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to bene donne immorali e poco idonee ai
diktat del patriarcato fascista.
Qui si pone una questione di rilievo
e di ordine più generale. In ambito psichiatrico, ma potremmo ampliare il raggio della riflessione, la ricerca mostra come molti dei dispositivi di internamento
nel periodo fascista affondino le loro radici negli stilemi culturali dei decenni precedenti. Le rielaborazioni, i riadattamenti
e gli usi politici presentano indubbie discontinuità; tuttavia in ordine a temi quali il discorso politico sulla maternità, la
salvaguardia della materia biologica della
Nazione, il controllo delle emotività, tornare a riflettere sull’insieme continuità/discontinuità tra cultura liberale e cultura fascista sarebbe del tutto auspicabile.
Valeriano insiste giustamente sugli aggettivi utilizzati per catalogare corpi
scomposti, sconci, esuberanti, ingovernabili. I diari clinici ci restituiscono pazienti descritte con una serie di attributi interessanti: “loquaci, instabili, incoerenti,
capricciose, insolenti, indocili, bugiarde,
impertinenti, cattive, prepotenti, piacenti, esibizioniste (pp. 111-12). E poi ancora civettuole, invidiose, maligne, incontentabili. Anche in questo caso, ci troviamo
dinanzi ad un lessico che in parte il fascismo eredita dalla cultura liberale e che,
ancora una volta, viene intensificato, riadattato, in parte risemantizzato. La ricerca invita a proseguire questa linea di indagine che potrebbe essere svolta, anch’essa,
sul lungo periodo.
Chiude il libro una selezione di lettere,
presenti all’interno dei fascicoli personali,
scritte dalle stesse ricoverate e indirizzate a familiari, conoscenti e medici. Alcune donne si mostrano del tutto integrate e
recitanti il ruolo di perfette internate; molte convalidano invece l’idea della scrittura in sé come affermazione di una più intima autonomia, chiedendo a gran voce la
libertà, l’attivazione delle procedure di dimissione dall’istituto e denunciando i maltrattamenti subìti. Perché temono proprio
di impazzire.
Vinzia Fiorino
Polizie della Repubblica
Vittorio Coco, Polizie speciali. Dal fascismo alla Repubblica, Roma-Bari, Laterza, 2017, pp. 234, euro 22.
Il lavoro recente di Vittorio Coco s’inserisce in pieno nel filone italiano di studi
sulle polizie. Un settore che, partendo da
una condizione embrionale, sta evolvendo grazie al contributo di diversi studiosi.
Pur concentrandosi su un problema specifico (le polizie speciali), la ricerca di Coco offre spunti di notevole interesse grazie ad una serie di fattori che costituiscono
anche i punti di forza del volume. In primis l’analisi di lungo periodo (dalla fine
della Prima guerra mondiale alla fine degli anni Quaranta, con un salto nell’Italia
degli anni Settanta nel post factum), in secondo luogo la varietà dei casi e dei contesti geografici analizzati (anche se la Sicilia gioca un ruolo centrale) e, in ultimo ma
non meno importante, l’attenzione rivolta ai saperi, alle pratiche e alle esperienze
professionali di alcuni funzionari di polizia (Mori, Battioni, Gueli, Spanò, Verdiani, Messana, Polito, Collotti) che furono al
centro delle vicende più complesse e spinose del periodo trattato. Nell’analisi proposta da Coco emergono inoltre molti dei
problemi ricorrenti che attraversano la storia delle polizie dell’Italia contemporanea:
sovrapposizione di due o più organismi
polizieschi con competenze simili, difficoltà di coordinamento, contrasto tra autorità militari e civili.
Il libro si compone di cinque capitoli (più un’introduzione ed un post factum):
I - Al Crepuscolo dell’Italia liberale, II
- Il mantenimento del nuovo ordine, III
- L’apparato del regime alla prova, IV
- In tempo di guerra, V - La fine e un
nuovo inizio. Partendo dal primo conflitto
mondiale, il volume ricostruisce, seguendo le carriere dei funzionari che le diressero, l’evoluzione e le pratiche di una
serie di istituzioni che operarono prima,
durante e dopo il fascismo. L’impronta da-
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ta alle polizie speciali create nella prima
guerra mondiale — carattere emergenziale, centralizzazione (controllo diretto del
Governo), mobilità interprovinciale, segretezza, lavoro di intelligence, ricorso agli
informatori e agli infiltrati — caratterizzerà tutte le istituzioni speciali successive (sovente dirette dagli stessi funzionari
che avevano operato al crepuscolo dell’Italia liberale).
Il capitolo iniziale segue le carriere di
Cesare Mori e di Augusto Battioni: dalle squadriglie antiabigeato, costituite dal
primo in Sicilia nel corso della grande
guerra, alle vicende del successivo Ufficio centrale per la prevenzione e repressione dell’abigeato e diserzione istituito sempre sull’Isola e diretto da Battioni. Queste
esperienze anticiparono le pratiche e l’organizzazione di diverse istituzioni poliziesche create dal fascismo. Intorno alle figure di Mori e Battioni si formò inoltre un
nucleo di giovani funzionari (Gueli, Messana, Spanò) che avrebbero conosciuto una
lunga carriera durante il fascismo e, in alcuni casi, anche oltre. Le esperienze del
periodo bellico furono il laboratorio in cui
si forgiarono uomini che nella stagione
politica successiva sarebbero stati impiegati in molti contesti considerati a rischio.
I funzionari messi a capo di questi uffici, dotati di poteri speciali, divennero veri
e propri gestori di emergenze e per questo
motivo la ricerca di Coco segue da vicino
le loro carriere. La prima parte del volume
si conclude con l’ultimo incarico di Mori nell’Italia liberale. Agli inizi del 1921,
egli fu nominato prefetto in un contesto
difficile come quello di Bologna e successivamente i suoi poteri furono estesi alle
province dell’intera Valle Padana, con l’intenzione di arginare lo squadrismo. L’esperienza si concluse poi malamente, anche per assenza di collaborazione da parte
dei prefetti in sede (spesso conniventi con
i fascisti). Mori restò a Bologna con il solo incarico di prefetto della città e, dopo
un’inchiesta, fu destinato dapprima a Bari
e poi sospeso dal servizio.
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Il secondo capitolo si apre con il momento più alto della carriera di Battioni.
Prima della morte prematura (nel luglio
1925), il funzionario diresse “una nuova
struttura spionistica” voluta dal fascismo:
l’Ufficio speciale riservato. Un organismo
che si occupò soprattutto della “prevenzione di complotti e attentati” (p. 47). Grazie
anche alle competenze dimostrate in una
precedente inchiesta sulla gestione dei residuati di guerra, Battioni raggiunse posizioni di notevole potere prima della morte. Alla metà degli anni Venti, anche Mori
fu richiamato in servizio in Sicilia, prima
con un ufficio interprovinciale di Ps con
sede a Trapani, poi con un nuovo ispettorato per la lotta alla mafia (a Palermo). La
campagna antimafia fu condotta con operazioni clamorose, di “stampo terroristico”
(p. 56), e con un uso diffuso e spettacolare della violenza; in modo da generare una
vasta eco mediatica e trasmettere un’immagine del fascismo “come restauratore
dell’ordine e inflessibile persecutore della mafia” (p. 61). Il capitolo si conclude
con uno sguardo alla carriera di Giuseppe Gueli, funzionario formatosi “alla scuola di Mori” (p. 79) che alla fine degli anni Venti fu trasferito in Alto Adige dove
svolse una “fondamentale pratica nell’indagine politica” (p. 74) ed ebbe modo di
mettere a frutto le esperienze siciliane in
un contesto molto diverso.
Il terzo capitolo segue ancora gli sviluppi della carriera di Gueli che nel 1933
fu richiamato in Sicilia alla guida di un
nuovo ispettorato contro la criminalità
mafiosa e non. La gestione fu molto diversa dalla precedente esperienza palermitana
di Mori e fu improntata ad un silenzioso
lavoro di indagine e di intelligence svolto da pochi uomini. Ciononostante l’azione fu caratterizzata da una certa violenza
(uccisioni, sevizie sui fermati). Un ispettorato simile operò in Sardegna, con metodi
altrettanto violenti e brutali, sotto la guida
di altri funzionari: Spanò prima, Polito poi
e infine, a partire dal 1938, lo stesso Gueli. A dimostrazione della flessibilità e delle possibilità d’impiego di questo modello
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poliziesco, nel 1939 fu istituito anche un
Ispettorato dell’alta Italia per smantellare
la Banda Bedin, un gruppo criminale che
dal Veneto aveva esteso il suo raggio d’azione a tutta la Val Padana. La distruzione
della Banda rappresentò “il punto più alto
della carriera di Gueli” (p. 112).
Con l’inizio della seconda guerra mondiale (e siamo al quarto capitolo) le competenze di questi uomini furono messe al
servizio della repressione politica. Nel novembre del 1940 Gueli fu inviato in Venezia Giulia, dove il movimento di resistenza
sloveno era consistente. Forte delle passate esperienze Gueli propose l’istituzione di
un ispettorato, con sede a Trieste, da cui
dipendevano una serie di nuclei mobili di
cinquanta uomini formati da agenti di Ps,
carabinieri, finanzieri e uomini della milizia. Il lavoro dell’ispettorato triestino fu
caratterizzato dal ricorso sistematico alla
violenza. Lo stesso ufficio centrale aveva
sede in un luogo ribattezzato villa Triste
proprio per le sevizie e le torture cui erano sottoposti i fermati. In queste attività
si distinse “per efferatezza e sadismo” (p.
159) un giovane funzionario, collaboratore di Gueli: Gaetano Collotti. Anche dopo
il settembre 1943, lo stesso Gueli continuò
a dirigere l’ispettorato nella Rsi, in quanto
ritenuto utile dai nazisti.
Nell’ultimo capitolo del volume si analizza il passaggio di questi funzionari dal
fascismo alla Repubblica. Gueli fu processato e condannato ad otto anni per collaborazionismo: sebbene la condanna fu
da subito “dichiarata estinta” (p. 181) per
l’amnistia Togliatti non riuscì a rientrare in attività. Altri funzionari furono rapidamente riammessi in servizio nel dopoguerra. In particolare Messana, Spanò e
Verdiani che si avvicendarono al comando dell’Ispettorato di Ps per la Sicilia contro la banda di Salvatore Giuliano, prima
che questo fosse sciolto e il controllo delle operazioni in Sicilia fosse affidato ai
carabinieri del Comando forze repressione banditismo.
Il volume si conclude un salto in avanti di quasi trent’anni (post factum), che fa
cenno al lavoro del Nucleo speciale di polizia giudiziaria del generale Dalla Chiesa,
creato nel 1974 per combattere il terrorismo. Il collegamento con i passati ispettorati appare lecito almeno per due motivi.
In primis perché Dalla Chiesa aveva fatto parte, dirigendo le squadriglie nella zona di Corleone, del Comando forze repressione banditismo, in secondo luogo perché,
seppur alla lontana, alcune prassi operative del generale avevano degli elementi comuni col passato remoto. In tale contesto
sarebbe stato opportuno inserire un cenno,
almeno per assonanza, all’Ispettorato generale per il coordinamento dell’azione antiterroristica creato nello stesso 1974 e diretto dal questore Emilio Santillo.
Michele Di Giorgio
Maurizio Pagnozzi, Gerardo Severino, Mauro Saltalamacchia, Storia
delle fiamme gialle della Sardegna. Due
secoli di valore, di abnegazione e di incondizionato servizio a tutela dello Stato (1820-2018), Sassari, Delfino, 2018, pp.
636, euro 30.
La Guardia di finanza, oggi assieme
all’Agenzia delle entrate, è un pilastro dello Stato nazionale. Svolge una funzione
essenziale di polizia economica generale,
ha alcune peculiarità italiane (dipendenza
dal ministero delle finanze ma ordinamento militare), ha una lunga e complessa storia: non è più il corpo delle guardie doganali schierato a cordone sul confine, come
era all’inizio dell’Unità d’Italia, ma è un
corpo fra i più professionalizzati ed esperti fra quelli dello Stato. Ha e ha avuto, ovviamente, come questo, i suoi problemi.
Ma si tratta di uno dei pilastri della vita
economica e istituzionale del Paese.
Ciononostante, gli storici italiani non
la studiano quanto merita. Questo è comprensibile: servirebbero nozioni di storia
militare, finanziaria, tributaria, oltre che
ovviamente politica e sociale, che — insieme — non sono patrimonio comune degli storici accademici. La prima conse-
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