europeo, trad.it. Torino 1951, soprattutto Cap. X.
43
U.E. PAOLI, Problemi di diritto pubblico nel Critone platonico, in “Rivista internazionale di filosofia del diritto”, 4-5\1932, 613-4.
41
ORDINE, VENDETTA, PENA
89
ciò ovviamente non giungesse a turbare l’ordine della polis. Bisogna attendere appunto Socrate-Platone per trovare criticato eticamente il principio secondo cui era lecito
restituire (eventualmente con gli ‘interessi’) l’ingiustizia
patita: è nel Critone che per la prima volta l’antadikein,
la reazione sotto forma di ritorsione, diviene, come l’ingiustizia da cui deriva, un’altra forma d’ingiustizia; solo Socrate oserà affermare che tra adikein e antadikein non c’è
differenza, perché l’ingiustizia, sia essa iniziale o ritorsiva,
è pur sempre ingiustizia, e in quanto tale deve nello stesso
modo venire condannata44.
Era inevitabile che Platone, interessato com’era a
tentare di definire cosa fosse ‘giusto’ in senso oggettivo,
dovesse giungere a riflettere sull’opportunità della pena in
quanto sanzione comminata pubblicamente e alternativa
alla vendetta. Nel Protagora s’incontra, forse per la prima
volta nel mondo occidentale, l’esposizione argomentata dei
motivi per cui un potere pubblico può infliggere un male ai
cittadini. Il tema affrontato nel dialogo è se la virtù possa
o meno essere insegnata. Per Protagora la risposta è affermativa, e la prova di ciò sta proprio nella funzione svolta
dalla pena: “Se realmente prenderai in considerazione, o
Socrate, lo scopo del punire chi compie ingiustizia, questo
ti dimostrerà che gli uomini sono realmente convinti che
sia possibile acquisire la virtù. Infatti nessuno punisce chi
commette ingiustizie per il fatto che ha commesso ingiustizia: nessuno, almeno, che non si abbandoni a irrazionale
vendetta come una belva. Chi punisce invece secondo ragione, non punisce a causa del delitto compiuto […] ma
in considerazione del futuro, affinché non compia nuovamente ingiustizia quello stesso che viene punito, né altri
che vedano costui punito”45. Mentre la vendetta è tutta re44
45
Cfr. Critone, 48-50.
PLATONE, Protagora, 324 a-b.
90
PARTE SECONDA
trospettiva, la pena sarebbe soprattutto prospettiva e non
soltanto retributiva. Per usare una terminologia moderna,
la pena del Protagora avrebbe insomma già una funzione
di deterrenza e di prevenzione sia speciale che generale46.
Com’è noto, Platone espone poi sistematicamente la
sua nozione di giustizia nella Repubblica. Ad un’immagine eminentemente soggettiva-relativa - tipica di certa sofistica rappresentata da Trasimaco: giustizia è ‘l’utile del
più forte’ - viene contrapposta la ricerca di una definizione
essenziale e oggettivante; e il dialogo assume ben presto la
forma del trattato. La riflessione platonica sulla giustizia
non costituisce però l’inizio di un nuovo pensiero. Essa è
piuttosto l’ultimo e più complesso tentativo di soluzione al
problema della gerarchia dei valori, così come era stato impostato dalla riflessione etica greca da Omero in poi: quello di collegare la dikaiosyne e le virtù ‘minori’ al gruppo
di valori saldamente fondati su arete e agathos, in modo
da impedirne ogni futuro distacco. Rispetto a tutto ciò, la
questione della definizione della responsabilità di un uomo
riguardo ai suoi atti individuali è ancora sicuramente in
secondo piano. Prima che si discutano simili ‘sottigliezze’,
occorre delineare con cura il campo d’azione della morale
‘minore’: una volta trovata la soluzione a questo problema
ne discenderà, quasi come un corollario, la soluzione anche a quello della responsabilità.
La soluzione adottata da Platone consiste essenzialmente nel trasferire la titolarità di arete e agathos dall’individuo allo stato, e nel gerarchizzare di conseguenza tutto
il restante set di valori. Al relativismo utilitarista di Trasimaco si risponde concentrando tutte le virtù nel nuovo
soggetto dello stato ideale, unica vera ‘grande persona’.
La definizione individuale di giustizia (e di responsabilità)
Cfr. in proposito E. CANTARELLA, Il ritorno della vendetta, Milano
2007, parte prima, § 2.2..
46
ORDINE, VENDETTA, PENA
91
che ne deriva è però, per noi moderni, sorprendentemente deludente: ‘fare la propria cosa’. Deludente soprattutto
perché si tratta di una formula autoreferenziale che non
consente alcuna spiegazione operativa: essa evidenzia semplicemente il fatto che il cittadino deve fare correttamente
quello che sta facendo; che deve accettare, comunque, il
ruolo assegnatogli. Ruolo che non può essere stato assegnato se non dal modo di vita stabilizzato e diffuso all’interno del contesto sociale nel quale vive. Non siamo dunque
di fronte a nient’altro che alla tradizionale regola di buon
comportamento volta a conservare e proteggere il nomos
e l’ethos esistenti nella società greca: il significato di ‘giustizia’, ora che è stato concettualizzato, non appare molto
diverso da quello della vecchia dike omerica ed esiodea, in
quanto norma della regolarità che prescrive di non varcare i propri limiti e di evitare le azioni stravaganti ed eccessive. La giustizia di Platone, che viene scritta a grandi
lettere nella città, diviene il simbolo di una stabilità così immutabile, che soltanto in nome di essa può venire ad esempio eventualmente permesso il trasferimento di figli da una
classe sociale all’altra.
Al di là dei contenuti del concetto platonico di giusti47
zia , resta tuttavia la novità del tentativo di ricercarne una
definizione oggettiva che la sottragga sia all’arbitrio relativistico, sia al fatalismo arcaico. Inoltre, accanto a una
nozione eminentemente ‘architettonica’, nella Repubblica
cominciano a emergere i tratti anche di un’idea di giustizia
in quanto virtù soggettiva autonoma. Quando la tensione
dialogica raggiunge il culmine, e una giustizia teoricamente
totale viene posta in antitesi a un’ingiustizia teoricamente totale, Socrate chiede: “C’è un’altra cosa che vorrei mi
Anche troppo facilmente criticabili dal punto di vista di un contesto
culturale moderno: cfr. per tutti K.R. POPPER, La società aperta e i suoi nemici, trad.it. Roma 1974; soprattutto Vol. I: “Platone totalitario”.
47
92
PARTE SECONDA
diceste su di loro. Voi chiamate l’una virtù (arete) e l’altra vizio (kakia)?”48. Il campo di riferimento concettuale
sembra cambiare radicalmente, perché, comunque si interpreti ‘virtù’, essa pertiene a un ambito più individuale
che pubblico: è qualcosa che può forse essere posseduto
anche indipendentemente dai ruoli e dalle relazioni sociali.
Il nuovo significato viene evidenziato prendendo in considerazione le conseguenze della presenza del suo opposto
‘adikia’ “all’interno dell’individuo”: così come la comunità in preda all’adikia si lacera in opposte fazioni, l’uomo
manca di ‘concordia con se stesso’ e diventa “nemico sia di
se stesso che della gente giusta”49. Come si vede, l’ultima
affermazione riunisce le nozioni di condizione interna e di
relazione esteriore; per ribadire questa ‘interiorizzazione’
di dike in dikaiosyne, viene infine proposto che essa sia in
realtà “una funzione di psiche”50.
La ricerca a questo punto si interrompe e la discussione rimane priva di conclusione. Tuttavia Platone ha affermato che la giustizia deve assumere un significato, non
riscontrabile nella tradizione, che le darà per sempre una
duplice funzione: di moralità sociale, in quanto giustizia
della comunità; di moralità individuale, in quanto giustizia
dell’anima. Nella sostituzione di dikaiosyne a dike vi è un
ampliamento del campo di significato di ‘giustizia’: il termine diventa più ricco e complesso, in quanto include un
riferimento sia alla polis che all’individuo; pur rimanendo
il simbolo di una struttura sociale, può rivolgersi ora anche
alla soggettività personale.
Il passaggio definitivo in quest’ultima direzione verrà compiuto da Aristotele quando, nell’Etica Nicomachea,
descriverà la giustizia soggettiva come la totalità della virRepubblica, 348c 2; v. anche 353b 2.
Ivi, 351e 6 - 352a 7.
50
Ivi, 353d 3, 6; 353e 7.
48
49
ORDINE, VENDETTA, PENA
93
tù51; e soprattutto la intenderà non come una virtù in sé,
ma come una virtù che si esplica specificamente nel rapporto con gli altri: “uso di tutta la virtù verso altrui”; “sola
delle virtù che sembra essere un bene altrui”. L’uomo virtuoso perché ‘giusto’ si pone come soggetto centrale della
speculazione etica aristotelica. Ma in che modo si diventa giusti? “Come ad esempio costruendo case diventiamo
architetti e suonando la cetra diventiamo citaredi, così
altrettanto compiendo cose giuste diventiamo giusti”52: la
giustizia è un habitus che si acquista con la pratica. Con
l’introduzione della differenza tra giustizia-virtù e giustizia-comportamento - tra dikaios einai e dikaion prattein diviene possibile fare la cosa giusta senza per questo essere
(ancora) dei ‘giusti’. E indagando metodologicamente quali
siano le ‘cose giuste’ da fare, Aristotele giunge a introdurre
anche le prime definizioni di giustizia in quanto eguaglianza o proporzione negli scambi: come quella ratio geometrico-matematica tra l’opera e il compenso, tra l’offerto e il
ricevuto, su cui si fonderanno le forme pressoché perenni
e costanti della giustizia commutativa tramandateci dalla
tradizione giuridica inter-individuale e privatistica. Se il
diritto è una tecnica organizzativa dell’azione umana associata, la mente aristotelica appare sicuramente una delle
più adatte a produrlo53.
“Spesso la giustizia sembra essere la più importante delle virtù, tanto
che né la stella della sera né la stella del mattino sono così mirabili; e nel proverbio diciamo: nella giustizia è insieme compresa ogni virtù” (Etica Nicomachea, E 5, 1133 b 32 - 1134 a 1).
52
Etica Nicomachea, B 1, 1103 a 33 - b 2.
53
Lo si può verificare particolarmente bene, per contrasto, nelle difficoltà che incontra Platone quando, nella Repubblica o nel Politico, tenta di
scendere dai princìpi di giustizia architettonica al livello delle proposte operative: il risultato sono quasi sempre delle norme molto esigenti e lontane dalla
prassi; un positivismo giuridico piuttosto grossolano e pesantemente normativo. Cfr. in proposito M. VILLEY, La formazione del pensiero giuridico moderno, trad.it. Milano 1985, 61 ss.
51
94
PARTE SECONDA
Accanto al concetto relazionale di giustizia, troviamo
poi in Aristotele anche la prima formulazione di una nozione di responsabilità soggettiva, rilevante almeno per l’ambito giuridico: il concetto di imputazione, che costituisce il
presupposto della stessa esistenza del diritto penale nelle
forme in cui questo è diffuso all’interno delle società occidentali contemporanee, discende infatti ancora oggi nelle
sue articolazioni del dolo, della colpa e della preterintenzione, senza quasi modifiche o aggiunte, dalla sua originaria formulazione aristotelica54. È per noi oggi intuitivo che
un’azione non possa venirci imputata se non si trovava inizialmente in nostro potere (‘eph’emin’, dice Aristotele), così
che volendo avremmo potuto agire altrimenti; ed è per noi
egualmente evidente e banale la distinzione tra atto volontario e atto involontario, e all’interno del primo, l’ulteriore
differenza tra atto premeditato e atto non premeditato, nel
quale ultimo l’autore agisce con conoscenza di causa ma
senza decisione preliminare. Tra gli atti involontari, dovuti a errore o ignoranza, Aristotele distingue poi a seconda
che l’autore sia o meno egli stesso responsabile della sua
ignoranza o del suo errore; e distingue ulteriormente l’errore a seconda che riguardi il divieto in se stesso, oppure le
circostanze materiali. L’ignoranza della norma in quanto
tale non esclude affatto l’imputabilità, mentre l’ignoranza
delle circostanze materiali la potrebbe escludere, o meno, a
seconda che il soggetto risulti o meno responsabile lui stesso
di tale ignoranza. Tutto questo che per noi è così evidente, non era affatto tale prima di Aristotele, quando la responsabilità era, per così dire, sempre oggettiva: quando
mancava la stessa pensabilità di una netta distinzione tra
volontario e involontario; oltre che, a maggior ragione, di
Cfr. in proposito H. WELZEL, Naturrecht und materiale Gerechtigkeit,
Göttingen 1960, 35 ss.
54
ORDINE, VENDETTA, PENA
95
tutta quell’altra serie di ‘sottigliezze’ aristoteliche per noi
oggi così normali ed essenziali.
Per capire poi in quale senso effettivo Aristotele sia
riuscito a razionalizzare la concezione occidentale dell’imputazione, non basta dire che questa discende immediatamente da una generica ‘responsabilità’, poiché non tutte le
cose che apparentemente dipendono da noi, procedono in
realtà ‘eph’emin’ allo stesso modo: eminentemente ‘eph’emin’ sono soltanto gli atti che compiamo con piena conoscenza di causa e dopo attenta riflessione, mentre lo sono
già meno quelle azioni che compiamo certo consapevolmente, ma senza avere avuto il tempo di rifletterci; e così via55.
La concezione aristotelica dell’imputazione sembra soprattutto in un altro senso ‘razionale’: è razionale secondo
uno scopo; che è quello, in senso lato politico-giuridico, di
dissuadere gli individui dal commettere atti considerati socialmente dannosi. Non sarebbe ingiusto punire l’atto non
premeditato allo stesso modo di quello premeditato, soltanto perché risulterebbe in nostro potere meno di quest’ultimo, ma anche perché una simile condotta indebolirebbe
la capacità di dissuasione sociale: se non veniamo puniti
per le nostre azioni nella misura in cui queste dipendono
da noi, per quale motivo dovremmo sforzarci di controllarle? Tanto varrebbe rassegnarci al bene e al male che il
‘destino’ estrae casualmente dalle nostre vite. La dottrina
aristotelica dell’imputazione permise invece di sviluppare
un’idea di responsabilità che, recepita dal mondo grecoromano, non poté non incidere profondamente sulle sue
sorti storiche, relegando sempre più in secondo piano la
rassegnazione fatalistica ai connotati statico-convenzionali
delle antiche norme di comportamento sociale.
Grande è evidentemente la distanza, soprattutto culturale, che separa
questa complessa classificazione casistica dalla semplicistica dicotomia volontario/involontario delle leggi di Draconte.
55
96
PARTE SECONDA
Il passaggio da ‘cosa fa la Giustizia’ a ‘fare la cosa
giusta’. Una nozione di responsabilità soggettiva rilevante
almeno nell’ambito giuridico. Sono due tra i lasciti più significativi della riflessione greca antica nel campo dell’etica
pratica.
5. Verso la pena
Anche in Roma antica, così come in Grecia, la vendetta costituisce uno dei principali strumenti di regolazione
della conflittualità sociale, confermando le sue caratteristiche di naturale e spontanea forma di reazione al torto
subito56: viene considerata una prova di coraggio e di onore
doverosa, prima ancora che legittima. Il gruppo familiare
cui spetta il diritto-dovere di riparare l’offesa può accettare il ‘prezzo del sangue’ eventualmente offerto dal colpevole in forma di bestiame o di metallo. La comunità interviene
sporadicamente e solo per moderare gli eccessi ritorsivi57.
Com’era accaduto in Grecia con Draconte, anche a
Roma la nascente civitas avverte presto la necessità di sottrarre la vendetta all’arbitrio privato. Già in periodo monarchico si attribuisce a Numa una distinzione tra omicidio
volontario e involontario di un uomo libero: “Se qualcuno
ha volontariamente (dolo sciens) ucciso un uomo libero,
paricidas esto”58. Secondo l’opinione prevalente, l’espressione paricidas esto sta a indicare l’obbligo imposto ai familiari del morto di uccidere l’omicida: in questo modo la
56
Cfr. E. CANTARELLA, I supplizi capitali in Grecia e a Roma, Milano
1991, 122 ss.
57
Cfr. B. SANTALUCIA, Dalla vendetta alla pena, in Storia di Roma, I,
Torino 1988; ID., Diritto e processo penale nell’antica Roma, Milano 1989.
58
Cfr. E. CANTARELLA, op. cit., 420. Il paricidium – da non confondersi
col parricidium, l’omicidio del genitore – indicava la vendetta sacrale esercitata dai parenti dell’ucciso (v. B. SANTALUCIA, voce Omocidio, dir. Rom., in
Enciclopedia del Diritto, 1979).
ORDINE, VENDETTA, PENA
97
vendetta comincia a essere posta sotto controllo pubblico,
trasformando i parenti della vittima in delegati ad applicare la ‘pena’ di morte. Allo scopo di accertare la volontarietà dell’omicidio, si istituiscono i quaestores paricidii59.
L’omicida involontario (imprudens) non poteva invece essere ucciso dai parenti della vittima: “Si telum manu fugit,
magis quam iecit, aries subicitur”60. L’ariete era una poiné
che aveva anche funzione di piaculum, di offerta espiatoria volta a rimuovere la maledizione divina: l’omicidio, che
turbava la pax deorum, richiedeva infatti una purificazione per ristabilire l’armonia tra città e divinità. La persecuzione del colpevole era ancora più un’esigenza religiosa che
di ordine pubblico.
Pur con alterne vicende, almeno fino alla fine del II secolo a.C. A Roma continua a sussistere l’integrazione della
vendetta in un insieme ‘penale’ complesso: il crimen in senso stretto, sanzionabile con una pena pubblica, non è una
categoria del diritto privato, ma del diritto ‘costituzionale’.
Come in Atene, designa essenzialmente le offese alla sovranità della città, quali tradimenti, insubordinazioni militari, diserzioni, violazioni degli istituti della plebe; omicidio,
adulterio, stupro, rapimento, incesto, aggressioni fisiche,
furto, sono in quest’epoca soltanto dei delitti privati61. La
procedura penale non si distingue quasi da quella civile: la
vittima persegue il suo aggressore davanti al magistrato (che
enuncia i principi di conduzione del giudizio), poi davanti al giudice o all’arbitro, con l’intenzione di ottenere una
sanzione restitutiva privata, e non la punizione pubblica
di un criminale. Il tribunale si trova quindi ad agire come
Cfr. B. SANTALUCIA, Diritto e processo penale, cit., 11 ss.
XII Tab., 8, 24a: “se il dardo sfuggì di mano, più che essere lanciato,
venga offerto un ariete”.
61
Cfr. W. KUNKEL, Untersuchungen zur Entwicklung des romischen Kriminalverfahrer in Vorsullanischer Zeit, Munich 1962.
59
60
98
PARTE SECONDA
un regolatore della vendetta. Nei casi più gravi (addictio),
i colpevoli vengono ‘assegnati’ alla vittima, che decide se
metterli a morte, ridurli in schiavitù, o incatenarli nella
propria prigione privata62. In caso di injuria (lesioni fisiche
con conseguenze invalidanti permanenti), il tribunale consente alla vittima, nel caso non accetti una compensazione
pecuniaria, di procedere senz’altro al ‘taglione’.
Le composizioni e le transazioni sono delle vere e proprie pene private volte a soddisfare le vittime: il loro contenuto non è soltanto economico, ma comprende in larga
misura la riparazione del danno etico necessaria a realizzare una ‘giusta vendetta’, la cui misura è data dunque dalla
‘somma’ della gravità materiale dell’offesa, più l’estensione dell’affronto morale subito dalla vittima. Per questo
motivo, ad esempio, sia i Romani che i Greci considerano il
furto colto in flagrante più grave di quello rimasto occulto.
Il danno non crea insomma un semplice debito economico che potrebbe entrare a far parte degli elementi attivi
o passivi di un patrimonio: l’elemento etico, l’affronto, il
disonore, tutti gli elementi tipici della vendetta, continuano
a riguardare direttamente i soggetti in quanto tali. L’antico
diritto romano esibisce un alto grado di istituzionalizzazione della vendetta, in cui l’iniziativa delle vittime, le pene
restitutive e l’azione dei tribunali, si integrano per regolarla, non per vietarla.
Il tentativo di arginare gli elementi di violenza tipici
della vendetta riconducendoli sotto il controllo della rete di
regole legali, pur senza sostituire integralmente le seconde
alla prima, si protrasse con coerenza durante l’intero arco
di vita del diritto romano storico. Lo spazio della vendetta
62
Le prigioni private sono certamente esistite durante tutta la Repubblica; c’è traccia certa della loro interdizione formale soltanto in una costituzione
imperiale del 388 d.C. (cfr. Y. THOMAS, Se venger au forum. Solidarité traditionnelle et système pénal à Rome, in La Vengeance, cit. vol. III).
ORDINE, VENDETTA, PENA
99
veniva arginato perché non tracimasse pericolosamente, ma
non si pretendeva di applicare una pena pubblica in luogo
della ritorsione privata, per quanto regolamentata: insomma, non più solo violenza, ma non ancora solo legge penale.
Con il disfacimento dell’Impero in Occidente, il controllo sulla vendetta da parte del sistema processuale-legale formale entrò in una crisi irreversibile: le istituzioni
erano passate nelle mani di autorità troppo occupate in
battaglie di tutt’altro genere da quelle forensi, e propense
a un’amministrazione della giustizia di tipo sostanzialistico-personale, anziché procedurale-formale. Il diffondersi
del principio della personalità della legge in luogo di quello della territorialità, faceva sì che numerosi individui si
muovessero nello spazio europeo ciascuno portando con sé
il proprio ordinamento; le popolazioni germaniche, in particolare, esibivano poi un culto della forza fisica che male
si conciliava con i formalismi procedurali, specie in ordine
alla raccolta delle prove63.
Mentre sotto la dominazione ostrogotica e la riconquista bizantina si assiste a un generico semplificarsi del processo e a un suo ridursi a forme più elementari, pur nella
conservazione delle strutture essenziali di origine classica,
nell’Italia longobarda si instaura invece, almeno nella nazione politicamente dominatrice, un tipo di procedimento
che si fonda sulla presenza fisica e sulla partecipazione
non mediata delle parti in causa. Se l’esperienza giuridica
longobarda presenta, specie sul piano del diritto pubblico, degli elementi di suggestiva e notevole innovazione64, in
Carlo Magno affermava che nei processi “melius visum est ut in campo cum fustibus pariter contendant, quam periurium perpetrent in absconso”
(Leges Longobardae, Lib. II, Tit. LV, Leg. XXV): meglio che si affrontino armati sul campo, piuttosto che continuino a spergiurare di nascosto.
64
Cfr. in proposito il mio Saggio sulla disobbedienza civile, Milano
1984, 158 ss.
63
100
PARTE SECONDA
campo processuale mostra delle note arcaizzanti che possono richiamare alcune caratteristiche che abbiamo visto
essere tipiche del contesto greco pre-classico: il divieto di
rappresentanza discendeva infatti direttamente da uno dei
principi fondamentali della procedura germanica, secondo
cui la lesione del diritto anche in materia privata assumeva
il carattere di una lesione della persona. Il presunto reo
aveva offeso personalmente l’attore nel suo diritto, ed era
l’attore stesso che doveva sostenere le proprie ragioni, senza che nessuno potesse sostituirlo. Il Martinus (actor, qui
martellat) e il Petrus (reus, qui negat) che vediamo comparire nei formulari giudiziari longobardi, discutono e litigano sempre in prima persona.
Faide e ordalie dominano a lungo la scena ‘giudiziaria’ alto-medievale. La faida (dall’antico tedesco fehida,
‘inimicizia’), rappresentava per la tradizione germanica
un vero e proprio istituto giuridico cui ogni singolo, e insieme a lui la sua famiglia e il suo clan, poteva ricorrere
per ottenere con la forza la soddisfazione riguardo a un
proprio diritto leso. Come accade per tutte le procedure vendicatorie, era attentamente sorvegliata socialmente
nella sua esecuzione; nella sua plurisecolare sopravvivenza65, venne sottoposta a molte limitazioni ed eccezioni; i
Longobardi, nell’Editto di Rotari, le preferirono il guidrigildo, il ‘prezzo della persona’ dato come compensazione all’offeso. L’ordalia, il ‘giudizio di Dio’ consistente
in una prova dolorosa o in un duello, era una procedura
basata sul presupposto che Dio avrebbe aiutato l’accusato innocente facendolo uscire indenne dalla prova o vittorioso nel duello. Si trattava di una sorta di giuramento
fisicamente verificato: la ragione e la verità non stanno
Bisogna aspettare il 1495 per vedere affermato dalla Dieta di Worms il
divieto dell’uso delle armi per la risoluzione delle liti in tutti i territori tedeschi.
65
ORDINE, VENDETTA, PENA
101
più dalla parte di chi può dimostrare la propria innocenza con fatti, documenti e testimonianze, ma dalla parte
di chi, per il solo fatto di aver superato una determinata
formalità, non può che essere considerato innocente. La
giustizia non è il risultato astratto di una procedura e di
un ragionamento dimostrativo, ma un’entità tangibile che
si può vedere e toccare. A fondamento dei vari tipi di ordalia stava il giuramento, che chiamava in causa la divinità come testimone. Il duello giudiziario, o duello di Dio,
era appunto una forma di ordalia che risolveva la contesa
giudiziaria attraverso il combattimento tra i contendenti,
o tra i loro ‘campioni’: si distingue chiaramente dalla faida, perché questa era una forma diretta di risoluzione dei
conflitti tra individui o gruppi, senza implicazioni sovrannaturali né direttamente giuridiche. Si tratta di istituti
che appartengono integralmente a un contesto culturale
arcaico-tradizionale caratterizzato dalla sovrapposizione
e dalla indistinguibilità tra i diversi piani normativi giuridico, morale e religioso.
Nei confronti del giudizio di Dio ordalico, la Chiesa
cattolica tenne a lungo un atteggiamento contraddittorio:
non poteva certo apprezzare che Dio venisse coinvolto
strumentalmente in questioni giudiziarie, per di più segnate da una massiccia dose di violenza; ma non poteva nemmeno consentire che le parti si facessero sistematicamente
giustizia da sole. Più decisa fu invece la sua attività di contrasto al duello giudiziario, non solo stigmatizzandolo, ma
penalizzandone i partecipanti: al III Concilio di Valenza
dell’855, Leone IV indicava come assassino e suicida rispettivamente il vincitore e lo sconfitto di un combattimento dall’esito mortale.
La pratica del duello giudiziario si protrasse tuttavia incontrastata per secoli - soprattutto in campo penale
- finché almeno in Francia Luigi IX decise di vietarla nel
102
PARTE SECONDA
1260 con l’Ordonnance de la Chandeleure66, che insieme
riformava la procedura e introduceva una prima forma di
difesa d’ufficio: ‘au lieu des batailles nous mettons preuve
de tesmoins’; la testimonianza diventa un obbligo e si propongono degli elementi di contraddittorio. In quegli anni
insegnavano a Parigi l’averroista Sigieri e Tommaso d’Aquino: si comprende come un ambiente educato aristotelicamente tendesse a rifiutare un’epistemologia giudiziaria
caratterizzata da incapacità analitica e segnata dalla tracotanza delle ‘questioni d’onore’ nobiliari. Ma il tentativo
di Luigi IX era decisamente prematuro, tanto che nel 1304
Filippo il Bello sarà costretto, dietro pressione dei baroni,
a riesumare il duello, ormai sempre più simile a una guerra
privata che a un combattimento giudiziario.
Appunto il duello tout court, che di giudiziario o di
divino non avrà più nulla, sarà la forma di giustizia privata che si affermerà in Europa occidentale a partire dal XV
secolo. Si tratta di un ricorso alla violenza all’interno di
una rete di regole; di un utilizzo della forza che ha per così
dire conosciuto la normatività, morale e sociale prima che
giuridica. È il combattimento formalizzato, consensuale e
prestabilito tra due persone per la difesa dell’onore, della
giustizia e della rispettabilità; si svolge sempre tra individui del medesimo ceto sociale e armati nello stesso modo.
Ufficialmente osteggiato, ma di fatto tollerato, dalla legge
ufficiale dello stato, il duello era destinato a un grande futuro: in Italia bisogna aspettare fino al 1930 per trovare
una norma che punisca direttamente il duello in sé, e non
solo le sue conseguenze sui contendenti67 .
66
Cfr. A. ESMEIN, Histoire de la procédure criminelle en France, Paris
1882, 91 ss.
67
R.d.l. n. 1938 del 19.10.1930, che puniva i duellanti e i portatori di
sfida con la reclusione fino a sei mesi e una contravvenzione.
ORDINE, VENDETTA, PENA
103
In Occidente, tutto questo entrerà in crisi nel tardo
medioevo, in coincidenza con la formazione dei primi stati
assoluti e con la rivendicazione da parte di questi del monopolio dell’uso della forza e dell’applicazione della legge.
Le nuove entità politiche sono assolute nel duplice senso
che appaiono separate tra loro territorialmente e giuridicamente, e che sono governate da un sovrano assoluto;
un sovrano cioè ‘superiorem non recognoscens’ (se non,
almeno formalmente, Dio) e ‘legibus solutus’, cioè che produce la legge senza essere ad essa sottoposto: ‘Dieu et mon
droit’. È in questo contesto che comincia ad affermarsi rapidamente il diritto pubblico di punire e il privilegio statale della sanzione, mentre la vendetta viene emarginata in
quanto violenza privata incontrollabile68. Il fine dichiarato
di voler sostituire la terzietà del giudizio all’immediatezza
della ritorsione, riesce a nascondere solo in parte il fatto
che la nuova entità statale sta avocando a sé il monopolio
della vendetta attraverso la gestione in esclusiva della totalità dell’azione penale.
Un ruolo fondamentale nell’affermarsi dei moderni
concetti di ‘delitto’, ‘pena’, ‘sanzione’, ecc., è stato poi
sicuramente svolto in Occidente dalla profonda penetrazione politico-istituzionale del cristianesimo e di alcuni
suoi concetti-chiave culturali: tra ‘peccato’ e ‘reato’ vi è
qualcosa di più di una semplice relazione analogica basata
sul comune elemento della trasgressione. Il mondo antico
pre-cristiano ignorava l’idea di peccato e la sua connessa
attrezzatura espiatorio-penitenziale. Anche per questo, in
esso le violazioni delle regole di comportamento o si risolvevano tra privati, o avevano un esito tragico. Il peccato
Con l’avvento poi dello stato liberale di diritto, cambierà il ‘proprietario’ delle leggi: non più il sovrano, ma i cittadini. La situazione dal punto di
vista del diritto penale rimarrà però sostanzialmente immutata.
68
104
PARTE SECONDA
invece prevede non solo l’espiazione, ma anche la possibilità del pentimento e della relativa redenzione. Così il reato
– ‘peccato’ contro lo stato – porta con sé la pena; che può
essere retributiva, ma anche rieducativa. Ci si può pentire
di peccati; ma, ormai, anche di reati. Si possono confessare
sia peccati che reati, con conseguenze simili dal punto di
vista dei due diversi sistemi ordinamentali, quello sacrale
e quello secolare.
La giustizia vendicatoria metteva in contatto come
avversari i gruppi della vittima e dell’aggressore, mantenendo così in vita un rapporto che poteva anche evolversi
nella direzione del riconoscimento e della conciliazione. La
nuova giustizia penale isola invece immediatamente l’individuo criminale e lo separa dal resto della società. Privata
del suo spazio ‘naturale’, la vendetta inevitabilmente regredisce all’etica selvaggia del giustiziere: errato tentativo di risposta a una lontana giustizia di stato che appare
spesso incapace di riabilitare il criminale anche perché l’ha
separato dalla sua vittima. Confiscando non solo il potere
di punire, ma anche quello di perdonare, lo stato moderno
arriva a confondere il ‘foro’ esterno della retribuzione e
quello interno della remissione dei debiti.
6. Oltre la pena (e il processo)?
Nel processo, i mezzi sono il fine. La moderna giustizia
procedurale-formale non sa quale sia la verità, ma agisce
come se essa fosse comunque raggiungibile, predisponendo
un complesso sistema di regole del gioco. Il processo non è,
il più delle volte, altro che una macchina per trasformare il
verosimile in ‘certo’: per prendere una decisione che risolva il caso. Ma se lo scopo della giustizia processuale consiste nel ristabilimento della pace sociale là dove essa appare
turbata, allora è difficile negare che i suoi mezzi risultino in
ORDINE, VENDETTA, PENA
105
larga parte inadeguati; soprattutto la giustizia penale sembra carente di strumenti efficaci per la composizione dei
conflitti. Il diritto penale, nato per affrontare la violenza,
è diventato troppo simile al suo oggetto69.
Un altro degli scopi del processo penale è poi quello di assicurare allo stato l’esclusiva della decisione della
sanzione e della gestione della pena. Anche in questo caso
i mezzi in funzione del fine sono chiari: imputato e vittima vengono immediatamente separati e posti in una condizione di assoluta incomunicabilità; il primo diventa un
‘oggetto’, di cui si discute; la seconda è relegata al ruolo
di spettatore, al più di avente titolo al risarcimento. Salvo
quando viene chiamata a testimoniare, diventando allora
un mezzo strumentale per l’accertamento della verità processuale. Entrambi sono soltanto le cause di un evento che
può benissimo dispiegare le sue conseguenze, come spesso
accade, anche senza di loro. La vittima, espropriata della
vendetta, parla solo di ‘giustizia’; lo stato chiama giustizia il suo privilegio della vendetta, talvolta nobilitandola in
forma di ‘rieducazione’.
Dal punto di vista del reo, specie se minore, uno degli argomenti che in tempi recenti più ricorrono a sostegno
della necessità di istituire strumenti non giudiziari di risoluzione del conflitto penale, è quello della constatazione
degli effetti stigmatizzanti e criminalizzanti del processo e
della pena. Storicamente, la prima spinta alla diversion,
all’estensione dei metodi della giustizia informale anche
al campo penale, è venuta soprattutto dalla convinzione
che gli strumenti ufficiali di decisione costituissero insieme
uno spreco di risorse e un ‘eccesso di difesa’, specie nei
Cfr. A. CERETTI, Progetto per un ufficio di mediazione penale presso
il tribunale per i minorenni di Milano, in AA.VV. La sfida della mediazione, a
cura di G.V. Pisapia - D. Antonucci, Padova 1997, 85ss.
69
106
PARTE SECONDA
confronti dei reati minori: gli autori di questi ultimi, una
volta introdotti nei meccanismi del processo, ne uscirebbero inevitabilmente con un marchio di esclusione sociale
(lo stigma70) che, ostacolandone il recupero, li avvierebbe
alla recidiva e all’escalation criminale. Un rapporto meno
formale e più ‘inclusivo’ con questi soggetti, svolgerebbe
invece un’azione preventiva, abbassando il livello di stigmatizzazione tipico della giustizia penale. Nel loro operare
concreto, i tribunali ufficiali appaiono spesso inutilmente
coercitivi e afflitti da una sorta di ossessione punitiva: i
sostenitori della giustizia informale ritengono che il concentrarsi soltanto sull’accertamento della responsabilità
e sull’applicazione di una pena costituisca una concezione
riduttiva dell’attività di giudizio; questa dovrebbe occuparsi anche di ricostruire le relazioni sociali, di rimuovere
le cause del conflitto e di incoraggiare l’accordo, piuttosto
che basarsi sulla sola coercizione. In questo modo si potrebbe sviluppare un sistema più efficace e meno costoso,
in senso sia economico che sociale.
Sociologia e criminologia hanno ripetutamente studiato le conseguenze dell’abuso di procedure che di fatto
attribuiscono a un soggetto la qualifica di deviante: “il processo penale diventa una ‘cerimonia di degradazione dello
status sociale’, di cui la sentenza rappresenta la dichiarazione ufficiale”71 e i cui effetti, in particolare sul delinquente primario e sul minorenne, portano all’attivazione
delle cosiddette ‘carriere criminali’. Con la sentenza poi, il
giudice non imputa solo una responsabilità ma anche una
identità: infatti ‘impone sempre un nome (‘condannato’,
‘prosciolto’, ‘immaturo’, ‘maturo’, ... ), che è anche un’es70
Cfr. in proposito il ‘classico’ E. GOFFMAN, Stigma. L’identità negata,
trad. it. Bari 1970.
71
M. CAMPAGNINI, Note di diritto comparato e straniero, in “Rivista italiana di diritto e procedura penale”, 1983, 131 ss.
ORDINE, VENDETTA, PENA
107
senza sociale, dichiarandolo innanzi a tutti, e attribuisce
così con autorità una qualità ad un determinato soggetto’72.
Il processo produce insomma una profezia che è destinata
ad auto-avverarsi.
Quanto alla vittima, spesso il processo la rende tale
due volte quando, dallo sfondo dove normalmente è relegata, la riporta per qualche necessità procedurale alla ribalta
dell’aula. Gli organi giudiziari vedono la vittima prevalentemente come una fonte d’informazione istruttoria: la ricostruzione degli eventi, che per il luogo e i modi in cui viene
fatta lascia poco spazio a cautele psicologiche, soprattutto
in alcuni tipi di crimine può risultare duramente stressante
per un soggetto che non ha ancora superato il suo trauma.
A ciò si aggiungono, specie nel processo accusatorio, le manovre della difesa che ne mettono in discussione la credibilità, se non addirittura l’innocenza.
Abbiamo visto come la giustizia perseguita attraverso
la vendetta sia di tipo essenzialmente retributivo. La pena
amministrata dallo stato non nega questo tipo di giustizia,
ma ne esalta e ne amplifica le componenti esemplari a fini
general-preventivi. Talvolta poi la giustizia penale pretende di diventare addirittura rieducativa: di riportare
il ‘deviante’ a una presunta ‘normalità’, per di più utilizzando spesso dei mezzi del tutto inadatti allo scopo, come
la detenzione in condizioni spesso oggettivamente lesive
della dignità personale. In tempi più recenti ha cominciato però a farsi strada una terza nozione di giustizia: una
giustizia riparativa (o restitutiva) che cerca appunto di
riportare la vittima e il reo al ruolo di protagonisti della
loro vicenda di conflitto. Ne è principale veicolo la mediazione penale.
72
30.
A. CERETTI, Come pensa il Tribunale per i minorenni, Milano 1996,
108
PARTE SECONDA
Il campo operativo della mediazione penale è centrato
sulla relazione instauratasi, con il verificarsi della condotta delittuosa, tra l’aggressore (al patrimonio, alla libertà
personale, all’integrità fisica, ecc.) e la vittima. A seguito
dell’aggressione, autore del reato e persona offesa entrano
in un complesso rapporto che crea di fatto un legame personale derivante dall’esperienza comune del crimine commesso/subito73. In questa prospettiva, il conflitto si muove
chiaramente anche su un piano personale-relazionale, soprattutto dal punto di vista della vittima, la quale tende
inevitabilmente a provare una vasta gamma di emozioni
negative nei confronti del suo aggressore: odio, desiderio
di rivalsa, paura. La mediazione si occupa soprattutto di
gestire queste emozioni, o meglio di gestire le emozioni di
entrambi i configgenti74.
La giustizia penale tradizionale non è infatti in grado
di curarsi della dinamica psicologica tra vittima e offensore. Anzi, manifesta se mai una tendenza opposta: il giudice
deve evitare per quanto possibile che il procedimento di accertamento della verità possa essere inquinato da considerazioni personali o alterato dall’irrompere dell’emotività75.
Per raggiungere la massima obiettività, le parti vengono di
fatto espropriate del loro conflitto, che viene affidato agli
addetti ai lavori, gli avvocati e il pubblico ministero. TuttaSul complesso legame vittima – offensore dopo il reato, si veda in generale Con gli occhi della vittima. Approccio interdisciplinare alla vittimologia,
a cura di R. BISI e P. FACCIOLI, Milano 2002. Sul confronto vittima – offensore
in sede di mediazione, M. S. UMBREIT, Victim Meets Offender, New York 1994.
74
Anche un istituto tradizionale come la remissione di querela può in
qualche modo rispondere a questa logica propria della mediazione: se il comportamento delittuoso non ha in realtà provocato danni alla vittima, non vi è
motivo per instaurare un processo, poiché il titolare del bene giuridico protetto
dalla norma incriminatrice dichiara di non aver subito la lesione cui è collegata
la pena. Sul principio di offensività, cfr. D. SCATOLERO, La questione punitiva,
in Punire perché, a cura di M. Cavallo, Milano 1993, 15–19.
75
M. BOUCHARD, G. MIEROLO, Offesa e riparazione, Milano 2005, 30.
73
ORDINE, VENDETTA, PENA
109
via l’evento continua a esistere sul piano personale-relazionale, e non viene certo risolto dalla sentenza. Il contenzioso
giudiziario infatti, radicalizzando e istituzionalizzando il
conflitto76, separa i contendenti impedendo la comunicazione e quindi, dal punto di vista della mediazione, la risoluzione autentica della vicenda. Dove lo stato reprime,
la mediazione cerca invece di riparare la rottura causata
dall’evento traumatico del reato.
La mediazione penale è una modalità di gestione del
conflitto che si sostanzia in uno scambio ritualizzato della
controversia77: scambio che consiste nel tentativo di instaurare un dialogo tra la persona offesa dal reato e l’autore
della condotta criminosa. I protagonisti della gestione non
sono quindi le parti del processo, ma piuttosto gli attori del
fatto. Ne derivano tre importanti conseguenze caratteristiche: la mediazione non evita semplicemente la lite giudiziaria, ma soprattutto l’attrazione della controversia nell’orbita esclusiva del diritto statale e quindi la sottrazione di
essa al controllo diretto dei contendenti; lo stato viene messo ai margini della procedura di mediazione penale, poiché
il recupero della dimensione personale dell’accadimento elimina la partecipazione dei soggetti ad esso estranei; l’emarginazione dello stato è ciò che distingue la mediazione penale dalle altre forme di mediazione endo-processuale volte
a scopi prevalentemente deflattivi della giustizia ordinaria.
Nella sua relazione col processo, la mediazione penale può assumere due configurazioni di base: come alternativa al processo; come alternativa nel processo78.
A. CERETTI, C. MAZZUCATO, “La scommessa culturale della giustizia
minorile”, in Processo penale minorile, a cura di L. De Cataldo Neuburger,
Padova 2004, 164 ss.
77
M. BOUCHARD, G. MIEROLO, op. cit., 45-46.
78
Così H. ZEHR, Changing Lenses: A New Focus for Crime and Justice,
Scottsdale 1990, 32; M. CHIAVARIO, Processo penale e alternative, in Accer76
110
PARTE SECONDA
La prima è appunto la mediazione penale ‘pura’, che si
propone di eliminare totalmente il momento giurisdizionale del conflitto per restituirlo a una dimensione il più
possibile ‘privata’. La mediazione come alternativa nel
processo invece ricomprende anche soluzioni diversificate
già previste in diversi ordinamenti, come i riti cosiddetti
premiali, o ‘speciali’ per il legislatore italiano: la mediazione è vista insomma come un procedimento incidentale
all’interno del processo penale.
Il modello di mediazione penale come alternativa al
processo configura in sostanza una giustizia consensuale
conciliativa volta a cercare un ordine negoziale che permetta l’emergere delle cause vere del conflitto, mentre i
rapporti di forza, propri della dialettica del processo, ne
sarebbero solo i sintomi79. Per giustizia consensuale può
intendersi in senso lato il potere di definizione autonoma
e concordata di questioni e situazioni delle parti80: questa
giustizia si contrappone di fatto alla giustizia convenzionale pubblico-ufficiale amministrata dal giudice del processo
in nome dello stato e quindi della collettività di riferimento.
Ciò che si chiedono i sostenitori della mediazione penale
pura, è se la collettività abbia un reale interesse a partecipare al processo penale in merito ad ogni controversia
che sorga tra soggetti a lei stessa appartenenti; e rispondono negativamente81. Anzi, evidenziano se mai l’opposta
tendenza a un progressivo distacco dei consociati da una
tamento del fatto, alternative al processo, alternative nel processo, Atti del
Convegno di Urbino 23-24 settembre 2005, Milano 2007, 13.
79
C. PERINI, La mediazione dei conflitti nella società del rischio, in Mediazione e giustizia penale: dalla punizione del reo alla composizione con la
vittima, a cura di G. Mannozzi, Milano 2004, 235 ss.
80
H. ZEHR, op.cit., 65.
81
In generale, sulla pretesa punitiva dello stato a fronte di fattispecie indifferenti alla collettività, si veda R. NISBETT, Community and Power, Oxford
University Press 1962.
ORDINE, VENDETTA, PENA
111
giustizia gestita in maniera monopolistica e burocratica,
che favorisce di fatto il senso di allontanamento e di deresponsabilizzazione dell’individuo rispetto ai fenomeni di
devianza che interessano il suo ambiente sociale.
La giustizia riparativa tipica della mediazione penale avrebbe poi lo scopo di riportare la vittima al ruolo di
protagonista dell’evento. La restorative justice nasce infatti storicamente anche come risposta alla crescente marginalizzazione, nella giustizia penale contemporanea, della
persona che è stata concretamente danneggiata dall’azione
del reo: la vicenda personale della vittima, nella normale gestione processuale del conflitto, non sarebbe altro che
una ‘mera occasione per l’attivarsi della reazione anti criminosa’82. Howard Zehr parla in proposito di ‘rivoluzione
copernicana’ del diritto penale83: occorre rimettere al centro della vicenda criminosa la persona che l’ha generata
e la persona che l’ha subita, recuperando la dimensione
interpersonale del conflitto. I due momenti fondamentali
del dialogo sarebbero perciò la presa di responsabilità per
l’atto commesso (taking responsibility) e la riparazione
dei danni cagionati secondo modalità concordate (making
things right).
Scopo della mediazione dovrebbe essere quindi la
promozione di una comunicazione tra le parti che generi,
in caso di successo, una ‘restaurazione’ della situazione
bilaterale. L’espressione richiama l’idea civilistica dell’eliminazione, per quanto possibile, delle conseguenze negative del fatto ingiusto: ma nella mediazione penale c’è in più
l’elemento che le parti devono volgere l’attenzione al futuro dei loro rapporti per evitare che la crisi che li coinvolge
nel momento presente possa ripresentarsi. La riparazione
F. REGGIO, Restorative justice e controversia penale, in Audiatur et
Altera Pars, a cura di F. Puppo, M. Manzin, Milano 2008, 370.
83
H. ZEHR, op.cit., 56.
82
112
PARTE SECONDA
concordata dovrà perciò ricomprendere anche elementi
di accordo sul prossimo corso della relazione. La mediazione dovrebbe insomma permettere di superare la logica
del castigo attraverso una lettura relazionale del fenomeno
criminoso, così da trovare una cura di esso che non passi
obbligatoriamente per la sola stigmatizzazione dell’autore.
Tanto la mediazione appare lontana dal moderno
modello penalistico-sanzionatorio, quanto sembra invece
recuperare alcuni elementi di base che caratterizzano la
più antica e universale procedura di gestione della conflittualità: la vendetta. Abbiamo visto come il lungo passaggio
storico dal sistema vindittuale al sistema penale statuale sia
consistito in una progressiva ricerca di forme specializzate
per governare la violenza nelle relazioni attraverso la legge: la vendetta continua a coesistere con il nascente sistema
penale per lungo tempo e comincia a tramontare solo con
il sorgere degli stati assoluti84, momento nel quale l’amministrazione della giustizia viene avocata a sé dal sovrano.
A ben vedere, tracce della concezione vindittuale della
giustizia penale sono rinvenibili anche in epoche meno remote: in Italia, sino a pochi decenni fa, la commissione di
un delitto perpetrato al fine di salvaguardare l’onore (ad
esempio l’uccisione del coniuge adultero, o dell’amante di
questi, o di entrambi) era sanzionata con pene attenuate
rispetto all’analogo delitto di diverso movente, poiché si riconosceva che l’offesa all’onore arrecata da una condotta
‘disonorevole’ valeva come gravissima provocazione, e che
la riparazione non causava riprovazione sociale eccessiva.
Ancora, il rapimento era in qualche modo ‘sanato’ dal matrimonio avvenuto tra il reo e la vittima del sequestro.
84
J. Huizinga riporta esempi di riparazioni/punizioni dal valore rituale
simbolico ancora in età basso medievale: “Il carattere formale inerente all’espiazione e alla vendetta faceva si che il torto commesso si potesse riparare con
punizioni simboliche”. Cfr. Autunno del Medioevo, Milano 1998, pp. 333–334.
ORDINE, VENDETTA, PENA
113
C’è poi un’altra differenza fondamentale tra i due sistemi: mentre la giustizia penale isola e separa i protagonisti del conflitto, cercando così di non turbare ulteriormente l’ordine complessivo, la vendetta-riconciliazione tende a
riconoscere l’altro, promuovendo così indirettamente una
ricompattazione del tessuto sociale. Il diritto penale ha
come scopo la prevenzione-repressione, quindi si concentra
soprattutto nel momento punitivo del reo. Nella giustizia
riparativa, il ruolo del reo è invece notevolmente diverso:
invece di ‘sprecarlo’ recludendolo, si cerca di orientarlo
alla restorazione delle utilità (morali, materiali, ecc.) della
vittima e di non ridurlo a un semplice centro di imputazione di sanzioni. In generale, mentre la giustizia retributiva
guarda al passato e ritiene che ristabilire l’ordine sia soprattutto attribuire responsabilità e comminare sanzioni,
la giustizia riparativa guarda al futuro e cerca di curare il
danno nella prospettiva della relazione reo-vittima.
La storia del diritto penale è in gran parte una storia di prevenzione generale e speciale del crimine che mira
all’incapacitazione dell’agente di reato85 tramite politiche
di neutralizzazione basate sulla minaccia e/o sull’uso della
forza, senza intervenire sulle precondizioni che generano
la situazione delittuosa. Da questo punto di vista, è invece
proprio il diritto penale che appare incapace di riabilitare
soprattutto perché segrega il reo, separandolo dalla società
e soprattutto dalla sua vittima: qualsiasi forma di riparazione è preclusa fin dall’inizio, perché se i soggetti coinvolti non possono comunicare, la vittima non può spiegare la
forma di restituzione cui aspirerebbe, né può il reo prendere responsabilità rispetto al danno causato. Il reo perde
85
Così L. EUSEBI, La riforma del sistema sanzionatorio penale: una
priorità elusa? Sul rapporto fra riforma penale e rifondazione della politica
criminale, in PICOTTI L., SPANGHER G. (a cura di), Verso una giustizia penale
conciliativa, Milano 2002, p. 17.
114
PARTE SECONDA
insomma la possibilità di riparare sia materialmente che
moralmente.
Non pochi sono gli elementi che, al di sopra della pena
retributivo/rieducativa, sembrano avvicinare la vendetta e
la mediazione penale. Le strategie di entrambe si sviluppano attraverso complesse tattiche di allontanamento-riavvicinamento dei protagonisti della vicenda volte a creare/
ricreare la relazione tra i soggetti del conflitto. Comporre
la vicenda significa letteralmente aggiustarla, cioè cercare di ‘fare giustizia’ attraverso un metodo che consenta di
non generare ulteriore disordine. Troncare lo scambio,
come avviene di fatto nella logica processuale, comporta
chiaramente il venir meno del contatto, per quanto problematico, relazionale e comunicativo. Sia la vendetta che la
mediazione mettono poi al centro della risoluzione le parti.
Il protagonismo dei soggetti è forse la novità principale introdotta della pratica di mediazione: la vittima, espropriata della vicenda nel procedimento penale, ne riacquista il
controllo nella mediazione così come nella vendetta. Può
negoziare la forma che considera più appropriata di riparazione, può confrontarsi direttamente con l’autore del reato, e infine può davvero verificare che gli obblighi assunti
vengano rispettati.
Entrambe consistono in una soluzione del conflitto di
tipo non aggiudicativo. L’alternativa al risultato vincitore/
vinto è ottenuta percorrendo un doppio binario: da un lato
la collettività di riferimento, riconoscendo l’avvenuta violazione dell’ordine, vigila sulla doverosa vendetta dell’offeso. La ritorsione viene però autorizzata non con riguardo
al giudizio di colpevolezza di un individuo, ma sulla base
della violazione oggettivamente consumata: questa giustifica la vendetta della famiglia che ha subito il torto, e solo a
questa giustificazione la società è chiamata a partecipare.
Non si tratta di disinteresse per le sorti dei protagonisti,
ORDINE, VENDETTA, PENA
115
ma solo del prendere atto della loro esclusiva competenza a
risolvere il trauma interfamiliare86. Il trauma potrà essere
guarito solo dai diretti interessati, gli unici a poter giudicare la sua estensione e la cura necessaria a sanarlo. In
altri termini, il gruppo sociale verifica che sia rispettata la
quantità di vendetta ammissibile per il tipo di conflitto, ma
lascia che le modalità di essa siano interamente nella disponibilità dei protagonisti. Questo modello in qualche modo
ritorna nella mediazione moderna, così come disciplinata
nei vari ordinamenti che la prevedono: il legislatore fissa
le linee guida entro le quali muoversi, le parti decidono le
modalità della composizione.
In entrambe manca poi il giudice, il terzo estraneo
alla controversia dotato di poteri decisionali. Nella mediazione, il terzo neutrale non ha il compito di attribuire responsabilità e di sanzionarne i portatori, ma si colloca in
posizione intermedia tra le parti per aiutarle a focalizzare
il percorso di composizione intorno a soluzioni condivise87.
Analogamente, nel sistema vindittuale troviamo presenze
neutrali con ruolo di negoziatori o di veri e propri ‘saggi’ che, ricordando alle parti le regole di comportamento
del gruppo sociale di appartenenza, le aiutano a portare
la controversia entro i confini di ragionevolezza necessari
perché si possa giungere a una ‘giusta vendetta’.
Un elemento fondamentale distingue tuttavia nettamente la vendetta dalla mediazione penale; elemento che
attiene alla modernità individualizzante e relazionale di
quest’ultima, rispetto all’antichità esclusivamente riordinatrice della prima. Lo scopo ultimo della mediazione è il
raggiungimento di una metanoia, di un cambiamento della
mente nei protagonisti del conflitto: non solo nel reo, ma
86
87
Si veda in proposito E. CANTARELLA, Itaca, Torino 2004.
Cfr. R. FISHER, W. URY, Getting to Yes. New York 1991, 12 ss.
116
PARTE SECONDA
anche nella vittima. È lo stesso fine cui vorrebbe tendere
la visione della pena come ‘rieducazione’ del condannato,
perseguito però attraverso un percorso dialogico non stigmatizzante e personalizzato.
Nel passaggio dalla vendetta alla pena, per la prima
volta l’attenzione della collettività viene indirizzata sul
colpevole e distolta dalla vittima e dall’atto di aggressione.
Ma, pur cambiando il punto di osservazione, non cambia
la sostanza, in quanto il diritto penale mira comunque, attraverso le sue sanzioni, a soddisfare il desiderio di rappresaglia della comunità, sostituendosi ad essa nella sua
esecuzione88. La pena non è che la vendetta esercitata monopolisticamente dal potere dello stato, per definizione il
più forte. La mediazione penale può forse essere intesa appunto come una ‘buona vendetta’, perché di questa cerca
di recuperare il solo aspetto riparativo superando quello
strettamente retributivo.
7. La vittima, il reo e la comunità
La concezione della mediazione penale come metodo
di risoluzione delle controversie alternativo al processo e
basato sull’immagine della buona vendetta, si proietta sullo sfondo della distinzione tra giustizia retributiva e giustizia riparativa89. Due concezioni della giustizia penale che
realizzano sul piano ordinamentale differenti visioni della
funzione giurisdizionale all’interno dello stato di diritto.
La giustizia retributiva affonda le sue radici nel modello ancestrale della lex talionis: alla condotta criminosa
88
R. Girard definisce la pena inflitta dallo stato come “violenza senza
rischio di vendetta”: La violenza e il sacro, trad. it. Milano 1980, 33.
89
Cfr. A. EGLASH, Beyond Restitution: Creative Restitution, in Restitution in Criminal Justice, a cura di J. Hudson e B. Galaway, Lexington 1977.
Cfr. anche G. MANNOZZI, La giustizia senza spada, Milano 2003, 44.
ORDINE, VENDETTA, PENA
117
corrisponde l’irrogazione di una sanzione proporzionata
al male commesso/causato, tale da realizzare la punizione
dell’autore del reato. Questo modello di giustizia, quasi
tanto antico quanto la nascita di gruppi umani sociali stabili, si consolida all’epoca della formazione dei moderni stati assoluti ed è rivolto a colpire il conflitto come disordine
potenzialmente disgregatore dello stato stesso90. Essendo il
conflitto sociale concepito solo come fattore destrutturante, la giustizia penale retributiva ha come scopo principale
la predisposizione di rimedi repressivi tramite l’isolamento e la neutralizzazione dei protagonisti di esso. La punizione è l’unica risposta possibile, poiché tende a reprimere la
violazione che minaccia la vita pacifica dei consociati e contemporaneamente dovrebbe agire da deterrente per tutti
coloro che ancora non si sono resi responsabili di violazioni
dell’ordine costituto. In questa visione della giustizia non
c’è spazio per la considerazione dei fattori che hanno generato il conflitto, che non viene interpretato come situazione
patologica derivata, bensì originaria e come tale da trattarsi separatamente rispetto alla restante parte di società non
deviante.
La concezione sociale che sta alla base del modello
riparativo tende invece a prendere in considerazione il
conflitto nella sua dimensione globale: è “un paradigma di
giustizia che coinvolge la vittima, il reo e la comunità nella
ricerca di soluzioni, allo scopo di promuovere la riparazione del danno, la riconciliazione tra le parti e il rafforzamento del senso di sicurezza collettivo”91. Obbiettivo della
giustizia riparativa è infatti la cura delle cause che hanno
generato il conflitto, attraverso il superamento dell’identi90
E. RESTA, Conciliare, giudicare, mediare, in Il coraggio di mediare, a
cura di F. Scaparro, Milano 2001, 21.
91
A. CERETTI, F. DI CIÒ, G. MANNOZZI, Giustizia riparativa e mediazione
penale, in Il coraggio di mediare, cit., 309.
118
PARTE SECONDA
ficazione del reato con la semplice violazione della norma
giuridica: una semplificazione derivata dall’influenza delle
teorie positivistiche sul reato e sulla pena, che non tiene
conto delle altre numerose conseguenze connesse all’evento offensivo, soprattutto nella prospettiva della vittima del
reato.
Nell’ottica non riduttiva di una visione globale del
conflitto privilegiata dalla mediazione penale, è possibile
invece far emergere quelli che sono considerati i principali
scopi di politica criminale del modello riparativo92:
1. Il riconoscimento della vittima.
2. La riparazione dell’offesa nella sua dimensione patrimoniale ed emotiva.
3. L’autoresponsabilizzazione del reo e il conseguente
consenso alla riparazione.
4. Il coinvolgimento della comunità nel processo di
riparazione.
5. Il rafforzamento degli standard etici collettivi.
6. Il contenimento dell’allarme sociale.
I diversi modelli di giustizia riparativa possono privilegiare maggiormente l’uno o l’altro di questi scopi.
Essi tuttavia coesistono tutti nella mediazione penale in
quanto strategia di gestione della complessità del conflitto
che cerca di superare la rigidità dicotomica della processualità standard. In estrema sintesi, è possibile riunire i
diversi scopi che si propone la giustizia riparativa in due
grandi gruppi: quello dei risultati a beneficio della vittima
e dell’offensore; quello dei risultati a beneficio dell’intera
comunità di appartenenza dei soggetti coinvolti nel fatto
criminoso. Il modello si modifica in funzione dell’obbiettivo prevalente.
92
G. MANNOZZI, op.cit., 102 ss.
ORDINE, VENDETTA, PENA
119
Nelle società tradizionali strutturate intorno al nucleo-base del clan familiare, il conflitto si presenta non solo
come una contrapposizione di opinioni (condotta giusta/
condotta sbagliata), ma soprattutto di identità: gli appartenenti ai diversi gruppi si schierano quasi automaticamente
a fianco del proprio consociato. Il retaggio di questa giustizia sostanzialista basata sull’appartenenza, comunitaria e
partecipativa, sopravvive ancora oggi; perfino in Occidente. Scarseggiano però i luoghi pubblici in cui poterlo esprimere liberamente e ‘correttamente’, perché il formalismo
proceduralista su cui si fonda il moderno modo di amministrazione della giustizia pubblica-ufficiale presuppone
proprio la distanza da queste componenti ancestrali. Ne
consegue il senso di frustrazione che deriva dalla negazione
della partecipazione a una vicenda che offende, nel sentire collettivo, l’intero gruppo. Frustrazione che alimenta la
diffidenza verso la giustizia pubblica-ufficiale e la tendenza
verso incontrollabili sanzioni sociali.
Uno degli obbiettivi delle varie forme di mediazione
penale è appunto quello del coinvolgimento della comunità
nel processo di riparazione. La comunità è chiamata a svolgere non più semplicemente il ruolo passivo di destinataria
delle norme incriminatrici a livello generale e della riparazione a livello particolare, bensì diventa attore sociale
nel percorso di composizione vittima-offensore93. Naturalmente gli interessi della vittima e della comunità possono
concretizzarsi in bisogni molto diversi. La vittima vive il
reato e le sue conseguenze come eventi puramente personali e ne elabora le conseguenze dirette sulla sua vita privata
e pubblica. La comunità vede invece nel reato soprattutto un attacco alla propria sicurezza, intesa come l’insieme
delle politiche dirette alla salvaguardia dell’integrità fisica
93
Cfr. A. CERETTI, F. DI CIÒ, G. MANNOZZI, op.cit., 312.
120
PARTE SECONDA
e patrimoniale dei suoi appartenenti. Alla commissione di
un crimine, scatta a livello sociale una domanda di sicurezza rivolta alle istituzioni, alle quali si chiede spesso un inasprimento delle pene e un rafforzamento dei controlli. Esse
tuttavia possono fornire solo una risposta giurisdizionale,
percepita dai consociati come lenta, inefficace, macchinosa. Intanto il disagio cresce, alimentato dalle distorsioni e
dalle enfasi allarmistiche diffuse dagli organi d’informazione. È in quest’ambito che la presenza di strumenti di
giustizia riparativa potrebbe determinare un certo contenimento dell’allarme sociale, in relazione almeno ad alcune
categorie di reato.
Le strategie di giustizia riparativa pongono necessariamente al proprio centro l’importanza di una corretta
comunicazione sociale. Nel processo comunicativo, la comunità può davvero riacquistare un senso di sicurezza
sociale attraverso due vie: da un lato, sapere cosa sia veramente accaduto serve a contenere il diffondersi di esagerazioni e inutili allarmismi; dall’altro, dei consociati effettivamente informati e consapevoli sono più propensi a
ritenere che le istituzioni comprendano realmente le loro
legittime preoccupazioni circa gli eventi che si verificano
nel loro territorio94. Il ruolo delle comunità in tal senso è
stato ad esempio riconosciuto dall’ECOSOC, il Consiglio
Economico delle Nazioni Unite, nella risoluzione n.12 del
2002: Basic principles on the use of restorative justice programs in criminal matters95.
Sempre nell’ambito delle politiche riparative promosse dalle Nazioni Unite, si possono poi ricordare i principali
94
Sull’argomento si veda P. MCCOLD, Restorative Justice and the Role
of Community, in Restorative Justice. International Perspectives, a cura di B.
Galaway, J. Hudson, New York 1996, 401.
95
L’art. I della risoluzione definisce infatti “parti della controversia” il
reo, la vittima e la comunità.
ORDINE, VENDETTA, PENA
121
strumenti di intervento della giustizia partecipativa elencati dall’ISPAC96 a seguito della Dichiarazione di Vienna
(risoluzione n. 14 del 2000):
a) VIS (Community/Neighborhood Victim Impact Statements): la vittima di un determinato reato racconta come
questo abbia influenzato la sua vita sul piano personale ed
economico. Il VIS è generalmente diretto all’autorità competente a decidere sulla concessione della libertà vigilata
(parole), ma può essere anche l’occasione per creare un
tavolo di discussione sull’impatto sociale del tipo di reato
all’interno della comunità di appartenenza della vittima.
b) Community Restorative Board: un piccolo consiglio
composto da abitanti di una comunità, formati attraverso
un programma istituzionale, conducono dei colloqui con il
reo sull’evento e le sue conseguenze, allo scopo di concordare una serie di misure riparative attraverso un accordo
scritto che viene poi presentato all’autorità giudiziaria a
scopo informativo.
c) Community/Family Group Conferencing: a questa
procedura di mediazione partecipano, oltre alle parti direttamente interessate, le famiglie dei protagonisti o, nella
forma ancora più allargata, alcuni rappresentanti della comunità. Anche in questo caso i colloqui vertono sul reato,
le sue conseguenze e le possibili riparazioni.
d) Community Sentencing Circles: si tratta di una
forma di processo pubblico nel quale, nei casi più gravi,
la comunità partecipa accanto all’autorità giudiziaria alla
vicenda processuale e decide, insieme con le altre parti,
un programma di riparazione a beneficio di tutte le parti
lese.
L’ISPAC, International Scientific and Professional Advisory Council,
è il Consiglio delle Nazioni Unite per le politiche di prevenzione del crimine e
per i programmi di giustizia penale.
96
122
PARTE SECONDA
Accanto a questi istituti c’è poi tutta una serie di procedure centrate quasi esclusivamente sul momento riparativo inteso come restituzione pratica e che fanno parte in
genere degli accordi stipulati con il Board o con il Council:
in particolare possiamo ricordare la prestazione di lavoro,
da parte del reo, a favore della comunità; la prestazione
di lavoro a favore della vittima; i compensation programs,
con i quali si compensano i danni da reato attraverso il pagamento delle spese mediche, di assistenza psicologica, ecc.
La stragrande maggioranza, per non dire la quasi totalità,
dei programmi descritti provengono dal mondo di common
law, in particolare statunitense, e afferiscono al bacino
delle procedure riparative. Solo il Conferencing Group
realizza una vera e propria mediazione, poiché è l’unica
esperienza nella quale le parti vengono aiutate a sviluppare
un dialogo e il conseguente programma riparativo con l’assistenza di un mediatore.
È chiaro come tutte queste procedure possano svilupparsi solo in presenza di un reale tessuto comunitario che
sia in grado di occuparsi della propria sicurezza accollandosene in buona parte la responsabilità della gestione. È
insomma necessario un contesto in cui il desiderio di ‘fare
giustizia’ in maniera autonoma sia ancora forte e diffuso:
si tratta ‘solo’ di incanalarlo verso forme non direttamente aggressive, ma dialogiche e partecipative. In Occidente,
questi tipi di situazione sociale sono rari; e spesso vengono
percepiti come pericolose forme di regressione verso una
responsabilità oggettiva e collettiva in luogo della moderna
responsabilità soggettiva e individuale97.
97
All’opposto, la cultura orientale, specie quella cinese, guarda tradizionalmente con diffidenza ai metodi esclusivamente legali-formali di gestione
dei conflitti centrati sulla sola responsabilità dell’agente individuale. Rinvio in
proposito al mio Invece di giudicare, Milano 2007, 145 ss.
ORDINE, VENDETTA, PENA
123
8. Vittimologia e abolizionismo processuale
Riconoscimento della vittima, riparazione globale
dell’offesa, autoresponsabilizzazione del reo: questi sono
dunque gli scopi che il modello riparativo si propone di
perseguire attraverso i programmi di riconciliazione diretti alla vittima del reato e all’autore di esso. La personalizzazione del conflitto, che è alla base della teoria riparativa, ha significativamente contribuito alla diffusione della
mediazione come strumento alternativo o concorrente al
processo. Tale risultato non sarebbe stato possibile se due
importanti correnti socio-giuridiche di pensiero non avessero in qualche modo raccolto e fatta propria la sfida della
‘giustizia senza spada’, fornendole sostegno teorico e pratico. Ci riferiamo in particolare agli studi di ‘vittimologia’
e alle teorie sull’abolizionismo processuale.
È un dato di fatto che le istituzioni pubbliche lascino
la vittima del reato sola ad affrontare la realtà del procedimento penale. Tale problema comincia ad essere particolarmente avvertito negli Stati Uniti e in Gran Bretagna,
dove tra gli anni ‘60 e gli anni ‘70 del XX secolo si verificano massicce ondate migratorie. Il crescente fenomeno
dell’immigrazione clandestina, specie negli USA alimentava il senso di insicurezza della popolazione urbana e la domanda di politiche di sicurezza e di controllo adeguate. Nel
clima di allarme sociale alimentato dall’incremento della
criminalità, a torto o a ragione attribuito comunque agli
immigrati, le vittime continuavano e restare dimenticate:
agli occhi di un pubblico preoccupato, il reo è in tutti i sensi
molto più interessante98.
98
Sul punto, diffusamente, R. I. MAwby, M. L. Gill, Crime Victims, London 1987. Sulla rimozione ‘lessicale’ della vittima nella legislazione penale italiana , si veda L. Lanza, La vittima nel sistema penale, in Tutela della vittima
e mediazione penale, a cura di G. PONTI, Milano 1995, 28.
124
PARTE SECONDA
La macchina oggettivante e neutralizzatrice del processo contribuisce ovviamente a scoraggiare una reale partecipazione dei diretti interessati alla vicenda. Se la verità è
tanto meglio accertata quanto più la formazione delle prove nel dibattimento avviene senza condizionamenti emotivi, è naturale che la persona offesa dal reato e l’autore di
questo siano per la maggior parte del tempo isolate l’una
dall’altro e anche spesso dal giudice. Soprattutto nel caso
dei reati gravi contro la persona, la parte lesa viene vista
portare con sé un bagaglio di traumi causati dalla condotta
criminosa, potenzialmente in grado di influenzare emotivamente lo svolgimento del processo, quindi la formazione
delle prove e la stessa decisione del giudice: il formalismo
processuale tende inevitabilmente a sterilizzare i casi concreti trasformandoli in modelli. Al termine del percorso
processuale, alla vittima rimane semplicemente una compensazione simbolica (la condanna e la pena dell’aggressore) e una compensazione materiale nella forma di un risarcimento economico, entrambe spesso inadeguate a riparare
il danno esistenziale subito99.
Il termine ‘vittimologia’ viene utilizzato per la prima
volta dallo psichiatra americano Fredric Wertham, nel
contesto di una pionieristica indagine di “sociologia della
vittima”100. Specialista in perizie criminologiche su pluriomicidi, Wertham sosteneva la necessità di recuperare,
all’interno del trattamento terapeutico del delinquente, il
ruolo della vittima come imprescindibile elemento di valutazione del comportamento deviante da parte della società
di riferimento.
99
La giurisprudenza americana, mostrando di recepire la risoluzione
ONU 40/34 del 1985, tipizza il danno esistenziale in questi termini: loss of the
capacity for enjoying life; loss of the value of life; loss of enjoyment of life.
100
F. WERTHAM, The Show of Violence, Doubleday, New York 1949, p.
102 ss.
ORDINE, VENDETTA, PENA
125
Più tardi Benjamin Mendelsohn descriverà la vittimologia come una nuova branca delle scienze sociali diretta allo studio sia delle cause patogene che scatenano la
commissione del reato, sia dell’evento criminoso in quanto
relazione che genera sofferenza nella vittima101. La vittimologia si propone insomma di studiare la personalità, le
caratteristiche psicologiche, le interrelazioni della vittima
con l’autore del reato, al fine di identificare i danni causatele e l’eventuale parte avuta nella genesi del delitto102.
È la prima volta che la criminologia si dedica a uno studio
relazionale delle dinamiche tra la vittima e il mondo circostante: l’autore del reato, le istituzioni, i consociati.
La riscoperta della vittima è insomma anche la riscoperta del suo ruolo nell’evento relazionale del reato. Già
Freud aveva descritto la ‘sindrome di Abele’103 come la predisposizione a subire passivamente un destino di violenza.
Mendelshon classifica le vittime a seconda del loro grado di
‘partecipazione’ al reato104: interamente innocenti, collaboratrici (comportamenti provocatori, impudenti, imprudenti), autrici (simulatrici). Non si tratta ovviamente di voler colpevolizzare la vittima e simmetricamente deresponsabilizzare il reo: è un tentativo di migliorare le prognosi
vittimologiche, allo scopo di approntare una più efficace
politica di sicurezza. Altre correnti vittimologiche si occupano della tipizzazione del reato, distinguendo tra reati
non relazionali e reati di relazione. I primi sarebbero quelli
con vittima non individualmente mirata, come ad esempio
101
B. MENDELSHON, Une Nouvelle Branche de la Science Bio – psycho –
sociale, la Victimologie, Ginevra 1959.
102
Cfr. la voce “Vittimologia”, a cura di G. PONTI, in Compendio di criminologia, Milano 1999, 634. Si veda anche G. GULOTTA, La vittima, Milano
1976, 467, dove si parla di “coppia penale come situazione relazionale”.
103
S. FREUD, Introduzione alla psicanalisi, Torino 1983.
104
B. MENDELSHON, op.cit., 106 ss..
126
PARTE SECONDA
di solito nel furto; i secondi invece quelli in cui il rapporto
vittima-aggressore è in varia misura determinante per la
realizzazione della condotta criminosa e delle sue modalità
di esecuzione: un esempio può essere la truffa, dove il reo
raggira la vittima attraverso lo sfruttamento di un suo punto debole, indispensabile per portare a termine il disegno
criminoso. Sono quei reati in cui il danno è aggravato dalla
sensazione di tradimento.
La vittimologia più recente mostra però segni di insofferenza verso questi tipi di approccio, soprattutto per i
rischi che comportano di trascinare in sede processuale la
persona offesa in una battaglia sulla conta delle responsabilità105. Lo scopo primario non è infatti quello di spingere
per un inasprimento delle pene o delle quantificazioni dei
risarcimenti, ma quello di costruire dei percorsi di riparazione che possano aiutare la vittima a elaborare l’evento traumatico del reato e le conseguenze sulla sua qualità
della vita. La vittimologia più recente è centrata sullo studio del momento della vittimizzazione, intesa come presa
di coscienza da parte della persona offesa di essere stata
protagonista di un evento lesivo della sua sfera personale,
psicologica, fisica e affettiva106. Non di rado la vittima tende a colpevolizzarsi per quanto le è accaduto107, con conseguenze negative non solo sulla sua psiche, ma anche con
ripercussioni in ambito sociale: la vittimizzazione negativa
della persona che ha subito l’aggressione la porta in primo
luogo a non collaborare con l’autorità giudiziaria, ad esempio omettendo la denuncia; in secondo luogo, la cosiddet-
Sul problema si veda G. GULOTTA, op. cit., 76.
Cfr. G. MANNOZZI, op.cit., 48. Si veda inoltre D. SCATOLERO, “Gli interventi sociali in favore della vittima”, in Tutela della vittima e mediazione
penale, a cura di G. PONTI, Milano 1995, 129.
107
Fenomeno che si verifica con un’alta frequenza nei delitti sessuali. Si
veda in generale W. RYAN, Blaming The Victim, New York 1971.
105
106
ORDINE, VENDETTA, PENA
127
ta post–crime victimization, la vittimizzazione secondaria
prodotta dalla risonanza pubblica del processo, può determinare nei consociati dei comportamenti di tipo omertoso, dei pregiudizi negativi nei confronti della vittima, e
in definitiva la profonda violazione della privacy di una
persona che già ha avuto da soffrire per il comportamento
delittuoso del quale è stata oggetto. La strategia alternativa
dovrebbe consistere nell’aiutare a rielaborare in senso positivo l’esperienza di vittimizzazione, soprattutto portando la vittima ad accettare la posizione di impotenza nella
quale il crimine l’ha posta e in particolare a comprendere
il senso della perdita delle sicurezze che prima la sorreggevano. Attraverso il percorso di vittimizzazione positiva
la vittima accetta il vissuto traumatico connesso al reato,
secondo una triplice perdita: perdita del controllo della
propria vita; perdita dei sistemi sociali di difesa, aiuto e
cooperazione; perdita del precedente benessere psicologico, fisico, patrimoniale. La persona offesa deve insomma
cercare di accettare la sua incapacità, al tempo del compimento del reato, di attivare le misure necessarie a difesa
del bene violato.
La prospettiva vittimologica modifica la stessa nozione tecnico-giuridica di vittima in quanto soggetto titolare
del bene giuridico protetto dalla norma penale, che è stato
direttamente leso dall’evento delittuoso. La vittima ha una
dimensione individuale o collettiva, primaria o secondaria.
È individuale quando il reato colpisce una singola persona
fisica o giuridica; è collettiva in tutti quei delitti qualificati
come crimini contro la comunità o addirittura l’umanità, e
nei cosiddetti crimini allargati (crimini in campo economico, eterodiretti, che coinvolgono al limite un intero sistema
sociale). Per vittima primaria si intende la persona fisica
o giuridica che ha direttamente subito la commissione del
reato; le vittime secondarie sono tutti coloro che in varia
128
PARTE SECONDA
misura risultano indirettamente danneggiati dal reato108.
La vittimologia allarga il campo dei soggetti tutelabili, riattribuendo dignità di protagonisti del fatto a tutte le persone
in qualche modo lese dalla condotta delittuosa.
Nella prospettiva vittimologica, anche l’offesa e la sua
portata lesiva viene globalmente riconsiderata nelle forme
del danno primario e del danno secondario109. Il danno
primario è la conseguenza immediata del reato, e può consistere nell’alterazione psicologica (stati d’ansia, panico,
paura, depressione), non solo in quella fisica o patrimoniale. Il danno secondario è invece frutto della vittimizzazione secondaria, cioè degli effetti prodotti sulla vittima,
già sofferente e quindi più vulnerabile, dall’indifferenza o
dal pregiudizio delle istituzioni e della società di riferimento. La riparazione globale, obiettivo primario del modello
riparativo-restitutivo, può essere assicurata solo a partire
da una concezione del danno stesso che non si riduca alla
sua mera dimensione patrimoniale: è fondamentale che la
vittima possa esprimere la sua percezione del danno subito sul piano anche psicologico e sociale, attraverso la presa di coscienza dell’essere stata protagonista di un evento
vittimizzatore. Riconoscere la vittima significa, nell’ottica riparativa, riconoscere la globalità del danno e quindi
prendere atto del condizionamento che l’evento delittuoso
esercita sulla sua esistenza.
Il concetto di “vittima secondaria” è accolto anche dalla risoluzione
ONU 40/34 del 1985, Declaration of Basic Principles of Justice for Victims of
Crime and Abuse of Power, all’art. 2: “[…] The term victim also includes,
where appropriate, the immediate family or dependant of the direct victim”.
Si veda, in tema, P. MCCOLD, Restorative Justice: Variations on a Theme, in
Restorative Justice for Juveniles, a cura di L. Walgrave, Leuven University
Press 1998, 87: si considerano vittime secondarie anche i parenti stretti del reo
e come tali “entitled to partecipate at the restorative experience”.
109
G. MANNOZZI, op. cit., p. 76. Cfr. GATTI U., MARUGO I., La vittima e la
giustizia riparativa, in Marginalità e Società, 1994, n. 27, 37.
108
ORDINE, VENDETTA, PENA
129
L’altro protagonista necessario del percorso riparativo è ovviamente l’autore del reato. Il ‘furto dei conflitti’110
che si verifica nel modello standard del processo, penalizza
infatti non solo la vittima, che viene derubata della possibilità di ristabilire il contatto sociale e personale turbato dal
delitto, ma anche il reo, che viene privato della possibilità
di riparare concretamente e/o moralmente al male compiuto. Di fronte a lui si apre prevalentemente un percorso
carcerario che difficilmente potrà portarlo a una qualche
riabilitazione o rieducazione, perché non può esserci vero
ravvedimento dove manca la comprensione del significato
e delle conseguenze della propria condotta. Per questo la
giustizia riparativa non può dimenticarsi del reo: è il necessario co-protagonista della gestione del conflitto, perché
una vera riparazione risulterà possibile solo se verrà posta
in atto quella condotta che possa risultare la più idonea a
risolvere la crisi relazionale sul piano sia morale che materiale.
Per questo motivo, qualsiasi attività di riconciliazione
e mediazione si fonda anzitutto sul consenso delle parti, e
il consenso dell’autore del reato ha una valenza particolare: consentendo ad avviare un processo di riparazione,
egli ammette implicitamente la propria responsabilità nella
produzione dell’evento criminoso e nelle sue conseguenze
dannose. Il momento del taking responsibility è centrale
per tutte le parti in gioco. Anche la vittima, dinanzi a un’esplicita ammissione di responsabilità/colpevolezza, potrà
forse ridimensionare la propria esperienza di vittimizzazione negativa e rafforzare l’immagine di persona offesa
dal reato, avviandosi così meglio verso il graduale superamento del trauma.
L’espressione è stata utilizzata da N. CHRISTIE, Utility and Social Values in Court Decisions on Punishment, in Crime, Criminology and Public Policy, a cura di R. Hood, Heinemann, 1974, 281ss.
110
130
PARTE SECONDA
La mediazione si prende dunque cura della vittima111:
le consente una comprensione diretta dell’offensore e del
movente del reato; le offre l’esperienza delle scuse e dell’eventuale pentimento dell’aggressore; le riserva il “privilegio
del perdono”112, che una saggezza non infondata considera
‘la miglior vendetta’. Il ristabilimento della comunicazione
tra le parti favorito dal mediatore, permette alla vittima di
conoscere chi è l’aggressore: “com’è fatto” e “perché l’ha
fatto”. Per chi ha vissuto l’aggressione più come una violazione della propria privacy che come un danno economico,
questa è un’esperienza che nessuna sentenza di risarcimento danni potrà mai offrire. L’incontro mediativo, insomma,
comporta la messa in discussione degli stereotipi in base ai
quali reo e vittima tendono a percepirsi113, soprattutto a
causa dell’imprigionamento in un ruolo giuridico precostituito fondato sulla contrapposizione e la separazione.
Eliminando i pregiudizi e interrompendo il meccanismo di neutralizzazione instaurato dal processo, la mediazione ha effetti responsabilizzanti per entrambi i soggetti.
È la stessa questione della responsabilità penale che viene
messa in discussione: perché nel contesto della mediazione
non si tratta più tanto di essere ritenuti responsabili di o
per qualcosa, ma di percorrere un itinerario che intende
condurre le parti in conflitto a sentirsi responsabili verso;
a rispondere l’uno all’altro. La mediazione riuscita crea
Si veda, ad es., H. REEVES, The victim-support perspective, in M.
WRIGHT e B. GALAWAY (eds.), Mediation and Criminal Justice. Victims, Offenders and the Community, London 1989.
112
Cfr. T. F. MARSHALL e S. MERRY, Crime and Accountability. Victim\
Offender Mediation in Practice, London 1990.
113
La vittima ha del reo un’immagine ‘lombrosiana’, amplificata dalla
distanza e dalla separazione: è il deviante, aggressivo e temibile; anche fisicamente ripugnante. Il reo tende invece a giustificarsi immaginando la vittima
come un soggetto senza problemi economici, in grado perciò di superare facilmente il danno causatogli.
111
ORDINE, VENDETTA, PENA
131
un fenomeno di empatia, per cui ciascuno dei due soggetti,
in un certo senso, si identifica con l’altro, si ‘mette nei suoi
panni’, sperimenta il vissuto della controparte. Ciascuno
restituisce all’altro la dignità di essere umano.
Una caratteristica importante della mediazione è infine la possibilità data al reo di riparare alle conseguenze
dannose del reato114. La riparazione consiste sia nel soddisfacimento degli interessi materiali della vittima - attraverso le restituzioni, il risarcimento del danno o il lavoro sostitutivo - sia nel soddisfacimento dei suoi bisogni psicologici:
nel negoziarne i contenuti, le parti realizzano in concreto la
riappropriazione del conflitto.
Nella riparazione è possibile cogliere anche degli elementi retribuzionistici: la prestazione riparativa sarebbe
in qualche modo la punizione volta a compensare direttamente il male commesso. Essa può ricordare la vendetta:
ma è una ‘buona’ vendetta, perché ha una natura positiva
- restitutiva - e non repressiva. La sua ratio non è infatti
quella di rispondere al male col male, perché con la riparazione si vuole piuttosto opporre al male un bene da parte
sia del reo verso la vittima (attraverso il lavoro, le restituzioni o il risarcimento, le scuse), che della vittima verso il
reo (attraverso la disponibilità a incontrarlo, evitandogli il
coinvolgimento nel sistema penale e le relative conseguenze, e offrendogli, in alcuni casi il proprio perdono). La riparazione, a differenza della pena, tenta realisticamente
di ridurre, per quanto è possibile, le conseguenze del male
commesso. Essa, come diceva Hegel, davvero ‘onora il reo
come essere razionale’, perché non gli infligge solo una letteralmente inutile sofferenza, o un trattamento che può risultare lesivo della sua dignità.
Cfr. in proposito, tra gli altri: MARSHALL - MERRY, op. cit.: 173-189; D.
WATSON – J.BOUCHERAT – G. DAVIS, Reparation for retributivists, in Mediation
and Criminal Justice, cit., 212 ss.
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SOFOCLE, Edipo re, Milano 1982.
SOFOCLE, Elettra, Venezia, 2004.
SOLOMON, R., Giustizia, compassione, vendetta, in La gioia della
filosofia, Milano 2008.
STOLFI, E., Introduzione allo studio dei diritti greci, Torino 2006.
THOMAS, Y., Se venger au forum. Solidarité traditionnelle et système
pénal à Rome, in La Vengeance, vol. III, a cura di G. Courtois,
Paris 1980.
TÜRCKE, C., Il sogno di Gesù, Torino 2013.
UMBREIT, M. S., Victim Meets Offender, New York 1994.
VERDIER, R., Le système vindicatoire, in La Vengeance, vol. I, a cura
di G. Courtois, Paris 1980.
VILLEY, M., La formazione del pensiero giuridico moderno, Milano
1985.
VON KLEIST, H., Michael Kohlaas, Milano 1952.
VOTRICO, A., Uccidersi per uccidere. Il suicidio per vendetta, Milano
2009.
WELZEL, H., Naturrecht und materiale Gerechtigkeit, Göttingen 1960
WERTHAM, F. The Show of Violence, Doubleday, New York 1949.
ZEHR, Changing Lenses: A New Focus for Crime and Justice, Scottsdale
1990.
INDICE DEI NOMI
Acerbi A.: 11n
Adkins A.W.H.: 76n, 79n, 87n
Adorno W.: 12
Anassimandro: 13, 87n
Anspach M.: 9
Antonucci D.: 105n
Aristotele 24-25, 30-31, 33, 86,
92-95
Bachofen J.J.: 17n
Bartolomei M.R.: 9n
Benedict R.: 75
Benjamin W.: 10n, 24
Biscardi A.: 83n, 85n, 86n
Bisi R.: 108n
Bloch M.: 43n
Bouchard M.: 59n, 108n, 109n
Boucherat J.: 131n
Bovati P.: 11n
Brunner O.: 41n, 57n
Campagnini M.: 106n
Canetti E.: 80n
Cantarella E.: 9n, 12n, 16, 18n,
27n, 80n, 83n, 86n, 90n, 96n,
115n
Cartesio: 47
Ceretti A.: 105n, 107n, 109n,
117n, 119n
Christie N.: 129n
Cicerone: 28, 39
Clastres P.: 67n
Cosi G.: 26n
Costa P.: 9n
Courtois G.: 74n
Damasio A.: 7n
Davis G.: 131n
De Lauri A.: 9n
De Romilly, J.: 21n
Deleuze G.: 2
Demostene: 86n
Di Ciò F.: 117n, 119n
Dodds E.: 15, 22, 74-76, 79n
Eglash A.: 116n
Eraclito: 14
Eschilo: 14, 17-18, 88
Esiodo: 88
Esmein A.: 102n
Euripide: 20-21
Eusebi L.: 11n, 113n
Faccioli B.: 108n
Fisher R.: 115n
Foddai M.A.: 88n
Forlenza F.: 8n
Foucault M.: 19, 42n, 44n, 51n
Fragapane S.: 8n
Freud S.: 36, 45, 125n
Gadamer H.: 60n
Galaway B.: 116n, 120n, 130n
Gatti U.: 128n
Gentile A.: 42
Gentile M.: 40n
Gill M.L.: 123n
Girard R.: 24, 44n, 50n, 116n
142
INDICE DEI NOMI
Glaucone: 23
Glotz G.: 81n
Goffman E.: 106n
Grozio U.: 45
Gulotta G.: 125-126
Haidt J.: 57n, 77n
Havelock E.A.: 79n, 83n, 87n
Hegel G.W.F.: 47, 53, 131
Heine S.: 76n
Henrich J.: 76n
Hillman J.: 58n
Hobbes T.: 24, 42, 45, 70n
Hobhouse L.T.: 70n
Hood R.: 129n
Horkheimer M.: 12
Hudson J.: 116n, 120n
Huizinga J.: 112n
Jellamo A.: 20n, 22, 82n
Jullien F.: 76n
Kant I.: 46-47, 52, 60, 70n
Kantorowicz E.H.: 42n
Kelsen H.: 11n
Kerenyi K.: 11n
Kim U.: 75n
Krykowski J.: 37n
Kunkel W.: 26, 97n
Lanza L.: 123n
Lévy-Bruhl H.: 73n
Licurgo: 86n
Locke J.: 45
Maine H.S.: 10n
Mannozzi G.: 110n, 116-119,
126n, 128n
Manzin M.: 111n
Marongiu P.: 13n
Marshall T.F.: 130-131
Martini R.: 29
Marugo I.: 128n
Massaro F.: 59n
Mawby R.I.: 123n
Mazzucato C.: 109n
McCold P.: 120n, 128n
McHardy F.: 16n
Mecacci F.: 12n
Mendelsohn B.: 125
Mereu I.: 44n
Merry S.: 130-131
Mierolo G.: 59n, 108n, 109n
Miller W.I.: 8n
Minelli C.: 37n
Mommsen T.: 26
Newman G.: 13n
Nietzsche F.: 13-14, 21-22, 48, 52
Nisbett R.E.: 76n, 110n
Norenzayan A.: 76n
Oasi O.: 59n
Omero: 12-13, 80n
Ost F.: 9n
Paoli U.E.: 88n
Paresce E.: 14n, 15n
Pasolini P.P.: 18
Perini C.: 110n
Picotti L.: 113n
Pigliaru A.: 9n, 69n
Pisapia G.V.: 105n
Platone: 21-24, 65n, 88-93
Poirier J.: 73n
Ponti G.: 123n, 125126
Popper K.: 24, 91n
Porrello M.S.: 16n, 28n
Puppo F.: 111n
Reeves H.: 130n
Reggio F.: 111n
INDICE DEI NOMI
Resta E.: 117n
Resta P.: 9n
Rousseau J.J.: 46, 70n
Ryan W.: 126n
S. Agostino: 37-38
S. Paolo: 35-36, 38, 39n, 42
S. Tommaso: 39, 102
Said S.: 18
Salvestrini F.: 40n
Sanfilippo C.: 27n
Santalucia B.: 25n, 26n, 27n,
96n, 97n
Sbriccoli M.: 39n, 44n
Scaparro F.: 117n
Scatolero D.: 108n, 126n
Schmitt C.: 22n, 40-42
Schopenhauer A.: 22
Semerano G.: 22n
Seneca: 30-34, 37, 39
Senofonte: 86n
Sevieri R.: 19n
Shakespeare W.: 44n
Silla: 26
Sironi F.: 59n
Sloterdijk P.: 36n, 37n, 38n
Snell B.: 88n
Socrate: 16, 21, 89, 91
Sofocle: 19
Solomon R.: 7n
Spanger G.: 113n
Stolfi E.: 22n
Tertulliano: 37
Thomas Y.: 98n
Trasimaco: 23
Triadis H.C.: 75n
Türcke C.: 59n
Umbreit M.S.: 108n
Ury W.: 115n
Varanini G.M.: 40n
Verdier R.: 71n
Villey M.: 38n, 93n
Virgilio: 29
Von Kleist H.: 41n
Votrico A.: 21n
Walgrave L.: 128n
Watson D.: 131n
Weber M.: 45
Welzel H.: 94n
Wertham F.: 124
Wright M.: 130n
Zangarini A.: 40n
Zehr H.: 109-111
143
QUADERNI Dl «STUDI SENESI»
1. REMO MARTINI, «Mercennarius». Contributo allo studio dei rapporti di lavoro in diritto romano
(1958), 8°, pag. 90, L. 5.000.
2. PIETRO MESCHINI, Sulla natura giuridica degli enti pubblici economici (1958), 8°, pag. 81 (esaurito).
3. LUISA LEPRI, Sui rapporti di parentela in diritto attico. Saggi terminologici (1959), 8°, pag. 103,
L. 5.000.
4. GIUSEPPE MARCHELLO, La crisi del concetto filosofico della libertà (1959), 8°, pag. 104, L. 5.000.
5. ENZO BALOCCHI, La buona condotta (1960), 8°, pag. 150, L. 5.000.
6. ANTONELLO BRACCI, Le norme di attuazione degli statuti per le regioni ad autonomia speciale
(1961), 8°, pag. 105, L. 8.000.
7. MARCO COMPORTI, Gli effetti del fallimento sui contratti di lavoro (1961), 8°, pag. 144, L. 5.000.
8. UGO ENRICO PAOLI, Comici latini e diritto attico (1962), 8°, pag. 80, L. 8.000.
9. BRUNA TALLURI, Pierre Bayle (1963), 8°, pag. 180, L. 4.000.
10. DOMENICO MAFFEI, La «Lectura super Digesto Veteri», di Cino da Pistoia. Studio sui MSS Savigny
22 e Urb. Iat. 172 (1963), 8°, pag. Vlll-76, L. 6.000.
11. PIERO BRANCOLI BUSDRACHI, La formazione storica del feudo lombardo come diritto reale
(1965), 8°, pag. X-200, L. 8.000.
12. GIUSEPPE MARCHELLO, La teoria dello Stato come libertà (1965), 8°, pag. X-160, L. 6.000.
13. ANTONELLO BRACCI, Problemi concernenti il sequestro conservativo dell’universitas (1966),
8°, pag. X-158, L. 8.000.
14. LUIGI CAPOGROSSI COLOGNESI, Ricerche sulla struttura delle servitù d’acqua in diritto romano
(1966), 8°, pag. Vlll-204, L. 10.000.
15. ENZO BALOCCHI, La qualificazione di povertà nel diritto amministrativo (1967), 8°, pag. Vlll140, L. 4.000.
16. CESARE MARIA MOSCHETTI, Gubernare navem - Gubernare rem publicam. Contributo alla
storia del diritto marittimo e del diritto pubblico romano (1966), 8°, pag. Vlll-272, L. 10.000.
17. LUIGI BERLINGUER, Domenico Alberto Azuni giurista e politico (1749-1827) (1966), 8°, pag.
XIV-292, L. 10.000.
18. MARIA TERESA CIOCCHETTI, Lo sciopero. Rassegna di giurisprudenza (1948-1965) (1967), 8°,
pag. XVIII-166, L. 5.000.
19. PIER GIORGIO PONTICELLI, Intorno ai rapporti fra tutela del possesso e interesse pubblico
(1968), 8°, pag. 80, L. 2.500.
20. GUIDO ZANGARI, Il recesso dal rapporto di lavoro in prova (1970), 8°, pag. Xll-340, L. 7.000.
21. FABRIZIO RAMACCI, Introduzione all’analisi del linguaggio legislativo penale (1970), 8°, pag.
Xll-200, L. 8.000.
22. MARIO ASCHERI, Un maestro del ‘mos italicus’: Gianfracesco Sannazari della Ripa (1480c.-1535)
(1970), 8°, pag. Xll-200, L. 7.000.
23. LUIGI BERLINGUER, Sui progetti di Codice di commercio del Regno d’ltalia (1807-1808). Consi-derazioni su un inedito di D.A. Azuni (1970), 8°, pag. 170, L. 5.000.
24. FILIPPO LIOTTA, La continenza dei chierici nel pensiero canonistico classico. Da Graziano a
Gregorio IX (1971), 8°, pag. Xll-404, L. 15.000.
25. MARIO ASCHERI, Saggi sul Diplovatazio (1971), 8°, pag. 148, L. 5.000.
26. PAOLO FOIS, Obblighi comunitari e programmazione economica (1971), 8°, pag. Vlll-104, L. 5.000.
27. AURELIUS SABATTANI, De vita et operibus Alexandri Tartagni de Imola (1972), 8°, pag. 136,
L. 5.000.
28. ENRICO QUADRI, La rettifica del contratto (1973), 8°, pag. 160, L. 8.000.
29. NICLA BELLOCCI, La tutela della fiducia nell’epoca repubblicana (1974), 8°, pag. 130, L. 5.000.
30. ANTONELLO BRACCI, La posizione processuale del fallito e i poteri del curatore (1974), 8°, pag.
146, L. 6.000.
31. PAOLO FOIS, L’accordo preliminare nel diritto internazionale (1974), 8°, pag. Vlll-212, L. 8.000.
32. PAOLO NARDI, Mariano Sozzini giureconsulto senese del Quattrocento (1974), 8°, pag. XVI-204,
L. 10.000.
33. PIETRO MESCHINI, Profili costituzionali e amministrativi della dotazione del Presidente della
Repubblica (1974), 8°, pag. 76, L. 2.500.
34. FILIPPO RANIERI, Alienatio convalescit. Contributo alla storia ed alla dottrina della convalida
nel diritto dell’Europa continentale (1974), 8°, pag. Vl-90, L. 3.000.
35. LUCIA BONELLI CONENNA, Prata: Signoria rurale e comunità contadina nella maremma senese
(1976), 8°, pag. XVI-164, L. 7.000.
36. FRANCESCO ALCARO, Riflessioni critiche intorno alla soggettività giuridica. Significato di un’evo-luzione (1976), 8°, pag. 116, L. 5.000.
37. GIANNETTO LONGO, Delictum e crimen (1976), 8°, pag. 180, L. 7.000.
38. UBALDO STAICO, Il pensiero politico di Teilhard de Chardin e la critica della democrazia (1976),
8°, pag. 160, L. 7.000.
39. MARCO COMPORTI, Contributo allo studio del diritto reale (1977), 8°, pag. Vlll-408, L. 15.000.
40. PAOLO VITALE, Pubblico e privato nell’ordinamento bancario (1977), 8°, pag. 180.
41. JULIUS KIRSHNER, Pursuing honor while avoiding sin. The Monte delle Doti of Florence (1978),
8°, pag. Vll-84, L. 3.500.
42. MICHELE CASSANDRO, Gli ebrei e il prestito ebraico a Siena nel Cinquecento (1979), 8°, pag.
Xll-128, L. 7.000.
43. ENRICO QUADRI, Principio nominalistico e disciplina dei rapporti monetari (1979), 8°, pag. IV220, L. 12.000.
44. PAOLO NARDI, Studi sul banchiere nel pensiero dei glossatori (1979), 8°, pag. XIV-294, L. 15.000.
45. PETER RAYMOND PAZZAGLINI, The Criminal Ban of the Sienese Commune (1225-1310) (1979),
8°, pag. Vlll-196, L. 8.000.
46. ANTONIO SERRA, Unanimità e maggioranza nelle società di persone (1980), 8°, pag. Vlll-270,
L. 15.000.
47. ALESSANDRO RASELLI, Riflessioni sull’oggetto e il metodo della scienza del diritto (1980), 8°,
pag. 124, L. 5.000.
48. GIULIO CIANFEROTTI Il pensiero di V.E. Orlando e la giuspubblicistica italiana fra Ottocento e
Novecento (1980), 8°, pag. Xll-466, L. 20.000.
49. MARIA CRISTINA MASCAMBRUNO, La polizia amministrativa (art. 19 del decreto 616) (1981),
8°, pag. Vlll-196, L. 8.000.
50. ENZO MECACCI, La biblioteca di Ludovico Petrucciani docente di diritto a Siena nel Quattrocento
(1981). 8°, pag. Vlll-174, L. 10.000.
51. GIOVANNI MINNUCCI, Le lauree dello Studio senese alla fine del secolo XV (1981), 8°, pag. Vlll128, L. 7.000.
52. ANTONIO CARDINI, La cultura economica italiana e l’età dell’lmperialismo (1900-1914) (1981),
8°, pag. 96, L. 5.000.
53. LORENZO FASCIONE, Fraus legi. Indagini sulla concezione della frode alla legge nella lotta politica
e nella esperienza giuridica romana (1983), 8°, pag. X-264, L. 18.000.
54. MICHELE CASSANDRO, Aspetti della storia economica e sociale degli ebrei di Livorno nel Seicento
(1983), 8°, pag. Xll-202, L. 12.000.
55. GIOVANNI MINNUCCI, Le lauree dello Studio senese all’inizio del secolo XVI (1501-1506) (1984),
8°, pag. Vlll-154, L. 13.000.
56. GIULIO CIANFEROTTI, Giuristi e mondo accademico di fronte all’impresa di Tripoli (1984), 8°,
pag. Vlll-168, L. 15.000.
57. DANIELE BIELLI, Competenza per connessione (1985), 8°, pag. Vlll-138, L. 13.000.
58. GIOVANNI MINNUCCI, Le lauree dello Studio senese all’inizio del secolo XVI. 11(1507-1514)
(1985), 8°, pag. Vlll-128, L. 9.000.
59. FLORIANA COLAO, Il delitto politico tra Ottocento e Novecento. Da «delitto fittizio» a «nemico
dello Stato» (1986), 8°, pag. X-410, L. 30.000.
60. GIORGIO COLLURA. Finanziamento agevolato e clausola di destinazione (1986), 8°, pag. 158,
L. 12.000.
61. IRENE MANFREDINI, Henri Saint-Simon: Écrits sur les progrès de la civilisation, publiés d’après
les manuscrits (1988), 8°, pag. L-76, L. 10.000.
62. EVA ROOK BASILE, Impresa agricola e concorrenza. Riflessioni in tema di circolazione dell’azienda
(1988), 8°, pag. Xll-250, L. 20.000.
63. MARIA CRISTINA MASCAMBRUNO, Il prefetto. I: Dalle origini all’avvento delle Regioni (1988),
8°, pag. XVI-184, L. 15.000.
64. GIOVANNI DIURNI, Le situazioni possessorie nel diritto medievale. Età longobardo-franca (1988),
8°, pag. XIV-362, L. 25.000.
65. ROBERTO GUERRINI, Elementi costitutivi e circostanze del reato. I: Profili dogmatici (1988),
8°, pag. Vlll-88, L. 8.000.
66. DOMENICO SINESIO, Interessi pecuniari fra autonomia e controlli (1989), 8°, pag. Xll-286,
L. 25.000.
67. RICCARDO PISILLO MAZZESCHI, “Due diligence” e responsabilità internazionale degli Stati
(1989), 8°, pag. XIV-418, L. 35.000.
68. GIOVANNI MINNUCCI, La capacità processuale della donna nel pensiero canonistico classico. Da
Graziano a Uguccione da Pisa (1989), 8°, pag. X-150, L. 15.000.
69. WILLIAM M. BOWSKY, Piety and Property in Medieval Florence. A House in San Lorenzo (1990),
8°, pp. Xll-88, L. 12.000.
70. ELISABETTA ANTONINI, Contributo alla dommatica delle cause estintive del reato e della pena
(1990), 8°, pag. XIV-226, L. 22.000.
71. GUIDO ZANGARI, Diritto sindacale comparato dei Paesi ibero-americani (Argentina, Brasile, Cile,
Spagna) (1990), 8°, pag. XX-342, L. 36.000.
72. LUCA STANGHELLINI, I diritti del danneggiato e le azioni di risarcimento nella assicurazione
obbligatoria della responsabilità civile (1990), 8°, pag. X-274, L. 30.000.
73. BRUNO FIORAI, Il sistema sindacale italiano e il principio di maggioranza: ricognizione sulle regole
per la gestione del conflitto (1991), 8°, pag. XLIV-284, L. 32.000.
74. ANDREA PISANESCHI, I conflitti di attribuzione tra i poteri dello Stato. Presupposti e processo,
(1992), 8°, pag. Vl-426, L. 48.000
75. MARIA CRISTINA MASCAMBRUNO, Il Prefetto. II: Funzioni di rappresentanza, di coordinamento
e poteri di polizia (1992), 8°, pag. IV-122, L. 14.000
76. PAOLO D’AMICO, Il danno da emozioni, (1992), 8°, pag. IV-198, L. 20.000
77. GIOVANNI BUCCIANTI, 1989: Idoli infranti, fantasmi di guerra, (1993), 8°, pag. 160, L. 18.000
78. MARCO MICCINESI, Le plusvalenze d’impresa. Inquadramento teorico e profili ricostruttivi,
(1993), 8°, pag. Vll-306, L. 36.000
79. GIOVANNI MINNUCCI, La capacità processuale della donna nel pensiero canonistico classico. II.
Dalle Scuole d’Oltralpe a S. Raimondo di Pennaforte, (1994), 8°, pag. XVI-308, L. 40.000
80. STEFANO MAGGI, Dalla città allo Stato nazionale. Ferrovie e modernizzazione a Siena tra Risorgimento e Fascismo, (1994), 8°, pag. VIII-356, L. 45.000
81. ANTONIO BADINI, Sovranità ed interessi nazionali nel cammino dell’Europa, (1994), 8°, pag.
VIII-156, L. 20.000
82. FLORIANA COLAO, La libertà di insegnamento e l’autonomia nell’Università liberale. Norme
e progetti per l’istruzione superiore in Italia (1848-1923), (1995), 8°, pag. XXXI-504, L. 62.000
83. MICHELE BARBIERI, Per un’estetica della politica. Il primo Goethe, (1996), 8°, pag. XXII-299,
L. 40.000
84. MARIA CECILIA CARDARELLI, Concentrazioni. Spunti tra regole codicistiche e mercato, (1996),
8°, pag. XII-255, L. 32.000
85. GIAN DOMENICO COMPORTI, Il coordinamento infrastrutturale. Tecniche e garanzie, (1996),
8°, pag. XII-442, L. 58.000
86. LUCA STANGHELLINI, Contributo allo studio dei rapporti di fatto, (1997), 8°, pag. XI-332, L. 45.000
87. ROBERTO GUERRINI, Il contributo concorsuale di minima importanza, (1997), 8°, pag. XIII248, L. 35.000
88. GIULIO CIANFEROTTI, Storia della letteratura amministrativistica italiana. I. Dall’Unità alla fine
dell’Ottocento: autonomie locali, amministrazione e costituzione, (1998), 8°, pag. XIV-854, L. 110.000
89. FULVIO MANCUSO, Exprimere causam in sententia. Ricerche sul principio di motivazione della
sentenza nell’età del diritto comune classico, (1999), 8°, pag. XVIII-275, L. 40.000
090. SONIA CARMIGNANI, La società in agricoltura, (1999), 8°, pag. XVIII-317, L. 42.000
091. GIOVANNI BUCCIANTI, Libia: petrolio e indipendenza, (1999), 8°, pag. XXII-488, L. 58.000
092. ROBERTA BARGAGLI, Bartolomeo Sozzini giurista e politico (1436-1506), (2000), 8°, pag. XVI255, L. 40.000
093. ANDREA LABARDI, La Facoltà giuridica senese e la Restaurazione. Con il testo delle Istituzioni
Civili di Pietro Capei, (2000), 8°, pag. XVI-288, L. 40.000
094. PAOLO SOAVE, Fezzan: il deserto conteso (1842-1921), (2001), 8°, pag. X-530, L. 68.000
095. PAOLO ROSSO, Il Semideus di Catone Sacco, (2001), 8°, pag. CCLIX-167, L. 58.000
096. FABIO CASINI, L’opposizione tedesca al nazismo e la politica inglese dell’absolute silence, (2002),
8°, pag. XIV-384, € 28,00
097. ANDREA ERRERA, Il concetto di scientia iuris dal XII al XIV secolo. Il ruolo della logica platonica
e aristotelica nelle scuole giuridiche medievali, (2003), 8°, pag. X-176, € 14,00
098. MARIA LUISA PADELLETTI, La tutela della proprietà nella Convenzione Europea dei Diritti
dell’Uomo, (2003), 8°, pag. VIII-290, € 22,00
099. ROBERTO BORRELLO, Segreti pubblici e poteri giudiziari delle Commissioni d’inchiesta. Profili
costituzionalistici, (2003), 8°, pag. XVIII-420, € 34,00
100. MARIO PERINI, Il seguito e l’efficacia delle decisioni costituzionali nei conflitti fra poteri dello
Stato, (2003), 8°, pag. X-502, € 40,00
101. BARBARA TOTI, Condizione testamentaria e libertà personale, (2004), 8°, pag. XII-502, € 40,00
102. LILIANA SENESI, La missione a Roma di Wladimir D’Ormesson. Un ambasciatore francese in
Vaticano (maggio - ottobre 1940), (2004), 8°, pag. VIII-378, € 30,00
103. PAOLO SOAVE, La “rivoluzione americana” nel Mediterraneo. Prove di politica di potenza e
declino delle reggenze barbaresche (1795-1816), (2004), 8°, pag. VIII-378, € 25,00
104. STEFANO BERNI, Nietzsche e Foucault, Corporeità e potere in una critica radicale alla modernità,
(2005), 8°, pag. VI-242, € 20,00
105. ALESSANDRA VIVIANI, Crimini Internazionali e responsabilità dei leader politici e militari,
(2005), 8°, pag. XIV-352, € 25,00
106. PAOLO PASSANITI, Storia del diritto del lavoro. I. La questione del contratto di lavoro nell’Italia
liberale (1865-1920), (2006), 8°, pag. XIV-532, € 50,00
107. STEFANO PAGLIANTINI, La risoluzione dei contratti di durata, (2006), 8°, pag. X-254, € 27,00
108. SONIA CARMIGNANI, Agricoltura e competenza regionale, (2006), 8°, pag. VIII-614, € 60,00
109. ROBERTO GUERRINI, La responsabilità da reato degli enti. Sanzioni e loro natura, (2006), 8°,
pag. 274, € 28,00
110. MARIA CECILIA CARDARELLI, Potere regolamentare della Consob. Informazione e mercati
regolamentati, (2007), 8°, pag. XII-190, € 20,00
111. GIOVANNI COSI, Invece di giudicare. Scritti sulla mediazione, (2007), 8°, pag. VI-204, € 21,00
112. ELISABETTA ANTONINI, La tutela penale degli obblighi di assistenza familiare, (2007), 8°, pag.
VIII-146, € 16,00
113. STEFANIA PIETRINI, Deducto usu fructu. Una nuova ipotesi sull’origine dell’usufrutto, (2008),
8°, pag. VIII-186, € 19,00
114. ROBERTA ALONZI, Fascioda e il rovesciamento delle alleanze, (2008), 8°, pag. XXII-750, € 77,00
115. DARIO GUIDI, Appropriazione, distrazione ed uso nel delitto di peculato, (2008), 8°, pag. X-272,
€ 28,00
116. LILIANA SENESI, La questione dei Pii Stabilimenti francesi a Roma e a Loreto nei rapporti tra
Francia, Italia e Santa Sede (1870-1956), (2009), 8°, pag. X-400, € 41,00
117. BARBARA TOTI, Comunione e masse comuni plurime, (2009), 8°, pag. X-420, € 44,00
118. ALESSANDRO PALMIERI, Autonomia contrattuale e disciplina della proprietà intellettuale. Pregi
e misfatti della dimensione digitale, (2009), 8°, pag. VIII-222, € 24,00
119. LAURA PASSERO, Dionisio Anzilotti e la dottrina internazionalistica tra Otto e Novecento, (2010),
8°, pag. X-486, € 49,00
120. ALARICO BARBAGLI, Il notariato ad Arezzo tra Medioevo ed Età moderna, (2011), 8°, pag.
VIII-260, € 30,00
121. FILIPPO DAMI, I rapporti di gruppo nel diritto tributario, (2011), 8°, pag. XVI-340, € 36,00
122. FRANCESCO GERBO, L’institutio ex re certa. Contributo per una rilettura critica degli articoli
457 e 588 del codice civile, (2011), 8°, pag. X-214, € 22,00
123. PAOLO PASSANITI, Diritto di famiglia e ordine sociale. Il percorso storico della società coniugale
in Italia, (2011), 8°, pag. X-656, € 67,00
124. MARCO PASTORELLI, L’opera giuridica di Massimo Severo Giannini - I (1939-1950), (2012),
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125. GIOVANNI BUCCIANTI, Pagine di politica estera, (2012), 8°, pag. VI-230, € 25,00
126. DONATO IVANO PACE, Ammissione sospensione esclusione dai mercati regolamentati. Poteri
della Consob e delle società di gestione dei mercati, (2012), 8°, pag. VI-230, € 25,00
127. GIANLUCA NAVONE, Instrumentum digitale. Teoria e disciplina del documento informatico,
(2012), 8°, pag. X-230, € 26,00
128. FRANCESCO SANGERMANO, Principi e regole della responsabilità civile nella fattispecie del
danno da prodotto agricolo difettoso, (2012), 8°, pag. X-150, € 18,00
129. NICOLA LUCIFERO, Proprietà fondiaria e attività agricola. Per una rilettura in chiave moderna,
(2012), 8°, pag. VIII-312, € 32,00
130. DONATELLA CIAMPOLI, Montalcino Medievale. Le regole di una comunità operosa. Lo statuto
del Comune (1415), (2012), 8°, pag. XVI-288, € 30,00
131. ALARICO BARBAGLI, Il notariato in Toscana alle origini dello stato moderno, (2013), 8°, pag.
X-264, € 27,00
132. FLORIANA COLAO, Giustizia e politica. Il processo penale nell’Italia repubblicana, (2013), 8°,
pag. XVIII-388, € 49,00
133. GIULIO CIANFEROTTI, Il concetto di status nella scienza giuridica del Novecento, (2013), 8°,
pag. VIII-328, € 40,00
134. DARIO GUIDI, Contributo alla riforma del delitto tentato, (2013), 8°, pag. X-324, € 41,00
135. ANNA BITETTO, Inadempimento contrattuale, danni e rimedi opzionali, (2013), 8°, pag. X-256,
€ 33,00
136. GIOVANNI COSSA, ‘Regula sabiniana’. Elaborazioni giurisprudenziali in materia di condizioni
impossibili, (2013), 8°, pag. XXIV-698, € 87,00
137. MAURA MORDINI, Il feudo ecclesiastico nella prima età dei glossatori, (2013), 8°, pag. VIII-498,
€ 63,00
138. LAURA PASSERO, Il Crimen falsi nell’opera di Prospero Fagnani. Teoria e prassi del diritto
canonico seicentesco, (2013), 8°, pag. VIII-104, € 14,00
139. STEFANO BERNI - GIOVANNI COSI, Fare giustizia. Due scritti sulla vendetta, (2014), 8°, pag.
VI-140, € 00,00
Finito di stampare nel mese di Luglio 2014
dall’Industria Grafica Pistolesi Editrice “Il Leccio” srl
53035 Monteriggioni - Loc. Badesse (Siena)
www.leccio.it prestampa@industriagraficapistolesi.it