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Pennacchio Regula Iuris

Carmen Pennacchio Tracce di diritto nel mito e nella letteratura. Un parametro per rintracciare le responsabilità Un grazie particolare, sine verbis, agli impeccabili organizzatori di quest’incontro, i quali hanno reso possibile la mia partecipazione. Vorrei subito denunziare i confini del mio intervento che si limiterà a prendere in considerazione il mito di Medea, visto da Seneca, al fine di individuare un parametro per rintracciare le responsabilità. Mi sono concentrata sulla locuzione cui prodest? e sue succedanee come cui bono, presenti in particolar modo in Cicerone oratore/difensore. Premessa L’approccio contenutistico ad un problema giuridico, fondato sulla pretesa che di tutte le situazioni dell’esperienza attuale si possa a ritroso ricostruire l’iter e che quindi a ciascuna domanda dell’oggi si possa rispondere anche con l’ausilio del passato, è una delle ‘trappole’ in cui più facilmente si cade quando si tenta un dialogo tra storici del diritto e giuristi positivi1. Questo dialogo, tuttavia, è possibile ed è auspicabile – anche in termini di continuità – a patto che le domande che il presente pone al passato seguano una formulazione corretta, mettano cioè il passato in condizione di rispondere, individuando problematiche che non siano esclusivamente frutto di esigenze del presente ma che in qualche misura, e con le ovvie e debite differenze, possano aver indotto alla riflessione anche i giuristi di epoche più risalenti. In questa prospettiva, la domanda a cui si tenterà di rispondere non è certamente volta a comprendere né tantomeno a risolvere le aporie dell’oggi – che pure, e lo sappiamo, sono assai rilevanti2 – quanto piuttosto a verificare se esistano e quali siano gli elementi che la scienza giuridica del passato ha messo di volta in volta in evidenza per tentare di definire il concetto di responsabilità e il peso della volontà ‘esterna’ nella commissione di un’attività, sia essa lecita o illecita. Ora, in questo percorso – libero da schemi anacronistici e ancor di più da tentazioni neopandettistiche – verranno probabilmente messi in evidenza elementi di continuità fra passato e presente: se questo avverrà, se cioè l’operatore del presente coglierà nella ricostruzione storica tratti a lui familiari, ciò sarà determinato e sarà anche la prova che la domanda era ben posta, in quanto sfera ‘antropologica’ del diritto. Il percorso che proponiamo ha ad oggetto il periodo più risalente dell’elaborazione dottrinale, alla ricerca delle prime e più compiute formalizzazioni di un concetto che oggi, probabilmente, intenderemo come responsabilità esterna e fattispecie ascrivibili in qualche misura a quella che – all’operatore attuale – potrebbe sembrare categoria del concorso di persone nella fattispecie delittuosa o partecipazione al compimento dell’atto. Occorre subito mettere in chiaro che la scienza giuridica del tempo poco (o non) si occupava di questo argomento ex professo. Certamente, e lo vedremo, i giuristi si interrogavano 1 I. Birocchi, Premessa a P. Caroni, La solitudine dello storico del diritto, Milano, 2009 Aspetti attuali del problema del concorso esterno, con riferimento alle associazioni di criminalità organizzata, possiamo vederli in C. Visconti, Contiguità alla mafia e responsabilità penale, Torino, 2003, al quale si rinvia anche per le indicazioni bibliografiche generali. 2 sull’eventuale punibilità di soggetti che erano coinvolti3 in un’azione (il più delle volte criminosa) anche senza averla commessa materialmente, ma la questione non costituisce mai materia di trattazione autonoma: è piuttosto una componente talora soltanto accennata talora più compiutamene articolata, che trova il suo spazio all’interno di ambiti ben definiti, quali la determinazione della pena o le singole fattispecie di reato, prime fra tutte l’omicidio e, ovviamente, la rissa. Quello del concorso e della responsabilità esterna è del resto problema eminentemente pratico; la questione, sul piano teorico, è di difficilissima soluzione, poiché la scienza giuridica oscilla fra le due soluzioni estreme e antitetiche: la condanna indiscriminata e uguale di tutti i soggetti che concorrono al delitto – esecutori materiali, istigatori morali e fiancheggiatori – e la constatazione della palese iniquità di una previsione tanto generica e sommaria, a fronte di indubitabili prove che rimandano sempre e comunque alla sola responsabilità di colui che materialmente ha commesso il reato. E allora la dottrina rinvia sempre al singolo caso, alla specificità del contesto, limitandosi a fornire pochi e opposti brocardi e individuando, come unica possibilità di soluzione, l’arbitrium iudicis, ossia una soluzione che sia fondata sull’equitas più che su generiche previsioni normative. La trattazione sul punto è sempre essenzialmente casistica; sono le singole fattispecie a produrre la riflessione teorica, riflessione, peraltro, che non giunge mai alla formulazione di categorie o di figure tipiche che possano essere utilizzate in via analogica, né tantomeno ad una soluzione univoca e condivisa. Il primo nodo da sciogliere, combinando insieme dottrina e prassi, è quello della individuazione della eventuale responsabilità di un soggetto in un’attività materialmente commessa da un altro. Una forma particolare di correità è quella puramente morale che delinea la figura giuridica degli "autori intellettuali" del delitto. Chiamata anche "provocazione a delinquere", essa è la somma degli sforzi che compie un individuo perché altri esegua il reato da lui voluto (Longhi). Il comando delittuoso, dato dal superiore ed eseguito dall'inferiore fuori di ogni suo dovere funzionale; il mandato, per cui tra mandante e mandatario si pattuisce la convenzione del delitto; l'istigazione, per cui taluno suscita nell'animo altrui l'odio o l'ira, inducendo e indirizzando al delitto, sono le forme classiche di questo aspetto di partecipazione criminosa. Non può esitarsi a ritenere la correità morale come la più repugnante e la più pericolosa forma di delinquenza. Sennonché occorre spiegare che questa forma di concorso presuppone che l'esecutore, quantunque sospinto dalla volontà del correo intellettuale, abbia piena libertà e coscienza di delinquere: in caso contrario non avremmo più l'accordo di più volontà, ma saremmo nel caso del reato commesso da una sola volontà: quella dell'autore morale di esso. E’ come se volessimo individuare un concetto di correità morale. Innanzitutto, esso dovrebbe essere precisato da limiti, quali: a) la provocazione a delinquere per rientrare nella figura del concorso deve avere per oggetto un atto delittuoso determinato, definito, concreto; b) la correità morale giuridicamente apprezzabile è quella che si riferisce a un reato effettivamente commesso, almeno nella forma di tentativo, perché la sua incriminazione, data la sua natura puramente intellet3 Possiamo riferirci al caso dei fiancheggiatori che abbiano consapevolmente prestato auxilium consilium et favorem ad un omicida, consentendone la fuga. Qui la responsabilità non riguarda il fatto delittuoso, già commesso e sul quale questi auxiliatores non hanno minimamente influito, quanto invece l’aiuto consapevolmente fornito all’omicida e la sottrazione del reo alla giustizia. Citando un proverbio attribuito a Seneca – “Nil prodest quo animo feceris, si quod fecisti vitiosum est; facta enim cernuntur, animus autem non videtur” ([Pseudo-Seneca], Proverbia Senece, Augsburg, 1497, ‘Nihil interest’). L’unica regola che la dottrina aveva a disposizione circa la punibilità dei fiancheggiatori era quella prevista da D. 47.2.34 (Paul. 9 ad Sab.: Is, qui opem furtum facienti fert, numquam manifestus est: itaque accidit, ut is quidem, qui opem tulit, furti nec manifesti, is autem, qui deprehensus est, ob eandem rem manifesti teneatur.) secondo cui in caso di furto al fiancheggiatore va applicata la pena dimezzata rispetto a quella prevista per il ladro quae lex videtur dicere quod ille qui dat opem furto manifesto, non tenetur pena quadrupli, sicut tenetur ipse fur, sed tenetur pena tuale, non può basarsi che sull'accertamento di essere stata effettivamente causa del reato. Solo eccezionalmente, e in relazione a particolari specie di delitti (delitti contro lo stato), anche l'istigazione semplice, non seguita dal reato, viene incriminata dalle leggi; c) se l'esecutore eccede nella consumazione del reato (quando, ad es., avendo avuto mandato di percuotere e ferire soltanto, uccide la vittima) sorge un ginepraio di questioni diversamente risolte dalle varie scuole e dai varî sistemi legislativi. La dottrina italiana più moderna, accolta nel nuovo codice penale, afferma la responsabilità oggettiva dell'istigatore, nel senso che la sanzione per lui si misura sull'evento seguito anche se più grave e diverso da quello da lui voluto, purché tra l'evento e l'istigazione sussista un rapporto ininterrotto di causalità, e non siano intervenute cause intermedie, indipendenti dall'istigazione e sufficienti da sole a determinare l'evento; d) se l'esecutore dopo avere iniziato gli atti esecutivi, per volontario ravvedimento, desiste dal compiere il reato, egli non soggiace alla pena per il tentativo commesso. Ma la volontarietà della desistenza - che è il motivo giuridico e morale che presiede all'impunità dell'esecutore - è personale a questi, e non può quindi comunicarsi a colui che lo provocò al delitto: la desistenza dell'esecutore avrà solo l'effetto di addossare all'istigatore una responsabilità per semplice tentativo, anziché per reato consumato. È chiaro invece che se l'istigato, dopo avere accettato l'incarico delittuoso, si pente prima di avere compiuto qualsiasi atto di esecuzione del reato, questo pentimento gioverà anche all'istigatore; e) va infine prospettato il caso del pentimento dell'istigatore. Questo solo allora può esonerare il provocatore a delinquere dalla responsabilità per l'istigazione, quando si esplicò attivamente col distruggere e annullare l'operata istigazione, spegnendo nell'istigato la volontà criminosa in lui suscitata, e impedendo cosi l'attuarsi del disegno delittuoso. I poemi omerici - l'Iliade e l'Odissea - non mancano di fornire spunti intorno alla disciplina di cui ci occupiamo: il diritto. Sebbene la loro datazione sia oggetto di discussione (si pensa che siano stati scritti intorno al IX secolo a.C.) essi costituiscono la prima fonte di letteratura mediterranea nell'area dell'antica Grecia. Sicuramente prodromici per i racconti mitici, sono stati anche anticipatori di alcuni concetti giuridici. Nei due poemi sono rinvenibili i primi passi che l'individuo ha compiuto verso la propria autodeterminazione, un cammino verso la coscienza di essere "soggetti" titolari di libero arbitrio. Il protagonista dell'Odissea Ulisse, tornato dopo venti anni di viaggio in veste di mendicante nella reggia di Itaca, impone a se stesso di controllare lo sdegno che lo assale scoprendo che le sue ancelle lo tradiscono accoppiandosi spudoratamente con i Proci, in sua assenza arroganti pretendenti alla mano di sua moglie Penelope. Vorrebbe reagire, vorrebbe vendicare immediatamente il torto, ma si trattiene. Un comportamento di autocontrollo ben diverso dall'irrazionalità e dalla forza che contraddistingueva gli eroi tradizionali. Come vuole parte della dottrina (E. Cantarella) "al contrario dei personaggi dominati dal destino, il protagonista dell'Odissea apre a Itaca la strada alla morale e al diritto". L'uomo di quei secoli normalmente non solo non riusciva a controllare i propri istinti ma attribuiva la responsabilità delle sue azioni - le azioni riprovevoli - agli dei o ad altre forze soprannaturali (ad esempio il destino) di fronte alle quali nessuno poteva opporre la propria volontà. Non solo non era capace di autocontrollarsi, ma non sapeva neppure autodeterminarsi, non avendo (in realtà li aveva ma pensava di non averli) né volontà né libero arbitrio. Come una pedina di altrui decisioni e forze compiva atti involontariamente e ne subiva le conseguenze, essendone però responsabile, potremmo dire oggi, in modo obiettivo. Nell'Iliade Elena aveva seguito Paride a Troia per volere di Afrodite, non per sua volontà, ma soffriva tremendamente per i lutti causati e si sentiva responsabile delle stragi tra greci e troiani. In generale quindi l'individuo omerico non percepisce ancora se stesso come un soggetto capace di agire autonomamente e liberamente. Sempre nei due testi epici si ritrovano anche i primi concetti di non responsabilità e punibilità per gli atti compiuti. In alcuni casi, chi ha agito involontariamente non subisce le conseguenze delle sue azioni (non ha nessuna pena) in quanto non è colpevole. Ad esempio Femio, l'aedo che viveva alla corte di Itaca, aveva cantato per i Proci (durante l'assenza del suo re), ma l'aveva fatto costretto, per necessità: dunque era incolpevole. In Omero, insomma, esistono già i concetti di "colpevolezza" e di "responsabilità". Gli uomini e le donne omerici faticosamente cercavano di conquistare - e lo si legge bene nei poemi - la coscienza della propria libertà e la conseguente percezione di se stessi come soggetti (autonomi dagli dei). Il poema omerico pone così le basi per uno dei principi che diverrà cardine nel diritto moderno, quello che pone la colpevolezza alla base della responsabilità. Sempre secondo la dottrina prima ricordata (E. Cantarella) "la lezione dell'eroe omerico: è responsabile chi fa il male volontariamente". ******************************************* Abbiamo scelto la Medea di Seneca, che nel personaggio vide l’incarnazione stessa del furor (non senza qualche fascinazione che ne incrina la valenza morale e didattica). Perché? Ricordiamo che l’eroina fa la sua prima comparsa nella vicenda degli Argonauti in qualità di ‘aiutante magico’ di Giasone (un ruolo strutturale presente in numerose leggende e non di rado ricoperto da una donna: si pensi ad Arianna). E’ una delle figure mitiche più note e presenti nell’immaginario e nelle testimonianze antiche: prigioniera della propria passione d’amore e vittima, al tempo stesso, del pregiudizio di chi la considera maga e straniera, Medea si macchia del crimine più orrendo che una madre può compiere, l’uccisione dei propri figli, divenendo il simbolo estremo di una femminilità negata. L’ultima parte del mito di Medea costituisce la trama di due delle più note opere teatrali antiche, ancora oggi tra le più rappresentate: la Medea di Euripide e quella dello scrittore e filosofo latino Lucio Anneo Seneca. Il nodo esposto nell’opera di Seneca: il mondo ingannevole della magia e il baratro fatale in cui l’uomo è condotto dall’odio. Nel periodo nero degli ultimi anni della dittatura di Nerone, Seneca, data un'occhiata alla Medea rodiana4 e a quella ovidiana, concilia i due «scomposti frammenti del carattere in un unico, coerente personaggio di donna innamorata e maga» e rende protagonista questa sua creatura di una sorta di dramma didattico: «furibonda ma inerme», esasperata dall'ira, sempre nell'atto di «autoincitarsi a imprese ardite e sanguinarie, evocando il fantasma» dell'altra se stessa descritta da Euripide, Apollonio Rodio, nelle Argonautiche, ci offre l’immagine di una Medea afflitta, dubbiosa, incerta sul suo futuro. Passando in rassegna le diverse possibilità di azione, si rende conto di trovarsi in una situazione di “amechaníe” (assenza del mezzo per liberarsi della impotenza angosciata, E. Severino, La potenza dell'errare. Sulla storia dell’Occidente, Milano, 2013). M. R. Falivene, Medea nelle «Argonautiche» di Apollonio Rodio, in B. Gentili, F. Perusino, Medea nella letteratura nell’arte, Venezia, 2000, 111. Infatti l’autore riferisce. L’amechaníe di Medea è mancanza di strumenti che offrano scampo da una scelta comunque perdente: le mancano vie d’uscita reali, che non comportino cioè un qualche inevitabile male a venire. Amechaníe non vale «mancanza (assoluta) di strumenti», bensì «mancanza di strumenti adeguati» […] Arti magiche e altre mechanaí, per quanto efficaci alla vendetta, non smentiscono né superano l’amechaníe, anzi, ne sono l’altra faccia. 4 ovvero «di un'eroina mitica e vittoriosa di cui l'io parlante si presenta soltanto come una pallida controfigura», sconvolta da quelle passioni di cui Seneca desidera mostrare il carattere pernicioso, questa Medea, che si disinteressa bellamente di essere derisa dai nemici o disprezzata da parte della società, «immola i figli sull'altare della sua collera smisurata e accecante». Ad uscire vittoriosa dalla tragedia è solo quell'ira, estremo effetto di una emozione amorosa vista come un fattore assolutamente destabilizzante, che è il principale bersaglio polemico del filosofo. Una Medea potente è la Medea di Seneca5, tragedia scritta nel I sec. d.C.; non sappiamoi stabilire con certezza se per essere letta nelle recitationes del tempo di Nerone o per essere rappresentata. Una Medea esiliata da Creonte, che la ritiene un mostro orrendo per i delitti commessi, ripudiata da Giasone, che non riconosce più i sui meriti anzi la giudica colpevole dei delitti che lei ha fatto per lui. Una Medea quindi che non può più sperare in nulla e che non si dispera più per nulla. Recupera così la sua vera natura di maga, signora dei mali in un terribile contrasto fra odio e amore e infine, seguendo l’ira, scatena una vendetta disumana e fa strage dei rivali. Non paga, guidata da quell’ira che fugge la compassione per l’innocente e mette in fuga l’amore materno, giunge alla conclusione che i figli non sono più della madre che li ha generati, ma del padre che ha tradito. La mano materna dunque si può alzare contro di loro. Il percorso di disumanizzazione è compiuto attraverso il dolore più estremo. “Medea nunc sum; crevit ingenium malis”. “Ora sono la vera Medea, il mio ingegno è cresciuto attraverso il male” sentenzia la maga poco prima di privare della vita i figli uno dopo l’altro, sulla scena, spettatore attonito il padre e noi con lui. 1 – Procediamo con ordine. Medea è il titolo di una tragedia di Seneca che ricalca la struttura e la trama dall’omonima opera teatrale di Euripide6, esaltando al contempo gli aspetti drammatici, morali e vendicativi di una protagonista colpita dal turbamento psicologico e dalla follia 7. Una piccola notazione. Medea è un “nome parlante”: la radice med- è presente in tutta l’area indoeuropea (si pensi al latino medicus); in greco, in particolare, è da riconnettere al verbo mèdomai (immagino, invento, escogito) e al neutro plurale tà mèdea (astuzie, scaltrezze, preoccupazioni), per cui potrebbe significare “colei che sa decidere per sé e per gli altri”, “colei che porta consiglio”8. 5 Si incentra sull'ethos e quindi su una visione più storica e collettiva della tragedia che scredita perciò l'individualista Medea in favore di uno stoico e lungimirante Giasone, il quale prima di tutto pensa a tutelare i figli e a salvaguardare di conseguenza i sacri mores latini. 6 Il mito di Medea appartiene ad un’epoca in cui non esisteva ancora la scrittura e i miti venivano trasmessi oralmente, fino a quando i Greci si impossessarono non solo delle terre, in cui prima vivevano le popolazioni originarie di quelle aree attorno al Mediterraneo, ma anche delle storie, delle saghe, dei miti di quei popoli. Da questo momento in avanti, i Greci potevano decidere se e come continuare a narrare quelle storie, riplasmarle, reinterpretarle, integrarle e conservarle nella storia di un patriarcato che iniziava a dominare sempre più incontrastato. Come per altre figure, anche il mito di Medea ha subito tale processo di scrittura in epoca patriarcale, per cui, da divinità potente e benefica, è divenuta simbolo di male e follia. La tragedia euripidea, che ha indubbiamente portato alla ribalta la figura femminile di Medea, si proponeva come rappresentazione dello scontro tra il mondo arcaico e istintuale della Colchide (Medea) e quello civile e raziocinante dei Greci. Euripide ne consacra l’atroce violenza perpetrata dalla barbara della Colchide sulla propria prole, segnando un punto di svolta nell’immagine di Medea: la Medea infanticida. 7 La figura di Medea esiste tra l’altro già prima della versione euripidea, ma diventa assassina dei suoi figli sono nella tragedia greca. Perché? Risposta a tale questione viene presentata e diffusa nel 1996 dall’autrice che – specularmente a Euripide – segna il secondo profondo punto di svolta nell’immagine di Medea: Christa Wolf. 8 La Wolf parte dall’incongruità fra l’etimologia positiva del nome – Medea, ossia «colei che porta consiglio», come si conviene a una guaritrice – e la raffigurazione di Medea come di un’infanticida. Nel corso dei millenni la figura di Medea è stata ribaltata nel suo opposto da un bisogno patriarcale di denigrare lo specifico femminile. Medea non poteva La “ Medea “ di Seneca presenta importanti novità rispetto a quella di Euripide9. La diversità più marcata è il carattere ethocentrico della tragedia senecana, tipico della restante produzione tragica del filosofo. La tragedia di Seneca, in generale, si può definire ethocentrica sia perché il contenuto è di ordine morale, sia perché la struttura stessa dell’opera si basa sui valori etici che caratterizzano i personaggi. Mentre il teatro greco presentava una dimensione spazio – temporale ben definita, all’interno della quale si muovevano i personaggi, essa non è presente nella tragedia di Seneca (destinata alla lettura, probabilmente alle declamationes); ciò che preme a Seneca è mettere in risalto la polarità ratio/furor, tipico scontro che lacera ogni personaggio delle tragedie dello scrittore spagnolo. Con la mancanza della contestualizzazione si perdono anche molte delle connotazioni antropologiche centrali nella Medea euripidea10, nella quale essa è donna, maga, barbara, chiaramente “inferiore “ a Giasone, maschio, greco e sul punto di salire al trono per sposare la figlia del re di Corinto, Creonte (è da notare il cambiamento di nome della futura sposa: in Seneca si chiama Creusa, in Euripide, invece, Glauce11). Questi pregiudizi propri della cultura greca vengono, in un certo senso, contestati da Euripide mediante la creazione della figura di Giasone, cinico, egoista e calcolatore. Il messaggio che Euripide vuole lasciar trasparire dal contrasto tra i due coniugi è che Medea è, paradossalmente (per il pubblico non abituato al personaggio), migliore di Giasone! In Seneca ciò non è presente; il suo interesse non è quello di mostrare la condizione sociale dei cosiddetti “esclusi“ (le donne, i bambini, gli stranieri), ma mettere in risalto gli effetti devastanti delle passioni più violente, in questo caso l’ira. Medea dunque rappresenta “l’anti – sapiens“ ; è però essere un’infanticida perché una donna proveniente da una cultura matriarcale non avrebbe mai ucciso i suoi figli. La Wolf rintracciò anche le fonti antecedenti a Euripide che confermavano il suo assunto di fondo. 9 Sul tema delle riscritture della Medea si vedano B. Gentili, F. Perusino (a cura di), Medea nella letteratura e nell’arte, Venezia 2000; P. M. Filippi, Le riscritture infinite di un mito. La Medea di Franz Grillparzer e la Medea di Christa Wolf, in Atti dell’Accademia Roveretana degli Agiati, classe di scienze umane, classe di lettere ed arti, serie VIII 2 A, 252, 2002, 169 ss. (che non ho personalmente consultato); A. López, A. Pociña (edd.), Medeas. Versiones de un mito desde Grecia hasta hoy, 1-2, Grenada 2002; A. López, Una Medea en el tercero milenio: Medea en Corinto de Luz Pozo Garza, in: F. De Martino, C. Morenilla (edd.), El teatre clàssic al marc de la cultura grega ila seva pervivència dins la cultura occidental, Bari 2004, 347 ss.; D. Mimoso-Ruiz, Médée antique et moderne. Aspects rituels et sociopolitiques d’un mythe, Paris 1982; P. Radici Colace, A. Zumbo, La riscrittura e il teatro dall’antico al moderno e dai testi alla scena, Messina 2004. Ma la letteratura su questo tema è vastissima e i testi che ho appena citato non la esauriscono affatto. Immagine puntualmente accettata e adottata da questo momento in avanti, da Ovidio (le Heroides e le Metamorfosi ) e Seneca (Medea) sino alle riletture novecentesche. Nel Novecento, il personaggio si fa tuttavia più complesso: Medea compie ancora il delitto, ma la sua malvagità è diminuita, è determinata dalle circostanze. Nella trasposizione scenica di Jean Anouilh, Medea è uno strumento nelle mani del Fato: il suo destino è di essere la straniera, la barbara vendicativa. Il dramma di Corrado Alvaro la descrive vittima delle persecuzioni razziali. E Pier Paolo Pasolini, nella sua trasposizione filmica, accentua il conflitto culturale e antropologico tra Medea, rappresentante di un mondo ancestrale e metafisico e i cittadini di Corinto, che vivono invece secondo razionalità. La caratteristica comune alle riscritture novecentesche è l’insistenza sull’alterità di Medea: barbara, straniera, esiliata, diversa. 10 La figura di Medea diventa occasione per una riflessione sulla ‘diversità’ femminile. La cultura della maga della Colchide si nutre dei riti misteriosi del corpo e della fertilità: è una cultura matriarcale che rifiuta la violenza del potere. Medea non può che scoprire con orrore la logica di dominio che regge l’ordine (patriarcale; maschile) fondato dal re di Corinto Creonte. Medea contrappone il proprio essere altro alla strutture del potere, esprime la propria estraneità a tale sistema di valori. I corinzi – e il potere – hanno paura di Medea, che mette in crisi le loro credenze, che non si piega a venerare i loro idoli, che indaga la società che le sta attorno. I crimini che le vengono attribuiti a partire da Euripide sono il frutto di questa paura: la società ha bisogno di creare il mostro, di trovare un capro espiatorio e di scaricare così ogni responsabilità. 11 Intesa come doppio virtuale di Medea, cfr. D. Mimoso-Buiz, Figures du miroir: confrontation de la Creusa de Corrado Alvaro (Lunga notte di Medea) et le Glauce dans Medea de Pier Paolo Pasolini, in Revue des études italiennes, 27, 1981, 214 s.. guidata dal furor, che va a sostituirsi completamente alla ratio, cancellando ogni istinto razionale quale, ad esempio, quello materno. Mediante Medea Seneca giunge a dimostrare il potenziale distruttivo dell’ira, che non può in alcun modo convivere con la ratio. 2. Dolorosa è la storia raccontata e rappresentata sulla scena, di cui cerchiamo di ricostruire un breve riassunto12. Giasone, figlio del re di Iolco, dopo l'usurpazione del trono del padre da parte dello zio, parte alla ricerca del vello d'oro per conto di quest'ultimo, che ha promesso di riconsegnargli il regno una volta in possesso di tale oggetto. Allora Giasone, organizzata la famosa spedizione degli Argonauti, inizia il suo viaggio con l'obiettivo del vello d'oro, una pelle di montone custodita dal re della Colchide, Eete, e protetta da un temibile drago. L'eroe giunto sul luogo, si accorge di dover superare una serie di prove impossibili, il cui esito positivo è prospettabile solo con l’aiuto di Medea, la figlia del re Eete. Conquistato il vello, Giasone decide quindi di scappare con lei, oramai perdutamente innamorata. Il padre e il fratello li inseguiranno ma, con l’uso della magia, Medea uccide suo fratello, rallentando la rincorsa degli inseguitori e velocizzando la loro fuga. Medea e Giasone si sposano e hanno due figli maschi, ma giunti a Corinto egli si innamora di Creusa, la figlia del re Creonte. Medea, furiosa e impazzita, capisce che non cʼè possibilità per lei di riconquistare Giasone, e inizia a macchinare la sua vendetta. Il re di Corinto conoscendo la terribile maga decide di esiliarla, per allontanarla e cercare di prevenire ogni rischio di qualsiasi gesto criminale. Ma la furiosa donna con la scusa di non riuscire a trovar sistemazione fuori Corinto posticipa di un giorno l’esilio, e proprio in questo breve arco di tempo vendica l’oltraggio subito. Innanzitutto decide di uccidere Creusa: fingendosi benevola le fa arrivare una collana e una veste in dono che, appena indossati, bruciano. Creonte, che vede la figlia in fiamme, nel tentativo di abbracciarla per spegnere le fiamme, perde la vita bruciando anche lui. Ma Medea decide di continuare la sua vendetta e, quindi, uccide i suoi due figli, generati con Giasone. La tragedia teatrale termina con il bellissimo e incalzante dialogo tra Giasone e Medea, la quale è in procinto di partire in esilio da Corinto, prima che commetta i suoi ultimi delitti. Di notevole pregio dal punto di vista teatrale questo scambio di battute mette in evidenza la lucida follia di una rea, che apre il suo cuore - così come quello dello spettatore - con una confessione spassionata, in cui mette in evidenza moventi, cause e motivi specifici dei suoi reati, colpevolizzando in primis il suo interlocutore per i suoi gesti: egli è il vero responsabile dei fatti da lei solo materialmente compiuti. 12 La Wolf riscopre e riscrive il mito originario, che successivamente venne occultato da Euripide, in obbedienza agli interessi degli abitanti di Corinto. Obbedienza sottolineata dalla testimonianza di Parmenisco, grammatico alessandrino, che afferma che i Corinti avevano pagato, e bene, Euripide perché li scagionasse dalle voci che li accusavano di aver lapidato i figli di Medea; che bisogno c’era di pagare il tragediografo se Medea era colpevole? Questione aperta o solo maldicenza? Il nodo chiave della questione è: perché si è sentito il bisogno, nel corso della storia, di vedere Medea come una donna selvaggia, criminale, da perseguitare? Perché tale raffigurazione distorta si è radicata nella nostra cultura? Abbiamo visto come tale scrittura avvenne in epoca patriarcale. E come Medea – donna forte e libera, depositaria di un sapere ancestrale del corpo e della terra – rappresenti invece il simbolo di una società matriarcale. La Wolf vede una risposta a tale domanda nella storia ideologica della società patriarcale che, soprattutto nei periodi di crisi, tende a cercare un capro espiatorio, caricando di segni negativi una determinata figura, spesso femminile. Medea non si lascia intimidire dal potere o dalla codificazione sociale da cui è attorniata, si sente libera e si guarda intorno, scruta, indaga, per comprendere. Ed è così che viene a scoprire il crimine di morte e violenza su cui si basa il potere (di Corinto). 3 - Pare bizzarro rintracciare profili processual-penalistici nelle parole di Medea, ma un attento lettore non può non rimanere impressionato dai versi che qui seguono. Medea: "Debbo fuggire, Giasone, fuggire. Non è una novità, per me, cambiare paese, la novità è nella causa. Prima fuggivo per te. Vado, sparisco. Questa donna, che costringi a lasciare la tua casa, da chi la mandi? Al regno di mio padre? Ai campi bagnati dal sangue di mio fratello? Quali terre mi ordini di raggiungere? Quali mari mi suggerisci? Ogni strada che ho aperto a te, a me l'ho chiusa. Dove mi mandi, allora? Tu costringi l'esule all'esilio, senza darle un luogo per l'esilio. Si parta, è il genero del re che lo ordina. Accetto tutto, io. Vuoi aggiungere qualche supplizio? Me lo sono meritato. L'ira del re calpesti con pene sanguinose questa donnaccia, le incateni i polsi, la seppellisca nella notte eterna di una rupe. Sarà sempre meno di ciò che merito. Essere ingrato, perché non lo ricordi, il toro dall'alito di fuoco? E i dardi del nemico che sorse d'un tratto dal suolo? Al mio cenno, i figli bellicosi della terra si diedero l'un l'altro la morte. E il vello d'oro, che tanto bramavi, dell'ariete di Frisso? Mettilo sul conto. E con lui il drago sempre vigile, i cui occhi io costrinsi al sonno, che a lui era sconosciuto. E anche l'assassinio di mio fratello, e tutti i delitti racchiusi in un solo delitto, e la frode con cui indussi le figlie di Pelia a squartare il vecchio genitore nella speranza che tornasse a vivere. Per cercare regni altrui ho abbandonato il mio. Per la speranza che nutri di avere altri figli, per il tuo focolare ormai sicuro, per tutti i mostri che ho vinto, per queste mani che per te non ho mai risparmiato, per tutti i pericoli che ho corso, per il cielo ed il mare che furono testimoni al nostro matrimonio, io ti prego di avere pietà. Rendi, tu che sei felice, ciò che devi a questa disperata. Fratello, padre, patria, anche il pudore: finito tutto! Con questa dote mi sono sposata. Rendimeli, i miei beni, ora che debbo fuggire." Giasone: "Creonte, che ti odia, voleva farti morire. L'esilio te l'ha concesso perché le mie lacrime l'hanno vinto." Medea: "L'esilio, credevo fosse una pena. No, è una grazia." Giasone: "Sinché sei in tempo, vattene di qui, mettiti in salvo. È dura, sempre, l'ira dei re." Medea:"Vuoi convincermi, ma lo fai per Creusa. Togli di mezzo una rivale odiosa." Giasone: "Medea mi rinfaccia l'amore?" Medea: "E il delitto, e l'inganno." Giasone: "Ma infine, quale delitto puoi rimproverarmi?" Medea: "Tutti quelli che ho commesso io." Giasone: "Non manca che questo, che ricada su di me anche la colpa dei tuoi delitti." Medea: "Sono tuoi, quei delitti, tuoi. Colpevole è chi ne trae vantaggio. Dicano pure, tutti, che tua moglie è infame, tu devi difenderla, tu solo, e da solo gridare che è innocente. Per te è senza colpa colei che per te è caduta in colpa." 3 - Cui prodest scelus, is fecit questa è la locuzione latina tratta dalle parole di Medea e ancora oggi usata e tradotta in questi termini: colui al quale il crimine porta vantaggi (a chi giova), egli l'ha compiuto. Atto terzo ai versi 500-501 ella afferma: cui prodest scelus, is fecit, cioè "colui al quale il crimine porta vantaggi, egli l'ha compiuto". Il concetto espresso da Medea è alla base di ogni ricerca investigativa: la scoperta di un possibile movente favorisce anche la scoperta del colpevole, o comunque limita il numero dei sospettati. E' proprio la domanda "a chi giova?" (cui prodest) il punto di partenza e l'interrogativo che ci si pone, quando si cerca di scoprire chi sia l’autore o il promotore di un fatto (non necessariamente delittuoso), nel presupposto che può esserlo soltanto chi se ne ripromette un vantaggio per sé. La si fa risalire al giudice Cassio Longino Ravilla (II secolo a.C.), tribuno nel 137, promotore della lex Cassia tabellaria, che prevedeva l’espressione del giudizio in forma segreta, console nel 127. Sulla sua morte, Liv. Ep. 65. Fonti Cic., Brut., 25; Val. Max, 3.7 La ricerca di antichi saperi, riassuntivi di concetti spesso ben più ampi, non è fine a se stessa, perché ricordarsi la trama e la storia da cui promanano queste locuzioni aiuta a portare alla mente il concetto di fondo che si vuole con essi esprimere. E l'utilizzo intra processuale di termini che esulano dal mondo giuridico è prassi abbastanza consueta. Questa tragedia - tra le più famose di tutti i tempi - non manca di aiutare anche il diritto nell'enunciazione dei suoi principi. Alla luce del sopra citato interrogativo, possiamo illuminare la condizione dell’imputata. Infatti, dicono di Medea che ha ucciso i suoi due figli: ma non è vero, glieli hanno uccisi quelli di Corinto. Dicono che era gelosa di Giasone, ma non è vero, amava riamata un altro. Dicono che ha ucciso la nuova sposa di lui, Glauce, ma non è vero, la ragazza si è gettata nel pozzo. Dicono che aveva ucciso il fratello, Absirto, ma non è vero, lo aveva ucciso il padre per impedirgli di succedergli. Dicono che è una maga, ma non è vero, aiuta i malati a guarire. Dicono che è libera, selvaggia, indomita, straniera. Soltanto questo è vero. 4. Cui bono?: A vantaggio di chi ? leggiamo tre tradizioni ciceroniane del principio di cui si parla. Cic., Pro Roscio Amerino 30.84: L. Cassius ille, quem populus Romanus verissimum et sapientissimum judicem putabat, identidem in causis quaerere solebat "cui bono" fuisset. Sic vita hominum est, ut ad maleficium nemo conetur sine spe atque emolumento accedere.13 Gli scontri tra le bande di Clodio e di Milone durarono ancora a lungo e nel 52 Clodio rimase ucciso in una zuffa con Milone. C. si assunse la difesa di Milone, accusato dell'omicidio. L'orazione (Pro Milone) è considerata uno dei suoi capolavori, per l'equilibrio delle parti e l'abilità delle argomentazioni, basate sulla tesi della legittima difesa e sulla esaltazione del tirannicidio. C. davanti ai giudici, però, fece un fiasco completo (evidentemente, l'orazione che noi possediamo è dunque frutto di una successiva rielaborazione letteraria): gli cedettero i nervi a causa della situazione di estrema tensione in cui si trovava la città, e così Milone dovette fuggire in esilio. Orazione in difesa di Milone nel processo de vi per la morte di Clodio. Non è l’oratiuncola effettivamente tenuta, ma quella che Cicerone avrebbe voluto e dovuto tenere. Già gli antichi la consideravano la più bella tra tutte le orazioni di Cicerone. Egli vi sostiene magistralmente la tesi della legittima difesa; dimostra inoltre l’assenza di premeditazione da parte di Milone, confermata dalla mancanza di un movente plausibile; afferma che in ogni caso Clodio ha trovato la giusta punizione e che la sua morte è stata provvidenziale per Roma. Un’orazione ricchissima, già perfetta nella sua enunciazione, testimonianza di quella prosa che è stata considerata fino a qualche tempo fa, riduttivamente, modello di scrittura per tutti, e in verità fonte di una visione politica, di un’idea costruttiva di impegno civile che andava formandosi in anni certamente difficili. La storia dell’amerino nasce e si complica alla luce di uno scandalo politico, che l’abile oratore svela nei suoi perversi meccanismi. Eppure mai Cicerone rimane nel particolare della vicenda: la sua prosa si allarga a un’apologia della politica, della vita spesa per la comunità, e in essa si riflette l’avvenimento decisivo della sua esistenza, la congiura di Catilina repressa durante il suo consolato. Un testo, insomma, intriso di stile e grande retorica, che diviene documento di una stagione della storia romana dominata spesso dal malaffare degli uomini politici. 13 Cic., Pro Milone 12. 32: “In quale modo, dunque, si può provare che è stato Clodio a tendere l'imboscata a Milone? Trattandosí di quel mostro tanto temerario e scellerato è sufficiente dimostrare che egli aveva forti motivi di uccidere Milone e nutriva grandi speranze sulla sua morte, da cui gli sarebbe derivato un considerevole vantaggio. Di conseguenza la ben nota formula di Cassio, "chi ne ha tratto vantaggio?", va applicata a persone di questo tipo, anche se non c'è alcun vantaggio che spinga gli uomini onesti alle cattive azioni, mentre ne basta uno piccolo per indurre spesso i disonesti a comportarsi male. Orbene, Clodio con l'uccisione di Milone otteneva non solo di esercitare la pretura senza che fosse console un uomo capace d'impedírgli ogni crimine, ma anche d'esser pretore quand'erano consoli personaggi tali da indurlo a sperare che almeno con la loro connivenza, se non addirittura col loro aiuto, avrebbe potuto dare sfogo ai folli disegni che aveva in mente: come egli stesso pensava, essi non avrebbero avuto alcuna intenzione di reprimere i suoi tentativi, considerandosi debítori nei suoi confronti di un sì grande favore, e se pure lo avessero voluto, a stento forse sarebbero riusciti a spezzare la temerarietà, rafforzata ormai dalla lunga impunità, di un uomo talmente scellerato14. Il 15 marzo del 44 Cesare è assassinato, e Cicerone si schiera dalla parte degli assassini, mentre nel conflitto fra Antonio e Ottaviano appoggiò Ottaviano. Ottaviano si servì di lui per far legalizzare dal senato la sua posizione irregolare, e lo utilizzò come alleato nella lotta contro l’avversario: lotta cui Cicerone diede un notevole contributo sferrando una serie di violentissimi attacchi contro Antonio in senato e davanti al popolo, con le orazioni dette Filippiche. Dopo la morte di Cesare, per indurre il senato a dichiarare guerra ad Antonio, C. pubblicò invece le "Filippiche" (44), in numero forse di 18 (il titolo, che risale a una definizione scherzosa dello stesso autore, intendeva sottolineare il legame ideale coi celebri discorsi di Demostene, il più grande oratore ateniese, contro le pretese all’egemonia di Filippo di Macedonia). Uno solo dei discorsi, il II, un attacco di violenza inaudita, non venne effettivamente pronunciato, ma fatto circolare come pamphlet. Nelle Philippicae, Antonio viene dipinto - con sapiente varietà di toni, dall'ironico al satirico - come un volgare bandito, programmatore di proscrizioni e di confische, alla stregua dei suoi loschi fautori. Le Philippicae costituiscono anche un tentativo assai ardito (e fallito) di influenzare l’opinione pubblica, lanciando in tutto il mondo romano dei programmi che fissavano di volta in volta l’obiettivo da raggiungere nella lotta contro Antonio. Quattordici sono le orazioni che Cicerone pronunciò fra il settembre del 44 e l’aprile del 43, con l’intento di far dichiarare Antonio nemico pubblico. La seconda, la più violenta, fu soltanto scritta da Cicerone, che la fece circolare a mo’ di pamphlet. Chiamate nell’antichità anche Antonianae, devono il nome di Filippiche all’accostamento, fatto da Cicerone, alle celeberrime orazioni di Demostene contro Filippo il macedone. ”.Num quid igitur aliud in iudicium venit, nisi uter utri insidias fecerit? Profecto nihil: si hic illi, ut ne sit impune; si ille huic, ut scelere solvamur. 32. Quonam igitur pacto probari potest insidias Miloni fecisse Clodium? Satis est in illa quidem tam audaci, tam nefaria belua, docere magnam ei causam, magnam spem in Milonis morte propositam, magnas utilitates fuisse. Itaque illud Cassianum 'cui bono fuerit' in his personis valeat; etsi boni nullo emolumento impelluntur in fraudem, improbi saepe parvo. Atqui Milone interfecto Clodius haec adsequebatur, non modo ut praetor esset non eo consule quo sceleris nihil facere posset; sed etiam ut eis consulibus praetor esset, quibus si non adiuvantibus at coniventibus certe, speraret posse se eludere in illis suis cogitatis furoribus: cuius illi conatus, ut ipse ratiocinabatur, nec cuperent reprimere si possent, cum tantum beneficium ei se debere arbitrarentur; et, si vellent, fortasse vix possent frangere hominis sceleratissimi conroboratam iam vetustate audaciam. 14 Cic., Philippicae 2.14.35: Ma se qualcuno ti chiamasse in giudizio e e pronunziasse quel detto Cassiano: a chi ha giovato, poni mente, te ne prego, di non restare perplesso. Quantunque la morte di Cesare, come tu dicevi, abbia giovato a tutti quelli che non volevano servire, a te in modo particolare, che non solo non servi ma anche regni, a te che il tempio della dea Cibele ha pagato un grandissimo debito, a che che dissipasti con i registri stessi depositati nel tempio una somma incalcolabile, a te che dalla casa di Cesare sono state recate infinite ricchezze, a te infine la cui casa è una lucrosissima officina di di falsi registri e false scritture, ed un infame mercato di campi, di paesi di immunità e di dazi15. Cicerone nell'80 a.C. assunse la difesa di Sesto Roscio Armerino il cui padre era stato ucciso su mandato di due suoi parenti, d'accordo con Lucio Cornelio Crisogono, potente favorito e liberto di Silla. Crisogono aveva fatto inserire il nome dell'ucciso nelle liste di proscrizione per poterne acquistare all'asta, a un prezzo irrisorio, le proprietà terriere. Gli assassini cercarono di sbarazzarsi del figlio dell'ucciso accusandolo di parricidio ma Cicerone svelò le responsabilità di Crisogono, con l'orazione Pro Roscio Amerino convincendo i giurati che l'assassinio favoriva (...cui bono...) gli accusatori e non l'accusato. Da questo processo, in cui ebbe l'ardire di opporsi ad un potente appoggiato da Silla, ma senza inimicarsi il dittatore, iniziò la fama e la carriera politica di Cicerone. Il significato è pressoché identico al verso senecano Is fecit cui prodest (=il colpevole è colui che da questo ne trarrà vantaggio). E’ ben noto che, se complesse sono le origini sociali della crisi della Repubblica, il personaggio chiave da un punto di vista strettamente politico è Silla. La dittatura sillana costituisce uno spartiacque fondamentale. L’aristocrazia che sosteneva Silla a un certo momento, spaventata dai suoi eccessi, ne prese le distanze. Cicerone capisce precocemente questa situazione. Il processo di Roscio non inserisce Cicerone solo nel novero dei patroni di primo piano ma lo coinvolge nel pieno della contesa politica. Vorrei evitare qualsiasi allusione a situazioni contemporanee anche per rispettare la probità intellettuale degli studiosi, che sono sempre rifuggiti da facili e banalizzanti paragoni con il presente. Vero è, tuttavia, che in situazioni di accentuata instabilità politica, e, quindi, di incertezza costituzionale, la gestione della giustizia è facilmente oggetto di contesa. In questo caso abbiamo un’accusa di parricidio. Il padre Roscio, probabilmente legato ad esponenti della nobilitas, viene assassinato a Roma mentre il figlio gestiva le sue proprietà ad Ameria. La strategia giudiziaria di Cicerone si può riassumere nel cui bono, vale a dire nel mettere al centro della questione chi poteva trarre vantaggio dall’assassinio di Roscio. Il quadro che viene fuori è sinistro e inquietante. A trarne profitto non potevano essere altri che due parenti che, dopo l’assassinio, avevano chiesto a Crisogono, il potente braccio destro di Silla, la riapertura delle liste di proscrizione per inserirvi Roscio. Era evidentemente una strategia per spartirsi le sue proprietà, cosa tanto più scandalosa se si considera che Roscio era notoriamente di simpatie sillane. Perché- è bene dirlo chiaramente- l’età ciceroniana è contraddistinta da un’estrema violenza. Violenza di parole, di invettive, ma anche, e soprattutto, di atti contro gli avversari politici. 15 Quodsi te in iudicium quis adducat usurpetque illud Cassianum, 'cui bono' fuerit, vide, quaeso, ne haereas. Quamquam illud quidem fuit, ut tu dicebas, omnibus bono, qui servire nolebant, tibi tamen praecipue, qui non modo non servis, sed etiam regnas, qui maximo te aere alieno ad aedem Opis liberavisti, qui per easdem tabulas innumerabilem pecuniam dissipavisti, ad quem e domo Caesaris tam multa delata sunt, cuius domi quaestuosissima est falsorum commentariorum et chirographorum officina, agrorum, oppidorum, immunitatium, vectigalium flagitiosissimae nundinae. Nell’assenza di soggetti assimilabili ai partiti politici, si tratta in larga misura di violenza personale, di bande prezzolate di leaders resi sempre più forti da risorse economiche quasi senza limiti. “cacciatori di teste”. Non si può capire l’orientamento di fondo, la sensibilità della successiva cultura di età augustea, se non si tiene conto di questa realtà. Per tornare alla pro Roscio, sono convinta, che Cicerone non agisse senza copertura, voglio dire senza aver prima ottenuto una sorta di via libera da rappresentanti autorevoli dell’aristocrazia. Questa non voleva correre il rischio di affrontare direttamente il favorito di Silla. D’altra parte doveva ormai essere sentita la necessità di un ridimensionamento dell’arbitrarietà dei sillani. Cicerone, ambizioso e promettente avvocato, era un candidato ideale per lanciare un segnale, per manifestare una sorta di caveat. Giovane e brillante i rischi alla fine sarebbero stati i suoi. Quando Cicerone riconsidera quest’episodio cruciale nel De Officiis (2.51) non esagera troppo nel presentare il patrocinio di Roscio come un attacco diretto di un adulescens alla potenza di Silla. Non a caso la strategia difensiva di Cicerone, che forse fu determinante nell’ottenergli il successo, fu quella di separare le responsabilità di Silla da quelle del suo protetto che, a quanto pare, fu abbandonato al suo destino. D. 48.8.15 (Ulp. 8 ad l. Iul. et Pap.): Nihil interest, occidat quis an causam mortis praebeat. Non vi è differenza tra l’aver ucciso e l’aver dato causa alla morte, attiene alla premeditazione. . Il punto di partenza dell’indagine è stato il lemma interesse, perché il verbo interest traduce l’interesse verso una cosa, un affare o un campo d’azione, significa importa, interessa, sta a cuore. L’odierno sostantivo riproduce lessicalmente il verbo interesse (come sostantivi venivano utilizzati altri termini, soprattutto bonum o utilitas, causa). I significati erano molteplici (serviva ad indicare essere presente in un consesso assembleare, od il rapporto differenziale tra due situazioni) ma uno sopra ad ogni altro assunse prevalenza ed è rintracciabile in via generale. E’ il riferimento a quella che – oggi – diremmo una relazione di interesse (è interesse di …, importa a …). Vi è innanzitutto il soggetto rispetto al quale alcunché è di interesse o importa: nome concreto (Publii Clodii, debitoris, creditoris e così via); ovvero nome astratto (interest rei publicae). L’altro termine della relazione è costituito dalla situazione che interessa o importa al soggetto, l’id quod interest. Congiunge i due momenti la relazione di valore, che è espressa dal verbo interesse, accompagnato da modalità assiologiche per lo più quantitative. L’impiego del verbo impersonale colorava di oggettività la relazione di valore, facendola così penetrare nel campo semantico della voce utilitased instaurando per tale via il collegamento interesse-utilità che sarà un punto fermo nel linguaggio empirico e scientifico. Nel linguaggio dei giuristi la voce interesse venne utilizzata con un accentuato tecnicismo in materia di risarcimento del danno, per designare la riparazione che serve e reintegrare la perdita patrimoniale causata da un illecito. Si mette l’accento, in questo impiego giuridico, sulla situazione che è di interesse, sull’id quod interest la somma di danaro occorrente per reintegrare il patrimonio del danneggiato del maggior valore che avrebbe attualmente potuto avere se non si fosse verificata la lesione, nella quale somma, perciò, a differenza della rei aestimatio (certa) e del pretium (verum), rientrano sia il danno emergente che il lucro cessante16. Ci si ferma a riflettere su un problema che i giuristi hanno risolto communi sententia”. È necessario distinguere i casi in cui il mandatario, in assenza del mandato, non avrebbe mai commesso 16 F. Gluge, A Gőtze, sv. Interesse, in Etymologisches Woerterbuch der deutschen Sprache, Berlin, 1953, 340. il reato, dai casi in cui il mandatario, anche senza mandato, avrebbe comunque compiuto il reato. Nei primi il mandato costituisce la «causa principalis et prima integra» del reato; nei secondi è solo una «causa concomitans». I giuristi avvertono l’esigenza di differenziare il trattamento del mandante e del mandatario muovendo dalla regola generale, «mandans et mandatarius pari poena puniri»: nei primi casi al mandante deve comminarsi la pena ordinaria, nei secondi la extraordinaria, di misura inferiore. Specularmente, communi sententia i giuristi avvertono che in qualche modo anche la sanzione del mandatario debba essere diversa nei casi in cui questi avrebbe comunque perpetrato il reato, indipendentemente dal mandante, rispetto ai casi in cui si sia determinato a commettere il reato solo a causa del mandante. L’ordinamento (D. 48.8.15) vuole che mandante e mandatario siano puniti pari poena dal momento che, una volta che il mandato sia stato eseguito, il reato del mandante e quello del mandatario possono considerarsi unum delictum la cui causa prima deve individuarsi nel mandante. Il mandatario che ha aderito al mandatum rei turpis scientemente e dolosamente deve essere punito con la pena ordinaria: egli ha accettato di eseguire un mandatum rei turpis che non era obbligato ad assolvere e pertanto deve ritenersi obbligato alla pena prevista per gli effetti che conseguono dall’esecuzione del mandato. In proposito, si sottolinea l’importanza dell’indagine sulla volontà del mandatario: egli afferma che in tutti i delitti si deve considerare la volontà dell’agente e che senza l’animus e la voluntas di delinquere non può esserci delitto, perché la malitia di ciascun atto perverso dipende dalla volontà, che è fondamentale in ogni delitto. Ne consegue che il mandatario deve essere ascoltato se possa provare con giuramento la sua ignoranza. Proprio perchè bisogna tenere conto della volontà, e dell’intreccio delle volontà, del mandatario e del mandante, i giuristi ritengono che al mandante che abbia conferito il mandatum a delinquere al mandatario che comunque si sarebbe determinato a compiere quel delitto anche indipendentemente dal mandatum — perché, per esempio, il mandatario, prima ancora di riceverne mandato dal mandante, aveva già deciso con animo fermo di compiere il delitto, e di compierlo in nome proprio e a proprio rischio e anche per ragioni rilevanti e importanti, perché per esempio egli stesso era stato fatto oggetto di un’iniuria proprio da colui contro il quale il mandante lo aveva incaricato di commettere il delitto — debba comminarsi solo una poena extraordinaria (più lieve, in questo caso, dell’ordinaria). In tali casi il mandante, con il suo mandato, confermando il mandatario nella sua intenzione a commettere il crimine, è solo causa concomitante del delitto che è stato perpetrato, non proprio causa principale e prima integra. In questi casi i giuristi utilizzano la categoria del persuadente opponendola a quella del mandante: questi è colui che manda a commettere il delitto per sé; il ‘persuadente’, invece, è colui che persuade qualcuno per ragioni che riguardano lo stesso persuaso; tuttavia il ‘persuadente’ è tenuto alla stessa pena se l’altro altrimenti non si sarebbe determinato a commettere il delitto. 6 - Cosa ci colpisce di un episodio di cronaca? Tutto può essere interessante, dalla specialità della sua vicenda all'anormalità dei comportamenti umani, ma in particolar modo la sua genesi, il carattere dei personaggi e il movente dell'azione. Cattura di più la storia di un caso piuttosto della fredda struttura o della concreta esecuzione. Ci si interroga sul perchè si sia agito in quel modo, cosa abbia fatto scatutire tanto odio o passione o ira e quali siano i "veri" retroscena. Sono gli stessi interpreti del diritto, insieme a chi indaga sulla materialità dei fatti, a mettere in evidenza gli elementi importanti di un fatto, a scoprire il suo principio, a dare un senso al concatenamento degli eventi del caso in modo da ricostruirne la storia...e la storia è narrativa. Tutti, anche i non addetti ai lavori possono immaginare interpretazioni lasciandosi coinvolgere, per esempio, dallo strano episodio dell'assassinio di un re e del figlio che, erede legittimo, perde la corona e, di conseguenza, la successione al trono perché la madre sposa l'assassino? Shakespeare volle proprio raccontare questa intricata e oscura tragedia nella quale diritto e letteratura si intrecciano seguendo il filo conduttore degli atti teatrali sul palcoscenico. Amleto fu studiato e analizzato da numerosi esperti del diritto, che da esso partirono per ricostruire nozioni di sovranità e di legalità. E' possibile trarre da un testo letterario concetti giuridici? Come può un assassino, amante della regina, uccidere il sovrano e diventare il principe consorte? Quale regola successoria sorregge questo passaggio? Viene cosi legittimato il crimine? Amleto deve vendicare il padre. Per farlo non uccide né la madre, né l'amante-assassino, bensì agisce sulla sua personalità e diventa un folle. La sua pazzia è una finzione solo per raggiungere la verità, e nonostante abbia il diritto dalla sua parte è costretto a tramare per interpretare gli altri e se stesso. Il protagonista si trova, riprendendo Carl Schmitt, in uno stato di eccezione. Questo studioso tratta delle differenze tra legalità e legittimità e correla strettamente la sovranità con lo stato di eccezione: "Sovrano è chi decide sullo stato di eccezione". Questo stato si contrappone allo stato di diritto, perché si configura come una situazione in cui il diritto è sospeso. E' una sospensione del diritto paradossalmente legalizzata (un ius-stitium che è differente dalla dittatura). E' innegabile come questo stato d'eccezione sia molto diffuso nella realtà di oggi. Paragono il giurista ad un signore che adopera molti occhiali. Alcuni sono d’ingrandimento, gli permettono di distinguere, di scorgere più soggetti là dove agli altri ne appare uno solo (quanti mai negozi scorge il giurista in seno a quella categoria che per l’uomo di affari si chiama finanziamento!), talora gli consentono di vedere lontano (il tramonto di un istituto, il suo confondersi con un altro; od, all’opposto, lo scindersi, un aspetto d’istituto preesistente che acquista autonomia, regime a sé, ed anche l’avvertire certe tendenze della giurisprudenza: dal dubbio espresso in una motivazione arguire che prossimamente anche la massima verrà abbandonata). Qualche volta sono occhiali da presbite, che consentono di vedere vicino (il giurista che continua a studiare con amore un istituto, senz’accorgersi che la pratica lo ha abbandonato); ed a volte ancora sono occhiali scuri od almeno isolanti (il giurista considera e critica secondo una sua logica, senza badare che quel che a lui appare naturale, alla logica dei più sembra assurdo). Carlo Jemolo, in Rivista di diritto civile, 1962