TIMPANARO Classicismo PDF
TIMPANARO Classicismo PDF
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Sebastiano Timpanaro
Classicismo e illuminismo
nell’Ottocento italiano
Testo critico con aggiunta di saggi e annotazioni autografe
a cura di
Corrado Pestelli
saggio introduttivo di
Gino Tellini
In copertina: Thédore Rousseau, Landa delle ginestre, 1860 circa.
Montepellier, Musée Fabre.
3 Introduzione
37 I. Le idee di Pietro Giordani
97 II. Giordani, Carducci e Chiarini
108 III. Alcune osservazioni sul pensiero del Leopardi
148 IV. Il Leopardi e i filosofi antichi
184 V. Di alcune falsificazioni di scritti leopardiani
1. Gli «appunti» dell’abate Cozza-Luzi e la controversia Cugnoni-
Tacchi, 184 2. Le recenti vicende degli «inediti» del Cozza-
Luzi, 190 3. I Pensieri vaticani, 193 4. I primi due abbozzi
di Idilli, 197 5. Le due suppliche a Pio VII e la lettera del car-
dinale Mattei, 207 6. Gli altri abbozzi dell’«Infinito», 215
7. I «Discorsi Sacri», 221 8. Conclusione, 224
227 VI. Natura, dèi e fato nel Leopardi
250 VII. Note leopardiane
1. «Strigne più la camicia che la sottana», 250 2. «Il Giordani, il
Montani, il Vieusseux vi risalutano caramente», 251 3. «Gli sguar-
di innamorati e schivi» (A Silvia, 46), 253 4. «Al romorio / de’ cre-
pitanti pasticcini» (Palinodia, 14-15), 259 5. «Le magnifiche sorti
e progressive» (La Ginestra, 51), 261
266 VIII. Epicuro, Lucrezio e Leopardi
315 IX. Il Leopardi e la Rivoluzione francese
328 X. Carlo Cattaneo e Graziadio Ascoli
I. Le idee linguistiche ed etnografiche di Carlo Cattaneo, 328 II. L’in-
flusso del Cattaneo sulla formazione culturale e sulla linguistica asco-
liana, 369
428 XI. Theodor Gomperz
Appendici
475 Appendice I
I. Postilla su Maffei e Muratori, 475 II. A proposito di un inedito
del Cattaneo sulla poesia dialettale, 483
489 Appendice II
Classicismo e «neoguelfismo» negli studi di antichità del-
l’Ottocento italiano
2
Su «l’originalità e l’unità dell’opera di Timpanaro», cfr. S. Settis, Presentazione del volume
«Il filologo materialista. Studi per Sebastiano Timpanaro», in «Atti della Accademia Nazionale dei
Lincei. Classe di Scienze Morali, Storiche e Filologiche», s. IX, vol. XV, 2004, pp. 597-601.
3
E. Montale, Il «filologo soprano»: Giorgio Pasquali, in «Tempo», Milano, VII, 189, 7 gen-
naio 1943, pp. 33-35, ora in Il secondo mestiere. Prose 1920-1979, a cura di G. Zampa, Monda-
dori, Milano 1996, 2 voll., I, p. 599.
Introduzione di Gino Tellini ix
che si avverta tra le righe in tante pagine di Timpanaro. Però è certo che
nei suoi contributi di italianistica siffatta tastiera pluriprospettica
mette in moto una magistrale macchina interpretativa, che all’acribia
della perlustrazione tecnica affianca la solidità della guardatura stori-
ca e della riflessione concettuale, abbinando filologia e critica lettera-
ria sul fronte anti-intuizionistico, fino a proporre – non per via di rilu-
centi escogitazioni, ma sul fondamento di accertamenti empirici, di
scavi lenti e pazienti – la rilettura originale di opere e di autori, come
anche di interi (e quanto intricati) movimenti culturali. Il che non
vuol dire che le soluzioni prospettate siano tutte, volta per volta, indu-
bitabili (Sebastiano per primo era lieto di sottoporle alla verifica del
confronto e della discussione):4 vuol dire però che la strada percorsa
per giungere alla loro formulazione è in ogni caso illuminante e lascia
ammirati,5 perché sempre tesa a interrogare e a capire le ragioni dei
fatti accaduti, sempre orientata non a isolare il singolo evento, per
contemplarlo nella sua assolutezza, ma a correlare e distinguere, a va-
gliare e investigare con intrepido rigore la contraddittoria complessità
della realtà storica e di chi vi si trova coinvolto.
Con ciò si tocca un tratto distintivo dell’habitus mentale di Timpa-
naro, del suo comportamento mai snobistico, sempre invece paritetico
e democratico, ovvero l’attenzione esclusiva rivolta all’oggetto dell’in-
dagine, senza nulla concedere al risalto della prima persona, al lustro
del soggetto che indaga, all’ostentazione di sé. In effetti l’io dell’in-
4
Per talune riserve di fondo sul «disegno storiografico di Classicismo e illuminismo», cfr.
ora E. Ghidetti, L’Ottocento di Timpanaro tra Illuminismo e Classicismo, nell’opera collettiva
Sebastiano Timpanaro e la cultura del secondo Novecento cit., pp. 245-56, che tuttavia riconosce,
all’«energica maieutica culturale» di Timpanaro, «risultati che hanno significativamente modi-
ficato le tavole storiografiche del primo Ottocento italiano, aprendo la strada a nuovi studi che
hanno rimesso in discussione non solo le nozioni di Classicismo e Romanticismo, ma il proble-
ma stesso delle radici culturali dell’Italia moderna» (p. 256).
5
È quanto apertamente dichiara Cesare Cases a Timpanaro, da Torino, il 3 febbraio 1979,
in C. Cases e S. Timpanaro, Un lapsus di Marx. Carteggio 1956-1990, a cura di L. Baranelli, Edi-
zioni della Normale, Pisa 2004, pp. 282-84: «È vero che i miei itinerari ideologici non si sono
mai incontrati con i tuoi, che ero hegeliano e lukácsiano quando tu difendevi il materialismo
più o meno volgare e civettavo con Freud quando tu demolivi il lapsus freudiano. [...] Tu hai
scritto dei libri che si leggono volentieri, pieni di dimostrazioni persuasive, di collegamenti rive-
latori, di riferimenti inediti e illuminanti. Che importa se uno poi non è d’accordo con il q.e.d.
[quod erat demonstrandum] conclusivo? [...] Dopo tutto, quello che so dell’800 italiano l’ho desun-
to dai tuoi libri, che mettono sempre in evidenza figure e problemi interessanti [...]. Anche
recentemente ho tenuto a un convegno italo-tedesco di germanisti, a Bonn, una conferenza sul
mito della cultura tedesca in Italia che ha avuto un successo incredibile [...] e che per 3/4 era
costituita da reminiscenze spesso neanche controllate del Timpanaro scritto e orale».
x Introduzione di Gino Tellini
terprete non si annulla mai nel silenzio delle cose da dimostrare (come
Contini diceva di Santorre Debenedetti), né mai rinuncia al proprio
ruolo, anzi se ne sente sempre attiva la presenza, ma in qualità di re-
gista energico e partecipe, coinvolto nella collettiva avventura della
conoscenza, non come primattore o vocalista sulla ribalta della scena
(l’io «collo-ritto», secondo l’immagine di Gadda). Basta anche poca
consuetudine con la scrittura saggistica contemporanea – specie quel-
la dei letterati – per avvedersi della distanza. Si parli pure di radicale
modestia, esercitata per culto severo della verità, per un bisogno di
integrale immersione e immedesimazione nella ricerca. Il fatto non è
accessorio, perché discende dal carattere schivo della persona (ma gli
amici sanno quanta intensità d’affetti e quanta forza di idee si cela-
vano dietro quella ritrosa riservatezza) e connota con coerenza lo sti-
le dello studioso, che qui più importa. La limpidezza e la sobrietà del
dettato ne sono le doti subito evidenti, unite alla schiettezza antiac-
cademica e al rifiuto di raffinati virtuosismi. Nelle Considerazioni pre-
liminari che aprono Il lapsus freudiano, l’epiteto «professorale» è con-
giunto, come sempre, all’idea della «grettezza» e, poco oltre, ecco
biasimato, nei procedimenti interpretativi di Freud, il «brillante fuo-
co d’artificio» che può sedurre la fantasia di chi legge.6 Né toni pro-
fessorali, né giochi di fioretto, né acrobazie dell’ingegno e del lin-
guaggio, né alambiccamenti o narcisismi. L’aggettivo «brillante» ha
sempre per Sebastiano un’accezione non positiva. La sua prosa è reto-
ricamente spoglia, trasparente e spedita nella dizione, discorsiva e tan-
gibile, attratta dall’area semantica dell’esperienza quotidiana, quindi
poco incline ai voli metaforici7 e meno ancora agli ammiccamenti allu-
sivi, perché intende non persuadere ma convincere, con il peso delle
rilevazioni documentarie, con gli strumenti verificabili dell’argomen-
tazione logica e della disciplina ragionativa. Alla scioltezza dell’elo-
quio risponde la sostenuta fluidità dell’impianto sintattico, al solo
fine, beninteso, della chiarezza, della perspicuità, dell’efficacia comu-
nicativa.8 Il destinatario effettivo coincide con un pubblico colto, ma
6
S. Timpanaro, Il lapsus freudiano. Psicanalisi e critica testuale, La Nuova Italia, Firenze 1974,
ora nuova edizione, a cura di F. Stok, Bollati Boringhieri, Torino 2002, rispettivamente, pp. 3 e 31.
7
S. Timpanaro, Venti anni dopo, in Sul materialismo, Unicopli, Milano 19973, p. xii: «è sem-
pre un brutto segno quando si è costretti a ricorrere a metafore».
8
Cases, da Roma, il 14 ottobre 1960, confida a Timpanaro di invidiare il suo «stile magro
e vigoroso come le salsicce di Siena» (C. Cases e S. Timpanaro, Un lapsus di Marx. Carteggio
1956-1990 cit., p. 56).
Introduzione di Gino Tellini xi
Quello che più dà ai nervi in questi strutturalisti (a cominciare dai fondatori, Tru-
betzkoy e Lévi-Strauss) è la loro sterminata presunzione. I vecchi positivisti, ben-
ché andassero anche loro in cerca di sistemi rigorosi come quelli delle scienze esat-
te, avevano sempre la modestia di chi da una parte si inchina di fronte alla legge,
dall’altra si aspetta che altri possa chiarirla e definirla meglio. Invece costoro, veden-
do il mondo come un sistema di strutture che si rivelano solo al loro occhio d’aqui-
la, alla loro prestigiosa capacità di accostare il cotto al crudo, la virgola al verso 2 con
la virgola al verso 8, mancano di ogni vera umiltà scientifica [...].16
16
C. Cases a S. Timpanaro, Cagliari, 8 marzo 1966, ivi, p. 97.
17
S. Timpanaro a C. Cases, Pisa, 20 marzo 1966, ivi, p. 100.
18
Cfr. S. Timpanaro, Storicismo di Pasquali, nell’opera collettiva Per Giorgio Pasquali. Studi
e testimonianze, a cura di L. Caretti, Nistri-Lischi, Pisa 1972, p. 127. La citazione di Pasquali
in Storia della tradizione e critica del testo, Le Monnier, Firenze 1934, 19522, p. 8.
19
La «mia militanza politica [...] è stata almeno immune dai trasformismi e dai voltafaccia
di tanti pseudorivoluzionari, e d’altra parte non è stata contrassegnata soltanto dalla “fedeltà”
a certi ideali, ma anche da uno sforzo di unire alla fedeltà la lucidità e la volontà di capire»
(S. Timpanaro, Il Congresso del Partito. Scherzo filologico-politico dedicato all’amico Antonio La
Penna, in «Il Ponte», XXXVIII, 1, 31 gennaio 1981, p. 69). Cfr. anche E. Narducci, Sebastiano
Timpanaro, in «Belfagor», XL, 3, 1985, pp. 283-311.
20
«Devo fare per la Nuova Italia un manuale di critica del testo (di critica del testo chiara,
“spiegata al popolo”: non di “ecdotica” alla Avalle)» (S. Timpanaro a C. Cases, Firenze, 9 gen-
naio 1968, in C. Cases e S. Timpanaro, Un lapsus di Marx. Carteggio 1956-1990 cit., p. 123).
21
S. Timpanaro, Venti anni dopo cit., pp. ix-x.
xiv Introduzione di Gino Tellini
22
Ivi, p. x.
23
Al rapporto individuo-natura (ovvero alla condizione «dell’uomo vivente in un cosmo non
fatto certamente per il suo bene, alle prese con una natura [...] che lo condiziona per tutta la
sua breve esistenza, dalla nascita che non è dovuta ad una sua libera scelta, alla necessità di sod-
disfare certi bisogni primari, allo stato di salute, alla vecchiezza che tante volte è causa di deca-
denza anche psichica e intellettuale, fino alla morte»: ibidem), che ha evidenti implicazioni poli-
tiche e sociali ma non si risolve interamente in esse, spetta forse il primato nella riflessione di
Timpanaro. Curiosamente eloquente, pur nel tono scherzoso, forse anzi tanto più eloquente pro-
prio perché travestito in forma di scherzo, il seguente passo di una lettera del 30 giugno 1970,
inviata a Grazia Cherchi (riportato in C. Cases e S. Timpanaro, Un lapsus di Marx. Carteggio
1956-1990 cit., p. 174, n. 2): «Il dente, finalmente estratto, non mi dà più noia. E quindi sono
di nuovo disposto a riconoscere che il male principale è la divisione della società in classi e non
il mal di denti».
Introduzione di Gino Tellini xv
24
«Al Manzoni io glie ne riconosco moltissima, di legittimità. Ma il Manzoni ha stravinto
già ai suoi tempi, e ancor oggi ha valentissimi campioni. I poveri classicisti progressisti, invece,
o sono ignorati (come il Giordani), o vengono aggregati di forza al romanticismo (come il Leopar-
di e il Cattaneo). E io cerco di difenderli come posso» (S. Timpanaro a C. Cases, Pisa, 3 marzo
1962, ivi, p. 64).
xvi Introduzione di Gino Tellini
25
Prima di trattarne in Classicismo e illuminismo (e nella Prefazione alla seconda edizione),
ne discorre ampiamente in Classicismo e «neoguelfismo» negli studi di antichità dell’Ottocento ita-
liano, in Aspetti e figure della cultura ottocentesca cit., pp. 371-86, recensione a Lo studio dell’an-
tichità classica nell’Ottocento, a cura di P. Treves, Milano-Napoli, Ricciardi 1962, apparsa dap-
prima in «Critica storica», III, 1963, pp. 603-11 (la rivista di Armando Saitta, della quale
Sebastiano è stato fedele collaboratore). Timpanaro, pur con il dovuto rispetto per la «straor-
dinaria dottrina» di Treves, non può condividere l’impostazione della sua ricerca, che ruota per
intero sulla preminenza della cultura romantica e neoguelfa (lasciando in ombra l’opposizione
classicista), sulla base di un’invalsa accezione onnicomprensiva della nozione di «romanticismo»:
«La mancanza di filologi e storici dell’antichità specificamente romantici e neoguelfi in Italia,
d’altra parte, ha costituito per il Treves un incentivo ad allargare oltre ogni limite le categorie
di romanticismo e di neoguelfismo, fino a includervi studiosi di tutt’altro orientamento. Per quel
che riguarda il romanticismo, come è noto, questo procedimento è stato già messo in atto da
molti studiosi: si è finito col fare di “romanticismo” un sinonimo di “civiltà liberale-democrati-
ca dell’Ottocento”, o addirittura di tutto ciò che nell’arte e nella cultura ottocentesca non è acca-
demismo frigido: così Goethe, Foscolo, Leopardi, Heine, Cattaneo – tutta gente che col roman-
ticismo polemizzò con asprezza – sono stati annessi, loro malgrado, alla schiera romantica. [...]
Tutto il libro [di Treves], perciò è pieno di romantici inconsapevoli [...] e di neoguelfi inconsa-
pevoli» (S. Timpanaro, Classicismo e «neoguelfismo» negli studi di antichità dell’Ottocento italia-
no cit., p. 377). Superfluo aggiungere che il dissenso non comporta disistima intellettuale («nes-
suno, in questo campo, ha letto quanto il Treves!»: ivi, p. 372), né tanto meno inimicizia. Infatti
proprio «a Piero Treves» è dedicato Il socialismo di Edmondo De Amicis. Lettura del «Primo mag-
gio», Bertani, Verona 1984.
Introduzione di Gino Tellini xvii
26
L’antiromantico Foscolo, per Timpanaro, fa parte a sé, perché il suo classicismo, che con-
serva forti attributi di aristocraticismo alfieriano, resta estraneo a una precisa connotazione libe-
rale e democratica.
27
Questa equità storiografica non è stata tenuta in giusta considerazione e infatti Classici-
smo e illuminismo, destinato a turbare la pacifica sopravvivenza di parametri convenuti, non ha
mancato di suscitare anche reazioni aspre e spigolose, tanto da indurre l’autore dopo molti anni,
nella Prefazione a Aspetti e figure della cultura ottocentesca, a pazientemente sperare che il «nuo-
vo libro» aiuti a meglio comprendere il «vecchio»: «Vorrei sperare che il nuovo libro contri-
buisse ad una più equa comprensione del libro vecchio, e specialmente a sfatare l’idea che io
abbia identificato il romanticismo (concepito come un blocco politico-culturale indifferenziato)
con la reazione e il bigottismo, il classicismo (visto, ugualmente, come un’entità monolitica) con
un generico spirito “progressista”, e abbia stabilito un’analoga, sbrigativa equazione tra mate-
rialismo e “progresso”, spiritualismo e tendenze retrograde anche sul piano della storia politico-
xviii Introduzione di Gino Tellini
sociale. Sarebbe bastata anche soltanto una lettura non troppo distratta dell’introduzione a Clas-
sicismo e illuminismo, per accorgersi come io sia sempre stato del tutto alieno da “equazioni” così
rozze ed erronee, e come mi abbia mosso sempre, al contrario, un’esigenza di distinguere le varie
posizioni politiche, ideologiche, letterarie, tenendomi lontano sia da caratterizzazioni “epoca-
li” che tutto abbracciano e nulla stringono (il romanticismo come categoria che include in sé
tutta l’intelligencija europea del primo Ottocento), sia da concezioni storiografiche esasperata-
mente individualizzanti e altrettanto astratte (ciascun autore da considerarsi assolutamente come
un “caso a sé”, al di fuori di affinità di idee, di correnti ideologiche e culturali, di condiziona-
menti sociali e politici)» (S. Timpanaro, Aspetti e figure della cultura ottocentesca cit., pp. x-xi).
Introduzione di Gino Tellini xix
28
«Veggo il giovane sulla cima della piramide, e Giordani strisciare tra la moltitudine»
(F. De Sanctis, Giacomo Leopardi, a cura di W. Binni, Laterza, Bari 1953, p. 61).
29
Lo studio dell’antichità classica nell’Ottocento cit., p. 416.
30
C. Dionisotti, Pietro Giordani (1974), in Appunti sui moderni. Foscolo, Leopardi, Manzoni
e altri, Il Mulino, Bologna 1988, pp. 81-82.
xx Introduzione di Gino Tellini
31
Di altro avviso sui moderati toscani e su Giordani sono, com’è noto, gli studi di Umber-
to Carpi (Letteratura e società nella Toscana del Risorgimento. Gli intellettuali dell’«Antologia»,
De Donato, Bari 1974; Giordani, Leopardi e i liberali toscani del gruppo Vieusseux, nell’opera col-
lettiva Pietro Giordani nel II centenario della nascita, Atti del Convegno di studi, Piacenza, 16-18
marzo 1974, Cassa di Risparmio, Piacenza 1974, pp. 93-110; Egemonia moderata e intellettuali
nel Risorgimento, nell’opera collettiva Storia d’Italia, Annali, IV [Intellettuali e potere], Einaudi,
Torino 1981, pp. 429-71), a cui Timpanaro replica in Antileopardiani e neomoderati nella sinistra
italiana cit., pp. 49 sgg.
xxii Introduzione di Gino Tellini
in «Critica storica», XXIV, 3, 1987, pp. 508-21, poi, con il titolo Un’operetta di Pietro Borsieri
ed una di Pietro Giordani, in Nuovi studi sul nostro Ottocento cit., pp. 31-54.
33
Rinvio, in merito, al mio saggio (che molto deve al ritratto di Giordani disegnato da Tim-
panaro) Manzoni al Vieusseux, nell’opera collettiva Manzoni a Firenze, Atti delle due giornate di
studio, Firenze, 23-24 novembre 1985, a cura di G. Tellini, Gabinetto G.P. Vieusseux, Firen-
ze 1986, poi, con il titolo Manzoni 1827: Milano e Firenze, in G. Tellini, Letteratura e storia. Da
Manzoni a Pasolini, Bulzoni, Roma 1988, pp. 11-37.
34
Dopo i due saggi giordaniani (del 1954 e del 1961) compresi in Classicismo e illuminismo,
che hanno aperto la strada a un intenso e rigoglioso sviluppo di nuovi studi e di nuove indagini
archivistiche, Timpanaro è tornato sull’argomento in più occasioni (oltre che nella ricordata
recensione a Il peccato impossibile, edito da William Spaggiari), per cui cfr. almeno: Noterelle su
Domizio Calderini e Pietro Giordani, nell’opera collettiva Tra latino e volgare. Per Carlo Dionisot-
ti, Antenore, Padova 1974, 2 voll., II, pp. 709-16; Il Giordani e la questione della lingua (1974),
in Aspetti e figure della cultura ottocentesca cit., pp. 147-223; Pietro Giordani e Lucano, nell’ope-
xxiv Introduzione di Gino Tellini
ra collettiva Cultura piacentina tra Sette e Novecento. Studi in onore di Giovanni Forlini, Comita-
to per la promozione degli studi piacentini-Cassa di Risparmio di Piacenza, Piacenza 1978, pp.
149-70, poi parzialmente confluito nel § 7 di Aspetti della fortuna di Lucano tra Sette e Ottocen-
to, in Aspetti e figure della cultura ottocentesca cit., pp. 1-79; Ancora su Pietro Giordani (1976) e
relativa Postilla, in Antileopardiani e neomoderati nella sinistra italiana cit., pp. 103-44; Le lette-
re di Pietro Giordani ad Antonio Papadopoli (1990), Pietro Gioia, Pietro Giordani e i tumulti pia-
centini del 1846 (1981), Due cospiratori che negarono di aver cospirato (forse Giordani, certamente
Bini), in Nuovi studi sul nostro Ottocento cit., rispettivamente, pp. 55-67, 67-101, 103-25.
35
Per il duplice aspetto di Timpanaro, leopardista e leopardiano, cfr. L. Blasucci, Gli studi
leopardiani di Timpanaro, nell’opera collettiva Il filologo materialista. Studi per Sebastiano Timpa-
naro, a cura di R. Di Donato, Scuola Normale Superiore, Pisa 2003, pp. 105-30.
Introduzione di Gino Tellini xxv
36
Tra i molti interventi, rammento almeno i due saggi schlegeliani (Friedrich Schlegel e gli ini-
zi della linguistica indoeuropea in Germania, in «Critica storica», IX, 1972, pp. 72-105 e Il con-
trasto tra i fratelli Schlegel e Franz Bopp sulla struttura e la genesi delle lingue indoeuropee, ivi, X,
1973, pp. 553-90), oltre a Giacomo Lignana e i rapporti tra filologia, filosofia, linguistica e darwi-
nismo nell’Italia del secondo Ottocento, ivi, XVI, 1979, pp. 406-503. Queste pagine – insieme a
Graziadio Ascoli, in «Belfagor», XXVII, 2, 1972, pp. 149-76 (già, in forma più condensata, nel-
l’opera collettiva Letteratura Italiana. I Critici, a cura di G. Grana, Milano, Marzorati, 1969, I,
pp. 303-21) e Il primo cinquantennio della «Rivista di Filologia e di Istruzione Classica», in «Rivi-
sta di Filologia e di Istruzione Classica», C, 1972, pp. 387-441 – sono ora raccolte in volume:
S. Timpanaro, Sulla linguistica dell’Ottocento, presentazione di G.C. Lepschy, Il Mulino, Bolo-
gna 2005.
xxvi Introduzione di Gino Tellini
termini sempre più radicali che investono il sistema delle idee su cui
si fondano valori estetici e morali assoluti. Nondimeno – puntualizza
Timpanaro – l’«esperienza culturale» dello studio di Platone, inizia-
to nel 1823, è «di grande rilievo», perché, oltre a fornire l’occasione
per preziosi contributi filologici, comunica un’indubitabile suggestio-
ne artistica, offrendo (come risulta dallo Zibaldone 3421, 12 settem-
bre 1823) un «sommo e perfetto esempio di bellissima prosa, elegan-
tissima bensì e soavissima (non meno che gravissima [...]), amenissima
ec., ma pur verissima prosa». Rifiuto ideologico e speculativo, ma in
pari tempo lezione di stile e di tono, come mostra, appunto nel 1823,
la canzone Alla sua donna e come confermano, poco appresso, talune
delle Operette «più ariose e placate», quali la Storia del genere umano
e i Detti memorabili di Filippo Ottonieri.
L’applicazione su Platone è sopraffatta – e siamo per Timpanaro al
secondo contatto determinante di Leopardi con il pensiero greco,
dopo la scoperta del pessimismo antico – dall’interesse per la filosofia
pratica dell’ellenismo, attivo dal 1823-24 e accentuato nel biennio suc-
cessivo, con la traduzione (nel 1825) del Manuale di Epitteto e dell’I-
socrate moralista, cui si associano le letture della Tavola di Cebete, dei
Caratteri di Teofrasto, dei dialoghi del cosiddetto Eschine socratico e
(nel 1826) di Fozio. Che l’approdo allo statuto materialistico, clamo-
rosamente certificato nel 1824 dal Dialogo della Natura e di un Islan-
dese, comporti sul piano psicologico-pratico la ricerca di un distacco e
di un’imperturbabilità atarassica (attestati nel 1825 dal preambolo alla
traduzione di Epitteto) si spiega e anche si spiega di conseguenza la fase
di disimpegno politico che Leopardi attraversa tra il 1824 e il 1827,
ma senza che si manifesti in lui – puntualizza Timpanaro – una piena
adesione alla morale stoica, a causa dell’istanza agonistica del suo pes-
simismo, attenuata e smorzata, però non annullata neanche in questo
periodo in cui prevalgono quella placata saggezza e quella disincanta-
ta rassegnazione che in modi originalissimi si riverberano nella prosa
ironico-fantastica delle Operette morali.
38
A. Monteverdi, La falsa e la vera storia de «L’infinito» (1966), in Frammenti critici leopar-
diani, Esi, Napoli 1959, 19672, p. 141.
39
Il saggio di Solmi, già in «Prisma» nel 1968, si legge ora in S. Solmi, Opere, II (Studi leo-
pardiani e Note su autori classici italiani e stranieri), a cura di G. Pacchiano, Adelphi, Milano 1987,
pp. 99-110. Così Timpanaro, nella Prefazione a Nuovi studi sul nostro Ottocento cit., pp. xv-xvi:
«per ciò che riguarda le due concezioni della Natura (“benefica” e inconsciamente ostile all’uo-
mo), Solmi ha affermato con piena ragione che esse hanno avuto nella mente del Leopardi due
diverse genesi, ma ha creduto di poter dimostrare che non vi sia stato nessun passaggio (sia pur
tormentato e non unilineo) dall’una all’altra, che esse siano convissute nel Leopardi fino alla
fine, designate, benché diametralmente opposte, col medesimo termine di “Natura”. Questa tesi
ha avuto più fautori che oppositori; a me è sempre sembrata del tutto inverosimile, e credo tut-
tora di averlo dimostrato in quel saggio su Natura, dèi e fato nel Leopardi che aggiunsi alla secon-
da edizione di Classicismo e illuminismo: se dovessi ora ripubblicare quel saggio, vi apporterei
qualche modifica del tutto marginale, e non nel senso di un avvicinamento alla tesi di Solmi».
Da parte del poeta di Levania, da vedere doverosamente la Postilla (1974), in Opere, II cit.,
pp. 118-19. Il dissenso ha dato luogo a uno scambio epistolare (Dal carteggio Solmi-Timpanaro),
parzialmente riprodotto ivi, pp. 207-28. Su questo carteggio, cfr. i rilievi di Timpanaro nella
citata Prefazione, p. xvi.
Introduzione di Gino Tellini xxxiii
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Un altro, e ragguardevole, sempre in tema leopardiano, si riferisce (cfr. S. Timpanaro, Leo-
pardi e la sinistra italiana degli anni settanta, in Antileopardiani e neomoderati nella sinistra italiana
cit., pp. 182-83) alla Palinodia e al significato non ironico della dedica a Gino Capponi: non iro-
nico il «candido» del v. 1 – che non allude al Candide di Voltaire, «ma deriva in linea retta dal-
l’Albi, sermonum nostrorum candide iudex con cui s’inizia una famosa epistola di Orazio» e vuol
dire «capace di retto e imparziale (e piuttosto benevolo che malevolo) giudizio» – e non irrive-
rente il petrarchesco «o spirto gentil» del v. 182, dove invece Dionisotti ha notato una punta
di velenosa malizia (cfr. C. Dionisotti, Leopardi e Bologna, in Appunti sui moderni. Foscolo, Leo-
pardi, Manzoni e altri cit., p. 137). Il rilievo – di pertinenza insieme ideologica e letteraria – è
essenziale per l’interpretazione dell’intero componimento, come ho sostenuto nel mio Leopar-
di, Salerno Editrice, Roma 2001, pp. 256-76.
Nota del curatore e criteri della presente edizione
segnalarlo nelle note alle stesse singole ristampe, l’unica sede nella
quale egli può dare indicazioni nuove; nel 1977 (p. XXXVI) l’autore
usa, due volte nello spazio di due righe, l’espressione «senza muta-
menti», rifiutando per assoluta insufficienza allo scopo le «aggiunte
e modifiche» e la «bibliografia ragionata», modo d’aggiornamento già
utilizzato nel passaggio prima-seconda edizione; ma nella stessa nota
il «punto di vista» enunciato in Classicismo e illuminismo inizia a tra-
cimare (in chiave di “difesa”, di “sviluppo”, di “correzione”) da un
lato, a livello ideologico-politico in attualizzante “presa diretta” sulla
realtà del pieno decennio 1970, nei numeri belfagoriani che conduco-
no ad Antileopardiani e neomoderati nella sinistra italiana, e, dall’altro
lato, in nuove realtà-libro, in oggetti brossurati forzatamente diversi
dal sinolo-matrice (e loro origine), attivate e per certi aspetti quasi rie-
sumate dal medesimo fermento intellettuale ispiratore di quella rac-
colta del 1965 che rimette in moto anche contributi e stadi di rifles-
sione del prossimo passato, un “passato” che in verità già c’era, e
insisteva urgente fin dal criterio che aveva presieduto alla fortunata
prima silloge Nistri-Lischi: «altri saggi, vecchi e nuovi, riguardanti in
parte anch’essi il Giordani, il Leopardi e altri personaggi e ambienti
trattati o accennati in questo libro usciranno l’anno prossimo in un
volume di questa stessa collana. Alcuni degli scritti teorico-polemici
a cui alludevo qui sopra (p. XXXIII) {nella «Prefazione alla seconda
edizione» - N. d. c.} sono stati raccolti insieme ad altri nel volume Sul
materialismo, pubblicato anch’esso in questa collana (seconda edizio-
ne riveduta e ampliata, 1975)». Com’è qui ben visibile, si delineano,
quasi direi inevitabilmente, le tre fondamentali direttive dell’otto-
centistica timpanariana posteriore non tanto a Classicismo e illumini-
smo, bensì all’uscita editoriale del volume: la direttiva di Antileopar-
diani, il volume uscito dalle Ets di Pisa, certo ben lontano dalla sigla
in prevalenza pamphlettaria che qua e là è parso attribuirgli, ma
indubbiamente attestato su un battagliero movimento di pedine idea-
li esposte al vivo confronto critico con la contemporaneità d’allora,
con la prospettiva che si chiamò del «compromesso storico», con il
manzonismo come ipotesi d’unione di progressismo laico e di pro-
gressismo cattolico, con l’adesione all’acceso dibattito interno a una
sinistra divisa, con i “chiarimenti” avvertiti necessari sul concetto di
aristocraticismo del Giordani e sulla figura, oggi più studiata, di Car-
lo Bini; in secondo luogo, gli «altri saggi, vecchi e nuovi» (quindi
Nota del curatore e criteri della presente edizione xli
citati Nuovi studi, la figura del barone danese Herman Schubart, ricor-
dato ancora nei Nuovi studi sulla scorta d’un saggio di Maria Augusta
Morelli. L’annotazione manoscritta crea un collegamento delle pagine
de Il Giordani e la questione della lingua in Aspetti e figure alle pagine
dei Nuovi studi; e i riferimenti s’infittiscono, dato che la prima uscita
dell’articolo sul Cesari è coeva, nel 1980, alla nuova uscita dell’arti-
colo su Giordani (dal 1974 ad Aspetti e figure); tutto il trend cronolo-
gico mira, o comunque ha la propria naturale meta nei Nuovi studi del
1994, che iniziano esattamente con il contributo sul Cesari ed anno-
verano la citazione del barone di Schubart come amico e non astratto
sostenitore dell’abate linguista; il contributo antoniocesariano nei
Nuovi studi, inoltre, termina con i nomi di Vitale, di Dionisotti, di
Tateo, oltre a quelli di Tissoni e dello stesso Timpanaro: Vitale, Dio-
nisotti e Tateo sono i nomi della citata annotazione manoscritta. Poco
sotto, nella copia del 1984, la citazione a mano di Claudio Marazzini
(come meglio si vedrà nelle Annotazioni) appare rivolta senza ambi-
guità ai Nuovi studi usciti da Nistri-Lischi, in particolare ad una nota
sul De Amicis linguista che si riferirà anche a L’oro nella lingua di
Maurizio Vitale, a Vincenzo Monti, a Graziadio Isaia Ascoli, allo stes-
so abate Cesari. Si tratta, quindi, di un’indubitabile correlazione di
nomi e di elementi culturali, di “compagni bibliografici” che confer-
mano e che dimostrano il concetto di reticolato unitario di ricerca e
d’indagine in tutta la saggistica nistri-lischiana di Timpanaro. Molti
contributi, e molti nuclei bibliografici tutt’altro che informi, che han-
no fatto ufficialmente parte di Aspetti e figure o che faranno parte dei
Nuovi studi, si trovano già annotati in Classicismo e illuminismo, a
riprova della loro concorde cittadinanza scientifica e qualitativa e del-
la loro mutua corrispondenza cronologica. Esempio fra tanti possibi-
li, come si vedrà, il “filo rosso” costituito dall’interesse per il purismo
leopardiano, dal citato Natura, dèi e fato allo studio su Cesari, amplia-
to, quest’ultimo, rispetto alla primitiva “voce” di dizionario dell’ ’80,
ma parzialmente anticipato in Il Giordani e la questione della lingua.
Certe annotazioni, si può dire, sono già in sé componenti costitutive
di questa edizione di Classicismo e illuminismo, ed entrano legittima-
mente a formarne la realtà di libro. Il concetto di canone aperto va
dunque sostenuto come il più proponibile per un’edizione come que-
sta. Ed è un canone aperto che si applica correttamente alla saggisti-
ca più disponibile all’incrocio dell’accertamento filologico e della rico-
xlviii Nota del curatore e criteri della presente edizione
Non è questa la sede per discutere, com’è stato fatto (ad esempio,
nel citato saggio di Vincenzo Di Benedetto) sulla persuasività o meno
del concetto di classicismo progressista, sulla sua reale estensibilità
agli ultimi decenni del Settecento ed ai primi decenni del successivo
secolo, sulla proponibilità del nesso classicismo-illuminismo in un’e-
l Nota del curatore e criteri della presente edizione
deve in gran parte proprio al fatto che Orazio apre una via nuova,
inaugura un’esperienza stilistica fondamentale per la cultura euro-
pea»); e si ricorda soprattutto il paragone Orazio - Virgilio, il con-
fronto fra la poesia “pittorico-disegnativa”, l’ut pictura poësis, precisa
nei dettagli, tersamente perspicua nelle immagini, e la poesia aperta
allo spazio infinito, allo sfumato, al vago, alla vibratilità musicale
quanto più indistintamente arpeggiata tanto più fascinosa (pp.
CXXXV-CXXXVI): proprio qui (p. CXXXVI, nota 1) si dice che
«Questo carattere fondamentale dell’arte di Orazio [la ricerca del
«cesello», della «pittura», del «disegno», del «volume»] sarà stato una
delle cause dell’avversione del Leopardi, che lo qualifica di ‘basso
ingegno’; si capisce, invece, come l’indefinito di Virgilio facesse sen-
tire su di lui il suo fascino». E questo rilievo, giustissimo, procura più
d’una difficoltà ad una visione timpanariana del rapporto identifica-
tivo di Leopardi con il classicismo; il notturno virgiliano, come quel-
lo omerico, è certo giocato da Leopardi in funzione antiromantica (i
classici erano già capaci di quelle suggestioni letterarie): ma resta sem-
pre da chiedersi, al lettore di Timpanaro, quanto realmente a Leopar-
di fosse dato di conoscere del romanticismo. E non può sfuggire che,
fino ad Epicuro, Lucrezio e Leopardi compreso, Timpanaro non ha
potuto a meno d’interrogarsi sulla scarsa presenza in Leopardi d’au-
tori e filosofi come appunto Epicuro e Lucrezio, e di Orazio come
corifeo-innovatore del classicismo, di autori che una lettura soltanto
ideologica, e in gran parte fondata su esplicite dichiarazioni “referen-
ziali”, dell’autocoscienza poetica leopardiana, autorizzerebbe a pen-
sare prevalenti, e di frequente e dominante presenza. Avviene l’esat-
to contrario: la scommessa risulta perduta, con netta minorità del
“classicista genetico” Orazio, del ricreatore dello spirito estetico ari-
stotelico, dell’autore particolarmente amato nel Settecento razionali-
sta, a tutto vantaggio dell’epicureismo “sentimentale” di Virgilio, e
non in nome dell’epicureismo. La scelta di Leopardi ha innegabili ele-
menti in comune con quella dei romantici; al ferrato sostenitore del
classicismo leopardiano rimane da dimostrare, con la nota, impareg-
giabile profondità di scandaglio filologico e ideologico, la serie, note-
volissima, di differenze che separano Leopardi dal pensiero e dai testi
di Epicuro e di Lucrezio (conosciuti, beninteso, ma non privilegiati
rispetto ad altri scrittori), a spiegazione di come, chiamiamola ancora
così, la scommessa previsionale non avesse base e vera ragion d’esse-
Nota del curatore e criteri della presente edizione liii
avevo previsto –, e intanto questo libro ormai annoso, con mia meraviglia, viene
ancora richiesto, e l’amico editore, del tutto giustamente, ha fretta. Se anche que-
sta ristampa si esaurirà, spero di poter pubblicare, la prossima volta, l’edizione
accresciuta. Per ora avverto soltanto che altri saggi, riguardanti anch’essi in gran
parte il Leopardi, il Giordani e altri personaggi e ambienti di cui si tratta in questo
libro, sono usciti nei due volumi Aspetti e figure della cultura ottocentesca (Pisa,
Nistri-Lischi, 1980) e Antileopardiani e neomoderati nella sinistra italiana (Pisa, Ets,
1982) [...]. Vorrei, con un po’ di sfrontatezza, pregare i lettori di questo libro di
tener presente anche quei successivi volumi meno fortunati, poiché su vari punti essi
contengono aggiunte e correzioni di un certo rilievo a quanto avevo scritto nel pre-
sente volume.
leopardista, Sergio Sconocchia, studioso più volte citato nel saggio per
i suoi importanti e preziosi contributi. Ambedue le lettere sono indi-
rizzate da Firenze ad Ancona. Nella prima, del 21 novembre 1988,
Timpanaro si riferisce alla relazione di Sconocchia intitolata Ancora
su Leopardi e Lucrezio, destinata al convegno nazionale su Leopardi e
noi in prospettiva 2000, organizzato dall’Accademia Marchigiana di
Scienze, Lettere ed Arti e tenutosi ad Ancona dal 23 al 25 ottobre
1987; tale relazione viene inviata in anteprima a Timpanaro, ancora
nello stato di dattiloscritto, nel luglio 1988, quando è quasi finita la
stesura di Epicuro, Lucrezio e Leopardi, che dovrà uscire nello stesso
anno in «Critica storica» (Timpanaro è comunque in tempo a fruire
del lavoro inviatogli da Sconocchia); poi il saggio di Sconocchia esce
autonomamente in volumetto, e in anticipo sugli atti del convegno
(Ancona, La Lucerna, ottobre 1988), e vi è un nuovo invio a Timpa-
naro, che, ringraziando l’amico studioso con questa prima lettera, gli
comunica che non potrà segnalare il volumetto, perché ha appena
licenziato le ultime bozze dell’articolo per «Critica storica», non anco-
ra uscito; il volumetto sarà citato nella redazione pubblicata nei Nuo-
vi studi, mentre il fascicolo del 1988 di «Critica storica» (prima reda-
zione del saggio di Timpanaro) sarà successivamente inviato ad
Ancona: sulla copertina, la dedica autografa: «Con amicizia e gratitu-
dine (e in attesa di critiche!) / S. T.» (la copertina reca la seguente
intestazione: «estratto da / CRITICA STORICA / BOLLETTINO
A.S.E. / Rivista trimestrale diretta da ARMANDO SAITTA / Anno
XXV - 1988 - 4»; a fondo pagina: «ROMA / NELLA SEDE DEL-
L’ASSOCIAZIONE DEGLI STORICI EUROPEI»). Il contributo
di Sconocchia uscirà, quindi, con lo stesso titolo, nel volume di atti del
convegno Leopardi e noi. La vertigine cosmica, a cura di Alberto Frat-
tini, Giancarlo Galeazzi e dello stesso Sergio Sconocchia, Roma, Edi-
zioni Studium («La cultura», n. 39), 1990, pp. 87-147; alle pp. 146-
147 vi è il Postscriptum dello studioso, che può a sua volta citare (p.
146) l’ormai pubblicato Epicuro di Timpanaro e registrare anch’egli
con piacere la possibile coesistenza dei due lavori, che pur partono da
diversa impostazione. Più sotto, sono discussi contributi di Fornaro
e di Giancotti, sempre su argomenti lucreziano-leopardiani. Nella
seconda lettera, del 5 agosto 1994, Timpanaro ringrazia dell’invio
d’un estratto di fascicolo di «Orpheus» (Rivista di umanità classica e
cristiana, N. S., 5, XV - 1994 - fasc. 1, pp. 1-12; pubblicato a cura del
Nota del curatore e criteri della presente edizione lxi
I. Due facciate
50123 Firenze,
Via Ginori, 38,
21. XI.1988
Caro Sconocchia,
grazie del tuo saggio leopardiano-lucreziano, che già così gentilmente mi avevi fat-
to leggere in anteprima. Hai fatto benissimo a pubblicarlo a parte, senza aspettare gli
Atti del Convegno. Il mio articolo non è ancora uscito in «Critica storica»: dovreb-
be uscire presto, ho già licenziato le ultime bozze. Non faccio più in tempo, perciò,
a segnalare questa tua pubblicazione ‘separata’: ho citato gli Atti marchigiani in un
Post-scriptum e ho esplicitamente menzionato la ‘scoperta’ della derivazione delle
citazioni lucreziane dalla Collectio Pisaurensis; quanto al resto, ho accennato nel P.
S. che i nostri due studi, anche se in notevole misura divergenti, possono essere con-
siderati complementari.
i lettori giudicheranno; e, naturalmente, appena sarà uscito il mio articolo tu avrai
il pieno diritto di discutere quei punti che ti sembreranno errati o inadeguati.
Grazie ancora, un saluto affettuoso dal tuo
Sebastiano Timpanaro
Carissimo Sconocchia,
molte grazie per tutto ciò che mi hai mandato: sei un lavoratore instancabile, e ti
muovi con eguale sicurezza nel campo leopardiano e in quello della medicina antica!
Proprio in questi giorni torridi (sto per andare in ferie, ma per poco tempo) correg-
go le seconde bozze di un ultimo volumetto di cose otto-novecentesche, alcune nuo-
ve, altre rivedute e corrette.* {richiamo con asterisco a fine pagina} * Uscirà a Pisa
presso Nistri-Lischi. Tra queste, ripubblico anche, con varie aggiunte e modifiche,
quel mio articolo del 1988 su Epicuro, Lucrezio e Leopardi. Mi fosse arrivato pri-
ma il tuo articolo! Avrei potuto menzionare e utilizzare più ampiamente i risultati
lxii Nota del curatore e criteri della presente edizione
a cui sei giunto. Ora devo limitarmi a un accenno un po’ troppo sintetico, perché
ho già fatto sulle prime bozze tante correzioni straordinarie che, se butto all’aria
anche le seconde, l’editore mi fucila! il volumetto {canc.: «arriv», cioè «arriverà»}
uscirà poi in autunno.
Anche le tue cose di storia della medicina mi hanno molto interessato
Vorrei farti avere un mio volume, Nuovi contributi di filol. e storia della lingua lati-
na, in cui mi è accaduto (col prezioso aiuto di Boscherini) di occuparmi {canc.:
«di»}, en passant, di tonsillae e cose del genere. Ma la casa Pàtron è stata avarissima
di copie in omaggio; anche a me ne ha mandato un numero irrisorio, e sono sparite
sùbito. Vedrò, comunque, di fartene avere una copia. Grazie ancora di tutto e buo-
na estate (qui a Firenze 40 gradi!). Tuo
Sebastiano Timpanaro.
P.S. Rallegramenti vivissimi per la vittoria nel concorso! {prima facciata in alto a
sinistra, graficamente isolato e segnalato}.
* * *
C (I ed., 1965);
A (II ed., prima uscita, 1969);
B (II ed., rist. del 1973);
d (II ed., rist. del 1984).
la nota supporta un brano del testo “in alto” centrato sulla negazio-
ne del concetto di spirito in un Leopardi che ha compiutamente
maturato la propria concezione materialistica («Senziente e pensan-
te è, nell’uomo, la materia stessa: il cervello, non l’anima58»); n. 58:
«Zib., 4251-53 (9 marzo 1827), 4288 sg. (18 settembre 1827). Ma
vedi già il pensiero del 9 settembre 1821 (p. 1657) che comincia:
“Tutto è materiale nella nostra mente e facoltà”. Una chiara esposi-
zione del materialismo leopardiano è data dal TILGHER, La filoso-
fia del Leopardi cit., p. 88 sgg.».
Corrado Pestelli
Copertine 1973 e 1984
I saggi raccolti nel presente volume sono stati scritti in tempi diversi,
come è indicato nella nota in fondo a questa prefazione. Quelli già pub-
blicati riappaiono qui con numerose aggiunte e modifiche. Non ho preteso
tuttavia di trasformarli in capitoli di un’unica opera organica e non mi sono
quindi proposto di eliminare a tutti i costi qualche leggera ripetizione.
L’introduzione ha lo scopo di enunciare i temi comuni all’intera rac-
colta e, nello stesso tempo, di soffermarsi, sia pure brevemente, su alcune
figure e alcuni aspetti del classicismo ottocentesco italiano che non sono
stati oggetto di apposita trattazione nei singoli saggi. Una storia completa
del classicismo illuminista del nostro Ottocento dovrebbe dedicare interi
capitoli al Monti, al Settembrini, al Carducci giovane, e dovrebbe, anche
per gli autori da me presi particolarmente in esame, dare più spazio a osser-
vazioni stilistiche. Ma se questo volume contribuisse intanto a richiamare
l’attenzione sulla necessità di studiare più a fondo la formazione classici-
sta del Leopardi e del Cattaneo, se servisse a suscitare nuovi studi sul Gior-
dani e a far meglio intendere (sulla via indicata da un fondamentale sag-
gio del Luporini) il valore del materialismo e del pessimismo leopardiano,
considererei raggiunto il mio scopo.
In altra sede vorrei cercar di giustificare in modo più esplicito certi pre-
supposti ideologici di questi saggi, specialmente di quello sul pensiero del
Leopardi. Qui accennerò soltanto che la concezione generale a cui queste
pagine si ispirano (una concezione, spero, non aprioristicamente sovrap-
posta alla ricerca storica) è una specie di marxismo-leopardismo che, men-
tre accetta l’analisi marxista della società e gli obiettivi di lotta politico-
sociale e culturale che sono con essa congiunti, per ciò che riguarda invece
il rapporto uomo-natura si richiama soprattutto al materialismo vero e
lxxviii Prefazione
In questa seconda edizione, che si pubblica a poco più di tre anni dal-
la precedente, il testo è rimasto invariato, tranne la correzione di alcuni
errori di stampa. Ma in fondo al volume ho aggiunto un altro breve sag-
gio, che vorrebbe contribuire ad una ulteriore precisazione del rapporto tra
le due concezioni leopardiane della natura, e una serie di postille suggeri-
te da obiezioni di recensori, da lavori di altri studiosi, da miei ripensamenti
su singoli punti.°
Qui, in questa nuova prefazione, vorrei ritornare su alcuni problemi più
generali che sono stati oggetto di discussione. Prima di tutto, sull’esten-
sione da dare al termine e al concetto di romanticismo. Nel presente volu-
me si propone di intendere il romanticismo non come caratteristica glo-
bale di tutte le manifestazioni di pensiero, d’arte e di «sensibilità» del
primo Ottocento, e tanto meno come un «momento dello spirito» presente
in ogni tempo e luogo, ma come un determinato movimento culturale, che
raccolse nelle sue file la maggioranza, non la totalità degli intellettuali
europei dell’età della Restaurazione: che ebbe perciò al di fuori e contro
di sé altri orientamenti, altri gruppi di minoranza che si dissero e furono
antiromantici, e che tentarono di dare altre risposte alla crisi della società
europea post-rivoluzionaria.
A Giuseppe Paolo Samonà (in «Giovane Critica», n. 14, inverno 1967,
pp. 10-18) sembra che da ciò risulti una contrapposizione schematica tra
un partito romantico e un partito classicista, per cui ciascun rappresentan-
°i{Si veda ora la nuova collocazione di «Natura, dèi e fato nel Leopardi», VI capitolo di questa edi-
zione, e l’assorbimento delle postille a fine volume – si parla di quelle già a suo tempo stampate – in
calce alle pagine o alle singole sezioni di testo alle quali originariamente esse si riferivano – N. d. C. –}.
lxxxii Prefazione alla seconda edizione
te della cultura del primo Ottocento verrebbe a tutti i costi incasellato nel-
l’uno o nell’altro schieramento, e qualsiasi ammissione dell’esistenza di
personalità intermedie, qualsiasi riconoscimento di un’eredità illuministi-
ca nei grandi romantici europei equivarrebbe ad una confessione del falli-
mento di quello schema. Nel silenzio quasi completo di questo libro sul
Porta e completo sul Belli, nella constatazione (qui sotto, p. 7) che Stendhal
aderì al romanticismo in quanto rottura dell’accademismo letterario sen-
za con ciò rinnegare la propria formazione ideologica illuminista e sensi-
sta, nella scarsa apertura «europea» di tutto il libro, Samonà scorge altret-
tante prove dell’imbarazzo dell’autore di fronte a una materia riluttante ad
essere costretta entro una classificazione rigidamente dicotomica. Un’ana-
loga insoddisfazione, sia pure partendo da premesse non identiche, è stata
espressa da Margarete Steinhoff in «Deutsche Literaturzeitung» 1967, col.
1084, da Elvio Guagnini in «Problemi» 1967, p. 237, da Bruno Biral in
un lungo scambio di lettere che ho avuto con lui su questo e su altri argo-
menti affini.
Ora, a me pare che, proprio perché le contrapposizioni tra romantici-
smo e classicismo, tra romanticismo e illuminismo alle quali mi riferisco
non sono contrapposizioni «categoriali», ma schiettamente storico-empi-
riche, non esista alcun problema di classificazione rigida. Quando si par-
la di «partiti culturali», si sa bene – se per un momento vogliamo rima-
nere entro la metafora – che all’interno di ciascun partito ci sono, palesi o
nascoste, le correnti e le sotto-correnti, e infine le singole individualità; si
sa che i partiti non si contrappongono soltanto, ma spesso anche si influen-
zano a vicenda; e si sa che sono sempre esistiti coloro che non riescono a
trovare stabile collocazione in nessun partito. È poi anche chiaro (vedi qui
sotto, p. 33, e la recensione a Piero Treves in «Critica storica» II, 1963,
p. 607 sg. { qui «Appendice II»}) che l’analogia coi partiti politici, utile
per mettere in evidenza la determinatezza storico-empirica dei movimen-
ti culturali, non può essere spinta oltre un certo limite: nei movimenti cul-
turali, e più che mai in uno così proteiforme come il romanticismo, la
compattezza è di gran lunga minore. Questa esigenza di distinguere, all’in-
terno del movimento romantico e del movimento classicista, gruppi diver-
samente atteggiati e personalità complesse e contraddittorie, non è esibita
qui come implicita ammenda di un precedente «schematismo»: è già pre-
sente nell’introduzione e in tutto il corso del volume (vedi per esempio pp.
5 sg., 7-10, 19 sg., 57-59, 332-334 ecc.; e, per gli influssi scambievoli tra
romantici e classicisti, pp. 17-20, 33 sg.).
Prefazione alla seconda edizione lxxxiii
una delle principali ragioni della loro sconfitta immediata. Questo punto
è stato riaffermato con efficacia da Gilbert Moget in un articolo che, mal-
grado una certa sommarietà e provvisorietà di risultati, rappresenta a mio
avviso uno dei più intelligenti contributi sulla polemica classico-roman-
tica in Italia (En marge du bi-centenaire de M.me de Staël: «Classi-
ques» et «Romantiques» à Milan en 1816, «La Pensée», février 1967,
p. 40 sgg.).
argomenti che inserite in una linea di svolgimento: quel saggio reca anco-
ra troppo il carattere d’una rivendicazione di tutto ciò che negli scritti gior-
daniani si trova di interessante e di imprevisto rispetto alla smorta presen-
tazione che ne danno le nostre storie letterarie; assolto questo compito, è
ora necessario tracciare una storia dell’attività culturale del Giordani,
avendo riguardo alle diverse situazioni in cui essa si esplicò (Parma il-
luministica prima della rivoluzione; la Cisalpina e il Regno italico; la
Restaurazione; l’alternarsi di tentativi rivoluzionari e di illusioni rifor-
mistiche dal ’20 fino al ’48) e soprattutto ai due momenti cruciali rap-
presentati dalla partecipazione alla «Biblioteca Italiana» e dalla carcera-
zione del 1834.
Quanto al preteso filocarduccianesimo, credo che il giudizio che a pp. 28-
29, 102 sg., 138 sg. è dato sull’involuzione politica del Carducci e sulle
sue conseguenze culturali sia, nella sua brevità, sufficientemente esplici-
to. Rimane fuori dal tema di questo libro la valutazione dei rari momen-
ti poetici che, pur nell’involuzione politica, è dato di cogliere nell’ultimo
Carducci. Per quel che riguarda, invece, il Carducci dei Giambi ed epo-
di e ancora del Ça ira – che è pur esistito, con tutti i suoi limiti ben noti –,
io ho solo voluto mostrare come già nella formazione giovanile classicista
degli Amici Pedanti vi fossero, entro uno scolasticismo stantío, motivi
illuministi che favorirono il successivo evolversi del Carducci «giacobino»
e dettero anche alla critica letteraria carducciana, pur tanto più debole di
quella desanctisiana, qualche punto di vantaggio sul De Sanctis nel giudi-
zio sul classicismo ottocentesco.
Ma, a parte i giudizi su Giordani e Carducci, la richiesta di una mag-
giore apertura «europea» assume, se non mi inganno, in Samonà e in
Colaiacomo due aspetti alquanto diversi. Samonà ritiene che una consi-
derazione globale del movimento romantico lo libererebbe da quella con-
notazione religiosa e conservatrice che sembra spettargli finché si prende in
esame il solo romanticismo italiano. È lecito dubitare di questa opinio-
ne, che rischia di confondere l’arretratezza e la perifericità della cultura
italiana in generale con l’arretratezza ideologica del romanticismo italia-
no. E stato anzi più volte rilevato che in Italia, per un complesso di ragio-
ni (tra cui la parziale identificazione, presto instauratasi, tra romanticismo
e movimento antiaustriaco e antiassolutista, e il fatto che la difesa delle
tradizioni locali spettò ai classicisti più che ai romantici), il romanticismo
assunse fin dall’inizio una fisionomia molto meno conservatrice che altro-
ve. Grossi rappresentanti del romanticismo reazionario come Chateau-
lxxxviii Prefazione alla seconda edizione
1
iSui rapporti tra Stendhal e gli idéologues vedi ora Sergio Moravia, Il tramonto dell’Illumi-
nismo, Bari 1968, pp. 26 sgg., 366 sgg. e altrove. Si noti anche che Stendhal, in Racine et Shake-
speare e negli altri scritti con questo collegati, aderì al romanticismo letterario nella sua forma
milanese, non in quella francese, proprio perché la prima era molto più ricca di eredità illumi-
nistica.
Prefazione alla seconda edizione lxxxix
2
iPer quel che riguarda le posizioni di Asor Rosa, che stanno alla base del discorso di Colaia-
como, e che certo hanno grandemente contribuito a rinnovare il dibattito politico-culturale
all’interno della sinistra italiana, condivido le osservazioni di C. A. Madrignani in «Giovane cri-
tica» 15-16, primavera-estate 1967, p. 83 sgg. e in «Nuovo impegno» 12-13, maggio-ottobre
1968, p. 134 sg., e di G. P. Samonà nell’introduzione agli Scritti letterari di Trotskij, Roma 1968,
pp. 12-16.
xc Prefazione alla seconda edizione
3
iPer il Di Breme cfr. «Belfagor», XXII, 1967, p. 240 sg. Per il Borsieri si veda ora l’intro-
duzione alla «Biblioteca italiana» (rimasta allora inedita) nell’edizione delle Avventure letterarie
di un giorno e altri scritti a cura di G. Alessandrini, Roma 1967, p. 131 sg. ** Bisogna, dice il
Borsieri, regolare la lingua «secondo le leggi della logica e dell’analogia»; c’è chi è nemico di ogni
innovazione e c’è chi «s’arroga di mutare d’inventare d’aggiugnere e s’usurpa quel diritto che
appartiene unicamente ad un intelletto cresciuto nella meditazione». Come si vede, se il Monti
compie un passo indietro rispetto al Settecento in quanto ammette soltanto l’«innovazione con-
dizionata» (così la Corti, p. 168), lo stesso passo indietro è compiuto anche dai romantici lom-
bardi, e più tardi dal Cattaneo. E per tutti costoro l’innovazione, si badi, non è condizionata
Prefazione alla seconda edizione xciii
solo dall’autorità degli scrittori, ma dalla «ragione», che esercita una funzione analogistica; anzi,
gli scrittori hanno autorità non tanto in virtù della loro efficacia artistica, ma in quanto si iden-
tificano con le esigenze della logica.
xciv Prefazione alla seconda edizione
re: «Queste parole vostre (...) se sono nate ieri, oggi, come i funghi e le
muffe, lasciatele dove stanno; che la nostra lingua è cosa fatta, grazie a
Dio, non cosa da fare» (SL, I, p. 116).
D’altra parte, mentre l’adesione del Cattaneo alle idee e all’ambiente
del Monti è ben documentata anche al di fuori delle questioni linguistiche,
mancano, che io sappia, le prove di un particolare influsso esercitato su di
lui dal Gherardini. Non pare, soprattutto, che il Cattaneo abbia avuto
chiara consapevolezza di una «critica da sinistra» del Gherardini nei
riguardi delle idee linguistiche del Monti. L’unica lode, per quel che mi
risulta, che il Cattaneo rivolga al Gherardini è per aver rifiutato alcune
voci ribobolesche della Crusca (SL, I, p. 262 sg.); e la lode è accompagnata
da parole che sembrano avere un senso limitativo: «Onde anche quelli che
non consentiranno punto per punto a tutte le opinioni dell’egregio nostro
Gherardini, non potranno negargli un tributo di gratitudine per ciò ch’e-
gli fece a liberare il dizionario nazionale da codesti disonorevoli imbrat-
ti». Poco oltre, nello stesso scritto (p. 264), il Gherardini è citato fra gli
emendatori e integratori della Crusca, ma insieme al Monti e al Perticari,
non in contrapposizione ad essi. E questo è tutto, poiché la commemora-
zione del Gherardini (in SL, II, p. 171 sgg.), che la Corti (p. 178) attri-
buisce al Cattaneo, appartiene invece a Giovanni De Castro, come già da
tempo è stato messo in chiaro (vedi l’avvertenza iniziale alla ristampa del
1948 di SL, II).
Nell’ambito della questione della lingua, su un solo punto il Cattaneo
si distaccò qualche volta dai classicisti: nella valutazione della letteratura
dialettale. Ma anche qui, l’appendice che ho dedicato a questo problema
(p. 483 sgg.) mostra quanto sia erroneo assimilare senz’altro la posizione
del Cattaneo e quella dei romantici, quanto sia contraddittorio il suo
atteggiamento di fronte ai dialetti, e come tale contraddittorietà derivi non
da banale incoerenza, ma dalla difficoltà di conciliare i diritti delle «pic-
cole patrie» locali con l’esigenza cosmopolita.
La posizione antidialettale del Giordani, condivisa anche dal Monti,4
non si può liquidare con un richiamo alla sua idea che il perfetto scritto-
re italiano dovesse essere nobile. Prima di tutto, la rivendicazione pole-
4
iIl Dialogo di Matteo giornalista, Taddeo suo compare ecc., che la Corti (p. 175, n. 25) sem-
bra ritenere del Giordani o di autore ignoto, è del Monti: esso compare già nell’edizione dei Dia-
loghi del Cav. V. Monti (Milano 1827) e di nuovo nell’edizione Resnati delle Opere (V, Milano
1841, p. 534 sgg.); e contiene, a sostegno degli argomenti portati dal Giordani, altri argomenti
tutt’altro che trascurabili.
Prefazione alla seconda edizione xcv
5
iVedi M. Cerruti, Neoclassici e giacobini cit., cap. III e specialmente, pp. 191, 192-94. In
questo quadro andrebbe anche ripreso in esame, per esempio, quel Lorenzo Cardone, autore del
Te Deum dei calabresi, sul quale aveva già richiamato l’attenzione il Settembrini (Lezioni di let-
teratura italiana a cura di G. Innamorati, vol. II, pp. 1034 sg.; |cfr. ora A. Barbuto, La protesta
l’utopia lo scacco: il Te Deum de’ Calabresi di G. L. Cardone, Roma 1975|).
xcvi Prefazione alla seconda edizione
6
iVedi Cesare Pianciola in «Quaderni piacentini», 29, gennaio 1967, p. 68 sgg.; Lucio Col-
letti, Il marxismo e Hegel, Bari 1969, p. 332 sgg.
Prefazione alla seconda edizione xcvii
7
iCfr. per ora «Quaderni piacentini» 32, ottobre 1967, p. 125 sg.; Paolo Cristofolini in
«Nuovo impegno» 9-10, 1967-68, p. 47, n. 5; Ersilia Alessandrone in «Annali della Scuola Nor-
male», 1966, p. 329.
xcviii Prefazione alla seconda edizione
8
iVedi specialmente, pp. LXXIV, XC sg., XCVI. Una parziale eccezione credo si deva fare
per l’attività filologica del Leopardi, che da un certo momento in poi si sviluppò anche come atti-
vità «tecnica», non soltanto in relazione ai suoi interessi letterari e umani per il mondo antico.
c Prefazione alla seconda edizione
nuova estetica nel senso tradizionale del termine, una nuova giustificazio-
ne della sopravvivenza dell’arte nella cultura moderna e una nuova dimo-
strazione della possibilità di giudizi estetici non puramente soggettivi. Per
chi neghi a qualsiasi specie di esperienza «intuitiva» o mistica un valore
conoscitivo superiore o complementare a quello della conoscenza scienti-
fica, e d’altra parte si renda conto dell’insufficienza di una critica pura-
mente ideologica e contenutistica, la soluzione dovrà essere ricercata, cre-
do, su quel terreno sensistico-edonistico sul quale era stata già ricercata nel
Settecento e sul quale continuò sempre a ricercarla, nei pensieri estetici
dello Zibaldone, il Leopardi. Ma questo è un problema che va molto al di
là dell’argomento di questo libro e delle capacità dell’autore.
s. t.
maggio 1969 **
Nota alla ristampa 1988 della seconda edizione **
giordani: col solo numero romano (del tomo) e arabico (della pagi-
na) è indicata l’edizione delle Opere a cura di Antonio Gussalli, Milano
1854-62. Con Lett. è indicata l’edizione delle Lettere a cura di Giovan-
ni Ferretti, Bari 1937.
giordani: col solo numero romano (del tomo) e arabico (della pagina)
è indicata l’edizione delle Opere a cura di Antonio Gussalli, Milano
1854-62. Con Lett. è indicata l’edizione delle Lettere a cura di Gio-
vanni Ferretti, Bari 1937.
°i{L’autore si riferisce, qui, ad «Aspetti e figure» quale singolo e autonomo volume, uscito nel
1980; il libro reca una dedica ad Augusto Campana – N. d. C. –}.
Avvertenza sulle citazioni da «Nuovi studi sul nostro Ottocento»
giordani: col solo numero romano (del tomo) e arabico (della pagina)
è indicata l’edizione delle Opere a cura di Antonio Gussalli, Milano
1854-62. Con Lett. è indicata l’edizione delle Lettere a cura di Gio-
vanni Ferretti, Bari 1937.
°i{L’autore si riferisce, qui, ai «Nuovi studi» quale singolo e autonomo volume, uscito nel 1994;
il libro reca una dedica a Lanfranco Caretti – N. d. C. –}.
Classicismo e illuminismo nell’Ottocento italiano
lorini, a cui sono seguite quelle del Calcaterra e del Mazzali e l’edi-
zione di tutto il «Conciliatore» a cura del Branca.1
I temi su cui si è più insistito, soprattutto per opera di Mario Fubi-
ni,2 sono la continuità tra illuminismo e romanticismo lombardo, l’a-
spirazione dei romantici italiani ad annodare più stretti rapporti con
la cultura europea, il patriottismo liberale di un Berchet o di un Di
Breme, ben diverso dal patriottismo puramente letterario dei classi-
cisti retrivi. Anche di certi aspetti più propriamente romantici della
cultura italiana della Restaurazione sono stati rintracciati, special-
mente dal Binni,3 i precedenti settecenteschi. Più recentemente Giu-
seppe Petronio, prendendo le mosse da alcuni concetti storiografici di
Lukács e sviluppandoli originalmente in rapporto alla letteratura ita-
liana, ha battuto l’accento piuttosto sulla distinzione tra il cosiddetto
preromanticismo e il vero romanticismo, sorto in una ben diversa si-
tuazione storica.4
In tutti questi studi si parla, come è naturale, anche degli avversari
dei romantici, i classicisti; se ne parla spesso con acutezza e con com-
prensione. Proprio il Fubini ha caratterizzato efficacemente il pathos
che anima il classicismo patriottico di Carlo Botta e ha richiamato bre-
benché ispirato da calda simpatia per il gruppo del «Conciliatore», l’articolo mette bene in luce
(p. 170) la prospettiva più strettamente letteraria di questa rivista in confronto al «Caffè». Sul-
le differenze di idee e di temperamento fra il Di Breme, il Pellico e il Berchet vedi M. Puppo,
Atteggiamenti e problemi dei primi romantici italiani, in «Studium» LXIV, 1968, p. 92 sgg. **
(alcune giuste riserve di P. Fasano in «Rassegna letter. ital.» LXXII, 1968, p. 445).
1
iDiscussioni e polemiche sul romanticismo, a cura di E. Bellorini, Bari 1943; I manifesti ro-
mantici del 1816 e gli scritti principali del «Conciliatore» sul romanticismo, a cura di C. Calcaterra,
Torino 1951; Discorso di un Italiano intorno alla poesia romantica di G. Leopardi con una antolo-
gia di testimonianze sul romanticismo e un saggio introduttivo di F. Flora, a cura di E. Mazzali,
Bologna 1957; Il «Conciliatore», a cura di V. Branca, Firenze 1948-54, tre volumi.
2
iM. Fubini, Romanticismo italiano, 2ª ed., Bari 1960 (si vedano in particolare i saggi «Moti-
vi e figure della polemica romantica», del 1947, e «Giordani, Madame de Staël, Leopardi», del
1952).
3
iLa battaglia romantica in Italia (1947), ristampato in Critici e poeti del Cinquecento al Nove-
cento, Firenze 1951, p. 77 sg.
4
iVedi, del Petronio, l’articolo del 1957 Illuminismo, preromanticismo, romanticismo e Lessing
(ora nel volume Dall’illuminismo al verismo, Palermo 1963, p. 41 sgg.) e poi Il romanticismo (sto-
ria della critica), Palermo 1969, e ancor più recentemente le Proposte e ipotesi di lavoro per uno
studio del romanticismo (in Dall’illuminismo al verismo cit., p. 201 sgg.) e il volume L’attività let-
teraria in Italia, Palermo 1964, pp. 602 sgg., 637 sgg. Sugli equivoci a cui ha dato luogo il con-
cetto di «preromanticismo» nella storia della letteratura tedesca cfr. G. Lukács, Breve storia del-
la letteratura tedesca, trad. di C. Cases, Torino 1956, p. 67 sg.; C. Cases in «Società» X, 1954,
p. 493 sgg.
Introduzione 5
vemente l’attenzione, alla fine del suo saggio principale, sullo stimolo
che i classicisti con la loro stessa resistenza dettero all’elaborazione e
alla precisazione delle teorie romantiche. E tuttavia l’opposizione clas-
sicista è stata considerata finora, in complesso, o come il momento
negativo di un conflitto in cui il progresso e la ragione storica stava-
no dalla parte dei romantici, o come parte, essa stessa, del grande
movimento romantico, da cui l’avrebbero divisa soltanto episodici
malintesi, non ragioni profonde.
Ciò non è avvenuto a caso. Il movimento di idee che riuscì a pre-
valere nella cultura del primo Ottocento, in Italia come nelle altre
nazioni europee, fu il romanticismo. Esso esprimeva le esigenze di una
borghesia che intendeva affermarsi come forza preminente nel cam-
po politico e culturale senza però correre di nuovo il rischio di una
radicalizzazione giacobina della lotta. L’ideologia più confacente a
questo scopo era un cristianesimo illuminato, che conciliasse la tradi-
zione col progresso. Il movimento romantico ebbe certo, specialmen-
te in Germania, un’ala oscurantista, che mirava a un impossibile ritor-
no al Medioevo feudale e teocratico. Ma, come vide già il De Sanctis,
questo non fu, tranne un breve periodo iniziale, l’aspetto preminente
del romanticismo europeo; meno che mai di quello italiano, che fin
dall’inizio assorbì molti valori della civiltà illuministica e sul piano
politico si schierò contro l’assolutismo e contro l’Austria.
E neppure sarebbe giusto considerare semplicemente il romanticismo
come un illuminismo attenuato e privato della sua carica rivoluziona-
ria. Bisogna riconoscere che per certi lati il romanticismo – proprio
perché riflette un’esperienza post-rivoluzionaria, sia pure di avversari
della rivoluzione – è più avanzato di certo illuminismo. Gli aspetti ari-
stocratici, cortigiani, «galanti» della civiltà settecentesca erano stati
ormai spazzati via dalla rivoluzione. Un senso di appassionata serietà
e interiorità – rievocato con efficacia, anche se con evidente parzialità
ideologica, dall’Omodeo nelle prime pagine della Cultura francese nel-
l’età della Restaurazione – era comune a rivoluzionari e antirivoluzio-
nari. ** Importante è anche il fatto che i gruppi di intellettuali che
in tutta Europa dettero vita al movimento romantico si erano forma-
ti in una lotta non semplicemente e direttamente antigiacobina, ma
antinapoleonica. Il fatto che la Staël, Chateaubriand, i romantici tede-
schi, anche i primi romantici italiani fossero in sostanza degli opposi-
tori di destra del regime napoleonico, i quali odiavano nel Bonaparte
6 Introduzione
6
iDel Betti è da vedere specialmente il dialogo Il Tambroni, ossia de’ classici e de’ romantici,
nel «Giornale Arcadico» XXXI, 1826, p. 281 sgg. (di cui il Bellorini, Discussioni cit., II, p. 494,
dà solo un riassunto).
7
iVedi per esempio «Biblioteca Italiana» XXI, 1821, p. 31, e in generale i Proemi dell’A-
cerbi alle singole annate della rivista.
Introduzione 9
8
iCfr. Discussioni cit., ed. Bellorini, II, p. 5 sgg. (p. 17 su Bruto e Cassio). Alcuni anni più
tardi, nel ’24, quando il romanticismo non rappresentava più un pericolo per il governo austria-
co, lo Zajotti si mostrò meno ostile alle dottrine romantiche (ibid., II, p. 200 sgg.).
9
iL. Di Breme in Discussioni cit., I, pp. 349 sg. Sul Londonio vedi anche più oltre, p. 18 n.
30. La figura di questo letterato, nota generalmente solo per la sua partecipazione alla polemi-
ca classico-romantica, andrebbe riesaminata tenendo conto anche di altri suoi scritti, a comin-
ciare dal giovanile discorso Dei danni derivanti dalle ricchezze (Milano, Destefanis, 1809, senza
nome d’autore; prefazione firmata con le iniziali C. G. L.). Questo discorso è, per la maggior par-
te, una stracca ripetizione di motivi oraziano-pariniani sulla felicità di chi sa contentarsi del
poco. Tuttavia, in contrasto con questo motivo scolastico predominante, compaiono qua e là
spunti interessanti di polemica sociale (ingiustizia delle disuguaglianze economiche, eccessivo
sfruttamento a cui sono sottoposti i contadini e gli artigiani, carattere parassitario della grande
proprietà terriera: vedi pp. 53 sg., 59, 64 sg., 68, 75; cfr. anche, a p. 30 sgg., il forte attacco con-
tro le ricchezze della Chiesa).
10 Introduzione
10
iVedi il saggio, tuttora fondamentale, di Giuseppe Berti, Origini politiche del romanticismo,
in «Società» III, 1947, p. 444 sgg.
11
iVedi più oltre, pp. 58, 117.
12
iVedi pp. 121-22, n. 39.
*iSul rapporto tra «omerismo» e alessandrinismo nel Leopardi vedi ora Gilberto Lonardi,
Classicismo e utopia nella lirica leopardiana, Firenze 1969.
Introduzione 11
13
iLo studio dell’antichità classica nell’Ottocento, a cura di Piero Treves, Milano-Napoli 1962,
p. 473 sg.
14
iContribuì certo a mantenere il gusto leopardiano entro questo ambito settecentesco la
mancanza dei grandi classici greci del v e iv secolo nella biblioteca di Monaldo Leopardi a Reca-
nati; ma bisogna tener conto anche di motivi più generali, inerenti a tutto l’ambiente classicista
nel quale il Leopardi si formò. Cfr. La filologia di G. Leopardi, Firenze 1955, pp. 29-33, 39, n. 3;
e «Atene e Roma» 1959, p. 91.
15
iSull’Angeloni purista cfr. R. De Felice in Diz. biogr. degli Italiani, III (1961), p. 247 e la
bibliografia da lui citata a p. 249. Ma uno studio soddisfacente manca tuttora. Per la sua difesa
del Cesari contro il Monti vedi soprattutto l’opera Dell’Italia, uscente il settembre del 1818, Parigi
1818, II, p. 203 sgg.
12 Introduzione
16
iLettera del 27 dicembre 1818, pubblicata da A. Luzio in «Riv. stor. del Risorgim. ital.» I,
1895-96, p. 680, n. 1.
17
iLa condanna desanctisiana coinvolge anche la Proposta, considerata come un diversivo dal-
la politica: «I governi lasciavan fare, contenti che le guerricciole letterarie distraessero le men-
ti dalla cosa pubblica. In Italia ricomparivano i soliti fenomeni della servitù: battaglie in favore
e contro la Crusca, quistioni di lingua (...). La Proposta e il Sermone all’Antonietta Costa erano i
grandi avvenimenti che succedevano alla battaglia di Waterloo» (Storia di lett. it., ed. N. Gallo,
Torino 1958, II, p. 957). Il De Sanctis qui ripete, attenuandone appena la forma, un giudizio
dell’Emiliani-Giudici (Storia delle belle lettere in Italia, Firenze 1844, p. 1203): «Gl’ingegni per-
sero di vista le idee politiche (...). I despoti trionfavano e ridevano, e ci schernivano, e ci chia-
mavano vili e dementi (...). Monumento di questa vergognosa eunucomachia è la Proposta di cor-
rezioni al vocabolario della Crusca». Il significato nazionale e illuministico di quella polemica fu
compreso, invece, dal Settembrini (Lezioni di letter. ital., a cura di G. Innamorati, Firenze 1964,
II, p. 1005 sg.; tutto il capitolo sul Monti è esemplare per equilibrio e acutezza) ed era stato già
apprezzato dal Di Breme (vedi più oltre, p. 339, n. 33). Una buona caratterizzazione della Propo-
sta è stata data recentemente da M. Vitale, La questione della lingua, Palermo 1960, p. 178 sgg.
*iSul Monti abbiamo adesso il saggio di cui indicavo la mancanza: G. Barbarisi, V. Monti e
la cultura neoclassica, nell’Ottocento garzantiano cit. sopra. Il Barbarisi ne sta preparando una
più ampia redazione in volume autonomo.
°i{«Carlo Cattaneo e Graziadio Ascoli», qui decimo e penultimo capitolo, ma ultimo capitolo
nell’edizione 1965, e così nell’edizione 1969 e successive ristampe, nelle quali è seguìto dal-
l’«Appendice» e dagli «Addenda» – N. d. C.}.
Introduzione 13
mettere in luce quello che il Monti significò nella cultura del suo tem-
po.18 In realtà, nonostante tutte le ben note giravolte politiche, il
Monti non fu privo di una sua coerenza ideologica: fu un illuminista
moderato, nemico del municipalismo gretto, fautore di un dispotismo
riformatore che proteggesse le lettere e le scienze e diffondesse la cul-
tura dall’alto. Nel «piccolo rinascimento» romano di Pio VI, nel
Regno Italico, nel restaurato dominio absburgico il Monti esaltò sem-
pre questo suo ideale (solo dinanzi a un’esperienza storica come la
rivoluzione francese, che andava troppo al di là del suo orizzonte ideo-
logico, ebbe veri sbandamenti). La frase del De Sanctis: «Le massime
eran sempre quelle, applicate a tutt’i casi dal duttile ingegno», non
vale solo nel significato ironico che il De Sanctis intendeva darle: le
«massime» furono realmente assai più ferme dei contingenti atteg-
giamenti politici, e non si trattava di massime puramente retoriche.
La scissione del gruppo dirigente della «Biblioteca Italiana», che
ebbe per protagonisti l’Acerbi dalla parte dei reazionari, il Giordani
dalla parte dei progressisti – e che segnò il tramonto definitivo della
speranza in un’Austria riformatrice –19 vide il Monti a fianco del Gior-
dani, estromesso dalla direzione della rivista. Il fatto che egli non sia
diventato un cospiratore, che sia rimasto estraneo al nuovo spirito
risorgimentale, che abbia continuato a godere di sussidi (avaramente
concessi, del resto) da parte del governo austriaco, non toglie che da
allora in poi egli sia stato, culturalmente, all’opposizione. Le sue pur
caute amicizie col gruppo del «Conciliatore», la dignitosa solidarietà
18
i** L’introduzione di Carlo Muscetta alle Opere del Monti nella collana dei classici Ric-
ciardi (Milano-Napoli 1953) è ricca di penetranti osservazioni storico-culturali sul Monti e sul
suo ambiente (basti ricordare la caratterizzazione della Roma di Pio VI); ma, per una giusta rea-
zione al puro gusto della bella letteratura che ispira il saggio del Croce, finisce col riaccostarsi
forse un po’ troppo alla condanna etico-politica desanctisiana.
19
iSu questo episodio vedi più oltre, p. 54 sg. ** Un’interpretazione del tutto erronea e rea-
zionaria del dissidio tra Acerbi e Giordani (e tra Acerbi e Leopardi) è data da Alessandro Luzio,
Studi e bozzetti di storia letteraria e politica, Milano 1910, I, p. 1 sgg. Migliori gli studi di Euge-
nia Montanari, Per la storia della «Bibl. Ital.», in Miscell. di studi crit. pubbl. in onore di G. Maz-
zoni, Firenze 1904, II, p. 361 sgg. (dove però l’episodio Giordani-Acerbi è trattato assai breve-
mente) e di G. P. Clerici, P. Giordani, G. Acerbi e la «Bibl. Ital.», in «Riv. d’Italia» XI, 1908,
vol. I, p. 924 sgg. (dove si polemizza giustamente contro il reazionarismo del Luzio, ma il con-
trasto fra Acerbi e Giordani è interpretato in chiave soltanto psicologica e non politico-cultura-
le). Il libro di K. R. Greenfield, Economia e liberalismo nel Risorgimento (2ª ed. ital., Bari 1964,
p. 219 sgg.) dà un buon quadro generale dei periodici lombardi nell’età della Restaurazione, ma
sulla «Biblioteca Italiana» è troppo frettoloso e generico. **
14 Introduzione
20
iVedi la ben nota lettera al Giordani dell’ottobre 1824 nell’Epistolario del Monti, ed. A.
Bertoldi, VI, p. 53.
21
iNell’introduzione alle Opere del Manzoni, Milano 1962, p. XVIII sg.
*iSull’ultimo Foscolo il Caretti ha ora sviluppato la sua posizione nell’Ottocento garzantia-
no cit., p. 99 sgg., specialmente p. 188. Vedi anche G. Luti, Foscolo, nei «Protagonisti della sto-
ria universale», Roma-Milano 1966 (specialmente il secondo e il penultimo paragrafo), e, ades-
so, V. Masiello, Il mito e la storia: analisi delle strutture dialettiche delle «Grazie» foscoliane, in
«Angelus novus» 12-13, 1969, p. 130 sgg.: un saggio di grande interesse, che meriterebbe più
ampia discussione, anche per i problemi generali che esso investe. Notevole anche A. Lepre, Per
una storia degli intellettuali italiani: i giacobini e Foscolo, in «Movimento operaio e socialista»
XIV, 1968, p. 219 sgg.
Introduzione 15
25
iVedi pp. 41 sgg., 93 sg.
iGiordani, nella «Biblioteca Italiana», anno I, tomo II (aprile-giugno 1816), p. 186 ( = Opere,
26
Introduzione 17
cisti e romantici è ora, meglio che da ogni altro, definita da Gianluigi Berardi nell’introduzione
a C. Tenca, Saggi critici, Firenze 1969. Fra i numerosi studi sul Tenca apparsi poco prima del sag-
gio del Berardi va ricordato specialmente quello di G. Pirodda, Mazzini e Tenca: per una storia
della critica romantica, Padova 1968, p. 101 sgg. {Cfr. successiva nota 43 – N. d. C.}.
36
iPer il Cattaneo vedi p. 332 sgg.; per il Carducci, pp. 28 sg., 100 sgg.
Introduzione 21
39
iS’intende che i tre ordini di giudizi non sono affatto indipendenti tra loro, come ricono-
sce anche Giuseppe Petronio alla fine della sua Introduzione a una storia dell’attività letteraria in
Italia («Il Contemporaneo» VII, n. 78, novembre 1964, p. 7 sgg.).
Introduzione 23
40
iM. Mirri, F. De Sanctis politico e storico della civiltà moderna, Messina-Firenze 1961: vedi
specialmente il cap. VII («Continuità e originalità del secolo xix»).
41
iBisogna tener presente che il De Sanctis poneva l’inizio del romanticismo tedesco molto
presto, addirittura con Klopstock: includeva, dunque, nel romanticismo Herder e lo Sturm und
Drang, cosicché i veri e propri romantici reazionari tedeschi gli apparivano come la manifesta-
zione terminale di un movimento complessivamente sano e davvero popolare: una manifesta-
zione, d’altronde, di breve durata, perché ben presto superata dallo «spiritualismo panteistico»
dell’ultimo Goethe e dalla robusta costruzione filosofica hegeliana (cfr. F. De Sanctis, A. Man-
zoni, a cura di L. Blasucci, 2ª ed., Bari 1962, p. 99 sgg.; Storia della letter. ital. a cura di N. Gal-
lo, Torino 1958, II, p. 959-61). Egli inglobava, dunque, nel romanticismo anche il cosiddetto
preromanticismo tedesco; ma mentre gli storici tedeschi contro i quali giustamente polemizza
Lukács mirano a interpretare Herder e lo Sturm und Drang in chiave reazionaria e a valorizzare
già nella cultura settecentesca il massimo possibile di irrazionalismo, il De Sanctis, al contrario,
voleva dimostrare che i più veri romantici tedeschi erano stati gli scrittori populisti ma non rea-
zionari del Settecento, e che il romanticismo degli Schlegel aveva rappresentato solo una paren-
tesi involutiva. Del resto, per il De Sanctis, il paese in cui il romanticismo aveva assunto un tipi-
co carattere di «strumento politico» in funzione antilluministica era stata la Francia della
Restaurazione (Manzoni cit., p. 102 e altrove).
24 Introduzione
42
iSaggi critici, a cura di L. Russo, I, p. 187 sgg.
Introduzione 25
smo del Niccolini il De Sanctis vedeva la conferma della sua tesi, che
la religiosità è un carattere essenziale della cultura ottocentesca: l’an-
ticlericalismo sia del Manzoni che del Mazzini deriva dal fatto che essi
hanno «un’idea più alta e più pura della religione», quello del Nicco-
lini è «sentimento antireligioso», è «negazione come nel secolo xviii»,
e quindi non può essere che puramente astratto e libresco.47
Si sa come il De Sanctis incontrasse difficoltà nel collocare il Leo-
pardi in una delle due scuole, liberale e democratica, e come infine si
rassegnasse a considerarlo (analogamente al Guerrazzi e al Giusti, ma
ancor più di loro) come un «fuori posto», un «eccentrico». L’isola-
mento del Leopardi nella cultura del suo tempo fu un fatto reale, e il
Leopardi stesso fu il primo ad averne lucida coscienza. Tuttavia al De
Sanctis il Leopardi appariva ancor più isolato di quanto in realtà non
fosse, proprio perché il De Sanctis, misconoscendo il classicismo illu-
minista dell’Ottocento, e in particolare il Giordani, contribuiva, per
così dire, a fargli il vuoto attorno. Il Sapegno ha messo molto bene in
rilievo il carattere tormentato e problematico dell’ammirazione de-
sanctisiana per il Leopardi: un’ammirazione immediata, ardente per il
«poeta della sua giovinezza», che tuttavia non si inseriva facilmente
nella poetica realistica del De Sanctis maturo. Questa difficoltà di in-
serimento dipendeva, osserva ancora il Sapegno, dall’«apparente rifiu-
to della popolarità della forma» da parte del Leopardi, nonché dal suo
pessimismo e materialismo.48
Ora, per quel che riguarda il «rifiuto della popolarità della forma»,
è significativo che il De Sanctis scorga nel Leopardi quella stessa con-
traddizione tra forma antica e contenuto nuovo che aveva notato nel
classicismo settecentesco, e in particolare nell’Alfieri. «Questa forma,
entro cui apparisce un contenuto così interessante, non è ancora ugua-
le al suo contenuto, e non ha freschezza di vita comune. Sembra l’o-
belisco egiziano in piazza Montecitorio. Nessuna meraviglia dunque
che egli sia stato così poco inteso e poco apprezzato (...). Mirava a
un’Italia avvenire, come Alfieri. Ma l’avvenire non si trova quando
si smarrisce il presente».49 Ecco risorgere, anche a proposito dell’a-
47
iAl Niccolini sono dedicate le ultime due lezioni su La scuola democratica. Si noti che il De
Sanctis tiene a ribadire la superiorità del Niccolini sugli altri classicisti, e specialmente sul Gior-
dani (p. 576 dell’edizione commentata a cura di F. Catalano, Bari 1954): in tal modo la valuta-
zione negativa del Niccolini veniva a colpire, a fortiori, gli altri.
48
iN. Sapegno, De Sanctis e Leopardi, in Ritratto di Manzoni e altri saggi, Bari 1961, p. 164 sg.
49
iDe Sanctis, Studio sul Leopardi, cap. XX in fine.
Introduzione 27
50
iMeglio di tutti, mi sembra, ha colto questo limite dell’interpretazione desanctisiana Emi-
lio Bigi, ne I classici italiani nella storia della critica a cura di W. Binni, II, 2ª ed., Firenze 1961,
pp. 366 sg.* Il De Sanctis giungeva a supporre un influsso diretto del Manzoni sul Leopardi
dei «nuovi idilli»: «Giovarono forse anche i lunghi colloqui col Manzoni, che dovettero stor-
narlo da quelle forme solenni e clamorose, le quali egli aveva ereditato dall’uso de’ latini, da
Monti e da Foscolo» (Studio sul Leopardi, cap. XXXVI). Sugli equivoci a cui ha dato luogo il ter-
mine non leopardiano di «nuovi» o «grandi idilli», vedi più oltre, p. 112, n. 9.
51
iCiò è stato giustamente osservato da Sergio Landucci, Cultura e ideologia in F. De Sanctis,
Milano 1963, p. 171.
52
iSull’importanza della pagina dedicata al Leopardi nella Storia desanctisiana ha richiamato
l’attenzione il Sapegno, in Ritratto di Manzoni cit., p. 170 sg.
*iVedi ora, dello stesso Bigi, anche La genesi del «Canto notturno» cit., p. 116 sg.
28 Introduzione
53
iA questo problema è dedicato il terzo saggio del presente volume.
54
iStudio sul Leopardi, cap. XXIV (a cura di W. Binni, Bari 1953, p. 199).
Introduzione 29
55
iSull’involuzione del classicismo carducciano vedi A. La Penna, Orazio e l’ideologia del prin-
cipato, Torino 1963, p. 242 sgg.
56
iParticolarmente felici mi sembrano le pagine sull’«Antologia» (cap. III) e sul Tommaseo
(capp. IX e XII).
57
iFu proprio De Robertis (Saggi, Firenze 1939, p. 197 sgg.) a scrivere la critica più acuta
del classicismo del de Lollis.
30 Introduzione
58
iVedi il cap. I della Storia d’Europa. Sulla distinzione tra romanticismo morale, estetico,
filosofico – in correlazione con le categorie del suo sistema – il Croce aveva già insistito in un arti-
colo su Le definizioni del romanticismo (in Problemi di estetica, 3ª ed., Bari 1940, p. 292 sgg.).
Sulla valutazione crociana del romanticismo ottime pagine ha scritto G. Petronio, Il romantici-
smo, Palermo 1960, p. 64-68.
*iSulla posizione di Croce nei confronti del Cattaneo cfr. F. Focher in «Riv. di studi cro-
ciani» V, 1968, p. 261 sgg.
Introduzione 31
59
iG. Gentile, Rosmini e Gioberti, 3ª ed., Firenze 1958, pp. 9, 17, e vedi tutto il cap. I della
parte I.
*iIl legame tra classicismo e illuminismo del primo Ottocento è indicato da Umberto Bosco,
Preromanticismo e romanticismo, in «Questioni e correnti di storia letteraria», Milano 1949,
ripubbl. in Realismo romantico, Caltanissetta 1959, p. 15: «Se vogliamo restare sul terreno sto-
rico, dovremo (...) vedere chi fossero propriamente i “classici” ai quali i romantici vollero oppor-
si. Essi erano, in sostanza, gli illuministi». Su un piano diverso, va anche ricordato l’appassio-
nato libro postumo di Raffaello Giolli, La disfatta dell’Ottocento, Torino 1961 (scritto attorno
al 1940-43). La polemica di Giolli contro il romanticismo italiano ed europeo (vedi specialmen-
te la parte intitolata «Romanticismo: una finzione», p. 85 sgg.) non è, né vuole essere, ispirata
ad un scrupolosa equità storiografica; nemmeno sembra accettabile l’immediata identificazione
tra avanguardia artistica e posizioni politico-sociali rivoluzionarie, che a Giolli, critico d’arte
antifascista e nemico del provincialismo culturale, apparivano due aspetti di un’unica battaglia
anticonformistica (vedi l’introduzione di Claudio Pavone, p. XXII). Eppure, l’avere indicato
in Leopardi e in Pisacane i due veri eroi dell’Ottocento italiano dimostra come la tensione poli-
tico-morale, se faceva trascurare all’autore la minuta imparzialità dei singoli giudizi, gli faceva però
vedere lucidamente i punti essenziali.
32 Introduzione
60
iGli storici della musica – cioè di un’arte in cui le posizioni ideologiche si riflettono meno
immediatamente e chiaramente che nella letteratura – mostrano tuttavia più chiarezza su que-
sto problema. Essi fanno cominciare giustamente il romanticismo tedesco da Schubert e da
Schumann, non da Beethoven; eppure, basandosi solo su certi caratteri psicologico-estetici (tita-
nismo, senso tragico della vita, reazione alla grazia e alla compostezza settecentesca, e via dicen-
do) sarebbe molto facile fare di Beethoven un romantico.
61
iN. Sapegno, Compendio di storia della letter. ital., III, Firenze 1964, p. 68 sgg. Già il Cro-
ce (Problemi di estetica cit., p. 296) aveva aggregato Marx al «romanticismo politico», in quan-
to storicista, contrapponendogli «l’ideologo e politicamente classicista Mazzini»: chiaro esem-
pio della confusione a cui porta l’identificare lo storicismo tout court col romanticismo. Fra
l’altro, il Croce dimenticava che la polemica contro la rivoluzione francese, considerata come
manifestazione di «astratto» spirito ideologico **, distruttivo e non creativo, è proprio tipica
di Mazzini, e non di Marx.
62
iCfr. per esempio La nuova poetica leopardiana, 2ª ed., Firenze 1962, pp. 7, 92, 123, 153,
n. 1, 168 e altrove; Classicismo e neoclassicismo nella letter. del Settecento, Firenze 1963, p. 413
e passim.
63
iVedi sopra, p. 4 sg.
64
iG. Petronio, L’attività letteraria in Italia, Palermo 1964, pp. 637 sgg., 698, 712.
Introduzione 33
65
iQuanto a Chateaubriand, vedi anche p. 119 e n. 33. Quanto a Madame de Staël, cfr. Sofia
Ravasi, Leopardi et M.me de Staël, Milano 1910 (dove la distinzione che facciamo sopra nel testo
non è chiaramente avvertita); A. Frattini nel volume collettivo Leopardi e il Settecento, Firenze
1964, pp. 269 sg. (dove si osserva giustamente che «il L. si richiama più volte alla Staël proprio
per i presupposti di una filosofia sensistica e vitalistica sottesi alle sue opere»).
*iSulla Staël vedi l’ottimo paragrafo dell’art. di G. Moget, En marge du bi-centenaire ecc.,
nella «Pensée», febbraio 1967, pp. 48-53: «Le rôle de Madame de Staël». Fra i molti altri scrit-
ti pubblicati in occasione del centenario staëliano è specialmente notevole (anche per i rappoti
con Rousseau) quello di Roland Mortier, Philosophie et religion dans la pensée de M.me de Staël,
in «Riv. di letterature moderne e comparate» XX, 1967, p. 165 sgg.
Introduzione 35
6
iFanno eccezione quei casi in cui la descrizione dell’opera d’arte è occasione per qualche
excursus di polemica politica o culturale: vedi qui sotto, pp. 62 n. 64, 106. Una scelta di Scritti
d’arte del Giordani con un utile commento fu pubblicata da P. Papa, «La voce», Firenze 1924.
7
iVIII, 187 sg. Il Giordani forse pensava a certe sciatterie stilitiche del Cuoco, come: «Qual
altra può, a l p a r i d e l l a n o s t r a , presentare un numero m a g g i o r e o a n c h e e g u a l e di
persone che solo amavano l’ordine e la patria?» (Saggio storico sulla rivol. napoletana, § xvii, nel-
le due edizioni del 1801 e del 1806).
8
iXIII, 97; sul Vico, XI, 170.
9
iConfessioni e battaglie, serie II (in Opere, ed. nazionale, XXV, pp. 234 sg., 291 sg.).
I. Le idee di Pietro Giordani 41
10
iXIII, 334 e 338.
11
iIX, 343 sg.; cfr., tra i moltissimi altri passi che si potrebbero citare, XI, 107; Lett., II, 177 sg.
42 I. Le idee di Pietro Giordani
12
iVedi specialmente Lett., I, 58 (a Giuseppe Ligi).
13
iLeopardi, Epistolario, ed. Moroncini, I, pp. 73 sg., 84-86, 93.
14
iXI, 155; cfr. XI, 120.
15
iXI, 19. Un giudizio più favorevole sullo stile di Isocrate dava il Leopardi, Zib., 848 sg. e
altrove.
16
iXI, 239 **: il passo appartiene, si noti, a una difesa di Lucano contro le obiezioni pedan-
tesche di Frontone. Cfr. qui sotto p. 121 sg. e n. 39, e l’introduzione, p. 10.
I. Le idee di Pietro Giordani 43
17
iLettera al Montani, pubblicata da A. D’Ancona nella «Nuova Antologia», 16 marzo 1905,
e in Memorie e documenti di storia italiana, Firenze 1914, pp. 478 sgg. L’importanza di questa
lettera è stata messa in risalto da Piero Treves («Rendic. Istit. Lombardo» XCII, 1958, p. 414
sgg.), che l’ha ripubblicata in forma più corretta e con commento nel volume Lo studio dell’an-
tichità classica nell’Ottocento, Milano-Napoli 1962, p. 435 sgg.
18
iFino a che punto l’ammirazione del Giordani per il Pallavicino possa essere derivata anche
dalla tendenza eudemonistica e antiascetica della sua morale (cfr. E. Garin, La filosofia, nella
«Storia dei generi letterari», Vallardi, Milano 1947, II, p. 235 sg.), è difficile precisare **. Vedi
ad ogni modo più oltre, pp. 97-98 n. 1.
44 I. Le idee di Pietro Giordani
19
iX, 112. Cfr. IV, 8 (a Gaetano Dodici): «Vedi dunque che gl’improvvisatori fan bene,
quando sono rapsodi. Ma cose tutte loro, tutte improvvise e buone, non credo che la natura le
comporti». E molto più tardi, al Vieusseux (lettera pubbl. in «Rassegna storica del Risorgi-
mento», 1928, p. 276): «L’improvvisare è una gran bricconata».
20
iIX, 370 sgg. (è una recensione alle Poesie dialettali del Balestrieri, pubblicata nella «Biblio-
teca Italiana»).
I. Le idee di Pietro Giordani 45
21
iCosì scrivevo nel 1953, riferendomi a prese di posizione «filopopulistiche» frequenti, allo-
ra, nella cultura italiana di sinistra. Negli anni successivi, la polemica sull’uso del dialetto nella
letteratura e nel cinema si è molto sviluppata e ha messo in chiaro il carattere in prevalenza rea-
zionario che oggi ha questo populismo artistico. Non in modo identico, naturalmente, si pone-
va la questione nel primo Ottocento **: il ricorso al dialetto poteva apparire allora come l’u-
nica via d’uscita per non rimanere imprigionati in una tradizione di linguaggio aulico e
magniloquente. E tuttavia la posizione illuministica e antimunicipalistica del Giordani conti-
nua a sembrarmi, anche in rapporto alla situazione di allora, più giusta e feconda di quella dei
suoi avversari. Anche l’analogia che il Giordani stabiliva (IX, 374) fra l’unificazione linguistica
dell’Italia e l’unità «di leggi, di pesi, di misure, di moneta ... che sarebbe tanto comoda, e cui sí
facilmente potrebbe darci il consenso de’ principi i quali dividono l’Italia» ** non era un sem-
plice paragone retorico, ma un’intelligente e coraggiosa affermazione del significato politico del-
la questione della lingua. La tesi del Giordani era stata valutata positivamente, già prima di me,
da M. Sansone nel volume di vari autori Letterature comparate, Milano 1948, p. 313 sg. I limiti
del dialettalismo del Porta sono stati messi in luce, meglio che da ogni altro, dal Caretti nell’in-
troduzione alle Opere del Manzoni, Milano 1962, p. XXVI. Più favorevole ai romantici difen-
sori dei dialetti, e specialmente al Borsieri, è il Fubini, Romanticismo italiano, 2ª ed. cit., pp.
25-28. La validità della polemica del Porta contro il Giordani è sostenuta, in amichevole discus-
sione con me, da G. Barbarisi nella ricca e acuta introduzione al Porta, Le poesie, Milano 1964,
I, p. XI sg. A me sembra che il sistema seguito dal Porta, il commentare in ciascuno dei suoi
sonetti una frase isolata dell’articolo del Giordani, mentre giova ad ottenere felici effetti burle-
schi mediante la contrapposizione tra l’aulico stile giordaniano e il colorito commento dialetta-
le, sia però anche un modo di eludere una discussione impegnativa. Fra l’altro, nell’ottavo sonet-
to, il Porta giuoca su uno strano significato che il Giordani avrebbe attribuito al verbo
«poggiare»; ma nell’articolo della «Biblioteca Italiana» (I, 1816, p. 175), «Pogiamo» (sic) non
era che un errore di stampa per «Pogn[i]amo» **, cioè supponiamo, ammettiamo (vedi il pas-
so cit. sopra nel testo; la lezione giusta è nell’ed. [Le Monnier del 1846, I, 305] **): in questo
46 I. Le idee di Pietro Giordani
senso va corretta la nota di Carla Guarisco nell’ed. cit. del Porta, I, p. 368.* [Lezione ancor
più giusta, come mi fa osservare G. Forlini, è «pogniamo» nell’ed. Le Monnier del 1846 (I, p.
305), seguìta dal Giordani stesso («pogniamo» è anche in un altro passo dell’ed. Gussalli: XI,
101, riga 14)].
22
iLett., II, 136 e, già con maggiori riserve, VI, 396. Il «troppo zelo» del Roberti (un giovane
abate veneto, pieno di ardenti e ingenui propositi di riforma etico-religiosa, caldissimo ammirato-
re del Giordani) risulta da un po’ tutte le lettere del Giordani a lui dirette: cfr. per esempio VI,
379, 380 sg., 387. [Cfr., specialmente per la sua azione e le sue traversìe in anni posteriori, G. A.
Cisotto, L’abate Giuseppe Roberti ecc., in «Rassegna stor. del Risorgim.» 61 (1974), 266 sgg.]. **
*iNello stesso senso va corretta la nota di Dante Isella a Carlo Porta, Le poesie, Milano-
Napoli 1959, p. 299 (al v. 1 del sonetto 688). La forma pogn[i]amo ** si trova nel Giordani
anche altrove, per esempio in IX, 111 n. 1. Sulle discussioni tra il Giordani e i fautori della let-
teratura dialettale vedi anche qui sopra, prefazione alla seconda edizione, p. XCIV sg. **
I. Le idee di Pietro Giordani 47
23
iIX, 383, Lett., II, pp. 152 sg.
24
iVI, 21 (a Pietro Brighenti); cfr. XIII, 148 e altrove.
25
iAlcune lettere inedite di P. G., Genova 1852, p. 179 (a G. F. Baruffi, 8 luglio 1839). Nel-
la sua risposta il Baruffi lo informava che tali esercizi si facevano anche nelle scuole gesuitiche
del Piemonte (lettera del 15 luglio 1839: Firenze, Biblioteca Laurenziana, Carte Giordani,
XXII, 10).
48 I. Le idee di Pietro Giordani
26
iV, 425; cfr. XI, 238.
27
iIX, 382 sgg. Vedi anche la lettera a G. Roverella in Venti lettere inedite di P. G. con un
discorso di A. Bertoldi, Reggio Emilia 1895, p. 36.
I. Le idee di Pietro Giordani 49
scuno si conoscerà stolto di voler sapere ciò che nel mondo si facesse
duemil’anni sono, prima di sapere ciò che accadde l’altro ieri, e ne’
giorni del padre e dell’avolo».28
Anche questa idea – di provenienza illuministica; e infatti egli stes-
so citava fra i suoi predecessori il d’Alembert – suscitò tra i reazionari
proteste e derisioni: la storia recente essi l’avrebbero volentieri abolita
non solo dall’insegnamento, ma dalla coscienza dell’umanità. Il Gior-
dani si preparava a replicare anche su questo punto in quella Lettera
al Conte Saurau che poi lasciò incompiuta. Dagli appunti che ne riman-
gono si vede che egli non voleva svalutare illuministicamente il mon-
do antico ma insistere sulla sua diversità dal moderno, e quindi sulla
minore comprensibilità e meno immediata efficacia educativa (almeno
in un primo stadio dell’educazione) della storia antica:29 al contrario
dei vari neoumanesimi che vogliono fare dell’antichità classica qual-
cosa di paradigmatico, di eternamente, insostituibilmente educativo.
Un genere letterario che ancora nel primo Ottocento pareva esclu-
sivo dominio della lingua latina era l’epigrafe **. Il Giordani fu spinto
a comporre epigrafi (e ne compose, come si sa, centinaia) dal deside-
rio di mostrare che si poteva anche qui usare con non minore effica-
cia la lingua italiana.30 L’epigrafe doveva cessare di essere un monu-
mento di sapienza recondita, una specie di crittografia intelligibile
solo ai dotti, e tornare, come già nell’antichità, a parlare al viandan-
te. Non si può credere quante opposizioni incontrassero le sue epigrafi
italiane da parte dei gelosi sostenitori della latinità. «Farei ridere
Monsignore – scriveva a un prelato di spirito aperto, Carlo Emanuele
28
iX, 104 (è una digressione nell’articolo sugli improvvisatori, di cui abbiamo già parlato).
29
iX, 271: «La storia antica è d’uomini e di fatti che perirono dal mondo, ... ma rimango-
no come esempi di fatti e di uomini o m i g l i o r i o p e g g i o r i , m a s e m p r e d i v e r s i s s i m i
d a i p r e s e n t i ». Vedi anche le osservazioni del Giordani sullo stesso argomento pubblicate da
L. Scarabelli in «Arch. stor. ital.», Append. VI, 1848, p. 441 sgg. Contro queste idee giorda-
niane e a favore della storiografia neoguelfa si pronunzia il Croce, Storia della storiogr. ital. nel
sec. xix, 3ª ed., I, p. 116 sg.
30
iNon si vuol dire, con ciò, che egli sia stato il primo a scrivere epigrafi in volgare; anzi, fu
certamente preceduto da Paolo Giovio, dal Fantoni e probabilmente da altri. Sulla questione di
priorità e su tutte le polemiche a cui dette luogo cfr. C. Guasti, Giuseppe Silvestri, I, Prato 1874,
pp. 207-60; Carducci, Opere, ed. nazionale, XVIII, p. 88 sgg.; XXV, p. 196 sgg. Molto altro
materiale è stato raccolto da Piero Treves, dalla cui dottrina attendiamo una trattazione com-
pleta di questo curioso capitolo di storia culturale ottocentesca. Un accenno a Luigi Muzzi (che
si proclamava, ma a torto, inventore dell’epigrafia in volgare) si trova in una lettera del Gior-
dani al Papadopoli (V, 431). **
50 I. Le idee di Pietro Giordani
31
iCfr. XIII, 182 e 184.
32
iVI, 310: su Livia anche V, 286; VI, 261; VII, 61 sg.
I. Le idee di Pietro Giordani 51
38
iLeopardi, Epistolario, ed. Moroncini, I, pp. 168-69.
39
iXI, 20. Cfr. «Atene e Roma» 1953, pp. 100 sgg. **
40
iSull’affinità tra italiano e greco vedi le lettere che il Giordani e il Leopardi si scambiaro-
no nel ’17 (Epistolario del Leopardi, ed. Moroncini, I, pp. 73, 98 sg.). Quanto a Celso, si noti
che già nel ’17 (in uno scritto rimasto incompiuto, X, 233 sg.) il Giordani scriveva: «I più famo-
si tra i Romani ... ebbero veramente assai pregi, e apparvero ingegnosi e adorni; ma si scostaro-
no da quell’ammirabile e invidiabile purità e semplicità de’ più antichi ... Alla quale o non pote-
rono o non vollero de’ Latini salire se non tre, il grande animo di Cesare, e quei candidi ingegni
di Varrone e di Celso». Nello stesso anno il Giordani consigliò la lettura di Celso al giovane
Pompeo Dal-Toso (IV, 21: «Gli autori che prenderei (contro la più comune usanza) sarebbero
Aulo Gellio, Cornelio Celso, e le Pandette. Ivi la latinità è buona (...), lo stile semplice, e non
figurato e pomposo»). Dunque, se il 12 febbraio del ’19 il Leopardi scriveva al Giordani «Que-
sti ultimi giorni ho voluto leggere la Medicina di Celso, che m’è piaciuta assai per quella chia-
rezza e sprezzatura elegante», è probabile che il consiglio di leggerla gli fosse stato dato proprio
dal Giordani, quando si videro a Recanati, nel settembre 1818 (cfr. la risposta del Giordani nel-
l’Epistolario cit. del Leopardi, I, p. 240: «Trovo il vostro finissimo e sicurissimo giudizio anche
nell’esservi piaciuto il candidissimo Celso»). E al giudizio del Giordani si riferirà anche l’inizio
del lungo pensiero dello Zibaldone, 32: «... Celso nel quale è singolarmente notata (e lodata) la
semplicità e facilità dello stile ...». Cfr. ancora Giordani, XI, 21 (1821).
I. Le idee di Pietro Giordani 53
41
iX, 366-68; V, 283 sg.; V, 403 [; XIII, 130 sg.]. Sulla Guerra di Semifonte, ** falsificata
da un Della Rena, cfr. S. Morpurgo, Il Libro di buoni costumi di Paolo di messer Pace da Certaldo,
Firenze 1921, p. IV.
42
iXI, 272 sg.; XIII, 386. [Cfr. Lettere a O. Gigli a c. di Forlini].
43
iIn realtà l’aggettivo ργφεος, che Empedocle riferisce all’acqua, non c’entra, a quanto
pare, con φανειν «tessere»; ma quella derivazione, che del resto risale all’antichità (cfr. Eusta-
zio ad Iliad. XXIV, 621), era allora comunemente accettata.
54 I. Le idee di Pietro Giordani
44
iLettera ai compilatori della Biblioteca Italiana, in PP, II, p. 590 sgg.
45
iVedi l’introduzione al presente volume, pp. 16-17, n. 26.
46
iX, 56. In un senso ancor più «popolare» (pur con quel limite a cui abbiamo accennato) IX,
395: «E questa reputo la utilità di un Giornale (del quale già i dotti han pochissimo bisogno) se
il popolo vi trovi rimedio ai più comuni e più dannosi errori».
I. Le idee di Pietro Giordani 55
47
iCiò è stato giustamente osservato da G. Forlini (autore di molti e pregevolissimi studi sul
Giordani) in «Lettere italiane» V, 1953, p. 49 sg. Vedi anche qui sopra, p. 13 n. 19.
48
iVarie testimonianze di contemporanei sono raccolte da O. Masnovo, Il pensiero politico e
il patriottismo di P. G. («Società nazionale per la storia del Risorgimento», XX congresso, Roma
1933), p. 355. Cfr. anche L. Scarabelli (cit. qui sopra, nota 29), p. 440. Tra gli entusiasti della
conversazione del Giordani vi fu, come è noto, Byron: vedi IV, 203; V, 257; VI, 200, e la testi-
monianza di Byron stesso nei Mémoires de Lord Byron publiés par Th. Moore, trad. franc., V,
Bruxelles 1831, p. 318.
56 I. Le idee di Pietro Giordani
49
iLett., I, 210. Anche in V, 306 l’inizio della riscossa puristica è fissato dal Giordani al 1808.
Fu quello l’anno in cui l’Accademia della Crusca, già soppressa, risorse come sezione dell’Acca-
demia fiorentina.
50
iLa rivoluzione e i rivoluzionari in Italia (1844), parte II, cap. II (ed. a cura di F. Della Peru-
ta, Milano 1952, p. 83).
I. Le idee di Pietro Giordani 57
51
iIn tutta Europa, tranne in Francia, il patriottismo ottocentesco ebbe, come è noto, una
natura bifronte, in quanto era figlio della rivoluzione francese, ma fin dall’inizio aveva dovuto
rivendicare i propri diritti contro l’oppressione francese, facendo appello perciò a tradizioni
nazionali prerivoluzionarie.
58 I. Le idee di Pietro Giordani
Al fondo del suo purismo c’era un’esigenza che ben potremmo dire
russoiana. Come il Leopardi nei classici greci e latini, così il Giordani
nei trecentisti cercava la voce della natura vergine e incorrotta; e
anche in lui l’esortazione ad imitare quei modelli si accompagnava alla
nostalgica consapevolezza della loro irraggiungibilità: «Che si possa
ritornare alla dicitura del trecento, ripeto che mi pare impossibile.
Hanno le belle arti (e le pittoriche e le poetiche) per ogni nazione una
età di bellezza vergine e adolescente, che non è ricuperabile»54 [cr]. Al
Monti, troppo amante dell’elocuzione fastosa e sonora, rimproverava
di aver trascurato questo Trecento più ingenuo e segreto: «Di que’
poveri trecentisti, coi quali dài vista di perdere spesso la pazienza, cre-
do ne abbi letti meno di me: certo, o caso o scelta che sia stato, vede-
sti i più deboli, non prendesti dimestichezza colla tanta moltitudine
de’ migliori, che ti avrebbero fatto meno severo, anzi amicissimo a
quest’amabile secolo» (X [cr] **, 367).
Ma questo amore del primitivo, che pure apparteneva anch’esso
all’ideologia e alla sensibilità illuministica, si conciliava difficilmente
con l’altra esigenza illuministica di un linguaggio come strumento di
comunicazione chiaro e adeguato al pensiero moderno. Molto più
profondamente illuminista del Monti quanto al complesso delle idee
politico-culturali e alla concezione stessa della letteratura,55 il Gior-
dani rimase però più legato a pregiudizi antisettecenteschi e antifran-
cesi nella questione della lingua; e quindi, come dal Leopardi, così da
52
iVI, 362, 364. Vedi anche il giudizio limitativo sul Paradiso dantesco in confronto alle altre
due cantiche, XIV, 188: «Quei beati sono perpetui disputatori d’inconcepibili sottigliezze ...
Noi siam uomini; e le cose umane solo possono piacerne: chi ci vuol trasumanare ci sforza, ci
affatica, ci noia»; e il bellissimo passo sull’umana dolcezza e poeticità del Purgatorio, XIV, 190.
53
iV, 234; X, 367 e altrove.
54
iX, 367 (nello scritto Monti e la Crusca, del 1819). Cfr. Lett. inedite a cura di E. Costa, Par-
ma 1884, pp. 4 e 21.
55
iGià assai prima della polemica romantica, per esempio, il Giordani condannava l’uso della
mitologia greco-romana nella poesia contemporanea (XIV, 177, 267, 288, in lettere del 1807-08).
Cfr. G. Forlini in «Convivium» 1952, p. 712 **.
I. Le idee di Pietro Giordani 59
lui il Settecento e la Francia erano nello stesso tempo amati come rap-
presentanti dell’illuminismo e avversati come corruttori del gusto.56
L’esigenza di dare una motivazione progressista al proprio purismo
lo condusse anche ad osservare con grande acutezza il diverso rap-
porto tra intellettuali e popolo nel Trecento e nel Quattrocento: i tre-
centisti «avevano mostrato amorevol cura del popolo; ed operato di
farlo partecipare quanto fosse possibile ai diletti e agli utili della dot-
trina»; mentre i quattrocentisti «fecero veramente grandi benefizi agli
studi eleganti: ma in essi cercando soltanto a sé medesimi piacere ed
onore, allontanarono dal godimento di quelle nobili ricchezze e deli-
cate consolazioni, quasi profana e indegna, la moltitudine» (XI, 271).
Certo al padre Cesari non sarebbe mai venuto in mente di motivare
così la sua predilezione per l’«aureo secolo». Ma come si sarebbe potu-
to, nell’Ottocento, creare una nuova letteratura popolare con lingua
trecentesca?
Del purismo stesso, del resto, il Giordani finì col dare un giudizio
molto severo, come di un movimento che aveva mancato allo scopo di
ricostituire una vera letteratura nazionale: «Il principio dell’età cor-
rente – scriveva nel ’38 – mostrò un paralitico desiderio di rifarsi ita-
liano; come se dal belletto e non dal sangue venisse l’aspetto di sanità:
tutto finì prestamente in miserabil pedanteria di pochi».57 Sarebbe
56
iIn una nota di letture consigliate, arrivato al Settecento, il Giordani scriveva: «Oimè, oimè,
oimè!», e salvava soltanto, riguardo allo stile, due o tre minori.* ** Analogamente il Leopardi,
nella prefazione alla Crestomazia poetica, ammoniva i giovani a non cercare negli autori del secon-
do Settecento «esempi di buona lingua né anche di buono stile» (cfr. W. Binni, nel volume di vari
autori Leopardi e il Settecento, Firenze 1964, p. 77). Eppure, anche per i precetti stilistici, il Gior-
dani si era nutrito di ideologia francese settecentesca, e prediligeva l’Art d’écrire del Condillac ed
esortava l’Ambrosoli a tradurla in italiano (VII, 13 sg.; XI, 11 sg., dove accanto al Condillac sono
consigliati gli articoli di Du Marsais e di Beauzeé nell’Encyclopédie méthodique; XI, 97 sg.). Ma
quanto al principio condillachiano della plus grande liaison des idées, a cui pure teneva molto, osser-
vava: «Vero è che quel legame delle idee non deve sempre esser logico; ma secondo la materia
che si tratta dev’esser pittorico o affettuoso» (XI, 12).
57
iXII, 149. Cfr. già X, 366 (nel 1819): «... alcuni viventi, che si danno per trecentisti, e
sono mirabilmente deformi e spiacevoli; e prima di tutto infinitamente lontani da quella schiet-
tezza e molle facilità che fu maravigliosa e primaria dote di quel beato secolo»; e ancora VI, 392,
397, contro il purismo pedantesco del Cesari.
*iLa condanna della prosa del Settecento è in Opere, ed. Gussalli, XIV, 372: il Giordani
eccettua soltanto Francesco e Giampietro Zanotti, Eustachio Manfredi e Gasparo Gozzi. Come
il gusto leopardiano si sia più tardi evoluto dal trecentismo al cinquecentismo, ha dimostrato
convincentemente Giulio Bollati nell’introduzione alla Crestomazia della prosa (cit. qui sopra,
p. XCVIII). Ma già nel Giordani c’era, in contrasto con la sua dichiarata ammirazione per il Tre-
cento, una tendenza al cinquecentismo (cfr. pp. 83-84).
60 I. Le idee di Pietro Giordani
difficile trovare negli scritti degli antipuristi più accesi una condanna
così incisiva come questa (che meriterebbe di essere citata anche nei
manuali scolastici). Eppure anche in quello scritto egli non giungeva
a un vero rinnegamento e superamento del purismo: accusava piutto-
sto i puristi di non aver saputo reagire con efficacia alle sciatterie dei
settecentisti e al torbido sentimentalismo dei romantici («scimie» del-
la letteratura tedesca e francese) e continuava a vagheggiare il ritorno
a una tradizione di prosa schiettamente italiana, di cui gli ultimi rap-
presentanti, pur con tutti i loro difetti, gli parevano gli scrittori del
Seicento.
Un’altra volta, in una lettera a Pietro Brighenti, attribuì il proprio
formalismo stilistico alla reticenza a cui lo aveva costretto l’oppres-
sione politica: «Le mie cose appena meritano qualche attenzione dal-
la parte dello stile; e ciò unicamente dagl’italiani. Uno straniero non
può guardare che alle cose: e quelle sono miserissime. Se avessi potu-
to stampare tutto quello che penso, forse anche un Inglese potrebbe
badarmi: ma quelle miserie son tutta paglia» (Lett., I, 190). E ricono-
scendo di non aver saputo raggiungere quella «limpidezza e trasparen-
za di concetto» che ammirava nella prosa del Leopardi, aggiungeva:
«Eppure io non l’ho solamente desiderata e cercata, ma penso che for-
se l’avrei anche conseguita, se per iscappare come Ulisse investito in
pecora dalle branche di Polifemo Censore non fossi stato obligato a
studiar di coprire anziché d’illuminare il pensiero. E con tutto ciò non
ho cessato di essere odiatissimo per i pensieri; ed ho guastato lo stile;
che avrei potuto fare abbastanza buono».58 Era un motivo affine a
quello alfieriano e foscoliano dell’uomo nato ad agire e costretto, per
l’iniquità dei tempi, a sfogarsi solo nello scrivere: qui c’è invece lo
scrittore che vorrebbe essere scrittore etico-politico e che la tirannia
costringe al vuoto formalismo, oppure all’ermetismo tacitiano.
È comunque caratteristica del Giordani questa scontentezza di sé,
quest’amaro rimpianto di ciò che non era riuscito a realizzare, unito
alla consapevolezza di aver voluto, tuttavia, realizzare qualcosa di
nuovo e di nobile.
Io non voglio – scriveva a Luisa Kiriaki Minelli –59 comparire meglio di quel che
sono: ma per la verità non amerei ch’ella mi giudicasse dalle mie carte stampate.
58
iLett., II, 158; cfr. VII, 103.
59
iXIII, 397 sg. (5 luglio 1833).
I. Le idee di Pietro Giordani 61
Non è certo in quelle che si possa vedere quello che veramente io sono, cioè i miei
continui pensieri, i miei desiderii, i miei disegni ... Ho sempre stampato sotto revi-
sione di censori (sempre o frati o preti, o sotto qualunque veste servili strumenti alla
dogana de’ pensieri): così non è potuto venire in pubblico se non cose e parole che
si conformassero alla volgarità del pensar comune. Certo nel mio cervello e nel mio
cuore è riposto pur qualcosa di non volgare: ma le porte sono sbarrate ad ogni uscita.
Io porterò meco sotterra quel che mi ha fatto sì profondamente e dolorosamente
sentire che il mondo è stolido, e tristo, e misero assai.
E in un’altra lettera:
Certo nella mia povera testa è una gran massa di pensieri; e, che peggio è, battaglia
di pensieri; i quali andranno sotto la terra, col cranio che gli racchiude, ugualmen-
te ignorati.60
60
iXIII, 400 (alla stessa, 6 gennaio 1834).
61
iVI, 259; cfr. VII, 260.
62
iVedi il saggio seguente, p. 100 sgg.
*iSulle idee politiche del Giordani ** cfr. ora E. Passerin d’Entrèves nell’Ottocento gar-
zantiano cit., pp. 353 sg., 401 sg., 404. Il Passerin tende a mettere in maggior rilievo gli aspet-
ti «passatisti» del pensiero politico giordaniano, che egli giudica da un punto di vista liberale-
cattolico. Vedi anche qui sopra, p. XXXVI, e l’art. del Moget lì citato.
62 I. Le idee di Pietro Giordani
63
iSulle persecuzioni subìte dal Giordani e sulla sua azione «risorgimentale» le pagine miglio-
ri, per la loro simpatica vivacità e per la preziosa documentazione, rimangono quelle di Ales-
sandro D’Ancona, Memorie e documenti di storia italiana, Firenze (1914), pp. 331 sgg., 457 sg.
Pregevoli contributi particolari sono stati recati da Stefano Fermi e da altri studiosi. Il lavoro
del Masnovo già cit. alla nota 48, utilissimo per i riferimenti bibliografici, non fornisce, però,
una ricostruzione persuasiva delle idee politiche del Giordani. Assai meno buono l’altro studio
del Masnovo, Il patriottismo di P. G. in «Archivio storico per le province parmensi», serie 3ª, I,
1936, p. 151 sgg. Il breve articolo di giornale che Luigi Salvatorelli scrisse nel 1937 a proposi-
to dell’edizione delle Lettere curata dal Ferretti (articolo ora ristampato in Spiriti e figure del
Risorgimento, 3ª ed., Firenze 1962, p. 183 sgg.) avrebbe potuto servire, allora, a richiamare l’at-
tenzione sulla necessità di studiar meglio il Giordani politico ed educatore.
64
iVedi per esempio la lettera dell’8 settembre 1821 al Montani (Lett., I, 201), con le impres-
sioni sul monumento del Thorvaldsen in memoria «degli uffiziali e de’ soldati che nell’agosto e
nel settembre del 1992 ammazzarono, e si fecero ammazzare, difendendo la corte Parigina con-
tro il popolo». Commenta il Giordani: «Ma a che un monumento per un valore venduto? e spe-
so per una tal causa? Un monumento vorrei ai fondatori della libertà Elvetica, non agl’impu-
gnatori della Francese». Questa lettera, una delle più belle del Giordani, è stata giustamente
messa in evidenza dal compianto Francesco Tropeano, che nel vol. III, p. 75 sgg. dell’antologia
Civiltà letteraria, composta in collaborazione con L. Malagoli ed E. Bruni (Milano 1960), ha scrit-
to un intelligente e sensibile profilo del Giordani.
I. Le idee di Pietro Giordani 63
65
iNapoleone e Pio IX, l’entusiasmo giovanile e quello senile, sono contrapposti spesso nel-
le ultime lettere: per esempio Lett., II, 223: «In gioventù mi scaldai la testa per i p r i n c i p i i
di Napoleone: ora, vecchio, e parendomi conoscere di più questo mondaccio porco, ammiro di
più questo prete ...»; Alcune lettere inedite (Genova 1852), p. 100: «Gli avrei secondo le mie for-
ze fatto (a Pio IX) un panegirico meglio che a Napoleone».
66
iSu Napoleone vedi per esempio i passi cit. più oltre, p. 73 e nota 98 (e anche Lett., I, 93,
dove però il Giordani, retrospettivamente, esagera alquanto il suo antinapoleonismo). Su Carlo
Alberto, V, 224, e la lettera pubblicata da S. Fermi e F. Picco nel «Bollett. storico piacentino»
VI, 1911, pp. 213 sg. Su Pio IX, Lett., II, 254 (13 maggio ’48, al Gussalli): «Tu dici bene; era
un delirio voler fondare l’Italia sul papa, il quale quel che ha fatto non l’ha fatto da sé, ma spin-
to e portato dal popolo, che è veramente bravo e assennato» (in VII, 217 questo passo è ripor-
tato soltanto in parte).
67
iVIII, 189 (si noti tuttavia, in quella stessa pagina, l’amara constatazione del disprezzo che
i potenti hanno verso la volontà popolare). Cfr. X, 21, dove il Giordani, in polemica con lo
Scinà, riafferma che nell’evo antico il regime repubblicano era preferibile al monarchico.
68
iVIII, 317 sg. (con la nota del Gussalli, ispirata alle idee del Giordani); IX, 111, n. 1;
Lett., I, 303, e II, 22, 175. Cfr. G. Ferretti, P. Giordani sino ai quaranta anni cit., pp. 116 e 119;
W. Binni, I classici italiani nella storia della critica, II, 2ª ed., Firenze 1961, p. 287 sg. ** Vedi
anche l’introduzione al presente volume, p. 15.
64 I. Le idee di Pietro Giordani
69
iXI, 287 sgg.; XIV, 9 sgg. Su un primo interrogatorio non pubblicato dal Gussalli cfr.
D’Ancona (cit. alla nota 63), p. 419 sgg.
I. Le idee di Pietro Giordani 65
70
iVedi più oltre, pp. 87-88.
71
iVedi in particolare i coraggiosissimi scritti da lui indirizzati a Vincenzo Mistrali e alla con-
tessa Scarampi (XI, 289-316; D’Ancona cit. alla nota 63, p. 382 sgg.). Quanto al carattere di
«lettere aperte» che assumevano molte sue lettere private, vedi più oltre, pp. 105-106 n. 32.
66 I. Le idee di Pietro Giordani
Nella ferocia repressiva dei governi vedeva la prova che essi, non
più sorretti dal consenso dell’opinione pubblica, erano destinati a
cadere: «Che bozare di Carbonari? Il carbone è nelle scellerate corti;
ed elle pur si consumeranno nel fuoco, in che stolte e crudeli vanno
soffiando»73. Specialmente dopo la carcerazione del ’34 (che, come
egli scrisse, era servita a compiere la sua educazione politica)74 si fece-
ro più frequenti nelle sue lettere gli attacchi rivolti direttamente ai
principi; solo per Maria Luigia conservò, nonostante tutto, un certo
affetto misto a commiserazione.75 Se continuò a considerare la monar-
chia come un male necessario, fu per la sua sfiducia nelle società segre-
te; ma se la realtà lo avesse smentito, sarebbe stato il primo a gioirne.
E infatti già nel marzo 1821 aveva scritto pieno di entusiasmo a un
amico: «Italiae venere dies. Mio caro: siate di qual filosofia volete: que-
sto momento è grande, straordinario, unico per l’Italia. Fosse pur
pericoloso (a me non pare), fossero pur fallacissime le speranze; un
gran bene è già posto in sicuro. E cancellata la lunga ignominia d’Ita-
lia. In magnis [et] voluisse sat est [cr] **. ** Non c’è più ragion, né pre-
testo alle altre nazioni d’insultarci. Potremo essere incatenati come
Leoni; non venduti come porci. Io morirò contento d’aver veduto
nascere le speranze del bene; e qualunque sia la fortuna, è gran cosa
72
iLett., I, 240 sg. (giugno 1825). L’aneddoto sul re di Napoli anche in XI, 193. Sui rappor-
ti Giordani-Zajotti – improntati a reciproca stima in fatto di letteratura, ad aspra inimicizia nel
campo politico – cfr. XI, 311; XII, 50 sgg.; D’Ancona, op. cit., p. 457 sgg.; e la lettera dello
Zajotti all’Acerbi pubblicata da A. Luzio in «Riv. stor. del Risorgim. ital.» I, 1895-96, p. 708.
Lo scritto adulatorio dello Zajotti a cui allude il Giordani è contenuto, anonimo, nell’opuscolo
Francesco I in Trento nelle feste di Natale del 1822, Trento 1823, p. 5 sgg. Per l’attribuzione allo
Zajotti cfr. F. Ambrosi, Commentari della storia trentina, Rovereto 1887, p. 161 (segnalatomi
gentilmente dalla Dott. Annamaria Schlechter, direttrice della Biblioteca comunale di Trento).
73
iAlcune lettere inedite (Genova 1852), p. 70. «Bozàre» ** (chiacchiere, frottole) è una
parola del dialetto piacentino cara al Giordani.*
74
iCfr. VIII, 311.
75
iCfr. Alcune lettere inedite cit., pp. 69 sg.; D’Ancona, op. cit., p. 393 sg.
*iNon «bozàre», ma «bózare» (cioè «bùggere»), come mi fa osservare giustamente Bruno
Migliorini: il Vocabolario piacentino-italiano di Lorenzo Foresti (3ª ed., Piacenza 1883, p. 80) regi-
stra bôzra (al plurale bôzar: la desinenza -e che vi appone il Giordani è un’italianizzazione). **
I. Le idee di Pietro Giordani 67
76
iCfr. O. Masnovo, Il patriottismo ecc. (cit. all anota 63), p. 162; e tieni presente ciò che
osserviamo più oltre, pp. 132-133. Anche verso il Mazzini non mancano nelle lettere del Gior-
dani accenni ostili (cfr. O. Masnovo, art. cit. alla nota 48, p. 337): in questo caso, all’antipatia
per le «sette» si univa l’antiromanticismo.
77
iCitata da G. Gambarin, «Giorn. stor. letter. ital.» LXXVII, 1926, p. 320.
78
iLett., II, 243 (incolpiuta in VII, 207).
79
iLett., II, 248; vedi anche la lettera seguente al Gussalli. Il proclama agli Ungheresi nel-
l’Epistolario del Cattaneo a cura di R. Caddeo, I, Firenze 1949, p. 448; la risposta del Cattaneo
al Giordani, ibid., p. 247. Come risulta dalle lettere al Gussalli – il quale faceva in un certo sen-
so da trait d’union fra lui e il Cattaneo –, il Giordani fu contrario all’immediata annessione al
Piemonte, voluta dai piacentini (cfr. anche G. P. Clerici in «Riv. d’Italia» XVIII, 1915, vol. I,
p. 109 sgg.). Sulla prospettiva politica generale rimase incerto, perché da un lato tendeva a sim-
patizzare per il repubblicanesimo e l’antipiemontesismo del Cattaneo, dall’altro non aveva fidu-
cia nella realizzabilità di una soluzione rivoluzionaria.
80
iXIII, 105; Lett., I, 284. Cfr. Lettere al padre A. Fania, a cura di F. Sarri, Firenze 1933,
p. 120.
*iSui rapporti Giordani-Cattaneo vedi lo studio di Giovanni Forlini, Giordani e Cattaneo,
di prossima pubblicazione ** nel «Bollett. storico piacentino» LXIV, 1969, fasc. 1.
68 I. Le idee di Pietro Giordani
81
iXI, 95. Quis ... ferat: Giovenale, VII, 147.
82
iEpistolario del Leopardi, ed. Moroncini, I, p. 59.
*iSulla coscienza «nobiliare» del Leopardi vedi ora (con molta finezza di indagine psicolo-
gica e sociologica, anche se, a mio parere, con insistenza eccessiva) G. Bollati, op. cit. nella pre-
fazione, p. LXXXVII sgg. Cfr anche G. Moget, art. cit., p. 58 sgg. **
I. Le idee di Pietro Giordani 69
83
iX, 402; XI, 101-03.
84
iXI, 342. Questo brano fa parte di un memoriale che il Giordani incarcerato nel ’34 inviò
al conte di Bombelles, ministro di Maria Luigia.
70 I. Le idee di Pietro Giordani
85
iVII, 128 (al Gussalli, 5 gennaio 1846).
86
iX, 276 sgg. (1817). Cfr. G. Gambarin, «Giorn. stor. letter. ital.» LXXXVII, 1926,
p. 282 sgg.
87
iX, 278. A questo passo [o piuttosto all’iscrizione per Francesco Soprani in Gussalli XIII
192, nr. 34] **, probabilmente, allude Edmondo De Amicis **, Sull’Oceano, 3ª ed., Milano
1889 (anche la 1ª ed. è di quell’anno), p. 51: «Mio malgrado, mi risonavano in mente, come un
ritornello, quelle parole del Giordani: il nostro paese sarà benedetto quando si ricorderà che
anche i contadini sono uomini»: singolare testimonianza dell’influsso delle idee sociali del Gior-
dani su uno scrittore di formazione letteraria nettamente diversa, manzoniana.
88
i** Mosè. **
89
iX, 276. Vedi anche X [cr], 277: «Uso buono che si poteva fare de’ beni nazionali: invece
abbandonati alla cupida ingordigia di pochi»; e la discussione del problema perché il popolo «invi-
dii tanto e odii le ricchezze recenti; e riverisca le antiche, benché ugualmente ingiuste e superbe».
I. Le idee di Pietro Giordani 71
93
iXII, 304 sgg., 361 sgg. La pubblicazione dell’orazione del Guidiccioni e del preambolo del
Giordani fu vietata dalla censura (cfr. la nota del Gussalli a XII, 360). Il Giordani tradusse poi
dagli Annali del Beverini anche la narrazione della congiura del Burlamacchi (XII, 423 sgg.) e
pensò di raccogliere in un volume, con l’aiuto del Gussalli, tutti questi testi di storia politico-
sociale lucchese del Cinquecento. Ma nemmeno questo progetto poté essere attuato. Gli abboz-
zi della prefazione a questo volume e di un’altra lettera-prefazione al Minghetti sulla Solleva-
zione degli straccioni furono pubblicati dal Gussalli, XII, 430 sgg.
94
iXII, 435; cfr. 433.
95
iX, 22. Il Giordani avrebbe voluto svolgere con maggiore ampiezza questo argomento
(cfr. X, 273 sgg.), sostenendo che il «rigoroso esame» di cui parla la sentenza è un termine tec-
nico per indicare la tortura. Ma non riuscì mai a procurarsi il Manuale inquisitorum (cfr. Gussalli,
nelle Opere del Giordani, I, p. 63 sg.). Vedi anche il progetto per un’edizione di scritti scelti di
Galileo (Firenze, Biblioteca Laurenziana, Carte Giordani, XXIV, 51).
I. Le idee di Pietro Giordani 73
96
iXII, 208 (1839).
97
iCfr. G. Piergili, Notizia della vita e degli scritti del conte M. Leopardi, Firenze 1890, p. 43.
Lo scritto di Monaldo (Considerazioni sulla Storia d’Italia di Carlo Botta) apparve nella «Voce del-
la Ragione» e poi separatamente (Pesaro 1834) **.
98
iXI, 28; cfr. VII, 109: «Bisognava confessare che la rifabbricazione del potere pretesco fu
opera di Napoleone. Oh lì ebbe la vista corta!». Ammonimenti a Napoleone perché combattes-
se il clero erano contenuti nella prima redazione del Panegirico: cfr. XIV, 253 sgg., 283.
74 I. Le idee di Pietro Giordani
99
iLett., I, 279; cfr. Lett., I, 109.
100
iCfr. per esempio V, 267 e 272; XI, 207; XIII, 413.
101
iXII, 60; cfr. XI, 198; XII, 32, 168 sgg.; VII, 75 sgg.
102
iAlcune lettere inedite, Genova 1852, p. 158. Così pure a Giuseppe Ricciardi (pubbl. in «Riv.
d’Italia» 1911, vol. II, p. 973): «Cotesto furore di catolicesimo in Francia (scimiottescamente con-
trafatto dagl’Italiani) è vanità di moda? è ipocrisia? e allora con quale intendimento? persuasione
di ragionevoli non può essere». Cfr. ibid., pp. 977 (sul Mamiani), 980 (sul Lamennais).
103
iLettera del 7 luglio 1832, pubblicata da G. Gambarin, «Giorn. stor. letter. ital.» XCIII,
1929, p. 280. **
I. Le idee di Pietro Giordani 75
104
iIbid., p. 261, n. 1 (30 settembre 1837). La «nuova fraterìa» è la congregazione dei Rosmi-
niani (Istituto della carità), fondata dal Rosmini nel 1828 e approvata poi dal papa nel ’39.
105
iSu Voltaire vedi per esempio XI, 57 sgg.; VII, 160. Quanto al sensismo, vedi la pagina
seguente, e inoltre, per Condillac, p. 79 n. 116.
106
iSu Kant vedi VI, 83. Sullo Stellini, per scegliere un solo passo tra gli innumerevoli che
si potrebbero citare, cfr. VI, 376: «Tutto quello che l’antica e la moderna filosofia può dir di
vero e di utile l’ho trovato in quella divina opera».
107
iZib., 1857 e 4304.
108
iScritti letterari di un Italiano vivente, Lugano 1847, III, p. 312.
109
iCfr. E. Garin (cit. alla nota 18), II, p. 443 sgg.
76 I. Le idee di Pietro Giordani
110
iDel Romagnosi vedi soprattutto L’antica morale filosofia ..., aggiuntavi la delineazione di
quella di J. Stellini, Milano 1831, p. v sg. e passim, e numerose menzioni dello Stellini in altre
opere (cfr. F. Luzzatto, Contributo agli studi stelliniani, Udine 1989, p. 104 sgg.). Del Cattaneo
vedi SF, I, 78, 136 sg., 260, e altrove.
111
iVedi la ben nota opera di H. Bédarida, Parme et la France de 1748 à 1789, Parigi 1928;
e, per il Rezzonico e altri letterati a Parma nel Settecento, W. Binni, Classicismo e neoclassici-
smo nella letteratura del Settecento, Firenze 1963, pp. 164 sgg.
112
iIl microfilm di queste nove lettere filosofiche, conservate tra le Carte Giordani della Pala-
tina di Parma, mi è stato gentilmente inviato dal direttore di quella biblioteca, Dott. R. A. Cia-
varella. La lettera più interessante è stata pubblicata da Anita Marradi nel «Nuovo giornale»,
Firenze 27 ottobre 1913. Ma anche le altre meriterebbero di essere rese note. Il Ferretti (P. G.
sino ai quaranta anni cit., p. 16 sgg. e passim) delinea molto bene i rapporti umani tra il Giorda-
ni e il Santi, ma quasi nulla ci dice sulla formazione ideologica del Giordani.
*iSull’ambiente illuministico parmense e sulle idee filosofiche del Giordani vedi la grossa
opera di Giuseppe Berti (diverso dal noto storico), Atteggiamenti del pensiero italiano nei Ducati
di Parma e Piacenza dal 1750 al 1850, Padova 1858-62: al Giordani è dedicato un capitolo nel
vol. II, pp. 361-88. Si tratta di un lavoro molto ingenuo e goffo, utile tutt’al più come raccolta
di materiali.
I. Le idee di Pietro Giordani 77
113
iVedi sopra, nota 102; sul Lamennais anche VI, 175; VII, 34.
114
iCfr. A. Bertoldi, Prose critiche di storia e d’arte, Firenze 1900, p. 177 sgg.
115
iVI, 15. Cfr. VI, 14 e i Pensieri per uno scritto sui Promessi Sposi (XI, 132 sgg.).
78 I. Le idee di Pietro Giordani
116
iIl passo del Panegirico (VIII, 229) aveva già scandalizzato il Padre Cesari, a cui il Gior-
dani rispondeva (Lett., I, 95): «Quanto al pensiero, intendo solamente che l’abitudine della com-
plessione, o lo stato attuale del corpo possa moltissimo sulla mente, o aiutandola, o impedendo-
la nel suo operare. Il mio qualunque intelletto, se mi entra in corpo un bicchierino di rhum, è
ito». Quanto al «libercoletto del Condillac», cioè all’Art d’écrire, vedi sopra, nota 56; il Gior-
dani l’aveva chiamato «magistrale» in XI, 97.
117
iLettera del 25 maggio 1841 al Massari. La migliore esposizione della polemica Gioberti-
Giordani è quella di G. Forlini nella «Strenna dell’anno XVI dell’Ist. naz. di cultura fascista di
Piacenza» (1938). Il punto fondamentale, che dimostra la malafede del Gioberti, è questo, nota-
to dal Giordani in una sua lettera al Baruffi (Lett., II, 156): «Notate che in sì lunga lettera il pre-
te Vincenzo sfugge qualunque cenno della calunnia datami, come se questa non fosse l’unica e
vera cagione de’ miei rimproveri». Può sembrare strano che il Giordani, in quella stessa lettera,
neghi che il Leopardi «abbia fatto mai professione d’incredulità»; ma egli temeva che l’accusa di
ateismo potesse nuocere, come difatti avvenne, alla diffusione degli scritti leopardiani. **
118
iLettera a Michele Amari, 26 agosto 1843, pubbl. da A. D’Ancona, Carteggio di M. Ama-
ri raccolto ecc., I, Torino 1896, p. 121. Questa lettera all’Amari e l’altra che citiamo alla nota
seguente sono da aggiungere alla documentazione raccolta dal Forlini, alla quale rimandiamo in
generale il lettore.
80 I. Le idee di Pietro Giordani
119
iCarteggio di M. Amari cit., I, p. 176.
120
iVedi specialmente – nell’edizione del Rinnovamento a cura di F. Nicolini (Bari 1911-12),
vol. II, pp. 189-191 (sull’istruzione del popolo più umile); III, pp. 81 (dove è citata con lode
un’interpretazione marcatamente laica che il Giordani aveva dato della Divina Commedia), 139
sg. (su Giordani e Leopardi; il passo si conclude così: «Dolce è il contemplare in questo gretto
e invidioso secolo la coppia generosa e unica di quei grandi intelletti, i quali, come vissero uni-
ti d’indissolubile amore, così saranno indivisi nella memoria de’ posteri»). S’intende che questa
esaltazione del Giordani e del Leopardi non si inserisce, nemmeno nel Rinnovamento, in una coe-
rente prospettiva democratica e illuminista. Il Gioberti mantiene, anche se in forma più sfuma-
ta, le proprie riserve sul materialismo e l’ateismo dei due scrittori (ibid.), e, nell’atto stesso in cui
loda le idee del Giordani in fatto di istruzione popolare, le altera e le sforza alquanto in senso
paternalistico.
121
iTeorica del sovranaturale, 2ª ed., Capolago 1850, II, p. 352. Cfr. Forlini, art. cit., p. 14
dell’estratto.
I. Le idee di Pietro Giordani 81
122
iLett., II, 204. Cfr. XI, 330.
82 I. Le idee di Pietro Giordani
gridiamo sempre, fiat lux, fiat lux. Secondo Cristo, filii lucis voleva
dire Cristiani: come diavolo vogliono ora farlo Dio dello scuro? Fiat
lux. – Vi abbraccio di tutto cuore e prego molto che non dimentichiate
il vostro Giordani, detto l’Empio perché non ama lo scuro».123
Nell’ampio articolo sulle Operette morali del Leopardi, scritto nel
’26 per l’«Antologia» del Vieusseux ma dal Vieusseux non pubblica-
to,124 a un certo punto sembrava condividesse la visione pessimistica
dell’amico; anzi dichiarava che anche lui era «da gran tempo» arriva-
to per contro proprio alla stessa visione, e non l’aveva manifestata solo
per timore dell’incomprensione o dell’odio altrui.125 Ma subito dopo
sentiva risorgere in sé motivi di fiducia e di impegno nella vita:
** Pur nondimeno ... considero che per quanto sia minima cosa l’uomo e il suo pote-
re; ciò non ostante qualche cosa di non circoscritto, o almanco di non misurabile, si
sente nella forza e nella durata del pensiero: vedo che agl’inumerabili ed inevitabi-
li dolori ai quali fu abbandonata tutta la materia senziente, sottoponendola (per qua-
le mistero?) alle medesime ferree leggi della sorda materia inorganica; ** troppi altri
supplizi, che levare si potrebbero, ne aggiunge agli uomini o l’ignoranza, o più spes-
so l’errore: sento che il pensiero è una potenza ineffabile; e ogni potenza vuol guer-
ra, cioè incontro e rovesciamento di ostacoli: e il pensiero, combattendo colla mor-
ta e colla vivente natura, la quale se gli mostra tanto inimica, ne ha debellato pure
non poca parte, e sottomessa agli umani servigi. Reputo in fine che il supremo del
vivere si sente negli sforzi di un combattimento, o nel fuoco di un grande amore. A
questa guerra, a questa vita, a questo amore, a questo impeto (comunque ci debba
succedere) di conquistare alla povera famiglia umana qualche vero e qualche bene,
cioè qualche alleviamento di tanti guai, qualche aumento di consolazioni, vogliamo
invitare e pregare Giacomo Leopardi, e tutti gli altri ingegni che nol potendo ugua-
gliare sperino di somigliarlo.
123
iAlcune lettere inedite, Genova 1852, p. 189. Lo stesso motivo ritorna in una lettera cita-
ta dal Della Giovanna, P. G. e la sua dittatura letteraria, Milano 1882, p. 164, n. 1: «Tutta la gran
lite del mondo è manifesta: chi ama l o s c u r o e chi i l c h i a r o ». **
124
iXI, 149 sgg., cfr. 179. Più tardi, nel ’45, l’articolo fu in parte rimaneggiato dal Giordani
(cfr. Gussalli in I, 110), e tale appare nell’edizione del Gussalli: vi sono difatti alcuni accenni a
poesie leopardiane posteriori al ’26 (Canto notturno, A se stesso).
125
iXI, 175 sg. Abbiamo già visto (p. 76) che fin dagli anni giovanili compaiono nel Giorda-
ni non solo espressioni di malinconia, ma anche accenni di teorizzazioni pessimistiche. Ancor
più chiaramente «pre-leopardiano» sarebbe il passo sulla natura nemica dell’uomo che si trova
all’inizio del Panegirico a Canova (IX, 17 sg.), se davvero fosse stato scritto nel 1810. Ma i pri-
mi quattro capitoli di quello scritto furono rimaneggiati nel ’36 (cfr. la nota del Gussalli a IX,
16), e quindi quel passo, almeno nella forma precisa in cui lo leggiamo, sarà influenzato a sua vol-
ta dalla lettura delle Operette morali. **
I. Le idee di Pietro Giordani 83
7. Chi per caso abbia avuto la resistenza necessaria per arrivare a que-
sto punto del nostro saggio, dopo aver letto tutte le citazioni che vi
abbiamo inserito, si sarà già accorto che il Giordani, rètore quando vole-
va dare esempi di bello scrivere, è invece uno scrittore pieno di forza
quando ha cose da dire. Il suo ideale stilistico, come abbiamo visto, era
quello di una prosa lucida e piana, che avesse l’ingenua semplicità di
84 I. Le idee di Pietro Giordani
126
iXIII, 356 e altrove.
127
iCiò è stato giustamente osservato dal Ferretti nell’«Enciclopedia italiana», XVII, p. 169.
Aveva mostrato, del resto, di rendersene conto già il Gioberti, pur nella malevola ironia di quel-
l’accenno all’«eleganza» delle «collere del Giordani» (vedi qui sopra, pp. 78-79).
128
iV, 206. «Cotti» è, per così dire, la trasformazione in cognome (di tipo italiano) del nome
del re Cottius. Per altri esempi di queste «modernizzazioni» ironico-allusive cfr. P. Treves, Lo
studio dell’antichità classica cit., pp. 442 n. 4, 453 n. 1; e vedi ancora VII, 65 e 67: «il teologo
Algerino» (S. Agostino) e «il biliosissimo Schiavone Girolamo» (dove, forse, c’è anche un’indi-
retta allusione al dalmata Tommaseo). **
I. Le idee di Pietro Giordani 85
129
iÈ un brano del Peccato impossibile, bellissima satira sulla credenza nel concubito diaboli-
co, pubblicata dal Gussalli a Londra nel 1862. Sull’ammirazione del Carducci per questo scritto
vedi il saggio seguente, p. 101.
130
iXIV, 361. «Onagri» (non «uomini» come stampa il Gussalli) reca l’apografo nella Biblio-
teca Laurenziana, Carte Giordani, XVIII, 274 (l’autografo non risulta conservato); così anche
un altro apografo di lettere giordaniane a Nicola Monti, donatomi gentilmente dal prof. Delio
Cantimori. L’allusione è rivolta al conte di Bombelles (vedi {in questa pagina}). Dagli stessi apo-
86 I. Le idee di Pietro Giordani
grafi ho tratto qualche altra piccola correzione al testo dato dal Gussalli, dove, fra l’altro, man-
ca l’inciso «vivi lietamente».
131
iIl Gussalli, come è noto, mentre in certi casi si limitò a sopprimere nomi e riferimenti nel-
l’edizione, in altri, come qui, mutilò addirittura gli autografi. Tale procedimento non può non
suscitare il nostro rammarico, e tuttavia si deve ammettere che esso corrispose – tranne, forse,
qualche eccesso di zelo – alla volontà del Giordani.
132
iNon è qui il caso di passare in rassegna le amenità scritte a questo proposito dal Ridella,
dal Clerici e da altri studiosi più o meno influenzati dalla scuola lombrosiana. **
133
iEpistolario del Leopardi, ed. Moroncini, I, p. 93; cfr. ibid., p. 73, e Opere del Giordani,
VI, 379 (a Giuseppe Roberti): «Non si dica mio discepolo, ch’io non voglio esser maestro di nes-
suno».
I. Le idee di Pietro Giordani 87
134
iEpistolario del Leopardi cit., I, p. 147.
135
iSui particolari di questo episodio vedi Ferretti, P. G. sino ai quaranta anni cit., p. 49 sgg.
136
iBrano di lettera riportato dal Ferretti, op. cit., p. 50 n. 31.
88 I. Le idee di Pietro Giordani
137
iXIV, 90 sgg., 341 sgg., 356; Alcune lettere inedite, Genova 1852, p. 177 sgg. Cfr. S. Fer-
mi, Per la storia del movimento antigesuitico in Piacenza, in «Bollettino storico piacentino» XII,
1917, p. 13 sgg.
I. Le idee di Pietro Giordani 89
138
iN. Tommaseo-G. P. Vieusseux, Carteggio inedito, a cura di R. Ciampini e P. Ciureanu,
I, Roma 1956, p. 225 (lettera del 28 ottobre 1834).
139
iLettera a Domenico Santi cit. da G. Ferretti, op. cit., p. 56.
90 I. Le idee di Pietro Giordani
giovani «che volessero far meco un corso di filosofia e di lettere ... per
avere da me in cinque anni quell’assistenza a fare un buon corso di
studi che non potrebbero nelle pubbliche scuole».140 Sarebbe stato
qualcosa di simile alla scuola di Basilio Puoti che ancora vive nelle
pagine del De Sanctis; ma con un’apertura culturale e umana tanto
maggiore. Il progetto non si realizzò perché il Giordani fu chiamato
alla redazione della «Biblioteca Italiana»; un paio d’anni più tardi,
raggiunta l’indipendenza economica, non pensò più a cattedre. Ma
attraverso le riunioni della Società di lettura di Piacenza, i colloqui,
la corrispondenza epistolare con tanti giovani che gli chiedevano con-
sigli negli studi e conforto nelle loro crisi di sfiducia e di pessimi-
smo,141 egli esercitò ugualmente una parte di maestro.
Quella sua stessa incapacità di dare compiuta espressione alle idee
che gli si agitavano nella mente, quel suo non pubblicare quasi nulla e
lasciar tutto a mezzo, rendevano forse la sua opera di maestro più
feconda. Nei giovani il Giordani vedeva i futuri realizzatori di ciò che
egli, «impedito forse più da una grande malignità di fortuna che da na-
tura», non aveva compiuto: «sicché a consolarmi cercai se forse potes-
si altrui agevolare l’altezza della quale non avevo speranza» (XI, 94).
Avrebbe voluto essere per loro quella guida negli studi che egli aveva
invano cercato da giovane.
Oh se potessimo vivere insieme – scriveva ad Antonio Gussalli (VI, 341) – non ti
sarebbe forse inutile ricevere tutti i miei pensieri; i quali compressi mi soffocano, e
moriranno con me. Oh sarei pur divenuto qualche cosa, se cominciando da ragazzo
mi avesse avviato un simile a me! Sarei pur divenuto uno scrittore, se dai principii
di gioventù avessi creduto poterlo divenire! Avrei pure speso meglio la vita, se da
principio avessi potuto vedere la strada, o avessi trovato chi me la mostrasse! Io non
ho studiato, perché in tempo non mi credetti buono ad imparare. Ho i mali dell’in-
tendere, e non ho i compensi.
140
iIII, 221 (cfr. Ferretti, op. cit., p. 154).
141
iSotto l’aspetto umano sono particolarmente belle, nonostante alcune intemperanze affet-
tive e disuguaglianze di stile, le lettere a Cesare Cabella (oltre quelle edite dal Gussalli e dal Fer-
retti, altre furono segnalate e pubblicate da G. P. Clerici in «Nuova Antologia», 16 giugno 1916,
p. 399 sgg. e 16 febbraio 1917, p. 434 sgg. e da F. Ridella, La vita e i tempi di C. Cabella, Geno-
va 1923). Ma vedi anche quelle a Pompeo Dal-Toso, Antonio Papadopoli, Giuseppe Roberti,
Antonio Gussalli.
I. Le idee di Pietro Giordani 91
142
iF. De Sanctis, G. Leopardi, cap. VIII (ed. Binni, Bari 1953, p. 60 sg.). Nelle lezioni del-
la prima scuola napoletana il De Sanctis aveva espresso sul Giordani un giudizio ammirativo, in
perfetto acccordo col suo maestro Basilio Puoti: «Il Giordani si può dire il primo oratore d’Ita-
lia ... E se l’orazione funebre è il più alto genere di prosa, bene le si conviene quella stupenda
perfezione che il Giordani ha data al suo stile. Niuno ha saputo essere tanto artificiato, e non-
dimeno parer tanto spontaneo e naturale» (Teoria e storia della letteratura, ed. Croce, I, p. 97;
per il giudizio del Puoti cfr. la testimonianza dello stesso De Sanctis, Saggi critici, ed. Russo, II,
p. 233). Quando il suo gusto letterario mutò profondamente, e al culto per la prosa aulica (e per
quella «spontaneità» raggiunta attraverso lungo e sapiente artificio) subentrò l’esigenza di uno
stile realistico e moderno, quelli che gli erano sembrati i pregi della prosa giordaniana diventa-
rono per lui gravi difetti. Ecco quindi, nelle opere desanctiane della maturità, un susseguirsi di
accenni sfavorevoli al Giordani, fino al giudizio perentorio: «Pietro Giordani, che fa tanti ritrat-
ti ed orazioni ed epigrafi, non è mai riscaldato da un soffio di vita» (Scuola democratica, cap.
VII). Mancò, da parte del De Sanctis maturo, una rilettura del Giordani, che puntasse non sugli
scritti di circostanza tanto ammirati dal Puoti, ma sugli scritti di polemica culturale e ideologi-
ca e sull’epistolario. E, del resto, se anche quella rilettura vi fosse stata, troppo forti erano ormai
le preoccupazioni «realistiche» del De Sanctis (nel duplice senso stilistico e politico-ideologico)
perché egli potesse apprezzare il Giordani. Vedi l’introduzione al presente volume, pp. 24-27.
143
iEpistolario, ed. Moroncini, I, p. 84.
92 I. Le idee di Pietro Giordani
q u a n t o a l l e p a r o l e , m a q u a n t o a l l e c o s e , la letteratura ita-
liana seguiterebbe ad essere la prima d’Europa»;144 e si compiaceva che
nell’edizione bolognese delle sue opere il Giordani non li avesse trala-
sciati, come dapprima sembrava volesse fare. In realtà, come abbiamo
visto sopra, gli articoli della «Biblioteca» sono tra i meno «letterari»
del Giordani, tra i più ricchi di idee innovatrici nel campo culturale.
Dello stile estremamente arcaizzante e artificioso che il Leopardi
predilesse nei primi scritti della conversione letteraria (e di cui è esem-
pio specialmente la traduzione dei frammenti di Dionigi, che il Leo-
pardi stesso in seguito ripudiò come scritta con ridicola affettazio-
ne)145 il Giordani non è responsabile. Quando cominciò la loro
corrispondenza, il Leopardi si era già formato quello stile da più di un
anno, ed era giunto a eccessi di purismo e di trecentismo a cui il Gior-
dani non arrivò mai. Si confronti la traduzione leopardiana di Fron-
tone e di Dionigi con quella che degli stessi frammenti di Dionigi e di
altri testi greci e latini fece il Giordani:146 si vedrà quanto più artifi-
cioso sia il Leopardi giovane: «più vicino all’abate Cesari che a Pie-
tro Giordani», dice giustamente il De Sanctis.147
La conversione letteraria del Leopardi cominciò come un fatto
strettamente, un po’ angustamente letterario: solo in un secondo
tempo si andò approfondendo, e investì non la sola forma stilistica,
ma tutta la personalità. L’amicizia col Giordani fu appunto la prima
grande esperienza, umana e culturale, che approfondì la conversione.
In questo senso vanno intese le parole del Leopardi, nella lettera cita-
ta, che gli articoli della «Biblioteca Italiana» «diedero stabilità e for-
za alla sua conversione che era appena sul cominciare», e in questo
senso non aveva del tutto torto Monaldo, dal suo punto di vista rea-
zionario, di gridare contro il Giordani che gli aveva fatto uscire dal-
la retta via politica e religiosa il figlio; sebbene, come abbiamo visto,
144
iIbid., II, p. 130 (11 maggio 1821).
145
iVedi la lettera del 27 luglio 1818 a G. B. Sonzogno.
146
iDalla sua Lettera a G. B. Canova sul Dionigi del Mai il Giordani estrasse la traduzione dei
nuovi frammenti di Dionigi, che vi aveva inserito, e la pubblicò a parte nell’edizione bolognese
delle sue opere, stampata dal Brighenti. Il Gussalli ripubblicò di nuovo tutta la lettera. Vedi qui
sopra, p. 51.
147
iG. Leopardi, ed. cit., p. 36. Strettamente «linguaiole» sono alcune osservazioni del Leo-
pardi giovane agli scritti del Giordani (lettera del 30 maggio 1817) sull’uso di «non per tanto»
e sui cognomi senza l’articolo. Questa seconda obiezione gli era stata già fatta dal Padre Cesari
(cfr. XIII, 333) e gli fu di nuovo mossa più tardi da Lazzaro Papi (XIII, 376).
I. Le idee di Pietro Giordani 93
148
iEpistolario del Leopardi, ed. Moroncini, I, p. 99 sg.; cfr. la risposta del Giordani a p.
106 sg. Che tuttavia la posizione del Leopardi non si discostasse troppo da quella del Giordani,
si vede dall’abbozzo di recensione all’Innocenzo Francucci (PP, II, 685 sgg.): il Leopardi ammet-
te che si possa rappresentare il «brutto», ma non lo «sconcio» (per esempio non la scorticazio-
ne di Marsia). Siamo sempre entro il concetto del decorum, dell’επρεπς.
94 I. Le idee di Pietro Giordani
149
iPer esempio (tra i numerosi passi che si potrebbero citare) Lett., II, 171: «È mirabile Gia-
como in ciò; ed è poco meno che l’unico e solo, che, essendo letto, appena pochissimi e rarissimi
possano accorgersi ch’egli scriva. In me si sente; e troppo si sente».
150
iV, 26; VII, 155. Urit ecc.: Orazio, Epist. II, 1, 13.
I. Le idee di Pietro Giordani 95
151
iCfr. E. Bigi ne I classici italiani nella storia della critica a cura di W. Binni, II, 2ª ed.,
Firenze 1961, pp. 353 sg., 402; e le prime pagine dell’introduzione di Carlo Muscetta al Leo-
pardi del De Sanctis, Torino 1960.
152
iLett., II, 140 (11 ottobre 1839) e 162 (13 ottobre 1841).
96 I. Le idee di Pietro Giordani
za, la quale è fondata sulle qualità del mio cuore, e su quell’amore anti-
co e tenero che io ti giurai nel primo fiore de’ miei poveri anni, e che
ti ho serbato poi sempre e ti serberò fino alla morte», e ancora nel ’32
ripeteva «Io penso a te sempre, e ti adoro come il maggiore spirito
ch’io conosca, e come il più caro ch’io abbia», negli ultimi tempi smi-
se di scrivergli e parve lo avesse dimenticato. Ed è vano andare in trac-
cia di altri motivi più o meno episodici, come hanno fatto tanti stu-
diosi. Furono nuove esperienze a far passare in penombra nell’animo
del Leopardi l’amicizia per il Giordani, pur senza fargliela mai rinne-
gare; l’amore per Aspasia, la nuova amicizia per Antonio Ranieri (un
uomo di così desolante mediocrità intellettuale, ma ricco di quelle qua-
lità di successo mondano di cui il Leopardi si sentiva dolorosamente
privo). Quello che importa, è che l’amicizia tra il Leopardi e il Gior-
dani fu un momento essenziale nella vita di entrambi.
II.
Giordani, Carducci e Chiarini
2
iSui rapporti Giordani-Leopardi vedi il saggio precedente, pp. 51 sgg., 90 sgg. Il Cattaneo
affermò il proprio filoclassicismo nella prefazione ad Alcuni scritti (= Sl, I, p. 3 sgg.), con accen-
ti che ricordano molto da vicino il Giordani, benché senza nominarlo. Vedi sopra, p. 67, e {il
penultimo} saggio del presente volume.
3
iScritti letterari di un Italiano vivente, Lugano 1847, III, p. 301 n. 1.
100 II. Giordani, Carducci e Chiarini
realtà fin dall’inizio tra il Giordani e tutto il gruppo dei moderati fio-
rentini, si era fatta più chiara.4 Si capisce quindi come l’«Archivio sto-
rico italiano», pur mantenendo un tono rispettoso per lo scrittore
morto da pochi anni, facesse delle riserve sul valore di alcuni suoi
scritti e sull’opportunità di pubblicarne l’epistolario, come aveva co-
minciato a fare dal ’54 Antonio Gussalli.5 In un altro periodico fio-
rentino, lo «Spettatore», Ruggiero Bonghi pubblicò per la prima vol-
ta quelle Lettere critiche (Perché la letteratura italiana non sia popolare in
Italia) in cui tutti i difetti dello stile giordaniano sono individuati con
grande chiarezza, e giustamente è criticata l’ammirazione del Giorda-
ni per Daniello Bartoli, ma nessun accenno si fa al valore delle sue idee
di riforma culturale.6
In questa atmosfera il gruppo degli «amici pedanti» (Carducci,
Chiarini, Gargàni, Targioni-Tozzetti)* iniziò a Firenze la battaglia
contro i tardi romantici proclamando sommi modelli, l’uno per la poe-
sia, l’altro per la prosa, il Leopardi e il Giordani. Fu precisamente
Giuseppe Chiarini il primo ad ammirare il Giordani e a farlo conosce-
re agli amici.7 Nei loro primi scritti, gli omaggi ad Antonio Gussalli,
depositario dell’eredità giordaniana, si alternavano ad aspre invettive
contro i detrattori del Giordani. Di tali scritti, e di tutte le polemi-
che che ne seguirono, dà precise notizie Stefano Fermi nel suo saggio
su Pietro Giordani e gli «amici pedanti».8 Del Carducci sono special-
4
i** La rottura col Capponi nel 1830 ebbe origine da un malumore forse ingiustificato del
Giordani (vedi G. Forlini, Il soggiorno fiorentino di P. Giordani, ne «L’Arca», luglio 1954, p. 4
sgg.) **; ma la divergenza di idee preesisteva. Sull’ostilità del Capponi verso i filogiordaniani
«amici pedanti» vedi M. Tabarrini, G. Capponi, Firenze 1879, p. 352.
5
i«Archivio storico italiano», nuova serie, I, 1855, parte I, pp. 185 sgg. Cfr. anche «Il pas-
satempo», I, 1856, p. 127 sg. In parecchi punti della sua edizione giordaniana il Gussalli sfogò
la sua amarezza per le accoglienze sfavorevoli che essa aveva ricevuto (per esempio tomo VIII,
p. IX sgg.; XIV, pp. 138, 532). **
6
iR. Bonghi, Lettere critiche, Milano 1856, pp. 7 sg., 14, 18, 43 sg., 45, 107 sg., 123 sgg.
7
iG. Chiarini, Memorie della vita di G. Carducci, 2ª ed., p. 59: «Il Giordani, del quale a poco
a poco inoculai l’ammirazione anche agli altri».
*iAccanto all’influsso del Giordani e del Leopardi sugli «Amici pedanti», va tenuto presente
l’influsso, in parte (ma solo in parte) concomitante, del Tenca: vedi U. Bosco, Giusti, Tenca, Car-
ducci, in Realismo romantico, Caltanissetta 1959, p. 111 sgg.; in questo saggio sono anche ben
distinte le varie fasi dell’atteggiamento del Carducci nei riguardi del romanticismo. ** Vedi ora
anche l’accurato studio complessivo di E. Circeo, Carducci e Leopardi, in «Giorn. stor. lett. ital.»
CXLV, 1968, pp. 573 sgg. **
8
iS. Fermi, Saggi giordaniani, Piacenza 1915, p. 1 sgg., con aggiunte a p. 159 sg. Vedi anche,
per il carteggio tra Chiarini e Gussalli, A. Pellizzari, G. Chiarini, Napoli 1912, pp. 20 sgg., 58 sgg.
e, per tutto l’ambiente degli «amici pedanti», l’ampio e ben documentato studio di Piero Tre-
II. Giordani, Carducci e Chiarini 101
ves, L’abate Giuseppe Tigri e la cultura toscana, ne L’idea di Roma e la cultura italiana del sec.xix,
Milano-Napoli 1962, p. 145 sgg.
9
iRiportati da Guido Mazzoni in G. Chiarini, La vita di U. Foscolo, Firenze 1910, p. XIV sgg.
10
iDegli scritti editi e postumi di P. Giordani, nel «Poliziano», I, 1859, p. 96 sgg.; recensione
al vol. XIV delle Opere, nella «Rivista ital., di scienze, lettere ed arti colle effemeridi della Pubbl.
Istr.», IV, 1863, pp. 273 sgg., 305 sgg.
11
iNel «Poliziano» cit. alla nota precedente, p. 106.
12
iLettere, ed. nazionale, III, p. 333 (al Chiarini, 4 maggio 1863); cfr. Chiarini in «Rivista
italiana» cit., IV, p. 274.
13
i«Il Poliziano», I, 1859, pp. 10 sgg., 65 sgg.; vedi specialmente p. 67 (ora in Opere, ed.
nazionale, V, p. 265 sgg.).
102 II. Giordani, Carducci e Chiarini
14
i«Il Poliziano» cit., p. 105. Vedi quanto più articolata e ricca di distinzioni fosse la posizione
del Giordani, per esempio in XI, 10 sgg., o, ancora più, nell’abbozzo di Storia dello spirito pub-
blico d’Italia considerato nelle vicende della lingua (IX, 105 sgg.).
15
iNella presentazione alle Orazioni scelte del sec. xvi a cura di G. Lisio, Firenze 1957,
p. VIII sg.
16
i«Una filologia nata in ipso sinu rhetoricae», dice giustamente il Folena.
II. Giordani, Carducci e Chiarini 103
che poi trasmise all’amico. E noto che dal ’70 in poi, ripudiando le sue
giovanili tirate contro i poeti francesi, egli dedicò molta parte della sua
attività allo studio delle letterature straniere. Meno noto è che fin dal
’65 recensì entusiasticamente Forza e materia di Büchner – e anche qui
il materialismo del Frammento apocrifo di Stratone di Lampsaco, e l’an-
tioscurantismo di molte pagine del Giordani, sono alla base di tale
entusiasmo –.17 E non solo fu, come il Carducci, repubblicano, ma
assai più di lui sentì le ingiustizie sociali che accompagnavano anche
in Italia lo sviluppo del capitalismo; e si rifiutò, nonostante la grande
ammirazione per il Carducci, di seguirlo nella triste involuzione filo-
monarchica e cortigianesca dal ’78 in poi.18 La riforma scolastica che
egli progettò negli anni in cui fu direttore generale della pubblica
istruzione mirava a ridurre l’insegnamento del latino e del greco, a svi-
luppare l’istruzione scientifica: suscitata da necessità attuali, era, nel-
lo stesso tempo, d’accordo con quanto aveva sostenuto tanti anni pri-
ma il Giordani negli articoli della «Biblioteca italiana» e in altri
scritti.
Dalla prosa aulica dei primi anni il Chiarini, a differenza del Car-
ducci, finì col distaccarsi completamente; anche in poesia predilesse
un umile e patetico, e spesso sciatto, verismo. È quindi naturale che il
suo entusiasmo per il Giordani prosatore andasse diminuendo dopo
il ’70,19 finché, in un saggio del 1885,20 egli dette sullo stile giordania-
no un giudizio abbastanza limitativo. «A me – scriveva fra l’altro –
pare di scorgere nel Giordani una contradizione singolare fra il giu-
dizio ed il gusto; come scrittore, egli mi fa l’effetto di un uomo che
ragionando si persuade che i cibi semplici sono i migliori, e che quan-
do si mette a tavola preferisce gl’intingoli. Guidato dal giudizio, loda
ed ammira in altri la naturalezza, e la semplicità dello scrivere, e bia-
sima in sé l’assenza di queste qualità e la presenza delle contrarie;21 si
17
i«Rivista ital. di scienze, lett. ed arti», VI, p. 39. Lo Stratone di Lampsaco è esplicitamente
ricordato dal Chiarini.
18
iG. Mazzoni, in G. Chiarini, La vita di U. Foscolo, Firenze 1910, p. XXIV sgg., e nella pre-
fazione alla 5ª ed. delle Memorie della vita di G. Carducci, Firenze 1935, p. XI sgg.
19
iVedi le testimonianze nell’articolo cit. di S. Fermi, p. 19 sgg.
20
iG. Chiarini, P. Giordani: i primi anni e i primi scritti, nella «Nuova Antologia», 16 set-
tembre 1885, p. 226 sgg. (il passo da noi riportato è a p. 241). Quest’articolo doveva essere il
primo capitolo di una biografia del Giordani, che il Chiarini non condusse a termine.
21
iIl Chiarini allude per esempio a XIII, 356; Lett. II, 171. Cfr. qui sopra, pp. 60 sg., 83-
84, 93-94 n. 149.
104 II. Giordani, Carducci e Chiarini
mette a scrivere, e il gusto lo porta a seguitare nella mala via. Non dico
che non sia sincero quando accenna le cagioni che gl’impedirono di
correggersi; ma dico che la volontà di correggersi non dové mai esse-
re molto forte, e che seguitò a scrivere artificioso e raffinato, perché in
fondo lo scrivere artificioso e raffinato gli piaceva. Non è ammissibile
che s’egli avesse voluto assolutamente correggersi, non gli fosse, alme-
no in parte, riuscito; ma si capisce come la volontà, se non fu mai for-
te, dovette divenire anche più debole, quando quel suo modo di scri-
vere gli acquistò nome di primo prosatore italiano. Anzi allora la
volontà dovette cessare affatto; e giudicando da’ suoi scritti, si vede
ch’egli non ebbe d’allora in poi altra cura che di perfezionare e, qua-
si direi, cesellare e brunire quella sua maniera di prosa».
L’osservazione, nel suo buon senso, contiene qualcosa di vero; si
deve però aggiungere che in molte prose polemiche, in molte espres-
sioni di scontentezza di sé e dei suoi tempi, il Giordani riesce a tra-
sformare in forza positiva gli stessi aulicismi e arcaismi, a fonderli in
un impasto stilistico tutto suo: perciò egli non avrebbe potuto seguire
il semplicistico consiglio di buttar via senz’altro il proprio stile aulico
e mettersi a scrivere terra terra.22
Fino all’ultimo, invece, rimase nel Chiarini l’ammirazione per il
Giordani educatore, patriota e difensore degli oppressi. Anche in que-
sta ammirazione si potrebbe notare una certa genericità, un porsi da
un punto di vista più morale in senso stretto che storico-culturale e
politico, e quindi un mancato approfondimento di ciò che il Giorda-
ni significò per la cultura italiana. Ma su questa facile osservazione
non sarebbe giusto insistere con professorale sussiego: l’amore del
Chiarini per il Leopardi e il Giordani rimane uno dei più bei tratti del-
la sua personalità così schietta e simpatica: quest’amore gli ispirò,
alcuni anni dopo, la Vita di Giacomo Leopardi, che è ancor oggi la sola
biografia leopardiana che si legga volentieri, la sola che simpatizzi
decisamente per il protagonista e non per Monaldo, per Adelaide
Antici, per i moderati toscani. In quella biografia anche la figura del
Giordani, in rapporto al Leopardi, è delineata assai bene.
La scelta di scritti del Giordani curata dal Chiarini fu pubblicata
per la prima volta nel 1876 presso l’editore Vigo di Livorno;23 fu
22
iCfr. qui sopra, pp. 22.23, 83-84.
23
iProse scelte di P. Giordani proposte come libro di lettura alle scuole liceali, p. 526.
II. Giordani, Carducci e Chiarini 105
24
iCfr. M. Parenti, G. C. Sansoni, Firenze 1955, pp. 93, 99, 102 sg.
25
iEd. di Livorno cit., p. VI.
26
iIl Procerismo in XII, 105 sgg.; sul Peccato impossibile vedi qui sopra, pp. 84-85, 101.
27
iIX, p. 310 sg.
28
iX, 248 sgg.; XI, 26 sgg.; XII, 208 sgg. (sulla questione del non impedire lo studio ai poveri
vedi anche XIII, 57 sg. e qui sopra, p. 69).
29
iX, 391 sgg.; XI, 34 sgg., 40 sgg., 180 sgg., 209 sgg.
30
iXI, 205 sgg.
31
iXIV, 83 sgg.; cfr. le lettere del medesimo periodo (1839-40), e gli altri scritti citati dal
Gussalli, XIV, 84. Su tutti gli scritti qui rapidamente menzionati si veda il saggio precedente.
32
iCiò fu messo giustamente in rilievo da G. Tribolati, Saggi critici e biografici, Pisa 1891,
p. 330, e già prima da L. Scarabelli in «Archivio storico ital.» app. VI, 1848, p. 435. Un gesuita
106 II. Giordani, Carducci e Chiarini
o filogesuita che si firmava Filarete gli scriveva: «Voi, singolare in tutto, solete non pure, come
praticano gli altri uomini, mandare le vostre lettere a cui sono indirizzate, ma anche qua e colà
in processione da essere ammirate dai vostri divoti» (Firenze, bibl. Laurenziana, carte Giorda-
ni, XXII, 57).
33
iXII, 50 sgg.
34
iXII, 199 sgg.
35
iSi trovano nei tomi IX e X delle Opere. Uno solo, quello sugli improvvisatori, fu ristam-
pato dal Chiarini (p. 133 sgg. dell’edizione del 1889).
36
iX, 285 sgg.
37
iIl 1834 è l’anno della sua carcerazione (vedi qui sopra, p. 66).
38
iVedi qui sopra, pp. 71-72.
II. Giordani, Carducci e Chiarini 107
39
iTra gli studiosi del Giordani posteriori al Chiarini vanno ricordati soprattutto Stefano Fer-
mi, Giovanni Ferretti e Giovanni Forlini. È quasi esclusivamente merito loro se si è mantenuta
una tradizione di studi giordaniani. Del Fermi vedi specialmente i Saggi giordaniani (Piacenza
1915) e lo studio su P. Giordani e G. D. Romagnosi nella polemica tra classici e romantici («Arch.
stor. per le province parmensi», 1949-50, p. 247 sgg.): una bibliografia completa dei suoi scritti
è nel «Bollettino storico piacentino», XLVII, 1952, fasc. 3-4. Sui meriti e su alcuni limiti del Fer-
retti come studioso del Giordani vedi sopra pp. 37 sgg., 44. Del Forlini si veda lo studio Orien-
tamenti culturali e atteggiamenti critici nella prima metà del secolo xix (in «Convivium», 1952, p.
707 sgg.) e molti preziosi articoli sui rapporti tra il Giordani e altre personalità dell’Ottocento
(Gioberti, Manzoni, Colletta ecc.) pubblicati in varie riviste. Il Forlini sta ora preparando una
bibliografia giordaniana che costituirà un indispensabile strumento di studio.
III.
** Alcune osservazioni sul pensiero del Leopardi
1
iC. Luporini, Leopardi progressivo, in Filosofi vecchi e nuovi, Firenze 1947, p. 183 sgg.; W.
Binni, La nuova poetica leopardiana, Firenze 1947, 2ª ed. 1962.
2
iNaturalmente ciò non implica alcuna disconoscimento dei contributi di codesti studiosi.
In particolare il volumetto del Tilgher (La filosofia del Leopardi, Roma 1940) contiene, accanto
a forzature facilmente riconoscibili e isolabili, un’espressione lucidissima di alcuni concetti fon-
damentali del pensiero leopardiano: distinzione fra primitività e barbarie, materialismo, critica
III. Alcune osservazioni sul pensiero del Leopardi 109
dell’antropocentrismo. Tra gli studi su singole questioni, merita un particolare risalto quello di
F. Neri, Il pensiero del Rousseau nelle prime chiose dello Zibaldone, «Giorn. stor. letter. ital.»
LXX, 1917, p. 131 sgg. (poi in Letteratura e leggende, Torino 1951, p. 257 sgg.).
3
iG. Romano-Catania, L’etica sociale nelle opere di G. Leopardi, «Il pensiero italiano», mag-
gio 1893, p. 74 sgg. Il Carducci (Degli spiriti e delle forme nella poesia di G. Leopardi, ora in Ope-
re, ed. nazionale, vol. XX, Bologna 1937, p. 94 e n. 1) ignora il Romano-Catania, e si richiama
invece a un accenno, assai più generico, di G. Martinozzi, Per la continuità nella vita nazionale,
Bologna 1897, pp. 18-25. Contro il Romano-Catania polemizzò M. Losacco in uno scritto del
1896 (rist. in Indagini leopardiane, Lanciano 1937, p. 69 sgg.): egli ebbe buon giuoco nel negare
l’esplicito «socialismo» del Leopardi, ma non rese giustizia ad alcuni spunti felici del proprio
110 III. Alcune osservazioni sul pensiero del Leopardi
avversario. ** Del Salvatorelli vedi Il pensiero politico italiano, 5ª ed., Torino 1949, p. 210 (la
1ª ed. è del 1935). Pur nel suo schematismo, la formulazione del Salvatorelli ebbe allora il meri-
to di contrapporsi all’infelice tesi crociana dell’affinità di idee tra Monaldo e Giacomo Leopardi.
4
iVedi l’appendice II del saggio luporiniano (Discussione col Salvatorelli, p. 277 sgg.).
5
iIl pensiero di Leopardi, in Studi sul Leopardi di vari autori, Livorno 1938, p. 41 sgg.
III. Alcune osservazioni sul pensiero del Leopardi 111
6
iCfr. specialmente L’uomo e la natura, in «Atti del XII congr. internaz. di filosofia (Vene-
zia 12-18 settembre 1958)», vol. II, Firenze 1960, p. 273 sgg. La discussione su «Rinascita» a
cui accenniamo sopra si svolse dal 23 giugno al 3 novembre 1962.
7
iMa non si dimentichi il giudizio di Giuseppe De Robertis sulla Ginestra, nel commento ai
Canti, Firenze 1925, p. 330, e in Studi, Firenze 1944, p. 12.
8
iTre liriche del Leopardi, Lucca 1950; La poesia eroica di G. Leopardi, «Il Ponte» XVI, 1960,
p. 1729 sgg.
*iDiversa è, oggi, la posizione di Luporini nei riguardi del rapporto Hegel-Marx, e molto
cambiato è tutto il panorama del marxismo contemporaneo: nel quale, tuttavia, perdura la caren-
za di materialismo. ** Vedi gli articoli citati nella prefazione a questa edizione, p. XCVIII.
Un nuovo tentativo di interpretazione del Leopardi da un punto di vista marxista (in realtà
piuttosto adorniano-marcusiano, con qualche civetteria verbale strutturalistica) è stato compiuto
da Enzo Schiavina, La crisi della coscienza borghese nell’ideologia leopardiana, in «Rendiconti» 1967,
fasc. 14, pp. 157 sgg. Non mi sembra che esso segni alcun vero progresso sul saggio di Lupori-
ni. Una convincente interpretazione dell’Infinito in chiave sensistica è data da G. Pirodda in
«Problemi» 4-5, 1967, p. 166 sgg. Ricca di acute osservazioni è l’introduzione di Mario Pazza-
glia alle Operette morali, Bologna 1966 (giustamente il Pazzaglia mette in guardia, a pp. XIV-
XVIII, contro gli equivoci a cui può dar luogo la definizione del Leopardi come «moralista»).
Accenni importanti su Leopardi e Rousseau e sul rapporto tra letteratura e vita nel pensiero leo-
pardiano si trovano in G. Lonardi, Classicismo e utopia cit., pp. 42-45.
*iL’esigenza di non separare nettamente il Leopardi «idillico» dal Leopardi «eroico» è ora
affermata giustamente anche dal Sapegno, Giacomo Leopardi (nell’Ottocento garzantiano già
citato, p. 820). Ma il saggio di Sapegno ricalca troppo le orme di quella critica leopardiana che,
pur rifiutando il giudizio irosamente svalutativo di Croce, ammira tuttavia il Leopardi m a l-
g r a d o la sua ideologia: rappresenta quindi, tutto sommato, un passo indietro rispetto a Binni.
Bisogna d’altra parte osservare che né Luporini né il sottoscritto, negando il «romanticismo» del
Leopardi, hanno mai sostenuto un suo «meccanico ritorno ai moduli razionali e alle soluzioni let-
terarie settecentesche» (Sapegno, ibid.). Hanno piuttosto sostenuto che il Leopardi vive in pie-
no la crisi del suo tempo, ma dà ad essa una risposta radicalmente diversa da quella dei roman-
112 III. Alcune osservazioni sul pensiero del Leopardi
(soprattutto del Bruto minore) e quella dei canti post-1830, e una trop-
po frettolosa aggregazione del Leopardi alla schiera dei romantici.9 Ma
le osservazioni sul nuovo impegno polemico e «missionario» del Leo-
pardi dal 1830 in poi, sulla forza del lucido e spietato materialismo dei
Paralipomeni, rimangono punti fermi per lo studio del pensiero leo-
pardiano, anche a prescindere dal grande valore specificatamente cri-
tico-letterario del saggio.
Dopo Luporini e Binni non sono certo scomparse d’un tratto le vec-
chie posizioni di sottovalutazione del pensiero leopardiano e di ridu-
zione del Leopardi a poeta puro e frammentario. Proprio ora uno stu-
dioso del valore di Piero Treves, prendendo lo spunto da un riesame
del Leopardi filologo ma estendendo il suo giudizio all’intera perso-
nalità leopardiana, ha ripresentato l’immagine crociana di un Leopar-
di «monaldesco», ostile al progresso, incapace di comprensione sere-
na del mondo che lo circondava.10 Ma nonostante queste resistenze
l’impulso principale è ormai nell’altra direzione. I saggi di Martino
Capucci sui Paralipomeni,11 di Carlo Muscetta sulla canzone Nelle noz-
ze della sorella Paolina e sull’Ultimo canto di Saffo,12 l’introduzione del
Muscetta stesso al Leopardi di De Sanctis, l’articolo di Luigi Blasucci
sulle due canzoni patriottiche e alcune sue recensioni, specialmente
quella agli scritti leopardiani di Giovanni Gentile,13 hanno rappre-
tici (anche se poi, nella definizione e valutazione di questa risposta, vi sono tra Luporini e me alcu-
ni punti di dissenso).
Molto importante mi sembra invece, per un superamento della troppo recisa contrapposizio-
ne tra idillico ed eroico, lo studio di E. Bigi, La genesi del «Canto notturno» (nel vol. omonimo cit.,
p. 113 sgg.). **
9
iSu quest’ultimo punto vedi l’introduzione al presente volume, p. 31 sg., e più oltre,
p. 116 sg. Al rischio di una contrapposizione troppo recisa tra «idillico» ed «eroico» ha contri-
buito, penso, l’appellativo non leopardiano di «nuovi» o «grandi idilli», dato dal De Sanctis e
dal Carducci ai canti pisano-recanatesi del 1828-30, e derivante, in sostanza, dal grosso frain-
tendimento in senso «manzoniano-realistico» che di tali canti compì il De Sanctis. Molto giu-
stamente, perciò, nel nuovo commento di Fubini e Bigi ai Canti (Torino 1964) si propone di chia-
mare «idilli» soltanto quelli che il Leopardi chiamò così, le brevi liriche in endecasillabi sciolti
del 1819-21.
10
iP. Treves, Lo studio dell’antichità classica nell’Ottocento, Milano-Napoli 1962, p. 471 sgg.
e altrove. Cfr. «Critica storica» II, 1963, p. 609 sg.
11
iM. Capucci, I «Paralipomeni» e la poetica leopardiana, «Convivium» 1954, p. 581 sgg.; La
poesia dei «Paralipomeni» leopardiani, id., p. 695 sgg.
12
iIn Ritratti e letture, Milano 1961, pp. 215 sgg., 230 sgg.
13
iL. Blasucci, Sulle prime due canzoni leopardiane, «Giorn. stor. letter. ital.» CXXXVIII,
1961, p. 39 sgg. (particolarmente importante, per il tema del nostro presente studio, la nota a
p. 70); e le recensioni agli scritti leopardiani di Bacchelli (id., p. 478 sgg.), Gentile (id.,
CXXXIX, 1962, p. 560 sgg.), Bigongiari (id., CXL, 1963, p. 289 sgg.).
III. Alcune osservazioni sul pensiero del Leopardi 113
17
iIl giudizio di Luporini sulle Operette morali (espresso a pp. 221 n. 1, 237, 246) fu sin dal-
l’inizio considerato come uno dei punti più discutibili del suo saggio. In realtà l’osservazione
luporiniana che il Leopardi nelle Operette, «presentandosi al pubblico, si tiene come un passo
indietro (qualche volta più di un passo indietro)» rispetto allo Zibaldone, «e maniera e stilizza
non poco, letterariamente, la sua posizione», ha una parte di vero. Ma essa riguarda esclusiva-
mente l’aspetto politico-sociale del pensiero leopardiano. Per ciò che concerne la critica di ogni
spiritualismo e antropocentrismo e l’affermazione di un materialismo conseguente, le Operette
sono, nella sostanza, altrettanto audaci ed esplicite quanto lo Zibaldone.
18
iMilano 1963, p. 135 sgg.
19
iOp. cit., p. 151 sg., cfr. p. 483.
20
iLeopardi e il Settecento, Atti del I convegno internaz. di studi leopardiani, Firenze 1964:
gli scritti del Sansone e del Frattini sono rispettivamente a pp. 133 sgg., 253 sgg.; la frase del
Binni che cito nel testo è a p. 78.
III. Alcune osservazioni sul pensiero del Leopardi 115
21
iQuesta esigenza fu giustamente affermata da Giampiero Carocci in un’importante recen-
sione al Leopardi progressivo («Belfagor» III, 1948, p. 261 sg.), anche se, poi, il Carocci soprav-
valutava l’influenza del Foscolo sul pensiero leopardiano.
116 III. Alcune osservazioni sul pensiero del Leopardi
22
iMentre i vari precettori di casa Leopardi non esercitarono sulla formazione della perso-
nalità leopardiana nessun influsso importante, e mentre l’influsso di Monaldo sul figlio è stato
spesso sopravvalutato, Carlo Antici deve essere più attentamente studiato a questo riguardo. **
Vedi, provvisoriamente, un mio accenno ne La filologia di G. Leopardi, Firenze 1955, p. 146. La
corrispondenza tra l’Antici e Monaldo è stata in parte pubblicata da A. Avòli (in Autobiografia
di Monaldo Leopardi, Roma 1883, pp. 278-81, 285 n. 1) e da F. Moroncini (Monaldo Leopardi
e Carlo Antici, nel «Casanostra», 1932, p. 3 sgg.; Epistolario del Leopardi, vol. I, pp. 13 n., 37
n. 2, 206 n. 1 e altrove).
23
iLa «conversione letteraria» coincide, non casualmente, con uno spostamento della corri-
spondenza epistolare e degli interessi culturali del Leopardi da Roma a Milano. L’importanza
di questo spostamento e il valore che i rapporti con la cultura milanese ebbero per il Leopardi
furono intuiti acutamente dal De Sanctis (Studio sul Leopardi, cap. V), anche se la scarsa cono-
scenza e comprensione del classicismo illuminista, e soprattutto del Giordani, impedirono al De
Sanctis di sviluppare questo spunto.
24
iVedo ora che Leopardi e gli altri è il titolo d’un paragrafo del capitolo dedicato al Leopardi
ne L’attività letteraria in Italia di G. Petronio, Palermo 1964, p. 705.
25
iLeopardi progressivo cit., pp. 188 sg., 263.
III. Alcune osservazioni sul pensiero del Leopardi 117
30
iA. Tilgher, op. cit., pp. 105 sg., 120-123. Cfr. Luporini, p. 208.
31
iVedi l’introduzione al presente volume, p. 7.
32
iVedi più oltre, p. 337 sgg.
33
iPP, II, p. 577 sg. È interessantissimo vedere come il Leopardi sa assorbire da Chateau-
briand spunti di esaltazione della vita primitiva (la chiusa dell’Inno ai Patriarchi!) e respingerne
invece il falso primitivismo consistente nella rivalutazione del Medioevo cattolico. Questo atteg-
giamento, complesso ma coerente, non è stato ben colto da Ferdinando Neri (Il Leopardi ed un
120 III. Alcune osservazioni sul pensiero del Leopardi
«mauvais maître», in Letteratura e leggende cit., p. 276 sgg.), al quale i giudizi leopardiani su Cha-
teaubriand sembrano mutevoli e contraddittorii. Simile – ma con un tono generale di maggiore
simpatia – è l’atteggiamento del Leopardi verso Madame de Staël, come ho accennato nell’in-
troduzione, p. 34.
34
iCfr. P. Treves, L’idea di Roma e la cultura ital. del sec. xix, Milano-Napoli 1962, p. 36 sgg.;
A. La Penna, Orazio e l’ideologia del principato, Torino 1963, p. 163 sgg.
35
iU. Bosco, Titanismo e pietà in G. Leopardi, Firenze 1957, cap. I.
36
iOp. cit., pp. 11-13. Cfr. Binni, La nuova poetica cit., 2ª ed., p. 89.
III. Alcune osservazioni sul pensiero del Leopardi 121
37
iStoria della letteratura italiana, cap. XX (ed. N. Gallo, Torino 19622, II, p. 918).
38
iPer esempio III, 448 sg. (servat multos fortuna nocentes et tantum miseris irasci numina pos-
sunt); VI, 443 sg. ecc. Cfr. J. E. Millard, Lucani sententia de deis et fato, Utrecht 1891, p. 12 sgg.
39
iCfr. L. Paoletti, La fortuna di Lucano dal Medioevo al Romanticismo, «Atene e Roma»
1962, p. 155 sg.; P. Treves, Lo studio dell’antichità classica (cit. alla nota 10), p. 444 sgg. Fino a
che punto il poemetto Catone in Affrica, scritto dal Leopardi a 12 anni e tuttora in massima par-
te inedito (cfr. H. L. Scheel, Leopardi und die Antike, München 1959, p. 19 sgg.) attesti una let-
tura diretta della Farsaglia in latino, è ancora da precisare. Riferimenti a Lucano mancano, pare,
nel Pompeo in Egitto (1812). Un accenno alla descrizione lucanèa della selva di Marsiglia (Phars.
III, 399 sgg.) è in un progetto di «poema di forma didascalica sulle selve e le foreste» (Poesie e
prose, ed. Flora, I, p. 697), da cui poi nacquero, ma senza più l’allusione a Lucano, la canzone
Alla primavera e l’Inno ai Patriarchi. Sulla scarsezza di espliciti riferimenti a Lucano nello Zibal-
done e nelle opere del Leopardi dalla «conversione letteraria» in poi, cfr. La filologia di G. Leo-
pardi, p. 158, n. 1 (dove, tuttavia, mi ero espresso in forma troppo recisa). Bisogna tener conto,
in generale, del contrasto fra il gusto letterario del purismo (che era ostilissimo allo stile enfati-
co e alla violenza espressionistica di Lucano) e il repubblicanesimo di molti di quegli stessi puri-
sti-classicisti, che li portava a simpatizzare per il poeta anticesariano, interpretato naturalmen-
te non come difensore della vecchia oligarchia senatoriale, ma come banditore di libertarismo.
Nel Giordani prevalse il secondo elemento, la simpatia «contenutistica» per Lucano: nel Leo-
pardi rimasero più forti le prevenzioni stilistiche. Un contrasto analogo si produsse per Fronto-
ne, esaltato dal Leopardi giovane in quanto precursore del purismo, severamente giudicato dal
Giordani per la mancanza di un serio contenuto etico-politico. – Alle testimonianze sul filo-luca-
nismo della cultura italiana del primo Ottocento, raccolte dal Treves e dal Paoletti, vorrei
aggiungere quella di Pietro Borsieri ** (Avventure letterarie di un giorno, in Discussioni e pole-
122 III. Alcune osservazioni sul pensiero del Leopardi
miche sul Romanticismo, ed. Bellorini, I, pp. 143 sg.), un romantico antipurista che su questo
punto veniva a concordare col suo avversario Giordani.
40
iZib., 4175. Per gli spunti pessimistici che il Leopardi poté trarre da Bayle, Fontenelle, Vol-
taire, Holbach, vedi M. Losacco, Indagini leopardiane cit., pp. 121 sg., 123 sgg., 135 sgg.; Binni,
Leopardi e la poesia del secondo Settecento cit., p. 433, nn. 186-188; A. Frattini, art. cit. alla nota
20. Anche l’idea dell’inno ad Arimane abbozzato dal Leopardi nei suoi ultimi anni (PP, I, p. 434)
deriverà probabilmente dal Poème sur le désastre de Lisbonne («Est-ce le noir Typhon, le barba-
re Arimane, / dont la loi tyrannique à souffrir nous condamne?»), come suppose già l’Antogno-
ni, piuttosto che dal Manfredo di Byron come vorrebbe l’Allodoli.
*iSugli spunti pessimistici nel pensiero settecentesco, e sulle ragioni per cui essi non danno
ancora luogo a una visione del mondo radicalmente pessimista, vedi alcune interessanti osser-
vazioni nel libro di Giuseppe Paolo Samonà sul Belli, di prossima pubblicazione (Firenze 1969).
Cfr. anche «Quaderni piacentini» 32, ottobre 1967 **, p. 123.
III. Alcune osservazioni sul pensiero del Leopardi 123
41
iVedi sopra, p. 81 sgg.
42
iCfr. Luporini, op. cit., p. 269.
43
iVedi sopra, p. 82 sg.
124 III. Alcune osservazioni sul pensiero del Leopardi
44
iPP, I, p. 183.
45
iIbid., pp. 298-299.
III. Alcune osservazioni sul pensiero del Leopardi 125
46
iIbid., p. 375 sg. Cfr. C. Muscetta, Ritratti e letture, Milano 1961, pp. 244 sg. | Ma sul-
l’autenticità di questo abbozzo, pubblicato da fonte sospetta, ho adesso forti dubbi. Ritornerò
tra breve sull’argomento |.*
47
iIn margine a questo verso, secondo il primo editore, l’autografo recherebbe un «son». Ma
anche altri versi zoppicano.
48
iRagione e stile in Leopardi cit., p. 527 n. 57.
*iLa non-autenticità dell’abbozzo di Idillio alla Natura si può ormai considerare certa; **
e su tutto il problema del passaggio dalla prima alla seconda concezione della natura vedi quan-
to ho aggiunto qui {sotto}, p. 227 sgg.
126 III. Alcune osservazioni sul pensiero del Leopardi
52
iVedi in particolare il Dialogo di Tristano e di un amico e la lettera al de Sinner del 24 mag-
gio 1832 (il passo in francese).
53
iUna caratteristica saliente del saggio di Croce sul Leopardi (in Poesia e non poesia) è la spre-
giudicatezza con cui egli utilizza, pur di combattere il pessimismo leopardiano, argomenti posi-
tivistici offertigli dalla scuola lombrosiana. Con analoga spregiudicatezza Croce si servì di argo-
menti empiriocriticisti e pragmatisti per negare il valore conoscitivo delle scienze fisiche, usò
strumentalmente il marxismo per combattere (da destra!) le ideologie democratico-umanitarie,
e via dicendo. Le esigenze politico-culturali (talvolta politico-culturali in senso deteriore) sopraf-
facevano in lui di gran lunga le esigenze scientifiche.
128 III. Alcune osservazioni sul pensiero del Leopardi
del rapporto uomo-natura che esclude ogni scappatoia religiosa (sia nel
senso delle religioni tradizionali, sia in quello dei miti umanistici) e
che, per il fatto di essere personalmente sofferta e artisticamente tra-
sfigurata, non perde nulla della sua «scientificità».
Anche nei riguardi del «male fisico», beninteso, il Leopardi non
trascurò mai di attribuire la sua parte di colpa alla società sua con-
temporanea, a quell’educazione tutta «spirituale» e malsana di cui egli
e tutta la sua generazione avevano così gravemente sofferto. Nell’im-
portanza che greci e romani avevano dato all’educazione fisica vide
sempre uno dei punti di superiorità degli antichi sui moderni.54 Anco-
ra nel Tristano – cioè in pieno «pessimismo cosmico» – ribadirà con
gran forza questo punto: «... tra noi già da lunghissimo tempo l’edu-
cazione non si degna di pensare al corpo, cosa troppo bassa e abbietta:
pensa allo spirito: e appunto volendo coltivare lo spirito, rovina il cor-
po: senza avvedersi che rovinando questo, rovina a vicenda anche lo
spirito»; e chiarirà che questo difetto dell’educazione moderna non è
eliminabile con semplici riforme di istituzioni scolastiche – come pen-
savano i pedagogisti cattolico-liberali –, ma implica tutta una nuova
etica, antiascetica e anticristiana, e quindi una riforma radicale della
società: «E dato che si potesse rimediare in ciò all’educazione, non si
potrebbe mai senza mutare radicalmente lo stato moderno della società,
trovare rimedio che valesse in ordine alle altre parti della vita privata e
pubblica, che tutte, di proprietà loro, cospirarono anticamente a perfe-
zionare o a conservare il corpo, e oggi cospirano a depravarlo».55
Ma era pur evidente che la migliore società di questo mondo, men-
tre avrebbe potuto eliminare le ingiustizie di origine politico-sociale (e
anche su questo punto rimasero nel pensiero del Leopardi forti riser-
ve), avrebbe potuto soltanto esercitare un’azione palliativa nei riguar-
di nell’oppressione esercitata dalla natura sull’uomo. E quindi l’ap-
profondimento di questo tema doveva prevalentemente orientare il
pessimismo del Leopardi in senso «cosmico». Il che accade, come
abbiamo visto, in modo ancora episodico nel ’19, e poi sistematica-
mente a partire dal ’23-’24.
54
iCfr. per esempio Zib., 115, 207, 223, 1631 sg., 4289, e la canzone A un vincitore nel pallone.
55
iSull’utilità della ginnastica aveva insistito per esempio Gino Capponi nelle sue Considera-
zioni pedagogiche sugli Istituti di Hofwyl («Antologia» del Vieusseux, gennaio-marzo 1822; ora
in A. Gambaro, La critica pedagogica di G. Capponi, Bari 1956, p. 231), ma nel quadro di un’e-
ducazione cristiana, che asseriva pur sempre il primato dello spirito sul corpo.
III. Alcune osservazioni sul pensiero del Leopardi 129
Con piena ragione il Luporini considera come una scelta decisiva per
l’ulteriore sviluppo del pensiero leopardiano l’avere, a questo punto,
rifiutato il ricorso a Dio, il rifugio nel mistero e nella trascendenza, l’a-
vere, anzi, imboccato la strada opposta, di un ateismo e materialismo
sempre più conseguente.56 È qui, in effetti, che si misura tutta la gran-
dezza umana e intellettuale del Leopardi, in confronto ai tanti «spiri-
ti inquieti» del suo e del nostro secolo, per i quali il pessimismo è sta-
to solo l’anticamera della conversione religiosa. La constatazione della
fragilità dell’uomo di fronte alla natura non porta il Leopardi a fab-
bricarsi un mitico «regno dello Spirito», un altro mondo (comunque
inteso) in cui l’uomo prenderebbe la sua rivincita. Egli porta avanti,
invece, un’analisi del rapporto uomo-natura in termini totalmente
demistificati. Dal Dialogo di un folletto e di uno gnomo fino al Coperni-
co e oltre, ogni antropocentrismo e teleologismo viene radicalmente
criticato e deriso. L’uomo è «una menomissima parte dell’universo»,
e la natura segue un suo ritmo di produzione-distruzione del tutto indi-
pendente da ogni fine o interesse del singolo uomo o dell’umanità nel
suo complesso. La nozione di spirito, come qualcosa di essenzialmente
diverso e contrapposto alla materia, si rivela illusoria.57 Senziente e
pensante è, nell’uomo, la materia stessa: il cervello, non l’anima.58
Al tempo stesso, il Leopardi continua a svolgere, raccordandola col
pieno materialismo ora da lui raggiunto, quella «teoria del piacere»
che era sorta nel suo pensiero alquanto prima, come estrema conse-
guenza nichilistica del suo iniziale vitalismo.59 Più di uno studioso ha
56
iLuporini, op. cit., p. 246 sgg. Oltre che da una pseudo-soluzione religiosa, il materialismo
ha salvato il Leopardi anche da quella tendenza al «misantropismo» che si era espressa attorno
al ’20 negli abbozzi di operette Galantuomo e Mondo e Senofonte e Machiavello, e che costitui-
va un rischio insito nell’isolamento stesso del Leopardi. Il memorabile pensiero del 2 gennaio
1829 (Zibaldone, p. 4428: «La mia filosofia, non solo non è conducente alla misantropia, come
può parere a chi la guarda superficialmente, e come molti l’accusano; ma di sua natura esclude
la misantropia ... La mia filosofia fa rea d’ogni cosa la natura, e discolpando gli uomini total-
mente, rivolge l’odio, o se non altro il lamento, a principio più alto, all’origine vera de’ mali de’
viventi»), la cui importanza è ben messa in rilievo dal Luporini, non rappresenta solo una pole-
mica verso gli avversari, ma un chiarimento con se stesso, lo scongiuramento di una possibile
deviazione del pessimismo. Nello stesso senso è significativo, e si potrebbe dire simbolico, il
mutamento del nome del personaggio autobiografico leopardiano da «Misenore» in «Eleandro».
57
iCfr. soprattutto Zib., 4111 (11 luglio 1824) e 4206-08 (26 settembre 1826).
58
iZib., 4251-53 (9 marzo 1827), 4288 sg. (18 settembre 1827). Ma vedi già il pensiero del
9 settembre 1821 (p. 1657) che comincia: «Tutto è materiale nella nostra mente e facoltà». Una
chiara esposizione del materialismo leopardiano è data dal Tilgher, La filosofia del Leopardi cit.,
p. 88 sgg.
130 III. Alcune osservazioni sul pensiero del Leopardi
59
iSull’anteriorità della «teoria del piacere» rispetto al materialismo hanno giustamente insi-
stito il Tilgher (op. cit., p. 88) e il Luporini (pp. 245 sg., 251 sgg.), anche se l’analisi luporiniana
della «crisi del vitalismo» leopardiano rischia di essere, in certi passaggi, troppo sottile e tecnici-
stica.
60
iVedi per esempio F. Tocco, Il carattere della filosofia leopardiana, nel vol. miscellaneo Dai
tempi antichi ai tempi moderni: da Dante al Leopardi, Milano s.d. (1904), p. 571 sg.; G. Gentile,
Manzoni e Leopardi, Milano 1928, p. 102 sgg.; B. Biral, nel «Ponte» XV, 1959, p. 1272 sgg.; e
molti altri.
61
iÈ questa l’interpretazione del pessimismo leopardiano instaurata dal de Sinner e dal Gio-
berti, ripresa più recentemente da Giulio Augusto Levi e da altri studiosi cattolici.
62
iÈ superfluo ricordare quanto spesso ricorra nel Leopardi il tema dell’inanità e caducità del-
la gloria. In ogni caso, qualsiasi mito dell’immortalità delle opere trova, per il Leopardi, la sua
confutazione nella sicura previsione di una catastrofe cosmica che annienterà il nostro mondo:
vedi la chiusa del Cantico del gallo silvestre e il Frammento apocrifo di Stratone da Lampsaco; e la
Ginestra, specialmente vv. 41-51.
III. Alcune osservazioni sul pensiero del Leopardi 131
63
iCosì si risolve, mi pare, l’apparente contraddizione tra le diverse affermazioni del Leopar-
di riguardo alla morte (cfr. M. Porena, Scritti leopardiani cit., p. 159 sg.) Di tale ambivalenza del-
la morte le due più compiute rappresentazioni leopardiane, lirico-affettive e ragionative insieme,
sono le due poesie «sepolcrali» (Sopra un basso rilievo ... e Sopra il ritratto di una bella donna ...).
64
iVedi il saggio seguente, in particolare pp. 168 sgg. (Platone), 174 sgg. (Epitteto e altri filo-
sofi ellenistici).
65
iSu questo periodo, dopo il De Sanctis (Giacomo Leopardi, capp. XXI sgg.), è ritornato con
finezza di analisi e novità di risultati E. Bigi, Dalle «Operette morali» ai «Grandi idilli», in «Bel-
fagor» XVIII, 1963, p. 129 sgg.* **
66
iLuporini, p. 259 sgg. (cfr. De Sanctis, Giacomo Leopardi, cap. XXV).
*iIl saggio del Bigi è ora ripubblicato nella Genesi del «Canto notturno» cit., p. 83 sgg.; i
passi a cui particolarmente mi richiamavo sono a pp. 92-94, 108 sgg. Con la lettera al Vieusseux
del 4 marzo 1826 (qui {sotto}, p. 133) è da confrontare il pensiero dello Zibaldone (4138 sg.,
12 maggio 1825) in cui il Leopardi distingue il «metafisico» (il cui interesse è rivolto soprattutto
ai rapporti tra l’uomo e la natura) dal «filosofo di società»: cfr. Savarese, op. cit., p. 109 e n. 61.
Sul periodo di relativa «apoliticità» leopardiana ({qui}, pp. 131-134) vedi Ersilia Alessandrone
in «Annali della Scuola Normale», cl. di Lettere, 1966, p. 331, n. 11: la Alessandrone sostiene
una persistenza di interessi, se non politici in senso stretto, politico-culturali, e di una conce-
zione militante della letteratura, ancora nel 1823-24 {La postilla vale anche per le successive note
68 e 70 – N. d. C.}.
132 III. Alcune osservazioni sul pensiero del Leopardi
67
iVedi il saggio seguente, p. 163 sg.
III. Alcune osservazioni sul pensiero del Leopardi 133
68
iCfr. Biral, La «posizione storica» cit., p. 17 sg.; Bigi, Dalle «Operette morali» ai «Grandi
idilli» cit., p. 135 sg.*
69
iNe «L’Unità» del 3 novembre 1963.
*i{Cfr. la precedente postilla alla nota 65; per il riferimento alla lettera al Vieusseux del 4 mar-
zo 1826, valga: «qui sopra» – N. d. C.}.
III. Alcune osservazioni sul pensiero del Leopardi 135
*i{Cfr. la precedente postilla alla nota 65; per il riferimento alla lettera al Vieusseux del 4 mar-
zo 1826, valga: «qui sopra» – N. d. C.}.
136 III. Alcune osservazioni sul pensiero del Leopardi
libertà dal dogma e dal mito («Libertà vai sognando, e servo a un tem-
po / vuoi di nuovo il pensiero»). È proprio questa esigenza di sma-
scheramento degli «errori barbari» del cattolicismo che fa superare al
Leopardi ogni residuo di dubbio sull’opportunità o meno di rivelare
agli uomini il male della condizione umana in tutta la sua crudezza:
alla convinzione del «valore sociale del vero» (per usare una felice
espressione del Berardi)74 il Leopardi giunge perché l’esperienza gli ha
dimostrato che nell’epoca attuale il vuoto dell’ignoranza non è riem-
pito dalle gagliarde e magnanime illusioni dei primitivi, ma da un ibri-
do connubio delle deprimenti superstizioni medievali con un progres-
sismo superficiale e falso, incapace di dare la felicità all’uomo: meglio,
allora, quella «fiera compiacenza» che è prodotta da una lucida dispe-
razione, e che costituisce, in un mondo in cui l’azione eroica è ormai
preclusa, l’ultima e paradossale forma di «virtù» classicheggiante. I
Paralipomeni, con la negazione di ogni differenza qualitativa insupe-
rabile tra uomo e animali, con la rivendicazione del Settecento empi-
rista e antimetafisico contro l’Ottocento cristianeggiante, sono la pun-
ta estrema del progressismo ideologico leopardiano.
Sul piano politico, assistiamo (accanto a un rinvigorimento dell’av-
versione ad ogni posizione reazionaria e assolutista, testimoniato dai
Paralipomeni e dall’epistolario) a due successivi momenti della pole-
mica contro i moderati cattolici. Dapprima, nei primi canti dei Para-
lipomeni, un recupero di motivi patriottici di stampo classicheggiante,
con punte di xenofobia settaria e di esaltazione retorica della romanità
(fino alla protesta perché in Italia non si mettono ai bambini nomi di
antichi romani, ma di eroi barbari come Annibale o Arminio!).75 È
questo, indubbiamente, il momento più debole della polemica leopar-
diana, quello che ha più il carattere di mera ritorsione e che più fa
risaltare i limiti provinciali del patriottismo classicista in confronto
all’apertura europea del riformismo cattolico-liberale: limiti che più
tardi inficieranno il repubblicanesimo del Carducci e lo predisporran-
nazionalismo leopardiano (cfr. la mia recensione in «Belfagor» XXIII, 1968, p. 251 sg.). Sui
Paralipomeni, oltre i sempre validi saggi del Capucci cit. a p. 112, vedi anche Attilio Brilli, Satira
e mito nei «Paralipomeni» leopardiani, Urbino 1968.
74
iRagione e stile in Leopardi (cit. sopra, nota 15), p. 437 sgg.
75
iParalipomeni, I, st. 22-31; III, st. 31. Cfr. Binni, La nuova poetica cit., 2ª ed., p. 139 sg.
Per quel che riguarda l’invettiva contro certi linguisti tedeschi – non attribuibile tutta a mero
nazionalismo – cfr. La filologia di G. Leopardi, Firenze 1955, p. 225 sgg.
III. Alcune osservazioni sul pensiero del Leopardi 139
76
iPer l’uso nazionalistico di questi passi dei Paralipomeni da parte del Carducci vedi l’arti-
colo su Giacomo Leopardi deputato (in Opere, ed. nazionale, vol. XX, Bologna 1937, p. 193 sg.)
e la chiusa del discorso Allo scoprimento del busto di G. Leopardi (ibid., p. 204). Per l’entusia-
smo giovanile degli «Amici pedanti» per i Paralipomeni vedi la prefazione di Giuseppe Chiarini
all’edizioncina delle Poesie di G. Leopardi, Firenze, Sansoni, 1885, p. vi sg.
77
iVedi qui sopra, p. 132 sg.
78
iGinestra, v. 145 sg.: «Così fatti pensieri / quando fien, come fur, palesi al volgo / ...».
79
iGinestra, v. 119 sgg.: «... né gli odii e l’ire / fraterne, ancor più gravi / d’ogni altro danno,
accresce / alle miserie sue, l’uomo incolpando / del suo dolor, ma dà la colpa a quella / che vera-
mente è rea, che de’ mortali / madre è di parto e di voler matrigna»; v. 135 sgg.: «ed alle offe-
se / dell’uom armar la destra, e laccio porre / al vicino ed inciampo, / stolto crede così qual fora
in campo / cinto d’oste contraria, in sul più vivo / incalzar degli assalti, / gl’inimici obbliando,
acerbe gare / imprender con gli amici, / e sparger fuga e fulminar col brando / infra i propri guer-
rieri». In quel rifiuto della misantropia a cui abbiamo accennato sopra (nota 56) è implicito, per
il Leopardi, non solo il rifiuto degli odii privati e delle guerre tra popoli, ma anche dei contrasti
di politica interna. Vedi il pensiero dello Zibaldone, pp. 4070-72 (17 aprile 1824) in cui si dichia-
ra che gli uomini addossano ingiustamente ai propri governanti la colpa della loro infelicità, la
quale deriva da cause naturali ed è quindi destinata a rimanere identica sotto qualsiasi governo.
Una formulazione così recisa è senza dubbio legata a quella fase transitoria di apoliticità che il
Leopardi, come abbiamo detto, attraversò dal ’24 al ’27; tuttavia tra questo pensiero, quello
cit. alla nota 56 e la Ginestra vi è un’innegabile concatenazione.
140 III. Alcune osservazioni sul pensiero del Leopardi
80
iG. Pascoli, Pensieri e discorsi, Bologna 1907, p. 117: «E io so che, per grande poeta che
tu sia, il tuo tempo non è ancora venuto. Tu non sei il vate delle ardenti rivoluzioni nazionali;
tu non sei il profeta delle cupe secessioni sociali. Riconquistati i confini delle patrie, ricostitui-
ti i diritti delle classi, verrà il tuo evo. Perché in vero tu contempli il genere umano da così subli-
me vetta di pensiero e dolore, che non puoi scoprire, da così lungi e da così alto, tra gli uomini,
differenza di condizioni, di parti, di popolo, di razza. È un formicolìo di piccoli esseri uguali: e
se n’alza un murmure confuso di pianto»; p. 126: «Ora egli dice: ... E io vi dico che dovete avan-
zare, dovete gettare le illusioni, dovete acquistare la coscienza della vostra piccolezza, della
vostra solitudine, della vostra miseria, del vostro essere fortuito ed effimero. Perché da cotesta
coscienza verrà in voi lo appaciamento degli odi e delle ire fraterne ...». E vedi anche il succes-
sivo paragrafo 13 del medesimo saggio, che dimostra come i vv. 158-201 della Ginestra siano
tra le «fonti» del motivo, tipicamente pascoliano, dello sgomento dell’uomo dinanzi all’immen-
sità dell’universo.
III. Alcune osservazioni sul pensiero del Leopardi 141
81
iUno dei pochi punti deboli del libro del Binni è, a mio parere, la svalutazione del Tramonto
della luna (La nuova poetica cit., 2ª ed., p. 185 sg.), la quale mi sembra che nasca, assai più che
da una lettura «disinteressata», dal preconcetto secondo cui ogni ripresa di motivi «idillici» nel-
l’ultimo Leopardi costituirebbe un passo indietro. Ma alternanza di «idillico» e di «eroico», sia
pure in varia misura, vi è in tutta la poesia leopardiana (basti pensare alla chiusa aspra e sarca-
stica de La quiete dopo la tempesta); e quella «dolcezza d’un mesto coro», che il De Robertis rico-
nosceva soltanto all’ultima strofe, è il tono predominante di tutta la poesia, che davvero richia-
ma alla mente, per la perfetta compenetrazione di lirica e gnomica, alcuni dei più bei cori di
Euripide; d’altra parte la polemica antiteistica della terza strofe, che disturba chi nel Leopardi
cerca solo i toni idillici, avrebbe dovuto trovare proprio nel Binni un difensore e un interprete
adeguato. Ad ogni modo, anche a prescindere dalla valutazione del Tramonto della luna come
opera d’arte, non si può ignorarlo come testimonianza del pessimismo leopardiano, perdurante
fino all’ultimo.
82
iIl libro di Spartaco Borra, Spiriti e forme affini in Lucrezio e Leopardi (Bologna 1911, 2ª ed.
1934), è, con un certo ritardo, un frutto di questo clima culturale-psicologico, di cui per esem-
pio Arturo Graf fu un cospicuo rappresentante, e a cui va ricondotta anche la formazione gio-
vanile di Concetto Marchesi.
*iUna interessante professione di leopardismo in epoca positivistica ** è il saggio di Gia-
como Pighini, Il pessimismo nella scienza e G. Leopardi, «L’idea liberale» 30 nov. 1898-15 feb-
br. 1899, ristampato in Scritti di carattere letterario ed artistico, Parma 1964. L’autore sosteneva,
contro i positivisti alla Lombroso e alla Sergi, l’oggettiva validità scientifica del pessimismo leo-
pardiano. L’enfasi eccessiva dello stile e alcune ingenuità non debbono far disconoscere il valo-
re di questa presa di posizione, anche in rapporto a ciò che io (senza ancora conoscere lo scritto
del Pighini) osservavo sopra, pp. 126-28. I successivi scritti di vario argomento raccolti nel volu-
me del Pighini mostrano, invece, una rapida involuzione ideologica, dovuta anche alla totale ine-
sperienza politica di questo valente medico e storico della scienza.
142 III. Alcune osservazioni sul pensiero del Leopardi
ra e trista» (Paralip. IV, st. 16). Non si possono isolare i due primi bel-
lissimi versi di quest’ottava dai seguenti, senza dare dell’illuminismo
leopardiano un’immagine alterata. E nella Ginestra di nuovo il Leo-
pardi dirà, rivolto al proprio secolo: «Così ti spiacque il vero / dell’a-
spra sorte e del depresso loco / che natura ci diè. Per questo il tergo /
vigliaccamente rivolgesti al lume / che il fe palese». Tale interpreta-
zione leopardiana dell’illuminismo settecentesco non è, lo abbiamo già
visto, così arbitraria come spesso si è sostenuto; ma, senza dubbio,
costituisce una forte accentuazione di un motivo che nei grandi illu-
ministi francesi era rimasto in secondo piano.
Per quel che riguarda le prospettive della lotta tra uomo e natura,
la Ginestra non annulla, anzi conferma, proiettandoli su un più vasto
sfondo cosmico, questi versi della Palinodia (154-197):
Quale un fanciullo, con assidua cura,
di fogliolini e di fuscelli, in forma
o di tempio o di torre o di palazzo,
un edificio innalza; e come prima
fornito il mira, ad atterrarlo è volto,
perché gli stessi a lui fuscelli e fogli
per novo lavorio son di mestieri;
così natura ogni opra sua, quantunque
d’alto artificio a contemplar, non prima
vede perfetta, ch’a disfarla imprende,
le parti sciolte dispensando altrove.
E indarno a preservar se stesso ed altro
dal gioco reo, la cui ragion gli è chiusa
eternamente, il mortal seme accorre
mille virtudi oprando in mille guise
con dotta man: che, d’ogni sforzo in onta,
la natura crudel, fanciullo invitto,
il suo capriccio adempie, e senza posa
distruggendo e formando si trastulla.
Indi varia, infinita una famiglia
di mali immedicabili e di pene
preme il fragil mortale, a perir fatto
irreparabilmente: indi una forza
ostil, distruggitrice e dentro il fere
e di fuor da ogni lato, assidua, intenta
dal dì che nacque; e l’affatica e stanca,
essa indefatigata; insin ch’ei giace
alfin dall’empia madre oppresso e spento.
III. Alcune osservazioni sul pensiero del Leopardi 143
83
iG. Lukács, La distruzione della ragione, trad. ital., Torino 1959, p. 205 sgg.
84
iLuporini, p. 274 (cfr. anche p. 269: «Pessimismo e razionalismo si congiungono così per-
144 III. Alcune osservazioni sul pensiero del Leopardi
fettamente in Leopardi in questa costruttiva spinta verso il futuro, e ciò mostra quanto relative
siano queste accentuazioni assiologiche che si chiamano appunto pessimismo e ottimismo: come
esse cioè siano accentuazioni assiologiche che non vanno mai giudicate in se stesse, ma relativa-
mente alle concrete situazioni storiche in rapporto alle quali si sono prodotte»). Biral, La «posi-
zione storica» cit., p. 34: «Nella Ginestra riuscì a fissare un nuovo principio, e lasciò intuire che
quel bene che potrà esservi nella vita non sarà mai un dono elargito dalla natura o dalla sorte,
ma conquista faticosa della buona volontà degli uomini solidali in uno sforzo (...) per fare della
società un regnum hominis» (anche nelle pagine precedenti il Biral sostiene che il pessimismo leo-
pardiano rappresenta la crisi di una vecchia civiltà «fondata sull’idea dei doveri verso Dio, ver-
so il sovrano, verso le gerarchie costituite» e l’esigenza «di una moderna civiltà fondata sul vero
e sulla scienza»: un accenno in questo senso già in Gramsci, Lettere dal carcere, nuova ediz., Tori-
no 1965, p. 670). ** Più sfumata la posizione del Berardi; ma anch’egli tende a risolvere (p. 431
sgg.) il pessimismo leopardiano in illuminismo.
85
iMi sia lecito rimandare, per adesso, a un breve accenno in «Belfagor» XVIII, 1963, p. 10,
n. 30.*
*iVedi ora gli scritti citati nella prefazione alla seconda edizione, qui sopra, p. XXXVIII;
e, per la persistenza dell’«uomo naturale» nell’«uomo storico», già un accenno di C. Muscetta,
Cultura e poesia di G. G. Belli, Milano 1961, p. 264. **
III. Alcune osservazioni sul pensiero del Leopardi 145
86
i«Così, dell’uomo ignara e dell’etadi / ch’ei chiama antiche (...), / sta natura ognor verde,
anzi procede / per sì lungo cammino / che sembra star» (Ginestra, vv. 289-294). Una critica del
teleologismo che anticipa il concetto darwiniano di «selezione naturale» è nello Zibaldone (p.
4510), come notò G. A. Levi, Storia del pensiero di G. L., Torino 1911, p. 136.
87
iZib., 4279 sg. (13 aprile 1827); cfr. Luporini, p. 273 sg.
88
iLuporini, pp. 235, 241, 247-51, 253.
89
iZib., 4099 sg. (3 giugno 1824), 4127-32 (5-6 aprile 1825), e già p. 4087 (11 maggio 1824).
146 III. Alcune osservazioni sul pensiero del Leopardi
90
iZib., 4175 (col richiamo di Voltaire, per cui vedi sopra, p. 122 e n. 40); Palinodia, v. 197
sgg.: «ma novo e quasi / divin consiglio ritrovàr gli eccelsi / spirti del secol mio: che, non poten-
do / felice in terra far persona alcuna, / l’uomo obbliando, a ricercar si diero / una comun felici-
tade; e quella / trovata agevolmente, essi di molti / tristi e miseri tutti, un popol fanno / lieto e
felice». Si noti ancora che le catastrofi naturali che, come il Leopardi più volte sottolinea, han-
no annientato estesi gruppi umani e annienteranno alla fine l’umanità stessa (vedi sopra, nota
62), costituiscono tipici casi di «negazione adialettica», non di negazione-conservazione.
III. Alcune osservazioni sul pensiero del Leopardi 147
1
iZib., 1347 (20 luglio 1821). Quanto all’idea che il Leopardi si era fatta dell’ottimismo leib-
niziano come di una negazione del concetto di «bene assoluto», cfr. Zib., 391 sg.
*iSu questo stesso argomento un importante saggio è stato scritto da Vincenzo Di Benedet-
to, G. Leopardi e i filosofi antichi, in «Critica storica» VI, 1967, p. 289 sgg. (cfr. anche la recen-
sione dello stesso studioso al presente volume, in «Riv. di filologia» XCVII, 1969, p. 114 sgg.).
I principali risultati del saggio del Di Benedetto sono: 1) la dimostrazione di un influsso dello
scetticismo antico (conosciuto specialmente attraverso Luciano e il libro IX di Diogene Laerzio)
sul pensiero leopardiano, dal Saggio sopra gli errori popolari fino ai pensieri del 1821; 2) la preci-
sazione dell’atteggiamento (fondamentalmente, ma non esclusivamente polemico) del Leopardi
di fronte a un aspetto particolare del platonismo, cioè alla concezione dell’amore esposta nel Sim-
posio; 3) l’analisi di ciò che è specificamente leopardiano nelle libere traduzioni da lirici e comi-
ci greci, specialmente da Simonide; 4) alcune precisazioni sull’interpretazione che il Leopardi dà
della figura di Socrate nello Zibaldone e nell’Ottonieri; 5) lo studio della forma nuova che nel-
l’ultimo Leopardi assume la contrapposizione fra antichi e moderni: la superiorità degli antichi
viene affermata in modo più reciso e globale, ed estesa alla filosofia; gli antichi sono considera-
ti ora come i depositari di una desolata sapienza pessimistica, che i moderni avrebbero cercato
di mascherare e di eludere con vani sofismi; ne risulta una visione del pensiero antico più asto-
rica [cr] ** e indifferenziata (almeno in alcune affermazioni), ma d’altra parte la rivendicazione
della maggiore umanità degli antichi costituisce uno dei motivi che confluiranno nell’umanitari-
smo polemico della Ginestra. Su questo saggio vedi anche qui {sotto}, pp. 234, 248 sg. **
IV. Il Leopardi e i filosofi antichi 149
2
iCfr. Indice delle produzioni di me Giacomo Leopardi dall’anno 1809 in poi, num. 27 e 28
(pubbl. da A. Donati nell’edizione dei Puerili e abbozzi vari, Bari 1924, p. 270, con l’avverten-
za che quei riassunti «mancano nelle carte leopardiane di Recanati», e poi di nuovo dal Flora,
PP, II, p. 1108). Dell’opera del Jacquier la biblioteca Leopardi possedeva l’edizione di Venezia
1785: nel vol. II era esposta la metafisica, che il Jacquier suddivideva in «Ontologia» e «Pneu-
matica» (cioè dottrina delle sostanze spirituali).
3
iTali opere si trovano tuttora specialmente nella sala I, sezioni XI-XIII («Philosophia») e
nella sala II, sezioni XII-XIV («Polemica»).
4
iNel pubblicare alcuni scritti del Leopardi fanciullo, gli studiosi hanno dato la preferenza a
quelli in versi. L’unica prosa di argomento filosofico finora pubblicata (e senza le note di cui il
Leopardi stesso la corredò) è il Dialogo filosofico sopra un moderno libro intitolato «Analisi delle
idee ad uso della gioventù» (Donati, ed. cit., p. 119 sgg.; Flora, PP, II, p. 1082 sgg.). Eppure la
conoscenza di quei componimenti scolastici è indispensabile per avere un quadro completo di ciò
che il Leopardi lesse. Spero di darne io prossimamente un’edizione.
150 IV. Il Leopardi e i filosofi antichi
9
iVedi soprattutto il quarto quaderno delle Dissertazioni filosofiche, p. 13 sgg. dell’autografo:
il Leopardi ammette che la dottrina morale platonica «è certamente consentanea in gran parte,
a quanto insegnato ci viene dalla Cattolica Fede»; ma dichiara che la verità piena è stata rag-
giunta – per quanto era possibile col solo aiuto della ragione – da Aristotele, e di lì in poi si limi-
ta a esporre i principii etici aristotelici.
152 IV. Il Leopardi e i filosofi antichi
10
iCfr. sopra, p. 51 n. 33.
11
iVedi per esempio i riferimenti a questa edizione nell’Esichio Milesio, pp. 171 n. 7, 175 n.
8 ecc. dell’ed. Cugnoni (G. L., Opere inedite, I, Halle 1878), e nel Porfirio, pp. 34 n. 284, 35 n.
87, 37 n. 312, 50 n. 462 ecc. dell’autografo (Biblioteca Nazionale di Firenze, Banco rari 342,
num. 5). **
*iErsilia Alessandrone (rec. cit., p. 330 n. 9) ritiene che già le letture di opere di divulga-
zione scientifica orientate in senso razionalistico (Fontenelle, Algarotti, Thomas Brown, Bailly),
compiute dal Leopardi negli anni 1813-15 per la compilazione della Storia dell’astronomia e del
Saggio sopra gli errori popolari **, lo abbiano condotto «a discostarsi notevolmente dai giudizi
correnti presso gli apologeti cattolici (...), allontanandosi dal concetto che la saggezza fosse
appannaggio esclusivo dei partecipi della Rivelazione».
IV. Il Leopardi e i filosofi antichi 153
per esser rimasti essi stessi vittime dei pregiudizi popolari, o addirit-
tura per essersene fatti promotori (e allora il Leopardi, come già nella
Storia dell’astronomia, si abbandona a tirate sulla discordia e l’assur-
dità delle loro teorie che ricordano quella, già citata, del Muzzarelli);12
a volte, invece, appaiono come savi che cercarono di opporsi alle
superstizioni del volgo.
Questo secondo punto di vista, direi, predomina nel Saggio: quasi
in ogni capitolo l’esposizione degli errori antichi è accompagnata dal-
la menzione dei pochi eletti (non solo filosofi e scienziati, ma spesso
anche poeti) che ne rimasero immuni. Nel calore della sua polemica
anti-superstiziosa, il Leopardi elargisce riconoscimenti non solo ai fi-
losofi greci e romani spiritualisti (da Pitagora a Platone a Cicerone e
Seneca), ma, qua e là, anche a un Democrito, a un Epicuro;13 e osa ter-
minare il quarto capitolo con la citazione enfatica del verso di Lucrezio
(conosciuto con tutta probabilità di seconda mano, come la maggior
parte degli autori citati nel Saggio): O miseras hominum mentes, o pec-
tora caeca!
Si tratta, naturalmente, di audacie occasionali e ancora un po’ for-
tuite. La religiosità del Leopardi, prima di dileguarsi definitivamente,
conosce ancora periodi di travaglio e di meditazione dolorosa, ritorni
di ascetismo: anzi, prima di respingere il cristianesimo, egli si sforzerà
abbastanza a lungo, come è noto, di interpretare in chiave cristiana il
proprio nascente pessimismo. L’Appressamento della morte (novembre-
dicembre 1816) ci mostra quest’altra faccia del cristianesimo giovani-
le leopardiano, opposta a quella, fiduciosamente razionalistica, delle
Dissertazioni fanciullesche e degli Errori popolari. E qui, in uno dei
brani più scolasticamente ricalcati su Dante e sui Trionfi (canto III,
vv. 31-108), ritorna la contrapposizione fra i tre grandi filosofi spiri-
tualisti – Socrate Platone Aristotele – e gli altri, con punte polemiche
12
iVedi per esempio il cap. IX (PP, II, p. 310 sg.): «Accorsero i filosofi in aiuto del popolo,
ma Anassagora fece del sole un ferro infocato, Alcmeone lo credé una lastra, Eraclito un battello
(...). Il numero degli errori si accrebbe, e i filosofi continuarono a dire (...). La filosofia degli anti-
chi era la scienza delle contese; le scuole pubbliche che essi aveano, erano le sedi della confu-
sione e del disordine. Aristotele condannava ciò che Platone gli aveva insegnato. Socrate si ridea
di Antistene, e Zenone si scandolezzava di Epicuro. Pitagorici, Platonici, Peripatetici, Stoici,
Cinici, Epicurei, Scettici, Cirenaici, Megarici, Eclettici, si accapigliavano, si faceano beffe gli
uni degli altri, mentre qualche vero saggio si rideva di tutti». Così a pp. 312-314, 318 sgg., 324,
e già nella Storia dell’Astronomia (1813) in tutto il cap. II, specialmente p. 809 ed. Flora.
13
iPP, II, pp. 270, 131.
154 IV. Il Leopardi e i filosofi antichi
14
iChe l’allusione sia rivolta ad Epicuro (non a Diogene cinico o ad Antistene, come è stato
supposto) ha sostenuto giustamente H. L. Scheel, Leopardi und die Antike, München 1959, p.
149. Una conferma in «Gnomon» 1960, p. 583. Il Leopardi giovinetto riecheggia, ma in tono
di sdegno moralistico, [cr] la sorridente espressione di Orazio Epicuri de grege porcum.
15
iZib., 31. Per la datazione cfr. gli indizi raccolti da G. A. Levi in «Giorn. stor. letter. ital.»
XCII, 1928, p. 216.
IV. Il Leopardi e i filosofi antichi 155
16
iCome ricorda lo stesso Leopardi, Zib., 274, 331.
17
iZib., 22 sg. (databile tra il febbraio e il settembre 1818, cfr. Levi, art. cit., p. 216). Le
sottolineature sono mie.
156 IV. Il Leopardi e i filosofi antichi
sioni d’una volta, era venuta la ragione, non importava un fico la patria
la gloria il vantaggio degli altri dei posteri ecc. (...); così perderono la
libertà, non si arrivò a conservare e difendere quello che pur Bruto per
un avanzo d’illusioni aveva fatto, vennero gl’imperatori, crebbe la lus-
suria e l’ignavia, e poco dopo con tanto più filosofia, libri scienza espe-
rienza storia, erano barbari».18
Ribadì questo concetto nel giugno del ’20, durante la lettura del
Montesquieu: «I romani non furono mai così filosofi come quando
inclinarono alla barbarie, cioè a tempo della tirannia. E parimente
negli anni che la precedettero, i romani aveano fatti infiniti progressi
nella filosofia e nella cognizione delle cose, ch’era nuova per loro».19
E ancora: «Vedete che cosa avvenne ai romani quando s’introdusse
fra loro la filosofia e l’egoismo, in luogo del patriotismo. Il qual egoi-
smo è così forte che dopo la morte di Cesare, quando parea naturalis-
simo, che le idee antiche si risvegliassero ne’ romani, fa pietà il veder-
li così torpidi, così indifferenti, così tartarughe, così marmorei verso
le cose pubbliche».20
Soprattutto da quest’ultimo pensiero nasce, uno o due anni dopo,
quel gioiello di prosa satirica che è il dialogo Filosofo greco, Murco
senatore romano, Popolo romano, Congiurati.21 Qui il Filosofo greco è
il teorizzatore di quella viltà – dovuta al prepotere della ragione e alla
morte delle illusioni – di cui il senatore romano Murco è l’incarnazio-
ne. Quando Murco afferma che «questo non è il secolo della virtù ma
della verità» e che l’incivilimento ha distrutto ogni passione magna-
18
iQuesto scorcio cronologico, per cui la caduta della repubblica romana è vista come l’im-
mediato antecedente della «barbarie», ritorna nella prima stanza del Bruto minore, vv. 3-9.
19
iZib., 114 sg.
20
iZib., 161 (8 luglio 1820).
21
iPP, I, p. 1057 sgg. (dalle carte napoletane). I primi editori (Scritti vari inediti, Firenze
2
1910 , p. 306) assegnarono il dialogo al 1822, senza addurne i motivi. Lo Scarpa (G. L., Opere
a cura di R. Bacchelli e G. Scarpa, Milano 1935, p. 1292) lo riferisce all’agosto del ’20, suppo-
nendo – ma è ipotesi labile – che ad esso alluda il Leopardi nella lettera al Giordani del 4 set-
tembre 1820: «In questi giorni, quasi per vendicarmi del mondo, e quasi anche della virtù, ho
immaginato e abbozzato certe prosette satiriche». I riferimenti al libro II di Velleio Patercolo,
che si trovano annotati all’inizio del dialogo, indicherebbero come terminus post quem il gennaio
del ’21, quando il Leopardi lesse quel libro (cfr. Zib., 465-81). Tuttavia l’esame dell’autografo
dimostra che tali riferimenti furono aggiunti dal Leopardi in un secondo tempo. Certo è, ad ogni
modo, che il germe del dialogo si trova già nel pensiero del luglio 1820 da noi citato sopra. Si
osservi, oltre la concordanza generale di contenuto, il ritornare dell’immagine della tartaruga:
nello Zibaldone: «fa pietà il vederli così torpidi (...), così tartarughe»; nel dialogo, p. 1058: «la
ragione è pigra come una tartaruga».
IV. Il Leopardi e i filosofi antichi 157
22
i«Sta» legge il Donati, e parrebbe più giusto; ma l’autografo, ha chiaramente «Sto», e così
gli altri editori. ** [Sto è confermato definitivamente da Zib. 976.]
23
iZib., 274 (14 ottobre 1820). Il Montesquieu, nel passo a cui si riferisce il Leopardi, opi-
nava che «la secte d’Epicure (...) contribua beaucoup à gâter le coeur et l’esprit des Romains»:
cfr. Zib., 331.
24
iZib., 331 sg. (16 novembre 1820).
158 IV. Il Leopardi e i filosofi antichi
25
iVedi specialmente Zib., 337: «Del resto è vero che il Cristianesimo ravvivò il mondo illan-
guidito dal sapere, ma siccome, anche considerandolo com’errore, era appunto un errore nato dai
lumi e non dall’ignoranza e dalla natura, perciò la vita e forza ch’ei diede al mondo, fu come la
forza che un corpo debole e malato riceve da’ liquori spiritosi, forza non solamente effimera, ma
nociva, e produttrice di maggiore debolezza» (tutto il resto di questo pensiero è da leggere). Cfr.
Zib., 421 e, per la distinzione leopardiana fra «primitivo» e «barbaro», qui sopra, pp. 118-119.
26
iVedi in particolare il lungo pensiero del 9-15 dicembre 1820, Zib., 393-420; e qui sopra,
p. 136 n. 71.
IV. Il Leopardi e i filosofi antichi 159
27
iZib., 520 sgg. (17 gennaio 1821); cfr. gli altri passi elencati dal Leopardi stesso nell’Indi-
ce del mio Zibaldone alla voce «Filosofia perfetta, e mezza Filosofia» (vol. II, p. 1388 Flora).
160 IV. Il Leopardi e i filosofi antichi
28
iVedi – per citare soltanto due punti estremi di questa evoluzione – da un lato Zib., 1228 sg.,
1231 (26-27 giugno 1821: «Dove regna la filosofia, quivi non è vera poesia ... Tra questa e quella
esiste una barriera insormontabile, una nemicizia giurata e mortale»), dall’altro 3382 sg. (8 set-
tembre 1823) e il cap. VII del Parini.
29
iZib., 1359 sg. (20 luglio 1821). Più tardi, nel capitolo del Parini cit. alla nota precedente,
riconoscerà anche a Leibniz (e, nella prima stesura, anche a Locke) attitudine artistica.
30
iZib., 3386 (8 settembre 1823).
IV. Il Leopardi e i filosofi antichi 161
In questo quadro che egli si era fatto della filosofia antica spiccava
però una vistosa eccezione. Già nel novembre del 1820 aveva letto in
Diogene Laerzio le ultime parole di Teofrasto ai discepoli, in cui si
affermava la vanità della gloria e delle illusioni.32 C’era dunque stato
già nell’antichità un filosofo pessimista! Il Leopardi non aveva anco-
ra notizia, a quell’epoca, dei molti altri pensatori greci che, ben più
propriamente di Teofrasto, si possono dire pessimisti. Quelle parole
di Teofrasto gli apparvero perciò una voce isolata di pessimismo ragio-
nato (non puramente momentaneo e passionale) in un mondo ancora
rigoglioso di illusioni: «Io credo di essere il primo a notare che Teo-
frasto, essendo filosofo e maestro di scuola (...), anteriore oltracciò ad
Epicuro, e certamente non Epicureo né per vita né per massime, si
accostò forse più di qualunque altro alla cognizione di quelle triste
verità che solamente gli ultimi secoli hanno veramente distinte e poste
in chiaro, e della falsità di quelle illusioni che solamente a’ dì nostri
hanno perduto il loro splendore e vigor naturale» (Zib., 317).
31
iZib., 1352 (20 luglio 1821): 1465 (7 agosto 1821), dove tuttavia il Leopardi riconosce acu-
tamente alla metafisica antica (e alle sue propaggini cristiane) la funzione positiva di aver dato
impulso alla creazione del linguaggio astratto; 2709 sg.; 2711 sg. (21 maggio 1823): «I filosofi
antichi seguivano la speculazione, l’immaginazione e il raziocinio. I moderni l’osservazione e l’e-
sperienza. (E questa è la gran diversità fra la filosofia antica e la moderna)»; 3321 (1-2 settem-
bre 1823). In tutti questi pensieri si svolge una specie di querelle des anciens et des modernes, in
cui la nostalgia delle illusioni antiche è contrastata dall’orgoglio illuministico per le conquiste del
pensiero moderno.
32
iDiogene Laerzio V 40 sg. Il passo è tradotto dal Leopardi in Zib., 316 e, con poche modi-
fiche formali, nella Comparazione delle sentenze ecc. (PP, I, p. 1038). Per l’interpretazione di
καταλαζονε)εται («disprezza») il Leopardi seguì, credo giustamente, l’edizione di Amsterdam
(cit. qui sopra, p. 152), nella quale era anche riportata, a conferma, una nota dello Stefano. Le
altre interpretazioni («Multa dulcia gloriae obtentu vita mentitur», Ambrogio Traversari, ripor-
tato nell’ed. di Amsterdam; «La vita rivela che molte gioie sono mera parvenza», M. Gigante,
Bari 1962) mi sembrano incapaci di render ragione di δι τν δ(ξαν. Sulle difficoltà che pre-
senta la concatenazione delle idee in questa parlata di Teofrasto quale è riferita da Diogene Laer-
zio vedi F. Tocco, Leopardi e Teofrasto, in «Atene e Roma» 1899, col. 242 sgg. Le difficoltà
sono, tuttavia, meno gravi di quanto apparissero al Tocco; non bisogna dimenticare che una cer-
ta discontinuità logica è frequentissima in testi greci.
162 IV. Il Leopardi e i filosofi antichi
33
iSu questa notizia, riferita da Plutarco Mor. 1126 F e 1097 B, cfr. O. Regenbogen in Pauly-
Wissowa, Suppl. VII (1940), col. 1359.
34
iPP, I, p. 1040. Sulla Comparazione vedi l’interessante analisi di G. Berardi in «Belfagor»
XVIII, 1963, pp. 433-438.
35
iArt. cit. qui sopra, nota 32. Per analoghi giudizi del Tocco su altri scritti leopardiani cfr.
pp. 172 n. 65, 180 n. 87.
IV. Il Leopardi e i filosofi antichi 163
36
iLi lesse poi nell’ottobre-novembre 1825: cfr. Zib., 4146-49 e l’indice delle letture pubbli-
cato dal Porena, Scritti leopardiani, p. 428, num. 341.
37
iZib., 316 sgg. I passi di Cicerone contro cui polemizza il Leopardi sono Tusc. V 25 (cfr.
III 21) e De fin. V 12. Nell’edizione del Flora, vol. I, p. 1594 le note 1 e 2 a p. 287 vanno scam-
biate di posto. Si noti ancora che, come mi conferma Giuseppe Pacella, nella citazione di Tusc.
V 25 il Leopardi scrisse effettivamente laudarit (che è la lezione giusta), non laudavit come stam-
pano gli editori fiorentini e il Flora.
164 IV. Il Leopardi e i filosofi antichi
38
iCfr. Zib., 2669 sgg. (sul pessimismo antico specialmente 2671-2675, 2686) e l’elenco del-
le letture leopardiane a Roma pubblicato dal Porena, Scritti leopardiani, p. 444. **
39
iSui motivi di questa limitazione delle letture leopardiane di classici greci cfr. La filologia di
G. Leopardi, Firenze 1955, p. 29 sgg. (un’edizione cinquecentesca dell’Aiace, Antigone ed Elet-
tra di Sofocle c’era, tuttavia, nella biblioteca Leopardi, come risulta dal Catalogo in «Atti e mem.
Deput. storia patria Marche» 1899, p. 380); «Atene e Roma» 1959, p. 91; «Gnomon» 1960,
p. 583. Diversamente giudica Piero Treves, «Rendic. Istit. Lombardo» 1958, p. 420, n. 39. **
40
iZib., 2673; cfr. l’elenco cit. alla nota 38, ibid.
41
iCfr. Zib., ed. Flora, vol. II, p. 1340 (nota a p. 36). Il verso di Menandro (fr. 125 Kock)
nella versione dell’Adriani suonava così: «In giovinezza muor quel che ama Iddio». Il Leopar-
di, per quanto risulta, non ebbe poi occasione di leggere la Consolatio ad Apollonium in greco;
ma il testo originale del verso menandreo gli capitò sott’occhio qualche anno dopo, leggendo Sto-
beo IV 52, 27 (vol. V, p. 1081 Hense): cfr. la nota del Leopardi al Tristano (PP, I, p. 1033, ulti-
ma nota) e, per la lettura di Stobeo, qui sotto, p. 165 e n. 44.
42
iCit. in Zib., 2671. L’ignoranza del pessimismo greco, che Piero Treves (Lo studio dell’an-
tichità classica nell’Ottocento, Milano-Napoli 1962, p. 497, n. 1) attribuisce al Leopardi in gene-
rale, va dunque riferita soltanto al p r i m o Leopardi: cfr. M. Pavan, «La parola del passato»
1963, p. 472.
43
iGià un accenno in Zib., 507 (15 gennaio 1821), dove tuttavia la ribellione di Giobbe con-
tro la divinità appariva ancora al Leopardi consona al modo di pensare degli antichi (vedi qui
sopra, p. 162). Vedi ancora Zib., 1849 (7 ottobre 1821). Molto più tardi, nel Tristano, dirà che
IV. Il Leopardi e i filosofi antichi 165
il pessimismo è antico «quanto Salomone e quanto Omero, e i poeti e i filosofi più antichi che
si conoscano»; e nei Nuovi credenti (vv. 2, 75) contrapporrà polemicamente il pessimismo di
Salomone e di Giobbe, da lui condiviso, al panglossismo dei moderni cattolici. Si veda anche il
breve frammento di versione in terzine del Libro di Giobbe (PP, I, p. 653), che non credo sia da
assegnare al ’19 con lo Scarpa e il Flora, e tanto meno al ’16 coi primi editori, ma almeno al ’21
o anche molto più tardi.
44
iCitazioni dirette da Stobeo vi sono nello Zibaldone a cominciare da p. 4019 (20 gennaio
1824): cfr. l’indice del Flora. Vedi anche le note del Leopardi alle Operette morali, in PP, I,
p. 1032 sg. (note 37 e 62). **
166 IV. Il Leopardi e i filosofi antichi
civiltà eccessiva, triste privilegio dei moderni. Nel corso degli anni
successivi il rapporto era destinato a invertirsi; e allora l’infelicità
degli antichi doveva apparire al Leopardi come sostanzialmente omo-
genea a quella dei moderni: come una caratteristica dell’«uomo in
generale».45
Le Operette morali (mi riferisco per ora a quelle composte nel ’24)
rispecchiano già in larga misura questa nuova visione del pessimismo
antico. C’è, sì, ancora in esse la contrapposizione antichi-moderni (alla
quale, del resto, il Leopardi non rinuncerà mai del tutto: il riconosci-
mento che l’umanità è stata sempre infelice non annulla per lui la con-
statazione che nel mondo moderno nuovi motivi di infelicità si sono
aggiunti agli originari). C’è anche, in più punti, la persistente convin-
zione che l’attivismo e l’ottimismo morale fossero ideologie adeguate
all’antichità e, all’inverso, il pessimismo e l’indifferentismo lo siano
all’età moderna. Filippo Ottonieri, nel professarsi scherzosamente
epicureo, «condannava Epicuro; dicendo che ai tempi e nella nazione
di colui, molto maggior diletto si poteva trarre dagli studi della virtù
e della gloria, che dall’ozio, dalla negligenza, e dall’uso delle voluttà
del corpo (...). Ed affermava che la dottrina epicurea, proporzionatis-
sima all’età moderna, fu del tutto aliena dall’antica».46 Ma per lo più
i filosofi e i poeti-filosofi della Grecia antica sono ricordati nelle Ope-
rette per mettere in risalto non la differenza, ma la sostanziale identità
della condizione umana nell’evo antico e nel moderno. Il Leopardi si
compiace di contrapporre polemicamente all’ottimismo moderno la
voce dei pensatori antichi che avevano già riconosciuto la vanità e l’in-
felicità della vita. Basta scorrere le note del Leopardi stesso alle Ope-
rette per ritrovarvi citate quelle testimonianze sul pessimismo greco
che egli aveva raccolto l’anno prima nello Zibaldone, e altre dello stesso
genere.47 Circola già, dunque, in queste Operette il motivo che diven-
terà poi del tutto esplicito nel Tristano: «Io diceva queste cose fra me,
quasi come se quella filosofia dolorosa fosse d’invenzione mia; veden-
dola così rifiutata da tutti, come si rifiutano le cose nuove e non più
sentite. Ma poi, ripensando, mi ricordai ch’ella era tanto nuova, quan-
45
iVedi il saggio precedente, pp. 143 sgg.
46
iDetti memorabili di Filippo Ottonieri, cap. I; cfr. cap. VI, terzo capoverso. Per l’atteggia-
mento del Leopardi verso l’epicureismo, vedi più oltre, p. 177 sg.
47
iVedi, in PP, I, pp. 1029-1033, le note 1, 22, 23, 31, 37, 48 e i passi relativi del testo.
IV. Il Leopardi e i filosofi antichi 167
48
iCfr. la nota del Leopardi a questo passo, e qui sopra, p. 164 sg. Di queste riprese di moti-
vi pessimistici antichi fanno parte anche le due libere versioni «dal greco di Simonide» che il
Leopardi incluse nei Canti (XL, XLI: un brano della prima anche nel Parini, cap. X) e le due ver-
sioni da Alessi Turio (PP, I, p. 459 sg.).
49
iZib., 2800-03 (21 giugno 1823).
50
iVedi per esempio Zib., 660 (sull’«insensibilità dell’atto della morte», pensiero sviluppato
poi nel Ruysch) e 661 («dell’influenza del corpo sull’animo»).
51
iSui Memorabili di Senofonte (la cui ispirazione è visibile fin nel titolo) e sulla Vita di
Demonatte di Luciano hanno già richiamato l’attenzione i commentatori. Ma vedi anche, in Dio-
gene Laerzio, le citazioni di detti memorabili quali I 26; I 59; I 69, e molti altri.
*iSu Omero come maestro di saggezza pessimistica, e in generale sul rapporto fra il Leopardi
e il pessimismo antico, vedi ora anche G. Lonardi, Classicismo e utopia cit., p. 91 sgg.; e qui {sot-
to}, p. 248.
168 IV. Il Leopardi e i filosofi antichi
54
iCfr. F. Moroncini, proemio alle Opere minori approvate del Leopardi, Bologna 1931, I,
p. LXXXIV, n. 1; Leopardi, Epistolario ed. Moroncini, I, p. 37, n. 2.
55
iTali contributi, tuttora inediti, saranno pubblicati da G. Pacella e da me nell’edizione
degli scritti filologici leopardiani. Vedi per ora La filologia di G. Leopardi, pp. 147-152.*
56
iTale tesi (giustamente respinta dal Luporini, Filos. vecchi e nuovi cit., p. 241) fu sostenuta
per esempio da F. Tocco, Il carattere della filosofia leopardiana, nel vol. di vari autori Da Dante
al Leopardi (già cit. a p. 130 n. 60), p. 573 sg. Più equilibrato e veritiero è il giudizio di Giovanni
Setti, La Grecia letteraria nei «pensieri» di G. Leopardi, Livorno 1906, p. 180 sgg.; tuttavia il pas-
so dello Zibaldone, 1712 sg. (= vol. III, pp. 325 sg. dell’ed. Le Monnier) fu completamente frain-
teso dal Setti (p. 185), il quale, fermandosi alla prima frase, vi scorse un’adesione al platonismo:
il Leopardi, invece, intende dire che se si ammettono valori assoluti e metempirici, si deve neces-
sariamente ammettere la teoria platonica delle idee, e conclude (p. 1714): «Ora, trovate false e
insussistenti le idee di Platone, è certissimo che qualunque negazione e affermazione assoluta
rovina interamente da se, ed è maraviglioso come abbiamo distrutte quelle, senza punto dubi-
tar di queste». Su un nuovo tentativo di interpretazione platoneggiante del Leopardi, dovuto a
V. Cilento, vedi qui sotto, p. 171, n. 62.
57
iZib., 154 (6 luglio 1820, col riferimento a Montesquieu), 1340 (17 luglio 1821), 1461 sgg.
(7 agosto 1821), 1712 sgg. (16 settembre 1821 cit. alla nota precedente). Vedi anche i passi cit.
nelle due note seguenti.
58
iZib., 1638 sgg. (5-7 settembre 1821): «la morale dipende da Dio ... e Dio non dipende
punto dalla morale».
*iVedi ora G. Leopardi, Scritta filologici a cura di G. Pacella e S. Timpanaro, Firenze 1969,
p. 469 sgg.
170 IV. Il Leopardi e i filosofi antichi
59
iZib., 209, 223, 661 (citazioni tratte da Diogene Laerzio). Vedi, più tardi (Zib., 2660, 22
dicembre 1822) i richiami al discorso di Furio Filo sulla relatività del concetto di giustizia nel
De re publica di Cicerone, e ad altri passi citati dal Mai nella nota a questo passo ciceroniano.
60
iZib., 2672, 12 febbraio 1823. Cfr. la Palinodia, vv. 69-81.
61
iVerso i neoplatonici che aveva studiato da giovinetto (quando aveva lavorato attorno alla
Vita Plotini di Porfirio) il Leopardi assunse prestissimo un atteggiamento di insofferenza: vedi
il Discorso Della fama di Orazio presso gli antichi (1816), in cui egli deplora che siano andati per-
duti tanti capolavori dell’antichità classica, e si siano invece conservati i commenti dei neopla-
tonici ai dialoghi di Platone, «e gran parte di Filone, di Sesto Empirico, di Porfirio, dei misteri
di Plotino più eterni che l’argomento del settimo della terza Enneade», e così via (PP, II, p. 627).
Un accenno sprezzante a Porfirio si trova anche nella Lettera al Giordani sopra il Frontone del Mai,
del 1818 (PP, II, p. 657).
IV. Il Leopardi e i filosofi antichi 171
vare con ragioni quello che vogliono, quando sono obbligati a confes-
sare che argomenti per provarlo non vi sono, che anzi abbondano gli
argomenti in contrario, ricorrono alla gran prova del sentimento, e pre-
tendono che questo debba esser l’unica guida, canone, maestro della
verità nelle cose che più importano? E noi che ridiamo di questi passi
di Damascio, non ridiamo di queste sentenze moderne, anzi le ripe-
tiamo e magnifichiamo. Questo è proprio il caso del mutato nomine
(propriamente il nome e non altro) de te fabula (...). Del resto, ho det-
to che questi principii erano comuni e dominanti in quei secoli; ma
Damascio ha ragion di dire, ξα'ρετον δ’ν ατ$ ec., e di fare Isi-
doro singolare dagli altri, perché pochi filosofi anteriori o contempo-
ranei (e così posteriori) avevano osato così sfacciatamente ripudiar la
ragione, o sottometterla al sentimento, all’entusiasmo, all’ispirazione
(...); deprimere e condannare Aristotele, appunto perché seguace το
ναγκα'ου, cioè dei metodi esatti di conoscere il vero, di ragionare,
di convincere, per principii incontrastabili, conseguenze necessaria-
mente dedotte; ed anteporgli Platone, Pitagora ec., perché non ragio-
natori, perché πιστε)οντας al libero sentimento e all’immaginario,
che Isidoro chiama divino ec.».
«Qui mira e qui ti specchia», verrebbe fatto di dire leopardiana-
mente a Vincenzo Cilento, che con sovrano disprezzo di ogni docu-
mentazione, con un puro lavoro di arbitrio e di fantasia, ha recente-
mente costruito un Leopardi non soltanto platonico, ma addirittura
neoplatonico!62
Nel Dialogo di Plotino e di Porfirio, scritto un anno dopo questo
pensiero dello Zibaldone, il divieto del suicidio è combattuto da Por-
firio con quella lunga e appassionata apostrofe a Platone che, se è
potuta sembrare una forzatura dell’equilibrio compositivo e lirico del-
l’operetta,63 rappresenta tuttavia un’ulteriore, importante espressione
dell’antiplatonismo leopardiano. Un antiplatonismo, certo, – questo e
quello del pensiero del ’26 –, sotto il quale traspare ben chiaro l’anti-
cristianesimo. Ma a chi tenga presente quel clima di spiritualismo pla-
toneggiante della Restaurazione a cui abbiamo poco fa accennato, la
62
iV. Cilento, Leopardi e l’antico, in «Studi di varia umanità in onore di F. Flora», Milano
1963, p. 601 sgg. Giuste riserve su questo saggio ha già espresso M. Capucci in «Convivium»
XXXII, 1964, p. 100 sg. Si veda anche la critica leopardiana dell’antiedonismo di «Pitagora»
(cioè del neoplatonico Giamblico) in Zib., 4431.
63
iMa vedi le osservazioni di Emilio Bigi (Dalle «Operette morali» ai «Grandi Idilli», in «Bel-
fagor» XVIII, 1963, pp. 146-148) che limitano molto questo giudizio corrente.
172 IV. Il Leopardi e i filosofi antichi
64
iVedi L. Blasucci, Su una lettera «insincera» di G. L., in «Giorn. stor. letter. ital.» CXLII,
1965, p. 88 sgg. Il Bunsen, pur diversissimo dall’Antici per le idee politiche e per la qualità del
suo cristianesimo, si illuse anch’egli, in base alla lettera del 3 agosto 1825 di cui ignorava il retro-
scena, che il Leopardi aderisse al platonismo allora di moda. Cfr. la sua lettera del 5 luglio 1835
(Epistolario del Leopardi, ed. Moroncini, VI, p. 291): «La lettura delle vostre opere filosofiche
m’aveva ispirate alcune idee che desidero comunicarvi. Per confessarvelo francamente, non vi
ritrovo in molte parti il mio antico platonico ...».**
65
iIl Tocco (Il dialogo leopardiano di Plotino e di Porfirio, in «Studi ital. di filol. classica» VIII,
1900, pp. 497 sgg. non va oltre l’ovvia constatazione della diversità tra gli interlocutori del dia-
logo e i personaggi storici reali. Sulla concezione leopardiana del neoplatonismo come fenome-
no di civiltà stanca e morente, vedi sopra, p. 158. È interessante osservare come anche il Gior-
dani, in una lettera all’Ambrosoli (VII, 89 n.), gli suggerisse di assumere i neoplatonici come
pretesto di una polemica antispiritualista **: «Se non credete bene di sferzare i tedeschi pre-
senti, e i loro immediati predecessori; se vi par di tacere dei nostri Gioberti, Rosmini, Roma-
gnosi, potete prendervela cogli Alessandrini neoplatonici, che tanto affrettarono lo smarrimen-
to d’ogni saper vero, e la rovina d’ogni ordine politico». (Al sensista e materialista Giordani
anche il Romagnosi pareva troppo metafisico e spiritualeggiante). **
IV. Il Leopardi e i filosofi antichi 173
71
iAl suo proposito di escludere le «spinosità dialettiche» accenna anche nella lettera al Bun-
sen del 3 agosto 1825. Cfr., tra i progetti di lavori in PP, I, p. 701 sg.: «Pensieri di Platone» e
«Saggi platonici».
72
iCfr. Zib., 3469, dove l’utopismo è considerato come un carattere generale del pensiero
politico antico – anche di quei pensatori antichi che, relativamente, furono meno utopisti, come
Aristotele e Teofrasto.
IV. Il Leopardi e i filosofi antichi 175
73
iCfr. F. Moroncini, proemio alle Opere minori approvate, I, p. LXXXIV sgg. Una prima let-
tura di Epitteto era stata già compiuta dal Leopardi a Roma (cfr. Porena, Scritti leopardiani, p.
443). Sui frutti filologici di queste letture vedi La filologia di G. Leopardi, pp. 156-164; su una
congettura leopardiana alla Tavola di Cebete, vedi ora anche Antonio Carlini in «Studi classici
e orientali» XII, 1963, p. 181 sg.
74
iFozio: Zib., 4191 sgg., e l’indice delle letture pubblicato dal Porena, Scritti leop., p. 429,
num. 389. – Stobeo: vedi sopra, p. 165; nel ’25-’26, vedi per esempio Zib., 4156 (sulle espres-
sioni antiche del dolore) e 4226 (su un passo di Ierocle, cfr. qui sotto, p. 180).
75
iPer l’acquisto dell’opera, cfr. Epistolario, ed. Moroncini, IV, pp. 62, 211; per la lettura
di vari testi contenuti in questa silloge, cfr. l’indice pubbl. dal Porena, Scritti leop., p. 423, num.
452-470, e i passi dello Zibaldone registrati nell’indice del Flora alla voce «Orelli».
76
iVedi i progetti in PP, I, pp. 701, 702, 704, e gli indici dello Zibaldone compilati dal Leo-
pardi stesso, vol. II dell’ed. Flora, pp. 1389 («Galateo morale»), 1430 («Manuale di filosofia
pratica»). L’idea di un «Epitteto a mio modo» può essere stata in parte suggerita al Leopardi
dall’Encyclopédie méthodique (ediz. di Padova, posseduta dalla biblioteca Leopardi), dove, nel
vol. III della sezione Morale, alla voce Liberté (p. 509 sgg.), era inserito un «Nouveau Manuel
d’Epictète». Ma il suggerimento, in ogni caso, non sarebbe andato oltre il titolo, poiché lo scrit-
to dell’Encyclopèdie méthodique era di orientamento cristianeggiante.
176 IV. Il Leopardi e i filosofi antichi
77
iVedi sopra, p. 167, e tieni presente che l’Ottonieri, con le altre Operette morali composte
nel ’24, fu pubblicato dal Leopardi nel ’27: egli non aveva dunque rinunciato alla critica dell’a-
tarassia, formulata nel cap. II di quell’operetta.
78
iVedi il commento del Fubini alle Operette, Firenze 1933, p. 202.
79
iIl Leopardi non lesse direttamente i Sette a Tebe, ma ne ebbe notizia dall’Anacharsis del
Barthélemy. Cfr. Zib., 222 (22 agosto 1820): ** «Ses héros aiment mieux être écrasés par la fou-
dre que de faire une bassesse, ET LEUR COURAGE EST PLUS INFLEXIBLE QUE LA LOI
FATALE DE LA NÉCESSITÉ. Barthélemy, dove discorre di Eschilo» (questa dev’essere, a sua
volta, una citazione di seconda mano, poiché il Leopardi nella sua biblioteca aveva del Barthé-
lemy soltanto una traduzione italiana, Venezia 1791, e non lesse il testo francese prima del ’23;
cfr. sopra, p. 164).*
*iIl Bollati (nell’introduzione cit. alla Crestomazia della prosa, p. XLIV) dimostra che la fonte
della citazione indiretta del Barthélemy è l’antologia francese di Noël e Delaplace.
IV. Il Leopardi e i filosofi antichi 177
80
iÈ superfluo accumulare citazioni; ricorderò solo che nella già citata Encyclopédie méthodique,
sezione Morale, IV, p. 808, in un paragrafo dedicato a Epitteto del Discours sur l’objet de la mora-
le, si insisteva su questo concetto: «Quelques autres plus sages et plus éclairés ont convenu que cet-
te Philosophie étoit trop forte et trop élevée pour convenir à nos siècles modernes» (cfr. al contra-
rio il Leopardi: «... più accomodata all’uomo, e specialmente agli animi di natura o d’abito non
eroici ..., e p e r ò a g l i u o m i n i m o d e r n i a n c o r a p i ù c h e a g l i a n t i c h i »).
178 IV. Il Leopardi e i filosofi antichi
Filippo Ottonieri, lo abbiamo già veduto (p. 166), «si professava epi-
cureo», ma abbiamo anche veduto come questa adesione sia accom-
pagnata e quasi sopraffatta da restrizioni. Nello Zibaldone, osservava
il Tocco, «Epicuro non è citato se non una volta sola e per un’osser-
vazione grammaticale, Democrito quattro volte e sempre alla sfuggi-
ta».81 Da ciò il Tocco credeva di poter ricavare un appoggio indiretto
alla sua tesi di un Leopardi filo-platonico. Ma anche dopo aver dimo-
strato l’inconsistenza di questa tesi (e dopo aver ricordato che tra i
progetti di Operette non realizzati c’è un Ippocrate e Democrito, di cui
non possiamo purtroppo congetturare l’argomento),82 rimane vero che
in un materialista-edonista come il Leopardi ci aspetteremmo più rife-
rimenti a Democrito e soprattutto ad Epicuro. Per tutto il pensiero
laico del Sei e Settecento, come già per un Valla, Epicuro era stato un
punto di riferimento costante: ogni teoria sulle origini ferine dell’u-
manità e del linguaggio, ogni morale terrena e antiascetica, ogni fisi-
ca e biologia libera da preconcetti scolastici si era rifatta a Epicuro e
a ciò che della dottrina di Democrito è accolto in Epicuro.83 Il Leo-
pardi, come sappiamo, si nutrì moltissimo di filosofia epicurea sette-
centesca, ma sentì, a quel che pare, scarsamente l’esigenza di risalire
direttamente a Epicuro e a Lucrezio. Pensò che tutto l’essenziale del-
l’atomismo e dell’edonismo antico fosse ormai incorporato nella filo-
sofia materialistica del Settecento? Fu trattenuto ** da una certa dif-
fidenza verso una filosofia che gli sembrava antitetica al concetto
classico di «virtù» civile, da lui pur sempre vagheggiato?84
81
iArt. cit. qui sopra (p. 130 n. 60), p. 574; cfr. G. Setti, La Grecia letteraria cit., p. 205. I
passi dello Zibaldone sono, per Epicuro, p. 4299 (oltre a un paio di menzioni puramente inci-
dentali); per Democrito, pp. 38, 961, 3965, n. 4436, 4437, 4466. Il fatto che le menzioni di
Democrito siano sei e non quattro (come risultava dall’incompleto indice dell’edizione Le Mon-
nier) non toglie validità all’osservazione del Tocco; il Leopardi non cita mai Democrito in quanto
materialista.
82
iPP, I, p. 701 (non registrato nell’indice del Flora alla voce «Democrito»). **
83
iVedi qui sopra, pp. 7, 150 n. 6. Anche un gesuita di larghe vedute come Giovanni Andres,
nella sua grande compilazione Dell’origine, progressi e stato attuale d’ogni letteratura (vol. V, Parma
1794, pp. 443-445, 580 sgg.), difendeva l’epicureismo dalle accuse volgari, anzi nel contrasto fra
la morale di Epicuro e la stoica vedeva, si direbbe, qualcosa di analogo al contrasto fra il lassi-
smo dei gesuiti e il rigorismo dei giansenisti, e pertanto si schierava a favore di Epicuro. Ma
mentre il Leopardi lesse ripetutamente la parte dell’opera dell’Andres dedicata alle lingue e alle
belle lettere (come è dimostrato dallo Zibaldone), non risulta che si sia soffermato con uguale
attenzione sulla parte dedicata alla filosofia.
84
iSi ricordi il giudizio del Montesquieu, accolto dal Leopardi, sull’epicureismo come causa
della decadenza politica e civile dei romani (qui sopra, p. 157 n. 23).
IV. Il Leopardi e i filosofi antichi 179
85
iVedi sopra, p. 141 n. 82. Cfr. V. E. Alfieri in «Athenaeum» n.s. Xl, 1962, p. 185.
86
**iContro una presunta reminiscenza lucreziana nell’Appressamento della morte cfr. la mia
recensione a Leopardi und die Antike di H. L. Scheel in «Gnomon» 1960, p. 583, con una preci-
sazione, che credo giusta, di C. F. Goffis in «Rassegna letter. ital.» LXIV, 1960, p. 547. L’unico
passo dello Zibaldone che potrebbe far pensare a una lettura diretta è la nota (aggiunta in un secon-
do tempo) a p. 4037, dove l’esempio di alius in Lucr. II 9 non è attinto dal Forcellini. Ma si trat-
ta di un indizio abbastanza tenue. Napoleone Giotti, nella sua biografia del Leopardi («I contem-
poranei italiani» num. 52, Torino, Utet, 1862, p. 65), riferisce che il Leopardi avrebbe letto a
Francesco Puccinotti, il medico e fisiologo suo amico, alcuni frammenti di «un poema sulla natu-
ra sul genere di quello di Lucrezio, poema per altro rimasto affatto ignoto, e del quale nessuno dei
suoi biografi ha mai fin qui parlato, per quanto io mi sappia». È difficile dire se questa notizia meri-
ti qualche credito. Un indizio di lettura almeno parziale sembrerebbe rappresentato da un appun-
to che si trova in un elenco di opere di vari autori nelle carte napoletane (X, 12, 22): «Lucrezio,
dove parla dello stabilimento della società, libro 5». Ma in quell’elenco, ** che mi riprometto di
pubblicare, accanto ad opere che il Leopardi lesse sicuramente, ve ne sono altre (come la Scienza
della legislazione del Filangieri) non menzionate mai nello Zibaldone né in altri scritti. Rimane per-
ciò il dubbio che in parte si tratti di letture progettate e non eseguite. E sebbene i pochi indizi da
noi enumerati accennino a una certa probabilità, rimane abbastanza forte l’argomento in contra-
rio: ** se il Leopardi avesse letto un poeta-filosofo a lui così profondamente congeniale, come mai
non ne sarebbe rimasta traccia in lunghi ed espliciti appunti e in precise allusioni? *
*iChe, almeno negli ultimi anni, il Leopardi abbia letto o riletto Lucrezio è molto probabi-
le: certo i versi 111-114 della Ginestra («Nobil natura è quella / che a sollevar s’ardisce / gli occhi
mortali incontra / al comun fato») presentano, come già da tempo è stato osservato, ** una
somiglianza che non può essere fortuita con Lucrezio I 66 sg. (primum Graius homo mortalis tol-
lere contra / est oculos ausus).
180 IV. Il Leopardi e i filosofi antichi
87
iCosì F. Tocco («Atene e Roma» 1903, col. 321 sgg.), seguendo uno schema a lui consue-
to, di cui abbiamo già notato l’insufficienza a proposito di Teofrasto e di Porfirio e Plotino (pp.
162-163, 172). Contro il Tocco cfr. G. Gentile, commento alle Operette, Bologna 19402, p. 256.
88
iCfr. Cicerone, Lucull. 121; De nat. deor. I 35.
89
iVedi specialmente U. Bosco, Titanismo e pietà in G. Leopardi, Firenze 1957, p. 64.
90
iNell’edizione di Stobeo a cura di Wachsmuth e Hense, che è oggi comunemente seguita,
il passo di Ierocle si trova in Flor. IV 27, 20 (vol. IV, pp. 663, 19 sgg.).
IV. Il Leopardi e i filosofi antichi 181
91
iOccorre notare, infatti, che nel passo di Ierocle manca ogni concetto della Natura nemi-
ca dell’uomo, anzi la Natura è vista come una divinità provvidenziale che ci ha dato, essa, i
parenti per difenderci nella lotta contro le avversità esterne: "εν καλς φ)σις, ς
ν φ’
γενν$ µ γνοοσα, παρ&γαγεν µν καστον τρ(πον τιν µετ συµµαχ'ας. È interessan-
te osservare come il Leopardi, parafrasando Ierocle, scriva «i parenti ci son dati come alleati e
ausiliari», senza aggiungere «dalla natura»; e come, viceversa, precisi che «le cose di fuori» da
cui siamo combattuti sono «la natura e la fortuna», mentre Ierocle si era riferito, più indeter-
minatamente, alle «cose stesse che hanno una natura (un carattere) ostile all’uomo» e agli
«improvvisi e inaspettati assalti della sorte», e aveva poi aggiunto, come terza e più importan-
te causa di pericolo per noi, la malvagità umana (πολ δ µ!λιστα δι’ατν τν κακ'αν οτε
β'ας τινς πεχοµ%νην οτε δ(λου κα κακν στρατηγηµ!των). Con queste varianti, a pri-
ma vista di non grande peso, il provvidenzialismo di Ierocle viene, già nel pensiero del ’26, qua-
si interamente rovesciato.
92
iGià nella stanza 10 il Leopardi ha scritto: «Questa conclusione (...) non d’altronde pro-
vien se non da quella / forma di ragionar diritta e sana / ch’a priori in iscola ancor s’appella».
*iTra i precedenti della Ginestra è importante anche Zibaldone 2679 sg. (4 marzo 1823), sul
quale cfr. Di Benedetto, art. cit., p. 320; Lonardi, op. cit., p. 144 sg.
182 IV. Il Leopardi e i filosofi antichi
∼ «Giornale storico della letteratura italiana», CXLIII (1966), pp. 88-119; qui con modifi-
che e aggiunte.
1
i«La palestra del Clero», 20 gennaio, 17 febbraio, 3, 10, 17, 24 e 31 marzo, 14 e 21 apri-
le, 5, 12, 19 e 26 maggio, 2, 16 e 30 giugno, 21 luglio, 8 e 22 settembre, 13 ottobre 1898. II tito-
lo Appunti leopardiani e la firma del Cozza-Luzi mancano solo nelle puntate del 20 gennaio, 3 e
10 marzo, le quali però appartengono chiaramente alla stessa serie. Gli Appunti furono ristam-
pati a parte, con qualche variazione nell’ordine, in sei fascicoletti, senza nome di autore e col
titolo ampliato: Appunti leopardiani offerti alla studiosa gioventù nel centenario della nascita di Gia-
como Leopardi (la quale fu al 29 Giugno 1798), Roma, tip. Sociale, 1898. Io citerò con la sigla
AL questa edizione in fascicoli separati. Non è facile trovare nelle biblioteche tutti e sei i fasci-
coli; li possiede, per esempio, l’Alessandrina di Roma. La Bibliografia leopardiana di Mazzatin-
ti-Menghini-Natali, mentre cita più volte alcune puntate ** (cfr. vol. I, pp. 37, 63, 79, 198-
199, 231; vol. II, pp. 49 e 76), ne ignora altre **.
V. Di alcune falsificazioni di scritti leopardiani 185
2
iPer la rivalutazione polemica del primo Leopardi, compiuta dal Cozza-Luzi, vedi special-
mente AL I, p. 7: «Era Giacomo fin d’allora di precoce ingegno e vestiva l’abito clericale, che
anzi scriveva ed in pubblico recitava sacri discorsi con tanta profondità, pietà ed affetto (...). Gli
ebbe pur cari egli stesso questi discorsi primi ed ingenui (...). E se talora non giungono a quelle
eleganze, che un’età più matura ed uno stile esercitato avrebbero dato con impronta più eguale
ed elevata, sono però una bella rivelazione del suo sapere e più del suo sentire, non ancor per
altri e per sé traviato dall’alterigia e dalla smania di comparire indipendente e spirito forte: e
ciò con tanta iattura sua ed altrui. Si paragonino queste care pagine della sua giovane mente e
del cuore ancor giovane con le produzioni degli altri futuri quattro lustri di vita; le quali sono
compassionevoli per sostanza se non per forma. E si vegga come i bei fiori si cangiassero in spi-
ne sotto l’alito di non buone amicizie e di passioni indomate» (le «non buone amicizie» sono,
ovviamente, un’allusione al Giordani). E vedi ancora in AL II, pp. 17-19 l’esaltazione di Monal-
do in contrapposizione al figlio; V, p. 78 l’accenno ai «dolori non solo fisici, ma che più eran
morali»; IV, p. 60 la raffigurazione di un Leopardi politico «non chiaro», che «ambiva ad accat-
tarsi lodi ed approvazioni tanto da destra che da sinistra»!
186 V. Di alcune falsificazioni di scritti leopardiani
3
iSu uno di questi autografi o pseudo-autografi si trovava infatti un’autenticazione – vera o
apocrifa – di Paolina: vedi più oltre, p. 216 sg.
V. Di alcune falsificazioni di scritti leopardiani 187
4
iGli «inediti» furono pubblicati dal Cugnoni nella «Nuova Antologia» del 15 aprile 1884,
p. 569 sgg. Prima ancora che il Tacchi si rivelasse, la falsificazione fu intuita da Giuseppe Chia-
rini, il cui lucido articolo nella «Nuova Antologia» del 1° maggio 1884, p. 124 sgg., merita anco-
ra di esser letto (cfr. Carducci, Lettere, ed. nazionale, XIV, pp. 281, 282, 293). Altri documen-
ti di quella polemica sono indicati nella Bibliografia leopardiana di Mazzatinti e Menghini, vol.
I, p. IX sg. La controversia fu poi narrata dal Cugnoni nell’opuscolo Dopo quattordici anni (Roma
1898), e da D. Gnoli in «Rivista d’Italia» a. I, vol. II (1898), p. 525 sgg. II Tacchi – che si pre-
sentò la prima volta al Cugnoni sotto il falso nome di G. B. Ubaldini – aveva già cercato di far-
si una notorietà contraffacendo alcuni scritti di Gaspare Gozzi.
5
iSi tratta dell’ottavo dei Pensieri di filosofia varia («Caino, l’autore della colpa, fu il primo
fabbricatore di città; né è perciò meraviglia che li abitatori di esse siano degni figli di tanto
padre»), che trova riscontro nello Zibaldone, p. 191 dell’autografo (= vol. I, p. 296 ed. Le Mon-
nier): «II primo autore delle città, vale a dire della società, secondo la Scrittura, fu il primo ripro-
vato, cioè Caino, e questo dopo la colpa, la disperazione e la riprovazione. Ed è bello il credere
che la corruttrice della natura umana e la sorgente della massima parte de’ nostri vizi e scelle-
raggini sia stata in certo modo effetto e figlia e consolazione della colpa».
188 V. Di alcune falsificazioni di scritti leopardiani
6
iCfr. AL VI, p. 88 sg. Le riproduzioni fotografiche di tutti e tre i fogli vaticani furono poi
pubblicate nello stesso anno dal Cugnoni in fondo all’opuscolo Questione leopardiana (Roma, tip.
della Camera dei Deputati).
7
iTra i resoconti dei quotidiani di allora, vedi specialmente quelli della «Tribuna» (col tito-
lo Un’accademia leopardiana; favorevole al Tacchi) e del «Popolo romano» (col titolo Leopardi
redivivo; favorevole al Cugnoni). Vedi inoltre le due autodifese pubblicate dal Cugnoni (Per
Cugnoni prof. Giuseppe querelato contro Tacchi Ilario querelante ..., Querela I, Roma, tip. Agosti-
niana, 1899; Querela II, tip. Failli, Roma 1899) e la memoria legale Per le ragioni dello scrittore
Ilario Tacchi presentata dai suoi avvocati E. Pessina, E. Ferri, V. O. Gentiloni, tip. Pistolesi,
Roma 1900. Più tardi il processo, che aveva suscitato molto interesse anche per la presenza di
avvocati di grido come Pessina e Ferri, fu narrato, ma con eccessiva parzialità a favore del
Cugnoni, da E. Veo nel «Messaggero» del 12 settembre 1929 e da un certo «Sigma» nello stesso
giornale, 30 dicembre 1933.
8
iGli articoli di Domenico Orano, I manoscritti leopardiani: autografi o apocrifi?, non registra-
ti nella Bibliografia leopardiana di Mazzatinti-Menghini-Natali, comparvero nel «Don Chisciot-
V. Di alcune falsificazioni di scritti leopardiani 189
te di Roma» del 25, 27 e 29 maggio, 11, 12, 18, 20 e 25 luglio, 3, 9 e 19 agosto, 27 novembre
1899. Vedi inoltre la perizia grafica litografata, non firmata, contro l’autenticità dei Pensieri
vaticani (un esemplare se ne trova a Roma, Biblioteca Alessandrina, collezione leopardiana G.
44); e i resoconti del processo cit. alla nota precedente. Oliviero Jozzi aveva già pubblicato nel
1889 alcune lettere false di S. Luigi Gonzaga (cfr. Lettere ed altri scritti di S. Luigi Gonzaga a
cura di E. Rosa, Firenze 1926, p. V sg.) e nel 1898 un Supplemento alla «Roma sotterranea» di
G. B. De Rossi (Milano, Hoepli) in cui erano riportate molte iscrizioni false (vedi la testimo-
nianza di Giuseppe Gatti al processo Tacchi-Cugnoni ne «La Tribuna» del 21 giugno 1900).
Nell’istruttoria del Processo lo Jozzi ammise di aver regalato al Cozza-Luzi gli «autografi» del-
le due suppliche a Pio VII, e dichiarò di averli avuti, insieme ad altri documenti leopardiani, da
Florindo Cesari, segretario di Giovanni Rosini a Pisa; ma fu smentito dal Cesari (vedi la memo-
ria Per le ragioni dello scrittore I. Tacchi cit., p. 118 sg.). Il Cozza-Luzi ammise di aver avuto dal-
lo Jozzi soltanto la minuta in versi dell’Infinito (ibid., p. 115): cosa, oltre tutto, impossibile per-
ché sullo stesso foglio vi era anche una delle minute in prosa
9
iCfr. D. Orano nel «Don Chisciotte di Roma» del 29 maggio 1899. L’Ehrle si rifiutò di
testimoniare al processo Cugnoni-Tacchi (cfr. «La Tribuna» del 16 giugno 1900), certamente
per non smentire il Cozza-Luzi e il Cugnoni; ma aveva parlato chiaro all’Orano. Giova ricorda-
re che il prefetto della Vaticana si trova in posizione subordinata rispetto al Cardinale Biblio-
tecario e al Vice-bibliotecario (carica, quest’ultima, che è esistita solo in rari casi).
10
iRoma 1901. Nella Bibliografia leopardiana (II, p. 8) il Natali riassume così questo volu-
metto: «A proposito di asseriti autografi, dei quali si confessa autore». Tutt’altro: il Cugnoni
ribadisce anche qui la tesi dell’autenticità sia degli «inediti» del 1884, sia di quelli pubblicati dal
Cozza-Luzi.
190 V. Di alcune falsificazioni di scritti leopardiani
11
iBari 1924, p. 197, cfr. p. 277. II Donati fuse arbitrariamente in uno i due abbozzi in pro-
sa e omise l’abbozzo in versi dell’Infinito (cfr. G. De Robertis, Saggio sul Leopardi, nuova ed.,
Firenze 1973, p. 150 sg. **).
12
iLeopardi, Opere a cura di R. Bacchelli e G. Scarpa, Milano 1935, p. 1103 sg., cfr. p. 1288
sg.; PP **, p. 375 sg., cfr. p. 1132. | Vedi ora anche l’edizione dei Canti a cura di C. Muscetta
e G. Savoca, Torino 1968, dove gli abbozzi sono di nuovo pubblicati come autentici; e TO, p.
73, cfr. 1430 sg., dove sono dati come «di discussa attribuzione»; e cfr. qui sotto, p. 226, n. 73 |.
Giovanni Ferretti, mentre non incluse i due abbozzi in versi nell’edizione Utet delle Poesie leo-
pardiane (Torino 1948), pubblicò invece i due abbozzi in prosa, fusi in uno come nel Donati, nel
volume delle Prose (Torino 1950, p. 440), con l’indicazione erronea: «L’autografo è conservato
nella Biblioteca nazionale di Napoli».
13
iAll’autenticità credetti anch’io in un primo tempo: cfr. ** Classicismo e illuminismo nel-
l’Ottocento italiano, Pisa 19651 **, pp. 154 sg. (dove feci ** in tempo soltanto ad aggiungere
in nota un’espressione di dubbio; ma cfr. la 2a ed., Pisa 1969, p. 379 {ovvero cfr., qui, l’«incipit»,
secondo capoverso, del VI cap.: «Natura, dèi e fato nel Leopardi» – N. d. C.}). Cfr. anche K. Mau-
rer, G. Leopardis «Canti» ecc., Frankfurt a. M. 1957, pp. 98, 103, 116 sgg.; ** e i saggi del
De Robertis e della Accame Bobbio che citeremo più oltre.
14
iVol. I, Firenze 1934, pp. 192, n. 3; 283, n. 2. Il Moroncini trasse i documenti dalle copie
che si conservano nella Biblioteca Comunale di Recanati (vedi qui sotto, p. 207 sg.) senza avver-
tire che si trattava di copie e non di autografi. I riferimenti alla pubblicazione del Cozza-Luzi
furono poi indicati dal Ferretti nelle note aggiunte all’edizione del Moroncini (vol. VII, pp.
45 e 48). Vedi anche Leopardi, Lettere a cura di F. Flora, Milano 1949, p. 1160.
15
iOltre gli studiosi citati alla nota precedente, cfr. G. Ferretti, Vita di G. Leopardi, Bologna
1940, pp. 79 sg., 86, con le note relative in fondo al volume.
V. Di alcune falsificazioni di scritti leopardiani 191
16
iG. De Robertis, Ritrovati gli abbozzi autografi dell’«Infinito», in «Tempo», Milano, 3-10
marzo 1951, p. 20 sg.; e più ampiamente, ma senza le riproduzioni dei manoscritti, nel Saggio
sul Leopardi, ed. cit., p. 149 ** sgg.
17
iS. Antonielli, Leopardi e i «libri proibiti», in «Epoca» 25 aprile 1953, Supplemento «Epoca
lettere», p. 30.
18
iSono debitore di questa notizia all’amico Rino Avesani.
192 V. Di alcune falsificazioni di scritti leopardiani
a)
b)
Tavola 1
a) Pseudo-Leopardi, Pensieri varii, fine del secondo foglio (Cod. Vat. lat. 12895).
b) Pseudo-Leopardi, supplica al Papa per leggere i libri proibiti (già nella collezione di
autografi di Gaspare Casella).
V. Di alcune falsificazioni di scritti leopardiani 193
testi falsi, testi autentici. Vogliamo soltanto dire che nessuno di que-
gli inediti può essere accettato a occhi chiusi, senza una verifica del
contenuto, dello stile e – là dove possediamo i presunti autografi o le
loro riproduzioni – della scrittura. Tale verifica faremo nelle pagine
che seguono, tenendo presenti le discussioni del 1898-1900 e aggiun-
gendo nuove considerazioni.
3. I Pensieri vaticani
19
iD. Gnoli, art. cit.. alla nota 4; D. Orano nel «Don Chisciotte di Roma» dell’11, 12, 18,
20 e 25 luglio 1899; perizia grafica cit. alla nota 8 **. Delle tre prove di non autografia che arre-
chiamo, soltanto la terza non era stata finora notata, per quanto mi risulta. Fra le molte altre
prove che allora furono addotte, alcune si rivelano inconsistenti ad un più ampio esame delle
scritture genuine del Leopardi. Io ho preso, in generale, come termini di confronto i molti auto-
grafi riprodotti nelle edizioni dei Canti e delle Operette a cura del Moroncini; ho anche tenuto
presenti molti dei manoscritti filologici fiorentini e l’autografo dello Zibaldone, per il quale sono
ricorso spesso all’esperienza dell’amico Giuseppe Pacella. Varie particolarità della scrittura leo-
pardiana mutano a seconda dell’epoca o anche nel corso di uno stesso autografo; io ho preferi-
to attenermi a pochi elementi sicuri.
20
iVedi nei Pens. di filos. varia, 1, riga 3, la prima r di tradirsi; 7, accanto al numero d’ordine,
la prima r di rifarsi; nei Pens. varii, 16, r. 2, la prima r di propria; id., r. 5, l’iniziale di ricca. Cfr. la
Perizia grafica cit., p. 25 sg.
194 V. Di alcune falsificazioni di scritti leopardiani
22
iVedi la testimonianza di Giuseppe Chiarini al processo Tacchi-Cugnoni, riferita dal
«Popolo romano» del 20 giugno 1900: la copia destinata alla tipografia fu fatta da «amanuensi,
i quali non erano persone di fiducia, ma gente pagata a giornata». Sulla possibilità che fu offer-
ta a molti di vedere l’autografo prima della pubblicazione, cfr. D. Orano nel «Don Chisciotte
di Roma» del 19 agosto 1899. Che il primo volume dello Zibaldone fosse già in bozze nella pri-
mavera del ’98, risulta per esempio dalla lettera del Carducci a Filippo Mariotti dell’aprile (in
Lettere, ed. nazionale, XX, p. 126). Anche il titolo Pensieri di filosofia varia ha tutta l’apparen-
za di una goffa modifica del titolo dello Zibaldone prescelto dai primi editori **: Pensieri di varia
filosofia e di bella letteratura.
23
iCfr. Cugnoni, Alla ricerca di G. Leopardi cit., p. 91 sg. **; e l’articolo di «Sigma» cit.
alla nota 7.
V. Di alcune falsificazioni di scritti leopardiani 197
24
iCfr. «Don Chisciotte di Roma» 27 novembre 1899 **: «Non ricordo affatto – eppure ho
buona memoria – che nel retto e nel verso delle due lettere leopardiane, presentatemi dallo Joz-
zi, vi fossero contenuti altri scritti e tanto meno minute autografe dello stesso Leopardi. Se è
così (...), le minute sono false e furono vergate nei due documenti posteriormente alla presen-
tazione a me fattane. È mai possibile che se le due minute inedite fossero esistite nei due docu-
menti, lo Jozzi, che cercava di venderli, non me l’avrebbe fatto notare, per accrescere valore
alla sua offerta? Ed è mai possibile che io, che pur tenni per più giorni in casa mia la prima del-
le due lettere, non me ne sarei accorto?».
198 V. Di alcune falsificazioni di scritti leopardiani
25
iDifatti, se «plaga», o magari «piaggia», può ben alludere all’«ermo colle», «sponda» e
«spiaggia» devono riferirsi a tutt’altra collocazione (così intende anche il Flora in «Letterature
moderne» I – 1950 –, p. 103). Forse chi scrisse l’abbozzo ricordò La vita solitaria, vv. 23 sg.,
33. Quanto all’oscillazione fra «apre» e «copre», i numerosi tentativi di giustificarla che sono
stati compiuti (vedi per esempio Aurelia Accame Bobbio nel volume collettivo Leopardi e il Set-
tecento, Firenze 1964, pp. 197; 219, n. 78) mi sembrano troppo sottili.
V. Di alcune falsificazioni di scritti leopardiani 199
26
iLa distinzione è chiara quando egli usa per il Leopardi la terza persona («Scrisse», «can-
cellò» ecc.) e per sé la prima plurale; non è sempre chiara quando usa espressioni impersonali o
passive («Fu tralasciato ...», «Le parole furono posposte ...»).
27
iIn margine a questo verso il Leopardi avrebbe scritto un «son», che il Cozza-Luzi correg-
ge in «sono» e colloca prima di «a lor».
200 V. Di alcune falsificazioni di scritti leopardiani
32
iL’ultimo canto di Saffo **, ora in Leopardi, Bonacci, Roma 1976, p. 68 sg. Pur non ponen-
do la questione dell’autenticità | alla quale, come abbiamo detto, ha continuato a credere anche
dopo questo nostro studio |, il Muscetta mostra di rendersi conto della strana mancanza di
coscienza stilistica di questi versi. Dell’analisi della Accame Bobbio (in Leopardi e il Settecento
cit., p. 191 sg. e note) si salva, mi pare, soltanto l’individuazione delle reminiscenze bibliche pre-
senti nell’abbozzo. Ma tali reminiscenze, come non meraviglierebbero nel Leopardi, così sono
intonate alla mentalità e agli scopi «edificanti» del falsario: si confrontino le citazioni bibliche
nelle suppliche al Papa, certamente apocrife (qui sotto, paragr. 5 **).
202 V. Di alcune falsificazioni di scritti leopardiani
(sebbene anche nei cosiddetti «Puerili» pubblicati dal Donati, dal Flo-
ra, dallo Scheel ** e più compiutamente dalla Corti non si trovi asso-
lutamente nulla di così maldestro): sarebbe il Leopardi del 1819, che
ha già scritto le versioni poetiche dal greco e dal latino e le prime due
Canzoni, e scriverà tra pochissimo l’Infinito e gli altri idilli. Prendia-
mo pure quella che è forse la prova meno felice di questo periodo, la
Telesilla: non vi troveremo niente di lontanamente paragonabile al cat-
tivo gusto e all’impaccio di codesti versi.
Ma più delle impressioni di gusto conta, per la questione dell’au-
tenticità, l’analisi tecnica. Se si può – fino ad un certo punto! – am-
mettere che il Leopardi anche nel ’19 abbia avuto una défaillance poe-
tica, non si può certo supporre che si sia improvvisamente scordato
come è fatto un endecasillabo. Ora si osservino i versi 6, 8, 12, 15, 16,
17, 18, 22, 23, 24, 25, 28, 29, 31, 33. In quasi tutti si possono conta-
re undici sillabe, ma endecasillabi non sono quanto agli accenti. Per
esempio ** «Qual sfregio ti feci mai, dimmi il perché» sarebbe un
endecasillabo solo se si leggesse «fecì» e «pèrche», e così al verso 15
bisognerebbe leggere «pèr cui», ** al verso 22 «corsì», al verso 23
«arrèstai», e via discorrendo. In altri la misura di undici sillabe si può
raggiungere solo a prezzo di elisioni e dieresi tali da far rabbrividire;
per esempio al verso 6 bisognerebbe fare di «Ahi a» un’unica sillaba e
poi allargare «spietata» con una dieresi; al verso 17 occorrerebbe leg-
gere «Sentii ° in me ° in mé sentii esultar le / ossa», con due durissime
sinalèfi consecutive e un iato. Al verso 32 **, dove pure sarebbe stato
possibile foggiare un brutto ma non errato endecasillabo sdrucciolo ter-
minante con «credere», il pregiudizio che non dovesse essere in alcun
caso superata la misura di undici sillabe ha persuaso il versificatore a
porre un «creder» troncato, impossibile in fine di verso. Soffermarsi
ancora a dimostrare che un simile scempio metrico e prosodico non può
essere opera del Leopardi, sarebbe un offendere il lettore.
Siccome molti abbozzi leopardiani sono misti di versi e prosa,33 si
potrebbe supporre che i versi che non tornano fossero, nell’intenzio-
ne del Leopardi, prosa, e che il Cozza-Luzi li abbia trascritti andando
arbitrariamente a capo. Ma che al Leopardi sia venuta scritta per caso
una prosa tutta divisibile in «pseudo-endecasillabi» (cioè in serie di
33
iVedi per esempio PP, I, pp. 377 sg. (Le fanciulle nella tempesta), 379, 382 sg., 385 sgg.,
427 (** = TO, I, pp. 336, 335 sg., 331, 332 sg., 337).
V. Di alcune falsificazioni di scritti leopardiani 203
ne, accortosi che il verso era ancora troppo breve, aveva corretto
«dolor» in «dolore».
Che molti versi di questo abbozzo, anche nella forma raggiunta a
prezzo di tanti stenti, non tornassero, il Cozza-Luzi certo non lo igno-
rava. Per quanto le Muse non dovessero aver sorriso attorno alla sua
culla, tuttavia non è credibile che egli non sapesse riconoscere o anche
comporre un endecasillabo: aveva pur fatto i suoi studi di «umanità»
e «retorica», aveva certamente imparato e poi forse insegnato a scri-
vere sonetti o versi sciolti. Se, dunque, avesse voluto ridurre in versi
una prosa leopardiana, il risultato sarebbe stato tecnicamente un po’
meno disastroso. Ma quei versi zoppicanti costituivano per il Cozza-
Luzi il tipico contrassegno dell’«abbozzo» che, come egli scriveva,
«dallo stesso autore non fu ritoccato a dovere» (AL, III, p. 33). Sia
stato egli stesso il falsario o abbia prestato fede a una falsificazione
altrui, in entrambi i casi è certo che egli trovava normale che il giova-
ne Leopardi, come un seminarista zuccone, fosse arrivato al risultato
poetico definitivo attraverso una lunga vicenda di errori non solo sti-
listici, ma metrici. Tantae molis erat rectum componere versum!
Il compito dell’editore di un abbozzo, poi, egli non lo faceva con-
sistere né in una mera edizione diplomatica, né in un completo rifini-
mento, ma in una prudente eliminazione dei soli sbagli più grossi (i
quali, tuttavia, andavano segnalati con scrupolo «filologico» in nota).
Perciò in parecchi punti, come abbiamo detto, egli mise nel testo una
lezione «emendata». Se, per esempio, Giacomo Leopardi non era sta-
to capace di scrivere, al verso 12, niente di meglio che «Né merto tal
pena. Benedicesti», il Cozza-Luzi rimediò alla claudicatio hendecasyl-
labi scrivendo «Né merto pena tal. Benedicesti»; e analogamente
intervenne ai versi 15, 22, 23, 29, 32, 33, come si può vedere nelle
edizioni del Donati, dello Scarpa e del Flora, che riproducono la lezio-
ne «emendata». Altre volte si limitò a segnalare il difetto e a proporre
eventuali rimedi in nota (per esempio ai versi 17 e 31); altre volte
ancora, lasciò i versi imperfetti senza alcun commento.34 È un com-
34
iUna caratteristica grafica certamente non leopardiana dell’Idillio alla Natura sono i fre-
quentissimi punti sospensivi. È noto che il Leopardi non usò quasi mai questo segno d’inter-
punzione, per il quale espresse anche, in un pensiero dello Zibaldone (p. 976 dell’autografo), la
propria antipatia. Ma siccome il Cozza-Luzi dissemina arbitrariamente punti sospensivi anche
nei brani di poesie leopardiane autentiche che riporta (vedi per esempio AL I, p. 5 sg.; IV,
pp. 49-51), non è il caso di usare questa osservazione come prova di non autenticità.
V. Di alcune falsificazioni di scritti leopardiani 205
a)
b)
Tavola 2
a) Pseudo-Leopardi, secondo abbozzo in prosa dell’Infinito (già nella collezione di G.
Casella).
b) Psuedo-Leopardi, abbozzo in versi dell’Infinito (già nella collezione di G. Casella).
206 V. Di alcune falsificazioni di scritti leopardiani
Falsi i primi due abbozzi di idilli, non è ancora detto che siano false
anche le suppliche a Pio VII. Anzi, le copie conservate nella Comuna-
le di Recanati e la testimonianza di Domenico Orano che abbiamo cita-
to all’inizio del paragrafo precedente possono far supporre che le due
suppliche s e n z a g l i a b b o z z i d i i d i l l i siano autentiche.
Ma un esame un po’ attento, quale non è stato fatto né dal Moron-
cini né dal Perretti o dagli altri biografi del Leopardi, porta alla con-
clusione che anche le suppliche sono con tutta probabilità false.
Cominciamo col dire che nell’Archivio Vaticano (o eventualmente
nella Biblioteca Vaticana) dovrebbe trovarsi la bella copia della sup-
plica per l’impiego alla Vaticana, corrispondente alla minuta pubbli-
cata dal Cozza-Luzi; e così pure dovrebbe essere conservata o in qual-
che modo registrata la domanda per leggere i libri proibiti. Di nessuna
delle due, invece, si è trovata finora alcuna traccia, sebbene parecchi
studiosi, da Domenico Spadoni a Carlo Bandini, a Raffaello Morghen,
a Gellio Cassi, abbiano cercato e trovato documenti leopardiani nel-
l’Archivio e nella Biblioteca Vaticana. Anche le ricerche eseguite, su
mia richiesta, dall’amico Rino Avesani hanno avuto esito negativo. Si
potrebbe, è vero, supporre che la supplica per l’impiego alla Vaticana
sia stata soltanto abbozzata e poi non ricopiata né spedita; ma la let-
tera del cardinale Mattei, che esamineremo tra poco, rende assai im-
probabile tale ipotesi.
Sia il Cozza-Luzi, sia colui che eseguì la copia oggi conservata a
Recanati indicarono varie correzioni che si sarebbero trovate nella
minuta autografa.35 Non sempre le loro indicazioni coincidono: ciò
35
iLa copia recanatese reca all’inizio questo titolo: «Copia dell’istanza con le correzioni come
si trovano».
208 V. Di alcune falsificazioni di scritti leopardiani
36
iRacchiudo tra parentesi {tonde} ciò che il Leopardi avrebbe cancellato: indico con R. e
con C.-L rispettivamente la copia recanatese e l’edizione del Cozza-Luzi. Trascuro poche diver-
genze di interpunzione o di grafia del tutto insignificanti.
37
iLe parole «figlio del conte Monaldo» sarebbero aggiunte sopra il rigo.
38
i«della lingua greca e latina» C.-L., che annota: «Prima avea scritto greco»; «(dell’idioma)
delle lingue greca latina» R.
39
i«(biblioteche) bibliografia» R. e, press’a poco, anche C.-L.
40
i«ostacolo, è da (pensare) osservare» C.-L.: «(difetto) ostacolo è pur vero» R.
41
i«dire anch’io» R.
V. Di alcune falsificazioni di scritti leopardiani 209
Giacomino Carissimo
Ho tentato tutte le vie immaginabili, ò42 spesa tutta la mia influenza; ma essendo
troppo conosciuta la persona a voi pure nota, e della quale mi pare abbiate concor-
so anche voi a far accrescere43 l’estimazione, non sono riuscito a favorirvi nono-
stante i vostri meriti: ma badate, dico per questa volta, perché ostacoli sì seri non
si presenteranno44 più, né voi potrete con altri temere di essere posposto. Gradite i
miei saluti e di tutti di casa e ricordatevi di pazientare. Sempre tutto45 vostro A.
Card. Mattei.
La «persona a voi pure nota» non può essere che Angelo Mai, come
intende anche il Cozza-Luzi. Se la lettera è autentica, la vicenda non
può che essere ricostruita così: il Leopardi nel ’19, sapendo che è
vacante il posto di Primo Custode della Vaticana, fa domanda per
averlo; il posto viene invece conferito ad Angelo Mai (autunno del
1819), fin allora ** [«dottore»] della Biblioteca Ambrosiana; il cardi-
nale Mattei, a cui il Leopardi era stato raccomandato da Monaldo o da
Carlo Antíci, gli fa sapere che purtroppo non c’è niente da fare: il Mai
era troppo noto e perciò gli è stato preferito; del resto, non aveva lo
stesso Giacomo contribuito ad «accrescerne l’estimazione»?
Quest’ultimo accenno, ci spiega il Cozza-Luzi (p. 4), si riferisce alla
Canzone ad Angelo Mai: «Egli pure avea applaudito con un lodatissi-
mo inno alle scoperte che levarono tanto grido in tutto il mondo,
quando Angelo Mai trovò ne’ palinsesti delI’Ambrosiana di Milano
alcuni frammenti dei perduti libri De Republica di Cicerone».
Disgraziatamente, come tutti sanno (e certo doveva saperlo benis-
simo anche il Cozza-Luzi, fedele allievo del Mai, ma la distrazione gli
giocò un brutto tiro), il Mai non scoprì il De re publica di Cicerone
all’Ambrosiana di Milano, ma alla Vaticana, verso la fine del ’19, poco
dopo aver preso possesso della sua nuova carica di Primo Custode. Il
Leopardi ebbe notizia della scoperta ai primi del ’20,46 scrisse la can-
zone Ad Angelo Mai in quello stesso mese e la pubblicò alla fine di giu-
gno. La lettera del cardinale Mattei, invece, presuppone la canzone al
42
i«immaginabili ed ò» C.-L. – La grafia ò per ho (che si trova sia nel Cozza-Luzi, sia nella
copia recenatese, e doveva quindi trovarsi nel presunto autografo) è, se non sconosciuta, molto
rara nel primo Ottocento.
43
i«a far accrescere» R.; «a crescere» C.-L.
44
iC.-L. omette «sì» prima di «seri» e scrive «si ripeteranno».
45
iR. omette «Sempre tutto».
46
iCfr. G. Gervasoni, Leopardiana: G. Leopardi nei suoi rapporti con A. Mai, Bergamo 1934,
p. 83; e la lettera del Leopardi al Mai del 10 gennaio 1820.
V. Di alcune falsificazioni di scritti leopardiani 211
Mai già scritta e divulgata nel ’19, prima che il Mai diventasse Primo
Custode della Vaticana. Dunque, essa è falsa.
Che il Mattei, invece che alla canzone al Mai, alluda ad altri scrit-
ti precedenti del Leopardi che prendevano lo spunto da qualche sco-
perta dell’abate bergamasco (le traduzioni di Frontone e di Dionigi
d’Alicarnasso, la Lettera sull’Eusebio), non è possibile. Le traduzioni
rimasero inedite, e non si poteva perciò allora dire che avessero con-
tribuito ad accrescere la fama del Mai;47 la Lettera sull’Eusebio, appe-
na terminata, non era stata ancora vista da nessuno, e solo nel ’23 il
Leopardi la pubblicherà in una redazione assai rimaneggiata.
Altrettanto priva di senso, a guardar bene, è quella precisazione:
«Ma badate, dico per questa volta, perché ostacoli sì seri non si pre-
senteranno più, né voi potrete con altri temere di essere posposto».
Come se il concorso per il posto di Primo Custode si tenesse ogni due
o tre anni, e ci fosse quindi speranza, per il Leopardi, di vincerlo la
prossima volta!
A questa lettera, e precisamente alla frase «... mi pare abbiate con-
corso anche voi a far accrescere l’estimazione» il Leopardi avrebbe
aggiunto di sua mano, secondo il Cozza-Luzi (AL, I, p. 5), la seguente
postilla (di cui non c’è traccia nella copia recanatese): «Ben mi sta –
incidi in foveam quam mihi feci». A parte l’insulsaggine della postilla nel
suo insieme, si noti che anche qui, come nella supplica per l’impiego
alla Vaticana, il Leopardi avrebbe utilizzato a sproposito una citazio-
ne biblica. È frequente nella Bibbia l’immagine di chi cade nella fossa
da lui stesso scavata, cioè di chi rimane vittima dell’insidia che egli ha
teso a d a l t r i : incidit in foveam quam fecit (Psalm., 7, 16); foderunt
ante faciem meam foveam et inciderunt in eam (Psalm, 56, 7); qui fodit
foveam incidet in eam et qui volvit lapidem revertetur ad eum (Prov., 26,
27); et qui foveam fodit incidet in eam et qui statuit lapidem proximo
offendet in illo (Eccles., 27, 29). Ma che diavolo può ignificare incidi in
foveam quam m i h i feci? Il Cozza-Luzi parafrasa: «... crede di esser
caduto nella fossa scavata colle sue mani»; ma evidentemente mihi non
può significare che «per me», e allora la frase è priva di senso.
47
iGiovanni Labus, in un articolo non firmato apparso nella «Biblioteca Italiana» a. I, vol. III
(1816), pp. 428-30, aveva accennato di sfuggita alla «traduzione inedita (di Frontone) già com-
piuta dal conte Leopardi», senza aggiungere altro. Non bastava certo questo accenno a poter dire
che il Leopardi aveva «concorso a far accrescere l’estimazione» del Mai così da favorire la sua
chiamata a Roma.
212 V. Di alcune falsificazioni di scritti leopardiani
Ricordiamo, del resto, che sia la lettera del cardinale Mattei, sia la
supplica per la Vaticana provengono, come fu accertato nel 1899, da
una fonte estremamente sospetta: il noto falsario don Oliviero Jozzi
(vedi sopra, ** pp. 188-189 e n. 8). Lo scopo di un falsario può esse-
re semplicemente quello di guadagnar soldi o rinomanza; ma questi
documenti rivelano anche un sottinteso «ideologico». La supplica al
Papa ci presenta un Leopardi orgoglioso, che si dichiara fornito di sen-
no e di ingegno in abbondanza e si paragona al «giusto» della Bibbia.
Viene subito in mente il famigerato Idillio alla Natura, in cui, come ve-
demmo, il presunto Leopardi si attribuiva «quante doti ingegno adu-
nar puote». È sempre il tema dell’orgoglio generatore di ateismo e
quindi di infelicità, che ritorna in tutti gli Appunti del Cozza-Luzi. Né
deve meravigliare che questo motivo appaia in un documento che non
fu fabbricato dal Cozza-Luzi in persona, ma, con tutta probabilità,
dallo Jozzi. Si tratta, infatti, di un’interpretazione del Leopardi lar-
gamente diffusa nell’ambiente clericale dell’epoca. Pochi anni prima,
nel 1894, il frate agostiniano Nicola Mattioli l’aveva svolta in termi-
ni quasi identici a quelli usati poi dal Cozza-Luzi.48 Nemmeno si può
escludere che la falsificazione sia stata «concordata» tra il Cozza-Luzi
e lo Jozzi. ** Quanto alla lettera apocrifa del Cardinale Mattei, essa
mira a far vedere che il Vaticano – contrariamente a quanto asseriva-
no, con ragione, ** i leopardisti anticlericali – non aveva ostacolato
le aspirazioni del Leopardi: gli aveva soltanto raccomandato di pazien-
tare per un poco! Commenta il Cozza-Luzi: «Se non avesse avuto a
competitore quel famoso Mai è certo che il Leopardi sarebbe stato il
successore degli Allacci ed Assemani. E poi quale splendida riuscita
poteva da lui attendersi, e quanta soddisfazione per quella mente e per
quel cuore impaziente. Vien esortato dallo zio a pazientare, ma non
pazientò ...». E a proposito del «ben mi sta» con cui il Leopardi avreb-
be postillato la lettera del Mattei: «Quasi sembra qui pentirsi della
splendida poesia ... Quante volte il triste pentimento ritornò a tur-
bargli la mente negli anni futuri!». Naturalmente, questo episodio ser-
viva anche a interpretare in senso antileopardiano il posteriore screzio
fra il Leopardi e il Mai, su cui già allora si discuteva molto.49
48
iVedi Il Trionfo della Croce. Ragionamento inedito di Giacomo Leopardi pubbl. sull’auto-
grafo da N. Mattioli, Roma 1894, pp. 8-10.
49
iSulle polemiche fra clericali e anticlericali di fine Ottocento a proposito del dissidio Leo-
pardi-Mai cfr. {«Angelo Mai», in «Aspetti e figure della cultura ottocentesca» – N. d. C.}, p. 267;
V. Di alcune falsificazioni di scritti leopardiani 213
G. Gervasoni ne «L’eco di Bergamo» del 10 maggio 1956; P. Treves in «Rendic. Istituto Lom-
bardo» 1958, p. 413 e n. 24. Dell’episodio che dette origine al risentimento del Leopardi verso
il Mai parla anche il Cozza-Luzi, AL V, pp. 75-77.
50
i5ª ristampa, Firenze 1892, III, p. 142 sgg. (= ediz. Moroncini, I, p. 208 sg.). Cfr. E. Zer-
bini, A. Mai e G. Leopardi, nel volume collettivo Nel primo centenario di A. Mai, Bergamo 1882,
p. 107. Un’altra lettera, di Carlo Antíci, che svolgeva considerazioni analoghe a quelle del Gior-
dani, non era ancora nota a quell’epoca (fu pubblicata solo nel 1932 da G. e R. Bresciano e poi,
integralmente, dal Moroncini, I, p. 198 sg.).
214 V. Di alcune falsificazioni di scritti leopardiani
plica a Pio VII, quella per leggere i libri proibiti. Eccone il testo, qua-
le risulta non solo dagli Appunti del Cozza-Luzi e dalla copia nella
Comunale di Recanati, ma anche dalla riproduzione fotografica del
documento pubblicata, come abbiamo detto, dall’Antonielli:51
B(eatissi)mo Padre
Giacomo Leopardi figlio del Conte Monaldo di Recanati dovendo consultare per i
suoi studi diverse opere, specialmente filosofiche, chiede nuova facoltà di poter leg-
gere libri di ogni specie; giacché anche gli stessi veleni riescono talvolta potentissi-
mi rimedi, cosí per poter combattere vittoriosamente gli avversari fa duopo cono-
scere le armi con le quali aggrediscono.
Che della grazia
51
iVedi qui sopra, ** nota 17 e tav. I, b. Nella riproduzione fotografica non è inclusa l’in-
testazione «B.mo Padre», e manca anche il retro del documento, col rescritto del cardinale
Consalvi.
52
iCosì giustamente il Flora, ed. dello Zibaldone, I, p. 1555. Cfr. Moroncini, ed. dei Canti,
I, pp. LXVII-LXIX, e delle Operette, I, p. LXIII e n. 2.
53
iNapoli, Bibl. Nazionale, carte leopardiane, XIII 35. La scrittura è chiaramente non leo-
pardiana; aggiungo «neppure dettata», perché mi pare difficile che il Leopardi, tra i lavori eru-
diti già compiuti, menzioni «le sue annotazioni alla Storia Ecclesiastica (invece che alla Crona-
ca) di Eusebio». Sembra più probabile che il Leopardi abbia incaricato qualcuno di scrivergli la
supplica, e che costui ** (non un ignorante ma un semi-dotto o uno sbadato) abbia sostituito
per errore il titolo della più nota opera di Eusebio a quello di una meno nota.
V. Di alcune falsificazioni di scritti leopardiani 215
versi, non è del tutto sicuro; tuttavia il loro diverso aspetto può deri-
vare semplicemente, anziché da differenza di mano, da differenza di
«corsività»: mi conferma in questa opinione l’autorevole parere di
Augusto Campana **.
Per quanto riguarda il contenuto e lo stile, è evidente che qui il fal-
sario si trovava molto agevolato, perché la necessità di inventare era
ridotta al minimo: bastava seguire la falsariga dell’Infinito leopardiano,
peggiorandone qua e là il testo. Non ci sono e non possono esserci, dun-
que, in questi due abbozzi le colossali gaffes dell’Idillio alla Natura, del-
la supplica per la Biblioteca Vaticana e della lettera del cardinale Mat-
tei. Eppure è, a mio parere, molto improbabile che nell’abbozzo in
prosa, dopo avere scritto: «... questo verde lauro che gran parte cuopre
dell’ o r i z z o n t e allo sguardo mio», il Leopardi possa aggiungere:
«Lunge spingendosi l’occhio gli si apre dinanzi interminato spazio
vasto o r i z z o n t e per cui si perde l’animo mio»: adopri, cioè, la
parola «orizzonte» prima nel senso proprio di confine apparente tra
cielo e terra, subito dopo nel senso lato di «veduta dello spazio». Ciò
è tanto più inverosimile in quanto l’orizzonte è una parola-chiave e un
concetto-chiave dell’Infinito: l’idea e la sensazione delI’infinito sono
suscitate proprio dalla non visibilità dell’orizzonte **.55 Goffaggini sti-
listiche e concettuali insieme sono anche le espressioni «Caro luogo a
me sempre fosti b e n c h é ermo e solitario» (come se al Leopardi, e
a tutta una tradizione sentimentale e letteraria anteriore a lui, fossero
cari generalmente i luoghi frequentati e chiassosi) e «nella amica quie-
te par che si riposi s e p u r spaura» (dove ritorna una frase concessi-
va poco a proposito, e dove al posto della «profondissima quiete» degli
spazi celesti abbiamo un’«amica quiete» che sembrerebbe piuttosto
riferirsi all’ermo colle, a ciò che circonda immediatamente il poeta).
Nell’abbozzo in versi, che sarebbe già vicinissimo ai vv. 1-11 del-
l’Infinito, due correzioni appaiono molto strane. A primo verso il Leo-
pardi avrebbe scritto «Sempre caro mi è quest’ermo colle», e soltanto
dopo avrebbe corretto «è» in «fu». Domandiamoci se è verosimile che,
dopo avere usato il passato remoto nei due abbozzi in prosa («quanto
cara f u m m i ...», «Caro luogo a me sempre f o s t i »), il poeta abbia
pensato, sia pure per un momento solo, a quel «mi è», che da un lato
55
iSi ripete, in certo modo, l’ambiguità dell’abbozzo I, dove apre / copre presuppongono due
diversi significati di «orizzonte»: cfr. qui sopra, p. 198 e nota 25.
218 V. Di alcune falsificazioni di scritti leopardiani
lega male ** con «sempre», dall’altro crea un iato dei più sgradevoli
e inconsueti (nella tradizione di linguaggio poetico a cui il Leopardi
appartiene si scrive «m’è», non certo «mi è» misurato come due diver-
se sillabe). Ai versi 2-3 la prima stesura recherebbe: «... che da tanta
parte De l’ultimo orizzonte il guardo s p a r t e» (corretto poi in
«esclude»): del tutto improprio l’uso di «spartire» in quel contesto, e
assai poco credibile il bisticcio ** «parte – sparte», entrambi in fin di
verso. Devo aggiungere che anche il verso 6 «Silenzi e interminabil
quiete» (che il Cozza-Luzi stampò in forma «emendata»: «Silenzi, e
interminabile quiete») mi lascia perplesso. Certo, se non avessimo
altri indizi di falsificazione, dovremmo concludere con De Robertis
(Saggio cit., p. 151) ** che il Leopardi osò un’ardita dialefe. Ma a chi,
ora, ricordi i versi ametrici dell’Idillio alla Natura e le pietose rabber-
ciature del Cozza-Luzi, non parrà inverosimile che anche in questo
abbozzo il falsario abbia voluto introdurre un verso zoppicante; e for-
se il Cozza-Luzi si dimenticò di notare esplicitamente la sua correzio-
ne di «interminabil» in «interminabile», un altro dei tanti soccorsi da
lui prestati all’inferma metrica leopardiana!
Ancora: dell’Infinito possediamo, come è noto, due autografi, uno
tra le carte napoletane, con alcune correzioni, l’altro conservato nel
Municipio di Visso, quasi privo di correzioni e certamente posterio-
re.56 Ora si osservi il comportamento del nostro abbozzo – che, ripe-
tiamo, contiene i soli versi 1-11, fino a «Vo comparando» – nei con-
fronti delle correzioni dell’autografo napoletano:
Abbozzo del Cozza-Luzi Autografo napoletano Autografo napoletano corretto Autografo di Visso
prima della correzione
56
iVedi l’edizione critica dei Canti a cura del Moroncini, I, p. XXX sg.; II, p. 400 sgg. Sugli
autografi leopardiani di Visso (già posseduti da Prospero Viani) cfr. A. Lesen, L’archivio del
comune di Visso ecc., in «Convivium» X (1938), p. 361 sgg.
57
i| Questa correzione compare per la prima volta nel Supplemento generale a tutte le mie carte
(Firenze, Bibl. Nazionale, Banco rari 342, inserto 11, 1): cfr. A. Monteverdi, Frammenti critici
leopardiani2, Napoli 1967, p. 149) |.
V. Di alcune falsificazioni di scritti leopardiani 219
Ciò non è inverosimile di per sé: anche nel penultimo verso dell’In-
finito il Leopardi ha oscillato tra «immensità» («immensitade») e
«infinità», anche al verso 8 delle Ricordanze corresse nell’autografo
«Creommi» in «Mi creò» e poi ritornò a «Creommi». Ma poco cre-
dibile è che tutte e tre le correzioni che si trovano in così pochi versi
** dell’autografo napoletano siano ritorni ad una lezione precedente.
La stranezza scompare quando si sappia che, al tempo in cui furono
pubblicati gli Appunti leopardiani, le carte napoletane – e quindi l’au-
tografo dell’Infinito tra esse contenuto – erano ancora inaccessibili,
mentre l’autografo di Visso era stato pubblicato in facsimile già da
tempo, nell’edizione degli Studi filologici a cura di Pietro Pellegrini e
Pietro Giordani.58 Il falsario, perciò, nel fabbricare l’«abbozzo» ebbe
come unico punto di riferimento l’autografo di Visso: non poté imma-
ginare che nella precedente redazione, rappresentata dall’autografo di
Napoli, vi fossero quelle tre varianti.
Bisogna aggiungere, per completezza, che in quegli anni di fine Otto-
cento esisté ancora un altro abbozzo in prosa dell’Infinito. Narra Dome-
nico Orano nel «Don Chisciotte di Roma» del 27 novembre 1899:
Lo Jozzi (il prete falsario già da noi ricordato più volte) aveva pure ceduto al senatore
Filippo Mariotti una minuta dell’Infinito che fu dichiarata falsa da quanti la vide-
ro. L’esaminai anch’io come la esaminarono il professor commendatore Giuseppe
Chiarini e il professor Mario Menghini e tutti fummo concordi nel riconoscerne la
grossolana, ed io aggiungo, puerile contraffazione. Ora basta dare un’occhiata alla
minuta suddetta ed alle tre carte dei pensieri famosi (i Pensieri vaticani) per accor-
gersi che la stessa mano vergò l’una e gli altri.
58
iFirenze, Le Monnier, 1845 (e successive ristampe), di contro al frontespizio. Da questo
facsimile deriverà anche l’intestazione Idillio / MDCCCXIX / L’Infinito, con quella data in solen-
ni cifre romane che appare fuor di luogo in un abbozzo, e che invece è al suo posto nella «bella
copia» di Visso, in cui è riferita a tutto il quadernetto degli Idilli (Idilli / MDCCCXIX / L’infini-
to / Idillio I).
220 V. Di alcune falsificazioni di scritti leopardiani
59
iSolo su questi testimoni autentici si è fondato il Moroncini nella già citata edizione criti-
V. Di alcune falsificazioni di scritti leopardiani 221
7. I «Discorsi Sacri»
ca dei Canti. Se ciò significhi che egli abbia ritenuto falsi gli abbozzi pubblicati dal Cozza-Luzi
non si può dire **: dalla sua edizione, infatti, sono generalmente esclusi i semplici abbozzi,
anteriori alla stesura, se non definitiva, almeno compiuta, delle singole poesie.
60
iLe notizie più precise su questi discorsi si trovano nella prefazione di F. Ferri-Mancini alla
Flagellazione (qui sotto, nota 62 **). Molto più sommario e inesatto il catalogo del Cugnoni,
in Leopardi, Opere inedite, I, Halle 1878, p. XXXV sgg.; cfr. anche G. Piergili, Nuovi documenti
intorno agli scritti ed alla vita di G. Leopardi, 3ª ed., Firenze 1892, pp. 175 sgg., 177 n. 1. Non
tutti i discorsi sono autografi.
61
iRecanati 1882, a cura del Comitato delle scuole serali private, omaggio a don M. Bravi-
Pennesi; e ora in PP **, II, p. 1097 sgg.; TO, I, p. 582 sgg.
62
iA cura di F. Ferri-Mancini, Recanati 1885 ( = PP **, II, p. 1100 sgg.; TO, I, p. 751 sgg.).
63
iA cura di N. Mattioli, Roma 1894; omesso, probabilmente per semplice dimenticanza, nel-
le edizioni di Donati, Scarpa **, Flora, Binni-Ghidetti.
64
iNel «Fanfulla della Domenica» del 27 maggio 1888. Scrive l’Antona-Traversi: «L’auto-
grafo – un foglio volante incollato sur un cartoncino – mi fu donato dal chiarissimo bibliofilo
comm. Carlo Lozzi» (da non confondersi col famigerato falsario Oliviero Jozzi!). Non so dove
si trovi adesso tale autografo. Poiché l’Antona-Traversi fu studioso serio e buon conoscitore di
autografi leopardiani, l’autenticità di questo scritto non sembra da mettersi in dubbio. Anch’es-
so è stato trascurato dagli editori delle opere leopardiane.
65
iRecanati 1962 («Quaderni del Casanostra», n. 2).
222 V. Di alcune falsificazioni di scritti leopardiani
Questi nuovi discorsi non fanno parte di quelli che giacciono ine-
diti in casa Leopardi: già abbiamo veduto, del resto, che il Cozza-Luzi
stesso lo escludeva (cfr. sopra, p. 186 **). Dovremmo dunque sup-
porre che fossero giunti al Cozza-Luzi dal commercio antiquario, o
dalle mani di qualche bibliofilo, come era capitato all’Antona-Traver-
si. Ma i tristi precedenti del Cozza-Luzi in fatto di «inediti» leopar-
diani e il suo assoluto silenzio sulla provenienza di tali testi (di cui nes-
suno ha mai visto l’autografo) fanno sospettare che, ancora una volta,
ci si trovi dinanzi a una falsificazione.
Ciò pare confermato da alcuni indizi. Il discorso intitolato Il portar
della Croce da N. S. Gesù Cristo al Calvario è presentato dal Cozza-Luzi
come una diversa redazione di un discorso conservato a Recanati:
«Questo discorso, che nel manoscritto non ha il suo titolo autografo,
presso il Cugnoni (p. XXXVIII) fu intitolato: Gesù Cristo s’avvia al
Golgota colla Croce. Si dice che non vi si trova vergato di pugno del
Leopardi, ma sibbene in copia tra gli scritti di lui. Pare che abbia avu-
to diverso inizio in qualche altra copia, cioè: Giù per le balze del mon-
te di Hai etc., ma questa copia non venne sinora alle nostre mani»
(AL, II, p. 20). In realtà, come si era già accorto il Ferri-Mancini, il
Cugnoni nel suo frettoloso inventario degli autografi recanatesi ave-
va preso un abbaglio: il discorso che incomincia «Giù per le balze del
monte di Hai» non ha per argomento – tranne che nell’esordio – Gesù
che porta la Croce, ma il «trionfo della Croce».66 Dunque il tema che
il Cugnoni aveva attribuito per puro errore a uno dei discorsi recana-
tesi, sarebbe stato invece realmente trattato in un altro discorso leo-
pardiano, rimasto ignoto al Cugnoni e scoperto dal Cozza-Luzi. La
coincidenza non è impossibile (anche perché il numero dei temi adatti
a discorsi sacri non è illimitato), ma appare tuttavia piuttosto sospetta.
Curiose sono anche le somiglianze tra il Frammento di un Sermone
intorno l’immacolato concepimento di Maria e il componimento analogo
pubblicato, come abbiamo detto, dall’Antona-Traversi. Dice il primo:
«Lodiamo, o compagni, la Vergine tutta bellissima, tutta purissima,
il cui celeste candore niuna macchia giammai offuscò»; e il secondo
66
iSi tratta appunto del discorso pubblicato da N. Mattioli (vedi ** sopra, nota 63). Non
pare che il Cozza-Luzi abbia avuto notizia della pubblicazione del Mattioli; ma il curioso è che
dovette sfuggirgli anche l’osservazione del Ferri-Mancini, sebbene egli stesso ne ristampasse
integralmente la prefazione in AL III, pp. 41-45, e la citasse già in AL I, p.7; II, pp. 24, 27.
V. Di alcune falsificazioni di scritti leopardiani 223
67
iLo hanno già osservato il Ferri-Mancini e altri studiosi. L’importanza di questi discorsi è
stata certamente esagerata da Mary Emiliozzi in «Aevum» XXIX (1955), p. 282 sg. Non c’è in
essi ancora nulla di quell’impronta personale che avrà poi, dal ’15 al ’20, il cristianesimo giova-
nile del Leopardi.
224 V. Di alcune falsificazioni di scritti leopardiani
8. Conclusione
68
iVedi ad esempio i numeri 134, 156, 222, 518 del citato Catalogo della Comunale di Mila-
no **; e cfr. G. Lonardi, Leopardismo, Firenze 1974, pp. 21, 23, 77; A. Balduino, Manuale di
filol. italiana, Firenze 1979, p. 165.
V. Di alcune falsificazioni di scritti leopardiani 225
69
iNulla si ricava dalla bibliografia degli scritti a stampa del Cozza-Luzi pubblicata a pp. 14-
16 delle Onoranze a G. Cozza-Luzi, Roma 1898: non vi figurano componimenti poetici né,
comunque, scritti letterari, ma solo (tranne gli Appunti leopardiani) discorsi religiosi e lavori di
paleografia e filologia. Tuttavia continua a parermi molto improbabile (cfr. qui sopra, p. 204)
che il Cozza-Luzi ignorasse la fattura metrica d’un endecasillabo.
70
iSul Cugnoni vedi (in mancanza di uno studio complessivo soddisfacente) la commemora-
zione di G. Giri **, in «Annuario dell’anno scolastico 1908-09 dell’Univ. di Roma», pp. 229-232;
F. Picco, L. M. Rezzi maestro della «Scuola romana», Piacenza 1917, p. 70 sg.; G. Natali, in Enci-
cl. Ital. s. v.; e i ricordi aneddotici di Ettore Romagnoli, Genii in incognito, Milano 1934, p. 221
sgg.
226 V. Di alcune falsificazioni di scritti leopardiani
°i{Poi in «Aspetti e figure della cultura ottocentesca» e, ora, qui sopra riprodotto – N. d. C.}
228 VI. Natura, dèi e fato nel Leopardi
°i{Cfr., in questo volume, la postilla all’inizio del cap. IV, «Il Leopardi e i filosofi antichi»; nel-
l’edizione 1969 (p. 380), con il rinvio alla stessa postilla collocata a fine volume, il testo è: «che avre-
mo ancora occasione di citare più sotto (p. 417)» – N. d. C.}
VI. Natura, dèi e fato nel Leopardi 229
che tutto era nuovo, creando, senza pensarselo, le regole dell’arte, con
quella negligenza di cui ora tutta la forza dell’ingegno e dello studio
appena ci sa dare la sembianza, cantava cose divine ed eternamente
durature!». La tesi – sostenuta già da alcuni antichi – dell’anterio-
rità cronologica di Esiodo rispetto ad Omero è condivisa dal Leopar-
di, nonostante la sua abbastanza evidente inverosimiglianza, proprio
perché Esiodo gli sembra «tanto più semplice, candido, naturale». E
siccome questa «naturalezza» è il valore estetico assoluto, antichità
e pregio poetico vengono a coincidere: «Sapete bene che le lettere, e
singolarmente la poesia, vanno a ritroso delle scienze; voglio dire, dove
queste vengon via sempre all’insù, quelle quando nascono sono gi-
ganti, e col tempo rappicciniscono».
Sono certamente molto giusti e importanti i raffronti che il Fubini
e il Bigi hanno fatto, rispettivamente, con un passo della storia lette-
raria dell’Andres (spesso consultata e citata dal Leopardi) e con uno
del primo articolo di Madame de Staël nella «Biblioteca Italiana».1
Ma credo che, nell’indagare la genesi di quell’atteggiamento leopar-
diano che Fubini chiama felicemente «primitivismo classico», non si
possa trascurare l’influsso del purismo. ** La Lettera ai compilatori
della «Biblioteca Italiana» (luglio 1816) cade in quel breve periodo di
zelo puristico che il Leopardi attraversò dalla primavera-estate del ’16
ai primi mesi del ’17. Nei primi mesi del ’16, quando aveva compiu-
to la traduzione di Frontone e il relativo discorso proemiale, il Leo-
pardi conosceva già l’esistenza del movimento purista, ma aveva anco-
ra un atteggiamento di cauta accettazione delle sue tesi più moderate,
di ripudio della sua forma estrema. Proemio e traduzione sono scritti
ancora in un italiano «moderno», cioè settecentesco, quale il Leopar-
di aveva usato anche nelle sue prose precedenti; e a proposito delle
analogie tra il purismo di Frontone e il purismo dell’Ottocento il Leo-
pardi si esprime così: «Non v’ha tra gli antichi uomo, a cui possa più
che a Frontone paragonarsi qualche giudizioso imitatore dei Trecen-
tisti Italiani. Frontone però è uno specchio, a cui pochi di questi nostri
moderni settari possono riconoscersi. Benché amante dell’antichità,
egli non è meno intelligibile di qualunque altro scrittore latino, tanto
1
iM. Fubini, Romanticismo italiano2, Bari 1960, p. 85-88; E. Bigi, La genesi del «Canto not-
turno», Palermo 1967, p. 44. Cfr. anche H.-L. Scheel, Leopardi und die Antike, München 1959,
p. 116 e n. 29.
230 VI. Natura, dèi e fato nel Leopardi
2
iCfr. A. Cesari, Opuscoli linguistici e letterari a cura di G. Guidetti, Reggio Emilia 1907,
pp. 145, 146, 150, 151, 153, 213, 199. La Dissertazione, scritta nel 1808, fu pubblicata a Vero-
na nel 1810. Su questo aspetto del purismo del Cesari vedi M. Vitale, in «Lettere italiane» II,
1950, p. 3 sgg.
VI. Natura, dèi e fato nel Leopardi 231
3
iVedi la lettera al Giordani del 30 aprile 1817 (I, p. 84 ed. Moroncini; p. 59 sg. ed. Flora).
Nella frase della Lettera ai compilatori della «Bibl. Ital.» (in PP, II, p. 597): «Io dunque non tac-
cio il mio nome perché la illustre Dama non asconde il suo, ed egli mi par non sia cosa da uomo
magnanimo quel combattere sempre a visiera calata», bisognerà scorgere una punta polemica nei
riguardi del contraddittore della Staël che si era firmato «un Italiano» (il Leopardi non sapeva
ancora che si trattasse del Giordani).
4
iManca, che io sappia, uno studio sulle fonti della fase iniziale del purismo leopardiano (del-
la fase, cioè, anteriore all’influsso del Giordani). La lettura della corrispondenza col Giordani
permette piuttosto di stabilire ciò che il Leopardi non aveva ancora letto prima di entrare in
corrispondenza con lui, che di acquisire indizi precisi su ciò che aveva letto.
232 VI. Natura, dèi e fato nel Leopardi
5
iQuanto ai trecentisti e all’affinità fra greco e italiano, vedi in particolare la lettera del Gior-
dani al Leopardi del 15 aprile 1817 (Epistolario del Leopardi, ed. Moroncini, I, p. 73), e la rispo-
sta del Leopardi (30 maggio 1817, ibid., p. 98 sg.): «Dopo che Ella mi ha fatto notare l’amici-
zia che è tra la lingua nostra e la greca, ho preso a riflettervi sopra seriamente, e aperto qualche
prosatore greco, ho trovato con grandissimo piacere che la sua osservazione è verissima e mae-
strevole, tantoché qualche passo di autore trecentista mi è paruto aver sembianza di traduzione
dal greco. Non è maraviglia che io non mi sia accorto prima di questa parentela tanto evidente
(e già probabilmente l’ingegno mio senza il suo avviso non se ne sarebbe accorto mai), perché fin
qui de’ prosatori nostri ho avuto per le mani piuttosto i cinquecentisti e gli altri che i trecenti-
sti». E vedi il seguito della lettera, e ancora la lettera dell’8 agosto 1817: «Sto ora quanto posso
coi trecentisti ...».
VI. Natura, dèi e fato nel Leopardi 233
essere stato, lui solo (o lui con altri derelitti) escluso dalla vivificante
comunione con lei. La natura rimane, in generale, madre pietosa e for-
za vitale; ma si è dimostrata matrigna col poeta. Su questo piano si col-
locano i passi della Vita solitaria, 14-20 («Natura ... un giorno oh
quanto / verso me più cortese! E tu pur volgi / dai miseri lo sguardo;
e tu, sdegnando / le sciagure e gli affanni, alla reina / felicità servi, o
natura»); della canzone Alla primavera (dapprima ai vv. 20-22: «Vivi
tu, vivi, o santa / natura? vivi e il dissueto orecchio / della materna
voce il suono accoglie?», e poi nell’implorazione finale, in cui, come
osserva Mario Fubini nel suo commento, «già l’antico affetto per la
Natura è raffreddato da un dubbio»); e soprattutto l’Ultimo canto di
Saffo. Il lamento rivolto alla natura ha, in queste poesie, una forte
impronta autobiografica: è la deformità fisica del poeta che lo porta a
sentirsi figlio negletto della natura. Appartiene a questo stesso ambi-
to – malgrado il tono più teso e tragico, notato giustamente dal Berar-
di – anche il passo della Sera del di di festa, 11 sgg.: «io questo ciel,
che sì benigno / appare in vista, a salutar m’affaccio, / e l’antica natu-
ra onnipossente, che mi fece all’affanno. A te la speme / nego, mi dis-
se, anche la speme; e d’altro / non brillin gli occhi tuoi se non di pian-
to». Qui la natura ha già un volto crudele, a cui danno rilievo i due
epiteti «antica» e «onnipossente» (quest’ultimo, in particolare, la dif-
ferenzia da quell’immagine di madre pietosa ma impotente a conser-
vare gli uomini in uno stato di relativa felicità, che ancora predomina
nel Leopardi di questi anni). Ma dalla concezione della natura nemi-
ca dell’intero genere umano siamo anche qui tuttora lontani, non solo
per il carattere autobiografico in cui il lamento del poeta anche sta-
volta è circoscritto, ma anche perché il lamento, in questa come nelle
altre poesie ora citate, è di un amante non corrisposto, non di un
oppresso che ricambia di pari inimicizia il suo oppressore.
E ancora: se in alcune delle poesie che abbiamo preso in esame –
tutte appartenenti al periodo 1819-22 – il motivo dominante per cui
il poeta si sente escluso dalla comunione con la natura è la deformità
fisica, in altre è piuttosto la morte delle illusioni, la precoce vecchiez-
za spirituale da cui il Leopardi si sente gravato. Il lamento alla natura
è anche preghiera perché la natura aiuti il poeta a ricongiungersi a lei.
Questo secondo aspetto prevale nella canzone Alla primavera, e già in
quel famoso passo della lettera al Giordani del 6 marzo 1820: «... mi
si svegliarono alcune immagini antiche, e mi parve di sentire un moto
236 VI. Natura, dèi e fato nel Leopardi
uomini; Giove che siede a tutela degli empi e colpisce i giusti e i pii;
il «fato indegno» che fa gravare la sua mano tiranna sull’uomo; il cie-
lo che gode dei nostri affanni come di «giocondo spettacolo» ai pro-
pri ozi. Dall’altro, la natura, ben distinta da codeste forze malefiche,
aveva assegnato agli uomini una vita libera da ansie e da colpe, e i suoi
«regni beati» sono stati distrutti dall’«empio costume» instaurato dal-
la ragione.
Già la canzone Nelle nozze della sorella Paolina, che precede di un
paio di mesi il Bruto minore, rivela lo stesso dualismo. L’«obbrobrio-
sa» età moderna, dice il poeta nella prima strofe, è la conseguenza di
un decreto del «duro cielo», dell’«empio fato» (lo stesso aggettivo,
«empio», che nella Ginestra sarà riferito alla natura!); ma nella secon-
da strofe il «corrotto costume» sembra di nuovo alludere a un colpe-
vole allontanamento degli uomini dalla natura benefica, e ciò è con-
fermato dal confronto con l’«insano costume» di A un vincitore nel
pallone (v. 36 sg.) e con l’«empio costume» del Bruto minore (v. 56, già
citato), dove il riferimento alla colpa degli uomini e alla benignità del-
la natura è ben chiaro. E ancora si noti, nella chiusa di A un vincitore
nel pallone (v. 57), quel «nostra colpa e fatal» (cioè «colpa nostra e
del fato», come spiega il Leopardi stesso): qui si parla della decadenza
dell’Italia, non della decadenza generale dell’umanità; ma ritorna
anche qui, sia pure fuggevolmente, l’accenno a una duplice «colpa»,
degli uomini e del destino malefico.
Un analogo contrasto ci si presenta nell’Ultimo canto di Saffo: nei
riguardi della natura, lo abbiamo già accennato, Saffo si spinge solo
fino al lamento dell’amante non corrisposta; ma dietro la natura, da
un certo punto della poesia in poi (v. 37 sgg.), appare un’altra forza
più misteriosamente ostile, che è designata ora come «torvo cielo»,
ora come «i celesti», ora come Giove («il Padre»), ora come «il cieco
dispensator de’ casi» (cioè il «fato», come annota il Leopardi stesso).
E se la frase dei versi 46-47 «Arcano è tutto, fuor che il nostro dolor»
può ancora essere riferita alla sola Saffo (i commentatori, come è noto,
non sono concordi su questo punto; vedi anche Berardi, p. 672 n. 85),
i versi finali «Ogni più lieto / giorno di nostra età primo s’invola» ecc.
non possono riferirsi che all’intero genere umano, al suo comune desti-
no di malattie, di vecchiezza e di morte.
Se la concezione della natura benefica deriva da una corrente del
classicismo italiano, anche la concezione della divinità ostile, come
238 VI. Natura, dèi e fato nel Leopardi
pardi provava nei confronti della sua prima teoria, secondo cui sol-
tanto la «ragione» era responsabile dell’infelicità umana.
Tale insoddisfazione si riflette anche nei pensieri dello Zibaldone
dal ’21 al ’24, nei quali egli continua a discolpare la natura e a difen-
derne la bontà e provvidenzialità, ma con sempre maggior fatica. Via
via che egli viene elaborando la «teoria del piacere» e dimostrando la
necessaria infelicità di tutti i viventi (non solo di alcune anime elet-
te), la provvidenzialità della natura gli appare sempre più limitata alla
sola conservazione della specie – o, più generalmente ancora, dell’or-
dine cosmico –, conservazione di cui la sofferenza e la morte degli
individui è un prezzo necessario.6 Ma ha un senso, da un punto di
vista edonistico, il pagamento di questo prezzo? Il Leopardi si orienta
sempre più verso il rifiuto di una presunta «felicità collettiva» che si
realizzerebbe attraverso la negazione delle felicità individuali. D’altra
parte, il materialismo rigoroso che egli elabora alquanto più tardi, nel
’25-’27, mina alla base il concetto stesso di provvidenzialità, di teleo-
logia della natura.
La natura diviene così un meccanismo di produzione-distruzione da
cui tutti i viventi sono oppressi e da cui è negata quell’esigenza di feli-
cità che questo stesso meccanismo crea in essi. Il dualismo tra natura
benefica e fato (o divinità) malefico non ha, a questo punto, più ragion
d’essere, perché quei caratteri di maleficità e di indifferenza alla sor-
te degli individui sono assunti dalla natura stessa. E mentre fato e dèi,
pur non risparmiando l’infelicità a nessun vivente, colpivano ancora
soprattutto gli uomini grandi (secondo la tradizione del titanismo),
adesso il Leopardi insiste di più sulla comune sofferenza di tutti gli
esseri animati: non occorre ricordare il famosissimo pensiero sulla
souffrance di tutte le piante d’un giardino (Zib., 4175, che non va iso-
lato da ciò che precede in quella stessa pagina), né, più tardi, la chiu-
sa del Canto notturno.
Poeticamente il Leopardi continuerà a parlare anche degli dèi, o di
Arimane: non rinuncerà alla nota specificamente antiteistica per dare
un maggior rilievo alla propria polemica anticristiana e per sottoli-
6
iIn questo sforzo di giustificazione, in cui il Leopardi viene inconsapevolmente precisando
quelli che di lì a poco saranno i suoi argomenti di accusa contro la natura, particolare importanza
hanno i pensieri del 20 agosto 1821 (Zib., 1530 sg.) e del 10 luglio 1823 (Zib., 2936-38), sui
quali molti studiosi hanno già richiamato l’attenzione.
240 VI. Natura, dèi e fato nel Leopardi
7
iChe cosa implichi tale «conservazione» a cui la natura provvede, il Leopardi lo dice, per
esempio, nel Risorgimento, vv. 121 sgg.: la natura «non del ben sollecita / fu, ma dell’esser solo:
/ purché ci serbi al duolo, / or d’altro a lei non cal»; e lo aveva già detto più volte nello Zibaldo-
ne (cfr. la nota di Fubini e Bigi a quel passo del Risorgimento).
242 VI. Natura, dèi e fato nel Leopardi
8
iE. Bigi, Dal Petrarca al Leopardi, Milano-Napoli 1954, pp. 143-145: La genesi del «Canto
notturno» cit., pp. 95-101, 111 sg., 194 sg.
VI. Natura, dèi e fato nel Leopardi 245
9
i Vedi i saggi del Bigi cit. sopra, nota 8. Vorrei aggiungere che il Risorgimento costituisce assai
meno di quanto di solito si creda una «prefazione» o un annuncio dei canti successivi. Lo è solo
in quanto segna il ridestarsi degli affetti e della fantasia; ma quel tenue filo di speranza e di capa-
cità di godimento del presente (pur nel permanere del «pessimismo dell’intelligenza») che il Risor-
gimento esprime, non trova alcuna prosecuzione in A Silvia e nei canti recanatesi del 1829-30.
VI. Natura, dèi e fato nel Leopardi 247
(in connessione, soprattutto, con l’operetta di Holbach, Le bon sens, da lui letta e citata) vedi le
ottime precisazioni di G. Savarese, Saggio sui «Paralipomeni», Firenze 1967, pp. 23 sg., 146-149.
VII.
Note leopardiane ∼
∼iInedite {nel 1980 – N.d.c.}, tranne la terza, già pubblicata nel «Giornale storico della let-
teratura italiana», CXXXVIII (1961), pp. 101-106, e qui ristampata con aggiunte.
VII. Note leopardiane 251
trui. Lat. tunica pallio propior est». Nell’edizione del 1806 (si tratta
della famosa Crusca veronese con le aggiunte del padre Cesari, anch’es-
sa posseduta dal Leopardi), la spiegazione è un po’ mutata e amplia-
ta: «Dicesi in proverbio: Strigne più la camicia, che la gonnella; e vale,
che s’ha più riguardo al suo interesse, o de’ suoi, che a quel d’altrui.
Lat. Tunica pallio propior est. Gr. γνυ γγιον κνµης. Lasc. Spir.
(cioè Lasca, “La Spiritata”) 3.2. Strigne più la camicia che la gonnella».1
Consultatore, anzi lettore assiduo della Crusca, il Leopardi avrà attin-
to da essa, piuttosto che dal Lasca, il proverbio; e tanto più si sarà sen-
tito autorizzato ad usarlo in un dialogo tra personaggi antichi, in quan-
to esso aveva i suoi corrispettivi in latino e in greco.
Neppure nella spiegazione del proverbio il Ferretti è del tutto esat-
to, anche se si tratta di sfumature. Non è che si deva badare «all’es-
senziale», cioè a ciò che «stringe» (preme, importa) di più. Il prover-
bio contiene un paragone: come la camicia è più vicina al nostro corpo
(lo stringe, lo tocca più da presso) che la sottana, così il nostro inte-
resse particolare ci è più vicino di quello degli amici: non c’è maggior
prossimo di noi stessi. Equivale a questo il proverbio citato dal Giu-
sti (e richiamato da C. F. Russo, loc. cit.): «Il dente è più vicino di cia-
scun parente».
Ogni volta, si può ben dire, che si riscontra sull’autografo una let-
tera del Leopardi (sia che la più recente edizione sia stata condotta sul-
l’autografo stesso, sia, a maggior ragione, su una copia), si trova qual-
che inesattezza di lettura da rettificare: minuzie per lo più, ma qualche
volta minuzie non insignificanti.
Ho sott’occhio la riproduzione fotografica della lettera del 26 set-
tembre 1827 a Niccolò Puccini, che è stata posta come copertina all’o-
puscolo Spigolature dalla libreria di Niccolò Puccini, Mostra per la
sezione ottocentesca del Museo Civico a cura di Alessandro Aiardi e
Maria Solleciti (comune di Pistoia, Assessorato agli Istituti culturali,
1
iPer i passi latini e greci (che la Crusca cita con qualche inesattezza nell’ordine delle paro-
le) vedi il commento di Carlo Ferdinando Russo a Seneca, Divi Claudii Α ποκολοκντωσις,
Firenze 19644 (rist. 1970), p. 100.
252 VII. Note leopardiane
1977). La collaziono con l’edizione del Flora (G. L., Le lettere, Mila-
no 1949 e successive ristampe, p. 788), condotta sull’autografo che si
trova nella biblioteca Forteguerriana di Pistoia, e quindi molto più
corretta di quella del Moroncini (G. L., Epistolario, IV, Firenze 1938,
p. 312) che riproduce una vecchia copia.2 Eppure trovo ancora qualco-
sa. Invece che «il Giordani, il Montani, il Vieusseux v i s a l u t a n o
caramente», il Leopardi ha scritto «vi risalutano», cioè vi ricambiano
i saluti. Questo significato di risalutare (corrispondente al latino resa-
lutare, e più arcaico quindi dell’altro, più frequente, di «salutare di
nuovo») è notato nella Crusca veronese (cfr. la noterella precedente) ed
è registrato in alcuni dizionari come significato corrente, sebbene io
lo creda ormai obsoleto. L’errore di trascrizione «salutano», che si
trova già nella prima edizione dell’epistolario dovuta a Prospero Via-
ni, è una tipica banalizzazione. Il Leopardi si è espresso con la sua abi-
tuale esattezza, perché il Puccini (G. L., Epistolario a cura di F.
Moroncini, vol. IV cit., p. 309, 23 settembre 1827) gli aveva scritto:
«... di Giordani, di Vieusseux, di Montani, di Niccolini (i quali tutti
voi mi saluterete)». Si trattava dunque di un ricambio di saluti; il Nic-
colini non è menzionato perché il Leopardi non lo aveva ancora vedu-
to (nella lettera di cui ci occupiamo, subito dopo la frase da noi ripor-
tata, egli soggiunge: «farò le parti vostre col Niccolini quando io lo
vegga, che sarà presto»).
Già che ci siamo, notiamo due minuzie ancor più minute. Gli edi-
tori tutti datano giustamente questa lettera al 26 settembre 1827, ma
nell’autografo, per un lapsus, è scritto chiaramente 1825: data impos-
sibile, poiché il 26 settembre 1825 il Leopardi partiva da Milano per
Bologna, né era ancora entrato in corrispondenza col Puccini, alla cui
lettera di pochi giorni prima, come abbiamo visto, egli risponde; ma
sebbene sulla data 1827 non vi sia alcun dubbio, converrebbe forse
avvertire che essa risulta da una correzione. Nel secondo periodo del-
la lettera gli editori interpungono: «Vi ringrazio molte e molte volte,
senza fine, dell’amore e della cortesia che mi dimostrate» ecc. Inter-
punzione «logica» ineccepibile; ma il Leopardi non aveva posto alcu-
na virgola dopo «volte» e quell’unica sequenza «molte e molte volte
2
iL’edizione di Binni e Ghidetti, mentre per molti altri scritti leopardiani rappresenta un
progresso rispetto a quella del Flora, per l’epistolario riproduce il testo del Flora senza alcuna
variazione.
VII. Note leopardiane 253
3
iPer altri contributi a una futura edizione dell’epistolario leopardiano – in gran parte for-
nitimi da Augusto Campana – vedi «Giorn. Stor. Lett. ital.», CXXXV (1958), pp. 617-626.
Vedi anche Ginetta Auzzas, in «Studi in onore di Mario Puppo», Padova 1969, pp. 43-48.
4
iV. R. Giustiniani, Silvias «verliebte» Blicke, in «Romanische Forschungen», LXXII, 1960,
p. 99 sgg.
5
i| Affermazione troppo drastica: vedi la postilla qui sotto, pp. 258-259 |.
6
iCosì il Flora: «Gli sguardi di Silvia sarebbero pure stati innamorati un giorno! E proprio
di qualcuno tra i giovani che lodavano i suoi capelli e i suoi occhi». Ma cfr. le considerazioni
del Giustiniani che riferiamo più oltre.
7 a
i5 ed., Firenze 1894, p. 849.
254 VII. Note leopardiane
viso inamorato Per cui lagrime molte son già sparte»,8 e ad uno del
Boccaccio: «Se tu ci rechi la ribeba tua, e canti un poco con essa di
quelle tue canzoni innamorate, tu la farai gittare a terra dalle finestre
per venire a te».9
Il lemma della Crusca, certo, non è univoco: «Che dimostra amore»
e «Che ispira amore» sono due significati diversi, il primo ancora una
semplice sfumatura dell’usuale significato passivo («Che prova amo-
re»), il secondo, invece, chiaramente attivo: «Che innamora». Al
significato passivo mi sembra ancora riconducibile l’esempio del Boc-
caccio: le «canzoni innamorate» possono essere canzoni dettate da
amore, anche se, a loro volta, susciteranno amore in altri. Ma nell’e-
sempio petrarchesco il significato passivo è escluso: Laura non prova
amore, ma solo lo suscita. Un interprete cauto può tutt’al più fermar-
si a un significato neutro: «il bel viso in cui risiede, in cui regna Amo-
re»;10 ma insomma in esso è contenuto, almeno potenzialmente, un
valore attivo. Lo stesso si dica di un altro passo del Petrarca, citato a
raffronto dai commentatori del Canzoniere: «Pace tranquilla senza
alcuno affanno, Simile a quella ch’è nel ciel eterna, Muove da lor ina-
morato riso» (degli occhi di Laura).11
L’interpretazione del passo leopardiano accennata dalla Crusca ha,
dunque, validi raffronti a suo appoggio.12 Ma il Giustiniani ha avuto
il merito, non solo di richiamare su di essa l’attenzione dei leopardi-
sti, ma di confermarla con nuovi argomenti tratti dal Leopardi stes-
so. Egli fa notare, anzitutto, come il significato passivo sia in contra-
sto con la situazione psicologica immaginata dal poeta. Quella prima
gioia nel sentirsi ammirata, che a Silvia non fu concesso di provare,
sarebbe stata comunque, ancora, qualcosa di ben diverso dall’amore
per una determinata persona; e i giovani corteggiatori non avrebbero
8
iÈ la terzina finale del sonetto Ma poi che ’l dolce riso.
9
iDecam., IX, 5.
10
i«Pieno d’amore», parafrasano il Carducci e il Ferrari nel loro commento.
11
iCanzone Poi che per mio destino, vv. 67-69.
12
iLa stessa interpretazione si ritrova nel Dizionario enciclopedico italiano e nel Lessico uni-
versale italiano (s. v.), dove il passo del Leopardi è citato insieme a quello del Boccaccio sotto il
lemma «Che esprime e ispira amore» (anche qui, come nella Crusca, sono messi insieme due signi-
ficati alquanto diversi). Nel Tommaseo-Bellini l’esempio leopardiano non figura (il Tommaseo
citava il Leopardi solo quando credeva di poter fare del sarcasmo su qualche sua espressione, come
alla voce procombere): sono invece citati, al paragrafo 6 («Dei segni esprimenti l’amore»), gli esem-
pi del Petrarca e del Boccaccio (quello del Petrarca con la ridicola interpretazione «Che ispira l’a-
more, e però par che lo senta»!) e uno del Gozzi in cui l’aggettivo ha il significato usuale.
VII. Note leopardiane 255
certo lodato Silvia come già innamorata di uno di essi, ma come tale
da innamorare col suo sguardo. Il Giustiniani, inoltre, ricorda che il
Leopardi stesso, come dimostra lo Zibaldone, aveva studiato a lungo
il problema dei participi latini e romanzi e aveva già visto con perfet-
ta chiarezza ciò che più tardi la linguistica storica ha confermato: che
il participio latino è in origine un puro e semplice aggettivo verbale,
indipendente dalle categorie della diatesi e del tempo, nelle quali si
inquadra solo più tardi, e non mai completamente, per svincolarsene
poi di nuovo nelle lingue romanze. Quindi in latino participi come
potus, cenatus, profusus (= «che profonde», in Sallustio), scitus, e mol-
ti di più in testi popolareggianti, arcaici o tardi; quindi anche in ita-
liano, per esempio, discreto = «che sa discernere», trascurato = «che
trascura», falso = «ingannatore», e via dicendo.13 E anche sul caso
specifico di innamorato = «che innamora» si era soffermata, pochi
anni prima della composizione di A Silvia, l’attenzione del Leopardi
filologo: in una schedina di appunti, da lui intitolata Carte supplemen-
tarie di Bologna,14 egli aveva annotato: «Entendu, per intendente.
Innamorato per che innamora. Petr. Son. Ma poi che ’l dolce riso v.
penult.», e poco più sotto «Spasimato per spasimante. Crus(ca)».15 E
ripeté la nota nello Zibaldone,16 aggiungendovi anche l’altro esempio
petrarchesco, della canzone Poi che per mio destino; e nel commento
13
iIl Giustiniani cita passi dello Zibaldone scritti «tra l’estate del 1823 e la primavera del
1826», e in particolare uno del novembre 1823 (p. 3851 sg. dell’autografo). Ma il primo accen-
no ai «participi in tus de’ verbi neutri o attivi latini» che, pur essendo «di desinenza passiva»,
hanno la «significazione attiva o neutra», è in un pensiero del 1821 (Zibaldone, 1107). Vedi poi
i passi dello Zibaldone elencati dal Leopardi stesso nel suo indice, Polizzine a parte, alla voce
«Participii in US de’ verbi neutri o attivi» (TO, II, p. 1272); e poi ancora pp. 4450, 4469, 4485,
4495, 4517 dell’autogr., e altrove. Gli esempi tratti da lingue romanze (specialmente dallo spa-
gnolo) prevalgono sui latini a cominciare da p. 3851. Per trattazioni moderne dell’argomento,
vedi la bibliografia citata dal Giustiniani nel suo articolo, pp. 100-102. Per il legame che nel pen-
siero del Leopardi vi era tra l’argomento specifico dei participi e il tema più generale del latino
volgare e dei suoi rapporti col latino arcaico da un lato, con le lingue romanze dall’altro, vedi
specialmente p. 4062 dello Zibaldone (TO, II, p. 1051) e La filologia di G. Leopardi, Bari 19782
pp. 54-58.
14
iBibl. Nazionale di Firenze, Banco rari 342, inserto 12, 3 (ora in G. L., Scritti filologici a
cura di G. Pacella e S. Timpanaro, Firenze 1969, p. 635 e p. 633, nota a r. 1). Il Giustiniani non
poteva conoscere questa scheda, allora inedita. Niente di male, giacché il suo contenuto, come
diciamo subito dopo, si ritrova anche in un passo dello Zibaldone che egli cita.
15
iDi quest’uso di spasimato la Crusca (ed. di Venezia 1741, IV, p. 426) citava esempi di
Firenzuola, Davanzati, L. Salviati. Ma, come mi ricorda Luigi Blasucci, anche il Leopardi, nel-
la canzone Nella morte di una donna fatta trucidare col suo portato (1819), aveva scritto: «Invan
le braccia Spasimate stendesti» (v. 34 sg.).
16
ip. 4140: il pensiero è del settembre 1825.
256 VII. Note leopardiane
Alla prima redazione di questa nota (in «Giorn. Stor. Lett. it.» CXXX-
VIII, 1961, p. 101 sgg.) Mario Fubini, allora direttore del «Giornale»,
aggiunse la seguente postilla, che mi piace qui riprodurre: «Per desiderio
di Sebastiano Timpanaro (...) faccio seguito alla sua prima “nota” con
pochi appunti, riferendo la citazione che a conferma dell’interpre-
tazione da lui sostenuta, gli avevo comunicato in una lettera: alcuni
versi della canz. “Donna ne gli occhi vostri” di Eustachio Manfredi:
“Quanto sopra del vostro esser mortale / alzar poteavi un solo / di que’
soavi innamorati sguardi!” (vv. 84-86); e saranno pure da ricordare
per la retta interpretazione degli «innamorati sguardi», se pur potes-
se sorgere un dubbio sul significato di questa voce in chi conosca la
canzone e il motivo tutto che la informa, altri che si leggono nella
stanza precedente: “Amor, tu ’l sai che (...) additasti al cor mio / in
quai modi celesti / costei l’alme solleva e le innamora” (vv. 68-74).
Aveva dunque presente il Leopardi (come pensa il Giustiniani) un’e-
spressione consacrata da un’illustre tradizione letteraria, di cui con
tanti altri ci è offerto un esempio dal raffinatissimo petrarchista Man-
fredi, o non piuttosto (come suggerisce qualche commentatore) la
“canzonetta popolare” cantata a Recanati, di cui aveva preso nota nel-
lo Zibaldone? È questo per se stesso un caso tipico della confluenza di
espressioni della poesia d’arte e della poesia popolare, ma per ciò che
si riferisce al nostro poeta ci sembra che l’una e l’altra suggestione non
siano da escludere. Certo il Leopardi si sarà compiaciuto risentendo in
quella canzonetta una voce della lingua letteraria, come si compiace-
va sentendo “in bocca de’ contadini e della plebe minuta” deIla sua
terra il “ragionare” e altre simili voci nell’accezione letteraria e arcai-
ca (lett. al Giordani del 30 maggio 1817). Così esse venivano ad assu-
mere per lui carattere di voci familiari insieme e peregrine e come tali
a comporsi nel suo linguaggio poetico tutto classico e pur atto a ren-
dere senza deformarlo anche quel piccolo mondo a cui rivolgeva amo-
258 VII. Note leopardiane
23
iQuesto accenno trova riscontro in un passo dello Zibaldone di alcuni anni prima (p. 4298,
22 novembre 1827) dove si inveisce contro «quella sporchissima e fetidissima città per li cui ama-
bili cittadini ogni luogo, nascosto o patente, è comodo e opportuno per li loro bisogni»: donde
la necessità di dipingere o scolpire delle croci «ne’ luoghi che si vogliono salvare dalle bruttu-
re». – Quanto ai «baffuti», è superfluo rammentare l’insistente ironia leopardiana, nella Pali-
nodia e nei Paralipomeni, contro le barbe e i baffi dei liberali.
260 VII. Note leopardiane
24
iLa frase è molto trasandata, ma il senso è chiaro. Se bastassero gli eccessi puramente ver-
bali di questi giovani eroi da caffè per liberare la Toscana, essi sarebbero «un gran che», cioè
persone di alto valore («i quali» si riferisce, naturalmente, ai giovani liberali): ma non bastano
le parole, e quindi essi meritano soltanto disprezzo. Cfr. Leopardi, Paralipomeni, VI, st. 15. La
qualificazione della Toscana come «terra di vivissimi ciuchi» ha suggerito al Niccolini l’imma-
gine dell’Appennino come «basto», quasiché il Granducato fosse un unico grande asino, su cui
sovrasta la catena appenninica.
VII. Note leopardiane 261
25
iVedi qui sopra, p. 251. Il Leopardi possedeva anche la Crusca nell’ed. di Venezia 1697,
dove progressivo era spiegato soltanto con «che ha virtù d’andare avanti», ed era riportato il solo
esempio del Buti.
26
iE. Littré, Dictionnaire de la langue française, II, Paris 1863, p. 1342 registra anch’egli pro-
gressif (con un esempio di Guizot), mentre denota progressiste come «neologismo». Nel Larous-
se cit. progressiste è registrato come sostantivo, con un esempio di Balzac in cui è contrapposto
a conservateur.
VII. Note leopardiane 263
27
iVedi nel commento di G. De Robertis (nuova ed. a cura di G. e D. De Robertis, Firenze
1978, p. 461): «Per rimaner solo all’eleganza, vedi l’effetto che il Leopardi n’ha ricavato con una
semplice inversione».
28
i«Gl’individui sono spariti dinanzi alle masse, dicono e l e g a n t e m e n t e i pensatori
moderni» (la spaziatura è mia). E poco sopra: «delle masse (per usare questa leggiadrissima paro-
la moderna)».
264 VII. Note leopardiane
29
iCosì pure a torto alcuni dizionari (Diz. Garzanti della l. ital., Milano 1965; F. Palazzi, nuo-
va ed. a cura di G. Folena, Milano 1974; Nuovo diz. d. lingua ital. Curcio, Milano 1972) citano
da solo l’esempio leopardiano, senza dire che è una ripresa ironica dell’uso del Mamiani. Occor-
re appena avvertire che questa mia scorribanda lessicale sulI’uso di progressivo non può non
essere imperfettissima, dal momento che non è basata su alcuna ricerca sistematica. Essa può
valere solo come invito a ricercare ancora; a me basta aver cercato di precisare la reazione pole-
mica che quell’aggettivo dovette suscitare nel Leopardi. | Un altro esempio mi accade ora di tro-
vare in uno scritto del 1853 attribuito, non senza incertezze, a Carlo Tenca (cit. da Paola Lucia-
ni in un saggio sul Carcano, «Critica letteraria» VI, 1978, p. 559): «una militante e progressiva
energia di conati e di voglie» |.
VIII.
Epicuro, Lucrezio e Leopardi ∼ **
∼i«Critica storica», XXV, 1988, pp. 359-409, con numerosi ritocchi e aggiunte. Le citazio-
ni da Epicuro sono tratte dalla 2a ed. delle Opere a cura di G. Arrighetti, Torino 1973, o, più di
rado, dagli Epicurea, ed. H. Usener, Lipsiae 1887. Col solo nome del curatore indico i più auto-
revoli commenti a Lucrezio (in particolar modo quelli a cura di C. Giussani – Torino 1896-98 –,
di A. Ernout – L. Robin, Paris 1925-28 e rist. successive, di C. Bailey, voll. 3, Oxford 1947,
rist. corretta 1950; per il lib. III anche Lucretius, De rer. nat., Book III, ed. by E. J. Kenney,
Cambridge 1971, 19802). Così pure, con i soli nomi dei curatori indico i commenti più noti,
facilmente reperibili, dei Canti e delle Operette morali (per altre abbreviazioni vedi l’avvertenza
all’inizio del presente volume {sulle citazioni da «Nuovi studi sul nostro Ottocento» – N. d. C. –}).
Coi nomi di Saccenti, Mazzocchini, Grilli indico i saggi citati qui sotto, nota 2.
1
i{Qui sopra, pp. 148-183 e relative postille}. Molto notevole anche V. Di Benedetto, G. Leo-
pardi e i filosofi antichi, «Critica storica», VI, 1967, pp. 289-320 (ma sul rapporto Epicuro-Lucre-
zio-Leopardi c’è solo un fugace accenno a p. 311).
VIII. Epicuro, Lucrezio e Leopardi 267
2
iM. Saccenti, Leopardi e Lucrezio, in AA.VV., Leopardi e il mondo antico («Atti V Conve-
gno internaz. di studi leopardiani», 1980), Firenze 1982, pp. 119-148; A. Grilli, Leopardi, Pla-
tone e la filosofia greca, ivi, pp. 57-73 (per l’argomento che qui c’interessa, specialmente p. 60 sg.);
P. Mazzocchini, Sulla questione della presenza di Lucrezio in Leopardi, «Esperienze letterarie»,
XII, 1987, pp. 57-71. Sul rapporto Epicuro-Leopardi è importante anche uno studio, rimasto
poco conosciuto, di Mirella Naddei Carbonara, G. Leopardi: il morire e la morte, «Atti Accad.
Scienze morali e polit.» di Napoli, XCIII, 1982 (specialm. pp. 234-248), che avrò ancora occa-
sione di citare. | Questa studiosa, dopo una vita inquieta e infelice che le aveva procurato isola-
mento e inimicizie nel mondo accademico napoletano, è prematuramente scomparsa nel 1989.
Una sua rivalutazione sarebbe doverosa |.
3
iPer ora cfr. l’introduzione e le note a Cicerone, De divinatione, Milano 1988 (edizione
destinata a lettori non specialisti, ma, se non m’illudo, non del tutto inutile nemmeno agli stu-
diosi del pensiero ciceroniano) e Nuovi contributi di filologia, Bologna 1994, pp. 241-264. Con-
tributi molto acuti e originali allo studio di Cicerone filosofo e ideologo ha pubblicato Emanuele
Narducci (ora nel vol. Modelli etici e società: un’idea di Cicerone, Pisa 1989; cfr. anche Introdu-
zione a Cicerone, Bari 1992, e altri saggi che spero di vedere presto raccolti in volume). A lun-
ghi scambi d’idee con Narducci sono largamente debitore.
4
iLa biblioteca di casa Leopardi non era mal fornita quanto a edizioni di Lucrezio, sia pure
alquanto invecchiate già rispetto a quei tempi: vi erano quelle di J. B. Pius (G. B. Pio, Bologna,
De Benedictis, 1511) e del Lambinus (D. Lambin, Frankfurt a.M., Wechel, 1583), e quella pub-
blicata, senza nome di curatore, dal tipografo Jansson (Amsterdam 1631): cfr. A. Gordon, A Bi-
268 VIII. Epicuro, Lucrezio e Leopardi
bliography of Lucretius, Wincester, St. Paul’s Bibliographies, 19852, pp. 76 nr. 101, 84 nr. 102 B,
136 nr. 208 B, e, per notizie più precise sulla biblioteca Leopardi, S. Sconocchia (cfr. postscrip-
tum al presente articolo), dal quale apprendo che l’ed. del Pius, registrata nel Catalogo a stam-
pa, oggi è mancante (uno dei molti furti, purtroppo, compiuti da indegni visitatori della biblio-
teca). Ma un testo completo di Lucrezio, tratto quasi esclusivamente dall’ed. a cura di Th.
Creech (Oxford, Sheldon, 1695), c’era anche nel vol. I della Collectio Pisaurensis omnium poema-
tum ... Latinorum, Pesaro 1766, pp. 336-392 (la Collectio, utile a scopo pratico anche se consi-
stente, tranne rare eccezioni, in ristampe di edizioni precedenti, era stata messa insieme da
Pasquale Amati; il testo di Lucrezio è segnalato da Gordon, Bibliogr. cit., p. 62 nr. 19; su P. Ama-
ti cfr. A. Fabi in «Diz. biogr. d. Italiani», I, 1960, pp. 677-679). Che il Leopardi, pur consul-
tando talvolta anche le altre edizioni in suo possesso, abbia tenuto sott’occhio soprattutto la Col-
lectio Pisaurensis (cioè il testo del Creech), è stato brillantemente dimostrato dallo Sconocchia
(cit. qui sotto, p. 311, e il recente art. cit. a p. 276), che si è avvalso anche di un suggerimento
di A. Campana. Tale dimostrazione, in aggiunta a ciò che diremo in séguito, contribuisce a ren-
dere ancor meno probabile l’ipotesi che il Leopardi, tranne per qualche singolo passo riguardante
fenomeni linguistici, abbia citato Lucrezio di seconda mano. Quanto alla traduzione del Mar-
chetti, cfr. qui sotto, nota 61.
5
iCfr. Reichmann-Lumpe in Thesaurus linguae Latinae, VIII, 1511, 64 sg. Gli esempi di Albi-
novano Pedone e di Apuleio cit. ibid. non dovettero esser noti al Leopardi e si trovano, comun-
que, in contesti del tutto diversi da quello di Lucrezio (e del Leopardi). Altri passi, ai quali Rei-
chmann e Lumpe accennano senza, purtroppo, indicarli specificamente, saranno di autori tardi,
estranei a Lucrezio o (come avviene talvolta in testi cristiani) tratti da quel passo lucreziano.
VIII. Epicuro, Lucrezio e Leopardi 269
6
iCfr. W. Binni, La protesta di Leopardi, Firenze 19824, p. 232. Giuseppe Pacella mi fa nota-
re che il passo lucreziano è citato nel Forcellini s.v. audeo. Come è noto, il Forcellini fu consul-
tato e riconsultato assiduamente dal Leopardi per i propri studi sul latino arcaico-volgare (cfr.
anche il presente articolo, p. 310). Ma che il Leopardi, leggendo per caso in un sia pur insigne
dizionario quella frase di Lucrezio, ne abbia tratto ispirazione per la Ginestra, mi sembra del tut-
to inverosimile. Il Pacella, nella fondamentale edizione critica e commentata dello Zibaldone,
ha individuato un gran numero di citazioni di seconda mano, qualche volta non designate come
tali dal Leopardi. Ma, metodologicamente, l’ipotesi da prendere per prima in considerazione,
quando si tratti di opere che il Leopardi possedeva (come appunto il De rerum natura) o potè in
séguito procurarsi, è quella della lettura diretta, specialmente in passi di tale pathos poetico. Ben
altrimenti tenue è la somiglianza, menzionata sùbito dopo dal Grilli, tra l’Ottonieri, cap. II, e
Seneca, De tranquillitate animi, 2, 12: qui, sì, l’analogia sarà dovuta al caso.
270 VIII. Epicuro, Lucrezio e Leopardi
7
iCfr. per esempio i ben noti commenti alle Operette di I. Della Giovanna, M. Fubini, G. Gen-
tile, C. Galimberti, e (con maggiore cautela, e con l’avvertenza che «il concetto leopardiano è
diverso») di S. Orlando (Milano 1976). Vedi anche Mazzocchini, p. 61 sg.
8
iCfr. W. Binni, Lettura delle «Operette morali», Genova 1987, p. 22 sg. (specialmente per
gli dèi, che in questa operetta appaiono, eccezionalmente, «visti in una luce di tolleranza, a vol-
te quasi di simpatia»: non nemici degli uomini, ma, piuttosto, incapaci di comprenderli). Non
sarei, invece, d’accordo con la qualifica di «lucrezianamente contenti» che il Binni (ibid.) dà
degli dèi: nell’operetta leopardiana non c’è la totale e beata trascuranza delle cose umane che è
tipica degli dèi epicurei e lucreziani; essi, anzi, intervengono più volte, sebbene, per lo più, sen-
za successo, nelle vicende del genere umano.
VIII. Epicuro, Lucrezio e Leopardi 271
9
iCfr. S. Timpanaro, Contributi di filologia ..., Roma 1978, p. 347 (già in una recensione del
1955). Un accenno a Frontone come ispiratore della prosa delle Operette (non specificamente del-
la Storia del genere umano) trovo già in E. Bigi, Dal Petrarca al Leopardi, Milano-Napoli 1954, p.
117 (il saggio è del 1950). Non c’è bisogno di ricordare con quanta assiduità Frontone fosse sta-
to tradotto e studiato filologicamente dal Leopardi nel 1815-18, né come il giudizio leopardia-
no su Frontone, prima che il Leopardi aderisse al purismo e poi, quando il distacco dalla breve
infatuazione puristica fu ormai consumato, rimanesse pur sempre meno aspro di quello del Gior-
dani (cfr.{, qui sopra, «Le idee di Pietro Giordani», p. 42 n. 16, « Natura, dèi e fato nel Leopar-
di», pp. 229-230 – N. d. C.} e Aspetti e figure, p. 55 sg.).
272 VIII. Epicuro, Lucrezio e Leopardi
12
iLeopardi, Opere, Torino 1977, p. 760. Là il Leopardi si rifarà a concezioni proprie dei pri-
mitivi, incapaci di concepire la morte sia come annullamento totale, sia come sopravvivenza di
un’anima distinta dal corpo: donde la loro idea della morte come continuazione attenuata, depo-
tenziata, della vita corporea: cfr. il commento di Ersilia Alessandrone (nell’ed. ora cit. del Fubini,
pp. 1088-1091) a Paralipom. VIII, st. 10-15.
13
iMazzocchini, p. 67 n. Un accenno molto breve già nel commento alle Operette di G. Gen-
tile, Bologna 19403, p. 177, alle righe 2-3.
274 VIII. Epicuro, Lucrezio e Leopardi
14
iNotevoli analogie tra il Saggio e un’ampia opera erudita composta dal Leopardi press’a
poco contemporaneamente, i Fragmenta Patrum Graecorum, sono state messe in risalto da C. Mo-
reschini, Metodi e risultati degli scritti patristici di G. Leopardi, «Maia» XXIII, 1971, pp. 312-314.
Non per questo, tuttavia, io credo, si dovrà negare la componente cattolico-illuministica del
Saggio, e la sua diversa finalità, brillantemente divulgativa e apologetica, talvolta anche artistica
(G. De Robertis, Saggio sul Leopardi, nuova ed., Firenze 1973, pp. 15-25), erudita solo “in secon-
da istanza”: cfr. ciò che ho osservato in «Giornale stor. letter. ital.» CXLIV, 1977, p. 153.
Anche il Moreschini, del resto (art. cit., p. 314), parla, a proposito del saggio, di «tesi ibrida-
mente reazionaria e illuministica». Era questa una componente della personalità di Monaldo
Leopardi e la sua biblioteca era molto ricca di opere ispirate a tale tendenza (cfr. {«Il Leopardi
e i filosofi antichi», pp. 149-153, e qui sotto, «Il Leopardi e la Rivoluzione francese», p. 315 sg. –
N. d. C.}). Una lettura del Saggio dal punto di vista antropologico ha dato G. B. Bronzini, in Leo-
pardi e il mondo antico (cit. qui sopra, nota 2), pp. 321-360: assai acuto nel mettere in evidenza
alcuni aspetti di originalità del Saggio in confronto ad analoghe opere precedenti, ma, nell’in-
sieme, un po’ sforzato, come sembra sia destino di quasi tutti gli scritti di antropologia cultura-
le, quando vogliono non (come è giusto) integrare le discipline storiche, ma sostituirle.
VIII. Epicuro, Lucrezio e Leopardi 275
due citazioni verso l’inizio del cap. XIV, per esemplificare l’uso di ani-
ma nel senso di «vento». Insieme a Lucrezio sono citati anche altri
autori, è rammentata la «conformità» del latino anima col greco àne-
mos, si ricorda che «in greco la voce pneûma vale al tempo stesso spi-
rito e vento». Ma al Leopardi diciassettenne questi richiami servono
come conferma che gli antichi annoverano i venti tra gli dèi, non per
affrontare la ben nota (almeno da Locke in poi) e pericolosa tesi del-
l’origine materialistica del concetto di anima, tesi alla quale egli stes-
so, invece, aderirà più tardi.15
Aveva il Leopardi letto già nel 1815, sia pure alquanto frettolosa-
mente, il De rerum natura, oppure le citazioni lucreziane sono di secon-
da mano, come un tempo io inclinavo a supporre e come tuttora i più
suppongono? È molto difficile dare una risposta sicura, come per altre
innumerevoli opere citate nel Saggio. Tuttavia significheranno pur
qualcosa le baldanzose parole della Prefazione, in cui il Leopardi affer-
ma la propria indipendenza da precedenti opere sullo stesso argomen-
to, anche se quelle parole non escludono che il giovane autore abbia
attinto citazioni da libri moderni di argomento e carattere diverso. Ma
in attesa di minute (e non facili) ricerche finora non eseguite, vorrei
osservare che, dato e non concesso che il Leopardi nel 1815 non aves-
se ancora letto il De rerum natura, rimane pressoché certo che lo aveva
già letto nel 1822, quando compose l’Inno ai Patriarchi (cfr. qui sopra,
§ 1, a proposito delle «seguaci ambasce», e la pregiudiziale metodo-
logica alla quale accenno alla nota 6). E poiché una lettura totale appa-
re esclusa per il periodo dall’estate del ’17 (inizio dello Zibaldone) al
1822 – appunto perché dovrebbero rimanerne tracce cospicue nello
Zibaldone, il che non è, come vedremo meglio in séguito –, l’ipotesi
più probabile mi sembra quella di una lettura totale giovanilissima (già
terminata, quindi, allorché fu scritto il Saggio)16 e di successive lettu-
re parziali, anche tarde: si ricordi ciò che abbiamo osservato a propo-
15
iCfr. Zib. 602 (febbraio 1821); 1054 (maggio 1821), dove c’è una “autocitazione” del Sag-
gio, ma il punto di vista è mutato.
16
iII fatto che nel Saggio Lucrezio sia citato con indicazione di libro ma non di verso non
costituisce un sospetto di citazione di seconda mano: nell’edizione della Collectio Pisaurensis
mancava ogni numerazione di verso in margine, ed era troppo faticoso «contare», per ciascun
libro, fin dal primo verso! Non sarà forse inutile a qualche studioso sapere che la Biblioteca della
Facoltà di Lettere di Firenze possiede un esemplare della Pisaurensis con numerazione di versi
aggiunta a mano da un ignoto “benefattore”.
276 VIII. Epicuro, Lucrezio e Leopardi
3. Ma, oltre che dal poema di Lucrezio, sul quale dovremo ritorna-
re, il Leopardi ebbe notizia dell’epicureismo anche da testi di Epicu-
ro stesso (in misura molto scarsa, come ora vedremo) e di altri autori,
soprattutto Cicerone. Per i testi epicurei, vi sarebbe stata nella biblio-
teca Leopardi un’ottima fonte: l’edizione di Diogene Laerzio a cura
del Meibomius (Marcus Meibom), con note del Casaubonus (Isaac
Casaubon) e con le osservazioni supplementari del Menagius (Gilles
Ménage), pubblicata ad Amsterdam, Wettstein, nel 1692. Come è
noto, nel lib. X delle sue Vite dei filosofi Diogene Laerzio, fortuna-
tamente per noi, riporta le tre famose epistole di Epicuro a Erodoto,
a Pitocle e a Meneceo e le cosiddette Massime capitali (K|riai dóxai).
Tuttora questo è l’insieme più importante di testi epicurei a noi per-
venuto; tanto più lo era allora, in mancanza delle Sentenze Vaticane e
della maggior parte dei papiri ercolanesi attribuibili ad Epicuro. È
merito del Grilli, però, aver osservato (p. 60 sg.) che le citazioni da
Diogene Laerzio nello Zibaldone, in complesso, non vanno oltre la fine
del lib. VI: perciò niente Epicuro (lib. X) e, aggiunge il Grilli, niente
Stoici (lib. VII). L’osservazione del Grilli mantiene la sua importan-
za (a me e, credo, anche ad altri il fatto era sfuggito), anche se, a mio
avviso, è un po’ troppo perentoria.17 Egli dice di considerarla valida
17
iII saggio del Grilli è degno della sua ben nota dottrina e competenza in fatto di filosofia
antica. Ma, nonostante alcune osservazioni di grande finezza (per esempio sull’Ottonieri e i suoi
modelli, p. 64 sg.), il Grilli è convinto che la scarsezza e frammentarietà delle letture che il Leo-
pardi poté compiere gli preclusero, sostanzialmente, un fecondo contatto col pensiero antico.
Ciò è vero se si cerca (e non lo si trova certamente!) un Leopardi “storico della filosofia anti-
ca”; il Grilli stesso, p. 54, riconosce che ciò, almeno per il primo Leopardi, sarebbe «anacroni-
stico». Ma che il Leopardi sia riuscito a “confrontarsi”, spesso fecondamente, col pensiero gre-
co-romano, io persisto a crederlo. Il Voyage du jeune Anacharsis di J. J. Barthélemy, dice ad
esempio il Grilli (p. 59), «gli rivelò (con quanti mai abbagli!) l’esistenza di un pessimismo gre-
co». Io credo che gli «abbagli» riguardino questioni marginali, e che l’essenziale di quel pessi-
278 VIII. Epicuro, Lucrezio e Leopardi
mismo (nei p o e t i greci più che nei filosofi: su questo punto importante vorrei ritornare in
altra occasione) fu inteso bene dal Leopardi. I punti fondamentali risultano anche dal Barthé-
lemy, che non è da disprezzare troppo.
18
iNella Storia della Astronomia cfr. ad esempio (tra le poche citazioni da libri di Diog. Laert.
posteriori al VI), T.O., I, pp. 637, 638 n. 8. Nell’Esichio Milesio (in Leopardi, Opere inedite a
cura di G. Cugnoni, I, Halle 1878) i riferimenti a Diogene Laerzio (e, forse ancor più, ai suoi
commentatori nell’ed. cit. del Meibom) sono moltissimi, da tutti i libri; io, in {«Il Leopardi e i
filosofi antichi»}, p. 152 n. 11, ne avevo citato soltanto un paio a titolo di esempio. Del Por-
firio, di cui allora ero costretto a citare l’autografo, abbiamo ora l’ottima edizione del Moreschini
(Porphyrii De vita Plotini ecc., Firenze 1982; cfr. la mia recensione in «Giorn. stor. letter. ital.»
CLXI, 1984, pp. 609-615); i passi che citavo in {«Il Leopardi e i filosofi antichi»} si trovano ora
a pp. 44, 45, 55; ma anche lì mi ero limitato ad un’esemplificazione minima.
19
iNella biblioteca di casa Leopardi c’era un’edizione di Opera omnia di P. Gassendi (Firen-
ze, Tartini e Franchi, 1727, 6 voll.). Ma il Leopardi cita (e non specificamente a proposito di
Epicuro né di Lucrezio) il Gassendi una sola volta nel Saggio (T.O., I, p. 812 n. 13 ); lo citerà
una seconda ed ultima volta in una nota al Cantico del gallo silvestre (ibid., I, p. 157 n. 1); non
mai nello Zibaldone. Per le ragioni di metodo a cui ho accennato (cfr. sopra, nota 6), ritengo
estremamente improbabile che le citazioni da Epicuro (e, tanto più, da Lucrezio), nel Saggio e
in opere successive, derivino dal Gassendi, anche se, con un lavoro da certosini che finora non
è stato fatto, si riuscisse a ritrovarle tutte nei volumi del filosofo francese: del che, per ora, è leci-
to dubitare molto fortemente, poiché l’epicureismo del Gassendi è una filosofia “originale”, non
un tessuto di citazioni.
VIII. Epicuro, Lucrezio e Leopardi 279
cursoria, sia stata compiuta, quella prima volta, fino alla fine dell’o-
pera di Diogene Laerzio.
Quello che, semmai, va osservato (e che, lo ammetto, riduce il valo-
re sostanziale dell’obiezione che ho creduto di muovere al Grilli) è che
i problemi fondamentali della filosofia epicurea non sembrano aver
interessato particolarmente il Leopardi in questa probabile «prima let-
tura». Epicuro non è mai “maltrattato” nel Saggio (lo sarà poco più
tardi nell’Appressamento della morte, che segna un passeggero ritorno
di cattolicesimo più doloroso-pessimistico che razionalista);20 nel Sag-
gio è citato con consenso per il suo rifiuto della divinazione (cap. III),
con dissenso per opinioni scientifiche erronee; le citazioni da Epicu-
ro sono analoghe a quelle da Lucrezio; ma, in quanto nemico della
superstizione, Lucrezio è lodato con più calore.
Quanto alla «seconda lettura» di Diogene Laerzio, testimoniata
dallo Zibaldone, l’osservazione del Grilli ha, invece, buon fondamen-
to, ed è confermata dagli Scritti filologici (a cura di G. Pacella e S. Tim-
panaro, Firenze 1969, cfr. l’indice a p. 683). C’è un’eccezione, che il
Grilli stesso segnala: in Zib. 4299 (17 dic. 1827) è citato, per un fatto
linguistico (πως con l’infinito: cfr. anche Scritti filologici cit., p. 654
r. 65 sg.), un passo dell’Epistola ad Erodoto di Epicuro (da Diogene
Laerzio, X 37). Il passo è «citato in modo difforme dall’abitudine del
Leopardi» dice il Grilli, e perciò egli suppone, senza peraltro identi-
ficare la fonte, una citazione di seconda mano. Ma le citazioni leopar-
diane da Diogene Laerzio, come da molti altri autori, sono spessissimo
leggermente «difformi» l’una dall’altra: ne troviamo senza indicazione
del passo preciso (ad esempio in Zib. 162, 197, 207); ne troviamo del
tipo «Laerzio, in Aristippo l(ib.) 2. segm. 21» (ad esempio Zib. 223);
talvolta è riportato il passo in greco con o senza traduzione latina, talal-
tra soltanto una parafrasi italiana; e via dicendo. La citazione incrimi-
nata dal Grilli («Epicuro, Epist. ad Herod. ap. Laert. X. segm. 37»;
20
iCfr. {«Il Leopardi e i filosofi antichi»}, pp. 153-154 e n. 14. Parlo di “ritorno” di cattoli-
cesimo, anche quanto al giudizio su Epicuro, riferendomi, già prima che all’Appressamento della
morte (c. III, v. 60), alle Dissertazioni filosofiche (1811-12), ora pubblicate, in modo frettoloso e
provvisorio, a cura di R. Gagliardi, Montepulciano 1983: accenni antiepicurei a pp. 53-57 (con
un prolisso tentativo di confutazione), 166 (già riportato, dall’autografo, in {«Il Leopardi e i filo-
sofi antichi»}, p. 150), 240 (con l’aggiunta di una “confutazione”, tradotta in versi italiani, dal-
l’Anti-Lucretius del Polignac, vedi oltre); accenni a Lucrezio a pp. 52 (non gli dà torto, quanto alla
non eternità del nostro mondo), 242. Queste sembrano, in effetti, ancora citazioni di seconda
mano; ma saranno necessarie indagini più accurate, e probabilmente i dubbi rimarranno.
280 VIII. Epicuro, Lucrezio e Leopardi
quasi identica negli Scritti filologici cit.) non mostra, a mio avviso, una
difformità particolare e, per questo rispetto, potrebbe ben essere di pri-
ma mano. È tuttavia vero che, per dirla col Grilli, «un unicum rimane
un unicum»:21 non si sfugge all’impressione che, terminata la «secon-
da» lettura del lib. VI, il Leopardi abbia smesso (per il sopraggiungere
di altri interessi? per una certa sazietà della lettura di un autore come il
Laerzio, che in parte merita la rivalutazione che ne ha fatto Marcello
Gigante, ma che certo manca di vivezza espositiva, di chiaroscuri,
anche a prescindere dall’assenza di originalità filosofica che sarebbe
ingiusto pretendere da lui?) la lettura continuata di quell’opera e che
quella citazione dal lib. X sia il risultato di una “scorsa” saltuaria (che
ebbe come frutto, del resto, un’osservazione di sintassi greca: nulla di
specifico sulla filosofia epicurea). Nemmeno molto più tardi, da brani
di Diogene Laerzio contenuti nella silloge degli Opuscula Graecorum
veterum sententiosa et moralia di Johann Conrad Orelli, il Leopardi tras-
se notizie sull’epicureismo; o non si curò di prenderne nota.22
Senza Diogene Laerzio, dice ancora il Grilli (p. 61), «tutti i pro-
blemi della filosofia ellenistica non potevano esser visti e conosciuti
21
iIn verità un’altra citazione, da VII 57 (cioè dal libro dedicato agli Stoici) c’è in Zib. 43, a
proposito della parola greca βλτερι. Il Grilli (p. 60 n. 28) suppone che il Leopardi l’abbia letta
nell’indice dell’ed. del Meibom, e di lì sia risalito alle note del Casaubon e del Ménage. Ma, come
mi fa osservare per lettera il Pacella, perché pensare a una consultazione del solo indice anziché
a lettura del testo di Diogene Laerzio? Certo, anche qui – come in X 37 cit. sopra, come in varie
citazioni da Lucrezio, cfr. qui sotto, paragr. 11 – l’interesse del Leopardi è rivolto alla lingua,
non al pensiero filosofico. Per la notevole osservazione del Leopardi su βλτερι, che va molto al
di là di quanto si sapeva allora e costituisce una delle prove del suo ingegno di linguista-filolo-
go, cfr. Filippo Di Benedetto, G. Leopardi e una nuova etimologia di franc. «bélître», «Siculorum
Gymnasium», IV, 1951, p. 129 sg.
22
iQuella silloge fu posseduta dal Leopardi a partire dal dicembre 1826, ma a leggerla egli
incominciò soltanto nel ’29, come è dimostrato dall’Indice delle letture IV (ed. Pacella, | cfr.
sopra, p. 276 |, p. 572, nr. 452-70) e dallo Zibaldone, 4431 sg.: cfr. Leopardi, Scritti filologici,
ed. Pacella-Timpanaro cit., p. 607 e altrove. A torto il Grilli (p. 60 n. 27) dice che il Leopardi
aveva avuto «sicuramente» a disposizione una copia dell’Orelli «durante il soggiorno romano e
un’altra durante quello bolognese», e cita vari passi degli Scritti filologici, i quali, però, conten-
gono tutti aggiunte posteriori (cfr. le note dell’ed. Pacella e mia). Anche quanto alle citazioni
da Stobeo (Grilli, p. 61 e nn. 31-32), quelle che risalgono al soggiorno bolognese non deriva-
no dall’Orelli, benché sulla provenienza di alcune permangano dubbi (cfr. Scritti filologici cit.,
Indice, p. 717). Nell’insieme le citazioni da Stobeo, dirette o indirette, non sono poche né tutte
insignificanti. Devo, tuttavia, dare atto al Grilli che in {«Il Leopardi e i filosofi antichi», qui
sopra,}, pp. 164-165, mi ero espresso troppo indeterminatamente e avevo antedatato le letture
del testo g r e c o di Stobeo (a Recanati il Leopardi possedeva soltanto una traduzione latina:
cfr. l’Indice cit. dagli Scritti filol., dove quel mio precedente errore è corretto). È probabile, tut-
tavia, che sia opportuno un supplemento d’indagine.
VIII. Epicuro, Lucrezio e Leopardi 281
vanili (gli antichi tutti attività, energia, magnanime illusioni), già for-
temente intaccata da dubbi, ma non ancora esauritasi nel ’24, e coe-
rente poi di nuovo con la pur tormentata ripresa di interesse politico
degli ultimi anni.23
Quanto alla polemica contro l’“autosufficienza” del sapiente, biso-
gna di nuovo richiamarsi all’Ottonieri (cap. II), e già a un pensiero,
forse espresso con più energica immediatezza, dello Zibaldone, 2800-
2803 (22 giugno 1823). Fu molto comune «specialmente tra’ filosofi
antichi», dice il Leopardi, l’idea che il sapiente non debba far dipen-
dere la propria felicità o infelicità «dalla fortuna (...), o da veruna for-
za di fuori». Senonché
questa medesima disposizione d’animo (...) non è ella sempre suddita della fortuna?
Non si sono mai veduti de’ vecchi ritornar fanciulli di mente, per infermità o per
altre cagioni, l’effetto delle quali non fu in balia di coloro l’impedire o l’evitare? (...)
La nostra medesima ragione non è tutta quanta in balia della fortuna? (...) In som-
ma, se il nostro corpo è tutto in mano della fortuna, e soggetto per ogni parte all’a-
zione delle cose esteriori, temeraria cosa è il dire che l’animo il quale è tutto e sempre
soggetto al corpo, possa essere indipendente dalle cose esteriori e dalla fortuna. Con-
chiudo che quello stesso perfetto sapiente, quale lo volevano gli antichi (...), sarebbe inte-
ramente suddito della fortuna, perché in mano di essa fortuna sarebbe interamente quella
stessa ragione sulla quale egli fonderebbe la sua indipendenza dalla fortuna medesima.
23
iSull’itinerario del pensiero leopardiano non è questo il luogo adatto per un elenco biblio-
grafico. Sull’«egoismo» inteso essenzialmente come apoliticità e contrapposto all’«eroismo» cfr.
ad esempio (per citare un passo particolarmente significativo) Zib. 537 (gennaio 1821) col com-
mento del Leopardi al passo di Cicerone, Laelius, 13, 45 sg. Cfr. anche qui {sotto}, p. 324 sg.
284 VIII. Epicuro, Lucrezio e Leopardi
24
iSu Teofrasto non credo di dover correggere quanto ho scritto in {«Il Leopardi e i filosofi
antichi»}, pp. 161-163. Dall’etica teofrastea il Leopardi vide con piena lucidità un punto solo,
ma un punto di capitale importanza: la negazione (in buona parte già aristotelica) della tesi
secondo la quale la virtù basterebbe a dare la felicità. Già Cicerone, in passi che il Leopardi cono-
sceva (cfr. Zib. 317 e la Comparazione delle sentenze di Bruto minore e di Teofrasto vicini a morte,
in T.O, I, pp. 205-210; cfr. anche{, qui sopra, «Il Leopardi e i filosofi antichi»}, p. 163 n. 37;
ma lì, p. 163 nel testo, non parlerei più con frettoloso disprezzo del «superficiale stoicismo di
Cicerone»), pur non arrivando a consentire pienamente con Teofrasto, aveva compreso la diffi-
coltà di svalutare del tutto l’incidenza dei beni e dei mali esterni sulla felicità del sapiente. Ma
al Leopardi, giustamente, le riserve di Cicerone nei riguardi dell’etica aristotelico-teofrastea sem-
brano ancora eccessive.
25
iCfr. Zib., 317: (Teofrasto) «anteriore oltracciò ad Epicuro e certamente non epicureo per
vita né per massime» (cioè non edonista volgare ed egoista). Teofrasto, secondo una tradizione
riferita da Plutarco (cfr. {«Il Leopardi e i filosofi antichi»}, p. 162 e n. 33), aveva per due volte
liberato la patria dalla tirannide; non era dunque stato un apolitico come Epicuro; e ciò, per il
Leopardi pur disilluso dalla politica, continuava ad essere un titolo di merito. L’antiepicurei-
smo è un po’ più attenuato nella Comparazione cit. (T.O., I, p. 208): «... con tutto che fosse
diversissimo e ne’ costumi e nelle sentenze da quello che poi furono gli Epicurei»: qui il biasi-
mo morale, come molto spesso anche in Cicerone, è rivolto solo contro i seguaci dell’epicurei-
smo, non contro il maestro. Cfr. il passo di Montesquieu cit. in Zib. 274, in cui si dice che «la
secte d’Epicure (...) contribua beaucoup à gâter le coeur et l’esprit des Romains».
VIII. Epicuro, Lucrezio e Leopardi 285
per ciò che riguarda gli stoici, o loro affini, ultimi difensori della Re-
pubblica romana e martiri della libertà sotto l’Impero26 e, più tardi, l’a-
desione alla morale di Epitteto, la sua breve durata, la sua non-totalità
anche nel momento culminante.27 Vorrei aggiungere soltanto un’osser-
vazione che non so se sia stata già fatta, né quanto consenso troverà.
La scarsa convinzione con cui il Leopardi fece propria la morale di
Epitteto è dimostrata, a me pare, anche dalla resa stilistica, tutto som-
mato non eccelsa, della traduzione del Manuale. Può darsi che futuri
studi sullo stile di questa versione mi facciano cambiar parere. Ma per
ora mi sembra che, mentre il Preambolo del volgarizzatore, con quella
caratterizzazione dello stoicismo epittetèo come “morale dei deboli”,
con quella non sopita nostalgia della morale eroica già ben notata dal
Luporini, è bellissimo anche letterariamente (anche se non va assunto,
ormai lo sappiamo, come espressione tipica e duratura dell’etica leo-
pardiana), il volgarizzamento del Manuale – un’opera che, certo, anche
nel testo greco non eccelle affatto per pregi stilistici: questo limite og-
gettivo non va dimenticato – è scritto in quello stile alquanto arido,
freddamente letterario, un po’ troppo arcaico, che tanto ingiustamen-
te e per tanto tempo è stato rimproverato alle Operette morali.28
26
iCfr. {«Il Leopardi e i filosofi antichi»}, p. 159, anche per l’importante e tormentato con-
cetto di «mezza filosofia»; Zib. 522, e altri passi cit. da E. Paratore, Moderni e contemporanei fra let-
teratura e musica, Firenze 1975, pp. 11-16. Sulla conoscenza (da me, un tempo, erroneamente
messa in dubbio) di Lucano da parte del Leopardi cfr. Paratore, p. 15 sg. e i miei Aspetti e figu-
re, pp. 44-46; cfr. anche A. La Penna, Leopardi fra Virgilio e Orazio, in Leopardi e il mondo anti-
co (cit. sopra, nota 2), p. 174 n. 77 | ora in La Penna, Tersite censurato, Pisa 1991, p. 277 n. 77 |.
Naturalmente il Leopardi condivideva l’immagine “libertaria”, predominante al suo tempo, di
tutti questi repubblicani: ignorava il loro conservatorismo sociale; ma sarebbe anacronistico far-
gliene rimprovero. Del resto, è già molto che egli comprendesse l’inanità di questo genere di
opposizione limitato ai soli intellettuali, le titubanze degli oppositori stessi in un mondo ormai
«corrotto» (Zib. 22 sg., 161, 274, dove vi sono notevoli influssi del Montesquieu).
27
iCfr. C. Luporini, Leopardi progressivo (1947), rist. Roma 1980, pp. 82-84 (tuttora fonda-
mentale su questo punto); e una mia precisazione, che mi sembrò e mi sembra necessaria, in
{«Alcune osservazioni sul pensiero del Leopardi», qui sopra,}, p. 132; e ancora W. Binni, La pro-
testa di Leopardi cit., p. 5.
28
iCon ragione L. Blasucci (La posizione ideologica delle «Operette morali», ora in Leopardi e
i segnali dell’infinito, Bologna 1985, p. 198 n. 26) precisa che la disposizione d’animo espressa
nel preambolo alla versione di Epitteto, «svuotata ormai di qualsiasi implicazione eroica, | ma
non si dimentichino le osservazioni di Luporini cit. alla nota preced. |, non va confusa con «l’in-
differenza a suo modo ancora eroica delle Operette» (lo stacco era stato già notato dal Binni, La
protesta di Leopardi cit., p. 109 sg., a cui tuttavia il Blasucci arreca qualche giusta precisazione;
una posizione più equilibrata il Binni stesso aveva raggiunto nelle lezioni universitarie sulle Ope-
rette, pubblicate solo di recente, cit. qui sopra, nota 8). Il saggio di E. Bigi, Dalle «Operette mora-
286 VIII. Epicuro, Lucrezio e Leopardi
li» ai «Grandi Idilli» (ora in La genesi del «Canto notturno» e altri studi sul Leopardi, Palermo
1967, p. 83 sg.), anticipa un po’ troppo, includendovi anche le Operette, la fase “epittetèa”; ma
conserva il suo pieno valore, che il Binni tende a disconoscere, per la ricostruzione dell’iter leo-
pardiano dal ’25 al ’27. Ancora un momento diverso, e passeggero, dello stoicismo leopardiano
è costituito dalla chiusa del Parini; ma vedi la riserva che esprimevo in {«Il Leopardi e i filosofi
antichi», qui sopra,}, p. 177; e ora, nello stesso senso, Binni (cit. qui sopra, nota 8), p. 77. Più
ancora, come è ovvio, il Leopardi si sente lontano da certe forme esterne e addirittura grotte-
sche che il provvidenzialismo filantropico aveva assunto per esempio in Crisippo: cfr. la bellis-
sima satira nel Dialogo di un folletto e di uno gnomo, dove il Leopardi stesso cita un passo di Cri-
sippo tratto da Cicerone, De nat. deor. II 64, 160 (T.O., I, pp. 92-94 e nota 1). Lo stile «freddo»
è stato rimproverato a torto, secondo me, al Frammento apocrifo di Stratone di Lampsaco anche
da ammiratori delle Operette quali il Fubini e il Binni; io condivido il giudizio positivo del Bigi,
Dal Petrarca al Leopardi (cfr. qui sopra, nota 9), p. 136.
** 29iCfr. § 1. La diversità è sottolineata bene anche dalla Naddei (cit. qui sopra, nota 2).
Non riesco, però, a persuadermi che la posizione coerentemente materialistica sia quella di Epi-
curo, e che il pessimismo leopardiano, pur superiore, introduca una deroga al materialismo. Su
questo punto (cioè sulla piena legittimità e logicità di un materialismo «non soddisfatto della
condizione umana») rimango ancora fermo a ciò che scrissi in {«Alcune osservazioni sul pensie-
ro del Leopardi», qui sopra,}, p. 130 sg. e, con alcune ulteriori precisazioni, in Antileopardiani,
p. 193 sg. e nell’introduzione a P. Thiry D’Holbach, Il buon senso, Milano 1985, pp. LIX-LXVI.
Il conflitto tra «intelletto» e «senso dell’animo» (cfr. Dialogo di Plotino e di Porfirio), al quale si
richiama la Naddei, p. 243 e altrove, è, nel Leopardi maturo, tutto all’interno del materialismo.
Il materialismo non è mero razionalismo, riconosce anzi l’inesistenza ineliminabile dell’affetto,
della passione, del timore, dell’infelicità, del dolore che la nostra morte procurerà ai nostri cari:
donde l’oscillazione, che nel Leopardi non è dovuta a banale incoerenza, tra l’asserzione della
liceità del suicidio (Bruto minore; La vita solitaria, 22) e un arrestarsi dinanzi a questa soluzione
estrema (Plotino e Porfirio). Soltanto, attribuisce a queste “passioni” un carattere appunto, di
manifestazioni psichiche, non le considera come varchi aperti verso soluzioni spiritualistiche,
come rivelazioni di Verità soprarazionali. Beninteso, la compianta studiosa ha mantenuto sem-
pre una posizione molto controllata, che non va confusa con quella degli interpreti spiritualisti-
ci del Leopardi. Ma assai meno materialistico del pensiero leopardiano è in realtà l’epicureismo,
per il suo carattere religioso (sul quale ritorneremo), e, insieme, per la pretesa di annullare con
«discorsi», come se si trattasse di errori dovuti ad insipienza, le passioni, le ansie, la ben reale
infelicità umana.
VIII. Epicuro, Lucrezio e Leopardi 287
30
iAlludiamo non solo alle espressioni di esaltazione della potenza generatrice della natura
(tutto l’inizio del lib. I, con l’invocazione a Venere) e di entusiasmo per il dileguarsi dei terrori
di fronte al fulgore della verità, ma anche a certi passi in cui la condizione umana è rappresen-
tata in modo tragico sì, ma pacato, almeno apparentemente privo di ogni pathos (a differenza
di quelli che abbiamo citato nel paragr. precedente) e tuttavia proprio per questa pacatezza, tan-
to più doloroso: tra questi, soprattutto stupendo è II 573-580 (sull’alternarsi, ogni giorno e ogni
notte, di nascite e morti).
31
iF. Giancotti, L’ottimismo relativo nel «De rerum natura» di Lucrezio, Torino 1960, 19752; II
preludio di Lucrezio e altri scritti lucreziani ed epicurei, Messina-Firenze 19782 (con citazione e
discussione di molta altra bibliografia); | e adesso, meglio ancora, Religio, natura, voluptas, Bolo-
gna 1989; cfr. p. 123 sg., dove il Giancotti constata – e ne sono molto lieto – un sostanziale
accordo tra le sue e le mie posizioni, pur con «qualche differenza»; cfr. ora l’ottima edizione da
lui curata di Lucrezio, La natura, Milano 1994: le differenze tra le nostre posizioni, quali appaio-
no dall’Introduzione e dalle note, mi sembrano ora un po’ maggiori, cioè l’aspetto “ottimistico”
assume maggior rilievo |.
32
iIn questo ha ragione il Mazzocchini, p. 58 n. 5. Prego il lettore di scusarmi per questo
andirivieni di consensi e dissensi; ma nella «questione lucreziana» non è possibile procedere per
tagli troppo netti.
292 VIII. Epicuro, Lucrezio e Leopardi
33
iCfr. ad esempio l’introduzione alle Operette morali, Napoli 1977, spec. pp. XXVl-XXX;
e ora, Leopardi: meditazione e canto, Milano 1987 (saggio introduttivo a G. L., Poesie e prose, I).
Non presumo, con questo breve cenno, di aver “liquidato” la posizione del Galimberti, col qua-
le vorrei tornare a discutere. | Ma ciò che pensavo di dire io, lo ha detto poco dopo, in modo
eccellente, E. Bigi, «Giorn. stor. letter. ital.», CXLVI, 1989, pp. 278-286 |.
34
iCfr. ad esempio Lucr. V 8: deus ille fuit, deus. E specialmente il proemio del libro III è un
«inno» a Epicuro che, anche nello stile, ricalca gli inni a divinità: vedi E. Norden, Agnostos
Theos, Leipzig 1913, pp. 143 sg., 150 n. 4, e il commento di Kenney al lib. III (cfr. sopra, p. 266,
nota al titolo), p. 74.
VIII. Epicuro, Lucrezio e Leopardi 293
de Lucano (qui sopra, nota 26). Anche quando, nel suo pensiero, gli
dèi malvagi, nella cui esistenza reale egli con ogni probabilità non
credette mai, furono sostituiti coerentemente dalla natura concepita
come cieco e inconscio meccanismo di produzione-distruzione, che
tormenta e annienta l’uomo e ogni essere vivente senza nemmeno accor-
gersene, sul piano della raffigurazione poetica la natura conservò molto
spesso le sembianze della divinità empia, di Arimane (cfr. {, qui sopra,
«Natura, dèi e fato nel Leopardi»}, pp. 227-249; di qui l’appiglio ai
sostenitori della “teologia negativa”; ma costoro sarebbero disposti ad
ammettere l’esistenza s o l t a n t o di un dio malvagio? Comunque,
sul piano razionale, per il Leopardi la natura è, ripetiamo, una forza cie-
ca, involontariamente malefica). E gli «inni ad Epicuro» (qui sopra, nota
34), dio mortale, gli saranno sembrati del tutto assurdi, poiché né Epi-
curo né altri (ovviamente, nemmeno il cristianesimo) avevano libera-
to la specie umana dall’infelicità.
Abbiamo già notato (§ 1) che la più sicura allusione a Lucrezio che
si trovi in Leopardi (Ginestra, 111-113 = Lucrezio I 66 sg.) non impli-
ca identità di pensiero. Un punto di contatto, veramente, c’è (non
messo bene in luce dal Saccenti, p. 133): il coraggio della verità, che
accomuna l’Epicuro lucreziano e l’eroe laico leopardiano nella lotta
contro la superstizione. Ma la battaglia intrapresa da Epicuro ha reso
lui, mortale, pari agli dèi immortali. L’eroe leopardiano osa guardare
l’infelicità sua e dei suoi simili senza la maschera di alcun «conforto
stolto» (cfr. Amore e morte, 119), e chiamare tutti gli uomini a una
lotta impari contro la natura: il suo eroismo sta proprio nella lucida
coscienza della sua debolezza, che non lo induce a immaginarie con-
solazioni. Il divario, anche inteso così,36 è evidente. Si aggiunga che
36
iUna delle difficoltà d’interpretazione della Ginestra consiste nel fatto che l’umanità
preconizzata dal Leopardi, esente da miti religiosi e “umanistici”, da umiliazioni dinnanzi
a presunte divinità protettrici come, d’altra parte, da autodivinizzazioni, è f o r t e pro-
prio in quanto sa di essere infinitamente più d e b o l e della natura che la opprime, ma
non per questo rinuncia alla lotta. Il simbolo della ginestra, se, come tende a fare il Saccenti (p.
133), viene inteso soltanto nel senso della debolezza, conduce ad uno squilibrio dell’interpreta-
zione. Non in quel simbolo, del resto, nonostante l’inizio e la chiusa e il titolo, si esaurisce tut-
to il significato di quel carme così vasto e polifonico. Con tutto ciò, ripeto, il divario tra l’eroe
laico leopardiano (che è poi l’intera umanità futura, il «volgo» libero da miti, non un isolato
uomo eccezionale seguito da pochi fidi) ed Epicuro quale è celebrato da Lucrezio rimane. Esi-
terei, perciò, a definire «lucreziana» col Blasucci (cit. sopra, nota 28), p. 214 n. 39, la fase del
pessimismo leopardiano rappresentata soprattutto dalla Ginestra, in contrasto con una fase ante-
riore che il Blasucci chiama «simonidea» (riferendosi al secondo dei frammenti di Simonide tra-
VIII. Epicuro, Lucrezio e Leopardi 295
dotto molto liberamente dal Leopardi e posto in fine ai Canti). Trovo poco opportuna, beninte-
so, la scelta dei termini, non la distinzione concettuale-stilistica, che, del resto, il Blasucci ha
cura di non irrigidire. Quanto all’«illuminismo per tutti» nella Ginestra, ho cercato di chiarire
meglio questo motivo negli Antileopardiani, p. 187 sg.; cfr. anche «Belfagor», XLII, p. 631 sgg.
| una replica ad Adriano Sofri che considero tuttora valida e che riguardava la sua sconfessione
della lotta di classe. Beninteso, quando, vari mesi dopo quel mio articolo, Sofri fu perseguito
penalmente senza alcuna prova valida, io non ho avuto dubbi sulla sua innocenza |.
37
iL’ambiguità, a mio avviso, rimane anche dopo la lettura di un articolo molto dotto e ben
argomentato di A. Barigazzi, Lucrezio e la gioia per il male altrui, in Filologia e forme letterarie:
Studi offerti a F. Della Corte, Urbino 1987, II, pp. 269-284. | Su questo punto non sono mai riu-
scito a trovarmi d’accordo con Barigazzi, uno studioso di alto ingegno, di eccezionale probità,
la cui morte improvvisa mi ha profondamente addolorato |.
296 VIII. Epicuro, Lucrezio e Leopardi
38
i** Cfr. Zib. 2433. Il Leopardi cita dal Laelius ciceroniano, 6, 22: qui potest esse vita vita-
lis, ut ait Ennius <Inc. 17 Vahlen2> ...?, e rende l’espressione in italiano, inserendola in un con-
testo diverso da quello di Cicerone: la noia come negazione della vitalità. Più tardi la vitalità gli
apparirà menomata non solo dalla noia in quanto tale, ma anche dalla mancanza di vigore fisi-
co. Basti rammentare il Tristano (T.O., I, p. 182): «E il corpo è l’uomo; perché (...) la magnani-
mità, il coraggio, le passioni, la potenza di fare, tutto ciò che fa nobile e v i v a l a v i t a, dipende
dal vigore del corpo». Le parole che abbiamo riprodotte spaziate sono, mi sembra, ancora un’e-
co della vita vitalis enniana.
39
iPer ciò che riguarda la fugacità del piacere (fugacità tale da renderlo, come godimento in
atto, inesistente secondo il Leopardi: vedi sopra nel testo), qualcuno potrebbe pensare a una
famosa espressione di Lucrezio, IV 1333 sg.: medio de fonte leporum / surgit amari aliquid. Che
il Leopardi se ne sia ricordato, non è impossibile. Ma Lucrezio si riferisce ai vani piaceri del lus-
so ozioso; il piacere vero, quello a cui conduce l’insegnamento di Epicuro, per Lucrezio esiste
(pur con le occasionali oscillazioni a cui abbiamo accennato), ma non ha niente a che vedere col
piacere al quale, secondo il Leopardi, l’uomo aspira invano.
VIII. Epicuro, Lucrezio e Leopardi 297
40
iA. Tilgher, La filosofia di Leopardi (1940), rist. Bologna 1979, pp. 17-22.
41
iEssi sono citati, beninteso, in tutti i buoni commenti e saggi leopardiani. È la distinzione
tra questo gruppo di testi e la «teoria del piacere» più ampiamente sviluppata dal Leopardi (in
molte e molte pagine dello Zibaldone e nel Dialogo di Torquato Tasso e del suo Genio familiare)
che, come ho detto, viene di solito trascurata, fermo restando che non si tratta di concezioni
«opposte» come afferma il Tilgher (il quale d’altra parte non si sofferma, come sarebbe stato
opportuno, a notare le due diverse sfumature all’interno della seconda versione: cfr. ciò che
osserviamo tra breve sopra, nel testo). Finora le osservazioni più acute ed equilibrate (anche
riguardo al mito del «salto di Leucade») si devono a E. Bigi, Colombo e Leopardi, in AA.VV.,
Columbeis, Genova, Università, 1986, pp. 53-75 | ora in E. B., Poesia e critica tra fine Settecento
e primo Ottocento, Milano 1986, pp. 85-102 |.
42
iZib. 82 (rievocato molto più tardi nelle Ricordanze, 104-118). Una certa affinità ha anche
il ricordo biografico di Zib. 137 sg. (cfr. la lettera del Giordani, 18 giugno 1820, in Leopardi,
Epistolario a cura di F. Moroncini, I, p. 52 sg.).
43
iChe questo passo del Colombo, bellissimo nella sua pacatezza, non sia da svalutare in con-
fronto alla più fervida chiusa del Vincitore nel pallone o ai versi su Colombo nella canzone al Mai,
76-87, che i due registri stilistici e psicologici abbiano entrambi la loro piena legittimità artisti-
ca, sostiene a ragione il Bigi (cit. qui sopra, nota 40), pp. 70-72 | = 98-102 |. Bisogna aggiungere
che entrambi presentano un’affinità concettuale di contro alla Quiete.
298 VIII. Epicuro, Lucrezio e Leopardi
zione tra morte e atarassia, sulla quale mi sono già soffermato nel para-
gr. 1, la morte è per il Leopardi desiderabile, da invocarsi addirittura,
come unico scampo all’infelicità della vita; e poiché la parte peggiore
della vita è la vecchiezza, il Leopardi ripete con Menandro che «muor
giovane colui ch’al cielo è caro» (Amore e morte, motto iniziale). Ecco:
già qui il Leopardi è del tutto distante da Epicuro e – nonostante il
tono molto meno tranquillamente sicuro con cui Lucrezio tratta nel
lib. III il problema della morte – anche da Lucrezio. Per l’epicureo,
dobbiamo ancora ripeterlo, la vita del saggio, liberata dal timore del-
la morte, è felice, e chi ha imparato a vivere non ha alcun motivo di
desiderare la morte. Posizione eroica, ma di un semplicismo disarman-
te. Il fatto stesso che occorra un lungo esercizio di ammaestramento,
di rimproveri rivolti all’uomo per la sua stoltezza che gli fa temere la
morte,44 dimostra che c’è nell’uomo un timore i s t i n t u a l e , una
fobìa della morte, come negli altri animali o nei selvaggi quando si
vedono minacciati di morte; la differenza (una differenza in peggio,
come è chiaro) sta solo nel fatto che l’uomo civilizzato sa con molto
anticipo di esser destinato a morire. La natura, dice il Leopardi (ad
esempio Bruto minore, 52-60), ha mantenuto nell’uomo civilizzato (e
reso infelice dalla perdita delle illusioni) quell’istinto di conservazio-
ne che non era contraddittorio nel selvaggio e non lo è nelle bestie: ora
l’uomo sperimenta, insieme, l’insopportabilità della vita e l’attacca-
mento alla vita. Bruto, pur ben deciso al suicidio, sente quanto questo
atto gli costi; e arriva a suicidarsi non con animo pacato e per mera
sazietà, come allontanandosi da uno spettacolo teatrale divenuto noio-
so (che era l’unica forma di suicidio ammessa, caso mai, da Epicuro:
cfr. Cic. De fin. I 49), ma bestemmiando gli dèi, questi esseri vili,
«molli», che, se potessero uccidersi, non ne avrebbero il coraggio, e
provano ira contro gli uomini che tale coraggio riescono ad avere
(ibid., 46-50). Qui c’è Lucano, e c’è un’implicita polemica anticristia-
na, ma Epicuro e Lucrezio no di certo: essi avrebbero considerato
44
iSullo stile «diatribico» (non necessariamente «satirico»; o almeno, nel lib. III, la satira è
molto amara) usato a questo scopo da Lucrezio, sulla falsariga di Epicuro e di tutta la filosofia
ellenistica ma, forse, con maggiore veemenza, cfr. Kenney (cit. sopra, p. 266, nota al titolo),
pp. 15-20, 248 e la bibliografia ivi cit. Si ha talvolta l’impressione che i violenti rimproveri con-
tro chi persiste nel temere la morte (accompagnati anche da veri e propri insulti: 939 stulte; 955
baratre, o una parola, comunque, di vilipendio; 1026 improbe) siano rivolti da Lucrezio non solo
all’insipiente ancora ignaro della dottrina epicurea, ma a se stesso, ancora riluttante nell’inti-
mo. Né credo che una simile ipotesi possa cadere sotto l’accusa di psicologismo.
300 VIII. Epicuro, Lucrezio e Leopardi
45
iSull’apostrofe di Porfirio a Platone nel Dialogo di Plotino e di Porfirio cfr. {qui sopra, «Il
Leopardi e i filosofi antichi»}, p. 171 sg. E si noti che in quell’apostrofe, se è considerato ango-
sciante il timore del Tartaro (dell’Inferno cristiano), non ha migliore accoglienza la speranza nel-
l’Eliso (nel Paradiso): «uno stato che ci apparisce pieno di noia, ed ancor meno tollerabile che
questa vita»; la dolcezza del Paradiso, inoltre, è «nascosta, ed arcana, e da non potersi com-
prendere da mente d’uomo» (T.O., I, p. 173 ; su ciò vedi già il lungo e lucidissimo pensiero di Zib.
3497-3509, settembre 1823, rivolto esplicitamente contro il cristianesimo). Ma quando Plotino
ribatte che il suicidio è vietato dalla natura, la replica di Porfirio è ancor più risoluta, e ripren-
de il tema del Bruto minore (p. 176 sg., e la nota a piè di pagina del Leopardi stesso, che ripete
la critica della falsa civiltà e del falso progresso).
46
iB. Croce, Poesia e non poesia, Bari, Laterza, 19243, p. 104. Il Leopardi, dice il Croce, vede-
va dinnanzi a sé, indispettito, uomini lieti e vigorosi, che «alla morte non pensavano, confor-
mandosi consapevolmente o inconsapevolmente al detto antico, che la morte non concerne i vivi,
perché sono vivi, né i morti, perché sono morti». In realtà gli uomini a cui andava il disprezzo,
non il dispetto, del Leopardi erano, per lo più, cattolici speranzosi nel Paradiso (con maggiore
o minor convinzione); altri, agnostici desiderosi di “rimuovere” il più possibile il molesto pen-
siero della morte. Gente che si conformasse alla massima di Epicuro, il Leopardi non ne avrà mai
conosciuta nell’Italia del suo tempo (a meno che quella massima non si intenda in modo talmente
“sbiadito” da perdere ogni caratterizzazione). Se poi qualcuno avesse chiesto a Croce perché non
bisognava temere la morte, avrebbe avuto una risposta basata sull’immortalità del Soggetto asso-
luto: del tutto diversa da quella di Epicuro, un filosofo che Croce non stimava affatto. Ma, con-
tro il Leopardi, tutto poteva servire, anche l’epicureismo!
47
iBasti pensare (all’inizio e alla fine, si potrebbe quasi dire, dell’iter leopardiano) da un lato
ai ricordi di adolescenti morti, che dovevano servire per un romanzo autobiografico (T.O., I,
p. 362; notazioni particolarmente felici in A. Monteverdi, Frammenti critici leopardiani, Napoli
VIII. Epicuro, Lucrezio e Leopardi 301
un’altra voce: «Tu, addormentato nella morte, sarai libero per tutto
il tempo dagli aspri dolori. Ma noi, dinanzi al tuo rogo orribile ridot-
to in cenere, ti abbiamo insaziabilmente compianto, e nessun trascor-
rere di giorni farà dileguare nel nostro cuore il rimpianto eterno».
Lucrezio ha espresso questo secondo lamento, ancor più del primo, in
uno stile “caricato”, con parole lunghe ed enfatiche (at nos horrifico
cinefactum te prope bustum / insatiabiliter deflevimus aeternumque ...:
nota anche la chiusa spondiaca); l’imitazione sarcastica di certi lamen-
ti funebri insinceri (intonati dalle praeficae?) o troppo “enfiati” stili-
sticamente anche se sincero è il sentimento che li ispira, è stata nota-
ta dai commentatori. E tuttavia il dolore per la morte delle persone
care è cosa seria, e non può essere eluso dal sarcasmo. E la replica di
Lucrezio, questa volta, è davvero debole: «A costui bisogna dunque
chiedere, poiché la questione (res, il punto decisivo) si riconduce al
sonno e al riposo eterno, che cosa vi sia di tanto doloroso, per cui qual-
cuno possa consumarsi in un lutto perpetuo» (III 909-911). Il Bailey,
che per lo più, come abbiamo avuto occasione di constatare, tende a
presentare Lucrezio come fedele interprete dell’epicureismo (e l’epi-
cureismo come una dottrina tuttora valida nei punti essenziali), que-
sta volta ammette che la risposta di Lucrezio (la quale riconduce il
secondo caso al primo, e considera assurdo il dolore dei sopravvissuti
di fronte al non-dolore del morto) «è inadeguata: il sapere che il mor-
to dorme un sonno senza affanni non placa il senso di perdita del pian-
gente» (ed. cit., vol. II, p. 1143 e comm. a III 911). Come in altri pas-
si del suo commento (cfr. qui sopra, p. 289), il Bailey, quando proprio
non può dar ragione a Lucrezio, si rassegna ad attribuirgli un frain-
tendimento del Verbo di Epicuro, o un influsso sporadico di un’altra
fonte: Epicuro non può errare! In questo caso egli osserva che Epicu-
ro, come risulta da altre fonti, ammetteva che si desse sfogo al dolore
per la perdita di amici,50 e suppone che Lucrezio, se gli fosse bastata
la vita, avrebbe rimaneggiato quel passo, chiarendo quella “conces-
sione” del Maestro. L’ipotesi non ha alcun plausibile fondamento, e,
soprattutto, la “concessione” non cambia la sostanza delle cose. Epi-
curo non esigeva dagli amici del morto una esteriore freddezza che
poteva apparire ostentata o derivata da scarso senso dell’amicizia, ma
50
iCfr. Epicuro, Epist. fr. 46, p. 424 (e comm. a pp. 553 sg., 671) Arrighetti2; E. Bignone,
L’Aristotele perduto e la formazione filosofica di Epicuro, Firenze 19732, I, p. 543 e n. 283.
VIII. Epicuro, Lucrezio e Leopardi 303
51
iSi trova già in Euripide, Troades, 636, in un contesto alquanto sconnesso; fu poi svilup-
pata, pare, dal platonico Crantore (le testimonianze, indirette, non sono sicure); poi cfr. anco-
ra Cicerone, Tusc. I 13 e De fin. I 49, e Lucrezio, III 832-842, 867-869 (lì ricorre l’espressione
mors immortalis, sulla quale cfr. sopra, § 1 in fine). Vedi ancora Seneca, Troades, 407 sg. Giu-
stamente commenta il Robin a Lucr. cit.: «Tous ces arguments appartiennent moins à telle ou
telle école qu’au genre de la consolation». Ma che, se non Epicuro stesso (il che, del resto, non
è inverosimile), gli epicurei abbiano fatto proprio questo argomento, è dimostrato dalla conci-
denza di Lucr. cit. e di Cic. De fin. cit. (dove parla l’epicureo Torquato). Si veda anche Le bon
sens del barone d’Holbach, cap. 108 (dove la “consolazione” non riesce a vincere del tutto un
concetto pessimistico della vita e della morte; cfr. l’Introduzione alla mia ed. italiana del Buon
senso cit. sopra {p. 286 n. 29}, pp. LIX-LXIV). Il Leopardi lesse quell’operetta di Holbach (cfr.
ibid., p. LXIII n. 65), e anche da quella, oltre che da Lucrezio e da Cicerone, poté conoscere
questa pseudo-consolazione.
304 VIII. Epicuro, Lucrezio e Leopardi
pure in via del tutto subordinata, sopravvivrà nel Leopardi fino all’ul-
timo: ognuno ricorderà quel passo, poco dopo l’inizio del Dialogo di
Tristano e di un amico, in cui si accusa la civiltà (più precisamente la
civiltà spiritualistica, l’ascetismo mortificante) di trascurare «il corpo»
e, con ciò, di rendere più debole anche lo «spirito». Che corpo e ani-
ma siano due aspetti inscindibili di una unica realtà, lo aveva già det-
to anche Epicuro, si sofferma a dimostrarlo Lucrezio (III 94-829), ma
per convalidare la tesi della mortalità dell’anima (della quale, ovvia-
mente, era convinto anche il Leopardi); nel corso della sua lunga espo-
sizione, Lucrezio accenna anche alle malattie (per esempio III 487-509,
824 ecc; cfr. II 1122 sg. dove non solo gli esseri umani, ma tutto il
nostro mondo appare “ammalato di senilità” e prossimo a dissoluzio-
ne), ma non mette in particolare rilievo il loro carattere infelicitante,
né la possibilità di superare tale infelicità con la consolatio epicurea.
E quanto alla maggiore forza fisica e resistenza alle malattie degli
uomini primitivi, Lucrezio ne parla, in termini che anche il Leopardi
avrà potuto approvare, nella «storia della civiltà» che occupa buona
parte del lib. V (cfr. 925-930, e alcuni accenni anche in séguito), ma
non si sofferma sulle malattie come prodotto della civiltà.
Quando, poi, nel Leopardi prevale l’idea della natura come forza
logoratrice e distruttrice dell’uomo, le malattie (anche prima che so-
praggiunga quella malattia “generale” e finale che è la vecchiezza)
sono considerate, appunto, come una delle tante azioni logoratrici che
tormentano l’uomo (l’uomo di tutte le epoche: niente da sperare nem-
meno per il futuro) fin dal momento della nascita. Ritengo superfluo
moltiplicare le citazioni (a cominciare almeno dal Dialogo della Natu-
ra e di un Islandese; ma già prima bisognerebbe rammentare i ricordi
d’infanzia, e quel passo dell’Ultimo canto di Saffo, 65-68, che è una
vera e propria traduzione da Virgilio, e dove «il morbo» è collocato
per primo in ordine di tempo fra le cause infelicitanti che subentrano
alla brevissima gioia della fanciullezza). Preferisco ricordare che la
rappresentazione più potente del succedersi implacabile e sempre cre-
scente delle malattie il Leopardi l’ha data nella Palinodia, 173-181: la
straordinaria altezza di questo canto, canto tragico nella sua essenza
profonda, ben più che satirico, ha stentato a lungo prima di essere
riconosciuta, e dovrà essere ancora studiata (cfr. intanto, per un altro
lato, Vené e Parronchi, cit. qui {sotto, pp. 326-327 n. 26}). In que-
st’ultimo Leopardi, più ancora che nel primo, ogni considerazione
306 VIII. Epicuro, Lucrezio e Leopardi
autori che certamente conosceva in gran parte a memoria; niente di simile per Lucrezio. Quan-
to al padre Cesari, una coraggiosa infrazione alla sua pedanteria e al suo cattolicesimo alquanto
bigotto fu l’aver dichiarato Lucrezio superiore a Virgilio, sia pure soltanto per amore dell’arcai-
smo: cfr. {«Ancora sul padre Cesari: per un giudizio equilibrato», in «Nuovi studi sul nostro Otto-
cento», p. 4 – N. d. C.}.
57
iCfr. tra i numerosi passi che si potrebbero citare, non tutti unìvoci, Zib. 54 («l’imitazio-
ne dei greci fu (...) mortifera alla poesia latina» nel suo sorgere); 857 (la letteratura latina, appe-
na nata, «subito e intieramente in balia delle regole»: questo pensiero procede tuttavia con andi-
rivieni, ammette qualche passeggera superiorità dei latini, ma si conclude negativamente); 4351
(la poesia latina «non divenne, ma fu sempre essenzialmente impopolarissima»). Che, nono-
stante ciò, il Leopardi non condanni sempre la poesia «d’imitazione», ha osservato giustamen-
te A. La Penna, Tersite censurato, | cit. qui sopra, nota 26 |, p. 288 sg. D’altra parte, sul piano
filologico va ascritta a merito del Leopardi la difesa di una lezione enniana, che non ha ancora
avuto il suo giusto riconoscimento (cfr. Scritti filol., ed. Pacella-Timpanaro cit., p. 93, r. 54 sg.;
cfr. anche ibid., p. 180).
58
iIn Zib. 748 (marzo 1821: «Lucrezio volendo trattar materie filosofiche s’era lagnato del-
la novità delle cose e della povertà della lingua») il Leopardi, fra i vari passi lucreziani simili, ha
in mente soprattutto I 139: propter egestatem linguae et rerum novitatem.
308 VIII. Epicuro, Lucrezio e Leopardi
(ancora Zib. 748). Se, come si è visto, il padre Cesari aveva osato pre-
ferire Lucrezio a Virgilio, per il Leopardi la possibilità di un confron-
to non si pone nemmeno. In un pensiero del marzo 1821 in cui il puri-
smo è ormai (e non per la prima volta) rinnegato esplicitamente dal
Leopardi, Virgilio è dichiarato «il primo poeta latino, e limpidissimo
specchio di latinità» sebbene (o proprio perché: c’è un «per ciò» pre-
ceduto da negazione che è a metà strada fra i due significati) la sua lin-
gua sia «ben diversa da quella di Ennio, di Livio Andronico ec. e
anche di Lucrezio».59 Virgilio, quanto allo stile, è «il più poetico di
quanti si conoscono, e forse il non plus ultra della poetichità» (Zib.
3719, 17 ottobre 1823). Non solo: è colui che espresse per primo nel-
la letteratura romana «il sentimento profondo dell’infelicità» (Zib.
232, 6 settembre 1820). Giustamente osserva Antonio La Penna60 che
questa è una «nota certo discutibile come riflessione storica (prima di
Virgilio c’erano stati Catullo e Lucrezio), ma illuminante per capire
che cosa il Leopardi (...) trova nel suo poeta». Bisogna forse anche
rammentare ancora una volta che in Lucrezio l’infelicità è, a tratti,
potentissimamente sentita, ma contrastata da ragionamenti consola-
torii e da momenti anche emotivi e poetici di entusiasmo; in Virgilio
(nonostante qualche accenno all’«immortalità della gloria», e ad una
teodicea stoica che appare già, in più punti, intimamente corrosa dal
dubbio) ciò non accade.
ne ancora una, che il Saccenti propone alla fine del suo saggio (p. 148):
il Leopardi avrebbe letto prevalentemente non il testo latino di Lucre-
zio, ma la traduzione, «rivissuta in tono minore», dignitosamente
aulica ma non trascinante, di Alessandro Marchetti; proprio questa
mediazione avrebbe impedito al Leopardi di entusiasmarsi per la gran-
de «voce di Lucrezio» e avrebbe contribuito a creare un distacco che
non fu superato nemmeno quando il De rerum natura, come il Saccen-
ti è incline a ritenere, fu letto direttamente.61 Il Saccenti, studioso
particolarmente competente del Marchetti, ma alieno, forse fin trop-
po, dal sopravvalutarlo, gli ha questa volta addossato, io credo, una
colpa sia pure involontaria dalla quale egli è esente. Benché il Leo-
pardi abbia letto con attenzione, seppure con forti riserve, alcuni poe-
ti italiani del Seicento,62 non risulta che si sia particolarmente inte-
ressato al Marchetti: nessun accenno, se ho ben visto, nei Puerilia
poetici, nulla in tutto lo Zibaldone (nemmeno menzionato in quanto
traduttore di Lucrezio), nessun suo brano accolto nella Crestomazia
italiana della poesia. Tutto si riduce all’abbozzo dell’Erminia, attri-
buito generalmente al 1818-19 (avrebbe dovuto essere, come è noto,
una sorta di dramma pastorale, derivato liberamente dalla Gerusalem-
me del Tasso, forse con spunti tratti anche dall’Aminta; il Leopardi,
poi, non portò a compimento il lavoro). In fondo all’abbozzo (T.O.,
I, p. 334) c’è un elenco di autori ed opere, da Teocrito e dalle «trage-
die greche» ad autori italiani del Cinque-Sei-Settecento; e nell’elen-
co figura il nudo nome «Marchetti». Osserva il Saccenti: «Nucleo di
testi da considerare con interesse», riferendosi a «una fascia di classi-
cismo eloquente» in cui «il volgarizzamento marchettiano si trova a
suo agio» (p. 123 sg.). Bene – anche se gli autori citati sono troppo
eterogenei per rientrare tutti nell’ambito del «classicismo eloquente»:
per fare l’esempio più cospicuo, non vi rientrano (a meno che a quel-
l’espressione non si attribuisca un senso del tutto vago) i tragici gre-
ci, i quali, del resto, non furono mai letti dal Leopardi; né, per moti-
61
iCfr. Saccenti, p. 148 (vedo ora che anche S. Sconocchia, indipendentemente da me, ha
espresso dubbi su questa tesi). Sulle edizioni della versione del Marchetti esistenti nella biblio-
teca Leopardi, cfr. Saccenti, p. 124 n. 15. Sul Marchetti cfr., dello stesso Saccenti, Lucrezio in
Toscana, Firenze 1966, opera fondamentale.
62
iSaccenti, p. 123 sg.; importante anche M. Scotti, Leopardi e il Seicento, in Leopardi e la let-
ter. ital. dal Duecento al Seicento («Atti del IV Convegno Internaz. di studi leopardiani», 1976),
Firenze 1978, p. 339 sg.
310 VIII. Epicuro, Lucrezio e Leopardi
Postscriptum
saggio sul Leopardi e su «natura noverca» (si veda anche l’ampio con-
tributo Sul contrasto ideologico fra il «De re publica» di Cicerone e il
poema di Lucrezio, in «Studi di poesia lat. in onore di A. Traglia»,
Roma 1989, 1, pp. 281-321, che citerò col solo inizio del titolo: Sul
contrasto) [cr]. Su molti punti mi trovo d’accordo, e ne sono lieto, con
la Andreoni (fra l’altro, cfr. p. 37 n. 1, sulla lunga discussione che ebbi
con Solmi a proposito della concezione leopardiana della natura e sul-
la falsificazione dell’idillio Alla natura: si veda {Prefazione a «Nuovi
studi sul nostro Ottocento»}, pp. xv sg. e x). Su altri punti vi sono tra
la Andreoni e me alcune divergenze (non profondi dissensi, direi), sui
quali mi propongo di riflettere ancora: prego quindi il lettore di con-
siderare queste righe come provvisorie. In complesso, la Andreoni
accentua ulteriormente il distacco tra Lucrezio e Leopardi: ritorna,
seppur con argomenti in buona parte nuovi, alla posizione di Bigno-
ne e a quella, pur più sfumata e problematica, di Giancotti (che avreb-
be meritato una citazione). Sull’interpretazione di tanta stat praedita
culpa (qui sopra, p. 288 sg.), sarei ora propenso a dar ragione alla
Andreoni (p. 13, cfr. Sul contrasto, p. 292 sg.) e al commento del Gian-
cotti: culpa come semplice “noncuranza”, non come «malvagità»:
anche se i due passi lucreziani nei quali l’espressione ricorre hanno un
pathos che va al di là della mera polemica antiteleologica. Più dub-
bioso rimango quanto a Lucrezio, V 1233 sgg. (qui sopra, p. 273: cfr.
Andreoni, pp. 13 sg., 104 e Sul contrasto, p. 292 n. 36): usque adeo res
humanas vis abdita quaedam / obterit, et pulchros fasces saevasque secu-
res / proculcare ac ludibrio sibi habere videtur. Più dubbioso, voglio dire,
non tanto per ciò che riguarda una possibile derivazione di A se stesso
del Leopardi (qui mi ero già espresso con cautela), quanto sulla nega-
zione di qualsiasi accenno all’ o s t i l i t à della natura verso l’uomo:
un’ostilità, certo, inconsapevole e involontaria, eppure ben esistente:
obterit è indipendente da videtur, e l’interpretazione di videtur come
“sembra a torto” («impressione sbagliata» dice la Andreoni), mi sem-
bra minimizzante. [Caso mai, videtur mette in guardia contro un’in-
terpretazione antropomorfica della vis abdita: la quale non ha ‘senti-
menti’, ma è, sia pure inconsciamente (come inconscia è la Natura
leopardiana, cfr. Islandese), ostile all’uomo].
Rimane tuttavia vero che di «natura matrigna» Lucrezio non parla
mai, e che tra Leopardi pessimista coerente e Lucrezio la vicinanza è
molto meno stretta di quanto si credette un tempo e credetti anch’io
VIII. Epicuro, Lucrezio e Leopardi 313
lescente siano state all’incirca le stesse del padre (il quale, del resto,
nei primi anni della Restaurazione non aveva ancora raggiunto le vere
e proprie follie degli anni trenta), che a convalidare quelle idee abbia-
no contribuito anche le letture dei libri e opuscoli antirivoluzionari di
cui la biblioteca Leopardi, come si è detto, era ben fornita,5 è più che
naturale. Piuttosto è impressionante la rapidità con cui avvenne il
distacco. Già il primo scritto politico (Agli Italiani: orazione in occa-
sione della liberazione del Piceno, composto dal giovane diciassettenne
nel maggio-giugno 1815, dopo la sconfitta del Murat a Tolentino e pri-
ma di Waterloo),6 rivela oscillazioni e contraddizioni molto significa-
tive. E uno scritto duramente antifrancese e “antitirannico” (di quel-
l’anticesarismo declamatorio che vigeva nelle scuole dei gesuiti7 misto
tuttavia a influssi alfieriani), ma tutt’altro che trionfalistico nei riguar-
di delle idee della Restaurazione e dell’assetto che il Congresso di
Vienna, già prima dei Cento Giorni, aveva ormai dato all’Italia. L’u-
nità e l’indipendenza d’Italia, dice il Leopardi, sarebbero desiderabili
(e quest’affermazione rivela già il distacco dai fautori del ritorno
all’ancien régime), ma sono irraggiungibili: dopo le tempeste napoleo-
niche, gli italiani hanno soprattutto bisogno di pace, e devono rinun-
ciare a quegli ideali. Ma nella chiusa, con una certa ingenuità che tut-
tavia è significativa, il giovanissimo autore non accetta senz’altro
codesta pace accolta passivamente: egli vorrebbe che gli italiani faces-
sero in tempo a partecipare alla propria liberazione dallo straniero,
movendo in guerra contro la Francia non ancora definitivamente scon-
fitta. È la voce di quel patriottismo antinapoleonico che, come è noto,
tranne pochissime eccezioni, fu una fase quasi inevitabile di incuba-
zione del futuro patriottismo antiaustriaco.
5
iMolte indicazioni utili, a questo proposito, dà G. Savarese, Un tentativo giovanile del Leo-
pardi: la «Maria Antonietta», «Rassegna letter. italiana», LXX, 1966, pp. 3-22, specialmente
p. 5 n. 17 e note seguenti. Sulla pubblicistica antirivoluzionaria in Italia (e in particolare nello
Stato pontificio) già prima dell’invasione francese è ancora utile P. Hazard, La révolution françai-
se et les lettres italiennes, Paris 1910, pp. 1-23.
6
iT.O., I, pp. 869-875; pubblicata per la prima volta da G. Cugnoni, in G. L., Opere inedi-
te, II, Halle, Niemeyer, 1880, pp. 1-18, e poi in molte edizioni successive. L’autografo, conser-
vato a Recanati, non è datato; la data approssimativa si ricava dal contenuto stesso dell’Orazio-
ne (più esatto di tutti, a questo proposito, è G. Mestica, introduzione a G. L., Scritti letterari, I,
Firenze 1898, p. LXXI).
7
iCfr. a questo proposito P. Treves, L’idea di Roma e la cultura italiana del secolo xix, Mila-
no-Napoli 1962, nel capitolo intitolato L’ambivalenza del classicismo (pp. 36-53), dove, fra l’al-
tro, è citata un’osservazione molto acuta di Giovanni Ruffini, nel romanzo autobiografico
Lorenzo Benoni, cap. IX.
IX. Il Leopardi e la Rivoluzione francese 319
Poco più di un mese dopo (30 luglio 1816: la data è autografa) il Leo-
pardi intraprende un abbozzo di tragedia: Maria Antonietta.8 Già da
fanciullo, nel 1811 e 1812, egli aveva portato a compimento due tra-
gedie «politiche», La virtù indiana (imitazione di una tragedia di
Monaldo) e Pompeo in Egitto (improntata a quell’anticesarismo scola-
stico di cui già si è detto). Questa volta volle affrontare un tema di sto-
ria politica contemporanea ancora “scottante” (in senso, naturalmen-
te, filo-legittimistico: in tutto ciò che egli aveva potuto leggere, Maria
Antonietta era presentata come una martire della ferocia rivoluziona-
ria e nient’altro). L’abbozzo è estremamente scarno, la parte versifica-
ta si riduce a sedici endecasillabi, del secondo e terzo atto manca anche
un brevissimo schema. E tuttavia quel che c’è basta a fare intravedere
che il motivo ispiratore del dramma (a prescindere da un intreccio mol-
to convenzionale e ingenuo, basato su poco credibili colpi di scena)
sarebbe stato quello della pietà per la donna costretta ad una morte pre-
coce, oscillante tra la volontà di affrontare il destino con dignità eroi-
ca e il timore sempre riaffiorante: «Ben me n’avveggo: a le sventure io
forza / bastevol non oppongo». E a questi momenti di debolezza e di
sconforto sembra andare la simpatia, la pietà dell’autore. Più tardi, nei
bellissimi appunti e ricordi autobiografici, il Leopardi rievocherà un
sogno da lui avuto nel tempo in cui progettava quella tragedia: avreb-
be voluto far cantare a Maria Antonietta una canzone «in musica sen-
za parole».9 Per quel che si può supporre, il Leopardi si sentiva spinto
a comporre più un dramma di “pietà umana”, risolto in lirica pura, che
una tragedia di propaganda rivoluzionaria. Maria Antonietta sarebbe
stata uno di quei personaggi giovanili stroncati da una morte prematu-
ra, che già allora commovevano intensamente il Leopardi (cfr. A. Mon-
teverdi, Frammenti critici leopardiani, Napoli 19672, pp. 1-23) e che tro-
varono, molti anni dopo, piena realizzazione poetica nelle figure di
Silvia e di Nerina. Ma con molta difficoltà ciò s’inquadrava in uno
schema di tragedia politica, e il personaggio stesso di Maria Antoniet-
ta, pur idealizzato, non era adatto: questa può essere stata la ragione
per cui il Leopardi abbandonò così presto quel lavoro **.
8
iT.O., I, p. 329 sg. Cfr. l’ampio saggio del Savarese citato qui sopra (nota {5}), dal quale
mi discosto leggermente solo in pochi punti. Per il testo della Virtù indiana, T.O., I, pp. 536-
546 (e la lettera dedicatoria a Monaldo, ivi, p. 1006); del Pompeo in Egitto, T.O., I, pp. 546-558.
9
iI, p. 360. Cfr. ibidem, poco sopra, a proposito di un canto sull’Amore «principio del mon-
do»: «ch’io avrei voluto porre in musica non potendo la poesia esprimere queste cose ec. ec.».
Su questo bisogno di espressione musicale cfr. G. Savarese, art. cit., p. 18 sgg.
320 IX. Il Leopardi e la Rivoluzione francese
Il secondo (l’autore avrebbe parlato dei francesi alludendo in realtà agli austriaci) difficilmente
può essere inteso alla lettera, poiché il verso «Ma non la Francia scellerata e nera» rimase immu-
tato nell’edizione delle Canzoni del 1824, e soltanto nel ’31 (edizione fiorentina dei Canti) fu
sostituito dal più generico «Ma non la più recente e la più fera» (il v. 108, invece, già nel ’24
divenne «L’asta inimica e il peregrin furore»). È quindi almeno in parte giusta la nota del
Moroncini, Epistolario cit., II, p. 33 n. 2, il quale però semplifica troppo le cose attribuendo al
Leopardi un costante «concetto sfavorevole della nazione francese», mentre il giudizio del Leo-
pardi maturo sulla Francia fu molto più complesso e, nell’insieme, tutt’altro che negativo (sol-
tanto alla l i n g u a francese egli rimase puntigliosamente avverso). Bisogna tener presente che
le due prime canzoni appartengono ancora a una tormentata fase di “trapasso” da anti-bona-
partismo ad anti-Restaurazione; e che, nell’insieme, il passaggio sia avvenuto, lo dimostra il fat-
to che, a cominciare da Monaldo, i reazionari videro in quelle canzoni pericolosi accenni libe-
rali (cfr. ancora Moroncini, pp. 29 n. 1, 31 n. 2 dell’Epistolario, II). Sulle due prime canzoni il
saggio più intelligente e ricco di sfumature è quello di L. Blasucci (1961, ora in Leopardi e i segna-
li dell’infinito, Bologna 1985, pp. 31-80). Contro l’incomprensione che per queste due poesie
mostrò il De Sanctis è da leggere specialmente Luigi Settembrini, Lezioni di letteratura italiana
(1868-71), a cura di G. Innamorati, Firenze 1964, II, p. 1114 sg.
13
iMa cfr. ciò che il Leopardi scriveva al Brighenti, 28 aprile 1820: Monaldo era rimasto ras-
sicurato dal titolo «innocentissimo» della canzone: «Si tratta di un Monsignore (cioè del Mai). Ma
mio padre non s’immagina che vi sia qualcuno che da tutti i soggetti sa trarre occasione di parlar
di quello che più gli importa e non sospetta punto che sotto quel titolo si nasconda una canzone
piena di orribile fanatismo» (T.O., I, p. 1100). Come è ovvio, il Leopardi usa ironicamente la
parola «fanatismo» nel senso che le davano i reazionari, cioè estremismo rivoluzionario, follia sov-
vertitrice dell’ordine costituito. Che, poi, la canzone al Mai (come le due precedenti) non sia sol-
tanto politica, ma contenga già spunti di una più ampia Weltanschauung pessimistica, è ben noto.
14
iBene W. Binni, La protesta di Leopardi, Firenze 19742, p. 38: «E quale senso avrebbe avu-
to, nel 1818, l’invocazione “l’armi, qua l’armi” se riferita solo alla distrutta dominazione na-
poleonica?». Sul carattere “titanistico” di quest’invocazione cfr. U. Bosco, Titanismo e pietà in
G. Leopardi (1957), Roma 1980, p. 10; L. Blasucci (citato qui sopra, nota {12}), p. 56 sg.
15
iZib. 85; cfr. S. Timpanaro, La filologia di G. Leopardi, Bari 19772, p. 144 n. 10; G. Pacella,
in «Giorn. stor. letter. ital.», CXXXVIII, 1961, p. 111.
322 IX. Il Leopardi e la Rivoluzione francese
16
iG. De Robertis, Studi, Firenze 1944, pp. 10 sg., 152-154 (quest’ultimo passo ripubblica-
to nella nuova edizione del Saggio sul Leopardi, Firenze 1973, p. 127).
17
iPersisto a credere che, se per «Romanticismo» si intende non un generico stato senti-
mentale e passionale, ma un movimento ideologico (e politico e letterario) storicamente deter-
minato, la qualifica di romantico non debba essere attribuita al Leopardi. Ciò non toglie che sin-
goli motivi e spunti del Romanticismo siano stati da lui fatti proprii, quasi sempre con
l’accompagnamento di precise riserve, come risulta da vari passi dello Zibaldone: cfr. (dopo un
mio breve accenno {qui sopra, «Introduzione»}, p. 33 sg.; vedi anche la prefazione alla 2a ed., e
tutta l’Introduzione {, e «Giordani, Carducci e Chiarini» – N. d. C.}, pp. 97-98) molto più am-
piamente E. Bigi, Il Leopardi e i romantici, in «Studi di lingua e letteratura lombarda offerti a
M. Vitale», I, Pisa 1983, pp. 709-34 | = E. B., Poesia e critica tra fine Settecento e primo Ottocento,
Milano 1986, pp. 149-173 |, che ha analizzato, fra l’altro, con grande equilibrio la «Polizzina»
Romanticismo annessa all’Indice dello Zibaldone compilato dal Leopardi stesso (vol. III, p. 1224
ed. Pacella). Meno convincente, a mio avviso, anche se molto fine, P. Fasano, Leopardi contro-
romantico, 1971, ristampato con modifiche in L’entusiasmo della ragione, Roma 1984; cfr. E. Bigi
cit., p. 710 nota 3 | = 150 n. 3 |). Ma che il Romanticismo sia stato tutto reazionario e il classi-
cismo tutto “progressista” (a parte l’ambiguità di questo termine, che converrebbe non usar mai)
sarebbe una mera, squalificante sciocchezza, che io non ho mai pensato né detto; e mi duole che
IX. Il Leopardi e la Rivoluzione francese 323
alcuni studiosi, tra i quali uno, W. Binni, che ho sempre considerato come un mio maestro,
abbiano continuato pertinacemente ad attribuirmela, anche dopo ciò che, ad abundantiam, ave-
vo precisato in «Belfagor» XV, 1970, p. 236, con esatta documentazione, e in Antileopardiani,
p. 29 nota 19 (cfr. anche ulteriori considerazioni in AA.VV., Poetica e metodo storico-critico nel-
l’opera di W. Binni, Roma 1985, pp. 438-442). La meritata autorità di Binni ha fatto sì che anche
altri studiosi mi abbiano attribuito quella tesi aberrante.
18
iGli appunti leopardiani che in parte riassumo e in parte riporto testualmente (ma da una
lettura completa non si dovrebbe prescindere) si trovano in Zib. 160 sg. (8 luglio 1820), 357 sg.
(27 novembre 1820, continuazione del precedente), 520-522 (17 gennaio 1820), 671 (17 feb-
braio 1821), 870 (26 marzo 1821, addendum a 160 sg.), 911 (30 marzo-4 aprile 182 0, 1078 (23
maggio 1821), 2334 sg. (6 gennaio 1822). Per il periodo in cui furono scritti cfr. anche qui sot-
to, nota {23} in fine. Sull’atteggiamento leopardiano riguardo alla Rivoluzione francese osser-
vazioni molto intelligenti in C. Luporini, Leopardi progressivo (1947), Roma 19802, pp. 50-56 (è
soltanto un po’ troppo messo in ombra, credo, il contrasto che, in questa fase del suo pensiero,
il Leopardi segna tra illuminismo settecentesco e Rivoluzione).
19
iCfr. Zib. 160 sg. (Lady Morgan, France, 3ème édition française, Paris 1818, II, p. 284). Per
altre citazioni della stessa opera, le quali però non si riferiscono alla Rivoluzione, cfr. T.O., II,
Indice analitico, p. 1378, s.v. «Morgan». La scrittrice e poetessa Sydney Owenson (Dublino
1783-Londra 1859), sposata a Th. C. Morgan, ardente patriota irlandese, liberale e filantropa,
scrisse due opere intitolate France, nel 1817 (la cui versione francese fu letta dal Leopardi) e nel
1830 (questa gli sarà rimasta ignota).
324 IX. Il Leopardi e la Rivoluzione francese
del 1820 (Zib. 114) che ricalca l’antico schema dell’anarchia che, nel
susseguirsi ciclico delle costituzioni, si converte nel suo opposto, la
tirannide («la Francia passata di salto da una libertà furiosa al dispo-
tismo di Bonaparte»); ma poco dopo il Leopardi riconosce la maggiore
onestà ed efficienza dell’amministrazione napoleonica in confronto a
quella dei vecchi monarchi, la più efficace e, insieme, meno sangui-
nosa lotta contro il brigantaggio: c’era ancora nel regime napoleonico
quella «vita interna» che gli derivava dall’essere pur derivato dalla
Rivoluzione.24 Come nel Panegirico a Napoleone di Pietro Giordani, di
cui il Leopardi dovette sentire l’influsso, l’imperatore è lodato per la
sua politica interna, cioè per le conseguenze, tutto sommato, positive
del suo dominio in Francia e in Europa: mentre il Leopardi, ora, pur
non rinnegando le due prime canzoni patriottiche, tace sulle esecrate
guerre di conquista. Ancora nel 182825 egli progettava una «Poesia
sopra Napoleone» sulla quale niente possiamo congetturare
(un’“emulazione” del Cinque Maggio manzoniano?); ma che fosse una
poesia tutta antinapoleonica, pare difficile supporre.
Ma intanto, nel 1824-26, attraverso un iter del quale non possiamo
qui soffermarci ad indicare le fasi (altri ed io lo abbiamo fatto in pre-
cedenza), il pensiero leopardiano aveva compiuto un approfondimen-
to in senso materialistico-pessimista, da cui anche il concetto di natu-
ra era uscito radicalmente mutato: non più vitale forza benefica, ma
cieco meccanismo di produzione-distruzione, causa dell’infelicità insa-
nabile dell’uomo e di tutti i viventi. C’era il rischio, e il Leopardi lo
corse, di un allontanamento da ogni interesse politico, poiché nessun
regime politico avrebbe potuto eliminare l’infelicità coessenziale alla
vita stessa. E tuttavia, dal 1830 fino alla morte, il Leopardi tornò a
interessarsi alla politica molto più di quanto desse a vedere in certi
momenti di sconforto e di malumore, espressi soprattutto (ciò si suol
trascurare) in lettere private. Nella Palinodia, nei Paralipomeni, nella
Ginestra non vi sono più, certo, riferimenti diretti alla Rivoluzione
francese: la polemica è ora rivolta contro lo spirito di rapina, il colo-
nialismo, la mercificazione di tutti i valori operata dalla borghesia
capitalistica (Palinodia),26 contro il «progressismo» dei moderati tosca-
24
iZib. 229 (31 agosto 1820); 251 sg. (29 settembre 1820).
25
iI, p. 372 (XII); la data di questi appunti, scritti a più riprese, non è del tutto sicura.
26
iSui vv. 55-96 della Palinodia cfr. G. F. Vené, Letteratura e capitalismo in Italia ..., Milano
1963, p. 145; S. Timpanaro, Antileopardiani, pp. 181-183 (dove avrei dovuto citare il Vené, che
in un saggio precedente avevo ingiustamente svalutato, e che è stato svalutato anche da E. Gior-
IX. Il Leopardi e la Rivoluzione francese 327
dano, La corazza e la spada, Salerno 1990, pp. 90-93, con argomenti troppo sottili); e ora, otti-
mo, A. Parronchi, «II computar», nel volume La nascita dell’«lnfinito» e altri studi leopardiani,
Montebelluna 1989, pp. 77-95 (il Parronchi estende il suo discorso a tutta la polemica leopar-
diana contro il progresso meramente tecnico, quale si trova anche in scritti anteriori o contem-
poranei alla Palinodia).
27
iSul nesso, che considero innegabile, ma anche sul lungo percorso che l’esigenza del “mate-
rialismo per tutti” compì dal Barone d’Holbach al Leopardi cfr., in attesa di ulteriori sviluppi, ciò
che ho osservato nell’introduzione all’ed. italiana del Buon Senso {cit. qui sopra}, pp. LIV-LIX.
28
i| Proprio nello stesso anno 1989 in cui fu letta questa mia breve relazione congressuale,
apparve in «Lettere Italiane», XLI, pp. 532-553, un saggio di Rolando Damiani sullo stesso
argomento e con lo stesso titolo, Leopardi e la Rivoluzione francese. In questi ultimi anni quel sag-
gio mi era sfuggito: faccio in tempo solo ora a segnalarlo sulle bozze di stampa. Come è natura-
le, su molti punti il D. ed io, l’uno all’insaputa dell’altro, citammo gli stessi testi leopardiani e
osservammo le stesse cose. Qui annoto soltanto un paio di dissensi, almeno parziali. Non mi sem-
bra felice la qualifica di “iperilluministico” che a più riprese (p. 538 e in seguito) il D. attribui-
sce all’atteggiamento del Leopardi verso la Rivoluzione francese, tanto più in quanto egli stes-
so è ben consapevole degli aspetti di discontinuità che il Leopardi sottolinea tra un illuminismo
troppo razionale, e quindi partecipe della corruzione etico-politica dell’ancien régime, e una Rivo-
luzione sorta “dal basso” (cfr. qui sopra, pp. 323-325), come sia pur insufficiente ritorno alla
Natura. Non ben delineato, direi, ciò che a p. 534 sg. si dice sull’Orazione per la liberazione del
Piceno e sulle sue interessanti contraddizioni; laddove sono forse troppi i riferimenti a scritti di
molto posteriori (alcune Operette morali, il Discorso sopra i costumi degli Italiani) che con l’argo-
mento trattato dal D. hanno connessioni molto tenui. Ma nell’insieme il saggio è pregevole, e
le mie pagine non ne rendono minimamente superflua la lettura |.
X.
Carlo Cattaneo e Graziadio Ascoli*
1
iG. I. Ascoli, Carlo Cattaneo negli studi storici, lettera a Francesco Lorenzo Pullè, datata
«Monte Generoso, settembre 1898», pubblicata nella «Nuova Antologia» del 16 giugno 1900
(vol. CLXXI, p. 636 sgg.).
*iSugli argomenti trattati in questo saggio, ** oltre la relazione di Maria Corti discussa già
nella prefazione {alla} seconda edizione (qui sopra, p. XCI sgg.), vedi T. De Mauro, Storia lin-
guistica dell’Italia unita, Bari 1963, passim; C. Dionisotti, Per una storia della lingua italiana, in
«Romance Philology» XVI, 1962, p. 41 sgg., e, più ampiamente, in Geografia e storia della let-
teratura italiana, Torino 1967, p. 75 sgg. (a p. 101 sg. la migliore valutazione finora apparsa del
significato del Proemio ascoliano e della sua efficacia); M. Raicich, Questione della lingua e scuo-
la, in «Belfagor» XXI, 1966, pp. 245 sgg., 369 sgg. (sull’Ascoli specialmente pp. 250-252); l’in-
troduzione di Corrado Grassi alla nuova edizione degli Scritti sulla questione della lingua dell’A-
scoli (Milano 1967, Torino 19682; cfr. la mia recensione in «Critica storica» VII, 1968, p. 398
sgg.). Vedi anche la recensione di Giulio Lepschy al presente volume, in «Riv. storica ital.»
LXXX, 1968, p. 165 sgg., e la discussione che di alcuni punti del mio saggio fece Benvenuto
Terracini in «Archivio glottologico italiano» LI, 1966, p. 86 sgg. È una discussione che avrei
voluto poter proseguire con l’insigne studioso, al quale tanto devono tutti coloro che, sia pur dis-
sentendo in parte da lui, si sono occupati dell’Ascoli. Purtroppo la scomparsa del Terracini ha reso
vano questo desiderio; e le poche risposte che qui sotto formulerò ad alcune sue osservazioni non
potranno avere da lui ulteriori risposte. Ancor più è da rimpiangere che egli non abbia potuto
portare a termine il lavoro più ampio sui rapporti tra Cattaneo e Ascoli che egli preannunziava
in quella noterella.
X. Carlo Cattaneo e Graziadio Ascoli 329
guistica ascoliana è la teoria del sostrato, e tale teoria si trova già enun-
ciata e sostenuta negli scritti linguistici del Cattaneo, si è riconosciu-
to appunto in essa l’elemento che l’Ascoli avrebbe derivato dal suo
grande predecessore.2
Eppure, a un esame un po’ più attento, le cose sembrano compli-
carsi. L’epistolario del Cattaneo (la cui pubblicazione è stata portata a
termine solo recentemente), gli accenni che si trovano in alcuni scritti
dell’Ascoli pubblicati quando il Cattaneo era ancora in vita, indicano
che tra i due non mancarono divergenze e nemmeno qualche asprez-
za polemica. La teoria del sostrato, poi, non è una scoperta del Cat-
taneo, ma un’idea che circolava già da tempo nella linguistica europea
e italiana; né dal solo Cattaneo sembra averla appresa l’Ascoli, il qua-
le, del resto, l’accettò relativamente tardi. Si sente dunque il bisogno
d’indagare più a fondo il rapporto tra il pensiero storico e linguistico
del Cattaneo e la glottologia ascoliana, anzi la glottologia dell’Otto-
cento in generale: un’indagine necessariamente provvisoria, perché
troppo poco esplorato è ancora l’epistolario dell’Ascoli e troppo super-
ficialmente studiate molte figure del nostro Ottocento; ma, comun-
que, un’indagine che potrà servire di stimolo a nuovi studi. E sicco-
me anche la formazione del Cattaneo linguista non è stata finora
oggetto di alcuna apposita ricerca, di qui dobbiamo rifarci.
4
iSL, I, pp. 405-410. L’articolo sulla lingua valacca fu invece scritto nel 1830; cfr. SL, I,
p. 237: «Ai sette anni ch’erano già corsi nel 1837, quando i redattori degli Annuali di Statistica
s’indussero ad accogliere questo scritto ...».
5
iVedi per esempio i titoli dei capitoli 5-14 della parte IV (SL, I, p. 409).
X. Carlo Cattaneo e Graziadio Ascoli 331
6
iSul Castiglioni cfr. B. Biondelli, Studi linguistici, Milano 1856, p. xv sgg.; A. Ceriani, Sui
lavori gotici di Mai e Castiglioni, in «Rendiconti Ist. Lombardo», classe di Lettere, III, 1866,
p. 23 sgg.
7
iNell’epistolario del Cattaneo il Castiglioni è nominato per la prima volta in una lettera al
Biondelli del 1840 (I, p. 97), poi poche altre volte. Parrebbe che il Cattaneo fosse entrato in rela-
zione con lui attraverso il Biondelli, cioè non prima del ’39. Ma, data la scarsità delle notizie
sul Cattaneo giovane, conviene essere cauti.
8
iCosì il Cattaneo stesso nel «Politecnico» VIII, 1860, p. 520 (= SSG, III, p. 51). Cfr. E. Se-
stan, Cattaneo giovane, in Europa settecentesca e altri saggi, Milano-Napoli 1951, p. 209 sgg.; L.
Ambrosoli, La formazione di C. Cattaneo, Milano-Napoli 1960, pp. 10, 14.
9
iCit. alla nota precedente, p. 242.
332 X. Carlo Cattaneo e Graziadio Ascoli
10
iVedi sopra, pp. 4, 34.
11
iCfr. Cattaneo, Su la Scienza Nuova di Vico (1839), in SF, I, p. 95 sgg. Sul vichianesimo
del Cattaneo – diversissimo da quello degli hegeliani di Napoli, e non perfettamente identico
neppure a quello del suo amico Ferrari – vedi il saggio assai utile, anche se non del tutto esau-
riente, di Alessandro Levi nel volume Il positivismo politico di C. Cattaneo, Bari 1928, p. 39
sgg., e l’introduzione di N. Bobbio a SF, I, p. XI sgg. Cfr. anche Paolo Rossi nell’opera col-
lettiva «I classici ital. nella storia della critica», II, 2a ed., p. 19 sg. Sul suo illuminismo cfr. l’in-
troduzione di F. Alessio alla scelta di Scritti filosofici, letterari e vari, Firenze 1957, e l’articolo
di G. Cottone, C. Cattaneo e il Risorgimento, in «Quaderni di cultura e storia sociale» II, 1953,
p. 71 sgg.
12
iSL, I, pp. 3 sgg., 96 sgg., 114 sgg., 315; II, pp. 148, 252 sg. Le polemiche del 1816-19
sono ricordate dal Cattaneo nella prefazione ad Alcuni scritti con quel tono affettuoso-ironico
che egli ha sempre quando rievoca la propria giovinezza; ma ben chiara è la sua presa di posi-
zione a favore dei classicisti, la quale giunge fino alla rivendicazione della Basvilliana (SL, I, p. 4)
e a un aspro giudizio su A. W. Schlegel e Madame de Staël (ibid., p. 5: «... non mi pareva che
si potessero senza sdegno udire li ammaestramenti che Schlegel e la Staël accompagnavano con
sì arrogante vilipendio della generazione vivente in Italia ...»). Vedi su questo problema i saggi
un po’ disorganici, ma ricchi di giuste osservazioni, di Felice Momigliano, Il classicismo di C. Cat-
taneo e la questione della lingua, in «Riv. d’Italia» XXII, 1919, vol. II, p. 167 sgg., e Il classici-
smo letterario e il positivismo filosofico di C. Cattaneo, in Vita dello spirito ed eroi dello spirito,
Venezia 1928, p. 213 sgg.; e gli scritti del Fubini ripubblicati in Romanticismo italiano 2a ed.,
Bari 1960, p. 187 sgg., insigni per intelligenza critica e finezza di gusto, anche se tendenti a met-
tere un po’ troppo in ombra l’ostilità del Cattaneo al romanticismo (per esempio a p. 199: «Lo
stesso atteggiamento, di distacco e insieme di adesione, si osserva nel nostro autore rispetto alle
idee letterarie del tempo suo, vale a dire del romanticismo ...»).
X. Carlo Cattaneo e Graziadio Ascoli 333
20
iVedi M. Vitale, Sommario di una storia degli studi linguistici romanzi, nel volume collettivo
Preistoria e storia degli studi romanzi, Milano-Varese 1955, p. 12 sgg.; Riccardo Fubini, La
coscienza del latino negli umanisti, in «Studi medievali», 3a serie, II, 1961, p. 505 sgg.
21
iS. Maffei, Verona illustrata, parte I, libro XI (1731) = vol. II, p. 529 sgg. dell’edizione di
Milano 1825. Sul nesso tra le idee paleografiche, linguistiche e metriche del Maffei vedi l’Ap-
pendice I del presente volume.
22
iEd. cit., p. 548: «Non bisogna, per quanto si è detto, dar nell’estremità, in cui si vede nel
principio delle Prose del Bembo si diede per alcuni altre volte, cioè, di dire che l’Italiana favel-
X. Carlo Cattaneo e Graziadio Ascoli 337
la fosse già fin dal tempo de’ Romani ...». In tale «estremità» – in cui era caduto, come sappia-
mo, il Bruni – ricaddero, dopo il Maffei, Francesco Quadrio (Della storia e della ragione d’ogni
poesia, I, Bologna 1739, p. 42) e ancora Sebastiano Ciampi (De usu linguae Italicae saltem a sae-
culo quinto, Pisa 1817).
23
iEd. cit., pp. 19 sg.; vedi in generale i libri IX e X della parte I della Verona illustrata.
24
iOltre ai libri cit. della Verona illustrata, cfr. la Dissertazione sopra i versi ritmici, in Istoria
diplomatica, Mantova 1727, p. 186, dove il Maffei ironizza su «quell’universal sentimento, per
cui sembriamo immaginarci, che all’entrare in Italia de’ barbari uno spirito lapidifico occupas-
se tosto gl’Italiani, talché impietrissero in un momento tutti, né mai più funzione alcuna per lor
si facesse né animale, né intellettuale, onde debban coloro chiamarsi progenitori nostri, e a que’
pochi stranieri debba generalmente attribuirsi tutto ciò, che in Italia o di buono o di reo da poi
s’è fatto».
25
iMuratori, Antiquitates Italicae medii aevi, II, Milano 1739, col. 1083 sg.
338 X. Carlo Cattaneo e Graziadio Ascoli
che poteva derivare dal farla finita coi miti della romanità e del primato
italico era neutralizzato dallo svantaggio di dare all’Italia, anzi a tutta
l’Europa moderna un atto di nascita medievale, cioè oscurantista.
Su questo problema della periodizzazione* fece giuste riserve il
Romagnosi, amico, ma amico diffidente appunto perché illuminista,
degli scrittori del «Conciliatore». Il suo articolo Della poesia conside-
rata rispetto alle diverse età delle nazioni30 peccava, certo, di professo-
ralismo, e i romantici, come osserva il Fubini, avevano buone ragioni
per non accettare il goffo termine «ilichiastico» che egli voleva sosti-
tuire a «romantico».31 Ma egli aveva visto bene che, a voler essere
davvero moderni, bisognava sentirsi distaccati dal Medioevo non
meno, forse addirittura più che dall’antichità: bisognava dunque tor-
nare alla tripartizione della storia, separando l’età moderna dalla
medievale,32 e non negando d’altra parte il persistere di tradizioni e
istituzioni romane anche nel Medioevo. Su questo punto i redattori
del «Conciliatore», nonostante tutto il loro progressismo, non consen-
tirono: «L’autore di questo articolo – diceva una nota redazionale –
non ci negherà che, dopo la mescolanza dei popoli del nord co’ tra-
lignati figli de’ romani, si è cominciata una nuova generazione d’ita-
liani, dalla quale noi deriviamo in retta linea; e che non può conside-
rarsi, esattamente parlando, come una nazione d’origine latina».33 Qui
il giudizio di valore era nettamente favorevole ai barbari, che aveva-
no rinsanguato e rigenerato la «tralignata» stirpe romana.
30
iNel «Conciliatore», ed. V. Branca, I, 55 sgg.
31
iM. Fubini, Romanticismo italiano cit., p. 14.
32
iArt. cit., p. 56: «I tre periodi della storia antica, media e moderna sono fra loro distinti
non da una divisione artificiale, ma da effettive rivoluzioni».
33
iIbid., p. 59, n. 1. Cfr. la nota del Berchet in un numero successivo del «Conciliatore»
(ibid., p. 66 n. 2). Tra i romantici del «Conciliatore», colui che più limitò l’influenza germani-
ca sulla lingua italiana fu Ludovico di Breme (cfr. «Conciliatore», ed. Branca, III, p. 153: «non
già, crediam noi, che le genti del settentrione modificassero gran fatto il sistema della lingua
degl’italiani, e facessero molto di più che portarle in buon dato nuovi vocaboli ...»); nelle que-
stioni riguardanti la lingua, del resto, il Di Breme aderiva a concezioni illuministiche assai più
che romantiche; credeva fermamente nell’ideale della grammaire générale (cfr. «Conciliatore»,
III, p. 681) e plaudì agli aspetti più nettamente illuministici della Proposta del Monti. Tuttavia
anch’egli tendeva pur sempre a esagerare il numero dei vocaboli italiani di origine germanica
(III, p. 325: «Tutta la derrata teutonica registrata dal buon Muratori, e la molta ancora ch’ei
tuttavia non registrò»).
*iQuanto alle discussioni sul problema della periodizzazione storica (generalmente trascura-
te dagli studiosi del romanticismo italiano) vedi adesso anche Armando Saitta, Sinistra hegelia-
na e problema italiano negli scritti di A. L. Mazzini, Roma 1968, p. 331 sg., con nuove osserva-
zioni sulla parte che in quel dibattito ebbe il Romagnosi.
340 X. Carlo Cattaneo e Graziadio Ascoli
34
iIbid., p. 201 sgg.
35
iAbbozzo del 1824, parte IV, cap. 2 (SL, I, p. 409). Il corsivo è del Cattaneo.
36
iId., parte III, capp. 5, 8 sgg. (SL, I, p. 408); più esplicitamente nella recensione al Balbo
(vedi qui sotto, nota 40).
37
iSL, I, p. 408, titoli dei capp. 10-11. Cfr. anche p. 409, cap. 17: «Perché la più parte delle
voci straniere passassero nello stile poetico e non divenissero vernacole»: osservazione, questa,
che il Cattaneo riprese nella recensione al Balbo, SL, I, p. 111.
X. Carlo Cattaneo e Graziadio Ascoli 341
oro tutto infuso di fango. Per cui è da fare una considerazione assai bel-
la, e forse nuova: cioè che leggendo le scritture di quell’età, veggiamo
che le parole pertinenti al vivere sono per lo più dei latini e quelle per-
tinenti a’ magistrati ed alla guerra per lo più sono de’ barbari».38
Se il lavoro del 1824 rimase allo stato di progetto, la tesi dello scar-
so numero dei barbari invasori e della scarsità dell’elemento germa-
nico nella lingua italiana fu espressa poi più volte dal Cattaneo: nel-
l’articolo del ’37 sulla lingua romena,39 nella recensione alla Vita di
Dante del Balbo,40 nel saggio Della conquista d’Inghilterra pei Norman-
ni,41 nella Sardegna antica e moderna.42 Con ciò egli partecipava ad una
discussione che si svolse assai viva per tutto l’Ottocento e che, per
quel che riguarda il primo punto (scarsità dei barbari), fu conclusa da
un accurato studio di Carlo Cipolla,43 mentre il secondo punto (quel-
lo linguistico) è stato ancora in tempi recenti oggetto di polemica tra
Clemente Merlo e Walther von Wartburg.44 E su tutt’e due i punti le
idee del Cattaneo hanno avuto piena conferma.
38
iG. Perticari, Dell’amor patrio di Dante, in Monti, Proposta II, 2, Milano 1820, p. 90. Ma
già il Castelvetro, nelle postille al Bembo, aveva notato che le poche parole recate nel volgare
italiano dai barbari significavano «o dignità, o uficio, o cosa nuova trovata o recata da loro: sì
come con le cose nuove sogliono nelle regioni altrui trapassare insieme i vocaboli stranieri»
(Bembo, Le prose ecc. con le Giunte di L. Castelvetro, Napoli 1714, p. 28 sgg.). Dal Perticari
attinse il Foscolo, Saggi di lett. ital. ed. C. Foligno, I, p. 48.
39
iSL, I, p. 220: «Questi fugitivi a cui l’immaginazione degli istorici largì il nome di vinci-
tori dei Romani ...»; e poco sotto: «Fu a quel tempo che avvenne la rivolta universale dei mer-
cenarii, chiamata ampollosamente la gran trasmigrazione dei popoli; e non fu altro che l’ac-
quartierarsi delle orde dei militari stranieri nelle province dell’occidente, ma in così scarso
numero che di loro appena rimase reliquia alquanto al di dentro delle frontiere».
40
iSL, I, p. 109 sgg.
41
iSSG, I, p. 74 sg.
42
iSSG, I, p. 203 sg.; e ancora più volte in altri scritti posteriori.
43
iNei «Rendic. dell’Accad. dei Lincei», serie 5a, IX, 1900, pp. 329 sgg., 369 sgg., 517 sgg.,
567 sgg. Cfr. G. Romano e A. Solmi, Le dominazioni barbariche in Italia, Milano 1940, p. 286,
n. 10 (ma Carlo Troya, Storia d’Italia del Medio-Evo, IV, 1, p. 137, sostenne la tesi opposta a
quella che gli attribuisce il Romano). Né il Cipolla né il Romano menzionano il Cattaneo, seb-
bene egli abbia avuto una parte importante in questa discussione. Fu probabilmente la recen-
sione del Cattaneo alla Vita di Dante (1839) a produrre nel Balbo quel mutamento di opinione
che il Cipolla documenta a p. 389 del suo articolo (cfr. p. 337). Alla «questione longobardica»
appartiene, come è ben noto, anche il Discorso del Manzoni (vedi più oltre, Appendice I), che
però non tratta il problema del rapporto numerico fra romani e barbari. Per le discussioni in par-
te analoghe che, contemporaneamente, si svolgevano in Francia, vedi A. Saitta, introd. alla Sto-
ria della civiltà in Europa di F. Guizot, Torino 1956, pp. XXXIX sg., XLIII sgg.
44
iCfr. C. Merlo, Saggi linguistici, Pisa 1959, pp. 189 sgg., 203 sgg. (già nei «Rendiconti
Accad. d’Italia» 1940 e 1941); T. Bolelli in «Annali della Scuola Normale» XX, 1951, p. 255 sgg.
(specialmente 267 sgg.); B. E. Vidos, Manuale di linguistica romanza, trad. ital., Firenze 1959,
pp. 239 sgg., 257 sgg.
342 X. Carlo Cattaneo e Graziadio Ascoli
45
iM. Vitale, Sommario (cit. qui sopra, alla nota 20), pp. 40, 64 e passim. Al sostrato accenna
già abbastanza chiaramente, nel Cinquecento, Claudio Tolomei (Vitale, p. 36). Flavio Biondo
non parlava ancora di vero e proprio sostrato, ma di imbarbarimento della lingua latina dovuto
ai molti stranieri confluiti a Roma: fenomeno, questo, che era stato già deplorato da Cicerone
(Brutus, 258) e da molti altri scrittori latini.
46
iVerona illustrata, parte I, lib. I (ed. di Milano 1825, I, p. 26 sg.). Questo importante passo
non è di solito citato dagli storici della linguistica romanza e del concetto di sostrato.
X. Carlo Cattaneo e Graziadio Ascoli 343
47
iAntiquitates Italicae medii aevi, II, col. 991 sg., 995 sg., 1017, 1043 sg. (in quest’ultimo
passo è citato il Maffei e sono formulate le riserve a cui accennavamo sopra).
48
iFoscolo, Epoche della lingua italiana, in Saggi di letter. italiana, ed. C. Foligno, Firenze
1958, I, pp. 46 («La lingua romana adattandosi agli organi di popoli di differenti classi e d’a-
bitudini e lingue diverse ...»), 48, 117 sg. («Il suono d’ogni sua parola si cangiò in varie guise
a norma degli organi e dei linguaggi anteriori di ciascun popolo»). Sull’epoca di composizione
(1823-24) e sulle varie vicende di queste lezioni foscoliane, rimaste in gran parte inedite (e per-
ciò ignorate dal Cattaneo giovane), vedi l’introduzione del Foligno. Gioberti, Del primato
morale e civile degli Italiani, II, Bruxelles 1843, pp. 264-66. Diversamente il Leopardi: vedi più
oltre, p. 386.
49
iO. Mazzoni Toselli, Origine della lingua italiana e Dizionario Gallo-Italico, Bologna 1831.
50
iSu questa corrente filoitalica e antiromana, che va dagli etruscomani settecenteschi al
Denina, al Sismondi e al Micali (e, in un ambito più largo, dal Vico del De antiquissima al Cuoco
344 X. Carlo Cattaneo e Graziadio Ascoli
e al Gioberti) vedi B. Croce, Storia della storiogr. ital. nel sec. xix, Bari 19473, I, pp. 52 sg., 110
sgg. (solo per l’Ottocento); F. Mascioli, Anti-Roman and Pro-Italic Sentiment in Italian Historio-
graphy, in «Romanic Review» XXXIII, 1942, p. 366 sgg.; A. Momigliano, Contributo alla storia
degli studi classici, Roma 1955, pp. 92 sgg., 104 sgg., 276. Su un testo generalmente poco citato
a questo proposito, il Saggio sopra la filosofica degli antichi Etruschi di G. M. Lampredi (Firenze
1756, pp. 59 sgg.), ha richiamato la mia attenzione Mario Mirri. Mentre il significato storiogra-
fico generale di questo indirizzo è stato messo ottimamente in luce dagli studiosi ora citati, il suo
rapporto con la teoria linguistica del sostrato richiederebbe ancora un’apposita indagine. **
51
iSu differenze e analogie tra il Maffei e gli etruscomani settecenteschi cfr. A. Momiglia-
no, Secondo contributo alla storia degli studi classici, Roma 1960, p. 270. Si noti che nel Ragio-
namento sopra gl’Itali primitivi (in Istoria diplomatica, Mantova 1727, p. 239) il Maffei accenna-
va con un certo favore perfino alla tesi del Giambullari sulla derivazione del fiorentino
dall’etrusco. Quanto al Lanzi, cfr. il suo Saggio di lingua etrusca2, I, Firenze 1824, p. 327.
52
iPrimato (ed. cit. qui sopra, n. 48), II, p. 265. Anche nel Foscolo – sostenitore, come abbia-
mo detto, della teoria del sostrato – si trovano spunti di patriottismo antiromano, come il famo-
so passo delle Ultime lettere d’Iacopo Ortis, 28 ottobre 1797; ma in lui non è del tutto sicuro che
vi sia una connessione tra i due ordini d’idee.
53
iSL, I, p. 408.
54
iSL, I, p. 112.
55
iNon mi pare che si possa dire col Vitale (Sommario cit., p. 120) che nella linguistica ante-
riore al Cattaneo il sostrato era concepito «erratamente, cioè come incontro e scontro di due lin-
X. Carlo Cattaneo e Graziadio Ascoli 345
Più nuova, caso mai, almeno tra gli studiosi italiani, era l’idea di
un influsso negativo esercitato dal sostrato linguistico: i popoli sog-
giogati, costretti a parlar latino coi loro dominatori, avevano sempli-
ficato la morfologia latina più ancora di quanto non l’avesse già sem-
plificata la plebe romana; avevano insomma trasformato il latino in
una sorta di lingua franca: «Tanto il latino quanto il greco e il gotico
si decomposero nel dilatarsi e nel divenire, da idiomi di tribù, lingue
commerciali di vaste popolazioni. Si diradò quella selva lussureggiante
di neutri, di passivi, di medii, d’ottativi, di duali ... Laonde il latino
parlato si dové semplificare, nel propagarsi pel vasto occidente e nel
divenir lingua mercantile di cento rozze popolazioni, dalle foci del Tago
a quelle del Danubio».56
Questa idea, comunque, rimase in secondo piano nel suo pensiero;
quella che continuò a prevalere in lui, come vedremo, fu la valutazione
positiva del sostrato. E neppure in lui mancava un po’ di quel patriot-
tismo italico al quale accennavamo or ora. La sua simpatia per il fede-
ralismo etrusco, il suo rimpianto che esso avesse dovuto soccombere
all’accentramento statale romano,57 il suo insistere sulla continuità
storica delle città italiane dall’epoca preromana fino al fiorire dei
comuni medievali,58 si riconnettono, attraverso il Sismondi e il Micali,
al federalismo repubblicano degli etruscologi settecenteschi. Vedremo
tuttavia che, in linguistica non meno che in politica, il suo federalismo
e il suo italicismo avevano un’impronta particolare.
gue opposte». La formulazione del Maffei che abbiamo riportato qui sopra (p. 342) era sostan-
zialmente uguale a quella enunciata poi dal Cattaneo, e dallo stesso Ascoli.
56
iSL, I, p. 110. Cfr. nell’abbozzo del 1824 (SL, I, p. 406): «Comparazione fra il deperi-
mento della lingua latina, e quello dell’idioma greco e dell’anglosassone»; e ancora nelle Lezio-
ni d’Ideologia (SF, II, p. 338): «Le lingue ... quando si propagano presso un altro popolo impo-
veriscono, perché rimane solo la parte più facile e più necessaria». Questa tesi si trova già
accennata in Adam Smith (trad. francese del Manget, Essai sur la première formation des langues,
Ginevra 1809, p. 64).
57
iNotizie naturali e civili su la Lombardia, X (= SSG, I, p. 350): «Ben altra sarebbe l’istoria
d’Europa ... se gli Etruschi avessero propagato sin d’allora lungo il Reno e il Danubio quel loro
vivajo di città. Il principio etrusco era diverso dal romano, perché federativo e molteplice pote-
va ammansare la barbarie senza estinguere l’indipendenza; e non tendeva ad ingigantire un’u-
nica città, che il suo stesso incremento doveva snaturare, e render sede materiale d’un dominio
senza nazionalità». Cfr. ibid., VI (= SSG, I, p. 343). Un giudizio d’intonazione più favorevole
ai romani si trova nel saggio Dell’evo antico (SSG, I, p. 169); anche qui, tuttavia, il Cattaneo
osserva che «nel popolo romano e nelle sue colonie l’ordine, la disciplina, la legalità non lascia-
rono libero il corso alla natura, come nelle sciolte colonie greche».
58
iÈ questa, come è noto, la tesi del saggio La città considerata come principio ideale delle isto-
rie italiane (1858, in SSG, II, p. 383 sgg.). Cfr. E. Sestan, nell’edizione delle Opere di Roma-
gnosi, Cattaneo e Ferrari, Napoli 1957, p. 998 n.
346 X. Carlo Cattaneo e Graziadio Ascoli
La ricerca che abbiamo condotta fin qui non mira affatto a risolve-
re sic et simpliciter il Cattaneo linguista nei suoi predecessori italiani.
Abbiamo già detto che, col suo interesse per le lingue germaniche e
per il romeno, il Cattaneo dimostrò fin dall’inizio di saper guardare
al di là dei confini nazionali. Aggiungiamo che fin dal suo primo arti-
colo egli aveva ben chiaro in mente il principio che la comunanza d’o-
rigine tra due lingue è dimostrata all’affinità di struttura grammaticale
assai più che da somiglianze di vocaboli, le quali potrebbero essere
dovute ad imprestiti59 e questo principio egli non lo trovava nel Maf-
fei o nel Romagnosi, ma nella nuova linguistica comparata, sorta all’i-
nizio dell’Ottocento per opera di studiosi danesi e tedeschi.60 È però
un fatto che, in questa prima fase del suo pensiero linguistico, il Cat-
taneo si muove ancora prevalentemente in un ambito italiano, nel-
l’ambito della tradizione classicista. Fu il passaggio dagli studi roman-
zi agli indeuropei, avvenuto verso il 1840, ad allargare il suo orizzonte
e ad aprire nuove possibilità di applicazione ai suoi principii linguisti-
co-etnografici.
59
iSL, I, p. 214; cfr. p. 109 sg.
60
iA quell’epoca il Cattaneo non avrà conosciuto direttamente né il Rask, né il Bopp, né la
Sprache und Weisheit der Indier di F. Schlegel (vedi qui sotto, p. 000). Può darsi, invece, che aves-
se letto alcuni scritti di A. W. Schlegel, più diffusi e di carattere più divulgativo (per esempio De
l’étymologie en général, 1827), in cui quel principio era enunciato. Ma questa rimane una sem-
plice ipotesi.
61
iVedi specialmente Sullo studio comparativo delle lingue («Politecnico», II, 1839, p. 161
sgg.); Sull’origine e lo sviluppo della lingua italiana (III, 1840, p. 123 sgg.); e l’ampia recensione
alla Deutsche Grammatik di Jacob Grimm (ibid., 250 sgg.), che contiene alcune critiche sensate,
suggeritegli in parte dal Castiglioni (cfr. p. 266).
*iSul Biondelli vedi l’articolo di Tullio De Mauro di prossima pubblicazione nel Dizionario
biografico degli italiani. **
X. Carlo Cattaneo e Graziadio Ascoli 347
62
iG. I. Ascoli in «Studj orientali e linguistici» III = Studj critici, Milano 1861.
63
iInfluenzata dal giudizio negativo dell’Ascoli è la commemorazione del Biondelli tenuta
da V. Inama («Rendic. Ist. Lombardo» XXI, 1888, pp. 26 sgg.). Cfr. anche B. Terracini in
«Enciclopedia Italiana», s.v.
64
iCfr. la recensione al Grimm (cit. qui sopra, n. 61), p. 255, e l’Atlante linguistico d’Europa,
I, Milano 1841, p. 14.
348 X. Carlo Cattaneo e Graziadio Ascoli
gli etnografi l’idea che questi tre tipi fossero del tutto incommensu-
rabili, che corrispondessero addirittura a tre diverse formae mentis, e
che ogni tentativo di ricondurli a un’origine comune fosse da respin-
gersi a priori come assurdo. Motivi di diversa natura – un legittimo
senso di reazione alle sbrigliate fantasie etimologiche di chi non esi-
tava a far derivare tutte le lingue dall’ebraico o magari dall’olandese;
l’analogia tra la linguistica comparata e l’anatomia comparata cuvie-
riana, che sosteneva la fissità delle specie animali; il colonialismo e il
razzismo incipienti, che asserivano l’inferiorità assoluta ed eterna dei
popoli di colore, o anche degli ebrei, rispetto agli indeuropei – con-
correvano a rafforzare questa convinzione. Un linguista serio (anche
se alquanto pachidermico) come August Friedrich Pott, un linguista
dilettante ma ricco d’ingegno e di fascino come Renan, rimasero sem-
pre convinti dell’assoluta scientificità di quella classificazione tripar-
tita delle lingue e dell’impossibilità di stabilire qualsiasi connessione
fra i tre tipi. È vero che Franz Bopp si era sempre opposto a quelle
schematizzazioni, e che anche Wilhelm von Humboldt se n’era mo-
strato insoddisfatto. Ma la loro pur grandissima autorità non era riu-
scita a imporsi su questo punto; anzi, il Bopp, sostenendo in modo un
po’ troppo meccanico l’origine perifrastica di tutte le forme flessive,
e pretendendo di dimostrare la parentela delle lingue malaico-poline-
siche e caucasiche con le indeuropee, aveva finito col dare armi agli
avversari.
Perciò, quando il Biondelli ripeteva il dogma dell’assoluta diffe-
renza tra le lingue «semplici», «affissive» e «inflessive», e affermava
che «gli idiomi indo-europei formano un regno perfettamente distin-
to sino ab origine da tutti gli altri del globo, il cui genio essenzialmen-
te diverso non ammette possibilità di conciliazione», e, sconfinando
dalla linguistica nel razzismo, sosteneva che «al bel cranio ovale e sim-
metrico della razza caucasica va unito il più ricco corredo di facoltà
intellettuali, mentre la stupidità caratterizza d’ordinario il povero
negro dal cranio deforme e compresso» e attribuiva tali diversità lin-
guistiche e antropologiche all’opera della divina Provvidenza,65 diceva
delle sciocchezze, certo, ma delle sciocchezze che circolavano larga-
65
iVedi Atlante cit., pp. 246 sgg., 249; «Politecnico» II, p. 182; cfr. p. 162: «Si vide che il
linguaggio d’una nazione forma quasi un tipo caratteristico della medesima, del pari che la strut-
tura dello scheletro e il colore della pelle».
X. Carlo Cattaneo e Graziadio Ascoli 349
66
i«Politecnico» II, p. 175.
67
iAtlante cit., p. 250.
68
iCit. qui sopra, nota 61.
69
iRist. in Studii linguistici, Milano 1856, p. 161 sgg.
70
iF. Schlegel, Über die Sprache und Weisheit der Indier, Heidelberg 1808, p. 71 sgg.
71
iIbid., p. 66 sg. Lo Schlegel supponeva giustamente che gli inni vedici, a quel tempo non
ancora studiati, documentassero una fase linguistica anteriore al sanscrito stesso.
350 X. Carlo Cattaneo e Graziadio Ascoli
blicato l’articolo sulla lingua romena col tono di chi dice addio agli stu-
di della giovinezza,72 adesso l’esempio del Biondelli lo spinse a occu-
parsi nuovamente di linguistica, a leggere alcune tra le opere stranie-
re di cui il Biondelli dava notizia, a prender posizione critica di fronte
a quei maestri della glottologia indeuropea che il Biondelli venerava.
Come è noto, il Cattaneo era soprattutto scrittore di recensioni: per
sviluppare le sue idee personalissime aveva bisogno di prendere l’av-
vio da un’opera altrui che gli presentasse un materiale già raccolto e
lo informasse sui risultati fin allora raggiunti. E fu appunto il primo
volume dell’Atlante linguistico d’Europa, in cui il Biondelli esponeva in
forma sistematica idee e notizie già accennate negli articoli del «Poli-
tecnico», ad offrire al Cattaneo l’occasione per il saggio Sul principio
istorico delle lingue europee, cioè per il suo scritto linguistico-etnogra-
fico più ampio e originale.73
Fra le opere di linguistica indeuropea citate e seguite dal Biondel-
li, il Cattaneo rivolse la sua attenzione soprattutto alla Sprache und
Weisheit der Indier di Friedrich Schlegel, al saggio Über den Ursprung
und die verschiedenartige Verwandtschaft der europäischen Sprachen di
Christian Gottlieb von Arndt74 e al Parallèle des langues de l’Europe et
de l’Inde di Frédéric-Gustave Eichhoff.75 Ora, specialmente quest’ul-
timo autore faceva provenire dall’Asia non solo le lingue, ma i popoli
europei: la diffusione delle lingue indeuropee non sarebbe stata che
la conseguenza di grandi migrazioni di genti asiatiche, le quali avreb-
bero invaso un’Europa scarsamente abitata, sopraffacendo con la for-
za del numero le popolazioni autoctone. «Tous les Européens – scri-
veva l’Eichhoff – sont venus de l’orient: cette vérité, confirmée par
les témoignages réunis de la physiologie et de la linguistique, n’a plus
besoin de démonstration ... Longtemps ces tribus errantes, refoulées
par d’autres tribus, ont continué leur marche incertaine à travers les
72
iSL, I, p. 237: «Intanto l’autore si venne affezionando a studii d’indole affatto diversa, sic-
ché non gli sembra omai di poter facilmente ritornare a questi».
73
iSL, I, p. 145 sgg. (già nel «Politecnico» IV, 1841, p. 560 sgg.); con utili note del Sestan
nell’ed. di Romagnosi, Cattaneo e Ferrari, p. 617 sgg.
74
iPubblicato a Francoforte nel 1827, molti anni dopo che era stato scritto. Ch. G. von
Arndt (da non confondersi col noto poeta e pubblicista Ernst Moritz Arndt) aveva collaborato
ai Linguarum totius orbis vocabularia del Pallas.
75
iParigi 1836. L’Eichhoff fu un benemerito divulgatore della linguistica indeuropea, in
Francia, una specie di Biondelli francese.
X. Carlo Cattaneo e Graziadio Ascoli 351
plaines de l’Europe ...».76 Con ciò l’Eichhoff non faceva che seguire
una communis opinio, secondo cui le affinità tra le lingue fornivano
indizi sulla comunanza di origine tra i popoli e permettevano di rico-
struire gli spostamenti che i popoli stessi avevano compiuto in età
preistorica: «cum inter alios usus cognitionis linguarum ille non sit
infimus, ut judicari possit de populorum originibus et migrationibus»,
aveva scritto già il Leibniz.77 L’Asia, poi, era considerata da tempo
come la «cuna del genere umano»,78 e quindi quella teoria delle migra-
zioni indeuropee appariva del tutto naturale.
Ma al Cattaneo, che portava nello studio delle origini indeuropee le
proprie esperienze di studioso delle origini neolatine, quelle grandi
migrazioni di genti asiatiche richiamavano subito alla mente le cosid-
dette grandi migrazioni dei barbari invasori dell’impero romano. E se
queste, secondo la tesi del Maffei a cui egli, come sappiamo, aderiva,
non erano esistite se non nella fantasia degli storici, perché quelle
avrebbero dovuto meritare più credito? «Li astronomi, da quella par-
te di corso in cui possono seguire una cometa, inducono il rimanente
dell’invisibile suo volo nell’immensità dello spazio»:79 allo stesso modo
lo studio della storia medievale – della «barbarie ritornata», avrebbe
detto Vico – poteva servire a rischiarare le tenebre preistoriche80 e a
persuadere che il numero degli asiatici che avevano invaso l’Europa
primitiva era stato piccolo, molto più piccolo di quello degli aborigeni
europei.
I popoli, nel loro complesso, erano stati sempre assai più stazionari
di quanto gli storici amassero credere: «In tutta l’istoria si scambia-
rono troppo sovente i popoli, ossia le moltitudini sottomesse e lavo-
ratrici, colle caste militari che imponevano loro il dominio ed il nome.
Le prime stanno quasi sempre avvinte alla terra nativa; le altre si sten-
dono rapidamente colla vittoria, e spariscono rapidamente nella scon-
fitta. Ma li scrittori superficiali, che s’apprendono ai nomi, vedono
76
iOp. cit., p. 12 sg. Cfr. Biondelli, Atlante linguistico cit., p. 55 sgg.
77
iOpera omnia, ed. Dutens, VI, 2, Ginevra 1768, p. 140.
78
iCosì il Cantù (Storia univ., I, Torino 1838, p. 191), ripetendo un concetto che, special-
mente da Herder in poi, aveva avuto larghissima diffusione.
79
iSL, I, p. 166.
80
iIl Vico, come è noto, riteneva di potere invece «schiarire la storia barbara ultima (il
Medioevo) col ricorso della storia barbara prima»: cfr. Scienza nuova seconda, II, p. 131 sgg. ed.
Nicolini.
352 X. Carlo Cattaneo e Graziadio Ascoli
sempre nelle spedizioni d’una casta o d’un esercito una radicale tra-
sfusione di razze, e le vanno cacciando e ricacciando da luogo a luogo,
come onde di mare».81 Un motivo polemico, questo, che il Cattaneo
non si stancò mai di ripetere con sempre nuove e sempre efficacissime
variazioni ironiche.82
Come spiegare, allora, l’innegabile affinità fra il sanscrito, l’iranico,
l’armeno e la maggior parte delle lingue europee? Qui il parallelismo tra
gli asiatici invasori dell’Europa preistorica e i barbari invasori dell’im-
pero romano veniva meno. Questi ultimi, infatti, scarsi di numero e,
nello stesso tempo, inferiori culturalmente ai romani, non erano riusciti
a imporre nel mondo latino le proprie lingue. Gli «indopersi», invece,
avevano avuto una fioritura di civiltà più precoce che gli europei delle
età preistoriche: in Asia si erano già formati grandi «imperi sacerdota-
li» quando l’Europa era ancora immersa nella barbarie. Perciò le lingue
e le civiltà degli indiani e dei persiani si erano imposte anche senza la
forza del numero, attraverso la fondazione di colonie e la penetrazio-
ne militare, commerciale e religiosa, «sotto forma primamente di mer-
canti, di prigionieri, e di caste guerriere e sacerdotali».83 Qui dunque,
più che il parallelismo con l’insediamento dei barbari nell’impero roma-
no, valeva quello con le colonie greche e romane, o con le colonizza-
zioni effettuate da portoghesi, spagnoli, francesi, inglesi nell’epoca
moderna. L’Europa preistorica era stata, rispetto all’Asia, un po’ quel-
lo che l’America o l’Australia erano rispetto all’Europa.84 E come nel-
la colonizzazione inglese del Nord America avevano avuto larga parte
i profughi per motivi religiosi e politici, così il Cattaneo amava pensa-
re che tra gli indopersi venuti a colonizzare l’Europa ve ne fossero mol-
ti che erano emigrati dagli imperi teocratici dell’Asia in cerca di libertà,
e non solo di spazio vitale o di ricchezze.85
81
iSL, I, p. 160 sg.
82
iCfr., tra i molti esempi che si potrebbero citare, SL, I, p. 163: «Quelle correnti d’uomini,
quei banchi d’aringhe terrestri, che spinti quasi da un fato, vanno perpetuamente camminando dal
Caspio all’Atlantico, se vennero mai, certamente vennero in tempi che l’istoria non conosce, e
sono contrari a tutto ciò che l’istoria conosce».
83
iSL, I, p. 188.
84
iSL, I, p. 166 sg.; II, p. 297; SSG, I, p. 340; SF, III, p. 200. Per idee simili sostenute da
studiosi recenti cfr. V. Pisani in «Paideia» XV, 1960, p. 163 sg.
85
iSL, I, p. 170 («in cerca ... d’asilo a fedi proscritte»); SF, I, p. 376 («in questa nostra Euro-
pa, in questa multiforme colonia fondata da tribù e da sètte che fuggivano dal giogo orienta-
le»). Più ampiamente il Cattaneo sviluppò quest’ipotesi nel saggio Le origini italiche illustrate coi
libri dell’antica Persia (1861: SL, II, p. 291).
X. Carlo Cattaneo e Graziadio Ascoli 353
87
iSL, I, p. 185.
88
iL’esempio dei negri di Haiti è particolarmente caro al Cattaneo: SL, I, pp. 165, 167; SSG,
I, p. 342; II, p. 101.
89
iCfr. p. 244.
90
iW. V. Humboldt, Über die Verschiedenheiten des menschlichen Sprachbaues, 1827-29, pub-
blicato per la prima volta nelle Gesammelte Schriften ed. Leitzmann, VI, 1, Berlino 1907, p. 111
sgg.; su lingua e razza, p. 196 sgg. Questo scritto non va confuso con l’introduzione all’opera
Über die Kawi-Sprache, Berlino 1836 ( = vol. VII, 1 dell’ed. Leitzmann), che ha un titolo quasi
identico (Über die Verschiedenheiten des menschl. Sprachbaues ecc.) e coincide in molti punti, ma
non in tutti.
91
iNella recensione al primo volume del Kosmos («Politecnico» VII, 1845 = SF, I, p. 220) il
Cattaneo scriveva: «Volentieri vediamo di non esser soli nell’altro principio che communanza di
lingue non prova communanza d’origini, onde altro è linguistica, altro etnografia». Etnografia,
s’intende, nel senso di antropologia, di studio dell’uomo dal punto di vista fisico.
X. Carlo Cattaneo e Graziadio Ascoli 355
92
iPrefazione al vol. II di Alcuni scritti = SSG, II, p. 104. Cfr. SL, I, p. 187; SF, I, p. 153;
SSG, I, p. 341.
93
iSL, I, p. 190.
356 X. Carlo Cattaneo e Graziadio Ascoli
desolante, senza violare i diritti dei singoli gruppi minori. Perciò tra i
grandi «imperi asiatici» e la «prisca Europa» con la sua varietà di
popoli e di lingue, egli simpatizzava per quest’ultima, meno civile, ma
racchiudente in sé i germi di una futura civiltà superiore: «Come sem-
pre avvenne, quanto le genti profughe perdevano in dottrina e civiltà
tra le selve dell’occidente, compensavano con altrettanta libertà. Men-
tre nella vasta Irania la disciplina sacerdotale dei magi e la disciplina
militare delle caste fedeli domavano sempre più le volontà e compri-
mevano le menti in una ferrea forma: nell’Europa, e più nelle sparse
isole e penisole di Grecia e d’Italia, la varietà delle stirpi, e le stirpi
nuove che via via se ne generavano, barbare o semibarbare, dotte o
semidotte, e il commercio colle genti maritime e colle città di vario lin-
guaggio da loro fondate, e più libere sempre della madrepatria, face-
vano perpetuo il conflitto e il fermento delle idee di qua e di là rac-
cozzate. Indi fra stati vicini, e fortunatamente angusti, atti alla difesa,
impotenti alla conquista, assidue guerre; fra le quali li autorevoli era-
no costretti a tollerare i prodi e i generosi, e farli partecipi dei beni e
del comando; ch’è quanto a dire della libertà».94
Egli estendeva così a tutta l’Europa primitiva quelle qualità (fede-
ralismo, amore della libertà, resistenza all’accentramento oppressivo)
che gli esaltatori dell’Italia primitiva attribuivano, come abbiamo
visto, agli etruschi e ai sanniti. Il «patriottismo italico» (e antiroma-
no) si allargava a «patriottismo europeo» (e antiasiatico), mantenen-
do immutate certe caratteristiche. Inerente a entrambi i patriottismi
era la valutazione positiva del sostrato, il quale rappresentava appun-
to il principio della varietà linguistica, non cancellata dall’azione uni-
ficatrice esercitata dal popolo colonizzatore.
Tuttavia qui, nell’ambito indeuropeo, si rivelavano anche, più chia-
ramente che in quello romanzo, le differenze tra la posizione del Cat-
94
iSL, II, p. 291 (Le origini italiche illustrate coi libri sacri dell’antica Persia, 1861). Per il con-
trasto Asia-Europa, cfr. anche SF, I, pp. 149, 170, 376 sg. Già il Giordani, in un articolo pub-
blicato nella «Biblioteca Italiana» del 1816 ( = Opere, X, 22), aveva scritto: «Né io intendo che
sia da fare gran conto di quelle società magiche e teurgiche, le quali mostravano niente curare gli
uomini e la presente vita; nella quale però volevano ogni copia di ricchezze e di onori; e con
pochissima fatica vendevan caro oscure dottrine, delle quali dicevano cogliersi frutto in un altro
mondo. Ciò aveva grande spaccio in Asia; dove gl’intelletti dormivano e volentieri sognavano:
ma nella più culta parte d’Europa tanto era alcuno in concetto di valente uomo, quanto si dimo-
strava non ozioso ma utile cittadino». Anche se nel Giordani c’è una polemica anticlericale più
scoperta, la contrapposizione fra Asia ed Europa è molto simile ai passi citati del Cattaneo, e
autorizza a supporre che questi abbia tratto almeno uno spunto da quell’articolo giordaniano.
X. Carlo Cattaneo e Graziadio Ascoli 357
101
iSSG, II, p. 112. Cfr. anche ibid., p. 98: «Il ripetere ogni principio di civiltà sia solo dal-
li aborigeni, sia solo dalli alienigeni, ripugna egualmente al corso universale e perpetuo dell’i-
storia». E sull’utilità che la mescolanza delle stirpi arreca non solo alla civiltà, ma anche al
miglioramento fisico del genere umano, vedi Scritti economici, ed. Bertolino, II, p. 364.
102
iSSG, I, p. 68 sg.: vedi anche la chiusa del medesimo saggio, p. 123 sg., con l’accenno alla
guerra franco-algerina; e nota che, mentre a p. 109 il Cattaneo rimprovera al Thierry di essere
«troppo infervorato pei vinti», nella chiusa finisce col dargli ragione.
103
iVedi specialmente SF, I, p. 377; e anche SL, II, p. 342, dove è ripresa la polemica con-
tro il colonialismo francese (cfr. nota precedente).
X. Carlo Cattaneo e Graziadio Ascoli 359
107
iSL, I, p. 170 (cfr. p. 186). A una corrente migratoria Asia minore-Grecia-Italia aveva
accennato anche F. Schlegel, Über die Sprache u. Weish. der Indier cit., p. 187; ma gli slavi e i ger-
mani egli li faceva arrivare dall’India in Europa per via di terra, e supponeva che essi fossero sta-
ti indotti a migrare dalla leggenda del monte Meru e della «hohe Würde und Herrlichkeit des
Nordens» (p. 193 sg.). Su questa ipotesi schlegeliana il Cattaneo non si stancò di ironizzare:
SL, I, 163 sg., 174, 183.
108
iCfr. specialmente SL, I, p. 178 sg.
109
iCfr. Über die Sprache u. Weish. der Indier cit., pp. 3 sg., 50, 81 sgg. Il Rask stesso arrivò
a convincersi solo assai tardi del carattere indeuropeo del celtico: cfr. H. Pedersen, Linguistic
Science in the Nineteenth Century, Cambridge Mass. 1931, p. 57. La dimostrazione decisiva fu
data da Bopp, Die Celtischen Sprachen ecc. «Abhandl. Berl. Akad.» 1838. Il Cattaneo modificò
in parte la sua opinione alcuni anni dopo, quando ebbe letto l’opera di Heinrich Leo, Die Mal-
bergische Glosse, Halle 1842: vedi il saggio Su la lingua e le leggi dei Celti in SL, I, p. 193 sgg.
110
iVedi soprattutto il cap. XI delle Notizie naturali e civili su la Lombardia (SSG, I, p. 350 sgg.).
111
iSL, I, pp. 179-83; cfr. p. 204.
112
iIbid., p. 183 sg.
X. Carlo Cattaneo e Graziadio Ascoli 361
115
iSL, I, pp. 190 sg. Cfr. p. 202: «Pare che queste affinità delle lingue siano cose di fatto
istorico e posteriore, e non d’origine primitiva»; e SSG, I, p. 341.
116
iL’Arndt (op. cit. sopra p. 258), p. 16, esprimeva un’opinione assai diffusa scrivendo: «Es
ist wahrscheinlich ... dass die sämmtlichen Sprachen der jetzigen Welt ... weder von einer ein-
zigen Ursprache, noch von einer sehr grossen Zahl Ursprachen abstammen».
117
iM. Cesarotti, Saggio sulla filosofia delle lingue, parte I, cap. 1: «Una lingua nella sua pri-
mitiva origine non si forma che dall’accozzamento di varj idiomi, siccome un popolo non si for-
ma che dalla riunione di varie e disperse tribù». Romagnosi, postille a Robertson, Ricerche sto-
riche sull’India antica, trad. ital., 3a ed., Prato 1838, p. 366: «Egli è certo che le tribù ridotte in
principati, e indi in grandi monarchie, ordinate a civiltà, e non semplicemente raccozzate dalla
conquista, si fondono così l’una nell’altra, che alla fine parlano, o almeno scrivono, una lingua
comune, la quale viene intesa universalmente, benché si conservino vernacoli locali. Quanto più
una grande nazione vive unita, e quanto più antica è la coltura e la convivenza civile, tanto
più la differenza dei linguaggi primitivi va dileguandosi, e prevale una comune favella».
X. Carlo Cattaneo e Graziadio Ascoli 363
118
iSSG, III, p. 125 (nell’articolo su Gli antichi Messicani, 1860). Cfr. SF, II, pp. 340, 342.
119
iSL, I, p. 172; cfr. SF, I, pp. 349, 415; II, p. 338 sgg. Ma già nell’articolo del 1837, SL,
I, p. 228: «Forse anche le declinazioni delle lingue latina, greca, gotica in origine non furono
altro che semplici nomi con un articolo affisso». Della storia di questa teoria (la quale compare
per la prima volta, che io sappia, nell’Histoire critique du Vieux Testament di Richard Simon, poi
nel Condillac, in vari linguisti tedeschi del Settecento e del primo Ottocento, infine nel Bopp)
mi occuperò altrove.
364 X. Carlo Cattaneo e Graziadio Ascoli
120
iVedi soprattutto SF, I, p. 349 sg. (nell’Invito alli amatori della filosofia, 1857); II, p. 349
(nelle lezioni ticinesi di ideologia), dove è confutato il «sofisma di Bonald, il quale negò all’uo-
mo la facultà di farsi un linguaggio, perché l’homme pense sa parole, avant de parler sa pensée». Il
primo a dare a questo sofisma la sua formulazione tipica era stato in realtà Roussseau, seguito
da moltissimi altri (cfr. «Annali della Scuola Normale», 1959, p. 158, n. 1). L’aveva confutato
già Herder nella Abhandlung über den Ursprung der Sprache.
121
iSL, I, p. 155; cfr. SF, III, p. 186, dove «Schelling» è un lapsus per «Schlegel».
122
iVedi specialmente Le origini italiche illustrate coi libri sacri dell’antica Persia e L’antico Egit-
to e le origini italiche (entrambi nel «Politecnico» XI, 1861 = SL, II, pp. 265 sgg., 297 sgg.).
123
iSF, II, p. 324 sgg.; III, p. 181 sgg.
X. Carlo Cattaneo e Graziadio Ascoli 365
124
iMonogenisti e antischiavisti per motivi umanitari-religiosi erano per esempio Alexander
von Humboldt, il Bunsen, Max Müller, e in Italia il Lambruschini.
125
iSF, I, p. 221. S’intende che anche questa posizione, che il Cattaneo avrebbe poi supera-
to, non aveva comunque niente a che vedere con le tesi degli schiavisti americani, a cui egli fu
sempre radicalmente avverso (cfr. l’articoletto del 1834 in Scritti politici a cura di M. Boneschi,
I, p. 63).
126
iSF, I, pp. 410-412.
366 X. Carlo Cattaneo e Graziadio Ascoli
127
iTipi del genere umano, nel «Politecnico» XIV, 1862, p. 336 sgg. = SSG, III, p. 214 sgg.
L’opera di Nott e Gliddon era uscita a Filadelfia nel 1854; gli stessi autori avevano ribadito le
loro tesi poligeniste e schiaviste in Indigenous Races of the Earth, Filadelphia 1857, opera che pro-
babilmente il Cattaneo non vide.
128
iSSG, III, p. 243.
X. Carlo Cattaneo e Graziadio Ascoli 367
natura tanto tesoro di cerebrale potenza: perché, nei cinque o sei mila
anni della civiltà egizia, dormì così duri e infecondi sonni? Perché fu
necessario che la lingua latina, una lingua concepita da popoli di minor
cervello, venisse dal mezzodì ad addottrinarla per più secoli, fino a che
la lingua germanica tanto si esercitasse e si rimodellasse che alla sua
medesima nazione paresse degna d’esser ministra del pensiero?».129
Si sente in queste parole un’eco della vecchia polemica antiteuto-
nica. Ma l’importante è che il Cattaneo non contrapponeva al prima-
to della razza germanica un non meno cervellotico primato della raz-
za mediterranea (come poi farà Giuseppe Sergi) o della razza bianca
in generale, ma anzi considerava la tardiva fioritura culturale dei
popoli germanici come la prova migliore che «non bisogna disperare
di alcuna parte del genere umano», che non esistono razze votate per
sempre alla barbarie o alla schiavitù. Se gli inglesi e i tedeschi, dopo
esser rimasti per secoli e secoli tanto arretrati rispetto ai popoli del-
l’Oriente e del Mediterraneo, «nelle ultime generazioni fecero ina-
spettati prodigi d’intelligenza», perché un giorno non potranno fare
altrettanto i popoli di colore? «Ai detrattori dei Negri noi per con-
verso additeremo la tarda eppur meravigliosa civiltà dei Britanni e dei
Teutoni».130
Così il razzismo era combattuto non in nome di pure esigenze mora-
li – inefficaci contro chi faceva orgogliosamente appello alla scienza –,
ma proprio smascherandone il carattere pseudoscientifico: «È un’idea
barbara, che s’involge nei panni della scienza. È tempo di ridurla alla
sua barbara nudità». E siccome gli schiavisti americani amavano ripe-
tere che il negro assomiglia più alla scimmia che al bianco, e illustra-
vano questo concetto raffigurando la testa di un negro tra quelle del-
l’Apollo di Belvedere e di una scimmia, il Cattaneo replicava: «A noi
non importa che un Negro sembri nelle sue forme più vicino ad una
specie qualsiasi d’animali che a un Dio. Noi collochiamo l’uomo al
supremo grado d’una scala che comincia dalle monadi organiche per
ascendere fino al selvaggio, cioè fino all’essere parlante. Questo a noi
pare già un gran progresso. E dal selvaggio più vicino al bruto, per noi,
129
iIbid., p. 244. La «sferoide germanica» e l’«ovale britannico» sono, come è ovvio, forme
craniche. Cfr. ciò che il Cattaneo osserva poco sopra, pp. 237-242.
130
iIbid., p. 244. Ma tutti gli altri periodi di questa efficacissima chiusa del saggio cattaneiano
meriterebbero ugualmente di essere citati.
368 X. Carlo Cattaneo e Graziadio Ascoli
comincia un’altra scala, che ascende fino agli eroi della ragione e del-
l’umanità. Tutte le nazioni che diedero alcuno di codesti eroi, sono
venerabili per noi; ma tutte le altre per noi sono egualmente inviola-
bili; e non riconosciamo egemonie del genere umano».131
Con questa rivendicazione dell’uguaglianza di tutti gli uomini, fon-
data non su una mitica «fratellanza» originaria ma sulla capacità, pos-
seduta da tutti, di superare le primitive divisioni e di prender parte
all’opera comune della civiltà, il Cattaneo toccava il culmine dei suoi
studi storico-etnografici e, insieme, del suo pensiero democratico. Per
andare oltre, egli avrebbe dovuto accorgersi che l’umanità del suo
tempo era agitata non solo da contrasti etnici e da lotte tra la borghe-
sia progressista e le vecchie forze assolutiste, teocratiche e feudali, ma
anche – all’interno del fronte del «progresso» – dall’antagonismo sem-
pre più forte tra il terzo e il quarto stato, e che questo antagonismo
non era risolubile con una pura azione di filantropia o di diffusione
della cultura. Ma a questo aspetto della realtà contemporanea, che fu
così prontamente avvertito non solo da socialisti delle più disparate
tendenze, ma anche da tanti conservatori e liberali di sguardo acuto,
il Cattaneo rimase completamente chiuso. L’esperienza stessa del
Quarantotto – che per molti democratici e molti moderati fu, sia pure
in due sensi opposti, rivelatrice – lasciò sostanzialmente immutato il
suo liberismo economico e il suo illuminismo sociale.132 Di qui il suo
131
iIbid., p. 246. La concezione di questi antropologi schiavisti, che assimilavano il negro alla
scimmia, non ha nulla a che vedere con l’evoluzionismo, che con le scimmie connette genetica-
mente t u t t a la specie umana. I poligenisti, anzi, furono per lo più contrari all’evoluzionismo
lamarckiano e poi darwiniano, perché vedevano abbattuta dalla dottrina evoluzionista quella
barriera insuperabile che essi volevano mantenere tra razza e razza (vedi per esempio Indigenous
Races of the Earth cit., p. 448 sg.). Quanto al Cattaneo, s’incontra più volte nei suoi scritti l’af-
fermazione che l’uomo è il culmine della scala degli esseri viventi, l’«ultimogenito della natu-
ra» (SF, I, p. 219); ** ma nei riguardi dell’evoluzionismo vero e proprio – non solo di quello
darwiniano, ma anche di quello lamarckiano, che dovette essergli noto fin dai suoi anni giova-
nili – egli non prese mai posizione. Tacque anche quando, proprio sul «Politecnico» (XXI,
1864, p. 5 sgg.), Filippo De Filippi pubblicò la famosa conferenza L’uomo e le scimmie, susci-
tatrice di aspre discussioni. Probabilmente il suo senso geloso della «dignità dell’uomo», nutri-
to di tradizione classicheggiante e illuministica al tempo stesso, fu in questo caso più forte del
suo spirito scientifico e gli impedì di aderire all’evoluzionismo. Così anche la sua teoria polige-
nistica lascia senza risposta un interrogativo: da quali altri esseri avrebbero avuto origine, in
varie zone della terra, i primi gruppi umani?
132
iNel 1844 (SF, I, p. 260 sg.) aveva qualificato il comunismo una dottrina «per i famelici
senza ingegno», la quale «sopprimendo fra li uomini l’eredità, e per conseguenza la famiglia,
ricaccerebbe il lavorante nell’abiezione delli antichi schiavi, senza natali, e senza onore». Ma
ancora nel ’63 rimproverava Giuseppe Ferrari di «preferire edificii socialisti, e fantasmagorie,
X. Carlo Cattaneo e Graziadio Ascoli 369
1. Nel 1846, cioè quando il pensiero linguistico del Cattaneo era già
delineato nei suoi tratti essenziali, Graziadio Ascoli, appena sedicen-
ne, esordiva con un opuscoletto Sull’idioma friulano e sulla sua affinità
alle modeste, e sicure, e caute, e sapienti vie della libertà diffuse equabilmente» (SSG, II, p.
311). La sua rosea fiducia nell’«armonia» economica, che ricorda il Bastiat, è documentata per
esempio dal «Politecnico» XI, 1861, pp. 313 sg., 339. Vedi poi le critiche e le riserve da lui mos-
se al progetto di statuto della Fratellanza artigiana, in Èpist. IV, pp. 197 sg. Sulla sua incom-
prensione per i problemi sociali giudica bene, seppur brevemente, il Sestan, introd. a Roma-
gnosi, Cattaneo e Ferrari cit., p. XXXVII; cfr. anche F. Catalano in «Nuova Riv. storica» XLII,
1958, p. 521 sgg. Il fatto che all’indomani del ’48 il Cattaneo abbia avuto in comune con Pisa-
cane, Ferrari e Montanelli molti motivi di polemica antimazziniana e federalista rischia talvol-
ta di far mettere in ombra il contrasto fra il suo reciso antisocialismo e il socialismo (molto varia-
mente atteggiato) degli altri tre. «Gioberti si dice socialista, Cattaneo non lo è: ecco il male ...»,
scriveva il Ferrari al Cernuschi nel ’51 (in F. Della Peruta, I democratici e la rivol. italiana, Mila-
no 1958, p. 438). Vedi ora anche Giuseppe Berti, I democratici e l’iniziativa meridionale nel Risor-
gimento, Milano 1962, pp. 100, 432-434, 786, e passim.
370 X. Carlo Cattaneo e Graziadio Ascoli
139
iVedi le lettere pubblicate da G. D’Aronco in «Studi goriziani» XXIII, 1958, p. 31 sgg.
140
iNel 1852 ne era già socio: cfr. «Annali della Scuola Normale» 1959, p. 182.
141
iVedi l’introduzione al primo fascicolo degli «Studj orientali e linguistici» e, quanto a
Humboldt, anche Silloge, p. XXIX. Molti anni più tardi l’Ascoli stesso diceva (XIIe Congrès des
Orientalistes à Rome, 1899, Bulletin N. 12, p. 3): «Non è facile, signori, il trovare un altro lin-
guista che abbia studiato, come fu dato a me, alcune parti della prima edizione della Gramma-
tica Comparata di Francesco Bopp, mano mano che i fogli ne uscivano dal torchio» (press’a poco
così già in «Arch. glottol.» X, 1886, p. 43 n. 1). Bisogna intendere che egli abbia acquistato via
via l e d i s p e n s e del vol. VI della Vergleichende Grammatik (1852): non, come intese il
Goidánich (Silloge, p. XXV), che abbia letto l’opera «in bozze».
142
iQuanto all’interesse per la letteratura indiana, vedi negli «Studj orientali e linguistici»
la traduzione poetica del Nalo. Quanto agli studi semitici e, in generale, all’ambiente ebraico in
cui l’Ascoli trascorse la giovinezza cfr. specialmente B. Terracini, Guida allo studio della lingui-
st. storica, I, p. 127 e in «Rassegna mensile di Israel» XXIV, 1958, p. 3 sgg.; G. Hugues in «Stu-
di goriziani» XXIV, luglio-dicembre 1958, p. 33 sgg.
143
iVedi ancora l’introduzione agli «Studj orientali e linguistici». Cfr. «Annali della Scuola
Normale» 1959, pp. 153 sg., 157 sg.
144
iVedi il suo opuscolo Gorizia italiana, tollerante, concorde, pubblicato a Gorizia nel 1848,
ristampato da G. Morpurgo in «Archeografo triestino» XLIII, 1929-30, p. 419 sgg. Cfr. G.
Manzini in «Studi goriziani» XXI, genn.-giugno 1957, p. 60 sg.
X. Carlo Cattaneo e Graziadio Ascoli 373
145
iDi questo viaggio, compiuto nella primavera del 1852, ci è giunto un diario, ora pubbli-
cato in «Annali della Scuola Normale» 1959, p. 151 sgg. Cfr. anche l’altro diario giovanile in
Silloge, p. XXVIII sgg.
146
i«Annali» cit., pp. 164, 165, 185. Sentì anche parlare, ma in modo poco lusinghiero, di
Antonio Madini, orientalista, parente del Cattaneo (ibid., pp. 164, n. 2, 166). Quanto al giudi-
zio negativo dell’Ascoli sul Rosa come linguista, e ad una collaborazione del Rosa agli «Studj
orientali e linguistici», cfr. ibid., pp. 157, n. 1, 191 **.*
147
iEuropa settecentesca e altri saggi, Milano-Napoli 1951, p. 209 sgg.
148
i«Annali» cit., p. 165 sgg.
149
iSull’origine umana del linguaggio vedi le opinioni espresse dall’Ascoli nel diario del 1852
(«Annali» cit., pp. 166-168) e in «Studj orientali e linguistici» I, p. 5 sgg. Sulla teoria aggluti-
nante, ibid., p. 10 sg. Sul Vico, Silloge, p. XXIX, e «Studj orient. e ling.» I, p. 16.
*iPer i rapporti di Gabriele Rosa con l’Ascoli (e con Paolo Marzolo) cfr. le sue Autobiogra-
fie a cura di G. Tramarollo, Pisa 1963, pp. 127 e 129. Da quest’ultimo passo risulta che più tar-
di l’Ascoli propose il Rosa per la cattedra di storia antica all’Accademia scientifico-letteraria di
Milano: la sua stima per il Rosa doveva essersi accresciuta – non, forse, sul piano strettamente
scientifico, ma su quello politico-educativo – {La postilla vale anche per la p. 412 e per la n. 278
– N. d. C.}.
374 X. Carlo Cattaneo e Graziadio Ascoli
l’opera più profonda, chiara ed efficace che fosse stata scritta in Ita-
lia a favore dell’emancipazione degli ebrei.
Nell’introduzione al primo fascicolo degli «Studj orientali e lingui-
stici» (1854), alcuni passi rivelano ben chiaro l’influsso cattaneiano.
Per esempio: «Scritta una favella, le si piegano i dialetti affini; e le
rozze genti, o circonvicine o investite, parlanti idiomi non consangui-
nei a quella, sono invase dalla superior civiltà della lingua scritta, la
quale accoglie e si assimila parte dei loro parlari che sconfigge ...»;150
oppure: «né sarà impossibile riconoscere, quantunque per leggi d’a-
nalogia assimilate, le parti che accolsero dal frequentar genti d’altra
stirpe, o quelle che assunsero dalle favelle estranee, che trovarono par-
late, sia da minor numero d’uomini di quello dei sopravvenuti con
loro, sia da uomini più rozzi, i quali, abbenché maggiori di numero,
soccombettero alla forza della civiltà superiore».151 Questa seconda
alternativa era appunto quella che, a giudizio del Cattaneo, si era veri-
ficata per le lingue indeuropee. L’Ascoli, però, la enunciava soltanto,
senza aderirvi; anzi poco dopo, nel secondo fascicolo degli «Studj
orientali e linguistici», la respingeva esplicitamente: «Messa questa (la
fonologia ario-europea) per base alle grammatiche e ai dizionarj com-
parativi, ed estesasi la cognizione delle antiche lingue e letterature
appartenenti alla famiglia nostra, risultò, come infinite diversità, più
o men notevoli, che appaiono in ogni singola delle antiche sorelle, vi
si disviluppassero organicamente dai fondamenti di originaria identità,
oppur ne provenissero per naturali processi di mutazione e di deca-
denza, e non già vi dipendessero da inorganiche trasformanti mistioni
con altri idiomi aborigeni, cui fosse venuto a sovrapporsi, come taluno
fra noi opinò, un debole strato sanscritico».152 Che con quel «taluno
fra noi» l’Ascoli alludesse al Cattaneo, non c’è bisogno di avvertire.
Vedremo come l’Ascoli motiverà e svilupperà più ampiamente que-
sto suo dissenso nel saggio Lingue e nazioni pubblicato un decennio più
tardi. Per ora ci basti notare che, all’inizio della sua carriera di stu-
dioso, l’Ascoli ci appare, sì, consenziente col Cattaneo su alcuni pro-
blemi generali, linguistico-filosofici, ma dissenziente su quelle che era-
no le tesi fondamentali del Cattaneo indeuropeista: la teoria del
sostrato e la negazione delle grandi migrazioni preistoriche.
150
iIbid., p. 19.
151
iIbid., p. 21.
152
iIbid., II, 1855, p. 254 sg.
X. Carlo Cattaneo e Graziadio Ascoli 375
153
iIbid., p. 272. Cfr. C. Salvioni, Commemoraz. di G. I. Ascoli, in «Rendic. Ist. Lombardo»,
serie II, vol. XLIII, 1910, p. 58, n. 2. Il passo del Cattaneo a cui l’Ascoli si riferisce è nel saggio
Della Sardegna antica e moderna (SSG, I, p. 196), che egli leggeva in Alcuni scritti, II, p. 183 **.
154
iIntorno ai continuatori neolatini del lat. «ipsu-», in «Arch. glottol.» XV, 1901, p. 303 sgg.
155
iOnoranze a Graziadio Ascoli, Milano 1901, p. 18 (cfr. G. Manzini in «Studi goriziani»
XXI, p. 71).
156
iVedi l’opuscolo L’uomo e la scimmia (Milano 1869), rivolto principalmente contro il
darwinismo, ma anche contro i negatori dell’origine divina del linguaggio.
376 X. Carlo Cattaneo e Graziadio Ascoli
158
iVedi sopra, pp. 368-369 n. 132.
159
iCiò risulta dalle prime parole della lettera all’Ascoli cit. alla nota seguente, e dalla chiusa
della risposta dell’Ascoli.
160
iEpist. IV, p. 10 sgg. (12 gennaio 1862). In Scritti politici ed epistolario, II, Firenze 1894,
p. 336 era stata pubblicata solo la parte iniziale di questa lettera.
161
iTali, per esempio, quelle contro l’abuso di grecismi scientifici (su questo argomento il
Cattaneo si era già pronunziato in SL, I, p. 250 sgg.: cfr. qui sopra, p. 335 e n. 18). Fra i greci-
smi che spiacevano al Cattaneo c’era anche «glottologico», coniato dall’Ascoli e destinato a note-
vole fortuna fino all’avvento della linguistica idealista.
162
iVedi il saggio già citato su Le origini italiche illustrate coi libri sacri dell’antica Persia (SL, II,
p. 265 sgg.). Anche Hegel, nelle Vorlesungen über die Philosophie der Geschichte, aveva posto la
civiltà persiana molto al di sopra dell’indiana; così pure Goethe, in contrasto coi fratelli Schlegel.
378 X. Carlo Cattaneo e Graziadio Ascoli
163
iLett. cit., p. 12. Cfr. G. D. Romagnosi in W. Robertson, Ricerche storiche sull’India antica,
Prato 18383, p. 366 sg., e Defendente Sacchi, ibid., p. 570. **
164
iAlcune tesi a cui il Cattaneo accenna in questa lettera erano state da lui sviluppate più
ampiamente nel saggio su L’antico Egitto e le origini italiche, pubblicato l’anno prima nel «Poli-
tecnico» (SL, II, p. 297 sgg.).
165
iVedi sopra, p. 341 sg. e n. 43.
X. Carlo Cattaneo e Graziadio Ascoli 379
170
iVedi «Annali della Scuola Normale» 1959, p. 162, e cfr. Silloge, p. XLIII. Vedi anche
più sotto, p. 408.
171
iVedi Epist. III, pp. 291, 313, 365; SSG, III, p. 128; M. Ceccarel, op. cit., p. 263: «Noi
ci rassomigliano come due gocce d’acqua – disse un giorno al pensatore veneto il pensatore lom-
bardo».
172
iSSG, III, p. 247. Su questo saggio del Cattaneo vedi sopra, p. 366 sgg.
173
iEpist. IV, p. 9 (12 gennaio 1862).
174
iPubblicata dal Caddeo in appendice a Epist. IV, p. 597 sgg.
175
iVedi qui sopra, nota 163.
X. Carlo Cattaneo e Graziadio Ascoli 381
176
iXII, 1862, p. 289 sgg.
177
iEpist. IV, p. 35.
382 X. Carlo Cattaneo e Graziadio Ascoli
178
iIbid., p. 150 sg. (lettera ad A. Bertani, 12 maggio 1863). Per la seconda lettera dell’Ascoli
(23 luglio ’62) cfr. ibid., p. 600, nota.
179
i«Politecnico» XXI, 1864, p. 77 sgg. L’articolo è presentato in forma di «frammento»:
preceduto e seguito, quindi, da alcune righe di punti sospensivi.
X. Carlo Cattaneo e Graziadio Ascoli 383
mento che queste lingue presentano alcuni elementi molto più arcaici
dei corrispondenti latini e greci. «Dunque noi dovremmo credere che
il Goto, ad imitare il più civile Romano, balbettasse anthar per alter,
svaihra per socer, than-ja per tendo, e siu-ja per il latino suo, e thaursus
(secco) thaurus-ja (ho sete) storpiando il torreo dei Romani, e via così,
– quando la verità è all’incontro, che le corrispondenti forme sanscri-
te antara, çvaçura, tan, siv, tarsh (aver sete) ci attestano più genuine le
voci gotiche di quel che le latine non sieno? E il lituano, che nel suo
lessico, oggi ancora, conserva una meravigliosa purità sanscritica, il
lituano sarà il produtto di tenui innesti greci sull’ampio tronco bar-
barico?»180.
Come spiegare, allora, le differenze tra le lingue indeuropee? L’A-
scoli ricorreva all’ipotesi di emigrazioni successive: «La vetusta favel-
la âria, da cui derivano tutte le indo-europee, non poté per certo sot-
trarsi mai neppur essa alle influenze di tempo e di luogo, e perciò le
emigrazioni dalla commune patria asiana non portavano seco un idio-
ma affatto identico, se a varie epoche ne partivano e da varj punti del
suo territorio».181 L’origine prima delle differenze, dunque, andava
cercata in Asia, nell’evoluzione dell’indeuropeo comune (di cui le
diverse lingue-figlie rappresentavano diverse fasi cronologiche) e nel-
le differenziazioni dialettali che l’indeuropeo comune già racchiude-
va in sé. Altre differenze potevano anche essere «effetti di ulteriori
sviluppamenti», i quali però «per nulla rinnegano le origini» e quindi
non devono essere attribuiti al sostrato.182
180
iArt. cit., p. 81. Abbiamo già avuto occasione di osservare (p. 360 sg.) che la parte dedi-
cata alle lingue germaniche e slave era la più debole del saggio Sul principio istorico delle lingue
europee. Le osservazioni dell’Ascoli su questo punto erano, perciò, particolarmente fondate. Tut-
tavia, per rendere piena giustizia al Cattaneo, bisogna notare che: 1) già nel saggio Sul principio
ecc. egli non escludeva che le lingue germaniche e slave avessero subìto una prima indeuropeiz-
zazione in età preistorica, molti secoli prima che i Germani entrassero in contatto coi romani e
gli Slavi coi bizantini (cfr. SL, I, p. 182); 2) nel saggio su Le origini italiche ecc., pubblicato nel
’61 (cioè tre anni prima di Lingue e nazioni dell’Ascoli), il Cattaneo, correggendo in parte la sua
precedente opinione, dava maggiore rilievo a questo legame preistorico delle lingue germaniche,
baltiche e slave con le altre indeuropee (SL, II, p. 266 sg.). Probabilmente questo saggio non
era noto all’Ascoli.
181
iArt. cit., p. 83.
182
iIbid., p. 88. Così anche poco prima: «Per conguagliare il tedesco schlaf al greco hypnos,
o il latino suavis all’hêdys greco, e via dicendo, noi non abbiamo bisogno che della istoria natu-
rale del vocabolo ârio, ossia non ci vediamo costretti a ricorrere ad alcuna ipotesi di elementi
aborigeni od eterogenei, dacché non troviamo in alcun modo perturbati i naturali rivolgimenti
di quello».
384 X. Carlo Cattaneo e Graziadio Ascoli
Perfino per ciò che riguarda il lessico – cioè il campo in cui l’ipote-
si del sostrato incontra, in linea di principio, minori difficoltà – l’A-
scoli era molto riluttante ad ammettere elementi non indeuropei: «Per
fermo, non tutto il lessico italo-greco o germano-slavo potremmo o
sapremmo mai ricondurre ai vocabolarj indo-irani. Ma, generalmente
parlando, la parte di que’ lessici europei, che non è ancora dilucidata,
non presenta organismo diverso dal restante, e quindi non ne concede
sospettarvi una materia eterogenea, come sarebbe l’arabo nel persiano
o nel turco, oppur l’arameo nel pehlvi».183
Il Cattaneo, come si ricorderà, aveva molto insistito sul confronto
coi moderni fenomeni di colonizzazione per dimostrare che una mi-
noranza può, con la forza o col prestigio, imporre la propria lingua ad
una maggioranza, come era appunto accaduto, secondo lui, nel caso
degli indeuropei.184 L’Ascoli ribatteva che il confronto non era pro-
bativo, innanzi tutto perché in molti casi di colonizzazione moderna
il numero dei colonizzatori non era stato poi tanto esiguo, in secondo
luogo perché la capacità assimilatrice di uno stato moderno, con tutta
la sua organizzazione burocratica, scolastica, militare non può trova-
re riscontro in epoca preistorica.185 Insomma la non coincidenza di lin-
gua e razza, pur essendo un fatto universalmente vero, si manifesta
in modo sempre più accentuato via via che ci si allontana dalla prei-
storia: osservazione indubbiamente giusta, quantunque l’Ascoli se ne
valesse al di là del lecito, per tornare semplicemente ad asserire che «il
sangue ârio scorre in amplissima misura nelle vene dell’Europa», che
gli indeuropei sono un’unità antropologica e non solo linguistica. Egli
concedeva, tuttavia, al Cattaneo che gli invasori indeuropei fossero
stati pochi, purché si ammettesse che avessero trovato in Europa un nu-
mero di aborigeni ancor minore: «Le proporzioni che noi stabiliamo
tra Aborigeni ed Arj non importano il concetto che gli ultimi venisse-
ro gran fatto numerosi, bensì, in generale, la scarsissima presenza dei
primi. Stimiamo cioè, contro l’opinione degli etnologi tedeschi, che
picciole colonie ârie, passate, in remotissimi tempi, nell’Europa deser-
ta, o pressoché deserta, siano le generatrici de’ nostri popoli ârj».186
183
iIbid., p. 89 sg.
184
iVedi sopra, p. 352 sg.
185
iArt. cit., p. 91.
186
iIbid., p. 90. Cfr. anche Studj critici, II, Roma-Torino 1877, p. 50 (= «Politecnico» 1867)
in cui l’Ascoli dichiara di accostarsi, «non senza però varie restrizioni», all’opinione che «popolo
X. Carlo Cattaneo e Graziadio Ascoli 385
di lingua ariana» e «popolo di sangue ariano» siano la stessa cosa, contro la tesi «del Cattaneo,
del Rosa e del Benfey».
187
iIbid., p. 97 sg. Questo invito alla prudenza era probabilmente rivolto non solo al Catta-
neo, ma anche al Biondelli, il quale classificava i dialetti italiani appunto in base al sostrato.
386 X. Carlo Cattaneo e Graziadio Ascoli
188
iA. Schleicher, Die Deutsche Sprache, Stuttgart 1859 (2a ed. 1869, p. 36).
189
iVedi per esempio Condillac, Essai sur l’orig. des connoiss. hum., in Oeuvres, I, Parigi 1798,
p. 432. Questa teoria, naturalmente, era in stretto rapporto con quella che attribuiva al clima
le differenze fisiche tra le razze. L’influsso del clima era limitato o negato dai poligenisti (lin-
guistici e razziali), tra cui il Cattaneo: vedi SSG, II, p. 118; SF, II, p. 345 sg.
190
iDe vulg. eloq., I, 9.
X. Carlo Cattaneo e Graziadio Ascoli 387
191
iZib., 933 sg.
192
iA. W. Schlegel, Oeuvres écrites en français, III, Lipsia 1846, p. 67 (nello scritto De l’origi-
ne des Indous, del 1833). Più affezionato all’idea della mescolanza etnico-linguistica si manten-
ne W. von Humboldt (Ges. Schriften ed. Leitzmann, VI, 1, p. 280 sgg.): anch’egli, tuttavia, con
forti restrizioni.
193
iDie Deutsche Sprache cit., p. 27; cfr. p. 58, e Compendium4, 1876, p. 4.
194
iVedi specialmente Claude Fauriel, Dante et les origines de la langue et de la littér. italienne,
Parigi 1854, II, p. 297 sgg., i cui argomenti saranno poi ripresi dallo Schuchardt, Der Vokali-
smus des Vulgärlateins, I, Lipsia 1866, p. 85 ** [(accenno ostile a Fauriel in Stendhal Vie de
H. Brulard, c. IX, p. 91 ed. Martineau, Class. Garnier).].
195
iVedi F. Diez, Grammatik der Roman. Sprachen, I2, Bonn 1856, p. 74: «Was nun die
Bestandtheile der italienischen Schriftsprache betrifft, so ist vornweg anzuerkennen, dass sie
nicht eine Spur der nur auf Erz- und Steinplatten, auf Vasen und Münzen uns überlieferten
Reste altitalischer Sprachen enthält: dasselbe scheint auch von den Mundarten zu gelten»; solo
388 X. Carlo Cattaneo e Graziadio Ascoli
201
iD. Camarda, Saggio di grammatologia comparata della lingua albanese, Livorno 1864. Que-
sta tesi era stata già sostenuta dallo Schleicher.
202
i«Politecnico» XXX, 1867, parte letterario-scientifica, p. 301 = Studj critici, II, Roma-
Torino 1877, p. 64.
390 X. Carlo Cattaneo e Graziadio Ascoli
203
i«Politecnico» cit., p. 302 = Studj crit., p. 66 sg. Su questo fenomeno «balcanico», che sarà
da attribuire al contatto fra le tre lingue in epoca storica (se non addirittura ad una coinciden-
za casuale), piuttosto che ad un sostrato tracio o illirico, cfr. C. Tagliavini, Sulla questione della
posposizione dell’articolo, in «Dacoromania» III, 1924, p. 515 sgg.
204
iSL, I, p. 277 sg.
205
iOp. cit. nel testo, p. 240. Sull’ü vedi più oltre, pp. 400-01.
X. Carlo Cattaneo e Graziadio Ascoli 391
206
iCfr. «Annali della Scuola Normale» 1959, p. 156.
207
iCfr. «Archivio glottologico» I, p. XXXIV sg.
208
iSull’ambiente ebraico nel quale si formò l’Ascoli vedi sopra, nota 142.
392 X. Carlo Cattaneo e Graziadio Ascoli
212
iVedi ciò che a questo proposito osservava l’Ascoli in A. Cesari, Elogi italiani e latini a cura
di G. Guidetti, Reggio Emilia 1898, p. XLIX sg.
213
iArch. glottol.», I, p. XXX sg., da confrontare con C. Cattaneo, SL, I, pp. 8, 115-17, 239-
50.
394 X. Carlo Cattaneo e Graziadio Ascoli
214
iIbid., pp. xii («Se Firenze fosse potuta diventare Parigi» ecc.), xxx («l’Europa dice che
l’Italia politica e pensante» ecc.).
215
iSi confronti C. Cattaneo, SL, I, p. 244 («Ben vi fu ai nostri giorni un grande scrittore»
ecc.) con l’Ascoli, p. XXVIII. Vedi anche, su certe qualità negative dello stile manzoniano appli-
cato alla trattazione di argomenti storici e scientifici, la bellissima lettera dell’Ascoli pubblicata
nella «Perseveranza» del 12 aprile 1880 e ristampata in appendice all’ediz. del Proemio a cura
di A. Camilli, Città di Castello 1914.
216
iP. XXXVII. Insieme a questo, l’Ascoli indica il pericolo dell’«indomania», cioè del deri-
vare direttamente voci italiane dalle «remote fonti dell’Asia ariana». Uno di coloro a cui questi
ammonimenti erano rivolti era il Caix: cfr. «Arch. glottol.» X, p. 1 sgg.
217
iCioè la parola di Roma. «Parola» per «lingua», o meglio per «caratteri specifici di una
data lingua», è termine caro all’Ascoli.
218
iOltre al vol. V dell’«Arch. glottol.»; vedi anche il vol. II, 1876, pp. 160 («vere e proprie
trasformazioni specifiche che il substrato gallico fa subire alla parola di Roma»), 445 («quella
che si potrebbe dire l’acutissima fra le spie celtiche, cioè dell’é = A latino»), e moltissimi altri
passi. Cfr. C. Merlo in Silloge, p. 602 sgg.
X. Carlo Cattaneo e Graziadio Ascoli 395
l’amore per la Lombardia, sua seconda patria, e gli studi che già il
Biondelli e il Nigra avevano dedicato ai dialetti «gallo-italici».219 Nel-
la prefazione alla monumentale edizione (rimasta purtroppo incom-
piuta) del Codice Irlandese dell’Ambrosiana,220 egli stesso dichiarava:
«Il principale fra i motivi, che m’indussero a accostarmi agli antichi
monumenti del linguaggio dei Celti, è stato il desiderio di conseguire
quell’idea più viva, che ancora si potesse, della favella colla quale il
latino venne a lottare nelle Gallie, e che bene a lui soggiacque, ma non
senza riagir sopra di lui nel modo più gagliardo. Se non si poteva
ricomporre, intera e perspicua, tal fase di linguaggio che rappresen-
tasse i Galli ancora affatto indipendenti dai Latini, non potevamo
almeno rifar ben vive nel nostro spirito quelle condizioni idiomato-
logiche, in mezzo alle quali son nati, nella Cisalpina, Virgilio e Tito
Livio?». Così il vagheggiamento dell’Italia preromana, o appena roma-
nizzata, dopo aver dato vita a tante ricostruzioni più o meno fanta-
siose, ispirava una seria opera glottologica. E a sua volta, lo studio dei
sostrati italici sempre più induceva l’Ascoli a ricorrere ad ipotesi ana-
loghe per spiegare peculiarità di altre lingue indeuropee, non escluso
il sanscrito.221
3. L’anno 1878, in cui l’Ascoli pubblicò il suo grande lavoro sul cel-
tico, è anche l’anno di nascita ufficiale della scuola neogrammatica
in Germania. Nella prefazione al primo volume delle Morphologische
Untersuchungen, Brugmann e Osthoff enunciavano i principii fonda-
mentali del nuovo indirizzo: ineccepibilità delle leggi fonetiche; carat-
tere psicologico dei mutamenti linguistici; necessità di studiare le lin-
gue vive e di portare l’esperienza di questo studio anche nel lavoro di
ricostruzione preistorica. Insorgevano contro la baldanza della nuova
scuola il Curtius, Johannes Schmidt, lo Schuchardt. E quando, con la
traduzione dell’Einleitung di B. Delbrück compiuta da Pietro Merlo,222
219
iPer il Biondelli vedi sopra, p. 349. Il Nigra, nella prefazione alle Glossae Hibernicae vete-
res codicis Taurinensis (Parigi 1869, p. xxxii), formulò molto nettamente la tesi del sostrato fone-
tico: «Dum Celtae a Romanis glossarium et grammaticam mutuantur, propriam phonologiam
servaverunt. Latinam linguam accomodaverunt legibus Celticae phonologiae, propriis, ut ita
dicam, organis propriaeque pronuntiationi». Egli aveva iniziato anche il lavoro di edizione del-
le glosse ambrosiane, ma preferì che lo continuasse l’Ascoli (cfr. «Arch. glottol.» V, prefazione).
220
i«Arch. glottol.» V, 1878.
221
iDopo le Lezioni del ’70, a cui abbiamo già accennato (p. 310 sg.), vedi Studj critici, II,
Roma-Torino 1877, p. 17; «Riv. di filol.» X, 1881, p. 49 sg.
396 X. Carlo Cattaneo e Graziadio Ascoli
guito dal Gilliéron, portato alle estreme conseguenze dal Vossler e dal
Bertoni, implica una concezione della realtà – e del linguaggio in par-
ticolare – più o meno marcatamente idealistica.* Comune a tutti que-
sti studiosi, benché poi si esprima in forme assai diverse, è lo sforzo di
concepire i fatti linguistici come fatti «spirituali», di separare la lin-
guistica dalle scienze naturali e di avvicinarla alla filologia e addirit-
tura alla critica letteraria.227 Nulla di ciò nell’Ascoli: egli rimase sem-
pre convinto che la linguistica fosse una scienza naturale, affine, per
il metodo e l’oggetto delle sue ricerche, all’anatomia comparata e al-
l’antropologia assai più che alla filologia.228 E ancora: dallo Schuchardt
in poi, è stata sempre più forte nella linguistica idealisteggiante la ten-
denza a dimostrare l’impossibilità di qualsiasi classificazione, a risol-
vere l’unità della lingua nella molteplicità delle singole isoglosse o
addirittura dei singoli linguaggi individuali. L’Ascoli criticò anch’egli,
come sappiamo, lo schematismo di certe classificazioni schlegeliane e
biondelliane,229 ma non pensò mai a mettere in dubbio la realtà obiet-
tiva delle lingue e delle famiglie di lingue: basti ricordare il tono risen-
tito e, potremmo ben dire, scandalizzato con cui respinse i dubbi di Paul
Meyer sull’unità del franco-provenzale, proprio perché gli sembrava
227
iSo bene che tra le posizioni di uno Schuchardt e quelle degli idealisti vi è una notevole
differenza, come ha messo bene in rilievo G. Nencioni, Idealismo e realismo nella scienza del lin-
guaggio, Firenze 1946 **. Ma qui si tratta di indicare delle tendenze generali.
228
iSu questo punto ha perfettamente ragione Clemente Merlo, art. cit., p. 592 sgg. Espres-
sioni naturalistiche («anatomia delle lingue», «paleontologia della parola», «istoria naturale del-
la parola», «organismo ariano», e via dicendo) sono frequentissime nell’Ascoli, come nello Sch-
leicher e già nel Rask e nel Bopp. Quanto alla netta distinzione che egli poneva tra glottologia
e filologia, vedi specialmente la sua polemica col Lignana in Studj critici, II, p. 45 sg. e la nota a
p. XXXVI del primo volume dell’«Archivio». Anche il Terracini, del resto, riconosce giusta-
mente che «egli scorse sempre un abisso fra arte e lingua, fra scienza della letteratura e scienza
della parola, ed il mirare ad un’intima fusione della linguistica e della filologia gli parve per lo
meno una funesta esagerazione» («Arch. glottol.» XIX, 1923-25, p. 149). In questo l’Ascoli era
perfettamente d’accordo con lo Schleicher (Die Deutsche Sprache2, p. 119) e con Max Müller,
mentre un avvicinamento tra le due discipline era stato propugnato dal Curtius e dallo Steinthal.
229
iVedi sopra, pp. 347, 349.
*iScriveva il Terracini (art. cit., p. 86 n. 1): «Accade così al T. {Timpanaro} di porre Schu-
chardt in un fascio con la linguistica idealisticheggiante, e Gilliéron in compagnia di Vossler e
di Bertoni senza tutte le cautele che sarebbero state necessarie». Vorrei precisare che in verità
io parlo di un «indirizzo iniziato dallo Schuchardt, proseguito da Gilliéron, portato alle estreme
conseguenze dal Vossler e dal Bertoni»: indico abbastanza chiaramente, dunque, le differenze,
pur nei limiti di un rapido accenno. Poco sotto aggiungo che la tendenza antinaturalistica si
esprime in questi studiosi «in forme assai diverse», e ancora in nota preciso: «So bene che tra
le posizioni di uno Schuchardt e quelle degli idealisti vi è una notevole differenza ...». Non mi
sembra, dunque, di «porre in un fascio» tutti questi studiosi.
398 X. Carlo Cattaneo e Graziadio Ascoli
230
iPaul Meyer e il franco-provenzale, in «Arch. glottol.» II, 1876, p. 385 sgg. Cfr. N. Mac-
carrone in Silloge, p. 309 sgg.
231
iIl tono personalistico è ancor più accentuato in alcune lettere private, per esempio in quel-
la al Brugmann pubblicata da D. Găzdaru, art. cit., p. 253. Vedi anche ibid., pp. 257 sg. e 290 sgg.,
le risposte, indubbiamente giuste, del Brugmann e di J. Schmidt a talune eccessive pretese del-
l’Ascoli.
232
iAncora nella prefazione al vol. XI dell’«Archivio» (1890, p. VII), a polemica ormai con-
clusa, egli osservava: «Le innovazioni, alle quali di qua dall’Alpi siam riusciti (prima dei neo-
grammatici), importavano un rimutamento del metodo». Il Pedersen (Linguistic Science in the xix
Century, Cambridge Mass. 1931, p. 279) considera giustamente le Lezioni di fonologia dell’A-
scoli come una delle opere che prepararono l’avvento della scuola neogrammatica.
X. Carlo Cattaneo e Graziadio Ascoli 399
233
iDi «leggi fisiche e meccaniche» parla il Bopp proprio all’inizio della prefazione alla Ver-
gleichende Grammatik (vedi la sua ulteriore precisazione nell’ed. francese, Gramm. comparée etc.,
trad. Bréal, I, Parigi 1866, p. 1).
234
iB. Delbrück, Einleitung in das Sprachstudium, Lipsia 1880, p. 119: «Wenn wir hier ...
absehen von den etwaigen Einwirkungen des Klimas, über die ich nichts Bestimmtes aussagen
kann, so ist es klar, dass die Veränderungen in der Aussprache bei dem Einzelnen beginnen und
sich von da zu den Mehreren und den Vielen durch Nachahmung von Seiten dieser fortpflan-
zen. Der letzte Grund aller Sprachveränderung kann also nur darauf beruhen, dass der Einzel-
ne die ihm überkommene Sprache nicht genau so weiter giebt wie er sie erhält, sondern das
Überlieferte, sei es aus Bequemlickeit, sei es aus einem ästhetischen Triebe, sei es weil sein Ohr
trotz aller Anstrengung nicht genau genug auffasst und sein Mund nicht genau genug wieder-
giebt, sei es aus welchem Grunde immer, i n d i v i d u a l i s i e r t».
235
iK. Brugmann, Zum heutigen Stand der Sprachwissenschaft, Strasburgo 1885, p. 49; H. Paul,
Prinzipien der Sprachgeschichte3, Halle 1898, p. 58 sg. (con un tentativo di spiegazione statistica
di tale mutamento fonetico simultaneo). Ma nel Grundriss, I2, Strasburgo 1897, p. 63, il Brug-
mann ammetteva entrambe le tesi: «Der sogen. lautwandel pflegt von einzelnen Individuen, von
einem, örtlich oder social beschränkten, kleinen Kreis von Sprechenden auszugehen».
400 X. Carlo Cattaneo e Graziadio Ascoli
236
i«Riv. filol.» X, 1881, p. 46.
237
iIbid.
238
iIbid., e «Arch. glottol.» X, 1886, p. 76.
239
i«Riv. filol.» X, p. 43. Nell’escludere l’influsso del clima, l’Ascoli si trovava d’accordo col
Cattaneo (cfr. qui sopra, nota 189), col Biondelli e con gli stessi neogrammatici. Tuttavia egli
stesso, a proposito della tendenza alla sonorizzazione delle occlusive sorde che si riscontra nei
dialetti dell’Italia meridionale, in neogreco e in albanese, aveva parlato una volta di «alterazio-
ne isotermica» («Arch. glottol.» VIII, 1882-85, p. 113), e ribadì questa sua spiegazione nella ter-
za «lettera glottologica» («Arch. glottol.» X, p. 22).
X. Carlo Cattaneo e Graziadio Ascoli 401
potea dal loro stromento orale esser facilmente riprodotto se non per
düro», ecco che questo mutamento fonetico doveva compiersi neces-
sariamente in t u t t o il territorio della Gallia romanizzata, ogni vol-
ta che un Gallo prendeva a parlar latino; esso poteva dunque a buon
diritto esser chiamato «legge fonetica».240
Perciò la teoria del sostrato, respinta dapprima dall’Ascoli (come
dallo Schleicher) sotto l’accusa di turbare, con l’intrusione di elemen-
ti «esterni», la regolarità dell’evoluzione linguistica,241 ammessa poi in
via subordinata, per spiegare le «eccezioni», le anomalie di sviluppo
del linguaggio, diventava ora la massima garante dell’ineccepibilità
delle leggi fonetiche, la salvatrice della scientificità della glottologia.
E diventava anche il principale titolo di originalità della «scuola ita-
liana», da contrapporre alle orgogliose asserzioni dei neogrammatici.
Dimenticando ciò che egli stesso aveva scritto in Lingue e nazioni, l’A-
scoli esprimeva il suo stupore «nel veder così stranamente trascurati»
dai neogrammatici i «motivi etnologici nelle trasformazioni del lin-
guaggio», e osservava: «Pare che non entri pur nella loro imaginazio-
ne un caso come quello dell’ü che l’abitudine orale di tutt’intiero un
popolo avrebbe pressoché contrapposto a ogni u nitido e accentato che
era proposto nella parola romana all’imitazione sua».242
Qui si vede ancor meglio ciò che distingueva la polemica ascoliana
contro i neogrammatici dalla polemica che in quel medesimo tempo
conduceva contro di essi lo Schuchardt, il quale sarebbe stato poi
seguito da altri studiosi orientati ancor più decisamente in senso idea-
listico. L’Ascoli non accusava i neogrammatici di scientismo, di disco-
noscimento dei fattori individuali nello sviluppo storico del linguag-
gio, ma anzi di pericolosa sopravvalutazione di tali fattori, e quindi
di scarsa scientificità. C’era senza dubbio da parte sua un certo com-
piacimento nel far vedere come i più accesi fautori delle leggi foneti-
240
i«Riv. filol.» X, p. 23; cfr. p. 43 sgg.; «Arch. glottol.» X, p. 21 sg. Già nel 1878, appena
iniziatesi le polemiche pro e contro i neogrammatici, aveva scritto («Arch. glottol.» III, p. 253,
n. 1): «Molti si meravigliano della regolare costanza che s’avverte nelle evoluzioni fisiche della
parola, o, in altri termini, dell’esistenza delle leggi fonetiche. Ma le cause delle principali ridu-
zioni sono veramente etnologiche, cioè dipendono da predisposizioni orali, le quali inducono a
divariazioni costanti di quell’entità fonetica che uno strato storico assume dall’altro».
241
iVedi sopra, pp. 382-383, 385-386.
242
i«Riv. filol.» X, pp. 13 sg., 45. Vedi anche la seconda «lettera glottologica», dedicata al
sostrato osco-umbro (Di un filone italico, diverso dal romano, che si avverta nel campo neolatino),
in «Arch. glottol.» X, 1886, p. 1 sgg.
402 X. Carlo Cattaneo e Graziadio Ascoli
un influsso del Nigra sull’Ascoli appare assai probabile (cfr. qui sopra, nota 219), non del tutto
sicura mi sembra la derivazione del Nigra dal Cattaneo, affermata dal Santoli e dal Cocchiara
negli scritti ora citati. Abbiamo visto che la teoria del sostrato era già largamente diffusa in Ita-
lia e fuori; e il Cattaneo, tra i fautori del sostrato, era stato proprio quello che meno di tutti lo
aveva inteso in senso biologico.
246
iW. D. Whitney, La vita e lo sviluppo del linguaggio, trad. D’Ovidio, Milano 1876, pp. 4,
10 sg. Il Whitney, come è noto, combatteva la concezione del linguaggio come organismo e del-
la linguistica come scienza naturale, sostenuta dallo Schleicher e (in forma più brillante, ma assai
meno coerente) da Max Müller.
247
iStudj critici, II, Roma-Torino 1877, p. 17. Per quella precisazione «massime nelle condi-
zioni di civiltà ecc.» cfr. qui sopra, p. 384.
248
i«Riv. filol.» X, p. 44 n., dove il Whitney è citato esplicitamente. Scrive il Pisani (in «Pai-
deia» IV, 1949, p. 308): «I Neogrammatici tentarono di tirar dalla loro il principio ascoliano,
dal suo autore diretto contro di essi, scorgendo nell’influsso del sostrato il puro reagire di pre-
disposizioni fisiologiche di singole nazioni». No: era proprio l’Ascoli a interpretare così la teo-
ria del sostrato, e a trovare i neogrammatici troppo psicologi e troppo poco fisiologi! Vedi anche
più sotto, nota 254.
249
iIn «Literaturblatt für german. und roman. Philologie» VIII, 1887, col. 12 sgg., special-
mente 14.
404 X. Carlo Cattaneo e Graziadio Ascoli
250
iVedi soprattutto B. Terracini, Sostrato, in Scritti in onore di A. Trombetti, Milano 1938,
p. 321 sgg. (e già Paleontologia ascoliana e linguistica storica, in Silloge, pp. 649, 653). Beninte-
so, la finezza e l’intelligenza delle molte osservazioni storiche concrete che si trovano in questi
due saggi possono e devono essere apprezzate anche da chi non ne condivida l’impostazione
generale idealistica.
251
iVedi i passi del Terracini citati qui sopra, nota 226, e il suo articolo sul Sostrato (cit. alla
nota precedente), p. 322 sg.
*iVedi, a p. 92 dell’art. cit. del Terracini, l’appassionata rivendicazione che egli fa della deri-
vazione ascoliana della sua «teoria individualistica del sostrato». Parlando di «filosofizzazione»
del concetto di sostrato, io intendevo accennare a quel processo mentale, caro all’idealismo ita-
liano, per cui si dimostra che un concetto empirico, se lo si vuol pensare rigorosamente, deve
perdere la sua finitezza e identificarsi col Tutto (o, comunque, con categorie più ampie, che si
pretenderebbero non empiriche ma «pure»). Ma non ho mai disconosciuto la schiettezza e la
profondità dell’interesse del Terracini per l’Ascoli (cfr. pp. 396, {la n. 250 qui sopra}, 426). {La
postilla vale anche per la p. 422 – N. d. C.}.
X. Carlo Cattaneo e Graziadio Ascoli 405
252
iDie deutsche Sprache, 3a ed., Stuttgart 1874, p. 119 sgg. Sulla formazione hegeliana dello
Schleicher (della quale egli non si liberò neppure quando divenne materialista) cfr. E. Cassirer,
Philosophie der symbolischen Formen, 2a ed., I, Oxford 1954, p. 109 sgg. Un analogo accozza-
mento di hegelismo e materialismo (ma meno stridente) si trova nel biologo e filosofo Jakob
Moleschott.
253
i«Riv. filol.» X, p. 46; lettera al Brugmann pubbl. dal Găzdaru in «Anales de filología clá-
sica» IV, 1949, p. 253.
254
iVedi il violento sfogo contro la «gazzarra psicologica» in «Riv. di filol.» X, pp. 9-12. Il
Brugmann, in una lettera all’Ascoli (pubbl. dal Găzdaru, art. cit., p. 256), ribadiva che questo era
il principale punto controverso. Cfr. B. Terracini in «Arch. glottol.» XLI, 1956, pp. 91 e 149.
406 X. Carlo Cattaneo e Graziadio Ascoli
259
i«Arch. glottol.» X, p. 83 sg. (è la chiusa della nota sulle Fono-nomie; e vedi anche la nota
seguente sulle Cause inavvertite).
260
iDico «o quasi», perché, in confronto alla prima Lettera glottologica, nella nota sulle Fono-
nomie la fede dell’Ascoli nell’assoluta regolarità dei mutamenti fonetici dovuti al sostrato appa-
re un po’ scossa. Egli riafferma, sì, il carattere «istantaneo» e generale di tali innovazioni, ma
ammette che esse possano presentare diverse gradazioni d’intensità (p. 75 sg.).
261
i«Arch. glottol.» I, p. 477. L’Ascoli allude probabilmente ad un abbozzo inedito del Cat-
taneo su questo dialetto (carte Cattaneo, Milano, museo del Risorgimento, cartella 18, plico 3),
che egli, facendo parte del comitato per l’edizione degli scritti cattaneiani, aveva potuto vedere.
408 X. Carlo Cattaneo e Graziadio Ascoli
In una nota alla prima «lettera glottologica» ricordò, tra i fautori del-
la teoria del sostrato, lo Schuchardt, il Miklos#ic! e soprattutto il
Nigra;262 a proposito della «ü celtica», osservò che «molto prima che
l’indagine scientifica venisse a tentare queste connessioni ..., se ne
aveva tra noi come una persuasione tradizionale»;263 nel famoso arti-
colo su L’Italia dialettale citò fra i suoi predecessori il Biondelli:264 non
il Cattaneo. La tesi dello scarso numero sia degli invasori indeuropei,
sia degli aborigeni, già sostenuta dall’Ascoli in Lingue e nazioni, è riaf-
fermata nella prima «lettera glottologica»;265 ma l’Ascoli tace che essa
era una variante di una tesi del Cattaneo. E ancora per dieci anni dopo
la fine della polemica coi neogrammatici il nome del Cattaneo non
compare mai negli scritti glottologici ascoliani, nemmeno là dove si
accenna alla teoria del sostrato e alla sua varia fortuna.266
Non è facile indovinare il motivo di questo lungo silenzio. È vero
che negli anni immediatamente seguenti alla morte il Cattaneo fu qua-
si del tutto dimenticato in Italia;267 ma l’Ascoli, come è dimostrato dal
suo atteggiamento successivo, non era uomo che tacesse per confor-
mismo. Sembra anche da escludersi che egli non considerasse il Cat-
taneo abbastanza «linguista» in senso professionale per poterlo citare
in pubblicazioni scientifiche: un simile motivo gli avrebbe impedito di
citare anche il Marzolo; e invece negli Studj critici ci tenne a ricorda-
re i Monumenti storici rivelati dall’analisi della parola, «opera condotta
con mezzi inadeguati, ma con oltrepotenza d’ingegno», e ad esprime-
re questo alto riconoscimento: «Il Marzolo era di certo anche per me
un vero eterodosso; ma un eterodosso geniale, poderoso, michelan-
giolesco, dinanzi al quale dovevamo tutti inchinarci».268
Si potrà forse supporre che il ricordo delle antiche divergenze abbia
lasciato nell’animo dell’Ascoli un certo imbarazzo difficile da superare?
Che gli sia occorso molto tempo per poter parlare degli studi lingui-
stici del Cattaneo con piena serenità? L’ipotesi non sembrerà assurda
262
i«Riv. di filol.» X, 1881, p. 43, n. 1. Sul Nigra vedi anche qui sopra, note 219 e 245.
263
iIbid., p. 20 n.
264
i«Arch. glottol.» VIII, p. 127.
265
i«Riv. di filol.» X, p. 51.
266
iPer esempio in «Arch. glottol.» XI, 1890, p. X: «I sostenitori dell’importanza dei moti-
vi etnologici, ch’erano poche persone al primo apparire dell’Archivio glottologico, oggi si avvia-
no a formar legione».
267
iVedi P. C. Masini in «Riv. stor. del socialismo» II, 1959, p. 524 sg.
268
iStudj critici, II, Roma-Torino 1877, p. 42 n. Cfr. qui sopra, pp. 379-380.
X. Carlo Cattaneo e Graziadio Ascoli 409
269
iAtti parlamentari, Senato, Discussioni, 17 giugno 1897 (XX legisl., 1a sessione, pp. 686 sgg.)
[intervento ricordato da Gramsci, art. nell’Avanti! del 2 febbr. 1917, ora in Scritti giovanili, Tori-
no 1958, p. 69] **.
410 X. Carlo Cattaneo e Graziadio Ascoli
difesa del Ciccotti due memorabili lettere aperte,270 che, in quel cli-
ma di feroce reazione, gli costarono incomprensioni e ostilità.271 Non
è ammissibile, dicevano i reazionari, che sia insegnante statale un
socialista, cioè un nemico delle istituzioni statali.272 L’Ascoli rispon-
deva: «Non usurpa l’altrui, non ricorre insidiosamente alla carità di
nessuno, il socialista che ottiene la catedra per il merito che gli è legal-
mente riconosciuto e la ottiene a test’alta, senza punto nascondere la
sua fede politica, sicuro quando pur sia che la confessione gli costi di
andar classificato più o meno avaramente. Egli non è vincolato da
alcun giuramento e vive in coerenza perfetta. Se è d’uopo che nell’in-
segnamento a lui affidato si ripercuotano i principj della sua fede poli-
tica, egli naturalmente non li rinnega; e la vita e la scuola non sono
allora per lui se non due aspetti diversi di uno stesso apostolato. Si cre-
dono fallaci i suoi principj? La maggioranza ortodossa li confuterà. Ma
anche potrà accadere che l’ortodossia poco o molto si trasformi in que-
sto cimento, razionale insieme e necessario ...».
270
iIntorno alla condizione del prof. Ciccotti nella scuola, lettera del prof. Ascoli al direttore del
Corriere della sera, opuscolo datato 28 marzo 1897; e Il professore socialista, lettera aperta ad
Arturo Graf, nel «Pensiero italiano» fasc. 82, ottobre 1897 (stampata anche a parte). Da que-
st’ultima (pp. 4-6) sono tratte le nostre citazioni.
271
iA questo episodio l’Ascoli alludeva soprattutto, quando, in occasione delle onoranze tri-
butategli, diceva: «Ho io, nella mia povertà, variamente combattuto, per la libertà, la dignità,
la purità della Scuola ... e ho volentieri sfidato, in questi intenti, i pregiudizj politici, o quei
pudori di parte, sotto ai quali si può appiattare tanta brutta mercanzia» (Onoranze a Graziadio
Ascoli, Milano 1901, p. 16). E il Pullè (Graziadio Ascoli, ricordi, Bologna 1907, p. 11 sg.) gli scri-
veva: «Voi vi faceste, nei giorni dello sgomento e delle aberrazioni reazionarie, scudo alla verità,
sostegno alla fiducia dei buoni e alle speranze dei perseguitati», e ricordava che nell’estate del
’98, trovandosi sul Monte Generoso della Svizzera italiana, l’Ascoli aveva ospitato e conforta-
to alcuni esuli, sfuggiti alla repressione dei moti di Milano. Tra questi vi era il Ciccotti stesso
(vedi il suo libro Attraverso la Svizzera, Palermo 1899, p. XXXIV). Sulle posteriori oscillazioni
politiche del Ciccotti non è qui possibile soffermarsi. Gli indubbi lati positivi della sua discutibile
e discussa opera di storico sono messi bene in luce da A. Momigliano, Contributo alla storia degli
studi classici, p. 281 sg. Cfr. ora anche P. Treves, L’idea di Roma ecc., Milano 1962, p. 221 sgg.,
e A commemorazione di E. Ciccotti, in «Athenaeum» XLI, 1963, p. 356 sgg.*
272
iTra coloro che argomentavano così vi era il capo della consorteria moderata lombarda,
Gaetano Negri. Cfr. la sua lettera a Turati in Filippo Turati attraverso le lettere di corrispondenti
a cura di A. Schiavi, Bari 1947, p. 151 sg., e la risposta di Turati, ibid., p. 154 sgg.
*iClaudio Cesa mi segnala un altro notevole documento, di poco posteriore, dell’impegno
dell’Ascoli a favore del Ciccotti e contro le persecuzioni antisocialiste: la lettera di solidarietà
che egli scrisse al Ciccotti il 16 giugno 1899, quando questi fu incriminato, in seguito ad un arti-
colo, per «eccitamento all’odio tra le classi sociali». La lettera è pubblicata nel volume del Cic-
cotti, Sulla questione meridionale, Milano 1904, p. 98 sg. La polemica del 1897 è ricordata da
Gramsci in un articolo del 1917 **, ora in Scritti giovanili, Torino 1958, p. 69 (una nuova edi-
zione ampliata di questi scritti sarà pubblicata prossimamente da Sergio Caprioglio).
X. Carlo Cattaneo e Graziadio Ascoli 411
273
i«Le aspirazioni dei socialisti genuini – scriveva l’Ascoli – sono poi tali, che in tutto o in
parte potranno bensì dar nel fantastico, ma provengono pur sempre dalla sete e dal bisogno d’una
giustizia, la quale nessuno osa affermare che esista o regni». Cfr. anche il passo citato qui sotto,
alla nota 316.
274
iPer questo episodio cfr. C. Cattaneo, Epist. IV, pp. 63 n. 3, 91 sg.
275
iIl professore socialista, p. 2: «Io naturalmente vi parlo ... da quel povero zelatore delle
vigenti istituzioni che assai tenacemente sono sempre stato e rimango». Cfr. il discorso per le
onoranze, nell’opuscolo Onoranze a Graziadio Ascoli, Milano 1901, p. 16: «... ligio pur sempre
qual mi sono sentito a quei giuramenti, che per quattro volte mi hanno ormai sacrato alla patria
insieme ed al Re».
412 X. Carlo Cattaneo e Graziadio Ascoli
più aperto di quello assunto dal Cattaneo tanti anni prima.276 Ma que-
sta sua evoluzione dal liberalismo moderato degli anni giovanili a posi-
zioni democratiche era stata certamente favorita dalla consuetudine
col pensiero del Cattaneo.277 Del resto, negli ultimi decenni dell’Ot-
tocento tutta la scuola cattaneiana (Gabriele Rosa,* Alberto e Jessie
Mario, Arcangelo Ghisleri) aveva sempre più riconosciuto l’urgenza
delle rivendicazioni sociali, pur con una perdurante diffidenza verso
le soluzioni collettivistiche e con nostalgie di liberismo puro. Nei ri-
guardi, poi, della borghesia reazionaria di fine Ottocento – coloniali-
sta, militarista, negatrice delle autonomie locali –, e perfino nei riguar-
di di alcuni pseudogiacobini filocolonialisti come il Bovio, i socialisti
e i cattaneiani avevano in comune molti motivi di polemica immedia-
ta.278 Il ricordo del Cattaneo, perciò, s’inseriva bene nel contesto del-
la lettera al Graf, e si spiega così il tono particolarmente vibrato con
cui l’Ascoli ricordava il grande politico e pensatore.
276
iSull’antisocialismo del Cattaneo cfr. sopra, pp. 368-369 n. 132, e le opere ivi citate.
277
iSulla posizione politica dell’Ascoli giovane cfr. «Annali della Scuola Normale» 1959,
p. 155. Vedi anche qui sopra, pp. 372, 391.
278
iSul pensiero politico di Gabriele Rosa e sui suoi rapporti coi socialisti vedi in particolare
P. C. Masini in «Riv. stor. del socialismo» II, 1959, p. 515 sgg. Sulla polemica anticolonialista
del Ghisleri (che si rifaceva esplicitamente al Cattaneo, ripetendone alla lettera alcune espres-
sioni) cfr. R. Battaglia, La prima guerra d’Africa, Torino 1960, p. 332 sgg.*
279
iXIIe Congrès des Orientaliste, Bulletin n. 12, Discours de M. Ascoli (in italiano).
*i{Cfr. precedente postilla alla n. 146 – N. d. C.}.
*i{Cfr. precedente postilla alla n. 146 – N. d. C.}.
X. Carlo Cattaneo e Graziadio Ascoli 413
gini delle radici, i rapporti tra due diverse famiglie di lingue, e altret-
tali, che le mettono paura». Effettivamente in questa avversione per
i problemi glottogonici confluivano due motivi diversi: da un lato un
giustificato scetticismo, una sazietà di tante ipotesi e discussioni ba-
sate su dati troppo scarsi; dall’altro un’aprioristica negazione della
legittimità stessa di questi problemi, poiché, dicevano i restauratori
dell’idealismo, il linguaggio è «categoria eterna», e si può quindi ricer-
carne solo la genesi ideale, non l’origine nel tempo.280 Con argomenti
dello stesso genere, come è noto, si cercò di svalutare anche il darwi-
nismo, o qualsiasi altra ipotesi tendente a spiegare l’origine dell’uomo.
Bisogna perciò andare adagio nell’esaltare senz’altro l’abbandono del-
le ipotesi glottogoniche come una prova di maturità e di accresciuta
consapevolezza metodica della linguistica di fine Ottocento, e nel tac-
ciare di arretratezza chi, come l’Ascoli, si rifiutava di sanzionare que-
sto abbandono.
Ma insieme a questa polemica contro le nuove tendenze, la quale
si riallacciava alle «Lettere glottologiche», risuonava nel discorso del-
l’Ascoli anche un rimpianto personale. «Non mi è mancato – egli dice-
va – il tempo di fare qualcosa. Ma sono sempre stato agitato da trop-
pi desiderî, e ne venne che la qualunque opera mia ne risultasse come
dispersa in saggi eterogenei e frammentarî». E tra questi desideri,
quello di indagare l’origine del linguaggio e la formazione dei grandi
gruppi linguistici era stato «forse il più fervoroso, benché fosse uno di
quelli cui paressi attender meno». C’era dunque in lui, giunto ormai
vicino al termine della propria carriera di studioso, quasi una nostal-
gia dei suoi interessi giovanili che egli aveva poi sacrificato all’esigen-
za di non perdersi in vane speculazioni, di lavorare e far lavorare sul
solido.281 Nel secondo periodo dei suoi studi, quando si era concentra-
280
iCosì il Croce (Problemi di estetica, 3a ed., p. 200 sgg.), polemizzando contro il Trombet-
ti. Ma già l’hegeliano ortodosso Augusto Vera (Introd. alla filosofia della storia, Firenze 1869, p.
369) aveva obbiettato al Lignana che «l’origine delle lingue non sta nel fatto storico, in una lin-
gua primitiva, ma nell’idea». Aver confutato (pur all’interno di una concezione idealistica della
realtà) questi presuntuosi sofismi è merito di Giorgio Fano: vedi il suo Saggio sulle origini del
linguaggio, Torino 1962, p. 24 sg.
281
iVedi ciò che aveva scritto nel proemio all’«Archivio glottologico» (I, 1873, p. XXXVIII):
«La verità pratica è finalmente, che l’indagator severo ha per ora, e avrà per molto tempo, trop-
po di meglio da fare e da scoprire, perché gli avanzi tempo o voglia di avventurarsi, comunque
vi si possa trovare preparato, all’improbo mestiere delle soluzioni ipotetiche, le quali in sé con-
tengano, alla lor volta, dei problemi imaginarj».
414 X. Carlo Cattaneo e Graziadio Ascoli
282
iDiscorso cit., p. 6.
283
iAbbiamo già avvertito che la lettera porta la data del settembre 1898 e che fu scritta sul
Monte Generoso nella Svizzera italiana: cioè in luoghi pieni di ricordi del Cattaneo e in un
momento politico particolare (cfr. qui sopra, nota 271). Non mi sono noti i motivi per cui l’A-
scoli la pubblicò con due anni di ritardo; ma forse nel ’98 la «Nuova Antologia» non avrebbe
accolto un così caldo omaggio al pensatore repubblicano.
284
iOltre che di problemi etnologici, si occupò di letteratura indiana e di dialetti italiani; fu
professore di filologia indoeuropea a Padova e a Bologna (cfr. A. De Gubernatis, Francesco L.
Pullè, Firenze 1906). Negli anni di fine Ottocento il suo orientamento politico era radicale, ma
sempre più decisamente favorevole ai socialisti: vedi le sue lettere al Cavallotti nel volume L’I-
talia radicale: carteggi di F. Cavallotti a cura di L. Delle Nogare e S. Merli, Milano 1959, pp.
311-317 (a p. 311 è chiamato per errore Francesco Leopoldo anziché Francesco Lorenzo).
285
iVedi in particolare il suo Profilo antropologico dell’Italia, Firenze 1898, pp. 61 sgg., 65 sg.
Alla lettera aperta dell’Ascoli egli rispose con due diverse lettere: una, di carattere più persona-
le ed immediato, che egli poi pubblicò nell’opuscoletto Graziadio Ascoli, ricordi, Bologna 1907,
p. 11 sgg. (vedi qui sopra, nota 271); l’altra, più elaborata stilisticamente e più «scientifica» per
il contenuto, nella Miscellanea linguistica in onore di G. Ascoli, Torino 1901, p. 575 sgg. Qui egli
portava argomenti a favore della tesi dell’esiguità numerica delle immigrazioni preistoriche, e
accentuava (d’accordo con l’Ascoli e col Nigra più che col Cattaneo) l’aspetto razziale del sostra-
X. Carlo Cattaneo e Graziadio Ascoli 415
loro influsso, venti anni più tardi, nella sua opera complessiva su L’I-
talia: genti e favelle,286 ma mescolate a venature di retorica nazionalista
ben diversa dal patriottismo risorgimentale a cui l’Ascoli aveva tenuto
fede.
Nonostante il tono appassionatamente autobiografico, la lettera al
Pullè è qualche cosa di più che una «confessione». Essa contiene un
giudizio acuto e preciso sul Cattaneo storico, sulla molteplicità e
novità d’interessi che egli portò nei suoi studi etnografici, sul suo spi-
rito scientifico che ce lo fa apparire così vivo e moderno in confronto
a certi suoi pur illustri contemporanei come il Balbo e il Gioberti.
L’Ascoli vede bene la natura, intellettuale e politica insieme, del
disprezzo del Cattaneo per i moderati;287 accenna ai «poveri livori del-
la saccenteria e della politica» che hanno contribuito a fare il silenzio
attorno all’opera del Cattaneo; e quanto a se stesso, proclama: «Io
sono un poverissimo esempio di quelle menti che, in ispecie nelle con-
trade orientali dell’Italia superiore, il genio di Cattaneo ha sin dai loro
inizi giovanili invasato per sempre».
Il fatto che, come adesso sappiamo, la devozione dell’Ascoli al Cat-
taneo non sia stata fin dai primi anni così assoluta come apparirebbe
da queste dichiarazioni, non diminuisce il loro valore. Anzi, per chi
ricordi i dissapori tra l’Ascoli giovane e il Cattaneo, la lettera al Pul-
lè suona, in molti punti, come un’implicita autocritica. Leggendo, per
esempio, le parole dell’Ascoli: «L’invidia ha tentato di stremare i
meriti del Cattaneo, facendone un fortunato ricercatore di periodici
e libri stranieri ...»,288 non si può non ricordare che l’Ascoli stesso, in
quella prolusione del ’61 che al Cattaneo era tanto spiaciuta,289 lo ave-
va messo fra coloro che avevano cercato di «accattare» dall’estero – e
spesso, per di più, con esito infelice – qualche nozione di glottologia.
to (p. 593: «Ai diametri e alla forma del capo corrispondono forma e diametri del palato» e simi-
li). Cfr. anche il suo saggio sul Cattaneo come antropologo e come etnologo in «Archivio per l’an-
tropologia e l’etnologia» XXII, 1902, p. 157 sgg. ( = C. Cattaneo, Scritti politici ed epistolario,
III, Proemio).
286
iTorino 1927: vedi specialmente II, pp. 18 sgg., 252.
287
iLett. cit., p. 638: «Il sentimento della superiorità sterminata per la quale egli prevaleva,
nella speculazione storica, a scrittori pur tanto insigni com’erano il Gioberti e il Balbo, quanta
parte non avrà esso avuto, dopo i disastri del ’48, negl’impeti danteschi dell’Uomo delle Cin-
que Giornate!».
288
iIbid., p. 639.
289
iVedi sopra, p. 378 sg.
416 X. Carlo Cattaneo e Graziadio Ascoli
290
iSopra, pp. 378-379.
291
iVedi p. 384 sg.
292
iLett. cit., p. 637.
X. Carlo Cattaneo e Graziadio Ascoli 417
E anche qui, come nel discorso del 1899, il ricordo del Cattaneo era
collegato ad un rinnovato interesse per i problemi glottogonici. Con
un artifizio letterario che può farci sorridere per la sua ingenuità
(eppure, com’è bello, in complesso, questo scritto anche dal punto di
vista letterario! Come l’ingenuità compositiva è trascesa dal calore
umano e dalla limpidezza del ragionamento!), l’Ascoli narrava di aver
conversato in sogno col Cattaneo sul problema della monogenesi o
poligenesi del linguaggio. Sappiamo già che il Cattaneo era fautore di
un poligenismo di numerosi piccoli gruppi: che la maggior parte dei
linguisti dell’Ottocento sostenevano un poligenismo di pochi grandi
gruppi: che i monogenisti erano quasi tutti legati a principii religiosi
o umanitari, ed erano perciò disprezzati dai «laici» poligenisti (i qua-
li d’altra parte, con poche eccezioni tra cui il Cattaneo, manifestava-
no pericolose inclinazioni per il colonialismo e il razzismo). L’Ascoli
già nell’introduzione agli Studj orientali e linguistici si era dichiarato
monogenista, distinguendosi in pari tempo dai religiosizzanti per la
sua esplicita affermazione dell’origine umana del linguaggio.293 In coe-
renza con questa sua posizione, egli aveva criticato, come vedemmo,
le rigide classificazioni degli Schlegel e del Biondelli, e si era accostato
soprattutto a Franz Bopp, cioè all’unico tra i fondatori della lingui-
stica indeuropea che, pur non facendo aperta professione di monoge-
nismo, aveva implicitamente mostrato di simpatizzare per questa tesi.
Ma all’interno del monogenismo, un punto stava particolarmente
a cuore all’Ascoli: l’unità d’origine degli indeuropei e dei semiti. Egli
tentò di dimostrarla in due lettere aperte al Kuhn e al Bopp,294 negli
Studj âriosemitici,295 in una lunga nota dedicata ad un’amichevole
discussione con Giacomo Lignana296 [e nello Squarcio d’una lettera con-
cernente le ricostruzioni paleontologiche della parola, in Studj critici cit.,
II, pp. 22 sgg, 29 sg.] **. All’origine di questo sforzo scientifico c’e-
ra senza dubbio un motivo sentimentale: l’Ascoli sentiva intensa-
mente così il proprio ebraismo come la propria italianità ed europeità,
e teorie come quelle degli Schlegel o del Renan, che vedevano nel-
293
i«Studj orientali e linguist.» I, pp. 5 sgg. sull’origine umana del linguaggio, pp. 21 sg. sulla
monogenesi.
294
iNel «Politecnico» XXI, 1864, p. 190 sgg.; XXII, id., p. 221 sgg.
295
iPubblicati in due puntate (con numeraz. delle pagine a parte) nelle «Memorie dell’Ist.
Lombardo», classe di Lettere, X, 1867.
296
iStudj critici, II, Roma-Torino 1877, p. 51 sgg.
418 X. Carlo Cattaneo e Graziadio Ascoli
l’indeuropeo e nel semitico non solo due tipi linguistici, ma due for-
mae mentis inconciliabili, lo ferivano nell’intimo. D’altra parte, egli
aveva in comune coi suoi avversari il principio che l’affinità a t t u a-
l e di cultura e di sentimenti tra due popoli implicasse una loro comu-
nanza di o r i g i n e: per fraternizzare davvero, ariani ed ebrei dove-
vano scoprire di essere consanguinei. L’idea del Cattaneo, che l’unità
delle stirpi fosse un punto di arrivo e non di partenza, non arrivò mai
a convincerlo; anche nei contatti che indeuropei e semiti avevano avu-
to in epoca storica sulle rive del Mediterraneo egli vedeva l’indizio di
una comune origine preistorica.297 Di qui il pathos che anima i suoi
scritti dedicati a questo problema: «Sono io in preda a un’allucina-
zione – si chiede a un certo punto della lettera al Kuhn – od è questa
una importante scoverta? Giudichi Lei, e intanto mi permetta di pro-
cedere con coraggio».298 Di qui anche il dolore che dovette provare nel
veder la sua tesi respinta dal grande Schleicher e dal Lignana, trascu-
rata dalla maggior parte degli studiosi,299 e, peggio ancora, nel veder-
si confuso, lui animato da una così severa fede nella scienza, tra i
monogenisti succubi di preconcetti religiosi. «Fu detto – scriveva al
De Gubernatis – che io, seguace della Bibbia, mi sforzassi a mostrare
come la scienza delle lingue ammetteva l’unità della specie. (...) [cr]
Io non ho alcun pregiudizio o preconcetto teocratico o teosofico. Se
ne avessi, non [i]studierei [cr]. La mia teoria ario-semitica scaturisce
dagli studj di morfologia ariana».300
L’affetto verso questi studi e il rammarico per la cattiva accoglien-
za che essi avevano ricevuto durarono anche più tardi, quando poté
sembrare che, immerso nelle ricerche concrete di dialettologia roman-
za, li avesse dimenticati. In una nota alla terza «lettera glottologica»
297
iCfr. F. D’Ovidio in «Arch. glottol.» XVII, 1910-13, p. 8; B. Terracini, Guida allo stu-
dio della linguistica storica, I, p. 125.
298
i«Politecnico» XXI, p. 197.
299
iLa lettera di Schleicher è pubblicata da D. Găzdaru in «Anales de filol. clásica» V, 1950-
52, p. 104. Il Lignana, nei suoi discorsi su La grammatica comparata di Bopp (in Anniversario
Bopp, Napoli 1866) e La filologia al secolo xix (Napoli 1868), si dimostrò fautore di un’assoluta
separazione tra indeuropeo e semitico, benché nel secondo attenuasse leggermente questo pun-
to di vista (vedi anche qui sotto, nota 304, e la replica dell’Ascoli già cit. alla nota 296). Con-
trario agli scritti ascoliani si dichiarò anche Fr. Delitzsch, Studien über indogerm.-semitische Wur-
zelverwandtschaft, Lipsia 1873, p. 12 sgg. (cfr. D. Găzdaru, art. cit., p. 99 sgg.; A. Trombetti
in Silloge, p. 1 sgg.; C. Tagliavini, ibid., p. 43 sgg.).
300
iA. De Gubernatis, Cenni sopra alcuni indianisti viventi, in «Rivista europea» a. III vol. IV,
1872, p. 47. [Ora, dall’autografo di Ascoli in Breschi, AGI 58 (1973), p. 85].
X. Carlo Cattaneo e Graziadio Ascoli 419
delle specie e le tre epoche delle letterature indo-europee, Roma 1871, p. 16 sgg. Anche il Labrio-
la, come è noto, prese a prestito dalla biologia il concetto di «epigenesi» per servirsene nella pole-
mica contro i sociologi evoluzionisti. C’era in tutti questi tentativi l’esigenza giusta di afferma-
re l’originalità, l’individualità dei singoli momenti del processo evolutivo, e c’era nello stesso
tempo (come più tardi, in forma assai accentuata, nel Bergson) il pericolo di ricadere in una sor-
ta di miracolismo.
305
i«Riv. di filol.» X, p. 46, n. 1.
306
i«Arch. glottol.» X, p. 74.
307
iIbid., p. 34.
308
iLa distinzione tra i due periodi era stata affermata dall’Ascoli già negli Studj critici, II,
p. 54 sg. ( = «Politecnico» 1867): «Altre hanno potuto o dovuto essere le norme, per le quali si
venne a fissare, pur nelle ultime sue evoluzioni, codesta che è per noi la favella originale degli
X. Carlo Cattaneo e Graziadio Ascoli 421
Arj, ed altre le norme, sotto l’imperio delle quali ella poi visse e dispersa si alterò; come altra è
la vita entruterina dell’animale, ed altra quella ch’egli vive al sole». Ma allora egli non aveva
ancora pensato ad attribuire ai due diversi periodi rispettivamente le innovazioni individuali e
i fatti di sostrato. In questa nuova forma, invece, la distinzione tra i due periodi ritorna nella
terza «lettera glottologica» («Arch. glottol.» X, p. 38): «È rimota per noi la costituzione dei pri-
mi nuclei idiomatici; e la penetrazione istorica, massime quando s’eserciti intorno alle lingue del-
le stirpi autrici e altrici di larghe civiltà, mal può presumere di spingersi in sino a tali giacimen-
ti, che già non sieno il prodotto dell’incrociarsi di più filoni, variamente tra di loro diversi». Vale
a dire: i mutamenti linguistici ricostruibili con sicurezza sono quelli dovuti a mescolanza di lin-
gue diverse; essi presuppongono già avvenuta la formazione di più lingue prototipe, la quale non
può essere oggetto se non di ipotesi. Cfr. ibid., pp. 39 sg., 74.
309
iVedi sopra, pp. 384, 408.
310
iNon saprei indicare esempi del termine «unigenía» negli scritti editi del Cattaneo. Si trat-
terà di un ricordo orale dell’Ascoli? O forse l’Ascoli vuole semplicemente alludere all’ostilità del
Cattaneo per i grecismi (cfr. sopra, nota 29)?* **
*iChe l’Ascoli alluda all’ostilità del Cattaneo per i grecismi pare confermato da quanto egli
scrive poco sopra, p. 638: «L’epoca dell’homo àlalus, o, come egli avrebbe preferito di dire, del-
l’homo illoquus».
422 X. Carlo Cattaneo e Graziadio Ascoli
311
iW. H. I. Bleek, Über den Ursprung der Sprache (con prefazione di E. Haeckel), Weimar
1868; trad. it. di C. Emery, nella «Rivista Partenopea» del 1872.
*i{Cfr. precedente postilla alla p. 404 – N. d. C.}.
X. Carlo Cattaneo e Graziadio Ascoli 423
312
iLa commemorazione che del Salvioni fece nel 1922 il Parodi (ristampata in E. G. Paro-
di, Lingua e letteratura a cura di G. Folena, Venezia 1957, I, p. 60 sgg.) dà una chiara immagi-
ne delle idee politiche dell’uno e dell’altro (vedi in particolare pp. 60 n. 1, 79 sg., 85, 94 sg.). Il
Salvioni aveva professato in gioventù idee di estrema sinistra, poi si era bruscamente converti-
to (cfr. Parodi, p. 67 sgg.). Quanto al Bartoli, vedi qui sotto, note 314 e 316. È tuttavia neces-
sario riconoscere l’onestà personale di questi studiosi, i quali, a differenza di altri intellettuali
di quel periodo, non trassero per sé dal loro sciovinismo alcun vantaggio; nel caso, poi, del Sal-
vioni e del Bartoli (** come anche* del Goidánich) bisogna tener conto della loro psicologia
di italiani nati fuori dei confini e quindi particolarmente sensibili all’irredentismo. La calda uma-
nità del Bartoli è dimostrata, fra l’altro, dall’affetto che ebbe per lui Antonio Gramsci, malgra-
do l’assoluto dissenso politico. Considerazioni analoghe valgono per Clemente Merlo, che, nono-
stante il suo nazionalismo acceso, ebbe il merito di continuare a proclamare la grandezza
dell’Ascoli anche dopo l’emanazione delle leggi razziste, e di non aderire al filotedeschismo fasci-
sta (cfr. T. Bolelli, Clemente Merlo, ne «L’Italia dialettale» XXIII, 1958-59, p. XVI). Nei riguar-
di della questione ladina (vedi qui sotto, nota 315) il Merlo, a differenza del Salvioni, non si lasciò
influenzare da preconcetti politici: cfr. «L’Italia dialettale» I, 1924-25, p. 16 sgg.
313
iVedi in particolare Gli irredenti, in «Nuova Antologia», 1° luglio 1895, p. 34 sgg.: A pro-
posito dell’Università italiana in Trieste, ibid., 1° febbraio 1903; Di Niccolò Tommaseo sedicente
slavo, ne «La vita internazionale» VI, 1903, p. 65 sgg. Quest’ultimo articolo tempera e in par-
te corregge, in senso filoslavo, certe affermazioni dei precedenti. Ma già nella prolusione del
1861 (vedi sopra, nota 176) aveva esordito: «Nato e cresciuto in quell’estremo lembo del Bel
Paese, dove Italia e Slavia si confondono, e un governo pseudo-tedesco viene a inceppare le natie
favelle e la civiltà con esse ...».
*iNell{’ottava} riga si tolga la menzione del Guarnerio, irredentista ma non «irredento» (era
nato a Milano). I rapporti dell’Ascoli col Salvioni e col Guarnerio sono ora più minutamente
chiariti, grazie alla pubblicazione dei loro carteggi a cura di P. A. Faré, I carteggi Ascoli-Salvio-
ni, Ascoli-Guarnerio e Salvioni-Guarnerio, Milano 1964 («Mem. Ist. Lombardo» XXVIII, 1).
424 X. Carlo Cattaneo e Graziadio Ascoli
317
iSilloge, p. 623 sg.
titi democratici dell’Italia prebellica, i quali volevano Trento e Trieste e a un tempo la riduzio-
ne delle spese militari, addolorava l’Ascoli, e lui forse più d’ogni altro»: anche qui stravolgendo
il pensiero dell’Ascoli, quasiché egli avesse voluto risolvere la «contraddizione» incrementando
le spese militari! Vedi qui sopra, p. 423 e n. 313. Fatte queste precisazioni, sono pienamente
d’accordo con Terracini nel ritenere che il Bartoli fu essenzialmente un linguista e che il suo sti-
le di uomo e di maestro fu ben lontano dallo stile fascista: cfr. quello che già osservavo nella nota
312, p. 423 sg. Il mio intendimento non era certo di fare moralistici processi postumi contro sin-
goli studiosi che in politica peccarono soltanto di ingenuità, ma di mostrare come il pensiero del
democratico e filosocialista Ascoli fosse stato falsificato in senso nazionalistico. S’intende che
ciò che ho scritto presuppone un ben preciso giudizio negativo sull’interventismo (anche sul-
l’interventismo «democratico») della prima guerra mondiale.
426 X. Carlo Cattaneo e Graziadio Ascoli
logia della glottide umana, amava poi dire che il linguaggio costitui-
sce «quell’abisso tra uomo e bruto che nessuna teoria materialistica
varrà mai a colmare».318 Era quel che ci voleva per farsi accusare dagli
idealisti di «naturalismo» e di «trascendenza» ad un tempo! E tutta-
via, nonostante le loro chiusure culturali e il loro tono da laudatores
temporis acti, questi studiosi ebbero il pregio di difendere, in tempi
poco propizi alla scienza, certi principii troppo facilmente disprezzati
dai loro colleghi.
I neolinguisti furono assai superiori agli ascoliani-neogrammatici in
fatto di aggiornamento culturale e di varietà d’interessi. Senonché,
per loro, amica veritas sed magis amicus Plato. Al desiderio di non appa-
rire arretrati nel campo filosofico e di non tirarsi addosso le scomuni-
che di Benedetto Croce sacrificarono molto spesso le esigenze con-
crete della loro scienza. Non videro che l’«estetica come linguistica
generale» era la fine della linguistica, o se lo videro, reagirono troppo
timidamente.319 Di contro all’ascolismo ortodosso di un Goidánich e
di un Merlo, essi sostennero che il pensiero dell’Ascoli si poteva far
rivivere solo aggiornandolo e superandolo, cioè liberando la teoria del
sostrato dalle scorie naturalistiche;320 ma, come abbiamo già veduto,
tale aggiornamento non lasciò sopravvivere quasi nulla delle genuine
esigenze ascoliane. Abbiamo anche accennato alla posizione partico-
lare di Benvenuto Terracini, l’unico linguista di formazione idealisti-
ca che abbia avuto un vero e profondo e tormentato interesse per la
personalità umana e scientifica dell’Ascoli.321 All’aspetto collettivo e
318
iCfr., per quest’ultima frase, «Annali delle Università Toscane» XXXVI, 1917, fasc. 6,
p. 3. Anche il Trombetti, del resto, diversamente dall’Ascoli, dette al proprio monogenismo lin-
guistico un’intonazione cattolica.
319
iSu ciò vedi il libro già citato del Nencioni, Idealismo e realismo nella scienza del linguag-
gio, Firenze 1946. Bisogna tuttavia (come osserva il Nencioni stesso) distinguere tra un Giulio
Bertoni, che subì l’influsso dell’idealismo in maniera determinante, e un Bartoli, che si man-
tenne sempre diffidente verso i «glottosofi» (vedi per esempio Introd. alla neolinguistica, Gine-
vra 1925, p. 63 sg.). Della distinzione si rendeva ben conto Gramsci (Letteratura e vita naziona-
le, p. 206 sg., cfr. p. 202), anche se tendeva a sopravvalutare l’originalità e l’importanza del
Bartoli. Un giudizio molto equo ed esatto sul Bartoli ha espresso G. Devoto, M. Bartoli e le leg-
gi, in Scritti minori, Firenze 1958, p. 412 sgg. Vedi anche la bella rievocazione in Silvio Pelle-
grini, Muffe vecchie e nuove, Pisa 1965, p. 85 sgg., e ora l’esauriente articolo di T. De Mauro in
«Diz. biogr. degli italiani» VI, pp. 582-586.
320
iOltre agli scritti cit. sopra, alla nota 225, cfr. la recensione di Mario Casella alla Silloge
Ascoli nel «Marzocco» del 6 luglio 1930.
321
iVedi sopra, p. 396 sgg.
X. Carlo Cattaneo e Graziadio Ascoli 427
322
iGià in Adattamento e distinzione nella fonetica latina, Firenze 1923, p. 5 sg.
XI.
Theodor Gomperz ∼
2
iCfr. J. Stenzel, in «Gnomon», 1928, p. 72 sgg.; W. Jaeger, in «Deutsche Literatur-Zei-
tung», 1932, col. 731 sgg. (rist. in Scripta minora, Roma 1960, II, p. 119 sgg.). Accenni sfavo-
revoli al «positivista» Gomperz vi sono anche nelle opere maggiori di Jaeger: vedi specialmen-
te Paideia, trad. it., II, p. 343 sg. (dove, fra l’altro, il pensiero del Gomperz è riferito
inesattamente), e la prefazione a La teologia dei primi pensatori greci.
3
iCfr. R. D’Ambrosio, in «Nuova Rivista Storica», 1933, p. 585 sg.; e, con intonazione com-
plessiva più favorevole, G. Calogero, in «Giornale critico della filosofia italiana», 1934, p. 244.
Del Calogero vedi anche la voce Gomperz, Th. nell’«Enciclopedia Italiana». Negativo, come era
naturale, il giudizio di M. F. Sciacca, in «Logos», 1933, p. 487 sgg.
4
iTh. Gomperz 1832-1912, Briefe und Aufzeichnungen, eingeleitet, erläutert und zu einer Dar-
stellung seines Lebens verknüpft von H. Gomperz, I (1832-68), Wien 1936. Sono vivamente
grato a Mario Untersteiner che mi ha prestato questo volume, molto raro in Italia. L’Unterstei-
ner ne scrisse una bella e coraggiosa recensione in «Mondo classico», 1939, p. 24 sgg. Su una
pubblicazione ridotta del resto di quest’opera, uscita alcuni anni fa, vedi qui sotto, p. 463 sgg.
430 XI. Theodor Gomperz
co-culturale, dovrebbe riuscire assai più gradita oggi che trent’anni fa.
E tuttavia c’è il pericolo che, ancor più che trent’anni fa, i lettori sia-
no urtati da quel gusto, tipico del Gomperz, di sottolineare gli aspetti
ancora attuali della scienza e della filosofia antica. È anche probabile
che gli odierni studiosi di storia della scienza trovino l’opera del Gom-
perz troppo legata al positivismo ottocentesco, verso il quale i neoposi-
tivisti, come è noto, nutrono un’avversione non molto inferiore a quel-
la degli idealisti. E infine c’è da temere che, per troppo amore
dell’aggiornamento bibliografico fine a se stesso, ci si rifiuti addirittu-
ra di prendere in considerazione un’opera vecchia di mezzo secolo, alla
quale non sono state apportate modifiche o aggiunte di alcun genere.5
Io credo che, per intendere nel suo vero valore l’opera del Gomperz,
non ci si debba fermare a certi suoi aspetti esteriori. A una lettura
superficiale, essa può apparire come una tipica opera di divulgazione
tardo-ottocentesca e nulla più. I capitoli dei Pensatori greci hanno un
po’ la forma espositiva di lezioni o conferenze per un pubblico di non
specialisti. Alla fine di ciascun capitolo è preannunciato, in modo da
tener desta la curiosità del lettore, il tema del capitolo seguente. L’au-
tore si preoccupa soprattutto che il suo pubblico non consideri il pen-
siero greco come cosa troppo lontana dai suoi interessi attuali: ci tie-
ne, perciò, a mostrare quanti germi di conquiste scientifiche moderne
vi siano in quelle antiche filosofie e cosmogonie, e come, d’altra parte,
la conoscenza dei pensatori greci sia necessaria a liberarci da vecchi
schemi mentali che abbiamo più o meno inconsciamente ereditato da
loro.6 E ravviva la materia con notazioni paesistiche,7 con rievocazio-
ni leggermente romanzate di scene della vita antica,8 con frequentis-
simi riferimenti a fatti e a pensieri del mondo moderno.
5
iII vol. I dei Griechische Denker uscì per la prima volta nel 1896, il II nel 1902, il III nel
1909; una seconda edizione dei primi due volumi apparve nel 1903, una terza nel 1911-12. L’e-
dizione curata da Heinrich Gomperz, a cui abbiamo accennato sopra (e sulla quale è condotta
l’edizione italiana in quattro volumi) contiene in più molti rimandi a testi antichi, ma, come è
giusto, nessun rimaneggiamento o aggiornamento.
6
iGià nel 1866, in una conferenza ripubblicata poi in Essays und Erinnerungen (Stuttgart
1905, p. 86), il Gomperz aveva detto: «Man widerlegt nur, was man erklärt hat. Und wir Spät-
geborenen können uns von dem übermächtigen Einfluss der Vergangenheit nur befreien, wenn
wir sie gründlich erkennen». Su questo stesso motivo egli ritorna nei Pensatori greci, I, p. 66 n.
7
iDerivanti per lo più, come il Gomperz sottolinea con compiacimento, da conoscenza diret-
ta dei luoghi (I, pp. 96, n. 1; 239 n.; 343, n. 1; II, 18, n. 1; III, 29, n. 1; 607, n. 1).
8
iVedi per esempio il discorso (ben inventato, del resto!) che il Gomperz mette in bocca a
un «vecchio ateniese» ostile a Socrate (II, p. 490 sgg.), e le rievocazioni del soggiorno di Plato-
ne a Siracusa (III, p. 29 sgg.) e del suo incontro con Dione a Olimpia (id., p. 451 sg.).
XI. Theodor Gomperz 431
11
iCfr. il ricordo del Bonitz pubblicato dal Gomperz nel «Biographisches Jahrbuch fiir
Alterthumskunde», XI (1888), p. 53 sgg.; e Th. Gomperz 1832-1912 cit., p. 94 sgg.
12
iSul valore dei contributi epicurei si veda il giudizio di G. Arrighetti, Introd. a Epicuro,
Opere, Torino 1960, p. XVI sg. | 19732, p. XXIII sg. |. I principali risultati dei Platonische Auf-
sätze (Wien 1887-1905), delle memorie sulla Poetica di Aristotele («Sitzungsber. der Wiener
Akad.», 1888-96 ed «Eranos Vindobonensis», 1893) e sui Caratteri di Teofrasto («Sitzungsber.
der Wiener Akad.», 1888) sono riassunti e utilizzati dal Gomperz stesso nei Pensatori greci (spe-
cialmente III, cap. II; IV, pp. 589 sgg., 712). L’edizione del De arte (Apologie der Kunst, Wien
1890, Leipzig 19102) conserva un grande valore critico-testuale ed esegetico anche per chi non
accetti l’attribuzione dell’opera a Protagora. | In generale per gli studi del Gomperz sulla medi-
cina greca cfr. V. Di Benedetto, in «Critica storica», V (1966), pp. 354-356, dove alcune inter-
pretazioni del Gomperz riguardanti il De prisca medicina sono confermate e sviluppate |.
13
iVedi il riconoscimento del Nauck nella 2a ed. dei Tragicorum Graecorum fragmenta, Lipsiae
1889, p. XVIII e n. Cfr. per esempio anche Murray ad Euripide, Iph. Aul. 1058 ** (Gomperz,
Hellenika, I, p. 15); Schoell a Cicerone, Phil., I 15 (id., II, p. 265), ecc. Si deve al Gomperz la
prima edizione di uno dei più importanti testi callimachei (sul quale vedi ora V. Bartoletti, in
«Studi ital. di filol. class.» n. s. XXXIII, 1961, p. 154 sgg.).
XI. Theodor Gomperz 433
14
iDie Bruchstücke der griech. Tragiker und Cobets neueste kritische Manier, Wien 1878, ripubbl.
in Hellenika, I, p. 29 sgg.
15
iEssays und Erinnerungen cit., p. 46.
434 XI. Theodor Gomperz
16
iSui rapporti del Gomperz col Jahn vedi Essays und Erinnerungen cit., p. 29; sull’influsso
del Bernays (i cui Heraclitea gli furono prestati dal Jahn) ibid., pp. 38, 106 sgg. Cfr. A. Momi-
gliano, Quinto contributo alla storia degli studi classici e del mondo antico, Roma 1975, I, p. 134.
17
iIbid., p. 106 sg.
XI. Theodor Gomperz 435
18
iVedi la difesa degli adversaria, delle note filologiche sparse, che il Gomperz (ibid., p. 108 n.)
fa contro il Bernays, il quale accettava la condanna degli adversaria pronunziata dallo Scaligero
e ribadita da K. O. Mueller.
19
iU. von Wilamowitz, Einleitung in die griechische Tragödie2, Berlin 1910, p. 25[6] [cr] sg.
Queste pagine del Wilamowitz sono in implicita polemica con Philologie und Geschichtswissen-
schaft di Hermann Usener, cit. sopra: vedi la sua lettera all’Usener del febbraio 1883, in Use-
ner-Wilamowitz, Ein Briefwechsel, Leipzig 1934, p. 28 sg.
436 XI. Theodor Gomperz
20
iVedi II, pp. 3 sgg., 292 sgg. Sull’interesse del Gomperz per la medicina antica e sui suoi
rapporti con Émile Littré vedi Essays und Erinnerungen cit., p. 40 sg.; Th. Gomperz 1832-1912
cit., p. 243 (e qui sopra, nota 12).
21
iVedi specialmente I, p. 385 sgg.; II, pp. 160 sgg., 331 sgg., 363 sgg., 401 sgg.; IlI, p. 25
sgg. Sull’«illuminismo» di Euripide (che fu poi il tema del libro di W. Nestle, Euripides der Dich-
ter der griechischen Aufklärung, Stuttgart 1901) l’essenziale era stato già detto dal Gomperz.
XI. Theodor Gomperz 437
22
iCfr. E. Zeller, La filosofia dei Greci ecc., trad. ital., parte I, vol. I, Firenze 1932, p. 35
sgg., e l’informatissima ed equilibrata nota del Mondolfo (ibid., p. 63 sgg.; cfr. p. 45 n. 1) che
dà notizia delle discussioni posteriori sull’argomento e corregge l’unilateralità del punto di vista
dello Zeller. | Cfr. ora anche M. L. West, Early Greek Philosophy and Orient, Oxford 1971 |.
438 XI. Theodor Gomperz
essi siano stati a scuola dalle nazioni che li hanno preceduti nella civiltà, e che abbia-
no ricevuto da esse germi della loro scienza e della loro fede religiosa. Ma l’angusta
e caparbia mentalità che vorrebbe, per così dire, far salire il popolo greco su di un
trespolo isolatore per sottrarlo all’influsso di altri e più antichi popoli civili, non può
mantenere la sua posizione di fronte ai fatti sempre più numerosi, più sicuri e più
importanti che ogni giorno vengono alla luce. E quasi più nessuno si trova oggi che
sia disposto a negare ciò che anche soltanto qualche diecina d’anni fa si contestava
con ostinata, veemente sicurezza, che cioè i Greci debbano all’Oriente tanto gli ele-
menti della civiltà materiale quanto i primi rudimenti dell’arte. La resistenza che
una tale veduta ha incontrato per quel che concerne la scienza della religione è sta-
ta certo potentemente alimentata dagli studi prematuri, incompleti e partigiani, con-
dotti senza alcun metodo dagli studiosi precedenti; anche questa corrente tuttavia,
promossa da uomini eminenti, fra i quali fu anche il Lobeck, deve alla fine venir
meno, e cedere il campo ad una valutazione spassionata ed imparziale dei fatti sto-
rici. Come mercenari e come mercanti, come marinai avventurosi e come pugnaci
coloni, gli Elleni stabilirono ben presto, come abbiamo visto, molti e stretti contat-
ti con popoli stranieri. Presso il fuoco dei bivacchi, nei bazar e nei caravanserragli,
sulla coperta dei battelli alla luce delle stelle, o nell’ombra intima della stanza coniu-
gale che così spesso l’emigrato greco divideva con l’indigena, avveniva uno scam-
bio continuo d’idee in conversazioni le più varie, nelle quali sicuramente ci si intrat-
teneva intorno alle cose celesti non meno che intorno a quelle terrene.
sofia greca veniva messa in relazione con la purezza razziale del popo-
lo ellenico; la presunta decadenza filosofica dell’età ellenistica era
attribuita alla mescolanza tra sangue greco e orientale. La testimo-
nianza erodotea, secondo la quale Talete era di stirpe fenicia, veniva
fatta segno a confutazioni più appassionate di quanto avrebbe richie-
sto il mero interesse per l’accertamento di un dato biografico: si trat-
tava di liberare dalla taccia di semitismo il fondatore della filosofia
europea. Thales ein Semite? era il titolo allarmistico di un articolo di
Hermann Diels; ma le conclusioni erano rassicuranti: semita no di cer-
to, caso mai di origine caria: ma i Carii, com’è provato dai più recen-
ti studi, sono indeuropei!25 E il Diels era ancora uno degli studiosi
tedeschi meno sciovinisti e antiliberali.
Bisogna tener presente questa atmosfera, queste discussioni, per
comprendere come mai il Gomperz si compiaccia ripetutamente di
considerare come un elemento favorevole al progresso della civiltà,
accanto ai contatti culturali tra i Greci e gli altri popoli, anche la
mescolanza razziale, e all’esaltazione dei purosangue contrapponga
polemicamente l’esaltazione dei mixobárbaroi: Talete, Tucidide, Anti-
stene ...26 Questa lotta al razzismo condotta con le sue stesse armi era
allora inevitabile: perfino il pensatore ottocentesco che meglio di ogni
altro seppe distinguere tra razza, lingua e cultura, Carlo Cattaneo, non
rinunciò a esaltare, contro gli etnologi razzisti, gli incroci tra stirpi
diverse come fattori di miglioramento, fisico e culturale insieme, del
genere umano.27
A questo superamento dell’etnicismo romantico e delle sue pro-
paggini razziste il Gomperz fu portato – prima ancora che dalla sua
consuetudine col pensiero illuministico e radicale inglese, su cui ritor-
neremo – dalla sua duplice condizione di cittadino dello stato austro-
ungarico e di ebreo. La plurinazionalità dell’impero austriaco fu sem-
pre considerata da lui come un elemento positivo: l’impero avrebbe
dovuto liberalizzarsi e decentrarsi, ma non dissolversi in singoli stati
25
iL’articolo del Diels è in «Archiv fur Geschichte der Philosophie» II (1889), p. 165 sgg.
Contro l’origine fenicia di Talete anche Zeller, trad. ital., parte I, vol. II, p. 103 n. 1. A favo-
re, invece, W. Christ, Gesch. der griecb. Liter., I6, p. 622, e Schmid-(Stählin), I, p. 728 n. 6. È
sintomatico che una delle pochissime critiche mosse dal Lortzing al primo volume dei Griechi-
sche Denker (in «Berliner philol. Wochenschr.», 1894, col. 520) riguardasse appunto il semiti-
smo di Talete!
26
iCfr. I, pp. 8, 18, 73; II, pp. 338, 563.
27
iCfr. C. Cattaneo, Scritti economici, ed. A. Bertolino, II, p. 364.
440 XI. Theodor Gomperz
dannava nel modo più aspro gli atomisti e i sofisti, considerava Ari-
stotele come troppo empirista; e c’era una tendenza meno estrema che
ammetteva la validità della critica di Aristotele alla dottrina delle Idee
e riconosceva alla sofistica almeno una funzione di stimolo critico30.
Ma anche gli appartenenti a questa seconda tendenza misuravano pur
sempre il valore dei vari filosofi greci in termini di spiritualizzazione
della realtà, di passaggio (come diceva lo Zeller) dalla Naturbeobach-
tung alla Selbstbetrachtung,31 e svalutavano tutti quei movimenti di
pensiero che non si inserivano in questa linea evolutiva: atomisti, cini-
ci e cirenaici, epicureismo.32
Ben diverse valutazioni erano state date dagli «epicurei» dei seco-
li xv-xviii, cioè dai rivendicatori dell’atomismo in fisica, dell’edoni-
smo in etica, e di una storia della civiltà che prendesse le mosse non
da una rivelazione originaria, ma dalle origini ferine dell’uomo. Ma al
principio dell’Ottocento l’ondata romantica e spiritualista aveva
sopraffatto questa corrente di pensiero a cui tanto dovevano la scien-
za e la cultura moderna. La rivalutazione dell’epicureismo, intrapresa
contro Hegel (anche se in un contesto ancora hegeliano) da Marx gio-
vane, era rimasta ignorata. Ancora nel 1887 Hermann Usener, nel
pubblicare la sua fondamentale edizione di Epicuro, teneva a separa-
re le proprie responsabilità dall’epicureismo, e dichiarava (lui, storico
del pensiero e della civiltà antica, ostile al puro filologismo) che a stu-
diare quei testi era stato mosso da un interesse meramente tecnico:
«Epicuro ut operam darem, non philosophiae Epicureae me admira-
tio commovit, sed, ut accidit homini grammatico, librorum a Laertio
Diogene servatorum obscuritas et difficultas».33 Bisogna arrivare al
Gomperz per vedere finalmente quei motivi illuministici ripresi, sottrat-
30
iII più tipico rappresentante dell’«ala destra» in Germania è lo Schleiermacher (Gesch. der
Philosophie, in Sämmtliche Werke, III. Zur Philosophie, IV, 1, Berlin 1839, pp. 72, 87, 113 sgg.);
ma anche il Böckh è molto più unilateralmente filoplatonico e antiaristotelico di quanto fareb-
be supporre la sua concezione generale della scienza dell’antichità (cfr. Encyklopaedie und Metho-
dologie der philol. Wiss.2, Leipzig 1886, p. 604 sgg.). Recisamente ostile a Democrito e ai sofisti
è anche H. Ritter (Gesch. der Philos., I), il quale, però, tende a una svalutazione generale del pen-
siero greco nei confronti di quello cristiano e moderno. La tendenza più moderata è invece rap-
presentata da Hegel e dallo Zeller.
31
iE. Zeller, Die Philos. der Griechen, II, I5, Leipzig 1922, p. 37.
32
iSi veda, per esempio, con quale difficoltà (da lui stesso onestamente e un po’ ingenua-
mente confessata) lo Zeller riuscisse a collocare nel suo schema i «socratici imperfetti», ossia i
cinici, i cirenaici e i megarici (op. e vol. cit., p. 42).
33
iVedi, a proposito di questa dichiarazione dell’Usener, le giuste osservazioni di G. Arri-
ghetti nella già citata edizione di Epicuro, p. XII | 2a ed., p. XVI sg.| .
442 XI. Theodor Gomperz
34
iII Gomperz errò senza dubbio nel negare la derivazione di Leucippo dalla scuola eleatica
(II, pp. 65, n. 1; 106 sg.: su questo punto bene il Burnet, Early Greek Philosophy4, p, 334, n. 1).
Rimane tuttavia vero che l’atomismo è «il frutto ormai venuto a maturazione dell’albero del-
l’antica dottrina della materia quale era stata concepita e sviluppata dai filosofi naturalisti della
Ionia» (II, p. 74); così come rimane un merito del Gomperz l’aver sostenuto (contro lo schema
cronologico e logico tradizionale, seguito ancora dallo Zeller) che Parmenide è posteriore ad Era-
clito e polemizza contro di lui (I, p. 255 sgg.).
35
iVedi III, pp. 518 sgg., 531, e cfr. la prefazione al vol. II dell’edizione tedesca, purtroppo
omessa nell’edizione italiana.
XI. Theodor Gomperz 443
36
iIII, pp. 367 sg., 569 e passim.
37
iSpecialmente da W. Jaeger, Aristotele, trad. it., p. 524.
38
iCfr. IV, pp. 187, 670.
444 XI. Theodor Gomperz
39
iIV, capp. VI-VII. Ma lo stesso motivo ritorna anche in altri capitoli.
40
i«Deutsche Literatur-Zeitung», 1932, col. 734.
41
iIII, p. 519 sgg.; IV, p. 4 sgg.
42
iIV, pp. 83 sg., 87, 89 sgg., 153 sgg., 194 sg, 303 sgg. ; cfr. II, p. 132 sg.
43
iIV, pp. 683 sgg., 740 sgg.
XI. Theodor Gomperz 445
47
iVedi per esempio II, p. 135 (allusione ai «manualetti» coi quali si fa propaganda di mate-
rialismo in forma «popolare»), 614 («quei pensatori che tentano di fondare l’etica sulla zoolo-
gia»); III, p. 306 («quella confusione d’idee che fa considerare le funzioni psichiche stesse come
qualche cosa di corporeo»: allude evidentemente alla famosa frase di Vogt sul «pensiero secre-
zione del cervello», la quale, del resto, era stata già criticata anche da un materialista come Büch-
ner). È significativo che il Gomperz, mentre cita quasi tutti i pensatori suoi contemporanei, non
nomini mai né Moleschott, né Büchner, né Vogt, né Haeckel.
XI. Theodor Gomperz 447
48
iCfr. I, pp. 86, 369 sg.; III, pp. 570, 599 sg.; IV, pp. 223 sg., 321 n. 1.
49
iII, p. 136: «... benché le previsioni che aveva fatto nascere due generazioni fa il tentati-
vo di soluzione del Darwin siano in parte venute meno in conseguenza di ulteriori ricerche»; IV,
p. 190: «... cerchiamo una soluzione che, nonostante Lamarck, Wallace e Darwin, non abbia-
mo affatto raggiunto». Cfr. anche III, p. 246, contro la gnoseologia evoluzionistica dello Spen-
cer. Ciò nonostante, il Gomperz mostra simpatia per la teoria della formazione dei principii e
sentimenti morali nell’uomo attraverso l’evoluzione biologica, che gli appare un superamento
dell’etica immediatamente edonistica: cfr. II, p. 688 sg., e anche II, p. 638.
50
iCfr. II, p. 135; IV, p. 190 sg.
51
iCfr. II, pp. 25, 37 (su Schelling e Oken), 660 («Come, fra il quarto e il quinto decennio
del secolo xix, il grandioso sviluppo delle scienze della natura ha, quasi senza lotta, banditi i siste-
mi aprioristici di uno Schelling e di un Hegel ...»). Sulla sua avversione all’hegelismo vedi anche
Essays und Erinnerungen cit., p. 15 (una breve fase di hegelismo giovanile sembra attestata da alcu-
ni scritti riportati in Th. Gomperz 1832-1912 cit., pp. 38 sg., 43 sgg.; ma in ogni caso essa non
lasciò traccia nel pensiero del Gomperz maturo). Sull’evoluzionismo vedi qui sopra, nota 49. Di
Marx sembra – a giudicare dall’unico accenno in Essays und Erinnerungen, p. 38 – che il Gom-
perz abbia avuto una conoscenza assai superficiale, anche se, per via indiretta, sentì l’influsso del
metodo storiografico marxista (vedi il passo cit. sopra, p. 446; e più sotto, pp. 456-457).
448 XI. Theodor Gomperz
il cui nome egli aveva già visto citato nella Storia greca del Grote.52
Da allora John Stuart Mill rimase per il Gomperz il filosofo per eccel-
lenza, colui che, riassumendo in sé il meglio di tutta la tradizione illu-
ministica, aveva definitivamente liberato la mente umana dai pregiu-
dizi della realtà extrafenomenica e della morale basata su imperativi
assoluti e trascendenti: «fenomenismo», utilitarismo e determinismo
erano i tre punti fondamentali del pensiero filosofico del Mill, accolti
dal Gomperz.53 Dal 1869 all’80 il Gomperz spese buona parte del suo
tempo a tradurre le opere del Mill in tedesco (con vari collaboratori,
tra i quali figura anche Sigmund Freud, allora ventiquattrenne),54 e
pochi anni prima gli aveva dedicato l’edizione del De pietate di Filo-
demo (Philodem, Über die Frömmigkeit, Leipzig 1865). Nei Pensatori
greci il Mill è, tra i filosofi moderni, di gran lunga il più citato; e in-
flussi si possono scorgere anche dove non è citato. In III, p. 580, a
proposito dell’«anima mundi cattiva» a cui si accenna nelle Leggi di
Platone, il Gomperz osserva, in polemica col Böckh: «Non torna a pic-
colo onore del pensatore poeta il fatto che la sua anima d’artista asse-
tato di bellezza non lo rese cieco ai mali del mondo, e gli permise di
riconoscere coerentemente che, data l’esistenza di tali mali, la bontà
assoluta della divinità era inconciliabile con la sua onnipotenza». Mi
sembra evidente che qui c’è un richiamo alla ben nota tesi di Mill, che
Dio, per essere infinitamente buono, non può essere onnipotente. Il
laico Gomperz, beninteso, non credeva né nel Dio onnipotente né nel
52
iEssays und Erinnerungen, p. 33 sgg.; cfr. ibid., p. 87 sgg. («Zur Erinnerung an J. S. Mill»,
1873); Th. Gomperz 1832-1912, passim; F. Heinemann, Th. Gomperz und J. S. Mill, in «Philo-
sophia», III (Beograd 1938), p. 188 sgg.; Adelaide Weinberg, Th. Gomperz and J. S. Mill, in
«Cahiers V. Pareto», II (1963), p. 145 sgg. (con molto materiale inedito).
53
iEssays und Erinnerungen, p. 34 (dove fra l’altro, il Gomperz rivendica a sé la creazione del
termine Phänomenalismus). Professioni di empirismo, dichiarazioni polemiche contro ogni onto-
logia si incontrano ripetutamente nei Pensatori greci (ad esempio II, p. 44; III, p. 374, n. 1 ecc.).
Quanto al determinismo, vedi soprattutto IV, capp. X e XVI.
54
iCfr. E. Jones, Vita e opere di Freud, trad. it., Milano 19663, I, pp. 87, 409; III, p. 494;
Ph. Merlan, in «Journ. of History of Ideas», VI (1945), p. 375 sgg.; e il mio Lapsus freudiano,
Firenze, rist. 1975, p. 166. Ma sui rapporti Gomperz-Freud ci sarebbe ancora da indagare. L’ac-
cenno di E. Funari, II giovane Freud, Firenze 1975, p. 137, dimostra solo l’incompetenza del-
l’autore in questo campo e il suo cattivo compilare da fonti in lingue straniere: il Funari parla
dell’«editore Theodor Gomperz (noto anche come storico)», cioè trasforma in «editore» l’edi-
tor, ossia il «curatore» della traduzione tedesca delle opere di Mill, le quali diventano, nella sua
prosa, «la Gesammelte Werke di John Stuart Mill». Non sarebbe male che certi psicanalisti, se
vogliono occuparsi di storia della psicanalisi, si munissero di una elementare preparazione sto-
rico-culturale, possibilmente non di seconda mano.
XI. Theodor Gomperz 449
55
iCfr. Essays und Erinnerungen, pp. 89 (con la nota 13 a p. 235), 97 sg.
56
iCfr. «Archiv für die Geschichte der Philosophie» (Ia sezione dell’«Archiv fiir Philo-
sophie»), XXIX (1916), p. 316. Mill e Mach sono citati insieme nei Pensatori greci, II, pp. 698,
n. 2; 699 (per le altre citazioni dal Mach vedi l’indice dei nomi).
450 XI. Theodor Gomperz
57
iVedi II, pp. 119 sg., 129.
58
iII, pp. 268 sgg., 690 sgg. Cfr. Essays und Erinnerungen, p. 34: «Diesem meinem Stand-
punkt (il fenomenismo), der schon jener der alten Kyrenaïker gewesen ist ...».
59
iL’accenno ai «sogni» si riferisce a una critica mossa da Stratone a Democrito a proposito
delle differenze di forma degli atomi (Cic., Lucull. 121; il Gomperz ne tratta a p. 741).
60
iOltre ai capitoli dei Pensatori greci dedicati alla logica aristotelica, si veda l’edizione del
Περ σηµεων κα σηµεισεων di Filodemo, intitolato dal Gomperz «Philodem über Induk-
tionsschlüsse» (Herkulanische Studien, I, Leipzig 1865) e considerato come un antecedente della
logica induttiva di John Stuart Mill.
XI. Theodor Gomperz 451
61
iCfr. IlI, p. 374: «Lo spirito di Platone, nutrito di dialettica e di matematica, è preso dal-
l’ebbrezza che produce di solito l’esercizio esclusivo o preponderante delle scienze deduttive, e
che ognuno può sperimentare direttamente, ove si lasci prendere interamente, per un tempo
abbastanza lungo, dallo studio della teoria delle funzioni, o di un’altra branca della matematica
superiore» (così pure III, p. 571, dove l’influsso dei Pitagorici su Platone è considerato soltan-
to nel suo aspetto negativo). Ai propri studi matematici giovanili e, insieme, alla sua scarsa pro-
pensione per essi, il Gomperz accenna in Essays und Erinnerungen, p. 25: «Ich studierte höhere
Mathematik (zu der ich nur geringe Befähigung besass) unter der Anleitung des Professors am
Polytechnikum Simon Spitzer, eines der besten, ja hinreissendsten Lehrer, die man sich denken
kann».
62
iII, p. 669 sgg.; IV, pp. 351 sgg., 707 sgg., 733 sgg.
452 XI. Theodor Gomperz
67
iCfr. A. Momigliano, G. Grote and the Study of Greek History, in Contributo alla storia degli
studi classici, Roma 1955, p. 213 sgg. (specialmente p. 217 sgg. sui rapporti tra il Grote e i radi-
cali inglesi). Secondo una testimonianza di John Stuart Mill riferita dal Gomperz (Essays und
Erinnerungen, p. 87 e n. 4 a p. 234), l’idea di scrivere una storia greca sarebbe stata suggerita al
Grote da James Mill. La diversa testimonianza della moglie di Grote sembra meno attendibile:
cfr. Gomperz, l. cit., e Momigliano, p. 218.
68
iII Grote (Hist. of Greece, VIII, cap. 67) polemizzava soprattutto contro le storie della filo-
sofia del Ritter e del Brandis e i commenti a Platone dello Stallbaum. Una tesi fondamentale
del Grote, ripresa dal Gomperz, è che i sofisti non costituiscono un’unica scuola (cfr. Pens. greci,
II, pp. 212, 229).
69
iVedi per esempio IlI, pp. 62 n.; 64 n.; 110 e n. 1; 191, n. 1; 414; IV, pp. 28, n. 2; 290,
n. 1, e altrove.
70
iVedi Th. Gomperz 1832-1912, pp. 337 sgg. (nel ’63, subito dopo averlo conosciuto, scri-
veva alla sorella: «Ich hatte Grote gegenüber unter Anderem auch das Gefühl, dass er mir an
blosser A u f k l ä r u n g ausserordentlich überlegen ist», p. 339); Essays und Erinnerungen,
pp. 33, 184 sgg.; Pensatori greci, IV, p. 103 («l’immortale storico della Grecia, George Grote»)
e passim. Cfr. A. Momigliano, Contributo cit., p. 225; A. Weinberg (cit. alla nota 52), pp. 170-177.
454 XI. Theodor Gomperz
Nel corso degli eventi del ’48-’49, ai quali il Gomperz assisté e par-
tecipò a Vienna (e che in parte, ad esempio per ciò che riguarda la
richiesta dell’intervento zarista, si svolsero secondo le sue previsioni),
quel primo atteggiamento di simpatia per le idee rivoluzionarie si andò
affievolendo, e si rafforzò, invece, il timore dell’«anarchia» e la sfi-
ducia nell’iniziativa popolare.73 Il Gomperz, beninteso, non divenne
mai un reazionario né un fautore dello «Stato forte»; si mantenne
fedele allo spirito del ’48 in quanto risveglio delle nazionalità oppres-
se e lotta contro l’assolutismo;74 ma sempre più si convinse che al
popolo si potesse giovare solo «dall’alto», per opera della borghesia
colta e illuminata. Perciò anche il pensiero politico di John Stuart Mill
finì con l’apparirgli troppo radicaleggiante e filosocialista.75 Egli era
d’accordo col Mill nel ritenere che il puro liberismo fosse incapace di
risolvere i problemi della società industriale; era anche d’accordo nel-
la solidarietà con i movimenti di indipendenza nazionale e con la cau-
sa della liberazione dei negri d’America (a differenza del Grote, che,
con tutto il suo illuminismo e il suo democratismo, parteggiava per i
sudisti).76 Ma gli sembrava che il Mill si fosse pericolosamente illuso
sulla capacità del proletariato di emanciparsi da sé. Anche la richiesta
del suffragio universale, sostenuta dal Mill con grande fervore, era mal
vista dal Gomperz, in parte per la giusta consapevolezza che questo
provvedimento non sarebbe certamente stato il toccasana per i mali di
cui il popolo soffriva, ma soprattutto per la sua sfiducia verso ogni ini-
ziativa dal basso.77
73
iSi può cogliere questo graduale mutamento nelle lettere pubblicate in Th. Gomperz 1832-
1912, pp. 44-75.
74
iVedi il capitolo sul ’48 nelle sue memorie, in Essays und Erinnerungen, p. 16 sgg.
75
iEssays und Erinn., pp. 34-38. Sull’avvicinamento del Mill al socialismo L. Stephen, The
English Utilitarians, III, London 1900, p. 224 sgg.
76
iAl Risorgimento italiano il Gomperz fu costantemente favorevole. In una lettera del 3 ago-
sto 1848 (Th. Gomperz 1832-1912, p. 46) considerava la vittoria del Radetzky a Custoza come
una sventura per la causa della democrazia austriaca: «denn mit der Unterjochung (della Lom-
bardia) würden wir uns selbst die Knechtschaft bereiten». Cfr. Essays und Erinn., p. 22, e le let-
tere del 1966 dall’Italia (Th. Gomperz cit., p. 427 sgg.). Per l’atteggiamento a favore dei negri
d’America vedi Th. Gomperz cit., p. 310 sg.; Essays und Erinn., p. 47, e il simpatico passo di Pen-
satori greci, IV, p. 71 sg., in cui, mentre si riconosce la sterilità del sillogismo ai fini dell’acqui-
sizione di nuove conoscenze, gli si attribuisce un valore di chiarificazione logico-morale, di sma-
scheramento di pregiudizi e di ipocrisie: e a questo proposito si adduce appunto l’esempio della
presunta inferiorità dei negri. Per il dissenso Grote-Mill a questo proposito Essays und Erinn.,
pp. 185; 242, n. 48.
77
iEssays und Erinn. p. 36 sg.; cfr. Pensatori greci, IV, p. 555.
456 XI. Theodor Gomperz
78
iEssays und Erinnerungen, p. 35 sg., cfr, p. 236.
79
iAppoggio al cooperativismo: Essays und Erinnerungen, p. 47. Condanna del socialismo (e
rifiuto della distinzione del Mill tra socialismo e comunismo): ibid., p. 38. Ancora intorno al ’60,
tuttavia, la sua posizione doveva essere alquanto diversa, come appare da una lettera del 20 apri-
le 1863 da Londra, piena di espressioni ammirative per la maturità politica degli operai inglesi
(Th. Gomperz 1832-1912, pp. 346 sgg., 350 sg.). Ma anche allora il proletariato inglese doveva
sembrargli una rara e forse unica eccezione.
80
iSulle guerre cfr. II, p. 399. Si noti, tuttavia, che anche questa «illusione» del Gomperz
non era basata su pure aspirazioni sentimentali, ma su un’analisi dei rapporti internazionali come
si erano venuti configurando nell’ultimo Ottocento. Proprio in quella stessa pagina egli ribadiva
il principio che «la comunanza dei sentimenti suole seguire e non già precedere la comunanza
degli interessi».
XI. Theodor Gomperz 457
81
iII, pp. 380, 385 sgg.; Essays und Erinnerungen, pp. 189, 230 sg.
82
iSulla tirannide vedi I, pp. 11 sg., 211; III, pp. 26, 33 sg.; e, in polemica esplicita col Grote,
Essays und Erinnerungen, p. 193: «Es entgeht ihm (al Grote), dass es staatliche und gesellschaf-
tliche Zustände gegeben hat, in denen ein Durchbrechen der Legalität ein Gebot der Notwen-
digkeit war und das Heil des Gemeinwesens bedeutet hat. Darum wird er der schwerwiegen-
den und im wesentlichen segensreichen Rolle nicht gerecht, welche die sogenannte Tyrannis in
der Entwicklung des griechischen Staatlebens gespielt hat». Sulle monarchie ellenistiche vedi
qui sotto, p. 429. Sull’impero romano, Ess. und Erinn., p. 141.
83
iIII, p. 455 sg. (il dissenso dal Grote è espresso a p. 455, n. 1).
84
iIII, p. 26, n. 1: «Si consulti l’Hist. of Greece del Grote, evitando di lasciarsi fuorviare dalla
sua tendenza ad attenuare le violenze democratiche». Cfr. IlI, p. 455 sgg.
85
iCfr. IlI, p. 638 (a proposito del progetto di costituzione delle Leggi platoniche); IV, p. 637.
86
iCfr. IV, p. 569; II, p. 606.
87
iSu di essi vedi A. Momigliano, Contributo alla storia degli studi classici, Roma 1955, p. 225.
458 XI. Theodor Gomperz
mann, la cui polemica contro il Grote era condotta dal punto di vista
di un paternalismo sociale che accettava, sì, in buona parte la denun-
cia marxista del carattere illusorio della democrazia meramente po-
litica, ma rifiutava nettamente il principio dell’emancipazione dei
lavoratori per opera dei lavoratori stessi e attendeva solo dallo Stato
la riforma della società: un punto di vista, in fondo, non molto lonta-
no da quello del Gomperz stesso, ma con l’aggiunta di uno statalismo
e antiliberalismo che al Gomperz erano estranei: per il Gomperz la
soluzione della questione sociale spettava alla classe colta, per il Pöhl-
mann alla monarchia guglielmina.88 Al Pöhlmann che dipingeva a colo-
ri estremamente foschi la democrazia ateniese e tornava ad accusare i
sofisti della decadenza morale della Grecia, il Gomperz rispondeva
con una appassionata difesa dell’illuminismo greco, mettendo in risal-
to come le vecchie classi aristocratiche fossero state molto più sopraf-
frattrici e incivili dei «demagoghi» ateniesi (II, p. 383); e ribadiva che
«la ‘tirannia della maggioranza’ ha incomparabilmente meno minac-
ciato la libertà individuale nell’Atene del v secolo che in qualsivoglia
altro paese e in qualsivoglia altra epoca» (II, p. 247).
Si aggiunga che nel Gomperz, a differenza che nella maggior parte
degli storici tedeschi suoi contemporanei, le tendenze paternalistiche
erano in parte controbilanciate e neutralizzate dalla simpatia per il
decentramento e le autonomie locali. Ciò che egli soprattutto apprez-
zava nella democrazia ateniese non era la libertà astrattamente consi-
derata, né il principio generale dell’elettività di tutte le cariche, ma la
struttura decentralizzata dello Stato:
Le espressioni correnti, di libertà, di governo di popolo, ecc., non forniscono un’im-
magine idonea della vita costituzionale ateniese. L’essenziale in essa non è che la
totalità della popolazione maschile, adunandosi sulla Pnice, vi prendesse delle deci-
sioni, deliberando a maggioranza di voti, e che in tal modo governasse direttamen-
te lo Stato. Molto più importante è l’organizzazione estremamente articolata dello
Stato – che ha preceduto di assai l’avvento della democrazia ... Tutte quelle asso-
ciazioni intermedie erano come dei gusci protettivi entro i quali l’individualità, la
varietà dei caratteri, l’originalità potevano nascere e giungere ad una piena matu-
88
iDel Pöhlmann vedi, oltre la Geschichte des antiken Sozialismus und Kommunismus (1893-
1901; 2a ed. col titolo Geschichte der sozialen Frage und des Sozialismus in der antiken Welt, 1912),
specialmente il saggio Zur Beurteilung Georg Grotes und seiner Griechischen Geschichte (1890,
ripubbl. in Aus Altertum und Gegenwart2, Munchen 1911). Lì è anche espresso chiaramente il suo
punto di vista statalistico, antimarxista, più vicino, se mai, alle tesi di Rodbertus e di altri «socia-
listi cattedratici». Cfr. anche F. Natale, in «Nuova Rivista Storica», XLII (1958), p. 21 sgg.
XI. Theodor Gomperz 459
rità. C’è bisogno di dire che la libertà politica stessa può essere capace di durevole
esistenza e atta ad esercitare un’azione salutare soltanto là ove essa si appoggia sul-
l’autonomia di piccoli e piccolissimi circoli sociali, e che, in mancanza di questo fon-
damento, la libertà popolare non può far buona prova, e può soltanto degenerare in
una tirannide della maggioranza, sotto la quale ogni libertà del singolo vien meno?
(II, pp. 413-15).
89
iCfr. II, p. 412 (poco prima del passo che abbiamo citato sopra): «Mai più, può dirsi, d’al-
lora in poi, i requisiti esaltati da Guglielmo di Humboldt e dopo di lui da John Stuart Mill, han-
no avuto una così integrale realizzazione». Il Versuch, die Grenzen der Wirksamkeit des Staates zu
bestimmen di Humboldt è citato anche altrove dal Gomperz, e fu certo uno scritto che esercitò
su di lui un notevole influsso.
90
iLa conferenza, del 1864, è ristampata in Essays und Erinnerungen cit., p. 53 sgg., con le
note (molto importanti) a p. 228 sgg. Due delle note sono parzialmente sconfessate dal Gomperz
nella prefazione, ma di tale sconfessione egli non chiarisce il motivo,
91
iCfr. II, pp. 189 sgg., 247 sgg. Come è noto, questi temi hanno avuto ampi e originali svi-
luppi negli studi degli ultimi decenni: basti ricordare il saggio di Mario Untersteiner su Le origini
sociali della sofistica, in «Studi di filosofia greca» dedicati a R. Mondolfo, Bari 1950, p. 121 sgg.
460 XI. Theodor Gomperz
92
iVedi la chiusa del cap. LXVIII della History of Greece, dedicato a Socrate.
93
iCfr. Hegel, Lezioni sulla storia della filosofia, trad. Codignola e Sanna, II, p. 84 sgg.
94
iCfr. III, pp. 403 sgg., 430 sg, 603 sgg.
95
iIV, pp. 473 sgg., 520 sgg. e altrove.
XI. Theodor Gomperz 461
96
iSu questo punto, oltre ai Pensatori greci, II, p. 215, III, p. 367, IV, p. 488 sgg., è da vede-
re il saggio Realismus und klassisches Altertum, in Essays und Erinnerungen, pp. 209 sgg., special-
mente p. 210.
97
iEssays und Erinnerungen, p. 139 sg.; Pensatori greci, IV, pp. 681 sg. Sull’accusa di moderniz-
zazione rivolta al Mommsen vedi l’introduzione di G. Pugliese Carratelli alla nuova traduzione del-
la Storia di Roma antica, Firenze 1960, I, p. XXVIII sgg.; e P. Treves, L’idea di Roma e la cultura
italiana del sec. xix, Milano-Napoli 1962, p. 82 sg. | Con errore opposto, Italo Lana accusa il Gom-
perz di aver preteso di dare alla sua opera «carattere rigorosamente “oggettivo” con l’accettare i
canoni storiografici positivistici» (in «Encicl. filosofica» del Centro di Gallarate, 2a ed., III, Firen-
ze 1967, p. 320). Invece di partire dallo studio dell’opera del Gomperz e dalle sue esplicite dichia-
razioni di principio, si parte da una nozione estremamente generica del «positivismo» e la si appli-
ca dall’esterno, come un’etichetta, ad una personalità che evidentemente non si conosce! |.
462 XI. Theodor Gomperz
98
iII Gomperz stesso, del resto, non mancò di reagire a questo pericolo della propria sto-
riografia. Vedi ad esempio ciò che egli osserva a proposito della teoria dei quattro elementi (I,
p. 350 sg.): «La storia della scienza non può adottare sempre come criterio di valutazione quel-
lo della verità obiettiva. Una teoria può essere interamente vera, e tuttavia rimanere senza appli-
cazione di sorta e infruttuosa perché lo spirito umano non è ancora sufficientemente preparato,
e quindi non è ancora idoneo a riceverla; un’altra teoria può essere interamente falsa, e tutta-
via, in quella data fase di sviluppo spirituale, essere oltremodo vantaggiosa al progresso della cul-
tura e della civiltà».
99
iÈ interessante notare come Guido Calogero, recensendo il primo volume di Paideia («Gior-
nale critico della filosofia italiana», XV, 1934, p. 358 sgg.), mentre polemizzava molto acuta-
mente contro il neo-umanesimo jaegeriano e ne metteva coraggiosamente in luce certe implica-
zioni politiche retrive, negava poi, in nome di pregiudizi idealistici, la possibilità di una storia
dell’ethos greco, e ammetteva soltanto storia di attività spirituali «pure»: della poesia, o dell’e-
tica come scienza filosofica professionale. Vedi su questo punto le osservazioni di Giorgio
Pasquali, in «Studi italiani di filologia classica» n. s., XII (1935), p. 45 sgg., e la replica – bril-
lante, ma elusiva – del Calogero in «Leonardo», 1935, p. 337 sgg. Pregi e difetti analoghi – ma
con una minore vivacità critica e una più stretta osservanza crociana – presenta la recensione del-
l’Omodeo, nella «Critica», 1937, p. 455 sgg.
XI. Theodor Gomperz 463
POSTILLE
101
iAlla Festschrift per i settant’anni di Gomperz (cfr. p. 347 del volume di cui ci occupia-
mo) collaborarono, di contro a 30 austriaci, soltanto 11 tedeschi (uno dei quali, L. Radermacher,
468 XI. Theodor Gomperz
doveva di lì a poco diventare professore a Vienna), e 9 studiosi di altre nazioni. Uno di essi, il
polacco T. Zielin!ski, doveva più tardi scrivere forse il più bel necrologio di Gomperz (riportato
a p. 488 sgg. del vol. cit.).
XI. Theodor Gomperz 469
102
iParlo di insolubilità (fino ad ora, beninteso), perché non scorgo nemmeno nell’esaspera-
to nazionalismo e nell’aggressività dell’attuale classe dirigente israeliana alcuna prospettiva
accettabile, mentre d’altra parte in troppi paesi perdura l’antiebraismo. Per quanto riguarda il
Gomperz, bisogna tener conto del rincrudirsi dell’antiebraismo in Germania dal 1880 in poi, ad
opera specialmente di H. von Treitschke. È da questa data che in lettere, appunti, articoli di
Gomperz il problema ebraico viene trattato particolarmente spesso (cfr. a p. 121 sgg. le inedite
Kritische und historische Glossen zur sogenannten Anti-Semiten Bewegung, e tutti i passi cit. nel-
l’indice analitico, pp. 5.55, alla voce Judenfrage; è interessante notare che a p. 386 in un lungo
appunto inedito del 1904, tra i più splendidi ingegni di origine ebraica Gomperz annovera Karl
Marx, malgrado il proprio antimarxismo).
470 XI. Theodor Gomperz
nianze sul padre e a scriverne la biografia, con una cura perfino ecces-
siva di non omettere il minimo dettaglio, indica un legame affettivo
profondo: ben pochi casi, credo, di una simile abnegazione si potreb-
bero citare. E tutto ciò che riguarda la vita del padre, i suoi affetti
familiari, i suoi rapporti con altre personalità del suo tempo, è non
solo documentato, ma commentato e narrato dal figlio con viva par-
tecipazione sentimentale e, insieme, senza dolciastri sentimentalismi
e agiografie. D’altro lato, un lavoro di tanta mole presupporrebbe
anche, nel figlio, la consapevolezza di un alto valore intellettuale del
padre, di un valore non destinato a estinguersi col subentrare di nuo-
vi orientamenti storiografici e filosofici. E invece tale consapevolez-
za (lo si scorge ora ancor meglio di prima) mancò quasi del tutto a
Heinrich Gomperz. L’accentuazione anticoncettualistica e, insieme,
antioggettivistica dell’empirismo, che sta alla base del Pathempirismus
di H. Gomperz, costituivano uno sviluppo (uno sviluppo, certo, estre-
mizzato ed esasperato) di motivi derivanti non solo da Mach, ma
anche da Th. Gomperz: sotto questo aspetto, credo di dover ribadire
(cfr. sopra, p. 449) che un nesso tra il pensiero del padre e quello del
figlio c’era. Ma H. Gomperz non mostrò mai, credo, di esserne con-
scio, anzi attribuì a se stesso (pp. 256 sg., 283 sg., cfr. 292) un influs-
so su quel tanto (quel poco!) di valido che egli riconosceva nel pensie-
ro del padre: con ragione per quel che riguarda qualche dettaglio;103
ma il «fenomenismo» di Th. Gomperz, derivato da John Stuart Mill,
era di molto anteriore a ogni possibile influsso del figlio; e questi esa-
gerò grandemente il distacco dall’etica utilitaristica che, persuaso da
lui, Th. Gomperz avrebbe compiuto: non vi fu in realtà alcun distac-
co, solo qualche maggior cautela di espressione. D’altronde i motivi di
contrasto fra i due pensatori prevalsero ben presto, perché Heinrich
Gomperz, seguendo un itinerario mentale comune a molti della sua
generazione (quell’itinerario mentale che, a dispetto di singoli ed epi-
sodici errori e forzature, è stato, a mio avviso, genialmente ricostrui-
to e confutato e, in parte, addirittura previsto da Lenin in Materiali-
smo ed empiriocriticismo, dove non figura H. Gomperz, ma figurano
molti suoi affini), utilizzò l’empirismo agnosticizzante come pars
103
iScritti di Heinrich Gomperz sono citati spesso nei Pensatori greci (vedi l’indice dei nomi
dell’edizione italiana), ma a proposito di questioni storico-filosofiche particolari, e non sempre
con consenso (cfr per esempio III, p. 584, n.).
XI. Theodor Gomperz 471
1
iNon è questo il luogo adatto per citazioni di bibliografia generale sul Maffei; voglio soltan-
to ricordare il fondamentale saggio di Arnaldo Momigliano, Gli studi classici di Scipione Maffei
(1856, ora nel Secondo contributo alla storia degli studi classici, Roma 1960, p. 255 sgg.). Molto
materiale utile sul Maffei come umanista ed erudito e sui rapporti tra il Maffei e il Muratori si
trova nei vecchi studi del Simeoni e nei più recenti del Gasperoni e del Garibotto.
476 Appendice I
2
iCosì, per esempio, G. Cencetti, Lineamenti di storia della scrittura latina, Bologna 1954,
p. 8 sg.
3
iCfr. la lettera al Bacchini negli Opuscoli ecclesiastici annessi all’Istoria teologica (Trento
1742), p. 57: «I grand’uomini, che sopra questa materia hanno scritto, supposero sempre, che i
Romani altra maniera di scrivere non avessero, che la maestosa delle lapide, delle medaglie, e de’
codici più nobili, e sontuosi. Ma questo è per l’appunto, come s’altri osservando in oggi pari-
mente le nostre iscrizioni, le nostre monete, e le nostre stampe, venisse a credere, che dell’istesso
carattere, e dell’istesso modo ci servissimo anche nell’ordinario scrivere, e negli atti notariali, e
nelle missive». Così anche nella Verona illustrata, ediz. di Milano 1825, vol. II, p. 560.
4
iP. 177 sgg.: Ritmo de’ tempi di Pipino e dissertazione sopra i versi ritmici. La dissertazione fu
ripubblicata dal Maffei negli Opuscoli ecclesiastici cit. (p. 247 sgg.), col titolo De’ versi ritmici e
dell’origin loro e con notevoli modifiche, le quali però non riguardano la tesi fondamentale, ma
singole questioni di critica del testo. Cfr. L. Simeoni, prefazione al tomo II, parte I della nuo-
va ediz. dei Rerum Italicarum Scriptores (Bologna 1918), p. x sg.; A. Campana, Veronensia, in
Miscellanea Mercati, II, Roma 1946, p. 57 sgg., specialmente, p. 63. Sul testo dei carmi verone-
si si veda anche D. Norberg, La poésie lat. rythmique du haut Moyen Age, Stoccolma 1954, p. 104
sgg.
478 Appendice I
5
iIl Maffei supponeva – come più tardi altri studiosi – un originario saturnio «ritmico», poi
regolarizzato e reso «metrico» da Nevio: cfr. Ist. diplom., p. 187 = Opusc. eccles., p. 248. Dal
Maffei deriva il Muratori, Ant. Ital. Medii Aevi, III, col. 665 sg.
6
iSoprattutto un passo di Beda sulla distinzione fra rhythmus e metrum (ora nei Grammatici
Latini del Keil, VII, p. 258) sembrava a favore di questa tesi. Probabilmente già lo stesso Beda,
basandosi sulla propria sensibilità ritmica non più quantitativa, aveva frainteso i grammatici più
antichi, i quali intendevano per «ritmo» qualcosa di meno regolarizzato del «metro», ma sem-
pre su fondamento quantitativo. Cfr. W. Meyer, Gesammelte Abhandlungen zur mittelalt. Rhyth-
mik, III, Berlino 1936, p. 139; D. Norberg, Introd. à l’étude de la versif. lat. médiév., Stoccolma
1958, p. 87 sgg.; M. Barchiesi, Nevio epico, Padova 1962, p. 310 sg.; S. Mariotti in «Riv. di cul-
tura class. e mediev.» VII, 1965, p. 628.
7
iDel Vossius vedi De artis poeticae natura ac constitutione, cap. XIII, e Poeticarum Institu-
tionum lib. I, cap. VIII, § 12 (tutt’e due nell’ediz. delle Opere di Amsterdam 1697, vol. III,
Appendice I 479
cisamente nel legame che egli stabilisce tra i vari aspetti della cultura
medievale, e quindi nella visione unitaria del Medioevo italiano come
continuazione della civiltà romana (o romano-italica: si ricordi l’im-
portanza da lui attribuita al sostrato), immune da rilevanti influssi ger-
manici.
Se, quindi, nel passo sopra citato della Scienza cavalleresca egli ave-
va asserito che la civiltà romana in tutti i suoi aspetti (fra l’altro anche
nella lingua) era stata corrotta dai barbari, ora, nella Verona illustrata,
si disdice esplicitamente.8 Resta immutato il patriottismo classicista,
l’odio verso i barbari; ma alla visione pessimistica del Medioevo come
catastrofe della civiltà romana è sottentrata una visione positiva del
Medioevo stesso, almeno di quello italiano.
Mentre per quel che riguarda la lingua e la scrittura le teoria del
Maffei si sono rivelate – a parte i loro moventi ideologici – scientifi-
camente in massima parte esatte, maggiori riserve si devono fare quan-
to alla metrica. Rimane, certo, un merito del Maffei l’avere analizzato
con grande finezza vari tipi di ritmi mediolatini, a cominciare dal fa-
moso «quindicinario» dell’arcidiacono Pacifico, e l’aver dettano sane
norme per la critica testuale dei versi ritmici, tenendosi lontano sia
dalle arbitrarie regolarizzazioni secondo i criteri della metrica classi-
ca, sia dal lassismo critico-testuale di cui aveva dato prova, fra gli altri,
il Muratori. È anche giusto, in via generalissima, il principio che in
fatto di metrica «natural cosa è il principiar col più semplice e men
perfetto, passando poi al più studiato ed artifizioso»: il Wilamowitz
esprimerà lo stesso concetto nella formula von der Freiheit zur Strenge,
da lui messa a fondamento dell’evoluzione della metrica greca. Ma
assai rischioso fu l’identificare la «semplicità» o «libertà» col sistema
accentuativo e l’«artificio» col sistema quantitativo, l’attribuire cioè
al volgo romano antico la nostra stessa sensibilità ritmica, la nostra
mancanza o debolezza del senso della quantità. Il Maffei non arrivò a
enunciare questa tesi in forma estrema, anzi ammise che «il nostro
orecchio lunghe e brevi più non distingue, fuorché ne’ raddoppia-
menti e nelle penultime sillabe» (diversamente, dunque, dall’orecchio
con numerazione delle pagine non continua). Il secondo passo del Vossius è citato anche dal
Muratori.
8
iEd. di Milano cit., II, p. 532: «Tanto parci poter bastare, e almeno a noi certamente basta,
per conoscere quanto c’ingannammo, quando asserimmo in altr’opera ... e l’abito e la lingua per
la dimora de’ Barbari essersi in Italia cambiati».
480 Appendice I
9
iS. Bertelli, Erudizione e storia in L. A. Muratori, Napoli 1960, cap. III. Cfr. l’introduzione
di G. Falco a Muratori, Opere a cura di G. Falco e F. Forti, Milano-Napoli 1964, I, p. XXII.
Per il filo-longobardismo del Muratori va tenuto presente anche l’influsso del Bacchini: cfr. l’ar-
ticolo di Arnaldo Momigliano su Bacchini in Diz. biogr. degli Italiani, V, p. 24.
Appendice I 481
10
iVedi qui sopra, pp. 337-338 e n. 26. Anche nelle note ai passi delle Antiquitates inclusi nel-
l’antologia cit. a cura di Falco e Forti (I, p. 630 sgg.) il contributo del Maffei, soprattutto per
ciò che riguarda l’origine della lingua italiana, non mi sembra posto nel dovuto rilievo.
482 Appendice I
11
iG. Previtali, La fortuna dei primitivi dal Vasari ai neoclassici, Torino 1964, pp. 70 sgg., 79 sgg.
Sul Maffei come conoscitore e giudice di opere d’arte, specialmente veronesi, cfr. Franco Bar-
bieri, S. Maffei storico dell’arte, in «Miscellanea Maffeiana», Verona 1955, p. 25 sgg.
12
iVedi qui sopra, pp. 338, 340, 342-343. Per il Leopardi vedi anche C. Galimberti in «Ras-
segna della letter. ital.» LIX, 1955, p. 460 sgg. L’ammirazione non meramente culturale che il
Leopardi ebbe per il Maffei come precursore di quel tipo di nobile «alfieriano» di cui egli stes-
so si considerava un esempio, è documentata da Zib., 4419.
Appendice I 483
contro la lingua d’una nazione, contro il solo vincolo della vita e del nome comune? Per fermo
quest’è opera di tenebre e di confusione, contro la quale parlar dovrebbe chiunque ha caro que-
sto prezioso patrimonio dei dotti e del vulgo, la lingua, la lingua, che, più dell’alpi inutili e del
mare non nostro, segna il confine e la divisa della nostra gloriosa nazione» (SL, I, p. 116). E nel
passo già citato delle Interdizioni israelitiche l’eliminazione dei dialetti (e del campanilismo di cui
sono espressione) è addirittura considerata «un fomento alla pace universale».
488 Appendice I
1
i| Vedi ora il primo saggio {di «Aspetti e figure della cultura ottocentesca»: «Aspetti della for-
tuna di Lucano tra Sette e Ottocento», pp. 1-79 } |.
2
| Vedi {«Angelo Mai», ivi}, pp. 245-247 |.
492 Appendice II
3
i| Su limiti e pregi della filologia foscoliana sono ritornato più tardi: vedi {«Sul Foscolo filo-
logo», in «Aspetti e figure della cultura ottocentesca», cit.}, pp. 105-135 |.
498 Appendice II
4
i| Cfr. Il primo cinquantennio della «Rivista di filologia e d’istruzione classica», in quella rivi-
sta, C (1972), p. 387 sgg., specialmente 389-93, 403-06. Sul Vitelli ho cercato di dare un giudi-
zio equilibrato, a partire dal suo pamphlet postumo Filologia classica ... e romantica, in «Belfagor»,
XVIII (1963), p. 456 sgg. e XXXIII (1978), p. 697 sgg., e, per quanto riguarda i suoi rapporti
con giovani letterati che ebbero per lui vivissima ammirazione, nell’articolo De Robertis e la filo-
logia, in «L’approdo letterario», X, n. 25, gennaio-marzo 1964, p. 29 sgg.; vedi anche, per l’at-
teggiamento del Vitelli di fronte a F. De Sanctis, a Croce e a un crociano eterodosso come Lui-
gi Russo, la sua lettera a Russo pubblicata in «Belfagor», XXXIV (1979), p. 305 sgg. Il Treves
è tornato a ribadire la sua posizione antivitelliana (troppo antivitelliana, a mio avviso, seppure
in parte giustificabile come reazione agli atteggiamenti troppo apologetici di alcuni scolari del
Vitelli) nel saggio, come sempre ricco di dottrina, Girolamo Vitelli, in «Studi in onore di Vitto-
rio De Caprariis», Messina 1970, p. 289 sgg. Rimane sempre fondamentale il saggio su Vitelli
di G. Pasquali, in Terze pagine stravaganti, Firenze 1942, p. 297 sgg. [Pagine stravaganti, nuova
ed. {, Firenze 1968}, II, p. 205 sgg.]; il distacco di forma mentis di Pasquali rispetto al Vitelli è,
in questo scritto, ben visibile; ma non può essere sforzato fino a presentarlo quale un’assoluta
contrapposizione, come fa il Treves. Quanto al Piccolomini, oltre ciò che ho osservato nell’art.
cit. della «Riv. di filologia», p. 418 sg., mi sia lecito rinviare all’articolo {su «Giacomo Lignana
e i rapporti tra filologia, filosofia, linguistica e darwinismo nell’Italia del secondo Ottocento»}, in
«Critica storica», 1979, p. 489 sg. |.
Appendice II 499
5
i| Cfr. La filologia di G. Leopardi, Bari 19782, pp. 127-129; G. Bezzola, Tommaseo a Mila-
no, Milano 1978, pp. 114-123 |.
500 Appendice II
6
i| Sulla «scoperta» del pessimismo antico, compiuta dal Leopardi nel primo soggiorno roma-
no, vedi ora {, qui, «Il Leopardi e i filosofi antichi»}, p. 163 sgg. (e p. 161 sgg. per Teofrasto) |.
7
i| G. Leopardi, Scritti filologici a cura di G. Pacella e S. Timpanaro, Firenze 1969, pp. 1-
41; cfr. La filologia di G. Leopardi2 cit., pp. 33-41 |.
Appendice II 501
bandelle 1984
Più sotto:
Proprio per questa radicalizzazione del concetto di natura e del contrasto fra semplicità antica e corruzione
moderna è legittimo l’accostamento a Rousseau, anche se Rousseau, almeno in un primo tempo, non fu una
fonte diretta del Leopardi.
Immediato, sino, in certi tratti, alla ripresa testuale del dettato, il raffronto identificativo con
la «copertina»: «Giordani, Leopardi, Cattaneo [...] militarono nel fronte classicista non per spi-
rito retrivo o per tradizionalismo letterario», bensì per elevare laico argine all’attacco d’un roman-
ticismo concepito soprattutto nelle sue componenti reazionarie, provvidenzialistico-religiose:
La fedeltà stessa ai classici latini e greci (e, per quel che riguarda la «questione della lingua», ai trecentisti)
era intesa dal Giordani, dal Leopardi e da altri classicisti-illuministi minori non come scolastico ossequio a
modelli precostituiti, ma come un «ritorno alla natura».
E tutto lo svolgimento di Natura, dèi e fato nel Leopardi sarà un’esplicazione in chiaro dei con-
cetti espressi in quel capoverso della «copertina»; o, se si preferisce, sarà quest’ultima a poter-
si consentire il lusso d’eleggere a fonte, a materia prima per la propria essenza di compendio
scrittorio di «presentazione» allo studioso e al comune lettore, il vero capitolo chiave, se non
dell’intero libro, certo dello sviluppo diacronico dello stesso libro, del suo passaggio dalla prima
alla seconda edizione, e anche alla successiva, ipotizzata e mai realizzata vivente l’autore (sulle
vere e proprie correzioni al VI capitolo, cfr. più sotto, ad vocem, in queste Annotazioni).
** ibid. δ: «Postfazione e numerose aggiunte e rettifiche»: la Postfazione è rimasta, per quan-
to ci risulta, nel rango d’indicazione intenzionale nel progetto d’autore; le «aggiunte e rettifi-
che» sono invece documentate e qui riprodotte; dopo «numerose»: cancellato «postille».
** p. LXXVII C: «correzioni a pp. 6, 19, 76, 145, 147, 155, 260, 283, 208, 227, 282» (i
numeri di pagina si riferiscono alla prima edizione, 1965).
** ibid. A: «156-79»
«correzioni a p. 64 n. 89»
«su Stellini e Romagnosi cf. Moravia, Vichismo e ‘idéologie’, in Omaggio a Vico, Napoli 1968»
«Su Giordani critico lett. abbastanza bene G. Marzot, nei Critici I, 30-39.»
«M. Vitale, Classicismo e purismo, «Acme» XXIII (1970), 233 sg. [ho l’estratto]»
«Giuliano Baioni, Classicismo e rivoluzione: Goethe e la Rivol. francese, Guida, Napoli 197»
Il numero di pagina (64) delle «correzioni» si riferisce, nello stesso modo dei numeri segna-
ti qui sotto in δ («addenda»), alla precedente edizione 1969; l’ultima annotazione sul volume
di Baioni termina con il numero di pagina, «197»; appare da escludere un’indicazione mutila di
data – ad esempio «1970» – perché la prima ed. di Classicismo e rivoluzione di Baioni è del 1969
e il libro non ha avuto ristampe negli anni 1970, bensì nel 1982, nel 1988 e nel 1998 (l’ultima
con il titolo mutato in Goethe: classicismo e rivoluzione, sempre Einaudi, Torino).
prefazione
Com’è noto, il «volume di questa stessa collana» (Aspetti e figure della cultura ottocentesca)
che doveva uscire «l’anno prossimo» (cioè nel 1978), uscirà invece tre anni dopo questa nota,
nel 1980.
** p. CI: cfr., sùbito qui sopra, la nostra nota alla fine della Prefazione alla seconda edizione.
introduzione
** ibid. δ: «Gigli (Forlini-Anelli)» (annotazione replicata in forma quasi uguale – «p. 62:
Gigli, Forlini, Anelli» – nelle Postille e aggiunte bibliografiche in δ; «p. 62» è riferimento alla
numerazione Nistri-Lischi).
** p. 55 A: «Pellico sempre antigiordaniano nelle lettere al fratello ed. M. Scotti, GSLI Sup-
pl. 28, 1963, p. 39 – (Dopo l’uscita dei 1i due nr. della Bibl. Ital., “Il povero Monti è già disgu-
stato, e d’Acerbi, ch’è, dicono, un intrigante, e di Giordani, che col suo preteso saper la lingua
ha ottenuto gran voce in questo giornale”{)}».
** ibid. δ: «pp. 65-71 quest. lingua Asp. figure; p. 69 Cecioni e mia recens.; p. 69 lett. a
Viani, cfr. A» (le indicazioni numeriche appartengono all’edizione Nistri-Lischi; la questione
della lingua è trattata, in Aspetti e figure, soprattutto nel capitolo dedicato, appunto, ad Il Gior-
dani e la questione della lingua – pp. 147-223 –, anche riguardo al rapporto con i dialetti; su
Gabriele Cecioni cfr. più sotto, annotazione alla n. 125; per la lettera a Viani cfr. qui sotto,
annotazione a n. 55; A è la copia del 1969).
** p. 58 A e δ: «XI» (il testo stampato, compresa l’edizione 1969 nella rist. 1988, reca «XI,
367»: errato rinvio a quello che è invece il vol. X delle Opere di Pietro Giordani).
** ibid. n. 55 A: «e anche più tardi lett. a P. Viani in Clelia Viani, con accenno alle “anti-
che e moderne mitologie”» (in A 69 è lasciato un ampio spazio bianco fra il mancato compimento
della citazione del volume della Viani e la precisazione dell’«accenno»; Timpanaro si riferisce a
Clelia Viani, La vita e l’opera di Prospero Viani accademico della Crusca, con lettere inedite di Pie-
tro Giordani a lui, U. Guidetti, Reggio Emilia 1920).
** p. 59 n. 56 C: «(XIV, )» (l’autore allude ad Opere, XIV, 372; cfr. postilla alla stessa n. 56).
** p. 61 postilla δ: «Antileop. Panegirico Dionisotti».
** p. 63 n. 68 A: «G. Gambarin (annotato qui sotto, a p. 122)» (a p. 122 dell’ed. Nistri-
Lischi vi è effettivamente l’annotazione qui anticipata, che riproduciamo più sotto).
** p. 65 δ: «p. 77 cfr. Passerin e Spadoni» («p. 77» si riferisce all’edizione Nistri-Lischi);
A: «Male su ciò E. Passerin, L’Ottocento nella St. lett. Garzanti, p. 000; bene D. Spadoni, Sètte
cospirazioni e cospiratori nello St. pontificio, Roma-Torino 1904, pp. LIII e LXXXII.» (prima di
«LIII» vi è un «LX» cancellato).
Il riferimento a Passerin allude alla trattazione di Ettore Passerin D’Entrèves, Ideologie del
Risorgimento, nell’opera collettiva Storia della letteratura italiana, a cura di Emilio Cecchi e Nata-
lino Sapegno, 9 voll., Garzanti, Milano 19822 – I ed.: 1969 –, VII – L’Ottocento –, pp. 181-366.
Le pagine alle quali si richiama (senza precisarle) Timpanaro sono nella Bibliografia finale del
capitolo di Passerin d’Entrèves e sono riferite proprio alla collocazione ideologico-culturale di
Giordani, in particolare all’Orazione per il riacquisto delle tre Legazioni ed alla lettera al Cardi-
nale Consalvi; dalle stesse pagine (354-355) appare opportuno riprendere le considerazioni di
Passerin d’Entrèves, a confronto comparativo con i concetti timpanariani e a riprova dell’im-
portanza d’un’equa valutazione della figura di Giordani, intellettuale e scrittore determinante
ai fini dell’incerto giudizio storiografico (e polemico) che si è affermato sul classicismo pri-
moottocentesco italiano:
Resta tuttavia da riflettere sulla persistente tendenza di Pietro Giordani, e non soltanto del Giordani, a non
distinguersi da quel patriottismo del movimento purista che «difendeva un’arcaica italianità contro l’illumi-
nismo e contro il romanticismo nello stesso tempo». Né sembra che il Timpanaro, volendo salvare la posizio-
ne «patriottica progressista» del Giordani stesso, abbia presente tutta l’orazione Per le tre Legazioni riacqui-
state dal Sommo Pontefice Pio VII (Parma, tipografia Imperiale, 1815: importante anche la lunga dedica al Card.
Consalvi, che vi è premessa, e la replica alle critiche di Mons. Giustiniani, delegato apostolico della città e pro-
vincia di Bologna, che la segue). Giustamente, insomma, il Giordani avvertiva di non poter entrare nel mon-
Annotazioni autografe 511
do nuovo degli scrittori impegnati del Risorgimento, anche se moderati, e si sentiva mero «spettatore» delle
loro lotte. L’aulicità irrimediabile, ch’era retaggio dell’età napoleonica, poteva ben suggerirgli una sincera e
veridica autodifesa nel ’34: «Io non ho mosso mai, non moverò mai un dito contro i troni»: neppur contro il
potere temporale del pontefice, soggiungerei, quando altri supplicava il pur aulico Monti di far presente ai
potenti, a Milano, la volontà prevalente fra i colti, in Bologna, di restare aggregati ad uno Stato laico (cfr. S.
Timpanaro, op. cit. {«Classicismo e illuminismo nell’Ottocento italiano», citato nell’edizione 1965 – N. d. C. –},
pp. 76-81 e l’Epistolario di V. Monti, Firenze 1928-31, vol. IV, p. 157, per la lettera di P. Costa del 6 mag-
gio 1814 in cui gli raccomanda, a nome di molti, la sorte di Bologna). Le «esigenze antioscurantiste» (ivi, pp.
86-97) potevano portare il Giordani a polemizzare colla tendenza concordataria del regime napoleonico, e più
tardi col neoguelfismo, con Gioberti, col Rosmini stesso, che «pensava a fondare nuova fraterìa», ma non ad
una coerente impostazione politico-culturale progressiva, per servirsi del termine del Timpanaro, che ammet-
te inoltre quanto poco fosse aggiornato sugli sviluppi del pensiero recente, specie tedesco: simile in questo ad
un Leopardi, ad un Romagnosi, ecc. (ivi, pp. 89-90).
Una citazione timpanariana del VII volume della Letteratura Garzanti, comprendente un rife-
rimento (in questo caso segnato da consenso al singolo scritto – non alla generale impostazione –),
a Passerin d’Entrèves, è nella prima postilla all’Introduzione a Classicismo e illuminismo, alla quale
rinviamo, ricordando, secondo le parole dell’autore, che gli
studiosi che in quel volume si occupano più specificamente del romanticismo e delle discussioni tra romanti-
ci e classicisti-illuministi (Giovanni Macchia, Giovanni Orioli e, per l’aspetto politico-ideologico, Ettore Pas-
serin d’Entrèves) muovono da una concezione e da una valutazione del romanticismo diverse da quelle soste-
nute nel presente libro. Molto pregevole è, comunque, soprattutto il saggio del Passerin.
“Boll. stor. piac.” 1911 e 1913»; δ: «p. 85 A e art. nel Boll. stor. piacent.» (p. 85 è riferito all’e-
dizione Nistri-Lischi; la precisa indicazione, in δ, della copia A, e delle due correzioni che rego-
larmente vi sono confluite, rende evidente la funzione, rivestita in questa come in altre anno-
tazioni dal testimone δ, di collettore razionalizzante di modifiche già distillatamente apportate
negli altri testimoni, cronologicamente anteriori).
** p. 73 n. 97 A: «e Napoli 1835, p. 64 (così Savarese, Paralipomeni, da vedere a pp. 150-51
per il geocentrismo di Monaldo{)}.»; δ: «p. 87 A» («87» si riferisce all’edizione Nistri-Lischi).
** p. 74 n. 103 A: «sul Bianchetti cfr. Gentile, Storia d. filos. italiana dal Genovesi al Gal-
luppi, II 2, 1930, p. 111 n. 1; ibid. p. 116 sg sul Papadopoli.»; δ: «p. 89 A Bianchetti, e Di Pre-
ta» («89» nell’edizione Nistri-Lischi; Di Preta è citato da Timpanaro in Aspetti della fortuna di
Lucano tra Sette e Ottocento, primo capitolo di Aspetti e figure, p. 61, n. 94).
** p. 75 C: «dite (?)» (sia «pensate» del testo, sia «dite» scritto a margine sono accompa-
gnati da una crocetta di richiamo: «x»).
** ibid. B: «A. De Rubertis, Studi sulla censura in Toscana, Pisa 1936, p. 249 il Panegirico
vietato al libraio Pietti, oltre che per le lodi a Napoleone, perché si diceva che il pensiero risul-
tava “da un misterioso composto di operazioni chimiche e meccaniche”.»; δ: «p. 91 pens. secrez.
del cervello B A. De Rubertis» (la p. 91 è in realtà la 90 dell’edizione Nistri-Lischi; l’indicazio-
ne di «B» riprende in δ il testimone 1973, sede dell’annotazione).
** p. 79 n. 117 A: «Ruffini, Un angolo tranquillo del Giura, cap. VIII: sul Leopardi con
testim. del Gioberti?»; δ: «p. 95 A e Antileop.» (95 è numero di pagina dell’edizione Nistri-
Lischi; «p. 95 A» è la ripresa, in δ, dell’annotazione concernente Ruffini).
** p. 81 δ: «”» (la correzione di refuso, una chiusura di virgolette non assumibile nella
nostra edizione, data la regolare chiusura alla fine del periodo a generose!, denota l’incertezza
dell’autore in questa citazione; la correzione da noi regolarmente assunta nel testo [cr], il punto
interrogativo, è invece in B; il punto interrogativo si trova pure, ed è significativo che si tratti
dell’unica correzione autografa lì presente, nella copia da noi consultata della ristampa 1988).
** p. 82 n. 123 A: «Lettere inedite a Lazzaro Papi, Lucca 1851, p. 117 (17 aprile 1833): “Sen-
tii la morte dell’Antologia; ed è veramente cosa deplorabile. Le tenebre s’infittiscono; ma il sole
durerà più di loro”.».
** ibid. n. 125 A: «Tuttavia Cecioni, Viglio»; δ: «p. 99 n{ota}. A Cecioni, Viglio {ripetu-
to sul margine sinistro:} Cecioni (e mia recens.), Viglio, Spaggiari» (Timpanaro si riferisce, qui, a
Gabriele Cecioni, Lingua e cultura nel pensiero di Pietro Giordani, Roma, Bulzoni, 1977 – volume
più volte citato in Aspetti e figure della cultura ottocentesca e in Nuovi studi sul nostro Ottocento e
ripetutamente presente nelle annotazioni autografe di δ – e a Patrizia Viglio, Sulla formazione
ideologica di Pietro Giordani, in «Bollettino storico piacentino», LXXVII – 1982 –, pp. 54-81).
** ibid. inizio citazione B: «Bibl. Laur. C. Giordani XII 38, 5 nov. 1845 (a propos. della
malattia della moglie di Pietro Gioia): “Dirò anch’io; oh che vita! Ma quasi non bastasse la natu-
ra a farcela grave e dura, tanti uomini si brigano di aggravarcela; e per essere sicuri di non man-
care di guai ci fabbrichiamo principi e preti!”»; δ: «B (Gussalli tesi-ipotesi)» (nella copia B non
v’è, all’altezza di questa pagina – 99 edizione Nistri-Lischi –, annotazione autografa riguardan-
te il Gussalli; ma, a parte la continua «occorrenza concettuale», nei saggi ottocentistici di Tim-
panaro, del nome del curatore delle opere del Giordani, il binomio tesi-ipotesi può essere impli-
cito nella stessa citazione dalle laurenziane Carte Giordani sulla malattia della moglie del Gioia:
la tesi «generale» – «oh che vita!» – è che l’esistenza biologica dell’uomo è improntata alla sof-
ferenza; l’ipotesi è costituita da un auspicabile mondo in cui a tale sofferenza fosse almeno
risparmiato il concorso dell’umana responsabilità e, soprattutto, dell’umana ignoranza; e tutto
quel nucleo di pagine e di citazioni giordaniane è centrato sull’antioscurantismo del Piacentino,
sulla sua oscillazione tra una parziale assunzione del radicale pessimismo leopardiano, diacroni-
camente realizzatasi nella lettura delle opere del Recanatese, e una linea di ripresa della fonda-
mentale fiducia illuministica nella possibilità di lottare per rischiarare l’umanità dalle tenebre
dell’ignoranza e dell’ingiustizia).
Annotazioni autografe 513
** ibid. citazione («sorda materia inorganica)» C: «Forse accenno alla chiusa di Sopra il
ritratto di una bella donna?».
** p. 83 C: «cf. nota a p. preced.» (per «nota» Timpanaro intende proprio l’annotazione
autografa precedente a questa – «Forse accenno alla chiusa di Sopra il ritratto di una bella don-
na?» –, dato che la scritta a lapis si pone, nella p. 100 dell’ed. 1965, esattamente all’altezza del
capoverso che allude, da parte dello studioso, alla «materia senziente» e alla sua soggezione alle
stesse dure leggi della «materia inorganica»; dunque, non «nota» piè pagina né postilla, ma
annotazione autografa).
** p. 84 n. 128 δ: «Lett. a ... 102 n. 128» («102» si riferisce all’edizione Nistri-Lischi; la
lettera ha come destinatario Leopoldo Cicognara).
** p. 85 A: «cfr. Binni, Arcadia e Metastasio, p. 60.».
** ibid. A: «Nei Carteggi it. ed. Orlando, 1, II, p. 133 a proposito del tempo cattivo (a
Vieuss., 13 dic. 1830, da Parma): “Oh stagione monarchica!”. – XIV, 175: “Don Seneca” (per
il tono predicatorio).»; δ: «p. 103 A, e teologo algerino, schiavone (Tommaseo?) (“Matteo” cf.
oltre{)}» («teologo algerino» – si tratta ovviamente di Sant’Agostino – e quel che segue sono
cancellati poiché l’autore s’è potuto avvedere che tali riferimenti erano già impliciti nell’an-
notazione precedente alla n. 128 – cfr. qui sopra, e, nel testo, con due maiuscole al posto della
cursoria citazione a mano dell’autore, «il teologo Algerino» e «il biliosissimo Schiavone Giro-
lamo», n. 128).
** p. 86 n. 132 A: «Su rapporti sessuali del G. cfr. XIV, 174.»; δ: «p. 104 A + Dionisot-
ti».
** p. 88 δ: «p. 107 Antileop.» («107» è numerazione Nistri-Lischi).
** p. 95 (prima di «interpretazione») A e δ: sostituito «dell’».
** ibid. (dopo «realistica») δ: «115. De Sctis e Leop.» (De Sanctis e Leopardi; «115», al
solito, secondo la numerazione Nistri-Lischi).
1104; autodifesa della N.: III 931-77.» (l’annotazione si trova su un foglietto incollato, a coprire
il testo, sulla p. 131 della copia del 1965; i rinvii lucreziani dell’annotazione e la collocazione
all’altezza della penultima pagina del capitolo Giordani, Carducci e Chiarini, quasi immediata-
mente prima dell’inizio di Alcune osservazioni sul pensiero del Leopardi e, più in generale, prima
di una sequenza di capitoli interamente leopardiani o comunque centrati sul Recanatese, fa pro-
pendere per una collocazione «concettuale» diversa del foglietto, che doveva essere introdutti-
vo allo stesso gruppo di capitoli leopardiani).
Treves), Guerzoni, Giulio Cesare nell’arte, in «Politecnico» XXV, 1865, 211-32, 257-97 (su
Lucano 223-229, su Plutarco 230-232).»; d: «149-150 A e tutto Aspetti e figure (Grassi
anche); La Penna, Velli Narducci».
** p. 122 postilla δ: «Sul materialismo mio Holbach».
** p. 125 postilla δ: «Falsificaz. Aspetti e figure (dubbi di Binni)» («Falsificaz.» allude al
saggio timpanariano Di alcune falsificazioni di scritti leopardiani, inserito, dopo la prima pub-
blicazione nel «Giornale storico della letteratura italiana» – 1966 –, in Aspetti e figure della
cultura ottocentesca, e ora capitolo V di questo volume).
** p. 126 δ: «156-58: Blasucci e già Antileop. 157 n. 16» («156-58»: numero di pagina
appartenente all’edizione Nistri-Lischi).
** p. 130 δ: sul margine sinistro, una parentesi quadra aperta ed una barretta verticale di
richiamo.
** ibid. B: «così già bene in “Crit. stor.” III 1964, 417» (Timpanaro allude alla redazione
del testo di questo capitolo, Alcune osservazioni sul pensiero del Leopardi, apparsa in rivista nel
1964 – al testo in rivista si riferisce anche il numero di pagina, 417 –; il testo era allora corret-
to e non necessitava, quindi, di un intervento su quel saut du même au même che avrebbe cau-
sato l’omissione di «anche dell’immortalità»; di tale correzione v’è invece qui bisogno, al pun-
to che l’autore la scrive di sua mano in δ, oltre che in B: cfr. più sotto, in queste Annotazioni,
cap. VIII – Epicuro, Lucrezio e Leopardi –, n. 52. In B, con l’aggiunta della presente annota-
zione, Timpanaro ricorda che la modifica non è altro che il legittimo ritorno all’esatta versione,
precedentemente stampata in «Critica storica»).
** p. 131 δ: «162 sulla morte» («162» è numerazione dell’edizione Nistri-Lischi).
** ibid. n. 65 δ: sul margine destro, segno di richiamo, espresso con un cerchietto. Timpa-
naro si riferisce al testo della postilla (che parte appunto dalla considerazione del saggio di Bigi)
alla stessa nota 65: postilla resa valida dall’autore anche per le successive note 68 e 70.
** p. 134 C: «cfr. anche Zib., 4138 sg. (12 maggio 1825), su cui Savarese, Paralip., 109 n.
61.».
** p. 135 δ: «p. 166-67 Rousseau e gli altri, troppo reciso» («166-67» è numerazione del-
l’edizione 1969).
** p. 136 postilla δ: «ora pubbl. Cat. Del Vivo, Vannucci».
** ibid. n. 72 A: «Atto Vannucci».
** p. 137 δ: viene corretto «poteva».
** ibid. n. 73 A: «Lett. del Giord. in Carteggi ital. ined. o rari, antichi e moderni racc. ed
annot. da Filippo Orlando, serie I, vol. I, Firenze 1892, p. 11.»; δ: «170 A Carteggi Orlando»
(«170» è numerazione dell’edizione Nistri-Lischi).
** ibid. postilla δ: «Antileop. e Carpi».
** p. 140 δ: «p. 173 Ginestra, solidarismo: Antileop., Leop. e Riv. francese e “Leop. verde”»
(«173» è numerazione dell’edizione Nistri-Lischi).
** p. 141 postilla δ: «Belf. su Marchesi – La Penna / De Liguori».
** p. 143 δ: «p. 177 Biral» («p. 177» è numerazione dell’edizione Nistri-Lischi).
** p. 144 n. 84 δ: «178 nota: Gramsci» («p. 178» è numerazione dell’edizione Nistri-Lischi).
** ibid. postilla δ: «Materialismo; Antileop. Leop. verde».
** p. 148 A: «cfr. Cavalluzzi (annotato a p. 40), p. 382 n. 14» («p. 40» si riferisce all’edi-
zione 1969 A, su cui Timpanaro lavora; per il precedente richiamo a Cavalluzzi cfr. l’ultima
annotazione all’Introduzione; la pagina iniziale di Il Leopardi e i filosofi antichi, naturalmente
sprovvista d’esplicita numerazione, è stata segnata dall’autore, per comodità, con il suo nume-
ro, cerchiato: «183»).
516 Annotazioni autografe
Si avverte in premessa che, nel testo a stampa 1980 Nistri-Lischi, Timpanaro usa, a com-
pendio di Appunti leopardiani di Cozza-Luzi, «AL», anziché, come nel «Giornale storico» del
1966, «A. L.».
** p. 184 Foglio di risguardo FLGS: «cfr. G. Lonardi, “Leopardismo” ecc. in ‘Studi nove-
centeschi’ I 1, marzo 1972, pp. 17 sg. / Binni, La protesta di Leopardi, Firenze 1973, p. 199 n.
2. / A. Monteverdi, / forse R. Negri, Leop. nella poesia italiana, Le Monnier, Firenze 1970 (rec.
in Rass. lett. ital. 76, 1972, 152 sg.)» (questi riferimenti bibliografici sono giunti ad utilizzazione
nelle pagine della redazione in volume – in particolare quello concernente Monteverdi, sul qua-
le vedi qui sotto, e quello riguardante lo specifico luogo citato di Binni, discussi nell’aggiunta
alla finale nota 73, regolarmente pósta fra i segni «| ... |» –, ad eccezione di Renzo Negri, il cui
Leopardi nella poesia italiana – appunto Le Monnier, «Documenti e studi leopardiani» 4 – non
è citato neanche in Aspetti e figure; l’incompiuta citazione da Angelo Monteverdi si richiama a
Frammenti critici leopardiani2, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 1967, più volte rammenta-
to nel testo e in nota; si ricorda che il Lonardi di Leopardismo, insieme al Balduino del Manua-
le di filologia italiana, integrerà anche la successiva nota 68, limitantesi nel 1966 – «Giornale sto-
rico» cit., p. 118 n. 1, secondo la numerazione di pagine e di note adottata dalla rivista – alla
precisazione numerica di voci del Catalogo del fondo leopardiano della Biblioteca Comunale di
Milano, 1958).
** ibid. n. 1 FLGS: «alcuni degli Appunti» (redaz. 1966).
** ibid. n. 1 FLGS: «altri» (redaz. 1966).
** ibid. FLGS: «“dolori fisici e non solo fisici” G. Mercati!» (annotazione manoscritta, sul
margine sinistro).
** p. 185 FLGS: «(anch’essa, in senso diverso, reazionaria e falsificante riduttiva e aber-
rante) d’un» (correzione autografa del 1966; «reazionaria e falsificante» cancellato; «seppur
meno assurda» è aggiunta del testo a stampa, non documentata in annotazione manoscritta; al
posto di «di un [Leopardi]», il testo a stampa del 1966 recava «del», e la relativa correzione
autografa «d’un»).
** p. 188 FLGS: «polemiche» (attributo di «lungaggini e divagazioni»: redaz. 1966; «super-
flue» è innovazione della stampa nistri-lischiana e non è attestato in annotazione manoscritta).
** p. 190 («qui sopra») FLGS: «p. 89» (numerazione del «Giornale storico»; e così più sot-
to, «p. 89, lettere a, b, c»).
** ibid. n. 11 FLGS: «Saggio sul Leopardi, 4a ed., Firenze 1960, p. 264» (redaz. 1966; nel
«Giornale storico» le citazioni dal Saggio saranno riferite a questa edizione).
** ibid. n. 12 FLGS: «Le poesie e le prose a cura di F. Flora, I, 4a ed., Milano 1953» (redaz.
del 1966; cfr. Avvertenza sulle citazioni da «Aspetti e figure della cultura ottocentesca»).
** ibid. n. 13 («cfr.») FLGS: «Ultimo, in ordine di tempo, a credere all’autenticità sono sta-
to io, in un articolo pubblicato in “Critica storica” del 1964 e ristampato in» (redaz. del 1966;
da «All’autenticità» sino a «cfr.» si tratta d’innovazione, non attestata come manoscritta, del-
518 Annotazioni autografe
l’edizione 1980; l’articolo è Alcune osservazioni sul pensiero del Leopardi, anche qui, come fin dal-
la prima edizione 1965, capitolo III di Classicismo e illuminismo).
** ibid. («19651») FLGS: «1965» (mancava ovviamente l’esponente indicatore dell’edizio-
ne: precisazione superflua, dato che Classicismo e illuminismo, nel 1966, era uscito soltanto da
un anno).
** ibid. («feci») FLGS: «ho fatto» (redaz. del 1966; anche riferendosi alla redazione del
1964 in «Critica storica», prima vera sede dell’articolo, l’autore è legittimato, in base alla con-
tiguità cronologica, all’uso del passato prossimo; nel 1980, dopo quattordici anni – sedici anni
dalla redazione in «Critica storica» –, vi è il passaggio alla forma aoristico-“remota”).
** ibid. («116 sgg.») FLGS: «P. Bigongiari, Leopardi, Firenze 1962, pp. 295 sgg., 341 sgg.;»
(redaz. del 1966; nella redaz. 1980 viene eliminato, in questa nota, il riferimento; il Leopardi di
Bigongiari tornerà nella nota 73, in fine di saggio, citato nella nuova edizione del 1976; diamo
gli estremi completi delle due edizioni: la prima è Vallecchi, Firenze 1961 – Timpanaro cita,
appunto, dalla ristampa del 1964 –; la seconda è La Nuova Italia, Firenze 1976, con qualche
modifica e arricchita di quattro saggi, che indichiamo nell’ordine interno al volume: Leopardi e
il desiderio dell’Io. Riflessioni preliminari sull’ordinamento dei «Canti», 1976; L’«infinito» di Leo-
pardi e l’«interminato» del Cusano, 1975; Leopardi e il «senso dell’animo», 1967; Leopardi e l’er-
metismo, 1972).
** p. 191 n. 16 FLGS: «261» (redaz. del 1966: si tratta dell’edizione 1960 del Saggio di De
Robertis, mentre in AF Timpanaro cita dalla «nuova ed.», da lui menzionata alla nota 11, del
1973).
** ibid. AF 305 rr. 4-5: «proi/biti» > «proi-/biti» (sillabazione di rinvio «a capo», a penna,
margine destro; la correzione è resa superflua dalla nuova impaginazione).
** p. 193 n. 19 FLGS: «1 di p. 92» (redazione – e impaginazione – del 1966).
** p. 194 FLGS: «sempre» (redazione 1966; sostituzione autografa con «anche»).
** ibid. («sviluppata al di là») FLGS: «sviluppata anche al di là» (redazione del 1966;
l’«anche» è stato eliminato per evitare la ripetizione con l’«anche» istituito poco sopra nello
stesso periodo – cfr. la precedente annotazione –).
** ibid. FLGS: «vol. II, pp. 1377 sgg. dell’edizione del Flora» (redaz. del 1966; manca anco-
ra, ovviamente, nella versione in rivista, il riferimento costituito dalla sansoniana Binni-Ghidetti
del 1969).
** ibid. FLGS: «II, pp. 1413-1421 Flora» (redaz. del 1966; cfr. precedente annotazione).
** p. 195 FLGS: «il Tacchi avrebbe copiato un po’ da questo proto-Zibaldone, un po’ dal
vero Zib., cfr. sopra p. 91» («p. 91»: numero di pagina della redazione in rivista; in volume
– Aspetti e figure –, tale pagina corrisponde alle pp. 299-301; qui, vedi alle pp. 187-188).
** ibid. FLGS: «si dette così la zappa sui piedi» (redaz. del 1966; «rivelò così la propria fro-
de» di AF non ha attestazione manoscritta ed è quindi innovazione della stessa edizione 1980).
** p. 196 n. 22 FLGS: manca «prescelto dai primi editori», istituito ex novo, senza annota-
zione manoscritta, dall’edizione 1980.
** ibid. («vedi sopra,») FLGS: «pp. 90-91» (numerazione del «Giornale storico»).
** ibid. («più dotte») FLGS: «e, magari, desiderose di far fare una figuraccia al Cugnoni»
(redaz. del 1966; la frase è completamente cassata nell’edizione 1980: non v’è segno manoscritto
dell’eliminazione).
** ibid. n. 23 FLGS: «3 di p. 91» (redazione del 1966).
** p. 197 AF, p. 312 n. 24: «1890» (così il testo a stampa 1980; si tratta d’evidentissimo
refuso, riferendosi la data ad uno dei «numeri» citati del «Don Chisciotte di Roma», tutti
– per quanto concerne l’argomento in questione – del 1899: tale è infatti l’anno indicato a stam-
pa nella nota 1, p. 98, di FLGS).
** p. 198 («AL, I») FLGS: «A. L. I» (non vi era virgola, e così sempre dopo «A. L.», in
FLGS, nel testo «in alto»).
Annotazioni autografe 519
** ibid. («gli abbozzi furono aggiunti») FLGS: «gli abbozzi vi furono aggiunti» (redaz. del
1966; non v’è segno manoscritto dell’eliminazione di «vi»).
** ibid. («p. 152») FLGS: «(2) Saggio sul Leopardi cit., p. 267.» (redaz. del 1966; nel «Gior-
nale storico» l’indicazione giuseppederobertisiana costituisce la nota 2 a p. 98, e riguarda l’edi-
zione 1964 [1960] del Saggio; in AF, oltre all’aggiornamento del dato bibliografico, vi è stato
l’assorbimento della citazione nell’immediata, lineare sequenzialità del testo «in alto»).
** p. 199 («il Flora e Muscetta e Savoca») FLGS: «e il Flora» (redaz. del 1966; il riferimento
a Muscetta e a Savoca è intervenuto successivamente, e non è documentato con integrazione
manoscritta).
** ibid. («tutti») FLGS: «tutti e tre» (redaz. del 1966).
** p. 201 («degna») FLGS: «degna certo più di una guida turistica o di una didascalia di car-
tolina illustrata che» (redaz. del 1966; nessuna cancellazione o sostituzione manoscritta).
** ibid. («sforzato») FLGS: «artificioso» (redaz. del 1966; nessun intervento manoscritto).
** ibid. n. 32 («L’ultimo canto di Saffo») FLGS: «in “Rassegna della letter. ital.” 1959, pp.
205 sg., e ora in Ritratti e letture, Milano 1961, p. 244 sg.» (redaz. del 1966; nessuna sostitu-
zione manoscritta).
** ibid. («paragr. 5») FLGS: «pp. 106 e 108» (redaz. del 1966; l’autore si riferisce ai nume-
ri di pagina del «Giornale storico»).
** p. 202 («Scheel») FLGS: manca il successivo «e più compiutamente dalla Corti», aggiunto
nella redazione 1980 AF.
** ibid. («Per esempio ...») FLGS: «“Dell’incantevole e magico effetto” è un doppio qui-
nario, e» (cancellato; redaz. 1966).
** ibid. («“pèr cui”, ...») FLGS: «al verso 22 corsì, al 28 forsé, al 23 arrèstai» (redaz. 1966;
«al 28 forsé», perfettamente legittimo come esempio e allineabile agli altri forniti, forse perché
inframesso, nell’àmbito dell’annotazione autografa, nella sequenza degli esempî costituiti dai
versi 22 e 23 – [22, 28, 23] –, è rimasto fuori dalla redazione in volume; non è in tal senso da
escludere una distrazione d’autore nel passaggio dalla redazione nel «Giornale storico» a quel-
la in Aspetti e figure, o una distrazione indotta nello stesso autore in séguito ad errore tipografi-
co: dopo l’allineamento dell’esempio del verso 23 a quello dell’esempio del verso 22, il suddet-
to esempio del verso 23 è rimasto pur sempre, nell’ordine della serie manoscritta, l’ultimo, e può
avere escluso l’esempio – appunto, il verso 28 – che concettualmente, nella «serie mentale»,
avrebbe in realtà dovuto ultimare la micro-filza elencativo-dimostrativa).
** ibid. («Al verso 32, ...») FLGS: «Al verso 32 crèder in fin di verso» (redaz. 1966; da
«dove pure» a «impossibile in fine di verso» si tratta d’aggiunta della redaz. 1980, in volume,
non attestata, neppure a livello manoscritto, nella redaz. comparsa nel «Giornale storico»).
** ibid. n. 33 FLGS: manca ovviamente nel 1966 la citazione, poi istituita, per questo sag-
gio, nella redazione AF, di TO (Tutte le opere, Binni-Ghidetti).
** p. 203 («togliendone là un’altra,») FLGS: «trasponendo,» (redaz. del 1966; nessuna cor-
rezione manoscritta).
** ibid. («degli scolari») FLGS: manca il successivo «...e trascurando gli accenti», che è
aggiunta, non documentata come integrazione manoscritta, di AF 1980.
** ibid. («al verso 1») FLGS: «al primo verso».
** p. 206 FLGS: «È un atteggiamento, più che da curatore di un’edizione, da “precettore”
verso il ragazzo Leopardi: si corregge quel che si può, senza tuttavia pretendere di rifare intera-
mente quello che deve rimanere un “saggio” scolastico» (annotazione manoscritta nella redazione
1966; vi sono, come si può constatare, alcune differenze rispetto all’edizione 1980 in volume).
** p. 207 («l’autografo») FLGS: manca il successivo «, nemmeno un falso autografo»,
aggiunto in AF 1980.
** p. 208 FLGS: «, in quell’epoca,» (integrazione manoscritta regolarmente giunta nel testo
a stampa del 1980).
** p. 210 FLGS: «Prefetto»; AF 326 r. 24 (compresa citazione): «“scrittore” della Biblio-
520 Annotazioni autografe
teca Ambrosiana» > «“dottore” etc» a lapis, margine sinistro (si segnala la correzione anche in
questa sede perché si tratta d’inserzione sostitutiva del precedente termine).
** p. 212 FLGS: «p. 91 sg.» (numerazione del «Giornale storico»).
** ibid. («Jozzi») FLGS: manca per intero il periodo che va da «Nemmeno» a «Jozzi», che
è aggiunta di AF 1980, senza anticipazione autografa.
** ibid. («, con ragione,») FLGS: manca «, con ragione,», che è inserzione di AF 1980, sen-
za, anche in questo caso, anticipazione autografa (le ultime due annotazioni – cfr., infatti, la pre-
cedente inserzione d’intero periodo – rafforzano, motivatamente, il laico e anticlericale concet-
to che, qui addirittura su diretta base filologico-documentaria, sostiene tutta l’argomentazione
di Timpanaro).
** p. 214 n. 51 FLGS: «94 n. 1» (numerazione del «Giornale storico»).
** ibid. FLGS: «95» (numerazione del «Giornale storico»).
** ibid. n. 53 FLGS: «abbia confuso tra le due opere di Eusebio; oppure che il lapsus sia sta-
to commesso da uno scrivano dell’autorità ecclesiastica che gli rimandò la copia della supplica
col rescritto in cui si concedeva la licenza» (redaz. del 1966; AF 1980 ha in tal senso, e limita-
tamente a questo caso, molto semplificato il testo apparso nel «Giornale storico»).
** p. 215 FLGS: «p. 98» (numerazione del «Giornale storico»).
** ibid. FLGS: «Poesie e prose» (cfr. Avvertenza sulle citazioni da «Aspetti e figure della cul-
tura ottocentesca»).
** ibid. FLGS: «93» (numerazione del «Giornale storico»).
** p. 217 FLGS: da «mi conferma» ad «Augusto Campana», si tratta, senza mutamenti, di
testo trasferito dalla nota 2, p. 112 dell’edizione 1966 nel «Giornale storico», al testo «in alto»
nella redaz. 1980 («Mi» con l’«M» maiuscola nella suddetta nota del «Giornale storico», dato
che si trattava della parola iniziale della nota stessa).
** ibid. FLGS: «!»; «cfr. abbozzo I, dove apre / copre presuppongono due diversi significa-
ti di orizzonte» (il punto esclamativo a «non visibilità dell’orizzonte» è nella redaz. 1966; i con-
cetti dell’annotazione, da «cfr. abbozzo I», confluiscono nella redaz. 1980, con alcuni muta-
menti testuali – com’è visibile –, nella nota 55; da tenere particolarmente presente il rimando,
che vi è nella stessa nota 55, alla precedente nota 25).
** p. 218 FLGS: «non lega affatto» (redaz. 1966).
** ibid. («bisticcio») FLGS: «di» (ossia, «bisticcio di...»; nessuna correzione autografa).
** ibid. FLGS: «G. De Robertis, Saggio sul Leopardi cit., p. 265» (redaz. 1966; la citazione
costituiva la nota 1 – ora inglobata nel testo «in alto» – a p. 113 del «Giornale storico»: Tim-
panaro ancora si riferiva alla IV ed. – 1960 – del Saggio).
** ibid. FLGS: «Questa correzione compare per la prima volta nel “Suppl. generale a tutte
le mie carte”, cfr. Monteverdi, p. 149.» (è, in forma di pregresso nucleo annotato a margine, la
nota 57 del testo 1980).
** p. 219 FLGS: «nei versi 1-11» (senza anticipazione autografa della variante).
** p. 220 FLGS: «,» (ossia, «Poi, l’Infinito»; la virgola, scritta a mano, non è approdata ad
AF 1980).
** p. 221 n. 59 FLGS: «con certezza» (non v’è segno autografo d’espunzione in vista di AF
1980).
** ibid. n. 60 FLGS: «4» (numerazione del «Giornale storico»).
** ibid. n. 61 FLGS: «Poesie e prose a cura del Flora,» (cfr. l’Avvertenza sulle citazioni da
«Aspetti e figure della cultura ottocentesca»; manca ovviamente, in FLGS, il rinvio alla Binni-Ghi-
detti).
** ibid. n. 62 FLGS: «ed. Flora» (cfr. la precedente annotazione).
** ibid. n. 63 FLGS: «e Flora» (cfr., per ogni necessaria precisazione, le due annotazioni pre-
cedenti).
** ibid. FLGS: «Pochi» («pochi» anni, quattro, separavano il 1966, l’anno in cui fu pubbli-
cato l’articolo timpanariano nel «Giornale storico», dall’uscita recanatese – 1962, appunto – del-
la Condanna e viaggio del Redentore al Calvario: nella nota 65 Timpanaro ne dà gli estremi biblio-
Annotazioni autografe 521
grafici; nel 1980, invece, i diciotto anni nel frattempo trascorsi giustificano il «Vari» di AF).
** p. 222 FLGS: «90» (numerazione del «Giornale storico»).
** ibid. n. 66 FLGS: «pagina preced., n. 5» (numerazione del «Giornale storico»; la pagina
precedente è, nel 1966, la 115).
** p. 224 n. 68 FLGS: la nota 1 p. 118 della redazione nel «Giornale storico» – corrispon-
dente, appunto, alla nota 68 di AF – si ferma a «Comunale di Milano»; da «cfr. G. Lonardi» a
«p. 165» si ha in AF 1980 un’aggiunta parzialmente anticipata (proprio nel Leopardismo di
Lonardi), in FLGS, dall’annotazione autografa sul foglio di risguardo, la prima del presente capi-
tolo V – vedi più sopra – da noi trascritta in questa sede.
** ibid. («trovano») FLGS: «trovavano» (redaz. 1966; nessuna anticipazione autografa di
«trovano»; – ne risulta, nel testo di AF, la conquista, con un «presente» di puro resoconto con-
cettuale-culturale, svincolato dal condizionamento temporale-narrativo espresso dall’imperfet-
to «di cronaca» del 1966, d’una superiore misura di respiro saggistico, d’una, se possibile trat-
tandosi di Timpanaro, ancor più nitida cifra di distaccata dimensione scrittoria; né questo dato
menoma in alcun modo la ratio vigile e «schierata», la subcutanea vena polemica che la filologia
del saggio sui «falsi leopardiani» acuminatamente arma contro le strategie, o talvolta semplice-
mente contro le tattiche ideologiche del mondo ecclesiastico, e più in generale contro i prete-
stuosi movimenti culturali del clericalismo).
** p. 225 («vedi qui sopra, nota 8») FLGS: «Vedi sopra, p. 92 n. 1» (numerazione del
«Giornale storico»; il rinvio, che in AF è nel testo «in alto», costituisce invece in FLGS la nota
2 di p. 118; del passaggio da nota piè pagina a rinvio incorporato nel testo «in alto» non v’è, in
FLGS, alcuna anticipazione autografa).
** ibid. («p. 204») FLGS: «p. 103» (numerazione del «Giornale storico»).
** ibid. («questo problema69») FLGS: «(*) {richiamo con asterisco, ripreso a fondo pagina}
(*) Onoranze rese a G. Cozza-Luzi Vice Bibliotecario di Santa Romana Chiesa, Roma 1898,
pp. 14-16 bibliografia: non risulta abbia composto versi stampati» (l’annotazione autografa è
un pregresso nucleo della nota 69 di AF 1980; sulla funzione dell’asterisco in questa annotazio-
ne e in quella che darà luogo alla nota 72, cfr., più sotto, la citazione dell’offerta d’una perga-
mena al Cozza-Luzi).
** ibid. n. 70 FLGS: «Giri» («i»: [cr]; la correzione del refuso, oggetto di doppia sottoli-
neatura, viene regolarmente apportata nella redaz. 1980).
** p. 226 FLGS: «Onoranze cf. qui sotto: fu offerta al Cozza-Luzi una pergamena il cui testo
dettato dal Cugnoni, p. 10» (dopo «Cugnoni, p. 10» la frase rimane formalmente non conclusa
– manca, è un’ipotesi, un «fu» a comporre «fu dettato [...] dal Cugnoni», che è il testo acquisi-
to dalla n. 72 in AF 1980 –; questa composita forma d’annotazione – cfr. qui sopra il primo
richiamo alle Onoranze e alla bibliografia sul Vice Bibliotecario, destinato alla nota 69, e insie-
me cfr., qui, la successiva e quasi immediata ripresa del tema e delle notizie sulle Onoranze [«cf.
qui sotto», sempre a proposito del Cozza-Luzi] – istituisce appunto, ex integro, non una, bensì
due note, la 69 e la 72 dell’edizione 1980 Nistri-Lischi, nelle quali si scindono, ciascuno diver-
samente arricchendosi, indicazioni e concetti qui vergati a mano; si parla d’annotazione in for-
ma composita poiché l’asterisco di richiamo, già prima citato, si pone in alto, al margine destro
del testo a stampa, all’altezza della fine del capoverso che termina con «su questo problema»,
quindi, con buona approssimazione di spazio, all’altezza delle parole che accolgono la nota 69
della redazione Nistri-Lischi: la relativa annotazione doveva primitivamente essere concepita
come origine della sola nota 69, mentre in séguito lo stesso asterisco, che appare autonomamente
«stagliarsi» in alto, ha invece ampliato il proprio ruolo grafico-manoscritto assumendo la dupli-
ce funzione di segnale per la citazione delle Onoranze – nota 69 –, per il quale si rivela insuffi-
ciente lo spazio materiale-cartaceo, onde il necessario rinvio «richiamato» al più capiente e
comodo fondo pagina, e altresì la funzione di contiguità con quella notizia dell’offerta d’una per-
gamena al Cozza-Luzi che non a caso s’incanala verso l’altra e del pari nuova e non meno speci-
ficamente mirata nota 72).
522 Annotazioni autografe
** p. 227 δ: «379 Alla Natura v. sopra Asp. f.» (per il presunto idillio Alla Natura cfr. infat-
ti Di alcune falsificazioni di scritti leopardiani, qui citato da Timpanaro nella sua versione in volu-
me, appunto in Aspetti e figure, ma comunque precedente, in quanto pubblicato in rivista nel
1966, a Natura, dèi e fato nel Leopardi, uscito come primo degli Addenda nel 1969).
** ibid. δ: «Solmi nuove indicaz. bibliogr. ha torto» (una sintetica ma efficace ricognizione
dei motivi di dissenso critico da Sergio Solmi può essere letta nella Prefazione ai Nuovi studi sul
nostro Ottocento, cit., pp. XIV-XVI).
** p. 228 δ: «380 Blasucci» («380»: numero di pagina dell’edizione Nistri-Lischi; di Blasucci
si ricordi La posizione ideologica delle «Operette morali», allora – 1969 – di imminente pubbli-
cazione nell’opera collettiva Critica e storia letteraria. Studi offerti a Mario Fubini, 2 voll., Pado-
va, Liviana, 1970, I, pp. 621-672, quindi in Luigi Blasucci, Leopardi e i segnali dell’infinito, Bolo-
gna, Il Mulino – «Saggi» 293 –, 1985, pp. 165-226).
** p. 229 δ: «purismo: Binni mi fraintende».
** p. 230 δ: «Asp. fig. Dionisotti – Vitale – Tateo – art. Cesari DBI – Schubart»; il nome
di «Vitale» è congiunto da un tratto di penna, con funzione di richiamo, ad alcune parole scrit-
te al di sotto di «poco rigore di Solmi» – cfr. successiva annotazione –; le parole sono: «Quest.
lingua; / Purista, purismo, Acme 17, 1964, 187 sg. / Marazzini»; si ricorda che il saggio di Mau-
rizio Vitale intitolato Purista purismo. Storia di parole e motivi della loro fortuna, in «Acme», XVII
(1964), 187 sgg., come anche il saggio Classicismo e purismo, «ivi», XXIII (1970), 233 sg., appa-
re già citato in queste Annotazioni.
S’aggruma, qui, una costellazione di nomi, e di rimandi non solo bibliografici ma anche gene-
ralmente culturali, che acquisiscono il saggio Natura, dèi e fato nel Leopardi, e insieme la secon-
da, dinamica «fase» di Classicismo e illuminismo, ad una dimensione più latamente timpanariana,
capace d’abbracciare l’intera ottocentistica dello studioso, o, meglio, impossibilitata, feconda-
mente e fortunatamente impossibilitata a non abbracciare un campo così ampio, a non spaziare
in un àmbito intessuto d’una fittissima rete di rinvii e di rimbalzi concettuali, nessun piano
escluso, da quello della linguistica a quello dell’ideologia filosofica e letteraria. La focalizzazio-
ne critica del purismo primoottocentesco e in specie antoniocesariano s’apre infatti, proprio e
significativamente qui, sulle pagine del «vecchio» Classicismo e illuminismo (tanto più se in δ,
la copia della seconda edizione nella ristampa del 1984), a tutta una serie di riflessioni e di studî
che ormai non fanno più parte del volume Classicismo e illuminismo quale oggetto ufficiale, ma
ne fanno parte, di contro e a ben maggiore «compenso» culturale, quali componenti d’un’uni-
ca, grande ricerca che deve trovare altri titoli editoriali (nel tempo e per questi argomenti,
soprattutto Aspetti e figure e i Nuovi studi) soltanto perché non è possibile scardinare la primiti-
va impaginazione del volume-matrice, dell’UrClassicismo e illuminismo; ma da queste pagine s’e-
ra formato ed era partito, e qui ritorna, il robusto nucleo di revisione storiografica, in ratio
antihegeliana e in buona parte antidesanctisiana, dell’Ottocento italiano. E tutte appartenenti
ad Aspetti e figure e ai Nuovi studi sono le sollecitazioni e i caposaldi bibliografici annotati a
mano, quasi a lista, riguardo a Natura, dèi e fato nel Leopardi: una sequenza di nomi intensamente
registrati come a non perderne uno perché si era sull’ultima pagina delle postille di δ, ancorag-
gi onomastici d’autori di saggi fra loro collegati a catena, a sancire, ove ve ne fosse bisogno, l’as-
soluta attualizzazione dei fondamenti di Classicismo e illuminismo nella coerente prosecuzione
della ricerca di Timpanaro, oppure, se si preferisce, la perfetta acclimatazione degli studî cro-
nologicamente nuovi nella non fortuita temperie antecedente, la temperie metodologica delle
indagini sull’origine del purismo leopardiano e sul suo superamento, su un fenomeno decisivo,
anche nel suo momento ideologico denegante, per tutta l’evoluzione del primo Leopardi. Da
qui l’osmosi, armoniosa ed omogenea, e nel contempo rigorosa e severa, fra Aspetti e figure, ed
altresì i Nuovi studi, e Classicismo e illuminismo (un’osmosi coerente e organicamente nistri-
lischiana): Aspetti e figure è sùbito scritto, quasi a premessa, come volume del tutto legato a Clas-
Annotazioni autografe 523
te parte, e, considerati nella loro genesi intellettuale di “volumi”, imprescindibile parte inte-
grante. Semmai, stupirebbe fortemente il contrario: sul piano logico, innanzi tutto, e altresì sul
piano storico-cronologico, sul piano culturale e su quello editoriale.
Più che mai appare riconquistabile l’appunto che siamo venuti svolgendo sull’annotazione
alla «copertina» – vedi sopra, in queste Annotazioni – sul valore di midollare essenza storica e
critica rivestita da Natura, dèi e fato nel Leopardi riguardo allo snodo intellettuale verso il rin-
novato Classicismo e illuminismo; in singolar modo, valga il concetto d’osmotica, scambievole
continuità linguistica fra le prime pagine (ma non esclusivamente quelle) di questo VI capitolo
e il primo capoverso della «copertina», in una sorta di speculare reduplicazione cogitativa ed
espressiva. Speculare come distillato sintetico, sì, ma tale da non esser deterrente alla ripresa
nomenclatoria, alla citazione diretta, al mutuo transito capitolo-«copertina» della medesima
dotazione terminologica, alla pronuncia lessicalmente professa della stessa parola, vivente o can-
cellata (come il già notato «rigene» per «rigenerazione», virtuale ospite della copertina e inve-
ce escluso poiché già defluito nel testo del capitolo), ma ancora visibile nel fervido, quasi anco-
ra visivamente «sudato» dinamismo dell’annotazione manoscritta. La «copertina» si scrive quasi
sempre a testo finito: e il Timpanaro della «copertina» del 1965 – I edizione – era già, intellet-
tualmente, il Timpanaro della sontuosa «aggiunta», dell’Addendum assolutamente necessario;
era, in definitiva, già l’autore della seconda edizione, se non anche, proprio a causa delle limita-
zioni editoriali, e quindi con la mente oltre l’ostacolo, l’autore del progetto d’una terza poten-
ziale concezione del volume. Non a caso, Natura, dèi e fato nel Leopardi accusa una «percentua-
le» assai esigua di successivo ripensamento, di modifica (in uno studioso ideologicamente, ma
anche espressivamente tormentato da «flaubertiana» pressura di correttoria autorevisione). Il
testo di Natura, dèi e fato nel Leopardi v a b e n e , insomma, e ciò è fortemente significativo;
e le posteriori annotazioni autografe, poche se confrontate a quelle che devono sopportare altri
saggi della seconda edizione di Classicismo e illuminismo, non si pongono, come per altri testi
invece avviene, quali «correzioni», quali «modifiche» o «integrazioni-rettifiche», e perciò qua-
li interventi d’alterazione qualitativa, seppur talora minimale, del testo precedente; essi sono
piuttosto indicazioni, direzioni di ricerca, e, spesso, sanzione di pertinenza di ricerche già avvenute
e di saggi già scritti e già pubblicati e sostanzialmente non rimessi in discussione. Non, dunque, una
vera volontà correttoria su questo saggio, ma una serie di possibilità e di conferme; e, più anco-
ra, una rete di connessioni e d’associazioni, di riferimenti e d’incrociati rinvii rispetto a studi
ed a testi saggistici, dell’autore o d’altri, che sta a dimostrare, certo, l’assiduità d’elaborazione
concettuale di Timpanaro, ma che dichiara pure (e questo è il dato principale) la reciprocatio ine-
stricabile, se non in presenza di macroscopiche differenze di protocollo critico, fra molti dei lavo-
ri saggistici del Timpanaro ottocentista, e non solo ottocentista. Una reciprocatio tenacemente
coesa, anche dove è varia, a tal grado da rendere culturalmente intercambiabili gran parte dei
contributi interpretativi, storico-critici, critico-letterari, ideologico-culturali, e anche propria-
mente linguistici, leopardiani e non, con esclusione (così almeno sembra di poter pensare in
omaggio al genere e al «timbro» ispirativo e scrittorio di determinati lavori timpanariani) della
produzione peculiarmente, specificamente filologica (si vedano le varie edizioni de La filologia
di Giacomo Leopardi e la stessa edizione degli Scritti filologici) e di quella più scopertamente ideo-
logico-politica, cifrata sul «morso» polemico dell’indignatio appena velata, dell’attualizzazione
scottante e della manifesta pronuncia d’una vivace opzione di schieramento, anche nell’àmbito
della stessa sinistra e pur nella piena coscienza d’un’amara disillusione strategica sui percorsi del-
la res publica (è il caso di Antileopardiani). Nel doveroso rispetto dell’autonomia degli «estremi»,
da quello tecnico-testuale proprio della professione del filologo a quello del pensoso ma schiet-
to e dichiarato militante politico, si può considerare tutta la gamma degli studi nistri-lischiani
come una zona critica tutt’altro che diversa, nel protocollo di pensiero, da quella degli «estre-
mi» peculiarmente professati; ma si tratta d’una zona programmaticamente fluida e aperta alle
due fondamentali tipologie di approccio e al loro reciproco concorso, un’area di metodo che non
rinuncia ad alcuno dei due vettori, né a quello filologico né a quello storico, e che, proprio e in
Annotazioni autografe 525
particolare nei saggi pubblicati da Nistri-Lischi, tiene d’ambedue le sollecitazioni, nel solco basi-
lare d’una pur criticamente rivissuta eredità pasqualiana; ed è quindi da giudicare una zona sag-
gistica unitaria, anche al di là delle sue apparenze formali, della molteplicità delle contingenze
e delle occasioni critiche.
** p. 245 δ: «poco rigore di Solmi».
** p. 251 AF 275: «Leop. lett. a Giordani, 30 aprile 1817 “Mio Padre la ringrazia de’ saluti
suoi, e caramente la risaluta{”}» (a lapis, nell’intestazione).
** p. 258 (inizio Post scriptum) AF 284 r. 10: «segnalazione di Rino Avesani, 13. vi. 1961 (!):
Guido Vitaletti, Benedizioni e maledizioni in amore, “Arch. Rom.” III (1919), 206-39: a p. 239
cita il canto marchigiano con le parole “Nelle Marche abbiamo una lezione raccolta già dal Leo-
pardi in Recanati”.» (a penna, margine sinistro e intestazione).
** p. 263 AF 290 r. 11: «(segnalaz. di A. Carrannante, 21. i. 1981: progressivo in una corrisp.
anon. nell’“Antologia” gennaio 1832, 146 (opposto a retrogrado)» (a penna, margine sinistro).
** p. 266 NS c1 143: «La Penna su Lucrezio (“Unità” 1983, rist. in volume ora)» (a lapis,
fronte pagina: cfr. Antonio La Penna, Da Lucrezio a Persio. Saggi, studi, note. Con una biblio-
grafia degli scritti dell’autore, a cura di Mario Citroni, Emanuele Narducci, Alessandro Peru-
telli, Sansoni, Firenze 1995).
** p. 286 n. 29 NS c2 166: «ora di nuovo Bigi, GSLI» (a penna, margine sinistro).
** p. 292 NS c1 173: «gli dèi di Epicuro “consentono all’opinione pubblica”, in realtà Epi-
curo ateo (cfr. De Nat. deor.): così, a torto, Pasquali Or. lirico 220 n. 3.» (a lapis, margine destro).
** p. 296 n. 38 NS c2 177: «Cfr. già Giordani, lett. al Leop. del 16.7.1827: “Mio caro, la
mia vita vitale è finita da un pezzo”.» (a penna, piè pagina).
** p. 301 n. 48 NS c2 183: «29» (Timpanaro, a maggior chiarezza della correzione di refu-
so, riscrive, cerchiandolo, il numero – 29 – della nota citata; a penna, margine destro nota).
** p. 304 n. 52 testo a stampa ’94: «(a p. 162 r.1, dopo “immortalità”, furono omesse per
errore tipografico una virgola e le parole “anche dell’immortalità”).» (frase da noi cassata per-
ché ormai del tutto superflua: la correzione del refuso, un saut du même au même, è poi stata
regolarmente da noi apportata nel testo [cr], in Alcune osservazioni sul pensiero del Leopardi – sag-
gio inserito fin dall’edizione 1965 in Classicismo e illuminismo –, sulla base di precisa annota-
zione autografa dell’autore: B e δ 162.
** ibid. NS c2 187: «Ricordo dei piaceri passati: più che mai infelicitante nella sventura:
Euripide Iph. Taur. 1117-22; Dante “nessun maggior dolore” ecc.; Leop. Ricordanze (e A Silvia)»
(a penna, fronte pagina e margine destro).
** p. 313 NS c2 196: «cfr. tuttavia U. Dotti»; nel testo, «Montaigne» sottolineato (cfr. Ugo
Dotti, Il savio e il ribelle. Manzoni e Leopardi, nuova edizione ampliata, Editori Riuniti, Roma
1993, in part. 170-172 – ma vedi, in generale, pp. 41, 122, 165, 181, 275 n. –; a lapis, margi-
ne sinistro).
526 Annotazioni autografe
** p. 316 NS c1 e c2 128: «:» (i «due punti» si riferiscono a «cfr. qui sopra, p. 74 n. 8», da
noi trasposto in n. 2 come rinvio interno ad un saggio dei Nuovi studi – Pietro Gioia, Pietro Gior-
dani e i tumulti piacentini del 1846 – qui non ricompreso; nella nota è citato per esteso il saggio;
correzione a penna).
** p. 319 NS c2 132: «Nei “disegni letterari”, TO (Binni-Ghidetti) I p. 370: “Ifigenia, tra-
gedia o dramma dove si finisca colla morte della fanciulla”. – Segnalato già da Pasquali, Ifigenia
in Enc. Ital. 18 (1933), p. 810 “Anche G. Leopardi giovinetto si proponeva di trattare il tema”.»
(a penna, margine sinistro e intestazione).
II. L’influsso del Cattaneo sulla formazione culturale e sulla linguistica ascoliana
** p. 373 n. 146 C: «cfr. G. Rosa, Autobiografie a c. di G. Tramarollo, Pisa 1963, pp. 127-
129.» (cfr. postilla alla stessa n. 146).
** p. 375 n 153 δ: «rabbuffo al Salvioni! / Santamaria».
** p. 376 C: «influsso del Tommaseo tra gli intellettuali della Venezia Giulia: v. le memo-
rie di P. Valussi.» (cfr. postilla a fine capoverso).
** ibid. postilla A: «Tommaseo-Valussi: Tommaseo e la “fratellanza dei popoli”, di G. Rutto,
‘Rassegna storica del Risorgimento’ 62, 1975, 3 sg.».
** p. 378 n. 163 δ: «294 n. 4 v. Lignana» («p. 294» è numerazione dell’edizione Nistri-
Lischi; «n. 4» è svista dell’autore per nota 31, a sua volta numerazione N. – L.: svista proba-
bilmente indotta dall’immediata contiguità con «4», ultima cifra del numero di pagina Nistri-
Lischi – la pagina 294 Nistri-Lischi annovera le note 31 e 32 –).
** p. 380 A: «cfr. già Ascoli, “Studj orient. e linguistici” I, p. 36.»; δ: «297 A Ascoli cit.»
(«297», indicato in δ, è, al solito, numero di pagina dell’edizione Nistri-Lischi).
** p. 387 n. 194 δ: «306 n. 62 Fano» («306 n. 62»: numero di pagina e di nota dell’edizio-
ne Nistri-Lischi; di Giorgio Fano è sinteticamente citato più sotto, nel testo, alla nota 280, il
Saggio sulle origini del linguaggio – titolo completo: Saggio sulle origini del linguaggio: con una sto-
ria delle dottrine glottogoniche, Einaudi, Torino 1962 – ed a lui, «pur all’interno di una conce-
zione idealistica della realtà», è attribuito il merito d’aver «confutato» i «presuntuosi sofismi»
che nascono dalla restaurazione dell’idealismo anche in linguistica: Timpanaro si riferisce, in
quella nota, alla polemica di Croce contro Alfredo Trombetti e alle posizioni dell’«hegeliano
Annotazioni autografe 527
ortodosso Augusto Vera» e dell’Introduzione alla filosofia della storia di quest’ultimo, Firenze
1869; ma in questa annotazione autografa l’autore, avendo in vista d’immettere nel volume un
contributo nuovo d’aggiornamento bibliografico e di conoscenza, vorrà richiamarsi non alla pre-
cedente e già citata edizione, bensì alla riedizione del Saggio di Fano, quindi alla sua più recente
riproposta – cfr. anche successiva annotazione alla nota 227 –, forzatamente non confluita nel-
le ristampe di Classicismo e illuminismo: Giorgio Fano, Origini e natura del linguaggio. Ried.
postuma con pag. inedite a cura di Anna e Guido Fano dell’ed. intitolata Saggio sulle origini del
linguaggio, Einaudi – «Piccola Biblioteca Einaudi» 209 –, Torino 1973).
** p. 397 n. 227 δ: «319 n. 95 Nencioni, nuova ediz.» («319 n. 95»: numero di pagina e di
nota dell’edizione Nistri-Lischi; alla prima edizione, citata da Timpanaro nella nota 227 – Gio-
vanni Nencioni, Idealismo e realismo nella scienza del linguaggio, La Nuova Italia-«Biblioteca di
cultura» 25, Firenze 1946 –, ha fatto séguito la «nuova ediz.», con lo stesso titolo, Scuola Nor-
male Superiore-«Pubblicazioni della Classe di Lettere e Filosofia», «Scuola Normale Superio-
re» 5, Pisa 1989).
** p. 406 n. 255 B: «Sostrato-manie e S-phobie:» («S-phobie» sta evidentemente per «So-
strato-phobie»; l’annotazione, dopo il segno dei due punti, non è completata).
** p. 407 A: barra verticale di richiamo ad inizio periodo (si tratta, qui e nei successivi capo-
versi, d’un concetto che particolarmente interessa Timpanaro: il lungo silenzio, non facilmente
spiegabile, degli scritti linguistici di Ascoli su Cattaneo – cfr. anche la successiva annotazione
allo stesso passo); δ: «p. 333 “Eppure ...”. No, cfr. Santamaria» («p. 333»: numero di pagina
dell’edizione Nistri-Lischi).
** ibid. B: «No (D. Santamaria)» (il «No» è scritto cerchiato, a riprova – cfr. la precedente
annotazione – del costante interesse rielaborativo applicato all’argomento).
** p. 409 A: «Pignatelli, Le origini settecentesche del cattolicesimo reazionario ecc, “Studi
storici” XI, 1970, pp. 755-82». Sono parole autografe scritte in un foglietto inserito fra le
pp. 334 e 335 dell’ed. 1969; la collocazione del foglietto appare incongrua agli argomenti trat-
tati in questo passaggio del capitolo cattaneiano-ascoliano; l’annotazione coincide invece total-
mente con il secondo riferimento bibliografico autografo da noi qui sopra inserito nella nota 1
ad Il Leopardi e la Rivoluzione francese, cap. VI dei Nuovi studi sul nostro Ottocento e, qui, IX
capitolo di Classicismo e illuminismo. Il foglietto è stato evidentemente posto per errore tra le
pagine di questo capitolo; ma la citazione è discesa inalterata, con «;[G(ius). ...]», «Giuseppe»,
premesso a «Pignatelli», nell’annotazione autografa di NS c1.
** ibid. B: «non, un poco lo aveva già rotto?».
** ibid. n. 269 C: al di sotto di «febbr.» appare «genn.» cancellato.
** p. 410 postilla δ: «vedi» (cerchiato).
** p. 417 δ: «p. 346 agg. A» («p. 346»: numero di pagina dell’edizione Nistri-Lischi; «agg.»,
«aggiunta» – o «aggiungere» –, appunto, delle parole che, nel testo, è stato in questo caso pos-
sibile incorporare in parentesi quadra).
** p. 419 A: «cfr. ancora Carteggi Ascoli-Salvioni, p. 96»; δ: «pp. 347 agg. A» («p. 347»:
numero di pagina dell’edizione Nistri-Lischi; per «agg.», cfr. precedente annotazione; in que-
sto caso, la mancanza d’espliciti, formali legami sintattici ed interpuntivi con la concreta feno-
menologia del dettato testuale destina alle presenti Annotazioni il rinvio bibliografico ai Carteggi
Ascoli-Salvioni).
** p. 421 n. 310 C: «Cfr. nello stesso art. p. 638 “L’epoca dell’homo àlalus, o, come egli
avrebbe preferito di dire, dell’homo illoquus ...” (poco prima del passo ora citato.)» (cfr. postil-
la alla stessa n. 310).
** p. 423 n. 312 C: «del Guarnerio» (cancellato: cfr. postilla alla stessa nota 312).
** p. 424 A: «cfr. Gius. Marchetti, Il Friuli (cit. a p. 284 n. 1), p. 632 sulle “ragioni nazio-
nalistiche e sentimentali” del dissenso di Salvioni da Ascoli sul ladino» («p. 284» si riferisce
all’impaginazione Nistri-Lischi, già nell’edizione 1965; la n. 1 è ora la 133, p. 370, all’inizio del
presente II paragrafo – capitolo X –, L’influsso del Cattaneo sulla formazione culturale e sulla lin-
528 Annotazioni autografe
guistica ascoliana); δ: «p. 354 Marchetti A; io» («354» è numero di pagina dell’edizione Nistri-
Lischi; «io» è scritto con doppia sottolineatura).
** ibid. postilla A: «Sull’interventismo virulento del Bartoli a Torino, cfr. G. De Sanctis,
Ric. della mia vita a c. di S. Accame, Firenze 1970, p. 107.».
appendice i
** p. 487 C: «cfr. SF I 260» (Scritti filosofici: cfr., qui, l’Avvertenza sulle citazioni, sulle
postille e sulle aggiunte bibliografiche).
** p. 488 δ: «Borsieri: Spaggiari / Postfazione: lavori recenti Antileop. cap. su L. nota 3
/ Giovampietro / Galimberti» (questo appunto, scritto su autonomo foglietto inserito fra le
pagine precedenti all’Indice dei nomi di Classicismo e illuminismo, dimostra la volontà dell’au-
tore di aggiungere, se gli fosse stato possibile, una postfazione; gli aggiornamenti ragionati
della bibliografia sono in buona parte riuniti proprio nella nota 3 di Leopardi e la sinistra ita-
liana degli anni settanta, capitolo IV di Antileopardiani e neomoderati nella sinistra italiana, pp.
146-147).
ibid. C: «R. Bacone, De secretis trad. di G. Dee?, Milano 1945 / G. Mattiussi, Les points
fondamentaux de la philos. thomiste, Torino 1926??» (l’annotazione si trova in un foglietto
posto dopo l’Indice dei nomi, diviso in due parti da una linea orizzontale; ciascuna delle due
parti reca la rispettiva indicazione di Bacone e di Mattiussi; si cfr. adesso I segreti dell’arte e
Annotazioni autografe 529
della natura e confutazione della magia, di frate Ruggero Bacone, ora pubblicata per i candidati
alla vera scienza da un amatore della verità, secondo l’edizione critica antica di GIOVANNI
DEE [John Dee] londinese, Milano-San Donato, Archè-PiZeta, 1999 - tit. lat.: Fratris
ROGERII BACONIS De secretis operibus artis et naturae et de nullitate magiae, ripr. facs. del-
l’ed. Sebastiani; dell’opera di Mattiussi, si veda appunto GUIDO MATTIUSSI, Les points
fondamentaux de la philosophie thomiste: commentaire des vingt-quatre thèses approuvées par
la s. Congregation des études traduit et adapté de l’Italien avec l'authorisation de l'auteur
par l’abbé Jean LEVILLAIN, Turin, M. E. Marietti Edit. Tip., 1926).
ibid. B: «W. Fahr, Θεος νοµζειν. Zum Problem der Anfänge des Atheismus bei den
Griechen, “Spudasmata” 26, Hildesheim 1969.» (cfr. infatti WILHELM FAHR, THEOUS
NOMIZEIN: zum Problem der Anfänge des Atheismus bei den Griechen, Hildesheim-New York,
Olms - «Spudasmata» -, 1969; l’annotazione è in un foglietto inserito fra le pagine successive
all’Indice dei nomi).
Indice dei nomi e delle cose principali
Borgese Giuseppe Antonio, 19 n. 35, 29. Callimaco, frammento dell’Ecale edito dal
Borghesi Bartolomeo, 490. Gomperz, 432 n. 13.
Borra Spartaco, 141 n. 82, 179. Calogero Guido, 429 n. 3, 462 n. 99.
Borsieri Pietro, XXII n. 32, XCII e n. 3, Calvo Edoardo, XCV.
XCV, 3, 17 n. 26, 18 n. 29, 45 n. 21, Camarda Demetrio, 389 e n. 201.
51 n. 36, 121 n. 39, 303 n. 51, 485, Cambiano Giuseppe, 464, 471, 528.
506, 507, 508, 514, 528. Camilli Amerindo, 394 n. 215.
Bosco Umberto, 31, 100, 120 e n. 35, 180 Campana Augusto, CV, 217, 253 n. 3, 268
n. 89, 236, 247 n. 11, 321 n. 14 n. 4, 311, 477 n. 4, 520.
Botta Carlo, 4. Campanella Tommaso, 40.
Boucheron Carlo, 50. Camporesi Piero, 3.
Bovio Giovanni, 412. Cancellieri Francesco, 115.
Branca Vittore, 4 e n. 1, 18 n. 29, 19 n. 31, Canova Antonio, 39 e n. 5.
39 n. 5, 338 n. 27, 339 nn. 30 e 33. Canova Giovan Battista, 77.
Brandis Christian, 435, 453 n. 68. Cantimori Delio, 85 n. 130.
Bratranek Thomas Franz, 454. Cantù Cesare, 19, 54, 351 n. 78, 373.
Bravi-Pennesi Mariano, 221 n. 61. Capponi Gino, XXIII, XXXV n. 40, 20, 38,
Bréal Michel, 399 n. 233. 68, 71, 83, 88, 99, 100 n. 4, 128 n. 55,
Breme Ludovico di, XLI, LXXXIX, XCII e 132, 492, 493, 495, 501, 513.
n. 3, 3-4, 9 e n. 9, 12 n. 17, 18, 19 e n. Caprioglio Sergio, 410.
31, 93, 228, 339 n. 33, 505, 507, 508. Capucci Martino, 112 e n. 11, 138 n. 73,
Bresciano Giovanni, 213 n. 50. 171 n. 62.
Bresciano Raffaele, 213 n. 50. Carcano Giulio, 265 n. 29.
Brighenti Pietro, 47 n. 24, 48, 60, 71 n. 90, Cardini Roberto, 3.
91, 92 n. 146, 94, 320 e n. 12, 321 n. Cardini Timpanaro Maria, LXXIII.
13, 516. Cardone Lorenzo, XCV n. 5.
Brilli Attilio, 138. Carducci Giosue, XVIII, XXII, LXXVI,
Bronzini Giovan Battista, 274 n. 14. LXXVII, LXXXVI, LXXXVII, 20 e
Brown Thomas, 152. n. 36, 28, 30, 40, 49 n. 30, 85 n. 129,
Brugmann Karl, 395, 398 n. 231, 399 e n. 100 e n. 7, 101,103 e n. 18, 109 e n. 3,
235, 405 e nn. 253-254. 112 e n. 9, 113, 136 n. 71, 138, 139 n.
Bruni Ettore, 62 n. 64. 76, 187 e n. 4, 196 n. 22, 254 n. 10,
Bruni Leonardo, 336 e n. 22. 513.
Bruno Giordano, 40. Caretti Lanfranco, VII e n. 1, XIII n. 18,
Bruscagli Riccardo, VII n. 1. XXXI, XXXIV, XXXIX, LI, LVI,
Bruto, 9 e n. 8, 157, 162, 299. LXXVII, XC, CVII, 14, 45 n. 21.
Büchner Ludwig, 103, 446 e n. 47, 465. Carlini Antonio, 175 n. 73.
Bunsen Christian Carl Josias, 162 e n. 64, Carlo Alberto di Savoia, 63 e n. 66, 64.
174 n. 71, 208, 365 n. 124. Carocci Giampiero, 115 n. 21.
Bürger Gottfried August, 18. Carpi Umberto, XXI n. 31, 515.
Burke Edmund, 457. Carrannante Antonio, 525.
Burnet John, 438 e n. 23, 442 n. 34, 445 n. Carraresi Alessandro, 513.
46. Carrone di San Tommaso Felice, 68.
Buti Francesco, 262 e n. 25. Casaubonus (Isaac Casaubon), 152, 277, 280
Byron George, 55 n. 48, 122 n. 40. n. 21.
Casella Gaspare, 191, 192, 197, 205, 215.
Cabella Cesare, 20, 90 n. 141. Casella Mario, 426 n. 320.
Caddeo Rinaldo, CIII, 67 n. 79, 369 n. 166, Cases Cesare, IX n. 5, X n. 8, XI e nn. 10-
380 n. 174, 388 n. 200. 11, XII e nn. 12-13 e 15, XIII nn. 16-
«Caffè (Il)», XCIII, 4, 18 n. 29, 333. 17 e 20, XIV n. 23, XV n. 24, 4 n. 4,
Caffi Andrea, 514. 505.
Calcaterra Carlo, 4 e n. 1, 507. Cassi Francesco, XLI, 115, 121.
Caleppio Trussardo, 8, 17 n. 27. Cassi Gellio, 207.
Indice dei nomi e delle cose principali 535
307, 342 e n. 45, 432 e n. 13, 450 e n. «Conciliatore (Il)», XCII, XCIII, 4 e n. 1,
59, 490, 499, 503, 508, 516; come filo- 6, 13, 15 e n. 23, 18 e nn. 29-30, 19 e
sofo, letto dal Leopardi, 267 e n. 3; n. 31, 20, 39 n. 5, 98, 119, 132, 333,
«incomprensione» dell’epicureismo, ma 338 n. 27, 339 e nn. 30 e 33, 485, 488.
critiche giuste a Epicuro, 280-282, 303- Condillac (Etienne Bonnot de), 59 n. 56, 75
305; giudizio del Giordani su C., 490; n. 105, 76, 79 e n. 116, 117, 118 n.
critica del Leopardi a un progetto di 29, 363 n. 119, 386 n. 189.
ediz. ciceroniana del Tommaseo, 499. Condorcet (Marie-Jean-Antoine Caritat de),
Cicognara Leopoldo, 40, 74, 84, 513. 323, 324.
Cilento Vincenzo, 169 n. 56, 171 e n. 62. Consalvi Ercole, 65, 208, 214 n. 51, 510.
cinici greci, 441 n. 32, 452, 459, 462-463. Consoli Domenico, 507.
Cipolla Carlo, 341 e n. 43. Contini Gianfranco, X.
Circeo Ermanno, 100, 513. Corti Maria, XCI, XCII n. 3, XCIII, XCIV
cirenaici, 441 n. 32, 449-450 e n. 58, 451, e n. 4, 202, 328, 519.
462-463. Costa Paolo, 510.
Cirese Alberto Mario, 370, 371. Cottone Giovanni, 332 n. 11.
Cisotto Gianni A., 46 n. 22. Cousin Victor, 118 n. 29, 168 e n. 53.
Citroni Mario, 525. Cozza-Luzi Giuseppe, XXXI, 184-226, 227,
classicismo ottocentesco, passim; diverse 517, 521; come allievo e collaboratore
posizioni classiciste, 7-10, 333-334; del Mai, 184-185, 210; come falsifica-
scarsa incidenza del giacobinismo sul tore (o editore di falsificazioni altrui) di
classicismo illuminista, LXXXIX-XC, scritti del Leopardi, e come antileopar-
62-63; ragioni dell’insuccesso immedia- diano clericale, 184-226; rapporti con
to dei classicisti illuministi, LXXXV- G. Cugnoni, 187-188, 196, 226 e n.
LXXXVI, 15-17; loro influsso cultura- 72.
le, 17-23; classicismo e filologia classica Crantore, 303 n. 51.
nell’Ottocento, 21; «forma vecchia e Creuzer Georg Friedrich, 168, 437.
contenuto nuovo», 25 n. 43; varietà di Crisippo, 177, 286 n. 28, 293.
posizioni, 493, 495-496. Crispi Francesco, 28.
Clarke Martin Lowther, 454 n. 70. «cristianesimo» e modernità» identificati dai
Clavijero Francisco, 378. romantici, 122, 338-339.
Cleante, 177. Cristofolini Paolo, XCVII n. 7.
Clerici Graziano Paolo, 13 n. 19, 67 n. 79, Crizia, 459.
86 n. 132, 90 n. 141. Croce Benedetto, XXVIII, LXXXIII, 12,
clima: presunto influsso sull’evoluzione delle 13 n. 18, 19 n. 35, 29, 30 e n. 58, 32
lingue, 349, 386-387 e n. 189, 400 n. n. 61, 49 n. 29, 91 n. 142, 108, 111,
239. 127 e n. 53, 300 e n. 46, 344 n. 50,
Cobet Carel Gabriel, 432, 433 n. 14. 357 n. 95, 413 n. 280, 426, 491, 492,
Cocchi Francesco, XXII, 85. 498 n. 4, 499, 501, 526.
Cocchiara Giuseppe, 402-403 n. 245. Crocioni Giovanni, 256 n. 18.
Colaiacomo Claudio, LXXXVI, LXXXVII, Crusca, Accademia della -; XCII, XCIII,
LXXXVIII-LXXXIX e n. 2, XCVI, XCIV, 11, 12, 56, 58,136, 250, 251,
18, 505. 252 (Crusca veronese), 253, 254 e n.
Colletti Lucio, XCVI n. 6. 12, 255 n. 15, 256 n. 18, 261, 262 e n.
Colombo Michele, 57. 25, 334, 393, 486, 510 (Crusca verone-
Comparetti Domenico, LV, 490, 491, 496, se); voci della Crusca a cui attinse il
498; presunto romanticismo del C. e Leopardi, 251 e n. 1, 253-254, 261-262
suo concetto del rapporto fra «lettera- e n. 25.
rio» e «popolare», 496; interesse per Cugnoni Giuseppe, 225-226 e nn. 70-71,
Epicuro, 496; valutazione di Dante, 318 n. 6, 518; ediz. delle Opere inedite
496. del Leopardi, 185, 221 n. 60, 222, 226
Comte Auguste, 449, 456, 465, 467; giudizi e n. 71; controversie sui Pensieri pseu-
del Gomperz, 449, 456, 465, 467. do-leopardiani, 186-189, 196 e n. 23,
Indice dei nomi e delle cose principali 537
206, 225; ignaro o consapevole delle De Mauro Tullio, XI n. 9, 346, 426 n. 319.
falsificazioni del Cozza-Luzi?, 225-226. De Maistre Joseph, 327.
Cuoco Vincenzo, 40 e n. 7, 151, 343 n. 50, «Democrazia progressiva», giornale fiorenti-
358, 526. no (1848-49), 263.
Curiel Eugenio, 264. Democrito, 150, 153, 154, 178 e nn. 81-82,
Curtius Georg, 391, 395, 397 n. 228. 180, 441 n. 30, 449, 450 n. 59, 452;
Cusano Niccolò, 518. vedi anche atomisti greci.
Demostene, 459 e n. 90, 492.
Dal Toso Pompeo, 52 n. 40, 68, 90 n. 141. Denina Carlo, 343 n. 50.
Damascio, 170-171. De Robertis Domenico, 263 n. 27.
D’Ambrosio Renato, 429 n. 3. De Robertis Giuseppe, XXVII, XXXIV, 29
Damiani Rolando, 327 n. 28. e n. 57, 93, 111 n. 7, 117 n. 27, 141 n.
D’Ancona Alessandro, 43 n. 17, 62 n. 63, 81, 190 nn. 11 e 13, 191 e n. 16, 198,
64 n. 69, 65 n. 71, 66 nn. 72 e 75, 79 215, 216, 218, 253, 257, 263 n. 27,
n. 118, 513. 274 n. 14, 322 n. 16, 514, 518, 519,
D’Annunzio Gabriele, 501. 520.
Dante, XLIV, 58 n. 52, 80 n. 120, 153, De Romanis Filippo, 168 n. 53, 169.
203, 262, 314, 336, 386, 392, 496, De Rossi Giovan Battista, 189 n. 8.
497, 525; dantismo nel Virgilio nel De Rubertis Achille, 512.
Medioevo del Comparetti, vedi De Sanctis Francesco, XVIII, XIX e n. 28,
Comparetti. XXIV, LXXVIII, LXXXV, LXXX-
D’Aronco Gianfranco, 372 n. 139. VII, 5, 12 e n. 17, 13, 19 n. 35, 23 e
Darwin Charles, 145 n. 86, 243, 368 n. 131, n. 41, 25 e nn. 43 e 45, 26 e nn. 47 e
405, 447 e n. 49; darwinismo, reazione 49, 27 e nn. 50 e 52, 28, 30, 33, 56,
antidarwiniana dell’ultimo Ottocento e 90, 91 e n. 142, 92, 93, 95 e n. 151,
primo Novecento, 447 e n. 49. 102, 112 e n. 9, 116 n. 23, 121, 131 e
Davanzati Bernardo, 255 n. 15. nn. 65-66, 144, 158, 226 n. 71, 321 n.
De Amicis Edmondo, XI n. 11, XVI n. 25, 12, 498 n. 4, 507, 513, 522, 528; sul
XLVII, LVIII, 70 n. 87, 511, 523. romanticismo, 5, 19 n. 35, 23-25 e n.
Debenedetti Giacomo, XXXIX. 43, 30, 33; periodizzazione del roman-
Debenedetti Santorre, X. ticismo, 23 n. 41; disconoscimento dei
De Castro Giovanni, XCIV, 381. classicisti illuministi, 24-26, 91 n. 142;
De Cristoforis Giambattista, 331. sul Monti, 12 e n. 17, 13-14; sul
Dee Giovanni (John Dee), 528-529. Leopardi, 26-28, 90-91, 92, 93-94, 94-
De Felice Renzo, 11 n. 15. 95, 112 n. 9, 116 n. 23, 131 nn. 65-66,
De Filippi Filippo, 368 n. 131. 144; rapporti col Vitelli, 498 n. 4.
De Gubernatis Angelo, 414 n. 284, 418 e n. De Sanctis Gaetano, 528.
300. De Tommaso Piero, 526.
Delaplace Guislain-François-Marie-Joseph, Devoto Giacomo, 329 n. 2, 392 n. 209, 426
176. n. 319, 427.
Delbrück Berthold, 395, 396 n. 222, 399 e De Vries Hugo, 419 n. 304.
n. 234, 400, 406, 420. dialetti e letteratura dialettale, LXXXIII,
De Liguori Girolamo, 515. XCI-XCII; vedi Cattaneo, Giordani,
Delitzsch Friedrich, 418 n. 299. Monti.
Della Giovanna Ildebrando, 82 n. 123, 270 Diaz Furio, 118 n. 29.
n. 7, 516. Di Benedetto Filippo, 280 n. 21.
Della Mea Luciano, XCVIII. Di Benedetto Vincenzo, XLVIII, XLIX,
Della Peruta Franco, 15 n. 23, 56 n. 50, 369 148, 181, 228, 234, 248, 266 n. 1, 280
n. 132. n. 21, 432 n. 12, 516.
Della Rena, famiglia, 53 n. 41. Di Breme, vedi Breme.
Dell’Avalle Arnaldo, 191. Diderot Denis, 118 n. 29, 149.
De Lollis Cesare, 29 e n. 57. Di Donato Riccardo, XXIV n. 35, XLVIII.
Del Vivo Caterina, 515. Diels Hermann, 432, 439 e n. 25, 467.
538 Indice dei nomi e delle cose principali
213, 219, 220, 231 e nn. 3-4, 232 e n. 103; dissensi e sottovalutazione dell’o-
5; rapporti col Monti, 13-14, 58-59; col pera paterna, 433, 464, 469-471.
Foscolo, 15 n. 23, 63; con l’Acerbi, 13 Gomperz Karl, 440 n. 28, 454, 455 n. 73.
e n. 19, 17, 43, 44, 55; col Capponi, Gomperz Theodor, XXV, XXVI, XXIX,
99-100 e n. 4; col Gioberti, 78-80, 172 XLI, XLIV, XLV, LIII-LVII, 428-471;
n. 65; col Cattaneo, vedi Cattaneo; giu- formazione giovanile, 431-432; valore
dizio sul Manzoni, 77-78; influsso sul come filologo e concetto di filologia,
laicismo risorgimentale, 20; influsso sul 431 e n. 9, 432-436 e nn. 11-21; i
Carducci e sugli «Amici pedanti», 100- Griechische Denker opera di storia cul-
103; misconosciuto dal De Sanctis, 25 turale in senso ampio, 435-436; rappor-
e n.43, 26 e n. 47, 91 e n. 142; ammi- ti tra Grecia e Oriente, 436-438 e n.
rato per il suo stile dalla «Scuola roma- 24; visione dello svolgimento del pen-
na», 226; presunto romanticismo, 494; siero greco, 440-446, 449-452 (vedi
perizia in filologia classica, 500; su anche i nomi dei singoli filosofi e movi-
Lucano, 490, 494-495; Panegirico a menti di pensiero); sulla storia politico-
Napoleone, 326; sulle “mode” della sociale e sul pensiero politico greco,
Restaurazione, pensiero notato dal 453, 456-457, 458-460; valutazione
Leopardi, 325 n. 23. della politica ateniese, vedi Atene;
Giordano Emilio, 326-327 n. 26. valutazione di altri regimi politici anti-
Giorgini Giambattista, 392. chi, 456, 459; sulla religione greca,
«Giornale Arcadico», 8 e n. 6. 445-446 e n. 46; sulla civiltà e la filoso-
Giotti Napoleone 179 n. 86. fia ellenistica, 452; valutazione della
Giovampietro Renzo, 528. medicina greca, 432 n. 12, 436 e n. 20,
Giovanetti Giacomo, 64. 449; sottovalutazione della matematica
Giovenale, 68 n. 81, 307 n. 56, 486. greca, 450-451 e n. 61; scarso influsso
Giovio Paolo, 49 n. 30. della cultura tedesca sulla sua formazio-
Giri Giacomo, 225 n. 70, 521. ne, 447, 467; rapporti col Bernays,
Girolamo (santo), 84 n. 128, 290, 513. 433-434 e n. 16, 435 n. 18, 439-440 e
Giuliano l’Apostata, 162. n. 29; contatti con la cultura inglese
Giussani Carlo, XLV, 266, 288, 289, 290, (Mill, Grote), 447-449, 453-454, 455-
496. 457, 459, 460; rapporti con Comte,
Giusti Giuseppe, 113, 251. 449, 456, 465; erroneità delle accuse
Giustiniani Giacomo (cardinale), 510. generiche di «positivismo» e «scienti-
Giustiniani Vito R., 253 e nn. 4 e 6, 254- smo» rivoltegli, 429 e n. 2, 429-430,
255 e nn. 13-14, 256, 257, 258, 259, 444-447, 451-452, 461 n. 97, 464-46;
510. ostilità generale per le filosofie «siste-
Gladisch August, 437, 438. matiche» tedesche, 447, 450; antimate-
Gliddon George R., 365, 366 e n. 127. rialismo, riserve sul darwinismo, 446-
Gnoli Domenico, 187 n. 4, 193 e n. 19, 447, 465; empirismo e «fenomenismo»,
194. 447-450 e nn., 464-465, 470-471;
Gobineau Joseph-Arthur de, 365. induttivismo logico, 450 e n. 60; deter-
Goethe Wolfgang, XVI n. 25, 7, 23 n. 41, minismo, 448 e n. 53, 465; edonismo e
32, 102, 377 n. 162, 494, 504. utilitarismo etico, 441, 447 n. 49, 448,
Goffis Cesare Federico, 179 n. 86 451, 452, 465, 470; riluttanza ad aderi-
Goidánich Pier Gabriele, 371 n. 138, 372 n. re a posizioni novecentesche propria-
141, 376 n. 157, 392 n. 210, 396 e n. mente idealistiche, 450; rapporti con
224, 406 n.258, 423 n. 312, 425, 426. Freud, vedi Freud; idee politico-sociali,
Goldmann Lucien, XCVI-XCVII. 454-458 e n. 86, 459, 460, 464-465;
Gomperz Heinrich, attività per far conosce- dissenso dal Pöhlmann, 457-458; scarsa
re la vita e l’opera del padre, 428, 429 conoscenza del marxismo, 447 n. 51
e nn. 4-5, 452 n. 63, 463, 467, 469- (cfr. p. 469 n. 102); favorevole al
471; influssi ricevuti dal padre, 470; Risorgimento italiano, 455 n. 76 (cfr.
influssi esercitati sul padre?, 470 e n. anche Pens. greci, I p. 344, III p. 454);
542 Indice dei nomi e delle cose principali
Inama Vigilio, 347 n. 63. 308 n. 60, 314, 463 n. 100, 490, 515,
Innamorati Giuliano, XCV n. 5, 12 n. 17, 525.
321 n. 12. Larousse Pierre, 262 e n. 26.
innamorato = «che suscita amore», 253-257; Lasca (Anton Francesco Grazzini detto il -),
vedi anche participii. 251.
Ippia, 459. Lassen Christian, 434.
Ippocrate e pseudo-Ippocrate, 178, 432 e n. Laurent M.-H., 3.
12. Leibniz Gottfried Wilhelm, 160 n. 29, 351,
iscrizioni in volgare, 49-50 e n. 30. 480.
Isella Dante, 46. Le Monnier editore, XLI, 187, 195, 507,
Isidoro neoplatonico, 170-171. 509, 517.
Isocrate, XXX, 42 n. 15, 175. Le Monnier Felice, 216 n. 54.
Lenin (Vladimir Il’ic# Ulianov), LIV, 470.
Jacquier François, 149 e n. 2, 150 e n. 6. Leo Heinrich, 360 n. 109.
Jaeger Werner, LIV, LVII, 428, 429 e n. 2, Leone de Castris Arcangelo, 136, 523.
443 n. 37, 444, 452 e n. 64, 462, 463, Leopardi Giacomo, XII, XIV, XV, XVII,
471; incomprensione per il Gomperz, XIX, XX, XXIV, XXVI, XXVII-
428-429 e n. 2, 443 n. 37, 444, 452 e XXXI, XXXIII-XXXIV, XXXVIII,
n. 64, 471. XLII, XLIV, LII, LVIII, LXIII,
Jahn Otto, 433, 434 n. 16, 467. LXVIII, LXXVI, LXXVII, LXXVIII,
Jannelli Cataldo, 437. LXXIX, LXXXIV, LXXXVI, LXXX-
Jozzi Oliviero, 188-189 n. 8, 197 e n. 24, VIII-XCI, XCV, XCVII-C e n. 8, CI,
212, 215, 219, 220, 221 n. 64, 225, CIII, CV, CVII; passim; rapporti con
520. altri, vedi sotto i rispettivi nomi; «con-
versione letteraria», 10, 92-93, 116 n.
Kann Robert A., 464, 466, 467. 23; alfierismo, 26-27, 113 n.16, 120-
Kant Immanuel, 75 e n. 106, 281. 121; 155; titanismo, 120-122, 236-238,
Kenney E. J., 266, 292 n. 34, 299 n. 44. 239-240; influsso del Maffei, 338 n.
Kierkegaard Sören, 110. 28, 482 n. 12; influsso del Giordani,
Klopstock Friedrich Gottlieb, 23 n. 41. vedi Giordani; purismo, 10, 92, 117,
Kretschmer Paul, 361, 407. 229-233; rapporti col classicismo lom-
Kulczycki Ladislao, 258. bardo, 333; presunto «romanticismo»
(senza esclusione di influssi romantici),
Labriola Antonio, 264, 420 n. 304. LXXXIV, 31-33, 116-117, 322 n. 17;
Labus Giovanni, 211 n. 47. veri influssi romantici, 33-35; gusto let-
Lacaita Carlo G., 507. terario rispetto all’antichità classica,
Lachmann Karl, XXXVIII, XXXIX, L, 10-11, 121 n. 39, 233; conobbe
288, 434. Lucrezio?, 179 e n. 86; conobbe
Lamarck Jean-Baptiste, 368 n. 131, 447 n. Lucano?, 121 n. 39; giudizi sui filosofi
49. antichi, 148-183, 248-249; influsso
Lambruschini Raffaello, XXIII, 88, 365 n. della morale ellenistica, 131-132, 174-
124. 178, 180-181; giudizi sul cristianesimo,
Lamennais Félicité de, 7, 74 n.102, 77 e n. 248, 136 e n. 71, 157-159, 169 e n. 58,
113, 157, 161, 323, 324 n. 20 177; conoscenza degli illuministi fran-
La Mettrie (Julien Offroy de), 118 e n. 29, cesi, 117 n. 29, 118, 122 e n. 40, 135,
134, 149, 150 n. 6, 313. 149, 152; atteggiamento di fronte al
Lampredi Giovanni Maria, 344 n. 50. Settecento, 59 n. 56, 141; estraneità
Lana Italo, 461 n. 97. alla filosofia tedesca, 75, 145-146; sul
Landucci Sergio, L, 27 n. 51, 313. rapporto autore-pubblico, 16-17 e n.
Lanzi Luigi, 344 e n. 51. 26; patriottismo, 56, 123, 132-133,
La Penna Antonio, XIII n. 19, XLVIII, L, 162; concetto di «natura», 10, 117,
LI, LIII, LXXVIII, XCVII, 29 n. 55, 124-126, 144-145, 181 n. 91, 227-249;
120 n. 34, 134, 285 n.26, 307 n. 57, concetto di natura, nel primo L. e nel
544 Indice dei nomi e delle cose principali
L. maturo, 294, 314; dèi e fato, 236- n. 20, 293; Dissertazioni filosofiche e
240; «mezza filosofia», 159-161, 284 Appressamento della morte: antiepicurei-
n. 65, 323-325; passaggio dal pessimi- smo, 279 n. 20; Storia dell’Astronomia e
smo storico al pessimismo cosmico, citazioni da Lucrezio, 276; Saggio sopra
123-131, 164-166, 227-249; «vita gli errori popolari e citazioni da Lucrezio
strozzata» e pessimismo, 126-128; e da Epicuro, 274, 275, 278 n. 18,
superamento della misantropia, 129 n. 280; Bruto minore, 286 n. 29, 299; Inno
56; materialismo, XCI, 129, 239 e pas- ai Patriarchi, 269, 275; posizione ideo-
sim; negazione della teleologia nella logica delle Operette, 285 n. 28; Storia
natura, 242-243, 244-245; teoria del del genere umano, 269-271; Coro di
piacere, 129-131; fase «rassegnata», morti (nel Ruysch), 271-273; Dialogo di
131-135, 174-177; cosiddetti «grandi Plotino e di Porfirio, 271, 286 n. 29; Il
idilli» e posizione particolare del Risorgimento, 271; A se stesso, 273; Ad
Risorgimento, 112 n. 9, 243-244, 246 n. Arimane, 294, 313; La ginestra, 267,
9; evoluzione del tema delle illusioni, 268-269, 294-295 e n. 36; abbozzo
246-247; momenti «idillici» nell’ultimo dell’Erminia, 309-310; gnosticismo o
L., 111, 141 n. 81, 247-248; ultima manicheismo del L.?, 291-292; echi di
fase del pensiero leopardiano, XCVII- Lucrezio, sicuri e incerti, in L., 266-
XCVIII, 137-139, 180-183, 244, 248 - 273; diversa Weltanschauung in con-
249; sul latino volgare e l’origine della fronto a Epicuro e a Lucrezio, 291-306;
lingua italiana, 338 n. 28; contrario alla contro l’autosufficienza del sapiente e il
teoria del sostrato in linguistica, 386- volontarismo, contro l’accettazione o la
387; influsso sul Carducci e sul suo negazione «filosofica» dei mali, 295;
gruppo, 100-102, 138-139 e n. 76; pro- teoria del piacere, formulazioni diverse,
blema del rapporto tra poesia e pensie- tutte divergenti dall’epicureismo, 295-
ro leopardiano, XCVIII-C; Discorsi 298; felicità / infelicità del morir giova-
sacri, 221-223 e nn. 66-67; traduzione ni, non contraddizione banale, 299-300
di Frontone, 211 n. 47; scritti non e n. 47; non piena comprensione dell’e-
autentici, 125, 227; Infinito, autografi e donismo epicureo, 282-283, 284 n. 25;
«abbozzi» falsi, 198-199, 213-220 (vedi motivi dello scarso influsso di Lucrezio,
anche più sotto, falsificazioni); Ultimo come poeta, su Leopardi, 306-310; scar-
canto di Saffo, 200-201; Zibaldone, sa conoscenza della letteratura latina
depositato presso la Casanatense di arcaica, 306-308; rapporti coi genitori,
Roma prima della pubblicazione, 195- 315-318; «musica senza parole», 319 n.
196; interpretazioni di singoli passi, 9; Maria Antonietta (abbozzo), 319; Per
250-265 (vedi anche l’Indice generale); la liberazione del Piceno, 318-319; pen-
correzioni al testo dell’epistolario, 251- sieri sulla Rivoluzione francese, 315-
253 e n. 3; influssi della poesia popola- 325; su Napoleone, 325-326; mutato
re e convergenze con influssi letterari, atteggiamento sulla «pace» della
256, 257-258, 259; studi filologici, Restaurazione, 320-321; moti del 1820-
255-256 e nn. 13-14, 495-496, 496- 21 (Spagna, Napoli, Torino) concepiti
497, 498, 499-500; «scoperta del pessi- come revival della grande Rivoluzione,
mismo greco», 500 e n. 6; falsificazioni 325; «la Francia scellerata e nera» e
tardo-ottocentesche di scritti del L., atteggiamento verso la Francia in ségui-
184-226, 224 n. 68; ambiente reaziona- to, 320 e n. 12; canzone al Mai, 321 n.
rio-clericale di fine Ottocento di fronte 13; vedi anche Cicerone, Esiodo,
al L., 184-185, 188-189, 206-207, 212, Frontone, Lucano, Lucrezio, Platone,
213, 220, 224-226; presunta aspirazio- Porfirio, Stobeo, stoicismo, Teofrasto,
ne a divenire Primo Custode della morte, malattie, «immortalità del nome
Vaticana, 209-211, 213; aggiunte da (e delle opere)», Virgilio.
arrecare alle bibliografie leopardiane, Leopardi Giacomo (nipote del poeta), 186.
184 n. 1, 188-189 n. 8; cristianesimo Leopardi Monaldo, 11 n. 14, 57, 73, 78, 92-
giovanile doloroso-pessimistico, 279 e 93, 104, 110 n. 3, 115, 116 e n. 22,
Indice dei nomi e delle cose principali 545
137 n. 73, 149, 185 n. 2, 208 n. 37, 135, 141, 150 e n. 6, 153, 178, 179 e
223, 274 n. 14, 315-317 e n. 4, 319 e n. 86, 266-314, 452 n. 65, 496, 513,
n. 8, 320 n. 12, 321 n. 13, 324, 512, 515, 516, 525; edizioni nella biblioteca
514. Leopardi, 267 n. 4; ed. nella Collectio
Leopardi Paolina, 186 e n. 3, 216-217 e n. Pisaurensis, 267 n. 4, 275 n. 16, 304 n.
54. 53; sull’origine dell’umanità e della
Lepre Aurelio, 14. civiltà (lib. V), 276; fedeltà alla dottri-
Lepschy Giulio, XXV n. 36, 328, 361. na epicurea ma sentimento indomabile
Lesen Aristide, 218 n. 56. dell’infelicità della vita, 286-291 (vedi
Leucippo, 442 n. 34. anche «morte»); culpa della natura,
Levi Alessandro, 332 n. 11. 288-289, 312; che c’era di male nel non
Levi Giulio Augusto, 130 n. 61, 145 n. 86, esser nati? (V 176), 289; res abdita
154 n. 15. quaedam ... videtur (III 1234 sg.), 273,
Levi Mario Attilio, 497. 312; tragicità pacata (II 573-580), 291
Levillain Jean, 529. n. 30; giudizi del Cesari (306-307 e n.
Lignana Giacomo, XXV n. 36, 370, 397 n. 56) e del Giordani (306); vedi anche
228, 413 n. 280, 418 e n. 299, 419 n. Epicuro, Leopardi.
304, 498 n. 4, 526. Lukács György, LXXXV, LXXXVIII,
lingua: distinzione dei tipi linguistici fonda- XCVII, 4 e n. 4, 7, 23 n. 41, 143 e n.
mentali, 347-348, 362-364; lingua e 83, 505.
razza, 340, 354-355; vedi monogenesi, Lumpe (e Reichmann; cfr. Thesaurus linguae
origine del linguaggio, evoluzione delle Latinae, VIII, 1511, 64 sgg.), 268 n. 5.
lingue; «questione della lingua» in Luporini Cesare, XXVI, LXXVII, 108 e n.
Italia, XCI-XCVI, 11-12, 334-335, 1, 109, 110, 111, 112, 113, 114 e n.
392-394, 230-231, 328; discussioni sul- 17, 115, 116, 119 n. 30, 123 n. 42,
l’origine della l. italiana, 335-339, 340- 126 n. 49, 129 e n. 56, 130 n. 59, 131-
341; conoscenza della l. greca in Italia 133, 134, 135, 143 e n. 84, 145 e n.
nel primo Ottocento, 50 e n. 33. 87, 169 n. 56, 264, 285 e nn. 27-28,
Littré Émile, 262 n. 26, 436 n. 20, 449. 323 n. 18, 325 n. 23, 499, 504, 514.
Lobeck Christian August, 438. Luti Giorgio, 14.
Locke John, 150, 160 e n. 29, 275. Luzio Alessandro, 12 n. 16, 13 n. 19, 66 n.
Lombroso Cesare, 141, 379 n. 168. 72.
Lombroso Ferrero Gina, 379 n. 168. Luzzatto Fabio, 76 n. 110.
Lonardi Gilberto, 10, 111, 167, 181, 224 n. Lyell Charles, 405.
68, 517, 521.
Londonio Carlo Giuseppe, 9 e n. 9, 18 e n. Mabillon Jean, 476, 477, 478.
30.o, Maccarrone Nunzio, 398 n. 230.
Lo Piparo Franco, 526. Macchia Giovanni, 3, 511.
Lortzing Franz, 439 n. 25. Mach Ernst, 449 e n. 56, 465, 470.
Losacco Michele, 108, 109 n. 3, 117 n. 29, Machiavelli Niccolò, 134.
122 n. 40. Madini Antonio, 373 n. 146, 378.
Loschi Lodovico, 77. Madrignani, Carlo Alberto, LI, LXXXIX n.
Lozzi Carlo, 221 n. 64. 2, 505.
Lucano, XLI, 10, 42 n. 16, 48, 121 e n. 39, Maffei Scipione, XXIV, XCI, 310, 336 e
157, 159, 307 n. 56, 508, 512, 515; nn. 21-22, 337 e n. 24, 338 e n. 26,
conosciuto e apprezzato dal Leopardi, 340, 342, 343 e n. 47, 344 e n. 51, 345
285 n. 26, 293-294, 299, 314; n. 55, 346, 349, 351, 359, 402, 475 e
nell’Ottocento italiano, 490-491; luca- n. 1, 476, 477 e n. 4, 478 e n. 5, 479,
nismo e plutarchismo, 491. 480, 481 e n. 10, 482 e nn. 11-12, 483,
Luciani Paola, 265 n. 29. 528.
Luciano, 131, 148, 154, 155, 167 n. 51, Maggi Pietro Giuseppe, 373.
173. Maggini Francesco, LI.
Lucrezio, XXXIII, LII, LXI, CI, 23, 134, Mai Angelo, XXXI, XLI, LV, 51 e n. 36,
546 Indice dei nomi e delle cose principali
39, 350-354, 383-385, 416. 484, 486, 488, 490, 495, 497, 511,
Miklos#ic! Franz, 389, 408. 523; interesse per gli studi di antichità
Mill James, 447, 453 n. 67; rapporti col classica, 490, 495; su un passo di
Grote, 453 n. 67. Catullo, 497.
Mill John Stuart, 238, 447, 448 e nn. 52 e Moravia Sergio, LXXXVIII, 504.
54, 449 e n. 56, 450 n. 60, 452 n. 64, Morcelli, Stefano Antonio, 509.
453 n. 67, 455 e nn. 75-76, 456, 459 e Morelli Timpanaro Maria Augusta, XLVII,
n. 89, 465, 467, 470; rapporti col LXXIII, 118, 509, 510, 514, 523.
Gomperz, 447-449 e nn. 51-54, 449 e Moreschini Claudio, 274 n. 14, 278 n. 18,
n. 56, 450 e n. 60, 452 n. 64, 455-456 292, 516.
e nn. 75-76, 456 n. 79, 459 e n. 89, Morgan, Lady - (Sidney Owenson), 323 e n.
465, 467, 470; accenno implicito al 19.
Mill in un passo del Gomperz, 448- Morghen Raffaello, 207.
449; trad. tedesca delle Opere promos- Moro Tommaso, 71 n. 91.
sa dal Gomperz, 448 e n. 54, 449. Moroncini Francesco, 39 n. 3, 42 n. 13, 52
Millard Joseph England, 121 n. 38. nn. 38 e 40, 68 n. 82, 86 n. 133, 91 n.
Minghetti Marco, 20, 72 n. 93. 143, 93 n.148, 116 e n. 22, 136 n. 72,
Mirri Mario, L, LXXVIII, 23 e n. 40, 25 n. 137 n. 73, 169 n. 54, 172 n. 64, 175
43, 343-344 n. 50. nn. 73 e 75, 190 n. 14, 193 n. 19, 207,
Mistrali Vincenzo, barone, XXI. 213 n. 50, 214 n. 52, 218 n. 56, 220 n.
Moeller Hermann, 419. 59, 231 n. 3, 232 n. 5, 252, 260, 297
Moget Gilbert, LXXXVI, 3, 34, 61, 68. n. 42, 320-321 n. 12.
Moleschott Jakob, 405 n. 52, 446, 446 n. Morpurgo Giulio, 372 n. 144.
47, 465. Morpurgo Salomone, 53 n. 41.
Momigliano Arnaldo, LXXIX, 344 nn. 50- morte, secondo Epicuro-Lucrezio e
51, 391, 410 n. 271, 434 n. 16, 453 Leopardi, 298-304; «m. eterna» in
nn. 67 e 70, 457 n.87, 475 n. 1, 476, Lucrezio e in Leopardi, 298-304.
480 n. 9, 497. Mortier Roland, 34.
Momigliano Felice, 332 n. 12. Morton Samuel, 366.
Mommsen Theodor, LVI, 434, 461 e n. 97, Mosca Benedetto, 86.
467, 490, 494. Mosco, 11.
monogenesi e poligenesi del linguaggio e Müller Karl Otfried, 433, 435 e n.18.
delle razze umane, 361-363, 364-365, Müller Max, 365 n. 124, 379 n. 169, 397 n.
366, 417-422. 228, 403 n. 246.
Mondolfo Rodolfo, 437 n. 22, 459 n. 91. Murat, Gioacchino, 315, 318.
Montaigne Michel de, 313, 525. Muratori Ludovico Antonio, 46, 336, 337,
Montale Eugenio, VIII e n. 3, XI e n. 10. 338 e n. 26, 339 e n. 33, 343, 475 e n.
Montanari Eugenia, 13 n. 19. 1, 477, 478 e nn. 1 e 7, 479, 480 e n.
Montanelli Giuseppe, 369 n. 132. 9, 481, 482, 483, 528.
Montani Giuseppe, XIX, XXIII, 19 e n. 31, Murray Gilbert, 432 n. 13.
20, 93, 251-252, 508. Murri Augusto, eco di una lettura del
Montesquieu (Charles de Secondat de), 155, Gomperz, 471.
156, 157 e n. 23, 169 n. 57, 178 n. 84, Muscetta Carlo, 3, 13 n. 18, 25 n. 45, 95 n.
284 n. 25, 285 n. 26. 151, 112, 125 n. 46, 144, 190 n. 12,
Monteverdi Angelo, XXXII e n. 38, 218 n. 199, 201, 201 n. 32, 317 n. 4, 507,
57, 226 n. 73, 300 n. 47, 319, 338 n. 519.
26, 517, 520. Musumarra Carmelo, 508.
Monti Nicola, 85 e n. 130. Muzzarelli Alfonso, 149, 150 n. 51, 153.
Monti Vincenzo, XVII, XLVII, LXXVII, Muzzarelli Carlo Emanuele, 49-50.
XCII e n. 3, XCIII, XCIV e n. 4, 11 e Muzzi Luigi, 49 n. 30, 509.
n. 15, 12 e n. 17, 13 e n. 18, 14 e n.
20, 24, 25 n. 43, 27 n. 50, 50, 58, 334 Naddei Carbonara Mirella, 267 n. 2, 286 n.
e n. 14, 339 n. 33, 341 n. 38, 392, 29, 301 n. 48, 516.
548 Indice dei nomi e delle cose principali
Napoleone I, 5, 63 e nn. 65-66, 70, 73 e n. Orazio, XXXV n. 40, LI, LII, LIII, 47, 94
98, 326, 495, 511, 512; giudizio del n. 150, 154 n. 14, 270, 385, 478, 485;
Leopardi, 325-326; pubblicistica anti- possibili echi nel Leopardi, 270.
napoleonica reazionaria, 492. Orelli Johann Conrad, 175 e n. 75, 280 e n.
Napoleone III, 495. 22.
Narducci Emanuele, XIII n. 19, 267 n. 3, orfismo e correnti misteriche greche affini,
515, 525. 437-438, 445-446.
Natale Francesco, 45 n. 88. Origene, 313.
Natali Giulio, 184 n. 1, 188 n. 8, 189 n. 10, origine della civiltà (teorie sull’–), 7, 75,
225 n. 70, 508. 118-119, 181; origine del linguaggio,
Nauck August, 432 n. 13. 363-364, 373-374 e n. 149, 379, 412-
negri d’America, emancipazione: idee di 413.
Mill, Gomperz, Grote, 455 e n. 76. Orioli Giovanni, 3, 511.
Negri Gaetano, 410 n. 272. Orlando Filippo, 260, 513, 515.
Negri Giovanni, 189. Orlando Saverio, 270 n. 7.
Negri Renzo, 517. Osthoff Hermann, 395.
Nencioni Giovanni, 397 n. 227, 426 n. 319, Ottolini Angelo, 258.
527. Owen Robert, XC.
neogrammatici, 395-407.
neoguelfismo: abuso di questa categoria sto- Pacchiano Giovanni, XXXII n. 39.
riografica, 491, 492-495, 495-496. Pace da Certaldo (pseudo-), 53 e n. 41.
neoplatonici, 158, 168, 170-171. Pacella Giuseppe, XXXI, LXVIII, LXX-
Neri Ferdinando, 108-109 n. 2, 117-118 n. VIII, CIII, CV, CVII, 163 n. 37, 168
29, 119-120 n. 33, 505. n. 53, 169 e n. 55, 193 n. 19, 255 e n.
Nestle Wilhelm, 436 n. 21. 14, 269 n. 6, 276, 279, 280 nn. 21-22,
Niccolini Giovan Battista, 19, 25 e n. 46, 26 304 n. 54, 307 n. 57, 321 n. 15, 322 n.
e n. 47, 34, 252, 259-261; rapporto tra 17, 500 n. 7, 504, 516, 517.
una sua frase e la Palinodia del Pagnini Alessandro, VII n. 1.
Leopardi, 259-261. Palazzi Fernando, 265 n. 29.
Nicoletti Giuseppe, LXX. Pallas Peter Simon, 350 n. 74.
Nicolini Giuseppe, 80 n. 120, 338, 351 n. Pallavicino Sforza, XIX, 40, 43 n. 18, 97 e
80. n. 1, 508.
Niebuhr Bartold Georg, 490, 494, 500; rea- Paoletti Lao, 121 n. 39, 490.
zioni suscitate in Italia dalla Storia Papa Pasquale, 40 n. 6.
romana, 490; presunte analogie Papadopoli Antonio, 49 n. 30, 90 n. 141,
Niebuhr-Manzoni, 494. 512.
Nietzsche Friedrich, 126 n. 49, 160, 324. Papi Lazzaro, 92 n. 147, 512.
Nigra Costantino, 395 e n. 219, 402-403 e Papi Roberto, 509.
n. 245, 408 e n. 262, 414 n. 285. Paratore Ettore, LV, LVII, LXIX, 285 e n.
Noël Jean-François, 176. 26, 293 n. 35, 314.
Norberg Dag, 477 n. 4, 478 n. 6. Parenti Marino, 105 n. 24, 513.
Nott Josiah Clark, 365, 366 e n. 127. Parini Giuseppe, XLIX, XCVI, 24, 25 n.
Novalis (Friedrich von Hardenberg), LXXX- 43, 44.
VIII. Parmenide, 442 n. 34.
Parodi Ernesto Giacomo, 422, 423 n. 312.
Oken Lorenz, 447 e n. 51. Parronchi Alessandro, 118, 305, 326-327 n.
Olivet Pierre-Joseph, 174. 26.
Omero, XXIX, 10, 164-165 n. 43, 167, participii indipendenti dalla diatesi, 255 e
229, 248, 314. nn. 13-16.
Omodeo Adolfo, 5, 462 n. 99. Pascal Blaise, 109, 313.
Onciulencu Teodoro D., 370. Pascoli Giovanni, 47, 139, 140 n. 80.
Orano Domenico, 188 e n. 8, 189 n. 9, 193 Pasquali Giorgio, VIII, XI n. 3, XIII e n.
e n. 19, 194, 196 n. 22, 197, 207, 219. 18, XXXIV, XLIV, LV, LVI, LVII,
Indice dei nomi e delle cose principali 549
47, 431 n. 9, 462 n. 99, 491, 496, 498 Pio VI (papa), 13 e n. 18.
n. 4, 509, 525, 526. Pio VII (papa), 185, 189 n. 8, 207, 209,
Pasquier Etienne, 342. 214, 510.
Passavanti Jacopo, 57. Pio IX (papa), XXIII, 63 e nn. 65-66, 77.
Passerin d’Entrèves Ettore, 3, 61, 510, 511. Pirodda Giovanni, 20, 111.
Patin Henri-Joseph-Guillaume, 287. Pirona Jacopo, 370 e n. 133, 371.
patriottismo ottocentesco, 55-57; «patriotti- Pisacane Carlo, LXXVIII, LXXXIX, XC,
smo italico», 343-344 e n. 50, 345, XCI, 7, 25, 31, 369 n. 132.
356-358. Pisani Vittore, 352 n. 84, 361, 396 e n. 225,
Paul Hermann, 399 e n. 235. 403 n. 248, 407.
Paulian Aimé-Henri, 149, 150 n. 6. Pitagora e pseudo-Pitagora, 153, 158, 171 e
Pavan Massimiliano, 164 n. 42. n. 62.
Pavone Claudio, 31. Pitagorici, 451 n. 61.
Pazzaglia Mario, 111. Platone, XXIX-XXX, LIV, 51, 131 e n. 63,
Pedersen Holger, 360 n. 109, 398 n. 232. 150, 151 e n. 9, 153 e n. 12, 155, 158,
Pellegrini Pietro, 219, 220. 168-174, 178, 182, 183, 270, 282, 289,
Pellegrini Silvio, 426 n. 319. 298, 300 e n. 45, 303, 430 n. 8, 431 n.
Pellico Francesco, 79. 9, 432, 440, 441 n. 30, 442, 443, 444,
Pellico Luigi, 508, 510. 445, 448, 449, 451 e n. 61, 452, 453 e
Pellico Silvio, 3-4, 18 n. 30, 508, 510. n. 68, 457 n. 85, 460, 471, 516, 526;
Pellizzari Achille, 100 n. 8. P. e Leopardi, 270-271, 298; pretesto
Pelzet Maddalena, 260. per una polemica anticristiana, 300.
periodizzazione della storia secondo i roman- Plauto, 306 n. 56, 478, 480; P. e Giordani,
tici, 118-120; 338-339. 306 n. 56.
Perelli Luciano, 287. Plinio il giovane, 39 e n. 2.
Persio, 525. Plotino, 158, 168, 170 n. 61, 172, 180 n.
Perticari Giulio, XCIII, XCIV, 8, 12, 43, 87, 241, 242, 300 n. 45, 301, 516.
53, 94, 115, 208, 334, 340, 341 n. 38, Plutarco, 162 n. 33, 282, 284 n. 25, 515;
392 e n. 211. «plutarchismo», 490-491.
Perutelli Alessandro, 525. Poerio Alessandro, 144.
pessimismo antico, 161-168. poesia “ritmica” (accentuativa): sua origine
Pessina Enrico, 188 n. 7. secondo il Maffei e il Muratori, 477-
Pestelli Corrado, XXXVII-LXXIII (Nota del 480, 481.
curatore). Pohlenz Max, 462-463.
Petrarca Francesco, XXXIV, 124, 253, 254 Pöhlmann Robert von, 458 e n. 88.
e n. 12, 256 e n. 18, 258 e n. 22, 269. Poincaré Henri, 465.
Petronio Giuseppe, LXXXIII, 4 e n. 4, 22 Polignac Melchior de, 279 n. 20, 287.
n. 39, 30 n. 58, 32 e n. 64, 33, 116 n. «Politecnico (Il)», 16, 331 n. 8, 346 e n. 61,
24. 348 n. 65, 349 n. 66, 350 e n. 73, 354
Peyron Amedeo, XLIV, 12, 21, 51 e n. 37, n. 91, 364 e n. 122, 366 n. 127, 368 n.
52, 378, 494, 495, 498; rapporti col 131, 369 n. 132, 376, 377, 378 n. 164,
Mai, vedi Mai; suo presunto romantici- 381, 382 e n. 169, 384 n.186, 389 n.
smo, 494. 202, 390 n. 203, 417 n. 294, 418 n.
Pezzana Angelo, 513. 298, 420 n. 308, 515.
Pianciola Cesare, XCVI n. 6. «popolarità» secondo i romantici, vedi
Picco Francesco, 63 n. 66, 225 n. 70. romanticismo.
Piccolomini Enea, 498 n. 4 . Porena Manfredi, 108, 118 n. 29, 126, n.
Piergili Giuseppe, 73 n. 97, 221 n. 60. 50, 131 n. 63, 136 n. 71, 163 n. 36,
Pieri Mario, 513. 164 n. 38, 168 n. 53, 175 nn. 73-75,
Pietti, libraio, 512. 182 n. 93.
Pighini Giacomo, 141. Porfirio, 152, 158, 170 n. 61, 171, 172, 180
Pignatelli Giuseppe, 316 n. 1, 516, 527. n. 87, 241, 278 e n. 18, 300 n. 45, 516;
Pindaro, 164. Vita Plotini (e Leopardi), 278 e n. 18.
550 Indice dei nomi e delle cose principali
Senofonte, 129 n. 56, 167 n. 51, 451-452; Spaggiari William, XXII n. 32, XXIII n.
caratterizzazione datane dal Gomperz, 34, 507, 509, 512, 528.
451-452. spasimato = che spasima, 255 e n. 15.
Serban Nicolas, 117 n. 29. Spaventa Bertrando, 102.
Sergi Giuseppe, XXVIII, 127, 141, 367. Spencer Herbert, 447 n. 49.
Sestan Ernesto, CIII, 329 n. 2, 331 n. 8, Speusippo, 444.
334 n. 16, 345 n. 58, 350 n. 73, 369 Spinazzola Vittorio, 3.
n.132, 373. Spinoza Baruch, 130.
Sesto Empirico, 170 e n. 61. Spitzer Leo, 402 n. 243.
Settembrini Luigi, LXXVII, XCV n. 5, 12 Spitzer Simon, 451 n. 61.
n. 17, 20, 24, 25 n. 43, 321 n. 12. Staël, Madame de (Anne-Louise-Germaine
Setti Giovanni, 169 n. 56, 178 n. 81. Necker), LXXXVI, 4 n. 2, 5, 34 e n.
Settis Salvatore, VIII n. 2. 65, 41, 120 n. 33, 228, 229, 231 e n.
Sichirollo Livio, 463 n. 100. 3, 332 n. 12, 338 n. 27.
Sgricci Tommaso, XX, 508. Stallbaum Gottfried, 168, 453 n. 68.
«Sigma» (pseudonimo di un articolista del Stefano (Henri Etienne), 161 n. 32.
«Messaggero» di Roma), 188 n. 7, 196 Steinhoff Margarete, LXXXII.
n. 23. Steinthal Heymann, 39 n. 228.
Simeoni Luigi, 475 n. 1, 477 n. 4. Stella Antonio Fortunato, 499.
Simmaco, riecheggiato dal Leopardi, 256 n. Stellini Jacopo, 75 e n. 106, 76 e n. 110,
17. 504.
Simon Richard, 363 n. 119. Stendhal (Henri Beyle), LXXXII, LXXXIII,
Simonide, 148, 167 n. 48, 294 n. 36. LXXXVIII e n. 1, 7, 39, 387 n. 194.
Sinner Louis de, 127 n. 52, 130 n. 61, 184. Stenzel Julius, 428, 429 e n. 2.
Sismondi Jean-Charles-Léonard Simonde de, Stephen Leslie, 455 n. 74.
19 n. 34, 343 n. 50, 345, 358. Stirpe Bianca, 136 n. 72.
Smith Adam, 345 n. 56. Stobeo, 164 n. 41, 165 e n. 44, 175 e n. 74,
Socrate, 148, 150, 153 e n. 12, 154, 160, 180 n. 90, 280 n. 22; cit. dal Leopardi
170, 173, 174, 298, 430 n. 8, 440, secondo due diverse edizioni, 280 n.
442, 451, 460 e n. 92, 528; «socratici 22.
imperfetti» secondo E. Zeller, 441 n. stoici greci secondo il Gomperz, 452, 459.
32. stoicismo, XLIII, 163, 175-177, 178 n. 83,
sofisti greci, 440-441 e n. 30, 442, 445, 452, 281, 282, 284 e n. 24, 285, 286 e n.
453 e n. 68, 458, 459, 463 e n. 100, 28; nell’età imperiale romana, 157,
470-471. 159; nel Leopardi: valutazione degli
Sofocle, 10, 164 e n. 39. stoici ultimi difensori della libertà nel
Solleciti Maria, 251. mondo antico, 284-285 e n. 26; acco-
Solmi Arrigo, 341 n. 43. stamento (con riserve e per breve
Solmi Sergio, XXXII e n. 39, 227, 233, tempo) ad Epitteto, 285 nn. 27-28;
236, 240, 241, 244, 245, 312, 522, contro il provvidenzialismo stoico, 286
525. n. 28.
Soprani Francesco, 70 n. 87. storici greci secondo il Gomperz, 445, cfr.
Soprani Leone, 87. 436.
Spadoni Domenico, 207, 510. Stok Fabio, X n. 6.
sostrato, nella linguistica anteriore al Stratone da Lampsaco, 180, 444, 449-450 e
Cattaneo, 342-344, 349-350, 356-357; n. 59, 452.
nel Cattaneo, vedi Cattaneo; Struve Jacob Theodor, 500.
nell’Ascoli, vedi Ascoli; nel Nigra, 395 Struve Karl Ludwig, 51, 500.
n. 219, 402 n. 245; nell’indeuropeistica Stussi Alfredo, 376.
a metà Ottocento, 385-388; nello Sue Eugène, 264.
Schuchardt, 401-402 e n. 243, 403-
404; sostrato e monogenesi delle lingue, Tabarrini Marco, 100 n. 4.
419-421. Tacchi Ilario, 187 e n. 4, 188 e n. 7, 189 e
Indice dei nomi e delle cose principali 553
nn. 8-9, 193, 196 e n. 22, 224, 225, Togliatti Palmiro, 264.
226, 518. Tolomei Claudio, 342 n. 45.
Tacito, 157, 159. Tomitano Bernardino, 510.
Tagliavini Carlo, 329 e n. 3, 390 n. 203, Tommaseo Niccolò, XXII, XXIII, XXVIII,
406 n. 255, 418 n. 299, 424 n. 315. LXXXIII, 10, 19 e n. 31, 21, 29 e n.
Talete, XXVI, 439 e n. 25; discussioni sulla 56, 38, 84 n. 128, 85, 89 e n. 138,
sua origine semitica, 439 e n. 25. 106, 127, 184, 254 n. 12, 262, 321,
Tannery Paul, 444. 332, 375, 376, 392 n. 211, 486 e n. 16,
Targioni-Tozzetti Fanny, 34. 499, 513, 526.
Targioni-Tozzetti Ottaviano, 100. Torti Francesco, XCII.
Tasso Torquato, 44, 258, 309, 314. Tortoreto Alessandro, 508.
Tateo Francesco, XLVI, XLVII, 522, 523. Tramarollo Giuseppe, 373, 526.
Tedaldi-Fores Carlo, 19. Trasea Peto, 157, 159.
Tellini Gino, VII-XXXV (Introduzione), Traube Ludwig, 477.
LXXIII. Traversari Ambrogio, 161 n. 32.
Temistio, 431 n. 9; De anima, congettura del Treitschke Heinrich von, 469 n. 102.
Gomperz, 431 n. 9. Treves Piero, XVI n. 25, XLI, XLIV-XLV,
Tenca Carlo, 19-20 e n. 35, 25 n. 43, 100, L, LIII, LXXXII, CV, 11 e n. 13, 21
265 n. 29, 373. n. 38, 43 n. 17, 49 n.30, 84 n. 128,
Teocrito, 309, 310. 112 e n. 10, 120 n. 34, 121 n. 39, 164
Teofrasto, XXIX, XXX, 132, 161 e n. 32, nn. 39 e 42, 213-214 n. 49, 318 n. 7,
162, 163, 164, 165, 170, 174 n. 72, 410 n. 271, 461 n. 97, 489-501, 506,
175, 180 e n. 87, 282, 283, 284 e nn. 507, 513, 514, 515; concordanze e
24-25, 304, 431 n. 9, 432 e n. 12, 444, divergenze rispetto a Croce, 491-492;
500 n. 6, 503; ammirato dal Leopardi, antigiustificazionismo storico, 492;
282, 284 e n. 24, 304. disprezzo per la «tecnica» filologica,
Teognide, 121, 164, 272; «meglio è per l’uo- 496-498; abuso delle categorie di
mo non esser nato ... »: giudizio oppo- romanticismo e di neoguelfismo, 492-
sto di Epicuro, consenziente del 497; antileopardismo, 499-500.
Leopardi, 164, 272. Trezza Gaetano, XLV, 496, 497.
Terenzio, 306 n. 56, 478, 480; T. e Tribolati Felice, 105 n. 32, 513.
Giordani, 306 n. 56. Trombetti Alfredo, 413 n. 280, 418 n. 299,
Terracini Benvenuto, 328, 329 n. 2, 347 n. 419, 425, 426 n. 318, 526.
63, 372 n. 142, 376 n. 157, 379 n. Tropeano Francesco, 62 n. 64.
169, 396 e n. 223, 397 e n. 228, 404 e Trotzskij Lev (Lev Trockij: Lejba Davidovic#
nn. 250-251, 405 e n. 254, 406 n. 258, Brons#tein), 505.
418 n. 297, 424-425, 426. Troya Carlo, 341 n. 43, 492.
Terzaghi Nicola, LV. Trubeckoj Nikolaj Sergeevic#, 361.
Thierry Augustin, 358 n. 102. Tucidide, XXVI, 42, 51 e n. 35, 436, 439.
Thorvaldsen Bertel, 62 n. 64. Turati Filippo, 410 n. 272.
Tilgher Adriano, LXIX, 10 e n. 2, 118, 119
n. 30, 129 n. 58, 130 n. 59, 297 e nn. Ubaldini Giovan Battista (pseudonimo di
40-41, 298. Ilario Tacchi), 187 n. 4.
Timpanaro Sebastiano senior, LXXIII. Untersteiner Mario, 429 n. 4, 459 n. 91.
Timpanaro Cardini Maria, vedi Cardini Usener Hermann, LVI, 266, 295, 431 n. 9,
Timpanaro Maria. 432, 434, 435 n. 19, 441 e n. 33.
Timpanaro Morelli Maria Augusta, vedi
Morelli Timpanaro Maria Augusta. Valgimigli Manara, XLVI, 501.
Tiraboschi Girolamo, 338 e n. 26. Valla Lorenzo, 178.
Tissoni Roberto, XLVII, 523. Vallauri Tommaso, 46, 50, 56.
Tocco Felice, 108, 130 e n. 60, 161 n. 32, Valli Donato, 516.
162 e n. 35, 169 n. 56, 172 n. 65, 178 Valsecchi Antonio, 150 n. 6.
e n. 81, 180 n. 87. Valussi Pacifico, 376, 526.
554 Indice dei nomi e delle cose principali
Vannucci Atto, 492, 495, 501, 515. Vogt Karl, 446 e n. 47.
Varrone, 52 n. 40. Volney (Constantin-François de Chasseboeuf),
Vegezzi Ruscalla Giovenale, 370. 118 n. 29, 313.
Velleio Patercolo, 156 n. 21. Voltaire (François-Marie Arouet), XXII,
Velli Giuseppe, 314, 508, 515. XXXV n. 40, 68, 75 e n. 105, 85, 115,
Vené Gian Franco, 114, 305, 326 n. 26, 122 e n. 40, 123, 135, 146 e n. 90,
514. 149, 150 n. 6, 240, 293 n. 35, 313,
Veo Ettore, 188 n. 7. 324, 327; Giordani e Leopardi spesso
Vera Augusto, 413 n. 280, 527. dissentono da lui quanto alla religione,
Verri Pietro, 18 n. 29, 22, 76. 313, 327; Siècle de Louis XIV, 324.
Viani Clelia, 510. Voss Johann Heinrich, 7.
Viani Prospero, 185, 213, 218 n. 56, 226 n. Vossius Gerhard Johannes, 478-479 e n. 7.
71, 252, 510. Vossler Karl, 397.
Vico Giambattista, LXXXV, 7, 34, 40 e n.
8, 75, 76, 332 n. 11, 343 n. 50, 351 e Wallace Alfred Russel, 447 n. 49.
n. 8, 362, 364, 373 e n. 149, 497, 504. Wartburg Walther von, 341.
Vidos Benedictus Eleutherius, 341 n. 44. Weinberg Adelaide, 448 n. 52, 453 n. 70.
Vieusseux Giampietro, XXIII, 16-17 e n. West Martin L., 437 n. 22.
26, 20, 44 n. 19, 48, 55, 71 n. 91, 82, Whitney William Dwight, 403 e nn. 24 e
89 e n. 138, 128 n. 55, 131, 132, 133, 248.
134, 135, 137 e n. 73, 251, 252, 513. Wilamowitz Ulrich von, 435 e n. 19, 467,
Viglio Patrizia, 512. 479.
Virgilio, XXXIX, LI, LII, 47, 233, 288, Winckelmann Johann Joachim, 437.
300, 305, 306, 307 n. 56, 308 e nn. Wis Roberto, 507.
59-60 (Leopardi), 395; culpa (Georg. III Wolf Friedrich August, 435.
68), 288 (ma cfr. 312).
Visconti Ennio Quirino, 490, 500. Zach Franz Xavier von, 68.
Visconti Ermes, 18 n. 30, 19 e n. 31, 39 n. Zajotti Paride, 9, 14, 17, 65, 66 n. 72.
5, 338 n. 27, 490, 500. Zampa Giorgio, VIII n. 3.
Vitale Maurizio, XLVI, XLVII, XCI, XCII, Zanotti Francesco, 59.
12 n. 17, 230 n. 2, 322 n. 17, 336 n. Zanotti Giampietro, 59.
20, 336 n. 26, 342 n. 45, 344 n. 55, Zeller Eduard, LVI, 431, 435, 436, 437 e n.
392 nn. 209-211, 504, 505, 522, 523, 22, 438, 439 n. 25, 441 e nn. 30-32,
525, 528. 442 n. 34, 452, 459.
Vitaletti Guido, 525. Zerbini Elia, 213 n. 50.
vitalità, vita vitalis (Ennio), nel Leopardi, Zielin!ski Tadeusz, 468 n. 101.
296 e n. 38. Zuccante Giuseppe, 528.
Vitelli Girolamo, L, 498 e n. 4. Zumbini Bonaventura, 108, 189.
Vitrioli Diego, 46.