Il destino del cacciatore
Di Wilbur Smith
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Per il re e per il Paese. A qualunque costo.
Sordidi intrighi, grandi passioni, l'eccitazione della caccia grossa e la bellezza della natura incontaminata dell'Africa: Wilbur Smith al suo meglio, in una nuova traduzione.
Africa Orientale, 1906. Con l'appoggio dello zio, il colonnello Penrod Ballantyne, Leon Courtney si unisce ai King's African Rifles, ma ben presto, deluso dalla disonestà che regna nell'esercito, si rende conto che quella vita non fa per lui. Penrod, allora, che conosce la passione del nipote per la caccia grossa, gli propone una delicata missione sotto copertura: spacciandosi per un cacciatore professionista, dovrà spiare i movimenti dei tedeschi, che sembra si stiano preparando a combattere per la Germania del Kaiser, e raccogliere informazioni su un ricco industriale, il Conte Otto von Meerbach.
Quello in cui si ritrova coinvolto è un gioco pericoloso e intrigante, eppure Leon non dimentica il suo vero obiettivo nemmeno quando conosce Eva von Wellberg, la bellissima ed enigmatica amante del magnate tedesco, e se ne innamora perdutamente. Ma cosa accadrà quando scoprirà che il vero nemico è molto più vicino di quanto abbia mai sospettato?
Wilbur Smith
Considerato l’indiscusso maestro dell’avventura, è nato nel 1933 in Africa centrale e si è spento il 13 novembre 2021. Ha pubblicato più di quaranta titoli, tradotti in ventisei lingue, fra cui il ciclo ambientato nell'Antico Egitto e le celebri serie dedicate ai Courtney, ai Ballantyne e a Hector Cross. Nel 2015 ha fondato la Wilbur & Niso Smith Foundation, che promuove la cultura e la narrativa d'avventura. Fiore all'occhiello della fondazione è il prestigioso Wilbur Smith Adventure Writing Prize.
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Anteprima del libro
Il destino del cacciatore - Wilbur Smith
Il 9 agosto del 1906 cadeva il quarto anniversario dell’incoronazione di Edoardo VII, sovrano del Regno Unito e dei dominion britannici e imperatore d’India. Per coincidenza, in quello stesso giorno ricorreva il diciannovesimo compleanno di un fedele suddito di Sua Maestà: il tenente Leon Courtney della compagnia C, III battaglione, Primo reggimento dei King’s African Rifles, più comunemente chiamati KAR. Nel giorno del suo compleanno, Leon era impegnato a dare la caccia ai ribelli nandi tra le scarpate della Great Rift Valley, nelle zone interne di quel gioiello dell’impero che era l’Africa Orientale Britannica.
I nandi erano un popolo bellicoso, facile alle rivolte contro l’autorità. Sporadiche ribellioni si verificavano ormai da dieci anni, dal giorno in cui la loro suprema guida, lo stregone guaritore e veggente, aveva profetizzato morte e sventura per la tribù nel momento in cui un grande serpente nero avesse strisciato tra le terre tribali sputando fuoco e fumo. E così, quando l’amministrazione coloniale britannica diede inizio alla posa dei binari della ferrovia che doveva snodarsi dal porto di Mombasa sull’oceano Indiano fino alle rive del lago Victoria, a quasi seicento miglia all’interno, i nandi videro avverarsi la spaventosa profezia, e il fuoco della rivolta che covava sotto la cenere riprese ad ardere, divampando violento allorché il tracciato ferroviario raggiunse Nairobi, per poi propagarsi a ovest, verso il lago Victoria, attraverso la Rift Valley e le terre tribali dei nandi.
Il colonnello Penrod Ballantyne, l’ufficiale in comando del KAR, che aveva appena ricevuto il dispaccio del governatore della colonia che lo informava della nuova rivolta della tribù e dei suoi attacchi contro gli avamposti più isolati lungo la linea ferroviaria, commentò esasperato: «Bene, suppongo che bisognerà dargli un’altra bella bastonata», e ordinò al Terzo battaglione di partire dal quartier generale di Nairobi per fare proprio questo.
Potendo scegliere, Leon Courtney avrebbe trascorso quella giornata in tutt’altro modo. Conosceva una giovane signora il cui marito era stato ucciso poco tempo prima da un leone inferocito nel loro shamba di caffè sulle colline Ngong a qualche miglio di distanza da Nairobi, neonata capitale della colonia. Grazie alla sua destrezza nel cavalcare e alla sua prodigiosa abilità nel colpire la palla, Leon era stato invitato a far parte della squadra di polo del marito come giocatore di punta. Essendo un ufficiale subalterno non poteva certo permettersi di mantenere una scorta di pony, ma alcuni tra i soci più facoltosi del club erano ben contenti di fargli da sponsor. In quanto membro della squadra del marito deceduto, Leon godeva di qualche privilegio nei rapporti con la signora, o perlomeno questa era la sua convinzione. Così, trascorso un adeguato periodo di tempo, tale da permettere alla vedova di riprendersi dal primo, straziante dolore del lutto, Leon era andato allo shamba a porgerle rispettosamente le condoglianze. Era stato un vero piacere scoprire che la signora si era mirabilmente ripresa dalla perdita del marito. Persino vestita a lutto, la trovava più attraente di tutte le altre signore di sua conoscenza.
Verity O’Hearne, questo era il nome della signora, aveva alzato lo sguardo su quell’aitante giovanotto in alta uniforme, stivali lucidi e cappello a tesa larga con lo stemma del reggimento raffigurante il leone e la zanna d’elefante. Nei suoi bei lineamenti e nel candore del suo sguardo aveva visto un’innocenza e uno slancio che avevano risvegliato in lei un qualche istinto femminile, che a tutta prima aveva scambiato per istinto materno. Nell’ampia veranda ombreggiata della casa padronale gli aveva offerto tè e tartine alla crema di acciughe. All’inizio Leon era timido e piuttosto impacciato, ma con la sua gentilezza e parlandogli con un accento irlandese che incantava per la dolcezza, era riuscita abilmente a scioglierlo da ogni imbarazzo. Un’ora era passata con una rapidità stupefacente, e quando Leon si era alzato per congedarsi, lei lo aveva accompagnato fino ai gradini dell’ingresso e gli aveva teso la mano per salutarlo. «La prego, venga ancora a trovarmi, tenente Courtney, se mai dovesse passare da queste parti. A volte la solitudine mi pesa molto.» La voce era bassa e dolce come miele, la piccola mano morbida come seta.
I doveri di Leon, l’ufficiale più giovane del battaglione, erano molti e onerosi, sicché erano passate quasi due settimane prima che potesse liberarsi e approfittare dell’invito. Una volta conclusa la fase del tè e delle tartine, lei lo aveva condotto dentro casa per mostrargli i fucili da caccia del marito, che aveva intenzione di vendere. «Mio marito mi ha lasciato a corto di fondi, perciò purtroppo sono costretta a trovare qualcuno che li compri. Speravo che lei, essendo un militare, potesse darmi un’idea del loro valore.»
«Sarei felicissimo di poterle essere d’aiuto in qualsiasi modo, signora O’Hearne.»
«È molto gentile da parte sua. Sento che mi è amico e che posso fidarmi completamente di lei.»
Incapace di trovare le parole per risponderle, Leon si era perso nei grandi occhi azzurri di Verity, perché a quel punto ne era ormai totalmente ammaliato.
«Posso chiamarti Leon?» gli aveva domandato lei, ma prima che lui potesse rispondere era scoppiata in singhiozzi disperati. «Oh, Leon! Sono così triste, così sola» aveva detto d’un fiato, cadendogli tra le braccia.
Leon se l’era stretta al petto, non trovando altro modo per darle conforto. Leggera come una bambola, con la graziosa testolina appoggiata sulla sua spalla, lei aveva ricambiato l’abbraccio con trasporto. In seguito Leon aveva tentato di ricostruire esattamente quello che era accaduto dopo, ma tutto si confondeva nel rapimento dell’estasi. Non riusciva a ricordare come e quando fossero andati nella stanza di lei. Il letto era mastodontico e in ottone, e mentre giacevano sul materasso di piume la giovane vedova gli aveva donato una fugace visione del paradiso, facendo fare un notevole giro di boa all’esistenza di Leon.
E ora, a tanti mesi di distanza, mentre nel calore infuocato della Rift Valley guidava un distaccamento di sette ascari – i soldati indigeni arruolati sul posto – in ordine sparso e a baionetta inastata, nella rigogliosa piantagione di banane che circondava gli edifici del quartier generale del commissario distrettuale a Niombi, più che al proprio dovere Leon pensava al bel seno di Verity O’Hearne.
Poco più in là, alla sua sinistra, il sergente Manyoro fece schioccare la lingua contro il palato. Leon passò di colpo dal boudoir di Verity al presente, raggelato da quel piccolo segnale di avvertimento. I suoi pensieri avevano vagato altrove facendogli dimenticare il dovere, ma ora ogni nervo del suo corpo era teso come il filo di una lenza tirata da un grosso marlin nelle azzurre profondità del canale di Pemba. Alzò la mano destra per ordinare l’alt, e gli ascari disposti ai suoi fianchi si arrestarono. Con la coda dell’occhio lanciò uno sguardo al suo sergente.
Manyoro era un morani del popolo masai. Degno rappresentante di quella tribù, pur essendo molto alto era snello e aggraziato come un torero. Nella sua uniforme kaki, con il fez elegantemente ornato di nappine, era dalla testa ai piedi un vero guerriero africano. Appena sentì su di sé lo sguardo di Leon, puntò in alto il mento.
Leon seguì il gesto e vide gli avvoltoi. Erano soltanto due e volteggiavano, ala contro ala, sopra i tetti del boma, la sede governativa del distretto di Niombi.
«Merda!» mormorò Leon. Non si aspettava grossi problemi: stando ai rapporti ufficiali, il centro dell’insurrezione era localizzato settanta miglia più a ovest, e inoltre quell’avamposto del governo si trovava al di fuori dei tradizionali confini territoriali della tribù nandi. Quello era territorio dei masai. In base agli ordini ricevuti, doveva semplicemente portare rinforzi al boma, con i suoi pochi uomini, nel caso in cui l’insurrezione avesse travalicato i confini tribali. E ora sembrava che fosse accaduto proprio questo.
Il commissario del distretto di Niombi era Hugh Turvey. Leon aveva conosciuto lui e la moglie al ballo del Settlers’ Club, la vigilia di Natale dell’anno prima. Pur avendo solo quattro o cinque anni più di Leon, Turvey era il solo e unico responsabile di un territorio vasto quanto la Scozia e si era già guadagnato la fama di uomo capace e risoluto, non certo il tipo che avrebbe permesso a un pugno di ribelli di attaccare di sorpresa il suo boma. E tuttavia quegli uccellacci che volteggiavano in cerchio erano un presagio sinistro, annunciatori di morte.
Leon diede agli ascari il segnale di caricare i fucili, e subito si udirono gli scatti degli otturatori via via che i proiettili calibro .303 venivano inseriti nelle camere di caricamento dei Lee-Enfield a canna lunga. Un altro segnale con la mano, e tutti insieme iniziarono una cauta avanzata in formazione aperta.
Solo due uccelli, pensò Leon. Forse vagavano lì intorno per caso. Ce ne sarebbero di più se… Proprio sopra la sua testa udì un battito rumoroso di ali pesanti: un altro avvoltoio si era alzato in volo da dietro la fitta cortina di banani. Leon sentì il brivido freddo della paura. Se quelle bestiacce continuano a volare qui sopra, vuol dire che in terra c’è della carne, carne morta.
Diede nuovamente l’alt, e dopo aver fatto un segno con il dito a Manyoro si staccò dal gruppo, seguito a poca distanza dal guerriero masai. Benché avanzasse nascosto tra le piante e senza fare rumore, mise in allarme altri grossi divoratori di carogne che, da soli o in gruppo, tra un gran battito di ali spiccarono il volo nel cielo azzurro per unirsi al nugolo roteante dei loro compagni.
Superata l’ultima pianta di banano, Leon si fermò di nuovo, questa volta al limitare dell’ampio spazio aperto adibito alle parate militari. Davanti a lui, brillavano candidi i muri del boma, con i mattoni di fango imbiancati a calce. La porta dell’edificio principale era spalancata. Sulla veranda e sul suolo d’argilla cotta dal sole dell’ampio spazio aperto erano sparpagliati mobili rotti e documenti ufficiali del governo. Il boma era stato saccheggiato.
Hugh Turvey e sua moglie Helen giacevano in terra a braccia e gambe spalancate. Nudi, con il cadavere della loro figlia di cinque anni abbandonato poco più in là. Alla bambina era stata inferta un’unica ferita al petto con un assegai, la lancia a lama larga dei nandi. Il corpicino si era totalmente dissanguato a causa della profonda ferita, e ora la pelle luccicava bianca come il sale nella vivida luce solare. I genitori erano stati crocifissi, mani e piedi infilzati nel terreno argilloso con acuminati paletti di legno.
Sicché i nandi qualcosa dai missionari l’hanno imparata alla fine, pensò con amarezza Leon. Girò un lungo, calmo sguardo sui bordi dello spazio aperto in cerca di un segno che tradisse la vicinanza degli assalitori. Quando ebbe la certezza che se ne fossero andati, riprese ad avanzare camminando con cautela in mezzo agli oggetti che ingombravano il suolo. Avvicinandosi ai corpi, vide che Hugh era stato barbaramente evirato e a Helen avevano tagliato via i seni. Gli avvoltoi avevano allargato le ferite. Le bocche dei due cadaveri erano spalancate: gli avevano infilato dentro una molletta da bucato per tenere divaricate le mascelle. Giunto presso i cadaveri, si fermò. «Perché gli hanno aperto a forza la bocca?» domandò in swahili al sergente, che lo stava raggiungendo.
«Li hanno affogati» rispose pacatamente Manyoro nella stessa lingua. Leon vide le macchie sull’argilla sotto le loro teste, segno che in quei punti si era asciugato del liquido. Poi si accorse che le loro narici erano tappate con delle pallottoline d’argilla: li avevano costretti a esalare gli ultimi respiri con la bocca.
«Affogati?» Leon scosse la testa senza comprendere. Poi, all’improvviso, avvertì il pungente odore di ammoniaca dell’urina. «No!»
«Sì» disse Manyoro. «È una delle cose che i nandi fanno ai loro nemici. Gli pisciano dentro la bocca aperta fino a soffocarli. I nandi non sono uomini, sono delle bestie.» Non si era curato di nascondere il disprezzo e l’ostilità tribale.
«Vorrei proprio trovarli, quelli che hanno fatto questo scempio» mormorò Leon, mentre la nausea lasciava il posto all’ira.
«Io li troverò. Non sono andati lontano.»
Leon distolse lo sguardo da quel macello rivoltante e alzò gli occhi verso la cima del dirupo che li sovrastava dai suoi mille piedi d’altezza. Sollevò il cappello e si asciugò il sudore dalla fronte con il dorso della mano che impugnava la Webley, il revolver d’ordinanza. Con evidente sforzo riprese il controllo delle proprie emozioni, poi abbassò di nuovo lo sguardo.
«Prima dobbiamo seppellire queste persone» disse a Manyoro. «Non possiamo lasciarle in pasto agli uccelli.»
Con cautela perlustrarono gli edifici deserti, che conservavano i segni della precipitosa fuga del personale governativo alle prime avvisaglie di pericolo. Poi Leon mandò Manyoro e tre ascari a setacciare da cima a fondo la piantagione di banane e a sorvegliare il perimetro esterno del boma.
Mentre gli altri erano impegnati a svolgere il loro compito, Leon entrò nell’abitazione dei Turvey, un piccolo cottage alle spalle del blocco degli uffici. Era stato anch’esso saccheggiato, ma in un armadio sfuggito alla furia dei predatori trovò una pila di lenzuola. Ne prese una bracciata e la portò fuori. Estrasse i picchetti con cui i Turvey erano stati infilzati nel terreno, poi tolse le mollette dalle loro bocche. Alcuni denti erano rotti, le labbra tumefatte. Inumidì il fazzoletto con l’acqua della sua provvista e ripulì le facce dal sangue essiccato e dall’urina. Tentò di stender loro le braccia lungo i fianchi, ma il rigor mortis le aveva irrigidite. Infine avvolse i corpi nei lenzuoli.
Nella piantagione di banane il terreno era molle e umido a causa delle recenti piogge. Mentre Leon e alcuni ascari stavano di guardia nell’eventualità di un nuovo attacco, altri quattro si misero a scavare con gli attrezzi da trincea un’unica fossa per la famiglia.
* * *
In cima alla scarpata, appena sotto la linea dell’orizzonte ma nascosti da un gruppo di cespugli agli sguardi di chi si fosse trovato più in basso, tre uomini appoggiati alle loro lance da guerra si tenevano agilmente in equilibrio su una gamba sola, come fanno le cicogne quando si posano. Sotto di loro, il fondo della Rift Valley era una vasta pianura d’erba marrone punteggiata di rovi, arbusti e acacie. Sebbene apparisse secca, l’erba era buona per il pascolo e quindi particolarmente apprezzata dai masai, che portavano lì il loro gibboso bestiame dalle lunghe corna. Dopo l’ultima ribellione dei nandi, tuttavia, i masai avevano spostato le loro mandrie in una zona più sicura, parecchio più a sud. I nandi avevano fama di essere ladri di bestiame.
E così quella parte della valle era ormai riservata alle bestie selvatiche, moltitudini che formicolavano nella pianura a perdita d’occhio. Vista da quella distanza, la zebra era grigia come le nuvolette di polvere che sollevava galoppando timorosa di ogni pericolo, mentre le antilopi di prateria, gli gnu e i bufali erano macchioline più scure sullo sfondo dorato del paesaggio. I lunghi colli delle giraffe svettavano dritti come pali del telegrafo al di sopra delle chiome piatte delle acacie, mentre le antilopi apparivano come dei puntolini chiari che danzavano leggeri nell’aria tremolante per il calore. Qui e là, nere masse di quella che sembrava roccia vulcanica si muovevano in mezzo agli animali più piccoli, come navi che solcano l’oceano passando tra i banchi di sardine. Erano gli imponenti pachidermi: il rinoceronte e l’elefante.
Era una scena da ere primordiali, tale da ispirare un reverenziale timore nella sua immensità e nella sua abbondanza, ma per i tre uomini che la osservavano da lassù non rappresentava niente di nuovo. Il loro interesse era tutto concentrato sul piccolo complesso di edifici proprio sotto di loro. Una sorgente, che stillava un filo d’acqua dalla parete rocciosa della scarpata, alimentava la vegetazione della striscia di verde intorno agli edifici del boma governativo.
Il più anziano dei tre uomini indossava un gonnellino di code di leopardo e un copricapo dello stesso pelo a macchie nere e oro: i paramenti del sommo stregone della tribù dei nandi. Il suo nome era Arap Samoei, e da dieci anni era lui a guidare la ribellione contro gli invasori bianchi e le macchine infernali che minacciavano di dissacrare le terre tribali del suo popolo. Il corpo e il viso degli uomini vicino a lui erano dipinti con i colori di guerra: un cerchio d’ocra rossa intorno agli occhi e strisce dello stesso colore sulle guance. Gocce di calce spenta punteggiavano il loro petto nudo, in un disegno che imitava il piumaggio della faraona vulturina. I loro gonnellini erano di pelle di gazzella, i copricapi di pelo di scimmia e di civetta.
«Lo mzungu e quei cani bastardi dei suoi masai sono già in trappola» disse Arap Samoei. «Speravo fossero di più, ma sette masai e uno mzungu saranno lo stesso un buon bottino di caccia.»
«Cosa stanno facendo?» chiese il capo nandi al suo fianco, schermandosi gli occhi contro la luce accecante mentre scrutava il fondo del precipizio.
«Stanno scavando una buca per seppellire la sozzura di pelle bianca che gli abbiamo lasciato» rispose Samoei.
«È ora di portare le lance giù da loro?» domandò il terzo guerriero.
«È ora» rispose il sommo stregone. «Ma lasciate a me lo mzungu. Voglio tagliargli le palle con la mia lama. Le userò per realizzare una medicina potente.» Toccò l’impugnatura del suo panga, appeso alla cintura di pelle di leopardo. Era un coltello a lama corta e spessa, l’arma preferita dei nandi per i combattimenti corpo a corpo. «Mentre gliele taglio voglio sentirlo strillare, strillare come un facocero azzannato da un leopardo. Più forte grida, più potente sarà la medicina.» Si voltò e a grandi passi tornò sulla cresta dell’aspra parete rocciosa, e da lassù guardò in basso, verso gli avvallamenti dietro la cresta. Lì, nascosti alla vista, i suoi guerrieri aspettavano pazientemente acquattati nell’erba bassa, una fila dietro l’altra. Samoei alzò la mano chiusa a pugno e l’impi in attesa, la sua formazione di guerrieri scelti, balzò in piedi, senza il minimo rumore che potesse allertare la preda.
«Il frutto è maturo!» gridò Samoei.
«È maturo per la lama!» gridarono all’unisono i guerrieri.
«Scendiamo giù per il raccolto!»
* * *
La fossa era pronta, aspettava solo di ricevere le spoglie che vi avrebbero riposato. Leon fece un cenno a Manyoro, il quale diede silenziosamente un ordine ai suoi uomini. Due di essi saltarono dentro la buca, gli altri gli passarono i corpi infagottati nei lenzuoli. Deposero i due più grandi, e dalla forma grottesca, uno accanto all’altro sul fondo della tomba, con l’involto più minuto infilato nel mezzo: un piccolo, patetico gruppo unito per sempre nella morte.
Dopo essersi tolto il cappello, Leon si inginocchiò sul bordo della fossa. Manyoro ordinò agli uomini del piccolo distaccamento di mettersi in riga dietro di lui, sull’attenti. Leon cominciò a recitare il Padre nostro. Gli ascari non capivano le parole, però conoscevano il significato di quella preghiera, avendola udita recitare su molte altre tombe.
«Perché tuo è il regno, tua è la potenza e la gloria, nei secoli dei secoli, amen!» concluse Leon e fece per alzarsi, ma prima che si fosse rimesso in piedi, il silenzio opprimente dell’infuocato pomeriggio africano fu lacerato da un frastuono assordante di ululati e di grida. Con la mano già abbassata sul calcio della Webley nella fondina del suo cinturone Sam Browne, gettò una rapidissima occhiata tutt’intorno.
Dal fitto fogliame dei banani si stava riversando una massa di corpi luccicanti di sudore. Arrivavano da tutte le parti, a salti e capriole, brandendo le armi, con le lame delle lance e dei panga che scintillavano al sole. Con le corte mazze battevano sugli scudi di pelle grezza, compiendo agili balzi in aria mentre correvano verso lo sparuto gruppetto di soldati.
«Vicino a me!» urlò Leon. «Schieratevi intorno a me! Caricate! Caricate! Caricate!» Gli ascari reagirono con la precisione delle truppe ben addestrate, formando immediatamente uno stretto cerchio intorno a lui, con i fucili imbracciati e le baionette puntate. Una rapida valutazione della situazione bastò a Leon per rendersi conto che lui e i suoi erano completamente circondati, con la sola eccezione del lato più vicino all’edificio principale del boma. I nandi dovevano avere rotto la formazione mentre lo circondavano, lasciando aperto un piccolo spiraglio nelle loro fila.
«Aprite il fuoco!» gridò Leon, e il fragore dei colpi dei sette fucili fu quasi sommerso dal frastuono delle grida di guerra e del tambureggiare sugli scudi. Vide cadere solo uno dei nandi, un capo tribù con il gonnellino e il copricapo fatti di pelli di scimmia colobo. Il pesante proiettile di piombo gli aveva fatto saltare la testa, e dalla nuca gli usciva uno spruzzo di materia sanguinolenta. Leon sapeva chi aveva sparato quel colpo: aveva visto Manyoro, che era un tiratore esperto, scegliere la sua vittima e prendere deliberatamente la mira.
Caduto il capo, la carica dei nandi sembrò esaurirsi, ma al rabbioso urlo stridulo lanciato nelle retrovie da uno stregone bardato di pelli di leopardo, gli assalitori si ricompattarono e l’attacco riprese con forza. Leon capì che quello stregone era probabilmente Arap Samoei in persona, il famigerato capo della ribellione. Sparò contro di lui due colpi ravvicinati, ma la distanza superava i cinquanta passi e la Webley a canna corta era un’arma da usarsi a distanza ravvicinata. Nessuno dei due proiettili lo colpì.
«Qui!» gridò di nuovo Leon. «In fila serrata! Seguitemi!» Li guidò correndo nello stretto spiraglio che si era aperto nella formazione dei nandi, puntando direttamente verso l’edificio principale. Il manipolo di figure nelle uniformi kaki ce l’aveva quasi fatta a passare, quando i nandi si lanciarono di nuovo in avanti, bloccandogli la strada. I due gruppi si trovarono invischiati all’istante in un corpo a corpo.
«Colpiteli con la baionetta!» ruggì Leon, e con la sua Webley sparò un colpo in faccia al primo nandi che gli si parò davanti. Quando l’uomo cadde, dietro di lui ne spuntò immediatamente un altro. Manyoro gli affondò nel petto la sua lunga baionetta argentea, poi scavalcò il corpo, estraendo la lama prima di allontanarsi. Leon lo seguì dappresso e insieme ne uccisero altri tre, con la baionetta e con i proiettili, prima di liberarsi dalla mischia e raggiungere gli scalini della veranda. Ormai erano gli unici componenti del distaccamento ancora in piedi. Tutti gli altri erano stati trafitti dalle lance.
Leon salì i gradini della veranda tre alla volta e attraverso la porta spalancata si precipitò nella stanza principale. Manyoro chiuse la porta dietro di loro. Corsero entrambi a una finestra e spararono una serie di colpi ai nandi che li avevano inseguiti. I colpi andavano a segno con una tale precisione che nel giro di pochi secondi i gradini furono ingombri di corpi. Gli altri assalitori prima indietreggiarono scoraggiati, poi voltarono la schiena e andarono a sparpagliarsi nella piantagione.
In piedi davanti alla finestra, Leon ricaricò la pistola mentre li guardava allontanarsi. «Quante munizioni hai, sergente?» chiese a Manyoro all’altra finestra.
Manyoro aveva la manica della lunga camicia lacerata dal panga di un nandi, ma il sangue era poco e lui non badava alla ferita. Aveva aperto l’otturatore del fucile e stava inserendo i proiettili. «Queste sono le mie due ultime clip, bwana» rispose, «ma là fuori ce ne sono tante altre.»
Con un gesto indicò dalla finestra le bandoliere degli ascari caduti che giacevano per terra nell’ampio spazio aperto, in mezzo ai nandi seminudi che avevano ucciso.
«Andremo fuori a prenderle prima che i nandi abbiano il tempo di riorganizzarsi» gli disse Leon.
Manyoro fece scattare la chiusura dell’otturatore e appoggiò il fucile contro la finestra.
Leon infilò la pistola nella fondina e raggiunse Manyoro, già davanti alla porta. Fianco a fianco, raccolsero le forze preparandosi all’impresa. Manyoro lo guardava dritto in faccia e Leon gli sorrise. Era bello avere accanto a sé l’alto masai. Erano insieme sin da quando Leon, di ritorno dall’Inghilterra, si era arruolato nel reggimento. Da allora era passato poco più di un anno, ma il legame stabilitosi tra loro due era forte. «Sei pronto, sergente?» domandò.
«Sono pronto, bwana.»
«In alto i fucili!» Leon lanciò il grido di battaglia del reggimento e spalancò la porta. Si lanciarono fuori insieme. I gradini ingombri di cadaveri erano scivolosi a causa del sangue, perciò Leon saltò giù dal basso muretto di sostegno della veranda e iniziò a correre nell’esatto istante in cui toccò terra. Si precipitò verso l’ascaro morto più vicino e si piegò su un ginocchio accanto a lui. In fretta e furia, sganciò la pesante bandoliera con le munizioni dal cinturone e se la infilò a tracolla. Si rialzò e corse verso un altro ascaro caduto, ma prima che riuscisse a raggiungerlo un brontolio minaccioso si levò dal bordo della piantagione di banane. Lo ignorò e si inginocchiò accanto al cadavere. Non levò gli occhi da terra se non dopo essersi infilato a tracolla un’altra bandoliera con il cinturone. Si rialzò proprio nel momento in cui i nandi tornavano a riversarsi nello spiazzo.
«Vai dentro, fa’ in fretta!» urlò a Manyoro, anche lui bardato di bandoliere con le munizioni. Leon si attardò solo per il tempo necessario a strappare il fucile da un altro ascaro morto, poi raggiunse di corsa il muretto della veranda. Lì si fermò un attimo a guardare indietro. Manyoro si trovava a poche iarde da lui, mentre i guerrieri nandi delle prime file, ormai a cinquanta passi, si avvicinavano rapidamente.
«Giusto al pelo» grugnì Leon. Poi vide che uno degli inseguitori si staccava l’arco dalla spalla. Riconobbe l’arma che i nandi usavano per la caccia all’elefante. Un brivido d’allarme gli percorse la nuca. I nandi erano abilissimi nel tiro con l’arco. «Corri, maledizione, corri!» gridò a Manyoro vedendo che il nandi, incoccata una lunga freccia, alzava l’arco e tendeva la corda fino alle labbra. Il guerriero rilasciò la freccia, che partì verso l’alto per poi iniziare la sua silenziosa curva ad arco. «Attento!» gridò Leon, ma l’avvertimento era inutile e la freccia troppo veloce. Senza poter fare niente, la vide piombare verso la schiena indifesa di Manyoro.
«Dio!» mormorò Leon. «Dio, ti prego!» Per un attimo pensò che la freccia lo avrebbe mancato, perché scendeva quasi in verticale, ma poi capì che avrebbe centrato il suo bersaglio. Fece qualche passo verso Manyoro e quindi si fermò a guardare, impotente. Il corpo del sergente gli nascose l’impatto della freccia, ma poté udire il sibilo della punta di ferro che con un lievissimo risucchio trafiggeva la carne, facendo ruotare su se stesso Manyoro. La punta della freccia era penetrata in profondità dietro la coscia. Manyoro fece un altro passo avanti, ma la gamba ferita lo rallentava. Leon si levò le bandoliere dal collo e le lanciò assieme al fucile che aveva in mano oltre il muretto, dentro la porta aperta, prima di tornare indietro. Manyoro veniva verso di lui saltellando sulla gamba non ferita, con l’asta penzolante della freccia che sbatteva sull’altra gamba. Un’altra freccia li stava raggiungendo e Leon sussultò quando ne sentì il sibilo a un palmo dall’orecchio, poco prima che colpisse il muretto della veranda.
Raggiunse Manyoro e gli mise il braccio destro intorno al torace, sotto l’ascella, lo sollevò e lo trascinò di corsa al muretto. Fu sorpreso da quanto il masai fosse leggero nonostante l’altezza. Lui pesava venti libbre più del sergente, libbre di sodi muscoli la cui potente struttura in quel momento lavorava caricata dalla forza della paura e della disperazione. Raggiunta la veranda, spinse il corpo di Manyoro dall’altra parte del muretto, lasciando che si accasciasse a terra. Poi saltò il muretto con un balzo. Intorno a loro sibilavano altre frecce in un ronzio continuo, ma Leon le ignorò. Tenendo Manyoro tra le braccia come se fosse un bambino, infilò di corsa la porta aperta proprio mentre il primo degli inseguitori nandi arrivava al muretto dietro di loro.
Lasciò cadere Manyoro sul pavimento e raccolse il fucile che aveva recuperato dall’ascaro morto. Mentre si girava verso la porta aperta, inserì una striscia di cartucce nella culatta e abbatté il nandi che stava arrampicandosi sul muretto. Velocissimo, ricaricò il fucile e fece fuoco di nuovo. Quando ebbe svuotato il caricatore, posò il fucile e chiuse la porta. Era fatta di solide assi di mogano, con il telaio saldamente ancorato al muro spesso. La porta tremò, mentre dall’altra parte i nandi le premevano contro con tutte le forze. Leon estrasse la pistola e sparò due colpi attraverso i pannelli di legno. Dietro la porta si levò un grido di dolore, poi calò il silenzio. Leon aspettò che i nandi si facessero sotto di nuovo. Sentiva i loro bisbigli e il fruscio dei piedi che si muovevano. Tutt’a un tratto, un viso dipinto apparve a una delle finestre sulla parete laterale. Leon gli puntò la pistola contro, ma prima che potesse premere il grilletto partì un colpo da dietro le sue spalle. La testa scomparve.
Leon si girò e vide che Manyoro, trascinandosi sul pavimento, aveva preso in mano il fucile che lui aveva appoggiato accanto all’altra finestra. Aggrappandosi al bordo, si era tirato su puntellandosi sulla gamba buona. Il sergente sparò un altro colpo dalla finestra e Leon udì il rumore sordo del proiettile che si conficcava nella carne, subito seguito dal tonfo di un corpo che si afflosciava sulla veranda. «Morani! Guerriero!» ansimò, e Manyoro sorrise al complimento.
«Non lasciare a me tutto il lavoro, bwana. Vai all’altra finestra!»
Leon ficcò la pistola nella fondina, afferrò il fucile scarico e corse alla finestra aperta infilando nello stesso tempo la clip di cartucce nella culatta – due stripper clip, dieci cartucce. Il Lee-Enfield era un’arma meravigliosa. Provava una bella sensazione a tenerlo in mano.
Dalla finestra sparò una serie di colpi in rapida successione. Tra lui e Manyoro fecero piazza pulita dei nandi nello spiazzo grazie a una scarica di fucili che li faceva correre all’impazzata a nascondersi nella piantagione. Manyoro si accasciò lentamente sotto la finestra, la schiena appoggiata al muro e le gambe stese in avanti, con quella ferita messa sopra l’altra in modo che la freccia non toccasse il pavimento.
Dopo un’ultima occhiata allo spiazzo per accertarsi che nessuno dei nemici fosse tornato di nascosto, Leon si spostò dalla sua finestra a quella del sergente. Si accovacciò davanti a lui e compì un primo, incerto tentativo di estrarre la freccia. Manyoro fece una smorfia di dolore. Leon tirò un po’ più forte, ma la punta di ferro dentellata non voleva saperne di muoversi. Manyoro non si lasciò sfuggire nemmeno un lamento, eppure il viso era talmente bagnato di sudore che le grosse gocce gli colavano sul davanti della giubba.
«Non riesco a estrarla, perciò adesso spezzerò l’asta della freccia e poi ti fascerò la gamba» disse Leon.
Per un lungo momento Manyoro lo fissò con occhi inespressivi, poi gli fece un gran sorriso, mettendo in mostra i denti grandi, regolari e bianchissimi. I lobi delle sue orecchie erano stati forati già nell’infanzia e allargati tanto da potervi infilare due dischi d’avorio, che conferivano al suo volto un’aria maliziosa e da mascalzone.
«In alto i fucili!» disse il sergente, e il fatto che scimmiottasse Leon ripetendo la sua espressione preferita fu talmente sorprendente, date le circostanze, che Leon scoppiò in una fragorosa risata e nel medesimo istante spezzò d’un colpo l’asta di giunco della freccia, nel punto più vicino alla ferita che ancora stillava sangue. Manyoro chiuse gli occhi ma non emise alcun suono.
Leon trovò le bende nella tasca del cinturone che aveva preso all’ascaro, e con quelle fasciò la gamba all’altezza del moncone di freccia che spuntava dalla ferita, per impedirgli di muoversi. Alla fine si sedette sui talloni per meglio valutare il proprio operato. Staccò la borraccia dell’acqua dal proprio cinturone, svitò il tappo e bevve un lungo sorso, dopodiché passò la borraccia a Manyoro. Il masai esitò, segno di delicatezza: un ascaro non beveva dalla borraccia di un ufficiale. Accigliandosi, Leon gliela ficcò in mano. «Bevi, dannazione» disse. «È un ordine!»
Manyoro piegò la testa all’indietro e portò in alto la borraccia. Si versò l’acqua direttamente nella bocca, senza toccare con le labbra il collo della borraccia. Il pomo d’Adamo andò su e giù mentre la inghiottiva per tre volte. Poi riavvitò il tappo e restituì la borraccia a Leon. «Dolce come il miele» disse.
«Ci muoveremo appena farà buio» disse Leon.
Manyoro rifletté su quell’affermazione per qualche istante. «Che strada pensi di prendere?»
«La stessa che abbiamo fatto noi per venire.» Leon sottolineò il noi. «Dobbiamo ritornare alla ferrovia.»
Manyoro fece una risatina.
«Cos’è che ti fa ridere, morani?» gli domandò Leon.
«Sono quasi due giorni di marcia fino alla ferrovia» gli ricordò Manyoro. Scosse la testa divertito e si toccò la gamba fasciata con un gesto eloquente. «Quando ci andrai, BWANA, sarai da solo.»
«Hai in mente di disertare, Manyoro? Sai bene che c’è la fucilazione per questo reato…» Si interruppe, perché un movimento fuori dalla finestra aveva attirato il suo sguardo. Afferrò il fucile e sparò tre colpi in rapida successione al centro dello spiazzo. Uno dei proiettili doveva aver colpito la carne viva, perché fu seguito da un grido di dolore misto a rabbia. «Babbuini figli di babbuino» ringhiò Leon. In swahili l’insulto suonava particolarmente bene. Si posò il fucile in grembo per caricarlo di nuovo. Senza alzare gli occhi disse: «Ti porterò io».
Manyoro fece un sorriso malizioso e chiese garbatamente: «Per due giorni, bwana, con mezza tribù nandi alle calcagna, e dici che mi porterai tu? Ho sentito bene?».
«Forse il nostro sergente saggio e spiritoso ha un piano migliore?» ribatté Leon in tono di sfida.
«Due giorni!» Manyoro non si capacitava. «Dovrei chiamarti Cavallo.»
Rimasero in silenzio per un po’, poi Leon disse: «Parla, uomo saggio. Dammi il tuo consiglio».
Dopo un attimo di silenzio, Manyoro rispose: «Qui non siamo nel territorio dei nandi. Queste sono le terre da pascolo della mia gente. Quegli infidi cani bastardi sconfinano nelle terre dei masai».
Leon annuì. Sulla sua mappa militare quei limiti non erano visibili, in base agli ordini non erano da specificare. Probabilmente i suoi superiori non avevano una conoscenza precisa di quelle divisioni territoriali, mentre lui, insieme a Manyoro, proprio in quei territori aveva effettuato lunghe marce di pattugliamento prima dello scoppio dell’ultima rivolta. «Questo lo sapevo, me lo avevi già spiegato. Ma adesso parlami del piano migliore che hai in mente, Manyoro.»
«Se vai in direzione della ferrovia…»
Leon lo interruppe. «Vuoi dire: "Se noi andiamo".»
Manyoro chinò leggermente il capo in un esitante cenno di assenso. «Se andiamo verso la ferrovia ritorniamo nel territorio dei nandi, che lì prenderanno coraggio e ci inseguiranno come un branco di iene. Invece, se scenderemo giù per la valle…» e qui Manyoro indicò il Sud con il mento, «resteremo in territorio masai. Ogni passo fatto per inseguirci riempirà di paura le budella dei nandi. Non ci verranno dietro a lungo.»
Leon ci pensò su, poi scosse la testa dubbioso. «A sud non c’è altro che il deserto, e io devo portarti da un dottore prima che la gamba si debba amputare perché è andata in cancrena.»
«A meno di un giorno di cammino a ritmo non troppo sostenuto c’è il manyatta di mia madre» rispose Manyoro.
Leon batté le palpebre per la sorpresa. Chissà perché, non aveva mai pensato a Manyoro come a uno che avesse dei genitori. Poi si riscosse. «Non mi hai sentito. Tu hai bisogno di un dottore, di qualcuno che ti tiri fuori quella freccia dalla gamba prima che ti uccida.»
«Mia madre è il dottore più famoso in tutte queste terre. La sua fama di suprema guaritrice si estende dall’oceano ai grandi laghi. Ha salvato centinaia dei nostri morani, gente che era stata colpita da una lancia o azzannata da un leone. Lei ha certe medicine che i vostri dottori bianchi non si sognano neppure, lì a Nairobi.» Manyoro si insaccò di nuovo contro la parete. Ormai la sua pelle aveva assunto un colorito grigiastro e il suo sudore puzzava di rancido. Si guardarono in faccia per qualche istante, poi Leon annuì.
«Va bene, allora scenderemo a sud lungo il Rift. Partiremo appena farà buio, prima che sorga la luna.»
Ma Manyoro si tirò di nuovo su a sedere e annusò l’aria carica di umidità, come un cane da caccia che fiuta un odore lontano. «No, bwana, se andiamo, dobbiamo andare subito. Non senti l’odore?»
«Fumo!» mormorò Leon. «Quei porci vogliono stanarci col fuoco.» Lanciò un’occhiata dalla finestra. Lo spiazzo era vuoto, però sapeva che i nandi non sarebbero ritornati dalla stessa direzione di prima: nel muro sul retro dell’edificio non c’erano finestre, ed era da lì che sarebbero arrivati. Osservò le foglie dei banani più vicini, mosse da una brezza leggera. «Vento dell’Est» mormorò. «Va bene per noi.» Guardò Manyoro. «Ci porteremo dietro poca roba. Ogni oncia in più potrebbe fare la differenza. I fucili e le bandoliere li lasciamo qui. Prenderemo una baionetta e una borraccia d’acqua ciascuno. Nient’altro.» Mentre parlava allungò la mano verso il mucchio di cinturoni di tela che avevano recuperato. Ne allacciò tre l’uno all’altro formando un unico cerchio, se lo infilò sopra la testa e poi lo avvolse intorno alla spalla destra, lasciando che l’altro capo pendesse in basso, fino al fianco sinistro. Avvicinò la borraccia all’orecchio e la scosse. «Meno di metà.» Versò il contenuto delle borracce recuperate nella sua, poi passò a riempire quella di Manyoro. «L’acqua che non possiamo portare con noi la beviamo qui.» Bevvero entrambi tutta l’acqua avanzata nelle borracce.
«Dai, sergente, alzati.» Passò una mano sotto l’ascella di Manyoro e lo tirò su. Il sergente si tenne in equilibrio sulla gamba sana mentre appendeva al cinturone la borraccia e la baionetta. In quel momento, qualcosa di pesante cadde sul tetto di paglia sopra le loro teste.
«Torce!» esclamò Leon. «Sono arrivati di soppiatto sul retro dell’edificio e adesso stanno tirando dei tizzoni ardenti sul tetto.» Sopra di loro si sentì un altro tonfo, e l’odore di bruciato dentro la stanza si fece più intenso.
«È ora di andare» borbottò Leon, mentre un tentacolo di fumo nero passava davanti alla finestra per poi allontanarsi in diagonale verso lo spiazzo e gli alberi, sospinto dalla brezza. In lontananza si udivano i canti e le grida eccitate dei nandi mentre per un attimo la cortina di fumo si diradava, per poi richiudersi talmente fitta che a distanza di un braccio non si vedeva più niente. Il crepitio delle fiamme era diventato un rombo sordo che sovrastava persino le voci dei nandi, e il fumo era caldo e soffocante. Leon si strappò un lembo della camicia e lo diede a Manyoro. «Copriti la faccia!» gli ordinò, mentre a sua volta annodava il fazzoletto che portava al collo in modo da coprirsi il naso e la bocca. Sollevò Manyoro e lo calò dalla finestra, saltando subito giù dietro di lui.
Con Manyoro zoppicante appoggiato alla sua spalla, si avvicinò in fretta al muretto di sostegno, che gli servì per orientarsi mentre giravano dietro l’angolo della veranda. Si lasciarono cadere dall’altra parte del muretto e si fermarono un momento per trovare l’orientamento nella densa cortina di fumo, sotto un turbinio di faville che pungevano le parti scoperte delle braccia e delle gambe. Avanzarono ancora, alla velocità a cui Manyoro era in grado di muoversi su una sola gamba e con Leon attento a tenersi sempre sottovento. In mezzo a quel fumo si soffocava, gli occhi bruciavano e lacrimavano. Lottavano contro il bisogno di tossire e attutivano il suono dei colpi di tosse con la stoffa che gli copriva la bocca. Poi, all’improvviso, si ritrovarono in mezzo ai primi alberi della piantagione.
Nel fumo sempre denso avanzarono a tentoni, con le baionette pronte, aspettandosi un incontro con il nemico da un momento all’altro. Leon si rese conto che Manyoro stava già perdendo le forze. Da quando avevano lasciato il boma aveva imposto un ritmo di marcia frenetico che lui, con una sola gamba buona, non poteva sostenere a lungo. Ormai gli scaricava sulla spalla quasi tutto il peso del corpo.
«Sarà meglio non fermarci finché non ci saremo allontanati di un bel pezzo» sussurrò Leon.
«Su una gamba sola io andrò lontano e veloce come te su due gambe» disse Manyoro senza fiato.
«Manyoro, il grande spaccone, è pronto a scommetterci su cento scellini?» Ma, prima che il sergente potesse rispondere, Leon gli diede una stretta al braccio come silenzioso avvertimento. Si fermarono, scrutando nel fumo, in ascolto. Il suono si udì di nuovo: qualcuno tossiva rauco non tanto lontano da loro. Leon si tolse dalla spalla la mano di Manyoro e con la bocca mimò: «Aspetta qui».
Avanzò strisciando, con la baionetta nella mano destra. Non aveva mai ucciso un uomo all’arma bianca prima di allora, ma nel corso dell’addestramento l’istruttore li aveva fatti esercitare sui movimenti da compiere. Una figura umana si stagliò di fronte a lui. Leon balzò in avanti e, usando l’impugnatura della baionetta come un tirapugni, colpì la testa dell’uomo con una tale violenza che questi cadde in ginocchio. Mise il braccio intorno al collo del nandi per soffocare ogni suono che fosse salito alle sue labbra, ma quello si era unto tutto il corpo con l’olio di palma ed era scivoloso come un pesce mentre si dibatteva selvaggiamente. Stava quasi per divincolarsi dalla stretta, quando Leon riuscì a portare la mano che impugnava la baionetta sopra quel corpo che si stava contorcendo. Gliela conficcò di punta nelle costole, stupefatto nel vedere con quanta facilità penetrasse l’acciaio.
Il nandi raddoppiò gli sforzi e tentò di gridare, ma Leon tenne ferma la pressione sulla gola, lasciandogli emettere solo dei suoni soffocati. Gli strattoni violenti dell’uomo morente facevano muovere la lama dentro la cavità toracica, e intanto Leon la rigirava e spingeva ancora più a fondo. D’improvviso, il nandi fu squassato da una convulsione e dalla bocca gli uscì un fiotto di sangue nerastro che impiastricciò il braccio di Leon e gli spruzzò delle gocce sulla faccia. Il nandi infine si inarcò per l’ultima volta, prima di afflosciarsi nella sua presa.
Leon mantenne la presa qualche secondo in più per essere certo che fosse morto, poi lasciò andare il corpo, lo spinse da parte e a tentoni ritornò dove aveva lasciato Manyoro. «Forza, su» lo esortò con voce rauca. Ripresero ad avanzare, con Manyoro che camminava zoppicando e barcollando, aggrappato a Leon.
A un tratto, si sentirono mancare il terreno sotto i piedi e rotolarono lungo una ripida sponda fangosa fin dentro a un ruscello poco profondo. Lì il fumo era meno denso. Con un sospiro di sollievo, Leon realizzò che avevano seguito la direzione giusta: erano arrivati al ruscello che dalla sorgente scorreva a sud del boma.
Si inginocchiò nell’acqua e si sciacquò la faccia, lavandosi gli occhi che bruciavano e sfregando via dalle mani il sangue del nandi. Poi bevve avidamente, imitato da Manyoro, e sputò l’ultimo sorso dopo essersi risciacquato la gola arida e irritata dal fumo.
Lasciò solo il sergente e andò ad arrampicarsi in cima alla sponda per scrutare in mezzo al fumo. Udiva delle voci, ma molto attutite in lontananza. Indugiò ancora qualche minuto per recuperare le forze e accertarsi che nessun nandi fosse sulle loro tracce, poi ridiscese la sponda scivolosa fino al punto in cui Manyoro se ne stava rannicchiato nell’acqua bassa.
«Fammi dare un’occhiata alla gamba.» Seduto a fianco del sergente, gli sollevò la gamba e se la posò in grembo. Il bendaggio era inzuppato d’acqua e sporco di fango. Svolse le bende e vide subito che i movimenti bruschi durante la fuga avevano causato dei danni. La coscia si era enormemente gonfiata, e la carne intorno alla ferita era lacerata e livida nei punti in cui l’asta della freccia si era mossa avanti e indietro. Dai labbri della ferita uscivano dei rivoletti di sangue. «Ma che bella visione» borbottò, e tastò con delicatezza sotto il ginocchio. Manyoro non protestò, ma le sue pupille erano dilatate per il dolore mentre Leon toccava il metallo sepolto nella sua carne.
A un certo punto, Leon emise un fischio sommesso. «E qui cosa abbiamo?» Nel muscolo della coscia di Manyoro, proprio all’altezza del ginocchio, c’era un corpo estraneo sottopelle. Lo ispezionò con l’indice e Manyoro sussultò.
«È la punta della freccia» esclamò in inglese, ma subito ritornò al swahili. «Ti ha quasi trapassato la gamba da parte a parte.» Era difficile immaginare il dolore lancinante che doveva sopportare Manyoro, e di fronte a tutta quella sofferenza Leon provò una sensazione di profonda inadeguatezza. Alzò lo sguardo al cielo. Il fumo denso si andava dissipando nella brezza serale, e attraverso le sue volute ora si distinguevano le cime occidentali della scarpata, lambite dai raggi infuocati del sole al tramonto.
«Direi che per adesso li abbiamo seminati, e comunque tra poco sarà buio» disse senza guardare in faccia Manyoro. «Fino a quel momento ti potrai riposare. Avrai bisogno di tutte le tue forze per la notte che ci attende.» Gli occhi gli bruciavano ancora per effetto del fumo. Li chiuse e strizzò le palpebre, ma non trascorsero molti minuti prima di doverli riaprire. Aveva udito delle voci che venivano dalla direzione del boma.
«Stanno seguendo le nostre tracce!» mormorò Manyoro, e tutti e due si ritirarono più in basso, sotto la sponda del ruscello. Nella piantagione di banane i nandi si lanciavano grida di richiamo, come segugi che seguono la pista del sangue, e Leon si rese conto che il suo ottimismo di poco prima era del tutto infondato. Gli inseguitori si stavano servendo delle impronte dei suoi stessi scarponi: grazie al peso sommato di due corpi, dovevano aver lasciato dei segni ben visibili sul terreno. Siccome nel letto del ruscello non c’era nessun posto dove lui e Manyoro potessero nascondersi, tirò fuori la baionetta dal cinturone, risalì la sponda tenendosi più basso possibile e si stese a terra proprio sotto la cima. Se i nandi alle calcagna li avessero scoperti guardando in basso, verso il ruscello, lui sarebbe stato abbastanza vicino da potersi scagliare contro di loro e forse, a seconda del loro numero, sarebbe stato in grado di ridurli al silenzio prima che potessero dare l’allarme generale, richiamando lì il resto del branco. Le voci si facevano sempre più vicine, tanto che a un certo punto sembrò che i nandi fossero arrivati quasi alla sponda. Leon si preparò, ma proprio in quel momento risuonò un coro di grida lontane, provenienti dal boma. Gli uomini sopra di lui proruppero in esclamazioni eccitate, e subito dopo li sentì tornare di corsa da dove erano venuti.
Tornò da Manyoro lasciandosi scivolare di nuovo giù per la sponda. «C’è mancato poco che fosse l’ultimo round dell’incontro» disse, nel frattempo cambiandogli le bende sulla gamba.
«Cosa può averli spinti a tornare indietro?»
«Credo che gli altri abbiano trovato il corpo dell’uomo che ho ucciso. Ma la scoperta non li ritarderà molto. Torneranno.»
Mise in piedi il sergente, si passò il suo braccio intorno alla spalla e, un po’ sorreggendolo e un po’ trascinandolo di peso, lo fece salire sulla sponda opposta del ruscello.
Ma la sosta nel letto del ruscello non aveva migliorato le sue condizioni: l’inattività aveva irrigidito la ferita e i muscoli lacerati intorno. Quando Manyoro tentò di caricare il peso su quella gamba, l’arto cedette, e sarebbe crollato a terra se Leon non lo avesse sostenuto.
«D’ora in avanti potrai chiamarmi veramente Cavallo» disse Leon. Voltò le spalle a Manyoro e, chinandosi in avanti, se lo caricò sulla schiena. La gamba penzolava liberamente e si piegò all’altezza del ginocchio, facendo emettere a Manyoro un grugnito di dolore, ma poi il masai si controllò e non emise più nemmeno un lamento. Una volta sistemati i cinturoni in modo da formare una specie di seggiolino, Leon si raddrizzò con Manyoro appollaiato in alto sulla sua schiena a gambe penzoloni, come una scimmia a cavallo di un ramo. Per evitare movimenti non necessari, Leon impugnò quegli arti come se fossero i manici di una carriola, e si mise in marcia verso il fondo della scarpata. Mentre uscivano dalla piantagione irrigata per entrare nella boscaglia, la cortina di fumo che li aveva nascosti fino a quel momento si diradò in tante pallide volute grigie. Ma ormai il sole era basso, sospeso come una palla di fuoco sopra la cima della scarpata, e l’oscurità intorno a loro si infittiva.
«Quindici minuti» sussurrò rauco Leon. «Non ci serve di più.» Erano ormai entrati nel bush ai piedi della scarpata. La boscaglia era abbastanza fitta da offrire una certa protezione, e il terreno accidentato era pieno di avvallamenti non visibili da lontano. Con l’istinto e con gli occhi del cacciatore e del soldato, Leon sapeva individuarli e usava proprio quei punti come copertura della loro faticosa avanzata. Mentre la benefica oscurità calava su di loro e nelle immediate vicinanze ogni cosa veniva inghiottita dalle tenebre, Leon sentì rinascere l’ottimismo. A quanto sembrava si erano liberati degli inseguitori, benché fosse ancora troppo presto per averne la certezza. Si lasciò cadere al suolo ginocchioni, poi si girò piano piano sul fianco per evitare scosse a Manyoro. Per un po’ nessuno dei due parlò o si mosse, poi Leon lentamente si tirò su a sedere e sganciò l’imbragatura del seggiolino, in modo che Manyoro potesse stendere la gamba ferita. Svitò il tappo della borraccia e la passò a Manyoro. Dopo che ebbero bevuto entrambi, si sdraiò per terra. Pareva che ogni muscolo, ogni tendine del suo corpo gridasse implorando riposo. E siamo solo all’inizio, ammonì se stesso, cupamente, per non abbassare la guardia. Domani mattina ci sarà da divertirsi.
Chiuse gli occhi, ma li riaprì di nuovo quando il muscolo del polpaccio gli si irrigidì in un crampo dolorosissimo. Si tirò su a sedere e prese a massaggiarlo vigorosamente.
Manyoro gli toccò il braccio. «Ti ammiro, bwana. Sei un uomo di ferro, però non sei stupido e faremmo una bella stupidaggine a morire qui tutti e due. Lasciami la pistola e vattene. Io resterò qui a uccidere tutti i nandi che tenteranno di seguirti.»
«Bastardo piagnucolone!» ringhiò Leon. «Cosa sei, una donnicciola? Non abbiamo ancora incominciato e sei già pronto ad arrenderti. Su, sali sulle mie spalle prima che ti sputi addosso proprio lì dove sei.» Sapeva che la collera era eccessiva, ma oltre al male al polpaccio aveva paura.
Questa volta ci volle più tempo per sistemare Manyoro nei cinturoni dell’imbragatura. Per i primi cento passi, Leon temette che le gambe lo avrebbero tradito, e mentalmente indirizzò a se stesso l’insulto rivolto poco prima a Manyoro. Chi è il bastardo piagnucolone adesso, Courtney? Con tutta la sua forza di volontà e con tutte le sue energie mentali ricacciò indietro il dolore, e gradualmente le gambe ripresero forza. Un passo alla volta, si disse esortando le gambe a continuare a muoversi. Un passo in più, uno. E adesso un altro. E un altro.
Sapendo che se si fosse fermato per riposarsi non sarebbe ripartito mai più, continuò a camminare finché non vide la luna crescente spuntare sopra l’altipiano, sul fianco orientale della Rift Valley. Seguì con lo sguardo il suo splendido incedere nel cielo, che per lui segnava il passaggio delle ore con la stessa precisione del suono delle campane. Sulla sua schiena Manyoro era immobile come un morto, ma Leon sapeva che era vivo perché contro la pelle madida di sudore sentiva il calore del suo corpo in preda alla febbre.
Mentre procedeva verso l’alta parete nera della scarpata sul fianco occidentale alla sua destra, la luna gettava strane ombre sotto gli alberi. La mente cominciava a giocargli dei brutti scherzi: a un certo punto, un leone dalla criniera nera balzò dall’erba proprio davanti a lui. Leon portò la mano alla Wembley nella fondina e prese di mira la belva, ma prima che riuscisse a inquadrarlo bene sopra la canna corta della pistola, il leone era diventato il monticello di un formicaio. «Che idiota sei! Tra poco comincerai a vedere elfi e folletti» disse ad alta voce.
Continuò ad arrancare con la pistola in mano, tra fantasmi che gli apparivano e scomparivano davanti agli occhi. Con la luna sospesa a metà del cielo, le sue ultime briciole di forza scivolarono via come acqua dalle mani chiuse a coppa. Vacillò e per poco non cadde. Dovette compiere uno sforzo sovrumano per raddrizzarsi e riprendere l’equilibrio. Rimase fermo a gambe divaricate, la testa che ciondolava. Non ce la faceva più e lo sapeva.
Sentì Manyoro muoversi sulla sua schiena e poi, incredibilmente, il masai cominciò a cantare. Sulle prime Leon non riconobbe le parole, poiché la voce di Manyoro era flebile come un sospiro e leggera come la brezza che all’alba sfiora l’erba della savana. Poi, nella sua mente ottenebrata dalla fatica, echeggiarono le parole della Canzone del leone. La sua comprensione del maa, la lingua dei masai, era rudimentale – era stato Manyoro a insegnargli quel poco che conosceva. Era una lingua difficile e diversa da tutte le altre, piena di espressioni ambigue e complicate, però Manyoro era stato paziente e Leon apprendeva con facilità le lingue.
La Canzone del leone veniva insegnata al gruppo di giovani morani masai perché oggetto della preparazione rituale alla circoncisione. Gli iniziati l’accompagnavano con la danza compiendo grandi salti in aria a piedi uniti, agili come gli uccelli quando spiccano il volo a frotte, con i loro shuka, i mantelli rossi simili a una toga, che si spiegavano ad ala intorno al loro corpo.
Siamo i giovani leoni,
Al nostro ruggito trema la terra.
Le nostre lance sono le zanne.
Le nostre lance sono gli artigli.
Temete, voi bestie.
Temete, voi stranieri.
Abbassate gli occhi dal nostro viso, donne.
Non osate guardare la bellezza del nostro viso.
Noi siamo i fratelli del fiero leone.
Noi siamo i giovani leoni.
Noi siamo i masai.
Era la canzone che cantavano i masai durante le loro incursioni contro le tribù minori, per