Nothing Special   »   [go: up one dir, main page]

Academia.eduAcademia.edu

1054: due ecclesiologie in controluce dietro uno scisma mitizzato

2017, “Vicarius Petri”, “Vicarius Christi” La titolatura del Papa nell’XI secolo Dibattiti e prospettive a cura di Fabrizio Amerini e Riccardo Saccenti

“Vicarius Petri”, “Vicarius Christi” La titolatura del Papa nell’XI secolo Dibattiti e prospettive a cura di Fabrizio Amerini e Riccardo Saccenti Edizioni ETS www.edizioniets.com Volume pubblicato con il contributo dell’Ordine Costantiniano di San Giorgio di Parma assegnato al Dipartimento di Antichistica, Lingue, Educazione, Filosofia - A.L.E.F. dell’Università degli Studi di Parma in occasione del Convegno «Vicario di Cristo e Vescovo di Roma. Dibattiti sulla titolatura e autorità papale nell’XI secolo» svoltosi a Parma il 6 maggio 2015 © Copyright 2017 Edizioni ETS Piazza Carrara, 16-19, I-56126 Pisa info@edizioniets.com www.edizioniets.com Distribuzione Messaggerie Libri SPA Sede legale: via G. Verdi 8 - 20090 Assago (MI) Promozione PDE PROMOZIONE SRL via Zago 2/2 - 40128 Bologna ISBN 978-884675029-7 1054: due ecclesiologie in controluce dietro uno scisma mitizzato Enrico Morini Lo scisma del 1054 tra le due Chiese, greca e latina, è una realtà o un mito? La risposta è molto più complessa di quanto lascia presupporre l’eccessiva sicurezza degli storici nell’affermare o nel negare che il funesto scambio di scomuniche tra i legati papali a Costantinopoli e il patriarca Michele I Cerulario costituisca il momento epocale della separazione definitiva tra le due Chiese. Da un lato infatti l’espressione “scisma del 1054” continua ad imperversare nel sentire più divulgato e persino nella letteratura storica meno specialistica, anche se la storiografia più qualificata ha già da tempo sgombrato il campo da questo equivoco. Aveva già scritto, nel 1941, Martin Jugie: «Anziché parlare di scisma definitivo, sarebbe senza dubbio più esatto dire che siamo in presenza del primo tentativo di riunificazione abortita. È sicuro infatti che la separazione esisteva già da molti anni. Nel 1053-1054 si volle approfittare dell’occasione di trattative di natura politica per provare a ristabilire le relazioni già interrotte»1. Tutto ciò è stato efficacemente ribadito da Evangelos Chrysos, che nel 2003, alla LI settimana di studio del CISAM di Spoleto, ha espressamente intitolato la sua lezione 1054: Schism?2 Già nel 1967 un altro greco, Aristide Papadakis, aveva intrapreso, in un breve contributo, una revisione storiografica dell’evento3 e nel 2007 Jean-Claude Cheynet arriverà a qualificare lo “scisma del 1054” come un non-événement 4. Che questa fatidica data non possa essere considerata quella dello scisma canonico lo attestano del resto le fonti stesse: proprio uno dei protagonisti della vicenda, il patriarca Pietro III di Antiochia, nella sua lettera a papa Leone IX della primavera-estate 1052, così confessa: Vedendo la Chiesa di Cristo non angustiata per un malessere passeggero, ma come colpita da una mortale paralisi, giorno e notte mi tormento l’animo, chiedendomi quali siano le ragioni della divisione tra le Chiese, e perché il grande successore del divino Pietro, il pastore dell’Antica Roma, si sia distaccato e separato dal divino corpo delle Chiese e non partecipi con gli altri presuli ai sacri consigli di esse e non si curi per la sua parte degli affari ecclesiastici, condotto da quelli per mano5. JUGIE (1941: 230). CHRYSOS (2004). 3 PAPADAKIS (1967). 4 CHEYNET (2007). 5 Cfr. PIETRO DI ANTIOCHIA (1930), Epistola ad Leonem IX papam, I, 2, p. 446. La traduzione italiana del passo è tratta da PETRUCCI (1973: 761-762); si veda anche PETRUCCI (2001: 175-176). 1 2 74 Enrico Morini Nella lettera a Michele Cerulario, scritta pertanto dopo lo scontro ad uno dei protagonisti, il medesimo Pietro si riferisce apertamente ad una rottura tra le Chiese già da tempo consumata: Devi temere che, mentre vuoi ricucire lo strappo, tu non finisca per provocare una rottura peggiore, e mentre cerchi di raddrizzare ciò che è caduto, tu non determini una caduta più grave. Considera se non provengano manifestamente da qui, cioè da questa lunga divisione, da questo dissenso e dalla separazione della nostra santa Chiesa da questa grande e apostolica sede, l’abbondare di ogni male nel mondo6. Nel 1054 lo scisma era pertanto già in atto e così il mito è sfatato. Si è anche scritto giustamente che le reciproche sentenze di scomunica colpivano solo un ristretto numero di personaggi – sei per parte, ad essere esatti – e non un’intera componente del corpo ecclesiale. Tuttavia – a parte il fatto che l’anatema, per sua stessa definizione, può riferirsi solo a delle persone e non a delle comunità – si constata come per la prima volta le motivazioni per queste scomuniche riguardano aspetti dottrinali e soprattutto pastorali, veri o presunti, ascritti all’altra Chiesa nella sua globalità. Astraendo pertanto dal dato strettamente canonico, è innegabile che le due Chiese, in quest’occasione, si siano reciprocamente condannate, qualificandosi vicendevolmente come scismatiche. Inoltre se sono vere le notizie, secondo le quali il patriarca Michele avrebbe ordinato la chiusura delle Chiese latine di Costantinopoli, il sakellarios Costantino avrebbe calpestato l’Eucaristia latina – ritenendola invalida in quanto azzima –, ed i legati papali avrebbero proibito ai latini di frequentare le Chiese greche di Costantinopoli, alla rottura canonica si sarebbe aggiunta anche, a questo punto, l’interruzione della comunione sacramentale. I. Lo scisma dei due Sergi Resta allora da chiedersi a quando risalga lo scisma canonico. Anche la notizia che la definitiva separazione tra le due sedi patriarcali si sia verificata, a motivo dell’inserzione della clausola del Filioque nel Credo romano, al tempo dei “due Sergi”, cioè di papa Sergio IV (1009-1012) e del patriarca Sergio II (1001-1019), è piuttosto un’autorevole interpretazione storiografica che non un dato storicamente accertato, già messo in discussione, alla fine dell’ottocento, da Léon Bréhier7. La fonte greca, dalla quale tale notizia è stato desunto, cioè la Panoplia di Eutimio Zigabeno, di un secolo posteriore agli eventi, si limita infatti a dire che sino al tempo del patriarca Sergio i papi avevano sempre inviato a Costantinopoli la lettera “sinodica” di intronizzazione con il Simbolo immutato8, cioè 6 Cfr. PIETRO DI ANTIOCHIA (1861), Epistola ad Michaelem Cerularium, 21, in WILL (1861: 202; trad. it. 1999: 27). 7 Cfr. BRÉHIER (1899: 114). 8 Cfr. EUTIMIO ZIGABENO (1856), Panoplia dogmatica, XIII, in MIGNE (1856-1866: t. 130, 876) = PS.- 1054: due ecclesiologie in controluce dietro uno scisma mitizzato 75 verosimilmente senza l’aggiunta del Filioque. Giovanni di Gerusalemme a sua volta – anch’egli all’inizio del XII secolo – afferma che, per iniziativa del patriarca Sergio, il nome del papa fu cancellato dai dittici costantinopolitani “a causa degli errori dei Romani”9. Che Sergio IV sia stato il primo papa ad interpolare il Simbolo niceno-costantinopolitano è attestato soltanto da fonti più tarde, rispetto all’evento, e resta pertanto solo una legittima deduzione, anche se è assai probabile che proprio l’addizione al Credo sia stato il reale, anche se non espressamente dichiarato, motivo dello scisma. Su queste basi Frantisek Dvorník10, seguito da Donald Nicol11, ha così ricostruito gli avvenimenti: il Sergio di Roma – della famiglia dei Crescenzi, vicino ai riformatori cluniacensi e favorevole all’imperatore germanico Enrico II – avrebbe inviato al Sergio di Costantinopoli – pronipote del grande Fozio –, nella lettera “sinodica”, una professione di fede contenente il Filioque e il patriarca non avrebbe consentito l’inserimento del nome del papa nei dittici della sua Chiesa. La fonte citata da Dvorník, un trattatello sullo scisma tra le due Rome di un Niceta, sincello e χαρτοφύλαξ, data espressamente questo scisma al tempo del Sergio patriarca sotto l’impero di Basilio II il Bulgaroctono (cioè Sergio II)12. Questo Niceta, χαρτοφύλαξ della Grande Chiesa (cioè di Santa Sofia), sarebbe da indentificare, per alcuni studiosi – dal cardinale Hergenröther13, Bernard Leib14 ed Anton Michel15 ad Hans-Georg Beck16 e Margaret Mullett17 –, con il Niceta divenuto nel 1117 metropolita di Nicea ed avrebbe pertanto operato all’inizio del XII secolo, mentre per Jean Darrouzès 18, che lo identifica con Niceta τῆς Κορονίτζας o τῆς Κορονίδος (cioè figlio di Coronitza o di Coronide), sarebbe stato sincello e χαρτοφύλαξ proprio al tempo di Michele Cerulario. Soltanto però in una delle tre recensioni di questo testo censite da Martin Jugie19, lo scisma viene attribuito alla presenza del Filioque nella lettera “sinodica” del papa; nelle altre due – pur confessando di ignorarne la causa precisa – Niceta allude ad FOZIO DI COSTANTINOPOLI (1856), Contra Veteris Romae asseclas libellus, ostendens Spiritum Sanctum ex solo Patre procedere, non vero etiam ex Filio, 12, in MIGNE (1856-1866: t. 102, 391-400, in part. 396A-B). 9 MICHEL (1933: 136, n. 43). 10 DVORNIK (1948: 393-394; trad. it. 1953: 441); si veda anche DVORNIK (1964: 114-115). 11 NICOL (1962: 1-2, 5-6). 12 NICETA CHARTOPHYLAX (1856), Quibus temporibus et quarum criminationum causa a Constantinopolitana Ecclesia sejunxerit se Romanorum Ecclesia, 15, in MIGNE (1856-1866: t. 120, 713-720, in part. 717-718); MAI (1853: 446-448). 13 HERGENRÖTHER (1867: 728-729). 14 LEIB (1924: 17-18, 53). 15 MICHEL (1924-1930: vol. I, 20-23). 16 BECK (1959: 619). 17 MULLET (1997: 185, 326, 356). 18 D ARROUZÈS (1966: 26, n. 5) e D ARROUZÈS (1970: 66, n. 2 e 184, n. 4); si veda anche N ICÉTAS STÉTHATOS (1961: 15-21). Che autore di questo trattato sullo scisma possa essere un ulteriore Niceta, vissuto anch’egli all’inizio del XII secolo, cioè Niceta di Maroneia, divenuto nel 1132/33 metropolita di Tessalonica, viene escluso giustamente (in quanto quest’ultimo Niceta era tutt’altro che ostile ai latini) da STEPHENSON (2003: 75). 19 JUGIE (1936: 240-243). 76 Enrico Morini una contesa “sui troni”, cioè ad una questione ecclesiologica. Ha fatto pertanto assai bene Antonio Sennis – nella voce dedicata a papa Sergio IV nella recente Enciclopedia dei Papi – a metterne prudentemente in dubbio l’attendibilità20. Tale rottura, che sarebbe avvenuta al tempo del patriarca Sergio II – registrata per la prima volta, alla metà del XVII secolo, da Leone Allacci, che presuppone tuttavia un suo rapido riassorbimento21 – sembra tuttavia trovare conferma nella testimonianza diretta fornita dal medesimo Pietro di Antiochia. Questi infatti scrisse al Cerulario che, quarantacinque anni prima, cioè nel 1009, sotto il patriarca Sergio II – quando, arrivato a Costantinopoli dalla Siria, egli era diventato, come diacono, μέγας σχευοφύλαξ a Santa Sofia – il papa di Roma, di nome Giovanni, era ancora commemorato nella capitale22. In base a questa autorevole testimonianza risulta allora che l’ultimo papa ad essere presente nei dittici costantinopolitani sarebbe stato Giovanni XVIII (1003-1009) e pertanto il primo papa a non essere più commemorato a Costantinopoli fu precisamente Sergio IV. Non si potrebbe pertanto escludere che la tradizione relativa allo “scisma dei due Sergi” sia stata originata proprio da questa informazione dovuta al patriarca antiocheno. Comunque è risaputo che proprio con il successore di Sergio IV, Benedetto VIII (1012-1024) – e pertanto ancora sotto il lungo patriarcato di Sergio II –, su impulso dell’imperatore germanico Enrico II, la recita del simbolo di fede, verosimilmente già interpolato, venne inserita nella liturgia eucaristica romana, nonostante l’opposizione del clero locale, che vi vedeva sminuita l’indefettibilità nella fede della Chiesa di Roma. Ce ne informa, nel suo De officio Missae, l’abate Berno di Reichenau, testimone oculare dell’incoronazione romana dell’imperatore germanico, il 14 febbraio 101423. Fu dunque l’inserzione del Filioque a determinare, dal punto di vista prettamente canonico, lo scisma tra le due Chiese24. Non solo infatti la componente della Chiesa costantinopolitana meno condiscendente verso i latini e più intransigente nella difesa della propria ortodossia, esprimerà sempre la convinzione che, nel mare di empietà rimproverate agli occidentali, la dottrina della processione dello Spirito ab utroque sia il “peccato originale” dei latini. Anche l’altra 20 SENNIS (2000b: 129). ALLACCI (1646: 156). 22 Cfr. PIETRO DI ANTIOCHIA (1861), Epistola ad Michaelem Cerularium, 5, in WILL (1861: 192-193). 23 Cfr. BERNO AUGIENSIS (1844), De quibusdam rebus ad Missae officium pertinentibus, II, in MIGNE (1844-1855: t. 142, 1060-1061). 24 Su questa controversia teologica, nella sua dinamica storica e nei suoi aspetti propriamente dottrinali e liturgici, la letteratura è comprensibilmente amplissima: quanto ai più recenti contributi si rimanda a GEMEINHARDT (2002) e SIECIENSKI (2010). Si segnala inoltre il volume GAGLIARDI (2015), all’interno del quale si pongono in evidenza i due contributi storici GROHE (2015) e MORINI (2015). Infine una profonda analisi della problematica teologica è stata compiuta da Carlo Lorenzo Rossetti, docente di Teologia dogmatica all’Istituto di Studi filosofici e teologici di Scutari (Albania), che, nel rilevare il carattere complementare delle due prospettive teologiche, arriva a proporre una formulazione conciliativa di questa dottrina, fondata sul comune riconoscimento dell’assoluta causalità del Padre e della pericoresi comunionale tra le divine persone: cfr. ROSSETTI (2014). 21 1054: due ecclesiologie in controluce dietro uno scisma mitizzato 77 componente del clero greco, quella capace di discernere, nel contenzioso teologico-disciplinare, le differenze sostanziali dalle lecite discrepanze in ambito consuetudinario (i cosiddetti ἀδιάφορα) e disposta a scusare gli occidentali per l’improntitudine teologica della loro lingua, riconosce nella dottrina del Filioque – ed a fortiori nell’unilaterale inserzione di questa formula nel simbolo di fede – il peccato imperdonabile dei latini. È al riguardo estremamente significativo che persino la lettera sdrammatizzante ed irenica di Pietro di Antiochia al collega costantinopolitano denuncia l’addizione al simbolo come «il peggiore dei mali», l’unica posizione latina suscettibile di essere anatemizzata. Il patriarca di Antiochia infatti scrive: È male, il peggiore dei mali, l’aggiunta nel santo Simbolo delle parole ‘e nello Spirito santo, Signore e datore di vita, che procede dal Padre e dal Figlio’. Se gli evangeli nostri e dei latini sono gli stessi, da dove quelli, sapendo qualcosa più di noi, fecero questa aggiunta di provenienza estranea? L’evangelo secondo Giovanni ci istruisce con la massima chiarezza sullo Spirito santo. […] E dal momento che l’evangelista fa queste affermazioni con tale sicurezza, quale uomo dalla fede ortodossa oserà o potrà aggiungere o togliere qualcosa? Quello che la divina Scrittura ha annunciato non deve essere messo ai voti, ma seguito. […] A noi per la piena conoscenza e la conferma della fede cristiana è sufficiente il Simbolo sapiente e salvifico della grazia divina. […] Dichiariamo anatema quelli che aggiungono o tolgono qualcosa. Dice infatti l’apostolo: ‘se qualcuno vi predica un evangelo diverso da quello che avete ricevuto, sia anatema’ (Galati, I, 9)25. Tra l’ultimo decennio dell’XI secolo ed il primo del XII, la medesima opinione verrà espressa da un altro esponente tipico del “partito della condiscendenza” nell’ambito del clero greco, l’arcivescovo Teofilatto di Ochrida. Egli scrive un breve trattato in forma epistolare indirizzato – non sappiamo se realmente o per finzione letteraria – a Nicola, diacono della Grande Chiesa e futuro vescovo di Malesova in Bulgaria (sede suffraganea di Ochrida), conosciuto, nella tradizione letteraria latina, con il titolo di Allocutio de iis quorum Latini incusantur. In esso si legge: In molte cose sembrano errare i latini: offrono azzimi, digiunano di sabato, non calcolano al modo nostro il digiuno prima della Passione e, se da un lato proibiscono le nozze ai consacrati, dall’altro permettono quelle dei laici senza restrizioni né impedimenti e – non ridere – si rasano le guance tutti, anche i preti e i preti poi hanno mani risplendenti a motivo degli anelli d’oro, che portano sulle dita, e […] i loro monaci mangiano carne. […] Tutti, senza eccezione, sbagliano comportandosi in questo modo. […] Da parte mia penso che alcune di queste cose non necessitano di correzione alcuna, altre di una lieve correzione, tale che, se essa ha luogo, la Chiesa ne guadagna un piccolo profitto e, se invece non ha luogo, il fallimento non produce danno alcuno. […] Ma noi per questa ragione stiamo bene attenti a non avanzare critiche e a non inasprire l’orgoglio e il desiderio di contese. […] Il più grande errore dei latini, quello che, per usare un’espressione di 25 Cfr. PIETRO DI ANTIOCHIA (1861), Epistola ad Michaelem Cerularium, 11-12, in WILL (1861: 196198; trad. it. 1999, 22-23). 78 Enrico Morini Salomone, conduce nel profondo degli inferi (Proverbi 9, 18), è quell’innovazione che hanno introdotto nel Simbolo di fede proclamando che lo Spirito procede dal Padre e dal Figlio. […] È necessario il Simbolo del credente sia privo di qualsiasi contraffazione26. Più avanti Teofilatto, entrando nella discussione teologica, precisa che l’errore dei latini consiste nel confondere la relazione d’origine dello Spirito, dalla quale il Figlio è totalmente assente, dalla sua effusione nel mondo, che avviene proprio, sulla base delle testimonianze evangeliche, per mezzo del Figlio: in sostanza essi non distinguono il piano della “teologia” (discorso su Dio in sé) da quello dell’“economia” (discorso su Dio in relazione al mondo). Nonostante tutto questo, non è stata la controversia sul Filioque ad innescare lo scontro del 1054: essa viene introdotta soltanto in un secondo momento, nella disputa pubblica tra il cardinale Umberto ed il monaco studita Niceta Stithatos – cioè “il Coraggioso” – del giugno/luglio 1054, quando il lievitare della polemica tra le due parti aveva comportato la puntuale ripresa, nonché l’enfatizzazione, di tutti i motivi di contrasto tra le due tradizioni. Sorprendentemente, nella bolla di scomunica presentata dal medesimo cardinale – forse più per ignoranza che per spregiudicatezza – la verità viene letteralmente stravolta, in quanto, nella fantasiosa attribuzione ai socii et consortes del patriarca Michele di tutte le eresie antiche, essi – e in questo caso tutta la Chiesa greca – vengono assimilati ai Pneumatomachi, per avere soppresso nel Simbolo la processione dello Spirito Santo ex Filio27. E puntualmente, nel tomo patriarcale e sinodale di scomunica dei legati romani, emesso il 24 luglio dalla Sinodo residente costantinopolitana – su sollecitazione dell’imperatore stesso –, nel turbinio delle molteplici accuse di eterodossia e di eteroprassi rivolte alla Chiesa latina, la denuncia della dottrina della processione dello Spirito Santo ab utroque ricopre una posizione di evidente preminenza28. Essa è pure presente, ma con minore rilievo, anche in questo caso tra inesattezze storiche ed accuse talvolta infondate, nella lettera che il patriarca Michele inviò, in seguito a questi eventi, a Pietro di Antiochia29. II. La questione degli azzimi Ciò che aveva innescato lo scontro era stata invece la disputa sugli azzimi, una controversia autenticamente emblematica dell’infausta dinamica che ha determinato lo scisma tra le due Chiese: esse si stavano duramente confrontando sulle 26 Cfr. TEOFILATTO DI OCHRIDA, Allocutio de iis in quibus Latini incusantur, 2-3, in GAUTIER (1980: 245-285; trad. it. 1998: 20-21); già in WILL (1861: 230-232). 27 Cfr. MICHELE CERULARIO (1861), Excommunicatio qua feriuntur Michael Caerularius atque ejus sectatores, in WILL (1861: 153). 28 Cfr. MICHELE CERULARIO (1861), Edictum synodale, in WILL (1861: 159-160); già in MANSI (1757: t. XIX, 816B-D). 29 Cfr. M ICHELE C ERULARIO (1861), Epistola I ad Petrum patriarcham Antiochenum, 12, in W ILL (1861: 181). 1054: due ecclesiologie in controluce dietro uno scisma mitizzato 79 loro diverse tradizioni in merito al pane eucaristico, che doveva essere azzimo per i latini ed invece lievitato per i greci, sulla base non solo di una diversa lettura delle testimonianze evangeliche, ma anche di divergenti codici simbolici. Lo scisma fu infatti un fenomeno verificatosi progressivamente, in un lento ma inesorabile processo, del quale le gerarchie, e soprattutto i fedeli, delle due Chiese non si resero pienamente conto che a fatto compiuto: piuttosto che dire che le due Chiese si separarono, è più esatto dire che si sono trovate separate. È impossibile pertanto riconoscere in uno dei diversi motivi di dissenso dottrinale o di divergenza disciplinare, che di volta in volta vennero affiorando nei rapporti interecclesiali, la causa della separazione: essa è stata determinata piuttosto da quella crescente reciproca estraneità, a causa della quale le due Chiese non si parlavano più, non si capivano più e, per colpa di questo isolamento, ognuna delle due riteneva la propria diversa tradizione, teologica e disciplinare, l’unica lecita – e pertanto assolutamente normativa – per vivere rettamente la fede cristiana. Infatti, nella pressoché totale assenza di prospettiva storica, la validità della propria tradizione liturgico-disciplinare non aveva solo una dimensione spaziale – nel presupposto di una sua necessaria diffusione universale –, ma si estendeva anche alla dimensione temporale, nella presunzione che essa rappresentasse la pratica originaria dell’antichità cristiana. In altri termini, entrambe avevano dimenticato l’autorevole raccomandazione, formulata al concilio d’unione di S. Sofia dell’879-880, che aveva additato il rispetto delle reciproche tradizioni come condizione essenziale per preservare l’unità della Chiesa: Ciascuna sede ha avuto delle antiche consuetudini a lei conferite e non bisogna in merito ad esse intraprendere contese e discussioni30. Il tema degli azzimi era diventato di stringente attualità verso la metà dell’XI secolo, per motivi inizialmente estranei al rapporto tra greci e latini. I greci iniziarono infatti la loro campagna pubblicistica contro gli azzimi in funzione antiarmena, come misero in luce, per la prima volta George Every, nel 194731, e Steven Runciman, nel 195332. La conquista, da parte dell’impero, del Vaspurakan nel 1022 e soprattutto l’annessione, nel 1045, del regno armeno di Ani aveva indotto la Chiesa greca a reprimere l’uso eucaristico degli azzimi – che la Chiesa armena condivideva con quella latina – presso comunità cristiane che, una volta divenute suddite dell’impero, avrebbero dovuto uniformarsi alla pratica liturgica della Chiesa imperiale cristiano-ortodossa. Oltre ad essere considerata un’inammissibile pratica giudaica, superata nell’economia neo-testamentaria, l’assenza del lievito nel pane eucaristico – come ha sottolineato il teologo ortodosso americano John Erickson – veniva simbolicamente interpretata dai greci come 30 Cfr. Concilium Constantinopolitanum in templo Dei Verbi Sapientiae celebratum (879-880), Actio IV, in MANSI (1757: t. XVII, 489-490). 31 EVERY (1947). 32 RUNCIMAN (1955). 80 Enrico Morini l’espressione di una negazione della presenza nel Cristo di un’anima umana creata, con l’accusa di un rinnovato “apollinarismo”, facilmente imputabile del resto a dei cristiani, come gli armeni, i quali, rifiutando il concilio di Calcedonia, erano indiziati di monofisismo. La deferente accoglienza del katholikos armeno di Ani, Pietro I Getadarj, a Costantinopoli nel 1049 era chiaramente finalizzata a convincere il primate di quella Chiesa ad omologarsi all’uso greco, ma sembra proprio non avere avuto successo. Ecco allora il ricorso alla polemica, che coinvolse inevitabilmente anche i latini, il cui contestuale uso degli azzimi offriva di fatto agli armeni un argomento di peso nella difesa delle proprie consuetudini. È significativo che il già citato monaco Niceta abbia composto ben cinque trattati contro gli armeni (dei quali uno solo edito, nel 1869, dal cardinale Joseph Hergenröther, come se fosse stato scritto contro i latini)33. Dall’altra parte i latini avevano, in questo momento, il nervo scoperto per le tematiche eucaristiche, dato che, come ha rilevato nel 2007 Brett Whalen34, proprio sotto il pontificato di Leone IX – l’alsaziano Bruno, già vescovo di Toul in Lorena, quarto papa tedesco in successione – ha avuto inizio, in Occidente, la controversia eucaristica con Berengario di Tours, che negava la presenza reale del Cristo Dio nel pane eucaristico e fu oggetto di ben sei censure ecclesiastiche tra il 1050 ed il 1059 (a Roma e a Vercelli nel 1050, a Parigi nel 1051, a Tours nel 1054, a Firenze nel 1055 e di nuovo a Roma nel 1059). Come fa giustamente notare Mahlon Smith, le eterodossie eucaristiche occidentali riguardavano le diverse interpretazioni dottrinali di uno stesso rito, mentre la controversia sugli azzimi implicava una difformità materiale nella celebrazione di un rito al quale veniva, da entrambe le parti, attribuita la medesima valenza dottrinale35. La contestazione, da parte greca, dell’uso del pane azzimo nell’eucaristia, si mosse – e si muove tuttora – su molteplici piani paralleli, che compaiono già nella polemica anti-azimita di Pietro di Antiochia con il patriarca Domenico di Grado - Nuova Aquileia (residente a Venezia)36. Si tratta infatti di una contesa che, come ha efficacemente ricordato Mahlon Smith, sarebbe grottesco ridurre ad una lite di cucina sulla corretta ricetta per il pane eucaristico e che coinvolge invece quasi tutti gli ambiti della riflessione teologica37. Il primo è quello scritturistico, dove la polemica si sviluppa a partire da due argomentazioni, una sul piano filologico e l’altra sul piano storico. Sul piano filologico si afferma che i tre racconti evangelici della mistica cena (Matteo, XXVI, 26; Marco, XIV, 22; Luca, XXII, 19) e la parallela testimonianza paolina (1 Corinti, XI, 23) usano sempre 33 Cfr. NICETA STETHATOS (1869). Κατὰ Ἀρμενίων [καὶ Λατίνων] περὶ Ἔνζυμων καὶ Ἄζυμων, in HERGENRÖTHER (1869: 139-154). 34 WHALEN (2007). 35 SMITH III (1978: 31). 36 Su questo presule veneto e sulla sua corrispondenza con Pietro di Antiochia si rimanda a BIANCHI (1966), dove, alle pp. 99-102, è edito il testo greco della lettera di Domenico a Pietro, che comportò poi la risposta di Pietro (cfr. infra, n. 38). 37 SMITH III (1978: 170). 1054: due ecclesiologie in controluce dietro uno scisma mitizzato 81 per definire il pane eucaristico solo il termine ἄρτος, che significa semplicemente pane, mentre nella Scrittura – sia nella versione veterotestamentaria dei Settanta, sia nel Nuovo Testamento – il pane azzimo viene sempre indicato semplicemente come τὰ ἄζυμα o con la specificazione ὁ ἄζυμος ἄρτος. Inoltre, nel pieno della polemica, si volle anche fornire al termine ἄρτος un’etimologia errata, ma funzionale ad affermare la sua vincolante connotazione di pane lievitato, facendolo derivare dal verbo αἴρω, cioè “sollevo”, per indicare l’azione di sollevamento della pasta prodotta dal lievito. Il Cristo dunque avrebbe usato, nella mistica cena, secondo la testimonianza evangelica confermata dall’apostolo Paolo, del pane lievitato38. Sul piano storico, poi, di fronte alla doppia cronologia offerta dai vangeli, in virtù della quale secondo i sinottici la mistica cena sarebbe stata la celebrazione della cena pasquale da parte del Cristo e dei suoi discepoli, mentre secondo Giovanni la Pasqua in quell’anno si doveva mangiare la sera del Venerdì santo, cioè dopo la morte del Signore, i polemisti greci si schierano per la cronologia giovannea. In tal modo, non essendo la mistica cena il pasto pasquale, essi spiegano come mai si sia usato, in quell’occasione – normativa per l’eucaristia cristiana – l’ἄρτος, cioè il pane lievitato, come scrivono i vangeli, e non gli ἄζυμα, come prevede il rituale ebraico39. Un’ulteriore argomentazione – alla quale ha dedicato un pregevole studio l’ortodosso americano John Erickson40 – è di matrice propriamente teologica, di una teologia però che si esprime mediante codici simbolici. In base a questi ultimi, il lievito nel pane eucaristico viene ad indicare la presenza nel Dio incarnato – del quale il pane eucaristico è la presenza reale – di un’anima umana creata, insieme ad un corpo, in tutto consustanziale al nostro, ed alla persona divina del Logos. Solo l’integrità della natura umana, anima e corpo, assunta dalla natura divina, garantisce la realtà dell’incarnazione, senza la quale non possono esserci né salvezza né divinizzazione dell’uomo. L’assenza del lievito nel pane eucaristico dei latini e degli armeni sarebbe pertanto il riflesso di una loro grave eterodossia cristologica – con gravissime ricadute sul piano soteriologico –, in virtù del principio che le consuetudini liturgiche riflettono sempre i contenuti della fede: la lex orandi non può non esprimere la lex credendi. L’uso degli azzimi nell’eucaristia rivela pertanto, in chi lo pratica, una cristologia quanto meno mutila, imperfetta, facilmente imputabile del resto a dei cristiani, come gli armeni, i quali, rifiutando il concilio di Calcedonia, erano indiziati di monofisismo. È stato fondatamente ipotizzato che questa lettura teologica attribuita alla presenza del lievito nel pane eucaristico fosse già stata elaborata dai greci, in funzione antimonofisita, al tempo delle controversie cristologiche e che i medesimi ambienti ortodossi presupponessero che a quel tempo, in virtù della comune osservanza 38 Cfr. P IETRO DI A NTIOCHIA (1861), Epistola ad Dominicum Gradensem, 13-14, in W ILL (1861: 218-219). 39 Ibid., 13-22, in WILL (1861: 218-225). 40 ERICKSON (1979). 82 Enrico Morini calcedoniana, essa fosse condivisa anche in occidente41. Adesso invece i latini, proprio in virtù del loro essere azimiti, erano indiziati di un’altra eresia cristologica, l’apollinarismo42. Essi si rivelavano infatti come dei tardivi seguaci di quell’Apollinare di Laodicea – polemista antiariano, vescovo di questa città siriaca nel IV secolo, ma di estrazione culturale alessandrina – che aveva sostenuto, ossessionato dall’esigenza di salvare l’impeccabilità del Cristo, che in quest’ultimo il Logos divino si era unito solamente ad un corpo umano, sostituendovi direttamente – come il tutto tiene luogo della parte – l’anima umana creata. La menzione esplicita di un’implicita condivisione di questa antica eresia cristologica da parte dei latini, per l’assenza del lievito nella loro eucaristia, verrà poi ampiamente ripresa, assai più tardi, nella letteratura polemica russa antilatina e nei leggendari racconti di legittimazione della sovranità universale degli zar moscoviti – e in primo luogo nella trattatistica in forma epistolare dello starec Filofej di Pskov, l’ideologo, nel XVI secolo, della Russia Terza Roma –, nei quali si legge che l’ortodossia abbandonò la prima Roma per trasferirsi nella seconda, Costantinopoli, a causa dalla sua caduta nell’eresia apollinarista43. Per restare nell’ambito della simbologia, il lievito nel pane eucaristico ha altresì la funzione di comunicare che il corpo di Cristo è vivo e vitale, mentre il pane senza lievito, secco al punto da non poterlo spezzare senza sbriciolarlo, non comunica questa immagine di vita44. Si tratta della medesima sensibilità per cui, nella liturgia ortodossa, subito prima della comunione ai divini misteri viene mescolata al vino consacrato dell’acqua bollente (lo zéon), perché esso assuma il calore del sangue di un vivente e non rimanga freddo come quello di un morto. Analogamente il lievito immette calore nella materia inerte e pertanto la sua assenza esprime la realtà di un corpo privo di vita (ἄψυχος, che vuol dire anche “senz’anima”, alludendo anche all’anima umana creata del Cristo). Un’eucaristia celebrata con gli azzimi, anche perché equivale al sacrificio di un corpo senza un’anima razionale, implica l’offerta di un morto, anziché di un vivente. Da parte latina invece il lievito è sentito come un fermento che corrompe, che fa gonfiare la materia eucaristica come se si stesse guastando, in sintonia con l’espressione paolina relativa “agli azzimi di sincerità e verità” ed al lievito come un fermento “di malizia e di perversità” (1Corinti 5, 6-8). Si tratta precisamente dell’appunto che Cerulario, nella già citata lettera a Pietro di Antiochia, muove ai latini, di intendere cioè, nel detto dell’apostolo: “un po’ di lievito fa fermentare tutta la pasta”, il verbo “fermentare” (ζυμόω) nel senso di “corrompere” (φθείρω)45. Infine la purità legale del pane eucaristico era sentita, in ambito latino, come ideale per richiamare ai fedeli la continua esigenza di purificazione e di penitenza. 41 SMITH III (1978: 156). Cfr. PIETRO DI ANTIOCHIA (1861), Epistola ad Dominicum Gradensem, 23, in WILL (1861: 225-226). 43 MANISCALCO BASILE (1983: 116-127). 44 Cfr. PIETRO DI ANTIOCHIA (1861), Epistola ad Dominicum Gradensem, 9-10, in WILL (1861: 215-217). 45 Cfr. M ICHELE C ERULARIO (1861), Epistola I ad Petrum patriarcham Antiochenum, 13, in W ILL (1861: 128). 42 1054: due ecclesiologie in controluce dietro uno scisma mitizzato 83 Sul piano culturale infine l’uso del pane azzimo nell’eucaristia è per i greci il preoccupante sintomo di una mentalità ancora giudaizzante, incapace di staccarsi dalle prescrizioni vincolanti dell’antica legge e di immergersi invece nell’atmosfera liberante della nuova economia della grazia46. Pertanto, è facilmente individuabile, a monte della controversia, un diverso approccio al problema dei rapporti tra i due Testamenti e, più in generale, della Chiesa cristiana con la tradizione giudaica. Per i greci, stante il fatto che la Nuova Alleanza è una creazione totalmente nuova, non c’è più spazio in essa per le prescrizioni rituali dell’Alleanza Antica. Anzi la presenza del lievito nel pane eucaristico è sentita come esemplarmente espressiva della dinamica di sostituzione del nuovo e perfetto sacrificio agli inefficaci sacrifici dell’antica legge. Inoltre l’uso degli azzimi nell’eucaristia contravveniva, per questi polemisti greci, a specifiche prescrizioni della normativa canonica greca. Infatti il settantesimo degli ottantacinque Canoni degli Apostoli – databili intorno al 400 – proibisce ai chierici, pena la deposizione, di digiunare nelle feste dei giudei e di cibarsi dei loro “indegni” alimenti, menzionando esplicitamente gli azzimi47. Tale interdizione viene ribadita dall’undicesimo dei centodue canoni del concilio Trullano II del 691/69248 – in parallelo al divieto di farsi curare da un medico ebreo e di frequentare insieme ai giudei il bagno pubblico – estendendo la proibizione anche ai laici, pena la scomunica49. È significativo che i cosiddetti Canoni degli Apostoli siano ignorati dalle collezioni canoniche latine e che i canoni promulgati dal secondo concilio in Trullo non ottennero mai la ratifica della sede romana, come non mancherà di rilevare il cardinale Umberto di Silva Candida proprio nel contesto della controversia sugli azzimi50. La Chiesa latina si qualifica pertanto, agli occhi dei greci, come affetta da ingiustificabili legami con il giudaismo: non solo come una Chiesa cristologicamente apollinarista, ma anche più genericamente ebionita, cioè, in altri termini giudeo-cristiana. Per tutte queste ragioni, anche l’irenico Pietro di Antiochia rifiutava la proposta, formulata dal patriarca Domenico di Grado, che si considerassero valide e lecite, in quanto entrambe fondate sulle rispettive tradizioni, le consacrazioni eucaristiche sia del pane azzimo sia di quello lievitato51. Su questa linea intransi46 e 217). Cfr. PIETRO DI ANTIOCHIA (1861), Epistola ad Dominicum Gradensem, 8 e 11, in WILL (1861: 214 47 Cfr. Canones Apostolorum, LXX: De iis qui cum Iudaeis ipsorum dies festos agit, in JOANNOU (1962: t. I/2, 43-44). 48 Questo concilio viene così chiamato perché riunito nella sala a cupola (in greco τρούλλος) del palazzo imperiale ed è detto anche “pentecto”, cioè “quinisesto”, in quanto era stato convocato dall’imperatore Giustiniano II per colmare il vuoto legislativo lasciato dai due precedenti concili costantinopolitani, il quinto, del 553, ed il sesto, del 680-681. 49 Cfr. Concilium Trullanum II (691/692), Canones, XI: Cum Iudaeis conversandum vel colloquendum non est vel ab iis medicinae accipiendae non sunt, in NEDUNGATT-FEATHERSTONE (1995: 81-82), e in NEDUNGATT-AGRESTINI (2006: 237), e JOANNOU (1962: t. I/1, 137-138). 50 Cfr. UMBERTO DI SILVA CANDIDA (1861), Responsio sive contradictio (Adversus Nicetae libellum), 7, in WILL (1861: 141, 143). 51 Cfr. DOMENICO DI GRADO (1861), Epistola ad Petrum patriarcham Antiochenum, 3, in WILL (1861: 207); solo testo greco in BIANCHI (1966: 101). Fu una proposta alla quale il patriarca di Antiochia obiet- 84 Enrico Morini gente, rilevando che il patriarca Fozio non enumera l’uso degli azzimi tra le consuetudini erronee che egli imputa ai latini, san Nicodemo l’Aghiorita – tra la fine del XVIII e l’inizio del XIX secolo – afferma, senza un chiaro fondamento storico, che si trattò di una innovazione (καινοτομία) posteriore persino al IX secolo e la ritiene introdotta a Roma nell’XI, attribuendola proprio a Leone IX, non a caso il papa del 1054. Del resto, già nel corso di una polemica sviluppatasi tra i liturgisti cattolici nella seconda metà del XVIII secolo, il dotto gesuita Jacques Sirmond, nel 1651, e poi il cardinale cistercense Giovanni Bona, nel 1670 (attaccato per questo dal francescano portoghese Francesco Macedo), sostennero che anche la Chiesa latina, in origine, usava il pane lievitato nell’Eucaristia52. III. La demitizzazione dell’evento Questo confronto su una materia in quel momento così delicata per entrambi gli interlocutori – in oriente per l’incontro con gli armeni e in occidente per l’insorgere delle eresie eucaristiche medioevali – fa da sfondo allo scontro del 1054. Sarebbe tuttavia estremamente riduttivo, ed anzi decisamente fuorviante, leggerlo unicamente in questa prospettiva, anche perché a suo riguardo si sono sedimentati equivoci ed approcci tendenziosi, alcuni dei quali abbiamo già cercato di sfatare, mentre per altri ci accingiamo a farlo, con questa premessa. Com’è risultato esemplarmente evidente nel caso parallelo del cosiddetto “scisma di Fozio”, una tenace animosità tra le due Chiese ha purtroppo inquinato non solo il giudizio degli studiosi sulle responsabilità degli episodi scismatici, ma anche la stessa ricostruzione storica degli eventi. Si potrebbe persino dire che quella gamma di sentimenti, che vanno dall’indisponibilità a capirsi all’antagonismo ingiustificato ed autoreferenziale, che a suo tempo ha acceso ed alimentato lo scontro, persista nel tempo nel lavoro degli storici e dei teologi delle due parti, continuando a dividere, anche su questo punto, le due Chiese. Provvidenzialmente, come gli studi di Frantisek Dvorník hanno ristabilito la verità storica in merito alle responsabilità ed all’esito finale della controversia foziana53, così dobbiamo all’analisi dell’episodio del 1054 compiuta da Enzo Petrucci nel 197354 una fondamentale deideologizzazione dell’evento rispetto a tutta la storiografia precedente, in riferimento soprattutto agli studi, peraltro assai ben documentati, di Anton Michel55, sostituiti poi, come punto di riferimento storiografico, dalla monografia di Axel terà, facendo eco al testo paolino (Galati, 5, 2): «Se mangerete gli azzimi, Cristo non vi gioverà nulla». Cfr. PIETRO DI ANTIOCHIA (1861), Epistola ad Dominicum Gradensem, 11, in WILL (1861: 217,24-25). 52 Cfr. NEALE (1850: vol. I/2, 1056). 53 DVORNIK (1942); DVORNIK (1948; trad. it. 1953); DVORNIK (1960). 54 PETRUCCI (1973). Non è mai comparsa una seconda parte di questo studio, ma questo lungo e fondamentale saggio è stato ripubblicato, con il semplice titolo Rapporti di Leone IX con Costantinopoli, in PETRUCCI (2001), alle pp. 141-259. 55 MICHEL (1924-1930). 1054: due ecclesiologie in controluce dietro uno scisma mitizzato 85 Bayer del 200456. Lo storico romano ha infatti parlato, a proposito della ricostruzione e dell’interpretazione dei fatti del 1054, di un «fotomontaggio storico»57, effettuato sulla base di deduzioni aprioristiche. Ad analoghe conclusioni è pervenuto indipendentemente – dato che non prende il considerazione lo studio di Petrucci, uscito cinque anni prima – Mahlon Smith, nella sua monografia del 197858, espressamente dedicata alla controversia sugli azzimi. Pertanto, com’è stata necessaria una smitizzazione del reciproco scambio di scomuniche del 1054 inteso come inizio ufficiale dello scisma tra le due Chiese, così era necessario sfatare altri miti storiografici, creati purtroppo dal pregiudizio confessionale. Il primo di questi miti riguarda la personalità del patriarca Michele, insistentemente indicato come il principale responsabile dello scontro, a causa di una sua furibonda animosità antilatina, che lo avrebbe indotto a programmare e porre in atto un attacco frontale contro il papato, accendendo la controversia sugli azzimi, per il tramite di un meno impegnativo prestanome, l’arcivescovo greco-bulgaro Leone di Ochrida. Non solo uno storico benemerito – ma inevitabilmente datato – come lo Jugie afferma che il patriarca intendeva caparbiamente impedire una ripresa delle relazioni tra le due Chiese, ma persino uno storico ed ecclesiologo del livello di Yves-Marie Congar attribuisce a Cerulario «una volontà di rottura ben radicata»59. Martin Jugie, nell’accusare il patriarca di avere freddamente calcolato il modo di sabotare la politica di riconciliazione con Roma avviata dall’imperatore Costantino IX, si esprime addirittura in questi termini: Davanti all’imparzialità della storia […] egli appare non come uno scismatico di fresca data che scuote bruscamente l’autorità del pontefice romano, ma come il capo di una chiesa dissidente, da lungo tempo autonoma, al quale ripugna la riunificazione e che tutto mette in opera per impedirla60. Non abbiamo invece motivi plausibili per ritenere – come ancora una volta fa Congar – che i toni concilianti della perduta lettera del patriarca al papa fossero una mossa tattica per coprire il suo effettivo disegno di rompere definitivamente con Roma e non si vede perché negare credito all’affermazione dello stesso Cerulario – nella sua lettera a Pietro di Antiochia – che egli aveva scritto a Leone IX «in tutta umiltà»61. Tanto più che lo stesso Pietro, presa visione della lettera del patriarca al papa, testimonia che essa era stata scritta «con molta umiltà e mitezza»62. Abbiamo al contrario tutte le ragioni per credere che questa lettera – purtroppo non pervenutaci – fosse una vera e propria iniziativa “unionistica” del patriarca 56 BAYER (2004). PETRUCCI (1973: 748); PETRUCCI (2001: 159). 58 Si veda supra, n. 35. 59 CONGAR (1954: vol. II, 76-79). 60 Cfr. JUGIE (1941: 230-231). 61 Cfr. MICHELE CERULARIO (1861), Epistola I ad Petrum patriarcham Antiochenum, 3, in WILL (1861: 174,18). 62 Cfr. PIETRO DI ANTIOCHIA (1861), Epistola ad Michaelem Cerularium, 23, in WILL (1861: 203-204). 57 86 Enrico Morini nella prospettiva, allora inaspettatamente apertasi, di un’alleanza politico-militare tra l’impero ed il papato per contrastare l’espansionismo normanno in Italia. A tal fine il superamento dello scisma canonico, già sommessamente in atto tra le sedi patriarcali delle due Rome, ne costituiva una premessa indispensabile. Dalla risposta papale possiamo ricostruire quello che doveva essere il punto qualificante dell’iniziativa costantinopolitana per superare questo scisma, che sembrava persino prescindere da un confronto e da un chiarimento in merito alle manifeste differenze già vigenti, sul piano disciplinare e su quello teologico, tra greci e latini. Si trattava della proposta di reinserire reciprocamente, nei dittici delle due Chiese63, la commemorazione liturgica dei rispettivi primati64. La menzione, durante le ufficiature liturgiche, da parte di ciascuno dei titolari delle cinque sedi patriarcali, dei nomi dei pastori, che presiedono alla altre quattro, intende esprimere una virtuale concelebrazione tra i primi vescovi della cristianità e rappresenta pertanto l’epifania liturgico-sacramentale dell’unanimità nella fede e della piena comunione ecclesiale. Insieme alle lettere sinodiche65 ed “antisinodiche”66, la menzione nei dittici è il segno massimamente visibile di una piena comunione ecclesiale. Il coraggio di questa proposta di Cerulario si misura dal fatto che egli erroneamente riteneva – come si desume dalla sua lettera a Pietro di Antiochia – che la rottura di questa comunione con Roma, espressa proprio con l’effrazione del nome del papa dai dittici, risalisse addirittura alla metà del VI secolo, in seguito al preteso rifiuto di Vigilio di Roma – in realtà subito rientrato, ma comunque assai sofferto – di condannare, al concilio di Costantinopoli del 553, l’eterodossia cristologica dei cosiddetti Tre Capitoli67. Pietro68 63 I dittici erano originariamente le tavolette a due valve, poste sull’altare, sulle quali erano scritti i nomi dei titolari, vivi e defunti, della propria e delle altre sedi patriarcali, per la loro commemorazione liturgica. Per estensione, con il termine dittici (δύπτικα) si definisce, nella Chiesa ortodossa, la procedura mediante la quale ogni patriarca o primate di Chiesa autocefala commemora, al Grande Ingresso nella divina Liturgia, tutti i primati delle altre Chiese patriarcali e autocefale, secondo un ordine di precedenza canonicamente stabilito. 64 Cfr. L EONE IX (1861), Epistola ad Michaelem Constantinopolitanum archiepiscopum, in W ILL (1861: 91): «Scripsisti siquidem nobis, quoniam si una ecclesia Romana per nos haberet nomen tuum, omnes ecclesiae in toto orbe terrarum haberent per te nomen nostrum». 65 Erano dette “sinodiche” le lettere inviate contestualmente dall’organismo collegiale, che aveva eletto il nuovo patriarca, per comunicarne l’elezione ai titolari delle altre sedi primaziali e dal neoeletto – che vi univa la propria professione di fede – al momento della sua intronizzazione (e perciò erano dette anche lettere intronistiche o sistatiche). 66 Così erano denominate le risposte dei destinatari, i quali, verificata nella professione di fede l’ortodossia del neoeletto, lo accoglievano nella piena comunione gerarchica e sacramentale. 67 Cfr. MICHELE CERULARIO (1861), Epistola I ad Petrum patriarcham Antiochenum, 9, in WILL (1861: 178-179). Il patriarca costantinopolitano colloca erroneamente la condanna di papa Vigilio per il suo rifiuto di anatematizzare I Tre Capitoli al sesto concilio ecumenico (il costantinopolitano III del 680-681), mentre essa avvenuta al quinto concilio ecumenico Il costantinopolitano II del 553). Pietro di Antiochia attribuisce benevolmente questa svista al χαρτοφύλαξ della Grande Chiesa. Cfr. PIETRO DI ANTIOCHIA (1861), Epistola ad Michaelem Cerularium, 3, in WILL (1861: 191). 68 Su questo patriarca di Antiochia si rimanda a GRUMEL (1935); ma si vedano anche GRUMEL (1934: 139-141); MICHEL (1938); VOLK (1963: 334); HETTINGER (2002); MARTIN-HISARD (2007). 1054: due ecclesiologie in controluce dietro uno scisma mitizzato 87 invece, al momento della sua accessione al trono antiocheno, aveva inviato la lettera sinodica al papa di Roma, come egli stesso scrive al patriarca Domenico di Grado69 e come sappiamo dalla tardiva risposta – dopo due anni – di Leone IX, che accolse in comunione il patriarca di Antiochia70. Il valore primario, in relazione alla comunione ecclesiale, annesso, anche da parte romana al procedimento della commemorazione liturgica ci è testimoniato dall’iniziativa “unionistica”, questa volta di papa Urbano II, il quale, trentacinque anni dopo il 1054, tra l’estate ed il settembre 1089, scrisse a Costantinopoli, forse sia all’imperatore Alessio I Comneno sia al patriarca Nicola III il Grammatico, chiedendo il reinserimento del proprio nome nei dittici costantinopolitani. Questa iniziativa papale, per noi stupefacente, trova una plausibile spiegazione alla luce dell’atmosfera che avrebbe portato, nel decennio successivo, all’appello per la prima crociata (al concilio di Clermont-Ferrand nel 1095) ed al secondo concilio di Bari (1098), che avrebbe dovuto dirimere le controversie liturgiche e disciplinari tra latini e greci. La risposta della “sinodo residente” costantinopolitana condizionò questo reinserimento all’invio, da parte del papa, della regolare lettera sistatica, onde poterne verificare l’ortodossia (forse anche per controllare che il simbolo di fede non contenesse l’addizione del Filioque). La lettera del patriarca, che comunicava al papa la decisione sinodale – portata in Italia dai due maggiori esponenti della gerarchia greca di Calabria, il metropolita Basilio di Reggio e l’arcivescovo Romano di Rossano –, proponeva, una volta ricevuta ed approvata la sistatica papale, l’immediato reinserimento del nome di Urbano nei dittici, rimandando a colloqui da tenersi tra le due parti entro diciotto mesi la soluzione delle questioni disciplinari ancora in sospeso71. La proposta di Cerulario presupponeva pertanto una concezione ecclesiologica già ampiamente documentata a Costantinopoli: il reinserimento della menzione del vescovo costantinopolitano nei dittici della Chiesa romana veniva posto in correlazione con quello del nome del papa nei dittici delle altre quattro sedi patriarcali dell’oriente cristiano. L’espressione latina «in toto orbe terrarum», attestata dalla risposta papale, è verosimilmente un calco di quella greca «ἐν πάσῃ τῇ οἰκουμένῃ», sicuramente presente nella lettera del patriarca, e il suo valore semantico copre, secondo i parametri ideologici romano-orientali, tutto il territorio dell’impero – che rivendicava, almeno formalmente, una sovranità universale – e le Chiese di fatto al di fuori del suo effettivo controllo, come i tre patriarcati orientali. Ed esattamente trent’anni prima del 1054, cioè nel 1024, il patriarca di Costantinopoli Eustazio, unitamente agli imperatori Basilio II e Costantino VIII, aveva chiesto al papa Giovanni XIX di riconoscere al patriarca della Nuova Roma la qualifica di «universalem in suo orbe», com’egli avrebbe riconosciuto al papa il medesimo titolo «in universo». Di questa iniziativa – che 69 70 71 Cfr. PIETRO DI ANTIOCHIA (1861), Epistola ad Dominicum Gradensem, 26, in WILL (1861: 226-228). Cfr. LEONE IX (1861), Epistola ad Petrum episcopum Antiochenum, in WILL (1861: 168-171). HOLTZMANN (1928). 88 Enrico Morini noi potremmo anche interpretare come il primo tentativo di ricucire il fantomatico «scisma dei due Sergi», condotto però non sulla tematica dottrinale del Filioque, che pur l’aveva determinato, ma su base strettamente ecclesiologica – ci parlano, in tono scandalizzato i due cronisti Rodolfo il Glabro72 e Ugo di Flavigny73, che riportano il punto di vista dei “riformatori” occidentali – rappresentati in quest’occasione da Guglielmo di Volpiano, abate di S. Benigno a Digione ed acutamente definiti da Mahlon Smith come “precursori intellettuali” di Umberto di Silva Candida74 –, la reazione dei quali fece fallire il progetto unionistico. Scrive Rodolfo il Glabro: Intorno all’anno 1024 del Signore, il patriarca di Costantinopoli col suo sovrano Basilio e altri greci stabilirono che fosse lecito alla Chiesa costantinopolitana, col consenso del pontefice di Roma, qualificarsi e farsi valere come universale nella propria sfera, così come Roma lo era nel mondo intero. Immediatamente mandarono a Roma una legazione con numerosi e svariati donativi per il papa e per chiunque si fosse rivelato favorevole al loro partito. Gli inviati si incontrarono col pontefice e gli esposero la richiesta che aveva motivato quel viaggio. […] E, sebbene in certi momenti l’amore del denaro possa dirsi il sovrano del mondo, a Roma questo vizio implacabile ha messo radici. Ben presto, quando si videro sfilare dinanzi le abbaglianti ricchezze dei greci, i romani piegarono il proprio animo alle tortuosità dell’inganno, cercando un modo per poter eventualmente accordare, senza dare nell’occhio, quel che si richiedeva loro; ma inutilmente. […] Mentre ancora quei faccendieri pensavano di avere concluso gli accordi senza clamori, entro quattro mura, la voce corse in un lampo per l’Italia intera. È impossibile descrivere lo scandalo, la violenta ribellione di tutti coloro che ne ebbero notizia. Un uomo di grande saggezza, il già nominato abate Guglielmo, inviò al pontefice romano una lettera breve, ma importante per il contenuto e sferzante nella forma, che diceva così: “A papa Giovanni, titolare della sede che, per grazia di Dio e per la venerazione dovuta a san Pietro principe degli apostoli, è la più alta di tutta la terra, Guglielmo, servo della croce di Cristo, augura di assidersi tra gli apostoli il giorno del giudizio e di cingere la corona del regno. […] Ora corre voce di un fatto, recentemente accaduto presso di voi, che deve costituire motivo di scandalo per chiunque non voglia essere le mille miglia distante dall’amore divino. Giacché, sebbene il potere dell’impero romano, che un tempo regnava da solo su tutta la terra, venga oggi esercitato da moltissimi sovrani sparsi per vari territori, l’autorità di legare e sciogliere in terra e in cielo spetta per concessione inviolabile alla cattedra di Pietro. Abbiamo detto tutto ciò per farvi comprendere come queste richieste, avanzate dai greci, di cui abbiamo avuto notizia, siano frutto di pura vanagloria. E in generale auspichiamo che voi, come si conviene a un’autorità universale, usiate maggior rigore nel correggere e nel disciplinare la vita della santa Chiesa apostolica e godiate in Cristo di eterna felicità”. […] Alla fine gli inviati di Costantinopoli se ne tornarono a casa; e quella loro esagerata pretesa, da tutti respinta, fu messa a tacere75. 72 Cfr. RODOLFO IL GLABRO (1989), Historiarum Libri, IV, 2-3, pp. 66-67; trad. it. 1989: 196-202. Cfr. UGO DI FLAVIGNY, Chronicon, II, p. 392. 74 SMITH III (1978: 90). 75 Cfr. RODOLFO IL GABRO (1846; trad. it. 1989: 197-203). Un’altra traduzione italiana è del 1982, e riporta a fronte il testo latino nell’edizione del Waitz. 73 1054: due ecclesiologie in controluce dietro uno scisma mitizzato 89 Per quanto riguarda specificamente la primazialità costantinopolitana in oriente, non c’è dubbio che, nonostante la mancata ratifica a questa prerogativa della Nuova Roma da parte dell’Antica, a Costantinopoli si continuò tranquillamente a rivendicarla e ad esercitarla. Dietro a questa proposta emerge chiaramente l’annosa contestazione da parte del papa dell’Antica Roma nei confronti del patriarca della Nuova per l’uso, tradizionale per quest’ultimo, del titolo di patriarca ecumenico, una polemica che verrà puntualmente ripresa anche da Leone IX nei confronti di Cerulario76. La richiesta di Eustazio del 1024 e la proposta di Cerulario nel 1053 comportano entrambe la medesima prospettiva ecclesiologica di una duplice primazialità per le due sedi: una, per Roma, nella Chiesa universale, sancita dal titolo “papa ecumenico”, e l’altra, per Costantinopoli, in Oriente, sancita dal titolo “patriarca ecumenico”. Questa consensuale bipartizione del potere ecclesiastico, che sanciva una sostanziale diarchia delle due Rome nella Chiesa universale, era del resto già implicita nella primazialità d’onore riconosciuta a Costantinopoli dal concilio del 38177 e nelle facoltà giurisdizionali a lei attribuite a Calcedonia nel 45178. Queste due delibere di quei concili non furono accettate formalmente dalla Chiesa romana, che vedeva in esse – oltre ad una indebita alterazione dell’assetto giurisdizionale stabilito a Nicea nel 32579 – l’implicita affermazione di un rapporto paritario tra le due Rome, di una loro isotimia, cioè la parità in un onore, non soltanto formale ma sostanziale. Si è lungo presupposto che il patriarca costantinopolitano, nella sua politica ecclesiastica, mirasse a far fallire la progettata alleanza in funzione anti-normanna tra papa Leone e l’imperatore Costantino IX, nel timore che essa comportasse la restituzione a Roma della giurisdizione sulle chiese dell’Italia meridionale “bizantina”. Questa opinione di molti storici è assolutamente priva di fondamento, in quanto il patriarca non poteva ignorare che la giurisdizione costantinopolitana su quelle chiese sarebbe stata ugualmente compromessa da una eventuale dominazione normanna. Che invece Cerulario non fosse un antagonista per pregiudizio della Chiesa romana e del suo vescovo, preoccupato che la progettata 76 Su questa controversia, si rimanda a GELZER (1887); VAILHÉ (1908a); VAILHÉ (1908b); TUILIER (1964); MAGI (1972: 161-194); TUILIER (1986); MORINI (2014). Sull’uso di questo titolo da parte dell’arcivescovo di Costantinopoli, si veda LAURENT (1948). 77 Cfr. Concilium Constantinopolitanum primum, Canones, III: Ut secundus post Romanum episcopum Constantinopolis episcopum, ed. A.M. Ritter, in NEDUNGATT-AGRESTINI (2006: 66; trad. it. 1991: 32); JOANNOU (1962: t. I/1, 47-48). 78 Cfr. Concilium Chalcedonense, Canones, XXVIII vulgo: Votum de primatu sedis Constantinopolitanae, ed. E. Mühlenberg, in NEDUNGATT-AGRESTINI (2006: 150- 151; trad. it. 1991: 99-100); JOANNOU (1962: t. I/1, 90-93). Si veda anche IX: Quod non oporteat clericos habentes adversus invicem negotia proprium episcopum relinquere et ad saecularia iudicia convolare, ed. E. Mühlenberg, in NEDUNGATT-AGRESTINI (2006: 142; trad. it. 1991: 91); JOANNOU (1962: t. I/1, 76-77); e XVII: De paroeciis, ed. E. Mühlenberg, in in NEDUNGATT-AGRESTINI (2006: 145; trad. it. 1991: 95); JOANNOU (1962: t. I/1, 82-83). 79 Cfr. Concilium Nicaenum primum, Canones, VI: De primatibus episcoporum, ed. G. Alberigo, in NEDUNGATT-AGRESTINI (2006: 23; trad. it. 1991: 8-9); JOANNOU (1962: t. I/1, 28-29). 90 Enrico Morini alleanza in funzione anti-normanna tra papa Leone e l’imperatore Costantino IX implicasse la restituzione a Roma della giurisdizione sulle Chiese dell’Italia meridionale “bizantina” – come si è lungo presupposto senz’alcun fondamento, dimenticando che la giurisdizione costantinopolitana su quelle Chiese sarebbe stata ben più sicuramente compromessa da una diretta dominazione normanna – ce lo documenta il suo ostinato rifiuto di credere che la durissima risposta del papa alla sua lettera scritta «con umiltà e mitezza»80, recapitatagli dalla delegazione romana dopo la morte di Leone IX, fosse autentica. Egli si mostra sicuro – purtroppo sbagliando – che il papa di Roma non avrebbe mai potuto scrivergli in quel modo e l’unica spiegazione plausibile era per lui che essa fosse un falso fabbricato dal capo della delegazione romana e principale collaboratore del papa, il lorenese Umberto, monaco dell’abbazia benedettina di Moyenmoutier e cardinale vescovo di Silva Candida – ritenuto erroneamente anche arcivescovo di Sicilia81 – in combutta con il duca d’Italia, Argiro. Questi due personaggi si sarebbero accordati per mettere l’imperatore Costantino davanti a due alternative, entrambe a loro gradite: o scaricare l’ingombrante patriarca oppure compromettere l’alleanza con il papa in funzione anti-normanna. La certezza della contraffazione – condivisa tra l’altro anche da una personalità non direttamente coinvolta e decisamente irenica come Pietro di Antiochia – poteva essere avvalorata – come ipotizza Petrucci – dalle innovazioni introdotte dalla cancelleria papale del tempo di Leone IX nelle formule e nella sfragistica, particolari questi che, se non conosciuti, potevano indubbiamente far pensare ad una manomissione del sigillo e ad una conseguente falsificazione delle lettere papali al patriarca ed all’imperatore82. Chi era Argiro, questo personaggio che Mahlom Smith definisce la “figura chiave negli sviluppi politici in Italia alla metà dell’XI secolo”83? Figlio di Melo da Bari e potente capo dell’aristocrazia locale pugliese, di stirpe longobarda e pertanto di rito latino, egli si era formato, come attesta il suo curriculum, secondo i più classici parametri ideologico-politici costantinopolitani. Era diventato, prima come patrikios e vestis nel 1042 e poi come magistros nel 1045 e doux nel 1051, la più alta autorità “bizantina” in Italia e fu il primo occidentale ad assumere questo incarico nella gerarchia dell’impero costantinopolitano. Tuttavia, nell’antagonismo mortale tra gli invasori normanni e l’impero dei Romei, egli forse aveva astutamente deciso di giocare in proprio, approfittando dell’estrema debolezza dell’impero per diventare signore della Puglia – e forse anche di tutta l’Italia meridionale ancora “bizantina” – con il riconoscimento del papa e dell’imperatore germanico Enrico III. Di questa sua intenzione lesiva – se non addirittura letale – nei confronti degli interessi dell’impero e della Chiesa costantinopoli80 Si veda supra, nota 62. L’inesistenza di questa nomina, accettata dalla storiografia anche molto qualificata (HÜLS, 1977: 130-133; HOUBEN, 1989: 125), è stata dimostrata da CANTARELLA (2013a: 380). 82 Cfr. PETRUCCI (1973: 826-827, n. 271); PETRUCCI (2001: 254-255, n. 277). 83 Cfr. SMITH III (1978: 121). 81 1054: due ecclesiologie in controluce dietro uno scisma mitizzato 91 tani in Italia, il patriarca era fermamente convinto. Sembra comunque che nella deflagrazione tra le due Chiese, culminata nello scambio delle reciproche scomuniche, il ruolo di Argiro sia stato funesto. Egli avrebbe colto al volo, per così dire, l’occasionale polemica degli ambienti ecclesiastici costantinopolitani contro l’uso degli azzimi – sviluppatasi, come si è detto, in funzione anti-armena – per seminare la zizzania tra le due Chiese, greca e latina, con lo scopo preciso di far fallire, sfruttando abilmente i contrasti in ambito religioso, la progettata alleanza tra il papato e Costantinopoli nell’Italia del sud, lesiva delle sue ambizioni personali. Si potrebbe anzi dire che la disputa in questione diventa, nelle mani di Argiro, una polemica montata ad arte. Egli – che nel 1045, a Costantinopoli, fiero della propria identità latina, si era scontrato sugli azzimi con il patriarca, che gli aveva rifiutato la Comunione – deve essersi mosso su due piani. Una prima manipolazione la operò egli stesso sul trattato contro gli azzimi scritto in quegli anni dal primo ecclesiastico greco divenuto primate della Chiesa autocefala grecobulgara di Ochrida, l’arcivescovo Leone, già protosincello a Costantinopoli84. Si trattava di un opuscolo in forma epistolare, secondo un uso letterario del tempo – composto da tre lettere fittizie –, la cui generica intestazione ad un non precisato vescovo di Roma ed ai vescovi occidentali era un puro espediente letterario. Questo testo, una volta pervenuto nelle mani di Argiro, diventò una lettera personale polemicamente indirizzata all’arcivescovo Giovanni di Trani – un prelato latino “filo-bizantino”, onorato dal patriarca con il titolo di sincello –, al quale il Dux Italiae l’avrebbe subito presentata, nell’intento di accendere la controversia. È più probabile tuttavia che Giovanni di Trani fosse effettivamente uno dei destinatari della lettera, che rientrerebbe così in un disegno perseguito dall’arcivescovo di Ochrida – a capo di una cristianità ortodossa non greca all’interno dell’impero – di uniformare alle consuetudini liturgiche costantinopolitane le minoranze rituali (armeni in Anatolia e latini in Puglia) inquadrate, nell’impero romano d’oriente, precisamente alle sue due estremità. In questo caso il testo di Leone andrebbe letto non come un libello polemico, ma piuttosto come uno scritto finalizzato alla correzione fraterna, indirizzato, per giunta, all’ecclesiastico che, nella prospettiva costantinopolitana, era il responsabile dell’osservanza dell’ortoprassi canonica e liturgica da parte dei latini inquadrati ecclesiasticamente nell’ambito del patriarcato ecumenico. La seconda mossa di Argiro, nella medesima prospettiva, ma ad un livello ben più compromettente, consistette nel farlo pervenire – a meno che non glielo abbia inviato Giovanni di Trani – all’esponente più radicale dei riformatori papali, il cardinale Umberto. Costui, colpito da fatto che nell’opuscolo venivano criticate, sia pure in subordine rispetto all’uso degli azzimi, altre consuetudini della Chiesa latina (come il digiuno quaresimale esteso al sabato85 – un altro uso degli armeni –, la macellazione per soffocamento ed il cibarsi della carne insieme al 84 85 Cfr. LEONE DI OCHRIDA (1861), Epistula ad Ioannem episcopum Tranenesem, in WILL (1861: 56-60). Ibid., in WILL (1861: 58,11 - 59,17). 92 Enrico Morini sangue86 – in violazione ad Atti 15, 20 – e la soppressione dell’Alleluia in Quaresima87), lo intese come un attacco frontale al primato della Chiesa di Roma e del suo vescovo, in quanto ne metteva in discussione l’assoluta indefettibilità. Se l’intento dello scritto era rendere visibile l’unità della Chiesa attraverso l’uniformità delle pratiche liturgiche, per il cardinale Umberto – e per gli altri riformatori – doveva essere un altro il criterio di appartenenza all’unica Chiesa del Cristo, cioè la subordinazione alla sede romana. Anzi, nella più completa assenza di una prospettiva storica, l’inerranza assoluta della sede romana comportava anche il carattere originario, cioè apostolico, di tutte le sue consuetudini, con l’inevitabile implicazione che le consuetudini diverse delle altre chiese apostoliche erano, a loro volta, delle arbitrarie innovazioni. A questo punto fu il cardinale Umberto – sempre che non lo avesse già suggerito lo stesso Argiro – a compiere una seconda manipolazione, funzionale alla riaffermazione – questa volta nei confronti della Chiesa costantinopolitana – di questo primato: nella sua maldestra traduzione latina dell’opuscolo infatti, egli non solo recepisce l’arcivescovo di Trani come il destinatario di una effettiva missiva, ma aggiunge al nome del presunto mittente anche quello del patriarca Michele88. Si trattò di un’alterazione sicuramente effettuata nella convinzione, tutta però da dimostrare, che se la paternità redazione dell’opuscolo apparteneva a Leone di Ochrida, tuttavia il patriarca di Costantinopoli ne aveva la paternità morale. In tal modo la controversia, accesa da Argiro, veniva internazionalizzata. IV. Il contesto ecclesiologico dello scontro del 1054 Enzo Petrucci ha efficacemente messo in evidenza, tra le molteplici componenti, la dimensione politica dello scontro del 1054 e Mahlon Smith ne ha piuttosto approfondito i condizionamenti culturali; a noi preme soprattutto situare questo episodio nel quadro dei rapporti ecclesiologici tra le due sedi di Roma e di Costantinopoli. Ci sembra infatti che, se considerato in questo contesto, esso riveli, ad una lettura dei testi che tenga pienamente conto di tutti i prolungati conflitti o consapevoli fraintendimenti verificatisi in precedenza tra le due Chiese89, come, al di sotto dei contrasti di natura liturgica o disciplinare, ci troviamo ora di fronte 86 Ibid., in WILL (1861: 59). Ibid. 88 Lo si verifica immediatamente dagli incipit dei due testi, l’originale greco e la traduzione latina. Cfr. LEONE DI OCHRIDA (1861), Epistula ad Ioannem Tranensem, in WILL (1861: 56) e Epistola Leonis Achridani ad Ioannem Tranensem ab Humberto in latinum sermonem translata, in Will (1861: 61). Si veda al riguardo anche SMITH III (1978: 53), e del resto già Jules Gay nel 1904 aveva riconosciuto che l’opuscolo in questione era da attribuirsi al solo Leone e che il primo approccio di Michele Cerulario con il papato romano era stato del tutto pacifico. Cfr. GAY (1904: 492). 89 Per una visione sintetica delle successive rotture della comunione gerarchica e sacramentale intervenute tra la Chiesa di Roma e quella di Costantinopoli dallo scisma di Acacio al 1054, si rimanda a MORINI (2014). 87 1054: due ecclesiologie in controluce dietro uno scisma mitizzato 93 ad una ormai palese incompatibilità ecclesiologica. Questa volta ad aprire il fuoco, era stato proprio il papa di Roma. Prima infatti che si diffondesse in occidente l’opuscolo di Leone di Ochrida, Leone IX rispose alla lettera sinodica che inopinatamente – riprendendo una consuetudine che lo scisma aveva compromesso – il patriarca di Antiochia, Pietro, gli aveva mandato al momento della sua intronizzazione, nella primavera del 1052. Mentre per Kaplan il papa avrebbe scritto questa sua risposta solo all’inizio del 105490 – insieme a quelle indirizzate a Michele Cerulario ed all’imperatore Costantino IX – e pertanto dopo essere venuto a conoscenza dell’opuscolo di Leone di Ochrida –, per Petrucci la lettera del papa risalirebbe invece alla primavera del 105391, quando la polemica greca contro l’uso eucaristico degli azzimi non era ancora arrivata in occidente. In questa risposta il papa mostrò, al di sopra di ogni dubbio, di avere nei suoi progetti un’aperta contestazione delle prerogative primaziali esercitate in Oriente dalla sede costantinopolitana, ormai incompatibili con i presupposti ecclesiologici del papato riformatore. A tal fine egli esortava il patriarca antiocheno a difendere strenuamente i privilegi di eccellenza della propria sede apostolica contro la «cuiuslibet pompa vel arrogantia» – allusione non troppo velata al vescovo della Nuova Roma92 – ed anzi identificava la causa dello scisma, già presente tra le Chiese, nella mancanza di rispetto, da parte di Costantinopoli, delle antiche prescrizioni conciliari relative ai privilegi patriarcali93. Assistiamo, nel contesto di questa polemica, ad una ripresa in grande stile, da parte papale, della classica dottrina romana della cosiddetta “triarchia petrina”, elaborata a Roma per fornire una configurazione teologica al quadro geo-ecclesiastico stabilito a Nicea nel 325 – a Roma ritenuto inalterabile, ma alterato nel 381 con il conferimento di un primato onorifico a Costantinopoli – e, nel contempo, un fondamento ecclesiologico all’istituto “patriarcale”. Questa dottrina presuppone che solo la fondazione petrina conferisca ad una Chiesa titolo a fruire di una giurisdizione super-metropolitica – cioè, in prospettiva, patriarcale – e pertanto che le sole tre sedi titolate a godere di questo privilegio siano Roma, quella petrina per eccellenza, Alessandria – anch’essa petrina tramite l’evangelista Marco, discepolo di Pietro – ed appunto Antiochia, fondata anch’essa da Pietro: sono precisamente le tre sedi alle quali i Padri niceni avevano riconosciuto tale più ampia giurisdizione. Elaborata, in evidente funzione anti-costantinopolitana, nell’importante concilio romano del 382 – un vero e proprio sinodo del “patriarcato” d’occidente sotto papa Damaso – tale dottrina sarà formalizzata nel cosiddetto Decretum gelasianum94 e rifluirà nelle false Decretali Pseudo90 Cfr. KAPLAN (1995: 148). Cfr. PETRUCCI (1973: 765); PETRUCCI (2001: 179-180). 92 Cfr. LEONE IX (1861), Epistola ad Petrum Antiochenum, in WILL (1861: 169,29-30). 93 Ibid., in WILL (1861: 170). 94 Il cosiddetto Decretum Gelasianum, rifluito come terzo capitolo di quel documento composito noto, dal VII secolo, come Decretum de libellis recipiendis et non recipiendis si legge in VON DOBSCHÜTZ (1912). Il nome deriva dalla sua attribuzione, in taluni manoscritti, al papa Gelasio I (492-496), mentre 91 94 Enrico Morini Isidoriane95, dopo essere divenuta il motivo inesorabilmente ricorrente nella corrispondenza papale verso l’Oriente, da quella dei grandi vescovi di Roma, Leone e Gregorio, a quella dei papi in seguito più coinvolti nella polemica anticostantinopolitana, come Nicola I, nel IX secolo, ed appunto Leone IX, nella prima metà dell’XI. Se già questa era la disposizione iniziale del papa nei confronti della Chiesa costantinopolitana, indipendentemente dalla personalità del suo titolare, le caratteristiche personali del Cerulario non furono determinanti – come da più parti ancora si ritiene – ai fini dell’esito così funesto di questo incontro tra le due Chiese. Una volta poi che Leone IX venne a conoscenza dello scritto di Leone di Ochrida – malevolmente alterato dall’azione congiunta di Argiro e del cardinale Umberto –, il papa credette di trovarsi in presenza di un attacco frontale, sistematico e programmato della Chiesa greca – orchestrato congiuntamente dal patriarca e dal primate dell’autocefalia greco-bulgara – all’autorità ed all’indefettibilità della Chiesa romana. Si capisce allora come alla lettera irenica del patriarca, mirante a riallacciare i rapporti di comunione tra le due Chiese, il papa abbia risposto con un vero e proprio atto di accusa nei confronti del patriarca Michele, contestando apertamente, oltre al preteso primato nei confronti delle altre tre sedi orientali, la legittimità della sua elezione. Viene infatti formulata dal papa, nei confronti di Cerulario, la strabiliante accusa al patriarca di essere un “neofita” (che non significa più, in questo caso, “elevato agli ordini sacri immediatamente dopo il battesimo”, ma “pervenuto all’episcopato senza un adeguato periodo di permanenza nei gradi inferiori dell’ordine sacro”)96. L’accusa era stata formulata fondatamente, secondo i parametri canonici latini, da papa Nicola I nei confronti di Fozio, ma sembra oggettivamente infondata nei confronti di Michele Cerulario. Si può tutt’al più pensare che essa adombri una disapprovazione papale per il particolare curriculum ecclesiastico del patriarca. Coinvolto, nel 1039, in un complotto contro il potente eunuco e monaco, Giovanni l’Orfanotrofo, fratello di Michele IV il Paflagone e zio di Michele V il Calafato (entrambi, in successione, mariti dell’imperatrice Zoe, erede della dinastia “macedone”)97, egli vestì l’abito monastico e, quattro anni dopo, l’imperatore Costantino IX Monomaco (l’ultimo marito di Zoe, coinvolto, a sua volta, nello stesso antico complotto) lo elevò al patriarcato98. Non va però alcuni studiosi preferiscono attribuirlo al papa Ormisda (514-523). È opinione però che il nucleo essenziale del documento, cioè l’idea stessa – se non addirittura la stesura del testo –, possa risalire proprio al concilio romano del 382 ed allo stesso papa Damaso (366-384). Si vedano su di esso PIETRI (1976: vol. I, 866-872 e 881-884) e GROSSI (2001). 95 Per questo era stato in precedenza edito insieme ad esse in HINSCHIUS (1863: 635). Sempre nelle decretali pseudo-isidoriane sono rifluiti altri due documenti romani relativi alla triarchia petrina, lo pseudo-Anacleto (ibid., p. 83) e la Praefatio Nicaeni concilii (ibid., p. 255). 96 Cfr. L EONE IX (1861), Epistola ad Michaelem Constantinopolitanum archiepiscopum, in W ILL (1861: 90,27-28): «non gradatim prosiluisse ad episcopale fastigium». 97 Cfr. SPADARO (2014-2015). 98 Non abbiamo la certezza che Michele, nei quattro anni dalla vestizione monastica, abbia ricevuto 1054: due ecclesiologie in controluce dietro uno scisma mitizzato 95 trascurato il fatto che, nella sensibilità religiosa dell’epoca e dell’ambiente, un bruciante fallimento nell’ambito delle fortune mondane poteva venire interpretato come il segno di un’autentica vocazione religiosa. Insieme a questa estemporanea accusa, il papa contestava a Michele il suo uso del titolo di patriarca ecumenico99 e la sua condanna dell’uso del pane lievitato, attribuendogli per giunta anche la paternità morale del polemico trattato sugli azzimi100. Si capisce altresì come il patriarca si sia rifiutato di attribuire al papa questa risposta così inaspettatamente dura – che purtroppo era invece autentica – e l’abbia ostinatamente ritenuta una falsificazione, frutto di complotto ordito da Argiro in combutta con Umberto. L’ecclesiologia papale del tempo non aveva infatti il minimo dubbio in merito alla competenza della sede romana di giudicare il patriarca di Costantinopoli alla stregua di un qualsiasi vescovo della cristianità occidentale, applicando in oriente le medesime procedure canonico-disciplinari già sperimentate in occidente per affrontare il problema della riforma ecclesiastica. L’arrivo a Costantinopoli della delegazione romana risultò pertanto, per il patriarca, doppiamente sconcertante: egli si aspettava di aprire con essa fruttuose trattative unionistiche ed invece si trovò davanti una corte giudiziaria, venuta per intentargli un processo, non solo per irregolarità canoniche, ma anche per eresia. A questo punto diventa anche comprensibile perché Cerulario – uomo indubbiamente non conciliante quanto Pietro di Antiochia –, scrivendo a quest’ultimo, abbia a sua volta rovesciato sulla Chiesa romana una valanga di accuse, talvolta pretestuose, entrate poi in gran parte impropriamente nel tradizionale contenzioso greco-latino. Pietro stesso ci fa sapere, scrivendo al patriarca Domenico di Grado, che il patriarca costantinopolitano riteneva i latini eterodossi (κακοδόξους) e scissi dalla Chiesa cattolica101, ed il Cerulario stesso, scrivendo al medesimo Pietro, afferma che essi non si possono assolutamente annoverare tra gli ortodossi102. In questa lettera, il vero atto di accusa di Cerulario, il patriarca, partendo dalla contestazione della legittimità – perché il papa era morto – e dell’onestà intellettuale dei legati romani – perché ritenuti complici della politica di Argiro anche l’ordine sacro, ma è molto probabile, dato il livello di clericalizzazione del clero monastico nell’XI secolo. Su questo patriarca si rimanda a MICHEL (1954); TINNEFELD (1989); CHEYNET (1995). 99 Cfr. L EONE IX (1861), Epistola ad Michaelem Constantinopolitanum archiepiscopum, in W ILL (1861: 90-91). Sull’indubbia enfasi posta da Cerulario su questo titolo, del resto tradizionale, si veda LAURENT (1946). 100 Ibid., in WILL (1861: 91,27-39). 101 Cfr. PIETRO DI ANTIOCHIA (1861), Epistola ad Dominicum Gradensem, 7, in WILL (1861: 214). Il patriarca di Antiochia afferma invece contestualmente di ritenere i latini «ortodossi ed in accordo (ὁμόφρονας) con noi» nel dogma trinitario e nella dottrina cristologica, rilevando che «zoppicano (σκάζοντας)» soltanto nell’uso eucaristico del pane azzimo (ivi), riguardo al quale, in una prospettiva pentarchica, devono adeguarsi alla consuetudine degli altri quattro patriarcati, che sono concordi nell’uso eucaristico del pane lievitato. Cfr. PIETRO DI ANTIOCHIA (1861), Epistola ad Dominicum Gradensem, 12, in WILL (1861: 218). 102 Cfr. M ICHELE C ERULARIO (1861), Epistola I ad Petrum patriarcham Antiochenum, 14, in W ILL (1861: 183,15-17). 96 Enrico Morini – arriva a rimproverare ai latini, nella loro generalità, deviazioni dottrinali che, se in qualche caso corrispondono effettivamente a reali differenze tra le due chiese, come l’uso eucaristico degli azzimi103, la dottrina del Filioque104 e l’elusione della proibizione apostolica di cibarsi di animali soffocati105, molte altre volte costituiscono invece futili motivi di contrasto oppure sono clamorosamente inesatti. A quest’ultima categoria appartengono le accuse di non venerare le immagini e le reliquie dei santi106 e di non annoverare tra questi i tre grandi padri della Chiesa orientale, Basilio di Cesarea, Gregorio il Teologo e Giovanni Crisostomo107 (errore comprensibile solo se si considera che i latini, pur avendo in venerazione i predetti tre padri, non tenevano conto delle loro testimonianze a favore dell’uso del pane lievitato nell’eucaristia). Nella prima serie di aggravi possiamo invece enumerare, per la loro irrilevanza dogmatica e disciplinare, il viso glabro del clero108, il non concedere l’ordinazione ai coniugati ed il concedere invece il matrimonio tra cognati109, il praticare una sola immersione nel battesimo ed il far gustare del sale ai battezzandi110, la presenza della carne nel vitto dei monaci, l’estensione anche al sabato del digiuno quaresimale, la presenza dei latticini e delle uova nella dieta penitenziale, la limitazione del digiuno settimanale al venerdì saltando il mercoledì111, e l’uso dei vescovi di portare l’anello e di non astenersi dall’andare in guerra112. Si può, a questo punto, tentare una valutazione storicamente corretta del tumultuoso evento del 1054, che riposa a nostro parere su due punti fermi. Il primo consiste nella constatazione che le reciproche scomuniche, anche se non hanno prodotto la separazione, hanno tuttavia radicato lo scisma. Il secondo consiste nell’acquisizione che, se lo scisma era stato formalmente prodotto dall’inserzione latina del Filioque nel Credo, la ragione, che ha inesorabilmente determinato il suo radicamento, è rappresentata dall’alterità ecclesiologica. La riforma pregregoriana o transalpina o, forse ancora meglio, alsaziano-lorenese della prima metà dell’XI secolo si qualificava per una serie di istanze fatalmente in antitesi alla prassi canonico-disciplinare ed alle vedute ecclesiologiche dell’oriente cristiano. Tali erano, ad esempio, l’ardente zelo per l’ortoprassi canonica – che rendeva sospetta, in base ai parametri romani, come si è visto, la posizione di Cerulario – e l’imposizione del celibato sacerdotale come punto qualificante della riforma, ma soprattutto risultò determinante la pretesa che le prerogative romane, cioè il primato papale e la primazialità della sede apostolica, da sempre riba103 104 105 106 107 108 109 110 111 112 Ibid., 10-11, in WILL (1861: 179-180). Ibid., 12, in WILL (1861: 181,8-13). Ibid., 12, in WILL (1861: 180,9-10). Ibid., 14, in WILL (1861: 183,3-5). Ibid., 14, in WILL (1861: 183,5-11). Ibid., 12, in WILL (1861: 180,10). Ibid., 13, in WILL (1861: 181,17-21). Ibid., 13, in WILL (1861: 182,9-14). Ibid., 12, in WILL (1861: 180,12 - 181,7). Ibid., 13, in WILL (1861: 182,2-5). 1054: due ecclesiologie in controluce dietro uno scisma mitizzato 97 dite sul piano dottrinale, fossero universalmente riconosciute e venissero da allora giuridicamente applicate, anche nei confronti del patriarca di Costantinopoli, sottoposto al giudizio di Roma al pari di un qualsiasi vescovo dell’Occidente. Con una tale enfatizzazione, quasi un’ipertrofia, del primato romano – che rende plausibile, a nostro avviso, l’accezione peggiorativa di “primatismo” per definire questa evoluzione dell’ecclesiologia romana – non fu più possibile quell’integrazione nell’ecclesiologia orientale del primato, da sempre preteso dalla prima sede, che era invece riuscita nel concili maggiori dell’età foziana, dal proto-deutero dell’861 al concilio di S. Sofia dell’879-880, passando per la ripresa dell’ideologia pentarchica da parte del concilio costantinopolitano dell’869-870. Infatti il consueto ribadimento, da parte di Roma, di una concezione esclusivamente petrina dell’apostolicità di una Chiesa – in presenza della quale Costantinopoli viene relegata al quarto o al quinto posto e la sua pretesa seconda posizione, attribuita unicamente alla legislazione secolare, viene qualificata come abusiva – non si inquadra soltanto nel più ampio contesto di una riaffermazione della primazialità romana sulle stesse altre sedi patriarcali. La triarchia petrina viene ad implicare una relazione di maternità di Roma nei confronti non solo della non apostolica Costantinopoli, priva in origine di qualsia dignità nell’ordine episcopale113 e che deve proprio a Roma – come Leone scrive a Cerulario, falsando la realtà – il conferimento, in sede conciliare, delle prerogative onorifiche dovute al suo ruolo di vescovo della città imperiale114, ma persino della petrina Antiochia115. Questa Chiesa viene infatti apostrofata dal papa di Roma come sua dilecta filia, proprio nel momento in cui se ne sottolinea, forse strumentalmente, l’apostolicità petrina. È infatti un tratto specifico dell’ecclesiologia leonina l’estensione ad un orizzonte ecumenico delle prerogative papali, rivendicando – come scrive Petrucci – che sarebbero stati «i papi a istituire arcivescovi e primati e a concedere loro privilegi di dignità e di giurisdizione, che a nessuno era lecito contestare»116. Un’eccessiva amplificazione in senso carismatico-giuridico, oltre i limiti dell’esegesi antica, della valenza ecclesiologica dei testi petrini del Nuovo Testamento – rilevata non solo dal Congar117, ma anche da Michele Maccarrone118 –, dilata anche la nozione di Ecclesia romana sino ad una sostanziale identificazione con l’Ecclesia universalis, in virtù della quale i confini della prima vengono a coincidere con quelli della seconda. Induce a questa constatazione – oltre alla lettura dei testi di portata ecclesiologica di Leone IX, approfonditamente compiuta dallo stesso Petrucci e da Michele D’Agostino119 – anche l’uso da parte del cardinale 113 Cfr. LEONE IX (1861), Epistola ad Michaelem Constantinopolitanum patriarcham adversus Leonis Achridani libellum, 24, in WILL (1861: 78). 114 Ibid., 28, in WILL (1861: 80). 115 Cfr. LEONE IX (1861), Epistola ad Petrum Antiochenum, in WILL (1861: 169,33-36). 116 Cfr. PETRUCCI (1977: 140). 117 Cfr. CONGAR (2005: 116-117). 118 Cfr. MACCARRONE (1974: 44); ripubblicato in MACCARRONE (1991a: 571). 119 Cfr. D’AGOSTINO (2008). 98 Enrico Morini Umberto per definire la Chiesa di Roma, proprio nel contesto dello scontro del 1054, di metafore, come Foederis arca120, Costa Christi121, Sponsa Christi122, correttamente riferibili, secondo il lessico patristico, unicamente alla Chiesa universale. Come osserva Petrucci, il primato romano viene ora fondato primariamente su ragioni dottrinali e non solo su disposizioni canoniche123 e la giurisdizione universale, immediata e diretta, di Roma viene pertanto considerata parte integrante del comune patrimonio della Rivelazione. Per quanto riguarda le forme di esercizio di questo primato maggiorato, esse vengono retrodatate all’età apostolica – riprendendo il procedimento della Decretali Pseudo-Isidoriane – e pertanto risultano anch’esse essenziali e costitutive dell’essere stesso della Chiesa. In conclusione, anche se Leone IX riprende letteralmente di continuo le espressioni dei suoi lontani predecessori Leone I e Gregorio I a favore del primato romano, non c’è dubbio che, alla luce della sua nuova ecclesiologia, esse assumono sotto la sua penna un valore decisamente “maggiorato” rispetto alle intenzioni di questi due padri dell’occidente latino, venerati come santi anche dalla Chiesa ortodossa. Nonostante Francesco Paolo Terlizzi abbia recentemente ridimensionato gli spunti di novità nell’ecclesiologia di Leone IX – ravvisando la vera e propria svolta solo al tempo di Gregorio VII, che senz’alcuna remora trasferisce al sedente, cioè al papa, tutte le prerogative della sedes – a noi sembra che con Ildebrando di Soana sia semplicemente venuta meno «ogni cautela perifrastica»124, per usare un’espressione dello stesso Terlizzi. Del resto lo stesso studioso riconosce che già nella concezione di Leone la Chiesa romana è divenuta il «cardine inamovibile della storia della salvezza»125 e che la sua lettera a Cerulario rappresenta «un perfetto manifesto dell’ecclesiologia romana di metà secolo XI»126 ed «una sorta di pallottoliere del primato romano»127. Con tali presupposti era inevitabile, per un’incompatibilità ecclesiologica che faceva da sfondo e da motore ad altri e più occasionali contenziosi, il riaprirsi del conflitto con Costantinopoli, che invece si era sempre attenuta ad una lettura canonica e non dottrinale del primato romano e non lo aveva pertanto mai considerato parte integrante della verità rivelata. A questa dogmatizzazione ed istituzionalizzazione del primato papale non dovette essere estraneo il modello dell’autocrazia imperiale, recepito dalla Reichkirche. Lo mostra il sorprendente richiamo di Leone IX, nella lettera a Cerulario, al Constitutum Constantini, per affermare che il papa di Roma ha ricevuto dallo stesso Costantino, nella persona di papa Silvestro, una dignità imperiale “maggiorata” 120 Cfr. UMBERTO DI SILVA CANDIDA (1861), Dialogus (Adversus Graecorum calumnias), I, in WILL (1861: 94,11). 121 Cfr. UMBERTO DI SILVA CANDIDA (1861), Responsio sive contradictio (Adversus Nicetae libellum), 7, in WILL (1861: 139,30). 122 Ibid., in WILL (1861: 139,10-12). 123 Cfr. PETRUCCI (1977: 149). 124 TERLIZZI (2012: 127). 125 Ibid.: 123. 126 Ibid.: 124. 127 Ibid.: 129. 1054: due ecclesiologie in controluce dietro uno scisma mitizzato 99 rispetto a quella del sovrano romano cristiano128. Vediamo allora come Roma oltrepassi, da questo momento in poi, l’ideologia gelasiana delle “due spade”129 – che sino ad allora aveva ispirato, nella distinzione dei due poteri, spirituale e temporale, la politica papale verso Costantinopoli – e si pretenda depositaria di quel regale sacerdotium che assimila, anziché distinguere, i due poteri. A questo riguardo, le Chiese delle due Rome, che si trovano in questo momento ad un punto critico del loro antagonismo, risultano accomunate dalla coincidente rivendicazione di un’autorità superiore del sacerdotium rispetto al regnum. Non bisogna infatti trascurare i significativi indizi che inducono a riconoscere in Cerulario un patriarca che, in flagrante violazione di un principio basilare della teologia politica costantinopolitana, reinterpretava la necessaria armonia sinfonica tra regnum e sacerdotium a netto vantaggio del secondo. Sembra proprio che con lui certe deviazioni dall’ecclesiologia pentarchica e dall’ortodossia ideologico-politica costantinopolitana, che già si intravvedevano tra le righe dell’Eisagogé del IX secolo130, siano state, sia pure a titolo personale, riprese e sviluppate. Per quanto riguarda l’ambito ecclesiologico, la notizia fornita da Teodoro Metochita131 tra XIII e XIV secolo – che il patriarca Michele, dopo la rottura con Roma, avrebbe scritto ai patriarchi orientali che, essendosi il papa di Roma separato dalla Chiesa, a lui, vescovo della Nuova Roma, essi dovevano obbedienza in virtù del proprio primato132, anche se priva di qualsiasi altro riscontro, è pur tuttavia fortemente indicativa di una fama consolidata. Questa inusitata lettura di un 128 Cfr. LEONE IX (1861), Epistola ad Michaelem Constantinopolitanum patriarcham adversus Leonis Achridani libellum, 14 e 28, in WILL (1861: 73-74 e 80,13-19). 129 Il testo della famosa lettera di papa Gelasio I all’imperatore Anastasio del 494, Famuli vestrae pietatis, è stato pubblicato dapprima in THIEL (1868: 220-224) e poi in SCHWARTZ (1934: 19-24), e si legge in traduzione italiana in RONZANI (2012) e in traduzione francese in TOUBERT (2000: 519-540). Al momento dell’aprirsi dello scisma acaciano, il problema considerato da papa Gelasio I non è di ordine ideologicopolitico (quale cioè dei due poteri sia preminente), ma di ordine teologico-politico (quali siano piuttosto le prerogative del sovrano universale romano-cristiano in ambito ecclesiastico e, in prospettiva, nella sfera dottrinale). È in questione pertanto la distinzione degli ambiti di competenza e non la definizione del ruolo preminente ed in questo Gelasio si colloca ancora nel contesto “romeico”. L’auctoritas e la potestas, rispettivamente attribuite al papa ed al sovrano, anticipano di circa mezzo secolo la distinzione tra sacerdotium ed imperium sancita da Giustiniano nel celebre proemio della Novella VI. La prospettiva storiografica classica di una pretesa gelasiana di un’auctoritas sacerdotale superiore alla potestas imperiale – presentata da CARLYLE-CARLYLE (1903: t. I, 184-193) e da CASPAR (1930: 64-73) e ripresa più di recente da ULLMANN (1962: 20-22) e ULLMANN (1981: 198-212), è stata superata dalle più raffinate analisi di STEIN (1935-1936), ZIEGLER (1942) e soprattutto COTTRELL (1993) e DAGRON (1996: 303-315, La théorie des “deux pouvoirs). Resta comunque il fatto che due componenti della concezione “romeica” del potere, espressa da Giustiniano, non vengono esplicitate da Gelasio e precisamente la comune origine divina dei due poteri (anche se Gelasio ne fa cenno nella lettera Ne forte da lui scritta per conto del papa Felice III: si veda THIEL (1868: 225-228) e la necessità che essi operino sinfonicamente, in perfetta armonia. 130 Si tratta di un testo anonimo, concepito, con ogni probabilità, come premessa normativa generale all’opera dei Basilikà, la monumentale “purificazione” delle leggi promossa dalla dinastia “macedone” (cfr. SCHMINCK, 1986: 1-15; SCHARF, 1959). Secondo alcuni studiosi il compilatore dei due titoli citati sarebbe stato lo stesso Fozio (cfr. SCHARF, 1956; TROIANOS, 1989-1991). 131 Su questo grande uomo di stato “unionista”, si veda ŠEVčENKO (1975: vol. 4, 17-91). 132 Cfr. GRUMEL-DARROUZÈS (1989: 368, n. 873) e GRUMEL (1947: 10, n. 873). 100 Enrico Morini “primato” nel segno dell’obbedienza non è forse l’esasperazione di quel diritto di appello che l’Eisagogé aveva riservato al patriarca di Costantinopoli anche nei confronti dei tre colleghi orientali133? Per quanto riguarda invece l’ambito ideologicopolitico la pretesa del Cerulario, denunciata dal cronista continuatore di Giovanni Skylitzes, di calzare sandali color porpora – riservati all’imperatore, ma concessi da Costantino, nel falso Constitutum, a papa Silvestro ed ai suoi successori – appare in sostanziale continuità con l’esaltazione del sacerdozio a scapito della regalità già implicita nell’Eisagogé. Quest’ultima, attribuendo al patriarca la prerogativa imperiale di essere “immagine vivente del Cristo”134, lo investiva di fatto di un “regale sacerdozio” (βασίλειον ἱεράτευμα), in modo non meno abusivo di una pretesa “regalità sacerdotale” del sovrano, al quale il patriarca veniva sottraendo il ruolo “ecumenico” di capo di una cristianità sentita sempre coincidente con i confini dell’impero. Scrive infatti il continuatore di Giovanni Skylitzes – se non è lo stesso Skylitzes – che, nell’appropriarsi dei sandali scarlatti, Michele Cerulario pretendeva che tale fosse l’usanza del sommo sacerdozio antico e che il sommo sacerdote doveva continuare ad usarli anche nel nuovo ordine. Perché, egli diceva, il sacerdozio non differisce in alcun modo dal regno, o differisce molto poco, e nelle cose di più grande valore esso era probabilmente persino più grande e più prezioso135. Ci sembra significativa al riguardo l’attribuzione alla committenza di Michele Cerulario dei frammenti di una croce processionale d’argento dell’XI secolo, conservati nella Collezione Dumbarton Oaks della Georgetown University a Washington, proposta da Romilly Jenkins nel 1967136, anche se poi tale attribuzione è stata contestata da Cyril Mango nel 1988137 e da Gilbert Dagron nel 1996138. Infatti tra le scene effigiate a smalto ai bracci della croce – se ne sono conservate tre su quattro –, le due all’estremità del braccio orizzontale raffigurano episodi legati al culto dell’arcangelo Michele (il santo eponimo del patriarca) e la terza, proprio quella più in alto, all’estremità superiore del braccio verticale, rappresenta l’imperatore Costantino che china il capo davanti a papa Silvestro benedicente (probabile illustrazione della leggendaria guarigione del sovrano dalla lebbra) e si configura pertanto come un’espressiva “icona” della superiorità del potere spirituale su quello temporale. 133 Cfr. Titolo III: Il patriarca, 11: «Poiché la sede patriarcale di Costantinopoli è illustrata dalla presenza dell’imperatore, è stata dichiarata prima per decisione dei santi concili. Conformandosi a ciò, le leggi sacre prescrivono che i casi controversi che dipendono dalla altre sedi patriarcali siano portati a conoscenza e sottoposti al suo giudizio» (ZEPOS-ZEPOS, 1931: t. II, 241; trad. it. DAGRON, 1999: 222). Un’altra traduzione italiana del medesimo titolo si trova in PERTUSI (1990: 92). 134 Cfr. Titolo III: Il patriarca, 1: «Il patriarca è un’immagine viva e animata di Cristo, che, attraverso i suoi atti e le sue parole, esprime la verità» (ZEPOS-ZEPOS, 1931: t. II, 242; trad. it DAGRON, 1991: 221; altra traduzione italiana in PERTUSI, 1990: 91). 135 Cfr. Giovanni Skylitzes Continuato, in TSOLAKES (1968: 105; trad. ingl. 2010). 136 JENKINS-KITZINGER (1967). 137 MANGO (1988). 138 DAGRON (1996: 395-394, n. 65). 1054: due ecclesiologie in controluce dietro uno scisma mitizzato 101 È noto come l’oriente greco, se da un lato ha conferito una peculiare e coerente elaborazione teologica al rapporto impero-sacerdozio, non ha parallelamente elaborato, sin dal principio, una altrettanto schematica dottrina ecclesiologica: lo ha fatto solo in modo, per così dire, retrospettivo, in quanto sollecitata dall’esuberanza dell’ecclesiologia romana. Soprattutto, in questo preciso momento, l’ecclesiologia orientale non risulta univoca, in quanto all’antico ideale pentarchico – che inquadrava la primazialità romana nel contesto collegiale del governo congiunto dei cinque patriarcati – si affianca, in implicito antagonismo, la rivendicazione costantinopolitana di una propria primazialità nella Chiesa universale – accanto ed in subordine a quella romana –, che conferisce anche alla Nuova Roma un rilievo giurisdizionale all’interno della Pentarchia. Ora, sia l’ecclesiologia costantinopolitana, centrata sulla condivisione con Roma della primazialità, sia quella testimoniata da Pietro di Antiochia, centrata sulla Pentarchia, erano incompatibili, per ragioni diverse, con quella romana, che i riformatori venivano elaborando. È emblematico, al riguardo, il confronto tra il ricorso, da parte sia di Pietro III sia di Leone IX, alla metafora delle sedi patriarcali come i sensi del corpo di Cristo, che è la Chiesa. Per il presule antiocheno – com’egli scrive a Domenico di Grado – il capo del Corpo è Cristo e i cinque patriarcati corrispondono ai suoi cinque sensi – e Roma è uno di essi139 –, mentre per il papa – come si legge nella sua lettera a Michele Cerulario che contestava il trattato di Leone di Ochrida sugli azzimi – è la sede romana a tenere il posto del capo, nella sua funzione di coordinamento dei sensi corporali, corrispondenti agli altri patriarcati140. In età foziana invece Roma era ancora, per l’ecclesiologia romana – almeno secondo Anastasio Bibliotecario –, uno dei cinque sensi, sia pure il più elevato, come la vista141. Proprio per questa incompatibilità ecclesiologica, evidenziata dallo scontro di due contrapposti ideali di riforma, quello romano e quello costantinopolitano, entrambi centrati sulla primazialità, lo scontro del 1054, pur non avendo prodotto lo scisma, ha avuto una portata letale nelle relazioni tra le due Chiese. Cfr. PIETRO DI ANTIOCHIA (1861), Epistola ad Dominicum Gradensem, 4, in WILL (1861: 211-212). Cfr. LEONE IX (1861), Epistola ad Michaelem Constantinopolitanum patriarcham adversus Leonis Achridani libellum, 37, in WILL (1861: 83). 141 Cfr. ANASTASIO BIBLIOTECARIO (1928), Epistulae sive Praefationes, 5, in PERELS-LAEHR (1928: 409); MANSI, XVI, Nicolaus Coleti, Venetiis 1771 (rist. anast.: Akademische Druck-U. Verlagsanstalt, Graz 1960), cc. 1-13, c. 7; Adnotatio Anastasii de libellis, ivi, cc. 29-30. 139 140 Indice Introduzione (Fabrizio Amerini, Riccardo Saccenti) 5 Giuseppe Fornasari Gregorio VII e la riforma gregoriana. Un ripensamento 9 Raffaele Savigni Ruolo storico e teologia del papato nell’Europa carolingia 27 Enrico Morini 1054: due ecclesiologie in controluce dietro uno scisma mitizzato 73 Nicola Naccari Il rapporto tra Sede Apostolica e Oriente greco nel pensiero di Gregorio VII 103 Enrico Spagnesi La rinascita giuridica, il sacerdozio, il regno 129 Roberto Lambertini Manegoldo di Lautenbach tra primato papale e “contratto sociale” 165 Nicolangelo d’Acunto Il potere del papa negli scritti dei polemisti di parte imperiale durante la lotta per le investiture 175 Riccardo Saccenti Vicarius Christi, vicarius Petri. Sviluppi teologici della terminologia gregoriana fra XI e XII secolo 189 David d’Avray The Origins and Aftermath of the Eleventh Century Reform in the light of Niklas Luhmann’s Systems Theory 211 Bibliografia 229 Indice dei nomi 289 Edizioni ETS Piazza Carrara, 16-19, I-56126 Pisa info@edizioniets.com - www.edizioniets.com Finito di stampare nel mese di ottobre 2017