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martedì 12 aprile 2016

Un anno in Subcarpazia


Il 17 gennaio, quando le foto della Subcarpazia di László Végh si sono pubblicate nel Magyar Nemzet, le ho condivise nel Facebook di río Wang. Adesso, in preparazione al nostro viaggio di fine aprile in Galizia, le ho guardate di nuovo, e ho pensato di condividerle anche sul blog, in modo che possano essere viste da più persone, e non solo in ungherese.

Olena si è trasferita molti decenni fa da Mosca a Kőrösmező/Yasinya

«Grazie alla borsa di studio della fotografia di József Pécsi, il fotoreporter di Magyar Nemzet ha visitato più volte Subcarpazia. Si è incontrato con soldati di ritorno dai campi di battaglia, famiglie in lutto per i loro parenti, rifugiati tatari della Crimea. E con una straordinaria ospitalità.


A un fotoreportaggio importante non si avvia senza preparativi. Anch’io ho cominciato di informarmi sul tema prima di andare nella Subcarpazia. Prima di tutto ho contattato un giornalista locale, che mi ha accompagnato per diversi luoghi, mi ha presentato a tante persone, e quando necessario, ha tradotto per me. Era il mio fixer: così si chiamano, nel gergo giornalista, le persone con una conoscenza locale che, nel corso di un importante lavoro sul campo, guidano e assistono i giornalisti e fotografi stranieri.

La prima volta che sono andato lì era marzo. Mi ricordo chiaramente del giorno. Sono andato a Verbőc/Verbovec, al funerale di un soldato caduto nel conflitto dell’Ucraina orientale. Dopo trecento e sedici chilometri sono arrivato alla frontiera. Passaporto. Documenti. Controllo. Arrivo in Subcarpazia. Strade dissestate. Le impronte del passato, ovunque. Grigiore. Pioggia battente. E, sulla via d’uscita di Bereszász/Beregovo, multa di polizia. Non poca. Quasi un’ora di ritardo. Sono tornato esausto al mio alloggio.

Funerale di Viktor Márkusz. Ha servito nel 128ª Brigata di Fanteria di Montagna

Per quanto ho provato, nei primi tempi non riuscivo a trovare il ritmo locale. Poi mi hanno presentato a sempre più persone che mi hanno aiutato. Ad esempio, a zia Slava, il cui figlio è un 22-enne soldato contrattuale. Lei, che è in contatto permanente con i soldati della Subcarpazia sul fronte, conosceva la risposta a tutte le mie domande, e mi ha aiutato in tutto. D’altra parte insegna lingua ucraina nella classe ungherese di una scuola bilingue.

E molto spesso ho avuto fortuna. Per esempio, in Kőrösmező/Jasinya, dove siamo partiti nella direzione sbagliata verso la montagna, e così ci siamo imbattuti in Olena, che si era trasferita dalla Russia a Subcarpazia. O quando una sera, strada facendo al nostro alloggio, ci siamo accorti di una candela tremolante in una finestra vicina. I nostri padroni di casa ungheresi ci hanno detto che una vecchia signora vive lì, Mária András, che prega così ogni mattina e sera. Siamo riusciti di visitarla, e mi ha permesso di fare alcune foto di lei mentre pregava. O zio Frédi a Fancsika/Fančikovo, che ha sentito del mio vagare in Subcarpazia, e che sto fotografando la vita quotidiana delle persone. Ha detto a un amico nel villaggio che sarebbe felice di mostrarmi le sue colombe.


E c’erano le famiglie ungheresi che hanno perso i loro cari nella recente guerra. Ho passato ore con loro. Tante volte non ho neanche preso fuori la macchina fotografica, abbiamo solo parlato. Il 16 settembre, Sándor Lőrinc è stato sepolto a Fancsika. Quando ho sentito la notizia, mi sono seduto in macchina, e sono andato a vedere la famiglia la sera precedente. Mi sono presentato, ho detto chi ero, da dove sono venuto, che cosa volevo. Ho parlato molto con la madre di Sándor, zia Anna. Mi hanno permesso di essere presente alla veglia notturna in una piccola stanza della piccola casa, alla bara coperta con la bandiera ucraina. Il giorno dopo, al funerale c’erano molte persone, tutti gli abitanti del villaggio. E anche molti soldati ucraini, che avevo già incontrato a Verbőc in marzo. Sono venuti a salutarmi, e hanno detto che sperano di incontrarmi la prossima volta a un evento più allegro.

Dopo il funerale volevo tornare a Budapest. Ma la zia Anna mi ha detto che non posso andare via prima di cenare con loro. Ho fatto le scuse, ma non mi ha lasciato andare. Mi hanno anche impaccato ciambelle per la via. Budapest è lontano.

Fancsika/Fančikovo. Funerale del soldato ungherese Sándor Lőrinc, caduto nel conflitto dell’Ucraina orientale

Dovunque sono andato in questo periodo in Subcarpazia, mi hanno dato un benvenuto cordiale. E non solo le famiglie ungheresi. Ho anche visitato famiglie tatare che erano fuggite dalla Crimea, e con le quali abbiamo parlato attraverso un programma di traduzione. I bambini hanno apprezzato molto che a volte non ci siamo capiti, e ci siamo spiegati per gesti. Activity. Ho visitato soldati, volontari, che raccoglievano cibo e vestiti per i soldati della Subcarpazia sul fronte. A Aknaszlatina/Solotvino, fra le rovine della vecchia miniera di sale, ci siamo imbattuti in zio Yura, che vi aveva lavorato, e ora è guardiano notturno nella zona della miniera. Abbiamo anche incontrato lo zio Béla, nel cui giardino c’è un enorme «cratere», perché il terreno era crollato sopra una miniera.

Il numero degli ungheresi in Subcarpazia si è drasticamente ridotto. Nel censimento del 2001 circa centocinquantamila persone si sono dichiarati ungheresi. Ci sono molti matrimoni misti, dove i bambini non parlano più l’ungherese. Nella desolente situazione economica tutti provano di trovare lavoro all’estero. La situazione di quelli che decidono di rimanere è molto più difficile. Loro vivono su pochi soldi da un giorno all’altro, ma credono che restare non è senza speranze, e che avranno un futuro nella loro terra. La quale, per i capricci della storia, ha cambiato paese cinque volte negli ultimi cento anni.»

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martedì 21 aprile 2015

Pasqua nel cimitero


Pasqua a Leopoli non è solo la festa dei vivi, ma anche dei morti. Come in altre regioni ortodosse, a questo tempo le famiglie visitano le tombe dei loro cari, pregano insieme, e mangiano il cibo benedetto nel giorno precedente.

Il cimitero Łyczakowski è il più antico cimitero conservato di Leopoli. Aperto nel 1788, dopo che Giuseppe II chiuse i cimiteri all’interno delle mura della città, fu sempre considerato un panteone polacco. Qui giaciono molti artisti, scienziati e aristocratici polacchi, e i martiri delle rivolte del 1830-1831 e 1863. E nell’angolo sud-est del cimitero, in una parcella a parte, gli «aquilotti» che difesero Leopoli contro l’esercito indipendente ucraino durante la guerra civile ucraino-polacca, mentre l’esercito polacco diretto da Piłsudski respinse l’Armata Rossa di Budennij e Stalin da Varsavia. Nel cimitero degli eroi, costruito nel 1924, nomi di ragazzi e ragazze si leggono sulle croci bianche che si susseguono in lunghe file. Nessuno di loro aveva più di vent’anni. A Pasqua nessuno viene qui, ma i fiori freschi e le bandiere polacche parlano di visite frequenti.

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Dopo l’espulsione dei polacchi da Leopoli nel 1945, il cimitero degli eroi cominciò di decadere. I monumenti furono abbattuti, e la maggior parte delle tombe distrutte con carri armati. Solo nel 2005, dopo il fermo sostegno della Polonia alla «rivoluzione arancione» dell’Ucraina ricevette il governo polacco permesso a restaurare la necropoli. Nel frattempo anche gli ucraini fondarono il loro cimitero degli eroi nell’immediata vicinanza di quello polacco. Al suo punto più alto l’Arcangeo Michele sta in cima a una colonna alta con la spada sguainata, mentre nel cimitero i monumenti e le tombe reali o simboliche dell’esercito ucraino indipendente del 1918, dell’ucraina divisione SS Galichina, dell’esercito nazionale di Bandera, e dei partigiani ucraini in lotta contro gli invasori sovietici fino al 1955, si trovano uno accanto all’altro. Le loro tombe si inghirlandano durante tutto l’anno non solo dai membri delle famiglie, ma anche dall’esercito ucraino, dai scout e dalle associazioni patriottiche.

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Nell’anno scorso una nuova, terza parcella si è aperta nel cimitero degli eroi, che è ora la parte in più rapida crescita del cimitero Łyczakowski. Qui si seppelliscono i giovani soldati caduti per la difesa dei confini orientali del paese. Le corone sono ancora fresche sulla maggior parte delle tombe. Domenica di Pasqua ci sono visitatori a quasi ogni tomba, la famiglia, gli amici, molti in uniforme militare, alcuni visitano anche due o tre tombe. Sono già oltre la prima scossa, eseguono meccanicamente, con occhi asciutti i rituali della visita della tomba. Non parlano, nemmeno mangiano, solo pongono sulla tomba dal cestino di Pasqua che hanno portato con sé un panino di Pasqua, un’uova tagliata a metà, un dolce a forma di agnello.

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giovedì 16 aprile 2015

Pasqua a Lviv



La chiesa ortodossa a Leopoli fu eretta in onore della Dormizione della Beata Vergine Maria (Uspeńska/Успенська), ma nella città se ne parla solo come «la chiesa valacca» (Wołoska/Волоська), perché la sua prima versione fu finanziata tra 1547 e 1549 dal principe moldavo Alexandru Lăpușneanu. Dopo che essa bruciò nel 1571, fu ricostruita dal 1574 nella forma attuale dalla confraternità religiosa dei mercanti ortodossi della città, la Fratellanza Ortodossa Uspenska/Stavropigijska.

La Fratellanza, che gestiva anche la stampa e la scuola ortodossa della città, fu fondata dai mercanti ruteni, greci e moldavi di Leopoli negli anni 1530 per resistere meglio da una parte ai tentativi di assimilazione del Patriarca di Mosca – la Chiesa ortodossa dell’Ucraina di oggi era a quel tempo indipendente da Mosca, e soggetta solo al Patriarca di Costantinopoli –, e dall’altra parte alle aspirazioni della Chiesa cattolica polacca, che nel 1596 convertirà gran parte della Chiesa ortodossa nella Chiesa greco-cattolica, in unione con Roma. Anche il patrono principale della seconda chiesa era un principe moldavo, Ieremia Movilă, il padre del Metropolita di Kiev, Petro Mohyla, il quale, come ne abbiamo già scritto, lavorava sulla creazione di una Chiesa ortodossa rutena di spirito occidentale. Questo esperimento unico fu interrotto solo dalle disposizioni di russificazione di Pietro il Grande.

Non c’è da stupirsi, quindi, che l’aspetto della chiesa è diverso dal modello russo. Il campanile alto sessantacinque metri, che si chiama Torre Korniakt dal suo costruttore, il mercante cretese Konstantinos Korniaktos, rammenta torri urbane italiane, e anche le sue sculture seguono modelli rinascimentali. In linea con le precedenti aspirazioni di indipendenza, la chiesa appartiene oggi di nuovo all’autonoma Chiesa ucraina ortodossa, che resuscitò tre volte, nel 1921, 1942 e 1990, e che, alla pressione del Patriarcato di mosca, non è ancora riconosciuta da nessun’altra Chiesa ortodossa.

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Nel pomeriggio di Venerdì Santo la tomba di Cristo morto sulla croce si prepara nelle cappelle laterali delle chiese ortodosse e greco-cattoliche, ed è visitata in lunghe file dai credenti durante tutta la notte. Il giorno dopo tutte le famiglie della città, vestiti in costumi nazionali ucraini, vanno a piedi nel museo a cielo aperto delle chiese di legno rusine, dove la benedizione del cibo portato da loro in piccole ceste si svolge dalla mattina alla sera. Il cibo benedetto si mangierà domenica mattina, dopo la messa e processione di resurrezione di notte. Persino sul tavolo del buffet dell’albergo si può trovare pane e uova benedetta.


Benedizione del cibo nel museo a cielo aperto di Leopoli, 11 aprile 2015


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Nella chiesa ortodossa la gente comincia a raccogliere intorno alle undici e mezzo. Si diffondono tappetti sul pavimento di pietra, e si distribuiscono le bandiere di processione. La cerimonia inizia poco prima della mezzanotte al sepolcro santo, da dove il velo raffigurante il Cristo morto è sollevato e portato dietro l’iconostasi. A mezzanotte si annuncia la risurrezione di Cristo in mezzo a grande gioia, e comincia la processione per le strade di Leopoli. Si torna al cancello principale, che si apre una sola volta l’anno, appunto adesso, su richiesta dl Patriarca che porta la buona notizia. Noi ce ne andiamo all’una, ma nella TV locale vedo che la messa va avanti fino alle quattro del mattino.


Processione e inno di risurrezione ortodossi, Leopoli, 11 aprile 2015

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martedì 17 marzo 2015

Lettere a San Pietro dalla Rutenia


Nel trattato Modus epistolandi, cioè L’arte di scrivere lettere (1488), che era molto popolare nell’Europa del Rinascimento, Francesco Nigro ha dato istruzioni retoriche precise e dettagliate per la scrittura di non meno di venti tipi di lettere. Il primo era il commendatitium o lettera di raccomandazione, che era diviso in due sottotipi, e ciascuno di essi in quattro parti obbligatorie. In seguito molti altri umanisti hanno aggiunto i loro due centesimi a queste norme retoriche, raccogliendo e adattando le idee e gli esercizi dell’antica progymnasmata. Non solo Erasmo, Vives e Lipsio, l’elenco è molto più lungo: Gasparino Barzizza, Juan Lorenzo Palmireno, Giulio Cesare Capaccio, Bartolomé Bravo, Juan Vicente Peliger, Badio Ascensio, Sulpizio di Verola, Gaspar de Tejeda, Henri Estienne, Basin de Sendacourt, Heinrich Bebel, Valentinus Erythraeus, Pietro Bembo, Tomás Gracián Dantisco, Espinosa de Santayana, Moravus de Olomouc, e così via. E benché nessuno di questi autori ci abbia offerto un’istruzione per scrivere lettere di raccomandazione all’Aldilà, tuttavia tali lettere esistevano, erano regolarmente scritte seguendo formule controllate, cosparse con il polverino, sigillate, e indirizzate a non meno che allo stesso San Pietro, nelle sue proprie mani.

La notizia di queste lettere venne alla Spagna dalla Rutenia, come l’umanista, numismatico, arcivescovo di Tarragona, e straordinariamente curioso uomo, don Antonio Agustín (1517-1586) l’ha notato nel suo taccuino manoscritto. A folio 23 di questo libretto, chiamato Alveolus, e scritto attorno a 1555, troviamo questa relazione sulla tradizione della «chiesa rutena»”: *


“Rutheni populi Moschouitarum sunt Polonis contigui, quorum regem adgnoscunt; et in religione Patriarcham Constantinopolitanum, cuius ritum, ceremonias et instituta sequuntur. Eorum prouincia nunc Russia nuncupatur. Lingua Dalmatica loquuntur, cuius per uniuersum orientem magnus usus est; characteres mixti Grecis atque Barbaris Sclauonicis quos appellant. Hi populi ridiculam consuetudinem exequiarum obseruant. Mortuorum enim parentes affines propinquí et amici, litteras ab Archiepiscopo prouintiae suae accipiunt, et sigillo et subscriptione firmatas: quibus Archiepiscopus sancto Petro scribit, mortuum propinquum et amicum commendans; rogans mortuo liceat in consortium coelitum adscribi. Quae littere mortui manui inseruntur; unaque cum iis, tamquam eas diuo Petro Vitae Innocentiaeque suae testes redditurus, sepelitur. Emuntur autem magno tales littere; neque cuiquam nisi soluenti pecuniam conceduntur. Quo fit, ut pauperes eas non accipiant, scribuntur lingua Dalmatica. Earum formulam, ex ea lingua translatam in Latinam a Georgio Ticinensi Lithphano, infra suscribi iussimus:

«MACARIVS Dei gratia Ecclesiarum Domini Dei nostri in hoc corruptibili mundo uicarius, tibi Petro qui olim summus Christi in terris uicarius extitisti, notificamus: quod nuper non sine ingenii moerore, Dilecti filii Ecclesiae Dei, nobis rettulerunt; quendam Nicolaum Gregorii Filium, hanc miseriis plenam uitam reliquisse; in aliumque felicem ac deliciis plenum mundum commigrasse. In quo fidelium omnium animulae, omnibus desiderato Domini nostri Jesuchristi, eiusque matris incorruptae intuitu frui ac gaudere numquam cessant. Quas opera tua in regnum coelorum, cuius ianitor et clauiger existis, esse admissas receptasque nemo ambigit. Nam eam clauium potestatem, ipse humani generis restauratos, tibi iam in coelis uero in terris indubie concessit, quos suarum Ecclesiarum in hoc mundo presides esse uoluit.

Cum igitur officii nostri sit ad te, de conuersatione eorum qui relicto hoc mundo istuc commigrant, rescribere, ideo, indubiam tibi litteris his nostris fidem facimus Nicolaum Gregorii Filium, toto tempore uitae suae pie ac christiane uixisse, neminem offendisse, ac omnia Ecclesiarum Dei praecepta, diligenter obseruasse. Quem, prius quam deo conditori suo spiritum commodaticium reddidisset, ab omnibus suis peccatis, quibus diuinam Maiestatem aliquando offendit, absoluimus. Et, propterea iustum esse censemus, quod in conspectum Domini Dei conditoris nostri admittatur; electorumque Dei numero tuis meritis precibusque adiutus, adscribatur. Quod ut pro more officioque tuo facias, supplices petimus. Datum, etc. Sub manu, et sigillo nostro.»” (Alveolus. Manuscrito escurialense S-II-18, Madrid, FUE, 1982, 33-35.)


«I ruteni sono un popolo moscovita nella vicinanza dei polacchi, il cui re riconoscono come loro signore. In materia religiosa riconosconon il Patriarca di Costantinopoli, e seguono i suoi riti, cerimonie e istituzioni. La loro regione è ora chiamata la Terra dei Russi. Parlano la lingua dalmata [slavo ecclesiastico], che è abbastanza diffusa in tutto l’Oriente. La loro scrittura è un misto del greco e delle lettere della barbara lingua slava, come la chiamano. Questi popoli hanno un ridicoloso rito funerale. I parenti e gli amici stretti del defunto ricevono una lettera sigillata e firmata dall’arcivescovo della diocesi, il quale la indirizza a San Pietro, raccomandando il defunto nella sua amicizia e compagnia. Mettono questa lettera nelle mani del defunto, e lo seppelliscono con essa, come testimonianza della sua vita e innocenza. Queste lettere hanno un prezzo elevato, e non si concedono a nessuno a meno che non paga per loro. Così i poveri non le possono avere. Sono scritte in lingua dalmata. Il loro testo, tradotto da Giorgio di Pavia da questa lingua, è come segue:

ʻMakarios, per grazia di Dio vicario della Chiesa di Dio nostro Signore in questo mondo corruttibile, comunichiamo a te, o Pietro, che una volta eri il vicario supremo di Cristo in questa terra, che di recente siamo stati visitati da alcuni amati figli della Chiesa di Dio, che avevano raccontato con grande dolore, che un certo Nicola, figlio di Gregorio ha lasciato questa vita piena di miserie, e si era trasferito a quella felice, piena di gioia, in cui le animule di tutti i credenti non smettono di gioire e godere della visione, desiderata da tutti noi, del nostro Signore Gesù Cristo e della sua Madre incorrotta. Alla quale senza dubbio sei tu che le ricevi e le permetti di entrare, essendo tu il guardaportone del regno dei cieli, poiché nella tua mano depositò il potere delle chiavi il Rinnovatore della razza umana, che voleva che tu sia il superiore della Sua Chiesa in questo mondo.

Essendo quindi nostro dovere riferirti della condotta di coloro che si trasferiscono di questo mondo a quello, ti facciamo sapere senza dubbio e testimoniamo con fede, che Nicola, figlio di Gregorio ha vissuto in modo pio e cristiano per tutto il tempo della sua vita, non facendo male a nessuno, e diligentemente osservando tutti i comandamenti della Chiesa di Dio. E prima di consegnare la sua anima a Dio, suo Creatore, lo abbiamo assolto da tutti i peccati, con cui aveva mai offeso Sua Divina Maestà. Riteniamo pertanto giusto permettergli di essere ammesso alla presenza di Dio, nostro Signore, e iscritto tra il numero degli eletti, con l’aiuto dei tuoi meriti e preghiere. Ti preghiamo di concederlo e farlo per la tua solita misericordia e condiscendenza. Data ecc. Dalla nostra mano e sigillo.’»


La nostra immaginazione è infiammata dal prezzo elevato che si doveva pagare all’arcivescovo per queste lettre, e che li ha resi inaccessibili ai poveri. Come poteva essere il mercato nero di queste lettere, le violazioni dei sepolcri, l’eliminazione del nome del defunto nella lettera, e la loro disposizione nella mano di un altro, meno ricco defunto, le raffinate tecniche dei falsari specializzati di firme e sigilli, con i quali erano in grado di ingannare lo stesso guardaportone del Paradiso… O forse questa idea è del tutto inconcepibile per un ruteno, e può sorgere solo nella picaresca fantasia iberica?

Ma se è così, come ha potuto una di queste lettere finire nelle mani di Don Antonio?


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Le nostre illustrazioni sono bandiere processionali dei villaggi ruteni nella collezione del Museo dell’Icona di Leopoli/Lviv/Lwów/Lemberg


giovedì 7 agosto 2014

Transizione: Fibonacci




Questa foto della sessione dell’8 aprile del parlamento ucraino con l’analisi delle propozioni può suggerire tre cose allo spettatore.

A un extraterrestre, che i terrestri realizzano tutte le loro azioni, anche le più appassionate, secondo complicate regole rituali, come un grande ballo.

A un terrestre, che la legge della sezione aurea definisce tutto.

A un terrestre cinico, che con un po’ di destreggiarsi, lo schema della sezione aurea può essere applicato a qualsiasi cosa.

Un fotografo sa, che finché arriva a fotografare nel parlamento, vedrà, sentirà lodare, e farà anche lui stesso migliaia di immagini con la sezione aurea, così che già per abitudine scatta tali foto, poi dalle decine di scatti sceglie per la pubblicazione quelli che sono i più vicini ad essa, e se necessario, anche li taglia (come qui, dove con il ritaglio delle mani a destra si sacrifica la perfetta composizione piramidale per la perfetta sezione aurea).

E uno storico dell’arte sa, che la sezione aurea come legge universale va analizzata solo in immagini, dove essa può essere rilevata.

mercoledì 28 maggio 2014

Referendum


Quando mi sono accorto di loro per la prima volta, attraverso la finestra sporca del tram numero 5 che avanzava lentamente per la sua strada lungo il fiume Moldava, non potevo comprendere il loro senso. Erano davvero una serie di manifesti di propaganda che agitavano per l’annessione della Subcarpazia alla Repubblica Ceca? Erano davvero volutamente esposti nelle cornici di pietra che, prima del 1989, servivano all’esposizione della propaganda comunista ai viaggiatori lungo una delle arterie più trafficate di Praga?

Ho chiuso gli occhi, e poi li ho aperti di nuovo. Sì, sembrava essere vero.


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Sarebbero la prova di qualche latente filo di speranza ceca, una nostalgia per un mitico passato slavo, un anelito di riunificazione con Podkarpatská Rus, il fratellino perduto di Československo? La risuscita degli irredentisti cechi, incoraggiata forse dalla recente deglutinazione di tutta la Crimea in un unico boccone dalla parte di Putin?

La cosa mi pareva in parte anche satirica, e così sono andato a consultare l’internet per saperne di più. È vero che prima del 1989 le sei cornici in pietra, costruite nel muro che separa la collina Letná dal lungofiume che ha preso il nome da Edvard Beneš e Capitano Otakar Jaroš, si usavano per la propaganda socialista. Dopo il cambio del regime caddero in disuso. Nel 2005 sono stati messi in uso di nuovo, come una galleria pubblica all’aperto, denominata Artwall.

La mostra attuale, Verchovina, è di un gruppo di artisti slovacchi noti come Kassaboys, che provengono da Košice (Kassa in ungherese). I manifesti sono documenti di un referendum fittizio per riunire Cecoslovacchia con la Subcarpazia, che era parte integrale della repubblica dal 1918 al 1938. Gli artisti stessi affermano, che il lavoro è una reazione agli eventi in corso nell’Ucraina, dove un referendum fittizio, organizzato in realtà, ha riportato la Crimea sotto il dominio russo. E la scelta degli slogan: integrazione, collegamento, affiliazione, annessione, ponderano il possibile futuro di Podkarpatská Rus (e, pars pro toto, dell’Ucraina) in rapporto all’Unione europea.

referendum referendum referendum referendum referendum referendum referendum I manifesti originali dimostrano che essi sono stati composti aggiungendo gli slogan rossi sulle illustrazioni di un fascicolo turistico in lingua tedesca della Subcarpazia dagli anni 1930

Si può leggerne di più sul sito Artwall (in slovacco) e dall’articolo dell’Aktualně.cz (in ceco).