INDULGENTIA PRINCIPIS ED EMENDA: ASPETTI DELLA
POLITICA CRIMINALE NELL’IMPERO ROMANO
TRA IV E VI SEC. D.C.
Fecha de recepción: 15 junio 2017 / Fecha de aceptación: 2 julio 2017
Francesco Fasolino
Università degli Studi di Salerno
ffasolino@unisa.it
Riassunto: Tra il IV e il VI secolo d.C., con la comminazione delle pene vengono
perseguiti, consapevolmente, non soltanto obiettivi di difesa dell’ordine sociale e di
prevenzione generale ma, a differenza di quanto sin qui ritenuto dalla communis
opinio, anche una funzione di emenda, da intendersi in una gamma molteplice di
significati che va da quello, minimale, presente già nella riflessione dei giuristi
severiani, di effetto positivo della condanna per il reo a quello, ben più pregnante,
riscontrabile nella legislazione imperiale, di correzione e ravvedimento del
delinquente. Alla luce di questo più ampio disegno complessivo di politica
criminale si può comprendere meglio, allora, la ratio dei provvedimenti di
indulgentia che gli imperatori adottarono sempre più di frequente, dando luogo ad
una vera e propria consuetudine, in occasione della Santa Pasqua: anche attraverso
di essi, infatti, il legislatore mira, per l’appunto, all’emenda del reo, in piena
adesione ai principi della religione cattolica. Il perseguimento di tale finalità fa sì
che gli atti di clemenza imperiale di quest’epoca non siano espressione di mero
arbitrio politico del sovrano bensì ma giustificano e fondano l’indulgenza del
princeps coerentemente con l’assetto valoriale su cui si fonda il sistema penale
dell’epoca.
Parole chiave: Funzione della pena; emenda; indulgentia principis; amnistia
Abstract: Between the 4th and 6th centuries AD, with the punishment of the
crimes, had consciously pursued not only objectives of defense of the social order
and of general prevention but, unlike what is considered by the communis opinio,
also a function of amend, to be understood in a wide range of meanings ranging
from the minimal, already present in the reflection of the Severian jurists to that
much more significative, found in imperial legislation, as correction and repentance
of the delinquent. In the light of this broader drawing of criminal policy, we can
better understand the ratio of the indulgence measures that emperors adopted more
and more frequently, to make it a habitual custom, during Holy Easter: even
through them, in fact, the legislator aims at the delinquent amend, in full
compliance with the principles of Catholic religion. The pursuit of this purpose
means that the acts of imperial clemency of this era are not an expression of the
mere political arbitrariness of the sovereign but they justify and base the indulgence
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of the emperors in a coherent manner with the value system on which the criminal
system is founded in that historical period.
Keywords: Punishment function; amend, indulgentia principis; amnesty
1. IL
PLURIFUNZIONALISMO
DELLA
PENA
NEL
TARDO
ANTICO:
LO
SCOPO
DELL’EMENDA QUALE PRINCIPIO DEL SISTEMA DI REPRESSIONE CRIMINALE
Come ho già avuto modo di affermare1, la legislazione criminale dell’età
tardo antica offre un quadro estremamente articolato in cui coesistono tutte le
principali funzioni solitamente attribuite alla pena, benché si possa rilevare una
maggiore incidenza di quella cd. preventiva/deterrente2 che si accompagna,
tuttavia, alla sempre più crescente diffusione e concettualizzazione di quella
correttiva, rivolta all’emenda del colpevole. Quest’ultima, originatasi nell’ambito
del dibattito culturale che ebbe luogo a Roma tra il I sec. a.C. e il II sec. d.C.,
sull’onda del recepimento di teorie filosofiche ellenistiche, e in specie del pensiero
platonico3, ebbe invero vasta diffusione nella legislazione del tardo antico, a partire
1
Mi sia consentito, in argomento, il rinvio a FASOLINO, F., Pena, amnistia, emenda: una prospettiva
storico-giuridica, Napoli 2016, in part. pp. 87 ss.
2
Con specifico riferimento alla legislazione giustinianea, ed in specie alle Novelle, ciò è già stato
sottolineato da SITZIA, F., Aspetti della legislazione criminale nelle Novelle di Giustiniano: il
problema della giustificazione della pena, in Novella Constitutio. Studies in honour of Nicolaas van
der Wal, Groningen 1990, pp. 211 ss. L’A. ha sostenuto che le varie funzioni della pena sono tutte
coesistenti nella normazione di Giustiniano, anche se prevale quella di prevenzione generale, sulla
quale si insiste specialmente nelle Novelle degli anni 535-53θ, nelle quali l’imperatore ritiene che
alla riorganizzazione dell’amministrazione imperiale sia maggiormente funzionale una concezione
della pena intesa come ammonimento per la collettività a non commettere delitti, allo scopo di
mantenere l’ordine all'interno dell'impero. In senso analogo, BONINI, R., «Alcune considerazioni
sulla funzione della pena nelle Novelle giustinianee», in DILIBERTO, O. (cur.), Il problema della
pena criminale tra filosofia greca e diritto romano. Atti del deuxième colloque de philosophie
pénale (Cagliari, 20-22 aprile 1989), Napoli 1993, pp. 397 ss. Cfr., altresì, BUONAMICI, F., «Il
concetto della pena nel diritto giustinianeo», in Studi Pessina II, Napoli 1899, pp. 185 ss., il quale
ritiene che la funzione principale della pena, nel periodo in esame, sia stata quella intimidatoria,
come sarebbe dimostrato, in particolar modo, dalle Novelle 8.8; 17. 5; 25.11; 88.1.
3
Sulle posizioni che caratterizzarono tale dibattito si veda DILIBERTO, O., «La pena tra filosofia e
diritto nelle Noctes Atticae di Aulo Gellio», in DILIBERTO, O. (cur.), Il problema della pena
criminale tra filosofia greca e diritto romano..., cit. pp. 121 ss.
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soprattutto dall’età teodosiana, per effetto, in particolare, dell’influenza della
religione cattolica e delle dottrine dei Padri della Chiesa4.
Tra il IV e il VI secolo d.C. trova, pertanto, ampio riscontro
nell’ordinamento giuridico romano la concezione medico-curativa della pena; la
condanna a morte viene sempre più ad essere considerata eseguibile soltanto nei
confronti dei criminali ritenuti definitivamente irrecuperabili; “indirizzi platonici e
dottrine cristiane appaiono, dunque, nel periodo convergenti in merito alla
funzione della pena indirizzata, nella prospettiva cristiana, alla redenzione del
peccatore, conseguibile mediante la sua volontaria rieducazione (metanoia)”5.
I diversi scopi assegnati alla sanzione penael in quest’epoca sono però
molto spesso strettamente intrecciati, il che rende impossibile il ricorso a schemi
dogmatici predefiniti, anche in considerazione del fatto che, come è noto, il
concetto di funzione della pena non è qualcosa di assoluto e immutabile bensì di
variabile e storicamente relativo6.
4
Per approfondimenti si rinvia a FASOLINO, F., Pena, amnistia, emenda..., cit. pp. 145 ss.
Riporto le parole di BARONE ADESI, G., «Religio e polifunzionalità della pena tardo antica», in
CALORE, A., SCIUMÈ, A. (curr.), La funzione della pena in prospettiva storica e attuale. Atti del
convegno della Società Italiana di Storia del Diritto (Brescia 16-17 ottobre 2009), Milano, 2011,
pp. 33 ss., il quale, a p. 90, così sintetizza le conclusioni del suo ampio ed interessante saggio.
6
Ne dà atto, in particolar modo, SITZIA, F., Aspetti della legislazione criminale nelle Novelle di
Giustiniano... cit. pp. 219 s. Per comune opinione si ritiene che l’unico tratto distintivo generale sia
il carattere retributivo-afflittivo della pena stessa, in quanto mancherebbe nel diritto romano un
sistema premiale; tuttavia, contra, si veda LURASCHI, G., Diritto premiale e sistema penale romano,
in Atti del VII Simposio di studi di diritto e procedura penali, Milano 1983, pp. 53 ss, cit. pp. 53 ss.,
il quale sostiene che nell’ordinamento giuridico romano la ricompensa ed il premio costituivano due
strumenti che, al pari della punizione, fungevano da correttivo sociale. Sul complesso tema della
funzione della pena nell’esperienza giuridica romana si veda, con l’indicazione della principale
bibliografia e delle fonti, DE ROBERTIS, F. M., «La funzione della pena nel diritto romano», in Studi
in onore di Siro Solazzi, Napoli 1948, pp. 169 ss., ora in ID., Scritti varii di diritto romano, III,
Diritto penale, Bari 1987, pp. 5 ss., che qui si cita; dello stesso autore si vedano pure “La variazione
della pena nel diritto romano” e “La variazione della pena ‘pro modo admissi’”, ora raccolti in
Scritti varii di diritto romano, III, Diritto penale..., cit. pp. 403 ss. e pp. 525 ss.. Cfr., altresì,
BRASIELLO, U., «s.v. Pena», in Novissimo digesto italiano XII (1965) pp. 808 ss.; DILIBERTO, O.
(cur.), Il problema della pena criminale tra filosofia greca e diritto romano..., cit. passim;
SANTALUCIA, B., «Pena criminale», in Enciclopedia del Diritto XXXII (1982), pp. 734 ss., ora in
ID., Studi di diritto penale romano, Roma 1994, pp. 233 ss., che qui si cita; CALORE, A., «La ‘pena’
e la ‘storia’», in Diritto@storia 3 (2004), pp. 1 ss.; ZABŁOCKI, J., «La pena del taglione nel diritto
romano», in CASCIONE, C. & MASI DORIA, C., Fides Humanitas Ius. Studii in onore di Luigi
Labruna, VIII, Napoli 2007, pp. 5991 ss.; CANTARELLA, E., «La ‘ulciscendi libido’», in Index 37
5
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Si può cogliere, tuttavia, la tendenziale prevalenza della funzione
intimidatrice e deterrente della pena, ispirata a ragioni, di cui peraltro la cancelleria
imperiale mostra di avere piena consapevolezza, volte a garantire l’ordine e la
difesa sociale: solo per citare qualche esempio, basti ricordare Nov. 17.5, del 535,
ove l’imperatore sancisce una estrema severità nell’irrogazione di alcune pene “ut
paucorum supplicio reliquos omnes serves”, nonché Nov. 30.11, emanata nell’anno
seguente, laddove la pena è prevista “ut paucorum hominum poena reliqui omnes
continuo emendentur”, precisando, altresì, che “non enim inhumanitas, sed maxima
potius humanitas est, si paucorum castigatione multi servantur”.
Con l’affermarsi della concezione generalpreventiva della pena, l’ideale
classico di giustizia retributiva, che esige la proporzione tra crimine e sanzione,
diventa pressoché residuale; quella che si richiede, infatti, è una maggiore severità
nei confronti del reo, finalizzata a cercare di scoraggiarlo dal commettere delitti,
terrorizzandolo con la previsione di pene esemplari,: in tal modo, evidentemente,
l’interesse del singolo, in un certo qual senso, viene ad essere sacrificato per il bene
di tutta la comunità.
Nel periodo del tardo antico, dunque, la comminazione della pena ebbe
sempre più marcatamente uno scopo dissuasivo e monitorio, mirante a trattenere
chiunque dal compiere il male mediante la paura suscitata dalla previsione di pene
sempre più aspre e severe, secondo i dettami di una vera e propria “pedagogia del
terrore”7.
(2009), pp. 132 ss.; WACKE, A., «Le finalità della sanzione penale nelle fonti romane», in Index 37
(2009), pp. 137 ss.; GUTIÉRREZ MASSON, L., «Control de las mentes, función paradigmática de la
pena y función simbólica del derecho en la experiencia jurídica romana», in AARC. 19 (2013), pp.
616 ss. Sul punto, inoltre, cfr. SANTALUCIA, B., Metu coercendos esse homines putaverunt.
Osservazioni sulla funzione della pena nell’età del Principato», in CALORE, A. & SCIUMÈ, A.
(curr.), La funzione della pena in prospettiva storica ed attuale..., cit. pp. 15 ss. in CALORE, A. &
SCIUMÈ, A. (curr.), La funzione della pena in prospettiva storica ed attuale..., cit. dove, con
specifico riferimento all’esperienza greca e romana, si vedano anche i saggi, rispettivamente, di
CANTARELLA, E., I greci e la funzione della pena, pp. 1 ss., e di BARONE ADESI,G., «Religio e
polifunzionalità della pena tardo antica...», cit. pp. 33 ss.
7
L’espressione è di CASAVOLA, F., «Cultura e scienza giuridica nel secondo secolo d.C.: il senso
del passato», ora in Giuristi adrianei, Napoli 1980, p. 2ι. L’A., tuttavia, la utilizza in relazione
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Accanto a tale orientamento, e strettamente ad esso correlato, sussistette,
tuttavia, un altro, che via via andò sempre più diffondendosi, volto a rimarcare la
funzione emendatrice della sanzione penale: l’espiazione della pena come
strumento di rieducazione del reo compare, ad esempio, in Nov. 77, del 535, e in
Nov. 141, del 559, entrambe in tema di luxuria contra naturam e bestemmia, nelle
quali l’imperatore dichiara che la pena è finalizzata al recupero del reo, in piena
consonanza con il principio evangelico secondo cui Dio non vuole la morte bensì la
redenzione del peccatore, di frequente paragonato ad un infermo bisognoso di cure
adeguate.
L’ampia e profonda riflessione filosofica e culturale sulle caratteristiche e
gli scopi della pena che, come si è accennato, aveva permeato gli ambienti culturali
romani, quantomeno a partire dagli inizi del I sec. a.C., si era tradotta, già in epoca
severiana, in regole giuridiche chiaramente ispirate al principio dell’emenda8,
intesa come conseguenza positiva dell’espiazione della pena per il reo, ed aveva
preparato il terreno per la concettualizzazione e il consolidamento di tale funzione
nella legislazione imperiale del tardo antico, per effetto dell’influsso diretto e
preponderante della dottrina cattolica, la quale, ovviamente, accentuò il carattere
della correzione come strumento di recupero morale finalizzato alla salvezza
(dell’anima) del colpevole.
Come due facce della stessa medaglia, dunque, la funzione emendatrice e
quella deterrente si compenetrano nel medesimo scopo finale che entrambe le
all’età arcaica nella quale, a suo parere, sarebbe stata prevalente la concezione della pena monitoria,
meramente esemplare, mentre la società evoluta del II secolo d. C., invece, avrebbe teorizzato una
sanzione proporzionata al delitto commesso, nell’ambito di una concezione retributiva e non
intimidatoria. Al riguardo, sembra da condividere, invece, l’opinione di DE ROBERTIS, F., La
funzione della pena, cit., p. 24, secondo cui: “…il diritto classico, lungi dal cristallizzarsi in una
concezione univoca della funzione della pena e, pur generalmente informandosi ai principi della
retribuzione, attuò con certa larghezza anche quelli della prevenzione, ammettendo finanche il
concorso simultaneo delle due funzioni in una determinazione di stessa pena”. Per un’efficace
dimostrazione del persistere, nella Roma repubblicana e nel primo Principato, della concezione
della esemplarità della pena in funzione deterrente, cfr., tuttavia, da ultimo, SANTALUCIA, B., Metu
coercendos esse homines putaverunt..., cit. pp. 24 ss.
8
Cfr., al riguardo, LOVATO, A., «Legittimazione del reo all’accusa e funzione emendatrice della
pena», in SDHI 55 (1989), pp. 423 ss., nonché FASOLINO, F., Pena, amnistia, emenda..., cit. 124 ss.
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giustifica: determinare, mediante la pena, rispettivamente espiata o minacciata, il
futuro comportamento del colpevole e la condotta a venire di tutti i consociati.
È proprio nella logica del riscatto e della redenzione del reo che si
comprende allora come, accanto a misure tanto severe e repressive convivono,
nella legislazione giustinianea, frequenti richiami all’humanitas: si veda, ad
esempio, Nov. 134.13, del 556, che dispone di attenuare la gravità sia delle
sanzioni corporali sia di quelle patrimoniali, in considerazione della infirmitas
humani generis9, da intendersi, a mio modo di vedere, come fragilità morale che
merita indulgenza e perdono10.
Analizzando il testo della legge più nel dettaglio, l’imperatore dichiara che, poiché è necessario
considerare la debolezza del genere umano, sono vietate le pene corporali da cui derivino
menomazioni, come tagliare entrambe le mani o i piedi o infliggere punizioni dello stesso genere
che comportino la rottura delle articolazioni, dal momento che ciò, precisa il legislatore, è più grave
del taglio di entrambe le mani. Si comanda inoltre, se è stato commesso un reato per cui le leggi
prescrivono la pena di morte, che i colpevoli subiscano le pene secondo il tenore delle leggi; se
invece il crimine non è così grave da prevedere l’uccisione del reo, si ordina che sia castigato in
altro modo o sia mandato in esilio; ma se la qualità del crimine esige la mutilazione di un arto,
Giustiniano stabilisce che sia tagliata solo una mano. Si tratta di una legge estremamente
innovativa, che, data la sua importanza, viene riportata per esteso nei Basilici (B. 6.19.13). Alcuni
accenni a questa Novella si trovano in PATLAGEAN, D., «Byzance et le blason penal du corps», in
Du châtiment dans la cité. Supplices corporals et peine de mort dans le monde antique, Roma 1984,
p. 408. La legge qui potrebbe alludere ad esempio alla disposizione contenuta in Nov. 42.1.2 del
53θ, che stabilisce l’abscissio manus a carico di colui che trascrive i libri eretici. In generale, la
pena della truncatio è prevista nella legislazione novellare in varie forme: si parla di amputazione
della mano in Nov. 17.8. pr. nei confronti degli exactores inadempienti nella compilazione delle
ricevute; Nov. 30.8.1 sancisce l’amputazione delle mani, al plurale, per chi espone le tavole con i
nomi dei debitori; in Nov. 42.1.2 prevede l’abscissio manus per i trascrittori di opere del patriarca
monofisita Severo; Nov. 134.13 prevede il taglio di una mano (ma solo una) per i delitti contro i
quali tale pena risulti adeguata; viene comminata la castrazione da Nov. 142.1 a chi facit eunuchos;
l’asportazione di un membro o parte del corpo è prevista da Nov. 13.θ. pr. in generale e senza
riferimento a specifici reati, ed è citata da Nov. 128.20, in cui si stabilisce che i magistrati possono
nominare dei vicari, i quali li sostituiscono in ogni attività tranne che nell’inflizione di pene
mutilanti o della pena capitale; essa è, infine, prevista da Nov. 154.1 per chi contrae nozze
incestuose: cfr. VAN der WAL, N., Manuale Novellarum Justiniani..., cit. p. 49. Sulle pene mutilanti
e sull’interpretazione dell’espressione poena gladii data dai tardi giuristi bizantini si veda GORIA,
F., «Ricerche su impedimento da adulterio e obbligo di ripudio da Giustiniano a Leone VI», in
SDHI 39 (1973), p. 354, nt. 53.
10
Sulla Novella in questione cfr. MANFREDINI, A. D., «Giustiniano e la mutilazione delle mani e
dei piedi», in SDHI 61 ( 1995), pp. 463 ss., il quale ipotizza che quella a cui allude l’imperatore
in Nov. 134 sia una debolezza non spirituale ma fisica, per cui le pene mutilatorie vanno evitate in
quanto causano inabilità al lavoro, con evidenti ripercussioni sull’assistenza pubblica ed
ecclesiastica. L’A., per avallare la propria tesi secondo cui la disposizione normativa in esame
avrebbe vietato l’amputazione degli arti inferiori, osserva, in primo luogo, che, secondo il tenore
letterale della legge, i delinquenti o sono condannati a morte o a un’altra sanzione quale l’esilio o,
9
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La prospettiva indicata dal legislatore è quella di moderare le pene
privilegiando lo scopo dell’emenda: ai magistrati viene così vietato di infliggere
pene corporali a coloro che sono condannati per reati che non prevedono la pena
capitale, dovendo invece, in tali ipotesi, comminare delle pene correttive oppure
l’esilio11.
In ogni caso, le pene corporali vengono mitigate mediante l’introduzione
del divieto di abscissio di entrambe le mani o di entrambi i piedi e di frattura delle
articolazioni12; quanto alle pene patrimoniali, si sancisce che la sanzione della
confisca dei beni debba essere ristretta ai soli casi in cui il reo non abbia
discendenti, ascendenti fino al terzo grado o coniuge. Per ciò che riguarda, invece,
le pene pecuniarie, la publicatio bonorum era già stata limitata da Giustiniano in
Nov. 17.12, del 535, sulla base della considerazione che la punizione spetta solo
all’autore del reato e non ai suoi eredi incolpevoli13: si ribadisce, così, il
fondamentale principio di personalità della pena che era già stato in precedenza
oggetto di riflessione da parte della giurisprudenza severiana, la quale giunse ad
affermare che l’espiazione della pena produceva sul condannato conseguenze
se si tratta di reati che esigono la mutilazione di un arto, deve essere loro tagliata una sola mano:
tale affermazione dimostrerebbe, quindi, che era vietato il taglio anche di un solo piede. Del resto,
anche nelle leggi precedenti a Nov. 134 non compaiono ipotesi di mutilazione degli arti inferiori e,
per quanto riguarda le mani, si parla sempre di amputazione di una sola di esse. A conferma di
quanto detto si vedano le Novellae 17.8. pr. e 42.1.2 in cui si parla di amputazione di una sola
mano. Va tuttavia ricordato che esiste nella compilazione giustinianea un caso di amputazione del
piede: si tratta della pena prevista contro il servo fuggitivo da una costituzione di Costantino
riportata, inalterata, in CI. θ.1. Su Nov. 134 si veda anche l’ampia disamina di BARONE ADESI, G.,
«Religio e polifunzionalità della pena tardo antica...», cit. pp. 74 s. e pp. 84 ss.
11
In tal senso, come osserva condivisibilmente al riguardo BARONE ADESI, G., «Religio e
polifunzionalità della pena tardo antica...», cit. p. 74 e nt. 117, in Nov. 134.13 appare emblematico
l’uso della voce verbale σωφρονίζεσ α che esprime, per l’appunto, l’idea di moderazione nella
punizione, indicando così le modalità del castigo, che deve essere diretto alla correzione e non
all’annientamento del colpevole.
12
MANFREDINI, D. A., op. loc. ult. cit.
13
Authenticum: Ut autem non solum corporales poenae, sed etiam pecuniariae mediocriores fiant,
sancimus eos qui in criminibus accusantur, in quibus leges mortem aut proscriptionem definiunt, si
convincantur aut condemnentur, eorum substantias non fieri lucrum iudicibus aut eorum officiis,
sed neque secundum veteres leges fisco eas applicari: sed si quidem habeant descendentes, ipsos
habere substantiam, si vero non sint descendentes, sed ascendentes usque ad tertium gradum, eos
habere.
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positive, benché in un’accezione dei termini emendatio/correctio scevra di
qualunque implicazione religiosa.
Nonostante la direttrice segnata dall’evidente influenza dei principi della
religione cattolica, la legislazione giustinianea non è, tuttavia, esente da
contraddizioni: i frequenti richiami all’humanitas e alla moderazione nel
comminare le pene14 convivono con il mantenimento di sanzioni ispirate ad una
finalità prettamente retributiva15, quando non addirittura a primitive forme di
vendetta: basti ricordare, in proposito, quanto stabilito da Nov. 142.1, del 558, a
proposito del reato di castrazione: infatti, coloro che rendono eunuchi i propri
schiavi dovranno subire la medesima mutilazione16.
Parimenti, la propensione per l’indulgenza e il perdono17, indotta dalla
consapevolezza della naturale inclinazione dell’uomo a peccare, coesiste con la
previsione della pena di morte. In Nov. 77, ad esempio, il supplizio capitale trova,
infatti, la sua giustificazione nell’idea che una reazione blanda dell’imperatore
provocherebbe il diffondersi dei comportamenti empi e criminosi, scatenando così,
Giustiniano ribadisce in più occasioni che egli non vuole l’inasprimento delle pene, anzi dichiara
che niente gli è tanto gradito quanto l’humanitas: cfr. CI. 1.3.55(57)pr. Sul concetto di humanitas in
Giustiniano, si veda il recente saggio di GAROFALO, L., «L’humanitas tra diritto romano e
totalitarismo hitleriano», in TSDP., 2015. AMARELLI, F., Vetustas-innovatio. Un’antitesi apparente
nella legislazione di Costantino, Napoli 1978, p. 128, rimarca la difficoltà di conciliare i frequenti
richiami nelle costituzioni imperiali all’humanitas (o a termini analoghi quali clementia, caritas,
lenitas, serenitas, moderatio, mansuetudo) con la inaudita severità e ferocia delle pene previste per
alcuni crimini.
15
Cfr., a tale riguardo, CENTOLA, D. A., «Poena reciproci», in DE GIOVANNI, L., (a cura di), Società
e diritto nella tarda antichità..., cit. pp. 105 ss.
16
Si ricordi, altresì, che all’interno del Corpus iuris civilis persiste l’antichissimo e feroce castigo,
anche se non più applicato, del culleum: Inst. IV.18.6. Sulla poena cullei, cfr. LUCREZI, F.,
Senatuscomsultum Macedonianum..., cit. pp. 173 ss.
17
Consapevolezza che traspare chiaramente, ad esempio, in Nov. 133.5.1, del 539, in cui
l’imperatore riconosce che multa sunt humana, et nullus poterit naturam sic retinere ut non peccet
nihil: hoc enim proprium est solum dei: “nessuno potrà controllare la propria natura al punto da
non commettere alcun peccato, giacché solo Dio lo può fare”. Dalla presa di coscienza della
debolezza umana discende anche l’affermazione di Giustiniano, in Nov. 129. pr., dell’anno 551,
secondo cui non esiste delitto, anche grave, che non possa meritare la clemenza imperiale. Anche se
l’imperatore sottolinea con forza in Nov. 1ι.5 che non vi può essere perdono per coloro che si sono
macchiati di reati gravissimi quali l’omicidio, l’adulterio e il ratto: questi delitti, in quanto non solo
contrari alla legge, ma soprattutto nefandi ed esecrabili dal punto di vista morale, vanno perseguiti
con la massima severità, benché in relazione ad essi le sanzioni previste debbano applicarsi
humaniter (Nov. 24.2 del 535).
14
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come nel racconto biblico di Sodoma e Gomorra, l’ira di Dio e terribili sventure
sulla collettività: un’ulteriore finalità della pena, quella “catartica” o purificatrice,
va così ad aggiungersi alle altre già viste, contribuendo con ciò a rendere ancora
più complesso il quadro generale della materia.
Nell’età che va dal III secolo d.C. all’età giustinianea. in definitiva, gli
orientamenti sulla funzione della pena, riscontrabili tanto nelle elaborazioni
giurisprudenziali quanto nella normativa imperiale, si concretizzarono in statuizioni
volte a perseguire, consapevolmente, non soltanto obiettivi di difesa dell’ordine
sociale e di prevenzione generale, ma anche, in maniera ben più frequente ed
incisiva di quanto non possa sembrare ad un esame superficiale delle fonti, una
funzione di emenda in prospettiva futura, da intendersi in una gamma di significati
che va da quello, minimale, presente già nella riflessione dei giuristi severiani,
quale effetto positivo della condanna per il reo a quello, progressivamente più
denso e pregnante, riscontrabile nella legislazione imperiale, di correzione, riscatto
e purificazione del colpevole (e talvolta anche dell’intera comunità), in vista della
salvezza dell’anima.
È in questo più ampio disegno complessivo di politica criminale che si
inseriscono le manifestazioni di indulgentia dell’imperatore: nella normazione
imperiale da Costantino in poi, come vedremo, diventano, infatti, sempre più
numerosi e frequenti i provvedimenti di clemenza concessi dal sovrano in
occasione della Santa Pasqua.
Il legislatore, invero, attraverso l’amnistia pasquale mira al perseguimento
non soltanto di finalità politiche ma, in primo luogo, in piena consonanza con la
centralità della ricorrenza liturgica pasquale nella dottrina cattolica, egli persegue
l’emenda del reo e, dunque, un suo radicale rinnovamento sul piano etico;
attribuendo una particolare rilevanza alla suddetta festività, l’imperatore,
sostanzialmente, trasfonde in termini normativi il significato escatologico della
Redenzione che trova il suo fulcro nella Pasqua cristiana. Il periodo di preparazione
alla Pasqua, infatti, come è noto, rappresenta per i fedeli della religione cattolica un
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tempo di grazia, un’occasione di rinnovamento interiore e di conversione concesso
affinché tutti possano degnamente partecipare alla festa per la Resurrezione del
Cristo.
E tuttavia l’indulgentia principis non si spiega esclusivamente per
l’adesione ai valori e ai principi del cristianesimo. Essa, infatti, viene a
rappresentare uno strumento attraverso il quale l’imperatore amministra la giustizia
e più in generale, esercita la sua sovranità assoluta: è sul binomio auctoritas –
obsequium che viene a fondarsi, in altri termini, una nuova concezione dell’attività
amministrativa e di governo in età tardo antica.
Proprio lo stretto e palese collegamento dei provvedimenti di amnistia con
l’obiettivo finale dell’emenda, però, impedisce di considerare gli atti di clemenza
imperiale di quest’epoca quali espressione di puro arbitrio del sovrano: il
ravvedimento del reo, infatti, conferisce un senso intellegibile all’esercizio
dell’indulgenza da parte del princeps, giustificandolo e fondandolo su un preciso
principio di politica criminale e, in definitiva, non rendendolo incoerente con il
complesso dei valori su cui poggia il sistema penale di quell’epoca.
2. I PROVVEDIMENTI IMPERIALI DI AMNISTIA PASQUALE TRA IV E VI SEC. D.C.
Nella prospettiva appena delineata, non desta meraviglia che, per quanto di
nostra conoscenza, il più risalente accenno alla funzione dell’emenda nella
legislazione imperiale del tardo antico sia contenuto non in una disposizione
incriminatrice bensì nella parte finale di una costituzione del 381 d. C., emanata
dagli imperatori Graziano e Valentiniano II, ora raccolta in CTh. 9.38.6, con la
quale, in occasione della solennità Pasquale, viene concessa un’amnistia18:
Sulla natura, le caratteristiche e, in particolare, l’efficacia temporalmente circoscritta in una alla
attitudine alla generalis observantia di questi provvedimenti graziosi, raccolti nel tit. 9, 38 del
codice teodosiano, si vedano le interessanti considerazioni di BIANCHINI, M. G., Caso concreto e
“lex generalis”. Per lo studio della tecnica e della politica normativa da Costantino a Teodosio II,
Milano 1979, pp. 153 s.
18
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Indulgentia principis ed emenda: aspetti della politica criminale...
CTh. 9,38,6 imppp. Gra(tian)anus, Val(entini)anus et Theod(osius) aaa. ad
Antidium v. c. vic(ari)um.
Paschalis laetitiae dies ne illa quidem gemere sinit ingenia, quae flagitia
fecerunt; pateat insuetis horridus carcer aliquando luminibus. Alienum autem
censemus ab indulgentia, qui nefariam criminum conscientiam in maiestatem
superbe animaverit, qui parricidali furore raptus sanguine proprio manum
tinxit, qui cuiusque praeterea hominis caede maculatus est, qui genialis tori
ac lectuli fuit invasor alieni, qui verecundiae virginalis raptor extitit, qui
venerandum cognati sanguinis vinculum profano caecus violavit incestu, vel
qui noxiis quaesita graminibus et diris inmurmurata secretis mentis et
corporis venena conposuit, aut qui sacri oris imitator et divinorum vultuum
adpetitor venerabiles formas sacrilegio eruditus inpressit. His ergo tali
quoque sub absolutione damnatis indultum nostrae serenitatis eo praecepti
fine concludimus, ut remissionem veniae crimina nisi semel commissa non
habeant, ne in eos liberalitatis augustae referatur humanitas, qui inpunitatem
veteris admissi non emendationi potius quam consuetudini deputarunt.
Recitata XII kal. Aug. Romae Syagro et Eucherio conss19.
La disposizione imperiale, indirizzata al vicario Antidius, si inserise nel
solco di una prassi sorta qualche anno prima, e precisamente nel 367, con una
costituzione di Valentiniano I, ora raccolta in CTh. 9.38.320, con la quale viene
concessa la prima amnistia di cui abbiamo notizia in occasione della solennità
pasquale21.
19
Sulla costituzione in esame, cfr. WALDSTEIN, W., Untersuchungen zum römischen
Begnadigungsrecht. Abolitio-Indulgentia-Venia, Innsbruck 1964, pp. 191 ss.; LOVATO, A., Il
carcere nel diritto penale romano. Dai Severi a Giustiniano, Bari 1994, p. 203; DI MAURO TODINI,
A., Indulgentia principis in età tardo antica. Materiali e prospettive di ricerca, Napoli 1996, pp.
196 ss.; RAIMONDI, M., «Gioia interiore e solennità pubblica: considerazioni sull’introduzione delle
‘amnistie pasuali’», in SORDI, M., Responsabilità perdono e vendetta nel mondo antico, Milano
1998, p. 273 e, più di recente, NAVARRA, M. L., La recidiva nell’esperienza giuridica romana,
Torino 2015, pp. 172 ss.
20
Per un esame più approfondito di Cth. 9.38.3 si rinvia a CENTOLA, D. A., «Osservazioni sui
provvedimenti imperiali di clemenza in occasione della Pasqua», in Koinonia 39 (2015), pp. 414
ss., nonché DI BERARDINO, A., Tempo cristiano e la prima amnistia pasquale di Valentiniano I, in
BARCELLONA, R. & SARDELLA, T. (curr.), Munera amicitiae. Studi di storia e cultura sulla Tarda
Antichità offerti a Salvatore Pricoco, Soveria Mannelli 2003, pp. 132 ss.
21
Intravede un diretto collegamento tra l’amnistia pasquale e il cd. beneficium paschale di cui si
parla nel Vangelo a proposito della liberazione di Barabba, VENTRELLA MANCINI, C., Tempo divino
e identità religiosa. Culto rappresentanza simboli dalle origini all’VIII secolo, Torino 2012, pp.
127 ss. Contra DI BERARDINO, A., Tempo cristiano..., cit. p. 135, il quale, giustamente, fa rilevare
come appaiano significative le differenze tra le due fattispecie considerato che, nella seconda, la
liberazione riguardava un unico prigioniero, su richiesta del popolo e a discrezione del governatore
provinciale. Sul privilegio pasquale cfr. BOVE, L., «“Chi volete che vi liberi, Barabba o Gesù?” (Mt.
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Seguendo lo stile delle precedenti, anche la costituzione del 381 enuncia sin
dal suo inizio l’importanza della gioia della festività pasquale quale fondamento
dell’atto di clemenza: in tale giorno di letizia, infatti, afferma l’imperatore, non è
permesso lasciare in prigione coloro che hanno commesso dei crimini (flagitia),
fatta eccezione per gli autori di alcuni atti scellerati: in particolare, sono esclusi dal
beneficio dell’amnistia coloro che si sono resi colpevoli dei reati di lesa maestà,
parricidio, omicidio, adulterio, rapimento di una vergine, incesto, avvelenamento e
sacrilegio, trattandosi di crimina - concernenti la sfera politica oppure contro la
persona o la morale sessuale e religiosa - considerati particolarmente gravi e, in
quanto tali, non perdonabili22.
L’imperatore precisa, tuttavia, che si poteva beneficiare dell’amnistia
(remissio) una volta sola: la remissio non avrebbe potuto, infatti, essere concessa a
coloro che, volendo usare una terminologia moderna, erano recidivi, e questo a
prescindere se avessero commesso nuovamente lo stesso tipo di reato ovvero uno
diverso da quello precedentemente compiuto23.
Ai fini di questa indagine risulta estremamente interessante la motivazione
addotta a fondamento dell’esclusione dei recidivi: l’indulgentia, come afferma
27,17). Il privilegium paschale», in AMARELLI, F. & LUCREZI, F., Il processo contro Gesù, Napoli
1999, pp. 197 ss., e MIGLIETTA, M., «Pilatus dimisit illis Barabbam», in BONVECCHIO, C.,
COCCOPLAMERIO, D. (curr.), Ponzio Pilato o del giusto giudice. Profili di simbolica politicogiuridica, Padova 1988, pp. 163 ss., ora in MIGLIETTA, M., I.N.R.I. Studi e riflessioni intorno al
processo a Gesù, Napoli 2011, pp. 105 ss.
22
Per l’emersione del concetto di crimini imperdonabili in età tardo antica, cfr. CAIMS, W.,
ROBINSON, O. & WATSON, A., «Unpardonable Crimes: Fourth Century Attitudes», in Critical
Studies in ancient law, comparative law and legal history, Oxford 2001, pp. 117 ss.; NAVARRA, M.
L., La recidiva..., cit. p. 173 nt. 103, evidenzia il rapporto di corrispondenza, ma non di derivazione,
tra la concezione di alcuni crimini come imperdonabili e quella relativa all’irremissibilità di alcuni
delicta (qui veniam non capiunt) elaborata da Tertulliano in de pudic. 2.12.16; 3.3; 9.20; 12.8.11;
19.25. Rimarca come adulterio ed omicidio siano stati considerati reati non amnistiabili soltanto in
epoca cristiana, VENTRELLA MANCINI, C., Tempo divino e identità religiosa..., cit. pp. 132 s. Per
un’analisi delle singole fattispecie criminose escluse dall’amnistia cfr. DI BERARDINO, A., Tempo
cristiano e la prima amnistia pasquale di Valentiniano I..., cit. pp. 138 ss.
23
Come ha opportunamente precisato NAVARRA, M. L., La recidiva nell’esperienza giuridica..., cit.
p. 174 “l’esclusione non riguarda soltanto chi commetta nuovamente lo stesso crimine per il quale
è già stato una volta condannato, ma tutti coloro che, già rei, siano ricaduti nel reato anche di
specie diversa. Impiegando nozioni moderne si potrebbe affermare che l’amnistia non si applica in
caso di recidiva generica”.
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Indulgentia principis ed emenda: aspetti della politica criminale...
testualmente la cancelleria, non si estende, invero, a coloro che hanno erronamente
ritenuto di attibuire l’impunità per il delitto precedentemente commesso ad una
sorta di consuetudine imperiale, anziché considerarla un’occasione per emendarsi
(ut remissionem veniae crimina nisi semel commissa non habeant, ne in eos
liberalitatis augustae referatur humanitas, qui inpunitatem veteris admissi non
emendationi potius quam consuetudini deputarunt).
In buona sostanza, il perdono viene concesso dall’imperatore sul
presupposto che il reo si sia effettivamente ravveduto ovvero che possa essere
indotto a redimersi proprio grazie alla manifestazione di benevolenza del princeps;
pertanto, non potrà fruire nuovamente del beneficio dell’amnistia chi, invece,
ricadendo nella commissione del crimine, abbia dimostrato, di fatto, di non essersi
realmente utilmente giovato della clemenza imperiale già concessagli una volta.
L’esclusione dei recidivi si giustifica, dunque, con la constatazione che in
capo al reo non si è verificato l’auspicato percorso di purificazione interiore dal
male: se, infatti, chi ha beneficiato dell’impunità torna poi nuovamente a
delinquere, ciò vuol dire, evidentemente, che non si è riusciti realmente a
correggerlo, che in lui non vi è stato alcun serio ravvedimento; pertanto, non si
giustifica un’ulteriore atto di clemenza che, a questo punto, si tradurrebbe in una
immotivata impunità24.
Il perdono, dunque, non implica anche l’oblio: chi ha goduto dell’amnistia
una prima volta, non rimarrà impunito qualora commetta di nuovo un crimine,
anche se esso rientri teoricamente tra quelli perdonabili.
Si tratta di una significativa novità che troviamo introdotta per la prima
volta nei testi normativi concernenti i provvedimenti di clemenza imperiale e che
LOVATO, A., Il carcere nel diritto penale romano..., cit. p. 203, al riguardo osserva che “il
contenuto giuridico della costituzione ha il sapore della precettistica di stampo etico-religioso, che
esalta, insieme alla ‘emenda’ del colpevole, la benevolenza imperiale, l’humanitas, punto di
congiunzione fra ideale laico dell’impero e professione di fede cristiana”.
24
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sarà confermata dal legislatore anche nei successivi provvedimenti di indulgentia in
materia criminale25.
A proposito di CTh. 9.38.6 è stato acutamente osservato che “il contenuto
giuridico della costituzione ha il sapore della precettistica di stampo eticoreligioso, che esalta, insieme alla ‘emenda’ del colpevole, la benevolenza
imperiale, l’humanitas, punto di congiunzione fra ideale laico dell’impero e
professione di fede cristiana”26.
A fondamento dell’atto di clemenza vi sono, infatti, due presupposti tra di
loro interconnessi: da un lato, l’humanitas liberalitatis augustae, e dunque una
particolare visione del potere imperiale, influenzata certo dalla morale cristiana, ma
chiaramente espressione di una risalente concezione paternalistica, peraltro già
evidente sin dalla prima costituzione in tema di ‘amnistia pasquale’ (CTh. 9.38.3),
dove l’atto di clemenza viene definito, appunto, come un ‘dono’ concesso dal
sovrano27; d’altro canto, strettamente correlata all’humanitas imperiale, vi è, però,
anche la funzione di emenda assegnata al perdono, che viene concesso dal sovrano
con l’obiettivo del ravvedimento del reo: per questa ragione, infatti, viene ribadito
che la concessione dell’indulgenza in occasione della Pasqua non rappresenta una
Interessante, in tal senso, anche CTh. 1θ.5.41, emanata nel 40ι, che prevede l’amnistia per gli
eretici qualora si ravvedano e si convertano alla fede cattolica, finanche se nel momento estremo di
applicazione della pena ad essi comminata, essendo sufficiente che condannino espressamente il
loro errore autobiasimandosi. In proposito cfr. DE GIOVANNI, L., Il Libro XVI del Codice
Teodosiano..., cit. in part. pp. 88 ss.
26
Così LOVATO, A., Il carcere nel diritto penale..., cit. p. 203. Sull’humanitas come elemento
significativo alla base della legislazione imperiale si veda, per un primo riferimento, con
l’indicazione della precedente bibliografia, PALMA, A., Humanior interpretatio. ‘Humanitas’
nell’interpretazione e nella normazione da Adriano ai Severi, Torino 1992, pp. 1 ss.; ID., Benignior
interpretatio. Benignitas nella giurisprudenza e nella normazione da Adriano ai Severi, Torino
1997, pp. 1 ss. Si veda anche CRIFÒ, G., A proposito di humanitas, in Ars boni et aequi. Festschrift
für Wolfang Waldstein zum 65. Geburtstag, Stuttgart 1993, pp. 79 ss., il quale, con riguardo
all’humanitas e ai termini collegati, opportunamente si chiede: “il ‘dilagare’ nelle fonti tardoimperiali rispecchia la novità cristiana e, in tal caso, entro quali limiti – o dipende invece da altri
motivi?” (p. 82). Su alcuni aspetti riguardanti il concetto di humanitas nella giurisprudenza romana
si veda GAROFALO, L. «L’humanitas nel pensiero della giurisprudenza classica», in ID., Fondamenti
e svolgimenti della scienza giuridica. Saggi, Padova 2005, pp. 1 ss. Di recente, cfr. NAVARRA, M.
L., La recidiva nell’esperienza giuridica romana..., cit. pp. 174 ss.
27
Cfr. CENTOLA, D. A., Osservazioni sui provvedimenti imperiali di clemenza in occasione della
Pasqua..., cit. p. 421 s.
25
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mera consuetudine, nè deve essere intesa come tale, bensì è espressamente
finalizzata a riportare i colpevoli sulla retta via, evitando così che possano
nuovamente delinquere.
Il perdono imperiale assume, quindi, un duplice significato: etico, in quanto
l’emendatio, presupponendo il pentimento, è diretta al bene dei destinatari dell’atto
di clemenza, ma anche politico, perché la rinuncia a punire da parte del detentore
del potere sovrano, essendo finalizzata anche ad evitare che si ripetano in futuro i
reati già commessi, appare funzionale alla preservazione della coesione sociale28.
In questa prospettiva, dunque, appare ben comprensibile la ratio
dell’esclusione dal perdono per i recidivi: la loro ricaduta nel crimine– e, si badi
bene, anche in un reato diverso da quello in precedenza commesso ed amnistiato –
è la dimostrazione, de facto, che non vi è stata alcuna effettiva emenda e che perciò
quel soggetto continua ad essere pericoloso per la società.
In altri termini, la cancelleria imperiale ha inteso chiarire che la concessione
dell’indulgenza non doveva comunque vanificare le misure repressive stabilite per i
singoli reati e, al contempo, ha voluto precisare che la frequente adozione dei
provvedimenti di indulgenza non doveva generare una mal fondata speranza di
impunità: il perdono, infatti, deve rappresentare un’occasione di ravvedimento per
coloro che ne sono beneficiari e non un incentivo a delinquere di nuovo.
La finalità di emenda attribuita all’amnistia risulta confermata ed anzi viene
ribadita con maggiore evidenza in una altra costituzione, promulgata nello stesso
periodo di CTh. 9, 38, θ dall’imperatore Teodosio I e tramandataci al di fuori del
Codice Teodosiano29:
Per approfondimenti si rinvia a CRIFÒ, G., La Chiesa e l’impero..., cit. p. 196 e ID., Il lessico del
perdono..., cit. 94 ss. Si veda anche, di recente, NAVARRA, M. L., La recidiva..., cit. 175 s. nonché
CENTOLA, D. A., Osservazioni sui provvedimenti imperiali di clemenza in occasione della
Pasqua..., cit. pp. 425 ss.
29
Sulla datazione della legge, da individuarsi tra il 380 e il 381 d. C., si veda BARZANÒ, A., Il
cristianesimo nelle leggi di Roma imperiale, Milano 1996, p. 231.
28
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Const. Sirm. 7 imppp. Valentinianus, Theodosius et Arcadius aaa. ad
Eutropium praefectum praetorii. Placida beneficia lenitatis dei omnipotentis
arbitrio commoti pro felicitate saeculi publicamus, ut illos, quos imminentis
supplicii terror exagitat, insperatae miserationis indultio securitati perpetuae
restitutos ad communis vitae gaudia depulsa culparum acerbitate perducat, ut
novae reparationis luce perfusi melioris vitae teneant novitatem. Ideo denique
pro festivitate paschali, quam communi et praecelsa professione veneramur,
noxas remittimus, ut ii, quos mansuetudinis nostrae indulgentia liberarit,
melioris instituti praecepta sectantes nihil periculosum audeant perpetrare,
Eutropi parens carissime atque amantissime, exceptis his, quos quinque
inmanitas criminum minime patitur relaxari, ceteros carceris custodia
liberatos statui pristino restituat, ut communi traditi libertati concessae
securitatis gratia perfruantur30.
Nel testo, indirizzato al prefetto del pretorio Eutropio, l’imperatore, mosso
da compassione, concede l’indulto (insperatae miserationis indultio) a coloro che
sono presi dal timore dell’imminente supplizio affinchè, come egli stesso afferma
espressamente, ‘irradiati dalla luce di un profondo rinnovamento, essi conducano
una vita più retta’ (ut novae reparationis luce perfusi melioris vitae teneant
novitatem). In considerazione della predetta finalità del provvedimento, il beneficio
della liberazione si applica tanto ai detenuti in attesa di esecuzione della condanna
(quos imminentis supplicii terror exagitat) quanto a coloro che stanno scontandole
loro pene, come viene specificato in Const. Sirm. 831.
La funzione di emenda del perdono è ulteriormente ribadita nel seguito del
dettato normativo della costituzione in esame, laddove si afferma in modo esplicito
che le pene sono condonate (noxas remittimus) affinché quelli che beneficiano
dell’indulgentia mansuetudinis, seguendo i precetti di un più sano insegnamento,
non osino commettere nulla di pericoloso. L’atto di clemenza è, dunque,
espressamente e prioritariamente diretto al perseguimento di un fine superiore, vale
30
Sul testo, si veda WALDSTEIN, W., Untersuchungen zum römischen Begnadigungsrecht..., cit. pp.
190-191; LOVATO, A., Il carcere nel diritto penale romano..., cit. p. 205; BARZANÒ, A., Il
cristianesimo nelle leggi di Roma..., cit. pp. 231 s.; DI MAURO TODINI, A., Indulgentia principis in
età tardoantica..., cit. pp. 207 ss.; RAIMONDI, M., «Gioia interiore e solennità pubblica...», cit. p.
274.
31
Sulle Constituzioni Sirmondianae si rinvia, per approfondimenti, a CIMMA, M. R., «A proposito
delle Constitutiones Sirmondianae», in AARC 10 (1995), pp. 359 ss.
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Indulgentia principis ed emenda: aspetti della politica criminale...
a dire il pieno ravvedimento del colpevole, che al contempo costituisce il
fondamento del provvedimento imperiale.
In Cost. Sirm. 7, come si è potuto notare, viene posta una evidente relazione
tra la Pasqua, momento liturgico particolarmente propizio per un radicale
cambiamento di vita, e i vantaggi spirituali e morali che discendono dal
provvedimento di clemenza imperiale. A tale riguardo, è stato opportunamente
sottolineato, che “la Pasqua non può essere assimilata ai giorni fausti dell’impero
sotto il profilo dell’occasione propizia per il ricorso a comuni e usuali misure di
tolleranza; costituisce, invece, il fondamento morale del provvedimento grazioso,
singolare, sul piano giuridico, per la sua stretta connessione col nucleo stesso del
mistero cristiano”32.
Del resto, come è indegno del perdono il recidivo, così lo è anche chiunque,
dopo la condanna, abbia nuovamente infranto la legge. È quanto si deduce da:
CTh. 9,38,10 imppp. Arcad(ius) et Honor(ius) aa. et Theod(osius) a. Romulo
p(raefecto) p(raetorio). Omnes omnium criminum reos vel deportatione
depulsos vel relegatione aut metallis deputatos, quos insulae variis
servitutibus aut loca desolata susceperunt, hac nostra indulgentia liberamus,
separatis illis, qui ad locum poenae destinatum contra iudicum sententias ire
noluerunt. Indignus est enim humanitate, qui post damnationem commisit in
legem. Dat. VIII id. Aug. Rav(ennae) Stilichone et Aureliano conss.
Sebbene il testo non si riferisca esplicitamente alla recidiva in senso
tecnico, vi è però una evidente connessione tra l’idea, espressa in CTh. 9,38,10,
secondo la quale è indignus humanitate (e rimane pertanto escluso dal
provvedimento di indulgenza) il criminale che dopo la sentenza di condanna
commisit in legem, e quella, enunciata in CTh. 9,38,6, per cui possono essere
perdonati esclusivamente quanti hanno delitto una sola volta33. Al fondo vi è,
insomma, la medesima concezione etico-giuridica, per la quale non è degno di
alcun atto di clemenza colui che, avendo già riportato una precedente condanna,
32
Così VENTRELLA MANCINI, C., Tempo divino e identità religiosa..., cit. p. 135. Nel medesimo
senso, da ultimo, anche CENTOLA, Osservazioni sui provvedimenti imperiali di clemenza in
occasione della Pasqua..., cit. pp. 417 ss.
33
Così NAVARRA, M. L., La recidiva nell’esperienza giuridica..., cit. p. 180.
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torni a violare di nuovo la legge, rivelando così una particolare e reprimenda
ostinazione a delinquere.
Si tratta, in definitiva, di chiari esempi di una legislazione eticamente
orientata, in sintonia con i nuovi modelli comportamentali ormai affermatisi nella
comunità civile, anche per il forte influsso della religione cattolica34.
3. L’INDULGENTIA PRINCIPIS COME CONSUETUDINE
L’adozione di provvedimenti di clemenza in occasione della Pasqua diede
luogo ben presto ad una vera e propria prassi consuetudinaria che andò man mano
consolidandosi. All’indulgenza pasquale troviamo, infatti, dedicate altre due
costituzioni di Valentiniano II, CTh. 9.38.ι e 8, risalenti, rispettivamente, l’una al
384 d. C.35 e l’altra al 385 d.C.
Quest’ultima, in particolare, rivolta al prefetto del pretorio Neoterio,
dispone che:
CTh. 9,38,8 imppp. Gra(tian)anus, Val(entini)anus et Theod(osius) aaa. ad
Neoterium p(raefectum) p(raetori)o. Nemo deinceps tardiores fortassis affatus
nostrae perennitatis exspectet: exsequantur iudices, quod indulgere
consuevimus. Ubi primum dies paschalis extiterit, nullum teneat carcer
inclusum, omnium vincla solvantur. Sed ab his secernimus eos, quibus
contaminari potius gaudia laetitiamque communem, si dimittantur,
34
Cfr. VENTRELLA MANCINI, C., Tempo divino..., cit. p. 133.
CTh. 9.38.7 imppp. Gr(ati)anus, Val(entini)anus et Theod(osius) aaa. ad Marcianum vic(arium).
Religio anniversariae obsecrationis hortatur, ut omnes omnino periculo carceris metuque poenarum
eximi iuberemus, qui leviore crimine rei sunt postulati: Unde apparet eos excipi, quos atrox
cupiditas in scelera compulit saeviora: in quibus est primum crimen et maxime maiestatis, deinde
homicidii veneficiique ac maleficiorum, stupri atque adulterii parique immanitate sacrilegii
sepulchrique violatio, raptus monetaeque adulterata figuratio. Dat. XI kal. April. Med(iolano)
Richomere et Clearcho cons. Nell’inscriptio della legge è erroneamente indicato anche il nome
dell’imperatore Graziano che, tuttavia, era stato assassinato nel 383 d. C. In essa, indirizzata al
vicario Marciano, si ribadisce che la reverenza per la solenne festività induce l’imperatore ad
ordinare che tutti gli accusati di un reato devono essere liberi dal ‘pericolo del carcere’ e dal ‘timore
della pena’, fatta eccezione per coloro che sono imputati di scaelera saeviora che sono esclusi, per
la loro gravità, dall’atto di clemenza: lesa maestà, omicidio, veneficio, maleficio, stupro, adulterio,
sacrilegio, profanazione di sepolcri, rapimento e falsificazione di monete. Sulla costituzione cfr., per
una prima indicazione, LOVATO, A., Il carcere nel diritto penale romano..., cit. pp. 203-204 e DI
MAURO TODINI, A., Indulgentia principis in età tardoantica..., cit. pp. 218 ss.
35
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advertimus. Quis enim sacrilego diebus sanctis indulgeat? Quis adultero vel
incesti reo tempore castitatis ignoscat? Quis non raptorem in summa quiete et
gaudio communi persequatur instantius? Nullam accipiat requiem
vinculorum, qui quiescere sepultos quadam sceleris immanitate non sivit;
patiatur tormenta veneficus maleficus adulteratorque monetae; homicida
quod fecit semper expectet; reus etiam maiestatis de domino, adversum quem
talia molitus est, veniam sperare non debet. Data V kal. Mar. Med(iolano)
Arcadio a. I et Bautone v. c. conss36, 37.
Anche in questo caso risulta inesatto nell’inscriptio il riferimento all’imperatore Graziano, morto
nel 383 d. C. Sul testo si veda, per una primo riferimento, W ALDSTEIN, W., Untersuchungen zum
römischen Begnadigungsrecht..., cit. pp. 192 s.; LOVATO, A., Il carcere nel diritto penale romano...,
cit. pp. 204 s.; DI MAURO TODINI, Indulgentia principis in età tardoantica..., cit. pp. 221 ss.;
RAIMONDI, «Gioia interiore e solennità pubblica...», cit. p. 274 e, recentemente, NAVARRA, M. L.,
La recidiva nell’esperienza giuridica romana..., cit. pp. 176 s.
37
Degna di nota, in materia di indulgenza pasquale, è anche una legge di Teodosio I, promulgata in
Oriente, il 22 aprile del 386 d. C., pervenutaci al di fuori del Codice Teodosiano. Si tratta di Const.
Sirm. 8: imppp. Valentinianus, Theodosius et Arcadius. Studiis nostrae serenitatis, quibus etiam
praeter consuetudinem statutae adque an- nuae lenitatis ad propagandas ex more indulgentias
naturali beneficio semper animamur, desideratum bonis mentibus tempus advenit. Neque enim alias
magis talibus beneficiis imperatoriam decet aequare pietatem, quam cum toto penitus orbe
terrarum sacer dies festiva sollemnitate reparatur. Et nos quidem praeter hanc velut indictam et a
maioribus traditam pro religionis observatione clementiam liberandis paene omnibus, quos legum
severitas strinxerit, effusa penitus humanitate operam sacrae mentis exserimus. Quin per omne hoc,
quod inter venerandos et celebres dies medium fluit tempus, catenis levamus, exilio solvimus, a
metallo abstrahimus, deportationibus liberamus, cum satis constet nullum prope diem esse, quo non
aliquid clemens sanctumque iubeamus, censentes nos etiam damnum quoddam horarum pati, si qui
liberetur nullus occurrerit. Ex quo apparet properato nos semper arripere istam necessariam
exsolvendis, quatenus tamen iusta humanitas patitur, legibus sanctimoniamque continuamus
omnibus temporum metis voluntariam. Neque enim convenit inter festivas caerimonias et
venerabiles sacri temporis ritus strepere infelicium dissonas voces, trahi ad communem
misericordiam horrentibus passis feraliter crinibus reos, audiri tractos ex imo pectore gemitus, cum
utique bene sibimet sacra et laeta conveniant et non deceat inter serena votorum ac dicatas aeterno
numini pias voces aliquid triste sentire audire conspicere. Unde notam beneficiis nostris non
sopprimimus lenitatem, aperimus quin etiam carcerem, vincla deponimus, inpexos tenebrosae
pedore custodiae crines decenter amovemus. Eripimus omnes feralibus poenis praeter eos, quibus
pro magni- tudine scelerum non decet subveniri. Habeant illa generalibus excepta indul gentiis
crimina suum fatum et conpetens maiorum scelerum reos exitus teneat. Nullius nos manibus in
absolvendis iniuriam faciemus homicidis; nullius inultos toros remissio adulteriorum ac talium
scelerum supplicio deseremus; causam, quae late tenditur, maiestatis integram reservamus. Non
aliquos in astra peccantes, non venerarios aut magos, non falsae monetae reos absolvendorum
felicitati conectimus: si quidem digni non sunt festivae lucis usura, a quibus graviora commissa
sunt, quam prudens solet liberare clementia. Et ne diutius in hac criminum serie laetior versetur
oratio, exceptis solitis notisque criminibus alios relaxamus, Antiochine carissime ac iucundissime.
Quocirca spectabilitas tua nostrae mansuetudinis scita quantocius iubebit impleri, ut velocius laeta
propagentur, adque in communi omnium celebritate suspendi, quicumque meretur absolvi. Data X
kal. Mai. Constantinopoli Honorio nobilissimo puero et Evodio conss.
Con questo provvedimento, Teodosio I richiama la consuetudine della manifestazione della
benevolenza imperiale, ormai a cadenza annuale, e facendo riferimento alla clemenza tramandata
dagli antichi per l’osservanza della religione, dispone la liberazione di quasi tutti coloro che la
‘severità delle leggi’ aveva rinchiuso in carcere (liberandis paene omnibus, quos legum severitas
36
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Con questa legge, come si è già accennato, il beneficio dell’amnistia
pasquale, nell’ambito di un più vasto disegno di riconoscimento di effetti giuridici
alla festività liturgica cattolica, viene ad essere stabilizzato38: come si afferma
testualmente, l’indulgenza deve essere automaticamente e direttamente applicata
dagli iudices in occasione della più importante solennità della religione cattolica,
senza alcuna necessità di attendere una formale emanazione del provvedimento
imperiale di clemenza39.
In CTh. 9.38.8, dunque, l’indulgenza perde l’originario carattere di
provvedimento eccezionale per divenire una vera e propria consuetudine imperiale
(quod indulgere consuevimus), grazie alla quale, giunto il giorno di Pasqua,
nessuno deve rimanere chiuso in carcere (omnium vincla solvantur), con la solita
eccezione prevista per i colpevoli di reati molto gravi che, se rimessi in libertà,
strinxerit): anche questa volta, infatti, vengono escluse alcune categorie di criminali responsabili di
reati di maggiore gravità, quali gli omicidi, gli adulteri, i rei di lesa maestà, gli astrologi, i venerarii
o magi, ed infine i falsificatori di monete. Appare significativo, inoltre, che l’imperatore riconosce il
beneficio della libertà non solo nel giorno della ricorrenza pasquale, ma anche in quelli precedenti e
successivi alla festività: viene ordinato, infatti, che, nel tempo che trascorre inter venerandos et
celebres dies, i prigionieri siano liberati dalle catene, gli esiliati dall’exilium, i condannati ad
metalla dalle miniere, i deportati dalla deportatio affinché non vi sia nessun giorno nel quale
l’imperatore non ordini ‘qualcosa di clemente e di santo’ (cum satis constet nullum prope diem esse,
quo non aliquid clemens sanctumque iubeamus). In questo tempo pasquale, afferma l’imperatore,
non risulta infatti opportuno che tra le cerimonie festive ed i riti venerabili del sacro tempo liturgico
si ascoltino le voci dissonanti e i gemiti degli infelici (neque enim convenit inter festivas
caerimonias et venerabiles sacri temporis ritus strepere infelicium dissonas voces).
38
L’‘indulgenza pasquale’, pertanto, da ‘occasionale’ diventa ‘permanente’: in questo senso cfr.
JONES, A. H. M., Il tardo impero romano..., cit. p. 743; WALDESTEIN, W., cit. p. 192; RAIMONDI,
M., «Gioia interiore e solennità pubblica...», cit. p. 274 e, recentemente, NAVARRA, M. L., La
recidiva nell’esperienza giuridica romana..., cit. pp. 176 s. Va sottolineato, inoltre, che della prassi
di concedere l’‘amnistia pasquale’ vi sono tracce anche in alcune testimonianze letterarie: cfr., ad
esempio, Giovanni Crisostomo, VI Homilia de Statuis (PG 49, col. 84); Cassiodoro, Var. 11, 40;
Ambrogio, Ep. 76, 6, sulle quali si veda RAIMONDI, M., «Gioia interiore e solennità pubblica», cit.,
pp. 269 ss.
39
È risultato evidente, infatti, come nei testi pervenutici il legislatore abbia richiamato, di solito con
una terminologia esplicita sin dall’inizio del dettato normativo, la solennità della Pasqua.
Particolarmente emblematiche in tal senso si sono rivelate le seguenti espressioni: ob diem paschae,
quem intimo corde celebramus con cui si apre CTh. 9.38.3; Paschae celebritas postulat con la quale
inizia CTh. 9.38.4; paschalis laetitiae dies che apre CTh. 9.38.6; ideo denique pro festivitate
paschali, quam communi et praecelsa professione veneramur in Const. Sirm. 7 e, infine, ubi
primum dies paschalis exiterit in CTh. 9.38.8. Da quest’ottica, appare, di certo, innegabile
l’ispirazione cristiana e, non a caso, è stato posto in risalto come l’indulgenza imperiale,
ricollegandosi al mistero della resurrezione pasquale, risponda in modo più o meno diretto agli
ideali del perdono cristiano.
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Indulgentia principis ed emenda: aspetti della politica criminale...
potrebbero rovinare la gioia e la letizia comune (ab his secernimus eos, quibus
contaminari potius gaudia laetitiamque communem, si dimittantur, advertimus)40.
Appare oltremodo significativo, a mio avviso, che, di tutta la legislazione
emanata in tema di indulgenza pasquale a partire da Valentiniano I fino a Teodosio
I, nel Codice di Giustiniano i compilatori, considerando evidentemente superflue in
quanto temporalmente circoscritte tutte le altre costituzioni in materia di indulgenza
pasquale, hanno ritenuto opportune riprendere solo il dettato normativo di CTh. 9,
38, 8 insieme alla parte finale di CTh. 9, 38, 6, riproducendoli, seconda una tecnica
di redazione normativa non inconsueta, in un’unica costituzione: CI. 1, 4, 3,
collocata all’interno della rubrica “De episcopali audientia et de diversis capitulis,
quae ad ius curamque et reverentiam pontificalem pertinent”41. Il testo è il
seguente:
Neoterio pp. Nemo deinceps tardiores fortassis adfatus nostrae perennitatis
expectet: exsequantur iu- dices, quod indulgere consuevimus. Ubi primum
dies paschalis extiterit, nullum teneat carcer inclusum, omnium vincula
solvantur. 1.Sed ab his secernimus eos, quibus contaminari potius gaudia
laetitiamque communem, si dimittantur, animadvertimus. 2.Quis enim
sacrilego diebus sanctis indulgeat? Quis adul- tero vel stupri vel incesti reo
tempore castitatis ignoscat? Quis non raptorem virginis in summa quiete et
gaudio communi persequatur instantius? 3.Nullam accipiat requiem
vinculorum, qui quiescere sepultos quadam sceleris immanitate non sinit:
patiatur tormenta veneficus, maleficus, adulterator violatorque monetae:
homicida et parricida quod fecit sempre expectet: reus etiam maiestatis de
domino, adversus quem talia molitus est, veniam sperare non debet. 4. His
ergo tali quoque sub absolutione damnatis in- dultum nostrae serenitatis eo
praecepti fine concludimus, ut remissionem veniae crimina nisi semel
commissa non habeant, ne in eos liberalitatis Augustae referatur humanitas,
40
Si specifica, in particolare, che non devono essere liberati i sacrileghi, gli adulteri, i rei di incesto, i
rapitori, i violatori di sepolcri, gli avvelenatori, gli autori di maleficio, i falsificatori di monete, i colpevoli di
omicidio e di lesa maestà. Cfr. anche l’interpretatio a CTh. 9.38.8: Sacrilegus adulter incestus reus,
raptor sepulchrorum violator veneficus maleficus adulterator monetae homicida diebus paschae
nullatenus absolvantur. Reliqui omnes, quos minorum causarum culpa constringit, diebus
venerabilis paschae specialiter absolvantur.
41
Sul testo si veda, per un primo riferimento, WALDSTEIN, W., Untersuchungen zum römischen
Begnadigungsrecht..., cit. pp. 191 s.; LOVATO, A., Il carcere nel diritto penale romano..., cit. p. 205
nt. 77; RAIMONDI, M., «Gioia interiore e solennità pubblica...», cit. p. 269 e, recentemente,
NAVARRA, M. L., La recidiva nell’esperienza giuridica romana..., cit. pp. 177 s.
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qui impunitatem veteris admissi non emendationi potius quam consuetudini
deputarunt. Data V k. Mart. Mediolani Arcadio A. et Bautone vc. conss42.
Unificando quelle che nel codice teodosiano erano due distinte costituzioni,
o parti di costituzioni, i compilatori giustinianei hanno in tal modo reso
permanente, insieme all’indulgentia pasquale, anche l’esclusione dal beneficio
dell’amnistia, ormai a cadenza annuale, di tutti coloro che siano ricaduti in condotte
criminose; il principio, già contenuto nella clausola finale di CTh. 9, 38, 6, secondo
cui l’indulgenza può essere concessa solo nel caso di reati commessi una sola volta,
viene dunque ad essere confermato anche in pieno VI secolo riproducendo la
medesima clausola nel Codice di Giustiniano, in chiusura appunto di CI. 1.4.3.
Si tratta, come è stato evidenziato43, di una precisa scelta di politica
legislativa, in base alla quale, in caso di recidiva, si fa prevalere stabilmente
l’opzione per l’interesse pubblico alla punizione anziché per quello alla non
punizione, sul presupposto, appunto, della riscontrata inefficacia del perdono già
concesso ai fini del ravvedimento del soggetto che ha delinquito. Laddove, infatti,
non c’è stata una vera emenda, non si può legittimamente sperare di sfuggire alla
meritata punizione beneficiando dell’amnistia ormai concessa in via ordinaria di
anno in anno.
4. L’EMENDA DEL REO COME FINALITÀ DEI PROVVEDIMENTI DI CLEMENZA IMPERIALE
Il legislatore, dunque, attraverso l’amnistia pasquale mira al perseguimento
non soltanto di finalità politiche ma, in primo luogo, in piena consonanza con la
È interessante evidenziare che l’idea secondo cui non meritano la clemenza coloro che, dopo
essere stati già condannati, tornano a delinquere nuovamente è stata recepita in qualche modo anche
dal nostro codice penale, dove all’art. 151 (ultimo capoverso) testualmente si afferma che
“l’amnistia non si applica ai recidivi, nei casi preveduti dai capoversi dell’art. 99, né ai delinquenti
abituali, o professionali, o per tendenza, salvo che il decreto disponga diversamente”.
43
NAVARRA, M. L., La recidiva..., cit. pp. 1ιι s. L’A. pone in evidenza anche come l’idea per cui il
perdono può essere concesso una volta sola, già applicata in tema di recidiva con riferimento ai reati
militari e presente nelle declamationes minores pseudo quintilianee, in età tardo imperiale, per la
probabile influenza della precettistica cristiana, sarebbe diventato un principio informatore
nell’ambito della concessione dei provvedimenti di clemenza.
42
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Indulgentia principis ed emenda: aspetti della politica criminale...
centralità della ricorrenza liturgica pasquale nella dottrina cristiana, egli persegue
un radicale rinnovamento dell’individuo sul piano etico; attribuendo una particolare
rilevanza alla suddetta festività, l’imperatore, sostanzialmente, trasfonde in termini
normativi il significato escatologico della Redenzione che trova il suo fulcro nella
Pasqua cristiana.
Il periodo di preparazione alla Pasqua, infatti, come è noto, rappresenta per i
fedeli della religione cattolica un tempo di grazia, un’occasione di rinnovamento
interiore, un momento di conversione (nel senso strettamente etimolgico di con –
vertere=cambiare direzione), dato affinché tutti possano degnamente partecipare
alla Resurrezione di Cristo. A tal fine è, quindi, indispensabile la riconciliazione
tanto con Dio, mediante la penitenza, che con gli altri, mediante il reciproco
perdono. Cambiamento di vita e perdono sono, dunque, strettamente interconnessi
affinché venga a realizzarsi l’essenza soteriologica della festività liturgica pasquale
e, in essa, tutto si rinnovi44.
Pur mantenendo l’antica struttura della abolitio generalis, l’amnistia tra IV
e VI sec. d. C. si connota, dunque, per un singolare intreccio di elementi ideali ed
intenti spiritual-pedagogici; il provvedimento imperiale di indulgentia viene così,
in definitiva, ad assumere una marcata coloritura etica45, mentre rimangono
sostanzialmente solo sullo sfondo le altre finalità, cui pure esso è in qualche modo
diretto, quali, ad esempio, lo sfoltimento delle carceri, lo snellimento dei processi,
la diminuzione degli abusi nell’ambito della repressione criminale46.
In età tardoantica, dunque, i provvedimenti di clemenza degli imperatori
cristiani evidenziano, proprio in ragione del peculiare collegamento con il tempo
liturgico della Pasqua, un forte legame con concezioni di indole morale che
influenzano direttamente e significativamente le soluzioni giuridiche adottate;
nell’ottica del ravvedimento del reo, l’indulgentia principis si interseca
44
Cfr. DI BERARDINO, A., Tempo cristiano..., cit. pp. 149-150.
Cfr. VENTRELLA MANCINI, C., Tempo divino e identità eligiosa, pp. 134 ss.
46
Cfr. a tale proposito, DI BERARDINO, A., Tempo cristiano..., cit., pp. 149 s. e da ultimo CENTOLA,
Osservazioni..., cit. pp. 420 s.
45
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strettamente con gli insegnamenti della dottrina cattolica in tema di riconciliazione
e di remissione delle colpe47.
Sotto l’evidente influenza della religione cattolica, quindi, diventa così a
scadenza annuale un beneficio grazioso che, in precedenza, gli imperatori solevano
concedere solo in occasione di eventi particolari e mai a cadenza fissa o
prevedibile.
Già con Teodosio I, infatti, era divenuto esplicito il parallelo tra la grazia
divina, che rimette i peccati, e il potere di cancellare i reati e condonare le pene
riservato esclusivamente all’imperatore. Significativo è anche il mutamento della
terminologia impiegata: viene abbandonato il termine abolitio, che nel suo
significato tecnico indicava il venir meno dell’azione penale, e ad esso viene
preferito quello più generale di indulgentia, applicabile senza distinzione ai
provvedimenti di grazia tanto precedenti quanto successivi alla sentenza di
condanna48.
A tal proposito vi è una evidente analogia tra l’esclusione dal beneficio di alcune categorie di reati
e le riflessioni sui peccati irremissibili di Tertulliano, De Pudicitia, 2, in PL 2, col. 985.
Sull’apporto della letteratura patristica in ordine ai temi della riconciliazione e della remissione dei
peccati in relazione alla loro gravità, cfr. VENTRELLA MANCINI, C., Tempo divino ed identità
religiosa..., cit. pp. 139 ss.
48
Sull’indulgentia principis: CHARLESWORTH, M. P., Pietas and Victoria: the Emperor and the
Citizen, in JRS 33 (1943), pp. 1 ss.; GAUDEMET, J., Indulgentia principis, Trieste 1962, pp. 32 ss.;
ID., Indulgentia principis. Conferenze romanistiche II, Milano 1967, pp. 1 ss; WALDSTEIN, W.,
Untersuchungen zum römischen Begnadigungsrecht…, cit. pp. 255 ss.; ADAM, T., Clementia
principis. Der Einfluss hellenisticher Fürstenspiegel auf den Versucheiner rectlichen
Fundierungdes Prinzipats durch Seneca, Stuttgart 1970, pp. 148 ss., BAUMAN, R. A., Impietas in
Principem. A study of Treason Against the Roman Emperor with Special Reference to the first
century A.D., München 1974; SCARANO USSANI, V., I “beneficia principalia” in un dibattito fra
primo e second secolo, in Labeo 27 (1981), pp. 315 ss.; PALMA, A., Humanior interpretatio.
‘Humanitas’ nella interpretazione e nella normazione da Adriano ai Severi, Torino 1992, pp. 224
ss.; MINELLI, C., «Le amnistie imperiali nel III secolo», in AA.VV., Amnistia, perdono e vendetta
nel mondo antico, Milano 1997, pp. 137 ss.; SCHETTINO, M. T., L’usurpazione del 175 e la
‘clementia’ di Marco Aurelio, ivi, pp. 113 ss.; ID., «Perdono, e’clementia principis’ nello stoicismo
del II secolo», in AA.VV., Responsabilità, perdono e vendetta nel mondo antico, Milano, 1998;
GALIMBERTI, A., ‘Clementia’ e ‘moderatio’ in Tiberio, ivi.; cfr. anche ROCCO, A., «Amnistia,
indulto e grazia nel diritto penale romano», in Riv. pen. 1899, pp. 19 ss.
47
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Sarebbe però errato, o comunque limitativo, ritenere che i provvedimenti di
indulgentia principis fossero dei meri atti di clemenza dettati esclusivamente
dall’adesione ai valori e principi del cristianesimo.
L’indulgentia, infatti, da valore della sfera etica quale era tipicamente
considerata in età repubblicana, diventa in realtà una categoria giuridica, uno
strumento attraverso il quale l’imperatore amministra la giustizia e più in generale,
esercita la sua autorità: al fondo vi è una concezione tutta nuova del potere che
presuppone una totale superiorità dell’imperatore, il quale governa elargendo
graziosamente ai sudditi, quasi come dei doni, i propri benefici, in tal modo, al
contempo, riaffermando in capo a se stesso soltanto, la titolarità assoluta del potere,
cui deve necessariamente corrispondere l’obsequium del suddito.
Su tale binomio auctoritas – obsequium viene a fondarsi, in altri termini,
una nuova concezione dell’attività amministrativa in età imperiale, il cui
funzionamento viene regolato dal principio secondo cui i sudditi rivolgono
all’imperatore delle petizioni e questi, se lo ritiene, soddisfa le loro richieste con
provvedimenti ad hoc.
L’indulgentia, così come l’humanitas, la mansuetudo, la clementia etc.
rappresentano, dunque, il corpus delle virtù etiche imperiali sulle quali si legittima
l’assoluta preminenza del princeps nell’ambito dell’ordinamento politico
istituzionale dell’impero e si giustifica, altresì, l’attribuzione al suo insindacabile
giudizio del metro della liceità e della giustizia nella concreta azione di governo.
In tale logica, ben si comprende allora perché la gran parte dei
provvedimenti adottati nei quali si fa espressamente richiamo all’indulgentia
principis concernano il settore della giustizia o quello fiscale, ambiti nei quali è,
con tutta evidenza, maggiormente e plasticamente palpabile la manifestazione
dell’esercizio del potere sovrano.
Da un lato, infatti, nell’ipotesi dell’appello avverso la sentenza di condanna,
non si privilegia la sua natura di mezzo diretto ad ottenere la riforma della sentenza
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viziata o comunque ingiusta (prospettiva quest’ultima che invece sarà seguita
soltanto con il codice giustinianeo): l’appello nel codice teodosiano è, invero,
considerato solamente uno dei modi attraverso cui si può arrivare al tribunale
dell’imperatore e, al contempo, nell’ottica di quest’ultimo costituisce un
irrinunciabile strumento di esercizio del suo potere sovrano e di controllo
sull’operato dei funzionari dei tribunali periferici.
D’altro canto, la grazia dell’imperatore può essere impetrata o concessa
anche verso le sentenze ormai inappellabili: si giunge così ad ammettere
esplicitamente che tutte le sentenze di condanna siano revocabili dal princeps,
come si afferma in CTh. 9.40.13, testualmente ripresa in C. 9.47.20., nella quale
l’imperatore si riserva, entro trenta giorni, di ripensare alle condanne a morte, da lui
pronunciate in un impeto di sdegno e ira: Si vindicari in aliquos severius contra
nostrum consuetudinem pro causae intuit iusserimus, statim eos aut subire poenam
aut excipere sententiam, sed per dies XXX super eorum sors et fortuna suspense sit.
Ecco perché, come è stato osservato49, per le sentenze penali di condanna di
questo periodo storico appare forse più appropriato parlare, allora, anziché di
giudicato stricto sensu, piuttosto di provvedimenti connotati da un regime di
efficacia sic stantibus rebus, tipico dei provvedimenti di natura amministrativa o di
governo.
In definitiva, si delinea un quadro generale dell’amministrazione della
giustizia penale nell’ambito del quale risulta assai difficile rinvenire i capisaldi cui
la nostra sensibilità di giuristi moderni ci indirizza quasi naturalmente, col rischio
di indurci verso prospettive storiche non effettivamente e realmente adeguate
all’oggetto dell’indagine50.
49
Da BASSANELLI SOMMARIVA, G., «Il giudicato penale e la sua esecuzione», in AARC 11 (1996),
pp. 41 ss.
50
Per ulteriori approfondimenti, mi sia consentito il rinvio a FASOLINO, F., «Osservazioni in tema di
certezza del diritto e della pena nell’ambito del sistema di repressione criminale tra IV e V sec. d.
C.», in Koinonia 40 (2016), pp. 195 ss.
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Indulgentia principis ed emenda: aspetti della politica criminale...
5. INDULGENTIA PRINCIPIS, CORREZIONE E PERDONO
In quanto finalisticamente orientata alla correzione del colpevole, l’amnistia
concessa dal princeps fuoriesce dalla logica imperativistica tipica dei
provvedimenti di indulgentia e, pertanto, non costituisce una pura manifestazione
di autorità, un instrumentum regni quod principi placuit51, bensì assurge a pratica
di governo qualificata da una dimensione topica dell’idea di scopo e diventa così
strumento di un’azione politica eticamente orientata; in tale prospettiva,
l’intervento dell’imperatore non è quindi frutto di una scelta arbitraria ma si
legittima in quanto e nella misura in cui egli si pone come difensore dei valori e dei
bisogni collettivi maggiormente condivisi.
L’intima ragione e gli scopi ultimi dell’esercizio dell’indulgentia imperiale
nel tardo antico, dunque, possono essere adeguatamente compresi soltanto a patto
di deporre l’impostazione, ormai consueta nella dottrina penalistica contemporanea,
secondo cui gli atti di clemenza collettiva si giustificano e si legittimano in quanto
strumenti eccezionali di pacificazione sociale, di adattamento del diritto, ovvero
quali mezzi straordinari di correzione delle distorsioni funzionali del sistema della
giustizia penale nel suo complesso.
È infatti proprio l’obiettivo dell’emenda che sottrae ai provvedimenti di
clemenza imperiale quell’originaria caratteristica che li rendeva espressione e
strumento di decisioni puramente discrezionali del potere politico sovrano: tanto è
vero che, come si è visto dianzi, l’eventuale constatazione, in caso di recidiva, del
mancato raggiungimento, in concreto, di quell’obiettivo comporta di conseguenza,
e necessariamente, l’esclusione del colpevole dal beneficio.
Proprio la decisione sovrana di non consentire che dell’amnistia si possa
essere ammessi a godere reiteratamente senza un effettivo ravvedimento interiore
Cfr., in proposito, PORTINARO, P. P., L’amnistia tra esigenze di giustizia e ragion di Stato,
introduzione a QUARTSCH, H., Giustizia politica, a cura di PORTINARO, P. P., Milano 1995, p. 22,
secondo il quale “l’amnistia è la tipica manifestazione di una concezione imperativistica del diritto,
è un atto di statuizione giuridica, è voluntas e non ratio, risponde alla logica della auctoritas, non
veritas facit legem”.
51
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palesa, appunto, la gamma valoriale sottesa ai provvedimenti di clemenza
imperiale.
Ciò posto, sembra allora opportuno, ai fini di una migliore e più adeguata
comprensione del fenomeno in esame, dismettere la logica, tipica del giurista
moderno, figlio dell’illuminismo, per la quale i provvedimenti di clemenza
generale, in quanto derogatori al diritto vigente, rappresentano essenzialmente un
vulnus, sul piano formale, all’effettività dell’ordinamento e, al contempo, alle
comuni aspettative di giustizia diffuse nella collettività e nel comune sentire.
Nell’ordinamento giuridico romano del tardo antico, le manifestazioni della
clementia imperiale non sono, infatti, la mera espressione di valutazioni di
opportunità politica bensì presentano evidenti nessi con la dimensione valoriale e la
logica funzionale che, come si è visto, ispirano la politica di repressione criminale
quantomeno a partire dall’età del Principato quando, cioè, si afferma, in ambito
giurisprudenziale ma anche normativo, la funzione di prevenzione della sanzione
penale.
Superata l’ossessione retributiva, infatti, il ricorso a misure retroattive di
non punibilità non appare, quindi, né all’imperatore né ai giuristi, in contraddizione
con gli scopi perseguiti dal sistema penale: da un lato, infatti, come si detto, la
clemenza del sovrano mira essenzialmente al recupero del delinquente, dall’altro,
l’indefettibile caratteristica di straordinarietà (almeno fino agli inizi del VI sec.
d.C.) delle manifestazioni di indulgentia, ribadisce il fondamento del potere
punitivo conferito all’autorità e al contempo rafforza la credibilità e la tenuta
sociale del sistema repressivo senza privarlo di una sua interna coerenza
funzionale.
La concessione dell’amnistia non è, perciò, un atto arbitrario del sovrano,
espressione di un principio di autorità e di statuizione, rispondente alla logica del
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noto principio “auctoritas non veritas facit legem”52; pertanto esso non va ad
ostacolare la effettiva realizzabilità dei compiti di orientamento della libertà
individuale e di difesa dei beni giuridici di maggiore rilevanza che connotano ed
ispirano il complesso delle sanzioni penali.
In ogni caso, clemenza non equivale a dimenticanza od oblio, tant’è vero
che, lo si ribadisce, in caso di recidiva, gli effetti del reato commesso ed amnistiato
rivivono ed impediscono di fruire nuovamente del beneficio imperiale, giacché, per
l’appunto, la reiterazione di un reato (eventualmente anche diverso da quello
precedente amnistiato) è indice irrefutabile del fatto che l’auspicata emenda del reo
non si è in concreto verificata.
In quanto non è remissione, la clemenza imperiale non equivale neppure al
perdono; del resto, quest’ultimo rappresenta un’alternativa alla pena mentre la
clementia è, invece, come si è visto, un atto discrezionale finalisticamente orientato
che rientra negli atti cd. di opportunità. Tale differenza, peraltro, era ben nota alla
cultura romana: già Seneca, invero, nella sua opera ‘de clementia’, si era
soffermato sull’intrinseca diversità tra perdono e clemenza, affermando che:
De clem. 7. 1-5:
1. 'At quare non ignoscet?' Agedum constituamus nunc quoque, quid sit venia,
et sciemus dari illam a sapiente non debere. Venia est poenae meritae
remissio. Hanc sapiens quare non debeat dare, reddunt rationem diutius,
quibus hoc propositum est; ego ut breviter tamquam in alieno iudicio dicam:
Ei ignoscitur, qui puniri debuit; sapiens autem nihil facit, quod non debet,
nihil praetermittit, quod debet; itaque poenam, quam exigere debet, non
donat. 2. Sed illud, quod ex venia consequi vis, honestiore tibi via tribuet;
parcet enim sapiens, consulet et corriget; idem faciet, quod, si ignosceret, nec
ignoscet, quoniam, qui ignoscit, fatetur aliquid se, quod fieri debuit, omisisse.
Aliquem verbis tantum admonebit, poena non adficiet aetatem eius
emendabilem intuens; aliquem invidia criminis manifeste laborantem iubebit
incolumem esse, quia deceptus est, quia per vinum lapsus; hostes dimittet
salvos, aliquando etiam laudatos, si honestis causis pro fide, pro foedere, pro
libertate in bellum acciti sunt. 3. Haec omnia non veniae, sed clementiae
52
Il brocardo in questione, come è noto, risale ad HOBBES, TH., «Leviathan sive de materia, forma
et potestate civitatis ecclesiasticae et civilis», 1651, tr. lat. 1670, in Opera philosophica quae latine
scripsit omnia, a cura di MOLESSWORTH, W., 1839-45, rist. Aalen 1965, III, cap. XXVI, p. 202.
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opera sunt. Clementia liberum arbitrium habet; non sub formula, sed ex
aequo et bono iudicat; et absolvere illi licet et, quanti vult, taxare litem. Nihil
ex his facit, tamquam iusto minus fecerit, sed tamquam id, quod constituit,
iustissimum sit. Ignoscere autem est, quem iudices puniendum, non punire;
venia debitae poenae remissio est. Clementia hoc primum praestat, ut, quos
dimittit, nihil aliud illos pati debuisse pronuntiet; plenior est quam venia,
honestior est. 4. De verbo, ut mea fert opinio, controversia est, de re quidem
convenit. Sapiens multa remittet, multos parum sani, sed sanabilis ingenii
servabit. Agricolas bonos imitabitur, qui non tantum rectas procerasque
arbores colunt; illis quoque, quas aliqua depravavit causa, adminicula,
quibus derigantur, adplicant; alias circumcidunt, ne proceritatem rami
premant, quasdam infirmas vitio loci nutriunt, quibusdam aliena umbra
laborantibus caelum aperiunt. 5. Videbit, quod ingenium qua ratione
tractandum sit, quo modo in rectum prava flectantur53.
Come spiega articolatamente Seneca, essere clementi non equivale, dunque,
a rimettere una pena meritata. Mentre il perdono è la remissione di una pena
meritata, la clemenza, invece, implica prendersi cura del colpevole al fine di
correggerlo ovvero in considerazione di particolari condizioni e circostanze le quali
denotano che il colpevole ha agito per un particolare valore morale o sociale.
Il filosofo, dunque, il quale, come è noto, è stato uno dei principali fautori
della finalità specialpreventiva della sanzione penale54, coerentemente individua a
giustificazione e fondamento dell’atto di clemenza uno scopo ulteriore che è
rappresentato, appunto, dalla correzione del reo, fermo restando che si tratta pur
Cfr. SENECA, «De Clementia», in Dell’ira, Della clemenza, trad. it. di DEL RE, R., Bologna 1971:
“Ma perché il saggio non perdonerà a nessuno? Stabiliamo ora anche che cosa è il perdono, e ci
renderemo conto che non può essere concesso dal saggio. Il perdono è la remissione di una pena
meritata. Perché il saggio non debba concederla, lo spiegano più estesamente coloro che trattano
questo argomento specificamente: io, per essere breve, come conviene in un processo che riguarda
altri, dirò: ‘Si perdona a colui che deve essere punito’ ma il saggio non fa nulla di ciò che non deve
fare e non tralascia mai nulla di ciò che deve fare, ‘perciò non condona la pena che deve
infliggere’. Ma quel risultato che tu vuoi ottenere col perdono, te lo procurerà per una via più
conforme al bene: il saggio, infatti, risparmierà il colpevole, si prenderà cura di lui, lo correggerà;
farà le stesse cose che farebbe se perdonasse, ma non perdonerà, poiché chi perdona riconosce di
aver trascurato qualcosa che si doveva fare. Qualcuno lo ammonirà solo con parole e non gli
infliggerà una pena, considerando l’età suscettibile di correzione, un altro, che chiaramente è
vittima dell’odiosità della colpa attribuitagli, lo farà restare sano e salvo, poiché è stato ingannato
o perché ha sbagliato mentre era ubriaco: lascerà andare incolumi i nemici, e qualche volta
persino dopo averli lodati, se sono stati condotti alla guerra da motivi onorevoli, per la parola
data, per un trattato, per la libertà. ‘Tutti questi sono atti non di perdono ma di clemenza’”.
54
Cfr. FASOLINO, F., Pena, amnistia, emenda: una prospettiva storico-giuridica, Milano, 2016, in
part. pp. 92 ss.
53
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sempre di un atto discrezionale. Come egli stesso specificherà ancor più
puntualmente in un’altra sua opera, il De ira, l’atto di clemenza è sostanzialmente
una decisione ispirata al criterio del bonum et equum, che mira a realizzare la
giustizia del caso concreto55.
Questo, tuttavia, non implica, ovviamente, che fosse escluso del tutto
dall’orizzonte dell’imperatore qualunque obiettivo di tipo congiunturale: il sovrano,
evidentemente, era ben consapevole delle formidabili potenzialità di produzione del
consenso notoriamente insite nella gestione della res poenales, sia nei casi in cui
questa risulti orientata in senso repressivo-deterrente sia quando indulga a
manifestazioni di clemenza collettiva.
Se ciò consente di ritenere che questi provvedimenti venissero adottati
dall’imperatore quale atto di discrezionalità politica, non è però di per sé sufficiente
a fondare logicamente l’affermazione secondo cui essi sarebbero stati espressione
di mera arbitrarietà politica.
Tale prospettiva, infatti, appare storicamente infondata ed epistemicamente
non corretta se rapportata all’ordinamento giuridico romano, in quanto risente in
maniera diretta ed evidente di una sensibilità moderna, talmente diffusa da
sembrare connaturale, per cui la clemenza, quale espressione del principio di
sovranità interna dello Stato (nell’accezione di suprema potestas superiorem non
recognoscentem), per ciò stesso si porrebbe come fattore eversivo dei postulati, dei
principi e delle regole che definiscono e fondano lo Stato di diritto56 e, pertanto,
De ira, 8, 9 “la clemenza ha libero arbitrio: non giudica in base ad una formula, ma in base
all’equità e alla bontà; e le è permesso di assolvere o di stimare i danni alla somma che vuole. E
non fa mai queste cose credendo di fare qualcosa di meno del giusto, ma convinta che ciò che ha
deciso sia la cosa più giusta. Perdonare, invece, è non punire uno che tu giudichi che dovrebbe
essere punito: il perdono è la remissione di una pena dovuta. La clemenza per prima cosa intende
proclamare che chi viene lasciato andare da lei senza punizione non doveva essere trattato
diversamente; essa è, dunque, più perfetta del perdono, più conforme al bene”.
56
In tal senso cfr. MAIELLO, V., Clemenza e sistema penale. Amnistia e indulto dall’indulgentia
principis all’idea dello scopo, Napoli 2007, pp. 49 s., cui si rinvia per ulteriori approfondimenti.
Sulla tendenziale incompatibilità tra il principio di sovranità interna e il modello dello Stato di
diritto, cfr. FERRAJOLI, L., La sovranità nel mondo moderno, Roma-Bari 1997, pp. 29 ss.
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potrebbe essere accettata solo se configurata come un’eccezione che non scardina
l’intima coerenza del sistema penale complessivamente inteso.
L’amnistia concessa in vista e sul presupposto dell’emenda, invece, non è
configurabile come esercizio di una mera prerogativa di puro potere sovrano ma, al
contrario, conferisce un senso, quale espressione di un criterio politico-criminale,
all’atto di clemenza generale, raccordando e vincolando la decisione di chi è
investito della relativa potestà ad una logica materiale interna alle funzioni
assegnate al sistema di repressione criminale in un determinato contesto storicotemporale.
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