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STORIA DEI RAPPORTI ROMA COSTANTINOPOLI Dal 330 al 1453 Bari 2016

Rome and Constantinople were the main Christian centers of the first millennium. In spite of the many tensions only temporarily they broke the relations. In 1054 the clash was more serious (with reciprocal excommunications), although the schism became real only after the sack of Constantinople in 1204. The attempts of reunion in 1274 and 1439 (Council of Florence) did not have success, because the Easterners were compelled to dialogue by the historical dramatic situation of the Eastern Empire.

Gerardo Cioffari o.p. STORIA DEI RAPPORTI ROMA COSTANTINOPOLI Dal 330 al 1453 Costantino Sol Invictus Bari 2016 1 Capitolo I COSTANTINOPOLI E ROMA DAL 330 AL 519 La nascita di Costantinopoli come città e come centro ecclesiastico è legata alla figura di Costantino, l’imperatore romano (306-337) che segnò una svolta profonda nella vita interna della Chiesa, oltre che nel rapporto di essa con la società romana. Per cui anche la tematica dei rapporti fra Roma e Costantinopoli non può che prendere le mosse da lui. Il IV secolo si apriva per la Chiesa con la micidiale persecuzione di Diocleziano, col conseguente problema ecclesiale provocato dal diverso modo di concepire la legittimità dei vescovi e sacerdoti lapsi. Ma con l’avvento al potere di Costantino fu anche il secolo di quella grande svolta che vide la Chiesa posizionata non più in una condizione di clandestinità, ma in aperto dialogo e collaborazione col potere costituito. Man mano che Costantino prevalse sugli avversari, nel quadro di quel complesso sistema tetrarchico ideato da Diocleziano per meglio governare l’Impero, la Chiesa vedeva prima riconosciuti i suoi diritti e poi, poco a poco, benché numericamente minoritaria, assumeva il ruolo di religione predominante. 1. Il contesto storico: la tetrarchia di Diocleziano Tra la fine del III e i primi del IV secolo si era intanto sviluppata la grande riforma amministrativa voluta dall’imperatore Diocleziano (284-305), che va sotto il nome di tetrarchia. Questa in realtà era cominciata come diarchia (governo di due), poiché Diocleziano già nel 286 aveva nominato suo vice (col titolo di cesare) Massimiano (Marco Aurelio Valerio Massimiano), che avesse cura di governare l’τccidente, mentre egli come augusto continuava ad occuparsi dell’τriente. Pochi mesi dopo, Diocleziano “Giovio” (protetto da Giove) dava il titolo di augusto anche al collega Massimiano “Erculeo” (protetto da Ercole). Sette anni dopo (293) a Milano Massimiano si nominava un vice (cesare) in Occidente nella persona di Costanzo Cloro, Diocleziano faceva altrettanto a Nicomedia in Oriente nella persona di Galerio. Dato che nel 305 Diocleziano e Massimiano abdicarono, i due cesari (Galerio in Oriente e Costanzo Cloro in Occidente) divennero augusti. Galerio si scelse come Cesare Massimino Daia, mentre Costanzo Cloro designava Flavio Valerio Severo. Ma nel 306 il sistema andò in crisi perché, venuto a morte Costanzo Cloro, avrebbe dovuto succedergli il cesare Severo. Ma l’esercito proclamò imperatore Costantino, 2 figlio di Costanzo Cloro, mentre i pretoriani di Roma proclamavamo Massenzio, figlio di Massimiano. Per ovviare alla confusione gli ex-imperatori Diocleziano e Massimiano riunirono un congresso a Carnuntum. Ma, nonostante che la situazione si fosse schiarita con la morte l’anno prima (307) di Severo, le decisioni del congresso la complicarono maggiormente. Si era deciso, infatti, per l’τccidente come augusto Licinio, e come cesare Costantino, mentre per l’τriente restava augusto Galerio e cesare Massimino. Il problema nasceva dal fatto che sia Massimino in Oriente che Costantino in Occidente, non si accontentavano affatto del titolo di cesari, senza dire che in Italia si considerava imperatore Massenzio, il figlio di Massimiano. In tanta confusione un altro piccolo schiarimento si ebbe con la morte di Galerio nel 311, al che Massimino si affrettò ad annettersi l’intero τriente. Quindi i tre augusti (Massimino, Costantino e Licinio) si coalizzarono contro Massenzio. A sconfiggerlo fu Costantino nella celebre battaglia del Ponte Milvio (28 ottobre 312), e dato che l’anno dopo (313) morì Massimino, l’impero fu finalmente diviso in due: l’τriente a Licinio e l’τccidente a Costantino. 2. L’editto di Milano (313) Imperatore dal 306 al 337, Flavio Valerio Costantino era nato verso il 280 da Costanzo Cloro ed Elena a Naisso (Mesia). Avendo seguito il padre nella campagna contro la Britannia, alla morte di questi nel 306 le legioni lo acclamarono 3 imperatore. Non riconosciuto da Galerio, si legò alla famiglia di Massimiano, conquistandosi il suo favore con lo sposare la figlia Fausta. Prima la morte di Massimiano (310) poi quella di Galerio (311) sconvolsero gli equilibri. Con una serie di vittorie militari, Costantino, avendo varcato le Alpi, si diresse verso Roma ove, come si è detto, al ponte Milvio, ottenne la decisiva vittoria contro Massenzio (312), rimanendo unico signore dell’impero d’τccidente. Infatti, subito dopo la vittoria, si accordò con Licinio, riconoscendogli l’τriente. Sembra che, prima della battaglia del Ponte Milvio, a seguito di un sogno in cui aveva visto la croce quale segno di vittoria, ne rimanesse affascinato e lo facesse poi apporre anche sulle armature dei soldati. Incontrando a Milano il suo collega Licinio, Costantino nel 313 promulgò il famoso decreto di tolleranza verso i cristiani. Lattanzio ci ha conservato il testo, che in realtà è la lettera inviata dai due imperatori al governatore di Bitinia: Essendo felicemente convenuti a Milano, Noi, Costantino e Licinio Augusti, trattando tutto ciò che riguarda il bene e la sicurezza dello Stato, tra le cose che pensavamo avrebbero giovato alla maggioranza degli uomini, abbiamo deciso di stabilire prima di tutto quelle che riguardano la religione, in modo da dare ai Cristiani e a tutti la libera facoltà di seguire la religione preferita, affinché la Divinità che risiede nei cieli - qualunque essa sia - possa concedere pace e prosperità a Noi e a tutti i nostri sudditi. […]1 Nel 314 la chiesa ricambiava il favore, e contro una diffusa consuetudine, legiferava nel concilio di Arles la scomunica per i soldati cristiani che abbandonavano il servizio militare. La conseguenza più appariscente dell’editto di Milano fu, specialmente a Roma, lo sviluppo di una grande attività di edilizia cristiana. Sorsero così la Basilica di S. Pietro, quella di S. Giovanni in Laterano, il mausoleo e la basilica di Torpignattara, la basilica di S. Costanza e così via. 1 La morte dei persecutori, cap. 48, 2-12. 4 I rapporti con Licinio però erano destinati ad incrinarsi. E quando Licinio istigò alla ribellione Bassiano, il cesare nominato da Costantino, questi non solo fece mettere a morte il ribelle, ma affrontò l’esercito di Licinio in Pannonia, infliggendogli una pesante sconfitta (314). Nella speranza di una rivincita, Licinio venne a patti cedendo alcuni territori. Non sopportò però dieci anni dopo l’intervento di Costantino contro i Goti nella sua parte dell’impero. Per cui, dichiarò guerra a Costantino, il quale però ancora una volta ne uscì vincitore nelle battaglie di Adrianopoli e Crisopoli (324), e quando Licinio tentò di riprendere il potere con l’aiuto dei Goti, Costantino lo fece uccidere, rimanendo unico imperatore. Senza più Licinio, l’attività edilizia cristiana si diffuse anche in Oriente, specialmente in Asia Minore e in Palestina. 3. Il Concilio di Nicea: il primato di Alessandria e Roma Ormai senza rivali e senza nessuno che potesse contraddire le sue volontà, Costantino dichiarò apertamente la sua fede cristiana, anche se per il battesimo avrebbe atteso l’ultimo periodo della sua vita. Tra le nuove leggi di maggiore incidenza sociale va ricordata la festività della domenica (legge del 3 luglio 321) quando neppure i tribunali potevano lavorare, l’abrogazione delle leggi di Augusto contro il celibato (31 gennaio 320). Nella Vita Constantini Eusebio, pur omettendo la nota Constitutio Sirmondiana Prima del 333 sull’autorità del vescovo (edita come di Costantino nel Codice Teodosiano del 438) fa un’affermazione preziosa che equivale a quella Constitutio: Rinnovò modificandole [le leggi in vigore dai tempi antichi] in modo più conforme alla legge divina [lib. IV, 26,1]. Dopo cinque o sei esempi di leggi modificate aggiunge (IV, 27, 2): Ratificava anche le definizioni approvate dai vescovi nei concili, così che non fosse lecito ai governatori 5 delle province esimersi dall’attenersi alle deliberazioni prese, dal momento che i sacerdoti di Dio sono più autorevoli di qualsiasi magistrato. Ma non tutto procedeva per il meglio. Alcuni nodi provocati dalle persecuzioni, in primo luogo la legittimità dei vescovi fuggiti o lapsi, erano tutt’altro che risolti. Tra i rigoristi, sostenitori della decadenza di questi vescovi dalla loro carica, e i tolleranti, favorevoli ad un loro reintegro dopo una certa penitenza, la lotta era aperta, e spesso si spostava il contenzioso sul terreno teologico. Come avvenne ad Alessandria tra il rigorista Ario (256-336, partito dei Meleziani) e il suo vescovo, il tollerante Alessandro (del partito di Pietro, fuggito durante la persecuzione e suo successore). Entrambi spostarono il conflitto dal piano giurisdizionale a quello dottrinale. Il primo accusava il suo vescovo di sabellianismo (modalismo trinitario), il secondo accusava il suo prete di non credere alla divinità di Gesù Cristo. Falliti i tentativi di metterli d’accordo, Costantino seguì il consiglio di Osio da Cordova e convocò nel 325 il concilio di Nicea. Il Concilio, convocato dall’imperatore Costantino, si tenne fra il 20 maggio ed il 25 agosto 325 (secondo altri si aprì a luglio). Non furono redatti gli Atti, ma solo il Simbolo, 20 canoni, e la Lettera sinodale ai vescovi dell’Egitto, Libia, e Pentapoli 2. Molte notizie sono però sparse nelle opere degli scrittori dell’epoca, come Eusebio di Cesarea (Lettera ai suoi diocesani, Vita di Costantino)3 e Atanasio. Con l’importante intervento di quest’ultimo, dal concilio uscì vincitore lo schieramento favorevole al vescovo Alessandro di Alessandria. Il 6° dei 20 canoni del Concilio, stabilisce il principio che servirà da base alla nascita dei patriarcati. Nel confermare infatti la giurisdizione della sede alessandrina sull’Egitto, la Libia e la Pentapoli, si rinvia alla simile giurisdizione di Antiochia sulla regione circostante, e fa menzione dell’analoga autorità del vescovo di Roma: In Egitto, nella Libia e nella Pentapoli sia mantenuta l'antica consuetudine per cui il vescovo di Alessandria abbia autorità su tutte queste province, come è consuetudine anche per il vescovo di Roma. Ugualmente ad Antiochia e nelle altre province siano conservati alle chiese i loro privilegi. Inoltre sia chiaro che, se qualcuno è divenuto vescovo senza il consenso del metropolita, questo grande sinodo stabilisce che costui non debba essere vescovo. Qualora poi due o tre, per questioni loro personali, dissentano dal voto ben meditato e conforme alle normecclesiastiche degli altri, prevalga la maggioranza. Anche al vescovo di Gerusalemme, con il canone 7, è riservato un certo onore: Poiché è invalsa la consuetudine e l'antica tradizione che il vescovo di Gerusalemme sia onorato, egli riceva tutto quanto questo onore comporta, salva la dignità propria della metropoli. Altri canoni si soffermano sui rapporti dei vescovi con i loro metropoliti. 2 3 Socrate, Storia ecclesiastica, I, 9. Ivi, I, 8. 6 4. Costantinopoli capitale: i concili ariani del 335, 338 e 360 Nel 326 Costantino decise di spostare la capitale a Bisanzio, sulle rive del Bosforo, e la inaugurò nel 330 chiamandola Costantinopoli. Ivi fece pervenire un gran numero di colonne e fregi architettonici in modo da rendere la sua città la vera capitale dell’impero. Il rapporto don la vecchia Roma non fu però del tutto interrotto, come dimostra verso il 332 la decisione del Senato di erigergli l’arco di trionfo che ancora oggi si può ammirare presso il Colosseo. σel 335, mentre divideva l’impero tra i suoi tre figli Costantino II, Costante e Costanzo, il re di Persia Sapore II occupava alcune province orientali. Costantino si preparò quindi ad affrontarlo in guerra, ma non fece in tempo ad allontanarsi di molto da Nicomedia che improvvisamente morì (337) in circostanze poco chiare. Già prima della morte dell’imperatore si ebbe modo di constatare il fallimento del concilio nel riportare la pace nella Chiesa. Costantino pregò il nuovo vescovo di Alessandria, Atanasio (328), di ammorbidire la sua posizione nei confronti degli Ariani. E al suo ripetuto diniego lo mandò in esilio a Treviri. Al ritorno (337), nonostante l’appoggio di sant’Antonio abate, gli ariani capeggiati da Eusebio di Nicomedia lo espulsero mettendo al suo posto tale Gregorio di Cappadocia. Furono questi i primi tempi dei rapporti Roma – Costantinopoli. Vivente Costantino, infatti, nel 335 si era tenuto a Costantinopoli un concilio in cui aveva prevalso la corrente ariana, e che si era concluso con la deposizione di Marcello di Ancira, che aveva pubblicato un’opera contro l’ariano Asterio il Sofista. Il condannato riparò a Roma. 7 In un secondo concilio a Costantinopoli nel 338 gli ariani ebbero ancora il sopravvento. Il loro capo, Eusebio di Nicomedia, prese il posto di Paolo come arcivescovo della città. Eusebio di Nicomedia convinse l’imperatore ad espellere Atanasio da Alessandria nel 339, ed anche questi come Marcello di Ancira riparò a Roma. Quattro anni dopo (343), con Osio di Cordova, Atanasio partecipò al concilio di Serdica, che promulgò il canone relativo al diritto di ogni vescovo di appellarsi a Roma. Naturalmente gli ariani non riconobbero questo concilio, tanto più che, come si è visto, negli ultimi anni Roma era diventato il rifugio degli ortodossi perseguitati. Dopo alcuni anni di calma grazie all’imperatore Costante, con Costanzo gli ariani presero di nuovo il sopravvento e anche il papa Liberio ne fece le spese, venendo esiliato nel 354 a Berea (Tracia). Dato che poi rientrò a Roma (facendo il papa insieme a Felice II che nel frattempo aveva preso il suo posto) grazie a 3 lettere all’imperatore in cui sembra prendesse le distanze da Atanasio, gli ariani interpretarono l’episodio che un passaggio del papa al loro partito. A Costantinopoli nel 360 si tenne un terzo concilio nel quale ebbero la meglio gli Omeisti, aderenti ad una corrente moderata dell’arianesimo. Al concilio partecipò anche Ulfila, vescovo dei Goti. Al termine, dopo aver ratificato i canoni di Rimini e Seleucia, fu deposto S. Cirillo di Gerusalemme. Questi infatti pur usando l’aggettivo “simile” aggiungeva “in tutto”, cosa che non piaceva agli ariani anche se moderati (che preferivano un “simile” più generico). La controversia dunque era destinata ad avere esiti diversi a seconda dell’imperatore in carica. Dopo la breve parentesi di Giuliano l’Apostata, che segnò un ritorno al paganesimo, l’imperatore Valente difese apertamente l’arianesimo. Fu solo con Teodosio I (379-395) che l’ortodossia trovò il suo convinto difensore. Era ancora nel pieno delle vicende gotiche quando, insieme agli augusti Graziano e Valentiniano II (di 9 anni), promulgò l’editto di Tessalonica (Cunctos populos, 27 febbraio 380), con il quale si faceva un passo decisivo nella legislazione nicena e antipagana. Ecco il testo: “Editto al popolo della città di Costantinopoli. Vogliamo che tutte le nazioni che sono sotto nostro dominio, grazie alla nostra clemenza, rimangano fedeli a questa religione, che è stata trasmessa da Dio a Pietro Apostolo, e che egli ha trasmesso personalmente ai Romani, e che è mantenuta oggi dal Pontefice Damaso e da Pietro, vescovo di Alessandria, persona di apostolica santità; cioè dobbiamo credere conformemente con l'in-segnamento apostolico e del Vangelo nell’unità della natura divina di Padre, Figlio e Spirito Santo, che sono uguali nella maestà e nella santa Trinità. Dato in Tessa-lonica nel terzo giorno delle calende di marzo, nel quinto consolato di Graziano Augusto e nel primo di Teodosio Augusto”4. 4 Cfr. Codex Theodosianus, XVI, De fide catholica, 1,2. 8 Al 390 risale il drammatico episodio di Tessalonica, in cui la folla inferocita uccise il goto Buterico, magister militum dell’Illirico e governatore che aveva abolito i giochi a causa di un auriga gay. Ad evitare una rivolta dei goti, Teodosio decise di punire la popolazione per quel gesto. Organizzò una gara di bighe che aveva tutta l’aria di far riprendere i giochi, ed invece, ad un certo punto diede ordine di chiudere le porte del circo, e le 7000 persone furono barbaramente uccise. Ambrogio, vescovo di Milano gli scrisse una lettera, rimproverandolo aspramente ed imponendogli una penitenza, che fu tolta solo nel natale di quell’anno. 5. Il secondo concilio ecumenico: Costantinopoli 381 Il Concilio di Costantinopoli del 381 fu convocato dall’imperatore Teodosio I, desideroso di riportare l’impero all’ortodossia nicena. Il papa, che aveva convocato un concilio ad Aquileia per il mese di settembre, non fu invitato 5. σell’atmosfera dell’epoca d’oro della patristica (sia greca che latina) il concilio vide la presenza di padri quali Gregorio di Nazianzo, Gregorio di Nissa, Cirillo di Gerusalemme, Diodoro di Tarso e Anfilochio di Iconio. La personalità di maggior spicco tra i 150 padri fu Gregorio di Nazianzo, noto alla patristica come all’iconografia come Gregorio il Teologo, amico di S. Basilio il Grande. L’assemblea lo riconobbe come vescovo di Costantinopoli, benché la sua elezione apparisse irregolare (a Nicea si era proibito qualsiasi trasferimento di sede episcopale), essendo egli vescovo di Sasima. La sua vittoria fu anche la vittoria della divinità dello Spirito Santo, che andò a coronare la dottrina cristiana sulla Trinità. Allorché l’anno dopo il concilio, il papa Damaso invitò gli orientali ad un concilio da tenersi a Roma, ebbe questa risposta: Avremmo desiderato tutti di poter lasciare le nostre chiese e venire incontro ai vostri desideri e ai vostri bisogni. Ma chi ci darà le ali della colomba per poter volare e stare presso di voi? Noi non possiamo lasciare le nostre Chiese che 5 Ep. 5, ad Acolio, PL 13. 9 cominciano appena a rimettersi. Del resto, aggiungevano, la nostra fede è ortodossa, e le decisioni in ogni eparchia le prende il vescovo di quell’eparchia (sottinteso: il viaggio è quindi inutile)6. Il terzo dei quattro canoni di questo concilio suona: Il vescovo di Costantinopoli avrà il primato di onore dopo il vescovo di Roma, perché questa città è la nuova Roma. Con questo canone si ribaltava l’ordine dei futuri patriarcati, con Costantinopoli che scavalcava Alessandria. Cosa che naturalmente non piacque agli arcivescovi di Alessandria, come Teofilo e Cirillo, i quali per molti decenni ancora intervennero nelle vicende costantinopolitane cercando di condizionarne la politica ecclesiastica. Anche Roma reagì qualche decennio dopo a questo nuovo equilibrio di poteri giurisdizionali. In particolare, il papa Innocenzo I nel 417 (in una lettera al sinodo di Cartagine del 417) esplicitava in modo compiuto il primato romano collegandolo a S. Pietro, e non al fatto di essere capitale dell’impero. Il senso del primato è così espresso: I Padri infatti presero non con umano ma con divino sentire la decisione che qualsiasi cosa venisse trattata anche nelle province più lontane e remote, si ritenesse di non doverla fissare, prima che non ne fosse pervenuta notizia a questa sede, affinché le decisioni espresse che fossero giuste, venissero confermate con tutta la sua autorità e di là attingessero le rimanenti chiese7. In una lettera al sinodo di Milevi dello stesso anno diceva: Ogni volta che viene discussa la dottrina della fede reputo che tutti i nostri fratelli e coepiscopi debbano riferirsi a Pietro, cioè al detentore del suo nome e del suo ministero8. Ma Roma era lontana e soprattutto non apprezzava quella ascesa di Costantinopoli. Per cui gli Alessandrini, sentendosi sorretti dai papi del tempo, sorvolarono su queste prese di posizione sul primato assoluto su tutte le chiese. S. Giovanni Crisostomo rimprovera l’imperatrice Eudossia. Ivi, V, 9 PG 82, 1212-17. Denzinger H., Enchiridion Symbolorum, a cura di P. Hünermann, Dehoniane, Bologna 1995, n. 217 8 Ivi, n. 218. 6 7 10 6. Alessandria contro Costantinopoli: Efeso 431. Il nuovo imperatore, Teodosio II (+450), si era riproposto come sua precipua missione di far trionfare la Chiesa nicena in Oriente, e questo suo impegno ebbe la sua ripercussione anche in Occidente. Solo che, mentre in occidente il primato di Roma non era contestato da altre sedi (neppure da quella di Milano), in oriente il nuovo primato di Costantinopoli dava fastidio ad Antiochia e soprattutto ad Alessandria. A Valentiniano III risale un editto del 17 luglio 445 che stabilisce il primato in Occidente della sede romana: Nulla deve essere fatto contro o senza l’autorità della Chiesa romana. Così almeno in termini di legislazione l’unità ecclesiale era ristabilita. In oriente invece la competizione fra Alessandria e Costantinopoli trovava terreno fertile prima nelle controversie origeniane e poi nelle polemiche fra nestoriani e monofisiti. Tra il 429 e il 438 Teodosio II dispose che venissero raccolte tutte le leggi approvate nel IV secolo fino alle sue. Nacque così il celebre Codex Theodosianus che esercitò un certo influsso anche sui regni germanici dell’occidente. Una legge di questo codice, risalente a Graziano ma ripresa da Arcadio, sanciva come criterio di eresia qualsiasi distacco dottrinale rispetto alla Chiesa di Roma: qui vel levi argumento indicio catholicae religionis et tramite detecti fuerint deviare9. Patriarca di Costantinopoli dal 428, Nestorio, di formazione antiochena, stava improntando la sua predicazione sulla difesa dell’ortodossia. In alcune sue prediche, ritenendo che così facendo salvaguardava la perfezione della divinità del Figlio, si scagliò contro il termine theotokos che gli sembra esagerare il ruolo di Maria e soprattutto mettere un inizio alla divinità del Cristo. In altri termini per lui è fondamentale non solo affermare le due nature in Cristo, ma anche che non c’è alcuna mescolanza neppure dopo l’incarnazione. La divinità nella sua perfezione rimane al di sopra delle sensazioni umane, e quindi non può soffrire o patire e tantomeno morire. Dire che Maria è madre di Dio significa che anche la divinità del Figlio di Dio ha un inizio nel tempo. Cirillo, che con lo zio Teofilo era intervenuto pesantemente contro S. Giovanni Crisostomo, reagì aspramente levandosi a difesa dell’unità divinoumana del Cristo. Una eccessiva separazione, a suo avviso, creava una giustapposizione, a motivo della quale non si poteva parlare dell’unità di Gesù e del Figlio di Dio, ma di due esseri paralleli. Cirillo ebbe ben presto il sostegno del papa Celestino, mentre Nestorio si 9 Cod. Theod. XVI, 5 De haereticis, 28 . 11 rivolse all’imperatore Teodosio II, il quale per il 7 giugno 431, giorno di pentecoste, convocò un concilio a Efeso. Papa Celestino inviò come suoi rappresentanti i vescovi Arcadio e Proietto, e il prete Filippo. Giovenale di Gerusalemme e i vescovi della Palestina giunsero solo il 12 giugno. Il ritardo degli altri creò un’atmosfera di impazienza e confusione. Forte di una lettera del papa Celestino10 che lo considerava suo rappresentante, il 21 giugno Cirillo, senza attendere l’arrivo degli altri vescovi, dava inizio al concilio. Teodosio II, per mettere fine alle risse, annullò le conclusioni di questo primo concilio come pure le risoluzioni degli oppositori. Agli inizi di luglio un nuovo concilio si riunì e i rappresentanti del papa fecero leggere la lettera di Celestino al concilio (commento: “Celestino pensa come Cirillo”). L’11 luglio i legati papali approvavano la deposizione di σestorio. Il 16 e 17 luglio fu condannato anche Giovanni d’Antiochia e una trentina di vescovi suoi seguaci. A livello ecclesiologico dunque, durante tutta la controversia, Roma sembrava spalleggiare Alessandria. Un’alleanza che, più tardi, verrà espressa nella formula di fede di Calcedonia con queste parole: Il monaco Eutiche, il Patriarca Flaviano e il Papa Leone Magno il santo sinodo che si è tenuto ad Efeso, presieduto da Celestino di Roma e Cirillo vescovo di Alessandria 11. 7. Calcedonia 451: avvicinamento dottrinale, ma canone 28 La vittoria della sede alessandrina (con San Cirillo), nei confronti di quella costantinopolitana, con Nestorio (patriarca del 428 al 431), risultò in una tregua per diversi anni. Ma poi le tensioni ripresero, perché la crescita della sede costantinopolitana, in quanto nuova capitale, appariva inarrestabile. Alcuni anni dopo, il monaco Eutiche, superiore di un importante monastero costantinopolitano, predicando contro Nestorio insisteva sul fatto che al momento dell’incarnazione il Figlio di Dio aveva dato la personalità a Gesù, che così risultava avere una sola natura (monofisismo), quella divina. Il patriarca Flaviano convocò un sinodo e lo fede dimettere da superiore. Eutiche accusò il suo patriarca presso il patriarca di Alessandria Dioscoro, succeduto nel 444 a san Cirillo. Un concilio 10 11 Ep. 16. Schwartz A.C.O., cit., II, I, 2; Specialisti, cit., 94. 12 tenutosi nel 449, a seguito delle accuse di Dioscoro, depose Flaviano, che scrisse al papa Leone Magno. Questi rispose con un famoso documento noto appunto come Tomo a Flaviano, il cui concetto di fondo è che Cristo è vero Dio e vero uomo: Rimanendo integra la proprietà dell’una e dell’altra natura e unendosi in una sola persona, l’umiltà è stata assunta dalla maestà, la debolezza dalla potenza, la mortalità dall’immortalità; per pagare il debito della nostra condizione (umana), poi, la natura inviolabile si è unita a quella passibile, sì che — e ciò era congruo alla nostra guarigione — l’unico e medesimo Mediatore fra Dio e gli uomini, l’uomo Gesù Cristo [1 Tm 2,5], potesse per un verso morire e per l’altro non potesse morire. Perciò il vero Dio è nato nella natura integra e perfetta di uomo vero, tutto intero in ciò che è suo, tutto intero in ciò che è nostro [...] Qui verus est Deus idem verus est homo. Una formula che dispiacque ad entrambi i partiti. In particolare i cirilliani si sentirono traditi, dopo tutto l’appoggio del papa Celestino. Quel “due nature” cozzava apertamente con la “mia fysis” di Cirillo. Per cui Roma era considerata nestoriana. La nuova formula di Calcedonia sanciva la nuova alleanza fra Roma e Costantinopoli sul piano dottrinale; al contempo però gettava le basi del millenario conflitto giurisdizionale. Il concilio di Calcedonia è infatti ricordato spesso per il canone 28, per le sue forti ripercussioni sul primato romano. Esso fu approvato in assenza dei legati papali e fu mantenuto nonostante le loro successive proteste. Il testo, sviluppando il terzo canone del concilio costantinopolitano del 381, ribadisce che la sede di Costantinopoli viene subito dopo quella di Roma, con diritto di consacrare i metropoliti di Tracia, Ponto e Asia, nonché i vescovi di tali diocesi che si trovassero ad operare in territorio barbarico. σell’esplicitare il secondo posto rispetto al primo dell’antica Roma, giustifica il primato di quest’ultima nei seguenti termini: giustamente i Padri hanno attribuito il primato alla sede della Roma antica, perché questa città era la capitale dell’impero. Il canone aveva tutta l’aria di riequilibrare il solenne riconoscimento conciliare dato alla sede romana in occasione della deposizione di Dioscoro da parte dei legati papali: Leone per mezzo nostro e di questo santo Concilio, in unione con il Beato Pietro Apostolo che è la pietra angolare della Chiesa cattolica ed il fondamento della fede ortodossa, gli ha tolto l’episcopato ed ogni dignità sacerdotale. In altre parole, il primato dell’antica Roma per gli occidentali trovava il suo fondamento nella fede di Pietro e nel suo primato fra gli Apostoli, per gli orientali era un primato di contingenza storica, essendo Roma la capitale dell’impero. Ecco il testo: Seguendo in tutto i decreti dei santi padri, preso atto del canone or ora letto dei 150 reverendissimi vescovi, che sotto l'imperatore Teodosio il Grande, di pia memoria, si riunirono nella città imperiale di Costantinopoli, nuova Roma, anche noi approviamo e prendiamo la stessa decisione riguardo ai privilegi della santissima chiesa di Costantinopoli, nuova Roma. Giustamente i padri concessero privilegi alla sede dell'antica Roma, perché questa città era la città 13 imperiale. Per lo stesso motivo i 150 venerabili vescovi hanno accordato uguali privilegi alla santissima sede della nuova Roma, giudicando, a ragione, che la città onorata dalla presenza dell'imperatore e del senato e godendo di privilegi civili uguali a quelli dell'antica città imperiale di Roma, dovesse apparire altrettanto grande anche nel campo ecclesiastico essendo la seconda dopo Roma. Di conseguenza, i metropoliti delle diocesi del Ponto, dell’Asia e della Tracia, e questi soli, e i vescovi delle parti di queste diocesi poste in territorio barbaro saranno consacrati dalla sacratissima sede della santissima chiesa di Costantinopoli. E’ chiaro che ciascun metropolita delle diocesi sopraddette potrà, con i vescovi della provincia, ordinare i vescovi della stessa provincia, come prescrivono i sacri canoni; i metropoliti delle diocesi che abbiamo sopra elencato, dovranno invece essere consacrati dall'arcivescovo di Costantinopoli dopo elezione concorde fatta secondo la prassi e a lui notificata. Visto che papa Leone taceva, e che dopo un anno e mezzo non aveva ancora approvato il concilio, nel 453 Marciano gli scrisse chiedendogli di approvare formalmente i canoni promulgati in assenza dei suoi legati. Leone confermò tutta la parte dottrinale (in sola fidei causa), ma per il canone 28 sospese il giudizio, sottolineando che i diritti delle chiese non devono essere alterati 12. 8. Il primo scontro fra Roma e Costantinopoli: lo scisma acaciano Il concilio di Calcedonia si era chiuso dunque con un compromesso che risultava indigesto per tutte le parti in lotta. La maggioranza cirilliana e filomonofisita aveva dovuto ingoiare la riabilitazione di Teodoreto a motivo del fatto che Roma lo considerava ortodosso. I filo-nestoriani erano contenti, ma avevano dovuto accettare l’insistenza sull’unicità della persona di Cristo, che appariva come una confusione nelle due nature. I rappresentanti del papa avevano vinto, ma avevano dovuto ingoiare l’umiliazione cui fu sottoposto Teodoreto, costretto a scomunicare pubblicamente Nestorio. Quale che fosse la verità, certo è che l’impressione generale era che il nestorianesimo avesse vinto con l’appoggio del papa Leone. Appena rientrati nelle loro sedi dopo il concilio di Calcedonia i monofisiti passarono all’azione, piombando nelle principali sedi vescovili, e mettendo su quelle cattedre vescovi monofisiti. 12 Ep. 114, I in PL 54. 14 Dato che il partito monofisita era nettamente più forte e aggressivo, sia gli imperatori che i patriarchi di Costantinopoli tentarono di conquistarsene l’amicizia. L’imperatore Basilisco nel 476 promulgò un’enciclica contro il Concilio di Calcedonia. Persino Zenone, imperatore ortodosso, promulgò un decreto di unione, l’Henotikon (482), favorevole ai monofisiti, che fu accettato da Pietro Mongo patriarca alessandrino, ma non dai monaci, che rappresentavano il monofisismo più intransigente, e che d’allora si chiamarono “acefali”. Il nuovo decreto intendeva riportare la pace fondandosi sui primi tre concili ecumenici, rigettando Calcedonia, condannando allo stesso tempo Nestorio ed Eutiche e avendo teologicamente come punto di riferimento i 12 anatematismi di Cirillo. Quando persino il patriarca di Costantinopoli, Acacio, per calmare i monofisiti, emise un decreto che ogni nuovo vescovo nell’ordinazione avrebbe dovuto condannare Teodoreto ed Iba 13, Roma reagì. Era schierata con Cirillo, ma non intendeva anatematizzare Teodoreto che era morto nella pace con la Chiesa. Il papa Felice III accusò lo stesso Acacio di monofisismo. I sinodi romani del 484 e 485 anatematizzarono Pietro di Antiochia, Pietro di Alessandria e lo stesso Acacio, il quale rispose rimuovendo il nome del papa dai dittici di Costantinopoli. Iniziava così lo scisma acaciano (484-519). L’imperatore Anastasio (491-518) pose sul trono patriarcale di Costantinopoli il monofisita Timoteo, e quindi lo scisma si protrasse per molti anni ancora. Si concluse soltanto allorché il nuovo imperatore Giustino (518-527) nel 519 spinse il patriarca Giovanni di Cappadocia a firmare la formula che papa Ormisda aveva già inviato dal 515 a Costantinopoli e che iniziava con queste parole: L’inizio della salvezza è custodire la regola della retta fede e non deviare in nessun modo da quanto stabilito dai Padri. E giacché non si può non tenere conto della sentenza del Signore nostro Gesù 13 Facondo, PL 67, 857. 15 Cristo, che dice “Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa (Mt 16,18), quanto fu detto viene dimostrato dai fatti che seguirono, poiché presso la sede apostolica la religione cattolica è sempre stata conservata immacolata14. Nel seguito di questo Libellus fidei il papa ribadisce la condanna di Nestorio confermando la dottrina di Celestino e Cirillo. Lancia l’anatema contro Eutiche e Dioscoro, contro Timoteo Eluro e Pietro d’Alessandria, contro Acacio di Costantinopoli e Pietro d’Antiochia, fissando come dottrina ortodossa quella del papa Leone Magno. Il patriarca Giovanni di Cappadocia accolse l’invito dell’imperatore e fece una dichiarazione con la quale accoglieva la dottrina espressa nella formula di Ormisda. Tuttavia, nel firmarla, esprimeva la gioia che l’antica e la nuova Roma, che possiedono un uguale grado d’onore, hanno ritrovato l’unità15. In altri termini: Roma vinceva grazie alla condanna di Acacio e del monofisismo, ma Costantinopoli non perdeva, perché veniva riaffermato l’uguale grado d’onore delle due capitali della cristianità. 14 15 Denzinger, ed. cit., n. 363. PG 63, 443-445. 16 II DA GIUSTINIANO A CARLOMAGNO 527-814 Giustiniano fu l’ultimo imperatore bizantino in grado di tener testa ai barbari. Era oltre un secolo che questi attraversavano senza incontrare resistenza l’impero romano, la cui unità era stata già incrinata dagli imperatori stessi con le spartizioni territoriali. Dopo la disfatta di Adrianopoli ad opera dei Goti (378), il sacco di Roma del 410 ad opera di Alarico e la minaccia di Attila nel 451/452, la rivolta contro il generale Oreste e il figlio Romolo Augustolo sfocia quasi naturalmente nella acclamazione a re del barbaro τdoacre (476). E’ la data tradizionale della fine dell’Impero Romano. Così, mentre la parte orientale dell’impero manteneva una parvenza di unità, quella occidentale si strutturava in una frammentazione di regni romano barbarici: i Vandali in Africa, i Visigoti in Spagna, Franchi e Alamanni e altri tra Francia e Germania. E finalmente in Italia, Odoacre sconfitto era rimpiazzato dall’ostrogoto Teodorico (455-526), che era di confessione ariana. Con gli ostrogoti di Teodorico avvenne quella saldatura romano germanica che si avvalse dell’opera di Boezio (476-525) e Cassiodoro (490-583). Gli imperatori d’oriente avevano dovuto assistere impotenti di fronte alla perdita dell’occidente. Poi venne Giustiniano e le cose cambiarono. 17 1.- Giustiniano e Teodora: il papato condizionato dall’Impero Come Diocleziano e Costantino, anche Giustiniano era nato nell’Illirico16, e precisamente nel villaggio di Bederiana, tra σiš e Skopje. Ben presto si dimostrò buon organizzatore e fece in modo che le fortezze della zona fossero ben difese. Più fortuna ebbe il fratello della madre, Giustino, il quale recatosi a Costantinopoli fece una rapida carriera sotto l’imperatore Anastasio I (+518). Alla morte di questi, Giustino come guardia del palazzo, prevalse su altri candidati e fu incoronato imperatore. Non avendo figli dalla moglie Lupicina, chiamò i nipoti a corte, e fra questi Pietro Sabbazio. Anche questi, avendo ricevuto una buona educazione, bruciò le tappe e in breve tempo fu nominato magister equitum, e a seguito di vari consolati completò il suo nome come Flavius Petrus Sabbatius Iustinianus. Nel 521 durante uno spettacolo Giustiniano fu attratto dall’attrice Teodora, figlia di un guardiano di orsi dell’ippodromo. Fattala sua concubina, nel 524 la sposò con la benedizione del patriarca. Ormai col titolo di patrizio, Giustiniano alla morte di Giustino (527) fu incoronato imperatore dal patriarca di Costantinopoli. Già nel 532 Giustiniano dovette domare una terribile rivolta scoppiata nell’ippodromo. Alle corse con le quadrighe la tifoseria era schierata in particolare per gli Azzurri e per i Verdi, squadre a cui corrispondevano altrettanti partiti politici che aspiravano ad avere un certo peso nelle decisioni imperiali. Essi ce l’avevano soprattutto con i ministri Triboniano e Giovanni di Cappadocia, che non tenevano in conto alcuno le loro attese. All’improvviso, invece di gareggiare tra di loro, sia gli aurighi che le tifoserie smisero di contrastarsi e al grido di Nika (il grido dei vincitori) cominciarono una vera e propria rivoluzione. Dilagando in città, assaltarono il palazzo imperiale e distrussero la chiesa di Santa Sofia. Impaurito, Giustiniano voleva fuggire. Ma Teodora dinanzi Dalla ricca bibliografia su Giustiniano segnalo E. Schwartz, Zur Kirchenpolitik Justinians, in “Gesammelte Schriften”, IV, Berlin 1960, pp. 276-320; G. Archi, L’imperatore Giustiniano. Storia e mito, Milano 1978; O. Mazal, Justinian I und seine Zeit, Wien 2001; K. H. Uthermann, Kaiser Justinian als Kirchenpolitiker und Theologe, in “Augustinianum” 39 (1999), pp. 5-83; M. Simonetti, La politica religiosa di Giustiniano, in G. Archi (a cura di), Il mondo del diritto nell’epoca giustinianea, Ravenna 1985, pp. 91-111. 16 18 al senato pronunciò nobili e coraggiose parole, che avrebbero dissuaso Giustiniano dal fuggire, permettendo a Narsete di fronteggiare la situazione e a Belisario e Mundo di irrompere nell’ippodromo e massacrare migliaia di rivoltosi. Passato il pericolo, Giustiniano riprese i suoi programmi politico militari, spalleggiato sempre dalla moglie Teodora, che aveva abbandonato le vesti dell’attrice leggera ed aveva rivestito quelle della grande imperatrice. Grazie ai generali Belisario e Mundo Giustiniano riconquistò gran parte dei territori cristiani sia in Africa che in Dalmazia e Italia. Caduto in disgrazia Belisario, il comando in Italia fu preso da Narsete che con ingenti forze nel 552 entrava in Ravenna e poco dopo sconfiggeva Totila, assicurando l’intera Italia all’impero d’oriente e permettendo ai cattolici di prendersi le chiese degli ariani. Nel 565 moriva però Giustiniano e dieci anni dopo Narsete a Roma. Il tutto alla vigilia dell’invasione dei Longobardi del re Alboino, che per secoli avrebbe cambiato il volto dell’Italia. Giustiniano però lasciava due grandi eredità: il Codice giustinianeo, che segnerà per secoli la legislazione cristiana, e splendide chiese a Costantinopoli, come si evince dal De aedificiis di Procopio di Cesarea. In particolare, l’ampliamento di Santa Sofia gli avrebbe fatto esclamare: Salomone ti ho superato. Durante il suo impero il Patriarcato di Costantinopoli crebbe in splendore esteriore e in decorazioni liturgiche, ma restò del tutto in ombra rispetto al decisionismo imperiale. E fu l’imperatore a mantenere i rapporti con Roma, interferendo come mai prima nella storia, nelle elezioni pontificie. 19 Con la moglie Teodora che proteggeva i monofisiti, e Giustiniano decise di organizzare delle conferenze fra ortodossi e monofisiti a Costantinopoli. Il confronto fu aspro perché anche il papa Agapito aveva una grande personalità e, giunto nel 536 in missione a Costantinopoli, fece deporre Antimo e consacrò Mena patriarca. Il papa morì a Costantinopoli e il suo posto lo prese S. Sabino di Canosa che riuscì a far condannare i monofisiti Antimo e Severo. Ma appena i legati papali lasciarono la capitale l’imperatrice Teodora cominciò a tessere una rete di intrighi. Con la promessa di farlo eleggerlo papa, corruppe l’apocrisiario Vigilio che riabilitò i condannati. Effettivamente Vigilio divenne papa appena Belisario a Roma accusò papa Silverio di aver ostacolato la riconquista di Roma. Vigilio però non condannò il concilio di Calcedonia. Alla morte di Teodora (548) fu lo stesso Giustiniano a fare pressioni sul papa Vigilio affinché condannasse i tre capitoli (Teodoro di Mopsuestia, Teodoreto e Iba). Vigilio resistette a lungo, anche durante il concilio del 553 a Costantinopoli, ma le minacce e i ricatti di Giustiniano (contro il clero latino) lo piegarono e il 23 febbraio 554 cedette e condannò questi tre teologi che la Chiesa romana considerava deceduti in armonia con la dottrina ortodossa. Alla sua morte di Silverio (555) Giustiniano poneva sul trono papale Pelagio, solo dopo che ebbe accettato il concilio. La chiesa di Roma a lungo si rifiutò di riconoscerlo o lo riconobbe con molte riserve. Al concilio di Toledo del 589 ad esempio i Padri, nel formulare la professione di fede facevano riferimento sempre a 4 concili 17. 17 Mansi IX, 987; PL 84, 384. 20 2. Gregorio Magno: “Patriarca ecumenico” un titolo di superbia Al regno degli Ostrogoti con Teodorico agli inizi del VI secolo, e poi ai Goti di Totila, era succeduta in Italia la restaurazione di Giustiniano, con la creazione dell’esarcato di Ravenna. Ora, mentre l’esarca di Ravenna si preoccupava degli interessi dell’Imperatore d’Oriente, il papa di Roma si preoccupava di tutta la penisola italiana, oltre che della stessa città di Roma. L’epoca successiva a Giustiniano è caratterizzata dunque dai grandi regni barbarici, in particolare dei Longobardi, per l’Italia, ma anche dei Visigoti, dei Franchi e di vari altri popoli barbari. Nel corso di questi secoli la Chiesa svolse un ruolo tendente a mitigare la violenza delle continue guerre tra popoli di diversa etnia. L’uomo chiave di questa storia è il papa di Roma Gregorio Magno. Con lui la Chiesa romana, nonostante lo spettacolo scoraggiante della misera situazione di tante chiese locali devastate (ben fotografato dal suo ampio epistolario), riacquista il senso del suo orgoglio e della sua dignità. Nobile romano della famiglia degli Anicii, Gregorio Magno nacque verso nel 540. Dopo una rapida carriera politica nel 570 era prefetto di Roma, massima autorità in una città però dissestata dalle precedenti guerre, e che comunque faceva capo a Ravenna, la capitale bizantina d’Italia. Intorno al 575 cominciò ad avvertire aspirazioni religiose che lo portarono vicino al movimento monastico benedettino. Per circa 6 anni risiedette a Costantinopoli come apocrisiario (nunzio) di papa Pelagio II, guadagnandosi la stima dell’imperatore Maurizio I. Rientrato a Roma, andò nel monastero da lui eretto, ove fu eletto abate. Stava svolgendo tale ufficio quando venne a morte il papa Pelagio II (590), e il clero e il popolo romano lo elessero a succedergli sulla cattedra di Pietro. Il suo compito era molto difficile a causa della situazione politica e militare. Il rappresentante dell’imperatore bizantino in Italia, Romano, esarca di Ravenna, aveva poche forze militari, per cui alla richiesta di aiuti da parte di Gregorio non interveniva. Al che Gregorio scriveva innervosito: rifiuta di combattere i nostri nemici e vieta a noi di concludere la pace (lettera all’arcivescovo di Ravenna Giovanni). Senza aiuti militari Gregorio Magno dovette ricorrere a tutta la sua esperienza diplomatica per tenere a bada l’aggressivo duca di Spoleto Ariulfo 21 Ma questa tregua era malvista dall’esarca di Ravenna, che la violò riconquistando alcune città strategiche. Al che accorse da Pavia il re dei longobardi Agilulfo ponendo nel 693 Roma sotto assedio. Gregorio fu costretto ad organizzarne la difesa. Poi, vista l’impossibilità a resistere, mentre l’imperatore d’τriente non dava segni di vita, decise di arrendersi con la promessa di Agilulfo di non saccheggiare la città, in cambio del pagamento di 5000 libbre d’oro. Gregorio comunicò la cosa a Maurizio I con queste parole: «Con i miei stessi occhi, ho visto i romani legati come cani da una corda al collo che venivano condotti via per essere venduti come schiavi in Francia”. A questo punto, il rapporto con l’imperatore Maurizio cominciò ad incrinarsi. E fu proprio in questa brutta fase dei rapporti con l’impero che si ebbe lo scontro sul titolo di patriarca ecumenico di cui si insigniva il patriarca di Costantinopoli. Pur avendo consapevolezza del suo compito come punto di riferimento dell’unità della Chiesa universale, Gregorio Magno si occupò del primato solo indirettamente e specialmente in risposta al titolo di ecumenico, di cui da qualche tempo i patriarchi di Costantinopoli si fregiavano. Nei confronti dell’imperatore si pose sempre come fedele suddito, anche se data la situazione in Italia più volte espresse il suo disaccordo con la corte bizantina. Nei confronti dei patriarchi ebbe un atteggiamento corretto, inviando la lettera sinodica della sua elezione. Particolarmente buoni erano i rapporti col patriarca di Alessandria, anche se Gregorio lo riprese per i tentativi di intesa con i monofisiti, che costringevano il patriarca a posizioni poco chiare sull’accettazione del concilio di Calcedonia. 22 Quando nel 593 giunsero a Roma due sacerdoti greci (Giovanni di Calcedonia e Atanasio di Milo) che, condannati da un sinodo costantinopolitano (uno perché “marcianita”, l’altro perché “messaliano”), erano venuti ad appellarsi al papa, questi richiese gli atti di quel sinodo. Dopo averli esaminati, biasimò il patriarca per aver così maltrattato due sacerdoti, per di più accusati di cose futili. E’ interessante notare che l’intervento papale non suscitò alcuna reazione da parte del patriarca o dell’imperatore18. La questione però sulla quale ebbe a tornare più volte fu quella del titolo che i patriarchi di Costantinopoli si arrogavano, quello di patriarca ecumenico. La protesta da parte di un papa si era avuta già col predecessore di Gregorio, Pelagio II. Questi aveva qualificato come illegale un sinodo convocato dal patriarca di Costantinopoli e al quale era stato citato il patriarca di Antiochia, aggiungendo la denuncia del titolo di patriarca ecumenico”19. Ma invano. Tale titolo, che risaliva agli anni dello scisma acaciano (484-519), ricorreva quasi ad ogni pagina negli atti sinodali che avevano condannato i due sacerdoti suddetti. Per cui il papa Gregorio protestò presso l’imperatore Maurizio. E quando questi gli chiese di lasciar correre, rispose: « ...Quando noi lasciamo la posizione che ci spetta, e assumiamo noi stessi onori indecenti, alleiamo i nostri peccati con le forze dei barbari... Come possiamo scusarci per predicare una cosa al nostro gregge, e poi mettere in pratica l'opposto? ... Maestri di umiltà e generali di superbia, noi nascondiamo i denti da lupo dietro un volto da pecora. Ma Dio ... sta infondendo nel cuore del nostro piissimo Imperatore la volontà di restaurare la pace nella Chiesa. Questa non è la mia causa, ma quella di Dio stesso. Fu a Pietro... che il Signore disse: "Tu sei Pietro, e su questa pietra fonderò la mia Chiesa". Colui che ricevette le chiavi del Regno dei Cieli... non fu mai chiamato Apostolo Universale; e ora il più santo Uomo, il mio vescovo collega Giovanni rivendica il titolo di Vescovo Universale. Quando vedo questo sono costretto a urlare "O Tempora, o mores!". Tutta l'Europa è nelle mani dei Barbari… e, malgrado tutto, i preti .. 18 Fliche e Martin, Storia della Chiesa, V, p. 113. Anche L. Bréhier, Normal relations between Rome and the Church of the East before the schism of the XIth century, in “The Constructive Quarterly, σew York, 5 (1917). 19 H. Gelzer, Der Streit über den Titel des ökumenischen Patriarchen, in “Jahrh. für Protest. Theologie”, 13 (1897), 549 ss.; V. Laurent, Le titre de patriarche oecuménique et la signature patriarcale, Revue des Etudes Byzantines, 6 (1948), 5 ss. 23 cercano ancora per sé stessi e fanno sfoggio di nuovi e profani titoli di superbia!» 20. Poi, non solo non seguì l’esortazione dell’imperatore a lasciar correre, ma inviò altre tre lettere (una allo stesso Maurizio, una all’imperatrice Costanza ed una allo stesso patriarca Giovanni Digiunatore) per sottolineare l’inopportunità di quel titolo21. A suo avviso infatti nessuno lo dovrebbe usare, né il patriarca né il papa di Roma, perché: “si unus patriarcha universalis dicitur, patriarcharum nomen caeteris derogatur”. Contemporaneamente Gregorio informava gli altri patriarcati sulla controversia, chiedendo che non solo non lo assumessero loro, ma non lo dessero neppure a lui. Non si sa gli altri, ma il patriarca di Alessandria si adeguò, evitando di rivolgersi al patriarca di Costantinopoli col titolo di ecumenico. In una lettera spiegava che aveva obbedito al papa universale. Per la qual cosa papa Gregorio lo rimproverò, sia specificando di non aver dato alcun ordine ma solo un’esortazione, ed anche perché lo aveva chiamato papa universale22. Gregorio Magno preferiva intitolarsi Servus servorum Dei, il che ha spinto vari storici a considerare lui quale coniatore di questa espressione, che poi è diventata comune nella storia dei pontefici. In realtà l’espressione, sia pure con qualche variante, era nota già ai tempi di S. Agostino. Resta vero, però, che dopo l’uso che ne fece Gregorio Magno, i papi che gli successero ne fecero largo uso. 3. La controversia monotelita. Alla morte di Giustiniano i monofisiti, sostenitori dell’unica natura in Cristo, che non avevano accettato né il concilio di Calcedonia né il successivo compromesso del concilio del 553, si organizzarono in Egitto con Teodosio di Alessandria (Copti) e in Siria con Giacomo Baradeo (Giacobiti). La politica bizantina, con Maurizio prima (582-602) e con Foca (602610) poi, cercò di imporre la dottrina ortodossa anche nelle terre a maggioranza Ep V, 20. Gregorio torna sull’argomento nell’epistola 43 del libro V e nell’ep. 30 del libro VIII. Re. V, 37 (a Maurizio), V, 39 (all’imperatrice) e V, 44 (al patriarca Giovanni). Jaffé-Wattenbach, 1360, 1352, 1357. Fliche e Martin, Storia della Chiesa, V, 117. 22 Reg. VIII, 29 (Jaffé-Wattenbach, 1518, luglio 598. 20 21 24 monofisita o nestoriana. Ne approfittò la Persia, che sfruttò il malcontento di queste popolazioni, ed appena estese la sua influenza sulla Siria e soprattutto l’Egitto, concesse piena libertà religiosa ai monofisiti, che nella loro decisa avversione a Bisanzio, risultavano buoni alleati. Di conseguenza in queste popolazioni alla naturale ostilità contro la presenza straniera bizantina si aggiungeva ora l’opposizione religiosa. Ma come Foca aveva rovesciato Maurizio, così Eraclio nel 610 rovesciava Foca e nel 628 riportava l’ordine e l’ortodossia in Siria e in Egitto. Il che significava tra l’altro la sostituzione dei vescovi monofisiti con quelli calcedoniani. In altri termini, Eraclio riteneva di dover imporre l’ortodossia ai popoli cristiani sottomessi. Ma dopo l’esperienza della Persia che aveva lasciato piena libertà religiosa, questo atteggiamento non fu accolto passivamente, e qua e là i monofisiti si ribellarono agli ordini imperiali. Non potendo fare marcia indietro né potendo lasciare piena libertà in una materia che rischiava di minare l’unità dell’impero, Eraclio optò per una dottrina di compromesso che incontrasse il favore degli uni e degli altri. Fu il patriarca Sergio (610-638), collaborato dall’igumeno Pirro, ad escogitare una via d’uscita. Se il problema era quello di non sdoppiare il Cristo, pur mantenendo la posizione calcedonese delle due nature, si poteva riconoscere come ufficiale la dottrina dell’unicità dell’energia, più tardi sfociata in unicità della volontà divino-umana (monotelismo), visto che filosoficamente la volontà dipende dalla persona e non dalla natura. Rispondendo a una lettera di Sergio, papa τnorio I accettò anch’egli il compromesso 23, chiedendogli però che per qualsiasi altra iniziativa dottrinale fosse riunito un concilio ecumenico. Tale dottrina fu espressa nell'Ektesis di Eraclio (638) con la sentenza: Professiamo una volontà del Signore nostro Gesù Cristo vero Dio. Come spesso accade con i compromessi, la nuova teoria non solo non accontentava vasti strati della corrente monofisita, ma suscitava reazioni anche fra gli ortodossi. La prima reazione contraria venne dal neoeletto patriarca di Gerusalemme Sofronio, che dichiarò che il monotelismo era ugualmente un’eresia in quanto semplice variante del monofisismo. Ma il principale oppositore del monotelismo restava comunque il teologo Massimo il Confessore24, che contestava anche l’assunto filosofico, che la volontà procedesse dalla persona invece che dalla natura. Mansi 11, col. 537. Opere in Migne PG 33390 e 91. Vedi anche Cantarella Raffaele, S. Massimo il Confessore. La Mistagogia ed altri scritti, Lib. Ed. Fiorentina, Firenze 1931; V. Croce, Tradizione e ricerca. Il Metodo teologico di San Massimo il Confessore, Milano 1974; J. M. Garrigues, L’énergie divine et la grace chez Maxime le Confesseur, in “Istina”, XIX (1974), pp. 272-296; C. von Schönborn, La primauté romaine vue d’Orient pendant la querelle du monoénergisme et du monothélisme (VIIe siècle), in “Istina”, XX (1975), pp. 476-490. 23 24 25 Massimo il Confessore cominciò una vasta azione contro il monotelismo, componendo una Disputatio cum Pirrho e facendo condannare la dottrina da un sinodo africano nel 646. Ma la politica bizantina non variava e cercava pur sempre un compromesso, che il moderato patriarca Paolo trovò in un decreto che semplificava la questione: proibire qualsiasi discussione al riguardo, in un senso o nell’altro. E’ la famosa Regola di Fede (Typos) di Costante II del 648. Nel frattempo, a Roma moriva il papa greco Teodoro, che aveva ribadito il primato di Roma su tutte le chiese, e veniva eletto Martino I (per la prima volta senza l’approvazione imperiale). Questi, con Massimo che si trovava a Roma dal 647, convocò un sinodo a Roma nel 649 senza il permesso dell’imperatore. Il sinodo, guidato da Massimo, condannò il monotelismo, come pure i patriarchi Sergio e Paolo. La reazione imperiale non si fece attendere. Il papa fu arrestato nel 653 e morì in esilio a Cherson due anni dopo. Anche Massimo fu arrestato ed esiliato (+662). 4. Papa Onorio: scomunicato dal concilio del 681 La controversia monotelita anche se preoccupava soprattutto l’oriente, anche a motivo delle pesantissime ripercussioni politiche, coinvolse anche l’occidente. Infatti nel suo contesto si verificò il caso dell’unico papa scomunicato da un concilio ecumenico. Una conseguenza non troppo indiretta fu l’atteggiarsi della Chiesa costantinopolitana a regola di fede e di norme ecclesiastiche. Quasi in sordina, infatti, una decina d’anni dopo che il Concilio Costantinopolitano del 681 aveva scomunicato il papa Onorio I, si ebbe un’appendice del Concilio (il concilio In Trullo) in cui furono varati ed approvati una serie di canoni prevalentemente di usanze e riti ecclesiali relativi a usanze bizantine in netto contrasto con le usanze romane. Per cui a Roma non furono accettati. La pretesa di assolutizzare questi canoni gettava i semi di quello scisma che effettivamente alcuni secoli dopo apparve naturale. Ma che cosa aveva realmente detto il papa Onorio? Rispondendo all’esortazione del patriarca Sergio di condividere la proposta dottrinale monotelita il papa aveva dichiarato tra l’altro: Perciò professiamo anche una sola volontà del Signore nostro Gesù Cristo poiché in realtà dalla divinità è stata assunta la nostra natura, non la nostra colpa… […]. Nelle sue membra non ci fu altra legge e anche nessun volere diverso o contrario al Salvatore, poiché egli nacque al di sopra della legge della condizione umana. ...[…] Se invece per via delle opere della divinità e dell'umanità si debba parlare o pensare di una sola o di due attività derivate, non deve essere per noi importante: lasciamo la questione ai maestri di grammatica, che son soliti vendere ai bambini i concetti acquisiti mediante derivazione 25 . 25 Denzinger Heinrich, Enchiridion Symbolorum, a cura di Peter Hünermann, EDB 2003, p. 487. 26 Come si può vedere, la presunta eresia di papa Onorio I si riduce a nulla. Per lui, dire una o due volontà può interessare solo i maestri di grammatica. La sostanza della fede è che Cristo agiva in piena armonia con la volontà divina, nelle sue decisioni non faceva mai vincere la volontà umana intaccata dal peccato su quella divina. Ecco in che senso l’operazione era una, non essendo quella umana mai in contrasto con quella divina e comunque mai macchiata dal peccato. Aveva dunque ragione il papa Giovanni IV che, scrivendo all’imperatore Costantino III, diede un’interpretazione ponderata dell’atteggiamento del suo predecessore26. Non la pensarono così i padri del sesto concilio ecumenico che si riunì a Costantinopoli il 7 novembre dell’anno 680 nel salone a cupola (Trullo) del palazzo imperiale. Quando il 28 marzo 681 nella 13ª sessione i padri scomunicarono il papa Onorio, i rappresentanti occidentali non fecero alcuna opposizione. Anzi, l’anno dopo Leone II (papa dal 17 agosto 682) ne approvò gli atti, esprimendo un giudizio severo su τnorio, che a suo avviso “non illuminò questa chiesa apostolica con la dottrina della tradizione apostolica, ma tentò di sovvertire l’immacolata fede con profano tradimento”. 27. 5. Il Concilio Trullano 692: Costantinopoli impone i suoi canoni. Il nuovo imperatore Giustiniano II (685-695), temendo una falsificazione degli atti del sesto concilio ecumenico, promosse delle commissioni per una verifica, informandone anche il papa Giovanni V. In realtà egli era preoccupato per il fatto che gli ultimi due concili avevano affrontato questioni dottrinali, senza occuparsi degli aspetti pratici e rituali. Questi, invece, erano altrettanto importanti, visto che nella vita quotidiana c’erano ancora troppe sopravvivenze pagane. Poche le notizie su questo concilio, essendosi perduti gli atti. Sembra che sia iniziato alla fine del 691 e terminato nel 692. Secondo Zonaras avrebbero partecipato 227 vescovi. Lo scopo fu di corredare di canoni i concili ecumenici quinto e sesto (onde il nome di Quinisexto)28. Le sedi patriarcali erano vacanti, per cui firmarono solo pochi rappresentanti. La grande maggioranza (oltre 200) erano della giurisdizione Costantinopolitana. Questa codificazione canonica orientale inizia confermando i sei concili ecumenici precedenti, includendo appunto anche quello del 681. In particolare ribadisce che La fede che ci viene dagli Apostoli, i quali furono i testimoni e i servitori del Logos, deve essere conservata senza innovazioni o cambiamenti. Il secondo canone accoglie come legislazione ecclesiastica gli 85 canoni degli Apostoli (rigettando le Costituzioni Apostoliche, in quanto degli eretici vi avevano introdotto delle falsità e delle cose estranee alla vera pietà). Sono da osservarsi anche i canoni di Nicea, Ancira, Neocesarea, Gangra, Antiochia, Laodicea, Costantinopoli 391 e 394, Cartagine 419, Efeso 431, Calcedonia, Serdica 343. Molti canoni anteriori al concilio di Calcedonia: 68 e 24 di S. Basilio, 119 dai vescovi di Ivi, nn. 496-498. Ivi, n. 563. PG 96, 399. 28 Per l’edizione critica di questi canoni, vedi Joannou P.P., Les canons des conciles oecuméniques, Pontificia Commissione per la redazione del Codice di Diritto Canonico Orientale, Fonti. Fasc. IX, Discipline générale antique, II-IX siècles, t. I, pars I, Grottaferrata 1962, pp. 98-241. Nel volume di Alberigo, Rossetti e altri, Conciliorum Oecumenicorum Decreta, 2002, sono omessi perché l’accettazione da parte di Roma non c’è e non poteva esserci. 26 27 27 Alessandria, 21 da quattro vescovi orientali, 1 canone di Cipriano sul battesimo degli eretici, una lettera di Gennadio di Costantinopoli del 458. In pratica il concilio Quinisesto nel secondo canone faceva sua la collezione in 14 titoli del patriarca di Costantinopoli Giovanni III Scolastico. La codificazione canonica risultò decisamente squilibrata, in quanto si dava un valore universale alle usanze costantinopolitane. Ad esempio il canone 55, fondandosi sul canone 64 degli Apostoli, vieta il digiuno nei sabati di quaresima (eccetto il Sabato Santo). Gli occidentali, che erano assenti, reagirono negativamente riguardo a molti canoni che apparivano antioccidentali. Ad esempio, non riconoscendo alcun valore normativo ai sinodi occidentali, il canone 2 considerava “apostolici” 85 canoni, mentre Roma accettava solo i primi 50. Il canone 13 condannava il celibato obbligatorio, che a Roma cominciava ad essere in uso. Il canone 36 riconosceva i canoni 3 di Costantinopoli 381 e 28 di Calcedonia (sull’uguale dignità fra Roma e Costantinopoli), avversati da Roma. Il canone 67 proibiva l’uso di carni strangolate e del sangue, cosa normale in occidente. Il canone 82 condannava la raffigurazione di Cristo come agnello, frequente in occidente. Nonostante le pressioni imperiali, il papa Sergio (687-701) e i suoi successori si rifiutarono di firmare. Sembra che Sergio, per protestare contro le novità introdotte dal Quinisesto, introdusse il canto dell’Agnus Dei (in contrasto con il canone 82 che proibiva di raffigurare il Cristo come agnello). Giustiniano II inviò il protospatario Zaccaria a prelevare il papa e portarlo a Costantinopoli, ma le milizie di Ravenna giunsero rapidamente e misero in fuga il rappresentante dell’imperatore. Forse imbaldanzito da questo gesto di devozione nei suoi confronti, costrinse il nuovo arcivescovo di Ravenna a recarsi a Roma per esservi consacrato. Un gesto che intendeva estromettere sia l’imperatore bizantino che il patriarca dalla giurisdizione sull’Italia. San Tarasio durante il VII concilio ecumenico affermò che tali canoni appartenevano al VI concilio ecumenico. Mentre il papa Adriano non ebbe nulla da obiettare a questa tesi, il papa Giovanni VIII, secondo quanto riferisce Anastasio Bibliotecario, parlava di questi come di canoni “che i greci pretendono che siano del VI concilio ecumenico”. 6. Controversia e persecuzione iconoclasta (726) La controversia che infuriò sulla legittimità ed il tipo di culto delle immagini non ebbe solo un carattere intellettuale, ma provocò una vera e propria persecuzione, che ebbe le sue ripercussioni sui rapporti con l’occidente. Schematizzando, ecco le varie fasi della lotta teologica, politica e sociale. La prima persecuzione (725-780) fu avviata da Leone III Isaurico, imperatore dal 717 al 740, e si delineò prevalentemente come distruzione delle 28 immagini. Il papa Gregorio II reagì, mettendo in discussione l’autorità imperiale, mentre Giovanni Damasceno nel 729 scrisse un Discorso teologico a favore delle immagini, indirizzandolo a Costantinopoli. Ma Leone III depose il patriarca Germano (sostituendolo con Anastasio) e nel 730 promulgò un decreto in cui ribadiva la distruzione delle immagini. Dato che anche il papa Gregorio III (731) seguì una linea di decisa opposizione al decreto imperiale, per rappresaglia Leone III decise di sottrarre alla giurisdizione romana l’Illirico e le terre dell’Italia meridionale e di porle sotto la giurisdizione del patriarca costantinopolitano. Intanto, a Costantinopoli, un concilio convocato dal patriarca Anastasio (22 gennaio 730) aveva condannato, su richiesta dell’imperatore Leone III, il culto delle immagini. Il più importante però dei concili iconoclasti fu quello di Hieria (754). Alla morte di Leone III Isaurico gli ortodossi avevano parteggiato per il genero Artabasdo, ma nel 742 usciva vincitore il figlio Costantino V, che proseguì ancora più severamente la politica del padre. Convocò nel 754 un concilio a Hieria, presso Calcedonia, affidando la presidenza dei 338 vescovi a Teodosio di Efeso, essendo vacante la sede Costantinopolitana. I Padri, nel riconoscere che l’imperatore aveva facoltà di decidere in materia di fede 29, condannarono il patriarca Germano e Giovanni Damasceno. L’opposizione dei monaci al concilio di Hieria scatenò una persecuzione per cui molti si rifugiarono fuori dell’impero e in Italia. La differenza fra la persecuzione di Leone III e quella di Costantino V era nel fatto che la prima prevedeva soprattutto la distruzione delle immagini, la seconda era diretta contro le persone che conservavano dette icone, mediante carcerazioni e torture. Alquanto più mite (cioè nuovamente solo contro le cose) fu la persecuzione sotto Leone IV (775-780). La restaurazione ortodossa (780813) ebbe inizio quando prese il potere Irene, reggente per il figlio Costantino VI, che fece eleggere patriarca il fedele segretario Tarasio, che era un laico. In occasione della lettera di intronizzazione (784) Tarasio condannò il concilio di Hieria e prospettò l’idea di un concilio 30. Irene scrisse al papa Adriano I nel 785, ed il papa si dichiarò favorevole, pur manifestando le sue riserve per il precedente stato laicale del patriarca. Il papa metteva anche in rilievo l’ortodossia di Roma sulle immagini, il primato romano e il legame che ormai legava Roma ai Franchi. I due latori della lettera (entrambi di nome Pietro) furono considerati anche rappresentanti del papa, ma sia su di loro che su altri di altri patriarcati pesavano dubbi sulla loro rappresentatività. Mansi 13, 225. Gli atti però sono andati perduti e tutto ciò che si sa proviene dal Concilio di Nicea II. 30 Mansi 12, 1119-1127. 29 29 Il Concilio si aprì a Costantinopoli sotto la presidenza di Tarasio31 nella chiesa dei santi Apostoli nel 786. Ma i vescovi iconoclasti che erano in maggioranza provocarono disordini e fecero disperdere l’assemblea. La conseguenza fu che Irene procedette ad un rimpasto nell’esercito e trasferì il concilio a Nicea. Sempre sotto la presidenza di Tarasio i lavori ripresero solo nel settembre del 787. τltre ai 350 vescovi c’erano i due probabili rappresentanti del papa, e i probabili rappresentanti di Antiochia ed Alessandria. Le sessioni di questo 7° concilio ecumenico furono sette, cui ne fu aggiunta un’ottava a Costantinopoli. σella seconda seduta vi fu l’esposizione della fede ortodossa da parte di 117 monaci sulla base della dottrina del Damasceno. Questi aveva cercato di mantenere un giusto equilibrio. Il fatto di mettere i cristianocategori fra gli eretici dimostra che rifuggiva anche dal culto eccessivo di esse. Egli distingueva l'adorazione dovuta a Dio solo ( α ε α) dalla adorazione relativa o venerazione (π ο ). τnore e riverenza sono dovuti alle immagini perché portatrici di realtà divine e comunque strumenti sensibili che stimolano il fedele a meditare sulle realtà spirituali. La seconda persecuzione (813-842) fu scatenata da Leone l'Armeno, condizionato dal fatto che l’esercito era in maggioranza iconoclasta. L’imperatore Niceforo I se la prese con i monaci e soprattutto l’ultraortodosso Teodoro Studita (756-826)32. Molti monaci poterono rientrare dall’esilio sotto l’imperatore Michele I (811-813). Il patriarca Niceforo (+828) dovette dimettersi ed un concilio a Costantinopoli nell’815 condannava σicea e rivalutava Hieria. Ma il deposto patriarca però non s’arrese, e continuò a scrivere opere anticonoclaste, come un Antirrheticus contro Costantino Copronimo, una Grande Apologia ed una Piccola Apologia. Pensando di riportare la pace, l’imperatore Michele II (820-829) rigettò sia Hieria che Nicea, proibendo qualsiasi discussione al riguardo. Sarà Teodora, madre del giovane imperatore Michele III (842-867) a ridare libertà all’iconofilia e, elevando al patriarcato Metodio, faceva sì che un sinodo dell’11 marzo 843 segnasse la vittoria definitiva delle immagini, il famoso trionfo dell’τrtodossia. 7. Riflessi dell’iconoclasmo sui rapporti oriente-occidente Così come la condanna del monotelismo con la scomunica di papa Onorio I fu strumentalizzata per far valere la tradizione bizantina su quella romana nel concilio in Trullo, così ora l’τccidente strumentalizzò la condanna dell’iconoclasmo per far valere il primato dell’τccidente. Per gli Atti vedi Conciliorum Oecumenicorum Decreta, 2002, pp. 132-156. Trattandosi del concilio sulla legittimità della venerazione delle immagini, la bibliografia è ricchissima. Anche l’Istituto di Teologia ecumenica San Nicola (oggi dipartimento della Facoltà Teologica Pugliese organizzò un convegno per il 12° centenario, i cui Atti furono pubblicati col titolo: La legittimità del culto delle icone. Oriente e Occidente riaffermano insieme la fede cristiana, Bari 1988. 32 Teodoro Studita era il monaco che aveva capeggiato l'opposizione contro Costantino VI (che aveva ripudiato la prima moglie) e che aveva rotto con S. Tarasio (perché questi non aveva punito il prete Giuseppe che aveva benedetto le seconde nozze dell'imperatore). Si riappacificò con S. Tarasio che gli concesse il monastero di Studion, ma si scontrò ancora col suo successore, il su menzionato Niceforo, che lo condannò. Successivamente combatteranno la stessa battaglia per le immagini. 31 30 In questo cammino la Chiesa Romana trovò un imprevedibile alleato nell’ultraortodosso Teodoro Studita. Questi, che era un asceta preoccupato di salvaguardare la purezza della dottrina e della morale evangelica, nella sua lotta anticonoclasta ed antimperiale, ebbe sempre i papi dalla sua parte. Non deve quindi sorprendere il suo punto di vista favorevole al primato. Per lui il vescovo di Roma possiede un primato divino ( εία π ω α ία) ed una divina potenza pastorale ( εία πο ε α ία). Al papa Leone III scrisse che, stando alla pratica in vigore sin dalle origini, non si ha nemmeno il diritto di tenere un concilio ortodosso senza che voi lo sappiate 33 . Sia pure indirettamente, la vicenda iconoclasta ebbe un peso notevole sui rapporti Roma–Costantinopoli, quasi che quest’ultima non fosse la vittima, ma la colpevole dell’eresia degli imperatori. Papa Zaccaria (741-752), scrive Ambrogio Piazzoni nella sua Storia delle elezioni pontificie, fu l'ultimo papa greco e anche l'ultimo a comunicare all'imperatore bizantino la propria elezione chiedendone la conferma (ma si badi: dopo essersi insediato); da allora i papi si limitarono a informare l'imperatore 34. A sviluppare questa nuova direttrice di estraneazione fu Stefano II esattamente mentre in Oriente si teneva il concilio di Hieria (754). Egli si recò in Francia ottenendo l’appoggio di Pipino contro i Longobardi. Così mentre Bisanzio era in piena persecuzione iconoclasta, de facto Roma operava il grande strappo, ponendo fine al legame con l’imperatore d’τriente e avviando un dialogo imperiale verso l’τccidente. Una svolta radicale che non poteva non avere le sue ripercussioni sui rapporti ecclesiastici. 33 34 Ep. I, 33. Storia delle elezioni pontificie , p. 75-76. 31 8. I Libri Carolini Come si è detto, il programma culturale di Carlomagno prevedeva l’unificazione di criteri e contenuti per tutto l’impero. Fu per questo motivo che volle eliminare ogni frammentarietà e divisione. Il punto di riferimento doveva essere uno, come del resto affermava anche la teologia imperiale di Costantinopoli. Ad evitare che la sua operazione venisse contestata ideologicamente, Carlo fece sua una teologia diversa. Il potere imperiale non viene da Dio ma dal carisma di forza che Dio trasmette ad un dato popolo. A consacrare tale carisma con una istituzione imperiale è la Chiesa. E questa non può essere che quella romana che deriva dall’apostolo Pietro, cui Cristo l’affidò. Di conseguenza, la Chiesa romana è il punto di riferimento di tutti i cristiani, sia dal punto di vista della dogmatica che delle consuetudini liturgiche. Scelse dunque per la liturgia quella romana; per la regola monastica quella di Benedetto. Anche l’unità della fede era per lui fondamentale, per cui fu sensibile nell’individuare quella che per lui era la fede ortodossa e quelle che erano le deviazioni o eresie. Queste ultime per lui, benché in un campo diverso dalla politica erano un rischio alto per la politica nel senso dell’arte di tener unito l’impero. Da questa esigenza di unità teologica nacquero i Libri carolini, sive Caroli Magni Capitulare de imaginibus. Se il sottotitolo indica l’argomento principale, non va dimenticato che i teologi di Carlo Magno danno per scontato che la teologia latina e franca è quella ortodossa, mentre i Bizantini sono caduti nell’eresia. σetta è, ad esempio, la condanna del patriarca Tarasio: Tarasio non è ortodosso, perché non dice, secondo l’insegnamento del simbolo di Nicea, che lo Spirito Santo procede dal Padre e dal Figlio, ma che procede dal Padre per mezzo del Figlio35. E’ interessante tuttavia notare che il papato, 35 Capitulare de imag., III, 3 (MGH Concilia, II, suppl. p. 10). Cfr. Fliche Martin, VI, p. 204. 32 nonostante che dovesse tutto all’appoggio di Carlo Magno, non si piegò né nella condanna del concilio σiceno II né nell’inserire il Filioque nel Credo (almeno per altri 200 anni). I Libri Carolini appaiono dunque come la reazione dei teologi franchi al secondo concilio di Nicea. Carlo Magno interveniva così nel problema teologico allora di grande attualità, la controversia sulla legittimità del culto delle immagini. Non è chiaro se le conclusioni di Nicea II fossero state tradotte male, nel senso di usare il termine “adorazione” invece di “venerazione”, oppure , pur convinto dell’ortodossia del concilio di σicea, Carlo sentisse il bisogno di marcare le distanze per affermare la superiorità dell’occidente. In questi libri c’era anche un biasimo per il papa che si era permesso di accogliere Nicea e di firmarne gli Atti. Quasi coinvolgendo nell’errore le immagini e l’imperatore, i Libri affermano che né le une né l’altro vanno adorati. Dicendo che la proskynesis non va rivolta né all’imperatore né alle immagini, è chiaro che la si intende come adorazione (alla stregua della latria). Non si può cancellare la distanza fra uomo e Dio. Portare come argomento a difesa delle immagini il fatto che anche le immagini degli imperatori erano pubblicamente esposte nelle piazze, non è altro che riprendere le usanze pagane: priscae Gentilitatis obsoletum errorem. In un punto dei Libri Carolini a questa critica della venerazione imperiale si aggiunge che la cosa è tanto più inaccettabile se l’imperatore, come in questo caso, è una donna. Mentre Paolo aveva detto: Non permetto alle donne di insegnare né di comandare agli uomini. Le immagini non sono comunque da condannare in modo assoluto. Esse possono essere utili nel ricordare persone ed eventi accaduti. Ma sono dannose se raffigurano qualcosa di irreale o falso. Così, mentre l’artista ha il compito di curare l’amalgama dei contenuti dal punto di vista formale, la corretta interpretazione spetta al chierico colto. 33 Seguendo Agostino, i Libri Carolini distinguono le immagini in corporee, spirituali e intellettuali. La corporea è la più universale, compresa anche dagli animali; grazie ad essa le greggi riconoscono la stalla ove rientrare e gli uccelli il loro nido. Il luogo in cui tutte queste immagini corporee sono trattenute è la memoria, che permette di averle presenti anche quando l’oggetto non è più visibile. A trasmetterle all’anima sono i sensi, veri e propri intermediari tra il mondo esterno e lo spirito. Il terzo livello di visione è quella intellettuale, che sulle immagini ci ragiona sopra, rielaborando e operando connessioni con altre immagini. Attraverso questa conoscenza intellettuale, propria dell’uomo, si può giungere anche alla conoscenza di Dio. Non è vero, continuano i Libri Carolini, che il possesso dell’immagine porti necessariamente all’idolatria, come vorrebbero gli iconoclasti (con la conseguenza che ogni immagine posseduta andrebbe distrutta). L’immagine sacra, invece, con tutti i suoi ornamenti, può essere d’aiuto nel ricordare la storia sacra e così avvicinarci a Dio, senza però sostituirci a lui. In altri termini i Libri Carolini, nel vedere nell’immagine un aiuto, sembrano echeggiare ciò che aveva scritto Gregorio Magno nella sua prima lettera a Sereno di Marsiglia: "Per questo motivo infatti si fa uso della pittura nelle chiese, affinché coloro che sono analfabeti leggano, perlomeno vedendole sulle pareti, ciò che non sono in grado di leggere nella Scrittura"36 ; e poi ugualmente nella seconda: "Una cosa è adorare una pittura, un'altra apprendere che cosa debba essere adorato grazie a ciò che è illustrato nella rappresentazione. Infatti ciò che la scrittura offre a coloro che leggono, questo la pittura offre a coloro che guardano, poiché in essa anche gli analfabeti vedono che cosa debba essere appreso, in essa leggono coloro che non sanno leggere" 37. Così i Libri Carolini, riallacciavano a Gregorio Magno la differenza di concezione teologica fra oriente e occidente. Ed ovviamente nel riportare la concezione orientale, che ai carolingi appare pericolosamente vicina all’idolatria, se ne esprime la critica: "è dato di capire che non le pitture ma le Scritture sono state concesse per l´educazione della nostra fede. Quanto quindi sia incauto e quanto lontano dalla ragione affermare "Come i libri della divina Scrittura, così abbiamo le immagini per memoria della venerazione", può comprendere facilmente chiunque abbia cognizione delle divine Scritture"38 . PL 77, col. 1027. PL 77, col. 1128. 38 LC II, 30. 36 37 34 Ma nella polemica contro i Bizantini sulle immagini non c’era soltanto il desiderio di salvaguardare l’ortodossia. C’era lo strascico del malumore di Carlo contro Irene che ospitava e trattava con tutti gli onori il principe longobardo Adelchi, e sembra che mandasse aiuti per fomentare una rivolta longobarda nel principato beneventano contro Carlo. Ecco perché, pur essendo iniziate le pratiche per il fidanzamento di una figlia di Carlo con un figlio di Irene, le cose finirono per naufragare. Carlo Magno non amava i gesti distensivi da parte del papa verso Bisanzio. Si era vivamente lamentato col papa Adriano I che aveva inviato suoi legati al concilio di Nicea II e ne aveva approvato i decreti. Al contrario egli desiderava sottolineare gli errori dei Bizantini per meglio legittimare l’impero che egli stava fondando. Particolarmente felice era di poter qualificare gli imperatori bizantini di eretici, grazie all’effettiva presa di posizione di Leone III sulle immagini nel 726. E quando sotto Irene con il concilio di Nicea II il culto delle immagini fu ristabilito, egli accusò Irene e i bizantini di idolatria. 35 III CRISI FOZIANA Fozio e i papi Nicola I, Adriano II e Giovanni VIII 858-882 Sia nel campo della storia della Chiesa che in quello della storia della teologia il IX secolo è dominato dalla figura del patriarca Fozio, mentre a Roma emerge la forte personalità di papa Nicola I. Uomo dottissimo, a cui si deve la conoscenza di tanti classici greci, Fozio ebbe un ruolo fondamentale anche nelle vicende ecclesiastiche, e con lui vengono al pettine numerose questioni che le vicende diverse dell’τriente e dell’τccidente avevano fatto trascurare o considerare non rilevanti. Con lui, infatti, balzano in primo piano due problemi che già avevano avuto qualche schermaglia: il primato romano ed il Filioque. Egli diventa così il termometro della distanza che si era accumulata attraverso i secoli fra le usanze canoniche della Chiesa bizantina e quelle della Chiesa romana. 1. Fozio nello scontro con il papa Nicola I e Adriano II La giovinezza di Fozio coincise con una svolta epocale nel mondo ortodosso bizantino. Alla morte del patriarca iconoclasta Giovanni Grammatico, l’imperatore Michele III designò al patriarcato Metodio, un iconofilo che aveva accettato di non lanciare anatemi sugli avi di Michele III portando così al trionfo dell’ortodossia (marzo 843). Quando nell’856 Michele III affidò la conduzione degli affari di stato allo zio Barda, i rapporti fra impero e patriarcato si fecero difficili. Infatti, Barda era il promotore di quella università nel palazzo Magnaura, caratterizzato da notevole apertura alle materie classiche, senza dire della sua vita non proprio esemplare. Il patriarca Ignazio, fautore della linea intransigente sostenuta specialmente dai monaci di Studion, il giorno dell’epifania dell’858 si rifiutò di dargli la comunione. Barda si prese la rivincita il 25 dicembre 858 costringendolo alle dimissioni e sostituendolo con il 36 maggiore umanista del tempo, Fozio. Il fatto che il capo degli studiti, il monaco Nicola, si schierasse con Ignazio aprì un lungo periodo di divisioni e di scismi nella Chiesa bizantina. Per la sua consacrazione Fozio scelse quel Gregorio Asbesta, arcivescovo di Siracusa, che era stato scomunicato da Ignazio e sospeso a divinis dal papa Benedetto III. Trascurando gli aspetti contingenti e occasionali, lo storico Ostrogorsky vede in Fozio colui che seppe leggere il momento storico nel contrapporsi alla Chiesa di Roma: Era una necessità storica che Bisanzio si liberasse dalla sovranità della Chiesa Romana, come l’Occidente si era sottratto alla supremazia dell’impero bizantino. Il passo decisivo in questo senso venne compiuto da Fozio39. Credendo di trovare appoggio nella Chiesa romana, come a suo tempo Tarasio nonostante che anch’egli fosse un laico, Fozio mandò la sua lettera intronistica al papa di Roma con la professione di fede40. Ma ebbe la brutta sorpresa di avere una risposta negativa: il nuovo papa Nicola, pur considerando ortodossa la sua professione di fede, sottolineava la non canonicità della sua elezione, specialmente per il suo stato laicale, e quindi riteneva ancora Ignazio patriarca di Costantinopoli. Abbiamo ricevuto con gioia la tua lettera, e siamo stati contenti nel prendere atto che siete cattolico. E abbiamo compreso la bontà della tua prudenza e di ciò abbiamo reso grazie a Dio, perché abbiamo capito che la tua saggezza viene dalla fonte cattolica. Ci è però dispiaciuto che voi non avete rispettato il retto ordinamento ecclesiastico, perché non siete stato elevato a tanta dignità seguendo i gradi ecclesiastici ma direttamente dallo stato laicale. Era necessario invece che la vostra saggezza vivesse un certo tempo nell’ordine clericale. Qui vivendo senza trasgredire le norme ecclesiastiche, dopo un congruo lasso di tempo potevate essere elevato alla dignità di pastore della Chiesa. Invece voi trascurando gli statuti dei santi padri siete venuto meno alla norma ecclesiale. Infatti il concilio di Serdica ha assolutamente proibito una simile temerarietà. Così pure i santi pontefici della Chiesa romana, quali l’egregio dottore Celestino, il santissimo Leone, la cui lode fu chiaramente elevata nel quarto concilio, o Gelasio beatissimo nella dottrina e nei meriti. Tutti costoro hanno proibito che si potesse presumere di accedere in questo modo alla consacrazione episcopale. Per la qual cosa non possiamo riconoscere la vostra consacrazione fino a che i legati che abbiamo inviato a Costantinopoli non tornino a riferirci come voi agite per il bene della Chiesa e in difesa della dottrina cattolica. Solo allora, se sarai degno di occupare una simile cattedra, ti onoreremo e ti abbracceremo con amore fraterno41. I legati papali che parteciparono a Costantinopoli al sinodo dell’861 si dichiararono consenzienti alla destituzione di Ignazio e all’elezione di Fozio. Ma, sconfessando i suoi legati, Nicola I convocò un sinodo a Roma nell’863 e dichiarò deposto Fozio. Ed ancora nell’865 scriveva all’imperatore affinché mandasse gli atti a Roma per esaminare la controversia. Come si può vedere, anche a Roma ormai si era raggiunto un alto grado di consapevolezza del primato. La richiesta di papa Nicola non si limitava a risolvere la G. Ostrogorsky, Storia dell’Impero bizantino, cit., p. 206. Migne, PG 102, 585, 588C-589B. Anche G. Hofmann, Photius et Ecclesia Romana, I, Primus Patriarchatus Photii, 858-867, Romae 1932, pp. 21-23. 41 G. Hofmann, Photius et Ecclesia Romana, I, pp.24-25. 39 40 37 questione canonica, era indirettamente ma chiaramente un’affermazione di Roma come ultima istanza per qualsiasi chiesa. Furono questi i protagonisti di quello scontro epocale fra Roma e Costantinopoli: il papa Nicola I che affermava la supremazia (o responsabilità) della Chiesa romana su tutte le Chiese, e il patriarca Fozio, il grande letterato che intendeva difendere l’indipendenza e la dignità della Chiesa di Costantinopoli che da secoli aveva imboccato una strada diversa. σato a Costantinopoli, Fozio fu probabilmente l’uomo più colto del suo tempo. Profondo conoscitore della grammatica, logica, metafisica, Sacra Scrittura e teologia, fu autore di un Glossario e della celebre Bibliotheca, l'opera che sulla base di ben 280 codici riportati, descrive ed analizza le opere da lui lette nel campo della letteratura, storia, filosofia e 42 teologia . Il rifiuto del papa Nicola I di riconoscerlo come patriarca di Costantinopoli portò Fozio a reagire duramente e ad avviare la sua critica al primato romano. Nella sua Apologia dell'862 dichiarò di non riconoscere il can.13 del concilio di Serdica sul ricorso a Roma, tanto più che a Bisanzio vigevano consuetudini giuridiche e canoniche (come ad esempio sul digiuno e sul matrimonio dei preti) diverse dalle consuetudini romane. Tra gli esempi portati come differenze canoniche Fozio citava i periodi del digiuno e il matrimonio dei preti. Quanto ai laici che son divenuti vescovi non gli era difficile trovare esempi nella storia. Tra gli antichi menzionava esplicitamente S. Ambrogio, tra i moderni S. Tarasio, esempi al riguardo dei quali Roma non aveva avuto alcunché da ridire. Su Fozio e lo scisma foziano vedi J. Hergenroether, Photius, Patriarch von Konstantinopel. Sein leben, seine Schriften und das griechische Schisma, I-III, Regensburg 1867; M. Jugie, Le schisme byzantin, aperçu historique et doctrinal, Paris 1941; F. Dvornik, The Photian Schism. History and Legend, Cambridge 1948. Molte notizie su Fozio si trovano nella Vita di Ignazio, di Niceta di Paflagonia (che però va accolta con cautela perché l’autore è un ignaziano e quindi è profondamente ostile a Fozio). Recentemente Laura Lapenna ne ha curato la traduzione italiana: La Vita di Ignazio di Niceta di Paflagonia, in Nicolaus Rivista di Teologia ecumenico-patristica, 2009, fasc. ½, pp. 7-80. Per una buona sintesi biografica, vedi Panaghiotis C. Christou e Simon Paschalides, voce Fozio in “Bibliotheca Sanctorum τrientalium”, Città σuova, Roma 1998, pp 902-931. 42 38 Nella sua risposta papa Nicola I faceva notare che non era vero che i papi avevano approvato incondizionatamente, ma solo in considerazione di alcune circostanze. Nel caso di Ambrogio avevano rispettato il fatto che non per iniziativa umana, ma per una chiamata divina manifestatasi miracolosamente era stato eletto. Per quanto riguarda Tarasio il papa Adriano aveva deplorato la cosa, e aveva detto a Tarasio che se non combatterete come un vero soldato di Cristo per la restaurazione delle immagini contro i detrattori e avversari non assentiremo in alcun modo alla vostra consacrazione (nequaquam vestre consecrationi assensum preberemus aut in ordine patrirchatus vestram diletionem susciperemus)43. E’ vero che ci sono tante consuetudini che non nuocciono alla Chiesa, ma questa della promozione all’episcopato da laici la Chiesa Romana, che ha il compito di salvaguardare il bene della Chiesa universale, non può tollerarla. Mentre il dissidio con Roma continuava, Fozio svolse una certa attività missionaria verso i Russi, che nell'860 avevano attaccato Costantinopoli, verso gli Armeni ancora monofisiti (vedi l'Epistola ad Zachariam patriarcam Armenorum), e verso i Bulgari, presso i quali stabili una presenza costante di sacerdoti greci. E gran parte ebbe anche nell’invio di San Cirillo (Costantino filosofo) e Metodio in Moravia, su richiesta del principe Rostislav, missione sulla quale, data la sua importanza, si tornerà più avanti nel contesto della conversione degli Slavi al Cristianesimo. Fu il movimento missionario in Bulgaria a rendere insostenibile il contrasto con la Chiesa di Roma, che sino a quel momento si era mantenuto su binari accettabili. Fozio si era impegnato seriamente per portare lo zar Michele Bogorin alla conoscenza del simbolo e delle conclusioni dei concili ecumenici, senza omettere il ruolo dei papi di Roma nel confermarli. Ad un certo momento, però, anche per l’intraprendenza dei missionari latini e specialmente per l’intraprendenza di Formoso, il futuro tragico papa, lo zar avviò una corri-spondenza epistolare direttamente col papa Nicola I, nella speranza che questi gli concedesse di avere una 43 Hofmann, Photius et Ecclesia Romana, I, p. 32. 39 gerarchia autoctona. Di conseguenza, espulse i sacerdoti greci ed accolse i latini44. Estremamente deluso ed amareggiato per la piega che avevano preso gli avvenimenti, Fozio convocò un concilio a Costantinopoli nell'estate dell'867, ove prese di mira gli usi dei latini, facendoli passare per errori e non solo quelle che fino ad allora erano considerate come legittime differenze. Condannando dunque le usanze romane, dichiarò deposto il papa Nicola I. Il 23 settembre l'imperatore Michele III, suo protettore, venne ucciso. Il successore Basilio il Macedone depose Fozio e reintegrò Ignazio sul trono patriarcale. Dopo un sinodo romano, presieduto dal papa Adriano II, fu convocato e celebrato un sinodo antifoziano a Costantinopoli nell'869-870, ove i latini irritarono i Bizantini, costringendoli a firmare un Libello di condanna di Fozio prima ancora che si discutesse il caso. Al termine delle sessioni giunsero gli ambasciatori dello zar di Bulgaria, per chiarire la questione del patriarcato cui avrebbe dovuto obbedire la Chiesa bulgara. Si deliberò che la Bulgaria dovesse essere sotto il patriarcato di Costantinopoli, per cui furono nuovamente inviati i Greci ed espulsi i Latini. 44 Il successo degli inviati pontifici, Paolo e Formoso, fu tale da allarmare Fozio e a spingerlo a parlarne nella sua celebre Enciclica ad Orientales Tronos dell’867. Ivi il patriarca attaccò i metodi subdoli ed ereticali di Formoso e Paolo, che avevano osato criticare come erronee le usanze greche, in particolare il matrimonio dei preti e la cresima subito dopo il battesimo. La critica romana toccava anche il Filioque, posizione duramente censurata da Fozio. Da parte sua, scrivendo ad Incmaro di Reims il papa Nicola I deplorava tutta questa attività di Fozio contro i latini in Bulgaria. Il vescovo Formoso era talmente entrato nel cuore di Boris/Michele che le possibilità per lui di divenire arcivescovo di tutta la Bulgaria erano divenute molto alte. Difatti Boris chiese al papa di elevarlo alla dignità arcivescovile, ma Nicola I, non solo rifiutò, ma sostituì Formoso con altri vescovi, mandandolo invece a Costantinopoli a chiarire le cose con Fozio. Intanto però Basilio il Macedone aveva ristabilito sul trono patriarcale il deposto Ignazio (25 settembre 867), e quindi Formoso prese la via dell’Italia. Quando Formoso rientrò a Roma, Nicola I era morto (13 novembre 867). Il nuovo papa confermò le ultime decisioni del predecessore e, nonostante le pressioni dei Bulgari per avere Formoso, inviò i vescovi e i preti già designati. Su questo sfondo ben si comprende come Boris cambiasse sentimenti verso i latini. Infatti, nel concilio di Costantinopoli dell’870 fu condannato Fozio, ma la situazione ecclesiastica in Bulgaria cambiò, riportando la nazione nella giurisdizione patriarcale costantinopolitana. E il patriarca Ignazio inviò preti e vescovi bizantini, nonostante le proteste di papa Adriano II. Anche il papa Giovanni VIII cercò di riprendere la Bulgaria mediante lettere di fuoco a Boris Michele, accusato di apostasia. Quando il 23 ottobre 878 Ignazio morì, Giovanni VIII riconobbe il ritorno di Fozio, ma a condizione di abbandonare ogni giurisdizione sulla Bulgaria. Nel concilio dell’880 Fozio si dichiarò disponibile sulla Bulgaria, fermo restando che i confini giurisdizionali era l’imperatore a determinarli. Qui la storia si fa ancor più complicata, non essendo chiaro fino a che punto Giovanni VIII fosse consapevole dei termini degli accordi. C’è chi crede che egli avesse riaccolto Fozio riconoscendone le ordinazioni dando valore di ortodossia alle sue posizioni; secondo altri sarebbe stato raggirato da Fozio, che lo avrebbe fatto vivere nell’attesa di inviati da parte di Boris. 40 Roma, però, ignorava o non volle tener conto dei rapporti di forze, nell’umiliare Fozio e dichiarare invalide le sue ordinazioni. Infatti, il partito di Fozio era più forte di quello Ignaziano. Per cui, quando Ignazio morì nell'877 e l'imperatore riassunse Fozio al patriarcato, le cose si complicarono. Fortunatamente, il nuovo papa Giovanni VIII, per motivi di diversa natura, instaurò buoni rapporti con Fozio, il quale convocò un concilio a Costantinopoli nell'879-80, ove i legati papali riconobbero la legittimità del suo patriarcato e l'unione con Roma fu ristabilita. Quanto al Filioque, che in precedenza Fozio aveva indicato come la maggiore eresia romana, non fu condannato come dottrina, ma se ne proibì solo l'inserzione nel Credo. La vicenda dei rapporti fra Fozio e Giovanni VIII è tra le più complesse, in quanto gli studiosi l’hanno trattata con molti pregiudizi. I problemi più controversi riguardano l’autenticità e l’integrità degli scritti dell’epoca, nonché la correttezza delle traduzioni. Alcuni studiosi cattolici che vedevano Fozio come il fumo negli occhi, hanno parlato di una scomunica e di un secondo scisma foziano, ma si tratta di notizie senza fondamento, in quanto Giovanni VIII mantenne (quali che siano stati i suoi motivi) sempre normali rapporti con Fozio. Sotto Leone VI (886-912) Fozio fu nuovamente deposto. Morì intorno all'897. A parte la celeberrima “Bibliotheca” e altre opere teologiche, gli scritti che riguardano più da vicino i rapporti con Roma sono: - L’Encyclica ad orientales thronos dell'867, - Contra eos qui dicunt Romam esse primum thronum. - De Spiritus Sancti mystagogia, scritto negli ultimi anni della sua vita, è una confutazione della posizione latina sul Filioque. 2.- Fozio e il primato romano Prima del suo patriarcato, la teologia fu una delle tante discipline che Fozio coltivò, inserita nel più vasto contesto umanistico dei suoi studi. Con l'ascesa al trono patriarcale, essa divenne l'occupazione intellettuale prevalente. Le sue fonti sono la Sacra Scrittura, i Padri (conosce Ambrogio, Girolamo ed Agostino), oltre ai filosofi classici, con particolare predilezione per Aristotele in materia di dialettica. La polemica teologica contro Roma scoppiò a causa della bruciante delusione per l'espulsione dei Greci dalla Bulgaria, a vantaggio dei latini che non avevano fatto nulla per l'evangelizzazione. Iniziò così una critica sistematica degli errori dei latini, intendendo in tal modo mettere in guardia i nuovi popoli dall'accogliere missionari latini. Nell’Enciclica ai Troni Orientali sottolineava l'esperienza della chiesa costantinopolitana nella lotta alle eresie, e sulla base di essa procedeva ora ad esporre gli errori della Chiesa romana. Tra questi errori venivano ricordati il digiuno al sabato (proibito dai canoni 64 degli Apostoli e 55 trullano), il nutrirsi di latte e formaggio in quaresima, il celibato (contro i canoni 4 di Gangra e 13 Trullano), il riservare la cresima ai vescovi, e finalmente l'alterazione del simbolo nicenocostantinopolitano con l'aggiunta del Filioque. 41 Innanzitutto hanno tramandato usanze riguardo al digiuno del sabato contrarie ai sacri canoni. E come spesso accade, la trascuratezza nelle piccole cose porta a gravi violazioni. Infatti, hanno spezzettato la prima settimana di digiuno dagli altri periodi, come il bere il latte, il mangiare formaggio e il nutrirsi di cose simili. Quindi allargando la via delle violazioni canoniche, si sono allontanati dalla retta e regia via. Persino si sentono superiori ed insegnano a disprezzare ed evitare i sacerdoti di Dio che in legittimo matrimonio sposano fanciulle libere o che, senza un padre, crescono i loro bambini. Gettando i semi della cultura di Mani e cominciando ad intaccare il seme della vera pietà finiscono di perdere le anime seminando zizzania. E si permettono senza nutrire dubbi di ripetere la crismazione fatta dai sacerdoti, ritenendo falsamente che la cresima la devono fare i vescovi e che quella dei sacerdoti sia vana ed inutile. A dire la verità non errano solo in queste cose, ma completano tutte queste cose con errori gravissimi. A parte cioè tutte le suddette assurdità si sono sforzati di alterare con incredibile temerarietà e parole spurie il sacro e santo simbolo che è stato stabilito da tutti i concili ecumenici e che ha una forza irresistibile. O macchinazioni del diavolo ! Hanno introdotto la novità che lo Spirito Santo non procede dal Padre soltanto, ma anche dal Figlio45. A questo periodo risale la lettera di papa Nicola I ad Incmaro di Reims (anche per attutire con la lusinga l'offesa del rimpiazzamento dei missionari franchi con quelli romani in Bulgaria) per chiedergli di rispondere o far rispondere alle accuse di Fozio sul Filioque. Tra le altre accuse cui bisognava rispondere c'era anche il radersi della barba da parte dei preti, l'ordinazione episcopale a semplici diaconi, il rifiuto dei legati a presentare il Libellus fidei, la cresima con l'acqua (?), l'offerta a Pasqua di un agnello sull'altare. Incmaro mobilitò i teologi carolini. Il miglior trattato sull'argomento fu quello di Ratramno: Libri quattuor contra Graecos. Nel primo Ratramno si sofferma sui testi scritturistici, come ad esempio il “de meo accipiet” (Gv XVI, 1,12). I santi padri sono citati nel secondo, ove si fa notare che anche i Greci hanno apportato aggiunte al simbolo. Particolarmente menzionato è Agostino nel terzo libro, ove si precisa anche il senso della “missione temporale” e della “processione eterna”, e si afferma l'uguaglianza del “per” e dell'“ex”. σel quarto ed ultimo libro dimostra la legittimità delle varie consuetudini romane e giustifica il primato collegandolo alla figura ed al ruolo di Pietro tra gli Apostoli. L’opuscolo “Contro coloro che dicono che Roma sia la prima cattedra” Fozio lo scrisse pare quando le cose si mettevano male per lui in vista del concilio dell’86946. Come farà ugualmente per il Filioque, egli enumera in modo schematico gli argomenti contro il senso che Roma dà al primato: 1) Se Roma è la prima per aver accolto il corifeo degli Apostoli, allora Antiochia dovrebbe avere il primato, dove Pietro andò in precedenza; 2) Se è per il martirio subìto dal principe degli apostoli, allora il primato spetterebbe a Gerusalemme, che è stato teatro dei primi martirii; 3) Se il primato viene dalla qualità delle persone il primato spetterebbe pur sempre a Gerusalemme, dove non soltanto san Pietro ma lo stesso nostro Salvatore ha agito; 4) Visto che Andrea era il fratello maggiore di Pietro e Andrea Protoclito ha evangelizzato Bisanzio, il primato spetta a Bisanzio; 5) Quanto alla frase “Tu sei pietro Migne PG CII, 724 CD- 725A. Hofmann, Photius et Ecclesia Romana, I, 46-47 (ho tradotto dal testo latino di questi). 46 Ios. Hergenröther, Photius, 3 vol. Ratisbonae 1867-1869, vol I, 659ss. 45 42 e su questa pietra edificherò la mia Chiesa” non può assolutamente riferirsi ad una Chiesa particolare; e se si riferisce alla Chiesa intera è ovvio che “super hanc petram” si riferisce alla professione di fede di Pietro (“haec fuisse dicta de confessionis petra divinitatem Christi professa; 6) il primato romano nasce con l’imperatore Aureliano che, avendo spostato il suo esercito nel territorio di Antiochia, trovò qui tra la popolazione forti contrasti dovuti alle posizioni del vescovo Paolo di Samosata contestato da un concilio locale. Dato che non riusciva a riportare la pace nominò quale arbitro il vescovo della capitale, Roma47. A dire il vero, Fozio in nessuna sua opera contestava il primato in sé. Ad esempio nella Mystagogia Spiritus Sancti loda diversi papi, come Damaso, Celestino, Leone Magno, Vigilio, Gregorio Magno, Zaccaria II, Agatone, Leone IV, Adriano I, Benedetto III, Giovanni VIII e Adriano III48. Ma già nell'Apologia al papa Nicola e nei Collectanea appare evidente che la sua concezione del primato, condivisa del resto dalla maggioranza dei Bizantini, non era la stessa che si aveva a Roma, nel senso cioè di una giurisdizione universale. Persino il ricorso a Roma, definito al concilio di Serdica, nella visuale bizantina veniva relativizzato, ricordando gli errori in cui incorsero i papi Liberio (352-366), che, desideroso di tornare dall'esilio, in quattro lettere conservateci da S. Ilario si mostrava favorevole agli Anomei (che contro Atanasio consideravano il Figlio dissimile dal padre), Felice (che per volere di Costanzo nel 355 sostituì papa Liberio, ed era favorevole alla formula semiariana dell'ομο ο ο ), ed Onorio (condannato dal VI concilio ecumenico per aver appoggiato la formula monotelita poi espressa nell’ε ε di Eraclio), oltre che l'incomprensione di Roma verso Flaviano di Antiochia e S. Giovanni Crisostomo (durante lo scisma meleziano il papa sosteneva Paolino contro Flaviano, il vescovo che ordinò sacerdote il Crisostomo). Nel concilio dell’879-80 Fozio accolse con grandi onori i legati papali, dando notevole risalto alle lettere del papa Giovanni VIII (secondo qualcuno, dopo averle manomesse)49. Ma anche lì il primato fu esposto nel senso della “pentarchia”, e non in assoluto. Del resto nelle raccolte canoniche bizantine già da tempo si interpretava il 28 canone di Calcedonia, come esprimente un primato di carattere storico e non di origine divina. Ne conseguiva l'affermazìone dell'indipendenza ecclesiastica di Costantinopoli, che era la nuova Roma. Più netto di Fozio era stato l'anonimo commentatore greco al Nomocanone che, partendo dal can. 28 di Calcedonia, sviluppava il primato a favore di Costantinopoli. Fozio invece, a parte i toni duri nel momento della lotta, rappresentava l'ala moderata bizantina sul primato, in quanto pur non riconoscendo un primato giuridico, riconosceva tuttavia un primato nella carità e nell'autorità morale. Ed è su questa base che si muove la comprensione del papa Giovanni VIII, invece che sulle questioni dogmatiche. Lo si evince chiaramente allorché il papa afferma di approvare le conclusioni del concilio dell’880: si tu debitam devotionem et fidelitatis incrementa erga sanctam Romanam ecclesiam et nostram parvitatem observare studueritis, te ut fratrem amplectemur et ut carissimun proximum retinemus. Nam et ea quae pro causa tuae restitutionis synodali decreto Constantinopoli misericorditer acta sunt, 47 48 49 Hofmann, Photius et Ecclesia Romana, II, 46-50 Hofmann, Photius et Ecclesia Romana, II, 46. Questa è la tesi costa te dell’Hof a . 43 recipimus et, si fortasse nostri legati in eadem synodo contra apostolicam preceptionem egerint, nos nec recipimus nec iudicamus alicuius existere firmitatis50. Come si può vedere, il criterio principale per il papa Giovanni VIII è il rispetto verso la Chiesa romana, perché evidentemente non considerava le differenze dottrinali tanto gravi da giustificare un conflitto. Anche se dai suoi scritti pare che fosse consapevole che le traduzioni in greco erano “addomesticate” per favorire Fozio, non sembra preoccuparsene troppo, considerando la riconciliazione delle due Chiese un valore superiore. In fondo, se si legge bene il rifiuto di papa Nicola I a riconoscere Fozio patriarca, si arriva alla stessa conclusione. Come Adriano I aveva riconosciuto Tarasio (è l’esempio addotto dal papa successivamente) per i suoi grandi meriti verso la Chiesa a proposito della lotta all’iconoclasmo, così egli avrebbe potuto riconoscere Fozio patriarca se avesse avuto il dovuto rispetto per la Chiesa romana. Purtroppo Fozio vide in quelle parole l’atteggiamento del giudice che avrebbe potuto ribaltare la situazione a suo danno. Con tutto quello che ne seguì. 3. Il Filioque “errore dogmatico” A differenza di molti contemporanei, Fozio parlò dei vari errori dei latini solo per motivi di opportunità. In realtà l'unico punto che egli considerava effettivamente un errore dottrinale era il Filioque. L'esposizione del suo pensiero sul Filioque è ben schematizzata in 14 punti contenuti nell’Encyclica ad Orientales Thronos. Essi sono: l.- Ammettendo il Filioque, si intaccherebbe la monarchia Patris, venendo a formare una doppia deità, cosa tra l'altro inutile in quanto la processione dal padre è completa e perfetta. 2.- Ne conseguirebbe che ogni Persona che è da un'altra lo sarebbe anche dalle altre due. Cosicché il Figlio risulterebbe generato dal Padre e dallo Spirito. 3.- Il Figlio, che fa da tramite, sarebbe più vicino alla sostanza del Padre che non lo Spirito Santo. 4.- Ciò che è comune al Padre ed al Figlio, è comune anche allo Spirito Santo. Cosicché la processione attiva dovrebbe attribuirsi anche allo Spirito, che così procederebbe da sé stesso. 5.- Lo Spirito sarebbe il solo della Trinità ad avere un principio multiplo. 6.- Escludendo lo Spirito dalla processione attiva, si affermerebbe implicitamente una diversità di sostanza. 7.- Si contraddice la parola di Cristo; ex Patre procedit. 8.- Si contraddice quanto hanno detto i Padri, i sinodi, i profeti e i martiri. 9.- Se lo Spirito procede dal Padre e dal Figlio mediante una sola processione, allora le loro proprietà si mescolerebbero. Se con diversa processione, allora Padre e Figlio sarebbero in contrapposizione. 50 Hofmann, Photius et Ecclesia romana, II, 44. 44 10.- Se lo Spirito procedesse dai “due”, sarebbe composito. 11.- E quel principio attivo di processione darebbe adito ad una quarta ipostasi. 12. - Se lo Spirito riceve tutta l'essenza dal Padre, che cosa è che riceve dal Figlio? 13.- I “propria” appartengono ad uno solo, per cui se si riconosce al Figlio il proprio dello spirare, lo si toglie al Padre. 14.- Stando ai latini, bisognerebbe negare qualsiasi processione, poiché non l'ascrivono né ad un principio comune né ad un principio personale. Mentre è chiaro che nella Trinità non si può pensare alcunché che sia fuori dell'uno o dell'altro. σeglì ultimi scritti, quali la “Lettera al metropolita di Aquileia” e la “Mystagogia”, Fozio mostra di conoscere le argomentazioni, se non proprio i trattati dei Latini. Anzi giungeva a scusarsi di non poter citare integralmente a causa della situazione in cui si trovava. In generale, comunque, egli osservava che mentre i testi dei padri greci provavano l’A Patre solo, quelli di Ambrogio, Girolamo ed Agostino ammettevano il Filioque. Avanzava però l'ipotesi che tali testi fossero stati interpolati dagli pneumatomachi, o che si potessero interpretare nel senso dell'economia. Gli argomenti dei latini non tengono conto che essendo lo Spirito consustanziale al Figlio, è normale che ci si imbatte in espressioni come Spiritum Filii. Quanto al De meo accipiet, è da intendersi come “De meo Patre” e non come “ex me”. Perciò la più idonea espressione scritturistica al riguardo è quella giovannea (XV,26): Spiritum veritatis, qui a Patre procedit. Fozio fa anche rilevare che diversi papi hanno pronunciato o cantato il simbolo senza questa aggiunta; Vigilio, Agatone, Gregorio Magno51, Leone III, Adriano I, gli stessi Nicola I e Adriano II, e finalmente Giovanni VIII. 4. Fozio e papa Giovanni VIII: tempo di tregua Fu il papa Giovanni VIII (872-882) a rasserenare l’atmosfera fra Roma e Costantinopoli, spinto non tanto da argomenti teologici, quanto da ragioni di politica ecclesiastica. Infatti, sin dall’inizio del suo ministero papale fu costretto a preoccuparsi per la difesa di Roma dagli attacchi dei saraceni, al punto da dirigere personalmente le operazioni di difesa militare e a costituire una piccola flotta pontificia. Dovendo inoltre guardarsi dai nemici interni, nell’878 degradò e mandò in esilio Formoso, che aveva sostenitori nella corsa al papato. Cosa che ovviamente fece grande piacere a Fozio, avendo Formoso svolto grande attività in Bulgaria mettendo in cattiva luce gli inviati di Fozio e le usanze costantinopolitane. Occupato nei drammatici problemi di successione in un periodo in cui gli ultimi carolingi stavano per scomparire, e pressato dal sud dai musulmani, Giovanni VIII chiese ed ottenne aiuti militari dall’imperatore bizantino. E in questa atmosfera si Da notare però che, quanto a Gregorio Magno, Fozio non s'accorse che il testo latino recitava ex Patre et Filio procedit, e che era stato Zaccaria a tradurre (ritoccandolo) in che procede dal padre e riposa nel Figlio. 51 45 tenne il concilio di Costantinopoli che liberò Fozio da tutte le censure. Il papa mandò infatti i suoi legati che sottoscrissero gli atti di quel concilio. In esso non si discusse la questione del Filioque, perché la Chiesa Romana non l’aveva ancora inserito nel Credo. E si raggiunse un compromesso sulla Bulgaria: la giurisdizione su quella terra sarebbe stata discussa successivamente tra il papa e l’imperatore bizantino 52. L’interpretazione di questo periodo è però molto controversa, a seconda se lo studioso è animato da sentimenti ecumenici oppure dal desiderio di dimostrare che le posizioni dei Bizantini sono inaccettabili per la Chiesa romana. Se gli studiosi sono animati dal desiderio di unità i documenti sono letti così come sono scritti. Se sono animati da sentimenti avversi all’τrtodossia tendono a parlare di non autenticità dei documenti o di non corrispondenza dei testi latini papali con quelli greci letti al concilio dell’880. In altre parole, quando prevale il senso dell’adesione incondizionata alla teologia romana si tende a far cominciare lo scisma proprio da Fozio (atteggiamento esattamente lo stesso, anche se all’inverso, da parte degli studiosi ortodossi). Se si guarda non soltanto all’aspetto dottrinale ma all’insieme della vita ecclesiale, quello di Fozio non è considerato uno scisma, ma solo una crisi temporanea. In ogni caso, ammesso pure che i Greci manipolassero e traducessero i documenti latini aggiustandoli per favorire Fozio, resta il fatto che Giovanni VIII non cambiò il suo atteggiamento ispirato alla riconciliazione53. Quanto a Fozio, negli ultimi anni della sua vita, come già al concilio dell'879-80, allorché Giovanni VIII aveva riconosciuto la validità delle sue ordinazioni, mise da parte la polemica teologica. Si limitò a chiedere che l’espressione non comparisse nel credo, in base al fatto che nella V sessione di Calcedonia (oltre che ad Efeso) il Simbolo era stato considerato già perfetto come espressione della dottrina ortodossa sulla Trinità. Nel periodo successivo a Fozio il papato Romano si ritrovò in un mare di problemi derivanti dai troppi pretendenti al soglio Pontificio. Gli imperatori tedeschi in quanto “patrizi di Roma” ritenevano un loro diritto scegliere il candidato papa, i duchi di Spoleto, in quanto signori più potenti del Centro Italia, pretendevano avere il loro candidato. Le famiglie aristocratiche di Roma ne facevano una questione di prestigio con importanti risvolti politici (onde spesso al papato accedevano anche papi ancora ragazzi). Un quadro drammatico reso ancor più Mansi XVII, 417-420, 485-488. Per una traduzione italiana dei relativi accordi, vedi T. Violante, I rapporti Roma Costantinopoli nel primo millennio, Bari 2001, pp. 312-314, che rinvia a V. Peri, La grande chiesa bizantina. L’ambito ecclesiale dell’Ortodossia, Brescia 1981, pp. 239-242. Secondo gli Annali di Fulda, Giovanni VIII fu avvelenato e ucciso a colpi di bastone da alcuni suoi più stretti collaboratori. Cfr: John Kelly, Grande Dizionario illustrato dei Papi, Piemme, 1989, p. 297. 53 Joseph Gill, Il Concilio di Firenze, Sansoni ed., Firenze 1967, p. 4. 52 46 vivo dalla semplice constatazione che pochi papi dalla fine del IX secolo alla prima metà dell’XI morirono nel loro letto. La morte più comune era quella dello strangolamento in carcere. Per cui, per tutto il X secolo i rapporti fra Roma e Costantinopoli furono molto sporadici, ognuno preso dai suoi problemi. Non si può quindi parlare di vera pace, ma solo di tregua. La crisi cioè non fu del tutto sanata, ma solo sospesa la polemica. Tuttavia una parvenza di pace c’era a motivo del fatto che Giovanni VIII aveva annullato i decreti di Formoso (che più tardi fu il papa del processo cadaverico del gennaio 897) che invalidavano le ordinazioni di Fozio. Il subbuglio nel mondo del clero creato da quei decreti scomparve e, ognuno mantenendo le sue posizioni, pensò ai suoi problemi disinteressandosi ai presunti o veri errori dottrinali. 47 IV IL GRANDE SCISMA DEL 1054 La battaglia di Civitate e le reciproche scomuniche Dopo la pacificazione tra Roma e Costantinopoli, dovuta all’opera di papa Giovanni VIII, che rientrò in comunione con Fozio, le relazioni ebbero un carattere di occasionalità. Sia la chiesa di Roma che quella di Costantinopoli, come si è detto, si trovarono ad affrontare grossi problemi che non lasciavano tempo a rapporti più stretti, né amichevoli né ostili. Sulla Chiesa di Roma pesava l’ipoteca del titolo di “patrizio dei Romani” concesso a Carlomagno, e che ora, nel X secolo, gli imperatori di Germania intendevano che fosse rispettato. Accordi come il Privilegium Othonis tra Giovanni XII e τttone I, con il quale l’imperatore confermava le proprietà della chiesa romana donate da Pipino in cambio della necessità della conferma imperiale nell’elezione pontificia, non ebbero che vita breve. Il papato era ormai in balia di faide fra le famiglie romane, i duchi di Spoleto, gli imperatori, e pochi papi esalarono l’ultimo respiro nel loro letto. In questo caos romano i papi avevano poche occasioni di interessarsi dei rapporti con Costantinopoli. Per cui molti problemi restavano sul tappeto, senza che si facesse molto per risolverli. Ad esempio, le regioni meridionali dell’Italia, anticamente nella giurisdizione romana e dal 733 nella giurisdizione costantinopolitana, rappresentavano una spina nel fianco del papato (che però non aveva né il tempo né il modo di rivendicarle). Per cui, da un lato l’esperienza ecclesiale di queste popolazioni era ispirata ad una pacifica convivenza delle due tradizioni, dall’altro rappresentavano comunque una questione aperta. Le cose precipitarono quando nel 48 corso dell’XI secolo i Normanni cominciarono a prendere il sopravvento sulle forze bizantine e tutto faceva prevedere che prima o dopo avrebbero fondato un loro regno. Come spesso accade nella storia, su uno sfondo più ampio che caratterizza già di per sé una certa situazione, si va poi ad inserire un elemento dirompente che fa precipitare gli eventi. Nel caso specifico, a fronte di rapporti già incrinati nei vari secoli, aggravati al tempo di Fozio, non sanati da difficoltà di comunicazione, andò ad inserirsi l’inimicizia personale di due personaggi, Michele Cerulario patriarca di Costantinopoli, ed Argiro, duca d’Italia, i quali condizionarono l’intera vicenda dello scisma ecclesiale fra Roma e Costantinopoli. 1. Argiro tesse l’alleanza tra il papa e l’imperatore bizantino (1052) Capitale, in quanto sede del Catepano, delle regioni meridionali bizantine era Bari. Intorno alla metà dell’XI secolo l’uomo forte di questo “tema di Longobardia” era Argiro, il figlio del ribelle Melo da Bari, che però durante il suo esilio a Costantinopoli si era conquistato la fiducia dell’imperatore. E’ vero che ai primi degli anni quaranta per un momento aveva accettato l’invito dei Normanni a divenire il loro capo, ma poi aveva ripreso ad amministrare la città di Bari per conto dell’imperatore. Le inimicizie che si creò spinsero l’imperatore Costantino Monomaco nel 1046 a richiamarlo a Costantinopoli. Al suo posto Eustazio Palatino fece del suo meglio per tenere a bada i Normanni che divenivano sempre meno mercenari e sempre più intraprendenti nel conquistarsi e costituirsi dei piccoli feudi. Nonostante il carattere puramente tattico delle alleanze, questo programma non trovò un consenso unanime a Costantinopoli. In generale, gli ambienti di corte erano favorevoli, quelli ecclesiastici contrari. Un'alleanza col papa comportava infatti una ripresa dei rapporti interrotti da vari decenni, da quando cioè i patriarchi di Costantinopoli avevano deciso di non mandare più (al momento della loro elezione) la comunicazione a Roma con la professione di fede, il che avrebbe implicato un'accettazione della comunione con Roma e quindi una certa sudditanza al papa, del quale avevano omesso anche la menzione nei dittici. Tenace fu particolarmente l'opposizione del patriarca Michele Cerulario, ma l'imperatore Costantino Monomaco, preoccupato del pericolo normanno, nel 1051 fece rientrare Argiro in Puglia dandogli pieni poteri nel governo della regione. Secondo il programma esposto all'imperatore, Argiro avviò subito i contatti col papa Leone IX (1049-1054), che era decisamente ostile ai Normanni e da qualche tempo viaggiava per la Puglia. I contatti furono positivi e l'alleanza fu conclusa. Anzi, fu il papa stesso ad incrementarla, facendo dei passi presso l'imperatore di Germania affinché entrasse anche lui in questa alleanza. L'imperatore, allettato dal fatto che il papa prometteva di onorare il privilegium Othonis (962), 49 accondiscese, anche se poi in pratica potè inviare ben pochi aiuti54. I termini dell'accordo del papa con l'imperatore d'occidente dimostravano dunque che i timori del patriarca Cerulario non erano del tutto infondati, poiché, in cambio del dominio papale sull'Italia meridionale concesso dall'imperatore d'occidente, il pontefice riconosceva allo stesso alcuni privilegi ecclesiastici. Leone IX fu il primo papa, dopo la perdita di queste contrade nella prima metà dell’VIII secolo, ad interessarsi a fondo all'Italia meridionale, con l'intento di recuperarla integralmente alla giurisdizione della chiesa romana. Molta soddisfazione gli aveva dato ad esempio nel 1052 la lettera intronistica di Pietro, appena eletto patriarca di Antiochia. Era molto tempo infatti che i papi non ricevevano simili lettere. Per cui rispose nella primavera del 1053 con la sua Congratulamur vehementer in Domino, in cui non perse però occasione di sottolineare il primato di Roma. Lo esortava infatti a non deviare dalla concorde volontà del Signore e di tutti i santi Padri, per i quali la santa ed apostolica sede romana è preposta inviolabilmente a capo di tutte le chiese che sono sulla terra, ed alla quale vanno presentate le cause più difficili e più gravi di tutte le chiese55. 2. Cerulario la incrina con la lettera di Leone di Ochrid (1053) Col tentativo di Argiro di creare una coalizione fra il papa di Roma e l'imperatore di Costantinopoli erano stati avviati diversi contatti fra Roma e l'oriente, e tutto sembrava avviato nel migliore dei modi. La lettera del patriarca di Antiochia che riallacciava i contatti con Roma e con le trattative al fine di liberarsi dei Normanni, il papato ora allargava lo sguardo anche verso l’oriente. Ma a raffreddare l’entusiasmo del papa venne, uno o due mesi dopo, una lettera da parte dell’arcivescovo di Ochrid, Leone, all'arcivescovo di Trani, Giovanni56. Nell'indirizzare la lettera a Giovanni di Trani, Leone di Ochrid specificava che, tramite lui, si rivolgeva a tutti i principi dei sacerdoti e ai sacerdoti dei Franchi, ai monaci e ai fedeli, e allo stesso reverendissimo papa. Sin dall'inizio si avverte un tono critico, in quanto, appena menziona gli azzimi e i sabati, subito aggiunge: che voi indecentemente osservate in comunione coi giudei, e poco dopo: Che si custodissero gli azzimi e i sabati fu ordinato da Mosé, ma la nostra Pasqua è Cristo. Dopo alcune citazioni neotestamentarie, Leone entrava nei Ivi, p. 135. Mansi, XIX, col. 660-666; anche PL 143, 769-773. Λεο ο α επ οπο Βο γα α Επ ο (Leonis Achridani epistola ad Joannem episcopum Tranensem), Migne PG 120, col. 835-844. 54 55 56 50 particolari di quella che era considerata la più grave differenza fra la chiesa latina e la chiesa greca, gli azzimi, che non sono il corpo di Cristo, ma soltanto fango: Ciò che voi denominate «pane», noi lo indichiamo col termine «artos». E questo «artos» sta a significare «elevato», vale a dire «portato su», ricevendo calore e crescita dal fermento e dal sale. L'azzimo invece non differisce molto da una pietra senz'anima e dalla manna caduta sulla terra arida e che si adagiò alla superficie della terra. Mose comandò ai miseri giudei di mangiare una volta l'anno questa specie di fango nella tristezza, poiché esso è simbolo delle cattive passioni e della sofferenza... La nostra Pasqua invece è gioia, è tutta letizia, e ci eleva dalla terra sino al cielo, allo stesso modo in cui il fermento col suo calore eleva il pane, il quale così acquista tutto il suo sapore. Gli azzimi invece, non avendo in sé né sale né fermento, sono come il fango. Ritenendo sufficienti le argomentazioni a favore del pane fermentato per l'eucarestia, Leone passava all'usanza latina di digiunare nei sabati di quaresima. Ricordando che Gesù Cristo non disdegnava di operare miracoli nei giorni di sabato, apostrofava i latini con queste parole: E come è che, alla maniera giudaica, in tempo di quaresima osservate i sabati? Con ogni probabilità, Giovanni consegnò questa lettera ad Argiro, che a sua volta la passò al cancelliere pontificio Umberto da Silva Candida, che da anni ormai faceva frequenti puntate in Puglia. Questi, vedendo in quella lettera la conferma del quadro fattogli da Argiro sulla ostilità della chiesa costantinopolitana nei confronti di Roma, la tradusse dandole questa intestazione: Michele, patriarca universale della nuova Roma, e Leone, arcivescovo di Ochrid metropoli di Bulgaria, al diletto fratello Giovanni, vescovo di Trani. Per Argiro ed Umberto da Silva Candida, dunque, quella lettera era stata ispirata, se non proprio scritta, dal patriarca Michele Cerulario. L'interpretazione generalmente data alla mossa del patriarca, per il tramite di Leone di Ochrid, è pertanto quella di un tentativo di guastare un'alleanza fra il papa e i Bizantini, che sembrava andare a discapito del patriarcato di Costantinopoli. Che il violento cardinale avesse ragione è dimostrato dall’ignoranza teologica. Infatti il patriarca Pietro di Antiochia poco dopo avrebbe fatto notare al Cerulario che se voleva attaccare Roma avrebbe dovuto parlare del Filioque e non degli azzimi o dei digiuni al sabato. 3. Conseguenza: la sconfitta di Civitate (1053) La lettera di Leone di Ochrid giunse nel momento in cui si stava trattando la strategia della prossima battaglia contro i Normanni. Tutti si resero conto che l’alleanza militare rifletteva interessi diversi. E’ innegabile che il papa non aveva intenzione di cacciare i Normanni per mantenere lo status quo, ma intendeva in qualche modo allargare la sua giurisdizione anche al sud e specialmente in Puglia. Almeno questo si deve dedurre da quanto scrive il suo biografo Guiberto di Toul. D’altra parte Argiro intendeva tenersi fedele all’imperatore bizantino, altrimenti avrebbe avuto ben altre occasioni per consegnare la Puglia al papa, magari promuovendo un’alleanza coi Normanni.57 Sono dunque senza fondamento gli scritti, prevalentemente ortodossi, che presentano le iniziative del Cerulario contro Argiro come dettate dal desiderio di rintuzzare la politica di “latinizzazione” del duca nell’Italia meridionale. Ma sia l’opera dell’arcivescovo di Bari Nicola sia le numerose pergamene di 57 51 Il progetto militare di Argiro e del papa era concepito in questi termini: il papa sarebbe entrato in Puglia dal nord, e si sarebbe fermato, in attesa che giungessero da Bari i Bizantini al comando di Argiro. Una volta congiunti gli eserciti, avrebbero dato battaglia ai Normanni. Questi ultimi però intuirono il piano e si affrettarono a vanificarlo, provocando il papa a battaglia e così sconfiggere il nemico diviso. E’ difficile comunque dire quanto influissero tali provocazioni e quanto l’idea di potercela fare da solo allettasse il papa (con gli ovvi vantaggi che ne sarebbero derivati), fatto sta che il 17 giugno 1053, senza attendere l'arrivo di Argiro, il papa diede battaglia nei pressi di Civitate. Ma la vittoria arrise agli eserciti normanni comandati da Umfredo, Riccardo d'Aversa e Roberto il Guiscardo. Argiro, che proprio per non scontrarsi anzitempo coi Normanni, aveva scelto la via del mare sbarcando a Siponto, si era da poco mosso verso il nord. Quando seppe della disfatta papale era troppo tardi, e non riuscì del tutto a sfuggire allo scontro. Ferito e con un esercito scoraggiato, riuscì a rifugiarsi a Vieste, dove trovò una nave che lo riportò a Bari58. 4. Lo scisma La sconfitta fu certamente dovuta al valore dei Normanni. Tuttavia le circostanze che la precedettero, e soprattutto i dissidi religiosi, contribuirono notevolmente alla precipitosità di certe decisioni. In particolare, la vicenda che aveva minato la fiducia degli alleati era stata la lettera inviata da Leone, vescovo di Ochrid, a Giovanni, arcivescovo di Trani, città tra le più fedeli ai bizantini ed in diretta concorrenza con Bari. La lettera, come si è detto, era stata tradotta dal cancelliere Umberto da Silva Candida, cui fu affidata anche l'ambasceria a Costantinopoli, affinché, tramite una riappacificazione religiosa, si potesse riprendere il progetto di alleanza politica così miseramente fallito. Verso la fine del 1053 i legati papali si incontrarono a Bari con Argiro, che li mise in guardia dall'abilità e doppiezza del patriarca, col quale, durante la sua permanenza a Costantinopoli aveva avuto non pochi contrasti di natura politico-religiosa. Egli li informò inoltre di aver già preso qualche iniziativa per suo conto, come quella di mandare a Costantinopoli l'arcivescovo di Trani ad informare l'imperatore intorno alle sfortunate vicende militari e sulla necessità di evitare almeno per il momento discussioni di natura religiosa59. Con questo bagaglio di conoscenze i legati giunsero a Costantinopoli, ove l'imperatore li accolse onorevolmente, mentre il patriarca li trattò come nemici, considerandoli degli emissari di Argiro e non del papa, verso il quale diceva di nuquel periodo dimostrano che Greci e Latini vivevano pacificamente fianco a fianco ognuno con le sue diverse tradizioni. Non è segnalato nessun tentativo di latinizzazione anteriormente al concilio di Melfi del 1059. 58 Guglielmo Appulo, Gesta Roberti Wiscardi, lib. II, vv. 182 ss. Chalandon, Histoire, cit., 137. 59 M. Jugie, Schisme Byzantin, in DTC XIV, Paris 1939, col. 1353. Si noti però che il pensiero di Argiro, non essendoci pervenuti suoi scritti, lo conosciamo dagli scritti del suo avversario, il Cerulario, e da quelli di Pietro d’Antiochia. 52 trire grande stima. Lo scontro teologico, oltre che personale, divenne incontrollabile dopo la morte improvvisa del papa, avvenuta il 13 aprile 1054, e raggiunse il momento cruciale il 16 luglio con la famosa scomunica che i legati lanciarono contro il patriarca di Costantinopoli. Il modo in cui il patriarca riuscì a gestire la vicenda nei mesi successivi alla scomunica testimonia infatti una non comune accortezza. Il popolo si schierò dalla sua parte, il che costrinse anche l'imperatore a rivedere la sua posizione. Anzi, per calmare il Cerulario, dovette riconoscere che fidarsi di Argiro era stato un grave errore da parte sua. E per mostrare che intendeva cambiare politica gettò in prigione il figlio ed il genero del duca d'Italia e signore di Bari. L'anno dopo moriva Costantino Monomaco, ed Argiro, accompagnato dall'arcivescovo di Bari, si recò a Costantinopoli, forse anche per prendere visione del rapporto di forze creatosi nella capitale, oltre che per far liberare il figlio e il genero. Ma, come si è detto, era quello un momento favorevole al Cerulario, per cui fu una fortuna se potè riprendere la via del ritorno a Bari e attendere qualche circostanza più propizia. Questa si presentò tre anni dopo, a seguito di un errore di calcolo politico del Cerulario. Nel 1057 il patriarca si era adoperato per la sostituzione dell'imperatore Michele VI con il suo favorito Isacco Comneno. L'eccessiva ambizione lo spinse però a considerare Isacco uno strumento nelle sue mani, onde questi decise di disfarsi di lui facendolo sottoporre ad un processo, in cui la più dura requisitoria fu pronunciata dal famoso Michele Psello. Ma, qualche giorno prima del Natale del 1058, il Cerulario moriva, circondato dell'aureola di difensore dell'ortodossia 60. 5. Risposta di Leone IX alla lettera del Cerulario Che fosse in gioco il ruolo guida nella chiesa universale lo dimostrò la lettera che lo stesso patriarca aveva indirizzato al papa, qualche mese dopo quella di Leone di Ochrid. Non ci è pervenuta ma il contenuto si evince facilmente dalla risposta del papa. Quando Leone IX rispose al patriarca, la battaglia di Civitate aveva già avuto luogo. Si era nel gennaio del 1054, e il papa aveva già sofferto la prigionia beneventana e sapeva bene di chi era stata la colpa del disturbo dell'alleanza fra Roma e Costantinopoli. Ecco perché non si premurò di nascondere la sua delusione ed irritazione. All’inizio si sforzò però di moderare il tono: Gli scritti della tua onoranda fraternità ci sono finalmente pervenuti. Ivi ti preoccupi di esortare al bene della concordia e dell'unità, bene che è massimamente necessario e degno di essere abbracciato da tutti i fedeli di Cristo: poiché dopo sin troppo lunghe e perniciose discordie, la figlia gioisce per la riconciliazione della propria madre61. Dopo aver ricordato che anch'egli era desideroso di riavvicinare le due chiese, il papa rilevava che gli erano pervenute alle orecchie diverse cose gravi (plurima intolerabilia), non ultima l'elezione di Michele Cerulario in condizione di neofita, senza aver fatto cioè la trafila dei vari ordini ecclesiastici. Come se ciò non bastasse, il patriarca ardiva attentare agli antichi privilegi di Antiochia ed Alessandria. E tale 60 61 E. Amann, Michel Cérulaire, in DTC X (Paris 1928). Mansi XIX, col. 663-666. 53 ambizione si concretizzava nel titolo di cui si insigniva di patriarca ecumenico, vale a dire universale. A seguito di questa sacrilega usurpatio, dopo 1020 anni dalla passione di nostro Signore, il patriarca di Costantinopoli si trasformava in calunniatore della chiesa latina anatematizzando tutti e provocando una pubblica persecuzione contro chiunque partecipi ai sacramenti in cui viene usato il pane azzimo. La quale presunzione e novità ci è pervenuta e l'ha manifestata anche il testo della lettera che sotto il tuo nome è stata inviata ai Pugliesi, la quale tenta di affermare con violenza che il pane per mezzo del quale il Signore nell'ultima cena diede agli apostoli il sacramento del suo corpo era fermentato. Il papa faceva notare l'impossibilità che il Cristo avesse usato pane fermentato, in quanto nelle case israelitiche sotto Pasqua non si mangiava che pane azzimo. La nostra pasqua è nuova non per l'uso di un pane diverso, bensì nel significato, in quanto mentre quella ebraica ricordava la liberazione dall'Egitto, quella cristiana stava ad indicare la passione e la risurrezione di Cristo col suo ritorno al Padre. Ma non è questo il punto centrale del problema, diceva Leone IX, che al riguardo rimandava agli scritti che avrebbero portato i legati papali a Bisanzio e che contenevano una più dettagliata trattazione della questione. Il nocciolo del problema era costituito dall'atteggiamento del patriarca, il quale era giunto a promettergli di reinserire il suo nome nei dittici e di far fare altrettanto alle altre chiese, a condizione che la chiesa romana avesse fatto altrettanto col suo nome. Si è di fronte cioè ad una proposta di alleanza ecclesiastica che va contro tutti gli antichi canoni. La chiesa romana, faceva notare il papa, non è sola di fronte ad una molteplicità di chiese che il patriarca potrebbe influenzare. Che specie di mostro sarebbe mai questo, fratello carissimo? La chiesa romana, capo e madre delle chiese, sarebbe essa senza membra e figlie? E’ vero invece il contrario. Qualsiasi nazione dissenta dalla chiesa romana non ha alcun diritto di essere considerata Chiesa, ma sarebbe soltanto un conciliabolo di eretici o una conventicola di scismatici e una sinagoga di satana. Se veramente voleva la pace, il patriarca avrebbe dovuto cessare dal criticare la Chiesa romana, ed adoperarsi veramente a che Roma e Costantinopoli tornassero in armonia, duo maxima regna connectantur pace optata. 6. Le reciproche scomuniche Era stato pochi mesi dopo questa lettera, e precisamente il 16 luglio del 1054, che, come abbiamo visto, gli avvenimenti erano precipitati e si erano conclusi con la scomunica posata dal cancelliere Umberto da Silva Candida sull'altare di Santa Sofia a Costantinopoli. Ma, se dal punto di vista occidentale si poteva parlare di conclusione, non altrettanto lo era per il Cerulario, che contrattaccò convocando un sinodo contro gli occidentali e contro Argiro62; un sinodo a cui partecipò e sottoscrisse anche un vescovo pugliese, Ipazio di Otranto. Edictum de proiecto pittacio in sacra mensa a legatis romanis contra sanctissimum Patriarcham Dominum Michaelem mense Junio, indictione septima, Migne PG CXX, col. 735-748. 62 54 Il tenore dell'editto sinodale è reso subito evidente allorché sin dall'inizio il Cerulario e gli altri vescovi affermano: Coloro che si comportarono con tanta impudenza contro di noi e contro l'ortodossa chiesa di Dio, vennero alla presenza del nostro piissimo imperatore provenienti da altra città, piuttosto che dall'antica Roma e macchinarono con malvagio inganno varie cose contro i fedeli della chiesa ortodossa. Ed in verità cominciarono a mentire sin dal loro arrivo quando affermarono di venire da Roma e di essere stati inviati dal papa, mentre in realtà non erano affatto stati mandati dal papa, ma erano venuti per conto loro a seguito di avvertimenti e consigli di Argiro, pieni di inganni. Quindi viene inserito il testo della scomunica contro la chiesa costantinopolitana che viene tacciata dai Latini dei seguenti errori ed abusi: Come i Simoniaci, vendono il dono di Dio; come i Valesiani, castrano i loro ospiti e li promuovono non solo al chiericato, ma persino all'episcopato; come gli Ariani, ribattezzano quelli che sono stati già battezzati nel nome della santissima Trinità e specialmente i latini; come i Donatisti, ritengono che all'infuori della chiesa greca, in qualsiasi parte del mondo non vi sia più la chiesa di Cristo e né il vero sacrificio (della messa) e neppure il battesimo; come i Nicolaiti, permettono nozze carnali e li ammettono come ministri dei sacri altari; come i Severiani, dichiarano maledetta la legge di Mosè; come gli Pneumatomachi o Teomachi, hanno lasciato cadere dal simbolo la processione dello Spirito Santo anche dal Figlio; come i Nazareni, conservano la mondezza carnale dei giudei tanto che non vogliono battezzare i bambini che stanno per morire entro gli otto giorni dalla nascita, né ammettono alla comunione o al battesimo (se non sono state già battezzate) le donne mentre hanno le mestruazioni o che corrono pericoli al momento del parto; come i Nazareni, si fanno crescere i capelli e la barba, e non ricevono nella loro comunione coloro che si tagliano i capelli o, secondo l'usanza della chiesa romana, si radono la barba. (...) Michele poi, che abusa della dignità patriarcale, è un neofita che solo per paura ha vestito l'abito monastico, ora da molti accusato di crimini incurabili. Insieme a Leone di Ochrid ed il segretario dello stesso Michele, Niceforo, il quale dinanzi a tutti con i piedi calpestò il sacrificio dei latini. I due argomenti su cui il sinodo si soffermò a discutere, per ribadire la dottrina ortodossa, furono il matrimonio dei preti ed il Filioque. Così, curiosamente, fu l’accusa di Umberto da Silva Candida agli Orientali di aver tolto il Filioque dal Credo, ad attirare l’attenzione sulla questione principale, del tutto ignorata da Leone di Ochrid (= Cerulario). I padri del sinodo decisero comunque di non dare alle fiamme la carta dell'anatema, e il 24 luglio risolsero di conservarla a vergogna di coloro che l'hanno portata o l'hanno condivisa. Il Cerulario, avendo così riportato gli eventi a suo vantaggio a Costantinopoli, essendo a conoscenza della lettera di Pietro di Antiochia al papa, volle riallacciare i rapporti con questo autorevole e dotto patriarca. Così, pochi giorni dopo che il sinodo era terminato, gli scrisse una lettera63, in cui, dopo aver narrato la vicenda, si soffermava sugli errori dei Latini, sottolineando che il nome del papa Vigilio era stato omesso dai dittici costantinopolitani perché si era rifiutato di partecipare al VI concilio ecumenico e di condannare i capitoli di Teodoreto contro S.Cirillo, nonché l'epistola di Iba. Riferendosi alla lettera di Pietro al patriarca di Aquileia, il Cerulario esponeva tutta una serie di errori dei Latini, spesso più gravi della questione degli azzimi, che erano i seguenti: Michaelis sanctissimi episcopi Constantinopolis novae Romae et oecumenici patriarchae, Cerularii, ad Petrum sanctissimum patriarcham Theopolis magnae Antiochiae, Migne PG CXX, col. 781-796. 63 55 Usano gli azzimi (invece del pane fermentato) nell'eucarestia. Permettono di mangiare carne soffocata. I Latini si radono la barba, digiunano il sabato, mangiano carne di animali immondi, i loro monaci mangiano carne o grasso di maiale, mangiano carne al mercoledì, mangiano queste cose anche durante la quaresima. Hanno inserito il Filioque nel Credo, impongono il celibato ai sacerdoti. Due fratelli possono sposare due sorelle. Un celebrante mangia gli azzimi, e saluta gli altri. I vescovi hanno un anello, come sposi della loro chiesa. Si dice che prendano i pegni. Gli ecclesiastici vanno in guerra. Celebrano il battesimo con una sola immersione. Non venerano le reliquie, né le immagini. Non annoverano fra i santi Basilio, Gregorio di Nazianzo e Giovanni Crisostomo. Al termine di questo elenco di false consuetudini, il Cerulario si poneva la domanda e la poneva a Pietro, se un tale comportamento potesse far annoverare i latini nella categoria degli ortodossi, e commentava: Io certamente penso di no. Egli comunque affermava di non invidiare coloro che dovessero ritenere corrette queste consuetudini e condividevano la sorte dei latini. E concludeva: Ma la cosa più grave di tutte e la meno tollerabile, e che evidenzia maggiormente la loro follia, è questa: affermano che sono venuti qui non per imparare o per discutere, bensì per insegnare e convincerci ad abbracciare i loro dogmi, e per di più lo affermano con tono di comando e con incredibile impudenza. Nella sua risposta64, sin dalle prime righe, Pietro di Antiochia mostrava di aver creduto alla versione degli avvenimenti data dal Cerulario, che vedeva in Argiro il macchinatore di tutto. Tuttavia, faceva notare che il cancelliere (cartofilace) della chiesa costantinopolitana, forse per la sua giovinezza, conosceva male la storia ecclesiastica. Il papa Vigilio era vissuto al tempo del Quinto Concilio Ecumenico, quando era discussa la questione di Origene, Didimo, Teodoreto, e non al tempo del Sesto Concilio Ecumenico che ebbe luogo 139 anni dopo. E Vigilio fu solo momentaneamente omesso dai dittici, a causa di un contrasto col patriarca Mena, ma poi vi fu reinserito. Ai tempi invece del VI Concilio Ecumenico (680-81) era papa Agatone, «uomo venerabile e esperto nelle cose divine. «Leggi gli Atti di questo Sesto Concilio, che si recitano nella domenica seguente a quella dell'Esaltazione della Croce, e troverai che del suddetto Agatone quel santo sinodo ne parlava in modo altamente elogiativo». Mentre era patriarca di Antiochia Giovanni, nei dittici era menzionato il papa che si chiamava ugualmente Giovanni. E poi, soltanto 45 anni prima il patriarca Sergio commemorava il papa con gli altri patriarchi. Per quale motivo successivamente si interrompesse questa menzione, ed in quali circostanze, lo ignoro. Per quanto riguarda gli errori dei Latini messi in evidenza dal Cerulario, secondo Pietro di Antiochia andava fatta una distinzione: Alcuni di essi sono detestabili e da evitare, alcuni correggibili, altri invece trascurabili…. il peggiore dei mali, è l'aggiunta al santo Simbolo: «Et in Spiritum Sanctum, Dominum et vivificantem, qui ex Patre Filioque procedit». Infatti, se noi e i Latini abbiamo gli stessi Vangeli, da dove essi hanno appreso questa cosa in più, al punto da fare questa aggiunta assurda? Petri Theopoleos totiusque Orientis patriarchae dissertatio, eo tempore scripta quo advenit Italus Argyrus ut nostra reprehenderet, Migne PG CXX, col 795-816. 64 56 Per le cose invece che non toccano direttamente la fede è meglio ispirarsi alla carità fraterna. Goffredo di Buglione I Latini infatti sono nostri fratelli, rende benché per una certa rozzezza ed imperizia accade che si allontanino omaggio da ciò che è decoroso, e fanno all’imperatore secondo vogliono loro. Né Alessio I dobbiamo pretendere che fra genti Comneno barbare viga una rigorosa disciplina, come invece si richiede da noi che siamo edotti nella dottrina. E già molto che presso di loro si predichi la vivificante Trinità, nonché si tenga la stessa nostra sentenza a riguardo della redenzione operata con l'incarnazione. Le altre cose, se non si possono approvare, si possono però tollerare come consuetudini locali. Tanto più che anche in oriente, qua e là, si commettono abusi non facilmente eliminabili dalla chiesa. Alcune accuse poi sono decisamente false, diceva il patriarca antiocheno, e particolarmente il fatto che i Latini non venerano le reliquie e le immagini, avendo avuto modo egli stesso di vedere frequentemente dei pellegrini occidentali che, entrando nelle chiese di Antiochia, si prostravano con devozione dinanzi alle reliquie e alle immagini sacre. Egli avrebbe dovuto insistere invece presso il papa di Roma affinché fossero rispettati i sacerdoti sposati e venissero ammessi alla comunione. Ma soprattutto, anche se con mansuetudine, dovrebbe insistere sulla questione del Filioque. Esprimerei così il mio punto di vista: se si correggono per quanto riguarda l'aggiunta al Simbolo, non dovremmo chiedere loro nulla di più. Relegherei fra le questioni secondarie anche quella degli azzimi. Si chiudeva così un dibattito teologico senza un accordo conclusivo. Al di là comunque della grande ripercussione degli avvenimenti del 1054 sulla separazione fra Cattolicesimo e Ortodossia, tutto questo dibattito teologico ha permesso di aprire una finestra sulle tematiche religiose in discussione tra Oriente e Occidente. Per quanto riguarda invece lo scisma vero e proprio è necessario riprendere gli eventi del 1054 e riconsiderarli alla luce dello sconvolgimento delle alleanze. Senza volerlo, il patriarca di Costantinopoli aveva gettato il papato nelle braccia dei Normanni. Infatti a Melfi nel 1059 il papa Nicola II fu costretto a nobilitarli, a dare loro il Mezzogiorno d’Italia e a crearli duchi e baroni. La grande alleanza fra Roma e Costantinopoli tessuta da Argiro fu fatta fallire dal Cerulario, e per oltre un secolo i Normanni divennero il braxccio armato della Chiesa romana, nonché lo strumento della latinizzazione del 57 sud. Certo, il 1054 non può essere considerato l’anno dello scisma. Tuttavia i semi erano stati gettati, e nel corso del XII secolo germoglieranno drammaticamente. La conseguenza sarà la quarta crociata (1204) per quanto riguarda il mondo greco, quella dei cavalieri teutonici (1242) per quanto riguarda la repubblica di Novgorod ed il mondo slavo. 58 V SACCHEGGIO DI COSTANTINOPOLI, IMPERO LATINO E CONCILIO DI LIONE Le scomuniche reciproche del 1054 non significarono interruzione dei rapporti ecclesiastici fra Roma e Costantinopoli. Sia pure per ragioni diverse, entrambi i centri di governo ecclesiastico furono interessati a trattative, con la differenza che a Roma interessava l’unione per affermare l’universalità del primato su tutte le chiese, a Bisanzio interessava l’aiuto militare occidentale contro i musulmani sempre più minacciosi. Questa è la chiave per comprendere come mai dialoghi che apparivano perfetti sul piano formale e teologico finivano prima o poi in un completo fallimento. 1.- Incontri e scontri nel XII secolo (1113, 1136, 1155). A conferma che il problema teologico non fosse al primo posto nei rapporti fra Roma è Costantinopoli, vi sono i vari tentativi di riprendere il dialogo, come nel 1089 tra Alessio I Comneno e papa Urbano II. Ma anche a livello teologico, almeno fino ai primi del XII secolo, si registrano autorevoli prese di posizione che testimoniano un atteggiamento di fraternità ecclesiale. Il teologo greco, Teofilatto arcivescovo di Bulgaria, è il testimone più autorevole. Contemporaneo di S. Anselmo, Teofilatto di Bulgaria (+1108 circa), fu certamente uno dei maggiori teologi bizantini. Noto soprattutto come esegeta biblico, scrisse anche opere di notevole importanza per comprendere la situazione ecclesiastica e teologica del suo tempo, come ad esempio l’Allocutio ad quendam ex suis familiaribus de iis quorum Latini incusantur", composto verso il 1090, e la "Vita di S.Clemente di Ochrid". Interessante è in Teofilatto il tono sereno dell'esposizione e soprattutto il fatto di non considerare gli errori dei latini tali da portare alla divisione delle chiese: neque enim multos eorum errores scimus, neque tales qui ad discindendas ecclesias sint idonei. Egli parla piuttosto di consuetudini diverse, a parte il Filioque che ritiene un vero errore, a suo avviso dovuto alla povertà linguistica del latino (e pertanto perdonabile) per esprimere i concetti di processione (eterna) e di missione (temporale). 59 Agli inizi del secolo XII si distinse Eutimio Zigabeno, autore della Dogmatiké Panoplia (Panoplia dogmatica), una raccolta di citazioni patristiche per confutare tutte le eresie, scritta su richiesta di Alessio Comneno. Poco prima l'imperatore aveva messo al rogo nell'ippodromo il capo dei bogomili, Basilio. Nel parlare dell'"ateismo" di Epicuro e del "politeismo greco" l'autore aveva forse in mente le posizioni umanistiche di Psello. Nelle sue opere esegetiche riconosceva il primato di Pietro tra gli apostoli (Comm. a Gv, PG 129, col.1496). Egli fu il principale rappresentante ortodosso nelle discussioni del 1113 con Pietro Grossolano, l'arcivescovo di Milano che, di ritorno da Gerusalemme si era fermato a Costantinopoli. Il momento sembrava adatto al dialogo perché da circa due anni Alessio Comneno, approfittando dei cattivi rapporti di Roma con l’imperatore di Germania, aveva ripreso i contatti, offrendo il suo appoggio. Purtroppo il Grossolano aveva un temperamento simile a quello di Umberto da Silva Candida col Cerulario. Inoltre, la sua insistenza sugli argomenti di ragione, che sembravano mettere in ombra quelli scritturistici, infastidì i greci che erano lo stesso Zigabeno, Giovanni Furnes ed Eustrazio di Nicea. Il tono di superiorità che avrebbe infastidito chiunque, irritò maggiormente i Greci, convinti della superiorità culturale nei confronti dei latini. Di conseguenza nella sua Panoplia contro gli eretici il Zigabeno inserì un capitolo contro i Latini sia a proposito del Filioque che degli azzimi. Alquanto più serene e costruttive furono le discussioni dei Bizantini con il legato dell'imperatore Lotario II, Anselmo di Havelberg, nel 1136 e nuovamente nel 1155. La prima volta l'interlocutore di Anselmo fu Niceta di Nicomedia, la seconda volta Basilio di Ochrid, arcivescovo di Tessalonica. Dall'opuscolo di Anselmo (PL 188,1159-1247) si apprende che Niceta di Nicomedia gli avrebbe confessato che era d'accordo con le sue tesi sullo Spirito Santo ed il primato, ma che non voleva creare scandalo nella chiesa ortodossa, e che auspicava la convocazione di un concilio al riguardo. Anche Basilio di Ochrid, in un suo "Dialogo" sulla questione si mostrò favorevole all’unione: Non habet Dei caritatem qui Ecclesiae non diligit unitatem. A quel punto però negli incontri diveniva sempre più prioritario l’interesse politico. Manuele Comneno ad esempio si mostrò sempre latinofrono, riservando ai Latini importanti uffici a corte. Nel 1166 inviò presso il papa il sebaste Giordano, figlio del principe Roberto di Capua, con la proposta dell’unione delle Chiese in cambio del riconoscimento dell’unità dell’impero nella sua persona. Il papa inviò a Costantinopoli i cardinali Ubaldo di Ostia e Giovanni di S. Giovanni e Paolo. Non furono tanto le divergenze teologiche a far fallire le trattative quanto la condizione posta dal papa che Manuele per essere unico imperatore d’τriente e d’τccidente avrebbe dovuto trasferire a Roma la sua residenza. I contatti continuarono, ma diveniva sempre più chiaro che gli interessi erano troppo diversi, per cui gli avversari dell’unione ripresero lena. Verso il 1170 fu l'oriundo pisano Ugo Eteriano (che visse per un po’ alla corte di Manuele Comneno) a suscitare nuovamente la discussione sui motivi di dissenso fra cattolici ed ortodossi. Sull'argomento egli scrisse l'opera: De haeresibus quas Graeci in Latinos devolvunt libri tres, sive quod Spiritus Sanctus ex utroque, Patre scilicet et Filio procedat, contra Graecos. Nell'ambito o a seguito di tale controversia, l'imperatore affidò la confutazione ad Andronico Camatero, il quale redasse l’Arsenale sacro. In quest’opera il teologo greco, rifacendosi alle argomentazioni di Fozio, accusava i latini di sdoppiare il principio in Dio minandone così l'unità. Quanto al primato, 60 riconosce che i canoni sono ancora a favore dell'antica Roma ma, dato che il primato è legato alla capitale dell'impero, ora il primato spetta a Costantinopoli. Sulla questione del primato una voce importante fu quella del patriarca Michele d'Anchialo. Già rettore della facoltà di filosofia alla nuova università ricostituita da Manuele Comneno, Michele di Anchialo divenne successivamente patriarca di Costantinopoli (1170-1177). I suoi regesti toccano ovviamente tutte questioni canoniche, ma egli intervenne in prima persona anche nel 1170 allorché ripresero i contatti fra papa Alessandro III e Manuele Comneno per la riunione delle chiese. Il papa poneva tre condizioni: riconoscimento del primato romano, riconoscimento del diritto d'appello al papa, reinserimento del nome del papa nei dittici. Michele di Anchialo compose allora una "Memoria" in cui attaccava vivamente il diritto d'appello a partire dal fatto che il papa non vestiva più la veste del giudice, ma quella dell’imputato (a causa delle molte censure ecclesiastiche che l'avevano colpito). Dopo Costantino, poi, la sede dell'ortodossia è Costantinopoli ed è qui che il papa e i latini devono venire a giustificarsi. La preoccupazione dell'imperatore per i pericoli e rischi di guerre non è un buon argomento, poiché i pericoli che corrono le anime sono più gravi di quelli che corrono i corpi: Che il turco sia il mio padrone esteriore, piuttosto che il latino mi sia unito spiritualmente, poiché sottomesso al primo io non ne condividerò la fede, mentre accettare l'unione col secondo su una base dogmatica, equivale a separarmi da Dio (Vizantiskij Vremennik, 1907, t.XIV, p.344-53). Al concilio che fu riunito sulla questione Michele d'Anchialo fece deliberare la scomunica contro il papa e i latini, prevalendo così sulla tendenza pacificatrice dell'imperatore. Da notare che, per meglio sottolineare la differenza della dottrina ortodossa da quella latina a proposito del Filioque, i due sinodi del 1166 e del 1170 decretarono l’inferiorità relativa del Figlio rispetto al Padre in ragione dell’unica origine (il Padre appunto). Tali dure prese di posizione del patriarca di Costantinopoli inasprirono l’animo dei bizantini nei loro confronti, e in qualche modo fu all’origine del massacro dei latini che ebbe luogo nel 1182 (e alla lontana di quello inverso del 1204). A cavallo fra la fine del XII e gli inizi del XIII secolo si colloca l'attività di Niceta Acominato, detto anche Choniata, dalla sua patria Choni (Colossi) in Frigia. Era governatore del thema di Filippopoli quando nel 1189 passò attraverso la Tracia Federico Barbarossa. Alla presa di Costantinopoli da parte dei Latini, fuggì a Nicea presso l'imperatore Teodoro I Laskaris. Morì dopo il 1210. Sul modello della "Panoplia" di Eutimio Zigabeno e dell'"Arsenale sacro" di Andronico Camatero, Niceta Acominato scrisse il Tesoro dell'Ortodossia. In quest'opera tratta dei principali dogmi dell'Ortodossia sviluppando un'estesa critica delle eresie. Due libri sono dedicati agli errori dei latini, ed in particolare al Filioque e agli azzimi. In altri termini sul finire del XII secolo i rapporti fra l’τrtodossia greca e la Chiesa cattolica romana erano peggiorati mai come in precedenza. Il che non significa che qualche voce esprimesse la sua nostalgia per l’unione, come ad esempio Niceta di Maronea, autore di un’opera dal titolo: "Dialoghi fra un latino ed un greco sulla processione dello Spirito Santo" . Per l'edizione, vedi PG 139, e 61 Bessarione,1912-1916. La sua tesi è che non c'è differenza nella fede fra latini e greci. Il tradizionale dià tou Yiou dei greci ha lo stesso senso del Filioque dei latini. Tanto è vero, egli dice, che i latini non intendono la processione dal Figlio come da un primo principio senza principio. Il primo principio c'è, ed è il Padre. Tuttavia a suo avviso va rispettata la tradizione ecclesiale, per cui nel canto liturgico i latini dovrebbero omettere il Filioque. Una posizione così irenistica non era frequente a Bisanzio, per cui non fa meraviglia il rilievo che più tardi avrebbe fatto Nilo Cabasila (+1363): Chi non conosce il nostro Niceta? Egli è nostro infatti, lui che fu vescovo di Tessalonica, nonostante che per la sua opinione sullo Spirito Santo sia fortemente apparentato ai latini e si mostri nostro nemico.Egli visse sotto il quarto dei Comneni. 2.- Saccheggio di Costantinopoli: la pietra tombale sul dialogo Alla morte di Manuele Comneno (1180), che lasciava un impero in crisi sociale ed economica, la reggente, l’occidentale Maria d’Antiochia, diede il comando al favorito Alessio Comneno durante l’adolescenza del dodicenne Alessio II. Ad interpretare il malcontento delle classi umili fu Andronico Comneno, che marciò verso Costantinopoli accampandosi a Calcedonia. Quando il megas dux Contostefano, capo della marina, passò dalla sua parte, egli riuscì ad eliminare tutti i possibili contendenti (prima Alessio il favorito, poi Maria l’occidentale e infine anche il piccolo Alessio II), Così salì al trono sposando lui sessantenne la vedova tredicenne di Alessio II. 62 L’eccessivo rigorismo nella lotta alla corruzione attirò ad Andronico l’ostilità anche dei ceti medi e soprattutto dei latini, che venivano additati come la causa della crisi economica. I rovesci politici e militari, come la perdita di Tessalonica ad opera dei Normanni, che si vendicarono sulla popolazione della strage dei latini del 1182, lo resero tanto inviso da spingere la folla infuriata ad aggredirlo e tagliarlo a pezzi il 12 settembre 1185. Finiva così ingloriosamente la dinastia dei Comneni. Preso il potere Isacco II Angelo (1185-1195) la vendita delle cariche riprese più di prima e così la corruzione. Fortunato nella lotta contro i Normanni, sfortunato contro i Bulgari, nel suo antilatinismo Isacco II preferì l’alleanza con Saladino, tanto che il Barbarossa dovette sconfiggerlo per avanzare nell’Anatolia in occasione della Terza crociata. Accecato e detronizzato dal fratello maggiore Alessio III (1195-1203), l’impero entrò in crisi quando il figlio del Barbarossa, Enrico VI, per la sua crociata impose una tassa per tutto l’impero, inclusa Costantinopoli (tò alamanikòn). Nonostante che il papa insistesse affinché Enrico si dirigesse verso Gerusalemme e non a Costantinopoli, l’imperatore tedesco, memore dell’atteggiamento del padre, restò minaccioso nei confronti di Costantinopoli. Morto improvvisamente Enrico VI (1197), Alessio III sull’onda della paura entrò in contatto col papa Innocenzo III, con la vecchia proposta dell’unica chiesa nell’unico impero. A questo punto però entrava in scena Alessio Angelo, figlio (ed erede al trono) di Isacco II Angelo, il quale intraprese viaggi in occidente, prima dal papa e poi da Filippo di Svevia, pretendente al trono tedesco. Egli promise ingenti somme se avessero detronizzato Alessio III e riportato lui e il padre accecato sul trono. Allettato dal doge di Venezia (Enrico Dandolo), Bonifacio di Monferrato si mise al comando della spedizione che partiva all’insegna della riconquista di Gerusalemme con gli aiuti finanziari di Costantinopoli. A Zara Alessio Angelo si unì ai Crociati, e a Corfù nel maggio 1203 si decise la diversione verso Costantinopoli. Rompendo la catena che sbarrava il porto e nonostante la strenua resistenza, i Crociati entrarono a Costantinopoli il 17 luglio 1203. Mentre Alessio III fuggiva col tesoro, i Crociati rimettevano sul trono Isacco II, e così pure come coimperatore Alessio IV Angelo. Ma alla fine di gennaio del 1204 accadde l’irreparabile. La popolazione era irritata per la presenza dei latini (visti sempre come causa della crisi economica), e Alessio IV non era in grado di pagare i debiti ai crociati, essendo il tesoro in mano ai seguaci di Alessio III. Nel corso di una sollevazione popolare che portò sul trono Alessio V Ducas Murzuflo, genero di Alessio III, il giovane imperatore fu ucciso. Il nuovo imperatore fece subito capire le sue intenzioni di non pagare i debiti ai Crociati, i quali, trovandosi ancora fuori sotto le mura, iniziarono l’assedio. Quando il 13 aprile del 1204 la città cadde sotto il loro colpi, ne seguì per tre giorni una strage ed un saccheggio indescrivibili. A dirigere il nuovo assetto politico fu lo stesso doge di Venezia, che fece salire al trono Baldovino di Fiandra e al soglio patriarcale il veneziano Tommaso Morosini. Ma, mentre l’ordine regnava nei territori conquistati, un altro genero di Alessio III, Teodoro Lascaris, costituì il cosiddetto impero di Nicea, ed in Epiro si insediava Michele Angelo, cugino di Isacco II. Dopo alcuni anni di 63 tensioni e di giochi di alleanze nel 1219 ci fu un trattato di pace (rinnovato nel 1225) che per molti anni ancora garantì una convivenza vivacizzata da frequenti contrasti ma sostenuta da comuni interessi commerciali. La restaurazione bizantina avvenne nel 1261, con l’abile operazione diplomatica di Michele VIII Paleologo che, per neutralizzare i Veneziani, promise ingenti privilegi ai Genovesi. Successivamente per neutralizzare le ambizioni di Carlo I d’Angiò sull’impero di Costantinopoli promosse l’unione ecclesiastica con Roma e impegnò ingenti somme per fare ribellare i Siciliani (i Vespri Siciliani scoppiarono proprio l’anno della sua morte). Il retaggio del sacco di Costantinopoli fu estremamente negativo quanto ai rapporti Roma Costantinopoli. Avrebbe segnato un solco profondo sul piano psicologico che nessun dialogo teologico sarebbe riuscito più a sanare. Per i Bizantini la politica occidentale era diretta dal papa e quindi l’umiliante tragedia, a loro avviso, era stata provocata e voluta dal papa. Persino uno storico attento come l’τstrogorskij pone in secondo piano sia l’aspetto militare che quello economico. Ora, la sequenza degli avvenimenti che portarono al saccheggio sono ben note, ed hanno un nome ben preciso: denaro. Denaro non pagato. Denaro voluto ad ogni costo. Eppure l’τstrogorskij parteggia per l’interpretazione storiografica dei Greci. Quelli economici e politici sono dettagli. Il movente fu l’eterno desiderio del papato di sottomettere la chiesa bizantina. Purtroppo a questa discutibile interpretazione corrisponde un fatto indiscutibile: l’odio verso il mondo latino, che avrebbe profanato oltre le vite umane anche le cose sacre di Costantinopoli. 3. Gli incontri teologici al tempo dell’Impero latino di Costantinopoli σonostante il sacco di Costantinopoli e la nascita dell’Impero Latino d’τriente i dialoghi teologici non si interruppero, anche se ormai erano divenuti dibattiti e dialoghi fra sordi, dato i diversi criteri di fare teologia e di argomentare. I maggiori controversisti a Costantinopoli durante l'impero latino furono i fratelli Giovanni e Nicola Mesarite. Gli incontri cominciarono poco dopo la conquista. Uno avvenne nel dicembre 1204 fra Pietro Capuano e Giovanni Mesarite, un altro nell'agosto 1206 fra il patriarca latino Pietro Morosini e Nicola Mesarite (autore dello scritto A coloro che dicono che Roma è la prima sede), un altro nel dicembre 1214 fra il legato papale Pelagio e Nicola Mesarite. Nel 1206 e nel 1214 interprete fu Nicola d'Otranto, autore anch’egli di trattati contro i latini (sullo Spirito Santo, gli azzimi e il celibato). Un elemento nuovo, almeno per i latini, che i Mesarite introdussero in tali dispute è l'argomentazione secondo la quale gli apostoli non sono da considerarsi vescovi di qualche 64 città (di conseguenza Pietro non è mai stato vescovo di Roma). Gli apostoli, per i fratelli Mesarite, sono maestri ecumenici e non locali. Il vescovo di Gerusalemme di nome Giacomo non sarebbe stato l'apostolo, ma uno dei 72 discepoli. Quanto a Pietro, andò a Roma solo per confutare Simon Mago e non per fare il vescovo, mentre primo vescovo di Roma fu Lino. Ed in ogni caso, se Roma ha il primato perché primo vescovo fu Pietro, che cosa bisogna dire di Antiochia, ove meglio documentata è la sua attività episcopale per ben 8 anni ? Meno originali furono i fratelli Mesarite sul Filioque, preferendo al riguardo riprendere gli stessi argomenti avanzati da Fozio. Fu proprio all’epoca di queste dispute che cominciò ad emergere sempre più la questione del purgatorio. Si sa, ad esempio, che ad uno dei dibattiti su tale questione prese parte il frate francescano Bartolomeo (1232). Ma furono soprattutto i Domenicani ad entrare nella polemica teologica65. Quanto al Filioque, essi adottarono la posizione di S. Agostino (principaliter a Patre), che permette di accordarsi meglio al "per Filium" dei Greci. Quanto alla corruzione del simbolo affermata dai Bizantini, essi rispondevano che non è una corruzione, ma una esplicitazione con una più ampia dichiarazione. Sul primato di Pietro i figli di S. Domenico si appellavano alla tradizione, contro i Bizantini che dicevano Pietro uguale a tutti gli altri apostoli. L’autore del Tractatus contra errores Graecorum indicava quattro cause o occasioni dello scisma fra oriente ed occidente: 1) la divisione dell'impero, 2) l'aggiunta del Filioque senza il consenso dei Greci, 3) il modo di agire dei legati romani verso i bizantini e 4) la deposizione del patriarca Fozio. Da parte bizantina il teologo più rappresentativo nel periodo dell’Impero latino è forse Niceforo Blemmyde. Nel 1234 partecipò al sinodo di Nimfea, contribuendo al fallimento dei tentativi unionistici. Nel 1239 l'imperatore Giovanni Vatatse lo mandò per la Tracia, la Macedonia e la Tessaglia a raccogliere gli antichi manoscritti. Nel 1242 ebbe il coraggio di interdire l'entrata alla chiesa del suo monastero a Fringa, favorita dell'imperatore. Nel 1250 fece nuovamente fallire a Nimfea i tentativi d'unione. Quattro anni dopo l'imperatore Teodoro Lascaris gli offrì il trono patriarcale. Al suo rifiuto fu eletto Arsenio. Trascorse gli ultimi anni nel monastero di Emathia, senza partecipare alla controversia arsenita. Morì nel 1272. Tra le opere a carattere religioso e teologico (edite in PG 140) ricordiamo due lettere sulla questione dello Spirito Santo: la prima A Giacomo, arcivescovo di Bulgaria, la seconda All'imperatore Teodoro Lascaris. Ivi si discosta dai teologi bizantini sostenitori dell'a solo Patre, per affermare l’ex Patre per Filium, e non solo in senso temporale. Pur rigettando che il Figlio sia "causa" (principio è solo il Padre), Blemmyde insiste che nel momento in cui il Padre ha generato il Figlio, gli ha anche 65 Nel 1252 fra Pantaleone pubblicò un opuscolo scritto dal confratello fra Bartolomeo da Costantinopoli: Tractatus contra errores Graecorum, de Processione Spiritus Sancti,de animabus defunctorum, de azymis et fermentato, de obedientia Romanae Sedis (PG 140, col.487-540). Un altro trattato è intitolato Sophismata Eustachii Graeci contra Latinos et confutationes eorundem secundum fratrem Nicolaum, priorem provincialem in Syria de ordine fratrum Praedicatorum, ed un altro ancora è la Responsio fratris Iacobi Mediolanensis de ordine fratrum Praedicatorum (AFP 1936 e AFP 1951). 65 donato la funzione di spirare lo Spirito (l'esempio apportato è quello della sorgente che produce l'acqua e contemporaneamente lo spirito o vapore che c'è in essa). Sembra però che questa posizione il Blemmyde l’assumesse solo dopo il 1250, forse a seguito del dialogo coi domenicani (Ugo e Pietro) e dei francescani (Haimo e Radulfo). E la mantenne anche contro gli Arseniti che gli ricordavano la tesi del Damasceno: Spiritum ex Filio esse non dicimus. In realtà i rapporti tra Roma e gli imperatori bizantini erano ripresi verso la metà del secolo, con i secondi desiderosi di tornare sul trono di Costantinopoli. Per raggiungere lo scopo promettevano al papa di riconoscere il suo primato. Tali i contatti fra Innocenzo IV e Giovanni Vatatze prima (1254) e Alessandro IV e Teodoro Lascaris dopo (1254-1259). Ma il patriarca Arsenio Autorianos tolse loro ogni illusione, sottolineando l’uguaglianza di Roma e Costantinopoli come fra Pietro e Giovanni, non essendo alcun apostolo superiore all’altro. Senza dire che lo stesso Arsenio ingaggiò un braccio di ferro con Michele Paleologo, rimanendo fedele ai diritti imperiali della famiglia di Teodoro II, provocando uno scisma e indebolendo la credibilità religiosa del nuovo imperatore. 4.- Il concilio di Lione del 1274 Nel 1261, con la conquista di Costantinopoli da parte di Michele VIII Paleologo, aveva termine l’impero latino di Costantinopoli (che aveva dato adito a tre regni, Nicea, Trebisonda, Epiro). Ma Michele VIII non aveva solo nemici interni, fra i quali il patriarca Arsenio (che lo accusava di sospetto complotto nell’uccisione del legittimo successore di Teodoro II), ma temeva e a ragione gli eserciti occidentali. In particolare, appena si impadronì del Mezzogiorno d’Italia (1266), Carlo I d’Angiò iniziò i preparativi di una spedizione per la riconquista di Costantinopoli. La base giuridica era costituita dal fatto che la Chiesa d’τriente era scismatica e non accettava l’autorità del pontefice. L’unico modo per togliere questo pretesto giuridico era di procedere all’unione con Roma, e a questo scopo Michele VIII aderì all’idea di un concilio unionistico. Il papa Gregorio X (1271-1276) il 31 marzo 1272 convocò il concilio che avrebbe avuto lo scopo della riunione con la chiesa greca, la crociata e la riforma della chiesa stessa. σell’aprile del 73 specificò che sarebbe stato a Lione. Furono invitati re e principi. Ma dei re fu presente soltanto Giacomo I d’Aragona, mentre i re di Francia, Inghilterra, Germania, Sicilia, Cipro, come pure i Tartari, inviarono i loro rappresentanti. Così presero parte oltre 220 vescovi e diverse centinaia di altri prelati. La delegazione greca era composta da Germano, ex patriarca e arcivescovo di Nicea, Teofane, metropolita di Bitinia e Giorgio Acropolita, logoteta, oltre a tre funzionari minori e al traduttore. Questo fu uno dei concili che vide la partecipazione del più folto gruppo di teologi dopo l’epoca del cristianesimo antico. 66 Erano presenti infatti: Umberto de Romans (che, con l’Opus tripartitum, preparò lo schema per il dialogo con i greci), Pietro di Tarantasia (esegeta biblico), S. Alberto Magno (teologo e scienziato) S. Bonaventura (interprete della teologia francescana), Pietro Ispano (futuro Giovanni XXI) Guglielmo di Moerboeke (grecista), Guglielmo Durando (poi vescovo di Mende). S. Tommaso partì per parteciparvi, ma morì durante il viaggio. Il 7 maggio il concilio si apriva col discorso del papa. Il giorno seguente, dopo la lettura delle Costituzioni sullo Spirito Santo, furono licenziati molti partecipanti di rango minore. Il 7 giugno Pietro di Tarantasia, già vescovo di Lione, lesse un suo testo sull’unione della Chiesa latina e della Chiesa greca. Il 29 giugno furono cantati l’Epistola, il Vangelo e il Credo (in latino e in greco), quest’ultimo tre volte sempre col Filioque. Il 6 luglio, si lesse in latino la lettera di Michele VIII e di 500 vescovi che accettano l’unione e gli ambasciatori tartari proposero un’alleanza antimusulmana. Il 15 luglio furono celebrate le esequie di San Bonaventura, morto proprio durante il concilio. Il 16 fu riservato al papa e ai cardinali per una discussione sul conclave. Finalmente il 17 luglio fu pubblicata la costituzione sullo Spirito Santo: aeternaliter ex uno principio, non duabus spirationibus sed unica spiratione procedit. Su questo accordo teologico si passò ai problemi concreti: disposizione a che una percentuale delle decime ecclesiastiche fosse devoluta alla crociata. Così il concilio si concluse, senza che, come avrebbe voluto il papa, si continuasse la discussione sulla riforma della Chiesa. I 31 canoni di questo concilio verranno promulgati solo il 1 novembre dopo una revisione pontificia, e verranno a far parte del Liber Sextus del Diritto Canonico del 1298. Il primo riguarda il Filioque, il 2 il conclave, il 3 l’appello in caso di elezione episcopale; il 4 decretava che il vescovo eletto non entra nelle sue funzioni prima della conferma pontificia; l’8 afferma che le elezioni con due terzi dei voti non possono essere cassate se non per cause che rendono nulle di per sé l’elezione. Tra l’altro furono aboliti diversi ordini, vale a dire: Fratres Beatae Mariae, i Servi B. Mariae, i Saccini, i Fratres de poenitentia, i Fratres de Valle Viridi. Mentre furono confermati gli ordini di S. Francesco e S. Domenico. Il concilio prese posizione su diversi punti dottrinali. Ribadì la cristologia di Calcedonia; condannò la reiterazione del battesimo; dichiarò che le preghiere dei vivi, la messa, le elemosine possono alleviare le sofferenze del purgatorio; che coloro che muoiono in peccato mortale subito vanno all’inferno; “La sacrosanta Chiesa romana fermamente crede e afferma che nel giorno del giudizio, tutti gli uomini compariranno avanti al tribunale di Cristo con i propri corpi per rendere ragione delle proprie opere”; affermò che subito dopo la morte l’uomo va in paradiso, all’inferno o alle pene purificatrici (poenis purgatoriis seu catharteriis), in contrasto con una opinione diffusa nella 67 chiesa greca, che riportava il tutto al giudizio universale, affermandone la realtà, ma senza usare termini né di giudizio particolare né di purgatorio. Secondo Joseph Gill questo concilio era votato al fallimento sin dall’inizio, perché vi parteciparono solo tre delegati greci i quali accettarono di primo acchito il Filioque, con l’evidente scopo dell’imperatore di togliere i fondamenti giuridici a Carlo I d’Angiò che mirava alla conquista militare dell’τriente bizantino. Giudizio difficilmente contestabile in quanto il sacco di Costantinopoli non era stato affatto dimenticato e il partito degli Arseniti, contrario all’unione (accettata solo a condizione dell’uguaglianza fra papato di Roma e Patriarcato di Costantinopoli) era sempre molto attivo. Per cui non è a meravigliarsi che, appena preso il potere nel 1282, il nuovo imperatore Andronico II annullò tutte le leggi emanate dopo l’unione con Roma ed espulse tutte le istituzioni religiose cattoliche dall’impero bizantino. 68 VI DIALOGHI E POLEMICHE NEL XIV SECOLO Nonostante tutta la lunga e laboriosa preparazione che vide la partecipazione di uomini di provata esperienza teologica, il concilio di Lione dimostrò che non bastava aver conquistato alla propria causa l’imperatore. Una considerazione questa che però non fu fatta propria dal papa e dai latini in genere, i quali pensavano che il fallimento del concilio fosse causato dal poco impegno dell’Imperatore nel convincere i suoi sudditi. In realtà Michele VIII represse la dissidenza con molta forza, ma dovette fare i conti con gli avversari religiosi dell’unione. Una severità che anzi rese più odiosa l’unione coi latini, come si vedrà dal seguito della vicenda. τrmai non c’era più fiducia l’uno dell’altro. I bizantini erano convinti che per Roma l’unione significasse sottomissione della chiesa greca alla latina. I papi, non fidandosi di promesse, alle richieste di aiuti contro i turchi, mettevano la condizione che prima si facesse l’unione ecclesiale. Per i latini i bizantini erano inaffidabili, per i bizantini i latini erano ricattatori. 1. I patriarchi Giovanni Vekkos e Gregorio di Cipro I maggiori teologi bizantini nel periodo del concilio di Lione e in gran parte dell'epoca successiva furono Giovanni Vekkos, che fu patriarca dal 1275 al 1282, e Gregorio di Cipro, che fu patriarca dal 1283 al 1289. La loro storia è fortemente intrecciata, anche perché prima del 1274 Giovanni era contro l'unione e Gregorio a favore, mentre dopo quella data Giovanni fu favorevole mentre Gregorio passò all'opposizione. Qualcuno ha addirittura sospettato che tali mutamenti avvennero per motivi personali. Giovanni Vekkos fu utilizzato come ambasciatore dell'imperatore in una missione presso lo zar di Serbia, ed in un'altra presso Luigi IX (alla cui morte a Tunisi assistette) per ostacolare la spedizione antibizantina che stava preparando Carlo d'Angiò. Contrario all'unione fu chiuso nella torre d'Anema, ove leggendo il Blemmyde si sarebbe convinto della verità contenuta nella prospettiva cattolica sul Filioque. Quando il patriarca Giuseppe si dimise e fu eletto lui al suo posto, scrisse al papa Giovanni XXI e poi a Nicola III, manifestando esplicitamente la sintonia con la fede cattolica. Con la morte di Michele e l'avvento al trono di Andronico II (1282) fu esiliato, pagando per questo suo atteggiamento unionistico. Dopo un altro breve periodo di Giuseppe, fu eletto Gregorio di Cipro, che nel frattempo aveva scritto il Discorso contro le bestemmie di Vekkos. Quando poté prenderne 69 conoscenza, Vekkos rispose dal suo esilio. Finalmente nel 1285 si riunì un sinodo dove comparvero sia Vekkos che gli altri due unionisti, Costantino Meliteniota e Giorgio Metochite. Al Tomos compilato da Gregorio rispose Vekkos Discorso contro il Tomos del Ciprio (PG 141), ove insisteva sul passaggio del Damasceno che dice il procedere dello Spirito tramite il Logos manifestante. La risposta costituisce l'opera principale di Gregorio: Tomos di fede (PG 142), che fu all’origine anche della sua caduta in disgrazia. La teoria nuova con cui spiegava il Filioque fu attaccata infatti anche da altri ortodossi, cui appariva simile alla "eresia latina". Per difendersi scrisse prima una Apologia, e poi una Professione di Fede, ma alla fine dovette rassegnare le dimissioni dalla dignità patriarcale (1289). Ritiratosi nel monastero di Aristeno, fece una revisione delle opere e scrisse il trattato Sulla Processione dello Spirito Santo (PG 142). Nella controversia con Giovanni Vekkos, che aveva utilizzato le opere di Niceta di Maronea e di Niceforo Blemmyde (e pertanto si era messo nella corrente che vedeva il Filioque come sinonimo del "per Filium"), Gregorio di Cipro aveva voluto prendere un atteggiamento intermedio. Riconosceva come autentica la tradizione del "per Filium", ma ne negava l'identità col "Filioque". A suo avviso la missione temporale del Figlio in rapporto allo Spirito era una manifestazione eterna, per cui lo Spirito Santo ha l'essere soltanto dal Padre (che ne è la causa unica), ed è invece manifestato eternamente dal Figlio. Gregorio afferma dunque una processione immediata e personale solo dal Padre, ed una manifestazione (o processione) impersonale ed eterna dal Figlio. L'esempio che egli porta è quello della luce, la cui fonte unica è il sole, ma che è resa manifesta dal raggio (che non è la fonte). Giovanni Vekkos contestava in questa teoria il fatto che ammetteva nella divinità qualcosa di eterno che non fosse né l'essenza comune né i propria. In realtà, come si vedrà, nella teoria di Gregorio di Cipro c'è in germe la teologia di Gregorio Palamas sull'essenza e le energie, che poi diventerà la teologia ufficiale della chiesa ortodossa. 2. Andronico II (1282-1328) rigetta l’unione di Lione Michele VIII Paleologo moriva nel 1282, e la sua politica con Roma fu subito rigettata da gran parte della popolazione, tanto che fu privato persino della sepoltura religiosa. Una conseguenza diretta di ciò fu anche la cacciata del patriarca Giovanni Vekkos. Questo patriarca difese fino alla fine l’unione con Roma, e così i suoi collaboratori Giorgio Metochite e Costantino Meliteniota. Il nuovo imperatore Andronico II (1282-1328) imprigionò tutte le personalità eminenti favorevoli all’unione con Roma e sottomise il clero che aveva aderito alla riconciliazione mediante penitenza. Furono persino profanate le ostie conservate nei cibori delle chiese già latine. Forte dell’appoggio popolare antilatino, Andronico II rispondeva negativamente a tutte le offerte dei papi per riprendere i negoziati fra Roma e Costantinopoli, oppure non rispondeva affatto. I papi reagivano ora con l’adulazione e le promesse ora con durezza, come nel 1307 il papa Clemente V, che arrivava a scomunicarlo. Ma la sua presa di posizione non era dovuta alla sua forza quanto alle circostanze favorevoli. Infatti il primo decennio del XIV secolo coincise con la grande ascesa della Compagnia catalana. Questa nel suo espansionismo si scontrò con i 70 possedimenti franchi della Grecia, per cui diede un po’ di respiro ad Andronico II, già pericolosamente pressato dai Turchi. Le cose cominciarono a peggiorare quando il figlio e coimperatore Michele IX fece assassinare Ruggero de Flor, capo della compagnia catalana. Ma soltanto nel 1323 qualcosa cominciò a muoversi, anche se sul solito tasto del bisogno bizantino di aiuti militari e la condizione previa (da parte della chiesa romana) dell’unione religiosa. La pressione turca infatti e quella serba al nord (i Serbi appoggiavano Andronico II, i Bulgari Andronico III, l’intraprendente nipote che poi riuscirà a detronizzarlo) stavano riducendo ancora di più il minuscolo impero bizantino ormai forte solo del suo orgoglio del glorioso passato. Nel 1323 organizzò una missione diplomatica formata da religiosi e dal vescovo di caffa in Crimea per convincere il papa e il re di Francia (Carlo IV il Bello) delle sue buone disposizioni. A guida del nuovo corso di negoziazioni fu messo il veneziano Marin Sanudo, che nel suo Secreta fidelium crucis, sottolineava la bontà della causa che vedeva tutti i cristiani in pace. Il re di Francia d’accordo col papa Giovanni XXII inviò a Costantinopoli il domenicano Benedetto de Cumes, che giunse nella capitale bizantina in un momento in cui il giovane Andronico III (figlio del defunto Michele IX) tentava di detronizzare il nonno Andronico II. Dato che nessuno dei due voleva rischiare l’impopolarità di riavvicinarsi ai latini, tutta l’ambasceria finì nel nulla. Nel 1328 Andronico II (+1332) fu detronizzato e Andronico III cominciò col chiedere aiuti al papa contro i turchi. Ma, prima Giovanni XXII (che inviò due domenicani nel 1333) poi Benedetto XII che ingaggiò dei teologi nel 1339 per dialogare con il calabrese Barlaam, molto vicino all’ambiente di corte, erano convinti che più forte si faceva la pressione turca, più i Bizantini sarebbero venuti a miti consigli. Mentre Barlaam faceva notare che per avere risultati stabili era necessario trattare con i greci senza alterigia e senza interessi di supremazia, i cardinali esortavano il papa a non inviare aiuti prima dell’unione delle Chiese, quia si fortificati, ditati, exaltati et confortati per sedem apostolicam… ante riunione 71 praedictam, postea terga et non faciem verterent romanae Ecclesiae, sicut alias, dum credebantur reuniri, fecisse noscuntur66. Avendo ricevuto un rifiuto che si riunisse un nuovo concilio, Barlaam prese la via del ritorno a Costantinopoli insieme a due vescovi. Le trattative non andarono in porto anche per la rivalità dello storico Niceforo Gregoras col Barlaam. 3. Palamismo e rigurgito dell’antilatinismo Le relazioni furono riprese dal papa Clemente VI (1342-1352), ma quello fu un decennio di estrema confusione politica e religiosa a Bisanzio. Andronico III che, come si è detto, aveva accolto Barlaam quasi come suo consigliere teologico era ben disposto ad un dialogo sincero con Roma, anche perché i Turchi erano diventati minacciosi. Ma proprio allora scoppiò la controversia esicasta che fece sospendere le trattative. Uno scritto del Barlaam in cui parlava dell’impossibilità di qualcosa di eterno in Dio che non fosse la sua essenza, terminava con la sua ironia sui monaci esicasti, che cercavano cioè la quiete spirituale nella visione della luce eterna fissando lo sguardo sull’ombelico. A difesa degli esicasti si levò Gregorio Palamas che espose la sua dottrina della natura e delle energie divine. Il primo concilio (10 giugno 1341) fu interlocutorio, ma cinque giorni dopo moriva Andronico III lasciando come successore il figlioletto Giovanni V. Ma questi aveva solo 9 anni, per cui prendeva il potere la mamma Anna di Savoia, che diede la reggenza ad Alessio Apocauco, sostenuto dal patriarca Giovanni Calecas. In quel periodo infuriava la polemica teologica sul palamismo, che vedeva schierato il Palamas con il megadomestico Giovanni VI Cantacuzeno, pretendente alla reggenza e suo protettore in diverse circostanze. Suo avversario, dopo la partenza per l’Italia di Barlaam, era divenuto un suo vecchio amico, Gregorio Acindino il quale, come Niceforo Gregoras, pur essendo antipalamita nella questione della pratica esicasta, non condivideva la teologia delle energie divine. Non furono però i temi teologici a spingere il patriarca Giovanni Calecas a prendere provvedimenti contro il Palamas (prigionia nel monastero dell’Incomprensibile/ Akataleptos), bensì le sue simpatie per il Cantacuzeno. σel 1343 al papa perveniva una lettera a firma dell’imperatore ragazzo, in cui si manifestava devozione verso la sede di Pietro, e si chiedeva l’invio di aiuti militari difensivi. Il 21 e il 22 ottobre il papa ringraziava per le belle parole sia Anna di Savoia che Alessio Apocauco, ma condizionava gli aiuti alla fine dello scisma 67. Una flotta comunque giunse nelle acque della Turchia e il 29 ottobre del 1344 riusciva a riconquistare Smirne. Naturalmente quella vittoria non cambiava il quadro generale che vedeva i turchi sempre più aggressivi. Intanto il megadomestico Giovanni (VI) Cantacuzeno si assicurò l’appoggio dei turchi dando la propria figlia in moglie a Orkham, capo degli Ottomani e, non accontentandosi più della reggenza e puntando al trono, si fece proclamare imperatore a Didimoteico. Per non dare l’impressione di un cedimento su tutta la linea, Anna chiese consiglio a Niceforo Gregoras, che si pronunciò contro Palamas. Ma ormai Anna, non avendo avuto gli aiuti dal papa, cercava un pretesto per allontanare lo scomodo patriarca ed accontentare il Cantacuzeno. Quando, il patriarca decise di elevare, contro il suo volere, Acindino a metropolita di Tessalonica, il contrasto si acuì. 66 67 Constantinople, DTC 3, 1397 J. Gay, Le pape Clément VI et les affaires d’Orient, Paris 1904, p. 49. 72 A quel punto si inserì nuovamente nella questione palamitica il Cantacuzeno, che convocò un concilio appena fuori Costantinopoli al quale partecipò Lazzaro, patriarca di Gerusalemme, che stava sempre con lui. Il primo febbraio del 1347 un altro sinodo questa volta nel palazzo imperiale presieduto da Anna di Savoia confermò la deposizione del patriarca, segnando così sia la vittoria di Palamas che l’avvicinamento al Cantacuzeno. Fu pubblicato un tomos (PG 152, 1273-1284) in cui si condannava Acindino, si deponeva Calecas ed eleggeva Isidoro, si ufficializzava come ortodossa la dottrina di Palamas e solo chi aderiva ad essa poteva conservare il suo grado nell’episcopato e nel sacerdozio. Al termine di una festa in onore di Palamas ecco che il Cantacuzenno irruppe con i suoi soldati, ma il Palamas fece da mediatore e l’8 febbraio la conciliazione fu sottoscritta68 sulla base della deposizione del Calecas, la condanna di Acindino e la conferma della dottrina Palamas. Il nuovo patriarca Isidoro (maggio 1347- dicembre 1349) fece un’operazione purificatrice, deponendo i vescovi anti-palamiti e approvando i palamiti. Tuttavia sin dal 1348 gli antipalamiti erano capeggiati dal celebre storico e filosofo Niceforo Gregoras, che affrontò il Palamas69. Alla morte di Isidoro, il Cantacuzeno fece eleggere patriarca Callisto (10 giugno 1350), e un anno dopo (27 maggio 1351 – 9 giugno) riuniva e presiedeva un concilio alle Blacherne. L’imperatore esortò alla concordia sulla base del riconoscimento della dottrina di Palamas. Ma Gregoras obiettò con i suoi che la pace non si poteva fare sulla base di dottrine politeiste. Quando Palamas li accusò di insegnare le dottrine di Barlaam e Acindino, essi si dichiararono pronti a bruciarne gli scritti, ma che era necessario esaminare l’ortodossia della dottrina di Palamas. L’imperatore acconsentì. Per porre fine al dibattito, nella quinta ed ultima sessione la dottrina di Palamas fu riassunta in cinque frasi e approvata dalla maggioranza. Gli oppositori furono scomunicati, con a capo Matteo di Efeso che fu deposto, e Niceforo Gregoras agli arresti domiciliari nel monastero di Chora. In un concilio seguente (luglio 1352) il patriarca Callisto inseriva il palamismo nel testo del Synodikon della domenica dell’τrtodossia. La consacrazione ufficiale del Palamismo avvenne dopo la morte del Palamas a Tessalonica (14 novembre 1359), e specialmente con la sua canonizzazione da parte del patriarca Filoteo Kokkinos nel 1368. 68 69 Gregoras, lib XV, c. 9, in PG 148, 1027ss Hist Byz, XVI, V, 11; PG 148, col. 1081. 73 Questa canonizzazione ebbe un impatto notevole sui rapporti fra mondo ortodosso e mondo cattolico, perché dimenticando che molti bizantini non erano affatto palamiti, i greci ortodossi cominciarono ad identificare l’ortodossia con il palamismo. Alla corrente palamitica appartennero due scrittori che, sull’onda dell’affermazione del palamismo, sottolinearono altre differenze con le usanze latine che emergeranno qualche secolo dopo. Fra i maggiori sostenitori, va annoverato invece il patriarca di Costantinopoli Filoteo, che nel 1368 tenne un sinodo in cui fu canonizzato non solo il Palamas ma anche la sua dottrina. I punti fondamentali di questa furono inseriti sotto forma di anatemi nel Synodikon dell'Ortodossia. Chi cioè non condivideva le seguenti affermazioni, veniva scomunicato: La luce che splendette sul Tabor non era creata né si identificava con l'essenza di Dio, ma era la grazia e l'illuminazione increata e fisica che promana eternamente e senza separazione dall'essenza divina. In Dio vi sono due realtà inseparabili: l'essenza e l'operazione. Quest'ultima è fisica e sostanziale e procede dall'essenza secondo una relazione di 74 causa-effetto. L'una e l'altra sono increate ed eterne; solo che, mentre l'essenza è impartecipabile, l'operazione è partecipabile. La distinzione reale fra essenza ed operazione non distrugge la semplicità divina, come insegnano i santi ed il comune devoto sentimento della Chiesa. Il termine divinità non va applicato solo all'essenza divina, ma anche all'operazione, secondo l'insegnamento ispirato dei santi ed il comune sentimento della Chiesa. - La luce taborica è la gloria ineffabile ed eterna del Figlio di Dio, il regno di Dio promesso ai santi, lo splendore nel quale apparirà nell'ultimo giorno per giudicare i vivi e i morti 70. 4. Sull’onda del Palamismo: σilo e σicola Cabasilas Tra i teologi palamiti di una certa importanza vanno ricordati Nilo (+1361) e Nicola Cabasilas (+1363). Il primo fu tra i bizantini che, notato l’influsso che il suo pensiero cominciava ad avere a Bisanzio, attaccò direttamente l’autore della Summa Theologica. Non mancarono però bizantini, come Demetrio Cydones, che presero la penna a difesa di s. Tommaso contro Nilo. Il che, tra l'altro, provocò l'intervento di Demetrio Crisolora a difesa di Nilo e contro il Cydones. Oltre gli scritti palamitici, a Nilo sono attribuiti tre scritti sullo Spirito Santo tendenti a rigettare il Filioque, in cui c'e anche la nota menzione di Niceta di Maronea (interessante, perché è detto "nostro", benché sulla questione si fosse schierato coi latini). Se questi scritti sono rimasti inediti sino a tempi recenti, il trattato sul fuoco del purgatorio71 è rimasto una rarità, anche perché non inserito dal Migne nella sua grande collezione. Ancor più diretto era l’attacco all'τccidente cattolico in due opere, il De causis dissensionum in Ecclesia e il De Papae primatu72 . Quasi presentendo la polemica teologica che stava per aprirsi anche in occidente, Nilo colse il nocciolo del problema esprimendolo in questi termini: Causa unica del conflitto è il fatto che il papa rifiuta di portare alla conoscenza e al giudizio di un concilio ecumenico l'affare in questione, ma vuole porsi da solo come maestro e guida della controversia, trattando gli altri come discepoli e semplici uditori della parola, il che è contrario alle leggi e agli atti degli Apostoli e dei Padri73 . Coerentemente con questo discorso e con la tradizione bizantina, Nilo tracciava un quadro della concezione ortodossa del primato romano in cui affiora la convinzione del carattere storico del primato romano (canone 28 di Calcedonia), in contrasto col cattolico "diritto divino", nonché con la fallibilità dei pontefici (vedi il caso di papa Onorio che cedette al monotelismo). Ed anche la convocazione concili spetta agli 70 Cfr. M. Jugie, Le Palamisme, in DTC, XI, col. 1794 Edito da Bon. Vulcanius, Leyde 1595 72 Migne (PG 149, 683-730 73 PG 149, col. 683-684 71 75 imperatori, non essendo conveniente che nella Chiesa si aspiri a poteri diversi da quelli pastorali e spirituali. Di conseguenza: Fintanto che il papa sta al suo posto e resta con la verità, egli non viene privato del suo originale e legittimo primato; ed egli è il capo della Chiesa, sovrano pontefice e successore di Pietro e degli altri Apostoli. Tutti gli devono obbedire e che nulla diminuisca l'onore che gli è dovuto; ma se, allontanatosi dalla verità, non vuole tornare ad essa, sarà condannato. Nipote di Nilo, Nicola Cabasilas si schierò ugualmente col Palamas nella polemica che l'opponeva a Barlaam. In particolare, però, nella difesa di Palamas ebbe di mira soprattutto gli scritti dello storico Niceforo Gregoras. Come consigliere dell'imperatore Giovanni Cantacuzeno, fu inviato proprio a costui per convincerlo a passare dalla parte degli esicasti e, non riuscendovi, fece balenare i rischi di mettersi contro la volontà dell'imperatore, al che il Gregoras gli diede una tagliente risposta: Queste sono parole che si adattano bene all'epoca di Diocleziano74 . Quanto alla polemica antilatina, se un trattato contro il Filioque andrebbe attribuito piuttosto a Nilo, sua è invece l'Interpretazione della Sacra Liturgia. Questa, pur non essendo un'opera antilatina, ma una bella ed elevata meditazione sulla liturgia, fu utilizzata, nella parte relativa all'epiclesi75 , in funzione polemica già a partire da Marco di Efeso al concilio di Firenze. Il brano più noto al riguardo è forse il seguente: Dopo aver pronunciato le parole (di Cristo), il sacerdote continua pregando e supplicando che quelle divine parole del nostro unigenito Salvatore compenetrino i sacri doni, affinché, accolto il suo santissimo e onnipotente Spirito, il pane si converta nel corpo e il vino nel prezioso e santo suo sangue. Diversa era anche la sua interpretazione del Crisostomo a proposito del Questo è il mio corpo che, secondo i Latini contraddiceva la dottrina dell’epiclesi, indicando la trasformazione del pane e del vino. Il Cabasilas sosteneva che anche i latini in precedenza l’avevano interpretata nel senso dell’epiclesi e che solo alcuni latini del suo tempo l’avevano alterata. Come prova cita la preghiera latina: Supplices te rogamus, omnipotens Deus, jube haec perferri per manus sancti angeli tui in sublime altare tuum, in conspeetu divinae maiestatis tuae. Se dopo la cosiddetta "consacrazione" i latini chiedevano a Dio di completare la trasformazione per mano del suo angelo, è chiaro che tale consacrazione era avviata ma non ancora completata. Piuttosto che all'elaborazione di concezioni sugli stati mistici, la Vita in Cristo, l'opera più nota ed importante di Nicola, si ispira alla vita cristiana attraverso i sacramenti, ricevuti con la consapevolezza del loro alto significato. Egli infatti non partiva da una spiritualità tipo quella di Simeone il Nuovo Teologo o degli esicasti, ma prendeva le mosse proprio dai sacramenti, prospettando al cristiano devoto le ricchezze spirituali derivanti da questi segni che Cristo ha voluto per la santificazione dell’uomo. I1 Battesimo, ad esempio, permette all'uomo di liberarsi da quella prigionia del demonio, caratteristica degli uomini prima della venuta di Cristo. Una prigionia dalla quale non erano esenti neppure i giusti, anche se ne erano insofferenti. La Cresima, invece, porta a quella consapevolezza dei carismi che Dio ci ha donato, e quindi è una 74 75 Storia bizantina, PG 148, col. 1435. Interpretazione della Liturgia, cap. 2-7-30 76 vera e propria rivelazione a noi stessi. L'Eucarestia è infine il canale diretto per la recezione della grazia santificante. Ecco perché è opportuno farla precedere dalla Penitenza, in modo che l'incontro col Cristo avvenga dopo che c'e stato lo sforzo della purificazione. Al termine, il Cabasilas si sofferma sui doveri del cristiano e specialmente sulla tristezza, che devono provocare nel suo animo i vizi e i peccati, nonché sulla gioia che deve provenire dalla virtù. 5. Tomismo e antipalamismo a Bisanzio Nonostante la politica decisamente antilatina di Andronico II, il mondo bizantino, particolarmente sensibile alla filosofia e alla teologia, non poteva rimanere indifferente di fronte al fermento di idee che si agitava in occidente. Poco a poco nel corso del Trecento il “manuale” dei frati divenne il Contra errores Graecorum di S. Tommaso d’Aquino, che però conteneva varie imprecisioni patristiche (derivate dall’analogo libello di Nicola di Crotone) 76. Negli altri scritti di S. Tommaso tali errori scomparvero, anche grazie ai suggerimenti del più grande grecista domenicano dell’epoca, Guglielmo di Moerbecke, il traduttore delle opere di Aristotele 77. Per cui, non solo nelle sue opere Tommaso aveva fatto un grande uso degli scritti dello Pseudo-Dionigi e di S. Giovanni Damasceno, ma il suo atteggiamento di fronte alla patristica greca in generale era risultato assolutamente positivo, e potrebbe essere sintetizzato nella celebre formula: “Si quis recte consideret dicta Graecorum, inveniet quod a nobis magis differunt in verbis quam in sensu 78. Il carattere eclettico della teologia di S. Tommaso faceva sì che il Contra Errores Graecorum potesse essere utilizzato sia come un’arma “offensiva” dai polemisti sia come uno strumento di concordia nelle mani dei promotori di armonia ecclesiale. Il coinvolgimento diretto dei domenicani nel confronto con i teologi ortodossi bizantini è attestato da diversi trattati ed epistole. Ad esempio al periodo 1318-1325 è datata un’epistola di Fra Giacomo Ad Andronicum Paleologum. Intorno al 1350 fra Giacomo de Fontibus, che risiedeva a Galata per una missione datagli dal pontefice, scrisse tra l’altro una epistola Ad abbatem et conventum monasterii cuiusdam Constantinopolitani. σel 1396 giungeva nell’isola di Creta, dove i domenicani avevano un convento a Canea, Massimo Chrysoberge, che subito entrava in contatto con Giuseppe Briennio (futuro patriarca), e sostenendo con lui due dispute. Altro ortodosso a rispondere negativamente ad un 76 P. Salvatore Manna, o.p., Rileggendo il “Contra Errores Graecorum”, Sapienza, Napoli 1974, nn. 34, pp. 415-428. Grabmann M., Guglielmo di Moerbecke O.P., il traduttore delle opere di Aristotele, in “I Papi del Duecento e l’Aristotelismo”, Miscellanea Historiae Pontificiae edita a facultate Historiae Ecclesiasticae in Pontificia Universitate Gregoriana, XI, Collectionis n. 20, Roma 1946; Pattin A., Pour la biographie de Guillaume de Moerbecke O.P. Étude à l’occasion du 700e anniversaire de sa mort, Angelicum 66 (1989), pp. 390-402; Panella E., Nuove testimonianze su Guglielmo di Moerbecke, AFP, 56 (1986), pp. 49-55; Id., Ancora sul penitenziere Guglielmo di Moerbecke, AFP, 59 (1989), pp. 5-16; Paravicini Bagliani A., Nuovi documenti su Guglielmo da Moerbecke O.P., AFP, 52 (1982), pp. 135-143; Kaeppeli Th., Per la biografia di Guglielmo di Moerbecke OP., AFP, XVII, 293-294. 77 78 De potentia q. 10, a. 5 77 domenicano fu Nilo Damila79 . Anche Manuel Calecas entrò in vivaci polemiche sia prima che dopo aver preso l’abito domenicano nel 1403. Questo per quanto riguarda i contatti diretti documentati tra domenicani e ortodossi. Ma molto profondi furono anche i contatti indiretti, quelli cioè che dopo aver influito sui pensatori bizantini, questi ultimi ingaggiavano loro stessi un ulteriore dialogo filosofico e teologico. Il domenicano più attivo culturalmente fu in questo periodo Filippo de Bindo Incontri, la cui attività polemica 80 andò a coincidere con quel momento nevralgico della cultura teologica bizantina, che fu la controversia palamitica. I domenicani si astennero dall’entrare direttamente in quella polemica, ma gli intellettuali bizantini non poterono non notare come la teologia tomista offrisse ai cercatori della verità più soddisfazione di quanto ne potesse dare quella mistica, che dava per acquisiti molti dati della fede, e perciò non soggetti ad ulteriori indagini conoscitive. Ciò che rende difficile l’interpretazione del tomismo bizantino è la circostanza della sua affermazione in quel mondo culturale. Come è noto, uno dei più brillanti intellettuali bizantini del XIV secolo era il giovane Demetrio Cidone 81, il quale aveva costanti contatti con la comunità domenicana di Pera e particolarmente col suddetto fra Filippo de Bindo Incontri, che gli procurava le opere di S. Tommaso d’Aquino. Qualche anno dopo che il palamismo aveva trionfato con il sinodo del 1351, e precisamente verso la fine del 1353, egli avviava la traduzione della Summa contra Gentes, e la terminava alla vigilia di natale del 1354. Presentata a corte, l’opera ebbe una positiva accoglienza da parte dell’imperatore Giovanni VI Cantacuzeno. Il fatto che questo imperatore fosse un convinto palamita ha portato qualche studioso ad affermare che l’aristotelismo tomista incontrasse pacificamente l’aristotelismo bizantino, e che quindi il tomismo non venisse percepito come un sistema contrario al palamismo 82. Vizantijskij Vremennik Sanktpeterburg 1903, p. 691-692. R. Loenertz, Fr. Philippe de Bindo Incontri OP du couvent de Péra, inquisiteur en Orient, AFP, XVIII 265-280 ; Id., Deux nouveaux ouvrages de fr. Philippe de Péra OP., AF, XXIII, 163-183. 79 80 81 H. Rack, Demetrius Kydones als Verteidiger und Übersetzer des hl. Thomas von Aquin, Der Katholik, I (1915), pp. 21-40; M. Jugie, Demetrius Cydones et la théologie latine à Bysance, Echos d’τrient, 27 (1928), pp. 385-402 ; G. Mercati, Notizie di Procoro e Demetrio Cidone, Manuele Caleca e Teodoro Meliteniota, ed altri appunti per la storia della teologia e letteratura bizantina del secolo XIV, Studi e Testi 56, Biblioteca Apostolica Vaticana, 1931; S. Papadopoulos, Hellenikai Metafraseis Thomistikon Ergon, Atene 1967; Id., Thomas in Byzanz: Thomas-Rezeption und Thomas-Kritik in Byzanz zwischen 1354-1435, Theologie und Philosophie, 49 (1974), pp. 274-304; Loenertz R., Manuel Paléologue et Démetrius Cydonès. Remarques sur leur correspondences, Echo d’τrient 36 (1937), pp. 271-287 ; 37 (1938), pp. 107-124. 82 Tale la tesi che sta alla base del volume di Hugh Christopher Barbour, The Byzantine Thomism of Gennadios Scholarios, Libreria editrice Vaticana, Roma 1993. Questo autore distinguendo aristotelismo e razionalismo fa diventare aristotelici anche teologi come Xiphilin e lo stesso Palamas. E su questo presupposto anche la scolastica latina non sarebbe in contrasto con l’ortodossia bizantina, la cui forma più autentica sarebbe proprio il palamismo. Per noi questa impostazione è inaccettabile. Con tutte le dovute cautele, trasposti in chiave teologica, aristotelismo è sinonimo di razionalismo, e platonismo è sinonimo di mistica, almeno per quanto riguarda l’ispirazione di fondo e il contenuto. Solo per quanto riguarda il metodo, Aristotele è effettivamente presente anche in Palamas. Pertanto il tomismo, che procede in termini razionalistici, ha una concezione metafisica di Dio come ente assolutamente semplice, ed è in ogni caso inconciliabile con la visione mistica della natura e delle energie. Vedi anche J. Van Rossum, Palamism and Church Tradition: Palamism, its Use of Patristic Tradition and its Relationship with Thomistic Thought, Ann Arbor 1985. 78 In realtà, inizialmente il tomismo non fu percepito come un corpo estraneo semplicemente perché non toccava i punti messi in discussione nella controversia palamita. La Summa contra Gentes è un’opera che può essere ben accolta da ogni cristiano, in quanto gli dà gli strumenti filosofici per difendere la propria fede. Non entra, se non marginalmente, nella problematica teologica in quanto tale. Quando si entra in quest’ultima si vedono chiaramente le differenze, come nel Contra Cabasilam dello stesso Demetrio Cidone, e ancor più nel trattato Sulla natura e sulle energie 83 di Prochoro Cidone il quale, utilizzando abbondantemente altre opere di S. Tommaso, portava un duro attacco al palamismo (sia contro la distinzione in Dio di natura ed energie, sia sulla natura increata della luce del Tabor). Giovanni Cantacuzeno, ormai monaco Ioasaph, ammiratore del Tommaso filosofo (ma non del Tommaso teologo), compose allora due Antirretici contro questo trattato. Ovviamente, come tutti gli antipalamiti, Prochoro fu ridotto allo stato laicale, scomunicato e messo agli arresti. Ma la persecuzione degli antipalamiti non riuscì a soffocare il movimento delle idee, che ora nel tomismo trovava nuova linfa. In questo ambiente dissidente i domenicani mieterono un certo successo. Tra le maggiori vocazioni sorte su questo terreno va annoverato Manuel Calecas, entrato nell’τrdine negli ultimi sei o sette anni della sua vita 84. Era nato verso il 1360 a Costantinopoli, quindi si era ritirato, benché laico, in un monastero. Qualche anno prima del 1390 aveva lasciato il monastero e, dietro consiglio di un amico, aveva aperto una scuola di grammatica e di retorica 85. Nel 1390 conobbe e si legò d’amicizia col vecchio Demetrio Cidone, divenuto cattolico almeno dal 1365. Già antipalamita, ora cominciò ad approfondire i temi religiosi, leggendo fra l’altro gli scritti di S. Tommaso tradotti dal Cidone, in particolare la Summa contra Gentes e l’opuscolo Ad cantorem Antiochenum, che furono alla base della sua opera De fide deque principiis fidei catholicae 86. Sembra che proprio quando stava terminando quest’opera, cioè nel 1396, conobbe Massimo Chrysoberge, da cinque o sei anni entrato nell’τrdine, e Manuele Chrysolora. Altre nuove conoscenze furono Asanés e Manuele Raoul, entrambi decisi antipalamiti. Ormai in sospetto di eterodossia fu richiesto di sottoscrivere il tomo del 1351 a favore della dottrina palamita. Non solo si rifiutò, ma pose mano all’opera De essentia et operatione (Perì ousias kai energias) 87. Costretto a trasferirsi a Pera, andò poi a Creta, ove entrò in polemica col principale rappresentante del palamismo nell’isola, l’esarca patriarcale Giuseppe Briennio, contro il quale compose l’Adversus Briennium 88. Questo trattatello, come nota il Loenertz, è un po’ come 83 Come è noto, le differenze contenutistiche fra tomismo e palamismo consistono nella diversa concezione di Dio (ente assolutamente ed incondizionatamente semplice per il tomismo, distinguibile in natura ed energie per il palamismo) e nella diversa concezione del destino dell’uomo (beatitudine come visione di Dio faccia a faccia nel tomismo, deificazione mediante partecipazione alle energie divine nel palamismo). 84 R. Loenertz, Manuel Calécas, sa vie et ses oeuvres d’après ses lettres et ses apologies inédites, AFP XVII (1947), pp. 195-207; J. Gouillard, Les influences latines dans l’oeuvre théologique de Manuel Calécas, in Echos d’τrient, 37 (1938), pp. 36-52; Id., Calécas, Manuel, Dictionnaire d’Histoire et de Géographie Ecclésiastique, XI (Paris 1939), pp. 380-384. 85 Del periodo di questo insegnamento restano una Grammatica (Bibl. Nat. de Paris, ms greco 2605) e una raccolta illustrativa di testi inerenti la Grammatica (Cod. Hierosolim. 405). Cfr. Loenertz, Manuel Calécas, p. 199. 86 Migne PG 152, col. 429-660. 87 Migne PG 152, col. 283-428. 88 Cfr. Mercati, Notizie, pp. 450-473. 79 una prima bozza del più impegnativo De processione Spiritus Sancti, pubblicato erroneamente sotto il nome del Cidone 89, e soltanto recentemente restituito a lui 90. Convertitosi apertamente al cattolicesimo e fattosi domenicano a Mitilene, nel suo Adversus Graecos descrisse le persecuzioni subite a Costantinopoli a causa delle sue idee antipalamite. Alla cerchia intellettuale del Cidone appartenne forse, oltre al Calecas, Massimo Chrysoberges, domenicano ed amico dello stesso Calecas. Aveva due fratelli minori, Teodoro e Andrea, i quali anch’essi entrarono nell’τrdine di S. Domenico. 6. Contatti in vista del concilio Giovanni VI Cantacuzeno, pur essendo un deciso fautore del Palamas (come il Palamas era politicamente per lui), era tutt’altro che insensibile al dibattito teologico tomismo – palamismo. Per cui non mancò di prendere iniziative di contatti con Roma. Alla fine del 1347 inviò un’ambasceria al papa che si trovava ad Avignone, guidata da due personalità a lui vicine, il protovestiario Giorgio Spanopoulos e il grande interprete Nicola Sigeros. Non ricevendo risposta, inviò una seconda lettera, alla quale il papa rispose il 31 maggio 1349. Quando però due suoi inviati raggiunsero Costantinopoli ai primi del 1350, non erano latori di novità: la condizione per ricevere aiuti era il riconoscimento del primato del papa. Il Cantacuzeno, benché facesse notare che lo scisma era stato voluto dai latini, si mostrava disponibile all’unione. E consigliava che fosse una soluzione conciliare, ritenendo auspicabile un concilio a metà strada fra Avignone e Costantinopoli, preferibilmente una città di mare per facilitare l’accesso. Il 28 giugno 1350 il papa rispose che avrebbe preso in considerazione la proposta. Il Cantacuzeno mandò allora ad Avignone un domenicano di Galata, ma di lì a poco il papa moriva e tutto tornava in alto mare. Nel 1355 il giovane imperatore Giovanni V Paleologo comunicava all’arcivescovo latino di Smirne la sua disponibilità all’unione delle Chiese. Sia Innocenzo VI che Urbano V si mostrarono molto interessati, e nel 1367 Giovanni V raggiunse Roma, dove tre cardinali delegati dal papa il 10 ottobre raccolsero la sua professione di fede cattolica. Il suo gesto non ebbe i risultati sperati, perché nessuno dei suoi sudditi lo seguì per questa strada. Gli aiuti non arrivarono ed egli stesso nel 1370 subì l’umiliazione a Venezia di essere arrestato per debiti. Se però la popolazione rimaneva sorda al richiamo dell’unione non pochi intellettuali si convertirono, entrando addirittura negli ordini religiosi, come i fratelli Chrysoberges che si federo domenicani. Altri invece resistevano, e sorpresi dalle argomentazioni filosofiche dei latini (sino a pochi decenni prima considerati dediti solo al commercio e alla guerra), preferivano rispondere con i Padri. Ad esempio Simeone di Tessalonica (+1429) si rivolgeva ai latini con queste parole: Voi cavillerete e brandirete i vostri sillogismi. Ed io vi dimostrerò che, mediante una falsa interpretazione, voi alterate il senso della Sacra Scrittura e dei Padri, e che siete discepoli non dei Padri ma dei pagani. Io pure, se lo volessi, avrei da 89 90 Migne PG 154, col. 864-958. Cfr. Mercati, Notizie, pp. 67-72. 80 opporvi ragionamenti sofistici di sillogismi migliori dei vostri. Ma non voglio. E’ ai Padri e ai loro scritti che chiederò le prove. Voi mi opponete Aristotele e Platone, oppure i vostri recenti dottori. Di fronte a loro io piazzerò i pescatori di Galilea con la loro parola semplice, la loro vera saggezza e la loro apparente follia… Io renderò folle la vostra saggezza dicendovi “Evitate le questioni oziose; se qualcuno vi annunciasse un Vangelo diverso da quello che avete ricevuto, che sia anatema !”. Voi ve n’andrete confusi e io mi rivestirò della gloria dei miei padri, poiché la croce non è stata ancora privata della sua forza, anche se la sua predicazione sembra a qualcuno una follia 91. 91 Dialogo contro le eresie, PG 155, col. 140. 81 VII IL CONCILIO DI FIRENZE Il concilio di Firenze fu un’assemblea che si tenne in un contesto molto particolare sia in Occidente che in Oriente. In Occidente si stava ancora uscendo dal più grande scisma che ebbe a patire la Chiesa romana. Col ritorno infatti del papa da Avignone i partiti all’interno del collegio cardinalizio erano in pieno contrasto, in particolare gli italiani ei francesi. Nel 1378 scoppiò il grande scisma che vide prima l’elezione del papa italiano Urbano VI quindi quella del papa francese Clemente VII. Fu uno scisma che travolse l’Europa, con alcuni stati che si schieravano con l’italiano, altri col francese. Per sanarlo furono indetti dei concili, il più importante dei quali fu quello di Costanza che stabilì la superiorità del concilio sul papa. La sua continuazione, dopo il 1418 fu quello di Basilea, fondato sempre sul principio del conciliarismo. Mentre l’τccidente era alle prese con questa profonda lacerazione, l’τriente stava vivendo sconvolgimenti epocali. Già Giovanni VI Cantacuzeno, pur di prendere il potere, aveva chiesto aiuto ai Turchi. Ma nella seconda metà del XIV secolo si registrò da parte dei Turchi un successo dopo l’altro che se non segnarono la fine di Costantinopoli segnarono però la fine dell’Impero bizantino nei Balcani. La battaglia di Kosovo Polje (1389) con la sconfitta della Serbia segnò la fine della Slavia meridionale che, culturalmente ebbe un indiretta ma altrettanto epocale conseguenza. Lo spostamento in Russia di importanti monumenti slavi cristiani della Bulgaria e della Serbia (la cosiddetta “seconda influenza slavo meridionale”). E con la fine dei Balcani cristiani sempre più vicina appariva la caduta di Costantinopoli in mano ai Turchi. 82 1. Il contesto storico ecclesiastico Nel 1391 a Giovanni V successe Manuele II92 che, sin dagli inizi del suo regno, si trovò in una difficilissima situazione, con il sultano Bayazed che tra il 1392 e il 1399 stanziava quasi ininterrottamente sotto le mura di Costantinopoli. Nel 1396 Ungheresi e Franchi attaccarono il sultano presso Nicopoli, ma subirono una sanguinosa sconfitta. Manuele trascorse allora degli anni in Europa in cerca d’aiuti, che non riusciva ad ottenere anche perché non nascondeva il suo deciso antilatinismo (a Parigi compose un trattato di confutazione ad uno scritto a favore dello Spirito Santo). Nonostante questo atteggiamento scostante, il papa Bonifacio IX prese a cuore la causa dei Greci, vedendo in essi dei fratelli in Cristo: Siamo mossi ora da compassione verso l’illustre principe Emmanuele Paleologo, imperatore costantinopolitano, e verso i suoi sudditi, che benché non siano nella nostra piena obbedienza e devozione e persistano non in una fede limpida e non in unione con la chiesa romana, invocano tuttavia il nome salvifico di Cristo93. Ma l’aiuto gli arrivò da dove proprio non se lo sarebbe mai aspettato. Infatti il 20 luglio 1402 il sultano Bayazed, già vincitore degli occidentali e terrore dei greci, fu sconfitto duramente dai tartari di Tamerlano ad Angora, il grande conquistatore mongolo che tanto filo da torcere procurò per alcuni anni ai Turchi. Con questa provvidenziale sconfitta del nemico, Costantinopoli poté esistere ancora per cinquanta anni. Il temporaneo blocco dell’avanzata dei turchi, attaccati e sconfitti da Tamerlano, agevolò l’atteggiamento duro di Manuele II verso Roma. Solo quando l’imprevedibile “alleato” mongolo scomparve dalla scena e il pericolo turco riprese come prima, nel 1417 inviò dei suoi legati presso il concilio di Costanza e il papa Martino V. Il problema dell’unione delle chiese agitato a Costanza non poté avere tutta l’attenzione che meritava, a causa della complessità degli altri problemi. Inoltre i vari delegati greci che vi si alternavano tendevano a far credere che a Costantinopoli si era pronti all’unione alle condizioni dei latini. La stessa impressione diede Gregorio Camblak, metropolita di Kiev, che arrivò a Costanza nel febbraio 1418, aggiungendo che questo era anche il vivo desiderio dei principi di Polonia e Lituania. In realtà, come afferma Phrantses nel suo Chronicon, Manuele II seguiva e faceva seguire al figlio una politica ambigua: tenere viva la questione dell’unione (sbandierandola per tenere a bada i musulmani), ma evitare di concluderla 94. Può sembrare strana questa successione, visto che a Manuele successe poi Giovanni VIII. La spiegazione è nel fatto che questi imperatori non salirono al trono uno dopo l’altro ma uno mentre regnava l’altro. Così Giovanni V era bambino nel 1341 quando Giovanni VI (Cantacuzeno) divenne imperatore (1347-1354). E mentre Giovanni V tornava sul trono, ecco che il suo governo era interrotto da Andronico IV Paleologo (1376-1379). Nuova interruzione nel 1390 con Giovanni VII Paleologo. Ecco perché, benché succeduto a Giovanni V, Manuele II avrà come successore Giovanni VIII. 93 Baronio, Annali, al 1398. Jugie, Le schisme, 262. 94 Testo in Joseph Gill, Il Concilio di Firenze, Sansoni, Firenze 1967, p. 36. Tra gli ultimi consigli che questo imperatore diede al figlio Giovanni VIII ci fu anche questo: Non ci resta come ultima risorsa contro i Turchi che la paura dell’unione con i latini. Quando ti troverai messo alle strette dagli infedeli, cerca di far capire il pericolo. Proponi un concilio, comincia i negoziati, ma prolungali all’infinito. Eludi poi la convocazione di questa assemblea che non ti sarà di alcuna utilità. La vanità dei latini e la volubilità dei greci non troveranno mai un accordo. Volendo giungere all’unificazione, non farai altro che aggravare lo scisma, e tu ti troveresti esposto senza alcun sostegno alla mercé dei barbari [DTC, 3, 1400]. 92 83 In ogni caso, l’ambasceria da lui inviata era composta di molti vescovi ed alti dignitari che proposero un concilio unionistico. Il papa Martino V era alquanto combattutto, in quanto personalmente era molto interessato all’unione con la chiesa greca, anche perché il nunzio greco Eudaimonoioannes gli aveva detto che i greci erano pronti a fare il passo. D’altra parte però non era molto incline a rimettere in discussione le verità della chiesa romana. Il suddetto nunzio doveva essere molto ottimista, perché quando la delegazione greca tornò a Costantinopoli, usò lo stesso linguaggio, dicendo che il papa era pronto all’unione. Il Siropoulos, che riporta simili notizie, riporta anche il contenuto della risposta dell’imperatore e del patriarca: In seguito l’imperatore e il patriarca scrissero una lettera di risposta, ringraziando il papa per lo zelo che egli mostrava per la causa dell’unione. Essi gli fecero capire che questa si sarebbe potuta raggiungere solo per mezzo di un concilio ecumenico e mediante l’attento esame dei punti controversi, senza che vi fossero restrizioni, interventi autoritari o cattiva disposizione d’animo. Quindi, se citazioni e testimonianze dei santi dottori della Chiesa avessero fornito le prove, se tutti i presenti al sinodo si fossero trovati d’accordo e l’avessero accettate in condizioni di piena libertà e senza esitazioni, l’unione si sarebbe raggiunta. Essi scrissero che il concilio poteva tenersi soltanto a Costantinopoli per vari e considerevoli motivi e che spettava all’imperatore ed a nessun altro convocare il concilio, secondo la tradizione e le antiche prerogative a lui spettanti95. Così, su questi curiosi equivoci dettati dalla buona volontà degli ambasciatori da una parte e dall’altra, le cose si trascinarono fino alla morte dell’imperatore Manuele (1925). Il papa nel 1426 ribadì le sue proposte, consigliando l’Italia come sede del concilio, ma la situazione politica non si rischiarò che nel 1430, quando l’imperatore mandò un’altra legazione a Roma. L’accordo che si raggiunse, comunicato anche a Basilea, fu il testo base per ogni futura trattativa. Prevedeva un concilio in Italia, in una città sulla costa fra la Calabria ed Ancona, con 700 rappresentanti orientali tutti a spese di Roma. La discussione sarebbe stata libera, e la chiesa di Roma avrebbe pagato il ritorno degli orientali anche se la riunione non si fosse verificata. L’ambasciata inviata a Roma nel 1431, dovette tornarsene senza alcun risultato apparente per la morte del papa. In realtà il progetto di un concilio era stato varato. S. Siropoulos, Memorie, ed. R. Creyghton col titolo: Vera historia unionis non verae, Hagae-Comitis 1660, II, 7-8, pp. 5-6. Ho seguito la traduzione in Gill, Il concilio di Firenze, cit., p. 34. 95 84 Nell’autunno del 1433 i Padri di Basilea presero loro l’iniziativa inviando una delegazione a Costantinopoli. Ma i Bizantini preferivano ormai trattare col nuovo papa Eugenio IV. Nella 25ªsessione la maggioranza dei padri conciliari propose Avignone per l’incontro coi greci, mentre una minoranza filopapale una città italiana. Il 7 maggio 1437 entrambi gli schieramenti lessero un decreto sul futuro concilio, creando una bagarre. Nonostante che si trattasse della maggioranza, il delegato greco Dishypatos dichiarò di riconoscere come decisione conciliare quella della minoranza filopapale (20 luglio 1437). 2. Il concilio di Ferrara Una volta che i greci a Basilea si erano dichiarati per il papa, Eugenio IV convocava il concilio a Ferrara con la bolla Doctoris gentium (18 settembre 1437). La dura reazione dei padri di Basilea, che dichiararono nulla la bolla e minacciarono il papa di scomunica, non cambiò sostanzialmente la situazione. Anzi alcuni dei padri più influenti, come il Cesarini e Niccolò Cusano, abbandonarono l’assemblea. 85 Secondo il Gill l’τriente era in maggioranza favorevole all’unione come dimostrano gli scritti di Giovanni di Ragusa, delegato del concilio di Basilea, e una lettera di Scolarios al papa Eugenio. Di fronte al pericolo turco l’aristocrazia e il mondo intellettuale si mostravano favorevoli all’unione. Mentre il papa era a Bologna promulgò la bolla Pridem ex iustis, con la quale fissava l’apertura del concilio a Ferrara per l’8 gennaio 1438. Soprattutto per problemi finanziari il ritardo dei Greci preoccupava il papa. Ma ai primi di marzo i Greci arrivarono e il concilio di aprì. Fu un successo per il papa. Mentre i padri di Basilea facevano fatica a raccogliere qualche decina di vescovi, a Ferrara confluirono 70 vescovi occidentali (mancavano però quelli di Francia e Germania) e una ventina di orientali, per non parlare dell’imperatore Giovanni VIII che giunse il 4 marzo e del patriarca di Costantinopoli che giunse il 7. Erano sbarcati a Venezia dove era andato il generale dei camaldolesi Ambrogio Traversari ad accoglierli a nome del papa. L’atmosfera era decisamente migliore che non a Basilea, perché i padri di Basilea erano interessati alla riforma della chiesa, a reprimere le eresie, come quella hussita, e ad affermare la superiorità del concilio sul papa che non ai rapporti fra Roma e Costantinopoli. Bramavano sì la presenza dei Greci, ma solo per meglio manifestare la superiorità del concilio. Il papa Eugenio IV era assistito dall’abile e fedele cardinale Giuliano Cesarini nonché dal cardinale Albergati. Altri importanti personaggi erano l’interprete σicola Sagundino, il vescovo di Forlì Giovanni Caffarelli, e i domenicani Giovanni di Montenero (provinciale della Lombardia), Giovanni di Torquemada teologo e Andrea Chrysoberge, arcivescovo di Rodi. Quanto alla delegazione greca, era composta dallo stesso imperatore Giovanni VIII Paleologo (dal 1423) col figlio Demetrio (che senza intervenire nei dibattiti non nascondeva la sua opposizione all’unione), e dal patriarca (dal 1416) Giuseppe II, convinto unionista. I protagonisti teologici erano Bessarione teologo ed umanista favorevole all’unione, e Marco di Efeso, anch’egli intellettualmente preparato, ma da sempre antiunionista sarebbe stato l’unico vescovo a rifiutarsi di firmare l’unione). Tra gli altri è opportuno citare Doroteo di Mitilene (che poi lasciò una storia del concilio in senso unionista) e Giorgio Scolarios, allora laico e discepolo di Marco di Efeso, che al termine avrebbe firmato, ma i cui discorsi lasciavano intendere che lo faceva in omaggio al volere del sovrano. Un ruolo importante ebbero anche Gregorio Mammas, protosincello del patriarca (e futuro patriarca egli stesso tra il 1443 e il 1459, quando morì a Roma), e Isidoro metropolita di Kiev. Questi era stato fatto metropolita dall’imperatore per attirare i russi nell’unione e farà da intermediario tra il papa e l’imperatore. Il problema del cerimoniale fu tutt’altro che semplice. L’incidente iniziale fece capire quanto i secoli trascorsi avevano segnato le due chiese. Il papa pretendeva che il patriarca e i greci gli baciassero il piede come facevano i cardinali e i vescovi occidentali. Il patriarca, benché convinto unionista ne fu costernato, e dopo essersi consultato con i suoi si rifiutò di farlo. Il papa tenne duro. Ma anche il patriarca, che disse che se ne sarebbe tornato a Venezia se il papa insisteva. Alla fine fu il papa a cedere per non mandare a monte un concilio cui teneva tanto. Giustamente il Gill fa notare come non si trattasse di pura etichetta, bensì di una affermazione del rango 86 canonico delle due Chiese. Baciare il piede al papa avrebbe significato un riconoscimento del suo primato96. L’imperatore avrebbe voluto la presidenza e quindi il trono più alto, ma il papa non glielo permise. Il patriarca ebbe un trono simile a quello del papa ma posizionato più in basso. Finalmente il 9 aprile si apriva il concilio nella cattedrale di S. Giorgio. Mancava solo il patriarca, molto malato. Nonostante la grandiosità delle cerimonie, il confronto tardava a venire perché i greci si impuntarono sul fatto che erano assenti i principi occidentali. Si trascorse quindi il tempo in cacce, visite e cene. L’imperatore voleva passare all’unione senza tante discussioni teologiche, per cui proibì ai greci di ingaggiare dibattiti al riguardo dei temi che dividevano la chiesa greca dalla latina. Finalmente verso la fine di maggio si presentò l’ordine del giorno che prevedeva di affrontare i seguenti temi: Processione dello Spirito Santo, Azzimi, Purgatorio, Primato del papa. Per ogni tema ogni schieramento avrebbe scelto due portavoce che avrebbero argomentato pubblicamente mentre tutti ascoltavano. I latini scelsero Giuliano Cesarini e Giovanni di Torquemada, mentre i Greci scelsero Bessarione e Marco di Efeso. Il 4 giugno si affrontò la questione del purgatorio e si discusse vivacemente se il fuoco era simile a quello dell’inferno, oppure si trattava solo di sofferenze espiatrici. Dato che i greci non erano d’accordo tra loro, l’imperatore il 17 luglio fece redigere un prospetto a Bessarione e Marco di Efeso ed egli lo riassunse in queste parole: I giusti, sin dal momento in cui muoiono, godono nelle loro anime di tutta la felicità di cui le anime sono capaci. Dopo la morte c’è ancora altro che si aggiunge a questa felicità, in particolare la glorificazione del corpo che brillerà come il sole97. Mentre queste discussioni procedevano ecco che a Ferrara cominciò a diffondersi la peste. Morirono alcuni della delegazione russa di Isidoro, giunto a Ferrara il 15 agosto. E morì il rappresentante del patriarca di Gerusalemme Dionigi di Sardi. Marco di Efeso e l’arcivescovo di Eraclea lasciarono la città, ma vi furono riportati per comando dell’imperatore. Finalmente si decise di entrare nel vivo delle questioni e di aprire il dibattito vero e proprio l’8 ottobre 1438. Si scelsero 6 teologi per parte. Da parte greca furono Bessarione, Marco di Efeso, Isidoro di Kiev, Balsamon, Teodoro Xanthopoulos e Giorgio Gemistio. I latini erano Giuliano Cesarini, Albergati, Andrea di Rodi, Giovanni di Forlì, Pietro Perquerio e Giovanni di San Tommaso. Il primo punto lo segnò a suo favore Marco di Efeso che riuscì ad imporre il primo quesito. Mentre tutti avrebbero voluto discutere la correttezza o meno del Filioque, lui formulò diversamente la domanda: E’ lecito o no aggiungere una parola al credo ? Dopo i discorsi unionistici del Bessarione (8 ottobre) e di Andrea di Rodi (10 ottobre). Con la terza sessione il dibattito si riscaldò con Marco di Efeso che accusava i latini dello scisma e pretendeva la soppressione del Filioque dal credo a prescindere se fosse corretto o meno. Ben diversa la risposta di Andrea di Rodi. Il 16 ottobre Marco di Efeso esibì tutta la documentazione contro l’aggiunta del Filioque, mentre Andrea di Rodi nelle seguenti sessioni cercava di dimostrare che non si trattava di una aggiunta ma di una esplicitazione. Si andò così avanti dibattendo fino alla XII sessione. Intorno alla XV sessione (8 dicembre) la situazione 96 97 Gill, Il concilio di Firenze, cit., p. 124-125. A. Vogt, Florence (Concile de), In Dictionnaire de Théologie Catholique, VI, 31. 87 stava diventando insostenibile: i dibattiti non trovavano soluzioni, la peste diveniva sempre più furiosa, il papa cominciava ad avere difficoltà a pagare. I greci cominciarono a pensare di rientrare a Costantinopoli. 3. Il concilio di Firenze Allora giunsero gli ambasciatori fiorentini e proposero al papa di portare a Firenze i padri conciliari. I greci si opposero, ma quando il papa fece balenare la promessa di pagare loro quanto si attendevano dopo aver votato l’unione, essi accettarono di trasferirsi. Il 10 gennaio fu letto il decreto di trasferimento del concilio, e i greci furono pagati. Preso alloggio a Firenze i greci cominciarono ad avvertire la stanchezza , per cui divennero più disposti verso l’unione, magari rinnegand ola dopo. L’imperat ore da parte sua era estremam ente deluso di trovarsi tra preti invece che tra principi. Dopo la prima sessione, XVII del concilio (26 febbraio), in cui furono nominate le commissioni, dalla seconda (XVIII) si entrò nel vivo del dibattito sul Filioque tra Marco di Efeso e Giovanni di Montenegro; un dibattito che si protrasse addirittura fino all’8 giugno, quando finalmente i greci aderirono alla formula unionistica su questo punto. Giovanni di Ragusa (o di Montenero), considerando che i greci non volevano pure argomentazioni filosofiche, poggiò la sua argomentazione su un testo di Epifanio, che conclude con: Si Spiritus ex ambobus est, ergo esse etiam accipit ex ambobus, oltre ad una frase analoga. 88 Marco di Efeso mise in dubbio che il testo potesse essere così esplicito e addusse un brano di San Basilio in cui appare che lo Spirito è dal Padre e non da altra fonte 98. Giovanni di Ragusa ribatté con un altro brano di San Basilio dalla stessa opera in cui appariva una processione da entrambi99: Quando noi diciamo “qualcuno da qualcun altro”, intendiamo sempre riferirci alla persona. Nella scorsa sessione ho citato S. Basilio: “Che necessità c’è, allora, se lo Spirito Santo è terzo in dignità e ordine, che esso sia anche terzo per natura ? In dignità infatti è secondo al Figlio, poiché da questi riceve il suo essere” (PG 29, 653B). Qui S. Basilio dice che lo Spirito ha il suo essere dal Figlio e dipende da lui secondo un rapporto di causalità. Io ho già dimostrato come, riferite a Dio, le parole “ricevere” ed “essere” hanno lo stesso significato. Qui noi vediamo che lo Spirito ha, e riceve, il suo essere dal Figlio, il che significa che procede da lui. Al che Marco ribatté: Ci occuperemo più tardi di S. Basilio. Vediamo per ora le conclusioni a cui portano le vostre parole. Voi dite che la sostanza, comune al Padre e al Figlio, unica e identica, è la causa e il principio dello Spirito Santo. Quindi la sostanza dello Spirito è causata, e abbiamo allora due sostanze nella Trinità, una causante ed una causata. Ma questo è contrario ad ogni retta teologia, poiché tutti i dottori sostengono che la sostanza non può né generare né produrre; il Padre e il Figlio non possono quindi produrre mediante quella sostanza unica che è loro comune, ma ciascuno lo può con la sua propria sostanza o proprietà individuale. E Giovanni a sua volta: Sostanza è un termine che può avere due significati: nel primo senso corrisponde alla definizione di una cosa, cioè la specie, essenza o natura, e non vuol dire mai l’oggetto esistente (substantia secunda); in un altro senso invece sta ad indicare l’oggetto esistente che possiede la specie (substantia prima), per esempio Platone o Socrate, e sotto questo aspetto corrisponde a hypostasis, sussistenza, res naturae e, nella natura umana, a persona. Tanto i padri latini quanto quelli greci hanno sostenuto, contro Ario e Macedonio, che lo Spirito Santo è dalla sostanza del Padre e del Figlio. Affermare che lo Spirito Santo è dalla sostanza del Padre è giusto, perché sostanza può voler dire persona, anche se è vero che la proprietà di esser padre non si comunica. Quindi noi latini non usiamo il termine sostanza per intendere la persona del Padre, ma intendiamo con tale parola la natura che è comunicata al Figlio. Di conseguenza il Padre genera il Figlio e, tranne la sua proprietà di essere Padre, gli trasmette di sé tutto, anche che il Figlio sia principio dello Spirito Santo, elemento che non contrasta minimamente con la proprietà di essere figlio. Per questo non è giusto dedurre dalla nostra dottrina la conseguenza che nella Santissima Trinità vi sia una distinzione tra causa e causato: il Figlio è dalla sostanza del Padre e lo Spirito Santo è dalla sostanza del Padre e del Figlio 100. Questo momento del dibattito è significativo per comprendere non soltanto la sostanza dei due punti di vista, ma anche tutto l’andamento del dibattito, che si Contro Eunomio, lib. V, c. XIII. Contro Eunomio, lib. III. 100 Gill, Il concilio di Firenze, cit., pp. 233-234. 98 99 89 muoveva fra considerazioni filosofiche e citazioni dei padri. Naturalmente la discussione non poteva avere alcuna conclusione perché partiva dal presupposto che i Padri avessero scritto tutto come in un trattato sistematico. Il che non era. Essi infatti avevano fatto le loro dichiarazioni in circostanze diverse, per cui la coerenza dottrinale interna era tutta da scoprire, e la battaglia a colpi di citazioni di Epifanio, Basilio, Gregorio di Nazianzo, Cirillo, Teodoreto, non poteva cogliere la coerenza teoretica, provenendo le citazioni da contesti diversi. Questo presupposto della coerenza interna del Padre della Chiesa portava a considerare il Padre stesso come espressione della Parola divina. Per cui, invece di affrontare l’enucleazione del contesto al fine di cogliere il senso, l’attenzione si spostò sulla correttezza della trasmissione del testo manoscritto o sull’eventuale manipolazione di esso. Fu Marco di Efeso ad entrare in questo campo eminentemente filologico paleografico, mettendo in discussione l’autenticità del testo greco, a suo avviso manipolato dai latini proprio per sostenere il Filioque, ma Giovanni di Ragusa faceva notare che i manoscritti provenivano da Costantinopoli. Il tumulto che ne seguì ebbe strascichi per tutto il mese di marzo. Quando però Giovanni di Ragusa sottolineò che anche per i latini il principio è uno (il Figlio producit Spiritum non ex se ipso, sed ex illo, a quo et ipse suum esse habet) gli unionisti si rasserenarono e manifestarono la loro adesione. In particolare l’imperatore, che aveva fretta di rientrare nella sua capitale, colse la palla al balzo per avviare la discussione a conclusione101. D’altra parte Bessarione faceva notare che se ci si metteva sul terreno di Marco di Efeso sull’autenticità dei testi, ben poco nella tradizione cristiana restava di certo. Si cominciò quindi a parlare di chiudere il concilio. Psicologicamente importante fu anche la lettura di un brano della lettera di S. Massimo il Confessore a Marino: La città regia ha ricevuto le lettere sinodali dell’attuale papa, non su tutti gli argomenti di cui hai scritto, ma su due soltanto: sulla dottrina dello Spirito Santo, a proposito della quale afferma che lo Spirito Santo procede anche dal Figlio e sulla divina incarnazione di cui ha scritto:”il Signore come uomo è libero dal peccato originale”. Riguardo al primo punto essi hanno citato passi dei padri romani ed anche di Cirillo d’Alessandria, traendoli da quel sacro trattato da lui compilato intorno a S. Giovanni Evangelista. Hanno dimostrato che in tal modo non fanno del Figlio una causa dello Spirito Santo, perché conoscono una sola causa di esso; il Padre infatti è causa del Figlio e dello Spirito santo, del primo per generazione, del secondo per processione. Il loro scopo è solo quello di affermare che lo Spirito promana attraverso il Figlio per stabilire così l’unità e l’immutabilità della sostanza102. σel mese d’aprile il papa e l’imperatore ebbero diversi incontri personali e il Bessarione pronunciò il toccante discorso dogmatico dell’unione, dove tra l’altro dimostrò che il “dià” dei greci, se non indica una causa autonoma, ne indica però una 101 102 Gill, Il concilio di Firenze, cit., p. 251. PG 91, 133D-136°. Traduzione in Gill, Il concilio di Firenze, cit., pp. 251-252. 90 “mediante” dell’unione. 103. Anche Giorgio Scolarios in tre discorsi si pronunciò a favore Il 21 maggio 1439, vedendo l’impasse che impediva l’unione, i greci minacciano di tornarsene a casa. L’atmosfera cambia col farsi avanti dell’idea della concordanza nello Spirito Santo dei Padri greci e latini. Il vecchio patriarca fece questa dichiarazione: “Io non voglio cambiare alcunché nei dogmi che ci hanno trasmesso i santi padri […], ma dato che i Latini ci stanno dimostrando, non con loro argomenti ma con argomenti dalle sacre scritture, che la processione dello Spirito Santo si opera anche mediante il Figlio, io aderisco ad essi e dichiaro che la preposizione “dià” designa il Figlio come causa dello Spirito e quindi mi unisco ai Latini104. Il 4 giugno i greci firmarono. Il 10 moriva il patriarca. Così dopo un anno sul Filioque, in tre settimane ci si accordò sugli altri punti (purgatorio, azzimi, primato). Vero è che la rapidità era dovuta al fatto che qualcosa era stato fatto già a Ferrara. Speditamente dunque fu approvato anche il decreto sul purgatorio, anche se i greci tra la morte e il giudizio finale pensavano ad uno stato d’attesa piuttosto che di pene purificatrici: medias (animas) autem esse in loco tormentorum: sed sive ignis sit, sive caligo ac turbo, sive quid aliud, non contendimus105. Quanto agli azzimi il Bessarione lesse un suo testo che affermava che con le parole di Cristo il pane e il vino sono transustanziati. La questione non sarebbe stata però sollevata nella bolla d’unione. Il 16 giugno Giovanni di Ragusa apriva la discussione sul primato del papa. L’argomento suo principale derivava dall’onore che le lettere papali ricevevano in tutti i concili ecumenici. Queste epistole erant maioris auctoritatis quam canones qui fiebant in synodis, quia Spiritus Sanctus operator in Ecclesia romana ut in aliis conciliis. Il fatto che sin dall’antichità è considerato successore di Pietro: hac praeminentia non solum denotat reverentiam, sed potestatem quamdam cujusdan obedientiae. Pur riconoscendo il primato del papa i greci affermarono che per essere ecumenico un concilio avrebbe dovuto celebrarsi in presenza dell’imperatore e del patriarca, Eugenio IV si rifiutò di sottoscrivere questa clausola. I greci unionisti trovarono una formula più vaga e il papa firmò. Il 5 luglio i Latini firmavano l’unione in S. Maria σovella. I greci firmarono presso l’imperatore. Solo Marco di Efeso si rifiutò, mentre altri (Isaia di Stavropol, Giovanni Eugenico, e Giorgio di Georgia) si erano allontanati da Firenze prima della fine del concilio. Il 6 luglio nella cattedrale di Firenze fu letto e cantato il decreto d’unione (Laetentur coeli et exultet terra) Quanto alla libertà d’espressione gli Atti greci affermano che gli ospiti avevano la stessa libertà dei latini. Solo Syropoulos fa notare le pressioni dell’imperatore Giovanni VIII per accelerare i tempi e come insistesse sui vantaggi politici dell’unione. Ma il Gill fa notare che se avesse voluto limitare la libertà di parola avrebbe sostituito Marco di Efeso come portavoce dei greci con Bessarione o Isidoro, invece lo tenne al suo posto sino alla fine. PG 161, 543 ss. Labbe, col. 489. 105 Labbe , 491. 103 104 91 Quanto ai rapporti fra il papa, l’imperatore bizantino e i patriarchi, la posizione greca era molto chiara e significativa dello sviluppo che c’era stato nella chiesa latina rispetto al primo millennio: La domenica mattina noi scrivemmo e approvammo i privilegi del papa con due eccezioni: che non doveva convocare un concilio ecumenico senza l’intervento dell’imperatore e dei patriarchi se avessero voluto venire; se però questi non si fossero recati al concilio, pur essendo stati convocati, questo non si doveva rinviare. Inoltre, se qualcuno avesse ritenuto di aver ricevuto un torto da parte di un patriarca e quello che si era appellato si fosse presentato davanti al papa, il patriarca non sarebbe stato obbligato a recarsi [a Roma] per essere interrogato e giudicato, ma il papa avrebbe dovuto mandare degli inviati sul posto, a rendere giustizia a quello che aveva patito torto nel luogo stesso dove era sorta la lite. Essendo giunti a queste conclusioni, la domenica mattina chiedemmo all’imperatore di recarsi dal papa ed egli vi andò verso sera e riferì ciò che noi avevamo fatto e quali privilegi gli avevamo concessi106. σon c’è dubbio quindi che il desiderio di tornare a casa fu tale da accettare tutte le espressioni vaghe che i Latini proponevano per vanificare i limiti che i greci ponevano all’autorità del papa. Ad esempio, la conclusione del decreto d’unione conciliava sia il primato assoluto del papa sia il rispetto dei privilegi dei patriarchi, quasi che le due istanze fossero conciliabili: Definiamo inoltre che la Santa Sede Apostolica e il Romano Pontefice hanno il primato su tutto l’universo; che lo stesso Romano pontefice, successore del beato Pietro principe degli Apostoli, è autentico vicario di Cristo, capo di tutta la Chiesa, padre e dottore di tutti i cristiani; che nostro Signore Gesù Cristo ha trasmesso a lui, nella persona del beato Pietro, il pieno potere di pascere, reggere e governare la Chiesa universale, come è attestato anche negli atti dei concili e nei sacri canoni. Rinnoviamo inoltre, l’ordinamento tramandato nei canoni da osservare tra gli altri venerabili patriarchi, per cui il patriarca di Costantinopoli sia secondo dopo il santissimo pontefice romano, il patriarca di Alessandria sia terzo, quello di Antiochia quarto, quello di Gerusalemme quinto, senza alcun pregiudizio per tutti i loro privilegi e diritti 107. σaturalmente, anche se si parla di “rispetto dei privilegi dei patriarchi”, non era difficile capire che quella formulazione del primato romano sarebbe stato più che indigesto nella società bizantina, dove da secoli era concepito diversamente. Infatti, appena i greci e i russi si allontanarono dalle coste italiane, molti si pentirono dicendo di aver firmato sotto costrizione. Resteranno fedeli all’unione: Bessarione, Isidoro, Doroteo di Mitilene, i vescovi di Cizico, di Sparta, Rodi, Moldo-Valacchia e di Monemvasia, Gregorio il Confessore e Pacomio monaco. Gill, Il concilio di Firenze, cit., p. 337. Conciliorum Oecumenicorum Decreta, a cura di Giuseppe Alberigo…, Ed. Dehoniane, Bologna 2002, p. 528. 106 107 92 4. La bolla d’unione: Laetentur caeli (6 luglio 1439) Eugenius episcopus, servus servorum dei, ad perpetuam rei memoriam. Consentiente ad infrascripta carissimo filio nostro Iohanne Palaeologo romaeorum imperatore illustri, et locatenentibus venerabilium fratrum nostrorum patriarcharum, et caeteris orientalem ecclesiam repraesentantibus. « Laetentur caeli et exultet terra ». Sublatus est enim de medio paries, qui occidentalem orientalemque dividebat ecclesiam, et pax atque concordia rediit; illo « angulari lapide Christo, qui fecit utraque unum », vinculo fortissimo caritatis et pacis utrunque iungente parietem, et perpetuae unitatis foedere copulante ac continente; postque longam moeroris nebulam et dissidii diuturni atram ingratamque caliginem, serenum omnibus unionis optatae iubar illuxit. « Gaudeat et mater ecclesia », quae filios suos hactenus invicem dissidentes iam videt in unitatem pacemque rediisse; et quae antea in eorum separatione amarissime fiebat, ex ipsorum modo mira concordia cum ineffabili gaudio omnipotenti deo gratias referat. Cuncti gratulentur fideles ubique per orbem, et qui christiano censentur nomine, matri catholicae ecclesiae collaetentur. Ecce enim occidentales orientalesque patres, post longissimum dissensionis atque discordiae tempus, se maris ac terrae periculis exponentes, omnibusque superatis laboribus, ad hoc sacrum ycumenicum concilium, 93 desiderio sacratissimae unionis et antiquae caritatis reintegrandae gratia, laeti alacresque convenerunt. Post longam enim laboriosamque indaginem, tandem optatissimam sanctissimamque unionem consecuti sunt. Quis igitur dignas omnipotentis dei beneficiis gratias referre sufficiat? Quis tantae divinae miserationis divitias non obstupescat? Cuius vel ferreum pectus tanta supernae pietatis magnitudo non molliat? Sunt ista prorsus divina opera, non humanae fragilitatis inventa; atque ideo eximia cum veneratione suscipienda, et divinis laudibus prosequenda. Tibi laus, tibi gloria, tibi gratiarum actio, Christe, fons misericordiarum, qui tantum boni sponsae tuae catholicae ecclesiae contulisti, atque in generatione nostra tuae pietatis miracula demonstrasti, ut enarrent omnes mirabilia tua. Magnum siquidem divinumque munus nobis deus largitus est; oculisque vidimus, quod ante nos multi, cum valde cupierint, aspicere nequiverunt. Convenientes enim latini ac graeci in hac sacrosanta synodo ycumenica magno studio invicem usi sunt, ut inter alia etiam articulus ille de divina spiritus sancti processione summa cum diligentia et assidua inquisitione discuteretur. Prolatis vero testimoniis ex divinis scripturis plurimisque auctoritatibus sanctorum doctorum orientalium et occidentalium, aliquibus quidem ex patre et filio, quibusdam vero ex patre per filium procedere dicentibus spiritum sanctum, et ad eandem intelligentiam aspicientibus omnibus sub diversis vocabulis, graeci quidem asseruerunt quod id, quod dicunt spiritum sanctum ex patre procedere, non hac mente proferunt, ut excludant filium; sed quia eis videbatur, ut aiunt, latinos asserere spiritum sanctum ex patre filioque procedere, ut excludant patrem quin sit fons ac principium totius deitatis, filii scilicet ac spiritus sancti, aut quod id, quod spiritus sanctus procedit ex filio, filius a patre non habeat; sive quod duo ponant esse principia seu duas spirationes, sed ut unum tantum asserant esse principium unicamque spirationem spiritus sancti, prout hactenus asseruerunt. Et cum ex his omnibus unus et idem eliciatur veritatis sensus, tandem in infrascriptam sanctam et deo amabilem eodem sensu eademque mente unionem unanimiter concordarunt et consenserunt. In nomine igitur sanctae trinitatis, patris et filii et spiritus sancti, hoc sacro universali approbante Florentino concilio, diffinimus ut haec fidei veritas ab omnibus christianis credatur et suscipiatur, sicque omnes profiteantur, quod spiritus sanctus ex patre et filio aeternaliter est, et essentiam suam suumque esse ubsistens habet ex patre simul et filio, et ex utroque aeternaliter tamquam ab uno principio et unica spiratione procedit. Declarantes quod id, quod sancti doctores et patres dicunt, ex patre per filium procedere spiritum sanctum, ad hanc intelligentiam tendit, ut per hoc significetur filium quoque esse secundum graecos quidem causam, secundum latinos vero principium, subsistentiae spiritus sancti, sicut et patrem. Et quoniam omnia, quae patris sunt, pater ipse unigenito filio suo gignendo dedit, praeter esse patrem; hoc ipsum, quod spiritus sanctus procedit ex filio, ipse filius a patre aeternaliter habet, a quo aeternaliter etiam genitus est. Diffinimus insuper explicationem verborum illorum filioque, veritatis declarandae gratia, et imminente tunc necessitate, licite ac rationabiliter symbolo fuisse appositam. Item, in azimo sive fermentato pane triticeo, corpus Christi veraciter confici, sacerdotesque in altero ipsum domini corpus conficere debere, unumquenque scilicet iuxta suae ecclesiae sive occidentalis sive orientalis consuetudinem. 94 Item, si vere poenitentes in dei caritate decesserint, ante quam dignis poenitentiae fructibus de commissis satisfecerint et omissis, eorum animas poenis purgatoriis post mortem purgari, et, ut a poenis huiusmodi releventur, prodesse eis fidelium vivorum suffragia, missarum scilicet sacrificia, orationes et elemosinas, et alia pietatis officia, quae a fidelibus pro aliis fidelibus fieri consueverunt, secundum ecclesiae instituta. Illorumque animas, qui post baptisma susceptum nullam omnino peccati maculam incurrerunt; illas etiam, quae post contractam peccati maculam, vel in suis corporibus, vel eisdem exutae corporibus, prout superius dictum est, sunt purgatae, in caelum mox recipi, et intueri clare ipsum deum trinum et unum, sicuti est, pro meritorum tamen diversitate alium alio perfectius. Illorum autem animas, qui in actuali mortali peccato vel solo originali decedunt, mox in infernum descendere, poenis tamen disparibus puniendas. Item diffinimus sanctam apostolicam sedem et Romanum pontificem in universum orbem tenere primatum, et ipsum pontificem Romanum successorem esse beati Petri principis apostolorum et verum Christi vicarium totiusque ecclesiae caput et omnium christianorum patrem et doctorem existere; et ipsi in beato Petro pascendi, regendi ac gubernandi universalem ecclesiam a domino nostro lesu Christo plenam potestatem traditam esse, quemadmodum etiam in gestis ycumenicorum conciliorum et in sacris canonibus continetur. Renovantes insuper ordinem traditum in canonibus caeterorum venerabilium patriarcharum, ut patriarcha Constantinopolitanus secundus sit post sanctissimum Romanum pontificem, tertius vero Alexandrinus, quartus autem Antiochenus, et quintus Hierosolymitanus, salvis videlicet privilegiis omnibus et iuribus eorum. Datum Florentiae in sessione publica synodali, solemniter in ecclesia maiore celebrata. Anno incarnationis dominicae millesimo quadragesimo tricesimo nono, pridie nonas iulii, pontificatus nostri anno nono. 95 INDICE DELLE ILLUSTRAZIONI Pag. 1. Solido d’oro di Costantino, Sol invictus (Paris, Bibl. Nazionale) Pag. 3. Le conquiste di Costantino “4. “In hoc signo vinces” (Vaticano, Stanze di Raffaello, 1524) “5. L’impero romano alla morte di Costantino (337) “6. La scoperta della croce ad opera di Elena (Antifonario di Brescia, XV secolo) “7. Mappa di Costantinopoli. “8. S. Silvestro battezza Costantino (Santi 4 Coronati, Roma) “ 9. Costantino brucia i libri ariani. “9. S. Ambrogio ferma l’imperatore Teodosio I “10. S. Giovanni Crisostomo denuncia l’immoralità dell’imperatrice “11. I santi alessandrini Atanasio e Cirillo “11. Pagina del Codice Teodosiano. “12.Eutiche, Flaviano e Leone Magno “13. Leone Magno “14. Duello fra Teodorico e τdoacre “15. L’impero bizantino e i regni barbarici “17. Giustiniano. Mosaico in San Vitale (Ravenna) “18. L’imperatrice Teodora. San Vitale (Ravenna) “18. Disegno di S. Sofia di Costantinopoli “19. Giustiniano (avorio) “19. Belisario accolto da Giustiniano 96 “20. Totila dinanzi a san Benedetto “21. Assalto dei Longobardi “21. Papa Gregorio Magno “22. Pagina dei Dialoghi di Gregorio Magno “22. Il patriarca Giovanni Digiunatore “23. S. Isidoro di Siviglia “24. Il califfo τmar entra in Gerusalemme “25. Sofronio di Gerusalemme “26. Massimo il Confessore “28. Miniatura con temi iconoclasti “29. S. Giovanni Damasceno “29. Il concilio di σicea II “31. Pipino riceve i nunzi del papa Stefano II “31. Incoronazione di Pipino. “32. “Donazione Costantiniana”, e Carlo Magno “33. Pagina dei Libri Carolini contro il Concilio di Nicea II “34. Rabano Mauro. “36. Il patriarca Fozio. “38. Frontespizio della “Biblioteca” di Fozio “39. Basilio I il Macedone e il figlio Costantino. In basso: Cirillo e Metodio dinanzi al papa Adriano II. “46. Papa Giovanni VIII. “47. Processo al cadavere di papa Formoso. 97 “48. Privilegio di τttone. “49. L’imperatore Costantino IX “50. Papa Leone IX e il patriarca Cerulario. “52. Roberto il Guiscardo in un manoscritto di Montecassino. “54. Immagine di Pietro e Paolo lacerata, simbolo dello scisma. “57. Goffredo di Buglione dinanzi ad Alessio I Comneno “58. Il Dictatus Papae. “62. Conquista e saccheggio di Costantinopoli nel 1204. “64. Papa Innocenzo III “66. Michele VIII Paleologo “67. S. Bonaventura al concilio di Lione del 1274 “71. La compagnia catalano dinanzi ad Andronico II. “73. Giovanni VI Cantacuzeno. “74. Gregorio Palamas. “82. L’antipapa Clemente VII. “84. Il papa Eugenio IV “85. L’imperatore Giovanni VIII al concilio di Firenze “88. Le dispute a concilio citando l’autorità della Bibbia edei Padri “93. La bolla “Laetentur coeli” celebra l’unione di Firenze. “95. Marco di Efeso non sottoscrisse l’unione. 98 INDICE I. COSTANTINOPOLI E ROMA DAL 330 AL 519 1. Il contesto storico: la tetrarchia di Diocleziano 2. L’editto di Milano (313) 3. Il concilio di Nicea: il primato di Alessandria e Roma 4. Costantinopoli capitale: i concili ariani del 335, 338 e 360 5. Il secondo concilio ecumenico: Coatantinopoli 381 6. Alessandria contro Costantinopoli: Efeso 431 7. Calcedonia 451: avvicinamento dottrinale, ma canone 28 8. Il primo scontro fra Roma e Costantinopoli: lo scisma acaciano II. DA GIUSTINIANO A CARLO MAGNO, 527-814 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. III. CRISI FOZIANA. FOZIO E I PAPI NICOLA I, ADRIANO II E GIOVANNI VIII 1. 2. 3. 4. IV. Giustiniano e Teodora: il papato condizionato dall’Impero Gregorio Magno: “Patriarca ecumenico” un titolo di superbia La controversia monotelita Papa Onorio: scomunicato dal concilio del 681 Il concilio trullano del 692: Costantinopoli impone i suoi canoni Controversia e persecuzione iconoclasta (726) Riflessi dell’iconoclasmo sui rapporti oriente-occidente I Libri Carolini Fozio nello scontro con i papi Nicola I e Adriano II Fozio e il primato romano Il Filioque “errore dogmatico” Fozio e il papa Giovanni VIII: tempo di tregua IL GRANDE SCISMA DEL 1054. LA BATTAGLIA DI CIVITATE E LE RECIPROCHE SCOMUNICHE 1. 2. 3. 4. 5. 6. Argiro tesse l’alleanza tra il papa e l’imperatore bizantino (1052) Cerulario la incrina con la lettera di Leone di Ochrid (1053) Conseguenza: la sconfitta di Civitate (1053) Lo scisma Risposta di Leone IX alla lettera di Cerulario Le reciproche scomuniche (1054) 99 V. SACCHEGGIO DI COSTANTINOPOLI, IMPERO LATINO E CONCILIO DI LIONE 1. 2. 3. 4. VI. DIALOGHI E POLEMICHE NEL XIV SECOLO 1. 2. 3. 4. 5. 6. VII. Incontri e scontri nel XII secolo (1113, 1136, 1155) Saccheggio di Costantinopoli: pietra tombale sul dialogo Gli incontri teologici al tempo dell’impero latino di Costantinopoli Il concilio di Lione del 1274 I patriarchi Giovanni Vekkos e Gregorio di Cipro Andronico II (1282-1328) rigetta l’unione di lione Palamismo e rigurgito dell’antilatinismo Sull’onda del Palamismo: Nilo e Nicola Cabasilas Tomismo e antipalamismo a Bisanzio Contatti in vista del concilio IL CONCILIO DI FIRENZE 1. 2. 3. 4. Il contesto storico ecclesiastico Il concilio di Ferrara Il concilio di Firenze La bolla d’unione: Laetentur caeli (6 luglio 1439) BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE Norden V., Das Papsttum und Byzanz, Berlin 1903; Brunello Aristide, Le chiese orientali e l’unione, Milano 1966; AA. VV., La Chiesa greca in Italia dall’VIII al XVI secolo (Atti del convegno storico ecclesiale di Bari del 1969), Padova 1963; AA. VV., Pravoslavie i Ekumenizm. Dokumenty i materialy, 1902-1997, Moskva 1998; Stavridis Vasilios, Storia del patriarcato ecumenico, in greco, Atene 1967 (trad. francese in “Istina”, 1970, n. 2); Zananiri G., Pape et Patriarches, Paris 1962; Zervos Gennadios, Il contributo del Patriarcato ecumenico per l’unità dei Cristiani, Città Nuova , Roma 1974; Maximos de Sardis, Le Patriarcat Oecuménique dans l’Eglise Orthodoxe, Paris 1975; Varnalidis Sotirios, I primi amichevoli contatti non ufficiali tra le chiese di Roma e di Costantinopoli dopo il concilio di Firenze (1439) e la caduta di Costantinopoli in mano ai Turchi, in Nicolaus. Rivista di teologia ecumenica, XII (1985); Tommaso Violante, I rapporti RomaCostantinopoli nel primo millennio, Bari 2001. 100