Keep calm e guarda un film
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Info su questo ebook
È la magia del Cinema!
Quante volte la scena di un film riesce a raccontare un nostro stato d’animo? E in quante occasioni una citazione detta al momento giusto risolve o ridimensiona quei grandi e piccoli dilemmi quotidiani che ci perseguitano? Questo è il primo libro dedicato alla Settima Arte che, di recensione in recensione, diventa un agile manuale di cine-terapia. Per superare lo stress da ufficio o una crisi di coppia, affrontare l’attesa del principe azzurro o vincere una fobia che ti paralizza: qualunque sia la situazione da fronteggiare qui troverai il rimedio giusto! 101 pellicole scelte tra famosi capolavori, cult di ogni epoca e chicche da cinefili che ci ricordano che ogni problema può avere un lieto fine. Dopotutto… domani è un altro giorno!
Soffri di pessimismo cronico? Il favoloso mondo di Amélie
Ti sei innamorata del tuo migliore amico? Harry ti presento Sally
Le tue giornate sembrano tutte uguali? Ricomincio da capo
Non riesci mai a rilassarti? Il grande Lebowski
…e tanti altri film
Sebastiano Barcaroli
All’attività di critico affianca quella di grafico editoriale. Ha fondato le riviste d’arte «Stirato Postermagazine» e «Bang Art». È art director di Newton Compton.Federica Lippi
Laureata in Storia del cinema, lavora all’Istituto Giapponese di Cultura di Roma e traduce manga dal 2007. È autrice di una monografia sul fumettista Mitsuru Adachi e suoi contributi compaiono su saggi e siti dedicati al cinema e ai fumetti.
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Anteprima del libro
Keep calm e guarda un film - Sebastiano Barcaroli
297
Prima edizione ebook: ottobre 2015
© 2015 Newton Compton editori s.r.l.
Roma, Casella postale 6214
ISBN 978-88-541-8699-6
www.newtoncompton.com
Edizione elettronica realizzata da Pachi Guarini per Studio Ti s.r.l.
Sebastiano Barcaroli ha scritto i capitoli di pag. 14, 20, 27, 34, 41, 47, 53, 60, 67, 74, 81, 88, 95, 101, 108, 114, 121, 127, 133, 139, 146, 153, 160, 166, 174, 180, 186, 192, 199, 205, 212, 219, 226, 232, 238, 244, 251, 258, 264, 271, 277, 285, 291, 298, 305, 312, 319, 325, 331, 337, 341.
Federica Lippi ha scritto i capitoli di pag. 11, 17, 24, 31, 38, 44, 50, 57, 64, 71, 78, 85, 92, 98, 104, 111, 117, 124, 130, 136, 143, 149, 157, 163, 171, 177, 183, 189, 196, 202, 209, 216, 223, 229, 235, 241, 248, 255, 261, 268, 274, 281, 288, 295, 302, 309, 316, 322, 328, 334, 341.
Prefazione
Ho ormai quasi quarant’anni. Di questi quaranta, almeno venti li ho spesi a Milano, città dove ancora abito. Ho sempre girato come un pazzo, frequentando milioni di locali, posti, negozi. Conosco la città in cui vivo piuttosto bene. Quando passi da Milano, chiamami. Ti faccio fare un giro per i posti segreti: ti faccio vedere Villa Invernizzi, in pieno centro, con il suo giardino pieno di fenicotteri rosa. Di fianco c’è Villa Necchi, dove hanno giratoIo Sono l’Amore, il film di Guadagnino. Sempre lì, c’è la casa con il citofono fatto a forma di orecchio, manco fossimo in un film di Cronenberg. Hai mai visto la chiesa di Santa Maria presso San Satiro, del Bramante, con la finta abside fatta in trompe l’oeil? O preferisci fare un tour per i baracchini più buoni dove mangiare un hamburger alle quattro del mattino? Una bisca dove giocare a poker a porte chiuse tutta la notte? Non c’è problema. Unica cosa: non mi chiedere il nome di una via. Non ne riesco a memorizzare una, è più forte di me. Se mi chiedi, tipo tassista, di portarti in via Tal dei Tali non ce la faccio, mi esplode una piccola bomba all’idrogeno nel cervello, mi confondo tutto e – boh – tabula rasa. È una cosa strana, non particolarmente piacevole. Soprattutto per uno che è convinto di conoscere bene la sua città. Ma con il tempo ho capito il perché. Tutta quella parte del mio cervello destinata a memorizzare la toponomastica è già occupata da titoli di film, attori, registi e sceneggiatori. Sono sempre stato appassionato di cinema e con il tempo sono diventato uno spettatore onnivoro. Guardo tutto quello che mi capita sotto mano e immagazzino automaticamente tre quarti dei nomi che leggo nei titoli di testa e di coda. È una specie di piccola malattia che – a un certo punto della mia vita, a metà dell’Università – ho abbracciato del tutto, lasciandomi contagiare definitivamente. Perché era l’unica cura al mio problema. E perché i film, il cinema, sono la soluzione a qualsiasi problema. Mi sembra un bellissimo slogan. Vado a scriverlo in quella via là, quella di fianco a quella piccola cappella con ossario con la facciata principale con il teschio e le due tibie incrociate, manco fossimo in un film di pirati. Hai presente, no?
Federico Bernocchi
Introduzione
FEDERICA: «Allora si fa questo libro? Di carta vera con i nostri nomi sopra? Niente pseudonimi di Internet, nickname, faccine. Secondo me ce la possiamo fare, e poi sai che bello poter scrivere quello che ci pare, visto che non abbiamo una reputazione di critici da difendere? Sarà come scrivere su carta quello che di solito diciamo a voce! Ma interesserà a qualcuno?!».
SEBASTIANO: «Interesserà a due tipi di persone: i matti e quelli che almeno una volta hanno pensato di voler vivere in un film. Quindi interesserà a tutti! Io comunque una reputazione di critico ce l’ho, infatti sono famosissimo tra i miei amici come quello che, usciti dal cinema, li costringe a sopportare infinite filippiche sul film appena visto. Forse è per questo che vado spesso al cinema da solo? Con il libro potrò ammorbare tutti anche sulla carta».
FEDERICA: «Ecco, direi di no. Eviterei di fare sermoni accademici o pistolotti da nerd compiaciuti. Facciamo un libro che aiuti concretamente le persone. Cioè, alla fine i film a noi ci hanno cresciuto, e guarda come siamo venuti su bene! Ok… accettabili… Sai quanti problemi ho risolto io guardando un film? Scriviamo un libro che dice come risolvere i problemi con i film! Ma non serio, cerchiamo di fare una cosa un po’ cinefila e un po’ ironica, che qui chi si prende sul serio è perduto».
SEBASTIANO: «Ci sto. Però anche nei consigli da dare non facciamo quelle cose motivazionali iperentusiastiche tipo Tom Cruise in Magnolia. Che se è vero che non siamo critici, tantomeno psicologi. Ecco, vedi, già comincio con le citazioni… Ti ho mai detto che io parlo solo per frasi cinematografiche? Ma lo sai che più ci penso e più mi sa che i primi a cui servirà questo libro siamo proprio noi? Facciamolo! Quando il problema si fa duro, i pazzi cominciano a scrivere! Lo sai che questo dialogo può andare avanti all’infinito, vero? Che dici lo facciamo cominciare, questo libro?».
FEDERICA: «Ok, però evitiamo prefazioni noiose di chissà quale parruccone, scegliamo un tipo sveglio fissato con i film come noi! In fondo la critica cinematografica ha preso tutt’altra piega da quando esiste internet, i blog, i siti di appassionati. Serve solo un po’ di fegato per mettere nero su bianco le nostre opinioni. E chissà tra dieci o vent’anni cosa penseremo di quello che abbiamo scritto… Facciamo il countdown come quando girano un film, 3… 2… 1… Azione!».
soffri di pessimismo cronico?
Il favoloso mondo di Amélie
Regia di Jean-Pierre Jeunet. Con Audrey Tautou, Mathieu Kassovitz, Serge Merlin, Jamel Debbouze. Commedia, Col., 121’ , Francia, 2001
Amélie Poulain vive a Montmartre e lavora in un bar. La sua vita di tutti i giorni va avanti tra amici bislacchi, avventure urbane e semplici piaceri quotidiani, fatti di consolidata routine e piccoli misteri da risolvere. Quando decide di dedicarsi a sistemare la vita
delle persone che le stanno accanto, si imbatte in un ragazzo sconosciuto e stabilisce di scoprire di più su di lui, innescando così una sorta di caccia al tesoro con indizi sparsi per la città.
Il pessimismo è una brutta cosa. Ma questo si sa. Niente di peggio che pensare al bicchiere mezzo vuoto quando tutti intorno a te sprizzano allegria, fiducia, grinta, e in un secondo rispondono: «Mezzo pieno!» alla fatidica domanda. Essere pessimisti non vuol dire essere tristi, sfiduciati e pigri, ma solo, a volte, fin troppo realisti. Più realisti del re. Almeno, questa è la scusa che trionfalmente viene spesso snocciolata dai pessimisti a chi li accusa di essere tali: «Non sono pessimista, sono realista!». Ebbene, è il caso di lasciarsi andare a del sano ottimismo, almeno qualche volta, e la maestra per eccellenza può senz’altro essere quella squinternata di Amélie Poulain. È vero, a tratti può facilmente essere additata come insopportabile, tutta presa dal suo infilare la mano nel sacco dei fagioli o nel riconsegnare antichi tesori da quattro soldi ai legittimi proprietari per far loro ricordare quanto è bella la vita, ma bisogna ammettere che è stato, è e sempre sarà un personaggio decisamente azzeccato. Con la buffa faccia di Audrey Tautou e la sua zazzeretta al vento, Amélie è ben presto diventata icona cinematografica, dipinta nell’immaginario collettivo quasi quanto una moderna Audrey Hepburn (stesso nome, che coincidenza).
Nessuno si sarebbe aspettato che quel pazzerello di Jeunet, regista francese noto all’epoca per un paio di film bellissimi e di nicchia girati assieme al sodale Marc Caro e per l’hollywoodiano Alien – La clonazione, partorisse un’opera destinata a restare, che ci piaccia o no, nella storia del cinema. Dopo Amélie ci siamo ritrovati invasi di film, pubblicità e storie alla Amélie
, con la voce fuori campo e l’elenco di passioni segrete da confidare al pubblico. Amélie, che potrebbe essere un fumetto, un cartone animato, una fatina dalle buone intenzioni, è un personaggio quasi bidimensionale nella sua semplicità, ma nasconde frustrazioni ancestrali (il pessimo rapporto con la madre, persa in tenera età, quello difficile con il padre, evidenti mancanze e difficoltà sul piano affettivo e personale) che la avvicinano molto a qualunque donna sia capitata sul pianeta Terra tra il XX e il XXI secolo. Se da una parte è in effetti doveroso confessare che il film fa decisamente più presa sul pubblico femminile che su quello maschile, incentrato com’è sulle pulsioni emotive di una giovane ragazza in cerca del fatidico posto nel mondo
, dall’altra è innegabile il fascino esercitato, se non da lei stessa, dai meccanismi del racconto. Jeunet, anche autore del soggetto, intesse una trama ricca di elementi curiosi e personaggi variegati, degni di uno spettacolo teatrale d’altri tempi. C’è il vecchio pittore dalle ossa fragilissime che falsifica quadri di Renoir, l’odioso fruttivendolo che vessa il suo garzone e per questo finirà punito dalla stessa Amélie, che gli farà credere di essere impazzito, la rassegnata cassiera single del bar, che Amélie farà innamorare di un burbero e ingenuo avventore, il nano da giardino che gira il mondo insieme a una hostess amica della protagonista, il dolce Nino Quincampoix, tormentato da una raccolta di fototessere malriuscite che galeotta lo metterà in contatto con Amélie, dando una svolta alla storia. È impossibile non appassionarsi ai destini stravaganti di questa combriccola surreale, come è impossibile non terminare il film con un sorriso stampato in faccia, che forse ci renderà meno pessimisti e più aperti alle mille possibilità di una vita solo in apparenza piatta e banale.
il lavoro in ufficio ti distrugge?
Fantozzi
Regia di Luciano Salce. Con Paolo Villaggio, Liù Bosisio, Anna Mazzamauro, Gigi Reder. Comico, Col., 98’, Italia, 1975
Ugo Fantozzi è uno dei tanti impiegati della Megaditta. Ogni giorno si sveglia, beve il suo caffè, si fa la barba e il bidet e corre a prendere il tram, per precipitarsi a timbrare il cartellino e iniziare la sua giornata lavorativa piegato su chili e chili di pratiche. Tormentato dal servile ragionier Calboni, innamorato della signorina Silvani e coinvolto in impossibili attività dal collega Filini, Fantozzi vivrà disparate ed esilaranti esperienze, uscendone inevitabilmente sconfitto.
Chiunque abbia vissuto una routine mattutina simile a quella raccontata nella canzone d’apertura del film o timbrato un cartellino in vita sua si è sentito, almeno un po’, Fantozzi, il famoso protagonista della celeberrima serie inaugurata da questo film e composta da altri 9 episodi successivi, spalmati in 25 anni.
Perdente nato, Fantozzi ragionier Ugo matricola 1001/bis dell’Ufficio Sinistri è una delle maschere tragicomiche più famose d’Italia, ancora oggi citato ogni volta che un nuovo direttore si avvicenda ai vertici dell’azienda di turno, ogni volta che qualcuno sbaglia un congiuntivo, ogni volta che un film tanto acclamato dai critici blasonati ci sembra una cagata pazzesca!
.
Ugo Fantozzi è vittima perenne di umiliazione e scherno, dalla collega che corteggia senza successo, lasciandosi sfruttare per favori e commissioni, al capoufficio che lo vessa di continuo: chiunque usa il ragioniere come valvola di sfogo, tanto lui subisce senza alzare mai la testa. Fantozzi è il martire per eccellenza, disposto persino a lasciarsi crocifiggere in sala mensa, letteralmente.
Questo personaggio così amaro raccontava, esagerandolo – ma a volte neanche troppo – il trantran di tutti quegli impiegati costretti a vivere una realtà professionale ripetitiva e mesta, a vedersi perennemente superati nella carriera dal parente raccomandato di turno.
Fantozzi è molto più di un film comico, è una cronaca grottesca ma al tempo stesso fedelissima della vita di uffici e ministeri di ogni tipologia. La Megaditta (che potrebbe essere tanto una banca quanto un ministero) è un organismo crudele che stritola Fantozzi nelle sue maglie e ne invade anche la vita privata. Temutissime sono le cene, i cineforum, le corse ciclistiche, le gite fuoriporta a cui tutto l’Ufficio Sinistri è costretto per dimostrare attaccamento e fedeltà al Megadirettore Clamoroso Duca Conte al potere in quel momento. Vedendo Fantozzi intrecciare i diti
dopo l’ennesimo sopruso, ci riconosciamo e ridiamo di noi stessi, perché sappiamo che Paolo Villaggio – autore dei bestseller da cui poi fu tratto il film – ci racconta quello che almeno una volta nella vita abbiamo vissuto tutti: il collega che ci fa le scarpe, il colloquio che sembra un’interrogazione scolastica, un rospo ingoiato di fronte al capoufficio che ci guarda truce. E per fortuna che il lavoro dovrebbe nobilitare l’uomo.
Eppure Fantozzi, rarissimamente, è anche capace di mostrare un guizzo coraggioso e reagire, ribaltando la sua situazione disperata. Lo fa ad esempio per salvare l’onore di fronte agli occhi della tristissima moglie e dell’orrenda figlia, durante una catastrofica partita a biliardo che stava perdendo di proposito per accontentare il nuovo Direttore Onorevole Cavaliere Conte, appassionato di stecche e bocce.
L’effetto Fantozzi, quindi, può essere evitato, prendendo spunto proprio dalle azioni più coraggiose del povero Ugo. Anche noi possiamo nobilitare il nostro lavoro, non cedendo alla prepotenza altrui e facendo valere le nostre ragioni, anche se il nostro interlocutore si trova su un gradino più alto nell’immaginaria piramide sociale dell’ufficio. Ora, non è detto che dobbiamo per forza trasformarci in squali, ma di certo sta a noi non ritrovarci a fare la triglia nella vasca degli impiegati del Megadirettore Galattico Duca Conte – a detta sua una posizione di rilievo. Ci meritiamo anche noi i nostri novantadue minuti di applausi.
pensi che i cartoni siano roba per bambini?
Chi ha incastrato Roger Rabbit
Regia di Robert Zemeckis. Con Bob Hoskins, Christopher Lloyd,
Joanna Cassidy. Fantastico, Col., 93’, USA, 1988
Nel 1947, a Hollywood, lo scontroso detective privato Eddie Valiant viene assunto da un produttore cinematografico per indagare sul presunto tradimento di Jessica Rabbit ai danni del marito Roger, famoso comico. Eddie non ama lavorare con i cartoni animati ma accetta perché ha bisogno di soldi. Si ritrova così coinvolto in un caso molto più grosso, architettato dal perfido giudice Morton, che vuole mettere le mani sulla città di Cartoonia per raderla al suolo.
Mascherato (ma nemmeno troppo) da film per ragazzi, con i cartoni animati che fanno le gag sceme, Chi ha incastrato Roger Rabbit è in verità uno strepitoso giallo fatto di tinte cupe e personaggi tormentati, per lo meno quelli in carne e ossa. Eddie Valiant, il protagonista, è un alcolizzato che ha perso la fiducia nel prossimo da quando un cartone animato gli ha ucciso il fratello (in effetti non c’è niente di più triste, a pensarci bene); la sua ragazza Dolores fa la barista in un bar di dubbia fama, e Eddie non sembra più molto interessato a lei; il produttore R.K. Maroon e l’imprenditore Marvin Acme sono, sotto l’apparenza di grandi affaristi, due ingenuotti a cui per questo tocca una finaccia; il giudice Morton, infine, è un cattivo con tutti i crismi, uno di quelli che un bambino si sogna di notte fino alla maggiore età.
Tutt’altra storia per quanto riguarda gli adorabili cartoni animati, protagonisti del film tanto quanto gli esseri umani. Roger Rabbit è un animo candido specializzato nel far ridere e, volente o nolente, ci riesce alla grande per tutta la durata del film; sua moglie Jessica è la bomba sexy per antonomasia, ormai passata alla storia per le sue curve a dir poco mozzafiato, alla vista delle quali lo stesso umano Valiant vacilla in un paio di occasioni; il piccolo Baby Herman è, per sua stessa ammissione, uno con «le voglie di un cinquantenne e il pisellino di tre anni», e già solo per questo merita l’Oscar; le faine di Morton, Benny il taxi e le decine di comparse celebri (da Dumbo a Betty Boop, da Bugs Bunny a Droopy) contribuiscono a fare del film un capolavoro di divertimento e mistero, oltre che una fusione perfetta di recitazione umana e disegnata. Il film è infatti uno dei rari esempi di tecnica mista
, non il primo né l’ultimo nella storia del cinema (Disney l’aveva sperimentata qualche decade prima con Mary Poppins e Elliott il drago invisibile, ad esempio) ma di certo quello che è rimasto più impresso, per la trama decisamente adulta e le gag memorabili.
Bob Hoskins recita nel ruolo della vita, quello che gli ha dato la notorietà internazionale. Eddie Valiant, il burbero di buon cuore, gli calza a pennello e, delle decine di personaggi interpretati negli anni successivi (carriera lunghissima quella di Hoskins), ricordiamo a memoria proprio quelli più simili a Eddie, icone pop come il pirata Spugna in Hook e ovviamente Super Mario nel film omonimo. Hoskins sembrava fatto apposta per i film di stampo fantastico, nonostante i molti ruoli drammatici interpretati.
Il giudice Morton (in originale Doom, traducibile con destino tragico
, rovina
, sventura
, stesso nome del Mount Doom del Signore degli Anelli, reso in italiano con Monte Fato
) è interpretato da un azzeccatissimo e temibilissimo Christopher Lloyd, già al fianco del regista Zemeckis tre anni prima in Ritorno al Futuro.
Nel 2015, affibbiare ai cartoni animati l’etichetta di roba per bambini
sembra decisamente anacronistico, dati i capolavori sfornati da studi come Pixar o Ghibli, capaci di essere letti su molteplici livelli, ma anche nel 1988, uscendo dal cinema dopo aver visto un prodotto come questo, appariva difficile. I bambini si erano divertiti da matti con il coniglio e spaventati a morte per le malefatte del giudice, gli adulti si erano goduti un bel thriller condito con parecchie risate. Anche soltanto definire il genere cui appartiene Roger Rabbit è complicato. E non è forse la cosa migliore che si possa dire di un film?
hai paura dell’acqua alta?
Lo squalo
Regia di Steven Spielberg. Con Roy Scheider, Robert Shaw, Richard Dreyfuss. Thriller, Col., 124’, USA, 1975
Nella ridente località balneare di Amity, nel New England, tutti si preparano a una nuova stagione estiva. Ma il ritrovamento di un cadavere straziato mette in allarme Martin Brody, lo sceriffo della cittadina, che però, quando propone di vietare la balneazione per paura della presenza di uno squalo, incontra l’opposizione delle istituzioni. Il sospetto diventa certezza il primo giorno di apertura delle spiagge: un giovane ragazzo viene martoriato da un gigantesco squalo bianco di fronte alla folla terrorizzata. Da quel momento, per lo sceriffo Brody, aiutato da un biologo marino e un cacciatore professionista, inizierà una terrorizzante caccia in mare aperto.
Sembra di sentirla, l’indimenticabile colonna sonora composta da John Williams: Tuuu. Tu. Tuuu. tu.
Lo squalo è il film di mostri che ti ghermiscono alle spalle, quelli che non vedi per gran parte del tempo, eppure il terrore sale e ti agguanta, tirandoti giù negli abissi.
Lo squalo fa paura. Ma non quella paura istantanea dell’apparizione improvvisa, quella sorprendente che fa perdere un battito al cuore, quella che sparisce velocemente com’è arrivata. Lo squalo instilla un terrore atavico, dalle radici profonde, quasi ancestrali… sarà che gli squali sono gli unici dinosauri sopravvissuti.
Spielberg, alla prima prova registica dal budget imponente, realizza probabilmente il suo capolavoro. Ancora non era arrivato il tempo dei personaggi indimenticabili, come Indiana Jones o E.T., che lo avrebbero reso famoso ai quattro angoli del globo, né quello dell’impegno civile (Il colore viola, Schindler’s List, Munich), ma Spielberg era già un grande regista. Lo dimostra il fatto che Lo squalo fu il più grande incasso della storia fino all’arrivo, due anni dopo, di Guerre Stellari dell’amico George Lucas.
Siamo quindi agli inizi della sua carriera, ma già in questa pellicola emergono alcuni tratti distintivi di tutta la mitica filmografia di Steven Spielberg: ci sono bambini in pericolo e adulti attoniti, la sfida tra uomo e natura, archi narrativi impossibili da lasciare a metà. I film di Spielberg sono ingranaggi perfetti. Sono Cinema americano allo stato dell’Arte.
Tuuu. Tu. Tuuu. Tu.
Lo squalo è un film imprescindibile perché è riuscito a instillare in ogni spettatore la paura degli squali, animali che certamente non si incontrano in ogni mare del mondo e che però sono un pensiero fisso ogni volta che mettiamo i piedi a mollo, anche se si tratta di una piscina gonfiabile.
La prima metà del film è un incubo a occhi aperti: a Spielberg non servono notti buie o ombre misteriose, il suo pescecane arriva a mezzogiorno e fa scendere la notte nelle nostre anime. L’angoscia dello sceriffo Brody è la nostra, le sue goccioline di sudore imperlano anche la nostra fronte.
C’è quella scena, quando Brody, in spiaggia, vede la maledetta pinna a filo d’acqua che si avvicina, che è ben più di una citazione di Alfred Hitchock. Grazie alla celebre ripresa Vertigo, con la quale è girata, la cinepresa si avvicina ma l’inquadratura zooma all’indietro, procurando allo spettatore un effetto stroboscopico, facendogli credere di entrare nella testa del protagonista, di sperimentarne il terrore.
Tu. Tu. Tu. Tu. Tu. Tu.
Le riprese, racconta Spielberg, furono un inferno. Girando perlopiù in alto mare, bisognava fare i conti con gli squali robot che non funzionavano per gli ingranaggi distrutti dalla salsedine o con l’impossibilità di mantenere l’inquadratura stabile per via del continuo dondolio. Il risultato di tanti sforzi (oltre a diverse candidature agli Oscar e ai fantascientifici incassi già citati) fu però un film mai eguagliato, che ancora impressiona.
Tututuuu!!!
Certo, proporre un film come Lo squalo per combattere la paura dell’acqua alta può sembrare una mossa azzardata, se non proprio un errore. Ma vale la pena sottolinearlo: gli squali non sono degli assassini che attaccano l’uomo per gratuito istinto omicida, sono solo dei pesci un po’ grandi, con un appetito adeguato alla loro stazza. Le probabilità di essere attaccati da uno squalo sono più basse di quelle di venire colpiti da un asteroide che precipita sulla Terra!
Insomma gli squali non sono così cattivi come li si dipinge. Anzi, lo scrittore del romanzo da cui trae spunto il film, Peter Benchley, si pentì così tanto di aver reso questo pesce un mostro assetato di sangue agli occhi del grande pubblico, che dedicò tutti i suoi successivi libri alla riabilitazione della sua figura nella catena alimentare.
Temi che il principe azzurro non arriverà mai?
Pretty Woman
Regia di Garry Marshall. Con Julia Roberts, Richard Gere, Ralph Bellamy, Hector Elizondo.