UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI CAGLIARI
FACOLTÀ DI STUDI UMANISTICI
Corso di Laurea in Lettere Moderne
LA STROFA SAFFICA IN “MYRICAE”
RELATORE:
Prof.ssa Maria Antonietta Cortini
Anno accademico 2013/2014
TESI DI LAUREA DI:
Luca Solinas
INDICE
I. VICENDE ITALIANE DELLA “SAFFICA”……………………………..p. 3
II. SPERIMENTAZIONE E REGOLE ‘BARBARE’ ……...………..……..p. 9
0. Alle origini: metrica e lingua nella poesia degli “antichi”
1. Fino al Settecento
2. Carducci
3. Pascoli
III. LA “SAFFICA” DI MYRICAE: MODELLI ED ESECUZIONE….....p. 25
1. Presenze e dislocazioni nella raccolta
2. Strutturazione della saffica miricea:
2.1. Sezioni
2.2. Fuori sezione
2.3. Conclusioni
3. Correlazioni tematiche nelle diverse sezioni
IV. APPENDICE..............................................................................................p. 53
1. La saffica prima di Myricae: varianti autografe
2. Oltre Myricae, altre saffiche
BIBLIOGRAFIA..............................................................................................p. 61
1
2
CAPITOLO I
VICENDE ITALIANE DELLA “SAFFICA”
Il sistema saffico minore o strofa saffica (che prende il nome dalla poetessa
greca nonostante si pensi che ne fosse Alceo il reale inventore) è una strofa
tetrastica formata da tre endecasillabi saffici (pentapodia logaedica con dattilo
ciclico in terza posizione e cesura pentemimere) e un adonio (dipodia dattilica
catalettica in disyllabum). Orazio la elesse a suo metro di riferimento insieme alla
strofe alcaica, proclamandosi il primo dei latini «ad aver tratto ai ritmi italici il
canto eolio»1 e riferendosi ai due poeti di Lesbo come suoi ispiratori nelle Odi (I,
26, 32; II, 13; III, 30; IV, 9) e nelle Epistole (I, 19); in realtà, il primo poeta lirico
latino ad averla adoperata fu Catullo in due occasioni nei Carmina (11, 51), ma
sotto il profilo metrico il suo ascendente sulla poesia italiana non fu sicuramente
paragonabile a quello del venosino.
Per la sua prossimità, per lo meno sillabica, con i versi dell’alta tradizione
lirica italiana (vale a dire il nostro endecasillabo, specie a minore, atto a riprodurre
l’andamento dell’endecasillabo saffico, e il quinario italiano con ictus in 1ª
posizione, atto a riprodurre quello dell’adonio) il sistema saffico minore fu molto
probabilmente lo schema metrico della classicità più adatto ed adattabile alla
nostra poesia, anche per l’uso che se ne fece. Infatti soprattutto dal e nel XVIII
sec., per opera di due poeti interessati agli schemi lirici classici quali Paolo Rolli e
Giovanni Fantoni, rispettivamente all’inizio e alla fine del Settecento, gli schemi
di Orazio furono riprodotti sia per tradurre le sue Odi (in maggior parte) sia per
comporre nuovi testi; in questo caso il sistema saffico fu adoperato tanto in
maniera ‘pura’, con versi simili all’originale e senza rime (nonostante tentativi
limitati), quanto e specialmente in forma adattata alla versificazione italiana, con
soluzioni quali: rime alternate ABAb5 o rime abbracciate ABBa5, endecasillabi
del tipo a maiore e/o quinari con accenti in 2° sede, possibile uso di rimalmezzo
fra gli endecasillabi; fino ad arrivare alle rime sdrucciole o all’uso dei quinari
doppi e quindi a un deciso distacco dal rigorosissimo limite sillabico delle strofe
lesbie e latine. Simili soluzioni furono usate anche per rifacimenti del sistema
1
ORAZIO, Odi, III, 30, 13-14, in Tutte le opere, trad. di Luca Canali, Mondadori, Milano 2007.
3
alcaico ma, a differenza di quello saffico, esso era molto meno adattabile per via
dei suoi versi lontani dalla tradizione ‘alta’ italiana quali il quinario doppio
(addirittura sdrucciolo), il novenario e il decasillabo, visti perlopiù come adatti a
canzonette o arie o altre forme di poesia ‘minore’, ancora sprovvisti in quel
periodo della regolarità di cui avrebbero goduto solo un secolo dopo, nel contesto
del Romanticismo.
Se la storia del sistema saffico nella poesia italiana tocca il suo probabile
apogeo nella produzione di Carducci, il suo inizio, senza rima, si fa risalire
all’imitazione dell’uso oraziano da parte di Leonardo Dati durante il Certame
Coronario del 22 Ottobre 1441 nella terza parte della Scena de l’Amicizia.2 Il Dati
e l’Alberti, in gara poetica, elaborarono un presunto ‘principio quantitativo’ di
imitazione della metrica latina alquanto artificioso nei risultati e poetici e
linguistici; dopo quasi un secolo, per opera della scuola del Tolomei (Versi, et
Regole della nuova poesia italiana, 1539) vi fu una seconda esperienza di
imitazione del principio quantitativo e anche dei metri classici: la saffica è
rappresentata da quattro componimenti scritti da Dionigi Atanagi, Pier Pavolo
Gualtiero, Antonio Renieri da Colle, Alessandro Bovio. L’imitazione quantitativa
rispondeva a un sistema diverso da quello del Dati e dell’Alberti, in quanto si
basava sulla «natura»3 delle vocali secondo la pronuncia Toscana: non si voleva,
dunque, imitare il principio quantitativo della lingua latina, ma trovarlo nel
volgare toscano in maniera tale da nobilitarlo. Ma sulle teorie ‘barbare’ del
Quattro e Cinquecento ritorneremo più avanti.
Dopo questi tentativi destinati a concludersi in se stessi, la saffica si trovò
tra le calorosissime braccia della metrica italiana e della rima per tutta la sua
storia. Probabilmente il suo primo uso, dopo Niccolò Lelio Cosmico (1420 – 1500)
autore di un’ode saffica volgare non rimata, si deve alla volontà sperimentale di
Galeotto del Carretto (ca. 1455 – 1531), che ricorse all’artificioso schema
(a)B(a)B(b)Cc5 nella sua commedia allegorica Tempio d’Amore; da qui l’impiego
della saffica intraprese un graduale percorso crescente (nonostante il totale ed
2
Si considera involontaria la somiglianza col sistema saffico del serventese caudato del XIII-XIV
sec., che non trattava argomenti di natura lirica e i cui versi soffrivano di anisosillabismo.
3
Massimiliano MANCINI, Il classicismo metrico, in Saggi sulla poesia barbara e altri studi di
metrica italiana, Vecchiarelli editore, Roma 2000, pp. 61-110: p. 89.
4
incredibile silenzio in materia da parte di un «‘ritrovatore’ di schemi barbari
oraziani come Gabriello Chiabrera»)4, passando per nomi quali Giovanbattista
Marino, Tommaso Campanella e Gian Vincenzo Gravina, nei quali la forma in
rime baciate e rimalmezzo si faceva ancora sentire; fino ad arrivare in fin di
secolo all’opera di Antonio Giordani, che nelle sue Ode (1687) adoperò il sistema
saffico in maniera simile a quella futura del Fantoni, col sistema a rime alternate o
abbracciate che sarà usato nei secoli successivi tanto per opere originali quanto
per traduzioni.
Del Settecento, come già accennato, si devono obbligatoriamente fare i
nomi del Rolli e del Fantoni, autori anche originali, nonché dell’Abate Corazza
autore di un Inno al Sole in saffiche non rimate, giudicato dallo stesso Fantoni
«più esattamente degli altri cesurato, in modo che sebbene senza rima, vi si sente
l’armonia del Saffico latino»5, e poi di tutti i traduttori delle odi del venosino dei
quali Rodolfo Zucco registra il nome nell’appendice al suo saggio Imitazioni
metriche oraziane nel Settecento6.
Fantoni, a cui già Alfieri aveva dato il titolo di «etrusco Orazio» e che sarà
un modello di riferimento per Carducci, nelle sue saffiche si era attenuto allo
schema oraziano per la cesura e per il ritmo in attacco dei quattro versi che
compongono la strofa, prediligendo quindi l’andamento discendente (ictus di 1ª e
4ª) su quello ascendente (2ª e 4ª) sia nei tre endecasillabi che nel quinario di
chiusura, con risultati ritmici tuttavia significativi nel secondo emistichio degli
endecasillabi, molto più mobile del primo sotto il profilo accentuativo. Come
opera originale e non come traduzione, veniva inoltre stesa forse una fra le
migliori odi saffiche pre-carducciane, quella Alla Musa (1795) con cui Giuseppe
Parini chiudeva la sua raccolta di Odi: a schema ABAb5, ma non poco lontana dal
modello classico per la forma in cui si presentava (moltissimi gli endecasillabi a
maiore, quinari spesso giambici, linguaggio dal registro molto elevato, iperbati e
cesure multiple), e tuttavia esempio di un raffinatissimo gusto neoclassico atto a
4
Massimiliano MANCINI, L’imitazione dei sistemi di Orazio, in Saggi sulla poesia barbara, cit,
pp. 7-60: p. 15 (d’ora in poi MANCINI).
5
Felicita AUDISIO, Carducci e la saffica: modelli ed esecuzione, in «Stilistica e metrica italiana»,
8, 2008, pp. 169-215: p. 173 (d’ora in poi AUDISIO, 2008).
6
In «Nuova rivista di letteratura italiana», II, 1999, pp. 355-393: p. 384. Per l’elenco di tutte le
soluzioni metriche pp. 385-391.
5
valorizzare la «complessa fattura stilistica dell’endecasillabo [sciolto], modellato
splendidamente sulle volute ampie e dinamiche dell’esametro virgiliano»7.
Nei primi decenni dell’Ottocento, ispirati dalle numerosissime traduzioni
oraziane, vanno segnalati sia i primi tentativi col metro saffico dei giovani
Foscolo e Leopardi (il primo anche traduttore dei frammenti di Saffo e di
Anacreonte, il secondo maggiormente interessato alle odi oraziane), sia quelli di
Vincenzo Monti e del Manzoni, i quali adoperarono per argomenti originali una
saffica più ‘italianizzata’ a rime alternate dove si sostituisce il quinario col
settenario (ABAb7): soluzione che fu adottata dai poeti romantici fino ad arrivare
a Carducci, ovviamente nei suoi esperimenti metrici non barbari. Quest’ultimi
invece, come si sa, influenzarono parecchio il giovane D’Annunzio nelle sue due
prime raccolte poetiche (Primo vere e Canto novo). dove figurano alcune odi in
saffiche barbare non rimate, in minoranza però rispetto agli altri metri barbari
carducciani, e ricorrono piuttosto distici elegiaci, alcaiche e asclepiadee.
Il punto più alto della strofa saffica, temporalmente dopo Carducci ma
insieme a lui per valore poetico, specie per la duttilità con cui la interpretò, è stato
segnato dall’opera di Giovanni Pascoli il quale la impiegò, nella forma a rime
alternate codificata della tradizione italiana, in numerosissimi componimenti di
Myricae (addirittura due sezioni della raccolta, Pensieri e Alberi e fiori, sono
dedicate al metro saffico), una volta nei Canti di Castelvecchio e altre dieci in Odi
e Inni. Pascoli, spinto dallo sperimentalismo metrico e ritmico nelle raccolte postmiriciane, pur lasciando inalterate le rime alternate cercò soluzioni nuove nella
misura dei versi, o sostituendo gli endecasillabi coi suoi prediletti novenari
dattilici e il quinario col senario dattilico, oppure adottando differenti scansioni
dei novenari nella stessa strofa, trocaici alternati a dattilici e viceversa, con
quinario di chiusura; fino ad arrivare ad una strofa molto simile a quella originale
lesbia e latina con gli ictus coincidenti con le arsi, vale a dire endecasillabi con
accenti di 1ª - 3ª - 5ª - 8ª - 10ª e quinari di 1ª - 4ª.
Questo excursus sulle fortune della strofe saffica nella poesia italiana si può
opportunamente concludere con il giudizio di Massimiliano Mancini, secondo il
quale
7
MANCINI, p. 20.
6
la ragione del successo dell’ode saffica fra gli imitatori di Orazio sta
nella maggiore libertà della struttura e nella maggiore accettabilità,
rispetto agli altri schemi, nell’ambito del gusto e delle abitudini della
nostra tradizione metrica, tanto fervida di sperimenti nel corso dei secoli
quanto conservatrice nello sviluppo di forme e di generi stabiliti. A
differenza degli altri modelli tentati dagli imitatori cinquecenteschi
(come ad esempio l’ode pindarica) e di altri sistemi oraziani (della
stessa alcaica) i tre endecasillabi conclusi dal quinario, che poteva ben
essere valutato come un mezzo endecasillabo, creavano un sistema
omogeneo, semplice e regolare, dignitosamente inscrivibile nel novero
delle forme strofiche «italiane» accanto a quelle di più antica e più larga
adozione, come la canzone, il sonetto, la ballata, il madrigale, l’ottava,
l’ode […].
8
8
MANCINI, p. 13.
7
8
CAPITOLO II
SPERIMENTAZIONE E REGOLE ‘BARBARE’
0. Alle origini: metrica e lingua nella poesia degli “antichi”
Il metro saffico, pur essendosi innestato benissimo nella nostra metrica per
via delle sue caratteristiche, non poteva tuttavia non ricondursi ai suoi usufruttuari
originali lesbî e latini, in quanto ripresa non realmente necessaria di antiche forme
metriche, modernizzate unicamente a fini di volontà sperimentale e di emulazione
dei poeti della classicità, ma di conseguenza con esiti prosodico-musicali non
davvero replicabili.
La sperimentazione, intanto, ha come evidente presupposto la perdita del
valore fonologico della quantità vocalica della metrica greca e latina, regolata
dalla scansione in sillabe brevi e lunghe, alla quale era subentrato nella “ritmica”
neolatina, e successivamente in quella italiana, il principio dell’alternanza di
sillabe colpite da accento (toniche) e non (atone). Ma a influire sui tentativi
artificiosi di imitazioni della metrica originale, creando poi confusione col sistema
metrico italiano per via di una solo apparente somiglianza, non fu la nozione di
sillabe lunghe o brevi quanto la nozione di ictus; esso era in origine l’accento
metrico che cadeva sulla sillaba forte del piede (quasi sempre quella lunga, in
quanto più ‘ingente’ dal punto di vista della durata), denominata in greco θέσις,
che segnava un battere (scandere, plaudere in latino) col piede, con le mani od
anche col dito in modo tale da marcare il ritmo di un determinato periodo metrico,
nel quale le sillabe su cui non era posto l’ictus, e quindi non erano tempi forti, si
definivano ἄρσις in quanto il piede in queste sedi si alzava in vista del battere
della tesi. Questa nozione greca, in seguito all’’importazione’ della cultura e della
letteratura ellenica da parte di Roma, si applicò alla metrica latina in maniera
molto diversa: probabilmente per la diversità dell’accento della lingua latina
rispetto
a
quella
greca
(il
greco
aveva
un
accento
sicuramente
melodico/cromatico, il latino assai probabilmente espiratorio/intensivo), l’ictus
‘importato’ si applicò non all’alzarsi/abbassarsi del piede quanto a quello della
voce, ribaltando i termini originarii di tempo forte e debole; l’arsis latina divenne
così il tempo forte in quanto vi era un innalzamento della voce, mentre la thesis
9
latina divenne il tempo debole nel quale vi era un tono normale di voce in vista
del successivo innalzamento.
Questo stravolgimento può essere spiegato, oltre che per la fondamentale
differenza prosodica tra le due lingue, da due importanti fattori: nella cultura greca
la poesia per sola lettura non esisteva, in quanto era sempre recitata o cantata con
l’ausilio di strumenti musicali e di suonatori professionisti (per es. da un citarista
nella lirica, se non cantava direttamente l’esecutore, o da un auleta nell’elegia),
perciò la metrica greca era basata in primo luogo sulla sequenza della musica, a
cui si adattava il componimento in versi, e non solamente su quest’ultimo come
invece fu nella cultura latina, dove la poesia era essenzialmente scritta e recitativa,
con pochissimi casi conosciuti di accompagnamento musicale o corale (il più
celebre esempio è il Carmen sæculare di Orazio). In questo modo, venendo meno
la musica, venne meno anche il naturale senso di tenere il tempo e il ritmo tramite
una percussione e, di conseguenza, ci si dovette affidare all’unico organo
disponibile per ‘adattare’ il ritmo dei piedi alla prosodia latina, la voce, che però
era suscettibile di mutamenti naturali dovuti all’evoluzione linguistica, come poi
effettivamente accadde, facendo scomparire il ritmo nativo. Se a ciò si aggiunge il
fatto che la metrica latina ‘endemica’ (vale a dire prima dell’appropriazione dei
metri greci) aveva probabilmente carattere non quantitativo, o perlomeno non
totalmente, si può capire che una metrica non naturalizzata non aveva le basi per
essere perpetuata in caso d’una evoluzione del modello linguistico.
La lingua latina infatti, in concomitanza con la greca, in piena età imperiale
(III- sec. d.C.), iniziò a perdere il significato fonologico della quantità vocalica e
quindi sillabica, in favore del timbro con cui furono pronunciate le vocali: le
vocali lunghe si chiusero nella loro articolazione, le vocali brevi si aprirono e la
quantità con cui esse venivano pronunciate (rimasta in certe aree dell’Impero, ma
non facilmente riconoscibile ad orecchio) non era più avvertita come distintiva e
portatrice di significato. Fu così che l’ictus della metrica quantitativa, essendo
portato dai latini sulla voce, si confuse con l’accento grammaticale in quanto il
tempo forte, l’arsis, venne a coincidere con la sillaba accentata e non più con la
sillaba lunga: negli esametri coniati da Commodiano (il primo esempio a noi noto)
si assiste alla creazione di versi ancora classici ma ‘snaturati’, cioè di natura
10
accentuativa, con sequenze regolari di sillabe toniche ed atone. Versi di questo
tipo sono diffusi soprattutto fra gli strati meno ‘intellettuali’ dell’impero tramite
l’uso innografico del neonato cristianesimo, il quale era il più vicino alla classe
popolare.
Dopo un periodo di coesistenza tra metrica accentuativa e quantitativa e col
definitivo venire meno della seconda all’inizio dell’età medievale, la poesia latina,
continuando ad utilizzare i metri della classicità, dovette cercare altri metodi di
resa del verso sufficientemente stabili in modo da sopperire alla rigida struttura
quantitativa, trovandoli nella struttura strofica, nella rima e nell’isosillabismo:
venne così a nascere il rhythmus, una sequenza di arsi toniche e tesi atone che si
rifaceva ai versi classici, adoperando in maggior parte quelli maggiormente
incalzanti e fortemente cesurati, e più simili agli originari specialmente in clausola
del verso; la medesima combinazione dei tre elementi suddetti, come si può
intuire, andò successivamente anche a definire la metrica italica del basso
medioevo, nelle forme letterarie romanze della canzone, della ballata e del sonetto
(senza contare quelle meno canoniche come il rispetto, il serventese, il madrigale
etc.).
1. Fino al Settecento
Dal Quattro al Cinquecento gli esperimenti prodotti in questo ambito si
possono ricondurre a due fondamentali modelli metrici.9 Con il Certame
Coronario i fiorentini Leonardo Dati e Leon Battista Alberti elaborarono una
‘quantità’ impostata principalmente sulla lingua latina, specie per la lunghezza ‘in
posizione’ e per l’equiparazione quantitativa di parole italiane morfologicamente
uguale a quelle latine: si stabiliva dunque un principio quantitativo ‘artificiale’
nella lingua italiana, la quale – bisogna ricordare – era ancora in fasce, e quindi
suscettibile di una prosodia ancora oscillante e non standardizzata. Nel secolo
successivo il senese Claudio Tolomei e i poeti della sua Accademia della Poesia
9
Si considerino a parte le prove di Francesco Patrizio e Bernardino Baldi: il primo, nel suo
Eridano (1557), imitò l’esametro nella sua forma spondaica a 13 sillabe con accenti di 2 (o 1) – 4
– 6 – 8 – 10 – 12, evidentemente poco anzi per nulla somigliante all’originale; così come la prova
del secondo nel Diluvio universale (1604), che formò un verso di 18 sillabe sommando un
settenario ad un endecasillabo, che sovraeccedeva la misura originaria dell’esametro e si limitava
nell’imitazione solamente alla cesura pentemimere.
11
Nuova, istituita a Roma, vollero piuttosto conferire un valore quantitativo alla
lingua toscana in base ai tre concetti di posizione, natura e vestitura: il primo si
riferiva alle consonanti successive ad una vocale che potevano rendere, come
accadeva nella lingua latina, lunga la sillaba in questione; per il concetto di
“natura”, si consideravano lunghe le vocali aperte ò ed è , brevi le vocali chiuse ó
ed é, e le altre vocali valevano sia per lunghe sia per brevi; quanto alla “vestitura”
della sillaba, essa era lunga con attacco in due consonanti; vi sono però eccezioni
dove sillabe senza vestitura (vale a dire senza consonanti di attacco) con vocale
lunga possono esser ancipiti, e possono essere ancipiti anche sillabe con doppia
vestitura ma con vocale breve.
Si può notare come entrambe queste soluzioni teoriche, elaborate nel culto
della classicità proprio dell’Umanesimo e del Rinascimento, non tenessero
eccessivamente da conto la tonicità della vocale (e della sillaba) nell’assegnazione
arbitraria della lunghezza, preferendole altri parametri, con un volontario atto di
allontanamento dalla metrica volgare italiana. Tuttavia nei secoli successivi la
prosodia italiana, stabilizzatasi, vorrà che una vocale tonica in sillaba aperta (non
però ossitona) sia pronunziata più lunga delle altre, ma questo carattere non
sembra essere valido per l’affermazione di una metrica quantitativa nell’odierna
lingua italiana.
Il tentativo di resa veramente significativo nella letteratura italiana tuttavia
consistette nell’equiparare la sillaba tonica con l’arsis latina, e da qui procedere
nella composizione seguendo lo schema metrico classico: metodo che, in
sostanza, si rifaceva alla tarda latinità, quando la nozione di arsi era intesa come
‘tempo forte’, e corrispondeva – come poi nella metrica italiana – alla sillaba su
cui cadeva l’ictus inteso come accento grammaticale. Ne fu l’ideatore Gabriello
Chiabrera (1552-1638), che nell’arco della sua lunga vita e produzione
rivoluzionò la lirica italiana sostituendo le forme di origine medievale (canzoni,
ballate, madrigali, strambotti; non però i sonetti, resistentissimi in ogni epoca
della letteratura) con odi-canzoni e canzonette anacreontiche, che sarebbero state
adoperate fin al XX secolo. Già da denominazioni come ‘odi’ e ‘anacreontiche’ si
può intuire il rapporto stretto ch’egli ebbe con la materia classica, alla quale si
accostò nella lirica con la sua predilezione per clausole sdrucciole, versi
12
fortemente ritmici come i parisillabi, ed infine con l’imitazione delle strofe
oraziane, del ditirambo e delle maestose odi pindariche; e ci provò anche
nell’epica, sostenendo contro l’ottava l’emergente endecasillabo sciolto come
equivalente dell’esametro (pur consapevole che sostituirlo alle ottave sarebbe
stato molto difficile per le resistenze dei trattatisti e dei lettori).
In realtà la lettura diretta e la volontà di emulazione dei classici avevano già
prodotto nel primo Cinquecento l’operazione teorica di Gian Giorgio Trissino
(primo grande difensore, anche nella prassi epica, dell’endecasillabo sciolto), che
nella sua Poetica (1529) istituiva una stretta relazione fra metrica classica e
versificazione italiana. I nostri versi vi erano sentiti con accenti interni e con ritmi
simili a quelli dei ‘piedi’ greco-latini: l’endecasillabo si poteva valutare come un
trimetro giambico catalettico, il settenario come un dimetro giambico catalettico,
il quinario come un adonio, l’ottonario come un dimetro trocaico acatalettico (la
cui singola sizigia formava il quadrisillabo) etc.; ma anche una forma metrica
come la stanza della canzone petrarchesca veniva comparata, nella sua
tripartizione di due piedi e volta, alla stanza pindarica e alla sua composizione
triadica di strofe più antistrofe di uguale schema seguite da un epodo di schema
differente. Molti aspetti, dunque, ne fanno quasi un anticipatore di Chiabrera, ma
solo Chiabrera doveva essere il grande artefice della ‘rivoluzione’ metrica, e il
primo, maggior esponente della restituzione italiana della strofica d’impianto
classico. Fu lui a forgiare strofe caratterizzate da sapienti montaggi di versi italiani
atti a riprodurre l’andamento dei versi latini e da un uso di versi italiani ‘simili’ a
quelli latini con la presenza di cesure già adottate da Orazio: la sua lezione verrà
studiata dal Carducci professore e la sua produzione, soprattutto per quanto
riguarda le strofe alcaiche e asclepiadee, sarà ripresa dal Carducci poeta.
Arrivati al secolo XVIII, se si considerano tutti i traduttori oraziani sopra
citati si può facilmente notare come la metrica d’ascendenza classica non fosse,
per usare un eufemismo, pedissequamente seguita, e come invece intervenissero
molte libertà stilistiche e metriche a scalzare (‘italianizzandole’) la regolarità delle
strofe originali: all’uso di versi con accenti non riconducibili ai tempi forti di
quelli classici e di molteplici tipi di rima si aggiunge nella totalità dei casi
(tralasciando i quinari, tuttavia sempre doppi tranne nel saffico) l’impiego
13
privilegiato dell’endecasillabo e del settenario, pur in contesti nei quali v’erano
vistose differenze ritmiche.10
Che a fare queste scelte siano anche i massimi esponenti del periodo quali
Rolli e Fantoni sta a significare quanto quel tipo di lirica fosse ancora recepito,
dalla maggior parte dei letterati, per il tramite e a tutto vantaggio della metrica
italiana e dei suoi versi più prestigiosi, e non ancora come ricerca di forme nuove
più coerenti dal punto di vista metrico e ritmico. E si spiega, di conseguenza, il
duraturo successo della saffica (pur trascurata da Chiabrera), vista come punto
d’incontro perfetto tra le due tradizioni così separate tra loro sia nei tentativi di
resa quantitativa, sia in quelli dei traduttori settecenteschi; e sentita come
‘naturalmente’ facente parte della tradizione italiana per gli endecasillabi tanto
con accento in 4ª sede (codificato da Orazio) che in 6ª sede (rispondenti a
innumerevoli endecasillabi saffici del venosino stesso), come voleva la
trattatistica metrica italiana.
2. Carducci
Delle due strofe lesbie fu usufruttuario massimo Carducci, che ne fece largo
uso nelle sue ultime due raccolte poetiche, Odi barbare (1877) e Rime e ritmi
(1899), insieme ad altri metri della classicità, tutti però filtrati dall’uso di Orazio
che, come detto sopra, fu l’unico vero ispiratore della lirica classica in Italia.
La sua sperimentazione, poi confluita nella composizione delle ‘barbare’,
puntava a quella che Martelli denomina «forma in sé», varrebbe a dire «una forma
che fosse più forma d’ogni altra […] una forma pura, che tale fosse per sua
propria virtù»,11 la quale non ammetteva la rima nel recupero del materiale
dell’antichità greco-romana, in quanto estranea a quel modello metrico, ma
nemmeno una rinuncia totale alla strutturalità strofica: «Chi non vuol più strofe
rimate, faccia strofe classiche senza rime... e se non trova a bastanza libertà pel
10
Cfr. ZUCCO. Si può fare l’esempio del settenario che prende il posto dell’enneasillabo e
decasillabo alcaico o del settenario doppio per rendere l’asclepiadeo maggiore, fino ad arrivare a
casi limite con endecasillabi che rendono tanto gli esametri quanto i trimetri giambici del sistema
piziambico, o di doppi settenari in uscita tronca per gli esametri.
11
Mario MARTELLI, Le forme poetiche italiane dal Cinquecento ai nostri giorni, in «Letteratura
italiana», vol. III, t.1, Einaudi, Torino 1984, pp. 519 - 620: p. 592.
14
suo pensiero, s’impicchi».12 Convinto che il liberismo metrico (non la poesia) di
Leopardi e soprattutto degli emulatori stesse distruggendo ciò che la lirica era
sempre stata nei suoi elementi strutturali (sistema quantitativo dell’alternanza
brevi/lunghe in quella greca e latina; rima, sillabe, strofa, per quanto riguarda la
tradizione italiana), Carducci volle recuperare le pure forme della poesia classica
pur in una lingua alla quale quelle forme non riuscivano a calzare perfettamente,
come dichiara con la rituale modestia nella famosa introduzione alle Barbare:
Queste odi poi le intitolai barbare, perché tali sonerebbero agli orecchi
e al giudizio dei greci e dei romani, se bene volute comporre nelle
forme metriche della loro lirica, e perché tali soneranno pur troppo a
moltissimi italiani, se bene composte e armonizzate di versi e di
accenti italiani. E così le composi, perché, avendo ad esprimere
pensieri e sentimenti che mi parevano diversi da quelli che Dante, il
Petrarca, il Poliziano, il Tasso, il Metastasio, il Parini, il Monti, il
Foscolo e il Leopardi (ricordo in specie i lirici) originalmente e
splendidamente concepirono ed espressero, anche credei che questi
pensieri e sentimenti io poteva esprimerli con una forma metrica meno
discordante dalla forma organica con la quale mi si andavano
determinando nella mente. Che se a Catullo e ad Orazio fu lecito
dedurre i metri della lirica eolia nella lingua romana che altri ne aveva
suoi originari, se Dante poté arricchire di care rime provenzali la
poesia toscana, se di strofe francesi la arricchirono il Chiabrera e il
Rinuccini, io dovrei secondo ragione potere sperare, che, di ciò che a
quei grandi poeti o a quei rimatori citati fu lode, a me si desse almeno
il perdóno. […] Io, inchinato al piè della musa italiana, prima lo bacio
con rispettosa tenerezza, poi tento provargli i coturni saffici, alcaici,
asclepiadei, con i quali la sua divina sorella guidava i cori su ’l marmo
12
Giosue CARDUCCI, Lettera a Domenico Gnoli, Bologna, 4 febbraio 1877, in Lettere, XI,
Edizione Nazionale, Zanichelli, Bologna 1943-1968, pp. 29-30; fu scritta contro il saggio di Gnoli,
La rima e la poesia italiana: «Ma in somma voi non avete fatto che il processo ai mali, ai vizi, ai
peccati, ai delitti, se volete, della rima. E i vantaggi e le bellezze e i benefizii? e la necessità
storica? E poi, uomo di tanto gusto come siete, perché venirmi a sostenere in certa guisa quel
grande sbaglio estetico del Leopardi, il periodo divincolantesi delle armonie libere miste? È stato
questo preteso discioglimento della strofe, un segno di decadimento sempre» (corsivi miei).
15
pario dei templi dorici specchiantisi nel mare che fu patria ad Afrodite
e ad Apolline.13
E nella lettera del 4 luglio 1877 ad Adolfo Borgognoni, recensore delle prime Odi
barbare, che lo sollecitava per avere chiarimenti sulle fonti, sui metri, sui metodi
usati, Carducci rispondeva non semplicemente da poeta ma da studioso:
Dopo il Tolomei e la sua scuola, tentarono i distici con qualche novità
un Ceroni e un Astori […]. Il Chiabrera tentò l’alcaica pura nella 1ª
delle canzoni in lode di papa Urbano VIII: tentò l’asclepiadea 1ª nella
LII delle Vendemmie di Parnaso e nella 1ª delle Poesie inedite
pubblicate in un’edizione di Livorno (Rime di G.C. con aggiunta di
altre ined. Livorno, Bertani, Antonelli, 1841, t. II, 222); tentò il
faleucio tetrastico (ivi stesso), il giambico epodico, il gliconicoasclepiadeo. Alcuni metri oraziani, di questi, furono imitati dal Rolli
nelle «Odi di serio stile». Il Corazza bolognese del secolo passato
rifece bene assai il saffico nell’inno al sole (fascicolo… ma vedi
Fantoni Giov., che lo ricorda e ne riferisce alcune strofe; e vedi anche
il mio discorso che precede i lirici del sec. XVIII).
Io non conosco altro che questi saggi; e questi saggi, insieme con
alcune odi tedesche, messi a raffronto delle Odi di Orazio e di alcuni
frammenti greci, furono il campo de’ miei tentativi, anzi il punto di
mossa. […]
Non ho, parmi, da dirti altro; se non che nel far gli esametri seguo una
certa mia regola: la prima metà è un senario o un settenario o anche un
quinario, la 2ª un novenario dattilico [corsivo mio] per il pentametro è
un quinario o [sic, ma e] un settenario, o due settenari ecc. […].14
13
CARDUCCI, Odi barbare, Zanichelli, Bologna 1877, pp. 103-7. Si legge in Opere XI, pp. 23538, e alle pp. XXVIII-XXX dell’edizione critica delle Odi barbare, a cura di Gianni A. Papini,
Milano, Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, 1988.
14
Felicita AUDISIO, Carducci, l’esametro, il pentametro e alcuni antecedenti, in «La rassegna
della letteratura italiana», 2005, 2, pp. 371-407: p. 373 sg.
16
Egli riprese quindi i suoi distici dalla scuola di Tolomei e da quelli di Ceroni e
Astori (letti alla sua maniera, che non fu quella intesa dagli inventori)15 e le strofe
eoliche dal Chiabrera (per Rolli, Corazza, Fantoni si limita alla saffica), tuttavia
spiegando come fosse riuscito a forgiare l’esametro e il pentametro secondo una
«certa sua regola», eleggendo determinati versi italiani e non seguendo un
presunto modello quantitativo od accentuativo.
La forma metrica meno discordante dalla forma organica eletta da Carducci
fu una rivisitazione delle strofe e dei sistemi metrici latino-eolici scanditi non
secondo la lettura metrica ad arsi e tesi che in quegli stessi anni prendeva piede in
Germania16, ma secondo quella ad accento grammaticale che aveva appreso nella
sua formazione e di cui avrebbe poi minuziosamente studiato le attestazioni
storiche.17 In questo senso il suo fu, probabilmente, il tentativo di imitazione della
metrica classica più sicuro (sarebbe tuttavia meglio dire ‘meno sbagliato’),
arricchito anche dalla ricerca dei corrispettivi nei versi italiani, soprattutto in
chiusura di verso, e in determinati casi dal loro ‘montaggio’ con l’ausilio
importantissimo della cesura.
Tutti i metri barbari carducciani presuppongono lo studio dei modelli
storico-teorici precedenti, poi totalmente fatti proprii e sviluppati dall’estro del
poeta che inventa suoi propri metodi di resa: in certi casi partendo da zero, come
nella ricostruzione dell’esametro e del pentametro latino; in altri invece ricorrendo
15
Questi tentativi, nella seconda metà del XVIII sec., si rifanno ad un principio quantitativo,
ovviamente letto da Carducci in chiave grammaticale come le prove del Tolomei: in questo caso le
sillabe lunghe erano le sillabe chiuse o con dittonghi, le sillabe brevi erano le sillabe aperte, con
possibilità di allungamento pre-cesura. Soprattutto i distici del Ceroni possono essere una «qualche
novità» in quanto il primo emistichio del pentametro si chiude con sillaba in consonante, quasi
fosse atto a riprodurre l’arsi finale del primo membro del verso, e l’esametro si chiude quasi
sempre con un novenario dattilico secondo il metodo che adotterà Carducci. Si legga a proposito
l’appendice con la Nota sulla scuola bergamasca del saggio di Felicita AUDISIO, 2005.
16
È la cosiddetta ‘scuola tedesca’, la quale, grazie alla propria lingua ad accentazione quantitativa,
si dichiarava l’unica a poter resuscitare i piedi nel loro originario ritmo in arsi e tesi. Cfr. in
proposito Giovanni PASCOLI, Prose, Mondadori, Milano 1946, pp. 904-976: «La lingua tedesca
sta nel mezzo tra le lingue antiche e altre nuove. Ha sì accento e sì quantità; ma differisce dalle
antiche per ciò che l’accento di regola si confonde con la lunghezza e che la misura delle sillabe
non è determinata secondo il materiale peso della voce, ma secondo la maggiore o minore
significazione delle sillabe. Ogni principale è contrassegnata con sillaba lunga, ogni secondaria
con sillaba breve» ( p. 962).
17
Basti pensare a La poesia barbara nei secoli XV e XVI (1881).
17
a esponenti della grande tradizione lirica italiana: al Chiabrera per le strofe
alcaiche e le asclepiadee, al Fantoni per la saffica.18
Riguardo alla frequenza dei metri barbari utilizzati, il saffico, il ‘meno
barbaro’ di tutti, nell’opera di Carducci occupa il terzo posto dopo il distico
elegiaco e il sistema alcaico: segno di una sua evidente predilezione per i metri
lirici di maggior prestigio della classicità latina, che però non lo indusse a
sconfinare, come tutti i suoi predecessori in questi tentativi, nella resa di metri
derivanti unicamente dalla poesia greca. Della saffica carducciana si può notare
come sia usata per componimenti di lunghezza non breve o addirittura molto
lunga: nelle Odi barbare si va dalle 10 strofe di Dinanzi alle terme di Caracalla
alle 39 di Alle fonti del Clitumno; mentre nella raccolta successiva di Rime e ritmi
si arriva anche, tra tutte le quattro odi saffiche presenti nella raccolta, ad una
lunghezza di 40 strofe (Bicocca di San Giacomo) ed in media alla ragguardevole
lunghezza di 132 versi; si aggiunga che nessuno di questi componimenti scende
sotto le 25 strofe. Brevi invece, ma significativamente in metro saffico, il Preludio
e il Congedo delle OB.19
Riguardo invece alla struttura interna della strofa, si può notare come essa
segua in prevalenza l’andamento fantoniano per l’endecasillabo, con accenti di 1ª
(o 2ª) – 4ª – 6ª o 8ª; andamento non seguito, invece, nell’adonio conclusivo, con
non pochi casi di accenti di 2ª – 4ª non più rispondenti alla scelta fantoniana, che
aveva fatto legge dell’andamento discendente del verso, ma a quella
‘carducciana’, che plasma la saffica in base al ritmo mentale piuttosto che
metrico.20
Nelle tematiche affidate al metro saffico è evidente la prevalenza di una
profonda vena nostalgica e dissolutoria del presente, in favore di una rievocazione
18
Dei 50 componimenti fantoniani citati nel suo studio sui Lirici del secolo XVIII , 23 sono odi
saffiche; di lui scriveva «la sua strofe saffica non ha da invidiar nulla per armonia alla latina»,
giudicando tentativi precedenti come quelli di Gravina e altri «non di leggiadria» per l’uso delle
rimalmezzo. Su questi temi cfr. Felicita AUDISIO, Carducci e la saffica: modelli ed esecuzione, in
«Stilistica e metrica italiana», 8, 2008, pp.169-215 (d’ora in poi AUDISIO, 2008).
19
A questi ‘componimenti programmatici’ (sulla unione di mondo classico e mondo moderno) va
affiancata la traduzione di una lirica di Platen nell’appendice della raccolta, che esalta la grande
lirica con l’interessante comparazione tra Pindaro, Orazio e Petrarca.
20
Totalmente distante dal modello fantoniano era, per es., tra le prime prove, l’unica ode saffica
di Giambi e epodi ( di materia politica: Nel vigesimo anniversario dell’VIII Agosto
MDCCCXLVIII), che spicca per grandissime tortuosità sintattiche, maggioranza di endecasillabi a
maiore, inarcature anche strofiche ed interpunzioni in ogni sede del verso;
18
mitologica (specie nelle Odi barbare) e storico-romantica (in Rime e ritmi); per
Carducci esso diventa quindi una forma in cui riuscire a manifestare i moti del
proprio pensiero nella maniera più limpida possibile, in maniera diversa dal vigore
espressivo ed ideale della strofe alcaica o dall’inquietudine moderna della strofa
elegiaca. Questo atteggiamento si nota anche nelle prove precedenti al periodo
barbaro, nelle quali, oltre alle odi di genere ereditate dal Fantoni e di conseguenza
influenzate da Orazio, il sistema era stato usato tanto per narrazioni mitologiche
(Primavere elleniche in Rime nuove) che per componimenti di impegno civile
(Nel vigesimo anniversario, in Giambi e Epodi);21 ovviamente, a seconda
dell’esigenza, uno stesso metro (come ben insegnava la lezione di Chiabrera) può
essere atto a recepire le più svariate tematiche, e la stessa tematica può essere
espressa in diversi metri.
3. Pascoli
Molto diversa la concezione che ebbe il Pascoli tanto della metrica barbara
generale quanto del metro saffico. Almeno all’inizio delle sue prove da metricista,
quando da laureando svolse per Carducci un esercizio di Volgarizzamento del
principio della batracomiomachia (1881), rese gli esametri dell’opera omerica in
base a un principio accentuativo che, con serie di sillabe tonica-atona-atona,
puntava a un costante ritmo dattilico (come ad esempio il primo verso «C’èra una
vòlta… un tòpo, che pèr una dònnola essèndo …»),22 battendo il ritmo su
particelle proclitiche quando necessario e in corrispondenza delle θέσεις (a suo
dire «in modo p. es. di fare di – e così – un dattilo»).23 Nel presentare la sua prova
ammetteva tuttavia che questi nuovi esametri risultavano
un poco somiglianti che uguali a quegli antichi, […in quanto] noi non
s’ha quantità, tale almeno da poterla misurare. Hanno peraltro la
21
E attraverserà tutta la sua produzione poetica per concludersi, ben oltre il periodo delle Odi, in
un abbozzato inno secolare in ritmo barbaro datato 1900 (cfr. AUDISIO, 2008, pp. 202 sgg. ).
22
Accenti miei.
23
Cito la versione pascoliana da Pietro GIANNINI, Le traduzioni ‘metriche’ di G. Pascoli, in
Teorie e forme del tradurre in versi nell’Ottocento fino a Carducci, Congedo editore, Galatina
2010, pp. 379-396: p. 385. Riguardo al termine θέσεις, per il Pascoli qui indica – inteso alla greca
– i tempi forti dei suoi esametri. Nelle Regole di metrica neoclassica (1899-1900) tuttavia
preferirà il termine ‘arsi’, alla latina.
19
monotonia epica, essendo tutti uguali di sillabe e d’accenti, ma anche
un certo balzellare di tre sillabe in tre sillabe fastidioso anzi che no.
[…]24
In ogni caso, il professore valutò il tentativo dell’allievo con un generoso «molto
bene»;25 tanto più generoso in quanto il metodo prescelto era evidentemente
contrario al gusto del Carducci e al suo ‘montaggio’ dell’esametro con versi
differenti in maniera asinartetica, ovvero seguiva la modalità di lettura metrica dei
versi classici ad arsi della filologia tedesca con cui si erano cimentati artisti quali
Goethe, Hölderlin, Platen, Klopstock.26 Ma l’introduzione al Volgarizzamento si
chiudeva con un giudizio del Pascoli sul proprio lavoro in cui alludeva, in termini
non del tutto negativi, al metodo seguito dal maestro:
Ho imparato e concluso una cosa sola, ma importante: che stante
l’impossibilità di fare versi uguali ai quantitativi con una lingua che
non ha quantità metrica; e la necessità di farli invece secondo una
certa somiglianza agli antichi e ai moderni insieme; considerando che
la somiglianza agli antichi è in ragione inversa della somiglianza ai
moderni; è meno male farli un poco più dissimili da quelli e un poco
più simili a questi, di quello che fabbricare faticosamente, come ho
fatto io, dei versi non classici, e, ahimè, neppure nostrani.27
È un implicito giudizio sul Carducci ‘barbaro’ che verrà replicato quasi un
ventennio dopo in maniera più diretta nella Lettera a Giuseppe Chiarini, datata
1900: in questa lunghissima epistola, oltre a trattare delle letture ‘all’italiana’ o
‘alla tedesca’ e della presunta superiorità e storicità di una rispetto all’altra,
Pascoli parla anche della nuova moda di alcuni poeti moderni cultori di poesia
barbara, consistente nel rendere i distici facendo «cominciare l’esametro con
24
Ivi, p. 381.
Ivi, p. 382.
26
Secondo MANCINI, Distico elegiaco, pp. 176 sg., la fonte dell’elegia Nevicata in penultima
posizione nelle OB. può assai più probabilmente ricercarsi nella lettura e nella traduzione di
Hölderlin.
27
Ivi, p. 160.
25
20
l’accento, e per dirne un’altra, di fare uniforme e Ovidiano il pentametro»;28
caustico e perentorio il suo giudizio:
Che ciò sia bene non oserei affermare! Anzi nego addirittura. Hanno
conquistato quei versi la facoltà, negata a quelli del Maestro, di poter
essere anche pronunziati, come gli antichi, ad accenti ritmici oltre che
ad accenti grammaticali? […] Bene: a quei versi fu data quell’agilità
antica? No: […] Non hanno dunque migliorato in ciò in cui era
desiderabile migliorassero; e invece hanno perduto il loro pregio
principale. Questo: i versi del Carducci, pur composti di serie e
d’emistichi nostrani, hanno la virtù di suggerire al nostro animo il
ricordo degli antichi. Questi altri, così regolari, tutt’al più ci faran
ripensare ad Ovidio; […] Manca in quelle strofe il «ritmo riflesso».29
Che cosa fosse il ritmo riflesso, in base alla sensazione a lui scaturita dalla lettura
delle Odi barbare, lo aveva spiegato qualche pagina prima:
Io percepiva in quelle odi due ritmi; uno proprio, uno, per così dire
riflesso. Era ciò che il poeta voleva: due ritmi. E il ritmo proprio di
per sé non sarebbe stato piacevole, o almeno non così piacevole com’è
nei versi nostrani. Ché sebbene le serie fossero nostrane, quinari,
settenari, novenari, decasillabi (una sola specie di decasillabi
eccettuata), pure la successione e l’accoppiamento delle serie erano
nuovi e magari discordi. Ma c’era il ritmo riflesso […] Oh! le Odi
Barbare rendevano il suono di ben altro fiume, di ben altro mare, la
cui voce perenne giungeva alle nostre anime dalla profondità dei
tempi consumati: era l’Ilisso, era l’Egeo… […]30
28
Ivi, p. 164. La Lettera a Giuseppe Chiarini è leggibile in Antico sempre nuovo, nella raccolta
Prose di G. PASCOLI, vol. 1, Pensieri di varia umanità, Mondadori, Milano 1946, pp. 904-976.
Qui la cito da MANCINI.
29
Ivi, p. 165.
30
Ivi, p. 163.
21
Tuttavia il Pascoli, come si sa, nonostante avesse incensato il professore per
il suo metodo, se ne distaccò31 preferendo il metodo di resa accentuativo nelle sue
numerose traduzioni presenti da Lyra romana (1894) a Epos (1897) a Sul limitare
(1899), dove si occupò anche dei sistemi oraziani e di traduzioni greche di
frammenti di Saffo, Archiloco, Anacreonte, Ipponatte ed altri.32 Le Regole di
metrica neoclassica (1899-1900) segnano il culmine di un’avanzata e articolata
teoria metrica ‘barbara’;33 ma nacquero e rimasero teoriche, e riferite
esclusivamente alla attività pascoliana del traduttore, non del poeta. Anche se poi,
come appare evidente ne La mia scuola di grammatica (1903), la sua concezione
della poesia traspare anche dai discorsi sulla traduzione da altre lingue (ovvero,
più ‘pascolianamente’, da lingue altre e soprattutto morte):
Peraltro, io distinguo. C’è traduzione e c’è interpretazione: l’opera di
chi vuol rendere e il pensiero e l’intenzione dello scrittore, e di chi si
contenta di esprimere le proposizioni soltanto; di chi vuol far gustare e
di chi cerca soltanto di far capire. Quest’ultimo, il fidus interpres, non
importa che renda verbum verbo: adoperi quante parole vuole, una per
molte, e molte per una; basta che faccia capire ciò che lo straniero
dice […]. Ma all’interpretazione, nella scuola, deve tener dietro la
traduzione: ossia il morto scrittore di cui è morta la gente e la lingua,
deve venire innanzi e dire nella nostra lingua nuova, dire esso, non io
o voi, il suo pensiero che già espresse nella sua lingua antica. Dire
esso a modo suo, bene o men bene che dicesse già: semplice, se era
semplice, e pomposo se era pomposo, e se amava le parole viete, le
cerchi ora, le parole viete, nella nostra favella, e se preferiva le frasi
poetiche, non scavizzoli ora i riboboli nel parlar della plebe […]. Se
vogliamo evocarli [scil. gli autori antichi] nella nostra lingua, essi,
31
Un particolare interessante è narrato in GIANNINI, p. 381. Si racconta che Pascoli, dopo una
lezione col professore ed altri allievi, all’affermazione di uno di questi sulla superiorità dei versi
barbari del Carducci rise fortemente.
32
Cfr. GIANNINI, pp. 387-390.
33
PASCOLI, Prose, vol. 1, pp. 985-1007. A differenza degli altri trattati di resa metrica dei versi
latini, qui non si parla di quantità prestabilita ma di sillabe allungabili in base a diversi criteri, quali
tonicità di una sillaba (anche breve, se battuta in un certo ritmo), metatonia (le sillabe rizotoniche e
rizoatone sono allo stesso modo lunghe, imitando il latino), derivazione da nomi propri antichi.
Esse poi vengono suddivise in lunghe, semilunghe, comuni, brevi, con specifica trattatistica
tuttavia non dando però rilievo eccessivo all’allungamento ‘per posizione’, e vengono trattati
esempi di piedi e di versi in questa metrica.
22
quando obbediscano, vogliono essere e parere quel che furono; e noi
non solo non dobbiamo menomarli e imbruttirli, ma nemmeno (quel
che spesso ci sognamo di fare) correggerli e imbellezzirli; come a
dire, togliere ad Omero gli aggiunti oziosi di cantore erede di cantori,
e a Erodoto le sue lungaggini di narratore chiaro, e a Cicerone le sue
ridondanze di oratore armonioso, e a Tacito i suoi colori poetici di
scrittore schivo del vulgo. Ognuno faccia indovinare, se non sentire, le
predilezioni che ebbe da vivo, quanto a lingua e a stile e a numero e a
ritmo.34
Fra i metri classici imitati da Pascoli, tralasciando la sua produzione latina dove
imitò quelli sia catulliani sia oraziani, la saffica svetta per apparire con frequenza
e durante tutto l’arco della sua produzione, sempre rimata e decisamente diversa
da quella del suo professore. Come si vedrà nel capitolo seguente, incentrato sulle
saffiche miricee, vi interverranno interessanti variazioni dovute alla memoria
ritmica del poeta, fino alle contaminazioni con altri metri a lui cari (per es. in certi
casi l’uso dei suoi novenari al posto degli endecasillabi in maniera da scandire con
andamento fortemente dattilico la strofa).
L’unico altro metro pascoliano di derivazione classica è la strofe alcaica dei
Canti di Castelvecchio,35 questa però abbastanza rimaneggiata soprattutto nella
seconda parte, coi due quinari doppi in uscita sdrucciola seguiti da senario e
novenario (o due novenari) rimati al posto dell’enneasillabo e decasillabo alcaico,
ed anch’essa lontana dalla vigorosa ed illustre concezione carducciana. Di Elegie
Pascoli fa menzione solo nel titolo della sezione omonima di Myricae, nella quale
tuttavia il metro usato è una strofa tetrastica di decasillabi e di novenari dattilici a
rima alternata: ne deriva un’ulteriore conferma della sua scelta di distaccarsi dai
tentativi carducciani, e dalla barbarizzazione dei metri classici a livello generale.
Pascoli preferisce effettuare ‘italianizzazioni’, ma sarebbe meglio dire
‘pascolizzazioni’, secondo i suoi modelli metrici e ritmici prediletti, stabilendo a
modo suo il nuovo rapporto tra sensibilità moderna e mondo classico.
34
GIANNINI, p. 391.
Ma il metro alcaico rivisitato da Pascoli fa una significativa apparizione nella prosa teorica del
Fanciullino, VII, nel componimento intitolato al Fanciullo che parla al poeta, e ne La notte di
Natale, l’ultimissimo componimento del poeta, dedicato ai soldati italiani in guerra in Libia e
datato 1911.
35
23
A suo dire, Carducci era riuscito a riportare in vita «il pensiero e
l’intenzione» degli antichi col ‘ritmo riflesso’; ma mentre riconosce l’autorevole
singolarità del maestro, l’allievo dichiara di fatto la propria estraneità a quella
poesia: «Pensavo e penserei che i metri barbari s’avessero invece a chiamare
Carducciani e dovessero lasciarsi a lui solo, e cessare in lui, per continuare nei
secoli la loro vita inconsumabile, ma singolare».36
36
PASCOLI, Prose, pp. 956 sg.
24
CAPITOLO III
LA “SAFFICA” DI MYRICAE: MODELLI ED ESECUZIONE
1. Presenze e dislocazioni nella raccolta
Nella fucina delle Myricae, capolavoro del simbolismo e importantissimo
punto di partenza per lo sviluppo delle avanguardie novecentesche come del
moderno linguaggio poetico, la saffica appare sempre nello schema divenuto
classico nella letteratura italiana: ABAb5, 37 e per un totale di 31 componimenti
sui 156 dell’edizione definitiva (circa il 20%); segno dell’importanza attribuita
dall’autore a questa forma metrica, soprattutto nel quadro della sperimentazione
«estrema»38 della raccolta.
Ad ulteriore riprova, le odi saffiche vi occupano perlopiù posizioni ben
solide e strutturalmente rilevate: sono il metro di tutti i dodici componimenti della
sezione Alberi e fiori,39 compresa tra Il cuore del cipresso e Colloqui, e di 9
componimenti su 10 della sezione Pensieri,40 compresa tra le sezioni Ricordi e
Creature; dei testi ‘lunghi’ non compresi nelle sezioni, quelli che hanno la forma
dell’ode saffica sono sempre metricamente isolati dai componimenti fuori sezione
con i quali possono trovarsi in contiguità e non sono mai suddivisi al loro interno;
sono 4 in tutto: La civetta (collocata tra le sezioni Creature e Le pene del poeta);
Campane a sera (tra Solitudine e la sezione Elegie); Ida e Maria (tra le sezioni
Elegie e In campagna); Germoglio (tra le sezioni Primavera e Dolcezze).41 Quasi
tutte le rimanenti odi saffiche si trovano nella sezione In Campagna, composta di
18 ‘pezzi’ e caratterizzata dalla grande varietà di metri: Il vecchio dei campi in
apertura, Dall’argine in ottava posizione, Dopo l’acquazzone in tredicesima
37
Fa eccezione solo Al fuoco della sezione Tristezze, dove la strofe (per ‘contaminazione’ con
ritmi cari alla sensibilità e alla ricerca metrica pascoliana) è formata da 3 ottonari e un
quadrisillabo secondo lo schema ABCc ABDd EFGg EFHh.
38
Pier Vincenzo MENGALDO, Introduzione a Giovanni PASCOLI, Myricae, BUR Edizione
digitale 2010, Milano 2009, pp. 1-71: p. 16 (d’ora in poi MENGALDO). In questa pagina e nella
successiva si elencano tutti i 13 tipi di metri della raccolta.
39
In ordine : Fior d’acanto, Nel giardino, Nel parco, Rosa di macchia, Pervinca, Il dittamo,
Edera fiorita, Viole d’inverno, Il castagno, Il pesco, Canzone di nozze, I gigli.
40
Tre versi dell’Ascreo, I tre grappoli, Sapienza, Cuore e Cielo, Morte e Sole, Pianto, Convivio,
Tra il dolore e la gioia, Nel cuore umano. La poesia Il passato compresa fra Convivio e Tra il
dolore e la gioia è formata da una singola quartina di endecasillabi di schema AABB a rime
equivoche.
41
MENGALDO, p. 26, spiega bene la particolarità di queste «saffiche isolate».
25
posizione, Sera d’ottobre in quindicesima e Novembre in chiusura (in adiacenza,
dunque, con la successiva sezione Primavera); infine, sempre in posizione
marcata e sempre in una sezione metricamente varia, ad aprire Tristezze è la
saffica di Paese notturno.
La storia editoriale di Myricae mostra altresì come il metro saffico avesse un
posto di rilievo nei rimaneggiamenti di sezioni, di poesie, di punteggiatura etc.
operati dal Pascoli durante le varie edizioni: la 1ª edizione di Myricae (luglio
1891) presenta infatti, oltre agli 8 componimenti apparsi sulla Vita Nuova
dell’agosto 1890, altre 13 poesie tra le quali appaiono le odi saffiche Ida e Maria,
Nel parco, Campane a sera, e quelli che l’autore chiama «frammenti saffici»:42
Dopo l’acquazzone, Tre versi dell’Ascreo, Il vecchio dei campi, Sera d’ottobre,
Novembre, Dall’argine. Essendo tuttavia la prima silloge miricea non ancora
divisa in sezioni, Pascoli non pensava ad una precisa collocazione di quelle che –
a quanto pare – considerava poesie sparse, ed anche nella 2ª edizione le nuove odi
saffiche (I tre grappoli, Il dittamo, Convivio, Sapienza, Paese notturno, Cuore e
cielo) confluiranno nella sezione Myricae, comprendente tutte le poesie della
prima edizione, senza ancora una vera e propria organizzazione in sezioni.
È solo a partire dalla 3ª edizione (1894) che Pascoli crea la prima seria
strutturazione interna della raccolta, dove le odi saffiche dei ‘frammenti’ si
dividono andando ad occuparne varie sezioni; specificamente ‘saffiche’ si
profilano allora Alberi e fiori (comprendente Nel parco, Il dittamo e nuove
apparizioni delle poesie Nel giardino, Rosa di macchia, Pervinca, Edera fiorita) e
Pensieri (comprendente Tre versi dell’Ascreo, I tre grappoli, Sapienza, Cuore e
cielo, Convivio e le nuove poesie Morte e Sole e Pianto, senza ancora la poesia Il
passato, apparsa nell’edizione successiva), e fanno la prima comparsa le odi
saffiche isolate (La civetta e Germoglio); mentre la saffica concorre alla vasta
polimetria nel caso delle sezioni In campagna (Dopo l’acquazzone, Il vecchio dei
campi, Sera d’ottobre, Dall’argine, Novembre) e Tristezze (Paese notturno).
Nella 4ª edizione (1897), fissato a 15 il numero definitivo delle sezioni, in
Alberi e fiori appaiono le nuove poesie Fior d’acanto, in apertura di sezione,
42
Cfr. Mario PAZZAGLIA, Pascoli, Salerno editrice, Roma 2002, p. 107. Nello stesso punto
Pascoli aggiunge: «Dico frammenti perché tali sono nel mio pensiero. Io non ritrovo, dopo quel
momento, l’autore dei pochi versi più, sicché rimangono incompiuti; esso è morto.»
26
Viole d’inverno e Il castagno, mentre Tra il dolore e la gioia e Nel cuore umano,
confluite in Pensieri, chiudono definitivamente la sezione; nella 5ª edizione
(1900), definitiva riguardo il numero complessivo delle liriche, dei soli 4
componimenti aggiunti al totale della raccolta 3 sono nuove odi saffiche che
andranno a chiudere definitivamente Alberi e fiori: Il pesco, Canzone di nozze, I
gigli.
In virtù del fatto che nessuna delle strofe saffiche sia stata rimaneggiata nella
struttura o nel titolo da edizione a edizione, e neppure sottoposta ad un
trasferimento in sezioni diverse dopo la 3ª edizione, si può notare come questo
metro, dopo le prime incertezze sull’ordinamento della raccolta, durante i suoi
varii stadi redazionali ed editoriali occupi un posto fondamentale nella poesia
miricea. Pascoli segna così una strada precisa per questo metro, mostrando
un’idea ben chiara dei modi in cui può essere usato: come si vedrà, le saffiche
delle due sezioni maggiori sono strutturalmente diverse tra loro e diverse altresì
dalle saffiche isolate presenti nella raccolta.
Le sezioni principali di cui ci occuperemo, Pensieri e Alberi e fiori,
presentano a prima vista caratteri molto diversi, o addirittura opposti, tanto per la
struttura quanto per le tematiche; e tuttavia sono correlate dalla loro (non casuale)
posizione speculare nella raccolta, essendo Pensieri in quarta posizione (dopo Il
giorno dei morti, Dall’alba al tramonto e Ricordi) e Alberi e fiori in quartultima
(prima delle poesie Colloquio, In cammino e Ultimo sogno); senza contare il
numero delle poesie contenute da ciascuna delle due (rispettivamente 12 e 10),
che rispecchia la media della raccolta. Altro segno dell’importanza del metro per
il Pascoli è da ricercarsi nelle odi delle sezioni non specificamente ‘saffiche’, In
campagna e Tristezze, in quanto programmaticamente all’inizio di entrambe (Il
vecchio dei campi apre In campagna, Paese notturno apre Tristezze), e nel caso
della prima la chiudono anche (Novembre), soprattutto se si tiene conto del fatto
che si tratta delle due sezioni con il maggior numero di componimenti dell’opera
(18 in entrambe) e caratterizzate dalla grande varietà metrica.43 Quanto alle
43
Inoltre tutti i primi ‘frammenti’ saffici, tranne Tre versi dell’Ascreo, entrano a far parte della
sezione In campagna, come si è detto una fra le più importanti del libro in posizione quasi
centrale, mentre quelle della seconda edizione si divideranno tra Pensieri (la maggior parte) e
Tristezze, tralasciando Il dittamo.
27
saffiche fuori sezione, quelle apparse fin dalla prima edizione, Campane a sera e
Ida e Maria, circondano la sezione centrale Elegie, con le quali condivideranno il
tema dell’infanzia e degli affetti del poeta. La 3ª edizione segnala un interesse del
Pascoli in tutte le direzioni cui plasmerà questo metro: vengono aggiunte (oltre a
quelle confluite sia in Alberi che in Pensieri, di cui si è detto) le saffiche isolate
Germoglio e La civetta; e alle saffiche isolate (oltre a quelle inserite in Alberi e
fiori) Pascoli si dedicherà maggiormente dalla 4ª edizione in poi.
Da questi dati si evince come l’ode saffica sia stata, durante ogni passo della
costruzione del libro miriceo, una solida base per lo sviluppo futuro della raccolta,
poiché il Pascoli ne sviluppò le potenzialità in maniera differente nelle diverse
sezioni; inoltre essa fu una delle poche forme metriche (le altre sono i suoi
solidissimi sonetti e – in parte – i suoi madrigali) su cui evitò la sperimentazione e
la ‘contaminazione’ con altre forme (tranne il singolo caso di Al fuoco), segno del
riconoscimento della specificità metrica insita nel sistema saffico, che adatterà a
differenti tematiche giocando esclusivamente sulle sue possibili ‘sfumature’
ritmico-melodiche.
2. Strutturazione della saffica miricea
2.1. Sezioni
La solidità dello schema della saffica delle Myricae, come già detto sempre
di schema ABAb5 per tutti i 31 componimenti della raccolta, si mostra tuttavia
duttile in rapporto alla varietà delle tematiche attraverso due procedimenti:
l’utilizzo di particolari modelli di accentazione e l’impiego del metro in
composizioni di lunghezza variabile, dalle odi vere e proprie ‘isolate’, alle più
brevi ‘odette’ di Alberi e fiori, arrivando alle minuscole ‘odicine’ delle altre
sezioni della raccolta.
Generalmente, si può affermare che l’impianto della strofa saffica pascoliana
segue quello istituzionalizzato da Orazio ed in seguito dalla poesia italiana, dove:
– il primo emistichio degli endecasillabi presenta accenti variabili, con
preferenza per quello di 1ª, e quello fisso di 4ª seguito da cesura pentemimere
(quasi nel 100% dei casi);
28
– il secondo emistichio presenta una vera e propria alternanza tra accenti di
6ª e di 8ª (con pochi casi di altri accenti secondari), spesso tonici entrambi;
–il quinario ha un costante schema dattilico-trocaico (quello dell’adonio).
Le frequenti inarcature sono soprattutto interversali e solo eccezionalmente
interstrofiche; le interpunzioni e le varie pause sintattiche naturalmente variano da
componimento a componimento, senza però una sistematica rottura del verso
come accade in alcune composizioni miricee di altro metro, preservando così lo
schema ispirato al modello classico. Quello dell’endecasillabo saffico pascoliano
si evince essere di 1ª (o 2ª, in controbattuta) - 4ª - (6ª / 8ª) - 10ª, e quello
dell’adonio di 1ª - 4ª; ovvero, tranne per il quinario, il medesimo della strofa
saffica di Carducci, ma l’uso che l’allievo ne fece e l’organizzazione sintattica del
discorso poetico, come si vedrà, sono differenti dall’enfasi e dalla retorica
carducciana.
Nella prima sezione di Myricae dedicata a questo metro, Pensieri,
immediatamente si può notare come le composizioni siano brevissime, da un
massimo tre strofe al minimo della singola saffica. Si tratta infatti, come il titolo
annuncia, di ‘massime’ sulla vita che riguardano il pensiero complessivo
dell’autore, elaborate successivamente sotto forma poetica, dove prevale il genere
gnomico-sentenzioso di ascendenza classica e il suo codificato stile di natura
epigrammatica, pregno e conciso, a volte quasi paremiaco: appaiono quindi
tantissimi imperativi, negativi o non, esclamazioni, interrogazioni, ed in generale
la funzione conativa prevale sulla funzione lirica.
Andando ad analizzare il primo componimento e il più antico della sezione,
Tre versi dell’Ascreo, si nota come dell’andamento dell’endecasillabo pascoliano
qui sopra desunto venga preferita l’accentazione di 6ª su quella di 8ª ad eccezione
della prima strofa (traduzione dei tre esametri di Esiodo ispiratori del
componimento)44, nella quale si segnala un contraccento alle posizioni 9ª-10ª del
v. 1 («Non di perenni fiumi passar l’onda»), e due inarcature forti («corrente /
pura», «monda / acqua»), con particolare ritmica del quinto verso per una forza
dell’accento di 7ª non però tale da ritenersi tonico: «dice il poeta. E così guarda, o
saggio».
44
I versi di Esiodo in questione si possono leggere in Giovanni Pascoli, Myricae, Edizione critica
per cura di Giuseppe NAVA, t. I, Sansoni, Firenze 1974, p. 336 (d’ora in poi NAVA).
29
Nel successivo componimento, I tre grappoli, il modello ritmico generale
viene rispettato con qualche eccezione: nella prima strofa, si presenta uno schema
accentuativo simile nel secondo e terzo verso – dovuto al procedimento anaforico
– che tuttavia varia nel secondo emistichio:
Bevi del primo il limpido piacere;
bevi dell’altro l’oblio breve e mite
con contraccento di 7ª-8ª non rispettoso delle consuetudini ritmiche pascoliane,
immediatamente seguito dal quinario con un debole accento di prima (e…più non
bere).
Sapienza si apre con un perfetto endecasillabo di 1ª - 4ª - 8ª (Sali pensoso la
romita altura) ed in generale, per via della non invadente interpunzione rispetto
alle precedenti, appare un componimento molto scorrevole; però nel terzo verso
l’accento di 4ª colpisce una preposizione, che viene scandita con più forza (e
centro della lontananza oscura), secondo una modalità, come è noto, tipicamente
pascoliana.
Cuore e cielo presenta, nella prima delle due strofe, attacco giambico per gli
endecasillabi e avanzamento sull’ictus di 8ª
Nel cuor doveˆogni visïon s’immilla,
e spazio al cielo ed alla terra avanza,
talor si spenge un desiderio, e brilla
mentre nella seconda strofa si ha andamento ben più variabile: l’ictus di 6ª
sdrucciolo nei vv. 5 (come nel cielo, oceano profondo) e 7 (tramonta un’Alfa, e
pullula dal fondo) rende atono quello di 8ª dominante nella prima parte; mentre il
contraccento di 7ª-8ª nel v. 6 (dove ascendendo il pensier nostro annega) sembra
quasi bilanciare il dominio dell’accento di ottava nella prima parte del
componimento.
Morte e Sole presenta già dai versi iniziali la prima rottura del modello
pascoliano nell’endecasillabo, il v. 1 con accenti di sesta e ottava molto deboli e il
v. 2 con un’anomala accentazione di 1ª - 6ª - 8ª:
Fissa la morte: costellazïone
lugubre cheˆin un cielo nero brilla
30
quasi come se la norma seguita dai due emistichi ‘canonici’ dei versi (il primo del
v. 1 e il secondo del v. 2) venisse spezzata tra i due versi anche grazie all’utilizzo
dell’inarcatura; mentre nella seconda strofa il ritmo torna normale tranne che nel
settimo frantissimo verso alla fine del componimento, dove si ha un contraccento
stavolta alle posizioni 4ª-5ª:
se guardi il so-le,ˆocchio, che vedi? Un voto
vortice, un niente.
Il componimento Pianto, il più breve della sezione e di tutta Myricae, è
formato da una sola strofa:
Più bello il fiore cui la pioggia estiva
lascia una stilla dove il sol si frange;
più bello il bacio che d’un raggio avviva
occhio che piange.
Vi si può notare il modello ad attacco giambico 2ª - 4ª - 8ª nei versi dispari, con la
variante ad attacco dattilico 1ª - 4ª - 8ª in quello pari, a mio avviso con un pur
debole ictus di 6ª nel v. 2 che rallenta la celerità del componimento.
Il successivo Convivio, l’unico della sezione formato da tre strofe saffiche
insieme a Tra il dolore e la gioia, mostra tutte le variazioni del modello
archetipico dell’endecasillabo saffico pascoliano [1ª (o 2ª) - 4ª - (6ª / 8ª) - 10ª]
senza un vero e proprio predominio di una particolare soluzione, tranne forse per
un prevalente attacco dattilico; da segnalare solo la
probabile incertezza
sull’attacco del v. 3 (tu né bramoso più, né sazio ancora), che se si prediligesse
quello di 2ª, sarebbe un endecasillabo di tutti giambi (ovviamente col secondo
‘né’ atono rispetto al successivo ‘sazio’); si segnalano inoltre le inarcature ai vv.
7-8:
sorrida in cerchio tuttavia di cari
capi il banchetto.
e ai vv. 10-11 (delle morenti lampade lo svolo / lugubre, lungo […]), con evidenti
riprese foniche.
Dopo il componimento non in saffiche Il passato, le tre strofe di Tra il
dolore e la gioia presentano le varie soluzioni ritmiche già elencate; numerose le
inarcature, due consecutive ai vv. 3 e 4:
31
era una striscia pallida, co’ suoi
boschi d’un verde quale mai né prima
vidi né poi.
E ancora al v. 7 (poi, tutto il sole disvelò del pari / bello a vedere) e ai vv. 9 e 11:
Ma quel mio sogno al raggio d’un aurora
nuova m’apparve e sparve in un baleno,
che il ciel non era torbo più ne ancora
tutto sereno.
Le due strofe dell’ultimo componimento della sezione, Nel cuore umano,
hanno evidente struttura bipartita e una valenza quasi di proverbio:
Non ammirare, se in un cuor non basso
cui tu rivolga a prova, un pungiglione
senti improvviso: c’è sott’ogni sasso
lo scorpïone.
Non ammirare, se in un cuor concesso
al male, senti a quando a quando un grido
buono, un palpito san-to:ˆogni cipresso
porta il suo nido.
Il primo verso di entrambe, identico metricamente (in 1ª - 4ª - 8ª e addirittura con
rime consonanti -asso/-esso), è seguito da due soluzioni diverse in ciascuna, la
prima strofa presentando una aderenza al modello pascoliano, la seconda
presentando una ‘deviante’ accentazione di 1ª - 3ª - 6ª - 7ª al v. 7, preceduta da
due inarcature consecutive ai i vv. 5-6.
Nella sezione In campagna (5 odi saffiche sui 18 componimenti
complessivi, per un buon 25%) si collocano quasi tutte quelle apparse nella 1ª
edizione di Myricae, coi caratteri più antichi riguardo questa forma metrica nella
sua storia dentro la raccolta, uno dei quali è la gran brevità del componimento; in
generale qui prevale sull’autobiografismo pascoliano la descrittività fugace del
paesaggio, ma tesa ad una maggiore limpidezza oggettiva, con componimenti
molto vari metricamente appartenenti a tutte le edizioni della raccolta.
32
La saffica di apertura, Il vecchio dei campi, presenta nelle prime due strofe
una prevalenza dell’accentazione di 8ª (con eccezione nel v. 5 ad accento ribattuto
in 6ª-7ª posizione), mentre nella terza strofa l’accento di 6ª domina in tutti e tre gli
endecasillabi; da segnalare le ultime due strofe, evidentemente costruite per
analogia (anche per le rime pari delle strofe -ola/-ona):
Racconta al sole (i buoi fumidi stanno
fissando immoti la sua lenta fola),
come far sacca si dové, quell’anno,
delle lenzuola.
Racconta al fuoco (sfrigola bel bello
un ciocco d’olmo in tanto che ragiona),
come a far erba uscisse con Rondello
Buovo d’Antona.
Esse presentano endecasillabi dagli identici caratteri metrici nel primo emistichio
(nell’ordine 2ª - 4ª, 2ª - 4ª, 1ª - 4ª), mentre nel secondo emistichio giocano sulle
variabili accentuative: quelli della seconda strofa prediligono l’andamento di 8ª, di
6ª quelli della terza.
L’ode successiva, la distrofica Dall’argine, ora in ottava posizione nella
sezione, ma che originariamente concludeva la 1ª edizione della raccolta, presenta
le variazioni del secondo emistichio dell’endecasillabo in tutti i versi. Degni di
nota il primo emistichio del v. 2 per via del gioco di sinalefi che formano una
sequenza di ictus di 2ª - 3ª - 4ª (Non a-laˆor-maˆombra nell’azzurro e verde) e
l’attacco del v. 7 per una debolezza tonica atta a marcare maggiormente gli
accenti centrali (e, tra l’azzurro penduli, gli strilli). In questo componimento il
ritmo metrico e il ritmo sintattico coincidono nella fine del verso, tranne nel terzo
di ambedue le strofe, dove la pausa fra gli emistichi cade (come spesso in Pascoli)
su parola sdrucciola non in sinalefe con la successiva, e il ternario residuo si
chiude sintatticamente nel quinario di fine strofa:
Un fumo al sole biancica; via via / fila e si perde (vv. 3-4)
e, tra l’azzurro penduli, gli strilli / della calandra (vv. 7-8).
33
Alla tredicesima posizione, Dopo l’acquazzone presenta un avvio con
endecasillabo canonico immediatamente concluso in uscita di verso da
un’inarcatura, e una fitta interpunzione nel successivo verso
Passò strosciando e sibilando il nero
nembo: or la chiesa squilla; il tetto, rosso,
che si ripete per tutta la strofa successiva; da segnalare un endecasillabo
totalmente giambico al v. 6 (tintinna, canta, aˆonde lunghe romba).
La terza saffica, Sera d’ottobre, due componimenti dopo la precedente,
presenta caratteri canonici in ogni sede metrica senza nessun particolare rilevante
oltre l’inarcatura ai vv. 5-6
Vien per la strada un povero che il lento
passo tra foglie stridule trascina
e una presenza dell’accento di 6ª che sembra funzionale alla nitidezza delle
immagini poetiche (es. al v. 1: Lungo la strada vedi...).
Gli endecasillabi di Novembre, che chiude la sezione, prediligono l’attacco
giambico ma mostrano in ogni caso le consuete variazioni nel secondo emistichio.
Aspetti da segnalare sono: al v. 1, un possibile contraccento in chiusura di verso
(Gemmea l’aria, il sole così chiaro); al v. 3, un’accentazione debole in entrata (e
del prunalbo l’odorino amaro), forse risolta battendo l’accento sulla preposizione
in virtù della preferenza per l’andamento giambico; al v. 9, un possibile
contraccento dovuto alla posizione forte della preposizione (Silenzio, intorno: solo,ˆalle ventate), e soprattutto in un contesto ad elevata frammentazione dovuta
alle interpunzioni; ed è proprio l’intera strofa finale a ricercare particolari effetti
ritmici, come testimonia il penultimo bellissimo verso:
di foglie un cader fragile.ˆÈ l’estate,
fredda, dei morti.
Dove l’accento ribattuto di 5ª-6ª – a meno di non battere ‘càder’ in sistole –
sostituisce quello di 4ª , e l’accento di 6ª è portato da sdrucciola seguita da pausa
sintattica, ma agganciata contemporaneamente in sinalefe all’accento di 8ª .
L’ode saffica Paese notturno, in apertura della sezione Tristezze, presenta
caratteri simili a quelle della sezione In campagna, quali la lunghezza di tre strofe
e la descrizione di un paesaggio bucolico, nonostante il discorso poetico gli
34
conferisca intenzionalmente una ben minore nitidezza. Le prime due strofe
presentano quasi una catena ininterrotta di figure:
Capanne e stolli ed alberi alla luna
sono, od un tempio dell’antico Anubi,
fosca rovina? Stampano una bruna
orma le nubi
su la campagna, e più profonda e piena
la notte preme le macerie strane,
chiuse allo sguardo, dove alla catena
uggiola un cane.
Il discorso è spesso incompiuto in chiusura di verso, per spostamento dei sintagmi
conclusivi nel primo emistichio del verso successivo, e ne risulta un ritmo
tortuoso ben distante da quello della sezione precedente; tuttavia queste tortuosità
non incidono sulla struttura dei versi, che seguono ugualmente l’accentazione
variabile praticata di consueto dal Pascoli. Da segnalare è invece l’effetto ritmico
in chiusa di componimento ai vv. 11-12, dove l’accentazione tronca in 4ª, quella
sdrucciola in 6ª , il segno d’interpunzione forte e la clausola inarcata rendono
‘incesurabile’ l’endecasillabo:
indi non so che candido. Una fronte
bianca di sfinge?
e creano uno ‘spezzato’ con procedimenti simili a quelli appena rilevati nella
strofa finale di Novembre.
La sezione maggiore dell’opera riservata alle saffiche, Alberi e fiori,
formata da 12 componimenti tutti composti (con la particolarità, si vedrà, de Il
castagno) da 5 strofe per un totale di 20 versi ciascuna, mostra un andamento più
flessibile, un discorso poetico spesso pausato e ‘piegato’ in più versi, quasi
seguisse lo sviluppo delle sinuosità delle piante descritte, ma altre volte spezzato e
franto, per es. in questa strofa di Nel giardino, con picco nel secondo verso:
alba a tramonto; nelle tenui trine
l’una si stringe, al roseo vespro, quando
l’altro i suoi fiori, candide stelline,
35
apre, alitando;
in tutti i componimenti la sintassi travalica di frequente con inarcature ‘forti’ i
limiti del verso, come ben esemplifica in apertura Fior d’acanto: tra endecasillabi
(dentato/i petali; snello/sorgi; vuoto/un legno; quanto/miele) e tra endecasillabo e
quinario (d’api/schifa; quale/nera vïola).
Quanto agli schemi ritmici, indico di seguito gli aspetti che mi sono sembrati
rilevanti.
– Nel primo componimento, Fior d’acanto, vanno segnalate: un accentazione di
2ª - 6ª - 7ª al v. 2 (i petali di fi-niˆaghi, che snello), l’andamento dattilico del v. 19
(miele le giova: il tuo nettare ignoto), la debolezza dell’accento di 1ª nei quinari al
v. 4 (da un capitello) e al v. 16 (di tra l’arene);
– Al v. 2 del successivo componimento, Nel giardino, una tonica di 4ª
richiederebbe la doppia accentazione di parola polisillaba composta (dove ora il
pettirosso tintinnìa), secondo un procedimento tipicamente pascoliano che
valorizza anche le posizioni ‘naturalmente’ atone; al v. 13 accentazione di 4ª - 7ª
(ed al sospiro dell’avemaria) e nell’ultima strofa, infine, da notare gli ictus di 2ª 6ª nel v. 17 (e l’anima in quell’ombra di ricordi) e la presenza contemporanea di
accentazione in 2ª - 5ª - 6ª e della rima composta nei versi conclusivi:
e l’ombra di fior d’angelo e di fior di
spina sorride.
(dove si conferma che in questo componimento la congiunzione in attacco di
verso pare attirare le infrazioni allo schema classico).
– Nel parco, il componimento più antico della sezione (risale alla 1ª edizione),
presenta per la prima volta negli endecasillabi una schiacciante prevalenza
dell’accentazione di 6ª su quella di 8ª, con 11 attestazioni per il primo caso e 4 per
il secondo, con la sede della 6ª che predilige leggermente la proparossitona alla
parossitona (musica, fremiti, ruzzano, candido, tremulo, corrono, contro notte,
s’ode, strilli, piedi, cupo); da segnalare anche i vv. 9-10, per una probabile
accentazione giambica nel primo ed una pronuncia ben battuta dell’accento di 4ª
nel secondo
un cicaleccio donde acuti appelli
s’alzano come strilli di piviere:
36
e la quinta strofa, per via degli ultimi tre versi dal ritmo suggestivo dovuto alle
sdrucciole sugli accenti forti ed alla ‘lenta’ inarcatura
ma non s’adira il giovinetto alloro,
il leccio, il pioppo tremulo ed il lento
salice: a prova corrono con loro;
cantano al vento.
– Nella quarta poesia, Rosa di macchia, vi sono accenti ribattuti in 3ª-4ª nel v. 5
(se sottil mano i fiori tuoi non coglie) e in 9ª-10ª sede ai vv. 11 e 19 (irto il rosaio
dondolerà lento ; col suo stornello, e risalirà muta); nella seconda strofa probabili
accenti di 8ª in virtù di pronuncia scandita
non ti dolere della tua fortuna:
le invidiate rose centofoglie,
colgano a ˇ una
con dialefe nel quinario che verrà ribadita al v. 10 (che l’arse foglie ˆ a ˇ una ˆ a ˇ
una stacca).
– Pervinca si distingue invece per la netta dominanza dell’accento in 8ª sede su
quello in 6ª (10 casi per il primo e 5 per il secondo); l’ultima strofa, col quinario
dall’accento in 1ª ben scandito, tuttavia predilige l’accento in 6ª molto
probabilmente per dare a questo momento poetico un respiro più ‘ampio’ o più
lento:
e il bosco alzava, al palpito del vento,
una confusa e morta salmodia,
mentre squillava, grave, dal convento
l’avemaria.
– Il dittamo presenta negli endecasillabi una maggioranza dell’attacco in 1ª
piuttosto che in 2ª; mentre nell’ultima strofa si ha un contraccento di 3ª-4ª del
quinario, raro caso della raccolta:
Bianche ai dirupi pendono le capre;
l’aquila passa nera e solitaria;
sibila l’erba inaridita; s’apre,
sotto il piè, l’aria.
37
– Edera fiorita si apre con un uso anomalo del punto e virgola in chiusura della
prima strofa che pare vada a sospenderla dalla successiva, a cui è legata
sintatticamente, a mo’ d’anacoluto.
Quando, di maggio, tu le dolci sere
imbalsamavi co’ tuoi fiori, ornello
(era un sussurro alle finestre nere
del paesello!);
non ti rincrebbe d’un infermo arbusto
che, mosso anch’egli da dolcezza estiva,
con le sue foglie, come cuori, al fusto
lento saliva.
Si nota come nella prima e nella seconda strofa domina l’accento in 8ª,
diversamente dalla terza e dalla quinta con preponderanza dell’accento in 6ª; si
segnala inoltre la debolezza dell’accentazione di 1ª nei quinari ai vv. 4, 12, 20 (3
sui 5 del componimento) a causa della presenza di preposizioni (del paesello ; del
focolare ; di primavera).
– Viole d’inverno si apre con due discorsi diretti nelle prime tre strofe, senza
nessuna irregolarità tranne un ritmo particolare al v. 6, dovuto alle sinalefi
successive, che presenta contraccento di 3ª-4ª («ogni fog-lia,ˆogni radica, ogni
zolla»); particolarità da segnalare si hanno nell’andamento totalmente giambico
del v. 10 («nell’onda calda in mezzo a nevi e brine»), che si riduce gradualmente
nelle ultime strofe, fino a restare in sola entrata di verso (vv. 14-15: tuo cuore è
l’onda che discioglie il gelo?/ non è la polla, calda nell’oblio; v. 18:
se l’odio
altrui ti spoglia e ti desola).
– La poesia Il castagno ha una struttura particolare all’interno della sezione, in
quanto formata da tre parti ognuna di cinque strofe, per un totale di 15 strofe
complessive e di 60 versi. Nella prima parte il discorso poetico molto fluido
differisce dalle altre composizioni della sezione; unica nota al v. 19 per l’accento
ribattuto di 3ª - 4ª (una fred-daˆombra, che gemé di mesti / cannareccioni) e per
un’inarcatura come ai vv. 11-12 (a mano a mano d’una lieve spuma / verde
coprivi). Nella seconda parte, la seconda strofa ha ritmo decisamente anomalo per
38
via di un’accentazione nel secondo verso di 4ª - 5ª - 8ª , nel terzo verso di 3ª - 6ª e
nel quinario di 3ª - 4ª;
rinumerò tutti i suoi bimbi al fuoco;
e con lui lungamente il tramontano
brontolò roco;
nella terza strofa una fortissima inarcatura al terzo verso («e li schiudevi per pietà
di quelle / povere dita…»); nella quarta strofa un contraccento di 6ª-7ª ed
un’inarcatura nel primo verso, un contraccento di 7ª-8ª nel secondo e
un’inarcatura nel terzo.
Tutti spargesti i car-diˆirti e le fronde
fragili, e tutto portò via festante
la grama turba. Nudo con le monde
rame, o gigante
Nella terza parte si segnala: l’assenza dell’accento di 4ª al v. 49 (ha da te la sua
bruna / vaccherella); un accento di 4ª portato da una parola sdrucciola al v. 55,
unico caso nelle odi saffiche miricee, cui fa seguito un andamento dattilico
rinforzato dall’omeoteleuto (pentola brontola. Il vento fa forza) ed infine la
quinta strofa per la pronuncia battuta dell’accento di 4ª al primo verso e
l’inarcatura al secondo
Nevica su le candide montagne
nevica ancora. Lieto è l’avo, e breve
augura, e dice [...]
– Ne Il pesco, fra le ultimissime liriche entrate nella raccolta insieme alle due
poesie successive, al v. 2 si ha contraccento di 4ª-5ª
Penso a Livorno, a un vecchio cimitero
di vecchi mor-ti;ˆove a dormir con essi
niuno più scende; sempre chiuso; nero
d’alti cipressi
e fra il terzo endecasillabo e il quinario l’inarcatura è replicata anche nelle due
strofe seguenti
Tra i loro tronchi che mai niuno vede,
di là dell’erto muro e delle porte
39
ch’hanno obliato i cardini, si crede
morta la Morte,
anch’essa. Eppure, in un bel dì d’Aprile,
sopra quel nero vidi, roseo, fresco,
vivo, dal muro sporgere un sottile
ramo di pesco.
Nelle due ultime strofe non vi sono segnalazioni tranne il penultimo verso ad
andamento dattilico 1ª - 4ª - 7ª dovuto alla probabile scansione di ‘ére-’ («tu
trovatello in un eremitaggio»).
– Canzone di nozze risulta molto franta a livello di punteggiatura; si rileva un
accento ribattuto in 6ª-7ª al v. 6 (dell’usignuolo! E sian sotto la gronda) e la
particolarità del v. 11 ad andamento giambico rotto dalla successiva forte
inarcatura.
Sì, sì, diranno, vero ver…che liete / grida! che voli!
Nella quarta strofa si segnala un contraccento di 4ª-5ª nel secondo verso e di 6ª-7ª
nel terzo, nel quale appare anche una parola tronca in 4ª sede.
sul far dell’alba, quando tutto ancora
sembra dormir dietro le imposte unite!
Sembra, e non è. Voi sì, forse, in quell’ora,
madri, dormite.
– L’ultima poesia della sezione, I gigli, predilige l’andamento di 8ª rispetto a
quello di 6ª (limitato alle prime due strofe); nella prima strofa da segnalare
’accentazione di 4ª ‘oscurata’ nei vv. 2 - 3 e due inarcature forti ai vv. 1 - 3,
soprattutto per il fatto che la prima inarcatura intacca una locazione geografica
Nel mio villaggio, dietro la Madonna
dell’acqua, presso a molti pii bisbigli,
sorgono sopra l’esile colonna
verde i miei gigli:
Nella seconda strofa si manifestano nell’ordine: accento di 4ª oscurato nel primo
verso, periodo iniziato nel primo e terminato nel secondo ed esclamazione
parentetica in uscita del terzo verso,
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miei, ché a deporne i tuberi in quel canto
del suo giardino fu mia madre mesta.
D’altri è il giardino: di mia madre (è tanto!...)
nulla più resta.
Nella terza strofa, ricca di inarcature, un particolare accento ribattuto in 6ª - 7ª è
dovuto all’epanalessi nel v. 11 (cesti d’ortica; ed o-ra…ˆora saranno).
2.2. Fuori sezione
La prima delle odi saffiche isolate è La civetta e si incontra nella raccolta
subito dopo la sezione quarta Creature; essa consta di 8 strofe caratterizzate dalla
costante, ‘strutturale’ inarcatura tra il terzo endecasillabo delle strofe e il quinario:
quando tra l’ombre svolò rapida una / ombra dall’alto (str.1);
che passò l’ombre e scivolò nel lume / pallido e muto (str.2)
rigidi, ognuno con tra i rami un nido / addormentato (str.3)
sonare, ecco, una stridula risata / di fattucchiera (str.4)
dal palpitar di tutta quella vita / dentro i cipressi (str.5)
con gli occhi aperti sopra il triste mondo / addormentato (str.6)
Solo nelle ultime due strofe periodo metrico e sintattico
non coincidono,
spezzando i versi:
Morte, lo squillo acuto del tuo riso
unico muove l’ombra che ci occulta
silenzïosa, e, desta all’improvviso
squillo, sussulta;
e quando taci, e par che tutto dorma
nel cipresseto, trema ancora il nido
d’ogni vivente: ancor, nell’aria, l’orma
c’è del tuo grido.
Per quanto riguarda invece la struttura dell’endecasillabo si segnalano in
particolare, per il loro valore ‘espressivo’, un accento di 4ª tronco al v. 19, un
accento ribattuto in 7ª-8ª al v. 3 (quando tra l’ombre svolò rapidaˆuna) e una atona
41
in 4ª posizione al v. 15, a tutto vantaggio dei contraccenti ‘ad effetto’ (patetico e
onomatopeico) di 2ª e 3ª (sonare, ecco, una stridula risata).
Alla metà della raccolta, prima della sezione Elegie, è collocata la
successiva ode Campane a sera, tra le prime comparse in Myricae; 11 strofe dalla
struttura metrico-sintattica regolarissima, con apice nella terza e quarta strofa:
Forse una pieve ne’ cilestri monti
la sagra annunzia ad ogni casolare,
onde si fece a’ placidi tramonti
lungo parlare;
ed or, sospeso il ticchettìo dell’ago,
guardano donne verso la marina,
seguendo un fiocco di bambagia, vago,
che vi s’ostina.
Poche inarcature forti, ai vv. 3-4 e 39-40 (sonore / grida ; solitaria / ombra). Il
primo verso della quinta strofa si segnala per la sequenza particolare d’accenti 1ª 2ª - 4ª - 6ª - 7ª (Gran-diˆocchi, sotto gran-diˆarchi di ciglia), e i quinari ai vv. 16
e 32 per l’ attacco debole («che vi s’ostina», «e d’avellane»).
Ida e Maria invece segue la sezione Elegie; composta di 7 strofe, presenta
nella prima parte molte inarcature (ai vv. 7-8, 11-12, 15-16: qual seccia arata
nell’autunno, quando / chioccola il merlo; mentre vi mira bionde la lucerna /
silenzïosa; però che i morti chiamano e ch’io devo / esser con loro), con picco
nella frantumazione della quinta strofa:
Ma non sia raso stridulo, non sia
puro amïanto; sia di quei sinceri
teli, onde grevi a voi lasciò la pia
madre i forzieri;
V’è inoltre l’assenza della cesura pentemimere al v. 6 («rigasi il lin, miracolo a
vederlo») e al v. 27 («ne’ prati al plenilunio sereno»).
L’ultima ode saffica, Germoglio, è collocata fra l’undicesima sezione
(Primavera) e la dodicesima (Dolcezze); composta di 10 strofe, presenta
inarcature notevoli:
42
medita, il vecchio, rame, pei viticci / nuovi, pur nuove (vv. 5-6)
fiorisce a spiga per le prode il rosso / pandicuculo? (vv.15-16)
mosto che cupo brontola e tra nere / ombre sospira [...] (vv. 25-26)
spunta da un nodo una lanosa foglia / molle di gomma (vv. 39-40).
Alla tendenza a non far coincidere il discorso sintattico con quello metrico, che
genera un componimento ‘attorcigliato’ su se stesso, si aggiungono alcune vistose
anomalie ritmiche: i contraccenti di 2ª - 3ª - 4ª al v. 3 (spuntar vi-diˆuna, lucida di
gomma), o quelli in 3ª - 4ª e 6ª - 7ª al v. 17 (È del fior d’uva ques-taˆambra che
sento); presenza dell’unica bisdrucciola in una saffica miricea al v. 11 (mentre su
loro tremolano ai venti); mancanza di cesura pentemimere e debolezza di accento
di 4ª ai vv. 14 (il canto dell’aereo cuculo?) e 27 (allor che singultando nel
bicchiere).
2.3. Conclusioni
Riassumendo quanto è emerso dalla disamina sulle peculiarità della struttura
saffica pascoliana, si può notare come:
– l’inarcatura sia frequente tra tutti i 4 versi della strofa, con prevalenza fra
l’ultimo endecasillabo e il quinario (rimembrando forse l’antica sinafia che li
legava) e mai da strofa a strofa in maniera forte;
– l’interpunzione sia molto fitta, tranne casi isolati, e in ogni sede del verso,
spesso con evidente propensione a far coincidere la pausa sintattica con la cesura
pentemimere o in generale vicino agli accenti forti;
– la frantumazione del verso, con limite del discorso sintattico non coincidente
con quello metrico, è una caratteristica propria della sezione Alberi e fiori, ancora
di più nelle tre ultime poesie più recenti, diversamente dalle altre odi, con
l’eccezione di Paese notturno (nella prima parte) e di Germoglio (che infatti
richiama l’idea di pianta!);
– riguardo al modello accentuativo di base: l’alternanza tra ictus di 6ª e di 8ª si
riscontra in tutti i componimenti, con poche nette prevalenze dell’uno rispetto
all’altro, tuttavia va detto che le ‘infrazioni’o eccezioni indicate si verificano assai
più frequentemente con la presenza dell’accento di 6ª; l’accento di 4ª è quasi
sempre rispettato, e così la cesura pentemimere; i contraccenti più frequenti sono
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quelli ai margini della 6ª posizione, quello di 5ª e quello di 7ª; gli endecasillabi
completamente giambici sono tendenzialmente evitati, a meno di non accentare
sillabe atone, secondo il tipico procedimento pascoliano; nei quinari si cerca di
evitare l’uso di un’unica parola, con i casi di accento debole di 1ª a causa
prevalentemente di congiunzioni o preposizioni; la prima parte degli endecasillabi
presenta sovente incertezze toniche a causa di particelle atone sia in 1ª che 2ª
posizione; le composizioni più ‘regolari’ sono in genere (con le dovute eccezioni)
quelle non appartenenti alle due sezioni maggiori, Alberi e fiori e Pensieri.
3. Correlazioni tematiche nelle diverse sezioni
La diversa struttura della strofa saffica nelle sue differenti posizioni nella
raccolta, porta a interrogarsi sul significato di tali variazioni dello schema metrico,
e, dato che “forma e contenuto” coincidono sempre, si cercherà di trovare le
‘corrispondenze’ tra i componimenti qui analizzati, sia della stessa sezione sia tra
sezioni differenti.
La sezione Pensieri tratta di tante delle tematiche pascoliane che
appariranno nelle sue Myricae, ma anche nella sua produzione futura: il dolore
ineliminabile che aiuta a renderci buoni (Tre versi dell’Ascreo, Pianto) e l’invito
ad essere parchi nel festeggiare onde evitarlo (I tre grappoli, Convivio); il mistero
impenetrabile che avvolge le cose anche per chi guarda bene (Morte e Sole,
Sapienza, Tra il dolore e la gioia); l’unione stretta di nascita e morte (Cuore e
cielo); la vacuità dell’agire umano e della sua felicità (Tra il dolore e la gioia,
Convivio); la compresenza di bontà e di cattiveria nell’uomo (Nel cuore umano).
Si può notare come la sezione sia infarcita, nelle sue poesie brevi e di carattere
sentenzioso, di letteratura classica specialmente greca (la traduzione di Esiodo in
Tre versi dell’Ascreo, il passo di Diogene Laerzio sul saggio Anacarsi ne I tre
grappoli, le citazioni di Alfa e Omega di Cuore e cielo, la poesia Convivio che
prende spunto da personaggi come Aristotele e Epicuro con la menzione esplicita
dell’Imetto); si coglie anche un’alternanza tra componimenti dove prevale la
funzione conativa (scandita dai vocativi «o saggio», «sapiente», «convitato della
vita»), quelli dove non appare un destinatario vero e proprio (nella parte centrale,
le poesie Cuore e cielo, Morte e sole, Pianto), ed altri (apparsi nelle edizioni tarde
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della raccolta) dove prevale la funzione lirica, nelle quali Pascoli parla delle
proprie esperienze, quasi egli volesse riferirsi a sé come ‘allievo’ e ‘docente’ allo
stesso tempo.
Un’altra caratteristica della sezione è la struttura topologica (alto vs basso),
la verticalità che orienta lo sviluppo del discorso poetico, come appare evidente
nella «altura» di Sapienza e nel «monte» di Tra il dolore e la gioia, ed ancora di
più nella «costellazione lugubre» e nell’«astro» di Morte e Sole; nel cielo «oceano
profondo» di Cuore e cielo, ma anche ne I tre grappoli, dove nel «muto pianto già
pianto» il dolore grida «alto»; in Nel cuore umano nel «cuor non basso» che
nasconde lo scorpione «sott’ogni sasso», contrapposto all’altezza del «cipresso»
che ha sempre «il suo nido» (questa immagine pascoliana per eccellenza), o nelle
figure del Convivio quali i «lampadari», il (monte!) «Imetto» e «delle morenti
lampade lo svolo / lugubre», ed infine anche nell’immersione dentro il «cupo
fiume errante» di Tre versi dell’Ascreo e nel «fiore cui la pioggia estiva lascia una
stilla dove il sol si frange» di Pianto.
Altra evidente caratteristica della sezione è la tendenza a far coincidere
elementi che si contrappongono: particolare la purezza dei versi tradotti di Esiodo,
con l’acqua pura, monda, lucente, che viene ribaltata dalla concezione di Pascoli
del fiume «cupo» nella prima poesia; ne I tre grappoli il «nero sonno» viene
contrapposto al dolore che «vigila» ma «con lo sguardo acuto»; Sapienza presenta
l’altura ossimoricamente come «centro della lontananza», che «l’occhio del
pensiero» scruta però con l’avvicinamento di «ombra e mistero»; in Cuore e
Cielo, il tramonto dell’Alfa e il pullulare contemporaneo dell’Omega, il «cielo,
oceano profondo», ma anche l’ascensione e l’annegamento del «pensier nostro»;
in Morte e Sole la morte come «costellazione / lugubre che in un cielo nero brilla»
che la «pupilla» deve leggere e non può, così come il sole è «immoto astro» ma si
vede solo «un vòto vortice, un niente»; e ancora: il «banchetto» dove splendono
«d’aurea luce i lampadari» e successivamente le «morenti lampade» sempre però
«su la mensa ingombra» di Convivio; il pianto che sembra sorriso e il «lacrimoso
pianto» di Il passato; il «monte in cima» che «prima, il sonante nembo …
ascondeva» e «poi, … il sole disvelò», col sogno che «apparve e sparve in un
baleno», nella poesia Tra il dolore e la gioia; infine la più evidente
45
contrapposizione tra il «cuor non basso» che presenta «lo scorpione» e tra il «cuor
concesso al male» dove si sente «un grido buono, un palpito santo» di Nel cuore
umano.
In questa sezione si può riscontrare inoltre una presenza costante dello stato
liquido: i «perenni fiumi», la «corrente pura», la «monda acqua» di Tre versi
dell’Ascreo; l’invito a bere e il «limpido piacere» della successiva: il «torrente»
che ha «il suo nido» nella «romita altura» di Sapienza; il cielo «oceano profondo»
di Cuore e cielo; la «pioggia estiva» e l’«occhio che piange» di Pianto; i «calici di
vino» di Convivio, e, se si può dar spazio all’interpretazione, il «nembo» e il
«palpito» del cuore (insieme allo «scorpione» e quindi al suo veleno)
rispettivamente nelle ultime due poesie della sezione.
Da segnalare la non totale presenza dell’oscurità, in favore di una vera
alternanza con la luce, quasi come momenti di lucidità e di chiarezza che
svaniscono e riappaiono: «acqua lucente» contro «cupo fiume» nella prima
poesia, la ‘lucidità’ di quando non si beve troppo nella seconda, il desiderio che
«si spenge» con la speranza che «brilla» e la diversa visibilità delle stelle di una
costellazione in Cuore e cielo, la Morte «costellazione lugubre che in un nero
cielo brilla» e il Sole «vòto vortice» nella quinta, l’«occhio [chiuso] che piange»
avvivato da un «raggio» nella sesta, i lampadari splendenti «d’aurea luce» e poi
«morenti» nella successiva, le «nubi nere» che nascondevano il monte del sogno
seguite dal sole che lo «disvelò» in Tra il dolore e la gioia.
Riguardo ai componimenti presenti nelle sezioni In campagna e Tristezze,
Pascoli tratta:
– di un vecchio che ricorda «solo ormai» di un ponte «quando non c’era», e che
«racconta al sole … [e] al fuoco» un anno di abbondanza e le imprese leggendarie
di Buovo d’Antona e il suo cavallo in Il vecchio dei campi;
– di una immagine della campagna placidamente visiva nella prima strofa poi
vivacemente uditiva nella seconda in Dall’argine;
– della pioggia che rinfresca il cimitero portando profumi e della vita dei bambini
che giocano in Dopo l’acquazzone;
– in Sera d’ottobre, del ritorno di un vecchio dal «lento passo» dalla strada e il
canto di «una fanciulla al vento»;
46
– di paesaggi popolati di parvenze inquietanti: in Novembre quello autunnale che
si contrappone alla denominazione di ‘estate di San Martino’ e al ricordo
dell’estate; in Paese notturno quello campestre trasformato in «fosca rovina» e
«macerie strane» alla luce della luna, dove appaiono le figure mitologiche
egiziane di Anubi e della sfinge.
Uno dei temi conduttori che legano questi componimenti può ritrovarsi
innanzitutto nel riferimento alla letteratura. Evidente nel primo componimento in
quanto si cita Buovo d’Antona, personaggio del poema di Andrea da Barberino (I
reali di Francia), la cui storia era diffusissima tra le campagne; nella seconda
poesia, invece, per la figura della «calandra», una specie di allodola, la cui
immagine nella letteratura era presente in maniera assai cospicua, soprattutto nel
periodo ottocentesco vicino a Pascoli (da Shakespeare a Shelley, Baudelaire, ma
anche nella letteratura cristiana come simbolo di preghiera e ascensione), come
voce annunziatrice; e ci sono poi due dei suoi ‘maestri’ ispiratori (e insieme idoli
polemici): la ‘quiete dopo la tempesta’ di leopardiana memoria in Dopo
l’acquazzone, il famoso San Martino di Carducci in Novembre; e gli echi del
decadentismo europeo nelle figure della sfinge e di Anubi in Paese notturno. Ma
c’è anche la tradizione dei canti popolari nel primo verso di uno stornello iniziato
(e lasciato in sospensione) dalla voce femminile in Sera d’ottobre.
Altro aspetto che correla questi componimenti è il legare il ‘passato’ al
‘presente’, spesso attraverso il ricordo. Nella prima c’è il vecchio che canta al
presente («racconta al sole […] racconta al fuoco», mentre «i buoi fumidi stanno»
e «sfrigola bel bello un ciocco d’olmo») del ponte che non c’è più, dell’anno
abbondante di un tempo lontano come quello del poema di Andrea da Barberino.
Dopo l’acquazzone presenta prima la pioggia e poi il suo effetto, ma soprattutto lo
«stuolo» di bambini che gioca «presso la chiesa» e l’annesso cimitero, la
giovinezza e ciò che non c’è più; poco oltre, in Sera d’ottobre, il «povero» che
«trascina» il suo «lento passo» è affiancato dalla figura della fanciulla che canta.
È invece l’ambiguità profonda dell’equivalenza fra cio che ‘è’ e ciò che ‘si
percepisce’ che lega Novembre e Paese notturno: nel primo «gemmea l’aria», il
«sole così chiaro», «gli albicocchi in fiore», «ma secco è il pruno, e le stecchite
piante...»; nel secondo le «capanne» e gli «stolli» appaiono come delle «macerie»
47
e rievocano le antiche figure mitologiche egiziane del passaggio alla morte
(Anubi) e dell’enigma (la sfinge).
Infine si può osservare come il senso dell’udito e quello della vista in molti
casi vengano presentati nello stesso momento e a volte tramite lo stesso verbo;
esemplari nella sezione In campagna il vecchio che racconta a due esseri che non
possono ascoltare ma che vede interloquire con lui; le due strofe che compongono
Dall’argine, una visiva e una seconda uditiva (che però non rinuncia alla ‘vista’:
gli strilli della calandra «tra l’azzurro penduli»); e nelle altre odi il nero nembo
che stroscia, il tetto, rosso che luccica e la chiesa che squilla ; oppure le bacche
che «vedi su la siepe ridere»; o il grande silenzio nel quale le piante stecchite
formano «nere trame» (‘trame’ termine sia musicale che cromatico) e il terreno
che sembra «cavo al piè sonante».
La sezione Alberi e fiori si compone, per sei poesie su dodici, di
componimenti in origine ‘d’occasione’, con un particolare destinatario: la prima
ad Egisto Cecchi, figliastro del primo editore di Myricae, che regalò al poeta una
piantina di acanto; la terza a Mario Racah, affittuario della casa di Pascoli a
Livorno e che viveva vicino a lui in una grande palazzina; la settima ad Ettore
Toci, insegnante collega di Pascoli e suo grande amico; a Francesco Pellegrini, un
altro insegnante amico del poeta, la nona; ad Adolfo Cipriani, amico del poeta, la
decima, e ad Enrico Bemporad, suo editore, l’undicesima, come augurio per le
nozze.
Tutte le poesie si mostrano, come già visto a livello metrico, ‘flessibili’
come le piante che qui sono descritte, ma si può notare come questa sensazione di
snellezza sia spesso affiancata da un senso di vigore, sia come robustezza che
come resistenza: si veda Fior d’acanto:
Fiore di carta rigida, dentato
i petali di fini aghi, che snello
sorgi dal cespo, come un serpe alato
da un capitello
e anche come un «duro calice», paragonato poi alle «viti di tra i sassi» e ai «mirti
di tra le arene». Nel giardino presenta il vigore interscambiabile tra il gelsomino
«rampicante al muro» e la gaggìa, dove quando uno fiorisce l’altra si chiude in sé;
48
Nel parco «i monelli / del giardiniere», sono insieme a «il giovinetto alloro, / il
leccio, il pioppo tremulo ed il lento / salice» che «a prova corrono con loro; /
cantano al vento», mentre il palazzo «torvo, aggrondato, […] candido» li guarda
«formicolare a’ piedi suoi»; ne La pervinca, invece, il fiore il cui «stelo […
confonde a] stelo», essendo i suoi rami aggrovigliati tra loro, sta «sotto i vecchi
tronchi» o «presso l’arche […] lungo le mura»; Il dittamo presenta la pianta come
dotata di «immensa virtù ne’ chiomanti capi» e come «cespo lanoso», che si trova
sulle «balze degli aerei monti» e sui «dirupi». E si ha di nuovo la compresenza
antitetica, nel mutare delle stagioni, del vigore e della debolezza: in Edera fiorita
c’è l’infermo arbusto dell’edera mentre a maggio l’ ornello fiorisce, e poi il verde
di questa che nell’inverno «o vecchio ornello, te ricopre e veste»; in Viole
d’inverno ci sono le resistentissime «violette / serene come un lontanar di monti al
puro occaso» al gelo che «brucia dalle stelle […] ogni foglia, ogni radica, ogni
zolla»; e c’è la solidità de Il castagno attraverso le stagioni, nonostante le altre
piante fioriscano ed egli venga continuamente depredato, con la corrispettiva
solidità del suo «aspro cardo» ed anche della «prole» del «villano» che lo userà
per rinvigorirsi. Il pesco è come un «gracile e selvaggio [...] trovatello» in un
«eremitaggio / d’anacoreti» rappresentati dai cipressi «alti» dentro un «vecchio
cimitero»; in Canzone di nozze la solidità della casa e del nido famigliare (si sa
quanto caro al poeta) preannuncia un sogno «biondo» con le «fascie di lino» già
nel giardino, il fiorire di una ventura vita; I gigli stanno nel giardino della vecchia
casa del poeta «sopra l’esile colonna», ed «ogni anno / escono ancora a
biancheggiar tra folti / cesti d’ortica».
Un’altra caratteristica comune di questi componimenti si potrebbe trovare
nella presenza di motivi mistici e/o liturgici: in Fior d’acanto esso è il «calice»
servito all’ape legnaiola piuttosto che all’ape «piccola e regale» che lo «sdegna»,
ma si ha anche la comparazione con «un serpe alato / da un capitello»; Nel
giardino le strofe finali recitano:
ed al sospiro dell’avemaria,
[......] il cuore in una pia
ombra si chiude;
49
e l’anima in quell’ombra di ricordi
apre corolle che imbocciar non vide;
e l’ombra di fior d’angelo e di fior di
spina sorride.
Nel parco descrive «un’ampia musica di foglie» mentre «muto è il palazzo» che
mira gli alberi ‘prendere vita’ e giocare e cantare con i bambini; in Pervinca il
fiore si trova tra l’arche dove «errava un cappuccino / [...che] pareva spettro da
quell’arche uscito, / bianco la barba e gli occhi d’un turchino / vuoto, infinito; //
come il tuo fiore», ed il poeta crede di vedere «occhi di cielo, dallo sguardo fiso, /
d’anacoreti» mentre «il bosco alzava, al palpito del vento, / una confusa e morta
salmodia, / mentre squillava, grave dal convento / l’avemaria»; e la menzione del
«vecchio cimitero» e dell’«eremitaggio / d’anacoreti» ritornerà ne Il pesco. Il
dittamo è esposto alla finestra durante la «processione» del «Corpusdomini», e
possiede «immensa virtù» perché è «farmaco certo» che il poeta vorrebbe per
curare la sua «ferita»; in Viole d’inverno il «poeta» dovrebbe avere «nel pio [...]
cuore» «l’onda che discioglie il gelo», così da far spuntare «al tepor dell’anima
[...] pura / qualche vïola»; nell’ultima poesia, I gigli, si ha la locazione geografica
della «Madonna / dell’acqua», la locazione dei gigli che «forse già sono su l’altar
[...] nel pregar sommesso / meridïano», ed il poeta infine vuole ritornare lì per
«morirvi in pace / presso i [...suoi] morti». Naturalmente, come si evince dagli
esempi, anche in queste saffiche ritroviamo il tema dominante delle stagioni, caro
a Pascoli e ampiamente diffuso in tutta la raccolta miricea (e non solo).
Ciò che si può infine dedurre dall’analisi tematica delle odi saffiche di
Myricae è che i motivi comuni a ciascuna sezione analizzata si ritrovano spesso
anche nelle altre. Per fare solo qualche esempio: la ‘verticalità’ della sezione
Pensieri è ben ribadita in Alberi e fiori, per i fusti delle piante ma anche per altri
indizi (i dirupi in Dittamo, le montanine che salgono e scendono in Rosa di
macchia e Il castagno, il Fior d’acanto «serpe alato», l’Edera rampicante
l’ornello, la casa di Canzone di nozze «sopra un rivo, sopra le stipe, sopra le
ginestre» e «sotto la gronda / rondini nere», il «torvo, aggrondato» palazzo di Nel
parco etc.); ed è presente anche nelle saffiche isolate (La civetta «ombra dall’alto»
che passa «sopra il triste mondo», le campane e la rievocazione delle torri
50
d’Urbino in Campane a sera, i sintagmi «piovere mosto» «sdrucciola vino»
«quando tutto cade» e la «profonda cavità» dalla quale il poeta sente «il canto
dell’aereo cuculo» in Germoglio).
Lo stesso può dirsi per i paradigmi oppositivi che appaiono nella sezione
Pensieri : il legame tra ‘passato’ e ‘presente’ trova corrispondenza nelle ‘stagioni’
della sezione In campagna e di Alberi e fiori, ma anche nelle odi isolate: per
esempio nella contrapposizione delle giovani Ida e Maria che cuciono un
«funebre panno», nel ciclo della vita intera della vite in Germoglio, nel ricordo
delle «torri d’Urbino» del poeta e quindi della sua infanzia. Il non totale dominio
dell’oscurità dei Pensieri si ritrova in colori più sfumati nelle poesie della sezione
In campagna («Non ala orma ombra nell’azzurro e verde» in Dall’argine, il
vecchio che racconta «al sole [...e] al fuoco» ne Il vecchio dei campi, il «vel di
pioggia che vela l’orizzonte» nella in Dopo l’acquazzone, tutta la poesia
Novembre che gioca sulle sfumature del termine ‘estate’) ma anche in contrasti
ben più simili alla seconda sezione ‘a maggioranza’ saffica: per esempio in Paese
Notturno con la «falce d’oro» e la «fronte / bianca» contrapposte alla «bruna /
orma» delle nubi.
Inutile dire, poi, che le fonti letterarie, anche se meno evidenti che in
Pensieri, si colgono anche nelle sezioni ‘safficamente minoritarie’: in Alberi, per
esempio, Il dittamo si rifà ad un passo di Cicerone, e la sezione presenta continue
reminescenze virgiliane.
Venendo, infine, alle quattro saffiche isolate, meriterebbero ciascuna
un’analisi specifica che qui non possiamo svolgere: ci limitiamo a ricordare che
La civetta tratta dell’uccello notturno visto, in questo caso, come rappresentazione
della morte continuamente presente e unica vera realtà anche tra il sonno dei nidi
nei cipressi; in Campane a sera domina il tema del ricordo, dove la prima parte
della poesia descrive una probabile festa nel luogo prossimo a dove si trova il
poeta, e la seconda invece del suo passato ad Urbino e della di quel tempo; Ida e
Maria rappresenta come simboliche cucitrici le due sorelle del poeta alle quali
chiede di fabbricargli un panno funebre per tornare dai morti; Germoglio, nella
sua struttura circolare, fa ripercorrere al poeta il ciclo simbolico della sua vita
attraverso quello del germoglio della vite, che fiorisce, diventando grappolo, poi
51
mosto, infine vino durante l’autunno quando tutto cade e muore come il pensiero
del poeta. Queste odi, probabilmente per il fatto che non fanno parte di una stessa
sezione, non presentano caratteristiche tematiche affini; il Pascoli, ricorrendo
spesso a simboli ‘trasparenti’ o da lui stesso interpretati nel testo, vi svolge in
modo più ‘diretto’ alcuni grandi temi della propria ispirazione e riflessione
poetica (la Memoria, il rapporto Morte/Vita, la protezione del Nido, etc.).
Complessivamente, si può dire che sul piano tematico le odi saffiche siano
legate fortemente tra loro, in un continuo gioco di rimandi, con alcune odi
singolari che si distinguono dalle altre per la loro particolare ‘oscurità’ ambigua e
quasi morbosa (Paese notturno, Novembre, Morte e Sole, La civetta) o per motivi
al contrario più vitalistici (Germoglio, Canzone di nozze, Campane a sera); la
differenza vera e propria è nell’uso della forma metrica, che ha sue peculiarità in
ogni sezione, sia nel rapporto metro-sintassi (interpunzione, inarcature, etc.), sia –
più vistosamente – nella misura: odi brevi nel genere sentenzioso (Pensieri) o
bozzettistico (In Campagna), odi più elaborate sintatticamente nella descrizione
botanica (Alberi), odi lunghe (fuori sezione) dalla struttura articolata o bipartita.
Insomma, si potrebbe notare come questo diverso uso della saffica ribadisca la
costante pascoliana dell’ ‘unione di contrapposizioni’.
52
IV. APPENDICE
1. La saffica prima di Myricae: varianti autografe
Utilizzando i materiali pascoliani offerti dalla preziosa edizione critica della
raccolta curata da Giuseppe Nava, in base agli autografi disponibili si darà conto
dell’evoluzione di alcune delle odi dall’idea originaria fino alla redazione a
stampa.
Il primo componimento saffico di cui si abbiano tracce, in un quadernetto
databile 1890 e in una copia in pulito del 1891 simile al testo definitivo, è l’ode
Tre versi dell’Ascreo45. Nella primissima stesura Pascoli rende in prosa la
traduzione degli esametri di Esiodo, dalla quale espungerà i termini *«piedi»,
*«belle» riferito alle correnti, e *«soave» riferito all’acqua lucente.46 Nella prima
elaborazione in versi, il v. 5 «dice il poeta. E così guarda, o saggio» era
inizialmente concepito *«il savio dice - E così volgi, o saggio», mentre il
successivo presentava molte varianti per l’aggettivo riferito al fiume: *«luccicante
- risonante - mormorante - mareggiante - lustreggiante»; permane a lungo
un’incertezza sulle posizioni di «sempre» e «reca» negli ultimi due versi, che
nella copia del 1891 recitano *«passa, e le mani sempre dal passaggio / reca più
sante», mentre i due termini saranno nuovamente invertiti nell’edizione definitiva.
Ultima la sostituzione del verbo al v. 3 *«pura, e le mani metti nella monda» con
il ben più onomatopeico «tuffi».
La stesura di Campane a sera47 fu più complessa, testimoniata dalla
presenza di due prime stesure parziali della prima parte del componimento, una
terza con le prime cinque strofe e con un abbozzo dell’ottava, e le ultime due che
presentano correzioni sulla poesia ormai completa. La prima strofa della poesia,
già dalla primissima stesura, pare non aver subito modifiche rispetto al testo della
princeps, mentre la genesi della seconda risulta assai più complicata: nel v. 7 la
«pieve» viene qualificata inizialmente come *«festante - sonante - sussurrante»,
mentre nella successiva elaborazione, simile alla definitiva, si ha solo
45
NAVA, pp. 336 sg.
Con l’asterisco indico le varianti provvisorie espunte dalla redazione definitiva.
47
NAVA, pp. 410 - 417.
46
53
un’incertezza su «dietro» del v. 7, con varianti *«dopo - di su - su da - di tra». La
seconda stesura consta di una strofa che sarà poi espunta.
*O pieve nota, e ch’io non so se vidi
più della gioia che finì, lontana
invan mi reca i tuoi tremuli gridi
la tramontana!
Nella terza redazione le prime cinque strofe sono simili alle definitive, tranne il v.
9 che recita *«Certo la sagra intimano tra’ monti», probabilmente modificata per
l’effetto ritmico non consono all’endecasillabo saffico pascoliano (la 6ª e 8ª sede
entrambe atone per la bisdrucciola), e i vv. 19-20 che presentano rispettivamente
*«fa sbalzar - minia» al posto di «allumina» e *«linee» al posto di «boschi». Nella
quarta stesura il testo è ormai quello definitivo, tranne per la mancanza della sesta
strofa che verrà aggiunta in seguito; si segnalano la variante *«nell’alto» al posto
di «nel vespro» al v. 2, l’incertezza tra «Forse» e *«Certo» al v. 9, *«nero
dell’elci» rispetto ad «opaco d’elci» al v. 27, al v. 22 la «strana e cupa
lontananza» presenta le varianti *«triste e strana - dolce e fonda - fonda e triste dolce e cupa», mentre nella sesta strofa l’iniziale *«mi parlate» viene sostituito da
«tinnite». Le ultime due stesure presentano solo note esplicative riguardo al
componimento e varianti interpuntive, se si eccettua l’incertezza tra l’uso di
*«sembra» e «pare» tanto al v. 39 che al 41.
Il componimento Novembre48 avrebbe dovuto inizialmente chiamarsi *S.
Martino, e risalirebbe al 1889; successivamente, nella prima stesura giuntaci, il
titolo diventa *L’estate dei morti e presenta una traccia in prosa da cui Pascoli
espungerà moltissimi termini
*il sole risplende, il cielo azzurreggia, come
quando il villano prende in mano la falce;
ma la neve è alle colline:
[la] brezza punge.
Tu aspetti nella vigna la voce [il verso] del cucco;
48
NAVA, pp. 462 - 464.
54
ma la vite ha roggi i pampini;
...
Non c’è nel campo né stornello, né gorgheggio [trillo]:
...
un gran silenzio è nel cielo azzurro...:
qualche tintinno di pettirosso; un rombo di stormi fuggenti.
La tramontana spicca a una a una le
foglie gialle dei pioppi: esse cadono
lente con un secco crepito: è l’estate
fredda de’ morti.
Ma lascia invariata l’idea alla fine dell’appunto, che diventerà il verso «è l’estate /
fredda, dei morti». Nella successiva redazione ha già preso forma la struttura
tristrofica, ma con variazioni al primo verso in *«Azzurro è il cielo, il sole è così
chiaro» e soprattutto nella seconda strofa, che sarà profondamente rinnovata nella
versione definitiva
Ma né il cuculo canta ancor da lunge
misterioso, né il ramarro guizza:
rada è la siepe, giallo il pioppo: punge
acre la sizza
L’ultima stesura presenta solamente una variazione all’inizio del primo verso tra
*«L’aria è gemmante» e il definitivo «Gemmea l’aria».
Dell’ode Germoglio49 restano tre abbozzi: il primo risalirebbe al 1892 e
presenterebbe degli appunti in prosa, alcuni poi accettati dal poeta (lucide di
gomma - piccole foglie) ed altri espunti *(le lustranti messi - il cimitero - le canne
in fiore); la stesura della prima strofa è simile alla princeps tranne che per la
*«quercia» al posto della «vite» al v. 1 e per la «ruggine» del v. 2 incerta se essere
*«galleggiante - scabra», mentre gli ultimi due versi faranno parte della redazione
definitiva. Nella seconda stesura si sottolinea: al v. 5 *«lustra» non è stato ancora
cambiato in «brilla» e al v. 15 si legge ancora *«fiorì» e non «fiorisce»; ben
lontane dalla forma definitiva sono la terza strofa:
49
NAVA, pp. 473 - 476.
55
Tremano i tralci verdi a foglie d’oro
e torno torno cercano coi lenti
viticci un ramo. Il ramo ancor, su loro,
dondola ai venti
e ancor più la quinta, seguita nel manoscritto da un’altra che verrà poi espunta:
non d’odor d’ambra che il fior d’uva rende
è questo che tra i pampani già sento?
ne li irti stami il grappolo già splende
come d’argento?
*che verde ancora vede il grano d’oro
cedere a l’uomo con la falce al pugno
e muto il campo che ondeggiò canoro
sempre di Giugno
La sesta strofa reca nei primi due versi la lezione *«che al sol di luglio a pochi
chicchi invaia / che ingrossa a l’acque fumide d’agosto», poi radicalmente
modificata; la settima è pressoché nella forma definitiva così come l’ottava, tranne
che per l’eliminazione dei termini *«giova - bere» sostituiti rispettivamente da
«rosso - brilla»; la nona presenta le foglie che *«passano [...] stridule» invece di
«volano» ed infine v’è la decima strofa simile alla redazione finale, a parte
qualche incertezza sulla persona che regge il verbo con *«egli è un sogno che
sognai» del v. 37 e *«vedo spuntare una lanosa foglia» del v. 39.
Paese notturno50 consta di due stesure. Nella prima, ancora in fase
elaborativa, la prima strofa presenta una sola significativa variazione (*«mete» al
posto di «stolli»); la seconda reca *«l’irto greppo» (che diventerà «campagna») e
*«nero il buio» (che diventerà «profonda e piena [...] notte»); la «falce d’oro»
della terza *«splende» e dipinge *«un casolar - due cipressi - due pioppi» (poi
«due nere guglie»). Nella seconda stesura ancora incertezze sui vv. 5 - 6 per le
locuzioni rispettivamente *«or sì or no» e *«a quando a quando», mentre l’ultima
strofa pare simile alla princeps tranne per il *«torna» al posto di «Ecco» al v. 9.
50
NAVA, pp.489 - 491.
56
Riguardo il componimento Nel giardino,51 la sua prima stesura,
probabilmente del 1890, aveva titolo *Ad Arturo Schouls (avvocato amico di
Pascoli): nella prima strofa, si legge al v. 2 *«da cui lo sguardo al cielo mi
s’avvia» (poi «dove ora il pettirosso tintinnìa») e al v. 3 il gelsomino *«che
s’appoggia - verdeggiante» (poi «rampicante»); nella seconda, dall’ampia
elaborazione, è significativa la presenza dei termini *«autunno - Aprile» (poi
«ottobre - marzo»); la terza è gia simile alla definitiva tranne che al v. 10 dove si
legge *«dorme tutta in sé romita», che diventerà «si stringe», e al v. 12 dove non
figura ancora la lezione «alitando» ma *«aliando»; infine, particolare di gran
rilievo, l’autografo reca l’elaborazione di altre tre strofe che formeranno,
decisamente rimaneggiate, l’ode saffica Cuore e cielo. Nella seconda stesura il
componimento è ormai abbastanza simile al definitivo tranne che per il marzo
*«verde - vecchio» al v. 6 e per *«esala il giorno» ( a cui preferirà «il dì s’esala»)
al v. 15.
Di Nel parco52 rimane una stesura elaborativa risalente con probabilità al
1889, già molto vicina a quella definitiva nelle prime tre strofe; tuttavia al v. 15 il
battito d’ira è *«sordo - secco» (poi «cupo») e gli alberi del v. 18 sono *«la
grand’elce, il glauco pino (tremul’orno) e ‘l lento / pioppo».
Le due stesure di Rosa di macchia53 risalgono entrambe al 1893: la prima
reca un’elaborazione della prima strofa simile alla definitiva, a parte la
sostituzione al *«mendico» della «montanina»; la seconda la poesia intera, dove si
legge *«rinnovar» e non ancora «rifiorir», *«vecchio» e non ancora «vizzo», e
una redazione dell’ultima strofa che sarà assai modificata nella princeps:
*e te, col tempo, troverà cresciuta
la montanina che pei suoi capelli
ti sdegna e passa - e ripasserà muta
senza stornelli
Un appunto autografo sottolinea come Il dittamo54 si ispiri a due luoghi
classici, uno ciceroniano e uno virgiliano; nel manoscritto il testo presenta poche
51
NAVA, pp. 528 - 532.
NAVA, p. 533.
53
NAVA, pp. 534 sg.
54
NAVA, pp. 536 sg.
52
57
varianti rispetto alla versione definitiva: nella prima strofa *«agli angioletti» (poi
«alla processione»), nella seconda *«ricciuto (purpureo) fiore» (poi «chiomanti
capi»), nella terza *«infissa la saetta» (poi «freccia tremolante»), nella quarta
*«tra i muschi» (poi «nell’alto») e nella quinta *«stride» (poi «sibila»).
Edera fiorita55 risale al 1893 e il manoscritto propone una versione in versi
molto simile alla definitiva preceduta da abbozzi di versi.
La prima redazione de Il castagno56 rivela anch’essa abbozzi di versi e parti
in prosa molte delle quali serviranno, soprattutto per la seconda e terza parte del
componimento definitivo, da base ai versi dell’elaborazione poetica, tranne il
segmento *«tu lasciavi fiorire le viole e gli anemoni».
De Il pesco57 si possiede un appunto in prosa sul cimitero dei protestanti a
Livorno ispiratore del componimento definitivo, datato esplicitamente 23/3/94.
Quel che si nota dalle correzioni effettuate dal Pascoli durante l’elaborazione
delle sue poesie è esattamente quello che rileva il Mengaldo nella sua
Introduzione: il poeta tende ad una «maggiore precisione e specificità lessicale ...
[e a] ridurre l’eccesso di patetismo»58, spersonalizzando o preferendo il verbo alla
3ª persona, ed accompagnando questo procedimento all’«espunzione o
attenuazione delle oltranze e preziosità espressionistiche troppo scoperte, specie
se queste si affidino a un lessico locale e dialettale»;59 questi aspetti, insieme ai
«progressivi acquisti di vivacità e raffinatezza impressionistiche»60, sarebbero la
prova di un «maggior ‘ritegno’ linguistico complessivo di Myricae»61 rispetto alle
altre raccolte pascoliane.
2. Oltre Myricae, altre saffiche
Nei Canti di Castelvecchio, definiti dallo stesso autore «Myricae autunnali»,
la ‘solidità’ dello schema saffico di derivazione miricea subisce in quasi tutti i
casi, tranne ne La fonte di Castelvecchio, una ‘contaminazione’ coi versi a
struttura ternaria cari al Pascoli: ne Il sonnellino lo schema si presenta a9b9a9b6
55
NAVA, pp. 537 - 539
NAVA, pp. 539 sg.
57
NAVA, pp.540 sg.
58
MENGALDO, p. 38.
59
Ivi, p. 48.
60
Ivi, p.47.
61
Ibidem.
56
58
nelle strofe dispari e a9b9a9b3 nelle pari; La bicicletta consta di tre parti, di tre
strofe a9b9a9b6 ciascuna, chiuse da un’onomatopea; La figlia maggiore (a9b9a9b5)
gioca con le diverse accentazioni dei novenari, nelle strofe dispari coi primi due
novenari ad andamento dattilico e il terzo giambico e nelle strofe pari i primi due
novenari ad accentazione giambica e il terzo dattilico; ne La guazza lo schema
metrico è a9b9a9b6; Il viatico presenta uno schema a9a9b9c7t d9d9b9c7t col terzo
novenario delle strofe ad andamento giambico.
Le influenze delle sezioni miricee come Pensieri e In campagna sono
notevoli, ma altrettanto quelle di Tristezze (Il viatico) e delle odi saffiche ai
margini di Elegie (La figlia maggiore). Particolare interessante da rilevare è la
maggior propensione degli schemi contaminati a non subire rotture di tipo
sintattico o interpuntivo (tranne in certi punti de La figlia maggiore). Non a caso
fa eccezione la lunga ode saffica (72 versi) La fonte di Castelvecchio, l’unica di
schema ABAb5, che oltre a rispettare generalmente le variabilità ritmiche della
saffica miricea, presenta evidenti analogie col ‘ricordo’ di Campane a sera, e con
la poesia Germoglio per lo sviluppo ‘inarcato’ del discorso poetico e per il senso
di precarietà dell’esistenza.
Nei Poemi conviviali la saffica è uno dei pochissimi metri impiegati oltre
agli endecasillabi sciolti, ma compare all’interno di una poesia dal metro diverso
(Solon), secondo uno schema imitante quello lesbio con gli ictus sulle θεσεις (1ª 3ª - 5ª - 8ª - 10ª) e a rime ABAb5; la sua genesi si lega alla traduzione ed al
montaggio di vari frammenti di Saffo e il suo tema, l’amore e la morte, la
differenziano notevolmente dalle altre odi saffiche pascoliane. In queste strofe è
particolarmente presente la consuetudine tipica del Pascoli dell’accentazione delle
particelle deboli, dovuta alla pronuncia scandita per via dell’accentazione fissa, e
si può notare una frantumazione sporadica del ritmo sintattico non tuttavia
sistematica, probabilmente dovuta anch’essa alla difficoltà interpretativa dei
frammenti della poetessa.
Infine, nella raccolta Odi e inni appaiono molte odi inconsuetamente lunghe e
dalle tematiche eroico-civili totalmente estranee a quelle miricee; però si incontrano
comunanze: Al corbezzolo, nelle prime 8 strofe, rammenta lo stile di un
componimento della sezione Alberi e fiori per via dello sviluppo ‘inarcato’ e per la
59
tematica delle ‘stagioni’; ne L’isola dei poeti appare il ‘ricordo’, legato qui al
sonno; l’ode La lodola, oltre a richiamare evidentemente la ‘calandra’, si rifà
all’unione fonico-visiva della poesia; A ciapin presenta la stessa tematica del
componimento I tre grappoli, l’invito a moderarsi col vino; le tre ‘odette’
L’agrifoglio - L’ederella - La rosa delle siepi ricordano in tutto e per tutto, anche
per l’uguale lunghezza, quelle della sezione Alberi e fiori; l’ode A Gaspare Finali
invece si distacca dalle altre in quanto componimento d’occasione (pur con idee
prese dal componimento Il pesco). Convito d’ombre e Crisantemi, le uniche due odi
saffiche ‘contaminate’ della raccolta oltre a Il sepolcro (le prime due ABAb5 con
versi che seguono l’accentazione della saffica lesbia, la terza a9b9a9b6), trattano temi
luttuosi, la prima ispirandosi alla poesia Convivio, le altre due alle piante. Le
interpunzioni e le spezzature sintattiche appaiono in maniera assai cospicua in tutte
le composizioni, a causa del tono enfatico della raccolta e al maggior sviluppo in
ampiezza delle odi.
60
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