La legge del deserto
Di Wilbur Smith
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Info su questo ebook
Pericolosi intrighi internazionali in missioni all’ultimo respiro: il primo romanzo della serie di Hector Cross, in una nuova traduzione.
Quando scopre che la figlia Cayla è stata rapita da un gruppo affiliato ad al-Qa‘ida al largo delle coste della Somalia, Hazel Bannock, ricchissima proprietaria di una potente compagnia petrolifera, mette in campo tutte le proprie risorse per salvarla. Ma la politica e la diplomazia falliscono, e allora non le resta che affidarsi al capo della sicurezza dei suoi giacimenti nel Texas: Hector Cross è un ex ufficiale dei SAS, esperto in operazioni sotto copertura e tecniche di guerriglia, ed è l’unico in grado di salvare Cayla. Entrambi sono convinti che i rapitori mirino soltanto all’immensa ricchezza dei Bannock.
Ma presto si rendono conto che la realtà è più crudele delle loro peggiori aspettative...
Wilbur Smith
Considerato l’indiscusso maestro dell’avventura, è nato nel 1933 in Africa centrale e si è spento il 13 novembre 2021. Ha pubblicato più di quaranta titoli, tradotti in ventisei lingue, fra cui il ciclo ambientato nell'Antico Egitto e le celebri serie dedicate ai Courtney, ai Ballantyne e a Hector Cross. Nel 2015 ha fondato la Wilbur & Niso Smith Foundation, che promuove la cultura e la narrativa d'avventura. Fiore all'occhiello della fondazione è il prestigioso Wilbur Smith Adventure Writing Prize.
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La legge del deserto - Wilbur Smith
1
Il khamsin spirava ormai da cinque giorni. Nubi di polvere ruzzolavano verso di loro attraverso la lugubre immensità del deserto. Hector Cross aveva una kefiah intorno al collo e indossava gli occhiali da deserto. La barba, corta e scura, gli riparava gran parte del viso, ma le zone di pelle scoperta pareva fossero state raschiate da aguzzi granelli di sabbia. Persino sopra il muggito del vento riusciva a distinguere il pulsante vibrare dell’elicottero in avvicinamento. Non aveva nemmeno bisogno di alzare lo sguardo per sapere che nessuno degli uomini attorno a lui se n’era ancora accorto. D’altronde, sarebbe stata un’umiliazione non essere il primo a sentirlo. Era più vecchio di una decina d’anni rispetto a quasi tutti gli altri, e come loro capo doveva essere il più scaltro e veloce. In quel momento Uthmann Waddah fece un leggero movimento e gli lanciò un’occhiata. Il cenno di conferma di Hector fu appena percettibile. Uthmann era uno dei suoi agenti più fidati. La loro amicizia risaliva a diversi anni prima, quando Uthmann aveva tirato fuori Hector da un veicolo in fiamme sotto il fuoco di un cecchino in una strada di Baghdad. Nonostante ciò, a causa del fatto che Uthmann era un musulmano sunnita, Hector aveva continuato a nutrire sospetti verso di lui. Con il tempo, però, si era dimostrato affidabile, e adesso era indispensabile. Tra gli altri meriti, aveva insegnato l’arabo a Hector che ora lo parlava alla perfezione. Soltanto un interrogatore esperto avrebbe capito che non era un madrelingua.
Alta nel cielo, per un qualche scherzo della luce, quasi fosse uno spettacolo di lanterne magiche, l’ombra dell’elicottero si profilava mostruosamente distorta oltre il banco di nubi, tanto che quando il grosso Mil-26 russo, dipinto con i tipici colori della Bannock Oil, cremisi e bianco, irruppe allo scoperto parve insignificante al confronto. Fu solo a trecento piedi sopra la piattaforma di atterraggio che l’apparecchio risultò visibile. Data l’importanza del singolo passeggero a bordo, Hector si era già messo in comunicazione radio con il pilota mentre si trovava ancora a terra a Sidi el Razig, la base della compagnia sulla costa dove terminava l’oleodotto, e gli aveva intimato di non volare in quelle condizioni. Tuttavia, la donna aveva annullato l’ordine e Hector non era abituato a essere contraddetto.
Sebbene non si fossero ancora incontrati, il loro rapporto era delicato. Hector non era un dipendente della donna, almeno non in senso stretto. Era il titolare unico della Cross Bow Security Limited, società incaricata dalla Bannock Oil di sorvegliare le installazioni e il personale dell’azienda. A scegliere Hector, tra le molte imprese di sicurezza desiderose di offrire i propri servigi, era stato il vecchio Henry Bannock.
L’elicottero si adagiò dolcemente sulla pista e, mentre il portello della fusoliera si apriva, Hector si fece avanti a passo deciso per incontrare di persona la donna. Lei apparve sulla soglia e si fermò a guardarsi un po’ intorno. A Hector ricordava un leopardo in equilibrio sull’alto ramo di una marula, intento a osservare la preda prima di balzarle addosso. Data la fama di cui godeva, pensava di conoscerla abbastanza bene, ma ora che l’aveva davanti in carne e ossa rimase sorpreso dalla carica di potere e grazia che la donna emanava. Come parte delle proprie ricerche, Hector aveva studiato centinaia di suoi ritratti fotografici, letto risme di documenti e visto ore di filmati. Le prime immagini che aveva visto di lei la ritraevano sul campo centrale di Wimbledon, battuta dalla Navrátilová in un sofferto quarto di finale, oppure tre anni dopo, mentre riceveva il trofeo del singolare femminile agli Australian Open di Sidney. Un anno più tardi era arrivato il matrimonio con Henry Bannock, il presidente della Bannock Oil, stravagante magnate miliardario più vecchio di lei di trentun anni. Le immagini successive immortalavano i due coniugi in atteggiamento conviviale con capi di stato, stelle del cinema o altre personalità dello spettacolo, mentre sparavano ai fagiani alla residenza di Sandringham, ospiti di Sua Maestà la regina e del Principe Filippo, oppure in vacanza ai Caraibi sul loro yacht, l’Amorous Dolphin. A seguire, brevi filmati di lei seduta accanto al marito in tribuna durante l’annuale assemblea generale della compagnia; altri spezzoni in cui battibeccava disinvolta con Larry King al suo talk show. Molto tempo dopo, aveva indosso le gramaglie vedovili e teneva la mano dell’adorabile figlioletta mentre osservavano il feretro di Henry Bannock che veniva inumato nel mausoleo del ranch sulle montagne del Colorado.
Dopodiché, i media finanziari di tutto il mondo si erano divertiti a raccontare la guerra economica tra la donna, gli azionisti, le banche e l’assai acrimonioso figliastro. Alla fine, quando era riuscita a strappare i diritti dell’eredità di Henry dalle grinfie del figliastro e aveva preso il posto del marito alla testa del consiglio d’amministrazione della Bannock Oil, il prezzo delle azioni era crollato vertiginosamente. Gli investitori si erano volatilizzati e i prestiti delle banche prosciugati. Nessuno voleva più puntare su una ex tennista, un tempo ragazza copertina divenuta poi signora del petrolio. Non avevano però tenuto conto del suo innato senso degli affari, né degli anni di esperienza maturati al fianco di Henry Bannock, che valevano quanto cento master in amministrazione aziendale. Alla stessa maniera delle folle del circo romano, i detrattori e i criticoni erano rimasti a guardare, in macabra attesa che venisse divorata dai leoni. Poi, con sommo dispiacere di tutti, lei aveva sfoderato lo Zara Numero Otto.
Forbes aveva fatto sfoggio in copertina dell’immagine di Hazel in tenuta da tennis bianca, con una racchetta nella mano destra. Il titolo recitava: Ace di Hazel Bannock contro gli avversari. Il più ricco colpo petrolifero degli ultimi sessant’anni. Eredita lo scettro dal marito, Enrico il Grande.
L’articolo principale iniziava così:
Nel brullo entroterra di Abu Zara, un piccolo e misero emirato arabo dimenticato da Dio, si trova una concessione petrolifera un tempo di proprietà della Shell. Il campo, già prosciugato e abbandonato subito dopo la Seconda guerra mondiale, è rimasto lì per quasi sessant’anni senza che nessuno se ne ricordasse. Questo fino all’entrata in scena di Mrs Hazel Bannock, che ha rilevato le concessioni per qualche milione di dollari mentre i vari opinionisti si davano colpetti con i gomiti e si facevano beffe di lei. Senza dare retta alle proteste dei consiglieri, ha speso diversi milioni per affondare una trivella a cono rotante in una minuscola anomalia sotterranea all’estremità settentrionale del campo; un’anomalia che le primitive tecniche d’esplorazione di sessant’anni prima avevano considerato accessoria al bacino petrolifero primario. I geologi del periodo avevano concordato sul fatto che il greggio di quell’area fosse da tempo drenato nel bacino primario e pompato in superficie, lasciando l’intero giacimento a secco e privo di valore.
Quando però la trivella di Mrs Bannock ha perforato l’impenetrabile cupola salina del diapiro, una immensa camera sotterranea in cui erano rimasti intrappolati i depositi di petrolio, la sovrappressione del gas ha ruggito attraverso il foro di perforazione con una forza tale da spingere fuori i quasi ottocento piedi di cavi d’acciaio come dentifricio dal tubetto e far esplodere l’apertura. Il greggio di prima scelta è zampillato in aria per centinaia di piedi. Alla fine è apparso evidente che i vecchi giacimenti Zara, da Uno a Sette, abbandonati dalla Shell, erano soltanto una minima parte delle riserve totali. Il nuovo bacino si trova a una profondità di 21.866 piedi e contiene materiale per cinque miliardi di barili di greggio pregiato.
Mentre l’elicottero si abbassava, il motorista di bordo lasciò cadere la scala e scese, poi allungò il braccio verso l’illustre passeggero. La donna ignorò la mano tesa e fece un balzo di quattro piedi fino al suolo, atterrando con la stessa leggiadria del leopardo cui tanto somigliava. Indossava un’elegante tenuta da safari color kaki di alta sartoria, con scarponcini in pelle scamosciata e uno sgargiante foulard di Hermès al collo. I folti capelli dorati, suo tratto distintivo, erano sciolti e increspati dal khamsin. Quanti anni avrà?, si chiese Hector. Nessuno sembrava saperlo con certezza. Pareva sulla trentina, ma doveva averne almeno quaranta. Per un attimo strinse la mano che Hector le aveva porto. La presa era invigorita dalle centinaia di ore passate sul campo da tennis.
«Benvenuta al suo Zara Otto, madame» le disse. Lei non gli elargì che un breve sguardo. Gli occhi erano di una tonalità di azzurro che a Hector ricordava la luce del sole irradiata sulle pareti di una grotta ghiacciata in un crepaccio d’alta montagna. Era molto più bella di quanto lasciassero supporre le fotografie.
«Maggiore Cross» rispose lei con una certa freddezza. Il fatto che sapesse il suo nome causò in lui nuova sorpresa. Subito, però, Hector rammentò che si diceva non lasciasse nulla al caso. Doveva di sicuro aver raccolto informazioni su ognuno dei tanti dipendenti di grado elevato che avrebbe potuto incontrare in quella prima visita al nuovo giacimento petrolifero.
Se è così, avrebbe anche dovuto sapere che non mi faccio più chiamare con il grado militare, pensò Hector. Poi si rese conto che probabilmente lo sapeva e che lo stava punzecchiando di proposito. Trattenne il sorriso sardonico che gli si stava disegnando sulle labbra.
Per qualche strana ragione non le piaccio e non si sforza neanche di nasconderlo, pensò. Questa donna è proprio come una delle sue trivelle: tutta acciaio e diamanti.
Lei però si era già allontanata per andare incontro ai tre uomini che, usciti in fretta e furia dal grande Humvee color sabbia che le si era fermato accanto, ora erano disposti in riga ad accoglierla sorridendo con atteggiamento ossequioso e festanti come cagnolini. La donna strinse la mano a Bert Simpson, il direttore generale.
«Mi spiace averci messo tanto per farle visita, Mr Simpson, ma sono stata piuttosto impegnata con gli affari.» Gli fece un breve sorriso smagliante, senza attendere la risposta dell’uomo. Proseguì e salutò in rapida successione l’ingegnere capo e il geologo responsabile.
«Signori, grazie a tutti. Ora spostiamoci da questo vento fastidioso. Avremo tempo di conoscerci meglio più tardi.» La voce era quieta, quasi melodiosa, ma l’inflessione era dura e chiaramente sudafricana. Hector sapeva che era nata a Cape Town e che aveva preso la cittadinanza americana solo dopo aver sposato Henry Bannock. Bert Simpson aprì la portiera del lato passeggero dell’Humvee e la donna si accomodò sul sedile. Nel tempo in cui Bert prese posto al volante, Hector era già pronto di scorta sulla seconda vettura alle loro spalle. Un terzo Humvee era in testa. Tutti i veicoli avevano il logo di una balestra medievale disegnata sulla portiera. Uthmann, sulla prima auto, guidò il piccolo convoglio sulla pista di servizio che costeggiava l’enorme pitone argenteo dell’oleodotto al cui interno, per migliaia di miglia, scorreva la preziosa fanghiglia destinata alle petroliere in attesa. Gli impianti della piattaforma spuntavano dalla foschia giallastra su entrambi i lati del percorso, schiera dopo schiera, come scheletri di una legione perduta di guerrieri. Prima di raggiungere lo uadi inaridito, Uthmann cambiò strada e i mezzi risalirono un crinale di roccia spoglia, nera di fuliggine quasi fosse stata arsa dal fuoco. Sul punto più alto era arroccato il complesso principale.
Due guardie della Cross Bow in tuta mimetica aprirono i cancelli e i tre Humvee varcarono l’ingresso senza nemmeno rallentare. La vettura che trasportava Hazel Bannock si staccò subito dalla colonna, attraversò l’area interna per poi fermarsi davanti alle pesanti porte che conducevano alle lussuose stanze dirigenziali, dotate di aria condizionata. Hazel fu accompagnata all’interno da Bert Simpson e da una mezza dozzina di servitori in uniforme. Le porte si richiusero pesantemente. Ora che se n’era andata, Hector ebbe l’impressione che gli mancasse qualcosa, persino l’ululato del khamsin si era placato. Mentre era fermo sulla soglia del quartier generale della Cross Bow, guardò il cielo e notò che effettivamente le nuvole di polvere si stavano disgregando e collassavano su se stesse.
Una volta nell’alloggio privato, Hector si tolse gli occhiali e srotolò la kefiah. Si lavò via lo sporco dal volto e dalle mani, mise un paio di gocce di collirio negli occhi iniettati di sangue e si controllò il viso nello specchio a parete. La barba scura, corta e ispida, gli dava un’aria piratesca. La pelle era brunita dal sole del deserto, a eccezione della cicatrice argentea sopra l’occhio destro, nel punto in cui qualche anno prima una baionetta gli aveva scoperto il cranio. Aveva un naso pronunciato e signorile. Gli occhi erano freddi, di un verde uniforme, e i denti bianchissimi, come quelli di un predatore.
«Questa faccia hai, e questa ti devi tenere, caro il mio Hector. Certo, questo non vuol dire che ti debba piacere per forza» mormorò. In risposta aggiunse: «Ringrazia il Signore per tutte le donne di bocca buona che ci sono là fuori». Fece una risata sommessa ed entrò nella sala di controllo. Varcata la soglia, il brusio della conversazione si smorzò. Hector salì sulla pedana e guardò gli uomini. Erano i dieci capisquadra. Ognuno di loro comandava un reparto di dieci uomini. A quel pensiero, Hector avvertì una flebile scossa d’orgoglio. Erano combattenti leali e affidabili, forgiati dalle esperienze in Congo, Afghanistan, Pakistan, Iraq e in altri luoghi intrisi di sangue sparsi in tutto il dannato mondo. Aveva impiegato parecchio tempo a mettere insieme quel riprovevole branco di canaglie e assassini incalliti, e li amava come fratelli.
«Dove sono le unghiate e i morsi, capo? Non vorrai mica farci credere che te la sei cavata senza un graffio, eh» urlò uno. Hector fece un sorriso indulgente e diede ai suoi uomini un minuto per dare sfogo al loro umorismo grossolano e calmarsi. Poi, alzò la mano.
«Signori, e uso questa parola impropriamente… Signori, sotto la nostra ala abbiamo una signora che attirerà le sordide attenzioni di ogni balordo da Kinshasa a Baghdad, da Kabul a Mogadiscio. Se le dovesse succedere qualcosa di brutto, taglierò con le mie mani le palle al colpevole. Vi do la mia parola.» Sapevano che non era una minaccia campata per aria. Le risate si sopirono e gli uomini abbassarono gli occhi. Sceso il silenzio, Hector continuò a fissarli con sguardo inespressivo ancora per qualche secondo. Alla fine prese la bacchetta dalla scrivania di fronte a sé, si girò verso l’ingrandimento aereo della concessione fissato alla parete e iniziò a comunicare le ultime istruzioni. Impartì gli incarichi e tornò a confermare gli ordini precedenti. Non voleva alcun tipo di leggerezza per quel lavoro. Dopo mezz’ora si voltò verso gli uomini.
«Domande?» Nessuna. Così, li congedò con un ordine secco: «Nell’incertezza, sparate per primi e assicuratevi di non mancare il bersaglio». Salì sull’elicottero e domandò al pilota, Hans Lategan, di sorvolare l’oleodotto fino al terminal sulla costa del golfo. Volarono a bassa quota. Hector, sul sedile anteriore, di fianco a Hans, scandagliava l’area in cerca di un qualsiasi segno di attività sospetta; impronte umane o tracce di pneumatici differenti da quelle dei suoi furgoni di pattuglia o dei mezzi degli ingegneri della manutenzione. Tutti gli agenti della Cross Bow indossavano scarponi con un particolare battistrada a punta di freccia. Questo consentiva a Hector, persino da quell’altezza, di riconoscere le impronte familiari da quelle di un possibile criminale.
Dall’inizio dell’incarico come capo della sicurezza si erano già verificati tre pericolosi tentativi di sabotaggio agli impianti petroliferi della Bannock Oil ad Abu Zara. Rivendicazioni da parte di qualche gruppo terroristico non ne erano arrivate, forse perché nessuna azione era andata a buon fine.
L’emiro di Abu Zara, il Principe Farid al-Mazra, era un leale alleato della Bannock Oil. I diritti di sfruttamento che maturava dalla compagnia ammontavano a centinaia di milioni di dollari l’anno. Hector aveva stretto una solida alleanza con il capo della polizia di Abu Zara, il Principe Mohammed, cognato dell’emiro. L’intelligence del principe era efficiente e tre anni prima aveva avvertito Hector riguardo a un imminente attacco via mare. Hector e Ronnie Wells, il comandante del terminal petrolifero, erano riusciti a intercettare i pirati grazie alla motovedetta della Bannock, una vecchia torpediniera israeliana, con una buona accelerazione e armata di due mitragliatrici Browning calibro .50 montate a prua. A bordo del sambuco assalitore c’erano otto terroristi, insieme a diverse centinaia di libbre di esplosivo plastico Semtex. Ronnie Wells era un ex sergente maggiore della Royal Marine, un marinaio di grande esperienza e un abile pilota di piccole imbarcazioni d’assalto. Sbucato dall’oscurità a poppa del sambuco, aveva preso di sorpresa l’equipaggio nemico. Quando Hector aveva intimato loro di arrendersi con il megafono, i pirati avevano risposto con una raffica di fucile automatico. La prima scarica delle Browning era andata a colpire il carico di Semtex nella stiva del sambuco. Tutti gli otto terroristi avevano strappato in contemporanea il biglietto per i giardini celesti, lasciandosi alle spalle ben poche tracce del precedente passaggio su questa terra. L’emiro e il Principe Mohammed, soddisfatti del risultato, si erano premurati di non far trapelare il minimo sentore dell’incidente ai media internazionali. Abu Zara era fiero della sua reputazione di paese stabile, progressista e amante della pace.
Hector atterrò al terminal di Sidi el Razig e trascorse alcune ore con Ronnie Wells. Come sempre, Ronnie aveva organizzato tutto alla perfezione, a riprova della fiducia che Hector serbava nei suoi confronti. Dopo l’incontro, camminarono insieme verso il punto in cui Hans li stava aspettando in elicottero. Ronnie lo guardò di sbieco; Hector sapeva bene cosa lo angustiava. Ancora tre mesi e Ronnie avrebbe compiuto sessantacinque anni. Da tempo i figli avevano tagliato i ponti con lui e non aveva altra famiglia al di fuori della Cross Bow, tranne forse il Royal Hospital di Chelsea, ammesso che lo accettassero una volta in pensione. Il contratto con la Cross Bow scadeva alcune settimane prima del compleanno.
«Oh, Ronnie, a proposito… Ho il tuo nuovo contratto pronto sulla scrivania. Dovevo portarmelo dietro per fartelo firmare.»
«Grazie, Hector» disse Ronnie con un largo sorriso mentre la pelata arrossiva. «Ti ricordi che a ottobre ne faccio sessantacinque, vero?»
«Vecchio farabutto!» rispose Hector sorridendogli di rimando. «Sono dieci anni che te ne do venticinque.» Balzò sul sedile dell’elicottero e tornarono indietro, sorvolando a bassa quota lo strato di sabbia che copriva la strada accanto all’oleodotto. Il khamsin aveva spazzato la superficie come una domestica solerte, al punto che erano chiaramente distinguibili persino le impronte delle otarde e degli orici. Atterrarono ben due volte per permettere a Hector di analizzare tracce meno evidenti che potessero essere state lasciate da soggetti indesiderati. A un attento esame si rivelarono però inoffensive. Forse erano di qualche beduino, magari in cerca di cammelli smarriti.
Toccarono di nuovo terra per l’ultima volta nel posto in cui tre anni prima sei individui non identificati avevano teso un’imboscata dopo essersi infiltrati a sud della concessione. Per raggiungere l’oleodotto, avevano percorso circa sessanta miglia a piedi nel deserto. Giunti alla meta, però, gli intrusi avevano fatto il madornale errore di attaccare un mezzo di pattuglia. Hector era seduto sul sedile anteriore. Nel tragitto, aveva individuato movimenti sospetti a metà della duna accanto alla strada.
«Frena!» aveva urlato all’autista, e si era arrampicato sul tetto del veicolo per scrutare l’oggetto che aveva attirato la sua attenzione. Tuttavia, questo si era spostato: un leggerissimo movimento strisciante, simile a quello di un serpente rosso. Era stato proprio quel movimento a colpirlo. In quel deserto, infatti, non c’erano serpenti rossi. Un’estremità dell’ofide sporgeva dalla sabbia e l’altra svaniva sotto i macilenti rami dello sterpo. Hector l’aveva studiata con attenzione. Il cespuglio era folto abbastanza da nascondere un uomo disteso. L’oggetto rosso non somigliava a nulla che avesse mai visto prima in natura. A una nuova contorsione del bersaglio, Hector aveva deciso. Si era portato il fucile d’assalto alla spalla e aveva sparato tre colpi consecutivi verso lo sterpo. L’uomo che giaceva dietro era scattato in piedi. Indossava turbante e mantella, aveva un AK-47 a tracolla e tra le mani teneva una scatoletta nera da cui penzolava un sottile cavo rosso isolato.
«Bomba!» aveva urlato Hector. «Tutti a terra!» L’uomo sulla duna aveva fatto detonare l’ordigno e, a centocinquanta metri davanti al veicolo, la strada era esplosa con un boato assordante sollevando una colonna di fuoco e polvere. L’onda d’urto aveva quasi scaraventato Hector giù dal tetto della vettura, ma era riuscito ad aggrapparsi e a rimanere in equilibrio.
Il dinamitardo era vicino alla cima della duna e correva come una gazzella dorcade. Hector era ancora abbagliato dalla deflagrazione e la sua prima raffica non aveva sortito altro effetto che far schizzare spruzzi di sabbia attorno ai piedi dell’arabo, che intanto proseguiva la propria fuga. Hector aveva trattenuto il respiro e stabilizzato la mira. I colpi successivi avevano colto il bersaglio dietro la schiena facendo alzare un velo di polvere dall’abito dell’uomo, che con una piroetta da ballerino si era accasciato al suolo. A quel punto i cinque compagni dell’attentatore si erano precipitati fuori dalle sterpaglie. Prima che li avesse sotto tiro, però, erano scomparsi oltre l’orizzonte.
Hector aveva guardato il fianco della duna, che si estendeva per tre o quattro miglia in entrambe le direzioni rispetto la loro attuale posizione. Per l’intera lunghezza era troppo ripida e morbida perché il veicolo potesse attraversarla. Così aveva deciso che sarebbe stato un inseguimento a piedi.
«Fase due!» aveva urlato Hector ai propri uomini. «Stiamogli alle calcagna! Muoversi, muoversi, muoversi!» Era balzato giù dal tettuccio e si era messo alla testa dei quattro del suo plotone salendo il fianco della duna. Quando erano giunti in cima, i cinque attentatori non erano lontani neanche mezzo miglio, di poco distanti l’uno dall’altro, e correvano su una piatta salina. Erano riusciti a guadagnare qualcosa finché Hector e gli altri erano stati costretti a risalire la duna. Mentre li puntava con lo sguardo, Hector aveva rivolto loro un torvo sorriso.
«Grosso sbaglio, bellezze! Dovevate separarvi, prendere ognuno una direzione diversa! E ora vi trovo qui, belli ammucchiati.» Hector sapeva con assoluta certezza che non esisteva arabo al mondo che potesse sfuggire ai suoi uomini in un inseguimento diretto.
«Avanti, ragazzi. Finitela di trastullarvi. Dobbiamo acciuffare quei bastardi prima che faccia buio.» Ci avevano messo quattro ore: quei bastardi erano un osso più duro di quanto Hector avesse creduto. Alla fine, però, avevano commesso un errore fatale, ovvero fermarsi a combattere. Avevano scelto una depressione, una ridotta naturale con una linea di tiro sgombra in tutte le direzioni, e si erano appostati. Hector aveva guardato il sole. Era a venti gradi sopra l’orizzonte. Dovevano chiudere in fretta la partita. Intanto che i suoi uomini tenevano d’occhio i terroristi, lui era strisciato verso un punto che gli consentiva una miglior visuale del campo d’azione. Si era accorto subito che non potevano attaccare la postazione degli arabi con un assalto frontale. La maggior parte degli uomini, se non tutti, ci avrebbe rimesso la pelle. Allora aveva studiato il terreno per altri dieci minuti e grazie all’occhio da soldato aveva individuato il punto debole. Oltre l’arroccamento degli arabi passava una falda poco profonda; troppo superficiale per meritare la definizione di uadi o donga, ma della dimensione giusta per celare alla vista un uomo che avanza carponi. Strizzando gli occhi per via della luce del sole, ormai basso, aveva calcolato che la falda corresse circa quaranta passi dietro la ridotta del nemico. Soddisfatto, era tornato strisciando verso i suoi uomini.
«Li aggiro e lancio una granata. Appena esplode, attaccate.» Per non farsi vedere, aveva dovuto compiere una lunga deviazione. Una volta nella donga, si era mosso adagio per evitare di alzare della polvere e rivelare la propria presenza. Nel frattempo, i suoi uomini tempestavano gli arabi di proiettili, sparando a ogni accenno di movimento sopra la depressione. Tuttavia, quando Hector aveva raggiunto il punto più vicino ai terroristi, aveva a sua disposizione all’incirca dieci minuti appena di luce prima che il sole scendesse sotto la linea dell’orizzonte. Si era messo sulle ginocchia e con i denti aveva tirato la spoletta della granata che teneva nella mano destra. Poi si era raddrizzato per calcolare la distanza. Era al limite della portata. Un lancio di quaranta o forse cinquanta metri per mandare a segno quella pesante granata a frammentazione. Aveva caricato tutta la forza sulla spalla e disegnato nell’aria una traiettoria ad arco. Malgrado fosse un buon tiro, uno dei suoi migliori di sempre, la bomba aveva colpito il bordo della ridotta e per un istante era parso che rimanesse lì piantata. Poi, però, era rotolata in avanti ed era caduta tra i nemici accovacciati. Nel momento in cui si erano resi conto di cosa si trattava, Hector aveva udito le loro grida. Era balzato in piedi e, mentre correva, aveva estratto la pistola. La granata era esplosa qualche secondo prima che arrivasse alla ridotta. Hector si era fermato sul bordo e aveva guardato il risultato della carneficina. Quattro terroristi erano stati fatti a brandelli dall’esplosione. Il quinto era stato in parte riparato dai corpi dei compagni, ma delle schegge gli avevano lacerato il petto e si erano conficcate nei polmoni.
Tossiva, sputava fiotti di sangue misto a bava, esalava gli ultimi respiri con Hector immobile in piedi sopra di lui. L’arabo aveva guardato verso l’alto e, con grande sorpresa di Hector, lo aveva riconosciuto. L’uomo parlava con voce flebile e biascicante, schiumava sangue, ma lui aveva capito cosa stava dicendo.
«Mi chiamo Anwar. Ricordalo, Cross, fottuto porco. Il debito non è stato saldato. La faida proseguirà. Ne arriveranno altri.»
Ora, tre anni dopo, Hector era in quello stesso punto e ancora si interrogava su quelle parole. Non riusciva a capirne il senso. Chi era quell’uomo in fin di vita? Come poteva averlo riconosciuto? Scosse il capo e tornò all’elicottero con i rotori che stavano girando a vuoto. Salì a bordo e si alzarono in volo. Il giorno si dissolveva placido nell’arsura del deserto e quando arrivarono al complesso del Numero Otto mancava soltanto un’ora al tramonto. Hector approfittò dei pochi attimi di luce rimanenti per andare al poligono e sparare un centinaio di colpi prima con la Beretta M9 9 mm e poi con il fucile automatico d’assalto SC 70/90. Tutti gli uomini della squadra dovevano scaricare almeno cinquecento proiettili a settimana e consegnare i bersagli all’armiere. Hector li controllava puntualmente, tutti. Erano tiratori infallibili, ma voleva evitare che in loro si insinuasse anche il minimo senso di compiacimento o sciatteria. Erano bravi, e così dovevano rimanere.
Quando tornò al complesso, il sole era tramontato e la notte calava rapida nel fugace crepuscolo del deserto. Si diresse all’attrezzatissima palestra. Corse per un’ora sul tapis roulant e terminò l’allenamento con mezz’ora di pesi. Giunto nel proprio alloggio fece una doccia calda e cambiò l’uniforme mimetica sporca con una appena lavata e stirata. Poi scese in mensa. Bert Simpson e gli altri dirigenti erano al bar privato. Avevano tutti un aspetto smunto e teso.
«Ti unisci a noi per un bicchierino?» gli propose Bert.
«Gentile da parte tua» rispose Hector e fece un cenno al barista che gli versò un doppio whisky Oban invecchiato diciotto anni. Hector alzò il bicchiere alla salute di Bert ed entrambi buttarono giù il liquore.
«Allora, che mi dici della nostra signora?» chiese Hector.
Bert alzò gli occhi al cielo. «Fidati, è meglio non saperlo.»
«Mettimi alla prova.»
«Non è umana.»
«A me è sembrata molto più che umana» commentò Hector.
«Illusioni, ragazzo mio. Specchietti per le allodole. Non dico altro. Lo scoprirai da te.»
«Che significa?»
«Portala a fare un giro, amico.»
«Quando?»
«Dopodomani, al mattino presto. Appuntamento alle cinque e mezzo all’entrata principale. Dieci miglia, così ha deciso lei. Scommetto che il passo sarà leggermente diverso da quello di una normale passeggiata. Non farti lasciare indietro.»
* * *
Anche per Hazel Bannock era stata una giornata lunga e impegnativa. Nulla che però non potesse essere cancellato da un bagno caldo. Si lavò i capelli e si sistemò con il phon l’onda bionda sopra l’occhio destro. Poi si mise addosso una vestaglia di raso blu in tinta con gli occhi. Tutti i bagagli erano stati spediti prima del suo arrivo. Il set di valigie in pelle di coccodrillo era stato aperto dai servitori e i vestiti stirati erano appesi negli spaziosi armadi dello spogliatoio. Nel bagno, prodotti di cosmetica e igiene personale erano disposti in ordine sulle mensole in vetro sopra il lavabo. Si mise un po’ di profumo Chanel dietro le orecchie e andò in salotto. Nell’armadietto dei liquori era presente tutto quello che Agatha, l’assistente personale, aveva elencato nell’e-mail indirizzata a Bert Simpson. Hazel riempì un bicchiere lungo e stretto con ghiaccio tritato e succo di lime appena spremuto, e aggiunse una esigua quantità di vodka Dovgan. Prese il drink e si trasferì nella stanza adiacente, il centro di comunicazioni privato. Sulla parete di fronte erano appesi sei grandi schermi al plasma su cui poteva leggere contemporaneamente i prezzi delle azioni e delle materie prime delle principali borse internazionali; gli altri schermi mostravano invece i notiziari e i risultati sportivi. Al momento era interessata soprattutto al Prix de l’Arc de Triomphe di Longchamp, al quale partecipava uno dei suoi cavalli. Quando vide che aveva ottenuto un deludente terzo posto, fece una smorfia di disappunto. Quel risultato confermava la decisione di licenziare il vecchio allenatore e di puntare su un giovane irlandese. Spostò l’attenzione sul tennis. Amava seguire le gesta delle giovani atlete della Russia e dell’Europa orientale. Quelle ragazze le ricordavano i suoi diciotto anni, tempi in cui aveva fame di vittoria. Si sedette al computer e, mentre apriva la posta elettronica, sorseggiò la vodka come fosse una pozione magica. Da Houston, Agatha aveva già fatto per lei una cernita delle e-mail. Gliene rimanevano dunque meno di una cinquantina da controllare. Li scorse rapidamente. Nonostante a Houston fossero le tre del mattino, Agatha dormiva con il telefono accanto al letto, pronta a risponderle. Hazel la svegliò con una chiamata via Skype. Agatha apparve sullo schermo. Aveva una camicia da notte con rose ricamate intorno alla scollatura, i bigodini e gli occhi gonfi di sonno. Hazel le dettò le risposte alle e-mail. Poi le chiese: «Come va il raffreddore, Agatha? La voce è meno rauca di ieri».
«Molto meglio, Mrs Bannock. Grazie infinite per avermelo chiesto.» Ecco perché i dipendenti la adoravano. Era un datore di lavoro premuroso, almeno finché non commettevano un errore. In tal caso, li silurava. Tagliò il collegamento con Agatha e confrontò l’orologio da polso con quello digitale sulla parete. A bordo dell’Amorous Dolphin le lancette segnavano la stessa ora. A Hazel non piaceva come Henry aveva battezzato lo yacht e lo chiamava soltanto Dolphin. Non riusciva a convincersi a cambiarlo per rispetto nei confronti del marito, e poi Henry le aveva detto che portava sfortuna farlo. Il nome era l’unica cosa che a Hazel non piaceva dell’imbarcazione. Erano centoventicinque metri di puro lusso sibaritico, con dodici cabine doppie per gli ospiti e una sontuosa cabina armatoriale. Il salone da pranzo e gli ampi spazi ricreativi erano decorati con murales variopinti di richiestissimi artisti contemporanei. I quattro potenti motori diesel le consentivano di attraversare l’Atlantico in meno di sei giorni. In più, era dotata di dispositivi elettronici all’avanguardia per la navigazione e le comunicazioni. Con tutti i giocattolini e congegni a bordo, la proprietaria poteva intrattenere persino gli ospiti più schizzinosi e sofisticati. Hazel compose il numero del ponte del Dolphin e la risposta giunse prima del secondo squillo.
«Amorous Dolphin. Ponte.»
La donna riconobbe subito l’accento californiano.
«Mr Jetson?» Era il primo ufficiale di bordo. Quando si rese conto di chi era al telefono, l’uomo assunse immediatamente un tono di voce deferente.
«Buonasera, Mrs Bannock.»
«Il comandante Franklin è nei paraggi?»
«Certo, Mrs Bannock. È qui accanto a me. Glielo passo.»
Jack Franklin la salutò, e Hazel rispose subito con una domanda: «Tutto a posto, comandante?».
«Molto bene, Mrs Bannock, davvero» la rassicurò.
«Qual è la vostra posizione?»
Franklin snocciolò le coordinate dal monitor del navigatore satellitare, traducendole poi velocemente in una forma più comprensibile. «Siamo a 146 miglia nautiche a sudest del Madagascar, diretti all’isola di Mahé, nelle Seychelles. Orario stimato di arrivo: mezzogiorno di giovedì.»
«Avete macinato un bel po’ di strada, comandante» gli disse Hazel. «Senta, mia figlia è in plancia con lei?»
«Temo di no, Mrs Bannock. Da quanto ne so, la signorina si è ritirata presto nei suoi alloggi e ha ordinato che le venisse portata la cena in cabina. La prego di perdonarmi, intendevo nella sua cabina.»
Alla figlia era concesso di stare nelle stanze armatoriali quando la madre non era a bordo. Franklin aveva sempre pensato che i dipinti a olio di Gauguin e Monet, e il lampadario Lalique, fossero un autentico spreco per una teenager scriteriata che pensava di essere importante quanto la stimata genitrice. Tuttavia, non era tanto ingenuo da farsi scappare anche solo un minimo accenno ai difetti della ragazza quando parlava con la madre. Quella carina ma antipatica stronzetta era il tallone d’Achille di Hazel Bannock.
«Mi metta in contatto con lei, per favore» disse Hazel.
«Come desidera, Mrs Bannock.» La donna sentì il comandante parlare con il marconista. La linea si ammutolì per poi tornare a squillare. Aspettò dodici trilli e la pazienza stava cominciando a scemare, quando sentì la cornetta alzarsi. Riconobbe subito la voce della figlia.
«Chi è? Avevo dato disposizione di non disturbarmi.»
«Cayla, piccola!»
«Oh, mamma, è bellissimo sentire la tua voce. È tutto il giorno che aspetto la tua telefonata. Cominciavo a pensare che non mi volessi più bene.» La felicità della ragazza era palese e, nel sentire quelle parole, il cuore di Hazel traboccò di gioia materna.
«Tesoro mio, sono stata molto occupata. Succedono tante di quelle cose qui…» Cayla, la pura. Il nome che Hazel aveva scelto per la figlia le calzava a pennello. L’immagine del viso della ragazza le apparve davanti agli occhi. Alla madre, la pelle di Cayla sembrava da sempre come plasmata da giada traslucida, sotto cui fluiva e pulsava il sangue della giovinezza. Gli occhi erano celesti, di un azzurro meno carico di quelli di Hazel, e parevano far trasparire la purezza della mente e dello spirito della ragazza. A diciannove anni, era una giovane donna in bilico sull’orlo dell’età adulta, ma ancora inviolata, vergine, perfetta. Hazel sentì le lacrime pungerle gli occhi mentre veniva travolta dall’impeto dell’amore. Quella bambina era la cosa più importante della sua vita, era colei cui tutti i sacrifici e gli sforzi erano destinati.
«Questa è la mia mamma. Una sola velocità. A tavoletta!» Cayla rise teneramente e rotolò giù adagio dalla figura maschile che giaceva sotto di lei. I loro ventri nudi erano appiccicati dal sudore e si staccarono con riluttanza animale. Sentì il pene scivolarle fuori, seguito da un caldo zampillo del suo fluido vaginale. Ora che non era più dentro di lei, provò un senso di vuoto.
«Dimmi cosa hai fatto oggi…» le chiese Hazel. «Hai studiato?» Era per quella ragione che l’aveva lasciata sul Dolphin. I voti dell’ultimo semestre di Cayla erano stati disastrosi. Il professore le aveva detto chiaro e tondo che senza notevoli miglioramenti sarebbe stata espulsa alla fine dell’anno. Fino a quel momento, erano state soltanto le consistenti donazioni della madre alle casse dell’università a salvarle la pelle.
«Ammetto che oggi sono stata una pigrona, mammina. Sono rimasta a letto fino alle nove e mezzo» e sorrise con un malizioso sguardo sghembo degli innocenti occhi azzurri. Finché Rogier non mi ha fatto avere due orgasmi monumentali, pensò tra sé. Si sedette sulle lenzuola bianche e si avvicinò allo splendido corpo atletico e muscoloso del ragazzo. Aveva la pelle ancora lucida di sudore, tanto da sembrare cioccolato fondente. Ancora si toccavano. Lei portò le ginocchia al mento e si girò appena per offrigli la magnifica vista del nido biondo che faceva capolino tra le sue cosce. Lui allungò la mano e le aprì delicatamente le gambe. La ragazza fu colta da un fremito mentre lui accarezzava con l’indice il bocciolo rosa nel centro della sua femminilità. Cayla si portò il telefono all’orecchio con la mano sinistra e protese la destra verso il pene. Era ancora in completa erezione. Cominciava a pensare che quell’organo vivesse di vita propria. E gli aveva persino dato un nomignolo: Blaise, il maestro di mago Merlino. Blaise l’aveva stregata. Era teso in tutta la sua maestosa lunghezza, duro e risplendente della dolce essenza della ragazza. Lo cinse con pollice e indice e iniziò a stimolarlo con movimenti lenti e voluttuosi.
«Oh, piccola, avevi promesso che ti saresti impegnata. Sei intelligente, so che con un piccolo sforzo potresti ottenere risultati migliori.»
«Oggi è stata un’eccezione, mamma. Gli altri giorni ho lavorato sodo. Oggi ho le mie cose e ho avuto un terribile mal di pancia.»
«Oh, povera Cayla. Adesso va meglio, spero.»
«Sì, mamma. Sto molto meglio. Domani starò bene.»
«Vorrei essere lì per prendermi cura di te. Sono partita solo da una settimana da Cape Town ma sembra un’eternità. Mi manchi così tanto, piccola mia.»
«Mi manchi anche tu, mamma» la rassicurò Cayla. Non dovette più risponderle. Da quel momento la madre iniziò a parlare della gestione di quegli orrendi giacimenti e dei problemi che aveva con gli sporchi bifolchi che li mandavano avanti per lei. Ogni tanto Cayla emetteva dei brevi versi di assenso, ma l’attenzione era interamente rivolta a Blaise. Era circonciso. Quelli che aveva visto fino ad allora erano tutti sormontati da quel disordinato cappuccio di pelle che penzolava dalla punta. Solo dopo aver conosciuto Rogier si era resa conto di quanto fossero brutti in confronto a quel membro meraviglioso che ora teneva con riverenza tra indice e pollice. Blaise era scuro, nero tendente al blu, liscio e lucido come la canna di un fucile. Una limpida gocciolina stillava lenta dalla fessura del glande. Tremolava come una lacrima di rugiada. Osservarla era tanto eccitante che Cayla si sentì attraversare da un brivido di piacere che le fece venire la pelle d’oca sui candidi avambracci. Abbassò veloce la testa su Blaise. Prese la gocciolina sulla punta della lingua. La assaporò. Ne voleva di più, molto di più. La sua mano accelerò il ritmo. Le dita, lunghe e delicate, scorrevano su e giù sul suo sesso come una spoletta in un telaio. Spinse di colpo i fianchi in avanti per accoglierlo. Vide contrarsi gli addominali del ragazzo. Nella mano sentiva Blaise gonfiarsi, diventare duro e grosso come il manico di una racchetta da tennis. I lineamenti di Rogier si contrassero. Lui rovesciò indietro la splendida testa scura e la sua bocca si aprì. Cayla si rese conto che era sul punto di gemere o gridare. Lasciò andare di colpo il pene e gli mise una mano sulle labbra per zittirlo, ma al contempo si chinò e prese Blaise in bocca. A causa delle dimensioni riusciva a inghiottirne meno della metà. La punta rigonfia premeva sulla parte posteriore della gola e le causò dei conati di vomito, ma riuscì a controllarsi. Si arrischiò a togliere la mano dalla bocca di Rogier.