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La biblioteca dei labirinti
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La biblioteca dei labirinti
E-book447 pagine6 ore

La biblioteca dei labirinti

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Info su questo ebook

Perfetto per i fan di Dan Brown e Ken Follett

Università di Leida, 20 marzo 2015. Il professor Peter de Haan ha appena concluso una lezione, quando tra le sue carte trova una busta bianca con un misterioso messaggio in latino: «Hora est». È giunta l’ora. Poco dopo, durante una cerimonia d’inaugurazione alla biblioteca, un crollo improvviso rivela un tunnel sotterraneo. Deciso a saperne di più, Peter si cala nell’apertura e scopre uno straordinario labirinto di gallerie. E lì, in mezzo alle macerie, c’è un uomo, nudo e ricoperto di sangue, privo di sensi. Come una vittima sacrificale… Ancora sconvolto per quanto è accaduto, il professore riceve un altro messaggio: «Tu sei l’eletto». Che cosa significa? Peter vorrebbe liquidare l’intera faccenda come una tragica serie di fatalità, quando la sua collega Judith scompare senza lasciare traccia. L’intrigo in cui si ritrova coinvolto ha conseguenze molto più pericolose di quanto avrebbe mai potuto immaginare. Ha solo ventiquattro ore per ritrovare Judith, altrimenti verrà uccisa. Braccato dalla polizia, costretto a decifrare enigmatici indizi che rimandano alla Bibbia e alla vita dell’apostolo san Paolo, Peter dovrà fare molta attenzione se non vuole che la sua indagine si trasformi in un incubo…

Ai primi posti delle classifiche in Olanda

Un segreto scioccante è rimasto sepolto per secoli.
È giunta l’ora di svelarlo.

«Peter de Haan, impegnato in avventure a metà tra storia e leggenda, è un moderno Indiana Jones.»

«Avvincente, curato e rigoroso. Imperdibile!»

«Uno di quei libri che hanno il grande pregio di incuriosirti e che ti fanno venire voglia di saperne di più.»

«Un thriller che è anche una sfida intellettuale: cibo per la mente. Windmeijer sa di cosa parla.»

Jeroen Windmeijer
è nato nel 1969 in Olanda ed è un antropologo con all’attivo pubblicazioni accademiche sulle popolazioni indigene dell’Ecuador, presso le quali ha vissuto per molti mesi. Ama inserire nei suoi romanzi elementi biblici e di storia romana.
LinguaItaliano
Data di uscita3 giu 2019
ISBN9788822734976
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    Anteprima del libro

    La biblioteca dei labirinti - Jeroen Windmeijer

    EN.jpg

    Indice

    Prologo

    Capitolo 1. Corax – Corvo

    Capitolo 2

    Capitolo 3

    Capitolo 4

    Capitolo 5

    Capitolo 6

    Capitolo 7

    La prima visione

    Capitolo 8. Nymphus – Sposo

    Capitolo 9

    Capitolo 10

    Capitolo 11

    Capitolo 12

    Capitolo 13

    Capitolo 14

    La seconda visione

    Capitolo 15. Miles – Soldato

    Capitolo 16

    Capitolo 17

    Capitolo 18

    Capitolo 19

    Capitolo 20

    Capitolo 21

    La terza visione

    Capitolo 22. Leo – Leone

    Capitolo 23

    Capitolo 24

    Capitolo 25

    Capitolo 26

    Capitolo 27

    Capitolo 28

    La quarta visione

    Capitolo 29. Perses – Persiano

    Capitolo 30

    Capitolo 31

    Capitolo 32

    Capitolo 33

    Capitolo 34

    Capitolo 35

    La quinta visione

    Capitolo 36. Heliodromus – Corriere del Sole

    Capitolo 37

    Capitolo 38

    Capitolo 39

    Capitolo 40

    Capitolo 41

    Capitolo 42

    La sesta visione

    Capitolo 43. Pater – Padre

    Capitolo 44

    Capitolo 45

    Capitolo 46

    Capitolo 47

    Capitolo 48

    Capitolo 49

    La settima visione

    Epilogo

    Ringraziamenti

    Bibliografia

    narrativa_fmt.png

    2348

    Copertina © Sebastiano Barcaroli

    Questa è un’opera di finzione. I nomi, i personaggi, i luoghi,

    le organizzazioni, gli eventi e gli avvenimenti sono frutto

    dell’immaginazione dell’autore o sono usati in modo fittizio.

    Nessuna parte di questo libro può essere riprodotta,

    memorizzata su un qualsiasi supporto o trasmessa in qualsiasi forma e

    tramite qualsiasi mezzo senza un esplicito consenso da parte dell’editore.

    Titolo originale: St Paul’s Labyrinth

    First published in 2017 in Dutch language

    under the title: Het Paulus labyrint

    Copyright © Jeroen Windmeijer 2017

    Translation copyright © HarperCollins Holland 2017

    Jeroen Windmeijer asserts the moral right to

    be identified as the author of this work

    Traduzione di Emanuela Alfieri

    Prima edizione ebook: luglio 2019

    © 2019 Newton Compton editori s.r.l., Roma

    ISBN 978-88-227-3497-6

    www.newtoncompton.com

    Realizzazione a cura di Caratteri Speciali, Roma

    Jeroen Windmeijer

    La biblioteca dei labirinti

    OMINO.jpg

    Newton Compton editori

    Prologo

    Mérida (Hispania), 72 d.C.

    Il boia squarcia il ventre del condannato, incidendolo con il pugnale appuntito. Basta un taglio. E il sangue sgorga a fiotti, come acqua che sfonda lo sbarramento di una diga. Le budella dell’uomo schizzano fuori, ciondolano come serpenti scuoiati. Lui urla, agonizzante. È il momento delle aquile: giungono in equilibrio sui parabraccia di cuoio dei falconieri. E si lanciano con i becchi aguzzi sul fegato in bella vista della vittima, cibandosene con avidità. Gli altri tre malcapitati, legati a dei pali di legno e condannati allo stesso destino, lottano disperatamente per fuggire.

    Il pubblico è in estasi. L’anfiteatro, costruito durante l’impero di Cesare Augusto, può contenere fino a milleseicento spettatori. Oggi i tre ordini di spalti sono gremiti.

    Dopo le venationes, che hanno inscenato la caccia agli animali esotici, è la volta delle esecuzioni pubbliche. In molti hanno approfittato del deludente atto di apertura – la semplice decapitazione di un pugno di criminali – per fare un salto alle latrine.

    Per eseguire le condanne a morte, gli organizzatori si ispirano ai miti dell’antica Grecia. E il pubblico apprezza la loro creatività. Dopo che le aquile hanno attinto a volontà alle viscere dei prigionieri e i quattro sono morti come narra la leggenda di Prometeo, vengono introdotte quattro rampe di legno su ruote. Al centro di ognuna c’è un enorme macigno. Entrano i prigionieri. Devono rappresentare il castigo di Sisifo, spingendo il masso in cima alla rampa. Naturalmente nessuno di loro riesce nell’impresa. Lo schianto delle ossa che si spezzano si propaga fino al terzo anello.

    Quindi nell’arena viene spinto un altro gruppo di condannati. Questi uomini non ricevono acqua né cibo da giorni. Devono cercare di afferrare le brocche e il pane appesi a dei lunghi pali. Per la gioia della folla i pali vengono sollevati un attimo prima che riescano ad agguantarli. E il cibo e l’acqua diventano irraggiungibili come lo erano per Tantalo. Quando l’attenzione degli spettatori comincia a scemare, entrano in scena dei cani famelici, pronti a sbranare i malcapitati.

    Adesso è la volta di otto uomini che vengono ricoperti d’olio e pece e legati a delle pire. Alcuni ragazzini romani di non più di dodici anni li colpiscono con frecce fiammeggianti, mandandoli a fuoco. E loro vanno incontro a una fine rovente tra le urla. Un mormorio d’approvazione si diffonde per l’intero anfiteatro. Forse in questo caso la mitologia greca non c’entra nulla, ma si tratta di una novità mai vista prima.

    Un ritardatario si fa largo tra gli spalti. Cerca un posto all’estremità di una gradinata. È basso e ha le gambe storte, ma è piuttosto robusto. Al di sopra del lungo naso ha un paio di sopracciglia unite. Ha carisma da vendere, e sprigiona la serenità tipica degli angeli. Basta una rapida occhiata e il giovanotto seduto all’estremità della panca slitta, facendogli posto. Lui si accomoda e sistema la piccola brocca di terracotta ai suoi piedi.

    I criminali morti sono trascinati via dall’arena e sul selciato viene gettata sabbia fresca per coprire le macchie di sangue. Nel frattempo musici e giullari fanno del proprio meglio per intrattenere il pubblico con buffe acrobazie. Quando decine di ragazzi e ragazze salgono sugli spalti, portando grosse ceste piene di pane, esplode l’esultanza. La distribuzione di pane durante i giochi è iniziata a Roma due anni fa. E la pratica ha riscosso tra i cittadini un successo tale da diffondersi rapidamente in ogni angolo dell’impero. I giovani incaricati della distribuzione risalgono le gradinate lanciando tozzi di pane alla folla. E gli spettatori alzano le braccia per afferrarli al volo. Poi li ficcano rapidamente sotto i mantelli, pronti ad agguantarne altri.

    «Panem et tauros», dice il giovane, beffardo, rivolto al vecchio seduto accanto a lui. Pane e tori. Ne raccoglie un pezzo che gli è caduto per caso in grembo e, senza guardare, se lo getta alle spalle facendogli descrivere un’ampissima traiettoria.

    È così. La maggior parte del pubblico oggi è qui per il pane e soprattutto per la tauromachia.

    Sollevando il braccio in un maestoso saluto romano, l’editor muneris, colui che ha finanziato i giochi della giornata, ordina che venga liberato il toro. Dalle gradinate si alza un urlo assordante. L’editor passa in rassegna la folla, poi torna compiaciuto a stendersi sul triclinio. Prende un grappolo d’uva dalla tavola riccamente imbandita e si gode lo spettacolo dell’enorme animale che entra nell’anfiteatro sgroppando selvaggiamente. Per giorni e giorni è stato costretto a ingerire sale e non gli è stata concessa neanche una goccia d’acqua. Ha passato le ultime ventiquattr’ore in una stalla troppo piccola per la sua stazza gigantesca. Lì gli hanno flagellato la pancia con sacchetti di sabbia per provocargli delle emorragie interne. Il combattimento è stato truccato ancor prima di cominciare. È impossibile che oggi la spunti lui.

    Sul campo di battaglia fanno il loro ingresso i ministri, i sorveglianti del combattimento. Stuzzicano la bestia con enormi mantelle per testarne la forza, l’intelligenza e la combattività. Fanno ondeggiare i tessuti variopinti con grande spavalderia, evitando con destrezza le cariche dell’animale. Sussulti di stupore si riversano dagli spalti nell’arena, come le acque di un torrente che precipita a strapiombo da un pendio montuoso.

    Il toro viene dichiarato in grado di combattere. Quattro venatores, cioè cacciatori, varcano in sella ai loro cavalli i quattro cancelli che si aprono sul terreno di battaglia. Stringono tutti nella mano destra un verutum, un giavellotto da caccia. Addosso hanno solo un perizoma. Tra i capelli foglie d’alloro acuminate. Sembrano dèi. I cavalli, protetti da una pesante armatura, sono visibilmente impauriti. Ma senza le corde vocali, che gli sono state recise, non possono emettere alcun suono.

    Circondano la bestia da tutti i lati. Il toro non sa quale animale attaccare per primo. Ma il cerchio gli si stringe intorno sempre più. Ed è costretto a lanciarsi sul cacciatore più vicino. Non appena si fa sotto, il cavaliere si solleva sulle staffe e gli affonda il verutum nel collo, piombandogli addosso con tutta la forza del corpo. I venatores attaccano a turno l’animale, trafiggendolo almeno una volta; poi ripiegano per raccogliere gli applausi incontenibili del pubblico. Il toro è frastornato. La testa gli ciondola. Dalle ferite il sangue cola sulla sabbia dell’arena.

    È il momento del mactator, la vera stella dello spettacolo. Colui che ucciderà la belva, l’uomo che terminerà il lavoro. È un gigante. Porta una tunica corta, semplice. Le braccia sono scoperte e sulle gambe ha degli schinieri. In ognuna delle mani stringe un’asta lunga quanto il braccio, impreziosita da nastri e dotata, all’estremità, di una punta ricurva. Va dritto verso la bestia. Più è risoluto nel seguire l’invisibile linea retta che lo conduce alla sua vittima, più la folla ammira il suo coraggio. Ora il pubblico è quasi tutto seduto e le grida di incitamento, che fino a pochi istanti fa hanno reso impossibile qualunque conversazione, hanno ceduto il posto al silenzio. Sembra che tutti gli spettatori stiano trattenendo il fiato. Come se fossero un solo corpo. Il toro reagisce alla nuova minaccia. Punta il suo avversario. Raschia la sabbia con lo zoccolo. Con un urlo gutturale il mactator richiama l’attenzione dell’intera arena. Poi, quando è a pochi passi dalla bestia, l’animale lo carica. Il taurarius, il torero, si avvita, impeccabile, per schivare l’attacco e, prima di terminare la piroetta, conficca una lancia dentellata tra le scapole dell’animale. Sulle gradinate esplode l’entusiasmo. La schivata non avrebbe potuto essere più leggiadra, né il colpo assestato con maggior precisione. Il mactator si allontana correndo. Poi, descrivendo un cerchio, torna verso il toro e, con un balzo impressionante, conficca la seconda lancia accanto alla prima.

    Chi dà per scontato che l’animale abbia alzato bandiera bianca sta per scoprire che si sbaglia di grosso. Sembra che la bestia sappia che può ancora ferire il suo aggressore. Ma è la sua ultima chance. Chiama a raccolta tutte le forze e solleva la testa. Dalle ferite il sangue sgorga a fiotti. Dalla bocca penzolano lunghe strisce di bava rossa.

    Il taurarius si avvicina al palco dell’editor, si inginocchia sulla sabbia e china la testa. A un piccolo cenno di assenso dell’editor, il venator piazzato all’ingresso orientale si fa avanti. Posiziona sul capo del mactator uno speciale copricapo, un morbido cappello conico rosso dotato di una punta che ricade in avanti. E gli passa il linteum, un panno di flanella rossa a forma di semicerchio che racchiude una verga di legno.

    Il taurarius torna dalla sua vittima. Sbandiera il drappo con fare beffardo e la bestia riesce ancora a trovare l’energia per qualche balzo disperato. Spinto dall’entusiasmo del pubblico, il torero è pronto a correre rischi ancora maggiori. È la fase più pericolosa del combattimento. Un solo istante di distrazione potrebbe essergli fatale. L’animale, stordito dal dolore e dalla paura, potrebbe ancora ferirlo a morte, trafiggendogli la pancia nuda con le corna, in un ultimo disperato tentativo di evitare la fine.

    Ma un liberatorio squillo di tromba fende l’aria. Dalla sua postazione al cancello occidentale il venator si avvicina di corsa al mactator. In una mano stringe una piccola spada dalla punta ricurva e dall’elsa a forma di serpente, la falcata. Nell’altra ha una torcia fiammeggiante. Passa l’arma al torero e prende posizione dietro il fianco sinistro dell’animale. È l’hora veritatis, il momento della verità. Il mactator sta per porre fine alle sofferenze del toro. Gli affonderà la lama tra le scapole, trafiggendogli il cuore.

    È in piedi davanti alla bestia esausta, troppo stanca perfino per sollevare la testa. Gli mette una mano sulla fronte, spingendola sulla sabbia. La folla mormora ammirata.

    Un sorvegliante gli si avvicina di corsa dal lato orientale dell’arena. In una mano ha un calice d’argento e nell’altra una fiaccola ardente, rivolta a terra.

    Ora il toro è steso sulla sabbia. Il mactator gli sale in groppa. Gli punta un ginocchio contro l’anca destra e appoggia a terra l’altra gamba. Con la mano sinistra gli rovescia la testa all’indietro, afferrandola per le corna. Poi solleva in aria la destra. La lama della falcata scintilla alla luce del sole. Solo allora, con un colpo magistrale, affonda la spada e sgozza abilmente la bestia. Il sangue zampilla fuori, inzuppando la sabbia con un potente getto rosso. E alla fine il toro soccombe. La lama ricurva è scesa così in profondità che il serpente raffigurato sull’elsa sembra quasi leccare la ferita.

    «Sanguis eius super nos et super filios nostros», mormora fiducioso il vecchio sugli spalti. Il suo sangue ricada su di noi, e sui nostri figli.

    Il mactator si passa le mani insanguinate sulla faccia, quasi volesse lavarsela. Una scena spaventosa. Il sangue si mescola alla sabbia e al sudore. Ma lui, impassibile, continua a fissare un punto immaginario in lontananza.

    «Et nos servasti eternali sanguine fuso», sussurra il vecchio. E ci hai salvati versando il sangue eterno. Tira fuori un tozzo di pane dalla manica e lo spezza, senza staccare gli occhi dallo spettacolo che si consuma nell’arena.

    Il taurarius solleva nuovamente la lama, questa volta per tranciare via un pezzo di carne. Lo mostra al pubblico, poi se lo infila in bocca e lo ingoia tutto intero.

    «Accipite et comedite, hoc est corpus meum quod pro vobis datur», dice il vecchio. Prendete e mangiate. Questo è il mio corpo che è dato per voi. Poi chiude gli occhi, si mette in bocca il pezzo di pane e lo mastica pensieroso, come se lo assaggiasse per la prima volta nella vita.

    Il mactator prende il calice dalle mani del venator alle sue spalle e lo riempie con il sangue che stilla dal collo dell’animale. Lo mostra alla folla. Poi lo vuota in un solo lungo sorso.

    «Bibite, hic est sanguis meus qui pro multis effunditur», dice il vecchio. Bevete, questo è il mio sangue che è versato per molti. Recupera la piccola brocca di terracotta ai suoi piedi. Svita il tappo di sughero e beve un sorso di vino, indugiando qualche istante prima di mandarlo giù.

    La folla inneggia euforica al taurarius. E lui si alza in piedi, preparandosi al giro d’onore. Nel frattempo, con un paio di forbici sagomate a forma di scorpione, uno dei venator taglia via i testicoli dell’animale. Si crede che siano un potente afrodisiaco. Saranno offerti tra poco all’editor.

    «Iste, qui nec de corpore meo ederit nec de mea sanguine biberit ut mecum misceatur et ego cum eo miscear, salutem non habebit», dice il vecchio concludendo il rituale. Chi non mangia la mia carne e non beve il mio sangue non rimane in me né io in lui e non sarà salvato.

    Un cane fuggito dai sotterranei non può fare a meno di avvicinarsi alla bestia e leccare il sangue che gli gocciola ancora dal collo. Un sorvegliante gli assesta un calcio in pancia e lui se la squaglia, con i denti e il muso tutti rossi.

    Gli spettatori salgono in piedi sugli spalti, sventolando panni bianchi: hanno apprezzato il coraggio del taurarius e l’eleganza con cui si è battuto. Alcuni saltano all’interno dell’arena e si caricano il torero sulle spalle. Lo portano in trionfo davanti al pubblico, sotto una pioggia di fiori e ghirlande. Le zampe posteriori dell’animale privo di vita vengono legate con due funi. Ovviamente l’ovazione è anche per il toro, che abbandona il campo di battaglia lasciandosi dietro, sulla sabbia, una scia di sangue. Stasera la sua carne sarà servita sulle tavole delle famiglie agiate della città. Chi vorrà aggiudicarsi la coda dovrà sborsare una piccola fortuna. Cotta in umido con cipolle e vino è una vera prelibatezza.

    Il vecchio si alza, dandosi un’ultima occhiata alle spalle. La traccia rossa nell’arena è l’unica prova che oggi qui si è tenuto un combattimento sleale.

    «Consummatum est», dice, soddisfatto. È finita.

    1

    Corax – Corvo

    Leida, 20 marzo 2015. Ore 13:00

    Tecnicamente la lezione di Peter de Haan era già terminata. Con la sua Introduzione alla storia di Leida aveva fornito agli studenti della laurea specialistica una rapida panoramica sulle principali chiese della città. Il seminario faceva parte di un modulo opzionale, tuttavia ogni anno il piccolo auditorium si riempiva all’inverosimile. Accadeva da molto tempo e non era più una sorpresa, ma gli faceva sempre piacere vedere l’aula tanto gremita.

    Alcuni studenti avevano già cominciato a mettere via le loro cose, ma non avevano ancora osato abbandonare i propri posti. Un giovanotto lo guardava come avrebbe fatto un cane in attesa di un ordine del padrone.

    Sullo schermo alle sue spalle era proiettata una foto aerea dell’Hooglandse Kerk. All’inizio del quattordicesimo secolo era solo una minuscola chiesetta di legno. Ma alla fine del sedicesimo secolo si era trasformata in una cattedrale tanto enorme da risultare sproporzionata rispetto agli edifici vicini. Come un divano troppo grande in un soggiorno troppo piccolo. L’immagine mostrava anche il Burcht van Leiden, l’emblematica motta castrale cittadina, con il terrapieno e il castello risalente all’undicesimo secolo. Il muro circolare merlato alto quasi due metri, in pietra, era stato eretto sulla cima di una collinetta artificiale alta circa dodici metri.

    Peter sollevò una mano e il brusio nell’aula cessò immediatamente. «So che state già pensando al pranzo», disse, con una punta di esitazione nella voce, «ma c’è qualcuno tra voi che vuole andare oggi pomeriggio alla biblioteca pubblica per l’installazione del primo cassonetto interrato?».

    La maggior parte degli studenti si limitò a guardarlo educatamente. Ma nessuno rispose.

    «Alle due in punto di oggi in città viene inaugurato un progetto molto importante legato all’installazione dell’isola ecologica. Lo sapevate?»

    «Io non lo sapevo, professore», rispose un giovanotto, alzando rispettosamente la mano. «Ma per quale motivo la cosa dovrebbe interessarci?»

    «Be’, non avete idea di quanto questa domanda mi renda felice», rispose Peter.

    La replica scatenò in platea qualche risatina. Gli studenti interruppero ciò che stavano facendo e si rassegnarono al fatto che non era ancora arrivato il momento di lasciare l’aula.

    Peter afferrò il puntatore laser e tracciò un cerchio intorno alla chiesa proiettata sullo schermo.

    «Forse la cosa vi sorprenderà, ma non si sa molto delle origini di Leida e di come si sia sviluppato l’abitato. E non ci sono molte occasioni per fare scavi archeologici nel centro cittadino. La ragione è semplice e di certo chi di voi sceglierà la strada dell’archeologia urbana lo scoprirà presto. In qualunque punto vi venga in mente di cercare, ci hanno costruito sopra qualcosa. Quando demoliscono un edificio, a volte ci lasciano scavare, ma solo per poco tempo. E si tratta di occasioni estremamente rare. Grazie a questo progetto possiamo spingerci fino a tre metri di profondità in centinaia di siti sparsi per tutta la città. Chissà cosa potrebbe celarsi sotto i nostri piedi».

    «O quali scheletri salteranno fuori dagli armadi», replicò il giovanotto.

    «Esatto!», replicò Peter entusiasta. «Giuro che non ci siamo messi d’accordo. Ma neanche a farlo apposta è proprio questo il prossimo argomento di cui vorrei parlarvi. Guardate qui…».

    E proiettò il fascio di luce rossa su Nieuwstraat. «Al posto di questa strada una volta c’era un canale. Però, come molti navigli, venne interrato. Altri invece furono ricoperti. In pratica, invece di riempirli di sabbia e detriti, li dotarono di una copertura e ci costruirono sopra delle strade. Alcuni antichi canali sono ancora percorribili, come vere e proprie gallerie sotterranee. Questo qui invece fu interrato. In questo punto, oltre la chiesa, c’era il cimitero. Ma in alcuni casi i morti venivano seppelliti di nascosto in quest’altra zona, vicino al vecchio canale, accanto al sagrato. Era gente che non poteva permettersi una tomba ma voleva riposare quanto più possibile vicino alla chiesa».

    Il cellulare cominciò a vibrare nella tasca interna della giacca.

    Il professore lanciò un’occhiata all’auditorium. Se si fosse dilungato oltre, avrebbe fatto la figura del vecchio zio che alle riunioni di famiglia annoia tutti con i suoi racconti sul passato.

    «Siete liberi», disse. «Vi aspetto tutti oggi pomeriggio!».

    La sala riprese vita, come se de Haan avesse premuto il tasto PLAY per riavviare un video in pausa. Prima di uscire, gli studenti sfilarono davanti alla cattedra per consegnare la prova. Il corso prevedeva che ogni due settimane presentassero un breve saggio su uno degli argomenti trattati.

    L’aula si svuotò. Peter spense il proiettore e raccolse le sue cose. Quando prese in mano i saggi, dal fascio di fogli scivolò fuori una busta bianca. De Haan la raccolse e la guardò. Probabilmente si trattava della giustificazione di uno studente che non aveva consegnato il lavoro.

    Mentre stava per aprirla, sulla soglia apparve Judith.

    Sorrise. «Non ti sei dimenticato, vero?»

    «Potrei mai dimenticare un appuntamento con te?», rispose de Haan, ficcando nella borsa la busta e il resto dei saggi.

    Aveva conosciuto Judith Cherev vent’anni prima, quando le aveva fatto da relatore per la tesi di laurea. E negli anni successivi erano diventati cari amici. Durante il dottorato di ricerca lei si era occupata della storia dell’ebraismo a Leida. Ora, poco più che quarantenne, lavorava come docente al dipartimento di storia e collaborava come ricercatrice freelance con il Museo di Storia Ebraica di Amsterdam.

    Judith si era raccolta i capelli all’indietro con un grosso elastico, senza badare troppo all’estetica. Erano ricci e neri, ma impreziositi qua e là da striature grigie che le davano un fascino particolare. Era ancora una bellissima donna. Era snella e come sempre indossava una gonna lunga e una camicetta. Al collo, la Stella di Davide scintillava alla luce dei neon.

    «Mi hai appena mandato un SMS?».

    Judith scosse la testa.

    Peter estrasse il cellulare dalla giacca e visualizzò il messaggio.

    Hora est.

    Sorrise.

    «Cioè?»

    «Sarà stato uno dei miei studenti. Credo cercasse di dirmi che era arrivato il momento di chiudere la lezione».

    Mentre mostrava il messaggio alla collega, prese la borsa sotto braccio, si avviò verso la porta e spense le luci.

    Hora est. È giunta l’ora. Era la formula che pronunciava il funzionario universitario entrando in aula per dichiarare terminata la discussione della tesi di fronte alla commissione esaminatrice. Esattamente tre quarti d’ora dopo l’inizio. A quel punto il dottorando non poteva dire altro. Neppure nel caso in cui fosse stato interrotto nel bel mezzo di una frase. A quelle parole la maggior parte dei candidati tirava un enorme sospiro di sollievo.

    «Un tipo spiritoso», disse Judith, ripassandogli il telefono. «Strano però che l’abbia mandato anonimo».

    «Forse aveva paura che gli abbassassi il voto». Ed eliminò il messaggio. Stava quasi per chiudere a chiave la porta dell’aula, quando notò che qualcuno aveva lasciato un telefonino sul banco. Un iPhone che sembrava nuovo di zecca. Rientrò nell’auditorium, lo prese e se lo infilò nella tasca della giacca. Era solo questione di tempo. Ben presto il proprietario si sarebbe fatto vivo nel suo ufficio. Gli studenti non si separavano mai dal cellulare.

    Uscirono e si diressero verso la mensa universitaria dell’edificio Lipsius. Lo stabile portava quel nome da anni, ma Peter continuava a chiamarlo LAK, come il centro artistico e teatrale che una volta ospitava al suo interno.

    «Mark sarà già arrivato», disse Judith in tono affettuoso. «Sai com’è fatto. Per lui l’una in punto significa l’una in punto».

    Mark era professore presso il dipartimento di teologia. Era un uomo brillante, con un passato segnato da disturbi mentali. Lui e Judith stavano insieme, ma ognuno di loro continuava a vivere nella propria casetta del Sionshofje. In realtà, secondo il regolamento dell’hofje, se fossero andati a convivere sarebbero stati costretti a lasciare il palazzo. E nessuno dei due aveva intenzione di rinunciare al pittoresco cortile.

    Ai lunghi tavoli della mensa erano seduti studenti e tutor. L’intero locale era avvolto da un vocio ininterrotto. Il calore e gli odori provenienti dalla cucina rendevano l’aria umida e stantia.

    Come Judith aveva previsto, Mark si era già accomodato a un tavolo e stava tenendo occupati due posti. Li chiamò con un cenno della mano.

    Prima di raggiungerlo, i due si fermarono al buffet. Peter prese un’insalatona e una spremuta d’arancia. Judith invece scelse una scodella di zuppa e una fetta di pane e formaggio.

    «Ottima scelta», disse, congratulandosi con de Haan e dandogli per gioco un colpetto sulla pancia.

    Quando finalmente si sedettero, Mark aveva già consumato metà del suo pranzo. Judith lo baciò delicatamente sulla guancia. E, persino dopo tutti quegli anni, Peter sentì una fitta di gelosia.

    «Che programmi avete per il pomeriggio?», chiese de Haan.

    «Devo vedere una persona alle due. Un signore anziano a quanto pare», rispose Judith. «Ha ereditato alcune cianfrusaglie che la zia ebrea conservava nella sua tenuta. Mi ha contattata tramite il museo. Faccio un salto a vedere se trovo qualcosa di adatto alla nostra collezione».

    «Niente male», disse Peter.

    «Mah, se devo essere sincera, di solito sono oggetti deludenti. Però ogni tanto salta fuori anche qualcosa di speciale. Un po’ come all’Antiques Roadshow. Diari, lettere dal campo di concentramento o interessanti carabattole di uso quotidiano. Come utensili da cucina, arnesi e così via. Non si sa mai. Il più delle volte comunque non mi pesa dare un’occhiata. Spesso chi chiama ha solo voglia di fare due chiacchiere con qualcuno…».

    «Non ci si annoia mai con te, dico bene?»

    «Già. Proprio così», convenne lei. «E poi voglio preparare la lezione di lunedì. Niente di straordinario in realtà. Ho i prossimi giorni tutti per me». E appoggiò la mano sul braccio di Mark.

    «Già», intervenne lui. «Io me ne torno in Germania. Una settimana senza internet né telefono. Completamente isolato dal mondo. Un sogno».

    Una o due volte all’anno Mark si ritirava nel fitto delle foreste tedesche, fuori dal raggio dei ripetitori telefonici, per riflettere, come amava dire lui. Judith lo prendeva sempre in giro, insinuando che avesse un’amante segreta. Ma sapeva bene che di tanto in tanto lui aveva bisogno di ricaricare le pile. Tornava sempre rivitalizzato, pieno di energia. Aveva accettato un unico compromesso: si sarebbe avventurato nella civiltà una volta alla settimana per chiamare Judith e darle sue notizie.

    «E oggi pomeriggio», proseguì Mark, «voglio dedicare un paio d’ore a un articolo che sto scrivendo con Fay Spežamor. La conosci, vero? La classicista ceca che cura la collezione di arte romana ed etrusca del Museo di Antichità».

    «Sì, mi è capitato qualche volta di incontrarla», rispose Peter. «Strano a dirsi, il suo è l’unico numero di cellulare che so dirti su due piedi. Se ti ricordi i primi due numeri…».

    «… basta continuare ad aggiungere due», disse Mark terminando la frase.

    Per un po’ rimasero tutti in silenzio.

    «Invece tu sei impegnato oggi pomeriggio?», domandò Mark.

    «Pensavo di andare in centro a vedere l’installazione dell’isola ecologica in Nieuwstraat. Ho seguito un po’ il progetto. L’assessorato ai beni culturali mi ha invitato ad assistere. Daniël Veerman, Janna Frederiks… Mi hanno promesso che, se dovessero imbattersi in qualcosa di interessante, me lo faranno sapere».

    «Ah ecco! Volevo farti vedere una cosa!», esclamò all’improvviso Mark, come se non avesse sentito una parola di ciò che aveva detto Peter. Spinse il vassoio di lato. Sotto c’era una grossa busta, con il nome del destinatario scritto con una calligrafia chiaramente d’altri tempi.

    «All’esimio e chiarissimo Professor Dottor M. Labuschagne», rise divertito. «Oggi pomeriggio devo mandare due righe all’autore di questa lettera». Ed estrasse dalla busta un grosso fascio di fogli fittamente dattiloscritti. A quanto pareva con un’antiquata macchina da scrivere. «È da quando mi sono laureato che ricevo roba del genere. Questo è solo un esempio…», disse, sfogliando le pagine come se stesse cercando qualcosa in particolare. «A scrivermi sono dei dilettanti. Mi dicono che pensano di aver trovato il codice per decifrare l’Apocalisse. O di avere le prove inconfutabili che Gesù non è morto sulla croce…».

    «O che l’apostolo Pietro è sepolto a Leida», ci scherzò su Judith.

    Scoppiarono a ridere.

    «Questa qui però… D’accordo, di solito sono sciocchezze e forse non vale neanche la pena conservarle. Ma io non butto via nulla. Un giorno potrei farci qualcosa. A volte un’idea può sembrare folle, o magari il mondo intero crede che chi l’ha partorita sia un pazzo. Ma altre volte questa gente semplicemente precorre i tempi. Oggi ho ricevuto un’altra lettera. È di un certo signor…», disse guardando la pagina con il titolo, «… signor Goekoop di Zierikzee, in Zelanda. Mi scrive del Burcht. Sostiene che in origine avesse una funzione astrologica. Guardate, ha persino fatto dei disegni».

    Mark sollevò un foglio di carta con un’illustrazione sorprendentemente accurata del castello di Leida realizzata a china. L’artista aveva distanziato le merlature in modo che il tutto assomigliasse spiccatamente a un cerchio megalitico, come quello di Stonehenge.

    «Ha una sua teoria sul fatto che il ventun marzo, giorno dell’equinozio, i primi raggi del sole attraversino la porta principale del Burcht. E la sua ipotesi tiene anche conto della precessione, che è lo spostamento dell’asse di rotazione terrestre. La Terra è come una trottola, quindi il suo asse non è mai in posizione esattamente verticale. È un po’ complicato… Fa tutti questi calcoli per cercare di dimostrare che la fortezza originaria è stata sicuramente costruita più di duemila anni fa. Secondo lui il termine megalite deriva dal greco mega-leithos, ossia Grande Leida».

    «Non dovrebbe essere difficile controllare. Domani è il ventun marzo».

    «Sì. Ma in realtà non è così semplice. Da allora l’asse terrestre si è spostato. Comunque la parte sul megalite è una sciocchezza. E probabilmente lo è anche tutto il resto. Guardate un po’ qui. È convinto che i tre alberi al centro del castello siano un’ulteriore prova a sostegno della sua teoria. Perché sarebbero allineati proprio come le tre stelle della cintura di Orione. Avete presente? Come le piramidi in Egitto».

    «Quindi immagino che il Reno corrisponda al Nilo, giusto?»

    «Lui sostiene che il Reno sia il Lete, uno dei cinque fiumi del regno degli inferi della mitologia greca. Tipo lo Stige. Naturalmente secondo lui il nome Lete è legato a Leida».

    «Fammi capire. Perdi tempo con questa roba?», chiese Peter.

    «È divertente. Non sai mai cosa potrebbero tirar fuori dal cilindro questi tizi. A volte i dilettanti fanno scoperte stupefacenti. Ma la cosa che più mi affascina di tutta questa storia è la teoria che il Burcht fosse un sito per il culto del sole. Sul toponimo Lugdunum in effetti il signor Goekoop non ha tutti i torti…».

    «È il nome che i romani avevano dato a Katwijk».

    «Esatto. Ma secondo lui in origine indicava l’altura dove sorge il Burcht. Lug è il nome del dio celtico del sole e dunum significa collina o montagna. La collina di Lug, o tradotto più liberamente, la collina dove veniva venerato Lug».

    «Con un ragionamento di questo tipo», ribatté Peter, «si potrebbe dimostrare che Zierikzee, la città del signor Goekoop, sia riconducibile alla maga greca Circe. E in tal caso Troia si troverebbe da qualche parte in Zelanda».

    Mark rimise le pagine nella busta. «Comunque mando sempre a chi mi scrive due righe di ringraziamento. Di solito per loro è una gratificazione sufficiente».

    Judith sollevò il vassoio. Aveva già finito la zuppa e il pane.

    «Vai già via?», chiese Peter, un po’ deluso.

    «Ho quell’appuntamento alle due. Torno in ufficio a prendere le mie cose. Se ti va, potremmo vederci dopo cena per un bicchierino».

    Peter annuì.

    Judith appoggiò per un attimo la mano sulla spalla di Mark e lui piegò la

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