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Im-Schützengraben-Sein Heidegger lettore di Jünger Facoltà di Lettere e Filosofia Dipartimento di Filosofia Corso di laurea in Filosofia Simone Zanello Matricola 1754047 Relatore Donatella Di Cesare A.A. 2018-2019 Im-Schützengraben-Sein Heidegger lettore di Jünger Laureando Simone Zanello Relatore Donatella Di Cesare Indice Introduzione..........................................................................................................................................4 Ι. Ernst Jünger: breve ritratto................................................................................................................6 1. Cenni biografici...........................................................................................................................8 2. Die Konservativ Revolution: tra le pieghe di un ossimoro........................................................11 3. Sulla “questione” italiana.........................................................................................................13 4. Der Arbeiter, il Maschine-werden del Soldato...........................................................................15 ΙΙ. Freiburg 1939/40: i Colloqui su Jünger.........................................................................................19 1. Ernst Jünger, Der Arbeiter. 1932: Zur Einführung 1939/40......................................................21 2. Zu Ernst Jünger 1939/40: Macht und Sein................................................................................24 3. Von Ernst Jünger 1939/40..........................................................................................................27 4. Ernst Jünger 1939/40.................................................................................................................30 5. Ernst Jünger...............................................................................................................................32 III. Anmerkungen: sulle Tracce del Pensiero.....................................................................................34 1. Heidegger lettore de L’Operaio.................................................................................................36 2. Gestalt e Platonismo Ribaltato..................................................................................................40 3. Accecarsi nel Soggetto...............................................................................................................44 4. Liberalismo, Progressismo, Libertà Moderna...........................................................................46 5. La Costruzione Organica come Biologismo: Heidegger e la Biopolitica?...............................50 IV. Le Lettere ed il saggio Gestalt......................................................................................................54 1. Lettera al caro signor Groothoff................................................................................................55 2. Lettera al Caro G.......................................................................................................................57 3. »Forma« 1954............................................................................................................................59 V. Conclusioni per chi non smette di camminare...............................................................................62 1. Divergenze Teoretiche................................................................................................................63 2. ...convergenze politiche..............................................................................................................65 3. Trarre Lezioni: pensare (d)a Todtnauberg.................................................................................69 Introduzione «Di che reggimento siete fratelli? Parola tremante nella notte Foglia appena nata Nell’aria spasimante involontaria rivolta dell’uomo presente alla sua fragilità Fratelli» ~G. Ungaretti; Fratelli, 15 Luglio 1916. La tesi che segue vuole porsi come una riflessione su quello che, a detta dello stesso Heidegger, è un confronto fondamentale con l’opera di Ernst Jünger. La complessità di tale confronto è origine di numerosi problemi che si articolano su più piani. Vi è innanzitutto la dimensione totalmente atipica entro cui tale Auseinandersetzung si articola: non siamo di fronte ad un dialogo, né tanto meno a delle semplici citazioni, dei riferimenti sparsi o all’occasionale attenzione reciproca tra due pensatori. Se escludiamo le significative pagine di Oltre la Linea, quel che resta è una interpretazione quasi unilaterale, da parte di Heidegger, del pensiero di Jünger. Tale unilateralità non va intesa nel senso di una scorrettezza ermeneutica da parte del filosofo, ma va ricondotta invece all’effettiva assenza di una risposta dell’interpretato all’interpretante: è sempre Heidegger ad essere lettore di Jünger, non avviene il contrario. Questa asimmetria tra i due, oltre ad avere una motivazione effettiva in quello che è il rapporto filosofico ed umano tra i due autori, nel presente lavoro è frutto di una scelta ben precisa, di un “taglio interpretativo” che privilegia e mette al centro Heidegger. Abbiamo provato a restituire un Heidegger lettore di Jünger per “illuminare” una parte dell’opera heideggeriana che, a nostro avviso, è rimasta a lungo nell’oscurità. La lunga serie di meditazioni che ci apprestiamo ad esporre, sono spesso state lasciate in secondo piano, per ragioni di diversa natura, prima fra tutte la pubblicazione relativamente recente della gran mole di appunti, annotazioni e saggi dedicate dal nostro filosofo all’opera jüngeriana. Basta sapere che, se per l’edizione della Gesamtausgabe in tedesco la pubblicazione risale al 2004, per l’edizione italiana, quella a cui faremo riferimento da qui in poi, l’attesa è durata fino al 2013. Grazie alla traduzione di Marcello Barison e al lavoro editoriale della Bompiani, abbiamo potuto beneficiare di una versione italiana di questo grande e fondamentale capitolo del discorso filosofico di Heidegger. È a partire da ciò che incontriamo un altro problema, forse il più difficile da aggirare ma anche quello che ci ha spinti a volerci “imbarcare” in questo viaggio: la scarsità di letteratura secondaria sul tema, oltre a dimostrare la scarsa attenzione di cui sopra, ha reso la lettura dei testi parzialmente priva di qualsivoglia appiglio esterno. Ciò che rende però tanto appassionante la filosofia è, a nostro avviso, alle volte proprio la possibilità di guardare ad orizzonti ancora impensati, inesplorati, senza una stabile sicurezza, affidandoci solo a quella vertigine del pensiero che, ci piace credere, è un po' la spinta che muove tutto questo. Fatta ovviamente eccezione per alcuni contributi fondamentali sul tema su cui ci siamo basati, la volontà è qui quella di restituire uno sguardo, del tutto limitato e parziale, ad un passaggio in un certo senso inedito di quel mare magnum che è l’opera di Heidegger. Come spesso accade, tuttavia, non è possibile, per ragioni di tempo e per necessità di brevità, ripercorrere l’intera produzione sulla questione, ci siamo pertanto imposti delle scelte alle volte dolorose, inutile negarlo. 4 Abbiamo escluso entrambi i bellissimi saggi contenuti in Oltre la Linea: molto è già stato scritto e detto, il nostro contributo non avrebbe assolutamente aggiunto nulla ad un dibattito intrapreso da studiosi che, molto più e molto meglio di noi, hanno già abbondantemente percorso questa strada. Una vicinanza col saggio in questione abbiamo però voluto mantenerla, attraverso la lettura di Forma 1954, in cui Heidegger cita e si interroga anche su Oltre la Linea. Assenti anche le note manoscritte sulle copie di lavoro delle opere di Jünger, che richiederebbero un lavoro filologico a parte, molto più strutturato e specifico. Il Primo Capitolo è introduttivo, riassume molto brevemente la vita, il contesto e l’opera di Jünger. Ci siamo limitati ad un analisi specifica de L’Operaio e de La Mobilitazione Totale, poiché sono questi i testi con cui Heidegger si confronta maggiormente e a partire dai quali sviluppa le sue riflessioni. Il Secondo Capitolo è dedicato al Colloquio del 1939/40, un seminario tenuto per pochi studenti e colleghi di Heidegger all’università di Friburgo. È la parte del volume più leggibile e discorsiva, in cui l’interpretazione è in forma saggistica, più vicina ad un libro che ad una serie di appunti sparsi. La ripetitività di alcuni passaggi ci ha imposto un’esposizione alle volte vicina al commento, senza mai rinunciare, però, alla dimensione teoretica su alcuni passaggi di straordinaria importanza politica, ontologica, esistenziale. Il Terzo Capitolo è dedicato alle Annotazioni che aprono il volume, lunghissima serie di piccoli goli senza una vera e propria struttura discorsiva. Abbiamo tentato di restituire il senso complessivo di parti di esse, privilegiando una lettura quanto più unitaria possibile, invece che un commento di ogni frammento, che avrebbe portato ad una scrittura potenzialmente infinita. Il Quarto Capitolo si sofferma sulla Lettera a Singoli Combattenti, altro momento chiarificatore dell’interpretazione di Jünger, e sul saggio Forma 1954, che riprende la struttura invece delle annotazioni. Anche qui valgono le premesse rispettivamente del Secondo e Terzo Capitolo. Il Quinto Capitolo è dedicato invece alle Conclusioni: molti i temi che richiedono un pensiero profondo, dal tema della guerra alle vicende politiche dei due autori. Buona lettura! 5 Ι. Ernst Jünger: breve ritratto Restituire uno sguardo d’insieme sulla vita, il pensiero e le opere di Ernst Jünger, è impresa ardua sin dal principio, per molteplici ragioni, di carattere sia filosofico che di ricezione presso il grande pubblico. Emblematico è, ad esempio, il caso italiano, che approfondiremo in seguito, in cui le opere dell’autore appaiono tradotte solo in epoca molto tarda, quando già la sua produzione, pur mantenendo l’importante eredità dei primi lavori, si è orientata verso tematiche e problematiche molto differenti. O ancora, crea notevoli problemi ed incomprensioni, convincersi di poter racchiudere la totalità dello sviluppo concettuale delle riflessioni di Jünger nella lettura delle poche opere di carattere esplicitamente filosofico da lui pubblicate. Anche la lettura che lo rinchiude esclusivamente nella figura del soldato, del milite che, dopo la battaglia, non esiste più, che si limita a scrivere cronache dai campi di battaglia, declamando gesta eroiche e nulla più, risulta, a nostro avviso, un accostamento superficiale a certa altra letteratura di guerra del tempo, ben più retorica, propagandistica e vuota. C’è inoltre una ragione, che potremmo qui definire quasi “esistenziale”, che non consente mai di trattenere, di bloccare o di cristallizzare le posizioni del nostro autore, ed è il carattere di totale eccezionalità, voluta e fortemente ricercata, non solo delle sue opere e delle vicende in esse narrate, ma della sua stessa vita: siamo di fronte ad un uomo che ha assunto, alle volte perfino contemporaneamente, atteggiamenti e posizioni tra loro antitetici, se non addirittura contraddittori, come appare evidente nel progredire della sua attività letteraria1. Se leggiamo la prosa fredda, glaciale, inumana nella lucida distanza, quasi ostentata, da ciò che accade In Stahlgewittern2, scorgiamo delle importanti affinità con, ad esempio, lo stile narrativo di Auf den Marmoklippen3, essendo entrambi i testi dominati dalla ricerca di un realismo totale e dalla restituzione plastica degli eventi descritti. Allo stesso modo, però, non lascia indifferenti il radicale stravolgimento di contesto, dove il passaggio è dalla trincea vissuta ad un paradossale “realismo surrealista” di un paesaggio che, pur con tutta la forza descrittiva presente nel libro, rimane comunque completamente frutto della fantasia di Jünger; ancora fa riflettere la decisione finale del protagonista delle Scogliere, che, all’azione innalzata a categoria suprema delle Tempeste d’Acciaio, sostituisce il ritiro nella contemplazione della battaglia finale. Ancora più prepotentemente emergono enormi problemi se ci si avvicina, in maniera attenta e non superficiale, alle vicende politiche che caratterizzano la vita e l’epoca di Ernst Jünger. Dalla militanza giovanile in gruppi di estrema destra alla partecipazione all’attentato ai danni di Adolf Hitler, sono molti gli elementi di incanto e rapida disillusione che scuotono la coscienza politica dello scrittore di Heidelberg, che in fondo sempre mal digerì l’adesione troppo rigida a gruppi o correnti precostituite, di volta in volta giudicati volgari, deboli o, comunque, non coincidenti alla visione jüngeriana del mondo. Il terreno della Rivoluzione Conservatrice, a cui dedicheremo più ampio spazio tra poco, costituisce uno dei più fertili esempi dell’insofferenza umana e filosofica a schemi troppo rigidi ma, allo stesso, troppo deboli per ingabbiare l’originalità di Jünger. Tutto ciò non deve, ovviamente, portare a pensare ad un democratico, un socialista, né tanto meno ad un liberale: autore di destra, con slanci senza dubbio molto divergenti dalle correnti più tradizionali e “militanti” del suo tempo, il suo rifiuto dell’ordine vigente non muove da una pretesa anarchica di messa in discussione, di decostruzione del comando e dell’imposizione, ma anzi spinge verso il fondamento di una gerarchia nuova, ancora più ferrea e radicale, annullante totalmente l’umanità in sé stessa4. 1 2 3 4 C. Resta, Ernst Jünger e la Libertà del Singolo, in Nichilismo, Tecnica, Mondializzazione. Saggi su Schmitt, Jünger, Heidegger e Derrida, Mimesis, Milano-Udine 2013, pp. 61-80. E. Jünger, Nelle Tempeste d’Acciaio, Guanda, Milano 1990. E. Jünger, Sulle Scogliere di Marmo, Guanda, Parma 2002. E. Jünger, L’Operaio. Dominio e Forma, Longanesi, Milano 1984. 6 Abbiamo fin qui molto rapidamente accennato alle immani ed innumerevoli criticità ed aporie in cui ci imbatteremo nel corso di questo, breve e parziale, ritratto di Ernst Jünger. Lo scopo di questo capitolo è approfondire alcune di queste criticità, per portare alla luce una piccola parte dell’universo jüngeriano, potendo così, in seguito, porlo in relazione al suo grande interlocutore, Martin Heidegger. Anche in questo sta la necessaria limitatezza della nostra prospettiva di ricerca: l’Auseinanderesetzung tra i due, se teniamo da parte Oltre la Linea, si arresta alle soglie del testo Der Arbeiter, con qualche appunto sulle Scogliere di Marmo (che escludiamo per motivi di tempo e di frammentarietà del materiale a disposizione). Il “ritratto” che qui offriamo è quindi principalmente incentrato sulla fase che va fino all’opera del 1932, tralasciando, non senza dolore, tutta la produzione successiva, su cui ben più completi saggi sono stati già scritti5. La pretesa non è perciò né di completezza, né tanto meno di totalità; l’unica volontà è rispondere ad una semplice ma grande domanda: chi è Ernst Jünger? 5 H. Schwilk, Ernst Jünger. Una Vita lunga un Secolo, Effatà, 2013 per una biografia dettagliata fino all’inverosimile; L. Bonesio – C. Resta, Passaggi al Bosco. Ernst Jünger nell’Era dei Titani, Mimesis, Milano 2000 per lo sviluppo del pensiero dell’autore. 7 1. Cenni biografici Ernst Jünger nasce nel 1895 a Heidelberg, trascorrendo l’infanzia, però, ad Hannover. È del 1911 il primo approccio alla politica, con l’adesione ai Wandervögel6, gruppo di estrema destra, orientato al pangermanesimo ed intriso di richiami al romanticismo ed all’idealismo. L’ambiente del movimento smette molto presto di far presa sul giovane Jünger, così come inizia una radicale insofferenza verso la casa paterna, insofferenza mossa da una spasmodica, incontrollata e sicuramente anche incosciente volontà di azione, di immersione profonda nel contesto bellico. Proprio per questo, nel 1913 a Verdun, si arruola nella Legione Straniera, venendo così inviato a combattere in Algeria 7: l’esperienza lo esalta, la ricerca di uno spazio entro cui sfogare uno spirito elementare, una forza nascosta ed imprigionata dagli schemi borghesi ed aristocratici in cui si era trovato a vivere fino ad allora. Il racconto di tutto questo, sebbene scritto solo nel 1936, convergerà nel romanzo Ludi Africani8, in cui, come suggerisce appunto il titolo, la guerra è un’attività ludica, avvicinata quindi al campo semantico del gioco, dell’infanzia letta da una prospettiva quasi primitiva, come se il gioco, al pari della guerra, fosse azione libera dai vincoli di una società che non riesce a comprenderla fino in fondo, relegandolo alla sfera dell’irrazionale e del non degno di indagine. Ciò che è chiaramente rivendicato, non solo in queste pagine, è l’originarietà dell’esperienza bellica, come battesimo alle armi e al fuoco in una catarsi di violenza in grado di soddisfare l’inquieto spirito di Jünger. È paradossalmente proprio però il padre a convincerlo a tornare a casa e riprendere gli studi al Gildemeister Institut di Hannover, dove avviene il primo contatto con l’opera di Nietzsche, filosofo che segnerà profondamente, forse più di ogni altro, la dimensione teoretica jungeriana. Non appagato dallo studio e dalla vita di città, Junger si arruola nuovamente nel 1914, quindi a stretta distanza dall’esperienza precedente , per essere inviato al fronte nel 1915, dove mostra eccellenti capacità militari, riportando numerosissime ferite e ricevendo diverse promozioni e onorificenze, come la nomina a capo sezione e subito dopo a tenente; o, ancora, la croce di ferro di prima classe ed in seguito la più nota croce Pour Le Mérite. La prima guerra mondiale è l’evento fondamentale nella vita dell’autore, con cui manterrà sempre un legame fortissimo e da cui dipenderanno tutte le sue riflessioni successive. Oltretutto è un evento che rimane, per Jünger ma non solo, ineguagliato: l’adesione alla seconda guerra mondiale non è per lui altrettanto entusiasta né altrettanto determinante. L’immagine che ci viene restituita è quella di un uomo legato alla prassi ed alle gerarchie militari, che trova il suo personale “senso della vita” nel fango e nel ghiaccio delle trincee, nei proiettili e nelle armi, nelle battaglie e nelle attese, nell’assalto e nelle ricognizioni, quindi, fondamentalmente, nella vicinanza alla morte. La descrizione del silenzio irreale delle notti al fronte si accompagna alla resa limpida del frastuono e della confusione dei nemici che si fronteggiano, in una prosa che stupisce per la totale mancanza di qualsiasi giudizio di merito, positivo o negativo che sia. Sono queste le pagine di In Stahlgewittern, edito nel 1919 a spese dello stesso Junger ancora in fase di guarigione dalle numerose ferite di guerra, pagine in cui non è rimosso alcun dettaglio del fronte: se da un lato la guerra è celebrata, d’altra parte si notano immediatamente il gran numero di passaggi cruenti e dolorosi, sulla morte di compagni, forse anche di amici, di ragazzi gettati in una guerra di cui, fino in fondo, non comprendono il senso9. Sono forse i minuscoli passaggi in cui, all’adrenalina e all’eccitazione per la possibilità di gesta eroiche, si sostituisce l’angoscia della morte violenta e la paura del non-senso di ciò che si sta vivendo10, a mostrarci il dovere di una meditazione profonda su cosa è stata e cosa è la guerra. Al di là dei giudizi, ciò che in ogni caso rileviamo, è la volontà di Jünger di restituire la 6 7 8 9 10 Jon Savage, L’invenzione dei Giovani, Feltrinelli, Milano 2012. H. Schwilk, Ernst Jünger. Una Vita lunga un Secolo, pp. 86-89. E. Jünger, Ludi Africani, Longanesi 1974. E. Jünger, Nelle Tempeste d’Acciaio, pp. 26-29. Ivi, pp.6-9. 8 totalità della vita al fronte, senza lasciare da parte nulla, anche ciò che appare più facilmente criticabile. Dal 1920 continua la pubblicazione delle sue opere, di quell’anno è La Guerra Come Esperienza Interiore11, del ‘22 Boschetto 12512 e, a seguire nel ‘23, Fuoco e Sangue 13 nello stesso anno in cui si dimette dalla Reichswehr e riprende gli studi all’università di Lipsia, concentrandosi sulla biologia, la zoologia e la filosofia. Nel 1925 sposa Greta von Jeinsen, da cui ha due figli, Ernst e Alexander, morti entrambi in circostanze tragiche, su cui torneremo in seguito. Junger diventa editore della rivista Der Vormarsch nel 1927 a Berlino, negli stessi anni in cui matura complesse posizioni politiche ed amicizie molteplici e disparate negli ambienti di estrema destra, tra nazional-bolscevichi, nazionalisti, fascisti e membri dei Freikorps 14. In questo periodo, la vicinanza è con la Rivoluzione Conservatrice, la cui retorica è quella di un pathos della guerra che si fissa però alla comunità, intesa come Gemeinschaft di Blut und Boden che, in virtù della propria conservazione etnico-razziale, si mantiene pura e distinta dalle spinte disgreganti dell’Occidente 15. Vedremo come la posizione di Jünger in merito sia in realtà ben più oscillante, forse addirittura confusa. La pubblicazione nel 1932 di Der Arbeiter, di cui approfondiremo il contenuto nei capitoli successivi, segna forse il momento di massima ed esplicita adesione al nazionalsocialismo: la prima copia pubblicata è dedicata e spedita ad Adolf Hitler. Stupisce però la radicalità dei contenuti dell’opera che, se da un lato richiama sicuramente una retorica fortemente ripresa e radicata in quello che sarà il Terzo Reich, dall’altro esprime posizioni che mal si sposano con le correnti più tradizionaliste, romantiche e passatiste dell’elaborazione culturale e propagandistica del Reich. Oltretutto un programma politico chiaro è del tutto irrintracciabile nelle pagine de L’Operaio, che mira più alla descrizione, in termini metafisici, della fine di un’epoca e del sorgere di un nuovo tipo umano, plasmato dall’esperienza della trincea e votato ad una gerarchizzazione della società dai risvolti anti-democratici, anti-parlamentaristici e, nella loro estrema meta-politicità, quasi antipolitici. Siamo di fronte ad un’opera volutamente inattuale, che mal si presta ad essere semplice strumento nelle mani del Reich, pur avendo ricevuto inizialmente apprezzamenti ed interesse dallo stesso Hitler. Anzi, è proprio da qui che la vita di Jünger subisce alcune delle svolte politiche più importanti ed estreme, che condurranno il nostro autore a dover convivere con la vicenda tragica della morte del primogenito: il rapporto con gli alti gradi del Terzo Reich si deteriora molto rapidamente, a partire da una presa di distanza personale ed interiore dall’hitlerismo. Jünger prova sulla sua pelle la prima, vera e scottante, delusione politica della sua vita, constatando l’impossibilità della politica hitleriana di coincidere con la propria personale visione e lettura del mondo. A tutto ciò si aggiunge il racconto del ‘39 Auf der Marmoklippen, apertamente antinazista che, sebbene si svolga in un mondo di fantasia, introduce una figura fondamentale, quella del Forestaro, su cui a lungo si è dibattuto: archetipo del Dittatore, è impossibile non scorgervi il riferimento ad Hitler16. Tutto ciò, in un regime come quello nazista, non può, ovviamente, avvenire senza conseguenze. A gennaio del 1944 il figlio Ernstel viene arrestato con l’accusa di aver pubblicamente criticato il Führer. L’influenza del padre, che in un primo momento riesce a farlo liberare, non basta però ad evitare una sorte ben più drammatica: il primogenito gli sarà strappato in Italia, spedito in prima linea con le truppe corazzate, verso quella che è una morte certa. Sorte beffarda, poiché il racconto del 1939 si intitola “Sulle Scogliere di Marmo”, ed è esattamente sulle scogliere di marmo che 11 12 13 14 15 16 E. Jünger, La Battaglia come Esperienza Interiore, Piano B 2014. E. Jünger, Boschetto 125, Una cronaca delle battaglie in trincea nel 1918, Guanda, Parma 1999. E. Jünger, Fuoco e sangue. Breve episodio di una grande battaglia, Guanda, Milano 2016. Ernst von Salomon, Freikorps. Lo spirito dei Corpi Franchi, Ritter 2010. D. Di Cesare, Heidegger e gli Ebrei. I «Quaderni Neri», Torino, Bollati Boringhieri 2016, pp. 102-111. E. Jünger, Sulle Scogliere di Marmo, Guanda, Parma 2002, pag. 38. 9 troverà la morte il figlio di Jünger17. Seguirà una lunga e straziante ricerca, conclusa solo nel 1955, per riportare nel cimitero di Wilflingen la salma del ragazzo18. Dopo lo sbarco in Normandia, Jünger partecipa all’attentato contro il Führer, un fallimento totale, alle cui conseguenze riesce a scampare solo in virtù del fascino da lui esercitato nelle alte sfere del Reich. Ciò non impedisce tuttavia che venga espulso per indegnità militare e che gli venga negato ogni premio o riconoscimento letterario. È lo stesso Goebbels a richiedere, nel ‘45, di tacere sul cinquantesimo compleanno dell’autore da parte di ogni organo di stampa. Jünger subisce poi, nel ‘49, anche la proibizione di ogni pubblicazione da parte degli Alleati, essendo accusato di connivenza con il regime hitleriano. Su tali accuse occorrerebbe meditare a lungo, per farsi un’idea completa della questione, cosa che non può evidentemente essere fatta in questa sede. Ci limitiamo solo a rimandare ad alcuni spunti sulla questione, da una parte alla controversa testimonianza della Arendt19, dal lato opposto al capitolo scritto dalla professoressa Donatella Di Cesare20, in merito all’antisemitismo di Jünger, in cui vengono evidenziate posizioni molto più gravi rispetto alla semplice “gravitazione” attorno al mondo nazionalsocialista,posizioni più intime, personali, ma non per questo meno feroci, che pescano a piene mani dalla più bieca retorica antisemita del tempo. Dal 1950 Jünger si ritira in Alta Svevia, fino alla fine dei suoi giorni, dedicandosi ad interessi privati, alla scrittura ed alla filosofia. Nel ‘59, assieme all’amico Mircea Eliade, fonda la rivista Antaios e l’anno dopo avvia la pubblicazione delle sue opere complete. È invece del ‘77 il romanzo Eumeswil. Quasi a voler sottolineare comunque la persistenza del suo animo ribelle, sperimenta l’LSD assieme all’amico chimico Hoffmann. Riceve nel 1982 il Goethe Preis. La drammatica scomparsa dell’altro figlio avviene nel ‘93, Alexander muore suicida a seguito di una paralisi e della depressione che ne consegue21. Muore a Riedlingen nel 1998, all’età di ben 103 anni. 17 18 19 20 21 E. Jünger, Irradiazioni, Diario 1941-1945, Longanesi, Milano 1995, pag. 361. A. Gnoli, F. Volpi, I Prossimi Titani. Conversazioni con Ernst Jünger, Adelphi, Milano 1997, pag. 113. H. Arendt, I Postumi del Dominio Nazista: Reportage dalla Germania, Feltrinelli, Milano 2003, pp. 22-43. D. Di Cesare, Heidegger e gli Ebrei. I «Quaderni Neri», pp. 144-150. Intervista al Der Spiegel del 27.03.1995. 10 2. Die Konservativ Revolution: tra le pieghe di un ossimoro Definizione complessa, etichetta forse eccessivamente rigida, la Rivoluzione Conservatrice è frutto di un contesto storico-culturale ben preciso e della convergenza di vari e molteplici elementi fortemente radicati nella tradizione popolare tedesca che, per tale ragione, affascinano un gran numero di pensatori ed autori. Autori che però, molto spesso, hanno ben poco in comune, eccetto una vaga e lontana, per dirla con Wittgenstein, aria di famiglia. Partiamo però dalle somiglianze, che sono molto più generali e rapide da trattare, ma efficaci per inquadrare, almeno politicamente, le relazioni che sussistono tra gli esponenti di tale Rivoluzione e, allo stesso tempo, per far emergere un’altra immensa quantità di nuovi interrogativi. Cosa hanno in comune Werner Sombart, Oswald Spengler, Moeller Van Der Brucke, Carl Schmitt, Martin Heidegger, Ernst Jünger, per citare i più noti? Sono tutti autori o pensatori non di sinistra, nel senso di un radicale rifiuto per le forze progressiste e per quello che, un po' retrospettivamente, potremmo definire il centro-sinistra. Non possiamo però spingerci oltre: già scavando leggermente, appaiono altri nomi che limitano fortemente le possibilità di fornire una definizione politica comune. Possiamo forse dire che un carattere della Rivoluzione Conservatrice sia l’anti-liberalismo, quando tra le sue, più o meno “reali”, fila annoveriamo Thomas Mann? O ancora, possiamo parlare di anti-bolscevismo, se includiamo Ernst Niekisch che, malgrado la distorsione profonda adoperata sul comunismo russo, non aveva invece problemi a definirsi nazional-bolscevico? Uscire da questi interrogativi non è affatto semplice se prima non si comprende il contesto storico della Germania entro cui tale Rivoluzione Conservatrice sorge, il passato da cui eredita alcune parole chiave, il presente verso il quale elabora degli “atteggiamenti” critici ed, in un certo senso, difensivi, reazionari nel senso letterale del termine22. In Germania il passaggio da un’economia agricola al capitalismo industriale è rapido e precipitoso, eppure i suoi effetti rimangono, almeno momentaneamente, contenuti. Ciò avviene, essenzialmente, grazie alla politica di Otto Von Bismarck, che incontra una larga base di consensi, in virtù di importanti riforme sociali e di un forte benessere materiale, il tutto all’interno di un paese militarmente protetto, industrialmente sviluppato e culturalmente florido. L’uscita di scena di Bismarck, pur portando importanti consensi all’opposizione socialdemocratica, non modifica l’orientamento ideologico del governo successivo, che rimane sostanzialmente conservatore, con l’appoggio del clero cattolico, di liberali di destra e del Kaiser. Il punto di rottura è rappresentato però dalla Prima Guerra Mondiale, da cui la Germania esce pesantemente sconfitta: indennità militari, devastazione, abbattimento morale sono tutti fattori che rendono già ardua in partenza la costruzione di una democrazia. Nonostante l’esilio del Kaiser Guglielmo II e le importanti istituzioni democratiche che la Repubblica di Weimar eredita dall’Impero Prussiano, nel paese domina il risentimento e la nostalgia per l’amore romantico, le sicurezza sociale, l’unità di suolo e sangue, l’antisemitismo sono eredità del prussianesimo, molto più pesanti e radicate. Weimar non basta per una nazione sconfitta, in crisi, con tassi di disoccupazione altissimi e con reduci di guerra che affrontano drammi psicologici inconcepibili23. È in questo contesto storico che si sviluppa ed attecchisce la Konservativ Revolution, che trova la sua ragion d’essere nella nostalgia per un passato perduto come risposta alla decadenza della democrazia di Weimar. La volontà di riconquistare una presunta tradizione perduta, conservata nel segreto del sangue e preservata dall’unità della comunità di popolo, è un violento atto d’accusa contro la razionalità illuministica e cosmopolitica occidentale. L’atteggiamento comune è quello di un Kulturpessimismus, una perenne e sistematica delusione intellettuale, che evoca la profonda interiorità della Kultur in contrapposizione al materialismo delle società industriali, esteriore e privo 22 S. Breuer, La Rivoluzione Conservatrice. Il pensiero di Destra nella Germania di Weimar, Donzelli, 1995. 23 R. Magro, Cuore di Soldato. Emergenze, Traumi, Risorse, Psiconline, 2012. 11 di Storia24. Riecheggia costante il tema dell’etno-nazionalismo, in una Heimat che è Patria, Suolo e Sangue. Il carattere ossimorico della Konservativ Revolution è più chiaro, alla luce di tutto ciò: la Kultur a cui si rifanno è reazione, alle volte passatismo o comunque nostalgia ma, per gli esponenti di tale tendenza, in un mondo dominato dal progressismo, recuperarla è un atto rivoluzionario. Tutto questo si accompagna ad un evidente tentativo di andare oltre le categorie “destra-sinistra”, “socialismo-nazionalismo” per fondare un ordine nuovo, che sia però saldamente ancorato al passato, al concetto di Nazione ed all’eccezionalità tedesca rispetto al mondo. In questi principi è impossibile non riconoscere i motivi ispiratori dell’impianto concettuale del regime nazista, che ha eletto questo vario e complesso universo a proprio strumento di propaganda, ricavandone slogan, manifesti ed espressioni ricorrenti e martellanti, ma soprattutto traducendo il tutto nella pratica di sterminio più efferata della storia dell’umanità. Nel progredire del predominio nazista, si verifica tuttavia un progressivo allontanamento degli intellettuali coinvolti nella Rivoluzione Conservatrice dal Partito Nazista: Carl Schmitt rappresenta un’esemplificativa eccezione, forse il più fedele all’apparato del Hitler, sicuramente il più “integrato” nel sistema nazista. Sul versante opposto si situa proprio il nostro Ernst Jünger, che all’iniziale speranza in una vittoria della croce uncinata, di cui condivide inizialmente la retorica e le aspirazioni, sostituisce prima la critica all’ipocrisia nazionalsocialista attraverso semplici articoli, per poi approdare alla congiura vera e proprio contro Hitler, con l’intenzione di levare per sempre di mezzo una politica che aveva perso la sua (presunta ed illusoria, aggiungiamo noi) potenzialità rivoluzionaria. In seguito capiremo quanto, in realtà, l’opera Der Arbeiter sia lontanissima da molte rivendicazioni della Konservativ Revolution: la sua critica senza appello al passatismo ed al romanticismo, ma anche e soprattutto la complessità del rapporto con la Zivilisation, con la tecnica, col mondo industriale e con le spinte del progresso, sono aspetti che mal si sposano con quella Kultur precedentemente delineata. Ben più attinente all’orizzonte concettuale della Rivoluzione sembra essere, invece, la feroce polemica anti-borghese che anima tutta l’opera di Jünger, insofferente ad un mondo che ingabbia la forza selvaggia ed elementare del combattente. Basta però spostarsi di poco per veder cadere rovinosamente queste deboli convergenze, essendo la critica jüngeriana orientata contro la sicurezza del vivere borghese, che elimina dall’orizzonte vitale la possibilità della guerra e con questa della morte25, sicurezza invece ricercata da altri intellettuali nella stabilità del passato e non di certo sul campo di battaglia. Anche in questo caso, la distanza dalle correnti più tradizionaliste è quantomeno varia ed oscillante. 24 E. D’Annibale, «Auf den ‘italienischen’ Marmorklippen». Ernst Jünger in Italia, in Studi Germanici n. 11, Istituto Italiano di Studi Germanici, Roma 2017, pag. 229. 25 E. Jünger, Sul Dolore, in Foglie e Pietre, Adelphi, Milano 1997. 12 3. Sulla “questione” italiana Dedicare qualche riga alla diffusione in Italia dell’opera di Jünger non è affatto un’esigenza di semplice ordine metodologico o di rigore bibliografico; consente invece di affrontare almeno due nodi cruciali, riguardanti l’accesso al pensiero dell’autore e l’orizzonte politico entro cui è tradizionalmente stato letto. Ripercorrere la vicenda italiana ci aiuta anche a giustificare e comprendere il motivo di certi ritardi in rapporto ad un intellettuale che, malgrado tutto, già aveva una notorietà internazionale di un certo livello. I libri di Ernst Jünger sono pubblicati in Italia, inizialmente, soltanto da Longanesi e da piccoli editori di destra (se non esplicitamente neo-fascisti) come Il Borghese e Il Settimo Sigillo, che ovviamente ne influenzano la lettura. Bisogna attendere gli anni ‘70 per una diffusione più estesa e, in un certo senso, riabilitata presso il grande pubblico, ad opera di Guanda, Rusconi e, in misura maggiore, di Adelphi. A tale processo di progressiva “normalizzazione” dello scrittore contribuiranno poi altri eventi, come l’amicizia con Alberto Moravia e la dedica, da parte del critico d’arte Achille Bonito Oliva, della Biennale di Venezia del 1993. Non mancheranno mai le polemiche, come testimonia un’appassionata difesa di Jünger da parte di Franco Volpi, dopo le critiche a Massimo Cacciari per averlo invitato a Venezia, di cui all’epoca era sindaco26. Al di là degli sviluppi più recenti e del dibattito pubblico, la prima apparizione in Italia del nome di Jünger risale al 1935 e riguarda proprio Der Arbeiter: non si tratta però di una traduzione, per la quale si dovrà attendere addirittura il 1985, ma di un commento presente in Studi Germanici, la rivista dell’Istituto Italiano di Studi Germanici. L’Istituto, fondato nel ‘32 da Giovanni Gentile, possiede dal ‘35 la sua rivista, attiva fino ai giorni nostri, in cui professori, ricercatori e studiosi scrivono di filosofia, arte, linguistica e letteratura, in relazione, ovviamente, al mondo tedesco. Ed è proprio qui che appare, sul primo numero della rivista, a firma di Delio Cantimori, al tempo giovane intellettuale, l’articolo “Ernst Jünger e la Mistica Milizia del Lavoro”27. Già il titolo dell’articolo stupisce per la traduzione della parola tedesca Arbeiter con “Mistica Milizia del Lavoro”, che si alterna, nel corso della scrittura, con la traduzione, molto più equilibrata, in Lavoratore o, al massimo, Operaio: arbeiten è infatti il verbo tedesco per “lavorare”, quindi, con l’aggiunta del suffisso -er, che in tedesco è quasi sempre maschile ed indica una mansione, un ruolo, una professione, al nome Arbeit, la parola dovrebbe suonare più o meno come colui-che-lavora. Adattandola quindi all’uso comune, in italiano diremmo Lavoratore, più specificatamente Operaio solo se in relazione al contenuto del libro. Lo stile dell’articolo risente ovviamente delle influenze del tempo - è noto come la rivista fosse, all’epoca, dipendente direttamente dal Partito Nazionale Fascista -, tuttavia la lettura risulta piuttosto agevole, soddisfacente ed esaustiva; d’altronde la conoscenza di Cantimori dell’opera di Jünger non si limita al singolo volume, dimostrandosi invece ben più ampia ed articolata. La confidenza con altri concetti del pensiero jüngeriano è evidente e rende la trattazione davvero molto specifica ed in linea, pur nella sua brevità, con tutti gli aspetti salienti del testo originale del Der Arbeiter ma anche con tutti i risvolti esterni ad esso. Il tentativo è quello di ripercorrere, seppur in maniera riassuntiva, la struttura del testo, restituendone il messaggio centrale. La recensione procede inizialmente con un tono entusiastico, del resto il giudizio di Cantimori è fondamentalmente positivo. Sul finale, tuttavia, non manca una nota critica ma, in parte, fondata: per l’autore dell’articolo, Jünger «è un letterato che si lascia prendere dalla “bellezza” di un’idea, più che un filosofo […] ci spiega tanti concetti originali […] senza però né chiarirli né svolgerli. Gli basta l’evidenza della formulazione, la durezza apodittica che esige meditazione28». 26 F. Volpi, Jünger Presunto Nazista, La Repubblica, 11.02.1995. 27 D. Cantimori, Ernst Jünger e la Mistica Milizia del Lavoro, in Studi Germanici n. 1, Sansoni Editore, Firenze 1935, pp. 73-92. 28 Ivi, cit. pag. 92. 13 Innegabilmente Cantimori apre allo studio di Jünger in Italia, sebbene il suo appello rimanga inascoltato fino al 1940, quando la seconda edizione del Cuore Avventuroso stuzzica l’attenzione di Giaime Pintor: conoscitore del lavoro di Cantimori sul tema e, quindi, conscio anche dell’arretratezza italiana29, decide di pubblicare le traduzioni del volume sulla rivista La Ruota, mensile finanziato direttamente dal PNF, isolando sette frammenti dell’edizione originale del 1938. A partire dalla traduzione di Pintor e, più in generale, da quell’anno 1940 cominciano le vere testimonianze di una specifica volontà di pubblicazione di Jünger, da parte di una delle più importanti case editrici, la Mondadori. In particolare, iniziano a circolare diversi pareri di lettura su Auf Den Marmorklippen30. I primi pareri sono tutti non firmati, se non addirittura non datati; l’autore è definito pericoloso per via della sua critica al Forestaro, ma più in generale ai regimi dittatoriali compreso, quindi, quello italiano. I due pareri fondamentali, però, sono quelli di Giuliana Pozzo e di Lavinia Mazzucchetti: la prima critica senza possibilità d’appello il libro «ambizioso e pretenzioso, di nessun significato sia nel campo filosofico che in quello poetico 31», delegando poi la decisione alla Mazzucchetti. Quest’ultima non ha un parere tanto differente dalla collega, lascia però aperta la possibilità di una traduzione in italiano, pur sconsigliando il libro, da un punto di vista sia commerciale che personale e letterario. A tradurre e curare il testo sarà Alessandro Pellegrini, che decide di riunire, accanto alle Scogliere, altri volumi precedenti, in modo da ripercorrere parzialmente l’evoluzione stilistica e concettuale di Jünger. Siamo ormai nel 1942 quando l’opera diviene accessibile al grande pubblico, subito però accolta da una stroncatura della Mazzucchetti, che continuerà con un incessante critica ed un accanimento senza tregua verso l’opera, non solo dello scrittore, ma anche del traduttore Pellegrini. Arrivando a dare a Jünger del doppiogiochista che era uscito dalla guerra senza sofferenza alcuna 32, l’ingiustificato astio della germanista dimenticava perfino la morte del figlio Ernstel, un dolore che è diretta conseguenza della guerra, il dolore di chi resta, privato di una persona cara, di un figlio. Una tragedia che lasciò segni indelebili nella vita di Jünger, che fu pur sempre un padre, al di là di tutto. Gli anni successivi vedono un quasi costante ed unanime giudizio negativo33, che rallenta ulteriormente la diffusione in Italia. Bisognerà, come già detto, attendere gli anni ‘70 per una pubblicazione più diffusa e plurale. Anche se la strada, a quel punto, era già stata aperta… 29 30 31 32 33 Giaime Pintor, Capricci e Figure, in «La Ruota», s. III, Giugno 1940, pp. 139-145. Archivio Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, Fondo Pareri di Lettura. Ivi, Giuliana Pozzo su Ernst Jünger, parere del 27.07.1940. L. Mazzucchetti, Wiechert – Carossa – Jünger, in «Il Ponte» n. 3, Aprile 1947, pp. 336-344. J. Evola, L’Operaio nel Pensiero di Ernst Jünger, Mediterranee, Roma 1998, pag. 38 o W. Kaempfer, Ernst Jünger, Il Mulino, Bologna 1991. 14 4. Der Arbeiter, il Maschine-werden del Soldato Possiamo ora addentrarci più a fondo nell’opera centrale di questa tesi, il testo privilegiato della riflessione di Heidegger sull’opera jüngeriana. Der Arbeiter34 è il primo vero, grande saggio di carattere filosofico scritto da Jünger. Innegabile la difficoltà di lettura, dovuta ad uno stile di scrittura fortemente personale, più vicino all’ambito letterario che alla filosofia, condensato però in forma saggistica. Le quasi trecento pagine che compongono il volume, pur non essendo esattamente scorrevoli, sono però interessanti per almeno due motivi: in prima istanza per la lucida descrizione di un mondo che si avvia verso il dominio della tecnica, in cui nessun processo può più sottrarsi ad un destino di produttività inevitabile. Oltretutto, tale descrizione, se letta oggi, appare inquietante nel suo essere estremamente attuale. Fondamentale, per comprendere correttamente Der Arbeiter, l’idealmente precedente breve saggio, intitolato La Mobilitazione Totale35 che, oltre ad indicare chiaramente l’avvento di una nuova epoca, ne delinea la direzione, le modalità di dispiegamento, le caratteristiche contestuali. Anche qui la centralità dell’esperienza della guerra regge l’intera riflessione di Ju:nger che, tuttavia, non è solo nell’accorgersi di essere di fronte ad un evento senza precedenti, che rivoluzionerà per sempre non solo il modo di combattere, ma lo stesso modo di produrre, di consumare ed essere consumati, di vivere e di morire, di esistere. È anche bene segnalare due limiti fondamentali di questa analisi, partendo da un problema ideologico: Jünger non sbaglia nel rilevare la piena disponibilità dell’apparato produttivo occidentale alla Prima Guerra Mondiale, le massicce potenzialità distruttive aperte dalla tecnica offrono uno spettacolo mortifero senza precedenti, almeno per l’umanità europea, oltretutto inscritto in un mondo industriale completamente lanciato verso tale scopo. Ciò che, tuttavia, va notato è un certo etnocentrismo dell’analisi jungeriana, che forse dimentica di menzionare l’altrettanta disponibilità distruttiva che l’imperialismo aveva diffusamente dimostrato durante le guerre coloniali36. Unica differenza, l’evidente disparità di mezzi ed il tentativo silenzioso e subdolo di relegare questi episodi storici ai margini della Storia, poiché fuori dall’Europa. Altrettanto ideologica è la convinzione jüngeriana della piena partecipazione ideologica della gioventù europea, nella sua interezza, a tale inedita guerra37. Per Jünger la guerra del 14-18 è stata la prima grande guerra popolare, in cui gli eserciti sono mossi da una volontà comune, pienamente convinti di far parte di un unico grande organismo mosso da uno scopo unico 38. La piena organicità all’ideale bellico, data per scontata dall’autore, è quantomeno un azzardo, se non una totale distorsione, dovuta ad una lettura parziale del reale vissuto di tutti i giovani mandati in trincea. Se senza dubbio esiste ed è documentata una forte propaganda che precede, accompagna e succede la Prima Guerra Mondiale, ciò non fa dimenticare il sentimento di terrore, paura e disperazione che attanaglia i giovanissimi chiamati al fronte. Ciò riguarda specialmente i poveri, gli ultimi, gli sfruttati, che certamente non sono partecipi della ricerca di eroismo e di onore tanto declamata. Ciò che va tenuto fermo della Mobilitazione Totale è però ciò che immediatamente si collega anche a Der Arbeiter, cioè la convinzione jüngeriana di trovarsi alle soglie di un cambiamento epocale, in un’era totalmente orientata alla guerra, a cui non vi è possibilità di opporsi. Da qui, la condanna al romanticismo visto come un tentativo di fuga, inadeguato e sciocco, rispetto all’emergere di una nuova umanità39, che si accompagna alla coscienza della inadeguatezza filosofica della Germania stessa, che parte per Jünger già sconfitta, rispetto alle potenze del blocco occidentale. Tale coscienza pesca a piene mani in una delle opposizioni più caratterizzanti la Konservativ Revolution, ovvero 34 35 36 37 E. Jünger, L’Operaio. Dominio e Forma, Longanesi, Milano 1984. E. Jünger, La Mobilitazione Totale, in Foglie e Pietre, Adelphi, Milano 1997. V. I. Lenin, L’Imperialismo Fase Suprema del Capitalismo, Lotta Comunista, 2002. F. Croci, Parole in Trincea. La Memoria della Grande Guerra nelle Testimonianze Scritte dei Soldati, Novecento.org n. 6, Luglio 2016. 38 E. Jünger, La Mobilitazione Totale, pag. 121. 39 E. Jünger, L’Operaio. Dominio e Forma, pp. 48-54. 15 quella tra Kultur e Zivilisation: di origine incerta, ma esplicitatamente formulata da Thomas Mann40, tale coppia concettuale mira a definire due orizzonti di senso antitetici. La Kultur è interiorità, spirito, antichità, storia e tradizione, è suolo e sangue, misticismo, irrazionalità, pangermanesimo, è una forma di pensiero collettiva che si fonda nell’eredità del Passato, ed è appunto incarnata dalla Germania. La Zivilisation è tutto l’opposto, esteriore, materiale, totalmente moderna, senza storia, senza tradizioni, vive dell’eterno presente della razionalità, della tecnica, dell’industrializzazione votata al nichilismo e dello sradicamento dalla comunità nazionale. Ed è quindi incarnata dal blocco Occidentale, con Inghilterra e Stati Uniti in prima fila. A scontrarsi sono due universi valoriali, il primo visto come strenuo oppositore al secondo. In tale lettura Ju:nger si inserisce perfettamente, rivoluzionandone però gli esiti attraverso un moto antinostalgico, anti-romantico e meta-politico. Ne l’Arbeiter la Zivilisation trionfa sempre, anzi ha già trionfato ed è destinata a continuare a farlo, poiché è, delle coppia di cui sopra, l’unica a mobilitare dei valori in cui è più facile riconoscersi, come ad esempio la libertà, i diritti, l’uguaglianza, la democrazia, rappresentati, in buona sostanza, da quello che si configura come il vero grande nemico dell’universo conservatore-rivoluzionario, il progresso. Per Jünger il progresso mobilita e coinvolge l’umanità più e meglio della Kultur41, è un’onda inarrestabile che ha tutti i vantaggi che la Germania non può invece incarnare. La Germania parte già sconfitta, ma qui sta la posizione radicale contenuta ne L’Arbeiter: questo inconfutabile fatto non è, in Jünger, un dramma sufficiente ad oscurare la grande opportunità che la Zivilisation porta con sé, che non è, però, quello sventolato dai democratici, dai socialisti o dai progressisti in generale. La possibilità, ormai in realtà già completamente dispiegata, della nuova epoca che sorge dalla Zivilisation, consiste nella rottura con ogni forma politica precedente, in particolare la distruzione dell’ordine aristocratico-borghese, che imprigiona la forza dell’elementare, l’energia originaria e totale, il moto violento della guerra e, soprattutto, del soldato42. Questa Civilisation non è però astratta ed indeterminata, ma è evidentemente quella che convoglia tutti i suoi sforzi nel campo di battaglia, nella costruzione di macchine di morte precedentemente inimmaginabili. È il progresso messo in moto dalla e per la guerra a dispiegare la reale dimensione della nuova umanità jüngeriana. Solo il fuoco della trincea può forgiare il nuovo tipo umano. L’Arbeiter è il Tipo della nuova umanità, quindi di un nuovo ordine, quell’ordine che la democrazia ed il liberalismo non erano riusciti a garantire, un ordine che deve per forza rompere per sempre con i valori del passato, poiché, questi ultimi, saranno comunque spazzati via, pur con tutta la carica “catecontica” della Kultur. Esempio dell’estrema forza di tale posizione sono le righe dedicate al mondo rurale, spesso celebrato come rimasuglio di purezza in un mondo dominato dalla tecnica, che però in Jünger non trova alcuna salvezza. Nelle pagine de L’Operaio si dice che la lotta dei contadini è senza dubbio appassionante, ma totalmente futile, sconfitta in partenza: il contadino è già un agricoltore, un tassello della catena produttiva industrializzata, non gode di certo di uno statuto speciale, ma è anzi, come tutti, già sottoposto al dominio incondizionato della tecnica 43. La scelta allora è tra scomparire o conformarsi a tale tendenza. Il Tipo è chi asseconda talmente tanto la tendenza alla razionalizzazione da dominarla, arrivando a dominare il mondo stesso nella sua interezza. La Tecnica è il mezzo per fare ciò, per lasciare libero e senza confini questo particolare modo della Volontà di Potenza, nella sua versione bellica e meccanica. Tale processo di dominio da parte del Tipo mediante la Tecnica, è chiamato, da Jünger, Gestalt ovvero Forma44. La Forma è quindi, in un certo senso, la Volontà di Potenza jüngeriana. 40 41 42 43 44 T. Mann, Considerazioni di un Impolitico, De Donato, Bari 1967. E. Jünger, L’Operaio. Dominio e Forma, pp. 19-31. C. Resta, Ernst Jünger e la Libertà del Singolo, pp. 62-64. E. Jünger, L’Operaio. Dominio e Forma, pp. 36-38. Ivi, pp. 31-38, pag. 141, pag. 169. 16 Interessante come, sia in Nietzsche che in Jünger, si passi sempre attraverso una trasvalutazione dei valori per approdare, poi, ad un nuovo Tipo umano45. Con l’introduzione del Tipo dell’Arbeiter vengono fuori quelli che, almeno per l’autore, sono i limiti sia del socialismo, sia della borghesia: se la seconda, come abbiamo già detto, ingabbia tramite la razionalizzazione l’avvento del nuovo Tipo umano, senza di fatto riuscirci, il problema del socialismo è ancora più peculiare. Il termine Operaio rappresenta per Jünger un concetto che prende le distanze dalle determinazioni economicistiche del marxismo, non essendoci in esso alcuna dimensione di classe. Il Lavoro è certamente, nel nostro autore, il modo supremo di vita dell’ordine nuovo, ma non si carica mai di interrogativi sullo sfruttamento, sui rapporti col Capitale, sull’emancipazione delle classi, appunto, lavoratrici. Questo, oltre che per ovvie questioni di storia politica e di posizionamento, rivela la chiave di lettura della realtà jüngeriana, improntata alla metafisica, con la convinzione che sia già sempre una componente più alta a determinare l’economia, e non viceversa46. Il rapporto struttura-sovrastruttura del marxismo è qui ribaltato, in nome di una maggiore totalità della figura de L’Operaio, equidistante sia dal liberalismo che, appunto, dal socialismo. È, quindi, anche la Società Nuova, che secondo Jünger sta sorgendo, a dover incarnare un superamento simultaneo sia del liberalismo, sia del socialismo, per raggiungere invece quella, onnipresente nel testo, Totalità, in questo caso Politica. Tale superamento è automatico, avviene anch’esso grazie alla Tecnica che porta con sé il dominio dell’impersonalità: non c’è più spazio per l’individualità, l’originalità, la particolarità, nel nuovo Ordine domina la neutralizzazione del sentimento, l’inumanità, l’assenza di emozioni e di slanci che non siano protesi all’uniformarsi al Tipo47. In questo modo dovrebbe essere lasciata da parte anche la distinzione tra individuo e massa, residui del liberalismo e del socialismo48, poiché l’unica domanda possibile diventerebbe: quanto incorporo l’organicità al Tipo49? La massima adesione al Tipo passa attraverso tre caratteristiche50: il rapporto col mondo diventa esclusivamente rapporto con il mondo dei materiali, vero spazio elementare dell’Operaio, come spazio manipolabile mediante la Tecnica; la libertà è adesione massima al Tipo, come liberazione dalla sicurezza e, più in generale, dalle libertà negative; l’unico modello di legittimazione del Tipo è l’esercizio incondizionato della Potenza. L’Arbeiter, quindi, come uomo-macchina, in relazione esclusiva con la tecnica, votato, mediante essa, al dispiegamento della propria potenza, con il dovere costante di conformarsi, quanto più possibile, al Tipo. La Società di questo Tipo, che nasce dalle macerie della democrazia liberale e dalla sua impossibilità storica di fondare un ordine porta, per Jünger, alla prima Forma Politica realmente improntata alla Totalità, la cosiddetta Herrschaft, la Forma del Dominio51. Tutto qui ritorna su di sé, la Gestalt del Tipo coincide con la Gestalt Politica, ed è in entrambi i casi nel segno del Dominio, mediante la Tecnica, dell’interezza del Mondo e dell’Umanità. Tale espressione costante di Potenza confluisce in un ordinamento che è, ovviamente, gerarchico, come in una universalizzazione di quella che è la prassi militare, anti-democratico, poiché il dissenso non è nemmeno pensabile, ed organicistico, poiché la differenza tra individuo e collettività è rimossa e non ha più motivo di esistere. L’approdo è alla Arbeitsdemokraite, la Democrazia del Lavoro. L’Arbeit diventa unico orizzonte a cui ogni sforzo è proteso52. 45 46 47 48 49 50 51 52 K. Löwith, Il Nichilismo Europeo, Laterza, Roma-Bari 1999, pag. 95. C. Resta, Ernst Jünger e la Libertà del Singolo, pag. 63. E. Jünger, L’Operaio. Dominio e Forma, p. 102. Ivi, pp. 89-109. Ivi, pp. 124-128. D. Cantimori, Ernst Jünger e la Mistica Milizia del Lavoro, pag. 80. Ivi, pp. 78-79. E. Jünger, L’Operaio. Dominio e Forma, pp. 217-247. 17 Riassumere in poche pagine il contenuto di un’opera così complessa non è, ovviamente, compito semplice. Ci basta però qui aver tracciato delle linee, degli orizzonti di senso, delle semplici suggestioni che consentano anche solo di intuire cosa Jünger avesse in mente, quando scrisse Der Arbeiter. Tutto ciò perché, a breve, introdurremo il vero protagonista di questa tesi. Anche lui però, come noi, si è trovato di fronte, necessariamente, il libro Der Arbeiter e, per poterlo commentare, riempirlo di appunti e di annotazioni, per poter in seguito discutere con Jünger stesso, ha dovuto leggerlo e pensarlo. Abbiamo tentato di facilitare quest’ultima parte, per poterci gettare pienamente nel cuore delle meditazioni su Jünger di Martin Heidegger. 18 ΙΙ. Freiburg 1939/40: i Colloqui su Jünger Scambio, confronto, scontro. È questo o altro il rapporto che intercorre, nel pensiero del filosofo di Messkirch, con lo scrittore di Heidelberg? Per tentare di rispondere dobbiamo tenere ben ferme alcune coordinate fondamentali, filosofiche ma anche umane, senza le quali sarebbe impossibile comprendere il contesto entro cui avviene la lettura heideggeriana di Jünger. Ciò che colpisce immediatamente è la notevole e molteplice distanza tra i due: da un lato, come precedentemente illustrato, abbiamo un “Cuore Avventuroso”, un uomo d’azione che, pur con tutte le sue complesse sfumature, trova il proprio personale senso della vita nella guerra, nel fascino della trincea, nella vicinanza, prima di tutto fisica, alla morte; dall’altra parte, invece, Heidegger è un uomo ben più pacato, affascinato molto più dal pensiero che dall’azione, innamorato della filosofia più che delle mitragliatrici. Già pensando all’occasione per la quale viene scritto il breve Perché Restiamo in Provincia?53, o ai corsi di lezione in cui viene delineato “l’Avventuriero Planetario 54 si intuisce la distanza del pensiero heideggeriano da qualunque ricerca avventurosa. Basta confrontare le due biografie per trovarsi di fronte a percorsi di vita antitetici, storicamente affini nella loro contemporaneità cronologica ma che, di fronte ai medesimi eventi, percorrono strade opposte. Più di ogni altra, emblematica appare l’esperienza della guerra: dura solo 2 mesi la prima permanenza di Heidegger nell’esercito, congedato per motivi di salute ad ottobre 1914. Richiamato alle armi nel 1915, non vedrà mai il fronte, prestando servizio prima come postino della corrispondenza militare e, in seguito, nel servizio meteorologico di Verdun, fino al 191855. La Prima Guerra Mondiale, l’esperienza che vale a Jünger 14 ferite e la croce Pour Le Merité, fonte primaria di tutta la sua produzione letteraria, è per Heidegger, tutt’al più, un intermezzo marginale di una vita che, in quel 14-18, si compone di episodi fondamentali ma lontani, non solo geograficamente, dal fronte56. Oltre alle vicende biografiche, asimmetrica è anche l’importanza che hanno l’uno per l’altro i due autori: il ruolo cruciale che, come leggeremo tra poco, svolge, nel pensiero di Heidegger, Ernst Jünger, non è speculare nel pensiero di quest’ultimo. Quasi in una sorta di “amore” non corrisposto, la vicinanza più forte, dirà Jünger, è con Carl Schmitt, il giurista del Reich, non con il professore di Friburgo57. In tale ottica si comprende la scarsità di occasioni di confronto tra i due, dal punto di vista bibliografico limitate alle poche seppur memorabili battute di Oltre la Linea 58 ed alla corrispondenza privata tra i due59. Da segnalare anche gli incontri a Todtnauberg, luogo leggendario sul quale Jünger tuttavia ironizza, come a voler sminuire “l’aura” misticheggiante e quasi sacra della valle60. Ben più corposa invece la quantità di scritti, annotazioni ed appunti che Heidegger raccoglie sul pensiero di Jünger: è uscito nel 2004 Zu Ernst Jünger 61, la raccolta di tutte le annotazioni, gli appunti ed i brevi scritti che il filosofo gli ha dedicato. Per una versione in italiano, quella a cui faremo riferimento nelle restanti pagine di questa tesi, abbiamo dovuto attendere fino al 201362. 53 54 55 56 57 58 59 60 61 M. Heidegger, Perché restiamo in Provincia?, in Tellus n. 8, 1992. M. Heidegger, L’Inno Der Ister di Hölderlin, Mursia, Milano 2003. F. Volpi, Vita e Opere, in Guida a Heidegger, Laterza, Bari 2005, pag. 5. D. Di Cesare, Heidegger e gli Ebrei. I «Quaderni Neri», pp. 138-140. A. Gnoli – F. Volpi, I Prossimi Titani. Conversazioni con Ernst Jünger, Adelphi, Milano 1997, pp. 28, 48, 83 E. Jünger – M. Heidegger, Oltre la Linea, Adelphi, Milano 1989. E. Jünger – M. Heidegger, Briefwechsel 1949-1975, Klostermann, Stuttgart-Frankfurt 2008. A. Gnoli – F. Volpi, Mio Padre un Genio Normale, La Repubblica 12.04.1996. M. Heidegger, Band 90: Zu Ernst Jünger, in Gesamtausgabe IV. Abteilung: Hinweise und Aufzeichungen, Klostermann, Frankfurt am Main 2004. 62 M. Heidegger, Ernst Jünger, Bompiani, Milano 2013. 19 Il volume si divide in due parti ed un’appendice. La prima parte è dedicata alle Aufzeichnungen63, frammentaria serie di annotazioni sparse su piccole pagine e foglietti di difficile interpretazione, di cui tratteremo in seguito. La seconda parte contiene il Colloquio su Jünger64, in assoluto il passaggio più leggibile, che chiarisce l’intera interpretazione heideggeriana e dischiude alcune delle riflessioni che, in seguito, confluiranno nel ben più noto La Questione della Tecnica 65, come mostreremo tra poco. Queste 73 pagine sono frutto di un seminario, che Heidegger tenne nel 1940 all’Università di Friburgo, riservato solo a pochissimi colleghi. Abbiamo scelto di iniziare da qui, invece di seguire l’ordine del volume, seguendo un criterio di comprensibilità del materiale in esame, andando dall’unitario al frammentario, dal meno al più criptico. In Appendice abbiamo deciso di dedicare più attenzione alle due Lettere ai Singoli Combattenti 66, più simili ai Colloqui per via del loro carattere unitario, ma con tutt’altro registro; ed al saggio Gestalt 195467, frammentario quanto le annotazioni ma con importanti sviluppi, dovuti innanzitutto al periodo successivo in cui tale “saggio” è stato scritto. Dobbiamo dolorosamente tralasciare le Note a Margine68, che richiederebbero forse un lavoro dedicato, vista la gran mole di materiale e la minuziosità con cui Heidegger si rapporta alle copie di lavoro delle opere jüngeriane. 63 64 65 66 67 68 Ivi, pp. 6-357. Ivi, pp. 366-463. M. Heidegger, La Questione della Tecnica, in Saggi e Discorsi, Mursia, Milano 1976, pp. 5-27. M. Heidegger, Ernst Jünger, pp. 469-491. Ivi, pp. 494-523. Ivi, pp. 528-843. 20 1. Ernst Jünger, Der Arbeiter. 1932: Zur Einführung 1939/40 Questo primo colloquio funge da Introduzione agli altri quattro, tracciando le linee fondamentali di quelle che saranno le riflessioni successive. Nella sua ripetitività, questa Introduzione contribuisce a chiarire quali siano i pochi ma fondamentali passaggi della lettura heideggeriana di Jünger. L’apertura è interamente dedicata alla Grundstellung di Ernst Jünger, la Posizione Fondamentale, ovvero l’interezza e la totalità del suo pensiero. La Posizione Fondamentale di Jünger è già anche il suo limite estremo, «stimolante in modo affatto unilaterale, in larga parte inaccessibile e nei suoi fondamenti impensata e non fondata69». Egli ha, per Heidegger, il grande merito di immergersi profondamente nel «Reale Effettivo della volontà di potenza» tuttavia, tale “immersione”, non offre nessuna salvezza (Rettung). Il limite della Posizione Fondamentale di Jünger consiste nella sua incapacità di offrire un prospettiva ulteriore rispetto alla semplice, per quanto intensa, potente ed efficace, descrizione della realtà. Tale limite non è una semplice critica all’autore ma, come ci spiega lo stesso Heidegger, è «una necessità della storia occidentale»: il problema è quindi storico, riguarda la storicità stessa della metafisica nel senso di un’epoca in cui anche Jünger si trova 70, da cui non può semplicemente uscire, di cui non riesce a pensare fino in fondo la fine. La descrizione jüngeriana della realtà è come prigioniera di sé stessa, descrive così perfettamente la realtà tanto da non poterla superare. A tale circolarità non esiste soluzione perché, secondo Heidegger, «non spetta affatto a Jünger dispiegare l’ambito della decisione a partire dall’essenza della metafisica e della sua storia»71. La Posizione Fondamentale di Jünger può solo attuare una perfetta escursione della realtà, ma non può mai riuscire a guadagnare la giusta prospettiva di pensiero, quel pensiero che pensa a partire dalla Storia dell’Essere, poiché tale Posizione è ancora, inevitabilmente, Posizione Metafisica che ha quindi già sempre dimenticato l’Essere; non riesce e non può, pertanto, pensare a partire da quest’ultimo. In questa prima pagina, che funge quasi da Introduzione all’Introduzione, troviamo il nome del filosofo, immediatamente evocato accanto a quello di Jünger, che è l’altro protagonista fondamentale di questo Colloquio. Parliamo ovviamente di Friedrich Nietzsche: oltre ad essere citato esplicitamente già nella seconda riga, il Reale Effettivo è chiamato da Heidegger «Reale Effettivo della Volontà di Potenza72». La realtà descritta da Jünger è quella già pensata in termini di Volontà di Potenza. L’importanza di Nietzsche nell’intero pensiero heideggeriano non c’è bisogno qui di ripercorrerla nella sua interezza, è sufficiente ricordare l’immensa mole di scritti tra il 36 ed il 46, confluiti nel volume omonimo73, o gli importanti contributi successivi, in cui l’attenzione per l’universo nietzschano è sempre viva74. Più interessante, invece, focalizzarsi sul ruolo fondamentale giocato da Nietzsche, in relazione ad altri due attori di primissimo piano nel pensiero di Heidegger; il primo è ovviamente Ernst Jünger, come abbiamo già visto e continueremo a scoprire tra poco; il secondo è Hölderlin, poeta del Nuovo Inizio greco-tedesco. Nietzsche è, rispetto ad Hölderlin, il pensatore della Fine estrema, dell’ultima tappa dell’oblio dell’Essere, è il Tramonto che prelude ad un nuovo sorgere del Sole. Quale ruolo ha invece Jünger in questa tripartizione? E qual’è l’essenza di questa connessione con Nietzsche? «Se accertiamo una connessione tra Jünger e Nietzsche, essa, allora, non deriva dall’intento di imputare storiograficamente a Ernst Jünger “forme di dipendenza” da Nietzsche 75». Heidegger ribalta il classico rapporto tra pensatori sfidando l’ipotetica successione lineare della storiografia, 69 70 71 72 73 74 75 Ivi, pag. 368. Ibidem. Ibidem. Ibidem. M. Heidegger, Nietzsche, Adelphi, Milano 1994. M. Heidegger, Chi è lo Zarathustra di Nietzsche?, in Saggi e Discorsi, pp. 66-82. M. Heidegger, Ernst Jünger, pp. 369-371. 21 che pone un pensiero come “successivo” all’altro: è attraverso Jünger che comprendiamo meglio Nietzsche, pensando ciò che quest’ultimo non ha pensato fino in fondo «ma ha patito profondamente nel pensiero (sondern denkerisch erlitten hat)». Per Heidegger, Jünger ha in questo modo intrapreso una delle due strade possibili riguardo al pensiero di Nietzsche: non essendo in grado di superarlo, ha scelto di farsi carico della realtà intesa come Volontà di Potenza76. Da qui in poi il carattere del saggio muta repentinamente, assumendo un carattere fortemente politico. Jünger ha, agli occhi di Heidegger, il merito di aver strappato Nietzsche alla sequela di fraintendimenti, più o meno voluti, delle interpretazioni del suo tempo. Lo sfruttamento ingiustificato di massime nietzscheane, utilizzate di volta in volta in favore di una tesi o del suo esatto opposto, in maniera del tutto strumentale, rende la Volontà di Potenza una piatta dottrina, da applicare in modo grossolano al contesto più utile. Heidegger ammette che è lo stesso Reich a promuovere un atteggiamento di questo tipo, dividendosi tra chi tramuta Nietzsche in un pangermanista esaltato, e chi ci vede solo un nemico, “eterno ospite di luoghi di cura”, per giunta stranieri. Queste posizioni, apparentemente divergenti, sono in realtà frutto della stessa epoca che ha perso definitivamente ogni autentico rapporto con la metafisica, epoca in cui «è svanito ogni tenersi-pronti alla meditazione77». La critica al Reich merita sicuramente una riflessione più ampia, anche in virtù dei recenti sviluppi dovuti alla pubblicazione dei Quaderni Neri: come far coincidere l’Heidegger di quelle pagine di feroce antisemitismo, con un Heidegger critico del Terzo Reich? Sappiamo che, dopo la guerra, dal filosofo tedesco non arrivò mai né una smentita, né delle scuse, né una presa di posizione esplicita in merito ai crimini del regime nazista. L’unica risposta fu un silenzio pesante, carico di tensione e colmo di implicazioni: ex allievi ed ex colleghi volevano anche solo una parola, alle volte non ricevuta78, altre volte proferita in maniera così enigmatica da lasciare esterrefatti79. Alla luce dei Quaderni Neri è impossibile negare che Heidegger sia stato antisemita ed è impossibile minimizzare la sua adesione filosofica ad alcuni schemi culturali che fungevano da assi portanti della politica hitleriana. Si può tuttavia riconoscere un progressivo allontanamento dalle forme più volgari di razzismo biologista, ed una critica sempre più serrata al nichilismo della tecnica, a cui il Reich non è riuscito a sottrarsi; è in quest’ottica che si può parlare di un Tecnototalitarismo Planetario, che non risparmia nessuna super-potenza mondiale, nemmeno la stessa Germania80. Tutto ciò non basta a salvare Heidegger, che in questo condivide un destino singolare con Jünger: entrambi “troppo impegnati” a distinguersi dalla Realpolitik hitleriana, non vogliono vedere ed ammettere che il pericolo più grande non si trova, innanzitutto e per lo più, nella volgarità del regime, ma sta nel progetto di rimodellamento planetario perpetrato ai danni del Popolo ebraico81. Tornando al nostro Colloquio, Jünger è in rapporto essenziale con Nietzsche, attraverso l’esperienza del reale come Volontà di Potenza. Tale esperienza fondamentale è la Prima Guerra Mondiale, non letta però come semplice rappresentazione: essa è una realtà effettiva che determina, a partire da sé stessa, ogni rapporto col reale in generale, essendo, però, a sua volta già sempre interpretata dalla metafisica nietzschana. Risiede qui, per Heidegger, la circolarità del pensiero di Jünger, che nel suo determinare l’esperienza della realtà effettiva mediante la Volontà di Potenza, immergendovisi profondamente è sempre in questa realtà già interpretata come Volontà di Potenza. Descrittore e descritto, interprete ed interpretato, precedente e successivo, si rincorrono in questa metafisica, che 76 77 78 79 80 Ivi, pp. 370-371. Ivi, pp. 371-375. P. Trawny, Celan und Heidegger. Noch einmal, in Heidegger, die Juden, noch einmal, Klostermann, 2015. M. Heidegger – K. Jaspers, Lettere 1920-1963, Cortina, Milano 2009. C. Resta, Heidegger e il tecnototalitarismo planetario, in Nichilismo, Tecnica, Mondializzazione. Saggi su Schmitt, Jünger, Heidegger e Derrida, pp. 81-101. 81 D. Di Cesare, Stranieri Residenti, Bollati Boringhieri, Torino 2017, pp. 250-255. 22 riposa all’ombra di Nietzsche determinando, contemporaneamente, la totalità degli enti82. Il riferimento qui è alle battaglie di materiali, manifestazioni del Willens zur Macht che modificano, a loro volta, la totalità del reale. Ancora, quindi, modificante e modificato si confondono, fino quasi a sovrapporsi, nel movimento estremo e finale. Queste poche righe, lette retrospettivamente, lasciano intravedere il Gestell, il Dispositivo83. «Allora non si tratta più né di Jünger né di Nietzsche, ma della realtà effettiva nel senso della volontà di potenza e del nostro rapporto con essa; si tratta cioè di stabilire se abbiamo un sapere sufficiente di questa realtà effettiva e se a partire da questo sapere prepariamo insieme le decisioni che stanno al servizio del suo superamento 84». Heidegger si chiede se siamo pronti a farci carico della Fine che apre il Nuovo Inizio, se sappiamo sufficientemente la nostra epoca, tanto da decidere del suo superamento, e nel chiedersi ciò parla al plurale. A chi si riferisce? Le due pagine conclusive sono eloquenti e folgoranti: quel Noi che soggiace all’intera citazione si riferisce al Popolo Tedesco. Secondo Heidegger lo scontro fondamentale è tra le Potenze Occidentali, che combattono per mantenere la loro potenza, ed i Tedeschi, che invece «preparano un avvenire». Pur distanziandosi dagli slogan e dalle forme più superficiali della propaganda nazionalsocialista, il filosofo crede comunque in un destino della Germania che, alla massima detenzione di potenza, deve decidere di accompagnare l’oltrepassamento della potenza stessa. Questa Entscheidung è decisione sull’essenza destinale dei Tedeschi, la cui risoluzione è donata dall’Essere stesso, non semplicemente prodotta e costruita. Nell’attesa della sua risoluzione, ci si può solo domandare «se vi siano individui tali da prender parte a tutto ciò o se tutti si volgano altrove e l’uomo, sotto l’egida di poteri giganteschi, rimanga schiacciato nella propria bassezza85». 82 83 84 85 M. Heidegger, Ernst Jünger, pp. 375-377. M. Heidegger, La Questione della Tecnica, in Saggi e Discorsi, pp. 14-16. M. Heidegger, Ernst Jünger, pag. 381. Ivi, pp. 383-385. 23 2. Zu Ernst Jünger 1939/40: Macht und Sein Alcuni soldati, secondo Heidegger, sono più coraggiosi di altri; quei soldati che, oltre al coraggio necessario a fronteggiare le insidie della trincea, conservano in loro la forza di continuare «la meditazione su ciò che è estraneo». Si apre proprio con la lettera di Hans-Hermann Groothoff, uno di questi giovani coraggiosi, la riflessione su Macht und Sein. Groothoff, studente di Heidegger al terzo semestre, conferma l’importante triade a cui abbiamo, poco sopra, già accennato. Nell’equipaggiamento da campo, dichiara il soldato, porta con sé Nietzsche e Hölderlin, il filosofo della Fine ed il poeta del Nuovo Inizio: quasi come fossero indispensabili strumenti bellici, da cui non separarsi nemmeno in trincea, è intenso ma faticoso il rapporto con questi testi. La guerra rende distanti da Groothoff i due autori, leggerli meditandone profondamente il senso risulta quasi impossibile nelle condizioni in cui si trova. La decisione è quella di farsi spedire allora due testi di Jünger. Come un Kit di Soccorso, la lettura de “Il Boschetto 125” e de “Il Lavoratore”, avvicina il giovane a Jünger come mai prima. Finalmente una lettura che restituisce l’esperienza della guerra, ma che soprattutto risveglia una domanda fondamentale: dove riposa l’accadere metafisico86? Groothoff condivide, in un certo senso, la convinzione heideggeriana per la quale, il limite del pensiero di Jünger, risiede nel non sapersi come ancora legato all’epoca della metafisica. Tuttavia Heidegger porta avanti la riflessione su questa lettera, facendone emergere due punti: da un lato abbiamo la debolezza di un rapporto inessenziale con Nietzsche e con Hölderlin, nella ricerca, inessenziale rispetto al pensiero di questi due autori, della spiegazione di ciò che è prossimo e vicino, in questo caso della guerra. Dall’altro, egli nota la «volontà di un pensiero che è un attacco contro tutti coloro che pensano in comune e che già nel suo attuarsi come pensiero include un decidere e uno stabilire che riguardano l’atteggiamento87». Ciò che, in queste criptiche note critiche di Heidegger, dovrebbe emergere, è la confusione dell’umanità: l’uomo non ha un Da che egli sia, ma vive provvisoriamente mediante scappatoie. Nell’epoca estrema del dispiegamento della tecnica, il verso-dove della Menschentums è velato, non chiaro88. L’eco del Da che il Dasein è, la domanda sul Ci di questo Esser-Ci, affonda le sue radici in Sein und Zeit, in cui è impossibile non leggere le avvisaglie di questa successiva riflessione sulla destinazione dell’umanità, velata ed inautentica, secondo Heidegger89. È alla luce di tutto ciò che riparte un altro serrato corpo a corpo col pensiero di Jünger. Depurato da ogni strumentalizzazione, in quanto autore che non può, in alcun modo, essere prestato a convinzioni politiche, ecclesiastiche o relative al Weltanschauung, Jünger può essere pensato solo a partire dal suo rapporto essenziale con Nietzsche. La sua esperienza prende piede nell’ambito metafisico già determinato dalla dottrina nietzschana della Volontà di Potenza, egli sostituisce semplicemente, alla parola Willen zur Macht, il termine Arbeit: «quanto al suo che cosa ed al suo come, ogni ente è ‘lavoro’». Il Lavoratore non è, quindi, nient’altro che il rappresentante umano di tale nuovo termine: sottratto ad ogni dimensione di classe o di appartenenza sociale, rappresenta la forma ultima dell’umanità, un’umanità che trova il suo compimento nell’ammaestrare l’ente nel suo insieme, che ha di fronte a sé solo l’ente stesso, come pura possibilità padroneggiarlo. Questa nuova Volontà di Potenza è rivolta esclusivamente al dominio incondizionato su tutto l’essente90. Jünger è allora per Heidegger «l’unico vero successore di Nietzsche», tanto da rendere vuota e superflua ogni interpretazione precedente dell’opera nietzschana: la grande differenza, rispetto ad ogni lettura precedente, sta nel non aver assunto la Volontà di Potenza come dottrina filosofica, ma aver manifestato il proprio stesso pensiero come Volontà di Potenza. Ancora meglio, non si tratta di 86 87 88 89 90 Ivi, pag. 389. Ivi, pag. 391. Ibidem. M. Heidegger, Essere e Tempo, Longanesi, Milano 2005, pp. 144-220. M. Heidegger, Ernst Jünger, pp. 391-393. 24 un semplice merito, o della capacità di rendersi simile a tale Volontà, nel caso di Jünger il suo pensiero è, già di per sé, una forma della Volontà di Potenza91. Non solo il suo pensiero, ma la totalità del mondo stesso è pensata da Jünger come Lavoro. La manifestazione fondamentale del mondo come questo mondo del Lavoro è compiutamente elaborata nel concetto di Mobilitazione Totale, termine di derivazione, però, non jüngeriana ma leninista: nel 1914, scrive Heidegger, Lenin ha elevato a coscienza questa nuova configurazione del mondo, attraverso quello che poi è diventato semplicemente uno slogan. Questo termine dice però qualcosa di essenziale sulle forme di violenza, umane e non umane, che si muovono nell’ultimo atto dell’epoca della metafisica: le forze che soggiacciono ad una mobilitazione massiccia, pervasiva, appunto totale, giungono in tale processo a compimento, raggiungono la pienezza della propria essenza, nel loro esser rese mobili e disponibili, attraverso un dominio onnicomprensivo92. La guerra è solo un modo tra gli altri di tale Mobilitazione Totale, sicuramente il più esplicito e palese nella rivendicazione di ogni singola parte del globo. Ciò che questa modalità rende chiaro, è l’ineluttabilità di questo destino: «tutti i popoli, e in particolare quelli dell’occidente, ciascuno secondo la propria determinazione storica fondamentale, sono diversamente inclusi in questo processo, accelerandolo o inibendolo»93. Tutti i popoli, insomma, sono già al servizio di ciò che sostiene e porta avanti la Mobilitazione Totale, ossia, dice Heidegger, la potenza stessa. All’essenza della potenza appartiene il sovrapotenziamento, essa rimane cioè potenza solo finché è in grado di continuare a potenziare sé stessa, finché può diventare una potenza ancora maggiore. La potenza ‘vuole’ la potenza, in questo sta l’importanza dell’espressione nietzschana Volontà di Potenza, che non è quindi, di nuovo, una dottrina filosofica, ma è l’essenziarsi del mondo stesso, dispiegato nel modo appena spiegato94. «La volontà è potenza e la potenza è volontà, ossia un potenziantesi pervenire a maggiore potenza». La potenza non è mai nelle mani di un portatore, quando lo è ci troviamo solo di fronte ad un mezzo del suo potenziamento «coercitivamente estorto», ma mai di fronte alla Potenza stessa. Heidegger qui, in poche righe, che potrebbero perfino sfuggire al lettore distratto, afferma qualcosa di epocale: «Essa [la Potenza] è l’essere medesimo, sempre diversamente disvelato». La Potenza è quindi un modo del disvelamento dell’Essere, pertanto non può venire supportata dall’ente come unico ausilio mediante il quale manifestarsi o, peggio ancora, mediante il quale essere. Per questo motivo chi attua l’annientamento, tratto proprio della Potenza, è solo il più schiavo della Potenza. Jünger rientra fra questi annientatori, coloro i quali sono nel modo in cui la totalità stessa del reale è. Ciò che per Heidegger risulta centrale, è il carattere di mutevolezza ed invisibilità della Potenza, che utilizza qualsiasi ideologia e visione del mondo solo come strumenti di potere, come mezzi per il suo stesso accrescimento95. È in questo orizzonte che inizia, a questo punto, un decisivo confronto col comunismo, che viene assunto nel senso in cui lo ha pensato Lenin, diverso cioé sia dal marxismo che dal bolscevismo. Nel comunismo si attua, secondo Heidegger, la completa tecnicizzazione, il massimo ammaestramento tecnico delle forze sia politiche che materiali: il proletariato è strumento di potere tra gli altri, la propaganda è superflua ed inessenziale, ciò che davvero conta per il socialismo di matrice leninista, nella lettura heideggeriana, è l’inarrestabile espansione della mobilitazione totale, il processo ultimo e finale di accrescimento e dominio incondizionato della Potenza. Per Heidegger, il “potere dei Soviet + elettrificazione”, non è nient’altro che la dimostrazione di una segreta interdipendenza del comunismo dal positivismo metafisico, quindi della sua connessione con la Vollendung della metafisica96. Non bisogna però lasciarsi ingannare, il discorso è valido anche per tutte le altre comunità statali, indipendentemente dal loro essere fasciste, bolsceviche o 91 92 93 94 95 96 Ivi, pag. 393. Ivi, pag. 395. Ibidem. Ibidem. Ivi, pp. 395-399. Ivi, pp. 399-401. 25 democratiche97. Riemerge ancora una volta il tema del tecnototalitarismo, che usa la politica e l’ideologia come facciata, per produrre invece l’incondizionato asservimento alla tecnica. Interessante notare inoltre come non venga mai fatto il nome di Stalin: è sempre e solo Lenin a stare dalla parte della fine della Metafisica, della Mobilitazione Totale, del dominio tecnico planetario?98 97 Ivi, pp. 401. 98 W. Klitter, From Gestalt to Ge-Stell, Cultural Critiq n. 69, University of Minnesota Press 2008, pp. 87-88. 26 3. Von Ernst Jünger 1939/40 Per Heidegger, la lettura di testi non è mai qualcosa di prettamente didattico, scolastico, esplicativo. Egli cerca piuttosto una lettura autentica e meditativa, che rintracci l’essenza storica al di fuori di ciò che si legge. Con ciò non si deve intendere la semplice ricerca storiografica attorno alle fonti, al contesto o ai fatti storici entro cui si inserisce l’opera letta. Il rapporto essenziale va oltre l’oggetto, non è e non può essere limitato alla strumentalità del far presa sui concetti. Quello che occorre fare, invece, è domandare e domandarsi «il segreto della storia», lasciarlo venire intorno, meditare su ciò che nel testo è immediato, per andare oltre a ciò che è attuale, pubblico, noto ai più99. Chiarire tale prospettiva di lettura non è facile, tuttavia chi ha un po' di familiarità con i testi di Heidegger capirà fin dall’inizio che cosa egli intenda. Siamo anche qui, come avviene nei seminari e nei corsi su Hölderlin, in ascolto di ciò che negli scritti rimane celato, siamo in ascolto del silenzio, che ben più del chiacchiericcio nasconde ciò che è da pensare 100. Ascoltare l’appello silenzioso del linguaggio come grande silenzio dell’Essere, questa ancora una volta la missione della meditazione essenziale. Proprio per tutto ciò, non stupisce che anche quello di Jünger venga chiamato da Heidegger un Dichten, un poetare che, come avviene per Hölderlin, nasconde di più di ciò che viene solitamente fatto appartenere al pensiero jüngeriano. Egli pensa sicuramente a partire dall’esperienza fondamentale della Prima Guerra Mondiale: ferito più volte, decorato con le più alte onorificenze, ha scritto libri di guerra in cui cerca di conservare e restituire lo «spirito del combattente», descrivendo così un nuovo Tipo umano. Tuttavia, ciò non basta a comprenderlo fino in fondo: il primo grande passo in avanti, inteso come passo in avanti dentro la metafisica, consiste secondo Heidegger nell’aver abbandonato sia il socialismo che il nazionalismo, lasciandosi alle spalle quelle che non sono potenze storiche, ma semplici facciate aventi la stessa radice comune 101, come già ampiamente esposto nel Colloquio precedente a questo. La grandezza di tale passo non sta, però, in un superamento meramente politico delle forme precedenti, ma nel fatto che «egli [Jünger] come nessun altro esperisce immediatamente la guerra mondiale in modo metafisico, il che significa anzitutto come un accadimento dell’ente nel suo insieme». Egli mantiene, per Heidegger, salda la coscienza della diversa essenza della Prima Guerra Mondiale e della nuova determinazione del reale che essa porta con sé102. Il riferimento, in questo passo, è alla dottrina nietzschana della Volontà di Potenza, che si esprime attualizzandosi nella Prima Guerra Mondiale. In questa interpretazione del reale si inserisce fino in fondo, secondo Heidegger, Jünger comprendendone il significato essenziale e portandola alle estreme conseguenze: egli subentra nella posizione metafisica di Nietzsche, non nel senso di un semplice essere influenzato o di aver ripreso certi aspetti, di volta in volta utili alla propria visione del mondo. Questa è l’operazione, secondo Heidegger, di Mussolini e di D’Annunzio, forse per la prima ed unica volta citati esplicitamente, che si sono semplicemente appropriati di un stortura strumentale della filosofia di Nietzsche. Jünger ha invece esperito qualcosa di fondamentale, cioé il carattere fondamentale del reale effettivo come Volontà di Potenza103. Questa realtà effettiva prende il nome di nichilismo, nel senso nietzschano, però, di ‘nichilismo attivo’104, non quindi un nichilismo della debolezza, un pessimismo, ma qualcosa di essenzialmente differente. Il nichilismo attivo, dice Heidegger, ha come fine l’assenza di fine, il non porsi una direzione verso la quale orientarsi, lasciando così il posto all’incondizionata sovranità della Volontà di Potenza. Tale nichilismo è un dire di si a ciò che è essente, un atteggiamento che Heidegger 99 Ivi, pag. 407. 100 M. Heidegger, Poeticamente Abita l’Uomo, in Saggi e Discorsi, pag. 127. 101 M. Heidegger, Ernst Jünger, pp. 409-411. 102 Ivi, pag. 411. 103 Ivi, pp. 413-417. 104 F. Nietzsche, Frammenti Postumi 1887-1888, in Opere Complete Vol. VIII, Tomo II, Adelphi, Milano 1971, pp. 1214. 27 chiama ‘l’eroico’: dire di sì al reale, senza alcun riguardo per sé. «Il Nichilismo attivo è pertanto l’estremo realismo; più precisamente, questo ‘realismo’ è in primo luogo l’autentico nichilismo105». Il realismo ed il nichilismo attivo che quindi si sovrappongono, convergendo nell’atteggiamento che, agli occhi di Heidegger, più di ogni altro qualifica Jünger, il cosidetto “realismo eroico”: esso rende visibile il reale smembrandolo, in un processo che è analitico, che fa a pezzi la realtà per dominarla e controllarla. L’eroe nietzschano-jüngeriano ha fondamento nella metafisica moderna, prende origine dal subiectum, l’essere umano saldamente centrato su sé stesso, che ammaestrando il mondo cerca la costante conferma della propria posizione. Figlio della tradizione cartesiana, è esito ultimo dell’intera tradizione metafisica, a partire da Platone. Votato alla devastazione, cancella la possibilità di ogni decisione iniziale sul fondamento del reale effettivo, eliminando ogni possibile interpretazione differente della realtà, occultandone ogni altro possibile modo di darsi 106. È lo stesso realista eroico, però, a non sapersi come già determinato a sua volta dalla Volontà di Potenza che egli stesso dispiega, pertanto non può in alcun modo porsi alcuna domanda sul modo in cui il reale effettivo si da. Il Subiectum è quindi assoggettante ma, a sua volta, nell’impossibilità di divincolarsi dalla sua stessa volontà divoratrice, è già sempre anche assoggettato107. Jünger si muove, per Heidegger, «in einer Optik des Spähers», come l’esploratore che prende di petto il reale, smascherandolo per ammaestrarlo, per assoggettare una realtà che non ha, ai suoi occhi, più nulla da nascondere, pertanto può essere integralmente dominata. La realtà che Jünger svela è, di nuovo, realtà come Volontà di Potenza, poiché già decisa in tale direzione e fuori da ogni decisione essenziale. Tale “ottica” non è un qualcosa di semplicemente oggettivo, corretto o scientificamente esatto, è piuttosto verità sull’ente nel suo insieme: Jünger è un indicatore di questa verità108. Il Colloquio si conclude con un passo, breve ma estremamente incisivo, sulla possibilità di un Nuovo Inizio, sull’Evento dell’Essere. Malgrado la sovversione, il dominio ed il ribaltamento dell’intero reale, dell’ente nella sua totalità, ciò non basta ad incontrare l’Essere: il velamento è inevitabile per l’uomo, poiché esso è in mezzo all’ente, si trattiene presso l’ente, ne accoglie la rivelatezza. L’ente non è l’Essere, tutt’al più, dice Heidegger, «diviene ancor più necessario sapere che ogni ente ed ogni rapporto con esso non sono nulla senza la verità su quell’Essere attraverso il quale ogni ente viene innanzitutto fatto evenire (ereignet wird) in ciò che è e nel modo in cui esso è109». Se l’inizio della Storia Occidentale comincia da un sapere dell’Essere, la medietà dell’uomo nel mezzo dell’ente rende tale Storia la Storia di una dimenticanza, della Seinsvergessenheit. «Come possiamo noi meravigliarci di un tale abbandono dell’Essere, laddove quest’ultimo è rimasto per noi ancor solo il suono di una parola di cui, in ogni ‘è’, pronunciato o non pronunciato, abusiamo senza pensarvi?110». Nell’epoca della Fraglosigkeit, dell’impossibilità di domandare in modo essenziale la Verità dell’Essere, l’unica possibilità per un Nuovo Inizio consiste nel mettersi in cammino. I cammini verso questa Verità però, avverte Heidegger, sono ancora lunghi. «Tuttavia questo è certo ci sono cammini111». Non resta che incamminarsi verso ciò che ha da venire, custodendo la Verità attraverso la Notte dell’Essere, l’ultima è più estrema, nell’attesa dell’Evento di una Nuova Alba. Compito del filosofo è continuare a meditare profondamente, a farsi domande sulla direzione e l’essenza di questo cammino. 105 M. Heidegger, Ernst Jünger, pag. 417. 106 Ivi, pp. 421-423. 107 V. Blok, An Indication of Being, Journal of the British Society for Phenomenology, Vol. 42 n. 2, May 2011, pp. 194-208. 108 M. Heidegger, Ernst Jünger, pag. 431. 109 Ivi, pag. 433. 110 Ibidem. 111 Ivi, pp. 433-435. 28 Queste ultime pagine risultano fin da subito particolarmente criptiche, poiché vengono messi in campo alcuni dei punti cruciali di tutto il pensiero heideggeriano, in una forma estremamente succinta. A chiarire l’oscurità di questi passaggi ci verrà in soccorso però, la seconda Lettera a Singoli Combattenti112 che, pur anch’essa condividendo un’evidente brevità, si sofferma più a lungo sulla differenza ontologica, la preminenza dell’ente, la Decisione dell’Essere, essenziali per comprendere anche le ultime battute di questo Colloquio. 112 Ivi, pp. 481-491. 29 4. Ernst Jünger 1939/40 Fondamentale per il passaggio all’altro Inizio della Storia dell’Essere, è il dibattimento (Auseinandersetzung) con la metafisica occidentale. Tale metafisica non è intesa da Heidegger nel senso di una semplice scuola di pensiero, di una visione del mondo, di una serie di dottrine, ma è anch’essa profondamente storica: la metafisica è un’Epoca, che inizia con la fine del domandare originario. I pensatori greci sono per il filosofo quelli che hanno veramente interrogato l’Essere, il loro pensiero è il Primo Inizio, successivamente occultato e dimenticato. Il riferimento è esclusivamente ai presocratici, in particolare ad Anassimandro, Eraclito e Parmenide, quei filosofi che hanno inteso la verità come άληθεια. Lasciando da parte la questione del senso greco della verità 113, ciò che qui ci interessa è ricordare, per prima cosa, che questo modo di pensare è per Heidegger il modo di un domandare originario, che si interroga autenticamente e nella maniera più perspicua sull’Essere. Non solo, è con la fine di questo Inizio greco che si apre l’epoca della metafisica, epoca quindi della dimenticanza dell’Essere (Seinsvergessenheit), in favore invece dell’ente. Al centro di questo colloquio c’è l’estremo opposto di quest’Epoca della Metafisica, c’è la sua Fine, la conseguente necessità di riuscire a pensarla e, con essa, il passaggio al Nuovo Inizio. In questo senso deve avvenire l’Auseinandersetzung con la metafisica, a partire dalla posizione di Nietzsche: finale ed estrema, anch’essa inscritta nella metafisica, questa interpretazione del reale è anche la più vicina a noi. Questa prossimità non ha niente a che vedere con un fatto storiografico, è invece dovuta al nostro stesso pensare ed agire entro la realtà che essa stessa rivela 114. La dottrina nietzschana interpretando il reale già sempre lo determina e determinandolo lo ha già sempre interpretato. La metafisica nietzschana è, potremmo dire, il terreno sul quale ci troviamo ad esperire la realtà che ci circonda ed a cui siamo saldamente legati. La portata rivoluzionaria di questa interpretazione-determinazione del reale sta nel compimento definitivo della metafisica che, trovando la sua Vollendung, trova anche la sua Fine, o almeno la fine del suo tradizionale “modo di svelamento”115. Inserirsi nella posizione metafisica fondamentale di Nietzsche, liberandola dalle storture e dalle strumentalizzazione posteriori, tanto romantiche quanto positivistiche, assumendo senza “filtri” la realtà effettiva che tale posizione svela, puntandone il cuore più autentico: questo, agli occhi di Heidegger, «l’unico significato storico di Ernst Jünger116». Jünger non porta con sé nessuna essenziale novità, muovendosi nel ruolo di descrittore in un orizzonte già precedentemente aperto; sottomesso perciò, sempre e comunque, a Nietzsche come interrogante117. Egli ha in un certo senso “tradotto” la Volontà di Potenza con il concetto di Lavoro, descrivendone la pervasività nel mondo della Mobilitazione Totale. La stessa descrizione è, però, a sua volta determinata dalla Volontà di Potenza come Lavoro, il che innesca una circolarità in cui, per Heidegger, risiede il limite storico dell’analisi di Jünger: il carattere di Lavoro del mondo determina l’uomo in quanto Lavoratore, che a sua volta determina la stessa descrizione jüngeriana del carattere di Lavoro del mondo rendendo Lavoro anche la descrizione, in un movimento circolare da cui è impossibile divincolarsi. Il pensiero di Jünger rimane così prigioniero del Lavoro (o, ormai è chiaro, Volontà di Potenza) reiterando e ribaltando quella che è per eccellenza la “colpa” iniziale della metafisica. Egli continua a tentare di descrivere l’essere ricorrendo all’ente, alla totalità degli enti come Lavoro, senza invece domandare il Sinn von Sein, il Senso dell’Essere, che è ontologicamente differente da un’indicazione dell’essere mediante la descrizione dell’ente. Nel suo incontrare esclusivamente enti, la Volontà di Potenza jüngeriana non accede alla vera conoscenza di sé stessa, alla coscienza, cioè, di potersi solo ed esclusivamente autodeterminare, rimanendo però 113 114 115 116 117 M. Heidegger, I Concetti Fondamentali della Filosofia Antica, Adelphi, Milano 2005. M. Heidegger, Ernst Jünger, pag. 443. Ibidem. Ibidem. Ivi, pp. 443-445. 30 sorda all’appello dell’Essere. Il limite di questa struttura ricorsiva è, per Heidegger, il limite di tutta la metafisica, ma anche la sua Vollendung: in questo ciclo è compito del pensatore, e non del descrittore, scorgere il consumarsi della Volontà che, dominando incondizionatamente l’ente nella sua totalità, arriva a consumare perfino sé. Si compie così un’epoca che, tuttavia, aveva già nel suo Inizio il destino della propria Fine118. Jünger ricade così pienamente nella metafisica che, sebbene tenti di distanziarsi dal materialismo, pensa nello stesso tracciato del marxismo, sostituendone solo i termini: secondo Heidegger basta sostituire i rapporti economici con le nozioni di ‘vita’, ‘razza’ o ‘corpo’, per ottenere il medesimo risultato. Il reale effettivo che Jünger esperisce e descrive non ha quindi nulla del presagio che annuncia una nuova epoca, non è una chiave d’accesso ad un Nuovo Inizio e la sua volontà di fondare “nuovi valori” si riconferma saldamente legata all’epoca metafisica 119. «Questa realtà è solo l’estremo, definitivo compimento, l’illimitato ampliamento e lo scatenamento di ciò che dobbiamo riconoscere come la realtà effettiva dell’età moderna che dura incessantemente ormai da trecento anni120». Se non si trova dunque qui il Nuovo Inizio, ciò che resta è solo il compimento, la Vollendung, una notte senza alba. Tutto ciò non va assolutamente letto nell’ottica di una critica o un attacco a Jünger: nessun pensatore essenziale può venire attaccato, criticato o comunque confutato, perché non è su questo terreno, sul terreno dell’argomentazione dialettica che si muove il pensiero di Heidegger. L’unica via da seguire è piuttosto quella dell’oltrepassamento, nel momento in cui ne sorge la necessità storica121. Il rapporto tra Jünger e Nietzsche va letto come una lotta tra descrittore ed interrogante: il pensiero nietzschano ha pensato originariamente il reale effettivo come Volontà di Potenza, di esso Jünger è solo un descrittore che si sottomette alla realtà già aperta dall’interrogante. Secondo Heidegger, l’epoca che preferisce le descrizioni è un’epoca che ha perso ogni rapporto con l’autentico domandare, che lo guarda con sospetto, preferendo piuttosto ciò che è meno estraneo alla realtà. Jünger si inserisce proprio in questo contesto, ed in questo sta la sua efficacia immediata 122. Occorre sottolineare come la parola con cui Heidegger si riferisce all’interrogante sia Frager, colui che pone die Fragen, un termine che, in tedesco, ha un’ampiezza semantica molto diversa dall’italiano. Die Frage Nach der Technik123 è il celebre saggio in cui confluiranno molte delle riflessioni fin qui esposte, dove Frage può significare sia “Questione” che “Domanda”. Il Frager è quindi colui che pone domande, il domandante, l’interrogante, ma anche colui che pone questioni. Il ruolo di Nietzsche è quindi non solo di interrogare, ma di domandare nel senso di porre questioni, di interrogare in modo determinante, di porre domande che non siano semplici quesiti. Altrettanto fondamentale ma differente il ruolo di Jünger: secondo Heidegger il descrittore non può mai restituire «la gettatezza in ciò che è progettato e [..] l’abisso delle decisioni qui racchiuse 124». Ciò è possibile soltanto sacrificando l’essenza stessa del descrittore, consegnandosi alla presa originaria dell’Essere. L’annientamento del descrittore è l’unico modo per uscire dal circolo della Volontà di Potenza, per maturare un’attesa originaria 125. Jünger è quindi condannato dal suo stesso ruolo all’inaccessibilità alla Decisione essenziale che porta al domandare essenziale. Tale ruolo, però, è la condizione della realtà effettiva che Heidegger scorge nella sua epoca e, forse, pure nella nostra: la Fraglosigkeit come destino globale dell’intera umanità. 118 V. Blok, An Indication of Being, pp. 203-204. 119 M. Heidegger, Ernst Jünger, pp. 447-449. 120 Ivi, pag. 449. 121 Ivi, pag. 451. 122 Ivi, pp. 451-451. 123 M. Heidegger, La Questione della Tecnica, in Saggi e Discorsi, pp. 5-27. 124 M. Heidegger, Ernst Jünger, Pag. 453. 125 Ibidem. 31 5. Ernst Jünger L’ultimo Colloquio è quasi il perfetto riassunto dell’intera lettura heideggeriana di Jünger: diviso in tre parti, tratta di «ciò che Jünger vede», «ciò che Jünger non vede» e di «Ernst Jünger come “pensatore”». Heidegger utilizza il verbo tedesco sehen, riferendosi così ad un atto percettivo che non può mai andare oltre sé stesso. La vista è intesa qui come un poter-vedere, piuttosto che come una capacità semplicemente da acquisire, da sviluppare. Jünger vede fino al punto in cui egli può storicamente spingersi, non vede però oltre, in nessun modo. Il suo limite, per Heidegger, è anche ciò che lo determina, da cui non può uscire senza rinunciare ad essere ciò che è. La circoscrizione ad un solo ambito sensoriale non è casuale, come capiremo tra poco. L’interpretazione heideggeriana della metafisica, se da un lato tende a non identificarsi in singoli nomi, mirando piuttosto a ciò che soggiace ad essi, al modo di svelarsi dell’essere in ogni epoca storica, al movimento di pensiero più che agli individui, d’altra parte mostra un’evidente volontà di “inchiodare” i pensatori, di volta in volta presi in considerazione, ad un passaggio metafisico ben preciso. Non ci interessa qui soffermarci su considerazioni, forse pure un po' scontate, sulla parzialità dell’interpretazione heideggeriana dei vari filosofi: chiunque studi anche solo Platone o Aristotele può immediatamente rendersi conto quantomeno di trovarsi di fronte ad un orizzonte atipico, che sicuramente non restituisce, né fornisce una ricostruzione oggettiva di tutti gli aspetti del pensatore in questione. Quello che, a nostro modesto parere, rende sterile utilizzare questi innegabili “problemi” come critiche al pensiero di Heidegger, è il semplice fatto che egli si pone su un piano completamente differente, come ripete in maniera piuttosto ossessiva nelle sedi più disparate126. Il pensiero di Heidegger non è, e non vuole essere in alcun modo, la “rappresentazione corretta” di dottrine, la traduzione “esatta” di termini, la parafrasi “giusta” di poesie; bisogna sempre tenere a mente la vocazione fortemente interpretativa della dimensione heideggeriana, per riuscire ad affrontare un pensiero che fa dell’interpretazione “eversiva” di molte posizioni generalmente accettate un suo asse fondante. È solo ponendoci da questa prospettiva che possiamo trarre una lezione fondamentale dalla ricaduta nella metafisica che, per Heidegger, caratterizza Jünger: a prevalere, anche qui, non è la critica o l’attacco alla singola posizione, ma la storicizzazione profonda del pensiero occidentale, storicizzazione a cui non dobbiamo mai pensare nei termini di una valutazione qualitativa o quantitativa. L’insegnamento prezioso sta nel modo di pensare la storicità del pensiero stesso e, quindi in fondo, la storicità di ognuno di noi, sempre gettati in un mondo che è già sempre interpretato, legati a dei limiti che sono la determinazione di chi siamo. Ciò avveniva in Essere e Tempo con l’Esserci e la sua costitutiva Geworfenheit e Verfallenheit 127, ma avviene, ad un’altra “altitudine”, con Jünger che, per vedere ciò che non vede, dovrebbe perdere la sua essenza. Cosa vede, però, Jünger? Con il suo linguaggio freddo, egli preserva, nella sua descrizione, il reale effettivo, restituendocelo in forma molteplice. La pluralità dei fenomeni, in cui tale realtà effettiva si manifesta, è chiaramente afferrata, grazie alle esperienze fondamentali della trincea e della guerra. Una conoscenza di questo genere, tuttavia, viene resa possibile solo in una realtà già completamente aperta, precedentemente, da Nietzsche, nel solco del quale l’interpretazione jüngeriana esclusivamente si muove. Tale dipendenza da Nietzsche rende Jünger, secondo Heidegger, un conoscitore, forse il più grande, ma non un pensatore. Egli può conoscere tanto a fondo la realtà effettiva come Volontà di Potenza, solo dal momento in cui, prima di lui, tale Volontà era stata già pensata128. 126 M. Heidegger, L’Inno Der Ister di Hölderlin, pp. 58-59. 127 M. Heidegger, Essere e Tempo, pp. 214-220. 128 M. Heidegger, Ernst Jünger, pp. 457-459. 32 Jünger, scrive infatti Heidegger, non può vedere ciò che «non può altresì essere visto, poiché può essere raggiunto soltanto nel pensiero129». Vedere quindi non basta, bisogna pensare l’essenza della realtà effettiva, la sua destinazione rispetto all’abbandono dell’Essere. Ciò non può essere raggiunto da un semplice descrittore, che si mantiene nella metafisica, da cui non riesce e non può uscire. Egli confonde la sua epoca, che è un «avvio al rapido invecchiare di quanto è più nuovo nella noia di ciò che è nullo», con un qualcosa di più, con l’irrompere di un Nuovo Inizio. Ma il compimento della metafisica non è ancora quell’Inizio, la Vollendung non è l’Ankunft130. La decisività della visione del reale da parte di Jünger non viene, in questi passi, messa in discussione: per Heidegger, egli supera ogni poeta e pensatore del tempo, grazie ad un vedere attuato e saputo esistenzialmente. La descrizione di un ethos che si fa comando e dominio, l’assicurazione della sicurezza, l’estremo asservimento, sono tutti caratteri decisivi che Jünger coglie perfettamente. Tuttavia, il suo descrivere è ovunque uno smembramento analitico del reale, altrettanto asservito ai processi che esso stesso ha descritto 131. Ancora una volta, il determinato che muta in determinante, il determinante che muta in determinato, questo il vuoto scambio della Tecnica. Il pensiero di Jünger insomma, agli occhi di Heidegger, è perfettamente conforme ai tempi, all’epoca in cui il denken si tramuta in rechnen, finalizzato alla pianificazione totale, alla descrizione come smembramento del reale in vista del suo pieno assoggettamento132. La rigorosa capacità di dire ciò che vede e l’esperienza originaria della realtà come Volontà di Potenza, lo rendono freddo e incisivo. Allo stesso tempo, però, «questo ‘pensatore’ è un calcolatore conforme ai tempi che, con sguardo anticipatore, nel territorio dell’essere essenziante come volontà di potenza, calcola ‘preventivamente’ e senza riguardo l’essenziale del suo ‘tempo’133». 129 130 131 132 133 Ivi, pag. 459. Ibidem. Ivi, pp. 460-461. Ivi, pp. 461-463. Ivi, pag. 463. 33 III. Anmerkungen: sulle Tracce del Pensiero Le Annotazioni su Ernst Jünger rappresentano forse il passaggio più complicato dell’intero volume: raccolte in quasi 200 foglietti di piccole dimensioni 134, dove solo rare e sporadiche sono le parti in “prosa”, scritte in maniera estesa e comprensibile. Spesso ci troviamo di fronte, invece, a manciate di righe, senza alcun apparente ordine o significato. Altrettanto frequenti le proposizioni mozzate o la presenza di parole intraducibili, illeggibili, apparentemente senza un reale contesto. Da un punto di vista metodologico bisogna sempre tenere a mente che, la stranezza di tutto ciò, è dovuta innanzitutto al carattere “personale” di quanto scritto: le Annotazioni su Jünger non sono mai state finalizzate alla pubblicazione, per quanto ne sappiamo fino ad ora. Lo scopo, per Heidegger, era più che altro quello di mettere nero su bianco considerazioni, dubbi, domande, interpretazioni del pensiero jüngeriano. L’interlocuzione non includeva quindi nessuno, al di fuori di sé stesso, pertanto è del tutto accantonata qualsiasi aspirazione comunicativa. Ad un occhio più attento non può sfuggire, però, l’apparizione costante di piccoli indizi, dettagli sparsi tra le pagine, frasi telegrafiche che pongono domande tanto essenziali quanto difficili da decifrare. La sottolineatura anche solo di singoli termini nasconde spesso la richiesta silenziosa di “scavare” affondo. Senza il giusto approccio la lettura di una sequela di materiale così frammentario e disomogeneo può risultare quantomeno spiacevole, se non addirittura irricevibile. La sfida sta invece, a nostro avviso, nel cogliere il fascino profondo di un’esperienza di lettura così atipica e differente: i rapporti segreti tra frammenti, l’evocativa forza di parole dimenticate, la costruzione artigianale di orizzonti di senso sono ciò che deve spingere ad un “corpo a corpo” con gli scritti. Solo nella possibilità di una lettura sofferta le Anmerkungen assumono una qualche forma di interesse. Ciò che qui occorre fare è seguire i sentieri che così vengono tracciati, come un viandante nella Foresta Nera, restando sempre pronti all’eventualità dell’interruzione del cammino, al cambio di rotta inaspettato, all’inspiegabilità di alcuni tratti; seguire le tracce senza però mettersi “a caccia” di un senso ad ogni costo; mettersi in cammino su piste non battute, altrimenti tutto è vano. Al posto di un mero commento seguendo l’ordine di numerazione, abbiamo tentato di interpretare questa vasta mole di annotazioni privilegiando la dimensione filosofico-teoretica. In particolare ci è parso opportuno tracciare 5 linee interpretative che possano interrogare trasversalmente il testo stesso, portando alla luce gli aspetti di ordine ontologico, ermeneutico, e politico. In prima battuta, ciò che emerge è un’interpretazione minuziosa del testo L’Operaio di Jünger, mantenuto saldamente in quella Storia dell’Essere, rispetto a cui assume il suo senso, la sua determinazione fondamentale. Altrettanto dirimente è la riflessione su Forma e Tipo come platonismo ribaltato: questo ribaltamento fa parte, per Heidegger, dell’ultimo atto della Metafisica Occidentale, come scopriremo tra poco. Emerge prepotentemente il nesso inscindibile tra Soggettività e Metafisica, attraverso un ripercorre le tappe essenziali della nozione di Soggetto posta dalla modernità. Di carattere fortemente politico è, invece, l’esposizione della libertà moderna, del liberalismo e del progressismo: la prospettiva, severamente critica, coglie a nostro avviso il cuore di alcune questioni che scuotono ancora il nostro tempo. In ultima battuta, merita sicuramente un passaggio rapido quella che, apparentemente in maniera un po' impropria, potremmo definire la dimensione “bio-politica” che Heidegger scorge nell’epoca del dominio planetario della tecnica. Occorre soffermarci ancora per un secondo su un aspetto che, a prima vista, può sembrare marginale: il termine Überwindung è in queste pagine utilizzato in maniera ambigua, da un lato è Oltrepassamento del e nell’Altro Inizio, altre volte è Oltrepassamento nietzschano, come 134 Ivi, pag. 851. 34 ribaltamento che ricade nella metafisica. Abbiamo scelto di volta in volta di lasciarlo in sospeso, il più possibile aderente al contesto in cui è calato, per non deformare delle annotazioni in cui, ci è parso, esso mantiene ancora il suo tasso di ambiguità. Per il chiarimento sull’importante differenza che la parola porta con sé, rimandiamo al capitolo conclusivo, in cui sarà possibile un raffronto con i luoghi del pensiero heideggeriano in cui essa assume rilevanza particolare, più chiara e meglio definita, per certi versi. Seguire Heidegger nella costruzione del suo pensiero, della sua interpretazione e del suo Auseinandersetzung con Jünger, ecco l’opportunità ed il tentativo che qui si apre: tentativo perché ciò che possiamo offrire è un umilissimo primo avvicinamento, opportunità perché preziosi sono i momenti in cui poter “camminare” tra pagine così profonde ed essenziali. Non resta che mettersi in marcia! 35 1. Heidegger lettore de L’Operaio Sappiamo che Martin Heidegger si interessò fin dall’inizio al Der Arbeiter, arrivando a possedere due copie di lavoro, fitte di appunti sui passaggi ritenuti cruciali 135: non vi è pagina che non sia “sovrascritta” dal filosofo, a testimonianza di un’attenzione che va oltre alla semplice fascinazione per uno scrittore. Attenzione che è profonda interrogazione del testo e del pensiero, che non scade mai, però, nella cieca celebrazione. Il ritorno, quasi ossessivo, sui ‘limiti della posizione metafisica fondamentale di Jünger fa sempre da contraltare ai commenti più entusiastici. Addentrandoci appena nell’interpretazione heideggeriana del Der Arbeiter riusciremo, forse, a renderci conto di quanto, seppur per motivi e con modalità differenti, il rapporto con questo libro sia per Heidegger importante al pari di quello con le poesie di Hölderlin. Diverso il ruolo, medesima la dignità di interlocutori fondamentali. Der Arbeiter non è solo un progetto politico, antropologico, sociale o culturale, Der Arbeiter è il volume che contiene l’ultima verità sull’ente nel suo insieme, l’ultima interpretazione metafisica dell’ente, quella cioè della Tecnica, di cui il Lavoratore si fa servo incondizionato, libero esecutore solo e soltanto della volontà di quest’ultima. La sudditanza a tale verità non è solo realizzazione di qualcosa, ma è compimento essenziale, rispondenza all’essenza della verità nel modo che essa comanda, assolvimento al compito che essa prescrive 136. Non quindi la semplice azione eterodiretta, ma l’agire nel modo in cui la Tecnica agisce, per portarne a compimento gli esiti ultimi, «l’essenziare dell’essere come Macchinazione137». Se Jünger scorge chiaramente l’ultima verità dell’ente, egli non vede l’appartenenza di ciò che descrive alla metafisica: oltre a non comprendere il fondamento della moderna Soggettività, a cui il lavoratore è totalmente ancorato, ciò che manca completamente è quel domandare a partire dalla Wahrheit des Seyns, la meditazione che fonda la decisione sulla differenza ontologica. In Der Arbeiter viene esperito solo l’ente nella sua Seinsverlassenheit, l’abbandono di cui è protagonista tutta la metafisica occidentale. Jünger asseconda l’atteggiamento che ha caratterizzato la filosofia occidentale da Platone in poi, potenziandolo e portandolo alle estreme conseguenze, un atteggiamento destinato a tramontare per sempre. Siamo di fronte ad un Durchgang, un passaggio di transizione, un incentivo a passare oltre, ma non ancora ad un passaggio138. La posizione jüngeriana si muove essenzialmente entro la metafisica già tracciata da Nietzsche, facendo ciò che «tutta la letteratura su Nietzsche non era stata in grado di fare 139», portare cioè alla luce l’ente come volontà di potenza, illuminandone fino in fondo la preminenza sull’essere e dispiegandone, un’ultima volta, le conseguenze sul reale. Jünger nella sua volontà di distruggere, di rompere con i valori passati, tra le scorie delle macerie che fa saltare in aria, fa emergere il mondo dell’epoca Tecnica in tutta la sua chiarezza, nel segno della metafisica nietzschana 140. La detonazione non è, però, compito di chi compie l’oltrepassamento: «un altro oltrepassa essenzialmente ed in modo incomparabile – l’altro inizio; e questo in quanto inizio conforme alla storia dell’Essere141». Chi (o cosa?) oltrepassa l’Altro Inizio? Forse Hölderlin? Oppure Nietzsche? Queste poche righe si interrompono sulla questione, oltre non ci è dato sapere. L’atteggiamento di Jünger appartiene alla Fine della Metafisica, ne propaga il diffondersi. Tuttavia egli rimane “bloccato” da ciò che irretiva anche la metafisica di Nietzsche, cioè il rovesciamento: per Heidegger, tutto ciò che è ribaltato è semplicemente di nuovo posto, mai oltrepassato, poco importa cambiarne il “segno”, ogni capovolgimento è già sempre un ri-voltarsi-all’indietro. 135 136 137 138 139 140 141 Ivi, pp. 529-789. Ivi, pp. 7-9. Ivi, pag. 9. Ivi, pp. 19-23. Ivi, pag. 39. Ivi, pp. 39-41. Ivi, pag. 41. 36 Sebbene la metafisica non si mostri più come una sistematica filosofica, essa rimane, sia in Nietzsche che in Jünger, determinante, stabilita già saldamente sullo sfondo dei proclami del suo capovolgimento. L’abbandono dell’ente da parte dell’essere permane, l’assenza di domanda persiste, la mancanza di meditazione sulla differenza ontologica si estende al livello planetario. Nessun rovesciamento basta ancora per la Fine della Metafisica. Jünger assume quindi il ruolo di pensatore, o meglio descrittore, al limite: egli impedisce che la meditazione sulla Fine inizi prematuramente. Non è ancora tempo di un Altro Inizio, questo il suo monito142. Chiunque abbia letto, anche solo una volta, il Der Arbeiter, potrà facilmente rendersi conto che, quanto detto fino a questo punto, non coincide assolutamente col contenuto dell’opera. Fatta eccezione per i riferimenti alla tecnica, sembra non esserci alcuna aderenza tra l’interpretazione heideggeriana ed il testo vero e proprio. Eppure la lettura di quest’ultimo, come testimoniano le numerose note, è stata lunga ed impegnativa. È per ammissione dello stesso Heidegger che questo, tuttavia, accade: l’interpretazione heideggeriana, non solo in questo caso, non è mai in linea con nessun’altra, non risponde a criteri di comprensibilità, di chiarezza, di aderenza o correttezza, di rigore filologico. «Ogni autentica interpretazione deve perciò tentare di cogliere ciò che non c’è 143». Nel corpo a corpo col testo la vera sfida è andare oltre; pur mantenendo un rigore ed un coinvolgimento spaventosi nel rapporto col libro, non bisogna soffermarsi sull’autore o su ciò che tradizionalmente viene interpretato, nella maniera in cui viene innanzitutto e per lo più letto. Sfidare i testi, allargarne i confini, dilatarne gli orizzonti, lasciando spazio all’inaspettato, al frammento apparentemente insignificante, alla traduzione dimenticata, ai nessi nascosti: in questo sta il lento procedere di Martin Heidegger. L’elemento determinante del Der Arbeiter è, appunto, il Lavoro. Il senso che Jünger da al termine è triplice: esso è, contemporaneamente, principio di efficacia, modo di vita e stile. Questa triade compone la soggettività incondizionata del Lavoratore, come πρᾶξις, come ἦθος e come ποίησις. L’unica possibile Πρᾶξις del Lavoratore è il suo riferimento al’elementare, retto dal principio di efficacia; il Lavoratore è libero in questo suo rapporto con l’elementare, pertanto questa libertà è il suo ἦθοςe; lo stile di questo libero riferimento è la potenza, la sua ποίησις 144. Detta più semplicemente, la triade si articola in lavoro sull’elementare, libertà nel lavoro, potenza come strumento del lavoro. Al di là di questa complicata tripartizione, importante è per Heidegger la dimensione determinante del Lavoro, come concetto in grado di formare la nuova umanità jüngeriana. Tale umanità è contrapposta alla borghesia, in un rapporto tra Immagine e Contro-Immagine che si fonda, secondo Jünger, nel diverso modo di esperire la libertà. Il Lavoro imprime infatti nuovi ordinamenti tra il singolo e la comunità, ma più in generale imprime un ordine nuovo a tutto il reale. Questo imprimersi del Lavoro è detto Forma, ed è l’imprimersi supremo e preventivo della Soggettività, secondo Heidegger145. La Forma determina tutto il reale effettivo come lavoro, nulla può sottrarvisi in quanto il mondo è ‘mondo del lavoro’. Essa è il modo e la maniera in cui l’umanità dell’epoca tecnica si comprende e si attua. La legittimazione della Forma attraverso la Potenza, il dispiegamento di questa Potenza nella sua estensione planetaria, è invece il Dominio146. Agli occhi di Heidegger, Jünger trasferisce ogni cosa nel concetto di Forma, ed è a partire da essa che da origine a tutta la sua nuova configurazione sociale, politica, metafisica. In tale direzione vanno letti tutti i passaggi sulla scomparsa della differenza tra massa ed individuo, sull’orientamento umano ridotto a Tipo, sulla detenzione di potenza come criterio supremo dell’ordinamento del mondo. La descrizione di questi fenomeni è già un’interpretazione del reale effettivo che, lo ripetiamo, risulta completamente dipendente dalla metafisica nietzschana e, anche 142 143 144 145 146 Ivi, pp. 47-53. Ivi, pag. 57. Ivi, pag. 75. Ivi, pp. 77-79. Ivi, pag. 79. 37 in virtù di ciò, svela un ambito essenziale della verità dell’essere, quel modo di darsi, ultimo e finale, della verità nell’epoca della Tecnica147. In questo senso le proposizioni di Jünger assumono un carattere vincolante, divenendo così descrizioni determinanti. Il carattere vincolante riposa però non su Jünger stesso, ma sull’appartenenza metafisica della descrizione stessa: riposando entro l’ambito già dischiuso da Nietzsche fondandosi sull’essenza della verità posta dalla Storia della Metafisica, la descrizione jüngeriana “rende reale” ciò che semplicemente indica. La realtà effettiva come Volontà di Potenza è realtà realmente in atto in questi termini, una realtà a cui Jünger si espone pienamente, senza esitare, impegnandosi ciecamente. Anche nella foga dell’attivismo, però, ciò che rimane precluso è il decidere sull’essenza della Verità. Chi ha ancora la metafisica a fondamento della sua posizione rimane escluso, poiché non può vedere il posto che ricopre nella Storia dell’Essere148. La metafisica jüngeriana lascia vedere l’ente, indicando la direzione dell’essere senza però domandarlo. In ciò risiede un compito ed un ruolo necessari, sempre esclusi, però, da ciò che è decisivo. Nel Der Arbeiter troviamo il pensiero di una Fine, una nuova fine, che è già stata oltrepassata da Nietzsche, di cui Jünger mette in luce la definitiva estinzione. Sebbene non superi mai, in nessun senso, Nietzsche, Jünger ne porta a compimento l’orizzonte metafisico. In questo modo viene innalzato il pericolo supremo: la supremazia dell’oblio dell’essere, che contraddistingue ogni metafisica, può rinsaldarsi fino a rendere inaccessibili fondamento e verità della realtà effettiva. Un mondo senza alternativa, in cui è impossibile qualsiasi domanda essenziale, qualsiasi decisione che non sia già decisa dalla tecnica, questo il rischio maggiore 149. Ma, ci avverte Heidegger, «Ogni pericolo è ambiguo: esso è possibilità del soccombere e dell’oltrepassamento150 ». Che nel pericolo estremo, invece, forse si nasconda ciò che salva? I versi di apertura de La Questione della Tecnica, da cui prende avvio tutta la meditazione, non sembrano lasciare spazio a dubbi151. Già in queste pagine su Jünger si presagisce in che direzione andrà la domanda sul tecnototalitarismo planetario152. In conclusione, qual è il giudizio di Heidegger su Jünger e, in particolare, su Der Arbeiter? Per il filosofo l’unico rapporto possibile è un dibattimento radicale, un Auseinandersetzung: non un semplice punto di vista contro l’altro, ma la comprensione storica dell’ubicazione dei punti di vista. Solo da qui può svilupparsi una decisione originaria sul pensiero di Jünger, fornendogli la giusta posizione all’interno della Storia della Metafisica 153. Riconoscerne dunque, prima di tutto, i limiti l’impotenza della decisione, il rincorrere l’ente scambiandolo per l’essere, il semplice dire di sì, l’impotenza nel meditare154. Occorre riconoscere, inoltre, la sostanziale continuità tra i nuovi valori, di cui il Lavoratore si fa promotore, e l’età moderna, quell’età borghese rispetto alla quale si pretende una rottura. Anche la Gestalt, che è solo il modo supremo per dire soggettività, con tutto ciò che include, rimane saldamente inscritta nel rapporto soggetto-oggetto, rapporto metafisico per eccellenza e, pertanto, anche rapporto “borghese”155. Il problema di Jünger è, secondo Heidegger, la sua essenziale incompletezza: «le domande essenziali, quelle inerenti alla ‘storia’ - essere e storia, essere e verità -, non vengono domandate 156». Tale Halbheit condiziona, in quanto limite storico nella Storia dell’Essere, tutto ciò che Jünger può 147 148 149 150 151 152 153 154 155 156 Ivi, pp. 81-83. Ivi, pp. 85-87. Ivi, pp. 125-127. Ivi, pag. 127. M. Heidegger, La Questione della Tecnica, in Saggi e Discorsi, pag. 22. C. Resta, Heidegger e il tecnototalitarismo planetario, pp. 81-101. M. Heidegger, Ernst Jünger, pp. 145-147. Ivi, pag. 147. Ivi, pag. 169. Ivi, pag. 171. 38 e non può vedere. Se egli riesce a descrivere la realtà con l’efficacia che lo contraddistingue, ciò lo deve solo ed esclusivamente alla propria Fraglosigkeit. 39 2. Gestalt e Platonismo Ribaltato La centralità del concetto di Forma nell’opera di Jünger abbiamo avuto modo di chiarirla ampiamente in precedenza. È tuttavia nella lettura che Heidegger da di tale concetto che troviamo la motivazione principale dell’appartenenza dell’autore de L’Operaio alla metafisica. La circolarità tra Volontà di Potenza che determina il Mondo, che determina l’Uomo e che determina il descrittore di questa stessa circolarità con la conseguente impossibilità di porre la domanda sull’Essere, porta con sé la Vollendung della Metafisica, il suo stesso compimento157. Se tale struttura ricorsiva rappresenta però il limite estremo del discorso di Jünger, la capacità di spingersi ai confini della filosofia occidentale, dilatandone il margine estremo senza però, di fatto, mai riuscire ad oltrepassarlo, è invece la nozione di Forma a fungere da “aggancio” alla metafisica. Arrivati a questo punto ci rendiamo conto che l’interpretazione heideggeriana de L’Operaio ruota tutta attorno a questi due momenti fondamentali: Vollendung che spinge in avanti il pensiero, in una circolarità espansiva, sempre legata alla Forma come ciò che trattiene e mantiene nella metafisica. La descrizione dell’epoca della Tecnica vive quindi di questa costante tensione, tra una spinta che non riesce a divincolarsi da sé stessa e la salda presa gestaltica158. Se la Vollendung abbiamo però già tentato di chiarirla, ciò su cui occorre ancora soffermarci è la nozione di Gestalt, nel senso in cui Heidegger la intende. In che senso questa appartiene, seppur, come vedremo tra poco, in un modo del tutto particolare, alla metafisica? Il dominio planetario del Lavoratore è un’interpretazione dell’ente nel suo insieme, un’interpretazione di tutto il reale a partire dalla nozione di Lavoro. Tale progetto è complessivamente sostenuto dall’antica metafisica platonico-aristotelica, è perciò in questo senso già sempre un platonismo agli occhi di Heidegger159. Il dire di sì a questo progetto, quell’atteggiamento che in Jünger è definito ‘realismo eroico’, è però una modificazione in senso moderno dell’orizzonte platonico, in quanto non siamo di fronte ad una ripresa letterale fedele di quest’ultimo. Anzi, il tentativo di rottura nei confronti dell’impostazione “valoriale” di Platone è netta ed estrema: il privilegio della dimensione dell’elementare, ne L’Operaio, rappresenta proprio la discontinuità rispetto ad una gerarchia in cui a dominare è il piano intelligibile o sovra-sensibile. L’elementarismo del realismo eroico è invece dominio della sensibilità, che ribalta la gerarchia di cui sopra160. Il progetto jüngeriano è quindi rovesciamento del platonismo che, nel tentativo della sua rimozione, resta impigliato nelle coordinate già dettate, o meglio già decise, dal platonismo stesso. I concetti fondamentali di Jünger riposano tutti entro questo ribaltamento, ma è in particolare la Forma a rivelarsi il punto nevralgico da cui scaturiscono le restanti determinazioni del Der Arbeiter. Presupporre e pensare, a partire da questa, dalla sua essenza e dalla sua posizione, è già sempre pensare alla fissazione di una norma, di un centro, di un senso rispetto al quale la realtà può e deve conformarsi, appunto161. Prima di procedere dobbiamo però mettere ordine tra i termini della questione, poiché alcuni apparentemente minimi slittamenti di senso tra l’opera originale e l’interpretazione che Heidegger ci fornisce possono rendere confusa tutta la questione. In prima battuta, vogliamo riportare l’attenzione sulla distinzione tra Forma e Tipo: ne L’Operaio tali termini non si equivalgono, anzi è la loro sottile distinzione a rendere possibile l’articolazione di un vero e proprio progetto di dominio del reale 162. Possiamo pensare, molto semplicemente, al Tipo come a ciò rispetto a cui l’Uomo deve necessariamente aderire, alla Forma come al modo concreto 157 158 159 160 161 162 V. Blok, An Indication of Being, pp. 203-204. Ivi, pp. 204-205. M. Heidegger, Ernst Jünger, pag. 7. Ivi, pp. 23-25. Ivi, pp. 33-35. In questa Tesi Capitolo I, Paragrafo 4. 40 di darsi nel mondo di questo Tipo. Al Tipo si conforma l’Uomo, alla Forma si conforma la Realtà, dominata dal Tipo nel modo della Forma. Sebbene non sia del tutto ignorata, in Heidegger tale distanza tra concetti è più che altro ricondotta alla medesima radice. Il ricongiungimento di entrambi all’ambito della Soggettività, termine questo che non appartiene alle categorie fondamentali de L’Operaio, è privilegiato rispetto ad una scissione più netta. Non uguali, le determinazioni di Tipo e Forma sono in Heidegger però molto simili, entrambe figlie del ribaltamento del platonismo e riconducibili alla moderna Soggettività. Jünger si muove dentro una verità già decisa dalla metafisica di Nietzsche. Tale verità è «assicurazione prospettica della risorsa fondamentale della vita di contro al caos sempre incalzante163». Una verità che dispone attorno a sé la risorsa, per ordinare rispetto a sé stessa, appunto per dare forma: la verità nietzschana esperita da Jünger è la Forma. Essa stabilisce la realtà, si occupa di determinarla stabilmente e con essa di determinare stabilmente l’uomo in quanto subiectum. L’uomo nuovo, in quanto Lavoratore, non sa più e non si chiede nemmeno se sia lui a determinare la realtà mediante il Lavoro, o se sia il mondo in quanto mondo del lavoro a determinarlo. Egli si limita ad aderire alla Forma, innescando così la circolarità, sopra menzionata, tra determinato e determinante164. Heidegger scrive qui qualcosa di epocale, che getta un’importante luce su tutta la questione della Tecnica. Vale la pena riportarlo in lingua originale, avendone la possibilità: «Das Gestellte dieser Fest-stellung ist die Gestalt165». La Forma è quindi Gestellt che innesca la circolarità tipica di tutta la Tecnica. Sappiamo che il termine, tradotto in italiano con ‘Impianto’ o ‘Dispositivo’, ha una complessità semantica decisiva, vista anche la sua costitutiva intraducibilità piena. Ne La Questione della Tecnica assistiamo ad un ulteriore spostamento di significato, che ripercorreremo in seguito. Qui è però la triplice dimensione a cui il connubio Dispositivo/Forma sembra dare avvio ad essere interessante: ribaltamento del platonismo, determinazione della Tecnica e carattere proprio della descrizione jüngeriana. La circolarità, sempre debitrice alla metafisica e che in questo suo debito ha la sua essenza, risulta contemporaneamente impressa nel movimento di tutto il reale e nel movimento della posizione fondamentale di Jünger. La Forma innesca questo complesso meccanismo poiché essa è conseguenza necessaria del rovesciamento del platonismo. Quanto di cui sopra si origina a partire dalla necessità della posizione jüngeriana di erigere nel caos qualcosa di permanente. Il Soggetto, che fa della Forma ciò rispetto a cui prendere misura, è l’esito ultimo di tale erigere. Anche qui, come in Platone, la ricerca è di qualcosa che sia eterno, sovratemporale e sovrasensibile, quindi oggettivo e platonico 166. «Ritornano tutti i requisiti del platonismo167», anche se di “segno opposto” saldamente riconducibili, secondo Heidegger, allo stesso orizzonte, alla stessa Storia. Il nuovo rapporto del Lavoratore con l’elementare, determinato già sempre dalla Forma, pur ponendosi come l’istanza che lo ribalta, è invece anche la riconferma del platonismo. Questa Forma è ciò rispetto a cui l’umanità deve essere determinata: l’approvazione dell’umanità rispetto ai principi di volta in volta stabiliti non è nient’altro che la versione massimamente moderna del platonismo che, alla contrapposizione classica tra idea e mondo sensibile, sostituisce l’ordinamento gerarchico della potenza168. Platonismo tecnico dunque, votato al potenziamento, alla strumentalità ed alla posizione di valori che reggano un’epoca totalmente basata su criteri di efficacia, utilità, vantaggio, profitto, per dirla con Heidegger, pro-vocazione (Herausforderung)169. La Forma come Lavoro totale, determina conseguentemente tutte gli aspetti ulteriori dell’epoca tecnica: la libertà, il rapporto con l’elementare, la Potenza, sono tutte pensate ed esperite a partire da 163 164 165 166 167 168 169 M. Heidegger, Ernst Jünger, pag. 95. Ivi, pp. 96-101. Ivi, pag. 96. Ivi, pp. 140-141. Ivi, pag. 141. Ivi, pp. 331-333. M. Heidegger, La Questione della Tecnica, pag. 11. 41 questa Gestalt. Nulla è più pensabile senza ed al di fuori di essa, ogni uomo è ormai già Lavoratore, ogni libertà è libertà di darsi legge sul caos presupposto, la potenza è accrescimento e sovrapotenziamento, l’elementare è già sempre risorsa produttiva170. Heidegger vede chiaramente l’estensione planetaria di tale posizione fondamentale, condividendone con Jünger almeno la lettura in termini di totalità e pervasività. Nella Forma l’uomo pone il suo ultimo, supremo e sommo grado, superando sé stesso e facendosi Lavoratore. Questa è solo la conclusione di quella stabile determinazione dell’uomo come animale, che trova appunto origine in Aristotele. L’ampiezza è qui, però, massimamente dilatata171. Ciò che però Jünger non vede è la posizione metafisica della Forma, la posizione di un ente eterno e sovrasensibile come compagine fondamentale della metafisica platonica. La necessità di porre ancora un’immagine dell’uomo, un’immagine formatrice da cui trarre conferma di sé, corrisponde alla necessità di un’immagine del mondo, nell’ottica di un pensare che è già sempre un imporre forme. Il pensiero di Jünger muove in tale direzione, presentando ogni cosa come conseguenza della Forma, dimenticando però ciò che sta al fondo dell’istituzione dei nuovi rapporti consequenziali che egli pone: non viene pensata la conseguenza fondamentale, cioè il rovesciamento del platonismo che è, però, non il suo superamento, ma il suo estremo rinnovamento172. La dipendenza da Nietzsche emerge qui con ancora più chiarezza; muovendosi nel solco tracciato dalla Volontà di Potenza, il mondo è pensato come caos da redimere, a cui dare ordine. La necessità di una Forma, quindi di un’immagine-modello da contrapporre alla caoticità del reale effettivo come Volontà di Potenza. L’Immagine-Forma risponde al progetto di ammaestramento del reale proprio dell’epoca tecnica, che in Nietzsche trova espressione nell’Oltreuomo. Jünger non fa altro che tradurre questa istanza, a partire dall’esperienza della Prima Guerra Mondiale, in termini più aderenti alla dimensione del Lavoro173. Il vero rovesciamento del platonismo, però, è quello nietzschano secondo Heidegger, il primo che, con il suo oltreomismo, ha posto un’Immagine che sia anche Contro-immagine del platonismo. La trasvalutazione dei valori è già nietzschanamente pensata e l’attuazione del ribaltamento non è pertanto un merito di Jünger. Egli la esperisce chiaramente, restituendola in un modo che è esattamente corrispondente alla realtà effettiva, senza però avere alcun ruolo in ciò che è già stato deciso 174. Ci troviamo quindi, ancora, nel «tentativo, in generale, di pensare di nuovo e ancora una volta metafisicamente, e di attuare questo pensiero come esperienza fondamentale175». Di nuovo, c’è soltanto il compimento dell’essere come oggettivata efficacia, dell’essere come potenza ed efficacia. La Forma è l’ultimo tassello di quell’impartire l’essenza, quel modo coercitivo orientato all’efficentamento della totalità dell’ente, in cui l’uomo è solo in quanto Soggetto 176. Il Soggetto, il cui nome proprio rispetto all’epoca è Lavoratore, è il nuovo dominatore, il «dominatore dell’incondizionato dominio del mondo», il portatore di una giustizia ordinatrice, il detentore della potenza incondizionata. Egli deve essere visto metafisicamente, in quanto appartenente ad un ordine gerarchico determinato dalla Forma. Il Lavoratore, la Forma del Lavoratore è Figura del risveglio, del rinnovamento e contemporaneamente del compimento della Metafisica177. Come suggerisce però il termine tedesco Vollendung, il compimento è qualcosa di diverso rispetto alla Fine, alla Ende, ed è questo che Heidegger tiene sempre a mente leggendo Jünger. Il Compimento della Metafisica non è ancora la sua Fine178. 170 171 172 173 174 175 176 177 178 M. Heidegger, Ernst Jünger, pp. 333-335. Ivi, pag. 229. Ivi, pp. 231-233. V. Blok, An Indication of Being, pp. 198-201. M. Heidegger, Ernst Jünger, pp. 240-241. Ivi, pag. 245. Ivi, pp. 245-247. Ivi, pag. 249. C. Resta, Heidegger e il tecnototalitarismo planetario, pp. 88-91. 42 Sullo sfondo di quanto scritto fino ad ora possiamo brevemente approfondire anche l’interpretazione heideggeriana del Tipo, a cui il filosofo dedica molte meno pagine. Se da un lato la vicinanza al modo in cui è pensata la Forma è notevole, più di quanto avvenga in realtà nell’opera di Jünger, alcune importanti distinzioni vale la pena ripercorrerle. In primo luogo, è detta Tipica la procedura attraverso cui l’uomo arriva a corrispondere al Tipo. La Tipica è livellamento, levigatura, chiarezza univoca, uniformità, rimozione dell’originale, organizzazione, è il modo in cui la Forma del Lavoratore mobilita l’intera umanità. La Tipica determina l’uomo rendendolo Lavoratore, pur essendo a sua volta già determinata dalla Forma. Come la tecnica, la Tipica è un’interpretazione metafisica dell’ente e della sua verità 179. Siamo di nuovo al cospetto di quella circolarità che abbiamo ormai a lungo ripetuto e che continueremo a ripetere: non solo ogni uomo, ma anche ogni aspetto del pensiero è, nell’epoca della tecnica e con Jünger in particolare, sia determinato che determinante, sia interpretato che interpretante, sia mobilitato che mobilitante. In secondo luogo ed in virtù di quanto appena detto, il Tipo è Forma suprema della soggettività. L’esser-levigato è la sua determinazione fondamentale, la sua funzionalità principale risiede nella calcolabilità, nella semplicità del suo poter essere esposto al calcolo e alla pianificazione. L’uniformazione normativa diviene nel Tipo l’unica Legge, che elimina ogni incertezza dal Soggetto: la certezza è calcolabilità incondizionata del Tipo, a cui importa solo correggere ed ammaestrare il mondo per assicurarsi stabilmente in esso. Fondare una nuova gerarchia, la cui Forma risiede nel Tipo, equivale a fondare una nuova sicurezza sull’ente e sulla sua controllabilità180. In tale direzione si orienta la levigazione messa in moto dalla Forma del Lavoratore: uniformità, automatismo e ritmicità sono finalizzate a raggiungere il Tipo e a garantire l’anonimo, l’unico nonpiù-uomo che può inserirsi correttamente in un ordinamento gerarchico del genere. L’univocità dell’anonimato totale garantisce la conchiusa compiutezza, nei termini di una inclusività planetaria181. 179 M. Heidegger, Ernst Jünger, pag. 343. 180 Ivi, pp. 343-345. 181 Ivi, pag. 347. 43 3. Accecarsi nel Soggetto Jünger, nella sua descrizione del reale effettivo, adempie ad un compito essenziale: il lavoro jüngeriano è, per Heidegger, lavoro di detonazione. Egli fa saltare in aria ciò che copre l’epoca della tecnica, rivelandone il fondamento più nascosto. Mostrare senza filtri, questo il merito innegabile di Jünger. D’altro canto, però, gli effetti di questa “esplosione” si arrestano nei pressi di ciò che è altrettanto essenziale. Una volta rimossi i frantumi delle scorie che limitano lo sguardo, Jünger non può piazzare un’altra carica sulla metafisica della soggettività, continuando a muovere il suo lavoro di detonazione esclusivamente entro i confini tracciati da essa. L’esplosione non è qui necessaria, ciò che occorre davvero è l’oltrepassamento, verso l’altro inizio conforme alla Storia dell’Essere. La distruzione libera ciò che ancora rimane nascosto, ma non oltrepassa mai la metafisica, ricade anzi in essa182. Ciò che Jünger non si pone è la domanda sulla Verità: nella volontà di far saltare in aria ciò che nasconde la verità (con la v minuscola) della sua epoca, non riesce a fermarsi e domandare profondamente l’essenza della Verità (rigorosamente maiuscola), limitandosi a pensare attraverso essa. È in questo che sta il maggiore punto di contatto con la Soggettività Metafisica183. Soggettività è per Heidegger già sempre autoinstallazione come assicurazione di sé, la cui verità è, pertanto, solo ciò che è vero per la coscienza, verità di ciò che è ritenuto vero. La Soggettività moderna rapporta la verità sempre e comunque a Sé stessa, per assicurarsi l’assicurazione dell’ente. Una verità quindi strumentale, orientata al dominio ed alla manipolazione del reale184. La persistenza del subiectum è centrale nell’opera Der Arbeiter, in quanto la nuova umanità, rappresentata dalla Forma del Lavoratore, pone sé stessa come centro e misura. L’uomo che si afferma come fondamento e fine dell’ente è essenza della Soggettività moderna, ed è proprio in questo modo che si determina nel libro di Jünger185. Il Soggetto che si pone su Sé stesso fa della sua auto-legislazione la legislazione del mondo intero: ciò vale per il singolo quanto per tutte le determinazioni più, apparentemente, collettive. «L’uomo non è meno soggetto, bensì lo è più essenzialmente quando si comprende come nazione, come popolo, come razza, come un’umanità posta in qualche modo su se stessa 186». Il porsi come principio ultimo, addomesticante il reale intero, è comune a tutte queste forme. La necessità di ordinare il mondo pone già sempre il caos come il senza-senso: un mondo ordinabile deve per forza esistere prima di tutto come caos, a cui è necessario dare una forma, in cui bisogna stabilire gerarchie, al quale bisogna dare un senso. Porsi come il donatore di senso è l’istanza suprema del Soggetto,che non domina più solamente Sé stesso, ma oggettiva la propria volontà di dominio, rivendicando come legittima solamente la propria auto-legislazione. Quest’ultima diventa così auto-giurisdizione, deputata ad ogni giustificazione. Al di fuori dell’auto-giurisdizione del Soggetto esiste solo un caos che chiede di essere legittimato, giustificato, ordinato e dominato 187. Il Subiectum dà e conferisce senso, al mondo oltre che al proprio fondamento, non ammettendo alcun diritto legittimo, all’infuori del proprio. L’uomo riconosce solo la propria incondizionata sovranità. L’intera opera di Jünger si articola su questo pensiero del Soggetto, esperendone la manifestazione moderna e più propria dell’epoca tecnica. Egli non mette in alcun modo in dubbio le determinazioni dell’uomo: homo sapiens, homo faber, homo natura, homo ludens, l’homo militans di Jünger si inserisce in questa catena già interpretata dalla metafisica, andandone a comporre l’ultimo tassello. 182 183 184 185 186 187 Ivi, pag. 41. Ivi, pag. 45. Ivi, Ibidem. Ivi, pag. 59. Ibidem. Ivi, pag. 61. 44 L’incondizionata antropomorfia della soggettività assoluta è data come ovvia e, pertanto, rimane non interrogata188. Il riferimento iniziale per l’interpretazione dell’uomo è, però, non Jünger, il quale poggia su concezioni precedenti, portandole semplicemente a compimento, ma Aristotele. L’aristotelico ‘uomo come animal rationale’ contiene in sé le possibilità dello sviluppo futuro nella direzione del subiectum189. Rispondendo e continuando il progetto aristotelico, che è in realtà metafisico e non ascrivibile ad un singolo pensatore, Jünger riesce ad essere compiutamente moderno, nella forma più estreme. La Soggettività, nel suo caso, è esperita, conformemente al modo comandato dalla tecnica, come detenzione di potenza, che erige nel caos l’oggettività della propria soggettività, auto-imponendosi, auto-legittimandosi e nullificando ciò che esce fuori da tale oggettività190. Il realismo eroico jüngeriano, nel dire sì al reale, dice sì anche a questo Soggetto ed all’idea del ‘vincitore’: vince chi scrive la storia e determina l’arte, l’intera nomenclatura del genio creatore, del combattente, dell’eroe, del credente e del sacerdote è fondata, per Heidegger, sul subiectum che detta la sua legge. L’unica verità di questa vittoria è la potenza, «la verità dell’essere come sicurezza dell’assicurazione dell’efficacia del reale effettivo»191. Con Jünger siamo ormai già nel compimento della Soggettività, lì dove si pensa antropologicamente, non si riconosce il fondamento di questo pensare, si assume tutto come semplicemente presente, viene considerato decisivo l’aver ragione al posto della Verità, irrigidendosi in un modo di essa, viene invocata l’ovvietà come criterio di approvazione: questo irrigidimento sulla Soggettività è semplicemente un abbaglio dovuto alla preminenza dell’ente in quanto reale effettivo. Jünger in questo senso è pienamente abbagliato. La pienezza dell’abbaglio è l’accecamento, proprio dell’epoca della Tecnica192. Ma come oltrepassare l’accecamento? Ammettendo tutto ciò come tale, riconoscendovi l’appartenenza alla verità dell’Essere e, con ciò, il suo originario ed essenziale oltrepassamento, già sempre deciso dall’Essere193. Detto in altri termini, Heidegger ci sta chiedendo semplicemente di riconoscere la completa compromissione della Soggettività con la metafisica. Assumendo tale compromissione, bisogna però accompagnarvi il pensiero della necessità del suo passaggio, della sua transitorietà, della possibilità della sua Fine. In quanto storiche poiché appartenenti alla Storia dell’Essere, la Soggettività moderna e la concezione di uomo che ad essa soggiace sono destinate a passare. Pensare e ricordare, in ciò il compito essenziale, per non irrigidirsi nell’abbaglio. 188 189 190 191 192 193 Ivi, pp. 72-73. Ivi, pag. 133. Ivi, pp. 139-141. Ivi, pag. 173. Ivi, pp.177-179. Ivi, pag. 179. 45 4. Liberalismo, Progressismo, Libertà Moderna L’eco politica de L’Operaio abbiamo ormai ampiamente compreso come e in che direzione leggerla. Gerarchia, livellamento, rimozione dell’originale e dell’atipico, fedeltà militare al Tipo, meccanizzazione dell’individuo: la descrizione della nuova società jüngeriana, già ad una prima lettura, pone soprattutto interrogativi sulla libertà. Heidegger non sfugge a tali domande, rintracciando però, all’interno dell’orizzonte metafisico entro cui L’Operaio si muove, delle convergenze e delle continuità che scuotono radicalmente sia le coordinate ideologiche di Jünger, sia la concezione moderna di libertà. Se l’inizio della Soggettività moderna viene fatto risalire a Descartes, l’inizio dell’età moderna viene invece qui assegnato ad un altra figura, ben più insolita ed inaspettata: «Il principe è l’inizio dell’età moderna194». Heidegger non menziona Descartes, quindi, bensì Machiavelli, l’autore di quello che, forse, è stato il più grande trattato di strategia e tecnica politica mai scritto. Dedicato a Cesare Borgia, Il Principe è un’opera di straordinaria importanza, oltre che storico-politica, anche filosofica. Qui, accanto alla lunga serie di questioni pratiche e contingenti, troviamo una vera e propria genealogia del potere: Virtù e Fortuna sono gli elementi che vanno dosati saggiamente, recepire e direzionare ciò che il Fato predispone è il compito ed il talento di chi deve governare195. Cosa trova Heidegger in un’opera tanto lontana da quello che è la sua formazione, i suoi interessi ed il suo stesso modo di filosofare? La cultura italiana, d’altronde, non è mai stata centrale negli interessi del filosofo. Eppure Machiavelli pare qui, invece, condividere qualcosa di fondamentale con Jünger. Il rapporto è storico, cioè assolutamente non storiografico. Entrambi, agli occhi di Heidegger, pensano la medesima cosa, seppur da differenti “postazioni”. Sia Machiavelli che Jünger pensano alla lotta come fondamento della soggettività, nella sua volontà di oggettività incondizionata, di dominio su tutto l’ente. Due pensieri che, quindi, si situano perfettamente nel rapporto soggettooggetto196. Tale rapporto essenziale è, però, l’essenza della tecnica, in quanto rapporto metafisico fondamentale. La soggettività che si pone di fronte ad un oggetto, nell’ottica di esercitare quindi il suo dominio su di esso e su ogni altro ente, regge non solo l’intera metafisica, ma nel suo estremo compimento travalica nella tecnica. Già qui la Tecnica non è intesa come mera mobilitazione, ma già come fondamento della verità dell’essere, nel suo darsi come Machenschaft197. Jünger e Machiavelli condividono così un rapporto essenziale, fondato sulla appartenenza reciproca ad un pensiero che mira al dominio dell’ente in vista di un fine: L’Operaio domina l’ente mediante la Tecnica finalizzata al Lavoro, Il Principe domina l’ente «ancora nella stretta cerchia di ciò che è soltanto politico e di ciò che è italiano; in questo già il ruolo dell’arte della guerra e della strategia di guerra198». Il fondamento comune, per Heidegger, è la Lotta istituita dal rapporto soggettooggetto, che prosegue in direzioni divergenti. L’altro grande tema politico de L’Operaio è, ovviamente, la contrapposizione Arbeiter-Borghese che attraversa tutto il libro. Se da un lato Heidegger ribadisce ciò che scrive Jünger, ovvero l’estraneità del Lavoratore a qualsiasi determinazione di ceto, di classe, l’estraneità a qualsiasi organo economico, all’utilità ed al profitto, d’altra parte egli mette in dubbio l’essenza di tale contrapposizione199. Se questa demarcazione richiama ad un’Altra realtà effettiva, quella della volontà di potenza contrapposta alla sicurezza borghese, allo stesso tempo bisogna domandarsi se non sussistano in realtà delle somiglianze altrettanto determinanti. Sia la “nuova Realtà” che il mondo della borghesia condividono, secondo Heidegger, la concezione di Libertà come «auto194 195 196 197 198 199 Ivi, pag. 137. N. Machiavelli, Il Principe, Dante Alighieri, Città di Castello 1945. M. Heidegger, Ernst Jünger, pag. 137. Ibidem. Ibidem. Ivi, pag. 199. 46 crazia dell’umanità nella soggettività200». La presunta nuova Libertà, conquistata dall’Arbeiter, non potrebbe in realtà essere solo il perfezionamento della precedente Libertà borghese? Anche alla luce del platonismo ribaltato che Heidegger imputa a Jünger, è impossibile non scorgere almeno una continuità tra le due rivendicazioni di libertà201. Tale ribaltamento della contrapposizione jüngeriana trova conferma nella stessa società industriale, di cui l’Arbeiter è espressione e prodotto: è il Borghese a determinare già sempre il Lavoratore che non riesce a vedere sé stesso in altro modo. Jünger svaluta questo dominio come ‘dominio apparente’ , ma ciò non basta all’interpretazione di Heidegger. Non è semplicemente la determinazione della Borghesia a trasformare l’essenza dell’uomo in Lavoratore, ma è l’intero apparato della tecnica a modificarne l’essenza. L’Arbeiter non lavora semplicemente alla macchina ma, in quanto lavorante, la sua essenza è appunto trasformata in ciò che egli è nell’epoca della tecnica202. Il dominio è quindi più profondo, non si tratta solo di un apparente dominio Borghese sul Lavoratore, ma della realtà effettiva che viene determinata per e a partire da entrambi. Heidegger smaschera la contrapposizione jüngeriana sia dal punto di vista metafisico, mostrando l’appartenenza delle due Forme del Tipo alla storia della metafisica, sia da un punto di vista politico, riconducendole alla Gesellschaft, la Società, intesa come costruzione liberale e quindi essenzialmente moderna. Società è società borghese, un nome per la convivenza tra gli uomini basata su un contenuto economico: la formula dell’accordo razionale tra gli interessi è il vincolo che unisce le contrapposizioni di egoismi individuali. La concezione contrattuale legittima così un modo di intendere il vivere assieme sempre e comunque determinato dalla componente economica del profitto, del vantaggio e del guadagno egoistico203. Il termine Gesellschaft è assunto da Heidegger in maniera fortemente riconducibile al contesto della Rivoluzione Conservatrice204. Gesellschaft è sconvolgimento e frantumazione della Gemeinschaft, la comunità primitiva, priva delle tensioni strutturalmente insite nella contrapposizione di egoismi. È solo a partire dal deterioramento della Comunità che si formano i ceti, le classi come forme di una Società che porta già sempre con sé la necessità del conflitto come lotta tra ceti205. Conflitto in questo caso non ha, però, la valenza eraclitea del Πόλεμος 206: il “padre di tutte le cose”, di importanza enorme per Heidegger specialmente nel dialogo con Schmitt 207, nell’ordinamento sociale borghese è ridotto a lotta per la rivendicazione e l’appropriazione di diritti. «La lotta tra i ceti non sconvolge mai la società nel suo insieme e non attacca mai il ‘principio’ della sua costruzione. Nessun sovvertimento dell’articolazione cetuale 208». La sovversione dell’ordinamento borghese non è così mai pensata, poiché sono le classi stesse ad avere come principio l’interesse economico. Il pensiero del conflitto “sociale”, nel senso di appartenente alla Gesellschaft, è quindi mantenuto saldamente entro gli orizzonti della borghesia e mai può, nella prospettiva heideggeriana, realmente mettere in discussione l’essenza della Società209. In questo senso, per Heidegger, Jünger assume il termine società nel significato che esso ha nel XIX secolo, l’epoca borghese contro cui L’Arbeiter dovrebbe in realtà scagliarsi: la determinazione è al fondo economico-socializzante, in direzione di un contenuto che è sempre finalizzato all’organizzazione, alla pianificazione ed al profitto. La Gesellschaft come Aktiengesellschaft, Hochzeitsgesellschaft, Reisegesellschaft, come aziende finalizzate ad una socievolezza 200 201 202 203 204 205 206 207 208 209 Ivi, pag. 201. Ivi, pp. 201-203. Ivi, pp. 207-209. Ivi, pp. 209-211. F. Tönnies, Gemeinschaft e Gesellschaft, Laterza, Bari 2011. M. Heidegger, Ernst Jünger, pag. 211. Eraclito B 53, DK. D. Di Cesare, Heidegger e gli Ebrei. I «Quaderni Neri», pp. 150-170. M. Heidegger, Ernst Jünger, pag. 211. Ivi, pag. 213. 47 economicistica, egoistica e contrattuale, costituiscono l’essenza della società da cui nemmeno l’eroico Jünger riesce a svincolarsi210. Nell’epoca della tecnica la determinazione cetuale ha ormai travalicato i suoi propri confini. Alla domanda di Sieyès ‘che cos’è il Terzo Stato? 211’, Heidegger risponde «Attualmente nulla; in verità tutto212». L’appartenenza ad una classe non è più eludibile, poiché, ormai, siamo tutti Lavoratori. Ad essere sotto accusa è l’intera concezione della libertà moderna che soggiace al liberalismo: il soggetto moderno rivendica esclusivamente l’auto-legislazione. Libertà diventa autodeterminazione. Nell’epoca moderna esser-liberi significa tenere il passo col tempo, stare nell’attualità del progresso, pensare il proprio tempo come progressività vincolandosi ad esso213. L’autolegislazione ha carattere normativo, pertanto la rivendicazione di libertà pretende già sempre di istituire la sua propria nuova legge, la pretesa dell’ammaestramento del mondo. Il soggetto che dice sì all’assoggettamento ed all’ammaestramento dell’ente è il soggetto veramente libero nella modernità214. L’auto-legislazione che si situa nell’attualità del proprio tempo è già sempre appartenenza alla propria epoca. L’epoca della tecnica è epoca del Calcolo, pertanto la sua corrispondente rivendicazione di libertà è auto-legislazione mediante il Calcolo 215. Di nuovo, ammaestramento del reale. Il soggetto che rivendica la propria libertà, inoltre, rivendica sempre la libertà da qualcosa, quella che chiameremmo libertà negativa: dai dogmi, dalla tradizione, dalla Chiesa, la modernità è sempre, per Heidegger, un liberarsi-da. Il senso del moto liberatorio è però quello dell’autofondazione su Sé stessi, l’assicurazione del proprio sé, ponendosi e sapendosi come trasparente, evidente, calcolabile e determinato del tutto autonomamente216. Questa rivendicazione “autopoietica” è resa possibile dalla metafisica di Descartes, che la pone come regola dell’umanità moderna: il subjectum determina sia la sua soggettività che, a partire da essa, il mondo come sottoposto a questa. Rivendicazione di libertà è quindi, innanzitutto, rivendicazione della propria essenza, rispetto ad un mondo in cui l’uomo moderno si pone come centro e misura217. L’età moderna porta con sé un altro potente mito, quello del progresso. Nel progresso tecnico coesistono il principio del risparmio, della minima spesa, assieme al principio economico della massima utilizzazione possibile. È questo tipo di progresso che fornisce il modello rispetto a cui “stare al passo coi tempi”, questo lo standard al quale la libertà moderna aspira 218. La forma dell’uomo storico diviene quindi quella della progressività come miglioramento, abbellimento, sicurezza, ma anche come concorrenza, competizione, dominio sugli altri, ammaestramento della vita in direzione di ciò che è desiderabile. Ecco il volto rassicurante della tecnica moderna, non più legata alle macchine da guerra, alle mitragliatrici da trincea, ma improntata verso il progresso come progressività. La progressività non è più imposta, è anche desiderata, diventa essa stessa desiderabilità. La concorrenza ha spazzato via, apparentemente, le trincee, per fare spazio alla corsa all’acquisto219. In realtà, tale progresso non è progresso, non si fa nessun passo in avanti, la desiderabilità non conduce l’uomo più in là, trattenendolo invece nel compimento di uno stato essenziale. Non c’è nessun mutamento220. 210 211 212 213 214 215 216 217 218 219 220 Ibidem. E. J. Sieyès, Che cosa è il Terzo Stato?, Editori Riuniti, Roma 1992. M. Heidegger, Ernst Jünger, pag. 213. Ivi, pag. 261. Ivi, pag. 263. Ivi, pag. 265. Ivi, pag. 267. Ivi, pag. 269. Ivi, pag. 281. Ivi, pag. 283. Ibidem. 48 Ciò che realmente avviene è un “restringimento” del mondo, in cui è ammesso solo ciò che è dominabile, in modo che l’uomo sia sempre più esteso ed il suo assoggettante-assoggettamento sia sempre più potente. Egli può finalmente dimenticarsi del tutto della domanda sull’Essere, grazie ad un alleggerimento dei rapporti di vita, un miglioramento delle condizioni di lavoro, l’abbellimento e l’ampliamento della vita umana, la conquista e la dominazione del mondo e della natura221. La fede nel progresso è la forza decisiva della mobilitazione totale e, quindi, del suo dispiegamento come potenza metafisica. Rivendicare la libertà come ammaestramento è l’autentico compimento della metafisica, animato dalla fede e dalla desiderabilità del progresso il soggetto moderno può finalmente fondarsi esclusivamente su di sé222. Il bersaglio polemico di tutto ciò è, evidentemente, il liberalismo. Heidegger lo intende come l’assicurazione politica dello spazio di azione del singolo, vincolato solo attraverso le leggi dello Stato di Diritto. A dominare è, però, la legge del più forte, dato che la componente economica liberale si fonda, secondo Heidegger, sulla libera concorrenza, il vero gioco di forze capitalistico. l’economia domina poiché il liberalismo è sistema politico basato, prima di tutto, su rapporti contrattuali, pertanto la contraddizione tra Stato di Diritto ed economia non è una semplice anomalia, ma è la quintessenza dell’apertura di possibilità d’imposizione nel modo della libertà moderna223. Il pensiero heideggeriano, a nostro avviso, coglie qui un punto epocale, che anche dopo più di 80 anni dice moltissimo ad ognuno di noi. Il soggetto moderno, libero nel suo por-si-su-di-sé, cerca e trova esclusivamente in sé stesso il senso e la misura di ogni cosa. La tanto sbandierata comunicazione del XXI secolo si è rivelata un mero collidere di tante soggettività, mai in grado realmente di aprirsi all’Altro, che cercano solo nel mito della sicurezza e dell’assicurazione un fondamento stabile. Il risultato di questo egoismo planetario non è, però, in nessun modo l’approdo ad una certezza ottimistica. L’unico vero risultato è una solitudine infinita e senza sbocchi, più simile all’isolamento carcerario che all’autentica solitudine della meditazione; l’ansia sociale è ormai la norma, in un sistema in cui la colpa del fallimento ricade sempre e comunque sul singolo, che non ha saputo, forse non ha voluto, “farsi strada”, “stare al passo coi tempi”; la chimera del successo e della competizione è l’unica legge; chi tenta di mettere in discussione tutto ciò è un pazzo, noioso e pericoloso. Heidegger sembra quasi parlare alla generazione di chi scrive, lasciandoci l’eredità del compito di custodire un’altra Verità, libera dalla libertà moderna, che riconosca la genealogia del soggetto moderno e non dimentichi che, quella cartesiana, è una verità storica e, pertanto, deve compiersi e finire. E Jünger in tutto ciò? In poche righe, l’accusa più grave. Ne L’Operaio la rivendicazione essenziale è rivendicazione di libertà: sebbene si qualifichi come rivendicazione di lavoro, sia quest’ultima che il Lavoratore stesso sono determinati dalla libertà moderna224. D’altronde, la descrizione del compimento della metafisica non può, come ormai abbiamo imparato, sottrarsi alla determinazione ultima della Storia della Metafisica, risultando completamente interna alle “dinamiche” di questa Storia. 221 222 223 224 Ivi, pp. 283-285. Ivi, pp. 285-287. Ivi, pag. 277. Ivi, pag. 275. 49 5. La Costruzione Organica come Biologismo: Heidegger e la Biopolitica? Scorgiamo, verso le battute finali delle Annotazioni, un interesse crescente verso le implicazioni che potremmo definire biopolitiche dell’epoca tecnica, implicazioni che, ancora una volta, sono portate alle estreme conseguenze proprio da Jünger. Il termine biopolitica assume la sua rilevanza filosofica, in realtà, solo dopo la morte di Heidegger, pertanto non appare mai in queste pagine e possiamo anche tentare, retrospettivamente, di comprendere perché, con larga probabilità, non sarebbe stato un termine respinto dal pensiero heideggeriano. Resa celebre da Michel Foucault225, la biopolitica si interroga sui modi di disciplinamento della Vita, sulla pervasività del potere, sul suo insinuarsi anche negli aspetti più “fisici” e “carnali” dell’essere umano. Da una parte categoria filosofica, dall’altra metodo di auto-fondazione ed autostrutturazione dello Stato Nazione, mostra tutta la sua importanza in relazione alle scelte quotidiane che ognuno di noi compie: cosa e in che modo mangiamo, come e perché ci laviamo, in che modo percepiamo salute e malattia, sono solo alcuni degli ambiti in cui la nostra decisione è già, per dirla con Heidegger, pre-compresa da un potere che necessita di controllare e disciplinare anche questi aspetti della vita226. Oggi più che mai diete, palestre, pubblicità non si limitano più solo ad una ricerca del profitto, mirando invece ad inserirsi più a fondo nel vero e proprio “organismo” umano, plasmandolo secondo standard da interiorizzare e rispetto ai quali strutturare quasi tutta la propria esistenza. Esempi di lucido perseguimento di una biopolitica li abbiamo, però, anche prima della formulazione foucaultiana, andando a ritroso nel tempo: era, stando a Platone, mito fondativo per ogni ateniese quello della Madre Terra, della Buona Nascita, della correlazione tra Legge e Natura, tra origine della Vita e superiorità “genetica” di Atene, secondo una narrazione in cui, secondo noi, non è scorretto presagire la dottrina eugenetica227. È il nazismo a perseguire, nella sua forma più terribile e spregiudicata, una politica che è soprattutto biopolitica, a partire dal criterio di funzionamento dei campi di sterminio, criterio di morte che, quindi, viene strutturato per forza in relazione alla Vita stessa228. Ma è anche ad una propaganda a sfondo biologico-genetico, in cui le parole d’ordine si riferiscono alla purificazione medica, quasi clinica, della “razza” intesa come organismo malato, o al mito ancestrale del Sangue come essenza metafisica nascosta dell’Ebreo 229, che occorre fare riferimento per comprendere l’orizzonte biopolitico nazionalsocialista in tutta la sua tremenda portata. Ma qual è la problematicità che a nostro avviso si pone nell’accostare il termine Biopolitica ad Heidegger? Alla distinzione tra ζωή e βίος, che sta al fondo della biopolitica stessa, occorrerebbe dedicare un intero corso universitario. Ci limitiamo qui ad accennare brevemente i nodi storico-concettuali: di matrice aristotelica, la differenza sta in un ζωή che è pre-condizione di ogni esistenza, come vita indipendente, appartenente a chiunque vive, ma svincolata da contesti, legami, rapporti, condizioni sociali. Travalicando nel βίος assume le sue caratteristiche vincolanti, inserendosi in contesti a sé preesistenti. Lo scarto è, quasi paradossalmente, tra vita “Biologica” come ζωή e vita “Politica” come βίος, dall’astrazione del singolo organismo alla sua correlazione nell’orizzonte politico(6 pol arist). Tornare invece ancora una volta sul termine Politica, dal greco πόλις, non ci interessa qui farlo, dato che c’è chi ha ampiamente già trattato la questione delle origini greche della politica(petr. 225 226 227 228 Michel Foucault, La volontà di sapere, Feltrinelli, Milano 1978. Emmanuel Betta, Biopolitica e Biopotere. Introduzione, in Contemporanea 12 n. 3, Il Mulino 2009, pp. 507-509. Platone, Menesseno, in Ippia Maggiore, Ippia Minore, Ione, Menesseno, Einaudi, Torino 2012, pp. 415-497. D. Di Cesare, Stranieri Residenti, pp. 213-216 e D. Di Cesare, Heidegger e gli Ebrei. I Quaderni Neri, pp. 214223. 229 D. Di Cesare, Heidegger e gli Ebrei. I Quaderni Neri, pp. 130-136. 50 Modelli o Democrazia). Più interessante è il rapporto di Heidegger col termine Politica, con la parola greca πόλις e con ciò che l’originarietà di quest’ultima implica. Se il passaggio ζωή e βίος, ma più in generale tutto il discorso biologico, è affrontato in un primo tempo ricorrendo all’opera di Von Uexkwüll230, in particolare per ciò che riguarda l’analitica esistenziale dell’Esserci nel mondo-ambiente231 ed il problema dell’animalità232, in seguito la Biologia assumerà, come vedremo tra poco, un carattere sempre più legato al dominio tecnico planetario. È invece nel “dialogo” con Hölderlin e Sofocle che Heidegger ci dona la sua interpretazione pre-politica della politica233: in netta contrapposizione a Carl Schmitt234, troviamo qui il rifiuto di una categoria del Politico, onnipresente nella Germania nazista, frutto dell’appiattimento di ogni domanda essenziale su problemi sociali, di gestione delle risorse e del potere. Per Heidegger l’essenza nascosta del Politica si nasconde nel termine greco πόλις, intesa in maniera inconsueta, non come Città o Città-Stato, ma come Polo, sede del soggiornare storico umano. La πόλις è la sede entro cui avviene la storicità dell’uomo, in cui già è ricompresa la Politica stessa. Entro la sede è disposto ciò-che-richiede-disposizione, nel modo in cui esso lo richiede, non mediante la mera manipolazione di enti. La πόλις è più originaria della Politica, poiché la fonda aprendone la possibilità235. Sarebbe alquanto scorretto tentare di “incollare” forzatamente ad Heidegger la riflessione biopolitica che, come abbiamo già detto, sorge e si sviluppa in forma esplicita solo successivamente alla morte del filosofo. Non solo, risulterebbe anche piuttosto insignificante, visto che il ricondurre necessariamente il pensiero heideggeriano sulla Biologia alla riflessione biopolitica non apre, a nostro modesto parere, alcuna prospettiva da approfondire. In gioco c’è molto di più della semplice “etichettatura”: Heidegger, tramite la descrizione di Jünger, presagisce un futuro inquietante, i cui indizi sono già in azione, completamente dispiegati nel suo tempo. Egli, come ci sforzeremo di mostrare, intuisce la deriva biopolitica della tecnica, la capacità scientifica di programmare, calcolare, sfruttare la totalità del reale, non più sul terreno delle sole risorse naturali o del lavoro umano. La pro-vocazione (Herausfordern) si estende al punto da rendere perfino ζωή e βίος penetrabili da ciò che è meccanico, finalizzato all’assicurazione di una stabile appropriazione, in direzione di un dominio incondizionato che garantisca il pieno assoggettamento dell’ente. È nel confronto con Jünger che viene fuori con chiarezza l’origine della visione di questo presagio. Per Jünger, il mondo organico è detto “l’Elementare”: elementare è tutto ciò che attiene alla dimensione sensibile. Lo spazio elementare è lo spazio entro cui avviene la battaglia, intesa come ebbrezza, distruzione, pericolo, prodigio. L’irruzione e lo scatenamento della dimensione elementare stessa, però, avviene entro la dimensione elementare stessa. Secondo Heidegger col nome Elementare dobbiamo pensare a ciò che la metafisica ha tradizionalmente inteso come il ‘Sensibile’, che vige solo sulla base di una contrapposizione, anch’essa tutta metafisica, tra Uomo e Mondo. La determinazione jüngeriana dell’Elementare è ancora squisitamente platonica, poiché pensa, sia il Mondo che l’Uomo ancora a partire dall’είδος236. Pur ribaltandone le premesse, l’Elementare rimane saldamente ancorato al platonismo: Jünger, nel suo tentativo di esprimere la totalità dell’ente, esprime solo la sua preminenza sull’essere237. 230 M. Bassanese, Heidegger e Von Uexkwüll: filosofia e biologia a confronto, Associazione trentina di scienze umane, Trento 2004. 231 M. Heidegger, Essere e Tempo, pp. 85-100. 232 M. Heidegger, Concetti Fonadmentali della Metafisica, Il Melangolo, Genova 1999, pp. 230-259. 233 D. Di Cesare, Heidegger e gli Ebrei. I Quaderni Neri, pp. 165-166. 234 C. Schmitt, Le Categorie del Politico, Il Mulino, Bologna 1972. 235 M. Heidegger, L’Inno Der Ister di Hölderlin, pp. 73-84. 236 M. Heidegger, Ernst Jünger, pag. 217. 237 Ivi, pag. 219. 51 L’Elementarismo di Jünger è quindi «senza-orizzonte e senza-verità», ma nonostante ciò inconfutabile. Heidegger sembra quasi dire che l’Elementarismo è un Biologismo, poiché non si riconosce come fondato, ritirandosi in un «fondamento che non riconosce principi fondanti238». Questo fondarsi solo su Sé stesso serve a porsi come realtà di fatto, come fonte dell’oggettività incondizionata: la soggettività moderna, secondo Heidegger, trova la sua essenza non in qualcosa di soggettivo, ma nella sua capacità di porsi come totalmente oggettiva, avente quindi principio ed origine solo a partire da Sé stessa ed in Sé stessa. Non sapersi e non volersi sapere come interpretato da decisioni già determinate, questo il carattere proprio dell’Elementare come dimensione sensibile Soggettività Moderna239. «L’elementare non è mai qualcosa in sé, bensì ciò che è già da sempre interpretato240». L’Elementare quindi come auto-fondazione, soggettività-oggettiva, sensibilità contrapposta platonicamente a ciò che è intelligibile, incondizionata realtà di fatto è un Biologismo. Nel suo dimenticare di essere qualcosa di già sempre interpretato sta la sua forza ma, anche, la sua incapacità di prendere decisioni essenziali. Il compimento definitivo di questo processo di auto-fondazione è raggiunto in quella che è definita, da Jünger, la Costruzione Organica241. «La costruzione organica è un rilascio definitivo della tecnica come incondizionata e unica ‘verità’ dell’ente». Non porre quindi più alcuna possibile fondamento alternativo, alcun senso diverso da quello imposto dalla tecnica, non pensare più una verità dell’essere che non sia Machenschaft macchinazione: questo il pericolo supremo, l’impensabilità planetaria della Verità dell’Essere, costituita dalla meccanizzazione totale dell’ente e, quindi, di qualsiasi svelamento che non sia Macchinazione242. La Costruzione Organica è anzitutto un nesso centaurico con i mezzi tecnici in cui l’uomo che si fa centauro diviene indistinguibile dalla macchina che, a sua volta, diviene indistinguibile dall’uomo. Heidegger vede in ciò il superamento del contrasto tra meccanico ed organico, preconizzato proprio da Jünger che, nell’esperienza del fronte, aveva avuto modo di provare sulla sua pelle questo nuovo nesso: il proiettile che dilania la carne, la mitragliatrice che causa smottamenti nel terreno, l’utilizzo di strumenti sempre più sofisticati e potenti per produrre dolore causano per lo scrittore una costante inversione dei ruoli tra Uomo e Macchina. Il Soldato, forgiato dal fuoco delle trincee, esce dalla guerra non più totalmente umano, avendo ormai incorporato in sé anche la Macchina. L’Operaio è, in questo senso, Uomo-Macchina grazie alle nuove, inedite possibilità mortifere aperte dalla tecnica. La connessione, che Heidegger appunta in poche righe ma che legge con straordinaria lucidità, è tra la nuova umanità ed i nuovi mezzi, in un incessante rincorrersi che è figlio della Trincea243. La commistione tra ciò che è umano e ciò che è meccanico fa da sfondo e da direzione alla riflessione BioPolitica di Heidegger: arrivati a questo punto comprendiamo meglio perché, retrospettivamente, possa risultare pregnante l’accostamento del termine al nostro filosofo. La riflessione sulla Biologia e sulla Costruzione Organica sviluppata in queste poche pagine si muove proprio nei termini di una lettura del Biologismo come orizzonte politico. Ricordiamo però che con il termine Politica, in Heidegger, ci riferiamo sempre a quel modo, secondario e derivato, che accade, tra gli altri, come mero “spostamento” e gestione di enti all’interno della possibilità aperta dalla πόλις. Biologismo e Costruzione Organica rispondono proprio ad una manipolazione degli enti, dettata dalla Machenschaft, improntata a penetrare anche laddove precedentemente, sembrava impossibile. Questo grande progetto Biopolitico descritto da Jünger assume, agli occhi di Heidegger, la portata della Macchinazione in chiave biologica di tutto il reale. Progetto biologico perché attiene 238 239 240 241 242 243 Ivi, pp. 219-221. Ivi, pp. 221-223. Ivi, pag. 223. E. Jünger, Sul Dolore, in Foglie e Pietre. M. Heidegger, Ernst Jünger, pag. 353. Ivi, pag. 355. 52 all’Organico, progetto Politico perché manipola l’ente, ciò che si fa avanti è il supremo velamento di ogni altra possibilità d’essere che non sia Machenschaft. Nulla può sottrarvisi, nemmeno ciò che, un tempo, si riteneva sicuro ed inviolabile. Biologismo, Costuzione Organica ed Elementarismo stanno in una stretta e pericolosa relazione, arrivando, in un certo senso, a sovrapporsi. Per Heidegger l’esito è il medesimo: «l’elementarismo è soltanto una spiegazione positivistica di tutto ciò che proviene dalla palude originaria e questa è l’attuazione dell’estremo oblio dell’essere244». Sul palcoscenico di un mondo completamente dilaniato dalle macchine la soluzione non è, però, né l’accettazione entusiasta, né il rifiuto reazionario: il compito del pensatore è un altro, più profondo, più essenziale, che rifiuta le false alternative già sempre metafisiche. «Una cosa è utilizzare semplicemente la terra; un’altra è, invece, ricevere la benedizione della terra e stabilirsi nella legge di questa accettazione come nella propria casa, per custodire il segreto dell’essere e vegliare sull’inviolabilità del possibile245». Per Heidegger la terra offre, a chi la voglia ascoltare, una via d’uscita dal dibattersi in dicotomie metafisiche ormai giunte al loro compimento. Ma fermiamoci qui, poiché molti altri interrogativi sollevano queste poche righe. Custodire e vegliare, questa la legge segreta che l’Essere comanda. 244 Ivi, pag. 181. 245 M. Heidegger, L’Oltrepassamento della Metafisica, pag. 64. 53 IV. Le Lettere ed il saggio Gestalt I tre passaggi racchiusi nell’appendice del volume ‘Ernst Jünger’ rappresentano, ai nostri occhi, un breve quanto significativo momento dell’interpretazione heideggeriana. La ‘Lettera a Singoli Combattenti’ si compone di due parti, di cui la seconda resta incompiuta, nate con l’intenzione di rispondere anche a chi si trova al fronte. Ci troviamo di fronte a due tentativi di lettera, in un certo senso due bozze. La prima è sicuramente la più “completa”, riporta infatti la dicitura esplicita del destinatario, il luogo da cui viene scritta e perfino la data, comprensiva di giorno e mese, della sua composizione. La seconda è invece la più oscura: pur limitandosi ad un ‘Caro G.’ come destinatario, pur indicando lo stesso luogo, mese ed anno della prima, senza però il giorno, ciò che più la lascia avvolta dal mistero è la sua incompiutezza, dato che la Lettera si interrompe bruscamente sulla valutazione della Seconda Guerra Mondiale. Per ultimo, il saggio ‘Gestalt’ è senza dubbio motivo di grande interesse da parte nostra. Già la datazione riportata, 1954, ci aiuta a collocarlo in un periodo determinante, nel quale Heidegger ha già ricevuto, in occasione del suo sessantesimo compleanno, da Jünger l’arcinoto ‘Über Die Linie’, lo scritto sul nichilismo che sarà terreno di Auseinandersetzung tra i due. Non solo, anche la relativa risposta heideggeriana può solo venire arricchita dal saggio ‘Gestalt’, essendo quest’ultimo datato un anno prima dell’apparizione de ‘La Questione dell’Essere’. Sulle vicende legate a questo scambio non vogliamo qui soffermarci, poiché sono state ampiamente già trattate, in maniera senza dubbio più completa di quanto qui il tempo ci impone di poter fare 246. Ci interessa però inquadrare ‘Gestalt’ come “precursore” di ciò che Heidegger scriverà ne ‘La Questione dell’Essere’: oltre a trovare esplicitamente citato ‘Oltre la Linea’, ad iniziare a farsi strada è qui il tema del nichilismo, che se prima era rimasto costantemente sullo sfondo, qui viene menzionato direttamente e affrontato di petto. Anche in questo caso, però, è opportuno ricordare che, al carattere più “saggistico”, sempre nei limiti della scrittura heideggeriana, della “Lettera a Singoli Combattenti”, va a contrapporsi in ‘Gestalt’ il ritorno di quello stile che abbiamo ampiamente avuto modo di conoscere nelle Anmerkungen: l’appunto, il frammento, l’annotazione, le frasi interrotte, la successione inspiegabile di parole, i riferimenti caotici, rendono tanto affascinante quanto complesso un lavoro di ricostruzione dell’orizzonte di Heidegger. Tenendo sempre a mente quanto detto nei precedenti capitoli e non precludendosi la lettura de ‘La Questione dell’Essere’ il compito diventa, senza alcun dubbio, molto più fattibile. Certo, occorre sempre, contemporaneamente, “lasciar-essere” ben più di qualche parola; ma è, ancora una volta, forse proprio questo il bello di affrontare anche le annotazioni di Martin Heidegger. Non resta che mettersi in cammino, per l’ennesima volta. Questo sarà però il cammino più breve, per via del pochissimo materiale a disposizione, ma non per questo meno intenso. 246 M. Cacciari, Dialogo sul termine. Jünger e Heidegger, in Studi Germanici 59/64, Istituto Italiano di Studi Germanici, Roma 1983-84, pp. 291-302. 54 1. Lettera al caro signor Groothoff Singolare ed intensa la meditazione filosofica in cui il destinatario dello scritto, in cui essa è contenuta, si trova nell’esperienza essenziale che nella lettera è pensata. Heidegger non pensa solo alla guerra; Heidegger pensa la Guerra indirizzando il suo pensiero, ancora una volta 247, a Groothoff nel momento in cui quest’ultimo si trova al fronte. La Guerra è qui pensata come un semplice nome, un’etichetta non più sufficiente a nominare qualcosa di più profondo. Le manifestazioni belliche riposano già su un fondamento a cui forniscono solo dirompente esplicitazione, rendendone evidenti gli effetti, chiarendo ciò che, a lungo, è rimasto velato. Il fronte, la mitragliatrice, il soldato non sono, come in Jünger, la nuova configurazione di tutto il reale, rimanendo invece, soltanto, forme di manifestazione di qualcosa di più profondo, qualcos’altro che diviene più afferrabile nella Guerra, ma che non è la Guerra stessa. Per Heidegger c’è in gioco una differenza ben più originaria del semplice contrasto tra Guerra e Pace, contrasto che è ancora tutto interno al qualcos’altro che è in gioco248. A determinare l’essenza di tutte le manifestazioni, Guerra compresa, è la «pre-potenza dell’ente innanzi all’essere». Questa prepotenza è propria della metafisica, nella sua dimenticanza della differenza ontologica: a partire da Platone, la Metafisica Occidentale ha “entificato” l’essere, dando privilegio a ciò che è, invece che all’essere. Il domandare di tutta la Storia del Pensiero Occidentale è sempre stato, per Heidegger, una lunga domanda sull’ente che nello sforzo di porsi sul piano ontologico, già sempre ricadeva nel piano ontico. Tale dimenticanza dell’Essere non è, però, una colpa, ma è anzi l’essenza storica di tutta la metafisica: non siamo qui di fronte ad un oblio intenzionale, ma al dare per scontato ciò che meriterebbe una meditazione più essenziale, più profonda. L’analitica heideggeriana, specie nel primo periodo della sua “produzione” filosofica, non svolge una riflessione critica o accusatorio, limitandosi invece a constatare l’accadere di tale dimenticanza249. Nel suo “dare per scontato”, nella sua decisione per l’ente, la Metafisica fonda la propria storicità. L’ente stesso è determinato dall’interpretazione metafisica, che assume però tutta la sua dirompenza solo con l’età moderna: l’incondizionata pre-potenza dell’ente è propria della modernità, è interpretazione dell’ente come possibilità del potenziamento della potenza, come potenzialità. La metafisica moderna estorce all’ente, già appunto pre-interpretato nella sua preminenza sull’essere, il suo definitivo compimento, asservendolo al sovrapotenziamento. La strada della modernità, che sancisce la supremazia ultima dell’ente, la sua preminenza esclusiva e quell’assenza di decisione che sospinge l’uomo nella mancanza di storia, apre all’eterno presente della Tecnica, dove non è più possibile alcun domandare originario. La preminenza dell’ente è ormai Macchinazione (Machenschaft)250. Per Heidegger, tuttavia, non si tratta di “criticare” la modernità, di vivere nella nostalgia del passato, in una dimensione reazionaria e passatista. L’abbandono definitivo dell’Essere dipende solo dall’Essere stesso, dal suo accadere. Il pensatore può solo domandarlo originariamente per fondarne la Verità iniziale, per poi limitarsi a cogliere i segni dell’Ereignis, dell’Evento che apre l’accadere dell’Essere, libero ormai dalla gelida presa dell’ente metafisicamente interpretato. La decisione per l’Essere è però già sempre decisione dell’Essere, prima che dell’uomo. I pensatori possono soltanto custodirne la Verità, quella Verità che sarà, poi, “cantata” dai Poeti. Nell’esperienza della Guerra sta il segno del possibile accadere dell’Evento, in particolare nel senso di stranezza che essa suscita: l’inquietudine che la condizione moderna suscita suggerisce ad Heidegger che è la modernità stessa a vacillare, compresa la preminenza dell’ente come 247 248 249 250 In questa Tesi Capitolo II, Paragrafo 2. M. Heidegger, Ernst Jünger, pag. 469. M. Heidegger, Essere e Tempo, pp. 13-27. M. Heidegger, Ernst Jünger, pp. 469-471. 55 Macchinazione. Ed è dove qualcosa vacilla che la possibilità di un altro Inizio, pur rimanendo ancora celato, si annuncia251. Nella Lettera Jünger incarna totalmente la via della modernità: il rappresentare jüngeriano è propriamente l’assenza di meditazione, l’incapacità di domandare tipica dell’epoca tecnica. Egli, già solo con il concetto di Lavoratore come umano rappresentante della Volontà di Potenza, pensa metafisicamente, nei termini della conformità a rappresentazione. Al merito di illuminare la totalità del reale, si accompagna sempre quell’atteggiamento eroico, quasi come una condanna, che pretende di dire sì al reale, senza però mai interrogarne il fondamento. Jünger rimane come irretito nel sì alla Volontà di Potenza, che gli impedisce di prendere una decisione autentica tra la preminenza dell’ente come Macchinazione ed il silenzio dell’Essere. L’eroismo non domanda, quindi non decide e quindi, in fondo, non pensa. Il realismo eroico dice solo sì al reale che descrive, rimanendo escluso da quell’unica decisione che davvero conta252. Da qui in poi, per tutto il resto della Lettera, Heidegger rivolge la sua attenzione non più a Jünger, ma ai Venturi, gli Zukünftigen. Essi sono detti anche ‘die Inständigen im Seyn’, gli insistenti nell’Essere, coloro che ‘vivono transitoriamente’ rinunciando alla stabilità consolatoria così come all’eroismo. Il filosofo qui non mira, però, a fornirci un Tipo, come faceva Jünger; anzi, il tentativo è di discostarsi quanto più possibile dalla delineazione di una qualsiasi Forma a cui aspirare. Sottratti alla pubblicità ed all’attualità, insofferenti a ciò che fornisce risposte immediate, strumentali e quotidiane, i Venturi sono invisibili, poiché essenzialmente lontani da tutto ciò che è proprio della visibilità planetaria. La loro apertura del cuore, così la chiama Heidegger, è un votarsi completamente all’Essere, preservando l’unica decisione e tenendosi pronti al fronteggiarsi con l’ente che, nell’Entscheidung, avviene. Il loro custodire la Verità dell’Essere non ha, però, alcuna funzione: non è né immagine-modello, né esempio per le generazione successive, sottraendosi così ad ogni effettualità. Nella silenziosa apertura della decisione, essi non hanno nulla a che fare col modo di pensare della metafisica, perché non pensano all’essere come ad un prolungamento dell’ente, non si rifugiano nella rappresentazione rassicurante ontica propria della metafisica. Eppure non rivendicano neppure alcuna straordinarietà, alcun sapere particolare: la loro esposizione alla transitorietà dell’esistenza è sempre un lasciar-essere ed un lasciar-ad-venire-su-di-sé ciò che accade. «Poiché questa venuta è l’Essere253». I Venturi sono, insomma, nel modo della Gelassenheit come custodia della Verità dell’Essere, nel loro tenersi-pronti all’avvenire dell’Evento254. In queste poche righe troviamo un’insospettabile densità di parole decisive, quelle parole originarie che aprono questioni epocali già da Essere e Tempo e su cui Heidegger continuerà ad interrogarsi fino alla fine. Leggiamo nello stesso luogo dei Venturi, dell’accadere, della differenza ontologica, dell’Evento, del silenzio, della Gelassenheit, della Metafisica, come se, da quella che doveva essere una riflessione su Jünger, fossimo giunti invece ad un cammino che copre l’intero itinerario di pensiero heideggeriano. Per chi ha già confidenza con l’opera completa del filosofo, queste pagine sono semplicemente folgoranti, ed inaspettatamente chiariscono, forse senza nemmeno volerlo, tantissimi aspetti che torneranno insistentemente altrove. La Lettera si conclude, non a caso, con Hölderlin, il poeta che ci è lontano, nella più completa lontananza: troppo impegnati ad assalirlo con la necessità di risposte giornaliere, rassicuranti, acquietanti, non riusciamo a scorgerne la più prossima vicinanza. La stessa lontananza-vicinanza è quella dell’Essere che, proprio nella strapotenza dell’ente che lo spinge verso un oblio integrale, è tanto più prossimo per chi, nel silenzio della decisione essenziale, sa ascoltarlo255. 251 252 253 254 255 Ivi, pag. 471. Ivi, pp. 471-473. Ivi, pag. 475. Ivi, pp. 473-479. Ivi, pag. 479. 56 2. Lettera al Caro G. Piuttosto simile per contenuti, vista anche la stessa datazione e la coincidenza dell’iniziale del destinatario con la lettera precedente, possiamo ipotizzare una certa continuità, quasi come fossimo in presenza di due versioni della stessa, o comunque di due stesure strettamente collegate. Il tono della lode al coraggio del ‘Caro G.’, quasi sicuramente Groothoff anche in questo caso, sembra del tutto non separabile dal finale del testo precedente. Heidegger risponde alla lettera di G. nella quale «parla il coraggio per la meditazione»: non il fervore patriottico, l’ardore militaresco, la celebrazione bellica ma una dignità silenziosa, che si sottrae alla dimensione pubblica dell’onorificenza, al clamore suscitato dall’onore e dal gesto eroico. Anche qui, è l’inappariscente, il celato, il nascosto a cogliere l’essenza di ogni cosa. Il coraggio di G. è il coraggio della meditazione, che non è un qualsiasi riflettere o opinare, essendo invece ciò che inizia soltanto domandando l’Essere: meditare va inteso come un insistere nella domanda sulla Verità dell’Essere, diventando appunto quegli ‘Inständigen im Seyn’ a cui abbiamo già accennato in precedenza. La meditazione si discosta da ogni filosofia, non ponendosi mai sul piano della discussione di dottrine, mettendosi invece sempre in cammino verso la Verità dell’Essere256. Al caro G, che a questo punto comprendiamo senza ombra di dubbio essere Groothoff, quel soldato che scrive che in guerra si è avvicinato a Jünger «come mai era accaduto prima» - le parole sono le stesse della lettera che troviamo citata nei Colloqui -, Heidegger ribadisce, ancora una volta, la dipendenza della presa di posizione jüngeriana dalla metafisica di Nietzsche. Attraverso esperienze essenziali, su tutte quella della Guerra, viene reso visibile l’essere dell’ente come Volontà di Potenza, grazie ad un pensiero che, descrivendo la realtà effettiva, è già sempre questa stessa realtà. Il modo di essere dell’ente è il medesimo modo di essere del pensiero di Jünger; dove il reale ha carattere di Lavoro anche il pensiero è Lavoro. Ad essere pensata è la forma ultima dell’umanità, completamente indirizzata all’ammaestramento dell’ente che è proprio in vista di ciò esperito come Volontà di Potenza257. Perfettamente inscritto nella metafisica è, quindi, sia il pensiero che, soprattutto, l’atteggiamento di Jünger nei confronti del reale: il ‘ realismo eroico’, come ogni metafisica, attua una spiegazione dell’ente nel suo insieme, senza interrogare però l’Essere stesso, non potendo sapere la domanda sulla sua Verità. Ciò che ogni metafisica chiede è una spiegazione dell’essere dell’ente, muovendo però dall’ente, ritornando perciò sempre su quest’ultimo. L’ente è assunto quindi come misura per la determinazione dell’essere dell’ente, è il punto di partenza che rende impossibile un domandare autentico. Ciò che bisogna sapere è, invece, che questa preminenza dell’ente è frutto di una decisione già presa, una decisione appunto per l’ente invece che per l’Essere. Da chi è presa tale decisione? Dai filosofi della tradizione metafisica? Si tratta semplicemente di un loro errore? Heidegger respinge con forza questa lettura: la preminenza dell’ente è decisa solo ed esclusivamente dall’Essere, che rilascia talvolta l’ente e stabilisce il suo rapporto con esso. È così che l’Essere fonda la sua Storia, nella decisione essenziale sulla differenza tra ente ed Essere risiede la possibilità di ogni metafisica. Detta in termini ancora più semplici: è l’Essere a decidere che la sua Storia, almeno fino ad oggi, è Storia della Metafisica, quindi storia del predominio dell’ente, ed è sempre l’Essere a decidere di questo predominio, della dimenticanza della differenza con l’ente, dei rapporti con quest’ultimo258. L’Essere si da storicamente nella decisione, presa di volta in volta, sulla differenza ontologica. Comprendere la storicità dell’Essere vuol dire, per Heidegger, comprendere anche la Metafisica come un’era conchiusa in questa Storia, preceduta però da un primo Inizio, quello della filosofia preplatonica, che indica la possibilità del decidere dell’Essere non per la preminenza dell’ente, ma 256 Ivi, pag. 481. 257 Ivi, pp. 483-485. 258 Ivi, pp. 485-487. 57 di darsi invece nella sua Verità come svelatezza. Se a partire da ciò pensiamo alla metafisica come un “capitolo” della Storia dell’Essere, che ha avuto un precedente inizio e con ciò un’altra possibile decisione sulla differenza ontologica, possiamo anche allora concepire un’altra epoca successiva, o meglio un Altro Inizio. Insomma, la storicità dell’Essere è anche storicità della Metafisica che, in virtù di questa stessa storicità, può compiersi e finire, passare una volta per tutte. Un’altra epoca è possibile e, anzi, si sta già affacciando all’orizzonte, basta ascoltarne gli attualmente ancora incomprensibili segni259. Presagire la Fine della Metafisica pensandone la storicità e, con essa, comprendere la possibilità di un’altra decisione dell’Essere, una decisione che apre l’Altro Inizio. L’accenno è ad «un attimo della Storia dell’Essere in cui la metafisica si compie definitivamente e non ha ancora dato inizio a un’altra compaginazione dell’Essere e del suo rapporto con l’ente 260». Heidegger parla di un attimo di passaggio, difficile da presagire e da cogliere da parte dei testimoni del tempo; tuttavia è in quest’attimo che si svela l’Essere stesso, nell’Evento della decisione: la decisione dell’Essere è Evento, non quindi il semplice districarsi tra due alternative, ma l’accadere della decisione stessa come accadere dello svelamento o del velamento. Entrambe le strade sono possibili, sia la fondazione della Verità dell’Essere ed il suo svelamento, sia il suo velamento nella preminenza totale dell’ente. Se accade quest’ultima alternativa, il vero diviene completamente indifferente, gettando l’intera umanità nell’assenza di domanda, nell’impossibilità di un domandare originario. Non è possibile, per Heidegger, in nessun modo influire su questa decisione essenziale: il passaggio è ineluttabile e solo chi è già stato costretto dall’Essere alla meditazione può ascoltarne ed accoglierne la portata. La restante umanità dell’epoca attuale non riesce invece nemmeno a presagirne i segni, poiché esso sfugge del tutto alla pubblicità dell’epoca dominante, al suo chiacchiericcio, all’attualità ovunque imponentesi. Il passaggio all’Evento della decisione essenziale dell’Essere rimane inascoltato dai più, pur rimanendo ovunque sullo sfondo, nel compimento di un’epoca e nel possibile sorgere di un Altro Inizio261 489-491). Su queste intensissime ma altrettanto illuminanti meditazioni si chiude bruscamente la lettera, incompiuta. Sembra che Heidegger ci porti con lui, raccontandoci le macerie di un’epoca ed insieme la possibilità della sua Fine, passeggiando per la Foresta Nera. Qui, però, ci abbandona, smettendo di scrivere, chissà per quale motivo. Dai boschi in cui meditare sull’Evento siamo bruscamente riportati al ‘reale effettivo come Volontà di Potenza’. Forse, anche da qui però, ora riusciamo a presagire che qualcosa di decisivo sta per avvenire… 259 Ivi, pp. 487-489. 260 Ivi, pag. 489. 261 Ivi, pp. 489-491. 58 3. »Forma« 1954 Per la lettura del saggio ‘Forma’ occorre tenere a mente il modo di procedere già utilizzato con le Anmerkungen poiché, oltre alla frammentarietà, condivide con queste ultime anche molte riflessioni sul pensiero di Jünger: non ci sbilanciamo troppo se affermiamo che, in alcuni passaggi, il lettore distratto potrebbe arrivare a confondersi, pensando di stare leggendo nuovamente le Annotazioni degli anni ‘30 e ‘40. Quale rilevanza può avere, dunque, un testo che, apparentemente, può risultare sovrapponibile quasi totalmente ad altri frammenti che abbiamo precedentemente passato in rassegna? Se a ciò aggiungiamo che la riproposizione di molte “tesi” su Jünger è qui soltanto restituita in maniera molto più breve, sembra inspiegabile il motivo di tale interesse. Basta anche solo sfogliare queste 15 pagine per rendersi conto, invece, dell’irrompere sulla scena di almeno 3 nuovi “attori” determinanti. Il primo è, ovviamente, il saggio ‘Oltre la Linea’, a cui Heidegger fa esplicito riferimento lungo tutto il testo. Anche la data di stesura di ‘Forma’ ci aiuta a comprendere come l’Auseinandersetzung che era fino ad ora stato unidirezionale si svolga qui diversamente: il filosofo di Meßkirch scrive già conoscendo lo scritto che Jünger gli dona per il suo sessantesimo compleanno, ed affronta quindi le questioni postegli anche alla luce di ciò. Il secondo è senza dubbio il Nichilismo, termine che è stato fino ad ora costantemente sullo sfondo, che assume qui la dignità di essere almeno “tirato in ballo”, seppur non ancora estensivamente interrogato da Heidegger. Se per tutte le Annotazioni ed i Colloqui la parola era rimasta celata qui, in più di occasione, verrà invece esplicitamente assunta dal filosofo. Ultimo e forse più marginale, ma pur sempre rilevante per il nostro discorso, il riferimento ad Heisenberg, padre fondatore della meccanica quantistica, rispetto al quale Heidegger riflette sulla condizione dell’uomo moderno, riconoscendo la pregnanza di alcune formulazioni del fisico. Tale indicazioni non vanno però fraintese: ‘Forma’ può senza dubbio essere letto come un “lavoro” preparatorio a ‘La Questione dell’Essere’ ed essere assunto quindi come una prima risposta a ‘Oltre la Linea’. Non bisogna però rischiare di far “scivolare” troppo quest’interpretazione, dimenticando che questa breve e disomogenea serie di appunti non svolge ancora tutti i temi trattati nel saggio del 1955. L’articolazione del testo è ancora fortemente legata al modo che abbiamo fin qui imparato a conoscere, privilegiando ancora una volta la triade concettuale Forma – Dominio – Lavoro. La triade è ancora del tutto centrale, ed è solo negli spazi aperti tra questi termini che spuntano, di tanto in tanto, quei “nuovi attori” protagonisti del volume ‘Oltre la Linea’. Quello che, a nostro avviso, bisogna cogliere è il primo emergere di questi temi nella riflessione heideggeriana su Jünger. Tale riflessione appare sicuramente “ravvivata” dal precedente contributo di quest’ultimo e dalla convinzione, da parte di Heidegger, di poter sapere con chi interloquire sul Nichilismo Occidentale: questa la nuova “coscienza” che si lascia presagire in queste pagine. Il dispiegamento completo della potenza dell’umanità dell’epoca moderna è il modo di legittimazione della Volontà di Potenza, nel suo darsi come unica ed ultima interpretazione possibile della totalità dell’ente. La sua legittimazione avvenuta è il Dominio, in cui la stessa potenza ed il suo conseguente sovrapotenziamento sono posti come fine e fondamento della totalità del reale. Il Dominio della Potenza avviene, però, solo se in presenza di un’umanità portatrice ed attuatrice di tale Potenza, in grado di adempiere all’ammaestramento del globo terrestre. Questa umanità è Forma, nel senso di ciò che dà senso alla soggettività: Forma è il criterio normativo che a sua volta legittima ciò che attua il Dominio, è l’immagine originaria di riferimento a cui rifarsi. Nell’epoca della Macchinazione non può esistere umanità non conforme alla Forma, non sottomessa al Dominio, non votata all’oggettivata soggettività portatrice di Potenza. Il Lavoro concorre in questo senso all’ammaestramento dell’ente, assumendo un’estensione accerchiante: non esiste più uomo che non sia Lavoratore262. 262 Ivi, pp. 495-497. 59 Fino a qui non si presenta nessuna novità degna di nota nell’orizzonte heideggeriano: ancora una volta viene riproposta la lettura del Dominio come ordinamento tecnico gerarchico, finalizzato all’attuazione della Potenza come fine e fondamento del reale, tramite il Lavoro e mediante l’umanità che, in quanto Forma, legittima ed attua tale ordinamento. È propria però dell’ordinamento tecnico l’appartenenza al Nichilismo. Heidegger cita esplicitamente in questo passaggio ‘Oltre la Linea’, rivelando l’intima vicinanza tra il ‘Der Arbeiter’ e ciò rispetto a cui lo stesso Jünger cerca, negli anni successivi alla stesura del saggio del ‘32, un rifugio ed una via d’uscita263. Il progetto planetario jüngeriano è interamente nichilistico e ricade in ciò a cui lo stesso autore tenterà successivamente di sottrarsi264. Non ci viene ancora spiegato cosa Heidegger intenda con Nichilismo: come lo pensa? Che giudizio ne da? La risposta qui non la troviamo, visto che il saggio vira bruscamente, riprendendo il tema del Lavoro con le stesse coordinate con cui, ormai, abbiamo imparato ad avere confidenza. La determinazione del Lavoratore in Jünger sovrasta il campo sia economico che sociale, non riguarda più la dimensione classista, né la ripartizione e la divisione delle risorse produttive, visto che con Lavoro bisogna intendere qualsiasi trasformazione della vita in energia. L’estensione del concetto diviene universale, un’universalizzazione di cui Heidegger vede i predecessori in Hegel e Marx, coloro che hanno fatto del Lavoro l’essenza dell’uomo. Nel rapporto col reale effettivo che così viene instaurato, sebbene appaia in atto un ‘dibattimento radicale’, l’esito della lotta è in realtà già deciso: a rinsaldare il proprio dominio è la realtà, l’ente come Volontà di Potenza. La Forma del Lavoratore è solo “l’anello” che media il rapporto con questa realtà, una realtà che è già sempre interpretata come Tecnica. Spunta qui l’interpretazione heideggeriana più tarda, in cui l’interpretazione della totalità dell’ente non si dà più solo come Machenschaft, ma anche come Tecnica. Ecco quindi che la Forma del Lavoratore è Forma mediatrice della e con la realtà e, di conseguenza, il rapporto di tale Forma con la Tecnica è rapporto di mediazione. Heidegger cerca di mostrare l’inaccessibilità dell’essenza della Tecnica per un’umanità che è già sempre Forma, che incontra solo nel suo modo mediato la Tecnica, non pensandone così mai l’essenza265. La Forma è un marchio che si imprime sulla realtà come ciò che può ordinarla, dandole un senso, ed in questo senso è anche sempre un’offerta di libertà nel Lavoro, libertà pre-interpretata nel modo moderno e sottomessa al criterio normativo gestaltico. Nel processo di mobilitazione totale finalizzato all’attuazione definitiva della Tecnica, la rispondenza del Lavoratore alla Forma è il suo compito storiografico-storico che, una volta giunto a compimento, diviene consolidamento dell’epoca tecnica, attraverso la prontezza alla continua ripetizione ed esecuzione del processo già completamente dispiegato. In tal senso, l’attuazione qui appena menzionata è necessaria alla legittimazione gestaltica, ne rappresenta il fine e la forza; già nella sola esecuzione del processo della mobilitazione totale troviamo quell’impressione nella e sulla realtà, quell’imporsi come impronta e pietra di paragone che è il vero senso della Forma. L’essenza di quest’ultima sta nel dispiegamento stesso del processo, finalizzato ad imporsi come fine di tutto il reale. Ammaestrare tutto l’ente, rendendo il perpetuarsi del processo tecnico, della produzione, della catena di montaggio, del lavoro, dello sfruttamento delle risorse l’unico scopo dell’umanità intera 266. Trasformare la vita in energia, dunque lavorare per vivere? No, vivere per lavorare: forse Heidegger ci aveva “visto lungo” sul destino della Società Occidentale, ma non solo… Ci si chiarisce così anche l’importanza che ha, nell’interpretazione heideggeriana, il sottotitolo del ‘Der Arbeiter’, vale a dire ‘Herrschaft und Gestalt’: interrogarsi su questo equivale ad interrogarsi sull’opera intera e sulla destinazione dell’umanità occidentale. È il Dominio a partire dalla Forma? O la Forma a partire dal Dominio? Chi fa scaturire l’altro? O la relazione è forse più complessa, sia di una causalità univoca, sia di una reciprocità? 263 264 265 266 Ivi, pag. 499. E. Jünger, Il Trattato del Ribelle, Adelphi, Milano 1990. M. Heidegger, Ernst Jünger, pp. 499-501. Ivi, pp. 501-507. 60 La distinzione tra i due rimane in questo senso integra, poiché è insita la possibilità del Dominio nella finalità della Forma, la quale è, però, anche sempre posizione di sé stessa come questa stessa finalità. Il rincorrersi di una circolarità tra i due termini da luogo, per Heidegger, a quella oggettivata soggettività propria del Lavoratore, come Soggetto supremo che mira già sempre ad una realizzazione incondizionata e, soprattutto, oggettiva della propria Forma. ‘Herrschaft und Gestalt’ è la formula del compimento metafisico supremo, della quintessenza dello schema soggetto-oggetto che regge l’intera Metafisica, della soggettità oggettivante sé stessa nell’ammaestramento dell’ente267. È inoltre proprio rispetto alla nozione di Soggetto che va letta in Jünger una continuità con il fisico tedesco Werner Heisenberg: Heidegger si riferisce al principio che troviamo in ‘L’immagine della natura nella fisica contemporanea’268, secondo cui, la condizione dell’uomo nell’epoca della Tecnica, è quella di stare di fronte soltanto a sé stesso. Nel modo di essere dell’uomo moderno va scorta l’affinità tra i due; da un lato l’uomo di fronte a sé, dall’altro l’uomo come lavoratore, in entrambi i casi la libertà esperita metafisicamente di un Soggetto che conferisce senso alla realtà solo nella propria auto-poiesi. L’uomo come singolo che si incontra è sempre e comunque mosso, in questo stesso incontro, dalla volontà del rafforzamento della propria conferma e del proprio Dominio. Già sempre interpretata nella tecnica, la libertà di questo singolo è iniziativa privata, arbitrio, decisione non essenziale e apparente, scelta indifferente e non libertà dal male, da quel demoniaco, come Heidegger lo chiama nell’ultima pagina del saggio, che è già sempre la Tecnica. Questo ‘maligno’ assumerà rilevanza centrale ne ‘La Questione della Tecnica’, diventando quel male in cui si annida il pericolo, quello stesso pericolo che salva e dispiega l’Evento ma che può, allo stesso modo, velare definitivamente la decisione per l’Essere che entro tale Evento accade269. Ciò che rimane inalterato e che ci viene restituito da questo saggio è, sicuramente, l’importanza di Jünger ed il progetto di lettera che troviamo lo testimonia: Heidegger parla di uno di quei colloqui in cui le ore non possono essere concordate, svaniscono i nomi dei parlanti, non contano più le persone o le loro opinioni, poiché a parlare è ciò che è essenziale e, pertanto, impronunciato. Incontri rari, preziosi, istanti inosservati, recuperabili solo con una riunione che «tenti con ciò di percepire se da essa non giunga ancora qualcosa che concede270». 267 Ivi, pp. 509-511. 268 W. Heisenberg, L’immagine della natura nella fisica contemporanea, in Le arti nell’età della tecnica, Mimesis, Milano 2001, pag. 37. 269 M. Heidegger, Ernst Jünger, pp. 517-523. 270 Ivi, pag. 521. 61 V. Conclusioni per chi non smette di camminare. Arrivare alla fine di un percorso è ciò che, più di ogni altra cosa, ci spinge a porre alcune domande. La soddisfazione di aver raggiunto il punto che ci eravamo prefissati non deve accecarci, rischiamo sennò di non vedere le immense distese che, una volta giunti in vetta, ancora ci si aprono all’orizzonte. Il panorama mozzafiato è di conforto e di ristoro, oltre che per gli occhi, per l’anima di chi vi giunge. Nel contemplare le valli di fronte a noi, nel ripercorrere velocemente i sentieri su cui il nostro passo si è già mosso, nell’ammirare la boscaglia che copre ciò che ancora è inesplorato, sembra quasi di poter ascoltare l’appello di chi non ha voce. No, non è solo una metafora; come qui e là abbiamo spesso fugacemente mostrato, il tentativo è stato quello di affrontare non solo questa tesi, non solo la lettura del volume ‘Ernst Jünger’, ma tutta l’opera heideggeriana come se si trattasse di un Cammino. Penetrare a fondo in strade impervie, affrontare vie non battute, seguire le tracce poco evidenti e, soprattutto, non arrivare mai, non convincersi mai di essere arrivati, questo è ciò che rende, a nostro avviso, la possibilità di confrontarsi con Martin Heidegger un’esperienza unica. Più che per tirare le somme, per riassumere, per chiarire, vogliamo scrivere queste conclusioni indirizzandole esplicitamente a chi non smette di camminare, chi non ha mai smesso, chi non vuole smettere, chi non può smettere di farlo. Continuare a camminare vuol dire non irrigidirsi nel proprio stretto angolino di mondo pur ricordando il calore di Casa, vuol dire rinunciare alla curiosità predatoria donandosi invece alla meditazione ad ogni costo, vuol dire rifiutare la superficialità della chiacchiera accogliendo al suo posto il suono profondo dei propri passi. Se arrivati alla fine del Cammino ci convinciamo di aver completamente “afferrato” tutto, a quel punto abbiamo smesso di camminare; se invece sappiamo ancora lasciarci togliere il fiato da quel che si apre a noi, allora siamo già pronti per continuare. In tutti i sentieri, però, troviamo anche le false piste, quelle che conducono allo strapiombo, al burrone, quelle che portano fuori, lontano dal bosco, nell’omologazione al proprio tempo, quelle che vengono percorse senza ascoltare l’Altro e portando alla morte di entrambi, dell’inascoltante e dell’inascoltato. Tacere su queste è una silenziosa complicità, minimizzarne il pericolo è proprio dell’incoscienza di chi crede di essere arrivato. Noi vogliamo invece, brevemente ma doverosamente, farci carico anche della tenebra che le avvolge, per avvisare chi dovesse imbattervisi. Insomma, camminare e pensare, ormai è chiaro, questa l’intima vicinanza che scorgiamo nella Filosofia. Non la vicinanza spaziale o concettuale, bensì l’originaria coappartenenza che rende le parole quasi indistinguibili nel momento del loro dispiegamento. Chiediamo quindi al lettore di percorrere con noi questi ultimi passi, di pensare con noi queste ultime questioni. Cerchiamo qui rapidamente di affrontare due nodi centrali: il primo ci serve più che altro a ripercorrere le convergenti divergenze teoretiche che abbiamo fin qui esposto, ritrovando nel rapporto con la Tecnica il punto centrale da cui si diramano due posizioni quasi opposte; il secondo riguardante l’adesione, vera o presunta, al nazionalsocialismo da parte di Heidegger e di Jünger, la loro singolare convergenza di opinione sull’esperienza politica e, soprattutto, sull’antisemitismo che entrambi esprimono più o meno velatamente. Infine ci concediamo dello spazio, meno rigoroso e più schiettamente personale, per poter riflettere sulla portata epocale del pensiero heideggeriano sul tempo della Tecnica, su quello che è anche il nostro tempo. Solo da qui, senza peccare di una forzata attualizzazione, possiamo trarre una lezione sull’autentico domandare che oggi appare sempre più debole e minacciato, se non addirittura impossibile. In conclusione, ci piace credere che leggendo, interpretando e pensando tutto ciò che è andato a comporre questa tesi abbiamo battuto un sentiero, aprendone appena la debole via nel bosco. Sperando di fare cosa gradita per chi lo percorrerà dopo di noi, non ci resta che augurare, un’ultima volta, buona lettura! 62 1. Divergenze Teoretiche... Se «domandare è la pietà del pensiero271» allora Ernst Jünger è, agli occhi di Heidegger, uno spietato: egli non domanda l’Essere, incarnando invece la Fraglosigkeit propria dell’epoca moderna. Nel rapporto col movimento che compie il reale effettivo come Volontà di Potenza, il movimento insomma della Tecnica che abbiamo varie volte ripercorso, si consuma la distanza apparentemente incolmabile tra il filosofo di Meßkirch ed il guerriero di Heidelberg. Ma siamo sicuri che i due siano davvero così lontani? O forse siamo in presenza di sentieri più tormentati, che in certi passaggi si allontanano fino a non vedersi più, mentre in altri si avvicinano fin quasi a sovrapporsi? In entrambi troviamo sicuramente un confronto violento, acuto e mai scontato col progresso, nell’accezione più ampia del termine; un confronto che non si adagia mai su soluzioni “comode”, rifiutando i termini, senza dubbio più semplicistici, dominanti nel vocabolario del dibattito culturale in cui si inscrive. È in tal senso che appare doveroso constatare la, seppur mai ricercata, originalità condivisa dall’orizzonte dei due autori. Se ciò è vero dal punto di vista dell’atteggiamento, del modo, dell’approccio interpretativo, la situazione si complica notevolmente non appena ci si addentra nelle posizioni rispettivamente espresse, tanto da farci comprendere che ciò che realmente è comune nell’Auseinandersetzung tra Heidegger e Jünger è, alla fine, anche un rifiuto: rifiutare il passatismo pur restando ammaliati da alcuni elementi reazionari, approdando sempre, però, a prospettive che vanno oltre, ad un pensiero che è altro. La direzione di tale rifiuto è tuttavia, come vedremo tra poco, diametralmente opposta. In Jünger la ripresa della contrapposizione tra Zivilisation e Kultur costituisce, almeno nel Der Arbeiter, il momento decisivo per capire l’oscillazione, problematica e mai del tutto chiarita, tra lotta contro le potenze occidentali ed orientamento del mondo verso l’essenza di quei principi che queste stesse potenze promulgano272. Cavalcare la tigre del progresso, dello sviluppo tecnico, della perdita di valori ancestrali è un processo che richiede sempre la presenza simultanea di un incanto e di un disincanto verso il mondo della razionalizzazione e dell’uniformità produttiva: da un lato occorre non lasciarsi andare al passatismo nostalgico di un ordine valoriale interamente borghese, rispetto al quale la Zivilisation può paradossalmente porsi come superamento. Il compito del nuovo Tipo umano è dunque quello di scorgere ed assecondare l’intima carica sovversiva insita nella Tecnica, accelerandone il dispiegamento, liberandone completamente l’attuazione incondizionata, realizzandone il Dominio. D’altra parte, però, tutto ciò non può e non deve tradursi in un’adesione cieca, che sposa i proclami di uguaglianza, libertà, razionalità, democrazia dietro a cui si cela, in realtà, l’essenza egemonica della Civilisation273. L’ambiguità del passaggio è evidente, ancora di più se ricordiamo comunque la convinzione jüngeriana sul destino del popolo tedesco: a doversi fare carico della strumentalizzazione del progresso e dell’oggettivazione della Tecnica è la Germania, quella Germania che pur nascendo sotto al segno della Kultur è anche sempre, in virtù di ciò, in grado di piegare a sé le forze progressiste. Di qui dunque quest’oscillazione davvero singolare, totalmente originale rispetto al panorama “intellettuale” della Rivoluzione Conservatrice. Se rimane saldamente in gioco l’ambito nazionalistico, militaresco e bellico, è invece sottoposto a critica radicale l’immaginario romantico della purezza, dell’incontaminato paesaggio boschivo preservato dalle storture della civiltà tecnologica, destinato a scomparire per sempre tra i gorghi della mobilitazione totale. La scelta è tra lo scomparire con essa, o il divenirne padrone e supremo rappresentante274. Il mondo per Jünger è divenuto, sta divenendo e diverrà trincea. Infantile e pavido chi prova a fuggirvi, il guerriero sa cogliervi invece l’opportunità ultima della propria piena realizzazione come unica e definitiva configurazione dell’umanità intera. Guardando ad Heidegger, è forse proprio 271 M. Heidegger, La Questione della Tecnica, pag. 27. 272 S. Azzarà, Ernst Jünger: l’Arbeiter, la guerra e l’incanto della razionalizzazione, in Studi Urbinati, LXXX 2010, pp. 95-99. 273 M. Cacciari, Dialogo sul termine. Jünger e Heidegger, pp. 293-295. 274 Ibidem. 63 quanto detto fino ad ora a distanziare maggiormente i due autori: l’accettazione jüngeriana della Tecnica, nella sua convinzione di poterla padroneggiare e di poterla utilizzare come mero strumento, cade perfettamente vittima del movimento essenziale della Tecnica stessa. La circolarità innescata dall’esperienza e dall’interpretazione della realtà come Volontà di Potenza, quella circolarità in cui l’interpretante è già sempre interpretato e in cui chi è convinto di essere padrone è in realtà massimamente servo, annebbia la vista di Jünger, come se egli fosse vittima dell’entusiasmo della propria oggettivazione e realizzazione, in un divincolarsi senza via d’uscita275. Nulla può, secondo Heidegger, redimerlo o salvarlo poiché, in fondo, quella della descrizione jüngeriana del reale non è una condanna, una pena o anche solo un semplice errore di valutazione da cui potersi liberare. In gioco c’è una posizione che ha un ruolo storico, che ha una sua propria dignità all’interno della Storia della Metafisica, soprattutto come attuazione del compimento di quest’ultima, che apre così alla possibilità della decisione essenziale: poter esperire compiutamente il dispiegamento della Tecnica e il consumarsi della Metafisica dischiude il rischio estremo dell’oblio incondizionato dell’Essere, riaccendendo quindi, però, anche l’urgenza dell’Entscheidung. Ecco però che, proprio dove le strade sembrano separarsi, se facciamo più attenzione riusciamo a ritrovare la loro riunione. Meglio di mille parole cantano i poeti, è infatti da poche parole, largamente note (ed abusate), di una poesia di Hölderlin che proviene quella che, per noi, è la chiave decisiva per rivelare corrispondenze nascoste: «Wo aber Gefahr ist, wächst Das Rettende auch276» Queste due righe suggeriscono ad Heidegger qualcosa che ha un’affinità particolare con Jünger, qualcosa che non possiamo dire con certezza abbia una dipendenza diretta da quest’ultimo, ma che a nostro avviso mostra il medesimo atteggiamento: cercare nella Tecnica la possibilità della salvezza, che sia dell’umanità o dell’intera Storia dell’Essere, qui sta il fondamentale punto di contatto. Entrambi rifiutano la fuga, la negazione, la semplice critica, per farsi invece carico di un futuro che è già ampiamente presente con una spinta a cui è inutile tentare di porre un freno. Il modo in cui ciò avviene è certo già subito differente, con da una parte lo sfruttamento ed il dominio della realtà, dall’altra la meditazione profonda sulla sua essenza. Il rapporto con la Tecnica è quindi, alla luce di tutto ciò, paradossalmente la massima convergenza teoretica tra i nostri due “protagonisti”, mentre la direzione che prendono a partire da tale rapporto è ciò che innesca invece la più ampia divergenza. In Ernst Jünger la Tecnica è già l’Alba, che va certo saputa organizzare, ordinare, incanalare, ma va anzitutto oltrepassata e salutata come portatrice di enormi opportunità. In Martin Heidegger la Tecnica è ancora la Notte, anzi la Notte più buia, pertanto bisogna attraversarla, custodendo nell’oscurità la Verità dell’Essere da essa minacciata. In quanto Notte però, oltre che al pericolo estremo che l’oscurità diventi tenebra una volta per tutte, essa prelude anche alla possibilità della luce dell’alba. Nella Fine, quindi, l’annuncio di un Altro Inizio. 275 V. Blok, An Indication of Being, pp. 194-196. 276 M. Heidegger, La Questione della Tecnica, pag. 22. 64 2. ...convergenze politiche. Inevitabile ed urgente il confronto con un altro aspetto, tanto controverso quanto fondamentale, che si impone prepotentemente all’attenzione del lettore, oltre che per i risvolti gravi ed inquietanti di una torbida “vicenda”, anche per l’inedita luce che getta sulle divergenti convergenze fin qui delineate. Heidegger e Jünger, due uomini così diversi, per certi versi opposti: il primo un Professore in tutto e per tutto, amante della pace di Todtnauberg, votato sicuramente al pensiero più che all’azione; il secondo è invece l’eroe di guerra, particolarmente impegnato a liberarsi da quella gabbia in cui la società borghese racchiude lo spirito guerriero, predilige l’azione e l’esperienza diretta della Guerra. Eppure personalità tanto antitetiche condividono almeno tre passaggi politici fondamentali, non solo un posizionamento ideologico ma anche la disillusione nei confronti di quest’ultimo, il progressivo allontanamento che si tramuta in disprezzo e, soprattutto, il nucleo oscuro di tutto ciò, questo invece mai convintamente rinnegato. Il nodo storico-politico con cui entrambi instaurano un rapporto controverso ed ambiguo è senza dubbio il nazionalsocialismo: la grande capacità di Hitler e del movimento politico di cui si fa guida è senza dubbio quella di intercettare ed indirizzare istanze e richieste presenti non solo nella popolazione tedesca, ma anche in una certa “intellighenzia” piuttosto eterogenea e, come abbiamo precedentemente spiegato, proveniente dagli ambiti più disparati277. A fare da “collante” tra chi proviene, ad esempio, dal miltarismo bismarckiano e chi, invece, da certo tardo romanticismo è un tipo di attrattiva che si articola su più tempi, guardando sia al passato che al presente, sempre nell’ottica di stabilizzare e riequilibrare il futuro, trattenendone il possibile declino mediante il consolidamento del potere nazista sull’Europa. Passato, presente e futuro hanno ognuno la propria peculiare caratterizzazione in virtù della quale legare, più che un movimento, un clima culturale molto forte nella Germania dell’epoca: il passato mitico, mistico, immemoriale, romantico, il tempo andato di un popolo e di una civiltà che instaura legami fondati su valori ancestrali, in cui svetta la coppia concettuale formata da Blut, quel sangue che garantisce la purezza della razza germanica, e Boden, la terra da difendere, che riconosce solo i suoi figli e da cui rimuovere ciò che a essa è estraneo278; il presente, fondato sulla perdita di quei valori appena enunciati e su una democrazia parlamentare di cui Weimar è la compiuta espressione, nel suo essere debole, inadeguata, figlia del liberalismo, del socialismo e delle potenze che vorrebbero vedere la Germania soccombere, distruggendone quell’identità custodita nel passato 279; un futuro incerto, in cui inevitabile è solo lo scontro decisivo per la sopravvivenza del popolo tedesco, intento a frenare un avvenire di decadenza e nichilismo, in un compito che è assieme politico e catecontico 280. Una triade potentissima che si inserisce contemporaneamente nel malcontento e nell’incertezza, pescando a piene mani in una tradizione popolare in grado di fondare un immaginario collettivo che mobilita l’intera società. Dotarsi di una struttura concettuale di tale portata unita ad un uso spregiudicato della violenza politica e di strategie eversive volte a destabilizzare l’assetto democratico-repubblicano, è una garanzia di successo per il Partito di Hitler, al quale resta solo da “mettere il cappello” ad una sorgente di consenso apparentemente inarrestabile281. Come noto dalle vicende biografiche di entrambi, né Heidegger né Jünger restano immuni al fascino ambiguo dell’orizzonte messo in moto dalla macchina Nazionalsocialista, pur tra ripensamenti e deviazioni più o meno plateali. In entrambi i casi vediamo la messa in moto di prospettive che toccano intimamente istanze politiche, pensiero e rimpianti dei nostri protagonisti. Se Jünger scorge nell’esperienza nazista la possibilità della celebrazione completa della Guerra, della sua liberazione totale in uno spazio elementare che tramuta il mondo intero in trincea, 277 E. Nolte, La rivoluzione conservatrice nella Germania della Repubblica di Weimar, Rubbettino, Catanzaro 2009. 278 S. Breuer, La Rivoluzione Conservatrice, pp. 66-73. 279 E. Nolte, La Repubblica di Weimar. Un'instabile democrazia fra Lenin e Hitler, Milano 2006. 280 C. Schmitt, Il Nomos della terra, Adelphi, Milano 1991, pag. 43. 281 S. Breuer, La Rivoluzione Conservatrice, pp. 149-168. 65 Heidegger ripone le sue speranze in una forza storica in grado di difendere l’essenza tedesca dalle occulte mire della Tecnica, incarnata in maniera del tutto equivalente, seppur con modi diversi, da Stati Uniti ed URSS. La fedeltà al Führer è inizialmente testimoniata da entrambi: il primo invia la prima edizione di ‘Feuer und Blut’ ad Hitler con tanto di dedica 282, il secondo pronuncia un acceso e famosissimo discorso di rettorato totalmente riconoscibile come dipendente dal movimento concettuale fin qui esposto283. Se repentina è la fascinazione altrettanto radicale è la disillusione, molto più eclatante però nel caso di Jünger, a dire il vero, con la partecipazione al tentativo di attentato capeggiato da Von Stauffenberg284 e con la complessa articolazione di ‘Auf der Marmorklippern’, in cui non è difficile rintracciare nel personaggio del Forestaro un riferimento possibile proprio ad Hitler285. La vicenda di Heidegger è invece molto più complessa, andandosi a sviluppare anche dopo la sua morte, attraverso un’incessante succedersi di testimonianze contenenti giudizi alterni, da chi difende la sostanziale apoliticità del filosofo286 a chi testimonia invece un’adesione precedente e prolungata rispetto al breve periodo del rettorato287. A ciò vanno aggiunte le dichiarazioni pubbliche dello stesso Heidegger che, nella volontà di chiarire la questione, mantengono un tono “esoterico”, rendendo impossibile togliersi più di qualche dubbio288, anzi intricando ulteriormente un nodo già sufficientemente difficile da districare. È però senza dubbio rilevante quanto avviene sul piano teoretico, con una sempre più marcata insistenza sulla coincidenza tra la Tecnica e la sua realizzazione, oggettivata contemporaneamente da Stati Uniti, Unione Sovietica e Germania Nazista289. Si può leggere in questo senso una progressiva disillusione heideggeriana rispetto, soprattutto, alla politica hitleriana che si mostra nella pratica totalmente sovrapponibile a quella delle altre potenze coinvolte nella Seconda Guerra Mondiale. Una ricostruzione storica delle due adesioni non ci interessa però in questa sede, innanzitutto per mancanza di tempo, visto che in maniera molto più completa è stato scritto su ciò. Inoltre, vogliamo evitare di dare adito al modo in cui troppo spesso è stato trattato l’argomento: il processo a posteriori non è, a nostro avviso, mai un’operazione corretta o comunque fruttuosa, indipendentemente dalla volontà con cui tale processo viene attuato. Accusanti e difensori nascondono scopi diversi, entrambi però hanno poco a che fare con lo schietto terreno della filosofia, sul quale dovrebbero invece essere poste domande decisive, complesse, anche scomode se necessario. L’accusa spesso accompagnata dalla richiesta di una perenne ‘damnatio memoriae’ degli autori è una soluzione di comodo, superficiale, incapace di interrogarsi su problemi politici ancora non del tutto affrontati dalla società contemporanea, che punta più alla censura dell’imputato per rimuovere ciò che di scomodo l’opera di quest’ultimo porta con sé290. Opposte nella direzione ma coincidenti nelle modalità, le ragioni dei difensori ad ogni costo si sono, in alcuni casi, rivelate faziose, pericolose, ideologiche: la difesa di Heidegger è in realtà, per certe “parti politiche”, normalizzazione, accettazione e minimizzazione del nazifascismo, in nome di una presunta libertà di espressione291. Il filosofo è allora solo strumentalizzato per legittimare l’esistenza di gruppi neofascisti, in un’operazione che definire ignobile è lusinghiero. Meno “schierata” ma altrettanto inquietante l’interpretazione di quelli che potremmo definire i ‘contabili’, che tentano di minimizzare attraverso la cernita quasi ossessiva di passaggi biografici e letterari 292, come se la 282 Peter Schwarz, Der konservative Anarchist. Politik und Zeitkritik Ernst Jüngers, Rombach, Freiburg 1962, p. 117. 283 M. Heidegger, Scritti Politici (1933-1966), Piemme, Casale Monferrato 1998, pp. 129-142. 284 ZDF, Ernst Jünger – zum 100 Geburtstag, Documentario del 1995. 285 G. Galli, Intervista sul nazismo magico, Lindau, Torino 2010. 286 F. Volpi – A. Gnoli, Heidegger fu un gran genio senza coraggio, La Repubblica 22/05/2001. 287 E. Levinas, Alcune Riflessioni sulla Filosofia dell’hitlerismo, Quodilibet, Macerata 2012. 288 M. Heidegger, Ormai solo un Dio ci può salvare, Guanda, Parma 1987, pp. 111-169. 289 C. Resta, Heidegger e il tecnototalitarismo planetario, in Nichilismo, Tecnica, Mondializzazione. Saggi su Schmitt, Jünger, Heidegger e Derrida, pp. 93-101. 290 E. Faye, Heidegger, l’introduzione del nazismo nella filosofia, L’Asino d’oro, Roma 2012. 291 A. Scianca, Heidegger e gli ebrei. Il mistero dei “Quaderni neri”, Libero 23/12/2014. 292 F.-W. Herrmann - F. Alfieri, Martin Heidegger: La verità sui Quaderni neri, Morcelliana, Brescia 2016. 66 connivenza anche solo ideologica o elettorale con il Terzo Reich si limitasse ad un fatto di numeri e di quantità di passi. Fa specie constatare come anche professori, curatori e traduttori importanti cadano in tale incomprensione. Noi qui rifiutiamo entrambe le ipotesi interpretative, distanziandoci da entrambi gli approcci, privilegiando invece un confronto serio, anche se rapido, con questioni tanto scottanti. Chi scrive non nasconde certo di essere un estimatore di Martin Heidegger e di Ernst Jünger: le loro pagine hanno significato molto, tanto da finire in questa tesi. Non ci sentiremmo però di adempiere pienamente al compito che ci siamo prefissati se non affrontassimo anche quanto c’è di oscuro, controverso, inaccettabile, a tratti disgustoso nella loro vita, nelle loro scelte politiche, nei loro scritti, nelle loro convinzioni. È a tal proposito che vogliamo affrontare brevemente ciò che accomuna ancora una volta i due autori: l’antisemitismo è l’elemento decisivo, indubitabile, che travalica persino l’adesione esclusivamente politica al nazismo per gravità ed estensione. In Jünger la questione è meno nota al grande pubblico, essendo egli sempre passato come un soldato, impegnato più con la guerra che con le vicende di “politica interna”. Dopo la fine del nazismo si aggiunge anche la già citata testimonianza della Arendt293, come una voce autorevole che non lascia spazio a fraintendimenti. Eppure se si scava sotto le opere più note, recuperando del materiale meno noto, ci si trova di fronte ad un odio per gli ebrei che è semplicemente spaventoso nella violenza, sia verbale che concettuale, espressa294. Da Heidegger dopo la guerra non arriva invece mai alcuna smentita o ripensamento, un silenzio assordante lascia tutti negativamente stupefatti, soprattutto chi aspettava anche solo una parola 295. Le poche parole proferite aggravano la situazione, ancora una volta il filosofo appare dominato da un tono “esoterico” dal quale è impossibile anche solo percepire un sincero, autentico ed esplicito pentimento296. A chiarire, molti anni dopo la sua morte, arrivano gli Schwarze Hefte aggravando la situazione: i suoi diari privati mettono nero su bianco l’antisemitismo del filosofo, attraverso passaggi che colpiscono per brutalità e perversione teoretica. L’Ebreo diviene Figura dello Sradicamento, vero e proprio emissario della Tecnica moderna che blocca il sorgere dell’Altro Inizio297. La complessa vicenda editoriale dei Quaderni, pubblicati per volontà dello stesso Heidegger, e la pubblicazione del Quarto Volume 298, quello cioè relativo al periodo successivo alla guerra, gettano una luce se possibile ancora più inquietante sull’intera vicenda. Molte le domande che possono venir sollevate, una sola la constatazione: Heidegger è stato antisemita. L’antisemitismo che possiamo leggere nei due casi appena menzionati è sorprendentemente simile, essendo risultato di quell’orizzonte concettuale di cui il Nazionalsocialismo tenta di farsi coronamento. È infatti il convergere della Rivoluzione Conservatrice, dell’ideologia ‘Blut und Boden’, del prussianesimo verso un nemico comune a rendere l’Ebreo il candidato perfetto: non ha una terra propria, pertanto minaccia quella tedesca; non si fa riconoscere, nasconde la sua essenza nel sangue, quello stesso sangue che vorrebbe contaminare la razza tedesca, mischiandosi ad essa; non si oppone alla democrazia weimariana, anzi se ne fa promotore, ottenendo posizioni prestigiose e potere; non soffre come il popolo tedesco poiché perennemente intento ad accumulare denaro sulle spalle degli affamati germanici; rifiuta la guerra, lo scontro, la lotta, preferendo il sotterfugio e disprezzando quel misticismo bellico in grado di difendere la Nazione. La triade Passato-PresenteFuturo, che abbiamo inizialmente delineato, legittima la logica dell’odio prima e dello sterminio poi. Ribaltando i reali rapporti di forza, tramutando in potente maggioranza chi è invece minoranza, il nazionalsocialismo crea un Nemico e ritrova l’esistenza di questo stesso Nemico già nella propria tradizione, facendo leva su un odio che è ben più remoto ed ancestrale, che trae la sua origine molti 293 H. Arendt, I Postumi del Dominio Nazista: Reportage dalla Germania, Feltrinelli, Milano 2003, pp. 22-43. 294 E. Jünger, Sul nazionalismo e sulla questione ebraica, in Scritti politici e di guerra. 1919-1933, LEG, Gorizia 2005, pp. 188-193. 295 M. Heidegger – K. Jaspers, Lettere 1920-1963, Cortina, Milano 2009, pag. 152. 296 Ivi, pag. 189. 297 D. Di Cesare, Heidegger e gli ebrei, pp. 102-106. 298 Ivi, pp. 225-229. 67 secoli prima del ‘900299. Heidegger e Jünger, pur discostandosi dalle sue manifestazioni più semplicistiche, ricadono perfettamente entro tale schema di pensiero. Appare pertanto molto più urgente una riflessione profonda sulla totalità del loro coinvolgimento, visto che, accanto all’adesione politica al Partito di Adolf Hitler, emerge chiaramente una preminenza dell’antisemitismo: se riguardo l’adesione partitica ed elettorale assistiamo a tentennamenti di vario genere, ripensamenti più o meno esplicitati ed un certo snobismo verso le manifestazioni più bieche di attivismo, il nucleo che rimane stabile, invariato dopo la guerra, è quello dell’antisemitismo. Il monito che dovrebbe risuonare in ognuno, specialmente in chi studia, ama e vive la filosofia, è che quanto descritto fino a qui non può essere relegato all’angolo dimenticato e sottovalutato dell’ignoranza, della follia, della stupidità: relegare i fascismi e le loro componenti intrinseche a fenomeni di folklore per masse poco istruite è il più grande regalo che si possa fare loro. L’antisemitismo è stato ed è, purtroppo, ancora un vero e proprio congegno, oliato, costruito e sostenuto da un’elaborazione concettuale che affonda le sue radici in un passato da cui tenta di trarre la propria legittimità. Convincersi che sia invece una qualche forma irrazionalismo è, bene che vada, incapacità di leggerne la logica implacabile, il progetto oscuro, il fine perseguito. Tale progettualità razionale è dimostrata dal fatto che nessuno ne è immune, nemmeno chi, nella coscienza popolare, detiene il “sapere”. Heidegger e Jünger ne sono l’esempio. Che fare allora con loro? Dannarli per l’eternità, censurandone le opere? Rimuoverli dai programmi scolastici ed universitari? A nostro avviso questa è la soluzione più banale, propria di chi preferisce ingabbiare il “mostro”, renderlo innocuo cancellandone anche solo il ricordo. Questa è la soluzione di chi non vuole fare i conti col passato, con il presente e con il futuro. Affrontare Martin Heidegger e Ernst Jünger invece è la via più coraggiosa. Affrontarli prima di tutto leggendoli, studiandoli, traendo lezioni. Affrontarli senza dimenticarne il lato oscuro, con la disciplina di chi sa non restarne ammaliato. 299 C. Schmitt, La scienza giuridica tedesca in lotta contro lo spirito ebraico, in Carl Schmitt sommo giurista del Führer. Testi antisemiti, Il Melangolo, Genova 2006, pp. 36-40. 68 3. Trarre Lezioni: pensare (d)a Todtnauberg. Todtnauberg è un piccolissimo villaggio appartenente al comune di Todtnau, situato nel BadenWüttemberg, Land all’estremo Sud della Germania. La città più vicina è Freiburg am Breisgau che, pur nella sua estensione alquanto limitata, pare una metropoli se paragonata al villaggio. Dall’Hauptbahnhof di Friburgo bisogna prendere due autobus, per un totale di circa un’oretta di viaggio molto piacevole sia per il tragitto che, se si è fortunati, per la compagnia. Superato il primo breve tratto di autostrada il bus inizia ad immergersi in tratti più boschivi e montuosi, nei quali si è completamente circondati dalla Schwarzwald. Si alternano i primi paesini tedeschi con i fiori alle finestre e le insegne di birrerie e rifugi per viandanti. Una volta scesi a Kirchzarten ci si trova di fronte ad una serie di pittoresche casette davanti la stazione, aspettando l’arrivo del secondo autobus. La strada si fa più in salita, la vegetazione più fitta, man mano che l’autista va avanti ad ogni fermata scendono sempre più persone, si ha l’impressione di star per rimanere soli: alla fermata di Todtnau l’impressione diventa realtà, scendono tutti. Ancora qualche tornante, a sinistra la montagna, a destra sempre più giù un parco per bambini interamente in legno. Un’ultima curva e lo spettacolo che si apre di fronte agli occhi è quello di una vallata, quasi uno squarcio nella montagna, sui cui lati sorgono case sparse e stalle. La fermata a cui scendere è il capolinea, dopo il quale l’autista fa immediatamente dietrofront. Ad attendere l’arrivo quattro pezzi di legno, sapientemente assemblati a formare una pensilina per le attese sotto la pioggia, quest’ultima un presagio costante nella valle. Il cielo che è quasi sempre grigio, intervallato solo ogni tanto da squarci di sole, pare annunciare perennemente tempesta. Una, forse l’unica, strada d’asfalto attraversa il paese: seguendo la linea del monte attraversa il paese, con una salita piuttosto lunga anche se non eccessivamente ripida. Arrivati in cima e superate le moltissime mucche che ci circondano, vere padrone del villaggio, iniziano i sentieri. Tante le opzioni, per ogni livello e di ogni difficoltà, infatti ci sono anche alcune famiglie con bambini a godersi i percorsi più fattibili. A noi però non interessa decidere né in base alla durata né in base alla difficoltà del sentiero, abbiamo già scelto la strada molto prima di arrivare. 6.2 km, 1 ora e 35 di tragitto, 1077 metri il punto più basso e 1200 metri quello più alto. La Martin Heidegger Rundweg ci ha già stregato, immersa nella Foresta da un lato ma perennemente aperta sulla valle dall’altro, come dice il nome è una via circolare dedicata interamente al filosofo. Lungo la camminata bisogna fare attenzione ai cartelli che ripercorrono momenti della vita di Heidegger, le sue abitudini a Todtanuberg, gli incontri qui avvenuti e perfino aspetti del suo pensiero, riportati in forma rapida ma, a nostro avviso, davvero efficace. Non bisogna avere fretta, altrimenti ci si perde sicuramente la parte più importante: pochi metri dopo l’inizio del cammino troviamo il primo grande cartello dedicato ad Heidegger, in cui si parla della quasi leggendaria Hütte. Attenzione però, specialmente chi non parla tedesco, non è affatto indicato chiaramente, con frecce o altri segnali, che pochi passi dopo, sulla destra, una via tra alcuni rovi si apre per giungervi! Non è poi così nascosta, ma andando di fretta è quasi impossibile non superarla senza accorgersene. La pazienza di scendere ancora di qualche passo, continuando sulla destra su un terreno un po' scosceso, ed eccola stagliarsi tra gli alberi. La Hütte è ancora di proprietà della famiglia Heidegger e, se da un lato è purtroppo recintata da un basso filo elettrificato per le mucche, d’altra parte è anche tenuta davvero bene, intatta e preservata come appariva un tempo. Il verde acceso della vernice sulle finestre, la fontana di legno di fronte la porta principale, il comignolo che spunta dalla stana forma del tetto, tutto è curato nei minimi particolari. La capanna pare riposare sul dorso inclinato della montagna, riparata dal vento e affacciata sull’immensità. 69 Ci si può sedere alle sue spalle, tra gli alberi, ascoltando solo il fruscio del vento tra le foglie ed i campanacci delle mucche al pascolo. Il consiglio è quello di portare con voi un libro, l’autore è scontato dirlo, e concedervi un po' di Tempo: non a caso, chi scrive ha optato per Essere e Tempo. Todtanuberg non è solo un paesino, non è solo la chiusura in un pezzetto di mondo per lo più dimenticato o sconosciuto, non è nemmeno il ritiro ascetico, Todtnauberg è una lezione, la stessa lezione che dobbiamo trarre da Heidegger e da tutto ciò che abbiamo detto fino ad ora. Pensare a Todtnauberg è anche pensare da Todtnauberg, dal dolce precipizio, da quella “terrazza” sull’immensità, da quell’apertura che è la Hütte. La Lezione riguarda l’apertura del pensiero verso ciò che essenziale, nel Silenzio dell’ascolto dell’Essere. Tornare a Todtnauberg non è l’invito ad un luogo fisico, al mero spostarsi da qui a lì. La banalità, la chiacchiera, l’interesse esclusivo per il proprio limitato orizzonte, la Tecnica ormai incondizionata ed onnipresente: tutto ciò sembra quasi non arrivare tra le fronde della Schwarzwald. Il Silenzio di quei boschi è il messaggio ultimo dell’invito a trarre Lezione. Occorre dunque mettersi in ascolto di quest’appello silenzioso. Pensare e domandare silenziosamente a partire da ciò che chiede ascolto, questo il destino di chi trae Lezioni. 70