Im-Schützengraben-Sein
Heidegger lettore di Jünger
Facoltà di Lettere e Filosofia
Dipartimento di Filosofia
Corso di laurea in Filosofia
Simone Zanello
Matricola 1754047
Relatore
Donatella Di Cesare
A.A. 2018-2019
Im-Schützengraben-Sein
Heidegger lettore di Jünger
Laureando
Simone Zanello
Relatore
Donatella Di Cesare
Indice
Introduzione..........................................................................................................................................4
Ι. Ernst Jünger: breve ritratto................................................................................................................6
1. Cenni biografici...........................................................................................................................8
2. Die Konservativ Revolution: tra le pieghe di un ossimoro........................................................11
3. Sulla “questione” italiana.........................................................................................................13
4. Der Arbeiter, il Maschine-werden del Soldato...........................................................................15
ΙΙ. Freiburg 1939/40: i Colloqui su Jünger.........................................................................................19
1. Ernst Jünger, Der Arbeiter. 1932: Zur Einführung 1939/40......................................................21
2. Zu Ernst Jünger 1939/40: Macht und Sein................................................................................24
3. Von Ernst Jünger 1939/40..........................................................................................................27
4. Ernst Jünger 1939/40.................................................................................................................30
5. Ernst Jünger...............................................................................................................................32
III. Anmerkungen: sulle Tracce del Pensiero.....................................................................................34
1. Heidegger lettore de L’Operaio.................................................................................................36
2. Gestalt e Platonismo Ribaltato..................................................................................................40
3. Accecarsi nel Soggetto...............................................................................................................44
4. Liberalismo, Progressismo, Libertà Moderna...........................................................................46
5. La Costruzione Organica come Biologismo: Heidegger e la Biopolitica?...............................50
IV. Le Lettere ed il saggio Gestalt......................................................................................................54
1. Lettera al caro signor Groothoff................................................................................................55
2. Lettera al Caro G.......................................................................................................................57
3. »Forma« 1954............................................................................................................................59
V. Conclusioni per chi non smette di camminare...............................................................................62
1. Divergenze Teoretiche................................................................................................................63
2. ...convergenze politiche..............................................................................................................65
3. Trarre Lezioni: pensare (d)a Todtnauberg.................................................................................69
Introduzione
«Di che reggimento siete
fratelli?
Parola tremante
nella notte
Foglia appena nata
Nell’aria spasimante
involontaria rivolta
dell’uomo presente alla sua
fragilità
Fratelli»
~G. Ungaretti; Fratelli, 15 Luglio 1916.
La tesi che segue vuole porsi come una riflessione su quello che, a detta dello stesso Heidegger, è
un confronto fondamentale con l’opera di Ernst Jünger. La complessità di tale confronto è origine di
numerosi problemi che si articolano su più piani.
Vi è innanzitutto la dimensione totalmente atipica entro cui tale Auseinandersetzung si articola: non
siamo di fronte ad un dialogo, né tanto meno a delle semplici citazioni, dei riferimenti sparsi o
all’occasionale attenzione reciproca tra due pensatori. Se escludiamo le significative pagine di Oltre
la Linea, quel che resta è una interpretazione quasi unilaterale, da parte di Heidegger, del pensiero
di Jünger. Tale unilateralità non va intesa nel senso di una scorrettezza ermeneutica da parte del
filosofo, ma va ricondotta invece all’effettiva assenza di una risposta dell’interpretato
all’interpretante: è sempre Heidegger ad essere lettore di Jünger, non avviene il contrario.
Questa asimmetria tra i due, oltre ad avere una motivazione effettiva in quello che è il rapporto
filosofico ed umano tra i due autori, nel presente lavoro è frutto di una scelta ben precisa, di un
“taglio interpretativo” che privilegia e mette al centro Heidegger.
Abbiamo provato a restituire un Heidegger lettore di Jünger per “illuminare” una parte dell’opera
heideggeriana che, a nostro avviso, è rimasta a lungo nell’oscurità. La lunga serie di meditazioni
che ci apprestiamo ad esporre, sono spesso state lasciate in secondo piano, per ragioni di diversa
natura, prima fra tutte la pubblicazione relativamente recente della gran mole di appunti,
annotazioni e saggi dedicate dal nostro filosofo all’opera jüngeriana. Basta sapere che, se per
l’edizione della Gesamtausgabe in tedesco la pubblicazione risale al 2004, per l’edizione italiana,
quella a cui faremo riferimento da qui in poi, l’attesa è durata fino al 2013. Grazie alla traduzione di
Marcello Barison e al lavoro editoriale della Bompiani, abbiamo potuto beneficiare di una versione
italiana di questo grande e fondamentale capitolo del discorso filosofico di Heidegger.
È a partire da ciò che incontriamo un altro problema, forse il più difficile da aggirare ma anche
quello che ci ha spinti a volerci “imbarcare” in questo viaggio: la scarsità di letteratura secondaria
sul tema, oltre a dimostrare la scarsa attenzione di cui sopra, ha reso la lettura dei testi parzialmente
priva di qualsivoglia appiglio esterno. Ciò che rende però tanto appassionante la filosofia è, a nostro
avviso, alle volte proprio la possibilità di guardare ad orizzonti ancora impensati, inesplorati, senza
una stabile sicurezza, affidandoci solo a quella vertigine del pensiero che, ci piace credere, è un po'
la spinta che muove tutto questo. Fatta ovviamente eccezione per alcuni contributi fondamentali sul
tema su cui ci siamo basati, la volontà è qui quella di restituire uno sguardo, del tutto limitato e
parziale, ad un passaggio in un certo senso inedito di quel mare magnum che è l’opera di Heidegger.
Come spesso accade, tuttavia, non è possibile, per ragioni di tempo e per necessità di brevità,
ripercorrere l’intera produzione sulla questione, ci siamo pertanto imposti delle scelte alle volte
dolorose, inutile negarlo.
4
Abbiamo escluso entrambi i bellissimi saggi contenuti in Oltre la Linea: molto è già stato scritto e
detto, il nostro contributo non avrebbe assolutamente aggiunto nulla ad un dibattito intrapreso da
studiosi che, molto più e molto meglio di noi, hanno già abbondantemente percorso questa strada.
Una vicinanza col saggio in questione abbiamo però voluto mantenerla, attraverso la lettura di
Forma 1954, in cui Heidegger cita e si interroga anche su Oltre la Linea.
Assenti anche le note manoscritte sulle copie di lavoro delle opere di Jünger, che richiederebbero un
lavoro filologico a parte, molto più strutturato e specifico.
Il Primo Capitolo è introduttivo, riassume molto brevemente la vita, il contesto e l’opera di Jünger.
Ci siamo limitati ad un analisi specifica de L’Operaio e de La Mobilitazione Totale, poiché sono
questi i testi con cui Heidegger si confronta maggiormente e a partire dai quali sviluppa le sue
riflessioni.
Il Secondo Capitolo è dedicato al Colloquio del 1939/40, un seminario tenuto per pochi studenti e
colleghi di Heidegger all’università di Friburgo. È la parte del volume più leggibile e discorsiva, in
cui l’interpretazione è in forma saggistica, più vicina ad un libro che ad una serie di appunti sparsi.
La ripetitività di alcuni passaggi ci ha imposto un’esposizione alle volte vicina al commento, senza
mai rinunciare, però, alla dimensione teoretica su alcuni passaggi di straordinaria importanza
politica, ontologica, esistenziale.
Il Terzo Capitolo è dedicato alle Annotazioni che aprono il volume, lunghissima serie di piccoli goli
senza una vera e propria struttura discorsiva. Abbiamo tentato di restituire il senso complessivo di
parti di esse, privilegiando una lettura quanto più unitaria possibile, invece che un commento di
ogni frammento, che avrebbe portato ad una scrittura potenzialmente infinita.
Il Quarto Capitolo si sofferma sulla Lettera a Singoli Combattenti, altro momento chiarificatore
dell’interpretazione di Jünger, e sul saggio Forma 1954, che riprende la struttura invece delle
annotazioni. Anche qui valgono le premesse rispettivamente del Secondo e Terzo Capitolo.
Il Quinto Capitolo è dedicato invece alle Conclusioni: molti i temi che richiedono un pensiero
profondo, dal tema della guerra alle vicende politiche dei due autori.
Buona lettura!
5
Ι. Ernst Jünger: breve ritratto
Restituire uno sguardo d’insieme sulla vita, il pensiero e le opere di Ernst Jünger, è impresa ardua
sin dal principio, per molteplici ragioni, di carattere sia filosofico che di ricezione presso il grande
pubblico. Emblematico è, ad esempio, il caso italiano, che approfondiremo in seguito, in cui le
opere dell’autore appaiono tradotte solo in epoca molto tarda, quando già la sua produzione, pur
mantenendo l’importante eredità dei primi lavori, si è orientata verso tematiche e problematiche
molto differenti. O ancora, crea notevoli problemi ed incomprensioni, convincersi di poter
racchiudere la totalità dello sviluppo concettuale delle riflessioni di Jünger nella lettura delle poche
opere di carattere esplicitamente filosofico da lui pubblicate. Anche la lettura che lo rinchiude
esclusivamente nella figura del soldato, del milite che, dopo la battaglia, non esiste più, che si limita
a scrivere cronache dai campi di battaglia, declamando gesta eroiche e nulla più, risulta, a nostro
avviso, un accostamento superficiale a certa altra letteratura di guerra del tempo, ben più retorica,
propagandistica e vuota.
C’è inoltre una ragione, che potremmo qui definire quasi “esistenziale”, che non consente mai di
trattenere, di bloccare o di cristallizzare le posizioni del nostro autore, ed è il carattere di totale
eccezionalità, voluta e fortemente ricercata, non solo delle sue opere e delle vicende in esse narrate,
ma della sua stessa vita: siamo di fronte ad un uomo che ha assunto, alle volte perfino
contemporaneamente, atteggiamenti e posizioni tra loro antitetici, se non addirittura contraddittori,
come appare evidente nel progredire della sua attività letteraria1.
Se leggiamo la prosa fredda, glaciale, inumana nella lucida distanza, quasi ostentata, da ciò che
accade In Stahlgewittern2, scorgiamo delle importanti affinità con, ad esempio, lo stile narrativo di
Auf den Marmoklippen3, essendo entrambi i testi dominati dalla ricerca di un realismo totale e dalla
restituzione plastica degli eventi descritti. Allo stesso modo, però, non lascia indifferenti il radicale
stravolgimento di contesto, dove il passaggio è dalla trincea vissuta ad un paradossale “realismo
surrealista” di un paesaggio che, pur con tutta la forza descrittiva presente nel libro, rimane
comunque completamente frutto della fantasia di Jünger; ancora fa riflettere la decisione finale del
protagonista delle Scogliere, che, all’azione innalzata a categoria suprema delle Tempeste
d’Acciaio, sostituisce il ritiro nella contemplazione della battaglia finale.
Ancora più prepotentemente emergono enormi problemi se ci si avvicina, in maniera attenta e non
superficiale, alle vicende politiche che caratterizzano la vita e l’epoca di Ernst Jünger. Dalla
militanza giovanile in gruppi di estrema destra alla partecipazione all’attentato ai danni di Adolf
Hitler, sono molti gli elementi di incanto e rapida disillusione che scuotono la coscienza politica
dello scrittore di Heidelberg, che in fondo sempre mal digerì l’adesione troppo rigida a gruppi o
correnti precostituite, di volta in volta giudicati volgari, deboli o, comunque, non coincidenti alla
visione jüngeriana del mondo. Il terreno della Rivoluzione Conservatrice, a cui dedicheremo più
ampio spazio tra poco, costituisce uno dei più fertili esempi dell’insofferenza umana e filosofica a
schemi troppo rigidi ma, allo stesso, troppo deboli per ingabbiare l’originalità di Jünger. Tutto ciò
non deve, ovviamente, portare a pensare ad un democratico, un socialista, né tanto meno ad un
liberale: autore di destra, con slanci senza dubbio molto divergenti dalle correnti più tradizionali e
“militanti” del suo tempo, il suo rifiuto dell’ordine vigente non muove da una pretesa anarchica di
messa in discussione, di decostruzione del comando e dell’imposizione, ma anzi spinge verso il
fondamento di una gerarchia nuova, ancora più ferrea e radicale, annullante totalmente l’umanità in
sé stessa4.
1
2
3
4
C. Resta, Ernst Jünger e la Libertà del Singolo, in Nichilismo, Tecnica, Mondializzazione. Saggi su Schmitt,
Jünger, Heidegger e Derrida, Mimesis, Milano-Udine 2013, pp. 61-80.
E. Jünger, Nelle Tempeste d’Acciaio, Guanda, Milano 1990.
E. Jünger, Sulle Scogliere di Marmo, Guanda, Parma 2002.
E. Jünger, L’Operaio. Dominio e Forma, Longanesi, Milano 1984.
6
Abbiamo fin qui molto rapidamente accennato alle immani ed innumerevoli criticità ed aporie in cui
ci imbatteremo nel corso di questo, breve e parziale, ritratto di Ernst Jünger. Lo scopo di questo
capitolo è approfondire alcune di queste criticità, per portare alla luce una piccola parte
dell’universo jüngeriano, potendo così, in seguito, porlo in relazione al suo grande interlocutore,
Martin Heidegger. Anche in questo sta la necessaria limitatezza della nostra prospettiva di ricerca:
l’Auseinanderesetzung tra i due, se teniamo da parte Oltre la Linea, si arresta alle soglie del testo
Der Arbeiter, con qualche appunto sulle Scogliere di Marmo (che escludiamo per motivi di tempo e
di frammentarietà del materiale a disposizione).
Il “ritratto” che qui offriamo è quindi principalmente incentrato sulla fase che va fino all’opera del
1932, tralasciando, non senza dolore, tutta la produzione successiva, su cui ben più completi saggi
sono stati già scritti5.
La pretesa non è perciò né di completezza, né tanto meno di totalità; l’unica volontà è rispondere ad
una semplice ma grande domanda: chi è Ernst Jünger?
5
H. Schwilk, Ernst Jünger. Una Vita lunga un Secolo, Effatà, 2013 per una biografia dettagliata fino all’inverosimile;
L. Bonesio – C. Resta, Passaggi al Bosco. Ernst Jünger nell’Era dei Titani, Mimesis, Milano 2000 per lo sviluppo
del pensiero dell’autore.
7
1. Cenni biografici
Ernst Jünger nasce nel 1895 a Heidelberg, trascorrendo l’infanzia, però, ad Hannover. È del 1911 il
primo approccio alla politica, con l’adesione ai Wandervögel6, gruppo di estrema destra, orientato al
pangermanesimo ed intriso di richiami al romanticismo ed all’idealismo. L’ambiente del movimento
smette molto presto di far presa sul giovane Jünger, così come inizia una radicale insofferenza verso
la casa paterna, insofferenza mossa da una spasmodica, incontrollata e sicuramente anche
incosciente volontà di azione, di immersione profonda nel contesto bellico. Proprio per questo, nel
1913 a Verdun, si arruola nella Legione Straniera, venendo così inviato a combattere in Algeria 7:
l’esperienza lo esalta, la ricerca di uno spazio entro cui sfogare uno spirito elementare, una forza
nascosta ed imprigionata dagli schemi borghesi ed aristocratici in cui si era trovato a vivere fino ad
allora. Il racconto di tutto questo, sebbene scritto solo nel 1936, convergerà nel romanzo Ludi
Africani8, in cui, come suggerisce appunto il titolo, la guerra è un’attività ludica, avvicinata quindi
al campo semantico del gioco, dell’infanzia letta da una prospettiva quasi primitiva, come se il
gioco, al pari della guerra, fosse azione libera dai vincoli di una società che non riesce a
comprenderla fino in fondo, relegandolo alla sfera dell’irrazionale e del non degno di indagine. Ciò
che è chiaramente rivendicato, non solo in queste pagine, è l’originarietà dell’esperienza bellica,
come battesimo alle armi e al fuoco in una catarsi di violenza in grado di soddisfare l’inquieto
spirito di Jünger.
È paradossalmente proprio però il padre a convincerlo a tornare a casa e riprendere gli studi al
Gildemeister Institut di Hannover, dove avviene il primo contatto con l’opera di Nietzsche, filosofo
che segnerà profondamente, forse più di ogni altro, la dimensione teoretica jungeriana.
Non appagato dallo studio e dalla vita di città, Junger si arruola nuovamente nel 1914, quindi a
stretta distanza dall’esperienza precedente , per essere inviato al fronte nel 1915, dove mostra
eccellenti capacità militari, riportando numerosissime ferite e ricevendo diverse promozioni e
onorificenze, come la nomina a capo sezione e subito dopo a tenente; o, ancora, la croce di ferro di
prima classe ed in seguito la più nota croce Pour Le Mérite.
La prima guerra mondiale è l’evento fondamentale nella vita dell’autore, con cui manterrà sempre
un legame fortissimo e da cui dipenderanno tutte le sue riflessioni successive. Oltretutto è un evento
che rimane, per Jünger ma non solo, ineguagliato: l’adesione alla seconda guerra mondiale non è
per lui altrettanto entusiasta né altrettanto determinante. L’immagine che ci viene restituita è quella
di un uomo legato alla prassi ed alle gerarchie militari, che trova il suo personale “senso della vita”
nel fango e nel ghiaccio delle trincee, nei proiettili e nelle armi, nelle battaglie e nelle attese,
nell’assalto e nelle ricognizioni, quindi, fondamentalmente, nella vicinanza alla morte. La
descrizione del silenzio irreale delle notti al fronte si accompagna alla resa limpida del frastuono e
della confusione dei nemici che si fronteggiano, in una prosa che stupisce per la totale mancanza di
qualsiasi giudizio di merito, positivo o negativo che sia. Sono queste le pagine di In Stahlgewittern,
edito nel 1919 a spese dello stesso Junger ancora in fase di guarigione dalle numerose ferite di
guerra, pagine in cui non è rimosso alcun dettaglio del fronte: se da un lato la guerra è celebrata,
d’altra parte si notano immediatamente il gran numero di passaggi cruenti e dolorosi, sulla morte di
compagni, forse anche di amici, di ragazzi gettati in una guerra di cui, fino in fondo, non
comprendono il senso9. Sono forse i minuscoli passaggi in cui, all’adrenalina e all’eccitazione per la
possibilità di gesta eroiche, si sostituisce l’angoscia della morte violenta e la paura del non-senso di
ciò che si sta vivendo10, a mostrarci il dovere di una meditazione profonda su cosa è stata e cosa è la
guerra. Al di là dei giudizi, ciò che in ogni caso rileviamo, è la volontà di Jünger di restituire la
6
7
8
9
10
Jon Savage, L’invenzione dei Giovani, Feltrinelli, Milano 2012.
H. Schwilk, Ernst Jünger. Una Vita lunga un Secolo, pp. 86-89.
E. Jünger, Ludi Africani, Longanesi 1974.
E. Jünger, Nelle Tempeste d’Acciaio, pp. 26-29.
Ivi, pp.6-9.
8
totalità della vita al fronte, senza lasciare da parte nulla, anche ciò che appare più facilmente
criticabile.
Dal 1920 continua la pubblicazione delle sue opere, di quell’anno è La Guerra Come Esperienza
Interiore11, del ‘22 Boschetto 12512 e, a seguire nel ‘23, Fuoco e Sangue 13 nello stesso anno in cui si
dimette dalla Reichswehr e riprende gli studi all’università di Lipsia, concentrandosi sulla biologia,
la zoologia e la filosofia.
Nel 1925 sposa Greta von Jeinsen, da cui ha due figli, Ernst e Alexander, morti entrambi in
circostanze tragiche, su cui torneremo in seguito.
Junger diventa editore della rivista Der Vormarsch nel 1927 a Berlino, negli stessi anni in cui
matura complesse posizioni politiche ed amicizie molteplici e disparate negli ambienti di estrema
destra, tra nazional-bolscevichi, nazionalisti, fascisti e membri dei Freikorps 14. In questo periodo, la
vicinanza è con la Rivoluzione Conservatrice, la cui retorica è quella di un pathos della guerra che
si fissa però alla comunità, intesa come Gemeinschaft di Blut und Boden che, in virtù della propria
conservazione etnico-razziale, si mantiene pura e distinta dalle spinte disgreganti dell’Occidente 15.
Vedremo come la posizione di Jünger in merito sia in realtà ben più oscillante, forse addirittura
confusa.
La pubblicazione nel 1932 di Der Arbeiter, di cui approfondiremo il contenuto nei capitoli
successivi, segna forse il momento di massima ed esplicita adesione al nazionalsocialismo: la prima
copia pubblicata è dedicata e spedita ad Adolf Hitler. Stupisce però la radicalità dei contenuti
dell’opera che, se da un lato richiama sicuramente una retorica fortemente ripresa e radicata in
quello che sarà il Terzo Reich, dall’altro esprime posizioni che mal si sposano con le correnti più
tradizionaliste, romantiche e passatiste dell’elaborazione culturale e propagandistica del Reich.
Oltretutto un programma politico chiaro è del tutto irrintracciabile nelle pagine de L’Operaio, che
mira più alla descrizione, in termini metafisici, della fine di un’epoca e del sorgere di un nuovo tipo
umano, plasmato dall’esperienza della trincea e votato ad una gerarchizzazione della società dai
risvolti anti-democratici, anti-parlamentaristici e, nella loro estrema meta-politicità, quasi antipolitici. Siamo di fronte ad un’opera volutamente inattuale, che mal si presta ad essere semplice
strumento nelle mani del Reich, pur avendo ricevuto inizialmente apprezzamenti ed interesse dallo
stesso Hitler.
Anzi, è proprio da qui che la vita di Jünger subisce alcune delle svolte politiche più importanti ed
estreme, che condurranno il nostro autore a dover convivere con la vicenda tragica della morte del
primogenito: il rapporto con gli alti gradi del Terzo Reich si deteriora molto rapidamente, a partire
da una presa di distanza personale ed interiore dall’hitlerismo. Jünger prova sulla sua pelle la prima,
vera e scottante, delusione politica della sua vita, constatando l’impossibilità della politica hitleriana
di coincidere con la propria personale visione e lettura del mondo.
A tutto ciò si aggiunge il racconto del ‘39 Auf der Marmoklippen, apertamente antinazista che,
sebbene si svolga in un mondo di fantasia, introduce una figura fondamentale, quella del Forestaro,
su cui a lungo si è dibattuto: archetipo del Dittatore, è impossibile non scorgervi il riferimento ad
Hitler16. Tutto ciò, in un regime come quello nazista, non può, ovviamente, avvenire senza
conseguenze.
A gennaio del 1944 il figlio Ernstel viene arrestato con l’accusa di aver pubblicamente criticato il
Führer. L’influenza del padre, che in un primo momento riesce a farlo liberare, non basta però ad
evitare una sorte ben più drammatica: il primogenito gli sarà strappato in Italia, spedito in prima
linea con le truppe corazzate, verso quella che è una morte certa. Sorte beffarda, poiché il racconto
del 1939 si intitola “Sulle Scogliere di Marmo”, ed è esattamente sulle scogliere di marmo che
11
12
13
14
15
16
E. Jünger, La Battaglia come Esperienza Interiore, Piano B 2014.
E. Jünger, Boschetto 125, Una cronaca delle battaglie in trincea nel 1918, Guanda, Parma 1999.
E. Jünger, Fuoco e sangue. Breve episodio di una grande battaglia, Guanda, Milano 2016.
Ernst von Salomon, Freikorps. Lo spirito dei Corpi Franchi, Ritter 2010.
D. Di Cesare, Heidegger e gli Ebrei. I «Quaderni Neri», Torino, Bollati Boringhieri 2016, pp. 102-111.
E. Jünger, Sulle Scogliere di Marmo, Guanda, Parma 2002, pag. 38.
9
troverà la morte il figlio di Jünger17. Seguirà una lunga e straziante ricerca, conclusa solo nel 1955,
per riportare nel cimitero di Wilflingen la salma del ragazzo18.
Dopo lo sbarco in Normandia, Jünger partecipa all’attentato contro il Führer, un fallimento totale,
alle cui conseguenze riesce a scampare solo in virtù del fascino da lui esercitato nelle alte sfere del
Reich. Ciò non impedisce tuttavia che venga espulso per indegnità militare e che gli venga negato
ogni premio o riconoscimento letterario. È lo stesso Goebbels a richiedere, nel ‘45, di tacere sul
cinquantesimo compleanno dell’autore da parte di ogni organo di stampa.
Jünger subisce poi, nel ‘49, anche la proibizione di ogni pubblicazione da parte degli Alleati,
essendo accusato di connivenza con il regime hitleriano. Su tali accuse occorrerebbe meditare a
lungo, per farsi un’idea completa della questione, cosa che non può evidentemente essere fatta in
questa sede. Ci limitiamo solo a rimandare ad alcuni spunti sulla questione, da una parte alla
controversa testimonianza della Arendt19, dal lato opposto al capitolo scritto dalla professoressa
Donatella Di Cesare20, in merito all’antisemitismo di Jünger, in cui vengono evidenziate posizioni
molto più gravi rispetto alla semplice “gravitazione” attorno al mondo nazionalsocialista,posizioni
più intime, personali, ma non per questo meno feroci, che pescano a piene mani dalla più bieca
retorica antisemita del tempo.
Dal 1950 Jünger si ritira in Alta Svevia, fino alla fine dei suoi giorni, dedicandosi ad interessi
privati, alla scrittura ed alla filosofia.
Nel ‘59, assieme all’amico Mircea Eliade, fonda la rivista Antaios e l’anno dopo avvia la
pubblicazione delle sue opere complete. È invece del ‘77 il romanzo Eumeswil.
Quasi a voler sottolineare comunque la persistenza del suo animo ribelle, sperimenta l’LSD assieme
all’amico chimico Hoffmann.
Riceve nel 1982 il Goethe Preis.
La drammatica scomparsa dell’altro figlio avviene nel ‘93, Alexander muore suicida a seguito di
una paralisi e della depressione che ne consegue21.
Muore a Riedlingen nel 1998, all’età di ben 103 anni.
17
18
19
20
21
E. Jünger, Irradiazioni, Diario 1941-1945, Longanesi, Milano 1995, pag. 361.
A. Gnoli, F. Volpi, I Prossimi Titani. Conversazioni con Ernst Jünger, Adelphi, Milano 1997, pag. 113.
H. Arendt, I Postumi del Dominio Nazista: Reportage dalla Germania, Feltrinelli, Milano 2003, pp. 22-43.
D. Di Cesare, Heidegger e gli Ebrei. I «Quaderni Neri», pp. 144-150.
Intervista al Der Spiegel del 27.03.1995.
10
2. Die Konservativ Revolution: tra le pieghe di un ossimoro
Definizione complessa, etichetta forse eccessivamente rigida, la Rivoluzione Conservatrice è frutto
di un contesto storico-culturale ben preciso e della convergenza di vari e molteplici elementi
fortemente radicati nella tradizione popolare tedesca che, per tale ragione, affascinano un gran
numero di pensatori ed autori. Autori che però, molto spesso, hanno ben poco in comune, eccetto
una vaga e lontana, per dirla con Wittgenstein, aria di famiglia.
Partiamo però dalle somiglianze, che sono molto più generali e rapide da trattare, ma efficaci per
inquadrare, almeno politicamente, le relazioni che sussistono tra gli esponenti di tale Rivoluzione e,
allo stesso tempo, per far emergere un’altra immensa quantità di nuovi interrogativi. Cosa hanno in
comune Werner Sombart, Oswald Spengler, Moeller Van Der Brucke, Carl Schmitt, Martin
Heidegger, Ernst Jünger, per citare i più noti? Sono tutti autori o pensatori non di sinistra, nel senso
di un radicale rifiuto per le forze progressiste e per quello che, un po' retrospettivamente, potremmo
definire il centro-sinistra.
Non possiamo però spingerci oltre: già scavando leggermente, appaiono altri nomi che limitano
fortemente le possibilità di fornire una definizione politica comune. Possiamo forse dire che un
carattere della Rivoluzione Conservatrice sia l’anti-liberalismo, quando tra le sue, più o meno
“reali”, fila annoveriamo Thomas Mann? O ancora, possiamo parlare di anti-bolscevismo, se
includiamo Ernst Niekisch che, malgrado la distorsione profonda adoperata sul comunismo russo,
non aveva invece problemi a definirsi nazional-bolscevico?
Uscire da questi interrogativi non è affatto semplice se prima non si comprende il contesto storico
della Germania entro cui tale Rivoluzione Conservatrice sorge, il passato da cui eredita alcune
parole chiave, il presente verso il quale elabora degli “atteggiamenti” critici ed, in un certo senso,
difensivi, reazionari nel senso letterale del termine22.
In Germania il passaggio da un’economia agricola al capitalismo industriale è rapido e precipitoso,
eppure i suoi effetti rimangono, almeno momentaneamente, contenuti. Ciò avviene, essenzialmente,
grazie alla politica di Otto Von Bismarck, che incontra una larga base di consensi, in virtù di
importanti riforme sociali e di un forte benessere materiale, il tutto all’interno di un paese
militarmente protetto, industrialmente sviluppato e culturalmente florido. L’uscita di scena di
Bismarck, pur portando importanti consensi all’opposizione socialdemocratica, non modifica
l’orientamento ideologico del governo successivo, che rimane sostanzialmente conservatore, con
l’appoggio del clero cattolico, di liberali di destra e del Kaiser.
Il punto di rottura è rappresentato però dalla Prima Guerra Mondiale, da cui la Germania esce
pesantemente sconfitta: indennità militari, devastazione, abbattimento morale sono tutti fattori che
rendono già ardua in partenza la costruzione di una democrazia. Nonostante l’esilio del Kaiser
Guglielmo II e le importanti istituzioni democratiche che la Repubblica di Weimar eredita
dall’Impero Prussiano, nel paese domina il risentimento e la nostalgia per l’amore romantico, le
sicurezza sociale, l’unità di suolo e sangue, l’antisemitismo sono eredità del prussianesimo, molto
più pesanti e radicate. Weimar non basta per una nazione sconfitta, in crisi, con tassi di
disoccupazione altissimi e con reduci di guerra che affrontano drammi psicologici inconcepibili23.
È in questo contesto storico che si sviluppa ed attecchisce la Konservativ Revolution, che trova la
sua ragion d’essere nella nostalgia per un passato perduto come risposta alla decadenza della
democrazia di Weimar. La volontà di riconquistare una presunta tradizione perduta, conservata nel
segreto del sangue e preservata dall’unità della comunità di popolo, è un violento atto d’accusa
contro la razionalità illuministica e cosmopolitica occidentale. L’atteggiamento comune è quello di
un Kulturpessimismus, una perenne e sistematica delusione intellettuale, che evoca la profonda
interiorità della Kultur in contrapposizione al materialismo delle società industriali, esteriore e privo
22 S. Breuer, La Rivoluzione Conservatrice. Il pensiero di Destra nella Germania di Weimar, Donzelli, 1995.
23 R. Magro, Cuore di Soldato. Emergenze, Traumi, Risorse, Psiconline, 2012.
11
di Storia24. Riecheggia costante il tema dell’etno-nazionalismo, in una Heimat che è Patria, Suolo e
Sangue. Il carattere ossimorico della Konservativ Revolution è più chiaro, alla luce di tutto ciò: la
Kultur a cui si rifanno è reazione, alle volte passatismo o comunque nostalgia ma, per gli esponenti
di tale tendenza, in un mondo dominato dal progressismo, recuperarla è un atto rivoluzionario.
Tutto questo si accompagna ad un evidente tentativo di andare oltre le categorie “destra-sinistra”,
“socialismo-nazionalismo” per fondare un ordine nuovo, che sia però saldamente ancorato al
passato, al concetto di Nazione ed all’eccezionalità tedesca rispetto al mondo.
In questi principi è impossibile non riconoscere i motivi ispiratori dell’impianto concettuale del
regime nazista, che ha eletto questo vario e complesso universo a proprio strumento di propaganda,
ricavandone slogan, manifesti ed espressioni ricorrenti e martellanti, ma soprattutto traducendo il
tutto nella pratica di sterminio più efferata della storia dell’umanità.
Nel progredire del predominio nazista, si verifica tuttavia un progressivo allontanamento degli
intellettuali coinvolti nella Rivoluzione Conservatrice dal Partito Nazista: Carl Schmitt rappresenta
un’esemplificativa eccezione, forse il più fedele all’apparato del Hitler, sicuramente il più
“integrato” nel sistema nazista. Sul versante opposto si situa proprio il nostro Ernst Jünger, che
all’iniziale speranza in una vittoria della croce uncinata, di cui condivide inizialmente la retorica e
le aspirazioni, sostituisce prima la critica all’ipocrisia nazionalsocialista attraverso semplici articoli,
per poi approdare alla congiura vera e proprio contro Hitler, con l’intenzione di levare per sempre di
mezzo una politica che aveva perso la sua (presunta ed illusoria, aggiungiamo noi) potenzialità
rivoluzionaria.
In seguito capiremo quanto, in realtà, l’opera Der Arbeiter sia lontanissima da molte rivendicazioni
della Konservativ Revolution: la sua critica senza appello al passatismo ed al romanticismo, ma
anche e soprattutto la complessità del rapporto con la Zivilisation, con la tecnica, col mondo
industriale e con le spinte del progresso, sono aspetti che mal si sposano con quella Kultur
precedentemente delineata.
Ben più attinente all’orizzonte concettuale della Rivoluzione sembra essere, invece, la feroce
polemica anti-borghese che anima tutta l’opera di Jünger, insofferente ad un mondo che ingabbia la
forza selvaggia ed elementare del combattente. Basta però spostarsi di poco per veder cadere
rovinosamente queste deboli convergenze, essendo la critica jüngeriana orientata contro la sicurezza
del vivere borghese, che elimina dall’orizzonte vitale la possibilità della guerra e con questa della
morte25, sicurezza invece ricercata da altri intellettuali nella stabilità del passato e non di certo sul
campo di battaglia. Anche in questo caso, la distanza dalle correnti più tradizionaliste è quantomeno
varia ed oscillante.
24 E. D’Annibale, «Auf den ‘italienischen’ Marmorklippen». Ernst Jünger in Italia, in Studi Germanici n. 11, Istituto
Italiano di Studi Germanici, Roma 2017, pag. 229.
25 E. Jünger, Sul Dolore, in Foglie e Pietre, Adelphi, Milano 1997.
12
3. Sulla “questione” italiana
Dedicare qualche riga alla diffusione in Italia dell’opera di Jünger non è affatto un’esigenza di
semplice ordine metodologico o di rigore bibliografico; consente invece di affrontare almeno due
nodi cruciali, riguardanti l’accesso al pensiero dell’autore e l’orizzonte politico entro cui è
tradizionalmente stato letto. Ripercorrere la vicenda italiana ci aiuta anche a giustificare e
comprendere il motivo di certi ritardi in rapporto ad un intellettuale che, malgrado tutto, già aveva
una notorietà internazionale di un certo livello.
I libri di Ernst Jünger sono pubblicati in Italia, inizialmente, soltanto da Longanesi e da piccoli
editori di destra (se non esplicitamente neo-fascisti) come Il Borghese e Il Settimo Sigillo, che
ovviamente ne influenzano la lettura. Bisogna attendere gli anni ‘70 per una diffusione più estesa e,
in un certo senso, riabilitata presso il grande pubblico, ad opera di Guanda, Rusconi e, in misura
maggiore, di Adelphi. A tale processo di progressiva “normalizzazione” dello scrittore
contribuiranno poi altri eventi, come l’amicizia con Alberto Moravia e la dedica, da parte del critico
d’arte Achille Bonito Oliva, della Biennale di Venezia del 1993. Non mancheranno mai le
polemiche, come testimonia un’appassionata difesa di Jünger da parte di Franco Volpi, dopo le
critiche a Massimo Cacciari per averlo invitato a Venezia, di cui all’epoca era sindaco26.
Al di là degli sviluppi più recenti e del dibattito pubblico, la prima apparizione in Italia del nome di
Jünger risale al 1935 e riguarda proprio Der Arbeiter: non si tratta però di una traduzione, per la
quale si dovrà attendere addirittura il 1985, ma di un commento presente in Studi Germanici, la
rivista dell’Istituto Italiano di Studi Germanici. L’Istituto, fondato nel ‘32 da Giovanni Gentile,
possiede dal ‘35 la sua rivista, attiva fino ai giorni nostri, in cui professori, ricercatori e studiosi
scrivono di filosofia, arte, linguistica e letteratura, in relazione, ovviamente, al mondo tedesco. Ed è
proprio qui che appare, sul primo numero della rivista, a firma di Delio Cantimori, al tempo giovane
intellettuale, l’articolo “Ernst Jünger e la Mistica Milizia del Lavoro”27.
Già il titolo dell’articolo stupisce per la traduzione della parola tedesca Arbeiter con “Mistica
Milizia del Lavoro”, che si alterna, nel corso della scrittura, con la traduzione, molto più equilibrata,
in Lavoratore o, al massimo, Operaio: arbeiten è infatti il verbo tedesco per “lavorare”, quindi, con
l’aggiunta del suffisso -er, che in tedesco è quasi sempre maschile ed indica una mansione, un ruolo,
una professione, al nome Arbeit, la parola dovrebbe suonare più o meno come colui-che-lavora.
Adattandola quindi all’uso comune, in italiano diremmo Lavoratore, più specificatamente Operaio
solo se in relazione al contenuto del libro.
Lo stile dell’articolo risente ovviamente delle influenze del tempo - è noto come la rivista fosse,
all’epoca, dipendente direttamente dal Partito Nazionale Fascista -, tuttavia la lettura risulta
piuttosto agevole, soddisfacente ed esaustiva; d’altronde la conoscenza di Cantimori dell’opera di
Jünger non si limita al singolo volume, dimostrandosi invece ben più ampia ed articolata. La
confidenza con altri concetti del pensiero jüngeriano è evidente e rende la trattazione davvero molto
specifica ed in linea, pur nella sua brevità, con tutti gli aspetti salienti del testo originale del Der
Arbeiter ma anche con tutti i risvolti esterni ad esso. Il tentativo è quello di ripercorrere, seppur in
maniera riassuntiva, la struttura del testo, restituendone il messaggio centrale.
La recensione procede inizialmente con un tono entusiastico, del resto il giudizio di Cantimori è
fondamentalmente positivo. Sul finale, tuttavia, non manca una nota critica ma, in parte, fondata:
per l’autore dell’articolo, Jünger «è un letterato che si lascia prendere dalla “bellezza” di un’idea,
più che un filosofo […] ci spiega tanti concetti originali […] senza però né chiarirli né svolgerli. Gli
basta l’evidenza della formulazione, la durezza apodittica che esige meditazione28».
26 F. Volpi, Jünger Presunto Nazista, La Repubblica, 11.02.1995.
27 D. Cantimori, Ernst Jünger e la Mistica Milizia del Lavoro, in Studi Germanici n. 1, Sansoni Editore, Firenze
1935, pp. 73-92.
28 Ivi, cit. pag. 92.
13
Innegabilmente Cantimori apre allo studio di Jünger in Italia, sebbene il suo appello rimanga
inascoltato fino al 1940, quando la seconda edizione del Cuore Avventuroso stuzzica l’attenzione di
Giaime Pintor: conoscitore del lavoro di Cantimori sul tema e, quindi, conscio anche
dell’arretratezza italiana29, decide di pubblicare le traduzioni del volume sulla rivista La Ruota,
mensile finanziato direttamente dal PNF, isolando sette frammenti dell’edizione originale del 1938.
A partire dalla traduzione di Pintor e, più in generale, da quell’anno 1940 cominciano le vere
testimonianze di una specifica volontà di pubblicazione di Jünger, da parte di una delle più
importanti case editrici, la Mondadori. In particolare, iniziano a circolare diversi pareri di lettura su
Auf Den Marmorklippen30. I primi pareri sono tutti non firmati, se non addirittura non datati;
l’autore è definito pericoloso per via della sua critica al Forestaro, ma più in generale ai regimi
dittatoriali compreso, quindi, quello italiano. I due pareri fondamentali, però, sono quelli di Giuliana
Pozzo e di Lavinia Mazzucchetti: la prima critica senza possibilità d’appello il libro «ambizioso e
pretenzioso, di nessun significato sia nel campo filosofico che in quello poetico 31», delegando poi la
decisione alla Mazzucchetti. Quest’ultima non ha un parere tanto differente dalla collega, lascia
però aperta la possibilità di una traduzione in italiano, pur sconsigliando il libro, da un punto di
vista sia commerciale che personale e letterario.
A tradurre e curare il testo sarà Alessandro Pellegrini, che decide di riunire, accanto alle Scogliere,
altri volumi precedenti, in modo da ripercorrere parzialmente l’evoluzione stilistica e concettuale di
Jünger. Siamo ormai nel 1942 quando l’opera diviene accessibile al grande pubblico, subito però
accolta da una stroncatura della Mazzucchetti, che continuerà con un incessante critica ed un
accanimento senza tregua verso l’opera, non solo dello scrittore, ma anche del traduttore Pellegrini.
Arrivando a dare a Jünger del doppiogiochista che era uscito dalla guerra senza sofferenza alcuna 32,
l’ingiustificato astio della germanista dimenticava perfino la morte del figlio Ernstel, un dolore che
è diretta conseguenza della guerra, il dolore di chi resta, privato di una persona cara, di un figlio.
Una tragedia che lasciò segni indelebili nella vita di Jünger, che fu pur sempre un padre, al di là di
tutto.
Gli anni successivi vedono un quasi costante ed unanime giudizio negativo33, che rallenta
ulteriormente la diffusione in Italia. Bisognerà, come già detto, attendere gli anni ‘70 per una
pubblicazione più diffusa e plurale. Anche se la strada, a quel punto, era già stata aperta…
29
30
31
32
33
Giaime Pintor, Capricci e Figure, in «La Ruota», s. III, Giugno 1940, pp. 139-145.
Archivio Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, Fondo Pareri di Lettura.
Ivi, Giuliana Pozzo su Ernst Jünger, parere del 27.07.1940.
L. Mazzucchetti, Wiechert – Carossa – Jünger, in «Il Ponte» n. 3, Aprile 1947, pp. 336-344.
J. Evola, L’Operaio nel Pensiero di Ernst Jünger, Mediterranee, Roma 1998, pag. 38 o W. Kaempfer, Ernst Jünger,
Il Mulino, Bologna 1991.
14
4. Der Arbeiter, il Maschine-werden del Soldato
Possiamo ora addentrarci più a fondo nell’opera centrale di questa tesi, il testo privilegiato della
riflessione di Heidegger sull’opera jüngeriana.
Der Arbeiter34 è il primo vero, grande saggio di carattere filosofico scritto da Jünger. Innegabile la
difficoltà di lettura, dovuta ad uno stile di scrittura fortemente personale, più vicino all’ambito
letterario che alla filosofia, condensato però in forma saggistica. Le quasi trecento pagine che
compongono il volume, pur non essendo esattamente scorrevoli, sono però interessanti per almeno
due motivi: in prima istanza per la lucida descrizione di un mondo che si avvia verso il dominio
della tecnica, in cui nessun processo può più sottrarsi ad un destino di produttività inevitabile.
Oltretutto, tale descrizione, se letta oggi, appare inquietante nel suo essere estremamente attuale.
Fondamentale, per comprendere correttamente Der Arbeiter, l’idealmente precedente breve saggio,
intitolato La Mobilitazione Totale35 che, oltre ad indicare chiaramente l’avvento di una nuova epoca,
ne delinea la direzione, le modalità di dispiegamento, le caratteristiche contestuali.
Anche qui la centralità dell’esperienza della guerra regge l’intera riflessione di Ju:nger che, tuttavia,
non è solo nell’accorgersi di essere di fronte ad un evento senza precedenti, che rivoluzionerà per
sempre non solo il modo di combattere, ma lo stesso modo di produrre, di consumare ed essere
consumati, di vivere e di morire, di esistere. È anche bene segnalare due limiti fondamentali di
questa analisi, partendo da un problema ideologico: Jünger non sbaglia nel rilevare la piena
disponibilità dell’apparato produttivo occidentale alla Prima Guerra Mondiale, le massicce
potenzialità distruttive aperte dalla tecnica offrono uno spettacolo mortifero senza precedenti,
almeno per l’umanità europea, oltretutto inscritto in un mondo industriale completamente lanciato
verso tale scopo. Ciò che, tuttavia, va notato è un certo etnocentrismo dell’analisi jungeriana, che
forse dimentica di menzionare l’altrettanta disponibilità distruttiva che l’imperialismo aveva
diffusamente dimostrato durante le guerre coloniali36. Unica differenza, l’evidente disparità di mezzi
ed il tentativo silenzioso e subdolo di relegare questi episodi storici ai margini della Storia, poiché
fuori dall’Europa.
Altrettanto ideologica è la convinzione jüngeriana della piena partecipazione ideologica della
gioventù europea, nella sua interezza, a tale inedita guerra37. Per Jünger la guerra del 14-18 è stata la
prima grande guerra popolare, in cui gli eserciti sono mossi da una volontà comune, pienamente
convinti di far parte di un unico grande organismo mosso da uno scopo unico 38. La piena organicità
all’ideale bellico, data per scontata dall’autore, è quantomeno un azzardo, se non una totale
distorsione, dovuta ad una lettura parziale del reale vissuto di tutti i giovani mandati in trincea. Se
senza dubbio esiste ed è documentata una forte propaganda che precede, accompagna e succede la
Prima Guerra Mondiale, ciò non fa dimenticare il sentimento di terrore, paura e disperazione che
attanaglia i giovanissimi chiamati al fronte. Ciò riguarda specialmente i poveri, gli ultimi, gli
sfruttati, che certamente non sono partecipi della ricerca di eroismo e di onore tanto declamata.
Ciò che va tenuto fermo della Mobilitazione Totale è però ciò che immediatamente si collega anche
a Der Arbeiter, cioè la convinzione jüngeriana di trovarsi alle soglie di un cambiamento epocale, in
un’era totalmente orientata alla guerra, a cui non vi è possibilità di opporsi. Da qui, la condanna al
romanticismo visto come un tentativo di fuga, inadeguato e sciocco, rispetto all’emergere di una
nuova umanità39, che si accompagna alla coscienza della inadeguatezza filosofica della Germania
stessa, che parte per Jünger già sconfitta, rispetto alle potenze del blocco occidentale. Tale coscienza
pesca a piene mani in una delle opposizioni più caratterizzanti la Konservativ Revolution, ovvero
34
35
36
37
E. Jünger, L’Operaio. Dominio e Forma, Longanesi, Milano 1984.
E. Jünger, La Mobilitazione Totale, in Foglie e Pietre, Adelphi, Milano 1997.
V. I. Lenin, L’Imperialismo Fase Suprema del Capitalismo, Lotta Comunista, 2002.
F. Croci, Parole in Trincea. La Memoria della Grande Guerra nelle Testimonianze Scritte dei Soldati,
Novecento.org n. 6, Luglio 2016.
38 E. Jünger, La Mobilitazione Totale, pag. 121.
39 E. Jünger, L’Operaio. Dominio e Forma, pp. 48-54.
15
quella tra Kultur e Zivilisation: di origine incerta, ma esplicitatamente formulata da Thomas
Mann40, tale coppia concettuale mira a definire due orizzonti di senso antitetici.
La Kultur è interiorità, spirito, antichità, storia e tradizione, è suolo e sangue, misticismo,
irrazionalità, pangermanesimo, è una forma di pensiero collettiva che si fonda nell’eredità del
Passato, ed è appunto incarnata dalla Germania.
La Zivilisation è tutto l’opposto, esteriore, materiale, totalmente moderna, senza storia, senza
tradizioni, vive dell’eterno presente della razionalità, della tecnica, dell’industrializzazione votata al
nichilismo e dello sradicamento dalla comunità nazionale. Ed è quindi incarnata dal blocco
Occidentale, con Inghilterra e Stati Uniti in prima fila.
A scontrarsi sono due universi valoriali, il primo visto come strenuo oppositore al secondo. In tale
lettura Ju:nger si inserisce perfettamente, rivoluzionandone però gli esiti attraverso un moto antinostalgico, anti-romantico e meta-politico. Ne l’Arbeiter la Zivilisation trionfa sempre, anzi ha già
trionfato ed è destinata a continuare a farlo, poiché è, delle coppia di cui sopra, l’unica a mobilitare
dei valori in cui è più facile riconoscersi, come ad esempio la libertà, i diritti, l’uguaglianza, la
democrazia, rappresentati, in buona sostanza, da quello che si configura come il vero grande nemico
dell’universo conservatore-rivoluzionario, il progresso. Per Jünger il progresso mobilita e coinvolge
l’umanità più e meglio della Kultur41, è un’onda inarrestabile che ha tutti i vantaggi che la Germania
non può invece incarnare. La Germania parte già sconfitta, ma qui sta la posizione radicale
contenuta ne L’Arbeiter: questo inconfutabile fatto non è, in Jünger, un dramma sufficiente ad
oscurare la grande opportunità che la Zivilisation porta con sé, che non è, però, quello sventolato
dai democratici, dai socialisti o dai progressisti in generale. La possibilità, ormai in realtà già
completamente dispiegata, della nuova epoca che sorge dalla Zivilisation, consiste nella rottura con
ogni forma politica precedente, in particolare la distruzione dell’ordine aristocratico-borghese, che
imprigiona la forza dell’elementare, l’energia originaria e totale, il moto violento della guerra e,
soprattutto, del soldato42.
Questa Civilisation non è però astratta ed indeterminata, ma è evidentemente quella che convoglia
tutti i suoi sforzi nel campo di battaglia, nella costruzione di macchine di morte precedentemente
inimmaginabili. È il progresso messo in moto dalla e per la guerra a dispiegare la reale dimensione
della nuova umanità jüngeriana. Solo il fuoco della trincea può forgiare il nuovo tipo umano.
L’Arbeiter è il Tipo della nuova umanità, quindi di un nuovo ordine, quell’ordine che la democrazia
ed il liberalismo non erano riusciti a garantire, un ordine che deve per forza rompere per sempre con
i valori del passato, poiché, questi ultimi, saranno comunque spazzati via, pur con tutta la carica
“catecontica” della Kultur. Esempio dell’estrema forza di tale posizione sono le righe dedicate al
mondo rurale, spesso celebrato come rimasuglio di purezza in un mondo dominato dalla tecnica,
che però in Jünger non trova alcuna salvezza. Nelle pagine de L’Operaio si dice che la lotta dei
contadini è senza dubbio appassionante, ma totalmente futile, sconfitta in partenza: il contadino è
già un agricoltore, un tassello della catena produttiva industrializzata, non gode di certo di uno
statuto speciale, ma è anzi, come tutti, già sottoposto al dominio incondizionato della tecnica 43. La
scelta allora è tra scomparire o conformarsi a tale tendenza.
Il Tipo è chi asseconda talmente tanto la tendenza alla razionalizzazione da dominarla, arrivando a
dominare il mondo stesso nella sua interezza. La Tecnica è il mezzo per fare ciò, per lasciare libero
e senza confini questo particolare modo della Volontà di Potenza, nella sua versione bellica e
meccanica. Tale processo di dominio da parte del Tipo mediante la Tecnica, è chiamato, da Jünger,
Gestalt ovvero Forma44. La Forma è quindi, in un certo senso, la Volontà di Potenza jüngeriana.
40
41
42
43
44
T. Mann, Considerazioni di un Impolitico, De Donato, Bari 1967.
E. Jünger, L’Operaio. Dominio e Forma, pp. 19-31.
C. Resta, Ernst Jünger e la Libertà del Singolo, pp. 62-64.
E. Jünger, L’Operaio. Dominio e Forma, pp. 36-38.
Ivi, pp. 31-38, pag. 141, pag. 169.
16
Interessante come, sia in Nietzsche che in Jünger, si passi sempre attraverso una trasvalutazione dei
valori per approdare, poi, ad un nuovo Tipo umano45.
Con l’introduzione del Tipo dell’Arbeiter vengono fuori quelli che, almeno per l’autore, sono i
limiti sia del socialismo, sia della borghesia: se la seconda, come abbiamo già detto, ingabbia
tramite la razionalizzazione l’avvento del nuovo Tipo umano, senza di fatto riuscirci, il problema
del socialismo è ancora più peculiare. Il termine Operaio rappresenta per Jünger un concetto che
prende le distanze dalle determinazioni economicistiche del marxismo, non essendoci in esso alcuna
dimensione di classe. Il Lavoro è certamente, nel nostro autore, il modo supremo di vita dell’ordine
nuovo, ma non si carica mai di interrogativi sullo sfruttamento, sui rapporti col Capitale,
sull’emancipazione delle classi, appunto, lavoratrici. Questo, oltre che per ovvie questioni di storia
politica e di posizionamento, rivela la chiave di lettura della realtà jüngeriana, improntata alla
metafisica, con la convinzione che sia già sempre una componente più alta a determinare
l’economia, e non viceversa46. Il rapporto struttura-sovrastruttura del marxismo è qui ribaltato, in
nome di una maggiore totalità della figura de L’Operaio, equidistante sia dal liberalismo che,
appunto, dal socialismo.
È, quindi, anche la Società Nuova, che secondo Jünger sta sorgendo, a dover incarnare un
superamento simultaneo sia del liberalismo, sia del socialismo, per raggiungere invece quella,
onnipresente nel testo, Totalità, in questo caso Politica. Tale superamento è automatico, avviene
anch’esso grazie alla Tecnica che porta con sé il dominio dell’impersonalità: non c’è più spazio per
l’individualità, l’originalità, la particolarità, nel nuovo Ordine domina la neutralizzazione del
sentimento, l’inumanità, l’assenza di emozioni e di slanci che non siano protesi all’uniformarsi al
Tipo47. In questo modo dovrebbe essere lasciata da parte anche la distinzione tra individuo e massa,
residui del liberalismo e del socialismo48, poiché l’unica domanda possibile diventerebbe: quanto
incorporo l’organicità al Tipo49?
La massima adesione al Tipo passa attraverso tre caratteristiche50: il rapporto col mondo diventa
esclusivamente rapporto con il mondo dei materiali, vero spazio elementare dell’Operaio, come
spazio manipolabile mediante la Tecnica; la libertà è adesione massima al Tipo, come liberazione
dalla sicurezza e, più in generale, dalle libertà negative; l’unico modello di legittimazione del Tipo è
l’esercizio incondizionato della Potenza. L’Arbeiter, quindi, come uomo-macchina, in relazione
esclusiva con la tecnica, votato, mediante essa, al dispiegamento della propria potenza, con il
dovere costante di conformarsi, quanto più possibile, al Tipo.
La Società di questo Tipo, che nasce dalle macerie della democrazia liberale e dalla sua
impossibilità storica di fondare un ordine porta, per Jünger, alla prima Forma Politica realmente
improntata alla Totalità, la cosiddetta Herrschaft, la Forma del Dominio51. Tutto qui ritorna su di sé,
la Gestalt del Tipo coincide con la Gestalt Politica, ed è in entrambi i casi nel segno del Dominio,
mediante la Tecnica, dell’interezza del Mondo e dell’Umanità. Tale espressione costante di Potenza
confluisce in un ordinamento che è, ovviamente, gerarchico, come in una universalizzazione di
quella che è la prassi militare, anti-democratico, poiché il dissenso non è nemmeno pensabile, ed
organicistico, poiché la differenza tra individuo e collettività è rimossa e non ha più motivo di
esistere. L’approdo è alla Arbeitsdemokraite, la Democrazia del Lavoro. L’Arbeit diventa unico
orizzonte a cui ogni sforzo è proteso52.
45
46
47
48
49
50
51
52
K. Löwith, Il Nichilismo Europeo, Laterza, Roma-Bari 1999, pag. 95.
C. Resta, Ernst Jünger e la Libertà del Singolo, pag. 63.
E. Jünger, L’Operaio. Dominio e Forma, p. 102.
Ivi, pp. 89-109.
Ivi, pp. 124-128.
D. Cantimori, Ernst Jünger e la Mistica Milizia del Lavoro, pag. 80.
Ivi, pp. 78-79.
E. Jünger, L’Operaio. Dominio e Forma, pp. 217-247.
17
Riassumere in poche pagine il contenuto di un’opera così complessa non è, ovviamente, compito
semplice. Ci basta però qui aver tracciato delle linee, degli orizzonti di senso, delle semplici
suggestioni che consentano anche solo di intuire cosa Jünger avesse in mente, quando scrisse Der
Arbeiter.
Tutto ciò perché, a breve, introdurremo il vero protagonista di questa tesi.
Anche lui però, come noi, si è trovato di fronte, necessariamente, il libro Der Arbeiter e, per poterlo
commentare, riempirlo di appunti e di annotazioni, per poter in seguito discutere con Jünger stesso,
ha dovuto leggerlo e pensarlo. Abbiamo tentato di facilitare quest’ultima parte, per poterci gettare
pienamente nel cuore delle meditazioni su Jünger di Martin Heidegger.
18
ΙΙ. Freiburg 1939/40: i Colloqui su Jünger
Scambio, confronto, scontro.
È questo o altro il rapporto che intercorre, nel pensiero del filosofo di Messkirch, con lo scrittore di
Heidelberg?
Per tentare di rispondere dobbiamo tenere ben ferme alcune coordinate fondamentali, filosofiche ma
anche umane, senza le quali sarebbe impossibile comprendere il contesto entro cui avviene la lettura
heideggeriana di Jünger.
Ciò che colpisce immediatamente è la notevole e molteplice distanza tra i due: da un lato, come
precedentemente illustrato, abbiamo un “Cuore Avventuroso”, un uomo d’azione che, pur con tutte
le sue complesse sfumature, trova il proprio personale senso della vita nella guerra, nel fascino della
trincea, nella vicinanza, prima di tutto fisica, alla morte; dall’altra parte, invece, Heidegger è un
uomo ben più pacato, affascinato molto più dal pensiero che dall’azione, innamorato della filosofia
più che delle mitragliatrici. Già pensando all’occasione per la quale viene scritto il breve Perché
Restiamo in Provincia?53, o ai corsi di lezione in cui viene delineato “l’Avventuriero Planetario 54 si
intuisce la distanza del pensiero heideggeriano da qualunque ricerca avventurosa.
Basta confrontare le due biografie per trovarsi di fronte a percorsi di vita antitetici, storicamente
affini nella loro contemporaneità cronologica ma che, di fronte ai medesimi eventi, percorrono
strade opposte. Più di ogni altra, emblematica appare l’esperienza della guerra: dura solo 2 mesi la
prima permanenza di Heidegger nell’esercito, congedato per motivi di salute ad ottobre 1914.
Richiamato alle armi nel 1915, non vedrà mai il fronte, prestando servizio prima come postino della
corrispondenza militare e, in seguito, nel servizio meteorologico di Verdun, fino al 191855.
La Prima Guerra Mondiale, l’esperienza che vale a Jünger 14 ferite e la croce Pour Le Merité, fonte
primaria di tutta la sua produzione letteraria, è per Heidegger, tutt’al più, un intermezzo marginale
di una vita che, in quel 14-18, si compone di episodi fondamentali ma lontani, non solo
geograficamente, dal fronte56.
Oltre alle vicende biografiche, asimmetrica è anche l’importanza che hanno l’uno per l’altro i due
autori: il ruolo cruciale che, come leggeremo tra poco, svolge, nel pensiero di Heidegger, Ernst
Jünger, non è speculare nel pensiero di quest’ultimo. Quasi in una sorta di “amore” non corrisposto,
la vicinanza più forte, dirà Jünger, è con Carl Schmitt, il giurista del Reich, non con il professore di
Friburgo57.
In tale ottica si comprende la scarsità di occasioni di confronto tra i due, dal punto di vista
bibliografico limitate alle poche seppur memorabili battute di Oltre la Linea 58 ed alla
corrispondenza privata tra i due59. Da segnalare anche gli incontri a Todtnauberg, luogo leggendario
sul quale Jünger tuttavia ironizza, come a voler sminuire “l’aura” misticheggiante e quasi sacra
della valle60.
Ben più corposa invece la quantità di scritti, annotazioni ed appunti che Heidegger raccoglie sul
pensiero di Jünger: è uscito nel 2004 Zu Ernst Jünger 61, la raccolta di tutte le annotazioni, gli
appunti ed i brevi scritti che il filosofo gli ha dedicato. Per una versione in italiano, quella a cui
faremo riferimento nelle restanti pagine di questa tesi, abbiamo dovuto attendere fino al 201362.
53
54
55
56
57
58
59
60
61
M. Heidegger, Perché restiamo in Provincia?, in Tellus n. 8, 1992.
M. Heidegger, L’Inno Der Ister di Hölderlin, Mursia, Milano 2003.
F. Volpi, Vita e Opere, in Guida a Heidegger, Laterza, Bari 2005, pag. 5.
D. Di Cesare, Heidegger e gli Ebrei. I «Quaderni Neri», pp. 138-140.
A. Gnoli – F. Volpi, I Prossimi Titani. Conversazioni con Ernst Jünger, Adelphi, Milano 1997, pp. 28, 48, 83
E. Jünger – M. Heidegger, Oltre la Linea, Adelphi, Milano 1989.
E. Jünger – M. Heidegger, Briefwechsel 1949-1975, Klostermann, Stuttgart-Frankfurt 2008.
A. Gnoli – F. Volpi, Mio Padre un Genio Normale, La Repubblica 12.04.1996.
M. Heidegger, Band 90: Zu Ernst Jünger, in Gesamtausgabe IV. Abteilung: Hinweise und Aufzeichungen,
Klostermann, Frankfurt am Main 2004.
62 M. Heidegger, Ernst Jünger, Bompiani, Milano 2013.
19
Il volume si divide in due parti ed un’appendice.
La prima parte è dedicata alle Aufzeichnungen63, frammentaria serie di annotazioni sparse su
piccole pagine e foglietti di difficile interpretazione, di cui tratteremo in seguito.
La seconda parte contiene il Colloquio su Jünger64, in assoluto il passaggio più leggibile, che
chiarisce l’intera interpretazione heideggeriana e dischiude alcune delle riflessioni che, in seguito,
confluiranno nel ben più noto La Questione della Tecnica 65, come mostreremo tra poco. Queste 73
pagine sono frutto di un seminario, che Heidegger tenne nel 1940 all’Università di Friburgo,
riservato solo a pochissimi colleghi. Abbiamo scelto di iniziare da qui, invece di seguire l’ordine del
volume, seguendo un criterio di comprensibilità del materiale in esame, andando dall’unitario al
frammentario, dal meno al più criptico.
In Appendice abbiamo deciso di dedicare più attenzione alle due Lettere ai Singoli Combattenti 66,
più simili ai Colloqui per via del loro carattere unitario, ma con tutt’altro registro; ed al saggio
Gestalt 195467, frammentario quanto le annotazioni ma con importanti sviluppi, dovuti innanzitutto
al periodo successivo in cui tale “saggio” è stato scritto. Dobbiamo dolorosamente tralasciare le
Note a Margine68, che richiederebbero forse un lavoro dedicato, vista la gran mole di materiale e la
minuziosità con cui Heidegger si rapporta alle copie di lavoro delle opere jüngeriane.
63
64
65
66
67
68
Ivi, pp. 6-357.
Ivi, pp. 366-463.
M. Heidegger, La Questione della Tecnica, in Saggi e Discorsi, Mursia, Milano 1976, pp. 5-27.
M. Heidegger, Ernst Jünger, pp. 469-491.
Ivi, pp. 494-523.
Ivi, pp. 528-843.
20
1. Ernst Jünger, Der Arbeiter. 1932: Zur Einführung 1939/40
Questo primo colloquio funge da Introduzione agli altri quattro, tracciando le linee fondamentali di
quelle che saranno le riflessioni successive. Nella sua ripetitività, questa Introduzione contribuisce a
chiarire quali siano i pochi ma fondamentali passaggi della lettura heideggeriana di Jünger.
L’apertura è interamente dedicata alla Grundstellung di Ernst Jünger, la Posizione Fondamentale,
ovvero l’interezza e la totalità del suo pensiero. La Posizione Fondamentale di Jünger è già anche il
suo limite estremo, «stimolante in modo affatto unilaterale, in larga parte inaccessibile e nei suoi
fondamenti impensata e non fondata69». Egli ha, per Heidegger, il grande merito di immergersi
profondamente nel «Reale Effettivo della volontà di potenza» tuttavia, tale “immersione”, non offre
nessuna salvezza (Rettung). Il limite della Posizione Fondamentale di Jünger consiste nella sua
incapacità di offrire un prospettiva ulteriore rispetto alla semplice, per quanto intensa, potente ed
efficace, descrizione della realtà. Tale limite non è una semplice critica all’autore ma, come ci
spiega lo stesso Heidegger, è «una necessità della storia occidentale»: il problema è quindi storico,
riguarda la storicità stessa della metafisica nel senso di un’epoca in cui anche Jünger si trova 70, da
cui non può semplicemente uscire, di cui non riesce a pensare fino in fondo la fine. La descrizione
jüngeriana della realtà è come prigioniera di sé stessa, descrive così perfettamente la realtà tanto da
non poterla superare. A tale circolarità non esiste soluzione perché, secondo Heidegger, «non spetta
affatto a Jünger dispiegare l’ambito della decisione a partire dall’essenza della metafisica e della sua
storia»71. La Posizione Fondamentale di Jünger può solo attuare una perfetta escursione della realtà,
ma non può mai riuscire a guadagnare la giusta prospettiva di pensiero, quel pensiero che pensa a
partire dalla Storia dell’Essere, poiché tale Posizione è ancora, inevitabilmente, Posizione
Metafisica che ha quindi già sempre dimenticato l’Essere; non riesce e non può, pertanto, pensare a
partire da quest’ultimo.
In questa prima pagina, che funge quasi da Introduzione all’Introduzione, troviamo il nome del
filosofo, immediatamente evocato accanto a quello di Jünger, che è l’altro protagonista
fondamentale di questo Colloquio. Parliamo ovviamente di Friedrich Nietzsche: oltre ad essere
citato esplicitamente già nella seconda riga, il Reale Effettivo è chiamato da Heidegger «Reale
Effettivo della Volontà di Potenza72». La realtà descritta da Jünger è quella già pensata in termini di
Volontà di Potenza.
L’importanza di Nietzsche nell’intero pensiero heideggeriano non c’è bisogno qui di ripercorrerla
nella sua interezza, è sufficiente ricordare l’immensa mole di scritti tra il 36 ed il 46, confluiti nel
volume omonimo73, o gli importanti contributi successivi, in cui l’attenzione per l’universo
nietzschano è sempre viva74. Più interessante, invece, focalizzarsi sul ruolo fondamentale giocato da
Nietzsche, in relazione ad altri due attori di primissimo piano nel pensiero di Heidegger; il primo è
ovviamente Ernst Jünger, come abbiamo già visto e continueremo a scoprire tra poco; il secondo è
Hölderlin, poeta del Nuovo Inizio greco-tedesco. Nietzsche è, rispetto ad Hölderlin, il pensatore
della Fine estrema, dell’ultima tappa dell’oblio dell’Essere, è il Tramonto che prelude ad un nuovo
sorgere del Sole.
Quale ruolo ha invece Jünger in questa tripartizione? E qual’è l’essenza di questa connessione con
Nietzsche?
«Se accertiamo una connessione tra Jünger e Nietzsche, essa, allora, non deriva dall’intento di
imputare storiograficamente a Ernst Jünger “forme di dipendenza” da Nietzsche 75». Heidegger
ribalta il classico rapporto tra pensatori sfidando l’ipotetica successione lineare della storiografia,
69
70
71
72
73
74
75
Ivi, pag. 368.
Ibidem.
Ibidem.
Ibidem.
M. Heidegger, Nietzsche, Adelphi, Milano 1994.
M. Heidegger, Chi è lo Zarathustra di Nietzsche?, in Saggi e Discorsi, pp. 66-82.
M. Heidegger, Ernst Jünger, pp. 369-371.
21
che pone un pensiero come “successivo” all’altro: è attraverso Jünger che comprendiamo meglio
Nietzsche, pensando ciò che quest’ultimo non ha pensato fino in fondo «ma ha patito
profondamente nel pensiero (sondern denkerisch erlitten hat)».
Per Heidegger, Jünger ha in questo modo intrapreso una delle due strade possibili riguardo al
pensiero di Nietzsche: non essendo in grado di superarlo, ha scelto di farsi carico della realtà intesa
come Volontà di Potenza76.
Da qui in poi il carattere del saggio muta repentinamente, assumendo un carattere fortemente
politico. Jünger ha, agli occhi di Heidegger, il merito di aver strappato Nietzsche alla sequela di
fraintendimenti, più o meno voluti, delle interpretazioni del suo tempo. Lo sfruttamento
ingiustificato di massime nietzscheane, utilizzate di volta in volta in favore di una tesi o del suo
esatto opposto, in maniera del tutto strumentale, rende la Volontà di Potenza una piatta dottrina, da
applicare in modo grossolano al contesto più utile. Heidegger ammette che è lo stesso Reich a
promuovere un atteggiamento di questo tipo, dividendosi tra chi tramuta Nietzsche in un
pangermanista esaltato, e chi ci vede solo un nemico, “eterno ospite di luoghi di cura”, per giunta
stranieri. Queste posizioni, apparentemente divergenti, sono in realtà frutto della stessa epoca che ha
perso definitivamente ogni autentico rapporto con la metafisica, epoca in cui «è svanito ogni
tenersi-pronti alla meditazione77».
La critica al Reich merita sicuramente una riflessione più ampia, anche in virtù dei recenti sviluppi
dovuti alla pubblicazione dei Quaderni Neri: come far coincidere l’Heidegger di quelle pagine di
feroce antisemitismo, con un Heidegger critico del Terzo Reich?
Sappiamo che, dopo la guerra, dal filosofo tedesco non arrivò mai né una smentita, né delle scuse,
né una presa di posizione esplicita in merito ai crimini del regime nazista. L’unica risposta fu un
silenzio pesante, carico di tensione e colmo di implicazioni: ex allievi ed ex colleghi volevano
anche solo una parola, alle volte non ricevuta78, altre volte proferita in maniera così enigmatica da
lasciare esterrefatti79.
Alla luce dei Quaderni Neri è impossibile negare che Heidegger sia stato antisemita ed è
impossibile minimizzare la sua adesione filosofica ad alcuni schemi culturali che fungevano da assi
portanti della politica hitleriana. Si può tuttavia riconoscere un progressivo allontanamento dalle
forme più volgari di razzismo biologista, ed una critica sempre più serrata al nichilismo della
tecnica, a cui il Reich non è riuscito a sottrarsi; è in quest’ottica che si può parlare di un
Tecnototalitarismo Planetario, che non risparmia nessuna super-potenza mondiale, nemmeno la
stessa Germania80.
Tutto ciò non basta a salvare Heidegger, che in questo condivide un destino singolare con Jünger:
entrambi “troppo impegnati” a distinguersi dalla Realpolitik hitleriana, non vogliono vedere ed
ammettere che il pericolo più grande non si trova, innanzitutto e per lo più, nella volgarità del
regime, ma sta nel progetto di rimodellamento planetario perpetrato ai danni del Popolo ebraico81.
Tornando al nostro Colloquio, Jünger è in rapporto essenziale con Nietzsche, attraverso l’esperienza
del reale come Volontà di Potenza. Tale esperienza fondamentale è la Prima Guerra Mondiale, non
letta però come semplice rappresentazione: essa è una realtà effettiva che determina, a partire da sé
stessa, ogni rapporto col reale in generale, essendo, però, a sua volta già sempre interpretata dalla
metafisica nietzschana. Risiede qui, per Heidegger, la circolarità del pensiero di Jünger, che nel suo
determinare l’esperienza della realtà effettiva mediante la Volontà di Potenza, immergendovisi
profondamente è sempre in questa realtà già interpretata come Volontà di Potenza. Descrittore e
descritto, interprete ed interpretato, precedente e successivo, si rincorrono in questa metafisica, che
76
77
78
79
80
Ivi, pp. 370-371.
Ivi, pp. 371-375.
P. Trawny, Celan und Heidegger. Noch einmal, in Heidegger, die Juden, noch einmal, Klostermann, 2015.
M. Heidegger – K. Jaspers, Lettere 1920-1963, Cortina, Milano 2009.
C. Resta, Heidegger e il tecnototalitarismo planetario, in Nichilismo, Tecnica, Mondializzazione. Saggi su
Schmitt, Jünger, Heidegger e Derrida, pp. 81-101.
81 D. Di Cesare, Stranieri Residenti, Bollati Boringhieri, Torino 2017, pp. 250-255.
22
riposa all’ombra di Nietzsche determinando, contemporaneamente, la totalità degli enti82. Il
riferimento qui è alle battaglie di materiali, manifestazioni del Willens zur Macht che modificano, a
loro volta, la totalità del reale. Ancora, quindi, modificante e modificato si confondono, fino quasi a
sovrapporsi, nel movimento estremo e finale. Queste poche righe, lette retrospettivamente, lasciano
intravedere il Gestell, il Dispositivo83.
«Allora non si tratta più né di Jünger né di Nietzsche, ma della realtà effettiva nel senso della
volontà di potenza e del nostro rapporto con essa; si tratta cioè di stabilire se abbiamo un sapere
sufficiente di questa realtà effettiva e se a partire da questo sapere prepariamo insieme le decisioni
che stanno al servizio del suo superamento 84». Heidegger si chiede se siamo pronti a farci carico
della Fine che apre il Nuovo Inizio, se sappiamo sufficientemente la nostra epoca, tanto da decidere
del suo superamento, e nel chiedersi ciò parla al plurale. A chi si riferisce?
Le due pagine conclusive sono eloquenti e folgoranti: quel Noi che soggiace all’intera citazione si
riferisce al Popolo Tedesco. Secondo Heidegger lo scontro fondamentale è tra le Potenze
Occidentali, che combattono per mantenere la loro potenza, ed i Tedeschi, che invece «preparano un
avvenire». Pur distanziandosi dagli slogan e dalle forme più superficiali della propaganda
nazionalsocialista, il filosofo crede comunque in un destino della Germania che, alla massima
detenzione di potenza, deve decidere di accompagnare l’oltrepassamento della potenza stessa.
Questa Entscheidung è decisione sull’essenza destinale dei Tedeschi, la cui risoluzione è donata
dall’Essere stesso, non semplicemente prodotta e costruita. Nell’attesa della sua risoluzione, ci si
può solo domandare «se vi siano individui tali da prender parte a tutto ciò o se tutti si volgano
altrove e l’uomo, sotto l’egida di poteri giganteschi, rimanga schiacciato nella propria bassezza85».
82
83
84
85
M. Heidegger, Ernst Jünger, pp. 375-377.
M. Heidegger, La Questione della Tecnica, in Saggi e Discorsi, pp. 14-16.
M. Heidegger, Ernst Jünger, pag. 381.
Ivi, pp. 383-385.
23
2. Zu Ernst Jünger 1939/40: Macht und Sein
Alcuni soldati, secondo Heidegger, sono più coraggiosi di altri; quei soldati che, oltre al coraggio
necessario a fronteggiare le insidie della trincea, conservano in loro la forza di continuare «la
meditazione su ciò che è estraneo». Si apre proprio con la lettera di Hans-Hermann Groothoff, uno
di questi giovani coraggiosi, la riflessione su Macht und Sein.
Groothoff, studente di Heidegger al terzo semestre, conferma l’importante triade a cui abbiamo,
poco sopra, già accennato. Nell’equipaggiamento da campo, dichiara il soldato, porta con sé
Nietzsche e Hölderlin, il filosofo della Fine ed il poeta del Nuovo Inizio: quasi come fossero
indispensabili strumenti bellici, da cui non separarsi nemmeno in trincea, è intenso ma faticoso il
rapporto con questi testi. La guerra rende distanti da Groothoff i due autori, leggerli meditandone
profondamente il senso risulta quasi impossibile nelle condizioni in cui si trova. La decisione è
quella di farsi spedire allora due testi di Jünger. Come un Kit di Soccorso, la lettura de “Il Boschetto
125” e de “Il Lavoratore”, avvicina il giovane a Jünger come mai prima. Finalmente una lettura che
restituisce l’esperienza della guerra, ma che soprattutto risveglia una domanda fondamentale: dove
riposa l’accadere metafisico86?
Groothoff condivide, in un certo senso, la convinzione heideggeriana per la quale, il limite del
pensiero di Jünger, risiede nel non sapersi come ancora legato all’epoca della metafisica.
Tuttavia Heidegger porta avanti la riflessione su questa lettera, facendone emergere due punti: da un
lato abbiamo la debolezza di un rapporto inessenziale con Nietzsche e con Hölderlin, nella ricerca,
inessenziale rispetto al pensiero di questi due autori, della spiegazione di ciò che è prossimo e
vicino, in questo caso della guerra. Dall’altro, egli nota la «volontà di un pensiero che è un attacco
contro tutti coloro che pensano in comune e che già nel suo attuarsi come pensiero include un
decidere e uno stabilire che riguardano l’atteggiamento87».
Ciò che, in queste criptiche note critiche di Heidegger, dovrebbe emergere, è la confusione
dell’umanità: l’uomo non ha un Da che egli sia, ma vive provvisoriamente mediante scappatoie.
Nell’epoca estrema del dispiegamento della tecnica, il verso-dove della Menschentums è velato,
non chiaro88. L’eco del Da che il Dasein è, la domanda sul Ci di questo Esser-Ci, affonda le sue
radici in Sein und Zeit, in cui è impossibile non leggere le avvisaglie di questa successiva
riflessione sulla destinazione dell’umanità, velata ed inautentica, secondo Heidegger89.
È alla luce di tutto ciò che riparte un altro serrato corpo a corpo col pensiero di Jünger. Depurato da
ogni strumentalizzazione, in quanto autore che non può, in alcun modo, essere prestato a
convinzioni politiche, ecclesiastiche o relative al Weltanschauung, Jünger può essere pensato solo a
partire dal suo rapporto essenziale con Nietzsche. La sua esperienza prende piede nell’ambito
metafisico già determinato dalla dottrina nietzschana della Volontà di Potenza, egli sostituisce
semplicemente, alla parola Willen zur Macht, il termine Arbeit: «quanto al suo che cosa ed al suo
come, ogni ente è ‘lavoro’». Il Lavoratore non è, quindi, nient’altro che il rappresentante umano di
tale nuovo termine: sottratto ad ogni dimensione di classe o di appartenenza sociale, rappresenta la
forma ultima dell’umanità, un’umanità che trova il suo compimento nell’ammaestrare l’ente nel suo
insieme, che ha di fronte a sé solo l’ente stesso, come pura possibilità padroneggiarlo. Questa nuova
Volontà di Potenza è rivolta esclusivamente al dominio incondizionato su tutto l’essente90.
Jünger è allora per Heidegger «l’unico vero successore di Nietzsche», tanto da rendere vuota e
superflua ogni interpretazione precedente dell’opera nietzschana: la grande differenza, rispetto ad
ogni lettura precedente, sta nel non aver assunto la Volontà di Potenza come dottrina filosofica, ma
aver manifestato il proprio stesso pensiero come Volontà di Potenza. Ancora meglio, non si tratta di
86
87
88
89
90
Ivi, pag. 389.
Ivi, pag. 391.
Ibidem.
M. Heidegger, Essere e Tempo, Longanesi, Milano 2005, pp. 144-220.
M. Heidegger, Ernst Jünger, pp. 391-393.
24
un semplice merito, o della capacità di rendersi simile a tale Volontà, nel caso di Jünger il suo
pensiero è, già di per sé, una forma della Volontà di Potenza91.
Non solo il suo pensiero, ma la totalità del mondo stesso è pensata da Jünger come Lavoro. La
manifestazione fondamentale del mondo come questo mondo del Lavoro è compiutamente
elaborata nel concetto di Mobilitazione Totale, termine di derivazione, però, non jüngeriana ma
leninista: nel 1914, scrive Heidegger, Lenin ha elevato a coscienza questa nuova configurazione del
mondo, attraverso quello che poi è diventato semplicemente uno slogan. Questo termine dice però
qualcosa di essenziale sulle forme di violenza, umane e non umane, che si muovono nell’ultimo atto
dell’epoca della metafisica: le forze che soggiacciono ad una mobilitazione massiccia, pervasiva,
appunto totale, giungono in tale processo a compimento, raggiungono la pienezza della propria
essenza, nel loro esser rese mobili e disponibili, attraverso un dominio onnicomprensivo92.
La guerra è solo un modo tra gli altri di tale Mobilitazione Totale, sicuramente il più esplicito e
palese nella rivendicazione di ogni singola parte del globo. Ciò che questa modalità rende chiaro, è
l’ineluttabilità di questo destino: «tutti i popoli, e in particolare quelli dell’occidente, ciascuno
secondo la propria determinazione storica fondamentale, sono diversamente inclusi in questo
processo, accelerandolo o inibendolo»93. Tutti i popoli, insomma, sono già al servizio di ciò che
sostiene e porta avanti la Mobilitazione Totale, ossia, dice Heidegger, la potenza stessa.
All’essenza della potenza appartiene il sovrapotenziamento, essa rimane cioè potenza solo finché è
in grado di continuare a potenziare sé stessa, finché può diventare una potenza ancora maggiore. La
potenza ‘vuole’ la potenza, in questo sta l’importanza dell’espressione nietzschana Volontà di
Potenza, che non è quindi, di nuovo, una dottrina filosofica, ma è l’essenziarsi del mondo stesso,
dispiegato nel modo appena spiegato94. «La volontà è potenza e la potenza è volontà, ossia un
potenziantesi pervenire a maggiore potenza».
La potenza non è mai nelle mani di un portatore, quando lo è ci troviamo solo di fronte ad un mezzo
del suo potenziamento «coercitivamente estorto», ma mai di fronte alla Potenza stessa. Heidegger
qui, in poche righe, che potrebbero perfino sfuggire al lettore distratto, afferma qualcosa di epocale:
«Essa [la Potenza] è l’essere medesimo, sempre diversamente disvelato». La Potenza è quindi un
modo del disvelamento dell’Essere, pertanto non può venire supportata dall’ente come unico ausilio
mediante il quale manifestarsi o, peggio ancora, mediante il quale essere. Per questo motivo chi
attua l’annientamento, tratto proprio della Potenza, è solo il più schiavo della Potenza. Jünger
rientra fra questi annientatori, coloro i quali sono nel modo in cui la totalità stessa del reale è. Ciò
che per Heidegger risulta centrale, è il carattere di mutevolezza ed invisibilità della Potenza, che
utilizza qualsiasi ideologia e visione del mondo solo come strumenti di potere, come mezzi per il
suo stesso accrescimento95.
È in questo orizzonte che inizia, a questo punto, un decisivo confronto col comunismo, che viene
assunto nel senso in cui lo ha pensato Lenin, diverso cioé sia dal marxismo che dal bolscevismo.
Nel comunismo si attua, secondo Heidegger, la completa tecnicizzazione, il massimo
ammaestramento tecnico delle forze sia politiche che materiali: il proletariato è strumento di potere
tra gli altri, la propaganda è superflua ed inessenziale, ciò che davvero conta per il socialismo di
matrice leninista, nella lettura heideggeriana, è l’inarrestabile espansione della mobilitazione totale,
il processo ultimo e finale di accrescimento e dominio incondizionato della Potenza. Per Heidegger,
il “potere dei Soviet + elettrificazione”, non è nient’altro che la dimostrazione di una segreta
interdipendenza del comunismo dal positivismo metafisico, quindi della sua connessione con la
Vollendung della metafisica96. Non bisogna però lasciarsi ingannare, il discorso è valido anche per
tutte le altre comunità statali, indipendentemente dal loro essere fasciste, bolsceviche o
91
92
93
94
95
96
Ivi, pag. 393.
Ivi, pag. 395.
Ibidem.
Ibidem.
Ivi, pp. 395-399.
Ivi, pp. 399-401.
25
democratiche97. Riemerge ancora una volta il tema del tecnototalitarismo, che usa la politica e
l’ideologia come facciata, per produrre invece l’incondizionato asservimento alla tecnica.
Interessante notare inoltre come non venga mai fatto il nome di Stalin: è sempre e solo Lenin a stare
dalla parte della fine della Metafisica, della Mobilitazione Totale, del dominio tecnico planetario?98
97 Ivi, pp. 401.
98 W. Klitter, From Gestalt to Ge-Stell, Cultural Critiq n. 69, University of Minnesota Press 2008, pp. 87-88.
26
3. Von Ernst Jünger 1939/40
Per Heidegger, la lettura di testi non è mai qualcosa di prettamente didattico, scolastico, esplicativo.
Egli cerca piuttosto una lettura autentica e meditativa, che rintracci l’essenza storica al di fuori di
ciò che si legge. Con ciò non si deve intendere la semplice ricerca storiografica attorno alle fonti, al
contesto o ai fatti storici entro cui si inserisce l’opera letta. Il rapporto essenziale va oltre l’oggetto,
non è e non può essere limitato alla strumentalità del far presa sui concetti. Quello che occorre fare,
invece, è domandare e domandarsi «il segreto della storia», lasciarlo venire intorno, meditare su ciò
che nel testo è immediato, per andare oltre a ciò che è attuale, pubblico, noto ai più99.
Chiarire tale prospettiva di lettura non è facile, tuttavia chi ha un po' di familiarità con i testi di
Heidegger capirà fin dall’inizio che cosa egli intenda. Siamo anche qui, come avviene nei seminari
e nei corsi su Hölderlin, in ascolto di ciò che negli scritti rimane celato, siamo in ascolto del
silenzio, che ben più del chiacchiericcio nasconde ciò che è da pensare 100. Ascoltare l’appello
silenzioso del linguaggio come grande silenzio dell’Essere, questa ancora una volta la missione
della meditazione essenziale.
Proprio per tutto ciò, non stupisce che anche quello di Jünger venga chiamato da Heidegger un
Dichten, un poetare che, come avviene per Hölderlin, nasconde di più di ciò che viene solitamente
fatto appartenere al pensiero jüngeriano. Egli pensa sicuramente a partire dall’esperienza
fondamentale della Prima Guerra Mondiale: ferito più volte, decorato con le più alte onorificenze,
ha scritto libri di guerra in cui cerca di conservare e restituire lo «spirito del combattente»,
descrivendo così un nuovo Tipo umano. Tuttavia, ciò non basta a comprenderlo fino in fondo: il
primo grande passo in avanti, inteso come passo in avanti dentro la metafisica, consiste secondo
Heidegger nell’aver abbandonato sia il socialismo che il nazionalismo, lasciandosi alle spalle quelle
che non sono potenze storiche, ma semplici facciate aventi la stessa radice comune 101, come già
ampiamente esposto nel Colloquio precedente a questo.
La grandezza di tale passo non sta, però, in un superamento meramente politico delle forme
precedenti, ma nel fatto che «egli [Jünger] come nessun altro esperisce immediatamente la guerra
mondiale in modo metafisico, il che significa anzitutto come un accadimento dell’ente nel suo
insieme». Egli mantiene, per Heidegger, salda la coscienza della diversa essenza della Prima Guerra
Mondiale e della nuova determinazione del reale che essa porta con sé102.
Il riferimento, in questo passo, è alla dottrina nietzschana della Volontà di Potenza, che si esprime
attualizzandosi nella Prima Guerra Mondiale. In questa interpretazione del reale si inserisce fino in
fondo, secondo Heidegger, Jünger comprendendone il significato essenziale e portandola alle
estreme conseguenze: egli subentra nella posizione metafisica di Nietzsche, non nel senso di un
semplice essere influenzato o di aver ripreso certi aspetti, di volta in volta utili alla propria visione
del mondo. Questa è l’operazione, secondo Heidegger, di Mussolini e di D’Annunzio, forse per la
prima ed unica volta citati esplicitamente, che si sono semplicemente appropriati di un stortura
strumentale della filosofia di Nietzsche. Jünger ha invece esperito qualcosa di fondamentale, cioé il
carattere fondamentale del reale effettivo come Volontà di Potenza103.
Questa realtà effettiva prende il nome di nichilismo, nel senso nietzschano, però, di ‘nichilismo
attivo’104, non quindi un nichilismo della debolezza, un pessimismo, ma qualcosa di essenzialmente
differente. Il nichilismo attivo, dice Heidegger, ha come fine l’assenza di fine, il non porsi una
direzione verso la quale orientarsi, lasciando così il posto all’incondizionata sovranità della Volontà
di Potenza. Tale nichilismo è un dire di si a ciò che è essente, un atteggiamento che Heidegger
99 Ivi, pag. 407.
100 M. Heidegger, Poeticamente Abita l’Uomo, in Saggi e Discorsi, pag. 127.
101 M. Heidegger, Ernst Jünger, pp. 409-411.
102 Ivi, pag. 411.
103 Ivi, pp. 413-417.
104 F. Nietzsche, Frammenti Postumi 1887-1888, in Opere Complete Vol. VIII, Tomo II, Adelphi, Milano 1971, pp. 1214.
27
chiama ‘l’eroico’: dire di sì al reale, senza alcun riguardo per sé. «Il Nichilismo attivo è pertanto
l’estremo realismo; più precisamente, questo ‘realismo’ è in primo luogo l’autentico nichilismo105».
Il realismo ed il nichilismo attivo che quindi si sovrappongono, convergendo nell’atteggiamento
che, agli occhi di Heidegger, più di ogni altro qualifica Jünger, il cosidetto “realismo eroico”: esso
rende visibile il reale smembrandolo, in un processo che è analitico, che fa a pezzi la realtà per
dominarla e controllarla. L’eroe nietzschano-jüngeriano ha fondamento nella metafisica moderna,
prende origine dal subiectum, l’essere umano saldamente centrato su sé stesso, che ammaestrando il
mondo cerca la costante conferma della propria posizione. Figlio della tradizione cartesiana, è esito
ultimo dell’intera tradizione metafisica, a partire da Platone. Votato alla devastazione, cancella la
possibilità di ogni decisione iniziale sul fondamento del reale effettivo, eliminando ogni possibile
interpretazione differente della realtà, occultandone ogni altro possibile modo di darsi 106. È lo stesso
realista eroico, però, a non sapersi come già determinato a sua volta dalla Volontà di Potenza che
egli stesso dispiega, pertanto non può in alcun modo porsi alcuna domanda sul modo in cui il reale
effettivo si da. Il Subiectum è quindi assoggettante ma, a sua volta, nell’impossibilità di divincolarsi
dalla sua stessa volontà divoratrice, è già sempre anche assoggettato107.
Jünger si muove, per Heidegger, «in einer Optik des Spähers», come l’esploratore che prende di
petto il reale, smascherandolo per ammaestrarlo, per assoggettare una realtà che non ha, ai suoi
occhi, più nulla da nascondere, pertanto può essere integralmente dominata. La realtà che Jünger
svela è, di nuovo, realtà come Volontà di Potenza, poiché già decisa in tale direzione e fuori da ogni
decisione essenziale. Tale “ottica” non è un qualcosa di semplicemente oggettivo, corretto o
scientificamente esatto, è piuttosto verità sull’ente nel suo insieme: Jünger è un indicatore di questa
verità108.
Il Colloquio si conclude con un passo, breve ma estremamente incisivo, sulla possibilità di un
Nuovo Inizio, sull’Evento dell’Essere. Malgrado la sovversione, il dominio ed il ribaltamento
dell’intero reale, dell’ente nella sua totalità, ciò non basta ad incontrare l’Essere: il velamento è
inevitabile per l’uomo, poiché esso è in mezzo all’ente, si trattiene presso l’ente, ne accoglie la
rivelatezza. L’ente non è l’Essere, tutt’al più, dice Heidegger, «diviene ancor più necessario sapere
che ogni ente ed ogni rapporto con esso non sono nulla senza la verità su quell’Essere attraverso il
quale ogni ente viene innanzitutto fatto evenire (ereignet wird) in ciò che è e nel modo in cui esso
è109».
Se l’inizio della Storia Occidentale comincia da un sapere dell’Essere, la medietà dell’uomo nel
mezzo dell’ente rende tale Storia la Storia di una dimenticanza, della Seinsvergessenheit. «Come
possiamo noi meravigliarci di un tale abbandono dell’Essere, laddove quest’ultimo è rimasto per noi
ancor solo il suono di una parola di cui, in ogni ‘è’, pronunciato o non pronunciato, abusiamo senza
pensarvi?110».
Nell’epoca della Fraglosigkeit, dell’impossibilità di domandare in modo essenziale la Verità
dell’Essere, l’unica possibilità per un Nuovo Inizio consiste nel mettersi in cammino. I cammini
verso questa Verità però, avverte Heidegger, sono ancora lunghi. «Tuttavia questo è certo ci sono
cammini111». Non resta che incamminarsi verso ciò che ha da venire, custodendo la Verità attraverso
la Notte dell’Essere, l’ultima è più estrema, nell’attesa dell’Evento di una Nuova Alba. Compito del
filosofo è continuare a meditare profondamente, a farsi domande sulla direzione e l’essenza di
questo cammino.
105 M. Heidegger, Ernst Jünger, pag. 417.
106 Ivi, pp. 421-423.
107 V. Blok, An Indication of Being, Journal of the British Society for Phenomenology, Vol. 42 n. 2, May 2011, pp.
194-208.
108 M. Heidegger, Ernst Jünger, pag. 431.
109 Ivi, pag. 433.
110 Ibidem.
111 Ivi, pp. 433-435.
28
Queste ultime pagine risultano fin da subito particolarmente criptiche, poiché vengono messi in
campo alcuni dei punti cruciali di tutto il pensiero heideggeriano, in una forma estremamente
succinta. A chiarire l’oscurità di questi passaggi ci verrà in soccorso però, la seconda Lettera a
Singoli Combattenti112 che, pur anch’essa condividendo un’evidente brevità, si sofferma più a lungo
sulla differenza ontologica, la preminenza dell’ente, la Decisione dell’Essere, essenziali per
comprendere anche le ultime battute di questo Colloquio.
112 Ivi, pp. 481-491.
29
4. Ernst Jünger 1939/40
Fondamentale per il passaggio all’altro Inizio della Storia dell’Essere, è il dibattimento
(Auseinandersetzung) con la metafisica occidentale. Tale metafisica non è intesa da Heidegger nel
senso di una semplice scuola di pensiero, di una visione del mondo, di una serie di dottrine, ma è
anch’essa profondamente storica: la metafisica è un’Epoca, che inizia con la fine del domandare
originario.
I pensatori greci sono per il filosofo quelli che hanno veramente interrogato l’Essere, il loro
pensiero è il Primo Inizio, successivamente occultato e dimenticato. Il riferimento è esclusivamente
ai presocratici, in particolare ad Anassimandro, Eraclito e Parmenide, quei filosofi che hanno inteso
la verità come άληθεια. Lasciando da parte la questione del senso greco della verità 113, ciò che qui ci
interessa è ricordare, per prima cosa, che questo modo di pensare è per Heidegger il modo di un
domandare originario, che si interroga autenticamente e nella maniera più perspicua sull’Essere.
Non solo, è con la fine di questo Inizio greco che si apre l’epoca della metafisica, epoca quindi della
dimenticanza dell’Essere (Seinsvergessenheit), in favore invece dell’ente.
Al centro di questo colloquio c’è l’estremo opposto di quest’Epoca della Metafisica, c’è la sua Fine,
la conseguente necessità di riuscire a pensarla e, con essa, il passaggio al Nuovo Inizio. In questo
senso deve avvenire l’Auseinandersetzung con la metafisica, a partire dalla posizione di Nietzsche:
finale ed estrema, anch’essa inscritta nella metafisica, questa interpretazione del reale è anche la più
vicina a noi. Questa prossimità non ha niente a che vedere con un fatto storiografico, è invece
dovuta al nostro stesso pensare ed agire entro la realtà che essa stessa rivela 114. La dottrina
nietzschana interpretando il reale già sempre lo determina e determinandolo lo ha già sempre
interpretato. La metafisica nietzschana è, potremmo dire, il terreno sul quale ci troviamo ad esperire
la realtà che ci circonda ed a cui siamo saldamente legati. La portata rivoluzionaria di questa
interpretazione-determinazione del reale sta nel compimento definitivo della metafisica che,
trovando la sua Vollendung, trova anche la sua Fine, o almeno la fine del suo tradizionale “modo di
svelamento”115.
Inserirsi nella posizione metafisica fondamentale di Nietzsche, liberandola dalle storture e dalle
strumentalizzazione posteriori, tanto romantiche quanto positivistiche, assumendo senza “filtri” la
realtà effettiva che tale posizione svela, puntandone il cuore più autentico: questo, agli occhi di
Heidegger, «l’unico significato storico di Ernst Jünger116».
Jünger non porta con sé nessuna essenziale novità, muovendosi nel ruolo di descrittore in un
orizzonte già precedentemente aperto; sottomesso perciò, sempre e comunque, a Nietzsche come
interrogante117. Egli ha in un certo senso “tradotto” la Volontà di Potenza con il concetto di Lavoro,
descrivendone la pervasività nel mondo della Mobilitazione Totale. La stessa descrizione è, però, a
sua volta determinata dalla Volontà di Potenza come Lavoro, il che innesca una circolarità in cui,
per Heidegger, risiede il limite storico dell’analisi di Jünger: il carattere di Lavoro del mondo
determina l’uomo in quanto Lavoratore, che a sua volta determina la stessa descrizione jüngeriana
del carattere di Lavoro del mondo rendendo Lavoro anche la descrizione, in un movimento circolare
da cui è impossibile divincolarsi. Il pensiero di Jünger rimane così prigioniero del Lavoro (o, ormai
è chiaro, Volontà di Potenza) reiterando e ribaltando quella che è per eccellenza la “colpa” iniziale
della metafisica. Egli continua a tentare di descrivere l’essere ricorrendo all’ente, alla totalità degli
enti come Lavoro, senza invece domandare il Sinn von Sein, il Senso dell’Essere, che è
ontologicamente differente da un’indicazione dell’essere mediante la descrizione dell’ente. Nel suo
incontrare esclusivamente enti, la Volontà di Potenza jüngeriana non accede alla vera conoscenza di
sé stessa, alla coscienza, cioè, di potersi solo ed esclusivamente autodeterminare, rimanendo però
113
114
115
116
117
M. Heidegger, I Concetti Fondamentali della Filosofia Antica, Adelphi, Milano 2005.
M. Heidegger, Ernst Jünger, pag. 443.
Ibidem.
Ibidem.
Ivi, pp. 443-445.
30
sorda all’appello dell’Essere. Il limite di questa struttura ricorsiva è, per Heidegger, il limite di tutta
la metafisica, ma anche la sua Vollendung: in questo ciclo è compito del pensatore, e non del
descrittore, scorgere il consumarsi della Volontà che, dominando incondizionatamente l’ente nella
sua totalità, arriva a consumare perfino sé. Si compie così un’epoca che, tuttavia, aveva già nel suo
Inizio il destino della propria Fine118.
Jünger ricade così pienamente nella metafisica che, sebbene tenti di distanziarsi dal materialismo,
pensa nello stesso tracciato del marxismo, sostituendone solo i termini: secondo Heidegger basta
sostituire i rapporti economici con le nozioni di ‘vita’, ‘razza’ o ‘corpo’, per ottenere il medesimo
risultato. Il reale effettivo che Jünger esperisce e descrive non ha quindi nulla del presagio che
annuncia una nuova epoca, non è una chiave d’accesso ad un Nuovo Inizio e la sua volontà di
fondare “nuovi valori” si riconferma saldamente legata all’epoca metafisica 119. «Questa realtà è solo
l’estremo, definitivo compimento, l’illimitato ampliamento e lo scatenamento di ciò che dobbiamo
riconoscere come la realtà effettiva dell’età moderna che dura incessantemente ormai da trecento
anni120». Se non si trova dunque qui il Nuovo Inizio, ciò che resta è solo il compimento, la
Vollendung, una notte senza alba.
Tutto ciò non va assolutamente letto nell’ottica di una critica o un attacco a Jünger: nessun
pensatore essenziale può venire attaccato, criticato o comunque confutato, perché non è su questo
terreno, sul terreno dell’argomentazione dialettica che si muove il pensiero di Heidegger. L’unica
via da seguire è piuttosto quella dell’oltrepassamento, nel momento in cui ne sorge la necessità
storica121.
Il rapporto tra Jünger e Nietzsche va letto come una lotta tra descrittore ed interrogante: il pensiero
nietzschano ha pensato originariamente il reale effettivo come Volontà di Potenza, di esso Jünger è
solo un descrittore che si sottomette alla realtà già aperta dall’interrogante. Secondo Heidegger,
l’epoca che preferisce le descrizioni è un’epoca che ha perso ogni rapporto con l’autentico
domandare, che lo guarda con sospetto, preferendo piuttosto ciò che è meno estraneo alla realtà.
Jünger si inserisce proprio in questo contesto, ed in questo sta la sua efficacia immediata 122. Occorre
sottolineare come la parola con cui Heidegger si riferisce all’interrogante sia Frager, colui che pone
die Fragen, un termine che, in tedesco, ha un’ampiezza semantica molto diversa dall’italiano. Die
Frage Nach der Technik123 è il celebre saggio in cui confluiranno molte delle riflessioni fin qui
esposte, dove Frage può significare sia “Questione” che “Domanda”. Il Frager è quindi colui che
pone domande, il domandante, l’interrogante, ma anche colui che pone questioni. Il ruolo di
Nietzsche è quindi non solo di interrogare, ma di domandare nel senso di porre questioni, di
interrogare in modo determinante, di porre domande che non siano semplici quesiti.
Altrettanto fondamentale ma differente il ruolo di Jünger: secondo Heidegger il descrittore non può
mai restituire «la gettatezza in ciò che è progettato e [..] l’abisso delle decisioni qui racchiuse 124».
Ciò è possibile soltanto sacrificando l’essenza stessa del descrittore, consegnandosi alla presa
originaria dell’Essere. L’annientamento del descrittore è l’unico modo per uscire dal circolo della
Volontà di Potenza, per maturare un’attesa originaria 125. Jünger è quindi condannato dal suo stesso
ruolo all’inaccessibilità alla Decisione essenziale che porta al domandare essenziale. Tale ruolo,
però, è la condizione della realtà effettiva che Heidegger scorge nella sua epoca e, forse, pure nella
nostra: la Fraglosigkeit come destino globale dell’intera umanità.
118 V. Blok, An Indication of Being, pp. 203-204.
119 M. Heidegger, Ernst Jünger, pp. 447-449.
120 Ivi, pag. 449.
121 Ivi, pag. 451.
122 Ivi, pp. 451-451.
123 M. Heidegger, La Questione della Tecnica, in Saggi e Discorsi, pp. 5-27.
124 M. Heidegger, Ernst Jünger, Pag. 453.
125 Ibidem.
31
5. Ernst Jünger
L’ultimo Colloquio è quasi il perfetto riassunto dell’intera lettura heideggeriana di Jünger: diviso in
tre parti, tratta di «ciò che Jünger vede», «ciò che Jünger non vede» e di «Ernst Jünger come
“pensatore”».
Heidegger utilizza il verbo tedesco sehen, riferendosi così ad un atto percettivo che non può mai
andare oltre sé stesso. La vista è intesa qui come un poter-vedere, piuttosto che come una capacità
semplicemente da acquisire, da sviluppare. Jünger vede fino al punto in cui egli può storicamente
spingersi, non vede però oltre, in nessun modo. Il suo limite, per Heidegger, è anche ciò che lo
determina, da cui non può uscire senza rinunciare ad essere ciò che è. La circoscrizione ad un solo
ambito sensoriale non è casuale, come capiremo tra poco.
L’interpretazione heideggeriana della metafisica, se da un lato tende a non identificarsi in singoli
nomi, mirando piuttosto a ciò che soggiace ad essi, al modo di svelarsi dell’essere in ogni epoca
storica, al movimento di pensiero più che agli individui, d’altra parte mostra un’evidente volontà di
“inchiodare” i pensatori, di volta in volta presi in considerazione, ad un passaggio metafisico ben
preciso.
Non ci interessa qui soffermarci su considerazioni, forse pure un po' scontate, sulla parzialità
dell’interpretazione heideggeriana dei vari filosofi: chiunque studi anche solo Platone o Aristotele
può immediatamente rendersi conto quantomeno di trovarsi di fronte ad un orizzonte atipico, che
sicuramente non restituisce, né fornisce una ricostruzione oggettiva di tutti gli aspetti del pensatore
in questione. Quello che, a nostro modesto parere, rende sterile utilizzare questi innegabili
“problemi” come critiche al pensiero di Heidegger, è il semplice fatto che egli si pone su un piano
completamente differente, come ripete in maniera piuttosto ossessiva nelle sedi più disparate126. Il
pensiero di Heidegger non è, e non vuole essere in alcun modo, la “rappresentazione corretta” di
dottrine, la traduzione “esatta” di termini, la parafrasi “giusta” di poesie; bisogna sempre tenere a
mente la vocazione fortemente interpretativa della dimensione heideggeriana, per riuscire ad
affrontare un pensiero che fa dell’interpretazione “eversiva” di molte posizioni generalmente
accettate un suo asse fondante.
È solo ponendoci da questa prospettiva che possiamo trarre una lezione fondamentale dalla ricaduta
nella metafisica che, per Heidegger, caratterizza Jünger: a prevalere, anche qui, non è la critica o
l’attacco alla singola posizione, ma la storicizzazione profonda del pensiero occidentale,
storicizzazione a cui non dobbiamo mai pensare nei termini di una valutazione qualitativa o
quantitativa. L’insegnamento prezioso sta nel modo di pensare la storicità del pensiero stesso e,
quindi in fondo, la storicità di ognuno di noi, sempre gettati in un mondo che è già sempre
interpretato, legati a dei limiti che sono la determinazione di chi siamo. Ciò avveniva in Essere e
Tempo con l’Esserci e la sua costitutiva Geworfenheit e Verfallenheit 127, ma avviene, ad un’altra
“altitudine”, con Jünger che, per vedere ciò che non vede, dovrebbe perdere la sua essenza.
Cosa vede, però, Jünger?
Con il suo linguaggio freddo, egli preserva, nella sua descrizione, il reale effettivo, restituendocelo
in forma molteplice. La pluralità dei fenomeni, in cui tale realtà effettiva si manifesta, è chiaramente
afferrata, grazie alle esperienze fondamentali della trincea e della guerra. Una conoscenza di questo
genere, tuttavia, viene resa possibile solo in una realtà già completamente aperta, precedentemente,
da Nietzsche, nel solco del quale l’interpretazione jüngeriana esclusivamente si muove. Tale
dipendenza da Nietzsche rende Jünger, secondo Heidegger, un conoscitore, forse il più grande, ma
non un pensatore. Egli può conoscere tanto a fondo la realtà effettiva come Volontà di Potenza, solo
dal momento in cui, prima di lui, tale Volontà era stata già pensata128.
126 M. Heidegger, L’Inno Der Ister di Hölderlin, pp. 58-59.
127 M. Heidegger, Essere e Tempo, pp. 214-220.
128 M. Heidegger, Ernst Jünger, pp. 457-459.
32
Jünger, scrive infatti Heidegger, non può vedere ciò che «non può altresì essere visto, poiché può
essere raggiunto soltanto nel pensiero129». Vedere quindi non basta, bisogna pensare l’essenza della
realtà effettiva, la sua destinazione rispetto all’abbandono dell’Essere. Ciò non può essere raggiunto
da un semplice descrittore, che si mantiene nella metafisica, da cui non riesce e non può uscire. Egli
confonde la sua epoca, che è un «avvio al rapido invecchiare di quanto è più nuovo nella noia di ciò
che è nullo», con un qualcosa di più, con l’irrompere di un Nuovo Inizio. Ma il compimento della
metafisica non è ancora quell’Inizio, la Vollendung non è l’Ankunft130.
La decisività della visione del reale da parte di Jünger non viene, in questi passi, messa in
discussione: per Heidegger, egli supera ogni poeta e pensatore del tempo, grazie ad un vedere
attuato e saputo esistenzialmente. La descrizione di un ethos che si fa comando e dominio,
l’assicurazione della sicurezza, l’estremo asservimento, sono tutti caratteri decisivi che Jünger
coglie perfettamente. Tuttavia, il suo descrivere è ovunque uno smembramento analitico del reale,
altrettanto asservito ai processi che esso stesso ha descritto 131. Ancora una volta, il determinato che
muta in determinante, il determinante che muta in determinato, questo il vuoto scambio della
Tecnica.
Il pensiero di Jünger insomma, agli occhi di Heidegger, è perfettamente conforme ai tempi,
all’epoca in cui il denken si tramuta in rechnen, finalizzato alla pianificazione totale, alla
descrizione come smembramento del reale in vista del suo pieno assoggettamento132. La rigorosa
capacità di dire ciò che vede e l’esperienza originaria della realtà come Volontà di Potenza, lo
rendono freddo e incisivo. Allo stesso tempo, però, «questo ‘pensatore’ è un calcolatore conforme ai
tempi che, con sguardo anticipatore, nel territorio dell’essere essenziante come volontà di potenza,
calcola ‘preventivamente’ e senza riguardo l’essenziale del suo ‘tempo’133».
129
130
131
132
133
Ivi, pag. 459.
Ibidem.
Ivi, pp. 460-461.
Ivi, pp. 461-463.
Ivi, pag. 463.
33
III. Anmerkungen: sulle Tracce del Pensiero
Le Annotazioni su Ernst Jünger rappresentano forse il passaggio più complicato dell’intero volume:
raccolte in quasi 200 foglietti di piccole dimensioni 134, dove solo rare e sporadiche sono le parti in
“prosa”, scritte in maniera estesa e comprensibile. Spesso ci troviamo di fronte, invece, a manciate
di righe, senza alcun apparente ordine o significato. Altrettanto frequenti le proposizioni mozzate o
la presenza di parole intraducibili, illeggibili, apparentemente senza un reale contesto.
Da un punto di vista metodologico bisogna sempre tenere a mente che, la stranezza di tutto ciò, è
dovuta innanzitutto al carattere “personale” di quanto scritto: le Annotazioni su Jünger non sono
mai state finalizzate alla pubblicazione, per quanto ne sappiamo fino ad ora. Lo scopo, per
Heidegger, era più che altro quello di mettere nero su bianco considerazioni, dubbi, domande,
interpretazioni del pensiero jüngeriano. L’interlocuzione non includeva quindi nessuno, al di fuori
di sé stesso, pertanto è del tutto accantonata qualsiasi aspirazione comunicativa.
Ad un occhio più attento non può sfuggire, però, l’apparizione costante di piccoli indizi, dettagli
sparsi tra le pagine, frasi telegrafiche che pongono domande tanto essenziali quanto difficili da
decifrare. La sottolineatura anche solo di singoli termini nasconde spesso la richiesta silenziosa di
“scavare” affondo.
Senza il giusto approccio la lettura di una sequela di materiale così frammentario e disomogeneo
può risultare quantomeno spiacevole, se non addirittura irricevibile. La sfida sta invece, a nostro
avviso, nel cogliere il fascino profondo di un’esperienza di lettura così atipica e differente: i rapporti
segreti tra frammenti, l’evocativa forza di parole dimenticate, la costruzione artigianale di orizzonti
di senso sono ciò che deve spingere ad un “corpo a corpo” con gli scritti. Solo nella possibilità di
una lettura sofferta le Anmerkungen assumono una qualche forma di interesse.
Ciò che qui occorre fare è seguire i sentieri che così vengono tracciati, come un viandante nella
Foresta Nera, restando sempre pronti all’eventualità dell’interruzione del cammino, al cambio di
rotta inaspettato, all’inspiegabilità di alcuni tratti; seguire le tracce senza però mettersi “a caccia” di
un senso ad ogni costo; mettersi in cammino su piste non battute, altrimenti tutto è vano.
Al posto di un mero commento seguendo l’ordine di numerazione, abbiamo tentato di interpretare
questa vasta mole di annotazioni privilegiando la dimensione filosofico-teoretica. In particolare ci è
parso opportuno tracciare 5 linee interpretative che possano interrogare trasversalmente il testo
stesso, portando alla luce gli aspetti di ordine ontologico, ermeneutico, e politico.
In prima battuta, ciò che emerge è un’interpretazione minuziosa del testo L’Operaio di Jünger,
mantenuto saldamente in quella Storia dell’Essere, rispetto a cui assume il suo senso, la sua
determinazione fondamentale.
Altrettanto dirimente è la riflessione su Forma e Tipo come platonismo ribaltato: questo
ribaltamento fa parte, per Heidegger, dell’ultimo atto della Metafisica Occidentale, come
scopriremo tra poco.
Emerge prepotentemente il nesso inscindibile tra Soggettività e Metafisica, attraverso un ripercorre
le tappe essenziali della nozione di Soggetto posta dalla modernità.
Di carattere fortemente politico è, invece, l’esposizione della libertà moderna, del liberalismo e del
progressismo: la prospettiva, severamente critica, coglie a nostro avviso il cuore di alcune questioni
che scuotono ancora il nostro tempo.
In ultima battuta, merita sicuramente un passaggio rapido quella che, apparentemente in maniera un
po' impropria, potremmo definire la dimensione “bio-politica” che Heidegger scorge nell’epoca del
dominio planetario della tecnica.
Occorre soffermarci ancora per un secondo su un aspetto che, a prima vista, può sembrare
marginale: il termine Überwindung è in queste pagine utilizzato in maniera ambigua, da un lato è
Oltrepassamento del e nell’Altro Inizio, altre volte è Oltrepassamento nietzschano, come
134 Ivi, pag. 851.
34
ribaltamento che ricade nella metafisica. Abbiamo scelto di volta in volta di lasciarlo in sospeso, il
più possibile aderente al contesto in cui è calato, per non deformare delle annotazioni in cui, ci è
parso, esso mantiene ancora il suo tasso di ambiguità. Per il chiarimento sull’importante differenza
che la parola porta con sé, rimandiamo al capitolo conclusivo, in cui sarà possibile un raffronto con
i luoghi del pensiero heideggeriano in cui essa assume rilevanza particolare, più chiara e meglio
definita, per certi versi.
Seguire Heidegger nella costruzione del suo pensiero, della sua interpretazione e del suo
Auseinandersetzung con Jünger, ecco l’opportunità ed il tentativo che qui si apre: tentativo perché
ciò che possiamo offrire è un umilissimo primo avvicinamento, opportunità perché preziosi sono i
momenti in cui poter “camminare” tra pagine così profonde ed essenziali. Non resta che mettersi in
marcia!
35
1. Heidegger lettore de L’Operaio
Sappiamo che Martin Heidegger si interessò fin dall’inizio al Der Arbeiter, arrivando a possedere
due copie di lavoro, fitte di appunti sui passaggi ritenuti cruciali 135: non vi è pagina che non sia
“sovrascritta” dal filosofo, a testimonianza di un’attenzione che va oltre alla semplice fascinazione
per uno scrittore. Attenzione che è profonda interrogazione del testo e del pensiero, che non scade
mai, però, nella cieca celebrazione. Il ritorno, quasi ossessivo, sui ‘limiti della posizione metafisica
fondamentale di Jünger fa sempre da contraltare ai commenti più entusiastici.
Addentrandoci appena nell’interpretazione heideggeriana del Der Arbeiter riusciremo, forse, a
renderci conto di quanto, seppur per motivi e con modalità differenti, il rapporto con questo libro sia
per Heidegger importante al pari di quello con le poesie di Hölderlin. Diverso il ruolo, medesima la
dignità di interlocutori fondamentali.
Der Arbeiter non è solo un progetto politico, antropologico, sociale o culturale, Der Arbeiter è il
volume che contiene l’ultima verità sull’ente nel suo insieme, l’ultima interpretazione metafisica
dell’ente, quella cioè della Tecnica, di cui il Lavoratore si fa servo incondizionato, libero esecutore
solo e soltanto della volontà di quest’ultima. La sudditanza a tale verità non è solo realizzazione di
qualcosa, ma è compimento essenziale, rispondenza all’essenza della verità nel modo che essa
comanda, assolvimento al compito che essa prescrive 136. Non quindi la semplice azione eterodiretta,
ma l’agire nel modo in cui la Tecnica agisce, per portarne a compimento gli esiti ultimi,
«l’essenziare dell’essere come Macchinazione137».
Se Jünger scorge chiaramente l’ultima verità dell’ente, egli non vede l’appartenenza di ciò che
descrive alla metafisica: oltre a non comprendere il fondamento della moderna Soggettività, a cui il
lavoratore è totalmente ancorato, ciò che manca completamente è quel domandare a partire dalla
Wahrheit des Seyns, la meditazione che fonda la decisione sulla differenza ontologica. In Der
Arbeiter viene esperito solo l’ente nella sua Seinsverlassenheit, l’abbandono di cui è protagonista
tutta la metafisica occidentale. Jünger asseconda l’atteggiamento che ha caratterizzato la filosofia
occidentale da Platone in poi, potenziandolo e portandolo alle estreme conseguenze, un
atteggiamento destinato a tramontare per sempre. Siamo di fronte ad un Durchgang, un passaggio di
transizione, un incentivo a passare oltre, ma non ancora ad un passaggio138.
La posizione jüngeriana si muove essenzialmente entro la metafisica già tracciata da Nietzsche,
facendo ciò che «tutta la letteratura su Nietzsche non era stata in grado di fare 139», portare cioè alla
luce l’ente come volontà di potenza, illuminandone fino in fondo la preminenza sull’essere e
dispiegandone, un’ultima volta, le conseguenze sul reale. Jünger nella sua volontà di distruggere, di
rompere con i valori passati, tra le scorie delle macerie che fa saltare in aria, fa emergere il mondo
dell’epoca Tecnica in tutta la sua chiarezza, nel segno della metafisica nietzschana 140. La
detonazione non è, però, compito di chi compie l’oltrepassamento: «un altro oltrepassa
essenzialmente ed in modo incomparabile – l’altro inizio; e questo in quanto inizio conforme alla
storia dell’Essere141».
Chi (o cosa?) oltrepassa l’Altro Inizio? Forse Hölderlin? Oppure Nietzsche? Queste poche righe si
interrompono sulla questione, oltre non ci è dato sapere.
L’atteggiamento di Jünger appartiene alla Fine della Metafisica, ne propaga il diffondersi. Tuttavia
egli rimane “bloccato” da ciò che irretiva anche la metafisica di Nietzsche, cioè il rovesciamento:
per Heidegger, tutto ciò che è ribaltato è semplicemente di nuovo posto, mai oltrepassato, poco
importa cambiarne il “segno”, ogni capovolgimento è già sempre un ri-voltarsi-all’indietro.
135
136
137
138
139
140
141
Ivi, pp. 529-789.
Ivi, pp. 7-9.
Ivi, pag. 9.
Ivi, pp. 19-23.
Ivi, pag. 39.
Ivi, pp. 39-41.
Ivi, pag. 41.
36
Sebbene la metafisica non si mostri più come una sistematica filosofica, essa rimane, sia in
Nietzsche che in Jünger, determinante, stabilita già saldamente sullo sfondo dei proclami del suo
capovolgimento. L’abbandono dell’ente da parte dell’essere permane, l’assenza di domanda
persiste, la mancanza di meditazione sulla differenza ontologica si estende al livello planetario.
Nessun rovesciamento basta ancora per la Fine della Metafisica. Jünger assume quindi il ruolo di
pensatore, o meglio descrittore, al limite: egli impedisce che la meditazione sulla Fine inizi
prematuramente. Non è ancora tempo di un Altro Inizio, questo il suo monito142.
Chiunque abbia letto, anche solo una volta, il Der Arbeiter, potrà facilmente rendersi conto che,
quanto detto fino a questo punto, non coincide assolutamente col contenuto dell’opera. Fatta
eccezione per i riferimenti alla tecnica, sembra non esserci alcuna aderenza tra l’interpretazione
heideggeriana ed il testo vero e proprio. Eppure la lettura di quest’ultimo, come testimoniano le
numerose note, è stata lunga ed impegnativa. È per ammissione dello stesso Heidegger che questo,
tuttavia, accade: l’interpretazione heideggeriana, non solo in questo caso, non è mai in linea con
nessun’altra, non risponde a criteri di comprensibilità, di chiarezza, di aderenza o correttezza, di
rigore filologico. «Ogni autentica interpretazione deve perciò tentare di cogliere ciò che non c’è 143».
Nel corpo a corpo col testo la vera sfida è andare oltre; pur mantenendo un rigore ed un
coinvolgimento spaventosi nel rapporto col libro, non bisogna soffermarsi sull’autore o su ciò che
tradizionalmente viene interpretato, nella maniera in cui viene innanzitutto e per lo più letto. Sfidare
i testi, allargarne i confini, dilatarne gli orizzonti, lasciando spazio all’inaspettato, al frammento
apparentemente insignificante, alla traduzione dimenticata, ai nessi nascosti: in questo sta il lento
procedere di Martin Heidegger.
L’elemento determinante del Der Arbeiter è, appunto, il Lavoro. Il senso che Jünger da al termine è
triplice: esso è, contemporaneamente, principio di efficacia, modo di vita e stile. Questa triade
compone la soggettività incondizionata del Lavoratore, come πρᾶξις, come ἦθος e come ποίησις.
L’unica possibile Πρᾶξις del Lavoratore è il suo riferimento al’elementare, retto dal principio di
efficacia; il Lavoratore è libero in questo suo rapporto con l’elementare, pertanto questa libertà è il
suo ἦθοςe; lo stile di questo libero riferimento è la potenza, la sua ποίησις 144. Detta più
semplicemente, la triade si articola in lavoro sull’elementare, libertà nel lavoro, potenza come
strumento del lavoro.
Al di là di questa complicata tripartizione, importante è per Heidegger la dimensione determinante
del Lavoro, come concetto in grado di formare la nuova umanità jüngeriana. Tale umanità è
contrapposta alla borghesia, in un rapporto tra Immagine e Contro-Immagine che si fonda, secondo
Jünger, nel diverso modo di esperire la libertà. Il Lavoro imprime infatti nuovi ordinamenti tra il
singolo e la comunità, ma più in generale imprime un ordine nuovo a tutto il reale. Questo
imprimersi del Lavoro è detto Forma, ed è l’imprimersi supremo e preventivo della Soggettività,
secondo Heidegger145.
La Forma determina tutto il reale effettivo come lavoro, nulla può sottrarvisi in quanto il mondo è
‘mondo del lavoro’. Essa è il modo e la maniera in cui l’umanità dell’epoca tecnica si comprende e
si attua. La legittimazione della Forma attraverso la Potenza, il dispiegamento di questa Potenza
nella sua estensione planetaria, è invece il Dominio146.
Agli occhi di Heidegger, Jünger trasferisce ogni cosa nel concetto di Forma, ed è a partire da essa
che da origine a tutta la sua nuova configurazione sociale, politica, metafisica. In tale direzione
vanno letti tutti i passaggi sulla scomparsa della differenza tra massa ed individuo,
sull’orientamento umano ridotto a Tipo, sulla detenzione di potenza come criterio supremo
dell’ordinamento del mondo. La descrizione di questi fenomeni è già un’interpretazione del reale
effettivo che, lo ripetiamo, risulta completamente dipendente dalla metafisica nietzschana e, anche
142
143
144
145
146
Ivi, pp. 47-53.
Ivi, pag. 57.
Ivi, pag. 75.
Ivi, pp. 77-79.
Ivi, pag. 79.
37
in virtù di ciò, svela un ambito essenziale della verità dell’essere, quel modo di darsi, ultimo e
finale, della verità nell’epoca della Tecnica147.
In questo senso le proposizioni di Jünger assumono un carattere vincolante, divenendo così
descrizioni determinanti. Il carattere vincolante riposa però non su Jünger stesso, ma
sull’appartenenza metafisica della descrizione stessa: riposando entro l’ambito già dischiuso da
Nietzsche fondandosi sull’essenza della verità posta dalla Storia della Metafisica, la descrizione
jüngeriana “rende reale” ciò che semplicemente indica. La realtà effettiva come Volontà di Potenza
è realtà realmente in atto in questi termini, una realtà a cui Jünger si espone pienamente, senza
esitare, impegnandosi ciecamente. Anche nella foga dell’attivismo, però, ciò che rimane precluso è
il decidere sull’essenza della Verità. Chi ha ancora la metafisica a fondamento della sua posizione
rimane escluso, poiché non può vedere il posto che ricopre nella Storia dell’Essere148.
La metafisica jüngeriana lascia vedere l’ente, indicando la direzione dell’essere senza però
domandarlo. In ciò risiede un compito ed un ruolo necessari, sempre esclusi, però, da ciò che è
decisivo. Nel Der Arbeiter troviamo il pensiero di una Fine, una nuova fine, che è già stata
oltrepassata da Nietzsche, di cui Jünger mette in luce la definitiva estinzione. Sebbene non superi
mai, in nessun senso, Nietzsche, Jünger ne porta a compimento l’orizzonte metafisico. In questo
modo viene innalzato il pericolo supremo: la supremazia dell’oblio dell’essere, che contraddistingue
ogni metafisica, può rinsaldarsi fino a rendere inaccessibili fondamento e verità della realtà
effettiva. Un mondo senza alternativa, in cui è impossibile qualsiasi domanda essenziale, qualsiasi
decisione che non sia già decisa dalla tecnica, questo il rischio maggiore 149. Ma, ci avverte
Heidegger, «Ogni pericolo è ambiguo: esso è possibilità del soccombere e dell’oltrepassamento150 ».
Che nel pericolo estremo, invece, forse si nasconda ciò che salva?
I versi di apertura de La Questione della Tecnica, da cui prende avvio tutta la meditazione, non
sembrano lasciare spazio a dubbi151. Già in queste pagine su Jünger si presagisce in che direzione
andrà la domanda sul tecnototalitarismo planetario152.
In conclusione, qual è il giudizio di Heidegger su Jünger e, in particolare, su Der Arbeiter?
Per il filosofo l’unico rapporto possibile è un dibattimento radicale, un Auseinandersetzung: non un
semplice punto di vista contro l’altro, ma la comprensione storica dell’ubicazione dei punti di vista.
Solo da qui può svilupparsi una decisione originaria sul pensiero di Jünger, fornendogli la giusta
posizione all’interno della Storia della Metafisica 153. Riconoscerne dunque, prima di tutto, i limiti
l’impotenza della decisione, il rincorrere l’ente scambiandolo per l’essere, il semplice dire di sì,
l’impotenza nel meditare154.
Occorre riconoscere, inoltre, la sostanziale continuità tra i nuovi valori, di cui il Lavoratore si fa
promotore, e l’età moderna, quell’età borghese rispetto alla quale si pretende una rottura. Anche la
Gestalt, che è solo il modo supremo per dire soggettività, con tutto ciò che include, rimane
saldamente inscritta nel rapporto soggetto-oggetto, rapporto metafisico per eccellenza e, pertanto,
anche rapporto “borghese”155.
Il problema di Jünger è, secondo Heidegger, la sua essenziale incompletezza: «le domande
essenziali, quelle inerenti alla ‘storia’ - essere e storia, essere e verità -, non vengono domandate 156».
Tale Halbheit condiziona, in quanto limite storico nella Storia dell’Essere, tutto ciò che Jünger può
147
148
149
150
151
152
153
154
155
156
Ivi, pp. 81-83.
Ivi, pp. 85-87.
Ivi, pp. 125-127.
Ivi, pag. 127.
M. Heidegger, La Questione della Tecnica, in Saggi e Discorsi, pag. 22.
C. Resta, Heidegger e il tecnototalitarismo planetario, pp. 81-101.
M. Heidegger, Ernst Jünger, pp. 145-147.
Ivi, pag. 147.
Ivi, pag. 169.
Ivi, pag. 171.
38
e non può vedere. Se egli riesce a descrivere la realtà con l’efficacia che lo contraddistingue, ciò lo
deve solo ed esclusivamente alla propria Fraglosigkeit.
39
2. Gestalt e Platonismo Ribaltato
La centralità del concetto di Forma nell’opera di Jünger abbiamo avuto modo di chiarirla
ampiamente in precedenza. È tuttavia nella lettura che Heidegger da di tale concetto che troviamo la
motivazione principale dell’appartenenza dell’autore de L’Operaio alla metafisica. La circolarità tra
Volontà di Potenza che determina il Mondo, che determina l’Uomo e che determina il descrittore di
questa stessa circolarità con la conseguente impossibilità di porre la domanda sull’Essere, porta con
sé la Vollendung della Metafisica, il suo stesso compimento157.
Se tale struttura ricorsiva rappresenta però il limite estremo del discorso di Jünger, la capacità di
spingersi ai confini della filosofia occidentale, dilatandone il margine estremo senza però, di fatto,
mai riuscire ad oltrepassarlo, è invece la nozione di Forma a fungere da “aggancio” alla metafisica.
Arrivati a questo punto ci rendiamo conto che l’interpretazione heideggeriana de L’Operaio ruota
tutta attorno a questi due momenti fondamentali: Vollendung che spinge in avanti il pensiero, in una
circolarità espansiva, sempre legata alla Forma come ciò che trattiene e mantiene nella metafisica.
La descrizione dell’epoca della Tecnica vive quindi di questa costante tensione, tra una spinta che
non riesce a divincolarsi da sé stessa e la salda presa gestaltica158.
Se la Vollendung abbiamo però già tentato di chiarirla, ciò su cui occorre ancora soffermarci è la
nozione di Gestalt, nel senso in cui Heidegger la intende. In che senso questa appartiene, seppur,
come vedremo tra poco, in un modo del tutto particolare, alla metafisica?
Il dominio planetario del Lavoratore è un’interpretazione dell’ente nel suo insieme,
un’interpretazione di tutto il reale a partire dalla nozione di Lavoro. Tale progetto è
complessivamente sostenuto dall’antica metafisica platonico-aristotelica, è perciò in questo senso
già sempre un platonismo agli occhi di Heidegger159. Il dire di sì a questo progetto,
quell’atteggiamento che in Jünger è definito ‘realismo eroico’, è però una modificazione in senso
moderno dell’orizzonte platonico, in quanto non siamo di fronte ad una ripresa letterale fedele di
quest’ultimo. Anzi, il tentativo di rottura nei confronti dell’impostazione “valoriale” di Platone è
netta ed estrema: il privilegio della dimensione dell’elementare, ne L’Operaio, rappresenta proprio
la discontinuità rispetto ad una gerarchia in cui a dominare è il piano intelligibile o sovra-sensibile.
L’elementarismo del realismo eroico è invece dominio della sensibilità, che ribalta la gerarchia di
cui sopra160.
Il progetto jüngeriano è quindi rovesciamento del platonismo che, nel tentativo della sua rimozione,
resta impigliato nelle coordinate già dettate, o meglio già decise, dal platonismo stesso. I concetti
fondamentali di Jünger riposano tutti entro questo ribaltamento, ma è in particolare la Forma a
rivelarsi il punto nevralgico da cui scaturiscono le restanti determinazioni del Der Arbeiter.
Presupporre e pensare, a partire da questa, dalla sua essenza e dalla sua posizione, è già sempre
pensare alla fissazione di una norma, di un centro, di un senso rispetto al quale la realtà può e deve
conformarsi, appunto161.
Prima di procedere dobbiamo però mettere ordine tra i termini della questione, poiché alcuni
apparentemente minimi slittamenti di senso tra l’opera originale e l’interpretazione che Heidegger
ci fornisce possono rendere confusa tutta la questione.
In prima battuta, vogliamo riportare l’attenzione sulla distinzione tra Forma e Tipo: ne L’Operaio
tali termini non si equivalgono, anzi è la loro sottile distinzione a rendere possibile l’articolazione di
un vero e proprio progetto di dominio del reale 162. Possiamo pensare, molto semplicemente, al Tipo
come a ciò rispetto a cui l’Uomo deve necessariamente aderire, alla Forma come al modo concreto
157
158
159
160
161
162
V. Blok, An Indication of Being, pp. 203-204.
Ivi, pp. 204-205.
M. Heidegger, Ernst Jünger, pag. 7.
Ivi, pp. 23-25.
Ivi, pp. 33-35.
In questa Tesi Capitolo I, Paragrafo 4.
40
di darsi nel mondo di questo Tipo. Al Tipo si conforma l’Uomo, alla Forma si conforma la Realtà,
dominata dal Tipo nel modo della Forma.
Sebbene non sia del tutto ignorata, in Heidegger tale distanza tra concetti è più che altro ricondotta
alla medesima radice. Il ricongiungimento di entrambi all’ambito della Soggettività, termine questo
che non appartiene alle categorie fondamentali de L’Operaio, è privilegiato rispetto ad una scissione
più netta. Non uguali, le determinazioni di Tipo e Forma sono in Heidegger però molto simili,
entrambe figlie del ribaltamento del platonismo e riconducibili alla moderna Soggettività.
Jünger si muove dentro una verità già decisa dalla metafisica di Nietzsche. Tale verità è
«assicurazione prospettica della risorsa fondamentale della vita di contro al caos sempre
incalzante163». Una verità che dispone attorno a sé la risorsa, per ordinare rispetto a sé stessa,
appunto per dare forma: la verità nietzschana esperita da Jünger è la Forma. Essa stabilisce la realtà,
si occupa di determinarla stabilmente e con essa di determinare stabilmente l’uomo in quanto
subiectum. L’uomo nuovo, in quanto Lavoratore, non sa più e non si chiede nemmeno se sia lui a
determinare la realtà mediante il Lavoro, o se sia il mondo in quanto mondo del lavoro a
determinarlo. Egli si limita ad aderire alla Forma, innescando così la circolarità, sopra menzionata,
tra determinato e determinante164.
Heidegger scrive qui qualcosa di epocale, che getta un’importante luce su tutta la questione della
Tecnica. Vale la pena riportarlo in lingua originale, avendone la possibilità: «Das Gestellte dieser
Fest-stellung ist die Gestalt165». La Forma è quindi Gestellt che innesca la circolarità tipica di tutta
la Tecnica. Sappiamo che il termine, tradotto in italiano con ‘Impianto’ o ‘Dispositivo’, ha una
complessità semantica decisiva, vista anche la sua costitutiva intraducibilità piena. Ne La Questione
della Tecnica assistiamo ad un ulteriore spostamento di significato, che ripercorreremo in seguito.
Qui è però la triplice dimensione a cui il connubio Dispositivo/Forma sembra dare avvio ad essere
interessante: ribaltamento del platonismo, determinazione della Tecnica e carattere proprio della
descrizione jüngeriana. La circolarità, sempre debitrice alla metafisica e che in questo suo debito ha
la sua essenza, risulta contemporaneamente impressa nel movimento di tutto il reale e nel
movimento della posizione fondamentale di Jünger.
La Forma innesca questo complesso meccanismo poiché essa è conseguenza necessaria del
rovesciamento del platonismo. Quanto di cui sopra si origina a partire dalla necessità della
posizione jüngeriana di erigere nel caos qualcosa di permanente. Il Soggetto, che fa della Forma ciò
rispetto a cui prendere misura, è l’esito ultimo di tale erigere. Anche qui, come in Platone, la ricerca
è di qualcosa che sia eterno, sovratemporale e sovrasensibile, quindi oggettivo e platonico 166.
«Ritornano tutti i requisiti del platonismo167», anche se di “segno opposto” saldamente riconducibili,
secondo Heidegger, allo stesso orizzonte, alla stessa Storia.
Il nuovo rapporto del Lavoratore con l’elementare, determinato già sempre dalla Forma, pur
ponendosi come l’istanza che lo ribalta, è invece anche la riconferma del platonismo. Questa Forma
è ciò rispetto a cui l’umanità deve essere determinata: l’approvazione dell’umanità rispetto ai
principi di volta in volta stabiliti non è nient’altro che la versione massimamente moderna del
platonismo che, alla contrapposizione classica tra idea e mondo sensibile, sostituisce l’ordinamento
gerarchico della potenza168. Platonismo tecnico dunque, votato al potenziamento, alla strumentalità
ed alla posizione di valori che reggano un’epoca totalmente basata su criteri di efficacia, utilità,
vantaggio, profitto, per dirla con Heidegger, pro-vocazione (Herausforderung)169.
La Forma come Lavoro totale, determina conseguentemente tutte gli aspetti ulteriori dell’epoca
tecnica: la libertà, il rapporto con l’elementare, la Potenza, sono tutte pensate ed esperite a partire da
163
164
165
166
167
168
169
M. Heidegger, Ernst Jünger, pag. 95.
Ivi, pp. 96-101.
Ivi, pag. 96.
Ivi, pp. 140-141.
Ivi, pag. 141.
Ivi, pp. 331-333.
M. Heidegger, La Questione della Tecnica, pag. 11.
41
questa Gestalt. Nulla è più pensabile senza ed al di fuori di essa, ogni uomo è ormai già Lavoratore,
ogni libertà è libertà di darsi legge sul caos presupposto, la potenza è accrescimento e
sovrapotenziamento, l’elementare è già sempre risorsa produttiva170.
Heidegger vede chiaramente l’estensione planetaria di tale posizione fondamentale, condividendone
con Jünger almeno la lettura in termini di totalità e pervasività. Nella Forma l’uomo pone il suo
ultimo, supremo e sommo grado, superando sé stesso e facendosi Lavoratore. Questa è solo la
conclusione di quella stabile determinazione dell’uomo come animale, che trova appunto origine in
Aristotele. L’ampiezza è qui, però, massimamente dilatata171.
Ciò che però Jünger non vede è la posizione metafisica della Forma, la posizione di un ente eterno e
sovrasensibile come compagine fondamentale della metafisica platonica. La necessità di porre
ancora un’immagine dell’uomo, un’immagine formatrice da cui trarre conferma di sé, corrisponde
alla necessità di un’immagine del mondo, nell’ottica di un pensare che è già sempre un imporre
forme. Il pensiero di Jünger muove in tale direzione, presentando ogni cosa come conseguenza della
Forma, dimenticando però ciò che sta al fondo dell’istituzione dei nuovi rapporti consequenziali che
egli pone: non viene pensata la conseguenza fondamentale, cioè il rovesciamento del platonismo
che è, però, non il suo superamento, ma il suo estremo rinnovamento172.
La dipendenza da Nietzsche emerge qui con ancora più chiarezza; muovendosi nel solco tracciato
dalla Volontà di Potenza, il mondo è pensato come caos da redimere, a cui dare ordine. La necessità
di una Forma, quindi di un’immagine-modello da contrapporre alla caoticità del reale effettivo
come Volontà di Potenza. L’Immagine-Forma risponde al progetto di ammaestramento del reale
proprio dell’epoca tecnica, che in Nietzsche trova espressione nell’Oltreuomo. Jünger non fa altro
che tradurre questa istanza, a partire dall’esperienza della Prima Guerra Mondiale, in termini più
aderenti alla dimensione del Lavoro173. Il vero rovesciamento del platonismo, però, è quello
nietzschano secondo Heidegger, il primo che, con il suo oltreomismo, ha posto un’Immagine che sia
anche Contro-immagine del platonismo. La trasvalutazione dei valori è già nietzschanamente
pensata e l’attuazione del ribaltamento non è pertanto un merito di Jünger. Egli la esperisce
chiaramente, restituendola in un modo che è esattamente corrispondente alla realtà effettiva, senza
però avere alcun ruolo in ciò che è già stato deciso 174. Ci troviamo quindi, ancora, nel «tentativo, in
generale, di pensare di nuovo e ancora una volta metafisicamente, e di attuare questo pensiero come
esperienza fondamentale175».
Di nuovo, c’è soltanto il compimento dell’essere come oggettivata efficacia, dell’essere come
potenza ed efficacia. La Forma è l’ultimo tassello di quell’impartire l’essenza, quel modo coercitivo
orientato all’efficentamento della totalità dell’ente, in cui l’uomo è solo in quanto Soggetto 176. Il
Soggetto, il cui nome proprio rispetto all’epoca è Lavoratore, è il nuovo dominatore, il «dominatore
dell’incondizionato dominio del mondo», il portatore di una giustizia ordinatrice, il detentore della
potenza incondizionata. Egli deve essere visto metafisicamente, in quanto appartenente ad un ordine
gerarchico determinato dalla Forma. Il Lavoratore, la Forma del Lavoratore è Figura del risveglio,
del rinnovamento e contemporaneamente del compimento della Metafisica177. Come suggerisce
però il termine tedesco Vollendung, il compimento è qualcosa di diverso rispetto alla Fine, alla
Ende, ed è questo che Heidegger tiene sempre a mente leggendo Jünger. Il Compimento della
Metafisica non è ancora la sua Fine178.
170
171
172
173
174
175
176
177
178
M. Heidegger, Ernst Jünger, pp. 333-335.
Ivi, pag. 229.
Ivi, pp. 231-233.
V. Blok, An Indication of Being, pp. 198-201.
M. Heidegger, Ernst Jünger, pp. 240-241.
Ivi, pag. 245.
Ivi, pp. 245-247.
Ivi, pag. 249.
C. Resta, Heidegger e il tecnototalitarismo planetario, pp. 88-91.
42
Sullo sfondo di quanto scritto fino ad ora possiamo brevemente approfondire anche
l’interpretazione heideggeriana del Tipo, a cui il filosofo dedica molte meno pagine. Se da un lato la
vicinanza al modo in cui è pensata la Forma è notevole, più di quanto avvenga in realtà nell’opera
di Jünger, alcune importanti distinzioni vale la pena ripercorrerle.
In primo luogo, è detta Tipica la procedura attraverso cui l’uomo arriva a corrispondere al Tipo. La
Tipica è livellamento, levigatura, chiarezza univoca, uniformità, rimozione dell’originale,
organizzazione, è il modo in cui la Forma del Lavoratore mobilita l’intera umanità. La Tipica
determina l’uomo rendendolo Lavoratore, pur essendo a sua volta già determinata dalla Forma.
Come la tecnica, la Tipica è un’interpretazione metafisica dell’ente e della sua verità 179. Siamo di
nuovo al cospetto di quella circolarità che abbiamo ormai a lungo ripetuto e che continueremo a
ripetere: non solo ogni uomo, ma anche ogni aspetto del pensiero è, nell’epoca della tecnica e con
Jünger in particolare, sia determinato che determinante, sia interpretato che interpretante, sia
mobilitato che mobilitante.
In secondo luogo ed in virtù di quanto appena detto, il Tipo è Forma suprema della soggettività.
L’esser-levigato è la sua determinazione fondamentale, la sua funzionalità principale risiede nella
calcolabilità, nella semplicità del suo poter essere esposto al calcolo e alla pianificazione.
L’uniformazione normativa diviene nel Tipo l’unica Legge, che elimina ogni incertezza dal
Soggetto: la certezza è calcolabilità incondizionata del Tipo, a cui importa solo correggere ed
ammaestrare il mondo per assicurarsi stabilmente in esso. Fondare una nuova gerarchia, la cui
Forma risiede nel Tipo, equivale a fondare una nuova sicurezza sull’ente e sulla sua
controllabilità180.
In tale direzione si orienta la levigazione messa in moto dalla Forma del Lavoratore: uniformità,
automatismo e ritmicità sono finalizzate a raggiungere il Tipo e a garantire l’anonimo, l’unico nonpiù-uomo che può inserirsi correttamente in un ordinamento gerarchico del genere. L’univocità
dell’anonimato totale garantisce la conchiusa compiutezza, nei termini di una inclusività
planetaria181.
179 M. Heidegger, Ernst Jünger, pag. 343.
180 Ivi, pp. 343-345.
181 Ivi, pag. 347.
43
3. Accecarsi nel Soggetto
Jünger, nella sua descrizione del reale effettivo, adempie ad un compito essenziale: il lavoro
jüngeriano è, per Heidegger, lavoro di detonazione. Egli fa saltare in aria ciò che copre l’epoca della
tecnica, rivelandone il fondamento più nascosto. Mostrare senza filtri, questo il merito innegabile di
Jünger.
D’altro canto, però, gli effetti di questa “esplosione” si arrestano nei pressi di ciò che è altrettanto
essenziale. Una volta rimossi i frantumi delle scorie che limitano lo sguardo, Jünger non può
piazzare un’altra carica sulla metafisica della soggettività, continuando a muovere il suo lavoro di
detonazione esclusivamente entro i confini tracciati da essa.
L’esplosione non è qui necessaria, ciò che occorre davvero è l’oltrepassamento, verso l’altro inizio
conforme alla Storia dell’Essere. La distruzione libera ciò che ancora rimane nascosto, ma non
oltrepassa mai la metafisica, ricade anzi in essa182.
Ciò che Jünger non si pone è la domanda sulla Verità: nella volontà di far saltare in aria ciò che
nasconde la verità (con la v minuscola) della sua epoca, non riesce a fermarsi e domandare
profondamente l’essenza della Verità (rigorosamente maiuscola), limitandosi a pensare attraverso
essa. È in questo che sta il maggiore punto di contatto con la Soggettività Metafisica183.
Soggettività è per Heidegger già sempre autoinstallazione come assicurazione di sé, la cui verità è,
pertanto, solo ciò che è vero per la coscienza, verità di ciò che è ritenuto vero. La Soggettività
moderna rapporta la verità sempre e comunque a Sé stessa, per assicurarsi l’assicurazione dell’ente.
Una verità quindi strumentale, orientata al dominio ed alla manipolazione del reale184.
La persistenza del subiectum è centrale nell’opera Der Arbeiter, in quanto la nuova umanità,
rappresentata dalla Forma del Lavoratore, pone sé stessa come centro e misura. L’uomo che si
afferma come fondamento e fine dell’ente è essenza della Soggettività moderna, ed è proprio in
questo modo che si determina nel libro di Jünger185.
Il Soggetto che si pone su Sé stesso fa della sua auto-legislazione la legislazione del mondo intero:
ciò vale per il singolo quanto per tutte le determinazioni più, apparentemente, collettive. «L’uomo
non è meno soggetto, bensì lo è più essenzialmente quando si comprende come nazione, come
popolo, come razza, come un’umanità posta in qualche modo su se stessa 186». Il porsi come
principio ultimo, addomesticante il reale intero, è comune a tutte queste forme.
La necessità di ordinare il mondo pone già sempre il caos come il senza-senso: un mondo ordinabile
deve per forza esistere prima di tutto come caos, a cui è necessario dare una forma, in cui bisogna
stabilire gerarchie, al quale bisogna dare un senso. Porsi come il donatore di senso è l’istanza
suprema del Soggetto,che non domina più solamente Sé stesso, ma oggettiva la propria volontà di
dominio, rivendicando come legittima solamente la propria auto-legislazione. Quest’ultima diventa
così auto-giurisdizione, deputata ad ogni giustificazione. Al di fuori dell’auto-giurisdizione del
Soggetto esiste solo un caos che chiede di essere legittimato, giustificato, ordinato e dominato 187. Il
Subiectum dà e conferisce senso, al mondo oltre che al proprio fondamento, non ammettendo alcun
diritto legittimo, all’infuori del proprio. L’uomo riconosce solo la propria incondizionata sovranità.
L’intera opera di Jünger si articola su questo pensiero del Soggetto, esperendone la manifestazione
moderna e più propria dell’epoca tecnica. Egli non mette in alcun modo in dubbio le determinazioni
dell’uomo: homo sapiens, homo faber, homo natura, homo ludens, l’homo militans di Jünger si
inserisce in questa catena già interpretata dalla metafisica, andandone a comporre l’ultimo tassello.
182
183
184
185
186
187
Ivi, pag. 41.
Ivi, pag. 45.
Ivi, Ibidem.
Ivi, pag. 59.
Ibidem.
Ivi, pag. 61.
44
L’incondizionata antropomorfia della soggettività assoluta è data come ovvia e, pertanto, rimane
non interrogata188.
Il riferimento iniziale per l’interpretazione dell’uomo è, però, non Jünger, il quale poggia su
concezioni precedenti, portandole semplicemente a compimento, ma Aristotele. L’aristotelico
‘uomo come animal rationale’ contiene in sé le possibilità dello sviluppo futuro nella direzione del
subiectum189.
Rispondendo e continuando il progetto aristotelico, che è in realtà metafisico e non ascrivibile ad un
singolo pensatore, Jünger riesce ad essere compiutamente moderno, nella forma più estreme. La
Soggettività, nel suo caso, è esperita, conformemente al modo comandato dalla tecnica, come
detenzione di potenza, che erige nel caos l’oggettività della propria soggettività, auto-imponendosi,
auto-legittimandosi e nullificando ciò che esce fuori da tale oggettività190.
Il realismo eroico jüngeriano, nel dire sì al reale, dice sì anche a questo Soggetto ed all’idea del
‘vincitore’: vince chi scrive la storia e determina l’arte, l’intera nomenclatura del genio creatore, del
combattente, dell’eroe, del credente e del sacerdote è fondata, per Heidegger, sul subiectum che
detta la sua legge. L’unica verità di questa vittoria è la potenza, «la verità dell’essere come sicurezza
dell’assicurazione dell’efficacia del reale effettivo»191.
Con Jünger siamo ormai già nel compimento della Soggettività, lì dove si pensa
antropologicamente, non si riconosce il fondamento di questo pensare, si assume tutto come
semplicemente presente, viene considerato decisivo l’aver ragione al posto della Verità,
irrigidendosi in un modo di essa, viene invocata l’ovvietà come criterio di approvazione: questo
irrigidimento sulla Soggettività è semplicemente un abbaglio dovuto alla preminenza dell’ente in
quanto reale effettivo. Jünger in questo senso è pienamente abbagliato. La pienezza dell’abbaglio è
l’accecamento, proprio dell’epoca della Tecnica192.
Ma come oltrepassare l’accecamento? Ammettendo tutto ciò come tale, riconoscendovi
l’appartenenza alla verità dell’Essere e, con ciò, il suo originario ed essenziale oltrepassamento, già
sempre deciso dall’Essere193.
Detto in altri termini, Heidegger ci sta chiedendo semplicemente di riconoscere la completa
compromissione della Soggettività con la metafisica. Assumendo tale compromissione, bisogna
però accompagnarvi il pensiero della necessità del suo passaggio, della sua transitorietà, della
possibilità della sua Fine. In quanto storiche poiché appartenenti alla Storia dell’Essere, la
Soggettività moderna e la concezione di uomo che ad essa soggiace sono destinate a passare.
Pensare e ricordare, in ciò il compito essenziale, per non irrigidirsi nell’abbaglio.
188
189
190
191
192
193
Ivi, pp. 72-73.
Ivi, pag. 133.
Ivi, pp. 139-141.
Ivi, pag. 173.
Ivi, pp.177-179.
Ivi, pag. 179.
45
4. Liberalismo, Progressismo, Libertà Moderna
L’eco politica de L’Operaio abbiamo ormai ampiamente compreso come e in che direzione leggerla.
Gerarchia, livellamento, rimozione dell’originale e dell’atipico, fedeltà militare al Tipo,
meccanizzazione dell’individuo: la descrizione della nuova società jüngeriana, già ad una prima
lettura, pone soprattutto interrogativi sulla libertà. Heidegger non sfugge a tali domande,
rintracciando però, all’interno dell’orizzonte metafisico entro cui L’Operaio si muove, delle
convergenze e delle continuità che scuotono radicalmente sia le coordinate ideologiche di Jünger,
sia la concezione moderna di libertà.
Se l’inizio della Soggettività moderna viene fatto risalire a Descartes, l’inizio dell’età moderna
viene invece qui assegnato ad un altra figura, ben più insolita ed inaspettata: «Il principe è l’inizio
dell’età moderna194».
Heidegger non menziona Descartes, quindi, bensì Machiavelli, l’autore di quello che, forse, è stato
il più grande trattato di strategia e tecnica politica mai scritto. Dedicato a Cesare Borgia, Il Principe
è un’opera di straordinaria importanza, oltre che storico-politica, anche filosofica. Qui, accanto alla
lunga serie di questioni pratiche e contingenti, troviamo una vera e propria genealogia del potere:
Virtù e Fortuna sono gli elementi che vanno dosati saggiamente, recepire e direzionare ciò che il
Fato predispone è il compito ed il talento di chi deve governare195.
Cosa trova Heidegger in un’opera tanto lontana da quello che è la sua formazione, i suoi interessi ed
il suo stesso modo di filosofare? La cultura italiana, d’altronde, non è mai stata centrale negli
interessi del filosofo. Eppure Machiavelli pare qui, invece, condividere qualcosa di fondamentale
con Jünger.
Il rapporto è storico, cioè assolutamente non storiografico. Entrambi, agli occhi di Heidegger,
pensano la medesima cosa, seppur da differenti “postazioni”. Sia Machiavelli che Jünger pensano
alla lotta come fondamento della soggettività, nella sua volontà di oggettività incondizionata, di
dominio su tutto l’ente. Due pensieri che, quindi, si situano perfettamente nel rapporto soggettooggetto196. Tale rapporto essenziale è, però, l’essenza della tecnica, in quanto rapporto metafisico
fondamentale. La soggettività che si pone di fronte ad un oggetto, nell’ottica di esercitare quindi il
suo dominio su di esso e su ogni altro ente, regge non solo l’intera metafisica, ma nel suo estremo
compimento travalica nella tecnica. Già qui la Tecnica non è intesa come mera mobilitazione, ma
già come fondamento della verità dell’essere, nel suo darsi come Machenschaft197.
Jünger e Machiavelli condividono così un rapporto essenziale, fondato sulla appartenenza reciproca
ad un pensiero che mira al dominio dell’ente in vista di un fine: L’Operaio domina l’ente mediante
la Tecnica finalizzata al Lavoro, Il Principe domina l’ente «ancora nella stretta cerchia di ciò che è
soltanto politico e di ciò che è italiano; in questo già il ruolo dell’arte della guerra e della strategia
di guerra198». Il fondamento comune, per Heidegger, è la Lotta istituita dal rapporto soggettooggetto, che prosegue in direzioni divergenti.
L’altro grande tema politico de L’Operaio è, ovviamente, la contrapposizione Arbeiter-Borghese che
attraversa tutto il libro. Se da un lato Heidegger ribadisce ciò che scrive Jünger, ovvero l’estraneità
del Lavoratore a qualsiasi determinazione di ceto, di classe, l’estraneità a qualsiasi organo
economico, all’utilità ed al profitto, d’altra parte egli mette in dubbio l’essenza di tale
contrapposizione199. Se questa demarcazione richiama ad un’Altra realtà effettiva, quella della
volontà di potenza contrapposta alla sicurezza borghese, allo stesso tempo bisogna domandarsi se
non sussistano in realtà delle somiglianze altrettanto determinanti. Sia la “nuova Realtà” che il
mondo della borghesia condividono, secondo Heidegger, la concezione di Libertà come «auto194
195
196
197
198
199
Ivi, pag. 137.
N. Machiavelli, Il Principe, Dante Alighieri, Città di Castello 1945.
M. Heidegger, Ernst Jünger, pag. 137.
Ibidem.
Ibidem.
Ivi, pag. 199.
46
crazia dell’umanità nella soggettività200». La presunta nuova Libertà, conquistata dall’Arbeiter, non
potrebbe in realtà essere solo il perfezionamento della precedente Libertà borghese? Anche alla luce
del platonismo ribaltato che Heidegger imputa a Jünger, è impossibile non scorgere almeno una
continuità tra le due rivendicazioni di libertà201.
Tale ribaltamento della contrapposizione jüngeriana trova conferma nella stessa società industriale,
di cui l’Arbeiter è espressione e prodotto: è il Borghese a determinare già sempre il Lavoratore che
non riesce a vedere sé stesso in altro modo. Jünger svaluta questo dominio come ‘dominio
apparente’ , ma ciò non basta all’interpretazione di Heidegger. Non è semplicemente la
determinazione della Borghesia a trasformare l’essenza dell’uomo in Lavoratore, ma è l’intero
apparato della tecnica a modificarne l’essenza. L’Arbeiter non lavora semplicemente alla macchina
ma, in quanto lavorante, la sua essenza è appunto trasformata in ciò che egli è nell’epoca della
tecnica202. Il dominio è quindi più profondo, non si tratta solo di un apparente dominio Borghese sul
Lavoratore, ma della realtà effettiva che viene determinata per e a partire da entrambi.
Heidegger smaschera la contrapposizione jüngeriana sia dal punto di vista metafisico, mostrando
l’appartenenza delle due Forme del Tipo alla storia della metafisica, sia da un punto di vista
politico, riconducendole alla Gesellschaft, la Società, intesa come costruzione liberale e quindi
essenzialmente moderna. Società è società borghese, un nome per la convivenza tra gli uomini
basata su un contenuto economico: la formula dell’accordo razionale tra gli interessi è il vincolo che
unisce le contrapposizioni di egoismi individuali. La concezione contrattuale legittima così un
modo di intendere il vivere assieme sempre e comunque determinato dalla componente economica
del profitto, del vantaggio e del guadagno egoistico203.
Il termine Gesellschaft è assunto da Heidegger in maniera fortemente riconducibile al contesto della
Rivoluzione Conservatrice204. Gesellschaft è sconvolgimento e frantumazione della Gemeinschaft,
la comunità primitiva, priva delle tensioni strutturalmente insite nella contrapposizione di egoismi.
È solo a partire dal deterioramento della Comunità che si formano i ceti, le classi come forme di una
Società che porta già sempre con sé la necessità del conflitto come lotta tra ceti205.
Conflitto in questo caso non ha, però, la valenza eraclitea del Πόλεμος 206: il “padre di tutte le cose”,
di importanza enorme per Heidegger specialmente nel dialogo con Schmitt 207, nell’ordinamento
sociale borghese è ridotto a lotta per la rivendicazione e l’appropriazione di diritti. «La lotta tra i
ceti non sconvolge mai la società nel suo insieme e non attacca mai il ‘principio’ della sua
costruzione. Nessun sovvertimento dell’articolazione cetuale 208». La sovversione dell’ordinamento
borghese non è così mai pensata, poiché sono le classi stesse ad avere come principio l’interesse
economico. Il pensiero del conflitto “sociale”, nel senso di appartenente alla Gesellschaft, è quindi
mantenuto saldamente entro gli orizzonti della borghesia e mai può, nella prospettiva heideggeriana,
realmente mettere in discussione l’essenza della Società209.
In questo senso, per Heidegger, Jünger assume il termine società nel significato che esso ha nel XIX
secolo, l’epoca borghese contro cui L’Arbeiter dovrebbe in realtà scagliarsi: la determinazione è al
fondo economico-socializzante, in direzione di un contenuto che è sempre finalizzato
all’organizzazione, alla pianificazione ed al profitto. La Gesellschaft come Aktiengesellschaft,
Hochzeitsgesellschaft, Reisegesellschaft, come aziende finalizzate ad una socievolezza
200
201
202
203
204
205
206
207
208
209
Ivi, pag. 201.
Ivi, pp. 201-203.
Ivi, pp. 207-209.
Ivi, pp. 209-211.
F. Tönnies, Gemeinschaft e Gesellschaft, Laterza, Bari 2011.
M. Heidegger, Ernst Jünger, pag. 211.
Eraclito B 53, DK.
D. Di Cesare, Heidegger e gli Ebrei. I «Quaderni Neri», pp. 150-170.
M. Heidegger, Ernst Jünger, pag. 211.
Ivi, pag. 213.
47
economicistica, egoistica e contrattuale, costituiscono l’essenza della società da cui nemmeno
l’eroico Jünger riesce a svincolarsi210.
Nell’epoca della tecnica la determinazione cetuale ha ormai travalicato i suoi propri confini. Alla
domanda di Sieyès ‘che cos’è il Terzo Stato? 211’, Heidegger risponde «Attualmente nulla; in verità
tutto212». L’appartenenza ad una classe non è più eludibile, poiché, ormai, siamo tutti Lavoratori.
Ad essere sotto accusa è l’intera concezione della libertà moderna che soggiace al liberalismo: il
soggetto moderno rivendica esclusivamente l’auto-legislazione. Libertà diventa autodeterminazione. Nell’epoca moderna esser-liberi significa tenere il passo col tempo, stare
nell’attualità del progresso, pensare il proprio tempo come progressività vincolandosi ad esso213.
L’autolegislazione ha carattere normativo, pertanto la rivendicazione di libertà pretende già sempre
di istituire la sua propria nuova legge, la pretesa dell’ammaestramento del mondo. Il soggetto che
dice sì all’assoggettamento ed all’ammaestramento dell’ente è il soggetto veramente libero nella
modernità214.
L’auto-legislazione che si situa nell’attualità del proprio tempo è già sempre appartenenza alla
propria epoca. L’epoca della tecnica è epoca del Calcolo, pertanto la sua corrispondente
rivendicazione di libertà è auto-legislazione mediante il Calcolo 215. Di nuovo, ammaestramento del
reale.
Il soggetto che rivendica la propria libertà, inoltre, rivendica sempre la libertà da qualcosa, quella
che chiameremmo libertà negativa: dai dogmi, dalla tradizione, dalla Chiesa, la modernità è sempre,
per Heidegger, un liberarsi-da. Il senso del moto liberatorio è però quello dell’autofondazione su Sé
stessi, l’assicurazione del proprio sé, ponendosi e sapendosi come trasparente, evidente, calcolabile
e determinato del tutto autonomamente216.
Questa rivendicazione “autopoietica” è resa possibile dalla metafisica di Descartes, che la pone
come regola dell’umanità moderna: il subjectum determina sia la sua soggettività che, a partire da
essa, il mondo come sottoposto a questa. Rivendicazione di libertà è quindi, innanzitutto,
rivendicazione della propria essenza, rispetto ad un mondo in cui l’uomo moderno si pone come
centro e misura217.
L’età moderna porta con sé un altro potente mito, quello del progresso. Nel progresso tecnico
coesistono il principio del risparmio, della minima spesa, assieme al principio economico della
massima utilizzazione possibile. È questo tipo di progresso che fornisce il modello rispetto a cui
“stare al passo coi tempi”, questo lo standard al quale la libertà moderna aspira 218. La forma
dell’uomo storico diviene quindi quella della progressività come miglioramento, abbellimento,
sicurezza, ma anche come concorrenza, competizione, dominio sugli altri, ammaestramento della
vita in direzione di ciò che è desiderabile. Ecco il volto rassicurante della tecnica moderna, non più
legata alle macchine da guerra, alle mitragliatrici da trincea, ma improntata verso il progresso come
progressività. La progressività non è più imposta, è anche desiderata, diventa essa stessa
desiderabilità. La concorrenza ha spazzato via, apparentemente, le trincee, per fare spazio alla corsa
all’acquisto219.
In realtà, tale progresso non è progresso, non si fa nessun passo in avanti, la desiderabilità non
conduce l’uomo più in là, trattenendolo invece nel compimento di uno stato essenziale. Non c’è
nessun mutamento220.
210
211
212
213
214
215
216
217
218
219
220
Ibidem.
E. J. Sieyès, Che cosa è il Terzo Stato?, Editori Riuniti, Roma 1992.
M. Heidegger, Ernst Jünger, pag. 213.
Ivi, pag. 261.
Ivi, pag. 263.
Ivi, pag. 265.
Ivi, pag. 267.
Ivi, pag. 269.
Ivi, pag. 281.
Ivi, pag. 283.
Ibidem.
48
Ciò che realmente avviene è un “restringimento” del mondo, in cui è ammesso solo ciò che è
dominabile, in modo che l’uomo sia sempre più esteso ed il suo assoggettante-assoggettamento sia
sempre più potente. Egli può finalmente dimenticarsi del tutto della domanda sull’Essere, grazie ad
un alleggerimento dei rapporti di vita, un miglioramento delle condizioni di lavoro, l’abbellimento e
l’ampliamento della vita umana, la conquista e la dominazione del mondo e della natura221.
La fede nel progresso è la forza decisiva della mobilitazione totale e, quindi, del suo dispiegamento
come potenza metafisica. Rivendicare la libertà come ammaestramento è l’autentico compimento
della metafisica, animato dalla fede e dalla desiderabilità del progresso il soggetto moderno può
finalmente fondarsi esclusivamente su di sé222.
Il bersaglio polemico di tutto ciò è, evidentemente, il liberalismo. Heidegger lo intende come
l’assicurazione politica dello spazio di azione del singolo, vincolato solo attraverso le leggi dello
Stato di Diritto. A dominare è, però, la legge del più forte, dato che la componente economica
liberale si fonda, secondo Heidegger, sulla libera concorrenza, il vero gioco di forze capitalistico.
l’economia domina poiché il liberalismo è sistema politico basato, prima di tutto, su rapporti
contrattuali, pertanto la contraddizione tra Stato di Diritto ed economia non è una semplice
anomalia, ma è la quintessenza dell’apertura di possibilità d’imposizione nel modo della libertà
moderna223.
Il pensiero heideggeriano, a nostro avviso, coglie qui un punto epocale, che anche dopo più di 80
anni dice moltissimo ad ognuno di noi. Il soggetto moderno, libero nel suo por-si-su-di-sé, cerca e
trova esclusivamente in sé stesso il senso e la misura di ogni cosa. La tanto sbandierata
comunicazione del XXI secolo si è rivelata un mero collidere di tante soggettività, mai in grado
realmente di aprirsi all’Altro, che cercano solo nel mito della sicurezza e dell’assicurazione un
fondamento stabile. Il risultato di questo egoismo planetario non è, però, in nessun modo l’approdo
ad una certezza ottimistica. L’unico vero risultato è una solitudine infinita e senza sbocchi, più
simile all’isolamento carcerario che all’autentica solitudine della meditazione; l’ansia sociale è
ormai la norma, in un sistema in cui la colpa del fallimento ricade sempre e comunque sul singolo,
che non ha saputo, forse non ha voluto, “farsi strada”, “stare al passo coi tempi”; la chimera del
successo e della competizione è l’unica legge; chi tenta di mettere in discussione tutto ciò è un
pazzo, noioso e pericoloso. Heidegger sembra quasi parlare alla generazione di chi scrive,
lasciandoci l’eredità del compito di custodire un’altra Verità, libera dalla libertà moderna, che
riconosca la genealogia del soggetto moderno e non dimentichi che, quella cartesiana, è una verità
storica e, pertanto, deve compiersi e finire.
E Jünger in tutto ciò?
In poche righe, l’accusa più grave. Ne L’Operaio la rivendicazione essenziale è rivendicazione di
libertà: sebbene si qualifichi come rivendicazione di lavoro, sia quest’ultima che il Lavoratore
stesso sono determinati dalla libertà moderna224.
D’altronde, la descrizione del compimento della metafisica non può, come ormai abbiamo imparato,
sottrarsi alla determinazione ultima della Storia della Metafisica, risultando completamente interna
alle “dinamiche” di questa Storia.
221
222
223
224
Ivi, pp. 283-285.
Ivi, pp. 285-287.
Ivi, pag. 277.
Ivi, pag. 275.
49
5. La Costruzione Organica come Biologismo: Heidegger e la Biopolitica?
Scorgiamo, verso le battute finali delle Annotazioni, un interesse crescente verso le implicazioni che
potremmo definire biopolitiche dell’epoca tecnica, implicazioni che, ancora una volta, sono portate
alle estreme conseguenze proprio da Jünger.
Il termine biopolitica assume la sua rilevanza filosofica, in realtà, solo dopo la morte di Heidegger,
pertanto non appare mai in queste pagine e possiamo anche tentare, retrospettivamente, di
comprendere perché, con larga probabilità, non sarebbe stato un termine respinto dal pensiero
heideggeriano.
Resa celebre da Michel Foucault225, la biopolitica si interroga sui modi di disciplinamento della
Vita, sulla pervasività del potere, sul suo insinuarsi anche negli aspetti più “fisici” e “carnali”
dell’essere umano. Da una parte categoria filosofica, dall’altra metodo di auto-fondazione ed autostrutturazione dello Stato Nazione, mostra tutta la sua importanza in relazione alle scelte quotidiane
che ognuno di noi compie: cosa e in che modo mangiamo, come e perché ci laviamo, in che modo
percepiamo salute e malattia, sono solo alcuni degli ambiti in cui la nostra decisione è già, per dirla
con Heidegger, pre-compresa da un potere che necessita di controllare e disciplinare anche questi
aspetti della vita226. Oggi più che mai diete, palestre, pubblicità non si limitano più solo ad una
ricerca del profitto, mirando invece ad inserirsi più a fondo nel vero e proprio “organismo” umano,
plasmandolo secondo standard da interiorizzare e rispetto ai quali strutturare quasi tutta la propria
esistenza.
Esempi di lucido perseguimento di una biopolitica li abbiamo, però, anche prima della formulazione
foucaultiana, andando a ritroso nel tempo: era, stando a Platone, mito fondativo per ogni ateniese
quello della Madre Terra, della Buona Nascita, della correlazione tra Legge e Natura, tra origine
della Vita e superiorità “genetica” di Atene, secondo una narrazione in cui, secondo noi, non è
scorretto presagire la dottrina eugenetica227. È il nazismo a perseguire, nella sua forma più terribile e
spregiudicata, una politica che è soprattutto biopolitica, a partire dal criterio di funzionamento dei
campi di sterminio, criterio di morte che, quindi, viene strutturato per forza in relazione alla Vita
stessa228. Ma è anche ad una propaganda a sfondo biologico-genetico, in cui le parole d’ordine si
riferiscono alla purificazione medica, quasi clinica, della “razza” intesa come organismo malato, o
al mito ancestrale del Sangue come essenza metafisica nascosta dell’Ebreo 229, che occorre fare
riferimento per comprendere l’orizzonte biopolitico nazionalsocialista in tutta la sua tremenda
portata.
Ma qual è la problematicità che a nostro avviso si pone nell’accostare il termine Biopolitica ad
Heidegger?
Alla distinzione tra ζωή e βίος, che sta al fondo della biopolitica stessa, occorrerebbe dedicare un
intero corso universitario. Ci limitiamo qui ad accennare brevemente i nodi storico-concettuali: di
matrice aristotelica, la differenza sta in un ζωή che è pre-condizione di ogni esistenza, come vita
indipendente, appartenente a chiunque vive, ma svincolata da contesti, legami, rapporti, condizioni
sociali. Travalicando nel βίος assume le sue caratteristiche vincolanti, inserendosi in contesti a sé
preesistenti. Lo scarto è, quasi paradossalmente, tra vita “Biologica” come ζωή e vita “Politica”
come βίος, dall’astrazione del singolo organismo alla sua correlazione nell’orizzonte politico(6 pol
arist).
Tornare invece ancora una volta sul termine Politica, dal greco πόλις, non ci interessa qui farlo,
dato che c’è chi ha ampiamente già trattato la questione delle origini greche della politica(petr.
225
226
227
228
Michel Foucault, La volontà di sapere, Feltrinelli, Milano 1978.
Emmanuel Betta, Biopolitica e Biopotere. Introduzione, in Contemporanea 12 n. 3, Il Mulino 2009, pp. 507-509.
Platone, Menesseno, in Ippia Maggiore, Ippia Minore, Ione, Menesseno, Einaudi, Torino 2012, pp. 415-497.
D. Di Cesare, Stranieri Residenti, pp. 213-216 e D. Di Cesare, Heidegger e gli Ebrei. I Quaderni Neri, pp. 214223.
229 D. Di Cesare, Heidegger e gli Ebrei. I Quaderni Neri, pp. 130-136.
50
Modelli o Democrazia). Più interessante è il rapporto di Heidegger col termine Politica, con la
parola greca πόλις e con ciò che l’originarietà di quest’ultima implica.
Se il passaggio ζωή e βίος, ma più in generale tutto il discorso biologico, è affrontato in un primo
tempo ricorrendo all’opera di Von Uexkwüll230, in particolare per ciò che riguarda l’analitica
esistenziale dell’Esserci nel mondo-ambiente231 ed il problema dell’animalità232, in seguito la
Biologia assumerà, come vedremo tra poco, un carattere sempre più legato al dominio tecnico
planetario. È invece nel “dialogo” con Hölderlin e Sofocle che Heidegger ci dona la sua
interpretazione pre-politica della politica233: in netta contrapposizione a Carl Schmitt234, troviamo
qui il rifiuto di una categoria del Politico, onnipresente nella Germania nazista, frutto
dell’appiattimento di ogni domanda essenziale su problemi sociali, di gestione delle risorse e del
potere. Per Heidegger l’essenza nascosta del Politica si nasconde nel termine greco πόλις, intesa in
maniera inconsueta, non come Città o Città-Stato, ma come Polo, sede del soggiornare storico
umano. La πόλις è la sede entro cui avviene la storicità dell’uomo, in cui già è ricompresa la
Politica stessa. Entro la sede è disposto ciò-che-richiede-disposizione, nel modo in cui esso lo
richiede, non mediante la mera manipolazione di enti. La πόλις è più originaria della Politica,
poiché la fonda aprendone la possibilità235.
Sarebbe alquanto scorretto tentare di “incollare” forzatamente ad Heidegger la riflessione
biopolitica che, come abbiamo già detto, sorge e si sviluppa in forma esplicita solo successivamente
alla morte del filosofo. Non solo, risulterebbe anche piuttosto insignificante, visto che il ricondurre
necessariamente il pensiero heideggeriano sulla Biologia alla riflessione biopolitica non apre, a
nostro modesto parere, alcuna prospettiva da approfondire. In gioco c’è molto di più della semplice
“etichettatura”: Heidegger, tramite la descrizione di Jünger, presagisce un futuro inquietante, i cui
indizi sono già in azione, completamente dispiegati nel suo tempo. Egli, come ci sforzeremo di
mostrare, intuisce la deriva biopolitica della tecnica, la capacità scientifica di programmare,
calcolare, sfruttare la totalità del reale, non più sul terreno delle sole risorse naturali o del lavoro
umano. La pro-vocazione (Herausfordern) si estende al punto da rendere perfino ζωή e βίος
penetrabili da ciò che è meccanico, finalizzato all’assicurazione di una stabile appropriazione, in
direzione di un dominio incondizionato che garantisca il pieno assoggettamento dell’ente. È nel
confronto con Jünger che viene fuori con chiarezza l’origine della visione di questo presagio.
Per Jünger, il mondo organico è detto “l’Elementare”: elementare è tutto ciò che attiene alla
dimensione sensibile. Lo spazio elementare è lo spazio entro cui avviene la battaglia, intesa come
ebbrezza, distruzione, pericolo, prodigio. L’irruzione e lo scatenamento della dimensione
elementare stessa, però, avviene entro la dimensione elementare stessa. Secondo Heidegger col
nome Elementare dobbiamo pensare a ciò che la metafisica ha tradizionalmente inteso come il
‘Sensibile’, che vige solo sulla base di una contrapposizione, anch’essa tutta metafisica, tra Uomo e
Mondo. La determinazione jüngeriana dell’Elementare è ancora squisitamente platonica, poiché
pensa, sia il Mondo che l’Uomo ancora a partire dall’είδος236. Pur ribaltandone le premesse,
l’Elementare rimane saldamente ancorato al platonismo: Jünger, nel suo tentativo di esprimere la
totalità dell’ente, esprime solo la sua preminenza sull’essere237.
230 M. Bassanese, Heidegger e Von Uexkwüll: filosofia e biologia a confronto, Associazione trentina di scienze umane,
Trento 2004.
231 M. Heidegger, Essere e Tempo, pp. 85-100.
232 M. Heidegger, Concetti Fonadmentali della Metafisica, Il Melangolo, Genova 1999, pp. 230-259.
233 D. Di Cesare, Heidegger e gli Ebrei. I Quaderni Neri, pp. 165-166.
234 C. Schmitt, Le Categorie del Politico, Il Mulino, Bologna 1972.
235 M. Heidegger, L’Inno Der Ister di Hölderlin, pp. 73-84.
236 M. Heidegger, Ernst Jünger, pag. 217.
237 Ivi, pag. 219.
51
L’Elementarismo di Jünger è quindi «senza-orizzonte e senza-verità», ma nonostante ciò
inconfutabile. Heidegger sembra quasi dire che l’Elementarismo è un Biologismo, poiché non si
riconosce come fondato, ritirandosi in un «fondamento che non riconosce principi fondanti238».
Questo fondarsi solo su Sé stesso serve a porsi come realtà di fatto, come fonte dell’oggettività
incondizionata: la soggettività moderna, secondo Heidegger, trova la sua essenza non in qualcosa di
soggettivo, ma nella sua capacità di porsi come totalmente oggettiva, avente quindi principio ed
origine solo a partire da Sé stessa ed in Sé stessa. Non sapersi e non volersi sapere come interpretato
da decisioni già determinate, questo il carattere proprio dell’Elementare come dimensione sensibile
Soggettività Moderna239. «L’elementare non è mai qualcosa in sé, bensì ciò che è già da sempre
interpretato240».
L’Elementare quindi come auto-fondazione, soggettività-oggettiva, sensibilità contrapposta
platonicamente a ciò che è intelligibile, incondizionata realtà di fatto è un Biologismo. Nel suo
dimenticare di essere qualcosa di già sempre interpretato sta la sua forza ma, anche, la sua
incapacità di prendere decisioni essenziali.
Il compimento definitivo di questo processo di auto-fondazione è raggiunto in quella che è definita,
da Jünger, la Costruzione Organica241. «La costruzione organica è un rilascio definitivo della
tecnica come incondizionata e unica ‘verità’ dell’ente». Non porre quindi più alcuna possibile
fondamento alternativo, alcun senso diverso da quello imposto dalla tecnica, non pensare più una
verità dell’essere che non sia Machenschaft macchinazione: questo il pericolo supremo,
l’impensabilità planetaria della Verità dell’Essere, costituita dalla meccanizzazione totale dell’ente
e, quindi, di qualsiasi svelamento che non sia Macchinazione242.
La Costruzione Organica è anzitutto un nesso centaurico con i mezzi tecnici in cui l’uomo che si fa
centauro diviene indistinguibile dalla macchina che, a sua volta, diviene indistinguibile dall’uomo.
Heidegger vede in ciò il superamento del contrasto tra meccanico ed organico, preconizzato proprio
da Jünger che, nell’esperienza del fronte, aveva avuto modo di provare sulla sua pelle questo nuovo
nesso: il proiettile che dilania la carne, la mitragliatrice che causa smottamenti nel terreno, l’utilizzo
di strumenti sempre più sofisticati e potenti per produrre dolore causano per lo scrittore una costante
inversione dei ruoli tra Uomo e Macchina.
Il Soldato, forgiato dal fuoco delle trincee, esce dalla guerra non più totalmente umano, avendo
ormai incorporato in sé anche la Macchina. L’Operaio è, in questo senso, Uomo-Macchina grazie
alle nuove, inedite possibilità mortifere aperte dalla tecnica. La connessione, che Heidegger appunta
in poche righe ma che legge con straordinaria lucidità, è tra la nuova umanità ed i nuovi mezzi, in
un incessante rincorrersi che è figlio della Trincea243.
La commistione tra ciò che è umano e ciò che è meccanico fa da sfondo e da direzione alla
riflessione BioPolitica di Heidegger: arrivati a questo punto comprendiamo meglio perché,
retrospettivamente, possa risultare pregnante l’accostamento del termine al nostro filosofo. La
riflessione sulla Biologia e sulla Costruzione Organica sviluppata in queste poche pagine si muove
proprio nei termini di una lettura del Biologismo come orizzonte politico. Ricordiamo però che con
il termine Politica, in Heidegger, ci riferiamo sempre a quel modo, secondario e derivato, che
accade, tra gli altri, come mero “spostamento” e gestione di enti all’interno della possibilità aperta
dalla πόλις. Biologismo e Costruzione Organica rispondono proprio ad una manipolazione degli
enti, dettata dalla Machenschaft, improntata a penetrare anche laddove precedentemente, sembrava
impossibile.
Questo grande progetto Biopolitico descritto da Jünger assume, agli occhi di Heidegger, la portata
della Macchinazione in chiave biologica di tutto il reale. Progetto biologico perché attiene
238
239
240
241
242
243
Ivi, pp. 219-221.
Ivi, pp. 221-223.
Ivi, pag. 223.
E. Jünger, Sul Dolore, in Foglie e Pietre.
M. Heidegger, Ernst Jünger, pag. 353.
Ivi, pag. 355.
52
all’Organico, progetto Politico perché manipola l’ente, ciò che si fa avanti è il supremo velamento
di ogni altra possibilità d’essere che non sia Machenschaft. Nulla può sottrarvisi, nemmeno ciò che,
un tempo, si riteneva sicuro ed inviolabile.
Biologismo, Costuzione Organica ed Elementarismo stanno in una stretta e pericolosa relazione,
arrivando, in un certo senso, a sovrapporsi. Per Heidegger l’esito è il medesimo: «l’elementarismo è
soltanto una spiegazione positivistica di tutto ciò che proviene dalla palude originaria e questa è
l’attuazione dell’estremo oblio dell’essere244».
Sul palcoscenico di un mondo completamente dilaniato dalle macchine la soluzione non è, però, né
l’accettazione entusiasta, né il rifiuto reazionario: il compito del pensatore è un altro, più profondo,
più essenziale, che rifiuta le false alternative già sempre metafisiche.
«Una cosa è utilizzare semplicemente la terra; un’altra è, invece, ricevere la benedizione della terra
e stabilirsi nella legge di questa accettazione come nella propria casa, per custodire il segreto
dell’essere e vegliare sull’inviolabilità del possibile245».
Per Heidegger la terra offre, a chi la voglia ascoltare, una via d’uscita dal dibattersi in dicotomie
metafisiche ormai giunte al loro compimento.
Ma fermiamoci qui, poiché molti altri interrogativi sollevano queste poche righe.
Custodire e vegliare, questa la legge segreta che l’Essere comanda.
244 Ivi, pag. 181.
245 M. Heidegger, L’Oltrepassamento della Metafisica, pag. 64.
53
IV. Le Lettere ed il saggio Gestalt
I tre passaggi racchiusi nell’appendice del volume ‘Ernst Jünger’ rappresentano, ai nostri occhi, un
breve quanto significativo momento dell’interpretazione heideggeriana.
La ‘Lettera a Singoli Combattenti’ si compone di due parti, di cui la seconda resta incompiuta, nate
con l’intenzione di rispondere anche a chi si trova al fronte. Ci troviamo di fronte a due tentativi di
lettera, in un certo senso due bozze.
La prima è sicuramente la più “completa”, riporta infatti la dicitura esplicita del destinatario, il
luogo da cui viene scritta e perfino la data, comprensiva di giorno e mese, della sua composizione.
La seconda è invece la più oscura: pur limitandosi ad un ‘Caro G.’ come destinatario, pur indicando
lo stesso luogo, mese ed anno della prima, senza però il giorno, ciò che più la lascia avvolta dal
mistero è la sua incompiutezza, dato che la Lettera si interrompe bruscamente sulla valutazione
della Seconda Guerra Mondiale.
Per ultimo, il saggio ‘Gestalt’ è senza dubbio motivo di grande interesse da parte nostra. Già la
datazione riportata, 1954, ci aiuta a collocarlo in un periodo determinante, nel quale Heidegger ha
già ricevuto, in occasione del suo sessantesimo compleanno, da Jünger l’arcinoto ‘Über Die Linie’,
lo scritto sul nichilismo che sarà terreno di Auseinandersetzung tra i due. Non solo, anche la relativa
risposta heideggeriana può solo venire arricchita dal saggio ‘Gestalt’, essendo quest’ultimo datato
un anno prima dell’apparizione de ‘La Questione dell’Essere’. Sulle vicende legate a questo
scambio non vogliamo qui soffermarci, poiché sono state ampiamente già trattate, in maniera senza
dubbio più completa di quanto qui il tempo ci impone di poter fare 246. Ci interessa però inquadrare
‘Gestalt’ come “precursore” di ciò che Heidegger scriverà ne ‘La Questione dell’Essere’: oltre a
trovare esplicitamente citato ‘Oltre la Linea’, ad iniziare a farsi strada è qui il tema del nichilismo,
che se prima era rimasto costantemente sullo sfondo, qui viene menzionato direttamente e affrontato
di petto.
Anche in questo caso, però, è opportuno ricordare che, al carattere più “saggistico”, sempre nei
limiti della scrittura heideggeriana, della “Lettera a Singoli Combattenti”, va a contrapporsi in
‘Gestalt’ il ritorno di quello stile che abbiamo ampiamente avuto modo di conoscere nelle
Anmerkungen: l’appunto, il frammento, l’annotazione, le frasi interrotte, la successione inspiegabile
di parole, i riferimenti caotici, rendono tanto affascinante quanto complesso un lavoro di
ricostruzione dell’orizzonte di Heidegger. Tenendo sempre a mente quanto detto nei precedenti
capitoli e non precludendosi la lettura de ‘La Questione dell’Essere’ il compito diventa, senza alcun
dubbio, molto più fattibile. Certo, occorre sempre, contemporaneamente, “lasciar-essere” ben più di
qualche parola; ma è, ancora una volta, forse proprio questo il bello di affrontare anche le
annotazioni di Martin Heidegger.
Non resta che mettersi in cammino, per l’ennesima volta. Questo sarà però il cammino più breve,
per via del pochissimo materiale a disposizione, ma non per questo meno intenso.
246 M. Cacciari, Dialogo sul termine. Jünger e Heidegger, in Studi Germanici 59/64, Istituto Italiano di Studi
Germanici, Roma 1983-84, pp. 291-302.
54
1. Lettera al caro signor Groothoff
Singolare ed intensa la meditazione filosofica in cui il destinatario dello scritto, in cui essa è
contenuta, si trova nell’esperienza essenziale che nella lettera è pensata. Heidegger non pensa solo
alla guerra; Heidegger pensa la Guerra indirizzando il suo pensiero, ancora una volta 247, a Groothoff
nel momento in cui quest’ultimo si trova al fronte.
La Guerra è qui pensata come un semplice nome, un’etichetta non più sufficiente a nominare
qualcosa di più profondo. Le manifestazioni belliche riposano già su un fondamento a cui
forniscono solo dirompente esplicitazione, rendendone evidenti gli effetti, chiarendo ciò che, a
lungo, è rimasto velato. Il fronte, la mitragliatrice, il soldato non sono, come in Jünger, la nuova
configurazione di tutto il reale, rimanendo invece, soltanto, forme di manifestazione di qualcosa di
più profondo, qualcos’altro che diviene più afferrabile nella Guerra, ma che non è la Guerra stessa.
Per Heidegger c’è in gioco una differenza ben più originaria del semplice contrasto tra Guerra e
Pace, contrasto che è ancora tutto interno al qualcos’altro che è in gioco248.
A determinare l’essenza di tutte le manifestazioni, Guerra compresa, è la «pre-potenza dell’ente
innanzi all’essere». Questa prepotenza è propria della metafisica, nella sua dimenticanza della
differenza ontologica: a partire da Platone, la Metafisica Occidentale ha “entificato” l’essere, dando
privilegio a ciò che è, invece che all’essere. Il domandare di tutta la Storia del Pensiero Occidentale
è sempre stato, per Heidegger, una lunga domanda sull’ente che nello sforzo di porsi sul piano
ontologico, già sempre ricadeva nel piano ontico. Tale dimenticanza dell’Essere non è, però, una
colpa, ma è anzi l’essenza storica di tutta la metafisica: non siamo qui di fronte ad un oblio
intenzionale, ma al dare per scontato ciò che meriterebbe una meditazione più essenziale, più
profonda. L’analitica heideggeriana, specie nel primo periodo della sua “produzione” filosofica, non
svolge una riflessione critica o accusatorio, limitandosi invece a constatare l’accadere di tale
dimenticanza249. Nel suo “dare per scontato”, nella sua decisione per l’ente, la Metafisica fonda la
propria storicità.
L’ente stesso è determinato dall’interpretazione metafisica, che assume però tutta la sua dirompenza
solo con l’età moderna: l’incondizionata pre-potenza dell’ente è propria della modernità, è
interpretazione dell’ente come possibilità del potenziamento della potenza, come potenzialità. La
metafisica moderna estorce all’ente, già appunto pre-interpretato nella sua preminenza sull’essere, il
suo definitivo compimento, asservendolo al sovrapotenziamento. La strada della modernità, che
sancisce la supremazia ultima dell’ente, la sua preminenza esclusiva e quell’assenza di decisione
che sospinge l’uomo nella mancanza di storia, apre all’eterno presente della Tecnica, dove non è più
possibile alcun domandare originario. La preminenza dell’ente è ormai Macchinazione
(Machenschaft)250.
Per Heidegger, tuttavia, non si tratta di “criticare” la modernità, di vivere nella nostalgia del passato,
in una dimensione reazionaria e passatista. L’abbandono definitivo dell’Essere dipende solo
dall’Essere stesso, dal suo accadere. Il pensatore può solo domandarlo originariamente per fondarne
la Verità iniziale, per poi limitarsi a cogliere i segni dell’Ereignis, dell’Evento che apre l’accadere
dell’Essere, libero ormai dalla gelida presa dell’ente metafisicamente interpretato. La decisione per
l’Essere è però già sempre decisione dell’Essere, prima che dell’uomo. I pensatori possono soltanto
custodirne la Verità, quella Verità che sarà, poi, “cantata” dai Poeti.
Nell’esperienza della Guerra sta il segno del possibile accadere dell’Evento, in particolare nel senso
di stranezza che essa suscita: l’inquietudine che la condizione moderna suscita suggerisce ad
Heidegger che è la modernità stessa a vacillare, compresa la preminenza dell’ente come
247
248
249
250
In questa Tesi Capitolo II, Paragrafo 2.
M. Heidegger, Ernst Jünger, pag. 469.
M. Heidegger, Essere e Tempo, pp. 13-27.
M. Heidegger, Ernst Jünger, pp. 469-471.
55
Macchinazione. Ed è dove qualcosa vacilla che la possibilità di un altro Inizio, pur rimanendo
ancora celato, si annuncia251.
Nella Lettera Jünger incarna totalmente la via della modernità: il rappresentare jüngeriano è
propriamente l’assenza di meditazione, l’incapacità di domandare tipica dell’epoca tecnica. Egli, già
solo con il concetto di Lavoratore come umano rappresentante della Volontà di Potenza, pensa
metafisicamente, nei termini della conformità a rappresentazione. Al merito di illuminare la totalità
del reale, si accompagna sempre quell’atteggiamento eroico, quasi come una condanna, che
pretende di dire sì al reale, senza però mai interrogarne il fondamento. Jünger rimane come irretito
nel sì alla Volontà di Potenza, che gli impedisce di prendere una decisione autentica tra la
preminenza dell’ente come Macchinazione ed il silenzio dell’Essere. L’eroismo non domanda,
quindi non decide e quindi, in fondo, non pensa. Il realismo eroico dice solo sì al reale che descrive,
rimanendo escluso da quell’unica decisione che davvero conta252.
Da qui in poi, per tutto il resto della Lettera, Heidegger rivolge la sua attenzione non più a Jünger,
ma ai Venturi, gli Zukünftigen. Essi sono detti anche ‘die Inständigen im Seyn’, gli insistenti
nell’Essere, coloro che ‘vivono transitoriamente’ rinunciando alla stabilità consolatoria così come
all’eroismo. Il filosofo qui non mira, però, a fornirci un Tipo, come faceva Jünger; anzi, il tentativo
è di discostarsi quanto più possibile dalla delineazione di una qualsiasi Forma a cui aspirare.
Sottratti alla pubblicità ed all’attualità, insofferenti a ciò che fornisce risposte immediate,
strumentali e quotidiane, i Venturi sono invisibili, poiché essenzialmente lontani da tutto ciò che è
proprio della visibilità planetaria. La loro apertura del cuore, così la chiama Heidegger, è un votarsi
completamente all’Essere, preservando l’unica decisione e tenendosi pronti al fronteggiarsi con
l’ente che, nell’Entscheidung, avviene. Il loro custodire la Verità dell’Essere non ha, però, alcuna
funzione: non è né immagine-modello, né esempio per le generazione successive, sottraendosi così
ad ogni effettualità. Nella silenziosa apertura della decisione, essi non hanno nulla a che fare col
modo di pensare della metafisica, perché non pensano all’essere come ad un prolungamento
dell’ente, non si rifugiano nella rappresentazione rassicurante ontica propria della metafisica.
Eppure non rivendicano neppure alcuna straordinarietà, alcun sapere particolare: la loro esposizione
alla transitorietà dell’esistenza è sempre un lasciar-essere ed un lasciar-ad-venire-su-di-sé ciò che
accade. «Poiché questa venuta è l’Essere253». I Venturi sono, insomma, nel modo della Gelassenheit
come custodia della Verità dell’Essere, nel loro tenersi-pronti all’avvenire dell’Evento254.
In queste poche righe troviamo un’insospettabile densità di parole decisive, quelle parole originarie
che aprono questioni epocali già da Essere e Tempo e su cui Heidegger continuerà ad interrogarsi
fino alla fine. Leggiamo nello stesso luogo dei Venturi, dell’accadere, della differenza ontologica,
dell’Evento, del silenzio, della Gelassenheit, della Metafisica, come se, da quella che doveva essere
una riflessione su Jünger, fossimo giunti invece ad un cammino che copre l’intero itinerario di
pensiero heideggeriano. Per chi ha già confidenza con l’opera completa del filosofo, queste pagine
sono semplicemente folgoranti, ed inaspettatamente chiariscono, forse senza nemmeno volerlo,
tantissimi aspetti che torneranno insistentemente altrove.
La Lettera si conclude, non a caso, con Hölderlin, il poeta che ci è lontano, nella più completa
lontananza: troppo impegnati ad assalirlo con la necessità di risposte giornaliere, rassicuranti,
acquietanti, non riusciamo a scorgerne la più prossima vicinanza. La stessa lontananza-vicinanza è
quella dell’Essere che, proprio nella strapotenza dell’ente che lo spinge verso un oblio integrale, è
tanto più prossimo per chi, nel silenzio della decisione essenziale, sa ascoltarlo255.
251
252
253
254
255
Ivi, pag. 471.
Ivi, pp. 471-473.
Ivi, pag. 475.
Ivi, pp. 473-479.
Ivi, pag. 479.
56
2. Lettera al Caro G.
Piuttosto simile per contenuti, vista anche la stessa datazione e la coincidenza dell’iniziale del
destinatario con la lettera precedente, possiamo ipotizzare una certa continuità, quasi come fossimo
in presenza di due versioni della stessa, o comunque di due stesure strettamente collegate.
Il tono della lode al coraggio del ‘Caro G.’, quasi sicuramente Groothoff anche in questo caso,
sembra del tutto non separabile dal finale del testo precedente. Heidegger risponde alla lettera di G.
nella quale «parla il coraggio per la meditazione»: non il fervore patriottico, l’ardore militaresco, la
celebrazione bellica ma una dignità silenziosa, che si sottrae alla dimensione pubblica
dell’onorificenza, al clamore suscitato dall’onore e dal gesto eroico. Anche qui, è l’inappariscente, il
celato, il nascosto a cogliere l’essenza di ogni cosa. Il coraggio di G. è il coraggio della
meditazione, che non è un qualsiasi riflettere o opinare, essendo invece ciò che inizia soltanto
domandando l’Essere: meditare va inteso come un insistere nella domanda sulla Verità dell’Essere,
diventando appunto quegli ‘Inständigen im Seyn’ a cui abbiamo già accennato in precedenza. La
meditazione si discosta da ogni filosofia, non ponendosi mai sul piano della discussione di dottrine,
mettendosi invece sempre in cammino verso la Verità dell’Essere256.
Al caro G, che a questo punto comprendiamo senza ombra di dubbio essere Groothoff, quel soldato
che scrive che in guerra si è avvicinato a Jünger «come mai era accaduto prima» - le parole sono le
stesse della lettera che troviamo citata nei Colloqui -, Heidegger ribadisce, ancora una volta, la
dipendenza della presa di posizione jüngeriana dalla metafisica di Nietzsche. Attraverso esperienze
essenziali, su tutte quella della Guerra, viene reso visibile l’essere dell’ente come Volontà di
Potenza, grazie ad un pensiero che, descrivendo la realtà effettiva, è già sempre questa stessa realtà.
Il modo di essere dell’ente è il medesimo modo di essere del pensiero di Jünger; dove il reale ha
carattere di Lavoro anche il pensiero è Lavoro. Ad essere pensata è la forma ultima dell’umanità,
completamente indirizzata all’ammaestramento dell’ente che è proprio in vista di ciò esperito come
Volontà di Potenza257.
Perfettamente inscritto nella metafisica è, quindi, sia il pensiero che, soprattutto, l’atteggiamento di
Jünger nei confronti del reale: il ‘ realismo eroico’, come ogni metafisica, attua una spiegazione
dell’ente nel suo insieme, senza interrogare però l’Essere stesso, non potendo sapere la domanda
sulla sua Verità. Ciò che ogni metafisica chiede è una spiegazione dell’essere dell’ente, muovendo
però dall’ente, ritornando perciò sempre su quest’ultimo. L’ente è assunto quindi come misura per
la determinazione dell’essere dell’ente, è il punto di partenza che rende impossibile un domandare
autentico. Ciò che bisogna sapere è, invece, che questa preminenza dell’ente è frutto di una
decisione già presa, una decisione appunto per l’ente invece che per l’Essere.
Da chi è presa tale decisione? Dai filosofi della tradizione metafisica? Si tratta semplicemente di un
loro errore?
Heidegger respinge con forza questa lettura: la preminenza dell’ente è decisa solo ed
esclusivamente dall’Essere, che rilascia talvolta l’ente e stabilisce il suo rapporto con esso. È così
che l’Essere fonda la sua Storia, nella decisione essenziale sulla differenza tra ente ed Essere risiede
la possibilità di ogni metafisica. Detta in termini ancora più semplici: è l’Essere a decidere che la
sua Storia, almeno fino ad oggi, è Storia della Metafisica, quindi storia del predominio dell’ente, ed
è sempre l’Essere a decidere di questo predominio, della dimenticanza della differenza con l’ente,
dei rapporti con quest’ultimo258. L’Essere si da storicamente nella decisione, presa di volta in volta,
sulla differenza ontologica.
Comprendere la storicità dell’Essere vuol dire, per Heidegger, comprendere anche la Metafisica
come un’era conchiusa in questa Storia, preceduta però da un primo Inizio, quello della filosofia
preplatonica, che indica la possibilità del decidere dell’Essere non per la preminenza dell’ente, ma
256 Ivi, pag. 481.
257 Ivi, pp. 483-485.
258 Ivi, pp. 485-487.
57
di darsi invece nella sua Verità come svelatezza. Se a partire da ciò pensiamo alla metafisica come
un “capitolo” della Storia dell’Essere, che ha avuto un precedente inizio e con ciò un’altra possibile
decisione sulla differenza ontologica, possiamo anche allora concepire un’altra epoca successiva, o
meglio un Altro Inizio. Insomma, la storicità dell’Essere è anche storicità della Metafisica che, in
virtù di questa stessa storicità, può compiersi e finire, passare una volta per tutte. Un’altra epoca è
possibile e, anzi, si sta già affacciando all’orizzonte, basta ascoltarne gli attualmente ancora
incomprensibili segni259.
Presagire la Fine della Metafisica pensandone la storicità e, con essa, comprendere la possibilità di
un’altra decisione dell’Essere, una decisione che apre l’Altro Inizio. L’accenno è ad «un attimo
della Storia dell’Essere in cui la metafisica si compie definitivamente e non ha ancora dato inizio a
un’altra compaginazione dell’Essere e del suo rapporto con l’ente 260». Heidegger parla di un attimo
di passaggio, difficile da presagire e da cogliere da parte dei testimoni del tempo; tuttavia è in
quest’attimo che si svela l’Essere stesso, nell’Evento della decisione: la decisione dell’Essere è
Evento, non quindi il semplice districarsi tra due alternative, ma l’accadere della decisione stessa
come accadere dello svelamento o del velamento. Entrambe le strade sono possibili, sia la
fondazione della Verità dell’Essere ed il suo svelamento, sia il suo velamento nella preminenza
totale dell’ente. Se accade quest’ultima alternativa, il vero diviene completamente indifferente,
gettando l’intera umanità nell’assenza di domanda, nell’impossibilità di un domandare originario.
Non è possibile, per Heidegger, in nessun modo influire su questa decisione essenziale: il passaggio
è ineluttabile e solo chi è già stato costretto dall’Essere alla meditazione può ascoltarne ed
accoglierne la portata. La restante umanità dell’epoca attuale non riesce invece nemmeno a
presagirne i segni, poiché esso sfugge del tutto alla pubblicità dell’epoca dominante, al suo
chiacchiericcio, all’attualità ovunque imponentesi. Il passaggio all’Evento della decisione
essenziale dell’Essere rimane inascoltato dai più, pur rimanendo ovunque sullo sfondo, nel
compimento di un’epoca e nel possibile sorgere di un Altro Inizio261 489-491).
Su queste intensissime ma altrettanto illuminanti meditazioni si chiude bruscamente la lettera,
incompiuta. Sembra che Heidegger ci porti con lui, raccontandoci le macerie di un’epoca ed
insieme la possibilità della sua Fine, passeggiando per la Foresta Nera. Qui, però, ci abbandona,
smettendo di scrivere, chissà per quale motivo. Dai boschi in cui meditare sull’Evento siamo
bruscamente riportati al ‘reale effettivo come Volontà di Potenza’.
Forse, anche da qui però, ora riusciamo a presagire che qualcosa di decisivo sta per avvenire…
259 Ivi, pp. 487-489.
260 Ivi, pag. 489.
261 Ivi, pp. 489-491.
58
3. »Forma« 1954
Per la lettura del saggio ‘Forma’ occorre tenere a mente il modo di procedere già utilizzato con le
Anmerkungen poiché, oltre alla frammentarietà, condivide con queste ultime anche molte riflessioni
sul pensiero di Jünger: non ci sbilanciamo troppo se affermiamo che, in alcuni passaggi, il lettore
distratto potrebbe arrivare a confondersi, pensando di stare leggendo nuovamente le Annotazioni
degli anni ‘30 e ‘40. Quale rilevanza può avere, dunque, un testo che, apparentemente, può risultare
sovrapponibile quasi totalmente ad altri frammenti che abbiamo precedentemente passato in
rassegna? Se a ciò aggiungiamo che la riproposizione di molte “tesi” su Jünger è qui soltanto
restituita in maniera molto più breve, sembra inspiegabile il motivo di tale interesse.
Basta anche solo sfogliare queste 15 pagine per rendersi conto, invece, dell’irrompere sulla scena di
almeno 3 nuovi “attori” determinanti.
Il primo è, ovviamente, il saggio ‘Oltre la Linea’, a cui Heidegger fa esplicito riferimento lungo
tutto il testo. Anche la data di stesura di ‘Forma’ ci aiuta a comprendere come l’Auseinandersetzung
che era fino ad ora stato unidirezionale si svolga qui diversamente: il filosofo di Meßkirch scrive già
conoscendo lo scritto che Jünger gli dona per il suo sessantesimo compleanno, ed affronta quindi le
questioni postegli anche alla luce di ciò.
Il secondo è senza dubbio il Nichilismo, termine che è stato fino ad ora costantemente sullo sfondo,
che assume qui la dignità di essere almeno “tirato in ballo”, seppur non ancora estensivamente
interrogato da Heidegger. Se per tutte le Annotazioni ed i Colloqui la parola era rimasta celata qui,
in più di occasione, verrà invece esplicitamente assunta dal filosofo.
Ultimo e forse più marginale, ma pur sempre rilevante per il nostro discorso, il riferimento ad
Heisenberg, padre fondatore della meccanica quantistica, rispetto al quale Heidegger riflette sulla
condizione dell’uomo moderno, riconoscendo la pregnanza di alcune formulazioni del fisico.
Tale indicazioni non vanno però fraintese: ‘Forma’ può senza dubbio essere letto come un “lavoro”
preparatorio a ‘La Questione dell’Essere’ ed essere assunto quindi come una prima risposta a ‘Oltre
la Linea’. Non bisogna però rischiare di far “scivolare” troppo quest’interpretazione, dimenticando
che questa breve e disomogenea serie di appunti non svolge ancora tutti i temi trattati nel saggio del
1955. L’articolazione del testo è ancora fortemente legata al modo che abbiamo fin qui imparato a
conoscere, privilegiando ancora una volta la triade concettuale Forma – Dominio – Lavoro. La
triade è ancora del tutto centrale, ed è solo negli spazi aperti tra questi termini che spuntano, di tanto
in tanto, quei “nuovi attori” protagonisti del volume ‘Oltre la Linea’.
Quello che, a nostro avviso, bisogna cogliere è il primo emergere di questi temi nella riflessione
heideggeriana su Jünger. Tale riflessione appare sicuramente “ravvivata” dal precedente contributo
di quest’ultimo e dalla convinzione, da parte di Heidegger, di poter sapere con chi interloquire sul
Nichilismo Occidentale: questa la nuova “coscienza” che si lascia presagire in queste pagine.
Il dispiegamento completo della potenza dell’umanità dell’epoca moderna è il modo di
legittimazione della Volontà di Potenza, nel suo darsi come unica ed ultima interpretazione possibile
della totalità dell’ente. La sua legittimazione avvenuta è il Dominio, in cui la stessa potenza ed il
suo conseguente sovrapotenziamento sono posti come fine e fondamento della totalità del reale. Il
Dominio della Potenza avviene, però, solo se in presenza di un’umanità portatrice ed attuatrice di
tale Potenza, in grado di adempiere all’ammaestramento del globo terrestre. Questa umanità è
Forma, nel senso di ciò che dà senso alla soggettività: Forma è il criterio normativo che a sua volta
legittima ciò che attua il Dominio, è l’immagine originaria di riferimento a cui rifarsi. Nell’epoca
della Macchinazione non può esistere umanità non conforme alla Forma, non sottomessa al
Dominio, non votata all’oggettivata soggettività portatrice di Potenza. Il Lavoro concorre in questo
senso all’ammaestramento dell’ente, assumendo un’estensione accerchiante: non esiste più uomo
che non sia Lavoratore262.
262 Ivi, pp. 495-497.
59
Fino a qui non si presenta nessuna novità degna di nota nell’orizzonte heideggeriano: ancora una
volta viene riproposta la lettura del Dominio come ordinamento tecnico gerarchico, finalizzato
all’attuazione della Potenza come fine e fondamento del reale, tramite il Lavoro e mediante
l’umanità che, in quanto Forma, legittima ed attua tale ordinamento. È propria però
dell’ordinamento tecnico l’appartenenza al Nichilismo. Heidegger cita esplicitamente in questo
passaggio ‘Oltre la Linea’, rivelando l’intima vicinanza tra il ‘Der Arbeiter’ e ciò rispetto a cui lo
stesso Jünger cerca, negli anni successivi alla stesura del saggio del ‘32, un rifugio ed una via
d’uscita263. Il progetto planetario jüngeriano è interamente nichilistico e ricade in ciò a cui lo stesso
autore tenterà successivamente di sottrarsi264.
Non ci viene ancora spiegato cosa Heidegger intenda con Nichilismo: come lo pensa? Che giudizio
ne da? La risposta qui non la troviamo, visto che il saggio vira bruscamente, riprendendo il tema del
Lavoro con le stesse coordinate con cui, ormai, abbiamo imparato ad avere confidenza.
La determinazione del Lavoratore in Jünger sovrasta il campo sia economico che sociale, non
riguarda più la dimensione classista, né la ripartizione e la divisione delle risorse produttive, visto
che con Lavoro bisogna intendere qualsiasi trasformazione della vita in energia. L’estensione del
concetto diviene universale, un’universalizzazione di cui Heidegger vede i predecessori in Hegel e
Marx, coloro che hanno fatto del Lavoro l’essenza dell’uomo. Nel rapporto col reale effettivo che
così viene instaurato, sebbene appaia in atto un ‘dibattimento radicale’, l’esito della lotta è in realtà
già deciso: a rinsaldare il proprio dominio è la realtà, l’ente come Volontà di Potenza. La Forma del
Lavoratore è solo “l’anello” che media il rapporto con questa realtà, una realtà che è già sempre
interpretata come Tecnica. Spunta qui l’interpretazione heideggeriana più tarda, in cui
l’interpretazione della totalità dell’ente non si dà più solo come Machenschaft, ma anche come
Tecnica. Ecco quindi che la Forma del Lavoratore è Forma mediatrice della e con la realtà e, di
conseguenza, il rapporto di tale Forma con la Tecnica è rapporto di mediazione. Heidegger cerca di
mostrare l’inaccessibilità dell’essenza della Tecnica per un’umanità che è già sempre Forma, che
incontra solo nel suo modo mediato la Tecnica, non pensandone così mai l’essenza265.
La Forma è un marchio che si imprime sulla realtà come ciò che può ordinarla, dandole un senso, ed
in questo senso è anche sempre un’offerta di libertà nel Lavoro, libertà pre-interpretata nel modo
moderno e sottomessa al criterio normativo gestaltico. Nel processo di mobilitazione totale
finalizzato all’attuazione definitiva della Tecnica, la rispondenza del Lavoratore alla Forma è il suo
compito storiografico-storico che, una volta giunto a compimento, diviene consolidamento
dell’epoca tecnica, attraverso la prontezza alla continua ripetizione ed esecuzione del processo già
completamente dispiegato. In tal senso, l’attuazione qui appena menzionata è necessaria alla
legittimazione gestaltica, ne rappresenta il fine e la forza; già nella sola esecuzione del processo
della mobilitazione totale troviamo quell’impressione nella e sulla realtà, quell’imporsi come
impronta e pietra di paragone che è il vero senso della Forma. L’essenza di quest’ultima sta nel
dispiegamento stesso del processo, finalizzato ad imporsi come fine di tutto il reale. Ammaestrare
tutto l’ente, rendendo il perpetuarsi del processo tecnico, della produzione, della catena di
montaggio, del lavoro, dello sfruttamento delle risorse l’unico scopo dell’umanità intera 266.
Trasformare la vita in energia, dunque lavorare per vivere? No, vivere per lavorare: forse Heidegger
ci aveva “visto lungo” sul destino della Società Occidentale, ma non solo…
Ci si chiarisce così anche l’importanza che ha, nell’interpretazione heideggeriana, il sottotitolo del
‘Der Arbeiter’, vale a dire ‘Herrschaft und Gestalt’: interrogarsi su questo equivale ad interrogarsi
sull’opera intera e sulla destinazione dell’umanità occidentale.
È il Dominio a partire dalla Forma? O la Forma a partire dal Dominio? Chi fa scaturire l’altro? O la
relazione è forse più complessa, sia di una causalità univoca, sia di una reciprocità?
263
264
265
266
Ivi, pag. 499.
E. Jünger, Il Trattato del Ribelle, Adelphi, Milano 1990.
M. Heidegger, Ernst Jünger, pp. 499-501.
Ivi, pp. 501-507.
60
La distinzione tra i due rimane in questo senso integra, poiché è insita la possibilità del Dominio
nella finalità della Forma, la quale è, però, anche sempre posizione di sé stessa come questa stessa
finalità. Il rincorrersi di una circolarità tra i due termini da luogo, per Heidegger, a quella
oggettivata soggettività propria del Lavoratore, come Soggetto supremo che mira già sempre ad una
realizzazione incondizionata e, soprattutto, oggettiva della propria Forma. ‘Herrschaft und Gestalt’ è
la formula del compimento metafisico supremo, della quintessenza dello schema soggetto-oggetto
che regge l’intera Metafisica, della soggettità oggettivante sé stessa nell’ammaestramento
dell’ente267.
È inoltre proprio rispetto alla nozione di Soggetto che va letta in Jünger una continuità con il fisico
tedesco Werner Heisenberg: Heidegger si riferisce al principio che troviamo in ‘L’immagine della
natura nella fisica contemporanea’268, secondo cui, la condizione dell’uomo nell’epoca della
Tecnica, è quella di stare di fronte soltanto a sé stesso. Nel modo di essere dell’uomo moderno va
scorta l’affinità tra i due; da un lato l’uomo di fronte a sé, dall’altro l’uomo come lavoratore, in
entrambi i casi la libertà esperita metafisicamente di un Soggetto che conferisce senso alla realtà
solo nella propria auto-poiesi. L’uomo come singolo che si incontra è sempre e comunque mosso, in
questo stesso incontro, dalla volontà del rafforzamento della propria conferma e del proprio
Dominio. Già sempre interpretata nella tecnica, la libertà di questo singolo è iniziativa privata,
arbitrio, decisione non essenziale e apparente, scelta indifferente e non libertà dal male, da quel
demoniaco, come Heidegger lo chiama nell’ultima pagina del saggio, che è già sempre la Tecnica.
Questo ‘maligno’ assumerà rilevanza centrale ne ‘La Questione della Tecnica’, diventando quel
male in cui si annida il pericolo, quello stesso pericolo che salva e dispiega l’Evento ma che può,
allo stesso modo, velare definitivamente la decisione per l’Essere che entro tale Evento accade269.
Ciò che rimane inalterato e che ci viene restituito da questo saggio è, sicuramente, l’importanza di
Jünger ed il progetto di lettera che troviamo lo testimonia: Heidegger parla di uno di quei colloqui
in cui le ore non possono essere concordate, svaniscono i nomi dei parlanti, non contano più le
persone o le loro opinioni, poiché a parlare è ciò che è essenziale e, pertanto, impronunciato.
Incontri rari, preziosi, istanti inosservati, recuperabili solo con una riunione che «tenti con ciò di
percepire se da essa non giunga ancora qualcosa che concede270».
267 Ivi, pp. 509-511.
268 W. Heisenberg, L’immagine della natura nella fisica contemporanea, in Le arti nell’età della tecnica, Mimesis,
Milano 2001, pag. 37.
269 M. Heidegger, Ernst Jünger, pp. 517-523.
270 Ivi, pag. 521.
61
V. Conclusioni per chi non smette di camminare.
Arrivare alla fine di un percorso è ciò che, più di ogni altra cosa, ci spinge a porre alcune domande.
La soddisfazione di aver raggiunto il punto che ci eravamo prefissati non deve accecarci, rischiamo
sennò di non vedere le immense distese che, una volta giunti in vetta, ancora ci si aprono
all’orizzonte. Il panorama mozzafiato è di conforto e di ristoro, oltre che per gli occhi, per l’anima
di chi vi giunge. Nel contemplare le valli di fronte a noi, nel ripercorrere velocemente i sentieri su
cui il nostro passo si è già mosso, nell’ammirare la boscaglia che copre ciò che ancora è inesplorato,
sembra quasi di poter ascoltare l’appello di chi non ha voce.
No, non è solo una metafora; come qui e là abbiamo spesso fugacemente mostrato, il tentativo è
stato quello di affrontare non solo questa tesi, non solo la lettura del volume ‘Ernst Jünger’, ma tutta
l’opera heideggeriana come se si trattasse di un Cammino. Penetrare a fondo in strade impervie,
affrontare vie non battute, seguire le tracce poco evidenti e, soprattutto, non arrivare mai, non
convincersi mai di essere arrivati, questo è ciò che rende, a nostro avviso, la possibilità di
confrontarsi con Martin Heidegger un’esperienza unica.
Più che per tirare le somme, per riassumere, per chiarire, vogliamo scrivere queste conclusioni
indirizzandole esplicitamente a chi non smette di camminare, chi non ha mai smesso, chi non vuole
smettere, chi non può smettere di farlo. Continuare a camminare vuol dire non irrigidirsi nel proprio
stretto angolino di mondo pur ricordando il calore di Casa, vuol dire rinunciare alla curiosità
predatoria donandosi invece alla meditazione ad ogni costo, vuol dire rifiutare la superficialità della
chiacchiera accogliendo al suo posto il suono profondo dei propri passi. Se arrivati alla fine del
Cammino ci convinciamo di aver completamente “afferrato” tutto, a quel punto abbiamo smesso di
camminare; se invece sappiamo ancora lasciarci togliere il fiato da quel che si apre a noi, allora
siamo già pronti per continuare.
In tutti i sentieri, però, troviamo anche le false piste, quelle che conducono allo strapiombo, al
burrone, quelle che portano fuori, lontano dal bosco, nell’omologazione al proprio tempo, quelle
che vengono percorse senza ascoltare l’Altro e portando alla morte di entrambi, dell’inascoltante e
dell’inascoltato. Tacere su queste è una silenziosa complicità, minimizzarne il pericolo è proprio
dell’incoscienza di chi crede di essere arrivato. Noi vogliamo invece, brevemente ma
doverosamente, farci carico anche della tenebra che le avvolge, per avvisare chi dovesse
imbattervisi.
Insomma, camminare e pensare, ormai è chiaro, questa l’intima vicinanza che scorgiamo nella
Filosofia. Non la vicinanza spaziale o concettuale, bensì l’originaria coappartenenza che rende le
parole quasi indistinguibili nel momento del loro dispiegamento. Chiediamo quindi al lettore di
percorrere con noi questi ultimi passi, di pensare con noi queste ultime questioni.
Cerchiamo qui rapidamente di affrontare due nodi centrali: il primo ci serve più che altro a
ripercorrere le convergenti divergenze teoretiche che abbiamo fin qui esposto, ritrovando nel
rapporto con la Tecnica il punto centrale da cui si diramano due posizioni quasi opposte; il secondo
riguardante l’adesione, vera o presunta, al nazionalsocialismo da parte di Heidegger e di Jünger, la
loro singolare convergenza di opinione sull’esperienza politica e, soprattutto, sull’antisemitismo che
entrambi esprimono più o meno velatamente.
Infine ci concediamo dello spazio, meno rigoroso e più schiettamente personale, per poter riflettere
sulla portata epocale del pensiero heideggeriano sul tempo della Tecnica, su quello che è anche il
nostro tempo. Solo da qui, senza peccare di una forzata attualizzazione, possiamo trarre una lezione
sull’autentico domandare che oggi appare sempre più debole e minacciato, se non addirittura
impossibile.
In conclusione, ci piace credere che leggendo, interpretando e pensando tutto ciò che è andato a
comporre questa tesi abbiamo battuto un sentiero, aprendone appena la debole via nel bosco.
Sperando di fare cosa gradita per chi lo percorrerà dopo di noi, non ci resta che augurare, un’ultima
volta, buona lettura!
62
1. Divergenze Teoretiche...
Se «domandare è la pietà del pensiero271» allora Ernst Jünger è, agli occhi di Heidegger, uno
spietato: egli non domanda l’Essere, incarnando invece la Fraglosigkeit propria dell’epoca moderna.
Nel rapporto col movimento che compie il reale effettivo come Volontà di Potenza, il movimento
insomma della Tecnica che abbiamo varie volte ripercorso, si consuma la distanza apparentemente
incolmabile tra il filosofo di Meßkirch ed il guerriero di Heidelberg. Ma siamo sicuri che i due siano
davvero così lontani? O forse siamo in presenza di sentieri più tormentati, che in certi passaggi si
allontanano fino a non vedersi più, mentre in altri si avvicinano fin quasi a sovrapporsi?
In entrambi troviamo sicuramente un confronto violento, acuto e mai scontato col progresso,
nell’accezione più ampia del termine; un confronto che non si adagia mai su soluzioni “comode”,
rifiutando i termini, senza dubbio più semplicistici, dominanti nel vocabolario del dibattito culturale
in cui si inscrive. È in tal senso che appare doveroso constatare la, seppur mai ricercata, originalità
condivisa dall’orizzonte dei due autori. Se ciò è vero dal punto di vista dell’atteggiamento, del
modo, dell’approccio interpretativo, la situazione si complica notevolmente non appena ci si
addentra nelle posizioni rispettivamente espresse, tanto da farci comprendere che ciò che realmente
è comune nell’Auseinandersetzung tra Heidegger e Jünger è, alla fine, anche un rifiuto: rifiutare il
passatismo pur restando ammaliati da alcuni elementi reazionari, approdando sempre, però, a
prospettive che vanno oltre, ad un pensiero che è altro. La direzione di tale rifiuto è tuttavia, come
vedremo tra poco, diametralmente opposta.
In Jünger la ripresa della contrapposizione tra Zivilisation e Kultur costituisce, almeno nel Der
Arbeiter, il momento decisivo per capire l’oscillazione, problematica e mai del tutto chiarita, tra
lotta contro le potenze occidentali ed orientamento del mondo verso l’essenza di quei principi che
queste stesse potenze promulgano272. Cavalcare la tigre del progresso, dello sviluppo tecnico, della
perdita di valori ancestrali è un processo che richiede sempre la presenza simultanea di un incanto e
di un disincanto verso il mondo della razionalizzazione e dell’uniformità produttiva: da un lato
occorre non lasciarsi andare al passatismo nostalgico di un ordine valoriale interamente borghese,
rispetto al quale la Zivilisation può paradossalmente porsi come superamento. Il compito del nuovo
Tipo umano è dunque quello di scorgere ed assecondare l’intima carica sovversiva insita nella
Tecnica, accelerandone il dispiegamento, liberandone completamente l’attuazione incondizionata,
realizzandone il Dominio. D’altra parte, però, tutto ciò non può e non deve tradursi in un’adesione
cieca, che sposa i proclami di uguaglianza, libertà, razionalità, democrazia dietro a cui si cela, in
realtà, l’essenza egemonica della Civilisation273.
L’ambiguità del passaggio è evidente, ancora di più se ricordiamo comunque la convinzione
jüngeriana sul destino del popolo tedesco: a doversi fare carico della strumentalizzazione del
progresso e dell’oggettivazione della Tecnica è la Germania, quella Germania che pur nascendo
sotto al segno della Kultur è anche sempre, in virtù di ciò, in grado di piegare a sé le forze
progressiste. Di qui dunque quest’oscillazione davvero singolare, totalmente originale rispetto al
panorama “intellettuale” della Rivoluzione Conservatrice. Se rimane saldamente in gioco l’ambito
nazionalistico, militaresco e bellico, è invece sottoposto a critica radicale l’immaginario romantico
della purezza, dell’incontaminato paesaggio boschivo preservato dalle storture della civiltà
tecnologica, destinato a scomparire per sempre tra i gorghi della mobilitazione totale. La scelta è tra
lo scomparire con essa, o il divenirne padrone e supremo rappresentante274.
Il mondo per Jünger è divenuto, sta divenendo e diverrà trincea. Infantile e pavido chi prova a
fuggirvi, il guerriero sa cogliervi invece l’opportunità ultima della propria piena realizzazione come
unica e definitiva configurazione dell’umanità intera. Guardando ad Heidegger, è forse proprio
271 M. Heidegger, La Questione della Tecnica, pag. 27.
272 S. Azzarà, Ernst Jünger: l’Arbeiter, la guerra e l’incanto della razionalizzazione, in Studi Urbinati, LXXX 2010,
pp. 95-99.
273 M. Cacciari, Dialogo sul termine. Jünger e Heidegger, pp. 293-295.
274 Ibidem.
63
quanto detto fino ad ora a distanziare maggiormente i due autori: l’accettazione jüngeriana della
Tecnica, nella sua convinzione di poterla padroneggiare e di poterla utilizzare come mero
strumento, cade perfettamente vittima del movimento essenziale della Tecnica stessa. La circolarità
innescata dall’esperienza e dall’interpretazione della realtà come Volontà di Potenza, quella
circolarità in cui l’interpretante è già sempre interpretato e in cui chi è convinto di essere padrone è
in realtà massimamente servo, annebbia la vista di Jünger, come se egli fosse vittima
dell’entusiasmo della propria oggettivazione e realizzazione, in un divincolarsi senza via d’uscita275.
Nulla può, secondo Heidegger, redimerlo o salvarlo poiché, in fondo, quella della descrizione
jüngeriana del reale non è una condanna, una pena o anche solo un semplice errore di valutazione
da cui potersi liberare. In gioco c’è una posizione che ha un ruolo storico, che ha una sua propria
dignità all’interno della Storia della Metafisica, soprattutto come attuazione del compimento di
quest’ultima, che apre così alla possibilità della decisione essenziale: poter esperire compiutamente
il dispiegamento della Tecnica e il consumarsi della Metafisica dischiude il rischio estremo
dell’oblio incondizionato dell’Essere, riaccendendo quindi, però, anche l’urgenza
dell’Entscheidung.
Ecco però che, proprio dove le strade sembrano separarsi, se facciamo più attenzione riusciamo a
ritrovare la loro riunione. Meglio di mille parole cantano i poeti, è infatti da poche parole,
largamente note (ed abusate), di una poesia di Hölderlin che proviene quella che, per noi, è la
chiave decisiva per rivelare corrispondenze nascoste:
«Wo aber Gefahr ist, wächst
Das Rettende auch276»
Queste due righe suggeriscono ad Heidegger qualcosa che ha un’affinità particolare con Jünger,
qualcosa che non possiamo dire con certezza abbia una dipendenza diretta da quest’ultimo, ma che
a nostro avviso mostra il medesimo atteggiamento: cercare nella Tecnica la possibilità della
salvezza, che sia dell’umanità o dell’intera Storia dell’Essere, qui sta il fondamentale punto di
contatto. Entrambi rifiutano la fuga, la negazione, la semplice critica, per farsi invece carico di un
futuro che è già ampiamente presente con una spinta a cui è inutile tentare di porre un freno. Il
modo in cui ciò avviene è certo già subito differente, con da una parte lo sfruttamento ed il dominio
della realtà, dall’altra la meditazione profonda sulla sua essenza.
Il rapporto con la Tecnica è quindi, alla luce di tutto ciò, paradossalmente la massima convergenza
teoretica tra i nostri due “protagonisti”, mentre la direzione che prendono a partire da tale rapporto è
ciò che innesca invece la più ampia divergenza.
In Ernst Jünger la Tecnica è già l’Alba, che va certo saputa organizzare, ordinare, incanalare, ma va
anzitutto oltrepassata e salutata come portatrice di enormi opportunità.
In Martin Heidegger la Tecnica è ancora la Notte, anzi la Notte più buia, pertanto bisogna
attraversarla, custodendo nell’oscurità la Verità dell’Essere da essa minacciata. In quanto Notte
però, oltre che al pericolo estremo che l’oscurità diventi tenebra una volta per tutte, essa prelude
anche alla possibilità della luce dell’alba. Nella Fine, quindi, l’annuncio di un Altro Inizio.
275 V. Blok, An Indication of Being, pp. 194-196.
276 M. Heidegger, La Questione della Tecnica, pag. 22.
64
2. ...convergenze politiche.
Inevitabile ed urgente il confronto con un altro aspetto, tanto controverso quanto fondamentale, che
si impone prepotentemente all’attenzione del lettore, oltre che per i risvolti gravi ed inquietanti di
una torbida “vicenda”, anche per l’inedita luce che getta sulle divergenti convergenze fin qui
delineate.
Heidegger e Jünger, due uomini così diversi, per certi versi opposti: il primo un Professore in tutto e
per tutto, amante della pace di Todtnauberg, votato sicuramente al pensiero più che all’azione; il
secondo è invece l’eroe di guerra, particolarmente impegnato a liberarsi da quella gabbia in cui la
società borghese racchiude lo spirito guerriero, predilige l’azione e l’esperienza diretta della Guerra.
Eppure personalità tanto antitetiche condividono almeno tre passaggi politici fondamentali, non solo
un posizionamento ideologico ma anche la disillusione nei confronti di quest’ultimo, il progressivo
allontanamento che si tramuta in disprezzo e, soprattutto, il nucleo oscuro di tutto ciò, questo invece
mai convintamente rinnegato.
Il nodo storico-politico con cui entrambi instaurano un rapporto controverso ed ambiguo è senza
dubbio il nazionalsocialismo: la grande capacità di Hitler e del movimento politico di cui si fa guida
è senza dubbio quella di intercettare ed indirizzare istanze e richieste presenti non solo nella
popolazione tedesca, ma anche in una certa “intellighenzia” piuttosto eterogenea e, come abbiamo
precedentemente spiegato, proveniente dagli ambiti più disparati277.
A fare da “collante” tra chi proviene, ad esempio, dal miltarismo bismarckiano e chi, invece, da
certo tardo romanticismo è un tipo di attrattiva che si articola su più tempi, guardando sia al passato
che al presente, sempre nell’ottica di stabilizzare e riequilibrare il futuro, trattenendone il possibile
declino mediante il consolidamento del potere nazista sull’Europa. Passato, presente e futuro hanno
ognuno la propria peculiare caratterizzazione in virtù della quale legare, più che un movimento, un
clima culturale molto forte nella Germania dell’epoca: il passato mitico, mistico, immemoriale,
romantico, il tempo andato di un popolo e di una civiltà che instaura legami fondati su valori
ancestrali, in cui svetta la coppia concettuale formata da Blut, quel sangue che garantisce la purezza
della razza germanica, e Boden, la terra da difendere, che riconosce solo i suoi figli e da cui
rimuovere ciò che a essa è estraneo278; il presente, fondato sulla perdita di quei valori appena
enunciati e su una democrazia parlamentare di cui Weimar è la compiuta espressione, nel suo essere
debole, inadeguata, figlia del liberalismo, del socialismo e delle potenze che vorrebbero vedere la
Germania soccombere, distruggendone quell’identità custodita nel passato 279; un futuro incerto, in
cui inevitabile è solo lo scontro decisivo per la sopravvivenza del popolo tedesco, intento a frenare
un avvenire di decadenza e nichilismo, in un compito che è assieme politico e catecontico 280. Una
triade potentissima che si inserisce contemporaneamente nel malcontento e nell’incertezza,
pescando a piene mani in una tradizione popolare in grado di fondare un immaginario collettivo che
mobilita l’intera società. Dotarsi di una struttura concettuale di tale portata unita ad un uso
spregiudicato della violenza politica e di strategie eversive volte a destabilizzare l’assetto
democratico-repubblicano, è una garanzia di successo per il Partito di Hitler, al quale resta solo da
“mettere il cappello” ad una sorgente di consenso apparentemente inarrestabile281.
Come noto dalle vicende biografiche di entrambi, né Heidegger né Jünger restano immuni al
fascino ambiguo dell’orizzonte messo in moto dalla macchina Nazionalsocialista, pur tra
ripensamenti e deviazioni più o meno plateali. In entrambi i casi vediamo la messa in moto di
prospettive che toccano intimamente istanze politiche, pensiero e rimpianti dei nostri protagonisti.
Se Jünger scorge nell’esperienza nazista la possibilità della celebrazione completa della Guerra,
della sua liberazione totale in uno spazio elementare che tramuta il mondo intero in trincea,
277 E. Nolte, La rivoluzione conservatrice nella Germania della Repubblica di Weimar, Rubbettino, Catanzaro 2009.
278 S. Breuer, La Rivoluzione Conservatrice, pp. 66-73.
279 E. Nolte, La Repubblica di Weimar. Un'instabile democrazia fra Lenin e Hitler, Milano 2006.
280 C. Schmitt, Il Nomos della terra, Adelphi, Milano 1991, pag. 43.
281 S. Breuer, La Rivoluzione Conservatrice, pp. 149-168.
65
Heidegger ripone le sue speranze in una forza storica in grado di difendere l’essenza tedesca dalle
occulte mire della Tecnica, incarnata in maniera del tutto equivalente, seppur con modi diversi, da
Stati Uniti ed URSS. La fedeltà al Führer è inizialmente testimoniata da entrambi: il primo invia la
prima edizione di ‘Feuer und Blut’ ad Hitler con tanto di dedica 282, il secondo pronuncia un acceso e
famosissimo discorso di rettorato totalmente riconoscibile come dipendente dal movimento
concettuale fin qui esposto283.
Se repentina è la fascinazione altrettanto radicale è la disillusione, molto più eclatante però nel caso
di Jünger, a dire il vero, con la partecipazione al tentativo di attentato capeggiato da Von
Stauffenberg284 e con la complessa articolazione di ‘Auf der Marmorklippern’, in cui non è difficile
rintracciare nel personaggio del Forestaro un riferimento possibile proprio ad Hitler285.
La vicenda di Heidegger è invece molto più complessa, andandosi a sviluppare anche dopo la sua
morte, attraverso un’incessante succedersi di testimonianze contenenti giudizi alterni, da chi difende
la sostanziale apoliticità del filosofo286 a chi testimonia invece un’adesione precedente e prolungata
rispetto al breve periodo del rettorato287. A ciò vanno aggiunte le dichiarazioni pubbliche dello
stesso Heidegger che, nella volontà di chiarire la questione, mantengono un tono “esoterico”,
rendendo impossibile togliersi più di qualche dubbio288, anzi intricando ulteriormente un nodo già
sufficientemente difficile da districare. È però senza dubbio rilevante quanto avviene sul piano
teoretico, con una sempre più marcata insistenza sulla coincidenza tra la Tecnica e la sua
realizzazione, oggettivata contemporaneamente da Stati Uniti, Unione Sovietica e Germania
Nazista289. Si può leggere in questo senso una progressiva disillusione heideggeriana rispetto,
soprattutto, alla politica hitleriana che si mostra nella pratica totalmente sovrapponibile a quella
delle altre potenze coinvolte nella Seconda Guerra Mondiale.
Una ricostruzione storica delle due adesioni non ci interessa però in questa sede, innanzitutto per
mancanza di tempo, visto che in maniera molto più completa è stato scritto su ciò. Inoltre, vogliamo
evitare di dare adito al modo in cui troppo spesso è stato trattato l’argomento: il processo a
posteriori non è, a nostro avviso, mai un’operazione corretta o comunque fruttuosa,
indipendentemente dalla volontà con cui tale processo viene attuato. Accusanti e difensori
nascondono scopi diversi, entrambi però hanno poco a che fare con lo schietto terreno della
filosofia, sul quale dovrebbero invece essere poste domande decisive, complesse, anche scomode se
necessario. L’accusa spesso accompagnata dalla richiesta di una perenne ‘damnatio memoriae’
degli autori è una soluzione di comodo, superficiale, incapace di interrogarsi su problemi politici
ancora non del tutto affrontati dalla società contemporanea, che punta più alla censura dell’imputato
per rimuovere ciò che di scomodo l’opera di quest’ultimo porta con sé290. Opposte nella direzione
ma coincidenti nelle modalità, le ragioni dei difensori ad ogni costo si sono, in alcuni casi, rivelate
faziose, pericolose, ideologiche: la difesa di Heidegger è in realtà, per certe “parti politiche”,
normalizzazione, accettazione e minimizzazione del nazifascismo, in nome di una presunta libertà
di espressione291. Il filosofo è allora solo strumentalizzato per legittimare l’esistenza di gruppi
neofascisti, in un’operazione che definire ignobile è lusinghiero. Meno “schierata” ma altrettanto
inquietante l’interpretazione di quelli che potremmo definire i ‘contabili’, che tentano di
minimizzare attraverso la cernita quasi ossessiva di passaggi biografici e letterari 292, come se la
282 Peter Schwarz, Der konservative Anarchist. Politik und Zeitkritik Ernst Jüngers, Rombach, Freiburg 1962, p. 117.
283 M. Heidegger, Scritti Politici (1933-1966), Piemme, Casale Monferrato 1998, pp. 129-142.
284 ZDF, Ernst Jünger – zum 100 Geburtstag, Documentario del 1995.
285 G. Galli, Intervista sul nazismo magico, Lindau, Torino 2010.
286 F. Volpi – A. Gnoli, Heidegger fu un gran genio senza coraggio, La Repubblica 22/05/2001.
287 E. Levinas, Alcune Riflessioni sulla Filosofia dell’hitlerismo, Quodilibet, Macerata 2012.
288 M. Heidegger, Ormai solo un Dio ci può salvare, Guanda, Parma 1987, pp. 111-169.
289 C. Resta, Heidegger e il tecnototalitarismo planetario, in Nichilismo, Tecnica, Mondializzazione. Saggi su
Schmitt, Jünger, Heidegger e Derrida, pp. 93-101.
290 E. Faye, Heidegger, l’introduzione del nazismo nella filosofia, L’Asino d’oro, Roma 2012.
291 A. Scianca, Heidegger e gli ebrei. Il mistero dei “Quaderni neri”, Libero 23/12/2014.
292 F.-W. Herrmann - F. Alfieri, Martin Heidegger: La verità sui Quaderni neri, Morcelliana, Brescia 2016.
66
connivenza anche solo ideologica o elettorale con il Terzo Reich si limitasse ad un fatto di numeri e
di quantità di passi. Fa specie constatare come anche professori, curatori e traduttori importanti
cadano in tale incomprensione.
Noi qui rifiutiamo entrambe le ipotesi interpretative, distanziandoci da entrambi gli approcci,
privilegiando invece un confronto serio, anche se rapido, con questioni tanto scottanti. Chi scrive
non nasconde certo di essere un estimatore di Martin Heidegger e di Ernst Jünger: le loro pagine
hanno significato molto, tanto da finire in questa tesi. Non ci sentiremmo però di adempiere
pienamente al compito che ci siamo prefissati se non affrontassimo anche quanto c’è di oscuro,
controverso, inaccettabile, a tratti disgustoso nella loro vita, nelle loro scelte politiche, nei loro
scritti, nelle loro convinzioni. È a tal proposito che vogliamo affrontare brevemente ciò che
accomuna ancora una volta i due autori: l’antisemitismo è l’elemento decisivo, indubitabile, che
travalica persino l’adesione esclusivamente politica al nazismo per gravità ed estensione.
In Jünger la questione è meno nota al grande pubblico, essendo egli sempre passato come un
soldato, impegnato più con la guerra che con le vicende di “politica interna”. Dopo la fine del
nazismo si aggiunge anche la già citata testimonianza della Arendt293, come una voce autorevole che
non lascia spazio a fraintendimenti. Eppure se si scava sotto le opere più note, recuperando del
materiale meno noto, ci si trova di fronte ad un odio per gli ebrei che è semplicemente spaventoso
nella violenza, sia verbale che concettuale, espressa294.
Da Heidegger dopo la guerra non arriva invece mai alcuna smentita o ripensamento, un silenzio
assordante lascia tutti negativamente stupefatti, soprattutto chi aspettava anche solo una parola 295.
Le poche parole proferite aggravano la situazione, ancora una volta il filosofo appare dominato da
un tono “esoterico” dal quale è impossibile anche solo percepire un sincero, autentico ed esplicito
pentimento296. A chiarire, molti anni dopo la sua morte, arrivano gli Schwarze Hefte aggravando la
situazione: i suoi diari privati mettono nero su bianco l’antisemitismo del filosofo, attraverso
passaggi che colpiscono per brutalità e perversione teoretica. L’Ebreo diviene Figura dello
Sradicamento, vero e proprio emissario della Tecnica moderna che blocca il sorgere dell’Altro
Inizio297. La complessa vicenda editoriale dei Quaderni, pubblicati per volontà dello stesso
Heidegger, e la pubblicazione del Quarto Volume 298, quello cioè relativo al periodo successivo alla
guerra, gettano una luce se possibile ancora più inquietante sull’intera vicenda. Molte le domande
che possono venir sollevate, una sola la constatazione: Heidegger è stato antisemita.
L’antisemitismo che possiamo leggere nei due casi appena menzionati è sorprendentemente simile,
essendo risultato di quell’orizzonte concettuale di cui il Nazionalsocialismo tenta di farsi
coronamento. È infatti il convergere della Rivoluzione Conservatrice, dell’ideologia ‘Blut und
Boden’, del prussianesimo verso un nemico comune a rendere l’Ebreo il candidato perfetto: non ha
una terra propria, pertanto minaccia quella tedesca; non si fa riconoscere, nasconde la sua essenza
nel sangue, quello stesso sangue che vorrebbe contaminare la razza tedesca, mischiandosi ad essa;
non si oppone alla democrazia weimariana, anzi se ne fa promotore, ottenendo posizioni prestigiose
e potere; non soffre come il popolo tedesco poiché perennemente intento ad accumulare denaro
sulle spalle degli affamati germanici; rifiuta la guerra, lo scontro, la lotta, preferendo il sotterfugio e
disprezzando quel misticismo bellico in grado di difendere la Nazione. La triade Passato-PresenteFuturo, che abbiamo inizialmente delineato, legittima la logica dell’odio prima e dello sterminio
poi. Ribaltando i reali rapporti di forza, tramutando in potente maggioranza chi è invece minoranza,
il nazionalsocialismo crea un Nemico e ritrova l’esistenza di questo stesso Nemico già nella propria
tradizione, facendo leva su un odio che è ben più remoto ed ancestrale, che trae la sua origine molti
293 H. Arendt, I Postumi del Dominio Nazista: Reportage dalla Germania, Feltrinelli, Milano 2003, pp. 22-43.
294 E. Jünger, Sul nazionalismo e sulla questione ebraica, in Scritti politici e di guerra. 1919-1933, LEG, Gorizia 2005,
pp. 188-193.
295 M. Heidegger – K. Jaspers, Lettere 1920-1963, Cortina, Milano 2009, pag. 152.
296 Ivi, pag. 189.
297 D. Di Cesare, Heidegger e gli ebrei, pp. 102-106.
298 Ivi, pp. 225-229.
67
secoli prima del ‘900299. Heidegger e Jünger, pur discostandosi dalle sue manifestazioni più
semplicistiche, ricadono perfettamente entro tale schema di pensiero. Appare pertanto molto più
urgente una riflessione profonda sulla totalità del loro coinvolgimento, visto che, accanto
all’adesione politica al Partito di Adolf Hitler, emerge chiaramente una preminenza
dell’antisemitismo: se riguardo l’adesione partitica ed elettorale assistiamo a tentennamenti di vario
genere, ripensamenti più o meno esplicitati ed un certo snobismo verso le manifestazioni più bieche
di attivismo, il nucleo che rimane stabile, invariato dopo la guerra, è quello dell’antisemitismo.
Il monito che dovrebbe risuonare in ognuno, specialmente in chi studia, ama e vive la filosofia, è
che quanto descritto fino a qui non può essere relegato all’angolo dimenticato e sottovalutato
dell’ignoranza, della follia, della stupidità: relegare i fascismi e le loro componenti intrinseche a
fenomeni di folklore per masse poco istruite è il più grande regalo che si possa fare loro.
L’antisemitismo è stato ed è, purtroppo, ancora un vero e proprio congegno, oliato, costruito e
sostenuto da un’elaborazione concettuale che affonda le sue radici in un passato da cui tenta di
trarre la propria legittimità. Convincersi che sia invece una qualche forma irrazionalismo è, bene
che vada, incapacità di leggerne la logica implacabile, il progetto oscuro, il fine perseguito. Tale
progettualità razionale è dimostrata dal fatto che nessuno ne è immune, nemmeno chi, nella
coscienza popolare, detiene il “sapere”. Heidegger e Jünger ne sono l’esempio.
Che fare allora con loro? Dannarli per l’eternità, censurandone le opere? Rimuoverli dai programmi
scolastici ed universitari?
A nostro avviso questa è la soluzione più banale, propria di chi preferisce ingabbiare il “mostro”,
renderlo innocuo cancellandone anche solo il ricordo. Questa è la soluzione di chi non vuole fare i
conti col passato, con il presente e con il futuro.
Affrontare Martin Heidegger e Ernst Jünger invece è la via più coraggiosa. Affrontarli prima di tutto
leggendoli, studiandoli, traendo lezioni. Affrontarli senza dimenticarne il lato oscuro, con la
disciplina di chi sa non restarne ammaliato.
299 C. Schmitt, La scienza giuridica tedesca in lotta contro lo spirito ebraico, in Carl Schmitt sommo giurista del
Führer. Testi antisemiti, Il Melangolo, Genova 2006, pp. 36-40.
68
3. Trarre Lezioni: pensare (d)a Todtnauberg.
Todtnauberg è un piccolissimo villaggio appartenente al comune di Todtnau, situato nel BadenWüttemberg, Land all’estremo Sud della Germania. La città più vicina è Freiburg am Breisgau che,
pur nella sua estensione alquanto limitata, pare una metropoli se paragonata al villaggio.
Dall’Hauptbahnhof di Friburgo bisogna prendere due autobus, per un totale di circa un’oretta di
viaggio molto piacevole sia per il tragitto che, se si è fortunati, per la compagnia. Superato il primo
breve tratto di autostrada il bus inizia ad immergersi in tratti più boschivi e montuosi, nei quali si è
completamente circondati dalla Schwarzwald.
Si alternano i primi paesini tedeschi con i fiori alle finestre e le insegne di birrerie e rifugi per
viandanti. Una volta scesi a Kirchzarten ci si trova di fronte ad una serie di pittoresche casette
davanti la stazione, aspettando l’arrivo del secondo autobus.
La strada si fa più in salita, la vegetazione più fitta, man mano che l’autista va avanti ad ogni
fermata scendono sempre più persone, si ha l’impressione di star per rimanere soli: alla fermata di
Todtnau l’impressione diventa realtà, scendono tutti. Ancora qualche tornante, a sinistra la
montagna, a destra sempre più giù un parco per bambini interamente in legno. Un’ultima curva e lo
spettacolo che si apre di fronte agli occhi è quello di una vallata, quasi uno squarcio nella montagna,
sui cui lati sorgono case sparse e stalle.
La fermata a cui scendere è il capolinea, dopo il quale l’autista fa immediatamente dietrofront. Ad
attendere l’arrivo quattro pezzi di legno, sapientemente assemblati a formare una pensilina per le
attese sotto la pioggia, quest’ultima un presagio costante nella valle. Il cielo che è quasi sempre
grigio, intervallato solo ogni tanto da squarci di sole, pare annunciare perennemente tempesta.
Una, forse l’unica, strada d’asfalto attraversa il paese: seguendo la linea del monte attraversa il
paese, con una salita piuttosto lunga anche se non eccessivamente ripida.
Arrivati in cima e superate le moltissime mucche che ci circondano, vere padrone del villaggio,
iniziano i sentieri. Tante le opzioni, per ogni livello e di ogni difficoltà, infatti ci sono anche alcune
famiglie con bambini a godersi i percorsi più fattibili. A noi però non interessa decidere né in base
alla durata né in base alla difficoltà del sentiero, abbiamo già scelto la strada molto prima di
arrivare.
6.2 km, 1 ora e 35 di tragitto, 1077 metri il punto più basso e 1200 metri quello più alto. La Martin
Heidegger Rundweg ci ha già stregato, immersa nella Foresta da un lato ma perennemente aperta
sulla valle dall’altro, come dice il nome è una via circolare dedicata interamente al filosofo. Lungo
la camminata bisogna fare attenzione ai cartelli che ripercorrono momenti della vita di Heidegger, le
sue abitudini a Todtanuberg, gli incontri qui avvenuti e perfino aspetti del suo pensiero, riportati in
forma rapida ma, a nostro avviso, davvero efficace.
Non bisogna avere fretta, altrimenti ci si perde sicuramente la parte più importante: pochi metri
dopo l’inizio del cammino troviamo il primo grande cartello dedicato ad Heidegger, in cui si parla
della quasi leggendaria Hütte. Attenzione però, specialmente chi non parla tedesco, non è affatto
indicato chiaramente, con frecce o altri segnali, che pochi passi dopo, sulla destra, una via tra alcuni
rovi si apre per giungervi! Non è poi così nascosta, ma andando di fretta è quasi impossibile non
superarla senza accorgersene. La pazienza di scendere ancora di qualche passo, continuando sulla
destra su un terreno un po' scosceso, ed eccola stagliarsi tra gli alberi.
La Hütte è ancora di proprietà della famiglia Heidegger e, se da un lato è purtroppo recintata da un
basso filo elettrificato per le mucche, d’altra parte è anche tenuta davvero bene, intatta e preservata
come appariva un tempo. Il verde acceso della vernice sulle finestre, la fontana di legno di fronte la
porta principale, il comignolo che spunta dalla stana forma del tetto, tutto è curato nei minimi
particolari. La capanna pare riposare sul dorso inclinato della montagna, riparata dal vento e
affacciata sull’immensità.
69
Ci si può sedere alle sue spalle, tra gli alberi, ascoltando solo il fruscio del vento tra le foglie ed i
campanacci delle mucche al pascolo. Il consiglio è quello di portare con voi un libro, l’autore è
scontato dirlo, e concedervi un po' di Tempo: non a caso, chi scrive ha optato per Essere e Tempo.
Todtanuberg non è solo un paesino, non è solo la chiusura in un pezzetto di mondo per lo più
dimenticato o sconosciuto, non è nemmeno il ritiro ascetico, Todtnauberg è una lezione, la stessa
lezione che dobbiamo trarre da Heidegger e da tutto ciò che abbiamo detto fino ad ora. Pensare a
Todtnauberg è anche pensare da Todtnauberg, dal dolce precipizio, da quella “terrazza”
sull’immensità, da quell’apertura che è la Hütte. La Lezione riguarda l’apertura del pensiero verso
ciò che essenziale, nel Silenzio dell’ascolto dell’Essere.
Tornare a Todtnauberg non è l’invito ad un luogo fisico, al mero spostarsi da qui a lì. La banalità, la
chiacchiera, l’interesse esclusivo per il proprio limitato orizzonte, la Tecnica ormai incondizionata
ed onnipresente: tutto ciò sembra quasi non arrivare tra le fronde della Schwarzwald. Il Silenzio di
quei boschi è il messaggio ultimo dell’invito a trarre Lezione. Occorre dunque mettersi in ascolto di
quest’appello silenzioso.
Pensare e domandare silenziosamente a partire da ciò che chiede ascolto, questo il destino di chi
trae Lezioni.
70