Core Concepts of Accounting Information Systems Simkin 13th Edition Test Bank
Core Concepts of Accounting Information Systems Simkin 13th Edition Test Bank
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13. Automated accounting information systems are a particularly important potential target of
cybercrime.
14. When organizations discover a cybercrime, the cost of auditing and investigating the loss
often exceeds the actual monetary loss.
15. The TRW Company Credit Data Case is an example of “valuable information”
cybercrime.
16. A paradoxical matter in the TRW Case was that the prosecution had trouble acquiring
testimonies because the buyers as well as the sellers of the credit information were in
technical violation of the law.
17. A conflict exists between providing bona fide AIS users easy access to computer
resources and security objectives.
19. Worm programs are viruses that insert themselves into computer systems and disrupt
operations or files.
20. A computer virus may lie dormant in a system until software is copied and run on
non-licensed machines.
21. Lockout systems disconnect telephone connections if users fail to provide a correct
password in a set number of tries.
23. According to a recent CSI survey, the most common problem encountered by the
respondents is viruses.
24. One reason why computer crime is important to AISs is because, according to a
Computer Security Institute survey, the average cost of a computer-abuse incident is
about $500,000.
25. According to a KPMG survey, companies that stress the importance of business ethics
tend to get about the same results as companies that do not stress its importance.
27. Fortunately, thwarting most forms of cybercrime does not require the support of top
management.
28. Experts suggest that policies on computer abuse are ineffective, and therefore should not
be used to help educate employees about computer abuse.
TB 3.2
Core Concepts of Accounting Information Systems, 13th Edition, by Simkin, Rose, and Norman
29. Most computer criminals are individuals of questionable background, little education, and
no morals.
30. Watching for tell-tale signs may help detect computer crime.
31. Most computer criminals we have been fortunate enough to catch have had long, criminal
backgrounds.
33. Today’s accountants have no responsibility for designing or implementing control procedures that
protect AISs from cybercrime and fraud.
Multiple-Choice Questions
35. According to the chapter, which of these statements is most accurate?
a) Almost all cybercrime is committed for personal gain
b) Very little cybercrime is committed for personal gain
c) Most cybercrime is just as easily described as “embezzlement”
d) We actually know very little about cybercrime
38. Which of these terms describes a computer program that remains dormant until triggered
by some specific circumstance or date?
a) Trojan horse program
b) DDoS program
c) Logic bomb
d) Dial back system
TB 3.3
Core Concepts of Accounting Information Systems, 13th Edition, by Simkin, Rose, and Norman
39. Much of what has been termed cybercrime has merely involved the computer but
probably would be more accurately classified as other types of crimes. A notable
exception to this involves:
a) Raiding dormant bank accounts
b) Inventory misappropriation
c) Embezzlement
d) Theft of computer time
TB 3.4
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riuscì a coprirsi solo in parte, ed ebbe la gola squarciata. Allora la
folla ai gettò su Buck, che fu trascinato via; ma mentre un chirurgo
cercava di arrestare il sangue, Buck girava, su e in giù, ringhiando
furiosamente, e tentando di lanciarsi dentro, ricacciato solo da una
schiera di mazze ostili. Un’«assemblea di minatori» chiamata sul
luogo, giudicò che il cane aveva avuto una sufficiente provocazione,
e Buck fu liberato. Ma la sua reputazione era fatta; da quel giorno, il
suo nome si sparse per tutti gli accampamenti dell’Alaska.
In seguito, alla fine dell’anno, egli salvò la vita di Giovanni Thornton
in maniera del tutto differente. I tre soci tiravano una lunga e stretta
barca, con la pertica, lungo un cattivo tratto di corrente, sul Forty-
Mile Creek. Hans e Piero camminavano lungo la riva, trattenendo la
barca con una sottile corda manìla che avvolgevano di albero in
albero, mentre Thornton, rimasto sulla barca ne aiutava la discesa
per mezzo di una pertica, e gridando ordini alla riva. Buck, sulla riva,
preoccupato e ansioso, si teneva alla stessa altezza della barca,
senza mai distogliere gli occhi dal padrone.
In un punto, particolarmente cattivo, dove una catena di nudi scogli
appena sommersi sporgeva sul fiume, Hans passò la corda sopra,
rallentandola, e, mentre Thornton spingeva con la pertica la barca
fuori nella corrente, corse giù lungo la riva col capo della corda in
mano per trattenere la barca dopo sorpassati gli scogli. La barca
passò gli scogli, trascinata precipitosamente dalla corrente rapida
come una gora, allorchè Hans tirò la corda troppo bruscamente. La
barca ondeggiò, sobbalzò e si capovolse contro la sponda, mentre
Thornton lanciato dalla barca, era trasportato dalla corrente verso la
parte peggiore, un tratto di corrente furiosa nella quale nessun
nuotatore avrebbe potuto salvarsi.
Buck, che s’era gettato in acqua subito, a trecento metri raggiunse
Thornton. Quando sentì che il padrone gli s’era afferrato alla coda,
Buck si diresse alla riva, nuotando con tutto il suo meraviglioso
vigore. Ma il progresso verso la riva era lento; il progresso verso la
corrente incredibilmente rapido. Da sotto giungeva il fatale rombare
del punto dove la corrente diveniva più furiosa, rotta in contorti
stracci spumosi dalle rocce che tagliavano il fiume come i denti di un
enorme pettine. Il risucchio dell’acqua, là, dove incominciava l’ultima
pendenza, era terribile, e Thornton capì che sarebbe stato
impossibile raggiungere la riva. Passò furiosamente sopra una
roccia, si ferì contro la seconda punta e sbattè con terribile violenza
contro una terza. Allora s’afferrò a una punta sdrucciolevole, con
tutte due le mani, e liberando Buck, sopra il frastuono delle acque
agitate, gridò:
— Va’, Buck! Va’!
Buck non riuscì a fermarsi: trasportato dalla corrente, lottava
disperatamente, incapace di ritornare indietro. Quando udì il
comando di Thornton, ripetuto, si sollevò in parte fuori dell’acqua,
come per dare un ultimo sguardo, poi si volse, obbediente, verso la
riva, e nuotò poderosamente, sinchè non fu tratto in salvo da Piero e
da Hans, proprio al punto dove nuotare diveniva impossibile e la
distruzione era certa.
Essi sapevano che un uomo può tenersi afferrato ad una roccia
sdrucciolevole nel mezzo di una simile corrente, solo per pochi
minuti, e corsero quanto più rapidamente poterono su per la riva ad
un punto molto più su di quello dove si teneva afferrato Thornton.
Attaccarono la corda, con la quale avevano trattenuto la barca, al
collo e alle spalle di Buck, curando che non lo strangolasse nè
gl’impedisse di nuotare, e lo lanciarono nella corrente. Egli si mise a
nuotare poderosamente, ma non abbastanza diritto nella corrente.
S’accorse dello sbaglio troppo tardi, quando Thornton gli era quasi di
fronte, soltanto a cinque o sei colpi di distanza, mentre egli era
trasportato senza speranza oltre.
Hans, prontamente, tirò la corda, come se Buck fosse una barca. La
corda gli si strinse addosso, nel punto più forte della corrente, e il
cane fu sommerso, e sommerso rimase finchè il suo corpo non battè
contro la riva e fu tirato su. Era mezzo annegato, e Hans e Piero si
gettarono su lui facendolo respirare artificialmente, e facendogli
ributtare l’acqua. Il cane barcollò per rialzarsi, ma ricadde; ma il
debole suono della voce di Thornton giunse sino a loro, e benchè
essi non potessero intendere le parole, compresero che egli era agli
estremi. La voce del padrone agì su Buck come una scossa elettrica.
Il cane balzò in piedi e corse su per la riva precedendo gli uomini
sino al punto dov’era partito prima. Nuovamente fu attaccata la
corda e lanciato, e nuovamente egli nuotò, ma questa volta diritto
nella corrente. Aveva mal calcolato la prima volta, ma non avrebbe
sbagliato la seconda.
Hans mollava la corda, ma senza permettere allentamenti, mentre
Piero la teneva libera da nodi. Buck continuò a nuotare finchè fu in
linea retta sopra Thornton; poi si volse, e con la velocità di un treno
espresso piombò su lui. Thornton lo vide arrivare, e mentre Buck lo
colpiva come un montone che desse di cozzo, con tutta la forza della
corrente dietro, si sollevò sulla roccia e si afferrò con tutt’e due le
braccia al collo irsuto. Hans attorcigliò la corda ad un albero, e Buck
e Thornton furono sbattuti sott’acqua. Quasi soffocati, l’uno talvolta
sopra, talvolta sotto l’altro, trascinati sul fondo roccioso e ineguale,
sbattuti contro rocce e tronchi d’albero sommersi, raggiunsero la
riva.
Thornton ritornò in sè con la pancia in giù, violentemente spinto
innanzi e indietro, su un tronco portato dalla corrente, da Hans e
Piero. Il suo primo sguardo fu per Buck, sul cui corpo floscio e
apparentemente senza vita Nig urlava, mentre Skeet leccava il muso
bagnato e gli occhi chiusi del cane. Thornton, che pure era ferito e
ammaccato, esaminò accuratamente il corpo di Buck richiamato in
vita, e trovò tre costole spezzate.
— Questo fatto decide, — annunciò egli. — Ci accamperemo qui
dove siamo. — E s’accamparono, finchè le costole di Buck non
furono salde ed egli potè viaggiare.
Quell’inverno, a Dawson, Buck compì un’altra prodezza, non così
eroica, forse, ma tale da porre il suo nome di molte tacche sul palo
della fama, in Alaska. Questa prodezza fu particolarmente
vantaggiosa per i tre uomini; poichè essi avevano bisogno
dell’equipaggiamento ch’essa fornì, e poterono così fare un viaggio
da lungo tempo desiderato, nel lontano vergine oriente, dove non
erano ancora apparsi dei minatori. Il fatto ebbe origine da una
conversazione nella Birreria Eldorado, nella quale gli uomini
vantavano con orgoglio i loro cani favoriti. Buck, a causa della sua
fama, era la mira di quegli uomini, e Thornton era spinto
gagliardamente a difenderlo. Dopo una mezz’ora, un uomo affermò
che il suo cane poteva smuovere una slitta con un peso di
cinquecento libbre sopra, e tirarla; un secondo vantò che il proprio
cane ne poteva tirare seicento; e un terzo, settecento.
— Puf! puf! — fece Giovanni Thornton; — Buck può smuovere mille
libbre.
— E trarle dal ghiaccio? e tirarle per cento metri? — domandò
Matthewson, Re di Bonanza, un riccone, quello che aveva vantato le
settecento libbre come prodezza del suo cane.
— E rompere il ghiaccio, intorno, e tirarle per cento metri, — ripetè
Thornton, freddamente.
— Ebbene, — disse Matthewson, lentamente e deliberatamente, in
modo che lutti potessero udire, — scommetto mille dollari che non
può farlo. Ed eccoli qui. — Così dicendo, sbattè sul banco un
sacchetto di polvere d’oro delle dimensioni di una mortadella di
Bologna.
Nessuno parlava. Il bluff di Thornton, se era un bluff, era posto alla
prova. Egli sentì un’ondata di sangue caldo salirgli al volto. La lingua
l’aveva compromesso: giacchè non sapeva se Buck potesse tirare
mille libbre: mezza tonnellata! L’enormità della cosa lo spaventava.
Egli aveva una grande fiducia nella forza di Buck, ed aveva spesso
pensato che il cane fosse capace di tirare un simile carico; ma mai,
come ora, egli ne aveva considerato la possibilità, con gli occhi di
una dozzina di uomini fissi su lui, in attesa silenziosa. Inoltre, egli
non aveva mille dollari; nè li aveva Hans o Piero.
— Ho una slitta qui fuori, ora, con venti sacchi da cinquanta libbre di
farina, — continuò Matthewson con brutale sfida: — perciò non vi
preoccupate delle difficoltà.
Thornton non rispose: non sapeva che cosa dire. Guardava ora una
faccia ora un’altra, come un uomo distratto che abbia perduto la
forza di pensare, e cerchi in qualche luogo un oggetto che gli
richiami il pensiero. La faccia di Nino O’ Brien, un Re dei Mastodonti,
altro riccone, fermò i suoi occhi. Fu per lui come un lampo, che
sembrava spingerlo a fare quello che non avrebbe mai sognato di
fare.
— Puoi prestarmi mille dollari? — domandò, quasi mormorando.
— Certo, — rispose O’ Brien, gettando un sacchetto rigonfio accanto
a quello di Matthewson. — Benchè abbia pochissima fiducia,
Giovanni, che il cane possa compiere una tal prodezza.
Tutti quelli che si trovavano nell’Eldorado uscirono sulla strada per
vedere la prova. I tavoli divennero deserti, perchè i giocatori e quelli
che tenevano il banco uscirono a vedere il risultato della sfida e a far
scommesse. Parecchie centinaia di uomini impellicciati e con
manopole circondarono la slitta, tenendosi a poca distanza da essa.
La slitta di Matthewson, carica di mille libbre di farina era rimasta lì
ferma per un paio d’ore, e nel freddo intenso, (erano sessanta gradi
sotto zero) gli strisci s’erano gelati sulla neve battuta. Degli uomini
scommettevano, offrendo il doppio della posta, che Buck non
sarebbe riuscito a smuovere la slitta. Sorse un cavillo sul significato
della frase «liberare». O’ Brien asseriva che spettava a Thornton
liberare gli strisci dal ghiaccio, lasciando a Buck il compito di
trascinare la slitta dal peso morto; Matthewson insistette sostenendo
che la parola comprendeva anche il compito del cane di liberare gli
strisci dalla presa della neve gelata. La maggioranza di quelli che
avevano assistito alla scommessa decisero in suo favore, e allora le
scommesse salirono da tre ad uno contro Buck. Non vi era nessuno
che scommettesse in favore di Buck. Nessuno lo credeva capace di
quella prodezza. Thornton, ch’era stato spinto a scommettere, pieno
di dubbi, ed ora vedeva la slitta, il fatto concreto, con il tiro regolare
di dieci cani arrotolati nella neve davanti ad essa, sentiva ancora più
impossibile quel compito.
Matthewson si pavoneggiava, giubilante.
— Tre contro uno, — proclamò. — Metto giù altri mille dollari, a tre
contro uno, Thornton. Che ne dite?
Il dubbio pareva scritto sul volto di Thornton, ma lo spirito di lotta era
ormai desto, — lo spirito combattivo che s’eleva al disopra delle
scommesse, non riconosce l’impossibile, ed è sordo a tutto, tranne
al clamore della battaglia. Egli chiamò a sè Piero e Hans. Ma i loro
sacchi erano smilzi: col suo, i tre soci non potevano mettere insieme,
più di duecento dollari. Nella bassa marea delle loro fortune, quella
somma era tutto il loro capitale; tuttavia essi lo arrischiarono, senza
esitare, contro i seicento dollari di Matthewson.
Fu tolto l’attacco dei dieci cani, e Buck, col suo finimento e i suoi
tiranti, fu posto alla slitta. Egli aveva preso il contagio
dell’eccitamento generale, e sentiva di dovere rendere un gran
servizio a Giovanni Thornton. Si levarono mormorii di ammirazione,
per lo splendido aspetto dell’animale. Era in perfette condizioni,
senza un’oncia di carne superflua; formando le centocinquanta libbre
ch’egli pesava, altrettante libbre di risoluta energia. Il suo pelo luceva
come seta. Giù per il collo e attraverso le spalle, il suo manto, in
riposo com’egli era, mezzo irsuto, pareva sollevarsi ad ogni
movimento, come se l’eccesso di vigore rendesse vivo ed attivo ogni
pelo. Il largo petto e le pesanti gambe davanti erano proporzionate al
rimanente del corpo, dove i muscoli apparivano come saldi rotoli
sotto la pelle. Qualcuno palpò quei muscoli e li proclamò duri quanto
il ferro, e le scommesse scesero a due contro uno.
— Perdio, signore! Perdio, signore! — balbettò un membro
dell’ultima dinastia, un re delle Skookum Benches. — Vi offro
ottocento dollari per il cane, prima della prova, signore; ottocento
com’è.
Thornton scrollò il capo e andò al fianco di Buck.
— Dovete stare lontano dal cane, — protestò Matthewson. — Gioco
onesto e spazio in abbondanza.
La folla divenne silenziosa: soltanto si potevano udire le voci dei
giocatori che offrivano in vano, due contro uno. Tutti riconoscevano
in Buck un magnifico animale, ma venti sacchi da cinquanta libbre di
farina apparivano troppo grossi, ai loro occhi, per aprire i cordoni
della borsa.
Thornton s’inginocchiò accanto a Buck. Gli prese la testa fra le mani
e appoggiò la guancia alla guancia del cane. Non lo scosse
scherzosamente, come faceva volentieri; nè mormorò dolci male
parole d’amore; ma gli mormorò all’orecchio: — Come tu mi ami,
Buck. Come tu mi ami, — e Buck gemette con frenata ansia.
La folla guardava incuriosita. La faccenda si faceva misteriosa.
Sembrava come una congiura. Mentre Thornton s’alzava in piedi,
Buck afferrò la mano ricoperta dalla manopola tra le mascelle,
stringendola tra i denti e lasciandola andare lentamente, mezzo
riluttante. Era la risposta, non con parole, ma con segni d’amore.
Thornton si tirò bene indietro.
— A te, Buck, — diss’egli.
Buck tese i tiranti, poi li rallentò, per alcuni pollici; come aveva
imparato.
— Va! — risuonò la voce di Thornton, tagliente, nel silenzio perfetto.
Buck girò a destra, con un movimento che finì con un balzo che tese
i tiranti, e fermò, dopo una forte scossa, le centocinquanta libbre del
cane. Il carico tremò, e dagli strisci s’alzò un leggero crepitìo.
— A sinistra! — comandò Thornton.
Buck duplicò la manovra, questa volta a sinistra. Lo scricchiolìo si
mutò in un brusco frangersi del ghiaccio, la slitta girò leggermente su
se stessa, e gli strisci scivolarono graffiando la neve. La slitta era
liberata. Tutti trattenevano il respiro, intensamente, inconsci del fatto.
— Ora, avanti!
Il comando di Thornton risuonò come un colpo di pistola. Buck si
gettò in avanti, tendendo i tiranti, con sbalzi a scosse. L’intero corpo
era raccolto strettamente in sè nel tremendo sforzo, i muscoli si
gonfiavano e contorcevano come delle cose vive sotto il pelame di
seta. Il suo largo petto era proteso e abbassato sino a terra, la testa
in avanti, mentre le zampe gli si muovevano furiose, e gli unghioni
scavavano la neve battuta, in solchi paralleli. La slitta oscillava e
tremava, quasi smossa. Uno dei piedi del cane sdrucciolò, e un
uomo gemette rumorosamente. Poi la slitta si mosse, con un
succedersi rapido di scosse, benchè, in realtà non si fosse fermata
più... Mezzo pollice... un pollice... due pollici... Le scosse diminuirono
percettibilmente; a mano a mano che la slitta avanzava, Buck
cessava le scosse, finchè alla fine la slitta filò, senza oscillare.
Gli uomini mandarono un gran sospiro e ricominciarono a respirare;
chè senz’accorgersene, avevano cessato per un momento di
respirare. Thornton correva dietro la slitta incoraggiando Buck con
brevi parole liete. La distanza era stata misurata prima, e mentre il
cane s’avvicinava alla pila di legna da ardere, che segnava il termine
dei cento metri, incominciava a levarsi un plauso sempre più alto,
che divenne clamore di urli, allorchè, oltrepassata la legna da
ardere, il cane si fermò, ad un comando. Tutti gli uomini esultavano
pazzamente; persino Matthewson. Gettavano in aria cappelli e
manopole; scambiavano strette di mano col più vicino, chiunque
fosse, vociando, come in una confusionaria babele.
Ma Thornton cadde in ginocchio accanto a Buck. Con la testa centro
la testa, lo scrollava in avanti e in dietro. Quelli ch’erano corsi dietro
a lui l’udirono che malediceva Buck, e lo malediceva a lungo e con
fervore, ma dolcemente e amorosamente.
— Perdio, signore! Perdio, signore! — balbettò rauco il re di
Skookum Bench — Vi dò mille dollari per lui, mille, signore, mille e
duecento, signore.
Thornton s’alzò in piedi: aveva gli occhi bagnati. Le lagrime gli
rigavano liberamente e copiosamente le gote.
— Signore, — disse al re di Skookum Bench, — no, signore. Potete
andare al diavolo, signore. Non ho altro da dirvi e da fare.
Buck afferrò tra i denti la mano di Thornton, che lo scrollò avanti e
indietro. Come animati da comune impulso, gli spettatori si ritirarono
a rispettosa distanza; abbastanza discreti per interromperli
nuovamente.
CAPITOLO VII.
IL RICHIAMO DELLA VOCE.
E qui può ben finire la storia di Buck. Non passarono molti anni, e gli
yechats osservarono un cambiamento nella razza dei lupi della
selva; vedendone alcuni con macchie brune sulla testa e sul muso, e
con una striscia di pelo bianco nel mezzo del petto. Ma un fatto più
notevole raccontano gli indiani; parlano dell’esistenza di un Cane
Spettrale che corre alla testa del branco di lupi. Essi hanno paura di
questo Cane Spettrale, perchè è più furbo dei lupi, ruba nei loro
accampamenti, durante i terribili inverni, spoglia le trappole, uccide i
cani, e sfida i più bravi cacciatori.
Ma la storia diventa anche più truce. Narrano di cacciatori che non
ritornano più all’accampamento, di cacciatori che i loro compagni di
tribù hanno trovato con le gole crudelmente squarciate, tra impronte
di lupo, sulla neve, più grandi delle impronte di qualsiasi lupo. Ogni
autunno, allorchè gli yechats seguono il movimento degli alci, si
fermano davanti una valle nella quale non osano penetrare. E vi
sono delle donne che diventano tristi quando si racconta, intorno al
fuoco, come lo Spirito del Male abbia scelto quella valle per dimora.
Tuttavia, l’estate, appare un visitatore in quella valle; un visitatore del
quale nulla sanno gli indiani. È un grande lupo dal mantello
meraviglioso, simile e pur diverso da tutti gli altri lupi. L’animale
attraversa, solo, il monte ridente di boschi, e scende in uno spazio
aperto tra gli alberi; dove un ruscelletto giallo sorge tra imputriditi
sacchi di pelle di alce, e s’affonda nella terra. E tra le alte erbe che
crescono dove il ruscello scompare, e tra muschi che ne
nascondono il giallore al sole, egli rimane assorto per qualche
tempo; poi ulula e se ne va.
Ma egli non è sempre solo. All’approssimarsi delle lunghe notti
invernali quando i lupi seguono le loro prede nelle valli più basse, lo
si vede correre alla testa del branco, alla pallida luce lunare o alla
luce fioca delle aurore boreali; e balzare come gigante tra i suoi
compagni, e precederli, ululando coll’ampia sua gola il canto del
mondo più giovane, il canto del branco.
FINE
IL FIGLIO DEL LUPO.