Morte all'imperatore!
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Info su questo ebook
«Non c’è nessuna certezza, ogni amicizia può nascondere insidie, ogni allenza può rivelarsi fatale. E tutto questo in una rievocazione storica quanto mai riuscita.»
Historia
Il nome di Caligola è passato alla storia come sinonimo di decadenza, crudeltà e follia. Il suo impero è contraddistinto dagli eccessi, da progetti di edifici spropositati, da cospirazioni, assassinii, attentati e scandali sessuali. Ma anche dalle più imponenti battaglie di gladiatori mai allestite, con scontri tra uomini e animali mandati a morire a centinaia. Proprio all’ombra degli spettacoli circensi vivono Rufo, un giovane schiavo con uno straordinario talento nell’addestrare le belve, e il suo amico Cupido, gladiatore. Gli occhi di Caligola si posano su Rufo, e il ragazzo viene condotto a corte per occuparsi dell’elefante dell’imperatore. Qui, mentre il megalomane Caligola si attribuisce onori divini ed è ossessionato dal pericolo di complotti, Rufo e Cupido si ritroveranno, loro malgrado, al centro di una spietata cospirazione per eliminare l’imperatore.
Intrighi, cospirazioni e delitti alla corte del folle imperatore Caligola in una storia d’amicizia e di sangue
«Un autore che darà filo da torcere ai maggiori scrittori di romanzi storici.»
The Scotsman
«Douglas Jackson è un maestro nel prendere per mano il lettore e trasportarlo nell’epoca di Caligola, dando vita a un affresco ricco di luci e ombre e creando un intreccio che appassiona e commuove.»
Manda Scott, autrice di Sognando le aquile e Il teschio di cristallo
Douglas Jackson
Ex-giornalista, nutre da sempre una grande passione per la storia romana. Vive in Scozia, a Bridge of Allan, con la moglie e tre figli. L’eroe di Roma è il suo terzo romanzo dopo Il segreto dell’imperatore e Morte all’imperatore!, tutti pubblicati dalla Newton Compton Editori. I suoi romanzi sono tradotti in 7 Paesi.
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Anteprima del libro
Morte all'imperatore! - Douglas Jackson
I
Roma, 36 d.C.
Rufo sedeva con la schiena poggiata alla tiepida corteccia di un pero e rifletteva sul suo futuro. Per la prima volta in vita sua era torturato dal lusso della scelta.
Doveva restare con Ceriale o accettare l’offerta del mercante di animali? La domanda lo aveva assillato durante l’intera mattinata e al momento non si trovava più vicino a una risposta di quanto non lo fosse stato due ore prima.
Quella del grasso panettiere era stata la sua famiglia da quando aveva sei anni e si considerava fortunato. Come altrimenti si sarebbe dovuto sentire dal momento che Ceriale gli mostrava tanto riguardo da permettere a uno schiavo qual era di decidere del proprio futuro? Stava imparando un mestiere. Non era mai stato affamato né l’avevano mai battuto.
Dunque doveva restare con Ceriale. Era ovvio.
Ma sull’altro piatto della bilancia c’era la prospettiva, l’imponderabile prospettiva, della libertà. Libertà. La sola parola gli faceva girare la testa. Voleva davvero essere libero? Libero di fare cosa? Di morire di fame? Di chiedere l’elemosina per strada?
Tra l’altro il mercante di animali non gli stava offrendo la libertà, per ora. Ci sarebbero voluti anni prima di riuscire a ripagare il debito.
Era tutta colpa dell’orso. Non fosse stato per l’orso, ora sarebbe stato tra i suoi forni a preparare il miglior pane di Roma invece che seduto nei giardini del portico di Livia con la testa che martellava come l’interno di un tamburo.
Due farfalle, una di un azzurro delicato e l’altra di una bellissima combinazione di rosso e marrone, svolazzarono lungo il margine della sua visuale verso l’aiuola. Sorrise e sfiorò l’amuleto che aveva al collo.
Così sia. Che siano gli dèi a decidere.
Cornelio Aurio Frontone fu squassato da una risata che piegò le foreste e mandò in frantumi le tegole del tetto, e stava ancora ridendo.
«E dunque, il ragazzo del panettiere ha preso finalmente la sua decisione! Ha scelto la garanzia della grandezza con Frontone piuttosto che l’ingrato compito di togliere insetti dal pane raffermo per quel bottegaio dal culo grasso. E come poteva essere altrimenti?».
Queste ultime parole, pronunciate con una teatrale giravolta, erano dirette alla mezza dozzina di schiavi e liberti presentatisi al suo richiamo per dare il benvenuto a Rufo. Apparvero, mostrando variegate espressioni di noia o interesse, all’entrata del recinto in muratura che teneva nascosti i capi che costituivano la mercanzia di Frontone. Rufo si domandò cosa avrebbe pensato il guardiano delle bestie se avesse saputo che aveva riposto il suo destino nel volo di una farfalla azzurra.
Mentre gli schiavi si radunavano, rifletté sul contrasto tra il benvenuto di Frontone e la precedente occasione in cui aveva cambiato padrone. Il supplizio al mastodontico mercato nei dintorni di Ostia quand’era arrivato su una nave da Cartagine era stato qualcosa che non avrebbe mai potuto dimenticare. Allora non era che un bambino terrorizzato, solo tra più persone di quante avrebbe mai sognato potessero esistere. Ricordava di aver cercato un cantuccio in cui ripararsi da quel flusso e riflusso di umanità, ma non aveva avuto alcuna speranza. Alla fine si era seduto vicino al muro e aveva pianto fino a non avere più lacrime. Era stato un sollievo essere comprato da Ceriale il giorno seguente.
Rispose agli sguardi del gruppetto e fece attenzione a chi tra loro esibisse un aperto sorriso e a chi invece lo vedesse come un potenziale nemico. Erano equamente ripartiti.
«Vi ho raccontato di come mi ha salvato la vita?», chiese Frontone, e qualche ampio ghigno fece capire a Rufo che la risposta era Sì
– e molte volte – ma tutti erano consapevoli del fatto che avrebbero dovuto sorbirsi la storiella una volta ancora.
«Era un orso massiccio, ma non uno dei miei migliori. No, i migliori bisogna conservarli per l’arena. In verità questo era vecchio e rognoso, infestato dai vermi. Ma aveva ugualmente i suoi artigli. Grandi artigli a uncino capaci di scoperchiare la testa a un uomo. Non è così, giovane Rufo?».
Rufo ricordava che gli artigli dell’orso erano tagliati ma pensò che sarebbe stata una mancanza di gentilezza mettere in dubbio le parole del nuovo padrone. Per cui annuì. Le zanne ingiallite della bestia erano comunque piuttosto spaventose.
Stava accompagnando Lucrezia, la cuoca, al mercato della frutta lungo una delle anguste stradine che si diramavano dal Clivo Sacro, quando successe. L’attimo prima la strada risuonava delle risate di allegri contadini, quello successivo era squarciata da un solo grido. L’orso era in piedi sulle zampe posteriori, un brandello rotto di catena pendeva dal collare di metallo che aveva attorno al collo, mentre il pelo marrone scuro era incrostato di chiazze di sangue rappreso.
«E questo povero ragazzo», ora Frontone stava quasi piangendo, «abbandonato dalla sua balia, solo e indifeso mentre quel mostro feroce le sbavava addosso. Povera piccola...». Tentennò un momento.
«Tullia», intonò il pubblico venendogli in aiuto.
Tullia. Era bionda e minuta; l’orso enorme e furioso.
«Morte certa», ruggì il mercante. «Morte certa la attendeva, non fosse stato per questo ragazzo coraggioso». Un braccio pesante come un ramo d’albero calò su Rufo.
Avrebbe voluto scappare dall’orso con Lucrezia. Invece si era ritrovato a scagliarcisi contro.
«E sapete che ha fatto? Ha ballato», latrò Frontone con una risata che gli fece sobbalzare il poderoso ventre. «Ha ballato con un orso».
Al momento gli era sembrata l’unica alternativa possibile. Non poteva aggredirlo: era grande il doppio di lui e diverse volte più forte. Ma restare fermo avrebbe significato morire.
«Come ti è venuto in mente, ragazzo?», chiese Frontone. «Perché ti sei messo a ballare con l’orso?».
Rufo ricordò l’istante in cui si era trovato alla mercé della gigantesca bestia, ma aveva fatto buon viso a cattivo gioco, come se ballare con gli orsi fosse per lui una cosa da tutti i giorni.
«Quando ero piccolo un circo itinerante è passato per il nostro villaggio», spiegò. «Non era certo come i circhi di Roma, solo qualche pessimo attore con i suoi animali pulciosi. Avevano un orso, un cucciolo alto come me. Gli avevano insegnato a ballare: solo qualche passo, ma ballava, e la gente lo faceva con lui. Sembrava divertirsi. Credo che nella mia testa mi stessi figurando di ballare con lo stesso orsetto».
Aveva danzato attorno all’orso e quello l’aveva seguito, e i suoi occhi di ossidiana non l’avevano lasciato un momento, come se si stesse concentrando con ogni minima parte del suo cervello per riprodurre le sue mosse. Quando la bestia si girò, un gruppo di uomini gli comparve alle spalle. Uno aveva fatto cenno a Rufo di continuare a ballare intanto che gli altri districavano una grande rete. Si erano avvicinati all’orso sgattaiolando mentre lui aumentava la distanza fra sé e l’animale pochi preziosi centimetri alla volta. Quindi la rete volteggiò e l’orso fu ridotto a una montagna furiosa che sputava e grugniva, mentre con gli artigli cercava di dilaniare la maglia che lo avvolgeva.
«Hai salvato la tua vita e, benché non lo sapessi, anche quella di Frontone, e Frontone onora i suoi debiti». Il mercante poggiò l’immane braccio sulle spalle di Rufo, che ebbe l’impressione di crollare sotto tale peso. «Ho dato la mia parola a Vitellio Genia Ceriale e ora la do anche a te. Ci sai fare con gli animali, e questo può servirmi. Io li compro e li addestro per l’arena e per il circo: ti insegnerò ogni segreto che conosco e se ti dimostrerai all’altezza tra qualche anno farò di te il mio erede e potrò stare seduto in tutta tranquillità mentre mi rendi ricco. Prepareremo le carte domani».
Un mormorio percorse il capannello di lavoratori. Rufo notò i loro cipigli e capì che la generosità di Frontone non era accolta dall’unanime approvazione. Comprendeva il loro punto di vista. Aveva i suoi dubbi sul fatto che fossero colpiti da quel diciassettenne dai capelli arruffati nella sua tunica logora. Gli ambiziosi gli avrebbero portato rancore e avrebbero fatto in modo di ostacolarlo, ma la cosa non lo preoccupava. Gli anni spesi a sollevare sacchi di grano al forno lo avevano reso forte. Sarebbe stato pronto per loro. Era stato un colpo di fortuna che Tullia fosse la figlia di un senatore alquanto eminente. Suo padre era tanto rinomato per la sua devozione alla figlia minore quanto per la spietatezza con cui si sbarazzava dei propri rivali politici. Se l’orso le avesse fatto del male, Frontone sarebbe finito in una fogna con il coltello di un sicario conficcato nel fegato.
«E se non mi rivelassi all’altezza?», chiese.
«Ti darò in pasto ai leoni».
Ci fu un lungo silenzio.
«Sto scherzando, ragazzo... In pasto ai leoni». La risata fece sobbalzare nuovamente l’imponente fisico dell’uomo. «Avresti dovuto vedere la tua faccia».
L’attività di Frontone aveva sede a sud di Roma, al di là dei quattro archi del Ponte Sublicio. Era abbastanza lontano dalla città da dissuadere le folle dal presentarsi a curiosare imbambolate, ma abbastanza vicino al mercato del bestiame del Foro Boario da assicurare al commerciante una fornitura costante di cibo per i suoi carnivori.
All’interno del recinto per gli animali il cuore di Rufo iniziò a martellare mentre Frontone elencava con orgoglio i tesori che aveva comprato e rivenduto affinché partecipassero ai grandiosi spettacoli nell’arena. Gli erbivori brucavano serenamente in una serie di ampi prati. Il mercante descrisse le diverse specie.
«Antilopi». Indicò una mandria di aggraziati quadrupedi che occupava placidamente uno dei recinti. Erano di diverse sfumature di color tabacco, e di varie misure, dalle piccole e fragili creature delle dimensioni di un cucciolo di cane ai giganti dall’imponente torace e dalle lunghe corna a spirale e macchie nere sulle cosce.
«Cosa sono quelli?», chiese Rufo indicando un gruppo sparuto. «Non ho mai visto un cavallo a strisce».
«Sono una varietà di asino selvatico. Ho cercato di addestrarli a tirare la biga ma sono molto più stupidi dei cavalli».
«E quelli?». Rufo additò una creatura marrone scuro, dal dorso gobbo e il peso sbilanciato in avanti, concepita nelle dimensioni di un piccolo asino ma con corna corte e ricurve, fronte sporgente, occhi piccoli e distanti e un naso da cui pendevano festoni di moccio.
«Quelli?». Frontone sorrise. «Quelli li chiamiamo semplicemente obbrobri».
Al di là dei pascoli e in un altro recinto, tozzi capanni costruiti con travi massicce. Frontone fece strada in loro direzione. Mentre si avvicinavano agli edifici, Rufo percepì nell’aria un odore vagamente familiare, un aroma intenso e pungente che sovrastava qualunque altro sentore nei paraggi. Fu solo pochi attimi prima che la memoria lo proiettasse all’indietro di più di un decennio.
Leone.
La galea da Cartagine a Ostia li aveva trasportati come carico merci: due grosse femmine e due cuccioli. Ora stava fissando quegli stessi occhi assassini, pallido giallo dorato screziato di grigio che esprimeva odio allo stato puro.
Non capiva ancora del tutto perché fosse stato venduto al mercante di schiavi. Suo padre era un ausiliario ispanico stabilitosi in Mauritania a fine servizio. Era stato migliore come soldato che come agricoltore. In estate la loro piccola fattoria ai piedi dei monti dell’Atlante era un appezzamento riarso e polveroso le cui rocce in inverno si spezzavano per le gelate. Sua madre ormai era solo un vago ricordo, ma sapeva con certezza che lo aveva amato, non fosse altro per la beatitudine che lo pervadeva ogniqualvolta pensava a lei. Chiudendo gli occhi riusciva quasi a richiamare alla mente il suo volto e l’umido profumo mattutino dei suoi lunghi capelli corvini. Avevano sempre fame, è vero, ma era possibile che lei fosse rimasta lì a guardare mentre lo trascinavano via in lacrime? A quanto pareva, sì. Tutto ciò, calcolò, era accaduto durante l’undicesimo anno del regno dell’imperatore Tiberio.
Frontone aveva decine di leoni, inclusi tre magnifici esemplari maschi dalla criniera nera. Ma c’erano anche un magro e atletico ghepardo e tre agili gattoni chiazzati di una specie che Rufo non conosceva.
«Sono leopardi», spiegò Rufo. «Il pubblico li adora. Grandi come leoni, veloci il doppio. Una volta che piombano addosso a un uomo non conta nulla quanto possa essere protetto: è morto. I denti cercano la gola e gli artigli il ventre. Hai mai visto un gattino tenere tra i denti un piccione morto, con le zampette che si agitano forsennate? Con i leopardi è lo stesso. Se non riescono a raggiungere la pancia, cercano le palle. E se non le agguantano, sbranano le gambe fino all’osso. Non cambia niente: l’unica cosa che conta è che se arrivano alla pancia tutto finisce più in fretta».
Infine giunsero a quello che Frontone chiamava il suo mostro
.
«Straordinario, vero? Si fatica a credere che un essere del genere si nutra di sola erba».
Rufo contemplò il mastodonte grigio solo sul suo prato recintato. La bestia era grande il doppio di un toro e aveva una pelle spessa e coriacea. La testa era enorme, anche per un corpo simile, ma le zampe erano corte in modo quasi ridicolo. Aveva occhietti minuti e dalla base dell’ampio naso a forma di badile spuntavano due corna, una dietro l’altra. La più grande, quella anteriore, aveva un diametro alla base di almeno venti centimetri e si andava progressivamente restringendo per finire, dopo mezzo metro, in una punta letale. La seconda era grande la metà, ma sembrava ancor più aguzza.
«Non so che farmene. A vedersi sembra pericoloso, ma non fa mai altro che gironzolare. Lo si può accarezzare come fosse un cane. Perché non provi?».
Gli occhi che scrutavano Rufo traboccavano di sincerità: Frontone assunse l’espressione di chi non aveva mai fatto un torto in vita sua, un uomo che avrebbe raggiunto la tomba senza una sola macchia sulla propria reputazione. Un uomo a cui Rufo non concedeva nemmeno un briciolo di fiducia.
Frontone lo stava mettendo alla prova, e lui pensava di conoscerne la ragione. Lo scaltro mercante gli stava dando l’occasione di dar prova di sé di fronte agli uomini che un giorno avrebbero potuto chiamarlo padrone. Guardò nuovamente il mostro che nel frattempo sembrava essersi ingrandito ancor di più. La domanda era: sarebbe sopravvissuto alla prova?
Con più baldanza di quanta ne provasse, fece un sorriso sfrontato e rispose: «Ma certo».
Tito, uno degli schiavi che avevano partecipato alla festa di benvenuto di Frontone, gli tenne aperto il cancello, poi, mentre lo richiudeva, gli sussurrò: «Fa’ attenzione alle orecchie».
Rufo avanzò lentamente all’interno del recinto. La tensione gli faceva martellare il cuore, ma il mondo divenne ai suoi occhi più limpido che mai e lo stomaco gli si serrò per la trepidazione. Vide che il recinto di questo pascolo, benché costruito come gli altri ovvero di assi di legno dell’altezza approssimativa di un uomo, era rinforzato da travi orizzontali. In alcuni punti risaltavano chiaramente delle macchie bianche, come se il legno fosse stato recentemente scheggiato.
Il calore del sole gli percuoteva la schiena come un randello mentre si addentrava ulteriormente nel recinto. Dove il mostro lo aspettava.
Dopo un ventina di passi notò quello che poteva essere stato un guizzo al lato della testa dell’animale. Sì, ci fu di nuovo, uno spasmo quasi impercettibile dell’orecchio sinistro.
Senza staccare gli occhi di dosso alla bestia, mutò leggermente direzione. Ora ad ogni passo attraversava diagonalmente il suo campo visivo, invece che puntare direttamente verso di lui.
Era incredibile come qualcosa di così grande potesse muoversi con tanta rapidità. Il momento prima il mostro era immobile, con i piccoli occhi vacui puntati a media distanza. Il momento dopo le zampe tozze vorticavano a tutta velocità e avevano già coperto metà della distanza che li separava, testa bassa e quella scimitarra letale di corno puntata dritta al suo basso ventre.
Voltarsi e sfrecciare verso la recinzione non sarebbe servito a nulla. Non sarebbe mai riuscito a correre più veloce dell’animale. Ma il cambio di direzione lo aveva deviato leggermente dalla sua rotta e questo gli diede una frazione di secondo per scansare di lato la carica.
Attese fino al momento in cui avrebbe potuto toccare il corno più piccolo allungando la mano prima di tuffarsi a terra e rotolare sulla destra. Con una rapida mossa fu di nuovo in piedi e scattò verso la recinzione a gambe levate.
Mentre correva poteva sentire gli zoccoli scalpitanti della bestia proprio dietro di sé e comprese che le ci era voluto un solo istante per virare l’enorme massa e lanciarsi al suo inseguimento. Riusciva a vedere i nodi nel legno del recinto e le teste arrugginite dei chiodi che lo tenevano insieme. Dietro di lui le scariche di sbuffi delle narici dell’animale gli suggerirono che si era avvicinato ulteriormente.
Un solo attimo di esitazione e sarebbe morto. Guadagnò un punto del recinto, sollevando una gamba e spingendo con l’altra, di modo che gli ultimi due passi prima di colpirlo li fece nell’aria. Il piede anteriore incontrò una delle assi orizzontali e Rufo, dando fondo a ogni muscolo del suo corpo, prese lo slancio per un balzo verso l’alto che lo avrebbe portato al sicuro al di là della staccionata. Pochi centimetri e ce l’avrebbe fatta. Invece il ginocchio della gamba posteriore si schiantò contro l’asse più alta, provocandogli un’ardente fitta di dolore e tramutando un salto calibrato in una sconnessa capriola volante. Mentre si librava in volo, udì distintamente l’urto assordante di qualcosa di enorme che si abbatteva contro qualcosa di ancor più solido e monolitico. Mezzo secondo dopo atterrò con uno schianto che gli tolse il respiro, gli smosse diversi denti e lo lasciò nel dubbio di quante ossa potesse essersi frantumato.
Giacque stordito con il sapore ferroso del sangue che gli riempiva la bocca e la polvere che gli ostruiva il naso.
«Hai un passo di tutto rispetto per essere un fornaio, ma il salto avrebbe potuto essere più elegante».
Rufo aprì un occhio. Frontone era in piedi sopra di lui e copriva con la propria stazza la luce del sole.
«Coraggio, alzati, e vediamo cos’hai fatto al nostro povero vecchio mostro». Porse il braccio a Rufo e lo tirò in piedi.
Sussultando dal dolore il ragazzo zoppicò verso la staccionata, che ora sfoggiava un buco scheggiato delle dimensioni di un pugno. Rufo guardò attraverso la fenditura e trasalì incrociando lo sguardo furioso del mostro. La bestia scosse la testa prima di trotterellare indietro verso il centro del pascolo.
«Le verrà un certo mal di testa, ma se la caverà bene», esclamò Frontone con orgoglio.
«E quanto a me?», chiese Rufo. «Avrebbe potuto uccidermi. Avevi detto che potevo accarezzarla come fosse un cane».
«Forse ho esagerato un po’», ammise Frontone, «ma questa è la tua prima lezione, ragazzo: hai dimostrato di non aver paura degli animali, ma devi imparare a rispettarli. La prossima volta che entri in un recinto o in una gabbia, studia prima ciò che contiene. Tutti questi animali, chi in un modo, chi in un altro, sono pericolosi. Persino le minute antilopi ti metterebbero fuori gioco per una settimana se servisse a proteggere i loro piccoli».
Raccolse un pezzo di letame dal suolo davanti ai suoi piedi e lo sollevò all’altezza del viso di Rufo.
«Lo vedi? È tutta questione di profitto. Non ha importanza se puzza di merda o profuma di fiori: se dà profitto, odora di buono. Ora, con te cominceremo dai rudimenti: Tito, fagli vedere come ci si fa beffe di un maiale selvatico».
II
Bastarono i rudimenti a far apparire l’esistenza precedente di Rufo simile a un vero e proprio paradiso. A quei tempi sentiva ogni giorno l’aroma del pane appena fatto. Ora era investito da una decina di diversi fetori di escrementi animali. Ma ogni istante che trascorreva con le bestie gli insegnava qualcosa.
Imparò come nutrirle e abbeverarle. Ogni specie aveva una dieta accuratamente ponderata per essere certi che si mantenesse al massimo della propria condizione. Troppa carne e i felini sarebbero diventati grassi e pigri. Troppo poca e avrebbero perso la loro grandiosa potenza.
Imparò a riconoscere i sintomi che annunciavano che un’antilope aveva contratto una delle malattie debilitanti che tormentavano la sua razza. Un accenno di piaghe attorno alla bocca o agli zoccoli e c’era il rischio che l’intera mandria dovesse essere macellata.
Imparò a individuare il leggero rigonfiamento che indicava che una femmina era gravida e doveva perciò essere allontanata dal recinto.
E imparò ciò che succede a un uomo che si lascia andare all’imprudenza mentre è in compagnia dei leoni. Non avrebbe mai dimenticato i brandelli di carne lacerata e le schegge di ossa, tutto ciò che restava del povero, ottuso Tito per non aver riconosciuto i grugniti di dolore di un leone dovuti a un dente rotto. Gli altri schiavi non avevano sentito le sue grida finché non era stato troppo tardi e il responsabile aveva deciso che sarebbe stato più conveniente permettere alla bestia di divorarlo – era già morto – piuttosto che seppellirlo. Sopprimere il leone non era un’eventualità contemplabile. Valeva dieci volte Tito e, come sottolineò Frontone, era nella sua natura uccidere gli esseri umani.
Giorno dopo giorno, settimana dopo settimana, il suo rispetto nei confronti di Frontone cresceva. Il mercante di animali aveva un’inestinguibile sete di vita che faceva sì che persino i suoi concorrenti lo apprezzassero, e Rufo venne risucchiato da un turbine di entusiasmo che spesso lo lasciava con la testa vorticante. Ma quando Frontone tornò dal suo ultimo viaggio in Africa, dove si era recato per acquistare nuovi capi con cui rinfoltire pascoli e recinti, al posto del sorriso che generalmente gli solcava il viso c’era un’espressione stanca e accigliata.
«Va sempre peggio», si lamentò mentre si sporgevano da una staccionata osservando due maschi di gazzella che si prendevano a testate in un gioco di forza. «I compratori sono sempre alla ricerca di qualcosa di più grande, di migliore, di più spettacolare, di più esotico, e ogni volta che incontro i miei fornitori, non fanno che ripetere che i capi scarseggiano, o che le mandrie e i branchi che se ne nutrono si sono spostati più a sud, e alzano i prezzi. Fosse per me penserei che mi stanno prendendo in giro, ma so da altri mercanti che è lo stesso dappertutto. L’unica consolazione è che posso far ricadere i costi su altri, ma per quanto ancora lo sa solo Giove».
«Non puoi allevarli tu?»
«Allevarli? Sono un commerciante, non una bambinaia. Comprare a poco e vendere con profitto. E comunque la maggior parte è praticamente impossibile da allevare. Ci hanno già provato. Si può fare con l’antilope, se si sta attenti e le si dà sufficiente spazio e quiete. Ma quelli rari, quelli che fanno guadagnare sul serio? Mai. Quei grossi felini? Nel loro ambiente crescono come ratti. Nessun predatore a parte quelli della loro specie. Ma mettili in gabbia ed è come se dimenticassero come si fa. Vieni con me».
Rufo seguì Frontone mentre marciava in modo deciso verso uno dei recinti più lontani. «Mi hanno detto che impari in fretta, ragazzo. Bene». Tolse il catenaccio al cancello. «Questa è arrivata oggi dall’Africa. Da ora in poi è sotto la tua responsabilità. Crescila. Comprendila. Guadagnati la sua fiducia. Conquistati il suo rispetto».
Rufo aveva un leopardo tutto suo.
Il gattone aveva circa sei mesi, le si potevano già vedere le chiazze sui fianchi tra le sfumature della pelliccia da cucciola.
«La madre è morta durante il viaggio dall’Africa. Se la mettessi nel recinto assieme a una famiglia di leopardi più anziani la farebbero a pezzi».
Ora come ora il cucciolo non aveva nulla della violenza repressa e dell’odio verso l’uomo che caratterizzavano un leopardo adulto. Al contrario, irradiava una giocosità da grosso micio mentre lottava e giocherellava con qualunque cosa si muovesse. Contemplarla in quei momenti di innocente beatitudine dava a Rufo una sensazione di gioia che non aveva mai provato prima.
La chiamò Circe.
Circe era la prima cosa di valore che Rufo avesse posseduto in vita sua e si ripromise solennemente di creare con il felino un legame che non si sarebbe mai potuto spezzare. Come gli aveva riconosciuto Frontone, aveva imparato in fretta e bene dagli altri addestratori. Sapeva quando avvicinarsi e quando era meglio lasciar perdere. Quando vezzeggiare e quando punire. Avrebbe addomesticato il cucciolo, l’avrebbe sottomesso alla sua autorità.
Non fece caso ai sorrisi sornioni dei suoi compagni di lavoro mentre lo guardavano assieme alla gatta.
Un mese dopo, quando Frontone tornò dal viaggio successivo, guardò il leopardo sdraiato ai piedi di Rufo e scosse lentamente il capo.
«Vieni. È giunto il momento che tu veda l’arena».
Per l’occasione il mercante indossò l’abito della festa, e padrone e schiavo si recarono nella capitale su un calesse trainato da un cavallo.
«Cosa stai guardando così a bocca aperta, ragazzo?».
Rufo conosceva bene questo tragitto, ma la strada che conduceva a Roma non mancava mai di affascinarlo. All’inizio la città più maestosa del mondo appariva come un immenso miraggio di arancioni e bianchi scintillanti per via del calore, ma, avvicinandosi, l’immagine acquistava una struttura e una forma, e infine – incredibilmente – compattezza.
La città si ergeva di fronte a lui, crinale dopo crinale come i piedi scoscesi di una montagna. Eppure non c’era nulla di naturale in tanta magnificenza. Ogni sua minima parte era stata concepita dalla mano dell’uomo. C’erano edifici di dimensioni e splendore così immani che non poteva trattarsi che di palazzi appartenenti a dèi. File di pilastri sostenevano colossali tetti triangolari; gigantesche mura curve di pietra si innalzavano come scogliere. E che colori: arancioni e rossi, argenti e ori. L’intera città ardeva al sole pomeridiano come fosse incendiata.
Le commissioni di Rufo tra la bottega e la villa del fornaio gli avevano permesso di esplorare i vicoli affollati e le ampie strade. Rimaneva come stregato di fronte agli imponenti archi trionfali e ai monumentali edifici colonnati. Osservava le iscrizioni con invidia. Naturalmente non era in grado di leggerle, ma sapeva che erano dedicate ai gloriosi eroi del passato: Giulio Cesare, Augusto, Crasso e Pompeo. Lo smisurato complesso di palazzi sul monte Palatino, che aveva contemplato dal Clivo Sacro, lo attirava come il fuoco attira una falena. Non aveva mai osato avvicinarsi alla stretta scalinata che lo avrebbe condotto al suo centro, ma in cuor suo sapeva che doveva trattarsi di un paradiso all’altezza di Giove in persona.
E, mano a mano che la esplorava, faceva un’importante scoperta: Roma era una città di schiavi.
Era proprio così. Gli schiavi superavano numericamente i cittadini in una proporzione di dieci a uno, e se i Romani governavano Roma, a mandarla avanti erano gli schiavi. Schiavi o ex schiavi erano i dottori, gli avvocati e gli usurai. Erano loro a gestire gli affari per i loro padroni. Facevano cose, compravano e vendevano cose. Molti schiavi erano sfacciatamente ricchi e molti di più cercavano di diventarlo. Si diceva che persino l’imperatore prestasse ascolto agli schiavi.
Roma non sarebbe stata nulla senza i suoi schiavi.
Alle porte della città Rufo e Frontone furono costretti a scendere dal calesse, poiché solo ai carri che trasportavano corrieri imperiali o merci per il mercato era permesso varcare le mura durante il giorno. Il mercante di animali affittò una portantina a baldacchino trasportata da quattro nerboruti Siriani che indirizzò al maestoso anfiteatro Tauro. Si misero in cammino a un trotto deciso mentre Rufo correva al loro fianco, facendosi strada a gomitate tra la folla.
Il brusio e gli schiamazzi che accompagnavano il frenetico andirivieni della città erano una violenza per le orecchie. Era come se tutti i Romani parlassero contemporaneamente e nessuno nella stessa lingua. Gli ambulanti strillavano le proprie offerte dalla miriade di bancarelle disposte lungo la strada. La varietà era sbalorditiva. Nell’arco di pochi metri si potevano comprare le scarpe, il cuoio di cui erano fatte e il coltello necessario per tagliarlo. Di fronte a una bottega di spezie l’aria era pervasa dal profumo di cannella, pepe e incenso. Mendicanti mutilati elemosinavano oboli di cibo dagli imbocchi delle anguste stradine laterali mentre a poca distanza negozianti offrivano mandorle al miele a prezzi esorbitanti.
Il Tauro era vicino a Campo Marzio, sul lato settentrionale della città. Solo i piani inferiori erano di pietra, mentre la parte superiore era in legno, a differenza del monumentale Circo Massimo e del fatiscente ma ancora maestoso Teatro Magno, trentamila posti a sedere, fatto costruire da Pompeo.
Il Tauro era stato donato alla città cinquant’anni prima. Ora dimostrava la propria età come una vecchia prostituta i cui giorni migliori sono ormai da tempo alle sue spalle. Si mormorava che Tiberio avesse in progetto un’arena nuova e ancor più imponente, ma ci sarebbero voluti anni per costruire un edificio di tali dimensioni, se mai l’imperatore, noto per la sua frugalità, avesse un giorno approvato la spesa.
L’anfiteatro aveva quaranta ingressi per il pubblico pagante, ma Frontone condusse Rufo verso una piccola porta anonima che si apriva su una stretta scalinata illuminata da torce e che si addentrava fin nelle viscere del complesso. Mentre seguiva il padrone, Rufo provò la stessa trepidazione che aveva sentito entrando nel recinto del mostro. Frontone fece strada attraverso un labirinto di corridoi, stanze grandi e piccole e gabbie di animali, il tutto pervaso da un’atmosfera appestante satura del fetore stantio di sudore, urina ed escrementi, animali e umani. Si distingueva anche un altro odore che sovrastava gli altri e faceva arricciare il naso. Rimase interdetto finché non fu colpito dalla vista di un osso bianco a cui erano ancora attaccati brandelli di carne, esattamente ciò che era rimasto di Tito dopo che il leone l’aveva ucciso. L’odore era quello del sangue.
La consapevolezza di dove si trovava gli dava le palpitazioni. Durante gli anni trascorsi al forno, Rufo aveva fantasticato sul momento in cui si sarebbe seduto nelle tribune superiori e avrebbe incitato i favoriti, i cui nomi e le cui imprese conosceva a memoria.
«Quando vedremo i gladiatori?», chiese; la voce tradiva il suo entusiasmo. Frontone si voltò verso di lui e Rufo fu sorpreso dall’intensità del suo sguardo.
«Li vedrai all’interno dell’arena, non prima. Uomini e donne pagano parecchio denaro per il privilegio di godere della loro compagnia prima che facciano ingresso nel teatro del combattimento. In quella stanza, Rufo, c’è un’atmosfera, una tensione che non ha pari in nessun altro luogo della terra. Ho visto coppie dei più alti lignaggi di Roma essere talmente sopraffatte dal crudo fetore della paura e dell’eccitazione da andare in calore proprio lì dove si trovavano».
Inspirò profondamente dal naso come avesse appena terminato una dura fatica fisica.
«E sai cosa fecero quegli uomini in procinto di morire? Distolsero gli occhi e fissarono le pareti. C’è più dignità e onore nel più vile degli schiavi condannati che in simili cosiddetti nobili».
Imboccarono una scala che si inerpicava verso l’alto e giunsero a una porta che si apriva direttamente sul campo del massacro. Rufo fissò la superficie piana ricoperta di terra e cinta da assi lisce alte il doppio di una persona. Chiunque fosse entrato in questa trappola non avrebbe certo potuto uscirne arrampicandosi sulla recinzione.
«Ciò che vedi qui non è nulla», sussurrò Frontone con la voce improvvisamente fredda, e Rufo sentì un leggero brivido percorrergli la schiena. «Questo è solo un antipasto per i poveri e gli annoiati che non hanno denaro né di meglio da fare. Ricorda: non è niente».
Da dietro di loro provenne il tipico suono di metallo che percuote metallo. Rufo si voltò e vide tre sagome spaventose.
III
A prima vista non sembravano esseri umani. Il primo indossava un elmo bronzeo che ne copriva il viso per intero, con fessure per gli occhi e per la bocca e ciocche di capelli delicatamente intrecciate al metallo su tutto il cuoio capelluto. Per il resto era ricoperto solo da un perizoma e da uno spesso cinturone che attraversava diagonalmente la spalla sinistra prima di avvolgergli la vita. Nella mano destra teneva un’ascia dal manico corto e la lama ampia, e una seconda pendeva da un passante della cintura.
Dietro di lui si ergeva un gigante, più grande di ogni uomo Rufo avesse mai visto. I suoi tratti erano celati al di là di una visiera integrale punteggiata da una trama di piccoli fori. L’elmo di ferro dall’ampia tesa era sovrastato da una cresta di lame, come si trattasse di una qualche specie di enorme gallo da combattimento. Un’armatura di maglia gli proteggeva il lato sinistro del