L’Ellisse
Studi storici di letteratura italiana
Anno IX/2
2014
«L’ERMA» di BRETSCHNEIDER
L’Ellisse, IX/2
Studi storici di letteratura italiana
Copyright 2015 «L’ERMA» di BRETSCHNEIDER
Via Cassiodoro, 19 - Roma
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L’Ellisse : studi storici di letteratura italiana. - 1(2006)- . Roma : «L’ERMA» di BRETSCHNEIDER, 2006 .- v. ; 24 cm
Annuale
ISSN 1826-0187
CDD 21. 850.5
1. Letteratura italiana - Periodici
Giacomo Leopardi
Il libro dei Versi del 1826: «poesie originali»
a cura di
Paola Italia
Premessa. Ragioni di un libro
di Paola Italia ……………………………………………………………
pag. … 7
I VERSI
Luigi Blasucci, Appunti sui Versi del ’26 e in particolare sugli “idilli” ……………………
»
17
Marco Antonio Bazzocchi, Abbozzi per la storia di un’anima ………………………
»
27
L’Infinito. Idillio I (Luca Maccioni) ………………………………………………
»
37
La sera del giorno festivo. Idillio II (Simone Moro) …………………………………
»
57
La ricordanza. Idillio III (Paola Italia) ……………………………………………
»
67
Il sogno. Idillio IV (Roberto Rea) …………………………………………………
»
81
Lo spavento notturno. Idillio V (Franco D’Intino) …………………………………
»
97
La vita solitaria. Idillio VI (Johnny L. Bertolio) ……………………………………
»
119
Elegia I (Margherita Centenari) ……………………………………………………
»
131
Elegia II (Rossano Pestarino) ……………………………………………………
»
141
IDILLI
ELEGIE
6
SONETTI IN PERSONA DI SER PECORA FIORENTINO BECCAIO (Silvia Datteroni) ………
»
163
EPISTOLA AL CONTE CARLO PEPOLI (Martina Piperno) ……………………………
»
189
GUERRA DEI TOPI E DELLE RANE (Andrea Penso) ……………………………………
»
201
VOLGARIZZAMENTO DELLA SATIRA DI SIMONIDE SOPRA LE DONNE (Valerio Camarotto) …
»
217
L’INNO A NETTUNO e LA TORTA (a cura di Margherita Centenari) ………………
»
227
Abbreviazioni dei testi di Giacomo Leopardi ………………………………………
»
235
Norme per gli autori e i collaboratori de «L’Ellisse» …………………………………
»
239
APPENDICE
ANDREA PENSO
GUERRA DEI TOPI E DELLE RANE
La pubblicazione della Guerra dei topi e delle rane nell’edizione dei Versi del 1826
costituisce una tappa fondamentale del percorso compiuto da Leopardi all’interno
della zooepica, ancorché non conclusiva. Fondamentale, perché questa versione del
poemetto pseudomerico porta a un più alto livello di completezza le istanze dei
due precedenti tentativi di traduzione (del ’15 e del ’21) e allo stesso modo, attua la
“messa in pratica” definitiva delle osservazioni teoriche mosse nel Discorso sopra la
Batracomiomachia, scritto ben dieci anni prima. Tappa momentanea, precisavo poco
sopra, perché di lì a qualche anno Leopardi riprenderà le fila di quell’interesse mai
troncato per la Batracomiomachia componendone la “gionta” con i Paralipomeni, vero e
proprio punto di arrivo della speculazione leopardiana in seno al genere eroicomico,
e prodotto certamente più ricco e personale. La critica che abbia avvicinato il Leopardi satirico, e in particolare eroicomico, ha riservato massicciamente la propria
attenzione ai Paralipomeni, individuando in quest’opera l’esito più maturo delle meditazioni del poeta sopra tematiche sociali, politiche (soprattutto) e filosofiche coeve.
Il cosiddetto “libro terribile” è in effetti considerato come momento fondamentale
dell’ermeneutica leopardiana del reale, contenitore definitivo di tutto il disincanto
del poeta per il mondo e per gli uomini, e anticipatore per vari aspetti delle riflessioni
estreme veicolate in ultimo da La ginestra. D’altra parte, molto poco ci si è soffermati
sulle prime tappe di quel percorso cui si faceva cenno in apertura1. Nella ricca bi-
1
Già Valerio Camarotto aveva rilevato la mancanza di approfondimenti critici in questo senso, nel
suo saggio sulla prima traduzione della Batracomiomachia del 1815, evidenziando tutte le potenzialità che
un approccio a questa parte della produzione leopardiana potrebbe portare: «la traduzione leopardiana
della Batracomiomachia offre la possibilità di compiere ricognizioni testuali ispirate a molteplici prospettive
di ricerca, e costituisce perciò un fecondo campo di indagine forse ancora non esplorato a fondo» (cfr. V.
CAMAROTTO, «Antica lite io canto»: la traduzione leopardiana della Batracomiomachia (1815) tra parodia e satira,
«La Rassegna della letteratura italiana», CXI, 2007, 1, pp. 73-97).
202
bliografia critica sulla poesia comico-satirica di Leopardi, dunque, la scarsità di studi
inerenti alla riflessione teorica e alle traduzioni della Batracomiomachia è certamente
degna di nota. Appare infatti quantomeno curioso notare come il filo rosso legato
al genere eroicomico, che attraversa la “carriera” poetica di Leopardi per quasi un
ventennio, sia stato indagato solo nella sua parte finale, con pochissime ricognizioni
e approfondimenti sia riguardo al Discorso, sia soprattutto in riferimento alle tre prove traduttive. Prove che, invece, costituiscono un esempio rilevante dell’attenzione
non episodica riservata da Leopardi per quell’«opera interessante» cui «la bassezza
dell’argomento non può farle perdere nulla del suo pregio»2. Il presente contributo
non vuole certamente avere la presunzione di colmare tale lacuna; l’intento è piuttosto quello di rilanciare l’interesse per questo aspetto dell’opera leopardiana, forse
più “nascosto” ma non per questo meno importante, approfittando dell’idea che
sta alla base di questo volume di saggi per fornire alcuni spunti di analisi stilistica
e contenutistica della traduzione del 18263, la quale offre il destro a un discorso
sull’originalità dell’edizione bolognese dei Versi, perché proprio di quell’originalità
costituisce un campione esemplare. Che Leopardi fosse consapevole della novità
dei Versi (e della versione della Batracomiomachia in particolare) e della necessità di
mettere questa caratteristica in netto rilievo è chiaro immediatamente dall’incipit della traduzione. La prima sestina recita infatti:
Sul cominciar del mio novello canto,
Voi che tenete l’eliconie cime
Prego, vergini Dee, concilio santo,
Che ’l mio stil conduciate e le mie rime:
Di topi e rane i casi acerbi e l’ire,
Segno insolito a i carmi, io prendo a dire.
In quel «novello» pare esserci, oltre a un ovvio e topico riferimento alla nuova
opera che sta cominciando, anche un ragguaglio sulla novità, in senso generale, di
quell’opera. Il verso 1 costituirebbe secondo questa idea una sorta di mise en abyme dell’originalità della traduzione, il cui svolgimento sta per iniziare. La bontà di
questa intuizione potrebbe essere suffragata da un confronto coi versi iniziali delle
precedenti traduzioni compiute da Leopardi. Nella versione del ’15 il primo verso,
«Grande impresa disegno, arduo lavoro», è molto lontano dal proposito di attribuire
un’idea di novità all’opera, mentre nel 1821 si verifica un’evoluzione in «Mentre a
novo m’accingo arduo lavoro», che costituisce evidentemente il collegamento tra la
prima e l’ultima versione, e contiene in effetti un riferimento alla novità. Ancora,
però, sembra ravvisabile una differenza tra «novo» e «novello»: l’accezione della
2
Cito da G. LEOPARDI, Discorso sopra la Batracomiomachia, in Poesie e prose, vol. II, p. 406.
Analisi retorica che ovviamente non può prescindere da un continuo confronto con le versioni precedenti, per comprendere l’evoluzione del testo e le ragioni delle scelte stilistiche di Leopardi.
3
203
seconda parola appare più connotata dal significato appunto di “novità”, nel senso
assoluto del termine (non per nulla richiama più da vicino “novella”). Il cambiamento di segno del lemma pare dunque adattarsi perfettamente agli scopi sottesi
dalla confezione del volume bolognese di Versi. Oltretutto, si rilevi come anche
«lavoro» delle prime due versioni venga mutato in «canto» nell’ultima: si passa cioè
dall’idea di un “umile” lavoro traduttorio, all’elevazione di quel lavoro alla dignità di
creazione poetica propria appunto del “canto”, conferendo alle sestine che seguono
un “ruolo” tutt’affatto sconosciuto a quelle delle precedenti versioni, che sono in
generale molto simili tra di loro, ed entrambe molto differenti dall’ultima. La stanza
incipitale, luogo retoricamente marcato per eccellenza, si offre quindi come momento privilegiato per alcuni rilievi stilistici, soprattutto se messa a confronto con
gli incipit delle due versioni precedenti. Confrontando gli esordi delle prove del ’15
e del ’21, appare immediatamente chiaro come Leopardi intendesse con quella del
1826 operare uno scarto in direzione di una maggiore marcatezza espressiva e di un
più elevato tasso di “personalizzazione”. Siano dunque i due differenti incipit delle
versioni precedenti alla “nostra”:
1815
Grande impresa disegno, arduo lavoro:
O Muse, voi dall’Eliconie cime
A me scendete, il vostro aiuto imploro:
Datemi vago stil, carme sublime:
Antica lite io canto, opre lontane,
La Battaglia dei topi e delle rane.
1821
Mentre a novo m’accingo arduo lavoro,
O Muse, voi da l’Eliconie cime
Scendete a me ch’il vostro aiuto imploro:
Datemi vago stil, carme sublime:
Antica lite io canto, opre lontane,
La Battaglia de’ topi e de le rane.
Com’è evidente, gli interventi di Leopardi nell’ultima versione sono molteplici.
Oltre a quelli già segnalati, occorre rilevare in primo luogo la perifrasi dei vv. 2-3,
stilisticamente rilevante, per cui le «Muse» diventano le «vergini Dee» del «concilio
santo», con evidente evoluzione in senso maggiormente espressivo. Espressività
che connota anche la scelta di modificare i termini con cui riferirsi alla materia
poetica: l’«antica lite» delle prime versioni lascia infatti il posto a «i casi acerbi e
l’ire»4. Il sacrificio dell’effetto comico di straniamento, che era provocato dal coz-
4
Ma tornerà «zuffa» nella sestina III, 13, che dalla versione del ’21 aveva sostituito il «conflitto»
della prima.
204
zare tra il «carme sublime» e la dichiarazione che quello stile dovrà narrare di una
semplice (per quanto antica) «lite», è volto in direzione ancora una volta espressionistica: «casi acerbi» e «ire» appaiono maggiormente connotati da un punto di
vista parimenti fonosimbolico e concettuale. Non si dimentichi poi che negli anni
in cui Leopardi si dedicava alla traduzione della Batracomiomachia, la fortuna della
traduzione dell’Iliade di Vincenzo Monti stava dilagando: ebbene, «ire» potrebbe
dunque rimandare alla celebre «ira funesta» di Achille, e anche «acerbe» è termine
che ricorre innumerevoli volte nella versione di Monti. L’eco montiana svelerebbe
in controluce la volontà di Leopardi di sostanziare il proprio componimento di una
dotta allusività, fattore che lo affrancherebbe dallo statuto di traduzione tout court e
rafforzerebbe l’idea di una ricerca più personale del poeta. Come dimostreremo tra
poco, l’attribuzione di lessemi tipici dell’epica a un contesto così degradato, oltre a
produrre uno straniamento più “colto” e profondo, svela in nuce quanto succederà
di lì a qualche anno nei Paralipomeni, in cui lo scarto tra linguaggio dell’epica e vicende di infima entità sarà stilema ricorrente.
Ancora, riguardo alla sestina incipitale. Notevole appare il cambiamento occorso
al v. 4 a proposito dello stile, con la sostituzione di «le mie rime» a «carme sublime».
È evidente che la mutazione non è dovuta a ragioni di rima, dal momento che quella
in -ime è l’unica catena rimica che viene conservata nelle tre versioni. Le motivazioni
andranno piuttosto ricercate sul piano ideologico. Il fatto che Leopardi si riferisca
alla traduzione che sta per iniziare con la locuzione «le mie rime» è sintomatico a
mio avviso della percezione che dell’opera egli aveva: non più solamente un lavoro
di traduzione, ma un componimento originale che costituisce qualcosa di nuovo e
assume piena dignità poetica. Lo scarto poi che intercorre tra i termini «carme» e
«rime» sancisce tutta la distanza che intercorre tra i versi delle prime versioni, maggiormente legati al modello antico, di cui appunto il carme rappresenta uno schema
esemplare, e quelli della traduzione più recente, della quale si sottolinea l’aspetto più
attuale e originale attraverso il riferimento a quello che di fatto costituisce il discrimine più notevole tra la poesia antica e quella moderna, le rime appunto. Rime di
cui Leopardi rivendica la paternità: in quel «mie», che non sarà di circostanza, risiede
la volontà del poeta di riprendere il modello pseudo-omerico per rielaborarlo fino a
dar vita a una cosa nuova e personale. Questa continua proclamazione di originalità
è svelata, a ben vedere, anche dal verso che nella versione del 1826 chiude la sestina.
Mentre nelle prime traduzioni l’incipit si chiudeva con un riferimento piuttosto neutro alla materia della poesia, nell’ultima Leopardi si riferisce ad essa come a un «segno insolito a i carmi»: quell’«insolito» costituisce lemma valutativamente orientato
e concorre a rendere l’idea di qualche cosa di inusitato, nuovo, originale appunto. Il
ritorno, poi, del termine «carmi» al v. 6 pare confermare quanto detto poco sopra.
Riferendo che la guerra dei topi e delle rane è materia insolita per i carmi, Leopardi
da un lato rafforza (e lo fa in maniera più decisamente espressiva) l’idea di novità del
proprio canto, dall’altro frappone una distanza tra le sue rime e i carmi in generale: da
questo scarto, evidenziato in prospettiva anche dal diverso uso precedente di «car-
205
me» si percepisce la ferma volontà del poeta di affermare sé stesso come originale
compositore, conferendo così pieno diritto di cittadinanza alla Guerra dei topi e delle
rane in quella galleria di poesie originali che è l’edizione dei Versi del 1826. Il reimpiego del termine «carme/i» nelle versioni costituisce in ultima analisi un ulteriore
elemento che sottolinea l’evoluzione cui è andata incontro la concezione dell’opera:
se prima il carme era chiesto alle Muse come strumento per mettere in versi l’«antica
lite», ora a quello scopo sono subentrate le rime, che sono già del poeta e hanno
bisogno solo di essere guidate dalle Muse («conduciate»), non donate interamente
come era prima («datemi»). Ne deriva che i carmi sono quasi confinati al ruolo di
fonte storiografica della inusuale materia poetata, di distante, generico e astratto
repertorio, sul quale Leopardi vuole invece innestare e imporre concretamente il
proprio. A margine delle riflessioni sull’incipit, si rilevi infine un dato quantomeno
curioso. La Guerra dei topi e delle rane inserita nell’edizione 1826 dei Versi è preceduta
dall’indicazione della data di composizione in numeri romani, MDCCCXV. Perché
Leopardi ha apposto alla stampa dell’ultima traduzione la data della prima versione,
uscita a stampa sullo «Spettatore» di Milano nel 1816, visto e considerato che le due
redazioni sono tutt’affatto molto diverse? Probabilmente, il poeta riteneva che le
tre versioni costituissero altrettante tappe di uno stesso percorso lungo il quale la
medesima opera, concepita appunto nel ’15, veniva prendendo forma. Ma l’analisi
dei rispettivi incipit, ancorché cursoria, mostra al contrario che l’ultima traduzione
costituisce qualche cosa di piuttosto diverso dai precedenti tentativi, e pur potendo
pensare le varie modifiche come un naturale sviluppo della stessa opera, occorre
tenere presente che sia l’impianto, sia le ragioni stesse della poesia sono differenti,
ed evolvono in direzione di una maniera che fu propria delle Canzoni, e che anche
in questa particolare, ricca attività traduttiva si poteva intravvedere. La trama del
poemetto resta in effetti sempre la stessa: il re delle rane Gonfiagote persuade il
timoroso Rubabriciole, figlio del re dei topi Rodipane, a montare sulle sue spalle
per attraversare il lago, assicurandogli che non correrà pericoli. Durante la traversata, però, appare all’improvviso un serpente d’acqua e Gonfiagote, per sfuggirgli,
si immerge, causando così l’annegamento di Rubabriciole. L’incidente costituisce il
casus belli, e il conflitto scoppia immediatamente. Quando la vittoria sembra ormai
in mano ai topi, Giove scaglia il suo fulmine, e contestualmente i granchi giunti sul
campo di battaglia annientano i topi facendoli a pezzi e mettendoli in fuga. Il testo
greco è tuttavia riletto in chiave tutt’affatto personale da Leopardi, che adatta la
storiella ai propri scopi satirici svincolandola dal suo statuto di semplice scherzo
letterario ispirato da spensierato divertissement: in sintonia con le idee teorizzate da
Casti negli Animali parlanti (di cui non a caso Leopardi mutua il metro, la sestina)5,
5
Nella sua prefazione agli Animali parlanti, Casti afferma di ritenere l’animalesco come lo
strumento atto a degradare l’umano in corpore vili per produrre effetti comici mediante lo straniamento. La satira è dunque rivolta all’uomo in generale, «poiché le passioni e le inclinazioni umane,
206
la Guerra dei topi e delle rane «segna un ampliamento di prospettive rispetto al testo
originale di cui è traduzione, perché Leopardi cerca di non far risiedere più il
fulcro della vitalità poetica dell’opera nella semplice riproposizione parodistica e
rovesciata del patrimonio formulare e dello stile omerico, ma di liberarla dal suo
statuto di gioco metaletterario e di proiettarla su uno sfondo più ampio, affidando
la vena comica alla ripresentazione delle peculiarità umane all’interno del mondo
degli animali»6. L’idea originaria che diede vita all’antica Batracomiomachia, vale a
dire l’intento meramente parodico nei confronti dell’epica omerica “alta”, viene
dunque superata da Leopardi, ed elaborata in modo da essere pienamente fruibile
dal colto pubblico moderno, con la trasformazione dell’opera da semplice parodia
metaletteraria a più impegnata satira sociale. Se dunque, come ha mostrato Camarotto, l’evoluzione del poemetto da parodia a satira è ben visibile nella prima
versione leopardiana del ’15, ancora più evidente è in quella del 1826, la quale
porta alle estreme conseguenze, soprattutto in ambito stilistico-espressivo, tutti
gli elementi di originalità e personalizzazione che Leopardi aveva inaugurato con
la prima traduzione. L’originalità dell’ultima Batracomiomachia leopardiana è dunque dimostrabile a partire dall’analisi stilistica, che si rivela particolarmente ricca
di spunti. Sia innanzitutto il piano del linguaggio, il quale rende immediatamente
evidente l’elaborazione in senso espressionistico del discorso poetico. Un esempio di questo processo è, per rimanere sempre alle battute iniziali dell’opera, la
stanza 3:
I terrigeni eroi, vasti Giganti,
Di que’ topi imitò la schiatta audace:
Di dolor, di furor caldi, spumanti
Vennero in campo: e se non è fallace
La memoria e ’l romor ch’oggi ne resta,
La cagion de la collera fu questa.
Lessicalmente molto connotata, la sestina attua la ripresa e la complicazione di
ogni verso delle stanze omologhe appartenenti alle versioni precedenti, praticamente identiche tra di loro:
1815-1826
I nati già dal suol vasti giganti
Di que’ topi imitò la razza audace:
delle quali in essa rivestite si suppongono le bestie, sono sempre nella sostanza le stesse, e soggette solo ad
alcune gradazioni, e suscettive di maggiore o minore attività, secondo la forza delle molle che le muovono
e le circostanze che le fanno nascere e che le alimentano» (cfr. G. CASTI, Prefazione dell’autore, in ID., Gli
Animali parlanti, a cura di G. MURESU, Ravenna, Longo, 1978, p. 6).
6
CAMAROTTO, «Antica lite io canto», cit., p. 87.
207
Di nobil foco accesi, ira spiranti
Vennero al campo; e se non è mendace
Il grido ch’oggi ancor7 va per la terra,
Questo l’origin fu di quella guerra.
L’intervento di Leopardi in direzione di una maggiore espressività linguistica è ravvisabile in lemmi come «terrigeni», espressione ricercata che sostituisce
il letterale «nati dal suol»; o ancora «schiatta» per «razza», su cui torneremo più
avanti; «di furor caldi» è evidentemente più passionale e guerresco del precedente
«di nobil foco accesi», così come «spumanti» è termine più marcato di «spiranti», anche se molto simile dal punto di vista dell’impasto sonoro; «la memoria e
’l romor» paiono decisamente più epicizzanti del semplice «grido», e allo stesso
modo «collera», che richiama «ire» della prima sestina, è espressione più ricercata
di «guerra». Il nuovo testo è dunque punteggiato di termini maggiormente orientati in senso aulico, con un amalgama fonico di grande impatto sulla prosodia, e
ciò è spiegato solamente dalla volontà di Leopardi di connotare la propria opera
con un tasso maggiore di novità ed espressività poetica, per renderla di fatto una
cosa nuova, una poesia originale. Ulteriori esempi di questa tendenza depongono
in favore della nostra ipotesi; di seguito dunque una tabella riassuntiva, che ben
schematizza l’evoluzione cui il testo è andato incontro e che abbiamo cercato di
descrivere:
1815
1821
1826
(I, 5)
Che se dabben
ritroverotti e umano
Valicar ti farò questo
pantano.
Ché se da ben conoscerotti e
umano,
Valicar ti farò questo pantano.
Ché se buono e leal fia ch’i’
ti veggia,
Albergo ti darò ne la mia
reggia.
(I, 6)
Alle mie terre ed al
palazzo mio;
Alle mie terre ed al palazzo mio;
Per quest’umido calle al
tetto mio
(I, 10)
Ma come vuoi che
amico tuo diventi,
Se di noi sì diversa è la
natura?
Ma come vuoi che amico tuo
diventi,
Se di noi sì diversa è la natura?
Che d’ospizio consorte io
ti diventi,
Esser non può: diversa è la
natura.
7
Era «che tuttor» nella prima versione.
208
(I, 22)
Dicea: quand’ecco fuor
della sua tana
Con alto collo un serpe
uscir sull’onda
Dicea, quand’ecco fuor de la
sua tana
Con alto collo un serpe esce a
fior d’onda:
E qui dal suo covil, con
larghe rote,
Ecco un serpe acquaiuolo
esce a fior d’onda
(II, 1)
Corse a recar la trista
nuova, e appena
Corse a recar la nova, e in un
momento
Corse, ridisse il caso; e in
un momento,
(II, 12)
Fra i ranocchi un
tumulto allor si desta,
Di Gonfiagote il Rege
ognun si duole,
Palpita e trema ognun
per la sua testa
Ne’ ranocchi un tumulto allor
si desta,
Di Gonfiagote il rege ognun si
dole,
Trema e palpita ognun per la
sua testa
Qui ne’ ranocchi un
murmure si desta,
Un garbuglio, un romor.
Questo si dole
Di Gonfiagote e trema per
la testa
(II, 13)
Ben so che certo sorcio
impertinente,
Il navigar di noi d’imitar
vago,
Gittossi in acqua, e
s’affogò nel lago.
Ben so che certo sorcio
impertinente;
Del notar che voi fate emulo e
vago,
Si mise a l’acqua e s’affogò nel
lago.
So ben che certo sorcio
impertinente,
Navigar presumendo al
vostro modo,
Altro gli riuscì ch’andar nel
brodo.
(II, 16)
L’armi indossiamo, e
stiamo allegramente,
Che or or ci sbrigherem
di quella gente.
In assetto poniamci
allegramente,
Ché sbrigheremci or or di quella
gente.
Fornitevi a la pugna, e fate
core,
Ché non siam per averne
altro che onore.
(III, 3)
Mangiapan Moltivoce
nella pancia
Ferisce, e a terra il fa
cader supino,
Manda uno strido, e poi
spira il meschino.
Mangiapan Moltivoce ne la
pancia
Percosse e a terra lo mandò
supino.
Mette uno strido e poi spira il
meschino.
Mangiapan Moltivoce per
la pancia
Trafora e lo conficca in sul
terreno:
Mette il ranocchio un grido,
e poi vien meno.
209
(III, 9)
Schiaccia la destra
gamba ed il ginocchio.
Spezza la destra gamba ed il
ginocchio.
Spezza due gambe e stritola
un ginocchio.
(IV, 3)
Distrugger vuol con
ostinata guerra
(III, 16)
Distrugger vuol con ostinata
guerra
(III, 16)
Si dispon di mandare a
spada e lancia
(IV, 10)
Quei code e piè
tagliavano col morso,
E fer tremenda strage
innanzi sera,
Rompendo ogni arma
ostil solo col dorso.
(III, 23)
Quei code e piè troncavano col
morso,
E fecero un macello innanzi
sera,
Fiaccando ogni arma ostil con
l’aspro dorso
(III, 23)
A’ granchi ogni arme si
fiaccava in dorso:
Fero un guasto, un macello
innanzi sera,
Mozzando or coda or
zampa ad ogni morso.
Come mostrano i numerosi casi esemplari ricavati da una ricognizione sui testi,
le modifiche e gli interventi sono sempre indirizzati a conferire al dettato un tono più
espressivo e un ritmo più solenne, che risultano in passaggi stilisticamente molto più
marcati e retoricamente elaborati. Oltretutto, non sarà inutile ribadire come per vari
aspetti la Guerra dei topi e delle rane del 1826 tradisca il suo ruolo di “officina” dei successivi Paralipomeni. Se è vero che anche nelle prime due traduzioni la direzione presa
da Leopardi è quella della satira del consorzio umano che sarà poi il motivo fondante
dei Paralipomeni, è vero altresì che solamente nell’ultima versione il verseggiare leopardiano si connota di quegli stilemi che ritorneranno poi nelle ottave del poemetto. La
più matura e particolare arguzia verbale che affiora qua e là nella traduzione del 1826
si riverbererà infatti anche sui Paralipomeni. Indicativi in questo senso i versi a serie
piena di parole che velocizzano l’azione (II, 1, [v. 4]: «Corse, ridisse il caso; e in un momento»); il gusto, portato all’esasperazione, per la nomenclatura e la catalogazione (I,
11, [vv. 3-6]: «Or la tortella, or la focaccia inghiotto / Di granelli di sesamo condita; /
Or la polenta ingrassami i budelli, / Or fette di prosciutto, or fegatelli»); la tendenza a
connotare i granchi mediante un’asprezza anche espressiva oltre che figurativa, come
ben testimonia la loro irruzione sulla scena (sebbene circoscritta a pochi versi) nella
parte conclusiva, descritta nella redazione del 1826 in maniera molto più espressionistica rispetto a prima, come testimoniano gli ultimi esempi della tabella; la raffinatezza
infine di certi giochi di parole, come quello della sestina I, 18 (vv. 1-4, corsivo ns.):
Così dicendo, gli omeri gli porse.
Balzovvi il sorcio, e con le mani il collo
Del ranocchio abbracciò, che ratto corse
Via da la riva, e seco trasportollo.
210
L’utilizzo dell’avverbio «ratto» nel senso di ‘rapidamente’ sostituisce il precedente «via sen», molto meno incisivo sul piano espressivo, ma soprattutto non portatore del calembour per cui l’avverbio scelto nell’ultima versione rimanda all’idea
di topo, sorcio. Il fatto che questo gioco di parole compaia nell’ultima più matura
versione mi autorizza a pensare che la sua ideazione non sia affatto casuale, e che
anzi costituisca un esempio precursore dello stilema (forse mutuato anche dalle
letture condotte in quel periodo sul Byron satirico del Don Juan)8 che avrà un ruolo
importante nei Paralipomeni, come ad esempio nell’ottava II, 21:
Rispose che venuto era legato
Del proprio campo, e ben legato e stretto
Era più che mestier non gli facea,
Ma scherzi non sostien l’alta epopea.
Leopardi gioca sull’omofonia del termine «legato», da intendere prima come
participio passato e poi come sostantivo. Si noti inoltre il verso conclusivo dell’ottava, con quel forte «Ma» avversativo, che pare infine svelare volutamente il gioco.
Nella Guerra dei topi e delle rane del 1826 iniziano a manifestarsi dunque abbastanza
esplicitamente i modi di quella vena satirica che era stata propria anche delle Operette morali e che sarà poi tratto distintivo fondamentale dei Paralipomeni. Anzi, sono
forse da attribuire proprio alla maggiore consapevolezza filosofica posseduta da
Leopardi all’altezza del 1826 le ragioni dell’evoluzione stilistica in senso maggiormente espressivo cui andò incontro l’ultima versione. È chiaro cioè, in altre parole,
che quando la satira non era ancora accesa dalla portata ideologica di certe speculazioni teoretiche (come è appunto il caso delle versioni del 1815 e del 1821) il dettato del discorso poetico non fosse ancora “pronto” ad essere infiammato dalla violenza espressiva della parola, a farsi carico cioè di rappresentare in maniera anche
stilisticamente grottesca le assurdità dell’Uomo e della sua esistenza. Le circostanze
sono ovviamente molto differenti nel 1826, e differente è lo stesso approccio di
Leopardi a quella che sarebbe ormai riduttivo definire semplicemente come “traduzione”. Se è dunque vero che fin dalla prima prova traduttoria il recanatese aveva
rinunciato a salvaguardare lo spirito originario della Batracomiomachia, proiettando
invece sullo sfondo della favola antica il ritratto delle bassezze dell’uomo in forma
ferina, nell’economia dei Versi del 1826 la Guerra dei topi e delle rane acquista ben altro
rilievo, e si propone come un’opera senza dubbio originale (se non da un punto di
vista contenutistico, senz’altro da quello stilistico), in cui il procedimento di “trasfigurazione” dell’umano nel bestiale è un’occasione ghiotta per sfruttare le potenzialità ermeneutiche del riso, punto di partenza perfettamente adatto ad aprire successivamente la strada a una più convinta, sferzante e ideologicamente consapevole
8
Si veda per esempio nel Don Juan (VII, 21): «I wonder (although Mars no doubt’s a god I / Praise)
if a man’s name in a bulletin / May make up for a bullet in his body?».
211
satira contro l’arido vero. Laddove nel 1815 il giovane Leopardi aveva per la prima
volta «osservato le azioni e la vita associata degli uomini con occhio divertito e con
distacco ironico, alludendo ad esse esattamente in quei loci in cui si allontana di sua
libera iniziativa dal testo originale»9, nel 1826 un Leopardi più maturo poteva concentrarsi con maggiore acribia sulle storture degli umani comportamenti. A sancire
l’evoluzione sono ancora rilievi di tipo stilistico, che testimoniano della più intensa
“violenza” verbale e dell’accresciuta attenzione per l’elemento umano della narrazione poetica. Alcuni esempi aiuteranno a chiarire questa ipotesi. Come abbiamo
già rilevato, nella terza sestina del canto I (v. 2), Leopardi si riferisce al popolo dei
topi con il termine «schiatta», mentre nelle due precedenti versioni aveva scritto
«razza»10. Si tratta della sola parola che viene modificata in un verso altrimenti rimasto intatto, e per questa ragione il cambiamento assume rilevo stilistico considerevole: il nuovo lemma testimonia infatti di una ricerca lessicale più approfondita e
più attenta all’attribuzione di connotati umani ai protagonisti ferini, dal momento
che, come è facilmente intuibile, «schiatta» è vocabolo appartenente in maniera
esclusiva ai campi semantici della socialità umana, e in nessun caso riferibile agli
animali, se non appunto allo scopo di ottenere particolari esiti espressivi tramite lo
straniamento. Questa sostituzione puntuale resterebbe senz’altro un dato effimero
se Leopardi non dimostrasse anche altrove nel testo la stessa perizia nella scelta dei
vocaboli migliori e di volta in volta più adatti a seconda dei contesti e dei propri
(nuovi) scopi comunicativi. Un altro riscontro si ricava dunque dalla sestina 21 del
canto III. In questo caso il poeta adopera il termine «razza» per descrivere l’arrivo
dell’esercito crostaceo sulla scena. Si tratta dunque dello stesso lemma che
nell’esempio precedente era stato invece sostituito. L’apparente contraddizione si
spiega facilmente osservando il differente contesto semantico. Nell’ipotesi dunque
di volere catalogare due diverse categorie viventi conferendo loro connotati antropomorfi, «razza» appare molto più “umano” del lemma «specie» usato nel 1821 11. I
granchi costituiscono di fatto un’altra specie animale rispetto ai topi e alle rane, ma
nella versione del 1826 il poeta non si accontenta di adoperare un termine che
sancisse la normale differenza intrinseca tra due bestie appartenenti a categorie
diverse. Recuperando il lemma «razza» (di derivazione scientifica, dal momento che
non è improprio parlare di ‘razza’ in riferimento ai vari gruppi umani appartenenti
alla “specie” Homo sapiens: sarebbero dunque uno l’iponimo dell’altro)12, Leopardi
9
CAMAROTTO, «Antica lite io canto», cit., p. 90.
Nel 1826 il verso «Di que’ topi imitò la schiatta audace» sostituisce quello delle versioni precedenti:
«Di que’ topi imitò la razza audace».
11
Il verso «Di razza sopra ogni altra ossosa e dura» del 1826 sostituisce quello del 1821«Di specie
sopra ogni altra ossosa e dura». Del tutto differente quello del 1815: «Con otto piè, due capi e bocca dura».
Si noti: anche in questo caso è la sola parola modificata di un verso altrimenti identico.
12
Nel XIX «razza» secolo assunse anche dignità di classificazione tassonomica, prima di essere progressivamente abbandonato.
10
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vuole andare oltre, attivando in quella differenza un corto circuito stilistico-concettuale più profondo, che in prima battuta distinguesse i due eserciti contrapposti
come due categorie effettivamente diverse, e che quindi li distanziasse entrambi, e
allo stesso modo, dalla propria identità ferina avvicinandoli a una più umanizzata.
In questa articolata dinamica risiede a mio parere tutta la forza della vis comica leopardiana, che i Paralipomeni porteranno alle estreme conseguenze e che nella ‘traduzione’ del 1826 era dunque già in cantiere. Gli esempi appena riportati sono pertanto emblematici dell’originale attitudine del poeta nella composizione dell’ultima
versione: il medesimo lemma viene nella prima circostanza cassato e nella seconda
preferito allo scopo di trarre il massimo dell’espressionismo linguistico e figurativo
in accordo al contesto, nel quale a volte piccole sottigliezze semantiche risultano
decisive, in direzione di una antropomorfizzazione espressionistica dei personaggi
che viene sostenuta anche dai più sottili particolari stilistici. Il processo espressivo
secondo il quale i protagonisti della Guerra del 1826 assumono connotazioni sempre più umanizzate riguarda in particolar modo i topi: come sarà nei Paralipomeni, è
nella descrizione del popolo soricino che Leopardi riversa di preferenza le caratteristiche, caricaturate, del genere umano, e sono dunque i ratti a farsi correlativo
poetico principale dell’Uomo cui il poeta intende indirizzare la propria polemica
derisione. All’altezza del 1826, l’abbiamo notato, mancava la carica ideologica sottesa al successivo poemetto in ottave, che si manifestava nella degradazione dell’uomo in topo con scopi ferocemente satirici e corrosivi; ma è in ogni caso operazione molto utile il rilevare come siano appunto i topi ad essere maggiormente connotati in senso antropomorfico già a partire dalla traduzione. Esemplare, in questo
senso, la loro descrizione in apertura (I, 3-4): animati da sentimenti totalmente
umanizzati, essendo «di dolor, di furor caldi, spumanti», e mossi da «collera» nella
loro azione bellica, la loro attitudine si differenzia decisamente da quella più composta delle versioni precedenti, che li vedeva «di nobil fuoco accesi, ira spiranti».
Leopardi si allontana dall’idea di nobile compostezza nella descrizione dei protagonisti, e attribuisce invece loro sentimenti ben più passionali e, appunto, umani,
in maniera espressionistica e verbalmente più violenta. Nello stesso giro di versi (I,
4), Rubabriciole viene poi definito come «topo, de le membra il più ben fatto». Il
particolare, all’apparenza di poco conto, assume invece una rilevanza non trascurabile mettendo questo passo in relazione con uno di poco successivo. Nella sestina
I, 13 la lunga orazione con cui Rubabriciole si presenta a Gonfiagote ospita un riferimento all’uomo, termine di paragone per far comprendere l’audacia dei topi
quando si confrontano con lui: ebbene, l’uomo viene definito «sì membruto», vale
a dire mediante lo stesso termine che aveva descritto poco prima il roditore. Potrebbe essere questa, in altre parole, una ulteriore, sottile spia del processo di antropomorfizzazione dei protagonisti del racconto poetico: in questo caso, mediante l’attribuzione ai topi di particolari qualità appartenenti normalmente agli uomini.
Le caratteristiche umane che vengono riferite ai topi non si limitano d’altra parte
all’aspetto per così dire morale o psicologico, dal momento che anche le descrizio-
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ni delle sembianze fisiche e materiali mostrano bene come la traduzione del 1826
ambisse a stabilire una sorta di identità tra uomini e topi. Così, nella sestina I, 17 il
verso «Montami in su le spalle: abbi giudizio» sostituisce «Montami su la schiena:
abbi giudizio» delle prime versioni: «spalle» appare molto più “umanizzante” del
più generico «schiena» (e chiude il cerchio con «braccia», presente fin dalla prima
prova, del verso successivo), e il fatto che ancora una volta Leopardi abbia sentito
l’esigenza di modificare una sola parola in un verso altrimenti identico è a mio
parere emblematico del cambio di direzione impresso all’opera nell’ultima traduzione. Ritengo infatti che proprio le piccole modifiche evidenziate dall’analisi microtestuale siano le spie più significative della diversità dell’impianto stilistico, retorico e teorico che sta alla base della Guerra pubblicata nel 1826. Ulteriormente
esemplare in questo senso è la sestina I, 24:
Co’ piedi la mortale onda spingendo
Disse in languidi accenti: “Or se’ tu pago,
Barbaro Gonfiagote. Intendo intendo
L’arti e gl’inganni tuoi: su questo lago,
Vincermi non potendo a piedi asciutti,
Mi traesti per vincermi ne i flutti.
La stanza in questione presenta per ben due volte il termine «piedi», a distanza
ravvicinata; nelle prime versioni era completamente assente nel v. 1, dove era sostituito da «calci» (unica modifica!), mentre il distico finale, pur facendo accenno alle
estremità umane, era leggermente diverso sia nella redazione del 1815 («Mi traesti
per vincermi sui flutti, / Che vano era affrontarmi a piedi asciutti»), sia in quella del
1821 («Mi traesti per vincermi ne i flutti, / Ché vano era assalirmi a piedi asciutti»).
Leopardi non dovette curarsi troppo di generare una ripetizione con il nuovo inserimento: l’importante, forse, era dare l’idea di un topo impegnato in una azione
umana (il nuotare con affanno, “calciando” l’acqua) e per questo necessariamente
connotato da elementi strettamente umani. Nella stessa stanza, poi, un altro cambiamento in direzione di una più particolareggiata umanizzazione dei personaggi.
Al v. 4, «l’arti e gli inganni tuoi» sostituisce il più generico «tradimenti» delle altre
redazioni: l’endiadi dà l’idea di qualcosa di più specificamente umano, soprattutto
grazie alla presenza di «arti», concetto antropico per eccellenza, che produce un effetto di straniamento ben più potente venendo riferito a un anfibio. L’ultimo esempio di questa breve rassegna di umanizzazioni è alla sestina I, 10 quando, davanti
alle lusinghe di Gonfiagote, Rubabriciole afferma di non poter essere suo amico. In
effetti, nelle prime versioni i versi relativi recitavano (vv. 1-2):
Ma come vuoi che amico tuo diventi,
Se di noi sì diversa è la natura?
Nel ’26 Leopardi modifica con:
214
Che d’ospizio consorte io ti diventi,
Esser non può: diversa è la natura.
Modifica, cioè, in direzione di un più realistico e concreto dato umano: il topo
non si limita più a rifiutare la proposta di amicizia come avrebbe semplicemente
fatto il personaggio di una fiaba, ma sancisce l’impossibilità di condividere la casa
(«ospizio») con la ranocchia stanti le inconciliabili differenze tra le due “razze”. Gli
aspetti contenutistici e lessicali vanno ancora una volta in direzione di una maggiore
efficacia espressiva e di una antropomorfizzazione degli elementi presenti sulla scena del discorso poetico. A confermare il senso degli interventi compiuti da Leopardi
in questa specifica sestina, il distico finale:
Frugar per tutto, a tutto porre il muso,
E viver d’uman vitto abbiamo in uso.
Se è vero che i topi si nutrono effettivamente del cibo degli umani, la presenza
di questa analogia nel contesto specifico conferma la volontà di Leopardi di piegare
la realtà alle necessità espressive e comunicative producendo uno straniamento a
partire dallo scarto tra elemento ferino e sua umanizzazione: siamo in presenza di
un topo che parla, pensa e mangia come un uomo! Non vi è nulla di accidentale nel
fatto che gli animali protagonisti di questa favola siano proprio dei topi parlanti e
sempre più antropomorfici, normalmente spregiati e sviliti anche dalla loro famigliare presenza nelle case dell’Ottocento e per questo tanto più immediatamente
riconoscibili, vicini perché non proiettati sullo sfondo di ambientazioni lontane e
dunque correlativo satirico ideale della realtà13. Ovviamente, saranno i Paralipomeni a
capitalizzare gli spunti e le possibilità espressive che in queste traduzioni si vedono
solo in filigrana, e che nel caso specifico della Guerra dei topi e delle rane del 1826 iniziano con più decisione a manifestarsi in tutta la loro originalità.
13
Si rilevi inoltre l’uso nuovo di «vitto» al posto del «quanto mangia l’uom» delle precedenti versioni è
la spia di una maggiore attenzione anche lessicale riservata alla caratterizzazione dell’eloquio topesco.