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PARTE SECONDA - CAPITOLO 4
Artiglierie austro-ungariche contro forti italiani 1915-1916 di Domenico De Luca e
Filippo Cappellano
1. Lo sviluppo del mortaio austriaco da 30.5 cm M11
Il più famoso pezzo d’artiglieria austro-ungarico della grande guerra fu il mortaio da 30.5 cm,
celebrato largamente su raccolte di fotografie, pubblicazioni e stampe a carattere
propagandistico, a testimonianza della potenza e a vanto della tecnica perfezionata
raggiunta dall’artiglieria asburgica. Adottato nel 1911, il mortaio da 30.5 cm risultava
un’arma compatta e leggera in relazione al grosso calibro, estremamente mobile grazie alla
possibilità di traino da parte della trattrice Daimler da 100 hp a quattro ruote motrici. Il
mortaio da 30.5 cm fu la prima bocca da fuoco pesante appositamente concepita fin dalla
fase progettuale per il traino meccanico scomposta su più carrelli. La gittata non era
particolarmente elevata, ma la traiettoria molto arcuata e la granata del peso di 380 kg
rendevano il mortaio austro-ungarico un’arma estremamente letale per ogni tipo di forte
corazzato allora conosciuto. La granata ad elevata capacità perforante con bocchino
posteriore era in grado di distruggere, colpendo dall’alto, nel punto cioè più vulnerabile, le
cupole corazzate e le strutture in cemento armato dei forti nemici, che numerosi guarnivano
gli stati confinanti. Gli eserciti degli Imperi Centrali mostravano all’epoca grande attenzione
all’impiego in operazioni campali, e non solo nella guerra di fortezza, di artiglierie di grosso
calibro. La trazione meccanica consentiva a bocche da fuoco di generose dimensioni, pesi
ed ingombri, se opportunamente scomposte in più carichi, di essere rimorchiate da trattrici
stradali fino a ridosso della linea del fronte e utilizzate, così, nell’appoggio all’avanzata delle
truppe per la distruzione di opere resistenti di fortificazione permanente o campale. 1 Molto
spedite, considerando la mole del materiale, erano le operazioni di messa in batteria; su
terreno favorevole occorrevano circa 6 ore: 2 per praticare uno scavo di 4x3,8x0,35 m e 4
per l’installazione del pezzo. Le informazioni sulle prove di mobilità e di tiro con grossi calibri
che si svolgevano in Germania e Austria-Ungheria trapelarono anche in Italia e vennero
diffuse sulla pubblicistica tecnico-militare nazionale. Già sulla Rivista di artiglieria e genio
del giugno 1911 era apparsa una breve notizia sul nuovo mortaio carreggiabile: “Jahrbücher
für die deutsche Armee und Marine e Militär-Wochenblatt riferiscono che le officine
austriache Skoda hanno costruito un mortaio d’assedio del calibro di 305 mm. Il mortaio
viene scomposto pel traino in tre parti, separatamente carreggiabili e montate per trasporto
su vetture automobili. Gli esperimenti eseguiti con questa bocca da fuoco al poligono di
Felixdörfer Steinfeld sembra abbiano dato finora soddisfacenti risultati, tanto riguardo alla
semplicità e facilità di servizio, quanto riguardo al tiro. Si dice che il comitato tecnico ne
abbia raccomandata l’adozione.” Seguì nel 1912 un’altra breve nota: “Riferisce il
Militär-Wochenblatt del 1° ottobre che ebbero testé luogo a Steinfelde in Austria interessanti
prove di tiro con un nuovo obice da 30.5 cm. Il tiro venne eseguito contro una copertura della
grossezza di 2,5 m. La granata - a spoletta nel fondello - aveva il peso di 390 kg circa ed una
carica di 40 kg di ecrasite con l’aggiunta di una carichetta di trinitrotoluolo. La distanza di tiro
fu di 7.000 m, alla quale l’ordinata massima del proietto è di 4.000 m. L’azione della granata
sul bersaglio fu grandissima. L’imbuto provocato dall’esplosione fu di 50 cm, ma l’intero
F. Cappellano – C. Pergher, Le trattrici italiane della grande guerra. Il traino meccanico delle artiglierie dalle
origini al 1918, GMT, Trento, 2014, p. 24.
1
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strato del cemento viene screpolato.” Ancora nel 1913: “Riportiamo da Jahrbücher für die
deutsche Armee und Marine alcuni maggiori dati sull’obice da 30.5 cm di cui facemmo già
cenno nel fascicolo di novembre dello scorso anno della presente Rivista: calibro 30.5 cm;
lunghezza in calibri 14; settore di tiro verticale da +45° a +75°; settore orizzontale con paiolo
120°, senza 60°; peso del proietto 390 kg circa; lunghezza del proietto 3,7 calibri; carica di
scoppio 30 kg; carica massima del cartoccio 12 kg; gittata massima 9.600 m; ordinata
massima 4.000 m; celerità di tiro un colpo ogni 6 minuti. La bocca da fuoco è d’acciaio
montata su affusto elastico. Il rinculo è di circa 50 cm. Si ha alzo panoramico e linea di mira
indipendente. Il materiale è trainato con tre vetture automobili, una per la bocca da fuoco,
una per l’affusto ed una per il paiolo. La messa in batteria, quando le vetture sono sul posto,
richiede circa un’ora”. L’Esercito Italiano seguì con attenzione e molta apprensione le
informazioni provenienti dall’Austria-Ungheria sulle prove di tiro della nuova bocca da fuoco,
che per le sue caratteristiche tecniche intrinseche sembrava potesse aver ragione di tutte le
opere di fortificazione permanente italiane alle frontiere alpine. Nel giugno 1912 il Capo di
Stato Maggiore del Regio Esercito, ten. gen. Alberto Pollio, scrisse la seguente allarmata
lettera all’Ispettorato Generale d’Artiglieria: “Come risulta dall’annessa lettera del nostro
addetto militare alla Regia Ambasciata di Vienna il Ministero della Guerra austriaco ha
deciso l'adozione di un mortaio da 305 ed ha dato commessa di 20 di questi mortai alla Casa
Skoda che deve allestirli per la primavera del 1913. Tali bocche da fuoco saranno provviste
per cura della Ditta Daimler di mezzi di trazione meccanica atti per il traino in montagna, e
pare che dovranno essere adibite alla parte del parco d’assedio destinato a seguire
immediatamente le armate operanti, sin dall’inizio dell’azione di queste per lo sfondamento
della frontiera. E’ probabile che all’atto pratico il traino di queste enormi bocche da fuoco non
possa effettuarsi con tutta la facilità che si ritiene dall’artiglieria austriaca, specialmente su
strade provviste di muri di sostegno, sui ponti e sui manufatti vari, nei terreni franosi.
Tuttavia non è da escludersi che, in circostanze favorevoli, esse possano avere utile
impiego e costituire un gravissimo pericolo per le nostre installazioni in pozzo, specialmente
perché saranno impiegate da posizioni coperte. Per poter apprezzare tale pericolo e cercare
i mezzi di fronteggiarlo occorre procurarsi dati, per quanto possibile, attendibili sui nuovi
mortai e sulla possibilità di trasportarli fuori delle strade. In attesa pertanto delle ulteriori
informazioni che il nostro Addetto militare a Vienna cercherà di procurarsi, questo Comando
prega codesto Ispettorato Generale di voler far fare anche da sua parte le opportune
indagini presso le Case costruttrici di materiali da guerra per procurarsi la maggior copia di
dati sull’efficacia delle precitate bocche da fuoco, sia per confrontarli con quelli del nostro
mortaio da 260, sia per studiare i mezzi atti a rafforzare, se possibile, la capacità difensiva
delle nostre installazioni da 149 A che trovansi più vicine al confine e che possono essere
battute col tiro curvo da posizioni preventivamente preparate oltre frontiera.” Nel luglio 1913
l’addetto militare italiano a Vienna, ten. col. Alberico Albricci, inviò allo Stato Maggiore
precise ed esaurienti note contenenti la descrizione tecnica, le prestazioni ed il servizio al
pezzo del nuovo materiale d’artiglieria austro-ungarico e della sua trattrice di traino Daimler.
L’automezzo risultava appositamente ideato per l’impiego in montagna, come testimoniato
dalla carreggiata ristretta, il breve passo, la grande aderenza al terreno ed infine la
particolarità del verricello destinato a vincere brevi tratti di forti pendenze. La relazione pose
l’accento sulle possibilità d’impiego del mortaio da 30.5 cm in zone di montagna ed in
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operazioni in campo aperto in sostegno alla fanteria: “Circa l’assegnazione di tali batterie,
pare che si tratterà di definirla secondo le varie ipotesi di guerra ad una piuttosto che ad
un’altra armata, intendendosi che l’impiego delle batterie stesse possa avvenire in prima
linea e quindi che esse, durante le operazioni, siano temporaneamente assegnate alle
grandi unità, testa di colonna nella marcia di invasione, oppure siano specialmente
incaricate di procedere all’attacco di speciali posizioni fortificate del campo di battaglia.
Come ho già segnalato sino dallo scorso anno, la cura particolare colla quale è stato definito
quanto si riferisce al traino in montagna, fa vedere come a questo nuovo importantissimo
mezzo di offesa, di cui sta per essere dotato l’Esercito austro-ungarico, si assegni
specialmente il compito di operare contro le fortificazioni, in corrispondenza della frontiera
montuosa della Monarchia.”2
2. L’impiego del mortaio da 30.5 cm contro i forti belgi
Il timore suscitato dall’apparizione in Austria di un’arma così mobile, tanto da poter essere
messa in batteria in circa un’ora, e potente, in grado di poter perforare con la propria granata
strati di cemento armato spessi oltre 1,5 m, fu confermato nel 1914 da articoli di stampa
tedeschi che esaltavano l’efficacia bellica dimostrata dal mortaio Skoda nei tiri contro i forti
belgi: “L’Austria-Ungheria può andare orgogliosa di essersi mostrata, al mondo intero,
capace di preparare, in tutto silenzio, i suoi mortai da 30.5 cm, la cui micidiale potenza sarà
celebrata ancora nei lontani tempi. Essa alla sua potente alleata ha ceduto, con entusiasmo,
questi potentissimi suoi strumenti bellici, per le operazioni nel Belgio e nella Francia, ove, in
gran parte, si combatte una vera guerra d’assedio. Solamente poco prima dell’attuale
campagna vennero, dall’industria nazionale, preparate, e, dalle truppe austro-ungariche,
sperimentate, le batterie automotrici da 30.5 cm, terribilmente efficaci, oramai famose sul
teatro d’operazioni, ove, a Maubeuge, Givet, Namur e Longy, fecero sentire la loro voce
minacciosa e contribuirono grandemente a ridurre, in breve tempo, a mucchi di rovine
fortezze ritenute dapprima imprendibili. L’esercito tedesco non avrebbe certo fatto tanti
rapidi progressi, se non avesse potuto disporre delle batterie automotrici austro-ungariche,
le quali anche per la Germania, che è la prima potenza del mondo e che tutti i più moderni
ritrovati aveva già sfruttato per la sua meravigliosa preparazione alla guerra,
rappresentarono uno strumento di capitale importanza. Esse, fin dall’inizio della guerra, a
Givet e a Namur, costituirono l’ammirazione delle truppe assediami, e si meritarono, pei
segnalati servizi resi, i più ampi elogi del comandante del gran quartiere generale, von Stein,
il quale scrisse, in un suo rapporto ufficiale, che le batterie automotrici, mandate
dall’Austria-Ungheria sul campo di battaglia, si erano dimostrate efficacissime per la loro
mobilità ed esattezza di tiro. A tutti era noto che, da più anni, l’esercito austro-ungarico
studiava col massimo zelo il problema della trazione meccanica delle grosse artiglierie:
problema che, per se stesso, non era certo una novità. Ma nessuno, tranne pochissimi
iniziati, sapeva che si trattava di un sistema nuovo profondamente studiato, e con molta
cura posto in atto e provato. La grande fabbrica d’artiglieria Skoda di Pilsen, postasi in stretti
2
F. Cappellano, Gli addetti militari italiani a Vienna nel 1914, in Gli addetti militari italiani alla vigilia della
Grande Guerra 1914-1915, F. Anghelone – A. Ungari (a cura di), Rodorigo, Roma, 2015, pp. 169-172.
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rapporti colla nota casa Daimler, produttrice d’automobili a Wiener-Neustadt, poté far
procedere di pari passo le esperienze della bocca da fuoco con quelle delle auto-vetture.
Così, dalla fusione di queste prove sorse un perfetto sistema, che costituisce un vero trionfo
per l’ammirazione militare della Duplice Monarchia. Le batterie automotrici superano le
difficoltà di qualsiasi terreno, che sia appena percorribile; non vedono un insuperabile
ostacolo nelle strade carrozzabili delle Alpi; si spostano con relativa prontezza nei terreni
prativi, nei campi, anche se vi incontrano notevoli pendenze; cosicché può dirsi che arrivano
in posizione ovunque. La razionale costruzione del mortaio da 30.5 cm consente che
rapidamente si passi dalla posizione di traino a quella di tiro, e viceversa. Anche la manovra
per preparare i mortai al traino è molto facile e spedita; cosicché le batterie automotrici
hanno la possibilità di cambiare, con relativa celerità, posizione sul campo di battaglia, tanto
più che, in caso di bisogno, le bocche da fuoco, purché il terreno sia adatto, possono
sparare anche senza piattaforma. Le dimensioni dei mortai sono poi tali, che non è difficile
coprirli convenientemente alla vista del nemico, quando sono posti in batteria. Certo che i
mortai da 30.5 cm sono di impiego assai più facile che non quelli tedeschi da 42 cm. Di ciò è
prova evidente il fatto che, mentre questi poterono mostrare, a Liegi, facilmente
raggiungibile colla ferrovia, la loro immensa potenza, solamente ai mortai da 30.5 cm fu
riservato di entrare in azione dinanzi a Maubeuge e a Givet, dove la percorribilità si
presentava in più difficili condizioni.” Altre informazioni sulla letalità dei materiali da 30.5 cm
M11 si ebbero ancora dalla rivista Jahrbücher für die deutsche Armee und Marine, che nel
1914 segnalò che si erano eseguite “prove di tiro contro bersaglio, costituito da un’opera di
cemento armato, largo 18 m e profondo 9 m. Si eseguirono, da 8.000 metri di distanza, 151
colpi; dei quali 90 colpirono il bersaglio. Di questi ultimi, 21 lo colpirono in pieno. Un blocco di
cemento, grosso 1,5 m, fu totalmente distrutto. Una cupola corazzata, grossa 15 cm, venne
completamente perforata.”
Nonostante queste informazioni molto preoccupanti, che ponevano in serio dubbio
l’operatività e la capacità di resistenza delle fortificazioni permanenti in caso di conflitto con
l’Austria-Ungheria, il Regio Esercito continuò alacremente fino al 1915 il programma di
nuovi allestimenti di forti corazzati sul confine alpino orientale, senza tenere in minima
considerazione la minaccia letale del mortaio da 30.5 cm. 3 Si continuò, in pratica,
l’edificazione di forti in cemento precompresso, dotati in genere di 4 o 6 cupole rotanti
corazzate a debole spessore superiore e laterale, la cui progettazione risaliva ai primi del
secolo, che facevano affidamento più sulla dissimulazione e sulla protezione frontale del
terreno roccioso in cui erano inglobati, che agli spessori di cemento ed acciaio. Tali forti
erano costruiti su quote elevate in modo da rendere difficoltosa la loro individuazione dal
fondovalle che dovevano sbarrare, risultando altresì difficili da colpire, in quanto la loro
sagoma si ergeva al minimo al di sopra del terreno. Ciò, però, non li aiutava contro le
traiettorie ad elevati di tiro, in quanto sia le masse cementizie sia le cupole non avevano la
minima possibilità di resistere a colpi diretti dall’alto di granate di medio-grosso calibro
Nell’estate del 1914 dei 44 forti progettati per la protezione del confine orientale, 11 erano ancora in corso di
armamento o di completamento ed uno in progetto. Nei circa dieci anni in cui si lavorò alla costruzione dei forti
al confine orientale, vennero sempre seguiti gli stessi criteri costruttivi e, quindi, riguardo alla protezione della
copertura, non vi furono differenze fra le varie opere.
3
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(21-30.5 cm).4 Le cupole di protezione dei cannoni erano di forma lenticolare molto larga e
schiacciata, per presentare una superficie sfuggente ai tiri diretti sull’arco frontale ritenuti i
più minacciosi. Questa forma, tuttavia, aumentava il bersaglio offerto ai tiri arcuati e così la
possibilità di perforazione da parte di proietti provenienti dall’alto. La tecnica fortificatoria
italiana, al pari di quella austriaca, francese e belga, non si era evoluta e non era stata al
passo dei progressi dell’artiglieria d’assedio, che tra la fine dell’Ottocento ed il primo
decennio del Novecento aveva compiuto un gran salto qualitativo grazie al ricorso a nuove
polveri propellenti (balistite) al posto della polvere nera, all’acciaio per la costruzione di
bocche da fuoco e proietti, ad affusti ad organi elastici per l’assorbimento del rinculo. I forti
italiani in servizio nel 1915 sull’arco alpino, al pari di quelli austriaci concepiti in modo
analogo, anche se più robusti e corazzati, risultarono, così, obsoleti, tanto da costituire facili
bersagli all’artiglieria da fortezza del nemico, che ebbe buon gioco a smantellarli. L’allarme
sulla vulnerabilità dei forti italiani era stato lanciato sulla pubblicistica militare fin dal 1910,
quando nella “Rivista di Artiglieria e Genio” “veniva in più di un articolo e per parte di più
ufficiali di artiglieria e del genio di indiscussa competenza, sostenuta la tesi che le bocche da
fuoco avrebbero dovuto sia nelle opere permanenti, sia in quelle a carattere campale,
essere distanziate fra di loro dai 70 ai 100 m e le coperture protette, se in calcestruzzo,
avrebbero dovuto avere spessore di almeno 3 m o le artiglierie essere sistemate in caverna
o comunque corazzate. Le autorità superiori, pur convinte di tutto ciò, sotto il pretesto, a
tranquillizzare la loro coscienza, che il tiro in guerra, sotto l’impressione del pericolo, non
avrebbe mai potuto avere la precisione che conseguiva normalmente nei poligoni,
imponeva come massimo della distanza tra bocca e bocca da fuoco metri 12, e nello
spessore delle coperture m. 1,5. La caverna non era giudicata opportuna per l’umidità sua
propria antigienica. A nulla valsero mai le insistenze degli uffici in sottordine ché le direttive
venivano dall’alto.”5
3. Evoluzione della fortificazione permanente dal 1885 al 1910
Intorno agli anni Ottanta del XIX secolo per la comparsa delle granate torpedini cariche di
alto esplosivo, l’adozione delle spolette a doppio effetto e ad azione ritardata ed anche per
l’aumentata precisione del tiro nel secondo arco, si imposero radicali modificazioni nella
struttura dei forti e sorse la necessità di dare alle costruzioni fortificatorie maggiore
robustezza ricorrendo a nuovi elementi quali il calcestruzzo per sostituire le masse coprenti
di muro e terra, ed il ferro per proteggere, sotto forma di corazzature metalliche, le bocche
da fuoco installate sui forti. I progressi realizzati dalla tecnica dei mezzi artigliereschi
d’attacco, mentre resero evidente l’incapacità di resistenza delle murature ordinarie ed il
pericolo che presentavano le masse coprenti di terra e l’ordinamento allo scoperto delle
grosse artiglierie, fecero ritenere che i sistemi difensivi di fortificazione permanente nel loro
Scrive Leonardo Malatesta in La guerra dei forti, Nordpress, Chiari, 2003, p. 106: “I materiali che venivano
utilizzati per la costruzione si differenziavano perché nei forti austriaci abbondava il calcestruzzo con,
annegate verticalmente, putrelle d’acciaio che rafforzavano notevolmente la copertura, di norma la parte più
colpita nei bombardamenti, mentre le opere italiane non utilizzavano il cemento armato, ma solamente il
cemento precompresso. Questo avveniva perché gli ingegneri militari non avevano pensato allo sviluppo
tecnologico dell’industria bellica tedesca che realizzò calibri superiori ai 150 mm, calibro a cui resistevano i forti
italiani.”
5
Luigi Maglietta, Gl’insegnamenti della grande guerra, Ausonia, Roma, 1931, pp. 52-53.
4
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complesso potessero ancora rispondere alle esigenze belliche. Evidentemente non si era
ancora valutato appieno le potenzialità distruttive dei mortai rigati di grande potenza
sparanti proietti perforanti con spoletta ritardata. Dapprima si volle affrontare il problema
della resistenza diretta con l’aumentare la robustezza materiale delle masse di protezione
impiegando il calcestruzzo in rilevanti spessori atti a resistere agli effetti di scoppio, ed il
ferro ed i suoi derivati per costituire la protezione delle bocche da fuoco. In seguito, si
riconobbe la necessità di rinunziare alle forme tradizionali le quali, pur essendo in grado di
sostenere la lotta contro i mezzi d’attacco del momento, erano destinate a vedere
menomata la loro resistenza al primo aumento di efficacia dei mezzi stessi; e si seguì,
invece, il criterio di dare alle opere piccoli rilievi e minime profondità, dissimulandole con le
forme del terreno circostante e conformando le coperture in modo da favorire il rimbalzo e la
sfuggita dei proietti. Di conseguenza il forte dei primi anni del Novecento venne a risultare
costituito da un blocco di calcestruzzo, poco emergente dal terreno, nel quale erano
incastrate, in vario numero ed in vario modo, le casematte metalliche, fisse o girevoli, e sotto
alle quali erano ricavati i locali indispensabili al funzionamento dell’opera. Il problema
principale di questi forti corazzati in cemento ed acciaio era costituito dal loro elevato costo,
notevolmente superiore a quello fino ad allora sostenuto per l’approntamento di opere in
muratura e terra. A causa di ciò, nazioni non floride economicamente come l’Italia dovettero
limitare la costruzione di forti corazzati alle zone più sensibili del proprio territorio, quali le
fasce alpine di confine. Questioni di ordine prettamente economiche imposero di riservare le
poche risorse disponibili alla protezione dei valichi alpini alle frontiere con Francia, Svizzera
ed Austria-Ungheria ed alle principali piazzeforti marittime. Nel corso della prima guerra
mondiale, sul fronte occidentale gli imponenti campi trincerati belgi e francesi o non furono
utilizzati od esplicarono il loro compito per brevissimo tempo e con scarsi risultati. La rapida
caduta, nell’agosto del 1914, delle due poderose piazzeforti di Liegi e di Namur, costruite nel
quadriennio 1888-1892, munite di un complesso di opere considerate tra le più potenti,
suscitò enorme impressione nell’opinione pubblica e conseguente sfiducia nella
fortificazione permanente. Non fu quindi una sorpresa se anche sul fronte italiano i forti
corazzati di confine italiani ed austriaci si mostrassero non in grado di reggere al tiro arcuato
degli obici e dei mortai pesanti. Scrisse la “Rivista di Artiglieria e Genio” nel dicembre 1914:
“L’inattesa comparsa, innanzi a Liegi ed a Namur, dei mortai da 42 cm e la loro enorme
potenza hanno, naturalmente, posto in campo la questione della resistenza delle attuali
opere di fortificazione e quella dei nuovi mezzi, che occorrerà contrapporre alle bocche da
fuoco d’assedio di grandissimo calibro, comparse in iscena. E’ fuori dubbio che queste si
sono dimostrate assolutamente superiori alle fortificazioni normali ora esistenti.” 6
4. Le opere corazzate italiane di confine
L’organizzazione difensiva della frontiera italiana risentì molto delle disagiate condizioni
In un altro articolo della stessa rivista sempre del 1914 era scritto che: “Di fronte al formidabile mortaio da 42
cm, non vi è più, né calcestruzzo né corazza che possano resistere” (E. Marrullier, Il mortaio di grosso calibro
e la fortificazione dell’avvenire, “Rivista di Artiglieria e Genio, 1914). Già nel corso dell’assedio di Port Arthur i
giapponesi erano ricorsi al tiro di obici da 280 di produzione italiana contro i forti della base navale russa (E.
Tacconi, La fortificazione odierna di fronte ai nuovi mezzi di attacco, “Rivista di Artiglieria e Genio”, 1914).
6
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economiche della nazione, che nell’ultimo decennio non avevano consentito di destinare
ingenti risorse nella costruzione di opere fortificate lungo tutto l’arco alpino. La stessa
progettazione e costruzione delle opere aveva risentito delle gravi ristrettezze economiche
con risparmi imposti all’uso dei materiali edilizi e delle strutture difensive in acciaio. 7 In
complesso, la fortificazione permanente alla frontiera alpina era organizzata: nella zona
montana, a protezione dei passi più importanti, con opere di sbarramento a cavallo delle
comunicazioni carreggiabili, e con baraccamenti, caserme di difesa per truppe mobili e
piazzole d’artiglieria per il presidio dei valichi di minore importanza. Le fortificazioni alpine in
Lombardia, Veneto e Carnia si rifacevano al concetto dello sbarramento di montagna, che
tendeva ad interdire un’importante via di facilitazione verso la pianura padana, attraverso
interruzioni stradali battute dal fuoco di artiglierie poste in forti corazzati. Le opere
permanenti appoggiate da schieramenti d’artiglieria d’assedio, in postazione allo scoperto in
prossimità dei forti, dovevano imporre una battuta d’arresto di qualche giorno alle truppe
d’invasione nemiche, per dar tempo all’esercito di campagna di adunarsi e passare al
contrattacco. Oltre che per compiere indisturbati le operazioni di mobilitazione, lo stato
maggiore italiano contava sulla fortificazione permanente per assumere con poche truppe
atteggiamento difensivo su di un determinato tratto di fronte e concentrare la massa delle
forze nella direzione scelta per l’azione principale e come potente ausilio nello svolgimento
di piani offensivi. In corrispondenza dei ridotti carnico, cadorino e delle regioni fortificate del
vicentino e del veronese, dove maggiore era la concentrazione di apprestamenti difensivi ed
opere permanenti in grado di fornirsi reciproco sostegno di fuoco, il Comando Supremo
pensava di poter organizzare delle vere e proprie piazze fortificate di montagna, dove
incentrare la difesa, mantenendo tali posizioni per lungo tempo, ed appoggiare manovre
controffensive a largo raggio. In genere i forti erano ubicati a quote anche rilevanti, ai fini di
una maggiore capacità di sopravvivenza e per meglio dominare col fuoco le vie di
comunicazione nei fondovalle. L’armamento era costituito da cannoni di piccolo-medio
calibro, idonei soprattutto a tiri di controbatteria e contro bersagli animati, installati in pozzi
protetti superiormente da cupole corazzate girevoli di basso profilo. Le pareti dei forti in
calcestruzzo e le cupole corazzate di forma molto schiacciata e sfuggente erano state
progettate per resistere al tiro frontale di cannoni di medio calibro. Nella costruzione dei forti
più recenti era stato impiegato calcestruzzo al quarto (400 kg per metro cubo) per le parti
esposte al tiro, ed a titolo inferiore per gli strati sottostanti, limitando l’impiego del cemento
armato alle parti sottratte all’azione delle artiglierie; le corazzature delle cupole girevoli
avevano spessori massimi di 14-16 cm, con rivestimento interno di sottile lamierino
d’acciaio. Per esigenze di contenimento dei costi di costruzione, la protezione dei forti era
fondata più che sugli spessori delle corazze e del cemento, sull’occultamento sulla ricerca
del minimo rilievo dalla superficie del terreno e sulle dimensioni il più ridotte possibili. La
Nei forti francesi era stato impiegato generalmente il cemento armato con calcestruzzo ad alto titolo (400 kg
per metro cubo), mentre le artiglierie erano sistemate in cupole a scomparsa d’acciaio speciale dello spessore
di 30 cm, con rinforzo in lamiera di 3 cm. In Germania, nelle costruzioni più recenti, si disponeva uno strato di
2,5-3 m di calcestruzzo cementizio (300 kg al metro cubo), sormontato da uno strato di 0,5-1 m di cemento
armato; le cupole girevoli in acciaio al nickel avevano spessore di 14-16 cm, con rivestimento interno in lamiera
d’acciaio. In Austria si adottavano spessori di 4 metri di calcestruzzo talora con armatura di ferro, e le cupole
d’acciaio avevano spessori di 30 cm.
7
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parte superiore delle murature e delle cupole d’acciaio offriva una scarsa protezione al tiro
curvo di obici e mortai. Le murature in cemento avevano una protezione frontale di 3-4 m e
quella superiore di 2-2,5 m. La disposizione lineare delle 4-6 torrette distanziate di soli 10-12
m una dall’altra e l’ubicazione delle riservette munizioni a ridosso dei pozzi dei cannoni
aumentavano la vulnerabilità dei forti corazzati di progettazione italiana. Il pozzo del
cannone era collegato tramite una scalinata di raccordo con il corridoio di batteria, che univa
tutti i pezzi. I pozzi erano distanziati fra di loro da un interasse variabile da 10 a 12 m e fra
questi erano ricavate le riservette per le munizioni di pronto impiego. Al di sotto del corridoio
di batteria od arretrato rispetto a questo, era un altro corridoio sul quale si aprivano i locali di
ricovero del presidio, i magazzini, i locali macchinari. I forti erano dotati di serbatoi o cisterne
d’acqua potabile od erano riforniti con acquedotti. Erano inoltre forniti di generatori elettrici,
di impianto ad aria compressa per l’espulsione dei gas di scoppio dai pozzi ed impianto di
ventilazione e di riscaldamento per alcuni locali. L’osservazione e la direzione del tiro erano
svolte in un locale protetto, munito di cupola corazzata con feritoie di visione. Il posto
comando del forte era collegato ai pozzi dei cannoni attraverso tubature acustiche. Per la
protezione ravvicinata erano utilizzate mitragliatrici e cannoncini a tiro rapido in installazione
a casamatta o in torretta blindata a scomparsa. Le opere perfettamente autonome, erano in
grado di resistere ad oltranza per diversi giorni anche se sopravanzate ed isolate. I forti
erano interrati sulla fronte e sui fianchi in modo da aumentarne la protezione dai tiri diretti
delle artiglierie, mentre era esposta la parte posteriore, dove di trovavano gli accessi. 8 Nel
Vicentino le fortificazioni di sbarramento furono uniformemente distribuite in prossimità della
linea di confine, anche quando la conformazione del terreno e la vicinanza dei forti avversari
avrebbero consigliato una dislocazione in posizione più arretrata e meno esposta alle offese
avversarie. In Cadore ed in Carnia, invece, i forti erano stati allestiti ad una certa distanza
dalla frontiera, in modo che gli austriaci non potessero batterli col fuoco d’artiglieria sin dal
primo giorno d’operazioni.9
5. L’impiego in guerra dei forti italiani nel 1915-1916
I primi scontri del giugno 1915 rivelarono immediatamente l’inadeguatezza dei nostri forti,
non in grado di resistere alle potenti artiglierie d’assedio a tiro curvo messe in campo cu
nemico. La fortificazione permanente italiana non ebbe in pratica la possibilità di esplicare la
sua funzione (solo pochi forti riuscirono a sparare contro gli austriaci), 10 perché l’eccessiva
impressione generata dal disgraziato episodio del forte Verena, nonché la necessità di
utilizzare le bocche da fuoco di medio calibro come batterie d’assedio, indussero ben presto
il Comando Supremo al disarmo quasi totale delle opere. Così a partire dal luglio 1915 e
8
I criteri di progettazione dei forti italiani dei primi anni del XIX secolo erano ispirati alle idee teorizzate dal
generale Enrico Rocchi, che proponeva pochi forti isolati, con potente armamento, costruiti anche a quote
elevate (fino ai 2.000 m) e disposti fra di loro in modo da potere avere azione di fiancheggiamento. Negli
intervalli dovevano agire batterie occasionali da fortezza in postazione allo scoperto.
9
F. Cappellano, Artiglieria da fortezza, in L’artiglieria italiana nella grande guerra, AAVV, Rossato, Valdagno,
1998, pp. 147-148.
10
I forti italiani, concepiti in chiave difensiva, si trovarono nella maggioranza dei casi in posizione arretrata
rispetto alla linea di confine ed a quella del fronte e solo in pochi casi, ad esempio a Bormio, al Tonale e
sull’altopiano di Asiago si scambiarono tiri d’artiglieria col nemico (A. Flocchini, I forti della grande guerra,
“Storia Militare”, n. 13/1994).
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PARTE SECONDA - CAPITOLO 4
nell'arco di alcuni mesi furono disattivati gran parte dei forti alla frontiera orientale ed in parte
anche a quella occidentale e le loro artiglierie reimpiegate su installazioni tipo Maglietta,
come pezzi da posizione o su affusti mobili di circostanza. Sul fronte italiano il confronto fra
artiglierie d’assedio e forti corazzati si accese subito all’inizio delle ostilità. Il principale teatro
di scontro fu l’altopiano di Asiago, dove erano concentrate numerose opere fortificate
austriache ed italiane, che talvolta si trovavano entro il raggio d’azione delle rispettive
artiglierie. Alla fine di maggio 1915 le artiglierie medie e pesanti italiane, in numero superiore
a quelle nemiche sottoposero vari forti austriaci ad intense azioni di fuoco con calibri
compresi tra il 149 ed il 280. Forti come quello di Belvedere subirono danni anche gravi, che
però, pur compromettendo la loro operatività, non riuscirono a metterli fuori servizio. La
risposta austriaca, inizialmente fiacca, divenne minacciosa a partire dal 12 giugno quando
entrò in azione il primo mortaio Skoda da 30.5. Alle 14.40 il forte Verena fu colpito in pieno
da una granata perforante, che, penetrando all’altezza della terza cupola, scoppiò all’interno
delle camere di combattimento facendo strage di artiglieri. Perirono tre ufficiali, incluso il
colonnello comandante del forte, ed una quarantina di gregari. In conseguenza delle gravi
perdite e del tiro continuato da parte nemica, che si svolgeva anche con altri calibri, il
comando italiano ordinò lo sgombero del forte. Riporta la relazione del Maggiore Bonizzi
che ispezionò il forte il giorno 13: “Un foro del diametro di circa 2 metri e mezzo nel
calcestruzzo di protezione del corridoio di manovra; un foro del diametro di circa 1 metro nel
calcestruzzo di protezione della riservetta nella quale trovarono la morte gli ufficiali e i
soldati; due altri colpi caduti quasi nello stesso posto in vicinanza della quarta cupola hanno
rovesciato enormi locali di calcestruzzo nel cortiletto prossimo alla cucina della truppa; un
colpo ha rovesciato e spezzato il pilastro dell’ingresso del forte; la maga di calcestruzzo
dell’opera è stata colpita in pieno successivamente da non meno di 20 granate da 305 che
hanno variamente danneggiato l’opera a seconda del punto. L’avancorazza della terza
cupola è stata spezzata o divelta dal posto, lasciando allo scoperto la corazza. […] Il forte
nello stato attuale non solo non trovasi in condizioni da poter resistere al tiro del mortaio da
305, ma neanche a quello del tiro di bocche da fuoco di medio calibro. Stamane è stato
trovato un pezzo di fondello di un proietto da 305. Trattasi evidentemente di una granata
torpedine, come lo dimostra il sottile spessore del fondello. Conseguentemente il nemico,
dopo aver tirato con granate perforate, ora batte il forte già lesionato con granate torpedini.”
Il 26 giugno il Verena tornò ad essere battuto dall’artiglieria pesante austriaca che
sparò 25 granate da 305 mm, 12 delle quali colpirono il forte e l’area immediatamente
adiacente. Un proietto mise fuori combattimento un secondo pezzo da 149, mentre altri due
colpi perforarono la volta andando a scoppiare, uno nella riservetta ormai vuota, e l’altro nel
corridoio di manovra. Nello stesso giorno, il comando del V Corpo d’Armata relazionò
sull’ispezione al forte Verena condotta dal gen. Aliprandi: “Ho avuto campo di rilevare la
gravissima deficienza nella costruzione sia nei riguardi dello spessore della massa di
calcestruzzo, sia quel che peggio, sotto il punto di vista della qualità del materiale edilizio
impiegato nella costruzione dell’opera. Osservando la costituzione del cemento si ha nitida
l’impressione che sia stata commessa colpa da parte di chi aveva l’impresa e la
sovrintendenza dei lavori ed esprimo la speranza che possano essere ancora
inesorabilmente colpiti coloro che, per proprio interesse od altro insano sentimento, hanno
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PARTE SECONDA - CAPITOLO 4
potuto venir meno al loro sacro dovere.” Il 2 luglio il comando italiano dispose il disarmo del
forte Verena e di quello di Campolongo, i più esposti e colpiti dal tiro avversario.11 Il 4 luglio
il già martoriato Verena subì ancora danni causati dal bombardamento avversario con pezzi
da 152 e 305 mm. Fu forata la corazza del secondo pezzo, scoppiando all’interno senza
danneggiare però il cannone. Un altro colpo cadde tra la seconda e terza cupola,
attraversando il calcestruzzo e scoppiando nella sala macchine, rendendola completamente
inservibile. Anche in seguito il Verena rimase sotto il tiro delle artiglierie avversarie, subendo
altri danni. Il 3 luglio il comando genio della 1ª Armata istituì una Commissione d’inchiesta
incaricata di analizzare le strutture del forte Verena per poi determinare le responsabilità
degli eventi che avevano portato alla distruzione ed al disarmo del forte. Per prima cosa, la
Commissione fece un confronto fra il progetto approvato dal comando del genio di Verona
nel 1912 e l’opera effettivamente costruita, constatando che questa in massima rispondeva
al progetto stesso ad eccezione di un tratto della massa frontale dove secondo i dettami
tecnici previsti doveva avere lo spessore di 4 metri, mentre in realtà la profondità del
calcestruzzo era di 2,50 metri e nella parte inferiore del muro era costruito con struttura
mista di pietrame a secco e di pietrame con malta di cemento. La parte sinistra dell’opera
aveva un livello di calcestruzzo più basso rispetto a quello previsto dal progetto, quindi la
direzione dei lavori non si era conformata al concetto che tutta la massicciata doveva essere
di calcestruzzo, mentre nella realtà solo la parte superiore della massicciata era in tale
materiale. La parte inferiore non realizzata con calcestruzzo rappresentò l’elemento di
debolezza del forte e fu il punto dove il proiettile penetrò obliquamente nel locale sottostante
il pozzo della terza cupola corazzata. La relazione della Commissione d’inchiesta terminava
sostenendo che, indipendentemente dalle constatazioni e deduzioni esposte, non si poteva
dimenticare che tutte le opere fortificate costruite fino allo scoppio della guerra erano state
concepite prima dell’adozione dei grossi calibri e che la resistenza dei forti italiani era stata
proporzionata ai medi calibri (149-152 mm). Quindi il problema principale dell’infausto
evento del 12 giugno al forte Verena prima di ogni cosa era stato causato da questo
gravissimo errore di valutazione degli ingegneri militari dell’epoca. Quest’episodio fu un
esempio della sorte che sarebbe toccata a tutte le opere italiane se bombardate dai grossi
calibri austriaci. Una sorte che, per fortuna, toccò solamente al cosiddetto “Dominatore degli
altipiani”, provocando il disarmo di tutti forti corazzati.12
I forti italiani tornarono sotto il fuoco austriaco nel corso dell’offensiva sugli Altipiani,
la cosiddetta Strafexpedition, scatenata dal gen. Conrad il 15 maggio 1916. Questa volta gli
Asburgici misero in campo materiali d’artiglieria d’assedio di calibro anche superiore al 30.5
cm, come il 35, 38 e 42 cm, alcuni dei quali di derivazione navale o costiera. Furono colpiti i
forti di Cornolò, di Casa Ratti, di Punta Corbin, Campolongo e nuovamente il disgraziato
Verena, che fu ridotto ad un cumulo di macerie.13 Sugli altri settori del fronte furono gli
Italiani a prendere l’iniziativa ed a bombardare le opere austriache, ricorrendo anche ad
obici da 305/17, tratti dall’artiglieria costiera e trasformati per il traino stradale. Il fuoco di
P. Volpato, I forti italiani e austriaci degli Altipiani ieri e oggi, “Aquile in guerra”-2002, p. 42-43.
Da rilevare che dopo il conflitto, alcuni forti in Lombardia ed alla frontiera francese furono riarmati, tornando
così in servizio. Nel giugno 1940 l’artiglieria francese demolì il forte sullo Chaberton.
13
U. Mattalia, La guerra dei forti sugli Altipiani 1915-1916, Rossato, Valdagno, 1989, pp. 29-30.
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questo moderni pezzi ridusse in rovina il celebre forte Hensel di Malborghetto nel
Tarvisiano.14 Azioni minori si svolsero nelle Dolomiti col tiro di mortai da 210 contro i fortilizi
austriaci di Ruaz e di La Corte (alle pendici del Col di Lana), di Tre Sassi (sotto il Sasso di
Stria) e contro le due opere che difendevano Moso di Val Pusteria.
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Le artiglierie italiane si accanirono anche contro le fortificazioni permanenti di Predil.