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TIMPANARO Classicismo PDF

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BIBLIOTHECA

Sebastiano Timpanaro

Classicismo e illuminismo
nell’Ottocento italiano
Testo critico con aggiunta di saggi e annotazioni autografe

a cura di
Corrado Pestelli

saggio introduttivo di
Gino Tellini
In copertina: Thédore Rousseau, Landa delle ginestre, 1860 circa.
Montepellier, Musée Fabre.

Copyright © 2011 by Casa Editrice Le Lettere – Firenze


ISBN 978 88 6087 416 0
www.lelettere.it
Indice

vii Introduzione di Gino Tellini


xxxvii Nota del curatore e criteri della presente edizione

lxxv Copertine 1973 e 1984


lxxvi Bandelle 1984
lxxvii Prefazione
lxxxi Prefazione alla seconda edizione
ci Nota alla ristampa 1988 della seconda edizione
ciii Avvertenze sulle citazioni, sulle postille e sulle aggiunte biblio-
grafiche
cv Avvertenza sulle citazioni da «Aspetti e figure della cultura otto-
centesca»
cvii Avvertenza sulle citazioni da «Nuovi studi sul nostro Ottocento»

Classicismo e illuminismo nell’Ottocento italiano

3 Introduzione
37 I. Le idee di Pietro Giordani
97 II. Giordani, Carducci e Chiarini
108 III. Alcune osservazioni sul pensiero del Leopardi
148 IV. Il Leopardi e i filosofi antichi
184 V. Di alcune falsificazioni di scritti leopardiani
1. Gli «appunti» dell’abate Cozza-Luzi e la controversia Cugnoni-
Tacchi, 184 2. Le recenti vicende degli «inediti» del Cozza-
Luzi, 190 3. I Pensieri vaticani, 193 4. I primi due abbozzi
di Idilli, 197 5. Le due suppliche a Pio VII e la lettera del car-
dinale Mattei, 207 6. Gli altri abbozzi dell’«Infinito», 215
7. I «Discorsi Sacri», 221 8. Conclusione, 224
227 VI. Natura, dèi e fato nel Leopardi
250 VII. Note leopardiane
1. «Strigne più la camicia che la sottana», 250 2. «Il Giordani, il
Montani, il Vieusseux vi risalutano caramente», 251 3. «Gli sguar-
di innamorati e schivi» (A Silvia, 46), 253 4. «Al romorio / de’ cre-
pitanti pasticcini» (Palinodia, 14-15), 259 5. «Le magnifiche sorti
e progressive» (La Ginestra, 51), 261
266 VIII. Epicuro, Lucrezio e Leopardi
315 IX. Il Leopardi e la Rivoluzione francese
328 X. Carlo Cattaneo e Graziadio Ascoli
I. Le idee linguistiche ed etnografiche di Carlo Cattaneo, 328 II. L’in-
flusso del Cattaneo sulla formazione culturale e sulla linguistica asco-
liana, 369
428 XI. Theodor Gomperz

Appendici
475 Appendice I
I. Postilla su Maffei e Muratori, 475 II. A proposito di un inedito
del Cattaneo sulla poesia dialettale, 483
489 Appendice II
Classicismo e «neoguelfismo» negli studi di antichità del-
l’Ottocento italiano

503 Annotazioni autografe

531 Indice dei nomi


Introduzione di Gino Tellini
Un libro necessario

Testo epigrafe, testo epigrafe, testo epigrafe, testo epigrafe,


testo epigrafe, testo epigrafe.
Nome Cognome

1. Non è senza significato che Classicismo e illuminismo nell’Otto-


cento italiano abbia nel 1965 visto la luce (al pari poi di altri tre volu-
mi di Sebastiano Timpanaro)1 nei «Saggi di varia umanità» diretti, per
i tipi pisani di Nistri-Lischi, da Lanfranco Caretti: una collezione d’o-
rientamento italianistico, e di taglio accademico, ma fruttuosamente
1
Classicismo e illuminismo nell’Ottocento italiano, Nistri-Lischi, Pisa 1965, 19692; Sul mate-
rialismo, Nistri-Lischi, Pisa 1970, 19752 (Unicopli, Milano 19973); Aspetti e figure della cultura
ottocentesca, Nistri-Lischi, Pisa 1980, con dedica «ad Augusto Campana»; Nuovi studi sul nostro
Ottocento, Nistri-Lischi, Pisa 1995, con dedica «a Lanfranco Caretti». Va da sé che Timpana-
ro è l’unico autore presente nei «Saggi di varia umanità» con quattro titoli. Sui tenaci rapporti
di amicizia e di stima che lo hanno legato a Caretti informano la Prefazione a Classicismo e illu-
minismo («Esprimo la più viva riconoscenza a Lanfranco Caretti, che ha accolto questo lavoro
nella collana da lui diretta; alla sua acuta sensibilità filologica e critica, al suo spirito pasqualiano
sono debitore di preziosi suggerimenti»), nonché la Prefazione alla seconda edizione, la Prefazione
a Antileopardiani e neomoderati nella sinistra italiana, Ets, Pisa 1982 («Nemmeno nella riflessio-
ne sugli argomenti qui trattati [...] mi è venuto meno il prezioso consiglio di Lanfranco Caretti,
a cui mi lega una comunanza non solo di idee filologiche e critiche, ma di visione della vita, pes-
simista non rinunciataria»), la Prefazione a Nuovi studi sul nostro Ottocento («Dedicare a Lan-
franco Caretti un libro che si pubblica in una collana diretta da Lanfranco Caretti? È adulazio-
ne, è servilismo! Non mi meraviglierei di udire o di leggere commenti di questo genere. Ma chi
conosce Caretti sa bene che le adulazioni non gli sono mai andate a genio; e chi, sia pure alla
lontana, conosce me, sa che, tra i vari luoghi dell’inferno in cui potrò andare a finire, uno è esclu-
so: la seconda bolgia dell’ottavo cerchio, quella, appunto, degli adulatori») e la nuova introdu-
zione (dal titolo Venti anni dopo) alla terza edizione di Sul materialismo («un maestro e amico
indimenticabile, della cui scomparsa [avvenuta a Firenze il 4 novembre 1995] non riesco e non
riuscirò a consolarmi»). Più in particolare (oltre ai frequenti riconoscimenti disseminati in molti
altri luoghi), si veda la Premessa di Timpanaro alla Bibliografia degli scritti di Lanfranco Caretti, a
cura di R. Bruscagli e G. Tellini, Bulzoni, Roma 1996, pp. 14-24. Cfr. anche l’articolato pano-
rama, in prospettiva storica, tracciato da A. Rotondò, Sebastiano Timpanaro e la cultura univer-
sitaria fiorentina della seconda metà del Novecento, nell’opera collettiva Sebastiano Timpanaro e la
cultura del secondo Novecento, a cura di E. Ghidetti e A. Pagnini, Edizioni di Storia e Lettera-
tura, Roma 2005, pp. 3-88 (su Caretti e Timpanaro, pp. 72-77).
viii Introduzione di Gino Tellini

aperta ai contributi di non italianisti e di non accademici, perché chi


ne aveva la responsabilità della direzione era sollecitato non tanto da
inquietudini metodologiche (le quali lasciano spesso il tempo che tro-
vano), quanto piuttosto dal robusto e salutare innesto, nel domestico
terreno delle nostre lettere, di energie e competenze professionali
maturate in differenti campi del sapere.
La tempra del classicista, del critico testuale, del linguista, del filo-
logo, il vigore del pensatore e dello storico, la risolutezza etica e civi-
le del militante politico, come del polemista, hanno cooperato a ren-
dere Classicismo e illuminismo un testo capitale della storiografia sulla
civiltà letteraria del xix secolo. Un libro necessario, eterodosso e pro-
blematico, che scompagina equilibri consolidati. Nella presente edi-
zione compare integrato con altri scritti dell’autore, nonché con postil-
le e aggiunte bibliografiche, come è chiarito in dettaglio nella Nota del
curatore.
Quando si pensa ai tanti meriti intellettuali di Timpanaro viene
naturale passare da un settore scientifico all’altro, in una costellazio-
ne multipla di ambiti specialistici tra loro a prima vista non comuni-
canti (anzi spesso incomunicanti nella parcellizzata prassi universita-
ria). E si può correre il rischio di non tenere nel debito conto un dato
ovvio eppure eccezionale: che un così poliedrico intreccio d’interessi,
di dottrina, d’esperienze pratiche e conoscitive è salda espressione di
un’unica, unitaria personalità.2 Definirla versatile e complessa non
basta, perché l’arduo connubio di scientificità e passione, di magiste-
ro non cattedratico e intransigente moralità, di fiducia nella cultura e
abnegazione personale che nutre la vita e la scrittura di Timpanaro
(lui, studioso di prestigio internazionale, che ha scelto di esercitare il
mestiere del correttore di bozze) non ha eguali nel panorama contem-
poraneo. Può valere nel caso quanto Montale osservava nel 1943 a
proposito di Giorgio Pasquali: «è certo che questo creduto specialista
ha ben distrutto le barriere della sua specialità».3 Tale particolarissi-
ma trama di convergenze disciplinari – peraltro mai esibita – credo

2
Su «l’originalità e l’unità dell’opera di Timpanaro», cfr. S. Settis, Presentazione del volume
«Il filologo materialista. Studi per Sebastiano Timpanaro», in «Atti della Accademia Nazionale dei
Lincei. Classe di Scienze Morali, Storiche e Filologiche», s. IX, vol. XV, 2004, pp. 597-601.
3
E. Montale, Il «filologo soprano»: Giorgio Pasquali, in «Tempo», Milano, VII, 189, 7 gen-
naio 1943, pp. 33-35, ora in Il secondo mestiere. Prose 1920-1979, a cura di G. Zampa, Monda-
dori, Milano 1996, 2 voll., I, p. 599.
Introduzione di Gino Tellini ix

che si avverta tra le righe in tante pagine di Timpanaro. Però è certo che
nei suoi contributi di italianistica siffatta tastiera pluriprospettica
mette in moto una magistrale macchina interpretativa, che all’acribia
della perlustrazione tecnica affianca la solidità della guardatura stori-
ca e della riflessione concettuale, abbinando filologia e critica lettera-
ria sul fronte anti-intuizionistico, fino a proporre – non per via di rilu-
centi escogitazioni, ma sul fondamento di accertamenti empirici, di
scavi lenti e pazienti – la rilettura originale di opere e di autori, come
anche di interi (e quanto intricati) movimenti culturali. Il che non
vuol dire che le soluzioni prospettate siano tutte, volta per volta, indu-
bitabili (Sebastiano per primo era lieto di sottoporle alla verifica del
confronto e della discussione):4 vuol dire però che la strada percorsa
per giungere alla loro formulazione è in ogni caso illuminante e lascia
ammirati,5 perché sempre tesa a interrogare e a capire le ragioni dei
fatti accaduti, sempre orientata non a isolare il singolo evento, per
contemplarlo nella sua assolutezza, ma a correlare e distinguere, a va-
gliare e investigare con intrepido rigore la contraddittoria complessità
della realtà storica e di chi vi si trova coinvolto.
Con ciò si tocca un tratto distintivo dell’habitus mentale di Timpa-
naro, del suo comportamento mai snobistico, sempre invece paritetico
e democratico, ovvero l’attenzione esclusiva rivolta all’oggetto dell’in-
dagine, senza nulla concedere al risalto della prima persona, al lustro
del soggetto che indaga, all’ostentazione di sé. In effetti l’io dell’in-

4
Per talune riserve di fondo sul «disegno storiografico di Classicismo e illuminismo», cfr.
ora E. Ghidetti, L’Ottocento di Timpanaro tra Illuminismo e Classicismo, nell’opera collettiva
Sebastiano Timpanaro e la cultura del secondo Novecento cit., pp. 245-56, che tuttavia riconosce,
all’«energica maieutica culturale» di Timpanaro, «risultati che hanno significativamente modi-
ficato le tavole storiografiche del primo Ottocento italiano, aprendo la strada a nuovi studi che
hanno rimesso in discussione non solo le nozioni di Classicismo e Romanticismo, ma il proble-
ma stesso delle radici culturali dell’Italia moderna» (p. 256).
5
È quanto apertamente dichiara Cesare Cases a Timpanaro, da Torino, il 3 febbraio 1979,
in C. Cases e S. Timpanaro, Un lapsus di Marx. Carteggio 1956-1990, a cura di L. Baranelli, Edi-
zioni della Normale, Pisa 2004, pp. 282-84: «È vero che i miei itinerari ideologici non si sono
mai incontrati con i tuoi, che ero hegeliano e lukácsiano quando tu difendevi il materialismo
più o meno volgare e civettavo con Freud quando tu demolivi il lapsus freudiano. [...] Tu hai
scritto dei libri che si leggono volentieri, pieni di dimostrazioni persuasive, di collegamenti rive-
latori, di riferimenti inediti e illuminanti. Che importa se uno poi non è d’accordo con il q.e.d.
[quod erat demonstrandum] conclusivo? [...] Dopo tutto, quello che so dell’800 italiano l’ho desun-
to dai tuoi libri, che mettono sempre in evidenza figure e problemi interessanti [...]. Anche
recentemente ho tenuto a un convegno italo-tedesco di germanisti, a Bonn, una conferenza sul
mito della cultura tedesca in Italia che ha avuto un successo incredibile [...] e che per 3/4 era
costituita da reminiscenze spesso neanche controllate del Timpanaro scritto e orale».
x Introduzione di Gino Tellini

terprete non si annulla mai nel silenzio delle cose da dimostrare (come
Contini diceva di Santorre Debenedetti), né mai rinuncia al proprio
ruolo, anzi se ne sente sempre attiva la presenza, ma in qualità di re-
gista energico e partecipe, coinvolto nella collettiva avventura della
conoscenza, non come primattore o vocalista sulla ribalta della scena
(l’io «collo-ritto», secondo l’immagine di Gadda). Basta anche poca
consuetudine con la scrittura saggistica contemporanea – specie quel-
la dei letterati – per avvedersi della distanza. Si parli pure di radicale
modestia, esercitata per culto severo della verità, per un bisogno di
integrale immersione e immedesimazione nella ricerca. Il fatto non è
accessorio, perché discende dal carattere schivo della persona (ma gli
amici sanno quanta intensità d’affetti e quanta forza di idee si cela-
vano dietro quella ritrosa riservatezza) e connota con coerenza lo sti-
le dello studioso, che qui più importa. La limpidezza e la sobrietà del
dettato ne sono le doti subito evidenti, unite alla schiettezza antiac-
cademica e al rifiuto di raffinati virtuosismi. Nelle Considerazioni pre-
liminari che aprono Il lapsus freudiano, l’epiteto «professorale» è con-
giunto, come sempre, all’idea della «grettezza» e, poco oltre, ecco
biasimato, nei procedimenti interpretativi di Freud, il «brillante fuo-
co d’artificio» che può sedurre la fantasia di chi legge.6 Né toni pro-
fessorali, né giochi di fioretto, né acrobazie dell’ingegno e del lin-
guaggio, né alambiccamenti o narcisismi. L’aggettivo «brillante» ha
sempre per Sebastiano un’accezione non positiva. La sua prosa è reto-
ricamente spoglia, trasparente e spedita nella dizione, discorsiva e tan-
gibile, attratta dall’area semantica dell’esperienza quotidiana, quindi
poco incline ai voli metaforici7 e meno ancora agli ammiccamenti allu-
sivi, perché intende non persuadere ma convincere, con il peso delle
rilevazioni documentarie, con gli strumenti verificabili dell’argomen-
tazione logica e della disciplina ragionativa. Alla scioltezza dell’elo-
quio risponde la sostenuta fluidità dell’impianto sintattico, al solo
fine, beninteso, della chiarezza, della perspicuità, dell’efficacia comu-
nicativa.8 Il destinatario effettivo coincide con un pubblico colto, ma
6
S. Timpanaro, Il lapsus freudiano. Psicanalisi e critica testuale, La Nuova Italia, Firenze 1974,
ora nuova edizione, a cura di F. Stok, Bollati Boringhieri, Torino 2002, rispettivamente, pp. 3 e 31.
7
S. Timpanaro, Venti anni dopo, in Sul materialismo, Unicopli, Milano 19973, p. xii: «è sem-
pre un brutto segno quando si è costretti a ricorrere a metafore».
8
Cases, da Roma, il 14 ottobre 1960, confida a Timpanaro di invidiare il suo «stile magro
e vigoroso come le salsicce di Siena» (C. Cases e S. Timpanaro, Un lapsus di Marx. Carteggio
1956-1990 cit., p. 56).
Introduzione di Gino Tellini xi

il destinatario implicito e ideale va oltre l’esigua cerchia degli addetti


ai lavori. Perciò questo modo di scrivere ignora la separatezza tra i pia-
ni nobili e i mezzanini, onde se rifiuta gli abiti inamidati, rifiuta anche
la facilità divulgativa e s’indirizza, con il medesimo timbro di una luci-
da sobrietà, agli intendenti e ai profani. Il «dire pane al pane e vino
al vino»9 si coniuga, sul piano della dispositio, a una vivacissima tec-
nica dialogica che ottiene l’effetto di movimentare e animare gli argo-
menti dibattuti, chiamando in causa altri studiosi e consentendo di
scrutare in controluce le loro prospettive di giudizio, sì da ricostruire
– senza esclusioni preventive – la genesi delle valutazioni contrastanti
che sono prese in esame e messe a confronto, con l’intento di valoriz-
zare volentieri anche il lavoro altrui per una migliore chiarificazione e
un ulteriore approfondimento delle questioni. Non conta chiudere la
partita, ma mettere a punto la posta in gioco e questa – nei temi che a
Timpanaro più stanno a cuore – non è mai sterile o pedantesca, ma sot-
tratta alla rigidità della mera speculazione erudita e immersa, come
materia compromettente e vibrante, nel flusso della storia civile. Al let-
tore accade allora, passo dietro passo, di trovarsi nel vivo di un labo-
ratorio in fermento, in un’officina alacre e operativa, dinamicamente
aperta, che trasforma l’inerzia dei dati di laboratorio in un drammati-
co (direbbe Montale) «fatto di vita»: «come un fiume perenne che può
raggelarsi nella “fissità” delle schede ma non respira se non ritorna dal-
le schede alla vita».10 Ciò che preme infine è l’accertamento del vero,
non la palma dell’originalità, che rimane variabile indipendente, spes-
so raggiunta ma non programmata e virtualmente irrilevante:
Eh, lo so, questa mia interpretazione è trita e del tutto priva di originalità; ma che
ci posso fare se la verità, in questo e in molti altri casi, è banale!

In questi termini Timpanaro si rivolge a Cesare Cases,11 dopo un


istruttivo scambio di opinioni sulla teoria della tragedia. Coraggio del-
9
Così T. De Mauro, Premessa a Per Sebastiano Timpanaro. Il linguaggio, le passioni, la storia,
a cura di F. Gallo, G. Iorio Giannoli, P. Quintili, Unicopli, Milano 2003, p. 8.
10
La frase montaliana è sempre riferita a Pasquali: cfr. E. Montale, Un filologo stravagante,
in «Corriere della Sera», 7 dicembre 1951, ora in Il secondo mestiere. Prose 1920-1979 cit., I,
p. 1307. Rilevante, in proposito, un’osservazione giocosa di Cases a Timpanaro, Torino, 1 apri-
le 1973, in C. Cases e S. Timpanaro, Un lapsus di Marx. Carteggio 1956-1990 cit., p. 214: «tu
sei sempre un eccellente storico delle idee e riesci a cavar sangue anche dalle rape filologiche».
11
S. Timpanaro a C. Cases, Pisa, 2 marzo [1963], ivi, p. 74. Cfr. almeno anche S. Timpa-
naro, De Amicis di fronte a Manzoni e a Leopardi, in Nuovi studi sul nostro Ottocento cit., p. 211:
«ma la verità non è necessariamente complicata».
xii Introduzione di Gino Tellini

la chiarezza vuol dire anche anticonformistico coraggio della sempli-


cità (che per Leopardi, si sa, è una conquista faticosa): originalità,
dunque, come approdo involontario, al pari della modernità nell’im-
piego della strumentazione critica, conseguita proprio in virtù di un
pervicace desiderio di inattualità, di leopardiana avversione per le
mode del giorno, siano le «fumosità psicanalitico-sociologiche»,12 sia-
no le primizie di grido importate da terra francese con il patrocinio dei
«Grandi Saltimbanchi di Parigi».13 C’è il provincialismo strapaesano
e c’è anche, oggi più insidioso, il provincialismo come passivo vezzo
esterofilo.14 Contro le infatuazioni, la franchezza del «dire pane al
pane e vino al vino» si rivela arma appuntita e anche ironicamente irri-
dente «per “rompere l’incantesimo” e far vedere che l’imperatore di
anderseniana memoria, da tutti elogiato per i suoi bei vestiti nuovi,
in realtà è in mutande».15 Chi ha consuetudine con gli scritti di Tim-
panaro, ne incontra molti non solo di incantesimi rotti, ma di impe-
ratori in mutande.
Si dice da più parti, e giustamente, che siffatto metodo di lavoro si
attiene con fermezza a uno statuto scientifico e razionalistico, ma
occorre aggiungere che peculiare gli è anzitutto una dote rara che si
chiama «vera umiltà scientifica», la quale nulla ha a che vedere – cosa
mai sottolineata abbastanza – con l’esibizione scientistica, che è inve-
ce merce molto più corrente. Sempre l’amico Cases, assecondando la
polemica antistrutturalistica del suo animoso interlocutore, distingue
tra i «vecchi positivisti» e gli «strutturalisti»:
12
S. Timpanaro a C. Cases, Firenze, 9 gennaio 1968, in C. Cases e S. Timpanaro, Un lapsus
di Marx. Carteggio 1956-1990 cit., p. 122.
13
«La sociologia di Horkheimer e Adorno [...] mi sembra una propaggine dell’anticapitali-
smo romantico, con gli indubbi meriti ma anche con le insufficienze di quell’indirizzo. Direi che
lo è già nel linguaggio fumoso e insopportabile. Almeno una cosa andrebbe imparata dall’il-
luminismo: il gusto dell’esprimersi e del pensare chiaramente. E questo è uno dei motivi [...]
dell’antipatia che provo, da un lato per i francofortesi, dall’altro (ancora maggiore) per i Grandi
Saltimbanchi di Parigi: per la banda Lévi-Strauss – Foucault – Lacan – Althusser» (S. Timpa-
naro a C. Cases, Firenze, 5 febbraio 1970, ivi, p. 146). Riguardo al «ristupidimento conformi-
stico per cui tutti obbediscono alle mode e credono di essere liberi», cfr. S. Timpanaro, Prefazione
a La «fobia romana» e altri scritti su Freud e Meringer, Ets, Pisa 1992, pp. 13-14.
14
«Com’è o dovrebbe essere noto, il provincialismo può assumere due forme, solo apparen-
temente opposte. Una è la forma strapaesana e autarchica [...]. L’altra è la forma dell’ammira-
zione acritica per qualsiasi sottoprodotto proveniente dai paesi “evoluti” [...]. In Italia c’è una
periodica oscillazione fra le due forme di provincialismo» (S. Timpanaro, Un «parnassiano atlan-
tico», in «Belfagor», XXVII, 1, 1972, p. 100).
15
S. Timpanaro a C. Cases, Firenze, 26 marzo 1971, in C. Cases e S. Timpanaro, Un lapsus
di Marx. Carteggio 1956-1990 cit., p. 190.
Introduzione di Gino Tellini xiii

Quello che più dà ai nervi in questi strutturalisti (a cominciare dai fondatori, Tru-
betzkoy e Lévi-Strauss) è la loro sterminata presunzione. I vecchi positivisti, ben-
ché andassero anche loro in cerca di sistemi rigorosi come quelli delle scienze esat-
te, avevano sempre la modestia di chi da una parte si inchina di fronte alla legge,
dall’altra si aspetta che altri possa chiarirla e definirla meglio. Invece costoro, veden-
do il mondo come un sistema di strutture che si rivelano solo al loro occhio d’aqui-
la, alla loro prestigiosa capacità di accostare il cotto al crudo, la virgola al verso 2 con
la virgola al verso 8, mancano di ogni vera umiltà scientifica [...].16

E Sebastiano, a giro di posta, sigilla lapidario: «Sono d’accordissi-


mo con te quanto agli strutturalisti».17 L’entusiastico «d’accordissi-
mo» aiuta a capire la funzione etica che Timpanaro non dissocia dal
proprio lavoro e anche l’antispecialismo che ha sempre coltivato (in
accordo con le insofferenze del suo maestro Pasquali contro la «male-
detta specializzazione»),18 fermamente deciso nel praticare una cultu-
ra che si riconosce il compito non solo di leggere ma di modificare l’as-
setto della realtà sociale. Di qui la perseveranza del «militante di
base», ansioso di un mondo migliore, più giusto e quindi più libero,
che è il fulcro delle sue coraggiose scelte politiche.19
Come sullo statuto scientifico, tanto più meditato quanto lontano
dalla boria dell’infallibile certezza, anche sulla nozione di «verità»
occorre intendersi. Per Timpanaro essa non staziona nel regno meta-
fisico dei massimi sistemi, non si colora di tinte intellettualistiche,20 né
di falsa e fredda «ragione vuota»,21 ma assume sempre fattezze laiche
e terrene, in quanto ricondotta sul campo sperimentabile della storia e
degli accadimenti umani, riferita a determinate coordinate di luogo e di
ambiente geografico, commisurata a concreti eventi politici, a contra-

16
C. Cases a S. Timpanaro, Cagliari, 8 marzo 1966, ivi, p. 97.
17
S. Timpanaro a C. Cases, Pisa, 20 marzo 1966, ivi, p. 100.
18
Cfr. S. Timpanaro, Storicismo di Pasquali, nell’opera collettiva Per Giorgio Pasquali. Studi
e testimonianze, a cura di L. Caretti, Nistri-Lischi, Pisa 1972, p. 127. La citazione di Pasquali
in Storia della tradizione e critica del testo, Le Monnier, Firenze 1934, 19522, p. 8.
19
La «mia militanza politica [...] è stata almeno immune dai trasformismi e dai voltafaccia
di tanti pseudorivoluzionari, e d’altra parte non è stata contrassegnata soltanto dalla “fedeltà”
a certi ideali, ma anche da uno sforzo di unire alla fedeltà la lucidità e la volontà di capire»
(S. Timpanaro, Il Congresso del Partito. Scherzo filologico-politico dedicato all’amico Antonio La
Penna, in «Il Ponte», XXXVIII, 1, 31 gennaio 1981, p. 69). Cfr. anche E. Narducci, Sebastiano
Timpanaro, in «Belfagor», XL, 3, 1985, pp. 283-311.
20
«Devo fare per la Nuova Italia un manuale di critica del testo (di critica del testo chiara,
“spiegata al popolo”: non di “ecdotica” alla Avalle)» (S. Timpanaro a C. Cases, Firenze, 9 gen-
naio 1968, in C. Cases e S. Timpanaro, Un lapsus di Marx. Carteggio 1956-1990 cit., p. 123).
21
S. Timpanaro, Venti anni dopo cit., pp. ix-x.
xiv Introduzione di Gino Tellini

sti di mentalità, di sentimenti, di schieramenti, di istituzioni, ma prin-


cipalmente a esperienze di individui, visti in relazione tra loro e in
rapporto con la natura, come cives appartenenti a distinte classi socia-
li e, al tempo stesso, come creature fisiche, quindi vulnerabili e depe-
ribili, perché in tutte le «fasi della vita umana la socialità ha un peso
rilevantissimo, ma non tale da annullarne il sostrato biologico».22 Il
materialismo, in questa chiave, significa conoscenza disincantata delle
antinomie e dei conflitti che scandiscono la storia politico-culturale,
ma significa anche acutissima attenzione ai mali che tormentano – per
usare le parole della Ginestra e della Palinodia – «il basso stato e fra-
le» dell’«umana specie».23

2. Appare chiaro allora come due tra i nuclei portanti di Classicismo


e illuminismo, cioè la polemica classico-romantica in Italia e il pensie-
ro di Leopardi, al di là della loro centralità nella letteratura ottocen-
tesca, siano questioni che toccano tasti nevralgici per l’orientamento
umano e intellettuale di Timpanaro. Quanto al primo versante, basti
dire che le indagini proposte hanno incrinato la complessiva fisionomia
fino allora consolidata della cultura italiana nel periodo della Restau-
razione. La storiografia tradizionale aveva infatti, come di solito av-
viene, sposato la causa del vincitore e, in merito alla querelle avviata-
si a Milano nel 1816, tendeva a riconoscere ai romantici il brevetto
quasi esclusivo della spinta innovativa e del progresso, specie in nome
del liberalismo, del patriottismo, del diritto all’indipendenza dei po-
poli, nonché, nell’ambito artistico, per la battaglia contro il principio
dell’imitazione, contro la mitologia, contro le cosiddette unità pseu-
doaristoteliche e l’aulicismo linguistico. Non tuttavia in questa dire-

22
Ivi, p. x.
23
Al rapporto individuo-natura (ovvero alla condizione «dell’uomo vivente in un cosmo non
fatto certamente per il suo bene, alle prese con una natura [...] che lo condiziona per tutta la
sua breve esistenza, dalla nascita che non è dovuta ad una sua libera scelta, alla necessità di sod-
disfare certi bisogni primari, allo stato di salute, alla vecchiezza che tante volte è causa di deca-
denza anche psichica e intellettuale, fino alla morte»: ibidem), che ha evidenti implicazioni poli-
tiche e sociali ma non si risolve interamente in esse, spetta forse il primato nella riflessione di
Timpanaro. Curiosamente eloquente, pur nel tono scherzoso, forse anzi tanto più eloquente pro-
prio perché travestito in forma di scherzo, il seguente passo di una lettera del 30 giugno 1970,
inviata a Grazia Cherchi (riportato in C. Cases e S. Timpanaro, Un lapsus di Marx. Carteggio
1956-1990 cit., p. 174, n. 2): «Il dente, finalmente estratto, non mi dà più noia. E quindi sono
di nuovo disposto a riconoscere che il male principale è la divisione della società in classi e non
il mal di denti».
Introduzione di Gino Tellini xv

zione, già ampiamente sondata, indugia Timpanaro, bensì, attento alle


ragioni dei vinti, si addentra nell’area degli oppositori, i classicisti, cui
è toccata la mesta sorte dei perdenti. A costoro era di solito ricono-
sciuto, quando andava bene, il merito di avere indirettamente, con la
loro resistenza, esercitata un’azione di stimolo per l’elaborazione del-
le teorie romantiche. Oppure, per una sorta di fatale attrazione del
polo vincente, poteva avvenire non di rado che gli stessi classicisti
convinti, e perciò antiromantici (è il caso clamoroso di Leopardi), si
trovassero forzatamente assimilati nell’alveo degli avversari, quasi se
ne differenziassero non altro che per motivi contingenti e occasiona-
li. Invece il discrimine sostanziale, a parte multiformi intersezioni e
alleanze trasversali sempre possibili e sempre cangianti, è netto.24
Consapevole della complessa situazione, Timpanaro intende veder-
ci il più possibile chiaro, assestare i contorni e i colori, distinguere e
capire, ricomporre senza fretta (vi si riconosce il passo lento del filo-
logo) la composita scacchiera delle forze in campo, le tensioni e i con-
trasti di idee, di sensibilità, d’espressione artistica che dividono intel-
lettuali e scrittori schierati su opposti fronti. Gente seria, nell’un caso
come nell’altro, che sa cosa vuole, pronta a pagare di persona e quin-
di degna del massimo rispetto, per quanto non vi sia certo penuria, di
qua e di là, né di faccendieri pasticcioni né di buoni a nulla capaci
di tutto. Da un lato, con i romantici più aperti al nuovo, si afferma
– in risposta alla crisi della cultura post-napoleonica – un cristianesi-
mo democratico deciso a conciliare passato e presente, tradizione e
rivoluzione, attraverso il recupero di esigenze riformatrici già poste
dall’illuminismo, ma sul fondamento di una moderna spiritualità reli-
giosa: di qui la celebrazione del Medioevo teocratico e delle libertà
comunali, quali esempio di energia vitale e di virtù patria, nonché
l’impegno per una letteratura orientata in senso pedagogico e realisti-
co, di un’arte eteronoma al servizio della società contemporanea. Dal-
l’altro lato, l’avanguardia dei classicisti – in risposta a quella medesi-
ma crisi – si richiama in modo non mediato ma diretto all’illuminismo
settecentesco, su basi sensistiche e smitizzate, secondo una concezio-

24
«Al Manzoni io glie ne riconosco moltissima, di legittimità. Ma il Manzoni ha stravinto
già ai suoi tempi, e ancor oggi ha valentissimi campioni. I poveri classicisti progressisti, invece,
o sono ignorati (come il Giordani), o vengono aggregati di forza al romanticismo (come il Leopar-
di e il Cattaneo). E io cerco di difenderli come posso» (S. Timpanaro a C. Cases, Pisa, 3 marzo
1962, ivi, p. 64).
xvi Introduzione di Gino Tellini

ne materialistica della civiltà umana: non dunque filomedievalismo,


ma difesa di Atene e di Roma repubblicana, come simboli laici di
libertà politica; non le istanze realistiche di un’estetica eteronoma, ma
i diritti di un’arte autonoma e la priorità della fantasia creatrice (con
l’apporto funzionale, non decorativo, della mitologia). Determinante
per taluni classicisti s’impone la necessità (già settecentesca) del
«ritorno alla natura», ovvero della riconquista di un’autentica spon-
taneità spoglia di sofisticazioni, onde l’imitazione dei classici greco-
latini e dei trecentisti italiani – di contro al dettato romantico esempla-
to sull’uso attuale – si giustifica non come ossequio a modelli defunti,
ma come riappropriazione di una perduta naturalezza. Si pone in ter-
mini differenziati la vertenza sui rapporti tra Italia e Europa, tra let-
teratura e filosofia, tra nuovo spiritualismo ed eredità rivoluzionaria.
Anche così scarnificate e ridotte all’osso, le antitesi tra i due schiera-
menti risultano cruciali, tali da investire, ben oltre le chiacchiere di
accademia, il fulcro stesso dell’arte e della vita associata, i modi e i
procedimenti della convivenza civile.
Timpanaro insiste nel rifiutare l’accezione estensiva del termine
«romantico», assunto come astratta «categoria dello spirito»,25 perché

25
Prima di trattarne in Classicismo e illuminismo (e nella Prefazione alla seconda edizione),
ne discorre ampiamente in Classicismo e «neoguelfismo» negli studi di antichità dell’Ottocento ita-
liano, in Aspetti e figure della cultura ottocentesca cit., pp. 371-86, recensione a Lo studio dell’an-
tichità classica nell’Ottocento, a cura di P. Treves, Milano-Napoli, Ricciardi 1962, apparsa dap-
prima in «Critica storica», III, 1963, pp. 603-11 (la rivista di Armando Saitta, della quale
Sebastiano è stato fedele collaboratore). Timpanaro, pur con il dovuto rispetto per la «straor-
dinaria dottrina» di Treves, non può condividere l’impostazione della sua ricerca, che ruota per
intero sulla preminenza della cultura romantica e neoguelfa (lasciando in ombra l’opposizione
classicista), sulla base di un’invalsa accezione onnicomprensiva della nozione di «romanticismo»:
«La mancanza di filologi e storici dell’antichità specificamente romantici e neoguelfi in Italia,
d’altra parte, ha costituito per il Treves un incentivo ad allargare oltre ogni limite le categorie
di romanticismo e di neoguelfismo, fino a includervi studiosi di tutt’altro orientamento. Per quel
che riguarda il romanticismo, come è noto, questo procedimento è stato già messo in atto da
molti studiosi: si è finito col fare di “romanticismo” un sinonimo di “civiltà liberale-democrati-
ca dell’Ottocento”, o addirittura di tutto ciò che nell’arte e nella cultura ottocentesca non è acca-
demismo frigido: così Goethe, Foscolo, Leopardi, Heine, Cattaneo – tutta gente che col roman-
ticismo polemizzò con asprezza – sono stati annessi, loro malgrado, alla schiera romantica. [...]
Tutto il libro [di Treves], perciò è pieno di romantici inconsapevoli [...] e di neoguelfi inconsa-
pevoli» (S. Timpanaro, Classicismo e «neoguelfismo» negli studi di antichità dell’Ottocento italia-
no cit., p. 377). Superfluo aggiungere che il dissenso non comporta disistima intellettuale («nes-
suno, in questo campo, ha letto quanto il Treves!»: ivi, p. 372), né tanto meno inimicizia. Infatti
proprio «a Piero Treves» è dedicato Il socialismo di Edmondo De Amicis. Lettura del «Primo mag-
gio», Bertani, Verona 1984.
Introduzione di Gino Tellini xvii

non vuole discutere di generalità tipologiche, che annebbiano la vista


e alterano le tinte del paesaggio, bensì desidera affondare lo sguardo
in una trama di relazioni concrete, magari discontinue, fluttuanti e
sconnesse, ma storicamente determinate, per valutarne al tatto l’or-
dito dei fili, la qualità, gli intrecci, i limiti e i pregi, nella contingenza
immediata di quella particolare epoca e delle sue aspettative, ma anche
con l’occhio che guarda lontano, alla realtà dell’oggi. Ecco allora che
antiromantici come Giordani, Leopardi, Cattaneo (anche Monti – de-
dicatario delle prime canzoni patriottiche leopardiane – per quanto
riguarda la questione della lingua),26 distanti dall’oscurantismo dei
classicisti pedanti e reazionari, rivelano esigenze e aspirazioni di radi-
cale rinnovamento democratico, antispiritualista e laico, controcor-
rente rispetto al vento che soffia in casa nostra e oltralpe. E dire che
il fronte classicista era tradizionalmente penalizzato anche da un’in-
differenziata accusa di antipatriottismo.
«Del Fortleben di un autore o di un movimento culturale – avverte
Timpanaro – facciamo parte anche noi, e non abbiamo alcun motivo
di rinunciare a esprimere anche noi il nostro giudizio, pur con la con-
sapevolezza del margine di soggettività che esso comporta». E il giu-
dizio suo è risoluto: i classicisti illuministi sono non solo gli esponen-
ti di punta in un conflitto ideologico che li ha visti sconfitti, ma sono
«gli ingegni più avanzati, più liberi da miti e da pregiudizi, del nostro
primo Ottocento». Bisogna riconoscere come metodologicamente
ineccepibile la discrezione dello storico-filologo che non confonde l’in-
ventario dei reperti scrutinati e il giudizio di valore (che è poi, nelle
inevitabili proiezioni sul presente, esplicito, fermo e persuaso giudizio
anche politico).27 Importa l’una cosa e l’altra: la soggettiva valutazione,

26
L’antiromantico Foscolo, per Timpanaro, fa parte a sé, perché il suo classicismo, che con-
serva forti attributi di aristocraticismo alfieriano, resta estraneo a una precisa connotazione libe-
rale e democratica.
27
Questa equità storiografica non è stata tenuta in giusta considerazione e infatti Classici-
smo e illuminismo, destinato a turbare la pacifica sopravvivenza di parametri convenuti, non ha
mancato di suscitare anche reazioni aspre e spigolose, tanto da indurre l’autore dopo molti anni,
nella Prefazione a Aspetti e figure della cultura ottocentesca, a pazientemente sperare che il «nuo-
vo libro» aiuti a meglio comprendere il «vecchio»: «Vorrei sperare che il nuovo libro contri-
buisse ad una più equa comprensione del libro vecchio, e specialmente a sfatare l’idea che io
abbia identificato il romanticismo (concepito come un blocco politico-culturale indifferenziato)
con la reazione e il bigottismo, il classicismo (visto, ugualmente, come un’entità monolitica) con
un generico spirito “progressista”, e abbia stabilito un’analoga, sbrigativa equazione tra mate-
rialismo e “progresso”, spiritualismo e tendenze retrograde anche sul piano della storia politico-
xviii Introduzione di Gino Tellini

inerente all’appassionata personalità dello studioso e alle sue scelte di


campo, e l’oggettivo accrescimento di conoscenza dovuto alla rileva-
zione di dati nuovi, dai quali molto ha da apprendere anche chi si tro-
vi a non condividere la soggettività del giudizio, perché la rilevazione
acuminata e tenace punta diritta sempre al bersaglio dei fatti e dei
testi (da cui spreme non impressioni o giochi verbali, ma idee). Sulle
cause che hanno favorito l’esito di quel conflitto ideologico, Timpa-
naro s’interroga lungamente e la vertenza resta aperta. Determinante
è tuttavia il ruolo ch’egli riconosce, nel processo di svalutazione del
classicismo, all’influsso esercitato da De Sanctis, che nessuna indul-
genza concede al medievalismo teocratico, ma che alla rinascita reli-
giosa dei romantici tributa nondimeno una parte importante per l’a-
vanzamento e la decisiva conquista del xix secolo rispetto al xviii,
ovvero «il senso della storia e del reale». La scuola liberale di Manzoni
e la scuola democratica di Mazzini discendono entrambe da questo cli-
ma antimaterialistico, onde la componente classicistica rimane tagliata
fuori, come residuo inattuale e libresco. E difatti De Sanctis si arrovel-
la per trovare un posto, entro il proprio sistema interpretativo, all’a-
matissimo poeta dei Canti, che male si colloca nella linea di sviluppo
della poetica realistico-romantica e dello storicismo provvidenzialista
ottocentesco. La stagione di Carducci e della sua cerchia, nell’inquie-
ta Italia postunitaria delusa dall’impresa risorgimentale, comporta una
coscienza più vigile e attenta verso il classicismo illuminista (come
mostra l’episodio eccentrico e perciò sintomatico della calda ammira-
zione giordaniana nel cenacolo degli «Amici Pedanti»), ma ne segna
anche il ripiegamento verso sponde nazionaliste e antidemocratiche,
all’ombra della politica crispina. Il secolo delle «magnifiche sorti e
progressive», giusto l’amaro disincanto della Ginestra, si chiude – alle
soglie dell’imminente rivincita estetizzante e idealistica, nonché nei
paraggi di altrettanto imminenti euforie irrazionalistiche – con l’in-

sociale. Sarebbe bastata anche soltanto una lettura non troppo distratta dell’introduzione a Clas-
sicismo e illuminismo, per accorgersi come io sia sempre stato del tutto alieno da “equazioni” così
rozze ed erronee, e come mi abbia mosso sempre, al contrario, un’esigenza di distinguere le varie
posizioni politiche, ideologiche, letterarie, tenendomi lontano sia da caratterizzazioni “epoca-
li” che tutto abbracciano e nulla stringono (il romanticismo come categoria che include in sé
tutta l’intelligencija europea del primo Ottocento), sia da concezioni storiografiche esasperata-
mente individualizzanti e altrettanto astratte (ciascun autore da considerarsi assolutamente come
un “caso a sé”, al di fuori di affinità di idee, di correnti ideologiche e culturali, di condiziona-
menti sociali e politici)» (S. Timpanaro, Aspetti e figure della cultura ottocentesca cit., pp. x-xi).
Introduzione di Gino Tellini xix

voluzione e la deriva rovinosa di quel coté arditamente progressivo


sostenuto in primis da Giordani e da Leopardi. Sull’epilogo della vi-
cenda e sullo scacco patito dagli antagonisti dello spiritualismo roman-
tico, Timpanaro non spende parole di emotiva pietas storica, perché
non è nelle corde del suo stile e più perché gli importa il riscatto di
quella lezione nella realtà culturale del presente.

3. Il saggio che s’intitola Le idee di Pietro Giordani (uscito dappri-


ma in «Società» nel 1954) vale, non solo cronologicamente, da ante-
fatto dell’intero volume e assegna un volto inatteso allo scrittore pia-
centino, assurto in fama ai tempi suoi e acclamato come autorità, poi
avvilito da De Sanctis in un impari e anche un po’ tendenzioso con-
fronto con Leopardi,28 quindi per lungo tempo castigato ai margini dei
manuali letterari. L’inedito ritratto qui tracciato di questo ex mona-
co, dal carattere difficile e sdegnoso, divenuto ateo e libero pensato-
re (tuttavia dai contemporanei stimato, suo malgrado, quale impecca-
bile modello di retorica anche in ambienti clericali e confessionali), si
distingue come «rivoluzionariamente novatore»29 e ha di fatto segnato
una «svolta decisiva nella ricerca».30 Sgombrata la strada dalle foglie
secche dei residui più caduchi di una personalità controversa e con-
traddittoria, ne emerge il mordente di un vigoroso intellettuale mili-
tante: un letterato che ha in uggia il frastuono dei «sonettanti» per-
digiorno e che nella letteratura cerca l’educazione della mente e una
seria «sostanza nutritiva» (come confida, da Piacenza, il 20 febbraio
1823, a Giuseppe Montani); che s’entusiasma, sì, per le qualità espres-
sive dei «tre grandi gesuiti» del Seicento (Segneri, Bartoli e Pallavi-
cino), ma esalta, con cognizione di causa, anche la «sostanza» di Gali-
leo e rivendica a quel secolo il merito di aver creato la prosa scientifica
italiana; un classicista che sostiene, in clima di culto antiquario verso
il passato, la necessità per i ragazzi di studiare, prima dell’antica, la
storia moderna (contro i molti – commenta Timpanaro – «che l’a-
vrebbero volentieri abolita non solo dall’insegnamento, ma dalla co-
scienza dell’umanità»), non certo per illuministico discredito del mon-

28
«Veggo il giovane sulla cima della piramide, e Giordani strisciare tra la moltitudine»
(F. De Sanctis, Giacomo Leopardi, a cura di W. Binni, Laterza, Bari 1953, p. 61).
29
Lo studio dell’antichità classica nell’Ottocento cit., p. 416.
30
C. Dionisotti, Pietro Giordani (1974), in Appunti sui moderni. Foscolo, Leopardi, Manzoni
e altri, Il Mulino, Bologna 1988, pp. 81-82.
xx Introduzione di Gino Tellini

do classico, ma perché, almeno in uno stadio educativo iniziale, ritie-


ne «stolto – così nell’articolo Dello Sgricci e degl’improvvisatori in Ita-
lia, sulla “Biblioteca Italiana” nel 1816 – di voler sapere ciò che nel
mondo si facesse duemil’anni sono, prima di sapere ciò che accadde
l’altro ieri, e ne’ giorni del padre e dell’avolo». Considera i giovani,
che a lui si rivolgono per consigli e suggerimenti, non discepoli ma
compagni di viaggio, onde rifugge dal paternalismo gerarchico e rifiu-
ta l’appellativo di «maestro», parola che gli «fa nausea ed ira» (a Leo-
pardi, da Milano, il 16 maggio 1817); come rifiuta il credito d’infalli-
bilità che gli è fiorito intorno: «È vero che è di molti il voler quasi
parere infallibili [...]. Ma quello parmi errore goffissimo. Non è l’er-
rare, cioè il pensar male, che disonori; ma il non aver forza di pensa-
re» (sempre a Leopardi, da Milano, il 17 dicembre 1817). Nell’Istru-
zione a un giovane italiano per l’arte di scrivere (1821) premette che
«l’arte di scrivere è l’arte di ben pensare, e ben esprimere i nostri pen-
sieri». Però, sempre nei riguardi dei giovani, prima di una giudiziosa
educazione, pretende il doveroso rispetto umano: non per nulla nel
1819 denuncia al podestà di Piacenza e al governo di Parma, con let-
tere fiere e arroventate che poi pubblica sotto il titolo Causa dei ragaz-
zi di Piacenza, l’«infame ed esecrabile abuso di battere crudelmente i
ragazzi nelle scuole». L’ostilità che ha manifestato contro la poesia
dialettale – sì da tirarsi addosso le frecciate appuntite di Carlo Porta
e le malevolenze dei tanti milanesi meneghini – non va presa per quel-
lo che non è, ossia per una polemica di matrice puristica o per una cen-
sura di tipo estetico, bensì muove da motivazioni antimunicipalistiche
e antipopulistiche, perché cerca di scoraggiare (senza escludere l’inte-
resse filologico e storico per i dialetti) la separatezza dei ceti umili, per
integrarli sul piano alto della cultura e della lingua nazionale. Analoga
genesi civile e antiprovinciale ha d’altronde l’antipatia spesso dichia-
rata da Giordani per i latinomani, specie per i verseggiatori in latino,
raffinati cultori di un umanesimo deteriore, che si baloccano con flo-
rilegi verbali destituiti di vita, come fatui collezionisti di ninnoli, e si
dilettano nel rifare il verso ai grandi del passato, dei quali dimostrano
di non intendere né il significato né il valore.
Il suo orientamento politico lo porta a schierarsi dalla parte del-
l’assolutismo illuminato settecentesco, piuttosto che dalla parte dei
liberali o dei democratici: giudica inutili le «sètte», diffida delle socie-
tà segrete e delle cospirazioni, come resta insensibile all’esigenza costi-
Introduzione di Gino Tellini xxi

tuzionale; confida in un sovrano che favorisca ogni iniziativa di pro-


gresso, che tuteli le classi più disagiate, che riconosca ai sudditi il dirit-
to e il dovere di denunciare liberamente le ingiustizie; allo scrittore
assegna il ruolo di osservatore critico e di portavoce delle legittime
richieste dell’opinione pubblica. In linea teorica, sono posizioni arre-
trate. Eppure Giordani – malgrado la non partecipazione a moti rivo-
luzionari – è stato vessato dai governi assolutisti, più di quanto non
sia accaduto a tanti liberali: privato dell’impiego all’Accademia di bel-
le arti di Bologna nel 1815, esiliato dal ducato di Parma nel 1824,
quindi dalla Toscana nel 1830, incarcerato per tre mesi a Parma nel
1834 e messo al bando dal Lombardo-Veneto, nonché sempre spiato
dalla polizia austriaca. Simili trattamenti non gli sono riservati per
sbaglio, né sono dovuti al caso. Di tali «persecuzioni egli aveva pie-
namente meritato l’onore», osserva Timpanaro, che non si accontenta
dei princìpi teorici, ma ricostruisce dal vivo le «idee audaci» di que-
st’uomo che non con l’azione ma esclusivamente con la penna (per di
più con scritti volanti, brevi e d’occasione) riesce a turbare i sonni
di inquisitori, magistrati, prelati, ministri, governanti. Vulnerabile,
nevrotico, sempre scontento di sé, malmesso di salute, ma fermo come
una roccia: «I ministri sono sministrati; i duchi possono essere sduca-
ti. Io per me rido, sapendo che, se anche fossi impiccato, non sarò mai
sgiordanato. Voi dovete sapere (quel che i ciuchi bardati né sanno, né
possono intendere) che io sono di quelli che neppur la morte fa tace-
re» (così al barone Mistrali, ministro delle finanze di Maria Luigia, il
4 giugno 1833). Il fatto è che Giordani non prende parte attiva alle
lotte risorgimentali (che segue con fervore) e può nutrire sfiducia nel
successo della rivoluzione, ma – diversamente dai moderati toscani,
suoi amici negli anni fiorentini – non ha alcuna paura della rivoluzio-
ne e dei suoi effetti.31 Parlano chiaro, in proposito, le convinzioni da
lui sostenute in campo sociale. Nelle pagine Se debbano impedirsi gli
studi ai poveri, apostrofa come «bestiale demenza» quell’impedimento

31
Di altro avviso sui moderati toscani e su Giordani sono, com’è noto, gli studi di Umber-
to Carpi (Letteratura e società nella Toscana del Risorgimento. Gli intellettuali dell’«Antologia»,
De Donato, Bari 1974; Giordani, Leopardi e i liberali toscani del gruppo Vieusseux, nell’opera col-
lettiva Pietro Giordani nel II centenario della nascita, Atti del Convegno di studi, Piacenza, 16-18
marzo 1974, Cassa di Risparmio, Piacenza 1974, pp. 93-110; Egemonia moderata e intellettuali
nel Risorgimento, nell’opera collettiva Storia d’Italia, Annali, IV [Intellettuali e potere], Einaudi,
Torino 1981, pp. 429-71), a cui Timpanaro replica in Antileopardiani e neomoderati nella sinistra
italiana cit., pp. 49 sgg.
xxii Introduzione di Gino Tellini

caldeggiato da più parti. E di fronte ai «poveri» non assume atteggia-


menti caritatevoli o filantropici. «Mi credo obligato – comunica a
Antonio Gussalli, il 5 gennaio 1846 – di riverire quelli che lavorando
guadagnano il vivere; superiori a me e a tutti quelli che non faticando
e nulla producendo mangiano le fatiche e i prodotti altrui». Nell’elo-
gio lasciato incompiuto (1817) del forlivese Domenico Manzoni, si
legge che «i danni della perfetta uguaglianza non sono mai da teme-
re, perch’ella è impossibile: laddove i mali della somma disuguaglian-
za gravissimi sono da temere, perch’ella è facilissima». Nell’Italia del-
la Restaurazione (ma non solo in quella lontana Italia) sono in pochi
– avverte Timpanaro – a definire irreale il pericolo dell’eccessivo egua-
litarismo, ovvero della «perfetta uguaglianza».
Ma gli accenti polemici più accesi, il laico e sensista Giordani li
indirizza contro il clericalismo e i suoi fautori, bollati come «conden-
satori di tenebre», e in questa mai placata battaglia antigesuitica la
scrittura s’inarca di vividi scatti, come nei travestimenti onomastici
che sbeffeggiano gli avversari: Tommaseo diventa «fra Nicolò»; il
padre Cesari, «Sant’Antonio Cesari»; il papa, «Vicedio o Vicecristo»
(dal Vice-Dieu di Voltaire); Francesco Cocchi, ministro dell’interno di
Maria Luigia, «Sua Maialità Fra Coccone»; il conte di Bombelles,
«l’onagro», cioè asino selvatico. Esemplare, in tema di «tenebre» e
di «intenebratori», è l’eccezionale e sulfureo frammento Il peccato
impossibile, composto nel 1838 e pubblicato postumo a Londra nel
1862 da Antonio Gussalli (senza nome del curatore), il quale tuttavia
non lo include – per timore della censura anche nel clima liberale del
neonato Regno d’Italia – nelle Opere giordaniane da lui curate a Mila-
no tra il 1854 e il 1862: «bellissima satira sulla credenza del concubi-
to diabolico», afferma Timpanaro, che ricorda anche il giudizio a cal-
do di Carducci, trasmesso in via privata a Giuseppe Chiarini, il 4
maggio 1863: «che meraviglia di stupenda scrittura quella del Pecca-
to impossibile! Ben poche pagine di Voltaire son degne di starle a fron-
te: ma solo di lui. E che grande e splendido e terribile nemico di tut-
ti i vili nemici del genere umano era quel Giordani: il solo veramente
libero degli scrittori italiani moderni».32
32
La segnalazione di Timpanaro ha stimolato la riproposta editoriale (con introduzione e
eccellente commento) di William Spaggiari: Il peccato impossibile, Zara, Parma 1985 (poi Ali-
berti, Reggio Emilia 2002), su cui cfr. la recensione di Timpanaro (unitamente alle Avventure
letterarie di un giorno di Pietro Borsieri, a cura dello stesso Spaggiari, Mucchi, Modena 1986),
Introduzione di Gino Tellini xxiii

Tuttavia anche per Giordani (come per Timpanaro), al di là delle


petizioni di principio, contano le persone e i loro comportamenti,
onde si entusiasma (invano) nel 1846 per il «miracoloso» Pio IX e
mantiene nondimeno con parecchi ecclesiastici stretti rapporti di ami-
cizia. Ma più importa l’alta stima con cui saluta – lui purista, antiro-
mantico, antispiritualista, anticattolico – l’uscita dei Promessi sposi:
«Oh lasciatelo lodare [il romanzo di Manzoni]: gl’impostori e gli
oppressori se ne accorgeranno poi (ma tardi) che profonda testa, che
potente leva è chi ha posto tanta cura in apparir semplice, e quasi min-
chione: ma minchione a chi? agl’impostori e agli oppressori che sem-
pre furono e saranno minchionissimi: Oh perché non ha Italia venti
libri simili!». E nei Pensieri per uno scritto sui «Promessi sposi», elabo-
rati in vista di un articolo destinato all’«Antologia» ma non portato a
termine, mette bene in risalto taluni essenziali motivi dell’opera di
Manzoni e sono motivi non quietistici, né edificanti, né innocenti. Se
li confrontiamo con l’accoglienza cauta e prudentissima che ai Promes-
si sposi è tributata nell’ambiente fiorentino di palazzo Buondelmonti
(da Montani a Capponi, da Vieusseux a Lapo de’ Ricci a Lambru-
schini), se li misuriamo con la recensione del cosiddetto manzoniano
Tommaseo (sull’«Antologia», ottobre 1827), impastata di toni enco-
miastici e di censure secche, i Pensieri dell’antimanzoniano Giordani
mandano davvero un suono diverso, più schietto, più spregiudicato,
più lungimirante, che resta per allora senza equivalenti e poi senza eco
nella Firenze granducale.33
Bastano i tratti qui riassunti per sentire il polso del Giordani rivi-
sitato da Timpanaro:34 un personaggio che si rivela di altro tenore

in «Critica storica», XXIV, 3, 1987, pp. 508-21, poi, con il titolo Un’operetta di Pietro Borsieri
ed una di Pietro Giordani, in Nuovi studi sul nostro Ottocento cit., pp. 31-54.
33
Rinvio, in merito, al mio saggio (che molto deve al ritratto di Giordani disegnato da Tim-
panaro) Manzoni al Vieusseux, nell’opera collettiva Manzoni a Firenze, Atti delle due giornate di
studio, Firenze, 23-24 novembre 1985, a cura di G. Tellini, Gabinetto G.P. Vieusseux, Firen-
ze 1986, poi, con il titolo Manzoni 1827: Milano e Firenze, in G. Tellini, Letteratura e storia. Da
Manzoni a Pasolini, Bulzoni, Roma 1988, pp. 11-37.
34
Dopo i due saggi giordaniani (del 1954 e del 1961) compresi in Classicismo e illuminismo,
che hanno aperto la strada a un intenso e rigoglioso sviluppo di nuovi studi e di nuove indagini
archivistiche, Timpanaro è tornato sull’argomento in più occasioni (oltre che nella ricordata
recensione a Il peccato impossibile, edito da William Spaggiari), per cui cfr. almeno: Noterelle su
Domizio Calderini e Pietro Giordani, nell’opera collettiva Tra latino e volgare. Per Carlo Dionisot-
ti, Antenore, Padova 1974, 2 voll., II, pp. 709-16; Il Giordani e la questione della lingua (1974),
in Aspetti e figure della cultura ottocentesca cit., pp. 147-223; Pietro Giordani e Lucano, nell’ope-
xxiv Introduzione di Gino Tellini

rispetto al profilo vulgato dello squisito stilista assorto in umbratili


fatiche di restaurazione formale. Ma non si tratta soltanto dell’ina-
spettato riconoscimento reso a un autore indebitamente mortificato
negli annali delle patrie lettere (a far data nientemeno che dalla Storia
di De Sanctis). È anche una lezione di metodo, dalla quale si ricava
che non vale la pena dare troppo peso alle appartenenze di scuola, ai
manifesti, ai programmi, alle dichiarazioni di poetica, agli schemati-
smi sovrapposti ai fatti. Dietro le bandiere e le etichette, conviene (ma
ci vuole tenacia e penetrazione) guardare in faccia gli individui e valu-
tarli per ciò che hanno fatto, per la personale responsabilità etica e
civile delle scelte da loro compiute. Se a qualcuno l’insegnamento può
sembrare facile o di poco conto, rammenti (con Timpanaro) che la
«verità» spesso è «banale» e che Giordani, sia come sia, ha dovuto
aspettare quasi un secolo prima di vedere rimosse molte nebbie che ne
offuscavano l’effettiva identità.

4. Diradate le nebbie, meglio risalta anche il legame profondo che


ha unito Giordani a Leopardi, che è notoriamente l’auctor decisivo
nell’orizzonte speculativo di Timpanaro, insieme leopardista e leo-
pardiano.35 Prima tuttavia dell’indagine sul «pensiero» del poeta dei
Canti, si colloca il compendioso lavoro su Le idee linguistiche ed etno-
grafiche di Carlo Cattaneo e L’influsso del Cattaneo sulla formazione cul-
turale e sulla linguistica ascoliana (già in «Rivista storica italiana» nel
1961-1962, quindi integrato, fino dalla prima edizione di Classicismo
e illuminismo, con la Postilla su Maffei e Muratori e con A proposito di
un inedito del Cattaneo sulla poesia dialettale), che offre un esempio
luminoso di storicizzazione critica degli strumenti analitici e dei para-
metri teorici della linguistica (un campo di ricerca poi da Timpanaro

ra collettiva Cultura piacentina tra Sette e Novecento. Studi in onore di Giovanni Forlini, Comita-
to per la promozione degli studi piacentini-Cassa di Risparmio di Piacenza, Piacenza 1978, pp.
149-70, poi parzialmente confluito nel § 7 di Aspetti della fortuna di Lucano tra Sette e Ottocen-
to, in Aspetti e figure della cultura ottocentesca cit., pp. 1-79; Ancora su Pietro Giordani (1976) e
relativa Postilla, in Antileopardiani e neomoderati nella sinistra italiana cit., pp. 103-44; Le lette-
re di Pietro Giordani ad Antonio Papadopoli (1990), Pietro Gioia, Pietro Giordani e i tumulti pia-
centini del 1846 (1981), Due cospiratori che negarono di aver cospirato (forse Giordani, certamente
Bini), in Nuovi studi sul nostro Ottocento cit., rispettivamente, pp. 55-67, 67-101, 103-25.
35
Per il duplice aspetto di Timpanaro, leopardista e leopardiano, cfr. L. Blasucci, Gli studi
leopardiani di Timpanaro, nell’opera collettiva Il filologo materialista. Studi per Sebastiano Timpa-
naro, a cura di R. Di Donato, Scuola Normale Superiore, Pisa 2003, pp. 105-30.
Introduzione di Gino Tellini xxv

a più riprese ampliato e approfondito),36 proprio in un periodo nel


quale studi di questo tipo risultano propriamente eccezionali in Italia
e fuori. Vi appare palese l’intreccio tra la storia della linguistica e la
storia culturale della società ottocentesca, in prospettiva materialisti-
ca, cioè con particolare attenzione alle radici biologiche e alogiche del
linguaggio, alla larga però in pari tempo dalle secche del riduzionismo
scientistico. Accanto dunque a Cattaneo – che si rivela grande mae-
stro nel «reagire al misticismo e allo schematismo della linguistica ro-
mantica», come nel prospettare una visione dinamica dei rapporti «tra
aggregati linguistici e aggregati etnici» – si profila, sia per quanto at-
tiene alla questione della lingua, sia per la teoria del sostrato, l’animo-
sa figura di Graziadio Ascoli che, con l’autorità di una dottrina più
vasta e più esatta, si colloca in un rapporto di continuità con l’orienta-
mento antimetafisico e democratico della linea classicista-illuminista.
L’anno successivo alle ricerche su Cattaneo-Ascoli appare (su «Cri-
tica storica» nel 1963, poi in Aspetti e figure della cultura ottocentesca
del 1980) lo studio sui Pensatori greci (1896-1909, versione italiana
1933-1962) del filologo e storico dell’antichità Theodor Gomperz,
ebreo austriaco nutrito di empirismo e illuminismo inglese. Che cosa
significhi antispecialismo, in quanto capacità di connessione tra cam-
pi culturali diversi e attitudine a interpretare la civiltà come rete di
influssi e di scambi, come – direbbe Cattaneo – commercio economi-
co, intellettuale e sociale tra i popoli, lo dimostrano le considerazioni
di Timpanaro su questa storia della filosofia greca – punteggiata di
figure vive, non di teorie spersonalizzate – «che dà un grande risalto
al pensiero scientifico, ed è pervasa da un forte afflato antimetafisi-
co, e non perde mai di vista il nesso tra storia del pensiero e storia poli-
tico-culturale». Ma i Pensatori greci – visti in un’ampia prospettiva di

36
Tra i molti interventi, rammento almeno i due saggi schlegeliani (Friedrich Schlegel e gli ini-
zi della linguistica indoeuropea in Germania, in «Critica storica», IX, 1972, pp. 72-105 e Il con-
trasto tra i fratelli Schlegel e Franz Bopp sulla struttura e la genesi delle lingue indoeuropee, ivi, X,
1973, pp. 553-90), oltre a Giacomo Lignana e i rapporti tra filologia, filosofia, linguistica e darwi-
nismo nell’Italia del secondo Ottocento, ivi, XVI, 1979, pp. 406-503. Queste pagine – insieme a
Graziadio Ascoli, in «Belfagor», XXVII, 2, 1972, pp. 149-76 (già, in forma più condensata, nel-
l’opera collettiva Letteratura Italiana. I Critici, a cura di G. Grana, Milano, Marzorati, 1969, I,
pp. 303-21) e Il primo cinquantennio della «Rivista di Filologia e di Istruzione Classica», in «Rivi-
sta di Filologia e di Istruzione Classica», C, 1972, pp. 387-441 – sono ora raccolte in volume:
S. Timpanaro, Sulla linguistica dell’Ottocento, presentazione di G.C. Lepschy, Il Mulino, Bolo-
gna 2005.
xxvi Introduzione di Gino Tellini

storia della storiografia filosofica – si tengono lontani, oltre che dagli


sbocchi idealistici di fine secolo, anche dalla «coloritura razzistica»
che assume nel secondo Ottocento «il concetto romantico di nazione»
e Gomperz si compiace «di considerare come un elemento favorevole
al progresso della civiltà, accanto ai contatti culturali tra i Greci e gli
altri popoli, anche la mescolanza razziale» e «all’esaltazione dei puro-
sangue» contrappone polemicamente «l’esaltazione dei mixobárbaroi:
Talete, Tucidide, Antistene ...». A quest’opera, che rifiuta la conce-
zione «platonocentrica» della speculazione greca, per rivalutare l’in-
vestigazione della natura dei presocratici, gli atomisti, i sofisti, l’edo-
nismo di Aristippo e di Epicuro, la medicina ippocratea, è necessario
ricorrere – sostiene Timpanaro – per «riacquistare la consapevolezza
che la grande originalità del pensiero greco sta nell’aver compiuto un
passo decisivo verso la laicità e la scienza».
Storia della linguistica in prospettiva materialistica, diffidenza ver-
so il «misticismo» della svolta romantica, «afflato antimetafisico»,
filosofia della natura come conquista di una visione laica della realtà,
attaccamento a una morale che non escluda il piacere: l’orizzonte è
disseminato di indicatori segnaletici che sono antefatti eloquenti alla
rivisitazione del «pensiero» leopardiano. E ancora: «Il sangue che noi
infondiamo nelle ombre del passato affinché esse ci parlino, è tratto
dalle nostre vene». Sono parole di Gomperz, che Timpanaro cita e alle
quali aggiunge: «Se non fosse stato egli stesso un illuminista [...], ben
difficilmente il Gomperz avrebbe potuto scoprire e apprezzare nel
loro giusto valore i momenti illuministici della cultura greca». Il che
è buon viatico al nuovo Leopardi presentato in Classicismo e illumini-
smo. Non solo unità del sapere, non solo ricerca del vero criticamente
accertato, ma anche saldatura di rigore e passione, di tensione etica e
coinvolgimento autobiografico. È così che le idee perdono la loro
astrattezza e si trasformano in sostanza umana. Davvero quel «san-
gue», che rivitalizza le ombre del passato, è «tratto dalle nostre vene».

5. Il saggio Alcune osservazioni sul pensiero di Leopardi (già in «Cri-


tica storica» nel 1964, a dieci anni da Le idee di Pietro Giordani) ha alle
spalle – nell’iter del leopardismo novecentesco – la svolta segnata nel
1947 dagli studi di Cesare Luporini (Leopardi progressivo) e di Walter
Binni (La nuova poetica leopardiana), ma più ancora – nell’iter perso-
nale dell’interprete – l’aurea e celebre a buon diritto (cosa che non
Introduzione di Gino Tellini xxvii

sempre avviene) indagine su La filologia di Giacomo Leopardi del 1955


(oltre agli Appunti per il futuro editore dello «Zibaldone» e dell’episto-
lario leopardiano, sul «Giornale storico della letteratura italiana» nel
1958), che è in assoluto il primo libro del trentaduenne Timpanaro,
edito nella collana lemonnieriana «Quaderni di letteratura e d’arte»,
diretta da Giuseppe De Robertis, suo maestro all’Università di Firenze
e leopardista insigne. Il Leopardi filologo razionalista, caratterizzato
nel 1955, non congetturatore-artista ma congetturatore-scienziato,
non dotato d’intuizione divinatoria (quale dal suo genio lirico ci si
aspetterebbe) ma di razionale lucidità e sistematicità, prelude a Alcune
osservazioni sul pensiero di Leopardi, lungo un percorso che saldamente
congiunge inchiesta filologica e pessimismo materialistico.
Quando era alle porte l’offensiva del neoscientismo strutturalisti-
co, che avrebbe assiderato anche il poeta dell’Infinito in gelide e vitree
formalizzazioni del significante, Timpanaro ha avuto il merito di por-
tare in primo piano la sostanza concettuale e il «pensiero» dell’auto-
re dei Canti, nel fermo convincimento – ribadito anche dopo molti
anni – che «il Leopardi, poeta musicalissimo, non ha mai sacrificato
il significato al significante, non è stato mai poeta di pure immagini o
di puri suoni, non ha mai rinunciato a fare della sua poesia o prosa
d’arte uno strumento conoscitivo».37 Le acquisizioni nuove nel saggio
del 1964 sono molte e determinanti. In primo luogo, la correlazione
stabilita tra l’antiromanticismo di Leopardi (in contrasto con l’ideo-
logia cattolica della Restaurazione, poi con il cattolicesimo liberale,
quindi con le varie correnti spiritualistiche contemporanee) e l’ala illu-
ministica del classicismo italiano, onde il particolare risalto del rap-
porto con il laicismo sensistico di Giordani e con le sue istanze di
riforma culturale. Ma questa non è che la premessa. Infatti l’eccezio-
nalità nel contesto europeo della posizione leopardiana risiede per
Timpanaro nell’oltranza di un pessimismo (non solo storico-sociale ma
assoluto e sistematico, cioè inerente a dati immodificabili della con-
dizione umana) che non si limita a respingere qualsiasi ipotesi provvi-
denzialistica o compensazione ultraterrena, ma che anzi rinsalda l’ol-
tranza progressista di un «pensiero» che non si ripiega in se stesso,
bensì tende a un rinnovamento radicale dell’etica, dell’educazione, dei
costumi. La «filosofia dolorosa, ma vera» del Dialogo di Tristano e di
37
S. Timpanaro, Prefazione a Nuovi studi sul nostro Ottocento cit., p. xvii.
xxviii Introduzione di Gino Tellini

un amico non costituisce un freno alla progettazione storico-politica


o all’affrancamento dagli idola, ma aziona invece – con la forza di un
disincantato razionalismo laico – una carica liberatoria che distrugge
dogmi, miti, false illusioni, «conforti stolti» (Amore e Morte, v. 119).
«Nel suo pensiero – sintetizza lo studioso – le esigenze progressiste
non sopraffanno mai il pessimismo; anzi nell’ultima fase progressismo
e pessimismo si esaltano e si potenziano entrambi, e l’originale tenta-
tivo di conciliazione tra i due termini, che egli [Leopardi] compie, non
significa in nessun modo vanificazione o attenuazione di uno dei due».
L’approdo al pessimismo assoluto, materialistico, non avviene in
virtù di uno sviluppo esclusivamente logico. La nuova concezione del-
la natura malefica – che demolisce ogni umanistica e pertinace prete-
sa antropocentrica – discende dall’urto di esperienze contingenti,
come la malattia e l’infelicità connessa alla deformità fisica. Il punto
è delicatissimo, perché dapprima i contemporanei (come Tommaseo),
poi i positivisti (come Giuseppe Sergi), quindi Croce (il teorico della
«vita strozzata») hanno ritenuto di potersi sottrarre alla confutazio-
ne razionale di questo «pensiero» interpretandolo come semplice
riflesso di una condizione patologica, sì da neutralizzarlo come mero
accidente biografico. Timpanaro rifiuta una simile, equivoca banaliz-
zazione. Ma non rifiuta l’incidenza della malattia e della deformità
nella genesi del pessimismo leopardiano, che non va circoscritto entro
un ambito puramente concettuale, né puramente politico-sociale. «Il
torto – egli sostiene – dei cattolici alla Tommaseo, dei positivisti alla
Sergi, degli idealisti alla Croce non sta nell’aver affermato l’esistenza
di un rapporto tra “vita strozzata” e pessimismo, ma nel non aver rico-
nosciuto che l’esperienza della deformità e della malattia non rimase
affatto nel Leopardi un motivo di lamento individuale, un fatto pri-
vato e meramente biografico, e nemmeno un puro tema di poesia inti-
mistica, ma divenne un formidabile strumento conoscitivo. Partendo
da quell’esperienza soggettiva il Leopardi arrivò a una rappresenta-
zione del rapporto uomo-natura che esclude ogni scappatoia religiosa
(sia nel senso delle religioni tradizionali, sia in quello dei miti umani-
stici) e che, per il fatto di essere personalmente sofferta e artistica-
mente trasfigurata, non perde nulla della sua “scientificità”». Con
buona pace di chi presume (e spesso se ne vanta) di capire un artista
prescindendo dalla biografia. La sacrosanta difesa della biologicità, di
contro alla pretesa di una sua sostanziale riduzione al piano politico-
Introduzione di Gino Tellini xxix

sociale, è la chiave di volta dell’interpretazione di Timpanaro, che ret-


tamente vede nell’umana infelicità della quale parla il Leopardi mate-
rialista – in cui potente è la spinta edonistica – non un romantico mal
du siècle, né un’angoscia esistenziale, ma un’afflizione anzitutto fisi-
ca, dovuta alla malattia, alla vecchiezza, alla fragilità organica dell’in-
dividuo come essere naturale. Dal saggio del 1964 emerge il ritratto di
un pessimista integrale che non cerca vie di uscita, né rifugi, né rimedi
al suo pessimismo, ma lo trasforma, convinto dell’inevitabile doloro-
sità del vero, in disperata e strenua strategia conoscitiva.
Il Leopardi e i filosofi antichi (che risale al 1965 e subito segue Alcu-
ne osservazioni sul pensiero di Leopardi) dà la misura dell’eccezionale
compresenza nell’interprete del leopardista e del classicista, segnata-
mente del grecista. Soprattutto rilevante è l’effetto della graduale
cognizione del pessimismo degli antichi, come uno dei motivi che coo-
perano allo sviluppo del pensiero leopardiano. L’idea della natura sal-
vifica si sbiadisce anche alla luce delle sconsolate sentenze pronuncia-
te in tempi insospettabili. La lettura in Diogene Laerzio, nel
novembre 1820, delle ultime parole di Teofrasto ai discepoli sulla va-
nità della gloria e delle illusioni (da cui muove poi nel marzo 1822 la
Comparazione delle sentenze di Bruto minore e di Teofrasto vicini a mor-
te), quindi la lettura (intrapresa nel febbraio 1823, durante il soggiorno
romano) del Voyage du jeune Anacharsis di Jean-Jacques Barthélemy,
opera fitta di citazioni dirette da testi greci, rendono conto di una
visione tragica della vita comune ai maggiori autori della Grecia clas-
sica ed ellenistica. La tesi dell’allontanamento dalla natura come cau-
sa dell’infelicità s’incrina dinanzi alla teorizzazione in epoca antica ed
eroica dell’infelicità come attributo necessario e perpetuo dei viven-
ti, sì che le Operette morali del 1824 possono già in più luoghi pren-
dere atto di quanto poi è palesato apertamente nel Dialogo di Tristano
e di un amico, ovvero che la «filosofia dolorosa, ma vera» è «tanto nuo-
va, quanto Salomone e quanto Omero, e i poeti e i filosofi più antichi
che si conoscano; i quali tutti sono pieni pienissimi di figure, di favole,
di sentenze significanti l’estrema infelicità umana».
Del pari importante è la messa a punto della vertenza spinosa rela-
tiva ai rapporti di Leopardi con Platone e con la visione «platonocen-
trica» del pensiero greco (rifiutata da Gomperz) proposta nel clima
dello spiritualismo romantico europeo. Via via che si precisa il mate-
rialismo leopardiano, la polemica ideologica antiplatonica si orienta in
xxx Introduzione di Gino Tellini

termini sempre più radicali che investono il sistema delle idee su cui
si fondano valori estetici e morali assoluti. Nondimeno – puntualizza
Timpanaro – l’«esperienza culturale» dello studio di Platone, inizia-
to nel 1823, è «di grande rilievo», perché, oltre a fornire l’occasione
per preziosi contributi filologici, comunica un’indubitabile suggestio-
ne artistica, offrendo (come risulta dallo Zibaldone 3421, 12 settem-
bre 1823) un «sommo e perfetto esempio di bellissima prosa, elegan-
tissima bensì e soavissima (non meno che gravissima [...]), amenissima
ec., ma pur verissima prosa». Rifiuto ideologico e speculativo, ma in
pari tempo lezione di stile e di tono, come mostra, appunto nel 1823,
la canzone Alla sua donna e come confermano, poco appresso, talune
delle Operette «più ariose e placate», quali la Storia del genere umano
e i Detti memorabili di Filippo Ottonieri.
L’applicazione su Platone è sopraffatta – e siamo per Timpanaro al
secondo contatto determinante di Leopardi con il pensiero greco,
dopo la scoperta del pessimismo antico – dall’interesse per la filosofia
pratica dell’ellenismo, attivo dal 1823-24 e accentuato nel biennio suc-
cessivo, con la traduzione (nel 1825) del Manuale di Epitteto e dell’I-
socrate moralista, cui si associano le letture della Tavola di Cebete, dei
Caratteri di Teofrasto, dei dialoghi del cosiddetto Eschine socratico e
(nel 1826) di Fozio. Che l’approdo allo statuto materialistico, clamo-
rosamente certificato nel 1824 dal Dialogo della Natura e di un Islan-
dese, comporti sul piano psicologico-pratico la ricerca di un distacco e
di un’imperturbabilità atarassica (attestati nel 1825 dal preambolo alla
traduzione di Epitteto) si spiega e anche si spiega di conseguenza la fase
di disimpegno politico che Leopardi attraversa tra il 1824 e il 1827,
ma senza che si manifesti in lui – puntualizza Timpanaro – una piena
adesione alla morale stoica, a causa dell’istanza agonistica del suo pes-
simismo, attenuata e smorzata, però non annullata neanche in questo
periodo in cui prevalgono quella placata saggezza e quella disincanta-
ta rassegnazione che in modi originalissimi si riverberano nella prosa
ironico-fantastica delle Operette morali.

6. Il nucleo leopardiano della prima edizione di Classicismo e illu-


minismo non va oltre i due saggi succintamente considerati, ma già in
essi s’avverte una materia in fermento che mobilita le risorse di una
strumentazione operativa di lungo respiro. La seconda edizione del
libro, che segue dopo quattro anni – insieme alla stampa, presso Le
Introduzione di Gino Tellini xxxi

Monnier, degli Scritti filologici (1817-1832) di Leopardi, editi critica-


mente con la collaborazione di Giuseppe Pacella –, s’incrementa di un
nuovo contributo (Natura, dèi e fato nel Leopardi), ma nell’intervallo
appare Di alcune falsificazioni di scritti leopardiani (sul «Giornale sto-
rico della letteratura italiana» nel 1966, poi nel 1980 in Aspetti e figu-
re della cultura ottocentesca, volume che include anche le puntuali delu-
cidazioni testuali delle Note leopardiane), dove il connubio tra filologia
e critica, tra ideologia e stile, per ricorrere a due endiadi care a Lan-
franco Caretti, si dispiega con un apporto magistrale di acume storio-
grafico e di perizia tecnica: il più memorabile – nonostante sia talvol-
ta dimenticato – studio di Timpanaro sul poeta di Recanati. Vi si
dimostrano falsi gli inediti testi, dal titolo Appunti leopardiani, pub-
blicati a Roma nel 1898 dal settimanale cattolico «La Palestra del Cle-
ro» per cura dell’abate Giuseppe Cozza-Luzi, vice bibliotecario di
Santa Romana Chiesa e allievo di Angelo Mai (il che non depone a
favore della sua attendibilità scientifica). Tali Appunti, nell’anno cen-
tenario 1898 (che è anche l’anno in cui esce la princeps dello Zibaldo-
ne) rivelano un giovane e giovanissimo Leopardi ancora religioso e
legittimista, ben al di qua della sua persuasione atea e materialistica,
la quale – a parere dell’abate – sarebbe poi, ahimè, sopraggiunta come
perniciosa deviazione, come orgoglioso traviamento dalla retta via:
una sorta, dunque, di subdola controffensiva cattolica (o meglio par-
rocchiale) nei riguardi del Leopardi «patriota e profeta di un laicismo
e umanitarismo – avverte Timpanaro – di tinta massonica, a cui era-
no improntate, nel complesso, le celebrazioni ufficiali del ’98». Spic-
cano, tra gli Appunti, tre abbozzi dell’Infinito (due in prosa, uno in
versi) e uno (in versi) di un Idillio alla Natura, prossimo nei vv. 1-2
all’Infinito e nei successivi all’Ultimo canto di Saffo. Mentre gli altri
documenti resi noti dal Cozza-Luzi sono caduti dopo le prime pole-
miche nell’oblio (come due «discorsi sacri» del Leopardi fanciullo,
nonché nove Pensieri di filosofia varia e diciassette Pensieri varii), i
quattro abbozzi di idilli, parzialmente riesumati nel 1924 da Alessan-
dro Donati nell’edizione dei Puerili e abbozzi vari per i laterziani
«Scrittori d’Italia», hanno poi – ormai dimenticate le discussioni su-
scitate al loro apparire – trovato credito di ufficialità in sillogi cano-
niche, sì da essere unanimemente tenuti per autentici. L’acribia di
Timpanaro investe senza remissione la grafia, il contenuto, lo stile,
l’assetto metrico di queste scritture (specie l’Idillio alla Natura) e
xxxii Introduzione di Gino Tellini

accerta la falsità di simili «imposture», sulle quali si è peraltro disin-


voltamente esercitata nel tempo, senza sospetto veruno, la sottigliezza
ermeneutica di tanti e anche valenti esegeti, impegnati nel ricostruire
la variantistica genetica dell’Infinito. La quale aveva appassionato
anche un celebre filologo come Angelo Monteverdi, che vi s’era dedi-
cato – prendendo per buoni gli abbozzi suddetti – in una lezione tenu-
ta all’Università di Monaco. La ricerca sarebbe uscita a stampa se non
fosse, proprio allora, apparsa la confutazione di Timpanaro, onde le
pagine di Monteverdi hanno cambiato abito e sono diventate La fal-
sa e la vera storia de «L’infinito» (inclusa nella seconda edizione dei
Frammenti critici leopardiani), dove in apertura è dichiarato, con la
franca schiettezza che è prerogativa dei grandi ingegni: «L’inchiesta
del Timpanaro è ora venuta a [...] disingannarci. E dobbiamo ricono-
scere i nostri errori».38
Se il notevolissimo supplemento Natura, dèi e fato nel Leopardi (1969)
integra Alcune osservazioni sul pensiero del Leopardi, ricostruendo con
scansione diacronica il rapporto tra le due concezioni della natura (in
rispettoso disaccordo con Le due «ideologie» di Leopardi di Sergio Sol-
mi),39 il più tardo contributo Epicuro, Lucrezio e Leopardi (già in «Cri-
tica storica» nel 1988, quindi in Nuovi studi sul nostro Ottocento, dove
anche figura Il Leopardi e la Rivoluzione francese del 1989) integra a
distanza di parecchi anni, e in parte corregge, Il Leopardi e i filosofi
antichi. Ritornare sui propri passi, non per invertire la rotta, ma per

38
A. Monteverdi, La falsa e la vera storia de «L’infinito» (1966), in Frammenti critici leopar-
diani, Esi, Napoli 1959, 19672, p. 141.
39
Il saggio di Solmi, già in «Prisma» nel 1968, si legge ora in S. Solmi, Opere, II (Studi leo-
pardiani e Note su autori classici italiani e stranieri), a cura di G. Pacchiano, Adelphi, Milano 1987,
pp. 99-110. Così Timpanaro, nella Prefazione a Nuovi studi sul nostro Ottocento cit., pp. xv-xvi:
«per ciò che riguarda le due concezioni della Natura (“benefica” e inconsciamente ostile all’uo-
mo), Solmi ha affermato con piena ragione che esse hanno avuto nella mente del Leopardi due
diverse genesi, ma ha creduto di poter dimostrare che non vi sia stato nessun passaggio (sia pur
tormentato e non unilineo) dall’una all’altra, che esse siano convissute nel Leopardi fino alla
fine, designate, benché diametralmente opposte, col medesimo termine di “Natura”. Questa tesi
ha avuto più fautori che oppositori; a me è sempre sembrata del tutto inverosimile, e credo tut-
tora di averlo dimostrato in quel saggio su Natura, dèi e fato nel Leopardi che aggiunsi alla secon-
da edizione di Classicismo e illuminismo: se dovessi ora ripubblicare quel saggio, vi apporterei
qualche modifica del tutto marginale, e non nel senso di un avvicinamento alla tesi di Solmi».
Da parte del poeta di Levania, da vedere doverosamente la Postilla (1974), in Opere, II cit.,
pp. 118-19. Il dissenso ha dato luogo a uno scambio epistolare (Dal carteggio Solmi-Timpanaro),
parzialmente riprodotto ivi, pp. 207-28. Su questo carteggio, cfr. i rilievi di Timpanaro nella
citata Prefazione, p. xvi.
Introduzione di Gino Tellini xxxiii

andare avanti in vista di ulteriori e sempre possibili appressamenti a


giudizi più motivati e più ponderati, rientra nel procedimento tipico
di uno studioso che si preoccupa soprattutto di risolvere i problemi,
non di difendere posizioni acquisite. In merito all’atteggiamento leo-
pardiano di fronte all’epicureismo e a Lucrezio, Timpanaro riconosce,
anche sulla scorta di indicazioni fornite da altri ricercatori, di avere in
qualche punto mutato parere rispetto al saggio del 1965, specie per
quanto riguarda la conoscenza diretta che Leopardi poteva avere di
Epicuro – attraverso Diogene Laerzio – e di Lucrezio, quindi procede
alla messa a punto d’una multipla e complessa costellazione di con-
fronti testuali e tematici, dai quali emergono più marcate le diver-
genze che le consonanze. Proprio il dissenso nei confronti dell’ideo-
logia sottesa al De rerum natura spiega la scarsezza (non la latitanza)
di echi lucreziani nell’opera leopardiana: il che lascia nondimeno – com-
menta Timpanaro – «una certa meraviglia», perché «Lucrezio è un
poeta eccelso» e Leopardi «avrebbe potuto trarre più motivi d’ispira-
zione [...] da quei brani “tragici” isolati, ma di eccezionale potenza,
che pur vi sono nel suo poema».
Non stupisca l’appello, infine, alla poesia. Timpanaro, filologo e
storico, certo non si professa critico di poesia. Il ventaglio degli argo-
menti affrontati in Classicismo e illuminismo investe questioni filolo-
giche, linguistiche, ideologiche, non estetiche. Tanto è vero che, pro-
prio su Leopardi, alcuni critici hanno rimproverato la settorialità di
una lettura tanto orientata sul «pensiero» e sulle idee da dare l’im-
pressione di lasciare fuori la poesia. Impressione sbagliata. Timpana-
ro, convinto dell’indissolubilità di pensiero e poesia in Leopardi, si è
posto il problema per primo e ne discorre nella Prefazione alla seconda
edizione:
Occupandomi quasi esclusivamente del pensiero e della cultura leopardiana, e non
della poesia, sono stato fin dall’inizio ben consapevole di svolgere una ricerca set-
toriale, non autosufficiente; per questo ho spesso rinviato ai lavori di quei critici
che, pur senza nulla concedere alla concezione profondamente falsa e sviante di un
Leopardi «poeta puro», hanno posto la poesia leopardiana al centro della loro atten-
zione [...].

Detto con cristallina onestà. Ma anche con un eccesso di discrezio-


ne e di modestia. Infatti non basta dire che questi studi sul pensiero
e sulla cultura presuppongono lavori di altri che hanno posto la poe-
xxxiv Introduzione di Gino Tellini

sia al centro della loro attenzione. Occorre aggiungere che l’autore di


questi studi – allievo di Pasquali, ma insieme di Giuseppe De Rober-
tis e anche perciò intrinseco di Lanfranco Caretti – è tutt’altro che
insensibile alla voce della poesia, al timbro, allo spessore, alla qualità
letteraria dei testi che indaga. E profonda si rivela la sua capacità di
ascolto della poesia. L’aspetto estetico non è mai per lui l’oggetto pri-
mo dell’inchiesta, ma è sempre canone implicito. Anche per questo è
riuscito quel filologo che tutti ammiriamo. Anche per questo i suoi
studi sul pensiero e sulla cultura di Leopardi hanno raggiunto il risul-
tato fondamentale di promuovere una nuova interpretazione della
poesia leopardiana, proprio alla luce di quel pensiero e di quella cul-
tura. Si rileggano, per toccare con mano la sensibilità letteraria del-
l’interprete, le Note leopardiane, specie la terza, sugli «sguardi in-
namorati» di Silvia. Il participio passato ha senso attivo, ribadisce
Timpanaro («sguardi che innamorano»), come in due luoghi petrar-
cheschi (Canzoniere xlii 13 e lxxiii 69, l’uno e l’altro annotati da Leo-
pardi: «Innamorato. Amoroso. Che innamora») e soprattutto in accor-
do con le molte e diffuse riflessioni linguistiche dello Zibaldone sul
valore dei participi passati latini e romanzi (Zib. 4140, settembre 1825:
«Innamorato p. che innamora», con rinvio ai due luoghi di Petrarca).
Nel laboratorio del poeta convergono memoria letteraria e competen-
za erudita. Ma l’espressione «sguardi innamorati» – aggiunge Timpa-
naro – ha anche un’altra provenienza. In apertura dello Zibaldone, tra
le «Canzonette popolari che si cantavano al mio tempo a Recanati»
(Zib. 29), compare questa, con la data del maggio 1819: «Io benedico
chi t’ha fatto l’occhi / Chi te l’ha fatti tanto ’nnamorati». «Innamo-
rati» in senso attivo e riferito agli «occhi», come in A Silvia: sugge-
stiva confluenza di classicità, erudizione e popolare colloquialità,
ovvero, leopardianamente, di «familiare» e di «peregrino». «La “can-
zonetta” recanatese è, come le altre che il Leopardi cita in quella stes-
sa pagina dello Zibaldone, una serenata popolare: una di quelle “dolci
lodi”, appunto, che i giovani di Recanati cantavano alle fanciulle, e
di cui Silvia non arrivò a sentire la lusinga. Mi pare indubitabile che
all’origine di quei versi di A Silvia ci sia (profondamente trasfigurato,
certo, spogliato di ogni colore “folcloristico”) il ricordo del canto
popolare udito tanti anni prima». Con l’indicazione della fonte, Tim-
panaro non si limita a un mero accertamento di fatto, che arricchisce
la multipla stratigrafia dei riferimenti inerenti all’epiteto «innamora-
Introduzione di Gino Tellini xxxv

ti», ma se ne serve per meglio connotare la specifica liricità del passo.


La morte di Silvia sopraggiunge intempestiva, prima che la giovinez-
za fiorisca, e le lodi della propria bellezza, che la fanciulla non ha potu-
to ascoltare, ne definiscono i tratti somatici non dal punto di vista
esterno del poeta, ma dalla prospettiva interna (e pertanto più inti-
mamente dolce e confidente) dei giovani del villaggio, affascinati da
questi verecondi occhi «che innamorano». L’esempio è minimo. Uno
dei tanti.40 Timpanaro filologo, storico, ideologo, militante politico si
trattiene dal toccare il terreno del critico di poesia. Per scelta delibe-
rata, non perché manchino frecce al suo arco.

40
Un altro, e ragguardevole, sempre in tema leopardiano, si riferisce (cfr. S. Timpanaro, Leo-
pardi e la sinistra italiana degli anni settanta, in Antileopardiani e neomoderati nella sinistra italiana
cit., pp. 182-83) alla Palinodia e al significato non ironico della dedica a Gino Capponi: non iro-
nico il «candido» del v. 1 – che non allude al Candide di Voltaire, «ma deriva in linea retta dal-
l’Albi, sermonum nostrorum candide iudex con cui s’inizia una famosa epistola di Orazio» e vuol
dire «capace di retto e imparziale (e piuttosto benevolo che malevolo) giudizio» – e non irrive-
rente il petrarchesco «o spirto gentil» del v. 182, dove invece Dionisotti ha notato una punta
di velenosa malizia (cfr. C. Dionisotti, Leopardi e Bologna, in Appunti sui moderni. Foscolo, Leo-
pardi, Manzoni e altri cit., p. 137). Il rilievo – di pertinenza insieme ideologica e letteraria – è
essenziale per l’interpretazione dell’intero componimento, come ho sostenuto nel mio Leopar-
di, Salerno Editrice, Roma 2001, pp. 256-76.
Nota del curatore e criteri della presente edizione

Classicismo e illuminismo nell’Ottocento italiano è stato un libro, ma


non un “oggetto”-libro; è stato un nucleo (e sia pure grande nucleo)
trasversale e aggiornabile della saggistica timpanariana d’argomento
ottocentesco, sul piano della concezione ideologica, linguistica, lette-
raria: non ha sofferto di “tagli”, bensì di tagli postumi. Ha sofferto,
insomma, dell’impossibilità, da parte di quei saggi e di quei contribu-
ti che hanno in séguito precisato ed integrato i nativi capitoli riuniti-
si in volume nella seconda metà degli anni ’60 (dopo la prima edizio-
ne del 1965), d’accedere alla coabitazione e alla convivenza editoriali,
e quindi alla concettuale contiguità con i saggi di precedente stesura,
ai quali molta della seriore scrittura timpanariana, soprattutto, com’è
ovvio, quella d’impronta ottocentistica, italianistica, leopardistica,
manifestamente si richiama, in un legame e secondo un criterio di per-
tinenza, o almeno d’attinenza, tutt’altro che blandi ed allentati, ma
anzi, e in modo reiteratamente probatorio e dimostrabile, identifica-
tivi dello stesso tema, della coincidenza con lo stesso oggetto cultura-
le, e insieme offerti ai lettori alla luce d’ulteriori acquisizioni realiz-
zate nel tempo dall’autore. Dopo la seconda edizione aggiornata ed
ampliata del 1969, l’opera, non più modificata, ha in effetti potuto
fruire soltanto di ristampe, tanto che le revisioni, le correzioni, i par-
ziali aggiustamenti e le rettifiche nel giudizio e nel “tiro” della visio-
ne critica, che sono intervenuti nel frattempo, hanno avuto in sorte,
nella forma e nelle sostanza, di rimanere estranei al rettangolo di pagi-
na Nistri-Lischi del 1969, a quel libro che, dalla sua prima uscita, ha
rappresentato un importante e originalmente peculiare punto di rife-
rimento per gli studi leopardiani e per il recupero del pensiero illumi-
xxxviii Nota del curatore e criteri della presente edizione

nistico e della linea di riflessione e d’espressione del classicismo ita-


liano, e per un’angolazione davvero laico-materialistica nella defini-
zione ideologica delle dottrine della sinistra marxiana.
Se ogni libro ha una sua storia, questo è un libro che non può esse-
re dimensionato nei limiti e nella centimetratura della propria res
extensa di prima uscita, d’una pur nobile brossura cartonata, storica-
mente oggettuale e materialmente identificata una volta per tutte in
un singolo, unico, irripetibile hic et nunc cronologico. E il concetto che
di sé esso suggerisce è quello d’un laboratorio in continuo aggiorna-
mento, come il tavolo e come la figura stessa del suo autore, se è vero
che Timpanaro in persona ha convalidato di sé l’idea d’avere scritto
saggi minori in una produzione che per parte sua non comprendereb-
be saggi maggiori; a fortiori, nell’elettivo àmbito della filologia classi-
ca, potrebbe sorprendere che non si sia mai confezionata a nome di
Timpanaro, dell’autore d’un testo che ancora non finisce di sorpren-
dere come La genesi del metodo del Lachmann, un’edizione critica
come tradizione intende (il progetto, dilatato a tempo biografico,
d’un’edizione di Ennio, ipotizzato fin dai tardi anni Quaranta sulla
scia delle sollecitazioni seminariali pasqualiane, non si realizza e non
può realizzarsi, data l’estrema cautela e altresì l’estrema ritrosia dello
studioso a una diretta esposizione sul piano della dichiarata edizione
critica). Oserei dire che questa è una fortuna per l’autore e per noi,
dato che la serie di apporti filologici e critici, storici e metrici, che l’a-
cribia di Timpanaro ha recato nel tempo, lungo tutto l’arco della sua
carriera di studioso, alla testualità e all’interpretazione di passi, di
centrali snodi di concetto, di addipanate situazioni di difficoltà docu-
mentaria e ideologica nello studio dei testi dell’antichità greca e lati-
na, ha a nostro avviso grandemente profittato di questa specifica
modestia programmatica e “soggettiva”, che, così diremo, è e si risol-
ve in valentia oggettiva nel perlustratore d’opere letterarie e di scolii
esegetici. Latita, nel suo curriculum d’eccezione, l’edizione critica una
e autosufficiente, con eponima copertina di protocollare e istituzio-
nale richiamo al “genere” scientifico: ma vi è, in compenso, e in linea
di leopardiana tradizione (Leopardi nella sua prevalente connotazione
di filologo, non solo giovanile, è conquista critica eminentemente tim-
panariana), una nutritissima serie d’adversaria, d’annotazioni puntua-
li, precise, di motivate ripartenze contro assetti linguistici non per-
suasivi (si tratta spesso d’adversaria di sontuosa consistenza qualita-
Nota del curatore e criteri della presente edizione xxxix

tiva, oltre che quantitativa), vòlte appunto all’emendazione testuale,


alla concretezza del luogo critico e alla fondatezza della congettura.
Proprio in questa tipologia d’intervento filologico, a preferenza che in
altre, s’esprimono massimamente la competenza e la capacità di Tim-
panaro. Non penso che oggi avremmo ereditato certi severi gioielli di
profondità, di specillarità ecdotica implacabilmente pertinace e razio-
nalista, se la curva di destino (espressione cara a Giacomo Debene-
detti) dell’attività filologica timpanariana fosse risultata convessa sul
pretto opus confectum di compiuta definizione testuale e editoriale:
ipotetico esempio, Ennio, o Virgilio, edizione critica proposta come
definitiva nel tale anno, sulla base dei dati documentari e codicologi-
ci a quella data disponibili. È, questa, una notevole differenza (fra
tante predominanti affinità) che separa la ratio filologica timpanaria-
na da quella dell’altrettanto pasqualiano Lanfranco Caretti, per mol-
ti anni direttore della benemerita collana dei «Saggi di varia umanità»
di Nistri-Lischi (sede di pubblicazione ’65 e ’69 del volume), e come
Timpanaro operante nell’àmbito della cultura fiorentina. Un labora-
torio ininterrotto di studi testuali e di focalizzazioni contestuali, per
sua natura dinamico e instancabilmente flessibile, com’era il costume
umano e colloquiale di Timpanaro, un’officina d’indagini e di ricerca
in fieri vissuta non quale fattore di contraddizione o d’interna incoe-
renza, ma come genesi di vera e propria congruenza e rigore di pen-
siero: questa la caratterizzazione qualificante dell’“edizione” timpa-
nariana, non solo di Classicismo e illuminismo, ma anche, a ben vedere,
di tutte le altre sue opere. Ed è esattamente per questo motivo che
risulta quasi impossibile concepire un volume di Timpanaro in unica
edizione: dal citato La genesi del metodo del Lachmann a La filologia
di Giacomo Leopardi, da Sul materialismo ad Il lapsus freudiano, alla
stessa, incompiuta ventura della volontà di rieditare Classicismo e illu-
minismo, non vi è testo che non abbia incontrato una revisione alme-
no ufficiosa (e non è poco dire), spesso importante e non esigua, fino
alla possibilità d’un autentico rinnovamento, ovvero d’una ripresa
ampliata e modificata (talora persino una smentita) dei precedenti
approdi di riflessione.
Chiariamo ulteriormente il concetto di «tagli postumi». Le ristam-
pe successive alla seconda edizione (1973, 1977, 1984, 1988), si è det-
to, sono realmente e solo ristampe, in un procedimento “anastatico
interno” alle originarie strutture editoriali; né lo studioso manca di
xl Nota del curatore e criteri della presente edizione

segnalarlo nelle note alle stesse singole ristampe, l’unica sede nella
quale egli può dare indicazioni nuove; nel 1977 (p. XXXVI) l’autore
usa, due volte nello spazio di due righe, l’espressione «senza muta-
menti», rifiutando per assoluta insufficienza allo scopo le «aggiunte
e modifiche» e la «bibliografia ragionata», modo d’aggiornamento già
utilizzato nel passaggio prima-seconda edizione; ma nella stessa nota
il «punto di vista» enunciato in Classicismo e illuminismo inizia a tra-
cimare (in chiave di “difesa”, di “sviluppo”, di “correzione”) da un
lato, a livello ideologico-politico in attualizzante “presa diretta” sulla
realtà del pieno decennio 1970, nei numeri belfagoriani che conduco-
no ad Antileopardiani e neomoderati nella sinistra italiana, e, dall’altro
lato, in nuove realtà-libro, in oggetti brossurati forzatamente diversi
dal sinolo-matrice (e loro origine), attivate e per certi aspetti quasi rie-
sumate dal medesimo fermento intellettuale ispiratore di quella rac-
colta del 1965 che rimette in moto anche contributi e stadi di rifles-
sione del prossimo passato, un “passato” che in verità già c’era, e
insisteva urgente fin dal criterio che aveva presieduto alla fortunata
prima silloge Nistri-Lischi: «altri saggi, vecchi e nuovi, riguardanti in
parte anch’essi il Giordani, il Leopardi e altri personaggi e ambienti
trattati o accennati in questo libro usciranno l’anno prossimo in un
volume di questa stessa collana. Alcuni degli scritti teorico-polemici
a cui alludevo qui sopra (p. XXXIII) {nella «Prefazione alla seconda
edizione» - N. d. c.} sono stati raccolti insieme ad altri nel volume Sul
materialismo, pubblicato anch’esso in questa collana (seconda edizio-
ne riveduta e ampliata, 1975)». Com’è qui ben visibile, si delineano,
quasi direi inevitabilmente, le tre fondamentali direttive dell’otto-
centistica timpanariana posteriore non tanto a Classicismo e illumini-
smo, bensì all’uscita editoriale del volume: la direttiva di Antileopar-
diani, il volume uscito dalle Ets di Pisa, certo ben lontano dalla sigla
in prevalenza pamphlettaria che qua e là è parso attribuirgli, ma
indubbiamente attestato su un battagliero movimento di pedine idea-
li esposte al vivo confronto critico con la contemporaneità d’allora,
con la prospettiva che si chiamò del «compromesso storico», con il
manzonismo come ipotesi d’unione di progressismo laico e di pro-
gressismo cattolico, con l’adesione all’acceso dibattito interno a una
sinistra divisa, con i “chiarimenti” avvertiti necessari sul concetto di
aristocraticismo del Giordani e sulla figura, oggi più studiata, di Car-
lo Bini; in secondo luogo, gli «altri saggi, vecchi e nuovi» (quindi
Nota del curatore e criteri della presente edizione xli

anche antecedenti allo stesso Classicismo e illuminismo come libro del


’65) tracciano un ampio ma non impreciso e non vago perimetro di
studi comprendente i contributi che si dovranno incanalare in Aspet-
ti e figure della cultura ottocentesca (volume che uscirà, però, solo nel
1980); in terzo luogo, gli «scritti teorico-polemici» improntati alla
riflessione sulle peculiari valenze filosofiche del materialismo s’indi-
rizzano al volume che allo stesso materialismo s’intitola. Non appare
illecito individuare negli «altri saggi, vecchi e nuovi» l’area di più
appropriata e di più ravvicinata pertinenza agli studi specificamente
letterari (indagini giordaniane, esplorazioni leopardiane, analisi da
varie e mirate angolazioni del rapporto fra classicismo e romanticismo,
affondi di genere biografico-culturale su personalità che hanno rive-
stito un ruolo nel classicismo italiano). Insieme agli studi su Lucano,
su Cassi, su Foscolo, su Giordani, che appartengono agli anni ’70, vi
sono in Aspetti e figure i contributi sul Mai (che risale al 1956), le
recensioni al Treves de Lo studio dell’antichità classica nell’Ottocento
e all’epistolario del Di Breme, il saggio su Gomperz, che risalgono agli
anni ’60. Per parte loro, Di alcune falsificazioni di scritti leopardiani
(uscito nel «Giornale storico della letteratura italiana», 1966) e le
Note leopardiane (inedite nell’ ’80, tranne la terza, che risaliva al ’61)
formano quel focus di leopardistica professa che è qui sembrato dove-
roso riprodurre, riallineato alla cronologia compositiva degli altri capi-
toli a ricostituzione del nucleo di studi sul Recanatese nella saggistica
letteraria di Timpanaro: nella saggistica, per intendersi, di timbro non
tout court filologico (com’è eponimo caso, appunto, de La filologia di
Giacomo Leopardi e degli Scritti filologici curati nel ’69 per Le Mon-
nier) e, insieme, non scopertamente cifrata sullo specificum ideologi-
co o filosofico.
La successione di capitoli che forma la presente edizione annovera
Di alcune falsificazioni di scritti leopardiani e Note leopardiane al quin-
to ed al settimo posto (i primi quattro capitoli sono sempre quelli del-
l’edizione ’65, compreso Il Leopardi e i filosofi antichi, contributo usci-
to nel 1965, per la prima volta, proprio in Classicismo e illuminismo).
Il VI capitolo è costituito da Natura, déi e fato nel Leopardi, Addendum
del 1969 insieme alle Postille e aggiunte bibliografiche. Il riallineamen-
to nell’indice “curricolare” di Natura, déi e fato si è posto come obbli-
gatorio, oltre ad essersi reso particolarmente necessario grazie alla sin-
golare importanza del capitolo nella connessione tra la prima e la
xlii Nota del curatore e criteri della presente edizione

seconda edizione di Classicismo e illuminismo (si tratta dell’aggiunta


più compiuta e corposa fra il ’65 ed il ’69), nella precisazione forte-
mente limitativa della presenza di Rousseau anche nel primo Leopar-
di (il «ritorno alla natura» perderà definitivamente il riferimento a
Jean-Jacques), nella serrata e in certi punti perfino lessicale corri-
spondenza con la “copertina” (e quindi con il succinto accesso con-
cettuale al libro, scritto dallo stesso autore) nell’enunciazione della
difesa della tradizione classicista dalle critiche e dalle imputazioni eti-
co-estetiche dei romantici (per un esame più ravvicinato della funzio-
ne dell’Addendum del ’69 rimandiamo alle Annotazioni autografe, in
specie alle annotazioni alle bandelle). Natura, dèi e fato nel Leopardi è,
in un’opera in cui tutti i saggi appaiono avere la medesima rilevanza,
il capitolo chiave dell’architettura del volume, la giuntura strutturale
che salda la prima redazione a quelli che sarebbero stati, nell’autore,
gli incrementi e le evoluzioni della leopardistica e degli studi sul laici-
smo materialistico e sull’antiprovvidenzialismo: studi che, se fosse sta-
to possibile, sarebbero dovuti entrare in una nuova versione del libro.
Del resto, l’autore si esprime chiaramente fin dal primo capoverso di
quello che è qui il sesto capitolo:
Il passaggio dalla concezione della natura benefica a quella della natura nemica del-
l’uomo ha sempre rappresentato uno dei punti più delicati nello studio dello svolgi-
mento del pensiero leopardiano. Ciò che qui sopra ho scritto a questo proposito (pp.
153-159) {nel capitolo III, «Alcune osservazioni sul pensiero del Leopardi», «Cl. ill.»
1969 - N. d. c.} rimane, credo, valido nelle linee principali, ma ha bisogno di alcu-
ne precisazioni e correzioni.

Soprattutto le «correzioni» legittimerebbero, se s’intendesse estre-


mizzare il processo di focalizzazione editoriale dell’opera di Timpana-
ro, addirittura un accorpamento paragrafato di Natura, dèi e fato ad
Alcune osservazioni sul pensiero del Leopardi; qui prevale, beninteso, il
rispetto della concezione ispirativa e scrittoria autonoma del capitolo
aggiunto, che viene, come si è detto, semplicemente incorporato nel-
l’indice; ma valga questa potenziale indicazione di tendenzialità nel
recupero d’un reticolato di studi coeso, collegato e organico, tanto più
nelle integrazioni e precisazioni, nelle modifiche e nelle sconfessioni
(pur rare, queste ultime) che diacronicamente emergono nell’itinerario
d’uno dei più grandi studiosi italiani del Novecento (a esempio di scon-
fessione, si può ricordare il riscatto filosofico-civile della figura di
Nota del curatore e criteri della presente edizione xliii

Cicerone, al quale, in Il Leopardi e i filosofi antichi, è attribuito un


«superficiale stoicismo», espressione poi direttamente smentita in
Epicuro, Lucrezio e Leopardi, qui ottavo capitolo, nota 24, e più anco-
ra smentita, al di fuori di Classicismo e illuminismo, negli studi cicero-
niani che si convogliano nell’edizione garzantiana del De divinatione).
Sorte analoga incontrano le Postille e aggiunte bibliografiche, secon-
do Addendum del ’69, qui incorporate in calce al testo, ciascuna acco-
stata con richiamo al passo al quale si riferisce e per il quale è stata
concepita; anche questo Addendum, insomma, viene completamente
sottratto alla destinazione di fine testo, ed è invece scisso e fatto
rifluire, come si è accennato, in contiguità con i luoghi, con i passag-
gi, con le singole parole del testo stesso o delle note piè pagina che
Timpanaro aveva ritenuto provvedere d’un’ulteriore spiegazione o
d’un aggiornamento. La lettura e la fruizione culturale di Classicismo
e illuminismo risulteranno, a nostro avviso, avvantaggiate e nel con-
tempo facilitate dalla materiale attiguità del testo ’65 con le integra-
zioni ’69; ne risulta eliminato, infatti, l’obbligo, per il lettore, d’un
doppio scorrimento di pagine: quelle del testo, e, contemporanea-
mente, a fine volume, quelle dell’Addendum, ogni volta che l’autore
ha effettuato un’integrazione. Si aggiunga il fatto che nell’edizione
del 1969 le postille non erano segnalate, nel testo, da alcun rinvio, ed
il lettore era dunque costretto a tenere continuamente presente il
gruppo di pagine degli Addenda in fondo al volume per attendere la
pagina postillata, o a procedere ad una lettura successiva e separata
delle aggiunte, con faticoso ritorno ai passi del testo ed alla ratio con-
testuale cui le postille s’intendevano correlate. In questa edizione,
come sinteticamente riepilogheremo più sotto, la postilla è segnalata,
con ripresa al piede di pagina, da singolo asterisco.
In una rinnovata situazione di contiguità dei saggi qui raccolti, la
lettura del libro gode concettualmente d’un percorso d’evoluzione e
di modifica, e fruisce, direi, di un’entità nuova come opera in sé, non
nel senso d’un reale cambiamento che da qui si possa ricavare nel giu-
dizio critico sull’autore, ma nel senso d’un rinforzo e d’un incremen-
to, che ben si potrà constatare, dell’oggettiva ossatura leopardiana
degli studi ottocentistici di Timpanaro, e, altresì, d’un incremento di
chiarificazione (e di sostegno) della visione filosofica e generalmente
culturale della linguistica e del classicismo che, dopo gli studi sul Cat-
taneo e sull’Ascoli (con una ripresa cattaneiana nell’Appendice I), com-
xliv Nota del curatore e criteri della presente edizione

prende i contributi sul Gomperz (qui undicesimo capitolo) e l’Appen-


dice II, costituita dal citato Treves degli studi di antichità classica
(Classicismo e «neoguelfismo» negli studi di antichità dell’Ottocento ita-
liano, dapprima in «Critica storica», II, 1963, pp. 603-611, poi in
Aspetti e figure della cultura ottocentesca, pp. 371-386; «ivi», III, pp.
1-31, la prima uscita del saggio intitolato a Theodor Gomperz, poi in
Aspetti e figure, pp. 387-443). Si tratta, com’è evidente in quest’ulti-
mo caso, di due contributi antecedenti all’opera che qui si presenta, e
per di più di uscita quasi contemporanea nella stessa rivista. Sono gli
anni decisivi per la nascita di Classicismo e illuminismo, e questi due
saggi appartengono più che mai alla sua genesi culturale e cronologica,
ma soprattutto appartengono agli argomenti e alle tematiche propri e
pertinenti al valore ed alla risonanza degli studi classici nell’Ottocen-
to, e (nel caso della recensione al Treves) all’esistenza ed al confronto
polemico tra la corrente storiografica del classicismo e quella della sto-
riografia romantico-neoguelfa, ed altresì all’importanza, alla centralità
ed alla propulsività della figura di Foscolo e di quella di Leopardi: l’ec-
cesso di simpatia foscoliana e di centralità nella considerazione che si
ha dell’autore, secondo Timpanaro, caratterizzerebbe la ricostruzione
del Treves, mentre il contributo foscoliano in Aspetti e figure (Sul
Foscolo filologo) mostra a sua volta a noi lettori la posizione timpana-
riana, complessivamente critica riguardo a molte componenti della
personalità del poeta di Zante. Soffermandosi un momento sull’Ap-
pendice II, basti ricordarne due brani per rintracciare sùbito gli stret-
ti legami con i tragitti tematici di fondo di Classicismo e illuminismo:
Certo, i «partiti culturali» sono sempre più fluidi dei partiti politici, e gli stessi
partiti politici erano nel secolo scorso ben lontani dalla rigida struttura di quelli
odierni; ma tale fluidità non dev’essere esagerata a proprio piacimento dallo stori-
co, fino a trasformare i classicisti in romantici, i giacobini in neoguelfi. / Una volta
ristabilite queste distinzioni, si vedrà, credo, che il meglio degli studi classici nel-
l’Italia preunitaria non è dovuto ai neoguelfi o ai romantici, ma ai classicisti-illumi-
nisti: Monti, Giordani, Peyron (solo dopo il ’48 passato da posizioni illuministiche
e riformatrici a posizioni clericali e reazionarie), Leopardi, Cattaneo. L’influsso di
questa corrente perdura anche nel secondo Ottocento: al Cattaneo si ricollega l’A-
scoli (la cui impostazione della questione della lingua è nettamente antimanzoniana
e antiromantica); lo stesso Comparetti potè, sì, essere definito «romantico» dal
Pasquali per il suo interesse per le tradizioni popolari, ma non si deve dimenticare
l’ispirazione profondamente illuministica e laica del Virgilio nel medio evo, che cul-
mina nell’esaltazione di Dante come primo umanista (molto bene su questo punto
il Treves, p. 1054). E se è giusto indicare nelle tendenze razziste e colonialiste, nel-
Nota del curatore e criteri della presente edizione xlv

la propensione alle generalizzazioni affrettate o, viceversa, nell’angustia erudita i


lati negativi di molto positivismo, non è giusto svalutare quegli aspetti per cui il
positivismo prosegue e sviluppa l’illuminismo: l’antimetafisica, la storicizzazione
della natura, l’interesse per il rapporto uomo-natura. Questi aspetti non furono pri-
vi di ripercussioni nemmeno nel campo degli studi greco-latini: è un riflesso del posi-
tivismo il rinnovato interesse per Epicuro e Lucrezio, che in Italia trovò espressio-
ne in Gaetano Trezza e, con maggiore distacco storico, nel Comparetti e soprattutto
nello splendido commento a Lucrezio di Carlo Giussani.

La mancanza di filologi e storici dell’antichità specificamente romantici e neoguel-


fi in Italia, d’altra parte, ha costituito per il Treves un incentivo ad allargare oltre
ogni limite le categorie di romanticismo e di neoguelfismo, fino a includervi studiosi
di tutt’altro orientamento. Per quel che riguarda il romanticismo, come è noto, que-
sto procedimento è stato già messo in atto da molti studiosi: si è finito col fare di
«romanticismo» un sinonimo di «civiltà liberale-democratica dell’Ottocento», o
addirittura di tutto ciò che nell’arte e nella cultura ottocentesca non è accademismo
frigido: così Goethe, Foscolo, Leopardi, Heine, Cattaneo – tutta gente che col
romanticismo polemizzò con asprezza – sono stati annessi, loro malgrado, alla schie-
ra romantica. Anche per il Treves romantica è «tutta la migliore intelligentsia euro-
pea» (p. 592), romantico ogni storicismo; e un analogo ampliamento subisce per ope-
ra sua il neoguelfismo [...].

Nella prefazione ad Aspetti e figure (pp. X-XI), che accoglie in volu-


me la recensione al Treves, Timpanaro spiega le ragioni della nuova
pubblicazione del contributo, fortemente legate, ancora una volta,
all’impatto-ricezione, anche presso il pubblico più cólto, di Classicismo
e illuminismo:
Sarebbe bastata anche soltanto una lettura non troppo distratta dell’introduzione a
Classicismo e illuminismo, per accorgersi come io sia sempre stato del tutto alieno
da «equazioni» così rozze ed erronee, e come mi abbia mosso sempre, al contrario,
un’esigenza di d i s t i n g u e r e le varie posizioni politiche, ideologiche, letterarie,
tenendomi lontano sia da caratterizzazioni «epocali» che tutto abbracciano e nulla
stringono [...], sia da concezioni storiografiche esasperatamente individualizzanti e
altrettanto astratte [...]. La lettura della recensione all’opera di Piero Treves, ripub-
blicata nel presente volume (p. 371 sgg.) {«Aspetti e figure»} ma anteriore a Classi-
cismo e illuminismo, dovrebbe far comprendere ancor meglio perché io abbia senti-
to questa esigenza.

La necessità di “chiarimento”, fortemente avvertita dall’autore e


adempiuta da questo “pezzo” su classicismo e neoguelfismo, induce a
collocare la stessa recensione nel luogo distinto, e perspicuamente
separato, dell’Appendice. Ritorneremo fra poco su quella che, a sua
volta, è la particolare importanza dello studio su Theodor Gomperz,
xlvi Nota del curatore e criteri della presente edizione

con il quale si conclude la successione dei veri e propri capitoli di que-


sta edizione; seguiranno, appunto, le appendici.
Il concetto principale che qui ci sembra acquisito è quello rappre-
sentato dal “canone aperto” che è necessario per uno studio e un’edi-
zione di questo volume centrale nell’opera timpanariana; Classicismo
e illuminismo è un’opera che non è solo se stessa, ma è un incrocio di
motivazioni e di sollecitazioni interculturali e interdisciplinari (non
banalmente “pluridisciplinari”), pur mantenute fra loro insieme dalla
rigorosa dottrina dello studioso-autore. In un’opera che è anche altre
opere, non v’è meraviglia se i semi degli interessi culturali, letterari,
linguistici, s’irradiano in varie direzioni, s’insediano in altri libri qua-
si apposta nati e creati per costituire non un’appendice, o una prosecu-
zione di Classicismo e illuminismo, ma Classicismo e illuminismo stesso,
in questo senso ineluttabilmente suddiviso e scaglionato, nel tempo,
in vari tomi, a scansione scientifica d’una ricerca multiforme ma
nient’affatto dispersiva, ed anzi metodologicamente coerentissima. Su
questo punto determinante ci permettiamo ancora rinviare alle Anno-
tazioni autografe (pp. 522-525), alla quinta annotazione al sesto capi-
tolo, nella quale, con il conforto del necessario e immediato e, confi-
diamo, persuasivo rincalzo testuale (sia del testo a stampa, sia del testo
inedito a mano) si affronta in modo più partito e analitico il proble-
ma del canone aperto e della non unicità di questo volume, capace di
rappresentare e veicolare una molteplicità di componenti degli inte-
ressi dello studioso (un caso simile potrebbero essere, ma è solo esem-
pio, i due volumi di Poeti e filosofi di Grecia di Manara Valgimigli).
Qui, a testo d’autore non ancora aperto o iniziato, ci è sufficiente
riprendere il cenno sul valore di passaggio, quasi di varco di Natura,
dèi e fato sul “futuro” di Classicismo e illuminismo. In un’annotazione
al saggio, presente in una copia del 1984 della seconda edizione, si tro-
vano allineati, in ragionata serialità, innanzi tutto Aspetti e figure, libro
assolutamente non disgiunto da Classicismo e illuminismo, quindi i
nomi di Carlo Dionisotti, in evidente relazione con il saggio Il Gior-
dani e la questione della lingua (presente appunto in Aspetti e figure), di
Maurizio Vitale (di cui nel capitolo giordaniano si ricordano gli inte-
ressi e la personale, già allora ricca bibliografia sul padre Cesari), di
Francesco Tateo, ricordato nei Nuovi studi sul nostro Ottocento del
1994 per un saggio antoniocesariano, lo stesso articolo timpanariano
sul Cesari nel Dizionario biografico degli italiani (1980), poi incluso nei
Nota del curatore e criteri della presente edizione xlvii

citati Nuovi studi, la figura del barone danese Herman Schubart, ricor-
dato ancora nei Nuovi studi sulla scorta d’un saggio di Maria Augusta
Morelli. L’annotazione manoscritta crea un collegamento delle pagine
de Il Giordani e la questione della lingua in Aspetti e figure alle pagine
dei Nuovi studi; e i riferimenti s’infittiscono, dato che la prima uscita
dell’articolo sul Cesari è coeva, nel 1980, alla nuova uscita dell’arti-
colo su Giordani (dal 1974 ad Aspetti e figure); tutto il trend cronolo-
gico mira, o comunque ha la propria naturale meta nei Nuovi studi del
1994, che iniziano esattamente con il contributo sul Cesari ed anno-
verano la citazione del barone di Schubart come amico e non astratto
sostenitore dell’abate linguista; il contributo antoniocesariano nei
Nuovi studi, inoltre, termina con i nomi di Vitale, di Dionisotti, di
Tateo, oltre a quelli di Tissoni e dello stesso Timpanaro: Vitale, Dio-
nisotti e Tateo sono i nomi della citata annotazione manoscritta. Poco
sotto, nella copia del 1984, la citazione a mano di Claudio Marazzini
(come meglio si vedrà nelle Annotazioni) appare rivolta senza ambi-
guità ai Nuovi studi usciti da Nistri-Lischi, in particolare ad una nota
sul De Amicis linguista che si riferirà anche a L’oro nella lingua di
Maurizio Vitale, a Vincenzo Monti, a Graziadio Isaia Ascoli, allo stes-
so abate Cesari. Si tratta, quindi, di un’indubitabile correlazione di
nomi e di elementi culturali, di “compagni bibliografici” che confer-
mano e che dimostrano il concetto di reticolato unitario di ricerca e
d’indagine in tutta la saggistica nistri-lischiana di Timpanaro. Molti
contributi, e molti nuclei bibliografici tutt’altro che informi, che han-
no fatto ufficialmente parte di Aspetti e figure o che faranno parte dei
Nuovi studi, si trovano già annotati in Classicismo e illuminismo, a
riprova della loro concorde cittadinanza scientifica e qualitativa e del-
la loro mutua corrispondenza cronologica. Esempio fra tanti possibi-
li, come si vedrà, il “filo rosso” costituito dall’interesse per il purismo
leopardiano, dal citato Natura, dèi e fato allo studio su Cesari, amplia-
to, quest’ultimo, rispetto alla primitiva “voce” di dizionario dell’ ’80,
ma parzialmente anticipato in Il Giordani e la questione della lingua.
Certe annotazioni, si può dire, sono già in sé componenti costitutive
di questa edizione di Classicismo e illuminismo, ed entrano legittima-
mente a formarne la realtà di libro. Il concetto di canone aperto va
dunque sostenuto come il più proponibile per un’edizione come que-
sta. Ed è un canone aperto che si applica correttamente alla saggisti-
ca più disponibile all’incrocio dell’accertamento filologico e della rico-
xlviii Nota del curatore e criteri della presente edizione

struzione storica (non storicistica), della dimensione analitico-testua-


le (si vedano i due contributi leopardiani qui immessi da Aspetti e figu-
re - capitoli quinto e settimo -, come anche l’ottavo capitolo, Epicuro,
Lucrezio e Leopardi, immesso dai Nuovi studi) e della scelta critica fon-
data, ma anche esposta alla responsabilità del dichiarato giudizio
interpretativo. Ben più difficile, a nostro parere, sarebbe l’applica-
zione del canone editorialmente aperto ai lavori d’istituzionale proto-
collo filologico (che ammettono piuttosto la riedizione modificata,
ampliata, riveduta di se stessi, della propria realtà scientifica); e diffi-
cile sarebbe anche l’applicazione di tale criterio agli articoli belfago-
riani confluiti, insieme ad altri contributi, in un volume programma-
ticamente diverso da quelli della saggistica Nistri-Lischi, com’è il caso
di Antileopardiani e neomoderati nella sinistra italiana; né si potrebbe,
a meno d’un passo di violazione delle demarcazioni disciplinari, alte-
rare, se non dal suo interno - come avviene nelle vere e proprie riedi-
zioni d’una singola entità-libro -, il volume Sul materialismo, anch’es-
so nistri-lischiano, anch’esso significativamente pisano nella sua uscita
editoriale, ma non certo a caso concepito come distillata astrazione
d’alcuni lieviti «teorico-polemici» sottesi a Classicismo e illuminismo,
che reclamavano espressione in sede scientifica e ideologica in tal sen-
so miratamente deputata. Sul materialismo, peraltro, ha già goduto nel
1997 d’una sua terza edizione riveduta e ampliata (Milano, Unicopli),
con nuova prefazione, e (oltre alla versione spagnola 1973 della pri-
ma edizione) di tre edizioni inglesi (London, Verso, 1975, 1980 e
1996); ed è quindi volume che, organicissimo alla ricerca di Timpa-
naro, naviga però secondo rotte editoriali autonome (e non per que-
sto indipendenti dagli altri studi dell’autore).
Vi è un periodo (non si dice una data precisa) nel quale “nasce” la
riflessione, nel quale insomma prendono forma lo spirito e la ratio cul-
turale di Classicismo e illuminismo? Molto giustamente, Vincenzo Di
Benedetto (La filologia di Sebastiano Timpanaro, nell’opera collettiva
Il filologo materialista. Studi per Sebastiano Timpanaro, editi da Riccar-
do Di Donato, Pisa, Scuola Normale Superiore, 2003, pp. 1-89, qui
pp. 75-77) individua lo «snodo» decisivo che, già contenendone in sé
i germi intellettuali, prelude alla realizzazione del volume del 1965;
nella recensione in «Critica storica», III (1964), pp. 791-796, al La
Penna di Orazio e l’ideologia del principato (il ben noto, fondamentale
volume sul poeta, ma anche sulla cultura letteraria e ideologica dell’età
Nota del curatore e criteri della presente edizione xlix

augustea, uscito nel 1963 - Torino, Einaudi [«Saggi», n. 332]), Tim-


panaro infatti esprime, appena un anno prima dall’uscita di Classici-
smo e illuminismo, quel nesso tra i due termini del suo titolo editoria-
le che, lontano dall’essere mero richiamo o anticipo lessicale, si
qualifica piuttosto come una concreta prospettiva d’indagine che
coniughi l’analisi del fenomeno letterario con l’analisi delle reali coor-
dinate ideologiche, di singolo pensiero e di singola cultura, degli auto-
ri emblematici d’un certo periodo, o, per intendersi, d’una certa “cor-
rente”, con i suoi caratteri estetici ed espressivi, ma anche con i suoi
precisi valori semantici. Si legga la parte finale di quell’importante
recensione:
Il classicismo dell’età augustea salvò, accanto alla raffinatezza stilistica, quella che
era la più importante conquista dei neoteroi: la capacità di esprimere l’individua-
lità passionale, ma seppe depurarla da morbosità e sottigliezze (pp. 166-170); det-
te, con la dottrina del miscere utile dulci, una spinta verso il realismo (pp. 170-175);
non rovesciò la tendenza antiscientifica, antiepicurea, che si era ormai affermata
nella cultura greco-latina, e tuttavia, riaffermando l’ideale aristotelico di un’arte
equilibrata e razionale, costituì un argine contro concezioni irrazionalistiche della
poesia (pp. 175-178). Tutte queste considerazioni - e altre non meno interessanti che
siamo costretti a tralasciare - non solo permettono di valutare molto meglio di quan-
to si sia fatto finora il classicismo augusteo, ma contribuiscono anche a spiegare la
funzione progressista che il classicismo ha avuto in molti momenti della storia del-
la cultura europea, e specialmente quel nesso tra classicismo e illuminismo che appa-
re con particolare evidenza nella letteratura del Settecento e del primo Ottocento,
e che è stato oggetto di interesse e di discussioni in questi ultimi anni (vedi a que-
sto proposito anche le appendici del libro del La Penna, p. 231 sgg.). Perfino il càno-
ne dell’imitazione dei classici, accanto agli influssi negativi che ognuno conosce, ha
avuto talvolta una sua fecondità in quanto è stato interpretato, per esempio dal Leo-
pardi, come una forma di «ritorno alla natura» (p. 181 sgg.). Tuttora, l’esigenza del-
l’unità della cultura contro il settorialismo tecnicistico e contro nuove forme d’ir-
razionalismo ha, storicamente, un suo debito con la tradizione di quel classicismo
che trovò la sua prima espressione compiuta nell’età augustea. / Credo che questo
resoconto, necessariamente sommario, possa almeno dare una prima idea del valo-
re e della ricchezza di un libro che non si rivolge solo agli studiosi dell’antichità, ma
anche a italianisti (specialmente per le pagine su Parini e Carducci), a francesisti
(vedi l’appendice su Agrippa d’Aubigné, p. 229 sg.), a uomini di cultura militante.

Non è questa la sede per discutere, com’è stato fatto (ad esempio,
nel citato saggio di Vincenzo Di Benedetto) sulla persuasività o meno
del concetto di classicismo progressista, sulla sua reale estensibilità
agli ultimi decenni del Settecento ed ai primi decenni del successivo
secolo, sulla proponibilità del nesso classicismo-illuminismo in un’e-
l Nota del curatore e criteri della presente edizione

poca in cui tutti i letterati erano improntati da una formazione classi-


cistica che non poteva in tal senso costituire qualificante segno di dif-
ferenziazione rispetto ad altri scrittori. Basti cogliere, oltre alla con-
clamata occorrenza terminologica, i cenni al «realismo», al valore del
barrage estetico aristotelico contro riemersioni irrazionalistiche anti-
che e moderne, all’equilibrata e consapevole difesa d’un cànone d’i-
mitazione che nella decodifica leopardiana si ribalta in «ritorno alla
natura». Sulla base di tali premesse, si può rammentare che in signi-
ficativa simultaneità cronologica con l’uscita di Orazio e l’ideologia del
principato, e con la recensione timpanariana nell’anno successivo, ven-
gono pubblicati dal prossimo autore di Classicismo e illuminismo (oltre
a La genesi del metodo del Lachmann, Firenze, Le Monnier, 1963,
espressione in quegli anni della sua riflessione sulla metodologia filo-
logica, e a un contributo su Vitelli) la citata recensione, del 1963, all’o-
pera di Piero Treves uscita nel 1962, il saggio dedicato a Theodor
Gomperz («Critica storica», III, 1963, pp. 1-31) ed un contributo qua-
le Alcune osservazioni sul pensiero del Leopardi («ivi», III, 1964, pp.
397-431); nel 1961 era uscito da Sansoni Giordani, Carducci e Chiari-
ni, presentazione della ristampa a cura dello stesso Chiarini degli Scrit-
ti giordaniani (pubblicati sempre da Sansoni nel 1890; diversa nella
scelta e nella classificazione era l’edizione chiariniana di Livorno,
Vigo, 1876; ristt.: ivi, 1884 e ancora Firenze, Sansoni, 1936); nel
1961-1962 (si noti l’insistere di quegli anni) era uscito Carlo Cattaneo
e Graziadio Ascoli («Rivista storica italiana», LXXIII, 1961, pp. 739-
771 e LXXIV, 1962, pp. 757-802). E fin dalla prima Prefazione al
volume si manifesta, da parte dell’autore, l’influenza esercitata sul suo
lavoro dalle conversazioni avute con Luigi Blasucci, con lo stesso
Antonio La Penna, con Mario Mirri, e dagli scritti di questi studiosi
(di Mario Mirri si ricordi a questo proposito F. De Sanctis politico e sto-
rico dell’età moderna, Messina-Firenze, D’Anna, 1961), né si manca di
citare (nota 51 dell’Introduzione) lo studioso che traccerà nel primo
fascicolo 2001 della «Nuova Antologia» un acuto profilo, post mor-
tem, di Timpanaro: il Sergio Landucci di Cultura e ideologia in Fran-
cesco De Sanctis, Milano, Feltrinelli, 1963. Sono, come si vede e si
ricorda, anni fervidi di riflessione, d’elaborazione ideologica e cultu-
rale, e d’intensa produzione saggistica, anche in prospettiva degli svi-
luppi di ricerca che ciascuno di questi importanti studiosi intrapren-
derà o se già incominciati proseguirà in modo articolato e insieme
Nota del curatore e criteri della presente edizione li

coerente sulla base di quegli inizi. Una stagione di ragioni e di passio-


ni profonde e non prive d’una complessiva e pur vigile fiducia, in quel-
la temperie d’anni che si sarebbe in séguito dimostrata d’impossibile
duplicazione. Una stagione pisana, o prevalentemente pisana, densa
di contatti di studio e di rapporti umani; la sorte editoriale di Classi-
cismo e illuminismo, nato in quegli anni, corrisponde in forma del tut-
to giusta a questa origine culturale, all’orbita cittadina e insieme intel-
lettualmente e geograficamente cosmopolitica dell’Università e della
Scuola Normale. Né meno giusta è l’espressione di gratitudine, ma
anche di deferente amicizia, tributata da Timpanaro a Lanfranco
Caretti, che dopo L’introduzione allo studio di Dante di Francesco
Maggini, accoglie con coraggio e lungimiranza Classicismo e illumini-
smo come secondo dei «Saggi di varia umanità», la collana un tempo
diretta da Francesco Flora. Più tardi, grande sarà il merito di Carlo
Alberto Madrignani nell’accogliere (1982; rist.: 1985) Antileopardia-
ni e neomoderati nella sinistra italiana nelle pisane Ets, terzo volume
della collana «Università», sezione «Letteratura italiana» diretta dal-
lo stesso Madrignani.
L’importanza del concetto di classicismo studiato da La Penna è
d’altronde confermata dal prosieguo delle indagini oraziane dello stu-
dioso; in Orazio e la morale mondana europea, introduzione a ORA-
ZIO, Tutte le opere, Firenze, Sansoni, 1993 (I ed.: ivi, 1968, a pochi
anni di distanza da Orazio e l’ideologia del principato e quasi interpo-
sto fra le due edizioni di Classicismo e illuminismo) si sottolinea, ad
esempio, il generale movimento antiscientista della cultura augustea
(p. LXXXVIII: «l’epicureismo nell’età augustea perde sempre più l’ar-
dore speculativo e la spinta ‘illuministica’ dell’epicureismo lucrezia-
no e sempre più facilmente si adatta a credenze e a sentimenti tradi-
zionali»); ma si ricorda anche (p. CXXXIII), ad articolazione e a ben
più complessa analisi d’una generale immagine di decus letterario,
attraversato, a ben guardare, da scie espressive problematiche e con-
traddittorie, la parzialità d’una visione composta e classicamente
drappeggiata della letteratura latina post-arcaica, in realtà percorsa da
una persistente e non rinunciataria componente espressionistica, che
per converso avvalora l’innovatività di Orazio («Se l’importanza di
tale componente viene ristabilita, la classicità di Orazio apparirà più
come l’eccezione che come la regola: in un certo senso Virgilio è meno
eccezionale di Orazio. Se quell’opinione comune si è affermata, si
lii Nota del curatore e criteri della presente edizione

deve in gran parte proprio al fatto che Orazio apre una via nuova,
inaugura un’esperienza stilistica fondamentale per la cultura euro-
pea»); e si ricorda soprattutto il paragone Orazio - Virgilio, il con-
fronto fra la poesia “pittorico-disegnativa”, l’ut pictura poësis, precisa
nei dettagli, tersamente perspicua nelle immagini, e la poesia aperta
allo spazio infinito, allo sfumato, al vago, alla vibratilità musicale
quanto più indistintamente arpeggiata tanto più fascinosa (pp.
CXXXV-CXXXVI): proprio qui (p. CXXXVI, nota 1) si dice che
«Questo carattere fondamentale dell’arte di Orazio [la ricerca del
«cesello», della «pittura», del «disegno», del «volume»] sarà stato una
delle cause dell’avversione del Leopardi, che lo qualifica di ‘basso
ingegno’; si capisce, invece, come l’indefinito di Virgilio facesse sen-
tire su di lui il suo fascino». E questo rilievo, giustissimo, procura più
d’una difficoltà ad una visione timpanariana del rapporto identifica-
tivo di Leopardi con il classicismo; il notturno virgiliano, come quel-
lo omerico, è certo giocato da Leopardi in funzione antiromantica (i
classici erano già capaci di quelle suggestioni letterarie): ma resta sem-
pre da chiedersi, al lettore di Timpanaro, quanto realmente a Leopar-
di fosse dato di conoscere del romanticismo. E non può sfuggire che,
fino ad Epicuro, Lucrezio e Leopardi compreso, Timpanaro non ha
potuto a meno d’interrogarsi sulla scarsa presenza in Leopardi d’au-
tori e filosofi come appunto Epicuro e Lucrezio, e di Orazio come
corifeo-innovatore del classicismo, di autori che una lettura soltanto
ideologica, e in gran parte fondata su esplicite dichiarazioni “referen-
ziali”, dell’autocoscienza poetica leopardiana, autorizzerebbe a pen-
sare prevalenti, e di frequente e dominante presenza. Avviene l’esat-
to contrario: la scommessa risulta perduta, con netta minorità del
“classicista genetico” Orazio, del ricreatore dello spirito estetico ari-
stotelico, dell’autore particolarmente amato nel Settecento razionali-
sta, a tutto vantaggio dell’epicureismo “sentimentale” di Virgilio, e
non in nome dell’epicureismo. La scelta di Leopardi ha innegabili ele-
menti in comune con quella dei romantici; al ferrato sostenitore del
classicismo leopardiano rimane da dimostrare, con la nota, impareg-
giabile profondità di scandaglio filologico e ideologico, la serie, note-
volissima, di differenze che separano Leopardi dal pensiero e dai testi
di Epicuro e di Lucrezio (conosciuti, beninteso, ma non privilegiati
rispetto ad altri scrittori), a spiegazione di come, chiamiamola ancora
così, la scommessa previsionale non avesse base e vera ragion d’esse-
Nota del curatore e criteri della presente edizione liii

re: l’epicureismo in Leopardi va studiato come “fenomeno” autono-


mo, non prevalente, segnato come anche altri riferimenti letterari da
una sua storia. Semmai, ad attirare l’ammirazione di Leopardi è l’O-
razio degli «ardiri», delle associazioni a distanza di sostantivi ed
aggettivi, dei viaggi strofici a ritrovare le concordanze attraverso il
materiale verbale interposto, serie di diamanti poetici che illumina
partenza e arrivo, attributo e nome. Un Orazio di sospetta ricezione
romantica (neanche il primo Ottocento ha in realtà messo in disparte
Orazio), come ha ricordato, riconducendovi l’attenzione, il convegno
recanatese intitolato Lingua e stile di Giacomo Leopardi (gli Atti sono
usciti da Olschki nel 1994). Risulta, in ogni caso, molto perspicuo,
nelle pagine di La Penna, il contributo (dato da Orazio alla futura
civiltà europea) alla fondazione d’una morale laica, ad un’autàrkeia cri-
ticamente vissuta, ad una visione della natura d’essenziale impronta
immanente, tutta interna ai suoi laici e secolari circuiti. Il dialogo tra
La Penna e Timpanaro, insomma, questo intendiamo sottolineare, è
continuato nel tempo.
Il contributo su Gomperz è nato nel 1962 (e pubblicato nel 1963);
grazie a questa collocazione “storica” nella produzione di Timpana-
ro, esso è contemporaneo ad Orazio e l’ideologia del principato, alla
recensione all’Orazio lapenniano in «Critica storica» e alla recensio-
ne al Treves; e in tal senso è assolutamente coevo anche all’elabora-
zione dei citati saggi che compongono Classicismo e illuminismo: Gior-
dani, Carducci e Chiarini, il Cattaneo, il saggio sul pensiero di Leopardi.
È lì che nasce Classicismo e illuminismo, ovvero da quel giro di riviste
in cui il saggio sullo storico austriaco s’inserisce, in totale identità di
tempo e di spazio editoriale con gli altri lavori che approderanno alla
silloge del ’65. Il Gomperz fa parte di Classicismo e illuminismo, della
genesi elaborativa dell’oggetto-libro come inizia a prender corpo ed a
configurarsi allora, e pertiene insomma a “quel” nucleo ispirativo, cul-
turale e ideologico; né tale appartenenza e tale contiguità si pongono
solamente sul piano cronologico, pur già in sé estremamente parlan-
te. È, scriviamolo apertamente, la tematica, sono i contenuti, è la
vivacissima semantica culturale del saggio, è il suo significato di rilan-
cio storiografico-culturale e di dotta polemica nei riguardi di tutta
un’impostazione tardo-ottocentesca e poi novecentesca, idealistica,
antipositivistica, antiscientista, ad acquisire il contributo all’opera-
zione culturale denominabile Classicismo e illuminismo, perché lì il
liv Nota del curatore e criteri della presente edizione

contributo è già acclimatato. In massima sintesi, rammentiamo l’im-


postazione mentale di Gomperz, aperta alla considerazione della
scienza ed all’assunzione dell’attualità, dove possibile, del pensiero
greco, senza che per questo si legittimi un’accusa di scientismo; ma si
ricordi soprattutto il sostegno, la valorizzazione culturale d’una visio-
ne laica, contraria alle concezioni metafisiche, che, pur fra contraddi-
zioni e qualche inevitabile incongruenza, permea la sua opera di stu-
dioso del pensiero filosofico e storiografico greco (benché Timpanaro,
in quello che è un vero e proprio profilo, non si limiti certo all’opera
più corposa e più nota, i Pensatori greci). Decisiva in questo senso la
sua connotazione culturale di moravo-austriaco non affatto nutrito
della sola cultura nazionale, o comunque germanofona o austro-unga-
rica, e, anzi, di studioso ebreo, laico nelle visioni filosofiche e cosmo-
politico nel decodificare le sollecitazioni intellettuali, e personalmen-
te propenso alla cultura inglese, in specie quella illuministica, in un
periodo nel quale, pur con differenza di singole ricadute nazionali,
prevale nella maggior parte dell’Europa la reazione nazionalistico-irra-
zionalista al materialismo positivistico. Studioso che si colloca in pie-
na e insieme compassata e borghese controtendenza rispetto all’o-
rientamento generale degli ultimi decenni ottocenteschi, il Gomperz
è stato per precisa scelta storiografica accantonato, e apertamente sva-
lutato, da Jaeger e dalla tradizione di studi classici che da lui è deri-
vata, e in generale dalla filologia classica del Novecento e dalla visio-
ne storica che vi si è avuta dell’antichità; l’operazione rivalutativa,
condotta, lo si ricordi, sempre sulla rivista «Critica storica», con un
Gomperz stretto compagno sulla scrivania timpanariana (pur non ita-
liano e nelle proprie peculiari competenze) del Leopardi, del Cattaneo,
dell’Ascoli, non si limita affatto a rappresentare un recupero di figura
ingiustamente dimenticata, o sottovalutata dalle nuove tendenze cul-
turali della disciplina; tale operazione intende invece offrire, a chi vuo-
le approfondire gli studi secondo criteri di qualità e di scelta ideologi-
co-culturale e non di conformismo cronologico, una sorta di pregresso
antidoto allo jaegerismo, e, sotto altri profili, una misura di preven-
zione, si dica pure di vaccinazione antiidealistica, antispiritualistica,
antiplatonica, e in buona parte antinovecentesca, come il Lenin di
Materialismo ed empiriocriticismo lo è rispetto a quella che per l’autore
di Sul materialismo è sempre stata l’involuzione psicologistica, menta-
listica, metodologista del XX secolo. Gomperz è uno storico tutt’altro
Nota del curatore e criteri della presente edizione lv

che chiuso al pensiero materialistico, uno studioso che non andava


affatto liquidato, e le cui troppo rare ristampe vanno accolte con favo-
re e con disponibilità a recepirne più d’una sollecitazione correttiva
delle filiazioni jaegeriane novecentesche. Dedicato a studioso non ita-
liano, il saggio è entrato in séguito nel libro che annovera alcuni “pro-
fili” (Mai, Comparetti; ne rimasero fuori Ascoli, Pasquali e Terzaghi,
e per poco ne esulò il Cesari): Aspetti e figure della cultura ottocentesca.
Ma già nella prefazione allo stesso volume dell’’80 (p. X) Timpanaro,
oltre a ribadire il legame inestricabile che unisce Aspetti e figure a Clas-
sicismo e illuminismo («i saggi che compongono il presente volume [...]
hanno, spero, pur nella varietà degli argomenti e del «taglio» ora più
erudito ora più storico-culturale, una omogeneità di fondo, sia tra loro,
sia rispetto ad altri miei precedenti libri, ad uno specialmente, Classi-
cismo e illuminismo nell’Ottocento italiano, apparso in questa stessa col-
lana [...]. Vorrei sperare che il nuovo libro contribuisse ad una più equa
comprensione del libro vecchio [...]»), supera con limpidezza, e signi-
ficativamente senza sfoggio né bisogno d’enfasi argomentativa, il “pro-
blema” della non italianità del Gomperz, una figura che condivide
come ed anche più di alcune delle presenze italiane del libro i valori vei-
colanti costituiti dall’illuminismo, dalla fiducia nella ragione, dalla tol-
leranza cosmopolitica, dall’antiidealismo:
Nel titolo del libro mi sono riferito alla cultura ottocentesca, senza aggiungere italia-
na, perché, sebbene il più sia dedicato ad autori italiani, mi è accaduto spesso di
sconfinare (nello scritto iniziale sul lucanismo, nella trattazione sui precursori di
Angelo Mai), e l’ultimo saggio riguarda per intero un autore non italiano, Theodor
Gomperz; ma mi è sembrato che questo storico del pensiero antico così ricco di fer-
menti illuministici (assorbiti dalla cultura inglese e trapiantati nell’Austria di fine
Ottocento, per molti aspetti così diversa ideologicamente e culturalmente dalla Ger-
mania della stessa epoca) potesse rientrare nell’ambito del presente volume senza
apparire come un «corpo estraneo». Anche il Gomperz, in un’Europa dominata -
nel bene e nel male - dalla cultura tedesca per ciò che riguardava gli studi sull’anti-
chità classica, fu un isolato, e ancor più isolata e disconosciuta è stata poi la sua ope-
ra nel clima idealistico novecentesco. Una rivalutazione, pur lontana da qualsiasi
apologia, è a mio avviso necessaria.

A proposito del Gomperz di Timpanaro, si legga quanto, a caldo,


all’uscita d’Aspetti e figure, scrive in fine d’articolo Ettore Paratore
(Leopardi protagonista in un volume sulla cultura dell’Ottocento, in «Il
tempo», Roma, XXXVII, 295, 4 novembre 1980, p. 3):
lvi Nota del curatore e criteri della presente edizione

Chiude inaspettatamente il libro un saggio sopra un grande studioso straniero che


appare quindi un po’ fuori campo nel tessuto ideologico e storico del volume: Teo-
doro Gomperz. Chi scrive, parlando su queste colonne dell’edizione italiana del
volume aristotelico della grande opera del Gomperz sui pensatori greci, aveva già
espresso le sue perplessità sul punto di vista e sul metodo di quello che pure è stato
uno dei più grandi storici della filosofia greca. Il Timpanaro invece non esita ad
additarlo come lo storico e il pensatore che avrebbe meritato, ben più dello Zeller
o di tanti altri, di costituire il punto focale dell’indagine sul pensiero greco; ciò natu-
ralmente perché egli rappresenta la trasposizione del nascente positivismo entro
l’ambito della valutazione della filosofia ellenica. A pagina 434 il Timpanaro lo cele-
bra come colui al quale bisogna ritornare per riscattare la nostra cultura dal plato-
nocentrismo cui l’avrebbero oggi condannata le posizioni dello Jaeger e di quasi tut-
ti gli attuali indagatori della speculazione greca. / Quanto ho fatto osservare sui
limiti che il Gomperz ha posti al suo ripensamento di una figura come quella di Ari-
stotele, che poteva agevolmente servirgli da riscatto da tutte le configurazioni pla-
tonocentriche, e quanto tutti, a cominciare dallo stesso Timpanaro, non possono
fare a meno di registrare con stupore sul fatto che proprio il Gomperz interruppe
l’opera sua prima di occuparsi dell’epicureismo contribuisce a gettare acqua sul fuo-
co dell’entusiasmo con cui il Timpanaro considera la figura dello studioso tedesco.
Ma ciò non toglie che questo capitolo finale, facendoci entrare in ambito di molto
maggiore respiro [...], conclude degnamente un’opera importante, per la sua qualità
indagatrice, nell’ambito degli studi storico-letterari.

Si può aggiungere un accenno a Gomperz in Storicismo di Pasquali


(nell’opera collettiva Per Giorgio Pasquali, a cura di Lanfranco Caret-
ti, Pisa, Nistri-Lischi, 1972, p. 128 e n. 7), contributo che rielabora a
fondo il profilo che Timpanaro aveva redatto nel 1969 per i Critici
Marzorati; nel processo di parziale affrancamento (pur nel solco d’un
magistero che sarà sempre riconosciuto) dal pensiero di Pasquali, lo
studioso recupera la lezione della storiografia positivistica:
Questi giudizi {si tratta di concetti antipositivistici a più riprese espressi da Pasquali}
colgono senza alcun dubbio alcuni aspetti negativi della mentalità positivistica, negli
studi classici e altrove: non rendono pienamente giustizia, secondo me, alla storio-
grafia dell’età positivistica, nella quale apparvero pure potenti opere di sintesi,
tutt’altro che prive del concetto di valore, come i grandi capolavori del Mommsen,
o il Virgilio nel Medio Evo del Comparetti, o i saggi di storia della religione antica
dell’Usener, o i Pensatori greci del Gomperz, per limitarci a qualche esempio nel cam-
po greco-latino.

Nella citata nota 7, relativa a questo passo, Timpanaro aggiunge:


«Naturalmente Pasquali ammirava altamente questi grandi studiosi
[...]; su Comparetti e su Mommsen egli ha scritto pagine indimentica-
bili; forse soltanto il Gomperz, per quel che ricordo di ciò che talvolta
Nota del curatore e criteri della presente edizione lvii

ne disse, era da lui alquanto sottovalutato»; peraltro, poche pagine


dopo (pp. 143-144), non manca l’affermazione della sostanziale indi-
pendenza di Pasquali da Jaeger: «Di Jaeger in quanto filologo e stori-
co della cultura, Pasquali fu amico e collaboratore; ma dal suo neo-uma-
nesimo si è tenuto lontano [...]. Tranne questo sporadico accenno {al
valore paradigmatico, universale della cultura greca: cfr. «Medioevo bizan-
tino», in «Stravaganze quarte e supreme»: Pagine stravaganti 2, a c. di Gio-
vanni Pugliese Carratelli, Firenze, Sansoni, 1968, pp. 340-371}, la sua
estraneità al neo-umanesimo di Jaeger è totale, ed è dichiarata esplici-
tamente nell’ultimo libro, Storia dello spirito tedesco nelle memorie d’un
contemporaneo (p. 123 sg.): qui Pasquali mette giustamente in rilievo la
debolezza delle basi filosofiche del jaegerismo». Ritengo, sul fonda-
mento di queste premesse, che lo storico del pensiero antico Gomperz,
non italiano, cittadino austriaco non nazionalista ed anzi antirazzista
di cultura illuministica inglese, ebreo nell’impero cattolico asburgico,
materialista e positivista “critico” e classicista in lingua tedesca di pre-
gressa valenza terapeutica antijaegeriana, possa non solamente “figu-
rare” (o non soltanto «degnamente concludere» l’opera, secondo il
concetto di Paratore), ma apertamente risiedere in un libro intitolato
al classicismo e all’illuminismo italiani, per evidenza di comuni tratti di
pensiero con alcune delle figure più importanti e con molti fondamen-
tali percorsi tematici, culturali e linguistico-letterari affrontati nel volu-
me, idealmente saldandosi, anche nella contiguità di capitolo (X-XI), al
suo grande correligionario goriziano Graziadio Isaia Ascoli, intellet-
tuale diverso, sì, ma da lui non dissimile nell’attivare il concetto di
patria esattamente in funzione antinazionalistica e antipatriottarda, e
fautore d’una funzione non “selettiva”, ma ben al contrario accomu-
nante del linguaggio della cultura, al di là dei confini fatti e disfatti dal-
le guerre e al di là della dissennatezza delle potestà politiche.
Quattro saggi, dunque, compresa l’Appendice trevesiana, vengono
qui inseriti da Aspetti e figure; due saggi (Epicuro, Lucrezio e Leopardi,
cap. VIII, ed Il Leopardi e la Rivoluzione francese, cap. IX) vengono inse-
riti da Nuovi studi sul nostro Ottocento. L’Epicuro dichiara sùbito la pro-
pria appartenenza a Classicismo e illuminismo, come si legge nella Nota
alla ristampa 1988 della seconda edizione (qui riprodotta nel volume):
Avrei voluto aggiungere un breve postscriptum, un saggio su Epicuro, Lucrezio e
Leopardi (a parziale modifica e integrazione di quanto avevo scritto a pp. 221-224)
e poche brevi postille. Ma avrei bisogno ancora di un certo tempo – più di quanto
lviii Nota del curatore e criteri della presente edizione

avevo previsto –, e intanto questo libro ormai annoso, con mia meraviglia, viene
ancora richiesto, e l’amico editore, del tutto giustamente, ha fretta. Se anche que-
sta ristampa si esaurirà, spero di poter pubblicare, la prossima volta, l’edizione
accresciuta. Per ora avverto soltanto che altri saggi, riguardanti anch’essi in gran
parte il Leopardi, il Giordani e altri personaggi e ambienti di cui si tratta in questo
libro, sono usciti nei due volumi Aspetti e figure della cultura ottocentesca (Pisa,
Nistri-Lischi, 1980) e Antileopardiani e neomoderati nella sinistra italiana (Pisa, Ets,
1982) [...]. Vorrei, con un po’ di sfrontatezza, pregare i lettori di questo libro di
tener presente anche quei successivi volumi meno fortunati, poiché su vari punti essi
contengono aggiunte e correzioni di un certo rilievo a quanto avevo scritto nel pre-
sente volume.

La Nota è già in sé eloquente, sia sulla vicenda di Epicuro, Lucrezio


e Leopardi, pubblicato in «Critica storica», XXV, 1988, pp. 359-409
e poi appunto nei Nuovi studi, sia nel richiamo ai «meno fortunati»
volumi, non sufficientemente presenti alla critica, in un processo di
“sfortuna” lettoriale legato a doppio filo alla “fortuna” di Classicismo
e illuminismo, la cui fruizione sembra aver esonerato alcuni studiosi,
per “appagata” curiosità, dalla lettura d’altre opere ottocentistiche di
Timpanaro; la «parziale modifica e integrazione» (pp. 221-224 Nistri-
Lischi; qui pp. 177-180) si riferisce al IV capitolo, Il Leopardi e i filo-
sofi antichi. Fra questo capitolo, e in particolare quelle pagine, ed Epi-
curo, Lucrezio e Leopardi, il lettore della presente edizione, tenendo
conto anche delle postille al saggio presenti nelle Annotazioni finali,
potrà condurre utili confronti e trarre spunti di riflessione. Da parte
sua, anche il contributo su Leopardi e la Rivoluzione francese rientra
nell’area cronologica della fine degli anni ’80: pubblicato nel volume
collettivo La storia della storiografia europea sulla Rivoluzione francese
(Relazioni tenute al Congresso dell’Associazione degli storici europei,
maggio 1989), Roma, 1990, pp. 367-381, quindi nei Nuovi studi, esso
è in tutto contiguo all’Epicuro dell’ ’88 e conclude la serie di saggi leo-
pardiani della “triade” Nistri-Lischi Classicismo-Aspetti-Nuovi studi.
In questa edizione è infatti prevalso il criterio di riunione del “cen-
tro”, del cuore leopardiano della saggistica letteraria Nistri-Lischi;
non propriamente ed elettivamente leopardiano appare porsi De Ami-
cis di fronte a Manzoni e a Leopardi, nei Nuovi studi, in cui, a differen-
za che in Epicuro, Lucrezio e Leopardi, solo gli ultimi paragrafi, i nn.
8-13, sono indirettamente dedicati al Recanatese, grazie alla sua for-
tuna linguistica e letteraria presso lo scrittore d’Oneglia.
Infine, si consideri che l’eventuale ricostituzione in uno stesso volu-
Nota del curatore e criteri della presente edizione lix

me d’un nucleo giordaniano prima di quello leopardiano, oltre a pro-


durre, in sé, ipertrofici effetti editoriali non consueti nella volontà di
Timpanaro, non sarebbe realmente giustificata dal comportamento e
dalle dichiarazioni dello stesso autore, che nella citata premessa dell’
’88 si limita a indicare in modo esplicito il solo Epicuro, Lucrezio e
Leopardi (e si ricordi che due dei quattro contributi giordaniani dei
Nuovi studi, Pietro Gioia, Pietro Giordani e i tumulti piacentini del 1846
e Un’operetta di Pietro Borsieri ed una di Pietro Giordani, rispettiva-
mente del 1981 e del 1987, erano appunto già usciti all’epoca di quel-
la Nota, ed un terzo, Le lettere di Pietro Giordani ad Antonio Papado-
poli, poi uscito nel 1990, era con tutta probabilità già in via di
conclusione; di nessuno di questi saggi Timpanaro mostra di deside-
rare, come invece avviene per l’Epicuro, l’inclusione in Classicismo e
illuminismo). In ogni caso, in un’ipotetica raccolta di scritti giorda-
niani, a Le idee di Pietro Giordani e a Giordani, Carducci e Chiarini
dovrebbero far séguito Il Giordani e la questione della lingua (1974) da
Aspetti e figure ed i quattro contributi giordaniani dei Nuovi studi: i
citati Un’operetta di Pietro Borsieri ed una di Pietro Giordani, Le lette-
re di Pietro Giordani ad Antonio Papadopoli, Pietro Gioia, Pietro Gior-
dani e i tumulti piacentini del 1846, e infine, uscito come inedito nella
silloge del 1995, Due cospiratori che negarono di aver cospirato (forse
Giordani, certamente Bini). Quanto al contributo giordaniano presen-
te in Antileopardiani e neomoderati nella sinistra italiana, Ancora su Pie-
tro Giordani (pp. 103-144), vale la stessa considerazione di “autono-
mia bibliografica” di quel volume che ha qui condotto ad escluderne
anche i contributi leopardiani, un’ “autonomia” di cui nella citata pre-
fazione (p. XII) ad Aspetti e figure si mostra ben conscio lo stesso Tim-
panaro:
Non ho incluso in questo volume un lungo saggio pubblicato in «Belfagor» 1975-76,
in quattro puntate, col titolo Antileopardiani e neomoderati nella sinistra italiana [...].
[...] il tono molto vivacemente polemico di quelle pagine, l’estensione della polemi-
ca anche a temi di politica attuale, avrebbero suscitato un’impressione di scarsa
omogeneità rispetto al carattere più «distaccato» (e talvolta, forse, fin troppo filo-
logicamente minuto) dei saggi che compongono questo già troppo grosso volume
{«Aspetti e figure»}.

Sulla vicenda di Epicuro, Lucrezio e Leopardi gioverà riprodurre due


lettere, a tutt’oggi inedite, scritte da Timpanaro al filologo classico, e
lx Nota del curatore e criteri della presente edizione

leopardista, Sergio Sconocchia, studioso più volte citato nel saggio per
i suoi importanti e preziosi contributi. Ambedue le lettere sono indi-
rizzate da Firenze ad Ancona. Nella prima, del 21 novembre 1988,
Timpanaro si riferisce alla relazione di Sconocchia intitolata Ancora
su Leopardi e Lucrezio, destinata al convegno nazionale su Leopardi e
noi in prospettiva 2000, organizzato dall’Accademia Marchigiana di
Scienze, Lettere ed Arti e tenutosi ad Ancona dal 23 al 25 ottobre
1987; tale relazione viene inviata in anteprima a Timpanaro, ancora
nello stato di dattiloscritto, nel luglio 1988, quando è quasi finita la
stesura di Epicuro, Lucrezio e Leopardi, che dovrà uscire nello stesso
anno in «Critica storica» (Timpanaro è comunque in tempo a fruire
del lavoro inviatogli da Sconocchia); poi il saggio di Sconocchia esce
autonomamente in volumetto, e in anticipo sugli atti del convegno
(Ancona, La Lucerna, ottobre 1988), e vi è un nuovo invio a Timpa-
naro, che, ringraziando l’amico studioso con questa prima lettera, gli
comunica che non potrà segnalare il volumetto, perché ha appena
licenziato le ultime bozze dell’articolo per «Critica storica», non anco-
ra uscito; il volumetto sarà citato nella redazione pubblicata nei Nuo-
vi studi, mentre il fascicolo del 1988 di «Critica storica» (prima reda-
zione del saggio di Timpanaro) sarà successivamente inviato ad
Ancona: sulla copertina, la dedica autografa: «Con amicizia e gratitu-
dine (e in attesa di critiche!) / S. T.» (la copertina reca la seguente
intestazione: «estratto da / CRITICA STORICA / BOLLETTINO
A.S.E. / Rivista trimestrale diretta da ARMANDO SAITTA / Anno
XXV - 1988 - 4»; a fondo pagina: «ROMA / NELLA SEDE DEL-
L’ASSOCIAZIONE DEGLI STORICI EUROPEI»). Il contributo
di Sconocchia uscirà, quindi, con lo stesso titolo, nel volume di atti del
convegno Leopardi e noi. La vertigine cosmica, a cura di Alberto Frat-
tini, Giancarlo Galeazzi e dello stesso Sergio Sconocchia, Roma, Edi-
zioni Studium («La cultura», n. 39), 1990, pp. 87-147; alle pp. 146-
147 vi è il Postscriptum dello studioso, che può a sua volta citare (p.
146) l’ormai pubblicato Epicuro di Timpanaro e registrare anch’egli
con piacere la possibile coesistenza dei due lavori, che pur partono da
diversa impostazione. Più sotto, sono discussi contributi di Fornaro
e di Giancotti, sempre su argomenti lucreziano-leopardiani. Nella
seconda lettera, del 5 agosto 1994, Timpanaro ringrazia dell’invio
d’un estratto di fascicolo di «Orpheus» (Rivista di umanità classica e
cristiana, N. S., 5, XV - 1994 - fasc. 1, pp. 1-12; pubblicato a cura del
Nota del curatore e criteri della presente edizione lxi

Centro studi sull’antico cristianesimo dell’Università di Catania), con-


tenente l’articolo Citazioni e appunti lucreziani in Leopardi, appunto di
Sconocchia, e ringrazia altresì dell’invio di altri studi, riguardanti la
medicina antica. Sia pure sinteticamente, Timpanaro potrà anche in
questo caso fruire del lavoro pervenutogli, citandolo nell’aggiornata
redazione del suo Epicuro che, proprio nel ’94, è d’imminente uscita
nei Nuovi studi; del saggio e della sua nuova pubblicazione, come
anche dello stesso volume in corso di stampa da Nistri-Lischi e della
fresca uscita dei Nuovi contributi di filologia e storia della lingua latina,
Timpanaro dà regolare e amichevole notizia a Sconocchia.

I. Due facciate
50123 Firenze,
Via Ginori, 38,
21. XI.1988
Caro Sconocchia,
grazie del tuo saggio leopardiano-lucreziano, che già così gentilmente mi avevi fat-
to leggere in anteprima. Hai fatto benissimo a pubblicarlo a parte, senza aspettare gli
Atti del Convegno. Il mio articolo non è ancora uscito in «Critica storica»: dovreb-
be uscire presto, ho già licenziato le ultime bozze. Non faccio più in tempo, perciò,
a segnalare questa tua pubblicazione ‘separata’: ho citato gli Atti marchigiani in un
Post-scriptum e ho esplicitamente menzionato la ‘scoperta’ della derivazione delle
citazioni lucreziane dalla Collectio Pisaurensis; quanto al resto, ho accennato nel P.
S. che i nostri due studi, anche se in notevole misura divergenti, possono essere con-
siderati complementari.
i lettori giudicheranno; e, naturalmente, appena sarà uscito il mio articolo tu avrai
il pieno diritto di discutere quei punti che ti sembreranno errati o inadeguati.
Grazie ancora, un saluto affettuoso dal tuo
Sebastiano Timpanaro

II. Due facciate


50123 Firenze, v. Ginori 38,
5. VIII. 1994

Carissimo Sconocchia,
molte grazie per tutto ciò che mi hai mandato: sei un lavoratore instancabile, e ti
muovi con eguale sicurezza nel campo leopardiano e in quello della medicina antica!
Proprio in questi giorni torridi (sto per andare in ferie, ma per poco tempo) correg-
go le seconde bozze di un ultimo volumetto di cose otto-novecentesche, alcune nuo-
ve, altre rivedute e corrette.* {richiamo con asterisco a fine pagina} * Uscirà a Pisa
presso Nistri-Lischi. Tra queste, ripubblico anche, con varie aggiunte e modifiche,
quel mio articolo del 1988 su Epicuro, Lucrezio e Leopardi. Mi fosse arrivato pri-
ma il tuo articolo! Avrei potuto menzionare e utilizzare più ampiamente i risultati
lxii Nota del curatore e criteri della presente edizione

a cui sei giunto. Ora devo limitarmi a un accenno un po’ troppo sintetico, perché
ho già fatto sulle prime bozze tante correzioni straordinarie che, se butto all’aria
anche le seconde, l’editore mi fucila! il volumetto {canc.: «arriv», cioè «arriverà»}
uscirà poi in autunno.
Anche le tue cose di storia della medicina mi hanno molto interessato
Vorrei farti avere un mio volume, Nuovi contributi di filol. e storia della lingua lati-
na, in cui mi è accaduto (col prezioso aiuto di Boscherini) di occuparmi {canc.:
«di»}, en passant, di tonsillae e cose del genere. Ma la casa Pàtron è stata avarissima
di copie in omaggio; anche a me ne ha mandato un numero irrisorio, e sono sparite
sùbito. Vedrò, comunque, di fartene avere una copia. Grazie ancora di tutto e buo-
na estate (qui a Firenze 40 gradi!). Tuo
Sebastiano Timpanaro.
P.S. Rallegramenti vivissimi per la vittoria nel concorso! {prima facciata in alto a
sinistra, graficamente isolato e segnalato}.

Si riassumono, a questo punto, a beneficio del lettore, gli esiti di


materiale allestimento prodotti dai criteri di questa rinnovata edizio-
ne. Si sono innanzi tutto ricondotti i due Addenda della seconda edi-
zione nel corpus dell’indice “curricolare”, riallineando date alla mano
Natura, dèi e fato agli altri saggi e rendendo le postille a stampa del ’69,
con richiamo d’asterisco nella stessa pagina, contigue alle parti di testo
cui si riferiscono. Si sono quindi inseriti nell’indice (sempre rispettan-
do la successione cronologica degli autori trattati e, nell’àmbito d’o-
gni autore, la cronologia di composizione di Timpanaro) sei contribu-
ti, di cui quattro da Aspetti e figure della cultura ottocentesca (a formare
rispettivamente i capp. V, VII, XI e l’Appendice II) e due da Nuovi stu-
di sul nostro Ottocento (a formare i capp. VIII e IX); totale undici capi-
toli più due Appendici, rispetto ai cinque con Appendice della prima
edizione, e rispetto ai cinque con Appendice e Addenda della seconda.
La vecchia Appendice, mantenuta nella sua istituzionale collocazione
ma concettualmente accorpabile fin dal ’65 al capitolo cattaneiano-
ascoliano (qui il X), si ordina come I rispetto a quella trevesiana (II), già
ripubblicata, quest’ultima, nel 1980, con l’espresso fine d’un chiari-
mento generale non tanto sui suoi specifici e peculiari argomenti,
quanto, ed esattamente, su tutta l’operazione culturale rappresentata
da Classicismo e illuminismo; essa può quindi essere vantaggiosamente
fruita a conclusione della lettura del libro, in un “a posteriori” fonda-
tamente ricco di concrete acquisizioni di testi e di documenti. Si è così
ricreato il nucleo leopardistico timpanariano di edizione Nistri-Lischi,
non a caso il nucleo di più perspicuo ed esperito incrocio, di più sco-
Nota del curatore e criteri della presente edizione lxiii

perto amalgama fra il “certo” filologico-testuale e il “vero” della rifles-


sione storica e interpretante. Il lettore potrà constatare che l’entità del
blocco leopardiano è, qui, di sette capitoli (non più di due, come ine-
vitabilmente era nella prima edizione, o di tre, come nella seconda):
dal III al IX è tutto Leopardi. Benché Leopardi, in realtà, insistendo
costantemente nella saggistica di Timpanaro, sia molto spesso presen-
te al di là dei contributi che ufficialmente gli si richiamano.
Questo testo critico, come si è cercato di chiarire dall’inizio di que-
sta Nota, si distacca dall’“oggetto” brossurato e comprabile qual è
uscito allora, e certamente non è più il Classicismo e illuminismo di
Nistri-Lischi (beninteso, volume altamente meritorio e sotto molti
aspetti storicamente insostituibile), ma è la realtà del Classicismo e
illuminismo “di Timpanaro”. La realtà, ripetiamo, non la verità, che
altro sarebbe dire e pretendere, di Classicismo e illuminismo; ma siamo
convinti che questa edizione costituisca, appunto, la quintessenza
metodologica “reale” di quello che l’autore avrebbe voluto fare.

* * *

Quanto finora detto riguarda l’allestimento del volume sotto il pro-


filo dei testi già stampati, sia di quelli che appartenevano alle origina-
rie due edizioni degli anni ’60, sia di quelli inclusi dagli altri due libri,
a questo omogenei per argomenti e per protocollo editoriale. Le Anno-
tazioni autografe che concludono l’edizione accolgono le integrazioni,
le modifiche, le revisioni di giudizio, le correzioni terminologiche, e
in qualche caso gli interventi di rimedio a singoli refusi da parte del-
l’autore: dopo il 1969, come ampiamente chiariscono le successive
Note alle ristampe, non v’è più stata alcuna possibilità per Timpana-
ro di operare sul testo, o sui testi. Lasciamo per intero alla fruizione
del lettore il giudizio critico-interpretativo, la valutazione, la consi-
derazione qualitativa e quantitativa del materiale d’annotazione
manoscritta (a biro o a lapis) che abbiamo qui riportato e riprodotto,
avendo per parte nostra come criterio la restituzione della realtà gra-
fica degli originali timpanariani, dove è possibile, fino al singolo trat-
to di penna, o al segno orizzontale o verticale di richiamo, o alla sin-
gola sottolineatura senza ulteriore parola esplicita dell’autore; le
sottolineature di parola o parole, o d’intere frasi, che non costituisca-
no titolo di opera, anziché essere riprodotte con il corsivo sono ripro-
lxiv Nota del curatore e criteri della presente edizione

dotte con il carattere sottolineato: esattamente come nell’originale;


altrettanto si è fatto per le parole cancellate, riprodotte con lo stile
barrato. E così si è proceduto per ogni aspetto d’una serie d’annota-
zioni fitta e ricca di significati culturali, segno d’un processo d’ine-
sauribile riflessione, di continuo ripensamento, di costante aggiorna-
mento bibliografico, di assidua ricerca di riferimenti e di rinforzi, di
conferme e di aggiunte sul piano della visione critica, dell’esegesi di
qualunque testo trattato, e anche dell’autoesegesi; e segno, altresì, di
disponibilità “autovariantistica”, in un’incessante revisione che rivi-
talizza, attualizzandoli nella coscienza dell’autore, anche testi scritti
da tempo, nel nome d’una meditazione razionale e lucida che dimo-
stra, sulla base del volume Nistri-Lischi, il carattere strutturale e dura-
turo degli interessi coltivati in questo libro in tutta la riflessione del-
l’autore, il valore fondante e quindi aggiornabile di tali interessi in
una figura intellettuale che ha “corretto” Classicismo e illuminismo
fino agli estremi tempi della propria, personale vicenda di studioso.
Non minore accuratezza merita l’avviso della correzione dei refusi
[cr]; in uno studioso nel quale la limpidezza “illuministica” dello stile
passa dalla precisione massima d’ogni restituzione espressiva di con-
cetto, e nei cui testi, insieme fluidi e coesi, ogni variazione nella cor-
rettezza formale può implicare un depistaggio di senso culturale o sto-
rico, i “refusi” percorrono, in più d’un caso, una loro non banale e
tutt’altro che innocente vicenda. Ne adduciamo qualche esempio di
palese visibilità (oltre a quello, già in altro senso trattato, della «dife-
sa della civiltà illuministica» nella bandella 1984); nel III capitolo del
volume (ed. Nistri-Lischi, p. 162), il Leopardi «critico spietato di t u t-
t i i miti dell’immortalità, anche dell’immortalità delle opere» (corsi-
vo nostro) della prima redazione in rivista diviene «critico spietato di
t u t t i i miti dell’immortalità delle opere»; tale “salto” accompagna
il testo fino all’ultima ristampa del 1988, e induce l’autore a ripristi-
nare, almeno a mano, nella copia del 1973 e in quella del 1984, la ver-
sione esatta apparsa in «Critica storica» (cfr., qui, p. 130); ancora nel-
l’Epicuro dell’ ’88 in rivista (e poi nei Nuovi studi), n. 52, lo studioso,
citando il suo passo di Classicismo e illuminismo, richiama la «p. 162
r. 1» Nistri-Lischi e segnala esplicitamente e per esteso, in questo caso
a stampa, l’errore tipografico, con l’indicazione della versione corret-
ta: dunque la storia di questo errore, mai “tecnicamente” dimentica-
to, oltre a protrarsi nel tempo, coinvolge due diversi saggi e due diver-
Nota del curatore e criteri della presente edizione lxv

si volumi, e non permette, vivente l’autore, il recupero della versione


esatta. In un caso diverso, nel primo capitolo, Timpanaro parte da un
«Pogiamo» di Giordani per «Pognamo» (poniamo), errore di stampa
della «Biblioteca italiana», I, 1816, p. 175; da lì, un approfondimen-
to bibliografico che conduce a «Pogniamo» come corretta grafia e alla
scelta della lezione lemonnieriana anziché di quella dell’edizione Gus-
salli. Alle pp. 45-46 e relative note di questa edizione si può seguire
la serie d’acquisizioni su «Pogniamo» in un crescendo d’interventi,
anche manoscritti, che si risolve, graficamente, in una vera e formale
correzione di refuso: «ia», o «ia». Ma in questa e in altre correzioni
di refuso timpanariane occorre, come si è visto, saper leggere attenta-
mente, poiché non certo di rado esse conglutinano un’autentica
avventura diacronica d’acquisizioni conoscitive, da quelle rimarcate
dalla precisione puntuale a quelle dilatabili a un più vasto significato
culturale; tali correzioni, a nostro avviso, non possono, così e sempli-
cemente, essere, tutte, ascritte tout court alle “varianti formali”, in
una livellata uniformità di trattamento.
Rinviamo all’allestimento testuale e alle Annotazioni autografe per
la documentazione dettagliata di questi percorsi tipografici. Inutile
negare che anche i refusi o i refusi “importati” hanno, se “pesanti”,
la loro storia, sebbene un’ideale storia dei refusi potrebbe spesso chia-
mare a corresponsabilità l’autore non meno che l’editore. Appare per-
ciò soluzione coerente restituire la realtà manoscritta di tutte le cor-
rezioni di refuso, peraltro non numerose, ancorché importanti, e
d’agilissima segnalazione in questa nuova proposta del libro del ’65-
’69 (si fa eccezione per i refusi che appaiono già corretti nella ristam-
pa ’88). Risulterebbe sorprendente una legittimazione del lusso di sor-
volare sull’opera correttiva dei propri testi qui svolta da un correttore
di bozze leggendario, il correttore di bozze della Nuova Italia; tanto
leggendario da guadagnarsi, nolente, l’accesso a una romanzata per-
sonificazione del suo mestiere. Un mestiere ben distinto dall’attività
di studioso, ma a sua volta mestiere per lui importante, non omologa-
bile alla spinoziana modanatura di lenti.
Qui di séguito si dà partitamente nota dei quattro testimoni di Clas-
sicismo e illuminismo e, per i contributi da noi inclusi (per i quali vi
sono varianti rispetto al testo a stampa), si dà nota dell’unico testimo-
ne di Aspetti e figure e dei due testimoni dei Nuovi studi (anche gli altri
due volumi hanno infatti copie densamente postillate, da noi ripro-
lxvi Nota del curatore e criteri della presente edizione

dotte per i saggi in questione); di un contributo di Aspetti e figure, Di


alcune falsificazioni di scritti leopardiani (qui cap. V) si ha pure la copia
d’un estratto del «Giornale storico della letteratura italiana» (sede di
prima pubblicazione del saggio nel 1966) a sua volta annotato con
numerose postille, tutte da noi restituite nelle finali Annotazioni; ma in
questo caso si sono trascritte anche tutte le varianti a stampa, indica-
tive della redazione precedente a quella del volume del 1980.

Classicismo e illuminismo nell’Ottocento italiano

Questa edizione si fonda sull’ultima ristampa del volume (1988),


regolarmente rivista dall’autore, e su quattro copie delle edizioni
Nistri-Lischi di Classicismo e illuminismo nell’Ottocento italiano appar-
tenute a Timpanaro, ed ora acquisite, come anche gli altri volumi che
qui fanno da riferimento, alla Biblioteca della Normale di Pisa: una
copia della prima edizione 1965, siglata dallo stesso autore con «C» e
con l’indicazione di data, entrambe cerchiate, e tre copie della secon-
da edizione (1969), di cui due rispettivamente contrassegnate con
«A» (e relativa data, 1969) e con «B» (ristampa del 1973), ed una pri-
va d’indicazione di contrassegno e con il solo richiamo alla data della
ristampa, «1984» (la designeremo con «d» - delta). D’ora in avanti:
A, B, C, d (si sono seguite, dove presenti, le sigle date dall’autore); la
copia «d» è stata così denominata perché mancante di sigla d’autore:
in successione con A, B e C, ma indicata con lettera greca, vista la par-
ticolare funzione che essa sembra adempiere rispetto alle altre tre. In
effetti la copia del 1984, come ripetutamente mostreranno le Anno-
tazioni, sarà in più d’un caso il bacino collettore, cronologicamente
recente, d’annotazioni e di varianti presenti nelle altre copie (le cui
sigle saranno riprese in d, accompagnate da un’indicazione, in genere
sintetica, che rinvia alla citazione o al riferimento dettagliato-analiti-
co in una singola copia A, B o C); ma sarà una funzione esercitata in
modo tutt’altro che sistematico; anzi, talvolta s’attuerà il procedi-
mento inverso, per cui in d si depositerà lo scioglimento in chiaro (o
un’ulteriore approfondimento sulla base di nuova acquisizione biblio-
grafica) d’un’annotazione o anche d’un concetto compendiosamente
espressi in una delle altre copie. S’aggiunga che, tranne nel caso in cui
vi siano indicazioni bibliografiche post quem, ad esempio dell’anno
Nota del curatore e criteri della presente edizione lxvii

1987 (quindi sicuramente posteriori anche a d), non si ha reale possi-


bilità di distinguere la cronologia d’apposizione delle postille a mano,
del tormento autografo dello studioso (l’uso d’un’altra copia, magari
precedente, appare spesso come una conquista di spazio, ad evitare
sovrapposizioni di scrittura a mano). È dunque prevalso, nella con-
creta attuazione del lavoro d’allestimento e di riproduzione delle note
manoscritte, il criterio di registrare tutte le varianti, anche in quei
casi, d’occorrenza statistica tutt’altro che prevaricante, in cui esse si
siano ripetute: nelle Annotazioni la variante compare una sola volta,
e accanto sono poste le sigle dei testimoni (ad esempio: A, d). Ma si
tratta di casi non frequenti. Ciò che si pone come sicuro è che ogni
testimone è dotato d’una propria autonomia, ed ogni annotazione
manoscritta tratta dai testimoni può quindi essere tranquillamente
registrata seguendo la lineare scansione del testo del volume. Data la
natura non univoca (anzi, dimidiata fra rango d’archetipo e rango
d’ultima volontà d’autore) di d, incrocio, appunto, d’una funzione di
raccolta di note precedenti e d’una funzione d’origine di nuove postil-
le con singole ricadute in A, B o C (molto ha influito su questa com-
plessa realtà manoscritta la mole del materiale sedimentatosi negli
anni in vista d’una terza edizione mai realizzata), abbiamo mantenu-
to carattere minuscolo alla lettera greca.
Ci si è riferiti, fin qui, alle annotazioni non sintatticamente incor-
porabili nel testo “in alto”: parole, frasi, citazioni che non potevano
entrare nel discorso per mancanza di reale e formale legame linguisti-
co con il dettato della pagina. Le annotazioni sintatticamente incor-
porabili, invece, sono state, fin dove possibile, direttamente aggiun-
te, racchiuse in parentesi quadra, nello stesso testo “in alto”. L’uno e
l’altro tipo d’annotazione è stato registrato, con gli stessi criteri,
anche quando applicato alle note e alle postille a stampa del 1969
(postille che sono state anch’esse sottoposte a revisione, e che sono
infatti, a loro volta, dense d’ulteriori precisazioni e focalizzazioni con-
cettuali e bibliografiche). Le annotazioni sintatticamente non incor-
porabili saranno segnalate, al punto di testo voluto da Timpanaro, con
doppio asterisco di rinvio alle Annotazioni autografe, dove il rinvio
sarà ripreso ancora da doppio asterisco, con numero di pagina inte-
ressato e con sigla del testimone.
Si sintetizza, qui, a mo’ di legenda, lo schema d’associazione sigle-
date:
lxviii Nota del curatore e criteri della presente edizione

C (I ed., 1965);
A (II ed., prima uscita, 1969);
B (II ed., rist. del 1973);
d (II ed., rist. del 1984).

Si fa presente che esiste nella biblioteca di Timpanaro una sesta


copia del volume (si tratta della prima edizione, 1965), siglata con la
lettera «D», maiuscola e in alfabeto latino come le lettere che con-
trassegnano i testimoni A, B e C; tale copia è assolutamente intatta
da interventi a mano, a differenza della stessa copia della ristampa
1988, che, sia pure in un solo caso, annovera una correzione. La
copia D, potenziale approdo di correzioni a mano (come dimostra
l’assegnazione di lettera- indicatore di testimone, secondo una pro-
gressione che parte dalla seconda edizione - A si riferisce al 1969 - per
poi ricercare materiale spazio cartaceo con il recupero di copie pre-
cedenti, quindi di copie della prima edizione - C e D si riferiscono al
primo Classicismo e illuminismo, del 1965 -), si pone, di fatto, come
copia vergine del volume, e non può dunque assurgere al ruolo di
copia-testimone. Rimane peraltro da sottolineare la disponibilità di
materiale che tuttora offre la biblioteca di Timpanaro; all’interno dei
suoi volumi è infatti possibile il ritrovamento di foglietti, o di veri e
proprî fogli, contenenti annotazioni che possono fornire dati o ele-
menti utili a chi si occupa dei testi dello studioso o di autori di cui
egli si è a sua volta occupato. Un solo esempio, a proposito di Angio-
la Ferraris, studiosa che appare due volte citata nelle Annotazioni
autografe (cfr. terza annotazione all’Introduzione e, altresì, terza
annotazione al III capitolo, Alcune osservazioni sul pensiero del Leo-
pardi, sempre a proposito del volume Letteratura e impegno civile nel-
l’«Antologia», Padova, Liviana, 1978): il suo nome ha ulteriore
occorrenza in un foglietto autografo inserito fra le pp. XXXII e
XXXIII del primo dei tre volumi, presenti appunto nella biblioteca
di Timpanaro, del garzantiano Zibaldone di pensieri di Leopardi, a
cura di Giuseppe Pacella, 1991. Diamo il testo dell’annotazione:
«Zib. 9 mag. 1821, 1026; 9 sett. 1821, 1656-58 per il materialismo
rigoroso (citati dalla Ferraris)»; il rinvio al pensiero del 9 settembre
1821 (p. 1657), senza citazione della Ferraris, sostanzia, come indi-
spensabile antecedente, la nota 58, che qui riproduciamo, dello stes-
so III capitolo di Classicismo e illuminismo sul pensiero di Leopardi;
Nota del curatore e criteri della presente edizione lxix

la nota supporta un brano del testo “in alto” centrato sulla negazio-
ne del concetto di spirito in un Leopardi che ha compiutamente
maturato la propria concezione materialistica («Senziente e pensan-
te è, nell’uomo, la materia stessa: il cervello, non l’anima58»); n. 58:
«Zib., 4251-53 (9 marzo 1827), 4288 sg. (18 settembre 1827). Ma
vedi già il pensiero del 9 settembre 1821 (p. 1657) che comincia:
“Tutto è materiale nella nostra mente e facoltà”. Una chiara esposi-
zione del materialismo leopardiano è data dal TILGHER, La filoso-
fia del Leopardi cit., p. 88 sgg.».

Di alcune falsificazioni di scritti leopardiani

Il fascicolo reca scritto, sul frontespizio: «ESTRATTO DEL


GIORNALE STORICO DELLA LETTERATURA ITALIANA /
Vol. CXLIII - Fasc. 441 / 1966» (il saggio è alle pp. 88-119); a mano:
«Falsi leopardiani (copia con alcune correzioni)»; sigla: «FLGS»
(«FALSI LEOPARDIANI GIORNALE STORICO»).

Aspetti e figure della cultura ottocentesca

La copia da noi consultata nella biblioteca di Timpanaro contiene


ritagli di recensioni al volume (fra cui quella di Ettore Paratore da noi
citata). Nell’occhiello si trova scritto, a sinistra dell’intestazione di
pagina, a matita e in verde: «COPIA MIA»; vi è, inoltre, a lapis, a
destra dell’intestazione, ora in colore verde ora in colore grigio, una
serie di numeri che corrispondono (ad eccezione della 371, rimasta
indenne da rettifiche) alle pagine alle quali apportare correzioni; tale
serie deriva evidentemente da un esame “panoramico” che l’autore ha
effettuato del libro appena stampato; le correzioni poi recate sono più
numerose di quelle indicate da questa serie, scritta in ordine sparso;
ne riordiniamo la successione numerica: 34, 35, 36, 231, 233, 260,
261, 371, 392, 393, 397, 446. Le correzioni apportate alla copia di
Aspetti e figure saranno riferite, nelle Annotazioni, alla sigla «AF».
lxx Nota del curatore e criteri della presente edizione

Nuovi studi sul nostro Ottocento

Due sono le copie che recano annotazioni; una risulta material-


mente più usata e contiene indicazioni bibliografiche e di recensioni
al volume scritte a lapis sul frontespizio; l’altra, materialmente meno
usata, contiene solo annotazioni; contrassegnamo le due copie (c) con
la sigla (NS) dei Nuovi studi, rispettivamente NS c1 e NS c2. Il fron-
tespizio di c1 reca il seguente scritto, di mano di Timpanaro: «rec. di
F. Arato, GSLI 173, 1996, 302-307, di Corrado Pestelli, Studi italia-
ni 15, 1996, 148-168; possibili influssi di Bini sul Leopardi: Barbara
Silvia Anglani, Sul ‘Manoscritto’ di Carlo Bini, Studi italiani 15, 1996,
19-33. / Sul Bini G. Nicoletti, Lettere dal carcere in Letter. ital.: Storia
e Geogr., dir. Asor Rosa, Torino 1988, II 820.».

In questa edizione si è resa necessaria, data la nuova numerazione di


pagine e l’inclusione di nuovi saggi, una serie d’interventi formali del
curatore: abbiamo adottato la parentesi graffa e il corsivo «{...}».
Ogni intervento è perspicuamente segnalato; quando vi è stato bisogno
(per obbligo logico, per particolare entità o indole qualitativa dello stes-
so intervento, o per ulteriore chiarificazione di rinvio interno) d’un’ul-
teriore precisazione, abbiamo aggiunto la scritta { - N. d. c.} = Nota
del curatore (sempre in graffa e in corsivo); es.: Prefazione alla seconda
edizione, in calce alla prima pagina > ° {Si veda ora la nuova collocazione
di «Natura, dèi e fato nel Leopardi», VI capitolo di questa edizione, e l’as-
sorbimento delle postille in calce alle pagine, o alle singole sezioni di testo,
alle quali originariamente esse si riferivano - N. d. c. -}. Non abbiamo
apposto la precisazione «{ - N. d. c.}» quando ci si è limitati a pura
conversione aritmetica, o formale, dell’indicazione di rinvio, o quan-
do la stessa indicazione appare già in sé perspicua.
L’inclusione di saggi nuovi comporta infatti, oltre a un aumento di
mole complessiva in rinnovata impaginazione, un’altra serie di pro-
blemi. Già la seconda edizione conteneva una fittissima trama di rin-
vii interni a stampa dell’autore da saggio a saggio, da questo libro ad
altri suoi libri, dal testo alle postille a fine volume, dalle stesse postil-
le al testo; ora, la nuova collocazione di Natura, dèi e fato e l’assorbi-
mento delle postille rivoluziona non soltanto la numerazione lineare,
ma l’ordine stesso dei contributi: spesso, quello che era un rinvio «cfr.
più sopra» diviene un rinvio «cfr. più sotto», e viceversa, ed è quin-
Nota del curatore e criteri della presente edizione lxxi

di necessario l’intervento formale del curatore, a scongiurare sovrap-


posizioni o rinvii errati nella nuova struttura del libro. Più che mai si è
reso necessario un intervento nella razionalizzazione delle nuove immis-
sioni, con i rinvii interni dei saggi inclusi da Aspetti e figure e dai Nuo-
vi studi fra di loro, e con i rinvii degli stessi saggi ad altri contributi nei
volumi d’originaria appartenenza, contributi che qui non sono ricom-
presi (si rende obbligatorio, in quel caso, non un rinvio “interno”, ma
una citazione del volume d’origine; es: cfr. Aspetti e figure). Vi sono poi
i casi di rinvii da volume a volume - da Classicismo ad Aspetti e vice-
versa, dai Nuovi studi a Classicismo e ad Aspetti - di contributi qui coa-
bitanti; in questo caso l’indicazione si converte in rinvio “interno”
(«cfr. Classicismo e illuminismo» > «cfr. qui sopra, titolo, n. pagina»).
Si avverte che all’inizio del IX capitolo (Il Leopardi e la Rivoluzio-
ne francese), due parentesi che si trovavano nel testo in alto con la fun-
zione di rinvii interni a precedenti saggi dei Nuovi studi, essendo sta-
to ora inserito il testo in Classicismo e illuminismo, sono divenute note
a piè pagina, nelle quali ci si è limitati a sciogliere in dizione chiara la
compendiosità del rinvio (una compendiosità che non sarebbe più
risultata attendibilmente comunicativa in questa nuova edizione). Si
avverte, inoltre, che nel cap. X e nell’Appendice I si è resa continuati-
va, da paragrafo a paragrafo, la numerazione delle note, e che nel cap.
XI le Postille, che costituiscono paragrafo in testo continuativo a
immediato e lineare ridosso della trattazione, sono state uniformate al
corpo testo standard.

Si riassume, infine, la serie di accorgimenti grafico-formali neces-


sari per “leggere” l’edizione:
il singolo asterisco - * - significa postilla a stampa del 1969 incor-
porata a fondo pagina (in relazione alla parola o al concetto di riferi-
mento), con ripresa dell’asterisco stesso a facilitazione e a immediato
appoggio dell’occhio del lettore;
doppio asterisco - ** - significa rinvio, anche in questo caso con
ripresa, alle finali Annotazioni autografe non sintatticamente incorpo-
rabili (n. pagina di questa edizione, sigla del testimone, testo dell’an-
notazione fra virgolette; es.: ** p. ... B: «testo dell’annotazione auto-
grafa»);
la parentesi quadra - […] - significa assorbimento, nel testo, d’an-
notazione autografa sintatticamente incorporabile;
lxxii Nota del curatore e criteri della presente edizione

l’ex parentesi quadra a stampa dell’autore che includa integrazioni


rispetto a redazione precedente (ad esempio, in Epicuro, Lucrezio e
Leopardi, p. 291, n. 31: «[e adesso, meglio ancora, Religio, natura,
voluptas, Bologna 1989; cfr. p. 123 sg., dove il Giancotti constata
...]»), diviene il seguente segno: |...|.
l’ex parentesi quadra a stampa dell’autore contenente una spiega-
zione, con il corsivo, per il lettore, e presente fin dalla prima redazio-
ne – ad esempio, in Il Leopardi e la Rivoluzione francese, p. 324: «gli
“errori semifilosofici possono esser vitali, massime [cioè “soprattutto
se”] sostituiti ad altri errori ...”» –, diviene parentesi tonda: «massi-
me (cioè “soprattutto se”)»; si evita, in tal modo, la sovrapposizione
con la parentesi quadra che accoglie nel testo (vedi sopra) le annota-
zioni autografe incorporabili;
[cr] significa «correzione refuso»;
La precisazione bibliografica dell’autore, al di fuori delle note, in
calce alla prima pagina d’un contributo (ad esempio: «*dapprima in
“Critica storica” ... »), si converte da * a ∼; si evita, in questo modo,
la confusione con il singolo asterisco delle Postille e aggiunte bibliogra-
fiche ’69 trasferite a piè pagina; il richiamo del curatore a fondo pagi-
na è segnalato da °, o da °°, in caso di duplice precisazione.
Fra i vari gradi di lettura che il sistema aperto del libro permette,
il più coerente con l’assetto qui raggiunto rimane quello della “lettu-
ra logica” sul filo dei richiami alle postille a stampa e delle annota-
zioni autografe, il cui meccanismo si confida risulti massimamente
facilitato. Lettura logica significa, è ovvio, fruizione immediata (non
separata) delle note e delle postille a sostegno del testo, nel loro ordi-
ne. Per portare un esempio di pagina “ricca” (peraltro, non certo fre-
quente in questa edizione), valgano le pp. 45-46, n. 21, del cap. I, Le
idee di Pietro Giordani; nella nota 21, al primo rigo di p. 46, l’asteri-
sco rinvia a fondo pagina alla relativa postilla a stampa; questa postil-
la reca a sua volta, distanziati fra loro, due rinvii alle annotazioni
degli autografi, che andranno dunque sùbito consultate; quindi (e a
rigore solo in quel momento), può iniziare la lettura del testo in alto
(«Ma l’ostilità ...»), che alla fine del primo capoverso incontra la nota
22; questa nota reca alla fine un rinvio agli autografi, nella cui sede
l’annotazione verrà (né può essere altrimenti) dopo le due citate anno-
tazioni alla postilla a stampa, che infatti dovrà essere già stata letta.
Si tratta, lo ripetiamo, d’un esempio raro, ma l’ordine logico di let-
Nota del curatore e criteri della presente edizione lxxiii

tura (comprese note e postille) permette uno scorrimento del tutto


lineare.
Si ricorda, ancora, che i contributi di Aspetti e figure della cultura
ottocentesca e di Nuovi studi sul nostro Ottocento che non sono entrati
nella nostra edizione, e che sono comunque stati da noi attentamente
consultati, sono anch’essi postillati con numerose, importanti e spes-
so qualificanti annotazioni autografe. La fruizione di quei saggi andrà
integrata con la conoscenza di tali annotazioni, di cui occorrerà, in
altra sede, dare segnalazione, anche in semplice chiave elencativa. Ma
la presente sede non ci sembra inidonea a un’oggettiva segnalazione
di continuità nel laboratorio timpanariano.

Nel congedarmi dall’impegno di curatela, desidero rivolgere un


vivo ringraziamento alla Dottoressa Maria Augusta Morelli Timpana-
ro, che ha reso disponibili i materiali necessari alla presente edizione,
e che con attenta sollecitudine, nel costante ricordo del marito, mi ha
incoraggiato nelle varie fasi del cammino editoriale; esprimo, qui, la
mia profonda gratitudine al Professor Gino Tellini, che con impor-
tanti consigli e con vigile premura ha seguito il corso del mio lavoro,
nel pieno rispetto dell’autonomia di scelte la cui responsabilità appar-
tiene interamente al curatore; un particolare ringraziamento, sul pia-
no umano non meno che culturale, va da parte mia al Professor Enri-
co Ghidetti, per i suoi preziosi suggerimenti e per il lungo impegno
profuso nella generosa opera di promozione editoriale del volume.
Esprimo, altresì, la mia gratitudine alla Casa Editrice Le Lettere, in
specie alla Dottoressa Nicoletta Gentile Pescarolo, per avere, altret-
tanto generosamente, accolto e pubblicato nella propria collana un
volume di non facile allestimento tipografico; tanto più significativo,
il nome di Nicoletta Gentile Pescarolo, ove si ricordi il rapporto di
amicizia, di reciproca stima, di alta considerazione culturale che inter-
corse fra Giovanni Gentile e la famiglia Timpanaro, nelle persone di
Sebastiano Timpanaro senior, direttore della Domus Galilaeana di Pisa
su invito dello stesso Gentile, nel 1942, e di Maria Timpanaro Cardi-
ni, prima traduttrice in italiano del Sidereus Nuncius, nel 1943-’44 (il
volume uscì presso Sansoni nel 1948; ora ve n’è una nuova edizione a
cura di Andrea Battistini, Venezia, Marsilio, 1993).

Corrado Pestelli
Copertine 1973 e 1984

Classicismo e illuminismo nell’Ottocento italiano**


Bandelle 1984

I saggi raccolti in questo volume mirano a illustrare le ragioni


dell’antiromanticismo di alcuni tra i maggiori rappresentanti della
cultura italiana dell’Ottocento (Giordani, Leopardi, Cattaneo), i
quali militarono nel fronte classicista non per spirito retrivo o per
tradizionalismo letterario, ma per avversione alla restaurazione reli-
giosa propugnata dai romantici e alle sue implicazioni culturali e
politiche. Il classicismo di questi scrittori e pensatori fu dunque,
essenzialmente, una battaglia per la difesa e la rifondazione della
civiltà illuministica contro il vagheggiamento ** della civiltà del
Medioevo e contro un populismo in cui i motivi progressisti e quelli
retrivi erano pericolosamente intrecciati e confusi. La fedeltà stessa
ai classici latini e greci (e, per quel che riguarda la «questione della
lingua», ai trecentisti) era intesa dal Giordani, dal Leopardi e da
altri classicisti-illuministi minori non come scolastico ossequio a
modelli precostituiti, ma come un «ritorno alla Natura» **.
Da questa educazione, classicista e illuminista ad un tempo, trag-
gono origine il pessimismo leopardiano (la cui forza ed originalità
consiste appunto nella rigorosa fedeltà alle premesse materialistiche
ed edonistiche) e le teorie etnografiche e linguistiche di Carlo
Cattaneo, che si oppongono all’identificazione romantica di lingua e
stirpe: esse vengono poi proseguite e sviluppate nel secondo Otto-
cento dal nostro maggiore linguista, Graziadio Ascoli, la cui posizio-
ne antimanzoniana nella questione della lingua si riattacca consape-
volmente al classicismo lombardo del primo Ottocento. A tale forma-
zione deve molto anche il repubblicanesimo e il laicismo del Carducci
e degli «Amici pedanti». In questo quadro riacquista importanza la
personalità di Pietro Giordani, così a lungo disconosciuta.
Questa [terza] edizione reca in più, rispetto alla [seconda], una
[Postfazione e numerose aggiunte e rettifiche] **.
** ** ** ** Prefazione

Testo epigrafe, testo epigrafe, testo epigrafe, testo epigrafe,


testo epigrafe, testo epigrafe.
Nome Cognome

I saggi raccolti nel presente volume sono stati scritti in tempi diversi,
come è indicato nella nota in fondo a questa prefazione. Quelli già pub-
blicati riappaiono qui con numerose aggiunte e modifiche. Non ho preteso
tuttavia di trasformarli in capitoli di un’unica opera organica e non mi sono
quindi proposto di eliminare a tutti i costi qualche leggera ripetizione.
L’introduzione ha lo scopo di enunciare i temi comuni all’intera rac-
colta e, nello stesso tempo, di soffermarsi, sia pure brevemente, su alcune
figure e alcuni aspetti del classicismo ottocentesco italiano che non sono
stati oggetto di apposita trattazione nei singoli saggi. Una storia completa
del classicismo illuminista del nostro Ottocento dovrebbe dedicare interi
capitoli al Monti, al Settembrini, al Carducci giovane, e dovrebbe, anche
per gli autori da me presi particolarmente in esame, dare più spazio a osser-
vazioni stilistiche. Ma se questo volume contribuisse intanto a richiamare
l’attenzione sulla necessità di studiare più a fondo la formazione classici-
sta del Leopardi e del Cattaneo, se servisse a suscitare nuovi studi sul Gior-
dani e a far meglio intendere (sulla via indicata da un fondamentale sag-
gio del Luporini) il valore del materialismo e del pessimismo leopardiano,
considererei raggiunto il mio scopo.
In altra sede vorrei cercar di giustificare in modo più esplicito certi pre-
supposti ideologici di questi saggi, specialmente di quello sul pensiero del
Leopardi. Qui accennerò soltanto che la concezione generale a cui queste
pagine si ispirano (una concezione, spero, non aprioristicamente sovrap-
posta alla ricerca storica) è una specie di marxismo-leopardismo che, men-
tre accetta l’analisi marxista della società e gli obiettivi di lotta politico-
sociale e culturale che sono con essa congiunti, per ciò che riguarda invece
il rapporto uomo-natura si richiama soprattutto al materialismo vero e
lxxviii Prefazione

proprio (adialettico, «volgare», se così piace chiamarlo) del Settecento e


dell’Ottocento, all’edonismo che gli è organicamente connesso e alle con-
seguenze pessimistiche che, con maggiore coerenza e lucidità di chiunque
altro, ne ha tratto il Leopardi. Sarà anche chiaro al lettore che l’illumini-
smo di cui si rivendica in questi scritti il valore non ha niente a che vede-
re con quel terzaforzismo europeistico che caratterizza tutto un settore del-
la vita politica e culturale italiana, né implica alcuna propensione per
riforme «dall’alto», ma è tutt’uno con quel materialismo conseguente a
cui ora accennavo.
** Questo volume era già tutto scritto quando è uscito il libro di Alber-
to Asor Rosa Scrittori e popolo, che ha suscitato e ancora susciterà acce-
se discussioni. Per quel che riguarda la specifica forma di populismo che è
propria del movimento romantico dell’Ottocento, parecchie mie osserva-
zioni coincidono con osservazioni di Asor Rosa; così pure sono sostan-
zialmente d’accordo con la battaglia che Asor Rosa conduce contro il
mediocre populismo della nostra attuale letteratura e contro la politica
culturale che lo ha incoraggiato. Ma inaccettabili mi sembrano sia l’esten-
sione del concetto di populismo a tutto ciò che nell’Ottocento è giacobi-
no, democratico-rivoluzionario, comunista-agrario (il che porta, fra l’altro,
al fraintendimento del pensiero di Carlo Pisacane), sia la liquidazione
sommaria dell’interpretazione gramsciana del Risorgimento; soprattutto
credo che una discussione seria di tale interpretazione debba far centro non
sul Gioberti, il cui influsso su Gramsci è da Asor Rosa grandemente esa-
gerato, ma sul De Sanctis, che nel libro di Asor Rosa è quasi del tutto
assente.
Esprimo la più viva riconoscenza a Lanfranco Caretti, che ha accolto
questo lavoro nella collana da lui diretta; alla sua acuta sensibilità filolo-
gica e critica, al suo spirito pasqualiano sono debitore di preziosi suggeri-
menti. Dei problemi trattati nel presente volume ho molto spesso parlato
con Luigi Blasucci, Antonio La Penna, Mario Mirri: da quelle conversa-
zioni – e così pure dagli articoli leopardiani di Blasucci, dal libro desanc-
tisiano di Mirri, dalle pagine di La Penna sul significato culturale e sociale
del classicismo nel libro su Orazio e l’ideologia del principato – ho trat-
to grande profitto per la rielaborazione dei saggi più vecchi e la stesura dei
più recenti. Il testo esatto di alcuni passi dello Zibaldone mi è stato chia-
rito da Giuseppe Pacella, la cui prossima edizione segnerà un notevolissi-
mo progresso sulle precedenti e permetterà di seguire con molto maggior
sicurezza (grazie alla distinzione tra stesura primitiva e aggiunte posterio-
Prefazione lxxix

ri) lo svolgersi del pensiero leopardiano. Su Cattaneo e Ascoli sono debi-


tore di importanti indicazioni al prof. Arnaldo Momigliano e all’amico
Guido Manzini, direttore della Biblioteca governativa di Gorizia. Altri
contributi saranno da me citati di volta in volta.
s. t.

L’introduzione, il saggio su Leopardi e i filosofi antichi e l’appendice si pubblicano


ora per la prima volta. Il saggio su Le idee di Pietro Giordani apparve in «Società»
X, 1954, pp. 23-44, 224-254; si ripresenta qui molto rielaborato. Giordani, Carduc-
ci e Chiarini fu pubblicato come presentazione della ristampa degli Scritti del Gior-
dani a cura di Giuseppe Chiarini («Biblioteca Carducciana», Firenze, Sansoni,
1961). Infine Alcune osservazioni sul pensiero del Leopardi e Carlo Cattaneo e Gra-
ziadio Ascoli sono apparsi, in forma non molto diversa dall’attuale, rispettivamente
in «Critica storica» III, 1964, pp. 397-431 e nella «Rivista storica italiana» LXXIII,
1961, pp. 739-771 e LXXIV, 1962, pp. 757-802.
Prefazione alla seconda edizione

Testo epigrafe, testo epigrafe, testo epigrafe, testo epigrafe,


testo epigrafe, testo epigrafe.
Nome Cognome

In questa seconda edizione, che si pubblica a poco più di tre anni dal-
la precedente, il testo è rimasto invariato, tranne la correzione di alcuni
errori di stampa. Ma in fondo al volume ho aggiunto un altro breve sag-
gio, che vorrebbe contribuire ad una ulteriore precisazione del rapporto tra
le due concezioni leopardiane della natura, e una serie di postille suggeri-
te da obiezioni di recensori, da lavori di altri studiosi, da miei ripensamenti
su singoli punti.°
Qui, in questa nuova prefazione, vorrei ritornare su alcuni problemi più
generali che sono stati oggetto di discussione. Prima di tutto, sull’esten-
sione da dare al termine e al concetto di romanticismo. Nel presente volu-
me si propone di intendere il romanticismo non come caratteristica glo-
bale di tutte le manifestazioni di pensiero, d’arte e di «sensibilità» del
primo Ottocento, e tanto meno come un «momento dello spirito» presente
in ogni tempo e luogo, ma come un determinato movimento culturale, che
raccolse nelle sue file la maggioranza, non la totalità degli intellettuali
europei dell’età della Restaurazione: che ebbe perciò al di fuori e contro
di sé altri orientamenti, altri gruppi di minoranza che si dissero e furono
antiromantici, e che tentarono di dare altre risposte alla crisi della società
europea post-rivoluzionaria.
A Giuseppe Paolo Samonà (in «Giovane Critica», n. 14, inverno 1967,
pp. 10-18) sembra che da ciò risulti una contrapposizione schematica tra
un partito romantico e un partito classicista, per cui ciascun rappresentan-

°i{Si veda ora la nuova collocazione di «Natura, dèi e fato nel Leopardi», VI capitolo di questa edi-
zione, e l’assorbimento delle postille a fine volume – si parla di quelle già a suo tempo stampate – in
calce alle pagine o alle singole sezioni di testo alle quali originariamente esse si riferivano – N. d. C. –}.
lxxxii Prefazione alla seconda edizione

te della cultura del primo Ottocento verrebbe a tutti i costi incasellato nel-
l’uno o nell’altro schieramento, e qualsiasi ammissione dell’esistenza di
personalità intermedie, qualsiasi riconoscimento di un’eredità illuministi-
ca nei grandi romantici europei equivarrebbe ad una confessione del falli-
mento di quello schema. Nel silenzio quasi completo di questo libro sul
Porta e completo sul Belli, nella constatazione (qui sotto, p. 7) che Stendhal
aderì al romanticismo in quanto rottura dell’accademismo letterario sen-
za con ciò rinnegare la propria formazione ideologica illuminista e sensi-
sta, nella scarsa apertura «europea» di tutto il libro, Samonà scorge altret-
tante prove dell’imbarazzo dell’autore di fronte a una materia riluttante ad
essere costretta entro una classificazione rigidamente dicotomica. Un’ana-
loga insoddisfazione, sia pure partendo da premesse non identiche, è stata
espressa da Margarete Steinhoff in «Deutsche Literaturzeitung» 1967, col.
1084, da Elvio Guagnini in «Problemi» 1967, p. 237, da Bruno Biral in
un lungo scambio di lettere che ho avuto con lui su questo e su altri argo-
menti affini.
Ora, a me pare che, proprio perché le contrapposizioni tra romantici-
smo e classicismo, tra romanticismo e illuminismo alle quali mi riferisco
non sono contrapposizioni «categoriali», ma schiettamente storico-empi-
riche, non esista alcun problema di classificazione rigida. Quando si par-
la di «partiti culturali», si sa bene – se per un momento vogliamo rima-
nere entro la metafora – che all’interno di ciascun partito ci sono, palesi o
nascoste, le correnti e le sotto-correnti, e infine le singole individualità; si
sa che i partiti non si contrappongono soltanto, ma spesso anche si influen-
zano a vicenda; e si sa che sono sempre esistiti coloro che non riescono a
trovare stabile collocazione in nessun partito. È poi anche chiaro (vedi qui
sotto, p. 33, e la recensione a Piero Treves in «Critica storica» II, 1963,
p. 607 sg. { qui «Appendice II»}) che l’analogia coi partiti politici, utile
per mettere in evidenza la determinatezza storico-empirica dei movimen-
ti culturali, non può essere spinta oltre un certo limite: nei movimenti cul-
turali, e più che mai in uno così proteiforme come il romanticismo, la
compattezza è di gran lunga minore. Questa esigenza di distinguere, all’in-
terno del movimento romantico e del movimento classicista, gruppi diver-
samente atteggiati e personalità complesse e contraddittorie, non è esibita
qui come implicita ammenda di un precedente «schematismo»: è già pre-
sente nell’introduzione e in tutto il corso del volume (vedi per esempio pp.
5 sg., 7-10, 19 sg., 57-59, 332-334 ecc.; e, per gli influssi scambievoli tra
romantici e classicisti, pp. 17-20, 33 sg.).
Prefazione alla seconda edizione lxxxiii

Non costituisce perciò alcuna difficoltà, a mio avviso, l’esistenza di un


«caso Stendhal», sul quale ritornerò brevissimamente più sotto. Né c’è dif-
ficoltà a riconoscere che per i due grandi poeti dialettali italiani dell’Ot-
tocento, il Porta e il Belli, l’adesione al romanticismo (molto più esplici-
ta, del resto, nel primo che nel secondo) significò soprattutto, con una
priorità molto più assoluta che per gli scrittori «in lingua», rivendicazio-
ne di piena dignità letteraria del loro strumento espressivo, il dialetto. Il
loro romanticismo si configurò quindi, in modo molto più netto ed esclu-
sivo, come anti-accademismo e come esigenza di letteratura «popolare»,
lasciando impregiudicato, almeno in certa misura, il problema dei conte-
nuti ideologici, il quale invece pesò molto di più nell’adesione al roman-
ticismo di un Manzoni o di un Tommaseo.
Riconosciuto tutto ciò, si tratta però di vedere se sia lecito valersi di
questi indubbi caratteri di fluidità del movimento romantico per inglobare
in esso tutti gli orientamenti culturali del primo Ottocento, anche quelli
più nettamente antagonistici al romanticismo. Questa è l’operazione che
è stata condotta da molti studiosi recenti. E sebbene forse nessuno di que-
sti studiosi aderisca pienamente all’idealismo crociano o gentiliano, e
qualcuno sia anzi vigorosamente antiidealista, tuttavia quel procedimen-
to, per cui i concetti empirici vengono «dissolti» o «ridotti» a più vaste
categorie che si presumerebbero non empiriche (e resi, così, inutilizzabili
ai fini della caratterizzazione storica), reca ben chiara l’impronta di quel-
la sofistica nella quale il peggior Croce, il peggior Gentile e molti loro
seguaci hanno consumato tesori di falso acume.
A una simile sofistica Samonà è ben contrario: proprio all’inizio del suo
articolo, con felice ironia, la definisce «ignoranza sintetica a priori». La
sua opposizione all’accezione ristretta del termine di romanticismo nasce,
come già abbiamo visto, da moventi molto più concreti, e prima di tutto
dal bisogno di non sacrificare niente nella caratterizzazione di personalità
da lui particolarmente studiate e amate, come Puškin e come Belli. Non
mi sembra, però, che egli consideri a sufficienza gli inconvenienti – sostan-
ziali e non meramente terminologici – causati dall’uso onnicomprensivo
di quella categoria.
A tali inconvenienti (che si configurano diversamente, per esempio, nel-
le caratterizzazioni che del romanticismo danno il Sapegno e il Petronio)
ho accennato a pp. 32-35 dell’introduzione; vorrei qui ribadirli molto
brevemente. O, per assorbire nel romanticismo gli antiromantici del primo
Ottocento, si insiste unilateralmente sulla continuità fra illuminismo e
lxxxiv Prefazione alla seconda edizione

romanticismo, e va allora perduta la consapevolezza della svolta dall’uno


all’altro, la quale non fu prodotta da semplici mutamenti di gusto, ma dal-
la grande crisi storica della rivoluzione francese, dell’avvento e del crollo
del regime napoleonico. Oppure si concepiscono l’età dell’illuminismo da
un lato, l’età del romanticismo dall’altro come blocchi monolitici (per cui
esisterebbe uno «spirito dell’epoca» che darebbe la sua impronta unica a
tutte le espressioni culturali dell’epoca stessa, un po’ come il famigerato
Volksgeist la darebbe a tutte le manifestazioni della vita di un popolo), e
allora si finisce con l’appiattire i motivi di contrasto che, in una stessa epo-
ca, divisero l’uno dall’altro i diversi gruppi e individui, e con l’assimilare
forzatamente le minoranze alla maggioranza. Nel caso del primo Otto-
cento, ne risulta quasi inevitabilmente un’interpretazione svalutativa o
limitativa di tutti i sensisti e i materialisti, i quali appaiono come degli
«attardati», tranne nei momenti in cui la loro anima romantica prorom-
perebbe, «per se stessa mossa», a smentire le loro puntigliose tesi antiro-
mantiche. Si sa quanta fortuna una simile interpretazione abbia avuto e
abbia tuttora nel caso del Leopardi.
Si è anche obiettato che la distinzione tra i romantici e i loro avversari
verrebbe condotta solo in base alle dichiarazioni degli interessati, ai «pro-
grammi» e non alla realtà effettiva. È un’obiezione speciosa, che, mentre
sembra contrapporre marxisticamente l’«essere» alla «coscienza» e riba-
dire che classi sociali e individui non devono essere giudicati sulla base del-
l’idea che hanno di se stessi, in realtà riapre le porte ad una concezione
irrazionalistica del fatto letterario: per cui anche i più ostinati antispiri-
tualisti sarebbero, inconsciamente, enfants du siècle, e il materialismo,
freddamente esibito nei «programmi», si scioglierebbe al calore della poe-
sia. Certo i programmi sono, nella storia letteraria come nella politica, solo
punti di partenza; e il periodo che c’interessa è ricco di contrasti fra dichia-
razioni e realizzazioni, nonché di contraddizioni insite nelle ideologie stes-
se, nelle poetiche stesse (cfr. per esempio pp. 9 sg., 58 sg., 83-84). Ma la
totale trascuranza, non tanto dei semplici programmi quanto delle idee
degli scrittori qui presi in esame, ha avuto per conseguenza ** non già uno
spostarsi dell’attenzione degli studiosi dalle ideologie ai contrasti reali di
forze sociali e politiche, bensì un allontanamento in direzione opposta,
dalle idee verso la «sensibilità», verso una generica atmosfera psicologica
che deve, senza dubbio, esser tenuta presente anch’essa dallo storico, ma
che, se diviene oggetto di attenzione esclusiva, porta a un impressionismo
storiografico in cui tutto sfuma.
Prefazione alla seconda edizione lxxxv

A un altro rischio più specifico è esposta la caratterizzazione dell’età


romantica in termini di «sensibilità»: a quello di confondere un antira-
zionalismo sensista (basato sulla rivalutazione dell’entusiasmo e della pas-
sione come primitività naturale, come legame trasformabile ma non
annullabile con le origini «ferine» dell’umanità) con un irrazionalismo
religioso (basato sull’attribuzione al «sentimento» di un potere conosciti-
vo superiore a quello dell’intelletto, e quindi sull’affermazione del prima-
to dell’esperienza mistica). È una confusione non imputabile tutta agli sto-
rici, ma in parte, come è noto, già presente in alcuni grandi rappresentanti
del pensiero settecentesco, da Vico a Herder a Rousseau, nei quali i moti-
vi epicurei e sensisti sono reinterpretati e trasportati su un piano religioso.
Non è, quindi, del tutto assurda l’utilizzazione che di Vico o di Rousseau
fecero i romantici: purché si abbia chiaro che si trattò appunto di un’uti-
lizzazione, cioè di un’interpretazione fortemente parziale e tendenziosa,
che amputò quanto di potenzialmente rivoluzionario (sul piano politico-
sociale come su quello ideologico) c’era nel loro pensiero.
Quando d’altra parte si mette in rilievo, seguendo il De Sanctis, la
cospicua eredità di razionalismo illuministico che si ritrova nel migliore
romanticismo, si dice certo una cosa giusta. Nulla di più errato (e l’errore
non è compiuto in questo libro: cfr. p. 5) che identificare tutto il movi-
mento romantico con l’oscurantismo della sua ala destra. Lukács ** ha
sostenuto con ragione il carattere fondamentalmente borghese, e non feu-
dale, del movimento: in ciò trova la sua spiegazione la continuità tra illu-
minismo e romanticismo. Ma – ecco il punto – la novità del romanticismo
rispetto alla fase precedente consiste soltanto, come apparirebbe dalla
caratterizzazione del Sapegno, in un di più di maturità e di consapevolez-
za storico-realistica, in una liberazione dal «razionalismo astratto» che
ancora viziava il pensiero del Settecento? oppure in questa stessa polemi-
ca contro l’antistoricismo settecentesco, e nel ritorno di spiritualismo che
ne consegue, c’è anche qualcosa di meno rispetto ai risultati più avanzati
della cultura settecentesca, una perdita ** di spinta innovatrice, dovuta
alle nuove necessità di consolidamento delle posizioni conquistate e di
«difesa a sinistra» che ora la borghesia sentiva? Se, come credo, la secon-
da alternativa è la vera, allora bisogna capire le ragioni di quegli antiro-
mantici i quali trovarono insufficiente quel tanto di illuminismo che il
romanticismo aveva assorbito, e ricercarono un contatto più diretto col
pensiero e con la cultura del Settecento: anche se proprio in questa nostal-
gia di una borghesia illuministica che non poteva più esserci va ricercata
lxxxvi Prefazione alla seconda edizione

una delle principali ragioni della loro sconfitta immediata. Questo punto
è stato riaffermato con efficacia da Gilbert Moget in un articolo che, mal-
grado una certa sommarietà e provvisorietà di risultati, rappresenta a mio
avviso uno dei più intelligenti contributi sulla polemica classico-roman-
tica in Italia (En marge du bi-centenaire de M.me de Staël: «Classi-
ques» et «Romantiques» à Milan en 1816, «La Pensée», février 1967,
p. 40 sgg.).

Una caratterizzazione del romanticismo come quella qui sostenuta è le-


gata ad una prospettiva troppo esclusivamente italiana? L’obiezione è for-
mulata da Samonà nell’articolo già citato e da Claudio Colaiacomo in
«Belfagor» XXII, 1967, p. 733 sgg., e s’inquadra in quella più vasta pole-
mica contro il «nazionale-popolare» che si è sviluppata da alcuni anni
nella cultura di estrema sinistra. Nel presente volume le divergenze dalla
tipica interpretazione nazionale-popolare del Risorgimento sono facil-
mente riconoscibili: vedi ad esempio la valutazione restrittiva del populi-
smo romantico e della letteratura dialettale, la discussione del giudizio
desanctisiano sulla letteratura del nostro Ottocento, ecc. Tuttavia i critici
ora ricordati ritengono che il libro nel suo complesso rimanga ancora trop-
po vincolato a quella problematica; la sopravvalutazione del Giordani e
del Carducci sarebbe un indizio di questo perdurante nazionalismo o pro-
vincialismo.
Ora, per quanto riguarda il Giordani, non è in questione la statura
«minore» della sua personalità, e nemmeno le forti contraddizioni che in
lui si riscontrano fra una componente illuministica in senso stretto e una
componente russoiana, tra un combattivo laicismo e una vecchia educa-
zione retorica, tra nostalgie di assolutismo illuminato e punte di libertari-
smo e utopismo sociale. Ma proprio queste contraddizioni ne fanno un
personaggio ben diverso dai romantici italiani suoi contemporanei: per un
verso più passatista, per un altro più avanzato di quanto fosse richiesto dal-
la borghesia italiana in quella fase di sviluppo, come ha messo bene in
rilievo anche il Moget nell’articolo ora citato. E senza lo studio di queste
contraddizioni non si comprende appieno il Leopardi. Quello che, piutto-
sto, scarseggia nel saggio sul Giordani – lo ha notato giustamente Gennaro
Barbarisi in «Critica storica» VI, 1967, p. 431, e adesso nell’Ottocento,
vol. VII della Storia della letteratura italiana Garzanti, p. 88 n. 1 – è una
più precisa scansione cronologica dell’evolversi della sua personalità. Nel
mio saggio le idee del Giordani sono piuttosto raggruppate per nuclei di
Prefazione alla seconda edizione lxxxvii

argomenti che inserite in una linea di svolgimento: quel saggio reca anco-
ra troppo il carattere d’una rivendicazione di tutto ciò che negli scritti gior-
daniani si trova di interessante e di imprevisto rispetto alla smorta presen-
tazione che ne danno le nostre storie letterarie; assolto questo compito, è
ora necessario tracciare una storia dell’attività culturale del Giordani,
avendo riguardo alle diverse situazioni in cui essa si esplicò (Parma il-
luministica prima della rivoluzione; la Cisalpina e il Regno italico; la
Restaurazione; l’alternarsi di tentativi rivoluzionari e di illusioni rifor-
mistiche dal ’20 fino al ’48) e soprattutto ai due momenti cruciali rap-
presentati dalla partecipazione alla «Biblioteca Italiana» e dalla carcera-
zione del 1834.
Quanto al preteso filocarduccianesimo, credo che il giudizio che a pp. 28-
29, 102 sg., 138 sg. è dato sull’involuzione politica del Carducci e sulle
sue conseguenze culturali sia, nella sua brevità, sufficientemente esplici-
to. Rimane fuori dal tema di questo libro la valutazione dei rari momen-
ti poetici che, pur nell’involuzione politica, è dato di cogliere nell’ultimo
Carducci. Per quel che riguarda, invece, il Carducci dei Giambi ed epo-
di e ancora del Ça ira – che è pur esistito, con tutti i suoi limiti ben noti –,
io ho solo voluto mostrare come già nella formazione giovanile classicista
degli Amici Pedanti vi fossero, entro uno scolasticismo stantío, motivi
illuministi che favorirono il successivo evolversi del Carducci «giacobino»
e dettero anche alla critica letteraria carducciana, pur tanto più debole di
quella desanctisiana, qualche punto di vantaggio sul De Sanctis nel giudi-
zio sul classicismo ottocentesco.
Ma, a parte i giudizi su Giordani e Carducci, la richiesta di una mag-
giore apertura «europea» assume, se non mi inganno, in Samonà e in
Colaiacomo due aspetti alquanto diversi. Samonà ritiene che una consi-
derazione globale del movimento romantico lo libererebbe da quella con-
notazione religiosa e conservatrice che sembra spettargli finché si prende in
esame il solo romanticismo italiano. È lecito dubitare di questa opinio-
ne, che rischia di confondere l’arretratezza e la perifericità della cultura
italiana in generale con l’arretratezza ideologica del romanticismo italia-
no. E stato anzi più volte rilevato che in Italia, per un complesso di ragio-
ni (tra cui la parziale identificazione, presto instauratasi, tra romanticismo
e movimento antiaustriaco e antiassolutista, e il fatto che la difesa delle
tradizioni locali spettò ai classicisti più che ai romantici), il romanticismo
assunse fin dall’inizio una fisionomia molto meno conservatrice che altro-
ve. Grossi rappresentanti del romanticismo reazionario come Chateau-
lxxxviii Prefazione alla seconda edizione

briand o l’ultimo Friedrich Schlegel o Novalis non ci furono in Italia. La


destra reazionaria, tranne eccezioni poco significative, non fu costituita in
Italia da romantici, ma da classicisti retrivi: col risultato paradossale che
l’eterogeneo fronte classicista, ben presto disgregatosi, comprendeva all’i-
nizio forze che combattevano il romanticismo da destra e altre che lo com-
battevano da sinistra. Samonà, parlando di romanticismo europeo, pensa
a Stendhal e a Pus#kin; ma, almeno per Stendhal, alla sua grandezza non è
pari la sua rappresentatività del movimento romantico, come è conferma-
to dal suo isolamento e dall’incomprensione di cui fu oggetto: vorrei a
questo proposito ricordare soltanto lo scritto di Lukács su La polemica tra
Balzac e Stendhal (nei Saggi sul realismo, trad. it., Torino 1950, p. 91
sgg.), nel quale la profonda estraneità di Stendhal all’ideologia romantica
è dimostrata con straordinaria acutezza; e molte delle osservazioni di
Lukács sono illuminanti anche per capire la posizione, pur diversa, del
Leopardi.1
Se si considera il romanticismo europeo nel suo complesso, la religio-
sità (non necessariamente una religiosità confessionale, beninteso) rimane
una sua caratteristica da cui non si può prescindere. Essa è intimamente
legata con quel concetto ** di «popolo» e con quel senso della tradizione
storica, in funzione antigiacobina, che i romantici stessi considerarono
come i contrassegni della nuova civiltà post-rivoluzionaria. La contrap-
posizione tra «epoche critiche» ed «epoche organiche» (il linguaggio è san-
simoniano, ma i concetti sono nati e maturati col romanticismo) implica
la convinzione che non c’è epoca organica che non sia basata su un prin-
cipio religioso, l’unico capace di superare l’individualismo del secolo
xviii. Sarebbe certo del tutto errato sottoporre queste idee a una somma-
ria svalutazione da un punto di vista angustamente laicistico, disconosce-
re i motivi di critica dell’individualismo borghese che esse racchiudevano;
ma rimane un fatto che il pensiero illuministico aveva raggiunto una visio-
ne ben altrimenti lucida e smitizzata della realtà naturale e umana.
Meno esplicito di quello di Samonà è il discorso di Colaiacomo; la
rinuncia a fare «proposte alternative» finisce col rendere non del tutto
chiari nemmeno i suoi rilievi critici. Sembra tuttavia profilarsi nella recen-

1
iSui rapporti tra Stendhal e gli idéologues vedi ora Sergio Moravia, Il tramonto dell’Illumi-
nismo, Bari 1968, pp. 26 sgg., 366 sgg. e altrove. Si noti anche che Stendhal, in Racine et Shake-
speare e negli altri scritti con questo collegati, aderì al romanticismo letterario nella sua forma
milanese, non in quella francese, proprio perché la prima era molto più ricca di eredità illumi-
nistica.
Prefazione alla seconda edizione lxxxix

sione di Colaiacomo quell’itinerario per cui, partiti da una critica in par-


te giusta del provincialismo della visione nazionale-popolare del nostro
Ottocento, si finisce coll’approdare non alla proposta di una linea politi-
co-culturale e storiografica più avanzata (cioè più internazionalista e più
rivoluzionaria), ma ad un totale distacco tra politica e letteratura; e da un
lato si ritiene possibile un’azione rivoluzionaria non accompagnata da
alcun rinnovamento culturale, dall’altro, se cultura e letteratura ha anco-
ra da esserci, ci si compiace unicamente della letteratura «grande-borghe-
se», ossia del decadentismo. In una simile prospettiva, la critica al pro-
vincialismo assume un carattere bifronte: provinciale è, per un verso, tutto
ciò che vuol rinchiudere in un àmbito meramente nazionale la lotta del
proletariato contro la borghesia (e questo è giusto, anche se occorrerà cau-
tela nell’applicare retroattivamente questo giudizio in sede storica); per un
altro verso, tutto ciò che non è «grande-borghese» o «grande-europeo»;
** come se questo eurocentrismo di alto livello, nella sua illusione di non
aver nulla da imparare dai «sottosviluppati», non fosse esso stesso som-
mamente provinciale. Il compito del critico operaio-decadente consiste-
rebbe allora, per quel che riguarda l’Ottocento italiano, nel ritrovare in
tutti i suoi rappresentanti – nel Di Breme come nel Giordani, e, quel che
è molto peggio, nel Leopardi come nel Pisacane: cfr. Colaiacomo, rec. cit.,
pp. 736 sg., 739 – i prodotti di un’educazione cattolico-paesana: s’inten-
de che anche il materialismo leopardiano rivelerebbe, rovesciata ma non
superata, la «dimensione intellettuale» cattolica, e che anche il Pisacane
non andrebbe al di là di una visione «nazionale» e «populistica». Un’e-
ventuale prosecuzione della discussione con Colaiacomo permetterà di
chiarire se il dissenso si pone precisamente in questi termini.2
Ciò non esclude affatto che il classicismo illuminista italiano presenti,
anche a mio parere, dei limiti «nazionali». Uno, al quale ho accennato nel
corso del libro (pp. 16-17, 62 sg.; cfr. Colaiacomo, p. 734 sg.), ma che
merita maggior risalto, è la carenza di giacobinismo. Alcuni classicisti, pur
passati attraverso un’esperienza giacobina (basti ricordare il Foscolo),
mutano orientamento già prima della Restaurazione: su questa parabola,

2
iPer quel che riguarda le posizioni di Asor Rosa, che stanno alla base del discorso di Colaia-
como, e che certo hanno grandemente contribuito a rinnovare il dibattito politico-culturale
all’interno della sinistra italiana, condivido le osservazioni di C. A. Madrignani in «Giovane cri-
tica» 15-16, primavera-estate 1967, p. 83 sgg. e in «Nuovo impegno» 12-13, maggio-ottobre
1968, p. 134 sg., e di G. P. Samonà nell’introduzione agli Scritti letterari di Trotskij, Roma 1968,
pp. 12-16.
xc Prefazione alla seconda edizione

studiata in alcune figure particolarmente significative, si veda ora il libro


di Marco Cerruti, Neoclassici e giacobini, Milano 1969. Altri non
mostrano neppure una chiara coscienza della rottura che la Rivoluzione
aveva compiuto nei riguardi del dispotismo illuminato; la loro nostalgia
del Settecento è in sostanza, sul piano politico, nostalgia di un riformismo
prerivoluzionario idealizzato, che essi vedono continuato dal riformismo
napoleonico (malgrado la loro ostilità verso l’aspetto militarista del bona-
partismo) e interrotto soltanto dalla Restaurazione: è il caso del Giordani
e perfino del Cattaneo fino alla vigilia delle Cinque giornate. In questa
aspirazione al riformismo si affacciano ogni tanto – non nell’antisociali-
sta Cattaneo, ma per esempio nel Giordani – pensieri di ardita riforma
sociale; ma come del resto accade perfino nei grandi socialisti utopisti fran-
cesi e inglesi, in un Fourier o in un Owen, l’audacia dei programmi non è
collegata col problema della forza politica capace di attuarli: e, per di più,
a causa dell’arretratezza della situazione politica e sociale italiana, la cri-
tica dei programmi e della retorica liberale-moderata si trasferisce facil-
mente su un piano meta-politico: è il caso del Leopardi. Non mancano
certo le eccezioni: c’è l’Angeloni (cfr. p. 11 sg.) e c’è soprattutto il Pisaca-
ne, sul quale vorrei una volta ritornare, pur dopo le pagine particolarmente
acute di Giuseppe Berti (I democratici e l’iniziativa meridionale, capp.
II sgg.), sia per indagare più a fondo il legame da lui stabilito tra materia-
lismo e rivoluzione, sia per inserire, anche sul piano letterario, la prosa del
Pisacane in una corrente stilistica che chiamerei provvisoriamente «demo-
cratico-militare» e che, nata negli anni del giacobinismo, ha un suo svi-
luppo per tutto il primo e il medio Ottocento.
Un altro limite è stato messo giustamente in rilievo da Lanfranco Caret-
ti (nell’«Approdo letterario» n. 34, aprile-giugno 1966, p. 121 sg.). La cri-
si della cultura positivistica in Italia alla fine del secolo scorso, la facilità
con cui il positivismo fu battuto da «correnti spiritualistiche e idealisti-
che di chiara ascendenza romantica» (a differenza di altri paesi, dove la
stessa crisi si svolse in parte nell’ambito stesso della cultura scientifica e
non contro la scienza), pone retrospettivamente, come osserva Caretti, il
problema «della non salda impostazione ideologica del classicismo e poi
del positivismo, insomma della intrinseca debolezza filosofica delle posi-
zioni materialistiche nell’Italia dell’Ottocento». In effetti, vi sono nella
cultura italiana del primo Ottocento spunti materialistici di pregnante
verità, ma essi sono dovuti a letterati (oltre al Giordani e al Leopardi si può
ricordare Carlo Bini** nel Manoscritto d’un prigioniero, così distac-
Prefazione alla seconda edizione xci

cato, ideologicamente e stilisticamente, dall’ambiente mazziniano e guer-


razziano da cui sorse) o a politici (Angeloni, Pisacane); questi spunti sono
già filosofia, e non pura letteratura o pura politica; ma è evidente che una
filosofia, per affermarsi, ha bisogno anche di un’elaborazione concettua-
le, specificamente e professionalmente filosofica; e questa mancò, come
del resto era quasi del tutto mancata, in Italia, già nel Settecento. Si
aggiunga che lo Zibaldone, nel quale il Leopardi aveva più distesamente
argomentato la propria filosofia, rimase ignoto fino alla fine del secolo
scorso. E anche correnti di pensiero non rigorosamente materialistico, ma
laico-illuministico ebbero scarsissima elaborazione filosofica nell’Italia
del primo Ottocento: un fenomeno, questo, che è certamente connesso col
ritardato sviluppo industriale dell’Italia; per cui, anche quando si parla,
in questo libro, della «scientificità» della visione del mondo leopardiana,
si intende evidentemente parlare di una smitizzazione che sgombrava il ter-
reno da ogni pregiudizio e illusione antiscientifica, non di una saldatura
effettivamente avvenuta allora in Italia tra questa visione generale e una
cultura scientifica moderna.

Il campo in cui l’eredità del classicismo illuminista meglio si sviluppa


e meglio si distingue dal generale clima positivistico del secondo Ottocen-
to è la linguistica, grazie al legame che unisce il Cattaneo linguista al clas-
sicismo del primo Ottocento (e, risalendo più addietro, a Scipione Maffei)
e l’Ascoli al Cattaneo. Sulla posizione dell’Ascoli nella questione della
lingua molto di importante e di nuovo è contenuto nei saggi di Dionisot-
ti e di Raicich citati nelle { postille a stampa} al presente volume; sui rap-
porti tra purismo e classicismo ha continuato fruttuosamente a indagare,
anche in questi ultimi anni, Maurizio Vitale, la cui Storia del purismo,
di prossima pubblicazione, permetterà una più esatta visione dell’intrec-
ciarsi di tendenze diverse nei dibattiti sul problema della lingua nel primo
Ottocento.
Non mi semba di poter consentire altrettanto incondizionatamente con
la relazione di Maria Corti sul Problema della lingua nel romanticismo
italiano, tenuta al congresso di Budapest nel 1967 e pubblicata ora nel
volume Metodi e fantasmi (Milano 1969, p. 163 sgg.). Il discorso della
Corti è vivace e persuasivo finché rievoca le polemiche sulla lingua svol-
tesi a Milano negli ultimi anni napoleonici e nei primi della Restaurazio-
ne e finché mette in risalto alcune acute osservazioni di Giovanni Ghe-
rardini, a proposito delle koinai regionali e della loro funzione mediatrice
xcii Prefazione alla seconda edizione

tra dialetti e lingua nazionale. Diviene, invece, sfocato e poco convincen-


te quando vuol negare, con una perentorietà a cui non fa riscontro un suf-
ficiente approfondimento, l’esistenza di una linea di sviluppo Monti-Cat-
taneo-Ascoli (p. 167 sgg.). Che nella posizione del Monti sul problema
della lingua ci sia un contrasto fra esigenza di modernità ed esigenza di de-
coro aulico, che il Monti sia, per questo rispetto, meno avanzato di quan-
to era stato una trentina d’anni prima il Cesarotti o di quanto sarà di lì a
poco l’ex montiano Francesco Torti, è cosa risaputa: la si trova molto esat-
tamente esposta, per esempio, nella Questione della lingua di Maurizio
Vitale (pp. 181, 191 sg.), ed è accennata, come ovvia, anche nel presente
libro (pp. 12, 334 n. 16, 392). Non si vede, perciò, come a questo propo-
sito si possa parlare di «contraddizioni non ancora messe in luce». Che il
Monti, nel suo programma di unità linguistica, si riferisca alla «lingua let-
teraria», è vero, purché si intenda, però, questa espressione nel senso ampio
di lingua di cultura, incluso perciò il linguaggio scientifico e tecnico: è
questo uno dei punti sui quali la Proposta più insiste, a cominciare della
lettera dedicatoria al Trivulzio. Quando il Monti si scaglia contro la lin-
gua «plebea», appresa «dalla balia», sarebbe erroneo vedere in queste
parole soltanto un segno di disprezzo per il volgo: esse esprimono anche la
consapevolezza che non è mimando le parlate popolari in ciò che hanno di
gergale e di macchiettistico, che si può formare la lingua di una nazione
moderna: la nascita di tale lingua è un fatto di cultura e non di folclore.
La formula montiana dell’«uso sanzionato dalla ragione» attribuisce
alla ragione una funzione selezionatrice, normalizzatrice, analogistica, di
contro al gusto della Crusca di andare in cerca di «fiori di lingua», di ribo-
boli, di forme rare e gergali. Su questo punto, cioè sul non volersi abban-
donare alle anomalie dell’uso e sul rifarsi alla «grammatica generale»
(identificata con la logica) in funzione normalizzatrice, sono perfettamen-
te d’accordo col Monti anche gli scrittori del «Conciliatore», primo fra
tutti il Di Breme, ma anche il Borsieri.3 Certo, il Monti si richiama anche

3
iPer il Di Breme cfr. «Belfagor», XXII, 1967, p. 240 sg. Per il Borsieri si veda ora l’intro-
duzione alla «Biblioteca italiana» (rimasta allora inedita) nell’edizione delle Avventure letterarie
di un giorno e altri scritti a cura di G. Alessandrini, Roma 1967, p. 131 sg. ** Bisogna, dice il
Borsieri, regolare la lingua «secondo le leggi della logica e dell’analogia»; c’è chi è nemico di ogni
innovazione e c’è chi «s’arroga di mutare d’inventare d’aggiugnere e s’usurpa quel diritto che
appartiene unicamente ad un intelletto cresciuto nella meditazione». Come si vede, se il Monti
compie un passo indietro rispetto al Settecento in quanto ammette soltanto l’«innovazione con-
dizionata» (così la Corti, p. 168), lo stesso passo indietro è compiuto anche dai romantici lom-
bardi, e più tardi dal Cattaneo. E per tutti costoro l’innovazione, si badi, non è condizionata
Prefazione alla seconda edizione xciii

all’autorità degli scrittori; ma rompe il canone chiuso degli scrittori appro-


vati dal purismo – non solo dal purismo trecentista, ma anche da quello
cinquecentista – e insiste sul fatto che bisogna dischiudere il vocabolario
alle parole usate dagli scrittori di scienze, compresi quelli del Settecento
(vedi ancora la lettera-prefazione al Trivulzio e i molti vocaboli scientifici
trattati nella Proposta).
Linea di sviluppo non vuol dire, ovviamente, ripetizione delle stesse
idee in situazioni mutate. Avevo avuto cura di avvertire (p. 392) che la
continuità Monti-Cattaneo-Ascoli è «una continuità non statica»; più di
recente, in una recensione all’edizione del Proemio ascoliano curata da
Corrado Grassi (in «Critica storica» VII, 1968, p. 400 sg.), sono ritorna-
to, con maggiori particolari, sulla differenza tra la tesi del Cattaneo e quel-
la del Perticari sulla formazione della lingua italiana. Ma proprio quell’e-
sigenza a cui poco sopra accennavamo, che l’unificazione linguistica
avvenga al livello della cultura nazionale (di una cultura anche scientifi-
ca e non solo letteraria), e non cercando di adeguarsi a un’anacronistica
«ingenuità» popolaresca, rappresenta l’elemento comune al classicismo
montiano, al Cattaneo, e all’Ascoli. Comune a tutti e tre è anche il peri-
colo correlativo, di un certo eccesso di compostezza aulica: né la prosa stu-
penda del Cattaneo, né quella, più faticosa, dell’Ascoli si distinguono per
quella spigliatezza e quel brio – giornalistico nel senso buono del termine
– a cui avevano mirato gli scrittori del «Caffè» e quelli del «Conciliato-
re», ma per una voluta austerità, che si manifesta perfino nell’ortografia
alquanto latineggiante. E non manca affatto negli scritti linguistici del
Cattaneo la nota «antiplebea» che la Corti isola e stigmatizza nel Monti:
vedi gli accenni contro gli scritti «pezzati di riboboli da piazza» (SL, I, p.
109) e l’accusa alla Crusca di «conformarsi servilmente a tutti i capricci e
li errori della plebe» e di trascrivere fedelmente «ciò che cicalavano le
comari» (SL, I, p. 261) e il passo che citiamo alle pp. 486-487 n. 16. Non
manca la diffidenza contro l’appello incondizionato all’uso in fatto di lin-
gua: «Ma tali erano i nuovi decreti dell’uso; il quale è sempre giusto, e
sempre venerabile, a chi è schiavo dell’autorità e incapace della ragione»
(SL, I, p. 260). E addirittura, sia pure in una momentanea impennata
polemica, si può trovare un aspro veto alle innovazioni di origine popola-

solo dall’autorità degli scrittori, ma dalla «ragione», che esercita una funzione analogistica; anzi,
gli scrittori hanno autorità non tanto in virtù della loro efficacia artistica, ma in quanto si iden-
tificano con le esigenze della logica.
xciv Prefazione alla seconda edizione

re: «Queste parole vostre (...) se sono nate ieri, oggi, come i funghi e le
muffe, lasciatele dove stanno; che la nostra lingua è cosa fatta, grazie a
Dio, non cosa da fare» (SL, I, p. 116).
D’altra parte, mentre l’adesione del Cattaneo alle idee e all’ambiente
del Monti è ben documentata anche al di fuori delle questioni linguistiche,
mancano, che io sappia, le prove di un particolare influsso esercitato su di
lui dal Gherardini. Non pare, soprattutto, che il Cattaneo abbia avuto
chiara consapevolezza di una «critica da sinistra» del Gherardini nei
riguardi delle idee linguistiche del Monti. L’unica lode, per quel che mi
risulta, che il Cattaneo rivolga al Gherardini è per aver rifiutato alcune
voci ribobolesche della Crusca (SL, I, p. 262 sg.); e la lode è accompagnata
da parole che sembrano avere un senso limitativo: «Onde anche quelli che
non consentiranno punto per punto a tutte le opinioni dell’egregio nostro
Gherardini, non potranno negargli un tributo di gratitudine per ciò ch’e-
gli fece a liberare il dizionario nazionale da codesti disonorevoli imbrat-
ti». Poco oltre, nello stesso scritto (p. 264), il Gherardini è citato fra gli
emendatori e integratori della Crusca, ma insieme al Monti e al Perticari,
non in contrapposizione ad essi. E questo è tutto, poiché la commemora-
zione del Gherardini (in SL, II, p. 171 sgg.), che la Corti (p. 178) attri-
buisce al Cattaneo, appartiene invece a Giovanni De Castro, come già da
tempo è stato messo in chiaro (vedi l’avvertenza iniziale alla ristampa del
1948 di SL, II).
Nell’ambito della questione della lingua, su un solo punto il Cattaneo
si distaccò qualche volta dai classicisti: nella valutazione della letteratura
dialettale. Ma anche qui, l’appendice che ho dedicato a questo problema
(p. 483 sgg.) mostra quanto sia erroneo assimilare senz’altro la posizione
del Cattaneo e quella dei romantici, quanto sia contraddittorio il suo
atteggiamento di fronte ai dialetti, e come tale contraddittorietà derivi non
da banale incoerenza, ma dalla difficoltà di conciliare i diritti delle «pic-
cole patrie» locali con l’esigenza cosmopolita.
La posizione antidialettale del Giordani, condivisa anche dal Monti,4
non si può liquidare con un richiamo alla sua idea che il perfetto scritto-
re italiano dovesse essere nobile. Prima di tutto, la rivendicazione pole-

4
iIl Dialogo di Matteo giornalista, Taddeo suo compare ecc., che la Corti (p. 175, n. 25) sem-
bra ritenere del Giordani o di autore ignoto, è del Monti: esso compare già nell’edizione dei Dia-
loghi del Cav. V. Monti (Milano 1827) e di nuovo nell’edizione Resnati delle Opere (V, Milano
1841, p. 534 sgg.); e contiene, a sostegno degli argomenti portati dal Giordani, altri argomenti
tutt’altro che trascurabili.
Prefazione alla seconda edizione xcv

mica della condizione di nobile come possibilità di indipendenza dello


scrittore, in funzione antitirannica e (più o meno chiaramente) antibor-
ghese, conta fra i suoi sostenitori, oltre al Giordani, un Alfieri e un Leo-
pardi: è un mito libertario di cui è facile scorgere i limiti e i condiziona-
menti sociali, ma che non può essere confuso con una banale posizione
conservatrice. Poi, le opinioni del Giordani sulla nobiltà ebbero un’evo-
luzione che non può essere ignorata, e che, in realtà, era già implicita in
quell’iniziale vagheggiamento di una nobiltà ideale e astratta (vedi qui sot-
to, p. 68 sgg. e aggiunta a p. 68).
Ma soprattutto sarebbe tempo di chiedersi se l’azione di diffusione del-
la cultura tra il popolo, che il Borsieri e il Cherubini assegnavano alla let-
teratura dialettale («diffondere più facilmente una certa cultura nel vol-
go», «dirozzare i men colti» ecc.), o l’azione di «rottura delle pertinaci
tradizioni domestiche» e d’incentivo al progresso che le assegnava il Cat-
taneo, abbiano avuto un’effettiva attuazione. Mi sembra chiaro che non
l’hanno avuta, e che c’è un abisso tra il reale significato e valore della poe-
sia di un Porta o di un Belli e le «giustificazioni» di quei difensori della
letteratura in dialetto. Basti riflettere un momento sul fatto che quelle giu-
stificazioni avrebbero richiesto uno sviluppo della letteratura dialettale i n
p r o s a (con una congiunta azione di insegnamento elementare della let-
tura e scrittura in dialetto), che mancò quasi del tutto, e che certamente né
un Porta né un Belli si proposero mai. Né, d’altra parte, Borsieri o Catta-
neo intendevano valorizzare la letteratura dialettale come espressione di
una cultura di classi subalterne in antagonismo alla cultura borghese, o di un
programma giacobino di alleanza fra borghesia avanzata, contadini e arti-
giani: ciò avrebbe implicato un far causa comune non col «popolo» nel
senso del Berchet, ma con quelli che Berchet stesso chiamava gli «otten-
toti»; e una prospettiva di questo tipo, mentre era stata lucidamente teo-
rizzata alla fine del Settecento in ambienti giacobini e aveva ispirato le
poesie in dialetto piemontese di Edoardo Calvo,5 esorbitava (è questa una
semplice constatazione, non una deplorazione antistorica) dai programmi
dei romantici come da quelli dello stesso Cattaneo. Vi è, certo, nel Bor-
sieri il giusto richiamo all’esigenza di studiare i dialetti come documenti di

5
iVedi M. Cerruti, Neoclassici e giacobini cit., cap. III e specialmente, pp. 191, 192-94. In
questo quadro andrebbe anche ripreso in esame, per esempio, quel Lorenzo Cardone, autore del
Te Deum dei calabresi, sul quale aveva già richiamato l’attenzione il Settembrini (Lezioni di let-
teratura italiana a cura di G. Innamorati, vol. II, pp. 1034 sg.; |cfr. ora A. Barbuto, La protesta
l’utopia lo scacco: il Te Deum de’ Calabresi di G. L. Cardone, Roma 1975|).
xcvi Prefazione alla seconda edizione

tradizioni e di psicologia popolare; ma, si badi, questa esigenza (che del


resto il Giordani stesso non negava, cfr. p. 46) rimane non coordinata con
l’altro intento, di far servire la poesia dialettale a un fine pedagogico. Il
romantico milanese accoglie dal romanticismo europeo, oltre che dal Pari-
ni, la consegna di promuovere la letteratura in dialetto; ma sente troppo
l’eredità illuministica per far sua un’esaltazione populistico-reazionaria
dei dialetti, quale si trova in alcuni romantici tedeschi; è troppo ottimi-
sticamente fiducioso nel progresso per riconoscere alla poesia dialettale un
ruolo di rappresentazione veristica, «senza lacrime», di un’eterna miseria
popolare; è troppo antigiacobino per dare alla rivendicazione del dialetto
un significato classista. Da uno studio di queste contraddizioni – alle qua-
li si aggiunge il «patriottismo milanese» coi suoi non infondati orgogli e
coi suoi grossi equivoci – deve partire un riesame delle idee del romanti-
cismo lombardo sui dialetti e sulla poesia popolare.
Vorrei ancora accennare ad un’obiezione che, sebbene non formulata
esplicitamente da alcun recensore (se non forse, di scorcio, dal Colaiacomo),
è però implicita nelle discussioni di prospettiva politico-culturale che han-
no impegnato l’estrema sinistra in questi ultimi anni. La rivalutazione del-
l’illuminismo contro il romanticismo non significherà esaltazione del «pro-
gresso» borghese, e quindi, implicitamente, della disumanizzazione e dello
sfruttamento razionalizzato che questo cosiddetto progresso reca necessa-
riamente in sé? Non dovrebbe dunque la polemica, invece che contro l’o-
biettivo ormai arretrato del romanticismo, essere rivolta proprio contro l’il-
luminismo, a cui oggi si richiamano (con tutte le ideologie neopositiviste,
strutturaliste ecc.) le correnti culturali più moderne e più agguerrite della
borghesia mondiale? Non ci sarà, viceversa, qualcosa da rivalutare nell’an-
ticapitalismo, sia pure antistorico, di certe correnti romantiche di destra?
Nelle forme più note che questa posizione ha assunto, e che sono rap-
presentate dalla Dialettica dell’illuminismo di Horkheimer e Adorno e, più
di recente, da L’illuminismo e la società moderna di Goldmann, essa è del
tutto insoddisfacente, perché, come già è stato osservato, coinvolge nella
critica del capitalismo non solo l’uso capitalistico della scienza, ma la
scienza stessa: il fatto che la distinzione sia spesso ardua non può indurre a
rinunziarvi, a meno di non cadere (e vi cadono infatti Horkheimer e Ador-
no) in un vero e proprio oscurantismo romantico-esistenzialisteggiante.6

6
iVedi Cesare Pianciola in «Quaderni piacentini», 29, gennaio 1967, p. 68 sgg.; Lucio Col-
letti, Il marxismo e Hegel, Bari 1969, p. 332 sgg.
Prefazione alla seconda edizione xcvii

Serve anche a poco, tanto più in sede storiografica, contrapporre a un illu-


minismo definito molto genericamente come «individualismo» un altret-
tanto generico «pensiero dialettico», che comprenderebbe tutti insieme
Hegel, Marx, Lukács e Heidegger, come fa con molta disinvoltura Gold-
mann (op. cit., trad. it., Torino 1967, p. 39 e altrove).
** Ha tuttavia una innegabile valore l’ammonimento ad evitare, anche
in sede storiografica, un uso indiscriminato e, per così dire, aclassista del
concetto di progresso. Se riscrivessi ora daccapo tutto il libro, cercherei di
eliminare alcuni residui di tale ambiguità, che si trovano specialmente nei
due saggi più vecchi (sul Giordani e su Cattaneo ed Ascoli). Credo però che
nell’insieme il presente libro tenga già conto di quell’esigenza: già nella
prefazione alla prima edizione (qui sopra, p. LXXVIII) si cerca di preci-
sare in che senso si parli qui di illuminismo, e a proposito del Cattaneo –
un autore che esercita sui suoi lettori e studiosi una suggestione partico-
larmente forte verso quel progressismo aclassista a cui accennavamo – si
sottolineano i limiti politico-sociali del suo pensiero forse più di quanto
facciano di solito gli storici (p. 368 sg.); e soprattutto si cerca di mettere in
rilievo come il Leopardi sottoponga alla critica più radicale i miti «uma-
nistici» non meno di quelli religioso-tradizionali, e superi quindi – ma in
una direzione opposta a quel romanticismo di cui Horkheimer e Adorno
rappresentano una tarda propaggine – il facile ottimismo di certo pensiero
razionalistico settecentesco o ottocentesco.
Credo anche indispensabile mantenere la distinzione, che ho ripreso da
Antonio La Penna, tra progressismo politico-sociale e progressismo come
conquista di una visione laica e materialistica della realtà (p. 134 sg.): una
distinzione che certamente ha ancora bisogno di precisazioni e ap-
profondimenti,7 ma che ad ogni modo serve già ad escludere che si possa-
no mettere sullo stesso piano fasi di pensiero borghese laico-materialista,
come l’illuminismo e come il darwinismo, e fasi di involuzione spiritua-
listica, come il romanticismo e la «rinascita idealistica» del primo Nove-
cento. Va anche notato che tale distinzione non coincide con quella, più
comunemente adoperata, fra progresso sociale e progresso tecnico: spesso,
anche nell’epoca attuale, il progresso tecnico coesiste con concezioni gene-
rali della realtà agnostiche o spiritualistiche; e proprio contro un connubio

7
iCfr. per ora «Quaderni piacentini» 32, ottobre 1967, p. 125 sg.; Paolo Cristofolini in
«Nuovo impegno» 9-10, 1967-68, p. 47, n. 5; Ersilia Alessandrone in «Annali della Scuola Nor-
male», 1966, p. 329.
xcviii Prefazione alla seconda edizione

di questa sorta si rivolge la polemica leopardiana del Tristano, della Pali-


nodia e della Ginestra.
Nella prefazione alla prima edizione accennavo che avrei cercato di giu-
stificare altrove con maggiore ampiezza quella specie di marxismo-leopar-
dismo che costituisce il sottofondo ideologico di questi saggi. ** Quel pro-
posito ha avuto un primo inizio di attuazione con le Considerazioni sul
materialismo («Quaderni piacentini» 28, settembre 1966, p. 76 sgg.) e
con la discussione, che ne è seguita (nei numeri 29, 30 e 32 della stessa
rivista e in «Problemi» I, gennaio-febbraio 1967, p. 42 sg.; 2, marzo-apri-
le 1967, p. 93 sg.; vedi anche Luciano Della Mea in «Mondo nuovo» 19
febbraio 1967 e in «Nuovo impegno» 12-13, maggio-ottobre 1968, p.
104 sg.). La discussione, spero, proseguirà. Ma il «leopardismo» non deve,
come è ovvio, far perdere di vista il Leopardi, e in particolar modo il Leo-
pardi poeta. Occupandomi quasi esclusivamente del pensiero e della cul-
tura leopardiana, e non della poesia, sono stato fin dall’inizio ben consa-
pevole di svolgere una ricerca settoriale, non autosufficiente; per questo ho
spesso rinviato ai lavori di quei critici che, pur senza nulla concedere alla
concezione profondamente falsa e sviante di un Leopardi «poeta puro»,
hanno posto la poesia leopardiana al centro della loro attenzione; per que-
sto, anche, ho cercato di mostrare come la filosofia stessa del Leopardi
tragga origine, in notevole misura, dal classicismo italiano, cioè da una
tradizione letteraria (nel senso molto largo e complesso che la nozione di
letteratura aveva nel Sette-Ottocento) piuttosto che filosofica.
Si può, tuttavia, contestare una simile «divisione del lavoro» tra studio-
si del pensiero e studiosi della poesia leopardiana, e ritenere che ogni studio
che non integri direttamente la filosofia del Leopardi nella sua poesia fini-
sca col dare della prima un’immagine deformata. È ciò che, da punti di vista
diversi, obiettano Franco Fortini in una nota pubblicata nei «Quaderni pia-
centini» 30 (aprile 1967), p. 91 sgg. e Giulio Bollati nell’introduzione alla
Crestomazia leopardiana della prosa (Torino 1968, p. LXXIII).
I due diversi modi con cui Fortini da un lato, Bollati dall’altro accen-
nano a operare la saldatura tra i due aspetti della personalità leopardiana
mi lasciano qualche dubbio. Fortini, pur rendendosi chiaramente conto
della necessità di non ripetere la vecchia formula della contraddizione tra
«ragione» e «cuore» in Leopardi, è irresistibilmente attratto, mi sembra,
verso una concezione mistica della poesia. Si tratta, certo, di un mistici-
smo tutt’altro che soddisfatto di sé, anzi convinto del dovere di negarsi nel-
l’azione rivoluzionaria, ma convinto anche che tale negazione sia in un cer-
Prefazione alla seconda edizione xcix

to senso, necessariamente, negazione della poesia, perché essenziale alla


poesia, e a quella moderna in particolare, sarebbe una sorta di alto narci-
sismo e di gioia della propria sofferenza. Mi chiedo se alla «poesia lirica
dell’età moderna» intesa così appartenga veramente il Leopardi, o se que-
sto modo di leggere Leopardi non lo renda troppo simile a un Baudelaire,
a un Rimbaud, a tutta una stagione poetica europea di cui Fortini sente
in sé l’eredità (assieme al bisogno di rinnegarla), ma a cui Leopardi è ante-
riore e sostanzialmente estraneo.
Bollati sviluppa, con finezza straordinaria, un discorso che parte dalla
Crestomazia (e di quest’opera ci fa comprendere per la prima volta l’im-
portanza, in quanto rivelatrice del gusto letterario leopardiano e del con-
cetto stesso leopardiano di letteratura), ma si estende poi all’intera perso-
nalità del Leopardi. Egli non vede in Leopardi contraddizione tra pensiero
e poesia, ma ritiene che il Leopardi scrittore contenga e risolva in sé tutti
gli altri aspetti: «Leopardi filosofo, Leopardi politico sono impliciti nella
nozione di letteratura che presiede alla sua formazione». Ciò è pienamen-
te giusto (vedi quanto abbiamo osservato poco fa sui rapporti del pensiero
leopardiano con la tradizione classicista); e ogni volta che Bollati insiste
sull’avversione del Leopardi ad ogni specializzazione e ad ogni settoriali-
smo, sull’esigenza di totalità che per lui, e per tutta una tradizione ante-
riore a lui, lo scrittore ha appunto il compito di attuare, riesce del tutto
convincente.8 Senonché troppe altre volte, nel precisare il concetto leo-
pardiano di letteratura, Bollati lo fa consistere in una specie di raffina-
tissima civetteria, di gusto del «travestimento», della simulazione, dell’a-
libi (vedi specialmente p. LXXV sg.). Da una letteratura così intesa
rimangono fuori i risultati più alti del pensiero e della poesia leopardiana:
il «titanismo» e la «pietà», il Leopardi «idillico» e il Leopardi eroico.
L’aver preso la Crestomazia come punto di partenza di un’interpretazio-
ne di tutto Leopardi, se da un lato, come abbiamo detto, si è rivelato estre-
mamente fecondo, dall’altro ha facilitato una certa sopravvalutazione di
aspetti che nella personalità umana e letteraria del Leopardi, certo, ci sono,
ma che tutto sommato sono marginali.
Rimane, comunque, ben viva l’esigenza additata da Bollati e da Forti-
ni. Ma per soddisfarla compiutamente occorrerebbe, credo, se non una

8
iVedi specialmente, pp. LXXIV, XC sg., XCVI. Una parziale eccezione credo si deva fare
per l’attività filologica del Leopardi, che da un certo momento in poi si sviluppò anche come atti-
vità «tecnica», non soltanto in relazione ai suoi interessi letterari e umani per il mondo antico.
c Prefazione alla seconda edizione

nuova estetica nel senso tradizionale del termine, una nuova giustificazio-
ne della sopravvivenza dell’arte nella cultura moderna e una nuova dimo-
strazione della possibilità di giudizi estetici non puramente soggettivi. Per
chi neghi a qualsiasi specie di esperienza «intuitiva» o mistica un valore
conoscitivo superiore o complementare a quello della conoscenza scienti-
fica, e d’altra parte si renda conto dell’insufficienza di una critica pura-
mente ideologica e contenutistica, la soluzione dovrà essere ricercata, cre-
do, su quel terreno sensistico-edonistico sul quale era stata già ricercata nel
Settecento e sul quale continuò sempre a ricercarla, nei pensieri estetici
dello Zibaldone, il Leopardi. Ma questo è un problema che va molto al di
là dell’argomento di questo libro e delle capacità dell’autore.
s. t.
maggio 1969 **
Nota alla ristampa 1988 della seconda edizione **

Testo epigrafe, testo epigrafe, testo epigrafe, testo epigrafe,


testo epigrafe, testo epigrafe.
Nome Cognome

Questa seconda edizione del 1969, notevolmente accresciuta rispet-


to alla prima del 1965, venne ristampata senza mutamenti nel 1973,
nel 1977, nel 1984. Viene ora nuovamente ristampata, anche questa
volta senza mutamenti. Avrei voluto aggiungere un breve postscrip-
tum, un saggio su Epicuro, Lucrezio e Leopardi (a parziale modifica
e integrazione di quanto avevo scritto a pp. 221-224) {ed. ’69; qui pp.
177-180} e poche brevi postille. Ma avrei bisogno ancora di un certo
tempo – più di quanto avevo previsto –, e intanto questo libro ormai
annoso, con mia meraviglia, viene ancora richiesto, e l’amico editore,
del tutto giustamente, ha fretta. Se anche questa ristampa si esaurirà,
spero di poter pubblicare, la prossima volta, l’edizione accresciuta.
Per ora avverto soltanto che altri saggi, riguardanti anch’essi in gran
parte il Leopardi, il Giordani e altri personaggi e ambienti di cui si
tratta in questo libro, sono usciti nei due volumi Aspetti e figure della
cultura ottocentesca (Nistri-Lischi, Pisa 1980) e Antileopardiani e neo-
moderati nella sinistra italiana (ETS, Pisa 1982); e che alcuni degli
scritti teorico-polemici a cui alludevo qui sopra (p. XCVIII) sono sta-
ti raccolti, insieme ad altri, nel volume Sul materialismo (Nistri-Lischi,
seconda ed. riveduta e ampliata, Pisa 1975). Vorrei, con un po’ di
sfrontatezza, pregare i lettori di questo libro di tener presente anche
quei successivi volumi meno fortunati, poiché su vari punti essi con-
tengono aggiunte e correzioni di un certo rilievo a quanto avevo scrit-
to nel presente volume.
S. T.
febbraio 1988
Avvertenze sulle citazioni, sulle postille
e sulle aggiunte bibliografiche

Avvertenza sulle citazioni

giordani: col solo numero romano (del tomo) e arabico (della pagi-
na) è indicata l’edizione delle Opere a cura di Antonio Gussalli, Milano
1854-62. Con Lett. è indicata l’edizione delle Lettere a cura di Giovan-
ni Ferretti, Bari 1937.

leopardi: con PP è indicata l’edizione di Tutte le opere: Le poesie e


le prose, a cura di Francesco Flora, Milano 1940 (e successive ristam-
pe). Dello Zibaldone (abbreviato Zib.) sono citate sempre le pagine del-
l’autografo, riportate ** sia nella vecchia edizione Le Monnier in sette
volumi, sia nell’edizione Mondadori a cura di Francesco Flora [sia nel
vol. II di Tutte le opere (Sansoni) a cura di Walter Binni ed Enrico
Ghidetti. Aspettiamo ancora con desiderio la nuova edizione critica
e commentata a cura di Giuseppe Pacella].

cattaneo: Epist. = Epistolario a cura di R. Caddeo, Firenze 1949-56;


SF = Scritti filosofici a cura di N. Bobbio, Firenze 1960; ** SL = Scrit-
ti letterari a cura di A. Bertani, ristampa con aggiunte, Firenze 1948;
SSG = Scritti storici e geografici a cura di G. Salvemini e E. Sestan,
Firenze 1957.

[Nel saggio su Cattaneo ed Ascoli] **, con la sola parola Silloge è


indicata la Silloge linguistica dedicata alla memoria di G. I. Ascoli nel
primo centenario della nascita, Torino 1939 (= «Archivio glottologico
italiano» XXII-XXIII).
civ Avvertenze sulle citazioni, sulle postille e sulle aggiunte bibliografiche

[Per altre abbreviazioni, che compaiono solo nelle aggiunte a que-


sta terza edizione, vedi sotto, p. 000.] **

Avvertenza sulle Postille e aggiunte bibliografiche

Non si cercherà in queste aggiunte un repertorio bibliografico di


tutto ciò che è uscito sugli argomenti trattati nel presente volume
dopo la pubblicazione della prima edizione, ma solo la citazione di
opere e di contributi che mi sembrano di particolare importanza per
integrare, correggere, ampliare ciò che è stato detto nelle pagine {se-
guenti}. Si tenga anche presente, per la discussione di alcuni proble-
mi più generali, la prefazione {alla} seconda edizione.
Avvertenza sulle citazioni da «Aspetti e figure della cultura
ottocentesca»

giordani: col solo numero romano (del tomo) e arabico (della pagina)
è indicata l’edizione delle Opere a cura di Antonio Gussalli, Milano
1854-62. Con Lett. è indicata l’edizione delle Lettere a cura di Gio-
vanni Ferretti, Bari 1937.

leopardi: con PP è indicata l’edizione di Le poesie e le prose a cura


di Francesco Flora, Milano 1940 (e successive ristampe). Con TO è
indicata l’edizione di Tutte le opere a cura di Walter Binni con la col-
laborazione di Enrico Ghidetti, Firenze 1969. Dello Zibaldone (abbre-
viato Zib.) sono citate sempre le pagine dell’autografo, riportate sia
nella vecchia edizione Le Monnier in sette volumi, sia nell’edizione
Mondadori a cura del Flora, sia nel vol. II dell’edizione già citata di
Tutte le opere a cura di Binni-Ghidetti, sia nella nuova edizione criti-
ca, di prossima pubblicazione, a cura di Giuseppe Pacella.

Class. illum. = S. Timpanaro, Classicismo e illuminismo nell’Otto-


cento italiano, 2a ed. accresciuta, Pisa 1969.

Treves, Studio ant. class. = Piero Treves, Lo studio dell’antichità clas-


sica nell’Ottocento, Milano-Napoli 1962.

Altre abbreviazioni, che compaiono soltanto in singoli saggi del


volume,° sono indicate all’inizio dei saggi stessi.

°i{L’autore si riferisce, qui, ad «Aspetti e figure» quale singolo e autonomo volume, uscito nel
1980; il libro reca una dedica ad Augusto Campana – N. d. C. –}.
Avvertenza sulle citazioni da «Nuovi studi sul nostro Ottocento»

giordani: col solo numero romano (del tomo) e arabico (della pagina)
è indicata l’edizione delle Opere a cura di Antonio Gussalli, Milano
1854-62. Con Lett. è indicata l’edizione delle Lettere a cura di Gio-
vanni Ferretti, Bari 1937.

leopardi : con T.O. è indicata l’edizione di Tutte le opere a cura di


Walter Binni con la collaborazione di Enrico Ghidetti, Firenze 1969
(e successive ristampe). Dello Zibaldone (abbreviato Zib.) sono citate
sempre le pagine dell’autografo, riportate in tutte le edizioni, fino a
quella curata da Giuseppe Pacella, Milano 1991, la prima veramente
critica.

Class. illum. = S. Timpanaro, Classicismo e illuminismo nell’Ottocen-


to italiano, 2a ed. accresciuta, Pisa 1969 (e ristampe invariate). Aspetti
e figure = S. T., Aspetti e figure della cultura ottocentesca, Pisa 1980;
Antileopardiani = S. T., Antileopardiani e neomoderati nella Sinistra ita-
liana, Pisa 1982, rist. 1985.

Altre abbreviazioni, che compaiono soltanto in singoli saggi del


volume,° sono indicate all’inizio dei saggi stessi.

°i{L’autore si riferisce, qui, ai «Nuovi studi» quale singolo e autonomo volume, uscito nel 1994;
il libro reca una dedica a Lanfranco Caretti – N. d. C. –}.
Classicismo e illuminismo nell’Ottocento italiano

Testo epigrafe, testo epigrafe, testo epigrafe, testo epi-


grafe, testo epigrafe, testo epigrafe.
Nome Cognome
Introduzione*

Testo epigrafe, testo epigrafe, testo epigrafe, testo epigrafe,


testo epigrafe, testo epigrafe.
Nome Cognome

La polemica classico-romantica iniziatasi a Milano nel 1816 è stata


studiata in questi ultimi venti anni con ricchezza e originalità di risul-
tati. Ha dato impulso a questi studi la raccolta di testi curata dal Bel-
*iIn questi ultimi anni è stata molto ampliata la conoscenza degli scritti dei primi romanti-
ci italiani. Sono specialmente da segnalare le edizioni seguenti: L. Di Breme, Lettere a cura di
P. Camporesi, Torino 1966 (cfr. le recensioni del Fubini in «Giorn. stor. lett. ital.» CXLIV,
1967, p. 447 sgg., del sottoscritto in «Belfagor» XXII, 1967, p. 240 sgg. e di Roberto Cardini
in «Rassegna lett. ital.» LXXII, 1968, p. 447 sg.; altre lettere inedite, meno interessanti, sono
state pubblicate da M.-H. Laurent in «Giorn. stor. lett. ital.» CXLIV, 1967, p. 99 sgg.); S. Pel-
lico, Lettere milanesi a cura di M. Scotti, Torino 1963 (Supplemento XXVIII del «Giorn. stor.
lett. ital.»: edizione particolarmente accurata e intelligente); P. Borsieri **, Avventure lettera-
rie di un giorno e altri scritti editi e inediti a cura di G. Alessandrini, con prefazione di C. Muscet-
ta (tra gli inediti ha particolare interesse l’introduzione che il Borsieri aveva steso per la «Biblio-
teca Italiana», e che fu poi sostituita da quella del Giordani; l’edizione è condotta in modo
alquanto frettoloso e inesatto, cfr. M. Scotti in «Giorn. stor. lett. ital.» CXLV, 1968, p. 137
sgg. e P. Camporesi in «Lettere italiane» XX, 1968, p. 423 sgg.). **
Fra i contributi recenti sul romanticismo italiano e sulla polemica classico-romantica, oltre
agli articoli di G. Moget e di altri studiosi già citati nella prefazione a questa seconda edizione,
si veda il vol. VII (L’Ottocento) della Storia della letteratura italiana di vari autori (Milano, Gar-
zanti 1969). Gli studiosi che in quel volume si occupano più specificamente del romanticismo e
delle discussioni tra romantici e classicisti-illuministi (Giovanni Macchia, Giovanni Orioli e, per
l’aspetto politico-ideologico, Ettore Passerin d’Entrèves) muovono da una concezione e da una
valutazione del romanticismo diverse da quelle sostenute nel presente libro. Molto pregevole è,
comunque, soprattutto il saggio del Passerin. Nella stessa opera va anche segnalato il saggio di
Vittorio Spinazzola su La poesia romantico-risorgimentale, ricco di osservazioni felici sul rappor-
to autore-pubblico nell’Ottocento italiano. Ad altri saggi contenuti nello stesso volume accen-
neremo in seguito.
Del tutto inutile, a mio parere, è l’ambizioso tentativo di caratterizzazione del romanticismo
compiuto da Northrop Frye, Il mito romantico, in «Lettere italiane» XIX, 1967, p. 409 sgg.
(vedi la giusta recensione, forse ancora troppo benevola, di P. Fasano in «Rassegna letter. ital.»
LXXXII, 1968, p. 441 sgg.).
Per quel che riguarda, in particolare, i romantici lombardi, è importante il saggio di Marino
Berengo, Le lettere milanesi di Silvio Pellico, in «Riv. storica ital.» LXXVII, 1965, p. 159 sgg.:
4 Introduzione

lorini, a cui sono seguite quelle del Calcaterra e del Mazzali e l’edi-
zione di tutto il «Conciliatore» a cura del Branca.1
I temi su cui si è più insistito, soprattutto per opera di Mario Fubi-
ni,2 sono la continuità tra illuminismo e romanticismo lombardo, l’a-
spirazione dei romantici italiani ad annodare più stretti rapporti con
la cultura europea, il patriottismo liberale di un Berchet o di un Di
Breme, ben diverso dal patriottismo puramente letterario dei classi-
cisti retrivi. Anche di certi aspetti più propriamente romantici della
cultura italiana della Restaurazione sono stati rintracciati, special-
mente dal Binni,3 i precedenti settecenteschi. Più recentemente Giu-
seppe Petronio, prendendo le mosse da alcuni concetti storiografici di
Lukács e sviluppandoli originalmente in rapporto alla letteratura ita-
liana, ha battuto l’accento piuttosto sulla distinzione tra il cosiddetto
preromanticismo e il vero romanticismo, sorto in una ben diversa si-
tuazione storica.4
In tutti questi studi si parla, come è naturale, anche degli avversari
dei romantici, i classicisti; se ne parla spesso con acutezza e con com-
prensione. Proprio il Fubini ha caratterizzato efficacemente il pathos
che anima il classicismo patriottico di Carlo Botta e ha richiamato bre-

benché ispirato da calda simpatia per il gruppo del «Conciliatore», l’articolo mette bene in luce
(p. 170) la prospettiva più strettamente letteraria di questa rivista in confronto al «Caffè». Sul-
le differenze di idee e di temperamento fra il Di Breme, il Pellico e il Berchet vedi M. Puppo,
Atteggiamenti e problemi dei primi romantici italiani, in «Studium» LXIV, 1968, p. 92 sgg. **
(alcune giuste riserve di P. Fasano in «Rassegna letter. ital.» LXXII, 1968, p. 445).
1
iDiscussioni e polemiche sul romanticismo, a cura di E. Bellorini, Bari 1943; I manifesti ro-
mantici del 1816 e gli scritti principali del «Conciliatore» sul romanticismo, a cura di C. Calcaterra,
Torino 1951; Discorso di un Italiano intorno alla poesia romantica di G. Leopardi con una antolo-
gia di testimonianze sul romanticismo e un saggio introduttivo di F. Flora, a cura di E. Mazzali,
Bologna 1957; Il «Conciliatore», a cura di V. Branca, Firenze 1948-54, tre volumi.
2
iM. Fubini, Romanticismo italiano, 2ª ed., Bari 1960 (si vedano in particolare i saggi «Moti-
vi e figure della polemica romantica», del 1947, e «Giordani, Madame de Staël, Leopardi», del
1952).
3
iLa battaglia romantica in Italia (1947), ristampato in Critici e poeti del Cinquecento al Nove-
cento, Firenze 1951, p. 77 sg.
4
iVedi, del Petronio, l’articolo del 1957 Illuminismo, preromanticismo, romanticismo e Lessing
(ora nel volume Dall’illuminismo al verismo, Palermo 1963, p. 41 sgg.) e poi Il romanticismo (sto-
ria della critica), Palermo 1969, e ancor più recentemente le Proposte e ipotesi di lavoro per uno
studio del romanticismo (in Dall’illuminismo al verismo cit., p. 201 sgg.) e il volume L’attività let-
teraria in Italia, Palermo 1964, pp. 602 sgg., 637 sgg. Sugli equivoci a cui ha dato luogo il con-
cetto di «preromanticismo» nella storia della letteratura tedesca cfr. G. Lukács, Breve storia del-
la letteratura tedesca, trad. di C. Cases, Torino 1956, p. 67 sg.; C. Cases in «Società» X, 1954,
p. 493 sgg.
Introduzione 5

vemente l’attenzione, alla fine del suo saggio principale, sullo stimolo
che i classicisti con la loro stessa resistenza dettero all’elaborazione e
alla precisazione delle teorie romantiche. E tuttavia l’opposizione clas-
sicista è stata considerata finora, in complesso, o come il momento
negativo di un conflitto in cui il progresso e la ragione storica stava-
no dalla parte dei romantici, o come parte, essa stessa, del grande
movimento romantico, da cui l’avrebbero divisa soltanto episodici
malintesi, non ragioni profonde.
Ciò non è avvenuto a caso. Il movimento di idee che riuscì a pre-
valere nella cultura del primo Ottocento, in Italia come nelle altre
nazioni europee, fu il romanticismo. Esso esprimeva le esigenze di una
borghesia che intendeva affermarsi come forza preminente nel cam-
po politico e culturale senza però correre di nuovo il rischio di una
radicalizzazione giacobina della lotta. L’ideologia più confacente a
questo scopo era un cristianesimo illuminato, che conciliasse la tradi-
zione col progresso. Il movimento romantico ebbe certo, specialmen-
te in Germania, un’ala oscurantista, che mirava a un impossibile ritor-
no al Medioevo feudale e teocratico. Ma, come vide già il De Sanctis,
questo non fu, tranne un breve periodo iniziale, l’aspetto preminente
del romanticismo europeo; meno che mai di quello italiano, che fin
dall’inizio assorbì molti valori della civiltà illuministica e sul piano
politico si schierò contro l’assolutismo e contro l’Austria.
E neppure sarebbe giusto considerare semplicemente il romanticismo
come un illuminismo attenuato e privato della sua carica rivoluziona-
ria. Bisogna riconoscere che per certi lati il romanticismo – proprio
perché riflette un’esperienza post-rivoluzionaria, sia pure di avversari
della rivoluzione – è più avanzato di certo illuminismo. Gli aspetti ari-
stocratici, cortigiani, «galanti» della civiltà settecentesca erano stati
ormai spazzati via dalla rivoluzione. Un senso di appassionata serietà
e interiorità – rievocato con efficacia, anche se con evidente parzialità
ideologica, dall’Omodeo nelle prime pagine della Cultura francese nel-
l’età della Restaurazione – era comune a rivoluzionari e antirivoluzio-
nari. ** Importante è anche il fatto che i gruppi di intellettuali che
in tutta Europa dettero vita al movimento romantico si erano forma-
ti in una lotta non semplicemente e direttamente antigiacobina, ma
antinapoleonica. Il fatto che la Staël, Chateaubriand, i romantici tede-
schi, anche i primi romantici italiani fossero in sostanza degli opposi-
tori di destra del regime napoleonico, i quali odiavano nel Bonaparte
6 Introduzione

piuttosto il continuatore che il negatore della rivoluzione francese,


non toglie che essi agitassero contro di lui (e non per puro strumenta-
lismo) anche motivi polemici intrinsecamente tutt’altro che reaziona-
ri: il diritto dei popoli all’indipendenza, l’esigenza di non vedersi
imposte le riforme dall’alto e dall’estero[cr], l’aspirazione alla pace, la
svalutazione della gloria militare. Così pure nel campo artistico non
c’è dubbio che la polemica contro il principio classicistico dell’imita-
zione, contro la mitologia e le «tre unità» aristoteliche, contro lo sti-
le aulico, fosse una polemica progressista, che sviluppava esigenze già
poste dall’illuminismo.
Infine, è ben noto che il movimento romantico, come fin dall’inizio
fu assai diversamente intonato da nazione a nazione e da gruppo a
gruppo, così si svolse in diverse ondate successive le quali, a seconda
delle varie situazioni politico-sociali, ebbero significati ideologici ed
espressioni artistiche ben diverse. Il romanticismo tedesco del grup-
po di Heidelberg accentuò talmente certi aspetti misticheggianti, irra-
zionalisti e sciovinisti, che in confronto il gruppo di Jena può appari-
re ancora una propaggine dell’illuminismo (e tra i romantici stessi di
Jena vi furono involuzioni ed evoluzioni assai varie: basti pensare alla
netta separazione di responsabilità che a un certo momento August
Wilhelm Schlegel sentì il dovere di fare con la Berichtigung einiger Mis-
sdeutungen, di fronte al cattolicesimo retrivo e bigotto del fratello
Friedrich, il quale un tempo era stato invece il più intelligente e pro-
gressista dei due). Il romanticismo di cui si fece banditore Victor
Hugo con Cromwell e con Hernani, nell’imminenza della rivoluzione
di luglio, ebbe tutt’altra intonazione dal primo romanticismo france-
se della Restaurazione: anzi, segnò proprio il definitivo distacco di
Victor Hugo dal conservatorismo e dalla giovanile ammirazione per
Chateaubriand. Il romanticismo di Mazzini ebbe un’apertura demo-
cratica sconosciuta ai liberali del «Conciliatore» e, tanto più, ai mode-
rati dell’«Antologia».

Ma proprio un’espressione di sinistra del romanticismo, come la


democrazia religiosa di Mazzini (e come quella, in parte analoga, del-
l’ultimo Lamennais), fa vedere con chiarezza i due vizi d’origine che
il movimento romantico non giunse mai a superare: la religiosità – che,
per quanto aperta e non confessionale, significava pur sempre rinun-
cia a una visione del mondo veramente realista e scientifica – e l’am-
Introduzione 7

biguità insita nel concetto romantico di «popolo».5 Le critiche che il


Cattaneo e, più radicalmente ancora, il Pisacane muovono al mistici-
smo democratico mazziniano, traggono la loro forza proprio dal fatto
che Cattaneo e Pisacane si rifanno direttamente all’illuminismo set-
tecentesco, sviluppandolo, certo, ma in una direzione tutta laica e smi-
tizzata, senza compiere quel riaccostamento alla religione e alla tradi-
zione che alla maggioranza degli intellettuali europei era parso il
carattere specifico del secolo xix, il suo motivo di superiorità in con-
fronto al secolo precedente. E questo ripudio del «secolo religioso»
era stato compiuto già prima, in Italia, dal Giordani e dal Leopardi; in
Germania, da Goethe e dal modesto ma limpido ingegno di Johann
Heinrich Voss, e più tardi da Heine.
Uno solo tra i grandi rappresentanti della cultura europea poté di-
chiararsi romantico solo in quanto rivendicava l’attualità e la popola-
rità della letteratura, senza con ciò incrinare la propria fedeltà ai suoi
prediletti idéologues, senza rinunciare alla lucidità razionale e al sen-
sismo: Stendhal. Anch’egli, è vero, vagheggiò il Medioevo, ma il suo
Medioevo, come è noto, era l’epoca dell’«energia», delle forti passio-
ni sensisticamente intese, non della religione: mentre il movimento
romantico nel suo complesso fu una reazione non soltanto al razio-
nalismo, ma anche all’«epicureismo» settecentesco, cioè a tutte le
morali e le estetiche edonistiche e a tutte le teorie sull’origine ferina
dell’umanità, le quali (anche se frammischiate, come in Vico o in
Rousseau, a motivi religiosizzanti) ** contenevano una formidabile
spinta verso una concezione materialistica della civiltà umana. Su que-
sto punto, che è essenziale proprio per segnare la distinzione tra il
«preromanticismo» e il vero romanticismo, nemmeno Lukács, mi pare,
ha insistito abbastanza.
Bisogna dunque sceverare attentamente, come tra i romantici così
anche tra i loro avversari, i vari gruppi e le varie posizioni. Limitan-
doci all’Italia, possiamo distinguere diverse linee di polemica antiro-
mantica: una più retriva, di classicismo tradizionale e accademico, che
difendeva contro le dottrine e i gusti stranieri un’«italianità» mera-
mente retorica e quindi perfettamente conciliabile con la suddivisio-
ne dell’Italia in staterelli e coll’asservimento all’Austria (è stato già
osservato che la riesumazione delle «tradizioni patrie», che in Ger-
mania era un caposaldo del programma romantico, in Italia toccava
5
iSu questo secondo punto, a cui qui accenniamo appena, vedi più oltre, pp. 98 sg., 335, 393.
8 Introduzione

per l’appunto ai classicisti); un’altra, di difesa della poesia pura contro


«l’arido vero che de’ vati è tomba», cioè contro la richiesta da parte
dei romantici di una letteratura orientata in senso realistico, espres-
sione della società contemporanea; una terza, che proclamava la neces-
sità di un «ritorno alla natura» (con tutte le implicazioni e le risonanze
che questo motivo aveva avuto nel Settecento) e giustificava l’imi-
tazione dei classici greci e latini, e dei trecentisti italiani, proprio in
quanto essi rispecchiavano più direttamente la natura nella sua vergi-
ne semplicità; una quarta, che rivendicava l’eredità dell’illuminismo
e all’esaltazione del cristianesimo e del Medioevo, fatta dai romanti-
ci, contrapponeva l’esaltazione di Atene e di Roma repubblicana come
simboli di libertà politica e di laicismo.
Che queste quattro linee, pur nell’antiromanticismo che le acco-
munava, fossero in forte contrasto fra loro, è fin troppo facile dimo-
strare. Intrinsecamente reazionaria era soltanto la prima, la quale si
manifestò allo stato puro soltanto in zone di cultura particolarmente
stagnante. A Roma il «Giornale Arcadico», fondato da un uomo
tutt’altro che retrivo come Giulio Perticari, ma diretto poi dal medio-
cre Salvatore Betti, fu il centro di questo classicismo inerte.6 Ma in un
ambiente culturale molto più vivo come Milano, anche i classicisti più
legati all’Austria (tranne alcuni volgari provocatori come Trussardo
Caleppio, il direttore dell’«Accattabrighe») ** non poterono fare a
meno di utilizzare, per combattere il liberalismo romantico, argomenti
di colore progressista. Ciò corrispondeva alle direttive stesse del go-
verno austriaco, che, pur avendo ormai perduto ogni vera fiducia in
una politica riformatrice quale era stata condotta prima della rivolu-
zione da Maria Teresa e da Giuseppe II, non rinunziava tuttavia a
presentarsi propagandisticamente come il continuatore di quella poli-
tica e a contrapporre più o meno velatamente il buon governo austria-
co all’ottuso oscurantismo papalino, borbonico e piemontese, sebbene
quegli stati satelliti si reggessero solo grazie all’appoggio dell’Austria.7
Ecco quindi l’austriacante direttore della «Biblioteca Italiana»,
Giuseppe Acerbi, accusare i romantici di medievaleria e di oscuranti-

6
iDel Betti è da vedere specialmente il dialogo Il Tambroni, ossia de’ classici e de’ romantici,
nel «Giornale Arcadico» XXXI, 1826, p. 281 sgg. (di cui il Bellorini, Discussioni cit., II, p. 494,
dà solo un riassunto).
7
iVedi per esempio «Biblioteca Italiana» XXI, 1821, p. 31, e in generale i Proemi dell’A-
cerbi alle singole annate della rivista.
Introduzione 9

smo; ** ecco l’inquisitore austriaco Paride Zajotti difendere, con


argomenti in sé non spregevoli, i diritti della fantasia creatrice e l’au-
tonomia dell’arte, e perfino farsi esaltatore (lui che, fra l’altro, era cat-
tolico osservante) del tirannicidio di Bruto e Cassio come estrema pro-
testa libertaria.8 La polemica classico-romantica si svolse prevalen-
temente, fin dall’inizio, a base di ritorsioni polemiche: i classicisti,
anche i più reazionari, avevano buon giuoco nel denunciare la con-
traddizione tra il vantato progressismo dei romantici e il loro filome-
dievalismo.
Ma quello che nei classicisti reazionari era un espediente polemico,
nei classicisti progressisti fu il vero motivo per cui non aderirono al
romanticismo. Certo, non è sempre facile – e non lo fu nemmeno allo-
ra – distinguere i «pretesti illuministici» degli uni dall’illuminismo
sostanziale degli altri: così come non sarà sempre facile agli storici
futuri distinguere la vera rivendicazione della democrazia operaia da
certo libertarismo puramente strumentale di taluni anticomunisti.
Ludovico di Breme credette di ravvisare un’insincera ritorsione pole-
mica nell’anticlericalismo di Carlo Giuseppe Londonio, e con tutta
probabilità si ingannò, anche se il Londonio non fu certo un illu-
minista di punta né un patriota militante.9 Anche là dove non è mi-
nimamente in questione la sincerità, sussiste spesso, negli scritti dei
classicisti, la mescolanza di vecchi pregiudizi scolastici con idee di rin-
novamento culturale. Perfino nell’antiromanticismo di un Leopardi e
di un Cattaneo vi sono elementi negativi, di patriottismo letterario un
po’ chiuso, di diffidenza aprioristica verso le letterature e le filosofie
straniere contemporanee; si tratta solo di capire che questa loro xeno-

8
iCfr. Discussioni cit., ed. Bellorini, II, p. 5 sgg. (p. 17 su Bruto e Cassio). Alcuni anni più
tardi, nel ’24, quando il romanticismo non rappresentava più un pericolo per il governo austria-
co, lo Zajotti si mostrò meno ostile alle dottrine romantiche (ibid., II, p. 200 sgg.).
9
iL. Di Breme in Discussioni cit., I, pp. 349 sg. Sul Londonio vedi anche più oltre, p. 18 n.
30. La figura di questo letterato, nota generalmente solo per la sua partecipazione alla polemi-
ca classico-romantica, andrebbe riesaminata tenendo conto anche di altri suoi scritti, a comin-
ciare dal giovanile discorso Dei danni derivanti dalle ricchezze (Milano, Destefanis, 1809, senza
nome d’autore; prefazione firmata con le iniziali C. G. L.). Questo discorso è, per la maggior par-
te, una stracca ripetizione di motivi oraziano-pariniani sulla felicità di chi sa contentarsi del
poco. Tuttavia, in contrasto con questo motivo scolastico predominante, compaiono qua e là
spunti interessanti di polemica sociale (ingiustizia delle disuguaglianze economiche, eccessivo
sfruttamento a cui sono sottoposti i contadini e gli artigiani, carattere parassitario della grande
proprietà terriera: vedi pp. 53 sg., 59, 64 sg., 68, 75; cfr. anche, a p. 30 sgg., il forte attacco con-
tro le ricchezze della Chiesa).
10 Introduzione

fobia era, al tempo stesso, ostilità verso le mode spiritualistiche che


venivano di Francia e di Germania.
Analoghe ambivalenze presentano altri concetti-base del classici-
smo ottocentesco. Come a Rousseau si richiamarono da un lato, con
qualche parziale giustificazione, i romantici moderati del circolo di
Coppet,10 ** dall’altro, con piena legittimità, i rivoluzionari più ardi-
ti, così la parola d’ordine del ritorno al Trecento significò per il Gior-
dani e il Leopardi ben altro che per il padre Cesari (o per un romanti-
co sui generis come il Tommaseo, ibrido miscuglio di moda francese e
di vecchia pedanteria linguaiola). Purismo e classicismo, per Giorda-
ni e Leopardi, coincidevano in quanto entrambi erano intesi come un
«ritorno alla natura» in senso «russoiano»;11 ma d’altra parte il pathos
libertario e antitirannico, ereditato dalla tradizione alfieriana e dal
giacobinismo, sottintendeva un gusto letterario ben diverso da quello
del purismo, il quale voleva uno stile candido e piano, tutto ingenuità
e freschezza nativa. I divergenti giudizi del Giordani e del Leopardi
su Lucano e su Frontone12 indicano la difficoltà di conciliare piena-
mente queste due poetiche. Il Leopardi giovane alterna allo stile pia-
no degli idilli lo stile concitato e teso delle canzoni; il Giordani rac-
comanda la cristallina limpidezza di Erodoto e di Domenico Cavalca,
ma poi si lascia trasportare (e spesso con effetti molto felici) dall’ir-
ruenza alfieriana e dal sarcasmo.
E tuttavia questa profonda differenza fra il loro classicismo e il clas-
sicismo dei vecchi retori non fu tale da spingere né il Giordani né il
Leopardi in braccio ai romantici. Essi mirarono, invece, a una rivalu-
tazione e rigiustificazione del classicismo in termini nuovi. La «con-
versione letteraria» del Leopardi è un processo di avvicinamento alla
cultura militante e, nello stesso tempo, di rifiuto dell’ideologia e del-
la poetica del romanticismo, che costituivano il tipo di cultura mili-
tante in voga in quel momento. L’amore stesso per il «primitivo» e il
«naturale» non porta il Leopardi a salvare della poesia antica soltan-
to il periodo da Omero a Sofocle,* e a svalutare come poesia troppo

10
iVedi il saggio, tuttora fondamentale, di Giuseppe Berti, Origini politiche del romanticismo,
in «Società» III, 1947, p. 444 sgg.
11
iVedi più oltre, pp. 58, 117.
12
iVedi pp. 121-22, n. 39.
*iSul rapporto tra «omerismo» e alessandrinismo nel Leopardi vedi ora Gilberto Lonardi,
Classicismo e utopia nella lirica leopardiana, Firenze 1969.
Introduzione 11

colta e di imitazione la poesia ellenistica e la latina, come farà tutta


una corrente della critica romantica tedesca, seguendo spunti herde-
riani. Il suo interesse per la ferocia e l’immediatezza passionale degli
eroi omerici – su cui ha recentemente insistito il Treves –13 non gli
impedisce di apprezzare altamente e di sentire come parti integranti
della «naturalezza» antica anche il pathos virgiliano (vedi la sua pre-
messa alla traduzione del secondo libro dell’Eneide), anche l’arte raf-
finata e un po’ sdolcinata di Mosco e perfino delle anacreontèe. Pate-
ticità e idillicità sono, insomma, elementi del suo concetto di
«natura», che può quindi vivere all’interno di un classicismo inteso
senza angustie, ma pur sempre classicismo.14

In questo quadro culturale trova la sua spiegazione anche un caso a


prima vista sconcertante come quello di Luigi Angeloni, indomito gia-
cobino e materialista e altrettanto indomito purista, che dall’esilio
incita gli italiani alla rivoluzione e alla repubblica democratica in uno
stile tutto intessuto di riboboli trecenteschi, e addirittura si ostina a
difendere il purismo di stretta osservanza del padre Cesari contro il
classicismo aperto alle esigenze moderne del Monti, e prova un vivo
dolore nel vedersi escluso dall’accademia della Crusca per motivi poli-
tici.15 Non si tratta di una semplice bizzarria individuale: si tratta di
una manifestazione estrema di una contraddizione che, in forma più
attenuata, è in tutto il classicismo progressista italiano. ** Nel dare
notizia all’ex governatore austriaco Saurau dell’opera Dell’Italia, pub-
blicata dall’Angeloni a Parigi, e del suo contenuto rivoluzionario, l’A-
cerbi soggiungeva: «Sfortunatamente per le intenzioni dell’autore, la
sua opera è scritta nella lingua de’ trecentisti, e con uno stile che fa
dormire alle prime pagine, di modo che il lettore difficilmente può

13
iLo studio dell’antichità classica nell’Ottocento, a cura di Piero Treves, Milano-Napoli 1962,
p. 473 sg.
14
iContribuì certo a mantenere il gusto leopardiano entro questo ambito settecentesco la
mancanza dei grandi classici greci del v e iv secolo nella biblioteca di Monaldo Leopardi a Reca-
nati; ma bisogna tener conto anche di motivi più generali, inerenti a tutto l’ambiente classicista
nel quale il Leopardi si formò. Cfr. La filologia di G. Leopardi, Firenze 1955, pp. 29-33, 39, n. 3;
e «Atene e Roma» 1959, p. 91.
15
iSull’Angeloni purista cfr. R. De Felice in Diz. biogr. degli Italiani, III (1961), p. 247 e la
bibliografia da lui citata a p. 249. Ma uno studio soddisfacente manca tuttora. Per la sua difesa
del Cesari contro il Monti vedi soprattutto l’opera Dell’Italia, uscente il settembre del 1818, Parigi
1818, II, p. 203 sgg.
12 Introduzione

arrivare alle sue conclusioni».16 L’ironica osservazione coglieva nel


segno: il linguaggio arcaico fu per l’Angeloni, come per il Giordani, un
ostacolo alla diffusione di idee innovatrici. La forma piana, facile e
«popolare» rimase per lo più un appannaggio dei moderati, che se ne
giovarono per dirigere il popolo paternalisticamente.
Nella questione della lingua, certo, la Proposta del Monti* (a cui col-
laborarono alcuni tra i migliori ingegni del classicismo italiano, dal
Perticari al Giordani ad Amedeo Peyron) indicava una soluzione mol-
to più giusta e feconda di sviluppi che il purismo fanatico dell’Angelo-
ni. Nel {decimo} saggio del presente volume° ho cercato di mostrare
come la linea Monti-Cattaneo-Ascoli fosse per molti aspetti (malgra-
do certi pericoli di aulicità e di distacco dalla lingua colloquiale) ade-
guata alla cultura di una nazione moderna più che la stessa soluzione
manzoniana. Una rivalutazione del Monti deve prendere le mosse dal-
la Proposta, e in generale dall’importanza culturale, non strettamente
poetica, dell’opera sua. Sarà allora possibile correggere il giudizio,
troppo legato a passioni risorgimentali, che sul Monti pronunciò il De
Sanctis;17 e si vedrà che il saggio stesso del Croce in Poesia e non poe-
sia non rende ancora giustizia al Monti, proprio perché si limita a
un’indulgente riabilitazione della «bella letteratura» montiana, senza

16
iLettera del 27 dicembre 1818, pubblicata da A. Luzio in «Riv. stor. del Risorgim. ital.» I,
1895-96, p. 680, n. 1.
17
iLa condanna desanctisiana coinvolge anche la Proposta, considerata come un diversivo dal-
la politica: «I governi lasciavan fare, contenti che le guerricciole letterarie distraessero le men-
ti dalla cosa pubblica. In Italia ricomparivano i soliti fenomeni della servitù: battaglie in favore
e contro la Crusca, quistioni di lingua (...). La Proposta e il Sermone all’Antonietta Costa erano i
grandi avvenimenti che succedevano alla battaglia di Waterloo» (Storia di lett. it., ed. N. Gallo,
Torino 1958, II, p. 957). Il De Sanctis qui ripete, attenuandone appena la forma, un giudizio
dell’Emiliani-Giudici (Storia delle belle lettere in Italia, Firenze 1844, p. 1203): «Gl’ingegni per-
sero di vista le idee politiche (...). I despoti trionfavano e ridevano, e ci schernivano, e ci chia-
mavano vili e dementi (...). Monumento di questa vergognosa eunucomachia è la Proposta di cor-
rezioni al vocabolario della Crusca». Il significato nazionale e illuministico di quella polemica fu
compreso, invece, dal Settembrini (Lezioni di letter. ital., a cura di G. Innamorati, Firenze 1964,
II, p. 1005 sg.; tutto il capitolo sul Monti è esemplare per equilibrio e acutezza) ed era stato già
apprezzato dal Di Breme (vedi più oltre, p. 339, n. 33). Una buona caratterizzazione della Propo-
sta è stata data recentemente da M. Vitale, La questione della lingua, Palermo 1960, p. 178 sgg.
*iSul Monti abbiamo adesso il saggio di cui indicavo la mancanza: G. Barbarisi, V. Monti e
la cultura neoclassica, nell’Ottocento garzantiano cit. sopra. Il Barbarisi ne sta preparando una
più ampia redazione in volume autonomo.
°i{«Carlo Cattaneo e Graziadio Ascoli», qui decimo e penultimo capitolo, ma ultimo capitolo
nell’edizione 1965, e così nell’edizione 1969 e successive ristampe, nelle quali è seguìto dal-
l’«Appendice» e dagli «Addenda» – N. d. C.}.
Introduzione 13

mettere in luce quello che il Monti significò nella cultura del suo tem-
po.18 In realtà, nonostante tutte le ben note giravolte politiche, il
Monti non fu privo di una sua coerenza ideologica: fu un illuminista
moderato, nemico del municipalismo gretto, fautore di un dispotismo
riformatore che proteggesse le lettere e le scienze e diffondesse la cul-
tura dall’alto. Nel «piccolo rinascimento» romano di Pio VI, nel
Regno Italico, nel restaurato dominio absburgico il Monti esaltò sem-
pre questo suo ideale (solo dinanzi a un’esperienza storica come la
rivoluzione francese, che andava troppo al di là del suo orizzonte ideo-
logico, ebbe veri sbandamenti). La frase del De Sanctis: «Le massime
eran sempre quelle, applicate a tutt’i casi dal duttile ingegno», non
vale solo nel significato ironico che il De Sanctis intendeva darle: le
«massime» furono realmente assai più ferme dei contingenti atteg-
giamenti politici, e non si trattava di massime puramente retoriche.
La scissione del gruppo dirigente della «Biblioteca Italiana», che
ebbe per protagonisti l’Acerbi dalla parte dei reazionari, il Giordani
dalla parte dei progressisti – e che segnò il tramonto definitivo della
speranza in un’Austria riformatrice –19 vide il Monti a fianco del Gior-
dani, estromesso dalla direzione della rivista. Il fatto che egli non sia
diventato un cospiratore, che sia rimasto estraneo al nuovo spirito
risorgimentale, che abbia continuato a godere di sussidi (avaramente
concessi, del resto) da parte del governo austriaco, non toglie che da
allora in poi egli sia stato, culturalmente, all’opposizione. Le sue pur
caute amicizie col gruppo del «Conciliatore», la dignitosa solidarietà

18
i** L’introduzione di Carlo Muscetta alle Opere del Monti nella collana dei classici Ric-
ciardi (Milano-Napoli 1953) è ricca di penetranti osservazioni storico-culturali sul Monti e sul
suo ambiente (basti ricordare la caratterizzazione della Roma di Pio VI); ma, per una giusta rea-
zione al puro gusto della bella letteratura che ispira il saggio del Croce, finisce col riaccostarsi
forse un po’ troppo alla condanna etico-politica desanctisiana.
19
iSu questo episodio vedi più oltre, p. 54 sg. ** Un’interpretazione del tutto erronea e rea-
zionaria del dissidio tra Acerbi e Giordani (e tra Acerbi e Leopardi) è data da Alessandro Luzio,
Studi e bozzetti di storia letteraria e politica, Milano 1910, I, p. 1 sgg. Migliori gli studi di Euge-
nia Montanari, Per la storia della «Bibl. Ital.», in Miscell. di studi crit. pubbl. in onore di G. Maz-
zoni, Firenze 1904, II, p. 361 sgg. (dove però l’episodio Giordani-Acerbi è trattato assai breve-
mente) e di G. P. Clerici, P. Giordani, G. Acerbi e la «Bibl. Ital.», in «Riv. d’Italia» XI, 1908,
vol. I, p. 924 sgg. (dove si polemizza giustamente contro il reazionarismo del Luzio, ma il con-
trasto fra Acerbi e Giordani è interpretato in chiave soltanto psicologica e non politico-cultura-
le). Il libro di K. R. Greenfield, Economia e liberalismo nel Risorgimento (2ª ed. ital., Bari 1964,
p. 219 sgg.) dà un buon quadro generale dei periodici lombardi nell’età della Restaurazione, ma
sulla «Biblioteca Italiana» è troppo frettoloso e generico. **
14 Introduzione

col Giordani perseguitato ed esule,20 il compiacimento con cui accol-


se la dedica delle prime canzoni patriottiche del Leopardi, l’ardore con
cui si dedicò alla polemica illuministica e antimunicipalistica sulla lin-
gua italiana, meritano un maggiore riconoscimento di quanto abbia-
no avuto finora. Soprattutto non è giusto ** identificare l’attività cul-
turale del Monti nell’età della Restaurazione con lo stanco Sermone
sulla mitologia, e trascurare invece la Proposta.

Tanto superiore al classicismo del Monti sul piano artistico, il clas-


sicismo dell’ultimo Foscolo* è, però, più distaccato dai problemi poli-
tico-culturali del suo tempo. Esso dà un’espressione altissima al «mito
della poesia consolatrice, in un mondo storico considerato ormai irre-
cuperabile alla bellezza e alla magnanimità», come ben dice Lanfran-
co Caretti.21 Non classicismo freddo e accademico, certamente, ma
nemmeno classicismo illuminista, malgrado le intenzioni didascaliche
e allegorizzanti delle Grazie. E anche il suo antiromanticismo consi-
ste fondamentalmente in una rivendicazione della poesia pura; riven-
dicazione legittima nei riguardi di certe angustie moralistiche e peda-
gogiche del Manzoni e di altri romantici lombardi, ma estranea al
dibattito ideologico allora in corso. Ha visto bene, anche qui, il Caret-
ti: «La polemica foscoliana verso i romantici italiani, Manzoni com-
preso, può senza dubbio giustificare l’eccezionale avventura persona-
le di un grande artista (...); ma si mostra anche, per un altro verso,
ormai eccentrica rispetto alla reale situazione italiana, agli effettivi
problemi che essa poneva ai nostri scrittori». Paradossalmente si può
dire che all’antiromanticismo del Foscolo si accosta più quello dello
Zajotti – a parte, s’intende, la ben diversa profondità e coerenza inte-
riore – che quello del Giordani e del Leopardi, i quali non fecero mai

20
iVedi la ben nota lettera al Giordani dell’ottobre 1824 nell’Epistolario del Monti, ed. A.
Bertoldi, VI, p. 53.
21
iNell’introduzione alle Opere del Manzoni, Milano 1962, p. XVIII sg.
*iSull’ultimo Foscolo il Caretti ha ora sviluppato la sua posizione nell’Ottocento garzantia-
no cit., p. 99 sgg., specialmente p. 188. Vedi anche G. Luti, Foscolo, nei «Protagonisti della sto-
ria universale», Roma-Milano 1966 (specialmente il secondo e il penultimo paragrafo), e, ades-
so, V. Masiello, Il mito e la storia: analisi delle strutture dialettiche delle «Grazie» foscoliane, in
«Angelus novus» 12-13, 1969, p. 130 sgg.: un saggio di grande interesse, che meriterebbe più
ampia discussione, anche per i problemi generali che esso investe. Notevole anche A. Lepre, Per
una storia degli intellettuali italiani: i giacobini e Foscolo, in «Movimento operaio e socialista»
XIV, 1968, p. 219 sgg.
Introduzione 15

questione di poesia pura, ma combatterono l’ideologia romantica in


nome di un’altra ideologia.
D’altra parte il tratto più originale del Foscolo politico, cioè lo sfor-
zo da lui compiuto di superare l’astrattezza del libertarismo alfieriano
nutrendolo di succhi machiavellici, hobbesiani e vichiani, non fu dal
Foscolo stesso messo al servizio di un preciso orientamento liberale, e
tanto meno democratico. La sua esigenza di Realpolitik rimase (dopo il
breve periodo giacobino) crucciosamente chiusa in se stessa; nei riguar-
di della plebe il Foscolo mantenne in definitiva lo stesso distacco e
disprezzo dell’Alfieri. Lo riconobbe francamente il Cattaneo in un arti-
colo che è, tuttavia, un’appassionata difesa del Foscolo contro le calun-
nie dei clericali e una ricostruzione del processo attraverso il quale la tra-
dizione alfieriana e foscoliana divenne, nel Risorgimento, suscitatrice di
energie democratiche.22 Ma questo recupero del Foscolo al pensiero e
all’ethos risorgimentale avvenne tramite il Mazzini: i classicisti illumi-
nisti rimasero, fino a quel tardivo articolo del Cattaneo, antifoscoliani.23

Le ragioni per cui i classicisti illuministi non riuscirono a prevalere


nella cultura italiana dell’Ottocento risultano, a questo punto, abba-
stanza chiare. Essi non arrivarono mai a costituire un gruppo relativa-
mente omogeneo e organizzato, come i romantici lombardi del «Con-
ciliatore» e i moderati toscani dell’«Antologia». Dopo la scissione, già
ricordata, del gruppo dirigente della «Biblioteca Italiana» e dopo il fal-
limento del tentativo di metter su una rivista classicista dissidente,24
mancò loro un periodico mediante il quale potessero diffondere e svi-
22
iCattaneo, SL, I, p. 275 sgg., specialmente pp. 315-319.
23
iBasti pensare all’antifoscolismo del Giordani (cfr. p. 63) e allo scarso influsso esercitato
dal Foscolo sul Leopardi (vedi tuttavia E. Bigi in «Giorn. stor. lett. it.» CXLI, 1964, p. 204
sgg.).* L’articolo del Cattaneo, scritto a Napoli nell’ottobre del ’60, si chiudeva appunto con
un richiamo all’influsso del Foscolo sul Mazzini, che, al tempo stesso, sanzionava la riconcilia-
zione tra Cattaneo e Mazzini, divisi nel passato da aspri dissensi (SL, I, 319). Incondizionata-
mente favorevole al Foscolo era stato invece, fin dal ’44, Giuseppe Ferrari (La rivoluzione e i
rivoluzionari in Italia, a cura di F. Della Peruta, Milano 1952, p. 63-75): in complesso, la visio-
ne che il Ferrari ha della letteratura italiana ottocentesca è influenzata dal Mazzini assai più che
dal Cattaneo (vedi anche il suo giudizio sul «Conciliatore» e sulla polemica classico-romantica,
ibid., p. 75 sg.). Sulla fortuna del Foscolo nella critica risorgimentale vedi il saggio di W. Binni
ne I classici italiani nella storia della critica, II2, Firenze 1961, p. 285 sgg. (dove un accenno al Fer-
rari è una delle poche aggiunte che si desiderano).
24
iG. Ferretti, P. Giordani sino ai quaranta anni, Roma 1952, p. 189 sg.
*iL’articolo del Bigi è ora ripubblicato nel volume La genesi del «Canto notturno» e altri studi
sul Leopardi, Palermo 1967, p. 9 sgg. (in particolare, p. 37 sgg.).
16 Introduzione

luppare organicamente le proprie ideee. Soltanto il «Politecnico» del


Cattaneo rappresentò molti anni dopo, in certo senso, una realizzazio-
ne di quel progetto, ma in un clima culturale già mutato e con un più
accentuato interesse per l’economia, la sociologia e le scienze della
natura; il «Politecnico» stesso, del resto, rimase un fenomeno abba-
stanza isolato nella nostra cultura.
Con un termine gramsciano, si può dire che i classicisti illuministi
non furono, a differenza dei romantici, gli «intellettuali organici» di
una classe. Le loro posizioni politiche oscillarono tra nostalgie di asso-
lutismo illuminato (perduranti anche nel Cattaneo fino alla vigilia del-
le Cinque giornate) e punte di democrazia avanzata; e spesso si trattò
di posizioni meta-politiche, importantissime a lunga scadenza, ma pri-
ve di immediata presa sulla realtà.
Al problema del rapporto tra autore e pubblico il Giordani e il Leo-
pardi non furono affatto insensibili: si resero conto che i vecchi, chiu-
si ambienti delle accademie letterarie avevano fatto il loro tempo, e che
la cultura italiana poteva vivere solo allargando la cerchia dei suoi uten-
ti.25 Ma i romantici lombardi e i moderati toscani seppero individuare
con chiarezza la classe a cui intendevano rivolgersi e le sue esigenze cul-
turali: non c’è bisogno di ricordare il famoso passo della Lettera semi-
seria del Berchet in cui è delimitato socialmente, con tanta acutezza, il
pubblico della letteratura romantica (né «parigini» né «ottentoti», ma
quella classe media a cui il Berchet dà il nome di «popolo»); né c’è biso-
gno di ricordare la pronta e sicura sensibilità che per le richieste del
pubblico ebbe il Vieusseux. Lo scopo dei classicisti illuministi era più
ambizioso: non adeguarsi a un movimento culturale già esistente e limi-
tarsi a esprimerlo e ad assecondarlo, ma criticare e combattere tutto ciò
che in tale movimento vi era di non realmente progressista, di arretra-
to in confronto a quella cultura illuministica che per essi rimaneva la
pietra di paragone di ogni cultura. Contro la concezione del Vieusseux,
di una rivista composta prevalentemente di recensioni (che era poi
la concezione predominante in Italia e fuori), il Leopardi sostenne la
necessità di una rivista di articoli originali, che dessero un indirizzo
nuovo invece di limitarsi a informare su ciò che via via si pubblicava;
la stessa cosa, con parole molto simili, aveva scritto una decina d’anni
prima il Giordani, attirandosi le derisioni dei romantici lombardi.26 Ma

25
iVedi pp. 41 sgg., 93 sg.
iGiordani, nella «Biblioteca Italiana», anno I, tomo II (aprile-giugno 1816), p. 186 ( = Opere,
26
Introduzione 17

**, assente ancora dalla scena politico-culturale un movimento prole-


tario, assente o troppo esigua anche una borghesia illuministica decisa
a rompere ogni legame col passato feudale e clericale, come l’avrebbe
voluta il Cattaneo, quel tentativo era destinato all’insuccesso. E certo
nello stile aulico dei classicisti illuministi, negli elementi di aristocrati-
cismo intellettuale che in essi contrastavano col contenuto progressi-
sta delle loro idee, dobbiamo vedere al tempo stesso una conseguenza
del mancato contatto con un largo pubblico e una causa, se non deter-
minante, aggravante di tale distacco.
Nocque anche ai classicisti illuministi l’appartenenza stessa a uno
schieramento così eterogeneo come quello classicista. Malgrado gli
aspri dissidii che li separarono dai classicisti reazionari (basti ricorda-
re l’inimicizia tra Giordani e Acerbi e quella, altrettanto profonda
anche se non accompagnata da disistima intellettuale, tra Giordani e
Zajotti, e il sistematico boicottaggio dell’Acerbi verso i primi lavori
del Leopardi),27 essi continuarono ad apparire a gran parte dell’intel-
lettualità italiana come dei classicisti tout court, e ad essere perciò
misconosciuti da uomini di idee affini e a riscuotere, invece, scomo-
de lodi da parte di reazionari che li ammiravano per il loro stile impec-
cabile e la loro fedeltà ai grandi modelli. Il Giordani, in particolar
modo, fu per tutta la vita perseguitato da tale ammirazione mal ripo-
sta, la quale contribuì a mettere in ombra le sue doti più genuine.28

Con tutto ciò, l’influsso anche immediato del classicismo illuminista


sulla cultura italiana della Restaurazione fu maggiore di quanto gene-
X, p. 55 sg.): «L’Italia (bisogna non dissimulare il vero) è scarsa molto di opere degne; abbon-
dante solo d’inezie, o peggio (...). Io credo che un giornale utile in Italia non possa restringer in
poco molti libri buoni; ché non gli abbiamo; ma piuttosto debba insegnare a far buoni libri, e a
leggerli». L’opinione del Giordani, schernita da Pietro Borsieri nelle Avventure letterarie di un
giorno (in Discussioni cit., ed. Bellorini, I, p. 106 sg.), fu ripresa quasi con le stesse parole dal
Leopardi nella lettera al Vieusseux del 2 febbraio 1824: «Le dirò liberamente che a me parreb-
be che un Giornale italiano dovesse piuttosto insegnare quello che debba farsi, che annunziare
quel che si fa (...). I libri che oggi si pubblicano in Italia non sono che sciocchezze, barbarie, e
soprattutto rancidumi, copie e ripetizioni». Sia nell’uno che nell’altro compare la contrapposi-
zione fra l’Italia (dove questo compito formativo, e non informativo, è particolarmente urgen-
te) e le altre nazioni. Si tenga presente che gli articoli del Giordani nella «Biblioteca Italiana»
erano particolarmente ammirati dal Leopardi (vedi più oltre, p. 91).
27
iSu tutto ciò vedi il primo saggio giordaniano del presente volume, e qui sopra, p. 13, n.
19. Il classicista austriacante Trussardo Caleppio giungeva fino a sospettare nel Giordani un
romantico che si fingeva classicista per meglio compiere, senza suscitare sospetti, la sua opera
corrosiva contro le tradizioni patrie (cfr. Discussioni cit., ed. Bellorini, I, p. 58).
28
iVedi più oltre, pp. 39 sgg., 61.
18 Introduzione

ralmente si crede. Il contributo positivo dato dai migliori classicisti


– e specialmente dal Londonio – alla polemica classico-romantica non
consisté semplicemente in un generico effetto moderatore di afferma-
zioni troppo polemiche e paradossali dei loro avversari, ma in qualco-
sa di più preciso. Leggendo il «Conciliatore», si ha chiara la sensazio-
ne di un progressivo radicalizzarsi delle idee dei suoi collaboratori, i
quali mettono sempre più in ombra le iniziali simpatie per il Medioe-
vo e per i temi lugubri, e sempre più tengono a presentarsi come gli ere-
di dell’illuminismo lombardo.29 Tale radicalizzazione dipende certo in
primo luogo dal maturarsi di una situazione politica di crescente ten-
sione fra la borghesia-aristocrazia «italica» e il governo austriaco, che
avrà il suo drammatico epilogo negli arresti e nelle persecuzioni del ’21;
ma è innegabile che a chiarire le posizioni contribuì la polemica dei
classicisti, che mise a nudo la contraddizione tra amore per il Medioe-
vo ed esigenza di modernità, in cui i romantici lombardi si trovavano
all’inizio.30 La scelta, compiuta dal Berchet, di quelle due famose bal-
late del Bürger (la Leonora e il Cacciatore feroce) come prototipi di poe-
sia romantica, si rivelò imbarazzante:* non già perché il Bürger era sta-
to un poeta cronologicamente e ideologicamente anteriore al vero e
proprio romanticismo – un poeta populista di orizzonte limitato, ma
non reazionario come lo saranno i veri romantici tedeschi –, ma pro-
prio per la ragione opposta, cioè perché quelle due poesie indulgevano
troppo al gusto della cupa superstizione medievale, e di una supersti-
zione troppo tipicamente tedesca. Ecco quindi il Di Breme,* e poi il
29
iVedi nel fascicolo del 15 luglio 1819 (vol. III, p. 65, ed. Branca) l’esplicita dichiarazione
che il «Conciliatore» aspira a continuare la battaglia culturale sostenuta dal «Caffè»; e più oltre
(III, p. 241) il fervido elogio di Pietro Verri scritto dal Borsieri: «sentì ed espresse quanto le nuo-
ve istituzioni e la luce della filosofia, che altri chiamano corruzione, abbiano mansuefatta la san-
guinaria e superstiziosa selvatichezza del buon tempo antico».
30
iQuesto chiarimento fu avviato, prima ancora della fondazione del «Conciliatore», dalla
polemica antiromantica del Londonio (vedi per esempio Discussioni cit., I, p. 232: «Quei tem-
pi di barbarie, d’ignoranza, di depravazione che ora da taluni, nell’esaltazione della poetica loro
immaginazione, ci si dipingono come l’età dell’oro»; p. 316: «Quelli che col prestigio della poe-
sia cercano di rimettere in onore i pregiudizi e la superstizione, non possono certamente vantarsi
di promuovere la civilizzazione e il perfezionamento dell’umano intelletto»). Da allora in poi tut-
ti i romantici lombardi, dal Berchet al Visconti al Pellico, ebbero cura di dichiarare che il loro
interesse per il Medioevo non significava superstizione né gusto del lugubre.
*iSu quello che del romanticismo tedesco conobbero effettivamente i romantici italiani vedi
ora M. Puppo, La «scoperta» del romanticismo tedesco, in «Lettere italiane» XX, 1968, p. 307 sgg.
*iSul Di Breme e sulla posizione da lui occupata nel romanticismo lombardo qualche preci-
sazione in «Belfagor» XXII, 1967, p. 240 sgg. (in dissenso da C. Colaiacomo, «Angelus novus»,
dicembre 1967, p. 80 sgg.).
Introduzione 19

Visconti e più radicalmente infine il Montani, rinnegare quella scelta,31


ed ecco il Berchet pronunziarsi nettamente contro l’ostentata medie-
valeria della Narcisa del Tedaldi-Fores.32 Certo l’identificazione di
«civiltà moderna» con «civiltà cristiana», il ripudio delle soluzioni
antispiritualistiche a cui era arrivato il pensiero francese del secolo
xviii, continuarono a contraddistinguere tutti i romantici lombardi, dal
Di Breme (così drammaticamente combattutto fra sensismo e religio-
sità) fino al Manzoni;33 ma è pur notevole che essi – fatta eccezione di
un’ala destra rappresentata dal Grossi e specialmente dal Cantú – chia-
rissero sempre meglio il proprio distacco del romanticismo reazionario.
Così pure, è in parte un risultato della polemica milanese del 1816-19
– e in parte anche della presenza in Toscana di classicisti non retrivi,
come Giovan Battista Niccolini e Francesco Forti –34 il fatto che l’«An-
tologia», pur continuando per molti aspetti il «Conciliatore», ripu-
diasse nettamente (con la sola eccezione del Tommaseo) le nostalgie
medievali, e mettesse addirittura da parte, perché troppo carico di
equivoci, il termine di «romanticismo».35 Senza dubbio questa posi-
31
iL. Di Breme, Grand commentaire sur un petit article, Genève-Paris 1817, p. 146; Ermes
Visconti, Idee elementari ecc., nel «Conciliatore», vol. I, p. 396, ed. Branca; G. Montani, in
Discussioni cit., ed. Bellorini, II, p. 306. Vedi, invece, la goffa difesa «pedagogica» che della scel-
ta di quelle due poesie tentò il Tommaseo, ibid., p. 404.
32
iG. Berchet, Opere, a cura di E. Bellorini, II, Bari 1912, p. 133 sgg.
33
iIn particolare sul problema della periodizzazione della storia umana vedi più oltre, pp. 118
sg., 337-340.
34
iIl Forti, nipote del Sismondi, discusse il romanticismo da un punto di vista illuministico
in una recensione al Voyage en Italie del Simond (nell’«Antologia» XXIV, luglio-settembre 1829,
p. 124 sgg.). Il Mazzini menzionò questo scritto come uno dei pochi in cui la polemica anti-
romantica fosse condotta in nome del patriottismo e del progresso (vedi Scritti letterari di un
Italiano vivente, Lugano 1847, 1, p. 105 sg.). Gli stessi motivi polemici, ma molto attenuati,
ritornano in uno scritto posteriore del Forti, Dubbi ai Romantici, nell’«Antologia» XLIV, apri-
le-giugno 1832, p. 36 sgg.
35
iL’esigenza di abbandonare questo termine si fece strada dopo il ’21 anche nell’ambiente
lombardo. Il Maroncelli sostituì a «classico» e «romantico» i termini «profilare» e «cor-menta-
le» da lui coniati (Addizioni alle Mie Prigioni, Lugano 1833, p. 46 sgg.): la mostruosità di quelle
due parole non deve far trascurare l’importanza di questo scritto del Maroncelli nel processo di
ripensamento dell’esperienza romantica milanese. Più tardi il Tenca (Prose e poesie scelte, a cura
di T. Massarani, I, p. 361 sgg.) preferì parlare di «vecchia» e «nuova scuola» *. Il De Sanctis,
che più tardi avrebbe introdotto la nuova distinzione fra «scuola liberale» e «democratica», già
nelle giovanili lezioni napoletane osservava: «Niente di più incerto ed arbitrario vi era dell’uso
di queste parole ...» (Teoria e storia della letteratura, a cura di B. Croce, I, p. 104). Per l’atteg-
giamento dell’«Antologia» nella polemica classico-romantica, vedi, oltre le ben note opere del
Prunas e del Ciampini, G. A. Borgese, Storia della critica romantica in Italia, Firenze 19202 (nuo-
va ed., Milano 1949, p. 61 sgg.).
*iLa posizione di Carlo Tenca di fronte al classicismo illuminista e alla polemica tra classi-
20 Introduzione

zione meno ostile al classicismo era dovuta anche a preoccupazioni


tipicamente «moderate»: attraverso il superamento delle dispute tra
classicisti e romantici, il Capponi e il Vieusseux miravano a creare una
cultura juste-milieu, aperta ai contatti con l’Europa ma rispettosa del-
le tradizioni italiane e toscane, nettamente contraria (dopo le amare
esperienze napoletane, piemontesi e lombarde) a entrare in conflitto
diretto col potere politico. In questo senso l’anticlassicismo dei ro-
mantici milanesi, pur con tutte le contraddizioni a cui abbiamo accen-
nato, era più ricco di fermenti innovatori che il moderatismo ecletti-
co dei toscani. Tuttavia per un certo periodo questo ambiente poté
offrire alle migliori forze del classicismo italiano (al Giordani e, in
misura molto minore, al Leopardi) una certa possibilità di dialogo e
di collaborazione; e uno degli scrittori dell’«Antologia», Giuseppe
Montani, superstite del gruppo del «Conciliatore», poté sviluppare il
proprio romanticismo in senso sempre più illuministico, fino a simpa-
tizzare profondamente per il Leopardi.
Il Risorgimento ebbe infine una soluzione moderata, liberale e non
democratica, ma tuttavia laica, non neoguelfa. Questo fu il risultato
in primo luogo di un reale conflitto di interessi tra borghesia e Chie-
sa cattolica, in secondo luogo di nuovi influssi culturali (hegeliani e poi
positivistici) che si fecero sentire anche in Italia nel secondo Otto-
cento. Tuttavia nella formazione del laicismo ottocentesco il classici-
smo illuminista ha avuto una parte che non va sottovalutata. Si pensi
(per accennare appena a un argomento che meriterebbe studi ap-
profonditi) al noviziato giordaniano di uomini come Marco Minghet-
ti, Pietro Gioia, Cesare Cabella, i quali fecero poi parte del persona-
le politico della Destra storica i primi due, della Sinistra costituzionale
il terzo; si pensi al legame ancor più stretto ed esplicito che col classi-
cismo illuminista ebbero da un lato il Cattaneo e i suoi seguaci, dal-
l’altro il Carducci;36 si pensi ancora a Luigi Settembrini che, anche
quando in politica abbandonò le sue giovanili posizioni di sinistra,
mantenne della storia culturale italiana una visione radicalmente lai-
ca e, in complesso, filo-classicista.

cisti e romantici è ora, meglio che da ogni altro, definita da Gianluigi Berardi nell’introduzione
a C. Tenca, Saggi critici, Firenze 1969. Fra i numerosi studi sul Tenca apparsi poco prima del sag-
gio del Berardi va ricordato specialmente quello di G. Pirodda, Mazzini e Tenca: per una storia
della critica romantica, Padova 1968, p. 101 sgg. {Cfr. successiva nota 43 – N. d. C.}.
36
iPer il Cattaneo vedi p. 332 sgg.; per il Carducci, pp. 28 sg., 100 sgg.
Introduzione 21

Un altro campo in cui il classicismo illuminista ebbe in Italia una


parte preponderante, almeno fino al ’48, fu lo studio dell’antichità.
Mentre in Germania la nuova filologia e la nuova linguistica furono
per la maggior parte, nel bene e nel male, opera dei romantici, in Ita-
lia i propugnatori di una seria e moderna filologia, gli avversari del-
l’umanesimo stantio dei versificatori latini appartennero quasi tutti
al classicismo illuminista. Mentre il Tommaseo si inorgogliva dei pro-
pri imparaticci latini, il Giordani conduceva non solo contro lo scriver
latino, ma anche contro l’insegnamento del latino generalizzato e con-
siderato come base di tutta l’istruzione una battaglia che non ha per-
duto ancora la sua attualità;37 e Giacomo Leopardi e Amedeo Peyron
(passato solo dopo il ’48 da posizioni illuministiche e riformatrici a
posizioni reazionarie) furono gli unici veri filologi italiani dell’età del-
la Restaurazione, e il Cattaneo fu il fondatore di una linguistica sto-
rica spiccatamente antiromantica, che trovò il suo continuatore nel
più grande linguista italiano, Graziadio Ascoli.38

Una valutazione del classicismo illuminista italiano, tuttavia, non


può limitarsi a un rendiconto degli influssi che esso esercitò a più o
meno breve scadenza: non è davvero il caso di estendere alla storia let-
teraria e culturale quel giustificazionismo storico che già abbastanza
ha inceppato, dal 1956 in poi, i nostri studi di storia del Risorgimen-
to, e che, con l’apparenza di opporsi alle deformazioni «pratico-poli-
tiche» della storiografia, ha in realtà obbedito a una ben precisa visio-
ne «pratico-politica» della realtà presente. Del Fortleben di un autore
o di un movimento culturale facciamo parte anche noi, e non abbiamo
alcun motivo di rinunciare a esprimere anche noi il nostro giudizio,
pur con la consapevolezza del margine di soggettività che esso com-
37
iVedi più oltre, p. 46 sgg.
38
iSu Cattaneo e Ascoli vedi {il decimo} saggio del presente volume. Sulla parte che spetta
ai classicisti illuministi nella filologia classica del primo Ottocento mi sia permesso di rimanda-
re al mio lavoro su La filologia di Giacomo Leopardi, Firenze 1955. Una diversa impostazione,
che fa pernio sui romantici e i neo-guelfi, è stata sostenuta con grande dottrina, ma in modo, a
mio parere, non del tutto convincente, da Piero Treves ** nei due libri L’idea di Roma e la cul-
tura italiana del sec. xix e Lo studio dell’antichità classica nell’Ottocento (tutt’e due Milano-Napo-
li 1962); cfr. «Critica storica» II, 1963, p. 603 sgg. Tuttavia un capitolo del primo di questi due
libri, «L’ambivalenza del classicismo» (p. 36 sgg.), è di importanza fondamentale per intendere
gli effetti libertari e democratici che un’educazione classicistica, anche di tipo arretrato, poté
produrre; e nel secondo libro, se il Leopardi è trattato con scarsa simpatia e con sostanziale
incomprensione, il profilo del Giordani è vivo e vero.
22 Introduzione

porta, e che è maggiore per quel che riguarda i valori propriamente


artistici (più legati a giudizi di gusto, cioè, in ultima analisi, a giudizi
edonistici), minore per le posizioni ideologico-politiche, minore anco-
ra per i risultati «scientifici» (di obiettiva conoscenza della realtà) rag-
giunti nel corso della storia.39
Classicisti illuministi furono gli ingegni più avanzati, più liberi da
miti e da pregiudizi, del nostro primo Ottocento. Nel terzo saggio del
presente volume ho cercato di mostrare come il pensiero leopardiano,
pur oltrepassando di molto le posizioni del classicismo illuminista e
dello stesso illuminismo settecentesco francese, tragga di lì la sua ori-
gine. Ebbene, si dica pure che i romantici e i moderati italiani rispon-
devano meglio a certe esigenze di sviluppo della società italiana; resta
il fatto che il materialismo leopardiano (comprese, a mio parere, le sue
conseguenze pessimistiche per ciò che riguarda il rapporto uomo-natu-
ra) aveva ed ha un valore conoscitivo incomparabilmente superiore
alle varie forme di spiritualismo del primo Ottocento e ai nuovi spiri-
tualismi di epoca più vicina a noi. Si riconosca in pieno, non solo il
grande valore artistico dei Promessi sposi, ma il valore di rottura che
l’introduzione del genere letterario del romanzo ha avuto rispetto a
una vecchia tradizione di lirica e di prosa aulica, e l’importanza fon-
damentale, anche se non esclusiva, della riforma linguistica manzo-
niana per la costituzione dell’italiano moderno. Non si dimentichi,
però, che un Giordani, un Cattaneo, e più che mai un Leopardi, dice-
vano in uno stile più arcaico, e nell’ambito di generi letterari meno
«popolari», cose ben più ardite sul piano ideologico.
Anche questo contrasto fra novità di contenuto e arcaicità di forma
può e deve essere criticato finché ci riferiamo al linguaggio come co-
municazione: è evidente che se Giordani, Leopardi e Cattaneo stesso
avessero avuto la scioltezza e la modernità stilistica di un Pietro Ver-
ri, se fossero stati, in una parola, soltanto illuministi e non classicisti
o puristi, la diffusione delle loro idee (pur trovando sempre un limite
obiettivo nella situazione politico-sociale sfavorevole) sarebbe stata
maggiore. Ma se ci riferiamo al linguaggio come espressione, diventa
assai più difficile deplorare l’arcaismo di quei classicisti. Viene spon-

39
iS’intende che i tre ordini di giudizi non sono affatto indipendenti tra loro, come ricono-
sce anche Giuseppe Petronio alla fine della sua Introduzione a una storia dell’attività letteraria in
Italia («Il Contemporaneo» VII, n. 78, novembre 1964, p. 7 sgg.).
Introduzione 23

taneo il confronto con Lucrezio, il poeta più avanzato ideologicamen-


te di tutta la letteratura latina, e insieme uno dei più arcaizzanti.
Sarebbe certo molto semplicistico rimpiangere che Lucrezio non abbia
divulgato in stile «popolare» la filosofia epicurea, poiché l’arcaismo ha
in Lucrezio (e così nel Leopardi, e nel miglior Giordani) una forza sde-
gnosa e polemica che non va minimamente confusa con la leziosaggine
arcaistica di Frontone o del padre Cesari.

** A far disconoscere i motivi validi del classicismo ottocentesco ha


certamente contribuito, col potente influsso esercitato dalla sua Sto-
ria e dalle sue lezioni, il De Sanctis. Come ha dimostrato Mario Mirri
nel suo recente libro desanctisiano,40 il grande critico non ebbe davve-
ro tenerezze per la fase spiccatamente reazionaria e medievaleggiante
del romanticismo europeo.41 Vide con piena lucidità il suo carattere
retrivo («noi uomini del secolo xix siamo figli di una delle più violen-
te, delle più radicali reazioni che si trovino nella storia, il cui lievito
dura ancora, a cui non ancora sono state mozzate le unghia»), e anche
se talvolta inclinò a giustificarlo storicamente come risposta agli
«eccessi» giacobini («il terrore bianco successe al rosso ... l’una esa-
gerazione chiamava l’altra»), mise bene in chiaro la propria ostilità
agli ideali teocratici e oscurantisti dei suoi promotori. Il genuino spi-
rito del secolo xix, quale si era manifestato dopo la fine di quel breve
e utopistico tentativo di ritorno al Medioevo, appariva al De Sanctis

40
iM. Mirri, F. De Sanctis politico e storico della civiltà moderna, Messina-Firenze 1961: vedi
specialmente il cap. VII («Continuità e originalità del secolo xix»).
41
iBisogna tener presente che il De Sanctis poneva l’inizio del romanticismo tedesco molto
presto, addirittura con Klopstock: includeva, dunque, nel romanticismo Herder e lo Sturm und
Drang, cosicché i veri e propri romantici reazionari tedeschi gli apparivano come la manifesta-
zione terminale di un movimento complessivamente sano e davvero popolare: una manifesta-
zione, d’altronde, di breve durata, perché ben presto superata dallo «spiritualismo panteistico»
dell’ultimo Goethe e dalla robusta costruzione filosofica hegeliana (cfr. F. De Sanctis, A. Man-
zoni, a cura di L. Blasucci, 2ª ed., Bari 1962, p. 99 sgg.; Storia della letter. ital. a cura di N. Gal-
lo, Torino 1958, II, p. 959-61). Egli inglobava, dunque, nel romanticismo anche il cosiddetto
preromanticismo tedesco; ma mentre gli storici tedeschi contro i quali giustamente polemizza
Lukács mirano a interpretare Herder e lo Sturm und Drang in chiave reazionaria e a valorizzare
già nella cultura settecentesca il massimo possibile di irrazionalismo, il De Sanctis, al contrario,
voleva dimostrare che i più veri romantici tedeschi erano stati gli scrittori populisti ma non rea-
zionari del Settecento, e che il romanticismo degli Schlegel aveva rappresentato solo una paren-
tesi involutiva. Del resto, per il De Sanctis, il paese in cui il romanticismo aveva assunto un tipi-
co carattere di «strumento politico» in funzione antilluministica era stata la Francia della
Restaurazione (Manzoni cit., p. 102 e altrove).
24 Introduzione

non come negazione, ma come proseguimento dell’illuminismo sette-


centesco: un proseguimento, però, che aveva eliminato tutto ciò che
di eccessivo, astratto, antistorico c’era stato nel pensiero del secolo
precedente; il «senso della storia e del reale» era la preziosa conqui-
sta del secolo xix rispetto al xviii.
Nella formazione di questo nuovo ethos (per cui l’eroe alfieriano e
giacobino era sceso dal suo piedistallo, si era riconciliato con la realtà,
aveva imparato a parlare un linguaggio accessibile al popolo) una parte
essenziale l’aveva avuta la rinascita dello spirito religioso, che, se nei
primi anni della Restaurazione aveva assunto aspetti paurosamente
reazionari, rappresentava però per il De Sanctis, nella sua forma più
aperta e progressista, un carattere comune a tutta la cultura viva della
prima metà dell’Ottocento. La scuola liberale, capeggiata dal Manzoni,
e la scuola democratica, capeggiata dal Mazzini, erano sorte entrambe
in questo clima di religiosità; erano due propaggini, se non del roman-
ticismo nel senso che gli dava il De Sanctis, certo di quello che noi a
buon diritto chiamiamo romanticismo, cioè del movimento culturale
religioso-populista, antimaterialistico e antigiacobino, venuto su nel-
l’età della Restaurazione. Il De Sanctis riteneva che nel secondo Otto-
cento non fosse più tempo di religione, bensì di scienza, di positivi-
smo; ma nella religiosità del primo Ottocento vedeva, per così dire, un
passaggio obbligato, l’unica via per la quale lo spirito europeo si era
liberato dalle astrattezze ideologiche (razionalismo) e stilistiche (clas-
sicismo) del secolo xviii.
Da questa prospettiva – ammirevole certo per la sua complessità, e
molto superiore per questo rispetto agli schemi ghibellineggianti del-
l’Emiliani Giudici e del Settembrini – i classicisti illuministi dell’Ot-
tocento rimanevano esclusi. Al classicismo del Settecento (Alfieri,
Parini), e ancora a quel momento di crisi del classicismo e del sensismo
rappresentato, ai primi dell’Ottocento, dal Foscolo dell’Ortis e dei Se-
polcri, il De Sanctis riconosceva una funzione positiva, e fin dal 1855
la rivendicò appassionatamente contro il Gervinus.42 Ma in quello
stesso saggio egli dichiarava che il classicismo «muore romorosamen-
te ne’ sonanti versi del Monti», e concordava ** col Gervinus (pur
nella diversità delle prospettive politico-culturali) sull’inattualità del
classicismo e del giacobinismo insieme: «Ora la situazione è mutata;

42
iSaggi critici, a cura di L. Russo, I, p. 187 sgg.
Introduzione 25

... non è più questione di principii, ma di esecuzione; non è più il tem-


po di Alfieri, ma di Balbo, di Gioberti, di Rosmini. Verissimo ...».
Classicismo e illuminismo posteriori al 1815 gli apparivano dunque
come un residuo di «astrattezza» settecentesca, qualcosa di ritarda-
tario e di utopistico insieme.43 Al Giordani soltanto pochi accenni sva-
lutativi sono dedicati nella Storia e nelle Lezioni.44 Dalla «scuola demo-
cratica» quale il De Sanctis la delinea sono assenti, come è già stato
osservato, Cattaneo, Ferrari, Pisacane, tutti coloro che non potevano
rientrare nel quadro della democrazia religiosa mazziniana. Senza
dubbio bisogna tener conto anche di gravi ostacoli obiettivi, cioè del-
la lentezza e difficoltà con cui la conoscenza di questi autori si fece
strada nella cultura italiana;45 tuttavia questa è solo una faccia della
questione: l’altra è costituita dalla chiusura ideologica del De Sanctis
stesso a tutto quel settore del pensiero democratico ottocentesco.
Unico rappresentante del classicismo anticlericale rimaneva nelle
Lezioni desanctisiane Giovan Battista Niccolini. Il ridimensionamen-
to dell’ammirazione tributata al Niccolini dai contemporanei è una
prova del gusto sicuro del De Sanctis, anche se, come ha convincen-
temente dimostrato Luigi Baldacci, il giudizio desanctisiano va a sua
volta in parte riveduto;46 ma è interessante notare che nell’accademi-
43
iIl De Sanctis, perciò, rifiuta in complesso anche quell’impostazione (sostenuta da Carlo
Tenca* e, con accentuate simpatie per il classicismo, dal Settembrini) secondo cui romanticismo
e classicismo avrebbero avuto pregi e difetti complementari: forma nuova e contenuto vecchio
il primo, forma vecchia e contenuto nuovo il secondo. Qualche volta, è vero, egli sembra accet-
tarla (Storia lett. ital., ed. cit., II, p. 958: «Il romanticismo era il razionalismo o il libero pensie-
ro applicato alla letteratura da uomini che in religione predicavano fede e autorità. I classici, al
contrario, miscredenti e scettici nelle cose della religione, erano qualificati superstiziosi in fat-
to di letteratura»); ma in realtà egli era convinto che la nuova scuola religiosa, malgrado certe
passeggere nostalgie reazionarie, recasse essa sola in sé l’avvenire, e che i classicisti, dopo Alfie-
ri e Foscolo, non avessero più nessuna esigenza viva da difendere: «Erano di quella scuola (la
scuola di Goldoni, di Parini, dell’illuminismo settecentesco) più i romantici, i quali avevano l’aria
di combatterla, che i classici, suoi eredi di nome, ma eredi degeneri, appo i quali la sua vitalità
si mostrava esaurita nella pomposa vacuità di Monti e nel purismo rettorico di Pietro Giordani
...» (ibid., p. 962 sg.). Su questo problema cfr. anche M. Mirri, op. cit., p. 202 sgg.
44
iCfr. più sotto, p. 81 e n. 142.
45
iVedi anche la giusta osservazione del Muscetta (introduzione a De Sanctis, La scuola
democratica, Torino 1951, p. XXXI): «Se la scuola cattolico-liberale si presenta (nel De Sanctis)
con maggior compattezza, ciò corrisponde a un fatto storico, cioè alla più organica direzione cul-
turale che riuscirono a realizzare i moderati».
46
iL. Baldacci, Nel centenario di G. B. Niccolini, in «Rassegna letter. ital.» LXVI, 1962,
p. 39 sgg. Molto di ciò che il Baldacci osserva ** sulla formazione ideologica del Niccolini si
può estendere al classicismo illuminista italiano nel suo complesso.
*i{Cfr. la postilla alla n. 35 – N. d. C.}.
26 Introduzione

smo del Niccolini il De Sanctis vedeva la conferma della sua tesi, che
la religiosità è un carattere essenziale della cultura ottocentesca: l’an-
ticlericalismo sia del Manzoni che del Mazzini deriva dal fatto che essi
hanno «un’idea più alta e più pura della religione», quello del Nicco-
lini è «sentimento antireligioso», è «negazione come nel secolo xviii»,
e quindi non può essere che puramente astratto e libresco.47
Si sa come il De Sanctis incontrasse difficoltà nel collocare il Leo-
pardi in una delle due scuole, liberale e democratica, e come infine si
rassegnasse a considerarlo (analogamente al Guerrazzi e al Giusti, ma
ancor più di loro) come un «fuori posto», un «eccentrico». L’isola-
mento del Leopardi nella cultura del suo tempo fu un fatto reale, e il
Leopardi stesso fu il primo ad averne lucida coscienza. Tuttavia al De
Sanctis il Leopardi appariva ancor più isolato di quanto in realtà non
fosse, proprio perché il De Sanctis, misconoscendo il classicismo illu-
minista dell’Ottocento, e in particolare il Giordani, contribuiva, per
così dire, a fargli il vuoto attorno. Il Sapegno ha messo molto bene in
rilievo il carattere tormentato e problematico dell’ammirazione de-
sanctisiana per il Leopardi: un’ammirazione immediata, ardente per il
«poeta della sua giovinezza», che tuttavia non si inseriva facilmente
nella poetica realistica del De Sanctis maturo. Questa difficoltà di in-
serimento dipendeva, osserva ancora il Sapegno, dall’«apparente rifiu-
to della popolarità della forma» da parte del Leopardi, nonché dal suo
pessimismo e materialismo.48
Ora, per quel che riguarda il «rifiuto della popolarità della forma»,
è significativo che il De Sanctis scorga nel Leopardi quella stessa con-
traddizione tra forma antica e contenuto nuovo che aveva notato nel
classicismo settecentesco, e in particolare nell’Alfieri. «Questa forma,
entro cui apparisce un contenuto così interessante, non è ancora ugua-
le al suo contenuto, e non ha freschezza di vita comune. Sembra l’o-
belisco egiziano in piazza Montecitorio. Nessuna meraviglia dunque
che egli sia stato così poco inteso e poco apprezzato (...). Mirava a
un’Italia avvenire, come Alfieri. Ma l’avvenire non si trova quando
si smarrisce il presente».49 Ecco risorgere, anche a proposito dell’a-
47
iAl Niccolini sono dedicate le ultime due lezioni su La scuola democratica. Si noti che il De
Sanctis tiene a ribadire la superiorità del Niccolini sugli altri classicisti, e specialmente sul Gior-
dani (p. 576 dell’edizione commentata a cura di F. Catalano, Bari 1954): in tal modo la valuta-
zione negativa del Niccolini veniva a colpire, a fortiori, gli altri.
48
iN. Sapegno, De Sanctis e Leopardi, in Ritratto di Manzoni e altri saggi, Bari 1961, p. 164 sg.
49
iDe Sanctis, Studio sul Leopardi, cap. XX in fine.
Introduzione 27

mato Leopardi, quell’accusa di passatismo e avvenirismo insieme, di


scarsa aderenza alla realtà presente, che il De Sanctis muoveva a tut-
te le correnti culturali dell’Ottocento che erano rimaste estranee all’e-
sperienza romantica. È vero che secondo il De Sanctis questa scon-
cordanza tra contenuto e forma viene a comporsi in armonia in quelli
che egli chiamò i «nuovi idilli» del 1828-29, e che a lui apparivano una
specie di momento «manzoniano», realistico, «bonario» nella carrie-
ra poetica del Leopardi. Ma è anche vero che questo tentativo di recu-
perare a una poetica di realismo antieroico un poeta che ad essa total-
mente ripugnava si è ormai rivelato un tentativo fallito, assai dannoso
al posteriore sviluppo della critica leopardiana.50
E non solo la forma classicheggiante, ma anche il contenuto pessi-
mistico e antireligioso dell’opera leopardiana costituì sempre per il De
Sanctis un tormentoso problema. Nel dialogo Schopenhauer e Leopar-
di egli fece risaltare con estrema vivezza rappresentativa la parados-
sale efficacia energetica di questo pessimismo che «non crede al pro-
gresso, e te lo fa desiderare; non crede alla libertà, e te la fa amare»;
intuì anche che questo carattere non decadente e non reazionario del
pessimismo leopardiano era in qualche modo connesso con le sue ori-
gini materialistiche.51 Nella Storia della letteratura italiana assegnò al
Leopardi la funzione di distruttore delle illusioni teologico-metafisi-
che del primo Ottocento e di inauguratore del «regno del reale»: qui
il Leopardi sembrava veramente aver raggiunto la sua collocazione
nella storia del secolo xix.52 Ma anche questa immagine di un Leopardi
primo positivista e realista, che pure conteneva un elemento di verità,
dovette lasciare insoddisfatto il De Sanctis, sia perché non si accor-
dava col classicismo leopardiano (che il De Sanctis era portato sem-
pre più a giudicare negativamente, come abbiamo visto), sia perché il

50
iMeglio di tutti, mi sembra, ha colto questo limite dell’interpretazione desanctisiana Emi-
lio Bigi, ne I classici italiani nella storia della critica a cura di W. Binni, II, 2ª ed., Firenze 1961,
pp. 366 sg.* Il De Sanctis giungeva a supporre un influsso diretto del Manzoni sul Leopardi
dei «nuovi idilli»: «Giovarono forse anche i lunghi colloqui col Manzoni, che dovettero stor-
narlo da quelle forme solenni e clamorose, le quali egli aveva ereditato dall’uso de’ latini, da
Monti e da Foscolo» (Studio sul Leopardi, cap. XXXVI). Sugli equivoci a cui ha dato luogo il ter-
mine non leopardiano di «nuovi» o «grandi idilli», vedi più oltre, p. 112, n. 9.
51
iCiò è stato giustamente osservato da Sergio Landucci, Cultura e ideologia in F. De Sanctis,
Milano 1963, p. 171.
52
iSull’importanza della pagina dedicata al Leopardi nella Storia desanctisiana ha richiamato
l’attenzione il Sapegno, in Ritratto di Manzoni cit., p. 170 sg.
*iVedi ora, dello stesso Bigi, anche La genesi del «Canto notturno» cit., p. 116 sg.
28 Introduzione

pessimismo leopardiano mirava al di là delle stesse posizioni cattoli-


co-moderate, contrastava con tutto lo storicismo provvidenzialista del-
l’Ottocento. Perciò nello Studio sul Leopardi quella collocazione sto-
rica è abbandonata, e ciò non può dipendere solo dall’incompiutezza
di quest’ultima opera del De Sanctis.
Rimane comunque al De Sanctis il grande merito di aver posto il
problema, tuttora aperto, del «Leopardi progressivo».53 Bisogna anche
aggiungere che il De Sanctis, uomo immune da ogni rigida conse-
quenziarietà dottrinaria, conservò sempre in sé una vena di pessimi-
smo e un certo distacco ironico-amaro da quello storicismo che pur
professava: si pensi alla bellissima divagazione sul fumo del sigaro nel
capitolo quarto del Viaggio elettorale, o anche, nello Studio sul Leopar-
di, a certi accenni al problema del male, «problema agitato molto e
poco ancora risolto, non sapendosi spiegare l’esistenza del male nella
vita».54 Ciò gli concedeva nei riguardi del pessimismo leopardiano una
simpatia e una comprensione molto maggiore di quella che avranno
più tardi i neo-idealisti.
Quello che il Carducci, come critico della letteratura ottocentesca,
ha in meglio nei confronti del De Sanctis, deriva appunto dalla sua for-
mazione più legata al classicismo illuminista. Fu quella formazione che
gli consentì da un lato una maggiore attenzione ai problemi di tecnica
letteraria e di magistero formale con cui si erano cimentati i classicisti
del primo Ottocento, dall’altro una valutazione più positiva della com-
ponente libertaria e anticlericale del classicismo. Di questa tradizione
classico-repubblicana Bologna e la Romagna hanno continuato, si può
dire fino ai nostri giorni, ad essere le depositarie, e il Carducci se ne
nutrì e a sua volta contribuì a darle forza. Ma da questa affinità spiri-
tuale col classicismo ottocentesco il Carducci non riuscì, come è noto,
a trarre una visione organica della storia culturale italiana che potesse
stare a fronte di quella del De Sanctis: un po’ per la sua molto più debo-
le tempra di storico e di pensatore, un po’ perché l’involuzione reazio-
naria e nazionalistica della Sinistra repubblicana (di cui Carducci fu il
protagonista culturale, come Crispi fu il protagonista politico) portò
con sé anche un’involuzione del classicismo illuminista, che sempre più
divenne retorica della romanità, sciovinismo, fraseologia demagogica

53
iA questo problema è dedicato il terzo saggio del presente volume.
54
iStudio sul Leopardi, cap. XXIV (a cura di W. Binni, Bari 1953, p. 199).
Introduzione 29

al servizio di obiettivi antipopolari: divenne, insomma, una nuova for-


ma di classicismo reazionario, anche se di un genere ben diverso dal
vecchio classicismo austriacante e cruschevole.55

Nel Novecento non sono mancate, accanto a questo filone princi-


pale di classicismo sciovinista, correnti classicistiche minori, che han-
no avuto i loro riflessi anche sulla storia letteraria. Basti pensare alla
Storia della critica romantica del Borgese (la cui intenzione program-
matica è chiarita dall’autore stesso nella premessa alla seconda edizio-
ne), al leopardismo della «Ronda», ai Saggi sulla forma poetica italiana
dell’Ottocento di Cesare de Lollis. Ma questi classicismi estetizzanti e
aristocratici erano ben lontani da quell’unione di classicismo e illumi-
nismo che aveva contraddistinto gli scrittori del primo Ottocento da
noi presi in esame. Occorre tuttavia dire che mentre il de Lollis, pren-
dendo come criterio fondamentale di giudizio l’esteriore «decoro»
dello stile, finiva col salvare dalla sua ironia un po’ troppo facile, tra
tutti i romantici minori, soltanto il Tommaseo proprio per quel che ha
di più dignitosamente scolastico, il Borgese non mancò, invece, di al-
cune giuste intuizioni storico-culturali, pur tra le disuguaglianze di
quel libro giovanile.56
E ancora, non va confuso né col classicismo rondista né con quello
di de Lollis il particolare tipo di critica stilistica di Giuseppe De Ro-
bertis, estraneo, sì, a un interesse diretto per la storia delle idee e della
società, ma capace di intendere più a fondo di tutti i critici preceden-
ti, al di fuori di ogni classicismo puramente decorativo,57 l’essenzialità
del linguaggio poetico leopardiano nei suoi momenti più alti. Anche
chi (come noi in questi saggi) studi il classicismo ottocentesco da un
diverso punto di vista, non può trascurare l’insegnamento di De Ro-
bertis, che ha avuto un particolare significato in un periodo in cui tan-
ta critica leopardiana (e foscoliana) era viziata dallo psicologismo, e
in cui Croce pronunziava la sua irosa scomunica che dal Leopardi
ideologo si estendeva a quasi tutto il Leopardi poeta.

55
iSull’involuzione del classicismo carducciano vedi A. La Penna, Orazio e l’ideologia del prin-
cipato, Torino 1963, p. 242 sgg.
56
iParticolarmente felici mi sembrano le pagine sull’«Antologia» (cap. III) e sul Tommaseo
(capp. IX e XII).
57
iFu proprio De Robertis (Saggi, Firenze 1939, p. 197 sgg.) a scrivere la critica più acuta
del classicismo del de Lollis.
30 Introduzione

Nemico del romanticismo in quanto significasse squilibrio e amore


dell’irrazionale, il Croce era però altrettanto e più ostile alla filosofia
prerivoluzionaria e materialista del secolo decimottavo. Dal De Sanc-
tis egli ereditò, in un certo senso, la distinzione tra romanticismo come
fenomeno psicologico-morale e movimento spiritualistico del secolo
xix, il primo condannato come malattia della volontà (e qui all’influs-
so desanctisiano si univa quello del Carducci), il secondo magnificato
come «religione della libertà».58 Ma nel De Sanctis il giudizio positivo
sullo spiritualismo ottocentesco era basato essenzialmente sulla conti-
nuità rispetto all’illuminismo; il Croce invece esaltava lo spiritualismo
liberal-moderato in netta antitesi alla rivoluzione e alla democrazia. In
un simile quadro il classicismo illuminista dell’Ottocento difficilmen-
te poteva trovar posto. Una sola opera del Croce, mi sembra, dimostra
una maggiore comprensione di certe correnti di illuminismo ottocen-
tesco: la Storia della storiografia italiana nel secolo decimonono, che è, del
resto, l’opera del Croce più ricca di senso storico concreto, più immu-
ne dai cattivi schemi della filosofia crociana. Anche qui il posto d’o-
nore è dato alla «scuola cattolico-liberale», ma il Croce sa valutare
abbastanza equamente anche un Cattaneo ** e giunge a riconoscere,
per esempio, alla linguistica cattaneiana un valore che difficilmente le
spetterebbe a norma dell’Estetica come linguistica generale.*
Molto meno ricco di curiosità culturale e di versatilità, Giovanni
Gentile aveva però, assai più di Croce, il senso dell’unità della cultu-
ra e la capacità di ricostruzione di tutto un ambiente intellettuale. Dal
giovanile Rosmini e Gioberti fino a Gino Capponi e la cultura toscana
nel secolo decimonono, la sua simpatia per i moderati cattolici è costan-
te: egli non accetta il dualismo che è alla base del cattolicesimo, ma tra
cattolicesimo e materialismo non ha esitazioni nel preferire il primo,
che ha agli occhi suoi il merito di salvare comunque il concetto di spi-
rito e che egli sente più consono alla propria mentalità paternalista e
conservatrice. Tuttavia – con un criterio valutativo opposto a quello

58
iVedi il cap. I della Storia d’Europa. Sulla distinzione tra romanticismo morale, estetico,
filosofico – in correlazione con le categorie del suo sistema – il Croce aveva già insistito in un arti-
colo su Le definizioni del romanticismo (in Problemi di estetica, 3ª ed., Bari 1940, p. 292 sgg.).
Sulla valutazione crociana del romanticismo ottime pagine ha scritto G. Petronio, Il romantici-
smo, Palermo 1960, p. 64-68.
*iSulla posizione di Croce nei confronti del Cattaneo cfr. F. Focher in «Riv. di studi cro-
ciani» V, 1968, p. 261 sgg.
Introduzione 31

del presente volume – in Rosmini e Gioberti è indicata con molta acu-


tezza l’associazione del classicismo ottocentesco col sensismo: «I clas-
sicisti furono sensisti, i romantici, in generale idealisti, o, almeno, spi-
ritualisti ... Classicismo in arte e sensismo o lockismo in filosofia pare
non si potessero scompagnare».59
Il dopoguerra ha visto, accanto a quel rinnovato fervore di studi sul
romanticismo italiano a cui abbiamo accennato all’inizio (fervore di
studi che aveva anch’esso una sua motivazione etico-politica: avver-
sione alla retorica romana del fascismo, bisogno di riannodare i rap-
porti culturali fra Italia ed Europa), anche una nuova e approfondita
valutazione del Leopardi e del Cattaneo. Sembrerebbe adesso che
anche il Giordani sia finalmente arrivato a rompere l’indifferenza e
l’incomprensione che hanno gravato su di lui per più di un secolo. Ma
l’esatta collocazione ideologica e culturale di questi scrittori è rimasta,
a mio parere, alquanto impedita dall’uso estensivo e indiscriminato
che si è fatto del termine di «romanticismo».*
Sull’opportunità di non fare del romanticismo una «categoria eter-
na», un atteggiamento dello spirito umano ricorrente nelle epoche più
diverse, e di non interpretare quindi «romanticamente» poeti antichi
o medievali, si è già molto insistito (basti ricordare la prefazione a La
carne, la morte e il diavolo di Mario Praz). Direi, anzi, che si è troppo
insistito, poiché – se è lecito azzardare un’impressione ad un incom-
petente – certe recenti interpretazioni dantesche mi sembrano pensa-
te e scritte addirittura sotto l’ossessione di non cadere in una lettura

59
iG. Gentile, Rosmini e Gioberti, 3ª ed., Firenze 1958, pp. 9, 17, e vedi tutto il cap. I della
parte I.
*iIl legame tra classicismo e illuminismo del primo Ottocento è indicato da Umberto Bosco,
Preromanticismo e romanticismo, in «Questioni e correnti di storia letteraria», Milano 1949,
ripubbl. in Realismo romantico, Caltanissetta 1959, p. 15: «Se vogliamo restare sul terreno sto-
rico, dovremo (...) vedere chi fossero propriamente i “classici” ai quali i romantici vollero oppor-
si. Essi erano, in sostanza, gli illuministi». Su un piano diverso, va anche ricordato l’appassio-
nato libro postumo di Raffaello Giolli, La disfatta dell’Ottocento, Torino 1961 (scritto attorno
al 1940-43). La polemica di Giolli contro il romanticismo italiano ed europeo (vedi specialmen-
te la parte intitolata «Romanticismo: una finzione», p. 85 sgg.) non è, né vuole essere, ispirata
ad un scrupolosa equità storiografica; nemmeno sembra accettabile l’immediata identificazione
tra avanguardia artistica e posizioni politico-sociali rivoluzionarie, che a Giolli, critico d’arte
antifascista e nemico del provincialismo culturale, apparivano due aspetti di un’unica battaglia
anticonformistica (vedi l’introduzione di Claudio Pavone, p. XXII). Eppure, l’avere indicato
in Leopardi e in Pisacane i due veri eroi dell’Ottocento italiano dimostra come la tensione poli-
tico-morale, se faceva trascurare all’autore la minuta imparzialità dei singoli giudizi, gli faceva però
vedere lucidamente i punti essenziali.
32 Introduzione

«romantica» della Divina Commedia. Ma mentre si è rigorosamente


proibito di parlare di romanticismo per atteggiamenti psicologici, cul-
turali e artistici anteriori all’Ottocento, si sono poi riunite sotto l’eti-
chetta di romanticismo tutte le correnti culturali vive della prima metà
dell’Ottocento, anche quelle dichiaratamente antiromantiche. Si è fi-
nito col fare di «romanticismo» un sinonimo di «civiltà liberale-demo-
cratica del secolo xix», o addirittura di tutto ciò che nell’arte e nella
cultura ottocentesca non è fredda accademia e imitazione inerte del
passato. Così Goethe, Foscolo, Leopardi, Heine, Cattaneo – per cita-
re soltanto alcuni nomi di avversari espliciti del romanticismo – sono
stati aggregati, loro malgrado, alla schiera romantica.60
Il culmine di questa tendenza storiografica si riscontra nel Sapegno,
il quale giunge fino a considerare come un romantico Marx.61 Ma
anche uno studioso molto più attento alle distinzioni storico-cultura-
li come Walter Binni, che è tra i pochi che abbiano compreso il valo-
re dell’illuminismo e del materialismo leopardiano, non ha mai rinun-
ciato, parlando del Leopardi, a un uso vago e sfocato del termine
«romantico» o ad espressioni-bisticcio come «romantico-illuminista»,
«classico-romantico».62 E anche Giuseppe Petronio – un critico a cui
molto devono, per quel poco che possono avere di buono, questi miei
studi ottocenteschi –, mentre ha con piena ragione polemizzato con-
tro l’equivoca categoria del «preromanticismo»,63 ha poi, nella sua
recente storia letteraria, inglobato nel romanticismo tutta la cultura
della Restaurazione, compresi Leopardi e Cattaneo.64 La distinzione

60
iGli storici della musica – cioè di un’arte in cui le posizioni ideologiche si riflettono meno
immediatamente e chiaramente che nella letteratura – mostrano tuttavia più chiarezza su que-
sto problema. Essi fanno cominciare giustamente il romanticismo tedesco da Schubert e da
Schumann, non da Beethoven; eppure, basandosi solo su certi caratteri psicologico-estetici (tita-
nismo, senso tragico della vita, reazione alla grazia e alla compostezza settecentesca, e via dicen-
do) sarebbe molto facile fare di Beethoven un romantico.
61
iN. Sapegno, Compendio di storia della letter. ital., III, Firenze 1964, p. 68 sgg. Già il Cro-
ce (Problemi di estetica cit., p. 296) aveva aggregato Marx al «romanticismo politico», in quan-
to storicista, contrapponendogli «l’ideologo e politicamente classicista Mazzini»: chiaro esem-
pio della confusione a cui porta l’identificare lo storicismo tout court col romanticismo. Fra
l’altro, il Croce dimenticava che la polemica contro la rivoluzione francese, considerata come
manifestazione di «astratto» spirito ideologico **, distruttivo e non creativo, è proprio tipica
di Mazzini, e non di Marx.
62
iCfr. per esempio La nuova poetica leopardiana, 2ª ed., Firenze 1962, pp. 7, 92, 123, 153,
n. 1, 168 e altrove; Classicismo e neoclassicismo nella letter. del Settecento, Firenze 1963, p. 413
e passim.
63
iVedi sopra, p. 4 sg.
64
iG. Petronio, L’attività letteraria in Italia, Palermo 1964, pp. 637 sgg., 698, 712.
Introduzione 33

che egli fa tra «romanticismo» e «scuola romantica» (includendo in


quest’ultima soltanto coloro che si autodefinirono romantici) è certo
metodologicamente opportuna, in quanto permette di riconoscere la
diffusione delle idee romantiche anche tra coloro che non apparten-
nero alla «scuola» in senso stretto. Abbiamo visto, del resto, che un’a-
naloga distinzione, anche se con diversa terminologia, era stata fatta
dal De Sanctis. Ma se, come fa il Petronio, si intende per romantici-
smo il «denominatore comune di tutte le manifestazioni di sentimen-
to, di cultura e di poetica che caratterizzarono il primo Ottocento»,
il complesso delle «risposte che, pur diverse, nascevano da una mede-
sima situazione storica e si sforzavano di rispondere agli stessi pro-
blemi», si finisce, mi sembra, col fare dell’età della Restaurazione un
blocco compatto, negando o almeno sottovalutando i contrasti delle
forze politico-sociali e culturali, a cui corrispondeva una diversità non
solo di «risposte», ma, a guardar bene, anche di «domande». O vor-
remo, altrimenti, definire come «socialismo» tutte le manifestazioni
politiche e culturali della nostra epoca, anche le più tipicamente rea-
zionarie o le più tipicamente neocapitalistiche, solo perché sono tutte
«risposte» alla medesima situazione politica (ma non ai medesimi inte-
ressi, non alle medesime aspirazioni pratiche e ideali)?

Se quindi, nei saggi che formano il presente volume, abbiamo riser-


vato il termine di romantici solo a coloro che si dissero esplicitamente
tali o che almeno dettero una valutazione complessivamente positiva
del romanticismo e ne furono influenzati in maniera preponderante,
e se abbiamo chiamato classicista chi al fronte classicista appartenne,
non lo abbiamo fatto per un gusto ozioso di pedanteria terminologi-
ca, ma per un’esigenza di chiarezza storico-culturale che ci è parsa
inderogabile. S’intende che, anche così circoscritte, le categorie di
classicismo e romanticismo valgono solo come prime approssimazioni.
Si tratta, per così dire, di «partiti culturali»; e se a definire la perso-
nalità e l’azione di un uomo politico non basta certo l’indicazione del
partito in cui militò, tanto meno un’indicazione del genere è suffi-
ciente per i movimenti di cultura, molto più fluidi dei partiti politici.
Ma nemmeno la storia culturale può prescindere dai raggruppamenti
di forze e dalle alleanze (più o meno durature, più o meno omogenee)
che si formano nella battaglia delle idee.
Rimane, certo, il problema degli influssi che un movimento di così
vasta portata come il romanticismo esercitò anche sui suoi avversari.
34 Introduzione

Occorrerà, io credo, distinguere, meglio di quanto non si sia fatto


finora, tre tipi di influssi. Vi sono innanzitutto elementi del cosid-
detto «preromanticismo» settecentesco, che erano già parte integran-
te della tradizione illuministica, e che i classicisti illuministi dell’Ot-
tocento ereditarono da quella tradizione, sviluppandoli in senso ben
diverso dai romantici loro contemporanei: è questo il caso degli influs-
si di Rousseau su Leopardi, o di Vico su Cattaneo, o anche degli aspet-
ti «preromantici» del purismo. Vi sono, poi, motivi appartenenti alla
medesima tradizione di pensiero, che si diffusero nell’Ottocento at-
traverso la mediazione dei primi romantici: Madame de Staël,* per
esempio, fu una grande divulgatrice di Rousseau e di Herder, e il Leo-
pardi accolse da lei (come anche da Chateaubriand) molti elementi
russoiani e herderiani, senza per questo lasciarsi attrarre dalla sostan-
za religioso-moderata del suo pensiero.65 Vi sono, infine, i veri e pro-
pri influssi romantici. Quando si abbiano presenti queste distinzioni
(anche se, come è ovvio, non sempre sarà possibile applicarle con as-
soluta esattezza), si vedrà, ad esempio, che il Leopardi, mentre non
accolse nessun motivo propriamente romantico nella sua ideologia,
subì due fugaci suggestioni del romanticismo sul piano psicologico-let-
terario: la prima nella primavera del ’19, quando compose la canzone
Nella morte di una donna fatta trucidare col suo portato dal corruttore per
mano ed arte di un chirurgo, poi rifiutata dall’autore stesso: canzone di
stile e di metrica classicheggiante (quanto allo stile poetico, del resto,
classicheggianti erano anche i romantici italiani), ma romantica per il
contenuto, derivato da un fatto lagrimevole di «cronaca nera» **; la
seconda in un momento del tormentato amore per la Targioni, quan-
do scrisse il Consalvo. Non c’è bisogno di aggiungere che questi due
momenti romantici non furono momenti poeticamente felici. All’e-
sangue classicismo del Niccolini, invece, giovò l’influsso della dram-

65
iQuanto a Chateaubriand, vedi anche p. 119 e n. 33. Quanto a Madame de Staël, cfr. Sofia
Ravasi, Leopardi et M.me de Staël, Milano 1910 (dove la distinzione che facciamo sopra nel testo
non è chiaramente avvertita); A. Frattini nel volume collettivo Leopardi e il Settecento, Firenze
1964, pp. 269 sg. (dove si osserva giustamente che «il L. si richiama più volte alla Staël proprio
per i presupposti di una filosofia sensistica e vitalistica sottesi alle sue opere»).
*iSulla Staël vedi l’ottimo paragrafo dell’art. di G. Moget, En marge du bi-centenaire ecc.,
nella «Pensée», febbraio 1967, pp. 48-53: «Le rôle de Madame de Staël». Fra i molti altri scrit-
ti pubblicati in occasione del centenario staëliano è specialmente notevole (anche per i rappoti
con Rousseau) quello di Roland Mortier, Philosophie et religion dans la pensée de M.me de Staël,
in «Riv. di letterature moderne e comparate» XX, 1967, p. 165 sgg.
Introduzione 35

maturgia romantica, e in particolare dell’Adelchi, da cui nacque l’Ar-


naldo da Brescia.
Se, invece, si qualifica genericamente come romantico il pessimi-
smo del Leopardi, si finisce col disconoscere la base materialistico-
edonistica da cui esso si sviluppa, o col considerarla un residuo di
astratta ideologia settecentesca, o magari col valutarla positivamente,
sì, ma più per il suo valore di eroico anticonformismo che per la sua
obiettiva verità. Se si considera romantico l’interesse del Cattaneo per
l’etnografia e la linguistica, si rischia di fraintendere il carattere spe-
cifico della sua etnografia e della sua linguistica, che si svolgono tutte
in polemica coi romantici europei. Di qui la necessità di mantenere
certe distinzioni che aiutino a ricostruire, in tutta la sua complessità,
la storia culturale del nostro Ottocento.
I.
Le idee di Pietro Giordani* **

Testo epigrafe, testo epigrafe, testo epigrafe, testo epigrafe,


testo epigrafe, testo epigrafe.
Nome Cognome

1. Il libro su Pietro Giordani sino ai quarant’anni,1 terminato da Gio-


vanni Ferretti poco prima di morire, rimane una delle opere più vali-
de e più caratteristiche di questo studioso, che impersonava un tipo
raro di erudito con schiette doti di narratore e simpatia umana per i
propri personaggi. Egli stesso definì benissimo nella prefazione il
carattere di quest’ultimo suo libro e un po’ di tutta la sua produzio-
ne, dicendo che il suo proposito era stato di narrare la giovinezza del
Giordani «con una simpatia che voleva conseguir come risultato la
comprensione senza però giungere all’apologia, con una linearità che
rischiava di farmi cader nella cronaca ma che non voleva esser mai
pura cronaca».
Questo difficile equilibrio il Ferretti seppe mantenerlo di fronte al
Giordani assai meglio che di fronte al Leopardi, del quale anche ave-
va, parecchi anni prima, scritto una biografia. Anche al Leopardi egli
si era accostato con amore e con «comprensione», oltre che con otti-
ma preparazione documentaria; ma con un amore e una comprensio-
ne troppo meramente psicologici, che, mentre miravano a seguire in
tutte le sue oscillazioni e contraddizioni contingenti il «cuore» del
Leopardi, si lasciavano sfuggire la profonda coerenza e l’altezza eroica
della sua personalità. Troppo spesso, in quella biografia, il Leopardi è
chiamato il «povero» Leopardi, un epiteto che, a chi del Leopardi non
soltanto poeta ma uomo abbia inteso davvero la grandezza, non può
non destare somma irritazione. Troppo spesso la «comprensione» del
1
iEdizioni di storia e letteratura, Roma 1952.
*iVedi la prefazione {alla} seconda edizione, p. LXXXI.
38 I. Le idee di Pietro Giordani

biografo si fa bonaria e indulgente là dove di nessuna indulgenza c’è


bisogno. E soprattutto, gli sforzi del Ferretti, come di molti altri leo-
pardisti, sono rivolti a smorzare i contrasti tra il Leopardi e l’ambien-
te che lo circondò e lo oppresse, a mostrare che si trattò soltanto di
malintesi, a riconciliarlo col padre e con la madre, col Capponi e col
Tommaseo, con Recanati, con la natura e con Dio: mentre un vero
conoscitore del Leopardi deve ben intendere la necessità e l’irriduci-
bilità di quei contrasti **.
Molto meglio, invece, si prestava a un simile tipo di biografia il
Giordani. Nel Giordani l’uomo fu più ricco dello scrittore, e parec-
chi dei suoi scritti, per ridestare interesse, devono essere ricondotti
alle loro scaturigini biografiche. Le qualità di narratore e d’indagato-
re psicologico del Ferretti trovano quindi il terreno migliore per mani-
festarsi; e anche quel tono di affettuoso moralismo che, come ho det-
to, irrita quando si tratta del Leopardi, non è del tutto fuor di luogo
col Giordani. Nelle polemiche, nelle inimicizie, nelle altrettanto furio-
se amicizie del Giordani – specialmente nel primo periodo della sua
vita, a cui il Ferretti si limita – ebbe effettivamente larga parte, accan-
to ai motivi ideali, il difficile carattere dell’uomo, sebbene sulla sua
nevrastenia e ombrosità si sia molto esagerato. Il racconto del Ferret-
ti s’interrompe al punto in cui il Giordani, raggiunta l’indipendenza
economica, poté darsi tutto alla sua attività di studioso e di animato-
re d’iniziative culturali. Ma le ultime pagine, le più belle di tutto il
libro, danno un orientamento anche per capire l’ulteriore svolgimen-
to della sua personalità, e mettono in luce le qualità più belle del Gior-
dani maturo: il senso profondo dell’amicizia, la dedizione ai giovani,
la severa e serena valutazione di sé.
Naturalmente, come tutti i libri vivi, anche questo del Ferretti su-
scita nel lettore il desiderio di andare oltre, non solo cronologicamen-
te (cioè di seguire il Giordani dopo i quarant’anni), ma anche nel senso
di un maggiore approfondimento. Che cosa ha significato il Giordani
nella vita culturale dell’Italia del primo Ottocento? La biografia del
Giordani non va certo perduta di vista; ma si sente il bisogno di una
biografia un po’ meno aneddotica e psicologistica, che metta l’accen-
to sulle i d e e e non solamente sul c a r a t t e r e : poiché il Giordani fu
qualcosa di più che un carattere interessante.
Da questo punto di vista, anche gli altri studi d’insieme sul Giorda-
ni, o i capitoli a lui dedicati nelle storie letterarie, non dicono molto.
I. Le idee di Pietro Giordani 39

Essi insistono quasi esclusivamente sui suoi precetti in fatto di lingua


e di stile, sul suo classicismo e purismo, sull’artificiosità della sua pro-
sa. Aggiungono, ad attenuare un giudizio troppo severo, che il purismo
del Giordani non era così pedantesco come quello del padre Cesari.
Ricordano infine, come principale benemerenza, la sua ammirazione
per il Leopardi e (felice contraddizione al suo classicismo) per i Pro-
messi Sposi.
Certamente furono le sue qualità retoriche quelle che più gli dette-
ro fama tra i contemporanei e che più glie l’hanno diminuita tra i
posteri. A imporlo per la prima volta all’attenzione del mondo lette-
rario cisalpino – lui che fin allora aveva trascorso un’oscura e incerta
vita di impiegato – fu il Panegirico a Napoleone, un’insopportabile de-
clamazione nello stile di Plinio e dei tardi panegiristi latini.2 A quello
seguirono, come è noto, molti altri panegirici, necrologi, elogi di arti-
sti e di opere d’arte. Questa produzione retorica era ammirata anche da
chi lo avversava per le sue idee politiche e religiose: lo zio del Leopar-
di, il reazionario Carlo Antici, andava in estasi davanti al Panegirico a
Napoleone e metteva il liberale ed ateo Giordani «fra i primi classici
d’Italia».3 Oggi per noi quegli scritti non presentano alcun interesse,
e non possiamo non dar ragione a Stendhal, che in Rome Naples et Flo-
rence4 citava con ironia alcuni dei più macchinosi e vuoti periodi del
Panegirico e considerava l’ammirazione degli italiani per questa prosa
come una manifestazione della loro provincialità culturale.
Gli scritti su opere d’arte, a parte la smisurata infatuazione per il
«divino» Canova – condivisa tuttavia da tutta quell’epoca, anche dal
Foscolo, dal Cattaneo, dagli stessi romantici –,5 sono produzioni qua-
si esclusivamente oratorie: descrizioni in cui il descrittore gareggia con
l’artista figurativo, come nelle ekphraseis della tarda antichità. Anch’es-
2
iScrive Francesco Flora (Storia della letteratura italiana, 7ª ed., vol. IV, Milano 1953, p. 127)
a proposito di quest’opera: «... ove la parola panegirico, che i moderni usarono per le lodi dei san-
ti, ha già in quella unzione di origine ecclasiastica un suo odore d’incenso rappreso». No: il Gior-
dani voleva riconnettersi alla tradizione del Panegirico di Traiano di Plinio il giovane e dei pane-
girici dei tardi imperatori romani composti dai retori della Gallia. Li rilesse apposta mentre
rielaborava il suo panegirico per la stampa, ma li conosceva già prima: cfr. XIV, 276, 279, 296.
3
iEpistolario del Leopardi, ed. Moroncini, II, p. 116.
4
iCito dall’edizione di Parigi, Calmann-Lévy, 1927, p. 183 sg.
5
iÈ noto che Ermes Visconti, in quelle Idee elementari sulla poesia romantica che costituiro-
no il breviario del romanticismo lombardo, ammetteva il classicismo e i soggetti mitologici nel-
le arti figurative, e citava con onore, a questo proposito, il Canova (cfr. «Il Conciliatore», ed.
Branca, I, p. 438). Quanto a Cattaneo, cfr. SL, I, p. 7.
40 I. Le idee di Pietro Giordani

se non si possono leggere senza tedio,6 pur riconoscendo che il Gior-


dani aveva in questo campo una buona preparazione erudita, di cui si
giovò il suo amico Leopoldo Cicognara per la Storia della scultura.
Non meno superate sono, e in gran parte erano già allora, certe idee
su lingua e letteratura, sulle quali, appunto perché costituiscono l’a-
spetto più noto e insieme più caduco del Giordani, non voglio soffer-
marmi: l’ammirazione per i «tre grandi gesuiti» del Seicento, Segneri
Bartoli e Pallavicino **; la persuasione che la lingua italiana si tro-
vasse già tutta nei trecentisti; l’ostilità per la lingua «infranciosata»
(cioè moderna) e per le tendenze antiretoriche del Settecento. Di Vin-
cenzo Cuoco, che aveva negato l’esistenza di un’«arte di scrivere» in
senso retorico, pronunciò un aspro giudizio: «Ma dovette credersi più
savio ed esperto di Cicerone quel Vincenzo Cuoco che scrisse non dar-
si arte di scrivere: e quello che in poche parole affermò, ben con troppe
carte, quanto a sé, confermò».7 In Giordano Bruno, in Campanella,
in Vico vedeva esempi di barbarie stilistica e di incapacità ad espri-
mere le verità che forse avevano confusamente intravisto. Rispettava
i primi due come vittime dell’oscurantismo clericale, ma il loro sacri-
ficio, a differenza di quello di Galileo, gli appariva sterile: «Di tante
vostre fatiche niun pro a voi, niun profitto a tempi venturi. Appena
gli eruditissimi sanno il numero e il nome de’ vostri libri molti: sareb-
be spenta la vostra fama, se lo sdegno giusto de’ buoni non avesse con-
servata ad infamia la memoria de’ vostri crudeli persecutori»:8 giudi-
zio questo che, per quanto riguarda Giordano Bruno, fu riecheggiato
dal Carducci,9 e che è caratteristico dell’incomprensione dell’Italia let-
teraria centro-settentrionale nei riguardi dell’Italia filosofica meridio-
nale. Né si può negare che a tale incomprensione abbia contribuito il
carattere oracolare e misteriosofico di tutta una tradizione di pensie-
ro meridionale, che dal Bruno giunge al Vico e ancora ai vichiani pita-
goreggianti del primo Ottocento.

6
iFanno eccezione quei casi in cui la descrizione dell’opera d’arte è occasione per qualche
excursus di polemica politica o culturale: vedi qui sotto, pp. 62 n. 64, 106. Una scelta di Scritti
d’arte del Giordani con un utile commento fu pubblicata da P. Papa, «La voce», Firenze 1924.
7
iVIII, 187 sg. Il Giordani forse pensava a certe sciatterie stilitiche del Cuoco, come: «Qual
altra può, a l p a r i d e l l a n o s t r a , presentare un numero m a g g i o r e o a n c h e e g u a l e di
persone che solo amavano l’ordine e la patria?» (Saggio storico sulla rivol. napoletana, § xvii, nel-
le due edizioni del 1801 e del 1806).
8
iXIII, 97; sul Vico, XI, 170.
9
iConfessioni e battaglie, serie II (in Opere, ed. nazionale, XXV, pp. 234 sg., 291 sg.).
I. Le idee di Pietro Giordani 41

2. Ma in contrasto con questi pregiudizi retorici fervevano nella sua


mente idee nuove, di riforma culturale, che lo pongono su un piano
ben diverso dagli altri puristi. Innanzitutto, questo letterato non ave-
va alcun esclusivismo letterario: sapeva anzi che il male della cultura
italiana era la troppa e sola letteratura, triste conseguenza dell’educa-
zione controriformistica, e che occorreva educare la nuova generazio-
ne alla storia politica e culturale, all’economia, alla matematica, alle
scienze naturali, alla tecnica. In questo senso avrebbe voluto orienta-
ta la scuola italiana, come vedremo; ed egli stesso ricordava che la sua
prima vocazione era stata di studiare matematica, e già avanti negli
anni cercava di migliorare la sua cultura scientifica.10 Soprattutto
deplorava che il tempo che si sarebbe potuto impiegare in tali studi,
col risultato d’innalzare il tono culturale di tutta la nazione, fosse
sprecato nella vana ambizione di scriver poesie, cioè in un’attività che
dovrebbe essere riservata ai pochissimi che ne hanno vocazione; e in
ciò consentiva pienamente, lui antiromantico, con Madame de Staël,
perché su questo punto la Staël e i romantici lombardi non facevano
che proseguire una battaglia illuministica, divenuta tanto più neces-
saria nell’atmosfera stagnante della Restaurazione:
Infelicissima fecondità che questi cantori ci nascano come le rane! ... In Italia la
metà almeno di quelli che sanno leggere, presumono di far versi. Non sapranno altro
al mondo; ma si credono poeti. E questa vana e matta credenza è gran cagione che
in tutta la vita non imparino mai cosa buona. Ogni città, ogni borgo, ogni terric-
ciuola d’Italia tiene accademie: per far che? Per esercitarsi nella lettura e nell’in-
tendimento de’ classici? Per studiare la storia naturale o la civile del proprio paese?
Per trovar modi a migliorarne l’agricoltura o le arti? Per fare esperienze di fisica o
di chimica? ... No no, queste sarebbero miserie, non degne a begli spiriti. Per reci-
tare sonetti, odi, madrigali, elegie. Ma soprattutto sonetti: questi sono il pane coti-
diano, e la delizia degl’intelletti. Ma, per tutti gli dei, che farà mai al mondo un
popolo di sonettanti? oh liberiamoci una volta da questa follia. Se tra noi è alcuno
che la natura propriamente abbia destinato poeta ... non si ribelli alla natura: faccia
sé immortale, e gloriosa la sua nazione. Ma quei cinquecento o seicentomila facito-
ri di righe rimate o non rimate, si traggano d’inganno; siano capaci che un mezzo
milione di poeti nol può la natura produrre, nol può patire la nazione: cessino di per-
dere il tempo, d’essere noiosi e ridicoli; occupino l’ingegno in cose utili: studino
e imparino ciò che alla patria giovi sapersi; ci lascino riposare da tanto fastidioso e
vergognoso frastuono.11

10
iXIII, 334 e 338.
11
iIX, 343 sg.; cfr., tra i moltissimi altri passi che si potrebbero citare, XI, 107; Lett., II, 177 sg.
42 I. Le idee di Pietro Giordani

Ai tanti giovani che gli mandavano le loro produzioni poetiche e gli


chiedevano giudizi (queste noie gli procurava la fama, da lui non cer-
cata, di giudice infallibile) cercava di consigliare – con dolcezza, per-
ché sapeva di ferire il loro amor proprio – studi più modesti e più con-
creti.12 Anche al Leopardi, in una delle prime lettere, consigliò di
tentar la poesia più tardi, e intanto leggere e comporre in prosa: la let-
tura dell’Appressamento della morte (una cantica ancora così piena di
rimasticature scolastiche) gli aveva fatto temere che anche quel pro-
digioso ingegno si perdesse nell’accademismo versificatorio. Ma quan-
do capì, dalla lettera di risposta del Leopardi, che la vocazione poeti-
ca era in lui profonda e irresistibile, subito cedette;13 e tanti anni più
tardi, rievocando quel suo consiglio non seguìto, osservava: «ed era
mio il torto; poiché non comportava la natura che patisse le ordinarie
leggi un tanto straordinario e trascendente capo. Né però un esempio
singolare (o certamente rarissimo) sarà senza danno di molti che voles-
sero temerarii imitarlo».14
Questa condanna della letteratura oziosa ritorna ad ogni passo nei
suoi scritti, non solo come argomento di polemica attuale, ma anche
come base di giudizi storici. Dopo aver consigliato a un giovane vaste
letture di classici greci, soggiungeva con una brusca impennata: «Da
quel seccatore d’Isocrate, comunque tanto lodato, ti dispenso».15 Fron-
tone, il principe dei puristi latini, tanto esaltato dal suo scopritore
Angelo Mai e dal Leopardi giovinetto, ricevé dal Giordani un giudizio
duro e sostanzialmente esatto: «meschino retore».16 Anche di Cicero-
ne, a cui pressoché tutta l’Italia letteraria del primo Ottocento si in-
chinava, il Giordani vide con acutezza i limiti, costituiti proprio dalle
sue eccessive preoccupazioni retoriche: «Cicerone scrittore è un dio:
Cicerone autore è un bell’uomo; non più. Anzi egli a guardarlo den-
tro mi s’infemminisce ... Egli è sempre in mezzo a un mondo di bel-
lezze, di grazie, create da lui. Ma tre righe d’Aristotile, sei righe di
Tucidide, dirò più, un paragrafo d’Hobbes, una pagina di Rousseau

12
iVedi specialmente Lett., I, 58 (a Giuseppe Ligi).
13
iLeopardi, Epistolario, ed. Moroncini, I, pp. 73 sg., 84-86, 93.
14
iXI, 155; cfr. XI, 120.
15
iXI, 19. Un giudizio più favorevole sullo stile di Isocrate dava il Leopardi, Zib., 848 sg. e
altrove.
16
iXI, 239 **: il passo appartiene, si noti, a una difesa di Lucano contro le obiezioni pedan-
tesche di Frontone. Cfr. qui sotto p. 121 sg. e n. 39, e l’introduzione, p. 10.
I. Le idee di Pietro Giordani 43

contengono più sostanza nutritiva, che un volume fioritissimo di que-


sto amabilissimo Cicerone. Egli in filosofia e in politica prende qua e
là de’ concetti; non ha un sistema suo; non è fermo in nessuna massi-
ma: la migliore è per lui quella che nella data occasione può far miglior
vista col mezzo dell’eloquenza».17
In un abbozzo di dissertazione Degli studi degl’italiani nel secolo
xviii rivendicava al Seicento, contro le accuse del secolo seguente, il
merito di aver creato la prosa scientifica italiana, e osservava: «Gli
scrittori meno purgati nel 600 (anche tra i buoni) furono appunto
quelli che trattarono per professione le lettere. Meglio scrissero gli
autori di scienze». E dopo avere esaltato la prosa di Galileo, aggiun-
geva in polemica con l’Alfieri: «– Ma i Poeti delirarono! – Oh che rile-
va? E qual parte sono di un popolo i Poeti? E quando Alfieri disse “il
seicento sproposita”, mostra ch’egli avesse veduto solamente i poeti,
non i filosofi naturali, e i civili che sono gli storici» (VIII, 186). Qui,
in contrasto con altri passi dello stesso Giordani, il Seicento non è il
secolo dei «tre grandi gesuiti» ** da lui ammirati per le sole qualità
stilistiche,18 ma il secolo della storiografia e della scienza, il secolo di
Sarpi e di Galileo.

La stessa esigenza di lottare contro la scioperataggine letteraria e


la provincialità culturale italiana era alla base delle sue polemiche con-
tro i poeti estemporanei e contro la poesia dialettale. Contro i primi,
– che in quell’epoca suscitavano grandi entusiasmi, anche fra lettera-
ti seri come Giulio Perticari – egli scrisse nella «Biblioteca Italiana»
un articolo stringente e pieno di fine ironia, che suscitò feroci prote-
ste e offrì all’austriacante direttore della rivista, Giuseppe Acerbi,
l’atteso pretesto per estrometterlo dalla redazione. ** Notevole è spe-
cialmente la chiusa dell’articolo: a chi domandava se le qualità degli

17
iLettera al Montani, pubblicata da A. D’Ancona nella «Nuova Antologia», 16 marzo 1905,
e in Memorie e documenti di storia italiana, Firenze 1914, pp. 478 sgg. L’importanza di questa
lettera è stata messa in risalto da Piero Treves («Rendic. Istit. Lombardo» XCII, 1958, p. 414
sgg.), che l’ha ripubblicata in forma più corretta e con commento nel volume Lo studio dell’an-
tichità classica nell’Ottocento, Milano-Napoli 1962, p. 435 sgg.
18
iFino a che punto l’ammirazione del Giordani per il Pallavicino possa essere derivata anche
dalla tendenza eudemonistica e antiascetica della sua morale (cfr. E. Garin, La filosofia, nella
«Storia dei generi letterari», Vallardi, Milano 1947, II, p. 235 sg.), è difficile precisare **. Vedi
ad ogni modo più oltre, pp. 97-98 n. 1.
44 I. Le idee di Pietro Giordani

improvvisatori non si potessero in qualche modo utilizzare per uno


scopo serio, il Giordani rispondeva: «Voglion pane dai versi? Non
diremo che fu negato al Tasso: che fu misero al Parini: concederemo
che vivano di poesie; ma per dio non delle loro. Divengano simili agli
antichi Rapsòdi, o ad alquanti dei Trovatori della mezzana età. Impa-
rino a mente del Dante, dell’Ariosto, del Tasso, del Metastasio ... In
tutta Italia il popolo appena legge di buone poesie; le intenda recita-
re da loro, e divenga conoscente e familiare de’ suoi veri e grandi poe-
ti».19 Così dei virtuosi vanesii avrebbero potuto diventare diffusori
di poesia e cultura popolare.
Ancor più importante è la sua presa di posizione, di poco anterio-
re, contro la poesia dialettale,20 che gli tirò addosso le ire di quasi tut-
ti i milanesi, attaccatissimi al loro meneghinismo. Nella narrazione
che di questa polemica fa il Ferretti (p. 166 sg.) si nota, forse più che
altrove, la tendenza a presentare le idee del Giordani come una mani-
festazione del suo «caratteraccio», da guardare con la solita affettuo-
sa indulgenza. Dopo aver ricordato i famosi sonetti satirici scritti con-
tro di lui, in difesa della poesia in dialetto, da Carlo Porta, il Ferretti
conclude: «Se una risposta da parte del Giordani mancò addirittura,
fu perché il poveretto si sentì colpito nel vivo». In realtà la posizione
del Giordani era molto seria, ed egli non rispose non certo per man-
canza d’argomenti, ma probabilmente perché gli mancò la solidarietà
dell’Acerbi, desideroso di non alienarsi i letterati milanesi e preoccu-
pato del significato nazionale che era implicito nella polemica contro
il dialetto. Certo, un Carlo Porta aveva tutto il diritto di esprimersi in
milanese, cioè nell’unica forma adeguata al suo mondo poetico. Ma il
Giordani non voleva enunciare una l e g g e e s t e t i c a («la poesia dia-
lettale non può mai essere vera poesia»), ma assumere un atteggia-
mento politico-culturale, valevole per l’Italia di quel tempo: la poesia
dialettale – come fenomeno culturale d’insieme, prescindendo dal-
l’apparizione di singoli artisti – non va incoraggiata perché è manife-
stazione di chiusura provinciale, di regionalismo angusto, e, invece di

19
iX, 112. Cfr. IV, 8 (a Gaetano Dodici): «Vedi dunque che gl’improvvisatori fan bene,
quando sono rapsodi. Ma cose tutte loro, tutte improvvise e buone, non credo che la natura le
comporti». E molto più tardi, al Vieusseux (lettera pubbl. in «Rassegna storica del Risorgi-
mento», 1928, p. 276): «L’improvvisare è una gran bricconata».
20
iIX, 370 sgg. (è una recensione alle Poesie dialettali del Balestrieri, pubblicata nella «Biblio-
teca Italiana»).
I. Le idee di Pietro Giordani 45

esercitare una funzione p o p o l a r e in senso progressivo, tende a


confinare il popolo in un piano di cultura inferiore. «Il popolo in Italia
purtroppo manca di tempo e di comodità, manca di abilità e fino di
curiosità per leggere: ma quel pochissimo che ei legge, o ascolta legger-
si, dovrà anch’egli servire a perpetuarlo nella sua grossezza?». E il carat-
tere burlesco e macchiettistico della maggior parte della poesia in dia-
letto gli pareva quasi un oppio dato al popolo per lasciarlo nella miseria
e nell’ignoranza: «** Pogn[i]amo ** che il ridere faccia per un momen-
to dimenticare alla plebe le sue miserie: ma i buoni insegnamenti le gio-
verebbero a saperne gran parte rimediare, gran parte prevenire». Que-
sta fiducia nei «buoni insegnamenti» oggi a noi sa troppo di università
popolare, ma il carattere sostanzialmente reazionario della poesia dia-
lettale era visto giustamente; e io credo che anche nell’odierna esigen-
za di un «folclore progressivo» ci siano molti equivoci, e che l’unico
modo di rendere veramente progressivo il folclore sia di aiutarlo a mori-
re,21 trasferendo le sue esigenze sul piano della cultura più avanzata.

21
iCosì scrivevo nel 1953, riferendomi a prese di posizione «filopopulistiche» frequenti, allo-
ra, nella cultura italiana di sinistra. Negli anni successivi, la polemica sull’uso del dialetto nella
letteratura e nel cinema si è molto sviluppata e ha messo in chiaro il carattere in prevalenza rea-
zionario che oggi ha questo populismo artistico. Non in modo identico, naturalmente, si pone-
va la questione nel primo Ottocento **: il ricorso al dialetto poteva apparire allora come l’u-
nica via d’uscita per non rimanere imprigionati in una tradizione di linguaggio aulico e
magniloquente. E tuttavia la posizione illuministica e antimunicipalistica del Giordani conti-
nua a sembrarmi, anche in rapporto alla situazione di allora, più giusta e feconda di quella dei
suoi avversari. Anche l’analogia che il Giordani stabiliva (IX, 374) fra l’unificazione linguistica
dell’Italia e l’unità «di leggi, di pesi, di misure, di moneta ... che sarebbe tanto comoda, e cui sí
facilmente potrebbe darci il consenso de’ principi i quali dividono l’Italia» ** non era un sem-
plice paragone retorico, ma un’intelligente e coraggiosa affermazione del significato politico del-
la questione della lingua. La tesi del Giordani era stata valutata positivamente, già prima di me,
da M. Sansone nel volume di vari autori Letterature comparate, Milano 1948, p. 313 sg. I limiti
del dialettalismo del Porta sono stati messi in luce, meglio che da ogni altro, dal Caretti nell’in-
troduzione alle Opere del Manzoni, Milano 1962, p. XXVI. Più favorevole ai romantici difen-
sori dei dialetti, e specialmente al Borsieri, è il Fubini, Romanticismo italiano, 2ª ed. cit., pp.
25-28. La validità della polemica del Porta contro il Giordani è sostenuta, in amichevole discus-
sione con me, da G. Barbarisi nella ricca e acuta introduzione al Porta, Le poesie, Milano 1964,
I, p. XI sg. A me sembra che il sistema seguito dal Porta, il commentare in ciascuno dei suoi
sonetti una frase isolata dell’articolo del Giordani, mentre giova ad ottenere felici effetti burle-
schi mediante la contrapposizione tra l’aulico stile giordaniano e il colorito commento dialetta-
le, sia però anche un modo di eludere una discussione impegnativa. Fra l’altro, nell’ottavo sonet-
to, il Porta giuoca su uno strano significato che il Giordani avrebbe attribuito al verbo
«poggiare»; ma nell’articolo della «Biblioteca Italiana» (I, 1816, p. 175), «Pogiamo» (sic) non
era che un errore di stampa per «Pogn[i]amo» **, cioè supponiamo, ammettiamo (vedi il pas-
so cit. sopra nel testo; la lezione giusta è nell’ed. [Le Monnier del 1846, I, 305] **): in questo
46 I. Le idee di Pietro Giordani

Ma l’ostilità programmatica alla letteratura dialettale non esclude-


va, per il Giordani, l’interesse filologico e storico per i dialetti. Se
quindi molti anni più tardi, nel 1839, egli scriveva a Giuseppe Rober-
ti: «È vero che alcuni cronisti del Muratori scrissero in dialetto; ma
non pertanto è buono e utile leggerli; e d è b e n e a n c h e c o n o -
s c e r e i d i a l e t t i », non si dovrà vedere in questa dichiarazione una
palinodía, ma piuttosto una precisazione del suo pensiero, che rischia-
va di essere frainteso da un seguace troppo zelante.22
L’aberrazione uguale e contraria, se così si può dire, alla letteratu-
ra in dialetto è la letteratura in latino: là un eccesso di immediatezza,
qui un eccesso di aulicità, ma in fondo la stessa arretratezza provin-
ciale, lo stesso mettersi al margine della cultura viva e servirsi di stru-
menti inadeguati a esprimere il pensiero moderno. A quel tempo, i
facitori di versi e di prosa latina imperversavano in Italia; continua-
rono a imperversare anche più tardi, col Vallauri e col Vitrioli, e sono
vane le speranze che cessi del tutto questo spreco di carta. Tuttora i
concorsi per l’insegnamento nelle scuole medie – che dovrebbero esse-
re prove d’idoneità culturale, non di perizia pseudoartistica – si basa-
no su una composizione in latino, e se qualcuno propone di sostituirla
con qualcosa di più serio, subito si levano illustri studiosi a proclamare
il grande valore «formativo» di un simile esercizio.
Se ad avversare l’uso del dialetto il Giordani era spinto anche dal pro-
prio classicismo, il medesimo classicismo lo avrebbe invece potuto por-
tare a favorire lo scrivere in latino. Ma anche su questo punto egli era
un uomo moderno: contrario, quindi, non solo allo scrivere in latino, ma
anche a quell’altro esercizio (entro certi limiti utile, ma da molti ridico-
lamente sopravvalutato) del tradurre dall’italiano in latino. «Reputo

senso va corretta la nota di Carla Guarisco nell’ed. cit. del Porta, I, p. 368.* [Lezione ancor
più giusta, come mi fa osservare G. Forlini, è «pogniamo» nell’ed. Le Monnier del 1846 (I, p.
305), seguìta dal Giordani stesso («pogniamo» è anche in un altro passo dell’ed. Gussalli: XI,
101, riga 14)].
22
iLett., II, 136 e, già con maggiori riserve, VI, 396. Il «troppo zelo» del Roberti (un giovane
abate veneto, pieno di ardenti e ingenui propositi di riforma etico-religiosa, caldissimo ammirato-
re del Giordani) risulta da un po’ tutte le lettere del Giordani a lui dirette: cfr. per esempio VI,
379, 380 sg., 387. [Cfr., specialmente per la sua azione e le sue traversìe in anni posteriori, G. A.
Cisotto, L’abate Giuseppe Roberti ecc., in «Rassegna stor. del Risorgim.» 61 (1974), 266 sgg.]. **
*iNello stesso senso va corretta la nota di Dante Isella a Carlo Porta, Le poesie, Milano-
Napoli 1959, p. 299 (al v. 1 del sonetto 688). La forma pogn[i]amo ** si trova nel Giordani
anche altrove, per esempio in IX, 111 n. 1. Sulle discussioni tra il Giordani e i fautori della let-
teratura dialettale vedi anche qui sopra, prefazione alla seconda edizione, p. XCIV sg. **
I. Le idee di Pietro Giordani 47

stoltissima e dannosissima (e in molti maligna) pedanteria il far com-


porre o tradurre in latino; che è proprio un rovesciamento di cervello.
E per Iddio tutti questi compositori e traduttori in latino son quelli che
meno intendono il valor vero dei classici latini ... L’importante è l’in-
tenderli bene, i classici: e questo è oggi rarissimo, e soprattutto raro nei
maestri». Così scriveva nel ’41 a uno scolopio d’Urbino, Alessandro
Checcucci, che gli aveva chiesto consigli sull’insegnamento; e già molti
anni prima, a proposito dell’uso di pronunziare discorsi in latino: «Oh
legislatori, i quali non intendevano che voler parlare familiarmente una
lingua morta non è meno stolto che voler parlare ai morti!»23
Anche qui, come già abbiamo notato per la poesia dialettale, poco
varrebbe obbiettare che al principio del nostro secolo l’Italia ha avu-
to, dopo tanti versificatori latini di nessun valore, un poeta latino
vero, Giovanni Pascoli. Era una direttiva didattica e culturale che il
Giordani voleva stabilire, contro l’umanesimo deteriore della scuola
gesuitica. Ed era, ed è tuttora verissima quell’osservazione che i vir-
tuosi dello scriver latino sono quelli che meno capiscono i classici lati-
ni, appunto perché cercano in essi soltanto dei loci communes da imi-
tare. «In Italia, crediatemi, con tanto nuvolo di Preti (tutti gran
maestri come si vede di latinità) quasi niuno intende latino o sa che
farne».24 Nelle scuole dei gesuiti c’era anche chi, non contento delle
solite composizioni in latino, escogitava particolari raffinatezze: «Qui
(a Piacenza) obligano i poveri ragazzi alla mostruosa bestialità di tra-
durre le odi di Orazio in esametri latini e Virgilio in elegiaci».25 Que-
sta tradizione «umanistica» era così forte in Italia che perdurò, sia
pure un po’ attenuata, nella scuola statale organizzata dopo il ’60: qui
l’insegnamento del greco, fin allora pressoché inesistente, fu istituito
su basi scientifiche, sul modello della scuola tedesca, mentre per il lati-
no non si osò romperla nettamente col passato; e questa, come più vol-
te ha notato Giorgio Pasquali **, è stata la ragione principale del più
basso livello della filologia latina in Italia rispetto alla greca, fino a
pochi decenni fa.

23
iIX, 383, Lett., II, pp. 152 sg.
24
iVI, 21 (a Pietro Brighenti); cfr. XIII, 148 e altrove.
25
iAlcune lettere inedite di P. G., Genova 1852, p. 179 (a G. F. Baruffi, 8 luglio 1839). Nel-
la sua risposta il Baruffi lo informava che tali esercizi si facevano anche nelle scuole gesuitiche
del Piemonte (lettera del 15 luglio 1839: Firenze, Biblioteca Laurenziana, Carte Giordani,
XXII, 10).
48 I. Le idee di Pietro Giordani

Il Giordani, del resto, era convinto che il latino si dovesse studia-


re in un secondo tempo, e solo da quelli che sentissero particolare atti-
tudine agli studi classici; ma per i ragazzi di quella che oggi chiamia-
mo scuola media inferiore gli pareva un inutile tormento, e proprio a
questo voler insegnare il latino troppo presto (oltre che con metodi
arretrati) attribuiva i cattivi risultati di questi studi. «Per leggere que-
sto poeta (Lucano) bisognerebbe intendere molto più che mediocre-
mente il latino: e questo è oggi di pochissimi: ed è e sarà sempre così
e peggio, perocché si ostinano di volerlo insegnare quelli che nol san-
no a quelli che nol possono imparare» (XI, 238). Parole simili a que-
ste aveva già scritto nel ’26, in un articolo destinato all’«Antologia»
del Vieusseux; e la mite censura granducale le aveva soppresse, e la
soppressione era stata ribadita dal ministro dell’interno! «Anche i
pedanti e la grammatica – commentava in una lettera a Pietro Bri-
ghenti – sono inviolabili, e protetti dalla Santa Alleanza».26
Ma la prima enunciazione di queste idee risale, anche stavolta, a un
articolo nella «Biblioteca Italiana» del ’16.27 Lì rievocava, in un bra-
no pieno di forza polemica, la propria esperienza di ragazzo: «Avendo
passato non pochi anni miseramente in quelle tristissime carceri, dove
si fa ogni pruova di impedire alle primizie del genere umano il diven-
tare mai uomini, uscii dalle barbare mani dei pedanti, sapendo di lati-
no appunto quanto essi. Dopo avere studiato e matematica e fisica, e
letto assai delle moderne istorie, fui curioso di conoscere gli antichi,
volli intendere i latini; gli studiai, non più spinto da sferza, ma da
interno affetto; e mi divennero i più cari amici e consigli».
Prima del latino, pensava che si dovesse studiare l’italiano (che nel-
la scuola dei gesuiti era sacrificato al latino), qualche altra lingua
moderna, la storia: la storia moderna, e specialmente la più recente,
dalla rivoluzione americana in giù, prima che l’antica e la medievale:
anche su questo insisté molto, in polemica sia col classicismo pura-
mente esteriore della scuola gesuitica, sia col medievalismo romanti-
co. «Quando avverrà che appresso noi gli uomini siano educati secon-
do la ragione, s’intenderà (ciò che le altre nazioni già intendono)
dovere necessariamente alla storia antica precedere la moderna; e cia-

26
iV, 425; cfr. XI, 238.
27
iIX, 382 sgg. Vedi anche la lettera a G. Roverella in Venti lettere inedite di P. G. con un
discorso di A. Bertoldi, Reggio Emilia 1895, p. 36.
I. Le idee di Pietro Giordani 49

scuno si conoscerà stolto di voler sapere ciò che nel mondo si facesse
duemil’anni sono, prima di sapere ciò che accadde l’altro ieri, e ne’
giorni del padre e dell’avolo».28
Anche questa idea – di provenienza illuministica; e infatti egli stes-
so citava fra i suoi predecessori il d’Alembert – suscitò tra i reazionari
proteste e derisioni: la storia recente essi l’avrebbero volentieri abolita
non solo dall’insegnamento, ma dalla coscienza dell’umanità. Il Gior-
dani si preparava a replicare anche su questo punto in quella Lettera
al Conte Saurau che poi lasciò incompiuta. Dagli appunti che ne riman-
gono si vede che egli non voleva svalutare illuministicamente il mon-
do antico ma insistere sulla sua diversità dal moderno, e quindi sulla
minore comprensibilità e meno immediata efficacia educativa (almeno
in un primo stadio dell’educazione) della storia antica:29 al contrario
dei vari neoumanesimi che vogliono fare dell’antichità classica qual-
cosa di paradigmatico, di eternamente, insostituibilmente educativo.
Un genere letterario che ancora nel primo Ottocento pareva esclu-
sivo dominio della lingua latina era l’epigrafe **. Il Giordani fu spinto
a comporre epigrafi (e ne compose, come si sa, centinaia) dal deside-
rio di mostrare che si poteva anche qui usare con non minore effica-
cia la lingua italiana.30 L’epigrafe doveva cessare di essere un monu-
mento di sapienza recondita, una specie di crittografia intelligibile
solo ai dotti, e tornare, come già nell’antichità, a parlare al viandan-
te. Non si può credere quante opposizioni incontrassero le sue epigrafi
italiane da parte dei gelosi sostenitori della latinità. «Farei ridere
Monsignore – scriveva a un prelato di spirito aperto, Carlo Emanuele

28
iX, 104 (è una digressione nell’articolo sugli improvvisatori, di cui abbiamo già parlato).
29
iX, 271: «La storia antica è d’uomini e di fatti che perirono dal mondo, ... ma rimango-
no come esempi di fatti e di uomini o m i g l i o r i o p e g g i o r i , m a s e m p r e d i v e r s i s s i m i
d a i p r e s e n t i ». Vedi anche le osservazioni del Giordani sullo stesso argomento pubblicate da
L. Scarabelli in «Arch. stor. ital.», Append. VI, 1848, p. 441 sgg. Contro queste idee giorda-
niane e a favore della storiografia neoguelfa si pronunzia il Croce, Storia della storiogr. ital. nel
sec. xix, 3ª ed., I, p. 116 sg.
30
iNon si vuol dire, con ciò, che egli sia stato il primo a scrivere epigrafi in volgare; anzi, fu
certamente preceduto da Paolo Giovio, dal Fantoni e probabilmente da altri. Sulla questione di
priorità e su tutte le polemiche a cui dette luogo cfr. C. Guasti, Giuseppe Silvestri, I, Prato 1874,
pp. 207-60; Carducci, Opere, ed. nazionale, XVIII, p. 88 sgg.; XXV, p. 196 sgg. Molto altro
materiale è stato raccolto da Piero Treves, dalla cui dottrina attendiamo una trattazione com-
pleta di questo curioso capitolo di storia culturale ottocentesca. Un accenno a Luigi Muzzi (che
si proclamava, ma a torto, inventore dell’epigrafia in volgare) si trova in una lettera del Gior-
dani al Papadopoli (V, 431). **
50 I. Le idee di Pietro Giordani

Muzzarelli – se le contassi una opposizione stranissima fatta alle Iscri-


zioni italiane da un ecclesiastico dotto, che le aborrisce e condanna
fieramente come contrarie alla religione, giansenistiche, e tendenti a
condurci alla messa in volgare» (XIII, 385). A Bologna alcune sue epi-
grafi non furono accettate nel cimitero perché italiane, e un’altra, col-
locata nell’Accademia di belle arti in età napoleonica, fu fatta sosti-
tuire con una latina dal governo papale dopo la Restaurazione.31 Per
lo stesso motivo il governo parmense gli rifiutò la leggenda d’una
medaglia commemorativa: «Le parole italiane furono intollerabili ai
nostri latinissimi. Oh non immaginereste mai qual furore di latinità
sia in quelli che mai non seppero, né potranno sapere che sia latino»
(XII, 101). Così scriveva in una lettera aperta a Carlo Boucheron, il
quale però anch’egli era piuttosto dalla parte dei latinomani (dalla sua
scuola uscì il peggiore rappresentante della latinità retorica e reazio-
naria, Tommaso Vallauri). Perfino sua sorella Livia, umilmente affe-
zionata a lui ma succube delle idee dei preti, cercava di persuaderlo a
scrivere in latino un’iscrizione per una famiglia amica: lo racconta egli
stesso in una lettera, bellissima come tutte quelle che parlano della
sorella.32

Si potrebbe pensare che questa ostilità allo scriver latino derivasse


da poca familiarità con gli studi classici e, più in generale, da un con-
cetto un po’ troppo utilitaristico della cultura, quale fu proprio di alcu-
ni illuministi. Ma invece uno dei lati per cui il Giordani più si distac-
ca dagli altri letterati suoi contemporanei è la conoscenza sicura del
latino, e cosa rarissima nell’Italia di allora, del greco. Quando, in una
lettera del 1802 (Lett., I, 10), si dichiarava capace d’insegnare «1. elo-
quenza e lingua greca; 2. logica e metafisica; 3. elementi di matema-
tica; 4. istituto civile; 5. filosofia morale; 6. istituto criminale», sareb-
be stato certo difficile garantire la sua perfetta preparazione in tutte
queste materie così disparate, ma quanto al greco non diceva il falso.
E, ripetiamo, il greco aveva una parte assai scarsa nella cultura italia-
na del primo Ottocento, imbevuta di classicismo, ma di un classicismo
in grande prevalenza latino: il caso di Vincenzo Monti, tanto famoso
a causa dell’epigramma foscoliano, non aveva in realtà nulla di ecce-

31
iCfr. XIII, 182 e 184.
32
iVI, 310: su Livia anche V, 286; VI, 261; VII, 61 sg.
I. Le idee di Pietro Giordani 51

zionale.33 Il Giordani invece, pur non pretendendo mai di esser filo-


logo, mostrò, nella Lettera a G. B. Canova sopra il Dionigi del Mai,34 di
sapersi orientare bene anche in questioni di filologia greca. La difesa
che egli faceva della tesi del Mai contro le obiezioni di Sebastiano
Ciampi era vera solo per metà, come dimostrò Giacomo Leopardi; ma
le correzioni singole che apportò alla traduzione e al testo del Mai era-
no quasi tutte giuste, e a lui va riconosciuta la priorità di una conget-
tura (prosavdousan per prosaudou'san in Dionigi XIX 8, 1) che nel-
le edizioni moderne è attribuita allo Struve. E parecchi accenni
contenuti in lettere o in altri scritti dimostrano che conosceva a fon-
do Erodoto, Tucidide, gli oratori, Platone, Aristotele, storici e retori
dell’età ellenistica.35
Egli era dunque in grado, contrariamente a quanto si suol ripetere,
di giudicare il valore degli studi filologici di Giacomo Leopardi, e l’e-
saltazione che ne fece non deriva da entusiasmo indiscriminato per
ogni aspetto della personalità leopardiana, ma da piena consapevolez-
za critica. Piuttosto, dove davvero gli fece velo l’amicizia fu nelle iper-
boliche lodi ad Angelo Mai.36 Giusta era invece la sua ammirazione
per Amedeo Peyron – l’unico insieme al Leopardi, tra gli italiani del-
la prima metà dell’Ottocento, che meritasse il nome di filologo –37 e
33
iLatino e greco non erano allora in Italia in binomio consueto, come divennero più tardi,
dal ’59 in poi, con l’istituzione del liceo classico secondo la legge Casati. C’era invece, general-
mente, da un lato il «letterato», che sapeva il latino e il francese ma non il greco; dall’altro l’e-
rudito orientalista (per lo più un ecclesiastico), che oltre al greco sapeva anche l’ebraico. Il Leo-
pardi, difatti, studiò il greco e l’ebraico press’a poco contemporaneamente, in anni in cui era
ancora destinato alla carriera ecclesiastica. Il caso del semi-greco Foscolo è naturalmente ecce-
zionale. Gli «antiquari» (studiosi o curiosi di archeologia, epigrafia, numismatica) spessissimo
ignoravano anch’essi il greco o ne avevano solo una minima infarinatura. Un po’ più diffusa
anche tra i letterati era la conoscenza del greco nell’Italia settentrionale e a Firenze.
34
iMilano 1817, ristampata in X, 147 sgg. Cfr. La filologia di G. Leopardi, Firenze 1955;
pp. 54-66.
35
iVedi per esempio VI, 141, 147; XI, 19 sg. Particolarmente significativo, nel secondo di
questi passi, il giudizio su Tucidide: «Che uomo di stato! (ora non ci son più che fanciulli, anzi
scimie, anzi burattini), che fabro di stile! che stile gravido di cose, e cose grandiose e vere! oh
leggilo e rileggilo. Ma quando leggerai il giudizio d’Alicarnasso (cioè di Dionigi), ti parrà retore,
o anzi sofista: dico il giudicante, non già il figlio d’Oloro».
36
iLe quali furono oggetto di scherno da parte del Borsieri (cfr. Discussioni e polemiche sul
Romanticismo, ed. Bellorini, I, p. 103 sg.). Tuttavia il Giordani si rese conto che il Mai era più
ammirevole per l’energia e l’intuito di scopritore che per doti propriamente filologiche: cfr.
X, 150, e «Atene e Roma» 1956, p. 11. Sui rapporti fra il Giordani e il Mai vedi l’ottimo arti-
colo di G. Gervasoni in «Bergomum» XXVII, 1933, num. 1, p. 28 sgg.
37
iLeopardi e Peyron nominati insieme come i maggiori grecisti d’Italia in Lett., II, 48. Sul
Peyron vedi anche X, 383.
52 I. Le idee di Pietro Giordani

giusto il suo riserbo verso alcune critiche un po’ avventate rivolte al


Peyron dal Leopardi giovinetto.38 Anche in una questione apparente-
mente secondaria ma in realtà rivelatrice, allora, di tutto un orienta-
mento mentale, la questione della pronunzia del greco, egli ebbe una
posizione di avanguardia, cioè fu uno dei primi in Italia a sostenere
la pronunzia erasmiana.39 **
L’idea che il rimedio per snellire la prosa italiana fosse l’imitazione
dello stile greco, era certamente un pregiudizio. Il vantaggio dello sti-
le greco (cioè della sintassi della prosa attica) rispetto al latino era di
avvicinarsi di più alle movenze sciolte del parlato; ma perché, allora,
non attingere direttamente al parlato italiano, sia pure rielaborandolo
e innalzandolo a dignità letteraria? Tuttavia quell’idea influí grande-
mente sul Leopardi, da un lato sulla formazione della sua prosa, dal-
l’altro sui suoi studi filologici: nello Zibaldone e nei manoscritti fio-
rentini il Leopardi si valse dell’analogia tra sintassi greca e italiana per
spiegare in modo convincente alcuni passi di autori greci, e applicò lo
stesso procedimento al latino volgare e ai volgarismi che s’incontrano
in autori latini di epoca classica; e anche qui certe osservazioni del
Giordani sullo stile di Celso dovettero contribuire a orientarlo in que-
sta direzione.40
Anche i trecentisti italiani, del resto, il Giordani li aveva letti con
spirito non solo di purista, ma di filologo. Contraffazioni come la

38
iLeopardi, Epistolario, ed. Moroncini, I, pp. 168-69.
39
iXI, 20. Cfr. «Atene e Roma» 1953, pp. 100 sgg. **
40
iSull’affinità tra italiano e greco vedi le lettere che il Giordani e il Leopardi si scambiaro-
no nel ’17 (Epistolario del Leopardi, ed. Moroncini, I, pp. 73, 98 sg.). Quanto a Celso, si noti
che già nel ’17 (in uno scritto rimasto incompiuto, X, 233 sg.) il Giordani scriveva: «I più famo-
si tra i Romani ... ebbero veramente assai pregi, e apparvero ingegnosi e adorni; ma si scostaro-
no da quell’ammirabile e invidiabile purità e semplicità de’ più antichi ... Alla quale o non pote-
rono o non vollero de’ Latini salire se non tre, il grande animo di Cesare, e quei candidi ingegni
di Varrone e di Celso». Nello stesso anno il Giordani consigliò la lettura di Celso al giovane
Pompeo Dal-Toso (IV, 21: «Gli autori che prenderei (contro la più comune usanza) sarebbero
Aulo Gellio, Cornelio Celso, e le Pandette. Ivi la latinità è buona (...), lo stile semplice, e non
figurato e pomposo»). Dunque, se il 12 febbraio del ’19 il Leopardi scriveva al Giordani «Que-
sti ultimi giorni ho voluto leggere la Medicina di Celso, che m’è piaciuta assai per quella chia-
rezza e sprezzatura elegante», è probabile che il consiglio di leggerla gli fosse stato dato proprio
dal Giordani, quando si videro a Recanati, nel settembre 1818 (cfr. la risposta del Giordani nel-
l’Epistolario cit. del Leopardi, I, p. 240: «Trovo il vostro finissimo e sicurissimo giudizio anche
nell’esservi piaciuto il candidissimo Celso»). E al giudizio del Giordani si riferirà anche l’inizio
del lungo pensiero dello Zibaldone, 32: «... Celso nel quale è singolarmente notata (e lodata) la
semplicità e facilità dello stile ...». Cfr. ancora Giordani, XI, 21 (1821).
I. Le idee di Pietro Giordani 53

Guerra di Semifonte attribuita a Pace di Certaldo o come il Martirio


de’ Santi Padri del Leopardi ingannarono il padre Cesari, ma non l’e-
sperto senso stilistico del Giordani.41 È noto che egli non cessò mai
di esortare studiosi ed editori di buona volontà alla pubblicazione di
testi inediti o rari; e i consigli che dava, ovvi per noi, non lo erano allo-
ra, in quell’estrema barbarie in cui si trovava la filologia italiana. Rac-
comandava, nel pubblicare volgarizzamenti trecenteschi di classici
latini, di tenere ben distinti gli errori dei copisti (che vanno corretti)
da quelli del volgarizzatore o del testo latino che il volgarizzatore ave-
va dinanzi («questi non gli vorrei emendati nel testo, ma notati in fine
nella pagina: perché l’opera dev’essere conservata quale l’autore la-
sciolla»); voleva che, in caso di correzione congetturale, si riportasse
sempre la lezione tramandata a pie’ di pagina; era contrario – e qui il
suo consiglio non è superfluo neppur oggi ** – a ingombrare l’appara-
to critico di lezioni insignificanti.42 Queste preoccupazioni filologiche,
in rapporto a testi italiani, le aveva in quel tempo un altro letterato,
Giulio Perticari: non altri.
Fu proprio la sua seria preparazione filologica e storica che lo fece
sempre insorgere contro le imprese culturali facilone. Nella «Biblio-
teca Italiana» del luglio 1816 (X, 44), dopo aver notato una partico-
larità lessicale in un verso di Empedocle,43 aggiungeva: «Questa è ben
piccola cosa: ma così piccola basta a mostrare quanto grande, o sover-
chia, fiducia di sé debbano avere certi facili e franchi promettitori di
darci tradotti tutti i poeti greci; e quante cose (non certamente da
disprezzare) mancheranno necessariamente a quelle troppo affrettare
traduzioni». Queste parole, che non sarebbero certo piaciute a Etto-
re Romagnoli, prendevano di mira Bernardo Bellini, che aveva appun-
to annunziato la traduzione in versi di tutti i poeti greci. Poco prima
che uscisse l’articolo del Giordani, una lettera di protesta per lo stes-
so motivo era stata inviata alla «Biblioteca Italiana» da Giacomo Leo-

41
iX, 366-68; V, 283 sg.; V, 403 [; XIII, 130 sg.]. Sulla Guerra di Semifonte, ** falsificata
da un Della Rena, cfr. S. Morpurgo, Il Libro di buoni costumi di Paolo di messer Pace da Certaldo,
Firenze 1921, p. IV.
42
iXI, 272 sg.; XIII, 386. [Cfr. Lettere a O. Gigli a c. di Forlini].
43
iIn realtà l’aggettivo ργφεος, che Empedocle riferisce all’acqua, non c’entra, a quanto
pare, con φανειν «tessere»; ma quella derivazione, che del resto risale all’antichità (cfr. Eusta-
zio ad Iliad. XXIV, 621), era allora comunemente accettata.
54 I. Le idee di Pietro Giordani

pardi, che col Giordani non era ancora entrato in corrispondenza.44


Ma Giuseppe Acerbi, senza nemmeno farla vedere agli altri redattori
della rivista, l’aveva cestinata, come cestinò sempre tutti gli scritti del
Leopardi (e ciò dà la misura della sua equanimità, tanto esaltata da
moderni storici reazionari). Molti anni dopo, nel ’46 (XIII, 169), il
Giordani si pronunciò altrettanto sfavorevolmente su un’altra impre-
sa poco seria e ispirata a idee retrive: la Storia universale di Cesare
Cantù, che proprio allora era giunta a termine.

Tale fu dunque, al di sotto degli aspetti retorici, la sostanza di quel-


la che con termine poco felice è stata chiamata la «dittatura lettera-
ria» di Pietro Giordani: un’azione per sprovincializzare la cultura ita-
liana mantenendola tuttavia nel solco dell’illuminismo, per svecchiare
e liberalizzare l’educazione, per diffondere la cultura nel popolo. Que-
sta ultima esigenza era da lui sentita non meno vivamente delle altre
due, in una forma, certo, che a noi deve necessariamente apparire un
po’ paternalistica, ma che nel clima di oscurantismo della Restaura-
zione aveva il suo pieno valore. Entrando a far parte della redazione
della «Biblioteca Italiana», aveva sperato di farne uno strumento di
diffusione delle sue idee innovatrici. Per questo avrebbe voluto che
la rivista contenesse più articoli originali che recensioni,45 e per que-
sto avrebbe voluto indirizzarla non ai soli intellettuali, ma a un pub-
blico più largo: «Né credo – scriveva in uno degli ultimi articoli che
poté pubblicarvi – che un giornale si debba indirizzare ai dotti, che l’I-
talia ha pochi e grandissimi; ma ai molti uomini che ha dotati d’inge-
gno e non troppo esercitati a studiare. Quanto a me i lettori ch’io desi-
dero e quelli cui scrivo, sono quelli che non professano dottrina
profonda, e non amano l’ignoranza; che tra i venti e i trent’anni sono
capaci di ricevere il vero, e non radicati cosí nelle opinioni loro, che
ricusino di mutarle se ne trovino di più probabili. A questi io intendo
di scrivere».46 Questa illusione non era senza qualche fondamento,
perché in un primo tempo il governo austriaco parve, e in certa misu-

44
iLettera ai compilatori della Biblioteca Italiana, in PP, II, p. 590 sgg.
45
iVedi l’introduzione al presente volume, pp. 16-17, n. 26.
46
iX, 56. In un senso ancor più «popolare» (pur con quel limite a cui abbiamo accennato) IX,
395: «E questa reputo la utilità di un Giornale (del quale già i dotti han pochissimo bisogno) se
il popolo vi trovi rimedio ai più comuni e più dannosi errori».
I. Le idee di Pietro Giordani 55

ra fu, indirizzato verso un’azione di cauto riformismo, in contrasto


con lo spirito stupidamente retrivo degli staterelli italiani. Ma in realtà
gli articoli del Giordani erano in contrasto con tutto il tono della rivi-
sta, che sempre più si avviava ad assumere, per opera dell’Acerbi, una
funzione prevalentemente reazionaria e antinazionale; ed era quindi
fatale che il dissidio tra l’Acerbi e il Giordani scoppiasse (per que-
stioni di principio, non per la nevrastenia e l’impulsività del Giorda-
ni, come, cedendo al solito difetto d’impostazione, tende a far appa-
rire il Ferretti),47 e si concludesse con l’estromissione del Giordani. **
Da allora, mancò a lui una tribuna dalla quale potesse efficacemen-
te diffondere le proprie idee: anche nell’«Antologia» del Vieusseux
poco poté pubblicare. La sua influenza si esercitò piuttosto attraver-
so la conversazione – nella quale esercitava un grande fascino, –48
attraverso lettere private – molte delle quali furono pubblicate lui
ancora vivente e nolente – e piccole pubblicazioni occasionali. Ma
oltre questi impedimenti esterni, era di ostacolo all’efficacia della sua
opera di riformatore culturale la forma puristica e arcaizzante in cui,
quando si metteva a scrivere lavori d’impegno, irrigidiva le sue idee
vive: finché egli stesso si annoiava di quel faticoso esercizio di tradu-
zione in una lingua morta (un esercizio non dissimile da quello, che
aveva così efficacemente biasimato, dello scrivere o tradurre in lati-
no), e lasciava tutto in tronco; la sua produzione è infatti formata per
la maggior parte da scritti non finiti.

3. ** Di questa contraddizione che era in lui tra l’abito retorico e


le idee nuove era conscio, e più volte, come appare dall’epistolario,
cercò in qualche modo di giustificarla. In una lettera del 1824 a Giu-
seppe Bianchetti, dava del purismo, e quindi implicitamente del suo
purismo, un’interpretazione patriottica: «V. S. avrà notata una cosa.
Gl’Italiani avevano abbandonata e disprezzata affatto la lor lingua:

47
iCiò è stato giustamente osservato da G. Forlini (autore di molti e pregevolissimi studi sul
Giordani) in «Lettere italiane» V, 1953, p. 49 sg. Vedi anche qui sopra, p. 13 n. 19.
48
iVarie testimonianze di contemporanei sono raccolte da O. Masnovo, Il pensiero politico e
il patriottismo di P. G. («Società nazionale per la storia del Risorgimento», XX congresso, Roma
1933), p. 355. Cfr. anche L. Scarabelli (cit. qui sopra, nota 29), p. 440. Tra gli entusiasti della
conversazione del Giordani vi fu, come è noto, Byron: vedi IV, 203; V, 257; VI, 200, e la testi-
monianza di Byron stesso nei Mémoires de Lord Byron publiés par Th. Moore, trad. franc., V,
Bruxelles 1831, p. 318.
56 I. Le idee di Pietro Giordani

vengono i Francesi, e, con quella loro insolenza, vogliono proibire alla


maggior parte d’Italia l’uso della lingua nativa. Per tutta Italia sorge
uno sdegno generoso: si pone fatica e studio a ricuperare questo patri-
monio trascurato, di che il tiranno insolente e stolto voleva rapire gli
ultimi avanzi; e dall’808 ognuno s’impegna di scrivere più che può ita-
liano, e meno che può francese. Oh come io mi rido di questi asini che
credon possibile intedescare l’Italia, e buon mezzo a ciò il bastone!»49
Questa funzione patriottica del purismo fu più tardi messa in rilievo
anche dal De Sanctis a proposito della scuola di Basilio Puoti, e tut-
tora è comunemente addotta nei manuali quasi come circostanza atte-
nuante: erano pedanti, sì, ma italianissimi. C’è senza dubbio del vero
in ciò: bisogna tuttavia stare attenti a non cadere in equivoci su que-
sto «patriottismo». Già nel secolo scorso vi fu in Italia, di fronte al
patriottismo progressista, antiassolutista e antiaustriaco, un patriot-
tismo reazionario, tradizionalista e antifrancese, il «patriottismo de’
retrogradi», come lo definì Giuseppe Ferrari.50 E l’accusa di antipa-
triottismo non era solo lanciata dai liberali e dai democratici ai rea-
zionari, ma era da questi ritorta contro i primi: non erano tutte que-
ste ideologie liberali e democratiche merce d’importazione francese?
Non erano di provenienza straniera anche i principii letterari e filo-
sofici di questi sediziosi, per lo più romantici? Non difendevano inve-
ce i legittimisti le più pure tradizioni italiche? Anche nel campo degli
studi classici, conservatori angusti come Tommaso Vallauri si atteg-
giavano a difensori della tradizione italiana contro le aberrazioni del-
la filologia straniera.
Ora, il «patriottismo» del movimento purista era appunto il pa-
triottismo dei retrogradi, tant’è vero che agiva in direzione antifran-
cese e difendeva un’arcaica italianità contro l’illuminismo e contro
il romanticismo nello stesso tempo. Bisogna tuttavia aggiungere che
la confusione tra i due patriottismi non è solo un errore in cui ri-
schiamo di cadere noi oggi facendo la storia di quel periodo, ma in
certa misura esisteva già allora nelle coscienze, e non soltanto in Ita-

49
iLett., I, 210. Anche in V, 306 l’inizio della riscossa puristica è fissato dal Giordani al 1808.
Fu quello l’anno in cui l’Accademia della Crusca, già soppressa, risorse come sezione dell’Acca-
demia fiorentina.
50
iLa rivoluzione e i rivoluzionari in Italia (1844), parte II, cap. II (ed. a cura di F. Della Peru-
ta, Milano 1952, p. 83).
I. Le idee di Pietro Giordani 57

lia.51 E la confusione poté in alcuni casi essere anche (direbbero cer-


ti storicisti) «provvidenziale», in quanto molti giovani, partiti da
un’educazione «patriottica reazionaria», si trovarono a un certo pun-
to quasi inconsapevolmente scivolati in una posizione «patriottica
progressista». Il caso del Leopardi è significativo, e le sue due prime
canzoni sono una manifestazione tipica di questo patriottismo anco-
ra legato all’educazione legittimista, ancora imprecante alla Francia
«scellerata e nera», e tuttavia già contenente una carica rivoluziona-
ria che fa «pelare per la paura» il sanfedista Monaldo. In questo sen-
so si può ammettere che il purismo, reazionario, abbia esercitato
un’azione involontariamente maieutica in senso liberale.
Ma il Giordani aveva, come già abbiamo cominciato a vedere, idee
davvero innovatrici, progressiste in senso ben altrimenti diretto ed
esplicito che quelle degli altri puristi. E ciò poneva il suo purismo in
una situazione assai più contraddittoria. Per un Cesari o un Michele
Colombo il «ritorno al Trecento», anche se riguardava in modo pre-
minente la lingua, s’inseriva però in una visione generale coerente.
C’era nel loro trecentismo, sia pure in forma più angusta e provincia-
le, quella stessa esigenza di restaurazione religiosa e di populismo rea-
zionario che ispirava le fantasie medievaleggianti dei romantici tede-
schi (da loro tanto odiati solo perché non appartenenti alla tradizione
letteraria italiana) e dei pittori «nazareni», a loro ancor più affini.
Nelle Vite dei Padri del Cavalca o nello Specchio di vera penitenza del
Passavanti essi ammiravano, insieme alla forma schietta e popolare, il
contenuto pio. Il Giordani, invece, si sentiva attratto dalla freschez-
za e popolarità di quello stile, ma avrebbe voluto dissociarlo da un
contenuto a lui antipatico: «Le opere francesi (volgarizzate dai trecen-
tisti italiani) furono la maggior parte devote; e però di materia gradita
a quel secolo, intolerabile al nostro. Io non esigerò che per imparare la
lingua ti annoi nelle divozioni troppo semplici e goffe di quel secolo ...
Se l’opera di San Gregorio non fosse veramente uno dei limiti della
demenza umana, quanto volentieri si leggerebbe quella traduzione;
che è della bellissima prosa italiana» (XI, 16 sg.). Perciò, con tutta la

51
iIn tutta Europa, tranne in Francia, il patriottismo ottocentesco ebbe, come è noto, una
natura bifronte, in quanto era figlio della rivoluzione francese, ma fin dall’inizio aveva dovuto
rivendicare i propri diritti contro l’oppressione francese, facendo appello perciò a tradizioni
nazionali prerivoluzionarie.
58 I. Le idee di Pietro Giordani

sua ammirazione per i Fioretti di San Francesco e per il Cavalca, ama-


va soprattutto di consigliare la lettura dei cronisti e dei novellieri, rap-
presentanti di un Trecento più laico.52 Rifuggiva, però, dal Boccaccio,
perché nei suoi periodoni latineggianti vedeva, non del tutto a torto,
l’inizio della corruzione della prosa italiana.53

Al fondo del suo purismo c’era un’esigenza che ben potremmo dire
russoiana. Come il Leopardi nei classici greci e latini, così il Giordani
nei trecentisti cercava la voce della natura vergine e incorrotta; e
anche in lui l’esortazione ad imitare quei modelli si accompagnava alla
nostalgica consapevolezza della loro irraggiungibilità: «Che si possa
ritornare alla dicitura del trecento, ripeto che mi pare impossibile.
Hanno le belle arti (e le pittoriche e le poetiche) per ogni nazione una
età di bellezza vergine e adolescente, che non è ricuperabile»54 [cr]. Al
Monti, troppo amante dell’elocuzione fastosa e sonora, rimproverava
di aver trascurato questo Trecento più ingenuo e segreto: «Di que’
poveri trecentisti, coi quali dài vista di perdere spesso la pazienza, cre-
do ne abbi letti meno di me: certo, o caso o scelta che sia stato, vede-
sti i più deboli, non prendesti dimestichezza colla tanta moltitudine
de’ migliori, che ti avrebbero fatto meno severo, anzi amicissimo a
quest’amabile secolo» (X [cr] **, 367).
Ma questo amore del primitivo, che pure apparteneva anch’esso
all’ideologia e alla sensibilità illuministica, si conciliava difficilmente
con l’altra esigenza illuministica di un linguaggio come strumento di
comunicazione chiaro e adeguato al pensiero moderno. Molto più
profondamente illuminista del Monti quanto al complesso delle idee
politico-culturali e alla concezione stessa della letteratura,55 il Gior-
dani rimase però più legato a pregiudizi antisettecenteschi e antifran-
cesi nella questione della lingua; e quindi, come dal Leopardi, così da

52
iVI, 362, 364. Vedi anche il giudizio limitativo sul Paradiso dantesco in confronto alle altre
due cantiche, XIV, 188: «Quei beati sono perpetui disputatori d’inconcepibili sottigliezze ...
Noi siam uomini; e le cose umane solo possono piacerne: chi ci vuol trasumanare ci sforza, ci
affatica, ci noia»; e il bellissimo passo sull’umana dolcezza e poeticità del Purgatorio, XIV, 190.
53
iV, 234; X, 367 e altrove.
54
iX, 367 (nello scritto Monti e la Crusca, del 1819). Cfr. Lett. inedite a cura di E. Costa, Par-
ma 1884, pp. 4 e 21.
55
iGià assai prima della polemica romantica, per esempio, il Giordani condannava l’uso della
mitologia greco-romana nella poesia contemporanea (XIV, 177, 267, 288, in lettere del 1807-08).
Cfr. G. Forlini in «Convivium» 1952, p. 712 **.
I. Le idee di Pietro Giordani 59

lui il Settecento e la Francia erano nello stesso tempo amati come rap-
presentanti dell’illuminismo e avversati come corruttori del gusto.56
L’esigenza di dare una motivazione progressista al proprio purismo
lo condusse anche ad osservare con grande acutezza il diverso rap-
porto tra intellettuali e popolo nel Trecento e nel Quattrocento: i tre-
centisti «avevano mostrato amorevol cura del popolo; ed operato di
farlo partecipare quanto fosse possibile ai diletti e agli utili della dot-
trina»; mentre i quattrocentisti «fecero veramente grandi benefizi agli
studi eleganti: ma in essi cercando soltanto a sé medesimi piacere ed
onore, allontanarono dal godimento di quelle nobili ricchezze e deli-
cate consolazioni, quasi profana e indegna, la moltitudine» (XI, 271).
Certo al padre Cesari non sarebbe mai venuto in mente di motivare
così la sua predilezione per l’«aureo secolo». Ma come si sarebbe potu-
to, nell’Ottocento, creare una nuova letteratura popolare con lingua
trecentesca?
Del purismo stesso, del resto, il Giordani finì col dare un giudizio
molto severo, come di un movimento che aveva mancato allo scopo di
ricostituire una vera letteratura nazionale: «Il principio dell’età cor-
rente – scriveva nel ’38 – mostrò un paralitico desiderio di rifarsi ita-
liano; come se dal belletto e non dal sangue venisse l’aspetto di sanità:
tutto finì prestamente in miserabil pedanteria di pochi».57 Sarebbe

56
iIn una nota di letture consigliate, arrivato al Settecento, il Giordani scriveva: «Oimè, oimè,
oimè!», e salvava soltanto, riguardo allo stile, due o tre minori.* ** Analogamente il Leopardi,
nella prefazione alla Crestomazia poetica, ammoniva i giovani a non cercare negli autori del secon-
do Settecento «esempi di buona lingua né anche di buono stile» (cfr. W. Binni, nel volume di vari
autori Leopardi e il Settecento, Firenze 1964, p. 77). Eppure, anche per i precetti stilistici, il Gior-
dani si era nutrito di ideologia francese settecentesca, e prediligeva l’Art d’écrire del Condillac ed
esortava l’Ambrosoli a tradurla in italiano (VII, 13 sg.; XI, 11 sg., dove accanto al Condillac sono
consigliati gli articoli di Du Marsais e di Beauzeé nell’Encyclopédie méthodique; XI, 97 sg.). Ma
quanto al principio condillachiano della plus grande liaison des idées, a cui pure teneva molto, osser-
vava: «Vero è che quel legame delle idee non deve sempre esser logico; ma secondo la materia
che si tratta dev’esser pittorico o affettuoso» (XI, 12).
57
iXII, 149. Cfr. già X, 366 (nel 1819): «... alcuni viventi, che si danno per trecentisti, e
sono mirabilmente deformi e spiacevoli; e prima di tutto infinitamente lontani da quella schiet-
tezza e molle facilità che fu maravigliosa e primaria dote di quel beato secolo»; e ancora VI, 392,
397, contro il purismo pedantesco del Cesari.
*iLa condanna della prosa del Settecento è in Opere, ed. Gussalli, XIV, 372: il Giordani
eccettua soltanto Francesco e Giampietro Zanotti, Eustachio Manfredi e Gasparo Gozzi. Come
il gusto leopardiano si sia più tardi evoluto dal trecentismo al cinquecentismo, ha dimostrato
convincentemente Giulio Bollati nell’introduzione alla Crestomazia della prosa (cit. qui sopra,
p. XCVIII). Ma già nel Giordani c’era, in contrasto con la sua dichiarata ammirazione per il Tre-
cento, una tendenza al cinquecentismo (cfr. pp. 83-84).
60 I. Le idee di Pietro Giordani

difficile trovare negli scritti degli antipuristi più accesi una condanna
così incisiva come questa (che meriterebbe di essere citata anche nei
manuali scolastici). Eppure anche in quello scritto egli non giungeva
a un vero rinnegamento e superamento del purismo: accusava piutto-
sto i puristi di non aver saputo reagire con efficacia alle sciatterie dei
settecentisti e al torbido sentimentalismo dei romantici («scimie» del-
la letteratura tedesca e francese) e continuava a vagheggiare il ritorno
a una tradizione di prosa schiettamente italiana, di cui gli ultimi rap-
presentanti, pur con tutti i loro difetti, gli parevano gli scrittori del
Seicento.
Un’altra volta, in una lettera a Pietro Brighenti, attribuì il proprio
formalismo stilistico alla reticenza a cui lo aveva costretto l’oppres-
sione politica: «Le mie cose appena meritano qualche attenzione dal-
la parte dello stile; e ciò unicamente dagl’italiani. Uno straniero non
può guardare che alle cose: e quelle sono miserissime. Se avessi potu-
to stampare tutto quello che penso, forse anche un Inglese potrebbe
badarmi: ma quelle miserie son tutta paglia» (Lett., I, 190). E ricono-
scendo di non aver saputo raggiungere quella «limpidezza e trasparen-
za di concetto» che ammirava nella prosa del Leopardi, aggiungeva:
«Eppure io non l’ho solamente desiderata e cercata, ma penso che for-
se l’avrei anche conseguita, se per iscappare come Ulisse investito in
pecora dalle branche di Polifemo Censore non fossi stato obligato a
studiar di coprire anziché d’illuminare il pensiero. E con tutto ciò non
ho cessato di essere odiatissimo per i pensieri; ed ho guastato lo stile;
che avrei potuto fare abbastanza buono».58 Era un motivo affine a
quello alfieriano e foscoliano dell’uomo nato ad agire e costretto, per
l’iniquità dei tempi, a sfogarsi solo nello scrivere: qui c’è invece lo
scrittore che vorrebbe essere scrittore etico-politico e che la tirannia
costringe al vuoto formalismo, oppure all’ermetismo tacitiano.
È comunque caratteristica del Giordani questa scontentezza di sé,
quest’amaro rimpianto di ciò che non era riuscito a realizzare, unito
alla consapevolezza di aver voluto, tuttavia, realizzare qualcosa di
nuovo e di nobile.
Io non voglio – scriveva a Luisa Kiriaki Minelli –59 comparire meglio di quel che
sono: ma per la verità non amerei ch’ella mi giudicasse dalle mie carte stampate.

58
iLett., II, 158; cfr. VII, 103.
59
iXIII, 397 sg. (5 luglio 1833).
I. Le idee di Pietro Giordani 61

Non è certo in quelle che si possa vedere quello che veramente io sono, cioè i miei
continui pensieri, i miei desiderii, i miei disegni ... Ho sempre stampato sotto revi-
sione di censori (sempre o frati o preti, o sotto qualunque veste servili strumenti alla
dogana de’ pensieri): così non è potuto venire in pubblico se non cose e parole che
si conformassero alla volgarità del pensar comune. Certo nel mio cervello e nel mio
cuore è riposto pur qualcosa di non volgare: ma le porte sono sbarrate ad ogni uscita.
Io porterò meco sotterra quel che mi ha fatto sì profondamente e dolorosamente
sentire che il mondo è stolido, e tristo, e misero assai.

E in un’altra lettera:
Certo nella mia povera testa è una gran massa di pensieri; e, che peggio è, battaglia
di pensieri; i quali andranno sotto la terra, col cranio che gli racchiude, ugualmen-
te ignorati.60

Dopo essersi visto negare, nella giovinezza, anche un modesto posto


d’insegnante o di bibliotecario, ora si trovava al centro del mondo let-
terario italiano, ammirato da tutti e considerato un’autorità infallibi-
le; ma quell’ammirazione andava al rètore, allo stilista, cioè alla parte
di lui che egli sentiva più caduca. La sua vera personalità rimaneva
ignorata e inespressa:
Se vorranno mettere una pietra sulla terra che coprirà queste povere ossa, racco-
manderò che vi si scrivano queste sole parole: Non fu conosciuto Pietro Giordani.61

4. Quali erano le idee audaci che il Giordani aveva dovuto rinun-


ziare ad esprimere, o esprimere soltanto per oscure allusioni?* La
generazione del Risorgimento, pur non condividendo in molta parte
gli ideali letterali del Giordani, vide in lui un maestro di patriottismo:
come tale le onorò nel ’48, pochi mesi prima della morte, il governo
provvisorio parmense. Più tardi il gruppo toscano degli «amici pedan-
ti», intraprendendo nel nome del Giordani la sua battaglia antiro-
mantica, esaltava insieme allo scrittore il precursore del Risorgimen-
to.62 E in realtà, malgrado la sua non partecipazione a congiure e a

60
iXIII, 400 (alla stessa, 6 gennaio 1834).
61
iVI, 259; cfr. VII, 260.
62
iVedi il saggio seguente, p. 100 sgg.
*iSulle idee politiche del Giordani ** cfr. ora E. Passerin d’Entrèves nell’Ottocento gar-
zantiano cit., pp. 353 sg., 401 sg., 404. Il Passerin tende a mettere in maggior rilievo gli aspet-
ti «passatisti» del pensiero politico giordaniano, che egli giudica da un punto di vista liberale-
cattolico. Vedi anche qui sopra, p. XXXVI, e l’art. del Moget lì citato.
62 I. Le idee di Pietro Giordani

moti rivoluzionari, il Giordani subì, più di molti altri scrittori risor-


gimentali, le persecuzioni dei governi assolutisti: privato dell’impie-
go dal governo papale a Bologna appena avvenuta la Restaurazione,
esiliato dal ducato di Parma nel ’24, poi dalla Toscana nel ’30, impri-
gionato per alcuni mesi dal governo parmense nel ’34, messo al ban-
do dal Lombardo-Veneto, spiato sempre dalla polizia austriaca che
intercettava le sue lettere.63
Eppure, per i suoi principii politici egli apparteneva piuttosto ai
fautori del dispotismo illuminato settecentesco che ai liberali o ai de-
mocratici. Non solo fu sempre contrario alle «sètte» e alle cospirazio-
ni, che giudicava inutili; ma anche all’esigenza costituzionale rimase,
in fondo, estraneo. La Rivoluzione francese non lasciò in lui, a diffe-
renza che in tanti suoi contemporanei, nessun sedimento di paura,
anzi non mancano nelle sue lettere, anche in piena Restaurazione,
dichiarazioni di simpatia per i rivoluzionari;64 e tuttavia una medita-
zione approfondita su ciò che di nuovo aveva portato quel grande fat-
to storico, sui contrasti di classi che vi si erano manifestati, sulle solu-
zioni e sui compromessi a cui aveva dato luogo, mancò, in complesso,
da parte sua, come da parte del Cattaneo. Il suo ideale rimase un
sovrano illuminato o assistito da consiglieri illuminati, che fugasse l’o-
scurantismo clericale, favorisse ogni iniziativa di progresso e difen-
desse il popolo più umile. Credette dapprima di averlo trovato in

63
iSulle persecuzioni subìte dal Giordani e sulla sua azione «risorgimentale» le pagine miglio-
ri, per la loro simpatica vivacità e per la preziosa documentazione, rimangono quelle di Ales-
sandro D’Ancona, Memorie e documenti di storia italiana, Firenze (1914), pp. 331 sgg., 457 sg.
Pregevoli contributi particolari sono stati recati da Stefano Fermi e da altri studiosi. Il lavoro
del Masnovo già cit. alla nota 48, utilissimo per i riferimenti bibliografici, non fornisce, però,
una ricostruzione persuasiva delle idee politiche del Giordani. Assai meno buono l’altro studio
del Masnovo, Il patriottismo di P. G. in «Archivio storico per le province parmensi», serie 3ª, I,
1936, p. 151 sgg. Il breve articolo di giornale che Luigi Salvatorelli scrisse nel 1937 a proposi-
to dell’edizione delle Lettere curata dal Ferretti (articolo ora ristampato in Spiriti e figure del
Risorgimento, 3ª ed., Firenze 1962, p. 183 sgg.) avrebbe potuto servire, allora, a richiamare l’at-
tenzione sulla necessità di studiar meglio il Giordani politico ed educatore.
64
iVedi per esempio la lettera dell’8 settembre 1821 al Montani (Lett., I, 201), con le impres-
sioni sul monumento del Thorvaldsen in memoria «degli uffiziali e de’ soldati che nell’agosto e
nel settembre del 1992 ammazzarono, e si fecero ammazzare, difendendo la corte Parigina con-
tro il popolo». Commenta il Giordani: «Ma a che un monumento per un valore venduto? e spe-
so per una tal causa? Un monumento vorrei ai fondatori della libertà Elvetica, non agl’impu-
gnatori della Francese». Questa lettera, una delle più belle del Giordani, è stata giustamente
messa in evidenza dal compianto Francesco Tropeano, che nel vol. III, p. 75 sgg. dell’antologia
Civiltà letteraria, composta in collaborazione con L. Malagoli ed E. Bruni (Milano 1960), ha scrit-
to un intelligente e sensibile profilo del Giordani.
I. Le idee di Pietro Giordani 63

Napoleone, e con entusiasmo sincero, anche se espresso in forma let-


teraria artificiosa, lo celebrò nel famoso Panegirico non come capo
militare, ma come riformatore (un riformatore più energico e geniale,
ma, agli occhi suoi, non sostanzialmente dissimile dai monarchi illu-
minati prerivoluzionari). Più tardi, tra il ’18 e il ’21, sperò in Carlo
Alberto, infine in Pio IX.65 Ognuno di questi entusiasmi fu seguito da
delusioni,66 le quali però, tranne forse l’ultima, non mutarono la so-
stanza delle sue idee. La monarchia (la monarchia assoluta) gli pareva
un male necessario: nelle piccole città della Grecia antica poteva esser
utile nutrire l’odio contro i re, «ma ora che la civiltà o piuttosto mor-
bidezza accresciuta e diffusa ha fatto più pazienti e più timidi i popoli,
... è importunissimo l’inquietare gli uomini con questo aborrimento
alla monarchia, che ora è divenuta inevitabile, e più lieve a compor-
tare».67 Così scriveva in regime napoleonico; e se dopo il 1815 le
monarchie gli apparvero sempre meno «lievi a comportare», continuò
tuttavia a ritenerle inevitabili. Anacronistiche quindi gli parevano le
declamazioni alfieriane contro i tiranni; dannoso, e dettato più da esi-
bizionismo che da ragioni ideali, l’indocile servire del Foscolo, verso
il quale, dopo un famoso scambio di lettere a proposito del Panegirico
a Napoleone, il Giordani serbò fino all’ultimo un’invincibile antipatia,
che dall’uomo si estese al poeta e allo scrittore.68 Soltanto, egli rite-
neva che, accettata lealmente la monarchia assoluta, fosse diritto e
dovere del suddito di denunciare liberamente tutte le ingiustizie e le

65
iNapoleone e Pio IX, l’entusiasmo giovanile e quello senile, sono contrapposti spesso nel-
le ultime lettere: per esempio Lett., II, 223: «In gioventù mi scaldai la testa per i p r i n c i p i i
di Napoleone: ora, vecchio, e parendomi conoscere di più questo mondaccio porco, ammiro di
più questo prete ...»; Alcune lettere inedite (Genova 1852), p. 100: «Gli avrei secondo le mie for-
ze fatto (a Pio IX) un panegirico meglio che a Napoleone».
66
iSu Napoleone vedi per esempio i passi cit. più oltre, p. 73 e nota 98 (e anche Lett., I, 93,
dove però il Giordani, retrospettivamente, esagera alquanto il suo antinapoleonismo). Su Carlo
Alberto, V, 224, e la lettera pubblicata da S. Fermi e F. Picco nel «Bollett. storico piacentino»
VI, 1911, pp. 213 sg. Su Pio IX, Lett., II, 254 (13 maggio ’48, al Gussalli): «Tu dici bene; era
un delirio voler fondare l’Italia sul papa, il quale quel che ha fatto non l’ha fatto da sé, ma spin-
to e portato dal popolo, che è veramente bravo e assennato» (in VII, 217 questo passo è ripor-
tato soltanto in parte).
67
iVIII, 189 (si noti tuttavia, in quella stessa pagina, l’amara constatazione del disprezzo che
i potenti hanno verso la volontà popolare). Cfr. X, 21, dove il Giordani, in polemica con lo
Scinà, riafferma che nell’evo antico il regime repubblicano era preferibile al monarchico.
68
iVIII, 317 sg. (con la nota del Gussalli, ispirata alle idee del Giordani); IX, 111, n. 1;
Lett., I, 303, e II, 22, 175. Cfr. G. Ferretti, P. Giordani sino ai quaranta anni cit., pp. 116 e 119;
W. Binni, I classici italiani nella storia della critica, II, 2ª ed., Firenze 1961, p. 287 sg. ** Vedi
anche l’introduzione al presente volume, p. 15.
64 I. Le idee di Pietro Giordani

mancanze che in essa si commettessero; e riteneva che soprattutto lo


scrittore dovesse assumere questa parte di libero ammonitore, di por-
tavoce dell’opinione pubblica offesa presso il sovrano troppo spesso
tenuto all’oscuro di tutto dai suoi ministri. Attaccare e rendere
responsabile direttamente il sovrano gli pareva dannoso; lecito inve-
ce criticare anche aspramente i ministri. In un frammento per un elo-
gio funebre di suo cugino Luigi Uberto Giordani (X, 280), tracciava
questa linea di condotta: «Rispettare i príncipi, e parlare liberamente
de’ ministri: non perché i príncipi siano dèi; essendo uomini come noi,
e alzati sopra gli altri o dal consenso libero o almeno dalla pazienza
degli uomini: ma perché il mutare i príncipi reca grandi e pericolosi
turbamenti: mutare i ministri (da’ quali dipende il governo) facilmen-
te si opera senza danno e rischio publico». Queste parole sono del
1818; ma ancora nel ’46, in una lettera a Giacomo Giovanetti (il
romagnosiano consigliere di Carlo Alberto) ribadiva la stessa idea:
«Ed è bene il confermare e diffondere questa opinione; che è merito
del re il bene che si fa nel suo stato; e non è sua colpa il male di che
molti si lamentano» (Lett., II, 210).
Non era dunque dettata da astuzia per sfuggire alla condanna, ma
da convinzione sincera la linea di difesa che egli tenne durante la sua
carcerazione nel ’34, come risulta dai suoi memoriali al governo par-
mense e dai verbali degli interrogatorii pubblicati dal Gussalli.69 La
causa del suo arresto era stata una lettera privata, intercettata dalla
polizia, nella quale manifestava con forti espressioni la sua gioia per
l’uccisione del ministro dell’interno Sartorio. Il Giordani sostenne che
l’oggetto della sua avversione era stato soltanto un ministro indegno,
non la sua sovrana Maria Luigia. «Io non ho mosso mai, non moverò
mai un dito contro i troni; i quali sempre tengo raccomandati alla
provvidenza divina e alla umana pazienza ... E se io offesi qualche
principe, se volli pur levare una scheggia da qualsiasi trono; precipiti-
no tutti i troni sopra di me; o a soddisfare gli sdegni loro mi punisca
Sua Maestà. Ma dov’è il principe offeso da me? In nessuno degli
Almanacchi reali, in nessuna delle case regnatrici ho mai trovato un
Serenissimo Sartorio» (XI, 329). E il Gussalli (XI, 288), stampando
questi scritti in Milano austriaca nel 1857, poteva con qualche appa-

69
iXI, 287 sgg.; XIV, 9 sgg. Su un primo interrogatorio non pubblicato dal Gussalli cfr.
D’Ancona (cit. alla nota 63), p. 419 sgg.
I. Le idee di Pietro Giordani 65

renza di verità sostenere che essi, distinguendo tra principe e ministro


e facendo il primo non responsabile degli errori del secondo, serviva-
no a rafforzare lo spirito di obbedienza al principe.

Senonché la veemenza con cui rivolgeva le sue critiche ai ministri


reazionari e alle classi sociali di cui quelli erano l’espressione, lo por-
tava ben oltre le sue posizioni teoriche, gli faceva praticamente supe-
rare i suoi principii settecenteschi: così che le persecuzioni da lui subi-
te non furono, come potrebbe sembrare e come egli stesso credette
almeno in parte, causate da equivoci: di quelle persecuzioni egli ave-
va pienamente meritato l’onore. Basta leggere i liberi ammonimenti al
restaurato governo papale ** nell’Orazione per il riacquisto delle tre
Legazioni (IX, 313 sgg.) e ancor più nella lettera aperta al cardinale
Consalvi (IX, 310 sgg., cfr. 323 sgg.), e l’aspra polemica col governo
parmense a proposito della Causa dei ragazzi,70 e i tanti accenni politici
sparsi non soltanto nelle sue lettere private, ma anche in scritti pub-
blicati o destinati alla pubblicazione,71 per convincersi che egli esorbi-
tava di gran lunga dalla parte che si era assunta di critico entro il siste-
ma assolutista, per divenire critico del sistema stesso; e critico assai più
deciso e coraggioso di molti liberali che, guardando solo ai principi teo-
rici, avrebbero potuto sembrare più avanti di lui. Si capisce quindi
come i governi reazionari dovessero vedere in quella distinzione fra
principe e ministro soltanto un’astuzia per combattere l’assolutismo
senza esporsi a condanne. E il Giordani stesso, pur senza abbandona-
re mai del tutto le sue posizioni iniziali, andò via via comprendendo
che, dopo la grande paura della Rivoluzione francese e delle guerre
napoleoniche, le monarchie avevano ormai rinunciato ad ogni inizia-
tiva progressista, e che anche nel campo culturale la scissione tra le
forze vive della nazione e i governi assoluti era ormai compiuta.
Nota una cosa – scriveva a un suo amico piacentino –. Quel Zaiotti, vero scrittore,
il solo vero ingegno italiano che siasi venduto agli Austriaci, pure non vuol passare
per vile né per coglione, e in quello stesso articolo osa maledire le tirannidi. Quando
parlò della passione amorosa de’ Tirolesi per Francesco, e maledisse chi non l’ado-
ra, pagò un tributo inevitabile alla sua laida fortuna; ma molte altre volte ha voluto

70
iVedi più oltre, pp. 87-88.
71
iVedi in particolare i coraggiosissimi scritti da lui indirizzati a Vincenzo Mistrali e alla con-
tessa Scarampi (XI, 289-316; D’Ancona cit. alla nota 63, p. 382 sgg.). Quanto al carattere di
«lettere aperte» che assumevano molte sue lettere private, vedi più oltre, pp. 105-106 n. 32.
66 I. Le idee di Pietro Giordani

pagare il debito alla riputazione e al secolo. Tale è il secolo! Il re di Napoli ad un


Toscano che andò a domandargli de’ suoi onori di corte, e gli ottenne, disse: – È
trista la condizione dei re in questi tempi: gl’ingegni son tutti alienati da noi; e ci si
mostrano affezionati solo gli sciocchi –. E quel buon uomo ebbe la semplicità di rife-
rir queste parole, che fanno onore al re, ma non a lui.72

Nella ferocia repressiva dei governi vedeva la prova che essi, non
più sorretti dal consenso dell’opinione pubblica, erano destinati a
cadere: «Che bozare di Carbonari? Il carbone è nelle scellerate corti;
ed elle pur si consumeranno nel fuoco, in che stolte e crudeli vanno
soffiando»73. Specialmente dopo la carcerazione del ’34 (che, come
egli scrisse, era servita a compiere la sua educazione politica)74 si fece-
ro più frequenti nelle sue lettere gli attacchi rivolti direttamente ai
principi; solo per Maria Luigia conservò, nonostante tutto, un certo
affetto misto a commiserazione.75 Se continuò a considerare la monar-
chia come un male necessario, fu per la sua sfiducia nelle società segre-
te; ma se la realtà lo avesse smentito, sarebbe stato il primo a gioirne.
E infatti già nel marzo 1821 aveva scritto pieno di entusiasmo a un
amico: «Italiae venere dies. Mio caro: siate di qual filosofia volete: que-
sto momento è grande, straordinario, unico per l’Italia. Fosse pur
pericoloso (a me non pare), fossero pur fallacissime le speranze; un
gran bene è già posto in sicuro. E cancellata la lunga ignominia d’Ita-
lia. In magnis [et] voluisse sat est [cr] **. ** Non c’è più ragion, né pre-
testo alle altre nazioni d’insultarci. Potremo essere incatenati come
Leoni; non venduti come porci. Io morirò contento d’aver veduto
nascere le speranze del bene; e qualunque sia la fortuna, è gran cosa

72
iLett., I, 240 sg. (giugno 1825). L’aneddoto sul re di Napoli anche in XI, 193. Sui rappor-
ti Giordani-Zajotti – improntati a reciproca stima in fatto di letteratura, ad aspra inimicizia nel
campo politico – cfr. XI, 311; XII, 50 sgg.; D’Ancona, op. cit., p. 457 sgg.; e la lettera dello
Zajotti all’Acerbi pubblicata da A. Luzio in «Riv. stor. del Risorgim. ital.» I, 1895-96, p. 708.
Lo scritto adulatorio dello Zajotti a cui allude il Giordani è contenuto, anonimo, nell’opuscolo
Francesco I in Trento nelle feste di Natale del 1822, Trento 1823, p. 5 sgg. Per l’attribuzione allo
Zajotti cfr. F. Ambrosi, Commentari della storia trentina, Rovereto 1887, p. 161 (segnalatomi
gentilmente dalla Dott. Annamaria Schlechter, direttrice della Biblioteca comunale di Trento).
73
iAlcune lettere inedite (Genova 1852), p. 70. «Bozàre» ** (chiacchiere, frottole) è una
parola del dialetto piacentino cara al Giordani.*
74
iCfr. VIII, 311.
75
iCfr. Alcune lettere inedite cit., pp. 69 sg.; D’Ancona, op. cit., p. 393 sg.
*iNon «bozàre», ma «bózare» (cioè «bùggere»), come mi fa osservare giustamente Bruno
Migliorini: il Vocabolario piacentino-italiano di Lorenzo Foresti (3ª ed., Piacenza 1883, p. 80) regi-
stra bôzra (al plurale bôzar: la desinenza -e che vi appone il Giordani è un’italianizzazione). **
I. Le idee di Pietro Giordani 67

averla meritata buona» (Lett., I, 196). Più riservato fu di fronte ai


moti del ’31, che si svolsero sotto i suoi occhi in Emilia, perché fin dal
principio vide chiara l’impreparazione e l’incapacità politica dei gover-
ni provvisori;76 ma di nuovo si entusiasmò senza riserve nel ’48. A
Cornelia Fabris, alla quale due anni prima aveva scritto una lettera sfi-
duciata,77 ora scriveva: «Io benché vecchio e caduco sono affatto del
suo parere nel desiderare pronta liberazione d’Italia dai ferocissimi
barbari, e nell’ammirare la Sicilia, e specialmente Palermo, la Lom-
bardia, e massimamente l’Eroica Milano».78 Ed espresse la sua ammi-
razione a Carlo Cattaneo per il suo proclama agli ungheresi, «una del-
le poche e più belle cose che siensi pubblicate in Europa».79 *
Tra sé e i combattenti della nuova generazione sentiva un distacco
di età e di formazione spirituale, che gli impediva di partecipare alle
loro lotte, ma non di seguirle con animo appassionato. «La mia età e
le mie circostanze mi tolgono dal numero de’ valorosi e combattenti;
ma non sono freddo spettatore dell’altrui virtù: e desidero, e vorrei
sperare, degni successi alle generose intenzioni». «Avrei pur recitato
volentieri qualche parte nel dramma della vita; almeno di suggeritore.
Ma la Natura mi vuole ozioso, e nondimeno ansioso, aspettatore. Voi
combatterete e (per Dio spero) vincerete: io applaudirò. Io triumphe».
Queste due citazioni80 non si riferiscono specificamente a fatti politi-
ci, ma non è arbitrario usarle per definire l’atteggiamento del Gior-
dani di fronte alle lotte risorgimentali. Questo atteggiamento lo stac-

76
iCfr. O. Masnovo, Il patriottismo ecc. (cit. all anota 63), p. 162; e tieni presente ciò che
osserviamo più oltre, pp. 132-133. Anche verso il Mazzini non mancano nelle lettere del Gior-
dani accenni ostili (cfr. O. Masnovo, art. cit. alla nota 48, p. 337): in questo caso, all’antipatia
per le «sette» si univa l’antiromanticismo.
77
iCitata da G. Gambarin, «Giorn. stor. letter. ital.» LXXVII, 1926, p. 320.
78
iLett., II, 243 (incolpiuta in VII, 207).
79
iLett., II, 248; vedi anche la lettera seguente al Gussalli. Il proclama agli Ungheresi nel-
l’Epistolario del Cattaneo a cura di R. Caddeo, I, Firenze 1949, p. 448; la risposta del Cattaneo
al Giordani, ibid., p. 247. Come risulta dalle lettere al Gussalli – il quale faceva in un certo sen-
so da trait d’union fra lui e il Cattaneo –, il Giordani fu contrario all’immediata annessione al
Piemonte, voluta dai piacentini (cfr. anche G. P. Clerici in «Riv. d’Italia» XVIII, 1915, vol. I,
p. 109 sgg.). Sulla prospettiva politica generale rimase incerto, perché da un lato tendeva a sim-
patizzare per il repubblicanesimo e l’antipiemontesismo del Cattaneo, dall’altro non aveva fidu-
cia nella realizzabilità di una soluzione rivoluzionaria.
80
iXIII, 105; Lett., I, 284. Cfr. Lettere al padre A. Fania, a cura di F. Sarri, Firenze 1933,
p. 120.
*iSui rapporti Giordani-Cattaneo vedi lo studio di Giovanni Forlini, Giordani e Cattaneo,
di prossima pubblicazione ** nel «Bollett. storico piacentino» LXIV, 1969, fasc. 1.
68 I. Le idee di Pietro Giordani

ca in modo ben deciso dai moderati, per esempio da Gino Capponi e


dagli altri toscani di cui fu amico negli anni di Firenze. In quelli è dif-
ficile dire fin dove arrivasse la sfiducia nel successo della rivoluzione
e dove cominciasse la paura della rivoluzione stessa; mentre nel Gior-
dani c’era il senso virilmente pessimistico di essere lui ormai vecchio
e fuori del suo tempo, ma non c’era alcun timore e alcuna riserva ver-
so le nuove idee. Più vicina alla sua, nonostante sensibili differenze,
era la posizione politica del suo Giacomo Leopardi.

5. ** Un analogo contrasto fra le premesse arretrate e le conseguen-


ze progressiste troviamo nelle idee sociali. Il Giordani, non nobile,
molto aspettava dalla nobiltà italiana, più che nel campo strettamen-
te politico, in quello civico e culturale. Tra le qualità che desiderava
nel «perfetto scrittore italiano» (di cui avrebbe voluto tracciare un
ritratto ideale, a somiglianza dell’Orator di Cicerone) c’era l’esser nato
nobile: gli pareva che così avrebbe potuto con più autorità e minor
pericolo dire la verità: «Molto è creduto dal volgo al nobile; molto è
comportato dai potenti al ricco. Quis bene dicentem Basilum ferat?
Disprezzati e bistrattati Torquato e Giangiacopo; riveriti e temuti il
signor di Voltaire, il conte Alfieri ed il barone di Zach».81 La sua Istru-
zione a un giovane italiano per l’arte di scrivere (XI, 8 sgg.) è diretta a un
immaginario Eugenio, nome parlante («il bennato»). Esultava ogni
volta che trovava un giovane di famiglia nobile appassionato agli stu-
di: il conte Pompeo Dal-Toso, il marchese Felice Carrone di San Tom-
maso, entrambi morti giovanissimi con suo grande dolore. Per la stes-
sa ragione si rallegrò che fosse nobile Giacomo Leopardi.82 Anche il
Leopardi, del resto, la pensava così, e fino all’ultimo mantenne un pic-
colo e innocuo orgoglio del suo titolo di conte, che non gli impedì tut-
tavia di superare, nei suoi rapporti concreti con altri uomini, ogni pre-
giudizio sociale.*
Né il Giordani né il Leopardi vedevano che tra Alfieri o Voltaire e
la realtà loro contemporanea c’era stata la Rivoluzione francese e che
ormai la nobiltà, presa nel suo insieme come classe, era esausta anche

81
iXI, 95. Quis ... ferat: Giovenale, VII, 147.
82
iEpistolario del Leopardi, ed. Moroncini, I, p. 59.
*iSulla coscienza «nobiliare» del Leopardi vedi ora (con molta finezza di indagine psicolo-
gica e sociologica, anche se, a mio parere, con insistenza eccessiva) G. Bollati, op. cit. nella pre-
fazione, p. LXXXVII sgg. Cfr anche G. Moget, art. cit., p. 58 sgg. **
I. Le idee di Pietro Giordani 69

dal lato culturale. O meglio, il Giordani lo vedeva suo malgrado, e lo


spettacolo della nobiltà dei suoi tempi, così contrastante con la fun-
zione che egli le assegnava, lo spingeva a feroci invettive. «La nobiltà
ha perduto i feudi; non ha rinunciato alle massime feudali. Massima
feudalissima, che ogni inferiore è c o s a del superiore, ogni debole è
c o s a del più forte» (X, 299). A proposito delle esequie di un medico
benefattore dei poveri, che erano state seguite da tutto il popolo di
Piacenza, diceva: «Esequie trionfali, lutto glorioso; quale non otterrà
mai l’insolente avarizia degli straricchi, vilissimi successori di rapa-
cissimi antenati; che non osano redimere dall’abominazione universa-
le, con qualche atto benigno di sociale virtù, almeno una porzione di
tanto odiosa eredità di antichi delitti». E se i nobili verranno meno
al loro compito, «noi, popolo mal disprezzato, ci sforzeremo di dare
alla nazione la nobiltà vera dell’uomo, la nobiltà dell’animo; rimar-
ranno ignobili, vera plebe, gl’ignoranti e gli oziosi».83 Qui il popolo
sono tutti i non nobili: ma la sua sollecitudine andava anche al popolo
più umile. Già abbiamo visto come si ponesse il problema dell’istru-
zione popolare. Un suo scritto non finito s’intitola Se debbano impe-
dirsi gli studi ai poveri (XII, 208 sgg.), e l’idea, sostenuta specialmente
dai gesuiti, che i poveri non debbano studiare è bollata come «bestia-
le demenza». Tra il popolo piacentino e parmigiano egli doveva esse-
re molto popolare, specialmente in seguito all’azione da lui svolta per
l’istituzione di asili d’infanzia e contro l’uso di picchiare i ragazzi nel-
le scuole; e ne ebbe prova specialmente quando fu incarcerato.
Non doveva essermi discaro quando i Signori han voluto riconoscere in me l’amor
del vero e del buono: ma più mi concilia a me stesso la benevolenza portatami dal
popolo. Povero popolo, che per voi altri signori è nulla; e senza il quale sareste voi
nulla! Più volte ho saputo quanto mi voglia bene quella moltitudine faticante e mise-
ra di popolo, che i superbi dicon plebe; alla quale certo non può importare ch’io sia
letterato o filosofo; né debbo parere superbo o egoista, se mi ama. Quanto mi com-
pensa de’ vostri inetti disdegni questo amore! dappoiché la mano degli iniqui fu ardi-
ta di toccarmi ne ho avuto più chiaro segno; venendo a mia notizia che alcune pove-
re donne le quali non conobbi mai di presenza né di nome, fanno dire ogni sera delle
Avemarie a’ loro poveri bambini, perché Dio mi liberi dalle vostre mani. Oh buon
popolo parmigiano, sì indegnamente maltrattato! Oh consolazione, oh gloria del mio
carcere!84.

83
iX, 402; XI, 101-03.
84
iXI, 342. Questo brano fa parte di un memoriale che il Giordani incarcerato nel ’34 inviò
al conte di Bombelles, ministro di Maria Luigia.
70 I. Le idee di Pietro Giordani

Né si dava, di fronte al popolo, arie untuosamente caritatevoli:


iscrivendosi come «socio benefattore» [cr] a una società di mutuo soc-
corso, ci teneva a dichiarare che poco gli piaceva questa espressione;85
e aggiungeva: «Mi credo obligato di riverire quelli che lavorando gua-
dagnano il vivere; superiori a me e a tutti quelli che non faticando e
nulla producendo mangiano le fatiche e i prodotti altrui».
Quando morì assassinato Domenico Manzoni, un forlivese di umi-
le origine che sotto Napoleone aveva accumulato in pochi anni, con
fortunate speculazioni, un’immensa ricchezza, il Giordani, pregato
dalla vedova, ne abbozzò un elogio che poi non condusse a termine.86
Sarebbe stato, a quanto risulta dai frammenti, un elogio alquanto am-
biguo: il Giordani lodava la sollecitudine del Manzoni per i suoi con-
tadini («Cura di fabricar case salubri ai contadini. ** Barbarie di
tutti i possidenti d’Italia, che hanno più cura di buone stalle alle
bestie: e alloggiano orribilmente chi si consuma per dar loro pane, e
delizie, e fasto»),87 ma nello stesso tempo s’inoltrava in considerazio-
ni sulla disuguaglianza delle ricchezze che sarebbero state quasi un’im-
plicita critica al morto. E fra l’altro notava: «È un difetto pericoloso
delle attuali società la gran disuguaglianza delle ricchezze ... È derisa
la cura d’introdurre l’uguaglianza; e nondimeno è adorato, e riverito
come più che umano il legislatore88 che unico pose incredibili cure ad
introdurla e mantenerla nel suo popolo. E tanto più ragionevolmente,
quanto che i danni della perfetta uguaglianza non sono mai da teme-
re, perch’ella è impossibile: laddove i mali della somma disuguaglian-
za gravissimi sono da temere, perch’ella è facilissima. Fu dunque
sapientissimo quel legislatore ** che si allontanò con tutte le cure da
quell’estremo, nel quale è più facile e più rovinoso il cadere».89

85
iVII, 128 (al Gussalli, 5 gennaio 1846).
86
iX, 276 sgg. (1817). Cfr. G. Gambarin, «Giorn. stor. letter. ital.» LXXXVII, 1926,
p. 282 sgg.
87
iX, 278. A questo passo [o piuttosto all’iscrizione per Francesco Soprani in Gussalli XIII
192, nr. 34] **, probabilmente, allude Edmondo De Amicis **, Sull’Oceano, 3ª ed., Milano
1889 (anche la 1ª ed. è di quell’anno), p. 51: «Mio malgrado, mi risonavano in mente, come un
ritornello, quelle parole del Giordani: il nostro paese sarà benedetto quando si ricorderà che
anche i contadini sono uomini»: singolare testimonianza dell’influsso delle idee sociali del Gior-
dani su uno scrittore di formazione letteraria nettamente diversa, manzoniana.
88
i** Mosè. **
89
iX, 276. Vedi anche X [cr], 277: «Uso buono che si poteva fare de’ beni nazionali: invece
abbandonati alla cupida ingordigia di pochi»; e la discussione del problema perché il popolo «invi-
dii tanto e odii le ricchezze recenti; e riverisca le antiche, benché ugualmente ingiuste e superbe».
I. Le idee di Pietro Giordani 71

Il ragionamento è, se si vuole, semplicistico, e non sarebbe certo


sufficiente a tranquillizzare chi è affetto dalla paura del comunismo!,
ma è interessante per il corollario pratico che suggerisce. Dei due
estremi, l’unico realmente minaccioso, anzi già in atto, e quindi l’uni-
co da combattere è la somma disuguaglianza: l’altro, l’eccessivo egua-
litarismo, è un pericolo inattuale e astratto: e dunque, pas d’ennemis à
gauche.90 Qui meglio ancora si vede la differenza tra il Giordani e i
moderati toscani; i quali ebbero anch’essi, qualche tempo dopo,
«paterne» sollecitudini per i contadini e deplorazioni per le eccessive
ricchezze; ma sempre a scopo conservatore, per impedire cioè che l’e-
strema miseria suscitasse esasperati moti di ribellione. Che il pericolo
della «somma uguaglianza» fosse irreale, non lo avrebbero certamen-
te mai detto né il Capponi né il Ricasoli; non lo avrebbero detto nep-
pure illuministi come Romagnosi, Melchiorre Gioia, Cattaneo, dota-
ti di una visione dei problemi economico-sociali molto più organica
che il Giordani, ma in senso nettamente liberista, ostile a qualsiasi for-
ma di socialismo. Il Giordani non fu certo propugnatore o precursore
di moti sociali; ma era libero da pregiudizi e da paure anche di fronte
a questi problemi. E gli accenni che qua e là ricorrono nei suoi scritti
al «paventoso intervallo onde fortuna ruppe e separò la natura comu-
ne», gli ammonimenti a fare un uso socialmente benefico delle ric-
chezze perché questo solo può far «perdonare il peccato della origin
loro»,91 benché inseriti in contesti non rivoluzionari, rivelano che il
discorso di Rousseau sull’origine dell’ineguaglianza, o altri testi set-
tecenteschi di analoga ispirazione, costituirono per il Giordani una
lezione non mai dimenticata.
Alle agitazioni sociali, nella sua Piacenza come in Inghilterra e in
Francia, continuò sempre a interessarsi.92 Un interesse non meramen-
90
iConsapevole dell’audacia di queste idee, il Giordani pensava di pubblicare l’elogio di
Domenico Manzoni all’estero: V, 30 (lettera al Brighenti).
91
iIX, 273 (cfr. ibid.: «Ecco a’ poveri agricoltori, senza i quali pur non si vivrebbe, come
duramente si comanda! e come ingratamente la vita de’ ricchi si fa aiutare dalla turba de’ mec-
canici artieri!»; lo scritto è del 1812); X, 391 (1820). Vedi anche le trasparenti allusioni conte-
nute in un bell’elogio dell’Utopia di Tommaso Moro (XI, 5-7); e l’abbozzo di lettera aperta al
Vieusseux (XI, 228-230), in cui il Giordani mostra di ritenere utile l’ereditarietà delle ricchez-
ze, ma con molte riserve e molti ironici sottintesi.
92
i** Cfr. VII, 140, e le due lettere inviate al Giordani da Pietro Gioia (Biblioteca Lau-
renziana di Firenze, Carte Giordani, XXII, 81 e 83, pubblicate senza nome d’autore dal Gus-
salli, VII, 140 n. 1, 146 n. 1) a proposito dei tumulti piacentini del 1846, causati dalla crisi eco-
nomica. Pietro Gioia, divenuto più tardi filo-sabaudo e cavurriano, nel ’46 aveva ancora idee
sociali assai avanzate. **
72 I. Le idee di Pietro Giordani

te letterario lo spinse a tradurre nel 1842 la storia della «sollevazione


degli straccioni» dal latino di Bartolomeo Beverini, e a comporre l’an-
no dopo un discorso introduttivo all’orazione di Giovanni Guidiccio-
ni sullo stesso tema.93 Il Giordani metteva in luce le analogie tra quel-
l’episodio di lotta di classe nella Lucca cinquecentesca e «i tumulti di
Manchester e di Lione», e il tono di tutte quelle pagine è di solidarietà
coi proletari oppressi e di dolore per la loro sconfitta.94
Certo in lui, più ancora che esigenze strettamente politiche o socia-
li, erano esigenze di progresso educativo e, in senso lato, culturale: esi-
genze a n t i o s c u r a n t i s t e, ma sentite con larga umanità e sen-
za alcun razionalismo arido. E quindi, più ancora che contro
l’assolutismo monarchico e i ceti economicamente privilegiati, la sua
polemica doveva rivolgersi contro il clericalismo, il più immediato
responsabile dell’arretratezza dell’Italia. Contro l’ignoranza e l’oscu-
rantismo dei preti e dei frati vi sono in tutti i suoi scritti punte pole-
miche efficacissime; e anche le sue prese di posizione su singoli pro-
blemi culturali che abbiamo già esaminato (contro lo scriver latino;
contro l’esclusivismo letterario nella scuola, ecc.) rientrano nel quadro
generale della battaglia laica. In Galileo e in Sarpi venerava due com-
battenti per la verità, vittime dei «condensatori di tenebre» che ave-
vano spento ogni vita intellettuale e morale in Italia. Uno dei motivi
che gli suscitarono le contumelie dei reazionari e che dettero all’A-
cerbi l’occasione per estrometterlo dalla «Biblioteca Italiana» fu
appunto un suo accenno alla tortura a cui fu sottoposto Galileo duran-
te il processo.95 Vedeva bene che la questione galileiana era ancora
viva, le forze che avevano oppresso Galileo tuttora operanti: «Ora i
perpetui nemici d’ogni vero tornano ad impugnare anche questo (cioè

93
iXII, 304 sgg., 361 sgg. La pubblicazione dell’orazione del Guidiccioni e del preambolo del
Giordani fu vietata dalla censura (cfr. la nota del Gussalli a XII, 360). Il Giordani tradusse poi
dagli Annali del Beverini anche la narrazione della congiura del Burlamacchi (XII, 423 sgg.) e
pensò di raccogliere in un volume, con l’aiuto del Gussalli, tutti questi testi di storia politico-
sociale lucchese del Cinquecento. Ma nemmeno questo progetto poté essere attuato. Gli abboz-
zi della prefazione a questo volume e di un’altra lettera-prefazione al Minghetti sulla Solleva-
zione degli straccioni furono pubblicati dal Gussalli, XII, 430 sgg.
94
iXII, 435; cfr. 433.
95
iX, 22. Il Giordani avrebbe voluto svolgere con maggiore ampiezza questo argomento
(cfr. X, 273 sgg.), sostenendo che il «rigoroso esame» di cui parla la sentenza è un termine tec-
nico per indicare la tortura. Ma non riuscì mai a procurarsi il Manuale inquisitorum (cfr. Gussalli,
nelle Opere del Giordani, I, p. 63 sg.). Vedi anche il progetto per un’edizione di scritti scelti di
Galileo (Firenze, Biblioteca Laurenziana, Carte Giordani, XXIV, 51).
I. Le idee di Pietro Giordani 73

il sistema copernicano), e presumono di scacciarlo dalle menti uma-


ne».96 Quasi certamente c’è qui una allusione a Monaldo Leopardi, il
quale pochi anni prima aveva augurato la venuta di un anti-Galileo
che «restituisse alla terra l’antico onore, mettendola nel centro del-
l’universo, e liberandola dal fastidio di tanti moti».97
In un altro scritto abbozzato e non finito, Della religione in Italia
(XI, 26 sgg.), poneva il problema, discusso poi fino alla sazietà, della
mancanza di una riforma religiosa in Italia e del conseguente scettici-
smo degli italiani. Ai prìncipi, italiani e stranieri, che si erano susse-
guiti nel nostro paese da Carlo V in poi, rimproverava soprattutto di
non aver colpito la potenza del clero e incoraggiato una riforma reli-
giosa. Anche Napoleone aveva finito col seguire le vecchie vie del
compromesso e del concordato: «A’ nostri giorni abbiamo veduto
Bonaparte incredulo, odiatore e sprezzatore de’ preti, cavarli dal nien-
te ov’erano caduti, alzarli a sua possanza che fosse perniciosissima ai
popoli, e finalmente dannosa a lui stesso».98 Ancora dopo la Restau-
razione ammoniva i prìncipi a staccarsi dall’alleanza clericale: «Male
i prìncipi si associano a’ preti, quest’associazione li rovinerà» (X, 275).
Ammonimento vano, perché di fronte al pericolo della rivoluzione i
prìncipi avevano abbandonato ogni velleità riformatrice e giuseppista
e vedevano nell’oscurantismo clericale l’unica difesa possibile dei loro
troni. Ma nell’atto stesso in cui si mostrava ancora legato a speranze
anacronistiche, il Giordani ci teneva ad avvertire che quell’appello ai
prìncipi egli lo rivolgeva non nell’interesse delle monarchie, ma dei
popoli: «Se volessi sostenere le ragioni dei re, la vita e il fine di Pie-
tro Giannone mi avvisa qual mercede dovrei aspettarne. Muovemi
l’interesse de’ popoli, ai quali importa che i principi non siano dal pre-
te impediti di fare il bene» (X, 274).
Allo stesso modo sperava ancora qualche volta di poter staccare dai
preti i nobili: «Molti beni potrebbe l’Italia ricevere dai Nobili: e infi-
niti danni ha ricevuti e riceve dai Preti. Come quei beni si possano

96
iXII, 208 (1839).
97
iCfr. G. Piergili, Notizia della vita e degli scritti del conte M. Leopardi, Firenze 1890, p. 43.
Lo scritto di Monaldo (Considerazioni sulla Storia d’Italia di Carlo Botta) apparve nella «Voce del-
la Ragione» e poi separatamente (Pesaro 1834) **.
98
iXI, 28; cfr. VII, 109: «Bisognava confessare che la rifabbricazione del potere pretesco fu
opera di Napoleone. Oh lì ebbe la vista corta!». Ammonimenti a Napoleone perché combattes-
se il clero erano contenuti nella prima redazione del Panegirico: cfr. XIV, 253 sgg., 283.
74 I. Le idee di Pietro Giordani

procurare, e questi danni rimediare intendo discorrere nel presente


ragionamento». Così doveva cominciare un suo opuscolo De’ nobili e
de’ preti in Italia (XI, 31); ma non andò oltre questo esordio. E in fon-
do egli stesso vedeva bene che nobili e preti, preti e prìncipi costitui-
vano ormai un unico blocco reazionario e oscurantista: «In Italia (col-
pa della tirannia de’ preti e de’ principi) è sempre stato piccolo il
numero di chi sappia e possa leggere» (XI, 29). Più oscurantisti di tut-
ti – non saprei dire se con ragione o soltanto perché ne aveva più diret-
ta esperienza – gli parevano i preti e i nobili della sua Piacenza. «La
nostra Società di Lettura – scriveva all’amico Leopoldo Cicognara –
può ben guardarsi come cosa misera e quasi ridicola: ma è l’unico rag-
gio di luce in quel paese bujo; è l’unica particella di civiltà di quel pae-
se scitico o africano: e ci è costata non poco travaglio per la guerra per-
fida di que’ nobilacci, e di que’ pretacci; ivi anche più che altrove
barbari e maligni; i quali non vogliono assolutamente che l’uom legga
né sappia leggere (hanno ragione)».99 E i nobili e ancor più i preti pia-
centini lo ricambiavano d’un odio feroce, e andavano dicendo che
bisognava bruciarlo vivo o chiuderlo in una gabbia di ferro!100

6. Si comprende bene perciò la sua ostilità al rifiorente cattolicismo


della Restaurazione, ostilità che appare per esempio in un accenno
sprezzante a Chateaubriand, «idolo degli sciocchi e degli ipocriti di
Francia».101 Anche il cattolicismo liberale che si andava diffondendo
dopo il 1830 gli sembrava un insidioso ritorno del vecchio oscuranti-
smo: erano «i nuovi apostoli del cristianesimo decrepito».102 Al suo
amico Giuseppe Bianchetti – come lui purista e patriota, ma simpa-
tizzante per le nuove tendenze spiritualiste – raccomandava: «Abbia-
te cura che del vostro nobil filosofare non possano presumere di cavar
armi difensive i preti, veri e incorreggibili e perpetui avversari di ogni
bene, flagelli veri e grande ignominia del genere umano».103 E lo stuz-

99
iLett., I, 279; cfr. Lett., I, 109.
100
iCfr. per esempio V, 267 e 272; XI, 207; XIII, 413.
101
iXII, 60; cfr. XI, 198; XII, 32, 168 sgg.; VII, 75 sgg.
102
iAlcune lettere inedite, Genova 1852, p. 158. Così pure a Giuseppe Ricciardi (pubbl. in «Riv.
d’Italia» 1911, vol. II, p. 973): «Cotesto furore di catolicesimo in Francia (scimiottescamente con-
trafatto dagl’Italiani) è vanità di moda? è ipocrisia? e allora con quale intendimento? persuasione
di ragionevoli non può essere». Cfr. ibid., pp. 977 (sul Mamiani), 980 (sul Lamennais).
103
iLettera del 7 luglio 1832, pubblicata da G. Gambarin, «Giorn. stor. letter. ital.» XCIII,
1929, p. 280. **
I. Le idee di Pietro Giordani 75

zicava chiedendogli: «Che pensate ** della filosofia del prete Rosmini,


che taluno chiama il primo pensatore d’Europa? E con tanti pensieri,
pensa a fondare nuova fraterìa! Al dì d’oggi!».104
Dal punto di vista della specifica preparazione filosofica, certo, era
lui poco aggiornato: lui che era rimasto fermo a Voltaire e al sensi-
smo,105 parlava di Kant con disprezzo senza conoscerlo direttamente,
e, quando voleva citare un’opera filosofica italiana che stesse alla pari
con le straniere più celebrate, ricorreva immancabilmente all’Etica di
Jacopo Stellini.106 Non diversamente Giacomo Leopardi condannava
in blocco, sulla base di vaghe notizie di seconda o di terza mano, tut-
ta la filosofia tedesca, e affermava che si può essere filosofi «senz’a-
ver letto o inteso Kant»;107 e il Romagnosi, come ricorderà più tardi
Giuseppe Mazzini, «giudicava, quasi maestro, la filosofia d’Hegel o di
tutt’altro tedesco su di un estratto francese di due pagine, cadutogli
sott’occhi»;108 e il Cattaneo stesso, benché assai più nutrito di cultura
europea, in fatto di filosofia contemporanea non si curò mai di colma-
re certe sue grosse lacune. Eppure, in quanto respingevano ogni ricor-
so al trascendente e al metafisico e propugnavano una visione del mon-
do e una cultura integralmente laiche, questi classicisti illuministi
erano davvero più avanti, anche filosoficamente, non solo di Rosmini
e di Gioberti, ma di gran parte del pensiero europeo del loro tempo. **
L’ammirazione stessa del Giordani per lo Stellini, esageratissima in
sé, diviene comprensibile quando si pensi che lo Stellini assegnava alla
morale un fondamente eudemonistico e indagava – con molto minore
originalità di Vico, ma con più chiarezza espositiva – il problema
del passaggio dallo stato ferino alla società civile.109 Lo stellinismo del
Giordani era qualcosa di analogo al romagnosismo del Cattaneo: in
tutti e due i casi, l’opera di un pensatore non grande veniva assunta
come simbolo e rappresentanza di tutto un indirizzo di pensiero pro-

104
iIbid., p. 261, n. 1 (30 settembre 1837). La «nuova fraterìa» è la congregazione dei Rosmi-
niani (Istituto della carità), fondata dal Rosmini nel 1828 e approvata poi dal papa nel ’39.
105
iSu Voltaire vedi per esempio XI, 57 sgg.; VII, 160. Quanto al sensismo, vedi la pagina
seguente, e inoltre, per Condillac, p. 79 n. 116.
106
iSu Kant vedi VI, 83. Sullo Stellini, per scegliere un solo passo tra gli innumerevoli che
si potrebbero citare, cfr. VI, 376: «Tutto quello che l’antica e la moderna filosofia può dir di
vero e di utile l’ho trovato in quella divina opera».
107
iZib., 1857 e 4304.
108
iScritti letterari di un Italiano vivente, Lugano 1847, III, p. 312.
109
iCfr. E. Garin (cit. alla nota 18), II, p. 443 sgg.
76 I. Le idee di Pietro Giordani

gressista, in polemica con le tendenze retrive che avevano ripreso il


sopravvento. Gli stessi Romagnosi e Cattaneo, pur essendosi accosta-
ti (a differenza del Giordani) direttamente a Vico, continuarono a
considerare lo Stellini come un maestro.110
Senza dubbio la prima formazione illuministica del Giordani va
ricondotta all’ambiente parmense, che nel secondo Settecento era sta-
to un tipico ambiente illuminista e classicista ad un tempo.* Là ave-
va dimorato per un decennio (1758-67), precettore del figlio del duca
di Parma, il Condillac, e là il Rezzonico aveva esposto la dottrina sen-
sista in versi classicheggianti.111 Studente a Parma dal 1788 al ’93, e
poi di nuovo nel ’95, il Giordani non poté avere rapporti diretti coi
più tipici rappresentanti della cultura parmense settecentesca; ma l’at-
mosfera intellettuale da essi creata non doveva ancora essersi dissolta.
Le lettere di argomento filosofico che tra il 1795 e il ’97, poco più che
ventenne, egli scrisse al suo ex professore Domenico Santi – di cui
ben presto era divenuto amico e addirittura consulente filosofico e
didattico – mostrano un Giordani già sensista convinto, seguace di
Charles Bonnet nel campo fisio-psicologico e gnoseologico, dello Stel-
lini nell’etica sociale; mostrano anche che l’edonismo su cui egli basa-
va la teoria delle passioni si colorava di tinte pessimistiche, che fanno
pensare a Maupertuis e a Pietro Verri.112 Tali idee non ebbero più tar-
di da parte del Giordani uno sviluppo filosofico originale; ma l’im-
portante è che egli non le abbandonò durante la Restaurazione, anzi

110
iDel Romagnosi vedi soprattutto L’antica morale filosofia ..., aggiuntavi la delineazione di
quella di J. Stellini, Milano 1831, p. v sg. e passim, e numerose menzioni dello Stellini in altre
opere (cfr. F. Luzzatto, Contributo agli studi stelliniani, Udine 1989, p. 104 sgg.). Del Cattaneo
vedi SF, I, 78, 136 sg., 260, e altrove.
111
iVedi la ben nota opera di H. Bédarida, Parme et la France de 1748 à 1789, Parigi 1928;
e, per il Rezzonico e altri letterati a Parma nel Settecento, W. Binni, Classicismo e neoclassici-
smo nella letteratura del Settecento, Firenze 1963, pp. 164 sgg.
112
iIl microfilm di queste nove lettere filosofiche, conservate tra le Carte Giordani della Pala-
tina di Parma, mi è stato gentilmente inviato dal direttore di quella biblioteca, Dott. R. A. Cia-
varella. La lettera più interessante è stata pubblicata da Anita Marradi nel «Nuovo giornale»,
Firenze 27 ottobre 1913. Ma anche le altre meriterebbero di essere rese note. Il Ferretti (P. G.
sino ai quaranta anni cit., p. 16 sgg. e passim) delinea molto bene i rapporti umani tra il Giorda-
ni e il Santi, ma quasi nulla ci dice sulla formazione ideologica del Giordani.
*iSull’ambiente illuministico parmense e sulle idee filosofiche del Giordani vedi la grossa
opera di Giuseppe Berti (diverso dal noto storico), Atteggiamenti del pensiero italiano nei Ducati
di Parma e Piacenza dal 1750 al 1850, Padova 1858-62: al Giordani è dedicato un capitolo nel
vol. II, pp. 361-88. Si tratta di un lavoro molto ingenuo e goffo, utile tutt’al più come raccolta
di materiali.
I. Le idee di Pietro Giordani 77

le accentuò sempre più in senso anticattolico e tendenzialmente mate-


rialistico; e poté quindi costituire una guida per i giovani che non si
appagavano delle varie forme di spiritualismo venute di moda.

La sua polemica anticattolica, tuttavia, era rivolta contro l’aspetto


culturalmente e socialmente retrivo del cattolicesimo più ancora che
contro l’aspetto propriamente religioso. Anzi, nonostante la sua anti-
patia per il cattolicesimo liberale e il suo scetticismo di fronte alla
democrazia religiosa dell’ultimo Lamennais,113 egli stesso non era del
tutto privo di speranza in una riforma della chiesa. Già abbiamo
accennato al suo entusiasmo per Pio IX nel ’46; ma ogni volta che
s’imbatteva in un ecclesiastico non intrigante e non nemico del pro-
gresso, non risparmiava le espressioni di giubilo: si veda per esempio
la prefazione ad un opuscolo collettivo in onore del nuovo vescovo di
Piacenza, Lodovico Loschi (XI, 36). Parecchi furono i preti con cui
mantenne ottimi rapporti di amicizia, da Giovan Battista Canova ad
Angelo Mai, ad Alessandro Checcucci, ad Antonio Cesari (con que-
st’ultimo a un certo punto si guastò, ma per motivi che non avevano
a che fare direttamente con la religione).114
E ammirò i Promessi Sposi appunto come espressione di una reli-
giosità immune da oscurantismo, aperta alle esigenze dello spirito
moderno, esercitante una benefica azione educativa sul popolo. «Se
lo guardate come libro letterario, ci sarà forse un poco da dire; secon-
do la varietà de’ gusti e delle abitudini. Ma come libro del popolo,
come catechismo (elementare; bisognava cominciare dal poco) messo
in dramma; mi pare stupendo, divino. Oh lasciatelo lodare: gl’impo-
stori e gli oppressori se ne accorgeranno poi (ma tardi) che profonda
testa, che potente leva è chi ha posto tanta cura in apparir semplice,
e quasi minchione: ma minchione a chi? Agl’impostori e agli oppres-
sori che sempre furono e saranno minchionissimi. Oh perché non ha
Italia venti libri simili!»115 E lo lodava di «aver espresso una religio-
ne che nessuno incredulo può deridere; una filosofia che nessun devo-
to può calunniare». Avrebbe tuttavia desiderato (ed era un deside-
rio evidentemente inappagabile da parte del Manzoni, la cui

113
iVedi sopra, nota 102; sul Lamennais anche VI, 175; VII, 34.
114
iCfr. A. Bertoldi, Prose critiche di storia e d’arte, Firenze 1900, p. 177 sgg.
115
iVI, 15. Cfr. VI, 14 e i Pensieri per uno scritto sui Promessi Sposi (XI, 132 sgg.).
78 I. Le idee di Pietro Giordani

individualità umana e artistica sta tutta in quel sapientissimamente


ambiguo equilibrio tra il cattolicesimo tradizionale e le esigenze inno-
vatrici e rigoriste, ma molto interessante per capire il Giordani) una
maggiore accentuazione polemica contro la falsa religione: «Poiché
tutti danno consigli a Manzoni io direi che avesse rappresentato Ren-
zo e Lucia perseguitati dalla Inquisizione: male che allora infieriva;
che noi credevamo spento per sempre, e che ora tenta di risorgere»
(XI, 134).
La sua fama di ateo (con questo epiteto lo designavano costante-
mente alcuni suoi avversari) avvalorò la leggenda che egli avesse indot-
to all’ateismo il Leopardi. Fu Monaldo Leopardi il primo a convincersi
che l’incredulità religiosa e il liberalismo politico del figlio fossero
dovuti alle nocive suggestioni di Pietro Giordani. È nota la smentita
che il Leopardi, nella lettera del 13 agosto 1819 al conte Broglio
d’Ajano, diede alle induzioni del padre, rivendicando giustamente a
sé solo la responsabilità delle proprie idee. Ma, molti anni dopo, l’ac-
cusa al Giordani fu rinnovata da Vincenzo Gioberti, che nella famosa
nota 32 alla Teorica del sovranaturale (Bruxelles 1838), dopo aver de-
plorato che uno spirito nobile e alto come il Leopardi non avesse tro-
vato pace nella fede cristiana, aggiungeva: «Un personaggio a cui l’in-
gegno, gli scritti ed il nome davano allora un’autorità grande, lo vide
e prese l’assunto di renderlo incredulo: né penò a riuscirvi per la sua
eloquenza, che doveva aver molta forza sull’immaginazione di un gio-
vane, il quale d’altra parte, dottissimo in letteratura, non era egual-
mente versato nelle materie, che spettano alla religione e alla filoso-
fia»; e asseriva di aver udito ciò direttamente dal Leopardi.
Il Giordani, appena seppe di questa insinuazione calunniosa, reagì
con sdegno; e il Gioberti, invece di confermare la sua accusa o di con-
fessare di aver detto il falso, scelse una terza gesuitica via: scrisse al
Giordani (e ad un amico di lui, Gian Francesco Baruffi) che egli ave-
va per lui un’altissima stima; che ammirava ugualmente il Leopardi;
che era capace di stimare anche chi avesse opinioni filosofiche diver-
se dalle sue: senza minimamente accennare all’unico punto in que-
stione, cioè se il Leopardi gli avesse detto o no di essere stato conver-
tito all’ateismo dal Giordani. E intanto scriveva ad altri esprimendo
ironicamente la speranza che il Giordani si risentisse contro di lui pub-
blicamente, perché «le collere del Giordani sono così eleganti, ed
anche quando sono ingiuste mi vanno talmente al sangue, che per
I. Le idee di Pietro Giordani 79

vederne qualcuna sosterrei volentieri di esserne il bersaglio»; e deri-


deva la sua fedeltà al Settecento laico e antispiritualista: «Il Giordani
che nel Panegirico a Napoleone tocca il modo con cui il celabro distilla
il pensiero, e altrove chiama magistrale un libercoletto del Condillac,116
il povero Giordani materialista, e furioso contro la dottrina cristiana,
secondo la moda che correva cinquant’anni fa, dee essersi avveduto
che in Francia, in Italia e altrove la miscredenza rabbiosa non è più
in corso, e i santi padri del secolo diciottesimo sono scaduti da quel-
l’imperio che avevan sull’opinione, il che dee renderlo di mala voglia
contro di noi».117
Negli anni successivi, la pubblicazione del Primato e le polemiche tra
Gioberti e i gesuiti ebbero il costante contrappunto dei commenti gior-
daniani, che sottolineavano l’intrinseca debolezza e ambiguità della
posizione del Gioberti e l’ipocrisia che ne era la necessaria conseguen-
za: «È veramente curiosa la goffaggine e l’impudenza di questi signori
Neocatolici, e l’audace ipocrisia colla quale vorrebbero a modo loro
rifare il mondo»;118 e a proposito dell’Apologia di Francesco Pellico
contro il Gesuita moderno: «i frati ... nella loro tanta ignoranza sono
ben più astuti del povero Prete Vincenzo. Niente mi piacque la sua
troppo lunga e vacua declamazione; che non toccò nessuno de’ punti
importanti» (VII, 136). E infine, con quella profonda limpidezza intel-
lettuale e morale che egli serbava anche nelle polemiche più aspre: «Il
povero Gioberti (se pur è di buona fede) è in perpetua e misera con-

116
iIl passo del Panegirico (VIII, 229) aveva già scandalizzato il Padre Cesari, a cui il Gior-
dani rispondeva (Lett., I, 95): «Quanto al pensiero, intendo solamente che l’abitudine della com-
plessione, o lo stato attuale del corpo possa moltissimo sulla mente, o aiutandola, o impedendo-
la nel suo operare. Il mio qualunque intelletto, se mi entra in corpo un bicchierino di rhum, è
ito». Quanto al «libercoletto del Condillac», cioè all’Art d’écrire, vedi sopra, nota 56; il Gior-
dani l’aveva chiamato «magistrale» in XI, 97.
117
iLettera del 25 maggio 1841 al Massari. La migliore esposizione della polemica Gioberti-
Giordani è quella di G. Forlini nella «Strenna dell’anno XVI dell’Ist. naz. di cultura fascista di
Piacenza» (1938). Il punto fondamentale, che dimostra la malafede del Gioberti, è questo, nota-
to dal Giordani in una sua lettera al Baruffi (Lett., II, 156): «Notate che in sì lunga lettera il pre-
te Vincenzo sfugge qualunque cenno della calunnia datami, come se questa non fosse l’unica e
vera cagione de’ miei rimproveri». Può sembrare strano che il Giordani, in quella stessa lettera,
neghi che il Leopardi «abbia fatto mai professione d’incredulità»; ma egli temeva che l’accusa di
ateismo potesse nuocere, come difatti avvenne, alla diffusione degli scritti leopardiani. **
118
iLettera a Michele Amari, 26 agosto 1843, pubbl. da A. D’Ancona, Carteggio di M. Ama-
ri raccolto ecc., I, Torino 1896, p. 121. Questa lettera all’Amari e l’altra che citiamo alla nota
seguente sono da aggiungere alla documentazione raccolta dal Forlini, alla quale rimandiamo in
generale il lettore.
80 I. Le idee di Pietro Giordani

traddizione con se stesso, come tanti altri; ma io benché abborrisca


estremamente i mezzi termini, non dirò mai Viva sant’Ignazio».119
Negli entusiasmi patriottici ancora un po’ indifferenziati del ’48,
il Giordani e il Gioberti, in occasione di una visita di quest’ultimo a
Parma, si riconciliarono. Ma soltanto dopo la morte del Giordani,
quando ebbe ripudiato il neoguelfismo, e dato al proprio cristianesi-
mo un’impronta assai più eterodossa, e assorbito (sia pure in modo
incoerente) fermenti socialisteggianti dall’ambiente francese, il Gio-
berti mutò sostanzialmente il suo giudizio sull’antico avversario: nel
Rinnovamento civile d’Italia il Giordani è spessissimo citato, non sol-
tanto come maestro di stile e di eloquenza (per questo rispetto il Gio-
berti, cattolico ma filoclassicista, lo aveva sempre ammirato), ma come
educatore e riformatore culturale, e l’amicizia tra Giordani e Leopardi
è esaltata in termini che costituiscono un’implicita ritrattazione della
vecchia accusa.120 E tuttavia è caratteristico della tortuosità giober-
tiana il fatto che nella seconda edizione della Teorica del sovranatura-
le il Gioberti tolse, sì, l’accenno esplicito al Giordani maestro di incre-
dulità al Leopardi, ma ribadì che l’incredulità non fu per il Leopardi
«un parto spontaneo della sua mente, né un frutto immediato dei suoi
studi», ma gli fu «instillata» da altri.121

In realtà (e questa è un’ulteriore prova dell’inattendibilità della pre-


tesa testimonianza giobertiana) l’ateismo del Leopardi aveva un’into-
nazione notevolmente diversa da quello del Giordani. Nel Giordani,
come abbiamo visto, l’esigenza predominante era quella a n t i c l e-
r i c a l e, mentre ad una religione moralmente pura e non nemica del

119
iCarteggio di M. Amari cit., I, p. 176.
120
iVedi specialmente – nell’edizione del Rinnovamento a cura di F. Nicolini (Bari 1911-12),
vol. II, pp. 189-191 (sull’istruzione del popolo più umile); III, pp. 81 (dove è citata con lode
un’interpretazione marcatamente laica che il Giordani aveva dato della Divina Commedia), 139
sg. (su Giordani e Leopardi; il passo si conclude così: «Dolce è il contemplare in questo gretto
e invidioso secolo la coppia generosa e unica di quei grandi intelletti, i quali, come vissero uni-
ti d’indissolubile amore, così saranno indivisi nella memoria de’ posteri»). S’intende che questa
esaltazione del Giordani e del Leopardi non si inserisce, nemmeno nel Rinnovamento, in una coe-
rente prospettiva democratica e illuminista. Il Gioberti mantiene, anche se in forma più sfuma-
ta, le proprie riserve sul materialismo e l’ateismo dei due scrittori (ibid.), e, nell’atto stesso in cui
loda le idee del Giordani in fatto di istruzione popolare, le altera e le sforza alquanto in senso
paternalistico.
121
iTeorica del sovranaturale, 2ª ed., Capolago 1850, II, p. 352. Cfr. Forlini, art. cit., p. 14
dell’estratto.
I. Le idee di Pietro Giordani 81

progresso egli, pur rimanendo personalmente ateo, non sarebbe stato


ostile. Nel Leopardi invece il motivo anticlericale era meno forte-
mente sentito (in quanto era attutito dalla sfiducia pregiudiziale ver-
so qualsiasi ordinamento sociale e politico), ma molto più fortemente
quello a n t i r e l i g i o s o. Per lui anche una religione purificata e
conciliata col progresso, anche la più nobile forma di deismo era pur
sempre da combattere, perché anch’essa mirava a illudere l’uomo e a
fargli chinare vilmente il capo dinanzi all’oppressione dell’empia natu-
ra. La sua polemica perciò si rivolgeva non tanto contro l’organismo
sociale e politico della Chiesa cattolica (pessimo, sì, ma in fondo for-
mato anch’esso di infelici e di vittime della natura), quanto contro il
concetto stesso di divinità, la quale se esistesse, sotto qualunque for-
ma, non potrebb’essere che malvagia e direttamente responsabile del
male del mondo.
Qua e là anche negli scritti del Giordani risuonano accenti di pes-
simismo, certe volte si direbbe di leopardismo; e certo la sua vita, tra-
vagliata da infermità fisiche, da ristrettezze economiche e da perse-
cuzioni, soprattutto da profonda scontentezza di sé, fu nell’insieme
una vita infelice. Ma al sentimento della propria infelicità individua-
le si accompagnava in lui una contrastata e pur tenace fiducia nell’av-
venire dell’umanità. «Io non so temperare le mie tante malinconie, se
non coll’imaginarmi futuro dopo me un mondo meno stolto e meno
misero del presente» (Lett., II, 211). In una lettera a Michele Amari
diceva che la vita è guerra continua, «della quale vedo tre stadii. Il pri-
mo è stato lungamente guerra di forza contro la forza. A noi tocca di
vivere nel secondo, di guerra della ragione contro la forza; vorrei pos-
sibile il terzo, che sarebbe il bello e buono e nobile, di contrasti di
ragione con ragione. Ma chi lo vedrà[?] [cr] ** Ella Intanto è uno degli
(oggidì sì rari) Ercoli od Ettori della povera ragione. Macte animo,
generose!»122 E nell’ardore della lotta per la ragione dimenticava tal-
volta le miserie che lo affliggevano, si sentiva trascinato da una specie
di senso religioso della laicità e del progresso: «Io vi voglio sempre un
gran bene, mio caro Baruffi; e ne ho molte cagioni: ma specialmente
vi adoro perché siete così innamorato della luce, e sì bene la predica-
te né vi lasciate smagare dai tanti intenebratori. Fiat lux, gridiamo,

122
iLett., II, 204. Cfr. XI, 330.
82 I. Le idee di Pietro Giordani

gridiamo sempre, fiat lux, fiat lux. Secondo Cristo, filii lucis voleva
dire Cristiani: come diavolo vogliono ora farlo Dio dello scuro? Fiat
lux. – Vi abbraccio di tutto cuore e prego molto che non dimentichiate
il vostro Giordani, detto l’Empio perché non ama lo scuro».123
Nell’ampio articolo sulle Operette morali del Leopardi, scritto nel
’26 per l’«Antologia» del Vieusseux ma dal Vieusseux non pubblica-
to,124 a un certo punto sembrava condividesse la visione pessimistica
dell’amico; anzi dichiarava che anche lui era «da gran tempo» arriva-
to per contro proprio alla stessa visione, e non l’aveva manifestata solo
per timore dell’incomprensione o dell’odio altrui.125 Ma subito dopo
sentiva risorgere in sé motivi di fiducia e di impegno nella vita:
** Pur nondimeno ... considero che per quanto sia minima cosa l’uomo e il suo pote-
re; ciò non ostante qualche cosa di non circoscritto, o almanco di non misurabile, si
sente nella forza e nella durata del pensiero: vedo che agl’inumerabili ed inevitabi-
li dolori ai quali fu abbandonata tutta la materia senziente, sottoponendola (per qua-
le mistero?) alle medesime ferree leggi della sorda materia inorganica; ** troppi altri
supplizi, che levare si potrebbero, ne aggiunge agli uomini o l’ignoranza, o più spes-
so l’errore: sento che il pensiero è una potenza ineffabile; e ogni potenza vuol guer-
ra, cioè incontro e rovesciamento di ostacoli: e il pensiero, combattendo colla mor-
ta e colla vivente natura, la quale se gli mostra tanto inimica, ne ha debellato pure
non poca parte, e sottomessa agli umani servigi. Reputo in fine che il supremo del
vivere si sente negli sforzi di un combattimento, o nel fuoco di un grande amore. A
questa guerra, a questa vita, a questo amore, a questo impeto (comunque ci debba
succedere) di conquistare alla povera famiglia umana qualche vero e qualche bene,
cioè qualche alleviamento di tanti guai, qualche aumento di consolazioni, vogliamo
invitare e pregare Giacomo Leopardi, e tutti gli altri ingegni che nol potendo ugua-
gliare sperino di somigliarlo.

E terminava indicando, tra i mali contro cui era possibile e dove-

123
iAlcune lettere inedite, Genova 1852, p. 189. Lo stesso motivo ritorna in una lettera cita-
ta dal Della Giovanna, P. G. e la sua dittatura letteraria, Milano 1882, p. 164, n. 1: «Tutta la gran
lite del mondo è manifesta: chi ama l o s c u r o e chi i l c h i a r o ». **
124
iXI, 149 sgg., cfr. 179. Più tardi, nel ’45, l’articolo fu in parte rimaneggiato dal Giordani
(cfr. Gussalli in I, 110), e tale appare nell’edizione del Gussalli: vi sono difatti alcuni accenni a
poesie leopardiane posteriori al ’26 (Canto notturno, A se stesso).
125
iXI, 175 sg. Abbiamo già visto (p. 76) che fin dagli anni giovanili compaiono nel Giorda-
ni non solo espressioni di malinconia, ma anche accenni di teorizzazioni pessimistiche. Ancor
più chiaramente «pre-leopardiano» sarebbe il passo sulla natura nemica dell’uomo che si trova
all’inizio del Panegirico a Canova (IX, 17 sg.), se davvero fosse stato scritto nel 1810. Ma i pri-
mi quattro capitoli di quello scritto furono rimaneggiati nel ’36 (cfr. la nota del Gussalli a IX,
16), e quindi quel passo, almeno nella forma precisa in cui lo leggiamo, sarà influenzato a sua vol-
ta dalla lettura delle Operette morali. **
I. Le idee di Pietro Giordani 83

roso lottare, quelli «de’ cattivi governi, della pessima educazione», e


il ritorno di atrocità che parevano scomparse per sempre, come la tor-
tura e l’Inquisizione.
Come si vede da questa bella pagina, il Giordani sentiva anch’egli
a fondo il motivo pessimistico del suo amico (** efficacemente espres-
so è soprattutto quell’accenno alla materia senziente sottoposta alle
ferree leggi della sorda materia inorganica); perciò la sua esortazione
al Leopardi perché partecipasse alla lotta per il progresso umano e
sociale ha un tono del tutto diverso dalle esortazioni apparentemente
simili che gli rivolgevano i vari Tommasei e Capponi. I quali in realtà
erano avversi al Leopardi perché vedevano dissolte dalla spietata luci-
dità del suo intelletto le credenze religiose in cui piaceva loro di ada-
giarsi; mentre il Giordani temeva solo che il pessimismo dell’amico
potesse tradursi in rinunzia a lottare contro l’oppressione politica e
l’oscurantismo. Questo pericolo c’era: il pessimismo del Leopardi,
progressivo, per così dire, a lunga scadenza, rischiava di avere un
effetto immediatamente reazionario. La consapevolezza che, anche
eliminati i mali derivati dall’ignoranza, dalla superstizione e dall’ar-
retrata struttura sociale, l’umanità sarebbe stata pur sempre infelice,
poteva paralizzare le lotte che l’umanità progressista sosteneva per eli-
minare intanto quei mali. Del resto, l’ultima fase del pessimismo leo-
pardiano, quella espressa nella Ginestra, fa proprie in un certo senso le
esigenze del Giordani, pur trasferendole su un piano di eroismo dispe-
rato che non può costituire una base di azione per larghe masse di
popolo. Il Giordani a sua volta, nella lettera già citata del 1845 all’A-
mari (Lett., II, 204), riprendeva il programma della Ginestra, ma con
un’intonazione meno radicalmente pessimistica: la «guerra continua
immensa» con la Natura – scriveva – «non si può mai vincere del tut-
to»; ma se ne possono «menomare le offese, mediante unione intensa
e perseverante di tutte le forze della razza umana».

7. Chi per caso abbia avuto la resistenza necessaria per arrivare a que-
sto punto del nostro saggio, dopo aver letto tutte le citazioni che vi
abbiamo inserito, si sarà già accorto che il Giordani, rètore quando vole-
va dare esempi di bello scrivere, è invece uno scrittore pieno di forza
quando ha cose da dire. Il suo ideale stilistico, come abbiamo visto, era
quello di una prosa lucida e piana, che avesse l’ingenua semplicità di
84 I. Le idee di Pietro Giordani

Erodoto e dei primi trecentisti. Questo ideale riconosceva egli stesso,


già prima dei suoi critici, di non averlo realizzato, e si rammaricava di
esser riuscito, invece che grecizzante e trecentista, latineggiante e cin-
quecentista.126 Ma, in contrasto con questa sua poetica, il suo tempera-
mento non era di scrittore candido e cristallino, ma di vivido e imma-
ginoso polemista. La sua vera musa era quel sentimento che abbiamo
visto essere al centro di tutta la sua personalità: lo sdegno contro l’o-
scurantismo e l’ipocrisia, la consapevolezza di essere dalla parte dell’in-
telligenza e della giustizia.127 Facit indignatio versus: sotto l’impulso di
questo energico sentimento, il suo periodare spesso troppo esteriora-
mente euritmico acquistava scioltezza e calore, e anche quel certo arcai-
smo e quei modi latineggianti contribuivano ottimamente a raggiunge-
re effetti di ironica magniloquenza. Si veda, per esempio, in aggiunta
al molto che abbiamo già avuto occasione di citare, questo passo di una
lettera al Cicognara, a proposito della rozzezza delle sculture dell’arco
di Augusto a Susa; e si noti come l’ironia allusiva del Giordani con-
trapponga prima la grettezza della monarchia sabauda all’alto tono del-
le monarchie più potenti, per poi rivolgersi anche contro queste:
Credo proprio che fosse la grande ignoranza e la grande miseria di sua Maestà pie-
montese Cotti, che non aveva mezzi da invitare famosi (e però buoni) artisti; e abba-
stanza buoni gli doveano parere i suoi grossi e goffi scarpellini. Ma Augusto, per
Dio, doveva dar del coglione a quella Sacra Maestà asinina; e fargli buttar giù l’ar-
co; e dirgli: non voglio esser vituperato io e il mio secolo dalle vostre goffaggini. Ma
Augusto era un principe; non asino veramente come gli altri; ma a lui come agli altri
perveniva difficilmente la verità dei fatti e la verità delle massime. Lasciamo andare
tutta questa canaglia.128

O, tra le innumerevoli variazioni che gli suggeriva la passione anti-


clericale, si legga questa classificazione zoologica dei preti: «... sicco-
me voi nella natura vegetante siete del regno animale, di Classe Ver-

126
iXIII, 356 e altrove.
127
iCiò è stato giustamente osservato dal Ferretti nell’«Enciclopedia italiana», XVII, p. 169.
Aveva mostrato, del resto, di rendersene conto già il Gioberti, pur nella malevola ironia di quel-
l’accenno all’«eleganza» delle «collere del Giordani» (vedi qui sopra, pp. 78-79).
128
iV, 206. «Cotti» è, per così dire, la trasformazione in cognome (di tipo italiano) del nome
del re Cottius. Per altri esempi di queste «modernizzazioni» ironico-allusive cfr. P. Treves, Lo
studio dell’antichità classica cit., pp. 442 n. 4, 453 n. 1; e vedi ancora VII, 65 e 67: «il teologo
Algerino» (S. Agostino) e «il biliosissimo Schiavone Girolamo» (dove, forse, c’è anche un’indi-
retta allusione al dalmata Tommaseo). **
I. Le idee di Pietro Giordani 85

tebrali, di Ordine Mammali, di Genere Umani, di Specie Preti; che è


degenerazione d’uomo».129
A dispetto del suo principio che la lingua italiana si dovesse trova-
re tutta nei trecentisti, la foga polemica gli faceva creare nuovi voca-
boli di conio alfieriano: «I ministri sono sministrati; i duchi possono
essere sducati. Io per me rido, sapendo che, se anche fossi impiccato,
non sarò mai sgiordanato» (XI, 291). E i nomi dei suoi avversari era-
no assoggettati a curiosi travestimenti, che mettevano in rilievo la loro
stupidità o la loro falsa santità. Il Tommaseo (il «vilissimo briccone»
che aveva oltraggiato Giacomo Leopardi) diventava fra Nicolò; il pa-
dre Cesari, dopo la rottura dell’amicizia, Sant’Antonio Cesari; il papa,
il Vicedio o Vicecristo (secondo il modello del Vice-Dieu di Voltaire)
**; il ministro dell’interno di Maria Luigia, Francesco Cocchi, Sua
Maialità Fra Coccone; il conte di Bombelles, «l’onagro» **.
Anche ad altri motivi, beninteso, seppe dare efficace espressione
stilistica: per esempio a quello, già accennato, della scontentezza di sé.
Negli ultimi anni la scontentezza si era mutata in rassegnato distac-
co, rotto tuttavia ogni tanto da un ritorno dell’antico spirito polemi-
co. Al pittore Nicola Monti, che dopo aver invano insistito per fargli
il ritratto lo aveva esortato a scrivere lui stesso un proprio «ritratto
interiore», rispondeva:
Che mai ti viene in mente, o mio caro, ch’io faccia un ritratto o una descrizione del
mio interno! io non ne avrei abilità, e molto meno pazienza. Io non penso a me: figu-
rati se vorrei pensarci per proporre ad altri quello che abbiano a pensare di me. Ti
basti che io riverisco ed amo cordialmente i buoni. E che io ti sono amico vera-
mente. Tutto il resto che importa? E a dir vero, o mio caro, io stesso non so bene
che diamin mi sia; e se mi mettessi a pensarci, mi confonderei. Addio, caro. Dipin-
gi lietamente; vivi lietamente: carezza il tuo buon cane. Anch’io preferisco di mol-
to i cani agli uomini. Bisognerebbe adorarli i cani per tutte le ragioni che dici e per
tante altre: sono un po’ femminieri, un po’ collerici: ma non sono impostori, non
traditori, non egoisti. Se ci fosse un paese senza preti e con monarca un cane, andrei
subito a farmi suo suddito. Oh per dio non sarebbe meglio aver padroni de’ cani che
degli Onagri?130

129
iÈ un brano del Peccato impossibile, bellissima satira sulla credenza nel concubito diaboli-
co, pubblicata dal Gussalli a Londra nel 1862. Sull’ammirazione del Carducci per questo scritto
vedi il saggio seguente, p. 101.
130
iXIV, 361. «Onagri» (non «uomini» come stampa il Gussalli) reca l’apografo nella Biblio-
teca Laurenziana, Carte Giordani, XVIII, 274 (l’autografo non risulta conservato); così anche
un altro apografo di lettere giordaniane a Nicola Monti, donatomi gentilmente dal prof. Delio
Cantimori. L’allusione è rivolta al conte di Bombelles (vedi {in questa pagina}). Dagli stessi apo-
86 I. Le idee di Pietro Giordani

Le lettere a donne – quando non trattano problemi di educazione


dell’infanzia, come quelle, particolarmente notevoli, a Caterina Fran-
ceschi Ferrucci – sono molto spesso fredde esercitazioni di galanteria,
da cui il miglior Giordani è assente. Ma i «Frammenti di copioso car-
teggio» che il Gussalli pubblicò in fondo al settimo volume dell’Epi-
stolario (e dai quali, fedele alla volontà del Giordani, espunse ogni
accenno che potesse far identificare la donna amata),131 contengono
squarci bellissimi, esprimenti un’amicizia di uomo maturo tenera e
profonda, priva di gelosia, serenamente consapevole della propria bre-
ve durata. Accanto a questi brani, il Gussalli pubblicò pensieri sull’a-
more e le donne diretti a un giovane amico (forse il Gussalli stesso?),
improntati anch’essi a una virile mestizia, in cui sembra di cogliere
un’eco di quell’esperienza sentimentale già conclusa. Basterebbero
questi frammenti, a quanto pare ben poco letti finora, a dimostrare
con quanta avventatezza si sia voluto dipingere il Giordani come
uomo incapace di passione profonda.132

8. Un uomo così ricco di idee e di umanità doveva necessariamen-


te riuscire un maestro. Quando Giacomo Leopardi gli scrisse di aver
sentito dire dal giovane Benedetto Mosca «che avea avuto maestro il
Giordani», rispose: «Né di Benedetto Mosca, né di niun altro sono
mai stato, né mai vorrò essere maestro: parola, che mi fa nausea ed
ira».133 Questa è la prova che rifuggiva da ogni paternalismo e sapeva
vedere nei giovani soltanto dei compagni nella ricerca della verità. Da
essi, anzi, sollecitava critiche, e faceva di tutto per sfatare quella fama
d’infallibilità letteraria che gli si era creata attorno. «È vero che è di
molti il voler quasi parere infallibili ... Ma quello parmi errore goffis-
simo. Non è l’errare, cioè il pensar male, che disonori; ma il non aver for-

grafi ho tratto qualche altra piccola correzione al testo dato dal Gussalli, dove, fra l’altro, man-
ca l’inciso «vivi lietamente».
131
iIl Gussalli, come è noto, mentre in certi casi si limitò a sopprimere nomi e riferimenti nel-
l’edizione, in altri, come qui, mutilò addirittura gli autografi. Tale procedimento non può non
suscitare il nostro rammarico, e tuttavia si deve ammettere che esso corrispose – tranne, forse,
qualche eccesso di zelo – alla volontà del Giordani.
132
iNon è qui il caso di passare in rassegna le amenità scritte a questo proposito dal Ridella,
dal Clerici e da altri studiosi più o meno influenzati dalla scuola lombrosiana. **
133
iEpistolario del Leopardi, ed. Moroncini, I, p. 93; cfr. ibid., p. 73, e Opere del Giordani,
VI, 379 (a Giuseppe Roberti): «Non si dica mio discepolo, ch’io non voglio esser maestro di nes-
suno».
I. Le idee di Pietro Giordani 87

za di pensare». Così scriveva al Leopardi che esitava a comunicargli


certe obiezioni ai suoi scritti.134
Ad alcuni aspetti della sua polemica contro le scuole della Contro-
riforma abbiamo già accennato. Quelle scuole le aveva sperimentate
lui stesso da ragazzo; le sperimentò una seconda volta a ventitré anni,
durante l’episodio più bizzarro e sconcertante della sua giovinezza: il
suo ritiro nel monastero di San Sisto presso Piacenza come novizio
benedettino.135 A farsi frate non era stato spinto da alcun sentimento
religioso: già allora, nel 1797, era incredulo e anticlericale, seppure
con meno decisione e chiarezza di come divenne più tardi. Si era de-
ciso a quel passo in un accesso di misantropia: tormentato da dissen-
si coi genitori e dallo strano amore per Rosa Milesi, aveva pensato che
un monastero potesse essere un luogo adatto anche a un ateo per estra-
niarsi dalle noie del mondo e meditare e studiare in solitudine. «Tu
dici – Che farai tra quegli uomini che son sì cattivi? Che potrai go-
dere? – Del mondo non godrò nulla; e poco me ne cale. Godrò la
libertà e la quiete dell’animo. Io sarò in mezzo a loro senz’aver nulla
di comune con loro».136 Ma questi propositi di isolamento e di vita
puramente contemplativa furono ben presto sconvolti dallo spettaco-
lo dei maltrattamenti che il padre Soprani, maestro dei novizi più gio-
vani, infliggeva loro. Subito il Giordani prese le difese di quei ragaz-
zi, li incitò alla ribellione, riuscì perfino in un primo tempo a far
allontanare il Soprani dal monastero. Poi naturalmente ebbe la peggio,
e dopo altre burrascose vicende lasciò il convento e rientrò nella vita
civile. Ma quell’appassionata difesa dei novizi riscatta in un certo sen-
so l’ingenua doppiezza della sua parentesi monastica e illumina di luce
simpatica anche l’unico episodio discutibile della sua vita.
Molti anni più tardi, nel ’19, intraprese la famosa azione perché
cessasse l’«infame ed esecrabile abuso di battere crudelmente i ragaz-
zi nelle scuole», con scritti veementissimi rivolti al podestà di Pia-
cenza e al governo parmense, scritti che poi pubblicò sotto il titolo,
bello per il suo antipaternalismo, di Causa dei ragazzi di Piacenza (X,
285 sgg.). Ancor più tardi riuscì, destando con lettere e opuscoli un
moto di opinione pubblica, a impedire che i gesuiti ottenessero nel

134
iEpistolario del Leopardi cit., I, p. 147.
135
iSui particolari di questo episodio vedi Ferretti, P. G. sino ai quaranta anni cit., p. 49 sgg.
136
iBrano di lettera riportato dal Ferretti, op. cit., p. 50 n. 31.
88 I. Le idee di Pietro Giordani

ducato di Parma il monopolio dell’istruzione.137 Fu anche uno dei pri-


mi a promuovere l’istituzione di asili d’infanzia. Rispondendo ad ami-
ci che gli chiedevano consigli sull’educazione dei loro figli, raccoman-
dava che l’educazione mirasse non a «predestinare», ma a lasciar
sviluppare liberamente le attitudini naturali; era contrario all’inse-
gnamento cattedratico e al far imparare cose a memoria; insisteva sul-
l’opportunità che tutti i ragazzi, anche quelli che poi avrebbero pro-
seguito gli studi, imparassero un mestiere manuale. Erano in buona
parte idee non proprie del solo Giordani, ma circolanti tra gli spiriti
più aperti di quel tempo. Le possiamo ritrovare nell’Aporti, nel Lam-
bruschini, nel Capponi. Il tono generale di questo indirizzo educati-
vo è espresso dalla bella epigrafe che il Giordani compose per una
scuola di mutuo insegnamento (XIII, 212):
Entrate lietamente o fanciulli
qui s’insegna non si tormenta
non faticherete per bugie o vanità
apprenderete cose utili per tutta la vita.

Oggi queste idee, che complessivamente possiamo chiamare rus-


soiane, sono diventate stucchevoli per il troppo ripeterle da parte di
epigoni inintelligenti; e si sente il bisogno di ricordare che il proble-
ma dell’insegnamento è meno semplicistico e meno ottimisticamente
risolubile di quanto credono i predicatori della «scuola attiva», e che
il momento della coercizione è ineliminabile dall’educazione (soltan-
to, esso va sentito come una dolorosa necessità provvisoria, da supe-
rare il più presto possibile). Ma al tempo del Giordani uno era il nemi-
co da battere: la scuola della Controriforma, e perciò in quel momento
occorreva essere unilaterali per essere concreti.
Anche sul problema educativo, del resto, non è difficile scorgere,
tra le idee comuni a tutto lo schieramento dei riformatori, alcuni trat-
ti caratteristici del Giordani. ** Innanzitutto, egli era l’unico del tut-
to libero da concezioni religiose, e quindi deciso a spingere a fondo la
battaglia per l’educazione laica, mentre un Capponi o un Lambru-
schini miravano soltanto a rigenerare l’educazione cristiana. Poi, i

137
iXIV, 90 sgg., 341 sgg., 356; Alcune lettere inedite, Genova 1852, p. 177 sgg. Cfr. S. Fer-
mi, Per la storia del movimento antigesuitico in Piacenza, in «Bollettino storico piacentino» XII,
1917, p. 13 sgg.
I. Le idee di Pietro Giordani 89

moderati toscani portavano anche nella pedagogia le loro preoccupa-


zioni sociali conservatrici; scriveva il Vieusseux al Tommaseo a pro-
posito degli asili d’infanzia: «Ma quanto ci vorrà ancora perché gli ita-
liani si persuadano dell’urgenza di simili istituti p e r l ’ e d u c a-
z i o n e m o r a l e d e l l e m a s s e c h e c i m i n a c c i a n o ?»138
Il Giordani invece capì bene che alla prima fase, in cui i retrivi e i cle-
ricali si erano opposti tout court all’istituzione di asili e ad ogni altra
forma di educazione popolare, ne era sottentrata ben presto un’altra,
in cui tali istituzioni erano fatte proprie dagli avversari di ieri, svuo-
tate del loro contenuto innovatore, utilizzate per dare alle classi infe-
riori un tipo di educazione che le mantenesse in posizione subalterna:
«Quelli che fecero contrasto al nascere degli Asili ... ora brigano di
levarli di mano a chi verso il primitivo fine li conduce; e vogliono tirar-
li a sé, e recarli a fine tutto contrario di quello per cui furono propo-
sti. Volevano privata di ogni educazione la povera plebe: adesso
vogliono che sia educata non alla società ma alla schiavitù ... Voleva-
no abbandonata a sé stessa la plebe (ed era insolente disprezzo):
vogliono rimpastarla a modo loro; maligna provvidenza di paura stol-
ta» (XIII, 58 sg.). Diagnosi che colpisce per la sua precocità e verità,
e che assegna al Giordani nella storia dell’educazione un posto parti-
colare, non ancora riconosciutogli.
Esperienza diretta d’insegnamento il Giordani ne ebbe poca, e sol-
tanto nella giovinezza. Nel periodo del monastero gli fu affidata per
breve tempo una classe di ragazzi, che (in contrasto con le solite la-
gnanze sull’indisciplina degli scolari) gli parvero troppo supinamente
ubbidienti, e quasi intontiti dalla disciplina fratesca: «Avrebbero in
verità più bisogno di un Prometeo che d’un pedante».139 Più tardi, in re-
gime napoleonico, fu per qualche mese incaricato di eloquenza all’u-
niversità di Bologna e per un anno insegnante di matematica, fisica e
giurisprudenza al ginnasio di Cesena; ma gli incarichi burocratici a cui
dovette contemporaneamente badare, le ristrettezze finanziarie e l’in-
certezza del futuro gli impedirono, a quanto appare dalle lettere di
quel periodo, di trovar gioia nell’insegnamento. Un progetto interes-
sante era quello, che concepì nel 1815, di raccogliere una decina di

138
iN. Tommaseo-G. P. Vieusseux, Carteggio inedito, a cura di R. Ciampini e P. Ciureanu,
I, Roma 1956, p. 225 (lettera del 28 ottobre 1834).
139
iLettera a Domenico Santi cit. da G. Ferretti, op. cit., p. 56.
90 I. Le idee di Pietro Giordani

giovani «che volessero far meco un corso di filosofia e di lettere ... per
avere da me in cinque anni quell’assistenza a fare un buon corso di
studi che non potrebbero nelle pubbliche scuole».140 Sarebbe stato
qualcosa di simile alla scuola di Basilio Puoti che ancora vive nelle
pagine del De Sanctis; ma con un’apertura culturale e umana tanto
maggiore. Il progetto non si realizzò perché il Giordani fu chiamato
alla redazione della «Biblioteca Italiana»; un paio d’anni più tardi,
raggiunta l’indipendenza economica, non pensò più a cattedre. Ma
attraverso le riunioni della Società di lettura di Piacenza, i colloqui,
la corrispondenza epistolare con tanti giovani che gli chiedevano con-
sigli negli studi e conforto nelle loro crisi di sfiducia e di pessimi-
smo,141 egli esercitò ugualmente una parte di maestro.
Quella sua stessa incapacità di dare compiuta espressione alle idee
che gli si agitavano nella mente, quel suo non pubblicare quasi nulla e
lasciar tutto a mezzo, rendevano forse la sua opera di maestro più
feconda. Nei giovani il Giordani vedeva i futuri realizzatori di ciò che
egli, «impedito forse più da una grande malignità di fortuna che da na-
tura», non aveva compiuto: «sicché a consolarmi cercai se forse potes-
si altrui agevolare l’altezza della quale non avevo speranza» (XI, 94).
Avrebbe voluto essere per loro quella guida negli studi che egli aveva
invano cercato da giovane.
Oh se potessimo vivere insieme – scriveva ad Antonio Gussalli (VI, 341) – non ti
sarebbe forse inutile ricevere tutti i miei pensieri; i quali compressi mi soffocano, e
moriranno con me. Oh sarei pur divenuto qualche cosa, se cominciando da ragazzo
mi avesse avviato un simile a me! Sarei pur divenuto uno scrittore, se dai principii
di gioventù avessi creduto poterlo divenire! Avrei pure speso meglio la vita, se da
principio avessi potuto vedere la strada, o avessi trovato chi me la mostrasse! Io non
ho studiato, perché in tempo non mi credetti buono ad imparare. Ho i mali dell’in-
tendere, e non ho i compensi.

9. Come egli entrasse in corrispondenza col Leopardi nel 1817, con


che confidente abbandono il Leopardi gli aprisse il suo animo nelle

140
iIII, 221 (cfr. Ferretti, op. cit., p. 154).
141
iSotto l’aspetto umano sono particolarmente belle, nonostante alcune intemperanze affet-
tive e disuguaglianze di stile, le lettere a Cesare Cabella (oltre quelle edite dal Gussalli e dal Fer-
retti, altre furono segnalate e pubblicate da G. P. Clerici in «Nuova Antologia», 16 giugno 1916,
p. 399 sgg. e 16 febbraio 1917, p. 434 sgg. e da F. Ridella, La vita e i tempi di C. Cabella, Geno-
va 1923). Ma vedi anche quelle a Pompeo Dal-Toso, Antonio Papadopoli, Giuseppe Roberti,
Antonio Gussalli.
I. Le idee di Pietro Giordani 91

prime lettere, è ben noto. Ma il significato di questa amicizia nella for-


mazione del Leopardi non è ancora del tutto chiaro, proprio per l’in-
sufficiente valutazione che dell’ingegno e della personalità del Gior-
dani hanno fatto in genere gli studiosi del Leopardi, a cominciare dal
più grande di tutti, Francesco De Sanctis. Il De Sanctis ha ceduto al
compiacimento di mettere a contrasto da un lato il grande Leopardi,
dall’altro un rètore, brav’uomo ma limitato, che ammira il suo giova-
ne amico ma in fondo non lo capisce. «L’uomo risponde al retore ...
Veggo il giovane sulla cima della piramide, e Giordani strisciare tra la
moltitudine»: così egli conclude enfaticamente un esame assai poco
obbiettivo delle prime lettere.142
In realtà il Leopardi vide fin dal principio nel Giordani non un puro
e semplice maestro di bello scrivere, ma di cultura e di umanità. A
desiderarne l’amicizia era stato spinto – lo raccontò egli stesso al Gior-
dani in una delle prime lettere –143 dalla lettura degli articoli della
«Biblioteca Italiana». Li aveva «letti e riletti una diecina di volte»,
aveva notato uno stacco assoluto tra essi e tutti gli altri articoli della
«Biblioteca»: «ora che non ci son più mi vien voglia di gittar via i qua-
derni di quel Giornale». Uno stacco di sola forma letteraria? Ma qual-
che anno dopo, quando ormai era passato il periodo del suo infervo-
ramento puristico, scriveva a Pietro Brighenti di avere riletto da poco
quegli articoli con rinnovata ammirazione: «Io penso che se molti de’
nostri sapessero scrivere in quella maniera, n o n d i c o s o l a m e n t e

142
iF. De Sanctis, G. Leopardi, cap. VIII (ed. Binni, Bari 1953, p. 60 sg.). Nelle lezioni del-
la prima scuola napoletana il De Sanctis aveva espresso sul Giordani un giudizio ammirativo, in
perfetto acccordo col suo maestro Basilio Puoti: «Il Giordani si può dire il primo oratore d’Ita-
lia ... E se l’orazione funebre è il più alto genere di prosa, bene le si conviene quella stupenda
perfezione che il Giordani ha data al suo stile. Niuno ha saputo essere tanto artificiato, e non-
dimeno parer tanto spontaneo e naturale» (Teoria e storia della letteratura, ed. Croce, I, p. 97;
per il giudizio del Puoti cfr. la testimonianza dello stesso De Sanctis, Saggi critici, ed. Russo, II,
p. 233). Quando il suo gusto letterario mutò profondamente, e al culto per la prosa aulica (e per
quella «spontaneità» raggiunta attraverso lungo e sapiente artificio) subentrò l’esigenza di uno
stile realistico e moderno, quelli che gli erano sembrati i pregi della prosa giordaniana diventa-
rono per lui gravi difetti. Ecco quindi, nelle opere desanctiane della maturità, un susseguirsi di
accenni sfavorevoli al Giordani, fino al giudizio perentorio: «Pietro Giordani, che fa tanti ritrat-
ti ed orazioni ed epigrafi, non è mai riscaldato da un soffio di vita» (Scuola democratica, cap.
VII). Mancò, da parte del De Sanctis maturo, una rilettura del Giordani, che puntasse non sugli
scritti di circostanza tanto ammirati dal Puoti, ma sugli scritti di polemica culturale e ideologi-
ca e sull’epistolario. E, del resto, se anche quella rilettura vi fosse stata, troppo forti erano ormai
le preoccupazioni «realistiche» del De Sanctis (nel duplice senso stilistico e politico-ideologico)
perché egli potesse apprezzare il Giordani. Vedi l’introduzione al presente volume, pp. 24-27.
143
iEpistolario, ed. Moroncini, I, p. 84.
92 I. Le idee di Pietro Giordani

q u a n t o a l l e p a r o l e , m a q u a n t o a l l e c o s e , la letteratura ita-
liana seguiterebbe ad essere la prima d’Europa»;144 e si compiaceva che
nell’edizione bolognese delle sue opere il Giordani non li avesse trala-
sciati, come dapprima sembrava volesse fare. In realtà, come abbiamo
visto sopra, gli articoli della «Biblioteca» sono tra i meno «letterari»
del Giordani, tra i più ricchi di idee innovatrici nel campo culturale.
Dello stile estremamente arcaizzante e artificioso che il Leopardi
predilesse nei primi scritti della conversione letteraria (e di cui è esem-
pio specialmente la traduzione dei frammenti di Dionigi, che il Leo-
pardi stesso in seguito ripudiò come scritta con ridicola affettazio-
ne)145 il Giordani non è responsabile. Quando cominciò la loro
corrispondenza, il Leopardi si era già formato quello stile da più di un
anno, ed era giunto a eccessi di purismo e di trecentismo a cui il Gior-
dani non arrivò mai. Si confronti la traduzione leopardiana di Fron-
tone e di Dionigi con quella che degli stessi frammenti di Dionigi e di
altri testi greci e latini fece il Giordani:146 si vedrà quanto più artifi-
cioso sia il Leopardi giovane: «più vicino all’abate Cesari che a Pie-
tro Giordani», dice giustamente il De Sanctis.147
La conversione letteraria del Leopardi cominciò come un fatto
strettamente, un po’ angustamente letterario: solo in un secondo
tempo si andò approfondendo, e investì non la sola forma stilistica,
ma tutta la personalità. L’amicizia col Giordani fu appunto la prima
grande esperienza, umana e culturale, che approfondì la conversione.
In questo senso vanno intese le parole del Leopardi, nella lettera cita-
ta, che gli articoli della «Biblioteca Italiana» «diedero stabilità e for-
za alla sua conversione che era appena sul cominciare», e in questo
senso non aveva del tutto torto Monaldo, dal suo punto di vista rea-
zionario, di gridare contro il Giordani che gli aveva fatto uscire dal-
la retta via politica e religiosa il figlio; sebbene, come abbiamo visto,

144
iIbid., II, p. 130 (11 maggio 1821).
145
iVedi la lettera del 27 luglio 1818 a G. B. Sonzogno.
146
iDalla sua Lettera a G. B. Canova sul Dionigi del Mai il Giordani estrasse la traduzione dei
nuovi frammenti di Dionigi, che vi aveva inserito, e la pubblicò a parte nell’edizione bolognese
delle sue opere, stampata dal Brighenti. Il Gussalli ripubblicò di nuovo tutta la lettera. Vedi qui
sopra, p. 51.
147
iG. Leopardi, ed. cit., p. 36. Strettamente «linguaiole» sono alcune osservazioni del Leo-
pardi giovane agli scritti del Giordani (lettera del 30 maggio 1817) sull’uso di «non per tanto»
e sui cognomi senza l’articolo. Questa seconda obiezione gli era stata già fatta dal Padre Cesari
(cfr. XIII, 333) e gli fu di nuovo mossa più tardi da Lazzaro Papi (XIII, 376).
I. Le idee di Pietro Giordani 93

il Giordani non avesse svolto nessuna azione diretta a tale scopo.


Su alcuni punti il Leopardi fin dall’inizio dissentì dal Giordani con
ragione: per esempio sul principio neoclassicista che l’artista non deb-
ba mai rappresentare il brutto. Questo era davvero il Giordani dete-
riore, il Giordani canoviano, che per di più appoggiava il suo gusto
neoclassico ad argomenti moralistici.148 Altre idee, invece, furono da
lui accolte e assorbite. Della formula «lingua del Trecento e stile gre-
co» abbiamo già parlato. Ancor più importa vedere come le esigenze
di un rinnovamento culturale illuministico, di una letteratura popola-
re (ma non populista in senso romantico), espresse tante volte dal
Giordani a cominciare dagli articoli della «Biblioteca Italiana», fos-
sero riprese dal Leopardi, specialmente nella lettera a Giuseppe Mon-
tani del 21 maggio 1819. Qui, anzi, sembra che il Leopardi abbia del
tutto superato quelle remore puristiche e classicheggianti che impedi-
vano di fatto al Giordani di essere uno scrittore popolare, e sia sul
punto di aderire ad un romanticismo alla Di Breme: «Per corona de’
nostri mali, dal seicento in poi s’è levato un muro fra i letterati ed il
popolo che sempre più s’alza, ed è cosa sconosciuta appresso le altre
nazioni. E mentre amiamo tanto i classici, non vogliamo vedere che
tutti i classici greci tutti i classici latini tutti gl’italiani antichi hanno
scritto pel tempo loro ... E com’essi non sarebbero stati classici facen-
do altrimenti, così né anche noi saremo tali mai, se non gl’imiteremo
in questo ch’è sostanziale e necessario, molto più che in cento altre
minuzie nelle quali poniamo lo studio principale».
Ma in realtà nemmeno il Leopardi fu mai così antitradizionalista e
anti-aulico come apparirebbe da questa lettera. Oggi certo, dopo De
Robertis, nessuno ripeterebbe il giudizio che della prosa leopardiana
(attraverso un implicito confronto con la prosa manzoniana) dava il
De Sanctis: «frutto d’ingegno solingo, e sente di biblioteca, e non esce
di popolo». E tuttavia è innegabile che questo giudizio, se riferito solo
ai momenti meno felici delle Operette, contiene una piccola parte di
vero, e che anche sulla prosa leopardiana, sebbene in misura tanto

148
iEpistolario del Leopardi, ed. Moroncini, I, p. 99 sg.; cfr. la risposta del Giordani a p.
106 sg. Che tuttavia la posizione del Leopardi non si discostasse troppo da quella del Giordani,
si vede dall’abbozzo di recensione all’Innocenzo Francucci (PP, II, 685 sgg.): il Leopardi ammet-
te che si possa rappresentare il «brutto», ma non lo «sconcio» (per esempio non la scorticazio-
ne di Marsia). Siamo sempre entro il concetto del decorum, dell’επρεπς.
94 I. Le idee di Pietro Giordani

minore che su quella del Giordani, la formazione troppo letteraria


continuò talvolta a pesare negativamente. In questo il Giordani era, si
potrebbe dire, troppo generoso col suo amico, quando diceva che nel-
le scritture del Leopardi, a differenza che nelle sue, non si sentiva
affatto lo sforzo e l’elaborazione.149 Non per questo deploreremo che
il Giordani e il Leopardi non siano passati decisamente dalla parte dei
romantici, né li accuseremo semplicisticamente di incoerenza. Il rifiu-
to del romanticismo rappresentò, da parte loro, il rifiuto di vecchi miti
che, solo parzialmente ammodernati, si ridiffondevano nell’Europa
della Restaurazione; e sul piano stilistico, quello che nei punti meno
felici della prosa leopardiana si sente come contrasto fra novità di ispi-
razione e forma aulica, nelle pagine felici, che sono le più, è miraco-
loso equilibrio, e allora il Leopardi è più grande di tutti i romantici; e
anche il Giordani, come abbiamo visto, riuscì, sebbene più frammen-
tariamente, a fare del suo stile classicheggiante una forza artistica-
mente positiva.
Questa somiglianza di formazione fece sì che il Giordani capisse per
primo la grandezza del Leopardi e continuasse a proclamarla e a difen-
derla per tutta la vita, contro l’indifferenza e l’ostilità dei più. «Cre-
diatemi», scriveva a Pietro Brighenti nel ’19, in risposta ai giudizi sfa-
vorevoli che questi aveva raccolto sulle prime due canzoni leopardiane
«che Monti, Perticari, Mai (e se credeste che il Signor Giordani fos-
se qualche cosa), riuniti tutti insieme non fanno la metà dell’ingegno
e del sapere di questo giovane di ventun anni». E tanti anni dopo,
quando il Leopardi era già morto e la sua fama incontrava tuttavia
ostacoli: «Così è: quel povero Giacomo è indigesto a tutti gli ambi-
ziosi letterati. Urit enim fulgore suo. Oh incomoda a molti questa
nostra insistenza di proclamarlo: e tanto più insisteremo».150 Si è det-
to che la sua ammirazione per il Leopardi era troppo generica e priva
di motivazioni critiche; ma le sue osservazioni sul passaggio dai primi
canti alle Operette, sul Canto notturno, sulla Ginestra dimostrano una
comprensione della prosa leopardiana e del Leopardi eroico, non orga-
nizzata, certo, in un compiuto discorso critico, ma, nella sua fram-

149
iPer esempio (tra i numerosi passi che si potrebbero citare) Lett., II, 171: «È mirabile Gia-
como in ciò; ed è poco meno che l’unico e solo, che, essendo letto, appena pochissimi e rarissimi
possano accorgersi ch’egli scriva. In me si sente; e troppo si sente».
150
iV, 26; VII, 155. Urit ecc.: Orazio, Epist. II, 1, 13.
I. Le idee di Pietro Giordani 95

mentarietà, più vera e congeniale [che l’] **interpretazione idillico-


realistica ** dell’ultimo De Sanctis.151 Si è detto che egli ebbe torto di
proclamare il Leopardi «sommo poeta, sommo filosofo, sommo filo-
logo», mentre veramente sommo era soltanto il poeta. Ma per filoso-
fia il Giordani non intendeva la filosofia in senso professionale, alla
quale, come abbiamo visto, era estraneo: intendeva una visione del
mondo coerente e libera da vecchie e nuove mitologie, e in questo sen-
so il nome di filosofo spetta al Leopardi. Quanto alla filologia, ho cer-
cato di mostrare altrove che il giudizio del Giordani era fondato e che
il Leopardi fu, se non sommo filologo, uno dei pochissimi veri filolo-
gi che l’Italia abbia avuto in quel primo Ottocento.
Questa costanza nell’ammirare il Leopardi e nel difenderne la
memoria è tanto più bella, in quanto il Giordani ebbe da un certo tem-
po in poi la sensazione che l’affetto del Leopardi verso di lui si fosse
intiepidito, e nei dieci anni che ancora visse dopo la morte del Leo-
pardi non cessò di ripensare con amarezza alla fine prematura di quel-
la grande amicizia. Finì col convincersi, assai probabilmente a torto,
che al Leopardi avesse dato fastidio di vedere gli scritti del Giordani
preferiti ingiustamente ai propri dal pubblico.
«Egli conosceva me, e conosceva se stesso: conosceva di essermi superiore, e di non
poco: e doveva ben sapere che io conoscevo me stesso e lui; e che lo sapevo e lo pre-
dicavo (come ancora fo) superiore a me ... L’ho esaltato quando nessuno lo conosce-
va; l’ho predicato quando si voleva negare o diminuire la sua innegabile e immensa
grandezza. Ma ho sempre creduto (benché non l’ho detto mai a nessuno) che gli dava
molto fastidio il parlarsi un poco più di me che di lui. Ed aveva ragione: ma io nes-
suna colpa ... E per lui che potevo fare di più, che antiporlo sempre a me e a qualun-
que? ... E non doveva capire che appunto la sua troppa grandezza lo sottraeva alla
fama, perché lo sottraeva alla misura? ... Egli mi ha invidiato e disamato; e certo non
per mia colpa. Io non l’ho mai invidiato; e sempre mi sono affaticato perché egli aves-
se sopra me e sopra tutti il suo posto nella fama. S’egli avesse più conosciuto gli uomi-
ni avrebbe veduto come non ve n’era un altro generoso e cordiale più di me ... Io non
sono più che uom mediocre; ma più conseguente e più sincero degli altri e di lui».152

Non fu certo questo il motivo principale per cui il Leopardi, che


ancora nel ’28 gli scriveva «Tu non devi scemarmi la tua benevolen-

151
iCfr. E. Bigi ne I classici italiani nella storia della critica a cura di W. Binni, II, 2ª ed.,
Firenze 1961, pp. 353 sg., 402; e le prime pagine dell’introduzione di Carlo Muscetta al Leo-
pardi del De Sanctis, Torino 1960.
152
iLett., II, 140 (11 ottobre 1839) e 162 (13 ottobre 1841).
96 I. Le idee di Pietro Giordani

za, la quale è fondata sulle qualità del mio cuore, e su quell’amore anti-
co e tenero che io ti giurai nel primo fiore de’ miei poveri anni, e che
ti ho serbato poi sempre e ti serberò fino alla morte», e ancora nel ’32
ripeteva «Io penso a te sempre, e ti adoro come il maggiore spirito
ch’io conosca, e come il più caro ch’io abbia», negli ultimi tempi smi-
se di scrivergli e parve lo avesse dimenticato. Ed è vano andare in trac-
cia di altri motivi più o meno episodici, come hanno fatto tanti stu-
diosi. Furono nuove esperienze a far passare in penombra nell’animo
del Leopardi l’amicizia per il Giordani, pur senza fargliela mai rinne-
gare; l’amore per Aspasia, la nuova amicizia per Antonio Ranieri (un
uomo di così desolante mediocrità intellettuale, ma ricco di quelle qua-
lità di successo mondano di cui il Leopardi si sentiva dolorosamente
privo). Quello che importa, è che l’amicizia tra il Leopardi e il Gior-
dani fu un momento essenziale nella vita di entrambi.
II.
Giordani, Carducci e Chiarini

Testo epigrafe, testo epigrafe, testo epigrafe, testo epigrafe,


testo epigrafe, testo epigrafe.
Nome Cognome

Nell’Italia della Restaurazione Pietro Giordani lottò assiduamente


per la laicidità e il progresso. Non si limitò a condividere le aspirazio-
ni riformatrici comuni a tutti gli spiriti aperti dell’epoca (aspirazioni a
un’educazione anticonformistica, che aiutasse l’allievo a formare libe-
ramente la propria personalità; a una cultura storica e scientifica seria,
che ponesse fine al vaniloquio delle accademie): andò oltre. Alle varie
forme di cattolicismo più o meno ammodernato che fiorivano in Euro-
pa dopo il ’15 contrappose il proprio laicismo, prosecuzione e svilup-
po dell’eredità illuministica. All’interesse dei romantici per il folclore
e la poesia dialettale (un interesse in cui elementi retrivi e progressisti
erano pericolosamente intrecciati e confusi) contrappose l’esigenza di
dare a tutto il popolo una cultura moderna. Avversò la latinomania
imperversante nelle scuole e nelle accademie italiane, ma non per que-
sto cadde in una concezione puramente utilitaristica della cultura; anzi
sostenne la necessità di studiare i classici latini – e i greci, allora tra-
scuratissimi in Italia – con rigore filologico. E animò queste idee con
la sua umanità, col suo senso profondo dell’amicizia, e fu sempre pron-
to a sostenere la causa degli oppressi con fieri scritti polemici.
E questo medesimo uomo fu un purista, anche se meno angusto di
altri. Si illuse che idee innovatrici, figlie dell’illuminismo, potessero
essere espresse in «lingua del Trecento e stile greco»; peggio ancora,
raccomandò come esempi di bello scrivere un Bartoli, un Pallavicino,
un Segneri, e l’ammirazione per il loro stile lo rese talvolta indulgente
anche per le loro idee tanto diverse dalle sue.1 Scrisse, specialmente
1
iVedi in X, 407 sgg. l’elogio del Pallavicino: lì il Giordani, dimenticando quasi la propria
ammirazione per il Sarpi (la quale risulta per esempio da XII, 171 sg.; XIII, 97 sg. **), com-
98 II. Giordani, Carducci e Chiarini

nel primo periodo della sua attività, prolissi discorsi di circostanza, in


cui dovette adattarsi a rivestire di bella forma i pensieri altrui, e solo
di tratto in tratto poté far brillare qualche frase ardita, contrastante
col tono generale. Guardò le letterature e le filosofie straniere con-
temporanee con un’ostilità che in parte, sì, dipendeva dal loro carat-
tere cristianeggiante o spiritualista, ma che in sostanza contribuiva a
perpetuare l’isolamento provinciale della cultura italiana.
Questa contraddizione, di cui egli ebbe dolorosa coscienza, ma che
non riuscì a superare, non era di lui solo, ma della parte migliore del clas-
sicismo italiano (la ritroviamo, pur su un piano tanto più alto, in Leo-
pardi); ed era, diciamo così, correlativa alla contraddizione del roman-
ticismo. I romantici avevano proclamato la necessità di una letteratura
che non avesse origini libresche, ma attingesse alla vita; i romantici ita-
liani, in particolare, avevano accentuato, in confronto ai tedeschi, que-
sta esigenza di a t t u a l i t à , di rottura con la tradizione, tanto da dare
al «Conciliatore» un’intonazione assai più illuministica che romantica
nel senso originario. E tuttavia le origini antigiacobine e spiritualisti-
che della loro ideologia impedivan loro di percorrere fino in fondo que-
sta strada, ed ecco che anch’essi, come i loro capi-scuola tedeschi, face-
vano cominciare la civiltà moderna europea non dal rinascimento o
dall’illuminismo, ma dal Medioevo, e identificavano «moderno» con
«cristiano», e il concetto di letteratura «popolare» anche nei loro scrit-
ti si caricava di tutta la pericolosa ambiguità a cui accennavamo: popo-
lo come classe rivendicante il proprio diritto a governarsi da sé e ad
avanzare sulla via del progresso, o come primitività, attaccamento alle
vecchie e buone usanze, insomma ultimo rifugio del Medioevo?
E così a sua volta il classicismo rappresentò, certo, l’attaccamento
a una tradizione letteraria fossilizzata, ma rappresentò anche, in alcu-
ni, una protesta contro le tendenze filomedievali dei romantici, una
fedeltà alla Ragione contro il sentimento mistico, un’affermazione di
laicismo: si ricordi, del resto, quanto classicheggianti erano stati, anche
in certe manifestazioni esteriori, gli uomini della rivoluzione france-
pie ogni sforzo per far apparire il suo personaggio sotto una luce simpatica anche dal punto di
vista umano e ideologico (sebbene neppure in questo scritto manchino allusioni anticlericali e
antiassolutiste). E vedi in XIII, 128 sg. una delle tante iperboliche esaltazioni del Bartoli («Il
Bartoli è unico ... non rassomigliato mai, né possibile a rassomigliare, nella qualità dell’inge-
gno»), la quale coesiste con la consapevolezza della sua sostanziale vacuità («Di lui terrete a men-
te innumerabili frasi smaglianti, niuna sentenza ripeterete: il mirabile è nel vestito non nella per-
sona. Poi niuno affetto mai in quelle tante migliaia di pagine ...»).
II. Giordani, Carducci e Chiarini 99

se. Ma naturalmente anche su questi classicisti progressisti pesavano,


specialmente in Italia dov’erano così forti, gli elementi deteriori del-
la tradizione classicista, a cominciare da una lingua aulica, troppo
distaccata dall’uso popolare e dalle esigenze del pensiero moderno.
Questi aspetti contrastanti del classicismo si ritrovano appunto negli
scritti di Pietro Giordani, e fanno sì che egli appaia ora più arcaico,
ora molto più avanzato rispetto ai tanti cattolici liberali o spiritualisti
democratici che davano il tono alla cultura europea di allora. Anche
nel campo politico e sociale egli da un lato non abbandonò mai del tut-
to certi pregiudizi assolutisti-illuminati, ricordo della sua educazione
settecentesca e della sua adesione al dispotismo riformatore napoleo-
nico: dall’altro combatté, in pratica, contro l’oscurantismo di nobili e
preti e contro le stesse monarchie assolute con decisione molto mag-
giore di tanti liberali, e assai più apertamente di loro denunciò le ini-
quità sociali e le sofferenze del popolo più umile.
Il meglio dell’insegnamento del Giordani fu assimilato e rivissuto
originalmente, per vie ben diverse, da due uomini in dissidio col loro
ambiente: Leopardi e Cattaneo.2 Molti, invece, ammirarono soltanto
il Giordani purista: uomini come Carlo Antíci, lo zio del Leopardi,
come Salvatore Betti, autore dell’Illustre Italia **, e gli altri della
«scuola romana», imitarono i lati meno felici del suo stile ma rimase-
ro impermeabili alle sue idee. D’altra parte molti progressisti, tediati
dall’oratoria di alcuni tra i suoi più celebri scritti di circostanza, but-
tarono via le sue opere senza accorgersi di quanto c’era in esse di inno-
vatore: basti ricordare il giudizio sommario del Mazzini.3 E ai più,
moderati in politica e manzoniani in letteratura, dette noia nello stes-
so tempo il classicismo e l’anticlericalismo del Giordani, la sua prosa
troppo paludata e le sue idee troppo ardite: per loro, che cosa di peg-
gio che un purista ateo?
Quest’ultima posizione, l’antigiordanismo dei moderati, era parti-
colarmente forte in Toscana dopo il ’49. A Firenze invecchiava, sem-
pre più misoneista, Gino Capponi, un tempo amico del Giordani, ma
poi l’amicizia si era interrotta e la divergenza di idee, esistente in

2
iSui rapporti Giordani-Leopardi vedi il saggio precedente, pp. 51 sgg., 90 sgg. Il Cattaneo
affermò il proprio filoclassicismo nella prefazione ad Alcuni scritti (= Sl, I, p. 3 sgg.), con accen-
ti che ricordano molto da vicino il Giordani, benché senza nominarlo. Vedi sopra, p. 67, e {il
penultimo} saggio del presente volume.
3
iScritti letterari di un Italiano vivente, Lugano 1847, III, p. 301 n. 1.
100 II. Giordani, Carducci e Chiarini

realtà fin dall’inizio tra il Giordani e tutto il gruppo dei moderati fio-
rentini, si era fatta più chiara.4 Si capisce quindi come l’«Archivio sto-
rico italiano», pur mantenendo un tono rispettoso per lo scrittore
morto da pochi anni, facesse delle riserve sul valore di alcuni suoi
scritti e sull’opportunità di pubblicarne l’epistolario, come aveva co-
minciato a fare dal ’54 Antonio Gussalli.5 In un altro periodico fio-
rentino, lo «Spettatore», Ruggiero Bonghi pubblicò per la prima vol-
ta quelle Lettere critiche (Perché la letteratura italiana non sia popolare in
Italia) in cui tutti i difetti dello stile giordaniano sono individuati con
grande chiarezza, e giustamente è criticata l’ammirazione del Giorda-
ni per Daniello Bartoli, ma nessun accenno si fa al valore delle sue idee
di riforma culturale.6
In questa atmosfera il gruppo degli «amici pedanti» (Carducci,
Chiarini, Gargàni, Targioni-Tozzetti)* iniziò a Firenze la battaglia
contro i tardi romantici proclamando sommi modelli, l’uno per la poe-
sia, l’altro per la prosa, il Leopardi e il Giordani. Fu precisamente
Giuseppe Chiarini il primo ad ammirare il Giordani e a farlo conosce-
re agli amici.7 Nei loro primi scritti, gli omaggi ad Antonio Gussalli,
depositario dell’eredità giordaniana, si alternavano ad aspre invettive
contro i detrattori del Giordani. Di tali scritti, e di tutte le polemi-
che che ne seguirono, dà precise notizie Stefano Fermi nel suo saggio
su Pietro Giordani e gli «amici pedanti».8 Del Carducci sono special-
4
i** La rottura col Capponi nel 1830 ebbe origine da un malumore forse ingiustificato del
Giordani (vedi G. Forlini, Il soggiorno fiorentino di P. Giordani, ne «L’Arca», luglio 1954, p. 4
sgg.) **; ma la divergenza di idee preesisteva. Sull’ostilità del Capponi verso i filogiordaniani
«amici pedanti» vedi M. Tabarrini, G. Capponi, Firenze 1879, p. 352.
5
i«Archivio storico italiano», nuova serie, I, 1855, parte I, pp. 185 sgg. Cfr. anche «Il pas-
satempo», I, 1856, p. 127 sg. In parecchi punti della sua edizione giordaniana il Gussalli sfogò
la sua amarezza per le accoglienze sfavorevoli che essa aveva ricevuto (per esempio tomo VIII,
p. IX sgg.; XIV, pp. 138, 532). **
6
iR. Bonghi, Lettere critiche, Milano 1856, pp. 7 sg., 14, 18, 43 sg., 45, 107 sg., 123 sgg.
7
iG. Chiarini, Memorie della vita di G. Carducci, 2ª ed., p. 59: «Il Giordani, del quale a poco
a poco inoculai l’ammirazione anche agli altri».
*iAccanto all’influsso del Giordani e del Leopardi sugli «Amici pedanti», va tenuto presente
l’influsso, in parte (ma solo in parte) concomitante, del Tenca: vedi U. Bosco, Giusti, Tenca, Car-
ducci, in Realismo romantico, Caltanissetta 1959, p. 111 sgg.; in questo saggio sono anche ben
distinte le varie fasi dell’atteggiamento del Carducci nei riguardi del romanticismo. ** Vedi ora
anche l’accurato studio complessivo di E. Circeo, Carducci e Leopardi, in «Giorn. stor. lett. ital.»
CXLV, 1968, pp. 573 sgg. **
8
iS. Fermi, Saggi giordaniani, Piacenza 1915, p. 1 sgg., con aggiunte a p. 159 sg. Vedi anche,
per il carteggio tra Chiarini e Gussalli, A. Pellizzari, G. Chiarini, Napoli 1912, pp. 20 sgg., 58 sgg.
e, per tutto l’ambiente degli «amici pedanti», l’ampio e ben documentato studio di Piero Tre-
II. Giordani, Carducci e Chiarini 101

mente da ricordare il sonetto «Qual tra le ingiurie di Fortuna e i dan-


ni», poi incluso negli Iuvenilia, e la raccolta, da lui compiuta per il
volume XIV dell’edizione Gussalli, dei giudizi critici sparsi nell’epi-
stolario giordaniano; del Chiarini, due scritti dedicati al Gussalli9 e
due articoli sulle opere del Giordani.10 Paragonando la prosa del Gior-
dani a quella del Leopardi, il Chiarini manifestava, sia pure con una
certa cautela, la sua preferenza per la prima: «Io, quando non debbo
dare il primo luogo al piacentino, li dirò almeno eguali. Ché se è uni-
ca quella perfetta esattezza e semplicità lucidissima del Leopardi, con-
veniente alla esattezza del filosofico ragionare, io sento più calda più
splendida più varia la prosa del Giordani».11
Il giordanismo degli amici pedanti era certamente ben diverso da
quello della scuola romana; la loro ammirazione non andava solo al
Giordani stilista, ma anche al suo patriottismo e al suo odio per «pre-
ti e tiranni». «Imparammo da lui – scriveva il Chiarini – come si può
stare al mondo non vili, come si può spendere in degne cagioni la vita,
come giovare ai lumi e contendere coi tristi e debellarli; e come in que-
sta guerra a pro’ della umana famiglia han loro ufficio le lettere». E il
Carducci, letto il Peccato impossibile, esclamava: «Che grande e splen-
dido e terribile nemico di tutti i vili nemici del genere umano era quel
Giordani: il solo veramente libero di tutti gli scrittori italiani moder-
ni».12 ** Nel discorso Di un migliore avviamento delle lettere moderne
al proprio loro fine,13 che più tardi, rifatto nel ’76, s’intitolò Di alcune
condizioni della presente letteratura, il Carducci faceva propri i giudizi
del Giordani sul carattere popolare della letteratura trecentesca, sul-
l’estraniarsi della classe dotta dal popolo nel Rinascimento, sulla ne-
cessità che la nuova letteratura parlasse di nuovo a tutta la nazione.
Tuttavia anche nel Chiarini e nel Carducci giovani – per non par-
lare del Gargani, il più chiuso e arcaizzante – i pensieri del Giordani

ves, L’abate Giuseppe Tigri e la cultura toscana, ne L’idea di Roma e la cultura italiana del sec.xix,
Milano-Napoli 1962, p. 145 sgg.
9
iRiportati da Guido Mazzoni in G. Chiarini, La vita di U. Foscolo, Firenze 1910, p. XIV sgg.
10
iDegli scritti editi e postumi di P. Giordani, nel «Poliziano», I, 1859, p. 96 sgg.; recensione
al vol. XIV delle Opere, nella «Rivista ital., di scienze, lettere ed arti colle effemeridi della Pubbl.
Istr.», IV, 1863, pp. 273 sgg., 305 sgg.
11
iNel «Poliziano» cit. alla nota precedente, p. 106.
12
iLettere, ed. nazionale, III, p. 333 (al Chiarini, 4 maggio 1863); cfr. Chiarini in «Rivista
italiana» cit., IV, p. 274.
13
i«Il Poliziano», I, 1859, pp. 10 sgg., 65 sgg.; vedi specialmente p. 67 (ora in Opere, ed.
nazionale, V, p. 265 sgg.).
102 II. Giordani, Carducci e Chiarini

rivivevano in una forma più angusta: il patriottismo, l’anticlericali-


smo, che il Giordani aveva concepito in funzione di un rinnovamen-
to culturale illuministico, tendevano a restare fine a sé stessi, oggetto
di declamazioni e di «sparate» truculente. Né essi cercavano di libe-
rare i motivi vitali del Giordani dalle scorie puristiche, anzi le aggra-
vavano. «Modificare la sostanza di una letteratura si può senza dan-
no, quando un vero progredimento della civiltà lo comandi; mutare la
forma, cioè la maniera di esprimersi, non si può», sentenziava il Chia-
rini, con una recisione che il Giordani non avrebbe certamente con-
diviso.14 E il purismo, il classicismo, il nazionalismo culturale – uniti
a quella mancanza di spirito filosofico che costituiva la più grave tara
della cultura toscana – stonavano, naturalmente, nel ’59 assai più che
venti o trent’anni prima, e mettevano il gruppetto dei «pedanti» in
una situazione di svantaggio di fronte alla nuova cultura di De Sanc-
tis e Spaventa, nutrita di filosofia europea, o al gruppo milanese di
Cattaneo e Ferrari, che sviluppava anch’esso, come abbiamo accen-
nato, ma su un piano assai più alto, certe esigenze giordaniane.
Anche l’interesse per la storia di alcune forme stilistiche e metriche,
che il Carducci, come è stato osservato recentemente da Gianfranco
Folena,15 derivò in parte dal Giordani, e che costituiva un’indubbia
originalità rispetto al De Sanctis, rimase sempre un interesse filologi-
co-retorico, non divenne mai vera e moderna filologia,16 e questo fu un
grave danno per l’ulteriore sviluppo della filologia italiana.
Ma pur con tutte queste riserve, bisogna riconoscere che l’avere
scelto a maestri il Giordani e il Leopardi significò per il Carducci e il
Chiarini la rottura coi pregiudizi religiosi e con un certo moderatismo
buonsensaio, e facilitò grandemente la loro evoluzione democratica.
Più tardi, come è noto, altre esperienze culturali (specialmente il con-
tatto coi poeti e gli storici della rivoluzione francese, e con Goethe e
con Heine) vennero ad affrettare tale evoluzione. Il Chiarini, pur così
inferiore artisticamente al Carducci, e di statura modesta anche come
critico, fu però più pronto ad assimilare certi nuovi indirizzi culturali,

14
i«Il Poliziano» cit., p. 105. Vedi quanto più articolata e ricca di distinzioni fosse la posizione
del Giordani, per esempio in XI, 10 sgg., o, ancora più, nell’abbozzo di Storia dello spirito pub-
blico d’Italia considerato nelle vicende della lingua (IX, 105 sgg.).
15
iNella presentazione alle Orazioni scelte del sec. xvi a cura di G. Lisio, Firenze 1957,
p. VIII sg.
16
i«Una filologia nata in ipso sinu rhetoricae», dice giustamente il Folena.
II. Giordani, Carducci e Chiarini 103

che poi trasmise all’amico. E noto che dal ’70 in poi, ripudiando le sue
giovanili tirate contro i poeti francesi, egli dedicò molta parte della sua
attività allo studio delle letterature straniere. Meno noto è che fin dal
’65 recensì entusiasticamente Forza e materia di Büchner – e anche qui
il materialismo del Frammento apocrifo di Stratone di Lampsaco, e l’an-
tioscurantismo di molte pagine del Giordani, sono alla base di tale
entusiasmo –.17 E non solo fu, come il Carducci, repubblicano, ma
assai più di lui sentì le ingiustizie sociali che accompagnavano anche
in Italia lo sviluppo del capitalismo; e si rifiutò, nonostante la grande
ammirazione per il Carducci, di seguirlo nella triste involuzione filo-
monarchica e cortigianesca dal ’78 in poi.18 La riforma scolastica che
egli progettò negli anni in cui fu direttore generale della pubblica
istruzione mirava a ridurre l’insegnamento del latino e del greco, a svi-
luppare l’istruzione scientifica: suscitata da necessità attuali, era, nel-
lo stesso tempo, d’accordo con quanto aveva sostenuto tanti anni pri-
ma il Giordani negli articoli della «Biblioteca italiana» e in altri
scritti.
Dalla prosa aulica dei primi anni il Chiarini, a differenza del Car-
ducci, finì col distaccarsi completamente; anche in poesia predilesse
un umile e patetico, e spesso sciatto, verismo. È quindi naturale che il
suo entusiasmo per il Giordani prosatore andasse diminuendo dopo
il ’70,19 finché, in un saggio del 1885,20 egli dette sullo stile giordania-
no un giudizio abbastanza limitativo. «A me – scriveva fra l’altro –
pare di scorgere nel Giordani una contradizione singolare fra il giu-
dizio ed il gusto; come scrittore, egli mi fa l’effetto di un uomo che
ragionando si persuade che i cibi semplici sono i migliori, e che quan-
do si mette a tavola preferisce gl’intingoli. Guidato dal giudizio, loda
ed ammira in altri la naturalezza, e la semplicità dello scrivere, e bia-
sima in sé l’assenza di queste qualità e la presenza delle contrarie;21 si

17
i«Rivista ital. di scienze, lett. ed arti», VI, p. 39. Lo Stratone di Lampsaco è esplicitamente
ricordato dal Chiarini.
18
iG. Mazzoni, in G. Chiarini, La vita di U. Foscolo, Firenze 1910, p. XXIV sgg., e nella pre-
fazione alla 5ª ed. delle Memorie della vita di G. Carducci, Firenze 1935, p. XI sgg.
19
iVedi le testimonianze nell’articolo cit. di S. Fermi, p. 19 sgg.
20
iG. Chiarini, P. Giordani: i primi anni e i primi scritti, nella «Nuova Antologia», 16 set-
tembre 1885, p. 226 sgg. (il passo da noi riportato è a p. 241). Quest’articolo doveva essere il
primo capitolo di una biografia del Giordani, che il Chiarini non condusse a termine.
21
iIl Chiarini allude per esempio a XIII, 356; Lett. II, 171. Cfr. qui sopra, pp. 60 sg., 83-
84, 93-94 n. 149.
104 II. Giordani, Carducci e Chiarini

mette a scrivere, e il gusto lo porta a seguitare nella mala via. Non dico
che non sia sincero quando accenna le cagioni che gl’impedirono di
correggersi; ma dico che la volontà di correggersi non dové mai esse-
re molto forte, e che seguitò a scrivere artificioso e raffinato, perché in
fondo lo scrivere artificioso e raffinato gli piaceva. Non è ammissibile
che s’egli avesse voluto assolutamente correggersi, non gli fosse, alme-
no in parte, riuscito; ma si capisce come la volontà, se non fu mai for-
te, dovette divenire anche più debole, quando quel suo modo di scri-
vere gli acquistò nome di primo prosatore italiano. Anzi allora la
volontà dovette cessare affatto; e giudicando da’ suoi scritti, si vede
ch’egli non ebbe d’allora in poi altra cura che di perfezionare e, qua-
si direi, cesellare e brunire quella sua maniera di prosa».
L’osservazione, nel suo buon senso, contiene qualcosa di vero; si
deve però aggiungere che in molte prose polemiche, in molte espres-
sioni di scontentezza di sé e dei suoi tempi, il Giordani riesce a tra-
sformare in forza positiva gli stessi aulicismi e arcaismi, a fonderli in
un impasto stilistico tutto suo: perciò egli non avrebbe potuto seguire
il semplicistico consiglio di buttar via senz’altro il proprio stile aulico
e mettersi a scrivere terra terra.22
Fino all’ultimo, invece, rimase nel Chiarini l’ammirazione per il
Giordani educatore, patriota e difensore degli oppressi. Anche in que-
sta ammirazione si potrebbe notare una certa genericità, un porsi da
un punto di vista più morale in senso stretto che storico-culturale e
politico, e quindi un mancato approfondimento di ciò che il Giorda-
ni significò per la cultura italiana. Ma su questa facile osservazione
non sarebbe giusto insistere con professorale sussiego: l’amore del
Chiarini per il Leopardi e il Giordani rimane uno dei più bei tratti del-
la sua personalità così schietta e simpatica: quest’amore gli ispirò,
alcuni anni dopo, la Vita di Giacomo Leopardi, che è ancor oggi la sola
biografia leopardiana che si legga volentieri, la sola che simpatizzi
decisamente per il protagonista e non per Monaldo, per Adelaide
Antici, per i moderati toscani. In quella biografia anche la figura del
Giordani, in rapporto al Leopardi, è delineata assai bene.
La scelta di scritti del Giordani curata dal Chiarini fu pubblicata
per la prima volta nel 1876 presso l’editore Vigo di Livorno;23 fu

22
iCfr. qui sopra, pp. 22.23, 83-84.
23
iProse scelte di P. Giordani proposte come libro di lettura alle scuole liceali, p. 526.
II. Giordani, Carducci e Chiarini 105

ristampata nell’80; riapparve notevolmente modificata nell’89 presso


Sansoni.24
Già la prefazione all’edizione del ’76 rivela che il distacco del Chia-
rini dall’ideale aulico degli anni giovanili era bell’e avvenuto. «Anche
nell’arte di scrivere – osservava il Chiarini –25 ... prevalgono oggi fra
noi certe dottrine, che non sono interamente quelle che ai tempi del
Giordani si avevan per buone: e tutti, un po’ più un po’ meno, siamo
intinti nella pece di queste dottrine, che, a dir vero, hanno molta appa-
renza di essere ragionevoli». E proseguiva (e il seguito fu da lui ripro-
dotto anche nella prefazione all’edizione sansoniana) dicendo che non
solo la prosa del Giordani, ma anche quella del Leopardi è troppo
discosta dall’uso popolare (p. VII); c’era tuttavia adesso, secondo lui,
il pericolo di un manzonismo troppo esclusivo, di un oblio troppo tota-
le della grande tradizione classica: perciò, come antidoto, egli propo-
neva la lettura del Giordani nelle scuole secondarie.
Questa destinazione scolastica del libro influì inevitabilmente sul
criterio della scelta. Pur affermando di aver voluto che gli scritti pre-
scelti «rappresentassero, nel suo meglio, non solamente lo scrittore,
ma anche l’uomo, che è nel Giordani non meno rispettabile dello scrit-
tore, ed è una sola cosa con esso» (p. XI), il Chiarini non poté fare a
meno di escludere gli scritti più aspramente anticlericali, come le sati-
re sul Procerismo e sul Peccato impossibile,26 l’opuscolo Per le legazio-
ni,27 gli abbozzi dei discorsi Al Saurau, Della religione in Italia e Se deb-
bano impedirsi gli studi ai poveri,28 i Discorsi alla società di lettura di
Piacenza,29 la Lettera a G. Vicini,30 gli scritti contro i gesuiti31 e mol-
tissime delle più belle lettere private, parecchie delle quali, copiate e
diffuse più o meno clandestinamente, assumevano il carattere e l’ef-
ficacia di lettere aperte.32 Certe espressioni contenute in questi scrit-

24
iCfr. M. Parenti, G. C. Sansoni, Firenze 1955, pp. 93, 99, 102 sg.
25
iEd. di Livorno cit., p. VI.
26
iIl Procerismo in XII, 105 sgg.; sul Peccato impossibile vedi qui sopra, pp. 84-85, 101.
27
iIX, p. 310 sg.
28
iX, 248 sgg.; XI, 26 sgg.; XII, 208 sgg. (sulla questione del non impedire lo studio ai poveri
vedi anche XIII, 57 sg. e qui sopra, p. 69).
29
iX, 391 sgg.; XI, 34 sgg., 40 sgg., 180 sgg., 209 sgg.
30
iXI, 205 sgg.
31
iXIV, 83 sgg.; cfr. le lettere del medesimo periodo (1839-40), e gli altri scritti citati dal
Gussalli, XIV, 84. Su tutti gli scritti qui rapidamente menzionati si veda il saggio precedente.
32
iCiò fu messo giustamente in rilievo da G. Tribolati, Saggi critici e biografici, Pisa 1891,
p. 330, e già prima da L. Scarabelli in «Archivio storico ital.» app. VI, 1848, p. 435. Un gesuita
106 II. Giordani, Carducci e Chiarini

ti dell’«empio Giordani» sarebbero apparse troppo forti anche nella


scuola italiana di fine Ottocento, pur molto più laica dell’attuale: tan-
to più che in molti di essi vi sono spunti di polemica sociale espressi
in un linguaggio veemente. Così pure il Chiarini dovette ritenere trop-
po polemici gli articoli contro lo Zajotti33 e contro le calunnie del
Tommaseo al Leopardi;34 troppo difficili per una scuola secondaria gli
scritti di riforma culturale pubblicati nella «Biblioteca Italiana».35 Un
notevole miglioramento rispetto alla prima edizione livornese fu l’in-
clusione di una quarantina di lettere; un peggioramento, l’esclusione
della Causa dei ragazzi di Piacenza,36 che è uno degli scritti più belli del
Giordani e, io credo, dei più adatti alla scuola.
** Molto del migliore Giordani è dunque assente da quella raccol-
ta, proprio perché il migliore Giordani è quello degli scritti polemici.
E tuttavia già lì c’è materia bastante per cominciare almeno a capire
che il Giordani non è quale lo presentano le odierne storie letterarie.
Si leggano soprattutto le sezioni seconda e quarta: «Scritti varii» e
«Lettere», e alcune iscrizioni. Non ci si lasci spaventare dalla prolis-
sità dei «Discorsi ed elogi» coi quali l’edizione chiariniana si apre. In
questi il Giordani è, come abbiamo accennato, portavoce di idee e
sentimenti in parte non suoi. I più di questi discorsi, inoltre, appar-
tengono all’epoca napoleonica, in cui il Giordani non aveva ancora
raggiunto l’indipendenza di giudizio che mostrò in seguito, dal ’14 e
specialmente dal ’34 in poi;37 molti trattano di arti figurative, un cam-
po in cui il Giordani soprattutto ci appare invecchiato, per il suo gusto
rigidamente neoclassico che oggi nessuno può condividere. Eppure
anche in essi troviamo qualche preannuncio del Giordani migliore:
vedi quelle puntate contro i monarchi, i preti, i ricchi che qua e là
interrompono la cerimoniosità dei discorsi ufficiali;38 vedi nell’Inno-
cenzo Francucci (IX, 180 sgg.) quell’interpretazione allegorica di leg-

o filogesuita che si firmava Filarete gli scriveva: «Voi, singolare in tutto, solete non pure, come
praticano gli altri uomini, mandare le vostre lettere a cui sono indirizzate, ma anche qua e colà
in processione da essere ammirate dai vostri divoti» (Firenze, bibl. Laurenziana, carte Giorda-
ni, XXII, 57).
33
iXII, 50 sgg.
34
iXII, 199 sgg.
35
iSi trovano nei tomi IX e X delle Opere. Uno solo, quello sugli improvvisatori, fu ristam-
pato dal Chiarini (p. 133 sgg. dell’edizione del 1889).
36
iX, 285 sgg.
37
iIl 1834 è l’anno della sua carcerazione (vedi qui sopra, p. 66).
38
iVedi qui sopra, pp. 71-72.
II. Giordani, Carducci e Chiarini 107

gende antiche, mantenuta su un tono di sorridente empietà e miso-


ginìa, di un’eleganza settecentesca inconsueta nel Giordani, rotta però
a un certo punto dall’invettiva contro Apollo persecutore di Marsia (p.
193 sg.), in cui esplode lo «sdegno giusto» contro i persecutori moder-
ni, condannati dalla «coscienza libera del genere umano».
Uno dei compiti che oggi si pongono agli storici della cultura ita-
liana dell’Ottocento è uno studio più approfondito della corrente clas-
sicista: non per rivalutare il classicismo in quanto tale, che è definiti-
vamente morto, ma per individuare meglio i motivi progressisti che
vi erano in quel movimento, e che si contrapponevano ad alcuni aspet-
ti retrivi del romanticismo: per capire sempre più a fondo come da
un’educazione classicista, non mai rinnegata sostanzialmente, sia
venuto su un uomo più grande e più moderno di tutti i romantici, Gia-
como Leopardi. In una prospettiva di questo genere acquisterà un par-
ticolare interesse e rilievo la figura di Pietro Giordani; e anche il gior-
danismo minore di Giuseppe Chiarini avrà la sua giusta collocazione.39

39
iTra gli studiosi del Giordani posteriori al Chiarini vanno ricordati soprattutto Stefano Fer-
mi, Giovanni Ferretti e Giovanni Forlini. È quasi esclusivamente merito loro se si è mantenuta
una tradizione di studi giordaniani. Del Fermi vedi specialmente i Saggi giordaniani (Piacenza
1915) e lo studio su P. Giordani e G. D. Romagnosi nella polemica tra classici e romantici («Arch.
stor. per le province parmensi», 1949-50, p. 247 sgg.): una bibliografia completa dei suoi scritti
è nel «Bollettino storico piacentino», XLVII, 1952, fasc. 3-4. Sui meriti e su alcuni limiti del Fer-
retti come studioso del Giordani vedi sopra pp. 37 sgg., 44. Del Forlini si veda lo studio Orien-
tamenti culturali e atteggiamenti critici nella prima metà del secolo xix (in «Convivium», 1952, p.
707 sgg.) e molti preziosi articoli sui rapporti tra il Giordani e altre personalità dell’Ottocento
(Gioberti, Manzoni, Colletta ecc.) pubblicati in varie riviste. Il Forlini sta ora preparando una
bibliografia giordaniana che costituirà un indispensabile strumento di studio.
III.
** Alcune osservazioni sul pensiero del Leopardi

Testo epigrafe, testo epigrafe, testo epigrafe, testo epigrafe,


testo epigrafe, testo epigrafe.
Nome Cognome

1. Il fatto nuovo degli studi leopardiani nel secondo dopoguerra


consiste, come è noto, nell’attenzione che si è rivolta al pensiero e alla
cultura del Leopardi. Il ripudio di una critica letteraria troppo rin-
chiusa in una considerazione puramente estetica dell’opera d’arte,
troppo preoccupata soltanto di sceverare poesia da non poesia, è sta-
to certamente un fenomeno generale di quest’ultimo ventennio; ma ha
assunto un particolare valore nel caso del Leopardi, poeta-pensatore
avversato per il suo materialismo e pessimismo dai moderati toscani e
da Benedetto Croce, e proprio in odio a tali sue idee ridotto a poeta
«idillico»: poeta, cioè, solo nei fugaci momenti in cui dimentichereb-
be la propria amara filosofia.
Il merito di aver distrutto questo cliché (che, nella forma brutale in
cui era stato presentato da Croce in un famigerato saggio, aveva susci-
tato perfino tra i critici più crociani perplessità e resistenze) spetta a
due saggi usciti nello stesso anno 1947: il Leopardi progressivo di Cesare
Luporini e la Nuova poetica leopardiana di Walter Binni.1
Nel saggio del Luporini lo studio del pensiero leopardiano era per la
prima volta condotto al di là dell’onesta ricostruzione erudita (Losac-
co, Zumbini, Tocco, Porena) e dell’adesione sentimentale, immedia-
ta e astorica (Graf, Amelotti, Tilgher).2 Non sono mancati al Lupori-

1
iC. Luporini, Leopardi progressivo, in Filosofi vecchi e nuovi, Firenze 1947, p. 183 sgg.; W.
Binni, La nuova poetica leopardiana, Firenze 1947, 2ª ed. 1962.
2
iNaturalmente ciò non implica alcuna disconoscimento dei contributi di codesti studiosi.
In particolare il volumetto del Tilgher (La filosofia del Leopardi, Roma 1940) contiene, accanto
a forzature facilmente riconoscibili e isolabili, un’espressione lucidissima di alcuni concetti fon-
damentali del pensiero leopardiano: distinzione fra primitività e barbarie, materialismo, critica
III. Alcune osservazioni sul pensiero del Leopardi 109

ni rimproveri di unilateralità e di forzatura ideologico-politica. In che


senso si possa, anche a nostro parere, parlare di unilateralità, cerche-
remo di precisare in seguito. Ma intanto dobbiamo dire che, nella for-
ma in cui viene espresso talvolta (di avere, cioè, presentato un Leopar-
di «precursore del marxismo»), quel rimprovero non è accettabile. I
punti di riferimento adottati da Luporini per valutare il «progressi-
smo» del Leopardi sono l’illuminismo e il romanticismo, il concetto di
Natura hobbesiano e russoiano, la «delusione storica» suscitata dalla
fine dell’esperienza rivoluzionaria e napoleonica. Le acquisizioni più
importanti del saggio luporiniano sono la valutazione del Leopardi
come «moralista», il chiarimento del valore essenziale che il concetto
di «vitalità» ha nella prima fase del pensiero leopardiano, la netta
distinzione tra il pessimismo materialistico del Leopardi e i pessimi-
smi romantico-esistenzialistici di cui è ricco l’Ottocento europeo. Nes-
suna forzatura antistorica vi è in tutto ciò, a meno che non si voglia
considerare antistorico il possesso stesso di un criterio valutativo, di
un impegno critico-pratico da parte dello studioso. Bisogna, anzi, dire
che il Luporini ha sottratto per primo lo studio del pensiero leopar-
diano alle analogie brillanti ma fallaci con tutti gli «spiriti tormenta-
ti» del passato, da Sant’Agostino a Pascal ai romantici e ai decadenti
del secolo scorso; e ha fatto, con ciò, opera di storico rigoroso.
Una forzatura nell’interpretazione del pensiero politico leopardia-
no c’era stata, più che da parte del marxista Luporini, da parte del
democratico Salvatorelli, che aveva visto nell’ultimo Leopardi «il pre-
sentimento del socialismo, della Società delle nazioni», dello «stato
scientifico»; e ancor prima, alla fine dell’Ottocento, da parte del
Romano-Catania (lo studioso di Filippo Buonarroti) e del Carducci,
con quel suo curioso «Diciamocelo in un orecchio: s’accostava al socia-
lismo».3 Il Luporini, è vero, nella conclusione del suo saggio citava con

dell’antropocentrismo. Tra gli studi su singole questioni, merita un particolare risalto quello di
F. Neri, Il pensiero del Rousseau nelle prime chiose dello Zibaldone, «Giorn. stor. letter. ital.»
LXX, 1917, p. 131 sgg. (poi in Letteratura e leggende, Torino 1951, p. 257 sgg.).
3
iG. Romano-Catania, L’etica sociale nelle opere di G. Leopardi, «Il pensiero italiano», mag-
gio 1893, p. 74 sgg. Il Carducci (Degli spiriti e delle forme nella poesia di G. Leopardi, ora in Ope-
re, ed. nazionale, vol. XX, Bologna 1937, p. 94 e n. 1) ignora il Romano-Catania, e si richiama
invece a un accenno, assai più generico, di G. Martinozzi, Per la continuità nella vita nazionale,
Bologna 1897, pp. 18-25. Contro il Romano-Catania polemizzò M. Losacco in uno scritto del
1896 (rist. in Indagini leopardiane, Lanciano 1937, p. 69 sgg.): egli ebbe buon giuoco nel negare
l’esplicito «socialismo» del Leopardi, ma non rese giustizia ad alcuni spunti felici del proprio
110 III. Alcune osservazioni sul pensiero del Leopardi

assenso il giudizio del Salvatorelli – e forse avrebbe dovuto accompa-


gnare l’assenso con una più esplicita riserva –; ma veniva a temperar-
ne la crudezza in quanto ricostruiva t u t t o lo svolgimento del pen-
siero politico leopardiano e storicizzava, così, quella posizione di
punta dell’ultimo Leopardi.4
Su un’altra cosa finora non osservata conviene, piuttosto, richia-
mare l’attenzione. Il saggio del Luporini rappresentava, all’interno
della storiografia marxista, una posizione teoretico-storiografica par-
ticolare. A differenza della grande maggioranza dei marxisti italiani,
che erano degli ex-idealisti, Luporini proveniva dall’esistenzialismo; e
già da esistenzialista si era interessato al pensiero leopardiano e gli
aveva dedicato un saggio.5 Rispetto a quel saggio, il Leopardi progres-
sivo è cosa del tutto nuova e inconfrontabile: abbiamo già accennato
che uno dei suoi meriti principali consiste proprio nella separazione
netta fra il pessimismo del Leopardi e il pessimismo di un Kierke-
gaard. Ma quella precedente esperienza non idealistica, non storici-
stica, aiutò certamente il Luporini a comprendere un pensatore non
professionale, antisistematico, formatosi al di fuori della «via mae-
stra» dello storicismo e dalla dialettica, quale è il Leopardi. Il saggio
del Luporini, pur considerando l’assenza della dialettica come una
condizione d’inferiorità del pensiero leopardiano (su ciò ritorneremo),
tuttavia sottintendeva un marxismo che non si riducesse a uno stori-
cismo più corposo e concreto, che non facesse di Marx soltanto il
migliore scolaro del professor Hegel, ma che sapesse rifarsi, al di fuo-
ri del passaggio obbligato hegeliano, direttamente al materialismo e
all’epicureismo settecentesco, alle esperienze democratico-rivoluzio-
narie francesi, all’empirismo inglese. In confronto al Luporini del Leo-
pardi progressivo, il Luporini delle ultime discussioni su «Rinascita»,
che si schiera senz’altro coi marx-hegeliani e considera come nemico
numero uno il materialismo volgare, mi sembra assai meno originale
e meno rivoluzionario. E mi sembra che nelle recenti discussioni sul
rapporto uomo-natura il Luporini abbia semplicemente trascurato la
problematica leopardiana, piuttosto che cercare di metterla a un serio

avversario. ** Del Salvatorelli vedi Il pensiero politico italiano, 5ª ed., Torino 1949, p. 210 (la
1ª ed. è del 1935). Pur nel suo schematismo, la formulazione del Salvatorelli ebbe allora il meri-
to di contrapporsi all’infelice tesi crociana dell’affinità di idee tra Monaldo e Giacomo Leopardi.
4
iVedi l’appendice II del saggio luporiniano (Discussione col Salvatorelli, p. 277 sgg.).
5
iIl pensiero di Leopardi, in Studi sul Leopardi di vari autori, Livorno 1938, p. 41 sgg.
III. Alcune osservazioni sul pensiero del Leopardi 111

confronto col marxismo.6 * Ci scusi il lettore della digressione, che


non si allontana, poi, dal nostro tema quanto può a prima vista sem-
brare.
Se l’ostilità al Leopardi pensatore, alle sue asprezze antispirituali-
stiche, aveva portato anche in sede propriamente estetica alla svalu-
tazione degli ultimi Canti e dei Paralipomeni,7 il libro del Binni rea-
giva a questo giudizio, proprio in nome di una considerazione più
unitaria della personalità leopardiana; e mostrava come l’illuminismo,
il materialismo, la polemica apertamente anticristiana dell’ultimo Leo-
pardi non fossero stati elementi perturbatori di un’ispirazione esclu-
sivamente idillica, ma anzi generatori di una nuova, non meno alta
poesia. Anche il libro del Binni aveva le sue durezze e unilateralità
– più tardi temperate, anche se non del tutto risolte, dal Binni stesso
in successivi saggi –:8 un eccessivo stacco tra il Leopardi idillico e il
Leopardi eroico,* tra l’ispirazione eroica delle Canzoni giovanili

6
iCfr. specialmente L’uomo e la natura, in «Atti del XII congr. internaz. di filosofia (Vene-
zia 12-18 settembre 1958)», vol. II, Firenze 1960, p. 273 sgg. La discussione su «Rinascita» a
cui accenniamo sopra si svolse dal 23 giugno al 3 novembre 1962.
7
iMa non si dimentichi il giudizio di Giuseppe De Robertis sulla Ginestra, nel commento ai
Canti, Firenze 1925, p. 330, e in Studi, Firenze 1944, p. 12.
8
iTre liriche del Leopardi, Lucca 1950; La poesia eroica di G. Leopardi, «Il Ponte» XVI, 1960,
p. 1729 sgg.
*iDiversa è, oggi, la posizione di Luporini nei riguardi del rapporto Hegel-Marx, e molto
cambiato è tutto il panorama del marxismo contemporaneo: nel quale, tuttavia, perdura la caren-
za di materialismo. ** Vedi gli articoli citati nella prefazione a questa edizione, p. XCVIII.
Un nuovo tentativo di interpretazione del Leopardi da un punto di vista marxista (in realtà
piuttosto adorniano-marcusiano, con qualche civetteria verbale strutturalistica) è stato compiuto
da Enzo Schiavina, La crisi della coscienza borghese nell’ideologia leopardiana, in «Rendiconti» 1967,
fasc. 14, pp. 157 sgg. Non mi sembra che esso segni alcun vero progresso sul saggio di Lupori-
ni. Una convincente interpretazione dell’Infinito in chiave sensistica è data da G. Pirodda in
«Problemi» 4-5, 1967, p. 166 sgg. Ricca di acute osservazioni è l’introduzione di Mario Pazza-
glia alle Operette morali, Bologna 1966 (giustamente il Pazzaglia mette in guardia, a pp. XIV-
XVIII, contro gli equivoci a cui può dar luogo la definizione del Leopardi come «moralista»).
Accenni importanti su Leopardi e Rousseau e sul rapporto tra letteratura e vita nel pensiero leo-
pardiano si trovano in G. Lonardi, Classicismo e utopia cit., pp. 42-45.
*iL’esigenza di non separare nettamente il Leopardi «idillico» dal Leopardi «eroico» è ora
affermata giustamente anche dal Sapegno, Giacomo Leopardi (nell’Ottocento garzantiano già
citato, p. 820). Ma il saggio di Sapegno ricalca troppo le orme di quella critica leopardiana che,
pur rifiutando il giudizio irosamente svalutativo di Croce, ammira tuttavia il Leopardi m a l-
g r a d o la sua ideologia: rappresenta quindi, tutto sommato, un passo indietro rispetto a Binni.
Bisogna d’altra parte osservare che né Luporini né il sottoscritto, negando il «romanticismo» del
Leopardi, hanno mai sostenuto un suo «meccanico ritorno ai moduli razionali e alle soluzioni let-
terarie settecentesche» (Sapegno, ibid.). Hanno piuttosto sostenuto che il Leopardi vive in pie-
no la crisi del suo tempo, ma dà ad essa una risposta radicalmente diversa da quella dei roman-
112 III. Alcune osservazioni sul pensiero del Leopardi

(soprattutto del Bruto minore) e quella dei canti post-1830, e una trop-
po frettolosa aggregazione del Leopardi alla schiera dei romantici.9 Ma
le osservazioni sul nuovo impegno polemico e «missionario» del Leo-
pardi dal 1830 in poi, sulla forza del lucido e spietato materialismo dei
Paralipomeni, rimangono punti fermi per lo studio del pensiero leo-
pardiano, anche a prescindere dal grande valore specificatamente cri-
tico-letterario del saggio.
Dopo Luporini e Binni non sono certo scomparse d’un tratto le vec-
chie posizioni di sottovalutazione del pensiero leopardiano e di ridu-
zione del Leopardi a poeta puro e frammentario. Proprio ora uno stu-
dioso del valore di Piero Treves, prendendo lo spunto da un riesame
del Leopardi filologo ma estendendo il suo giudizio all’intera perso-
nalità leopardiana, ha ripresentato l’immagine crociana di un Leopar-
di «monaldesco», ostile al progresso, incapace di comprensione sere-
na del mondo che lo circondava.10 Ma nonostante queste resistenze
l’impulso principale è ormai nell’altra direzione. I saggi di Martino
Capucci sui Paralipomeni,11 di Carlo Muscetta sulla canzone Nelle noz-
ze della sorella Paolina e sull’Ultimo canto di Saffo,12 l’introduzione del
Muscetta stesso al Leopardi di De Sanctis, l’articolo di Luigi Blasucci
sulle due canzoni patriottiche e alcune sue recensioni, specialmente
quella agli scritti leopardiani di Giovanni Gentile,13 hanno rappre-
tici (anche se poi, nella definizione e valutazione di questa risposta, vi sono tra Luporini e me alcu-
ni punti di dissenso).
Molto importante mi sembra invece, per un superamento della troppo recisa contrapposizio-
ne tra idillico ed eroico, lo studio di E. Bigi, La genesi del «Canto notturno» (nel vol. omonimo cit.,
p. 113 sgg.). **
9
iSu quest’ultimo punto vedi l’introduzione al presente volume, p. 31 sg., e più oltre,
p. 116 sg. Al rischio di una contrapposizione troppo recisa tra «idillico» ed «eroico» ha contri-
buito, penso, l’appellativo non leopardiano di «nuovi» o «grandi idilli», dato dal De Sanctis e
dal Carducci ai canti pisano-recanatesi del 1828-30, e derivante, in sostanza, dal grosso frain-
tendimento in senso «manzoniano-realistico» che di tali canti compì il De Sanctis. Molto giu-
stamente, perciò, nel nuovo commento di Fubini e Bigi ai Canti (Torino 1964) si propone di chia-
mare «idilli» soltanto quelli che il Leopardi chiamò così, le brevi liriche in endecasillabi sciolti
del 1819-21.
10
iP. Treves, Lo studio dell’antichità classica nell’Ottocento, Milano-Napoli 1962, p. 471 sgg.
e altrove. Cfr. «Critica storica» II, 1963, p. 609 sg.
11
iM. Capucci, I «Paralipomeni» e la poetica leopardiana, «Convivium» 1954, p. 581 sgg.; La
poesia dei «Paralipomeni» leopardiani, id., p. 695 sgg.
12
iIn Ritratti e letture, Milano 1961, pp. 215 sgg., 230 sgg.
13
iL. Blasucci, Sulle prime due canzoni leopardiane, «Giorn. stor. letter. ital.» CXXXVIII,
1961, p. 39 sgg. (particolarmente importante, per il tema del nostro presente studio, la nota a
p. 70); e le recensioni agli scritti leopardiani di Bacchelli (id., p. 478 sgg.), Gentile (id.,
CXXXIX, 1962, p. 560 sgg.), Bigongiari (id., CXL, 1963, p. 289 sgg.).
III. Alcune osservazioni sul pensiero del Leopardi 113

sentato sempre maggiori approfondimenti in questo senso. Perfino un


critico tanto elegante ed eloquente quanto eclettico come Natalino
Sapegno, oscillante fra il settarismo dei saggi su Alfieri, Giusti, Car-
ducci e il moderatismo del Ritratto di Manzoni e della recente intro-
duzione ai Promessi Sposi, non si è sottratto all’influsso dell’imposta-
zione Luporini-Binni, anzi ha dato in quella direzione un contributo
di prim’ordine col saggio su De Sanctis e Leopardi, anche se, in altri
scritti leopardiani, è rimasto legato alla visione di un Leopardi gene-
ricamente «romantico», il cui dissidio col proprio secolo sarebbe solo
frutto di malumori o di malintesi.14
Ancor più di recente, il problema del Leopardi ideologo e moralista
è stato riaffrontato da due studiosi che hanno il dono di una forma
espositiva particolarmente limpida ed efficace: Bruno Biral e Gian-
luigi Berardi.15 L’influsso del Luporini sull’uno e sull’altro è eviden-
te, e specialmente il Biral avrebbe dovuto riconoscerlo in modo più
esplicito. Non si tratta, tuttavia, di pure e semplici volgarizzazioni del
saggio di Luporini (a parte il fatto che il Berardi non si occupa soltanto
del pensiero leopardiano, ma dei rapporti tra pensiero e stile; e sotto
questo aspetto il suo articolo meriterebbe un esame che esula dal no-
stro tema). L’attenzione che il Biral dedica al Discorso sopra lo stato
presente dei costumi degl’italiani, e il Berardi alla Comparazione delle
sentenze di Bruto minore e di Teofrasto, apportano al quadro generale
elementi nuovi non trascurabili. L’alfierismo giovanile del Leopardi,
che culmina nel Bruto minore, riacquista l’importanza che gli compe-
te come antecedente della fase conclusiva del pensiero e della poesia
leopardiana.16 Le Operette morali, che troppo sbrigativamente erano
14
iAlludiamo soprattutto alla Noterella leopardiana (in Ritratto di Manzoni e altri saggi, Bari
1961, p. 154 sgg.: ivi, a p. 162 sgg., è anche ripubblicato De Sanctis e Leopardi) e al volumetto su
Leopardi edito dalla RAI, Torino 1961.
15
iB. Biral, Il significato di «natura» nel pensiero di Leopardi, «Il Ponte» XV, 1959, p. 1264
sgg.; La «posizione storica» di G. Leopardi, Venezia, Stamperia di Venezia, 1962; G. Berardi,
Ragione e stile in Leopardi, «Belfagor» XVIII, 1963, pp. 425 sgg., 512 sgg., 666 sgg.
16
iG. Berardi, art. cit., pp. 512-15. Sull’alfierismo del Leopardi cfr. C. G. Ferrero, Alfieri-
smo leopardiano, «Giorn. stor. letter. ital.» CIX, 1937, p. 211 sgg. Il Binni nella Nuova poetica
leopardiana (cap. III) aveva segnato una contrapposizione troppo netta, e troppo esclusivamen-
te basata su considerazioni stilistiche, tra le canzoni del ’21-’22 («impostazione genericamente
energica», «residuo alfieriano», «vigore ... più letterario che poetico») e gli ultimi canti. Assai
meglio ora il rapporto Alfieri-Leopardi è trattato dal Binni nel saggio su Leopardi e la poesia del
secondo Settecento («Rassegna letter. ital.» LXVI, 1962, p. 405 sgg. = Leopardi e il Settecento (cit.
più sotto), p. 91 sgg.), sebbene anche qui, forse, il nesso tra il titanismo alfieriano e quello leo-
pardiano non abbia un risalto sufficiente. Vedi qui sotto, p. 120 sg.
114 III. Alcune osservazioni sul pensiero del Leopardi

state considerate dal Luporini come un momento di cristallizzazione


letteraria e di regresso ideologico rispetto ai pensieri dello Zibaldone,
si reinseriscono di pieno diritto nel discorso sul Leopardi pensatore.17
C’è anche una certa diversità di prospettiva teoretica tra il Lupori-
ni e i due studiosi di cui parliamo. Il punto di vista marxista (e marxi-
sta di quel particolare tipo a cui accennavamo) del saggio di Luporini
si stempera, nel Biral e nel Berardi, in un più generico progressismo
laico-illuminista: col vantaggio di smussare certe durezze della rico-
struzione luporiniana e di valutare con più equilibrio gli aspetti non
politico-sociali del pessimismo leopardiano, ma d’altra parte con lo
svantaggio di perdere un poco di quella penetrante forza di analisi che
il Luporini attingeva proprio dalla sua posizione di punta e di rottura
sul piano politico-culturale.
All’estremo opposto del Biral e del Berardi si colloca, tra le inter-
pretazioni del «progressismo» leopardiano, quella di Gian Franco
Vené **, nel recente libro su Letteratura e capitalismo in Italia dal ’700
ad oggi.18 Qui ci troviamo di fronte ad un marxismo puramente inten-
zionale, a una visione estremamente schematizzata, condotta su una
scarsissima conoscenza di testi, che nel dramma del Leopardi vede
tout court il dramma dell’alienazione dello scrittore nella società indu-
striale. Ed è significativo che il Vené, mentre ignora del tutto il sag-
gio del Luporini, aderisca invece pienamente a quel semplicistico giu-
dizio del Salvatorelli sul Leopardi precursore del socialismo e della
Società delle Nazioni.19
Il convegno recanatese su Leopardi e il Settecento, di cui ora sono
usciti gli atti,20 ha contribuito più allo studio della formazione lette-
raria e culturale del Leopardi che all’indagine specifica sui motivi ispi-

17
iIl giudizio di Luporini sulle Operette morali (espresso a pp. 221 n. 1, 237, 246) fu sin dal-
l’inizio considerato come uno dei punti più discutibili del suo saggio. In realtà l’osservazione
luporiniana che il Leopardi nelle Operette, «presentandosi al pubblico, si tiene come un passo
indietro (qualche volta più di un passo indietro)» rispetto allo Zibaldone, «e maniera e stilizza
non poco, letterariamente, la sua posizione», ha una parte di vero. Ma essa riguarda esclusiva-
mente l’aspetto politico-sociale del pensiero leopardiano. Per ciò che concerne la critica di ogni
spiritualismo e antropocentrismo e l’affermazione di un materialismo conseguente, le Operette
sono, nella sostanza, altrettanto audaci ed esplicite quanto lo Zibaldone.
18
iMilano 1963, p. 135 sgg.
19
iOp. cit., p. 151 sg., cfr. p. 483.
20
iLeopardi e il Settecento, Atti del I convegno internaz. di studi leopardiani, Firenze 1964:
gli scritti del Sansone e del Frattini sono rispettivamente a pp. 133 sgg., 253 sgg.; la frase del
Binni che cito nel testo è a p. 78.
III. Alcune osservazioni sul pensiero del Leopardi 115

ratori della sua filosofia: la relazione di Mario Sansone su Leopardi e


la filosofia del Settecento contiene singole osservazioni felici, ma è trop-
po ortodossamente idealistica per accostarsi con vera comprensione
all’illuminismo e al pessimismo leopardiano. Walter Binni, proprio
all’inizio della sua relazione su Leopardi e la poesia del secondo Sette-
cento, osservando con piena ragione che l’illuminismo «non fu “car-
cere” ma forza per il Leopardi», ha implicitamente denunciato l’erro-
re di prospettiva che vizia un po’ tutto il discorso del Sansone. Più
utile, in quel medesimo convegno, la relazione di Alberto Frattini su
Leopardi e gli ideologi francesi del Settecento; ma soprattutto hanno
indirettamente giovato allo studio del pensiero leopardiano alcuni
contributi singoli, riguardanti vari aspetti del rapporto tra il Leopar-
di e la cultura settecentesca.

2. A chi volesse ora proseguire e approfondire lo studio del pensie-


ro leopardiano, si porrebbe innanzitutto, credo, l’esigenza di indaga-
re con più cura i rapporti tra il Leopardi e gli ambienti culturali con
cui egli entrò in contatto e in polemica.21 Abbiamo già sopra ricono-
sciuto al Luporini il gran merito di avere sgombrato il terreno dai
numerosi accostamenti antistorici fra il Leopardi e altri pensatori il cui
pessimismo nasce da situazioni ben diverse e ha sbocchi ben diversi,
e di aver fissato come punti di riferimento (per analogia o per contra-
sto) autori di cui il Leopardi ebbe effettiva conoscenza, o coi quali,
almeno, esiste una seria possibilità di raffronto, dovuta a certe affinità
di situazioni storico-culturali. Tuttavia si tratta pur sempre, nel sag-
gio luporiniano, di g r a n d i n o m i della storia del pensiero (Hobbes,
Rousseau, Voltaire, i grandi romantici ...). Questi termini di riferi-
mento sono necessari, ma non sufficienti. Il Leopardi dialogò ideal-
mente, sì, con questi grandi autori, ma visse a contatto diretto (perso-
nale o epistolare) con ambienti italiani, che furono dapprima lo Stato
pontificio (Recanati, cioè Monaldo col suo enciclopedismo illuministi-
co-reazionario e le sue pose da ultra; il classicismo marchigiano-roma-
gnolo, cioè Francesco Cassi e Giulio Perticari; Roma, cioè il poligrafo
arruffone Francesco Cancellieri e lo zio Carlo Antici, reazionario ma

21
iQuesta esigenza fu giustamente affermata da Giampiero Carocci in un’importante recen-
sione al Leopardi progressivo («Belfagor» III, 1948, p. 261 sg.), anche se, poi, il Carocci soprav-
valutava l’influenza del Foscolo sul pensiero leopardiano.
116 III. Alcune osservazioni sul pensiero del Leopardi

non così grettamente municipalista come Monaldo: reazionario che


sapeva il tedesco e voleva fare del nipote un campione della Restau-
razione al livello europeo);22 poi Milano (cioè le scoperte del Mai che
dettero impulso alla filologia leopardiana, e la battaglia tra classicisti
e romantici, e l’amicizia col maggiore rappresentante del classicismo
illuminista, Pietro Giordani, mentre il classicista reazionario Giuseppe
Acerbi aveva sùbito osteggiato il Leopardi);23 poi ancora, nel 1822-23,
l’«antiquaria» romana, veduta questa volta da vicino nella sua meschi-
nità; poi l’ambiente bolognese, di tranquille amicizie letterarie, che
contribuirono a creare nello spirito del Leopardi un periodo di relati-
va distensione e adattamento alla realtà della vita; fino alle ultime
esperienze, aspramente polemiche, del cattolicesimo liberale fiorenti-
no e napoletano.
Una narrazione dei contatti, degli influssi, degli scontri fra il Leo-
pardi e i suoi contemporanei – un Leopardi e gli altri, se vogliamo dar-
gli un titolo provvisorio;24 ma tutto tenuto su un piano culturale, non
di biografia aneddotica alla Moroncini o alla Ferretti – è ancora da
scrivere, e permetterebbe di approfondire notevolmente la compren-
sione del pensiero leopardiano.
Il Luporini ha accennato molto bene ai motivi di fondo che divide-
vano il Leopardi dai «nuovi credenti», e all’antiromanticismo leopar-
diano:25 molto meglio di pur insigni italianisti, i quali non vogliono
decidersi a togliere al Leopardi la qualifica di «romantico» usata in
un’accezione bonne à tout faire che la priva di ogni preciso valore carat-

22
iMentre i vari precettori di casa Leopardi non esercitarono sulla formazione della perso-
nalità leopardiana nessun influsso importante, e mentre l’influsso di Monaldo sul figlio è stato
spesso sopravvalutato, Carlo Antici deve essere più attentamente studiato a questo riguardo. **
Vedi, provvisoriamente, un mio accenno ne La filologia di G. Leopardi, Firenze 1955, p. 146. La
corrispondenza tra l’Antici e Monaldo è stata in parte pubblicata da A. Avòli (in Autobiografia
di Monaldo Leopardi, Roma 1883, pp. 278-81, 285 n. 1) e da F. Moroncini (Monaldo Leopardi
e Carlo Antici, nel «Casanostra», 1932, p. 3 sgg.; Epistolario del Leopardi, vol. I, pp. 13 n., 37
n. 2, 206 n. 1 e altrove).
23
iLa «conversione letteraria» coincide, non casualmente, con uno spostamento della corri-
spondenza epistolare e degli interessi culturali del Leopardi da Roma a Milano. L’importanza
di questo spostamento e il valore che i rapporti con la cultura milanese ebbero per il Leopardi
furono intuiti acutamente dal De Sanctis (Studio sul Leopardi, cap. V), anche se la scarsa cono-
scenza e comprensione del classicismo illuminista, e soprattutto del Giordani, impedirono al De
Sanctis di sviluppare questo spunto.
24
iVedo ora che Leopardi e gli altri è il titolo d’un paragrafo del capitolo dedicato al Leopardi
ne L’attività letteraria in Italia di G. Petronio, Palermo 1964, p. 705.
25
iLeopardi progressivo cit., pp. 188 sg., 263.
III. Alcune osservazioni sul pensiero del Leopardi 117

terizzante.26 Ma la giusta qualificazione di Leopardi come antiroman-


tico – e quindi contrario all’ideologia cattolica della Restaurazione e,
più tardi, allo stesso cattolicesimo liberale degli anni trenta – va pre-
cisata e integrata con lo studio dei rapporti tra il Leopardi e l’ala illu-
ministica del classicismo italiano. È vero, il Leopardi portò già nella
polemica classico-romantica milanese, con la Lettera ai compilatori del-
la «Biblioteca Italiana» e col Discorso di un Italiano intorno alla poesia
romantica, una sua nota personale: una nostalgia dell’antichità in
quanto più vicina di noi alla natura vergine e incorrotta (dell’antichità
in quanto giovinezza del genere umano), che bruciava le scorie del
classicismo scolastico e che era in verità assai più russoiana che classi-
cistica nel senso tradizionale.27 Ma, in primo luogo, questa posizione,
pur così originalmente e intensamente vissuta dal Leopardi, si ricon-
netteva al gusto del purismo, che, anche se degenerato ben presto in
mera pedanteria, esprimeva tuttavia un’esigenza di ritorno alla natu-
ra, di esaltazione della freschezza nativa (Erodoto e Domenico Caval-
ca!) contro la magniloquenza retorica da un lato e l’aridità razionali-
stica dall’altro: in questo senso era stato purista il Giordani, che della
rapida degenerazione del purismo fu poi critico severo.28 In secondo
luogo, la scelta antiromantica che il Leopardi compì nel ’16 lo portò
ad accostarsi sempre più al Giordani e ad assorbirne non tanto il puri-
smo (nel quale, del resto, il Leopardi giovanissimo si era spinto molto
più in là del Giordani stesso), quanto le esigenze di riforma culturale,
il laicismo, il sensismo, di cui il Giordani, formatosi a Parma dov’era
stato così forte l’influsso del Condillac, rimase sempre assertore anche
nel clima mutato della Restaurazione.
Anche il sensismo e il materialismo leopardiano, dunque, non van-
no ricondotti solo alla lettura diretta dei grandi illuministi francesi del
Settecento (e anche qui sarebbe necessaria una ricerca che determi-
nasse con più esattezza quali, tra gli illuministi settecenteschi più deci-
samente materialistici, furono noti al Leopardi),29 ma anche ai contatti
26
iVedi l’introduzione al presente volume, p. 31 sgg.
27
iCfr. M. Fubini, Romanticismo italiano2, Bari 1960, p. 81 sgg.; e, per la consonanza tra la
nostalgia dell’antichità e il rimpianto per la fine della giovinezza, le penetranti osservazioni di
G. De Robertis, Studi, Firenze 1944, p. 10 sg., [152-54] **.
28
iVedi qui sopra, p. 58 sgg.
29
iI lavori del Losacco (nel vol. cit. alla nota 3) sono ricchi di materiale, ma male organizzati
e in buona parte anteriori alla pubblicazione dello Zibaldone. Il volumone del Serban su Leopardi
et la France, nonostante i suoi indubbi meriti, è da usarsi con molta cautela, come dimostrò il
118 III. Alcune osservazioni sul pensiero del Leopardi

fra il Leopardi e il classicismo illuminista dell’Ottocento, in cui la tra-


dizione sensistica permaneva ben salda.
Si deve in parte a questa formazione se la nostalgia dello stato di
natura, la polemica contro l’eccesso di razionalismo che conduce all’in-
felicità, così forti nel Leopardi, non lo condussero a pseudo-soluzioni
religiose, ma anzi a una condanna sempre più energica di tutte le cor-
renti spiritualistiche contemporanee. Un punto fondamentale del
pensiero leopardiano, su cui si sono già soffermati gli studiosi a co-
minciare dal Tilgher, è la recisa distinzione tra «stato di natura» e
Neri nell’art. cit. alla nota 2. Molte indicazioni utili si trovano nella comunicazione di A. Frat-
tini cit. a p. 115. Do qui alcuni brevi cenni che non pretendono certo di sostituirsi a una ricer-
ca sistematica. La lettura di Holbach risulta da un passo dello Zibaldone (p. 183, 23 luglio 1820)
e da un elenco di progetti letterari posteriori al 1827 (PP, I, p. 705: «Frammenti alla Cousin, o
al modo delle Idee naturali opposte alle soprannaturali di Holbach»; cfr. l’indice delle letture
compilato dal Leopardi stesso e pubblicato dal Porena, Scritti leopardiani, p. 427, num. 307, mag-
gio 1825). Un altro testo materialistico importante, letto dal Leopardi nello stesso mese di maggio
del 1825, è la Lettre de Thrasyboule [cr] à Leucippe di Nicolas Fréret (indice cit., ibid., num. 306;
cfr. p. 430 num. 411), che conteneva una vigorosa polemica antiteistica e antiprovvidenzialisti-
ca (questo testo era stato pubblicato postumo da Holbach nel 1765; l’attribuzione a Fréret,
comunque, sembra fondata, cfr. da ultimo F. Diaz, Filosofia e politica nel Settecento francese,
Torino 1962, pp. 302 sgg., 303 n. 5). È anche documentabile la lettura e l’influsso delle Ruines
di Volney (Zibaldone, pp. 4127 sg.). Non risulta, invece, che il Leopardi abbia letto direttamente
La Mettrie, e neppure Condillac e Diderot. Gli accenni a Helvétius ** contenuti in un Dialo-
go filosofico del 1812 (PP, II, pp. 1083, 1096) saranno attinti probabilmente a qualche libello
polemico reazionario (le opere di Helvétius mancavano nella Biblioteca Leopardi); tuttavia l’i-
dea di un’affinità tra intelletto umano e istinto animale, respinta con orrore dal Leopardi fan-
ciullo in questo dialogo e già l’anno precedente in una ** Dissertazione sopra l’anima delle bestie
(inedita, a Recanati), riemergerà con forza nei Paralipomeni. In generale bisogna tener presen-
te, più di quanto non si sia fatto finora, che le prime notizie sul materialismo settecentesco giun-
sero al Leopardi indirettamente, attraverso opere di apologisti cattolici: vedi il nostro saggio
seguente, pp. 149-50. Il Binni (Leopardi e la poesia del secondo Settecento cit., p. 433 n. 184) osser-
va che «oltre alle letture giovanili (condizionate dai limiti della biblioteca paterna) è legittimo sup-
porre nuove letture leopardiane della filosofia settecentesca più ardita, nell’epoca fiorentina e
napoletana». Ma questa giusta osservazione riguarda, naturalmente, gli ultimi sviluppi del mate-
rialismo leopardiano, non la sua genesi e la sua sistemazione, già compiute tra il 1823 e il 1826.*
*iSulle letture di materialisti e sensisti francesi ** compiute dal Leopardi molto di nuovo,
adesso, nel Saggio sui «Paralipomeni» di G. Leopardi di Gennaro Savarese, Firenze 1967, cap. IV.
La Dissertazione ** sopra l’anima delle bestie (1811) è stata pubblicata da M. A. Morelli in «Cri-
tica storica» VI, 1967, p. 532 sgg. In essa il Leopardi non nega, in verità, ogni analogia tra intel-
letto umano e istinto animale; anzi, per confutare la teoria cartesiana dell’animale-macchina (che
con troppa facilità conduceva all’uomo-macchina di La Mettrie), ammette che le bestie siano
dotate «di senso, di libertà, e di un qualche lieve barlume di ragione». Invece nel Dialogo filoso-
fico, scritto l’anno seguente, insisterà sulla differenza tra l’uomo e gli animali. Tutt’e due le tesi
presentavano in realtà seri pericoli per l’ortodossia cattolica: di qui l’oscillazione del Leopardi
giovinetto e, prima di lui, degli apologisti cattolici settecenteschi ai quali egli attingeva.
Una derivazione da Helvétius per la teoria del piacere è stata messa in luce da A. Parronchi
nella «Nazione» del 12 luglio 1969.
III. Alcune osservazioni sul pensiero del Leopardi 119

«barbarie», tra la sana primitività degli antichi, dominati da illusioni


magnanime, e la corruzione del Medioevo: le superstizioni cristiane
sono, per il Leopardi, contrarie alla natura non meno che alla ragio-
ne.30 Per i romantici, invece, l’epoca ideale non era lo stato di natura,
ma la «barbarie ritornata» ... e battezzata, il Medioevo; e anche quel-
li tra loro che vagheggiavano un’epoca antichissima, la ponevano sot-
to il segno di una «Rivelazione originaria», le davano cioè un crisma
religioso che ne faceva qualcosa di ben diverso dall’età dei bestioni
vichiani e anche dallo stato di natura russoiano.31 Perfino i romantici
lombardi, molto più progressisti dei loro confratelli d’oltralpe, insi-
stevano, sì, sull’esigenza di creare una letteratura rispondente alle idee
e ai sentimenti dell’età moderna, ma identificavano modernità con cri-
stianesimo e facevano cominciare l’età moderna, appunto, dalla caduta
dell’Impero romano e dalla morte del paganesimo, non già dal rinasci-
mento o dall’illuminismo. Ora, proprio questo problema della perio-
dizzazione della storia umana, che era stato oggetto di discussione fra
il Romagnosi e i romantici del «Conciliatore»,32 viene ripreso dal Leo-
pardi nel Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’Italiani; e la
soluzione che il Leopardi ne dà, in polemica con Chateaubriand, è net-
tamente antiromantica: «È un falsissimo modo di vedere quello di
considerare la civiltà moderna come liberatrice dell’Europa dallo sta-
to antico. Questo falso concetto guasta generalissimamente il giudizio
e il vero modo di pensare sulla storia e le vicende del genere umano e
delle nazioni, ed è un errore o una svista sostanzialissima che turba
e falsifica tutta l’idea che un filosofo può concepire in grande sulla
detta storia e sui progressi o andamenti dello spirito umano. Il risor-
gimento è stato dalla barbarie de’ tempi bassi non dallo stato antico;
la civiltà, le scienze, le arti, i lumi, rinascendo, avanzando e propa-
gandosi non ci hanno liberato dall’antico, ma anzi dalla totale e orri-
bile corruzione dell’antico. In somma la civiltà non nacque nel quat-
trocento in Europa, ma rinacque».33 E in tutto l’appassionato brano

30
iA. Tilgher, op. cit., pp. 105 sg., 120-123. Cfr. Luporini, p. 208.
31
iVedi l’introduzione al presente volume, p. 7.
32
iVedi più oltre, p. 337 sgg.
33
iPP, II, p. 577 sg. È interessantissimo vedere come il Leopardi sa assorbire da Chateau-
briand spunti di esaltazione della vita primitiva (la chiusa dell’Inno ai Patriarchi!) e respingerne
invece il falso primitivismo consistente nella rivalutazione del Medioevo cattolico. Questo atteg-
giamento, complesso ma coerente, non è stato ben colto da Ferdinando Neri (Il Leopardi ed un
120 III. Alcune osservazioni sul pensiero del Leopardi

che segue l’avversione illuministica per la barbarie e l’ignoranza me-


dievale si unisce alla nostalgia per l’antichità, che rimane un termine
di confronto irraggiungibile per la civiltà moderna: anche qui il sostra-
to del pensiero leopardiano non va cercato soltanto in Rousseau o nel-
la «delusione storica» del fallimento della Rivoluzione, vissuta con
particolare intensità dal Leopardi, ma nel classicismo illuminista del-
l’Ottocento italiano, che mentre lottava contro il mito del Medioevo,
non rinunciava a contrapporgli il mito dell’antichità classica, a esaltare
Atene e Roma in funzione laica e libertaria.34
Un altro motivo che il Leopardi desunse dalla sua educazione clas-
sicistica – pur sviluppandolo, poi, in modo originalissimo – è il titani-
smo. Qui bisogna rifarsi, prima ancora e più ancora che al Giordani,
all’Alfieri, che fu per il Leopardi giovinetto il principale modello non
soltanto letterario, ma umano, il personaggio ideale a cui egli si studiò
di agguagliarsi. Come l’atteggiamento antitirannico di derivazione
alfieriana si sia andato svolgendo nel Leopardi fino a diventare lotta
disperata contro l’intero ordine del mondo, è stato mostrato lucida-
mente da Umberto Bosco.35 Come si parla da tempo di un passaggio
del pensiero leopardiano da un «pessimismo storico» a un «pessimi-
smo cosmico», così si potrebbe parlare di un «titanismo storico», più
vicino alla matrice alfieriana, e di un «titanismo cosmico», che trova
la sua prima espressione compiuta nel Bruto minore, e poi, dopo la pa-
rentesi «rassegnata» degli anni 1824-27, ha un nuovo slancio e un nuo-
vo arricchimento nell’ultimo Leopardi. Il Bosco chiama «romantica»
la seconda forma del titanismo leopardiano, in cui il nemico è «la stes-
sa necessità naturale, invincibile per definizione».36 E, per intender-
si, si chiami pure romantica; ma, in sede storico-culturale, non si deve
dimenticare che lo spunto per questo sviluppo del titanismo non ven-
ne al Leopardi dai grandi romantici europei, bensì dalla stessa tradi-
zione alfieriana. Già nell’Alfieri la lotta fra eroe e tiranno è portata
su un piano che non è più semplicemente politico, e in particolar modo

«mauvais maître», in Letteratura e leggende cit., p. 276 sgg.), al quale i giudizi leopardiani su Cha-
teaubriand sembrano mutevoli e contraddittorii. Simile – ma con un tono generale di maggiore
simpatia – è l’atteggiamento del Leopardi verso Madame de Staël, come ho accennato nell’in-
troduzione, p. 34.
34
iCfr. P. Treves, L’idea di Roma e la cultura ital. del sec. xix, Milano-Napoli 1962, p. 36 sgg.;
A. La Penna, Orazio e l’ideologia del principato, Torino 1963, p. 163 sgg.
35
iU. Bosco, Titanismo e pietà in G. Leopardi, Firenze 1957, cap. I.
36
iOp. cit., pp. 11-13. Cfr. Binni, La nuova poetica cit., 2ª ed., p. 89.
III. Alcune osservazioni sul pensiero del Leopardi 121

il Saul rappresenta uno sviluppo antiteistico del tema antitirannico.


«Come un tiranno ci ha da essere, Dio è il tiranno, e tutto l’interesse
(cioè la simpatia dell’autore) è per Saul» osservò giustamente il De
Sanctis.37
A sua volta questo atteggiamento alfieriano di rivolta contro la divi-
nità e il fato si nutriva di tutta una tradizione classica, che aveva avu-
to il suo massimo rappresentante in Lucano. Nella Farsaglia la lotta dei
difensori della repubblica contro Cesare assume dimensioni cosmiche,
diventa lotta dei buoni contro gli dèi protettori dell’empietà. L’an-
titeodicèa di Lucano – come tanti secoli prima quella di Teognide –
nasce da una «delusione storica» che si ripercuote sulla visione gene-
rale della condizione umana. L’epigrafe finale del Misogallo alfieriano
(«Tenea ’l Ciel dai Ribaldi, Alfier dai Buoni») riecheggia consapevol-
mente il lucanèo Victrix causa deis placuit, sed victa Catoni; e ciò che ha
di più dichiaratamente antiteistico deriva da altri passi dello stesso
Lucano.38 Nel primo Ottocento il Giordani e Francesco Cassi, cugino
del Leopardi e traduttore della Farsaglia, tennero viva questa tradi-
zione lucanèa, la quale agì, forse più per tramite loro che per lettura
diretta, sul Leopardi.39 «Dunque degli empi / siedi, Giove, a tutela?»

37
iStoria della letteratura italiana, cap. XX (ed. N. Gallo, Torino 19622, II, p. 918).
38
iPer esempio III, 448 sg. (servat multos fortuna nocentes et tantum miseris irasci numina pos-
sunt); VI, 443 sg. ecc. Cfr. J. E. Millard, Lucani sententia de deis et fato, Utrecht 1891, p. 12 sgg.
39
iCfr. L. Paoletti, La fortuna di Lucano dal Medioevo al Romanticismo, «Atene e Roma»
1962, p. 155 sg.; P. Treves, Lo studio dell’antichità classica (cit. alla nota 10), p. 444 sgg. Fino a
che punto il poemetto Catone in Affrica, scritto dal Leopardi a 12 anni e tuttora in massima par-
te inedito (cfr. H. L. Scheel, Leopardi und die Antike, München 1959, p. 19 sgg.) attesti una let-
tura diretta della Farsaglia in latino, è ancora da precisare. Riferimenti a Lucano mancano, pare,
nel Pompeo in Egitto (1812). Un accenno alla descrizione lucanèa della selva di Marsiglia (Phars.
III, 399 sgg.) è in un progetto di «poema di forma didascalica sulle selve e le foreste» (Poesie e
prose, ed. Flora, I, p. 697), da cui poi nacquero, ma senza più l’allusione a Lucano, la canzone
Alla primavera e l’Inno ai Patriarchi. Sulla scarsezza di espliciti riferimenti a Lucano nello Zibal-
done e nelle opere del Leopardi dalla «conversione letteraria» in poi, cfr. La filologia di G. Leo-
pardi, p. 158, n. 1 (dove, tuttavia, mi ero espresso in forma troppo recisa). Bisogna tener conto,
in generale, del contrasto fra il gusto letterario del purismo (che era ostilissimo allo stile enfati-
co e alla violenza espressionistica di Lucano) e il repubblicanesimo di molti di quegli stessi puri-
sti-classicisti, che li portava a simpatizzare per il poeta anticesariano, interpretato naturalmen-
te non come difensore della vecchia oligarchia senatoriale, ma come banditore di libertarismo.
Nel Giordani prevalse il secondo elemento, la simpatia «contenutistica» per Lucano: nel Leo-
pardi rimasero più forti le prevenzioni stilistiche. Un contrasto analogo si produsse per Fronto-
ne, esaltato dal Leopardi giovane in quanto precursore del purismo, severamente giudicato dal
Giordani per la mancanza di un serio contenuto etico-politico. – Alle testimonianze sul filo-luca-
nismo della cultura italiana del primo Ottocento, raccolte dal Treves e dal Paoletti, vorrei
aggiungere quella di Pietro Borsieri ** (Avventure letterarie di un giorno, in Discussioni e pole-
122 III. Alcune osservazioni sul pensiero del Leopardi

è un tipico motivo lucanèo, e tutto immerso in quest’atmosfera è il


Bruto minore.

3. Rimane tuttavia il fatto che, anche all’interno del classicismo


illuminista italiano e della tradizione alfieriana – come nel più vasto
ambito della cultura europea – il Leopardi occupa una posizione di
punta. In lui giunge al massimo grado quella tensione tra «progressi-
smo» e pessimismo che era implicita in gran parte del pensiero e del-
la letteratura di cui egli si era nutrito. Già nei grandi illuministi fran-
cesi del Settecento, pur così fiduciosi nella possibilità di riformare la
società e di rendere felice l’uomo, affiorano spunti di pessimismo non
soltanto storico-sociale, ma anche «cosmico», relativo cioè al rappor-
to uomo-natura e a certi dati immodificabili della condizione umana.*
La polemica contro la religione tradizionale, intrapresa con la profon-
da convinzione di contribuire non solo a un acquisto di verità ma
anche di felicità, finiva per coinvolgere qualsiasi concezione provvi-
denzialistica, anche l’idea di una provvidenza immanente alla storia,
di un progresso costante e necessario realizzato dall’umanità con le
proprie forze. Gli argomenti usati per demolire la teodicèa si rivela-
vano efficaci anche contro la fiducia nella possibilità d’instaurare un
regnum hominis. Il Poème sur le désastre de Lisbonne di Voltaire è l’e-
sempio più celebre, ma tutt’altro che unico, di questo insorgere di
motivi pessimistici all’interno dell’illuminismo; ed è noto che il Leo-
pardi lo lesse e ne risentì l’influsso, specialmente per ciò che riguarda
l’antinomia tra infelicità dei singoli e (presunta) felicità collettiva.40
Ancor più evidente è, come già abbiamo accennato, il pessimismo
implicito nel titanismo alfieriano. E anche nel Giordani la fede nella

miche sul Romanticismo, ed. Bellorini, I, pp. 143 sg.), un romantico antipurista che su questo
punto veniva a concordare col suo avversario Giordani.
40
iZib., 4175. Per gli spunti pessimistici che il Leopardi poté trarre da Bayle, Fontenelle, Vol-
taire, Holbach, vedi M. Losacco, Indagini leopardiane cit., pp. 121 sg., 123 sgg., 135 sgg.; Binni,
Leopardi e la poesia del secondo Settecento cit., p. 433, nn. 186-188; A. Frattini, art. cit. alla nota
20. Anche l’idea dell’inno ad Arimane abbozzato dal Leopardi nei suoi ultimi anni (PP, I, p. 434)
deriverà probabilmente dal Poème sur le désastre de Lisbonne («Est-ce le noir Typhon, le barba-
re Arimane, / dont la loi tyrannique à souffrir nous condamne?»), come suppose già l’Antogno-
ni, piuttosto che dal Manfredo di Byron come vorrebbe l’Allodoli.
*iSugli spunti pessimistici nel pensiero settecentesco, e sulle ragioni per cui essi non danno
ancora luogo a una visione del mondo radicalmente pessimista, vedi alcune interessanti osser-
vazioni nel libro di Giuseppe Paolo Samonà sul Belli, di prossima pubblicazione (Firenze 1969).
Cfr. anche «Quaderni piacentini» 32, ottobre 1967 **, p. 123.
III. Alcune osservazioni sul pensiero del Leopardi 123

felicità dell’umanità futura, liberata da pregiudizi e da oppressioni, si


alternò a una visione desolata dell’uomo ineluttabilmente infelice.41
Tuttavia né gli illuministi del Settecento, né Alfieri, né Giordani
portarono a fondo la presa di coscienza di questo contrasto. Il Poème
sur le désastre de Lisbonne si conclude con un ripiegamento fideistico
che, se può essere in parte dettato da cautela «diplomatica», corri-
sponde però sostanzialmente al deismo a cui Voltaire rimase fermo.42
Nell’ultimo Alfieri, anche per effetto dell’involuzione politica di fron-
te all’esperienza rivoluzionaria, il titanismo cede spesso a vaghe no-
stalgie religiosizzanti. Il Giordani non concede nulla allo spiritualismo
e alla trascendenza, ma in lui prevale la tendenza a dimenticare, nella
lotta per il progresso sociale e culturale dell’umanità, il fondo pessi-
mistico della propria Weltanschauung: anzi egli indica esplicitamente
al Leopardi l’impegno nella lotta come l’unico mezzo per superare,
pragmaticamente se non in linea teorica, il pessimismo.43
Nel Leopardi ciò non accade. Nel suo pensiero le esigenze progres-
siste non sopraffanno mai il pessimismo; anzi, nell’ultima fase pro-
gressismo e pessimismo si esaltano e si potenziano entrambi, e l’origi-
nale tentativo di conciliazione tra i due termini, che egli compie, non
significa in nessun modo vanificazione o attenuazione di uno dei due.
Le caratteristiche specifiche della posizione leopardiana appaiono
più chiare se ripercorriamo, sia pure in modo necessariamente som-
mario, l’evoluzione che il rapporto pessimismo-progressismo subisce
nel suo pensiero. Nel periodo che va, a un dipresso, dall’inizio della
«conversione letteraria» fino alla grande crisi pessimistica della pri-
mavera del ’19 – ma che per più aspetti si prolunga anche dopo quel-
la crisi, fin verso il ’22 – il Leopardi sembra orientarsi verso una mis-
sione di poeta civile quale lo auspicava il Giordani: poeta patriottico,
classicista, tendenzialmente repubblicano-russoiano: di un patriotti-
smo, quindi, per un verso più libresco, più legato al passato, più pro-
vinciale, per un altro più avanzato e democratico del patriottismo
riformatore-cristiano dei romantici lombardi.
Il cosiddetto «pessimismo storico» di questa prima fase non è, a
rigore, ancora pessimismo, cioè non si è ancora assolutizzato ed eret-

41
iVedi sopra, p. 81 sgg.
42
iCfr. Luporini, op. cit., p. 269.
43
iVedi sopra, p. 82 sg.
124 III. Alcune osservazioni sul pensiero del Leopardi

to a sistema. È piuttosto vivissima insofferenza dell’atmosfera sta-


gnante dell’Italia e dell’Europa della Restaurazione, vagheggiamento
di una società repubblicana, libera da superstizioni mortificanti e da
ascetismo ma anche da eccessi di razionalismo e di raffinatezza, capa-
ce di vivere una vita intensa sotto l’impulso di energiche e magnani-
me illusioni. La propria infelicità individuale è considerata, almeno
prevalentemente, dal Leopardi come un caso-limite dell’infelicità del-
la società italiana del suo tempo, condannata all’inattività e alla noia
(nella Canzone al Mai il motivo della noia ha una forte intonazione
politica), fisicamente decaduta per colpa di un’educazione ascetica che
tende a comprimere ogni impulso vitale. Recanati – e, in Recanati,
casa Leopardi – è il luogo in cui i mali comuni a tutta l’Europa della
Restaurazione si soffrono in modo particolarmente intenso e paradig-
matico. Ancora nella lettera dedicatoria della Canzone al Mai (1820,
ristampata con poche varianti nel ’24) il Leopardi dà un’interpre-
tazione politica del proprio atteggiamento pessimistico: «Ricordatevi
– scrive al conte Leonardo Trissino – ch’ai disgraziati si conviene ve-
stire a lutto, ed è forza che le nostre canzoni rassomiglino ai versi
funebri. Diceva il Petrarca, ed io son un di quei che ’l pianger giova. Io
non posso dir questo, perché il piangere non è inclinazione mia pro-
pria, ma necessità de’ tempi e volere della fortuna».44
Ma già in questa fase – e specialmente dalla primavera del ’19 in
poi – comincia a manifestarsi, in forma ancora sporadica, quello che
con espressione poco felice è stato chiamato il pessimismo cosmico,
cioè la tesi della radicale e insanabile infelicità dell’uomo. Alla con-
cezione di una Natura benefica, da cui gli uomini si sarebbero allon-
tanati causando la propria infelicità, subentra talvolta la visione
opposta, di una Natura matrigna che è essa la causa dell’infelicità
umana. Questi accenni sono da ricercare non tanto nello Zibaldone,
quanto in poesie o in abbozzi di poesie. «Natura / n’ha fatti a la
sciaura / tutti quanti siam nati» leggiamo nella canzone Per una don-
na inferma di malattia lunga e mortale (scritta nella primavera del ’19
e poi non pubblicata); e poco sotto: «E chi diritto guata, / nostra
famiglia (cioè il genere umano) a la natura è gioco».45 E in un abboz-

44
iPP, I, p. 183.
45
iIbid., pp. 298-299.
III. Alcune osservazioni sul pensiero del Leopardi 125

zo di idillio Alla Natura:46 «Sempre adorata mia solinga sponda / Deh


perché agli occhi miei furi la vista / Dell’incantevole e magico effetto
/ Che Natura concede alle creature. / Alle creature sì, ma non a tutte
... / Ahi a me madrigna, spietata madre! / Dimmi il perché di tal misu-
ra e peso. / Qual sfregio mai ti feci, il perché dimmi? / Da l’alveo
materno me traesti / Forse a scherno e ludibrio de’ mortali? / Mortal
pur io, non a lor secondo,47 / Né merto pena tal. Benedicesti / Pure la
terra di cui me plasmasti ... / (...) Opra delle tue man son dunque io,
/ Né disdegnar me puoi, qual belva i nati». C’è alla fine di questo
abbozzo, dopo una punta «blasfema», un ripiegamento: «Tu ridesti
forse della mia sorte. / Ridi pur, n’hai ben d’onde: oh gran prodezza!
/ Ridi dell’opra tua! Perdona o Matre; / È il dolore che parla, non par-
lo io ... / Son opra tua pur io: né mi fa credere / Che me tu lascierai
fra tante pene». Ma nell’Ultimo canto di Saffo, che è la compiuta rea-
lizzazione artistica di questo abbozzo informe, la nota «fiduciosa»
finale è, ovviamente, sparita; il canto è tutto una protesta contro l’in-
giustizia della disuguaglianza fisica, non sociale: la natura idillica del
paesaggio ha per contrapposto non la civiltà corrotta, ma la bruttezza
di Saffo, cioè una manifestazione abnorme della natura stessa, che è
motivo di infelicità insanabile per chi ne è soggetto e vittima.
È dunque senz’altro auspicabile una ricerca approfondita sulla ge-
nesi del pessimismo cosmico, come quella che preannuncia il Berar-
di.48 Essa permetterà di confutare sia quegli studiosi che hanno negato
ogni distinzione tra le due fasi del pessimismo leopardiano, sia quelli
che hanno asserito che il passaggio avviene in modo repentino e con-
cettualmente immotivato, col Dialogo della Natura e di un Islandese.
L’una e l’altra tesi, nella loro apparente opposizione, nascevano in
realtà da un identico desiderio: negare coerenza e organicità di svi-
luppo al pensiero leopardiano, dimostrare che le idee del Leopardi

46
iIbid., p. 375 sg. Cfr. C. Muscetta, Ritratti e letture, Milano 1961, pp. 244 sg. | Ma sul-
l’autenticità di questo abbozzo, pubblicato da fonte sospetta, ho adesso forti dubbi. Ritornerò
tra breve sull’argomento |.*
47
iIn margine a questo verso, secondo il primo editore, l’autografo recherebbe un «son». Ma
anche altri versi zoppicano.
48
iRagione e stile in Leopardi cit., p. 527 n. 57.
*iLa non-autenticità dell’abbozzo di Idillio alla Natura si può ormai considerare certa; **
e su tutto il problema del passaggio dalla prima alla seconda concezione della natura vedi quan-
to ho aggiunto qui {sotto}, p. 227 sgg.
126 III. Alcune osservazioni sul pensiero del Leopardi

hanno l’immediatezza passionale e fantastica, la mancanza di valore


autonomo che è caratteristica delle idee dei poeti puri.
Nel controbattere queste tesi, bisognerà, tuttavia, stare attenti a
non presentare il passaggio dal primo al secondo pessimismo come
frutto di uno sviluppo puramente concettuale. E giusto, sì, ricordare
che ogni «puro vitalismo» ha in sé una «contraddizione intrinseca»
che lo porta a convertirsi in pessimismo.49 È giusto analizzare le ambi-
valenze insite fin dall’inizio nel concetto leopardiano di «natura», e
osservare che il Leopardi doveva necessariamente, prima o poi, ren-
dersi conto che quella stessa Natura che aveva dato all’uomo le beati-
ficanti illusioni gli aveva però anche dato la ragione destinata a dis-
solverle (né era facile incolpare soltanto l’uomo, e non in ultima analisi
la Natura stessa, dell’«abuso» della ragione e dell’allontanamento dal-
lo stato primitivo).50 Si può anche aggiungere che nella prima fase del
pensiero leopardiano la Natura era concepita come una madre pieto-
sa che aveva velato all’uomo, mediante le illusioni, l’amara verità del-
la sua condizione: dunque nemmeno lo stato originario dell’umanità
era uno stato di felicità obiettiva, ma piuttosto di infelicità velata:51
facile, dunque, da questa esaltazione della Natura madre pietosa, pas-
sare alla denuncia della Natura matrigna, proprio in quanto essa non
aveva dato agli esseri viventi la felicità obiettiva, non li aveva resi
esenti da malattie, vecchiezza, morte. E infine, come cercherò di
mostrare nel saggio seguente (p. 163 sgg.), la scoperta del pessimismo
antico, compiuta dal Leopardi nel 1823, contribuì a convincerlo che
l’infelicità non era una conseguenza dell’eccessivo razionalismo dei
tempi moderni, ma un dato costante dell’esistenza umana.
Tutto questo è giusto, ma non bisogna dimenticare che la nuova
concezione della Natura malefica nasce nel Leopardi, primariamente,
non sul filo logico di tali argomentazioni, ma per l’urgere di nuove
esperienze pratiche, non sistemabili nel quadro del «pessimismo sto-
rico». ** Queste esperienze pratiche consistono nell’aggravarsi delle
sue condizioni di salute (primavera del ’19) e, già prima, nell’accen-
tuato senso di infelicità per la sua deformità fisica.
49
iLuporini, p. 246. Il Luporini ricorda Nietzsche, e si potrebbe ricordare il cirenaico Ege-
sia,  πεισινατος, al quale il Leopardi pensò come a protagonista di un’operetta morale (PP,
I, p. 700; Egesia è rammentato anche nel Dialogo di Plotino e di Porfirio).
50
iVedi i lavori del Biral cit. alla nota 15, e già M. Porena, Il pessimismo di G. Leopardi, 1923,
rist. in Scritti leopardiani, Bologna 1959, p. 151 sg.
51
iCfr. A. L. De Castris in «Convivium» 1959, p. 437 n. 1.
III. Alcune osservazioni sul pensiero del Leopardi 127

È questo un punto che può prestarsi con estrema facilità a grosso-


lanissimi equivoci, ma che proprio per ciò va affrontato, non eluso o
negato. Il Leopardi ha sempre protestato con piena ragione contro
quegli avversari che credevano di potersi esimere dalla confutazione
razionale del suo pessimismo presentandolo come il mero riflesso di una
condizione patologica (pessimista perché gobbo!), privo quindi di ogni
validità generale.52 Che questa tesi, nata dal livore clericale di Niccolò
Tommaseo, ripresa poi dai positivisti alla Sergi e infine riutilizzata da
Benedetto Croce,53 sia da respingere, non c’è dubbio. Ma il vero modo
di respingerla non consiste nel negare, come pure si è fatto, ogni inci-
denza della malattia e della deformità fisica nella genesi della Weltan-
schauung leopardiana, di fare, quindi, del pessimismo leopardiano un
fatto puramente «spirituale» o, seguendo un altro indirizzo, pura-
mente politico-sociale. Bisogna invece riconoscere che la malattia det-
te al Leopardi una coscienza particolarmente precoce ed acuta del
pesante condizionamento che la natura esercita sull’uomo, dell’infeli-
cità dell’uomo come essere fisico. Come certe esperienze personali di
rapporti di lavoro sviluppano nel proletario una consapevolezza par-
ticolarmente intensa del carattere classista della società capitalistica
(quel «senso di classe» così difficile ad acquisire per l’uomo di sini-
stra di origine non proletaria), così la malattia contribuì potentemen-
te a richiamare l’attenzione del Leopardi sul rapporto uomo-natura.
Il torto dei cattolici alla Tommaseo, dei positivisti alla Sergi, degli
idealisti alla Croce non sta nell’aver affermato l’esistenza di un rap-
porto tra «vita strozzata» e pessimismo, ma nel non aver riconosciu-
to che l’esperienza della deformità e della malattia non rimase affatto
nel Leopardi un motivo di lamento individuale, un fatto privato e
meramente biografico, e nemmeno un puro tema di poesia intimisti-
ca, ma divenne un formidabile strumento conoscitivo. Partendo da
quell’esperienza soggettiva il Leopardi arrivò a una rappresentazione

52
iVedi in particolare il Dialogo di Tristano e di un amico e la lettera al de Sinner del 24 mag-
gio 1832 (il passo in francese).
53
iUna caratteristica saliente del saggio di Croce sul Leopardi (in Poesia e non poesia) è la spre-
giudicatezza con cui egli utilizza, pur di combattere il pessimismo leopardiano, argomenti posi-
tivistici offertigli dalla scuola lombrosiana. Con analoga spregiudicatezza Croce si servì di argo-
menti empiriocriticisti e pragmatisti per negare il valore conoscitivo delle scienze fisiche, usò
strumentalmente il marxismo per combattere (da destra!) le ideologie democratico-umanitarie,
e via dicendo. Le esigenze politico-culturali (talvolta politico-culturali in senso deteriore) sopraf-
facevano in lui di gran lunga le esigenze scientifiche.
128 III. Alcune osservazioni sul pensiero del Leopardi

del rapporto uomo-natura che esclude ogni scappatoia religiosa (sia nel
senso delle religioni tradizionali, sia in quello dei miti umanistici) e
che, per il fatto di essere personalmente sofferta e artisticamente tra-
sfigurata, non perde nulla della sua «scientificità».
Anche nei riguardi del «male fisico», beninteso, il Leopardi non
trascurò mai di attribuire la sua parte di colpa alla società sua con-
temporanea, a quell’educazione tutta «spirituale» e malsana di cui egli
e tutta la sua generazione avevano così gravemente sofferto. Nell’im-
portanza che greci e romani avevano dato all’educazione fisica vide
sempre uno dei punti di superiorità degli antichi sui moderni.54 Anco-
ra nel Tristano – cioè in pieno «pessimismo cosmico» – ribadirà con
gran forza questo punto: «... tra noi già da lunghissimo tempo l’edu-
cazione non si degna di pensare al corpo, cosa troppo bassa e abbietta:
pensa allo spirito: e appunto volendo coltivare lo spirito, rovina il cor-
po: senza avvedersi che rovinando questo, rovina a vicenda anche lo
spirito»; e chiarirà che questo difetto dell’educazione moderna non è
eliminabile con semplici riforme di istituzioni scolastiche – come pen-
savano i pedagogisti cattolico-liberali –, ma implica tutta una nuova
etica, antiascetica e anticristiana, e quindi una riforma radicale della
società: «E dato che si potesse rimediare in ciò all’educazione, non si
potrebbe mai senza mutare radicalmente lo stato moderno della società,
trovare rimedio che valesse in ordine alle altre parti della vita privata e
pubblica, che tutte, di proprietà loro, cospirarono anticamente a perfe-
zionare o a conservare il corpo, e oggi cospirano a depravarlo».55
Ma era pur evidente che la migliore società di questo mondo, men-
tre avrebbe potuto eliminare le ingiustizie di origine politico-sociale (e
anche su questo punto rimasero nel pensiero del Leopardi forti riser-
ve), avrebbe potuto soltanto esercitare un’azione palliativa nei riguar-
di nell’oppressione esercitata dalla natura sull’uomo. E quindi l’ap-
profondimento di questo tema doveva prevalentemente orientare il
pessimismo del Leopardi in senso «cosmico». Il che accade, come
abbiamo visto, in modo ancora episodico nel ’19, e poi sistematica-
mente a partire dal ’23-’24.

54
iCfr. per esempio Zib., 115, 207, 223, 1631 sg., 4289, e la canzone A un vincitore nel pallone.
55
iSull’utilità della ginnastica aveva insistito per esempio Gino Capponi nelle sue Considera-
zioni pedagogiche sugli Istituti di Hofwyl («Antologia» del Vieusseux, gennaio-marzo 1822; ora
in A. Gambaro, La critica pedagogica di G. Capponi, Bari 1956, p. 231), ma nel quadro di un’e-
ducazione cristiana, che asseriva pur sempre il primato dello spirito sul corpo.
III. Alcune osservazioni sul pensiero del Leopardi 129

Con piena ragione il Luporini considera come una scelta decisiva per
l’ulteriore sviluppo del pensiero leopardiano l’avere, a questo punto,
rifiutato il ricorso a Dio, il rifugio nel mistero e nella trascendenza, l’a-
vere, anzi, imboccato la strada opposta, di un ateismo e materialismo
sempre più conseguente.56 È qui, in effetti, che si misura tutta la gran-
dezza umana e intellettuale del Leopardi, in confronto ai tanti «spiri-
ti inquieti» del suo e del nostro secolo, per i quali il pessimismo è sta-
to solo l’anticamera della conversione religiosa. La constatazione della
fragilità dell’uomo di fronte alla natura non porta il Leopardi a fab-
bricarsi un mitico «regno dello Spirito», un altro mondo (comunque
inteso) in cui l’uomo prenderebbe la sua rivincita. Egli porta avanti,
invece, un’analisi del rapporto uomo-natura in termini totalmente
demistificati. Dal Dialogo di un folletto e di uno gnomo fino al Coperni-
co e oltre, ogni antropocentrismo e teleologismo viene radicalmente
criticato e deriso. L’uomo è «una menomissima parte dell’universo»,
e la natura segue un suo ritmo di produzione-distruzione del tutto indi-
pendente da ogni fine o interesse del singolo uomo o dell’umanità nel
suo complesso. La nozione di spirito, come qualcosa di essenzialmente
diverso e contrapposto alla materia, si rivela illusoria.57 Senziente e
pensante è, nell’uomo, la materia stessa: il cervello, non l’anima.58
Al tempo stesso, il Leopardi continua a svolgere, raccordandola col
pieno materialismo ora da lui raggiunto, quella «teoria del piacere»
che era sorta nel suo pensiero alquanto prima, come estrema conse-
guenza nichilistica del suo iniziale vitalismo.59 Più di uno studioso ha

56
iLuporini, op. cit., p. 246 sgg. Oltre che da una pseudo-soluzione religiosa, il materialismo
ha salvato il Leopardi anche da quella tendenza al «misantropismo» che si era espressa attorno
al ’20 negli abbozzi di operette Galantuomo e Mondo e Senofonte e Machiavello, e che costitui-
va un rischio insito nell’isolamento stesso del Leopardi. Il memorabile pensiero del 2 gennaio
1829 (Zibaldone, p. 4428: «La mia filosofia, non solo non è conducente alla misantropia, come
può parere a chi la guarda superficialmente, e come molti l’accusano; ma di sua natura esclude
la misantropia ... La mia filosofia fa rea d’ogni cosa la natura, e discolpando gli uomini total-
mente, rivolge l’odio, o se non altro il lamento, a principio più alto, all’origine vera de’ mali de’
viventi»), la cui importanza è ben messa in rilievo dal Luporini, non rappresenta solo una pole-
mica verso gli avversari, ma un chiarimento con se stesso, lo scongiuramento di una possibile
deviazione del pessimismo. Nello stesso senso è significativo, e si potrebbe dire simbolico, il
mutamento del nome del personaggio autobiografico leopardiano da «Misenore» in «Eleandro».
57
iCfr. soprattutto Zib., 4111 (11 luglio 1824) e 4206-08 (26 settembre 1826).
58
iZib., 4251-53 (9 marzo 1827), 4288 sg. (18 settembre 1827). Ma vedi già il pensiero del
9 settembre 1821 (p. 1657) che comincia: «Tutto è materiale nella nostra mente e facoltà». Una
chiara esposizione del materialismo leopardiano è data dal Tilgher, La filosofia del Leopardi cit.,
p. 88 sgg.
130 III. Alcune osservazioni sul pensiero del Leopardi

visto, a questo punto, una contraddizione fra «pessimismo cosmico»


e materialismo. Il materialismo avrebbe dovuto produrre nel Leopar-
di, si dice, l’imperturbabilità di uno Spinoza o di ** un Holbach:60 il
pessimismo leopardiano costituirebbe un residuo di antropocentri-
smo, o addirittura sarebbe la spia di un’esigenza religiosa,61 o rivele-
rebbe l’impossibilità di trovare nel poeta Leopardi una coerenza filo-
sofica. In realtà il collegamento tra materialismo e pessimismo è dato
proprio dalla teoria del piacere, da quell’edonismo che è un elemento
essenziale del pensiero leopardiano. Non contrasta con un materiali-
smo conseguente la constatazione che l’uomo ha una costituzione fisi-
co-psichica tale da procurargli molto più sofferenza che godimento.
L’infelicità umana di cui parla il Leopardi non è il mal du siècle roman-
tico né una fumosa angoscia esistenziale: è (e il Leopardi se ne è reso
conto man mano che diventava materialista) anzitutto un’infelicità
f i s i c a , basata su dati ben concreti: malattie, vecchiezza, fugacità del
piacere. Il Leopardi naturalmente sa bene che dalla base edonistica si
sviluppano nell’uomo esigenze di ordine superiore (sentimentale, mo-
rale, culturale ecc.). Ma anche su questo piano più elevato ha ragion
d’essere il pessimismo, poiché i valori elaborati dalla civiltà umana
sono estremamente caduchi, e la natura li annienta non meno di quan-
to annienti gli organismi biologici. Il Leopardi è critico spietato di
t u t t i i miti dell’immortalità [, anche dell’immortalità] [cr] ** delle
opere.62 La morte stessa dell’individuo, che sul piano meramente edo-
nistico-individuale si può considerare, ed è considerata dal Leopardi,
come un non-male, un oggetto di timore infondato (di un timore, tut-

59
iSull’anteriorità della «teoria del piacere» rispetto al materialismo hanno giustamente insi-
stito il Tilgher (op. cit., p. 88) e il Luporini (pp. 245 sg., 251 sgg.), anche se l’analisi luporiniana
della «crisi del vitalismo» leopardiano rischia di essere, in certi passaggi, troppo sottile e tecnici-
stica.
60
iVedi per esempio F. Tocco, Il carattere della filosofia leopardiana, nel vol. miscellaneo Dai
tempi antichi ai tempi moderni: da Dante al Leopardi, Milano s.d. (1904), p. 571 sg.; G. Gentile,
Manzoni e Leopardi, Milano 1928, p. 102 sgg.; B. Biral, nel «Ponte» XV, 1959, p. 1272 sgg.; e
molti altri.
61
iÈ questa l’interpretazione del pessimismo leopardiano instaurata dal de Sinner e dal Gio-
berti, ripresa più recentemente da Giulio Augusto Levi e da altri studiosi cattolici.
62
iÈ superfluo ricordare quanto spesso ricorra nel Leopardi il tema dell’inanità e caducità del-
la gloria. In ogni caso, qualsiasi mito dell’immortalità delle opere trova, per il Leopardi, la sua
confutazione nella sicura previsione di una catastrofe cosmica che annienterà il nostro mondo:
vedi la chiusa del Cantico del gallo silvestre e il Frammento apocrifo di Stratone da Lampsaco; e la
Ginestra, specialmente vv. 41-51.
III. Alcune osservazioni sul pensiero del Leopardi 131

tavia, difficile a eliminarsi, e che dunque contribuisce all’infelicità del-


la maggioranza degli uomini), ridiviene un male al livello dei rapporti
affettivi tra le persone, per la lacerazione dell’«amante compagnia» **
che essa produce.63
Ciò che dall’esposizione di Luporini non risulta, mi sembra, con
sufficiente evidenza, è che questo passaggio al materialismo conse-
guente non coincide con una spinta in senso più democratico, ma si ac-
compagna per tutto un periodo (all’ingrosso dal ’23 al ’29) ad una for-
te diminuzione dell’interesse politico, a un disimpegno da quella
missione di poeta civile a cui il Leopardi non aveva rinunciato fino a
tutto il ’21. Sono gli anni in cui il Leopardi si sente particolarmente
vicino, dapprima, a Luciano (e per un breve periodo anche a Platone,
non sul piano metafisico, ma ironico-lirico), e poi soprattutto alla filo-
sofia ellenistica.64 La conversione alla prosa ha precisamente questo
significato, di rinuncia all’eroica disperazione e alle magnanime illu-
sioni, di adozione di un atteggiamento rassegnato-ironico di fronte
alla realtà.65
Il Luporini ha tutte le ragioni di polemizzare con chi, a cominciare
dal De Sanctis, considera la morale epittetèa come l’unica coerente col
pessimismo leopardiano, e l’altra, la morale eroica, come «tirata co’
denti, non dedotta bene, anzi in contraddizione con le premesse».66

63
iCosì si risolve, mi pare, l’apparente contraddizione tra le diverse affermazioni del Leopar-
di riguardo alla morte (cfr. M. Porena, Scritti leopardiani cit., p. 159 sg.) Di tale ambivalenza del-
la morte le due più compiute rappresentazioni leopardiane, lirico-affettive e ragionative insieme,
sono le due poesie «sepolcrali» (Sopra un basso rilievo ... e Sopra il ritratto di una bella donna ...).
64
iVedi il saggio seguente, in particolare pp. 168 sgg. (Platone), 174 sgg. (Epitteto e altri filo-
sofi ellenistici).
65
iSu questo periodo, dopo il De Sanctis (Giacomo Leopardi, capp. XXI sgg.), è ritornato con
finezza di analisi e novità di risultati E. Bigi, Dalle «Operette morali» ai «Grandi idilli», in «Bel-
fagor» XVIII, 1963, p. 129 sgg.* **
66
iLuporini, p. 259 sgg. (cfr. De Sanctis, Giacomo Leopardi, cap. XXV).
*iIl saggio del Bigi è ora ripubblicato nella Genesi del «Canto notturno» cit., p. 83 sgg.; i
passi a cui particolarmente mi richiamavo sono a pp. 92-94, 108 sgg. Con la lettera al Vieusseux
del 4 marzo 1826 (qui {sotto}, p. 133) è da confrontare il pensiero dello Zibaldone (4138 sg.,
12 maggio 1825) in cui il Leopardi distingue il «metafisico» (il cui interesse è rivolto soprattutto
ai rapporti tra l’uomo e la natura) dal «filosofo di società»: cfr. Savarese, op. cit., p. 109 e n. 61.
Sul periodo di relativa «apoliticità» leopardiana ({qui}, pp. 131-134) vedi Ersilia Alessandrone
in «Annali della Scuola Normale», cl. di Lettere, 1966, p. 331, n. 11: la Alessandrone sostiene
una persistenza di interessi, se non politici in senso stretto, politico-culturali, e di una conce-
zione militante della letteratura, ancora nel 1823-24 {La postilla vale anche per le successive note
68 e 70 – N. d. C.}.
132 III. Alcune osservazioni sul pensiero del Leopardi

Ha anche ragione di notare che nell’adesione alla morale epittetèa vi


è nel Leopardi molto pudore ironico e una non mai sopita nostalgia
della morale eroica. Il Leopardi, certo, non si acquetò mai in una
morale tardo-antica dell’atarassìa, che sarebbe stata un’evasione dal
pessimismo lucido e razionale, in un certo senso analoga all’evasione
«buddistica» di Schopenhauer. Per di più, Epitteto fu, per così dire,
controbilanciato da Teofrasto, cioè da un moralista empirico e mon-
dano, il quale insegnava, seguendo l’Etica Nicomachea, che non basta-
no virtù e saggezza a dare la felicità, ma che è indispensabile anche il
concorso di circostanze esteriori favorevoli.67 Ma quello che mi sem-
bra vada riaffermato, è che la suggestione della morale epittetèa – o,
più in generale, ellenistica – non fu sentita dal Leopardi sporadica-
mente per tutto l’arco della sua vita, nei momenti di stanchezza e di
pausa della tensione eroica, ma improntò di sé sostanzialmente u n a
f a s e della vita e del pensiero leopardiano, quella degli anni di Bolo-
gna e del primo soggiorno fiorentino (1825-’27); e che essa segnò il
culmine di un periodo di fondamentale apoliticità.
Di tale apoliticità non è difficile indicare i motivi. Intanto, bisogna
ricordare che al movimento di rivolta politico-culturale contro la
Restaurazione, culminato nei moti del ’20-’21, era succeduto in tutta
Italia, dopo la sconfitta di quei moti, un periodo di ripiegamento e di
stasi. Tutta una generazione di intellettuali abbandonò allora la pro-
spettiva rivoluzionaria e passò ad una prospettiva «riformistica». Lo
spostamento dell’epicentro della cultura progressista da Milano a
Firenze, dal «Conciliatore» all’«Antologia», coincide appunto con
questa svolta. La nuova ondata rivoluzionaria del ’31 troverà quasi
tutti questi intellettuali su posizioni di sfiducia e di estraneità alle
«sette»: perfino il Giordani, che aveva esultato per i moti del ’20 e
che ideologicamente e umanamente non si amalgamò mai con l’am-
biente del Vieusseux e del Capponi, si mantenne freddo e sfiduciato
dinanzi ai moti emiliani e romagnoli del ’31 – mentre poi di nuovo
parteciperà agli entusiasmi del ’48 –. L’abbandono della prospettiva
risorgimentale da parte del Leopardi, se era già implicito nel nuovo
corso impresso al suo pensiero dalla crisi personale del ’19, ricevette
certo un forte impulso dalla crisi politica del ’21. Accanto alla più

67
iVedi il saggio seguente, p. 163 sg.
III. Alcune osservazioni sul pensiero del Leopardi 133

vasta «delusione storica» per la sconfitta della rivoluzione francese,


a cui si riferisce costantemente il Luporini (e che forse andrebbe essa
stessa meglio circostanziata e distinta nei suoi vari motivi), non biso-
gna trascurare questa nuova delusione prodotta dal fallimento dei
moti di Napoli e di Torino, la quale si farà ancora sentire chiara-
mente nei Paralipomeni, sommata all’esperienza dell’ulteriore falli-
mento del ’31. Il cupo pessimismo etico-politico del Bruto minore
(dicembre del ’21) è a n c h e un riflesso di quella delusione. È ben
naturale che, in un’atmosfera ormai priva di tensione rivoluzionaria,
a quell’estrema protesta titanistica seguisse una fase più rassegnata
e diseroicizzata.
Le Operette morali, progettate dal Leopardi ancora nel luglio del ’21
come una prosecuzione, su altro piano, del suo impegno di educazio-
ne politica e civile («le armi del ridicolo» usate «a scuotere la mia
povera patria, e secolo»: Zibaldone, p. 1393 sg.), segnarono di fatto,
tre anni dopo, il temporaneo abbandono di quell’impegno. Al Leopar-
di «questo ridicolissimo e freddissimo tempo» appariva ormai refrat-
tario non solo alla lirica politica appassionata, ma anche alla satira
politica.
Ma oltre a ciò bisogna tener conto del fatto che il passaggio del Leo-
pardi a un materialismo coerente, che avviene appunto dal ’23 in poi,
costituì, almeno in un primo tempo, un incentivo al disimpegno poli-
tico. Mentre il pessimismo «storico», democratico-russoiano degli anni
precedenti era, per così dire, spontaneamente progressista sul piano
politico-sociale, molto meno facile e immediato era il compito di coor-
dinare il nuovo pessimismo materialistico con un atteggiamento poli-
tico-sociale progressista. La persuasione dell’infelicità radicale di tut-
ti gli esseri viventi, a cui il Leopardi era giunto, poteva far apparire
come trascurabili gli sforzi per conquistare migliori istituzioni. A que-
sta conclusione il Leopardi effettivamente giunse, per esempio in quel-
la lettera al Vieusseux del 4 marzo 1826 su cui giustamente hanno
richiamato l’attenzione il Bigi e il Biral: «gli uomini sono a’ miei occhi
quello che sono in natura, cioè una menomissima parte dell’universo,
e i miei rapporti con loro e i loro rapporti scambievoli non m’interes-
sano punto, e non interessandomi, non gli osservo se non superficia-
lissimamente. Però siate certo che nella filosofia sociale io sono per
ogni parte un vero ignorante. Bensì sono assuefatto ad osservar di con-
134 III. Alcune osservazioni sul pensiero del Leopardi

tinuo me stesso, cioè l’uomo in se, e similmente i suoi rapporti col


resto della natura ...».68 **
Il Leopardi progressivo di Luporini soffre un po’ di un’indetermina-
tezza del concetto di progressismo, che non è un fatto isolato nella sto-
riografia marxista. La lotta per la liberazione dell’uomo dai pregiudizi
religiosi e metafisici e per la conquista di una visione del mondo inte-
gralmente laica è logicamente – ed è stata anche storicamente, ed è tut-
tora – connessa con la lotta contro ogni sorta di oppressione politico-
sociale. Tuttavia connessione non significa identità immediata, ed è
facile citare molti casi di sfasatura, o addirittura di temporaneo con-
trasto tra progressismo politico-sociale e progressismo «scientifico»,
tra democraticità e razionalismo laico. Questo punto è stato messo
bene a fuoco da Antonio La Penna in un recente articolo su Lucrezio.69
Il problema (del progressismo di Lucrezio) è tutt’uno con quello dell’atteggiamento da
prendere verso il razionalismo e il materialismo del passato, anche quando essi sia-
no stati politicamente agnostici o addirittura reazionari. Orbene razionalismo e
materialismo reazionario, quando hanno portato ad una conoscenza più esatta del-
la natura e della storia, quando hanno segnato un progresso scientifico, hanno pur
sempre accresciuto le condizioni per una liberazione totale dell’uomo, per una libe-
razione, cioè, sia dall’errore sia dalla soggezione sociale e politica: appunto perché
la liberazione totale, a cui aspira il marxismo, è fondata sulla conoscenza scientifi-
ca della realtà naturale e storica. Credo di non errare affermando che Machiavelli fu
meno democratico di Savonarola: eppure Machiavelli conta per il marxista molto più
di Savonarola come base della sua visione storica e politica. Illuminismo e marxismo
sono, a gradi diversi, due sintesi della chiarezza razionale e della spinta liberatrice
che prima trovava espressione in utopie e in miti religiosi.

Nell’illuminismo stesso i due momenti della sintesi di cui parla il La


Penna sono presenti, nei vari pensatori, in molto varia misura; e pro-
prio l’illuminismo fornisce, per la distinzione tra progressismo scien-
tifico e progressismo politico-sociale, esempi anche più pertinenti di
quelli di Machiavelli e Savonarola. Basti pensare a Rousseau demo-
cratico avanzatissimo, eppure molto meno laico e razionalista di La
Mettrie, Holbach, Helvétius, materialisti conseguenti ma molto mo-
deratamente progressisti in politica.

68
iCfr. Biral, La «posizione storica» cit., p. 17 sg.; Bigi, Dalle «Operette morali» ai «Grandi
idilli» cit., p. 135 sg.*
69
iNe «L’Unità» del 3 novembre 1963.
*i{Cfr. la precedente postilla alla nota 65; per il riferimento alla lettera al Vieusseux del 4 mar-
zo 1826, valga: «qui sopra» – N. d. C.}.
III. Alcune osservazioni sul pensiero del Leopardi 135

La confusione tra i due piani può condurre a forzature opposte: a


presentare come democratico ogni laico e materialista, oppure a liqui-
dare senz’altro come reazionario in senso globale il materialista anti-
democratico. Il primo caso si è verificato con Epicuro e Lucrezio; il
secondo, col positivismo del secondo Ottocento, che tuttora non tro-
va nella storiografia democratica e marxista un’equa valutazione.
Nel caso del Leopardi, non si tratta minimamente di limitare il suo
progressismo al piano razionalista-laico. Progressista il Leopardi fu
anche sul piano politico-sociale: questa conquista del saggio di Luporini
non si cancella. Ma la distinzione tra i due piani serve, per il Leopardi,
a raggiungere una visione più articolata del suo pensiero, a riconoscere
che in diversi periodi della sua vita ora l’uno ora l’altro progressismo
furono predominanti, a rendersi conto, infine, che tra l’uno e l’altro vi
furono delle collisioni e che l’ultimo Leopardi è caratterizzato appunto
dallo sforzo di armonizzare questi due aspetti del proprio pensiero. Nel
saggio luporiniano, invece, il materialismo è preso in esame – e valuta-
to positivamente – quasi soltanto in funzione del progressismo politico-
sociale (pp. 251-254): il momento materialistico viene ad assumere
importanza non in sé, ma come raccordo tra il primo e l’ultimo Leo-
pardi, come ancoraggio contro il rischio di esser travolto dai flutti del-
l’irrazionalismo prima di aver elaborato la nuova morale laica e com-
battiva. Di qui quella sottovalutazione delle Operette morali a cui già
abbiamo accennato; di qui, anche, il fatto che, fra gli ispiratori del pen-
siero leopardiano, sono sempre presenti a Luporini i «filosofi politici»
Hobbes, Rousseau e Voltaire, ma non è nemmeno una volta ricordato
il «materialista volgare» Holbach, a cui pure, come abbiamo accenna-
to (p. 122 n. 40), il Leopardi deve alcuni spunti importanti. **

4. Il nuovo vigore che il motivo della fraternità umana assume a


partire dal Dialogo di Plotino e di Porfirio (1827),70 la nuova grande fio-
ritura lirica dei canti pisano-recanatesi del ’28-’29, segnano l’abban-
dono definitivo della morale dell’atarassìa, ma non ancora un deciso
ritorno all’interesse politico. Fu il contatto polemico con l’ambiente
cattolico-liberale, specialmente nel secondo soggiorno fiorentino e poi
nel napoletano, a porre dinanzi al Leopardi il problema di ristabilire,

iCfr. l’art. cit. del Bigi, p. 146 sgg.*


70

*i{Cfr. la precedente postilla alla nota 65; per il riferimento alla lettera al Vieusseux del 4 mar-
zo 1826, valga: «qui sopra» – N. d. C.}.
136 III. Alcune osservazioni sul pensiero del Leopardi

su basi necessariamente diverse che nel ’18-’21, un nesso tra il proprio


pessimismo e un atteggiamento politico progressista.
Il cattolicesimo liberale rappresentava qualcosa di particolarmente
avverso a tutto il pensiero del Leopardi. Era il mito del progresso, pri-
vato della carica di lucido razionalismo che aveva avuto nel Settecen-
to francese e riconciliato coi vecchi miti cattolici. Era l’esaltazione
delle conquiste tecnico-scientifiche (il vapore, la diffusione rapida del-
le notizie: si pensi alla satira della Palinodia) accompagnata però dalla
rinuncia ad una visione veramente scientifica, cioè laica, della realtà.
Era il cattolicesimo ottimista – mentre il Leopardi, finché aveva cre-
duto di poter conciliare in qualche modo il proprio pessimismo col cri-
stianesimo, aveva puntato proprio sulla rappresentazione pessimisti-
ca che il cristianesimo fa di questo mondo –.71
A un tale ambiente gli scritti del Leopardi, e in particolar modo le
Operette morali, erano apparsi come l’espressione di un ateismo che
negava insieme la religione e il progresso; che si opponeva, quindi,
totalmente allo «spirito del secolo».72 Né questi nuovi detrattori era-
71
iIl progressivo distacco del Leopardi dal cristianesimo è analizzato con minuta documenta-
zione dal Porena, Scritti leopardiani cit., pp. 161-169. Sul perdurare fin verso il ’22 di motivi cri-
stiano-pessimistici nel Leopardi si soffermò il Carducci (Degli spiriti e delle forme ecc., in Opere,
ed. nazionale, XX, pp. 72-80), con un certo compiacimento a cui non dovettero essere estranee
le vaghe nostalgie religiose dei suoi ultimi anni (quel saggio è del ’98, l’anno dopo della Chiesa di
Polenta). Nello stesso tempo, l’antimanzoniano Carducci pensava agli Inni cristiani progettati dal
Leopardi nel ’19 come a una fusione di religiosità popolare, deismo rivestito di forme classiche e
patriottismo, da contrapporre agli Inni sacri del Manzoni «tutti evangelo e cristianesimo illumi-
nato» (ivi, p. 75), e deplorava che il Leopardi non avesse portato a termine quel disegno.
72
iManca tuttora uno studio soddisfacente sulle reazioni suscitate dagli scritti del Leopardi
nei suoi contemporanei, non solo dal punto di vista critico-letterario, ma anche da quello ideo-
logico.* I lavori di Bianca Stirpe (G. L. nella critica italiana dei suoi tempi, «Riv. di cultura»,
Roma, IV, 1923, pp. 189 sgg., 254 sgg., 302 sgg., 399 sgg.) e di M. Marti (La fortuna del L. nel-
la critica predesanctisiana, «Antico e Nuovo», genn.-febbr. 1946, p. 13 sgg.; genn.-marzo 1947,
p. 31 sgg.) possono provvisoriamente servire come raccolte di materiali tutt’altro che complete
**; cfr. anche il proemio del Moroncini all’edizione delle Operette, Bologna 1929, I, pp. XVIII-
XXVI, e le relazioni dei giudizi per il premio della Crusca pubbl. da G. Ferretti, «Giorn. stor.
lett. ital.» LXII, 1918, p. 49 sgg. Nulla di nuovo reca Maria Grazia Biovi, I recensori di Leopardi,
«Paragone» Letteratura, XII, 1961, fasc. 134, p. 12 sgg. Un profilo molto felice – ma, confor-
me al suo assunto, incentrato più sulle valutazioni della poesia che del pensiero leopardiano – è
nel cap. I della storia della critica leopardiana di E. Bigi (I classici italiani nella storia della criti-
ca a cura di W. Binni, II, Firenze 19612, p. 353 sgg.). Sulle diverse linee interpretative del pen-
siero leopardiano nell’Ottocento, meglio di tutti, nella sua brevità, L. Blasucci, «Giorn. stor.
letter. ital.» CXXXIX, 1962, p. 562 sg.
*iSulla critica leopardiana nell’Ottocento vedi la relazione tenuta da Mario Fubini al con-
vegno recanatese dell’ottobre 1967, di prossima pubblicazione negli Atti di quel convegno (Leo-
pardi e l’Ottocento). ** Lì apparirà anche un notevole intervento di A. Leone De Castris.
III. Alcune osservazioni sul pensiero del Leopardi 137

no puri e semplici reazionari che il Leopardi pote[sse] ** trascurare.


Stavolta le critiche venivano da un’opinione pubblica, a suo modo,
illuminata e progressista; e l’accusa di irreligione era (ben diversa-
mente dalle critiche che il Leopardi aveva ricevuto in occasione delle
prime canzoni patriottiche) congiunta strettamente a quella di scarso
patriottismo e di sfiducia nell’umanità. Che, del resto, una parte di
quelle accuse trovasse risonanza anche fuori dell’ambiente liberale-
cattolico, anche tra l’opinione pubblica risorgimentale in senso largo,
lo dimostra il saggio di Pietro Giordani sulle Operette morali, destina-
to all’«Antologia» del Vieusseux ma poi non pubblicato: il Giordani,
come già accennammo, dichiarava di condividere il pessimismo leo-
pardiano e lo difendeva dalle critiche dei moderati toscani, ma espri-
meva anch’egli il desiderio di un maggiore impegno politico da parte
del Leopardi.73
Il bisogno di rispondere a queste accuse di apoliticità e di egocen-
trismo («il proprio petto / esplorar che ti val? Materia al canto / non cer-
car dentro te», sono le parole che il Leopardi mette in bocca ad uno dei
suoi oppositori nella Palinodia) costituì certamente la spinta decisiva
per la ripresa polemica e combattiva, per il nuovo titanismo dell’ultimo
Leopardi. Questo movente in qualche misura «esterno» dell’ultima
fase del pensiero leopardiano non toglie nulla (diversamente da come
è parso a qualche critico) alla sua profonda sincerità e coerenza: dimo-
stra piuttosto la capacità del Leopardi di reagire al nuovo clima politi-
co-culturale, allargando il respiro umano e sociale del proprio pessimi-
smo, fondando una morale integralmente laica e smitizzata.
Al compromesso ideologico attuato dai cattolici liberali il Leopardi
contrappone, in quest’ultima fase, una grande ripresa di temi illumi-
nistici e materialistici.* Non c’è libertà politica, egli afferma, senza
73
iVedi sopra, pp. 82 sg., 123. In questo clima di distacco e d’incomprensione tra il Leopar-
di e i liberali del suo tempo vanno inquadrati due episodi che ferirono particolarmente il suo ani-
mo e suscitarono la sua aspra reazione: la diceria, alla quale credette per un momento anche il
Giordani **, che egli fosse andato a Roma nell’autunno del ’31 per entrare nella carriera eccle-
siastica (cfr. Epistolario ed. Moroncini, VI, pp. 102 e n. 2, 107, 108), e l’attribuzione a lui dei
Dialoghetti reazionari di Monaldo (cfr. lettera al Vieusseux del 12 maggio 1832 e lettere seguen-
ti).
*iSui rapporti polemici tra il Leopardi e il cattolicesimo liberale fiorentino e napoletano lo
studio più esauriente è ora quello di G. Savarese, Saggio sui «Paralipomeni» cit. ** Il Savarese
tende a rivalutare anche quel momento di esasperazione patriottica e xenofoba che è testimo-
niato dal canto I dei Paralipomeni (qui {sotto}, p. 138); la rivalutazione è probabilmente un po’
eccessiva, anche se è ben riuscita l’ambientazione storica di quella fase passeggera di risentito
138 III. Alcune osservazioni sul pensiero del Leopardi

libertà dal dogma e dal mito («Libertà vai sognando, e servo a un tem-
po / vuoi di nuovo il pensiero»). È proprio questa esigenza di sma-
scheramento degli «errori barbari» del cattolicismo che fa superare al
Leopardi ogni residuo di dubbio sull’opportunità o meno di rivelare
agli uomini il male della condizione umana in tutta la sua crudezza:
alla convinzione del «valore sociale del vero» (per usare una felice
espressione del Berardi)74 il Leopardi giunge perché l’esperienza gli ha
dimostrato che nell’epoca attuale il vuoto dell’ignoranza non è riem-
pito dalle gagliarde e magnanime illusioni dei primitivi, ma da un ibri-
do connubio delle deprimenti superstizioni medievali con un progres-
sismo superficiale e falso, incapace di dare la felicità all’uomo: meglio,
allora, quella «fiera compiacenza» che è prodotta da una lucida dispe-
razione, e che costituisce, in un mondo in cui l’azione eroica è ormai
preclusa, l’ultima e paradossale forma di «virtù» classicheggiante. I
Paralipomeni, con la negazione di ogni differenza qualitativa insupe-
rabile tra uomo e animali, con la rivendicazione del Settecento empi-
rista e antimetafisico contro l’Ottocento cristianeggiante, sono la pun-
ta estrema del progressismo ideologico leopardiano.
Sul piano politico, assistiamo (accanto a un rinvigorimento dell’av-
versione ad ogni posizione reazionaria e assolutista, testimoniato dai
Paralipomeni e dall’epistolario) a due successivi momenti della pole-
mica contro i moderati cattolici. Dapprima, nei primi canti dei Para-
lipomeni, un recupero di motivi patriottici di stampo classicheggiante,
con punte di xenofobia settaria e di esaltazione retorica della romanità
(fino alla protesta perché in Italia non si mettono ai bambini nomi di
antichi romani, ma di eroi barbari come Annibale o Arminio!).75 È
questo, indubbiamente, il momento più debole della polemica leopar-
diana, quello che ha più il carattere di mera ritorsione e che più fa
risaltare i limiti provinciali del patriottismo classicista in confronto
all’apertura europea del riformismo cattolico-liberale: limiti che più
tardi inficieranno il repubblicanesimo del Carducci e lo predisporran-

nazionalismo leopardiano (cfr. la mia recensione in «Belfagor» XXIII, 1968, p. 251 sg.). Sui
Paralipomeni, oltre i sempre validi saggi del Capucci cit. a p. 112, vedi anche Attilio Brilli, Satira
e mito nei «Paralipomeni» leopardiani, Urbino 1968.
74
iRagione e stile in Leopardi (cit. sopra, nota 15), p. 437 sgg.
75
iParalipomeni, I, st. 22-31; III, st. 31. Cfr. Binni, La nuova poetica cit., 2ª ed., p. 139 sg.
Per quel che riguarda l’invettiva contro certi linguisti tedeschi – non attribuibile tutta a mero
nazionalismo – cfr. La filologia di G. Leopardi, Firenze 1955, p. 225 sgg.
III. Alcune osservazioni sul pensiero del Leopardi 139

no alla finale involuzione reazionaria.76 Tuttavia non bisogna dimen-


ticare che, sia pure in forma inadeguata, questa posizione leopardia-
na esprime pur sempre l’esigenza di un ritorno a quelle prospettive di
soluzione rivoluzionaria del problema nazionale che l’intellettualità
italiana aveva fatte proprie nel ’20-’21 e aveva abbandonate dopo il
fallimento di quell’esperienza.77
Un secondo momento è rappresentato dal ben noto passo della Gi-
nestra in cui il Leopardi fa appello alla solidarietà di tutti gli uomini
nella lotta contro la natura.
Nessun dubbio sulla grande potenzialità democratica di questo
appello. Soltanto, bisogna parlare appunto di potenzialità, per sotto-
lineare, accanto all’estrema apertura e spregiudicatezza del discorso
leopardiano, anche la sua indeterminatezza. Non vi è traccia in esso
di preclusioni di classe, di cautele da «liberale», anzi vi è l’esplicita
esigenza di far partecipe della nuova morale laica tutto il popolo;78 ma
non c’è nemmeno alcun accenno a una lotta contro l’oppressione poli-
tico-sociale, come condizione preliminare per raggiungere la «confe-
derazione» dell’intera umanità. Il Leopardi pensa che i contrasti tra
gruppi umani siano secondari, e perciò da mettersi a tacere, di fronte
all’esigenza di far blocco contro il nemico numero uno, l’empia Natu-
ra.79 Quando il Pascoli trovava preannunciato nella Ginestra il proprio

76
iPer l’uso nazionalistico di questi passi dei Paralipomeni da parte del Carducci vedi l’arti-
colo su Giacomo Leopardi deputato (in Opere, ed. nazionale, vol. XX, Bologna 1937, p. 193 sg.)
e la chiusa del discorso Allo scoprimento del busto di G. Leopardi (ibid., p. 204). Per l’entusia-
smo giovanile degli «Amici pedanti» per i Paralipomeni vedi la prefazione di Giuseppe Chiarini
all’edizioncina delle Poesie di G. Leopardi, Firenze, Sansoni, 1885, p. vi sg.
77
iVedi qui sopra, p. 132 sg.
78
iGinestra, v. 145 sg.: «Così fatti pensieri / quando fien, come fur, palesi al volgo / ...».
79
iGinestra, v. 119 sgg.: «... né gli odii e l’ire / fraterne, ancor più gravi / d’ogni altro danno,
accresce / alle miserie sue, l’uomo incolpando / del suo dolor, ma dà la colpa a quella / che vera-
mente è rea, che de’ mortali / madre è di parto e di voler matrigna»; v. 135 sgg.: «ed alle offe-
se / dell’uom armar la destra, e laccio porre / al vicino ed inciampo, / stolto crede così qual fora
in campo / cinto d’oste contraria, in sul più vivo / incalzar degli assalti, / gl’inimici obbliando,
acerbe gare / imprender con gli amici, / e sparger fuga e fulminar col brando / infra i propri guer-
rieri». In quel rifiuto della misantropia a cui abbiamo accennato sopra (nota 56) è implicito, per
il Leopardi, non solo il rifiuto degli odii privati e delle guerre tra popoli, ma anche dei contrasti
di politica interna. Vedi il pensiero dello Zibaldone, pp. 4070-72 (17 aprile 1824) in cui si dichia-
ra che gli uomini addossano ingiustamente ai propri governanti la colpa della loro infelicità, la
quale deriva da cause naturali ed è quindi destinata a rimanere identica sotto qualsiasi governo.
Una formulazione così recisa è senza dubbio legata a quella fase transitoria di apoliticità che il
Leopardi, come abbiamo detto, attraversò dal ’24 al ’27; tuttavia tra questo pensiero, quello
cit. alla nota 56 e la Ginestra vi è un’innegabile concatenazione.
140 III. Alcune osservazioni sul pensiero del Leopardi

solidarismo,80 trascurava certamente l’ispirazione illuministica e l’af-


flato eroico che sono essenziali alla posizione leopardiana, e che man-
cano all’ideologia pascoliana; rimane però il fatto che anche il Leo-
pardi propugna un solidarismo, cioè un appello alla cessazione della
lotta «fratricida», per dirigere tutti i colpi non contro un avversario
umano, ma contro la Natura. ** Rifacendoci ancora una volta alla di-
stinzione tra progressismo politico-sociale e progressismo «scientifi-
co», possiamo dire che il Leopardi assorbe il primo nel secondo. Sol-
tanto, in quest’ultima fase del suo pensiero, egli toglie al proprio
materialismo pessimistico quel carattere alquanto solitario e umbrati-
le che aveva assunto negli anni di Bologna, così come, riprendendo il
titanismo del Bruto minore, ne elimina quella coloritura aristocratica
che il titanismo aveva sempre avuto fin allora. Non c’è più alcuna con-
trapposizione di principio tra l’eroe e il volgo, anzi il pessimismo ago-
nistico è destinato a divenire un atteggiamento comune a tutta l’u-
manità, una filosofia popolare. In questo senso si può dire che il
progressismo politico non si dissolve semplicemente nel progressismo
scientifico, ma gli infonde la propria esigenza democratica.
Inoltre, non bisogna dimenticare che la lotta contro la natura a cui
il Leopardi chiama l’umanità è e rimarrà sempre una lotta d i s p e-
r a t a , per ciò che riguarda gli obiettivi di fondo. Certo il Leopardi
non nega la possibilità di raggiungere successi parziali di notevole rilie-
vo (di qui la sua rivendicazione della «civiltà, che sola in meglio / gui-
da i pubblici fati»: Ginestra, v. 76 sg.). Ma che la vittoria definitiva
spetti alla natura, tutta la Ginestra lo riafferma, come lo riafferma il
Tramonto della luna, che appartiene allo stesso periodo finale della vita

80
iG. Pascoli, Pensieri e discorsi, Bologna 1907, p. 117: «E io so che, per grande poeta che
tu sia, il tuo tempo non è ancora venuto. Tu non sei il vate delle ardenti rivoluzioni nazionali;
tu non sei il profeta delle cupe secessioni sociali. Riconquistati i confini delle patrie, ricostitui-
ti i diritti delle classi, verrà il tuo evo. Perché in vero tu contempli il genere umano da così subli-
me vetta di pensiero e dolore, che non puoi scoprire, da così lungi e da così alto, tra gli uomini,
differenza di condizioni, di parti, di popolo, di razza. È un formicolìo di piccoli esseri uguali: e
se n’alza un murmure confuso di pianto»; p. 126: «Ora egli dice: ... E io vi dico che dovete avan-
zare, dovete gettare le illusioni, dovete acquistare la coscienza della vostra piccolezza, della
vostra solitudine, della vostra miseria, del vostro essere fortuito ed effimero. Perché da cotesta
coscienza verrà in voi lo appaciamento degli odi e delle ire fraterne ...». E vedi anche il succes-
sivo paragrafo 13 del medesimo saggio, che dimostra come i vv. 158-201 della Ginestra siano
tra le «fonti» del motivo, tipicamente pascoliano, dello sgomento dell’uomo dinanzi all’immen-
sità dell’universo.
III. Alcune osservazioni sul pensiero del Leopardi 141

e del pensiero leopardiano.81 Qui è la differenza tra il materialismo


leopardiano e il credo scientista del secondo Ottocento (quantunque si
debba aggiungere che all’ottimismo scientista il secondo Ottocento
alternò un senso cosmico desolato che, quando non finì in un agno-
sticismo vagamente religiosizzante, si richiamò a buon diritto a Lucre-
zio e a Leopardi).82*
L’illuminismo che il Leopardi, nella Ginestra e nel canto IV dei
Paralipomeni, rivendica contro lo spiritualismo cattolico dell’Otto-
cento, è un illuminismo interpretato pur sempre come filosofia dolo-
rosa, che non dà all’uomo, insieme con la verità, la felicità. Il riflusso
spiritualistico della Restaurazione non è spiegato dal Leopardi con
motivi in primo luogo politici (antigiacobinismo), ma come un arre-
tramento dinanzi alle conseguenze pessimistiche dell’analisi del rap-
porto uomo-natura intrapresa dal materialismo settecentesco: «In
quell’età, d’un’aspra guerra in onta, / altra filosofia regnar fu vista, /
a cui dinanzi valorosa e pronta / l’età nostra arretrossi appena avvista
/ di ciò che più le spiace e che più monta, / esser quella in sostanza ama-

81
iUno dei pochi punti deboli del libro del Binni è, a mio parere, la svalutazione del Tramonto
della luna (La nuova poetica cit., 2ª ed., p. 185 sg.), la quale mi sembra che nasca, assai più che
da una lettura «disinteressata», dal preconcetto secondo cui ogni ripresa di motivi «idillici» nel-
l’ultimo Leopardi costituirebbe un passo indietro. Ma alternanza di «idillico» e di «eroico», sia
pure in varia misura, vi è in tutta la poesia leopardiana (basti pensare alla chiusa aspra e sarca-
stica de La quiete dopo la tempesta); e quella «dolcezza d’un mesto coro», che il De Robertis rico-
nosceva soltanto all’ultima strofe, è il tono predominante di tutta la poesia, che davvero richia-
ma alla mente, per la perfetta compenetrazione di lirica e gnomica, alcuni dei più bei cori di
Euripide; d’altra parte la polemica antiteistica della terza strofe, che disturba chi nel Leopardi
cerca solo i toni idillici, avrebbe dovuto trovare proprio nel Binni un difensore e un interprete
adeguato. Ad ogni modo, anche a prescindere dalla valutazione del Tramonto della luna come
opera d’arte, non si può ignorarlo come testimonianza del pessimismo leopardiano, perdurante
fino all’ultimo.
82
iIl libro di Spartaco Borra, Spiriti e forme affini in Lucrezio e Leopardi (Bologna 1911, 2ª ed.
1934), è, con un certo ritardo, un frutto di questo clima culturale-psicologico, di cui per esem-
pio Arturo Graf fu un cospicuo rappresentante, e a cui va ricondotta anche la formazione gio-
vanile di Concetto Marchesi.
*iUna interessante professione di leopardismo in epoca positivistica ** è il saggio di Gia-
como Pighini, Il pessimismo nella scienza e G. Leopardi, «L’idea liberale» 30 nov. 1898-15 feb-
br. 1899, ristampato in Scritti di carattere letterario ed artistico, Parma 1964. L’autore sosteneva,
contro i positivisti alla Lombroso e alla Sergi, l’oggettiva validità scientifica del pessimismo leo-
pardiano. L’enfasi eccessiva dello stile e alcune ingenuità non debbono far disconoscere il valo-
re di questa presa di posizione, anche in rapporto a ciò che io (senza ancora conoscere lo scritto
del Pighini) osservavo sopra, pp. 126-28. I successivi scritti di vario argomento raccolti nel volu-
me del Pighini mostrano, invece, una rapida involuzione ideologica, dovuta anche alla totale ine-
sperienza politica di questo valente medico e storico della scienza.
142 III. Alcune osservazioni sul pensiero del Leopardi

ra e trista» (Paralip. IV, st. 16). Non si possono isolare i due primi bel-
lissimi versi di quest’ottava dai seguenti, senza dare dell’illuminismo
leopardiano un’immagine alterata. E nella Ginestra di nuovo il Leo-
pardi dirà, rivolto al proprio secolo: «Così ti spiacque il vero / dell’a-
spra sorte e del depresso loco / che natura ci diè. Per questo il tergo /
vigliaccamente rivolgesti al lume / che il fe palese». Tale interpreta-
zione leopardiana dell’illuminismo settecentesco non è, lo abbiamo già
visto, così arbitraria come spesso si è sostenuto; ma, senza dubbio,
costituisce una forte accentuazione di un motivo che nei grandi illu-
ministi francesi era rimasto in secondo piano.
Per quel che riguarda le prospettive della lotta tra uomo e natura,
la Ginestra non annulla, anzi conferma, proiettandoli su un più vasto
sfondo cosmico, questi versi della Palinodia (154-197):
Quale un fanciullo, con assidua cura,
di fogliolini e di fuscelli, in forma
o di tempio o di torre o di palazzo,
un edificio innalza; e come prima
fornito il mira, ad atterrarlo è volto,
perché gli stessi a lui fuscelli e fogli
per novo lavorio son di mestieri;
così natura ogni opra sua, quantunque
d’alto artificio a contemplar, non prima
vede perfetta, ch’a disfarla imprende,
le parti sciolte dispensando altrove.
E indarno a preservar se stesso ed altro
dal gioco reo, la cui ragion gli è chiusa
eternamente, il mortal seme accorre
mille virtudi oprando in mille guise
con dotta man: che, d’ogni sforzo in onta,
la natura crudel, fanciullo invitto,
il suo capriccio adempie, e senza posa
distruggendo e formando si trastulla.
Indi varia, infinita una famiglia
di mali immedicabili e di pene
preme il fragil mortale, a perir fatto
irreparabilmente: indi una forza
ostil, distruggitrice e dentro il fere
e di fuor da ogni lato, assidua, intenta
dal dì che nacque; e l’affatica e stanca,
essa indefatigata; insin ch’ei giace
alfin dall’empia madre oppresso e spento.
III. Alcune osservazioni sul pensiero del Leopardi 143

Queste, o spirto gentil, miserie estreme


dello stato mortal; vecchiezza e morte,
ch’han principio d’allor che il labbro infante
preme il tenero sen che vita instilla;
emendar, mi cred’io, non può la lieta
nonadecima età più che potesse
la decima o la nona, e non potranno
più di questa giammai l’età future.
Però, se nominar lice talvolta
con proprio nome il ver, non altro in somma
fuor che infelice, in qualsivoglia tempo
e non pur ne’ civili ordini e modi,
ma della vita in tutte l’altre parti,
per essenza insanabile, e per legge
universal, che terra e cielo abbraccia,
ogni nato sarà.

In questi versi l’infelicità è affermata, con spietata chiarezza, come


essenziale non a un determinato uomo storico, ma all’«uomo in gene-
rale». Le interpretazioni «progressive» dell’ultimo Leopardi devono
fare i conti con questo e coi molti altri passi in cui il Leopardi ribadi-
sce la stessa tesi. Si tratta, in sostanza, di vedere se il pessimismo co-
smico leopardiano sia da considerare soltanto come un’estrapolazione
del suo pessimismo storico-sociale. Per Lukács il pessimismo reazio-
nario di Schopenhauer è un’«apologetica indiretta» della società bor-
ghese;83 si può considerare il pessimismo cosmico leopardiano come
una «requisitoria indiretta» contro la medesima società? Né il Lupo-
rini, né il Biral né il Berardi traggono questa esplicita conclusione; **
eppure tutti e tre tendono a far apparire la tesi dell’infelicità perpe-
tua e insanabile dell’uomo come un aspetto in certo senso non essen-
ziale del pensiero leopardiano: l’«onda più lunga» su cui secondo il
Luporini si troverebbe il Leopardi rispetto ai liberali e ai democratici
del Risorgimento, il regnum hominis di cui, secondo il Biral, la Gine-
stra sarebbe il preannuncio, l’illuminismo della fase finale del pensiero
leopardiano su cui insiste il Berardi, costituirebbero un superamento,
o almeno un inizio di superamento del pessimismo; e il pessimismo
sarebbe tutto relativo al determinato ambiente storico in cui si trovò
inserito il Leopardi.84 È, in fondo, l’interpretazione «risorgimentale»

83
iG. Lukács, La distruzione della ragione, trad. ital., Torino 1959, p. 205 sgg.
84
iLuporini, p. 274 (cfr. anche p. 269: «Pessimismo e razionalismo si congiungono così per-
144 III. Alcune osservazioni sul pensiero del Leopardi

del Leopardi (Poerio, De Sanctis) che, allargata a interpretazione


sociale o illuministica, conserva tuttavia la convinzione della non defi-
nitività del pessimismo leopardiano. Affermazioni come quella della
Palinodia che abbiamo ora citato rappresenterebbero dunque piutto-
sto un irrigidimento «metafisico» che la sostanza viva e positiva del
pensiero del Leopardi.
I motivi per cui questa tesi non ci sembra accettabile risultano abba-
stanza chiaramente, crediamo, da quanto siamo venuti osservando sul
materialismo-pessimismo leopardiano. La polemica storicistica contro
l’«uomo in generale» è giusta e necessaria nei riguardi delle arbitrarie
generalizzazioni di caratteristiche economico-sociali, culturali, psico-
logiche che sono in realtà peculiari di una data epoca. Non è certo pro-
pria dell’umanità in generale la divisione in sfruttati e sfruttatori, né
la proprietà privata, né la fede in una divinità, per non parlare di isti-
tuzioni e di abiti mentali e affettivi ancor più ristretti nel tempo e nel-
lo spazio. Ma per ciò che riguarda l’uomo come essere naturale, biolo-
gico, il discorso è ben diverso.85 Ora il pessimismo del Leopardi, nella
sua seconda e più matura fase, trae origine appunto dalla constatazio-
ne di certi dati fondamentali della vita fisica dell’uomo («vecchiezza e
morte») che sono in contrasto con quell’aspirazione alla felicità che è,
anch’essa, una tendenza «naturale» dell’uomo. Il Leopardi non ignora
affatto che anche la natura ha la sua storicità (l’autore degli ultimi due
audacissimi canti dei Paralipomeni non sarebbe certo rimasto sconcer-

fettamente in Leopardi in questa costruttiva spinta verso il futuro, e ciò mostra quanto relative
siano queste accentuazioni assiologiche che si chiamano appunto pessimismo e ottimismo: come
esse cioè siano accentuazioni assiologiche che non vanno mai giudicate in se stesse, ma relativa-
mente alle concrete situazioni storiche in rapporto alle quali si sono prodotte»). Biral, La «posi-
zione storica» cit., p. 34: «Nella Ginestra riuscì a fissare un nuovo principio, e lasciò intuire che
quel bene che potrà esservi nella vita non sarà mai un dono elargito dalla natura o dalla sorte,
ma conquista faticosa della buona volontà degli uomini solidali in uno sforzo (...) per fare della
società un regnum hominis» (anche nelle pagine precedenti il Biral sostiene che il pessimismo leo-
pardiano rappresenta la crisi di una vecchia civiltà «fondata sull’idea dei doveri verso Dio, ver-
so il sovrano, verso le gerarchie costituite» e l’esigenza «di una moderna civiltà fondata sul vero
e sulla scienza»: un accenno in questo senso già in Gramsci, Lettere dal carcere, nuova ediz., Tori-
no 1965, p. 670). ** Più sfumata la posizione del Berardi; ma anch’egli tende a risolvere (p. 431
sgg.) il pessimismo leopardiano in illuminismo.
85
iMi sia lecito rimandare, per adesso, a un breve accenno in «Belfagor» XVIII, 1963, p. 10,
n. 30.*
*iVedi ora gli scritti citati nella prefazione alla seconda edizione, qui sopra, p. XXXVIII;
e, per la persistenza dell’«uomo naturale» nell’«uomo storico», già un accenno di C. Muscetta,
Cultura e poesia di G. G. Belli, Milano 1961, p. 264. **
III. Alcune osservazioni sul pensiero del Leopardi 145

tato dinanzi al darwinismo), ma sa che è una storicità di ritmo incom-


parabilmente più lento, di carattere meccanico e inconsapevole, a cui
non si può attribuire alcun teleologismo o provvidenzialismo.86 Egli
non ignora nemmeno la possibilità di f o r z a r e la natura stessa (basti
ricordare quel pensiero, giustamente ammirato dal Luporini, sulla
«futura civilizzazione dei bruti e massime di qualche specie, come del-
le scimmie, da operarsi dagli uomini a lungo andare», in modo da poter
associare anche questi animali «alla grande alleanza degli esseri intelli-
genti contro alla natura, e contro alle cose non intelligenti»);87 ma ritie-
ne che tale intervento dell’uomo sulla natura non potrà mai giungere a
modificare quei dati fondamentali a cui accennavamo sopra, dai quali
inevitabilmente scaturisce l’infelicità.
In questo senso schiettamente materialistico si può, a mio parere,
parlare di un valore p e r m a n e n t e del pessimismo leopardiano,
senza nulla concedere a interpretazioni metafisiche ed esistenzialisti-
che del pensiero del Leopardi e senza affatto rinunciare a indagare le
esperienze concrete – individuali e storico-sociali – da cui quel pessi-
mismo nacque.
A più riprese, nel suo saggio, il Luporini osserva che ciò che impedì
al Leopardi di sviluppare fino in fondo il nucleo progressista del suo
pensiero fu (oltre alla mancanza di contatto con un movimento popo-
lare rivoluzionario) la mancanza della dialettica, il nuovo «strumento
mentale» che si andava elaborando in quegli anni nella filosofia tede-
sca.88 Il Leopardi, anzi, arriverebbe alle soglie del concetto dialettico
in quel gruppo di pensieri dello Zibaldone in cui nota che le «con-
traddizioni palpabili che sono in natura» (aspirazione naturale dei
viventi alla felicità e impossibilità naturale di conseguirla; perpetua-
zione della vita della specie che si attua solo attraverso la distruzione
degli individui) sembrerebbero infirmare la validità del principio stes-
so che «non può una cosa insieme essere e non essere», su cui si basa
la nostra ragione.89 Ora, è indubbio che qui il Leopardi constata una

86
i«Così, dell’uomo ignara e dell’etadi / ch’ei chiama antiche (...), / sta natura ognor verde,
anzi procede / per sì lungo cammino / che sembra star» (Ginestra, vv. 289-294). Una critica del
teleologismo che anticipa il concetto darwiniano di «selezione naturale» è nello Zibaldone (p.
4510), come notò G. A. Levi, Storia del pensiero di G. L., Torino 1911, p. 136.
87
iZib., 4279 sg. (13 aprile 1827); cfr. Luporini, p. 273 sg.
88
iLuporini, pp. 235, 241, 247-51, 253.
89
iZib., 4099 sg. (3 giugno 1824), 4127-32 (5-6 aprile 1825), e già p. 4087 (11 maggio 1824).
146 III. Alcune osservazioni sul pensiero del Leopardi

difficoltà l o g i c a che gli appare, giustamente, insolubile col vecchio


strumento della logica aristotelica. Ma supporre che l’acquisizione di
un nuovo strumento teoretico (la logica dialettica) avrebbe indicato
al Leopardi, o possa indicare a un leopardiano del secolo ventesimo, la
via per superare il pessimismo, significa disconoscere il carattere tut-
to pratico, sensistico-edonistico, del pessimismo leopardiano. Per un
pensatore così profondamente antiteoreticista, antimetafisico come
Leopardi, l’infelicità non si supera «dialettizzandola» sul piano logi-
co, ma soltanto (ove ciò fosse possibile) eliminandola di fatto. Dopo
aver messo in risalto l’incomprensibilità – dal punto di vista della logi-
ca formale – della contraddizione tra vitalità e infelicità, il Leopardi
soggiunge, quasi a mettere in guardia contro ogni attenuazione del
secondo termine: «Intanto l’infelicità necessaria de’ viventi è certa»
(Zibaldone, p. 4100).
Né c’è bisogno, a guardar bene, di far la storia con un «se» («se
Leopardi avesse conosciuto la logica dialettica ...»). La tesi provvi-
denzialistica secondo la quale Dio o la natura consegue, pur attraver-
so l’infelicità dei singoli individui, la felicità generale dell’umanità, o
la variante della stessa tesi, secondo cui la civiltà moderna assicure-
rebbe, se non la felicità degli individui, la felicità delle masse, erano,
a loro modo, tentativi di superamento «dialettico» del pessimismo.
Non si vuole certo, con ciò, equipararli alla logica hegeliana sul piano
teoretico: si vuol dire soltanto che esercitarono una funzione analoga
in rapporto al problema dell’infelicità umana. Il pessimismo sarebbe
effetto di una considerazione frammentaria e statica della realtà, di
un’incapacità di vedere il singolo fenomeno nella sua relazione col tut-
to. Ebbene, il Leopardi, seguendo Voltaire e andando molto oltre Vol-
taire, non si è mai stancato di respingere e di deridere tale soluzione
«dialettica», proprio perché essa è una soluzione illusoria, una «nega-
zione ideale» che maschera la reale incapacità di liberare l’uomo dal-
l’oppressione che su di esso esercita la natura.90

90
iZib., 4175 (col richiamo di Voltaire, per cui vedi sopra, p. 122 e n. 40); Palinodia, v. 197
sgg.: «ma novo e quasi / divin consiglio ritrovàr gli eccelsi / spirti del secol mio: che, non poten-
do / felice in terra far persona alcuna, / l’uomo obbliando, a ricercar si diero / una comun felici-
tade; e quella / trovata agevolmente, essi di molti / tristi e miseri tutti, un popol fanno / lieto e
felice». Si noti ancora che le catastrofi naturali che, come il Leopardi più volte sottolinea, han-
no annientato estesi gruppi umani e annienteranno alla fine l’umanità stessa (vedi sopra, nota
62), costituiscono tipici casi di «negazione adialettica», non di negazione-conservazione.
III. Alcune osservazioni sul pensiero del Leopardi 147

Sotto questo aspetto, la polemica leopardiana contro gli apologeti


della divinità o della natura presenta una reale analogia con la pole-
mica marxista contro la pretesa degli hegeliani (e di tutta una mille-
naria tradizione filosofica) di sopprimere l’alienazione umana «nel
pensiero» e non, prima di tutto, «nella realtà»: di giustificare il mon-
do e non di cambiarlo. Soltanto, per il pensiero marxista la realtà che
è causa dell’infelicità umana è essenzialmente una realtà economico-
sociale; per il Leopardi, è essenzialmente una realtà fisico-biologica.
Per il marxista, la forza condizionatrice della natura sull’uomo si è
esercitata soprattutto ai primordi dell’umanità, in una specie di pro-
logo o di antefatto preistorico: da quando l’uomo ha cominciato a
lavorare e a produrre, la natura avrebbe cominciato a ridursi (e sem-
pre più si ridurrebbe in futuro) a mero oggetto di attività umana:
l’«uomo storico» metterebbe sempre più in ombra, e alla fine assor-
birebbe e supererebbe del tutto l’«uomo naturale». Per il Leopardi,
la natura conserva anche di fronte all’uomo civilizzato tutta la sua for-
midabile forza logoratrice e distruttrice: perciò la lotta dell’uomo con-
tro la natura si configura nel pensiero leopardiano come una lotta
disperata, e la distruzione di tutti i miti non dà luogo a una visione
ottimistica della realtà, ma ad un pessimismo lucido e combattivo.
** IV.
Il Leopardi e i filosofi antichi*

Testo epigrafe, testo epigrafe, testo epigrafe, testo epigrafe,


testo epigrafe, testo epigrafe.
Nome Cognome

1. All’insegnamento di filosofia ricevuto da fanciullo il Leopardi


ripensò in seguito con scarsa stima. Ci tenne a notare nello Zibaldone
che a certi risultati della filosofia moderna (la critica lockiana delle
idee innate; «l’ottimismo del Leibnizio», o quello che egli credeva
tale) era giunto da sé, «non avendo mai letto scrittori metafisici, e
occupandomi di tutt’altri studi, e null’avendo imparato di queste
materie alle scuole (che non ho mai vedute)».1
In realtà le lezioni di logica e metafisica impartitegli nel 1810-12 dal
suo precettore, don Sebastiano Sanchini, costituiscono soltanto una

1
iZib., 1347 (20 luglio 1821). Quanto all’idea che il Leopardi si era fatta dell’ottimismo leib-
niziano come di una negazione del concetto di «bene assoluto», cfr. Zib., 391 sg.
*iSu questo stesso argomento un importante saggio è stato scritto da Vincenzo Di Benedet-
to, G. Leopardi e i filosofi antichi, in «Critica storica» VI, 1967, p. 289 sgg. (cfr. anche la recen-
sione dello stesso studioso al presente volume, in «Riv. di filologia» XCVII, 1969, p. 114 sgg.).
I principali risultati del saggio del Di Benedetto sono: 1) la dimostrazione di un influsso dello
scetticismo antico (conosciuto specialmente attraverso Luciano e il libro IX di Diogene Laerzio)
sul pensiero leopardiano, dal Saggio sopra gli errori popolari fino ai pensieri del 1821; 2) la preci-
sazione dell’atteggiamento (fondamentalmente, ma non esclusivamente polemico) del Leopardi
di fronte a un aspetto particolare del platonismo, cioè alla concezione dell’amore esposta nel Sim-
posio; 3) l’analisi di ciò che è specificamente leopardiano nelle libere traduzioni da lirici e comi-
ci greci, specialmente da Simonide; 4) alcune precisazioni sull’interpretazione che il Leopardi dà
della figura di Socrate nello Zibaldone e nell’Ottonieri; 5) lo studio della forma nuova che nel-
l’ultimo Leopardi assume la contrapposizione fra antichi e moderni: la superiorità degli antichi
viene affermata in modo più reciso e globale, ed estesa alla filosofia; gli antichi sono considera-
ti ora come i depositari di una desolata sapienza pessimistica, che i moderni avrebbero cercato
di mascherare e di eludere con vani sofismi; ne risulta una visione del pensiero antico più asto-
rica [cr] ** e indifferenziata (almeno in alcune affermazioni), ma d’altra parte la rivendicazione
della maggiore umanità degli antichi costituisce uno dei motivi che confluiranno nell’umanitari-
smo polemico della Ginestra. Su questo saggio vedi anche qui {sotto}, pp. 234, 248 sg. **
IV. Il Leopardi e i filosofi antichi 149

preparazione agli studi teologici, a quella carriera ecclesiastica a cui era


stato destinato alla famiglia. Il testo prescelto per l’insegnamento del-
la metafisica fu quello del padre François Jacquier, che recava il tito-
lo significativo di Institutiones philosophicae ad studia theologica potis-
simum accommodatae; il Leopardi ne fece dei riassunti, oggi perduti.2
Alla lettura del Jacquier venne ben presto ad affiancarsi quella di
altre opere di filosofia cattolica e di polemica antimaterialista e anti-
sensista, di cui la biblioteca di Monaldo era molto largamente forni-
ta.3 I cinque quaderni di Dissertazioni filosofiche di Giacomo Leopardi
(1811-12), che si conservano tuttora inediti a Recanati,4 rappresentano
un tentativo di sintesi di quelle letture.
Tra le opere che il Leopardi cita, e da cui appare più influenzato,
possiamo ricordare gli Elementi di Metafisica, ovvero Preservativo con-
tro il Materialismo, contro l’Ateismo e contro il Deismo dell’abate Sauri
(edizione italiana, Venezia 1777), Il buon uso della Logica in materia
di Religione del conte Alfonso Muzzarelli (Foligno 1787), il Diction-
naire de Physique di Aimé-Henri Paulian (8a edizione, Nîmes 1781).
Erano, queste e altre che il Leopardi possedeva e in gran parte lesse,
opere del tardo Settecento, che combattevano l’illuminismo con brio
e scioltezza illuministica, in uno stile per nulla paludato o arcaico. Di
tale cultura illuministico-reazionaria si era nutrito Monaldo e si nutrì
inizialmente Giacomo Leopardi. **
Tutti questi libri contenevano fitte citazioni degli illuministi fran-
cesi e dei filosofi greci. Fu per questa via indiretta che il Leopardi
ebbe una prima conoscenza delle dottrine di Voltaire, Diderot, La
Mettrie, Helvétius, Holbach, e del filosofo inglese che era considera-

2
iCfr. Indice delle produzioni di me Giacomo Leopardi dall’anno 1809 in poi, num. 27 e 28
(pubbl. da A. Donati nell’edizione dei Puerili e abbozzi vari, Bari 1924, p. 270, con l’avverten-
za che quei riassunti «mancano nelle carte leopardiane di Recanati», e poi di nuovo dal Flora,
PP, II, p. 1108). Dell’opera del Jacquier la biblioteca Leopardi possedeva l’edizione di Venezia
1785: nel vol. II era esposta la metafisica, che il Jacquier suddivideva in «Ontologia» e «Pneu-
matica» (cioè dottrina delle sostanze spirituali).
3
iTali opere si trovano tuttora specialmente nella sala I, sezioni XI-XIII («Philosophia») e
nella sala II, sezioni XII-XIV («Polemica»).
4
iNel pubblicare alcuni scritti del Leopardi fanciullo, gli studiosi hanno dato la preferenza a
quelli in versi. L’unica prosa di argomento filosofico finora pubblicata (e senza le note di cui il
Leopardi stesso la corredò) è il Dialogo filosofico sopra un moderno libro intitolato «Analisi delle
idee ad uso della gioventù» (Donati, ed. cit., p. 119 sgg.; Flora, PP, II, p. 1082 sgg.). Eppure la
conoscenza di quei componimenti scolastici è indispensabile per avere un quadro completo di ciò
che il Leopardi lesse. Spero di darne io prossimamente un’edizione.
150 IV. Il Leopardi e i filosofi antichi

to il progenitore di questa funesta setta di liberi pensatori: John


Locke. E fu per questa stessa via che imparò a conoscere per sommi
capi il pensiero dei principali filosofi antichi, prima ancora di poterli
leggere direttamente.
Due atteggiamenti, entrambi tradizionali nell’apologetica cristiana,
si alternavano in quei libri rispetto alla filosofia antica.* Un atteggia-
mento di condanna sommaria di tutti i filosofi pagani, di cui si met-
teva in risalto la discordia e la stravaganza delle opinioni;5 e una posi-
zione meno radicale, che distingueva i filosofi spiritualisti, precursori
del cristianesimo (Socrate, Platone, Aristotele inteso nel senso della
Scolastica), dai materialisti (Democrito, Epicuro, Lucrezio), precur-
sori dell’empia filosofia del secolo decimottavo.6
Queste idee sono fedelmente riecheggiate nei primi lavori scolastici
del Leopardi. Una poesia del 1810 in martelliani, con la quale il fan-
ciullo dodicenne presentava al padre il sunto della «Pneumatica» di
Jacquier,7 cita con onore Socrate e Platone, e li oppone ai falsi sapienti
che «con empie inique massime corromper sanno il mondo». Una Dis-
sertazione sopra la Felicità, contenuta nel quarto quaderno di Disserta-
zioni filosofiche (1812), reca una condanna sprezzante dell’epicureismo:
«Epicuro Filosofo, il di cui solo nome è bastante per iscreditare qual-
sivoglia ipotesi afferma, che la felicità non consiste che nel piacere».8
5
iScriveva per esempio il già citato Muzzarelli (Il buon uso ecc., I, p. 262): «Basta scorrere i
secoli Gentileschi, e penetrar nelle scuole de’ Filosofi per udire i clamori delle varie Sette, che qui-
stionavano inutilmente su la natura dell’anima, e sul governo dell’universo (...). I Platonici sosten-
gono un Dio spirituale, gli Stoici lo aggravano tutto all’intorno di un corpo. I primi professano la
provvidenza, la spiritualità, e l’immortalità dell’anima; gli Epicurei negano tutti questi dogmi. E
intanto, mentre essi si mordono rabbiosamente, gli Scettici e i Pirronisti rovescian dal fondo tut-
ti i sistemi. Que’ medesimi, che insegnano il vero, parlano in modo oscuro, si appoggiano a debo-
li conghietture, e contraddicono senza pena a se medesimi (...). Così i Licei della Grecia, e di Roma
occupati da un popolo di Filosofi echeggiano di molte grida, e di poche verità». **
6
iTirate contro l’epicureismo si trovano per esempio in Jacquier, Institutiones cit. (ho sott’oc-
chio l’ed. di Venezia 1767), II, p. 331 sg.; VI, pp. 18, 30 sg.; Sauri, Elem. di Metafisica cit., I,
p. 48 sg. (Epicuro accostato a La Mettrie), 60 sg. (Lucrezio accostato a Voltaire); Paulian, Dic-
tionn. cit., IV, p. 33 s.v. Matérialisme; A. Valsecchi, La Religion vincitrice, Genova 1776, p. 57
sgg. (Holbach seguace di Lucrezio).
7
iPP, I, p. 727 sg. (già in Donati, ed. cit., p. 24); cfr. l’Indice cit. qui sopra (p. 149, n. 2),
num. 29.
8
iTesto ancora inedito, p. 7 dell’autografo conservato a Recanati.
*iLa pubblicazione integrale delle dissertazioni filosofiche giovanili (nel vol. II delle «Ope-
re di G. Leopardi inedite o rare» edite dal Centro nazionale di studi leopardiani) permetterà di
precisare quanto si accenna qui sulla prima formazione filosofica del Leopardi. Per la Disserta-
zione sopra l’anima delle bestie vedi intanto qui sopra, {postilla a p. 118} n. 29. **
IV. Il Leopardi e i filosofi antichi 151

Fra Platone e Aristotele il Leopardi fanciullo, fedele anche qui ai


suoi testi e – si può esserne sicuri – all’insegnamento del Sanchini, dà
la palma ad Aristotele, specialmente per ciò che riguarda la filosofia
morale.9 In Germania cominciava proprio in quegli anni una rinasci-
ta platonica: il cristianesimo dei romantici, che puntava sul senti-
mento contro la ragione, trovava naturalmente in Platone (e più anco-
ra nei neoplatonici) un appoggio molto più sicuro che in Aristotele; e
quei tedeschi erano troppo buoni filologi per non sapere che il v e r o
Aristotele escludeva l’immortalità dell’anima individuale e, pur con
tutti i suoi residui di platonismo, era un pensatore fortemente orien-
tato in senso immanentistico. Anche in Italia, specialmente nel mez-
zogiorno vichianeggiante, c’erano correnti di pensiero che si richia-
mavano a Platone e al pitagorismo della Magna Grecia: il Platone in
Italia del Cuoco era apparso proprio nei primi anni del secolo. Ma il
cattolicesimo tardosettecentesco che ancora si respirava in casa Leo-
pardi guardava con molto più simpatia ad Aristotele, sia perché que-
sto era rimasto il filosofo per eccellenza delle scuole cattoliche, sia per
quell’aspirazione ad un cattolicesimo razionale che, come abbiamo
detto, caratterizzava quell’ambiente, e che lo teneva lontano dai «so-
gni» e dagli slanci mistici del platonismo. Il Leopardi, che più tardi
porrà tra religione e ragione un contrasto insuperabile, nell’epoca a cui
ci riferiamo è ancora convinto che la sana ragione conduce immanca-
bilmente ad accettare il cattolicesimo. A questa convinzione sono ispi-
rati i martelliani del 1810: i filosofi empi sono scacciati dalla Ragione,
e la poesia culmina nell’augurio:
Così potesse alfine filosofia scacciare
L’empie seguaci turbe, e i chiari rai vibrare:
Per cui Ragion nel trono sublime un dì si assida,
La Religion si avvivi, giubili il mondo e rida.

L’apprendimento del greco, iniziato dal Leopardi nel 1813 e por-


tato avanti con straordinaria rapidità, rappresenta la prima iniziativa
di studio autonoma rispetto al precettore e al padre, che di greco era-

9
iVedi soprattutto il quarto quaderno delle Dissertazioni filosofiche, p. 13 sgg. dell’autografo:
il Leopardi ammette che la dottrina morale platonica «è certamente consentanea in gran parte,
a quanto insegnato ci viene dalla Cattolica Fede»; ma dichiara che la verità piena è stata rag-
giunta – per quanto era possibile col solo aiuto della ragione – da Aristotele, e di lì in poi si limi-
ta a esporre i principii etici aristotelici.
152 IV. Il Leopardi e i filosofi antichi

no ignari.10 Ora anche ai filosofi greci egli può accostarsi direttamen-


te, non più attraverso lo schermo dei mediocri apologeti e trattatisti
cattolici sui quali aveva iniziato i suoi studi. Uno dei primissimi lavo-
ri eruditi del Leopardi è la traduzione con commento della Vita Ploti-
ni di Porfirio, compiuta nel 1814. La Bibliotheca Graeca del Fabricius,
miniera di notizie bio-bibliografiche su tutti gli autori greci, compre-
si i filosofi, gli diviene familiare. Per il Porfirio, come già pochi mesi
prima per l’Esichio Milesio, egli ha frequenti occasioni di consultare
Diogene Laerzio nella bella edizione del Meibomius (Amsterdam
1692) con note del Casaubonus e di altri con le osservazioni del Mena-
gius.11 Anche in seguito quell’edizione non cessò mai di essere da lui
letta e riletta, come testimonia lo Zibaldone; essa offriva, nelle note,
una raccolta di quasi tutte le fonti dossografiche allora accessibili.
Da questi studi di erudizione, iniziati ancora nella prospettiva di
una carriera ecclesiastica, nasce ben presto la filologia leopardiana,
come critica testuale ed esegesi di singoli passi. Non c’è da meravi-
gliarsi, invece, che la visione leopardiana del pensiero antico, benché
molto arricchita di notizie, rimanga per il momento invariata nelle sue
linee fondamentali. Il Saggio sopra gli errori popolari degli antichi, com-
posto all’inizio del ’15, rappresenta il risultato ultimo e, a suo modo,
perfetto di quel tipo di divulgazione illuministico-cattolica verso cui,
come abbiamo visto, il Leopardi era stato orientato inizialmente dai
libri della biblioteca paterna (s’intende che, in certi passi già notati
dagli studiosi, il Leopardi è fin da ora scrittore ben più originale ed
efficace dei suoi modelli).* Appare ancora ben salda in quest’opera la
convinzione che religione cattolica e conoscenza razionale coincidono,
che gli «errori popolari» sono contrari al dogma cristiano non meno
che alla sana filosofia. Quindi i filosofi antichi a volte sono biasimati

10
iCfr. sopra, p. 51 n. 33.
11
iVedi per esempio i riferimenti a questa edizione nell’Esichio Milesio, pp. 171 n. 7, 175 n.
8 ecc. dell’ed. Cugnoni (G. L., Opere inedite, I, Halle 1878), e nel Porfirio, pp. 34 n. 284, 35 n.
87, 37 n. 312, 50 n. 462 ecc. dell’autografo (Biblioteca Nazionale di Firenze, Banco rari 342,
num. 5). **
*iErsilia Alessandrone (rec. cit., p. 330 n. 9) ritiene che già le letture di opere di divulga-
zione scientifica orientate in senso razionalistico (Fontenelle, Algarotti, Thomas Brown, Bailly),
compiute dal Leopardi negli anni 1813-15 per la compilazione della Storia dell’astronomia e del
Saggio sopra gli errori popolari **, lo abbiano condotto «a discostarsi notevolmente dai giudizi
correnti presso gli apologeti cattolici (...), allontanandosi dal concetto che la saggezza fosse
appannaggio esclusivo dei partecipi della Rivelazione».
IV. Il Leopardi e i filosofi antichi 153

per esser rimasti essi stessi vittime dei pregiudizi popolari, o addirit-
tura per essersene fatti promotori (e allora il Leopardi, come già nella
Storia dell’astronomia, si abbandona a tirate sulla discordia e l’assur-
dità delle loro teorie che ricordano quella, già citata, del Muzzarelli);12
a volte, invece, appaiono come savi che cercarono di opporsi alle
superstizioni del volgo.
Questo secondo punto di vista, direi, predomina nel Saggio: quasi
in ogni capitolo l’esposizione degli errori antichi è accompagnata dal-
la menzione dei pochi eletti (non solo filosofi e scienziati, ma spesso
anche poeti) che ne rimasero immuni. Nel calore della sua polemica
anti-superstiziosa, il Leopardi elargisce riconoscimenti non solo ai fi-
losofi greci e romani spiritualisti (da Pitagora a Platone a Cicerone e
Seneca), ma, qua e là, anche a un Democrito, a un Epicuro;13 e osa ter-
minare il quarto capitolo con la citazione enfatica del verso di Lucrezio
(conosciuto con tutta probabilità di seconda mano, come la maggior
parte degli autori citati nel Saggio): O miseras hominum mentes, o pec-
tora caeca!
Si tratta, naturalmente, di audacie occasionali e ancora un po’ for-
tuite. La religiosità del Leopardi, prima di dileguarsi definitivamente,
conosce ancora periodi di travaglio e di meditazione dolorosa, ritorni
di ascetismo: anzi, prima di respingere il cristianesimo, egli si sforzerà
abbastanza a lungo, come è noto, di interpretare in chiave cristiana il
proprio nascente pessimismo. L’Appressamento della morte (novembre-
dicembre 1816) ci mostra quest’altra faccia del cristianesimo giovani-
le leopardiano, opposta a quella, fiduciosamente razionalistica, delle
Dissertazioni fanciullesche e degli Errori popolari. E qui, in uno dei
brani più scolasticamente ricalcati su Dante e sui Trionfi (canto III,
vv. 31-108), ritorna la contrapposizione fra i tre grandi filosofi spiri-
tualisti – Socrate Platone Aristotele – e gli altri, con punte polemiche

12
iVedi per esempio il cap. IX (PP, II, p. 310 sg.): «Accorsero i filosofi in aiuto del popolo,
ma Anassagora fece del sole un ferro infocato, Alcmeone lo credé una lastra, Eraclito un battello
(...). Il numero degli errori si accrebbe, e i filosofi continuarono a dire (...). La filosofia degli anti-
chi era la scienza delle contese; le scuole pubbliche che essi aveano, erano le sedi della confu-
sione e del disordine. Aristotele condannava ciò che Platone gli aveva insegnato. Socrate si ridea
di Antistene, e Zenone si scandolezzava di Epicuro. Pitagorici, Platonici, Peripatetici, Stoici,
Cinici, Epicurei, Scettici, Cirenaici, Megarici, Eclettici, si accapigliavano, si faceano beffe gli
uni degli altri, mentre qualche vero saggio si rideva di tutti». Così a pp. 312-314, 318 sgg., 324,
e già nella Storia dell’Astronomia (1813) in tutto il cap. II, specialmente p. 809 ed. Flora.
13
iPP, II, pp. 270, 131.
154 IV. Il Leopardi e i filosofi antichi

aspre contro la dottrina pitagorica della metempsicosi, contro Demo-


crito e, ancor più, contro Epicuro, il «lercio duce de la mandra im-
pura».14

2. La «conversione letteraria», dopo una prima fase di purismo un


po’ angusto (vedi sopra, p. 92), segnò il vero nascere della personalità
leopardiana in netta antitesi, ormai, all’ambiente familiare e al più
vasto ambiente della Restaurazione. Essa rappresentò anche il primo
contatto non più meramente erudito, ma appassionato e impegnato,
con l’antichità. Ma l’antichità, adesso, per il Leopardi significava con-
tatto con la natura, vita ancora libera dal razionalismo disgregatore e
dall’ascetismo mortificante. Le manifestazioni tipiche dell’antichità
così russoianamente concepita erano dunque l’azione pratica (le
repubbliche classiche, tutte patriottismo, eroismo e magnanime illu-
sioni) e la poesia: non la filosofia, che era invece il triste contrassegno
della civiltà moderna, ammalata di razionalismo.
Collocare e giustificare la filosofia antica in questa concezione gene-
rale dell’antichità diventava un compito difficile. Nello Zibaldone, dal
1818 al ’22, assistiamo a una serie di tentativi. Innanzitutto, un ten-
tativo di minimizzare l’importanza della filosofia antica in confronto
al posto centrale che la filosofia occupa nella cultura moderna. «Il
gusto presente per la filosofia – scrive il Leopardi in un pensiero del-
la fine del ’18 o dei primi del ’19 –15 non si dee stimare passeggero né
casuale, come fu varie volte anticamente, per esempio appresso i Gre-
ci al tempo di Platone dopo Socrate, e appresso i Romani in altri tem-
pi ancora, ma fra i nobili e gli scioli come presentemente al tempo di
Luciano, quando mantenevano il filosofo come ingrediente di corte e
di famiglia illustre, e si trattenevano benché scioccamente con lui ecc.
Vedi Luciano fra le altre opere nel trattato De mercede conductis. In
questi tali tempi era effetto di moda, e non avendo il suo principio
radicale nello stato dei popoli poteva passare e passava come ogni altra
moda, sicch’era cosa accidentale che sopravvenisse questo gusto piut-

14
iChe l’allusione sia rivolta ad Epicuro (non a Diogene cinico o ad Antistene, come è stato
supposto) ha sostenuto giustamente H. L. Scheel, Leopardi und die Antike, München 1959, p.
149. Una conferma in «Gnomon» 1960, p. 583. Il Leopardi giovinetto riecheggia, ma in tono
di sdegno moralistico, [cr] la sorridente espressione di Orazio Epicuri de grege porcum.
15
iZib., 31. Per la datazione cfr. gli indizi raccolti da G. A. Levi in «Giorn. stor. letter. ital.»
XCII, 1928, p. 216.
IV. Il Leopardi e i filosofi antichi 155

tosto che un altro. Ma presentemente il commercio scambievole dei


popoli, la stampa ecc. e tutto quello che ha tanto avanzato l’incivili-
mento cagiona questo amore dei lumi e per conseguenza della filoso-
fia (...): onde questo gusto avendo la sua ferma radice nella condizio-
ne presente dei popoli si dee stimare durevole e non casuale né
passeggero e molto differente da una moda».
Ma un giudizio così sommario, che liquidava come «effetto di
moda» un’attività che aveva tanto pesato nella cultura, nella politica
e nel costume antico, non poteva evidentemente accontentare il Leo-
pardi, che aveva già una conoscenza abbastanza larga, anche se disor-
ganica e in massima parte di seconda mano, del pensiero greco e lati-
no. Direi che l’insoddisfazione si nota già nella forma intricata con cui
è espresso il pensiero che abbiamo ora riferito: il Leopardi, mentre
contrappone l’«accidentalità» della filosofia antica all’essenzialità del-
la moderna, sente il bisogno di distinguere tra il gusto filosofico dei
tempi di Platone e quello, del tutto frivolo e superficiale, dei tempi di
Luciano, e di ammettere, d’altra parte, che la filosofia come moda di
nobili e di saputelli si trova anche «presentemente».
Una soluzione meno sforzata poteva consistere nel presentare la
filosofia antica come un sintomo della decadenza della civiltà antica,
del suo allontanarsi dalla natura. Il Leopardi si impegnò a dimostrare
questa tesi specialmente per il mondo romano. Che l’introduzione in
Roma della filosofia greca fosse stata (accanto alle eccessive ricchezze
e alla cessazione del metus hostilis) una causa della decadenza civile e
morale dei romani dopo le guerre puniche, era una vecchia idea risa-
lente a Catone il censore.16 La lettura della Grandeur et décadence di
Montesquieu, compiuta nel ’20, rafforzò nel Leopardi questa convin-
zione. Era questo un periodo in cui la fine della repubblica romana
costituiva oggetto di appassionata meditazione per il giovane alfieriano,
che già tendeva a dare, più dello stesso Alfieri, uno sbocco disperato
al proprio libertarismo.
Già in una delle prime pagine dello Zibaldone,17 a proposito del-
l’impossibilità di ristabilire la repubblica dopo l’uccisione di Cesare,
aveva osservato: «Cicerone predicava indarno, non c’erano più le illu-

16
iCome ricorda lo stesso Leopardi, Zib., 274, 331.
17
iZib., 22 sg. (databile tra il febbraio e il settembre 1818, cfr. Levi, art. cit., p. 216). Le
sottolineature sono mie.
156 IV. Il Leopardi e i filosofi antichi

sioni d’una volta, era venuta la ragione, non importava un fico la patria
la gloria il vantaggio degli altri dei posteri ecc. (...); così perderono la
libertà, non si arrivò a conservare e difendere quello che pur Bruto per
un avanzo d’illusioni aveva fatto, vennero gl’imperatori, crebbe la lus-
suria e l’ignavia, e poco dopo con tanto più filosofia, libri scienza espe-
rienza storia, erano barbari».18
Ribadì questo concetto nel giugno del ’20, durante la lettura del
Montesquieu: «I romani non furono mai così filosofi come quando
inclinarono alla barbarie, cioè a tempo della tirannia. E parimente
negli anni che la precedettero, i romani aveano fatti infiniti progressi
nella filosofia e nella cognizione delle cose, ch’era nuova per loro».19
E ancora: «Vedete che cosa avvenne ai romani quando s’introdusse
fra loro la filosofia e l’egoismo, in luogo del patriotismo. Il qual egoi-
smo è così forte che dopo la morte di Cesare, quando parea naturalis-
simo, che le idee antiche si risvegliassero ne’ romani, fa pietà il veder-
li così torpidi, così indifferenti, così tartarughe, così marmorei verso
le cose pubbliche».20
Soprattutto da quest’ultimo pensiero nasce, uno o due anni dopo,
quel gioiello di prosa satirica che è il dialogo Filosofo greco, Murco
senatore romano, Popolo romano, Congiurati.21 Qui il Filosofo greco è
il teorizzatore di quella viltà – dovuta al prepotere della ragione e alla
morte delle illusioni – di cui il senatore romano Murco è l’incarnazio-
ne. Quando Murco afferma che «questo non è il secolo della virtù ma
della verità» e che l’incivilimento ha distrutto ogni passione magna-

18
iQuesto scorcio cronologico, per cui la caduta della repubblica romana è vista come l’im-
mediato antecedente della «barbarie», ritorna nella prima stanza del Bruto minore, vv. 3-9.
19
iZib., 114 sg.
20
iZib., 161 (8 luglio 1820).
21
iPP, I, p. 1057 sgg. (dalle carte napoletane). I primi editori (Scritti vari inediti, Firenze
2
1910 , p. 306) assegnarono il dialogo al 1822, senza addurne i motivi. Lo Scarpa (G. L., Opere
a cura di R. Bacchelli e G. Scarpa, Milano 1935, p. 1292) lo riferisce all’agosto del ’20, suppo-
nendo – ma è ipotesi labile – che ad esso alluda il Leopardi nella lettera al Giordani del 4 set-
tembre 1820: «In questi giorni, quasi per vendicarmi del mondo, e quasi anche della virtù, ho
immaginato e abbozzato certe prosette satiriche». I riferimenti al libro II di Velleio Patercolo,
che si trovano annotati all’inizio del dialogo, indicherebbero come terminus post quem il gennaio
del ’21, quando il Leopardi lesse quel libro (cfr. Zib., 465-81). Tuttavia l’esame dell’autografo
dimostra che tali riferimenti furono aggiunti dal Leopardi in un secondo tempo. Certo è, ad ogni
modo, che il germe del dialogo si trova già nel pensiero del luglio 1820 da noi citato sopra. Si
osservi, oltre la concordanza generale di contenuto, il ritornare dell’immagine della tartaruga:
nello Zibaldone: «fa pietà il vederli così torpidi (...), così tartarughe»; nel dialogo, p. 1058: «la
ragione è pigra come una tartaruga».
IV. Il Leopardi e i filosofi antichi 157

nima, il Filosofo greco soggiunge: «Sto22 a vedere che costui mi vuol


fare il maestro di filosofia. Murco mio caro, questi insegnamenti noi
gli abbiamo su per le dita. La filosofia non è altro che la scienza della
viltà d’animo e di corpo, del badare a se stesso, procacciare i propri
comodi in qualunque maniera, non curarsi degli altri, e burlarsi della
virtù e di altre tali larve e immaginazioni degli uomini (...). Oh filo-
sofia filosofia! Verrà tempo che tutti i mortali usciti di tutti gl’ingan-
ni che li tengono svegli e forti, cadranno svenuti e dormiranno perpe-
tuamente fra le tue braccia». L’atto eroico e feroce di Bruto non può
ridestare un popolo così profondamente corrotto dalla ragione.
Come la filosofia aveva portato la Repubblica alla rovina, così a loro
volta i filosofi dell’età neroniana e flaviana, malgrado il loro persona-
le amore per la libertà, contribuirono a ribadire la servitù: «Conside-
ra la gran contrarietà di Catone ai progressi dello studio presso i
Romani, i quali sono un vivissimo esempio di quello ch’io dico, cioè
dell’esser gli studi, tanto ameni quanto seri e filosofici, favorevolissi-
mi alla tirannia. Vedi anche Montesquieu, Grandeur ecc., ch. 10, prin-
cipio. Certo la profonda filosofia di Seneca, di Lucano, di Trasea Peto,
di Erennio Senecione, di Elvidio Prisco, di Aruleno Rustico, di Tacito
ecc. non impedì la tirannia, anzi laddove i Romani erano stati liberi
senza filosofi, quando n’ebbero in buon numero, e così profondi come
questi, e come non ne avevano avuti mai, furono schiavi».23
Nell’Essai sur l’indifférence en matière de religion del Lamennais il
Leopardi trovò, di lì a poco, una nuova conferma a queste idee:24 la
filosofia era stata «la distruttrice di Roma» e la storia romana dimo-
strava quanto fosse vero che «la religione si ritrova presso la culla di
tutti i popoli, a quella guisa che la filosofia si è trovata sempre vicina
alla lor tomba». Tuttavia, di fronte all’uso apologetico, filocattolico
che il Lamennais della prima maniera faceva delle osservazioni del
Montesquieu, si ribellava la profonda onestà e chiarezza intellettuale
del Leopardi, convinto della dolorosità del vero, ma non per questo
disposto a gabellare il falso per vero e a credere nella obiettiva verità

22
i«Sta» legge il Donati, e parrebbe più giusto; ma l’autografo, ha chiaramente «Sto», e così
gli altri editori. ** [Sto è confermato definitivamente da Zib. 976.]
23
iZib., 274 (14 ottobre 1820). Il Montesquieu, nel passo a cui si riferisce il Leopardi, opi-
nava che «la secte d’Epicure (...) contribua beaucoup à gâter le coeur et l’esprit des Romains»:
cfr. Zib., 331.
24
iZib., 331 sg. (16 novembre 1820).
158 IV. Il Leopardi e i filosofi antichi

delle illusioni religiose: «laddove gli apologisti della religione ne dedu-


cono che gli stati sono stabiliti e conservati dalla verità, e distrutti dal-
l’errore, io dico che sono stabiliti e conservati dall’errore, e distrutti
dalla verità. La verità non si è mai trovata nel principio, ma nel fine
di tutte le cose umane; e il tempo e l’esperienza non sono mai stati
distruttori del vero, e introduttori del falso, ma distruttori del falso e
insegnatori del vero. E chi considera le cose al rovescio, va contro la
conosciuta natura delle cose umane. Questo è il controsenso fonda-
mentale in cui è caduto l’autore sopracitato. Egli avrebbe difesa mol-
to meglio la Religione se l’avesse difesa non come dettame dell’intel-
ligenza, ma come dettame del cuore». L’accordo religione-ragione, in
cui il Leopardi aveva ancora così fermamente creduto al tempo del
Saggio sopra gli errori popolari, era definitivamente rotto.
L’avvento del cristianesimo appariva ora al Leopardi come una rea-
zione irrazionalistica a uno stato di profonda disperazione, causato
dalla troppa filosofia: il momento in cui il cristianesimo aveva preso
piede era quello «a cui forse si dee riferire il maggior progresso della
setta scettica o Pirroniana» (Zib., p. 427), e in cui d’altra parte il biso-
gno di abbandonarsi al misticismo aveva pervaso gli stessi intellettua-
li, stanchi di tanto raziocinare: «E quel tempo appunto per li suoi lumi
inclinava al metafisico, all’astratto, al mistico, e quindi Platone trion-
fava in quei tempi. Vedi Plotino, Porfirio, Giamblico e i seguaci di
Pitagora, anch’esso astratto e metafisico» (p. 336).
Ma proprio per questo suo carattere di restaurazione (di «ideale di
ritorno», avrebbe detto il De Sanctis), non di fede integra e primige-
nia, il cristianesimo non poteva non riuscire assai meno beatificante
delle religioni antiche: non poteva non rappresentare un elemento di
«barbarie» anziché di «primitività».25 Gran parte dei pensieri leopar-
diani del 1820-22 rivelano questa oscillazione tra il tentativo di met-
ter d’accordo il cristianesimo col suo «sistema»26 e la ripugnanza, che

25
iVedi specialmente Zib., 337: «Del resto è vero che il Cristianesimo ravvivò il mondo illan-
guidito dal sapere, ma siccome, anche considerandolo com’errore, era appunto un errore nato dai
lumi e non dall’ignoranza e dalla natura, perciò la vita e forza ch’ei diede al mondo, fu come la
forza che un corpo debole e malato riceve da’ liquori spiritosi, forza non solamente effimera, ma
nociva, e produttrice di maggiore debolezza» (tutto il resto di questo pensiero è da leggere). Cfr.
Zib., 421 e, per la distinzione leopardiana fra «primitivo» e «barbaro», qui sopra, pp. 118-119.
26
iVedi in particolare il lungo pensiero del 9-15 dicembre 1820, Zib., 393-420; e qui sopra,
p. 136 n. 71.
IV. Il Leopardi e i filosofi antichi 159

infine prevalse, ad accettare quel tipo di illusioni negatrici della vita


attiva, della felicità terrena, del patriottismo, che erano le illusioni cri-
stiane, ben diverse da quelle dei Greci e Romani antichi.
Contro questi «errori per loro particolar natura mortificanti, come
quelli derivati da un’ignoranza barbarica e diversa dalla naturale»,
diventava necessario ricorrere a una «mezza filosofia», che ridestasse
l’umanità dal torpore senza perciò riprecipitarla nell’eccessivo razio-
nalismo.27 Ora, proprio questo concetto di «mezza filosofia» permise
al Leopardi, dai primi del ’21 in poi, di non coinvolgere più tutto il
pensiero filosofico antico in una condanna sommaria. Gli stoici del-
l’ultima Repubblica romana e dell’Impero, che si erano opposti al dispo-
tismo – e che nel pensiero già citato dell’ottobre del ’20 erano stati
senz’altro giudicati complici, sia pure involontari, del dispotismo stes-
so, in quanto distruttori delle illusioni – ora gli apparivano già in luce
diversa: «Del resto la mezza filosofia, non già la perfetta filosofia, ca-
gionava o lasciava sussistere l’amor patrio e le azioni che ne derivano,
in Catone, in Cicerone, in Tacito, Lucano, Trasea Peto, Elvidio Pri-
sco, e negli altri antichi filosofi e patrioti allo stesso tempo» (Zib., 522).
Di qui in avanti, pur senza abbandonare del tutto la tesi dell’ec-
cesso di filosofia come causa della decadenza del mondo antico, il Leo-
pardi viene riscoprendo la positività della filosofia antica in quanto
«mezza filosofia», non interamente razionalistica, ma commista di
fantasia e di sentimento.
Il fatto che i filosofi greci tenessero a distinguersi anche esterior-
mente (nel vestire, nel modo di vivere) assai più che i moderni, così da
formare «una classe e una professione formalmente distinta dalle
altre, ed anche dalle altre sette di filosofi», gli appare adesso una
«conseguenza necessaria del predominio della natura fra gli antichi, e
della sua nessuna influenza sui moderni. Dalla qual natura deriva il
fare: e il dare una vita, una realtà, un corpo visibile, una forma sensi-
bile, un’azione allo stesso pensiero, alla stessa ragione»: per cui «l’ap-
parenza e la sostanza erano assai meno discordi fra gli antichi i più
istruiti, e per conseguenza allontanati dalla natura; di quello che sia
fra i moderni i più ignoranti e inesperti, o i più naturali» (Zib., 1018 sg.,
6 maggio 1821).

27
iZib., 520 sgg. (17 gennaio 1821); cfr. gli altri passi elencati dal Leopardi stesso nell’Indi-
ce del mio Zibaldone alla voce «Filosofia perfetta, e mezza Filosofia» (vol. II, p. 1388 Flora).
160 IV. Il Leopardi e i filosofi antichi

È noto come il rapporto poesia-filosofia, che ancora ai primi del ’21


era visto dal Leopardi come assoluta e inconciliabile opposizione, a
poco a poco gli si andò configurando come una concordia discors, e infi-
ne come stretta affinità.28 Ora, il genere di filosofia che più presto
venne riconosciuto dal Leopardi come non incompatibile con la poe-
sia fu appunto la «mezza filosofia» degli antichi: «La filosofia di
Socrate poteva e potrà sempre non solo compatire, ma infinitamente
servire alla letteratura e poesia, e gioverà pur sempre agli uomini più
dell’odierna (...). Ma la filosofia di Locke, di Leibnizio ecc. non potrà
mai stare colla letteratura né colla vera poesia. La filosofia di Socrate
partecipava assai della natura, ma questa nulla ne partecipa, ed è tut-
ta ragione. Perciò né essa né la sua lingua è compatibile colla lettera-
tura, a differenza della filosofia di Socrate, e della di lei lingua. La
qual filosofia è tale che tutti gli uomini un poco savi ne hanno sempre
partecipato più o meno in tutti i tempi e nazioni, anche avanti Socra-
te. È una filosofia poco lontana da quello che la natura stessa insegna
all’uomo sociale».29 Socrate non era dunque visto dal Leopardi come
il distruttore dell’etica della polis (quale apparirà a Nietzsche, e già a
Hegel), ma come il rappresentante di una filosofia popolare che era
quasi una trascrizione dei precetti della natura. Per questo i filosofi
antichi avevano potuto governare stati, godere di larga autorità pres-
so il popolo, non essere insomma ridotti alla parte di intellettuali
umbratili.30
E tuttavia l’elemento fantasioso, irrazionale, di questa «mezza filo-
sofia» antica, se giovava a tener vive le illusioni, costituiva un osta-
colo obiettivo al raggiungimento della verità. Per un verso le filosofie
degli antichi avevano serbato una funzione sociale, di stimolo alla
virtù, che mancava alle aride filosofie moderne; per un altro verso,
giudicate da un punto di vista strettamente scientifico, esse erano «le
pazze filosofie degli antichi», inferiori alle moderne proprio perché
avevano preteso di «insegnare e fabbricare», mentre oggi la ragione

28
iVedi – per citare soltanto due punti estremi di questa evoluzione – da un lato Zib., 1228 sg.,
1231 (26-27 giugno 1821: «Dove regna la filosofia, quivi non è vera poesia ... Tra questa e quella
esiste una barriera insormontabile, una nemicizia giurata e mortale»), dall’altro 3382 sg. (8 set-
tembre 1823) e il cap. VII del Parini.
29
iZib., 1359 sg. (20 luglio 1821). Più tardi, nel capitolo del Parini cit. alla nota precedente,
riconoscerà anche a Leibniz (e, nella prima stesura, anche a Locke) attitudine artistica.
30
iZib., 3386 (8 settembre 1823).
IV. Il Leopardi e i filosofi antichi 161

umana aveva acquistato coscienza del proprio compito esclusivamen-


te negativo.31 Risorgeva sempre nel Leopardi quel profondo rigore
intellettuale che (come abbiamo visto nella sua polemica col Lamen-
nais) gli vietava di credere alla verità del mitico e dell’irrazionale pur
mentre era persuaso del loro effetto consolatore.

In questo quadro che egli si era fatto della filosofia antica spiccava
però una vistosa eccezione. Già nel novembre del 1820 aveva letto in
Diogene Laerzio le ultime parole di Teofrasto ai discepoli, in cui si
affermava la vanità della gloria e delle illusioni.32 C’era dunque stato
già nell’antichità un filosofo pessimista! Il Leopardi non aveva anco-
ra notizia, a quell’epoca, dei molti altri pensatori greci che, ben più
propriamente di Teofrasto, si possono dire pessimisti. Quelle parole
di Teofrasto gli apparvero perciò una voce isolata di pessimismo ragio-
nato (non puramente momentaneo e passionale) in un mondo ancora
rigoglioso di illusioni: «Io credo di essere il primo a notare che Teo-
frasto, essendo filosofo e maestro di scuola (...), anteriore oltracciò ad
Epicuro, e certamente non Epicureo né per vita né per massime, si
accostò forse più di qualunque altro alla cognizione di quelle triste
verità che solamente gli ultimi secoli hanno veramente distinte e poste
in chiaro, e della falsità di quelle illusioni che solamente a’ dì nostri
hanno perduto il loro splendore e vigor naturale» (Zib., 317).

31
iZib., 1352 (20 luglio 1821): 1465 (7 agosto 1821), dove tuttavia il Leopardi riconosce acu-
tamente alla metafisica antica (e alle sue propaggini cristiane) la funzione positiva di aver dato
impulso alla creazione del linguaggio astratto; 2709 sg.; 2711 sg. (21 maggio 1823): «I filosofi
antichi seguivano la speculazione, l’immaginazione e il raziocinio. I moderni l’osservazione e l’e-
sperienza. (E questa è la gran diversità fra la filosofia antica e la moderna)»; 3321 (1-2 settem-
bre 1823). In tutti questi pensieri si svolge una specie di querelle des anciens et des modernes, in
cui la nostalgia delle illusioni antiche è contrastata dall’orgoglio illuministico per le conquiste del
pensiero moderno.
32
iDiogene Laerzio V 40 sg. Il passo è tradotto dal Leopardi in Zib., 316 e, con poche modi-
fiche formali, nella Comparazione delle sentenze ecc. (PP, I, p. 1038). Per l’interpretazione di
καταλαζονε)εται («disprezza») il Leopardi seguì, credo giustamente, l’edizione di Amsterdam
(cit. qui sopra, p. 152), nella quale era anche riportata, a conferma, una nota dello Stefano. Le
altre interpretazioni («Multa dulcia gloriae obtentu vita mentitur», Ambrogio Traversari, ripor-
tato nell’ed. di Amsterdam; «La vita rivela che molte gioie sono mera parvenza», M. Gigante,
Bari 1962) mi sembrano incapaci di render ragione di δι τν δ(ξαν. Sulle difficoltà che pre-
senta la concatenazione delle idee in questa parlata di Teofrasto quale è riferita da Diogene Laer-
zio vedi F. Tocco, Leopardi e Teofrasto, in «Atene e Roma» 1899, col. 242 sgg. Le difficoltà
sono, tuttavia, meno gravi di quanto apparissero al Tocco; non bisogna dimenticare che una cer-
ta discontinuità logica è frequentissima in testi greci.
162 IV. Il Leopardi e i filosofi antichi

Le altre testimonianze, specialmente ciceroniane, su Teofrasto, che


ricavò dalle note dell’edizione olandese di Diogene Laerzio e dal
Fabricius, lo condussero sempre più a formarsi di Teofrasto un ritrat-
to ideale, fortemente colorito di autobiografismo. Teofrasto, proprio
perché aveva riconosciuto meglio di ogni altro la vanità delle illusio-
ni, «non però le fuggiva o le proscriveva come i nostri pazzi filosofi,
ma le cercava e le amava». Aveva studiato a fondo i caratteri degli
uomini, e la scienza del cuore umano porta naturalmente alla malin-
conia, «tanto più che la base di questa scienza è la sensibilità e suscet-
tibilità del proprio cuore, nel quale principalmente si esamina la natu-
ra dell’uomo e delle cose». Aveva – come il Leopardi giovane – un
«sapere enciclopedico», che «influisce necessariamente sulla profon-
dità dell’intelletto, e il disinganno del cuore». Aveva liberato due vol-
te la patria dalla tirannide:33 il pessimismo non aveva spento in lui,
come nemmeno nel Leopardi, la fiamma patriottica e libertaria!
Questi pensieri ritornano, un anno e mezzo dopo (marzo 1822),
nella Comparazione delle sentenze di Bruto minore e di Teofrasto vicini
a morte. Qui il paragone con Bruto dà maggiore risalto al carattere par-
ticolare del pessimismo teofrasteo, non esploso in un momento di con-
citata disperazione, ma maturato nel corso di tutta una vita lunghissi-
ma, agiata, esteriormente felice.34 Bruto e Teofrasto rappresentano due
diverse facce del pessimismo leopardiano, quella alfieriana e agonisti-
ca, quale si era espressa nelle Canzoni, e quella ragionativa e filosofica,
a cui il Leopardi avrebbe di lì a poco dato espressione nelle Operette.
Ma la prima appariva al Leopardi normale anche nell’antichità: Niobe,
Giobbe, Giuliano l’Apostata erano esempi tipici di questo atteggia-
mento di ribellione contro il destino, che giungeva fino alla bestemmia
(vedi l’importante pensiero del 15 gennaio 1821, Zib., 503-507). Ec-
cezionale gli sembrava invece la dolorosa e pacata saggezza teofrastea.
Eppure, se dall’ovvia constatazione della tinta autobiografica di
questo ritratto di Teofrasto si volesse concludere, con Felice Tocco,35
che il Teofrasto leopardiano è «un Teofrasto di fantasia», del tutto

33
iSu questa notizia, riferita da Plutarco Mor. 1126 F e 1097 B, cfr. O. Regenbogen in Pauly-
Wissowa, Suppl. VII (1940), col. 1359.
34
iPP, I, p. 1040. Sulla Comparazione vedi l’interessante analisi di G. Berardi in «Belfagor»
XVIII, 1963, pp. 433-438.
35
iArt. cit. qui sopra, nota 32. Per analoghi giudizi del Tocco su altri scritti leopardiani cfr.
pp. 172 n. 65, 180 n. 87.
IV. Il Leopardi e i filosofi antichi 163

diverso da quello storico, si cadrebbe in errore. Certo, noi oggi sap-


piamo che le ultime parole di Teofrasto, dato e non concesso che sia-
no almeno in parte autentiche, non autorizzano a fare un pessimista
di un pensatore così pieno di aristotelico equilibrio e di lieta curiosità
empirica come egli fu; e non dobbiamo dimenticare che a quell’epoca
il Leopardi non aveva ancora letto i Caratteri36 né alcun altro degli
scritti teofrastei a noi giunti. Ma c’è un punto che il Leopardi ha visto
con perfetta esattezza storica: l’importanza della polemica teofrastea
(in parte già aristotelica) contro la tesi, tanto cara al pensiero greco,
dell’indipendenza della felicità del savio dagli eventi esterni. «Del
rimanente mi pare che Teofrasto (...) sentisse (...) soprattutto l’impe-
ro della fortuna, e la sua preponderanza sopra la virtù relativamente
alla felicità dell’uomo e anche del saggio, al contrario degli altri filo-
sofi tanto meno profondi, quanto più superbi, i quali ordinariamente
si compiacevano di credere il filosofo felice per se, e la virtù sola o la
sapienza, bastanti per se medesime alla felicità»: ** così aveva scrit-
to già nel pensiero dell’11 novembre 1820, polemizzando col superfi-
ciale stoicismo di Cicerone.37 E nella Comparazione aggiunse: «Della
qual fantasia non pare che i filosofi sieno ancora guariti, anzi pare che
sieno peggiorati non poco, volendo che ci debba menare alla felicità
questa filosofia presente, la quale in somma non dice e non può dir
altro, se non che tutto il bello, il piacevole e il grande è falsità e nul-
la». Effettivamente la profonda verità dell’etica aristotelico-teofrastea
– che la distacca da tutte le altre etiche antiche e da gran parte delle
moderne – è la consapevolezza dell’insufficienza della «libertà inte-
riore». E che in questa consapevolezza vi sia – una volta negata una
provvidenza trascendente – un germe di pessimismo, il Leopardi ave-
va ragione di rilevare.

3. Il 1823 è un anno di grande importanza, come per gli studi filo-


logici del Leopardi, così per i suoi rapporti con la filosofia antica. In

36
iLi lesse poi nell’ottobre-novembre 1825: cfr. Zib., 4146-49 e l’indice delle letture pubbli-
cato dal Porena, Scritti leopardiani, p. 428, num. 341.
37
iZib., 316 sgg. I passi di Cicerone contro cui polemizza il Leopardi sono Tusc. V 25 (cfr.
III 21) e De fin. V 12. Nell’edizione del Flora, vol. I, p. 1594 le note 1 e 2 a p. 287 vanno scam-
biate di posto. Si noti ancora che, come mi conferma Giuseppe Pacella, nella citazione di Tusc.
V 25 il Leopardi scrisse effettivamente laudarit (che è la lezione giusta), non laudavit come stam-
pano gli editori fiorentini e il Flora.
164 IV. Il Leopardi e i filosofi antichi

febbraio, durante il soggiorno a Roma, intraprese la lettura del Voya-


ge du jeune Anacharsis,38 e ben presto fu attratto da ciò che il Barthé-
lemy riferiva sul pessimismo antico. Attraverso questa lettura giunse-
ro per la prima volta a lui – che non conosceva direttamente né
Teognide né Pindaro né Sofocle né Euripide –39 le famose sentenze:
meglio per l’uomo non esser mai nato e, una volta nato, morire al più
presto; giorno di lutto dovrebb’essere il giorno della nascita, come è
presso alcuni popoli barbari, non quello della morte. Press’a poco nel-
lo stesso tempo, analoghe testimonianze del pessimismo antico trovò
in alcuni opuscoli plutarchei (soprattutto nell’apocrifa Consolatio ad
Apollonium) che egli leggeva nella traduzione di Marcello Adriani.40
Tra queste testimonianze c’era la famosa risposta di Sileno a Mida nel-
l’Eudemo di Aristotele, e c’era il verso di Menandro che divenne poi
l’epigrafe di Amore e Morte: «Muor giovane colui ch’al cielo è caro».41
Il pessimismo antico non era dunque, come il Leopardi aveva fin
allora creduto, un fenomeno eccezionale, limitato al solo Teofrasto:
era una visione della vita comune ai maggiori poeti e savi della Grecia
classica ed ellenistica. «Ces plaintes effrayantes – scriveva il Barthé-
lemy – ne sont que trop conformes aux maximes des sages de la Grè-
ce».42 E non della Grecia soltanto: le stesse espressioni di dolore si
ritrovavano in Giobbe, nell’Ecclesiaste.43 Poco dopo, la lettura del

38
iCfr. Zib., 2669 sgg. (sul pessimismo antico specialmente 2671-2675, 2686) e l’elenco del-
le letture leopardiane a Roma pubblicato dal Porena, Scritti leopardiani, p. 444. **
39
iSui motivi di questa limitazione delle letture leopardiane di classici greci cfr. La filologia di
G. Leopardi, Firenze 1955, p. 29 sgg. (un’edizione cinquecentesca dell’Aiace, Antigone ed Elet-
tra di Sofocle c’era, tuttavia, nella biblioteca Leopardi, come risulta dal Catalogo in «Atti e mem.
Deput. storia patria Marche» 1899, p. 380); «Atene e Roma» 1959, p. 91; «Gnomon» 1960,
p. 583. Diversamente giudica Piero Treves, «Rendic. Istit. Lombardo» 1958, p. 420, n. 39. **
40
iZib., 2673; cfr. l’elenco cit. alla nota 38, ibid.
41
iCfr. Zib., ed. Flora, vol. II, p. 1340 (nota a p. 36). Il verso di Menandro (fr. 125 Kock)
nella versione dell’Adriani suonava così: «In giovinezza muor quel che ama Iddio». Il Leopar-
di, per quanto risulta, non ebbe poi occasione di leggere la Consolatio ad Apollonium in greco;
ma il testo originale del verso menandreo gli capitò sott’occhio qualche anno dopo, leggendo Sto-
beo IV 52, 27 (vol. V, p. 1081 Hense): cfr. la nota del Leopardi al Tristano (PP, I, p. 1033, ulti-
ma nota) e, per la lettura di Stobeo, qui sotto, p. 165 e n. 44.
42
iCit. in Zib., 2671. L’ignoranza del pessimismo greco, che Piero Treves (Lo studio dell’an-
tichità classica nell’Ottocento, Milano-Napoli 1962, p. 497, n. 1) attribuisce al Leopardi in gene-
rale, va dunque riferita soltanto al p r i m o Leopardi: cfr. M. Pavan, «La parola del passato»
1963, p. 472.
43
iGià un accenno in Zib., 507 (15 gennaio 1821), dove tuttavia la ribellione di Giobbe con-
tro la divinità appariva ancora al Leopardi consona al modo di pensare degli antichi (vedi qui
sopra, p. 162). Vedi ancora Zib., 1849 (7 ottobre 1821). Molto più tardi, nel Tristano, dirà che
IV. Il Leopardi e i filosofi antichi 165

Florilegio di Stobeo – alcuni capitoli del quale sono tutto un susse-


guirsi di massime dolorose – offriva al Leopardi, insieme al già noto,
nuovo materiale sul pessimismo dell’antichità.44
Queste letture non furono certo l a c a u s a del passaggio del Leo-
pardi dal pessimismo storico al pessimismo cosmico: abbiamo già cer-
cato di mostrare in un saggio precedente (cfr. p. 125 sgg.) la comples-
sità dei motivi di tale passaggio. E tuttavia esse hanno – cosa finora,
credo, non osservata – un posto non trascurabile in questa evoluzio-
ne del pensiero leopardiano. Un presupposto necessario del pessimi-
smo storico era la felicità degli antichi, o almeno il carattere mera-
mente passeggero ed episodico della loro infelicità. Ora il Leopardi
constatava che già la Grecia classica ed eroica, prima della decaden-
za, aveva non solo sentito, ma teorizzato l’infelicità necessaria e per-
petua dell’uomo. L’infelicità non era dunque la conseguenza d’un
distacco dalla natura, ma era insita nella natura stessa.
Nel dicembre del ’20, quando ancora la persuasione della felicità
degli antichi era in lui abbastanza salda (ma l’«eccezione» di Teofra-
sto vi aveva prodotto, come vedemmo, una prima incrinatura), il Leo-
pardi aveva ribadito la sua prediletta tesi dell’allontanamento dalla
natura come causa dell’infelicità (Zib., 446 sg.) e aveva poi aggiunto
in parentesi: «L’uomo può essere anche infelice accidentalmente per
forze esterne, che gl’impediscano di conformar le azioni alle creden-
ze, cioè di far quello ch’egli giudica buono per lui, o non far quello
ch’egli giudica e crede cattivo. Tali forze sono le malattie, le violenze
fattegli da altri individui, o da altre specie, o dagli elementi, ec. ec. ec.
Quest’infelicità non entra nel nostro discorso. Essa è appresso a poco
l’infelicità antica».
Qui l’oppressione che sull’uomo esercita la natura, e che anche l’uo-
mo antico subì, è ancora vista dal Leopardi come qualcosa di meno
grave e di «accidentale» in confronto all’infelicità derivante dalla

il pessimismo è antico «quanto Salomone e quanto Omero, e i poeti e i filosofi più antichi che
si conoscano»; e nei Nuovi credenti (vv. 2, 75) contrapporrà polemicamente il pessimismo di
Salomone e di Giobbe, da lui condiviso, al panglossismo dei moderni cattolici. Si veda anche il
breve frammento di versione in terzine del Libro di Giobbe (PP, I, p. 653), che non credo sia da
assegnare al ’19 con lo Scarpa e il Flora, e tanto meno al ’16 coi primi editori, ma almeno al ’21
o anche molto più tardi.
44
iCitazioni dirette da Stobeo vi sono nello Zibaldone a cominciare da p. 4019 (20 gennaio
1824): cfr. l’indice del Flora. Vedi anche le note del Leopardi alle Operette morali, in PP, I,
p. 1032 sg. (note 37 e 62). **
166 IV. Il Leopardi e i filosofi antichi

civiltà eccessiva, triste privilegio dei moderni. Nel corso degli anni
successivi il rapporto era destinato a invertirsi; e allora l’infelicità
degli antichi doveva apparire al Leopardi come sostanzialmente omo-
genea a quella dei moderni: come una caratteristica dell’«uomo in
generale».45
Le Operette morali (mi riferisco per ora a quelle composte nel ’24)
rispecchiano già in larga misura questa nuova visione del pessimismo
antico. C’è, sì, ancora in esse la contrapposizione antichi-moderni (alla
quale, del resto, il Leopardi non rinuncerà mai del tutto: il riconosci-
mento che l’umanità è stata sempre infelice non annulla per lui la con-
statazione che nel mondo moderno nuovi motivi di infelicità si sono
aggiunti agli originari). C’è anche, in più punti, la persistente convin-
zione che l’attivismo e l’ottimismo morale fossero ideologie adeguate
all’antichità e, all’inverso, il pessimismo e l’indifferentismo lo siano
all’età moderna. Filippo Ottonieri, nel professarsi scherzosamente
epicureo, «condannava Epicuro; dicendo che ai tempi e nella nazione
di colui, molto maggior diletto si poteva trarre dagli studi della virtù
e della gloria, che dall’ozio, dalla negligenza, e dall’uso delle voluttà
del corpo (...). Ed affermava che la dottrina epicurea, proporzionatis-
sima all’età moderna, fu del tutto aliena dall’antica».46 Ma per lo più
i filosofi e i poeti-filosofi della Grecia antica sono ricordati nelle Ope-
rette per mettere in risalto non la differenza, ma la sostanziale identità
della condizione umana nell’evo antico e nel moderno. Il Leopardi si
compiace di contrapporre polemicamente all’ottimismo moderno la
voce dei pensatori antichi che avevano già riconosciuto la vanità e l’in-
felicità della vita. Basta scorrere le note del Leopardi stesso alle Ope-
rette per ritrovarvi citate quelle testimonianze sul pessimismo greco
che egli aveva raccolto l’anno prima nello Zibaldone, e altre dello stesso
genere.47 Circola già, dunque, in queste Operette il motivo che diven-
terà poi del tutto esplicito nel Tristano: «Io diceva queste cose fra me,
quasi come se quella filosofia dolorosa fosse d’invenzione mia; veden-
dola così rifiutata da tutti, come si rifiutano le cose nuove e non più
sentite. Ma poi, ripensando, mi ricordai ch’ella era tanto nuova, quan-

45
iVedi il saggio precedente, pp. 143 sgg.
46
iDetti memorabili di Filippo Ottonieri, cap. I; cfr. cap. VI, terzo capoverso. Per l’atteggia-
mento del Leopardi verso l’epicureismo, vedi più oltre, p. 177 sg.
47
iVedi, in PP, I, pp. 1029-1033, le note 1, 22, 23, 31, 37, 48 e i passi relativi del testo.
IV. Il Leopardi e i filosofi antichi 167

to Salomone e quanto Omero,* e i poeti e i filosofi più antichi che si


conoscano; i quali tutti sono pieni pienissimi di figure, di favole, di
sentenze significanti l’estrema infelicità umana; e chi di loro dice che
l’uomo è il più miserabile degli animali; chi dice che il meglio è non
nascere, e per chi è nato, morire in cuna; altri, che uno che sia caro
agli Dei, muore in giovanezza, ed altri altre cose infinite su questo
andare».48
Ritorna anche nelle prime Operette, sviluppata adesso con piena
lucidità materialistica, la polemica di origine teofrastea (vedi qui
sopra, p. 163) contro quei filosofi che raffiguravano il savio come del
tutto indifferente ai colpi della sorte avversa. Nel capitolo II dell’Ot-
tonieri – e già in un pensiero dello Zibaldone49 forse ancor più effica-
ce nella sua polemica immediatezza – il Leopardi osserva che quella
stessa imperturbabilità del sapiente, anche ammesso che sia raggiun-
gibile in certi casi, è pur sempre uno stato fisiologico, che può essere
alterato dai riflessi psichici di una perturbazione patologica dell’orga-
nismo. C’è qui una profonda critica di ogni volontarismo, il quale sem-
pre presuppone un concetto metafisico e antiscientifico dello spirito.
Anche all’elaborazione delle Operette giovò la lettura – non inter-
rotta mai, come abbiamo accennato – delle Vite di Diogene Laerzio.
Di lì il Leopardi trasse spunti non solo di pessimismo in senso stret-
to, ma di materialismo e di osservazione disincantata della realtà;50 e
di lì, oltre che dai Memorabili senofontei e da altri modelli, derivò la
struttura esteriore dei Detti memorabili di Filippo Ottonieri.51 In Dio-
gene Laerzio (II, 86) egli trovò anche la menzione di Egesia, un vero
pessimista antico, anzi un edonista-pessimista: progettò un’operetta

48
iCfr. la nota del Leopardi a questo passo, e qui sopra, p. 164 sg. Di queste riprese di moti-
vi pessimistici antichi fanno parte anche le due libere versioni «dal greco di Simonide» che il
Leopardi incluse nei Canti (XL, XLI: un brano della prima anche nel Parini, cap. X) e le due ver-
sioni da Alessi Turio (PP, I, p. 459 sg.).
49
iZib., 2800-03 (21 giugno 1823).
50
iVedi per esempio Zib., 660 (sull’«insensibilità dell’atto della morte», pensiero sviluppato
poi nel Ruysch) e 661 («dell’influenza del corpo sull’animo»).
51
iSui Memorabili di Senofonte (la cui ispirazione è visibile fin nel titolo) e sulla Vita di
Demonatte di Luciano hanno già richiamato l’attenzione i commentatori. Ma vedi anche, in Dio-
gene Laerzio, le citazioni di detti memorabili quali I 26; I 59; I 69, e molti altri.
*iSu Omero come maestro di saggezza pessimistica, e in generale sul rapporto fra il Leopardi
e il pessimismo antico, vedi ora anche G. Lonardi, Classicismo e utopia cit., p. 91 sgg.; e qui {sot-
to}, p. 248.
168 IV. Il Leopardi e i filosofi antichi

Egesia pisitànato, e di Egesia si ricordò più tardi nel Dialogo di Ploti-


no e di Porfirio.52

4. Accanto alla conoscenza del pessimismo greco, un’altra esperien-


za culturale di grande rilievo fu iniziata dal Leopardi nel 1823: la let-
tura di Platone.53 Abbiamo già accennato al posto centrale che a Pla-
tone assegnava lo spiritualismo romantico europeo. La traduzione dello
Schleiermacher (1804-28), l’edizione con traduzione latina di Friedri-
ch Ast (1819-32), la traduzione francese di Victor Cousin (1822-40),
l’edizione di Gottfried Stallbaum (1821-25, seguita dal commento
dello stesso studioso, 1827-60), pur rappresentando notevolissimi con-
tributi allo studio filologico e storico di Platone, non nascevano da un
puro bisogno di conoscenza, ma da un intento ideologico e pratico:
sconfiggere l’ateismo e il materialismo del secolo xviii. Una visione
«platonocentrica» del pensiero greco – in polemica non solo con l’e-
picureismo, ma con lo stesso aristotelismo – ispirava gli studi platonici
di August Boeckh, che, pure, non apparteneva certo all’ala più retri-
va dello storicismo tedesco. Le tendenze più misticheggianti si riface-
vano, oltre che a Platone, al neoplatonismo: basti ricordare l’edizione
di Plotino del Creuzer.
Anche nella cultura cattolica italiana l’interesse per Platone non
poteva non ridestarsi, sia pure con qualche ritardo, man mano che si
avvertiva l’insufficienza del vecchio aristotelismo scolastico a costitui-
re un efficace baluardo contro la filosofia moderna. Un reazionario
«europeo» come Carlo Antici aveva già da alcuni anni sentito questa
52
i** PP, I, pp. 700 (scheda risalente forse al 1823, certo anteriore alla composizione del
primo gruppo di Operette morali), 1012 (con la nota 60 a p. 1033).
53
iCombinando i dati forniti dagli elenchi di letture compilati dal Leopardi stesso (Porena,
Scritti leopardiani, pp. 419 sgg., 439 sgg.) con le indicazioni dello Zibaldone, si ricostruisce que-
sta serie di letture platoniche: ** dal gennaio del ’23 (quando il Leopardi ricevette dal De
Romanis i primi volumi dell’edizione dell’Ast, cfr. lettera del 13 gennaio) alla fine di aprile, Pro-
tagora, Fedone, Ipparco, Menesseno, Minosse, Clitofonte, Anterastae, Gorgia, Fedro (Porena, p. 443,
e per il Gorgia anche Zib., 2672, 2674); nel maggio 1823, Teeteto (Porena, p. 441); luglio ’23,
Sofista e Convito (Porena, p. 419 sgg., num. 41 e 42); marzo ’24, nuova lettura del Fedro (id.,
num. 148); gennaio ’25, alcuni dialoghi pseudoplatonici (id., num. 283); ottobre ’25, Teagete,
Alcibiade secondo, Carmide e Lachete nella traduzione del Cousin (id., num. 334-337); dicem-
bre ’27, Repubblica e Ipparco (id., num. 420 e 421); maggio ’28, Cratilo (num. 430); gennaio ’32,
Apologia e Critone (Zib., 4524 sg.). Ma l’anno del grande interesse per Platone fu il 1823, come
è dimostrato anche dalle note filologiche (vedi qui sotto, nota 55). Il riferimento all’edizione pla-
tonica dell’Ast che si trova in Zib., 89 è un’aggiunta posteriore, come mi conferma Giuseppe
Pacella. **
IV. Il Leopardi e i filosofi antichi 169

esigenza e avrebbe voluto indirizzare l’ingegno filologico e letterario


di Giacomo Leopardi verso una traduzione completa dei dialoghi pla-
tonici, come arma contro il «vile materialismo».54 La proposta dell’e-
ditore Filippo De Romanis al Leopardi di tradurre tutto Platone sorse
appunto in questo clima e, pur non giungendo ad effetto, rappresentò
per il Leopardi l’occasione alla lettura dei dialoghi e a preziosi contri-
buti filologici.55
Che cosa significò questa lettura per la formazione ideologica del
Leopardi? Non credo che ci sia bisogno di soffermarsi a confutare la
tesi di un Leopardi platonico, basata solo su fraintendimenti o su sofi-
smi.56 Decisamente avverso al platonismo il Leopardi era già prima di
leggere Platone. La critica delle «idee preesistenti alle cose», che egli
aveva letto nell’Essai sur le goût del Montesquieu, gli era sembrata non
solo ovvia, ma ancora troppo timida: noi moderni non crediamo più
alle idee di Platone – argomentò fin dal luglio 1820 – ma continuiamo,
incoerentemente, a credere a valori estetici e morali assoluti.57 In que-
sta polemica antiplatonica e già tendenzialmente anticristiana – anche
se per un momento dette luogo a un singolare tentativo di interpreta-
zione totalmente irrazionalistica del cristianesimo –58 il Leopardi si

54
iCfr. F. Moroncini, proemio alle Opere minori approvate del Leopardi, Bologna 1931, I,
p. LXXXIV, n. 1; Leopardi, Epistolario ed. Moroncini, I, p. 37, n. 2.
55
iTali contributi, tuttora inediti, saranno pubblicati da G. Pacella e da me nell’edizione
degli scritti filologici leopardiani. Vedi per ora La filologia di G. Leopardi, pp. 147-152.*
56
iTale tesi (giustamente respinta dal Luporini, Filos. vecchi e nuovi cit., p. 241) fu sostenuta
per esempio da F. Tocco, Il carattere della filosofia leopardiana, nel vol. di vari autori Da Dante
al Leopardi (già cit. a p. 130 n. 60), p. 573 sg. Più equilibrato e veritiero è il giudizio di Giovanni
Setti, La Grecia letteraria nei «pensieri» di G. Leopardi, Livorno 1906, p. 180 sgg.; tuttavia il pas-
so dello Zibaldone, 1712 sg. (= vol. III, pp. 325 sg. dell’ed. Le Monnier) fu completamente frain-
teso dal Setti (p. 185), il quale, fermandosi alla prima frase, vi scorse un’adesione al platonismo:
il Leopardi, invece, intende dire che se si ammettono valori assoluti e metempirici, si deve neces-
sariamente ammettere la teoria platonica delle idee, e conclude (p. 1714): «Ora, trovate false e
insussistenti le idee di Platone, è certissimo che qualunque negazione e affermazione assoluta
rovina interamente da se, ed è maraviglioso come abbiamo distrutte quelle, senza punto dubi-
tar di queste». Su un nuovo tentativo di interpretazione platoneggiante del Leopardi, dovuto a
V. Cilento, vedi qui sotto, p. 171, n. 62.
57
iZib., 154 (6 luglio 1820, col riferimento a Montesquieu), 1340 (17 luglio 1821), 1461 sgg.
(7 agosto 1821), 1712 sgg. (16 settembre 1821 cit. alla nota precedente). Vedi anche i passi cit.
nelle due note seguenti.
58
iZib., 1638 sgg. (5-7 settembre 1821): «la morale dipende da Dio ... e Dio non dipende
punto dalla morale».
*iVedi ora G. Leopardi, Scritta filologici a cura di G. Pacella e S. Timpanaro, Firenze 1969,
p. 469 sgg.
170 IV. Il Leopardi e i filosofi antichi

appoggiò anche a filosofi antichi di indirizzo più o meno marcatamen-


te relativistico: Archelao, Aristippo, Diogene cinico, Sesto Empirico.59
E già nel ’20 contrapponeva alla filosofia scientifica di Aristotele e di
Teofrasto, rivolta a «discorrere delle cose sul fondamento del vero e
dell’esperienza», la filosofia artistica di Platone, mirante a «fabbrica-
re un sistema fondato sul brillante e sul fantastico» (Zib., 351).
La lettura diretta non modificò il giudizio sul filosofo, lo confermò
anzi pienamente. Leggendo il Gorgia, il Leopardi trova gli argomenti
di Callicle più forti di quelli di Socrate: «Tutta la vituperazione della
filosofia che Platone in quel Dialogo mette in bocca di Callicle (...) è
degna d’esser veduta. V’è anche insegnata (sebben Platone lo fa per
poi negarla e confutarla) la vera legge naturale, che ciascun uomo o
vivente faccia tutto per se, e il più forte sovrasti il più debole, e si goda
quel di costui».60 Via via che, dal ’23 in poi, si preciserà il materiali-
smo leopardiano, più radicale si farà la polemica contro Platone e con-
tro i neoplatonici.61 Essa trova la sua più chiara espressione in un pen-
siero del 17 ottobre 1826 (Zib., 4219-22). Dopo aver riferito alcuni
brani della Vita Isidori di Damascio, in cui si insisteva sul valore che
Isidoro attribuiva all’illuminazione mistica a scapito della ragione, il
Leopardi soggiunge: «Ridete? Or traducete queste che vi paiono stol-
tizie, dalla lingua antica filosofica nella moderna, e voi vedrete acca-
dere quello che dice il Dutens, cioè quante verità (qui però si tratterà
di errori) si troverebbero negli antichi, credute moderne, se si sapes-
sero tradurre i loro detti nella lingua modernamente adottata per la
filosofia. Queste scempiaggini del filosofo mistico Isidoro, comuni in
gran parte agli altri mistici di quello e dei vicini secoli, e dominanti in
quei tempi di sogni e di creuseries, che altro sono se non, con diverse
parole, le misticherie di quei moderni, che quando non ci possono pro-

59
iZib., 209, 223, 661 (citazioni tratte da Diogene Laerzio). Vedi, più tardi (Zib., 2660, 22
dicembre 1822) i richiami al discorso di Furio Filo sulla relatività del concetto di giustizia nel
De re publica di Cicerone, e ad altri passi citati dal Mai nella nota a questo passo ciceroniano.
60
iZib., 2672, 12 febbraio 1823. Cfr. la Palinodia, vv. 69-81.
61
iVerso i neoplatonici che aveva studiato da giovinetto (quando aveva lavorato attorno alla
Vita Plotini di Porfirio) il Leopardi assunse prestissimo un atteggiamento di insofferenza: vedi
il Discorso Della fama di Orazio presso gli antichi (1816), in cui egli deplora che siano andati per-
duti tanti capolavori dell’antichità classica, e si siano invece conservati i commenti dei neopla-
tonici ai dialoghi di Platone, «e gran parte di Filone, di Sesto Empirico, di Porfirio, dei misteri
di Plotino più eterni che l’argomento del settimo della terza Enneade», e così via (PP, II, p. 627).
Un accenno sprezzante a Porfirio si trova anche nella Lettera al Giordani sopra il Frontone del Mai,
del 1818 (PP, II, p. 657).
IV. Il Leopardi e i filosofi antichi 171

vare con ragioni quello che vogliono, quando sono obbligati a confes-
sare che argomenti per provarlo non vi sono, che anzi abbondano gli
argomenti in contrario, ricorrono alla gran prova del sentimento, e pre-
tendono che questo debba esser l’unica guida, canone, maestro della
verità nelle cose che più importano? E noi che ridiamo di questi passi
di Damascio, non ridiamo di queste sentenze moderne, anzi le ripe-
tiamo e magnifichiamo. Questo è proprio il caso del mutato nomine
(propriamente il nome e non altro) de te fabula (...). Del resto, ho det-
to che questi principii erano comuni e dominanti in quei secoli; ma
Damascio ha ragion di dire, ξα'ρετον δ’ ν ατ$ ec., e di fare Isi-
doro singolare dagli altri, perché pochi filosofi anteriori o contempo-
ranei (e così posteriori) avevano osato così sfacciatamente ripudiar la
ragione, o sottometterla al sentimento, all’entusiasmo, all’ispirazione
(...); deprimere e condannare Aristotele, appunto perché seguace το
ναγκα'ου, cioè dei metodi esatti di conoscere il vero, di ragionare,
di convincere, per principii incontrastabili, conseguenze necessaria-
mente dedotte; ed anteporgli Platone, Pitagora ec., perché non ragio-
natori, perché πιστε)οντας al libero sentimento e all’immaginario,
che Isidoro chiama divino ec.».
«Qui mira e qui ti specchia», verrebbe fatto di dire leopardiana-
mente a Vincenzo Cilento, che con sovrano disprezzo di ogni docu-
mentazione, con un puro lavoro di arbitrio e di fantasia, ha recente-
mente costruito un Leopardi non soltanto platonico, ma addirittura
neoplatonico!62
Nel Dialogo di Plotino e di Porfirio, scritto un anno dopo questo
pensiero dello Zibaldone, il divieto del suicidio è combattuto da Por-
firio con quella lunga e appassionata apostrofe a Platone che, se è
potuta sembrare una forzatura dell’equilibrio compositivo e lirico del-
l’operetta,63 rappresenta tuttavia un’ulteriore, importante espressione
dell’antiplatonismo leopardiano. Un antiplatonismo, certo, – questo e
quello del pensiero del ’26 –, sotto il quale traspare ben chiaro l’anti-
cristianesimo. Ma a chi tenga presente quel clima di spiritualismo pla-
toneggiante della Restaurazione a cui abbiamo poco fa accennato, la
62
iV. Cilento, Leopardi e l’antico, in «Studi di varia umanità in onore di F. Flora», Milano
1963, p. 601 sgg. Giuste riserve su questo saggio ha già espresso M. Capucci in «Convivium»
XXXII, 1964, p. 100 sg. Si veda anche la critica leopardiana dell’antiedonismo di «Pitagora»
(cioè del neoplatonico Giamblico) in Zib., 4431.
63
iMa vedi le osservazioni di Emilio Bigi (Dalle «Operette morali» ai «Grandi Idilli», in «Bel-
fagor» XVIII, 1963, pp. 146-148) che limitano molto questo giudizio corrente.
172 IV. Il Leopardi e i filosofi antichi

polemica antiplatonica del Leopardi non sembrerà affatto un mero


pretesto o un travestimento arbitrario. Era la risposta dovuta ai pla-
tonici italiani ed europei che identificavano, essi per primi, il loro cri-
stianesimo raffinato col platonismo (e l’identificazione non era del tut-
to illegittima). Era anche, su un piano più personale, una reazione ai
compromessi a cui il Leopardi stesso aveva per un momento accenna-
to a piegarsi per ottenere un impiego dal governo pontificio: di quei
compromessi faceva parte anche la traduzione di Platone, desiderata,
ad maioren Dei gloriam, da Carlo Antici e dal Bunsen.64 Questa vicen-
da personale spiega, se non mi inganno, lo scatto iniziale della parla-
ta di Porfirio, quel tono di chi dichiara finalmente un dissenso che ha
dovuto a lungo tener celato: «Altra cosa è lodare, comentare, difende-
re certe opinioni nelle scuole e nei libri; ed altra è seguitarle nell’uso
pratico. Alla scuola e nei libri, siami stato lecito approvare i sentimen-
ti di Platone e seguirli; poiché tale è l’usanza oggi: nella vita, non che
gli approvi, io piuttosto gli abbomino».
Dove la realtà storica è, volutamente, abbandonata, è nella raffi-
gurazione dei due personaggi del dialogo. Il Leopardi, conoscitore e
critico così severo del neoplatonismo, sapeva bene che la parlata con-
clusiva di Plotino è leopardiana e non plotiniana. E tuttavia la scelta
dei due personaggi non è arbitraria: serve a evocare attorno al dialo-
go l’atmosfera triste e pacata del paganesimo morente: per cui il tono
generale del colloquio, pur nella somiglianza di talune argomentazio-
ni, è così distante sia dal Bruto minore, sia dal Tristano.65

64
iVedi L. Blasucci, Su una lettera «insincera» di G. L., in «Giorn. stor. letter. ital.» CXLII,
1965, p. 88 sgg. Il Bunsen, pur diversissimo dall’Antici per le idee politiche e per la qualità del
suo cristianesimo, si illuse anch’egli, in base alla lettera del 3 agosto 1825 di cui ignorava il retro-
scena, che il Leopardi aderisse al platonismo allora di moda. Cfr. la sua lettera del 5 luglio 1835
(Epistolario del Leopardi, ed. Moroncini, VI, p. 291): «La lettura delle vostre opere filosofiche
m’aveva ispirate alcune idee che desidero comunicarvi. Per confessarvelo francamente, non vi
ritrovo in molte parti il mio antico platonico ...».**
65
iIl Tocco (Il dialogo leopardiano di Plotino e di Porfirio, in «Studi ital. di filol. classica» VIII,
1900, pp. 497 sgg. non va oltre l’ovvia constatazione della diversità tra gli interlocutori del dia-
logo e i personaggi storici reali. Sulla concezione leopardiana del neoplatonismo come fenome-
no di civiltà stanca e morente, vedi sopra, p. 158. È interessante osservare come anche il Gior-
dani, in una lettera all’Ambrosoli (VII, 89 n.), gli suggerisse di assumere i neoplatonici come
pretesto di una polemica antispiritualista **: «Se non credete bene di sferzare i tedeschi pre-
senti, e i loro immediati predecessori; se vi par di tacere dei nostri Gioberti, Rosmini, Roma-
gnosi, potete prendervela cogli Alessandrini neoplatonici, che tanto affrettarono lo smarrimen-
to d’ogni saper vero, e la rovina d’ogni ordine politico». (Al sensista e materialista Giordani
anche il Romagnosi pareva troppo metafisico e spiritualeggiante). **
IV. Il Leopardi e i filosofi antichi 173

Messo così in chiaro il radicale antiplatonismo ideologico del Leopar-


di, rimane però da aggiungere che di Platone il Leopardi sentì vivamen-
te la suggestione artistica: «sommo e perfetto esempio di bellissima pro-
sa, elegantissima bensì e soavissima (non meno che gravissima ...), ma
pur verissima prosa», aliena dai poeticismi artificiosi della «seconda
sofistica» e della patristica greca, e di molta prosa francese.66 In Pla-
tone il Leopardi vide la miglior conferma di un’idea della quale era
convinto da tempo: la prosa d’arte deve avere uno stile suo, semplice
e «sedato», nettamente distinto da quello della poesia:67 idea che sta
alla base delle Operette e che dimostra erroneo ogni tentativo di leg-
gerle come «liriche in prosa», prescindendo dal particolare genere let-
terario in cui il Leopardi volle inserirle.68
Ma da Platone egli non ricavò soltanto una lezione di stile in senso
stretto, bensì anche di «tono». Se Luciano è all’origine di certi toc-
chi ironici delle prime Operette, un po’ troppo voluti e letterariamen-
te compiaciuti, Platone è l’ispiratore di una più elevata fusione di iro-
nia e fantasia, la quale ha la sua prima espressione nella canzone Alla
sua donna (con l’esplicita allusione platonica «Se dell’eterne idee / l’u-
na sei tu ...») e ritorna poi in alcune delle più ariose e placate Operet-
te. Un mythos platonico è, nel ritmo narrativo e in alcune invenzioni
singole (Amore figlio di Venere Celeste), la Storia del genere umano:69
sebbene anche in essa i principii ideologici del Leopardi, tutt’altro che
platonici, siano espressamente enunciati. Platonico, anche se poi svi-
luppato in forma personalissima e con una nota chiaramente autobio-
grafica, è lo spunto da cui muove la raffigurazione di Socrate nel capi-
tolo primo dell’Ottonieri. In questo senso, artistico e non ideologico,
si può dunque parlare di una breve fase di platonismo leopardiano; e
in questo senso aveva perfettamente ragione Pietro Giordani di osser-
vare che nelle Operette «tutto lo spirito di Luciano, tutta l’arguzia di
Platone si muovono per entro gran copia di saper moderno, con tutta
la forza del singolare intelletto di lui».70
66
iZib., 3421 sg. (12 settembre 1823). Cfr. l’osservazione sullo stile, anzi sui diversi stili del
Fedro, in Zib., 2717 (23 maggio 1823).
67
iVedi già Zib., 373-75 (2 dicembre 1820).
68
iSulla necessità di una lettura non forzata in senso lirico-commosso, ma aderente al tono
peculiare delle Operette, insiste a ragione E. Bigi, Dal Petrarca al Leopardi, Milano-Napoli 1854,
p. 111 sgg.
69
iCfr. specialmente i passi (già citati dai commentatori) del Protagora, capp. 11-12 (320 D
sgg.) e del Convito, cap. 8 (180 C sgg.).
70
iOpere, ed. Gussalli, XI, p. 174.
174 IV. Il Leopardi e i filosofi antichi

Tuttavia, anche sul piano artistico, l’ammirazione del Leopardi per


Platone ha precisi confini. Intanto, il Leopardi considerava ormai irri-
mediabilmente invecchiata e priva d’interesse in Platone tutta la par-
te maieutica, a domande e risposte. Filippo Ottonieri «né anche ragio-
nava, al modo di Socrate, interrogando e argomentando di continuo;
perché diceva che, quantunque i moderni sieno più pazienti degli anti-
chi, non si troverebbe oggi chi sopportasse di rispondere a un migliaio
di domande continuate, e di ascoltare un centinaio di conclusioni. E
per verità non avea di Socrate altro che il parlare talvolta ironico e dis-
simulato» (cap. I). In una lettera a Carlo Antici del 5 marzo 1825 il
Leopardi precisa così il suo progetto di versione dei pensieri di Plato-
ne, sul quale aveva ripiegato dopo l’abbandono della proposta di tra-
duzione integrale: «Finalmente io voleva dare (...) i Pensieri di Plato-
ne, che io avrei raccolti e scelti e tradotti, opera simile a quella dei
Pensieri di Cicerone dell’Olivet, ma che avrebbe dovuto essere un
poco più ampia, e contenere tutto il bello e l’eloquente di Platone, sce-
verato da quella sua eterna dialettica, che ai tempi nostri è insoffribi-
le,71 e da’ suoi sogni fisici, che riuscirebbero parimente noiosi ai più
dei lettori moderni, massimamente per la loro oscurità».
Ecco dunque una seconda limitazione: non solo niente «dialettica»,
ma niente «sogni fisici», cioè quei miti in cui hanno ampio sviluppo
escogitazioni cosmologiche (come quelli della Repubblica, del Fedone,
del Timeo, del Crizia). Dallo Zibaldone sappiamo che anche il pensie-
ro politico di Platone appariva al Leopardi una mera fantasticheria
utopistica.72 Eseguiti tutti questi tagli, rimaneva un Platone ridot-
to alla misura dei filosofi pratici dell’ellenismo – o, se vogliamo, a una
misura «socratica», di un Socrate più cinico che platonico, in cui la
saggezza morale prevaleva sugli interessi speculativi.

5. È appunto l’interesse per la filosofia pratica dell’ellenismo quel-


lo che, già presente negli anni ’23-’24, si accentua nei due seguenti,
sopraffacendo l’interesse per Platone, e perdura in parte fino al ’29. È

71
iAl suo proposito di escludere le «spinosità dialettiche» accenna anche nella lettera al Bun-
sen del 3 agosto 1825. Cfr., tra i progetti di lavori in PP, I, p. 701 sg.: «Pensieri di Platone» e
«Saggi platonici».
72
iCfr. Zib., 3469, dove l’utopismo è considerato come un carattere generale del pensiero
politico antico – anche di quei pensatori antichi che, relativamente, furono meno utopisti, come
Aristotele e Teofrasto.
IV. Il Leopardi e i filosofi antichi 175

del ’25 la traduzione di Epitteto e dell’Isocrate moralista, a cui si


affiancano le letture (compiute anch’esse in vista di traduzioni) della
Tavola di Cebete, dei Caratteri di Teofrasto, dei dialoghi del cosid-
detto Eschine socratico.73 È del ’26 la lettura di Fozio – altra fonte di
aneddotica morale e di saggezza spicciola antica –, a lato della quale
continua la lettura di Stobeo.74 Anche alla fine del ’26 il Leopardi
acquista gli Opuscula Graecorum veterum sententiosa et moralia a cura di
Johann Conrad Orelli, che leggerà in parte nel ’29.75
Spesseggiano in questi anni i progetti di imitazioni dei moralisti
greci: «Antologia greca morale», «Manuale di filosofia pratica: cioè
un Epitteto a mio modo», «Massime morali sull’andare del manuale
di Epitteto», «Spoglio e traduzione di Stobeo», «A se stesso; ad imi-
tazione di M. Aurelio τν ες αυτν», «Galateo morale».76 Il risul-
tato più compiuto di questo interesse per la filosofia ellenistica è il
preambolo alla traduzione di Epitteto. In che misura esso testimoni
un’adesione da parte del Leopardi, ho cercato di precisare in un sag-
gio precedente (qui sopra, p. 131 sgg.). Qui voglio solo ricordare che
una piena adesione del Leopardi alla morale di Epitteto era impedita
non solo dalla componente agonistica del suo pessimismo (sopita, ma
non annullata in questo periodo), ma anche da precedenti esperienze
nel campo della stessa filosofia greca, a cominciare da Teofrasto. Alla
possibilità di raggiungere la perfetta atarassia il Leopardi, come già

73
iCfr. F. Moroncini, proemio alle Opere minori approvate, I, p. LXXXIV sgg. Una prima let-
tura di Epitteto era stata già compiuta dal Leopardi a Roma (cfr. Porena, Scritti leopardiani, p.
443). Sui frutti filologici di queste letture vedi La filologia di G. Leopardi, pp. 156-164; su una
congettura leopardiana alla Tavola di Cebete, vedi ora anche Antonio Carlini in «Studi classici
e orientali» XII, 1963, p. 181 sg.
74
iFozio: Zib., 4191 sgg., e l’indice delle letture pubblicato dal Porena, Scritti leop., p. 429,
num. 389. – Stobeo: vedi sopra, p. 165; nel ’25-’26, vedi per esempio Zib., 4156 (sulle espres-
sioni antiche del dolore) e 4226 (su un passo di Ierocle, cfr. qui sotto, p. 180).
75
iPer l’acquisto dell’opera, cfr. Epistolario, ed. Moroncini, IV, pp. 62, 211; per la lettura
di vari testi contenuti in questa silloge, cfr. l’indice pubbl. dal Porena, Scritti leop., p. 423, num.
452-470, e i passi dello Zibaldone registrati nell’indice del Flora alla voce «Orelli».
76
iVedi i progetti in PP, I, pp. 701, 702, 704, e gli indici dello Zibaldone compilati dal Leo-
pardi stesso, vol. II dell’ed. Flora, pp. 1389 («Galateo morale»), 1430 («Manuale di filosofia
pratica»). L’idea di un «Epitteto a mio modo» può essere stata in parte suggerita al Leopardi
dall’Encyclopédie méthodique (ediz. di Padova, posseduta dalla biblioteca Leopardi), dove, nel
vol. III della sezione Morale, alla voce Liberté (p. 509 sgg.), era inserito un «Nouveau Manuel
d’Epictète». Ma il suggerimento, in ogni caso, non sarebbe andato oltre il titolo, poiché lo scrit-
to dell’Encyclopèdie méthodique era di orientamento cristianeggiante.
176 IV. Il Leopardi e i filosofi antichi

sappiamo, non credette mai;77 e nella chiusa del preambolo («ridotto


quasi mal mio grado a praticare per abito il predetto insegnamento ...,
desidero e prego caldamente a tutti quelli che leggeranno queste car-
te, l a f a c o l t à di porlo medesimamente ad esecuzione») ritorna il
concetto, già svolto nell’Ottonieri, che l’imperturbabilità non dipende
solo dal nostro volere. E ancora: come ha già notato il Fubini, il Leo-
pardi applica anche ad Epitteto l’osservazione che aveva fatto nel-
l’Ottonieri a proposito di Epicuro: le filosofie della rassegnazione e
dell’indolenza sono adatte «agli uomini moderni ancora più che agli
antichi».78 Tipicamente antico rimane, per lui, l’atteggiamento di ri-
bellione al fato, che egli esemplifica nei Sette a Tebe di Eschilo.79
Ciò non toglie che l’interesse per Epitteto, e per la filosofia elleni-
stica in generale, si accordi realmente con una fase di disimpegno poli-
tico e di tentativo di adattamento alla realtà della vita, che il Leopar-
di attraversò all’incirca dal ’24 al ’27. Rimandando anche qui al saggio
precedente per il problema generale, voglio richiamare l’attenzione su
un pensiero del 1° agosto 1826 (Zib., 4190): «Concordanza delle anti-
che filosofie pratiche (anche discordi) nella mia; per esempio della
socratica primitiva, della cirenaica, della stoica, della cinica, oltre l’ac-
cademica e la scettica ec.».
Questo proposito di fondare una morale in cui le «antiche filosofie
pratiche» trovassero il loro punto d’incontro non nasceva da un’am-
bizione di «sintesi» in senso idealistico, di «inveramento» di tutto il
pensiero umano precedente (tutta la formazione adialettica del Leo-
pardi lo rendeva estraneo a simili ambizioni); era invece basata su una
acuta percezione del fondo di apoliticità e di rassegnazione che è real-

77
iVedi sopra, p. 167, e tieni presente che l’Ottonieri, con le altre Operette morali composte
nel ’24, fu pubblicato dal Leopardi nel ’27: egli non aveva dunque rinunciato alla critica dell’a-
tarassia, formulata nel cap. II di quell’operetta.
78
iVedi il commento del Fubini alle Operette, Firenze 1933, p. 202.
79
iIl Leopardi non lesse direttamente i Sette a Tebe, ma ne ebbe notizia dall’Anacharsis del
Barthélemy. Cfr. Zib., 222 (22 agosto 1820): ** «Ses héros aiment mieux être écrasés par la fou-
dre que de faire une bassesse, ET LEUR COURAGE EST PLUS INFLEXIBLE QUE LA LOI
FATALE DE LA NÉCESSITÉ. Barthélemy, dove discorre di Eschilo» (questa dev’essere, a sua
volta, una citazione di seconda mano, poiché il Leopardi nella sua biblioteca aveva del Barthé-
lemy soltanto una traduzione italiana, Venezia 1791, e non lesse il testo francese prima del ’23;
cfr. sopra, p. 164).*
*iIl Bollati (nell’introduzione cit. alla Crestomazia della prosa, p. XLIV) dimostra che la fonte
della citazione indiretta del Barthélemy è l’antologia francese di Noël e Delaplace.
IV. Il Leopardi e i filosofi antichi 177

mente comune a tutte quelle filosofie. Il problema dell’adesione o


meno del Leopardi alla morale ellenistica non deve far trascurare l’im-
portanza della valutazione storica che il Leopardi ne dà.
Il giudizio sulla morale stoica come morale degli spiriti forti era allo-
ra corrente:80 esso sottintendeva una contrapposizione fra la morale
stoica, non appoggiata a speranze ultraterrene, e la morale cristiana.
Il Leopardi, spingendo il suo sguardo più a fondo, vide ciò che la
morale stoica e le altre morali ellenistiche avevano in comune col cri-
stianesimo: la rinuncia a dominare il mondo esterno. Egli comprese
perfettamente che il concetto di libertà interiore, per quanto orgo-
gliosamente affermato e vissuto, nasceva pur sempre dalla consape-
volezza dell’impossibilità di conquistarsi la libertà esteriore, sia sul
piano politico, sia su quello del rapporto uomo-natura. In questo sen-
so anche lo stoicismo era una «morale dei deboli».
Che questa disincantata interpretazione della morale stoica non
abbia impedito al Leopardi di sentirne, nello stesso tempo, la magna-
nimità e la bellezza, lo dimostra la chiusa del Parini: «Ma il nostro
fato, dove che egli ci tragga, è da seguire con animo forte e grande»;
la quale riecheggia, come è noto, i versi di Cleante citati proprio alla
fine del Manuale di Epitteto. Ma per gli stoici questo amor fati impli-
cava una fede nella Provvidenza che il Leopardi, anche nel periodo di
maggior vicinanza alla morale ellenistica, rifiutò sempre: non c’è biso-
gno di ricordare la satira del provvidenzialismo antropocentrico di
Crisippo nel Dialogo di un folletto e di uno gnomo. La sua simpatia andò
certamente assai più allo stoicismo di Epitteto, intinto di cinismo,
mirante alla difesa dal mondo esterno, che allo stoicismo originario,
il quale pretendeva di giustificare e glorificare il mondo esterno.
Fra le morali ellenistiche un posto di primaria importanza spetta
all’epicurea. Ma in quel pensiero dello Zibaldone sulla concordanza
delle antiche filosofie pratiche che abbiamo ora citato, proprio l’epi-
cureismo spicca per la sua assenza. Ciò concorda con un atteggiamento
generale di riserbo verso Epicuro, che si riscontra in tutto Leopardi.

80
iÈ superfluo accumulare citazioni; ricorderò solo che nella già citata Encyclopédie méthodique,
sezione Morale, IV, p. 808, in un paragrafo dedicato a Epitteto del Discours sur l’objet de la mora-
le, si insisteva su questo concetto: «Quelques autres plus sages et plus éclairés ont convenu que cet-
te Philosophie étoit trop forte et trop élevée pour convenir à nos siècles modernes» (cfr. al contra-
rio il Leopardi: «... più accomodata all’uomo, e specialmente agli animi di natura o d’abito non
eroici ..., e p e r ò a g l i u o m i n i m o d e r n i a n c o r a p i ù c h e a g l i a n t i c h i »).
178 IV. Il Leopardi e i filosofi antichi

Filippo Ottonieri, lo abbiamo già veduto (p. 166), «si professava epi-
cureo», ma abbiamo anche veduto come questa adesione sia accom-
pagnata e quasi sopraffatta da restrizioni. Nello Zibaldone, osservava
il Tocco, «Epicuro non è citato se non una volta sola e per un’osser-
vazione grammaticale, Democrito quattro volte e sempre alla sfuggi-
ta».81 Da ciò il Tocco credeva di poter ricavare un appoggio indiretto
alla sua tesi di un Leopardi filo-platonico. Ma anche dopo aver dimo-
strato l’inconsistenza di questa tesi (e dopo aver ricordato che tra i
progetti di Operette non realizzati c’è un Ippocrate e Democrito, di cui
non possiamo purtroppo congetturare l’argomento),82 rimane vero che
in un materialista-edonista come il Leopardi ci aspetteremmo più rife-
rimenti a Democrito e soprattutto ad Epicuro. Per tutto il pensiero
laico del Sei e Settecento, come già per un Valla, Epicuro era stato un
punto di riferimento costante: ogni teoria sulle origini ferine dell’u-
manità e del linguaggio, ogni morale terrena e antiascetica, ogni fisi-
ca e biologia libera da preconcetti scolastici si era rifatta a Epicuro e
a ciò che della dottrina di Democrito è accolto in Epicuro.83 Il Leo-
pardi, come sappiamo, si nutrì moltissimo di filosofia epicurea sette-
centesca, ma sentì, a quel che pare, scarsamente l’esigenza di risalire
direttamente a Epicuro e a Lucrezio. Pensò che tutto l’essenziale del-
l’atomismo e dell’edonismo antico fosse ormai incorporato nella filo-
sofia materialistica del Settecento? Fu trattenuto ** da una certa dif-
fidenza verso una filosofia che gli sembrava antitetica al concetto
classico di «virtù» civile, da lui pur sempre vagheggiato?84

81
iArt. cit. qui sopra (p. 130 n. 60), p. 574; cfr. G. Setti, La Grecia letteraria cit., p. 205. I
passi dello Zibaldone sono, per Epicuro, p. 4299 (oltre a un paio di menzioni puramente inci-
dentali); per Democrito, pp. 38, 961, 3965, n. 4436, 4437, 4466. Il fatto che le menzioni di
Democrito siano sei e non quattro (come risultava dall’incompleto indice dell’edizione Le Mon-
nier) non toglie validità all’osservazione del Tocco; il Leopardi non cita mai Democrito in quanto
materialista.
82
iPP, I, p. 701 (non registrato nell’indice del Flora alla voce «Democrito»). **
83
iVedi qui sopra, pp. 7, 150 n. 6. Anche un gesuita di larghe vedute come Giovanni Andres,
nella sua grande compilazione Dell’origine, progressi e stato attuale d’ogni letteratura (vol. V, Parma
1794, pp. 443-445, 580 sgg.), difendeva l’epicureismo dalle accuse volgari, anzi nel contrasto fra
la morale di Epicuro e la stoica vedeva, si direbbe, qualcosa di analogo al contrasto fra il lassi-
smo dei gesuiti e il rigorismo dei giansenisti, e pertanto si schierava a favore di Epicuro. Ma
mentre il Leopardi lesse ripetutamente la parte dell’opera dell’Andres dedicata alle lingue e alle
belle lettere (come è dimostrato dallo Zibaldone), non risulta che si sia soffermato con uguale
attenzione sulla parte dedicata alla filosofia.
84
iSi ricordi il giudizio del Montesquieu, accolto dal Leopardi, sull’epicureismo come causa
della decadenza politica e civile dei romani (qui sopra, p. 157 n. 23).
IV. Il Leopardi e i filosofi antichi 179

Nel caso di Lucrezio, all’interesse ideologico si sarebbe dovuta ag-


giungere una consonanza sentimentale e poetica: non possiamo leggere
la Ginestra senza pensare al De rerum natura; non possiamo non ricor-
dare che tra i più aspri negatori di ogni Provvidenza e accusatori della
Natura c’è appunto Lucrezio (nequaquam nobis divinitus esse paratam
naturam rerum: tanta stat praedita culpa!). Il tema «Lucrezio e Leopar-
di» fu svolto con appassionata enfasi da Spartaco Borra.85 Ma altro è
l’affinità spirituale, altro la lettura e la derivazione diretta: le citazio-
ni da Lucrezio spesseggiano nel Saggio sopra gli errori popolari degli
antichi (dove è molto difficile individuare le poche citazioni di prima
mano), poi cessano praticamente del tutto: i riferimenti a Lucrezio
nello Zibaldone consistono in notazioni lessicali attinte al Forcellini,
o in menzioni troppo generiche per dimostrare una lettura diretta.86
Se negli ultimi anni, quando non annotava più niente nello Zibaldone
e aveva cessato di elencare le proprie letture, il Leopardi abbia letto
Lucrezio, è impossibile stabilire.
Quando, nell’autunno del ’25, il Leopardi volle dare un’espressio-
ne freddamente esplicita ed esatta al proprio materialismo, scelse

85
iVedi sopra, p. 141 n. 82. Cfr. V. E. Alfieri in «Athenaeum» n.s. Xl, 1962, p. 185.
86
**iContro una presunta reminiscenza lucreziana nell’Appressamento della morte cfr. la mia
recensione a Leopardi und die Antike di H. L. Scheel in «Gnomon» 1960, p. 583, con una preci-
sazione, che credo giusta, di C. F. Goffis in «Rassegna letter. ital.» LXIV, 1960, p. 547. L’unico
passo dello Zibaldone che potrebbe far pensare a una lettura diretta è la nota (aggiunta in un secon-
do tempo) a p. 4037, dove l’esempio di alius in Lucr. II 9 non è attinto dal Forcellini. Ma si trat-
ta di un indizio abbastanza tenue. Napoleone Giotti, nella sua biografia del Leopardi («I contem-
poranei italiani» num. 52, Torino, Utet, 1862, p. 65), riferisce che il Leopardi avrebbe letto a
Francesco Puccinotti, il medico e fisiologo suo amico, alcuni frammenti di «un poema sulla natu-
ra sul genere di quello di Lucrezio, poema per altro rimasto affatto ignoto, e del quale nessuno dei
suoi biografi ha mai fin qui parlato, per quanto io mi sappia». È difficile dire se questa notizia meri-
ti qualche credito. Un indizio di lettura almeno parziale sembrerebbe rappresentato da un appun-
to che si trova in un elenco di opere di vari autori nelle carte napoletane (X, 12, 22): «Lucrezio,
dove parla dello stabilimento della società, libro 5». Ma in quell’elenco, ** che mi riprometto di
pubblicare, accanto ad opere che il Leopardi lesse sicuramente, ve ne sono altre (come la Scienza
della legislazione del Filangieri) non menzionate mai nello Zibaldone né in altri scritti. Rimane per-
ciò il dubbio che in parte si tratti di letture progettate e non eseguite. E sebbene i pochi indizi da
noi enumerati accennino a una certa probabilità, rimane abbastanza forte l’argomento in contra-
rio: ** se il Leopardi avesse letto un poeta-filosofo a lui così profondamente congeniale, come mai
non ne sarebbe rimasta traccia in lunghi ed espliciti appunti e in precise allusioni? *
*iChe, almeno negli ultimi anni, il Leopardi abbia letto o riletto Lucrezio è molto probabi-
le: certo i versi 111-114 della Ginestra («Nobil natura è quella / che a sollevar s’ardisce / gli occhi
mortali incontra / al comun fato») presentano, come già da tempo è stato osservato, ** una
somiglianza che non può essere fortuita con Lucrezio I 66 sg. (primum Graius homo mortalis tol-
lere contra / est oculos ausus).
180 IV. Il Leopardi e i filosofi antichi

come prestanome non uno dei materialisti più famosi dell’antichità,


ma Stratone da Lampsaco, il filosofo peripatetico che aveva accen-
tuato, ancor più di Teofrasto, la componente scientifica dell’aristote-
lismo, fino a ritornare, in sostanza, all’atomismo democriteo. Troppo
facile, anche qui, osservare che il Frammento apocrifo si discosta con-
sapevolmente da quel poco che su Stratone da Lampsaco ci traman-
dano Diogene Laerzio e Cicerone.87 Resta il fatto che la scelta di quel
prestanome era una professione di materialismo e di ateismo: Strato-
ne era colui che aveva negato ogni intervento degli dèi nell’origine del
mondo e che aveva trovato troppo fantasiosa e priva di rigore scienti-
fico perfino la fisica di Democrito.88

6. L’ultimo Leopardi, dal ’30 in poi, impegnato com’è in un ardente


polemica con la società sua contemporanea, assai meno si ripiega a
meditare sulla civiltà antica. Dalla saggezza ellenistica, come da ogni
altra forma di «saggezza», egli è ormai del tutto distaccato. Sono tut-
tavia riconoscibili, anche in quest’ultima fase, echi di precedenti let-
ture dei filosofi greci, che egli adesso utilizza per la sua battaglia con-
tro il cattolicesimo e il falso progressismo dei moderati. Abbiamo già
ricordato (p. 166 sg.) l’accenno al pessimismo greco nel Tristano;
vogliamo concludere citando due altre risonanze del pensiero antico,
l’una già nota, l’altra, a quanto sembra, sfuggita finora agli studiosi.
L’idea dell’unione di tutti gli uomini nella lotta contro la Natura
trae uno spunto, come è stato osservato,89 da un pensiero dello stoico
Ierocle, che il Leopardi annotò nello Zibaldone (4226 sg., novembre
1826): «Bellissima è l’osservazione di Ierocle nel libro de Amore fra-
terno, ap. Stob. serm. "τι κ!λλιστον  φιλαδελφ'α etc., 84 Grot., 82
Gesner., che essendo la vita umana come una continua guerra, nella
quale siamo combattuti dalle cose di fuori (dalla natura e dalla fortu-
na), i fratelli, i genitori, i parenti ci son dati come alleati e ausiliari
ec.».90 Allora, nel ’26, il Leopardi era stato indotto da questo pensie-

87
iCosì F. Tocco («Atene e Roma» 1903, col. 321 sgg.), seguendo uno schema a lui consue-
to, di cui abbiamo già notato l’insufficienza a proposito di Teofrasto e di Porfirio e Plotino (pp.
162-163, 172). Contro il Tocco cfr. G. Gentile, commento alle Operette, Bologna 19402, p. 256.
88
iCfr. Cicerone, Lucull. 121; De nat. deor. I 35.
89
iVedi specialmente U. Bosco, Titanismo e pietà in G. Leopardi, Firenze 1957, p. 64.
90
iNell’edizione di Stobeo a cura di Wachsmuth e Hense, che è oggi comunemente seguita,
il passo di Ierocle si trova in Flor. IV 27, 20 (vol. IV, pp. 663, 19 sgg.).
IV. Il Leopardi e i filosofi antichi 181

ro a riflettere sul proprio senso di smarrimento nel trovarsi lontano da


casa, sul proprio bisogno di rifugio; nella Ginestra invece* trasse dal-
lo stesso spunto sviluppi opposti, allargando il pensiero di Ierocle fino
a comprendere nell’alleanza contro la Natura l’intera umanità, e
accentuando, molto al di là di quello che l’antico stoico aveva inteso,
l’aspetto eroico e disperato di quella lotta.91
Nel canto IV dei Paralipomeni il Leopardi affronta uno dei temi su
cui più recisa era la contrapposizione fra il materialismo del Settecen-
to e lo spiritualismo romantico: l’origine dell’umanità e della civiltà. I
primordi del genere umano furono contrassegnati da una condizione
simile a quella degli animali, o da una civiltà perfetta, largita all’uomo
da una rivelazione divina? Lo stato selvaggio è da ritenersi primitivo
o, invece, frutto di corruzione? Per caratterizzare le due opposte tesi,
il Leopardi ricorre ad un’immagine singolare: gli spiritualisti sostengo-
no «che la città fu pria del cittadino» (st. 11); i materialisti, e più in
generale coloro il cui senso della realtà non è stato stravolto da un fidei-
smo assurdo, sanno bene «che il cittadin fu pria della cittade» (st. 13).
Lì per lì, questa immagine può sembrare non del tutto appropria-
ta. A guardar meglio, essa è particolarmente felice, ma colpisce un ber-
saglio più ampio di quello che è l’immediato oggetto della polemica
leopardiana. Essa infatti non è rivolta solo contro quei pensatori par-
ticolarmente retrivi che – come i «tradizionalisti» francesi, l’ultimo
F. Schlegel, l’ultimo Schelling – ponevano all’inizio della storia uma-
na una «rivelazione originaria», ma contro ogni sorta di aprioristi:92

91
iOccorre notare, infatti, che nel passo di Ierocle manca ogni concetto della Natura nemi-
ca dell’uomo, anzi la Natura è vista come una divinità provvidenziale che ci ha dato, essa, i
parenti per difenderci nella lotta contro le avversità esterne: "εν καλς  φ)σις, ς
ν φ’
γενν$ µ γνοοσα, παρ&γαγεν µν καστον τρ(πον τιν µετ συµµαχ'ας. È interessan-
te osservare come il Leopardi, parafrasando Ierocle, scriva «i parenti ci son dati come alleati e
ausiliari», senza aggiungere «dalla natura»; e come, viceversa, precisi che «le cose di fuori» da
cui siamo combattuti sono «la natura e la fortuna», mentre Ierocle si era riferito, più indeter-
minatamente, alle «cose stesse che hanno una natura (un carattere) ostile all’uomo» e agli
«improvvisi e inaspettati assalti della sorte», e aveva poi aggiunto, come terza e più importan-
te causa di pericolo per noi, la malvagità umana (πολ δ µ!λιστα δι’ατν τν κακ'αν οτε
β'ας τινς πεχοµ%νην οτε δ(λου κα κακν στρατηγηµ!των). Con queste varianti, a pri-
ma vista di non grande peso, il provvidenzialismo di Ierocle viene, già nel pensiero del ’26, qua-
si interamente rovesciato.
92
iGià nella stanza 10 il Leopardi ha scritto: «Questa conclusione (...) non d’altronde pro-
vien se non da quella / forma di ragionar diritta e sana / ch’a priori in iscola ancor s’appella».
*iTra i precedenti della Ginestra è importante anche Zibaldone 2679 sg. (4 marzo 1823), sul
quale cfr. Di Benedetto, art. cit., p. 320; Lonardi, op. cit., p. 144 sg.
182 IV. Il Leopardi e i filosofi antichi

anche contro quegli storicisti di formazione romantica che nella sto-


ria temporale, nell’effettivo succedersi degli avvenimenti, vedevano
l’estrinsecazione di un’altra storia ideale, in cui, per usare una famo-
sa espressione aristotelica, il «primo per natura» è ciò che appare ulti-
mo «rispetto a noi».
L’immagine leopardiana, inoltre, ha una particolare impronta set-
tecentesca, in quanto implica una concezione della società come som-
ma di singoli individui: una concezione contro cui lo storicismo del-
l’Ottocento ha polemizzato in parte con ragione, non riuscendo però
ad evitare di cadere in un misticismo dell’«ente collettivo» (lo Stato,
lo Spirito con la maiuscola). La polemica del Leopardi contro l’esalta-
zione della «felicità delle masse» a scapito di quella degli individui, nel
Tristano e nella Palinodia, indica quanto egli si sentisse irritato dalle
prime avvisaglie di tale misticismo, che avrebbe poi dominato gran
parte della cultura europea dell’Ottocento e del Novecento.
Abbiamo nominato Aristotele; da lui appunto deriva l’immagine
della «città pria del cittadino». Nel primo libro della Politica (1253 a
18 sgg.) Aristotele afferma la «priorità» della polis sulla famiglia e sui
singoli individui: κα πρ(τερον δ τ$ φ)σει π(λις οκ'α κα
καστος µν στιν τ γρ "λον πρ(τερον ναγκαον ε ναι το
µ%ρους ναιρουµ%νου γρ το "λου, οκ σται πο ς οδ χε'ρ ...
"τι µν ον  π(λις κα φ)σει κα πρ(τερον καστος, δλον.
Il Leopardi aveva letto la Politica di Aristotele nell’autunno del ’23:
fu questa l’unica opera aristotelica da lui letta per intero.93 Ad Ari-
stotele, come abbiamo visto, egli riconobbe sempre il merito di una
maggiore concretezza e scientificità in confronto a Platone.94 Ma nem-
meno Aristotele si era del tutto svincolato dall’apriorismo.95 Quel pas-
93
iCfr. l’indice pubblicato dal Porena, Scritti leop., p. 424, num. 91 e i passi dello Zibaldone
registrati nell’indice del Flora alla voce Aristotele (avvertendo, naturalmente, che Politica e
Repubblica sono la stessa opera). Il Leopardi lesse anche un paio di opere pseudo-aristoteliche:
De virtutibus et vitiis nel cod. Barberiniano 257, cfr. Porena, Scritti leop., p. 443 (sarebbe forse
questa l’«operetta greca sconosciutissima» che il Leopardi credette di avere scoperto a Roma?
Per questo problema vedi un resoconto delle precedenti discussioni in «Atene e Roma» 1959,
p. 92 sg.); e gli Oeconomica, ibid., p. 423, num. 45 e Zib., 2686.*
94
iVedi sopra, pp. 210, 212.
95
iZib., 3470: «Aristotele spianta le repubbliche degli altri, ma n é p i ù n é m e n o c h e
i n f i l o s o f i a, si crede in obbligo di sostituire, e ci dà la sua repubblica e il suo sistema»; e
in nota soggiunge: «Ed Aristotele era pur de’ più devoti all’osservazione, tra’ filosofi antichi».
*iSull’«operetta greca sconosciutissima» che il Leopardi credette di avere scoperto a Roma
vedi ora una nuova ipotesi, che credo più fondata, in un articolo di prossima pubblicazione negli
«Studi in memoria di Carlo Ascheri», Urbino 1969.
IV. Il Leopardi e i filosofi antichi 183

so della Politica dovette sembrare al Leopardi adatto a simboleggiare,


appunto, la mentalità aprioristica e il suo vedere le cose alla rovescia:
di qui l’utilizzazione polemica che ne fece nei Paralipomeni.

Non credo di aver sopravvalutato l’influsso della filosofia greca sul


pensiero leopardiano. I maestri prediletti di filosofia furono sempre
per il Leopardi i materialisti e i sensisti del secolo xviii, conosciuti pri-
ma attraverso i loro avversari cattolici, poi direttamente. Tuttavia
almeno due contatti col pensiero greco hanno avuto per l’evoluzione
ideologica del Leopardi un’importanza essenziale: la scoperta del pes-
simismo antico, che mise in crisi il mito dell’antichità felice, tutta
azione, illusioni e poesia; e la lettura dei filosofi ellenistici, che offrì
al Leopardi il modello di una saggezza rassegnata, di cui egli sentì la
suggestione specialmente negli anni dal ’23 al ’27 pur senza mai ade-
rirvi interamente. Ma anche esperienze meno profonde, come la let-
tura di Platone e quella – assai più limitata – di Aristotele, esercita-
rono sul pensiero del Leopardi, soprattutto in senso polemico,
un’influenza di cui bisogna tener conto.
V.**
Di alcune falsificazioni di scritti leopardiani ∼

Testo epigrafe, testo epigrafe, testo epigrafe, testo epigrafe,


testo epigrafe, testo epigrafe.
Nome Cognome

1. Gli «appunti» dell’abate Cozza-Luzi e la controversia


Cugnoni-Tacchi

Nel 1898, centenario della nascita di Giacomo Leopardi, il setti-


manale cattolico «La palestra del Clero» pubblicò in varie puntate gli
Appunti leopardiani di Giuseppe Cozza-Luzi, vice-bibliotecario di San-
ta Romana Chiesa, già abate di Grottaferrata.1
Questi Appunti avevano tutto il carattere di una contro-commemo-
razione. Per il Cozza-Luzi, il Leopardi rappresentava il tipico esempio
di un grande ingegno traviato dall’orgoglio: i suoi dolori, «morali» assai
più che «fisici» **, erano la necessaria conseguenza della pretesa di at-
teggiarsi a «spirito forte», rinnegando l’educazione religiosa ricevuta
in famiglia. Non c’era nel Cozza-Luzi né la simpatia che per il Leopar-
di avevano provato cattolici intelligenti come il Gioberti e il Sinner,
né, d’altra parte, l’invido rancore di un Tommaseo: c’era piuttosto un

∼ «Giornale storico della letteratura italiana», CXLIII (1966), pp. 88-119; qui con modifi-
che e aggiunte.
1
i«La palestra del Clero», 20 gennaio, 17 febbraio, 3, 10, 17, 24 e 31 marzo, 14 e 21 apri-
le, 5, 12, 19 e 26 maggio, 2, 16 e 30 giugno, 21 luglio, 8 e 22 settembre, 13 ottobre 1898. II tito-
lo Appunti leopardiani e la firma del Cozza-Luzi mancano solo nelle puntate del 20 gennaio, 3 e
10 marzo, le quali però appartengono chiaramente alla stessa serie. Gli Appunti furono ristam-
pati a parte, con qualche variazione nell’ordine, in sei fascicoletti, senza nome di autore e col
titolo ampliato: Appunti leopardiani offerti alla studiosa gioventù nel centenario della nascita di Gia-
como Leopardi (la quale fu al 29 Giugno 1798), Roma, tip. Sociale, 1898. Io citerò con la sigla
AL questa edizione in fascicoli separati. Non è facile trovare nelle biblioteche tutti e sei i fasci-
coli; li possiede, per esempio, l’Alessandrina di Roma. La Bibliografia leopardiana di Mazzatin-
ti-Menghini-Natali, mentre cita più volte alcune puntate ** (cfr. vol. I, pp. 37, 63, 79, 198-
199, 231; vol. II, pp. 49 e 76), ne ignora altre **.
V. Di alcune falsificazioni di scritti leopardiani 185

moralismo parrocchiale, a cui faceva perfetto riscontro la forma espo-


sitiva goffa e meschina. Il Cozza-Luzi era un assiduo studioso di paleo-
grafia e di erudizione ecclesiastica (per quanto anche in questi studi
portasse la mancanza di rigore e la frettolosità del suo maestro Ange-
lo Mai), ma per la formazione culturale complessiva apparteneva a un
mondo ormai chiuso e sorpassato.
L’unico periodo della vita e dell’attività del Leopardi che si salva-
va ai suoi occhi era il primissimo: quello in cui non era ancora avve-
nuto il distacco del poeta dalla religione e dall’ambiente monaldesco.
Gli Appunti leopardiani miravano proprio a rivalutare e amplificare
questo Leopardi ancora cattolico e legittimista, contro l’esaltazione **
(anch’essa, in senso diverso, riduttiva e aberrante, seppur meno assur-
da) di un Leopardi patriota e profeta di un laicismo e umanitarismo
di tinta massonica, a cui erano improntate, nel complesso, le celebra-
zioni ufficiali del ’98.2
Tra i documenti che il Cozza-Luzi riportava in appoggio alla sua
tesi, molti erano attinti a precedenti pubblicazioni, soprattutto alle
Opere inedite del Leopardi curate dal Cugnoni e all’Epistolario pub-
blicato dal Viani. Apparivano per la prima volta, invece, i seguenti
testi:
a) una supplica del 1819 al Papa Pio VII per ottenere la licenza di
leggere i libri proibiti («Pal. d. Clero» 17 febbraio 1898 = AL I,
pp. 1-2);
b) una supplica al Papa, dello stesso anno, per ottenere un impiego nel-
la Biblioteca Vaticana (ibid. = AL I, pp. 3-6);

2
iPer la rivalutazione polemica del primo Leopardi, compiuta dal Cozza-Luzi, vedi special-
mente AL I, p. 7: «Era Giacomo fin d’allora di precoce ingegno e vestiva l’abito clericale, che
anzi scriveva ed in pubblico recitava sacri discorsi con tanta profondità, pietà ed affetto (...). Gli
ebbe pur cari egli stesso questi discorsi primi ed ingenui (...). E se talora non giungono a quelle
eleganze, che un’età più matura ed uno stile esercitato avrebbero dato con impronta più eguale
ed elevata, sono però una bella rivelazione del suo sapere e più del suo sentire, non ancor per
altri e per sé traviato dall’alterigia e dalla smania di comparire indipendente e spirito forte: e
ciò con tanta iattura sua ed altrui. Si paragonino queste care pagine della sua giovane mente e
del cuore ancor giovane con le produzioni degli altri futuri quattro lustri di vita; le quali sono
compassionevoli per sostanza se non per forma. E si vegga come i bei fiori si cangiassero in spi-
ne sotto l’alito di non buone amicizie e di passioni indomate» (le «non buone amicizie» sono,
ovviamente, un’allusione al Giordani). E vedi ancora in AL II, pp. 17-19 l’esaltazione di Monal-
do in contrapposizione al figlio; V, p. 78 l’accenno ai «dolori non solo fisici, ma che più eran
morali»; IV, p. 60 la raffigurazione di un Leopardi politico «non chiaro», che «ambiva ad accat-
tarsi lodi ed approvazioni tanto da destra che da sinistra»!
186 V. Di alcune falsificazioni di scritti leopardiani

c) una lettera del cardinale Alessandro Mattei al Leopardi a proposi-


to di tale richiesta d’impiego (ibid.);
d) due «discorsi sacri» del Leopardi fanciullo (Il portar della Croce da
N. S. Gesù Cristo al Calvario e Gesù innalzato in croce) e un Fram-
mento di un sermone intorno l’immacolato concepimento di Maria
(«Pal. d. Clero» 10 e 17 marzo e 21 aprile 1898 = AL II, pp. 20-27;
III, pp. 46-48), oltre due «discorsi sacri» già editi;
e) tre abbozzi (due in prosa, uno in versi) dell’Infinito e uno (in versi)
di un Idillio alla Natura («Pal. d. Clero» 24 e 31 marzo 1898 = AL
II, pp. 28-32; III, pp. 33-36);
f ) due serie di pensieri, cioè nove Pensieri di filosofia varia («Pal. d.
Clero» 2 giugno 1898 = AL VI, pp. 90-91) e diciassette Pensieri
varii («Pal. d. Clero» 30 giugno 1898 = AL V, pp. 65-68).
Il Cozza-Luzi asseriva di aver riprodotto tutti questi scritti da auto-
grafi, sulla cui provenienza però non dava alcuna precisa indicazione:
«Essendoci venuto alle mani qualche suo autografo ...» (AL I, p. 1);
«Anche più interessanti sono altri due autografi che abbiamo tra
mano ...» (I, p. 3); «Il seguente discorso ... fu estratto dai manoscrit-
ti leopardiani, come ci venne comunicato» (II, p. 24); e così via. Che
si trattasse di autografi conservati nella biblioteca di casa Leopardi,
egli lo escludeva implicitamente, poiché deplorava che il conte Giaco-
mo, nipote del poeta, non gli avesse concesso di attingere a quei teso-
ri (III, p. 48 n. 1). Piuttosto sembrava alludere ad autografi tuttora in
circolazione tra privati, come molti di quelli troppo generosamente
regalati da Paolina Leopardi.3 Di un solo testo, cioè dei tre foglietti
contenenti le due serie di pensieri, il Cozza-Luzi indicò, se non la
provenienza, almeno la sede: la Biblioteca Vaticana («Pal. d. Clero»
2 giugno 1898, p. 132).
Mentre la pubblicazione degli abbozzi dell’Infinito e degli altri do-
cumenti minori non suscitò sul momento una particolare risonanza
(anche per la scarsa diffusione della «Palestra del Clero» in ambienti
non ecclesiastici), i Pensieri riaccesero una vecchia polemica. Era acca-
duto nel 1884 che Giuseppe Cugnoni, professore di lessicografia lati-
na e italiana all’università di Roma, purista di vecchio stampo, bene-

3
iSu uno di questi autografi o pseudo-autografi si trovava infatti un’autenticazione – vera o
apocrifa – di Paolina: vedi più oltre, p. 216 sg.
V. Di alcune falsificazioni di scritti leopardiani 187

merito studioso del Leopardi, pubblicasse incautamente come leopar-


diani alcuni «inediti» (una serie di pensieri, una lettera al Giordani e
una contraffazione trecentesca del genere del Martirio de’ Santi Padri)
comunicatigli da un certo Ilario Tacchi, il quale poco dopo se n’era
rivelato autore. L’intenzione del Tacchi – una patetica figura di ambi-
zioso provinciale in cerca di notorietà e di un impiego – era stata di
ripetere le burle fatte dal Leopardi stesso con l’Inno a Nettuno e col
Martirio e di dimostrare la sua bravura nell’imitare lo stile leopardiano.
Ma il Cugnoni, indispettito per esser caduto nel tranello, era ricorso
ad un partito «eroico»: si era ostinato a sostenere che quegli scritti
non potevano non essere del Leopardi, che il Tacchi li aveva effetti-
vamente tratti da autografi leopardiani come aveva detto all’inizio, e
che mentiva adesso, per farsi credere capace di una così perfetta con-
traffazione. Nessuno, però, gli aveva creduto.4
Ma ora, tra i Pensieri vaticani pubblicati dal Cozza-Luzi ce n’era-
no quattro che coincidevano quasi alla lettera con quelli pubblicati
nell’84 dal Cugnoni; e ce n’era un altro che, con lievi varianti di for-
ma, ricorreva nello Zibaldone, come si poté constatare quando, poche
settimane dopo la pubblicazione del Cozza-Luzi, il primo volume del-
lo Zibaldone, a cura della Commissione presieduta dal Carducci, com-
parve presso Le Monnier.5 La coincidenza con lo Zibaldone sembrava
garantire l’autenticità dei Pensieri vaticani; a sua volta la coincidenza
tra i Pensieri vaticani e quelli editi dal Cugnoni obbligava ad ammet-
tere l’autenticità di questi ultimi. La tesi del Cugnoni, che il Tacchi

4
iGli «inediti» furono pubblicati dal Cugnoni nella «Nuova Antologia» del 15 aprile 1884,
p. 569 sgg. Prima ancora che il Tacchi si rivelasse, la falsificazione fu intuita da Giuseppe Chia-
rini, il cui lucido articolo nella «Nuova Antologia» del 1° maggio 1884, p. 124 sgg., merita anco-
ra di esser letto (cfr. Carducci, Lettere, ed. nazionale, XIV, pp. 281, 282, 293). Altri documen-
ti di quella polemica sono indicati nella Bibliografia leopardiana di Mazzatinti e Menghini, vol.
I, p. IX sg. La controversia fu poi narrata dal Cugnoni nell’opuscolo Dopo quattordici anni (Roma
1898), e da D. Gnoli in «Rivista d’Italia» a. I, vol. II (1898), p. 525 sgg. II Tacchi – che si pre-
sentò la prima volta al Cugnoni sotto il falso nome di G. B. Ubaldini – aveva già cercato di far-
si una notorietà contraffacendo alcuni scritti di Gaspare Gozzi.
5
iSi tratta dell’ottavo dei Pensieri di filosofia varia («Caino, l’autore della colpa, fu il primo
fabbricatore di città; né è perciò meraviglia che li abitatori di esse siano degni figli di tanto
padre»), che trova riscontro nello Zibaldone, p. 191 dell’autografo (= vol. I, p. 296 ed. Le Mon-
nier): «II primo autore delle città, vale a dire della società, secondo la Scrittura, fu il primo ripro-
vato, cioè Caino, e questo dopo la colpa, la disperazione e la riprovazione. Ed è bello il credere
che la corruttrice della natura umana e la sorgente della massima parte de’ nostri vizi e scelle-
raggini sia stata in certo modo effetto e figlia e consolazione della colpa».
188 V. Di alcune falsificazioni di scritti leopardiani

fosse stato un plagiario e non un falsario, risultava apparentemente


vittoriosa, a dispetto dell’incredulità con cui era stata accolta fin allo-
ra: tanto più quando il Cozza-Luzi, nella «Palestra del Clero» dell’8
settembre 1898, pubblicò il facsimile di una pagina del manoscritto
vaticano.6
Il Cugnoni passò ora al contrattacco: scrittore bizzoso e arguto, si
divertì a ritorcere contro i suoi derisori l’accusa di ignoranza e a svi-
luppare su questo tema tutte le variazioni ironiche di cui fu capace, nei
due opuscoli Dopo quattordici anni: commedia e contro-commedia e
Questione leopardiana, usciti entrambi a Roma nel ’98: finché il Tac-
chi, esasperato, gli intentò un processo per diffamazione.
Dal processo, che dopo molti rinvii si tenne a Roma dal 15 al 30
giugno del 1900, il Cugnoni uscì assolto.7 Tuttavia le discussioni che,
dentro e fuori della sede giudiziaria, si svolsero sui documenti pub-
blicati dal Cozza-Luzi, indebolirono gravemente, in complesso, la tesi
dell’autenticità. Le obiezioni sollevate dai periti calligrafi del Tacchi
non furono confutate dai periti del Cugnoni. Gli articoli di Domeni-
co Orano nel «Don Chisciotte di Roma», pur tra molte lungaggini e
divagazioni superflue **, misero alle strette il Cozza-Luzi quanto alla
provenienza degli «inediti»: risultò che almeno alcuni di essi erano
stati forniti al Cozza-Luzi dal prete Oliviero Jozzi, già noto per pre-
cedenti falsificazioni, e che i tre fogli contenenti i Pensieri non appar-
tenevano ad alcun fondo della Vaticana né provenivano da regolare
dono o acquisto documentabile, ma vi erano stati introdotti recentis-
simamente, con ogni probabilità dal Cozza-Luzi stesso.8 Il prefetto

6
iCfr. AL VI, p. 88 sg. Le riproduzioni fotografiche di tutti e tre i fogli vaticani furono poi
pubblicate nello stesso anno dal Cugnoni in fondo all’opuscolo Questione leopardiana (Roma, tip.
della Camera dei Deputati).
7
iTra i resoconti dei quotidiani di allora, vedi specialmente quelli della «Tribuna» (col tito-
lo Un’accademia leopardiana; favorevole al Tacchi) e del «Popolo romano» (col titolo Leopardi
redivivo; favorevole al Cugnoni). Vedi inoltre le due autodifese pubblicate dal Cugnoni (Per
Cugnoni prof. Giuseppe querelato contro Tacchi Ilario querelante ..., Querela I, Roma, tip. Agosti-
niana, 1899; Querela II, tip. Failli, Roma 1899) e la memoria legale Per le ragioni dello scrittore
Ilario Tacchi presentata dai suoi avvocati E. Pessina, E. Ferri, V. O. Gentiloni, tip. Pistolesi,
Roma 1900. Più tardi il processo, che aveva suscitato molto interesse anche per la presenza di
avvocati di grido come Pessina e Ferri, fu narrato, ma con eccessiva parzialità a favore del
Cugnoni, da E. Veo nel «Messaggero» del 12 settembre 1929 e da un certo «Sigma» nello stesso
giornale, 30 dicembre 1933.
8
iGli articoli di Domenico Orano, I manoscritti leopardiani: autografi o apocrifi?, non registra-
ti nella Bibliografia leopardiana di Mazzatinti-Menghini-Natali, comparvero nel «Don Chisciot-
V. Di alcune falsificazioni di scritti leopardiani 189

della Vaticana, Franz Ehrle, uomo di tutt’altra formazione e scrupo-


losità scientifica, pur astenendosi necessariamente da un aperto con-
trasto col Cozza-Luzi che era suo superiore diretto, fece capire in
modo abbastanza chiaro che all’autenticità di quelle carte non crede-
va.9 Mentre il Cozza-Luzi si chiuse nel silenzio come se la controver-
sia non lo riguardasse, il Cugnoni dopo il processo sentì ancora il biso-
gno di tornare a difendere la sua tesi nel volumetto Alla ricerca di
Giacomo Leopardi;10 e lo fece, al solito, con brio e con calore, ma con
argomenti tutt’altro che probativi.
Del resto, l’interesse dei leopardisti era ormai attratto dallo Zibal-
done, a cui si aggiunse nel 1906 l’edizione degli Scritti vari dalle carte
napoletane. Di fronte a una mole così imponente di inediti, le poche
pagine pubblicate dal Cozza-Luzi passarono in secondo piano. Nelle
più notevoli opere sul Leopardi pubblicate in quegli anni (gli ultimi
volumetti delle Divagazioni leopardiane di Giovanni Negri, gli Studi sul
Leopardi dello Zumbini, la Vita del Chiarini) non si fa cenno di que-
gli scritti, neppure per negarne l’autenticità.

te di Roma» del 25, 27 e 29 maggio, 11, 12, 18, 20 e 25 luglio, 3, 9 e 19 agosto, 27 novembre
1899. Vedi inoltre la perizia grafica litografata, non firmata, contro l’autenticità dei Pensieri
vaticani (un esemplare se ne trova a Roma, Biblioteca Alessandrina, collezione leopardiana G.
44); e i resoconti del processo cit. alla nota precedente. Oliviero Jozzi aveva già pubblicato nel
1889 alcune lettere false di S. Luigi Gonzaga (cfr. Lettere ed altri scritti di S. Luigi Gonzaga a
cura di E. Rosa, Firenze 1926, p. V sg.) e nel 1898 un Supplemento alla «Roma sotterranea» di
G. B. De Rossi (Milano, Hoepli) in cui erano riportate molte iscrizioni false (vedi la testimo-
nianza di Giuseppe Gatti al processo Tacchi-Cugnoni ne «La Tribuna» del 21 giugno 1900).
Nell’istruttoria del Processo lo Jozzi ammise di aver regalato al Cozza-Luzi gli «autografi» del-
le due suppliche a Pio VII, e dichiarò di averli avuti, insieme ad altri documenti leopardiani, da
Florindo Cesari, segretario di Giovanni Rosini a Pisa; ma fu smentito dal Cesari (vedi la memo-
ria Per le ragioni dello scrittore I. Tacchi cit., p. 118 sg.). Il Cozza-Luzi ammise di aver avuto dal-
lo Jozzi soltanto la minuta in versi dell’Infinito (ibid., p. 115): cosa, oltre tutto, impossibile per-
ché sullo stesso foglio vi era anche una delle minute in prosa
9
iCfr. D. Orano nel «Don Chisciotte di Roma» del 29 maggio 1899. L’Ehrle si rifiutò di
testimoniare al processo Cugnoni-Tacchi (cfr. «La Tribuna» del 16 giugno 1900), certamente
per non smentire il Cozza-Luzi e il Cugnoni; ma aveva parlato chiaro all’Orano. Giova ricorda-
re che il prefetto della Vaticana si trova in posizione subordinata rispetto al Cardinale Biblio-
tecario e al Vice-bibliotecario (carica, quest’ultima, che è esistita solo in rari casi).
10
iRoma 1901. Nella Bibliografia leopardiana (II, p. 8) il Natali riassume così questo volu-
metto: «A proposito di asseriti autografi, dei quali si confessa autore». Tutt’altro: il Cugnoni
ribadisce anche qui la tesi dell’autenticità sia degli «inediti» del 1884, sia di quelli pubblicati dal
Cozza-Luzi.
190 V. Di alcune falsificazioni di scritti leopardiani

2. Le recenti vicende degli «inediti» del Cozza-Luzi

I Pensieri vaticani e i Discorsi sacri pubblicati dal Cozza-Luzi non


sono stati inclusi in nessuna edizione delle opere leopardiane, e nes-
suno più oggi ne parla; la stessa sorte è toccata agli scritti che aveva
pubblicato nell’84 il Cugnoni. Invece gli abbozzi di idilli (vedi qui
sopra, ** p. 186, lettera e) furono riesumati nel 1924 da Alessandro
Donati, che li ripubblicò parzialmente nell’edizione dei Puerili e
abbozzi vari,11 indicando come fonte il Cozza-Luzi ma, a quanto pare,
ignorando i dubbi che erano sorti sulla loro autenticità. Di nuovo dal
Cozza-Luzi li trassero per le loro edizioni lo Scarpa e il Flora;12 oggi
questi abbozzi sono unanimemente tenuti per leopardiani, e su di essi
si ricostruisce la genesi dell’Infinito e – per quel che riguarda l’abboz-
zo di idillio Alla Natura – dell’Ultimo canto di Saffo.13
Quanto alle due suppliche al Papa e alla lettera del cardinale Mat-
tei (qui sopra, pp. 185-186, lettere a, b, c), il Moroncini le riportò nel-
le note alla sua edizione dell’Epistolario,14 e da allora in poi anche que-
sti documenti sono stati considerati autentici e utilizzati per la
biografia del Leopardi.15

11
iBari 1924, p. 197, cfr. p. 277. II Donati fuse arbitrariamente in uno i due abbozzi in pro-
sa e omise l’abbozzo in versi dell’Infinito (cfr. G. De Robertis, Saggio sul Leopardi, nuova ed.,
Firenze 1973, p. 150 sg. **).
12
iLeopardi, Opere a cura di R. Bacchelli e G. Scarpa, Milano 1935, p. 1103 sg., cfr. p. 1288
sg.; PP **, p. 375 sg., cfr. p. 1132. | Vedi ora anche l’edizione dei Canti a cura di C. Muscetta
e G. Savoca, Torino 1968, dove gli abbozzi sono di nuovo pubblicati come autentici; e TO, p.
73, cfr. 1430 sg., dove sono dati come «di discussa attribuzione»; e cfr. qui sotto, p. 226, n. 73 |.
Giovanni Ferretti, mentre non incluse i due abbozzi in versi nell’edizione Utet delle Poesie leo-
pardiane (Torino 1948), pubblicò invece i due abbozzi in prosa, fusi in uno come nel Donati, nel
volume delle Prose (Torino 1950, p. 440), con l’indicazione erronea: «L’autografo è conservato
nella Biblioteca nazionale di Napoli».
13
iAll’autenticità credetti anch’io in un primo tempo: cfr. ** Classicismo e illuminismo nel-
l’Ottocento italiano, Pisa 19651 **, pp. 154 sg. (dove feci ** in tempo soltanto ad aggiungere
in nota un’espressione di dubbio; ma cfr. la 2a ed., Pisa 1969, p. 379 {ovvero cfr., qui, l’«incipit»,
secondo capoverso, del VI cap.: «Natura, dèi e fato nel Leopardi» – N. d. C.}). Cfr. anche K. Mau-
rer, G. Leopardis «Canti» ecc., Frankfurt a. M. 1957, pp. 98, 103, 116 sgg.; ** e i saggi del
De Robertis e della Accame Bobbio che citeremo più oltre.
14
iVol. I, Firenze 1934, pp. 192, n. 3; 283, n. 2. Il Moroncini trasse i documenti dalle copie
che si conservano nella Biblioteca Comunale di Recanati (vedi qui sotto, p. 207 sg.) senza avver-
tire che si trattava di copie e non di autografi. I riferimenti alla pubblicazione del Cozza-Luzi
furono poi indicati dal Ferretti nelle note aggiunte all’edizione del Moroncini (vol. VII, pp.
45 e 48). Vedi anche Leopardi, Lettere a cura di F. Flora, Milano 1949, p. 1160.
15
iOltre gli studiosi citati alla nota precedente, cfr. G. Ferretti, Vita di G. Leopardi, Bologna
1940, pp. 79 sg., 86, con le note relative in fondo al volume.
V. Di alcune falsificazioni di scritti leopardiani 191

Nel 1951 il noto libraio ed editore napoletano Gaspare Casella


acquistò, non si sa da chi, due degli abbozzi dell’Infinito, esattamen-
te corrispondenti alla descrizione e alla trascrizione del Cozza-Luzi:
ne dette notizia Giuseppe De Robertis,16 pubblicandone anche la
riproduzione fotografica. Nella sua edizione delle Opere leopardiane
per i Classici Rizzoli (1937), De Robertis non aveva accolto quegli
abbozzi né alcun altro inedito del Cozza-Luzi; e da qualche frase del
suo articolo si ritrae l’impressione che egli, conoscitore sensibilissimo
dello stile leopardiano, abbia avuto qualche dubbio sulla loro auten-
ticità. Ma quando vide che il foglio acquistato da Casella corrispon-
deva perfino nella filigrana e in altri dettagli al foglio descritto dal
Cozza-Luzi, finì col convincersi che quelli erano proprio gli abbozzi
dell’Infinito: l’ipotesi che già il Cozza-Luzi potesse aver propalato una
falsificazione era ormai lontana dalla mente di tutti i leopardisti, pro-
prio perché le polemiche del 1898-1900 erano del tutto dimenticate.
Due anni dopo, nel 1953, Sergio Antonielli pubblicava la fotografia di
un altro inedito del Cozza-Luzi, anch’esso ritrovato da Gaspare Casel-
la: la minuta della supplica per leggere i libri ** proibiti.17
Purtroppo questi manoscritti, venduti dal Casella nel 1954, sono
risultati per me irreperibili. L’ultimo possessore di cui io abbia avuto
notizia è il collezionista milanese Arnaldo Dell’Avalle; non so a chi
siano andati i manoscritti dopo la sua morte. Le riproduzioni foto-
grafiche pubblicate da De Robertis e da Antonielli costituiscono quin-
di, per ora, l’unica base a nostra disposizione per discutere l’autogra-
fia di quelle scritture. Quanto ai tre fogli contenenti i Pensieri, essi si
trovano tuttora alla Biblioteca Vaticana, dove sono entrati a far par-
te del codice Vaticano latino 12895 (ff. 43, 44, 45), composto di auto-
grafi di personaggi illustri, di varia provenienza.18 Degli altri testi pub-
blicati dal Cozza-Luzi – i «discorsi sacri», la supplica per l’impiego
alla Vaticana, il primo abbozzo dell’Infinito e l’abbozzo di idillio Alla
Natura – non sappiamo se i presunti autografi siano mai esistiti: anche
nel 1898-1900 nessuno, a quel che pare, riuscì a vederli.

16
iG. De Robertis, Ritrovati gli abbozzi autografi dell’«Infinito», in «Tempo», Milano, 3-10
marzo 1951, p. 20 sg.; e più ampiamente, ma senza le riproduzioni dei manoscritti, nel Saggio
sul Leopardi, ed. cit., p. 149 ** sgg.
17
iS. Antonielli, Leopardi e i «libri proibiti», in «Epoca» 25 aprile 1953, Supplemento «Epoca
lettere», p. 30.
18
iSono debitore di questa notizia all’amico Rino Avesani.
192 V. Di alcune falsificazioni di scritti leopardiani

Da quanto abbiamo esposto appare chiara, crediamo, la necessità di


riesaminare nel suo insieme il problema degli inediti pubblicati dal
Cozza-Luzi. Non è più possibile continuare a considerare pacifica-
mente come autentici gli abbozzi di idilli e le suppliche al Papa, men-
tre si considerano altrettanto pacificamente come falsi i Pensieri va-
ticani. Con ciò non intendiamo affatto dire, naturalmente, che la
questione dell’autenticità debba avere per forza una soluzione unica
per tutti gli inediti del Cozza-Luzi: anche un falsario (o, a maggior
ragione, uno studioso onesto ma incauto) può pubblicare, insieme a

a)

b)
Tavola 1
a) Pseudo-Leopardi, Pensieri varii, fine del secondo foglio (Cod. Vat. lat. 12895).
b) Pseudo-Leopardi, supplica al Papa per leggere i libri proibiti (già nella collezione di
autografi di Gaspare Casella).
V. Di alcune falsificazioni di scritti leopardiani 193

testi falsi, testi autentici. Vogliamo soltanto dire che nessuno di que-
gli inediti può essere accettato a occhi chiusi, senza una verifica del
contenuto, dello stile e – là dove possediamo i presunti autografi o le
loro riproduzioni – della scrittura. Tale verifica faremo nelle pagine
che seguono, tenendo presenti le discussioni del 1898-1900 e aggiun-
gendo nuove considerazioni.

3. I Pensieri vaticani

La non autenticità dei Pensieri vaticani fu subito sospettata da Do-


menico Gnoli e più ampiamente dimostrata da Domenico Orano e dai
periti calligrafi citati da Ilario Tacchi.19 Alle loro osservazioni c’è poco
da aggiungere; piuttosto bisogna sceverare gli argomenti veramente
importanti da quelli di scarso rilievo, i quali finirono per offuscare – in-
vece di rafforzarla – l’evidenza della dimostrazione. L’esame della
scrittura (vedi tavola I, a) rivela almeno tre sicuri elementi di falsità:
1) mentre l’r minuscola nella scrittura del Leopardi è sempre di tipo
«antico» (cioè di forma analoga a quella dei nostri caratteri di stam-
pa, con la biforcazione dei due tratti molto bassa, tanto che un ine-
sperto può quasi confonderla con un v), il falsario si è lasciato sfug-
gire alcune r di tipo «moderno» (cioè della forma, derivata dalla
scrittura gotica, che ha prevalso nell’odierna corsiva in Italia).20
2) Per dividere una parola in fin di riga il Leopardi usa sempre due
trattini orizzontali paralleli; il falsario ne usa spesso uno solo.

19
iD. Gnoli, art. cit.. alla nota 4; D. Orano nel «Don Chisciotte di Roma» dell’11, 12, 18,
20 e 25 luglio 1899; perizia grafica cit. alla nota 8 **. Delle tre prove di non autografia che arre-
chiamo, soltanto la terza non era stata finora notata, per quanto mi risulta. Fra le molte altre
prove che allora furono addotte, alcune si rivelano inconsistenti ad un più ampio esame delle
scritture genuine del Leopardi. Io ho preso, in generale, come termini di confronto i molti auto-
grafi riprodotti nelle edizioni dei Canti e delle Operette a cura del Moroncini; ho anche tenuto
presenti molti dei manoscritti filologici fiorentini e l’autografo dello Zibaldone, per il quale sono
ricorso spesso all’esperienza dell’amico Giuseppe Pacella. Varie particolarità della scrittura leo-
pardiana mutano a seconda dell’epoca o anche nel corso di uno stesso autografo; io ho preferi-
to attenermi a pochi elementi sicuri.
20
iVedi nei Pens. di filos. varia, 1, riga 3, la prima r di tradirsi; 7, accanto al numero d’ordine,
la prima r di rifarsi; nei Pens. varii, 16, r. 2, la prima r di propria; id., r. 5, l’iniziale di ricca. Cfr. la
Perizia grafica cit., p. 25 sg.
194 V. Di alcune falsificazioni di scritti leopardiani

3) Le cifre arabiche che contrassegnano i singoli pensieri sono, nella


maggioranza, non seguite dal punto, mentre il Leopardi pone il
punto dopo la cifra ogni qual volta questa indichi un numero d’or-
dine. È questo uno degli usi grafici più costanti del Leopardi (e non
di lui solo, ma in generale dei manoscritti e delle stampe di quell’e-
poca): le carte filologiche fiorentine, ricchissime come sono di rinvii
a pagine, capitoli ecc., ne forniscono un’ottima prova.
L’aspetto generale della scrittura, inoltre, è considerevolmente di-
verso da quello dei veri autografi leopardiani, pur mostrando uno sfor-
zo di imitazione. E ancora un’osservazione di Domenico Orano meri-
ta di essere ricordata: ciascuno dei tre foglietti vaticani è scritto solo
sul recto, mentre il Leopardi, come ben sa chi ha pratica dei suoi auto-
grafi, soleva scrivere ** anche sul verso e faceva, negli abbozzi e nel-
le minute, un feroce risparmio di carta, probabilmente per un’abitu-
dine che si era sviluppata al di là ** delle necessità economiche.
Se dalla scrittura passiamo al contenuto, notiamo i seguenti «falsi
rimandi»:

Pensieri varii, 9: «vedi le polizzine al nome esperienza».


id., 11: «vedi polizzine alla voce amico».
Pensieri di filosofia varia, 5: «vedi la società indice 1°».
id., 9: «vedi polizzine alla parola pianto».

Si sa che il Leopardi stesso compilò a più riprese indici dello Zibal-


done e, per certi argomenti più importanti, segnò i richiami su sche-
dine a parte, da lui chiamate «polizzine». Nell’Indice del mio Zibal-
done compilato nel 1827 a Firenze (ed. Flora, II, p. 1377 sgg.; TO, II,
pp. 1241 sgg. **) si trovano numerosi rimandi alle «polizzine»: per
esempio alla voce «perfettibilità»: «Vedi polizzine a parte, intitolate
Perfettibilità o Perfezione umana»; alla voce «Romanticismo»: «Vedi
polizzine a parte, intitolate Romanticismo». Senonché, come osservò
già lo Gnoli, tra le «polizzine» non si trovano affatto le voci «espe-
rienza», «amico», «pianto», e l’«indice primo» (che dovrebb’essere il
primo dei due indici parziali, II, pp. 1413 sgg. Flora; TO, II, pp. 1263
sgg. **) non contiene la voce «società».21
21
iNon la contiene nemmeno il secondo indice parziale (pp. 1421-1423 Flora), mentre il più
ampio Indice del mio Zibaldone ha solo una voce «Società degli animali» che non c’entra affat-
to col quinto dei Pensieri di filosofia varia.
V. Di alcune falsificazioni di scritti leopardiani 195

Per uscire in qualche modo da questa difficoltà, il Cugnoni (Que-


stione leopardiana, p. 10) non trovò di meglio che supporre l’esisten-
za di un altro zibaldone leopardiano, anteriore a quello che ci è giun-
to, munito anch’esso di indici e di «polizzine», e andato poi smarrito
o distrutto: a questo, non al nostro Zibaldone si riferirebbero i quat-
tro richiami dei Pensieri vaticani! L’assurdità di una simile ipotesi è
evidente: fra l’altro, si dovrebbe ammettere che già prima del ’17 il
Leopardi avesse messo su carta pensieri improntati a una cupa misan-
tropia, quale si trova solo in alcuni scritti posteriori al ’19; e si
dovrebbe credere che questo «proto-zibaldone» **, scomparso sen-
za lasciar traccia, fosse anch’esso tanto lungo da richiedere indici e
«polizzine». Del resto, un richiamo come «vedi polizzine alla parola
pianto», apposto al peregrino pensiero «L’uomo è nato per piangere»,
si rivela subito inconsistente, perché rimanda a una parola di valore
emotivo, non a un «argomento» quale può figurare in un indice per
materie.
Scartata l’ipotesi disperata del Cugnoni, non ne resta che un’altra:
che i Pensieri vaticani siano opera di un falsario il quale riuscì a dare
un’occhiata, prima della pubblicazione, o all’autografo dello Zibaldone
o all’apografo che servì per l’edizione Le Monnier o alle bozze dell’e-
dizione stessa. Il falsario trasse dallo Zibaldone il pensiero già citato su
Caino, che doveva appunto dare un’apparente garanzia di autenticità
alla sua contraffazione. Vide anche l’indice dello Zibaldone cosparso
qua e là di rimandi alle «polizzine», e pensò di accrescere l’attendibi-
lità dei suoi Pensieri mettendovi alcuni rimandi dello stesso genere;
ma non avendo avuto l’agio di controllare quali voci figuravano effet-
tivamente nell’indice e nelle «polizzine», foggiò dei rimandi insussi-
stenti e ** rivelò così la propria frode.
Bisogna ricordare che, quando uscirono nella «Palestra del Clero»
i Pensieri vaticani, il primo volume dello Zibaldone (che nell’edizione
Le Monnier contiene anche, all’inizio, gli indici del Leopardi e le
«polizzine») era già da tempo in bozze e stava per essere pubblicato.
Ma anche ammettendo che da studiosi e tipografi addetti alla pubbli-
cazione il Cozza-Luzi o i suoi amici non siano riusciti a cavar niente,
resta il fatto che in quel periodo l’autografo dello Zibaldone, in attesa
di essere definitivamente collocato alla Nazionale di Napoli, era depo-
sitato a Roma, nella Biblioteca Casanatense. Non è arrischiato imma-
196 V. Di alcune falsificazioni di scritti leopardiani

ginare che il Cozza-Luzi, data l’alta carica che ricopriva nell’ambien-


te bibliotecario romano, abbia avuto alla Casanatense qualche anima
buona che gli comunicò alcuni passi dello Zibaldone. E se, infine, si
volesse scartare anche questa ipotesi, bisogna considerare che il lavoro
di copiatura per l’edizione fu eseguito da scrivani estranei alla Biblio-
teca, e che parecchia gente ebbe in quel periodo occasione di vedere,
sia pur fuggevolmente, l’autografo.22 Tra costoro può esservi stato il
falsario o il suo informatore.
Uno degli scopi, se non l’unico, per cui furono fabbricati i Pensie-
ri vaticani fu certamente il desiderio di dimostrare l’autenticità degli
inediti pubblicati un quindicennio prima dal Cugnoni. Per questo il
falsario ebbe cura di far coincidere quattro dei nuovi pensieri con
altrettanti dei vecchi (vedi sopra, ** p. 187). Smascherata la contraf-
fazione dei Pensieri vaticani, viene a cadere ogni plausibile motivo per
credere autentici i testi pubblicati dal Cugnoni e rivendicati a sé dal
povero Ilario Tacchi. E in realtà la tesi del Cugnoni, secondo cui il
Tacchi sarebbe stato un plagiario che si spacciava per falsario, è del
tutto inverosimile. Se il Tacchi avesse davvero trovato degli autogra-
fi leopardiani, li avrebbe pubblicati lui, preferendo la fama di scopri-
tore (assai giovevole a chi, come lui, voleva far carriera nelle bibliote-
che) a quella di abile imitatore. L’unico punto che può rimanere in
dubbio, e che del resto importa assai poco, è se il Tacchi abbia ese-
guito da sé la contraffazione del 1884 o si sia fatto aiutare da persone
più dotte **: in effetti, al processo del 1900 il Tacchi rimase incerto
sul significato di alcune parole trecentesche che ricorrevano negli
«inediti», e di ciò menarono grande scalpore il Cugnoni e i suoi soste-
nitori.23 Ma anche se quegli scritti sono troppo dotti per un Tacchi,

22
iVedi la testimonianza di Giuseppe Chiarini al processo Tacchi-Cugnoni, riferita dal
«Popolo romano» del 20 giugno 1900: la copia destinata alla tipografia fu fatta da «amanuensi,
i quali non erano persone di fiducia, ma gente pagata a giornata». Sulla possibilità che fu offer-
ta a molti di vedere l’autografo prima della pubblicazione, cfr. D. Orano nel «Don Chisciotte
di Roma» del 19 agosto 1899. Che il primo volume dello Zibaldone fosse già in bozze nella pri-
mavera del ’98, risulta per esempio dalla lettera del Carducci a Filippo Mariotti dell’aprile (in
Lettere, ed. nazionale, XX, p. 126). Anche il titolo Pensieri di filosofia varia ha tutta l’apparen-
za di una goffa modifica del titolo dello Zibaldone prescelto dai primi editori **: Pensieri di varia
filosofia e di bella letteratura.
23
iCfr. Cugnoni, Alla ricerca di G. Leopardi cit., p. 91 sg. **; e l’articolo di «Sigma» cit.
alla nota 7.
V. Di alcune falsificazioni di scritti leopardiani 197

sono certamente, come si accorse il Chiarini, troppo vuoti e banali per


un Leopardi! E altrettanto vuoti, nonostante la diversità del contraf-
fattore, sono i Pensieri vaticani pubblicati dal Cozza-Luzi. Che il Leo-
pardi si sia abbandonato a una retorica di quart’ordine come questa:
«Quando mi trovo nel santuario dello studio (!) mi sento rapito fuor
de’ sensi e l’animo s’accende a sdegno o ad amore», è assurdo per
chiunque abbia un po’ in pratica lo stile e l’ethos 1eopardiano.

4. I primi due abbozzi di Idilli

Secondo il Cozza-Luzi, il Leopardi avrebbe scritto su uno stesso


foglio, uno di seguito all’altro, il primo abbozzo in prosa dell’Infinito
e l’abbozzo di idillio Alla Natura.
Su quale foglio? Le indicazioni del Cozza-Luzi sono contradditto-
rie: secondo due passi degli Appunti leopardiani (I, p. 3, n. 5; III, p. 33)
il foglio sarebbe quello su cui il Leopardi aveva scritto la minuta del-
la supplica al Papa per ottenere un impiego nella Vaticana; secondo un
terzo passo (II, p. 29) si tratterebbe invece dell’altra supplica, quella
per leggere i libri proibiti. Siccome l’«autografo» di questa seconda
supplica, ritrovato da Gaspare Casella e ora di nuovo irreperibile (vedi
sopra, paragrafo 2), non conteneva, a quel che pare, alcun abbozzo di
idillio, dovremmo ritenere che gli abbozzi si trovassero sulla minuta
della prima supplica, e che la indicazione di AL, II, p. 29 sia dovuta
a un lapsus del Cozza-Luzi.
Ma Domenico Orano testimoniò che nel novembre del 1897 don
Oliviero Jozzi (l’erudito-falsario che abbiamo già avuto occasione di
nominare) gli aveva mostrato i veri o presunti autografi di tutt’e
due le suppliche, e che su nessuno dei due fogli c’erano gli abbozzi di
idilli.24 E tuttora la Biblioteca Comunale di Recanati possiede, come

24
iCfr. «Don Chisciotte di Roma» 27 novembre 1899 **: «Non ricordo affatto – eppure ho
buona memoria – che nel retto e nel verso delle due lettere leopardiane, presentatemi dallo Joz-
zi, vi fossero contenuti altri scritti e tanto meno minute autografe dello stesso Leopardi. Se è
così (...), le minute sono false e furono vergate nei due documenti posteriormente alla presen-
tazione a me fattane. È mai possibile che se le due minute inedite fossero esistite nei due docu-
menti, lo Jozzi, che cercava di venderli, non me l’avrebbe fatto notare, per accrescere valore
alla sua offerta? Ed è mai possibile che io, che pur tenni per più giorni in casa mia la prima del-
le due lettere, non me ne sarei accorto?».
198 V. Di alcune falsificazioni di scritti leopardiani

meglio diremo nel paragrafo seguente, copie manoscritte delle due


suppliche, e nemmeno in esse compaiono gli abbozzi, come non vi
compaiono certi «appunti di cose di famiglia» che, secondo il Cozza-
Luzi (AL, ** I, p. 3, n. 5), vi sarebbero pure stati su uno dei due fogli.
Le testimonianze esterne sono, dunque, già di per sé sfavorevolis-
sime all’autenticità: pare accertato che ancora nel ’97 esistessero le
due suppliche s e n z a g l i a b b o z z i d i i d i l l i : il che equi-
varrebbe a dire che gli abbozzi furono aggiunti ** da un falsario in
un secondo tempo, o addirittura che il falsario li propalò senza nep-
pure darsi la pena di contraffare la scrittura del Leopardi.
Passiamo, comunque, a esaminare i due abbozzi pubblicati negli
Appunti leopardiani. Il primo, in prosa, è brevissimo:
Idillio I. (1819) sopra l’Infinito
O quanto a me gioconda quanto cara fummi quest’erma plaga e questo roveto che
all’occhio copre l’ultimo orizzonte.

Il Cozza-Luzi avverte che «plaga» è una correzione di «spiaggia»,


che a sua volta è una correzione di «sponda»; prima di «copre», sem-
bra che il Leopardi abbia scritto e poi cancellato «apre»; tutto l’ab-
bozzo sarebbe stato poi cancellato.
Ciò che meraviglia in questo primo abbozzo è l’assoluta incertezza
non solo di espressione (che sarebbe naturale), ma di concezione. «Non
si esagera – osserva giustamente il De Robertis, Saggio cit., p. 152 ** –
dicendo che (...) il Leopardi non sentiva neppure alla lontana ciò che
dovesse riuscir poi L’Infinito». Addirittura egli sarebbe stato incerto
tra due parole di significato opposto come «apre» e «copre» (e sì che
il «coprire», cioè l’escludere la vista dell’orizzonte, è l’idea generatri-
ce di tutto l’idillio!); e avrebbe dapprima pensato d’ambientare la sua
contemplazione dell’infinito non su un colle, ma sulla sponda (spiag-
gia) di un fiume o del mare.25

25
iDifatti, se «plaga», o magari «piaggia», può ben alludere all’«ermo colle», «sponda» e
«spiaggia» devono riferirsi a tutt’altra collocazione (così intende anche il Flora in «Letterature
moderne» I – 1950 –, p. 103). Forse chi scrisse l’abbozzo ricordò La vita solitaria, vv. 23 sg.,
33. Quanto all’oscillazione fra «apre» e «copre», i numerosi tentativi di giustificarla che sono
stati compiuti (vedi per esempio Aurelia Accame Bobbio nel volume collettivo Leopardi e il Set-
tecento, Firenze 1964, pp. 197; 219, n. 78) mi sembrano troppo sottili.
V. Di alcune falsificazioni di scritti leopardiani 199

Queste difficoltà, tuttavia, non sarebbero ancora insormontabili. Le


difficoltà davvero grosse vengono nel secondo abbozzo di idillio, che
avrebbe tenuto dietro immediatamente al primo sullo stesso foglio.
Qui bisogna prima di tutto mettere in chiaro un problema di testo.
Il Cozza-Luzi (AL, III, pp. 33-36) pubblicò l’abbozzo con una specie
di «apparato critico», nel quale non solo registrò le numerose varian-
ti e correzioni che vi sarebbero state nell’autografo, ma indicò anche
i punti in cui il testo leopardiano era stato corretto da lui, Cozza-Luzi,
per ragioni metriche. Il Donati, lo Scarpa, il Flora e Muscetta e Savo-
ca **, che ritenevano autentico l’abbozzo, avrebbero evidentemente
dovuto pubblicarlo nella forma genuina, liberandolo dalle rabbercia-
ture del Cozza-Luzi. Invece lo hanno pubblicato tutti ** nella forma
«emendata», e in questa forma esso viene tuttora studiato e citato dai
leopardisti | tranne, adesso, Binni e Ghidetti in TO cit. | . Comincia-
mo dunque col riprodurre la redazione «genuina», cioè quella che,
secondo l’Apparato critico del Cozza-Luzi, corrisponderebbe all’ulti-
mo intendimento del Leopardi. Indichiamo via via in nota alcune
incertezze, dovute al fatto che non sempre il Cozza-Luzzi distingue
chiaramente tra le correzioni del Leopardi e le proprie.26
05 Sempre adorata mia solinga sponda,
05 Deh perché agli occhi miei furi la vista
05 Dell’incantevole e magico effetto
50 Che natura concede alle creature.
05 Alle creature sì, ma non a tutte ...
05 Ahi a me madrigna, spietata madre!
05 Dimmi il perché di tal misura e peso.
50 Qual sfregio ti feci mai, dimmi il perché?
05 Da l’alveo materno me traesti
10 Forse a scherno e ludibrio de’ mortali?
30 Mortal pur io, non a lor secondo27
30 Né merto tal pena. Benedicesti
30 Pure la terra di cui me plasmasti ...
30 Forse de la tua diva luce un raggio

26
iLa distinzione è chiara quando egli usa per il Leopardi la terza persona («Scrisse», «can-
cellò» ecc.) e per sé la prima plurale; non è sempre chiara quando usa espressioni impersonali o
passive («Fu tralasciato ...», «Le parole furono posposte ...»).
27
iIn margine a questo verso il Leopardi avrebbe scritto un «son», che il Cozza-Luzi correg-
ge in «sono» e colloca prima di «a lor».
200 V. Di alcune falsificazioni di scritti leopardiani

15 Non balenò ne la mia fronte per cui


30 Mi festi a te simile? E lo spirto28
30 Sentii in me: in me sentii esultar le ossa?
30 Opra delle tue mani son dunque io
30 Nè disdegnar me puoi, qual belva i nati.
20 È vero. Larga mi fosti di doni,29
30 Di quanti doni ingegno adunar puote.
30 Sitibondo corsi qual cervo all’onda30
30 Premei le tue vestigia, né m’arrestai ...
30 Perché poi maggiori beni negarmi
25 E dei mortali farmi, ahi spietata
30 Il più meschino, e dei mali spezzarmi
30 Sul capo di Pandora il fatal vaso!
30 Tu ridesti forse de la mia sorte
30 Ridi pur, che n’hai ben d’onde: oh prodezza!
30 Ridi dell’opra tua! Perdona o Matre,
30 È il dolore che parla, non parlo io ...
30 Son opra tua pur io: né mi fa creder
30 Che me lascerai in mezzo a31 tante pene.

Il componimento incomincerebbe in modo simile all’Infinito, ma


ben presto prenderebbe un’altra direzione, quella che porterà all’Ul-
timo canto di Saffo. Di per sé questo è plausibile: anche le due canzo-
ni All’Italia e Sopra il monumento di Dante hanno per matrice, come è
noto, un unico abbozzo. Il pensiero dell’infelicità fisica del poeta, del
suo sentirsi escluso dalla comunione con gli altri viventi e con la stes-
sa natura inanimata, si sarebbe sovrapposto all’iniziale mossa «idilli-
ca» e avrebbe mutato la contemplazione dell’infinito in lamento e
invettiva contro la Natura matrigna.
Osserviamo un poco, però, c o m e avviene il trapasso. Anzitutto,
l’impossibilità di vedere l’orizzonte, che nell’Infinito sarà motivo di
gioia per il poeta in quanto suscitatrice o agevolatrice della medita-
zione sugli «interminati spazi» (e in questo senso sembrava già orien-
28
iII Cozza-Luzi scrive nel testo «lo tuo spirto» e annota: «Sul fine mancando una sillaba fu
posto tuo»: fu posto, parrebbe, dal Cozza-Luzi, non dal Leopardi.
29
iIl Cozza-Luzi scrive «di (tuoi) doni», intendendo, pare, che «tuoi» sia stato scritto e poi
cancellato dal Leopardi stesso (cfr. AL II, p. 31 e n.).
30
iNota del Cozza-Luzi: «Avea cominciato una linea Risposi io qual che fu cancellata. E poi
Sitibondo ti seguii, ove fu cancellato ti seguii soprapposto. Posponemmo corsi a causa del verso».
Parrebbe dunque che «corsi» (correzione di «ti seguii») si trovasse nell’autografo dopo «Siti-
bondo». Ma non è ben chiaro ciò che il Cozza-Luzi ha voluto dire.
31
i«Prima di tante scrisse in mezzo che cangiasi in tra» (Cozza-Luzi).
V. Di alcune falsificazioni di scritti leopardiani 201

tato il primo abbozzo in prosa), qui costituirebbe invece un motivo di


rammarico. La Natura avrebbe concesso, da quel luogo, il godimento
di un bel panorama, di un «incantevole e magico effetto» (si badi a
questa espressione, così banale e così poco degna ** del rigore stili-
stico di Giacomo Leopardi!): la siepe, o la «sponda», precluderebbe
quel godimento. Se lì per lì questo sembra, per qualche eco verbale, il
preannuncio dell’Infinito, in realtà è il suo contrario esatto. E se nel-
l’Infinito è perfettamente naturale che il colle e la siepe siano detti «ca-
ri», qui non si capisce perché la sponda, che rappresenta uno sgradito
ostacolo alla vista, sia addirittura «adorata». Il tono patetico-dolcia-
stro riesce male a nascondere la sconnessione delle idee.
A questo punto, ecco il verso di trapasso: «Alle creature sì, ma non
a tutte ...». Dal lamento contro la sponda che impedisce di vedere il
panorama, si passa al lamento contro la Natura che, anche se la spon-
da non ci fosse, escluderebbe ugualmente dal godimento del panorama
le creature brutte e deformi come il poeta. Questo motivo, della per-
sona deforme che si sente estraniata e respinta dalla natura stessa, lo
conosciamo bene dall’Ultimo canto di Saffo («A’ tuoi superbi regni /
Vile, o natura, e grave ospite addetta, / E dispregiata amante ...» ); ma
qui esso s’innesta sul motivo precedente in modo del tutto sforzato **,
svuotando di significato l’invocazione patetica iniziale.
Che anche i versi seguenti, fino in fondo al componimento, siano
di una bruttezza difficilmente concepibile nel Leopardi, non è certa-
mente sfuggito ai critici. «Endecasillabi abbandonati alla frenesia del-
la loro scomposta ingenuità e audacia», li chiama Carlo Muscetta;32
ma espressioni come «Dimmi il perché di tal misura e peso» (che sem-
bra un goffo travestimento poetico della banale locuzione «fare due
pesi e due misure»), o come «dei mali spezzarmi / Sul capo di Pando-
ra il fatal vaso» (!) meriterebbero senza dubbio un giudizio ancor più
negativo. E questo, si noti, non sarebbe un Leopardi principiante

32
iL’ultimo canto di Saffo **, ora in Leopardi, Bonacci, Roma 1976, p. 68 sg. Pur non ponen-
do la questione dell’autenticità | alla quale, come abbiamo detto, ha continuato a credere anche
dopo questo nostro studio |, il Muscetta mostra di rendersi conto della strana mancanza di
coscienza stilistica di questi versi. Dell’analisi della Accame Bobbio (in Leopardi e il Settecento
cit., p. 191 sg. e note) si salva, mi pare, soltanto l’individuazione delle reminiscenze bibliche pre-
senti nell’abbozzo. Ma tali reminiscenze, come non meraviglierebbero nel Leopardi, così sono
intonate alla mentalità e agli scopi «edificanti» del falsario: si confrontino le citazioni bibliche
nelle suppliche al Papa, certamente apocrife (qui sotto, paragr. 5 **).
202 V. Di alcune falsificazioni di scritti leopardiani

(sebbene anche nei cosiddetti «Puerili» pubblicati dal Donati, dal Flo-
ra, dallo Scheel ** e più compiutamente dalla Corti non si trovi asso-
lutamente nulla di così maldestro): sarebbe il Leopardi del 1819, che
ha già scritto le versioni poetiche dal greco e dal latino e le prime due
Canzoni, e scriverà tra pochissimo l’Infinito e gli altri idilli. Prendia-
mo pure quella che è forse la prova meno felice di questo periodo, la
Telesilla: non vi troveremo niente di lontanamente paragonabile al cat-
tivo gusto e all’impaccio di codesti versi.
Ma più delle impressioni di gusto conta, per la questione dell’au-
tenticità, l’analisi tecnica. Se si può – fino ad un certo punto! – am-
mettere che il Leopardi anche nel ’19 abbia avuto una défaillance poe-
tica, non si può certo supporre che si sia improvvisamente scordato
come è fatto un endecasillabo. Ora si osservino i versi 6, 8, 12, 15, 16,
17, 18, 22, 23, 24, 25, 28, 29, 31, 33. In quasi tutti si possono conta-
re undici sillabe, ma endecasillabi non sono quanto agli accenti. Per
esempio ** «Qual sfregio ti feci mai, dimmi il perché» sarebbe un
endecasillabo solo se si leggesse «fecì» e «pèrche», e così al verso 15
bisognerebbe leggere «pèr cui», ** al verso 22 «corsì», al verso 23
«arrèstai», e via discorrendo. In altri la misura di undici sillabe si può
raggiungere solo a prezzo di elisioni e dieresi tali da far rabbrividire;
per esempio al verso 6 bisognerebbe fare di «Ahi a» un’unica sillaba e
poi allargare «spietata» con una dieresi; al verso 17 occorrerebbe leg-
gere «Sentii ° in me ° in mé sentii esultar le / ossa», con due durissime
sinalèfi consecutive e un iato. Al verso 32 **, dove pure sarebbe stato
possibile foggiare un brutto ma non errato endecasillabo sdrucciolo ter-
minante con «credere», il pregiudizio che non dovesse essere in alcun
caso superata la misura di undici sillabe ha persuaso il versificatore a
porre un «creder» troncato, impossibile in fine di verso. Soffermarsi
ancora a dimostrare che un simile scempio metrico e prosodico non può
essere opera del Leopardi, sarebbe un offendere il lettore.
Siccome molti abbozzi leopardiani sono misti di versi e prosa,33 si
potrebbe supporre che i versi che non tornano fossero, nell’intenzio-
ne del Leopardi, prosa, e che il Cozza-Luzi li abbia trascritti andando
arbitrariamente a capo. Ma che al Leopardi sia venuta scritta per caso
una prosa tutta divisibile in «pseudo-endecasillabi» (cioè in serie di

33
iVedi per esempio PP, I, pp. 377 sg. (Le fanciulle nella tempesta), 379, 382 sg., 385 sgg.,
427 (** = TO, I, pp. 336, 335 sg., 331, 332 sg., 337).
V. Di alcune falsificazioni di scritti leopardiani 203

parole che, bene o più spesso male, sono raggruppabili in sequenze


di undici sillabe) non è assolutamente credibile. Del resto, quella pre-
sunta prosa è già troppo ricca di inversioni e di agghindamenti poetici:
ben diversa dalla prosa nervosa e rapida, tutta inframezzata di «ecce-
tera», degli altri abbozzi leopardiani! Dovremmo allora supporre che
il Cozza-Luzi abbia ritoccato lui la prosa leopardiana, in modo da
ridurla in versi o pseudoversi? Ma il Cozza-Luzi riportò come prosa
altri due abbozzi dell’Infinito (quello da noi già esaminato e un altro
che esamineremo più avanti): non era, dunque, allergico agli abbozzi
in prosa. Inoltre, come abbiamo detto, nelle note all’Idillio alla Natu-
ra indicò parecchie correzioni da lui apportate al testo leopardiano per
ragioni metriche: non c’è motivo di ritenere che abbia taciuto altre
correzioni.
Ma è proprio l’esame delle correzioni – quelle che il Cozza-Luzi
presenta come leopardiane e quelle che attribuisce a se stesso – a dar-
ci la definitiva conferma della falsificazione. Le prime ci mostrereb-
bero un Leopardi che a poco a poco trasforma la prosa in versi aggiun-
gendo qui una parola, togliendone là un’altra, ** contando le sillabe
come il più duro d’orecchio degli scolari ** ... e trascurando gli accen-
ti. Per esempio, al verso 1 ** («Sempre adorata mia solinga sponda»)
il «mia» sarebbe, secondo il Cozza-Luzi, un’aggiunta sopra il rigo, con
la quale il Leopardi avrebbe fatto tornare un verso che in un primo
tempo aveva una sillaba di meno. Al verso 24 il poeta avrebbe dappri-
ma scritto «Perché negarmi maggiori beni»; avrebbe quindi aggiunto
un «poi» dopo «perché»; avrebbe infine spostato «negarmi» in fon-
do al verso, e nemmeno così, dopo tanti sforzi, sarebbe riuscito a scri-
vere un endecasillabo con gli accenti giusti. Al verso 28 («Tu ridesti
forse de la mia sorte») leggiamo nella nota: «Cominciò con Ridesti, o
forse Deridesti ma fatta piccola la lettera r, scrisse prima il Tu innan-
zi, e poi soprappose forse»: anche qui il Leopardi avrebbe raggiunto
soltanto con due zeppe la sospirata misura di undici sillabe, con risul-
tati, peraltro, anche stavolta negativi quanto agli accenti. Al verso 31
[(questo è, forse, il caso più clamoroso)] il Cozza-Luzi c’informa che
il Leopardi aveva incominciato: «Al dolor ...»; poi, cancellate queste
parole, aveva avuto la bella idea di utilizzare pari pari (togliendo solo
un «che») un famoso verso dantesco: «Disperato dolor il cor mi pre-
me ...»; poi era passato a «È il dolor che parla, non parlo io»; e infi-
204 V. Di alcune falsificazioni di scritti leopardiani

ne, accortosi che il verso era ancora troppo breve, aveva corretto
«dolor» in «dolore».
Che molti versi di questo abbozzo, anche nella forma raggiunta a
prezzo di tanti stenti, non tornassero, il Cozza-Luzi certo non lo igno-
rava. Per quanto le Muse non dovessero aver sorriso attorno alla sua
culla, tuttavia non è credibile che egli non sapesse riconoscere o anche
comporre un endecasillabo: aveva pur fatto i suoi studi di «umanità»
e «retorica», aveva certamente imparato e poi forse insegnato a scri-
vere sonetti o versi sciolti. Se, dunque, avesse voluto ridurre in versi
una prosa leopardiana, il risultato sarebbe stato tecnicamente un po’
meno disastroso. Ma quei versi zoppicanti costituivano per il Cozza-
Luzi il tipico contrassegno dell’«abbozzo» che, come egli scriveva,
«dallo stesso autore non fu ritoccato a dovere» (AL, III, p. 33). Sia
stato egli stesso il falsario o abbia prestato fede a una falsificazione
altrui, in entrambi i casi è certo che egli trovava normale che il giova-
ne Leopardi, come un seminarista zuccone, fosse arrivato al risultato
poetico definitivo attraverso una lunga vicenda di errori non solo sti-
listici, ma metrici. Tantae molis erat rectum componere versum!
Il compito dell’editore di un abbozzo, poi, egli non lo faceva con-
sistere né in una mera edizione diplomatica, né in un completo rifini-
mento, ma in una prudente eliminazione dei soli sbagli più grossi (i
quali, tuttavia, andavano segnalati con scrupolo «filologico» in nota).
Perciò in parecchi punti, come abbiamo detto, egli mise nel testo una
lezione «emendata». Se, per esempio, Giacomo Leopardi non era sta-
to capace di scrivere, al verso 12, niente di meglio che «Né merto tal
pena. Benedicesti», il Cozza-Luzi rimediò alla claudicatio hendecasyl-
labi scrivendo «Né merto pena tal. Benedicesti»; e analogamente
intervenne ai versi 15, 22, 23, 29, 32, 33, come si può vedere nelle
edizioni del Donati, dello Scarpa e del Flora, che riproducono la lezio-
ne «emendata». Altre volte si limitò a segnalare il difetto e a proporre
eventuali rimedi in nota (per esempio ai versi 17 e 31); altre volte
ancora, lasciò i versi imperfetti senza alcun commento.34 È un com-

34
iUna caratteristica grafica certamente non leopardiana dell’Idillio alla Natura sono i fre-
quentissimi punti sospensivi. È noto che il Leopardi non usò quasi mai questo segno d’inter-
punzione, per il quale espresse anche, in un pensiero dello Zibaldone (p. 976 dell’autografo), la
propria antipatia. Ma siccome il Cozza-Luzi dissemina arbitrariamente punti sospensivi anche
nei brani di poesie leopardiane autentiche che riporta (vedi per esempio AL I, p. 5 sg.; IV,
pp. 49-51), non è il caso di usare questa osservazione come prova di non autenticità.
V. Di alcune falsificazioni di scritti leopardiani 205

a)

b)
Tavola 2
a) Pseudo-Leopardi, secondo abbozzo in prosa dell’Infinito (già nella collezione di G.
Casella).
b) Psuedo-Leopardi, abbozzo in versi dell’Infinito (già nella collezione di G. Casella).
206 V. Di alcune falsificazioni di scritti leopardiani

portamento **, più che da curatore d’edizione, da «precettore»: si


corregge il peggio, senza tuttavia pretendere di rifare interamente
quello che deve rimanere un «saggio» scolastico.
Se il movente della contraffazione dei Pensieri vaticani fu, come si
è visto, il desiderio di porgere una mano amica al Cugnoni, quale può
essere stato il movente di quest’altra, ancor più bislacca falsificazione?
Ce lo fa capire il Cozza-Luzi stesso nel fervorino che tien dietro all’e-
dizione dell’abbozzo:
In questi ultimi versi si conosce che le passioni disperate non erano cotanto violen-
ti, come si vede in altre poesie. Ritorna ad invocare la natura come madre e non
madrigna. Confessa che a lei debbe tanti doni di quell’ingegno, nel quale idolatrava
pur troppo se stesso. E quantunque sembri sarcasticamente invitar questa madre a
rider dell’opera sua imperfetta per la mancanza dei doni esteriori; pure di ciò le chie-
de scusa, poiché non egli così parla; ma sibbene il suo dolore si è che parla tali paro-
le acerbe. Dopo questa scusa ricorda esser egli opra di lei, e che ha pur confidenza
e speranza di non esser lasciato in preda a cotali sue pene ... Così Giacomo dipinge
se stesso; e l’ondeggiar dell’animo, non abbandonato ancora alle fatali tempeste
senza speme.

Siamo dunque ricondotti a quello che, come dicemmo all’inizio, è


l’assunto fondamentale degli Appunti leopardiani: mostrarci un Leo-
pardi non ancora traviato, o almeno non ancora interamente travia-
to. Nell’Idillio alla Natura ci sono già i funesti inizi del pessimismo e
c’è quell’«orgoglio» che, secondo il Cozza-Luzi, aveva costituito per
il Leopardi il primo impulso verso l’ateismo («È vero. Larga mi fosti
di doni, / Di quanti doni ingegno adunar puote»). Ma c’è anche, alla
fine, il pentimento di aver detto parole troppo blasfeme.
Accanto a questo scopo principale, il falsario ne ha avuto un altro
direi, banalmente didattico: far vedere alla «studiosa gioventù» (alla
quale sono dedicati gli Appunti leopardiani) come il fare una poesia
costi molto sudore, e come solo a poco a poco sia possibile anche a un
grande poeta migliorare il primo abbozzo e, dagli strafalcioni iniziali,
assurgere alla perfezione stilistica e metrica dell’Infinito. Se da così
umili inizi erano venuti fuori gli idilli leopardiani, nessuno scolaro, per
quanto tardo ad apprendere, doveva disperare! Di qui la sequela del-
le «varianti» registrate con tanto zelo.
Di questo secondo scopo avremo una conferma quando esaminere-
mo, nel paragrafo 6, gli altri due abbozzi di idilli. Per ora notiamo che
V. Di alcune falsificazioni di scritti leopardiani 207

la falsità evidente dell’Idillio alla Natura porta con sé, inevitabilmen-


te, quella del breve abbozzo in prosa («Oh quanto a me gioconda»
ecc.) che si sarebbe trovato sullo stesso foglio. Abbiamo già visto, del
resto, che molto probabilmente di nessuno dei due abbozzi è mai esi-
stito l’autografo **, nemmeno un falso autografo.

5. Le due suppliche a Pio VII e la lettera del cardinale Mattei

Falsi i primi due abbozzi di idilli, non è ancora detto che siano false
anche le suppliche a Pio VII. Anzi, le copie conservate nella Comuna-
le di Recanati e la testimonianza di Domenico Orano che abbiamo cita-
to all’inizio del paragrafo precedente possono far supporre che le due
suppliche s e n z a g l i a b b o z z i d i i d i l l i siano autentiche.
Ma un esame un po’ attento, quale non è stato fatto né dal Moron-
cini né dal Perretti o dagli altri biografi del Leopardi, porta alla con-
clusione che anche le suppliche sono con tutta probabilità false.
Cominciamo col dire che nell’Archivio Vaticano (o eventualmente
nella Biblioteca Vaticana) dovrebbe trovarsi la bella copia della sup-
plica per l’impiego alla Vaticana, corrispondente alla minuta pubbli-
cata dal Cozza-Luzi; e così pure dovrebbe essere conservata o in qual-
che modo registrata la domanda per leggere i libri proibiti. Di nessuna
delle due, invece, si è trovata finora alcuna traccia, sebbene parecchi
studiosi, da Domenico Spadoni a Carlo Bandini, a Raffaello Morghen,
a Gellio Cassi, abbiano cercato e trovato documenti leopardiani nel-
l’Archivio e nella Biblioteca Vaticana. Anche le ricerche eseguite, su
mia richiesta, dall’amico Rino Avesani hanno avuto esito negativo. Si
potrebbe, è vero, supporre che la supplica per l’impiego alla Vaticana
sia stata soltanto abbozzata e poi non ricopiata né spedita; ma la let-
tera del cardinale Mattei, che esamineremo tra poco, rende assai im-
probabile tale ipotesi.
Sia il Cozza-Luzi, sia colui che eseguì la copia oggi conservata a
Recanati indicarono varie correzioni che si sarebbero trovate nella
minuta autografa.35 Non sempre le loro indicazioni coincidono: ciò

35
iLa copia recanatese reca all’inizio questo titolo: «Copia dell’istanza con le correzioni come
si trovano».
208 V. Di alcune falsificazioni di scritti leopardiani

non meraviglia, se si considera che anche i Pensieri vaticani furono


riportati dal Cozza-Luzi con parecchie inesattezze; e altre inesattez-
ze avrà compiuto l’altro trascrittore. Ecco, comunque, il testo con le
varianti riportate in nota:36
B(eatiss)mo Padre
Giacomo figlio del conte Monaldo37 Leopardi di Recanati avendo piena conoscen-
za delle lingue greca e latina38 e di altre moderne potendo offrire saggio della sua
perizia in fatto di bibliografia39 chiede di essere ammesso in cotesta biblioteca Vati-
cana. Che se la giovine età facesse ostacolo, è da osservare40 che il più delle volte
l’ingegno unito al senno avvantaggia l’età, e se modestia mel consente, potrei
anch’io dire41 in brevi explevi tempora multa. Che della grazia tanto spera.

Chi abbia pratica dell’epistolario leopardiano e, più in generale, del-


lo stile delle «suppliche» rivolte ad autorità nel primo Ottocento,
resta sorpreso dal tono scarsamente cerimonioso e deferente di que-
ste righe. Il Leopardi ebbe in seguito occasione, nel ’21 e ancora nel
’23 e nel ’25, di sollecitare raccomandazioni per ottenere un posto di
«scrittore» alla Vaticana e un impiego all’Accademia di Belle Arti di
Bologna. Si rileggano le lettere che a tale scopo egli scrisse, per esem-
pio, il 30 marzo 1821 al Perticari e al Mai, il 15 agosto 1823 [e già
prima, nel marzo (lett. 258, p. 409 Flora)] al cardinale Consalvi, il 3
agosto 1825 al Bunsen: si vedrà come in tutte ricorrano insistenti
quelle dichiarazioni di esagerata umiltà che non erano, in quell’epo-
ca **, una manifestazione di servilismo, ma un ingrediente d’obbli-
go in qualsiasi sollecitazione di un favore. «S. Em. non mi conosce se
non per quell’uomo oscurissimo e sconosciutissimo ch’io sono effet-
tivamente ...». «È sempre grave il domandare (...). Ma molto più se
chi domanda non ha diritto nessuno al benefizio (...), qual è ora il
caso mio». «Io non mi sarei mai potuto indurre a molestare V. S. con
questa preghiera, e a cimentare la sua benignità con questa forse

36
iRacchiudo tra parentesi {tonde} ciò che il Leopardi avrebbe cancellato: indico con R. e
con C.-L rispettivamente la copia recanatese e l’edizione del Cozza-Luzi. Trascuro poche diver-
genze di interpunzione o di grafia del tutto insignificanti.
37
iLe parole «figlio del conte Monaldo» sarebbero aggiunte sopra il rigo.
38
i«della lingua greca e latina» C.-L., che annota: «Prima avea scritto greco»; «(dell’idioma)
delle lingue greca latina» R.
39
i«(biblioteche) bibliografia» R. e, press’a poco, anche C.-L.
40
i«ostacolo, è da (pensare) osservare» C.-L.: «(difetto) ostacolo è pur vero» R.
41
i«dire anch’io» R.
V. Di alcune falsificazioni di scritti leopardiani 209

temeraria e presuntuosa confidenza, se ...». «Io son uomo da nulla


...». «Mi feci animo di rappresentare in quel foglio all’Em. V. i debo-
li studi da me fatti nelle lingue antiche e negli antichi classici, le
ristrettezze della mia famiglia ...». «E mirando all’alta generosità del-
l’Em. V. più che alla mia insufficienza e piccolezza ...». «Io non pos-
so dissimulare a me stesso la piccolezza delle mie forze, e questa mi
spaventa ...». Questo florilegio si potrebbe allungare ancora di mol-
to senza alcuno sforzo. Niente di tutto ciò nella supplica pubblicata
dal Cozza-Luzi (la quale, si noti, sarebbe stata rivolta non ad abati o
a cardinali, ma addirittura al Papa): qui lo sbrigativo tono protocol-
lare, da domanda «in carta da bollo», è interrotto soltanto, non da
un’espressione di modestia, ma di orgoglio: il Leopardi, senza tanti
complimenti e con una certa saccenteria gnomica, si dichiarerebbe
fornito di «ingegno unito al senno» e applicherebbe a se stesso, assai
poco a proposito, il versetto del Liber sapientiae biblico (4, 13) in cui
si dice che la morte dell’uomo giusto, anche se avviene nel fiore del-
l’età, non è mai da compiangere come immatura: Consummatus in
brevi explevit tempora multa.
Che cosa, poi, chiederebbe il Leopardi? «Di essere ammesso in
cotesta biblioteca Vaticana». Una simile frase andrebbe benissimo per
una di quelle richieste che tuttora deve compilare chi voglia f r e
q u e n t a r e , come studioso, la Vaticana ; ma è del tutto inaudita
come domanda di i m p i e g o alla Vaticana. E di quale impiego si
sarebbe trattato? Secondo il Cozza-Luzi (AL, I, pp. 3 sg.), non deIl’im-
piego di «scrittore», al quale più tardi, nel ’21, il Leopardi aspirò
effettivamente, ma del posto di Primo Custode, cioè, come oggi si
direbbe, di Prefetto della Vaticana: quel posto che era stato sempre
conferito ad alti prelati o ad uomini, comunque, già maturi e noti nel
campo dell’erudizione, e che proprio nell’autunno del ’19 sarebbe sta-
to dato a monsignor Angelo Mai. Che il Leopardi appena ventenne
chiedesse per sé quel posto, e lo chiedesse con un’espressione così vaga
da riuscire incomprensibile, è fuori di ogni verosimiglianza.
Si dirà che il Cozza-Luzi si è sbagliato a interpretare il documento,
e che in realtà il Leopardi non mirava al posto di Primo Custode, ma
ad un impiego secondario. Senonché, insieme a quella minuta, il Coz-
za-Luzi pubblicò anche (AL, I, p. 4) una lettera che sarebbe stata invia-
ta al Leopardi dal cardinale Alessandro Mattei, suo lontano parente.
Eccone il testo, di cui si trova copia anche alla Comunale di Recanati:
210 V. Di alcune falsificazioni di scritti leopardiani

Giacomino Carissimo
Ho tentato tutte le vie immaginabili, ò42 spesa tutta la mia influenza; ma essendo
troppo conosciuta la persona a voi pure nota, e della quale mi pare abbiate concor-
so anche voi a far accrescere43 l’estimazione, non sono riuscito a favorirvi nono-
stante i vostri meriti: ma badate, dico per questa volta, perché ostacoli sì seri non
si presenteranno44 più, né voi potrete con altri temere di essere posposto. Gradite i
miei saluti e di tutti di casa e ricordatevi di pazientare. Sempre tutto45 vostro A.
Card. Mattei.

La «persona a voi pure nota» non può essere che Angelo Mai, come
intende anche il Cozza-Luzi. Se la lettera è autentica, la vicenda non
può che essere ricostruita così: il Leopardi nel ’19, sapendo che è
vacante il posto di Primo Custode della Vaticana, fa domanda per
averlo; il posto viene invece conferito ad Angelo Mai (autunno del
1819), fin allora ** [«dottore»] della Biblioteca Ambrosiana; il cardi-
nale Mattei, a cui il Leopardi era stato raccomandato da Monaldo o da
Carlo Antíci, gli fa sapere che purtroppo non c’è niente da fare: il Mai
era troppo noto e perciò gli è stato preferito; del resto, non aveva lo
stesso Giacomo contribuito ad «accrescerne l’estimazione»?
Quest’ultimo accenno, ci spiega il Cozza-Luzi (p. 4), si riferisce alla
Canzone ad Angelo Mai: «Egli pure avea applaudito con un lodatissi-
mo inno alle scoperte che levarono tanto grido in tutto il mondo,
quando Angelo Mai trovò ne’ palinsesti delI’Ambrosiana di Milano
alcuni frammenti dei perduti libri De Republica di Cicerone».
Disgraziatamente, come tutti sanno (e certo doveva saperlo benis-
simo anche il Cozza-Luzi, fedele allievo del Mai, ma la distrazione gli
giocò un brutto tiro), il Mai non scoprì il De re publica di Cicerone
all’Ambrosiana di Milano, ma alla Vaticana, verso la fine del ’19, poco
dopo aver preso possesso della sua nuova carica di Primo Custode. Il
Leopardi ebbe notizia della scoperta ai primi del ’20,46 scrisse la can-
zone Ad Angelo Mai in quello stesso mese e la pubblicò alla fine di giu-
gno. La lettera del cardinale Mattei, invece, presuppone la canzone al

42
i«immaginabili ed ò» C.-L. – La grafia ò per ho (che si trova sia nel Cozza-Luzi, sia nella
copia recenatese, e doveva quindi trovarsi nel presunto autografo) è, se non sconosciuta, molto
rara nel primo Ottocento.
43
i«a far accrescere» R.; «a crescere» C.-L.
44
iC.-L. omette «sì» prima di «seri» e scrive «si ripeteranno».
45
iR. omette «Sempre tutto».
46
iCfr. G. Gervasoni, Leopardiana: G. Leopardi nei suoi rapporti con A. Mai, Bergamo 1934,
p. 83; e la lettera del Leopardi al Mai del 10 gennaio 1820.
V. Di alcune falsificazioni di scritti leopardiani 211

Mai già scritta e divulgata nel ’19, prima che il Mai diventasse Primo
Custode della Vaticana. Dunque, essa è falsa.
Che il Mattei, invece che alla canzone al Mai, alluda ad altri scrit-
ti precedenti del Leopardi che prendevano lo spunto da qualche sco-
perta dell’abate bergamasco (le traduzioni di Frontone e di Dionigi
d’Alicarnasso, la Lettera sull’Eusebio), non è possibile. Le traduzioni
rimasero inedite, e non si poteva perciò allora dire che avessero con-
tribuito ad accrescere la fama del Mai;47 la Lettera sull’Eusebio, appe-
na terminata, non era stata ancora vista da nessuno, e solo nel ’23 il
Leopardi la pubblicherà in una redazione assai rimaneggiata.
Altrettanto priva di senso, a guardar bene, è quella precisazione:
«Ma badate, dico per questa volta, perché ostacoli sì seri non si pre-
senteranno più, né voi potrete con altri temere di essere posposto».
Come se il concorso per il posto di Primo Custode si tenesse ogni due
o tre anni, e ci fosse quindi speranza, per il Leopardi, di vincerlo la
prossima volta!
A questa lettera, e precisamente alla frase «... mi pare abbiate con-
corso anche voi a far accrescere l’estimazione» il Leopardi avrebbe
aggiunto di sua mano, secondo il Cozza-Luzi (AL, I, p. 5), la seguente
postilla (di cui non c’è traccia nella copia recanatese): «Ben mi sta –
incidi in foveam quam mihi feci». A parte l’insulsaggine della postilla nel
suo insieme, si noti che anche qui, come nella supplica per l’impiego
alla Vaticana, il Leopardi avrebbe utilizzato a sproposito una citazio-
ne biblica. È frequente nella Bibbia l’immagine di chi cade nella fossa
da lui stesso scavata, cioè di chi rimane vittima dell’insidia che egli ha
teso a d a l t r i : incidit in foveam quam fecit (Psalm., 7, 16); foderunt
ante faciem meam foveam et inciderunt in eam (Psalm, 56, 7); qui fodit
foveam incidet in eam et qui volvit lapidem revertetur ad eum (Prov., 26,
27); et qui foveam fodit incidet in eam et qui statuit lapidem proximo
offendet in illo (Eccles., 27, 29). Ma che diavolo può ignificare incidi in
foveam quam m i h i feci? Il Cozza-Luzi parafrasa: «... crede di esser
caduto nella fossa scavata colle sue mani»; ma evidentemente mihi non
può significare che «per me», e allora la frase è priva di senso.

47
iGiovanni Labus, in un articolo non firmato apparso nella «Biblioteca Italiana» a. I, vol. III
(1816), pp. 428-30, aveva accennato di sfuggita alla «traduzione inedita (di Frontone) già com-
piuta dal conte Leopardi», senza aggiungere altro. Non bastava certo questo accenno a poter dire
che il Leopardi aveva «concorso a far accrescere l’estimazione» del Mai così da favorire la sua
chiamata a Roma.
212 V. Di alcune falsificazioni di scritti leopardiani

Ricordiamo, del resto, che sia la lettera del cardinale Mattei, sia la
supplica per la Vaticana provengono, come fu accertato nel 1899, da
una fonte estremamente sospetta: il noto falsario don Oliviero Jozzi
(vedi sopra, ** pp. 188-189 e n. 8). Lo scopo di un falsario può esse-
re semplicemente quello di guadagnar soldi o rinomanza; ma questi
documenti rivelano anche un sottinteso «ideologico». La supplica al
Papa ci presenta un Leopardi orgoglioso, che si dichiara fornito di sen-
no e di ingegno in abbondanza e si paragona al «giusto» della Bibbia.
Viene subito in mente il famigerato Idillio alla Natura, in cui, come ve-
demmo, il presunto Leopardi si attribuiva «quante doti ingegno adu-
nar puote». È sempre il tema dell’orgoglio generatore di ateismo e
quindi di infelicità, che ritorna in tutti gli Appunti del Cozza-Luzi. Né
deve meravigliare che questo motivo appaia in un documento che non
fu fabbricato dal Cozza-Luzi in persona, ma, con tutta probabilità,
dallo Jozzi. Si tratta, infatti, di un’interpretazione del Leopardi lar-
gamente diffusa nell’ambiente clericale dell’epoca. Pochi anni prima,
nel 1894, il frate agostiniano Nicola Mattioli l’aveva svolta in termi-
ni quasi identici a quelli usati poi dal Cozza-Luzi.48 Nemmeno si può
escludere che la falsificazione sia stata «concordata» tra il Cozza-Luzi
e lo Jozzi. ** Quanto alla lettera apocrifa del Cardinale Mattei, essa
mira a far vedere che il Vaticano – contrariamente a quanto asseriva-
no, con ragione, ** i leopardisti anticlericali – non aveva ostacolato
le aspirazioni del Leopardi: gli aveva soltanto raccomandato di pazien-
tare per un poco! Commenta il Cozza-Luzi: «Se non avesse avuto a
competitore quel famoso Mai è certo che il Leopardi sarebbe stato il
successore degli Allacci ed Assemani. E poi quale splendida riuscita
poteva da lui attendersi, e quanta soddisfazione per quella mente e per
quel cuore impaziente. Vien esortato dallo zio a pazientare, ma non
pazientò ...». E a proposito del «ben mi sta» con cui il Leopardi avreb-
be postillato la lettera del Mattei: «Quasi sembra qui pentirsi della
splendida poesia ... Quante volte il triste pentimento ritornò a tur-
bargli la mente negli anni futuri!». Naturalmente, questo episodio ser-
viva anche a interpretare in senso antileopardiano il posteriore screzio
fra il Leopardi e il Mai, su cui già allora si discuteva molto.49
48
iVedi Il Trionfo della Croce. Ragionamento inedito di Giacomo Leopardi pubbl. sull’auto-
grafo da N. Mattioli, Roma 1894, pp. 8-10.
49
iSulle polemiche fra clericali e anticlericali di fine Ottocento a proposito del dissidio Leo-
pardi-Mai cfr. {«Angelo Mai», in «Aspetti e figure della cultura ottocentesca» – N. d. C.}, p. 267;
V. Di alcune falsificazioni di scritti leopardiani 213

Possiamo anche individuare nell’epistolario leopardiano gli spunti


da cui il falsario prese le mosse. Nel 1818-19 Carlo Antíci e il Gior-
dani si erano effettivamente informati se per il Leopardi vi fosse una
possibilità d’impiego alla Vaticana. Avevano saputo che non era
vacante alcun posto secondario, ma solo quello di Primo Custode, a
cui evidentemente il Leopardi non poteva aspirare. In una lettera del
5 gennaio 1819 il Giordani scriveva: «Senza adulazione vi dico, che
voi Giacomino non siete punto inferiore a qualunque più alto luogo
possa darsi all’ingegno e al sapere; ma confesso che l’obiezione degli
anni è impossibile a vincere: e chi vorrà credere che di 20 anni uno
sappia quanto i dottissimi di 40? Dunque non si può pensare alla Vati-
cana». Questo passo, che sul finire dell’Ottocento si poteva già leg-
gere nell’edizione dell’Epistolario del Leopardi a cura di Prospero Via-
ni,50 ha invogliato il falsario a immaginare un Leopardi che non dà
retta a questi saggi consigli, ma presume di avere tanto ingegno e tan-
ta dottrina da compensare ad usura la giovane età. L’idea, poi, di far
intervenire il cardinale Mattei gli fu suggerita da altri due passi del
medesimo epistolario: uno del Giordani, che nella stessa lettera del 5
gennaio chiedeva: «II cardinal Mattei che può tanto per far del male,
non potrà per far un bene, che infine gli sarebbe gloriosissimo?» (allu-
dendo non al posto di Primo Custode della Vaticana, ma ad un impie-
go minore); l’altro del Leopardi, che il 18 gennaio rispondeva: «Dite
voi, non ci sarebbe il Card. Mattei? Non si potrebbe? Non sarebbe
facile? Se ci fosse volontà sincera ed efficace in uno solo di quelli che
ci hanno in potere, certo che non sarebbe impossibile ...». Implicita-
mente accusato da queste parole del Giordani e del Leopardi, il car-
dinale usciva assolto dalla lettera pubblicata dal Cozza-Luzi: aveva
fatto tutto il possibile; la colpa era del carissimo Giacomino che non
aveva voluto aver pazienza.
Un discorso molto più breve, per fortuna, si può fare sull’altra sup-

G. Gervasoni ne «L’eco di Bergamo» del 10 maggio 1956; P. Treves in «Rendic. Istituto Lom-
bardo» 1958, p. 413 e n. 24. Dell’episodio che dette origine al risentimento del Leopardi verso
il Mai parla anche il Cozza-Luzi, AL V, pp. 75-77.
50
i5ª ristampa, Firenze 1892, III, p. 142 sgg. (= ediz. Moroncini, I, p. 208 sg.). Cfr. E. Zer-
bini, A. Mai e G. Leopardi, nel volume collettivo Nel primo centenario di A. Mai, Bergamo 1882,
p. 107. Un’altra lettera, di Carlo Antíci, che svolgeva considerazioni analoghe a quelle del Gior-
dani, non era ancora nota a quell’epoca (fu pubblicata solo nel 1932 da G. e R. Bresciano e poi,
integralmente, dal Moroncini, I, p. 198 sg.).
214 V. Di alcune falsificazioni di scritti leopardiani

plica a Pio VII, quella per leggere i libri proibiti. Eccone il testo, qua-
le risulta non solo dagli Appunti del Cozza-Luzi e dalla copia nella
Comunale di Recanati, ma anche dalla riproduzione fotografica del
documento pubblicata, come abbiamo detto, dall’Antonielli:51
B(eatissi)mo Padre
Giacomo Leopardi figlio del Conte Monaldo di Recanati dovendo consultare per i
suoi studi diverse opere, specialmente filosofiche, chiede nuova facoltà di poter leg-
gere libri di ogni specie; giacché anche gli stessi veleni riescono talvolta potentissi-
mi rimedi, cosí per poter combattere vittoriosamente gli avversari fa duopo cono-
scere le armi con le quali aggrediscono.
Che della grazia

La riproduzione fotografica rivela chiaramente che la scrittura è con-


traffatta. Si notino in particolare: 1) gli accenti acuti di giacché e cosí
(mentre il Leopardi usò l’accento «sempre grave in fin di parola, e sol-
tanto, rare volte, acuto nel mezzo della parola, quando l’accento pote-
va essere utile ad evitare un equivoco di significato»);52 2) il trattino
semplice per dividere le parole in fin di riga, che si ritrova, come abbia-
mo visto, nei Pensieri vaticani ugualmente falsi (cfr. pp. 193-194 **);
3) la R di Recanati, con quel ghirigoro con cui termina in basso l’asta
verticale. Ma anche altre lettere, come la f, a un attento confronto si
dimostrano diverse da quelle della genuina scrittura leopardiana.
Certo, una supplica non autografa non è necessariamente una sup-
plica falsa: anche tra le carte napoletane è conservata una domanda del
1° luglio 1825 per leggere i libri proibiti, non scritta e con tutta pro-
babilità neppure dettata dal Leopardi53 e tuttavia certamente voluta
da lui. Ma la scrittura del documento edito dal Cozza-Luzi, mentre
non è certamente del Leopardi, dimostra l’indubbia intenzione di so-

51
iVedi qui sopra, ** nota 17 e tav. I, b. Nella riproduzione fotografica non è inclusa l’in-
testazione «B.mo Padre», e manca anche il retro del documento, col rescritto del cardinale
Consalvi.
52
iCosì giustamente il Flora, ed. dello Zibaldone, I, p. 1555. Cfr. Moroncini, ed. dei Canti,
I, pp. LXVII-LXIX, e delle Operette, I, p. LXIII e n. 2.
53
iNapoli, Bibl. Nazionale, carte leopardiane, XIII 35. La scrittura è chiaramente non leo-
pardiana; aggiungo «neppure dettata», perché mi pare difficile che il Leopardi, tra i lavori eru-
diti già compiuti, menzioni «le sue annotazioni alla Storia Ecclesiastica (invece che alla Crona-
ca) di Eusebio». Sembra più probabile che il Leopardi abbia incaricato qualcuno di scrivergli la
supplica, e che costui ** (non un ignorante ma un semi-dotto o uno sbadato) abbia sostituito
per errore il titolo della più nota opera di Eusebio a quello di una meno nota.
V. Di alcune falsificazioni di scritti leopardiani 215

migliarle il più possibile. Anche questo documento, poi, proviene dal


solito Oliviero Jozzi. E ancora bisogna notare la singolarità di quella
motivazione («giacché anche gli stessi veleni» ecc.) che mentre non
corrisponde, che io sappia, allo stile formulare con cui venivano di so-
lito redatte queste domande, trova invece riscontro nella sentenziosità
della supplica per l’impiego alla Vaticana («è da osservare che il più
delle volte l’ingegno unito al senno» ecc.).
Dal Cozza-Luzi e dalla copia recanatese apprendiamo che la sup-
plica conteneva a tergo il seguente rescritto: «Ex audientia SS.mi die
13. Aug. 1819. Renovatur Clerico Iacobo Leopardi licentia legendi
libros prohibitos exceptos tamen eos ex professo contra bonos mores.
H. Card. Consalvus». Quell’exceptos ... eos per exceptis ... eis è un bel-
lo strafalcione di latino che, forse, si può attribuire con più facilità alla
distrazione di don Oliviero Jozzi che agli impiegati della segreteria
vaticana, i quali, non foss’altro che per la lunga abitudine, un mini-
mo di perizia nello scrivere queste formule protocollari l’avranno avu-
ta. Ma di ciò potrà giudicare con più sicurezza qualche studioso più
pratico di quegli ambienti.
Abbiamo già detto (p. 197 sg. **) che lo Jozzi aveva mostrato ad
altri le due suppliche, prima di darle da pubblicare al Cozza-Luzi; e
altrettanto avrà fatto con la lettera apocrifa del cardinaIe Mattei.
Qualcuno di coloro a cui egli le mostrò ne avrà tratto le copie che sono
oggi possedute dalla Comunale di Recanati.

6. Gli altri abbozzi dell’«Infinito»

Da «un altro foglio, che pure è autografo», il Cozza-Luzi pubblicò


(AL, II, pp. 30-32) gli abbozzi che nell’edizione del Flora (PP **, I, p.
376 sg.) figurano come terzo e quarto. Dopo la primissima traccia in
prosa dell’Infinito e la deviazione rappresentata dall’Idillio alla Natu-
ra, il Leopardi avrebbe ripreso il primitivo concetto facendone un’al-
tra stesura in prosa e quindi una stesura in versi già molto simile alla
definitiva.
Di questi due ultimi abbozzi, come già sappiamo, ricomparve nel
1951 l’«autografo», acquistato da Gaspare Casella (vedi p. 190 ** e
tav. II, a-b). Che esso sia il medesimo di cui parla il Cozza-Luzi, risul-
ta chiaramente dall’articolo già citato di De Robertis e dalla riprodu-
216 V. Di alcune falsificazioni di scritti leopardiani

zione fotografica. Si tratta – come aveva detto il Cozza-Luzi e come


confermò il De Robertis – di un foglio recante nella filigrana lo stem-
ma della Reverenda Camera Apostolica, le iniziali della medesima
(R. C. A.), la data 1817 e la parola «fabbrica». Nella parte superiore
di una delle due facce è scritta una ricevuta notarile (qui non ripro-
dotta). «La data 1817 – dice il Cozza-Luzi – conferma che ben pote-
va quella carta, o mezzo foglio non scritto, esser poi staccato, e nel
1819 adoperato da Giacomo a scrivervi sopra i suoi lavori letterarii,
come pur si vede in altri autografi del medesimo». Giustissimo; ma è
altrettanto vero che un falsario (specialmente un falsario che bazzi-
casse gli ambienti archivistici ed ecclesiastici romani) «ben poteva»
procurarsi una ricevuta notarile del 1817 e utilizzarla per dare appa-
renza di genuinità alla propria contraffazione. La carta usata, dunque,
non dice nulla né pro né contro.
La scrittura, ancora una volta, ha parecchi elementi di non auten-
ticità. Nell’abbozzo in prosa ritroviamo il trattino semplice per la divi-
sione di parola in fine di riga (im-petuoso); la z ha una forma goffa-
mente tondeggiante, assai diversa dalle due forme fondamentali della
z leopardiana; la L (nel titolo L’infinito) è formata di due tratti molto
più rettilinei che nelle scritture leopardiane (dove, inoltre, il tratto
inferiore è fortemente inclinato verso il basso, non orizzontale come
qui); tutta la scrittura ha un andamento impacciato. Nell’abbozzo in
versi, invece, appare evidente l’intenzione di simulare una grafia fret-
tolosa, mentre la scrittura leopardiana – anche negli abbozzi poetici,
come negli appunti filologici e nello Zibaldone – è sempre calma, sen-
za quel carattere tachigrafico che hanno per lo più i nostri appunti;
inoltre il D iniziale del terzo verso pare di forma minuscola, mentre
nella scrittura del Leopardi questa lettera ha, a differenza di altre, due
forme ben distinte per la maiuscola e per la minuscola.
Anche l’autenticazione che si trova in fondo all’abbozzo in versi
(«È il Carattere di Giacomo – Paolina Leopardi») non assomiglia
affatto ad altre scritture di Paolina,54 ed è invece, secondo ogni appa-
renza, della stessa mano che ha tracciato l’abbozzo in versi. Se, a sua
volta, l’abbozzo in prosa provenga dalla stessa mano dell’abbozzo in
54
iVedi per esempio il brano di lettera di Paolina riprodotto in facsimile nel numero unico
A Giacomo Leopardi, XV Giugno MDCCCLXXXVI (stampato a Città di Castello, Lapi), p. 2; e
la lettera autografa del 15 dicembre 1864 a Felice Le Monnier nella Biblioteca Nazionale di
Firenze, carteggio Le Monnier, cass. 28, num. 38.
V. Di alcune falsificazioni di scritti leopardiani 217

versi, non è del tutto sicuro; tuttavia il loro diverso aspetto può deri-
vare semplicemente, anziché da differenza di mano, da differenza di
«corsività»: mi conferma in questa opinione l’autorevole parere di
Augusto Campana **.
Per quanto riguarda il contenuto e lo stile, è evidente che qui il fal-
sario si trovava molto agevolato, perché la necessità di inventare era
ridotta al minimo: bastava seguire la falsariga dell’Infinito leopardiano,
peggiorandone qua e là il testo. Non ci sono e non possono esserci, dun-
que, in questi due abbozzi le colossali gaffes dell’Idillio alla Natura, del-
la supplica per la Biblioteca Vaticana e della lettera del cardinale Mat-
tei. Eppure è, a mio parere, molto improbabile che nell’abbozzo in
prosa, dopo avere scritto: «... questo verde lauro che gran parte cuopre
dell’ o r i z z o n t e allo sguardo mio», il Leopardi possa aggiungere:
«Lunge spingendosi l’occhio gli si apre dinanzi interminato spazio
vasto o r i z z o n t e per cui si perde l’animo mio»: adopri, cioè, la
parola «orizzonte» prima nel senso proprio di confine apparente tra
cielo e terra, subito dopo nel senso lato di «veduta dello spazio». Ciò
è tanto più inverosimile in quanto l’orizzonte è una parola-chiave e un
concetto-chiave dell’Infinito: l’idea e la sensazione delI’infinito sono
suscitate proprio dalla non visibilità dell’orizzonte **.55 Goffaggini sti-
listiche e concettuali insieme sono anche le espressioni «Caro luogo a
me sempre fosti b e n c h é ermo e solitario» (come se al Leopardi, e
a tutta una tradizione sentimentale e letteraria anteriore a lui, fossero
cari generalmente i luoghi frequentati e chiassosi) e «nella amica quie-
te par che si riposi s e p u r spaura» (dove ritorna una frase concessi-
va poco a proposito, e dove al posto della «profondissima quiete» degli
spazi celesti abbiamo un’«amica quiete» che sembrerebbe piuttosto
riferirsi all’ermo colle, a ciò che circonda immediatamente il poeta).
Nell’abbozzo in versi, che sarebbe già vicinissimo ai vv. 1-11 del-
l’Infinito, due correzioni appaiono molto strane. A primo verso il Leo-
pardi avrebbe scritto «Sempre caro mi è quest’ermo colle», e soltanto
dopo avrebbe corretto «è» in «fu». Domandiamoci se è verosimile che,
dopo avere usato il passato remoto nei due abbozzi in prosa («quanto
cara f u m m i ...», «Caro luogo a me sempre f o s t i »), il poeta abbia
pensato, sia pure per un momento solo, a quel «mi è», che da un lato

55
iSi ripete, in certo modo, l’ambiguità dell’abbozzo I, dove apre / copre presuppongono due
diversi significati di «orizzonte»: cfr. qui sopra, p. 198 e nota 25.
218 V. Di alcune falsificazioni di scritti leopardiani

lega male ** con «sempre», dall’altro crea un iato dei più sgradevoli
e inconsueti (nella tradizione di linguaggio poetico a cui il Leopardi
appartiene si scrive «m’è», non certo «mi è» misurato come due diver-
se sillabe). Ai versi 2-3 la prima stesura recherebbe: «... che da tanta
parte De l’ultimo orizzonte il guardo s p a r t e» (corretto poi in
«esclude»): del tutto improprio l’uso di «spartire» in quel contesto, e
assai poco credibile il bisticcio ** «parte – sparte», entrambi in fin di
verso. Devo aggiungere che anche il verso 6 «Silenzi e interminabil
quiete» (che il Cozza-Luzi stampò in forma «emendata»: «Silenzi, e
interminabile quiete») mi lascia perplesso. Certo, se non avessimo
altri indizi di falsificazione, dovremmo concludere con De Robertis
(Saggio cit., p. 151) ** che il Leopardi osò un’ardita dialefe. Ma a chi,
ora, ricordi i versi ametrici dell’Idillio alla Natura e le pietose rabber-
ciature del Cozza-Luzi, non parrà inverosimile che anche in questo
abbozzo il falsario abbia voluto introdurre un verso zoppicante; e for-
se il Cozza-Luzi si dimenticò di notare esplicitamente la sua correzio-
ne di «interminabil» in «interminabile», un altro dei tanti soccorsi da
lui prestati all’inferma metrica leopardiana!
Ancora: dell’Infinito possediamo, come è noto, due autografi, uno
tra le carte napoletane, con alcune correzioni, l’altro conservato nel
Municipio di Visso, quasi privo di correzioni e certamente posterio-
re.56 Ora si osservi il comportamento del nostro abbozzo – che, ripe-
tiamo, contiene i soli versi 1-11, fino a «Vo comparando» – nei con-
fronti delle correzioni dell’autografo napoletano:
Abbozzo del Cozza-Luzi Autografo napoletano Autografo napoletano corretto Autografo di Visso
prima della correzione

De l’ultimo orizzonte Del celeste confine ** De l’ultimo orizzonte57 De l’ultimo orizzonte


interminato un infinito interminato interminato
tra queste fra queste tra queste tra queste

Tutte e tre le volte il Leopardi, dopo avere innovato passando dal-


l’abbozzo all’autografo napoletano, sarebbe ritornato sui propri passi.

56
iVedi l’edizione critica dei Canti a cura del Moroncini, I, p. XXX sg.; II, p. 400 sgg. Sugli
autografi leopardiani di Visso (già posseduti da Prospero Viani) cfr. A. Lesen, L’archivio del
comune di Visso ecc., in «Convivium» X (1938), p. 361 sgg.
57
i| Questa correzione compare per la prima volta nel Supplemento generale a tutte le mie carte
(Firenze, Bibl. Nazionale, Banco rari 342, inserto 11, 1): cfr. A. Monteverdi, Frammenti critici
leopardiani2, Napoli 1967, p. 149) |.
V. Di alcune falsificazioni di scritti leopardiani 219

Ciò non è inverosimile di per sé: anche nel penultimo verso dell’In-
finito il Leopardi ha oscillato tra «immensità» («immensitade») e
«infinità», anche al verso 8 delle Ricordanze corresse nell’autografo
«Creommi» in «Mi creò» e poi ritornò a «Creommi». Ma poco cre-
dibile è che tutte e tre le correzioni che si trovano in così pochi versi
** dell’autografo napoletano siano ritorni ad una lezione precedente.
La stranezza scompare quando si sappia che, al tempo in cui furono
pubblicati gli Appunti leopardiani, le carte napoletane – e quindi l’au-
tografo dell’Infinito tra esse contenuto – erano ancora inaccessibili,
mentre l’autografo di Visso era stato pubblicato in facsimile già da
tempo, nell’edizione degli Studi filologici a cura di Pietro Pellegrini e
Pietro Giordani.58 Il falsario, perciò, nel fabbricare l’«abbozzo» ebbe
come unico punto di riferimento l’autografo di Visso: non poté imma-
ginare che nella precedente redazione, rappresentata dall’autografo di
Napoli, vi fossero quelle tre varianti.
Bisogna aggiungere, per completezza, che in quegli anni di fine Otto-
cento esisté ancora un altro abbozzo in prosa dell’Infinito. Narra Dome-
nico Orano nel «Don Chisciotte di Roma» del 27 novembre 1899:
Lo Jozzi (il prete falsario già da noi ricordato più volte) aveva pure ceduto al senatore
Filippo Mariotti una minuta dell’Infinito che fu dichiarata falsa da quanti la vide-
ro. L’esaminai anch’io come la esaminarono il professor commendatore Giuseppe
Chiarini e il professor Mario Menghini e tutti fummo concordi nel riconoscerne la
grossolana, ed io aggiungo, puerile contraffazione. Ora basta dare un’occhiata alla
minuta suddetta ed alle tre carte dei pensieri famosi (i Pensieri vaticani) per accor-
gersi che la stessa mano vergò l’una e gli altri.

Di quell’abbozzo l’Orano riproduceva in quello stesso giornale un


facsimile, contenente questo testo (tra parentesi {tonde} le parole can-
cellate):
e sovrumani silenzi e (dolcissima) profonda quiete io nel mio pensiero mi fingo ove
per poco il cuore non si spaura. E siccome l’impetuoso vento sibila e rovinoso (scuo-
te) flagella l’annosa selva, io quell’infinito silenzio a cotal voce paragono e mi sov-
vien l’eterno e le passate stagioni e la presente e viva e il suon di lei. Così nell’infi-
nito s’annega il pensier mio.

58
iFirenze, Le Monnier, 1845 (e successive ristampe), di contro al frontespizio. Da questo
facsimile deriverà anche l’intestazione Idillio / MDCCCXIX / L’Infinito, con quella data in solen-
ni cifre romane che appare fuor di luogo in un abbozzo, e che invece è al suo posto nella «bella
copia» di Visso, in cui è riferita a tutto il quadernetto degli Idilli (Idilli / MDCCCXIX / L’infini-
to / Idillio I).
220 V. Di alcune falsificazioni di scritti leopardiani

Dopo avere abbozzato in prosa e quindi composti i versi 1-11, il


Leopardi sarebbe tornato a scrivere un abbozzo in prosa (anche di una
parte che aveva già versificato!) spingendosi quasi fino alla fine: man-
cherebbe ancora il concetto dell’ultimo verso. Che, anche nella com-
posizione di poesie molto più lunghe e complesse, il Leopardi non
abbia mai compiuto questo andirivieni di prosa e versi, questa ver-
sifìcazione un pezzetto per volta, non c’è bisogno di osservare. Il fac-
simile, che noi qui non riproduciamo, conferma pienamente quanto
osserva l’Orano riguardo alla scrittura: ritroviamo ancora una volta il
trattino unico per dividere una parola (pen-siero) e l’andamento impac-
ciato degli altri pseudoautografi. Può darsi che un giorno o l’altro
anche questo pseudoautografo rispunti fuori nel commercio antiqua-
rio. Perché il Cozza-Luzi non l’abbia pubblicato nei suoi Appunti, non
sappiamo: forse lo Jozzi nel frattempo l’aveva già venduto ad altri, o
forse il Cozza-Luzi si rese conto che un eccessivo numero di abbozzi
poteva destare sospetti.
È facile capire come mai lo Jozzi e i suoi eventuali collaboratori
abbiano prediletto l’Infinito nella loro attività falsificatoria. Prima di
tutto, il facsimile dell’Infinito che, come abbiamo ricordato, adorna-
va l’edizione di Pellegrini e Giordani, costituiva allora l’unica ripro-
duzione esistente di un autografo di poesia leopardiana; poter tenere
sott’occhio il facsimile della poesia definitiva rappresentava una gros-
sa agevolazione per il fabbricatore di «abbozzi». Poi ** l’Infinito ave-
va l’altro grande vantaggio di essere la più breve poesia del Leopardi.
Infine, era una delle poche poesie non «empie». Quest’ultimo moti-
vo è messo in rilievo dal Cozza-Luzi: «possiamo fare uno studio della
genesi delle idee su tal soggetto in quella giovine mente a n c o r a
b e n a s s e n n a t a », egli scrive (AL, II, p. 28). E aggiunge subito
uno di quei fervorini sull’utilità pedagogica della critica delle varian-
ti, di cui citammo altri esempi a proposito dell’Idillio alla Natura: «I
cangiamenti, i ritocchi e le espunzioni mostrano ai giovani, come den-
no tormentarsi col lungo lavoro della lima le proprie composizioni.
Anche i più frettolosi e vivi ingegni debbono tenerle a lungo sotto l’e-
same proprio e l’altrui», e via di questo passo.
Adesso, liberata da codeste imposture, la storia dell’Infinito potrà
farsi più rapidamente, sulla sola base dell’autografo napoletano, del-
l’autografo di Visso e delle edizioni curate dal Leopardi.59

59
iSolo su questi testimoni autentici si è fondato il Moroncini nella già citata edizione criti-
V. Di alcune falsificazioni di scritti leopardiani 221

7. I «Discorsi Sacri»

Nella biblioteca di casa Leopardi a Recanati si conservano undici


«discorsi sacri» del Leopardi fanciullo, composti all’incirca tra il 1809
e il 1814 e recitati da lui stesso nella chiesa di S. Vito, in occasione
delle adunanze della Compagnia dei Nobili.60
All’epoca degli Appunti del Cozza-Luzi erano stati già pubblicati tre
di questi discorsi: la Crocifissione e morte di Cristo,61 la Flagellazione62
e il Trionfo della Croce.63 Inoltre un discorso molto più breve, Sopra il
purissimo concepimento della Beata Vergine Maria, era stato edito da
Camillo Antona-Traversi, che l’aveva tratto non dalla biblioteca di
casa Leopardi, ma da un autografo donatogli da un amico.64
Vari ** anni fa è stato pubblicato un altro discorso recanatese, la
Condanna e viaggio del Redentore al Calvario.65 Gli altri sette sono tut-
tora inediti.
Il Cozza-Luzi, dopo avere ristampato la Flagellazione e la Crocifis-
sione (AL, I, pp. 7-16), pubblicò due discorsi nuovi (Il portar della Cro-
ce da N. S. Gesù Cristo al Calvario, in AL, II, pp. 20-23, e Gesù innal-
zato in croce, ivi, pp. 24-27) e un Frammento di un Sermone intorno
l’immacolato concepimento di Maria (AL, III, pp. 47-48) che non è
uguale a quello pubblicato dall’Antona-Traversi.

ca dei Canti. Se ciò significhi che egli abbia ritenuto falsi gli abbozzi pubblicati dal Cozza-Luzi
non si può dire **: dalla sua edizione, infatti, sono generalmente esclusi i semplici abbozzi,
anteriori alla stesura, se non definitiva, almeno compiuta, delle singole poesie.
60
iLe notizie più precise su questi discorsi si trovano nella prefazione di F. Ferri-Mancini alla
Flagellazione (qui sotto, nota 62 **). Molto più sommario e inesatto il catalogo del Cugnoni,
in Leopardi, Opere inedite, I, Halle 1878, p. XXXV sgg.; cfr. anche G. Piergili, Nuovi documenti
intorno agli scritti ed alla vita di G. Leopardi, 3ª ed., Firenze 1892, pp. 175 sgg., 177 n. 1. Non
tutti i discorsi sono autografi.
61
iRecanati 1882, a cura del Comitato delle scuole serali private, omaggio a don M. Bravi-
Pennesi; e ora in PP **, II, p. 1097 sgg.; TO, I, p. 582 sgg.
62
iA cura di F. Ferri-Mancini, Recanati 1885 ( = PP **, II, p. 1100 sgg.; TO, I, p. 751 sgg.).
63
iA cura di N. Mattioli, Roma 1894; omesso, probabilmente per semplice dimenticanza, nel-
le edizioni di Donati, Scarpa **, Flora, Binni-Ghidetti.
64
iNel «Fanfulla della Domenica» del 27 maggio 1888. Scrive l’Antona-Traversi: «L’auto-
grafo – un foglio volante incollato sur un cartoncino – mi fu donato dal chiarissimo bibliofilo
comm. Carlo Lozzi» (da non confondersi col famigerato falsario Oliviero Jozzi!). Non so dove
si trovi adesso tale autografo. Poiché l’Antona-Traversi fu studioso serio e buon conoscitore di
autografi leopardiani, l’autenticità di questo scritto non sembra da mettersi in dubbio. Anch’es-
so è stato trascurato dagli editori delle opere leopardiane.
65
iRecanati 1962 («Quaderni del Casanostra», n. 2).
222 V. Di alcune falsificazioni di scritti leopardiani

Questi nuovi discorsi non fanno parte di quelli che giacciono ine-
diti in casa Leopardi: già abbiamo veduto, del resto, che il Cozza-Luzi
stesso lo escludeva (cfr. sopra, p. 186 **). Dovremmo dunque sup-
porre che fossero giunti al Cozza-Luzi dal commercio antiquario, o
dalle mani di qualche bibliofilo, come era capitato all’Antona-Traver-
si. Ma i tristi precedenti del Cozza-Luzi in fatto di «inediti» leopar-
diani e il suo assoluto silenzio sulla provenienza di tali testi (di cui nes-
suno ha mai visto l’autografo) fanno sospettare che, ancora una volta,
ci si trovi dinanzi a una falsificazione.
Ciò pare confermato da alcuni indizi. Il discorso intitolato Il portar
della Croce da N. S. Gesù Cristo al Calvario è presentato dal Cozza-Luzi
come una diversa redazione di un discorso conservato a Recanati:
«Questo discorso, che nel manoscritto non ha il suo titolo autografo,
presso il Cugnoni (p. XXXVIII) fu intitolato: Gesù Cristo s’avvia al
Golgota colla Croce. Si dice che non vi si trova vergato di pugno del
Leopardi, ma sibbene in copia tra gli scritti di lui. Pare che abbia avu-
to diverso inizio in qualche altra copia, cioè: Giù per le balze del mon-
te di Hai etc., ma questa copia non venne sinora alle nostre mani»
(AL, II, p. 20). In realtà, come si era già accorto il Ferri-Mancini, il
Cugnoni nel suo frettoloso inventario degli autografi recanatesi ave-
va preso un abbaglio: il discorso che incomincia «Giù per le balze del
monte di Hai» non ha per argomento – tranne che nell’esordio – Gesù
che porta la Croce, ma il «trionfo della Croce».66 Dunque il tema che
il Cugnoni aveva attribuito per puro errore a uno dei discorsi recana-
tesi, sarebbe stato invece realmente trattato in un altro discorso leo-
pardiano, rimasto ignoto al Cugnoni e scoperto dal Cozza-Luzi. La
coincidenza non è impossibile (anche perché il numero dei temi adatti
a discorsi sacri non è illimitato), ma appare tuttavia piuttosto sospetta.
Curiose sono anche le somiglianze tra il Frammento di un Sermone
intorno l’immacolato concepimento di Maria e il componimento analogo
pubblicato, come abbiamo detto, dall’Antona-Traversi. Dice il primo:
«Lodiamo, o compagni, la Vergine tutta bellissima, tutta purissima,
il cui celeste candore niuna macchia giammai offuscò»; e il secondo

66
iSi tratta appunto del discorso pubblicato da N. Mattioli (vedi ** sopra, nota 63). Non
pare che il Cozza-Luzi abbia avuto notizia della pubblicazione del Mattioli; ma il curioso è che
dovette sfuggirgli anche l’osservazione del Ferri-Mancini, sebbene egli stesso ne ristampasse
integralmente la prefazione in AL III, pp. 41-45, e la citasse già in AL I, p.7; II, pp. 24, 27.
V. Di alcune falsificazioni di scritti leopardiani 223

incomincia quasi identicamente: «Lodiamo, o compagni, quella Ver-


gine, la più fortunata del mondo, la quale tutta bellissima, tutta puris-
sima, ed illesa dalla comune macchia nasce per ispeciale beneficio del-
l’Onnipotente», e termina: «la cui chiarezza il pestilente alito della
tartarea serpe mai non appannò, non offuscò, non imbrattò». A sua
volta l’accenno alla serpe ritorna in un altro punto (a breve distanza
dal principio) del discorso edito dal Cozza-Luzi: «... e l’infernale ser-
pe, nostro nemico, venne conquiso»; e la frase già citata «il cui cele-
ste candore niuna macchia giammai offuscò» (Cozza-Luzi) ha nel testo
dell’Antona-Traversi, oltre la chiusa, un altro locus similis: «questo è
quel giglio, il cui purissimo candore niun reo mai imbrattò». Dovrem-
mo pensare a due diverse redazioni, leopardiane entrambe, dello stes-
so discorso; o meglio, siccome il testo del Cozza-Luzi finisce in tron-
co («non già come Eva madre dei ...») e quello dell’Antona-Traversi
invece è compiuto, dovremmo ritenere che il primo sia un abbozzo del
secondo. Eppure il fatto che espressioni simili ricorrano i n p u n t i
d i v e r s i dei due discorsi fa piuttosto pensare che il testo del Coz-
za-Luzi sia una consapevole «variazione» di quello dell’Antona-Tra-
versi, eseguita modificando e spostando i singoli pezzetti.
Bisogna, certo, riconoscere che un confronto stilistico tra i discor-
si sicuramente autentici e quelli pubblicati dal Cozza-Luzi non dà
risultati decisivi, perché i discorsi «autentici» sono essi stessi – a giu-
dicare, almeno, da quelli finora pubblicati – dei puri e semplici rie-
cheggiamenti dell’oratoria sacra gesuitica, ispirati da Monaldo o dal
precettore don Sebastiano Sanchini.67 Nessun preannuncio del vero
Leopardi c’è in questi imparaticci: stando così le cose, il concetto stes-
so di autenticità diviene evanescente. Ciò non toglie che alcune dif-
ferenze si possano cogliere. I periodi, per lo più lunghi e complessi nei
discorsi recanatesi, sono assai più brevi in quelli editi dal Cozza-Luzi.
Espressioni pedestri come « s tu f o dei grandi benefizi» (AL, II, p. 21)
o come «rifuggiamo da lui f a c e n d o i s o r d i» (AL, II, p. 25),
sciatterie come «creatura più bella che la somigli per bellezza e can-
dore» (AL, III, p. 47), non hanno riscontro nei discorsi autentici fino-

67
iLo hanno già osservato il Ferri-Mancini e altri studiosi. L’importanza di questi discorsi è
stata certamente esagerata da Mary Emiliozzi in «Aevum» XXIX (1955), p. 282 sg. Non c’è in
essi ancora nulla di quell’impronta personale che avrà poi, dal ’15 al ’20, il cristianesimo giova-
nile del Leopardi.
224 V. Di alcune falsificazioni di scritti leopardiani

ra pubblicati. La differenza, insomma, non è tra uno stile leopardia-


no (che manca anche nei discorsi autentici) ed uno non leopardiano,
ma tra una retorica ecclesiastica più aulica e arcaizzante ed una
alquanto ammodernata e negligente. II Cozza-Luzi stesso, in quel-
l’annata 1898 della «Palestra del Clero» in cui uscirono gli Appunti
leopardiani, pubblicò una serie di suoi propri discorsi Sopra il «Salve
Regina» e vari altri pezzi di oratoria religiosa che per stile e contenu-
to paiono del tutto simili a quelli attribuiti al Leopardi.
Si rimane tuttavia nell’ambito degli indizi, non delle prove. La non
autenticità dei «discorsi sacri» non si può dimostrare con la stessa
sicurezza degli altri testi editi dal Cozza-Luzi. Ma dimostrarla impor-
ta anche assai meno allo studioso del Leopardi.

8. Conclusione

Le falsificazioni di scritti leopardiani che abbiamo esaminato nel


nostro articolo non costituiscono affatto un caso isolato nel secondo
Ottocento. Basta scorrere la Bibliografia leopardiana di Mazzatinti e
Menghini e il Catalogo del fondo leopardiano della Biblioteca Comu-
nale di Milano (1958) per trovarne altri esempi.68 Gli «inediti» del
Cozza-Luzi si trovano ** dunque in buona compagnia; soltanto, sono
stati più fortunati, perché sono riusciti in parte, per le vie che abbiamo
indicato, a insinuarsi nelle edizioni leopardiane e a rimanervi finora.
Tali falsificazioni sono imputabili, più che a generica disonestà, ad
arretratezza culturale, a «umanesimo» ritardatario. Qualche volta –
come nel caso di Ilario Tacchi – il falsario voleva soltanto ingannare
gli studiosi per breve tempo e poi svelare la burla: di simili scherzi il
Leopardi stesso aveva dato famosi esempi. Altre volte può essere acca-
duto che questa intenzione iniziale sia stata poi deviata, cioè che il fal-
sario, scoperto troppo presto, si sia ostinato a difendere l’autenticità
della propria contraffazione. Altre volte ancora la falsificazione può
aver avuto motivi di interesse pecuniario o può essere stata compiuta
a sostegno di una tesi. All’origine di alcune delle falsificazioni da noi

68
iVedi ad esempio i numeri 134, 156, 222, 518 del citato Catalogo della Comunale di Mila-
no **; e cfr. G. Lonardi, Leopardismo, Firenze 1974, pp. 21, 23, 77; A. Balduino, Manuale di
filol. italiana, Firenze 1979, p. 165.
V. Di alcune falsificazioni di scritti leopardiani 225

esaminate (quelle in cui appare più direttamente immischiato Olivie-


ro Jozzi) ci sarà stato anche il motivo pecuniario; ma in complesso si
tratta di falsificazioni «a tesi»: si volle, come abbiamo visto, dar risal-
to alla religiosità giovanile del Leopardi e all’orgoglio come causa del
suo traviamento; si volle inoltre, coi Pensieri vaticani, permettere al
Cugnoni di prendersi la rivincita su Ilario Tacchi.
Ma il Cozza-Luzi fu soltanto vittima degli imbrogli di Oliviero Joz-
zi e di altri eventuali falsari, o fu consapevole e partecipe della falsifi-
cazione? La seconda eventualità sembra di gran lunga la più probabi-
le, non solo per il silenzio che egli mantenne sulla provenienza degli
«inediti» e per la sua riluttanza ad ammettere i propri rapporti con lo
Jozzi (vedi qui sopra, nota 8 **), ma anche perché quei testi si atta-
gliano troppo perfettamente alla tesi che egli voleva dimostrare. Sem-
bra anche molto strano che due persone diverse avessero l’identico
concetto (e un concetto piuttosto strano) di ciò che si deve intendere
per «abbozzo» poetico, specialmente per quanto riguarda la tecnica
della versificazione (vedi sopra, p. 204 **). Allo stato attuale della
ricerca, appare probabile che il Cozza-Luzi non solo si sia reso conto
della falsità dei manoscritti fornitigli da Oliviero Jozzi, ma abbia egli
stesso «inventato» altri scritti pseudo-leopardiani: mi riferisco in par-
ticolar modo a quell’Idillio alla Natura di cui, come vedemmo, non
sembra sia mai esistito alcun autografo, né vero né falso. Chi avrà modo
di studiare più a fondo la personalità del Cozza-Luzi, di raccogliere
su di lui e sul suo modo di lavorare più ricche testimonianze, potrà
esprimere forse un parere definitivo su questo problema.69 **
Sarei più riluttante a considerare come consapevole o partecipe del-
le falsificazioni anche il Cugnoni. Certamente il Cugnoni era un rea-
zionario sul piano culturale come su quello politico, ma non privo di
simpatici tratti di fierezza e d’indipendenza.70 I suoi opuscoli polemici

69
iNulla si ricava dalla bibliografia degli scritti a stampa del Cozza-Luzi pubblicata a pp. 14-
16 delle Onoranze a G. Cozza-Luzi, Roma 1898: non vi figurano componimenti poetici né,
comunque, scritti letterari, ma solo (tranne gli Appunti leopardiani) discorsi religiosi e lavori di
paleografia e filologia. Tuttavia continua a parermi molto improbabile (cfr. qui sopra, p. 204)
che il Cozza-Luzi ignorasse la fattura metrica d’un endecasillabo.
70
iSul Cugnoni vedi (in mancanza di uno studio complessivo soddisfacente) la commemora-
zione di G. Giri **, in «Annuario dell’anno scolastico 1908-09 dell’Univ. di Roma», pp. 229-232;
F. Picco, L. M. Rezzi maestro della «Scuola romana», Piacenza 1917, p. 70 sg.; G. Natali, in Enci-
cl. Ital. s. v.; e i ricordi aneddotici di Ettore Romagnoli, Genii in incognito, Milano 1934, p. 221
sgg.
226 V. Di alcune falsificazioni di scritti leopardiani

contro il Tacchi contengono molte intemperanze e molte argomenta-


zioni semplicistiche, ma suscitano una forte impressione di sincerità.
Mentre il Cozza-Luzi era un antileopardiano di cortissime vedute, il
Cugnoni, benché estraneo alla sostanza più profonda del pensiero e
della poesia leopardiana, si sentiva tuttavia erede, attraverso la «Scuo-
la romana», di quel classicismo ottocentesco che aveva avuto nel Gior-
dani e nel Leopardi i suoi più ammirati rappresentanti; e si era reso
benemerito degli studi leopardiani con la pubblicazione delle Opere
inedite giovanili.71 Piacerebbe, perciò, supporre che l’aiuto fornitogli
coi Pensieri vaticani non sia stato da lui richiesto e che egli abbia fino
all’ultimo sinceramente creduto alla loro autenticità. Tuttavia non
possiamo nasconderci che questa ipotesi urta in difficoltà non indif-
ferenti, dati gli stretti rapporti che univano ** il Cugnoni al Cozza-
Luzi72 e all’ambiente dei bibliotecari romani e data la scarsa verosi-
miglianza di una falsificazione perpetrata allo scopo di «beneficare» il
Cugnoni senza che il beneficato ne fosse in alcun modo partecipe.
Il problema dell’identificazione dei falsari, ad ogni modo, benché
meritevole di ulteriore approfondimento, resta pur sempre margina-
le, una volta che si è accertato che gli «inediti» pubblicati dal Cozza-
Luzi sono falsi (con qualche incertezza per i soli «discorsi sacri»).
L’importante è, soprattutto, che si eliminino dalle edizioni leopardia-
ne i tre abbozzi dell’Infinito e l’abbozzo di Idillio alla Natura.73
71
iQuesta edizione, stampata a Halle nel 1878-80, lascia molto a desiderare quanto ad esat-
tezza; ma certo ebbe torto il Viani (Appendice all’Epistolario del Leopardi, Firenze 1878, p. xx)
ad accusare sgarbatamente il Cugnoni di aver pubblicato scritti insignificanti. Cfr. la replica del
Cugnoni nell’Avvertenza del vol. II della sua edizione. Per una giusta reazione agli attacchi
del Viani, suppongo, anche il De Sanctis, benché uomo di tutt’altre idee, senti la necessità
di sottolineare che il Cugnoni aveva «fatto benissimo» a studiare quei primi scritti leopardiani
(G. Leopardi a cura di W. Binni, Bari 1953, p. 3).
72
iA p. 10 dell’opuscolo cit. alla nota 69 qui sopra, si informa che in occasione delle onoranze
al Cozza-Luzi gli fu offerta una pergamena il cui testo latino fu dettato appunto dal Cugnoni.
73
iSono particolarmente grato agli amici Umberto Albini, Rino Avesani, Carlo Ginzburg, alla
Dott. Guerriera Guerrieri, già direttrice della biblioteca Nazionale di Napoli e al Dott. Massi-
mo Fittipaldi, poi direttore della medesima, per le preziose informazioni bibliografiche che mi
hanno fornito. | Questa dimostrazione, o ridimostrazione, della falsità dei testi pubblicati dal
Cozza-Luzi è stata generalmente accettata dagli studiosi. Vedi in particolare (perché contiene
ulteriori argomenti sussidiari, ed è scritta con gusto e garbo singolari) La falsa e la vera storia de
«L’infinito» nella 2a ed. dei Frammenti critici leopardiani di Angelo Monteverdi, Napoli 1967,
pp. 137-151. Cfr. anche P. Bigongiari, Leopardi, Firenze 1976, pp. 308, n. 22 e p. 546. Non
del tutto convinto, per ciò che riguarda gli abbozzi dell’Infinito, si dichiara invece Walter Bin-
ni, La protesta di Leopardi, Firenze 1973, p. 199, n. 2; ma non tiene abbastanza conto, mi sem-
bra, né degli argomenti «esterni» (irreperibilità di alcuni dei presunti autografi, scrittura evi-
dentemente contraffatta di altri, ecc.), né delle considerazioni stilistiche e metriche |.
VI.
Natura, dèi e fato nel Leopardi

Testo epigrafe, testo epigrafe, testo epigrafe, testo epigrafe,


testo epigrafe, testo epigrafe.
Nome Cognome

Il passaggio dalla concezione della natura benefica a quella della


natura nemica dell’uomo ha sempre rappresentato uno dei punti più
delicati nello studio dello svolgimento del pensiero leopardiano. Ciò
che qui sopra ho scritto a questo proposito (pp. 123-128) rimane, cre-
do, valido nelle linee principali, ma ha bisogno di alcune precisazioni
e correzioni.
Intanto, l’abbozzo di idillio Alla Natura, che poteva sembrare il più
vistoso preannuncio della concezione della natura matrigna fin dal
1819, si è rivelato una falsificazione tardo-ottocentesca **. Se già nel-
la prima edizione di questo libro ({cap. III} n. 46) avevo fatto in tem-
po ad aggiungere sulle bozze un’espressione di dubbio, poco dopo cre-
do di aver potuto dimostrare la non autenticità di questo come di altri
scritti pubblicati come leopardiani da Giuseppe Cozza-Luzi: vedi l’ar-
ticolo Di alcune falsificazioni di scritti leopardiani nel «Giornale stori-
co della letteratura italiana» CXLIII, 1966, pp. 88 sgg.,° e le ulterio-
ri considerazioni che, con la finezza e il gusto stilistico che gli erano
consueti, aggiunse Angelo Monteverdi in uno scritto che è forse il suo
ultimo, La falsa e la vera storia de «L’infinito» (nella seconda edizione
dei Frammenti critici leopardiani, Napoli 1967, p. 137 sgg.).
Ma più che questa piccola novità filologica importa il riesame com-
plessivo che del problema delle due concezioni della natura ha fatto
Sergio Solmi **, in un saggio (Le due «ideologie» di Leopardi, in «Pri-
sma» giugno-luglio 1968, p. 12 sgg.) che sviluppa alcune osservazioni

°i{Poi in «Aspetti e figure della cultura ottocentesca» e, ora, qui sopra riprodotto – N. d. C.}
228 VI. Natura, dèi e fato nel Leopardi

della sua introduzione al secondo volume delle Opere leopardiane


(Milano-Napoli, Ricciardi, 1966). Altre considerazioni che inducono
ad un approfondimento del problema si trovano nell’articolo di Vin-
cenzo Di Benedetto sul Leopardi e i filosofi antichi, che {abbiamo
avuto} occasione di citare più {sopra} (p. 148).°
S’intende che non ho alcuna pretesa, nemmeno con questa nota
supplementare, di esaurire un tema che richiederà ancora attente rilet-
ture di testi leopardiani. Ulteriori chiarificazioni verranno certamen-
te dallo studio che Gianluigi Berardi ha preannunciato su questo argo-
mento (vedi qui sopra, p. 125) e da un saggio sulla teoria del piacere
e sul sensismo leopardiano di cui l’amico Luigi Blasucci mi ha esposto
qualche tempo fa le prime linee **.
Per quanto una conoscenza più o meno frammentaria e indiretta di
Rousseau non mancasse al Leopardi fin dal tempo delle sue primissi-
me esercitazioni scolastiche di filosofia (come apparirà chiaramente
quando esse saranno tutte pubblicate), tuttavia l’idea della natura
benefica non gli venne, inizialmente, da Rousseau né da altre fonti
filosofiche. La Lettera ai compilatori della «Biblioteca Italiana» in rispo-
sta a Madame de Staël e gli appunti dello Zibaldone che confluiranno
poi nel Discorso di un Italiano intorno alla poesia romantica mostrano
che quella concezione della natura nasce su un terreno di discussioni
letterarie e acquista i suoi primi contorni precisi nella polemica contro
la rivendicazione di una letteratura «moderna» ed «europea», fatta
dalla Staël e dal Di Breme.
In quegli scritti, come è noto (cfr. qui sopra, pp. 10 sg., 117), il Leo-
pardi mira ad una rigiustificazione e rigenerazione del classicismo, che
lo sottragga alle accuse di scolastica imitazione e di distacco dalla vita,
rivoltegli dai romantici. Gli antichi, egli dice, sono superiori a tutti i
poeti successivi perché interpreti diretti (come noi oggi non riusciamo
più ad essere) della «vera castissima santissima leggiadrissima natura».
Le stesse idee, con non minore intensità, sono espresse nel discorso
introduttivo alla versione della Titanomachia esiodea (PP, I, p. 557):
«Leggiadro tempo quando il poeta della natura, fresca vergine intatta,
vedendo tutto cogli occhi propri, non s’affannando a cercare novità,

°i{Cfr., in questo volume, la postilla all’inizio del cap. IV, «Il Leopardi e i filosofi antichi»; nel-
l’edizione 1969 (p. 380), con il rinvio alla stessa postilla collocata a fine volume, il testo è: «che avre-
mo ancora occasione di citare più sotto (p. 417)» – N. d. C.}
VI. Natura, dèi e fato nel Leopardi 229

che tutto era nuovo, creando, senza pensarselo, le regole dell’arte, con
quella negligenza di cui ora tutta la forza dell’ingegno e dello studio
appena ci sa dare la sembianza, cantava cose divine ed eternamente
durature!». La tesi – sostenuta già da alcuni antichi – dell’anterio-
rità cronologica di Esiodo rispetto ad Omero è condivisa dal Leopar-
di, nonostante la sua abbastanza evidente inverosimiglianza, proprio
perché Esiodo gli sembra «tanto più semplice, candido, naturale». E
siccome questa «naturalezza» è il valore estetico assoluto, antichità
e pregio poetico vengono a coincidere: «Sapete bene che le lettere, e
singolarmente la poesia, vanno a ritroso delle scienze; voglio dire, dove
queste vengon via sempre all’insù, quelle quando nascono sono gi-
ganti, e col tempo rappicciniscono».
Sono certamente molto giusti e importanti i raffronti che il Fubini
e il Bigi hanno fatto, rispettivamente, con un passo della storia lette-
raria dell’Andres (spesso consultata e citata dal Leopardi) e con uno
del primo articolo di Madame de Staël nella «Biblioteca Italiana».1
Ma credo che, nell’indagare la genesi di quell’atteggiamento leopar-
diano che Fubini chiama felicemente «primitivismo classico», non si
possa trascurare l’influsso del purismo. ** La Lettera ai compilatori
della «Biblioteca Italiana» (luglio 1816) cade in quel breve periodo di
zelo puristico che il Leopardi attraversò dalla primavera-estate del ’16
ai primi mesi del ’17. Nei primi mesi del ’16, quando aveva compiu-
to la traduzione di Frontone e il relativo discorso proemiale, il Leo-
pardi conosceva già l’esistenza del movimento purista, ma aveva anco-
ra un atteggiamento di cauta accettazione delle sue tesi più moderate,
di ripudio della sua forma estrema. Proemio e traduzione sono scritti
ancora in un italiano «moderno», cioè settecentesco, quale il Leopar-
di aveva usato anche nelle sue prose precedenti; e a proposito delle
analogie tra il purismo di Frontone e il purismo dell’Ottocento il Leo-
pardi si esprime così: «Non v’ha tra gli antichi uomo, a cui possa più
che a Frontone paragonarsi qualche giudizioso imitatore dei Trecen-
tisti Italiani. Frontone però è uno specchio, a cui pochi di questi nostri
moderni settari possono riconoscersi. Benché amante dell’antichità,
egli non è meno intelligibile di qualunque altro scrittore latino, tanto

1
iM. Fubini, Romanticismo italiano2, Bari 1960, p. 85-88; E. Bigi, La genesi del «Canto not-
turno», Palermo 1967, p. 44. Cfr. anche H.-L. Scheel, Leopardi und die Antike, München 1959,
p. 116 e n. 29.
230 VI. Natura, dèi e fato nel Leopardi

bene seppe usare l’antico, e rigettare il rugginoso, spargere i suoi scrit-


ti della luce, non della polvere, che si trovava nelle vecchie opere,
rispingere sino al giusto mezzo la lingua latina già troppo inoltrata,
non ricacciarla ai suoi cominciamenti, e tornarla di anziana in adulta
e matura, non in bambina» (PP, II, p. 654). È nei mesi successivi del
’16 e nei primi del ’17 che, distaccandosi da questa posizione «giudi-
ziosa», il Leopardi si foggia uno stile ultrapuristico, che – attraverso
il proemio al secondo libro dell’Eneide, il proemio alle Iscrizioni Trio-
pee, il Discorso della fama di Orazio presso gli antichi – tocca il suo cul-
mine nella versione dei frammenti di Dionigi d’Alicarnasso scoperti dal
Mai.
Ora, il ritorno al Trecento era motivato dai puristi proprio col ri-
chiamo alla purezza e alla conformità a natura che la lingua e la lette-
ratura italiana avevano avuto in origine, e che erano state poi irrime-
diabilmente perdute. Già nel manifesto del purismo più intransigente,
la Dissertazione sopra lo stato presente della lingua italiana di Antonio
Cesari **, questo motivo ritorna continuamente: «Tutti in quel bene-
detto tempo del 1300 parlavano e scrivevano bene ...»; i trecentisti
portarono la lingua «a tal perfezione e bellezza, che non fu potuta
poscia non che oscurare, ma né agguagliare giammai». Ai sostenitori
del Cinquecento il Cesari risponde che «il fatto nostro è di lingua, non
di erudizione, non d’eloquenza, né d’altre prove d’ingegno. Tutte
codeste cose furono grandi nel cinquecento, in cui le scienze e l’arti
più belle crebbero anzi ad altissimo onore: ma la nettezza, la natia gra-
zia, la purità ingenua, il nitor singolare della lingua, dopo il trecento
non parve più». E ancora: «Essi medesimi i Fiorentini ... confessano,
che quel primo oro non è più tornato ... quella originale purità e bel-
lezza che col trecento morì ... quella purità, nitore e candor nativo di
lingua, morì con quel secolo d’oro che la produsse». Per questo «sono
da leggere e studiar forte gli antichi; perché quella grazia naturale,
quella schietta gentilezza di puro linguaggio, dopo il trecento più non
comparve».2 È possibile ripristinare questi valori della lingua trecen-
tesca? Il Cesari dice di sì, e addita l’esempio dei cinquecentisti che già

2
iCfr. A. Cesari, Opuscoli linguistici e letterari a cura di G. Guidetti, Reggio Emilia 1907,
pp. 145, 146, 150, 151, 153, 213, 199. La Dissertazione, scritta nel 1808, fu pubblicata a Vero-
na nel 1810. Su questo aspetto del purismo del Cesari vedi M. Vitale, in «Lettere italiane» II,
1950, p. 3 sgg.
VI. Natura, dèi e fato nel Leopardi 231

compirono una simile restaurazione (p. 218); ma proprio questo esem-


pio parrebbe indicare l’estrema difficoltà, e forse impossibilità, del-
l’impresa, poiché già prima, come abbiamo visto, il Cesari aveva nega-
to che il tentativo del Bembo e degli altri puristi del Cinquecento
avesse avuto successo; e tutta la Dissertazione è più un lamento sul-
l’irrecuperabilità della purezza linguistica originaria che un’esortazione
a recuperarla.
Non mancava nemmeno, nello scritto del Cesari, quel paragone fra
grecità e trecentismo che verrà poi sviluppato dal Giordani e avrà tan-
ta risonanza nel Leopardi giovane. «Ma finalmente, donde è avvenu-
to che la poesia Greca venisse in tanta fama di cosa eccellente? Io non
credo che in que’ poeti si trovi pure un cenno o un sentore di que’ sot-
tili e tanto artifiziali lavori d’ingegno, che sentiam ne’ moderni. Ivi
tutto è natura, ma la più sincera, bella, gentile (...). Or questa poesia
rendé i Greci i primi maestri del mondo in fatto di gentilezza, e mo-
delli di perfezione» (p. 206).
Conobbe direttamente il Leopardi, nel 1816, la Dissertazione del
Cesari? Nonostante alcune somiglianze non solo di idee ma di espres-
sione, sembra che si deva rispondere di no: quello scritto non è mai
citato dal Leopardi giovane, e nella sua biblioteca ce n’è una ristam-
pa molto posteriore, del 1832. Ancor più improbabile è, in quel perio-
do, un influsso del Giordani: quando scrisse la Lettera alla «Bibliote-
ca Italiana» il Leopardi non aveva ancora letto di lui quasi nulla, forse
soltanto l’anonima risposta alla Staël, nella quale questi motivi «pri-
mitivistici» non sono trattati.3 In attesa di una ricerca più precisa sul-
le fonti del primo purismo leopardiano, dobbiamo supporre che le idee
puristiche gli siano giunte indirettamente, forse attraverso la lettura
di qualche periodico, senza del tutto escludere che la Dissertazione del
Cesari possa essergli stata prestata da qualcuno a Recanati.4 Certo la

3
iVedi la lettera al Giordani del 30 aprile 1817 (I, p. 84 ed. Moroncini; p. 59 sg. ed. Flora).
Nella frase della Lettera ai compilatori della «Bibl. Ital.» (in PP, II, p. 597): «Io dunque non tac-
cio il mio nome perché la illustre Dama non asconde il suo, ed egli mi par non sia cosa da uomo
magnanimo quel combattere sempre a visiera calata», bisognerà scorgere una punta polemica nei
riguardi del contraddittore della Staël che si era firmato «un Italiano» (il Leopardi non sapeva
ancora che si trattasse del Giordani).
4
iManca, che io sappia, uno studio sulle fonti della fase iniziale del purismo leopardiano (del-
la fase, cioè, anteriore all’influsso del Giordani). La lettura della corrispondenza col Giordani
permette piuttosto di stabilire ciò che il Leopardi non aveva ancora letto prima di entrare in
corrispondenza con lui, che di acquisire indizi precisi su ciò che aveva letto.
232 VI. Natura, dèi e fato nel Leopardi

coincidenza cronologica fra la sua conversione al purismo (a un pu-


rismo, inizialmente, più «cesariano» che «giordaniano», cfr. sopra,
p. 92) e la prima enunciazione del «primitivismo» nella Lettera alla
«Biblioteca Italiana» può difficilmente essere dovuta ad un puro caso.
Se non sulla genesi, il Giordani esercitò un forte influsso sullo svi-
luppo di questo nucleo d’idee leopardiane. L’inizio della corrispon-
denza epistolare col Giordani segna, da un lato, il superamento del
purismo ultra di cui il Leopardi si era compiaciuto nei mesi preceden-
ti; dall’altro, l’approfondimento dello studio dei trecentisti, lo svolgi-
mento, in senso giordaniano, del parallelismo fra stile greco e stile ita-
liano antico-popolare,5 la distinzione, insomma, sempre più chiara, fra
ciò che nel purismo era nostalgia della natura incorrotta e ciò che era
pedanteria sterile. I motivi accennati nella Lettera del luglio 1816 riap-
pariranno grandemente arricchiti e sviluppati nel Discorso di un Ita-
liano intorno alla poesia romantica; e in questo sviluppo il Giordani
avrà una parte fondamentale.
In che cosa, allora, consiste il tono nuovo con cui quelle idee, fin
dalla Lettera, sono rivissute ed espresse dal Leopardi? A me sembra
che consista nella tendenza molto più forte, che il Leopardi mostra fin
dal principio, ad estendere quelle idee dall’ambito meramente lin-
guistico-letterario a tutta la Weltanschauung, a un giudizio globale su
«antichi» e «moderni» non solo relativamente al loro valore artisti-
co, ma alla loro felicità e intensità di vita. I puristi si accontentavano
di predicare il ritorno all’antico in letteratura e accettavano, quanto al
resto, la società presente; oppure desideravano, sì, un ritorno genera-
le alle origini, ma ad origini medioevali e pie; oppure vivevano (è il
caso del Giordani, cfr. pp. 57-60) una contraddizione fra primitivismo
letterario e progressismo ideologico. Il Leopardi, quando ancora il suo

5
iQuanto ai trecentisti e all’affinità fra greco e italiano, vedi in particolare la lettera del Gior-
dani al Leopardi del 15 aprile 1817 (Epistolario del Leopardi, ed. Moroncini, I, p. 73), e la rispo-
sta del Leopardi (30 maggio 1817, ibid., p. 98 sg.): «Dopo che Ella mi ha fatto notare l’amici-
zia che è tra la lingua nostra e la greca, ho preso a riflettervi sopra seriamente, e aperto qualche
prosatore greco, ho trovato con grandissimo piacere che la sua osservazione è verissima e mae-
strevole, tantoché qualche passo di autore trecentista mi è paruto aver sembianza di traduzione
dal greco. Non è maraviglia che io non mi sia accorto prima di questa parentela tanto evidente
(e già probabilmente l’ingegno mio senza il suo avviso non se ne sarebbe accorto mai), perché fin
qui de’ prosatori nostri ho avuto per le mani piuttosto i cinquecentisti e gli altri che i trecenti-
sti». E vedi il seguito della lettera, e ancora la lettera dell’8 agosto 1817: «Sto ora quanto posso
coi trecentisti ...».
VI. Natura, dèi e fato nel Leopardi 233

concetto di natura è fresco di derivazione puristica, già sente che esso


implica una condanna di tutto questo mondo «innaturale» in cui si tro-
va a vivere. Corrotta non è soltanto la lingua o la letteratura, è l’inte-
ra società (intesa più come «modo di vita» che in senso specificamen-
te politico-sociale): il «corrotto costume», dirà nella canzone Nelle
nozze della sorella Paolina. Proprio per questa radicalizzazione del con-
cetto di natura e del contrasto fra semplicità antica e corruzione
moderna è legittimo l’accostamento a Rousseau, anche se Rousseau,
almeno in un primo tempo, non fu una fonte diretta del Leopardi.
La lettura delle prime pagine dello Zibaldone conferma l’origine let-
teraria di questi concetti leopardiani e, in pari tempo, ci fa assistere
alla loro progressiva «filosofizzazione». Se si volesse indicare il pun-
to di passaggio da una filosoficità ancora implicita ad una filosoficità
cosciente (pur con tutte le riserve sulla possibilità di individuare tali
punti precisi in un processo mentale che costituisce una continuità), si
dovrebbe citare quel famoso pensiero di p. 14 dell’autografo, che inco-
mincia: «Gran verità, ma bisogna ponderarle bene. La ragione è nemi-
ca d’ogni grandezza: la ragione è nemica della natura: la natura è gran-
de, la ragione è piccola». Quella che per tutta una tradizione letteraria
– arcadica prima che puristica, e, più indietro ancora, risalente a teo-
rie estetiche greco-latine – era l’antitesi fra natura e artificio, tra inge-
nium (nel senso latino di ispirazione, genialità innata) e ars, diviene,
assolutizzata, l’antitesi tra natura e ragione. La posizione che di qui in
poi, per alcuni anni, il Leopardi viene svolgendo è una posizione di
rifiuto del romanticismo e del razionalismo illuministico insieme: la sua
intensa nostalgia di uno stato umano ancora immedesimato con la na-
tura lo porta a respingere insieme il moderno e il cristiano-medievale.
Invece, come già abbiamo accennato (p. 10 sg.), egli tende a identi-
ficare il «primitivo» con l’antichità classica, in letteratura, come nella
storia politica: di qui il fatto che egli non vede contraddizione tra il
«ritorno alla natura» e un classicismo bene inteso: di qui anche la varie-
tà delle attuazioni stilistiche di questa poetica del classico-primitivo,
nelle traduzioni dai greci e da Virgilio, nelle Canzoni e negli Idilli.
Molto giustamente Sergio Solmi (Le due «ideologie» cit.) ha osser-
vato che la natura, secondo questa prima concezione leopardiana,
«non coincide con la totalità dell’essere, con l’integralità dell’Ordine
cosmico», ma è solo un principio informatore che «esprime in pari
tempo lo sviluppo vitale nella sua spontaneità, l’armonia originaria del
234 VI. Natura, dèi e fato nel Leopardi

vivente contrastata dalle deviazioni e corruzioni apportate dalla ragio-


ne e dalla civiltà». La ragione umana non è stata capace di sostituire
alla natura qualcosa di più vitale e beatificante (e in questo senso è
«piccola», mentre la natura è «grande»); ma è stata, d’altra parte,
capace di guastare irrimediabilmente l’equilibrio vitale dell’essere
vivente, e contro quest’opera distruttrice la natura ha dolorosamente
rivelato la propria impotenza: «Oh contra il nostro / scellerato ardi-
mento i n e r m i regni / della saggia natura!» (Inno ai Patriarchi). E
anche prima che la perturbazione prodotta dalla civiltà avesse luogo,
la natura era pur sempre impotente a dare ai viventi uno stato di feli-
cità reale: la sua «saggezza» si dimostrava appunto nel celare ai viven-
ti la loro oggettiva infelicità.

I preannunci di una diversa concezione della natura, come ho già


osservato (pp. 124-125), non fanno la loro prima apparizione nello
Zibaldone o in altre prose «ragionate», ma in poesie. Scartato il non
autentico abbozzo di idillio Alla Natura, rimangono due diversi ambi-
ti in cui questi preannunci si collocano. Uno è rappresentato dai due
passi (cit. a p. 124) della canzone Per una donna inferma di malattia lun-
ga e mortale. Essi sono inseriti, come nota giustamente Vincenzo Di
Benedetto (art. cit., «Critica storica» 1967, p. 303), in un contesto
«consolatorio» che limita la loro significatività, riducendoli, in un cer-
to senso, a luogo comune: la sofferente a cui la canzone è dedicata
deve consolarsi pensando che tutti siamo ugualmente infelici e peri-
turi. Manca quel tono agonistico, quella rappresentazione della natu-
ra come deità nemica e tiranna, che caratterizzerà la più matura con-
cezione leopardiana; e subito dopo (anche questo è da notare) il poeta
introduce, con un rilievo più forte, un altro motivo consolatorio, che
si rifà al «pessimismo storico»: in questa età presente, vivere a lungo
significa scendere a compromessi con la viltà e nefandezza della
società, «farsi abietto ed empio» anche se si ebbe da «natura» (v. 128)
un cuore gentile. E tuttavia, pur isolata com’è, ha un suo valore quel-
l’immagine dell’intera famiglia umana che «a la natura è gioco» (v.
117): c’è qui un’anticipazione, non solo verbale, di quel potente pas-
so della Palinodia sul «gioco reo» di produzione e distruzione a cui la
natura assoggetta gli esseri viventi.
L’altra forma in cui compare una nota di dubbio sulla benignità del-
la natura è quella di un lamento che il poeta rivolge alla natura per
VI. Natura, dèi e fato nel Leopardi 235

essere stato, lui solo (o lui con altri derelitti) escluso dalla vivificante
comunione con lei. La natura rimane, in generale, madre pietosa e for-
za vitale; ma si è dimostrata matrigna col poeta. Su questo piano si col-
locano i passi della Vita solitaria, 14-20 («Natura ... un giorno oh
quanto / verso me più cortese! E tu pur volgi / dai miseri lo sguardo;
e tu, sdegnando / le sciagure e gli affanni, alla reina / felicità servi, o
natura»); della canzone Alla primavera (dapprima ai vv. 20-22: «Vivi
tu, vivi, o santa / natura? vivi e il dissueto orecchio / della materna
voce il suono accoglie?», e poi nell’implorazione finale, in cui, come
osserva Mario Fubini nel suo commento, «già l’antico affetto per la
Natura è raffreddato da un dubbio»); e soprattutto l’Ultimo canto di
Saffo. Il lamento rivolto alla natura ha, in queste poesie, una forte
impronta autobiografica: è la deformità fisica del poeta che lo porta a
sentirsi figlio negletto della natura. Appartiene a questo stesso ambi-
to – malgrado il tono più teso e tragico, notato giustamente dal Berar-
di – anche il passo della Sera del di di festa, 11 sgg.: «io questo ciel,
che sì benigno / appare in vista, a salutar m’affaccio, / e l’antica natu-
ra onnipossente, che mi fece all’affanno. A te la speme / nego, mi dis-
se, anche la speme; e d’altro / non brillin gli occhi tuoi se non di pian-
to». Qui la natura ha già un volto crudele, a cui danno rilievo i due
epiteti «antica» e «onnipossente» (quest’ultimo, in particolare, la dif-
ferenzia da quell’immagine di madre pietosa ma impotente a conser-
vare gli uomini in uno stato di relativa felicità, che ancora predomina
nel Leopardi di questi anni). Ma dalla concezione della natura nemi-
ca dell’intero genere umano siamo anche qui tuttora lontani, non solo
per il carattere autobiografico in cui il lamento del poeta anche sta-
volta è circoscritto, ma anche perché il lamento, in questa come nelle
altre poesie ora citate, è di un amante non corrisposto, non di un
oppresso che ricambia di pari inimicizia il suo oppressore.
E ancora: se in alcune delle poesie che abbiamo preso in esame –
tutte appartenenti al periodo 1819-22 – il motivo dominante per cui
il poeta si sente escluso dalla comunione con la natura è la deformità
fisica, in altre è piuttosto la morte delle illusioni, la precoce vecchiez-
za spirituale da cui il Leopardi si sente gravato. Il lamento alla natura
è anche preghiera perché la natura aiuti il poeta a ricongiungersi a lei.
Questo secondo aspetto prevale nella canzone Alla primavera, e già in
quel famoso passo della lettera al Giordani del 6 marzo 1820: «... mi
si svegliarono alcune immagini antiche, e mi parve di sentire un moto
236 VI. Natura, dèi e fato nel Leopardi

nel cuore, onde mi posi a gridare come un forsennato, domandando


misericordia alla natura, la cui voce mi pareva di udire dopo tanto
tempo». L’esperienza della malattia di occhi aggravatasi nel 1819, e
del conseguente senso di isolamento e di accresciuta infelicità, agì in
una duplice direzione: da un lato dette un primo impulso alla conce-
zione della natura ostile, che più tardi si libererà dalla dimensione
strettamente autobiografica (e su questo punto, del rapporto tra
malattia e pessimismo, credo tuttora valide le osservazioni fatte sopra,
pp. 126-128); dall’altro, come ben si vede ripercorrendo l’epistolario
e lo Zibaldone, produsse nel Leopardi la dolorosa impressione del pro-
prio inaridimento sentimentale, della fine di quella giovinezza che
rappresentava pur sempre, per l’uomo singolo, l’equivalente di ciò che
per il genere umano era stata l’antichità: in questo secondo senso l’e-
straniamento dalla natura rientrava ancora nel quadro del «pessimi-
smo storico», poteva ancora apparire come una conseguenza della
civiltà corruttrice, che esercita più fortemente il suo potere sull’indi-
viduo appena esso sia uscito dall’adolescenza. Di qui il sovrapporsi di
diversi motivi nella concezione della natura in questi anni.

Ma, già in questo periodo, i caratteri di arcana crudeltà o indiffe-


renza verso i viventi che la natura assumerà più tardi nel pensiero e
nella poesia leopardiana compaiono in piena evidenza, non riferiti,
però, alla natura, bensì al fato e agli dèi. Anche questo è stato vedu-
to bene dal Solmi: «L’altra idea leopardiana della Natura (...) è rap-
presentata, inizialmente, dall’oscura e capricciosa divinità che ha
nome Fato, dal torvo Cielo contro cui, nell’Ultimo Canto di Saffo, si
leva la solitaria imprecazione di una creatura offesa». Già la storia del
titanismo leopardiano tracciata dal Bosco, del resto, mostra come il
cosiddetto pessimismo cosmico si sviluppi dal titanismo. Più precisa-
mente, direi che abbiamo una fase, soprattutto nel ’21-’22 ma con
qualche propaggine anche nelle prime Operette, in cui, mentre la natu-
ra è ancora teorizzata come madre benefica o tutt’al più è oggetto di
lamento nel senso che abbiamo cercato sopra di precisare, dèi e fato
sono veduti come forze ostili, contraccambiate di pari odio. Tipico di
questa situazione è il Bruto minore. Da un lato abbiamo in questa poe-
sia, come è noto, la raffigurazione più negativa degli dèi e del fato:
«gl’inesorandi numi», i «marmorei numi» (v. 19, con una variante
«perversi numi»), ai quali «ludibrio e scherno è la prole infelice» degli
VI. Natura, dèi e fato nel Leopardi 237

uomini; Giove che siede a tutela degli empi e colpisce i giusti e i pii;
il «fato indegno» che fa gravare la sua mano tiranna sull’uomo; il cie-
lo che gode dei nostri affanni come di «giocondo spettacolo» ai pro-
pri ozi. Dall’altro, la natura, ben distinta da codeste forze malefiche,
aveva assegnato agli uomini una vita libera da ansie e da colpe, e i suoi
«regni beati» sono stati distrutti dall’«empio costume» instaurato dal-
la ragione.
Già la canzone Nelle nozze della sorella Paolina, che precede di un
paio di mesi il Bruto minore, rivela lo stesso dualismo. L’«obbrobrio-
sa» età moderna, dice il poeta nella prima strofe, è la conseguenza di
un decreto del «duro cielo», dell’«empio fato» (lo stesso aggettivo,
«empio», che nella Ginestra sarà riferito alla natura!); ma nella secon-
da strofe il «corrotto costume» sembra di nuovo alludere a un colpe-
vole allontanamento degli uomini dalla natura benefica, e ciò è con-
fermato dal confronto con l’«insano costume» di A un vincitore nel
pallone (v. 36 sg.) e con l’«empio costume» del Bruto minore (v. 56, già
citato), dove il riferimento alla colpa degli uomini e alla benignità del-
la natura è ben chiaro. E ancora si noti, nella chiusa di A un vincitore
nel pallone (v. 57), quel «nostra colpa e fatal» (cioè «colpa nostra e
del fato», come spiega il Leopardi stesso): qui si parla della decadenza
dell’Italia, non della decadenza generale dell’umanità; ma ritorna
anche qui, sia pure fuggevolmente, l’accenno a una duplice «colpa»,
degli uomini e del destino malefico.
Un analogo contrasto ci si presenta nell’Ultimo canto di Saffo: nei
riguardi della natura, lo abbiamo già accennato, Saffo si spinge solo
fino al lamento dell’amante non corrisposta; ma dietro la natura, da
un certo punto della poesia in poi (v. 37 sgg.), appare un’altra forza
più misteriosamente ostile, che è designata ora come «torvo cielo»,
ora come «i celesti», ora come Giove («il Padre»), ora come «il cieco
dispensator de’ casi» (cioè il «fato», come annota il Leopardi stesso).
E se la frase dei versi 46-47 «Arcano è tutto, fuor che il nostro dolor»
può ancora essere riferita alla sola Saffo (i commentatori, come è noto,
non sono concordi su questo punto; vedi anche Berardi, p. 672 n. 85),
i versi finali «Ogni più lieto / giorno di nostra età primo s’invola» ecc.
non possono riferirsi che all’intero genere umano, al suo comune desti-
no di malattie, di vecchiezza e di morte.
Se la concezione della natura benefica deriva da una corrente del
classicismo italiano, anche la concezione della divinità ostile, come
238 VI. Natura, dèi e fato nel Leopardi

abbiamo cercato di dimostrare (pp. 120-122), deriva da un altro filo-


ne – alfieriano con ascendenze lucanèe – della stessa tradizione. Ritro-
viamo ancora questo dualismo nel Dialogo della Natura e di un’anima
(aprile 1824). Qui la natura è materna e pietosa verso le sue creature,
ma è così poco onnipotente come il Dio di John Stuart Mill; e dietro
la natura c’è il fato, e ad esso – non, come aveva un tempo creduto il
Leopardi, agli uomini colpevoli di essersi distaccati dalla natura – risa-
le l’infelicità dei viventi. «Né l’una né l’altra cosa (rendere felici gli
uomini, o non dar loro la vita) è in potestà mia, che sono sottoposta al
fato; il quale ordina altrimenti, qualunque ne sia la cagione; che né tu
né io la possiamo intendere. (...) Tutto questo è contenuto nell’ordi-
ne primigenio e perpetuo delle cose create, il quale io non posso alte-
rare. (...) Tutte le anime degli uomini, come io ti diceva, sono asse-
gnate in preda all’infelicità, senza mia colpa. (...) Di cotesto conferirò
col destino». Osserva nel suo commento il Fubini che sulla distinzio-
ne tra natura e fato «a torto hanno sottilizzato alcuni commentatori,
perché essa non è giustificabile concettualmente, ma è conforme all’i-
spirazione poetica di tutta l’opera». E aggiunge: «Piuttosto si può
notare come, mantenendo quella distinzione che egli certo considera-
va finzione fantastica né voleva giustificare razionalmente, il Leopar-
di poteva esprimere il duplice sentimento che egli aveva della natura,
il sentimento di una natura materna e provvida e quello di una natu-
ra estranea ed indifferente alle umane miserie, senza essere costretto
dalla logica a scegliere tra uno di quei sentimenti e a dargli parvenza
di una concezione sistematica». Non mi sentirei di concordare inte-
ramente con questa osservazione, perché la distinzione tra natura e
fato non è una finzione fantastica i s o l a t a , funzionale a ciò che il
Leopardi voleva esprimere in questa sola operetta, ma riflette, come
abbiamo visto, un dualismo presente in tutta una fase della poesia leo-
pardiana. La pacata e pur profonda tristezza di questo dialogo è cer-
to assai lontana dalla concitata tensione del Bruto minore; e tuttavia
non a caso il dualismo tra natura e fato (o divinità) è comune ad
entrambi. È d’altra parte vero che questo dualismo non giunge mai,
nel Leopardi, ad una vera e propria teorizzazione. L’unica concezio-
ne che in questo periodo continua ad essere elaborata concettualmen-
te è quella della natura benefica; l’altra, della malvagità degli dèi o del
fato, rimane ad uno stadio pre-filosofico; essa costituisce, però, un
modo provvisorio di esprimere la crescente insoddisfazione che il Leo-
VI. Natura, dèi e fato nel Leopardi 239

pardi provava nei confronti della sua prima teoria, secondo cui sol-
tanto la «ragione» era responsabile dell’infelicità umana.
Tale insoddisfazione si riflette anche nei pensieri dello Zibaldone
dal ’21 al ’24, nei quali egli continua a discolpare la natura e a difen-
derne la bontà e provvidenzialità, ma con sempre maggior fatica. Via
via che egli viene elaborando la «teoria del piacere» e dimostrando la
necessaria infelicità di tutti i viventi (non solo di alcune anime elet-
te), la provvidenzialità della natura gli appare sempre più limitata alla
sola conservazione della specie – o, più generalmente ancora, dell’or-
dine cosmico –, conservazione di cui la sofferenza e la morte degli
individui è un prezzo necessario.6 Ma ha un senso, da un punto di
vista edonistico, il pagamento di questo prezzo? Il Leopardi si orienta
sempre più verso il rifiuto di una presunta «felicità collettiva» che si
realizzerebbe attraverso la negazione delle felicità individuali. D’altra
parte, il materialismo rigoroso che egli elabora alquanto più tardi, nel
’25-’27, mina alla base il concetto stesso di provvidenzialità, di teleo-
logia della natura.
La natura diviene così un meccanismo di produzione-distruzione da
cui tutti i viventi sono oppressi e da cui è negata quell’esigenza di feli-
cità che questo stesso meccanismo crea in essi. Il dualismo tra natura
benefica e fato (o divinità) malefico non ha, a questo punto, più ragion
d’essere, perché quei caratteri di maleficità e di indifferenza alla sor-
te degli individui sono assunti dalla natura stessa. E mentre fato e dèi,
pur non risparmiando l’infelicità a nessun vivente, colpivano ancora
soprattutto gli uomini grandi (secondo la tradizione del titanismo),
adesso il Leopardi insiste di più sulla comune sofferenza di tutti gli
esseri animati: non occorre ricordare il famosissimo pensiero sulla
souffrance di tutte le piante d’un giardino (Zib., 4175, che non va iso-
lato da ciò che precede in quella stessa pagina), né, più tardi, la chiu-
sa del Canto notturno.
Poeticamente il Leopardi continuerà a parlare anche degli dèi, o di
Arimane: non rinuncerà alla nota specificamente antiteistica per dare
un maggior rilievo alla propria polemica anticristiana e per sottoli-

6
iIn questo sforzo di giustificazione, in cui il Leopardi viene inconsapevolmente precisando
quelli che di lì a poco saranno i suoi argomenti di accusa contro la natura, particolare importanza
hanno i pensieri del 20 agosto 1821 (Zib., 1530 sg.) e del 10 luglio 1823 (Zib., 2936-38), sui
quali molti studiosi hanno già richiamato l’attenzione.
240 VI. Natura, dèi e fato nel Leopardi

neare che la sua filosofia «discolpa gli uomini totalmente» e «rivolge


l’odio, o se non altro il lamento, all’origine prima de’ mali de’ viven-
ti» (Zib., 4428). Ma dèi, fato, natura saranno adesso usati come sino-
nimi: «... a quale ultimo intento / lei (cioè l’umana stirpe) spinga il fato
e la natura» (Al conte Carlo Pepoli, 144 sg.); «O natura cortese, / sono
questi i doni tuoi ...», e poco dopo «Umana / prole cara agli eterni![»]
[cr] (La quiete dopo la tempesta, 42 sgg.); «... la natura, il brutto / poter,
che, ascoso, a comun danno impera» (A se stesso, 14 sg.); ancor più
esplicitamente nell’abbozzo di inno Ad Arimane: «te con diversi nomi
il volgo appella Fato, natura e Dio».

Che questo passaggio dalla prima alla seconda concezione della


natura sia stato un passaggio lungo e tormentato, proprio perché met-
teva in discussione un punto centrale della filosofia leopardiana; che
ancora le Operette del ’24 presentino oscillazioni fra l’una e l’altra con-
cezione (basti pensare al Dialogo della Natura e di un’anima da un lato,
al Dialogo della Natura e di un Islandese dall’altro); che ancora un’eco
alquanto debole della prima concezione si senta in quel passo dell’e-
pistola Al Conte Carlo Pepoli (vv. 27-43) in cui il poeta ricorda che la
necessità di provvedere al sostentamento era una specie di rimedio
apprestato dalla natura affinché «pieno, / poi che lieto non può, cor-
resse il giorno / all’umana famiglia», – tutto ciò è indubbio. Nessuno
degli studiosi recenti, del resto, ha presentato quel passaggio come una
brusca conversione. Ma quello che credo si deva ribadire, è che il pas-
saggio ci fu. Come non risponde a verità la tesi di un continuo oscil-
lare del Leopardi tra le due concezioni (le quali non sarebbero, quin-
di, concezioni, ma stati fantastico-sentimentali, quali si addicono a un
«poeta puro»), così non mi sembra nemmeno accettabile la tesi, soste-
nuta dal Solmi, di una coesistenza pacifica fra l’una e l’altra conce-
zione, il cui contrasto sarebbe dovuto ad «una semplice confusione
terminologica» (art. cit., p. 15), cioè al fatto che il Leopardi, da un
certo momento in poi, chiamò con lo stesso nome due entità che nel
suo pensiero si mantenevano distinte.
Beninteso, qualcosa di vero nella tesi di Solmi c’è; ed è che le due
concezioni, come ha confermato la nostra precedente analisi, non sono
nate l’una dall’altra. Esse provengono, abbiamo visto, da due diversi
filoni del classicismo; hanno nell’illuminismo stesso due diversi pre-
cursori (Rousseau l’una, il Voltaire del Poème sur le désastre de Lisbon-
VI. Natura, dèi e fato nel Leopardi 241

ne l’altra); corrispondono a diverse esperienze di vita e a diversi obiet-


tivi polemici. E tuttavia la rigorosa precisazione e sistemazione con-
cettuale della seconda – che va di pari passo con la conquista di un
coerente materialismo, tra il ’25 e il ’27 – segna il tramonto della pri-
ma. La coesistenza era stata possibile quando la seconda idea di natu-
ra era ancora ad uno stadio passionale-fantastico, e si configurava,
abbiamo visto, come dèi o come fato; non è più possibile quando essa,
senza perdere nulla del suo vigore poetico, assume però una caratte-
rizzazione concettuale.
Se si esaminano da vicino i passi che il Solmi cita (p. 13) per dimo-
strare la persistenza della prima concezione fin nel 1827-29, si nota
che nessuno di essi contiene un’effettiva esaltazione della benignità
della natura, tale da potersi contrapporre ai pensieri, ben altrimenti
espliciti ed energici, che in questi stessi anni il Leopardi formula sul-
l’oppressione che la natura esercita nei riguardi di tutti i viventi. Si
tratta sempre, invece, di passi concernenti problemi particolari, e il
concetto di «provvidenza» della natura vi è introdotto solo limitata-
mente e relativamente a quel dato contesto. Nel primo passo (Zib.,
4242, dell’8 gennaio 1827) il Leopardi parla del problema del suicidio,
sul quale meditava già da anni, e che presto avrebbe costituito l’argo-
mento del Dialogo di Plotino e di Porfirio. L’amore della vita, dice il
Leopardi, non è innato, «altrimenti niuno s’ammazzerebbe»; innato
è soltanto l’amore di se stessi, cioè il desiderio della felicità; ma sic-
come l’essere vivente è portato a giudicare la vita come il suo maggior
bene e la morte come il suo maggior male, «ecco che la natura ha vera-
mente provveduto alla conservazione, rendendo immancabile questo
error di giudizio». Si deve vedere in queste parole un giudizio positi-
vo sulla natura? Evidentemente no, perché la natura, «provvedendo»
alla nostra conservazione, provvede anche al prolungamento della
nostra infelicità.7 Si legga il Dialogo di Plotino e di Porfirio, e se ne avrà
la conferma. A Plotino che gli aveva detto che il suicidio è biasimevole
perché contro natura, Porfirio risponde: «La natura vieta l’uccidersi.
Strano mi riuscirebbe che non avendo ella o volontà o potere di far-

7
iChe cosa implichi tale «conservazione» a cui la natura provvede, il Leopardi lo dice, per
esempio, nel Risorgimento, vv. 121 sgg.: la natura «non del ben sollecita / fu, ma dell’esser solo:
/ purché ci serbi al duolo, / or d’altro a lei non cal»; e lo aveva già detto più volte nello Zibaldo-
ne (cfr. la nota di Fubini e Bigi a quel passo del Risorgimento).
242 VI. Natura, dèi e fato nel Leopardi

mi né felice né libero da miseria, avesse facoltà di obbligarmi a vive-


re». È vero che, nel seguito del dialogo, si riprende l’argomentazione
del Bruto minore: i popoli primitivi, vivendo secondo natura, non sen-
tivano il bisogno del suicidio; lo sentiamo noi, corrotti dalla civiltà e
quindi più infelici. Ma «quella natura primitiva», «quella madre
nostra e dell’universo», alla quale Plotino si richiama per dissuadere
l’amico dal suicidio, «non ha mostrato di amarci» e «ci ha fatti infe-
lici», come Plotino stesso ammette: non è la «madre benignissima» di
un tempo, è soltanto «assai meno inimica e malefica» della civiltà.
Proprio la ripresa del vecchio motivo mette in evidenza quanto sia
ormai debole la difesa che il Leopardi fa della natura: una difesa va-
lida solo nel confronto con la presente civiltà, che ai mali naturali
aggiunge altri mali acquisiti.
Analoghe considerazioni si possono fare per il passo di Zib. 4243-
4245, anch’esso del gennaio 1827. Il Leopardi polemizza contro le
filosofie che «predicano il disprezzo del dolore» senza peraltro esser
capaci di eliminarlo; e dice che, in confronto a queste pseudo-conso-
lazioni, val meglio lo sfogo violento del proprio dolore, quale è prati-
cato dai popoli primitivi: esso è «veramente una medicina quasi un
narcotico preparata dalla natura medesima, perché l’uomo potesse
sopportare i suoi mali più leggermente». Anche qui l’assunto, per chi
legga tutto il contesto, non è la dimostrazione della bontà della natu-
ra, ma dell’impotenza delle filosofie spiritualistiche a dare la felicità
reprimendo e surrogando gli istinti naturali.
Infine, nel pensiero del 16 febbraio 1829 (Zib., 4461 sg.) si parla
di «disordini nel corso delle cose» (atti contrari alla conservazione del-
la specie, come quelli di certi animali che divorano i propri figli), i qua-
li non si possono «attribuire ad intenzione della natura», ma costitui-
scono, per così dire, delle deviazioni o anomalie. È questo un pensiero
che appartiene contemporaneamente a due diversi ordini di ragiona-
menti che il Leopardi viene svolgendo in questi anni. Da un lato il
Leopardi vuol dimostrare che l’incivilimento, pur essendo uno svi-
luppo di p o s s i b i l i t à insite nella natura, non è però uno svilup-
po «naturale», ma in qualche modo casuale o deviante: per questo ver-
so il pensiero si ricollega a quello di Zib. 4625 sg., in cui il Leopardi
aveva osservato che, se era intenzione della natura che l’uomo «così
debole e disarmato» arrivasse «coll’ingegno» alla civiltà, non si com-
prenderebbe come mai tanti popoli selvaggi non vi siano arrivati, e ave-
VI. Natura, dèi e fato nel Leopardi 243

va domandato sarcasticamente: «È stata dunque la natura così sciocca


e così mal provvidente, che ella abbia missed il suo intento per più del-
la metà?». Anche se questo concetto di «disordine» nel corso naturale
corrisponde ad una posizione ancora provvisoria e insoddisfacente, si
scorge già la direzione antiprovvidenzialistica verso la quale si muove
il pensiero leopardiano: direzione che giungerà al suo punto d’arrivo
nelle prime ottave del canto quarto dei Paralipomeni. Dall’altro lato, il
Leopardi è alle prese col problema della spiegazione di quel tanto di
teleologia che s e m b r a esservi nella natura: per questo aspetto il
pensiero di cui stiamo trattando è continuato da quello (a cui il Leo-
pardi stesso rinvia il lettore) di Zib. 4467 sg., in cui è posto il proble-
ma – che ha continuato poi e continua a occupare gli evoluzionisti – dei
«rudimenti, organi imperfetti, incoati solamente, ed insufficienti all’u-
so dell’animale», e in cui già si esprime un dubbio sull’esistenza di
«cause finali» in natura. Un’ulteriore continuazione è data dal pensie-
ro di Zib. 4510 all’inizio, in cui infine si dimostra che la teleologia è
solo apparente, con un’argomentazione geniale che, come è stato già
detto, ricorda da vicino Darwin (vedi sopra, p. 145 n. 86).
Ma ad ogni modo, ponendo il problema dei «disordini della natu-
ra», il Leopardi non intende affatto dire che l’ordine della natura è
buono, come un tempo aveva creduto. Per «ordine» egli intende sol-
tanto «la tendenza continua alla conservazione delle specie esistenti»,
la quale si attua, come ben sappiamo, soltanto col sacrificio della feli-
cità (e della vita stessa) degli individui. Pochi mesi dopo, il 17 maggio
’29 (Zib., 4510 sg.), in polemica con Rousseau che aveva affermato
che il male non può derivare che dal «disordine» arrecato dall’uomo
al sistema della natura, il Leopardi ribadisce che, anzi, i mali peggio-
ri (perché chiaramente irrimediabili) sono quelli inerenti all’«ordine»,
essenziali al «sistema».
Mi sembra che si possa concludere che nelle pagine dello Zibaldo-
ne del 1826-29 non c’è in realtà nessun ritorno alla tesi della natura
benefica. Si noti che la parte finale dello Zibaldone (se si prescinde dal-
le ultime due pagine e mezzo, che contengono pochi pensieri degli
anni ’31-’33) coincide coi canti pisano-recanatesi, detti comunemen-
te «grandi idilli», i quali spesso sono stati semplicisticamente inter-
pretati come un ritorno allo stato d’animo e alla poetica degli anni gio-
vanili. Troppo poco si è tenuto contro dei saggi nei quali Emilio Bigi
ha dimostrato che in questi canti il risveglio di commozione e di sen-
244 VI. Natura, dèi e fato nel Leopardi

sibilità poetica non annulla mai, anzi presuppone costantemente il


possesso delle verità materialistiche e pessimistiche raggiunte negli
anni precedenti.8 L’analisi dei passi dello Zibaldone che abbiamo ora
compiuto conferma questo risultato.
Col venir meno dello Zibaldone, inoltre, non cessa lo svolgimento
del pensiero leopardiano. La «nuova poetica» degli ultimi anni è
anche una posizione di p e n s i e r o almeno in parte nuova. E negli
ultimi canti la concezione della natura matrigna domina assolutamen-
te incontrastata: basti pensare a Sopra un basso rilievo antico sepolcra-
le, alla Palinodia, alla parte centrale del Tramonto della luna, alla Gine-
stra, ai Paralipomeni. Non credo che si possa – come tende a fare il
Solmi – escludere questi testi, in quanto «poetici», da uno studio sul
Leopardi «filosofo». Se è vero che lo Zibaldone stesso ci presenta più
volte il pensiero del Leopardi già atteggiato poeticamente, è anche
vero che molte poesie, e le ultime in particolar modo, sono rigorosa-
mente «ragionate» (si pensi ancora, per citare un esempio indiscuti-
bile, alle prime ottave del quarto canto dei Paralipomeni). È certa-
mente giusto insistere sulla potenza poetica della raffigurazione «di
una Natura nemica dell’uomo e di ogni altro essere vivente (...), divi-
nità sinistra identificantesi con un Arimane senza un corrispondente
Ormuzd» (Solmi, p. 14). Non si deve, però, dimenticare che alla base
di questa rappresentazione fantastica non c’è una specie di gusto byro-
niano dell’immane e dell’orrido, ma c’è quel rigoroso concetto mate-
rialistico dell’universo che il Leopardi era venuto formandosi nel
1825-27 e che aveva ulteriormente rafforzato nella polemica con gli
spiritualisti fiorentini e napoletani. Né vi è, come potrebbe sembra-
re, una contraddizione fra una natura concepita come meccanismo cie-
co e una natura odiata come «empia», come «capital carnefice e nemi-
ca» del genere umano. L’atteggiamento antagonistico (per cui la
natura è oggetto di odio) nasce dall’insoddisfatto bisogno di felicità e
dalla convinzione che qualsiasi rappresentazione ottimistica della
realtà costituisce un «conforto stolto»; ma il poeta non dimentica che,
considerata su un piano puramente teoretico, la natura non è una divi-
nità malvagia, ma solo un meccanismo inconsciente e non-provviden-
ziale. Spesso, anzi, le più aspre invettive contro la natura sono segui-

8
iE. Bigi, Dal Petrarca al Leopardi, Milano-Napoli 1954, pp. 143-145: La genesi del «Canto
notturno» cit., pp. 95-101, 111 sg., 194 sg.
VI. Natura, dèi e fato nel Leopardi 245

te da precisazioni in quel senso: anche nei momenti più vigorosamen-


te poetici sembra quasi che il Leopardi, sempre presente a se stesso,
voglia mettere in guardia contro il pericolo di prendere alla lettera l’an-
tropomorfizzazione della natura. Così nel Dialogo della Natura e di un
Islandese dice la Natura: «Ora sappi che nelle fatture, negli ordini e nel-
le operazioni mie, trattone pochissime, sempre ebbi ed ho l’intenzio-
ne a tutt’altro, che alla felicità degli uomini o all’infelicità». E nel can-
to Sopra un basso rilievo antico sepolcrale, dopo quella serie di incalzanti
domande e accuse alla natura, ecco la riflessione finale: «Ma da natu-
ra / altro negli atti suoi / che nostro male o nostro ben si cura». E nei
Paralipomeni (IV, st. 12-13), subito dopo averla detta «capital carnefi-
ce e nemica» dei suoi figli, il poeta soggiunge, correggendosi, che la
natura è «piuttosto ad ogni fin rivolta, / che al nostro che diciamo o
bene o male», o, meglio ancora, priva di ogni fine, «da fini sciolta».
Che, del resto, non possa esservi tra le due idee leopardiane di natu-
ra benefica e di natura matrigna una coesistenza pacifica è conferma-
to da quei pensieri del 1821-23 che segnano il tormentoso passaggio
dall’una all’altra idea. Si rilegga un momento il pensiero del 20 agosto
1821 (Zib. 1530 sg.) in cui il Leopardi chiama ancora la natura «madre
benignissima del tutto», e si propone di «iscusar gl’inconvenienti acci-
dentali che occorrono nel sistema della natura», e proprio a titolo di
giustificazione osserva che la conservazione dell’universo richiede
necessariamente il sacrificio degli individui, e talvolta anche delle spe-
cie, e che «l’ordine naturale è un cerchio di distruzione, e riprodu-
zione». Giustamente il Solmi dice che qui c’è il germe del Dialogo del-
la Natura e di un Islandese, «che ne ricalca persino un inciso»: nella
giustificazione ci sono già tutti gli elementi sui quali il Leopardi baserà
di lì a non molto la condanna. Questa è dunque già la natura malefica,
eppure, in quanto il Leopardi si sforza ancora di scusarla, è ancora la
natura benigna. Come si può, di fronte a questa transizione in atto,
pensare che il Leopardi non avesse coscienza di un proprio travaglio
e, più tardi, di un proprio mutamento d’opinione riguardante la mede-
sima entità? Come si può pensare a un mero equivoco terminologico,
derivato dal chiamare due distinte entità con lo stesso nome? **
Osserva ancora il Solmi (p. 13 sg.): «È evidente che Leopardi non
avrebbe mai potuto rinunciare all’idea di una Natura provvidenziale,
fondamentalmente benigna (...). Se egli vi avesse rinunciato, pressoché
nulla del suo “sistema” sarebbe rimasto in piedi. Non l’idea della pre-
246 VI. Natura, dèi e fato nel Leopardi

cellenza dello stato originario dell’uomo, nonché delle repubbliche an-


tiche, più vicine alla Natura. Non l’idea dei forti errori e illusioni (...).
Non l’idea della corruzione e della decadenza della civiltà moderna ad
opera della ragione allontanatasi dalla Natura. Non quella della superio-
rità della poesia omerica e primitiva, con la sua potenza fantastica ori-
ginata direttamente dalla Natura, a contrasto con la decaduta poesia
“sentimentale” dei moderni, che a quella fonte non sa più attingere».
È un’osservazione intelligente: i corollari della prima concezione
della natura erano per il Leopardi, in un certo senso, più importanti
della concezione in quanto tale, e mantennero certamente nel suo pen-
siero una vitalità, in qualche misura, autonoma, anche dopo il dile-
guarsi dell’idea che li aveva generati e sorretti. Ma ciò che più inte-
ressa, a mio parere, consiste proprio nella trasformazione che questi
temi subiscono nell’ultimo Leopardi: una trasformazione che tende a
sganciarli il più possibile dal sistema entro il quale erano sorti, e ad
inserirli nel nuovo sistema materialista-pessimistico.
Si segua, per esempio, il tema delle illusioni. Già nei canti del ’28-
’29 – che pure rappresentano, ma nel senso e con le riserve che abbia-
mo accennato sopra, un «risorgimento» degli antichi affetti e dell’an-
tico bisogno di appassionarsi e di fantasticare –9 la natura non è
veduta come madre pietosa che dà all’uomo le illusioni per rendergli
meno infelice l’esistenza, ma come ingannatrice che illude per poi
deludere. «O natura, o natura, / perché non rendi poi / quel che pro-
metti allor? perché di tanto / inganni i figli tuoi?». La colpa della cadu-
ta delle illusioni non è più attribuita all’uomo che ha distrutto la sag-
gia opera della natura, ma alla natura stessa, all’inesorabile vicenda
biologica che condanna gli esseri viventi o alla morte immatura (col
rimpianto di non aver goduto la felicità sperata e di lasciare nel lutto
i propri cari) o ad una sopravvivenza non più allietata dalla speranza:
Silvia e il poeta stesso rappresentano emblematicamente queste due
possibili sorti dell’uomo.
Per questo aspetto, il canto Sopra un basso rilievo costituisce una
continuazione e un approfondimento di A Silvia, su un piano meno

9
i Vedi i saggi del Bigi cit. sopra, nota 8. Vorrei aggiungere che il Risorgimento costituisce assai
meno di quanto di solito si creda una «prefazione» o un annuncio dei canti successivi. Lo è solo
in quanto segna il ridestarsi degli affetti e della fantasia; ma quel tenue filo di speranza e di capa-
cità di godimento del presente (pur nel permanere del «pessimismo dell’intelligenza») che il Risor-
gimento esprime, non trova alcuna prosecuzione in A Silvia e nei canti recanatesi del 1829-30.
VI. Natura, dèi e fato nel Leopardi 247

intensamente lirico, ma più dolorosamente meditativo. Qui la natura


è incolpata non solo della frustrazione delle illusioni giovanili (v. 57
sgg. «Piacqueti che delusa / fosse ancora dalla vita / la speme giova-
nil»), ma anche di aver gravato gli uomini di un’illusione malefica,
cioè del timore di quella morte che, pure, rappresenterebbe l’unico
scampo all’infelicità: «Ahi perché dopo / le travagliose strade, almen
la meta / non ci prescriver lieta? / (...) colei che i nostri danni / ebber
solo conforto, / velar di neri panni, / cinger d’ombra sì trista, / e spa-
ventoso in vista / più d’ogni flutto dimostrarci il porto?».
E ancora si veda il ventinovesimo dei centoundici Pensieri (redatti
dopo il ’30). Quel che il Leopardi osserva sull’utilità dell’impostura,
capace di rendere lucroso perfino lo sterile mestiere del letterato, è
trascritto quasi alla lettera da un passo dello Zibaldone di molti anni
prima (1787 sg., 25 settembre 1821). Ma nuova è la considerazione
finale: «La natura medesima è impostora verso l’uomo, né gli rende
la vita amabile o sopportabile, se non per mezzo principalmente d’im-
maginazione e d’inganno». Alle illusioni (finché durano) è ancora rico-
nosciuto un valore positivo, ma quel duro termine «impostora» indi-
ca quanto la valutazione della natura è mutata.
Questo nuovo atteggiamento non esclude la contemplazione della
bellezza della natura; ed è quindi, come già abbiamo accennato,10 un
errore quello di sottovalutare i momenti cosiddetti «idillici» nell’ulti-
mo Leopardi, di considerarli soltanto come dei residui o delle ricadu-
te in una poetica ormai sorpassata. Piuttosto, questa bellezza è ora
contemplata con la consapevolezza del suo carattere effimero e ingan-
nevole: nel Tramonto della luna i «mille vaghi aspetti / e ingannevoli
obbietti» creati dalla luce lunare sono appunto un’allegoria dell’illu-
sorietà e fugacità della giovinezza. E l’affetto del poeta non va più
(come ai tempi del discorso sulla poesia romantica, o della canzone
Alla Primavera, o della lettera del 6 marzo 1820 al Giordani) alla natu-
ra unitariamente intesa come una forza primigenia da cui l’uomo si è
colpevolmente distaccato, ma alle singole creature e alla loro soffe-
renza: non solo il titanismo, ma anche la «pietà»,11 nella particolare
forma che essa assume dalla svolta del ’25-’27 in poi, fino alla Gine-
10
iQui sopra, pp. 140-141 e n. 81; cfr. anche «Belfagor» XXIII, 1968, p. 254 sg.
11
iSul motivo della «pietà» in tutta l’opera leopardiana vedi il libro di Umberto Bosco già più
volte citato. Sul particolare accento che questo motivo assume dopo il raggiungimento di un coe-
rente materialismo da parte del Leopardi, cfr. i saggi del Bigi già citati.
248 VI. Natura, dèi e fato nel Leopardi

stra stessa, presuppone l’avversione contro il «sistema della natura» di


cui tutti i singoli esseri, non esclusi gli animali e le piante, sono vittime.
Un’analoga trasformazione subisce il motivo della superiorità degli
antichi. Negli ultimi pensieri dello Zibaldone, e poi nel Tristano e nel-
l’esordio dei Nuovi credenti, tale superiorità non è più fondata sulla
loro maggiore capacità di gagliarde illusioni, ma piuttosto sul loro pos-
sesso di una saggezza pessimistica non ancora adulterata dai sofismi
delle varie filosofie spiritualistiche né dalle «barbare» superstizioni
cristiane. Si è già veduto sopra (p. 164 sg.) come tale mutamento di
prospettiva, per cui «Omero e Salomone» divengono i rappresentan-
ti di questo pessimismo originario, abbia avuto inizio dalla «scoperta
del pessimismo antico» compiuta dal Leopardi ai primi del 1823 e poi
sempre più approfondita. Giustamente il Di Benedetto (art. cit.,
pp. 316-318) ha richiamato l’attenzione sull’importanza che in que-
sto sviluppo della meditazione leopardiana sugli antichi ha il passo di
Zib. 4478 (31 marzo 1829), in cui la superiorità degli antichi «in tut-
te le cose il riconoscimento delle quali non dipende da osservazione e
da esperienza materiale» è asserita con inconsueta recisione e globa-
lità. Certo, come giudizio storico quel pensiero può essere considera-
to un passo indietro rispetto a precedenti osservazioni dello Zibaldo-
ne, in cui le filosofie antiche erano assai meglio distinte l’una
dall’altra, collocate e valutate storicamente: in questo il Di Benedet-
to ha ragione. Tuttavia quel pensiero non è senz’altro «un segno evi-
dente dell’involuzione nel Leopardi delle sue capacità di approfondi-
mento filosofico in questi ultimi anni», ma fa parte del tentativo di
riformulare la tesi della superiorità degli antichi in termini conciliabi-
li col pessimismo «cosmico» da lui raggiunto. Osservando che «non è
raro che le genti del volgo e i fanciulli abbiano di molte cose opinioni
migliori o più ragionevoli che i sapienti», e motivando con questa con-
siderazione la superiorità della Weltanschauung degli antichi, il Leo-
pardi non intendeva fare una professione di qualunquismo antifiloso-
fico, ma voleva piuttosto rivalutare quel tanto di realismo, di
antimetafisica, di materialismo sia pure embrionale che c’è nel «buon
senso» o «senso comune»: la lettera a Pietro Colletta del marzo 1829
(contemporanea, quindi, all’appunto dello Zibaldone) mostra come
egli progettasse addirittura un’operetta su questo tema.12 La rivaluta-
12
iSul significato che i riferimenti al «buon senso» e al «senso comune» hanno nel Leopardi
VI. Natura, dèi e fato nel Leopardi 249

zione del senso comune implicava, per contrapposto, una polemica


contro una lunga tradizione di pensiero che aveva assegnato alla filo-
sofia un ruolo di «consolazione», o addirittura di «negazione» (nega-
zione solo nel pensiero, non già soppressione reale) della finitezza,
caducità, infelicità umana: polemica che diverrà esplicita nei Parali-
pomeni, IV, st. 14: «Non è filosofia se non un’arte ...» ecc. Senonché
nei Paralipomeni, divenuta più consapevole e più polemica la sua
avversione allo spiritualismo, egli individuerà nel pensiero materiali-
stico del Settecento, più che nella saggezza pessimistica antica, il
momento culminante di questa lotta contro i sofismi della «filosofia».
Interessante è, comunque, nel pensiero del 1829 una particolare
formulazione della tesi della superiorità del buon senso: «Oltre che la
natura, voglio dir la ragione semplice, vergine e incolta, giudica spes-
sissime volte più nettamente che la sapienza, cioè la ragione coltivata
e addottrinata». Qui la natura, ovviamente, non è la forza malefica
che governa il mondo, ma non corrisponde nemmeno alla prima con-
cezione leopardiana: non è più contrapposta alla ragione, anzi si iden-
tifica con la ragione non sofisticata; quell’epiteto, «vergine», così ca-
ratteristico della natura vagheggiata dal primo Leopardi in antitesi alla
ragione, ora serve a caratterizzare la ragione non corrotta dallo spiri-
tualismo.
Ciò che nell’ultimo Leopardi soprattutto rimane della sua prima fi-
losofia, è l’idea che una civiltà degna di questo nome non debba repri-
mere quegli impulsi vitali dell’uomo che sono tutt’uno col suo bisogno
di felicità individuale: la lotta contro la natura non dev’essere asceti-
smo e rinuncia. In questo senso mantiene anche per l’ultimo Leopar-
di la sua validità (e non è in contraddizione con la nuova concezione
della natura) la polemica contro un falso progresso, che ai mali irri-
mediabili della situazione biologica dell’uomo ha aggiunto quelli di
una falsa educazione e di falsi rapporti sociali (vedi sopra, p. 128).
Senonché il rimedio, almeno parziale, che egli indica ora non è più una
restaurazione degli «ameni inganni» delle età primitive, ma anzi un
ultrailluminismo, che riconduca la società allo scopo per cui fu ini-
zialmente costituita: l’unione di tutti gli uomini contro la natura.

(in connessione, soprattutto, con l’operetta di Holbach, Le bon sens, da lui letta e citata) vedi le
ottime precisazioni di G. Savarese, Saggio sui «Paralipomeni», Firenze 1967, pp. 23 sg., 146-149.
VII.
Note leopardiane ∼

Testo epigrafe, testo epigrafe, testo epigrafe, testo epigrafe,


testo epigrafe, testo epigrafe.
Nome Cognome

1. «Strigne più la camicia che la sottana»

In quell’autentico gioiello di prosa satirica che è il dialogo Filoso-


fo greco, Murco senatore romano, popolo romano, congiurati (PP I,
pp. 1057-1059; TO I, pp. 192-194), Murco, amico di Cesare ma pron-
to a rinnegarlo all’arrivo dei congiurati che lo hanno ucciso, si fa pre-
stare dal Filosofo greco uno stilo da scrivere: «Murco: Date date,
anche questo farà. Mi caccerò tra la folla, e mi crederanno uno de’
congiurati. – Filosofo: A maraviglia: l’amico di Cesare. – Murco: Stri-
gne più la camicia che la sottana».
L’unico commento a questo passo è di Giovanni Ferretti, nell’edi-
zione delle Opere leopardiane da lui curata (vol. II, Prose, Torino,
Utet, rist. 1964, p. 291): «Strigne più la camicia ecc. Il senso di questo
proverbio, di cui non ho trovati altri esempi, è: bisogna badare all’es-
senziale, a ciò che stringe di più. E l’essenziale era, per Murco, salvar
la vita». Nel recente e ricco commento alle Operette (Napoli, Guida,
1977, p. 479) Cesare Galimberti riporta tale e quale la nota del Fer-
retti, citandolo. Gli altri editori e commentatori tacciono.
Il Ferretti non trovò altri esempi di quel detto perché dovette con-
sultare soltanto repertori di proverbi italiani. Ma la Crusca, nell’edi-
zione di Venezia 1697 posseduta dal Leopardi, alla voce camicia anno-
ta: «Da camicia abbiamo il proverbio: Egli strigne più la camicia, che
la gonnella: cioè che s’ha più riguardo al suo interesse, ch’a quel d’al-

∼iInedite {nel 1980 – N.d.c.}, tranne la terza, già pubblicata nel «Giornale storico della let-
teratura italiana», CXXXVIII (1961), pp. 101-106, e qui ristampata con aggiunte.
VII. Note leopardiane 251

trui. Lat. tunica pallio propior est». Nell’edizione del 1806 (si tratta
della famosa Crusca veronese con le aggiunte del padre Cesari, anch’es-
sa posseduta dal Leopardi), la spiegazione è un po’ mutata e amplia-
ta: «Dicesi in proverbio: Strigne più la camicia, che la gonnella; e vale,
che s’ha più riguardo al suo interesse, o de’ suoi, che a quel d’altrui.
Lat. Tunica pallio propior est. Gr. γνυ γγιον κνµης. Lasc. Spir.
(cioè Lasca, “La Spiritata”) 3.2. Strigne più la camicia che la gonnella».1
Consultatore, anzi lettore assiduo della Crusca, il Leopardi avrà attin-
to da essa, piuttosto che dal Lasca, il proverbio; e tanto più si sarà sen-
tito autorizzato ad usarlo in un dialogo tra personaggi antichi, in quan-
to esso aveva i suoi corrispettivi in latino e in greco.
Neppure nella spiegazione del proverbio il Ferretti è del tutto esat-
to, anche se si tratta di sfumature. Non è che si deva badare «all’es-
senziale», cioè a ciò che «stringe» (preme, importa) di più. Il prover-
bio contiene un paragone: come la camicia è più vicina al nostro corpo
(lo stringe, lo tocca più da presso) che la sottana, così il nostro inte-
resse particolare ci è più vicino di quello degli amici: non c’è maggior
prossimo di noi stessi. Equivale a questo il proverbio citato dal Giu-
sti (e richiamato da C. F. Russo, loc. cit.): «Il dente è più vicino di cia-
scun parente».

2. «Il Giordani, il Montani, il Vieusseux vi risalutano caramente»**

Ogni volta, si può ben dire, che si riscontra sull’autografo una let-
tera del Leopardi (sia che la più recente edizione sia stata condotta sul-
l’autografo stesso, sia, a maggior ragione, su una copia), si trova qual-
che inesattezza di lettura da rettificare: minuzie per lo più, ma qualche
volta minuzie non insignificanti.
Ho sott’occhio la riproduzione fotografica della lettera del 26 set-
tembre 1827 a Niccolò Puccini, che è stata posta come copertina all’o-
puscolo Spigolature dalla libreria di Niccolò Puccini, Mostra per la
sezione ottocentesca del Museo Civico a cura di Alessandro Aiardi e
Maria Solleciti (comune di Pistoia, Assessorato agli Istituti culturali,

1
iPer i passi latini e greci (che la Crusca cita con qualche inesattezza nell’ordine delle paro-
le) vedi il commento di Carlo Ferdinando Russo a Seneca, Divi Claudii Α  ποκολοκντωσις,
Firenze 19644 (rist. 1970), p. 100.
252 VII. Note leopardiane

1977). La collaziono con l’edizione del Flora (G. L., Le lettere, Mila-
no 1949 e successive ristampe, p. 788), condotta sull’autografo che si
trova nella biblioteca Forteguerriana di Pistoia, e quindi molto più
corretta di quella del Moroncini (G. L., Epistolario, IV, Firenze 1938,
p. 312) che riproduce una vecchia copia.2 Eppure trovo ancora qualco-
sa. Invece che «il Giordani, il Montani, il Vieusseux v i s a l u t a n o
caramente», il Leopardi ha scritto «vi risalutano», cioè vi ricambiano
i saluti. Questo significato di risalutare (corrispondente al latino resa-
lutare, e più arcaico quindi dell’altro, più frequente, di «salutare di
nuovo») è notato nella Crusca veronese (cfr. la noterella precedente) ed
è registrato in alcuni dizionari come significato corrente, sebbene io
lo creda ormai obsoleto. L’errore di trascrizione «salutano», che si
trova già nella prima edizione dell’epistolario dovuta a Prospero Via-
ni, è una tipica banalizzazione. Il Leopardi si è espresso con la sua abi-
tuale esattezza, perché il Puccini (G. L., Epistolario a cura di F.
Moroncini, vol. IV cit., p. 309, 23 settembre 1827) gli aveva scritto:
«... di Giordani, di Vieusseux, di Montani, di Niccolini (i quali tutti
voi mi saluterete)». Si trattava dunque di un ricambio di saluti; il Nic-
colini non è menzionato perché il Leopardi non lo aveva ancora vedu-
to (nella lettera di cui ci occupiamo, subito dopo la frase da noi ripor-
tata, egli soggiunge: «farò le parti vostre col Niccolini quando io lo
vegga, che sarà presto»).
Già che ci siamo, notiamo due minuzie ancor più minute. Gli edi-
tori tutti datano giustamente questa lettera al 26 settembre 1827, ma
nell’autografo, per un lapsus, è scritto chiaramente 1825: data impos-
sibile, poiché il 26 settembre 1825 il Leopardi partiva da Milano per
Bologna, né era ancora entrato in corrispondenza col Puccini, alla cui
lettera di pochi giorni prima, come abbiamo visto, egli risponde; ma
sebbene sulla data 1827 non vi sia alcun dubbio, converrebbe forse
avvertire che essa risulta da una correzione. Nel secondo periodo del-
la lettera gli editori interpungono: «Vi ringrazio molte e molte volte,
senza fine, dell’amore e della cortesia che mi dimostrate» ecc. Inter-
punzione «logica» ineccepibile; ma il Leopardi non aveva posto alcu-
na virgola dopo «volte» e quell’unica sequenza «molte e molte volte

2
iL’edizione di Binni e Ghidetti, mentre per molti altri scritti leopardiani rappresenta un
progresso rispetto a quella del Flora, per l’epistolario riproduce il testo del Flora senza alcuna
variazione.
VII. Note leopardiane 253

senza fine» va lasciata così, perché ha una maggiore intensità emoti-


va, anche se dal punto di vista meramente logico, che non sempre il
Leopardi rispetta nell’interpunzione, la virgola dopo «fine» ne richie-
derebbe una precedente.3

3. «Gli sguardi innamorati e schivi» (A Silvia, 46)

Tu pria che l’erbe inaridisse il verno,


Da chiuso morbo combattuta e vinta,
Perivi, o tenerella. E non vedevi
Il fior degli anni tuoi;
Non ti molceva il core
La dolce lode or delle negre chiome,
Or degli sguardi innamorati e schivi;
Né teco le compagne ai dì festivi
Ragionavan d’amore.

Vito R. Giustiniani ha sostenuto che «sguardi innamorati» è da


intendere in senso attivo: «sguardi che suscitano amore».4
Tale interpretazione non è menzionata da nessuno dei commenta-
tori leopardiani,5 i quali o col loro silenzio mostrano di attribuire a
innamorati il suo significato usuale, o difendono esplicitamente questo
significato,6 o, infine, intendono l’aggettivo in un senso più ampio e
vago («pieni d’amore, e come incantati», parafrasa il De Robertis), ma
non esplicitamente attivo.
L’interpretazione del Giustiniani era stata invece, come egli stesso
ricorda, già precorsa in parte dalla Crusca.7 Lì, alla voce Innamorato,
il passo leopardiano si trova citato sotto il lemma «Che dimostra amo-
re; ed altresì Che ispira amore, amoroso» (§ VII), insieme ad un esem-
pio del Petrarca: «Stelle noiose fuggon d’ogni parte, Disperse dal bel

3
iPer altri contributi a una futura edizione dell’epistolario leopardiano – in gran parte for-
nitimi da Augusto Campana – vedi «Giorn. Stor. Lett. ital.», CXXXV (1958), pp. 617-626.
Vedi anche Ginetta Auzzas, in «Studi in onore di Mario Puppo», Padova 1969, pp. 43-48.
4
iV. R. Giustiniani, Silvias «verliebte» Blicke, in «Romanische Forschungen», LXXII, 1960,
p. 99 sgg.
5
i| Affermazione troppo drastica: vedi la postilla qui sotto, pp. 258-259 |.
6
iCosì il Flora: «Gli sguardi di Silvia sarebbero pure stati innamorati un giorno! E proprio
di qualcuno tra i giovani che lodavano i suoi capelli e i suoi occhi». Ma cfr. le considerazioni
del Giustiniani che riferiamo più oltre.
7 a
i5 ed., Firenze 1894, p. 849.
254 VII. Note leopardiane

viso inamorato Per cui lagrime molte son già sparte»,8 e ad uno del
Boccaccio: «Se tu ci rechi la ribeba tua, e canti un poco con essa di
quelle tue canzoni innamorate, tu la farai gittare a terra dalle finestre
per venire a te».9
Il lemma della Crusca, certo, non è univoco: «Che dimostra amore»
e «Che ispira amore» sono due significati diversi, il primo ancora una
semplice sfumatura dell’usuale significato passivo («Che prova amo-
re»), il secondo, invece, chiaramente attivo: «Che innamora». Al
significato passivo mi sembra ancora riconducibile l’esempio del Boc-
caccio: le «canzoni innamorate» possono essere canzoni dettate da
amore, anche se, a loro volta, susciteranno amore in altri. Ma nell’e-
sempio petrarchesco il significato passivo è escluso: Laura non prova
amore, ma solo lo suscita. Un interprete cauto può tutt’al più fermar-
si a un significato neutro: «il bel viso in cui risiede, in cui regna Amo-
re»;10 ma insomma in esso è contenuto, almeno potenzialmente, un
valore attivo. Lo stesso si dica di un altro passo del Petrarca, citato a
raffronto dai commentatori del Canzoniere: «Pace tranquilla senza
alcuno affanno, Simile a quella ch’è nel ciel eterna, Muove da lor ina-
morato riso» (degli occhi di Laura).11
L’interpretazione del passo leopardiano accennata dalla Crusca ha,
dunque, validi raffronti a suo appoggio.12 Ma il Giustiniani ha avuto
il merito, non solo di richiamare su di essa l’attenzione dei leopardi-
sti, ma di confermarla con nuovi argomenti tratti dal Leopardi stes-
so. Egli fa notare, anzitutto, come il significato passivo sia in contra-
sto con la situazione psicologica immaginata dal poeta. Quella prima
gioia nel sentirsi ammirata, che a Silvia non fu concesso di provare,
sarebbe stata comunque, ancora, qualcosa di ben diverso dall’amore
per una determinata persona; e i giovani corteggiatori non avrebbero

8
iÈ la terzina finale del sonetto Ma poi che ’l dolce riso.
9
iDecam., IX, 5.
10
i«Pieno d’amore», parafrasano il Carducci e il Ferrari nel loro commento.
11
iCanzone Poi che per mio destino, vv. 67-69.
12
iLa stessa interpretazione si ritrova nel Dizionario enciclopedico italiano e nel Lessico uni-
versale italiano (s. v.), dove il passo del Leopardi è citato insieme a quello del Boccaccio sotto il
lemma «Che esprime e ispira amore» (anche qui, come nella Crusca, sono messi insieme due signi-
ficati alquanto diversi). Nel Tommaseo-Bellini l’esempio leopardiano non figura (il Tommaseo
citava il Leopardi solo quando credeva di poter fare del sarcasmo su qualche sua espressione, come
alla voce procombere): sono invece citati, al paragrafo 6 («Dei segni esprimenti l’amore»), gli esem-
pi del Petrarca e del Boccaccio (quello del Petrarca con la ridicola interpretazione «Che ispira l’a-
more, e però par che lo senta»!) e uno del Gozzi in cui l’aggettivo ha il significato usuale.
VII. Note leopardiane 255

certo lodato Silvia come già innamorata di uno di essi, ma come tale
da innamorare col suo sguardo. Il Giustiniani, inoltre, ricorda che il
Leopardi stesso, come dimostra lo Zibaldone, aveva studiato a lungo
il problema dei participi latini e romanzi e aveva già visto con perfet-
ta chiarezza ciò che più tardi la linguistica storica ha confermato: che
il participio latino è in origine un puro e semplice aggettivo verbale,
indipendente dalle categorie della diatesi e del tempo, nelle quali si
inquadra solo più tardi, e non mai completamente, per svincolarsene
poi di nuovo nelle lingue romanze. Quindi in latino participi come
potus, cenatus, profusus (= «che profonde», in Sallustio), scitus, e mol-
ti di più in testi popolareggianti, arcaici o tardi; quindi anche in ita-
liano, per esempio, discreto = «che sa discernere», trascurato = «che
trascura», falso = «ingannatore», e via dicendo.13 E anche sul caso
specifico di innamorato = «che innamora» si era soffermata, pochi
anni prima della composizione di A Silvia, l’attenzione del Leopardi
filologo: in una schedina di appunti, da lui intitolata Carte supplemen-
tarie di Bologna,14 egli aveva annotato: «Entendu, per intendente.
Innamorato per che innamora. Petr. Son. Ma poi che ’l dolce riso v.
penult.», e poco più sotto «Spasimato per spasimante. Crus(ca)».15 E
ripeté la nota nello Zibaldone,16 aggiungendovi anche l’altro esempio
petrarchesco, della canzone Poi che per mio destino; e nel commento
13
iIl Giustiniani cita passi dello Zibaldone scritti «tra l’estate del 1823 e la primavera del
1826», e in particolare uno del novembre 1823 (p. 3851 sg. dell’autografo). Ma il primo accen-
no ai «participi in tus de’ verbi neutri o attivi latini» che, pur essendo «di desinenza passiva»,
hanno la «significazione attiva o neutra», è in un pensiero del 1821 (Zibaldone, 1107). Vedi poi
i passi dello Zibaldone elencati dal Leopardi stesso nel suo indice, Polizzine a parte, alla voce
«Participii in US de’ verbi neutri o attivi» (TO, II, p. 1272); e poi ancora pp. 4450, 4469, 4485,
4495, 4517 dell’autogr., e altrove. Gli esempi tratti da lingue romanze (specialmente dallo spa-
gnolo) prevalgono sui latini a cominciare da p. 3851. Per trattazioni moderne dell’argomento,
vedi la bibliografia citata dal Giustiniani nel suo articolo, pp. 100-102. Per il legame che nel pen-
siero del Leopardi vi era tra l’argomento specifico dei participi e il tema più generale del latino
volgare e dei suoi rapporti col latino arcaico da un lato, con le lingue romanze dall’altro, vedi
specialmente p. 4062 dello Zibaldone (TO, II, p. 1051) e La filologia di G. Leopardi, Bari 19782
pp. 54-58.
14
iBibl. Nazionale di Firenze, Banco rari 342, inserto 12, 3 (ora in G. L., Scritti filologici a
cura di G. Pacella e S. Timpanaro, Firenze 1969, p. 635 e p. 633, nota a r. 1). Il Giustiniani non
poteva conoscere questa scheda, allora inedita. Niente di male, giacché il suo contenuto, come
diciamo subito dopo, si ritrova anche in un passo dello Zibaldone che egli cita.
15
iDi quest’uso di spasimato la Crusca (ed. di Venezia 1741, IV, p. 426) citava esempi di
Firenzuola, Davanzati, L. Salviati. Ma, come mi ricorda Luigi Blasucci, anche il Leopardi, nel-
la canzone Nella morte di una donna fatta trucidare col suo portato (1819), aveva scritto: «Invan
le braccia Spasimate stendesti» (v. 34 sg.).
16
ip. 4140: il pensiero è del settembre 1825.
256 VII. Note leopardiane

al Petrarca (composto anch’esso nel ’25) annotò ad entrambi i passi:


«Innamorato. Amoroso. Che innamora».
Gli argomenti del Giustiniani basterebbero già, io credo, a dimo-
strare la giustezza dell’interpretazione attiva di «sguardi innamorati».
Che un’espressione, dopo avere interessato il Leopardi per motivi
strettamente fìlologici, sia entrata a far parte del suo linguaggio poe-
tico, è un fatto di cui si possono citare altri esempi.17 Ma, in questo
caso, l’espressione leopardiana ha anche un’altra fonte. A p. 29 del-
l’autografo dello Zibaldone (TO, II, p. 20), tra le «canzonette popola-
ri che si cantavano al mio tempo a Recanati», c’è questa, con la data
del maggio 1819:
Io benedico chi t’ha fatto l’occhi,
Che te l’ha fatti tanto ’nnamorati.

Innamorati ha qui, senza alcun dubbio, valore attivo; ed è riferito


anche qui agli occhi, come nella canzone del Petrarca e come in A Sil-
via.18 Ma l’analogia coi versi di A Silvia non riguarda solo l’espressio-
ne isolata, si estende a tutto il contesto. La «canzonetta» recanatese
è, come altre che il Leopardi cita in quella stessa pagina dello Zibal-
done, una serenata popolare: una di quelle «dolci lodi», appunto, che
i giovani di Recanati cantavano alle fanciulle, e di cui Silvia non arrivò
a sentire la lusinga.19 Mi pare indubitabile che all’origine di quei ver-
si di A Silvia ci sia (profondamente trasfigurato, certo, spogliato di
ogni colore «folcloristico») il ricordo del canto popolare udito tanti
anni prima. Di lì dunque – prima ancora che dalla lettura del Petrar-
ca e dall’interesse erudito per i participi attivi – venne al Leopardi
anche il significato attivo di «innamorati».
Naturalmente, la pura e semplice spiegazione del significato non
esaurisce il valore suggestivo e musicale della parola, che è anzi accre-
17
iLa frase magniloquente-ironica della Palinodia (v. 28 sg.) «Aureo secolo omai volgono, o
Gino, I fusi delle Parche», riecheggia, come notò il Flora, un passo di Simmaco che aveva inte-
ressato il Leopardi per la forma neutra fusa e per il ritmo della clausola (cfr. Zibaldone, p. 1181).
18
iG. Crocioni, Il Leopardi e le tradizioni popolari, Milano 1948, p. 195, nota l’analogia tra
gli «occhi ’nnamorati» della canzonetta popolare e gli «sguardi innamorati» di Silvia, ma non
si pronuncia sull’interpretazione dell’aggettivo. Altra questione – che il Crocioni non pone nem-
meno, e che io non sono in grado di risolvere – è l’eventuale rapporto fra i passi del Petrarca e
il canto recanatese (che, come molti canti popolari, può benissimo aver avuto fonti letterarie
più o meno indirette). Cfr., del resto, Zibaldone, p. 4485: «Penato per penante. Crusca e volgare
marchegiano».
19
iCfr. anche Le ricordanze, 162 sgg.
VII. Note leopardiane 257

sciuto proprio dalla possibilità di molteplici significati accessori. In


questo senso, l’interpretazione più vaga del De Robertis, che abbiamo
ricordato all’inizio, mantiene il suo valore e costituisce un implicito
ammonimento a non voler precisare troppo. E tuttavia, dal chiari-
mento del significato fondamentale deve pur partire l’interprete, spe-
cialmente per un poeta come il Leopardi, in cui – a differenza che in
altri più recenti – la parola non è mai pura musicalità, pura suggestio-
ne evocativa, ma serba sempre un nucleo semantico ben preciso.

Alla prima redazione di questa nota (in «Giorn. Stor. Lett. it.» CXXX-
VIII, 1961, p. 101 sgg.) Mario Fubini, allora direttore del «Giornale»,
aggiunse la seguente postilla, che mi piace qui riprodurre: «Per desiderio
di Sebastiano Timpanaro (...) faccio seguito alla sua prima “nota” con
pochi appunti, riferendo la citazione che a conferma dell’interpre-
tazione da lui sostenuta, gli avevo comunicato in una lettera: alcuni
versi della canz. “Donna ne gli occhi vostri” di Eustachio Manfredi:
“Quanto sopra del vostro esser mortale / alzar poteavi un solo / di que’
soavi innamorati sguardi!” (vv. 84-86); e saranno pure da ricordare
per la retta interpretazione degli «innamorati sguardi», se pur potes-
se sorgere un dubbio sul significato di questa voce in chi conosca la
canzone e il motivo tutto che la informa, altri che si leggono nella
stanza precedente: “Amor, tu ’l sai che (...) additasti al cor mio / in
quai modi celesti / costei l’alme solleva e le innamora” (vv. 68-74).
Aveva dunque presente il Leopardi (come pensa il Giustiniani) un’e-
spressione consacrata da un’illustre tradizione letteraria, di cui con
tanti altri ci è offerto un esempio dal raffinatissimo petrarchista Man-
fredi, o non piuttosto (come suggerisce qualche commentatore) la
“canzonetta popolare” cantata a Recanati, di cui aveva preso nota nel-
lo Zibaldone? È questo per se stesso un caso tipico della confluenza di
espressioni della poesia d’arte e della poesia popolare, ma per ciò che
si riferisce al nostro poeta ci sembra che l’una e l’altra suggestione non
siano da escludere. Certo il Leopardi si sarà compiaciuto risentendo in
quella canzonetta una voce della lingua letteraria, come si compiace-
va sentendo “in bocca de’ contadini e della plebe minuta” deIla sua
terra il “ragionare” e altre simili voci nell’accezione letteraria e arcai-
ca (lett. al Giordani del 30 maggio 1817). Così esse venivano ad assu-
mere per lui carattere di voci familiari insieme e peregrine e come tali
a comporsi nel suo linguaggio poetico tutto classico e pur atto a ren-
dere senza deformarlo anche quel piccolo mondo a cui rivolgeva amo-
258 VII. Note leopardiane

rosamente lo sguardo.20 Perciò negli “sguardi innamorati e schivi”


possiamo sentire la presenza della canzonetta recanatese come di voci
della più illustre poesia: così nella canzone Alla sua donna – una del-
le vette della lirica leopardiana, – il “faticoso” nell’accezione più rara
ha dietro di sé esempi illustri come quello del Tasso, ma pur ci sembra
leggendo quel verso “del faticoso agricoltore il canto” che con quegli
esempi il poeta avesse nell’animo l’eco di un’altra canzonetta ricorda-
ta nella medesima pagina dello Zibaldone: “I contadì fatica e mai non
lenta ...”. E sarà da aggiungere l’osservazione del Bacchelli a proposi-
to del “tenerella” (“perivi, o tenerella”): “I vezzeggiativi, proprio di
questa sorta, sono frequenti nell’uso della parlata popolare marchi-
giana”;21 ma son pure, e quest’osservazione non è in contrasto con la
sua, frequenti nella poesia pastorale.22 S’intende poi, come dice il Tim-
panaro, che tutti i precedenti valgono a spiegare ma non a dare il signi-
ficato preciso e unico degli “sguardi innamorati e schivi” nel canto A
Silvia: un’espressione con cui il Leopardi riprendendo un epiteto ormai
consacrato e quasi fisso, spesso puro e semplice epiteto ornante, lo ha
così profondamente rinnovato compiendolo in quella indimenticabile
coppia “innamorati e schivi” che riecheggia con una rima lontana gli
occhi “ridenti e fuggitivi” della prima strofa e discretamente annun-
cia con una sorta di rima interna la parola che chiuderà la stanza:
“ragionavan d’amore”».

** Post scriptum. – Già prima del Giustiniani, un paio di Commen-


tatori dei Canti avevano inteso innamorati in senso attivo: Ladislao
Kulczycki (I Canti di G. L., II, Milano-Roma-Napoli 1922, p. 23, col
riferimento al Petrarca) e Angelo Ottolini (G. L., I Canti, Milano
1929: quest’ultimo mi è stato segnalato da Giovanni Forlini). Cercan-
20
iSu questa duplice risonanza di certe espressioni leopardiane cfr. pure quanto scrive Emi-
lio Bigi, il quale però proponendosi di porre in rilievo la letterarietà del linguaggio dei cosid-
detti grandi Idilli osserva che forme come queste (dolcezza mia, mio dolce amor, occhi innamo-
rati) sono solo “apparentemente popolaresche”, “non certo ignote”, come sono, “alla poesia
arcadica e melodrammatica” (Dal Petrarca al Leopardi, Studi di stilistica storica, Milano-Napoli
1954, p. 162 e la nota 27).
21
iG. L., Canti e operette morali, scelta e commento di R. Bacchelli, Milano s. a. (ma 1946).
22
iSi ricordi pure a questo proposito “Egli ci ha tante stelle” e “Ma sola / Ha questa luna in
ciel” del Frammento “Odi Melisso”, in cui l’uso di “avere” per il consueto “essere” (e l’effetto
è accresciuto dalla prossimità delle due espressioni) mira qui a quella stilizzata popolarità di lin-
guaggio che è di tutto il componimento, ottenendola col riprendere un modo raro della lingua
letteraria (tutti conoscono gli esempi del Boccaccio e del Petrarca), ma presente pure in parlate
popolari – e un esempio per le Marche è segnalato dall’A.I.S.
VII. Note leopardiane 259

do ancora nel mare magnum dei commenti leopardiani, si potrà trova-


re qualche altro «precursore»; ciò non toglie che, fino al Giustiniani,
la grande maggioranza dei commentatori avesse trascurato codesta
interpretazione. A proposito delle fonti «popolari» di quest’uso di
«occhi (o sguardi) innamorati», di cui abbiamo discorso in precedenza,
il compianto amico Ugo Gimmelli, la cui squisita e sterminata dottrina
fu nota solo a chi lo frequentò personalmente (vedi ora il suo volume
postumo I cognomi pisani e altri scritti a cura di L. Blasucci, Pisa 1978),
mi segnalò anni fa una variante toscana (pratese) del canto popolare
che il Leopardi aveva udito a Recanati, edita da Giovanni Giannini,
Canti popolari toscani, Firenze 1921, p. 133: «Bella, bellina, chi v’ha
fatto gli occhi? / Chi ve l’ha fatti tanto i n n a m o r a t i ? / Di sotto
terra levereste i morti; / di Santa Marenova (cioè Santa Maria Nuova,
l’ospedale di Firenze) gli ammalati».

4. «Al romorio / de’ crepitanti pasticcini» (Palinodia, 14-15)

Uno dei passi satirici più riusciti della Palinodia è la raffigurazione


dei liberali come assidui frequentatori di caffè e lettori di gazzette,
marziali nell’aspetto e nei modi ma ben fermi, all’occorrenza, a non
agire. V. 13 sgg.: «... Alfin pel entro il fumo / De’ sigari onorato, al
romorio / De’ crepitanti pasticcini, al grido / Militar, di gelati e di
bevande / Ordinator, tra le percosse tazze / E i branditi cucchiai, viva
rifulse / Agli occhi miei la giornaliera luce / Delle gazzette».
Gennaro Savarese (Saggio sui «Paralipomeni» di G. Leopardi, Firen-
ze 1967, p. 50) ha per primo messo in luce un brano di lettera di G. B.
Niccolini al Ranieri, che contiene una stretta somiglianza con questo
brano della Palinodia. «(...) fra questi baffuti – scrive fra l’altro il Nic-
colini – che la già città del fiore, ed ora del piscio,23 ammorban di più
col fumo del sigaro oziando sulle panche del caffè
laddove i liberali fiorentini
siedono a distruzion dei pasticcini».

23
iQuesto accenno trova riscontro in un passo dello Zibaldone di alcuni anni prima (p. 4298,
22 novembre 1827) dove si inveisce contro «quella sporchissima e fetidissima città per li cui ama-
bili cittadini ogni luogo, nascosto o patente, è comodo e opportuno per li loro bisogni»: donde
la necessità di dipingere o scolpire delle croci «ne’ luoghi che si vogliono salvare dalle bruttu-
re». – Quanto ai «baffuti», è superfluo rammentare l’insistente ironia leopardiana, nella Pali-
nodia e nei Paralipomeni, contro le barbe e i baffi dei liberali.
260 VII. Note leopardiane

Questa coincidenza di espressione, osserva il Savarese, fa «pensare


addirittura alla possibilità di influssi diretti». Influssi del Leopardi sul
Niccolini, o viceversa? Recensendo il libro del Savarese (in «Belfagor»
XXIII, 1968, p. 252 sg.) notai che in questo caso la priorità sembra
spettare al Niccolini. La sua lettera al Ranieri è del 15 marzo 1835:
egli non poteva ancora conoscere la Palinodia, che avrà letto per la pri-
ma volta nell’edizione Starita dei Canti, inviatagli dal Ranieri il 6
ottobre del ’35 (cfr. Leopardi, Epistolario, ed. Moroncini, VI, p. 304
n. 2). Naturalmente, aggiungevo, il confronto serve anche per misu-
rare la distanza tra la nitida ironia leopardiana e il tono, più andante
e stizzoso, caratteristico di molte lettere del Niccolini; ma resterebbe
al Niccolini il merito di essere stato la «fonte» di un celebre passo leo-
pardiano.
Senonché la questione è forse più complicata. Nei Carteggi italiani
inediti o rari, antichi e moderni raccolti e annotati da Filippo Orlando
(1a serie, IV, Firenze 1902, p. 42 sgg.) è pubblicata una lettera dello
stesso Niccolini a Maddalena Pelzet (l’attrice amica sua e del Ranie-
ri) non datata dal Niccolini, ma recante il timbro postale del 23
novembre 1836: ho collazionato l’autografo, che si trova alla Nazio-
nale di Firenze, Carteggi vari 64, 39; la data del 21 novembre, che
risulterebbe dalla pubblicazione dell’Orlando, è dovuta ad una con-
gettura o ad una svista. Qui il Niccolini riprende l’immagine cara a
lui e al Leopardi: «tutti i barbuti giovini fumanti, nati a distruzione
dei sigari, e dei pasticcini i quali sarebbero un gran che se con parole
sguaiate, romanticamente deliranti si potesse liberare questa terra di
vilissimi ciuchi la quale ha l’Appennino per basto».24
A queste parole Filippo Orlando appose la seguente nota: «Questa
frase rammenta un epigramma fiorentino del tempo, sul Caffè Fer-
ruccio, che era in via di Por S. Maria, chiuso già da varii anni, dove,
dicea l’epigramma: – i liberali fiorentini – siedono a distruzion de’
pasticcini».

24
iLa frase è molto trasandata, ma il senso è chiaro. Se bastassero gli eccessi puramente ver-
bali di questi giovani eroi da caffè per liberare la Toscana, essi sarebbero «un gran che», cioè
persone di alto valore («i quali» si riferisce, naturalmente, ai giovani liberali): ma non bastano
le parole, e quindi essi meritano soltanto disprezzo. Cfr. Leopardi, Paralipomeni, VI, st. 15. La
qualificazione della Toscana come «terra di vivissimi ciuchi» ha suggerito al Niccolini l’imma-
gine dell’Appennino come «basto», quasiché il Granducato fosse un unico grande asino, su cui
sovrasta la catena appenninica.
VII. Note leopardiane 261

Purtroppo la nota dell’Orlando ci lascia col desiderio di saperne di


più. Sul caffè Ferruccio niente mi è riuscito di trovare in libri che trat-
tano della vecchia Firenze ottocentesca. Il primo verso dell’epigram-
ma è riportato dall’Orlando in modo incompleto, e la prima parola
non può essere stata il «laddove» attestato dal Niccolini nella lettera
al Ranieri. Tuttavia la testimonianza non pare da mettere in dubbio,
e aiuta a chiarire meglio anche la lettera del Niccolini al Ranieri: il
«caffè laddove i liberali» ecc. non è un caffè qualsiasi, ma è il caffè
Ferruccio. E allora può darsi che non il Leopardi abbia attinto al Nic-
colini, ma entrambi a quell’epigramma anonimo, che il Leopardi può
aver già conosciuto nel suo soggiorno fiorentino, e il cui ricordo, maga-
ri, gli sarà stato ridestato (questo si può ben ammettere ) dalla lettera
del Niccolini al Ranieri.

5. «Le magnifiche sorti e progressive» (La Ginestra, 51)

Non tema il lettore che io voglia ritornare sul progressismo o anti-


progressismo del Leopardi, sul suo contrasto coi moderati e via dicen-
do. Di tutto ciò molti e io stesso ci siamo occupati, e può darsi che tor-
neremo a discuterne, ma in altra sede. Lo scopo di questa noterella è
più circoscritto: mettere in luce una particolare punta ironica celata,
per cosi dire, all’interno della complessiva ironia del verso leopardia-
no, e rimasta, per quel che mi risulta, finora inosservata.
Sappiamo tutti che il Leopardi intese deridere amaramente una fra-
se di Terenzio Mamiani («... le sorti magnifiche e progressive dell’u-
manità» ), e che a questo verso appose la nota: «Parole di un moderno,
al quale è dovuta tutta la loro eleganza».
Si è inteso finora che l’ironia nel riguardi dell’«eleganza» colpisca
la frase nel suo insieme, il tono ampollosamente goffo che maschera
inconsciamente, secondo il Leopardi, ben altra realtà. Questo è vero;
ma io credo che l’ironia sia rivolta anche, più specificamente, verso
una parola dalla quale il senso linguistico del Leopardi, e non soltan-
to il suo pensiero, si sentiva urtato (donde l’accusa di «ineleganza»).
Quella parola è «progressive».
Nella lingua italiana tradizionale, progressivo significava «che va
avanti» o «che procede gradualmente», senza riferimento al concetto-
valore di «progresso» in senso sociale o scientifico-tecnico. La Crusca
262 VII. Note leopardiane

veronese25 parafrasava progressivo con «Che ha virtù d’andar avanti, o


Che va avanti Lat. Progrediens», e citava due esempi, l’uno del Buti
nel commento a Dante, l’altro di Galileo. Dalla Crusca derivarono poi,
con gli stessi esempi, il Manuzzi (Vocab. d. lingua ital.2, III, Firenze
1863, p. 614), lo Scarabelli (Vocab. univ. d. lingua ital., V, Milano
1878, p. 1206) e, con un’aggiunta insignificante, il Tommaseo-Bellini
(Diz. d. lingua ital., III, Torino 1871, p. 1265). Questo fu dunque,
ancora molto tempo dopo la morte del Leopardi, per tutto l’Ottocen-
to e (come un’occhiata ai dizionari novecenteschi dimostra) per il
Novecento fino alla seconda guerra mondiale, l’unico significato di
progressivo accettato nella «buona lingua» italiana.
Al tempo del Mamiani giovane e del Leopardi, progressivo in senso
ideologico-politico era un neologismo, forse (ma di questo siamo
tutt’altro che sicuri: bisognerebbe essere in grado di escludere il perio-
do giacobino-napoleonico, e non siamo in grado) introdotto per la pri-
ma volta dal Mamiani stesso. Un neologismo, e più precisamente un
francesismo (ricordiamo che il Mamiani era esule a Parigi). Nel Grand
dictionnaire universel du xix e siècle del Larousse, progressif è registrato
nel senso di «qui progresse, qui suit une voie de progrès, d’améliora-
tion croissante», con un numeroso corredo di esempi, a cominciare da
uno di Chateaubriand: alcuni esempi hanno una connotazione chiara-
mente politica. È indicato anche come sostantivo («partisan du pro-
grès»).26
Una lieve vena di purismo non si estinse mai nel Leopardi, sebbe-
ne egli ammettesse la legittimità dei neologismi necessari. Ma tra i
neologismi e i francesismi lo urtavano soprattutto, e se ne comprende
bene il motivo, quelli che si riferivano a tutto ciò che egli riteneva
i l l u s o r i o progresso, falsa felicità basata su mere acquisizioni tec-
nologiche e scompagnata dallo spirito più genuino e libero della filo-
sofia settecentesca («Libertà vai sognando, e servo a un tempo / vuoi
di nuovo il pensiero ...»). Tale, cioè insieme linguisticamente brutto

25
iVedi qui sopra, p. 251. Il Leopardi possedeva anche la Crusca nell’ed. di Venezia 1697,
dove progressivo era spiegato soltanto con «che ha virtù d’andare avanti», ed era riportato il solo
esempio del Buti.
26
iE. Littré, Dictionnaire de la langue française, II, Paris 1863, p. 1342 registra anch’egli pro-
gressif (con un esempio di Guizot), mentre denota progressiste come «neologismo». Nel Larous-
se cit. progressiste è registrato come sostantivo, con un esempio di Balzac in cui è contrapposto
a conservateur.
VII. Note leopardiane 263

e ideologicamente ingannevole, dovette apparirgli l’aggettivo progres-


sivo. È già stato osservato27 come, cambiando l’ordine delle parole del-
la frase del Mamiani, il Leopardi ne accentuasse ironicamente l’am-
pollosità; possiamo ora aggiungere che non a caso egli collocò per
ultima, in posizione di rilievo, la parola più che mai «inelegante».
Un buon parallelo è costituito dall’ironia sulla parola masse (in quan-
to depositarie di una felicità negata ai singoli individui che le com-
pongono) nel Dialogo di Tristano e di un amico: anche qui, l’ironia col-
pisce insieme la falsità del concetto e l’ineleganza della parola.28
Per quel che mi risulta, progressivo ** nel senso usato dal Mamiani
non ebbe, lì per lì, successo. Ma rifece altre comparse (l’ultima più
duratura) nella lingua italiana. Il 22 novembre 1848 usciva per la pri-
ma volta a Firenze – e durò fino al 25 gennaio 1849 – «La Democra-
zia Progressiva, giornale politico-letterario». I redattori del giornale
spiegavano nel primo numero che «il titolo di Democrazia Progressi-
va indica che lo scopo del giornale non è la sola verificazione del puro
principio popolare nelle forme del Governo, ma la prosecuzione, e
l’effettuamento del progresso sociale». Aggiungevano che «le rivolu-
zioni politiche non possono rimanere a mezzo, e sono governate da
quella stessa legge di natura che spinge ogni cosa al suo perfeziona-
mento». Dunque una democrazia politica avanzante in senso sociale.
I primi numeri, tuttavia, presentavano questo avanzamento come
qualcosa di gradualistico, non rivoluzionario: «teniamoci lontani dal-
le opinioni estreme, egualmente colpevoli e pericolose» (I n. 1, p. 2).
È soltanto verso la fine della sua breve vita che il giornale tende a radi-
calizzarsi (il 6 dicembre ’48 pubblica una lettera di A. Blanqui dal car-
cere). Maggiori particolari sulle forze politiche che lo sostenevano, sul-
le posizioni successivamente assunte nella sua breve vita esorbitano
dal carattere di questa nostra noterella.
Neanche stavolta la parola progressivo dovette aver fortuna. Intro-
dotta anche stavolta dalla Francia (il giornale riportava frequenti ar-
ticoli e corrispondenze francesi, e aveva anche intrapreso la pubbli-

27
iVedi nel commento di G. De Robertis (nuova ed. a cura di G. e D. De Robertis, Firenze
1978, p. 461): «Per rimaner solo all’eleganza, vedi l’effetto che il Leopardi n’ha ricavato con una
semplice inversione».
28
i«Gl’individui sono spariti dinanzi alle masse, dicono e l e g a n t e m e n t e i pensatori
moderni» (la spaziatura è mia). E poco sopra: «delle masse (per usare questa leggiadrissima paro-
la moderna)».
264 VII. Note leopardiane

cazione in appendice di un romanzo di Eugène Sue, La lussuria, o


Maddalena), dovette morire di nuovo con la morte del giornale. E tut-
tavia non fu una morte definitiva. In contrasto col perdurante silen-
zio dei vocabolari, l’aggettivo si riincontra nel linguaggio politico di
fine Ottocento e del primo Novecento. Io sono in grado di citare tre
esempi: due di Antonio Labriola (Su un filo di rasoio, 1894, in Scritti
filosofici e politici a cura di F. Sbarberi, Torino 1973, I, p. 202: «rivo-
luzione pratica e progressiva»; In memoria del Manifesto dei Comuni-
sti, 1895, ibidem, II, p. 507: «una minoranza, sia pur essa coraggiosa
e progressiva»), il terzo di Antonio Gramsci (Quaderni del carcere, in ap-
punti del 1931-33, ed. a cura di V. Gerratana, Torino 1975, II, p. 1061:
«Non mi pare insomma che il modo di pensare contenuto nella rispo-
sta del Labriola sia dialettico e progressivo, ma piuttosto retrivo»,
ripetuto con piccole varianti nella nuova stesura di p. 1367). Siccome
i tre esempi mi sono capitati sott’occhio per caso, è praticamente cer-
to che la parola sia stata usata altre volte, probabilmente dagli stessi
Labriola e Gramsci, nonché da altri scrittori e pubblicisti politici. E
tuttavia oserei affermare che l’uso fu, in tutto questo periodo, r e l a-
t i v a m e n t e raro.
Esso si diffuse, invece, molto di più a partire dagli anni della Resi-
stenza e dell’immediata post-Resistenza, da quando Eugenio Curiel e
Palmiro Togliatti introdussero l’espressione «democrazia progressiva»
(anche stavolta, verosimilmente, come calco da altre lingue: dal fran-
cese, dal russo?). Nell’accezione togliattiana, l’aggettivo non equiva-
leva a progressista (che aveva una sfumatura più radical-borghese), ma
a «democratico-avanzato», di una democrazia destinata a sfociare nel
socialismo senza un’ulteriore rivoluzione specificamente proletaria.
Ancora dopo la caduta del fascismo, negli anni Quaranta e Cinquan-
ta, l’aggettivo ebbe, in contrapposizione a reazionario, una grande for-
tuna. Luporini poté intitolare Leopardi progressivo il suo famoso sag-
gio, alludendo al verso della Ginestra (il Leopardi nemico del falso
progressismo alla Mamiani, ma progressivo in un senso molto più
profondo) e nello stesso tempo uniformandosi all’uso togliattiano del
termine. Ma sebbene questa nuova introduzione dell’aggettivo nella
lingua italiana sia stata assai più vasta e fortunata delle precedenti,
nemmeno essa ha avuto un successo definitivo. Press’a poco dal 1956
in poi, vivo ancora Togliatti, il suo uso diminuì rapidamente: quelli
stessi (anch’io) che avevano usato largamente quel termine fin allora,
VII. Note leopardiane 265

poi ricorsero ad altri aggettivi, privi di quell’ambiguità di significato


che aveva costituito la forza e il limite di progressivo. Ho l’impressione
che già i giovani di sinistra del Sessantotto ignorassero quell’aggetti-
vo, e che oggi esso sia estremamente raro nel linguaggio politico ita-
liano. Significativo è un confronto tra il Dizionario enciclopedico italia-
no, uscito negli anni Cinquanta, e quel suo rifacimento molto ampliato
che è il Lessico universale italiano, tuttora in corso di pubblicazione.
Nel primo (vol. IX, 1958, p. 826), al paragrafo 2, dopo l’esempio di
Mamiani-Leopardi, si legge: «Democrazia p. (...) è l’espressione con
cui definiscono la loro politica i partiti e i regimi di tipo comunista
(analogamente, repubblica p., partito p., e sim.». Nel secondo (vol. XVII,
1977, p. 698), benché la voce progressivo sia nell’insieme più ampia,
al paragrafo 2 è rimasto soltanto l’esempio di Mamiani-Leopardi. I
nuovi redattori hanno considerato l’accezione «comunista» dell’ag-
gettivo ormai disusata; hanno avuto torto, però, di sopprimerla, anzi-
ché registrarla appunto come disusata, al pari dell’accezione «mamia-
nea-leopardiana».29

29
iCosì pure a torto alcuni dizionari (Diz. Garzanti della l. ital., Milano 1965; F. Palazzi, nuo-
va ed. a cura di G. Folena, Milano 1974; Nuovo diz. d. lingua ital. Curcio, Milano 1972) citano
da solo l’esempio leopardiano, senza dire che è una ripresa ironica dell’uso del Mamiani. Occor-
re appena avvertire che questa mia scorribanda lessicale sulI’uso di progressivo non può non
essere imperfettissima, dal momento che non è basata su alcuna ricerca sistematica. Essa può
valere solo come invito a ricercare ancora; a me basta aver cercato di precisare la reazione pole-
mica che quell’aggettivo dovette suscitare nel Leopardi. | Un altro esempio mi accade ora di tro-
vare in uno scritto del 1853 attribuito, non senza incertezze, a Carlo Tenca (cit. da Paola Lucia-
ni in un saggio sul Carcano, «Critica letteraria» VI, 1978, p. 559): «una militante e progressiva
energia di conati e di voglie» |.
VIII.
Epicuro, Lucrezio e Leopardi ∼ **

Testo epigrafe, testo epigrafe, testo epigrafe, testo epigrafe,


testo epigrafe, testo epigrafe.
Nome Cognome

1. Mi sembra necessario ritornare su un punto di un mio vecchio


saggio su Il Leopardi e i filosofi antichi,1 riguardante l’atteggiamento
del Leopardi di fronte all’epicureismo e a Lucrezio. Là io notavo, non
inesattamente, credo, ma con una certa meraviglia e perplessità, «l’at-
teggiamento generale di riserbo verso Epicuro, che si riscontra in tutto
Leopardi», e dicevo che tale atteggiamento appariva ancora più stra-
no nel caso di Lucrezio, verso il quale «all’interesse ideologico si
sarebbe dovuta aggiungere una consonanza sentimentale e poetica».
Non escludevo risolutamente la lettura di Lucrezio da parte del Leo-
pardi, ma tuttavia mi chiedevo (p. 179 n. 86): «Se il Leopardi avesse
letto un poeta-filosofo a lui così congeniale, come mai non ne sarebbe
rimasta traccia in lunghi ed espliciti appunti e in precise allusioni?».
Più tardi, in una postilla alla seconda edizione ({qui} p. 179), feci
ammenda di una grossa dimenticanza e dichiarai «molto probabile»
(in realtà sicuro) che il Leopardi avesse letto o riletto Lucrezio «alme-

∼i«Critica storica», XXV, 1988, pp. 359-409, con numerosi ritocchi e aggiunte. Le citazio-
ni da Epicuro sono tratte dalla 2a ed. delle Opere a cura di G. Arrighetti, Torino 1973, o, più di
rado, dagli Epicurea, ed. H. Usener, Lipsiae 1887. Col solo nome del curatore indico i più auto-
revoli commenti a Lucrezio (in particolar modo quelli a cura di C. Giussani – Torino 1896-98 –,
di A. Ernout – L. Robin, Paris 1925-28 e rist. successive, di C. Bailey, voll. 3, Oxford 1947,
rist. corretta 1950; per il lib. III anche Lucretius, De rer. nat., Book III, ed. by E. J. Kenney,
Cambridge 1971, 19802). Così pure, con i soli nomi dei curatori indico i commenti più noti,
facilmente reperibili, dei Canti e delle Operette morali (per altre abbreviazioni vedi l’avvertenza
all’inizio del presente volume {sulle citazioni da «Nuovi studi sul nostro Ottocento» – N. d. C. –}).
Coi nomi di Saccenti, Mazzocchini, Grilli indico i saggi citati qui sotto, nota 2.
1
i{Qui sopra, pp. 148-183 e relative postille}. Molto notevole anche V. Di Benedetto, G. Leo-
pardi e i filosofi antichi, «Critica storica», VI, 1967, pp. 289-320 (ma sul rapporto Epicuro-Lucre-
zio-Leopardi c’è solo un fugace accenno a p. 311).
VIII. Epicuro, Lucrezio e Leopardi 267

no negli ultimi anni», per i quali non possediamo la testimonianza del-


lo Zibaldone. Mi era infatti sfuggito nella prima edizione un raffron-
to, già notato da molti studiosi, fra la Ginestra, 111-113 («Nobil natu-
ra è quella / che a sollevar s’ardisce / gli occhi mortali incontra / al
comun fato») e Lucrezio (Primus Graius homo mortalis tollere contra /
est oculos ausus), che non può essere casuale: vedi quanto ribadirò tra
poco. Ma non affrontai di nuovo, allora, tutta la questione del rappor-
to Epicuro-Lucrezio-Leopardi.
A farmi ripensare a quel rapporto hanno molto contribuito, nono-
stante vari punti di dissenso, i saggi di Mario Saccenti, di Alberto
Grilli e di Paolo Mazzocchini, che cito qui in nota.2 C’è stato anche
un mio personale destarsi d’interesse su Cicerone filosofo e sui filosofi
ellenistici coi quali egli si confrontò.3 E infine ho potuto leggere un
saggio ancora inedito di Sergio Sconocchia (cfr. il postscriptum al pre-
sente articolo), traendone, pur nella completa diversità dell’imposta-
zione generale, preziose indicazioni singole.
Quella che, come dirò più oltre, mi sembra oggi molto minore che
un tempo è l’affinità ideologica, la “congenialità” del Leopardi con
Epicuro e (per quanto non valga per entrambi un identico discorso)
anche con Lucrezio. Invece, quanto alla conoscenza diretta che il Leo-
pardi, fin dai suoi primi studi, potè avere di tutto il De rerum natura4

2
iM. Saccenti, Leopardi e Lucrezio, in AA.VV., Leopardi e il mondo antico («Atti V Conve-
gno internaz. di studi leopardiani», 1980), Firenze 1982, pp. 119-148; A. Grilli, Leopardi, Pla-
tone e la filosofia greca, ivi, pp. 57-73 (per l’argomento che qui c’interessa, specialmente p. 60 sg.);
P. Mazzocchini, Sulla questione della presenza di Lucrezio in Leopardi, «Esperienze letterarie»,
XII, 1987, pp. 57-71. Sul rapporto Epicuro-Leopardi è importante anche uno studio, rimasto
poco conosciuto, di Mirella Naddei Carbonara, G. Leopardi: il morire e la morte, «Atti Accad.
Scienze morali e polit.» di Napoli, XCIII, 1982 (specialm. pp. 234-248), che avrò ancora occa-
sione di citare. | Questa studiosa, dopo una vita inquieta e infelice che le aveva procurato isola-
mento e inimicizie nel mondo accademico napoletano, è prematuramente scomparsa nel 1989.
Una sua rivalutazione sarebbe doverosa |.
3
iPer ora cfr. l’introduzione e le note a Cicerone, De divinatione, Milano 1988 (edizione
destinata a lettori non specialisti, ma, se non m’illudo, non del tutto inutile nemmeno agli stu-
diosi del pensiero ciceroniano) e Nuovi contributi di filologia, Bologna 1994, pp. 241-264. Con-
tributi molto acuti e originali allo studio di Cicerone filosofo e ideologo ha pubblicato Emanuele
Narducci (ora nel vol. Modelli etici e società: un’idea di Cicerone, Pisa 1989; cfr. anche Introdu-
zione a Cicerone, Bari 1992, e altri saggi che spero di vedere presto raccolti in volume). A lun-
ghi scambi d’idee con Narducci sono largamente debitore.
4
iLa biblioteca di casa Leopardi non era mal fornita quanto a edizioni di Lucrezio, sia pure
alquanto invecchiate già rispetto a quei tempi: vi erano quelle di J. B. Pius (G. B. Pio, Bologna,
De Benedictis, 1511) e del Lambinus (D. Lambin, Frankfurt a.M., Wechel, 1583), e quella pub-
blicata, senza nome di curatore, dal tipografo Jansson (Amsterdam 1631): cfr. A. Gordon, A Bi-
268 VIII. Epicuro, Lucrezio e Leopardi

e alle successive riletture anche di lunghi brani, darei un parere, tutto


sommato, molto meno titubante.
Innanzi tutto, mi pare strano che quel confronto con la Gine-
stra, che era sempre apparso sicuro ai leopardisti e che a me, ripeto,
era sfuggito in un primo tempo per mera sbadataggine, sia stato più
di recente annoverato dal Grilli (p. 71) tra le «folgorazioni dell’inge-
gno, che si rivelano autonomamente, senza che se ne debba cerca-
re l’origine nel mondo antico». Se ben comprendo queste parole (e
quelle che seguono poco dopo: «Non sarà che proprio solo per que-
sto tocco si debba creare un rapporto con Lucrezio»), l’amico Grilli,
per la cui dottrina e il cui ingegno ho avuto sempre la più alta consi-
derazione, pensa ad una coincidenza casuale, sia pure di una casualità
non banale, quale può prodursi tra grandi spiriti a loro insaputa. Ma
le parole che abbiamo citato poco sopra, «... a sollevar s’ardisce / gli
occhi mortali incontra ...», sono una vera e propria traduzione di
mortalis (accusativo plurale) tollere contra / est oculos ausus, per di più
con quel riferimento dell’epiteto mortales agli occhi, che è un’audacia
stilistica rarissima in latino,5 e che, per quanto mi risulta, non ha
riscontri nemmeno nella letteratura italiana (a parte la traduzione ita-
liana del Marchetti: «gli occhi mortali»). La coincidenza casuale o, se

bliography of Lucretius, Wincester, St. Paul’s Bibliographies, 19852, pp. 76 nr. 101, 84 nr. 102 B,
136 nr. 208 B, e, per notizie più precise sulla biblioteca Leopardi, S. Sconocchia (cfr. postscrip-
tum al presente articolo), dal quale apprendo che l’ed. del Pius, registrata nel Catalogo a stam-
pa, oggi è mancante (uno dei molti furti, purtroppo, compiuti da indegni visitatori della biblio-
teca). Ma un testo completo di Lucrezio, tratto quasi esclusivamente dall’ed. a cura di Th.
Creech (Oxford, Sheldon, 1695), c’era anche nel vol. I della Collectio Pisaurensis omnium poema-
tum ... Latinorum, Pesaro 1766, pp. 336-392 (la Collectio, utile a scopo pratico anche se consi-
stente, tranne rare eccezioni, in ristampe di edizioni precedenti, era stata messa insieme da
Pasquale Amati; il testo di Lucrezio è segnalato da Gordon, Bibliogr. cit., p. 62 nr. 19; su P. Ama-
ti cfr. A. Fabi in «Diz. biogr. d. Italiani», I, 1960, pp. 677-679). Che il Leopardi, pur consul-
tando talvolta anche le altre edizioni in suo possesso, abbia tenuto sott’occhio soprattutto la Col-
lectio Pisaurensis (cioè il testo del Creech), è stato brillantemente dimostrato dallo Sconocchia
(cit. qui sotto, p. 311, e il recente art. cit. a p. 276), che si è avvalso anche di un suggerimento
di A. Campana. Tale dimostrazione, in aggiunta a ciò che diremo in séguito, contribuisce a ren-
dere ancor meno probabile l’ipotesi che il Leopardi, tranne per qualche singolo passo riguardante
fenomeni linguistici, abbia citato Lucrezio di seconda mano. Quanto alla traduzione del Mar-
chetti, cfr. qui sotto, nota 61.
5
iCfr. Reichmann-Lumpe in Thesaurus linguae Latinae, VIII, 1511, 64 sg. Gli esempi di Albi-
novano Pedone e di Apuleio cit. ibid. non dovettero esser noti al Leopardi e si trovano, comun-
que, in contesti del tutto diversi da quello di Lucrezio (e del Leopardi). Altri passi, ai quali Rei-
chmann e Lumpe accennano senza, purtroppo, indicarli specificamente, saranno di autori tardi,
estranei a Lucrezio o (come avviene talvolta in testi cristiani) tratti da quel passo lucreziano.
VIII. Epicuro, Lucrezio e Leopardi 269

più piace al Grilli, l’«inconscia folgorazione», è, direi, del tutto esclu-


sa; anzi, sebbene il Leopardi avesse una tenacissima memoria, vien
fatto di pensare ancora una volta ad una (ri)lettura recente.6 Che, poi,
i due contesti abbiano una certa diversità ideologica, è vero, e vi tor-
neremo sopra; ma ciò accade per tante altre brevi espressioni che il
Leopardi ha tratto da antichi e moderni (dal Petrarca, dai cinquecen-
tisti ...) inserendole in contesti del tutto “suoi”.
Considererei ora sicuro anche il raffronto tra Lucrezio II 48 curae-
que sequaces e Leopardi, Inno ai Patriarchi, 66 «e le seguaci ambasce»,
già notato da molti commentatori e confermato da un’osservazione
lessicale del Mazzocchini (p. 61 n. 11). Alquanto più dubbioso (non
del tutto dissenziente, beninteso) rimango dinanzi ad un altro raffron-
to, che il Saccenti (p. 131 sg.) ha ripreso da alcuni commentatori, tra
il famoso passo del Canto notturno, 39 sgg. («Nasce l’uomo a fati-
ca ...») e Lucrezio, V 222-227 (il bambino nasce piangendo, bisogno-
so di tutto, quasi presago della vita infelice che dovrà condurre ...).
L’analogia c’è, ma è più “contenutistica” che “formale”: precise coin-
cidenze di espressione mancano. Quel pensiero appartiene a una spe-
cie di saggezza amara largamente diffusa; la si troverà in altri autori,
anche italiani: ulteriori indagini sarebbero opportune, specialmente
nella vasta area dei cinquecentisti, anche minori; e nemmeno esclu-
derei del tutto che la somiglianza sia casuale.
Ancor meno sarei propenso a credere, nonostante il parere di stu-
diosi autorevoli, che il passo della Storia del genere umano (la prima
delle Operette morali: cfr. T.O., I, p. 79) in cui si parla del suicidio di
molti uomini per taedium vitae, sia derivato dai versi di Lucrezio, III
78-80, su coloro che si uccidono perché ossessionati dalla paura della

6
iCfr. W. Binni, La protesta di Leopardi, Firenze 19824, p. 232. Giuseppe Pacella mi fa nota-
re che il passo lucreziano è citato nel Forcellini s.v. audeo. Come è noto, il Forcellini fu consul-
tato e riconsultato assiduamente dal Leopardi per i propri studi sul latino arcaico-volgare (cfr.
anche il presente articolo, p. 310). Ma che il Leopardi, leggendo per caso in un sia pur insigne
dizionario quella frase di Lucrezio, ne abbia tratto ispirazione per la Ginestra, mi sembra del tut-
to inverosimile. Il Pacella, nella fondamentale edizione critica e commentata dello Zibaldone,
ha individuato un gran numero di citazioni di seconda mano, qualche volta non designate come
tali dal Leopardi. Ma, metodologicamente, l’ipotesi da prendere per prima in considerazione,
quando si tratti di opere che il Leopardi possedeva (come appunto il De rerum natura) o potè in
séguito procurarsi, è quella della lettura diretta, specialmente in passi di tale pathos poetico. Ben
altrimenti tenue è la somiglianza, menzionata sùbito dopo dal Grilli, tra l’Ottonieri, cap. II, e
Seneca, De tranquillitate animi, 2, 12: qui, sì, l’analogia sarà dovuta al caso.
270 VIII. Epicuro, Lucrezio e Leopardi

morte.7 Qui da un lato le coincidenze di espressione sono troppo


tenui, perché si riferiscono a singole parole assai frequenti sia in lati-
no sia in italiano (Lucr. Vitae ... odium lucisque videndae; Leop. «con-
vertita la sazietà in o d i o ... non sopportando la l u c e e lo spiri-
to ...»), dall’altro il concetto è assolutamente diverso: la noia di una
vita monotona in un mondo tutto eguale (Leopardi) non ha niente a
che vedere col timore ossessivo della morte che, paradossalmente,
induce a “farla finita” procurandosi appunto la morte (Lucrezio). Il
motivo del taedium vitae, al quale non si sfugge mutando luogo, c’è
altrove in Lucrezio stesso (III 1053 sgg.), c’è in passi tra i più belli di
Orazio (Carm. II 16, 17-20; Epist. I 8, 12; I 11, 27), dei quali può
essersi ricordato il Leopardi, soprattutto nei versi Al conte Carlo Pepo-
li; ma non in connessione col suicidio. Si noti, per di più, che nella
Storia del genere umano questa epidemia di suicidii non è presentata
come un fatto costante, o ricorrente, nell’esistenza umana, né come
una conseguenza della troppa civiltà (in quest’altra prospettiva il pro-
blema del suicidio era già stato e fu poi ancora affrontato dal Leopar-
di, cfr. qui sotto, § 7), ma è collocata in un’unica fase remota della
«storia», alla fine di un primo periodo r e l a t i v a m e n t e felice.8
Tutta l’atmosfera di questa prima operetta (che pur svolge il tema
schiettamente leopardiano del bisogno di felicità e contiene già quel-
l’audace pensiero anticristiano sulla malvagità umana come conse-
guenza e non causa dell’infelicità) è smorzata: «luce di mestizia»,
come dice il Binni (Lettura cit., p. 28), non pessimismo spiegato. La
prima operetta (su questo punto bisognerebbe forse insistere più espli-
citamente) è scritta in modo da non rivelare ancora al lettore tutta
l’amara filosofia dell’autore; della sua straordinaria bellezza fa parte
un elemento di reticenza. Tutto ciò ci allontana da Lucrezio, ci richia-
ma piuttosto a Esiodo, a Platone (come hanno già osservato molti stu-

7
iCfr. per esempio i ben noti commenti alle Operette di I. Della Giovanna, M. Fubini, G. Gen-
tile, C. Galimberti, e (con maggiore cautela, e con l’avvertenza che «il concetto leopardiano è
diverso») di S. Orlando (Milano 1976). Vedi anche Mazzocchini, p. 61 sg.
8
iCfr. W. Binni, Lettura delle «Operette morali», Genova 1987, p. 22 sg. (specialmente per
gli dèi, che in questa operetta appaiono, eccezionalmente, «visti in una luce di tolleranza, a vol-
te quasi di simpatia»: non nemici degli uomini, ma, piuttosto, incapaci di comprenderli). Non
sarei, invece, d’accordo con la qualifica di «lucrezianamente contenti» che il Binni (ibid.) dà
degli dèi: nell’operetta leopardiana non c’è la totale e beata trascuranza delle cose umane che è
tipica degli dèi epicurei e lucreziani; essi, anzi, intervengono più volte, sebbene, per lo più, sen-
za successo, nelle vicende del genere umano.
VIII. Epicuro, Lucrezio e Leopardi 271

diosi) e, si parva licet ..., a Frontone.9 Uno “stacco” in parte analogo


si nota, nei Canti, tra il Risorgimento e i successivi canti pisano-reca-
natesi: quel tenue spiraglio, non certo di ottimismo, ma di accettazio-
ne della vita come qualcosa di non totalmente negativo, che si dischiu-
de nel Risorgimento non ha alcun séguito nei canti seguenti,
nemmeno nel Sabato; e anche qui, forse, occorrerebbe nei commenti
un’osservazione più precisa.
II Mazzocchini, che in complesso ammette nel Leopardi pochi rie-
cheggiamenti lucreziani (quelli, a un dipresso, dei quali abbiamo trat-
tato finora), e li considera come persistenze mnemoniche di letture
giovanili, «scolastiche» (p. 63), e sottolinea il fatto che quasi tutti si
riferiscono a proemii o comunque a parti iniziali del De rerum natura
(pp. 61-63: gli “inizi”, come è noto, rimangono più impressi nella
memoria, anche in mancanza di frequenti riletture), ritiene, però, che
vi sia un’eccezione, alla quale dedica la seconda metà del suo saggio.
L’eccezione sarebbe costituita dal raffronto tra il Coro di morti del Dia-
logo di Federico Ruysch e delle sue mummie, v. 5 sg., là dove la «ignuda
natura» dei morti (cioè il loro essere spogli di vita, il loro non esiste-
re) è detta dai morti stessi «lieta no, ma sicura / dall’antico dolor», e
alcuni passi lucreziani (III 211-213; 939; 972-977) in cui la morte è pre-
sentata come una quiete secura: «la morte come totale assenza di pena,
piena e perfetta atarassia» (p. 66 e n. 20). Nonostante l’appoggio che,
secondo il Mazzocchini (pp. 67-69), verrebbe a questo raffronto da un
passo del molto più tardo Dialogo di Plotino e di Porfirio – dove, però,
non si parla della morte come status di quiete, ma si dice che, per col-
pa dei timori delle pene infernali, «la quiete e la sicurtà dell’animo
sono escluse in perpetuo dall’ultima ora dell’uomo», cioè dell’uomo
ancor vivo, all’avvicinarsi della morte: il che è ben diverso –, io
rimango molto incerto. Intanto, la quiete della non-esistenza non è, per
Epicuro e per Lucrezio, identificabile con l’atarassia, la quale è g o d u-

9
iCfr. S. Timpanaro, Contributi di filologia ..., Roma 1978, p. 347 (già in una recensione del
1955). Un accenno a Frontone come ispiratore della prosa delle Operette (non specificamente del-
la Storia del genere umano) trovo già in E. Bigi, Dal Petrarca al Leopardi, Milano-Napoli 1954, p.
117 (il saggio è del 1950). Non c’è bisogno di ricordare con quanta assiduità Frontone fosse sta-
to tradotto e studiato filologicamente dal Leopardi nel 1815-18, né come il giudizio leopardia-
no su Frontone, prima che il Leopardi aderisse al purismo e poi, quando il distacco dalla breve
infatuazione puristica fu ormai consumato, rimanesse pur sempre meno aspro di quello del Gior-
dani (cfr.{, qui sopra, «Le idee di Pietro Giordani», p. 42 n. 16, « Natura, dèi e fato nel Leopar-
di», pp. 229-230 – N. d. C.} e Aspetti e figure, p. 55 sg.).
272 VIII. Epicuro, Lucrezio e Leopardi

t a dai vivi, è s e n t i t a come beatitudine. L’atarassia accomuna il


sapiente epicureo non ai morti, ma agli dèi immortali. I passi lucre-
ziani citati sopra si riferiscono appunto alla morte e non all’atarassia.
Il perfetto epicureo, come rammenteremo e come, del resto, è ben noto,
non teme la morte ma neppure la desidera (tranne casi eccezionalissi-
mi: il suicidio fu, nell’antichità, praticato soprattutto dagli stoici,
ammesso con molto maggiori restrizioni dagli epicurei): Epicuro nell’E-
pistola a Meneceo (4, 126 Arrighetti2), dice che appunto il non temere la
morte rende lieta la vita, anche nella vecchiezza, e deride il famoso
detto di Teognide, che per gli uomini il meglio è non nascere, ma una
volta nati, morire al più presto: un detto che, invece, avrà il consenso
del Leopardi nel Tristano (T.O., I, p. 181). Pensare che l’unica libera-
zione da timori e affanni sia la morte sarebbe stato per Epicuro (e per
Lucrezio) il fallimento della filosofia. Né si può giungere all’identifi-
cazione di morte (in quei passi lucreziani) e atarassia per via etimologica:
se-curus, usato come calco del greco a-tàrachos:10 «privo di turbamento»,
certo, è a n c h e il vivente che ha conquistato l’atarassia, ma il Leopar-
di, e Lucrezio nei passi citati dal Mazzocchini, parlano di un’altra secu-
ritas: della quiete dell’annullamento. L’osservazione che ciò che Epi-
curo-Lucrezio presentano come il sommo bene equivale a una specie
di morte anticipata può provenire da un avversario dell’epicureismo,
il quale obbietti che la vera felicità non è atarassia inerte, ma intensità
di vita attiva; e vedremo (§ 6) che questa obiezione (anche se non sem-
pre formulata in polemica esplicita con l’epicureismo, ma talvolta sì),
c’è appunto in Leopardi. Ciò rende ancor più inverosimile l’ipotesi,
già di per se stessa immetodica, cha sia da attribuire al Leopardi la
confusione tra atarassia epicurea e morte. Mi sembra, inoltre, che il
Mazzocchini sorvoli, non legittimamente, sulla forte restrizione che
nel Coro di morti è introdotta da quel « l i e t a n o, ma sicura ...», e
sul fatto che nella chiusa, dopo la ripetizione di questo verso, si riba-
disce con ancor più assolutezza: «Però ch’esser beato / nega ai morta-
li e nega a’ morti il fato».11 Per rappresentare il non-esser-più dei mor-
ti, il Leopardi presta ad essi una sorta di «esistenza minima»,
allucinata: migliore della vita, perché esente dal dolore e anche dalla
10
iMazzocchini, p. 66 n. 20. Il Bayley, da lui citato (comm. cit. a Lucr. III 211), dice che la
morte è considerata da Epicuro «a care-free rest», ma non la identifica certo con l’atarassia.
11
iNella prima stesura del 1824: «Nega agli estinti ed ai mortali il fato». Il concetto è già
quello, anche se il progresso poetico (con quell’espressione “ribattuta”, perentoria) è grande.
VIII. Epicuro, Lucrezio e Leopardi 273

noia («senza tedio», v. 13: la vitalità è talmente spenta che nemmeno


più se ne sente il bisogno), ma pur sempre del tutto lontana dalla feli-
cità, che presupporrebbe appunto una vita intensa, e che quindi, se
non si ha da vivi, non si ha neppure quando si è sprofondati nel nul-
la. Anche così rappresentata, questa non è, nemmeno sotto forma
d’immagine poetica, la morte epicurea, così come la vita breve e dolo-
rosa che i morti ricordano confusamente non è la vita d a v v e r o
b e a t a che l’epicureismo promette. Per alcuni aspetti, come osserva
il Fubini, l’esistenza larvale di questi morti del Ruysch precorre la pur
diversa raffigurazione che dei morti il Leopardi darà nel canto VIII dei
Paralipomeni.12 Ma sulla differenza tra le concezioni lucreziana e leo-
pardiana della morte dovremo ritornare (§7).
Molto più fondato mi sembra un altro raffronto, anch’esso nel Coro
di morti, a cui invece, il Mazzocchini accenna più fuggevolmente e con
maggior cautela:13 tra l’inizio del Coro, in cui la morte è detta «Sola nel
mondo eterna», e la chiusa del lib. III di Lucrezio: m or s a e t e r n a
tamen nilo minus illa manebit, a cui si può aggiungere anche III 869:
mors immortalis. Osserva giustamente il Mazzocchini: «È questo l’u-
nico caso, nelle opere poetiche almeno, in cui il Leopardi qualifica la
morte come eterna». Qui non è in gioco tutta la concezione della mor-
te; ma il Leopardi può essersi ricordato di una iunctura lucreziana (o
di due) di singolare potenza, e averla ripresa, con pari efficacia, ad
apertura del Coro. Non risultano nella letteratura latina altri passi in
cui vi sia quell’espressione, e uno di un comico greco, citato dal Bailey
nel commento a Lucrezio III 869, non sarà stato noto al Leopardi.
Se nel «brutto / poter che, ascoso, a comun danno impera» (A se stes-
so, 14-15) si possa ravvisare una remin[i]scenza [cr] della vis abdita
quaedam che res humanas ... obterit (Lucr. V 1233 sg.), come alcuni
hanno supposto, rimane per me non certo, tuttavia non inverosimile
(cfr. anche qui sotto, p. 312 sg.).

12
iLeopardi, Opere, Torino 1977, p. 760. Là il Leopardi si rifarà a concezioni proprie dei pri-
mitivi, incapaci di concepire la morte sia come annullamento totale, sia come sopravvivenza di
un’anima distinta dal corpo: donde la loro idea della morte come continuazione attenuata, depo-
tenziata, della vita corporea: cfr. il commento di Ersilia Alessandrone (nell’ed. ora cit. del Fubini,
pp. 1088-1091) a Paralipom. VIII, st. 10-15.
13
iMazzocchini, p. 67 n. Un accenno molto breve già nel commento alle Operette di G. Gen-
tile, Bologna 19403, p. 177, alle righe 2-3.
274 VIII. Epicuro, Lucrezio e Leopardi

2. Abbiamo lasciato indietro il giovanile Saggio sopra gli errori popo-


lari degli antichi (1815: cfr. T.O., I, pp. 769-868). Il Saccenti (p. 126)
denuncia «la mancanza di continuità, di compattezza, e quindi la qua-
si completa occasionalità e casualità» delle ben sette citazioni lucre-
ziane nel Saggio. A torto, mi sembra. Nell’insieme, come risulta dalla
disamina del Saccenti stesso (pp. 127-129), si possono distinguere due
tipi di citazioni, di numero press’a poco eguale. Le une servono di con-
ferma alla polemica antisuperstiziosa (contro la magia, i terrori not-
turni, le credenze in esseri mitici mostruosi, ecc): qui il Leopardi, dal
punto di vista cattolico-illuministico (accordo tra religione e ragione)
da cui è condotto il Saggio,14 dà di Lucrezio un uso libero da rèmore e
pregiudizi religiosi, lo considera come un autore dal quale un cattoli-
cesimo bene inteso, alieno da ogni superstizione dovuta ad ignoranza,
non abbia nulla da temere. Arriva a dire nel cap. XVI, a proposito dei
Centauri, che «Lucrezio si è distinto per il coraggio con cui ha com-
battuto la superstizione che li ammetteva, adottata universalmente nel
suo secolo» (e qui evidentemente c’è un’esagerazione). Le citazioni del
secondo tipo, invece, segnalano errori scientifici ai quali Lucrezio era
soggiaciuto. Il punto di vista “illuministico” (nel senso che si è preci-
sato sopra) rimane invariato, ma in questi passi Lucrezio ne è, per così
dire, il bersaglio, non il sostegno. Neanche qui, tuttavia, c’è alcuna
particolare asprezza antilucreziana: anche gli antichi più colti, dice a
più riprese il Leopardi, errarono spesso in fatto di scienze della natu-
ra, Lucrezio come tanti altri. Rimangono fuori da tutt’e due i gruppi

14
iNotevoli analogie tra il Saggio e un’ampia opera erudita composta dal Leopardi press’a
poco contemporaneamente, i Fragmenta Patrum Graecorum, sono state messe in risalto da C. Mo-
reschini, Metodi e risultati degli scritti patristici di G. Leopardi, «Maia» XXIII, 1971, pp. 312-314.
Non per questo, tuttavia, io credo, si dovrà negare la componente cattolico-illuministica del
Saggio, e la sua diversa finalità, brillantemente divulgativa e apologetica, talvolta anche artistica
(G. De Robertis, Saggio sul Leopardi, nuova ed., Firenze 1973, pp. 15-25), erudita solo “in secon-
da istanza”: cfr. ciò che ho osservato in «Giornale stor. letter. ital.» CXLIV, 1977, p. 153.
Anche il Moreschini, del resto (art. cit., p. 314), parla, a proposito del saggio, di «tesi ibrida-
mente reazionaria e illuministica». Era questa una componente della personalità di Monaldo
Leopardi e la sua biblioteca era molto ricca di opere ispirate a tale tendenza (cfr. {«Il Leopardi
e i filosofi antichi», pp. 149-153, e qui sotto, «Il Leopardi e la Rivoluzione francese», p. 315 sg. –
N. d. C.}). Una lettura del Saggio dal punto di vista antropologico ha dato G. B. Bronzini, in Leo-
pardi e il mondo antico (cit. qui sopra, nota 2), pp. 321-360: assai acuto nel mettere in evidenza
alcuni aspetti di originalità del Saggio in confronto ad analoghe opere precedenti, ma, nell’in-
sieme, un po’ sforzato, come sembra sia destino di quasi tutti gli scritti di antropologia cultura-
le, quando vogliono non (come è giusto) integrare le discipline storiche, ma sostituirle.
VIII. Epicuro, Lucrezio e Leopardi 275

due citazioni verso l’inizio del cap. XIV, per esemplificare l’uso di ani-
ma nel senso di «vento». Insieme a Lucrezio sono citati anche altri
autori, è rammentata la «conformità» del latino anima col greco àne-
mos, si ricorda che «in greco la voce pneûma vale al tempo stesso spi-
rito e vento». Ma al Leopardi diciassettenne questi richiami servono
come conferma che gli antichi annoverano i venti tra gli dèi, non per
affrontare la ben nota (almeno da Locke in poi) e pericolosa tesi del-
l’origine materialistica del concetto di anima, tesi alla quale egli stes-
so, invece, aderirà più tardi.15
Aveva il Leopardi letto già nel 1815, sia pure alquanto frettolosa-
mente, il De rerum natura, oppure le citazioni lucreziane sono di secon-
da mano, come un tempo io inclinavo a supporre e come tuttora i più
suppongono? È molto difficile dare una risposta sicura, come per altre
innumerevoli opere citate nel Saggio. Tuttavia significheranno pur
qualcosa le baldanzose parole della Prefazione, in cui il Leopardi affer-
ma la propria indipendenza da precedenti opere sullo stesso argomen-
to, anche se quelle parole non escludono che il giovane autore abbia
attinto citazioni da libri moderni di argomento e carattere diverso. Ma
in attesa di minute (e non facili) ricerche finora non eseguite, vorrei
osservare che, dato e non concesso che il Leopardi nel 1815 non aves-
se ancora letto il De rerum natura, rimane pressoché certo che lo aveva
già letto nel 1822, quando compose l’Inno ai Patriarchi (cfr. qui sopra,
§ 1, a proposito delle «seguaci ambasce», e la pregiudiziale metodo-
logica alla quale accenno alla nota 6). E poiché una lettura totale appa-
re esclusa per il periodo dall’estate del ’17 (inizio dello Zibaldone) al
1822 – appunto perché dovrebbero rimanerne tracce cospicue nello
Zibaldone, il che non è, come vedremo meglio in séguito –, l’ipotesi
più probabile mi sembra quella di una lettura totale giovanilissima (già
terminata, quindi, allorché fu scritto il Saggio)16 e di successive lettu-
re parziali, anche tarde: si ricordi ciò che abbiamo osservato a propo-

15
iCfr. Zib. 602 (febbraio 1821); 1054 (maggio 1821), dove c’è una “autocitazione” del Sag-
gio, ma il punto di vista è mutato.
16
iII fatto che nel Saggio Lucrezio sia citato con indicazione di libro ma non di verso non
costituisce un sospetto di citazione di seconda mano: nell’edizione della Collectio Pisaurensis
mancava ogni numerazione di verso in margine, ed era troppo faticoso «contare», per ciascun
libro, fin dal primo verso! Non sarà forse inutile a qualche studioso sapere che la Biblioteca della
Facoltà di Lettere di Firenze possiede un esemplare della Pisaurensis con numerazione di versi
aggiunta a mano da un ignoto “benefattore”.
276 VIII. Epicuro, Lucrezio e Leopardi

sito della Ginestra (§ 1 e nota 6). Qualcosa significherà – me lo fa


osservare lo Sconocchia – anche il fatto che alla fine della Storia del-
l’Astronomia (1813, due anni prima del Saggio) nell’«Indice delle ope-
re delle quali si è fatto uso nello scrivere la Storia dell’Astronomia»
(T.O., I, p. 747), figuri «Lucretius (T. Carus) – De rerum natura» | cfr.
ora Sconocchia in «Orpheus», 1994, fasc. 1, che indica in quell’ope-
ra alcune citazioni lucreziane |.
Quanto agli anni più tardi, dobbiamo ancor dire qualcosa su un
elenco di dieci opere, del 1830 (Carte napoletane, X 12, 22), pubbli-
cato dal Pacella, Elenchi di letture leopardiane, «Giornale stor. letter.
ital.», CXLIII, 1966, p. 557. Si tratta di opere antiche e moderne,
raggruppate, «seppur genericamente», attorno ad una «tematica
antropologica-giuridica» (Mazzocchini, p. 59 sg.), cioè al problema
dell’origine dell’umanità e della civiltà. Se ci chiediamo quale valore
abbia questo elenco come prova di un’avvenuta lettura di Lucrezio
(sia pure del solo lib. V), dobbiamo rispondere che tale valore è assai
scarso. In quell’elenco – scrivevo in {«Il Leopardi e i filosofi antichi»,
p. 179} n. 86 – «accanto ad opere che il Leopardi lesse sicuramente,
ve ne sono altre (come la Scienza della legislazione del Filangieri) non
menzionate mai nello Zibaldone né in altri scritti; rimane perciò il
dubbio che in parte si tratti di letture progettate e non eseguite». Ana-
logo, anzi ancor più reciso è il giudizio del Pacella, loc. cit. Ma se,
p e r a l t r a v i a , ci siamo persuasi (come io mi sono ora persuaso)
che una lettura integrale di Lucrezio, con ogni probabilità, era stata
compiuta dal Leopardi, quell’elenco riacquista un certo interesse
come progetto, appunto, di rilettura negli anni tardi. Rilettura ese-
guita o rimasta intenzionale? Non possiamo saperlo. Ma è interessan-
te constatare come, anche ammettendo la seconda eventualità, fosse
rimasta in mente al Leopardi quella lunga parte finale del lib. V di
Lucrezio (925-1457) che rimane una delle “vette” di tutto il poema. Il
fatto che, come dice il Mazzocchini (p. 60), quel progetto di rilettura
potesse essere «strumentale», cioè finalizzato a un’opera sull’origine
della civiltà che forse il Leopardi si propose di compiere (ma si rima-
ne al livello di mera ipotesi), non ne menoma comunque il valore, mi
sembra. Il Leopardi, certo, in molti punti non avrebbe concordato
con Lucrezio (cfr. più oltre, § 6 e nota 35), e ancor meno con altri
autori citati in quell’elenco. Ma, come tutta una vasta corrente di pen-
siero “epicureo” settecentesco, egli aveva compreso, con tutta proba-
VIII. Epicuro, Lucrezio e Leopardi 277

bilità, l’importanza di quel tentativo di ricostruzione della storia


dell’umanità primitiva senza intervento divino e di raffigurazione del-
la vita dei primi uomini: vita per un lato tutt’altro che idillicamente
felice, anzi esposta a pericoli, sofferenze, disagi che furono poi in par-
te mitigati dalla civiltà (niente «età dell’oro», quindi; e tale conce-
zione idillica, tipica della prima fase del suo pensiero, il Leopardi
nel 1830 l’aveva già superata da tempo); per un altro lato, libera anco-
ra dai mali che l’incivilimento produsse, a cominciare dal timore degli
dèi (qui sotto, nota 35).

3. Ma, oltre che dal poema di Lucrezio, sul quale dovremo ritorna-
re, il Leopardi ebbe notizia dell’epicureismo anche da testi di Epicu-
ro stesso (in misura molto scarsa, come ora vedremo) e di altri autori,
soprattutto Cicerone. Per i testi epicurei, vi sarebbe stata nella biblio-
teca Leopardi un’ottima fonte: l’edizione di Diogene Laerzio a cura
del Meibomius (Marcus Meibom), con note del Casaubonus (Isaac
Casaubon) e con le osservazioni supplementari del Menagius (Gilles
Ménage), pubblicata ad Amsterdam, Wettstein, nel 1692. Come è
noto, nel lib. X delle sue Vite dei filosofi Diogene Laerzio, fortuna-
tamente per noi, riporta le tre famose epistole di Epicuro a Erodoto,
a Pitocle e a Meneceo e le cosiddette Massime capitali (K|riai dóxai).
Tuttora questo è l’insieme più importante di testi epicurei a noi per-
venuto; tanto più lo era allora, in mancanza delle Sentenze Vaticane e
della maggior parte dei papiri ercolanesi attribuibili ad Epicuro. È
merito del Grilli, però, aver osservato (p. 60 sg.) che le citazioni da
Diogene Laerzio nello Zibaldone, in complesso, non vanno oltre la fine
del lib. VI: perciò niente Epicuro (lib. X) e, aggiunge il Grilli, niente
Stoici (lib. VII). L’osservazione del Grilli mantiene la sua importan-
za (a me e, credo, anche ad altri il fatto era sfuggito), anche se, a mio
avviso, è un po’ troppo perentoria.17 Egli dice di considerarla valida
17
iII saggio del Grilli è degno della sua ben nota dottrina e competenza in fatto di filosofia
antica. Ma, nonostante alcune osservazioni di grande finezza (per esempio sull’Ottonieri e i suoi
modelli, p. 64 sg.), il Grilli è convinto che la scarsezza e frammentarietà delle letture che il Leo-
pardi poté compiere gli preclusero, sostanzialmente, un fecondo contatto col pensiero antico.
Ciò è vero se si cerca (e non lo si trova certamente!) un Leopardi “storico della filosofia anti-
ca”; il Grilli stesso, p. 54, riconosce che ciò, almeno per il primo Leopardi, sarebbe «anacroni-
stico». Ma che il Leopardi sia riuscito a “confrontarsi”, spesso fecondamente, col pensiero gre-
co-romano, io persisto a crederlo. Il Voyage du jeune Anacharsis di J. J. Barthélemy, dice ad
esempio il Grilli (p. 59), «gli rivelò (con quanti mai abbagli!) l’esistenza di un pessimismo gre-
co». Io credo che gli «abbagli» riguardino questioni marginali, e che l’essenziale di quel pessi-
278 VIII. Epicuro, Lucrezio e Leopardi

«tanto per la prima lettura, anteriore al 1817-18, quanto per la secon-


da testimoniata dallo Zibaldone tra il luglio 1820 e il febbraio 1821».
Non mi è chiaro su quali testimonianze della «prima lettura» egli si
basi: escluso lo Zibaldone (che incomincia, appunto, come è noto, nel-
l’estate del ’17), siamo rinviati al Saggio sopra gli errori popolari degli
antichi e, prima ancora, alla Storia dell’Astronomia e ai lavori eruditi su
Esichio Milesio e su Porfirio.18 Ma nella Storia e nel Saggio, e anche nel
Porfirio (nell’Esichio Milesio, tuttora mal pubblicato, i riscontri sono
più faticosi a compiersi), io non trovo alcuna interruzione alla fine del
lib. VI di Diogene Laerzio. Epicuro, fra l’altro, è citato cinque volte
nel Saggio con l’indicazione del lib. X di Diogene Laerzio e dei rispet-
tivi paragrafi. Citazioni di seconda mano? Ritorniamo al solito sospet-
to, che però non sembra probabile, perché altre volte il Leopardi in-
dica onestamente che le sue notizie sull’epicureismo sono tratte da
Lattanzio, da Tertulliano, da Achille Tazio ... Ad ogni modo, poiché
le menzioni di Diogene Laerzio non si fermano alla fine del lib. VI, o
neghiamo che vi sia mai stata la “prima lettura” ammessa dal Grilli
ed esprimiamo una sfiducia pregiudiziale su t u t t e le citazioni da
filosofi antichi nelle opere del Leopardi adolescente (con l’impegno,
tuttavia, di cercare almeno di precisare di volta in volta le fonti indi-
rette del Leopardi),19 o dobbiamo supporre che una lettura, sia pure

mismo (nei p o e t i greci più che nei filosofi: su questo punto importante vorrei ritornare in
altra occasione) fu inteso bene dal Leopardi. I punti fondamentali risultano anche dal Barthé-
lemy, che non è da disprezzare troppo.
18
iNella Storia della Astronomia cfr. ad esempio (tra le poche citazioni da libri di Diog. Laert.
posteriori al VI), T.O., I, pp. 637, 638 n. 8. Nell’Esichio Milesio (in Leopardi, Opere inedite a
cura di G. Cugnoni, I, Halle 1878) i riferimenti a Diogene Laerzio (e, forse ancor più, ai suoi
commentatori nell’ed. cit. del Meibom) sono moltissimi, da tutti i libri; io, in {«Il Leopardi e i
filosofi antichi»}, p. 152 n. 11, ne avevo citato soltanto un paio a titolo di esempio. Del Por-
firio, di cui allora ero costretto a citare l’autografo, abbiamo ora l’ottima edizione del Moreschini
(Porphyrii De vita Plotini ecc., Firenze 1982; cfr. la mia recensione in «Giorn. stor. letter. ital.»
CLXI, 1984, pp. 609-615); i passi che citavo in {«Il Leopardi e i filosofi antichi»} si trovano ora
a pp. 44, 45, 55; ma anche lì mi ero limitato ad un’esemplificazione minima.
19
iNella biblioteca di casa Leopardi c’era un’edizione di Opera omnia di P. Gassendi (Firen-
ze, Tartini e Franchi, 1727, 6 voll.). Ma il Leopardi cita (e non specificamente a proposito di
Epicuro né di Lucrezio) il Gassendi una sola volta nel Saggio (T.O., I, p. 812 n. 13 ); lo citerà
una seconda ed ultima volta in una nota al Cantico del gallo silvestre (ibid., I, p. 157 n. 1); non
mai nello Zibaldone. Per le ragioni di metodo a cui ho accennato (cfr. sopra, nota 6), ritengo
estremamente improbabile che le citazioni da Epicuro (e, tanto più, da Lucrezio), nel Saggio e
in opere successive, derivino dal Gassendi, anche se, con un lavoro da certosini che finora non
è stato fatto, si riuscisse a ritrovarle tutte nei volumi del filosofo francese: del che, per ora, è leci-
to dubitare molto fortemente, poiché l’epicureismo del Gassendi è una filosofia “originale”, non
un tessuto di citazioni.
VIII. Epicuro, Lucrezio e Leopardi 279

cursoria, sia stata compiuta, quella prima volta, fino alla fine dell’o-
pera di Diogene Laerzio.
Quello che, semmai, va osservato (e che, lo ammetto, riduce il valo-
re sostanziale dell’obiezione che ho creduto di muovere al Grilli) è che
i problemi fondamentali della filosofia epicurea non sembrano aver
interessato particolarmente il Leopardi in questa probabile «prima let-
tura». Epicuro non è mai “maltrattato” nel Saggio (lo sarà poco più
tardi nell’Appressamento della morte, che segna un passeggero ritorno
di cattolicesimo più doloroso-pessimistico che razionalista);20 nel Sag-
gio è citato con consenso per il suo rifiuto della divinazione (cap. III),
con dissenso per opinioni scientifiche erronee; le citazioni da Epicu-
ro sono analoghe a quelle da Lucrezio; ma, in quanto nemico della
superstizione, Lucrezio è lodato con più calore.
Quanto alla «seconda lettura» di Diogene Laerzio, testimoniata
dallo Zibaldone, l’osservazione del Grilli ha, invece, buon fondamen-
to, ed è confermata dagli Scritti filologici (a cura di G. Pacella e S. Tim-
panaro, Firenze 1969, cfr. l’indice a p. 683). C’è un’eccezione, che il
Grilli stesso segnala: in Zib. 4299 (17 dic. 1827) è citato, per un fatto
linguistico (πως con l’infinito: cfr. anche Scritti filologici cit., p. 654
r. 65 sg.), un passo dell’Epistola ad Erodoto di Epicuro (da Diogene
Laerzio, X 37). Il passo è «citato in modo difforme dall’abitudine del
Leopardi» dice il Grilli, e perciò egli suppone, senza peraltro identi-
ficare la fonte, una citazione di seconda mano. Ma le citazioni leopar-
diane da Diogene Laerzio, come da molti altri autori, sono spessissimo
leggermente «difformi» l’una dall’altra: ne troviamo senza indicazione
del passo preciso (ad esempio in Zib. 162, 197, 207); ne troviamo del
tipo «Laerzio, in Aristippo l(ib.) 2. segm. 21» (ad esempio Zib. 223);
talvolta è riportato il passo in greco con o senza traduzione latina, talal-
tra soltanto una parafrasi italiana; e via dicendo. La citazione incrimi-
nata dal Grilli («Epicuro, Epist. ad Herod. ap. Laert. X. segm. 37»;

20
iCfr. {«Il Leopardi e i filosofi antichi»}, pp. 153-154 e n. 14. Parlo di “ritorno” di cattoli-
cesimo, anche quanto al giudizio su Epicuro, riferendomi, già prima che all’Appressamento della
morte (c. III, v. 60), alle Dissertazioni filosofiche (1811-12), ora pubblicate, in modo frettoloso e
provvisorio, a cura di R. Gagliardi, Montepulciano 1983: accenni antiepicurei a pp. 53-57 (con
un prolisso tentativo di confutazione), 166 (già riportato, dall’autografo, in {«Il Leopardi e i filo-
sofi antichi»}, p. 150), 240 (con l’aggiunta di una “confutazione”, tradotta in versi italiani, dal-
l’Anti-Lucretius del Polignac, vedi oltre); accenni a Lucrezio a pp. 52 (non gli dà torto, quanto alla
non eternità del nostro mondo), 242. Queste sembrano, in effetti, ancora citazioni di seconda
mano; ma saranno necessarie indagini più accurate, e probabilmente i dubbi rimarranno.
280 VIII. Epicuro, Lucrezio e Leopardi

quasi identica negli Scritti filologici cit.) non mostra, a mio avviso, una
difformità particolare e, per questo rispetto, potrebbe ben essere di pri-
ma mano. È tuttavia vero che, per dirla col Grilli, «un unicum rimane
un unicum»:21 non si sfugge all’impressione che, terminata la «secon-
da» lettura del lib. VI, il Leopardi abbia smesso (per il sopraggiungere
di altri interessi? per una certa sazietà della lettura di un autore come il
Laerzio, che in parte merita la rivalutazione che ne ha fatto Marcello
Gigante, ma che certo manca di vivezza espositiva, di chiaroscuri,
anche a prescindere dall’assenza di originalità filosofica che sarebbe
ingiusto pretendere da lui?) la lettura continuata di quell’opera e che
quella citazione dal lib. X sia il risultato di una “scorsa” saltuaria (che
ebbe come frutto, del resto, un’osservazione di sintassi greca: nulla di
specifico sulla filosofia epicurea). Nemmeno molto più tardi, da brani
di Diogene Laerzio contenuti nella silloge degli Opuscula Graecorum
veterum sententiosa et moralia di Johann Conrad Orelli, il Leopardi tras-
se notizie sull’epicureismo; o non si curò di prenderne nota.22
Senza Diogene Laerzio, dice ancora il Grilli (p. 61), «tutti i pro-
blemi della filosofia ellenistica non potevano esser visti e conosciuti

21
iIn verità un’altra citazione, da VII 57 (cioè dal libro dedicato agli Stoici) c’è in Zib. 43, a
proposito della parola greca βλτερι. Il Grilli (p. 60 n. 28) suppone che il Leopardi l’abbia letta
nell’indice dell’ed. del Meibom, e di lì sia risalito alle note del Casaubon e del Ménage. Ma, come
mi fa osservare per lettera il Pacella, perché pensare a una consultazione del solo indice anziché
a lettura del testo di Diogene Laerzio? Certo, anche qui – come in X 37 cit. sopra, come in varie
citazioni da Lucrezio, cfr. qui sotto, paragr. 11 – l’interesse del Leopardi è rivolto alla lingua,
non al pensiero filosofico. Per la notevole osservazione del Leopardi su βλτερι, che va molto al
di là di quanto si sapeva allora e costituisce una delle prove del suo ingegno di linguista-filolo-
go, cfr. Filippo Di Benedetto, G. Leopardi e una nuova etimologia di franc. «bélître», «Siculorum
Gymnasium», IV, 1951, p. 129 sg.
22
iQuella silloge fu posseduta dal Leopardi a partire dal dicembre 1826, ma a leggerla egli
incominciò soltanto nel ’29, come è dimostrato dall’Indice delle letture IV (ed. Pacella, | cfr.
sopra, p. 276 |, p. 572, nr. 452-70) e dallo Zibaldone, 4431 sg.: cfr. Leopardi, Scritti filologici,
ed. Pacella-Timpanaro cit., p. 607 e altrove. A torto il Grilli (p. 60 n. 27) dice che il Leopardi
aveva avuto «sicuramente» a disposizione una copia dell’Orelli «durante il soggiorno romano e
un’altra durante quello bolognese», e cita vari passi degli Scritti filologici, i quali, però, conten-
gono tutti aggiunte posteriori (cfr. le note dell’ed. Pacella e mia). Anche quanto alle citazioni
da Stobeo (Grilli, p. 61 e nn. 31-32), quelle che risalgono al soggiorno bolognese non deriva-
no dall’Orelli, benché sulla provenienza di alcune permangano dubbi (cfr. Scritti filologici cit.,
Indice, p. 717). Nell’insieme le citazioni da Stobeo, dirette o indirette, non sono poche né tutte
insignificanti. Devo, tuttavia, dare atto al Grilli che in {«Il Leopardi e i filosofi antichi», qui
sopra,}, pp. 164-165, mi ero espresso troppo indeterminatamente e avevo antedatato le letture
del testo g r e c o di Stobeo (a Recanati il Leopardi possedeva soltanto una traduzione latina:
cfr. l’Indice cit. dagli Scritti filol., dove quel mio precedente errore è corretto). È probabile, tut-
tavia, che sia opportuno un supplemento d’indagine.
VIII. Epicuro, Lucrezio e Leopardi 281

altro che attraverso Cicerone, testimone certo autorevole, ma non


esente da sospetti». Non è questa la sede per riprendere la vexatissi-
ma quaestio dell’autorità di Cicerone come espositore dello stoicismo
e, per il problema che più ci interessa da vicino, dell’epicureismo: il
Grilli, del resto, nei suoi molti studi su Cicerone filosofo non ha mai
dimostrato, a differenza di altri, sospetti eccessivi. Se devo esprime-
re un parere necessariamente molto rapido e sommario su un argo-
mento sul quale mi sono espresso e spero (ma ... «il tempo manca»!)
di esprimermi più diffusamente altrove, dirò che Cicerone non
intese il grande valore dell’epicureismo come tentativo ( n o n
r i u s c i t o, ma, quanto all’esigenza, giusto e geniale) di fondare un’e-
tica “dal basso”, di concepire, senza affatto sminuirli, i valori morali
più alti e “disinteressati”, a cominciare dall’amicizia, non come dati
a priori ma come punti di arrivo di un processo che prendesse inizio
da bisogni e appetiti “animali”, e di tracciare secondo questa stessa
concezione lo sviluppo, faticoso e tutt’altro che trionfalistico (vedi
sopra, § 2 in fine), della civiltà umana. Questo è il grandissimo debi-
to che verso l’epicureismo ha tutta una vasta e varia corrente della
filosofia moderna, dall’Umanesimo all’Illuminismo e poi ancora nel
secondo Ottocento; e il debito non è ancora estinto, tanto più che
sono poi venute correnti filosofiche (già Kant, del resto!) che su que-
sti problemi hanno fatto gravi passi indietro. Ma, in primo luogo, nel
non comprendere questo audace e raro pregio dell’epicureismo Cice-
rone (non dimentichiamolo) si trovava e, come si è ora accennato, si
trova tuttora in compagnia di insigni “filosofi professionali”, cosicché
non può, per questo solo motivo, essere considerato come un filosofo
dilettante o un uomo politico che piegava la filosofia agli interessi del
gretto conservatorismo della nobilitas romana ormai incapace di gover-
nare (anche questo, indubbiamente, c’è in Cicerone, e non dev’esse-
re taciuto; ma l’uomo fu molto superiore, per intelligenza e cultura,
alla classe a cui rimase legato, e dalla quale naturalmente fu condizio-
nata anche la sua intelligenza, ma tutt’altro che totalmente). In secon-
do luogo, a mio parere (un parere che dovrei cercare di motivare in
altra sede, ma in buona parte è stato già espresso da altri studiosi), se
si eccettua quell’incomprensione di cui già si è parlato, ulteriori frain-
tendimenti o addirittura falsificazioni del pensiero di Epicuro non esi-
stono in Cicerone, o riguardano questioni del tutto marginali oppure
opinabili, sulla cui interpretazione c’è tuttora dissenso. Molte obie-
282 VIII. Epicuro, Lucrezio e Leopardi

zioni di Cicerone all’epicureismo (o all’epicureismo e allo stoicismo


insieme), tratte dall’Accademia nuova e, in parte, da Teofrasto, col-
piscono, seppure talvolta non fino in fondo, il punto debole dell’epi-
cureismo non meno che di altre filosofie ellenistiche: la pretesa di ren-
dere l’uomo felice in quanto “autosufficiente”, non toccato da alcun
“male esterno”, lieto anche in mezzo ai tormenti e alle sventure.
Anche Plutarco, che nella pars construens del suo pensiero è un plato-
nico poco profondo e poco originale, nella polemica antiepicurea (e
antistoica) non è trascurabile.

4. Questo punto, il Leopardi fu in grado di capirlo anche senza aver


letto (o avendo letto una volta sola e superficialmente, cfr. § 3 all’ini-
zio) i libri VII e X di Diogene Laerzio, anche basandosi soltanto su
Cicerone e Lucrezio; così come Cicerone e Lucrezio bastarono a far-
gli intendere il carattere apolitico, non animato da entusiasmo per la
«virtù» repubblicana, dell’epicureismo, molto più che dello stoicismo
(di un certo stoicismo almeno, non di quello, altrettanto apolitico, di
Epitteto: vedi più oltre).
Quanto all’epicureismo, va sempre ricordato quel passo dei Detti
memorabili di Filippo Ottonieri (cap. I):
Nella vita, quantunque temperatissimo, si professava epicureo, forse per ischerzo più
che da senno. Ma condannava Epicuro; dicendo che ai tempi e nella nazione di colui,
molto maggior diletto si poteva trarre dagli studi della virtù e della gloria, che dall’ozio,
dalla negligenza, e dall’uso delle voluttà del corpo; nelle quali cose egli (cioè Epicuro)
riponeva il sommo bene degli uomini. Ed affermava che la dottrina epicurea, pro-
porzionatissima all’età moderna, fu del tutto aliena dall’antica.

«Proporzionatissima all’età moderna» – cioè al torpore della Re-


staurazione e, più tardi, all’affarismo e all’egoismo borghese –, «del
tutto aliena dall’antica»: un pensiero paradossale e almeno in parte
erroneo (perché il mondo ellenistico o immediatamente preellenistico
nel quale sorse l’epicureismo fu un mondo, nel senso che a questo ag-
gettivo dava il Leopardi, moderno, ben diverso dalla grecità classica,
e perché quell’accenno all’«uso delle voluttà del corpo» non rende giu-
stizia all’edonismo epicureo che, in realtà, fu così poco edonistico da
sfociare in un eccessivo ascetismo, e rivela, questa volta sì, un influs-
so deformante di alcune letture ciceroniane). Un pensiero, tuttavia,
coerente con la concezione etico-politica leopardiana degli anni gio-
VIII. Epicuro, Lucrezio e Leopardi 283

vanili (gli antichi tutti attività, energia, magnanime illusioni), già for-
temente intaccata da dubbi, ma non ancora esauritasi nel ’24, e coe-
rente poi di nuovo con la pur tormentata ripresa di interesse politico
degli ultimi anni.23
Quanto alla polemica contro l’“autosufficienza” del sapiente, biso-
gna di nuovo richiamarsi all’Ottonieri (cap. II), e già a un pensiero,
forse espresso con più energica immediatezza, dello Zibaldone, 2800-
2803 (22 giugno 1823). Fu molto comune «specialmente tra’ filosofi
antichi», dice il Leopardi, l’idea che il sapiente non debba far dipen-
dere la propria felicità o infelicità «dalla fortuna (...), o da veruna for-
za di fuori». Senonché
questa medesima disposizione d’animo (...) non è ella sempre suddita della fortuna?
Non si sono mai veduti de’ vecchi ritornar fanciulli di mente, per infermità o per
altre cagioni, l’effetto delle quali non fu in balia di coloro l’impedire o l’evitare? (...)
La nostra medesima ragione non è tutta quanta in balia della fortuna? (...) In som-
ma, se il nostro corpo è tutto in mano della fortuna, e soggetto per ogni parte all’a-
zione delle cose esteriori, temeraria cosa è il dire che l’animo il quale è tutto e sempre
soggetto al corpo, possa essere indipendente dalle cose esteriori e dalla fortuna. Con-
chiudo che quello stesso perfetto sapiente, quale lo volevano gli antichi (...), sarebbe inte-
ramente suddito della fortuna, perché in mano di essa fortuna sarebbe interamente quella
stessa ragione sulla quale egli fonderebbe la sua indipendenza dalla fortuna medesima.

E vedi anche il pensiero immediatamente seguente: il terrore, cioè


un moto d’improvviso pànico, può travolgere ogni difesa razionale
anche nell’uomo di temperamento «perfettamente coraggioso e savio»:
«Nessuno può debitamente vantarsi di non poter essere spaventato».
Questa è (non ho mutato parere su questo punto) una profonda e
radicale critica del volontarismo. Gli accidenti e s t e r n i possono
colpire l’uomo all’ i n t e r n o stesso del suo corpo (del corpo fa par-
te anche il cervello, anche il sistema nervoso, anche l’“anima”): una
perturbazione patologica dell’organismo, coi suoi riflessi sulla psiche,
può da un momento all’altro sconvolgere quello stato di grazia che è
l’imperturbabilità del sapiente. Già l’entusiasmo che, qualche anno
prima, il Leopardi aveva concepito per Teofrasto si basava soprattut-

23
iSull’itinerario del pensiero leopardiano non è questo il luogo adatto per un elenco biblio-
grafico. Sull’«egoismo» inteso essenzialmente come apoliticità e contrapposto all’«eroismo» cfr.
ad esempio (per citare un passo particolarmente significativo) Zib. 537 (gennaio 1821) col com-
mento del Leopardi al passo di Cicerone, Laelius, 13, 45 sg. Cfr. anche qui {sotto}, p. 324 sg.
284 VIII. Epicuro, Lucrezio e Leopardi

to sulla consapevolezza che Teofrasto aveva avuto, di questa preca-


rietà della forza dell’uomo saggio di fronte alle sventure.24
Su questo punto, l’«apatia» stoica era non meno condannabile del-
l’atarassia epicurea: se gli epicurei sostenevano il libero arbitrio con
argomenti del tutto inconsistenti, incompatibili col materialismo, d’al-
tra parte il fatalismo p r o v v i d e n z i a l i s t i c o degli stoici non
era migliore; e infatti il Leopardi contrappone l’etica teofrastea a tutta
la successiva filosofia ellenistica (del neoaccademismo di Carneade egli
non ebbe una nozione sufficientemente chiara: a giudicare dallo Zibal-
done, le due opere più ardite e intelligenti di Cicerone filosofo, il De
natura deorum e il De divinatione, furono oggetto di letture tarde e par-
ziali). Nel riconoscimento della positività del piacere da parte di Teo-
frasto il Leopardi vede, sì, un precorrimento di un aspetto positivo del-
l’epicureismo, ma si affretta ad aggiungere una nota implicitamente e
ingiustamente svalutativa nei riguardi dell’edonismo epicureo.25
Questa sorta di parzialità filo-stoica non dev’essere per nulla esage-
rata, ma va spiegata rammentando che il Leopardi, in due fasi diverse
del suo iter filosofico e da due punti di vista che si potrebbero addi-
rittura considerare opposti, dette una valutazione favorevole, benché
limitata da forti riserve, dello stoicismo. Di ciò altri studiosi e io stes-
so abbiamo già trattato a suo tempo: bastino qui due rimandi in nota,

24
iSu Teofrasto non credo di dover correggere quanto ho scritto in {«Il Leopardi e i filosofi
antichi»}, pp. 161-163. Dall’etica teofrastea il Leopardi vide con piena lucidità un punto solo,
ma un punto di capitale importanza: la negazione (in buona parte già aristotelica) della tesi
secondo la quale la virtù basterebbe a dare la felicità. Già Cicerone, in passi che il Leopardi cono-
sceva (cfr. Zib. 317 e la Comparazione delle sentenze di Bruto minore e di Teofrasto vicini a morte,
in T.O, I, pp. 205-210; cfr. anche{, qui sopra, «Il Leopardi e i filosofi antichi»}, p. 163 n. 37;
ma lì, p. 163 nel testo, non parlerei più con frettoloso disprezzo del «superficiale stoicismo di
Cicerone»), pur non arrivando a consentire pienamente con Teofrasto, aveva compreso la diffi-
coltà di svalutare del tutto l’incidenza dei beni e dei mali esterni sulla felicità del sapiente. Ma
al Leopardi, giustamente, le riserve di Cicerone nei riguardi dell’etica aristotelico-teofrastea sem-
brano ancora eccessive.
25
iCfr. Zib., 317: (Teofrasto) «anteriore oltracciò ad Epicuro e certamente non epicureo per
vita né per massime» (cioè non edonista volgare ed egoista). Teofrasto, secondo una tradizione
riferita da Plutarco (cfr. {«Il Leopardi e i filosofi antichi»}, p. 162 e n. 33), aveva per due volte
liberato la patria dalla tirannide; non era dunque stato un apolitico come Epicuro; e ciò, per il
Leopardi pur disilluso dalla politica, continuava ad essere un titolo di merito. L’antiepicurei-
smo è un po’ più attenuato nella Comparazione cit. (T.O., I, p. 208): «... con tutto che fosse
diversissimo e ne’ costumi e nelle sentenze da quello che poi furono gli Epicurei»: qui il biasi-
mo morale, come molto spesso anche in Cicerone, è rivolto solo contro i seguaci dell’epicurei-
smo, non contro il maestro. Cfr. il passo di Montesquieu cit. in Zib. 274, in cui si dice che «la
secte d’Epicure (...) contribua beaucoup à gâter le coeur et l’esprit des Romains».
VIII. Epicuro, Lucrezio e Leopardi 285

per ciò che riguarda gli stoici, o loro affini, ultimi difensori della Re-
pubblica romana e martiri della libertà sotto l’Impero26 e, più tardi, l’a-
desione alla morale di Epitteto, la sua breve durata, la sua non-totalità
anche nel momento culminante.27 Vorrei aggiungere soltanto un’osser-
vazione che non so se sia stata già fatta, né quanto consenso troverà.
La scarsa convinzione con cui il Leopardi fece propria la morale di
Epitteto è dimostrata, a me pare, anche dalla resa stilistica, tutto som-
mato non eccelsa, della traduzione del Manuale. Può darsi che futuri
studi sullo stile di questa versione mi facciano cambiar parere. Ma per
ora mi sembra che, mentre il Preambolo del volgarizzatore, con quella
caratterizzazione dello stoicismo epittetèo come “morale dei deboli”,
con quella non sopita nostalgia della morale eroica già ben notata dal
Luporini, è bellissimo anche letterariamente (anche se non va assunto,
ormai lo sappiamo, come espressione tipica e duratura dell’etica leo-
pardiana), il volgarizzamento del Manuale – un’opera che, certo, anche
nel testo greco non eccelle affatto per pregi stilistici: questo limite og-
gettivo non va dimenticato – è scritto in quello stile alquanto arido,
freddamente letterario, un po’ troppo arcaico, che tanto ingiustamen-
te e per tanto tempo è stato rimproverato alle Operette morali.28

26
iCfr. {«Il Leopardi e i filosofi antichi»}, p. 159, anche per l’importante e tormentato con-
cetto di «mezza filosofia»; Zib. 522, e altri passi cit. da E. Paratore, Moderni e contemporanei fra let-
teratura e musica, Firenze 1975, pp. 11-16. Sulla conoscenza (da me, un tempo, erroneamente
messa in dubbio) di Lucano da parte del Leopardi cfr. Paratore, p. 15 sg. e i miei Aspetti e figu-
re, pp. 44-46; cfr. anche A. La Penna, Leopardi fra Virgilio e Orazio, in Leopardi e il mondo anti-
co (cit. sopra, nota 2), p. 174 n. 77 | ora in La Penna, Tersite censurato, Pisa 1991, p. 277 n. 77 |.
Naturalmente il Leopardi condivideva l’immagine “libertaria”, predominante al suo tempo, di
tutti questi repubblicani: ignorava il loro conservatorismo sociale; ma sarebbe anacronistico far-
gliene rimprovero. Del resto, è già molto che egli comprendesse l’inanità di questo genere di
opposizione limitato ai soli intellettuali, le titubanze degli oppositori stessi in un mondo ormai
«corrotto» (Zib. 22 sg., 161, 274, dove vi sono notevoli influssi del Montesquieu).
27
iCfr. C. Luporini, Leopardi progressivo (1947), rist. Roma 1980, pp. 82-84 (tuttora fonda-
mentale su questo punto); e una mia precisazione, che mi sembrò e mi sembra necessaria, in
{«Alcune osservazioni sul pensiero del Leopardi», qui sopra,}, p. 132; e ancora W. Binni, La pro-
testa di Leopardi cit., p. 5.
28
iCon ragione L. Blasucci (La posizione ideologica delle «Operette morali», ora in Leopardi e
i segnali dell’infinito, Bologna 1985, p. 198 n. 26) precisa che la disposizione d’animo espressa
nel preambolo alla versione di Epitteto, «svuotata ormai di qualsiasi implicazione eroica, | ma
non si dimentichino le osservazioni di Luporini cit. alla nota preced. |, non va confusa con «l’in-
differenza a suo modo ancora eroica delle Operette» (lo stacco era stato già notato dal Binni, La
protesta di Leopardi cit., p. 109 sg., a cui tuttavia il Blasucci arreca qualche giusta precisazione;
una posizione più equilibrata il Binni stesso aveva raggiunto nelle lezioni universitarie sulle Ope-
rette, pubblicate solo di recente, cit. qui sopra, nota 8). Il saggio di E. Bigi, Dalle «Operette mora-
286 VIII. Epicuro, Lucrezio e Leopardi

5. Per tornare al nostro tema, le lievi incomprensioni del Leopardi


verso l’epicureismo non devono farci dimenticare che la filosofia leo-
pardiana ha un carattere profondamente diverso, su punti essenziali,
anche dall’epicureismo rettamente inteso: non si tratta, dunque, soltanto
di equivoci, e nemmeno di inferiorità del Leopardi filosofo in con-
fronto a Epicuro: su molti problemi il Leopardi si rivela assai più acu-
to di Epicuro. Lo abbiamo già accennato all’inizio del nostro arti-
colo;29 cercheremo di mostrarlo ora in modo più particolareggiato,
ritornando a parlare anche del rapporto Leopardi-Lucrezio.
Qui bisogna dire almeno qualcosa su un annoso problema, sul quale
ancora non è stato raggiunto l’accordo tra gli studiosi: Lucrezio è,

li» ai «Grandi Idilli» (ora in La genesi del «Canto notturno» e altri studi sul Leopardi, Palermo
1967, p. 83 sg.), anticipa un po’ troppo, includendovi anche le Operette, la fase “epittetèa”; ma
conserva il suo pieno valore, che il Binni tende a disconoscere, per la ricostruzione dell’iter leo-
pardiano dal ’25 al ’27. Ancora un momento diverso, e passeggero, dello stoicismo leopardiano
è costituito dalla chiusa del Parini; ma vedi la riserva che esprimevo in {«Il Leopardi e i filosofi
antichi», qui sopra,}, p. 177; e ora, nello stesso senso, Binni (cit. qui sopra, nota 8), p. 77. Più
ancora, come è ovvio, il Leopardi si sente lontano da certe forme esterne e addirittura grotte-
sche che il provvidenzialismo filantropico aveva assunto per esempio in Crisippo: cfr. la bellis-
sima satira nel Dialogo di un folletto e di uno gnomo, dove il Leopardi stesso cita un passo di Cri-
sippo tratto da Cicerone, De nat. deor. II 64, 160 (T.O., I, pp. 92-94 e nota 1). Lo stile «freddo»
è stato rimproverato a torto, secondo me, al Frammento apocrifo di Stratone di Lampsaco anche
da ammiratori delle Operette quali il Fubini e il Binni; io condivido il giudizio positivo del Bigi,
Dal Petrarca al Leopardi (cfr. qui sopra, nota 9), p. 136.
** 29iCfr. § 1. La diversità è sottolineata bene anche dalla Naddei (cit. qui sopra, nota 2).
Non riesco, però, a persuadermi che la posizione coerentemente materialistica sia quella di Epi-
curo, e che il pessimismo leopardiano, pur superiore, introduca una deroga al materialismo. Su
questo punto (cioè sulla piena legittimità e logicità di un materialismo «non soddisfatto della
condizione umana») rimango ancora fermo a ciò che scrissi in {«Alcune osservazioni sul pensie-
ro del Leopardi», qui sopra,}, p. 130 sg. e, con alcune ulteriori precisazioni, in Antileopardiani,
p. 193 sg. e nell’introduzione a P. Thiry D’Holbach, Il buon senso, Milano 1985, pp. LIX-LXVI.
Il conflitto tra «intelletto» e «senso dell’animo» (cfr. Dialogo di Plotino e di Porfirio), al quale si
richiama la Naddei, p. 243 e altrove, è, nel Leopardi maturo, tutto all’interno del materialismo.
Il materialismo non è mero razionalismo, riconosce anzi l’inesistenza ineliminabile dell’affetto,
della passione, del timore, dell’infelicità, del dolore che la nostra morte procurerà ai nostri cari:
donde l’oscillazione, che nel Leopardi non è dovuta a banale incoerenza, tra l’asserzione della
liceità del suicidio (Bruto minore; La vita solitaria, 22) e un arrestarsi dinanzi a questa soluzione
estrema (Plotino e Porfirio). Soltanto, attribuisce a queste “passioni” un carattere appunto, di
manifestazioni psichiche, non le considera come varchi aperti verso soluzioni spiritualistiche,
come rivelazioni di Verità soprarazionali. Beninteso, la compianta studiosa ha mantenuto sem-
pre una posizione molto controllata, che non va confusa con quella degli interpreti spiritualisti-
ci del Leopardi. Ma assai meno materialistico del pensiero leopardiano è in realtà l’epicureismo,
per il suo carattere religioso (sul quale ritorneremo), e, insieme, per la pretesa di annullare con
«discorsi», come se si trattasse di errori dovuti ad insipienza, le passioni, le ansie, la ben reale
infelicità umana.
VIII. Epicuro, Lucrezio e Leopardi 287

fino in fondo, un epicureo? Il “di più” che vi è nel De rerum natura


in confronto ai testi di Epicuro consiste solo nell’altissima ispirazio-
ne poetica lucreziana? Come è noto, si è discusso fino alla sazietà,
almeno a cominciare dal tardo Ottocento, sul problema dell’Antilu-
crèce chez Lucrèce (la formula brillante è di un latinista francese, H.-
J.-G. Patin; l’Anti-Lucretius è un mediocre poema latino di apologia
cattolica, del cardinale di Polignac, vissuto tra la fine del Sei e i pri-
mi del Settecento). Nel De rerum natura, si è detto, nonostante la
fedeltà dottrinaria di Lucrezio ad Epicuro e la sua appassionata vene-
razione per il filosofo liberatore dell’umanità dalle angosce dovute a
superstizione e a ignoranza, predomina, involontaria e non domata,
una visione tragica della vita, che costituisce il più alto motivo ispi-
ratore della poesia lucreziana. Questa tesi è stata recisamente com-
battuta da alcuni tra i migliori studiosi di Lucrezio e di Epicuro nel
nostro secolo. Da un lato si è obiettato che motivi pessimistici in sen-
so molto lato (ma di un pessimismo che la filosofia può vincere fugan-
dolo col pacato ragionare) vi sono già in Epicuro. Dall’altro, si è
sostenuto che nella poesia di Lucrezio l’entusiasmo per la verità ras-
serenatrice e per Colui che l’ha insegnata, l’amore per gli uomini che
il Verbo di Epicuro può salvare dall’infelicità, prevale sulla raffigu-
razione tragica della vita di chi non è stato ancora illuminato da quel
verbo (non, dunque, di Lucrezio stesso). Certamente, la tesi dell’An-
ti-lucrezio in Lucrezio può portare a risultati aberranti: a fare di
Lucrezio tout court il «poeta dell’angoscia» (così s’intitola un saggio
di Luciano Perelli, Firenze 1969, acuto in molti punti, inaccettabile
nell’insieme), negandone la mirabile lucidità razionale che è anch’es-
sa fonte di alta poesia; o, addirittura, a trasformare il suo materiali-
smo e antiprovvidenzialismo in un disperato bisogno di religione (di
una religione dell’immortalità individuale e della divinità benefattri-
ce, non della religione epicurea). Vengono sùbito in mente le falsifi-
catrici interpretazioni spiritualistiche o addirittura cattoliche del
Leopardi.
Eppure, che Lucrezio abbia vissuto (non solo sul piano biografico
e psicopatologico, ma, ciò che veramente importa, nella sua opera stes-
sa) l’epicureismo come una continua lotta tra l’adesione – anche emo-
tiva, certo, non soltanto razionale – alla dottrina serenatrice del Mae-
stro e un senso tragico della condizione umana sempre riaffiorante,
che il disarmante semplicismo di certe “consolazioni” epicuree, da lui
288 VIII. Epicuro, Lucrezio e Leopardi

stesso fedelmente esposte e difese, non lo abbia, e pour cause, persua-


so fino in fondo, non mi sembra che si possa negare. Tanto per fare
un esempio, finché Lucrezio, nel lib. V (195-234, cfr. II 167-181),
nega che il mondo sia stato fatto dagli dèi a beneficio degli uomini,
nega cioè ogni teodicea e ogni provvidenza nei riguardi dell’umanità,
espone una fondamentale idea epicurea basata su solidissimi argo-
menti e che ancora non può essere definita pessimistica, poiché secon-
do Epicuro spetta all’uomo costruirsi la propria inespugnabile felicità
interiore in un mondo esterno dal quale non deve aspettarsi aiuti. Ma
l’esposizione di Lucrezio trapassa in un atteggiamento che non si può
non considerare, sia pure emotivamente e non ragionativamente, pes-
simistico quando insiste su tale «indifferenza» come fonte di infelicità
per tutto il genere umano, e vede nella natura una forza non soltanto
non-provvidenziale, ma ferocemente rivolta contro l’uomo. In V 198
sg. (e già in II 180 sg. secondo un’emendazione del Lachmann che
sembra l’unica giusta e necessaria; ma questa il Leopardi non poteva
ancora conoscerla) leggiamo i due famosi versi, ripetuti tali e quali
secondo quella tecnica di “reiterazione ossessiva” che, almeno in mol-
ti casi, non è dovuta a guasti della tradizione manoscritta né allo sta-
to di non perfetta rifinitura in cui Lucrezio morendo lasciò il suo poe-
ma, ma a un preciso scopo di efficacia artistica: nequaquam nobis
divinitus esse creatam / naturam mundi: tanta stat praedita culpa. Fino a
naturam mundi, siamo entro l’ortodossia epicurea; con tanta stat prae-
dita culpa, la natura è addirittura resa responsabile, come una forza
consapevole, dell’infelicità umana: culpa (una parola sulla quale i com-
mentatori favorevoli alla tesi dell’ortodossia epicurea, come Robin e
Bailey, ma anche il Giussani che è su una posizione diversa, credono
bene di tacere), in un contesto così vibrato, difficilmente si può inten-
dere nel senso di “imperfezione”, “difettosità”, appoggiandosi (se ben
vedo, sarebbe l’unico raffronto plausibile) a un passo di Virgilio,
Georg. III 68, dove culpa è la malattia di un capo di bestiame, che va
soppressa uccidendo l’animale prima che esso propaghi agli altri il con-
tagio (e anche in Virgilio, a mio avviso, c’è, in senso paradossalmente
e dolentemente scherzoso, come in tutta la narrazione della morìa del
bestiame, un significato “morale”: la bestia ammalata è «colpevole»
della morte di tutto il gregge, se il pastore non interviene sùbito, sen-
za una dannosa compassione). Certo, come tante volte il Leopardi par-
la della natura «matrigna» o «nemica» per dare risalto emotivo e poe-
VIII. Epicuro, Lucrezio e Leopardi 289

tico a quella che egli concepisce come un meccanismo i n c o n s c i o


di produzione-distruzione, che infelicita e infine distrugge l’individuo
senza nemmeno accorgersene, così avrà fatto qui Lucrezio: culpa va
tradotto, senza attenuazioni, con «colpa», ma bisogna poi spiegare
che la personificazione appartiene al pathos poetico, non al pensie-
ro. E tuttavia essa presuppone una concezione della natura che in
Epicuro non c’è | cfr. tuttavia qui sotto, p. 312|. Lo ammette il Gius-
sani a proposito di tutto il brano del lib. V sulla non-provvidenzialità
della natura: «Qui è Lucrezio che parla per conto suo, non è Epicu-
ro. Non c’è nulla che materialmente contraddica a nessuna dottrina
epicurea; ma l’intonazione generale non è epicurea».
Lo stesso – direi, più ancora – si può dire per quella domanda ango-
sciosa di V 176 quidve mali fuerat nobis non esse creatis? («qual male sareb-
be stato per noi non essere nati?»), che irrompe in un contesto non del
tutto omogeneo, e tuttavia trae forza proprio da quel suo relativo iso-
lamento: «a curious question», commenta a V 174 Bailey, mostrando,
come in altri casi simili, una certa sordità (una sordità, forse, voluta,
per eludere un problema imbarazzante). Lucrezio non arriva a dire,
contro Epicuro (vedi quanto abbiamo detto sopra, § 1), che «meglio
per l’uomo è non nascere»; dice che «il non nascere non è un male per
l’uomo» (non lo sarebbe stato per l’intera specie umana). Ma, espressa
con quel pathos, quella domanda implica una concezione della vanità
e dolorosità della vita, che anche poco dopo (V 226 sg., in un passo
che abbiamo già citato come una possibile, non sicura, fonte del Can-
to notturno) viene presentata come un susseguirsi di mali, fin dalla
nascita.
Di fronte a passi come questi, Robin e Bailey cercano di trarsi d’im-
paccio ora supponendo che Lucrezio abbia attinto a fonti non epicu-
ree (consolationes ellenistiche, ancor più improbabilmente l’Assioco
pseudo-platonico), ora affermando che Epicuro promette la felicità
soltanto a un’élite capace di assimilare intimamente la sua dottrina,
non a tutti gli uomini che, privi di quella dottrina, infelici sono e
rimangono. La prima ipotesi è indimostrabile, e a ogni modo non ser-
virebbe a molto: resterebbe da chiedersi come mai Lucrezio abbia sen-
tito il bisogno di attingere ad altri filosofi o “pseudo-filosofi” tutt’al-
tro che epicurei; a me sembra molto più probabile che quei trabocchi
improvvisi di senso tragico derivino a Lucrezio, come pensava il Gius-
sani, da Lucrezio stesso, dalla sua esperienza della vita (della vita uma-
290 VIII. Epicuro, Lucrezio e Leopardi

na in generale e delle sventure a cui nessuno sfugge, non necessariamen-


te dalla follia conclusasi col suicidio; gli elementi biografici riferiti da san
Girolamo non sono del tutto assurdi, a parte il «filtro amoroso», ma sono
molto fortemente sospetti). La seconda ipotesi può avere qualcosa di
vero, ma, se si accentua oltre un certo limite il carattere elitario del-
l’epicureismo, la sua difficoltà di espandersi anche i n f u t u r o , si
finisce col menomarne gravemente la forza liberatrice: non si può pre-
sentare Epicuro come il Salvatore (anche su ciò ritorneremo) se la stra-
grande maggioranza dell’umanità è destinata a non trarre vantaggio
alcuno dal suo avvento.

6. Potremmo ancora continuare (ricordando, per esempio, i passi


del lib. III sul «tendere alla morte», fin dalla nascita, di ogni vivente
e del mondo intero, o il paradosso, che a me continua a parer tale,
nonostante il parere contrario di studiosi che stimo altamente, per cui
un’opera che dovrebbe insegnare una verità beatificante si conclude
con la stupenda, ma tragica raffigurazione della peste d’Atene nel
libro sesto; e che quella fosse davvero la chiusa voluta da Lucrezio, che
il poema ci sia giunto non rifinito in molti punti a causa della morte
dell’autore ma non mancante di ulteriori libri progettati e non scritti,
ritengono oggi con ragione molti studiosi: cfr. VI 92 sgg.) [cr]. Ma tut-
to ciò è stato oggetto di indagini approfondite, e io ho voluto soltan-
to rammentare alcuni esempi a conferma della tesi che, riguardo al
rapporto Epicuro-Lucrezio, mi sembra la più giusta.
Tutto ciò non autorizza, peraltro, a formulare semplicistiche equa-
zioni Lucrezio-Leopardi. Di un pessimismo coerente (che non è in
contraddizione, cfr. qui sopra, nota 29, con l’amore per gli uomini,
con la pietà che sorge dalla convinzione della loro insanabile e incol-
pevole infelicità) si deve parlare per Leopardi, almeno dall’inizio degli
anni Venti e, più fermamente ancora, dal 1825-26 in poi: non si può
per Lucrezio, il quale non si propose mai un distacco da Epicuro sul
piano dottrinario, e neanche si permise alcuna dichiarazione esplicita
di un sia pur parziale dissenso nei riguardi di Epicuro. «Lucrezio era
un epicureo di malumore; e il malumore è certamente contrario alla
dottrina epicurea, ma non è una dottrina». Questa frase del Giussani
(comm. a V 226 sg.) è di una rozzezza alquanto irritante, strana in un
uomo di gusto e di ingegno quale egli fu (altrove, per esempio nel volu-
me introduttivo degli Studi lucreziani, Torino 1896, p. XXIII egli si
VIII. Epicuro, Lucrezio e Leopardi 291

esprime con ben diversa finezza). Il «malumore» è qualcosa di trop-


po meschino e transitorio rispetto al senso tragico della vita; ma rima-
ne vero che il senso tragico della vita è sempre in Lucrezio qualcosa
di saltuario, di non sistematizzato (e contraddetto da passi di tutt’al-
tro tono, anch’essi poeticamente altissimi).30 La formula, dovuta a
Francesco Giancotti, dell’«ottimismo relativo» di Lucrezio31 lascia,
sul piano espressivo, una certa insoddisfazione, ma indica, tutto som-
mato, correttamente un contrasto interiore che Lucrezio non vinse,
ma che non lo condusse mai a un vero pessimismo.
Aver riconosciuto che le Weltanschauungen di Lucrezio e di Leo-
pardi sono profondamente diverse è merito del Saccenti, e tale rima-
ne anche se, a mio avviso, nel negare quelle sia pur non sistematiche
espressioni di senso tragico della vita in Lucrezio egli è andato trop-
po oltre.32 Se, nel sommario esame che io a mia volta farò di tale diver-
sità (ad integrazione di quanto ho già accennato sopra), le mie osser-
vazioni divergeranno talvolta da quelle del Saccenti, ciò dipenderà
soprattutto dal fatto che ad un sostanziale – anche se, come ho detto,
non assoluto – consenso tra noi due per ciò che riguarda l’ideologia di
Lucrezio non fa riscontro un’altrettanta identità di vedute quanto al
Leopardi. Il Saccenti, io credo, si è lasciato troppo sedurre dall’inter-
pretazione leopardiana di Cesare Galimberti, che ci ha presentato un
Leopardi non certo banalmente cattolico, ma «teologo negativo», se-
guace di una religione del Nulla, «gnostico» più che ateo e materiali-

30
iAlludiamo non solo alle espressioni di esaltazione della potenza generatrice della natura
(tutto l’inizio del lib. I, con l’invocazione a Venere) e di entusiasmo per il dileguarsi dei terrori
di fronte al fulgore della verità, ma anche a certi passi in cui la condizione umana è rappresen-
tata in modo tragico sì, ma pacato, almeno apparentemente privo di ogni pathos (a differenza
di quelli che abbiamo citato nel paragr. precedente) e tuttavia proprio per questa pacatezza, tan-
to più doloroso: tra questi, soprattutto stupendo è II 573-580 (sull’alternarsi, ogni giorno e ogni
notte, di nascite e morti).
31
iF. Giancotti, L’ottimismo relativo nel «De rerum natura» di Lucrezio, Torino 1960, 19752; II
preludio di Lucrezio e altri scritti lucreziani ed epicurei, Messina-Firenze 19782 (con citazione e
discussione di molta altra bibliografia); | e adesso, meglio ancora, Religio, natura, voluptas, Bolo-
gna 1989; cfr. p. 123 sg., dove il Giancotti constata – e ne sono molto lieto – un sostanziale
accordo tra le sue e le mie posizioni, pur con «qualche differenza»; cfr. ora l’ottima edizione da
lui curata di Lucrezio, La natura, Milano 1994: le differenze tra le nostre posizioni, quali appaio-
no dall’Introduzione e dalle note, mi sembrano ora un po’ maggiori, cioè l’aspetto “ottimistico”
assume maggior rilievo |.
32
iIn questo ha ragione il Mazzocchini, p. 58 n. 5. Prego il lettore di scusarmi per questo
andirivieni di consensi e dissensi; ma nella «questione lucreziana» non è possibile procedere per
tagli troppo netti.
292 VIII. Epicuro, Lucrezio e Leopardi

sta.33 Con quell’interpretazione, che pur considero seria e sofferta, io


non credo di poter consentire, per motivi che sono contenuti in tutto
ciò che, spesso autocorreggendomi ma seguendo una linea, spero, coe-
rente, sono venuto scrivendo sul Leopardi, e anche per la banale,
ma difficilmente confutabile constatazione che il Leopardi, studioso
di autori a n c h e gnostici sul piano erudito nei Fragmenta Patrum
Graecorum (vedi ora l’edizione a cura di C. Moreschini, Firenze
1976), non ha mai fatto, neppure in quel lavoro giovanile e tanto
meno nelle espressioni mature del suo pensiero, alcuna professione di
gnosticismo, né ha aderito mai esplicitamente a testi gnostici.
** L’epicureismo, come è noto e non va dimenticato, è una reli-
gione. Religione appassionatamente antisuperstiziosa e antiprovvi-
denzialistica, ma tuttavia religione profondamente sentita, non atei-
smo mascherato, come fin dall’antichità molti credettero. Forse il
Leopardi non seppe mai che già Epicuro aveva istituito o lasciato isti-
tuire, nella comunità del «Giardino» ad Atene, il culto di se stesso.
Ma dai proemii del De rerum natura seppe certamente che gli epicurei
(e Lucrezio con un pathos non inferiore ad alcun altro) avevano con-
tinuato a esaltarlo come un Dio, come il Salvatore.34 Sapeva inoltre
(per esempio da Lucrezio, II 644-651, 1090-1104, III 18-22 e dal lib.
I del De natura deorum di Cicerone) che l’epicureismo implicava la cre-
denza negli dèi immortali: strani dèi, certo, che, per non “abbassarsi”
ad alleviare l’infelicità umana e di tutti i viventi e ad occuparsi, in ge-
nerale, dell’andamento del cosmo, si riducono a paradigmi immutabi-
li di una beatitudine oziosa e inutile, a cui il sapiente deve adeguarsi,
raggiungendo una beatitudine non inferiore per intensità, anche se
limitata nel tempo (ma tale limitazione non comporta alcunché di
negativo per Epicuro: il suo edonismo è “momentaneistico” quanto
alla durata e quietistico quanto all’intensità; e già la negazione del tem-
po nel senso, diciamo pure, “banale”, eppure ineliminabile da ogni di-

33
iCfr. ad esempio l’introduzione alle Operette morali, Napoli 1977, spec. pp. XXVl-XXX;
e ora, Leopardi: meditazione e canto, Milano 1987 (saggio introduttivo a G. L., Poesie e prose, I).
Non presumo, con questo breve cenno, di aver “liquidato” la posizione del Galimberti, col qua-
le vorrei tornare a discutere. | Ma ciò che pensavo di dire io, lo ha detto poco dopo, in modo
eccellente, E. Bigi, «Giorn. stor. letter. ital.», CXLVI, 1989, pp. 278-286 |.
34
iCfr. ad esempio Lucr. V 8: deus ille fuit, deus. E specialmente il proemio del libro III è un
«inno» a Epicuro che, anche nello stile, ricalca gli inni a divinità: vedi E. Norden, Agnostos
Theos, Leipzig 1913, pp. 143 sg., 150 n. 4, e il commento di Kenney al lib. III (cfr. sopra, p. 266,
nota al titolo), p. 74.
VIII. Epicuro, Lucrezio e Leopardi 293

scorso serio sulla vita umana, è un escamotage idealistico, che acco-


muna Epicuro alla maggior parte dei filosofi e degli scienziati, che
vogliono “raffinare” la religione, non negarla).
Questa religione (che Lucrezio, come è noto, non chiama mai reli-
gio, poiché con questo nome designa la volgare e nociva superstizione;
ma parole come pietas, deus, divi ecc. non potevano lasciar dubbi al
Leopardi sul carattere religioso dell’epicureismo) scavava già tra il
pensiero leopardiano e l’epicureismo di Lucrezio un abisso. Il Leopar-
di, dopo essersi lasciato alle spalle alcune fasi (più d’una) di tormen-
tata religiosità puerile e adolescenziale, non solo è ateo, ma mentre
non crede in nessuna teodicea – come quella di Crisippo, cfr. sopra,
nota 28, e specialmente quella del cristianesimo –, non è nemmeno
disposto, se, per un’ipotesi che egli ritiene del tutto irreale, la divi-
nità esistesse, a considerare come il suo pregio più alto la noncuranza
nei riguardi del male del mondo.35 La constatazione dell’assenza di
ogni provvidenzialità lo porta piuttosto a sfiorare l’“antiteismo”, la
credenza in una divinità malvagia come quella a cui tanto spesso allu-
35
iÈ nobile e suscita simpatia (tanto più in quanto proviene da un cristiano, che ha ricevuto
influssi buonaiutiani) la difesa che E. Paratore, seguendo una linea di pensiero che annovera filo-
sofi di prim’ordine, fa del concetto epicureo di divinità come esente da «ogni contaminazione
ibrida di do ut des, di contrattualismo fra l’uomo e Dio» (Lucreti De rer. nat., locos praecipue
notabiles collegit et illustravit H. Paratore, commentar. instruxit H. Pizzani, Roma 1960, p. 75).
Ma se è meschino chiedere alla divinità «favori personali» in cambio di un culto zelante, non
sembra nemmeno possibile, una volta ammessa l’esistenza della divinità, “deresponsabilizzar-
la” da tutto il male del mondo. Ciò fu obiettato con piena ragione da Holbach a Voltaire. Si
aggiunga che gli dèi epicurei, da quando i simulacra da essi emanati hanno reso gli uomini con-
sapevoli della loro esistenza e hanno fatto sorgere la convinzione (falsa, certo, ma inevitabile:
come tale la presenta Lucrezio e l’aveva presentata certo Epicuro) che da essi potessero deriva-
re beni e, ancor più, mali per gli uomini, sono stati causa, sia pure inconscia e involontaria, del-
la superstizione, di quella che Lucrezio chiama religio e che è, per lui come per Epicuro, il più
grave motivo d’infelicità per l’uomo (cfr. V 1161-1240). Si è dovuto aspettare l’avvento di Epi-
curo (secoli e secoli) per porre rimedio a questa infelicità, e la dottrina epicurea è stata ancora
accolta solo da pochi, e (su ciò Lucrezio insiste particolarmente, cfr. ad esempio III 41-58) dif-
ficile è farla propria fin nell’intimo. Queste difficoltà non mi sembrano superate dall’interpre-
tazione, senza dubbio una delle più intelligenti, di G. Sasso, Il progresso e la morte: saggi su Lucre-
zio, Bologna 1979, p. 102 sgg. Il Sasso ha indubbiamente ragione di sostenere che Lucrezio pone
l’origine della credenza degli dèi e della superstizione in una fase abbastanza evoluta della civiltà
– là dove appunto ne parla –, non al primo sorgere della specie umana. Ma da quel momento in
poi l’uomo fu di gran lunga più infelice, e Lucrezio lo compiange più assai di quanto lo rimpro-
veri (V 1194-1197, 1204-1240). D’altronde, Lucrezio prevede una prossima estinzione della spe-
cie umana (II 1144-1174): la «salvezza» che il divino Epicuro ha arrecato all’umanità sarà dura-
ta, in tutto, ben pochi secoli, e avrà salvato soltanto una élite (cfr. V 1197 minoribus nostris[, a
quelli che verranno dopo di noi]: molti rimarranno incapaci anche in futuro di comprendere la
dottrina di Epicuro, e rimarranno infelici).
294 VIII. Epicuro, Lucrezio e Leopardi

de Lucano (qui sopra, nota 26). Anche quando, nel suo pensiero, gli
dèi malvagi, nella cui esistenza reale egli con ogni probabilità non
credette mai, furono sostituiti coerentemente dalla natura concepita
come cieco e inconscio meccanismo di produzione-distruzione, che
tormenta e annienta l’uomo e ogni essere vivente senza nemmeno accor-
gersene, sul piano della raffigurazione poetica la natura conservò molto
spesso le sembianze della divinità empia, di Arimane (cfr. {, qui sopra,
«Natura, dèi e fato nel Leopardi»}, pp. 227-249; di qui l’appiglio ai
sostenitori della “teologia negativa”; ma costoro sarebbero disposti ad
ammettere l’esistenza s o l t a n t o di un dio malvagio? Comunque,
sul piano razionale, per il Leopardi la natura è, ripetiamo, una forza cie-
ca, involontariamente malefica). E gli «inni ad Epicuro» (qui sopra, nota
34), dio mortale, gli saranno sembrati del tutto assurdi, poiché né Epi-
curo né altri (ovviamente, nemmeno il cristianesimo) avevano libera-
to la specie umana dall’infelicità.
Abbiamo già notato (§ 1) che la più sicura allusione a Lucrezio che
si trovi in Leopardi (Ginestra, 111-113 = Lucrezio I 66 sg.) non impli-
ca identità di pensiero. Un punto di contatto, veramente, c’è (non
messo bene in luce dal Saccenti, p. 133): il coraggio della verità, che
accomuna l’Epicuro lucreziano e l’eroe laico leopardiano nella lotta
contro la superstizione. Ma la battaglia intrapresa da Epicuro ha reso
lui, mortale, pari agli dèi immortali. L’eroe leopardiano osa guardare
l’infelicità sua e dei suoi simili senza la maschera di alcun «conforto
stolto» (cfr. Amore e morte, 119), e chiamare tutti gli uomini a una
lotta impari contro la natura: il suo eroismo sta proprio nella lucida
coscienza della sua debolezza, che non lo induce a immaginarie con-
solazioni. Il divario, anche inteso così,36 è evidente. Si aggiunga che

36
iUna delle difficoltà d’interpretazione della Ginestra consiste nel fatto che l’umanità
preconizzata dal Leopardi, esente da miti religiosi e “umanistici”, da umiliazioni dinnanzi
a presunte divinità protettrici come, d’altra parte, da autodivinizzazioni, è f o r t e pro-
prio in quanto sa di essere infinitamente più d e b o l e della natura che la opprime, ma
non per questo rinuncia alla lotta. Il simbolo della ginestra, se, come tende a fare il Saccenti (p.
133), viene inteso soltanto nel senso della debolezza, conduce ad uno squilibrio dell’interpreta-
zione. Non in quel simbolo, del resto, nonostante l’inizio e la chiusa e il titolo, si esaurisce tut-
to il significato di quel carme così vasto e polifonico. Con tutto ciò, ripeto, il divario tra l’eroe
laico leopardiano (che è poi l’intera umanità futura, il «volgo» libero da miti, non un isolato
uomo eccezionale seguito da pochi fidi) ed Epicuro quale è celebrato da Lucrezio rimane. Esi-
terei, perciò, a definire «lucreziana» col Blasucci (cit. sopra, nota 28), p. 214 n. 39, la fase del
pessimismo leopardiano rappresentata soprattutto dalla Ginestra, in contrasto con una fase ante-
riore che il Blasucci chiama «simonidea» (riferendosi al secondo dei frammenti di Simonide tra-
VIII. Epicuro, Lucrezio e Leopardi 295

il Leopardi batte l’accento, illuministicamente (Holbach) ma andando


assai oltre gli illuministi anche più arditi, sull’esigenza di far parteci-
pe della verità materialistica non un’élite, ma tutti, anche «il volgo»;
mentre su questo punto (cfr. § 5 in fine, e qui sopra, nota 35) l’epi-
cureismo rimane su una posizione almeno ambigua.
Come è ovvio, il rifiuto della religione epicureo-lucreziana porta con
sé il ripudio di tutta la «pedagogia» (della parenetica, dei discorsi suaso-
rii) mediante la quale l’uomo avrebbe dovuto essere liberato dall’an-
sia dovuta ai mali esterni, o anche ai desideri smodati, o alla noia. Il Leo-
pardi, tranne la breve e non del tutto persuasa parentesi «epittetèa»
alla quale si è già accennato, non crede nella filosofia come consolazione
(“negazione ideale”) dei mali; non crede, si potrebbe anche dire, nel-
la “saggezza”. Epicuro, è vero, nega la teodicea: cfr. Epicurea, ed. Use-
ner, pp. 246-253 ; sappiamo che i suoi dèi hanno altro da fare, o meglio,
da non fare; ma esige pur sempre l’ a c c e t t a z i o n e : infelici sono
soltanto gli stolti, laddove per il Leopardi, caso mai, «misera non è la
gente sciocca» (I nuovi credenti, 78). Anche questa, tuttavia, è una ritor-
sione sarcastica: l’infelicità, prima o poi, viene per tutti, non rispar-
mia nemmeno gli animali e le piante (Zib. 4175 sgg., in un passo meri-
tamente famoso).
È molto probabile (cfr. § 4) che della nozione epicurea di “piace-
re” il Leopardi abbia avuto un’idea non del tutto adeguata. Ma in ogni
caso l’edonismo epicureo, anche nella forma “pura”, quale risulta, ad
esempio, dal proemio, pur non esente da ambiguità, del lib. II di Lu-
crezio37 e dalla polemica così aspramente antierotica del lib. IV (1058
sg.), non ha niente a che vedere con la «teoria del piacere» leopardia-
na; e oserei aggiungere che anche una più precisa conoscenza delle
idee di Epicuro in proposito (delle quali, come è noto, Lucrezio non ci

dotto molto liberamente dal Leopardi e posto in fine ai Canti). Trovo poco opportuna, beninte-
so, la scelta dei termini, non la distinzione concettuale-stilistica, che, del resto, il Blasucci ha
cura di non irrigidire. Quanto all’«illuminismo per tutti» nella Ginestra, ho cercato di chiarire
meglio questo motivo negli Antileopardiani, p. 187 sg.; cfr. anche «Belfagor», XLII, p. 631 sgg.
| una replica ad Adriano Sofri che considero tuttora valida e che riguardava la sua sconfessione
della lotta di classe. Beninteso, quando, vari mesi dopo quel mio articolo, Sofri fu perseguito
penalmente senza alcuna prova valida, io non ho avuto dubbi sulla sua innocenza |.
37
iL’ambiguità, a mio avviso, rimane anche dopo la lettura di un articolo molto dotto e ben
argomentato di A. Barigazzi, Lucrezio e la gioia per il male altrui, in Filologia e forme letterarie:
Studi offerti a F. Della Corte, Urbino 1987, II, pp. 269-284. | Su questo punto non sono mai riu-
scito a trovarmi d’accordo con Barigazzi, uno studioso di alto ingegno, di eccezionale probità,
la cui morte improvvisa mi ha profondamente addolorato |.
296 VIII. Epicuro, Lucrezio e Leopardi

dà un’esposizione sufficientemente ampia e sistematica, e che, caso


mai, il Leopardi avrà potuto conoscere meglio dal discorso di Torqua-
to nel lib. I del De finibus di Cicerone) non avrebbe colmato il diva-
rio. Il Leopardi è un edonista in quanto rifiuta di consolarsi con “feli-
cità spirituali”, religiose, ascetiche (mentre a una forma di ascetismo
va ad approdare, come si è accennato e come è noto, Epicuro, e ciò
appare dal lib. IV di Lucrezio); ma è d’altra parte convinto che il pia-
cere sia una mèta irraggiungibile, un bisogno insoddisfatto: qualcosa
di sperato o (già con minore convinzione e, del resto, con scarsa con-
solazione) di ricordato, non mai di goduto presentemente. E se un sen-
timento che si accosti al piacere o alla felicità può esserci – o esserci
stato nell’evo antico, o esserci tuttora nell’infanzia; ma anche riguar-
do a questo punto il Leopardi tenderà sempre più, benché non mai
definitivamente, a disilludersi –, tale sentimento non è l’atarassia, il
piacere stabile, «catastematico» dell’epicureismo (che per il Leopardi
si tramuterebbe ben presto in noia, l’altra grande causa d’infelicità
della vita), ma è vitalità intensa, illusioni gagliarde e magnanime, vita
vitalis, secondo una bella espressione di Ennio, che non a caso piacque
al Leopardi.38 Come si legge nella chiusa del Dialogo di un fisico e di un
metafisico, «la vita debb’esser viva, cioè vera vita; o la morte la supera
incomparabilmente di pregio». Gli dèi di Epicuro, l’ideale del sapien-
te epicureo, sono, anche qui, del tutto lontani.39
E sono anche lontani, nonostante qualche fallace apparenza, quan-
do il Leopardi enuncia quell’altra versione della teoria del piacere (il
piacere come breve sollievo dovuto alla cessazione del dolore) che

38
i** Cfr. Zib. 2433. Il Leopardi cita dal Laelius ciceroniano, 6, 22: qui potest esse vita vita-
lis, ut ait Ennius <Inc. 17 Vahlen2> ...?, e rende l’espressione in italiano, inserendola in un con-
testo diverso da quello di Cicerone: la noia come negazione della vitalità. Più tardi la vitalità gli
apparirà menomata non solo dalla noia in quanto tale, ma anche dalla mancanza di vigore fisi-
co. Basti rammentare il Tristano (T.O., I, p. 182): «E il corpo è l’uomo; perché (...) la magnani-
mità, il coraggio, le passioni, la potenza di fare, tutto ciò che fa nobile e v i v a l a v i t a, dipende
dal vigore del corpo». Le parole che abbiamo riprodotte spaziate sono, mi sembra, ancora un’e-
co della vita vitalis enniana.
39
iPer ciò che riguarda la fugacità del piacere (fugacità tale da renderlo, come godimento in
atto, inesistente secondo il Leopardi: vedi sopra nel testo), qualcuno potrebbe pensare a una
famosa espressione di Lucrezio, IV 1333 sg.: medio de fonte leporum / surgit amari aliquid. Che
il Leopardi se ne sia ricordato, non è impossibile. Ma Lucrezio si riferisce ai vani piaceri del lus-
so ozioso; il piacere vero, quello a cui conduce l’insegnamento di Epicuro, per Lucrezio esiste
(pur con le occasionali oscillazioni a cui abbiamo accennato), ma non ha niente a che vedere col
piacere al quale, secondo il Leopardi, l’uomo aspira invano.
VIII. Epicuro, Lucrezio e Leopardi 297

Adriano Tilgher ebbe il merito di distinguere dalla prima,40 ma il tor-


to di separarla troppo rigidamente, mentre gli studiosi più recenti del
pensiero leopardiano hanno, per lo più, trascurato del tutto o quasi la
distinzione (s’intende che, nel mare magnum della bibliografia leopar-
diana, molto può essermi sfuggito). Non tento neppure una trattazione
approfondita, che ci allontanerebbe troppo dal nostro tema. Accenno
soltanto che i “documenti principali” di questa seconda concezione41
sono un ricordo giovanile del Leopardi (tentazione del suicidio, poi
riattaccamento alla vita in séguito a grave malattia),42 la chiusa della
canzone A un vincitore nel pallone, il Dialogo di Colombo e di Gutier-
rez, la seconda parte della Quiete dopo la tempesta. Nel Vincitore nel
pallone e nel Colombo sono messi in risalto due successivi momenti di
felicità, anche se il secondo è conseguenza del primo: dapprima feli-
cità del rischio, dell’affrontare anche la morte pur di vivere una vita
intensa, libera dalla noia (qui, come è chiaro, c’è un punto di contat-
to con la prima e prevalente teoria del piacere leopardiano), poi sol-
lievo per lo scampato pericolo, che, sia pure per breve tempo, fa riaf-
fezionare alla vita.43 Nella Quiete il piacere si riduce al solo secondo
momento, un momento breve, tanto da non essere nemmeno vero pia-
cere: «Gioia v a n a , ch’è frutto / del passato timore ...». E poiché
nel ’29 il Leopardi ha già oltrepassato da tempo la fase del suo pessimi-
smo che il Blasucci qualifica come sensistica (cfr. il saggio cit. sopra, nota

40
iA. Tilgher, La filosofia di Leopardi (1940), rist. Bologna 1979, pp. 17-22.
41
iEssi sono citati, beninteso, in tutti i buoni commenti e saggi leopardiani. È la distinzione
tra questo gruppo di testi e la «teoria del piacere» più ampiamente sviluppata dal Leopardi (in
molte e molte pagine dello Zibaldone e nel Dialogo di Torquato Tasso e del suo Genio familiare)
che, come ho detto, viene di solito trascurata, fermo restando che non si tratta di concezioni
«opposte» come afferma il Tilgher (il quale d’altra parte non si sofferma, come sarebbe stato
opportuno, a notare le due diverse sfumature all’interno della seconda versione: cfr. ciò che
osserviamo tra breve sopra, nel testo). Finora le osservazioni più acute ed equilibrate (anche
riguardo al mito del «salto di Leucade») si devono a E. Bigi, Colombo e Leopardi, in AA.VV.,
Columbeis, Genova, Università, 1986, pp. 53-75 | ora in E. B., Poesia e critica tra fine Settecento
e primo Ottocento, Milano 1986, pp. 85-102 |.
42
iZib. 82 (rievocato molto più tardi nelle Ricordanze, 104-118). Una certa affinità ha anche
il ricordo biografico di Zib. 137 sg. (cfr. la lettera del Giordani, 18 giugno 1820, in Leopardi,
Epistolario a cura di F. Moroncini, I, p. 52 sg.).
43
iChe questo passo del Colombo, bellissimo nella sua pacatezza, non sia da svalutare in con-
fronto alla più fervida chiusa del Vincitore nel pallone o ai versi su Colombo nella canzone al Mai,
76-87, che i due registri stilistici e psicologici abbiano entrambi la loro piena legittimità artisti-
ca, sostiene a ragione il Bigi (cit. qui sopra, nota 40), pp. 70-72 | = 98-102 |. Bisogna aggiungere
che entrambi presentano un’affinità concettuale di contro alla Quiete.
298 VIII. Epicuro, Lucrezio e Leopardi

28) ed è giunto alla fase decisamente materialistica, questo breve sollie-


vo dal dolore o dal timore è da lui presentato come uno dei modi con cui
la natura, forza inconsciamente malefica, agisce c o m e s e si com-
piacesse di dare all’uomo qualche attimo di respiro per tornare a col-
pirlo poi più crudelmente, fino alla morte. Superfluo dire che tali pen-
sieri non trovano rispondenza in Lucrezio. Si potrebbe supporre che
l’idea del piacere come breve cessazione del dolore fosse venuta al Leo-
pardi da un famoso passo del Fedone platonico (60 B-C: parole di
Socrate, quando si sente sollevato dal tormento che gli aveva dato la
catena). Ma nemmeno su questo raffronto insisterei: il Leopardi non
si limita affatto ad asserire una correlatività, un «rapporto dialettico»
tra dolore e piacere (come quello, del resto anch’esso diversamente for-
mulato, dello Zibaldone, 2599-2602, che il Tilgher chiama addirittura
«terza teoria del piacere»). Le fonti sono piuttosto settecentesche: qui
ha ragione il Tilgher, anche se il suo accenno è troppo sommario, e
anche se, soprattutto, non bisogna dimenticare quanto nel pensiero
leopardiano (in questo punto particolare come nella concezione gene-
rale) c’è di apporto nuovo, di esperienza diretta, non “libresca”.

7. Maggiore somiglianza sembra esserci (ma, come vedremo, sem-


bra soltanto) fra la dottrina epicurea, anche nell’esposizione di Lucre-
zio, sulla morte e la concezione che della morte ebbe il Leopardi. Su
questa analogia, come abbiamo visto (§ 1), punta quasi esclusivamen-
te il Mazzocchini, col savio avvertimento (p. 70 n. 26): «Per visione
della morte intendo, restrittivamente, la concezione dello status post
mortem quale annullamento totale e la polemica antispiritualistica ad
essa correlata». Certo, sulla mortalità dell’anima il Leopardi è del tut-
to concorde con Epicuro-Lucrezio, e anche sull’asserzione che la mor-
te (nel senso di «esser morto») non è un male: così incomincia, reci-
samente, come tutti ricordiamo, il sesto dei Centoundici pensieri (T.O.,
I, p. 218).
Ma la concordanza, come il Mazzocchini stesso riconosce (riferen-
dosi anche amichevolmente a un vecchio nostro scambio epistolare),
finisce qui. E devo confessare che mi sembra che finisca ancor più pre-
sto di quanto mi appariva quando Mazzocchini e io ci scrivemmo quel-
le lettere (e un ulteriore scambio di lettere, pochi anni fa, non ha
mutato le posizioni, benché continuare a dialogare con studiosi intel-
ligenti sia sempre utile). Anche prescindendo dalla fallace equipara-
VIII. Epicuro, Lucrezio e Leopardi 299

zione tra morte e atarassia, sulla quale mi sono già soffermato nel para-
gr. 1, la morte è per il Leopardi desiderabile, da invocarsi addirittura,
come unico scampo all’infelicità della vita; e poiché la parte peggiore
della vita è la vecchiezza, il Leopardi ripete con Menandro che «muor
giovane colui ch’al cielo è caro» (Amore e morte, motto iniziale). Ecco:
già qui il Leopardi è del tutto distante da Epicuro e – nonostante il
tono molto meno tranquillamente sicuro con cui Lucrezio tratta nel
lib. III il problema della morte – anche da Lucrezio. Per l’epicureo,
dobbiamo ancora ripeterlo, la vita del saggio, liberata dal timore del-
la morte, è felice, e chi ha imparato a vivere non ha alcun motivo di
desiderare la morte. Posizione eroica, ma di un semplicismo disarman-
te. Il fatto stesso che occorra un lungo esercizio di ammaestramento,
di rimproveri rivolti all’uomo per la sua stoltezza che gli fa temere la
morte,44 dimostra che c’è nell’uomo un timore i s t i n t u a l e , una
fobìa della morte, come negli altri animali o nei selvaggi quando si
vedono minacciati di morte; la differenza (una differenza in peggio,
come è chiaro) sta solo nel fatto che l’uomo civilizzato sa con molto
anticipo di esser destinato a morire. La natura, dice il Leopardi (ad
esempio Bruto minore, 52-60), ha mantenuto nell’uomo civilizzato (e
reso infelice dalla perdita delle illusioni) quell’istinto di conservazio-
ne che non era contraddittorio nel selvaggio e non lo è nelle bestie: ora
l’uomo sperimenta, insieme, l’insopportabilità della vita e l’attacca-
mento alla vita. Bruto, pur ben deciso al suicidio, sente quanto questo
atto gli costi; e arriva a suicidarsi non con animo pacato e per mera
sazietà, come allontanandosi da uno spettacolo teatrale divenuto noio-
so (che era l’unica forma di suicidio ammessa, caso mai, da Epicuro:
cfr. Cic. De fin. I 49), ma bestemmiando gli dèi, questi esseri vili,
«molli», che, se potessero uccidersi, non ne avrebbero il coraggio, e
provano ira contro gli uomini che tale coraggio riescono ad avere
(ibid., 46-50). Qui c’è Lucano, e c’è un’implicita polemica anticristia-
na, ma Epicuro e Lucrezio no di certo: essi avrebbero considerato
44
iSullo stile «diatribico» (non necessariamente «satirico»; o almeno, nel lib. III, la satira è
molto amara) usato a questo scopo da Lucrezio, sulla falsariga di Epicuro e di tutta la filosofia
ellenistica ma, forse, con maggiore veemenza, cfr. Kenney (cit. sopra, p. 266, nota al titolo),
pp. 15-20, 248 e la bibliografia ivi cit. Si ha talvolta l’impressione che i violenti rimproveri con-
tro chi persiste nel temere la morte (accompagnati anche da veri e propri insulti: 939 stulte; 955
baratre, o una parola, comunque, di vilipendio; 1026 improbe) siano rivolti da Lucrezio non solo
all’insipiente ancora ignaro della dottrina epicurea, ma a se stesso, ancora riluttante nell’inti-
mo. Né credo che una simile ipotesi possa cadere sotto l’accusa di psicologismo.
300 VIII. Epicuro, Lucrezio e Leopardi

quell’invettiva contro la viltà degli dèi come un’infamia, come un


attacco non contro la superstizione (la religio di Lucrezio), ma contro
la vera religione (la pietas di Lucrezio, V 1198-1203, l’eusébeia di Epi-
curo). Quanto, poi, al detto di Epicuro che la morte non è nulla per
noi, perché finché viviamo essa non c’è, quando c’è noi non ci siamo
più (in forma meno didattica e più pregnante anche Lucrezio, III 830:
nil igitur mors est ad nos neque pertinet hilum), il Leopardi sapeva che
la morte, pur desiderata come liberazione dall’infelicità, è già presen-
te nei vivi come pensiero angosciante, anche a prescindere dal timore
di tormenti eterni nell’aldilà, ispirato dal cristianesimo (da «Plato-
ne»).45 Ci voleva davvero l’insuperabile incomprensione di Benedet-
to Croce verso il Leopardi perché egli presentasse il detto epicureo
come tale da mettere a tacere le fisime pessimistiche leopardiane.46
D’altra parte la felicità del morir giovani non è affermata dal Leo-
pardi costantemente, per tutto l’arco della sua meditazione; egli ha
anche sentito (e nessuno vorrà accusarlo di banale incoerenza, poiché
la contraddizione è in re) i motivi d’infelicità della morte ante diem,
come li aveva sentiti Virgilio.47

45
iSull’apostrofe di Porfirio a Platone nel Dialogo di Plotino e di Porfirio cfr. {qui sopra, «Il
Leopardi e i filosofi antichi»}, p. 171 sg. E si noti che in quell’apostrofe, se è considerato ango-
sciante il timore del Tartaro (dell’Inferno cristiano), non ha migliore accoglienza la speranza nel-
l’Eliso (nel Paradiso): «uno stato che ci apparisce pieno di noia, ed ancor meno tollerabile che
questa vita»; la dolcezza del Paradiso, inoltre, è «nascosta, ed arcana, e da non potersi com-
prendere da mente d’uomo» (T.O., I, p. 173 ; su ciò vedi già il lungo e lucidissimo pensiero di Zib.
3497-3509, settembre 1823, rivolto esplicitamente contro il cristianesimo). Ma quando Plotino
ribatte che il suicidio è vietato dalla natura, la replica di Porfirio è ancor più risoluta, e ripren-
de il tema del Bruto minore (p. 176 sg., e la nota a piè di pagina del Leopardi stesso, che ripete
la critica della falsa civiltà e del falso progresso).
46
iB. Croce, Poesia e non poesia, Bari, Laterza, 19243, p. 104. Il Leopardi, dice il Croce, vede-
va dinnanzi a sé, indispettito, uomini lieti e vigorosi, che «alla morte non pensavano, confor-
mandosi consapevolmente o inconsapevolmente al detto antico, che la morte non concerne i vivi,
perché sono vivi, né i morti, perché sono morti». In realtà gli uomini a cui andava il disprezzo,
non il dispetto, del Leopardi erano, per lo più, cattolici speranzosi nel Paradiso (con maggiore
o minor convinzione); altri, agnostici desiderosi di “rimuovere” il più possibile il molesto pen-
siero della morte. Gente che si conformasse alla massima di Epicuro, il Leopardi non ne avrà mai
conosciuta nell’Italia del suo tempo (a meno che quella massima non si intenda in modo talmente
“sbiadito” da perdere ogni caratterizzazione). Se poi qualcuno avesse chiesto a Croce perché non
bisognava temere la morte, avrebbe avuto una risposta basata sull’immortalità del Soggetto asso-
luto: del tutto diversa da quella di Epicuro, un filosofo che Croce non stimava affatto. Ma, con-
tro il Leopardi, tutto poteva servire, anche l’epicureismo!
47
iBasti pensare (all’inizio e alla fine, si potrebbe quasi dire, dell’iter leopardiano) da un lato
ai ricordi di adolescenti morti, che dovevano servire per un romanzo autobiografico (T.O., I,
p. 362; notazioni particolarmente felici in A. Monteverdi, Frammenti critici leopardiani, Napoli
VIII. Epicuro, Lucrezio e Leopardi 301

Infine, e soprattutto, la morte non è soltanto la morte nostra, ma


anche quella delle persone a noi care. Lo stupendo pensiero dello Zi-
baldone del 9 aprile 1827 (noi piangiamo i morti non perché pensia-
mo che essi stiano soffrendo, «non come morti, ma come stati vivi»,
come persone che non vedremo mai più: la sottolineatura è del Leo-
pardi), l’accenno nel Canto notturno alla morte come «venir meno / ad
ogni usata, amante compagnia», e, ancora una volta, la meditazione do-
lorosa di Sopra un basso rilievo ..., dimostrano come il Leopardi abbia
sentito la morte altrui come perdita irreparabile di una parte di noi
stessi; e qui, nel caso della morte altrui, riesce ancor più difficile con-
siderare felice la morte dei giovani. Anche nel Dialogo di Plotino e di
Porfirio, l’unico argomento forte (e che è ripetuto con molteplici varia-
zioni) di Plotino per dissuadere il discepolo dal suicidio, nell’ultima
lunga parlata, è, come abbiamo accennato, il dolore che, morendo,
lasceremo nei nostri cari.48
Ora, è soprattutto la considerazione del tutto inadeguata del dolore
per la morte degli altri il punto debole della consolazione-negazione
epicurea riguardo alla morte. La «massima capitale» XL di Epicuro
(p. 136 Arrighetti2) è una mera asserzione: chi ha goduto l’amicizia di
qualcuno non piange, «come per commiserazione», la sua morte, nem-
meno prematura. La morte degli altri è tout court equiparata alla
nostra: vedremo che altrove Epicuro concesse qualcosa di più al dolo-
re per la morte degli amici, ma senza toccare il punto centrale della
questione. Lucrezio, III 894-911 immagina una scena di lamentazio-
ne funebre: due lamenti, e a ciascuno segue la risposta della saggezza
epicurea. Al primo lamento rivolto al morto («Non godrai più l’inti-
mità della casa, l’affetto della moglie e dei figli, non avrai più onori,
non potrai proteggere i tuoi cari») la replica è relativamente facile: il
morto non sente alcun dolore per la mancanza di tutto ciò; i vivi com-
piangono chi non ha alcun bisogno di compianto.49 Ma poi si ode
19672, pp. 1-23), dall’altro al canto Sopra un basso rilievo sepolcrale ...; e, a metà di quell’iter, a
Silvia e Nerina.
48
iSopra, nota 29 **. Sul problema della morte (specialmente della morte altrui) in Leopar-
di cfr. il saggio della Naddei (cit. sopra, nota 29), ricco di felicissime osservazioni, malgrado le
riserve che mi è parso di dover esprimere; inoltre Antileopardiani (cit. anch’essi alla nota 29),
p. 188 sg. e n. 48. Sul pensiero del 1827, Binni, La protesta di Leopardi cit., p. 118 sg.
49
iDico «relativamente facile», perché in quel pensiero finale, che il morto non potrà più
essere un praesidium per i suoi, s’insinua già un accenno non alla sofferenza (inesistente) del mor-
to, ma a quella dei superstiti: vedova, orfani. Anche il Bailey riconosce che «this thought (...) is
more real and less selfish».
302 VIII. Epicuro, Lucrezio e Leopardi

un’altra voce: «Tu, addormentato nella morte, sarai libero per tutto
il tempo dagli aspri dolori. Ma noi, dinanzi al tuo rogo orribile ridot-
to in cenere, ti abbiamo insaziabilmente compianto, e nessun trascor-
rere di giorni farà dileguare nel nostro cuore il rimpianto eterno».
Lucrezio ha espresso questo secondo lamento, ancor più del primo, in
uno stile “caricato”, con parole lunghe ed enfatiche (at nos horrifico
cinefactum te prope bustum / insatiabiliter deflevimus aeternumque ...:
nota anche la chiusa spondiaca); l’imitazione sarcastica di certi lamen-
ti funebri insinceri (intonati dalle praeficae?) o troppo “enfiati” stili-
sticamente anche se sincero è il sentimento che li ispira, è stata nota-
ta dai commentatori. E tuttavia il dolore per la morte delle persone
care è cosa seria, e non può essere eluso dal sarcasmo. E la replica di
Lucrezio, questa volta, è davvero debole: «A costui bisogna dunque
chiedere, poiché la questione (res, il punto decisivo) si riconduce al
sonno e al riposo eterno, che cosa vi sia di tanto doloroso, per cui qual-
cuno possa consumarsi in un lutto perpetuo» (III 909-911). Il Bailey,
che per lo più, come abbiamo avuto occasione di constatare, tende a
presentare Lucrezio come fedele interprete dell’epicureismo (e l’epi-
cureismo come una dottrina tuttora valida nei punti essenziali), que-
sta volta ammette che la risposta di Lucrezio (la quale riconduce il
secondo caso al primo, e considera assurdo il dolore dei sopravvissuti
di fronte al non-dolore del morto) «è inadeguata: il sapere che il mor-
to dorme un sonno senza affanni non placa il senso di perdita del pian-
gente» (ed. cit., vol. II, p. 1143 e comm. a III 911). Come in altri pas-
si del suo commento (cfr. qui sopra, p. 289), il Bailey, quando proprio
non può dar ragione a Lucrezio, si rassegna ad attribuirgli un frain-
tendimento del Verbo di Epicuro, o un influsso sporadico di un’altra
fonte: Epicuro non può errare! In questo caso egli osserva che Epicu-
ro, come risulta da altre fonti, ammetteva che si desse sfogo al dolore
per la perdita di amici,50 e suppone che Lucrezio, se gli fosse bastata
la vita, avrebbe rimaneggiato quel passo, chiarendo quella “conces-
sione” del Maestro. L’ipotesi non ha alcun plausibile fondamento, e,
soprattutto, la “concessione” non cambia la sostanza delle cose. Epi-
curo non esigeva dagli amici del morto una esteriore freddezza che
poteva apparire ostentata o derivata da scarso senso dell’amicizia, ma

50
iCfr. Epicuro, Epist. fr. 46, p. 424 (e comm. a pp. 553 sg., 671) Arrighetti2; E. Bignone,
L’Aristotele perduto e la formazione filosofica di Epicuro, Firenze 19732, I, p. 543 e n. 283.
VIII. Epicuro, Lucrezio e Leopardi 303

non definì mai la morte degli altri come u n m a l e per i sopravvis-


suti: ciò avrebbe aperto una falla irreparabile nella sua «medicina del-
l’anima»; e infatti abbiamo visto sopra come egli si esprimesse nella
massima capitale XL. Gli studiosi (Bignone, Arrighetti ecc.) che
sostengono la non contraddizione tra questa massima e le altre testi-
monianze hanno ragione, ma proprio perché la massima e le testimo-
nianze si pongono su un piano diverso come si è detto: altro è il con-
cedere uno sfogo emozionale passeggero, altro considerarlo
teoricamente legittimo. Non si può, io credo, accusare d’infedeltà quel
passo di Lucrezio; e se il Leopardi non solo lo lesse, ma fermò su di
esso la sua attenzione, non potè non sentirsi dissenziente, e forse addi-
rittura irritato per un’ironia che dovette apparirgli più che mai fuor di
luogo.

8. Altre “consolazioni” epicuree, che Lucrezio omette o sulle qua-


li sorvola, il Leopardi potè leggerle in Cicerone (diamo sempre per
scontato, anche se, come abbiamo visto, scontato del tutto non è, che
i testi conservatici da Diogene Laerzio non siano stati letti, o siano
stati letti troppo precocemente e frettolosamente). Un argomento spe-
cioso, non peculiare del solo epicureismo,51 è l’equiparazione dell’es-
ser morto al non esser mai nato: come è assurdo compiangere i non
nati, così i morti. Il Leopardi, se non erro, non prese mai in esame
esplicitamente questo argomento, ma la sua confutazione è implicita
in quel pensiero dello Zibaldone che abbiamo già menzionato (cfr.
anche nota 48) sul nostro compianto per i morti non come morti, ma
come «stati vivi». Il morire è una perdita, una deminutio: tutto un
insieme di valori, e perfino di piccole caratteristiche psico-fisiche che

51
iSi trova già in Euripide, Troades, 636, in un contesto alquanto sconnesso; fu poi svilup-
pata, pare, dal platonico Crantore (le testimonianze, indirette, non sono sicure); poi cfr. anco-
ra Cicerone, Tusc. I 13 e De fin. I 49, e Lucrezio, III 832-842, 867-869 (lì ricorre l’espressione
mors immortalis, sulla quale cfr. sopra, § 1 in fine). Vedi ancora Seneca, Troades, 407 sg. Giu-
stamente commenta il Robin a Lucr. cit.: «Tous ces arguments appartiennent moins à telle ou
telle école qu’au genre de la consolation». Ma che, se non Epicuro stesso (il che, del resto, non
è inverosimile), gli epicurei abbiano fatto proprio questo argomento, è dimostrato dalla conci-
denza di Lucr. cit. e di Cic. De fin. cit. (dove parla l’epicureo Torquato). Si veda anche Le bon
sens del barone d’Holbach, cap. 108 (dove la “consolazione” non riesce a vincere del tutto un
concetto pessimistico della vita e della morte; cfr. l’Introduzione alla mia ed. italiana del Buon
senso cit. sopra {p. 286 n. 29}, pp. LIX-LXIV). Il Leopardi lesse quell’operetta di Holbach (cfr.
ibid., p. LXIII n. 65), e anche da quella, oltre che da Lucrezio e da Cicerone, poté conoscere
questa pseudo-consolazione.
304 VIII. Epicuro, Lucrezio e Leopardi

fanno parte anch’esse della personalità (ciascuna diversa dall’altra,


irripetibile), scompare per sempre, e in chi rimane non può essere com-
pensata dalla consolazione dell’«immortalità del ricordo» e dell’«im-
mortalità delle opere».52 Per i non nati questo problema non si pone
nemmeno (e ciò, potremmo aggiungere, vale anche per le opere stes-
se, per interi popoli, intere civiltà di cui non sappiamo nulla o quasi
nulla, eppure esistettero; oppure sappiamo che vi furono e perirono,
e perciò ne soffriamo: cfr., del resto, La ginestra, 106-110, e Lucr. III
832, forse anche Ant. Test., Ecclesiastes, 1, 11).
La consolazione epicurea delle malattie (o sono brevi, e ce ne libera
presto la guarigione o la morte; o sono lunghe, e non arrecano gravi
dolori, anzi concedono perfino degli intervalli di piacere **)53 merita
il dileggio di Cicerone (De fin. II 28, 93 – 29, 95), anche se Cicerone
si affretta a sostituirla con un’altra consolazione, stoica, basata sulla
forza d’animo, che vale soltanto in quanto non pretenda di negare,
come gli stoici di fatto negavano, la realtà del male fisico anche per il
sapiente, e il costo, non sempre sopportabile, del suo superamento (in
Cicerone questa «durezza» stoica, questa adrogantia come egli stesso
altrove la chiama, è in parte attenuata per influsso di Teofrasto, cfr.
qui sopra, nota 24; ma l’attenuazione, come abbiamo accennato, non
dovette sembrare sufficiente al Leopardi). Polemica esplicita contro
quella tesi epicurea non c’è, se ho ben visto, in Leopardi; ma le due
concezioni della malattia, corrispondenti alla prima e alla seconda con-
cezione della natura, che troviamo in Leopardi, costituiscono ambe-
due un implicito e tuttavia chiarissimo rifiuto delle idee di Epicuro in
proposito: idee tanto deboli quanto eroico fu, invece, il comporta-
mento di Epicuro fino alla fine della dolorosissima malattia che lo con-
dusse a morte. Finché il Leopardi crede nella natura benefica, e nella
civiltà come infelicitante anche sul piano fisico, egli vede nelle malat-
tie, o nel loro farsi più frequenti e gravi, una delle tante prove della
«corruzione» che la civiltà ha esercitato sull’uomo.54 Quest’idea, sia
52
iQuanto all’«immortalità delle opere» cfr. {qui sopra, «Alcune osservazioni sul pensiero del
Leopardi»}, p. 130 e n. 62 **. Si ricordi anche lo sdegnoso e sarcastico accenno alla posterità
nel Bruto minore, 109-116, e il cap. XI del Parini, ovvero della gloria.
53
iCfr. Cic. De fin. I, 15, 49; Tuscul. II, 19, 44; e un fugace accenno in Lucr. III 173, dove
la lezione suavis, da molti messa in dubbio ma ormai riconosciuta giusta, era accolta già nell’e-
ditio Pisaurensis (cit. qui sopra, nota 4), I, p. 354, col. 2.
54
iVedi l’Indice del mio Zibaldone compilato nel 1827 dal Leopardi stesso, s.v. Malattie, III,
p. 1193 nell’ed. Pacella; e l’indice analitico della stessa edizione, III, p. 1392.
VIII. Epicuro, Lucrezio e Leopardi 305

pure in via del tutto subordinata, sopravvivrà nel Leopardi fino all’ul-
timo: ognuno ricorderà quel passo, poco dopo l’inizio del Dialogo di
Tristano e di un amico, in cui si accusa la civiltà (più precisamente la
civiltà spiritualistica, l’ascetismo mortificante) di trascurare «il corpo»
e, con ciò, di rendere più debole anche lo «spirito». Che corpo e ani-
ma siano due aspetti inscindibili di una unica realtà, lo aveva già det-
to anche Epicuro, si sofferma a dimostrarlo Lucrezio (III 94-829), ma
per convalidare la tesi della mortalità dell’anima (della quale, ovvia-
mente, era convinto anche il Leopardi); nel corso della sua lunga espo-
sizione, Lucrezio accenna anche alle malattie (per esempio III 487-509,
824 ecc; cfr. II 1122 sg. dove non solo gli esseri umani, ma tutto il
nostro mondo appare “ammalato di senilità” e prossimo a dissoluzio-
ne), ma non mette in particolare rilievo il loro carattere infelicitante,
né la possibilità di superare tale infelicità con la consolatio epicurea.
E quanto alla maggiore forza fisica e resistenza alle malattie degli
uomini primitivi, Lucrezio ne parla, in termini che anche il Leopardi
avrà potuto approvare, nella «storia della civiltà» che occupa buona
parte del lib. V (cfr. 925-930, e alcuni accenni anche in séguito), ma
non si sofferma sulle malattie come prodotto della civiltà.
Quando, poi, nel Leopardi prevale l’idea della natura come forza
logoratrice e distruttrice dell’uomo, le malattie (anche prima che so-
praggiunga quella malattia “generale” e finale che è la vecchiezza)
sono considerate, appunto, come una delle tante azioni logoratrici che
tormentano l’uomo (l’uomo di tutte le epoche: niente da sperare nem-
meno per il futuro) fin dal momento della nascita. Ritengo superfluo
moltiplicare le citazioni (a cominciare almeno dal Dialogo della Natu-
ra e di un Islandese; ma già prima bisognerebbe rammentare i ricordi
d’infanzia, e quel passo dell’Ultimo canto di Saffo, 65-68, che è una
vera e propria traduzione da Virgilio, e dove «il morbo» è collocato
per primo in ordine di tempo fra le cause infelicitanti che subentrano
alla brevissima gioia della fanciullezza). Preferisco ricordare che la
rappresentazione più potente del succedersi implacabile e sempre cre-
scente delle malattie il Leopardi l’ha data nella Palinodia, 173-181: la
straordinaria altezza di questo canto, canto tragico nella sua essenza
profonda, ben più che satirico, ha stentato a lungo prima di essere
riconosciuta, e dovrà essere ancora studiata (cfr. intanto, per un altro
lato, Vené e Parronchi, cit. qui {sotto, pp. 326-327 n. 26}). In que-
st’ultimo Leopardi, più ancora che nel primo, ogni considerazione
306 VIII. Epicuro, Lucrezio e Leopardi

“edulcorata” della malattia è perentoriamente esclusa. La malattia va


affrontata con lucido coraggio, senza lagnanze, ma senza “giustifica-
zioni” (Amore e morte, 110-120). Epicuro e Lucrezio, come del resto
anche gli stoici, sono lontani quanto più si può essere.

9. Tutto ciò che si è detto finora (con eccessiva prolissità? Eppure


l’argomento sarebbe tutt’altro che esaurito) sul divario ideologico tra
Lucrezio, in quanto epicureo, e Leopardi spiega in larga parte la pre-
senza scarsa (anche se, come si è visto, non tanto scarsa quanto vari
studiosi e io stesso avevamo affermato) di echi lucreziani in Leopar-
di. E tuttavia una certa meraviglia rimane. Lucrezio è un poeta eccel-
so; e come il Leopardi ebbe sempre presente e ammirò con viva pas-
sione Virgilio nonostante la lontananza ideologica indubbiamente
maggiore, così avrebbe potuto trarre più motivi d’ispirazione da Lu-
crezio, da quei brani “tragici” isolati, ma di eccezionale potenza, che
pur vi sono nel suo poema (sopra, § 5). Sul piano emotivo-poetico, la
consonanza tante volte affermata tra Lucrezio e Leopardi non è mera
invenzione, come si è visto. Si dovrà pensare che il Leopardi abbia
visto in Lucrezio più un filosofo che un poeta, e che perfino certi in-
dubbi punti di contatto ideologici (antisuperstizione, negazione della
teodicea, negazione dell’immortalità dell’anima e di tutto il cosmo ...)
abbiano lasciato in lui, come accenna anche il Saccenti (p. 147), «un
generale sentimento di estraneità, fors’anche di avversione», inclusi
com’erano in contesti così diversi:55 pur senza dimenticare che, come
si è visto, l’estraneità non fu poi così completa. Bisognerà anche tener
conto del fatto che il Leopardi, più che il Giordani, più che lo stesso
padre Cesari!, ebbe scarsa simpatia e comprensione per la poesia lati-
na dell’età repubblicana,56 sulla quale, pur con oscillazioni e qualche
55
iCfr. anche Grilli, p. 68: «Lucrezio fu travolto insieme col suo maestro» (ben detto, anche
se il Grilli, diversamente da me, ritiene che il Leopardi abbia senz’altro «rifiutato la lettura di
Lucrezio»).
56
iII Giordani (VI, p. 358) consigliava ad Antonio Gussalli di leggere, dopo Plauto (come
«rappresentatore dei costumi di quel tempo») e Terenzio (per «la lingua dell’età seguente» a
quella di Plauto: motivazioni, ambedue, alquanto riduttive), «i sei libri rimasti di Lucrezio».
Una giusta comprensione dello stile di Terenzio (non altrettanto di quello di Plauto) si nota nel-
le sue critiche alla versione di Terenzio del padre Cesari: cfr. Aspetti e figure, p. 196 e n. 80. Ma
in complesso, per quel che mi risulta (“sorprese” sono sempre possibili, trattandosi di un’auto-
re di cui molto è ancora inedito e anche ciò che è edito non è raccolto in un’unica edizione muni-
ta di indici), l’entusiasmo del Giordani andava agli augustei e ai poeti della cosiddetta età argen-
tea: grande ammirazione per Virgilio, per Lucano, per Giovenale, frequenti citazioni da questi
VIII. Epicuro, Lucrezio e Leopardi 307

incoerenza, fece pesare la tradizionale qualifica di «poesia d’imitazio-


ne»57 e, nello stesso tempo, di rozzezza: né la geniale e spontanea pri-
mitività greca, né i pregi, almeno, dell’eleganza. In particolare, soprat-
tutto nei primi pensieri dello Zibaldone (all’incirca tra il 1817 e il ’20),
egli deplorò la mancanza di una poesia epica arcaica «che avesse per
soggetto le cose latine così eccessivamente grandi e poetiche, eccetto
quella d’Ennio che dovette essere una misera cosa» (Zib. 54). «La pri-
ma voce della tromba epica che fu di Lucrezio, trattò di filosofia»
(ibid.): ciò è detto come qualcosa di innaturale; l’uccello di Minerva
(avrebbe detto il Leopardi se avesse conosciuto la famosa frase hege-
liana) aveva avuto a Roma un’anormale comparsa al mattino e non al
tramonto! Così i primi poeti latini si erano lasciati sfuggire l’occasio-
ne di cantare degnamente le «infinite vicende passate della storia
romana, le speranze ec. ec. ec.» (ibid.: superfluo dire che la svaluta-
zione di Ennio, oltre che da pregiudizi di teoria letteraria, derivava da
troppo scarsa conoscenza di ciò che di lui ci è rimasto). Quanto a
Lucrezio, la patrii sermonis egestas, la difficoltà di rendere in latino ter-
mini e concetti filosofici,58 tende ad esser considerata dal Leopardi
come qualcosa che ha avuto un risultato doppiamente negativo: sfor-
zo di tradurre termini tecnici greci, e riuscita poco felice di questo
sforzo, nel quale fece miglior prova Cicerone, «grande e avveduto
uomo, il quale benché gelosissimo della purità della favella, conosce-
va che alla novità delle cose era necessaria la novità delle parole»

autori che certamente conosceva in gran parte a memoria; niente di simile per Lucrezio. Quan-
to al padre Cesari, una coraggiosa infrazione alla sua pedanteria e al suo cattolicesimo alquanto
bigotto fu l’aver dichiarato Lucrezio superiore a Virgilio, sia pure soltanto per amore dell’arcai-
smo: cfr. {«Ancora sul padre Cesari: per un giudizio equilibrato», in «Nuovi studi sul nostro Otto-
cento», p. 4 – N. d. C.}.
57
iCfr. tra i numerosi passi che si potrebbero citare, non tutti unìvoci, Zib. 54 («l’imitazio-
ne dei greci fu (...) mortifera alla poesia latina» nel suo sorgere); 857 (la letteratura latina, appe-
na nata, «subito e intieramente in balia delle regole»: questo pensiero procede tuttavia con andi-
rivieni, ammette qualche passeggera superiorità dei latini, ma si conclude negativamente); 4351
(la poesia latina «non divenne, ma fu sempre essenzialmente impopolarissima»). Che, nono-
stante ciò, il Leopardi non condanni sempre la poesia «d’imitazione», ha osservato giustamen-
te A. La Penna, Tersite censurato, | cit. qui sopra, nota 26 |, p. 288 sg. D’altra parte, sul piano
filologico va ascritta a merito del Leopardi la difesa di una lezione enniana, che non ha ancora
avuto il suo giusto riconoscimento (cfr. Scritti filol., ed. Pacella-Timpanaro cit., p. 93, r. 54 sg.;
cfr. anche ibid., p. 180).
58
iIn Zib. 748 (marzo 1821: «Lucrezio volendo trattar materie filosofiche s’era lagnato del-
la novità delle cose e della povertà della lingua») il Leopardi, fra i vari passi lucreziani simili, ha
in mente soprattutto I 139: propter egestatem linguae et rerum novitatem.
308 VIII. Epicuro, Lucrezio e Leopardi

(ancora Zib. 748). Se, come si è visto, il padre Cesari aveva osato pre-
ferire Lucrezio a Virgilio, per il Leopardi la possibilità di un confron-
to non si pone nemmeno. In un pensiero del marzo 1821 in cui il puri-
smo è ormai (e non per la prima volta) rinnegato esplicitamente dal
Leopardi, Virgilio è dichiarato «il primo poeta latino, e limpidissimo
specchio di latinità» sebbene (o proprio perché: c’è un «per ciò» pre-
ceduto da negazione che è a metà strada fra i due significati) la sua lin-
gua sia «ben diversa da quella di Ennio, di Livio Andronico ec. e
anche di Lucrezio».59 Virgilio, quanto allo stile, è «il più poetico di
quanti si conoscono, e forse il non plus ultra della poetichità» (Zib.
3719, 17 ottobre 1823). Non solo: è colui che espresse per primo nel-
la letteratura romana «il sentimento profondo dell’infelicità» (Zib.
232, 6 settembre 1820). Giustamente osserva Antonio La Penna60 che
questa è una «nota certo discutibile come riflessione storica (prima di
Virgilio c’erano stati Catullo e Lucrezio), ma illuminante per capire
che cosa il Leopardi (...) trova nel suo poeta». Bisogna forse anche
rammentare ancora una volta che in Lucrezio l’infelicità è, a tratti,
potentissimamente sentita, ma contrastata da ragionamenti consola-
torii e da momenti anche emotivi e poetici di entusiasmo; in Virgilio
(nonostante qualche accenno all’«immortalità della gloria», e ad una
teodicea stoica che appare già, in più punti, intimamente corrosa dal
dubbio) ciò non accade.

10. Alle ragioni di questo incontro non mancato, ma relativamente


poco fervido, tra Leopardi e Lucrezio non direi che si debba aggiunger-
59
iZib. 755 sg. Al giudizio così elogiativo sullo stile di Virgilio il Leopardi aggiunge: «rico-
nosciuto dallo stesso Frontone negli Exempla elocutionis». Egli aveva letto questa operetta gram-
maticale nell’edizione frontoniana del Mai (Milano, «Regiis Typis», 1815), che a Frontone la
attribuì. In realtà, gli Exempla elocutionum non sono di Frontone, ma di un grammatico molto
più tardo, Arusiano Messio (cfr. Grammatici Latini, VII 449-514 Keil, e l’ed. a cura di Adriana
Della Casa, Milano 1977). Frontone non cita mai Virgilio, almeno in ciò che di lui è rimasto: cfr.
L. Gamberale, Autografi virgiliani e movimento arcaizzante, «Atti del Convegno virgiliano sul
bimillenario delle Georgiche», Napoli 1977, pp. 364-366.
60
iTersite censurato cit., p. 271 sg.; cfr. anche 276 e passim. Il La Penna cita anche giudizi
più tardi e, talvolta, meno totalmente entusiastici di Leopardi su Virgilio. Uno stranamente
incomprensivo è sul personaggio di Turno, Zib. 3141. Importante anche L. Blasucci, Una fonte
linguistica (e un modello psicologico) per i «Canti»: la traduzione del II lib. dell’Eneide, {in «Leo-
pardi e il mondo antico», cit.}, p. 283 sgg. (ora in Leopardi e i segnali dell’infinito cit., p. 9 sgg.).
Per il carattere di “esperienza totale”, non soltanto letteraria, che la lettura di Virgilio rappre-
sentò per il primo Leopardi cfr. già un mio accenno in «Gnomon» 1960, p. 584 (recensione a
Leopardi und die Antike di H.-L. Scheel).
VIII. Epicuro, Lucrezio e Leopardi 309

ne ancora una, che il Saccenti propone alla fine del suo saggio (p. 148):
il Leopardi avrebbe letto prevalentemente non il testo latino di Lucre-
zio, ma la traduzione, «rivissuta in tono minore», dignitosamente
aulica ma non trascinante, di Alessandro Marchetti; proprio questa
mediazione avrebbe impedito al Leopardi di entusiasmarsi per la gran-
de «voce di Lucrezio» e avrebbe contribuito a creare un distacco che
non fu superato nemmeno quando il De rerum natura, come il Saccen-
ti è incline a ritenere, fu letto direttamente.61 Il Saccenti, studioso
particolarmente competente del Marchetti, ma alieno, forse fin trop-
po, dal sopravvalutarlo, gli ha questa volta addossato, io credo, una
colpa sia pure involontaria dalla quale egli è esente. Benché il Leo-
pardi abbia letto con attenzione, seppure con forti riserve, alcuni poe-
ti italiani del Seicento,62 non risulta che si sia particolarmente inte-
ressato al Marchetti: nessun accenno, se ho ben visto, nei Puerilia
poetici, nulla in tutto lo Zibaldone (nemmeno menzionato in quanto
traduttore di Lucrezio), nessun suo brano accolto nella Crestomazia
italiana della poesia. Tutto si riduce all’abbozzo dell’Erminia, attri-
buito generalmente al 1818-19 (avrebbe dovuto essere, come è noto,
una sorta di dramma pastorale, derivato liberamente dalla Gerusalem-
me del Tasso, forse con spunti tratti anche dall’Aminta; il Leopardi,
poi, non portò a compimento il lavoro). In fondo all’abbozzo (T.O.,
I, p. 334) c’è un elenco di autori ed opere, da Teocrito e dalle «trage-
die greche» ad autori italiani del Cinque-Sei-Settecento; e nell’elen-
co figura il nudo nome «Marchetti». Osserva il Saccenti: «Nucleo di
testi da considerare con interesse», riferendosi a «una fascia di classi-
cismo eloquente» in cui «il volgarizzamento marchettiano si trova a
suo agio» (p. 123 sg.). Bene – anche se gli autori citati sono troppo
eterogenei per rientrare tutti nell’ambito del «classicismo eloquente»:
per fare l’esempio più cospicuo, non vi rientrano (a meno che a quel-
l’espressione non si attribuisca un senso del tutto vago) i tragici gre-
ci, i quali, del resto, non furono mai letti dal Leopardi; né, per moti-

61
iCfr. Saccenti, p. 148 (vedo ora che anche S. Sconocchia, indipendentemente da me, ha
espresso dubbi su questa tesi). Sulle edizioni della versione del Marchetti esistenti nella biblio-
teca Leopardi, cfr. Saccenti, p. 124 n. 15. Sul Marchetti cfr., dello stesso Saccenti, Lucrezio in
Toscana, Firenze 1966, opera fondamentale.
62
iSaccenti, p. 123 sg.; importante anche M. Scotti, Leopardi e il Seicento, in Leopardi e la let-
ter. ital. dal Duecento al Seicento («Atti del IV Convegno Internaz. di studi leopardiani», 1976),
Firenze 1978, p. 339 sg.
310 VIII. Epicuro, Lucrezio e Leopardi

vi diversi, vi rientra Teocrito –. Ma anche se, come è possibile, quel


cognome si riferisce ad Alessandro Marchetti e alla sua versione di
Lucrezio, è impossibile dire quale uso volesse farne il Leopardi per la
composizione dell’Erminia, che, a giudicare dall’abbozzo, di lucrezia-
no non doveva aver nulla.
Resta il fatto che, là dove il Leopardi cita Lucrezio (a cominciare dal
Saggio sopra gli errori popolari, come si è visto), lo cita in latino, e che
anche le poche espressioni tratte da Lucrezio, con certezza o con pro-
babilità, nei Canti e nelle Operette non rivelano alcuna “mediazione
marchettiana”. Poiché Lucrezio è un poeta difficile e le edizioni lucre-
ziane che il Leopardi aveva a disposizione (cfr. sopra, nota 4) non for-
nivano, spesso, esegèsi sufficienti o davano un testo erroneo per cat-
tive congetture o per passi corrotti non sanati – l’editio Pisaurensis dava
il solo testo, senza alcuna nota –, si può supporre che, avendo a dispo-
sizione tre esemplari della versione del Marchetti (cfr. Saccenti, p. 124
n. 15), il Leopardi se ne sia servito come sussidio, per capire passi par-
ticolarmente ardui del testo latino. Ma che quest’uso puramente “stru-
mentale”, se pur vi fu, sia stato tale da influenzare in senso limitativo
l’immagine che il Leopardi si fece di Lucrezio, non è credibile.

11. Un’ultima osservazione. Se al Leopardi rimase sostanzialmen-


te estraneo il valore della poesia latina arcaica e, in notevole misura,
anche di un autore fortemente arcaizzante come Lucrezio, non gli fu
affatto estraneo l’interesse per quelle parole o espressioni del latino
arcaico che, eliminate dal latino classico, ricompaiono nel volgare pre-
romanzo e nelle lingue romanze. Questo fenomeno «carsico», come
si suol chiamarlo, era stato già osservato da vari dotti (con particola-
re intelligenza da Scipione Maffei), ma il Leopardi compì un lavoro
vastissimo e acuto di raccolta di materiali e di approfondimento con-
cettuale.63 E in questa raccolta ragionata, che si snoda nello Zibaldone
fino alle ultime pagine, compaiono citazioni da Lucrezio, le più (come
talvolta dichiara il Leopardi stesso) attinte al Forcellini, ma almeno
una (Zib. 4037 in nota, cfr. {Il Leopardi e i filosofi antichi, p. 179}
n. 86) desunta, con ogni probabilità, da lettura diretta. Ma, certo,
quelle citazioni, molto importanti per lo studio del Leopardi filologo-
linguista, non rientrano nel tema del rapporto ideologico e poetico tra
63
iCfr. S. T., La filologia di G. Leopardi, Bari 19782, pp. 54-61.
VIII. Epicuro, Lucrezio e Leopardi 311

Lucrezio e Leopardi. Un tema che ho cercato di trattare senza pre-


concetti e unilateralità, pur con la consapevolezza che dubbi sulle let-
ture leopardiane di Lucrezio, discussioni sulle “affinità” tra i due poe-
ti e sui rapporti tra Leopardi e l’epicureismo e tutta la filosofia
ellenistica, continueranno ancora e soluzioni del tutto sicure, forse,
non si raggiungeranno.

Postscriptum

1.iStavo terminando la stesura di questo lavoro (luglio 1988), quan-


do un amico, filologo classico ma rivelatosi, ora, anche molto esperto
di cose leopardiane, Sergio Sconocchia, mi inviò “in anteprima” il dat-
tiloscritto di una sua relazione congressuale, Ancora su Leopardi e
Lucrezio, 1987 (Ancona 1988), e ora nel vol. di AA.VV., Leopardi e noi,
Roma 1990. | Cfr. anche l’art. qui cit. sopra, p. 276 |.
Il saggio dello Sconocchia è altamente pregevole, ma ha un’impo-
stazione per più aspetti diversa dal mio (per esempio, si sofferma a
lungo, nella prima parte, sull’Infinito, in cui egli vede una stretta con-
sonanza lucreziana che io, almeno per ora, non riesco a vedere; e ade-
risce a un’interpretazione spiritualistica del Leopardi che io rispetto
ma – non ho bisogno di dirlo ancora una volta – non condivido). Io
credo tuttavia che i due saggi possano “coesistere”, in ciò che hanno
di divergente e in ciò su cui concordano; essi potranno costituire uno
stimolo a ulteriori ricerche e discussioni. Poiché, ripeto, il mio saggio
era ormai ultimato, non mi è sembrato opportuno inserirvi in extre-
mis discussioni con lo Sconocchia; mi sono limitato a segnalare con
piacere, come il lettore avrà constatato, alcuni punti sui quali lo Sco-
nocchia ed io, lavorando l’uno all’insaputa dell’altro, siamo giunti alle
medesime conclusioni; e a far tesoro (cfr. nota 4) di un risultato a cui
lo Sconocchia è giunto sulle orme di Augusto Campana: che, fra le edi-
zioni di Lucrezio che il Leopardi aveva nella sua biblioteca, la più se-
guita da lui, almeno nei primi tempi, fu quella contenuta nella Collec-
tio Pisaurensis: per i particolari della dimostrazione si veda il suo saggio.
2.iEmanuela Andreoni Fontecedro, dotta e acuta studiosa del pen-
siero antico, ha pubblicato recentemente (Roma 1993) un libro che
per molti aspetti affronta di nuovo, in modo originale, alcuni temi di
questo mio saggio epicureo-leopardiano: «Natura di voler matrigna»:
312 VIII. Epicuro, Lucrezio e Leopardi

saggio sul Leopardi e su «natura noverca» (si veda anche l’ampio con-
tributo Sul contrasto ideologico fra il «De re publica» di Cicerone e il
poema di Lucrezio, in «Studi di poesia lat. in onore di A. Traglia»,
Roma 1989, 1, pp. 281-321, che citerò col solo inizio del titolo: Sul
contrasto) [cr]. Su molti punti mi trovo d’accordo, e ne sono lieto, con
la Andreoni (fra l’altro, cfr. p. 37 n. 1, sulla lunga discussione che ebbi
con Solmi a proposito della concezione leopardiana della natura e sul-
la falsificazione dell’idillio Alla natura: si veda {Prefazione a «Nuovi
studi sul nostro Ottocento»}, pp. xv sg. e x). Su altri punti vi sono tra
la Andreoni e me alcune divergenze (non profondi dissensi, direi), sui
quali mi propongo di riflettere ancora: prego quindi il lettore di con-
siderare queste righe come provvisorie. In complesso, la Andreoni
accentua ulteriormente il distacco tra Lucrezio e Leopardi: ritorna,
seppur con argomenti in buona parte nuovi, alla posizione di Bigno-
ne e a quella, pur più sfumata e problematica, di Giancotti (che avreb-
be meritato una citazione). Sull’interpretazione di tanta stat praedita
culpa (qui sopra, p. 288 sg.), sarei ora propenso a dar ragione alla
Andreoni (p. 13, cfr. Sul contrasto, p. 292 sg.) e al commento del Gian-
cotti: culpa come semplice “noncuranza”, non come «malvagità»:
anche se i due passi lucreziani nei quali l’espressione ricorre hanno un
pathos che va al di là della mera polemica antiteleologica. Più dub-
bioso rimango quanto a Lucrezio, V 1233 sgg. (qui sopra, p. 273: cfr.
Andreoni, pp. 13 sg., 104 e Sul contrasto, p. 292 n. 36): usque adeo res
humanas vis abdita quaedam / obterit, et pulchros fasces saevasque secu-
res / proculcare ac ludibrio sibi habere videtur. Più dubbioso, voglio dire,
non tanto per ciò che riguarda una possibile derivazione di A se stesso
del Leopardi (qui mi ero già espresso con cautela), quanto sulla nega-
zione di qualsiasi accenno all’ o s t i l i t à della natura verso l’uomo:
un’ostilità, certo, inconsapevole e involontaria, eppure ben esistente:
obterit è indipendente da videtur, e l’interpretazione di videtur come
“sembra a torto” («impressione sbagliata» dice la Andreoni), mi sem-
bra minimizzante. [Caso mai, videtur mette in guardia contro un’in-
terpretazione antropomorfica della vis abdita: la quale non ha ‘senti-
menti’, ma è, sia pure inconsciamente (come inconscia è la Natura
leopardiana, cfr. Islandese), ostile all’uomo].
Rimane tuttavia vero che di «natura matrigna» Lucrezio non parla
mai, e che tra Leopardi pessimista coerente e Lucrezio la vicinanza è
molto meno stretta di quanto si credette un tempo e credetti anch’io
VIII. Epicuro, Lucrezio e Leopardi 313

dapprima (qui sopra pp. 266-268). Ma forse la Andreoni ha alquanto


esagerato nell’indicare altre fonti antiche (patristiche, lette da un Leo-
pardi giovanissimo) e moderne del pessimismo leopardiano, molto ete-
rogenee fra loro e col pensiero del Leopardi maturo. Troppo, a mio
avviso, essa ha concesso al Leopardi «gnostico» o «manicheo» del Ga-
limberti; su questo punto ho già espresso il mio dissenso dal Galimber-
ti e il mio pieno consenso col Bigi: cfr. qui sopra, pp. 291-292 e n. 33.
Aggiungerei, ribadendo in forma un po’ diversa ciò che ha già osserva-
to il Bigi, che le dottrine dualistiche come lo zoroastrismo e il mani-
cheismo sono, appunto, dualistiche: di contro alla divinità malefica c’è
quella benefica, che finirà col vincere. Anche nel cristianesimo (non
solo nel luteranesimo, che tuttavia è citato a proposito dalla Andreoni,
p. 87) c’è, in contrasto con Dio, il Diavolo: l’Inferno è popolato di ani-
me sulle quali il Diavolo ha riportato la vittoria, e chi, come Origene,
negò le pene eterne, fu considerato eretico. Ma nel Leopardi c’è un
«Arimane senza Ormuzd», contro il quale bisogna lottare, non arren-
dersi vilmente, ma senza speranza di vittoria [, meno che mai di una vit-
toria che venga dall’alto, dall’intervento provvidenziale di un Dio buo-
no che, se esistesse, avrebbe già da tempo dovuto «provvedere»].
E quanto ai moderni, io credo che studiosi recenti abbiano esage-
rato l’influsso di Montaigne ** e di Pascal sul Leopardi (anche la
Andreoni, direi, pur molto più cauta di altri); ma qui il discorso si fa-
rebbe lungo. Io tenderei a limitare gli influssi agli illuministi più auda-
ci: al Voltaire del Poème sur le désastre de Lisbonne e di pochi contes
in cui la malinconia e l’amarezza sopraffanno il deismo (altrove, come
è noto, il deismo trascina Voltaire su posizioni molto più timide, e
anche nel Désastre de Lisbonne c’è un ripiegamento finale), al Bon sens
cit. del Barone d’Holbach (cfr. qui sopra, p. 286 n. 29), alla Lettre de
Thrasybule à Leucippe di N. Fréret (della quale vedi ora la magistrale
edizione a c. di S. Landucci, Firenze 1986), a pochi altri testi. Darei
già minore importanza, nonostante la Andreoni, p. 69, a Les Ruines di
Volney, che il Leopardi cita una sola volta, Zib. 4127-32, a proposito
della teoria del piacere, dissentendo (cfr. L. Blasucci, Leopardi e i
segnali dell’infinito cit., p. 225 sg.). Il Leopardi avrà anche letto tutte
le Ruines, ma non bisogna dimenticare che questo «seguace di Hol-
bach e La Mettrie» (Andreoni cit.) fu un pessimista fortemente intri-
so di religiosità (i confronti che G. Savarese, Saggio sui «Paralipome-
ni» di G. L., Firenze 1967, passim, istituisce tra il poemetto
leopardiano e l’opera di Volney sono interessanti, ma non denotano
314 VIII. Epicuro, Lucrezio e Leopardi

una stretta consonanza ideologica: sono piuttosto riflessioni sulla


caducità di tutte le cose di questo mondo, quali si trovano per esem-
pio anche in Dante, nel Tasso, in tanti altri autori certo non atei né
materialisti). Meno ancora darei importanza a Sade (Andreoni, pp.
83-85), non citato mai dal Leopardi, credo, non per la damnatio nomi-
nis che tuttora gravava sul terribile marchese, ma perché l’etica (se pur
merita questo nome) di Sade è “indegna” anche per chi non abbia il
benché minimo pregiudizio moralistico, e la sua antiteodicea è super-
ficiale e “d’accatto”.
Un’ultima osservazione. A p. 99 e altrove, in cortese discussione
con me, la Andreoni tende, pur con alcune riserve, a segnare un diva-
rio tra la concezione coerentemente materialistica alla quale il Leo-
pardi era giunto nell’Islandese e nei pensieri dello Zib. scritti soprat-
tutto nel ’26, e una specie di ritorno, «nelle ultime composizioni», ad
una personificazione della Natura (degli Dèi, del Fato) chiamati in
causa come responsabili del male del mondo, non come cieco mecca-
nismo. Io persisterei a credere che tale «ritorno» non vi sia stato, e
che, da quando il Leopardi giunse alla concezione della natura come
meccanismo inconscio di produzione-distruzione, privo di scopo o,
tutt’al più, avente per scopo la conservazione della specie e non del-
l’individuo, i «Numi», il Fato, la natura siano da intendere come im-
magini poetiche (il Fato, del resto, già nel pensiero greco e romano, a
cominciare da Omero, rimane a metà strada fra una “forza” non per-
sonale e una divinità, identificata spesso, non sempre, con
Zeus/Giove): cfr. {qui sopra, «Natura, dèi e fato nel Leopardi»}, pp.
227 sgg., spec. 239-248, e, per l’influsso che sul concetto di natura
malefica Lucano ebbe probabilmente sul Leopardi, Aspetti e figure, pp.
44-53 (dove cito anche contributi di E. Paratore e di G. Velli) e A.
La Penna, Tersite censurato, Pisa 1991, p. 277 n. 77. Ogni pessimista
«agonista», non «rassegnato», come è il Leopardi, tende a tali perso-
nificazioni di alta emotività e poeticità. Del resto perfino Holbach,
non poeta e rigorosamente materialista ed ateo, si lascia sfuggire più
volte, nel Bon Sens più ancora che nel Système de la Nature, espressio-
ni quasi personificate (più «antiteistiche» che «atee») nei riguardi di
quel Dio che tuttavia egli ritiene del tutto inesistente. Qui mi fermo,
poiché, ripeto, ho voluto solo accennare a qualche divergenza tra la
Andreoni e me, senza soffermarmi su tutto ciò che da quel libro c’è da
imparare, o da discutere amichevolmente, anche al di fuori della que-
relle Leopardi-Lucrezio.
IX.
Il Leopardi e la Rivoluzione francese ∼

Testo epigrafe, testo epigrafe, testo epigrafe, testo epigrafe,


testo epigrafe, testo epigrafe.
Nome Cognome

Il 1798, anno di nascita di Giacomo Leopardi, appartiene ad uno dei


periodi più agitati e travagliati della storia delle Marche, non esclusa
la cittadina natale del poeta, Recanati. Dai moti giacobini del 1796-97
sostenuti dalle truppe francesi, alla violenta reazione di stampo “van-
deano” appoggiata dagli austro-russi, al ritorno dei francesi e al nuo-
vo assetto del 1808 in base al quale le Marche fecero parte del regno
d’Italia, alla sconfitta, infine, del Murat a Tolentino nel maggio del
1815 e alla restaurazione del dominio papale, i sommovimenti furono
quasi continui. Il conte Monaldo Leopardi fu una volta, circa un anno
dopo la nascita di Giacomo, condannato a morte dai francesi. La con-
danna fu annullata prestissimo e negli anni successivi Monaldo, uomo
prudente, seppe destreggiarsi in modo da non diventare mai un «nota-
bile» napoleonico ma da non esporsi nemmeno per la causa legittimi-
sta. Rimase, però, nel suo animo una vera fobìa della Rivoluzione e di
qualsiasi, pur minima, novità politica, che alimentò vari decenni più tar-
di, come accenneremo, la sua attività di scrittore satirico reazionario.
Monaldo fu un personaggio, in complesso, mediocre, e i tentativi,
più volte ripetuti, di ravvisare in lui, a dispetto di quelle che sarebbe-
ro soltanto apparenze esteriori, uno spirito affine a quello del suo
grande figlio, e addirittura un suo “precursore”, sono da considerarsi
aberranti. Se, però, lasciamo da parte queste falsificazioni della realtà,
dobbiamo constatare che egli fu un reazionario sui generis, scomodo,
per molti aspetti, alla causa della reazione. Da un lato (e ciò lo acco-
muna a vari intellettuali di fine Settecento) fu cattolicissimo ma non
∼iDal volume collettivo La storia della storiografia europea sulla Rivoluzione francese (Relazioni
tenute al Congresso dell’Associazione degli storici europei, maggio 1989), Roma 1990, pp. 367-381.
316 IX. Il Leopardi e la Rivoluzione francese

misticheggiante, anzi razionalista: fu, si potrebbe dire con una certa


paradossalità, un illuminista di estrema destra.1 Non credette ai mira-
coli, ai quali, in quei tempi di sovraeccitazione, erano pronti a crede-
re ad ogni piè sospinto non solo i popolani controrivoluzionari, ma
anche alcuni nobili. Fu convinto che la religione avesse il suo fonda-
mento nella ragione, cioè in una sorta di acritico buon senso, che le
classi alte dovevano propinare al popolo per mantenerlo ubbidiente
(meglio ancora, tuttavia, se il popolo fosse stato mantenuto in una to-
tale ignoranza: gli asili infantili e altre forme d’educazione paternali-
stica, propugnate dai moderati toscani e di altre regioni a scopo sostan-
zialmente conservatore, furono fermamente osteggiate da Monaldo,
che le considerò esperimenti troppo rischiosi).2 ** Non ebbe mai, nel
modo di scrivere, quelle velleità puristiche che per un breve periodo
giovanile sedussero suo figlio,3 e lasciarono qualche lieve traccia anche
nella prosa delle Operette morali, il cui altissimo valore artistico tardò,
anche per questo, ad essere riconosciuto. Monaldo scrisse sempre in
uno stile settecentesco, “moderno”, sia nei suoi lavori di erudizione
locale, sia nei libelli di propaganda politica.
D’altro canto, se sostenne l’assolutismo politico contro la rivolu-
zione e contro ogni sia pur moderatissimo liberalismo, non riuscì mai
ad accettare nemmeno la monarchia assoluta: conservò uno spirito di
“feudatario” medievale, ribelle ai re. Perfino lo Stato pontificio re-
staurato, che certo non era paragonabile per forza e capacità accentra-
trice alle grandi monarchie assolute europee pre e post-rivoluzionarie,
gli sembrò troppo irrispettoso dei poteri locali. Molto più che suddi-
to pontificio (a Roma si recò molto di rado e di mala voglia), si sentì
marchigiano e, più ancora, recanatese. A Recanati, nel proprio palaz-
zo, raccolse, come è noto, una biblioteca davvero cospicua, ricca di
opere di erudizione locale, di teologia, di ideologia controrivoluzio-
naria, ma non priva nemmeno di «libri proibiti». Ma quella bibliote-
ca, che costituì un suo indubbio merito, doveva anche servire a far sì
che egli e i suoi figli (Giacomo in particolare, destinato alla carriera
ecclesiastica) potessero studiare senza muovere mai un passo fuori di
1
iSu questo “illuminismo reazionario” di fine Settecento cfr. A. Prandi, Religiosità e cultu-
ra nel Settecento italiano, Bologna 1966; [G(ius). Pignatelli, Le origini settecentesche del cattolice-
simo reazionario, «Studi storici» XI, 1970, p. 755-782].
2
i{Cfr. «Pietro Gioia, Pietro Giordani e i tumulti piacentini del 1846», in «Nuovi studi sul nostro
Ottocento» – N. d. C. –}, p. 74 n. 8.
3
i{Ivi («Ancora sul padre Cesari: per un giudizio equilibrato») – N. d. C –.}, p. 11 n. 9.
IX. Il Leopardi e la Rivoluzione francese 317

Recanati. E se qualche studioso liberale del secolo scorso accusò a tor-


to Monaldo di durezza tirannica e di mancanza di affetto verso i figli
(accuse che sono, invece, giuste e inconfutabili nei riguardi di sua
moglie, la bigotta e disumana Adelaide Antíci), se non si può preten-
dere che egli comprendesse le idee di Giacomo (idee non comprese
nemmeno da uomini di ben altra levatura), d’una cosa bisogna davve-
ro fargli colpa: di aver contribuito all’infelicità del figlio opponendo-
si con tutte le forze a qualsiasi suo viaggio o soggiorno fuori di Reca-
nati, negandogli (tranne qualche rara e avara eccezione negli ultimi
tempi) ogni sussidio economico se egli voleva uscir di casa; e il guada-
gnarsi da vivere col proprio lavoro (in quell’Italia in cui il lavoro intel-
lettuale come professione era così poco riconosciuto, e meno che mai
a chi professasse idee considerate «empie») fu sempre difficilissima
impresa per Giacomo Leopardi, fino a ridurlo più volte in condizioni
che si possono dire di vera povertà.4
Le pubblicazioni di Monaldo alle quali abbiamo accennato finirono
con l’apparire troppo provocatoriamente retrive, e quindi dannose, allo
stesso governo pontificio, ai consiglieri del reazionarissimo Gregorio
XVI. I Dialoghetti sulle materie correnti nell’anno 1831, a dispetto del
grande successo immediato, contenevano tali rimproveri di eccessiva
tolleranza rivolti ai re assoluti, tali esortazioni a praticare un vero e pro-
prio «terrore bianco» preventivo contro ogni pericolo rivoluzionario,
e, nello stesso tempo, tali nostalgie feudali e oscurantiste, da suscitare
malcontento a Roma e censure governative; e il periodico «La Voce
della Ragione», intrapreso da Monaldo nel 1833 a imitazione della
famigerata «Voce della Verità» di Modena, fu soppresso nel 1835.
Che le idee politiche di Giacomo Leopardi fanciullo e appena ado-
4
iA ciò contribuì, com’è noto, anche l’avarizia di Adelaide Antíci, alla quale, per rimediare
al dissesto finanziario causato da un breve periodo di dissipatezza giovanile di Monaldo (tipica
di certi nobili oziosi di provincia; anche Monaldo, prima di diventare un rigido moralista, vi era
passato), era stata demandata per legge l’amministrazione del patrimonio. Su Monaldo non cre-
do di dover qui esibire una bibliografia. In generale, gli scritti su di lui sono prevalentemente o
delle “invettive” o delle “difese”, più di rado e più frettolosamente delle “caratterizzazioni”. A
un tono un po’ troppo polemico e attualizzante non sfugge, forse, nemmeno quello che rimane
il saggio più intelligente, Monaldo l’inalterabile, di C. Muscetta, in Letteratura militante, Firen-
ze 1953, p. 176 sgg. (e di nuovo in Leopardi, Roma 1976, p. 19 sgg.). Cfr. anche M. Leopardi,
Autobiografia e Dialoghetti, a cura di A. Briganti, introduzione di C. Grabher, Bologna, Cap-
pelli, 1972. Più attenzione meriterebbe il cognato di Monaldo e zio di Giacomo, Carlo Antíci,
residente a Roma, reazionario di più larghe vedute: alcuni accenni provvisorii, che andrebbero
sviluppati, in {«Alcune osservazioni sul pensiero del Leopardi»}, p. 116 n. 22, e Antileopardiani,
ad indicem. L’Antíci meritava una voce nel Dizionario biografico degli italiani.
318 IX. Il Leopardi e la Rivoluzione francese

lescente siano state all’incirca le stesse del padre (il quale, del resto,
nei primi anni della Restaurazione non aveva ancora raggiunto le vere
e proprie follie degli anni trenta), che a convalidare quelle idee abbia-
no contribuito anche le letture dei libri e opuscoli antirivoluzionari di
cui la biblioteca Leopardi, come si è detto, era ben fornita,5 è più che
naturale. Piuttosto è impressionante la rapidità con cui avvenne il
distacco. Già il primo scritto politico (Agli Italiani: orazione in occa-
sione della liberazione del Piceno, composto dal giovane diciassettenne
nel maggio-giugno 1815, dopo la sconfitta del Murat a Tolentino e pri-
ma di Waterloo),6 rivela oscillazioni e contraddizioni molto significa-
tive. E uno scritto duramente antifrancese e “antitirannico” (di quel-
l’anticesarismo declamatorio che vigeva nelle scuole dei gesuiti7 misto
tuttavia a influssi alfieriani), ma tutt’altro che trionfalistico nei riguar-
di delle idee della Restaurazione e dell’assetto che il Congresso di
Vienna, già prima dei Cento Giorni, aveva ormai dato all’Italia. L’u-
nità e l’indipendenza d’Italia, dice il Leopardi, sarebbero desiderabili
(e quest’affermazione rivela già il distacco dai fautori del ritorno
all’ancien régime), ma sono irraggiungibili: dopo le tempeste napoleo-
niche, gli italiani hanno soprattutto bisogno di pace, e devono rinun-
ciare a quegli ideali. Ma nella chiusa, con una certa ingenuità che tut-
tavia è significativa, il giovanissimo autore non accetta senz’altro
codesta pace accolta passivamente: egli vorrebbe che gli italiani faces-
sero in tempo a partecipare alla propria liberazione dallo straniero,
movendo in guerra contro la Francia non ancora definitivamente scon-
fitta. È la voce di quel patriottismo antinapoleonico che, come è noto,
tranne pochissime eccezioni, fu una fase quasi inevitabile di incuba-
zione del futuro patriottismo antiaustriaco.
5
iMolte indicazioni utili, a questo proposito, dà G. Savarese, Un tentativo giovanile del Leo-
pardi: la «Maria Antonietta», «Rassegna letter. italiana», LXX, 1966, pp. 3-22, specialmente
p. 5 n. 17 e note seguenti. Sulla pubblicistica antirivoluzionaria in Italia (e in particolare nello
Stato pontificio) già prima dell’invasione francese è ancora utile P. Hazard, La révolution françai-
se et les lettres italiennes, Paris 1910, pp. 1-23.
6
iT.O., I, pp. 869-875; pubblicata per la prima volta da G. Cugnoni, in G. L., Opere inedi-
te, II, Halle, Niemeyer, 1880, pp. 1-18, e poi in molte edizioni successive. L’autografo, conser-
vato a Recanati, non è datato; la data approssimativa si ricava dal contenuto stesso dell’Orazio-
ne (più esatto di tutti, a questo proposito, è G. Mestica, introduzione a G. L., Scritti letterari, I,
Firenze 1898, p. LXXI).
7
iCfr. a questo proposito P. Treves, L’idea di Roma e la cultura italiana del secolo xix, Mila-
no-Napoli 1962, nel capitolo intitolato L’ambivalenza del classicismo (pp. 36-53), dove, fra l’al-
tro, è citata un’osservazione molto acuta di Giovanni Ruffini, nel romanzo autobiografico
Lorenzo Benoni, cap. IX.
IX. Il Leopardi e la Rivoluzione francese 319

Poco più di un mese dopo (30 luglio 1816: la data è autografa) il Leo-
pardi intraprende un abbozzo di tragedia: Maria Antonietta.8 Già da
fanciullo, nel 1811 e 1812, egli aveva portato a compimento due tra-
gedie «politiche», La virtù indiana (imitazione di una tragedia di
Monaldo) e Pompeo in Egitto (improntata a quell’anticesarismo scola-
stico di cui già si è detto). Questa volta volle affrontare un tema di sto-
ria politica contemporanea ancora “scottante” (in senso, naturalmen-
te, filo-legittimistico: in tutto ciò che egli aveva potuto leggere, Maria
Antonietta era presentata come una martire della ferocia rivoluziona-
ria e nient’altro). L’abbozzo è estremamente scarno, la parte versifica-
ta si riduce a sedici endecasillabi, del secondo e terzo atto manca anche
un brevissimo schema. E tuttavia quel che c’è basta a fare intravedere
che il motivo ispiratore del dramma (a prescindere da un intreccio mol-
to convenzionale e ingenuo, basato su poco credibili colpi di scena)
sarebbe stato quello della pietà per la donna costretta ad una morte pre-
coce, oscillante tra la volontà di affrontare il destino con dignità eroi-
ca e il timore sempre riaffiorante: «Ben me n’avveggo: a le sventure io
forza / bastevol non oppongo». E a questi momenti di debolezza e di
sconforto sembra andare la simpatia, la pietà dell’autore. Più tardi, nei
bellissimi appunti e ricordi autobiografici, il Leopardi rievocherà un
sogno da lui avuto nel tempo in cui progettava quella tragedia: avreb-
be voluto far cantare a Maria Antonietta una canzone «in musica sen-
za parole».9 Per quel che si può supporre, il Leopardi si sentiva spinto
a comporre più un dramma di “pietà umana”, risolto in lirica pura, che
una tragedia di propaganda rivoluzionaria. Maria Antonietta sarebbe
stata uno di quei personaggi giovanili stroncati da una morte prematu-
ra, che già allora commovevano intensamente il Leopardi (cfr. A. Mon-
teverdi, Frammenti critici leopardiani, Napoli 19672, pp. 1-23) e che tro-
varono, molti anni dopo, piena realizzazione poetica nelle figure di
Silvia e di Nerina. Ma con molta difficoltà ciò s’inquadrava in uno
schema di tragedia politica, e il personaggio stesso di Maria Antoniet-
ta, pur idealizzato, non era adatto: questa può essere stata la ragione
per cui il Leopardi abbandonò così presto quel lavoro **.
8
iT.O., I, p. 329 sg. Cfr. l’ampio saggio del Savarese citato qui sopra (nota {5}), dal quale
mi discosto leggermente solo in pochi punti. Per il testo della Virtù indiana, T.O., I, pp. 536-
546 (e la lettera dedicatoria a Monaldo, ivi, p. 1006); del Pompeo in Egitto, T.O., I, pp. 546-558.
9
iI, p. 360. Cfr. ibidem, poco sopra, a proposito di un canto sull’Amore «principio del mon-
do»: «ch’io avrei voluto porre in musica non potendo la poesia esprimere queste cose ec. ec.».
Su questo bisogno di espressione musicale cfr. G. Savarese, art. cit., p. 18 sgg.
320 IX. Il Leopardi e la Rivoluzione francese

Del resto, già pochi giorni prima di quell’abbozzo, con la Lettera ai


Sigg. Compilatori della «Biblioteca italiana»10 e poi nel ’17, con l’ini-
zio della corrispondenza epistolare con Pietro Giordani, il Leopardi
intraprende su un piano più generale, non solo letterario ma ideologi-
co-politico, il distacco dalle idee monaldiane e da tutta l’ideologia del-
la Restaurazione. La pace, che ancora nell’Orazione del 1816 è consi-
derata – sia pure con le contraddizioni a cui abbiamo accennato – come
un bene dopo le continue guerre napoleoniche (e questo sentimento,
come è noto, era largamente e comprensibilmente diffuso in tutta
l’Europa), diviene ben presto per il Leopardi uno stato di insopporta-
bile soffocamento di ogni vitalità, magnanimità, eroismo. La pace del-
la Santa Alleanza è l’aspetto politico di quel male che il Leopardi con-
sidererà poi sempre, accanto al dolore, il massimo motivo di infelicità
per l’uomo: la noia. Le due prime canzoni patriottiche, All’Italia e
Sopra il monumento di Dante (1818), che il Leopardi, a differenza dagli
scritti da noi menzionati finora, riuscì non solo a portare a termine,
ma a pubblicare, contengono certo ancora, specie la seconda, motivi
antinapoleonici: il compianto, del resto ben giustificato anche da un
punto di vista patriottico, per gli italiani morti combattendo non per
la propria patria ma «in estranie contrade» e particolarmente nella
campagna di Russia;11 l’invettiva contro «la Francia scellerata e nera»,
un’espressione che spiacque ad alcuni patrioti e che il Leopardi, in una
lettera al Brighenti, si affrettò a giustificare in modo non insincero,
ma un po’ sforzato.12 E tuttavia quelle canzoni, e forse ancor più la
10
iQuesta Lettera (T.O., I, pp. 879-882, 18 luglio 1816), non pubblicata dalla rivista milanese
a cui era diretta, rappresenta, come è noto, il primo intervento del Leopardi nella polemica clas-
sico-romantica del 1816. Del pari inedito rimase il Discorso di un Italiano intorno alla poesia
romantica (I, pp. 914-948, scritto a più riprese nel 1818).
11
iCfr. All’Italia, vv. 41-60; e, con maggiore sviluppo, Sopra il monumento di Dante ..., vv. 103-
174. Qui, al v. 100, il Leopardi aveva scritto «Ma non (sottintendi “taccio”) la Francia scellera-
ta e nera», e poco sotto, v. 108, «Di Franche torme il bestïal furore».
12
iAvendo appreso da Pietro Brighenti, attraverso una lettera di costui a Monaldo, che alcuni
letterati bolognesi avevano espresso critiche verso l’autore della seconda canzone, «avendolo per
uomo contrario ai princìpi liberali, per quella sua dipintura delle sciagure del regno italico, e dei
macelli di Russia» (cfr. G. L., Epistolario, a cura di F. Moroncini, II, Firenze 1935, p. 29 sg. n.
1), il Leopardi si affrettò rispondere (lettera al Brighenti del 21 aprile 1820): «Quelli che pre-
sero in sinistro la mia Canzone sul monumento di Dante, fecero male, secondo me, perché le
dico espressamente che io non la scrissi per dispiacere a queste tali persone; ma parte per amor del
puro e semplice vero e odio delle vane parzialità e prevenzioni; parte perché non potendo nomi-
nar quelli che queste persone avrebbero voluto, io metteva in iscena altri attori come per prete-
sto e figura». Il primo motivo è certamente veritiero: anche un liberale nemico della Santa
Alleanza aveva il diritto di condannare il sacrifizio di tanti italiani al militarismo napoleonico.
IX. Il Leopardi e la Rivoluzione francese 321

terza, Ad Angelo Mai (1820), di argomento, in apparenza, meno «poli-


tico»,13 esprimono fondamentalmente un’insofferenza profonda per il
clima torpido dell’Italia post-1815, «al quale incombe / tanta nebbia
di tedio», e un disperato agonismo, come, nella prima canzone, in quel
grido che, per una certa sua ingenuità, potè essere oggetto di facili,
superficiali ironie (e del vile insulto del Tommaseo): «L’armi, qua l’ar-
mi: io solo / combatterò, procomberò sol io». Contro chi il Leopardi
nel 1818 avrebbe voluto prender le armi? Evidentemente non contro
i francesi, che non erano più nemici e oppressori attuali, ma contro
gli austriaci e i monarchi della Restaurazione da essi sostenuti.14 E i
re di tre versi latini composti dal Leopardi stesso e annotati nello
Zibaldone, che tanto più tengono ad essere chiamati «pii» quanto più
hanno perduto ogni vera pietas, non possono essere se non i monarchi
della Santa Alleanza.15

Il secondo (l’autore avrebbe parlato dei francesi alludendo in realtà agli austriaci) difficilmente
può essere inteso alla lettera, poiché il verso «Ma non la Francia scellerata e nera» rimase immu-
tato nell’edizione delle Canzoni del 1824, e soltanto nel ’31 (edizione fiorentina dei Canti) fu
sostituito dal più generico «Ma non la più recente e la più fera» (il v. 108, invece, già nel ’24
divenne «L’asta inimica e il peregrin furore»). È quindi almeno in parte giusta la nota del
Moroncini, Epistolario cit., II, p. 33 n. 2, il quale però semplifica troppo le cose attribuendo al
Leopardi un costante «concetto sfavorevole della nazione francese», mentre il giudizio del Leo-
pardi maturo sulla Francia fu molto più complesso e, nell’insieme, tutt’altro che negativo (sol-
tanto alla l i n g u a francese egli rimase puntigliosamente avverso). Bisogna tener presente che
le due prime canzoni appartengono ancora a una tormentata fase di “trapasso” da anti-bona-
partismo ad anti-Restaurazione; e che, nell’insieme, il passaggio sia avvenuto, lo dimostra il fat-
to che, a cominciare da Monaldo, i reazionari videro in quelle canzoni pericolosi accenni libe-
rali (cfr. ancora Moroncini, pp. 29 n. 1, 31 n. 2 dell’Epistolario, II). Sulle due prime canzoni il
saggio più intelligente e ricco di sfumature è quello di L. Blasucci (1961, ora in Leopardi e i segna-
li dell’infinito, Bologna 1985, pp. 31-80). Contro l’incomprensione che per queste due poesie
mostrò il De Sanctis è da leggere specialmente Luigi Settembrini, Lezioni di letteratura italiana
(1868-71), a cura di G. Innamorati, Firenze 1964, II, p. 1114 sg.
13
iMa cfr. ciò che il Leopardi scriveva al Brighenti, 28 aprile 1820: Monaldo era rimasto ras-
sicurato dal titolo «innocentissimo» della canzone: «Si tratta di un Monsignore (cioè del Mai). Ma
mio padre non s’immagina che vi sia qualcuno che da tutti i soggetti sa trarre occasione di parlar
di quello che più gli importa e non sospetta punto che sotto quel titolo si nasconda una canzone
piena di orribile fanatismo» (T.O., I, p. 1100). Come è ovvio, il Leopardi usa ironicamente la
parola «fanatismo» nel senso che le davano i reazionari, cioè estremismo rivoluzionario, follia sov-
vertitrice dell’ordine costituito. Che, poi, la canzone al Mai (come le due precedenti) non sia sol-
tanto politica, ma contenga già spunti di una più ampia Weltanschauung pessimistica, è ben noto.
14
iBene W. Binni, La protesta di Leopardi, Firenze 19742, p. 38: «E quale senso avrebbe avu-
to, nel 1818, l’invocazione “l’armi, qua l’armi” se riferita solo alla distrutta dominazione na-
poleonica?». Sul carattere “titanistico” di quest’invocazione cfr. U. Bosco, Titanismo e pietà in
G. Leopardi (1957), Roma 1980, p. 10; L. Blasucci (citato qui sopra, nota {12}), p. 56 sg.
15
iZib. 85; cfr. S. Timpanaro, La filologia di G. Leopardi, Bari 19772, p. 144 n. 10; G. Pacella,
in «Giorn. stor. letter. ital.», CXXXVIII, 1961, p. 111.
322 IX. Il Leopardi e la Rivoluzione francese

Frattanto il Leopardi va elaborando una prima concezione filosofi-


ca che si può, approssimativamente, chiamare «rousseauiana», anche
se Rousseau non ne fu il primo e diretto ispiratore, e se divergenze
tra il pensatore ginevrino e il giovane Leopardi non mancarono. È una
concezione basata sul contrasto natura-ragione («La natura è grande,
la ragione è piccola»), sull’esaltazione delle magnanime passioni degli
antichi (dai «primitivi» fino ai greci e ai romani della Repubblica non
ancora corrotta), contro la civiltà che, quando prende il sopravvento,
esercita sull’uomo una funzione inariditrice e mortificante. Il “classi-
cismo” leopardiano (credo ancora di essere autorizzato ad usare que-
sto termine, naturalmente con le dovute precisazioni) non è imita-
zione scolastica dei classici: è un tentativo di tornare ad ispirarsi alla
schietta natura primigenia. Tentativo, almeno in gran parte, dispera-
to: lo stato di natura, perduto con la decadenza dell’evo antico, è irre-
cuperabile, così come irrecuperabile è per il singolo individuo la fan-
ciullezza.16 Il Medioevo non fu schietta primitività, ma “barbarie”,
cioè razionalismo corrotto, eccesso di civiltà che si tramutò in igno-
ranza superstiziosa e in repressione di quel bisogno di felicità che è
inerente all’uomo. Pur con molte tormentose oscillazioni, il Leopardi
finì col coinvolgere in questo giudizio negativo anche il cristianesimo.
E qui è la radice del rifiuto leopardiano del Romanticismo, che col
passare degli anni diventerà più sfumato e problematico, senza pe-
raltro, mai scomparire:17 il Romanticismo è, per il Leopardi, medie-

16
iG. De Robertis, Studi, Firenze 1944, pp. 10 sg., 152-154 (quest’ultimo passo ripubblica-
to nella nuova edizione del Saggio sul Leopardi, Firenze 1973, p. 127).
17
iPersisto a credere che, se per «Romanticismo» si intende non un generico stato senti-
mentale e passionale, ma un movimento ideologico (e politico e letterario) storicamente deter-
minato, la qualifica di romantico non debba essere attribuita al Leopardi. Ciò non toglie che sin-
goli motivi e spunti del Romanticismo siano stati da lui fatti proprii, quasi sempre con
l’accompagnamento di precise riserve, come risulta da vari passi dello Zibaldone: cfr. (dopo un
mio breve accenno {qui sopra, «Introduzione»}, p. 33 sg.; vedi anche la prefazione alla 2a ed., e
tutta l’Introduzione {, e «Giordani, Carducci e Chiarini» – N. d. C.}, pp. 97-98) molto più am-
piamente E. Bigi, Il Leopardi e i romantici, in «Studi di lingua e letteratura lombarda offerti a
M. Vitale», I, Pisa 1983, pp. 709-34 | = E. B., Poesia e critica tra fine Settecento e primo Ottocento,
Milano 1986, pp. 149-173 |, che ha analizzato, fra l’altro, con grande equilibrio la «Polizzina»
Romanticismo annessa all’Indice dello Zibaldone compilato dal Leopardi stesso (vol. III, p. 1224
ed. Pacella). Meno convincente, a mio avviso, anche se molto fine, P. Fasano, Leopardi contro-
romantico, 1971, ristampato con modifiche in L’entusiasmo della ragione, Roma 1984; cfr. E. Bigi
cit., p. 710 nota 3 | = 150 n. 3 |). Ma che il Romanticismo sia stato tutto reazionario e il classi-
cismo tutto “progressista” (a parte l’ambiguità di questo termine, che converrebbe non usar mai)
sarebbe una mera, squalificante sciocchezza, che io non ho mai pensato né detto; e mi duole che
IX. Il Leopardi e la Rivoluzione francese 323

valismo ammodernato, che ai mali della «troppa civiltà» unisce i pre-


giudizi della barbarie.
Se un vero ritorno alla natura non è sperabile, il minor male è il
ricorrere a quella che il Leopardi chiama «mezza filosofia»: una con-
cezione che riaccosti il più possibile l’uomo alla natura, ne recuperi
almeno in parte la forza vitale combattendo, invece, gli «errori bar-
bari» e deprimenti del Medioevo.
Ecco allora che il giudizio sulla Rivoluzione francese risulta (in una
serie di appunti dello Zibaldone, scritti negli anni 1820-22) profonda-
mente mutato.18 La Rivoluzione fu forse «preparata dalla filosofia»
del Sei-Settecento, ma «non fu eseguita da lei», e nemmeno da «quei
legislatori francesi e repubblicani» che credettero di assecondare la ri-
voluzione «geometrizzando» tutta la vita. Il Leopardi condanna come
contrari al vero spirito della Rivoluzione il culto dell’Essere Supremo
e della Dea Ragione, la proposta di Condorcet di abolire anche «la
religion naturale», l’istituzione del nuovo calendario.
È fin troppo facile notare in questi appunti gravi carenze di infor-
mazione e, di conseguenza, fraintendimenti. Il Leopardi cita come sue
fonti soltanto una traduzione francese della prima parte dell’opera
France di Lady Morgan19 e l’Essai sur l’indifférence en matière de religion
di Lamennais (ma coi postulati cattolici di Lamennais, già ora, egli non

alcuni studiosi, tra i quali uno, W. Binni, che ho sempre considerato come un mio maestro,
abbiano continuato pertinacemente ad attribuirmela, anche dopo ciò che, ad abundantiam, ave-
vo precisato in «Belfagor» XV, 1970, p. 236, con esatta documentazione, e in Antileopardiani,
p. 29 nota 19 (cfr. anche ulteriori considerazioni in AA.VV., Poetica e metodo storico-critico nel-
l’opera di W. Binni, Roma 1985, pp. 438-442). La meritata autorità di Binni ha fatto sì che anche
altri studiosi mi abbiano attribuito quella tesi aberrante.
18
iGli appunti leopardiani che in parte riassumo e in parte riporto testualmente (ma da una
lettura completa non si dovrebbe prescindere) si trovano in Zib. 160 sg. (8 luglio 1820), 357 sg.
(27 novembre 1820, continuazione del precedente), 520-522 (17 gennaio 1820), 671 (17 feb-
braio 1821), 870 (26 marzo 1821, addendum a 160 sg.), 911 (30 marzo-4 aprile 182 0, 1078 (23
maggio 1821), 2334 sg. (6 gennaio 1822). Per il periodo in cui furono scritti cfr. anche qui sot-
to, nota {23} in fine. Sull’atteggiamento leopardiano riguardo alla Rivoluzione francese osser-
vazioni molto intelligenti in C. Luporini, Leopardi progressivo (1947), Roma 19802, pp. 50-56 (è
soltanto un po’ troppo messo in ombra, credo, il contrasto che, in questa fase del suo pensiero,
il Leopardi segna tra illuminismo settecentesco e Rivoluzione).
19
iCfr. Zib. 160 sg. (Lady Morgan, France, 3ème édition française, Paris 1818, II, p. 284). Per
altre citazioni della stessa opera, le quali però non si riferiscono alla Rivoluzione, cfr. T.O., II,
Indice analitico, p. 1378, s.v. «Morgan». La scrittrice e poetessa Sydney Owenson (Dublino
1783-Londra 1859), sposata a Th. C. Morgan, ardente patriota irlandese, liberale e filantropa,
scrisse due opere intitolate France, nel 1817 (la cui versione francese fu letta dal Leopardi) e nel
1830 (questa gli sarà rimasta ignota).
324 IX. Il Leopardi e la Rivoluzione francese

concorda).20 Non si mostra informato sui contrasti tra girondini e gia-


cobini, tra Robespierre e Hébert, nemmeno in fatto di religione. Non
è quindi in grado di apprezzare – come, dal suo punto di vista, avreb-
be dovuto – lo sforzo di Robespierre di reagire proprio (fin troppo!)
al razionalismo illuministico, di fondare una nuova religione rivolu-
zionaria e patriottica, e mette quasi sullo stesso piano i giacobini e
Condorcet che, come è noto, ne fu vittima. E tuttavia il Leopardi ha
còlto bene gli aspetti di frattura (più che quelli, innegabili anch’essi,
di continuità) tra illuminismo e Rivoluzione. La vera “spinta” alla Ri-
voluzione, egli dice, fu data da una sazietà di civiltà razionalistica e
di artificiosa raffinatezza; era stato questo clima la causa e, insieme,
l’effetto del dispotismo dell’ancien régime. La Rivoluzione rappresentò
un ritorno, se non alla natura tout court (impossibile, come si è detto),
alla «mezza filosofia»: gli «errori semifilosofici possono esser vitali,
massime (cioè “soprattutto se”) sostituiti ad altri errori per loro partico-
lar natura mortificanti (...). Così gli errori della mezza filosofia posso-
no servire di medicina ad errori più antivitali». Vitalità nel senso leo-
pardiano – da non confondere, come molti studiosi hanno cercato di
fare, col vitalismo di Nietzsche e, peggio che mai, con le sue successi-
ve degenerazioni – significa anche vera e non ipocrita moralità. Al
«pestifero egoismo», che aveva raggiunto il culmine nel secolo di Lui-
gi XIV (polemica sottintesa col Siècle de Louis XIVe di Voltaire, che c’e-
ra nella biblioteca di Monaldo e che il Leopardi lesse per tempo?), sot-
tentrò una sia pur parziale rigenerazione etica: cosa, questa, «notata da
tutti», arriva a dire il Leopardi. Lo «stato popolare» giovò soprattut-
to alle virtù pubbliche («virtù grandi», le chiama il Leopardi), ma eser-
citò benèfici effetti anche sulle «virtù private e domestiche».
Come si vede, il Leopardi istituisce un nesso tra politica e morale
al di fuori di ogni banale moralismo. Egli è convinto che solo la parte-
cipazione attiva di tutti i cittadini alla vita politica può far superare
quell’individualismo, quella asocialità che è, insieme, causa di immo-
ralità e di vita infelice; proprio per questo, più uno stato è corrotto per
20
iCfr. a questo proposito Zib. 331-333 (e {, qui, Il Leopardi e i filosofi antichi»}, p. 157 sg.);
ma tutta l’“utilizzazione polemica” che il Leopardi fa del primo Lamennais, anche in altri passi
dello Zibaldone (sì alla religione come illusione benefica quando non sia tendente alla mortifica-
zione e all’ascetismo; no alla religione come verità; e alla verità, pur considerata come infelicitan-
te, già ora il Leopardi non vuole e non sa rinunciare) meriterebbe uno studio più approfondito.
Della seconda fase del pensiero di Lamennais, negli anni Trenta, il Leopardi avrà avuto qualche
notizia attraverso i liberali fiorentini; ma a quell’epoca, una posizione democratico-religiosa non
poteva suscitare il suo interesse e tanto meno il suo assenso, al pari del mazzinianesimo.
IX. Il Leopardi e la Rivoluzione francese 325

egoismo, più i re assoluti vi si sentono sicuri.21 In un breve accenno,


il Leopardi giustifica o almeno ritiene inevitabile anche il Terrore.22
Certo, poiché tutto ciò fu operato non direttamente dalla natura,
ma da quel suo insufficiente surrogato che è la «mezza filosofia», ave-
va in sé i germi della caducità: su ciò il Leopardi non cessa di insiste-
re, e le frasi che abbiamo citato sono quasi sempre accompagnate da
riserve in tal senso. Eppure, di fronte ai moti spagnoli, napoletani,
piemontesi del 1820-21 il Leopardi spera ancora in una ripresa della
grande Rivoluzione: speranza di brevissima durata per ciò che riguar-
da l’esito politico di quei moti, soprattutto a Napoli e in Piemonte
(un’eco della poco gloriosa sconfitta dei napoletani ad Antrodoco ri-
suonerà ancora, tanti anni più tardi, nei Paralipomeni della Batraco-
miomachia); speranza più tenace quanto al persistente influsso della
Rivoluzione francese, e dei suoi pur falliti tentativi di ripresa sui co-
stumi e sulla letteratura.23
E del dispotismo napoleonico quale giudizio dà ora il Leopardi?
Anch’esso, sia pure cautamente, viene rivalutato. C’è, sì, un pensiero
21
iOltre i passi citati alla nota 18 (tra cui soprattutto, in Zib. 161, il brano che finisce con
divide et impera) cfr. Zib. 302 (3 novembre 1820): «La corruttela de’ costumi è mortale alle
repubbliche, e utile alle tirannie e monarchie assolute. Questo solo basta a giudicare della natu-
ra e differenza di queste due sorte di governi»; e Zib. 252 (28 settembre 1820). Contrario ai
compromessi monarchico-costituzionali (Zib. 576-579, un lungo pensiero di particolare acutez-
za, del 22-29 gennaio 1821; cfr. 1535, 20 agosto 1821), il Leopardi tuttavia non è schematico e
sa quanto peggiore sia l’assolutismo, tranne qualche rarissimo caso di despoti davvero “illumi-
nati” (cfr. ancora Zib. 1535); anche molto più tardi, nei Paralipomeni, la distinzione è netta.
22
iZib. 2334 sg.: la Rivoluzione «se non ricondusse la mezzana civiltà degli antichi, certo fece
poco meno (...), e non ad altro si debbono attribuire quelle azioni dette barbare, di cui fu sì
feconda allora la Francia».
23
iCfr. Zib. 520 cit. (con allusione esplicita alla Spagna) e, per i costumi e la letteratura, Zib.
1077 sg. (23 maggio 1821); quanto alle vecchie e ridicole mode, il Leopardi cita un passo del
Giordani (cfr. X, p. 221) il quale si dichiarava più pessimista quanto ad una loro possibile restau-
razione, e dalla moda allargava il discorso ad altre più odiose usanze dell’ancien régime); Zib.
1084 (24 maggio 1821), dove sono valutati positivamente (e considerati tuttavia come effetto,
sia pure ritardato, della Rivoluzione) atteggiamenti che potrebbero dirsi romantici, compreso
«un certo maggior rispetto della religione dei nostri avi». Cfr. C. Luporini, Leopardi progressivo
cit., p. 52, che osserva: «Questa è, in certo modo (...) la punta estrema del tentativo leopardia-
no di avvicinarsi alla propria epoca»: una punta, perciò, isolata e transitoria, rispetto alle posi-
zioni di pensiero che il Leopardi aveva raggiunto nel ’21. Ma, a parte ciò, è da notare che i pen-
sieri favorevoli alla Rivoluzione francese incominciano dal 1820 (cfr. sopra, nota {18}), e a
suscitarli sembra che siano stati appunto i moti del ’20, specie quelli di Spagna: essi produssero
una “riflessione retrospettiva” sulla Rivoluzione francese, in quanto (così sperò il Leopardi, e
altri con lui) non definitivamente soffocata dalla Restaurazione. Di quella che Luporini ha chia-
mato la “delusione storica” leopardiana bisogna distinguere momenti successivi: l’itinerario fu
assai complesso (cfr. {qui sopra, «Alcune osservazioni sul pensiero del Leopardi»}, pp. 132-133:
ciò che là accennai andrebbe ancora sviluppato).
326 IX. Il Leopardi e la Rivoluzione francese

del 1820 (Zib. 114) che ricalca l’antico schema dell’anarchia che, nel
susseguirsi ciclico delle costituzioni, si converte nel suo opposto, la
tirannide («la Francia passata di salto da una libertà furiosa al dispo-
tismo di Bonaparte»); ma poco dopo il Leopardi riconosce la maggiore
onestà ed efficienza dell’amministrazione napoleonica in confronto a
quella dei vecchi monarchi, la più efficace e, insieme, meno sangui-
nosa lotta contro il brigantaggio: c’era ancora nel regime napoleonico
quella «vita interna» che gli derivava dall’essere pur derivato dalla
Rivoluzione.24 Come nel Panegirico a Napoleone di Pietro Giordani, di
cui il Leopardi dovette sentire l’influsso, l’imperatore è lodato per la
sua politica interna, cioè per le conseguenze, tutto sommato, positive
del suo dominio in Francia e in Europa: mentre il Leopardi, ora, pur
non rinnegando le due prime canzoni patriottiche, tace sulle esecrate
guerre di conquista. Ancora nel 182825 egli progettava una «Poesia
sopra Napoleone» sulla quale niente possiamo congetturare
(un’“emulazione” del Cinque Maggio manzoniano?); ma che fosse una
poesia tutta antinapoleonica, pare difficile supporre.
Ma intanto, nel 1824-26, attraverso un iter del quale non possiamo
qui soffermarci ad indicare le fasi (altri ed io lo abbiamo fatto in pre-
cedenza), il pensiero leopardiano aveva compiuto un approfondimen-
to in senso materialistico-pessimista, da cui anche il concetto di natu-
ra era uscito radicalmente mutato: non più vitale forza benefica, ma
cieco meccanismo di produzione-distruzione, causa dell’infelicità insa-
nabile dell’uomo e di tutti i viventi. C’era il rischio, e il Leopardi lo
corse, di un allontanamento da ogni interesse politico, poiché nessun
regime politico avrebbe potuto eliminare l’infelicità coessenziale alla
vita stessa. E tuttavia, dal 1830 fino alla morte, il Leopardi tornò a
interessarsi alla politica molto più di quanto desse a vedere in certi
momenti di sconforto e di malumore, espressi soprattutto (ciò si suol
trascurare) in lettere private. Nella Palinodia, nei Paralipomeni, nella
Ginestra non vi sono più, certo, riferimenti diretti alla Rivoluzione
francese: la polemica è ora rivolta contro lo spirito di rapina, il colo-
nialismo, la mercificazione di tutti i valori operata dalla borghesia
capitalistica (Palinodia),26 contro il «progressismo» dei moderati tosca-
24
iZib. 229 (31 agosto 1820); 251 sg. (29 settembre 1820).
25
iI, p. 372 (XII); la data di questi appunti, scritti a più riprese, non è del tutto sicura.
26
iSui vv. 55-96 della Palinodia cfr. G. F. Vené, Letteratura e capitalismo in Italia ..., Milano
1963, p. 145; S. Timpanaro, Antileopardiani, pp. 181-183 (dove avrei dovuto citare il Vené, che
in un saggio precedente avevo ingiustamente svalutato, e che è stato svalutato anche da E. Gior-
IX. Il Leopardi e la Rivoluzione francese 327

ni miranti a dare al popolo un’educazione religiosa a scopo paternali-


stico e di prevenzione di ogni sviluppo democratico-laico. Della lotta
di classe il Leopardi non ebbe chiara nozione; non fu, perciò, un socia-
lista, se si ritiene, come si deve, che la lotta di classe sia inerente alla
nozione di socialismo (non fu, d’altra parte, un socialista nemmeno nel
senso che questo termine ha assunto oggi, o aveva già assunto presso
alcuni pensatori e gruppi politici dell’Ottocento). Propugnò, piut-
tosto, una ripresa di certi aspetti dell’illuminismo settecentesco, con-
cepito come filosofia «amara e trista», dotata del coraggio della verità:
filosofia estesa anche al «volgo» (ben diversamente da quanto pensa-
va Voltaire, e più lucidamente e con più larga e intensa umanità anche
in confronto a quanto ritenne Holbach),27 totalmente laica e quindi
negatrice di ogni concetto di Provvidenza, anche del deismo di Vol-
taire. E tuttavia l’esaltazione della virtù repubblicana, la satira della
monarchia costituzionale, le aspre invettive contro De Maistre e Bonald
(Paralipomeni, canti II, V) indicano ancora, pur in ambito così mutato,
una fedeltà a idee della Rivoluzione francese nella sua fase più radi-
cale e un rifiuto sia della Restaurazione, sia dei compromessi liberal-
moderati.28

dano, La corazza e la spada, Salerno 1990, pp. 90-93, con argomenti troppo sottili); e ora, otti-
mo, A. Parronchi, «II computar», nel volume La nascita dell’«lnfinito» e altri studi leopardiani,
Montebelluna 1989, pp. 77-95 (il Parronchi estende il suo discorso a tutta la polemica leopar-
diana contro il progresso meramente tecnico, quale si trova anche in scritti anteriori o contem-
poranei alla Palinodia).
27
iSul nesso, che considero innegabile, ma anche sul lungo percorso che l’esigenza del “mate-
rialismo per tutti” compì dal Barone d’Holbach al Leopardi cfr., in attesa di ulteriori sviluppi, ciò
che ho osservato nell’introduzione all’ed. italiana del Buon Senso {cit. qui sopra}, pp. LIV-LIX.
28
i| Proprio nello stesso anno 1989 in cui fu letta questa mia breve relazione congressuale,
apparve in «Lettere Italiane», XLI, pp. 532-553, un saggio di Rolando Damiani sullo stesso
argomento e con lo stesso titolo, Leopardi e la Rivoluzione francese. In questi ultimi anni quel sag-
gio mi era sfuggito: faccio in tempo solo ora a segnalarlo sulle bozze di stampa. Come è natura-
le, su molti punti il D. ed io, l’uno all’insaputa dell’altro, citammo gli stessi testi leopardiani e
osservammo le stesse cose. Qui annoto soltanto un paio di dissensi, almeno parziali. Non mi sem-
bra felice la qualifica di “iperilluministico” che a più riprese (p. 538 e in seguito) il D. attribui-
sce all’atteggiamento del Leopardi verso la Rivoluzione francese, tanto più in quanto egli stes-
so è ben consapevole degli aspetti di discontinuità che il Leopardi sottolinea tra un illuminismo
troppo razionale, e quindi partecipe della corruzione etico-politica dell’ancien régime, e una Rivo-
luzione sorta “dal basso” (cfr. qui sopra, pp. 323-325), come sia pur insufficiente ritorno alla
Natura. Non ben delineato, direi, ciò che a p. 534 sg. si dice sull’Orazione per la liberazione del
Piceno e sulle sue interessanti contraddizioni; laddove sono forse troppi i riferimenti a scritti di
molto posteriori (alcune Operette morali, il Discorso sopra i costumi degli Italiani) che con l’argo-
mento trattato dal D. hanno connessioni molto tenui. Ma nell’insieme il saggio è pregevole, e
le mie pagine non ne rendono minimamente superflua la lettura |.
X.
Carlo Cattaneo e Graziadio Ascoli*

Testo epigrafe, testo epigrafe, testo epigrafe, testo epigrafe,


testo epigrafe, testo epigrafe.
Nome Cognome

I. Le idee linguistiche ed etnografiche di Carlo Cattaneo

In una lettera aperta all’etnologo Francesco Pullè, pubblicata nel


1900, Graziadio Ascoli, allora settantenne, esaltava la vastità e la poten-
za d’ingegno del Cattaneo negli studi storici e si professava seguace,
fin dalla giovinezza, delle sue idee etnico-linguistiche.1
A questa lettera si sono richiamati tutti coloro che, studiando il
Cattaneo o l’Ascoli, hanno riaffermato il rapporto di derivazione cul-
turale che li unisce. E siccome un caposaldo fondamentale della lin-

1
iG. I. Ascoli, Carlo Cattaneo negli studi storici, lettera a Francesco Lorenzo Pullè, datata
«Monte Generoso, settembre 1898», pubblicata nella «Nuova Antologia» del 16 giugno 1900
(vol. CLXXI, p. 636 sgg.).
*iSugli argomenti trattati in questo saggio, ** oltre la relazione di Maria Corti discussa già
nella prefazione {alla} seconda edizione (qui sopra, p. XCI sgg.), vedi T. De Mauro, Storia lin-
guistica dell’Italia unita, Bari 1963, passim; C. Dionisotti, Per una storia della lingua italiana, in
«Romance Philology» XVI, 1962, p. 41 sgg., e, più ampiamente, in Geografia e storia della let-
teratura italiana, Torino 1967, p. 75 sgg. (a p. 101 sg. la migliore valutazione finora apparsa del
significato del Proemio ascoliano e della sua efficacia); M. Raicich, Questione della lingua e scuo-
la, in «Belfagor» XXI, 1966, pp. 245 sgg., 369 sgg. (sull’Ascoli specialmente pp. 250-252); l’in-
troduzione di Corrado Grassi alla nuova edizione degli Scritti sulla questione della lingua dell’A-
scoli (Milano 1967, Torino 19682; cfr. la mia recensione in «Critica storica» VII, 1968, p. 398
sgg.). Vedi anche la recensione di Giulio Lepschy al presente volume, in «Riv. storica ital.»
LXXX, 1968, p. 165 sgg., e la discussione che di alcuni punti del mio saggio fece Benvenuto
Terracini in «Archivio glottologico italiano» LI, 1966, p. 86 sgg. È una discussione che avrei
voluto poter proseguire con l’insigne studioso, al quale tanto devono tutti coloro che, sia pur dis-
sentendo in parte da lui, si sono occupati dell’Ascoli. Purtroppo la scomparsa del Terracini ha reso
vano questo desiderio; e le poche risposte che qui sotto formulerò ad alcune sue osservazioni non
potranno avere da lui ulteriori risposte. Ancor più è da rimpiangere che egli non abbia potuto
portare a termine il lavoro più ampio sui rapporti tra Cattaneo e Ascoli che egli preannunziava
in quella noterella.
X. Carlo Cattaneo e Graziadio Ascoli 329

guistica ascoliana è la teoria del sostrato, e tale teoria si trova già enun-
ciata e sostenuta negli scritti linguistici del Cattaneo, si è riconosciu-
to appunto in essa l’elemento che l’Ascoli avrebbe derivato dal suo
grande predecessore.2
Eppure, a un esame un po’ più attento, le cose sembrano compli-
carsi. L’epistolario del Cattaneo (la cui pubblicazione è stata portata a
termine solo recentemente), gli accenni che si trovano in alcuni scritti
dell’Ascoli pubblicati quando il Cattaneo era ancora in vita, indicano
che tra i due non mancarono divergenze e nemmeno qualche asprez-
za polemica. La teoria del sostrato, poi, non è una scoperta del Cat-
taneo, ma un’idea che circolava già da tempo nella linguistica europea
e italiana; né dal solo Cattaneo sembra averla appresa l’Ascoli, il qua-
le, del resto, l’accettò relativamente tardi. Si sente dunque il bisogno
d’indagare più a fondo il rapporto tra il pensiero storico e linguistico
del Cattaneo e la glottologia ascoliana, anzi la glottologia dell’Otto-
cento in generale: un’indagine necessariamente provvisoria, perché
troppo poco esplorato è ancora l’epistolario dell’Ascoli e troppo super-
ficialmente studiate molte figure del nostro Ottocento; ma, comun-
que, un’indagine che potrà servire di stimolo a nuovi studi. E sicco-
me anche la formazione del Cattaneo linguista non è stata finora
oggetto di alcuna apposita ricerca, di qui dobbiamo rifarci.

1. Il primo scritto di linguistica pubblicato dal Cattaneo è quello sul


Nesso della nazione e della lingua valaca coll’italiana, che uscì negli
«Annali universali di statistica» del 1837.3 Ma la sua composizione,
come il Cattaneo stesso avvertiva in una lunga nota finale, risaliva a
molti anni prima; ed esso era soltanto uno «studio leggiero ed acces-
2
iVedi, tra gli studiosi dell’Ascoli, soprattutto B. Terracini in «Arch. glottol.» XIX, 1923-
25, pp. 137 sg., 141 e in Guida allo studio della linguistica storica, I, Roma 1949, pp. 125, 135;
G. Devoto, Storia della lingua di Roma2, p. 387. Tra gli studiosi del Cattaneo, G. Salvemini, Le
più belle pagine di C. Cattaneo, Milano 1922, pp. v e 258-61 (ma senza specifico riferimento al
sostrato); E. Sestan, introduzione alle Opere di Romagnosi, Cattaneo e Ferrari, Milano-Napoli
1957, p. XXX. Altri contributi saranno citati in seguito.
3
iVol. LII, num. 155, p. 129 sgg.; ripubblicato dal Cattaneo stesso in Alcuni scritti, I, Mila-
no 1846, p. 169 sgg. col titolo Del nesso fra la lingua valaca e l’italiana, e poi in SL, I, p. 209 sgg.
(cfr. {postilla a p. 370 – N. d. C.}), da cui cito. Per un possibile influsso esercitato da questo scrit-
to del Cattaneo sul movimento «italianista» romeno, cfr. C. Tagliavini, Un frammento di storia
della lingua rumena nel sec. xix, in «Europa orientale» VI, 1926, p. 313 sgg.*
*iCfr. il nuovo studio del Tagliavini, Concordanze e analogie fra rumeno e italiano, «Il Vel-
tro» XIII, 1969, p. 241 sgg.
330 X. Carlo Cattaneo e Graziadio Ascoli

sorio» nato in margine a un lavoro più vasto, che riguardava un argo-


mento «più vicino e nazionale», cioè «l’influenza delle invasioni dei
barbari sulla favella italica». Di quest’opera non condotta a termine
il Cattaneo pubblicava, sempre in quella nota del 1837, l’abbozzo o
«tessera dei capitoli», che egli aveva steso «sino dalla fine del 1824»,
cioè appena terminati gli studi universitari.4
Da quell’abbozzo appare evidente il carattere storico generale, e
non puramente linguistico, che l’opera avrebbe avuto. Lo stretto lega-
me con la storia e l’etnografia è un carattere comune a tutta la lingui-
stica del Settecento e della prima metà dell’Ottocento; ma qui esso
appare in forma particolarmente accentuata. I titoli di molti capitoli
accennano ad argomenti di storia giuridica ed economica, assai lonta-
ni dalla linguistica.5 Era insomma uno studio sul passaggio dalla so-
cietà tardo-romana alla società feudale e poi comunale quello che il
Cattaneo, sotto l’influsso del Romagnosi, aveva progettato. Ma men-
tre il Romagnosi tendeva a ridurre la storia della civiltà a storia di isti-
tuti giuridici, e solo marginalmente si interessava di fatti linguistici,
il Cattaneo mostrava già allora un vivo interesse per la lingua come
espressione della nazionalità e come testimonianza delle vicende del-
la storia dei popoli.
Di tale interesse il Cattaneo stesso, in quella nota che abbiamo già
più volte citato, amava sottolineare l’origine personale, autodidatta:
«Vi si era imbarcato – scriveva, parlando di sé in terza persona, e con
un certo tono di affettuosa indulgenza per quei suoi studi giovanili –
non per proposito letterario, ma per mera curiosità destata dal casual
paragone tra alcune lingue a cui si era applicato fin dalla adolescenza.
Dai dizionarii di lingue vive a poco a poco si era aggrappato ai glossa-
rii di lingue morte o quasi appena vissute: all’anglosassone, al gotico,
al franco, all’islandese e ad altre consimili anticaglie; nonché a quelli
dei vulgari dialetti di Svizzera, di Scozia, di Germania. Ciò che era
faticoso allora, è divenuto in questi anni assai facile per le cure che
molti stranieri vi posero». E in realtà anche a Milano, nella città più
«europea» d’Italia, doveva essere molto raro nell’età della Restaura-

4
iSL, I, pp. 405-410. L’articolo sulla lingua valacca fu invece scritto nel 1830; cfr. SL, I,
p. 237: «Ai sette anni ch’erano già corsi nel 1837, quando i redattori degli Annuali di Statistica
s’indussero ad accogliere questo scritto ...».
5
iVedi per esempio i titoli dei capitoli 5-14 della parte IV (SL, I, p. 409).
X. Carlo Cattaneo e Graziadio Ascoli 331

zione il caso di un conoscitore di tante lingue germaniche. Forse sol-


tanto un altro milanese, il conte Carlo Ottavio Castiglioni, l’editore
di Ulfila,6 avrebbe potuto guidare il Cattaneo in quel ramo di studi;
ma non pare che il Cattaneo, pur avendolo conosciuto, sia mai stato
suo intimo.7 Un impulso importante, certo, il Cattaneo dovette rice-
verlo dal suo professore di liceo G. B. De Cristoforis, che gli aveva
«aperto la mente all’idea del medio evo e del vasto mondo asiatico e
ad altre fonti escluse dal circolo degli antichi studi»;8 un impulso,
però, soltanto iniziale.
Il Cattaneo aveva dunque ragione di considerare questi suoi studi
come cosa sua, indipendente da ogni tirocinio scolastico. E tuttavia,
per quel che riguarda certi orientamenti generali, ideologici più che
tecnici, la prima fase della linguistica cattaneiana è assai più legata di
quanto si sia creduto finora al classicismo italiano del Settecento e del
primo Ottocento. Quando il Sestan, nel suo vivace e ben documen-
tato saggio sul Cattaneo giovane,9 afferma che negli studi linguistici
«non lo guidavano le ombre domestiche, le glorie locali dei Cherubi-
ni e dei Gherardini ..., ma lo guidava una sorta di libera personale ispi-
razione che non aveva precedenti nell’ambiente grammaticale-glotto-
logico locale, ma solo nel grande movimento romantico europeo», ha
ragione per ciò che riguarda specificamente il Cherubini e il Gherar-
dini, ma stacca un po’ troppo, come ora vedremo, il Cattaneo lingui-
sta dall’ambiente italiano. Parlare poi, come fanno anche altri studio-
si, di un romanticismo del Cattaneo può essere giusto in quanto ci si
riferisca al romanticismo come «categoria spirituale», e si chiami per-
ciò romantico qualsiasi interesse per le età primitive, per la vita col-
lettiva dei popoli, per il nesso tra lingua e nazione e via dicendo: in
questo senso, il Settecento razionalista è tutto intersecato da corren-

6
iSul Castiglioni cfr. B. Biondelli, Studi linguistici, Milano 1856, p. xv sgg.; A. Ceriani, Sui
lavori gotici di Mai e Castiglioni, in «Rendiconti Ist. Lombardo», classe di Lettere, III, 1866,
p. 23 sgg.
7
iNell’epistolario del Cattaneo il Castiglioni è nominato per la prima volta in una lettera al
Biondelli del 1840 (I, p. 97), poi poche altre volte. Parrebbe che il Cattaneo fosse entrato in rela-
zione con lui attraverso il Biondelli, cioè non prima del ’39. Ma, data la scarsità delle notizie
sul Cattaneo giovane, conviene essere cauti.
8
iCosì il Cattaneo stesso nel «Politecnico» VIII, 1860, p. 520 (= SSG, III, p. 51). Cfr. E. Se-
stan, Cattaneo giovane, in Europa settecentesca e altri saggi, Milano-Napoli 1951, p. 209 sgg.; L.
Ambrosoli, La formazione di C. Cattaneo, Milano-Napoli 1960, pp. 10, 14.
9
iCit. alla nota precedente, p. 242.
332 X. Carlo Cattaneo e Graziadio Ascoli

ti «romantiche», tanto che si è dovuto ricorrere sempre più larga-


mente al termine, suggestivo ma ingannevole, di preromanticismo.10
Ma per il romanticismo come movimento culturale storicamente
determinato il Cattaneo ebbe, come è noto, una decisa ostilità. Sareb-
be quindi preferibile parlare di motivi vichiani, che il Cattaneo assorbì
– prima attraverso Romagnosi, poi attraverso la lettura diretta e la
consuetudine con l’altro vichiano lombardo, Giuseppe Ferrari – e coi
quali seppe correggere certi eccessi razionalistici e antistorici dell’il-
luminismo, senza però accettare gli aspetti teologizzanti del vichiane-
simo e senza mai rinunziare al concetto illuministico del progresso.11
E come fu illuminista in filosofia, in economia, in politica, così fu
classicista in letteratura. La prefazione al primo volume di Alcuni
scritti, le stupende stroncature della Vita di Dante di Cesare Balbo e
di Fede e bellezza del Tommaseo, gli accenni sparsi in tanti altri scrit-
ti, parlano chiaro in proposito.12 Certo, la polemica classico-romanti-
ca che si svolse nei primi anni della Restaurazione fu talmente com-
plessa, dette luogo a una tale varietà di posizioni, a un tale incrociarsi
di ritorsioni polemiche e, talvolta, addirittura a un tale scambio di par-

10
iVedi sopra, pp. 4, 34.
11
iCfr. Cattaneo, Su la Scienza Nuova di Vico (1839), in SF, I, p. 95 sgg. Sul vichianesimo
del Cattaneo – diversissimo da quello degli hegeliani di Napoli, e non perfettamente identico
neppure a quello del suo amico Ferrari – vedi il saggio assai utile, anche se non del tutto esau-
riente, di Alessandro Levi nel volume Il positivismo politico di C. Cattaneo, Bari 1928, p. 39
sgg., e l’introduzione di N. Bobbio a SF, I, p. XI sgg. Cfr. anche Paolo Rossi nell’opera col-
lettiva «I classici ital. nella storia della critica», II, 2a ed., p. 19 sg. Sul suo illuminismo cfr. l’in-
troduzione di F. Alessio alla scelta di Scritti filosofici, letterari e vari, Firenze 1957, e l’articolo
di G. Cottone, C. Cattaneo e il Risorgimento, in «Quaderni di cultura e storia sociale» II, 1953,
p. 71 sgg.
12
iSL, I, pp. 3 sgg., 96 sgg., 114 sgg., 315; II, pp. 148, 252 sg. Le polemiche del 1816-19
sono ricordate dal Cattaneo nella prefazione ad Alcuni scritti con quel tono affettuoso-ironico
che egli ha sempre quando rievoca la propria giovinezza; ma ben chiara è la sua presa di posi-
zione a favore dei classicisti, la quale giunge fino alla rivendicazione della Basvilliana (SL, I, p. 4)
e a un aspro giudizio su A. W. Schlegel e Madame de Staël (ibid., p. 5: «... non mi pareva che
si potessero senza sdegno udire li ammaestramenti che Schlegel e la Staël accompagnavano con
sì arrogante vilipendio della generazione vivente in Italia ...»). Vedi su questo problema i saggi
un po’ disorganici, ma ricchi di giuste osservazioni, di Felice Momigliano, Il classicismo di C. Cat-
taneo e la questione della lingua, in «Riv. d’Italia» XXII, 1919, vol. II, p. 167 sgg., e Il classici-
smo letterario e il positivismo filosofico di C. Cattaneo, in Vita dello spirito ed eroi dello spirito,
Venezia 1928, p. 213 sgg.; e gli scritti del Fubini ripubblicati in Romanticismo italiano 2a ed.,
Bari 1960, p. 187 sgg., insigni per intelligenza critica e finezza di gusto, anche se tendenti a met-
tere un po’ troppo in ombra l’ostilità del Cattaneo al romanticismo (per esempio a p. 199: «Lo
stesso atteggiamento, di distacco e insieme di adesione, si osserva nel nostro autore rispetto alle
idee letterarie del tempo suo, vale a dire del romanticismo ...»).
X. Carlo Cattaneo e Graziadio Ascoli 333

ti fra i due schieramenti, che sarebbe ingenuo credere di poter defi-


nire uno qualsiasi dei partecipanti applicandogli semplicemente l’eti-
chetta di classicista o di romantico. Ed è vero che i romantici del
«Conciliatore», specialmente negli ultimi mesi di vita del periodico,
furono ben diversi dai romantici reazionari tedeschi, tanto da parlare
spesso un linguaggio da illuministi. E tuttavia bisogna pur rendersi
conto dei motivi non episodici, ma sostanziali per cui un Giordani, un
Leopardi, un Cattaneo, che non erano certo dei retrivi, non ritenne-
ro di poter aderire al romanticismo e preferirono militare nel campo
classicista, pur non trovandocisi a loro perfetto agio. Questi motivi
vanno ricercati soprattutto (anche se non esclusivamente) nell’avver-
sione al medievalismo, a quella concezione religiosa della vita che i
romantici, sia pur con diverse sfumature, professavano. Senza dub-
bio l’esigenza di sprovincializzare la cultura italiana, di lottare contro
un patriottismo letterario mummificato in nome di un patriottismo
ben più vivo – il quale non escludeva affatto, anzi richiedeva i contatti
con la cultura europea – costituiva un grande merito dei romantici
lombardi, che li accomunava agli illuministi del secolo precedente, che
faceva del «Conciliatore» il prosecutore del «Caffè». Senonché l’Eu-
ropa verso la quale i romantici del 1816-21 volevano spalancare le
finestre era, anche nei suoi esponenti migliori, ben diversa dall’Euro-
pa settecentesca. Era un’Europa cattolicizzante, che considerava con
disprezzo le ideologie sensiste e materialiste del Settecento e, insieme,
ne temeva la ricomparsa, perché aveva l’oscura coscienza che non fos-
sero poi tanto superate quanto ostentava di credere; che esaltava lo
spirito «popolare», ma lo intendeva in modo assai ambiguo, come
ingenuità e sano attaccamento alle tradizioni locali più che come aspi-
razione democratica. I romantici italiani, con tutto il loro sincerissi-
mo desiderio di libertà politica, di progresso economico e civile, non
chiarirono mai fino in fondo i loro rapporti con l’ideologia conserva-
trice del romanticismo europeo, e per alcuni aspetti ne rimasero suc-
cubi.
Nel campo classicista, quindi, vi erano, sì, degli arcadi perdigior-
no, degli ultrareazionari e perfino degli agenti provocatori del gover-
no austriaco, ma vi erano anche uomini che, a costo di apparire fuori
moda, mantenevano fede ai grandi ideali dell’illuminismo, o se anche
ne avvertivano i limiti, cercavano di superarli in senso ben diverso dai
romantici. Considerati in astratto, illuminismo e classicismo non sono
334 X. Carlo Cattaneo e Graziadio Ascoli

certamente la stessa cosa, anzi sarebbe fin troppo facile dimostrarne


l’inconciliabilità. Ma in quella determinata situazione storico-cultu-
rale, in quanto costituivano entrambi un’antitesi al romanticismo,
vennero spesso a coincidere nelle medesime persone: ciò si verificò
soprattutto nel Giordani, nel Leopardi e nel Cattaneo; in ciascuno dei
tre, s’intende, con caratteristiche particolari.13
Se tra questi classicisti-illuministi si debba annoverare anche Vin-
cenzo Monti, può essere oggetto di molti dubbi finché si guarda al
complesso della sua personalità, così poco consistente dal punto di
vista propriamente politico, così ricca di aspetti «letterari» in senso
deteriore. Ma in un campo specifico, e tuttavia importantissimo per la
cultura italiana di allora, la questione della lingua, quella qualifica gli
spetta di diritto. La polemica contro la Crusca, sostenuta da lui in col-
laborazione con Giulio Perticari e con altri studiosi nei volumi della
Proposta, la polemica contro i dialetti,14 l’esigenza di un «volgare illu-
stre» adeguato alla cultura non solo letteraria, ma scientifica e filoso-
fica di una nazione moderna, costituiscono un suo merito storico di
grandissima portata.15 E proprio queste idee trovarono un appassiona-
to seguace nel Cattaneo, che fin da giovanissimo aveva frequentato il
Monti e la sua cerchia, e che tornò poi sempre a polemizzare contro
il fiorentinismo esclusivo (sia quello arcaizzante della Crusca, sia quel-
lo popolareggiante del Manzoni), contro l’uso dei dialetti in generale,
per una lingua insieme austera e moderna.16
13
iSu questi problemi, a cui accenno qui brevemente, vedi l’Introduzione al presente volume
e i {primi quattro saggi}.
14
iGià prima del Monti (Proposta, I, Milano 1817, pp. XXXVIII, XL), e con ancor più vigo-
re, aveva protestato contro la letteratura dialettale il Giordani: vedi qui sopra, p. 44 sgg.
15
iVedi qui sopra, p. 12 sgg.
16
iSL, I, p. 8: «Nel fatto poi della lingua, la dottrina della popolarità da cui primamente si
presero le mosse, oramai non significa più che si debba agevolare l’intendimento e l’arte della
lingua agli indotti; ma bensì che si debbano raccogliere presso uno dei popoli d’Italia le forme
che, più domestiche a quello, riescono più oscure a tutti li altri. S’intende un’angusta e inutile
popolarità d’origine, non la vasta e benefica popolarità dell’uso e dei frutti»: parole che svelano
benissimo gli equivoci insiti nel concetto romantico di «popolarità» anche fuori del campo lin-
guistico, sebbene, a sua volta, la posizione del Cattaneo non fosse abbastanza premunita contro
un certo paternalismo nel modo di concepire l’istruzione popolare. Cfr. anche SL, I, pp. 115 sgg.,
147, 208, 239 sgg. Sui rapporti del Cattaneo giovane col Monti e col suo ambiente cfr. E. Sestan
(cit. qui sopra, nota 8); L. Ambrosoli, La formazione cit., p. 14 sg. Dove il Cattaneo accentua
in senso illuministico e antipuristico le idee del Monti, è nella difesa dello stile cosiddetto infran-
ciosato; cfr. nell’abbozzo del ’24 (SL, I, p. 410): «pregiudizio vulgare contro lo spirito d’anali-
si e di semplicità calunniato col nome di gallicismo». Qui egli condivide la spregiudicatezza del
Cesarotti.
X. Carlo Cattaneo e Graziadio Ascoli 335

Né tra questa sua attività di linguista militante, normativo, e i suoi


studi di linguistica storica egli scorgeva una separazione. Anzi, consi-
derava lo studio storico delle lingue come il fondamento di una sana
linguistica normativa. Per esempio, lo studio del processo per cui i dia-
letti si vanno a poco a poco unificando in una lingua nazionale avreb-
be potuto suggerire, secondo lui, i mezzi opportuni per proseguire
consapevolmente, programmaticamente (e quindi anche con maggiore
rapidità e coerenza) tale processo.17 Applicazione dei principii lingui-
stici alle questioni letterarie (cioè della linguistica storica alle questioni
di linguistica normativa) è il titolo sotto il quale egli raccolse tre arti-
coletti contro l’abuso di toscanismi e di grecismi dotti e per una rifor-
ma dell’ortografia italiana.18 Nello stesso tempo, lo studio della lin-
guistica storica sarebbe servito a elevare il tono delle discussioni sulla
lingua, a toglier loro quel tanto di ozioso e di accademico che esse ine-
vitabilmente hanno finché rimangono nell’ambito strettamente nor-
mativo: «Dacché gli studi di lingua sono per molte necessarie cagioni
i più popolari di tutti in Italia, e il maggior numero purtroppo degli
studiosi tiene a quelli più che ad altri rivolta la mente, non gioverà
tanto il riprovarli e dispregiarli com’altri fa, quanto il trarli da con-
fini troppo angusti e municipali, estenderli, collegarli coll’istoria e
riconciliarli colla filosofia. Certo non v’è più sicura via per appagare
l’universale desiderio surto fra i dotti di risalire cautamente e fonda-
tamente alle fonti dell’istoria nazionale»: così scriveva nell’articolo
del 1837.19
In realtà, fin dal De vulgari eloquentia, la linguistica normativa ave-
va sempre sentito il bisogno di fare appello a ragioni storiche, di sta-
bilire un rapporto fra il modo in cui la lingua italiana si era sponta-
neamente formata e il modo in cui avrebbe dovuto essere regolata e
sistemata consapevolmente. Un particolare interesse, non puramente
linguistico ma nazionale-culturale, aveva destato il problema dell’in-
17
iSL, I, p. 147: «E coll’arte medesima si può dirigere lo sforzo della popolare istruzione con-
tro i cardini fondamentali di quei dialetti, i quali, essendo segni d’un’origine spesse volte nemi-
ca, perpetuano talora la discordia e la debolezza fra gli abitatori d’una patria comune». Cfr.
Scritti economici, ed. Bertolino, I, p. 336. Per un diverso atteggiamento che altre volte il Catta-
neo dimostra nei riguardi dei dialetti, vedi sotto, Appendice {I}.
18
iSL, I, pp. 238-72. L’abuso di grecismi nel linguaggio scientifico era stato biasimato anche
dal Giordani (X, 378 sgg.). Contro l’ortografia troppo latineggiante del Cattaneo vedi la spiri-
tosa protesta di Carlo Ravizza (Epist. del Cattaneo, I, p. 428).
19
iSL, I, p. 212; cfr. p. 208.
336 X. Carlo Cattaneo e Graziadio Ascoli

flusso delle lingue barbariche sulla formazione del volgare italiano: il


problema stesso, cioè, che appassionava il Cattaneo giovane. Già nel
Quattrocento, mentre Leonardo Bruni, d’accordo almeno in parte con
Dante, riteneva che fin dall’antica Roma il latino e il volgare fossero
coesistiti come due lingue del tutto distinte, l’una intelligibile ai soli
dotti, l’altra parlata dal popolo, Flavio Biondo aveva sostenuto che la
lingua degli antichi romani era stata fondamentalmente una (anche se
con diverse sfumature a seconda del grado di cultura e della condi-
zione sociale dei parlanti) e che il volgare italiano era nato più tardi,
per un inquinamento del latino dovuto prima al gran numero di stra-
nieri confluiti a Roma, poi, in misura assai maggiore, alle invasioni
barbariche.20 Il Bruni vedeva bene lo stretto nesso fra italiano e lati-
no volgare, ma negava ogni evoluzione delle lingue e riduceva quindi
un rapporto di derivazione a un rapporto d’identità statica; il Biondo
poneva molto meglio il problema cronologico, ma attribuiva alla me-
scolanza con le lingue barbariche un peso superiore al dovuto, perché
partiva dal presupposto che una lingua si trasformasse solo per infil-
trazione di elementi esterni, per «barbarismo», e che la perdita della
«purezza» del latino fosse stata la fatale conseguenza della perdita del-
la purezza razziale dei Romani. Da allora le due tesi (italiano = latino
volgare; italiano = latino mescolato con le lingue dei barbari) si erano
sempre trovate di fronte in tutte le discussioni sulla lingua, pur per-
dendo via via un po’ della rigidezza e dell’unilateralità iniziale. Nel
Settecento il contrasto si era riprodotto, a un livello di dottrina e di
consapevolezza storica molto più alto, fra Scipione Maffei e Ludovi-
co Antonio Muratori. Il primo – spinto, oltre che da considerazioni
linguistiche, dall’analogia con fatti paleografici e metrici – aveva riaf-
fermato energicamente che l’italiano è la continuazione del latino vol-
gare.21 Egli non commetteva l’errore di credere a un volgare rimasto
invariato fin dall’epoca romana,22 ma pensava che nella trasformazio-

20
iVedi M. Vitale, Sommario di una storia degli studi linguistici romanzi, nel volume collettivo
Preistoria e storia degli studi romanzi, Milano-Varese 1955, p. 12 sgg.; Riccardo Fubini, La
coscienza del latino negli umanisti, in «Studi medievali», 3a serie, II, 1961, p. 505 sgg.
21
iS. Maffei, Verona illustrata, parte I, libro XI (1731) = vol. II, p. 529 sgg. dell’edizione di
Milano 1825. Sul nesso tra le idee paleografiche, linguistiche e metriche del Maffei vedi l’Ap-
pendice I del presente volume.
22
iEd. cit., p. 548: «Non bisogna, per quanto si è detto, dar nell’estremità, in cui si vede nel
principio delle Prose del Bembo si diede per alcuni altre volte, cioè, di dire che l’Italiana favel-
X. Carlo Cattaneo e Graziadio Ascoli 337

ne del volgare latino in volgare italiano le lingue dei barbari avessero


esercitato un influsso trascurabile; tanto più che, secondo lui, il nume-
ro dei barbari dominatori (Eruli, Goti, anche Longobardi) era stato
assai scarso: «Il numero de’ Barbari che in Italia allignarono, minor
certamente fu, ch’altri non crederebbe ... Non vennero costoro adun-
que in numero che avesse proporzione con que’ milioni di persone che
abitavan l’Italia da un capo all’altro ... Non fu però da’ Longobardi
ripopolata l’Italia di nuovo; e chi l’ha supposto finora, non ha pensa-
to in oltre, come coloro non occuparono già mai l’Italia tutta ...».23 Né
soltanto per ciò che riguarda la lingua, ma anche per la religione, per
le arti, per le fogge del vestire, il Maffei negava o riduceva al minimo
l’influsso barbarico.
C’era senza dubbio in questa posizione del Maffei un pathos pa-
triottico che poteva renderla scientificamente sospetta.24 Non aveva
torto, da questo punto di vista, il Muratori a osservare: «Pudeat for-
tasse aliquos petere e Barbaris gentibus ejusmodi subsidium, non secus
atque nonnullos pudet suae gentis exordia agnoscere a populis Borea-
libus: quasi decus tantummodo sit e Trojanis, Graecis, ac Romanis
sanguinem suum duxisse: quae vetus insania est».25 Effettivamente,
come è noto, la «boria delle nazioni» fu responsabile, fino alla metà
dell’Ottocento almeno, delle più assurde teorie etniche e linguistiche.
Eppure in questo caso specifico il Maffei aveva sostanzialmente visto
giusto; il Muratori, col suo sapiente equilibrio, col suo tener conto di
tutti i fattori della formazione del volgare italiano, con la sua docu-
mentazione molto più ricca, può sembrare superiore al Maffei; ma
finiva col mettere sullo stesso piano gli elementi decisivi e quelli se-

la fosse già fin dal tempo de’ Romani ...». In tale «estremità» – in cui era caduto, come sappia-
mo, il Bruni – ricaddero, dopo il Maffei, Francesco Quadrio (Della storia e della ragione d’ogni
poesia, I, Bologna 1739, p. 42) e ancora Sebastiano Ciampi (De usu linguae Italicae saltem a sae-
culo quinto, Pisa 1817).
23
iEd. cit., pp. 19 sg.; vedi in generale i libri IX e X della parte I della Verona illustrata.
24
iOltre ai libri cit. della Verona illustrata, cfr. la Dissertazione sopra i versi ritmici, in Istoria
diplomatica, Mantova 1727, p. 186, dove il Maffei ironizza su «quell’universal sentimento, per
cui sembriamo immaginarci, che all’entrare in Italia de’ barbari uno spirito lapidifico occupas-
se tosto gl’Italiani, talché impietrissero in un momento tutti, né mai più funzione alcuna per lor
si facesse né animale, né intellettuale, onde debban coloro chiamarsi progenitori nostri, e a que’
pochi stranieri debba generalmente attribuirsi tutto ciò, che in Italia o di buono o di reo da poi
s’è fatto».
25
iMuratori, Antiquitates Italicae medii aevi, II, Milano 1739, col. 1083 sg.
338 X. Carlo Cattaneo e Graziadio Ascoli

condari e col concedere troppo all’influsso germanico. Il suo errore fu


aggravato, anche per astio polemico contro il Maffei, dal Tiraboschi.26
La polemica tra classicisti e romantici rinfocolò la questione e, in
parte, le dette un nuovo significato. Un punto fermo della dottrina
romantica era che la civiltà moderna aveva avuto inizio dalla caduta
dell’impero romano. Il prevalere del cristianesimo sul paganesimo e il
sostituirsi delle nuove lingue nazionali (neolatine o germaniche) alla
lingua latina segnavano, per i romantici, la fine dell’epoca classica e
l’inizio dell’epoca romantica o moderna, della quale era parte inte-
grante il Medioevo.27 Le equazioni lingua = civiltà e religione = civiltà
sembravano confermare questa bipartizione della storia universale.
Quindi anche nella questione dell’origine dei volgari i romantici era-
no portati a negare o a ridurre il più possibile la continuità rispetto al
latino e a dare invece il massimo rilievo all’elemento germanico: a riat-
taccarsi, insomma, alla tesi del Muratori e non a quella del Maffei.28
Giuseppe Nicolini riassumeva le idee di tutta la corrente romantica
scrivendo che, con le invasioni barbariche, «al dispotismo de’ Cesari
successe l’anarchia feudale, alla poesia del politeismo i dogmi del cri-
stianesimo, alla mondana e forte morale dell’antichità la mitica e soave
dei popoli rigenerati nel Vangelo, all’idioma del Lazio la lingua chia-
mata romana e romanza, miscuglio degli antichi dialetti germanici col
latino e germe comune delle lingue meridionali d’Europa, e con tutte
queste cose un nuovo ordine d’istituzioni, di reggimenti, di costume,
di affezioni, di pensieri, d’immagini, di forme».29 Così il vantaggio
26
iI recenti storici della linguistica settecentesca (A. Monteverdi, L. A. Muratori e gli studi
intorno alle origini della lingua italiana, in «Atti e mem. dell’Arcadia», serie 3a, I, 1948, p. 81
sgg.; M. Vitale, Sommario cit., pp. 72 sgg., 78 sgg.) hanno, mi pare, concesso troppo al Mura-
tori e trascurato invece il Maffei. Del Tiraboschi vedi Storia della lett. ital., III, 1, prefazione.
27
iLa netta divisione tra le due epoche, con riferimento alle lingue romanze e al cristianesi-
mo, si trova nelle Vorlesungen über dramatische Kunst und Literatur di A W. Schlegel (I, p. 8 sgg.
ed. Amoretti), assai note in Italia attraverso la traduzione francese del 1814 e poi quella italia-
na del Gherardini (Milano 1817, I, p. 26 sgg.). Più sulla religione che sulle lingue insisteva mada-
me de Staël, De l’Allemagne, parte II, cap. XI. Cfr. Ermes Visconti, Idee elementari sulla poesia
romantica, nel «Conciliatore», ed. V. Branca, I, pp. 363, 391.
28
iViceversa Giacomo Leopardi, classicista, sviluppò nello Zibaldone, con una ricchezza di
esempi e un rigore filologico eccezionale, la tesi della derivazione dell’italiano dal latino volga-
re (cfr. La filologia di G. Leopardi, Firenze 1955, p. 82 sgg.). Alla discussione sul superstrato ger-
manico egli non prese parte direttamente, ma tutte le sue considerazioni portavano a limitarlo
al massimo.
29
iIn Discussioni e polemiche sul romanticismo, ed. Bellorini, Bari 1943, II, p. 119. Cfr. anche
p. 120: romantica è quella poesia che «deriva la sua origine e il carattere dall’epoche in cui si
vennero formando le lingue romanze, e con esse le nuove civiltà».
X. Carlo Cattaneo e Graziadio Ascoli 339

che poteva derivare dal farla finita coi miti della romanità e del primato
italico era neutralizzato dallo svantaggio di dare all’Italia, anzi a tutta
l’Europa moderna un atto di nascita medievale, cioè oscurantista.
Su questo problema della periodizzazione* fece giuste riserve il
Romagnosi, amico, ma amico diffidente appunto perché illuminista,
degli scrittori del «Conciliatore». Il suo articolo Della poesia conside-
rata rispetto alle diverse età delle nazioni30 peccava, certo, di professo-
ralismo, e i romantici, come osserva il Fubini, avevano buone ragioni
per non accettare il goffo termine «ilichiastico» che egli voleva sosti-
tuire a «romantico».31 Ma egli aveva visto bene che, a voler essere
davvero moderni, bisognava sentirsi distaccati dal Medioevo non
meno, forse addirittura più che dall’antichità: bisognava dunque tor-
nare alla tripartizione della storia, separando l’età moderna dalla
medievale,32 e non negando d’altra parte il persistere di tradizioni e
istituzioni romane anche nel Medioevo. Su questo punto i redattori
del «Conciliatore», nonostante tutto il loro progressismo, non consen-
tirono: «L’autore di questo articolo – diceva una nota redazionale –
non ci negherà che, dopo la mescolanza dei popoli del nord co’ tra-
lignati figli de’ romani, si è cominciata una nuova generazione d’ita-
liani, dalla quale noi deriviamo in retta linea; e che non può conside-
rarsi, esattamente parlando, come una nazione d’origine latina».33 Qui
il giudizio di valore era nettamente favorevole ai barbari, che aveva-
no rinsanguato e rigenerato la «tralignata» stirpe romana.
30
iNel «Conciliatore», ed. V. Branca, I, 55 sgg.
31
iM. Fubini, Romanticismo italiano cit., p. 14.
32
iArt. cit., p. 56: «I tre periodi della storia antica, media e moderna sono fra loro distinti
non da una divisione artificiale, ma da effettive rivoluzioni».
33
iIbid., p. 59, n. 1. Cfr. la nota del Berchet in un numero successivo del «Conciliatore»
(ibid., p. 66 n. 2). Tra i romantici del «Conciliatore», colui che più limitò l’influenza germani-
ca sulla lingua italiana fu Ludovico di Breme (cfr. «Conciliatore», ed. Branca, III, p. 153: «non
già, crediam noi, che le genti del settentrione modificassero gran fatto il sistema della lingua
degl’italiani, e facessero molto di più che portarle in buon dato nuovi vocaboli ...»); nelle que-
stioni riguardanti la lingua, del resto, il Di Breme aderiva a concezioni illuministiche assai più
che romantiche; credeva fermamente nell’ideale della grammaire générale (cfr. «Conciliatore»,
III, p. 681) e plaudì agli aspetti più nettamente illuministici della Proposta del Monti. Tuttavia
anch’egli tendeva pur sempre a esagerare il numero dei vocaboli italiani di origine germanica
(III, p. 325: «Tutta la derrata teutonica registrata dal buon Muratori, e la molta ancora ch’ei
tuttavia non registrò»).
*iQuanto alle discussioni sul problema della periodizzazione storica (generalmente trascura-
te dagli studiosi del romanticismo italiano) vedi adesso anche Armando Saitta, Sinistra hegelia-
na e problema italiano negli scritti di A. L. Mazzini, Roma 1968, p. 331 sg., con nuove osserva-
zioni sulla parte che in quel dibattito ebbe il Romagnosi.
340 X. Carlo Cattaneo e Graziadio Ascoli

Il Romagnosi replicava con un nuovo articolo, Delle fonti della cultu-


ra italiana,34 ancor più interessante e più ricco di spunti che saranno poi
sviluppati dal Cattaneo. Accennava – riprendendo l’osservazione già
citata del Maffei – al minor numero dei barbari invasori in confronto
alla popolazione già residente in Italia; ma, soggiungeva acutamente,
non è questo il punto essenziale: «Io non aspiro alla gloria di tessere
alberi genealogici, specialmente dopo che ho imparato che le razze si
naturalizzano nei paesi nei quali sono trapiantate, e realmente cessano
d’essere straniere». L’importante non è «la fisica derivazione degli
odierni italiani», ma «i primordi della moderna civiltà». Ammettiamo
pure che il popolo italiano sia sorto dalla mescolanza di romani e bar-
bari, ma «egli sarà pur vero che in questa mescolanza la parte intellet-
tuale latina avrà recato il lume alla parte intellettuale germanica, e le
avrà impresso il movimento»; la cultura italiana moderna, certo, è diver-
sissima dall’antica, ma «per indurre questa diversità non era necessaria
la visita desolante di que’ signori del nord». Rispetto alla posizione del
Maffei, la novità introdotta dal Romagnosi consisteva nella dissocia-
zione tra la formazione culturale di un popolo e la sua composizione
antropologica: una dissociazione tipicamente pre-cattaneiana.
Nel clima di queste discussioni, dunque, si spiega perfettamente
l’interesse del Cattaneo giovane per i rapporti tra romani e barbari e
per le origini della lingua italiana. E si spiega come egli, classicista e ro-
magnosiano, sostenesse il «piccol numero dei barbari»35 e il limitato
influsso delle loro lingue sul volgare italiano.36 Dall’abbozzo del 1824
risulta che egli intendeva far notare come le parole introdotte dai bar-
bari nella lingua italiana designassero «cose guerresche, politiche
ecc.», mentre quelle designanti «cose religiose, agricole, artigiane,
commerciali» erano tutte di origine latina.37 Anche di questa osserva-
zione si può trovare la fonte nell’ambiente classicista, e precisamente
nella dissertazione del Perticari Dell’amor patrio di Dante, che faceva
parte del secondo volume della Proposta montiana: «Il latino – scri-
veva il Perticari – si mescolò di molte parti barbariche, per cui parve

34
iIbid., p. 201 sgg.
35
iAbbozzo del 1824, parte IV, cap. 2 (SL, I, p. 409). Il corsivo è del Cattaneo.
36
iId., parte III, capp. 5, 8 sgg. (SL, I, p. 408); più esplicitamente nella recensione al Balbo
(vedi qui sotto, nota 40).
37
iSL, I, p. 408, titoli dei capp. 10-11. Cfr. anche p. 409, cap. 17: «Perché la più parte delle
voci straniere passassero nello stile poetico e non divenissero vernacole»: osservazione, questa,
che il Cattaneo riprese nella recensione al Balbo, SL, I, p. 111.
X. Carlo Cattaneo e Graziadio Ascoli 341

oro tutto infuso di fango. Per cui è da fare una considerazione assai bel-
la, e forse nuova: cioè che leggendo le scritture di quell’età, veggiamo
che le parole pertinenti al vivere sono per lo più dei latini e quelle per-
tinenti a’ magistrati ed alla guerra per lo più sono de’ barbari».38
Se il lavoro del 1824 rimase allo stato di progetto, la tesi dello scar-
so numero dei barbari invasori e della scarsità dell’elemento germa-
nico nella lingua italiana fu espressa poi più volte dal Cattaneo: nel-
l’articolo del ’37 sulla lingua romena,39 nella recensione alla Vita di
Dante del Balbo,40 nel saggio Della conquista d’Inghilterra pei Norman-
ni,41 nella Sardegna antica e moderna.42 Con ciò egli partecipava ad una
discussione che si svolse assai viva per tutto l’Ottocento e che, per
quel che riguarda il primo punto (scarsità dei barbari), fu conclusa da
un accurato studio di Carlo Cipolla,43 mentre il secondo punto (quel-
lo linguistico) è stato ancora in tempi recenti oggetto di polemica tra
Clemente Merlo e Walther von Wartburg.44 E su tutt’e due i punti le
idee del Cattaneo hanno avuto piena conferma.
38
iG. Perticari, Dell’amor patrio di Dante, in Monti, Proposta II, 2, Milano 1820, p. 90. Ma
già il Castelvetro, nelle postille al Bembo, aveva notato che le poche parole recate nel volgare
italiano dai barbari significavano «o dignità, o uficio, o cosa nuova trovata o recata da loro: sì
come con le cose nuove sogliono nelle regioni altrui trapassare insieme i vocaboli stranieri»
(Bembo, Le prose ecc. con le Giunte di L. Castelvetro, Napoli 1714, p. 28 sgg.). Dal Perticari
attinse il Foscolo, Saggi di lett. ital. ed. C. Foligno, I, p. 48.
39
iSL, I, p. 220: «Questi fugitivi a cui l’immaginazione degli istorici largì il nome di vinci-
tori dei Romani ...»; e poco sotto: «Fu a quel tempo che avvenne la rivolta universale dei mer-
cenarii, chiamata ampollosamente la gran trasmigrazione dei popoli; e non fu altro che l’ac-
quartierarsi delle orde dei militari stranieri nelle province dell’occidente, ma in così scarso
numero che di loro appena rimase reliquia alquanto al di dentro delle frontiere».
40
iSL, I, p. 109 sgg.
41
iSSG, I, p. 74 sg.
42
iSSG, I, p. 203 sg.; e ancora più volte in altri scritti posteriori.
43
iNei «Rendic. dell’Accad. dei Lincei», serie 5a, IX, 1900, pp. 329 sgg., 369 sgg., 517 sgg.,
567 sgg. Cfr. G. Romano e A. Solmi, Le dominazioni barbariche in Italia, Milano 1940, p. 286,
n. 10 (ma Carlo Troya, Storia d’Italia del Medio-Evo, IV, 1, p. 137, sostenne la tesi opposta a
quella che gli attribuisce il Romano). Né il Cipolla né il Romano menzionano il Cattaneo, seb-
bene egli abbia avuto una parte importante in questa discussione. Fu probabilmente la recen-
sione del Cattaneo alla Vita di Dante (1839) a produrre nel Balbo quel mutamento di opinione
che il Cipolla documenta a p. 389 del suo articolo (cfr. p. 337). Alla «questione longobardica»
appartiene, come è ben noto, anche il Discorso del Manzoni (vedi più oltre, Appendice I), che
però non tratta il problema del rapporto numerico fra romani e barbari. Per le discussioni in par-
te analoghe che, contemporaneamente, si svolgevano in Francia, vedi A. Saitta, introd. alla Sto-
ria della civiltà in Europa di F. Guizot, Torino 1956, pp. XXXIX sg., XLIII sgg.
44
iCfr. C. Merlo, Saggi linguistici, Pisa 1959, pp. 189 sgg., 203 sgg. (già nei «Rendiconti
Accad. d’Italia» 1940 e 1941); T. Bolelli in «Annali della Scuola Normale» XX, 1951, p. 255 sgg.
(specialmente 267 sgg.); B. E. Vidos, Manuale di linguistica romanza, trad. ital., Firenze 1959,
pp. 239 sgg., 257 sgg.
342 X. Carlo Cattaneo e Graziadio Ascoli

Ma oltre alla mescolanza del latino con le lingue germaniche, un’al-


tra mescolanza era stata già da tempo indicata come una possibile
origine dei volgari neolatini: la mescolanza con le lingue dei popoli
conquistati dai romani: osco-umbri, etruschi, celti, ibèri. Oltre al su-
perstrato, diremmo noi oggi, il sostrato. Il merito di aver dato le prime
formulazioni rigorose della teoria del sostrato non solo lessicale, ma
anche fonetico, spetta a studiosi francesi del Cinque-Seicento (Pasquier,
Du Cange) più che a italiani.45 Ciò si comprende bene: gli italiani
potevano in un certo senso considerare la loro lingua come la conti-
nuazione d i r e t t a del latino volgare, mentre un’indagine sulle ori-
gini del francese poneva immediatamente il problema della d i f f e-
r e n z i a z i o n e del latino nei vari idiomi romanzi. Tuttavia anche
in Italia un problema analogo era posto dai dialetti, così diversi l’uno
dall’altro; e anche qui la teoria del sostrato finì coll’imporsi. Con mol-
ta nettezza la enunciava il Maffei, a proposito della diversità fra il dia-
letto bresciano e il veronese: «Che Brescia e Verona da nazioni diver-
se tenute già fossero, e quella da Galli, questa da Veneti, altra
grandissima pruova ne dà tuttora il linguaggio dell’una e l’altra, e la
somma diversità di pronunzia e di troncamenti, e le contrarietà d’ac-
centi e di suoni, e il ritenere i Bresciani ancora non so qual Gallicismo,
uniformandosi co’ dialetti di Bergamo e d’altri Lombardi; dove i
Veronesi hanno la favella ed il suono istesso di Vicenza e di Padova,
che n’è sì alieno. Questo per verità è un testimonio sensibile e ancor
presente; certa cosa essendo che i nostri odierni dialetti non altronde
si formarono, che dal diverso modo di pronunziare negli antichi tem-
pi e di parlar popolarmente il Latino; la qual diversità non altronde
nasceva, che dal genio delle varie lingue che avanti la Latina correva-
no, vestigio delle quali restò pur sempre, ed è quasi indelebile».46 Qui,
come si vede, la teoria ha già la stessa forma che avrà nel Cattaneo e
poi nell’Ascoli: sostrato fonetico, più che lessicale; non una vaga
«mescolanza di lingue», ma la nuova lingua pronunciata secondo cer-

45
iM. Vitale, Sommario (cit. qui sopra, alla nota 20), pp. 40, 64 e passim. Al sostrato accenna
già abbastanza chiaramente, nel Cinquecento, Claudio Tolomei (Vitale, p. 36). Flavio Biondo
non parlava ancora di vero e proprio sostrato, ma di imbarbarimento della lingua latina dovuto
ai molti stranieri confluiti a Roma: fenomeno, questo, che era stato già deplorato da Cicerone
(Brutus, 258) e da molti altri scrittori latini.
46
iVerona illustrata, parte I, lib. I (ed. di Milano 1825, I, p. 26 sg.). Questo importante passo
non è di solito citato dagli storici della linguistica romanza e del concetto di sostrato.
X. Carlo Cattaneo e Graziadio Ascoli 343

te abitudini foniche precedenti, abitudini estremamente tenaci, tan-


to da sussistere tuttora e da costituire perciò una testimonianza viven-
te dell’etnografia dell’Italia preromana.
Il Muratori aveva manifestato nei riguardi della tesi del Maffei
qualche riserva – sappiamo già che egli era affezionato alla tesi del
superstrato germanico –, tuttavia aveva finito coll’attribuire anch’egli
alle lingue preromane un influsso assai notevole sull’origine dei dia-
letti italiani e degli altri idiomi romanzi.47 Da allora in poi, anche in
Italia la teoria del sostrato aveva avuto larga diffusione, sia nella for-
ma eclettica del Muratori (duplice influsso, del sostrato e del super-
strato), sia nella forma esclusiva del Maffei. Perfino uomini che in fat-
to di linguistica avevano solo nozioni vaghe e di seconda mano, come
il Foscolo e il Gioberti, aderirono ad essa e la esposero in modo abba-
stanza esatto.48 Né mancarono dei fanatici che videro senz’altro nei
dialetti italiani la continuazione delle lingue dell’Italia preromana
poco o nulla modificate dall’influsso latino. Già nel Cinquecento, come
è noto, il Giambullari aveva considerato il fiorentino come la conti-
nuazione dell’etrusco; ma ancora nel 1831 Ottavio Mazzoni Toselli
si affaticò a dimostrare che il bolognese non era che il dialetto dei Gal-
li Boi, e che anche negli altri dialetti italiani l’elemento celtico predo-
minava su quello latino.49
In queste storture è facile riconoscere le manifestazioni di ridicoli
orgogli regionali o municipali. Ma anche la teoria del sostrato nella sua
forma seria e ragionevole si nutriva di quel «patriottismo italico», di
quel vagheggiamento dell’Italia preromana, che ispirò e accompagnò
sempre, dal Settecento fino a metà Ottocento, gli studi di antichità
italiche.50 La lingua e la civiltà dell’Italia moderna apparivano come

47
iAntiquitates Italicae medii aevi, II, col. 991 sg., 995 sg., 1017, 1043 sg. (in quest’ultimo
passo è citato il Maffei e sono formulate le riserve a cui accennavamo sopra).
48
iFoscolo, Epoche della lingua italiana, in Saggi di letter. italiana, ed. C. Foligno, Firenze
1958, I, pp. 46 («La lingua romana adattandosi agli organi di popoli di differenti classi e d’a-
bitudini e lingue diverse ...»), 48, 117 sg. («Il suono d’ogni sua parola si cangiò in varie guise
a norma degli organi e dei linguaggi anteriori di ciascun popolo»). Sull’epoca di composizione
(1823-24) e sulle varie vicende di queste lezioni foscoliane, rimaste in gran parte inedite (e per-
ciò ignorate dal Cattaneo giovane), vedi l’introduzione del Foligno. Gioberti, Del primato
morale e civile degli Italiani, II, Bruxelles 1843, pp. 264-66. Diversamente il Leopardi: vedi più
oltre, p. 386.
49
iO. Mazzoni Toselli, Origine della lingua italiana e Dizionario Gallo-Italico, Bologna 1831.
50
iSu questa corrente filoitalica e antiromana, che va dagli etruscomani settecenteschi al
Denina, al Sismondi e al Micali (e, in un ambito più largo, dal Vico del De antiquissima al Cuoco
344 X. Carlo Cattaneo e Graziadio Ascoli

una sintesi dell’elemento latino con l’elemento italico primitivo, o


meglio come un riaffiorare, nel Medioevo, di quel genuino fondo ita-
lico che la conquista romana aveva sommerso. Non è un caso che il
Maffei e più tardi il Lanzi, fautori del sostrato in linguistica, fossero
appassionati di etruscologia e di antichità italiche;51 e nemmeno che,
ancora più tardi, il Gioberti vedesse nella teoria del sostrato un appog-
gio alla sua tesi dell’autoctonia della civiltà italiana e della conserva-
zione del «tipo pelasgico» nel popolo italiano odierno.52 Anche in
Francia, del resto, la teoria del sostrato era sorta nel clima della cel-
tomanìa, cioè di un patriottismo antiromano.
Perciò, quando il Cattaneo nell’abbozzo del suo lavoro giovanile
accennava al «rinvigorimento degli antichi idiomi non affatto spen-
ti» come ad una delle principali cause generatrici dei dialetti italiani,53
e quando nella recensione al Balbo, in maniera più esplicita, faceva
risalire la differenza tra i dialetti stessi alla «differenza delle popola-
zioni primitive, le quali non si sradicarono mai dal terreno nativo, né
dopo i Romani né prima, e assumendo dai Romani il linguaggio latino,
lo modificarono a seconda del loro anteriore idioma etrusco, o celtico,
o veneto, o carnico, e della domestica loro abitudine di pronunciar-
lo»,54 seguiva una opinione largamente diffusa, senza apportare sostan-
ziali modifiche alla formulazione che già ne aveva dato il Maffei.55

e al Gioberti) vedi B. Croce, Storia della storiogr. ital. nel sec. xix, Bari 19473, I, pp. 52 sg., 110
sgg. (solo per l’Ottocento); F. Mascioli, Anti-Roman and Pro-Italic Sentiment in Italian Historio-
graphy, in «Romanic Review» XXXIII, 1942, p. 366 sgg.; A. Momigliano, Contributo alla storia
degli studi classici, Roma 1955, pp. 92 sgg., 104 sgg., 276. Su un testo generalmente poco citato
a questo proposito, il Saggio sopra la filosofica degli antichi Etruschi di G. M. Lampredi (Firenze
1756, pp. 59 sgg.), ha richiamato la mia attenzione Mario Mirri. Mentre il significato storiogra-
fico generale di questo indirizzo è stato messo ottimamente in luce dagli studiosi ora citati, il suo
rapporto con la teoria linguistica del sostrato richiederebbe ancora un’apposita indagine. **
51
iSu differenze e analogie tra il Maffei e gli etruscomani settecenteschi cfr. A. Momiglia-
no, Secondo contributo alla storia degli studi classici, Roma 1960, p. 270. Si noti che nel Ragio-
namento sopra gl’Itali primitivi (in Istoria diplomatica, Mantova 1727, p. 239) il Maffei accenna-
va con un certo favore perfino alla tesi del Giambullari sulla derivazione del fiorentino
dall’etrusco. Quanto al Lanzi, cfr. il suo Saggio di lingua etrusca2, I, Firenze 1824, p. 327.
52
iPrimato (ed. cit. qui sopra, n. 48), II, p. 265. Anche nel Foscolo – sostenitore, come abbia-
mo detto, della teoria del sostrato – si trovano spunti di patriottismo antiromano, come il famo-
so passo delle Ultime lettere d’Iacopo Ortis, 28 ottobre 1797; ma in lui non è del tutto sicuro che
vi sia una connessione tra i due ordini d’idee.
53
iSL, I, p. 408.
54
iSL, I, p. 112.
55
iNon mi pare che si possa dire col Vitale (Sommario cit., p. 120) che nella linguistica ante-
riore al Cattaneo il sostrato era concepito «erratamente, cioè come incontro e scontro di due lin-
X. Carlo Cattaneo e Graziadio Ascoli 345

Più nuova, caso mai, almeno tra gli studiosi italiani, era l’idea di
un influsso negativo esercitato dal sostrato linguistico: i popoli sog-
giogati, costretti a parlar latino coi loro dominatori, avevano sempli-
ficato la morfologia latina più ancora di quanto non l’avesse già sem-
plificata la plebe romana; avevano insomma trasformato il latino in
una sorta di lingua franca: «Tanto il latino quanto il greco e il gotico
si decomposero nel dilatarsi e nel divenire, da idiomi di tribù, lingue
commerciali di vaste popolazioni. Si diradò quella selva lussureggiante
di neutri, di passivi, di medii, d’ottativi, di duali ... Laonde il latino
parlato si dové semplificare, nel propagarsi pel vasto occidente e nel
divenir lingua mercantile di cento rozze popolazioni, dalle foci del Tago
a quelle del Danubio».56
Questa idea, comunque, rimase in secondo piano nel suo pensiero;
quella che continuò a prevalere in lui, come vedremo, fu la valutazione
positiva del sostrato. E neppure in lui mancava un po’ di quel patriot-
tismo italico al quale accennavamo or ora. La sua simpatia per il fede-
ralismo etrusco, il suo rimpianto che esso avesse dovuto soccombere
all’accentramento statale romano,57 il suo insistere sulla continuità
storica delle città italiane dall’epoca preromana fino al fiorire dei
comuni medievali,58 si riconnettono, attraverso il Sismondi e il Micali,
al federalismo repubblicano degli etruscologi settecenteschi. Vedremo
tuttavia che, in linguistica non meno che in politica, il suo federalismo
e il suo italicismo avevano un’impronta particolare.
gue opposte». La formulazione del Maffei che abbiamo riportato qui sopra (p. 342) era sostan-
zialmente uguale a quella enunciata poi dal Cattaneo, e dallo stesso Ascoli.
56
iSL, I, p. 110. Cfr. nell’abbozzo del 1824 (SL, I, p. 406): «Comparazione fra il deperi-
mento della lingua latina, e quello dell’idioma greco e dell’anglosassone»; e ancora nelle Lezio-
ni d’Ideologia (SF, II, p. 338): «Le lingue ... quando si propagano presso un altro popolo impo-
veriscono, perché rimane solo la parte più facile e più necessaria». Questa tesi si trova già
accennata in Adam Smith (trad. francese del Manget, Essai sur la première formation des langues,
Ginevra 1809, p. 64).
57
iNotizie naturali e civili su la Lombardia, X (= SSG, I, p. 350): «Ben altra sarebbe l’istoria
d’Europa ... se gli Etruschi avessero propagato sin d’allora lungo il Reno e il Danubio quel loro
vivajo di città. Il principio etrusco era diverso dal romano, perché federativo e molteplice pote-
va ammansare la barbarie senza estinguere l’indipendenza; e non tendeva ad ingigantire un’u-
nica città, che il suo stesso incremento doveva snaturare, e render sede materiale d’un dominio
senza nazionalità». Cfr. ibid., VI (= SSG, I, p. 343). Un giudizio d’intonazione più favorevole
ai romani si trova nel saggio Dell’evo antico (SSG, I, p. 169); anche qui, tuttavia, il Cattaneo
osserva che «nel popolo romano e nelle sue colonie l’ordine, la disciplina, la legalità non lascia-
rono libero il corso alla natura, come nelle sciolte colonie greche».
58
iÈ questa, come è noto, la tesi del saggio La città considerata come principio ideale delle isto-
rie italiane (1858, in SSG, II, p. 383 sgg.). Cfr. E. Sestan, nell’edizione delle Opere di Roma-
gnosi, Cattaneo e Ferrari, Napoli 1957, p. 998 n.
346 X. Carlo Cattaneo e Graziadio Ascoli

La ricerca che abbiamo condotta fin qui non mira affatto a risolve-
re sic et simpliciter il Cattaneo linguista nei suoi predecessori italiani.
Abbiamo già detto che, col suo interesse per le lingue germaniche e
per il romeno, il Cattaneo dimostrò fin dall’inizio di saper guardare
al di là dei confini nazionali. Aggiungiamo che fin dal suo primo arti-
colo egli aveva ben chiaro in mente il principio che la comunanza d’o-
rigine tra due lingue è dimostrata all’affinità di struttura grammaticale
assai più che da somiglianze di vocaboli, le quali potrebbero essere
dovute ad imprestiti59 e questo principio egli non lo trovava nel Maf-
fei o nel Romagnosi, ma nella nuova linguistica comparata, sorta all’i-
nizio dell’Ottocento per opera di studiosi danesi e tedeschi.60 È però
un fatto che, in questa prima fase del suo pensiero linguistico, il Cat-
taneo si muove ancora prevalentemente in un ambito italiano, nel-
l’ambito della tradizione classicista. Fu il passaggio dagli studi roman-
zi agli indeuropei, avvenuto verso il 1840, ad allargare il suo orizzonte
e ad aprire nuove possibilità di applicazione ai suoi principii linguisti-
co-etnografici.

2. Nel 1839 il veronese Bernardino Biondelli,* dopo aver insegna-


to matematica, geografia e storia in diverse città del Veneto, venne a
stabilirsi a Milano, conobbe il Cattaneo e cominciò a pubblicare nel
«Politecnico», fondato proprio allora, una serie di articoli sulla lin-
guistica indeuropea e sulle lingue germaniche, informando ampia-
mente il pubblico italiano sui risultati raggiunti dalla nuova scienza in
un trentennio di vita.61
Alcuni di questi articoli furono poi dal Biondelli stesso ripubblica-
ti, una quindicina d’anni più tardi, in un volume di Studii linguistici

59
iSL, I, p. 214; cfr. p. 109 sg.
60
iA quell’epoca il Cattaneo non avrà conosciuto direttamente né il Rask, né il Bopp, né la
Sprache und Weisheit der Indier di F. Schlegel (vedi qui sotto, p. 000). Può darsi, invece, che aves-
se letto alcuni scritti di A. W. Schlegel, più diffusi e di carattere più divulgativo (per esempio De
l’étymologie en général, 1827), in cui quel principio era enunciato. Ma questa rimane una sem-
plice ipotesi.
61
iVedi specialmente Sullo studio comparativo delle lingue («Politecnico», II, 1839, p. 161
sgg.); Sull’origine e lo sviluppo della lingua italiana (III, 1840, p. 123 sgg.); e l’ampia recensione
alla Deutsche Grammatik di Jacob Grimm (ibid., 250 sgg.), che contiene alcune critiche sensate,
suggeritegli in parte dal Castiglioni (cfr. p. 266).
*iSul Biondelli vedi l’articolo di Tullio De Mauro di prossima pubblicazione nel Dizionario
biografico degli italiani. **
X. Carlo Cattaneo e Graziadio Ascoli 347

(Milano 1856), di cui l’Ascoli scrisse un’amplissima recensione, cor-


tese nella forma, ma sostanzialmente assai severa.62
Quella recensione ci ha tramandato l’immagine di un Biondelli
divulgatore brillante ma superficiale, pieno di entusiasmo per la nuo-
va linguistica ma estraneo ai suoi motivi ispiratori più profondi, e, per
di più, poco aggiornato anche dal punto di vista meramente biblio-
grafico.63
Non si può dire che questa immagine sia interamente falsa. Biso-
gna, tuttavia, non dimenticare due cose. Prima di tutto, il rimprove-
ro fondamentale che l’Ascoli mosse al Biondelli fu di avere ristampa-
to nel ’56 i suoi vecchi articoli lasciandoli quasi invariati, senza
metterli al corrente coi notevoli progressi che erano stati compiuti nel
frattempo. Rimprovero giusto, dal momento che quegli articoli non
avevano un tale valore intrinseco da meritare di essere conservati nel-
la forma originaria, a testimonianza di una fase degli studi linguistici.
Ma fra il ’39 e il ’45, quando essi apparvero per la prima volta, non si
sarebbe potuto dire che fossero poco aggiornati. Il Biondelli mostra-
va di conoscere, e non di seconda mano, i principali lavori di lingui-
stica comparata apparsi in Europa dall’inizio del secolo; conosceva
e apprezzava anche il Rask, come indeuropeista e come germanista,64 e
ciò è particolarmente notevole, se si pensa quanto tardarono i glotto-
logi tedeschi a riconoscere i meriti del grande studioso danese.
In secondo luogo, il difetto di distinguere in modo eccessivamente
reciso e schematico i tre grandi tipi di lingue – difetto che l’Ascoli
molto giustamente criticava – non era peculiare al Biondelli, ma comu-
ne alla maggioranza dei linguisti ottocenteschi. Da quando Friedrich
Schlegel nella Sprache und Weisheit der Indier aveva distinto nella ma-
niera più assoluta le lingue flessive dalle non flessive – giungendo qua-
si ad attribuire alle prime un’origine divina, alle seconde un’origine
ferina –, da quando suo fratello August Wilhelm aveva sostituito alla
bipartizione una tripartizione, distinguendo i tipi che furono poi chia-
mati isolante, agglutinante e flessivo, e si era diffusa tra i linguisti e

62
iG. I. Ascoli in «Studj orientali e linguistici» III = Studj critici, Milano 1861.
63
iInfluenzata dal giudizio negativo dell’Ascoli è la commemorazione del Biondelli tenuta
da V. Inama («Rendic. Ist. Lombardo» XXI, 1888, pp. 26 sgg.). Cfr. anche B. Terracini in
«Enciclopedia Italiana», s.v.
64
iCfr. la recensione al Grimm (cit. qui sopra, n. 61), p. 255, e l’Atlante linguistico d’Europa,
I, Milano 1841, p. 14.
348 X. Carlo Cattaneo e Graziadio Ascoli

gli etnografi l’idea che questi tre tipi fossero del tutto incommensu-
rabili, che corrispondessero addirittura a tre diverse formae mentis, e
che ogni tentativo di ricondurli a un’origine comune fosse da respin-
gersi a priori come assurdo. Motivi di diversa natura – un legittimo
senso di reazione alle sbrigliate fantasie etimologiche di chi non esi-
tava a far derivare tutte le lingue dall’ebraico o magari dall’olandese;
l’analogia tra la linguistica comparata e l’anatomia comparata cuvie-
riana, che sosteneva la fissità delle specie animali; il colonialismo e il
razzismo incipienti, che asserivano l’inferiorità assoluta ed eterna dei
popoli di colore, o anche degli ebrei, rispetto agli indeuropei – con-
correvano a rafforzare questa convinzione. Un linguista serio (anche
se alquanto pachidermico) come August Friedrich Pott, un linguista
dilettante ma ricco d’ingegno e di fascino come Renan, rimasero sem-
pre convinti dell’assoluta scientificità di quella classificazione tripar-
tita delle lingue e dell’impossibilità di stabilire qualsiasi connessione
fra i tre tipi. È vero che Franz Bopp si era sempre opposto a quelle
schematizzazioni, e che anche Wilhelm von Humboldt se n’era mo-
strato insoddisfatto. Ma la loro pur grandissima autorità non era riu-
scita a imporsi su questo punto; anzi, il Bopp, sostenendo in modo un
po’ troppo meccanico l’origine perifrastica di tutte le forme flessive,
e pretendendo di dimostrare la parentela delle lingue malaico-poline-
siche e caucasiche con le indeuropee, aveva finito col dare armi agli
avversari.
Perciò, quando il Biondelli ripeteva il dogma dell’assoluta diffe-
renza tra le lingue «semplici», «affissive» e «inflessive», e affermava
che «gli idiomi indo-europei formano un regno perfettamente distin-
to sino ab origine da tutti gli altri del globo, il cui genio essenzialmen-
te diverso non ammette possibilità di conciliazione», e, sconfinando
dalla linguistica nel razzismo, sosteneva che «al bel cranio ovale e sim-
metrico della razza caucasica va unito il più ricco corredo di facoltà
intellettuali, mentre la stupidità caratterizza d’ordinario il povero
negro dal cranio deforme e compresso» e attribuiva tali diversità lin-
guistiche e antropologiche all’opera della divina Provvidenza,65 diceva
delle sciocchezze, certo, ma delle sciocchezze che circolavano larga-

65
iVedi Atlante cit., pp. 246 sgg., 249; «Politecnico» II, p. 182; cfr. p. 162: «Si vide che il
linguaggio d’una nazione forma quasi un tipo caratteristico della medesima, del pari che la strut-
tura dello scheletro e il colore della pelle».
X. Carlo Cattaneo e Graziadio Ascoli 349

mente in Europa; e la critica dell’Ascoli, attraverso il Biondelli, col-


piva i suoi maestri tedeschi e francesi.
Assai più accettabili erano le sue idee sulle cause che producono la
differenziazione di più lingue nate dal medesimo ceppo. Egli esclude-
va giustamente l’influenza del clima;66 riteneva, come già molti teori-
ci settecenteschi, che il «vario cangiamento di culto e di costumi»,
potesse ripercuotersi sulle lingue;67 ma soprattutto attribuiva la diffe-
renziazione al sostrato. Per quel che riguardava i dialetti italiani e le
lingue romanze in genere, riteneva senz’altro che questa fosse stata
l’unica causa differenziante: seguiva, dunque, l’opinione del Maffei e
del Cattaneo, e cercò di svolgerla sistematicamente nell’articolo Sul-
l’origine e lo sviluppo della lingua italiana,68 nella breve trattazione sui
dialetti d’Italia scritta per l’Enciclopedia Pomba69 e, infine, nel Sag-
gio sui dialetti gallo-italici (Milano 1853-56) che è forse il suo miglior
lavoro. La teoria del sostrato, del resto, era stata nel frattempo appli-
cata anche alla linguistica indeuropea: Friedrich Schlegel aveva fatto
derivare il greco, il latino, il germanico, lo slavo, il persiano da mesco-
lanza della perfetta lingua sanscrita con le lingue rozze, non flessive,
dei primitivi abitatori dell’Europa e del Medio Oriente;70 il sanscrito
stesso, poi, gli era parso non sufficientemente puro, e quindi egli ave-
va supposto che fosse stato anch’esso contaminato da lingue di popo-
li aborigeni dell’India.71 Si capisce, dunque, come il Biondelli accet-
tasse senza esitazioni una teoria che trovava già sostenuta sia dai
linguisti italiani, sia da uno dei fondatori della linguistica indeuropea.
Gli articoli del Biondelli, probabilmente anche la conversazione
con lui, esercitarono un efficace stimolo sul Cattaneo. Non che egli
abbia imparato molto dal Biondelli: della teoria del sostrato era fau-
tore già da tempo (anche se si può ammettere che il Biondelli abbia
contribuito a rafforzare ulteriormente in lui questa convinzione), e su
altre questioni di linguistica generale e indeuropea egli non tardò,
come vedremo, a dissentire dall’amico. Ma mentre nel ’37 aveva pub-

66
i«Politecnico» II, p. 175.
67
iAtlante cit., p. 250.
68
iCit. qui sopra, nota 61.
69
iRist. in Studii linguistici, Milano 1856, p. 161 sgg.
70
iF. Schlegel, Über die Sprache und Weisheit der Indier, Heidelberg 1808, p. 71 sgg.
71
iIbid., p. 66 sg. Lo Schlegel supponeva giustamente che gli inni vedici, a quel tempo non
ancora studiati, documentassero una fase linguistica anteriore al sanscrito stesso.
350 X. Carlo Cattaneo e Graziadio Ascoli

blicato l’articolo sulla lingua romena col tono di chi dice addio agli stu-
di della giovinezza,72 adesso l’esempio del Biondelli lo spinse a occu-
parsi nuovamente di linguistica, a leggere alcune tra le opere stranie-
re di cui il Biondelli dava notizia, a prender posizione critica di fronte
a quei maestri della glottologia indeuropea che il Biondelli venerava.
Come è noto, il Cattaneo era soprattutto scrittore di recensioni: per
sviluppare le sue idee personalissime aveva bisogno di prendere l’av-
vio da un’opera altrui che gli presentasse un materiale già raccolto e
lo informasse sui risultati fin allora raggiunti. E fu appunto il primo
volume dell’Atlante linguistico d’Europa, in cui il Biondelli esponeva in
forma sistematica idee e notizie già accennate negli articoli del «Poli-
tecnico», ad offrire al Cattaneo l’occasione per il saggio Sul principio
istorico delle lingue europee, cioè per il suo scritto linguistico-etnogra-
fico più ampio e originale.73
Fra le opere di linguistica indeuropea citate e seguite dal Biondel-
li, il Cattaneo rivolse la sua attenzione soprattutto alla Sprache und
Weisheit der Indier di Friedrich Schlegel, al saggio Über den Ursprung
und die verschiedenartige Verwandtschaft der europäischen Sprachen di
Christian Gottlieb von Arndt74 e al Parallèle des langues de l’Europe et
de l’Inde di Frédéric-Gustave Eichhoff.75 Ora, specialmente quest’ul-
timo autore faceva provenire dall’Asia non solo le lingue, ma i popoli
europei: la diffusione delle lingue indeuropee non sarebbe stata che
la conseguenza di grandi migrazioni di genti asiatiche, le quali avreb-
bero invaso un’Europa scarsamente abitata, sopraffacendo con la for-
za del numero le popolazioni autoctone. «Tous les Européens – scri-
veva l’Eichhoff – sont venus de l’orient: cette vérité, confirmée par
les témoignages réunis de la physiologie et de la linguistique, n’a plus
besoin de démonstration ... Longtemps ces tribus errantes, refoulées
par d’autres tribus, ont continué leur marche incertaine à travers les

72
iSL, I, p. 237: «Intanto l’autore si venne affezionando a studii d’indole affatto diversa, sic-
ché non gli sembra omai di poter facilmente ritornare a questi».
73
iSL, I, p. 145 sgg. (già nel «Politecnico» IV, 1841, p. 560 sgg.); con utili note del Sestan
nell’ed. di Romagnosi, Cattaneo e Ferrari, p. 617 sgg.
74
iPubblicato a Francoforte nel 1827, molti anni dopo che era stato scritto. Ch. G. von
Arndt (da non confondersi col noto poeta e pubblicista Ernst Moritz Arndt) aveva collaborato
ai Linguarum totius orbis vocabularia del Pallas.
75
iParigi 1836. L’Eichhoff fu un benemerito divulgatore della linguistica indeuropea, in
Francia, una specie di Biondelli francese.
X. Carlo Cattaneo e Graziadio Ascoli 351

plaines de l’Europe ...».76 Con ciò l’Eichhoff non faceva che seguire
una communis opinio, secondo cui le affinità tra le lingue fornivano
indizi sulla comunanza di origine tra i popoli e permettevano di rico-
struire gli spostamenti che i popoli stessi avevano compiuto in età
preistorica: «cum inter alios usus cognitionis linguarum ille non sit
infimus, ut judicari possit de populorum originibus et migrationibus»,
aveva scritto già il Leibniz.77 L’Asia, poi, era considerata da tempo
come la «cuna del genere umano»,78 e quindi quella teoria delle migra-
zioni indeuropee appariva del tutto naturale.
Ma al Cattaneo, che portava nello studio delle origini indeuropee le
proprie esperienze di studioso delle origini neolatine, quelle grandi
migrazioni di genti asiatiche richiamavano subito alla mente le cosid-
dette grandi migrazioni dei barbari invasori dell’impero romano. E se
queste, secondo la tesi del Maffei a cui egli, come sappiamo, aderiva,
non erano esistite se non nella fantasia degli storici, perché quelle
avrebbero dovuto meritare più credito? «Li astronomi, da quella par-
te di corso in cui possono seguire una cometa, inducono il rimanente
dell’invisibile suo volo nell’immensità dello spazio»:79 allo stesso modo
lo studio della storia medievale – della «barbarie ritornata», avrebbe
detto Vico – poteva servire a rischiarare le tenebre preistoriche80 e a
persuadere che il numero degli asiatici che avevano invaso l’Europa
primitiva era stato piccolo, molto più piccolo di quello degli aborigeni
europei.
I popoli, nel loro complesso, erano stati sempre assai più stazionari
di quanto gli storici amassero credere: «In tutta l’istoria si scambia-
rono troppo sovente i popoli, ossia le moltitudini sottomesse e lavo-
ratrici, colle caste militari che imponevano loro il dominio ed il nome.
Le prime stanno quasi sempre avvinte alla terra nativa; le altre si sten-
dono rapidamente colla vittoria, e spariscono rapidamente nella scon-
fitta. Ma li scrittori superficiali, che s’apprendono ai nomi, vedono

76
iOp. cit., p. 12 sg. Cfr. Biondelli, Atlante linguistico cit., p. 55 sgg.
77
iOpera omnia, ed. Dutens, VI, 2, Ginevra 1768, p. 140.
78
iCosì il Cantù (Storia univ., I, Torino 1838, p. 191), ripetendo un concetto che, special-
mente da Herder in poi, aveva avuto larghissima diffusione.
79
iSL, I, p. 166.
80
iIl Vico, come è noto, riteneva di potere invece «schiarire la storia barbara ultima (il
Medioevo) col ricorso della storia barbara prima»: cfr. Scienza nuova seconda, II, p. 131 sgg. ed.
Nicolini.
352 X. Carlo Cattaneo e Graziadio Ascoli

sempre nelle spedizioni d’una casta o d’un esercito una radicale tra-
sfusione di razze, e le vanno cacciando e ricacciando da luogo a luogo,
come onde di mare».81 Un motivo polemico, questo, che il Cattaneo
non si stancò mai di ripetere con sempre nuove e sempre efficacissime
variazioni ironiche.82
Come spiegare, allora, l’innegabile affinità fra il sanscrito, l’iranico,
l’armeno e la maggior parte delle lingue europee? Qui il parallelismo tra
gli asiatici invasori dell’Europa preistorica e i barbari invasori dell’im-
pero romano veniva meno. Questi ultimi, infatti, scarsi di numero e,
nello stesso tempo, inferiori culturalmente ai romani, non erano riusciti
a imporre nel mondo latino le proprie lingue. Gli «indopersi», invece,
avevano avuto una fioritura di civiltà più precoce che gli europei delle
età preistoriche: in Asia si erano già formati grandi «imperi sacerdota-
li» quando l’Europa era ancora immersa nella barbarie. Perciò le lingue
e le civiltà degli indiani e dei persiani si erano imposte anche senza la
forza del numero, attraverso la fondazione di colonie e la penetrazio-
ne militare, commerciale e religiosa, «sotto forma primamente di mer-
canti, di prigionieri, e di caste guerriere e sacerdotali».83 Qui dunque,
più che il parallelismo con l’insediamento dei barbari nell’impero roma-
no, valeva quello con le colonie greche e romane, o con le colonizza-
zioni effettuate da portoghesi, spagnoli, francesi, inglesi nell’epoca
moderna. L’Europa preistorica era stata, rispetto all’Asia, un po’ quel-
lo che l’America o l’Australia erano rispetto all’Europa.84 E come nel-
la colonizzazione inglese del Nord America avevano avuto larga parte
i profughi per motivi religiosi e politici, così il Cattaneo amava pensa-
re che tra gli indopersi venuti a colonizzare l’Europa ve ne fossero mol-
ti che erano emigrati dagli imperi teocratici dell’Asia in cerca di libertà,
e non solo di spazio vitale o di ricchezze.85
81
iSL, I, p. 160 sg.
82
iCfr., tra i molti esempi che si potrebbero citare, SL, I, p. 163: «Quelle correnti d’uomini,
quei banchi d’aringhe terrestri, che spinti quasi da un fato, vanno perpetuamente camminando dal
Caspio all’Atlantico, se vennero mai, certamente vennero in tempi che l’istoria non conosce, e
sono contrari a tutto ciò che l’istoria conosce».
83
iSL, I, p. 188.
84
iSL, I, p. 166 sg.; II, p. 297; SSG, I, p. 340; SF, III, p. 200. Per idee simili sostenute da
studiosi recenti cfr. V. Pisani in «Paideia» XV, 1960, p. 163 sg.
85
iSL, I, p. 170 («in cerca ... d’asilo a fedi proscritte»); SF, I, p. 376 («in questa nostra Euro-
pa, in questa multiforme colonia fondata da tribù e da sètte che fuggivano dal giogo orienta-
le»). Più ampiamente il Cattaneo sviluppò quest’ipotesi nel saggio Le origini italiche illustrate coi
libri dell’antica Persia (1861: SL, II, p. 291).
X. Carlo Cattaneo e Graziadio Ascoli 353

In verità, molte di queste idee si trovavano già accennate nell’ope-


ra di Friedrich Schlegel. In contrasto con gli storici e i linguisti del
tempo, già lo Schlegel aveva sostenuto che non si dovevano concepire
le migrazioni dei popoli come l’effetto di pure e semplici «pressioni e
spinte in conformità a leggi meccaniche», ma che bisognava indagare
«per quali cause un grande popolo si può frazionare in popoli minori
i quali poi si suddividono e si differenziano sempre più, o, al contra-
rio, la fusione di più popoli diversi può dar luogo ad un popolo del tut-
to nuovo, con una sua lingua e un suo carattere nazionale ben deter-
minato». Aveva anche ammesso che l’ipotesi delle grandi migrazioni
non era l’unica possibile: «Non sempre colonie e migrazioni furono
tutt’uno; un piccolo numero di individui poté spesso bastare a fonda-
re una colonia, se non si trattava di conquistatori e di guerrieri, ma di
sacerdoti che avevano qualche motivo di abbandonare la propria
patria e di recarsi tra popolazioni selvagge per educarle e governarle».
Aveva, infine, accennato anch’egli a profughi per motivi politici o
politico-religiosi: «È mai possibile che una costituzione così oppressi-
va per le classi inferiori (come quella indiana) sia stata imposta senza
il ricorso alla forza e senza un periodo di lotte, le cui alterne vicende
avranno indotto molte tribù ad emigrare? La mescolanza di tali tribù
profughe con le popolazioni selvagge dell’Europa potrebbe aver dato
luogo al popolo slavo: si spiegherebbe così la somiglianza non molto
stretta che le lingue slave hanno con la famiglia delle nobili lingue fles-
sive. Né c’è bisogno di pensare che i profughi appartenessero solo alle
classi oppresse; può darsi che anche altri, i quali avevano serbato un
animo puro, inorriditi per la corruzione, e l’anarchia che certo prece-
dettero la divisione in caste, fuggissero lontano dalla patria, alla ricer-
ca di luoghi ancora incontaminati, dove essi potessero mantenersi
fedeli all’antica pietà».86 Nei riguardi dello Schlegel il Cattaneo, biso-
gna riconoscerlo, non fu del tutto equanime; mise in rilievo solo i pun-
ti di dissenso, non queste pur notevoli concordanze. Rimane, però, il
fatto che nell’opera dello Schlegel questi erano solo accenni più o
meno isolati (inseriti, per di più, in una visione misticheggiante della
preistoria); mentre per il Cattaneo si trattava di un’idea fondamenta-
le, che egli desumeva in primo luogo, come abbiamo visto, dai suoi
studi sul Medioevo e sulle origini delle lingue romanze.
86
iF. Schlegel, Über die Sprache und Weisheit der Indier, Heidelberg 1808, pp. 171, 179, 182.
354 X. Carlo Cattaneo e Graziadio Ascoli

Certo, se per molti storici ed etnografi dell’Ottocento le grandi


migrazioni erano un mito romantico, il principio della «sedentarietà»
delle popolazioni era, d’altra parte, sostenuto dal Cattaneo con rigi-
dezza eccessiva. Il parallelismo stesso con la colonizzazione dell’A-
merica reggeva solo fino ad un certo punto: in America vi è pure sta-
ta una migrazione ininterrotta di un grandissimo numero di europei,
mentre le stirpi indigene sono state in gran parte annientate, e non
hanno lasciato tracce di qualche importanza nelle lingue dei conqui-
statori. Tuttavia il grande merito del Cattaneo fu di aver visto con
assoluta chiarezza che non vi è connessione necessaria tra affinità lin-
guistica e affinità razziale. «Introdurre una lingua non è infondere
nelle vene un altro sangue»:87 come i negri di Haiti, pur rimanendo
antropologicamente ben diversi dai loro padroni francesi, hanno
abbandonato le loro lingue originarie e parlano un dialetto creolo-fran-
cese, così i popoli indeuropei non costituiscono un’unica famiglia in
senso razziale, ma soltanto in senso linguistico.88
La prima idea di questa importantissima distinzione fu suggerita
probabilmente al Cattaneo dal Romagnosi, il quale, come già sappia-
mo,89 aveva tenuto distinto il problema della «fisica derivazione»
degli italiani da quello dell’origine della loro civiltà. Un po’ più tardi
del Romagnosi, verso il 1827-29, Wilhelm von Humboldt aveva soste-
nuto in modo più esplicito la non coincidenza tra lingua e razza; ma
quei suoi pensieri rimasero inediti,90 e il Cattaneo poté solo coglierne
un’eco nel primo volume del Kosmos di Alexander von Humboldt,
uscito nel ’45, quando ormai il suo pensiero su questo argomento era
perfettamente definito.91 Del resto, le enunciazioni cattaneiane sono

87
iSL, I, p. 185.
88
iL’esempio dei negri di Haiti è particolarmente caro al Cattaneo: SL, I, pp. 165, 167; SSG,
I, p. 342; II, p. 101.
89
iCfr. p. 244.
90
iW. V. Humboldt, Über die Verschiedenheiten des menschlichen Sprachbaues, 1827-29, pub-
blicato per la prima volta nelle Gesammelte Schriften ed. Leitzmann, VI, 1, Berlino 1907, p. 111
sgg.; su lingua e razza, p. 196 sgg. Questo scritto non va confuso con l’introduzione all’opera
Über die Kawi-Sprache, Berlino 1836 ( = vol. VII, 1 dell’ed. Leitzmann), che ha un titolo quasi
identico (Über die Verschiedenheiten des menschl. Sprachbaues ecc.) e coincide in molti punti, ma
non in tutti.
91
iNella recensione al primo volume del Kosmos («Politecnico» VII, 1845 = SF, I, p. 220) il
Cattaneo scriveva: «Volentieri vediamo di non esser soli nell’altro principio che communanza di
lingue non prova communanza d’origini, onde altro è linguistica, altro etnografia». Etnografia,
s’intende, nel senso di antropologia, di studio dell’uomo dal punto di vista fisico.
X. Carlo Cattaneo e Graziadio Ascoli 355

più ampie, più dettagliate di quelle stesse di Wilhelm von Humboldt.


Se si pensa, poi, che la confusione tra concetti linguistici e concetti
razziali imperversò nella cultura europea ancora per parecchi decenni
dopo la morte del Cattaneo, per riapparire ancora in tempi recenti a
sostegno delle ideologie più reazionarie, si apprezzerà tanto più il valo-
re di quella rigorosa distinzione. E si apprezzerà anche il fatto che il
Cattaneo, a differenza degli Humboldt e di molti linguisti recenti,
abbia saputo distinguere la linguistica dall’antropologia senza per que-
sto cadere in una concezione idealisteggiante della lingua, senza con-
trapporre schematicamene alla naturalità della razza l’assoluta «spiri-
tualità» del linguaggio.
Anche sul piano puramente linguistico, del resto, il Cattaneo rite-
neva che si fosse troppo insistito sull’unità indeuropea, trascurando
le differenze tra le varie lingue, dovute al sostrato: «Li indagatori,
attenti pur troppo a notar solo ciò ch’è simile e commune, omisero
affatto di appurare ciò che ciascuna combinazione nazionale serbò di
distinto e nativo; e rendendo ragione delle corrispondenze col princi-
pio delle immigrazioni, obliarono il principio dell’indigenità, che solo
poteva chiarire le differenze».92 Al sostrato Friedrich Schlegel attri-
buiva, come abbiamo visto, una funzione negativa, di «corruzione»
del perfetto organismo grammaticale del sanscrito. Il Cattaneo inve-
ce, pur riconoscendo anch’egli che il sanscrito e l’iranico avevano una
struttura morfologica più perfetta, non vedeva affatto nella loro com-
mistione con le lingue dell’Europa primitiva una deplorevole «perdita
di purezza», ma un innesto fecondo. Al pari degli Schlegel e di W. von
Humboldt, egli era convinto che le lingue, a seconda della loro mag-
giore o minore ricchezza di possibilità espressive, promuovessero o
inceppassero lo sviluppo intellettuale dei popoli che le parlavano.93 Ma
mentre gli Schlegel, misticheggianti e reazionari, vedevano il non plus
ultra nella lingua e, corrispettivamente, nella «sapienza» degli india-
ni, il Cattaneo aveva ben altri ideali: la civiltà non era per lui sapien-
za contemplativa, ma attività modificatrice della natura, scienza che
si traduce in progresso economico, vita politica che tende a costituire
associazioni sempre più vaste senza però introdurre un’uniformità

92
iPrefazione al vol. II di Alcuni scritti = SSG, II, p. 104. Cfr. SL, I, p. 187; SF, I, p. 153;
SSG, I, p. 341.
93
iSL, I, p. 190.
356 X. Carlo Cattaneo e Graziadio Ascoli

desolante, senza violare i diritti dei singoli gruppi minori. Perciò tra i
grandi «imperi asiatici» e la «prisca Europa» con la sua varietà di
popoli e di lingue, egli simpatizzava per quest’ultima, meno civile, ma
racchiudente in sé i germi di una futura civiltà superiore: «Come sem-
pre avvenne, quanto le genti profughe perdevano in dottrina e civiltà
tra le selve dell’occidente, compensavano con altrettanta libertà. Men-
tre nella vasta Irania la disciplina sacerdotale dei magi e la disciplina
militare delle caste fedeli domavano sempre più le volontà e compri-
mevano le menti in una ferrea forma: nell’Europa, e più nelle sparse
isole e penisole di Grecia e d’Italia, la varietà delle stirpi, e le stirpi
nuove che via via se ne generavano, barbare o semibarbare, dotte o
semidotte, e il commercio colle genti maritime e colle città di vario lin-
guaggio da loro fondate, e più libere sempre della madrepatria, face-
vano perpetuo il conflitto e il fermento delle idee di qua e di là rac-
cozzate. Indi fra stati vicini, e fortunatamente angusti, atti alla difesa,
impotenti alla conquista, assidue guerre; fra le quali li autorevoli era-
no costretti a tollerare i prodi e i generosi, e farli partecipi dei beni e
del comando; ch’è quanto a dire della libertà».94
Egli estendeva così a tutta l’Europa primitiva quelle qualità (fede-
ralismo, amore della libertà, resistenza all’accentramento oppressivo)
che gli esaltatori dell’Italia primitiva attribuivano, come abbiamo
visto, agli etruschi e ai sanniti. Il «patriottismo italico» (e antiroma-
no) si allargava a «patriottismo europeo» (e antiasiatico), mantenen-
do immutate certe caratteristiche. Inerente a entrambi i patriottismi
era la valutazione positiva del sostrato, il quale rappresentava appun-
to il principio della varietà linguistica, non cancellata dall’azione uni-
ficatrice esercitata dal popolo colonizzatore.
Tuttavia qui, nell’ambito indeuropeo, si rivelavano anche, più chia-
ramente che in quello romanzo, le differenze tra la posizione del Cat-
94
iSL, II, p. 291 (Le origini italiche illustrate coi libri sacri dell’antica Persia, 1861). Per il con-
trasto Asia-Europa, cfr. anche SF, I, pp. 149, 170, 376 sg. Già il Giordani, in un articolo pub-
blicato nella «Biblioteca Italiana» del 1816 ( = Opere, X, 22), aveva scritto: «Né io intendo che
sia da fare gran conto di quelle società magiche e teurgiche, le quali mostravano niente curare gli
uomini e la presente vita; nella quale però volevano ogni copia di ricchezze e di onori; e con
pochissima fatica vendevan caro oscure dottrine, delle quali dicevano cogliersi frutto in un altro
mondo. Ciò aveva grande spaccio in Asia; dove gl’intelletti dormivano e volentieri sognavano:
ma nella più culta parte d’Europa tanto era alcuno in concetto di valente uomo, quanto si dimo-
strava non ozioso ma utile cittadino». Anche se nel Giordani c’è una polemica anticlericale più
scoperta, la contrapposizione fra Asia ed Europa è molto simile ai passi citati del Cattaneo, e
autorizza a supporre che questi abbia tratto almeno uno spunto da quell’articolo giordaniano.
X. Carlo Cattaneo e Graziadio Ascoli 357

taneo e quella degli «italomani» suoi contemporanei. Costoro attri-


buivano agli antichi italici una civiltà autoctona, immune da influssi
greci e orientali; nella conquista romana dell’Italia vedevano soltanto,
o prevalentemente, un male; e pur esaltando la costituzione politica
federale degli etruschi e dei sanniti, consideravano le genti italiche
come varietà di un popolo sostanzialmente unico, proiettavano cioè in
quel lontanissimo passato il concetto di nazione italiana (il Mazzoldi,
poi, che di tutti gli italomani era il più fantasioso e antistorico, attri-
buiva addirittura agli italici primitivi una forma di governo monar-
chico-costituzionale).95 Invece il Cattaneo, riprendendo una tesi del
Romagnosi96 e integrandola in base ai risultati della linguistica indeu-
ropea, sosteneva che in origine le genti italiche erano diversissime di
stirpe e di lingua, che la loro unità era il risultato (non ancora piena-
mente raggiunto) di un lunghissimo processo storico, e che la loro
civiltà era sorta dalla fusione tra elemento indigeno e colonizzazione
«indopersa» – e, più tardi, conquista romana.97 Perciò, alla fine del
saggio Sul principio istorico delle lingue europee, dopo aver polemizza-
to contro l’indomania schlegeliana, egli teneva a dichiarare anche il
proprio dissenso nei riguardi della «boria nazionale» del Mazzoldi;98
perciò anche più tardi negava fede ai «dotti sogni del Mazzoldi e del
Gioberti intorno ai Pelasghi»99 e criticava l’eccessivo zelo del Micali
nel «rivendicare l’istoria d’Italia dalle alterazioni greche».100
95
iA. Mazzoldi, Delle origini italiche, Milano 1840. Cfr. B. Croce, Storia della storiogr. ital.
nel sec. xix, Bari 19473, p. 53 sg.
96
iCfr. G. D. Romagnosi, Esame della Storia degli antichi popoli italiani di G. Micali, in rela-
zione ai primordi dell’italico incivilimento, nella «Biblioteca Italiana» LXIX, 1833, p. 285 sgg.;
LXX, pp. 38 sgg., 161 sgg.: articolo prolisso e confuso, che tuttavia ebbe il merito di contrap-
porsi alla tesi dell’autoctonia.
97
iSSG, I, p. 341; SL, I, pp. 190-92; II, p. 265 sgg. Ma già nell’abbozzo del 1824 (vedi qui
sopra, p. 330) il Cattaneo aveva scritto: «I primi Itali furono di varie stirpi, e di varie favelle, e
tutte miste» (SL, I, p. 406).
98
iSi sa che contro il Mazzoldi polemizzò esplicitamente il Bianchi Giovini (Sulle origini ita-
liche di A. Mazzoldi, Milano 1841). Ma non si è notato che anche la chiusa del saggio del Cat-
taneo («A questo grande e non difficile studio dei dialetti devono concorrere tutti gli studiosi
delle diverse parti d’Italia, non per boria nazionale, non sull’arbitraria traccia d’Atlantidi disfat-
te e rifatte ...») contiene un’allusione al Mazzoldi, il quale aveva appunto identificato l’Italia
antichissima con l’Atlantide.
99
iEpist. III, p. 192 (a G. M. Cattaneo, 1° settembre 1859): «Non posso far gran conto dei
pochi dotti sogni del Mazzoldi e del Gioberti intorno ai Pelasghi. Credo che l’idea ch’essi si fan-
no della primitiva unità dell’Italia contrasta a tutto quel poco che possiamo sapere». Cfr. la let-
tera del Giordani al Gussalli, 20 luglio 1846 (VII, 169): «L’opera del Mazzoldi è per me un labi-
rinto, nel quale mi affatico invano, e mi perdo».
100
iSL, II, p. 279.
358 X. Carlo Cattaneo e Graziadio Ascoli

In fondo, l’indomania e l’italomania (concezioni entrambe nostal-


giche e negatrici del progresso) si accordavano nel giudicare sfavore-
volmente gli incontri di genti, di lingue e di culture diverse, mentre
per il Cattaneo la civiltà aveva origine proprio da questo superamen-
to di angustie particolaristiche attraverso il «commercio» (economico
e culturale) dei popoli. «Li arbori primitivi non danno, senza innesto e
per mera forza di tempo, altre frondi e altre frutta che non comporti
la loro radice. Il primo motivo alla trasformazione progressiva d’una
società, ossia d’una tradizione, è il fortuito contatto d’un’altra tradi-
zione e d’un’altra società. Messe in commercio per qualsiasi modo le
due opinioni tendono a riassumersi in qualche compatibile forma, e
perdono entrambe la nativa semplicità del concetto. Il Cabailo, tratto
nel consorzio musulmano, non diviene al tutto arabo; ma la sua sup-
pellettile mentale non è più così povera come nel Numida suo proge-
nitore».101
Questa concezione implicava anche il riconoscimento della positi-
vità delle guerre e delle conquiste, il superamento del geloso indipen-
dentismo di un Sismondi o di un Micali o di un Vincenzo Cuoco, ma,
nello stesso tempo, l’esigenza che la conquista non fosse distruzione
della civiltà dei vinti, bensì fusione tra vincitori e vinti. Di qui, per
esempio, la tensione drammatica di una famosa pagina del saggio sul-
la Conquista d’Inghilterra, in cui lo scrittore è combattuto tra la con-
sapevolezza che il soggiogamento delle «innocenti tribù primigenie» è
un momento necessario del progresso e la ribellione contro un troppo
facile giustificazionismo storico.102 Di qui anche il suo complesso
atteggiamento nei riguardi del colonialismo, che egli condannava in
quanto «conquista e rapina» e tentava di giustificare solo in quanto
capace di rompere le «immobili tradizioni» dei popoli extraeuropei, di
suscitare in loro nuove energie autonome che si sarebbero alla fine
rivolte contro il colonialismo stesso.103 Così anche in linguistica, da un

101
iSSG, II, p. 112. Cfr. anche ibid., p. 98: «Il ripetere ogni principio di civiltà sia solo dal-
li aborigeni, sia solo dalli alienigeni, ripugna egualmente al corso universale e perpetuo dell’i-
storia». E sull’utilità che la mescolanza delle stirpi arreca non solo alla civiltà, ma anche al
miglioramento fisico del genere umano, vedi Scritti economici, ed. Bertolino, II, p. 364.
102
iSSG, I, p. 68 sg.: vedi anche la chiusa del medesimo saggio, p. 123 sg., con l’accenno alla
guerra franco-algerina; e nota che, mentre a p. 109 il Cattaneo rimprovera al Thierry di essere
«troppo infervorato pei vinti», nella chiusa finisce col dargli ragione.
103
iVedi specialmente SF, I, p. 377; e anche SL, II, p. 342, dove è ripresa la polemica con-
tro il colonialismo francese (cfr. nota precedente).
X. Carlo Cattaneo e Graziadio Ascoli 359

lato il Cattaneo esaltava l’«opera assimilatrice» della civiltà che a poco


a poco elimina i dialetti, dall’altro incitava a «raccogliere con pietosa
cura tutte queste rugginose reliquie», queste memorie «di quella pri-
sca Europa che non ebbe istoria, e non lasciò monumenti».104 E, in
linguistica come in politica, egli combatteva il nazionalismo da due
direzioni opposte: in nome dei diritti delle regioni e delle città, delle
«piccole patrie» minacciate dall’accentramento, e in nome di aggre-
gazioni più vaste, super-nazionali, in cui si sarebbe realizzato l’affra-
tellamento dell’umanità.

Uno dei motivi principali dell’ostilità dei classicisti italiani verso la


linguistica indeuropea era la comunanza di origine che questa affer-
mava tra latini e germani. Anche coloro che non credevano all’autoc-
tonia della primitiva civiltà italica, esigevano però un’origine nobile:
erano quindi disposti ad ammettere che la lingua latina fosse figlia o
sorella della greca o magari dell’ebraica, ma non delle lingue dei bar-
bari! D’altra parte, le esagerazioni di alcuni linguisti tedeschi, i quali
volevano dimostrare che la loro lingua aveva un’affinità particolar-
mente stretta con la greca o con la latina, non potevano che accrescere
la diffidenza dei dotti italiani.105 Si riproduceva, insomma, nei riguardi
del legame preistorico tra romani e barbari quello stesso atteggiamen-
to antitedesco che aveva già spinto il Maffei e i classicisti suoi segua-
ci a negare l’influsso barbarico sulla lingua e sulla civiltà italiana: con
la differenza che la tesi del Maffei, quali che fossero i suoi motivi ispi-
ratori, aveva rispondenza nei fatti, e i negatori della linguistica indeu-
ropea invece avevano torto. Il Cattaneo si rendeva conto che l’affinità
linguistica tra la «gentile stirpe italogreca» e i «barbari delle selve bo-
reali» era incontestabile;106 e tuttavia il suo classicismo continuava,
anche nell’ambito indeuropeo, a farsi sentire. Ai greci e agli italici egli
assicurava un diritto di primogenitura: secondo lui, infatti, la colo-
nizzazione «indopersa» non era penetrata in Europa per via di terra,
attraverso le pianure sarmatiche, ma per via marittima: i popoli medi-
terranei erano stati i primi ad accogliere i principii linguistici e cultu-
rali asiatici, e a trasmetterli poi ai Celti, ai Germani, agli Slavi. «Se
poniamo l’accesso dell’Europa, non per le arene e le paludi, a quel
104
iSL, I, p. 191. Vedi anche più oltre, Appendice {I}.
105
iCfr. La filologia di G. Leopardi, Firenze 1955, p. 225 sgg.
106
iSL, II, p. 267.
360 X. Carlo Cattaneo e Graziadio Ascoli

tempo geologicamente inaccessibili, del Volga e del Tanai, ma per l’El-


lesponto e le apriche riviere del Mediterraneo, ne indurremo che le
ultime terre a cui dovevano pervenire le propagini dell’incivilimento
orientale, erano appunto le rive dell’Atlantico, del Baltico, del Mar
Bianco, e la lista che giace tra il Volga e gli Urali. Ed è appunto in
quell’estremo contorno dell’Europa che troviamo tuttora superstiti
quelle lingue, le quali, o come la basca, la finnica, la samoieda, non si
assimilarono le inflessioni indopersiane; o come la cambrica e la gaeli-
ca, non se le assimilarono così profondamente, da perdere le tracce
d’una primigenia struttura ben diversa».107
Come si vede da queste ultime parole – e da altri passi analoghi108 –,
egli considerava il celtico come una lingua indeuropeizzata solo par-
zialmente e superficialmente: d’accordo in ciò con l’erronea opinione
di Friedrich Schlegel.109 E verso i Celti manifestò spesso una curiosa
antipatia, raffigurandoli come un popolo superstizioso e teocratico,
perturbatore della serena civiltà classica, precursore del Medioevo.110
Ma anche nei riguardi del carattere indeuropeo delle lingue germani-
che esprimeva riserve e limitazioni; riteneva che, degli elementi indeu-
ropei che si riscontrano nelle lingue germaniche, ben pochi risalissero
alla preistoria, e che i più fossero da attribuirsi ai contatti militari e
commerciali dei Germani con l’impero romano, o ad epoca ancor più
recente;111 e così cercava di ridurre a imprestiti greci la maggior parte
degli elementi indeuropei delle lingue slave.112 Si nota insomma nel
Cattaneo uno sforzo – dovuto, appunto, al pregiudizio classicista – di
far apparire i Celti, i Germani e gli Slavi come gli ultimi arrivati nel

107
iSL, I, p. 170 (cfr. p. 186). A una corrente migratoria Asia minore-Grecia-Italia aveva
accennato anche F. Schlegel, Über die Sprache u. Weish. der Indier cit., p. 187; ma gli slavi e i ger-
mani egli li faceva arrivare dall’India in Europa per via di terra, e supponeva che essi fossero sta-
ti indotti a migrare dalla leggenda del monte Meru e della «hohe Würde und Herrlichkeit des
Nordens» (p. 193 sg.). Su questa ipotesi schlegeliana il Cattaneo non si stancò di ironizzare:
SL, I, 163 sg., 174, 183.
108
iCfr. specialmente SL, I, p. 178 sg.
109
iCfr. Über die Sprache u. Weish. der Indier cit., pp. 3 sg., 50, 81 sgg. Il Rask stesso arrivò
a convincersi solo assai tardi del carattere indeuropeo del celtico: cfr. H. Pedersen, Linguistic
Science in the Nineteenth Century, Cambridge Mass. 1931, p. 57. La dimostrazione decisiva fu
data da Bopp, Die Celtischen Sprachen ecc. «Abhandl. Berl. Akad.» 1838. Il Cattaneo modificò
in parte la sua opinione alcuni anni dopo, quando ebbe letto l’opera di Heinrich Leo, Die Mal-
bergische Glosse, Halle 1842: vedi il saggio Su la lingua e le leggi dei Celti in SL, I, p. 193 sgg.
110
iVedi soprattutto il cap. XI delle Notizie naturali e civili su la Lombardia (SSG, I, p. 350 sgg.).
111
iSL, I, pp. 179-83; cfr. p. 204.
112
iIbid., p. 183 sg.
X. Carlo Cattaneo e Graziadio Ascoli 361

processo di indeuropeizzazione, come i parenti poveri (e parenti solo


alla lontana) dei Romani e dei Greci. Viceversa, nell’intento di stabi-
lire legami particolarmente stretti e precoci fra i popoli mediterranei
e la civiltà indoiranica, egli non rinunciava a utilizzare l’equivoco e
screditato nome di Pelasgi, facendone appunto i mediatori fra l’O-
riente e la Grecia e l’Italia.113

3. Confrontata con l’indeuropeistica «ufficiale» che si andava costi-


tuendo fra il ’40 e il ’60, quella del Cattaneo appare insieme più arcai-
ca e più moderna. Più arcaica perché egli era ancora estraneo a quel
lavoro di p r e c i s a z i o n e della parentela linguistica indeuropea,
di ricostruzione delle forme originarie comuni e delle varie fasi di dif-
ferenziazione e di sviluppo delle singole lingue, che, iniziatosi poco
dopo il ’30 con la Vergleichende Grammatik del Bopp e (nel campo
fonetico) con le Etymologische Forschungen del Pott,114 doveva poi tro-
vare una sistemazione nel Compendium dello Schleicher. Il Cattaneo
apparteneva ancora (con un certo ritardo) alla fase precedente, nella
quale ci si era preoccupati soltanto di riconoscere la parentela tra le
lingue indeuropee, di indicarne un certo numero di prove morfologi-
che e lessicali, e di lanciarsi poi subito in ricostruzioni storico-etno-
grafiche o in ipotesi glottogoniche. Questa mancanza di approfondi-
mento in sede propriamente linguistica si nota soprattutto nelle
considerazioni, che abbiamo ora ricordato, sugli elementi indeuropei
del celtico, del germanico e dello slavo. Ma anche quando sono giuste,
le osservazioni linguistiche del Cattaneo sono sempre rapide, pura-
mente riassuntive o esemplificative: un vero e proprio interesse «auto-
nomo» per la comparazione linguistica in lui manca.
Ma, nello stesso tempo, il Cattaneo anticipa per alcuni aspetti le cri-
tiche che alla ricostruzione genealogica dell’indeuropeo muoveranno
linguisti come lo Schuchardt, Johannes Schmidt, il Kretschmer o addi-
rittura, in forma esasperata, il Marr e il Pisani.* Egli concepisce, come
113
iIbid., pp. 153, 175; SSG, I, p. 347. S’intende che il Cattaneo, come più o meno tutti i lin-
guisti del suo tempo, riteneva che tra greco e latino vi fosse, all’interno della grande famiglia
indeuropea, un’affinità particolarmente stretta.
114
iDi entrambe queste opere il primo volume uscì nel 1833. Né il Bopp né il Pott, e tanto
meno lo Schleicher, sono mai citati dal Cattaneo, neppure nei suoi ultimi scritti di argomento
linguistico-etnografico.
*iFra i critici della ricostruzione genealogica dell’indeuropeo si aggiunga il Trubeckoj (cfr.
Lepschy, rec. cit., p. 167, n. 4).
362 X. Carlo Cattaneo e Graziadio Ascoli

abbiamo visto, la parentela linguistica non come identità di origine,


ma come il risultato di un progressivo avvicinamento dovuto a con-
tatti politici, economici e culturali. L’unità indeuropea è per lui più
una meta finale (non ancora raggiunta) che un punto di partenza: «Le
lingue vive d’Europa non sono le divergenti emanazioni d’una primi-
tiva lingua commune, che tende alla pluralità ed alla dissoluzione; ma
sono bensì l’innesto d’una lingua commune sopra i selvatici arbusti
delle lingue aborigene, e tende all’associazione ed all’unità ... Non è
che una lingua madre si scomponga in molte figlie; ma bensì più lin-
gue affatto diverse, assimilandosi ad una sola, divengono affini con
essa e fra loro; e per poco che l’opera si continui, o a più riprese si rino-
vi, divengono suoi dialetti, e infine mettono foce commune con
lei».115
Ciò lo portava ad assumere una posizione sua propria nel dibattito,
allora vivissimo, sulla monogenesi o poligenesi del linguaggio. Al mono-
genismo egli era evidentemente contrario: i passi che abbiamo ora cita-
to lo dimostrano. Ma era anche contrario a quel tipo di poligenismo alla
Schlegel (e alla Biondelli) che consisteva nel separare con tratti marca-
tissimi pochi tipi linguistici fondamentali, da ciascuno dei quali sareb-
bero germogliate molte lingue-figlie.116 Il Cattaneo supponeva invece
un grandissimo numero di lingue primitive, tante quante erano le pri-
mitive tribù. A mano a mano che le tribù si erano unite in aggregati più
vasti, anche le lingue si erano ridotte di numero. Gli ispiratori di que-
sto poligenismo cattaneiano sono Epicuro, Vico e, più vicini nel tem-
po, Cesarotti e Romagnosi.117 Ma anche qui, come già a proposito del-
la dissociazione tra lingua e razza, dobbiamo notare che nessuno prima

115
iSL, I, pp. 190 sg. Cfr. p. 202: «Pare che queste affinità delle lingue siano cose di fatto
istorico e posteriore, e non d’origine primitiva»; e SSG, I, p. 341.
116
iL’Arndt (op. cit. sopra p. 258), p. 16, esprimeva un’opinione assai diffusa scrivendo: «Es
ist wahrscheinlich ... dass die sämmtlichen Sprachen der jetzigen Welt ... weder von einer ein-
zigen Ursprache, noch von einer sehr grossen Zahl Ursprachen abstammen».
117
iM. Cesarotti, Saggio sulla filosofia delle lingue, parte I, cap. 1: «Una lingua nella sua pri-
mitiva origine non si forma che dall’accozzamento di varj idiomi, siccome un popolo non si for-
ma che dalla riunione di varie e disperse tribù». Romagnosi, postille a Robertson, Ricerche sto-
riche sull’India antica, trad. ital., 3a ed., Prato 1838, p. 366: «Egli è certo che le tribù ridotte in
principati, e indi in grandi monarchie, ordinate a civiltà, e non semplicemente raccozzate dalla
conquista, si fondono così l’una nell’altra, che alla fine parlano, o almeno scrivono, una lingua
comune, la quale viene intesa universalmente, benché si conservino vernacoli locali. Quanto più
una grande nazione vive unita, e quanto più antica è la coltura e la convivenza civile, tanto
più la differenza dei linguaggi primitivi va dileguandosi, e prevale una comune favella».
X. Carlo Cattaneo e Graziadio Ascoli 363

del Cattaneo aveva sviluppato così ampiamente questo pensiero; nes-


suno, inoltre, si era trovato a doverlo sostenere contro avversari così
agguerriti come i fondatori della linguistica indeuropea.
Tra le molte lingue primitive il Cattaneo ammetteva che vi fossero
state già alcune somiglianze, dovute, però, non ad un’origine storica
comune, ma a quella che più tardi lo Schuchardt avrebbe chiamato
Elementarverwandtschaft: «Da per tutto gli uomini primitivi, con istin-
ti imitativi più o meno simili, e con organi vocali più o meno simili,
imitarono suoni naturalmente simili, che ferivano organi di più o
meno eguale sensibilità ... La chiave di questa simiglianza primigenia
non è a cercarsi nell’Asia o nell’Africa, ma nella natura umana».118 Di
questo genere erano, per esempio, le somiglianze tra latino ed ebrai-
co, o tra lingue americane ed europee.
Questo poligenismo, a differenza di quello schlegeliano, non am-
metteva che fossero esistite lingue perfette fin dall’inizio. Tutte le lin-
gue avevano avuto origini umili, origini «ferine». Perciò, mentre gli
Schlegel – seguiti, come abbiamo detto, dalla maggioranza dei lingui-
sti ottocenteschi – sostenevano che le lingue flessive avevano posse-
duto fin dall’origine la loro complessa struttura grammaticale, il Cat-
taneo simpatizzava per la cosiddetta teoria agglutinante, secondo la
quale tutte le lingue erano state originariamente monosillabiche e le
«eleganti inflessioni organiche» erano sorte per aggregazione di paro-
le originariamente autonome.119 Oggi ci rendiamo conto che questa
teoria è un po’ troppo meccanica e semplicistica, e che non tutte le for-
me flessive devono necessariamente aver avuto origine agglutinante;
ma non bisogna dimenticare che, di fronte alla teoria schlegeliana, la
quale attribuiva la flessione indeuropea a un intervento divino, la teo-
ria agglutinante rappresentava un tentativo di spiegazione razionale,
puramente umana: in ciò sta il suo grande merito storico. E l’origine
umana del linguaggio, di tutti i linguaggi, fu sempre affermata dal Cat-
taneo con grande vigore, a cominciare dagli scritti giovanili fino ai più

118
iSSG, III, p. 125 (nell’articolo su Gli antichi Messicani, 1860). Cfr. SF, II, pp. 340, 342.
119
iSL, I, p. 172; cfr. SF, I, pp. 349, 415; II, p. 338 sgg. Ma già nell’articolo del 1837, SL,
I, p. 228: «Forse anche le declinazioni delle lingue latina, greca, gotica in origine non furono
altro che semplici nomi con un articolo affisso». Della storia di questa teoria (la quale compare
per la prima volta, che io sappia, nell’Histoire critique du Vieux Testament di Richard Simon, poi
nel Condillac, in vari linguisti tedeschi del Settecento e del primo Ottocento, infine nel Bopp)
mi occuperò altrove.
364 X. Carlo Cattaneo e Graziadio Ascoli

tardi, in polemica col Bonald e «altri simili detrattori della natura


umana».120
E ancora: per Friedrich Schlegel non solo la lingua sanscrita, ma tut-
ta la civiltà indiana era nata perfetta: era l’espressione di una sapien-
za originaria, infusa da Dio in quel popolo privilegiato. Il Cattaneo ve-
deva bene che in questo modo il romantico Schlegel finiva col
precludersi, per eccesso di misticismo, quella giusta comprensione del-
l’umanità primitiva che alcuni pensatori settecenteschi si erano pre-
clusa, viceversa, per eccesso di razionalismo: «In ciò ripeteva, da
opposta parte, e con mistico intento, lo stesso errore prediletto dai
filosofi del secolo scorso; i quali inauguravano l’istoria dell’umanità,
non dai barbari di Vico, ma da una generazione sapiente, inventrice
delle arti e delle scienze, la cui opera si dovesse per noi disseppellire
dai ruderi delle interposte età».121 Così il pensatore illuminista, forte
degli insegnamenti vichiani, poteva prendersi la meritata soddisfazio-
ne di sconfiggere i romantici sul loro terreno.
Questi motivi fondamentali del saggio sulle lingue europee si ritro-
vano, più o meno immutati, negli scriti storico-etnografici che il Cat-
taneo pubblicò nella seconda serie del «Politecnico»122 e nelle lezioni
di ideologia del ’62.123 Abbiamo già avuto occasione di citarne alcuni
passi nelle pagine precedenti. Ma in quest’ultima fase del suo pensie-
ro, pur restando ben ferma la distinzione tra linguistica e antro-
pologia, l’interesse per l’antropologia si fa più vivo. Nella cultura
europea dominava ormai il positivismo. Il Cattaneo da un lato vede-
va affermarsi principii per i quali aveva sempre combattuto: valore
preminente della scienza, negazione di ogni metafisica, assoluta lai-
cità. Dall’altro osservava con sospetto certi elementi antidemocratici
e inconsapevolmente metafisici che il positivismo aveva ereditato non
tanto dall’illuminismo settecentesco, quanto dal romanticismo. Uno

120
iVedi soprattutto SF, I, p. 349 sg. (nell’Invito alli amatori della filosofia, 1857); II, p. 349
(nelle lezioni ticinesi di ideologia), dove è confutato il «sofisma di Bonald, il quale negò all’uo-
mo la facultà di farsi un linguaggio, perché l’homme pense sa parole, avant de parler sa pensée». Il
primo a dare a questo sofisma la sua formulazione tipica era stato in realtà Roussseau, seguito
da moltissimi altri (cfr. «Annali della Scuola Normale», 1959, p. 158, n. 1). L’aveva confutato
già Herder nella Abhandlung über den Ursprung der Sprache.
121
iSL, I, p. 155; cfr. SF, III, p. 186, dove «Schelling» è un lapsus per «Schlegel».
122
iVedi specialmente Le origini italiche illustrate coi libri sacri dell’antica Persia e L’antico Egit-
to e le origini italiche (entrambi nel «Politecnico» XI, 1861 = SL, II, pp. 265 sgg., 297 sgg.).
123
iSF, II, p. 324 sgg.; III, p. 181 sgg.
X. Carlo Cattaneo e Graziadio Ascoli 365

di questi elementi era appunto il poligenismo linguistico e razziale,


che, sebbene presentato sotto veste rigorosamente scientifica, rivela-
va la sua diretta discendenza dalla concezione romantico-reazionaria
di Friedrich Schlegel, ed era poi sempre più esplicitamente diventato
uno strumento di interessi schiavisti e colonialisti. Diritto della razza
bianca a dominare e a ridurre in schiavitù le altre; all’interno della raz-
za bianca, primato della stirpe germanica: questi erano i principii so-
stenuti, con diverse sfumature, in Europa dal maniaco conte di Gobi-
neau e da diversi linguisti ed etnologi tedeschi, in America da Agassiz,
Nott, Gliddon e altri portavoce dei proprietari di schiavi. D’altra par-
te, i loro avversari monogenisti troppo spesso si limitavano a fare
appello a vaghi sentimenti umanitari, o addirittura alla dottrina cri-
stiana, ed erano quindi facilmente accusabili di spirito antiscientifico
e di cieco ossequio a pregiudizi religiosi.124
Proprio per il timore di sacrificare la scienza al sentimento, e, insie-
me, per quell’orgoglio intellettuale europeistico che era così forte in
lui, il Cattaneo era rimasto lungamente incerto su questo problema.
Nel ’44, recensendo il Kosmos di Alexander von Humboldt, si era
ancora opposto alla tesi dell’uguaglianza naturale di tutti i popoli.
«Savio e bello», egli diceva, il pensiero di una futura umanità affra-
tellata, senza privilegi di razza; ma ciò non deve farci dimenticare che
alcune stirpi «vissero e perirono insanabilmente selvagge», e che altre
hanno accolto la civiltà solo per costrizione esterna. «Né si deve con-
tendere il diritto di una giusta superbia a quelle nazioni che preste e
docili al primo impulso di civiltà divennero maestre e benefattrici alle
altre di più torpida natura. Né queste, se dopo migliaia d’anni giun-
sero finalmente a degenerar quasi dalla avita brutalità pareggiandosi
alle prime, possono sdebitarsi verso di loro, attribuendo il tardo e fati-
coso fatto a nobile spontaneità della propria natura».125
Quindici anni dopo, nella prima comunicazione tenuta all’Istituto
Lombardo sulla Psicologia delle menti associate,126 il tono era molto

124
iMonogenisti e antischiavisti per motivi umanitari-religiosi erano per esempio Alexander
von Humboldt, il Bunsen, Max Müller, e in Italia il Lambruschini.
125
iSF, I, p. 221. S’intende che anche questa posizione, che il Cattaneo avrebbe poi supera-
to, non aveva comunque niente a che vedere con le tesi degli schiavisti americani, a cui egli fu
sempre radicalmente avverso (cfr. l’articoletto del 1834 in Scritti politici a cura di M. Boneschi,
I, p. 63).
126
iSF, I, pp. 410-412.
366 X. Carlo Cattaneo e Graziadio Ascoli

cambiato. Il problema dei negri di America appassionava ora il Cat-


taneo. Egli sottolineava ancora l’insufficienza degli argomenti pura-
mente umanitari: «Voi vedete, Signori, che se l’ipotesi (dell’inferiorità
naturale dei negri) fosse dimostrata, l’iniquità delle conseguenze non ci
esimerebbe dal dovere d’accettare una dura verità»; e dichiarava di
non essere in grado di esprimere un giudizio definitivo. Ma le parole
con cui alludeva agli scritti dei razzisti americani («quelle odiose illa-
zioni che parrebbero dover quindi scaturire a danno delle stirpi più
deboli, e a conforto di coscienza ad ogni sorta di conquistatori e d’op-
pressori») dimostrano che già egli li avversava, ed era solo alla ricerca
di una confutazione rigorosamente scientifica. E già indicava le prime
linee di una tale confutazione nella storia stessa della civiltà, che ave-
va visto popoli intellettualmente fulgidissimi decadere, senza che ciò
potesse attribuirsi a mescolanza con razze inferiori.
Infine nel ’62 usciva l’ampia recensione ai Types of Mankind di Nott
e Gliddon.127 Il Cattaneo si dichiarava d’accordo con loro e col loro
maestro Samuel Morton nel respingere il monogenismo razziale, che
gli sembrava incompatibile con la grande varietà dei tipi umani e con
la tesi, da lui prediletta, della sedentarietà delle popolazioni primiti-
ve. Ma di nuovo, per le razze come per le lingue, al poligenismo di
grandi gruppi, prevalente fra gli antropologi dell’Ottocento, contrap-
poneva la sua teoria di un’originaria molteplicità di piccoli aggregati:
«Perloché noi vorremmo riformare il detto dell’illustre Agassiz, che
il genere umano fu creato in nazioni ..., dicendo piuttosto che il ge-
nere umano apparve primamente in piccole tribù, più o men diverse
d’aspetto, come appare dai loro crani più antichi: e più o meno atte a
unirsi col favore dei luoghi e nel lungo corso dei tempi in numerose
nazioni».128
Tra queste nazioni, dichiarava ora esplicitamente il Cattaneo, non
ve n’erano di eternamente privilegiate. Agli esaltatori della stirpe ger-
manica egli dimostrava l’inconsistenza delle loro pretese: «Se codesta
imaginaria famiglia teutonica, che si viene conflando coll’unificare
assurdamente la sferoide germanica e l’ovale britannico, aveva da

127
iTipi del genere umano, nel «Politecnico» XIV, 1862, p. 336 sgg. = SSG, III, p. 214 sgg.
L’opera di Nott e Gliddon era uscita a Filadelfia nel 1854; gli stessi autori avevano ribadito le
loro tesi poligeniste e schiaviste in Indigenous Races of the Earth, Filadelphia 1857, opera che pro-
babilmente il Cattaneo non vide.
128
iSSG, III, p. 243.
X. Carlo Cattaneo e Graziadio Ascoli 367

natura tanto tesoro di cerebrale potenza: perché, nei cinque o sei mila
anni della civiltà egizia, dormì così duri e infecondi sonni? Perché fu
necessario che la lingua latina, una lingua concepita da popoli di minor
cervello, venisse dal mezzodì ad addottrinarla per più secoli, fino a che
la lingua germanica tanto si esercitasse e si rimodellasse che alla sua
medesima nazione paresse degna d’esser ministra del pensiero?».129
Si sente in queste parole un’eco della vecchia polemica antiteuto-
nica. Ma l’importante è che il Cattaneo non contrapponeva al prima-
to della razza germanica un non meno cervellotico primato della raz-
za mediterranea (come poi farà Giuseppe Sergi) o della razza bianca
in generale, ma anzi considerava la tardiva fioritura culturale dei
popoli germanici come la prova migliore che «non bisogna disperare
di alcuna parte del genere umano», che non esistono razze votate per
sempre alla barbarie o alla schiavitù. Se gli inglesi e i tedeschi, dopo
esser rimasti per secoli e secoli tanto arretrati rispetto ai popoli del-
l’Oriente e del Mediterraneo, «nelle ultime generazioni fecero ina-
spettati prodigi d’intelligenza», perché un giorno non potranno fare
altrettanto i popoli di colore? «Ai detrattori dei Negri noi per con-
verso additeremo la tarda eppur meravigliosa civiltà dei Britanni e dei
Teutoni».130
Così il razzismo era combattuto non in nome di pure esigenze mora-
li – inefficaci contro chi faceva orgogliosamente appello alla scienza –,
ma proprio smascherandone il carattere pseudoscientifico: «È un’idea
barbara, che s’involge nei panni della scienza. È tempo di ridurla alla
sua barbara nudità». E siccome gli schiavisti americani amavano ripe-
tere che il negro assomiglia più alla scimmia che al bianco, e illustra-
vano questo concetto raffigurando la testa di un negro tra quelle del-
l’Apollo di Belvedere e di una scimmia, il Cattaneo replicava: «A noi
non importa che un Negro sembri nelle sue forme più vicino ad una
specie qualsiasi d’animali che a un Dio. Noi collochiamo l’uomo al
supremo grado d’una scala che comincia dalle monadi organiche per
ascendere fino al selvaggio, cioè fino all’essere parlante. Questo a noi
pare già un gran progresso. E dal selvaggio più vicino al bruto, per noi,

129
iIbid., p. 244. La «sferoide germanica» e l’«ovale britannico» sono, come è ovvio, forme
craniche. Cfr. ciò che il Cattaneo osserva poco sopra, pp. 237-242.
130
iIbid., p. 244. Ma tutti gli altri periodi di questa efficacissima chiusa del saggio cattaneiano
meriterebbero ugualmente di essere citati.
368 X. Carlo Cattaneo e Graziadio Ascoli

comincia un’altra scala, che ascende fino agli eroi della ragione e del-
l’umanità. Tutte le nazioni che diedero alcuno di codesti eroi, sono
venerabili per noi; ma tutte le altre per noi sono egualmente inviola-
bili; e non riconosciamo egemonie del genere umano».131
Con questa rivendicazione dell’uguaglianza di tutti gli uomini, fon-
data non su una mitica «fratellanza» originaria ma sulla capacità, pos-
seduta da tutti, di superare le primitive divisioni e di prender parte
all’opera comune della civiltà, il Cattaneo toccava il culmine dei suoi
studi storico-etnografici e, insieme, del suo pensiero democratico. Per
andare oltre, egli avrebbe dovuto accorgersi che l’umanità del suo
tempo era agitata non solo da contrasti etnici e da lotte tra la borghe-
sia progressista e le vecchie forze assolutiste, teocratiche e feudali, ma
anche – all’interno del fronte del «progresso» – dall’antagonismo sem-
pre più forte tra il terzo e il quarto stato, e che questo antagonismo
non era risolubile con una pura azione di filantropia o di diffusione
della cultura. Ma a questo aspetto della realtà contemporanea, che fu
così prontamente avvertito non solo da socialisti delle più disparate
tendenze, ma anche da tanti conservatori e liberali di sguardo acuto,
il Cattaneo rimase completamente chiuso. L’esperienza stessa del
Quarantotto – che per molti democratici e molti moderati fu, sia pure
in due sensi opposti, rivelatrice – lasciò sostanzialmente immutato il
suo liberismo economico e il suo illuminismo sociale.132 Di qui il suo

131
iIbid., p. 246. La concezione di questi antropologi schiavisti, che assimilavano il negro alla
scimmia, non ha nulla a che vedere con l’evoluzionismo, che con le scimmie connette genetica-
mente t u t t a la specie umana. I poligenisti, anzi, furono per lo più contrari all’evoluzionismo
lamarckiano e poi darwiniano, perché vedevano abbattuta dalla dottrina evoluzionista quella
barriera insuperabile che essi volevano mantenere tra razza e razza (vedi per esempio Indigenous
Races of the Earth cit., p. 448 sg.). Quanto al Cattaneo, s’incontra più volte nei suoi scritti l’af-
fermazione che l’uomo è il culmine della scala degli esseri viventi, l’«ultimogenito della natu-
ra» (SF, I, p. 219); ** ma nei riguardi dell’evoluzionismo vero e proprio – non solo di quello
darwiniano, ma anche di quello lamarckiano, che dovette essergli noto fin dai suoi anni giova-
nili – egli non prese mai posizione. Tacque anche quando, proprio sul «Politecnico» (XXI,
1864, p. 5 sgg.), Filippo De Filippi pubblicò la famosa conferenza L’uomo e le scimmie, susci-
tatrice di aspre discussioni. Probabilmente il suo senso geloso della «dignità dell’uomo», nutri-
to di tradizione classicheggiante e illuministica al tempo stesso, fu in questo caso più forte del
suo spirito scientifico e gli impedì di aderire all’evoluzionismo. Così anche la sua teoria polige-
nistica lascia senza risposta un interrogativo: da quali altri esseri avrebbero avuto origine, in
varie zone della terra, i primi gruppi umani?
132
iNel 1844 (SF, I, p. 260 sg.) aveva qualificato il comunismo una dottrina «per i famelici
senza ingegno», la quale «sopprimendo fra li uomini l’eredità, e per conseguenza la famiglia,
ricaccerebbe il lavorante nell’abiezione delli antichi schiavi, senza natali, e senza onore». Ma
ancora nel ’63 rimproverava Giuseppe Ferrari di «preferire edificii socialisti, e fantasmagorie,
X. Carlo Cattaneo e Graziadio Ascoli 369

isolamento, e l’astrattezza della sua pur così splendida polemica con-


tro i moderati, la quale colpiva le ambiguità della politica moderata
con ineccepibile rigore logico e morale, senza però individuarne le
ragioni profonde. Una astrattezza tanto più sconcertante in quanto
(come più tardi nel Salvemini dell’Unità) si accompagnava a un esa-
sperato amore del particolare concreto, a una straordinaria conoscen-
za di dati e di statistiche.
Ma tutto ciò, se costituisce un limite del Cattaneo uomo politico e
studioso di storia politica, non incide sul valore dei suoi studi lingui-
stico-etnografici, appunto perché il linguaggio, pur non essendo certo
privo di differenziazioni sociali, è fondamentalmente un fatto comu-
ne a tutto un popolo, e il rapporto stesso lingua-dialetti è più una que-
stione di diffusione della cultura (alla quale il Cattaneo era estrema-
mente sensibile) che di l o t t a tra classe dominante e classe oppressa.
E là dove si trattava di reagire al misticismo e allo schematismo della
linguistica romantica, di raggiungere una visione riccamente articola-
ta dei rapporti tra aggregati linguistici e aggregati etnici, di studiare i
fenomeni che risultano dagli incontri di lingue e di tradizioni cultura-
li, il Cattaneo era un grande maestro.

II. L’influsso del Cattaneo sulla formazione culturale


e sulla linguistica ascoliana

1. Nel 1846, cioè quando il pensiero linguistico del Cattaneo era già
delineato nei suoi tratti essenziali, Graziadio Ascoli, appena sedicen-
ne, esordiva con un opuscoletto Sull’idioma friulano e sulla sua affinità

alle modeste, e sicure, e caute, e sapienti vie della libertà diffuse equabilmente» (SSG, II, p.
311). La sua rosea fiducia nell’«armonia» economica, che ricorda il Bastiat, è documentata per
esempio dal «Politecnico» XI, 1861, pp. 313 sg., 339. Vedi poi le critiche e le riserve da lui mos-
se al progetto di statuto della Fratellanza artigiana, in Èpist. IV, pp. 197 sg. Sulla sua incom-
prensione per i problemi sociali giudica bene, seppur brevemente, il Sestan, introd. a Roma-
gnosi, Cattaneo e Ferrari cit., p. XXXVII; cfr. anche F. Catalano in «Nuova Riv. storica» XLII,
1958, p. 521 sgg. Il fatto che all’indomani del ’48 il Cattaneo abbia avuto in comune con Pisa-
cane, Ferrari e Montanelli molti motivi di polemica antimazziniana e federalista rischia talvol-
ta di far mettere in ombra il contrasto fra il suo reciso antisocialismo e il socialismo (molto varia-
mente atteggiato) degli altri tre. «Gioberti si dice socialista, Cattaneo non lo è: ecco il male ...»,
scriveva il Ferrari al Cernuschi nel ’51 (in F. Della Peruta, I democratici e la rivol. italiana, Mila-
no 1958, p. 438). Vedi ora anche Giuseppe Berti, I democratici e l’iniziativa meridionale nel Risor-
gimento, Milano 1962, pp. 100, 432-434, 786, e passim.
370 X. Carlo Cattaneo e Graziadio Ascoli

colla lingua valaca,* dedicato a Jacopo Pirona, il filologo e storico loca-


le che aveva guidato i suoi primi passi di autodidatta.133
Questo titolo richiama subito alla memoria quello del primo arti-
colo linguistico del Cattaneo: Nesso della nazione e della lingua valaca
coll’italiana, pubblicato per la prima volta, come sappiamo, nel ’37,
ma ristampato proprio in quello stesso anno 1846, nel primo volume
di Alcuni scritti.134
Vien fatto di supporre che l’Ascoli giovinetto abbia conosciuto l’ar-
ticolo del Cattaneo e, con zelo un po’ ingenuo, abbia voluto riferire in
particolar modo al suo dialetto, al friulano, quell’affinità con la lingua
romena che il Cattaneo affermava per l’italiano in generale. L’ipotesi
è attraente, e può sembrare confermata da qualche analogia di strut-
tura fra i due lavori: per esempio, sia il Cattaneo che l’Ascoli, per di-
mostrare con maggiore evidenza l’affinità tra i due idiomi che essi
mettono a raffronto, non citano soltanto singoli vocaboli o singole for-
me grammaticali, ma anche intere frasi.135 Tuttavia nell’opuscolo asco-
liano il Cattaneo non è mai citato, e, ciò che più importa, non vi si
nota alcun influsso sicuro delle sue idee linguistico-etnografiche. Per
l’Ascoli il passaggio dal latino al romeno, e dal latino al friulano, non
è dovuto al sostrato, ma al superstrato, cioè all’influsso delle lingue dei
133
iL’opuscolo fu pubblicato ad Udine nel ’46. Ne ho avuto una copia in prestito dalla Biblio-
teca governativa di Gorizia, per gentile interessamento del direttore, Guido Manzini. Su Jaco-
po Pirona (1789-1870) vedi Giuseppe Marchetti, Il Friuli, Udine 1959, p. 505 sgg.
134
iVedi sopra, p. 329.
135
iCfr. Cattaneo, SL, I, p. 231 sg., e Ascoli, op. cit., p. 33. Si tratta, però, di frasi diverse.
*iL’ipotesi (da me presentata già come assai malsicura) che l’opuscoletto dell’Ascoli sedi-
cenne Sull’idioma friulano presupponga la conoscenza del Nesso della nazione e della lingua valaca
coll’italiana del Cattaneo, va senz’altro abbandonata: come mi fa osservare A. M. Cirese {l’os-
servazione è assunta anche nel testo “in alto”, qui sotto, p. 371 – N.d.c.}, l’Ascoli stesso, in una let-
tera del 1857 a Giovenale Vegezzi-Ruscalla (edita da Teodoro D. Onciulencu in «Rendic.
Accad. Archeol., Lettere e Belle Arti» di Napoli, n. s. XVII, 1937, p. 261 sg.), dichiarò: «Nel
1846 ritenevo sinceramente che nessuno al mondo si fosse mai addato di qualsiasi parentela vala-
co-friulana. Ma Carlo Cattaneo, nel suo articolo Del nesso fra la lingua valaca e l’italiana (...) ave-
va notato: (segue la citazione di un passo del Cattaneo)». È da notare che in quella lettera l’Asco-
li, pur esprimendosi con la massima severità nei riguardi di quel suo lavoretto giovanile («Mi
vergognerei ch’Ella vedesse l’opuscolettaccio ..., immaturissimo lavoro d’un fanciullo ...»), riba-
disce che «una peculiare affinità fonologica tra quei due parlari romanzi (friulano e romeno) esi-
ste senza dubbio, ed io non dispero di poterne trattare un giorno con qualche maturità di stu-
dio. V’ha anzi tra di essi qualche affinità più che fonologica». Ma nel ’57 l’Ascoli non aveva
ancora affrontato con rigore e modernità di metodo gli studi di linguistica romanza. La lettera
è interessante anche per gli accenni al viaggio a Torino compiuto nel ’52 (vedi qui {sotto}, p.
373 sg. e il diario cit. alla nota 145) e ai rapporti che l’Ascoli aveva stretto col Flechia e voleva
stringere col Lignana.
X. Carlo Cattaneo e Graziadio Ascoli 371

barbari invasori; e l’affinità particolarmente stretta che egli s’illudeva


di scorgere tra il proprio dialetto e la lingua romena dipenderebbe dal
fatto che i medesimi popoli barbarici avrebbero invaso e occupato la
Dacia e il Friuli: «Se ... le terre ove si parla la lingua valaca, ebbero a
soffrire invasioni di Slavi, d’Ungheri, di Tedeschi, spesso pure il Friu-
li vide calpestar le sue belle contrade da Slavi, Ungheri e Tedeschi, che
vi potrebbero nella lingua aver lasciato le stesse traccie che nella Vala-
chia ... Se le stesse barbare irruzioni infestarono queste due contrade,
chiaramente scorger potrassi che le lingue della Valachia e del Friuli,
nella loro più importante parte, esser dovranno una composizione del-
la romana, mista agli idiomi delle stesse barbare famiglie, cui queste
orde appartenevano, né più stupore recare ci dovrà, se immensa somi-
glianza fra questa e quella troveremo».136 Rispetto alle altre regioni ita-
liane il Friuli avrebbe conservato «più intatte le impressioni cagiona-
tele particolarmente dalle germaniche irruzioni», e perciò il friulano
somiglierebbe al romeno più degli altri dialetti d’Italia. Al sostrato
dacico l’Ascoli non attribuiva alcun influsso rilevante sulla formazio-
ne del romeno: «Pare che l’imperatore Trajano abbia col suo sistema di
colonizzazione estirpato quasi del tutto e lingua e costumi dei prece-
denti abitatori dei paesi corrispondenti all’odierna Valachia».137 [Sem-
bra escluso, come mi fa notare A. M. Cirese, che l’A. conoscesse allo-
ra lo scritto del Cattaneo: cfr. lettera di Ascoli edita da T. Onciulencu
in Rendic. Accad. Arch. Lett. e Arti Napoli XVII 1937, 262]. Egli non
seguiva, dunque, le idee del Maffei e del Cattaneo, ma quelle del Mura-
tori, che a lui erano forse giunte attraverso il Pirona. Il tentativo di
scorgere già in questo primo lavoretto il segno di una predilezione del-
l’Ascoli per la teoria del sostrato non ha alcun fondamento.138
Questo lavoretto, d’altronde, appartiene più alla preistoria che alla
storia degli studi dell’Ascoli. La vera e propria formazione della per-
136
iOp. cit., p. 12 sg.
137
iIbid., p. 11. L’Ascoli riteneva che anche la lingua dei Daci fosse germanica (egli credeva,
p. 10 n., alla connessione etimologica tra Daci e deutsch); ma l’elemento germanico che, combi-
nandosi col latino, avrebbe dato origine al romeno era stato apportato, secondo lui, dai barbari
invasori dell’Impero, non dai Daci precedentemente assoggettati.
138
iIl Goidánich (Silloge, p. XXVI) scrive: «È tuttavia meraviglioso che in quell’età egli fosse
spontaneamente tratto a ricercare le c a u s e delle alterazioni fonetiche, che delle alterazioni simi-
li fin da allora egli fosse indotto a vedere – bene o male – il motivo in un c o m u n e s o s t r a-
t o e t n i c o !». Ma – a parte il fatto che la teoria che faceva risalire i mutamenti fonetici a mesco-
lanze etniche era, come abbiamo visto nel nostro articolo precedente, diffusissima già da tempo
–, nel passo citato dal Goidánich l’Ascoli parla chiaramente di superstrato, non di sostrato.
372 X. Carlo Cattaneo e Graziadio Ascoli

sonalità ascoliana si compie negli anni immediatamente seguenti.


Mediante contatti personali ed epistolari, e vaste letture, il giovane
autodidatta goriziano riesce a mettersi al corrente dei progressi com-
piuti dalla linguistica comparata e dagli studi orientali: fa la cono-
scenza del versatile e brillante orientalista Joseph von Hammer-Purg-
stall,139 diviene socio della Deutsche Morgenländische Gesellschaft,140
si appassiona soprattutto alla lettura di Bopp e di Humboldt.141 L’in-
teresse per la dialettologia romanza cede un po’ in lui, per ridestarsi
soltanto più tardi. Adesso lo attraggono specialmente il sanscrito
(anche la letteratura, non solo la lingua), l’ebraico,142 i problemi più
generali dell’origine del linguaggio e del rapporto tra lingua e scrittu-
ra.143 Ma di pari passo con gli interessi scientifici si sviluppano nel-
l’Ascoli quelli politici e culturali in senso largo; e se i primi lo induce-
vano a rivolgere lo sguardo verso l’Austria e la Germania, dove la
linguistica era in pieno rigoglio, i secondi lo attiravano sempre più ver-
so l’Italia. Appartenente ad una famiglia della borghesia israelita del-
la Venezia Giulia, egli credette in un primo tempo di poter trovare in
un impero austriaco riformato la soddisfazione delle sue esigenze di
piena emancipazione degli ebrei, di rispetto per le minoranze allo-
glotte, di libertà politica.144 La reazione del ’49 lo convinse che ciò era
insperabile, e che solo uno stato italiano unitario e liberale avrebbe
potuto far diventare realtà quelle esigenze; lo indusse perciò a indi-

139
iVedi le lettere pubblicate da G. D’Aronco in «Studi goriziani» XXIII, 1958, p. 31 sgg.
140
iNel 1852 ne era già socio: cfr. «Annali della Scuola Normale» 1959, p. 182.
141
iVedi l’introduzione al primo fascicolo degli «Studj orientali e linguistici» e, quanto a
Humboldt, anche Silloge, p. XXIX. Molti anni più tardi l’Ascoli stesso diceva (XIIe Congrès des
Orientalistes à Rome, 1899, Bulletin N. 12, p. 3): «Non è facile, signori, il trovare un altro lin-
guista che abbia studiato, come fu dato a me, alcune parti della prima edizione della Gramma-
tica Comparata di Francesco Bopp, mano mano che i fogli ne uscivano dal torchio» (press’a poco
così già in «Arch. glottol.» X, 1886, p. 43 n. 1). Bisogna intendere che egli abbia acquistato via
via l e d i s p e n s e del vol. VI della Vergleichende Grammatik (1852): non, come intese il
Goidánich (Silloge, p. XXV), che abbia letto l’opera «in bozze».
142
iQuanto all’interesse per la letteratura indiana, vedi negli «Studj orientali e linguistici»
la traduzione poetica del Nalo. Quanto agli studi semitici e, in generale, all’ambiente ebraico in
cui l’Ascoli trascorse la giovinezza cfr. specialmente B. Terracini, Guida allo studio della lingui-
st. storica, I, p. 127 e in «Rassegna mensile di Israel» XXIV, 1958, p. 3 sgg.; G. Hugues in «Stu-
di goriziani» XXIV, luglio-dicembre 1958, p. 33 sgg.
143
iVedi ancora l’introduzione agli «Studj orientali e linguistici». Cfr. «Annali della Scuola
Normale» 1959, pp. 153 sg., 157 sg.
144
iVedi il suo opuscolo Gorizia italiana, tollerante, concorde, pubblicato a Gorizia nel 1848,
ristampato da G. Morpurgo in «Archeografo triestino» XLIII, 1929-30, p. 419 sgg. Cfr. G.
Manzini in «Studi goriziani» XXI, genn.-giugno 1957, p. 60 sg.
X. Carlo Cattaneo e Graziadio Ascoli 373

rizzare verso l’Italia anche la propria attività di studioso, a farsi pro-


motore e coordinatore degli studi linguistici del nostro paese. Di qui
la sua decisione di fondare un periodico (gli «Studj orientali e lingui-
stici»), e quel suo viaggio nell’Italia settentrionale, alla ricerca di col-
laboratori, che ebbe una notevole importanza nella sua formazione.145
Milano e Torino furono le due tappe principali di quel viaggio. A
Milano nel 1852 non c’era il Cattaneo, esule in Svizzera. Ma l’Asco-
li conobbe alcuni della sua cerchia: Bernardino Biondelli, Pietro Giu-
seppe Maggi, Carlo Tenca (il direttore del «Crepuscolo» a cui il Cat-
taneo e il suo fedele Gabriele Rosa collaboravano).146 Conobbe anche
colui che, come ha giustamente notato il Sestan,147 può esser conside-
rato in un certo senso l’anti-Cattaneo: Cesare Cantù; non durò fatica
a scorgerne la superficialità culturale e lo spirito retrivo, e dissentì da
lui sul problema dell’origine del linguaggio.148
Gli stessi motivi che contrapponevano l’Ascoli al Cantù dovevano
invece avvicinarlo al Cattaneo: la convinzione che il linguaggio avesse
avuto origine puramente umana, che anche le più perfette e compli-
cate forme flessionali fossero derivate da agglutinazione di monosil-
labi originariamente autonomi, l’interesse per i rapporti tra linguistica
ed etnografia, l’ammirazione per Vico (ma per un Vico liberato dalle
nebbie teologiche e rivissuto con spirito progressista), erano tutti ele-
menti di consenso tra il Cattaneo e il giovane goriziano.149 Si aggiun-
ga che il Cattaneo era l’autore delle Interdizioni israelitiche, cioè del-

145
iDi questo viaggio, compiuto nella primavera del 1852, ci è giunto un diario, ora pubbli-
cato in «Annali della Scuola Normale» 1959, p. 151 sgg. Cfr. anche l’altro diario giovanile in
Silloge, p. XXVIII sgg.
146
i«Annali» cit., pp. 164, 165, 185. Sentì anche parlare, ma in modo poco lusinghiero, di
Antonio Madini, orientalista, parente del Cattaneo (ibid., pp. 164, n. 2, 166). Quanto al giudi-
zio negativo dell’Ascoli sul Rosa come linguista, e ad una collaborazione del Rosa agli «Studj
orientali e linguistici», cfr. ibid., pp. 157, n. 1, 191 **.*
147
iEuropa settecentesca e altri saggi, Milano-Napoli 1951, p. 209 sgg.
148
i«Annali» cit., p. 165 sgg.
149
iSull’origine umana del linguaggio vedi le opinioni espresse dall’Ascoli nel diario del 1852
(«Annali» cit., pp. 166-168) e in «Studj orientali e linguistici» I, p. 5 sgg. Sulla teoria aggluti-
nante, ibid., p. 10 sg. Sul Vico, Silloge, p. XXIX, e «Studj orient. e ling.» I, p. 16.
*iPer i rapporti di Gabriele Rosa con l’Ascoli (e con Paolo Marzolo) cfr. le sue Autobiogra-
fie a cura di G. Tramarollo, Pisa 1963, pp. 127 e 129. Da quest’ultimo passo risulta che più tar-
di l’Ascoli propose il Rosa per la cattedra di storia antica all’Accademia scientifico-letteraria di
Milano: la sua stima per il Rosa doveva essersi accresciuta – non, forse, sul piano strettamente
scientifico, ma su quello politico-educativo – {La postilla vale anche per la p. 412 e per la n. 278
– N. d. C.}.
374 X. Carlo Cattaneo e Graziadio Ascoli

l’opera più profonda, chiara ed efficace che fosse stata scritta in Ita-
lia a favore dell’emancipazione degli ebrei.
Nell’introduzione al primo fascicolo degli «Studj orientali e lingui-
stici» (1854), alcuni passi rivelano ben chiaro l’influsso cattaneiano.
Per esempio: «Scritta una favella, le si piegano i dialetti affini; e le
rozze genti, o circonvicine o investite, parlanti idiomi non consangui-
nei a quella, sono invase dalla superior civiltà della lingua scritta, la
quale accoglie e si assimila parte dei loro parlari che sconfigge ...»;150
oppure: «né sarà impossibile riconoscere, quantunque per leggi d’a-
nalogia assimilate, le parti che accolsero dal frequentar genti d’altra
stirpe, o quelle che assunsero dalle favelle estranee, che trovarono par-
late, sia da minor numero d’uomini di quello dei sopravvenuti con
loro, sia da uomini più rozzi, i quali, abbenché maggiori di numero,
soccombettero alla forza della civiltà superiore».151 Questa seconda
alternativa era appunto quella che, a giudizio del Cattaneo, si era veri-
ficata per le lingue indeuropee. L’Ascoli, però, la enunciava soltanto,
senza aderirvi; anzi poco dopo, nel secondo fascicolo degli «Studj
orientali e linguistici», la respingeva esplicitamente: «Messa questa (la
fonologia ario-europea) per base alle grammatiche e ai dizionarj com-
parativi, ed estesasi la cognizione delle antiche lingue e letterature
appartenenti alla famiglia nostra, risultò, come infinite diversità, più
o men notevoli, che appaiono in ogni singola delle antiche sorelle, vi
si disviluppassero organicamente dai fondamenti di originaria identità,
oppur ne provenissero per naturali processi di mutazione e di deca-
denza, e non già vi dipendessero da inorganiche trasformanti mistioni
con altri idiomi aborigeni, cui fosse venuto a sovrapporsi, come taluno
fra noi opinò, un debole strato sanscritico».152 Che con quel «taluno
fra noi» l’Ascoli alludesse al Cattaneo, non c’è bisogno di avvertire.
Vedremo come l’Ascoli motiverà e svilupperà più ampiamente que-
sto suo dissenso nel saggio Lingue e nazioni pubblicato un decennio più
tardi. Per ora ci basti notare che, all’inizio della sua carriera di stu-
dioso, l’Ascoli ci appare, sì, consenziente col Cattaneo su alcuni pro-
blemi generali, linguistico-filosofici, ma dissenziente su quelle che era-
no le tesi fondamentali del Cattaneo indeuropeista: la teoria del
sostrato e la negazione delle grandi migrazioni preistoriche.

150
iIbid., p. 19.
151
iIbid., p. 21.
152
iIbid., II, 1855, p. 254 sg.
X. Carlo Cattaneo e Graziadio Ascoli 375

E anche l’unica volta che, negli «Studj orientali e linguistici», il


Cattaneo è citato nominativamente, è per esprimere un dissenso. L’A-
scoli sostiene la derivazione dell’articolo sardo, su, sa dal tema prono-
minale so- che compare nelle forme latine arcaiche sum (= eum), sam,
sapsa ecc., e dopo aver riportato dal secondo volume di Alcuni scritti
del Cattaneo un brano di una poesia in sardo, aggiunge: «Questo insi-
gne letterato, al cospetto dell’istoria dell’articolo sardo che tentam-
mo disseppellire, ritirerà forse l’ipotesi che dall’ipse latino quello sia
da ripetersi».153 Qui indubbiamente l’Ascoli aveva torto; in questa
fase dei suoi studi, come già abbiamo accennato, l’interesse per il san-
scrito e per la comparazione delle lingue indeuropee lo aveva talmen-
te assorbito da fargli trascurare un poco le lingue romanze; più tardi
non solo riconoscerà la derivazione dell’articolo sardo da ipse, ma
estenderà la ricerca agli altri continuatori romanzi di questo pronome
latino.154
Ancora una testimonianza relativa a quegli anni ci è fornita da un
passo del discorso che l’Ascoli vecchio pronunziò nel 1901 in occa-
sione delle onoranze che gli furono tributate: «Sin da allora (cioè dal
periodo anteriore al ’59) Milano era la capital morale pur di quelle ter-
re (le tre Venezie). Doleva, mi ricordo, a noi giovani, che il Cattaneo
bersagliasse il Tommaseo; ma riuscivamo a unirceli in un culto comu-
ne».155 Per tutto l’orientamento del proprio pensiero, certo, l’Ascoli
era già allora incomparabilmente più vicino al Cattaneo che al Tom-
maseo, il quale, chiuso nel suo iroso e torbido cattolicismo, sostenne
sempre l’origine rivelata del linguaggio e manifestò per la glottologia,
come per ogni altra scienza, un’irriducibile avversione.156 Ma quel
«culto comune» era lo stesso nel quale tanti patrioti univano Mazzini,
Garibaldi e Cavour: era quel patriottismo generico che costituì da un
lato la forza immediata, dall’altro il limite dell’opinione pubblica risor-
gimentale. Si comprende inoltre come l’Ascoli in quell’epoca vedesse
il Tommaseo nella luce eroica della Repubblica Veneta del ’48-’49,

153
iIbid., p. 272. Cfr. C. Salvioni, Commemoraz. di G. I. Ascoli, in «Rendic. Ist. Lombardo»,
serie II, vol. XLIII, 1910, p. 58, n. 2. Il passo del Cattaneo a cui l’Ascoli si riferisce è nel saggio
Della Sardegna antica e moderna (SSG, I, p. 196), che egli leggeva in Alcuni scritti, II, p. 183 **.
154
iIntorno ai continuatori neolatini del lat. «ipsu-», in «Arch. glottol.» XV, 1901, p. 303 sgg.
155
iOnoranze a Graziadio Ascoli, Milano 1901, p. 18 (cfr. G. Manzini in «Studi goriziani»
XXI, p. 71).
156
iVedi l’opuscolo L’uomo e la scimmia (Milano 1869), rivolto principalmente contro il
darwinismo, ma anche contro i negatori dell’origine divina del linguaggio.
376 X. Carlo Cattaneo e Graziadio Ascoli

cioè in una posizione apparentemente analoga a quella del Cattaneo


delle Cinque giornate; ** e anche il duplice amore del Tommaseo per
l’Italia e per le terre slave, il suo gusto per la poesia popolare, dove-
vano destare risonanze nell’animo del patriota e linguista giuliano.*

Compiutasi l’unione della Lombardia al Piemonte, costituito il


regno d’Italia, l’Ascoli, che già si era fatto conoscere coi suoi «Studj
orientali e linguistici» e con altre pubblicazioni, fu nominato profes-
sore di grammatica comparata e lingue orientali all’Accademia scien-
tifico-letteraria di Milano.157 Finalmente egli poteva abbandonare l’at-
tività commerciale che era stato costretto ad esercitare fin allora, e
dedicarsi tutto all’insegnamento e alla scienza. Il 15 novembre 1861
egli tenne la sua prolusione.
A Milano era risorto fin dal ’59, dopo un quindicennio di silenzio,
il glorioso «Politecnico». Il Cattaneo ne aveva ripreso la direzione, ma
questa gli fruttava assai più malumori che gioie: l’editore Daelli acco-
glieva articoli senza il suo consenso, dava alla rivista un tono ecletti-
co, si preoccupava di non pubblicare nulla che offendesse i benpen-
santi, senza tuttavia riuscire a guadagnarsi il favore del governo. Già
si profilava, da parte del Cattaneo, l’abbandono della direzione, che
avvenne poi ufficialmente nel ’64.
E non solo il «Politecnico», ma tutta la situazione italiana rendeva
il Cattaneo sempre più malcontento. Gli avvenimenti del ’59-’61 ave-
vano dato vita ad un’Italia monarchica, burocratica, accentratrice,
retta da una borghesia orientata in un senso ben diverso dal liberismo
utopista che egli professava. Né, d’altra parte, egli si sentiva d’accor-
do coi mazziniani, e ancor meno – per le ragioni che abbiamo già
157
iSui particolari della sua nomina prima a Bologna e poi a Milano non occorre qui soffer-
marsi. Cfr. P. G. Goidánich in Silloge, p. XXIV; B. Terracini in «Rassegna mensile di Israel»
XXIV, 1958, p. 9.
*iPer l’influsso del Tommaseo tra gli intellettuali della Venezia Giulia vedi Pacifico Valus-
si (giornalista e patriota, amico dell’Ascoli), Dalla memoria d’un vecchio giornalista dell’epoca del
Risorgimento italiano (1884), nuova ed., Udine 1967, cap. III sgg. ** L’incomprensione che il
Tommaseo ebbe per la linguistica comparata in generale, e per l’Ascoli in particolare, è ben docu-
mentata dalle lettere pubblicate da Alfredo Stussi, Ascoli-Tommaseo-Cantù, Lettere inedite, in
«Annali della Scuola Normale», cl. di Lettere, 1963, p. 39 sgg. Che, ciò malgrado, l’Ascoli abbia
fino all’ultimo serbato ammirazione al Tommaseo come patriota e scrittore civile, lo dimostra
lo scritto cit. più sotto, p. 423 n. 313; vedi anche l’accenno al Tommaseo in una lettera al Cic-
cotti (cit. qui sotto{, p. 410, postilla a n. 271}), a proposito del problema della censura sulla stam-
pa: un problema di cui l’Ascoli si era interessato fin da giovane, come risulta dal diario del 1852
in «Annali della Scuola Normale», cl. di Lettere, 1959, p. 169.
X. Carlo Cattaneo e Graziadio Ascoli 377

accennato – coi primi tentativi di organizzazione operaia.158 Avverso


ai moderati, era un isolato anche tra i democratici.
In questo stato d’animo egli ricevette a Lugano le bozze della pro-
lusione dell’Ascoli, che era stata accolta nel «Politecnico» a sua insa-
puta.159 La baldanza giovanile con cui l’Ascoli parlava della nuova
scienza linguistica e dei suoi trionfi, la lieta fiducia con cui si accin-
geva alla sua opera di maestro e di pioniere, lo disposero male. Dun-
que tutto ciò che in fatto di studi linguistici si era pensato e scritto
fin allora in Italia, e a Milano in particolare, era da considerarsi supe-
rato e da guardarsi con benevolo compatimento? Ed egli scrisse una
lunga lettera all’Ascoli,160 proponendogli molte correzioni e modifiche
da apportare sulle bozze. «Mi sono presa quella libertà che da venti e
più anni mi prendo con tutti gli amici, segnando nella prova stessa
quelle minuzie che stuonano al mio orecchio e al mio giudizio. M’im-
magino che non vi spiacerà ch’io vi tratti come se già foste dei miei
amici, tanto più che vi manifestate israelita; e io, sin dai primordii del-
la mia carriera, mi posi tra i loro difensori». L’esordio era cortese, ma
ad esso seguivano critiche alquanto aspre. Alcune si riferivano a que-
stioni di terminologia o di forma letteraria,161 altre erano più sostan-
ziali. Sembrava al Cattaneo che l’Ascoli avesse ecceduto nell’esaltare
da un lato la lingua sanscrita e la cultura indiana antica, dall’altro la
purezza della tradizione religiosa ebraica. Come sappiamo, egli soste-
neva l’originalità della cultura europea contro chi pretendeva di farla
derivare interamente dall’Asia; ma anche tra le civiltà asiatiche, pre-
feriva la persiana, con la sua religione della luce e i suoi elevati prin-
cipii etici, all’indiana, che gli appariva improntata a misticismo e ser-
vilismo; e questa sua convinzione si era rafforzata proprio negli ultimi
anni.162 Gli spiaceva perciò anche l’appellativo – coniato da Humboldt

158
iVedi sopra, pp. 368-369 n. 132.
159
iCiò risulta dalle prime parole della lettera all’Ascoli cit. alla nota seguente, e dalla chiusa
della risposta dell’Ascoli.
160
iEpist. IV, p. 10 sgg. (12 gennaio 1862). In Scritti politici ed epistolario, II, Firenze 1894,
p. 336 era stata pubblicata solo la parte iniziale di questa lettera.
161
iTali, per esempio, quelle contro l’abuso di grecismi scientifici (su questo argomento il
Cattaneo si era già pronunziato in SL, I, p. 250 sgg.: cfr. qui sopra, p. 335 e n. 18). Fra i greci-
smi che spiacevano al Cattaneo c’era anche «glottologico», coniato dall’Ascoli e destinato a note-
vole fortuna fino all’avvento della linguistica idealista.
162
iVedi il saggio già citato su Le origini italiche illustrate coi libri sacri dell’antica Persia (SL, II,
p. 265 sgg.). Anche Hegel, nelle Vorlesungen über die Philosophie der Geschichte, aveva posto la
civiltà persiana molto al di sopra dell’indiana; così pure Goethe, in contrasto coi fratelli Schlegel.
378 X. Carlo Cattaneo e Graziadio Ascoli

e ripreso dall’Ascoli – di «sanscritico» per «indeuropeo»; e, ripren-


dendo una vecchia tesi del Romagnosi, ci teneva a ribadire il caratte-
re non «nativo», ma «dativo» della civiltà indiana: «Chiamando pri-
migenia la cultura indiana e sanscritica la persiana, voi sciogliete il
quesito in un modo al quale contrasta il fatto che i Bramini in India
sono certamente una colonia, mentre il zendo sembra aborigeno in casa
sua».163 Così pure gli pareva che l’Ascoli disconoscesse i debiti del-
l’India e della Palestina verso l’Egitto, per ciò che riguardava molti
elementi religiosi e culturali.164
E ancora: l’Ascoli, nel suo entusiasmo per la scienza tedesca, aveva
trascurato il contributo delle altre nazioni europee: «Fra i linguisti ave-
te obliato i francesi, tranne Burnouf, i danesi, molti italiani come Pey-
ron, Castiglioni, Clavigero, Mai, Fabretti, Madini, Galvani ecc.» In
realtà un Clavijero o un Mai non potevano esser considerati propria-
mente dei linguisti, e anche il Castiglioni e il Galvani lo erano solo in
un senso ormai arcaico. Il Cattaneo, conoscitore della nuova linguistica
e insofferente della provincialità degli studi italiani, non ignorava cer-
tamente ciò; ma in questo momento, di fronte a chi gli appariva ecces-
sivo lodatore dei tedeschi, sentiva il bisogno di schierare tutte le forze
della «linguistica italiana» in senso lato, senza distinzione di scuola.
Ma quello che soprattutto ferì il Cattaneo fu il vedersi menzionato,
insieme al Romagnosi, al Balbo e al Gioberti, tra quei «savj» italiani
che erano stati costretti, «e spesso con mal sicuro consiglio», ad «ac-
cattare fra gli stranieri» i frutti del sapere glottologico. Ciò equivale-
va a disconoscere del tutto la sua originalità in questo campo, nel qua-
le egli riteneva di non dovere molto neppure al suo amato maestro
Romagnosi. Il Balbo, poi, era stato proprio colui al quale il Cattaneo,
nella famosa recensione alla Vita di Dante, aveva impartito una seve-
ra lezione di linguistica,165 e quindi più che mai dovette dispiacere al
Cattaneo di essergli accomunato. «A torto vi avete annoverato (fra i
linguisti) Romagnosi e Balbo. Io qualche cosa ho scritto; e per dovere
e necessità inevitabile mi sono valso delle mie scarse letture straniere;

163
iLett. cit., p. 12. Cfr. G. D. Romagnosi in W. Robertson, Ricerche storiche sull’India antica,
Prato 18383, p. 366 sg., e Defendente Sacchi, ibid., p. 570. **
164
iAlcune tesi a cui il Cattaneo accenna in questa lettera erano state da lui sviluppate più
ampiamente nel saggio su L’antico Egitto e le origini italiche, pubblicato l’anno prima nel «Poli-
tecnico» (SL, II, p. 297 sgg.).
165
iVedi sopra, p. 341 sg. e n. 43.
X. Carlo Cattaneo e Graziadio Ascoli 379

ma mi parrebbe cosa piuttosto da lodarsi. I maligni diranno che ci ave-


te dato del savio per darci dell’asino. Anche Mazzini, in questi ultimi
dì, mi chiamò tenace, perché secondo lui non avrei saputo tenere; in
verità io non ho mai avuto».166 Così nella lettera; ma in una minuta
aveva scritto, più esplicitamente e con maggiore asprezza: «Ho vissu-
to quindici anni con Romagnosi né mai mi sono accorto che sapesse
altre lingue che il latino e il francese; certamente non vidi fra i suoi
libri un solo che fosse stato scritto in altre lingue, e se fosse stato vera-
mente dotto di lingue straniere, non era questo il caso di fargli un’ac-
cusa. Quando a Balbo, sapeva un po’ di tedesco, ma era in tutte le cose
un grande idiota. Per me avrò caro che nel mio giornale non mi dare-
te lodi, né censure. In questo caso poi non mi pare d’aver meritato né
le une né le altre, perché perdonatemi se ve lo dico schietto che negli
scritti di Marzolo ho ben trovato molte cose per me novissime, men-
tre in voi, giovine di belle speranze, lo spero ancora».167
Paolo Marzolo, che qui il Cattaneo contrapponeva all’Ascoli, era un
medico, etnografo e linguista che da molti anni lavorava a un’opera
vastissima, i Monumenti storici rivelati dall’analisi della parola.168 Giusto
e sano l’indirizzo generale, il fondamento ideologico dell’opera: il Mar-
zolo si ricollegava alla teoria epicurea dell’origine del linguaggio, svi-
luppata dai sensisti nel Settecento; respingeva, d’accordo col Cattaneo
e coll’Ascoli, le teorie mistiche degli Schlegel e la rigida classificazione
tripartita delle lingue, ma, nello stesso tempo, criticava il razionalismo
eccessivamente semplificatore di chi riteneva che tutte le lingue aves-
sero avuto uno stadio iniziale monosillabico.169 Faceva difetto, invece,
al Marzolo la specifica preparazione glottologica, e la sua stessa men-
talità era troppo «vichiana» per adattarsi al paziente e cauto lavoro del
ricercatore. L’Ascoli lo aveva conosciuto nel ’52 e aveva annotato nel
166
iPer questa allusione vedi Epist. IV, p. 9 e la nota del Caddeo.
167
iEpist. IV, p. 12 n. 4, 13 n. 5.
168
iI primi due volumi erano usciti a Padova, 1848-59; il resto rimase in massima parte ine-
dito. Sul Marzolo vedi M. Ceccarel, Della vita e degli scritti di P. Marzolo, Treviso 1870 (utile per
notizie biografiche, anche se eccessivamente apologetico); Gina Lombroso Ferrero, Cesare Lom-
broso, Bologna 19212, p. 25 sgg.
169
iVedi, contro le classificazioni troppo rigide, Monumenti cit., I, p. 10; contro il monosilla-
bismo originario, p. 15 sg. Non posso concordare col Terracini (in «Arch. glottol.» XIX, 1923-
25, p. 135) quando considera come una prova dell’arretratezza del Marzolo il suo interesse per i
problemi glottogonici: vedi più oltre, p. 413. Nemmeno mi pare opportuno accostarlo a Max Mül-
ler: il Marzolo era superiore al Müller in quanto era libero da preconcetti religiosi, mentre, d’al-
tra parte, gli rimaneva assai indietro quanto a preparazione specifica e a capacità di divulgazione.
380 X. Carlo Cattaneo e Graziadio Ascoli

suo diario: «Grandi lavori, forse però in parte anacronismi».170 Il Cat-


taneo era entrato in rapporti con lui nel ’60 e, più sensibile com’era agli
aspetti ideologici che a quelli strettamente linguistici, ne era rimasto
entusiasta.171 A lui, senza dubbio, alludeva nella chiuse del saggio sui
Tipi del genere umano, quando, dopo aver osservato che gli antropolo-
gi americani erano incapaci per i loro preconcetti razzistici di portare
più avanti la fiaccola della scienza, soggiungeva: «Tocca ai medici ita-
liani d’accenderla; e di precedere a noi tutti sull’arcana via».172
La contrapposizione Marzolo-Ascoli riappare, in forma ancor più
violenta, in una lettera che il Cattaneo scrisse al Daelli, ancora a pro-
posito della prolusione ascoliana: «Ieri vi ho rimandato la prova di
stampa del sig. Ascoli; la citazione che fa del mio nome con quelli di
Romagnosi e Balbo non ha senso comune. Non vale un dito di Marzo-
lo; se non vuole adottare gli altri miei consigli, pazienza; ma bisogna
assolutamente che cancelli i tre nomi».173
Nella sua risposta,174 rispettosa e fiera ad un tempo, l’Ascoli con-
trobatteva con giuste ragioni le obiezioni terminologiche del Cattaneo:
non era possibile abbandonare termini ormai entrati nell’uso generale,
come «semitico». Chiariva che, pur avendo chiamato «primigenia tra
le sorelle indoeuropee la lingua sanscrita», non aveva inteso «mettere
nell’India l’origine del sanscritismo». Con particolare calore replica-
va all’ultima osservazione del Cattaneo: «Io non ho messo Romagnosi
e Lei e Gioberti e Balbo tra gli orientalisti. Dissi, a lode di codesti savj
italiani (ossia di codesti litterati italiani d’ordine superiore), che essi
sentirono sete delle risultanze di simili studj, ma che furono sempre
costretti ad accattare presso gli stranieri, spesso con malo consiglio,
cotali frutti, causa la mancanza di studj italiani. Balbo ricorse alla lin-
guistica per le sue cose storiche, Romagnosi attese al sanscrito come
meglio poté nell’illustrare l’India di Robertson175 ed ha, p.e., quell’in-
felice ravvicinamento ** di sat e satya. Le compiego a mia discolpa il

170
iVedi «Annali della Scuola Normale» 1959, p. 162, e cfr. Silloge, p. XLIII. Vedi anche
più sotto, p. 408.
171
iVedi Epist. III, pp. 291, 313, 365; SSG, III, p. 128; M. Ceccarel, op. cit., p. 263: «Noi
ci rassomigliano come due gocce d’acqua – disse un giorno al pensatore veneto il pensatore lom-
bardo».
172
iSSG, III, p. 247. Su questo saggio del Cattaneo vedi sopra, p. 366 sgg.
173
iEpist. IV, p. 9 (12 gennaio 1862).
174
iPubblicata dal Caddeo in appendice a Epist. IV, p. 597 sgg.
175
iVedi qui sopra, nota 163.
X. Carlo Cattaneo e Graziadio Ascoli 381

brano della chiusa, perché certamente qualche equivoco ha cagionato


la sua doglianza, che mi avvilì».
Il desiderio che, all’inizio e alla fine della sua lettera, l’Ascoli espri-
meva di conoscere personalmente il Cattaneo, la «grandissima rive-
renza» e il «grandissimo affetto» che gli professara «come ebreo e
come italiano e come studioso», erano certamente sinceri. L’Ascoli
ammirava già allora, come sappiamo, la personalità etico-politica del
Cattaneo e l’opera da lui svolta per la cultura italiana in generale. Ma
non riconosceva nel Cattaneo un linguista, e nemmeno un pensatore
che avesse additato ai linguisti degli orientamenti importanti. Da que-
sto lato, anche la sua «discolpa», nonostante il suo tono appassionato,
non era tale da soddisfare il Cattaneo. L’Ascoli infatti poneva di nuo-
vo il Cattaneo tra quei «savj» la cui compagnia gli era così poco gra-
dita, e tornava a considerarlo come uno che aveva avuto «sete» di
scienza linguistica ma, evidentemente, non era riuscito a dissetarsi! Se
si fosse limitato a negare al Cattaneo la qualifica di linguista in senso
tecnico, avrebbe avuto perfettamente ragione; ma equipararlo col Bal-
bo e col Gioberti (o con lo stesso Romagnosi, che così fuggevolmente
si era interessato di problemi linguistici) significava non aver com-
preso la verità di certe intuizioni cattaneiane e nemmeno il vigore e
l’acutezza di certe sue opinioni erronee. D’altra parte – non c’è biso-
gno di aggiungerlo – il Cattaneo non aveva neppur lui intuito il valo-
re di quel giovane, il quale iniziava un’epoca nuova nella linguistica
italiana ed era destinato a lasciare negli studi glottologici una traccia
ben più profonda di quella di un Biondelli o di un Marzolo.
La prolusione dell’Ascoli uscì nel «Politecnico»176 senza il riferi-
mento esplicito al Cattaneo, al Romagnosi e agli altri, ma solo con l’ac-
cenno generico ai «nostri savj» (p. 303); le altre modifiche suggerite
dal Cattaneo non furono accolte. Il Cattaneo non dimenticò tanto
presto il disappunto cagionatogli da quel giudizio ascoliano. «Ella sa
– scriveva il 10 marzo del ’62 a Giovanni De Castro – che il sig. Asco-
li aveva trovato opportuno di far la prima comparsa nel giornale qua-
lificandomi d’ignorante col mio maestro Romagnosi. Il Politecnico era
una volta come lo stato maggiore d’un esercito; adesso è una tavola
rotonda. E così sia».177 E ancora, più di un anno dopo (nonostante che

176
iXII, 1862, p. 289 sgg.
177
iEpist. IV, p. 35.
382 X. Carlo Cattaneo e Graziadio Ascoli

l’Ascoli nel frattempo gli avesse scritto di nuovo, chiedendogli scusa


di certe espressioni vivaci della prima lettera): «Una volta ebbi a scri-
vere al prof. Ascoli che non potevo permettergli di venirmi a dar del-
l’asino in casa mia».178

Nel 1864 un altro lavoro dell’Ascoli, Lingue e nazioni, appariva nel


«Politecnico», la cui direzione era stata ormai abbandonata dal Cat-
taneo.179 Qui l’Ascoli affrontava il problema della diffusione degl’in-
deuropei e del modo con cui l’unica lingua indeuropea originaria si era
differenziata: cioè il problema centrale della linguistica cattaneiana.
«Due principali supposti etnologici – egli scriveva – tendono a darci
ragione del fenomeno de’ linguaggi ârj dell’Europa ... Delle due ipo-
tesi, l’una vuole che successivamente immigrassero nell’Europa inte-
ri popoli di idioma ârio ossia sanscritico, provenienti da commune
patria asiana; per l’altra, all’incontro, assai scarse immigrazioni di gen-
ti ârie sarebbero bastate a rendere, col tempo, ârioglossa una Europa
aborigena, riuscendo i pochi, in grazia della superiore civiltà, ad im-
porre la propria favella ai molti. Gli etnologi tedeschi stanno, in gene-
rale, per la prima ipotesi ... L’altro supposto, all’incontro, ha campioni
valentissimi in Italia».
Né in questo esordio, né in seguito il Cattaneo è nominato; ma tut-
to l’articolo è (anche se alcuni studiosi dell’Ascoli non sembrano esser-
sene accorti) una polemica contro il saggio cattaneiano Sul principio
istorico delle lingue europee. Le affinità tra il sanscrito, il greco e il lati-
no, dice l’Ascoli, sono troppo strette, le corrispondenze fonetiche e
morfologiche troppo precise e regolari, perché si possa attribuire al
sostrato un influsso così forte come quello che suppongono «i nostri
etnologi». Se la lingua greca o la latina fossero il risultato di «mistio-
ni eterogenee», non presenterebbero un organismo grammaticale così
saldo e coerente. Proprio questa regolarità è indice di sviluppo auto-
nomo, non turbato da intrusioni esterne. Quanto, poi, alle lingue ger-
maniche e balto-slave, l’ipotesi che il loro carattere indeuropeo sia
dovuto a tardi influssi latini o greci è particolarmente assurda, dal mo-

178
iIbid., p. 150 sg. (lettera ad A. Bertani, 12 maggio 1863). Per la seconda lettera dell’Ascoli
(23 luglio ’62) cfr. ibid., p. 600, nota.
179
i«Politecnico» XXI, 1864, p. 77 sgg. L’articolo è presentato in forma di «frammento»:
preceduto e seguito, quindi, da alcune righe di punti sospensivi.
X. Carlo Cattaneo e Graziadio Ascoli 383

mento che queste lingue presentano alcuni elementi molto più arcaici
dei corrispondenti latini e greci. «Dunque noi dovremmo credere che
il Goto, ad imitare il più civile Romano, balbettasse anthar per alter,
svaihra per socer, than-ja per tendo, e siu-ja per il latino suo, e thaursus
(secco) thaurus-ja (ho sete) storpiando il torreo dei Romani, e via così,
– quando la verità è all’incontro, che le corrispondenti forme sanscri-
te antara, çvaçura, tan, siv, tarsh (aver sete) ci attestano più genuine le
voci gotiche di quel che le latine non sieno? E il lituano, che nel suo
lessico, oggi ancora, conserva una meravigliosa purità sanscritica, il
lituano sarà il produtto di tenui innesti greci sull’ampio tronco bar-
barico?»180.
Come spiegare, allora, le differenze tra le lingue indeuropee? L’A-
scoli ricorreva all’ipotesi di emigrazioni successive: «La vetusta favel-
la âria, da cui derivano tutte le indo-europee, non poté per certo sot-
trarsi mai neppur essa alle influenze di tempo e di luogo, e perciò le
emigrazioni dalla commune patria asiana non portavano seco un idio-
ma affatto identico, se a varie epoche ne partivano e da varj punti del
suo territorio».181 L’origine prima delle differenze, dunque, andava
cercata in Asia, nell’evoluzione dell’indeuropeo comune (di cui le
diverse lingue-figlie rappresentavano diverse fasi cronologiche) e nel-
le differenziazioni dialettali che l’indeuropeo comune già racchiude-
va in sé. Altre differenze potevano anche essere «effetti di ulteriori
sviluppamenti», i quali però «per nulla rinnegano le origini» e quindi
non devono essere attribuiti al sostrato.182

180
iArt. cit., p. 81. Abbiamo già avuto occasione di osservare (p. 360 sg.) che la parte dedi-
cata alle lingue germaniche e slave era la più debole del saggio Sul principio istorico delle lingue
europee. Le osservazioni dell’Ascoli su questo punto erano, perciò, particolarmente fondate. Tut-
tavia, per rendere piena giustizia al Cattaneo, bisogna notare che: 1) già nel saggio Sul principio
ecc. egli non escludeva che le lingue germaniche e slave avessero subìto una prima indeuropeiz-
zazione in età preistorica, molti secoli prima che i Germani entrassero in contatto coi romani e
gli Slavi coi bizantini (cfr. SL, I, p. 182); 2) nel saggio su Le origini italiche ecc., pubblicato nel
’61 (cioè tre anni prima di Lingue e nazioni dell’Ascoli), il Cattaneo, correggendo in parte la sua
precedente opinione, dava maggiore rilievo a questo legame preistorico delle lingue germaniche,
baltiche e slave con le altre indeuropee (SL, II, p. 266 sg.). Probabilmente questo saggio non
era noto all’Ascoli.
181
iArt. cit., p. 83.
182
iIbid., p. 88. Così anche poco prima: «Per conguagliare il tedesco schlaf al greco hypnos,
o il latino suavis all’hêdys greco, e via dicendo, noi non abbiamo bisogno che della istoria natu-
rale del vocabolo ârio, ossia non ci vediamo costretti a ricorrere ad alcuna ipotesi di elementi
aborigeni od eterogenei, dacché non troviamo in alcun modo perturbati i naturali rivolgimenti
di quello».
384 X. Carlo Cattaneo e Graziadio Ascoli

Perfino per ciò che riguarda il lessico – cioè il campo in cui l’ipote-
si del sostrato incontra, in linea di principio, minori difficoltà – l’A-
scoli era molto riluttante ad ammettere elementi non indeuropei: «Per
fermo, non tutto il lessico italo-greco o germano-slavo potremmo o
sapremmo mai ricondurre ai vocabolarj indo-irani. Ma, generalmente
parlando, la parte di que’ lessici europei, che non è ancora dilucidata,
non presenta organismo diverso dal restante, e quindi non ne concede
sospettarvi una materia eterogenea, come sarebbe l’arabo nel persiano
o nel turco, oppur l’arameo nel pehlvi».183
Il Cattaneo, come si ricorderà, aveva molto insistito sul confronto
coi moderni fenomeni di colonizzazione per dimostrare che una mi-
noranza può, con la forza o col prestigio, imporre la propria lingua ad
una maggioranza, come era appunto accaduto, secondo lui, nel caso
degli indeuropei.184 L’Ascoli ribatteva che il confronto non era pro-
bativo, innanzi tutto perché in molti casi di colonizzazione moderna
il numero dei colonizzatori non era stato poi tanto esiguo, in secondo
luogo perché la capacità assimilatrice di uno stato moderno, con tutta
la sua organizzazione burocratica, scolastica, militare non può trova-
re riscontro in epoca preistorica.185 Insomma la non coincidenza di lin-
gua e razza, pur essendo un fatto universalmente vero, si manifesta
in modo sempre più accentuato via via che ci si allontana dalla prei-
storia: osservazione indubbiamente giusta, quantunque l’Ascoli se ne
valesse al di là del lecito, per tornare semplicemente ad asserire che «il
sangue ârio scorre in amplissima misura nelle vene dell’Europa», che
gli indeuropei sono un’unità antropologica e non solo linguistica. Egli
concedeva, tuttavia, al Cattaneo che gli invasori indeuropei fossero
stati pochi, purché si ammettesse che avessero trovato in Europa un nu-
mero di aborigeni ancor minore: «Le proporzioni che noi stabiliamo
tra Aborigeni ed Arj non importano il concetto che gli ultimi venisse-
ro gran fatto numerosi, bensì, in generale, la scarsissima presenza dei
primi. Stimiamo cioè, contro l’opinione degli etnologi tedeschi, che
picciole colonie ârie, passate, in remotissimi tempi, nell’Europa deser-
ta, o pressoché deserta, siano le generatrici de’ nostri popoli ârj».186

183
iIbid., p. 89 sg.
184
iVedi sopra, p. 352 sg.
185
iArt. cit., p. 91.
186
iIbid., p. 90. Cfr. anche Studj critici, II, Roma-Torino 1877, p. 50 (= «Politecnico» 1867)
in cui l’Ascoli dichiara di accostarsi, «non senza però varie restrizioni», all’opinione che «popolo
X. Carlo Cattaneo e Graziadio Ascoli 385

Qualche maggiore concessione alla teoria del sostrato l’Ascoli face-


va passando dalla linguistica indeuropea alla romanza. Tuttavia anche
qui prevaleva in lui la diffidenza: «Certe particolari disuguaglianze del
volgare italico vedremmo poi riflesse nei dialetti della nostra penisola.
E saremmo tentati a cercarvi additamenti etnologici; non immemori
della grande cautela che qui si domandi nelle illazioni, le coincidenze
fortuite potendo scambiarsi per affinità genetiche; ma persuasi, d’al-
tronde, che nessuno indizio abbia ad essere trascurato, solo dall’am-
pia indagine potendo sperarsi definitivi giudizj ... Non ci asterremo
però dall’avvertire, come da taluno si metta soverchia speranza nella
significazione etnografica delle particolarità organiche e quindi de’
confini territoriali che gli odierni dialetti ne esibiscono; molte delle
quali ponno avere intera spiegazione dal lavoro del tempo e dalla dif-
ferente epoca o spessezza della sovrapposizione romana, senza che sia
d’uopo ricorrere a varietà essenziali negli strati».187
Questa diffidenza non era caratteristica del solo Ascoli, ma comu-
ne a tutta l’indeuropeistica ufficiale intorno alla metà dell’Ottocen-
to. La concezione, che allora predominava, del linguaggio come «orga-
nismo naturale» conduceva logicamente ad attribuire i mutamenti
linguistici all’intima vita vegetativa del linguaggio stesso più che ad
influssi esterni. Come gli esseri viventi nascono, si sviluppano, invec-
chiano e muoiono, così le lingue. Già Orazio, in un famoso passo del-
l’Arte poetica (60 sgg.), aveva paragonato alla breve vita delle foglie la
mutevolezza dell’uso linguistico; ma i linguisti ottocenteschi – sopra
tutti lo Schleicher –, considerando il linguaggio alla stregua di un esse-
re vivente, non intendevano metterne in evidenza semplicemente la
mutevolezza o la caducità, ma piuttosto l’ i n c o n s a p e v o l e
r e g o l a r i t à del mutamento, la sua obbedienza a leggi indipendenti
dalla volontà dei parlanti. Ora, proprio tale assolutezza delle leggi
fonetiche implicava che esse non fossero condizionate da eventi acci-
dentali – come l’incrocio di stirpi diverse –, ma avessero la loro causa
solo in tendenze generali dell’organismo umano (ricerca del minimo
sforzo ecc.). «La credenza generalmente diffusa – scriveva nel 1859 lo
Schleicher – secondo la quale il mutamento di una lingua avverrebbe

di lingua ariana» e «popolo di sangue ariano» siano la stessa cosa, contro la tesi «del Cattaneo,
del Rosa e del Benfey».
187
iIbid., p. 97 sg. Questo invito alla prudenza era probabilmente rivolto non solo al Catta-
neo, ma anche al Biondelli, il quale classificava i dialetti italiani appunto in base al sostrato.
386 X. Carlo Cattaneo e Graziadio Ascoli

soprattutto in seguito all’influsso di altre lingue parlate da popoli con


cui, in periodi storici agitati, si verifica un intimo contatto, è da con-
siderarsi accettabile solo in misura assai limitata. I mutamenti che una
lingua subisce in seguito all’introduzione di parole straniere, o all’a-
nalogia con fenomeni linguistici stranieri, sono assolutamente insi-
gnificanti in confronto alle profonde trasformazioni che hanno origi-
ne dall’interno della lingua stessa, per effetto di processi necessari».188
Questa opinione era sostanzialmente condivisa dall’Ascoli al tempo in
cui scrisse Lingue e nazioni, anche se, come appare da alcune espres-
sioni che abbiamo riportato sopra, egli non era del tutto d’accordo con
lo Schleicher nel ritenere che i mutamenti linguistici in epoca storica
fossero solo una manifestazione di «decadenza».
Anche per ciò che riguardava, più specificamente, la differenzia-
zione linguistica (ossia la nascita di più lingue da un’unica lingua-
madre), i glottologi di metà Ottocento cercavano il più possibile di
fare a meno del sostrato. Già nella linguistica pre-scientifica, del resto,
c’erano stati dei tentativi di attribuire la differenziazione o all’influs-
so dei diversi climi,189 o al semplice fatto che, in un territorio molto
esteso e senza un forte accentramento politico-culturale, finiscono per
forza col manifestarsi delle ineguaglianze nello sviluppo di una lingua.
Così già Dante aveva osservato che «si per eandem gentem sermo va-
riatur ... successive per tempora, nec stare ullo modo potest, necesse
est ut disiunctim abmotimque morantibus v a r i e v a r i e t u r».190
Così, in tempi più vicini a quelli di cui ci occupiamo, il Leopardi ave-
va messo in dubbio la teoria maffeiana del sostrato: «Sebbene un
popolo conquistatore trasporti e pianti la sua lingua nel paese conqui-
stato, e d i s t r u g g a a n c h e d e l t u t t o l a l i n g u a p a e-
s a n a, la sua lingua in quel tal paese appoco appoco si altera, finat-
tanto che torna a diventare una lingua diversa dalla introdottaci ...
Questa impossibilità naturale e positiva dello estendersi una lingua più
che tanto, in paese, e in numero di parlatori (o provenga dal clima che
diversifichi naturalmente le lingue, o da qualunque cagione), non è

188
iA. Schleicher, Die Deutsche Sprache, Stuttgart 1859 (2a ed. 1869, p. 36).
189
iVedi per esempio Condillac, Essai sur l’orig. des connoiss. hum., in Oeuvres, I, Parigi 1798,
p. 432. Questa teoria, naturalmente, era in stretto rapporto con quella che attribuiva al clima
le differenze fisiche tra le razze. L’influsso del clima era limitato o negato dai poligenisti (lin-
guistici e razziali), tra cui il Cattaneo: vedi SSG, II, p. 118; SF, II, p. 345 sg.
190
iDe vulg. eloq., I, 9.
X. Carlo Cattaneo e Graziadio Ascoli 387

solamente dipendente dalla mescolanza di altre lingue che guastino


quella tal lingua che si estende ...: ma è un’impossibilità materiale,
innata, assoluta, per cui, quando anche tutto il resto del mondo fosse
vuoto, o muto, quella tal lingua, dilatandosi più che tanto, si divide-
rebbe presso a poco in più lingue».191
Ma mentre nella linguistica pre-scientifica queste opinioni erano
rimaste in minoranza di fronte a quelle che spiegavano la differenzia-
zione con la mescolanza etnica, nell’indeuropeistica ufficiale aveva-
no prevalso. Se Friedrich Schlegel, come vedemmo, attribuiva anco-
ra la diversità tra le lingue indeuropee a «fremde Einmischung», già
August Wilhelm Schlegel dava la preminenza ai fattori interni,192 e lo
Schleicher scriveva semplicemente, senza accennare al sostrato: «Il
mutamento linguistico non si compie in modo uniforme in tutto il ter-
ritorio occupato da una lingua. In seguito a tale mutamento non uni-
forme, nelle diverse parti del territorio si sviluppano, a lungo andare,
da un’unica lingua-madre più lingue, le quali a loro volta si frazionano
in più dialetti e così via».193
Assai più tenacemente che nella linguistica indeuropea, la teoria del
sostrato resisteva in quello che era stato il suo terreno d’origine: la lin-
guistica romanza. Qui l’influsso delle lingue preromane sul latino era,
in certa misura, documentabile: si comprende perciò come anche in-
torno alla metà dell’Ottocento la teoria trovasse difensori tra i roma-
nisti,194 e come l’Ascoli stesso la considerasse meno improbabile nel-
l’ambito romanzo che nell’indeuropeo. Tuttavia colui che per primo
applicò alla linguistica romanza il rigore delle leggi fonetiche, Friedrich
Diez, cercò di limitare l’influsso del sostrato il più possibile;195 ancor

191
iZib., 933 sg.
192
iA. W. Schlegel, Oeuvres écrites en français, III, Lipsia 1846, p. 67 (nello scritto De l’origi-
ne des Indous, del 1833). Più affezionato all’idea della mescolanza etnico-linguistica si manten-
ne W. von Humboldt (Ges. Schriften ed. Leitzmann, VI, 1, p. 280 sgg.): anch’egli, tuttavia, con
forti restrizioni.
193
iDie Deutsche Sprache cit., p. 27; cfr. p. 58, e Compendium4, 1876, p. 4.
194
iVedi specialmente Claude Fauriel, Dante et les origines de la langue et de la littér. italienne,
Parigi 1854, II, p. 297 sgg., i cui argomenti saranno poi ripresi dallo Schuchardt, Der Vokali-
smus des Vulgärlateins, I, Lipsia 1866, p. 85 ** [(accenno ostile a Fauriel in Stendhal Vie de
H. Brulard, c. IX, p. 91 ed. Martineau, Class. Garnier).].
195
iVedi F. Diez, Grammatik der Roman. Sprachen, I2, Bonn 1856, p. 74: «Was nun die
Bestandtheile der italienischen Schriftsprache betrifft, so ist vornweg anzuerkennen, dass sie
nicht eine Spur der nur auf Erz- und Steinplatten, auf Vasen und Münzen uns überlieferten
Reste altitalischer Sprachen enthält: dasselbe scheint auch von den Mundarten zu gelten»; solo
388 X. Carlo Cattaneo e Graziadio Ascoli

più oltre in questa direzione si spingerà poi il Meyer-Lübke. E al Diez,


più che al Cattaneo, era ancora vicino l’Ascoli di Lingue e nazioni.

2. Quali reazioni suscitò nel Cattaneo questo nuovo articolo del-


l’Ascoli? Fu esso preceduto o seguito da discussioni orali o epistolari
tra i due studiosi? Purtroppo lo ignoriamo. Non si conoscono per ora
lettere del Cattaneo all’Ascoli o dell’Ascoli al Cattaneo posteriori a
quelle, già ricordate, del 1862; anche in lettere del Cattaneo ad altri,
l’Ascoli non è mai rammentato dopo quell’accenno ostile nella lettera
al Bertani del 12 maggio 1863.196
Certo essi si conobbero personalmente: il 15 dicembre del ’64, nel-
la medesima seduta dell’Istituto Lombardo, il Cattaneo lesse un bra-
no della sua Psicologia delle menti associate e l’Ascoli alcuni suoi Fram-
menti linguistici.197 Anche in altre sedute si trovarono insieme.198
Che negli ultimi anni di vita del Cattaneo i loro rapporti personali
fossero migliorati, lo si può arguire dal fatto che, quando il Cattaneo
morì (1869), l’Ascoli fu nominato relatore della commissione per le
solenni onoranze alla sua memoria. Nella relazione che egli lesse all’i-
stituto il 18 febbraio di quell’anno199 c’è una frase che va oltre il puro
e semplice elogio di circostanza all’illustre collega scomparso: «Impe-
rocché in Carlo Cattaneo, che si è spento lontano dalla nostra sede e
fuori del regno, si rimpianga il promotore di pressocché tutti gli studj
ai quali l’istituto nostro intende, si rimpianga l’uomo, il quale rin-
novando e ravvivando, tra noi, ogni disciplina economica, letteraria,
istorica, fisica, speculativa e industriale, in sé raccolse tanta somma
di civile efficacia, che, giunta l’ora della riscossa politica, ei parve a
tutti il natural moderatore del paese risorto». Qui c’è un’implicita, ma
indubbia polemica contro i moderati che, a cominciare dal Cavour,
avevano cercato di diminuire il prestigio del Cattaneo non solo nella
vita politica italiana, ma nello stesso Istituto Lombardo;200 c’è la deci-
a p. 220 n. ammette l’origine osca di nd > nn nei dialetti italiani meridionali. Anche per l’influsso
celtico sul francese il Diez era molto scettico (ibid., pp. 116, 426; Etymol. Wörterbuch3, Bonn
1869, p. XX).
196
iVedi qui sopra, nota 178.
197
iCfr. «Rendic. Ist. Lomb.», scienze morali, I, 1864, pp. 182 sgg., 185 sgg.
198
i7 luglio 1864 («Rendic.» cit., I, p. 101); 16 agosto 1866 (ibid., III, p. 213).
199
i«Rendic.» cit.; serie 2a, II, 1869, p. 222 sgg. Cfr. anche a p. 374 la nomina dell’Ascoli
nel comitato che avrebbe dovuto curare l’edizione delle opere del Cattaneo.
200
iCfr. Epist., III, pp. 232, 367 e molti altri accenni nelle lettere degli anni 1859-61; vedi
anche le note del Caddeo a pp. 265, 295.
X. Carlo Cattaneo e Graziadio Ascoli 389

sa affermazione che il Cattaneo avrebbe dovuto essere il leader, se non


propriamente politico, almeno morale e culturale della nuova Italia.
Ma anche nel campo linguistico ed etnografico assistiamo, dal ’67
in poi, ad un graduale avvicinamento dell’Ascoli a quelle idee del Cat-
taneo che egli aveva dapprima combattuto. La teoria del sostrato, che
l’Ascoli ancora in Lingue e nazioni aveva negato senz’altro nell’ambi-
to indeuropeo e accettato solo in minima parte e con mille riserve nel-
l’ambito romanzo, assume un’importanza sempre crescente nel pen-
siero linguistico ascoliano. Nei Saggi ed appunti del 1867, a Demetrio
Camarda che voleva ricondurre interamente l’albanese al sottogrup-
po «italo-greco» delle lingue indeuropee201 l’Ascoli obiettava: «Ma il
quesito è veramente questo: I fenomeni fonetici, morfologici e les-
sicali, pei quali l’albanese riesce ad avere la sua propria fisionomia,
rappresentano essi la reazione o i resti d’una favella, che ancora non
sappiam determinare, alla quale si sovrapponessero e la ellenica e la
latina, oppur si possono anche essi in qualche modo ricondurre all’u-
nità italo-greca?».202 L’Ascoli propendeva nettamente per la prima ipo-
tesi: bisogna individuare e raccogliere, diceva, «que’ fenomeni di ori-
ginalità» dell’albanese i quali costituiscono «i resti e i vestigi, più o
meno abbondanti, d’un idioma affatto speciale»: un idioma che potrà
anche essere indeuropeo (l’Ascoli non si pronunziava su tale questione,
che era stata oggetto di controversia tra il Bopp e il Pott), ma che ha
comunque una sua individualità distinta da quella del greco e del lati-
no. Questo, che egli chiamava il «substrato originale dell’albanese»,
non è ancora il «sostrato» nel senso oggi usuale, è piuttosto il «fondo
primitivo» di una lingua che, al pari dell’inglese ma in misura ancora
più forte, ha poi accolto un gran numero di elementi lessicali fore-
stieri. Ma all’Ascoli questo fondo primitivo interessava anche come
spia di una comune lingua balcanica che, a parere suo come del Mi-
klos#ic! e di altri studiosi, traspariva in alcuni fenomeni linguistici ro-
meni e bulgari; e qui nel caso del romeno e del bulgaro, si trattava
proprio del sostrato nel senso nostro. Tra questi fenomeni l’Ascoli
annoverava la posposizione dell’articolo, comune all’albanese, al ro-
meno e al bulgaro: «singolarissima concordanza di tre diverse favelle

201
iD. Camarda, Saggio di grammatologia comparata della lingua albanese, Livorno 1864. Que-
sta tesi era stata già sostenuta dallo Schleicher.
202
i«Politecnico» XXX, 1867, parte letterario-scientifica, p. 301 = Studj critici, II, Roma-
Torino 1877, p. 64.
390 X. Carlo Cattaneo e Graziadio Ascoli

contigue, la quale è dai linguisti ritenuta per documento non dubbio


di comune substrato aborigeno».203 È interessante notare che proprio
questo, che fu il primo caso di sostrato ammesso esplicitamente dal-
l’Ascoli, era stato, invece, uno dei pochi casi a cui il Cattaneo, contro
il parere di altri studiosi, si era rifiutato di applicare l’ipotesi del
sostrato da lui prediletta. «Questa maniera di classificar le nazioni su
la sfumata simiglianza d’una sola forma grammaticale – aveva ammo-
nito il Cattaneo – è troppo ardita. Altronde il supporre che avanti la
conquista romana una sola purissima stirpe occupasse tutta l’immen-
sa valle che si stende dall’Emo ai Carpazi, è veramente assurdo».204
Quest’ultima fase ci spiega l’atteggiamento, a prima vista strano, del
Cattaneo: il sostrato costituiva per lui un principio di differenziazione,
non di unità: serviva a spiegare le varietà dialettali all’interno di una
lingua, o le differenze tra le lingue di una stessa famiglia, non a rico-
noscere, al di sotto delle differenze, un elemento comune originario;
il suo principio basilare, come sappiamo, era che le lingue «dovevano
esser più divergenti quanto erano più antiche», e quindi egli non pote-
va ammettere che la penisola balcanica, così varia oggi dal punto di vi-
sta etnico e linguistico, avesse costituito un’unità omogenea in tempi
preistorici.
Ad ogni modo, anche se nella valutazione di questo particolare fe-
nomeno balcanico l’Ascoli dissentiva ancora una volta dal Cattaneo,
dimostrava però di avere attenuato notevolmente la sua diffidenza per
la teoria del sostrato, ancora così forte al tempo di Lingue e nazioni. Un
altro passo in questa direzione egli compì nelle Lezioni di fonologia com-
parata del sanscrito, del greco e del latino, pubblicate a Torino nel ’70: qui
attribuiva a influsso del sostrato aborigeno le cerebrali del sanscrito, un
fatto, dunque, fonetico; e soggiungeva a conferma: «L’ü della Gallia ...
è tra’ più facili esempj analoghi, e non il meno calzante».205

Dopo il ’70, come è noto, l’Ascoli si occupò sempre meno di lin-


guistica indeuropea e concentrò le sue indagini, e quelle dei suoi sco-

203
i«Politecnico» cit., p. 302 = Studj crit., p. 66 sg. Su questo fenomeno «balcanico», che sarà
da attribuire al contatto fra le tre lingue in epoca storica (se non addirittura ad una coinciden-
za casuale), piuttosto che ad un sostrato tracio o illirico, cfr. C. Tagliavini, Sulla questione della
posposizione dell’articolo, in «Dacoromania» III, 1924, p. 515 sgg.
204
iSL, I, p. 277 sg.
205
iOp. cit. nel testo, p. 240. Sull’ü vedi più oltre, pp. 400-01.
X. Carlo Cattaneo e Graziadio Ascoli 391

lari e seguaci, sui dialetti italiani. L’«Archivio glottologico italiano»,


fondato nel ’73, fu «italiano» non solo perché composto e pubblicato
in Italia, ma anche per gli argomenti trattati, mentre la prima pubbli-
cazione periodica tentata dall’Ascoli giovane, gli «Studj orientali e lin-
guistici», si era estesa ad un campo d’indagini assai più vasto e remo-
to.
Non credo che le ragioni di questa svolta si possano ricercare in un
orientamento generale della linguistica europea intorno al ’70. Se in
quell’epoca fiorivano – sotto la guida del Diez, del Tobler, di Gaston
Paris – gli studi romanzi, non era certo rallentato il lavoro di «rico-
struzione» dell’indeuropeo: basti ricordare i contributi di Curtius, di
Fick, di Kuhn, e il successo ottenuto dallo stesso Ascoli con la sua teo-
ria delle gutturali. È probabile che – come mi suggerisce Arnaldo
Momigliano – il fallimento degli studi di comparazione ariosemitica,
su cui ritorneremo nelle ultime pagine del presente saggio, abbia con-
tribuito a distogliere l’Ascoli dai tentativi di ricostruzione preistorica,
anche entro il solo ambito indeuropeo. Ma il motivo principale per cui
egli si consacrò alla dialettologia italiana fu, a mio parere, l’esigenza
di unire ancor più intimamente la disciplina da lui professata alla vita
culturale della nazione, di creare una scuola, saldamente organizzata
sul modello tedesco, la quale esplorasse in modo sistematico la varia e
complessa fisionomia linguistico-etnografica dell’Italia e ne illustras-
se la formazione storica.206 Un’esigenza in certa misura analoga avea
già spinto Jacob Grimm a studiare la lingua tedesca e a scriverne la
storia; ma dal patriottismo romantico e misticheggiante dei Grimm (e,
più ancora, di altri della loro cerchia) si distingueva nettamente il
patriottismo ascoliano, immune da chiusure nazionalistiche,207 ispira-
to da ideali illuministici di libertà e di tolleranza religiosa. Su questo
punto il fondo originario di idee e di sentimenti suggeriti all’Ascoli
dalla sua condizione di israelita e dai contatti con altri intellettuali
ebrei della Venezia Giulia208 era stato poi rafforzato dall’influsso del
Cattaneo e di tutto l’ambiente lombardo, uno dei meno angustamente
nazionalistici d’Italia. Non sarà inutile ricordare, del resto, che anche
nella vicina Torino un linguista di fine ingegno, Giovanni Flechia,
amicissimo dell’Ascoli, compiva in quegli stessi anni un analogo pas-

206
iCfr. «Annali della Scuola Normale» 1959, p. 156.
207
iCfr. «Archivio glottologico» I, p. XXXIV sg.
208
iSull’ambiente ebraico nel quale si formò l’Ascoli vedi sopra, nota 142.
392 X. Carlo Cattaneo e Graziadio Ascoli

saggio dall’indianistica alla dialettologia italiana, e diveniva un pre-


zioso collaboratore del periodico fondato dall’Ascoli.
Ma lo studio dei dialetti italiani e della formazione dell’italiano let-
terario non aveva per l’Ascoli un interesse esclusivamente storico o
storico-patriottico: doveva anche servire a portar chiarezza nella «que-
stione della lingua», rinfocolata in quegli anni dallo scritto del Man-
zoni Dell’unità della lingua e dei mezzi per diffonderla e dall’inizio della
pubblicazione del Novo vocabolario di G. B. Giorgini.209 Nel proemio
dell’Ascoli al primo volume dell’«Archivio glottologico», è attuata
quell’unità di linguistica storica e normativa che, come abbiamo visto
nella prima parte di questo saggio, era un’esigenza profondamente
sentita dal Cattaneo. La posizione assunta dall’Ascoli contro il fio-
rentinismo angusto del Manzoni e, peggio, dei manzoniani si riattacca
direttamente alle idee del Cattaneo, le quali a loro volta, come sap-
piamo, erano uno sviluppo dei principii enunciati da Monti e Pertica-
ri nella Proposta. Su questo problema vi è dunque, e non è stata forse
abbastanza messa in luce finora, una continuità di quella che si può
chiamare la tradizione classicista-illuminista lombarda.210 Una conti-
nuità, certo, non statica: mentre il Perticari cercava ancora di difen-
dere la teoria dantesca del volgare illustre come quintessenza di tutti
i dialetti italiani, già il Cattaneo si era reso conto che il fondo dell’i-
taliano letterario è innegabilmente fiorentino,211 e che l’errore dei fio-
rentinisti consisteva solo nel ripudio di tutto quel processo storico di
selezione e di arricchimento per cui il fiorentino era divenuto lingua
nazionale; e l’Ascoli sviluppò ulteriormente questa tesi e le dette il
sostegno di una dottrina storico-linguistica ben più vasta ed esatta. E
ancora: mentre il Perticari era più classicista che illuminista, cioè bat-
teva l’accento sul valore della tradizione e dell’aulicità in quanto tali,
già il Monti, e ancor più il Cattaneo e l’Ascoli, erano soprattutto desi-
209
iVedi M. Vitale, La questione della lingua, Palermo 1960, pp. 167 sg., 204, 209 sgg.; B. Mi-
gliorini, Storia della lingua italiana, Firenze 1960, p. 687 sgg.; G. Devoto, G. I. Ascoli di fronte
al Manzoni, in Nuovi studi di stilistica, Firenze 1962, p. 169 sg.
210
iIl Vitale (op. cit., p. 167) ricorda il Cattaneo come precursore dell’Ascoli solo a proposi-
to della teoria del sostrato, ma non per la questione della lingua. Il Goidánich (Silloge, p. XVIII)
ricollega giustamente la posizione dell’Ascoli a quella del Monti, ma trascura il Cattaneo. A que-
st’ultimo accenna giustamente A. Schiaffini in «Italia dialettale» V, 1929, p. 165 n. 2 (tutto l’ar-
ticolo è importante).
211
iContro la parte storica degli scritti del Perticari alcune osservazioni giuste erano state fat-
te già dal Tommaseo e (con maggiore dottrina, benché in stile estremamente prolisso) da Gio-
vanni Galvani: cfr. M. Vitale, op. cit., pp. 194 sg., 265.
X. Carlo Cattaneo e Graziadio Ascoli 393

derosi di adeguare lo strumento linguistico alle esigenze di una cultura


nazionale moderna, e una lingua troppo familiare e popolareggiante
spiaceva loro proprio in quanto inadatta a quelle esigenze (quantun-
que non si possa negare che anche su di loro la tradizione classicista
continuasse, in parte, a pesare negativamente). Gli avversari stessi,
del resto, si erano andati evolvendo: al fiorentinismo arcaizzante del-
la Crusca era succeduto il fiorentinismo dell’uso attuale, propugnato
dal Manzoni con ragioni molto più valide.212 Ma alla radice dell’uno e
dell’altro vi era pur sempre quell’ambiguo concetto di «popolarità»
(intesa come ingenuità nativa e non come spirito democratico) che già
notammo nel romanticismo. Riprendendo le osservazioni del Catta-
neo contro l’uso di nuovi fiorentinismi, l’Ascoli scriveva: «Prima si
aveva (e dura ancora per molti) l’ideale della tersità classica; ora sor-
ge l’ideale della tersità popolana; ma è sempre idolatria ... L’ideale del
classicismo di certo non si attagliava al concetto della vera unità nazio-
nale; ma a questo non ripugna meno, od anzi gli ripugna ben di più, il
nuovo ideale del popolanesimo ...: E se è vero, come anzi ci mostrano
di continuo, che nelle regioni dell’Arte corra un legame, più ancora
stretto che non sia altrove, fra il pensiero e la forma, l’arte medesima
non avrà forse gran fatto a rallegrarsi di questa infinita brama di fio-
rellini, placidamente raccolti sull’ajuola nativa, che ora vorrebbe dire
l’unica ajuola fiorentina. Non mai, per avventura, l’Arte si sarebbe
messa in maggiore antitesi con quella virile civiltà a cui pur l’Italia
virilmente aspira; né mai si sarebbe più fatalmente scambiato, sotto
le apparenze di serbar puro il carattere nazionale, quel di poetico o di
terso che la lunga immobilità dei secoli può conferirci, col genuino e
sempre nuovo suggello che i popoli robusti imprimono nella sostanza
e nella forma di quella parte che a loro spetta nel comune lavoro del-
le genti civili».213 Non si trattava, dunque, di un puro e semplice con-
trasto fra le esigenze normative (impersonate dal Manzoni) e le esi-
genze storiche (impersonate dall’Ascoli). L’Ascoli non polemizzava
contro qualsiasi normatività, ma contro quella normatività manzonia-
na, che rischiava di ridurre tutta la cultura italiana alla misura di un
«buon senso» un po’ angusto. L’Ascoli negava a Firenze il diritto di

212
iVedi ciò che a questo proposito osservava l’Ascoli in A. Cesari, Elogi italiani e latini a cura
di G. Guidetti, Reggio Emilia 1898, p. XLIX sg.
213
iArch. glottol.», I, p. XXX sg., da confrontare con C. Cattaneo, SL, I, pp. 8, 115-17, 239-
50.
394 X. Carlo Cattaneo e Graziadio Ascoli

continuare a legiferare in materia di lingua proprio perché Firenze


aveva perduto ormai da secoli il ruolo di capitale culturale della nazio-
ne, perché era ormai solo il luogo d’origine della nostra lingua, non il
centro della vita civile italiana.214 Anche nel giudizio sul Manzoni, in
cui l’ammirazione per l’artista si univa al dissenso dalla sua teoria lin-
guistica e ad alcune giuste riserve sullo stile delle sue prose filologiche
e filosofiche, l’Ascoli seguiva le orme del Cattaneo.215
Sempre più, ora, lo studio dei dialetti italiani, compiuto con inte-
resse non puramente linguistico ma anche storico-etnografico, portava
l’Ascoli a rivalutare la teoria del sostrato. Nel proemio all’«Archivio
glottologico» c’è, sì, ancora un ammonimento contro il pericolo di far
risalire con troppa facilità voci italiane «ad una o più d’una favella del-
l’antica Italia, che sia o s’imagini disforme, o almeno affatto diver-
gente, dalla lingua che ci sta dinanzi nella letteratura di Roma»;216 ma
esso prende di mira etimologie avventate di singole parole, non la teo-
ria del sostrato nel suo complesso, soprattutto se applicata alla foneti-
ca; tant’è vero che due pagine dopo l’Ascoli assegna alla dialettologia
romanza il compito principale di «scoprire, scernere e definire, a lar-
ghi ma sicuri tratti, gli idiomi e quindi i popoli che ben soggiacquero
a quella potente parola,217 ma sempre riagendo sopra di lei con mag-
giore o minor forza, per guisa che ciascuno di loro la rifrangesse in
diversa maniera, e rivivesse, in qualche modo, sotto spoglie romane».
Tra le varie lingue dell’Italia preromana di cui si potevano ricono-
scere le tracce nei dialetti italiani, il celtico fu quella a cui l’Ascoli
rivolse la maggiore attenzione.218 Contribuirono a ciò, probabilmente,

214
iIbid., pp. xii («Se Firenze fosse potuta diventare Parigi» ecc.), xxx («l’Europa dice che
l’Italia politica e pensante» ecc.).
215
iSi confronti C. Cattaneo, SL, I, p. 244 («Ben vi fu ai nostri giorni un grande scrittore»
ecc.) con l’Ascoli, p. XXVIII. Vedi anche, su certe qualità negative dello stile manzoniano appli-
cato alla trattazione di argomenti storici e scientifici, la bellissima lettera dell’Ascoli pubblicata
nella «Perseveranza» del 12 aprile 1880 e ristampata in appendice all’ediz. del Proemio a cura
di A. Camilli, Città di Castello 1914.
216
iP. XXXVII. Insieme a questo, l’Ascoli indica il pericolo dell’«indomania», cioè del deri-
vare direttamente voci italiane dalle «remote fonti dell’Asia ariana». Uno di coloro a cui questi
ammonimenti erano rivolti era il Caix: cfr. «Arch. glottol.» X, p. 1 sgg.
217
iCioè la parola di Roma. «Parola» per «lingua», o meglio per «caratteri specifici di una
data lingua», è termine caro all’Ascoli.
218
iOltre al vol. V dell’«Arch. glottol.»; vedi anche il vol. II, 1876, pp. 160 («vere e proprie
trasformazioni specifiche che il substrato gallico fa subire alla parola di Roma»), 445 («quella
che si potrebbe dire l’acutissima fra le spie celtiche, cioè dell’é = A latino»), e moltissimi altri
passi. Cfr. C. Merlo in Silloge, p. 602 sgg.
X. Carlo Cattaneo e Graziadio Ascoli 395

l’amore per la Lombardia, sua seconda patria, e gli studi che già il
Biondelli e il Nigra avevano dedicato ai dialetti «gallo-italici».219 Nel-
la prefazione alla monumentale edizione (rimasta purtroppo incom-
piuta) del Codice Irlandese dell’Ambrosiana,220 egli stesso dichiarava:
«Il principale fra i motivi, che m’indussero a accostarmi agli antichi
monumenti del linguaggio dei Celti, è stato il desiderio di conseguire
quell’idea più viva, che ancora si potesse, della favella colla quale il
latino venne a lottare nelle Gallie, e che bene a lui soggiacque, ma non
senza riagir sopra di lui nel modo più gagliardo. Se non si poteva
ricomporre, intera e perspicua, tal fase di linguaggio che rappresen-
tasse i Galli ancora affatto indipendenti dai Latini, non potevamo
almeno rifar ben vive nel nostro spirito quelle condizioni idiomato-
logiche, in mezzo alle quali son nati, nella Cisalpina, Virgilio e Tito
Livio?». Così il vagheggiamento dell’Italia preromana, o appena roma-
nizzata, dopo aver dato vita a tante ricostruzioni più o meno fanta-
siose, ispirava una seria opera glottologica. E a sua volta, lo studio dei
sostrati italici sempre più induceva l’Ascoli a ricorrere ad ipotesi ana-
loghe per spiegare peculiarità di altre lingue indeuropee, non escluso
il sanscrito.221

3. L’anno 1878, in cui l’Ascoli pubblicò il suo grande lavoro sul cel-
tico, è anche l’anno di nascita ufficiale della scuola neogrammatica
in Germania. Nella prefazione al primo volume delle Morphologische
Untersuchungen, Brugmann e Osthoff enunciavano i principii fonda-
mentali del nuovo indirizzo: ineccepibilità delle leggi fonetiche; carat-
tere psicologico dei mutamenti linguistici; necessità di studiare le lin-
gue vive e di portare l’esperienza di questo studio anche nel lavoro di
ricostruzione preistorica. Insorgevano contro la baldanza della nuova
scuola il Curtius, Johannes Schmidt, lo Schuchardt. E quando, con la
traduzione dell’Einleitung di B. Delbrück compiuta da Pietro Merlo,222

219
iPer il Biondelli vedi sopra, p. 349. Il Nigra, nella prefazione alle Glossae Hibernicae vete-
res codicis Taurinensis (Parigi 1869, p. xxxii), formulò molto nettamente la tesi del sostrato fone-
tico: «Dum Celtae a Romanis glossarium et grammaticam mutuantur, propriam phonologiam
servaverunt. Latinam linguam accomodaverunt legibus Celticae phonologiae, propriis, ut ita
dicam, organis propriaeque pronuntiationi». Egli aveva iniziato anche il lavoro di edizione del-
le glosse ambrosiane, ma preferì che lo continuasse l’Ascoli (cfr. «Arch. glottol.» V, prefazione).
220
i«Arch. glottol.» V, 1878.
221
iDopo le Lezioni del ’70, a cui abbiamo già accennato (p. 310 sg.), vedi Studj critici, II,
Roma-Torino 1877, p. 17; «Riv. di filol.» X, 1881, p. 49 sg.
396 X. Carlo Cattaneo e Graziadio Ascoli

le dottrine neogrammaticali cominciarono a diffondersi in Italia, in-


sorse anche l’Ascoli con le sue «lettere glottologiche».223
Della polemica Ascoli-neogrammatici si sono date, come è noto,
interpretazioni assai diverse. Alcuni, come il Salvioni, Clemente Mer-
lo, il Goidánich, hanno sostenuto che l’Ascoli era sostanzialmente
d’accordo coi fautori del nuovo indirizzo, e che soltanto rimprovera-
va loro di spacciare per novità assolute principii metodologici già noti
ai glottologi della vecchia scuola e soprattutto a lui stesso.224 Altri,
come il Bartoli e il Pisani, hanno visto nell’Ascoli un precursore della
neolinguistica, il quale avrebbe combattuto l’astrattezza dei principii
neogrammaticali in nome dell’individualità storica dei fenomeni lin-
guistici.225 Assai lontano da queste tesi schematiche è il migliore stu-
dioso dell’Ascoli, Benvenuto Terracini: egli vede piuttosto un Ascoli
intimamente combattuto tra naturalismo e storicismo, tra l’ossequio
alle leggi fonetiche e il senso storico concreto; ma anche per lui ciò
che nella personalità ascoliana è veramente vivo è questo secondo ele-
mento.226
A voler riesaminare tutta la questione, finiremmo troppo lontano.
Ci limitiamo perciò a brevi osservazioni, per soffermarci poi un po’ più
a lungo su un solo punto della polemica, quello riguardante il sostrato,
che ci interessa più da vicino. A nostro parere, la tesi di un Ascoli pre-
cursore dei neolinguisti (anche intendendo questo termine in senso
molto lato) non regge. L’indirizzo iniziato dallo Schuchardt, prose-
222
iB. Delbrück, Introduzione allo studio della scienza del linguaggio, trad. di P. Merlo, Torino
1881. L’edizione originale era uscita a Lipsia l’anno precedente.
223
iLettere glottologiche: Prima lettera, in «Riv. di filol.» X, 1881, p. 1 sgg.; Due recenti lette-
re glottologiche e una poscritta nuova, in «Arch. glottol.» X, 1886, p. 1 sgg. Cfr. D. Găzdaru, La
controversia sobre las leyes fonéticas ecc., in «Anales de filologia clásica» IV, 1947-49, p. 211 sgg.;
B. Terracini in «Arch. glottol.» XLI, 1956, pp. 89 sgg., 139 sgg.
224
iC. Salvioni in «Rend. Ist. Lombardo», serie 2a, XLIII, 1910, p. 78; C. Merlo, G. I. Asco-
li e i canoni della glottologia, in Silloge, p. 587 sgg.; P. G. Goidánich, L’Ascoli e i neogrammatici,
ibid., p. 611 sgg.
225
iM. Bartoli, Introduzione alla neolinguistica, Ginevra 1925, p. 62 sg. (cfr. anche in «Ce
fastu?» VI, 1930, p. 97 sg.); V. Pisani in «Paideia» IV, 1949, p. 309.
226
iVedi per esempio ciò che egli dice in Silloge, p. 647: «Se anche contenuta entro concetti
nettamente naturalistici ed espressa con terminologia naturalistica, la sua teoria delle “reazioni
etniche” è da lui stesso opposta per il suo valore storico a teorie sul mutamento linguistico di
carattere puramente evoluzionistico»; in «Arch. glottol.» XIX, 1923-25, p. 149: «Un residuo
dei tempi in cui la linguistica era concepita come scienza naturale sopravvive dunque nell’A-
scoli ...» (ben più che un residuo, come vedremo); e in «Arch. glottol.» XLI, 1956, p. 91: «Quel
senso, tutto ascoliano, della concretezza storica del fenomeno linguistico, destinato a superare
un giorno la concezione del Brugmann ...».
X. Carlo Cattaneo e Graziadio Ascoli 397

guito dal Gilliéron, portato alle estreme conseguenze dal Vossler e dal
Bertoni, implica una concezione della realtà – e del linguaggio in par-
ticolare – più o meno marcatamente idealistica.* Comune a tutti que-
sti studiosi, benché poi si esprima in forme assai diverse, è lo sforzo di
concepire i fatti linguistici come fatti «spirituali», di separare la lin-
guistica dalle scienze naturali e di avvicinarla alla filologia e addirit-
tura alla critica letteraria.227 Nulla di ciò nell’Ascoli: egli rimase sem-
pre convinto che la linguistica fosse una scienza naturale, affine, per
il metodo e l’oggetto delle sue ricerche, all’anatomia comparata e al-
l’antropologia assai più che alla filologia.228 E ancora: dallo Schuchardt
in poi, è stata sempre più forte nella linguistica idealisteggiante la ten-
denza a dimostrare l’impossibilità di qualsiasi classificazione, a risol-
vere l’unità della lingua nella molteplicità delle singole isoglosse o
addirittura dei singoli linguaggi individuali. L’Ascoli criticò anch’egli,
come sappiamo, lo schematismo di certe classificazioni schlegeliane e
biondelliane,229 ma non pensò mai a mettere in dubbio la realtà obiet-
tiva delle lingue e delle famiglie di lingue: basti ricordare il tono risen-
tito e, potremmo ben dire, scandalizzato con cui respinse i dubbi di Paul
Meyer sull’unità del franco-provenzale, proprio perché gli sembrava
227
iSo bene che tra le posizioni di uno Schuchardt e quelle degli idealisti vi è una notevole
differenza, come ha messo bene in rilievo G. Nencioni, Idealismo e realismo nella scienza del lin-
guaggio, Firenze 1946 **. Ma qui si tratta di indicare delle tendenze generali.
228
iSu questo punto ha perfettamente ragione Clemente Merlo, art. cit., p. 592 sgg. Espres-
sioni naturalistiche («anatomia delle lingue», «paleontologia della parola», «istoria naturale del-
la parola», «organismo ariano», e via dicendo) sono frequentissime nell’Ascoli, come nello Sch-
leicher e già nel Rask e nel Bopp. Quanto alla netta distinzione che egli poneva tra glottologia
e filologia, vedi specialmente la sua polemica col Lignana in Studj critici, II, p. 45 sg. e la nota a
p. XXXVI del primo volume dell’«Archivio». Anche il Terracini, del resto, riconosce giusta-
mente che «egli scorse sempre un abisso fra arte e lingua, fra scienza della letteratura e scienza
della parola, ed il mirare ad un’intima fusione della linguistica e della filologia gli parve per lo
meno una funesta esagerazione» («Arch. glottol.» XIX, 1923-25, p. 149). In questo l’Ascoli era
perfettamente d’accordo con lo Schleicher (Die Deutsche Sprache2, p. 119) e con Max Müller,
mentre un avvicinamento tra le due discipline era stato propugnato dal Curtius e dallo Steinthal.
229
iVedi sopra, pp. 347, 349.
*iScriveva il Terracini (art. cit., p. 86 n. 1): «Accade così al T. {Timpanaro} di porre Schu-
chardt in un fascio con la linguistica idealisticheggiante, e Gilliéron in compagnia di Vossler e
di Bertoni senza tutte le cautele che sarebbero state necessarie». Vorrei precisare che in verità
io parlo di un «indirizzo iniziato dallo Schuchardt, proseguito da Gilliéron, portato alle estreme
conseguenze dal Vossler e dal Bertoni»: indico abbastanza chiaramente, dunque, le differenze,
pur nei limiti di un rapido accenno. Poco sotto aggiungo che la tendenza antinaturalistica si
esprime in questi studiosi «in forme assai diverse», e ancora in nota preciso: «So bene che tra
le posizioni di uno Schuchardt e quelle degli idealisti vi è una notevole differenza ...». Non mi
sembra, dunque, di «porre in un fascio» tutti questi studiosi.
398 X. Carlo Cattaneo e Graziadio Ascoli

che quei dubbi, al di là del singolo problema, mettessero in forse il


principio stesso della classificazione linguistica, e quindi la scientifi-
cità della glottologia.230 Vedremo tra poco come anche sul problema
del sostrato la concordanza tra l’Ascoli e i linguisti più recenti sia più
apparente che reale.
L’altra tesi, di un Ascoli concorde coi neogrammatici, è molto me-
glio fondata. Senza dubbio uno dei principali motivi che spinsero l’A-
scoli a scrivere le Lettere glottologiche fu il desiderio di rivendicare alla
vecchia linguistica – e più particolarmente alla «scuola milanese», cioè
a sé stesso – la priorità nell’enunciazione e soprattutto nell’applica-
zione dei principii banditi dai neogrammatici. E in effetti, sebbene
tali rivendicazioni di priorità possano sembrare troppo insistenti e
personalistiche (tanto più personalistiche quanto più sono condite con
espressioni di esagerata modestia),231 non si può negare la loro fonda-
mentale giustezza. Già da tempo l’Ascoli era orientato nel senso di un
sempre maggior rigore nell’indagine fonetica, di una sempre più riso-
luta eliminazione delle «eccezioni», di uno studio dei dialetti basato
sulle vive testimonianze orali a preferenza che sui monumenti lette-
rari, così da poter essere considerato, in certo senso, un neogramma-
tico ante litteram.232
Tuttavia accanto a questo motivo polemico, nelle Lettere glottolo-
giche ce n’è un altro, di difesa della concezione storico-naturalistica
del linguaggio contro la concezione p s i c o l o g i c a sostenuta dal-
la nuova scuola. Nonostante il tono perentorio delle sue enunciazio-
ni, la dottrina dei neogrammatici racchiudeva in sé un contrasto non
risolto. Da un lato, affermando l’assoluta ineccepibilità delle leggi
fonetiche, essa portava alle estreme conseguenze quell’aspirazione al
rigore scientifico che, da Rask e Bopp fino a Schleicher, era stata sen-

230
iPaul Meyer e il franco-provenzale, in «Arch. glottol.» II, 1876, p. 385 sgg. Cfr. N. Mac-
carrone in Silloge, p. 309 sgg.
231
iIl tono personalistico è ancor più accentuato in alcune lettere private, per esempio in quel-
la al Brugmann pubblicata da D. Găzdaru, art. cit., p. 253. Vedi anche ibid., pp. 257 sg. e 290 sgg.,
le risposte, indubbiamente giuste, del Brugmann e di J. Schmidt a talune eccessive pretese del-
l’Ascoli.
232
iAncora nella prefazione al vol. XI dell’«Archivio» (1890, p. VII), a polemica ormai con-
clusa, egli osservava: «Le innovazioni, alle quali di qua dall’Alpi siam riusciti (prima dei neo-
grammatici), importavano un rimutamento del metodo». Il Pedersen (Linguistic Science in the xix
Century, Cambridge Mass. 1931, p. 279) considera giustamente le Lezioni di fonologia dell’A-
scoli come una delle opere che prepararono l’avvento della scuola neogrammatica.
X. Carlo Cattaneo e Graziadio Ascoli 399

tita sempre più fortemente dai linguisti. Ma mentre costoro, pur


ammettendo in pratica non infrequenti «eccezioni» alle leggi foneti-
che, le consideravano teoricamente come «leggi di natura», leggi «fisi-
che e meccaniche» o almeno biologiche,233 i neogrammatici, nel
momento stesso in cui ne asserivano l’ineccepibilità, ne davano una
spiegazione psicologica che sembrava piuttosto indebolirla che con-
fermarla. Difatti, abbandonata la concezione del linguaggio come
«organismo naturale», riconosciuto che i mutamenti fonetici non
dipendono né da variazioni climatiche né da altre cause capaci di
modificare gli organi vocali di tutto un popolo, ma da impulsi psico-
logici, non si poteva più ammettere che, a un dato istante, tutta una
vasta comunità di parlanti avesse incominciato a profferire un suono
in modo diverso da come lo aveva profferito sino allora; bisognava
riconoscere che l’ineccepibilità della legge fonetica non era data fin
dall’inizio, ma costituiva un punto di arrivo, il risultato di una gene-
ralizzazione. Il Delbrück arrivava già ad affermare che il mutamento
fonetico ha inizio da un singolo individuo e da esso si propaga per imi-
tazione ad un numero d’individui sempre maggiore e infine all’intera
comunità.234 Il Brugmann e il Paul, desiderosi di porre già all’inizio del
fenomeno un elemento «collettivo», sostenevano che l’innovazione ha
origine simultaneamente in un piccolo gruppo d’individui.235 Ma
anche in questo secondo caso la legge fonetica veniva ad essere sol-
tanto una tendenza generalizzata, priva, quindi, del carattere di uni-
versalità e necessità delle leggi di natura.

233
iDi «leggi fisiche e meccaniche» parla il Bopp proprio all’inizio della prefazione alla Ver-
gleichende Grammatik (vedi la sua ulteriore precisazione nell’ed. francese, Gramm. comparée etc.,
trad. Bréal, I, Parigi 1866, p. 1).
234
iB. Delbrück, Einleitung in das Sprachstudium, Lipsia 1880, p. 119: «Wenn wir hier ...
absehen von den etwaigen Einwirkungen des Klimas, über die ich nichts Bestimmtes aussagen
kann, so ist es klar, dass die Veränderungen in der Aussprache bei dem Einzelnen beginnen und
sich von da zu den Mehreren und den Vielen durch Nachahmung von Seiten dieser fortpflan-
zen. Der letzte Grund aller Sprachveränderung kann also nur darauf beruhen, dass der Einzel-
ne die ihm überkommene Sprache nicht genau so weiter giebt wie er sie erhält, sondern das
Überlieferte, sei es aus Bequemlickeit, sei es aus einem ästhetischen Triebe, sei es weil sein Ohr
trotz aller Anstrengung nicht genau genug auffasst und sein Mund nicht genau genug wieder-
giebt, sei es aus welchem Grunde immer, i n d i v i d u a l i s i e r t».
235
iK. Brugmann, Zum heutigen Stand der Sprachwissenschaft, Strasburgo 1885, p. 49; H. Paul,
Prinzipien der Sprachgeschichte3, Halle 1898, p. 58 sg. (con un tentativo di spiegazione statistica
di tale mutamento fonetico simultaneo). Ma nel Grundriss, I2, Strasburgo 1897, p. 63, il Brug-
mann ammetteva entrambe le tesi: «Der sogen. lautwandel pflegt von einzelnen Individuen, von
einem, örtlich oder social beschränkten, kleinen Kreis von Sprechenden auszugehen».
400 X. Carlo Cattaneo e Graziadio Ascoli

L’Ascoli scorse acutamente questa contraddizione. Polemizzando


in particolare contro il Delbrück, egli osservava che la «dottrina del-
le spinte individuali» coesisteva in modo alquanto strano con l’affer-
mazione «che non solo resti salda la dottrina delle trasformazioni
regolari e specifiche dei suoni di ciascun linguaggio, ma questa anzi si
debba intendere, d’ora in poi, con un rigore non mai prima sentito e
draconianamente inesorabile».236 Ma nonostante l’ironia di queste
ultime parole, egli non voleva risolvere la contraddizione attenuando
il draconiano rigore delle leggi fonetiche, bensì negando la loro origi-
ne individuale. Soggiungeva infatti: «Ma qual pur sia il modo in cui
si pensi che la gran comunità dei parlanti accolga e regoli o simme-
trizzi gli errori o gli arbitrî personali, ne verrà sempre, che gli effetti
di tale azione, se la imaginiamo grande, avrebbero dovuto perturbare
l’ordine storiale della parola, causarvi continuamente dei salti o degli
strappi, rendere insomma impossibile, o anzi impensabile, quella che
diremmo la storia naturale e ragionata delle lingue. Or la verità è
all’incontro, che questa storia ci resulta sempre più viva e più sicura,
perocché sia come un’ampia tela, che si svolge, di fase in fase, con
intera continuità e per via di coerenze generali».237
Bisognava dunque trovare alla legge fonetica una motivazione
meno psicologica e più naturalistica, che non la facesse dipendere,
n e m m e n o i n i z i a l m e n t e , dalla «pronuncia difettosa o arbi-
traria di singole persone», dal «capriccio» individuale.238 Scartata l’i-
potesi di un influsso climatico,239 tale motivazione poteva essere offer-
ta solo dal sostrato. I mutamenti fonetici dovuti al fatto che un
popolo, nell’imparare una nuova lingua, vi porta le «abitudini orali»
della lingua da lui parlata precedentemente, sono mutamenti c o l l e t-
t i v i f i n d a l l ’i n i z i o , pensava l’Ascoli. Se i Galli non posse-
devano nella loro lingua il suono u e, imparando il latino, trovavano
notevole difficoltà a pronunciarlo, se «il latino duro, per esempio, non

236
i«Riv. filol.» X, 1881, p. 46.
237
iIbid.
238
iIbid., e «Arch. glottol.» X, 1886, p. 76.
239
i«Riv. filol.» X, p. 43. Nell’escludere l’influsso del clima, l’Ascoli si trovava d’accordo col
Cattaneo (cfr. qui sopra, nota 189), col Biondelli e con gli stessi neogrammatici. Tuttavia egli
stesso, a proposito della tendenza alla sonorizzazione delle occlusive sorde che si riscontra nei
dialetti dell’Italia meridionale, in neogreco e in albanese, aveva parlato una volta di «alterazio-
ne isotermica» («Arch. glottol.» VIII, 1882-85, p. 113), e ribadì questa sua spiegazione nella ter-
za «lettera glottologica» («Arch. glottol.» X, p. 22).
X. Carlo Cattaneo e Graziadio Ascoli 401

potea dal loro stromento orale esser facilmente riprodotto se non per
düro», ecco che questo mutamento fonetico doveva compiersi neces-
sariamente in t u t t o il territorio della Gallia romanizzata, ogni vol-
ta che un Gallo prendeva a parlar latino; esso poteva dunque a buon
diritto esser chiamato «legge fonetica».240
Perciò la teoria del sostrato, respinta dapprima dall’Ascoli (come
dallo Schleicher) sotto l’accusa di turbare, con l’intrusione di elemen-
ti «esterni», la regolarità dell’evoluzione linguistica,241 ammessa poi in
via subordinata, per spiegare le «eccezioni», le anomalie di sviluppo
del linguaggio, diventava ora la massima garante dell’ineccepibilità
delle leggi fonetiche, la salvatrice della scientificità della glottologia.
E diventava anche il principale titolo di originalità della «scuola ita-
liana», da contrapporre alle orgogliose asserzioni dei neogrammatici.
Dimenticando ciò che egli stesso aveva scritto in Lingue e nazioni, l’A-
scoli esprimeva il suo stupore «nel veder così stranamente trascurati»
dai neogrammatici i «motivi etnologici nelle trasformazioni del lin-
guaggio», e osservava: «Pare che non entri pur nella loro imaginazio-
ne un caso come quello dell’ü che l’abitudine orale di tutt’intiero un
popolo avrebbe pressoché contrapposto a ogni u nitido e accentato che
era proposto nella parola romana all’imitazione sua».242
Qui si vede ancor meglio ciò che distingueva la polemica ascoliana
contro i neogrammatici dalla polemica che in quel medesimo tempo
conduceva contro di essi lo Schuchardt, il quale sarebbe stato poi
seguito da altri studiosi orientati ancor più decisamente in senso idea-
listico. L’Ascoli non accusava i neogrammatici di scientismo, di disco-
noscimento dei fattori individuali nello sviluppo storico del linguag-
gio, ma anzi di pericolosa sopravvalutazione di tali fattori, e quindi
di scarsa scientificità. C’era senza dubbio da parte sua un certo com-
piacimento nel far vedere come i più accesi fautori delle leggi foneti-

240
i«Riv. filol.» X, p. 23; cfr. p. 43 sgg.; «Arch. glottol.» X, p. 21 sg. Già nel 1878, appena
iniziatesi le polemiche pro e contro i neogrammatici, aveva scritto («Arch. glottol.» III, p. 253,
n. 1): «Molti si meravigliano della regolare costanza che s’avverte nelle evoluzioni fisiche della
parola, o, in altri termini, dell’esistenza delle leggi fonetiche. Ma le cause delle principali ridu-
zioni sono veramente etnologiche, cioè dipendono da predisposizioni orali, le quali inducono a
divariazioni costanti di quell’entità fonetica che uno strato storico assume dall’altro».
241
iVedi sopra, pp. 382-383, 385-386.
242
i«Riv. filol.» X, pp. 13 sg., 45. Vedi anche la seconda «lettera glottologica», dedicata al
sostrato osco-umbro (Di un filone italico, diverso dal romano, che si avverta nel campo neolatino),
in «Arch. glottol.» X, 1886, p. 1 sgg.
402 X. Carlo Cattaneo e Graziadio Ascoli

che finissero proprio essi con l’infirmarne la validità assoluta; tuttavia


l’esigenza di ribadire tale validità, di giustificarla in modo più con-
vincente di quanto i neogrammatici e lo stesso Schleicher avessero
saputo fare, era da lui sinceramente sentita, non nasceva da un puro
e semplice desiderio di ritorsione polemica.
È vero che alla teoria del sostrato si richiamava volentieri anche lo
Schuchardt,243 e che ciò costituiva quindi un motivo comune ai due
oppositori dei neogrammatici. Senonché la concezione ascoliana del
sostrato era molto diversa da quella dello Schuchardt. Per l’Ascoli si
trattava di un fenomeno strettamente meccanico: il popolo colonizza-
to, costretto a parlare la lingua dei colonizzatori, non riusciva a ripro-
durne esattamente i suoni e quindi li modificava inconsciamente in
conformità alle proprie «abitudini orali», al proprio «abito idiomati-
co». Vedemmo che già il Maffei, il Cattaneo, il Biondelli avevano
inteso il sostrato in questo modo. Ma l’Ascoli, sotto l’influsso del po-
sitivismo schleicheriano e, probabilmente, del Nigra, accentuò ulte-
riormente questo aspetto, arrivando a concepire l’«abitudine orale»
non come una assuefazione acquisita e modificabile, ma come un carat-
tere permanente, connesso con la struttura anatomica, con la confor-
mazione glottica di una data stirpe. Lo Schleicher aveva asserito
l’impossibilità di apprendere perfettamente una lingua diversa dalla
propria, appunto perché a ciascuna lingua corrispondeva, secondo lui,
una diversa conformazione «del cervello e degli organi vocali» dei par-
lanti;244 l’Ascoli ammetteva ora, a differenza dello Schleicher, la me-
scolanza linguistica come il principale fattore di mutamento del lin-
guaggio, ma riteneva che, pur prendendo a parlare un’altra lingua, un
popolo mantenesse immutate le caratteristiche del suo «stromento
orale» e a queste adattasse il nuovo idioma.245
243
iGià nel Vokalismus des Vulgärlateins (vedi qui sopra, nota 194), e poi in vari altri scritti:
vedi i brani riportati nello Schuchardt-Brevier a cura di L. Spitzer, Halle 19282, p. 150 sgg.
244
iA. Schleicher, Über die Bedeutung der Sprache für die Naturgeschichte des Menschen, Wei-
mar 1865, p. 9 sgg.
245
iIl sostrato fu inteso in senso ancor più marcatamente biologico dal Nigra (oltre al passo
citato alla nota 219, vedi il saggio del 1876 ripubblicato come introduzione ai Canti popolari del
Piemonte, Torino 1888, p. XVIII: «Queste due parti del linguaggio (fonetica e sintassi) hanno
stretta relazione cogli organi materiali della pronunzia e del pensiero, che nelle due razze (italica
e celtica) non dovevano essere assolutamente identici ... Né gli organi di cui parliamo possono
mutarsi o modificarsi per il solo fatto della volontà». Come è noto, il Nigra applicò la nozione
di sostrato anche al folclore (V. Santoli, in Cinquant’anni di vita intellettuale italiana, Napoli
1950, II, p. 119; G. Cocchiara, Storia del folklore in Europa, Torino 1952, p. 368 sg.). Mentre
X. Carlo Cattaneo e Graziadio Ascoli 403

Intesa così, la teoria del sostrato rischiava di essere addirittura in


contrasto con la tesi cattaneiana della non correlazione tra lingua e
razza. E infatti, quando il Whitney tornò a sostenere che lingua e raz-
za non sono in alcun rapporto fisso, tant’è vero che un popolo può
assumere la lingua di un altro,246 l’Ascoli già nel secondo volume degli
Studj critici replicò: «Ma non l’assume (massime nelle condizioni di
civiltà di que’ tempi che noi diciamo antichi) se non adattandola alle
sue facoltà e alle sue tendenze elocutive; la riazione delle quali si fa
testimonio perenne dell’elemento che soggiace»;247 e ribadì la stessa
tesi nella prima lettera glottologica.248
Proprio per sottolineare questo legame tra linguistica e antropo-
logia, egli preferì sempre parlare, invece che di sostrato, di «reazioni
etniche», di «criterio etnologico». Lo Schuchardt, nella sua recensio-
ne alle due lettere glottologiche del 1886,249 pur desiderando di met-
tere in luce soprattutto i motivi di consenso con l’Ascoli, suo alleato
nella lotta contro i neogrammatici, non poteva fare a meno di notare
che la terminologia ascoliana gli pareva poco felice: «La mescolanza
etnica non è la stessa cosa della mescolanza linguistica, la seconda non
è nemmeno sempre la conseguenza necessaria della prima»; meglio
perciò, egli diceva, parlare semplicemente di Sprachmischung. L’osser-
vazione dello Schuchardt era giusta; ma in séguito si finì col cadere
nell’eccesso opposto: si vollero considerare i fenomeni di sostrato come

un influsso del Nigra sull’Ascoli appare assai probabile (cfr. qui sopra, nota 219), non del tutto
sicura mi sembra la derivazione del Nigra dal Cattaneo, affermata dal Santoli e dal Cocchiara
negli scritti ora citati. Abbiamo visto che la teoria del sostrato era già largamente diffusa in Ita-
lia e fuori; e il Cattaneo, tra i fautori del sostrato, era stato proprio quello che meno di tutti lo
aveva inteso in senso biologico.
246
iW. D. Whitney, La vita e lo sviluppo del linguaggio, trad. D’Ovidio, Milano 1876, pp. 4,
10 sg. Il Whitney, come è noto, combatteva la concezione del linguaggio come organismo e del-
la linguistica come scienza naturale, sostenuta dallo Schleicher e (in forma più brillante, ma assai
meno coerente) da Max Müller.
247
iStudj critici, II, Roma-Torino 1877, p. 17. Per quella precisazione «massime nelle condi-
zioni di civiltà ecc.» cfr. qui sopra, p. 384.
248
i«Riv. filol.» X, p. 44 n., dove il Whitney è citato esplicitamente. Scrive il Pisani (in «Pai-
deia» IV, 1949, p. 308): «I Neogrammatici tentarono di tirar dalla loro il principio ascoliano,
dal suo autore diretto contro di essi, scorgendo nell’influsso del sostrato il puro reagire di pre-
disposizioni fisiologiche di singole nazioni». No: era proprio l’Ascoli a interpretare così la teo-
ria del sostrato, e a trovare i neogrammatici troppo psicologi e troppo poco fisiologi! Vedi anche
più sotto, nota 254.
249
iIn «Literaturblatt für german. und roman. Philologie» VIII, 1887, col. 12 sgg., special-
mente 14.
404 X. Carlo Cattaneo e Graziadio Ascoli

fatti puramente culturali, privi di qualsiasi meccanicità, a n c h e


p s i c o l o g i c a ; si identificò il bilinguismo in senso specifico con
quel bilinguismo in senso lato che è proprio di ciascun parlante, il qua-
le parla ad un tempo la lingua della collettività e il proprio linguaggio
individuale e continuamente adegua questo a quella e continuamente
riafferma la propria autonomia; si allargò, quindi, la nozione di sostra-
to fino a farla coincidere con l’innovazione linguistica tout court.250 [cr]
Così «filosofizzato», il concetto di sostrato diviene inservibile come
categoria storico-linguistica, così come il predicato della liricità, este-
so crocianamente a qualsiasi espressione artistica, non può più adem-
piere al compito di caratterizzazione (sia pure molto approssimativa)
a cui adempiva il «genere letterario» della lirica. Comunque, il sostra-
to così inteso, se ha poco in comune col sostrato dello Schuchardt, non
ha addirittura nulla a che vedere col sostrato dell’Ascoli.*
E anche quando si loda l’Ascoli per aver contrapposto, con la teo-
ria del sostrato, la propria concezione «storica» della lingua all’a-
stratta concezione «evoluzionistica» dello Schleicher e dei neogram-
matici, e si tempera poi questa lode con l’osservazione che egli non
seppe del tutto liberarsi da residui di naturalismo e divenire piena-
mente storicista,251 non si interpreta con esattezza, mi pare, la posi-
zione ascoliana. Se si considerano, hegelianamente, natura e storia
come termini antitetici, e si ritiene che solo dello Spirito vi possa esse-
re storia, allora bisogna concludere che l’Ascoli non aveva una conce-
zione storica del linguaggio. Lo Schleicher, che era un materialista pri-
gioniero di schemi hegeliani, diceva appunto che la glottologia era una

250
iVedi soprattutto B. Terracini, Sostrato, in Scritti in onore di A. Trombetti, Milano 1938,
p. 321 sgg. (e già Paleontologia ascoliana e linguistica storica, in Silloge, pp. 649, 653). Beninte-
so, la finezza e l’intelligenza delle molte osservazioni storiche concrete che si trovano in questi
due saggi possono e devono essere apprezzate anche da chi non ne condivida l’impostazione
generale idealistica.
251
iVedi i passi del Terracini citati qui sopra, nota 226, e il suo articolo sul Sostrato (cit. alla
nota precedente), p. 322 sg.
*iVedi, a p. 92 dell’art. cit. del Terracini, l’appassionata rivendicazione che egli fa della deri-
vazione ascoliana della sua «teoria individualistica del sostrato». Parlando di «filosofizzazione»
del concetto di sostrato, io intendevo accennare a quel processo mentale, caro all’idealismo ita-
liano, per cui si dimostra che un concetto empirico, se lo si vuol pensare rigorosamente, deve
perdere la sua finitezza e identificarsi col Tutto (o, comunque, con categorie più ampie, che si
pretenderebbero non empiriche ma «pure»). Ma non ho mai disconosciuto la schiettezza e la
profondità dell’interesse del Terracini per l’Ascoli (cfr. pp. 396, {la n. 250 qui sopra}, 426). {La
postilla vale anche per la p. 422 – N. d. C.}.
X. Carlo Cattaneo e Graziadio Ascoli 405

scienza naturale e non storica.252 Ma se, dopo Lyell e dopo Darwin, si


ritiene che anche la natura inorganica e organica abbia una storia,
quell’antitesi viene a cadere, e si dovrà allora riconoscere che anche
la linguistica comparata ottocentesca è linguistica storica. Non si
dovranno, beninteso, disconoscere le differenze specifiche tra la sto-
ria della natura e la storia umana; averle disconosciute è senza dub-
bio un grave difetto del pensiero positivistico, e, in parte, dello stes-
so Ascoli. Ma non si potrà nemmeno scavare tra i due tipi di storia un
abisso, e pretendere poi che la storia linguistica appartenga tutta
quanta alla sfera «spirituale»; si dovrà anzi riconoscere che l’evolu-
zione del linguaggio, nella quale hanno tanta parte l’inconscio e il mec-
canico, sta a metà strada tra il tipo «naturale» e il tipo «umano». In
questo senso l’Ascoli non aveva torto a parlare di «storia naturale e
ragionata delle lingue», di «continuità storica e filologica nella gran
tela della parola indeuropea».253
Che egli abbia superato di molto il Brugmann e altri neogrammati-
ci quanto a senso storico concreto; che la teoria del sostrato, impli-
cando un rapporto diretto tra lingue e popoli, abbia preservato la lin-
guistica ascoliana dal pericolo di concepire il linguaggio come un ente
a sé, staccato da coloro che lo parlano, rimane verissimo; ed è merito
del Terracini aver messo in luce questa verità. Ma questo storicismo
ascoliano non è tanto il preannunzio dello storicismo di marca ideali-
stica, quanto una manifestazione dello storicismo romantico-positivi-
sta dell’Ottocento. Il soggetto della storia ascoliana non è l’individuo
che crea ogni volta la propria espressione originale e irripetibile, ma è
la nazione come entità collettiva (anche se concepita al di fuori da ogni
misticismo). Come abbiamo accennato, era proprio il distacco della
linguistica dall’etnografia e la sua riduzione a scienza psicologica ciò
che all’Ascoli soprattutto spiaceva negli scritti dei neogrammatici.254

252
iDie deutsche Sprache, 3a ed., Stuttgart 1874, p. 119 sgg. Sulla formazione hegeliana dello
Schleicher (della quale egli non si liberò neppure quando divenne materialista) cfr. E. Cassirer,
Philosophie der symbolischen Formen, 2a ed., I, Oxford 1954, p. 109 sgg. Un analogo accozza-
mento di hegelismo e materialismo (ma meno stridente) si trova nel biologo e filosofo Jakob
Moleschott.
253
i«Riv. filol.» X, p. 46; lettera al Brugmann pubbl. dal Găzdaru in «Anales de filología clá-
sica» IV, 1949, p. 253.
254
iVedi il violento sfogo contro la «gazzarra psicologica» in «Riv. di filol.» X, pp. 9-12. Il
Brugmann, in una lettera all’Ascoli (pubbl. dal Găzdaru, art. cit., p. 256), ribadiva che questo era
il principale punto controverso. Cfr. B. Terracini in «Arch. glottol.» XLI, 1956, pp. 91 e 149.
406 X. Carlo Cattaneo e Graziadio Ascoli

D’altra parte, è giusto notare che, se l’evoluzione linguistica «per cau-


se interne», così com’era concepita dallo Schleicher e dai neogram-
matici, rischiava di diventare un’astrazione, la teoria del sostrato
racchiudeva anch’essa un pericolo di antistoricismo. Essa infatti pre-
supponeva che una lingua perdurasse invariata fino a quando non
intervenisse a mutarla il contatto con un’altra lingua: negava, quindi,
a ciascuna lingua presa per sé ogni capacità di sviluppo storico o anche
di semplice «divenire».255
L’Ascoli, certo, non arrivò mai ad attribuire tutti i mutamenti fone-
tici all’azione del sostrato. Ammise anzi esplicitamente l’esistenza di
innovazioni dovute a cause psicologiche, soprattutto all’influsso del-
l’analogia; e ad esse dedicò una delle appendici alla terza lettera glot-
tologica: Le fono-nomie e la loro fissità.256 Qui egli indagava con molta
finezza e con larga esemplificazione il modo in cui un’innovazione si
va propagando. Si sente, leggendo queste pagine, che egli non era ri-
masto affatto inaccessibile alle nuove idee, che aveva meditato non
solo sull’Einleitung di Delbrück e su altri scritti dei neogrammatici, ma
anche sul famoso opuscolo dello Schuchardt Über die Lautgesetze, gegen
die Junggrammatiker. Non a caso la Schuchardt apprezzava partico-
larmente questa appendice,257 e l’Ascoli ringraziava lo Schuchardt di
averlo indirettamente spronato a scriverla.258 E tuttavia anche qui
appaiono ben chiare le differenze di mentalità e di impostazione.
Mentre lo Schuchardt vedeva nella non assolutezza delle leggi foneti-
che un valore positivo, che consentiva al linguaggio di emergere dalla
naturalità e di attingere la libertà spirituale, l’Ascoli, al contrario, vi
255
iLa polemica tra assertori e negatori dell’influenza del sostrato è tuttora viva, specialmente
nella linguistica romanza; ** vedi, per un orientamento generale, C. Tagliavini, Le origini del-
le lingue neolatine, 3a ed., Bolona 1962, p. 112 sgg. e la bibliografia ibid., p. 117. Ma, diversa-
mente che nella fase cattaneiana-ascoliana, si tratta ormai di una polemica puramente scientifi-
ca, del tutto (o quasi del tutto) indipendente da presupposti ideologici.
256
i«Arch. glottol.» X, 1886, p. 73 sgg.
257
iRec. cit. qui sopra (alla nota 249), col. 16.
258
iLettera allo Schuchardt pubbl. da B. Migliorini ne «La cultura» n.s. IX, 1930, p. 694.
In precedenza lo Schuchardt si era lagnato che l’Ascoli, nelle ultime due Lettere glottologiche
(pubblicate, prima che nell’«Arch. glottol.» X, nella Miscellanea linguist. in memoria di Caix e Canel-
lo, Firenze 1886), non avesse menzionato il suo scritto (lettera pubbl. da Găzdaru, art. cit., p. 305).
Ad ogni modo l’indubbia divergenza tra i due, alla quale accenniamo subito dopo, non autoriz-
za a concludere addirittura, col Goidánich (in Silloge, p. 613), che l’appendice sulle Fono-nomie
sia rivolta «contro lo Schuchardt». Anzi, essa rappresenta pur sempre il massimo avvicinamento
dell’Ascoli al punto di vista dell’amico. Cfr. le giuste osservazioni del Terracini in «Arch. glot-
tol.» XLI, p. 148 sg.
X. Carlo Cattaneo e Graziadio Ascoli 407

scorgeva un limite alla scientificità della linguistica. L’ideale, per lui,


rimaneva pur sempre quello di «disciplinare le apparenti bizzarrie del-
le serie fonetiche», di scoprire nuove leggi «non peranco avvertite» in
cui potessero trovar posto le apparenti eccezioni.259 Perciò la sua sim-
patia continuava ad andare ai mutamenti fonetici dovuti al sostrato, i
quali erano esenti, o quasi, da fluttuazioni e da irregolarità;260 e la lot-
ta perché fosse dato il massimo risalto ai «motivi etnologici» era, per
lui, una lotta per far sì che alla linguistica fosse riconosciuto il più pos-
sibile il carattere di scienza.

4. Il primo accenno di un avvicinamento dell’Ascoli alle idee lingui-


stiche del Cattaneo risale, come abbiamo visto, al ’67. Le postille alla
terza «lettera glottologica» sono dell’86. In questi venti anni l’Ascoli
aveva sempre più intimamente aderito ai principii cattaneiani, sia per
quel che riguarda la «questione della lingua», sia per la teoria del so-
strato. Certo, egli non arrivò mai a negare, come aveva fatto il Cattaneo
e come di nuovo avrebbero fatto un Kretschmer o un Pisani o un Marr,
l’esistenza di un’unica lingua indeuropea originaria, e a considerare
l’affinità tra le lingue indeuropee come qualcosa di divenuto. La sua
concezione genealogica rimase molto più ortodossa, molto più vicina a
quella dello Schleicher. Più stretto che nel Cattaneo rimase sempre in
lui anche il legame tra linguistica e antropologia, sicché la stessa teoria
del sostrato ne risultò, come abbiamo visto (p. 402), alquanto modifi-
cata. Ma pur tenendo conto di queste divergenze, non si può dubitare
che al tempo della polemica coi neogrammatici l’Ascoli fosse molto più
cattaneiano che all’inizio della sua carriera di studioso e di maestro.
** Eppure, nei suoi scritti l i n g u i s t i c i di tutto questo lungo
periodo l’Ascoli nominò il Cattaneo, se ho ben visto, una volta sola
**, e non per la teoria del sostrato, ma semplicemente per l’interesse
che egli e il Cherubini avevano dimostrato per il dialetto friulano.261

259
i«Arch. glottol.» X, p. 83 sg. (è la chiusa della nota sulle Fono-nomie; e vedi anche la nota
seguente sulle Cause inavvertite).
260
iDico «o quasi», perché, in confronto alla prima Lettera glottologica, nella nota sulle Fono-
nomie la fede dell’Ascoli nell’assoluta regolarità dei mutamenti fonetici dovuti al sostrato appa-
re un po’ scossa. Egli riafferma, sì, il carattere «istantaneo» e generale di tali innovazioni, ma
ammette che esse possano presentare diverse gradazioni d’intensità (p. 75 sg.).
261
i«Arch. glottol.» I, p. 477. L’Ascoli allude probabilmente ad un abbozzo inedito del Cat-
taneo su questo dialetto (carte Cattaneo, Milano, museo del Risorgimento, cartella 18, plico 3),
che egli, facendo parte del comitato per l’edizione degli scritti cattaneiani, aveva potuto vedere.
408 X. Carlo Cattaneo e Graziadio Ascoli

In una nota alla prima «lettera glottologica» ricordò, tra i fautori del-
la teoria del sostrato, lo Schuchardt, il Miklos#ic! e soprattutto il
Nigra;262 a proposito della «ü celtica», osservò che «molto prima che
l’indagine scientifica venisse a tentare queste connessioni ..., se ne
aveva tra noi come una persuasione tradizionale»;263 nel famoso arti-
colo su L’Italia dialettale citò fra i suoi predecessori il Biondelli:264 non
il Cattaneo. La tesi dello scarso numero sia degli invasori indeuropei,
sia degli aborigeni, già sostenuta dall’Ascoli in Lingue e nazioni, è riaf-
fermata nella prima «lettera glottologica»;265 ma l’Ascoli tace che essa
era una variante di una tesi del Cattaneo. E ancora per dieci anni dopo
la fine della polemica coi neogrammatici il nome del Cattaneo non
compare mai negli scritti glottologici ascoliani, nemmeno là dove si
accenna alla teoria del sostrato e alla sua varia fortuna.266
Non è facile indovinare il motivo di questo lungo silenzio. È vero
che negli anni immediatamente seguenti alla morte il Cattaneo fu qua-
si del tutto dimenticato in Italia;267 ma l’Ascoli, come è dimostrato dal
suo atteggiamento successivo, non era uomo che tacesse per confor-
mismo. Sembra anche da escludersi che egli non considerasse il Cat-
taneo abbastanza «linguista» in senso professionale per poterlo citare
in pubblicazioni scientifiche: un simile motivo gli avrebbe impedito di
citare anche il Marzolo; e invece negli Studj critici ci tenne a ricorda-
re i Monumenti storici rivelati dall’analisi della parola, «opera condotta
con mezzi inadeguati, ma con oltrepotenza d’ingegno», e ad esprime-
re questo alto riconoscimento: «Il Marzolo era di certo anche per me
un vero eterodosso; ma un eterodosso geniale, poderoso, michelan-
giolesco, dinanzi al quale dovevamo tutti inchinarci».268
Si potrà forse supporre che il ricordo delle antiche divergenze abbia
lasciato nell’animo dell’Ascoli un certo imbarazzo difficile da superare?
Che gli sia occorso molto tempo per poter parlare degli studi lingui-
stici del Cattaneo con piena serenità? L’ipotesi non sembrerà assurda

262
i«Riv. di filol.» X, 1881, p. 43, n. 1. Sul Nigra vedi anche qui sopra, note 219 e 245.
263
iIbid., p. 20 n.
264
i«Arch. glottol.» VIII, p. 127.
265
i«Riv. di filol.» X, p. 51.
266
iPer esempio in «Arch. glottol.» XI, 1890, p. X: «I sostenitori dell’importanza dei moti-
vi etnologici, ch’erano poche persone al primo apparire dell’Archivio glottologico, oggi si avvia-
no a formar legione».
267
iVedi P. C. Masini in «Riv. stor. del socialismo» II, 1959, p. 524 sg.
268
iStudj critici, II, Roma-Torino 1877, p. 42 n. Cfr. qui sopra, pp. 379-380.
X. Carlo Cattaneo e Graziadio Ascoli 409

a chi tenga presente il carattere dell’Ascoli, nobile e alto, ma forte-


mente passionale anche nel campo degli studi: in tutte le sue discus-
sioni scientifiche si sente, al di sotto della forma esteriore ** sempre
cortese e dello stile un po’ aulico, un vivo calore e talvolta un’animo-
sità a stento trattenuta. Riconoscere un proprio errore era una cosa
che egli senza dubbio faceva ogni qual volta glielo imponeva il suo
austero senso di giustizia, ma che gli costava un sacrificio maggiore
che ad altri studiosi più sereni o più scettici. Può darsi, dunque, che
anche dopo avere accolto gran parte delle idee cattaneiane egli abbia
lungamente riluttato a esprimere il suo mutato giudizio sul Cattaneo
linguista.
Fu soltanto negli ultimi anni del secolo che egli ruppe finalmente il
silenzio **, e non solo riconobbe il proprio debito verso il pensatore
lombardo, ma mostrò di aver compreso forse meglio di chiunque altro
il valore della sua opera di storico. Ma è significativo che anche allo-
ra egli non abbia fatto parola degli antichi dissensi e si sia anzi sfor-
zato di presentarsi come un fedele discepolo del Cattaneo fin dalla pri-
ma giovinezza.
A ravvivargli il ricordo del Cattaneo e a rendergli più pressante l’e-
sigenza di dichiararsi esplicitamente suo seguace dovette contribuire
la situazione politica. Si sa che nell’ultimo decennio dell’Ottocento,
dinanzi al sorgere di un movimento operaio organizzato, gran parte
degli uomini politici e degli intellettuali provenienti dalle file della
democrazia risorgimentale, e spostatisi poi verso posizioni conserva-
trici, consumarono fino in fondo la propria involuzione.
L’Ascoli non fu tra questi. Non solo rimase fedele alle idee liberali
della sua giovinezza, ma comprese che esse potevano sopravvivere sol-
tanto ampliandosi, riconoscendo cioè il diritto ad esistere del movi-
mento socialista: altrimenti, nella lotta contro la nuova sinistra ope-
raia, anche le libertà «classiche» dello stato risorgimentale sarebbero
state travolte. E quando Ettore Ciccotti, socialista e professore straor-
dinario di storia antica all’Accademia scientifico-letteraria di Milano,
si vide impedita per motivi politici la promozione a ordinario, l’Asco-
li parlò coraggiosamente in senato contro questo sopruso269 e scrisse in

269
iAtti parlamentari, Senato, Discussioni, 17 giugno 1897 (XX legisl., 1a sessione, pp. 686 sgg.)
[intervento ricordato da Gramsci, art. nell’Avanti! del 2 febbr. 1917, ora in Scritti giovanili, Tori-
no 1958, p. 69] **.
410 X. Carlo Cattaneo e Graziadio Ascoli

difesa del Ciccotti due memorabili lettere aperte,270 che, in quel cli-
ma di feroce reazione, gli costarono incomprensioni e ostilità.271 Non
è ammissibile, dicevano i reazionari, che sia insegnante statale un
socialista, cioè un nemico delle istituzioni statali.272 L’Ascoli rispon-
deva: «Non usurpa l’altrui, non ricorre insidiosamente alla carità di
nessuno, il socialista che ottiene la catedra per il merito che gli è legal-
mente riconosciuto e la ottiene a test’alta, senza punto nascondere la
sua fede politica, sicuro quando pur sia che la confessione gli costi di
andar classificato più o meno avaramente. Egli non è vincolato da
alcun giuramento e vive in coerenza perfetta. Se è d’uopo che nell’in-
segnamento a lui affidato si ripercuotano i principj della sua fede poli-
tica, egli naturalmente non li rinnega; e la vita e la scuola non sono
allora per lui se non due aspetti diversi di uno stesso apostolato. Si cre-
dono fallaci i suoi principj? La maggioranza ortodossa li confuterà. Ma
anche potrà accadere che l’ortodossia poco o molto si trasformi in que-
sto cimento, razionale insieme e necessario ...».
270
iIntorno alla condizione del prof. Ciccotti nella scuola, lettera del prof. Ascoli al direttore del
Corriere della sera, opuscolo datato 28 marzo 1897; e Il professore socialista, lettera aperta ad
Arturo Graf, nel «Pensiero italiano» fasc. 82, ottobre 1897 (stampata anche a parte). Da que-
st’ultima (pp. 4-6) sono tratte le nostre citazioni.
271
iA questo episodio l’Ascoli alludeva soprattutto, quando, in occasione delle onoranze tri-
butategli, diceva: «Ho io, nella mia povertà, variamente combattuto, per la libertà, la dignità,
la purità della Scuola ... e ho volentieri sfidato, in questi intenti, i pregiudizj politici, o quei
pudori di parte, sotto ai quali si può appiattare tanta brutta mercanzia» (Onoranze a Graziadio
Ascoli, Milano 1901, p. 16). E il Pullè (Graziadio Ascoli, ricordi, Bologna 1907, p. 11 sg.) gli scri-
veva: «Voi vi faceste, nei giorni dello sgomento e delle aberrazioni reazionarie, scudo alla verità,
sostegno alla fiducia dei buoni e alle speranze dei perseguitati», e ricordava che nell’estate del
’98, trovandosi sul Monte Generoso della Svizzera italiana, l’Ascoli aveva ospitato e conforta-
to alcuni esuli, sfuggiti alla repressione dei moti di Milano. Tra questi vi era il Ciccotti stesso
(vedi il suo libro Attraverso la Svizzera, Palermo 1899, p. XXXIV). Sulle posteriori oscillazioni
politiche del Ciccotti non è qui possibile soffermarsi. Gli indubbi lati positivi della sua discutibile
e discussa opera di storico sono messi bene in luce da A. Momigliano, Contributo alla storia degli
studi classici, p. 281 sg. Cfr. ora anche P. Treves, L’idea di Roma ecc., Milano 1962, p. 221 sgg.,
e A commemorazione di E. Ciccotti, in «Athenaeum» XLI, 1963, p. 356 sgg.*
272
iTra coloro che argomentavano così vi era il capo della consorteria moderata lombarda,
Gaetano Negri. Cfr. la sua lettera a Turati in Filippo Turati attraverso le lettere di corrispondenti
a cura di A. Schiavi, Bari 1947, p. 151 sg., e la risposta di Turati, ibid., p. 154 sgg.
*iClaudio Cesa mi segnala un altro notevole documento, di poco posteriore, dell’impegno
dell’Ascoli a favore del Ciccotti e contro le persecuzioni antisocialiste: la lettera di solidarietà
che egli scrisse al Ciccotti il 16 giugno 1899, quando questi fu incriminato, in seguito ad un arti-
colo, per «eccitamento all’odio tra le classi sociali». La lettera è pubblicata nel volume del Cic-
cotti, Sulla questione meridionale, Milano 1904, p. 98 sg. La polemica del 1897 è ricordata da
Gramsci in un articolo del 1917 **, ora in Scritti giovanili, Torino 1958, p. 69 (una nuova edi-
zione ampliata di questi scritti sarà pubblicata prossimamente da Sergio Caprioglio).
X. Carlo Cattaneo e Graziadio Ascoli 411

Pur non contenendo nessuna adesione al socialismo, pur rimanen-


do anzi in un ambito puramente democratico, la lettera aperta al Graf
è qualcosa di più che una difesa puramente giuridica del Ciccotti e
degli altri professori socialisti: è un riconoscimento della giustezza del-
le esigenze da cui il socialismo era scaturito273 e un ammonimento che
togliere la libertà ai socialisti avrebbe fatalmente significato toglierla
a tutti. Per mostrare ancora meglio quanto fosse insostenibile il pun-
to di vista di quegli pseudo-liberali, l’Ascoli prendeva come termine di
paragone appunto il Cattaneo: «Omnis comparatio claudicat, tutti ne
convengono; ma vien qui da chiedersi, quasi irresistibilmente, se Car-
lo Cattaneo mancava alla coerenza della sua vita intemerata quando
toccava dal tesoro italiano, egli repubblicano e federalista, l’assegno
che gli spettava nella sua qualità di membro del Reale Istituto Lom-
bardo di Scienze e Lettere. O se quel grande cittadino mancasse anco-
ra alla coerenza della vita, quando egli punto non metteva, pur negli
intimi colloquj, la propria fede politica tra le ragioni che lo induceva-
no a ricusare l’invito, o meglio la preghiera, d’un Ministro del Re, di
Carlo Matteucci, che voleva l’ostinato ribelle tra i professori di Sta-
to, lasciando in assoluta sua libertà la scelta della materia e della scuo-
la».274 E ancora: «Rimanendo agli esempj che dianzi imaginavo, si
sarebbe egli impedito al professore Carlo Cattaneo di sostenere viva-
cemente i suoi principj in una Rivista qualunque? O l’aula, in cui egli
avesse parlato, supponiamo nell’Accademia milanese, sarebbe ella mai
bastata a tutt’intiero quel pubblico, estraneo alla scuola, che ha pur
diritto d’assistere alle lezioni universitarie?».
Il Cattaneo, s’intende, era citato qui come esempio di eterodosso,
di dissidente dalle istituzioni monarchiche: non di socialista. L’Asco-
li, mentre si dichiarò sempre fedele alla monarchia,275 nei riguardi dei
problemi sociali era andato invece maturando un atteggiamento assai

273
i«Le aspirazioni dei socialisti genuini – scriveva l’Ascoli – sono poi tali, che in tutto o in
parte potranno bensì dar nel fantastico, ma provengono pur sempre dalla sete e dal bisogno d’una
giustizia, la quale nessuno osa affermare che esista o regni». Cfr. anche il passo citato qui sotto,
alla nota 316.
274
iPer questo episodio cfr. C. Cattaneo, Epist. IV, pp. 63 n. 3, 91 sg.
275
iIl professore socialista, p. 2: «Io naturalmente vi parlo ... da quel povero zelatore delle
vigenti istituzioni che assai tenacemente sono sempre stato e rimango». Cfr. il discorso per le
onoranze, nell’opuscolo Onoranze a Graziadio Ascoli, Milano 1901, p. 16: «... ligio pur sempre
qual mi sono sentito a quei giuramenti, che per quattro volte mi hanno ormai sacrato alla patria
insieme ed al Re».
412 X. Carlo Cattaneo e Graziadio Ascoli

più aperto di quello assunto dal Cattaneo tanti anni prima.276 Ma que-
sta sua evoluzione dal liberalismo moderato degli anni giovanili a posi-
zioni democratiche era stata certamente favorita dalla consuetudine
col pensiero del Cattaneo.277 Del resto, negli ultimi decenni dell’Ot-
tocento tutta la scuola cattaneiana (Gabriele Rosa,* Alberto e Jessie
Mario, Arcangelo Ghisleri) aveva sempre più riconosciuto l’urgenza
delle rivendicazioni sociali, pur con una perdurante diffidenza verso
le soluzioni collettivistiche e con nostalgie di liberismo puro. Nei ri-
guardi, poi, della borghesia reazionaria di fine Ottocento – coloniali-
sta, militarista, negatrice delle autonomie locali –, e perfino nei riguar-
di di alcuni pseudogiacobini filocolonialisti come il Bovio, i socialisti
e i cattaneiani avevano in comune molti motivi di polemica immedia-
ta.278 Il ricordo del Cattaneo, perciò, s’inseriva bene nel contesto del-
la lettera al Graf, e si spiega così il tono particolarmente vibrato con
cui l’Ascoli ricordava il grande politico e pensatore.

Due anni dopo (1899), al dodicesimo congresso degli orientalisti a


Roma, l’Ascoli pronunziava un discorso279 il cui motivo fondamenta-
le era, ancora una volta, il rimpianto che la linguistica fosse divenuta
linguistica pura, che si fosse staccata dall’antropologia e dall’etnogra-
fia e ai cultori di queste scienze avesse abbandonato i problemi glot-
togonici. «Come i vari tipi di favelle primamente si formino e si matu-
rino, come l’uomo arrivi a conseguire uno strumento così meraviglioso
e così vario, il quale è insieme un requisito immancabile della natura
umana e il prodotto necessario di particolari convenzioni», erano que-
sti gli interrogativi che avevano appassionato la linguistica del perio-
do eroico, rivolta (al pari della geologia e della biologia evoluzionisti-
ca) a svelare il mistero delle origini. La nuova linguistica, invece, di
questi problemi non voleva saperne: «Ci sono certi idoli, come le ori-

276
iSull’antisocialismo del Cattaneo cfr. sopra, pp. 368-369 n. 132, e le opere ivi citate.
277
iSulla posizione politica dell’Ascoli giovane cfr. «Annali della Scuola Normale» 1959,
p. 155. Vedi anche qui sopra, pp. 372, 391.
278
iSul pensiero politico di Gabriele Rosa e sui suoi rapporti coi socialisti vedi in particolare
P. C. Masini in «Riv. stor. del socialismo» II, 1959, p. 515 sgg. Sulla polemica anticolonialista
del Ghisleri (che si rifaceva esplicitamente al Cattaneo, ripetendone alla lettera alcune espres-
sioni) cfr. R. Battaglia, La prima guerra d’Africa, Torino 1960, p. 332 sgg.*
279
iXIIe Congrès des Orientaliste, Bulletin n. 12, Discours de M. Ascoli (in italiano).
*i{Cfr. precedente postilla alla n. 146 – N. d. C.}.
*i{Cfr. precedente postilla alla n. 146 – N. d. C.}.
X. Carlo Cattaneo e Graziadio Ascoli 413

gini delle radici, i rapporti tra due diverse famiglie di lingue, e altret-
tali, che le mettono paura». Effettivamente in questa avversione per
i problemi glottogonici confluivano due motivi diversi: da un lato un
giustificato scetticismo, una sazietà di tante ipotesi e discussioni ba-
sate su dati troppo scarsi; dall’altro un’aprioristica negazione della
legittimità stessa di questi problemi, poiché, dicevano i restauratori
dell’idealismo, il linguaggio è «categoria eterna», e si può quindi ricer-
carne solo la genesi ideale, non l’origine nel tempo.280 Con argomenti
dello stesso genere, come è noto, si cercò di svalutare anche il darwi-
nismo, o qualsiasi altra ipotesi tendente a spiegare l’origine dell’uomo.
Bisogna perciò andare adagio nell’esaltare senz’altro l’abbandono del-
le ipotesi glottogoniche come una prova di maturità e di accresciuta
consapevolezza metodica della linguistica di fine Ottocento, e nel tac-
ciare di arretratezza chi, come l’Ascoli, si rifiutava di sanzionare que-
sto abbandono.
Ma insieme a questa polemica contro le nuove tendenze, la quale
si riallacciava alle «Lettere glottologiche», risuonava nel discorso del-
l’Ascoli anche un rimpianto personale. «Non mi è mancato – egli dice-
va – il tempo di fare qualcosa. Ma sono sempre stato agitato da trop-
pi desiderî, e ne venne che la qualunque opera mia ne risultasse come
dispersa in saggi eterogenei e frammentarî». E tra questi desideri,
quello di indagare l’origine del linguaggio e la formazione dei grandi
gruppi linguistici era stato «forse il più fervoroso, benché fosse uno di
quelli cui paressi attender meno». C’era dunque in lui, giunto ormai
vicino al termine della propria carriera di studioso, quasi una nostal-
gia dei suoi interessi giovanili che egli aveva poi sacrificato all’esigen-
za di non perdersi in vane speculazioni, di lavorare e far lavorare sul
solido.281 Nel secondo periodo dei suoi studi, quando si era concentra-

280
iCosì il Croce (Problemi di estetica, 3a ed., p. 200 sgg.), polemizzando contro il Trombet-
ti. Ma già l’hegeliano ortodosso Augusto Vera (Introd. alla filosofia della storia, Firenze 1869, p.
369) aveva obbiettato al Lignana che «l’origine delle lingue non sta nel fatto storico, in una lin-
gua primitiva, ma nell’idea». Aver confutato (pur all’interno di una concezione idealistica della
realtà) questi presuntuosi sofismi è merito di Giorgio Fano: vedi il suo Saggio sulle origini del
linguaggio, Torino 1962, p. 24 sg.
281
iVedi ciò che aveva scritto nel proemio all’«Archivio glottologico» (I, 1873, p. XXXVIII):
«La verità pratica è finalmente, che l’indagator severo ha per ora, e avrà per molto tempo, trop-
po di meglio da fare e da scoprire, perché gli avanzi tempo o voglia di avventurarsi, comunque
vi si possa trovare preparato, all’improbo mestiere delle soluzioni ipotetiche, le quali in sé con-
tengano, alla lor volta, dei problemi imaginarj».
414 X. Carlo Cattaneo e Graziadio Ascoli

to sulla dialettologia romanza e particolarmente italiana, aveva anch’e-


gli compiuto, in certo senso, quel passaggio dalla preistoria alla storia,
dalla linguistica-etnografia alla linguistica pura, che rimproverava ai
neogrammatici e alle tendenze ancor più recenti. Tuttavia in questo
secondo periodo la teoria del sostrato era servita a mantenere un lega-
me tra etnografia e linguistica e tra preistoria e dialetti viventi. Del
sostrato l’Ascoli riaffermava anche questa volta la propria interpreta-
zione naturalistica, con un’espressione che ricorda un poco l’oraziano
Graecia capta ...: «Una gente domata e conquisa perde, in certe con-
dizioni, la propria lingua, ma assoggetta la lingua del vincitore alle abi-
tudini del proprio organo vocale».282 E sostenendo di nuovo lo scarso
numero degli indeuropei invasori, nominava finalmente, come autore
di questa teoria, il Cattaneo, «un Italiano, che nessun linguista este-
ro ha di certo mai citato e che non è stato un vero linguista, ma era
un uomo di genio».
Nel 1900, infine, usciva quella lettera aperta a Francesco Pullè che
abbiamo già citato all’inizio del presente saggio.283 Il Pullé era un etno-
logo con vivi interessi glottologici ed orientalistici: un tipo di studio-
so, quindi, che all’Ascoli doveva riuscire particolarmente simpatico,
così come vicine erano le loro posizioni politiche.284 Anche il Pullè era
ammiratore del Cattaneo, e in vari scritti si era dimostrato seguace
delle idee cattaneiane e ascoliane.285 Queste faranno sentire ancora il

282
iDiscorso cit., p. 6.
283
iAbbiamo già avvertito che la lettera porta la data del settembre 1898 e che fu scritta sul
Monte Generoso nella Svizzera italiana: cioè in luoghi pieni di ricordi del Cattaneo e in un
momento politico particolare (cfr. qui sopra, nota 271). Non mi sono noti i motivi per cui l’A-
scoli la pubblicò con due anni di ritardo; ma forse nel ’98 la «Nuova Antologia» non avrebbe
accolto un così caldo omaggio al pensatore repubblicano.
284
iOltre che di problemi etnologici, si occupò di letteratura indiana e di dialetti italiani; fu
professore di filologia indoeuropea a Padova e a Bologna (cfr. A. De Gubernatis, Francesco L.
Pullè, Firenze 1906). Negli anni di fine Ottocento il suo orientamento politico era radicale, ma
sempre più decisamente favorevole ai socialisti: vedi le sue lettere al Cavallotti nel volume L’I-
talia radicale: carteggi di F. Cavallotti a cura di L. Delle Nogare e S. Merli, Milano 1959, pp.
311-317 (a p. 311 è chiamato per errore Francesco Leopoldo anziché Francesco Lorenzo).
285
iVedi in particolare il suo Profilo antropologico dell’Italia, Firenze 1898, pp. 61 sgg., 65 sg.
Alla lettera aperta dell’Ascoli egli rispose con due diverse lettere: una, di carattere più persona-
le ed immediato, che egli poi pubblicò nell’opuscoletto Graziadio Ascoli, ricordi, Bologna 1907,
p. 11 sgg. (vedi qui sopra, nota 271); l’altra, più elaborata stilisticamente e più «scientifica» per
il contenuto, nella Miscellanea linguistica in onore di G. Ascoli, Torino 1901, p. 575 sgg. Qui egli
portava argomenti a favore della tesi dell’esiguità numerica delle immigrazioni preistoriche, e
accentuava (d’accordo con l’Ascoli e col Nigra più che col Cattaneo) l’aspetto razziale del sostra-
X. Carlo Cattaneo e Graziadio Ascoli 415

loro influsso, venti anni più tardi, nella sua opera complessiva su L’I-
talia: genti e favelle,286 ma mescolate a venature di retorica nazionalista
ben diversa dal patriottismo risorgimentale a cui l’Ascoli aveva tenuto
fede.
Nonostante il tono appassionatamente autobiografico, la lettera al
Pullè è qualche cosa di più che una «confessione». Essa contiene un
giudizio acuto e preciso sul Cattaneo storico, sulla molteplicità e
novità d’interessi che egli portò nei suoi studi etnografici, sul suo spi-
rito scientifico che ce lo fa apparire così vivo e moderno in confronto
a certi suoi pur illustri contemporanei come il Balbo e il Gioberti.
L’Ascoli vede bene la natura, intellettuale e politica insieme, del
disprezzo del Cattaneo per i moderati;287 accenna ai «poveri livori del-
la saccenteria e della politica» che hanno contribuito a fare il silenzio
attorno all’opera del Cattaneo; e quanto a se stesso, proclama: «Io
sono un poverissimo esempio di quelle menti che, in ispecie nelle con-
trade orientali dell’Italia superiore, il genio di Cattaneo ha sin dai loro
inizi giovanili invasato per sempre».
Il fatto che, come adesso sappiamo, la devozione dell’Ascoli al Cat-
taneo non sia stata fin dai primi anni così assoluta come apparirebbe
da queste dichiarazioni, non diminuisce il loro valore. Anzi, per chi
ricordi i dissapori tra l’Ascoli giovane e il Cattaneo, la lettera al Pul-
lè suona, in molti punti, come un’implicita autocritica. Leggendo, per
esempio, le parole dell’Ascoli: «L’invidia ha tentato di stremare i
meriti del Cattaneo, facendone un fortunato ricercatore di periodici
e libri stranieri ...»,288 non si può non ricordare che l’Ascoli stesso, in
quella prolusione del ’61 che al Cattaneo era tanto spiaciuta,289 lo ave-
va messo fra coloro che avevano cercato di «accattare» dall’estero – e
spesso, per di più, con esito infelice – qualche nozione di glottologia.

to (p. 593: «Ai diametri e alla forma del capo corrispondono forma e diametri del palato» e simi-
li). Cfr. anche il suo saggio sul Cattaneo come antropologo e come etnologo in «Archivio per l’an-
tropologia e l’etnologia» XXII, 1902, p. 157 sgg. ( = C. Cattaneo, Scritti politici ed epistolario,
III, Proemio).
286
iTorino 1927: vedi specialmente II, pp. 18 sgg., 252.
287
iLett. cit., p. 638: «Il sentimento della superiorità sterminata per la quale egli prevaleva,
nella speculazione storica, a scrittori pur tanto insigni com’erano il Gioberti e il Balbo, quanta
parte non avrà esso avuto, dopo i disastri del ’48, negl’impeti danteschi dell’Uomo delle Cin-
que Giornate!».
288
iIbid., p. 639.
289
iVedi sopra, p. 378 sg.
416 X. Carlo Cattaneo e Graziadio Ascoli

Così pure l’efficace antitesi tra il Cattaneo e il Balbo («Quando Cat-


taneo investe Cesare Balbo, a proposito della Vita di Dante, intorno
alle ragioni storiche dei dialetti, parlandone come oggi non si potreb-
be far meglio, la lotta è tra due uomini che lavoravano, si può dire,
uno accanto all’altro; e par che di più di un secolo s’interponga tra
loro») è una vera e propria correzione di quel passo della prolusione in
cui il Cattaneo e il Balbo erano accomunati290 ed è, nello stesso tem-
po, un aperto riconoscimento del valore del Cattaneo anche come sto-
rico del linguaggio. E ancora: mentre in Lingue e nazioni l’Ascoli, pur
accogliendo già la tesi dello scarso numero degli invasori indeuropei,
sottolineava assai più le divergenze dal Cattaneo che i consensi,291 qui
esaltava i principi etnografici cattaneiani senza alcuna riserva, e addi-
rittura faceva risalire il suo atteggiamento attuale agli anni della pri-
ma giovinezza: «Io non ho, e chissà se le ritrovo, se non poche no-
terelle, pressoché infantili. Notavo, mi ricordo, come egli procedendo
metodicamente dal positivo al congetturale, dall’un canto avvertisse
nell’Inghilterra le esigue e ripetute immigrazioni germaniche, le qua-
li si assimilavano una parte della popolazione indigena, e vuol dir cel-
tica, rada essa pure, perché insieme ne uscisse, nel giro di quattordici
secoli, il più gran popolo del mondo. E come indi assurgesse ad alti-
tudini infinitamente maggiori, divinando le proporzioni degli incro-
ci, mercé i quali il linguaggio degli Arii si dilatava tra le antichissime
genti. Nessuno poi mi pareva aver fatto più di lui per snebbiare la sto-
ria dalle tante favole e illusioni che si compendiavano sotto il nome
delle grandi trasmigrazioni dei popoli. I suoi concetti sulla relativa fis-
sità delle stirpi, sulla propaggine della specie e della cultura nell’infi-
nito corso dei tempi, avevano come sedato quel tumulto imaginario
di nazioni che la fantasia vantava quanto mai popolose e accavallanti-
si tra loro da innumerevoli età».292 Sarebbe certo una cosa di grande
interesse poter rintracciare fra le carte ascoliane quelle «poche note-
relle pressoché infantili»; ma gli scritti dell’Ascoli giovane che abbia-
mo esaminato precedentemente bastano, comunque, a mostrarci che
in quegli anni lontani la sua ammirazione per il Cattaneo non era sta-
ta affatto così incondizionata come in questo scritto della vecchiaia.

290
iSopra, pp. 378-379.
291
iVedi p. 384 sg.
292
iLett. cit., p. 637.
X. Carlo Cattaneo e Graziadio Ascoli 417

E anche qui, come nel discorso del 1899, il ricordo del Cattaneo era
collegato ad un rinnovato interesse per i problemi glottogonici. Con
un artifizio letterario che può farci sorridere per la sua ingenuità
(eppure, com’è bello, in complesso, questo scritto anche dal punto di
vista letterario! Come l’ingenuità compositiva è trascesa dal calore
umano e dalla limpidezza del ragionamento!), l’Ascoli narrava di aver
conversato in sogno col Cattaneo sul problema della monogenesi o
poligenesi del linguaggio. Sappiamo già che il Cattaneo era fautore di
un poligenismo di numerosi piccoli gruppi: che la maggior parte dei
linguisti dell’Ottocento sostenevano un poligenismo di pochi grandi
gruppi: che i monogenisti erano quasi tutti legati a principii religiosi
o umanitari, ed erano perciò disprezzati dai «laici» poligenisti (i qua-
li d’altra parte, con poche eccezioni tra cui il Cattaneo, manifestava-
no pericolose inclinazioni per il colonialismo e il razzismo). L’Ascoli
già nell’introduzione agli Studj orientali e linguistici si era dichiarato
monogenista, distinguendosi in pari tempo dai religiosizzanti per la
sua esplicita affermazione dell’origine umana del linguaggio.293 In coe-
renza con questa sua posizione, egli aveva criticato, come vedemmo,
le rigide classificazioni degli Schlegel e del Biondelli, e si era accostato
soprattutto a Franz Bopp, cioè all’unico tra i fondatori della lingui-
stica indeuropea che, pur non facendo aperta professione di monoge-
nismo, aveva implicitamente mostrato di simpatizzare per questa tesi.
Ma all’interno del monogenismo, un punto stava particolarmente
a cuore all’Ascoli: l’unità d’origine degli indeuropei e dei semiti. Egli
tentò di dimostrarla in due lettere aperte al Kuhn e al Bopp,294 negli
Studj âriosemitici,295 in una lunga nota dedicata ad un’amichevole
discussione con Giacomo Lignana296 [e nello Squarcio d’una lettera con-
cernente le ricostruzioni paleontologiche della parola, in Studj critici cit.,
II, pp. 22 sgg, 29 sg.] **. All’origine di questo sforzo scientifico c’e-
ra senza dubbio un motivo sentimentale: l’Ascoli sentiva intensa-
mente così il proprio ebraismo come la propria italianità ed europeità,
e teorie come quelle degli Schlegel o del Renan, che vedevano nel-

293
i«Studj orientali e linguist.» I, pp. 5 sgg. sull’origine umana del linguaggio, pp. 21 sg. sulla
monogenesi.
294
iNel «Politecnico» XXI, 1864, p. 190 sgg.; XXII, id., p. 221 sgg.
295
iPubblicati in due puntate (con numeraz. delle pagine a parte) nelle «Memorie dell’Ist.
Lombardo», classe di Lettere, X, 1867.
296
iStudj critici, II, Roma-Torino 1877, p. 51 sgg.
418 X. Carlo Cattaneo e Graziadio Ascoli

l’indeuropeo e nel semitico non solo due tipi linguistici, ma due for-
mae mentis inconciliabili, lo ferivano nell’intimo. D’altra parte, egli
aveva in comune coi suoi avversari il principio che l’affinità a t t u a-
l e di cultura e di sentimenti tra due popoli implicasse una loro comu-
nanza di o r i g i n e: per fraternizzare davvero, ariani ed ebrei dove-
vano scoprire di essere consanguinei. L’idea del Cattaneo, che l’unità
delle stirpi fosse un punto di arrivo e non di partenza, non arrivò mai
a convincerlo; anche nei contatti che indeuropei e semiti avevano avu-
to in epoca storica sulle rive del Mediterraneo egli vedeva l’indizio di
una comune origine preistorica.297 Di qui il pathos che anima i suoi
scritti dedicati a questo problema: «Sono io in preda a un’allucina-
zione – si chiede a un certo punto della lettera al Kuhn – od è questa
una importante scoverta? Giudichi Lei, e intanto mi permetta di pro-
cedere con coraggio».298 Di qui anche il dolore che dovette provare nel
veder la sua tesi respinta dal grande Schleicher e dal Lignana, trascu-
rata dalla maggior parte degli studiosi,299 e, peggio ancora, nel veder-
si confuso, lui animato da una così severa fede nella scienza, tra i
monogenisti succubi di preconcetti religiosi. «Fu detto – scriveva al
De Gubernatis – che io, seguace della Bibbia, mi sforzassi a mostrare
come la scienza delle lingue ammetteva l’unità della specie. (...) [cr]
Io non ho alcun pregiudizio o preconcetto teocratico o teosofico. Se
ne avessi, non [i]studierei [cr]. La mia teoria ario-semitica scaturisce
dagli studj di morfologia ariana».300
L’affetto verso questi studi e il rammarico per la cattiva accoglien-
za che essi avevano ricevuto durarono anche più tardi, quando poté
sembrare che, immerso nelle ricerche concrete di dialettologia roman-
za, li avesse dimenticati. In una nota alla terza «lettera glottologica»

297
iCfr. F. D’Ovidio in «Arch. glottol.» XVII, 1910-13, p. 8; B. Terracini, Guida allo stu-
dio della linguistica storica, I, p. 125.
298
i«Politecnico» XXI, p. 197.
299
iLa lettera di Schleicher è pubblicata da D. Găzdaru in «Anales de filol. clásica» V, 1950-
52, p. 104. Il Lignana, nei suoi discorsi su La grammatica comparata di Bopp (in Anniversario
Bopp, Napoli 1866) e La filologia al secolo xix (Napoli 1868), si dimostrò fautore di un’assoluta
separazione tra indeuropeo e semitico, benché nel secondo attenuasse leggermente questo pun-
to di vista (vedi anche qui sotto, nota 304, e la replica dell’Ascoli già cit. alla nota 296). Con-
trario agli scritti ascoliani si dichiarò anche Fr. Delitzsch, Studien über indogerm.-semitische Wur-
zelverwandtschaft, Lipsia 1873, p. 12 sgg. (cfr. D. Găzdaru, art. cit., p. 99 sgg.; A. Trombetti
in Silloge, p. 1 sgg.; C. Tagliavini, ibid., p. 43 sgg.).
300
iA. De Gubernatis, Cenni sopra alcuni indianisti viventi, in «Rivista europea» a. III vol. IV,
1872, p. 47. [Ora, dall’autografo di Ascoli in Breschi, AGI 58 (1973), p. 85].
X. Carlo Cattaneo e Graziadio Ascoli 419

dichiarava di non pentirsene301 e notava con «particolare sodisfazio-


ne» come anche un neogrammatico, il Moeller, avesse ripreso la stes-
sa tesi con argomenti in parte analoghi. Si spiega così anche il favore
con cui egli accolse i tentativi monogenistici di Alfredo Trombetti:
favore che a molti glottologi e anche ad un suo fedele scolaro come il
Salvioni, parve uno scandalo.302 **
Per noi, oggi, l’unica vera difficoltà della tesi monogenistica (come
anche della poligenistica) consiste nella scarsezza e nell’incertezza dei
dati, che non permettono una dimostrazione solidamente scientifica.
Da tali obiezioni di carattere scettico l’Ascoli non si sentì frenato;
piuttosto, quelle che negli ultimi anni gli si affacciarono, e che cercò
di superare, furono difficoltà di principio. Al tempo degli Studi ârio-
semitici egli attribuiva ancora la differenziazione linguistica a cause
interne, assai più che al sostrato.303 Ma poi, come abbiamo visto, ave-
va finito col considerare il sostrato come la causa precipua della diffe-
renziazione. Ora, questa teoria sembrava incompatibile col monogeni-
smo, poiché presupponeva fin dall’inizio una p l u r a l i t à di lingue,
le quali avrebbero poi dato luogo, mescolandosi e sovrapponendosi, a
varietà ulteriori. Non a caso Friedrich Schlegel, il Biondelli, il Catta-
neo, fautori esclusivi della teoria del sostrato, erano poligenisti. E
ancora: per chi, come l’Ascoli, credeva a uno stretto legame tra la lin-
gua e il complesso delle caratteristiche psichiche e culturali di un popo-
lo o di una famiglia di popoli, e considerava queste caratteristiche non
come acquisite nel corso della storia ma come esistenti – almeno poten-
zialmente – fin dall’origine, non era facile conciliare il monogenismo
con la constatazione di tali diversità. Fu questo, come è noto, il pro-
blema intorno a cui si affaticò per tutta la vita Wilhelm von Humboldt:
per risolverlo, egli suppose, fra l’altro, che i vari tipi linguistici fossero
derivati dall’unica matrice non per evoluzione lenta e graduale, ma per
un processo «a salti», acquistando cioè di colpo, con un’improvvisa
mutazione qualitativa, i loro caratteri specifici.304
301
i«Arch. glottol.» X, 1881, p. 50 n.
302
iCfr. C. Salvioni in «Rendic. Ist. Lomb.» serie 2a, XLIII, 1910, p. 81.
303
iVedi sopra, p. 383 sgg.
304
iCfr. W. von Humboldt, Gesamm. Schr. ed. Leitzmann, V, p. 397 sg.; VI, 1, pp. 270, 275.
Questa tesi, che in Humboldt ha ancora una forte coloritura misticheggiante (la fulgurazione
improvvisa, la scintilla divina, contrapposta alla meccanicità dell’evoluzione graduale), più tar-
di si farà forte dell’analogia con teorie biologiche che sostenevano l’evoluzione «a salti» dall’u-
na all’altra specie (De Vries ecc.). Vedi a questo proposito il discorso del Lignana su L’evoluzione
420 X. Carlo Cattaneo e Graziadio Ascoli

Mosso da un’esigenza simile, l’Ascoli fin dalla prima «Lettera glot-


tologica» aveva cercato di applicare alla differenziazione primitiva dei
tipi linguistici quel principio delle «innovazioni individuali» che egli
respingeva come antiscientifico nel campo della linguistica storica.
Proprio a quel passo in cui discuteva l’affermazione di Delbrück che
ogni innovazione deve aver inizio da un parlante (vedi sopra, p. 400)
egli aveva apposto la seguente nota: «L’affermazione si potrebbe
accettare, senza molta difficoltà, in quanto si volesse riferire a diver-
se tendenze orali per cui andarono tra di loro distinti dei veri patriar-
chi, generatori di primi nuclei di tribù o di popoletti».305 Dunque dal-
l’unica lingua originaria alle poche «lingue prototipe»306 il passaggio
sarebbe avvenuto per un atto individuale (anche se inconscio e con-
dizionato fisicamente) di capi tribù, di «patriarchi», di «quegli uomi-
ni che a buon dritto si dicono gl’istitutori delle nazioni»;307 una volta
stabilitasi questa prima differenziazione, tutte le altre sarebbero avve-
nute per fenomeni collettivi, riconducibili essenzialmente al sostrato
e soggetti al rigore delle «leggi fonetiche».
C’era senza dubbio qualcosa di paradossale in questa costruzione.
Mentre la nuova linguistica, sostenitrice del carattere individuale del-
le innovazioni, odiava le speculazioni glottogoniche, l’Ascoli conside-
rava il principio delle innovazioni individuali come accettabile solo
per la fase glottogonica! La distinzione netta, stabilita già da Humboldt
e più ancora da Scleicher, tra un periodo linguistico c r e a t i v o e un
periodo puramente e v o l u t i v o veniva mantenuta dall’Ascoli sot-
to una forma particolare, che gli permetteva di collocare nel primo
periodo le innovazioni individuali, nel secondo le «reazioni etniche»,
e di conciliare così la monogenesi con la teoria del sostrato.308 Perfino

delle specie e le tre epoche delle letterature indo-europee, Roma 1871, p. 16 sgg. Anche il Labrio-
la, come è noto, prese a prestito dalla biologia il concetto di «epigenesi» per servirsene nella pole-
mica contro i sociologi evoluzionisti. C’era in tutti questi tentativi l’esigenza giusta di afferma-
re l’originalità, l’individualità dei singoli momenti del processo evolutivo, e c’era nello stesso
tempo (come più tardi, in forma assai accentuata, nel Bergson) il pericolo di ricadere in una sor-
ta di miracolismo.
305
i«Riv. di filol.» X, p. 46, n. 1.
306
i«Arch. glottol.» X, p. 74.
307
iIbid., p. 34.
308
iLa distinzione tra i due periodi era stata affermata dall’Ascoli già negli Studj critici, II,
p. 54 sg. ( = «Politecnico» 1867): «Altre hanno potuto o dovuto essere le norme, per le quali si
venne a fissare, pur nelle ultime sue evoluzioni, codesta che è per noi la favella originale degli
X. Carlo Cattaneo e Graziadio Ascoli 421

la tesi cattaneiana dello scarso numero dei migranti preistorici, tra-


sformata dall’Ascoli nella tesi dello scarso numero degli uomini prei-
storici in generale,309 s’inseriva bene in questo quadro, perché con-
sentiva di far partecipare al lavoro di creazione linguistica non
grandi masse di popolazione, ma piccoli gruppi, «tribù e popoletti»
che più facilmente si potevano immaginare obbedienti alle innovazio-
ni linguistiche dei «patriarchi». Quando invece, in epoca storica, l’u-
manità si era grandemente accresciuta di numero, anche i fenomeni
linguistici si erano collettivizzati, e non erano più consistiti in creazioni
individuali, ma solo in mutamenti dovuti a mescolanza etnica.
Queste idee, appena accennate nelle «lettere glottologiche», costi-
tuiscono appunto il tema del «sogno», narrato dall’Ascoli nella lettera
al Pullè. «La meditazione – dice l’Ascoli al suo grande interlocutore
– si è sempre in me ribellata contro l’idea che i fondamenti organici
di un qualsiasi tipo di lingue sien l’opera, comunque imaginata nel
tempo, di una moltitudine di persone, e mi ha all’incontro portato alla
convinzione, via via più ferma, che debbano esser l’opera ben rapida
di uno scarso numero d’individui». Il Cattaneo gli chiede allora se lo
soddisfa «il monophyletismo, o, com’egli preferiva dire, l’unigenía».310
«I tipi delle diverse famiglie di lingue essendo tra di loro tanto diver-
si, poteva parere che il mio supposto senz’altro importasse, come di
necessità, la polyphylia. Onde io risposi, con trepidazione venera-

Arj, ed altre le norme, sotto l’imperio delle quali ella poi visse e dispersa si alterò; come altra è
la vita entruterina dell’animale, ed altra quella ch’egli vive al sole». Ma allora egli non aveva
ancora pensato ad attribuire ai due diversi periodi rispettivamente le innovazioni individuali e
i fatti di sostrato. In questa nuova forma, invece, la distinzione tra i due periodi ritorna nella
terza «lettera glottologica» («Arch. glottol.» X, p. 38): «È rimota per noi la costituzione dei pri-
mi nuclei idiomatici; e la penetrazione istorica, massime quando s’eserciti intorno alle lingue del-
le stirpi autrici e altrici di larghe civiltà, mal può presumere di spingersi in sino a tali giacimen-
ti, che già non sieno il prodotto dell’incrociarsi di più filoni, variamente tra di loro diversi». Vale
a dire: i mutamenti linguistici ricostruibili con sicurezza sono quelli dovuti a mescolanza di lin-
gue diverse; essi presuppongono già avvenuta la formazione di più lingue prototipe, la quale non
può essere oggetto se non di ipotesi. Cfr. ibid., pp. 39 sg., 74.
309
iVedi sopra, pp. 384, 408.
310
iNon saprei indicare esempi del termine «unigenía» negli scritti editi del Cattaneo. Si trat-
terà di un ricordo orale dell’Ascoli? O forse l’Ascoli vuole semplicemente alludere all’ostilità del
Cattaneo per i grecismi (cfr. sopra, nota 29)?* **
*iChe l’Ascoli alluda all’ostilità del Cattaneo per i grecismi pare confermato da quanto egli
scrive poco sopra, p. 638: «L’epoca dell’homo àlalus, o, come egli avrebbe preferito di dire, del-
l’homo illoquus».
422 X. Carlo Cattaneo e Graziadio Ascoli

bonda, che il monophyletismo, secondo che era a un dipresso pensa-


to, nel rispetto del linguaggio, dal Bleek, a me punto non ripugnava;
ma che principalmente non vedevo alcuna vera antitesi tra questa
monophylia e quella polyphylia che dalla diversità dei tipi glottologici
poteva parer voluta; poiché pensavo una serie di sviluppi ulteriori,
importati da peculiari motivi psichici, determinantisi in mezzo a fra-
zioni, naturalmente molto esigue, di quella umanità minutissima,
onde la base monophyletica sarebbe primamente constata». E qui fini-
sce il sogno.
Avrebbe il Cattaneo approvato questo tentativo di conciliare mo-
nogenesi e poligenesi? Si può dubitarne. La costruzione ascoliana, pro-
babilmente, gli sarebbe parsa troppo artificiosa e ideologicamente com-
posita, come difatti è. L’Ascoli stesso non sviluppò ulteriormente queste
idee. Ma per la storia delle ideologie linguistiche dell’Ottocento rima-
ne interessante questo suo sforzo di fondare un «monogenismo laico»,
che sfuggisse ai pericoli della trascendenza da un lato, del razzismo dal-
l’altro. Perciò egli citava il Bleek, uno dei pochi monogenisti non sospet-
tabili di preconcetti religiosi, parente e seguace di Ernst Haeckel.311 E
perciò poteva richiamarsi idealmente al Cattaneo, poligenista, ma
mirante col suo poligenismo ad uno scopo non dissimile: rifiutare l’ori-
gine divina e affermare la pari dignità umana di tutte le stirpi.

5.* Fu appunto questa eredità cattaneiana, questo spirito democra-


tico e illuminista che i due rami della scuola dell’Ascoli, l’«ortodosso»
e il «neolinguista», non furono in grado di raccogliere e sviluppare
adeguatamente. La causa di ciò va naturalmente ricercata, più che in
responsabilità di singoli studiosi, nel mutato clima politico-culturale.
Negli anni attorno alla prima guerra mondiale, e peggio ancora nei suc-
cessivi, tutta la tradizione patriottico-democratica del Risorgimento
venne reinterpretata in chiave nazionalistica e, quindi, profondamen-
te falsata. La figura dell’Ascoli non sfuggì a questo travisamento, al
quale cooperarono il «neogrammatico» Salvioni e i «neolinguisti»
Parodi e Bartoli, aspramente dissenzienti tra loro sul terreno scienti-

311
iW. H. I. Bleek, Über den Ursprung der Sprache (con prefazione di E. Haeckel), Weimar
1868; trad. it. di C. Emery, nella «Rivista Partenopea» del 1872.
*i{Cfr. precedente postilla alla p. 404 – N. d. C.}.
X. Carlo Cattaneo e Graziadio Ascoli 423

fico, ma concordi nel propugnare il nazionalismo più acceso e, in poli-


tica interna, il più ottuso conservatorismo.312 L’Ascoli, pur serbando
un vivissimo affetto per la sua terra natale e riaffermandone sempre
l’italianità, aveva manifestato con molta chiarezza le sue riserve nei
riguardi del movimento irredentista, che gli appariva pericoloso per
l’avvenire pacifico e democratico dell’Italia. Aveva ritenuto che gli
italiani della Venezia Giulia dovessero mirare essenzialmente alla
rivendicazione dei loro diritti entro lo stato austroungarico. Aveva, è
vero, affermato con un certo orgoglio illuministico la superiorità cul-
turale degli italiani soggetti all’Austria nei riguardi degli slavi, tutta-
via ciò non gli aveva mai impedito di auspicare una pacifica convi-
venza delle due stirpi che il governo austriaco aizzava l’una contro
l’altra per meglio opprimerle.313 All’indomani del 1918, invece, l’A-
scoli fu presentato come un profeta dell’irredentismo. Si sentì persi-
no il bisogno di mettere in dubbio che sapesse fin da ragazzo lo slo-
veno: il perfetto irredento, anche se appassionato di linguistica, non

312
iLa commemorazione che del Salvioni fece nel 1922 il Parodi (ristampata in E. G. Paro-
di, Lingua e letteratura a cura di G. Folena, Venezia 1957, I, p. 60 sgg.) dà una chiara immagi-
ne delle idee politiche dell’uno e dell’altro (vedi in particolare pp. 60 n. 1, 79 sg., 85, 94 sg.). Il
Salvioni aveva professato in gioventù idee di estrema sinistra, poi si era bruscamente converti-
to (cfr. Parodi, p. 67 sgg.). Quanto al Bartoli, vedi qui sotto, note 314 e 316. È tuttavia neces-
sario riconoscere l’onestà personale di questi studiosi, i quali, a differenza di altri intellettuali
di quel periodo, non trassero per sé dal loro sciovinismo alcun vantaggio; nel caso, poi, del Sal-
vioni e del Bartoli (** come anche* del Goidánich) bisogna tener conto della loro psicologia
di italiani nati fuori dei confini e quindi particolarmente sensibili all’irredentismo. La calda uma-
nità del Bartoli è dimostrata, fra l’altro, dall’affetto che ebbe per lui Antonio Gramsci, malgra-
do l’assoluto dissenso politico. Considerazioni analoghe valgono per Clemente Merlo, che, nono-
stante il suo nazionalismo acceso, ebbe il merito di continuare a proclamare la grandezza
dell’Ascoli anche dopo l’emanazione delle leggi razziste, e di non aderire al filotedeschismo fasci-
sta (cfr. T. Bolelli, Clemente Merlo, ne «L’Italia dialettale» XXIII, 1958-59, p. XVI). Nei riguar-
di della questione ladina (vedi qui sotto, nota 315) il Merlo, a differenza del Salvioni, non si lasciò
influenzare da preconcetti politici: cfr. «L’Italia dialettale» I, 1924-25, p. 16 sgg.
313
iVedi in particolare Gli irredenti, in «Nuova Antologia», 1° luglio 1895, p. 34 sgg.: A pro-
posito dell’Università italiana in Trieste, ibid., 1° febbraio 1903; Di Niccolò Tommaseo sedicente
slavo, ne «La vita internazionale» VI, 1903, p. 65 sgg. Quest’ultimo articolo tempera e in par-
te corregge, in senso filoslavo, certe affermazioni dei precedenti. Ma già nella prolusione del
1861 (vedi sopra, nota 176) aveva esordito: «Nato e cresciuto in quell’estremo lembo del Bel
Paese, dove Italia e Slavia si confondono, e un governo pseudo-tedesco viene a inceppare le natie
favelle e la civiltà con esse ...».
*iNell{’ottava} riga si tolga la menzione del Guarnerio, irredentista ma non «irredento» (era
nato a Milano). I rapporti dell’Ascoli col Salvioni e col Guarnerio sono ora più minutamente
chiariti, grazie alla pubblicazione dei loro carteggi a cura di P. A. Faré, I carteggi Ascoli-Salvio-
ni, Ascoli-Guarnerio e Salvioni-Guarnerio, Milano 1964 («Mem. Ist. Lombardo» XXVIII, 1).
424 X. Carlo Cattaneo e Graziadio Ascoli

doveva conoscere una parola di slavo!314 Il Salvioni, patrocinatore di


un irredentismo ticinese che non trovava alcuna vera rispondenza nei
sentimenti della popolazione della Svizzera italiana, assunse, nei
riguardi dei Saggi ladini dell’Ascoli, una posizione stranamente con-
traddittoria, combattuto com’era tra il desiderio di far risalire all’A-
scoli la tesi dell’italianità del ladino e la consapevolezza che questa tesi
non si poteva sostenere se non c o n t r o l’Ascoli.315 ** Perfino una
frase del Professore socialista, isolata dal contesto, servì per far appa-
rire il democratico e filosocialista Ascoli come un invocatore del
«governo forte» e un precursore del fascismo.316
314
iCfr. M. Bartoli, G. I. Ascoli, in «Ce fastu?» VI, 1930, p. 99: «Non esageriamo quanto
allo sloveno» (cioè quanto alla conoscenza che ne avrà avuto l’Ascoli giovinetto). Sulla preco-
cità degli interessi slavistici dell’Ascoli vedi ora P. Rezzi, Gli interessi slavistici di G. I. Ascoli, in
«Studi goriziani» XXXII, 1962.
315
i«Rendiconti dell’Ist. Lombardo», serie 2a, L, 1917, p. 41 sgg. Non vogliamo con ciò
negare la legittimità di alcune delle obiezioni che il Salvioni (preceduto da Carlo Battisti) muo-
veva all’Ascoli: cfr. C. Tagliavini, Le origini delle lingue neolatine, 3a ed., Bologna 1962, p. 323
sg. Notiamo solo la contraddittorietà del suo atteggiamento.
316
iIl Bartoli (cit. qui sopra, nota 314), p. 100, rievocava «l’età dei comizi inconcludenti,
quando l’Ascoli invano ricordava al fiacco Governo d’Italia il suo preciso dovere, di “attende-
re a toglier forza ai nemici delle istituzioni e non già contribuire colla sua fiacchezza ad aumen-
tarla”». Ora, l’Ascoli nel Professore socialista (vedi qui sopra, nota 270), aveva scritto: «È di cer-
to molto chiaro per tutti che un Governo deve attendere a toglier forza ai nemici delle istituzioni
ch’egli rappresenta e non già contribuire con la sua fiacchezza ad aumentarla. Ma ognuno insie-
me conosce che il proposito della diretta repressione è, in troppi casi, tutt’altro che una massi-
ma razionale. E molti sentono, anche tra le file dei moderati, che certe sfide la maggioranza ple-
biscitaria non le può oggi lanciare impunemente; sentono davvero che la vittoria è ormai
riservata ad altre virtù che non sia quella delle esclusioni e dei rigori». È difficile trovare un
esempio più chiaro di come si possa, isolando una sola frase, travisare completamente il pensiero
di un autore!*.
*iScriveva Terracini (art. cit., p. 87 n.): «Se T.{Timpanaro} vuol rileggere il passo incrimi-
nato entro il contesto dal quale non può essere isolato, ammetterà che i “comizi inconcludenti”
ai quali Bartoli allude non hanno nulla a che fare col vagheggiamento di un Ascoli in camicia
nera, ma sono una allusione alle piazzate irredentistiche di un tempo rammentate dinanzi ad un
pubblico goriziano per giustificare la realistica posizione prudenziale assunta pubblicamente dal-
l’Ascoli verso manifestazioni di un irredentismo che il Governo italiano non era in condizioni
di sostenere efficacemente». Rileggo tutto il contesto: e tuttora non riesco a intenderlo altri-
menti che come una contrapposizione tra il governo fascista e i governi precedenti. Si ricordi
quanto la propaganda fascista insistesse sulla «fiacchezza» dei governi liberali-democratici, inca-
paci di opporsi validamente ai «sovversivi». I «nemici delle istituzioni» sono evidentemente,
per il Bartoli (e già per l’Ascoli, anche se il senso complessivo del discorso ascoliano era addi-
rittura opposto), i partiti di estrema sinistra; come è possibile credere che questa espressione
voglia designare gli irredentisti troppo focosi? ** Si noti, del resto, che nel Professore socialista,
da cui quella frase è tratta, di irredentismo non si parlava minimamente: in ogni caso, perciò, il
senso della frase ascoliana sarebbe stato del tutto falsato dal Bartoli. All’atteggiamento dell’A-
scoli verso l’irredentismo il Bartoli accenna precedentemente: «La nota contraddizione dei par-
X. Carlo Cattaneo e Graziadio Ascoli 425

Nel campo propriamente linguistico, gli ascoliani-neogrammatici,


dal Salvioni al Merlo al Goidánich, ebbero l’indiscutibile merito di
sostenere, contro l’estetismo crociano, il carattere meccanico, incon-
scio, collettivo di gran parte dei fenomeni linguistici, l’irriducibilità di
tutta la lingua a espressione individuale. In ciò essi erano davvero sul-
la linea dell’Ascoli. Ma nelle polemiche, oltre alla giustezza intrinse-
ca delle tesi, conta anche (e spesso in misura determinante) l’ampiez-
za di respiro culturale con cui si è in grado di sostenerle, la capacità
di assorbire le esigenze dell’avversario e di sconfiggerlo sul suo stesso
terreno. Questa capacità mancò ai nostri neogrammatici. Essi erano
fondamentalmente degli specialisti, che nelle discussioni linguistico-
filosofiche non si sentivano a loro agio e non avevano armi sufficien-
ti per controbattere la brillante eristica degli idealisti. Erano scolari o
seguaci dell’Ascoli dialettologo; non avevano ereditato la vastità d’in-
teressi e l’ardire del maestro (mentre a sua volta il Trombetti, erede di
questo aspetto della personalità ascoliana, mancava del rigore e della
misura del vero scienziato). La difesa stessa del carattere naturalisti-
co della glottologia assunse in loro un aspetto «settoriale»: il Merlo e
il Goidánich erano naturalisti in linguistica, ma spiritualisti o addirit-
tura cattolicizzanti nella visione generale della realtà. Scriveva il
Goidánich: «Si offende forse, per fare un paragone, il sentimento reli-
gioso dell’immortalità dell’anima col riconoscere che noi siam fatti
“d’ossa e di polpe”, che “noi siam vermi nati a formar l’angelica far-
falla”? Si offende forse la dignità del nostro genere di homo sapiens col
riconoscere in noi accanto alla nostra vita intellettiva una vita vege-
tativa? Col riconoscere che un intelletto divino può essere in un frale
organismo fisico?».317 E il Merlo, mentre riduceva la fonetica a fisio-

317
iSilloge, p. 623 sg.
titi democratici dell’Italia prebellica, i quali volevano Trento e Trieste e a un tempo la riduzio-
ne delle spese militari, addolorava l’Ascoli, e lui forse più d’ogni altro»: anche qui stravolgendo
il pensiero dell’Ascoli, quasiché egli avesse voluto risolvere la «contraddizione» incrementando
le spese militari! Vedi qui sopra, p. 423 e n. 313. Fatte queste precisazioni, sono pienamente
d’accordo con Terracini nel ritenere che il Bartoli fu essenzialmente un linguista e che il suo sti-
le di uomo e di maestro fu ben lontano dallo stile fascista: cfr. quello che già osservavo nella nota
312, p. 423 sg. Il mio intendimento non era certo di fare moralistici processi postumi contro sin-
goli studiosi che in politica peccarono soltanto di ingenuità, ma di mostrare come il pensiero del
democratico e filosocialista Ascoli fosse stato falsificato in senso nazionalistico. S’intende che
ciò che ho scritto presuppone un ben preciso giudizio negativo sull’interventismo (anche sul-
l’interventismo «democratico») della prima guerra mondiale.
426 X. Carlo Cattaneo e Graziadio Ascoli

logia della glottide umana, amava poi dire che il linguaggio costitui-
sce «quell’abisso tra uomo e bruto che nessuna teoria materialistica
varrà mai a colmare».318 Era quel che ci voleva per farsi accusare dagli
idealisti di «naturalismo» e di «trascendenza» ad un tempo! E tutta-
via, nonostante le loro chiusure culturali e il loro tono da laudatores
temporis acti, questi studiosi ebbero il pregio di difendere, in tempi
poco propizi alla scienza, certi principii troppo facilmente disprezzati
dai loro colleghi.
I neolinguisti furono assai superiori agli ascoliani-neogrammatici in
fatto di aggiornamento culturale e di varietà d’interessi. Senonché,
per loro, amica veritas sed magis amicus Plato. Al desiderio di non appa-
rire arretrati nel campo filosofico e di non tirarsi addosso le scomuni-
che di Benedetto Croce sacrificarono molto spesso le esigenze con-
crete della loro scienza. Non videro che l’«estetica come linguistica
generale» era la fine della linguistica, o se lo videro, reagirono troppo
timidamente.319 Di contro all’ascolismo ortodosso di un Goidánich e
di un Merlo, essi sostennero che il pensiero dell’Ascoli si poteva far
rivivere solo aggiornandolo e superandolo, cioè liberando la teoria del
sostrato dalle scorie naturalistiche;320 ma, come abbiamo già veduto,
tale aggiornamento non lasciò sopravvivere quasi nulla delle genuine
esigenze ascoliane. Abbiamo anche accennato alla posizione partico-
lare di Benvenuto Terracini, l’unico linguista di formazione idealisti-
ca che abbia avuto un vero e profondo e tormentato interesse per la
personalità umana e scientifica dell’Ascoli.321 All’aspetto collettivo e

318
iCfr., per quest’ultima frase, «Annali delle Università Toscane» XXXVI, 1917, fasc. 6,
p. 3. Anche il Trombetti, del resto, diversamente dall’Ascoli, dette al proprio monogenismo lin-
guistico un’intonazione cattolica.
319
iSu ciò vedi il libro già citato del Nencioni, Idealismo e realismo nella scienza del linguag-
gio, Firenze 1946. Bisogna tuttavia (come osserva il Nencioni stesso) distinguere tra un Giulio
Bertoni, che subì l’influsso dell’idealismo in maniera determinante, e un Bartoli, che si man-
tenne sempre diffidente verso i «glottosofi» (vedi per esempio Introd. alla neolinguistica, Gine-
vra 1925, p. 63 sg.). Della distinzione si rendeva ben conto Gramsci (Letteratura e vita naziona-
le, p. 206 sg., cfr. p. 202), anche se tendeva a sopravvalutare l’originalità e l’importanza del
Bartoli. Un giudizio molto equo ed esatto sul Bartoli ha espresso G. Devoto, M. Bartoli e le leg-
gi, in Scritti minori, Firenze 1958, p. 412 sgg. Vedi anche la bella rievocazione in Silvio Pelle-
grini, Muffe vecchie e nuove, Pisa 1965, p. 85 sgg., e ora l’esauriente articolo di T. De Mauro in
«Diz. biogr. degli italiani» VI, pp. 582-586.
320
iOltre agli scritti cit. sopra, alla nota 225, cfr. la recensione di Mario Casella alla Silloge
Ascoli nel «Marzocco» del 6 luglio 1930.
321
iVedi sopra, p. 396 sgg.
X. Carlo Cattaneo e Graziadio Ascoli 427

inconscio dei fatti linguistici ha dato sempre un giusto rilievo Giacomo


Devoto;322 ma questa sua rivendicazione non prese le mosse dall’A-
scoli, ma piuttosto dal Meillet: non dalla lingua come fatto istintivo,
preculturale, ma dalla lingua come «istituto».
Oggi non si tratta certo di riprendere la polemica tra glottologi posi-
tivisti e idealisti nei termini di cinquant’anni fa, ma piuttosto, di rico-
noscere che il naturalismo dell’Ascoli (e, in generale, del pensiero
scientifico-filosofico ottocentesco) contiene più elementi positivi di
quanti ve ne potesse scorgere la cultura idealistica; e, nello stesso tem-
po, di valutare più pienamente l’influsso antimetafisico, democratico,
antirazzista che sulla formazione dell’Ascoli esercitò il Cattaneo.

322
iGià in Adattamento e distinzione nella fonetica latina, Firenze 1923, p. 5 sg.
XI.
Theodor Gomperz ∼

Testo epigrafe, testo epigrafe, testo epigrafe, testo epigrafe,


testo epigrafe, testo epigrafe.
Nome Cognome

1. – È giunta a termine, col quarto volume (1962), la versione ita-


liana dei Pensatori greci di Theodor Gomperz. Il primo volume era
uscito nel lontano 1933. Il lavoro di traduzione, condotto fino al ter-
zo volume da Luigi Bandini – un traduttore intelligente e fedele,
anche se un po’ troppo arcaizzante – è stato degnamente proseguito,
dopo la morte del Bandini, da Dario Faucci.1
Poco prima che incominciasse ad uscire la versione italiana, era
apparsa a Berlino, dal ’22 al ’31, la quarta edizione dell’opera origi-
nale, curata dal figlio dell’autore, Heinrich Gomperz. In Germania
questa ripubblicazione di un’opera che al suo primo apparire (1896-
1909) aveva destato tanto interesse, fu accolta con freddezza. I due
maggiori rappresentanti della nuova generazione di storici della filo-
sofia greca, Julius Stenzel e Werner Jaeger, dichiararono – il secondo
più recisamente del primo – che l’opera del Gomperz era ormai invec-
chiata: tanto più rapidamente invecchiata quanto più aveva preteso di
«attualizzare» il pensiero greco. Il Gomperz, osservarono i due recen-
sori, non ricostruisce nella loro organicità le dottrine dei grandi filo-
sofi greci, ma si riduce a fare il bilancio di ciò che è vivo e di ciò che
è morto; e considera vivo soltanto ciò che concorda coi risultati della
scienza moderna o almeno ne costituisce un preannuncio: dunque

∼i«Critica storica», II (1963), pp. 1-31.


1
iA questa edizione (T. Gomperz, Pensatori greci, I3, Firenze, La Nuova Italia, 1950; II3,
1950; III2, 1953; IV, 1962) farò riferimento col solo numero romano del volume e arabico del-
la pagina.
XI. Theodor Gomperz 429

mancanza di vero senso storico, disconoscimento delle esigenze spe-


culative, positivismo angusto.2
Anche le recensioni – poche e poco impegnative – ai primi due
volumi della traduzione italiana riecheggiarono questi stessi motivi.
Il clima culturale dell’Italia di allora non era certo uguale a quello del-
la Germania: c’era meno irrazionalismo torbido, meno scorie roman-
tiche, ma, d’altra parte, una tradizione filologica assai meno robusta,
più superficialità, più pretese di risolvere tutti i problemi con un paio
di formule. Ma un elemento comune agli indirizzi dominanti delle due
culture era l’ostilità verso il positivismo ottocentesco e verso le ideo-
logie democratiche e laiche, la svalutazione della scienza. Anche in
Italia, quindi, l’opera del Gomperz sembrò appartenente a un’epoca
ormai tramontata, e si dubitò se fosse stato opportuno intraprender-
ne la traduzione. La massima lode che i Pensatori greci ottennero da
parte di alcuni recensori italiani (come già da parte dello Stenzel) fu
il riconoscimento della loro utilità come «correttivo» di fronte al peri-
colo di una storiografia troppo hegelianamente aprioristica.3**
Poco più tardi, a rendere «fuori moda» il Gomperz, sopravvenne,
prima ancora dell’Anschluss con la Germania nazista, il clerico-fa-
scismo di Dollfuss. Di una biografia redatta dal figlio, con corredo di
lettere e documenti, solo il primo volume uscì a Vienna, quando già
Heinrich Gomperz era emigrato in America.4
Riceverà oggi l’ultimo volume del Gomperz italiano un’accoglienza
migliore? Certo una storia della filosofia greca che dà un grande risalto
al pensiero scientifico, ed è pervasa da un forte afflato antimetafisico,
e non perde mai di vista il nesso tra storia del pensiero e storia politi-

2
iCfr. J. Stenzel, in «Gnomon», 1928, p. 72 sgg.; W. Jaeger, in «Deutsche Literatur-Zei-
tung», 1932, col. 731 sgg. (rist. in Scripta minora, Roma 1960, II, p. 119 sgg.). Accenni sfavo-
revoli al «positivista» Gomperz vi sono anche nelle opere maggiori di Jaeger: vedi specialmen-
te Paideia, trad. it., II, p. 343 sg. (dove, fra l’altro, il pensiero del Gomperz è riferito
inesattamente), e la prefazione a La teologia dei primi pensatori greci.
3
iCfr. R. D’Ambrosio, in «Nuova Rivista Storica», 1933, p. 585 sg.; e, con intonazione com-
plessiva più favorevole, G. Calogero, in «Giornale critico della filosofia italiana», 1934, p. 244.
Del Calogero vedi anche la voce Gomperz, Th. nell’«Enciclopedia Italiana». Negativo, come era
naturale, il giudizio di M. F. Sciacca, in «Logos», 1933, p. 487 sgg.
4
iTh. Gomperz 1832-1912, Briefe und Aufzeichnungen, eingeleitet, erläutert und zu einer Dar-
stellung seines Lebens verknüpft von H. Gomperz, I (1832-68), Wien 1936. Sono vivamente
grato a Mario Untersteiner che mi ha prestato questo volume, molto raro in Italia. L’Unterstei-
ner ne scrisse una bella e coraggiosa recensione in «Mondo classico», 1939, p. 24 sgg. Su una
pubblicazione ridotta del resto di quest’opera, uscita alcuni anni fa, vedi qui sotto, p. 463 sgg.
430 XI. Theodor Gomperz

co-culturale, dovrebbe riuscire assai più gradita oggi che trent’anni fa.
E tuttavia c’è il pericolo che, ancor più che trent’anni fa, i lettori sia-
no urtati da quel gusto, tipico del Gomperz, di sottolineare gli aspetti
ancora attuali della scienza e della filosofia antica. È anche probabile
che gli odierni studiosi di storia della scienza trovino l’opera del Gom-
perz troppo legata al positivismo ottocentesco, verso il quale i neoposi-
tivisti, come è noto, nutrono un’avversione non molto inferiore a quel-
la degli idealisti. E infine c’è da temere che, per troppo amore
dell’aggiornamento bibliografico fine a se stesso, ci si rifiuti addirittu-
ra di prendere in considerazione un’opera vecchia di mezzo secolo, alla
quale non sono state apportate modifiche o aggiunte di alcun genere.5
Io credo che, per intendere nel suo vero valore l’opera del Gomperz,
non ci si debba fermare a certi suoi aspetti esteriori. A una lettura
superficiale, essa può apparire come una tipica opera di divulgazione
tardo-ottocentesca e nulla più. I capitoli dei Pensatori greci hanno un
po’ la forma espositiva di lezioni o conferenze per un pubblico di non
specialisti. Alla fine di ciascun capitolo è preannunciato, in modo da
tener desta la curiosità del lettore, il tema del capitolo seguente. L’au-
tore si preoccupa soprattutto che il suo pubblico non consideri il pen-
siero greco come cosa troppo lontana dai suoi interessi attuali: ci tie-
ne, perciò, a mostrare quanti germi di conquiste scientifiche moderne
vi siano in quelle antiche filosofie e cosmogonie, e come, d’altra parte,
la conoscenza dei pensatori greci sia necessaria a liberarci da vecchi
schemi mentali che abbiamo più o meno inconsciamente ereditato da
loro.6 E ravviva la materia con notazioni paesistiche,7 con rievocazio-
ni leggermente romanzate di scene della vita antica,8 con frequentis-
simi riferimenti a fatti e a pensieri del mondo moderno.
5
iII vol. I dei Griechische Denker uscì per la prima volta nel 1896, il II nel 1902, il III nel
1909; una seconda edizione dei primi due volumi apparve nel 1903, una terza nel 1911-12. L’e-
dizione curata da Heinrich Gomperz, a cui abbiamo accennato sopra (e sulla quale è condotta
l’edizione italiana in quattro volumi) contiene in più molti rimandi a testi antichi, ma, come è
giusto, nessun rimaneggiamento o aggiornamento.
6
iGià nel 1866, in una conferenza ripubblicata poi in Essays und Erinnerungen (Stuttgart
1905, p. 86), il Gomperz aveva detto: «Man widerlegt nur, was man erklärt hat. Und wir Spät-
geborenen können uns von dem übermächtigen Einfluss der Vergangenheit nur befreien, wenn
wir sie gründlich erkennen». Su questo stesso motivo egli ritorna nei Pensatori greci, I, p. 66 n.
7
iDerivanti per lo più, come il Gomperz sottolinea con compiacimento, da conoscenza diret-
ta dei luoghi (I, pp. 96, n. 1; 239 n.; 343, n. 1; II, 18, n. 1; III, 29, n. 1; 607, n. 1).
8
iVedi per esempio il discorso (ben inventato, del resto!) che il Gomperz mette in bocca a
un «vecchio ateniese» ostile a Socrate (II, p. 490 sgg.), e le rievocazioni del soggiorno di Plato-
ne a Siracusa (III, p. 29 sgg.) e del suo incontro con Dione a Olimpia (id., p. 451 sg.).
XI. Theodor Gomperz 431

Ma a chi credesse di poter considerare il Gomperz solo come un


divulgatore brillante o uno scientista privo di senso storico, bisogne-
rebbe innanzi tutto ricordare l’eccellenza dei contributi strettamente
filologici (congetture critico-testuali, interpretazioni di singoli passi)
che si trovano disseminati nelle note dei Pensatori greci. È di pram-
matica il confronto tra il Gomperz e l’altro grande storico ottocente-
sco della filosofia greca, Eduard Zeller. Ebbene, la grande opera zel-
leriana Die Philosophie der Griechen in i[h]rer [cr] geschichtlichen
Entwicklung è, rispetto all’opera del Gomperz, molto più ricca di
e r u d i z i o n e (cioè di apparato documentario e bibliografico), non
già di contributi filologici originali. Lo Zeller, benché scrupolosissimo
dell’esattezza storica, proveniva dalla speculazione metafisica, e la cri-
tica testuale o l’esegesi del passo singolo lo interessavano solo in quan-
to coinvolgessero problemi più generali d’interpretazione filosofica.
Nelle note del Gomperz, invece, nonostante la molto maggiore strin-
gatezza dell’apparato erudito, si sente subito il critico testuale esper-
to del mestiere, il conoscitore profondo di lingua e stile greco.9
Ciò risulta ancor più chiaro se si dà uno sguardo all’attività del Gom-
perz anteriore ai Pensatori greci. Non era stata, è vero, la sua una tipica
carriera di filologo del secondo Ottocento. Da giovane si era sentito
attratto dagli interessi più vari (scienza, filologia, politica, giornali-
smo, letteratura), tanto da disperdere il suo ingegno in troppe dire-
zioni e da frequentare per molti anni, all’Università di Vienna, diver-
sissimi corsi di studi senza poi arrivare a laurearsi. A favorire questa
dispersività – che non fu, del resto, un fatto puramente negativo, ma
significò anche allargamento di orizzonte intellettuale, formazione di
una personalità viva e antiaccademica – aveva contribu[i]to [cr] anche
la sua situazione di figlio di un’agiata famiglia ebraica, non assillato da
necessità economiche urgenti e, d’altra parte, date le leggi illiberali
dell’Austria di allora, escluso dalla prospettiva di una carriera univer-
sitaria.10 Ma il primo campo di studi in cui, verso il 1855, egli riuscì
9
iCongetture degne di considerazione mi sembrano, per esempio, ψευδ ς in Aristot.
Metaph. Γ 1010 b 2 sg. (Pens. Greci, IV, p. 269, n. 1: semplice ritocco di una precedente con-
gettura del Bonitz, ma convalidato dal confronto con un passo di Platone);
συµπαραλαµβανµενον in Temistio, De an. pp. 107, 35 sgg. Heinze (id., p. 684, n. 1);
σωµ των <τ ερµν> in Erone, vol. I, p. 26, 21 Schmidt (id., p, 740, n. 2). Un’interpreta-
zione giusta di un passo di Teofrasto (ripresa più tardi, credo indipendentemente, da Giorgio
Pasquali nella sua traduzione dei Caratteri) è in IV, p. 717, n. 2. Giusta anche l’interpretazione
di κατ στοιχεον sostenuta dal Gomperz, IV, p. 724, n. 2, contro l’Usener.
10
iVedi le memorie autobiografiche ripubblicate in Essays und Erinnerungen cit., p. 24 sgg.
432 XI. Theodor Gomperz

finalmente a fissarsi, ad imporsi una disciplina di lavoro, fu proprio


la filologia in senso rigorosamente tecnico, la critica testuale, anche
se applicata prevalentemente a testi filosofici.
A indirizzarlo in questo senso contribuì certamente l’influsso del
suo maestro Hermann Bonitz, risuscitatore degli studi filologici in
Austria, valente interprete di Platone e soprattutto di Aristotele. Il
Gomperz ricordò sempre con commossa gratitudine questo studioso
non geniale, ma herbartianamente rigoroso:11 a lui dedicò l’edizione
del De ira di Filodemo, e un suo giudizio su Aristotele (un giudizio, a
dire il vero, un po’ scolastico) volle porre come motto dell’ultimo volu-
me dei Pensatori greci. Ma anche in questo campo specifico l’allievo
superò il maestro: le edizioni di testi epicurei e filodemei provenienti
da Ercolano, l’edizione commentata del De arte pseudo-ippocratico,
gli studi su Platone, Aristotele, Teofrasto pongono il Gomperz tra i
più acuti curatori filologici di testi filosofici antichi, più su del Bonitz,
accanto all’Usener e al Diels.12
Né si limitò ai testi filosofici. Tra le copiose note di critica testua-
le che egli stesso ripubblicò nei due volumi di Hellenika (Lipsia 1912)
vi sono contributi ad Euripide, ai frammenti dei tragici, ad Erodoto,
con qualche incursione anche nel campo latino (Cicerone, Arnobio).
Molte di quelle congetture sono oggi unanimemente accolte;13 altre,
come è inevitabile, a un più maturo esame appaiono inaccettabili. Ma
che in lui la congettura non fosse divenuta sterile ostentazione di vir-
tuosismo, lo dimostra la sua giustissima polemica contro il Cobet,

11
iCfr. il ricordo del Bonitz pubblicato dal Gomperz nel «Biographisches Jahrbuch fiir
Alterthumskunde», XI (1888), p. 53 sgg.; e Th. Gomperz 1832-1912 cit., p. 94 sgg.
12
iSul valore dei contributi epicurei si veda il giudizio di G. Arrighetti, Introd. a Epicuro,
Opere, Torino 1960, p. XVI sg. | 19732, p. XXIII sg. |. I principali risultati dei Platonische Auf-
sätze (Wien 1887-1905), delle memorie sulla Poetica di Aristotele («Sitzungsber. der Wiener
Akad.», 1888-96 ed «Eranos Vindobonensis», 1893) e sui Caratteri di Teofrasto («Sitzungsber.
der Wiener Akad.», 1888) sono riassunti e utilizzati dal Gomperz stesso nei Pensatori greci (spe-
cialmente III, cap. II; IV, pp. 589 sgg., 712). L’edizione del De arte (Apologie der Kunst, Wien
1890, Leipzig 19102) conserva un grande valore critico-testuale ed esegetico anche per chi non
accetti l’attribuzione dell’opera a Protagora. | In generale per gli studi del Gomperz sulla medi-
cina greca cfr. V. Di Benedetto, in «Critica storica», V (1966), pp. 354-356, dove alcune inter-
pretazioni del Gomperz riguardanti il De prisca medicina sono confermate e sviluppate |.
13
iVedi il riconoscimento del Nauck nella 2a ed. dei Tragicorum Graecorum fragmenta, Lipsiae
1889, p. XVIII e n. Cfr. per esempio anche Murray ad Euripide, Iph. Aul. 1058 ** (Gomperz,
Hellenika, I, p. 15); Schoell a Cicerone, Phil., I 15 (id., II, p. 265), ecc. Si deve al Gomperz la
prima edizione di uno dei più importanti testi callimachei (sul quale vedi ora V. Bartoletti, in
«Studi ital. di filol. class.» n. s. XXXIII, 1961, p. 154 sgg.).
XI. Theodor Gomperz 433

emendatore acuto, ma, come molti dotti olandesi, troppo analogista.14


Questo aspetto della personalità del Gomperz andava sottolineato
(anche se abbiamo dovuto farlo troppo brevemente) perché nelle sto-
rie della filologia non gli è riconosciuto il posto che gli spetta, e la stes-
sa biografia intellettuale scritta dal figlio è, da questo lato, manche-
vole. Heinrich Gomperz – che non difettava affatto di preparazione
filologica, ma, a differenza del padre, si sentiva essenzialmente «filo-
sofo teoretico» – tende un po’ a considerare le congetture paterne un
ingegnoso perditempo, e giunge fino a intitolare Stockung (stagna-
zione intellettuale!) un capitolo che si riferisce agli anni 1855-61, anni
d’intensa e felice attività filologica. Ma Theodor Gomperz conosceva
bene se stesso quando nel ’67 – cadute le leggi discriminatrici contro
gli ebrei, superato, col conseguimento della libera docenza, l’ostacolo
che a lui derivava dalla mancanza di diploma universitario – non vol-
le tuttavia accettare una chiamata a Graz come professore di filosofia
antica e aspettò per altri due anni, finché l’università di Vienna lo
chiamò a insegnare filologia classica, come successore del Bonitz. «La
esclusiva limitazione a questo campo particolare (la filosofia antica)
non mi soddisfaceva», ricorderà più tardi. «Ancor oggi non rimpian-
go che il mio ufficio di professore di filologia mi abbia costretto, per
lunghi anni, a familiarizzarmi con i più vari aspetti della scienza del-
l’antichità. Anche se qualche volta ciò mi ha allontanato dallo scopo
principale dei miei studi, tuttavia i miei studi stessi hanno finito per
trarre vantaggio da questo ampliamento di orizzonte».15
Le parole che abbiamo ora citato, però, sottintendono già una di-
versa e più vasta concezione della filologia: non più semplice attività
di restauro e di interpretazione puntuale dei testi, ma «scienza del-
l’antichità», ricostruzione della vita dei popoli antichi in ogni suo
aspetto. La prima concezione, come è noto, era stata sostenuta nel pri-
mo Ottocento da Gottfried Hermann (e di Hermann era stato scola-
ro il Bonitz); la seconda, per cui filologia e storia s’identificavano, da
August Böckh e da Karl Otfried Mueller. Il Gomperz, pur senza per-
dere mai il gusto della filologia in senso stretto, si andò sempre più
accostando (per influsso di Otto Jahn e, attraverso Jahn, di Jacob Ber-

14
iDie Bruchstücke der griech. Tragiker und Cobets neueste kritische Manier, Wien 1878, ripubbl.
in Hellenika, I, p. 29 sgg.
15
iEssays und Erinnerungen cit., p. 46.
434 XI. Theodor Gomperz

nays) a questa più larga visione storica.16 Nel 1881, commemorando


il Bernays, egli scriveva:
Storia e filologia ... Potrebbero mai sorgere dei dubbi sul rapporto tra queste due
discipline? In linea di principio, certamente no. Lo storico che non si rassegna a
guardare con gli occhi altrui, che vuol formarsi un giudizio indipendente sul pro-
prio materiale di ricerca, è necessariamente un filologo; e il filologo che non è un
puro e semplice conoscitore di alcuni autori prediletti, il filologo che è un ricerca-
tore e con la sua ricerca mira a scopi di interesse generale, che cos’altro può essere
se non uno storico? Poco importa che egli si occupi di illustrare la vita politica, socia-
le, religiosa o speculativa di un popolo, oppure di studiare la storia della sua lette-
ratura o della sua lingua: poco importa, cioè, che si chiami Gottfried Hermann o
August Böckh, Scaligero o Bentley, Jakob Grimm o Christian Lassen. Filologia e
ricerca storica rigorosa dovrebbero esser considerate espressioni quasi del tutto equi-
valenti; da questo punto di vista, non costituisce una grande differenza il fatto che
il restauro di testi sfigurati da errori e la ricostruzione storica in grande stile appaia-
no talvolta uniti nella medesima persona – per esempio nel Mommsen o in Wilhelm
Scherer –, mentre altri studiosi, come un Lachmann o un Immanuel Bekker, dedi-
cano la loro vita a quella sola attività preliminare. E, beninteso, anche il cosiddetto
filologo formale non è soltanto un ausiliario della storiografia, ma è egli stesso, sem-
pre, uno storico; ogni passo che egli muove, per esempio, nella critica del testo, si
appoggia su osservazioni e riflessioni storiche che riguardano l’evoluzione del lin-
guaggio, della tecnica metrica, delle concezioni filosofiche, dei mezzi di espressio-
ne stilistica, delle circostanze esteriori e via dicendo.17

È interessante anzitutto notare, in queste parole, il superamento


dell’ambito «classico», greco-latino, in cui si erano prevalentemente
mantenute fin allora le discussioni su filologia «formale» e «reale». Il
Gomperz è consapevole – come lo sarà l’Usener nella famosa lezione
Philologie und Geschichtswissenschaft, posteriore di un anno (1882,
rist. in Vorträge und Aufsätze, Leipzig 19142, p. 1 sgg.) che il rappor-
to storia-filologia si pone egualmente per lo studio di tutte le culture;
e lo sottolinea citando, accanto a filologi classici e a storici della Gre-
cia e di Roma, germanisti come J. Grimm e Scherer (e, per una parte
importante della sua attività, Lachmann) e un indianista come Lassen.
In secondo luogo, bisogna osservare come nel Gomperz la piena
adesione al concetto storico della filologia non si accompagni ad alcu-
na svalutazione della «filologia formale»: il Gomperz afferma con for-

16
iSui rapporti del Gomperz col Jahn vedi Essays und Erinnerungen cit., p. 29; sull’influsso
del Bernays (i cui Heraclitea gli furono prestati dal Jahn) ibid., pp. 38, 106 sgg. Cfr. A. Momi-
gliano, Quinto contributo alla storia degli studi classici e del mondo antico, Roma 1975, I, p. 134.
17
iIbid., p. 106 sg.
XI. Theodor Gomperz 435

za che il lavoro di emendazione e di esegesi minuta dei testi, anche se


rappresenta un momento preliminare per più vaste ricostruzioni sto-
riche, non va però concepito in modo puramente strumentale, ma è
esso stesso, già, ricostruzione storica, sia pure in un ambito più circo-
scritto: mentre il Böckh, il Mueller, lo stesso Bernays avevano mante-
nuto verso la filologia formale un certo atteggiamento di sufficienza.18
Alcuni anni più tardi, nelle pagine conclusive della sua Introduzione
alla tragedia greca, il Wilamowitz sostenne anch’egli la necessità di
rivalutare la filologia formale, ma in modo un po’ diverso: il compito
specifico del filologo sarebbe consistito nel mettere in grado il lettore
moderno di gustare direttamente l’opera d’arte antica nel suo valore
imperituro, senza abbassarla a mero documento di un’epoca.19 Il
Gomperz non sentiva tanto l’esigenza di rivendicare una simile auto-
nomia del filologo nei riguardi dello storico, quanto quella di unifica-
re davvero le due correnti culturali, in modo che, all’interno di una
concezione rigorosamente storica della filologia, nulla andasse perdu-
to dell’insegnamento dei filologi formali.
I Pensatori greci costituiscono appunto un esempio di tale unifica-
zione. Se parecchie osservazioni particolari rivelano, come abbiamo
già notato, lo scolaro del Bonitz e l’erede della tradizione che faceva
capo a Gottfried Hermann, la struttura generale dell’opera si ispira al
concetto di «scienza dell’antichità» elaborato dal Wolf e dal Böckh.
Di qui deriva la caratteristica più spiccata di questa storia della filo-
sofia greca, che la distingue dalle precedenti (Ritter, Brandis, Zeller)
e dalle seguenti: la stretta connessione, che il Gomperz mette sempre
in risalto, tra la filosofia greca e la civiltà greca nel suo insieme: una
connessione non irrigidita (come in Hegel) in un complicato e artifi-
cioso sistema di categorie concettuali, ma còlta con metodo empirico
e induttivo, al di fuori di ogni schematismo.
Tracciando il piano della sua opera, il Gomperz scriveva (I, p. xv
sg.): «Della storia della religione, della letteratura e delle scienze par-

18
iVedi la difesa degli adversaria, delle note filologiche sparse, che il Gomperz (ibid., p. 108 n.)
fa contro il Bernays, il quale accettava la condanna degli adversaria pronunziata dallo Scaligero
e ribadita da K. O. Mueller.
19
iU. von Wilamowitz, Einleitung in die griechische Tragödie2, Berlin 1910, p. 25[6] [cr] sg.
Queste pagine del Wilamowitz sono in implicita polemica con Philologie und Geschichtswissen-
schaft di Hermann Usener, cit. sopra: vedi la sua lettera all’Usener del febbraio 1883, in Use-
ner-Wilamowitz, Ein Briefwechsel, Leipzig 1934, p. 28 sg.
436 XI. Theodor Gomperz

ticolari entreranno nell’opera quelle parti che siano indispensabili


all’intelligenza del movimento speculativo, delle sue cause e dei suoi
effetti. Le linee divisorie di questi vari campi appaiono all’Autore
tutt’altro che rigide e fisse. L’ideale che gli sta davanti agli occhi non
potrebbe realizzarsi completamente se non in un’opera che abbrac-
ciasse ed esaurisse tutta la storia della vita spirituale dell’antichità. Se
una tale grandiosa impresa venisse mai portata degnamente a termine,
il presente saggio, infinitamente più modesto, non potrà non appari-
re, di fronte ad essa, superato ed invecchiato». Ma in realtà i Pensa-
tori greci sono già, in larga misura, una realizzazione di questo ideale.
Sulle manifestazioni extra-filosofiche della cultura greca il Gomperz
dice molto di più di quanto sarebbe stato «indispensabile all’intelli-
genza del movimento speculativo» in senso stretto: basti ricordare le
pagine dedicate alla medicina greca (la cui importanza per la storia
generale della cultura fu messa in rilievo per la prima volta dal Gom-
perz),20 ai tre grandi tragici, a Erodoto e a Tucidide, alla vita politico-
sociale delle città ioniche, di Atene, di Siracusa.21 Soprattutto impor-
ta notare che queste pagine non hanno (a differenza che nello Zeller)
carattere semplicemente introduttivo, di «inquadramento storico-cul-
turale» delle dottrine filosofiche, ma costituiscono parte integrante
della storia del pensiero greco come il Gomperz la intendeva.

2. – Ma, cosa importante, della filologia storica tedesca il Gomperz


seppe assimilare solo l’aspetto positivo e respingere le scorie. Il Böckh
e i suoi seguaci, mentre abbattevano con piena ragione le barriere tra
le varie manifestazioni di civiltà di un popolo, consideravano, poi, cia-
scun popolo come un «organismo» chiuso in sé, dotato di proprie
caratteristiche rigidamente unitarie, di un proprio «spirito nazionale»
che restava sostanzialmente identico a se stesso in tutto il corso della
sua storia. Una concezione, questa, che, inserita ancora da Herder e
dai cosiddetti preromantici nell’ambito di una visione generale pro-
gressista e cosmopolita della storia umana, si era fatta nazionalistica-

20
iVedi II, pp. 3 sgg., 292 sgg. Sull’interesse del Gomperz per la medicina antica e sui suoi
rapporti con Émile Littré vedi Essays und Erinnerungen cit., p. 40 sg.; Th. Gomperz 1832-1912
cit., p. 243 (e qui sopra, nota 12).
21
iVedi specialmente I, p. 385 sgg.; II, pp. 160 sgg., 331 sgg., 363 sgg., 401 sgg.; IlI, p. 25
sgg. Sull’«illuminismo» di Euripide (che fu poi il tema del libro di W. Nestle, Euripides der Dich-
ter der griechischen Aufklärung, Stuttgart 1901) l’essenziale era stato già detto dal Gomperz.
XI. Theodor Gomperz 437

mente angusta col Savigny e con i romantici del gruppo di Heidelberg.


Il popolo greco, per la spiccata originalità delle sue manifestazioni cul-
turali e la relativa scarsezza degli influssi che aveva subito da parte di
altri popoli, si adattava meglio di ogni altro a questa concezione; anzi,
neo-umanesimo alla Winckelmann e romanticismo nazionalista si tro-
vavano, in questo caso, concordi nell’esaltazione del «miracolo elle-
nico». È vero che un’altra corrente del romanticismo tedesco, più
misticheggiante che nazionalistica, facente capo a Creuzer e al Frie-
drich Schlegel dell’ultima maniera, voleva ricondurre tutto il pensiero
greco alla «sapienza» orientale, e aveva trovato ancora verso la metà
dell’Ottocento due seguaci nel Gladisch e nel Röth; ma le strampala-
te fantasie di questi eruditi (paragonabili per certi aspetti a quelle dei
nostri vichiani in ritardo: Jannelli, Mazzoldi, ecc.) erano servite sol-
tanto a riconfermare negli studiosi più seri la convinzione che il pen-
siero greco fosse da considerarsi del tutto indipendente da influssi
orientali. Di questa tesi si era fatto deciso assertore lo Zeller.22
Il Gomperz seppe mantenersi ugualmente lontano dal chiuso nazio-
nalismo o etnicismo degli uni e dall’orientalismo mistico degli altri. I
suoi Greci non sono i ripetitori di un verbo che viene dall’Egitto o dal-
l’India, ma non sono neppure un popolo eletto, tanto più originale
quanto più immune da qualsiasi contatto con altri popoli. La loro eccel-
lenza consiste proprio nella capacità di avere rapporti (economici e cul-
turali) con altre genti, di assorbirne gli influssi senza lasciarsi assorbi-
re: non per nulla la cultura greca nasce nelle colonie dell’Asia minore,
in una zona di contatto con la cultura orientale. La grande originalità
della forma mentis scientifica greca, il Gomperz la sottolinea con con-
vinzione; ma ritiene molto probabile che la matematica e l’astronomia
caldea abbiano esercitato una notevole influenza sugli inizi della ricer-
ca scientifica greca, e che l’orfismo e le altre correnti misteriche gre-
che debbano molto a religioni orientali. Trattando di quest’ultimo pun-
to egli esce in una vivace dichiarazione di principio (I, p. 146):
Questa assunzione provocherà certamente le più vivaci obbiezioni, se non anche gli
acri sarcasmi, di molti studiosi per i quali è un fare affronto ai Greci il supporre che

22
iCfr. E. Zeller, La filosofia dei Greci ecc., trad. ital., parte I, vol. I, Firenze 1932, p. 35
sgg., e l’informatissima ed equilibrata nota del Mondolfo (ibid., p. 63 sgg.; cfr. p. 45 n. 1) che
dà notizia delle discussioni posteriori sull’argomento e corregge l’unilateralità del punto di vista
dello Zeller. | Cfr. ora anche M. L. West, Early Greek Philosophy and Orient, Oxford 1971 |.
438 XI. Theodor Gomperz

essi siano stati a scuola dalle nazioni che li hanno preceduti nella civiltà, e che abbia-
no ricevuto da esse germi della loro scienza e della loro fede religiosa. Ma l’angusta
e caparbia mentalità che vorrebbe, per così dire, far salire il popolo greco su di un
trespolo isolatore per sottrarlo all’influsso di altri e più antichi popoli civili, non può
mantenere la sua posizione di fronte ai fatti sempre più numerosi, più sicuri e più
importanti che ogni giorno vengono alla luce. E quasi più nessuno si trova oggi che
sia disposto a negare ciò che anche soltanto qualche diecina d’anni fa si contestava
con ostinata, veemente sicurezza, che cioè i Greci debbano all’Oriente tanto gli ele-
menti della civiltà materiale quanto i primi rudimenti dell’arte. La resistenza che
una tale veduta ha incontrato per quel che concerne la scienza della religione è sta-
ta certo potentemente alimentata dagli studi prematuri, incompleti e partigiani, con-
dotti senza alcun metodo dagli studiosi precedenti; anche questa corrente tuttavia,
promossa da uomini eminenti, fra i quali fu anche il Lobeck, deve alla fine venir
meno, e cedere il campo ad una valutazione spassionata ed imparziale dei fatti sto-
rici. Come mercenari e come mercanti, come marinai avventurosi e come pugnaci
coloni, gli Elleni stabilirono ben presto, come abbiamo visto, molti e stretti contat-
ti con popoli stranieri. Presso il fuoco dei bivacchi, nei bazar e nei caravanserragli,
sulla coperta dei battelli alla luce delle stelle, o nell’ombra intima della stanza coniu-
gale che così spesso l’emigrato greco divideva con l’indigena, avveniva uno scam-
bio continuo d’idee in conversazioni le più varie, nelle quali sicuramente ci si intrat-
teneva intorno alle cose celesti non meno che intorno a quelle terrene.

I sarcasmi previsti dal Gomperz non mancarono. Certo, il piglio un


po’ fantasioso di questa rievocazione contribuì a suscitarli. E tuttavia,
quando John Burnet osservava ironicamente che la sposa indigena del-
l’emigrato greco «non avrà probabilmente parlato di teologia con suo
marito, e meno che mai di filosofia della scienza»,23 sbagliava com-
pletamente bersaglio. Il Gomperz, ben diversamente da un Gladisch
o da un Röth, non faceva venire dall’Oriente i sistemi filosofici belli e
fatti, ma certi culti e certe credenze religiose, o – su un altro piano –
certi ritrovati tecnici; soltanto, a differenza degli intellettualistici Zel-
ler e Burnet, egli sapeva che la filosofia, specialmente nella sua fase
iniziale, si nutre di succhi non filosofici: perciò si rifiutava di porre
barriere troppo rigide tra «speculazione» greca e «teosofia» orientale,
tra «scienza pura» greca e «tecnica» orientale.24
Nel secondo Ottocento il concetto romantico di nazione assumeva
sempre più una coloritura razzistica. L’originalità dell’arte e della filo-
23
iJ. Burnet, Early Greek Philosophy4, London 1930, p. 17, n. 2.
24
iChe la maggior parte delle connessioni culturali e religiose tra Grecia e Oriente fossero anco-
ra ipotetiche, il Gomperz lo sapeva e lo dichiarava con tutta franchezza (vedi specialmente I, pp.
87, 208 sg.). Ma l’importante era non assumere un atteggiamento di negazione p r e g i u d i-
z i a l e , dettato da motivi extrascientifici, che avrebbe scoraggiato e intralciato ulteriori ricerche.
XI. Theodor Gomperz 439

sofia greca veniva messa in relazione con la purezza razziale del popo-
lo ellenico; la presunta decadenza filosofica dell’età ellenistica era
attribuita alla mescolanza tra sangue greco e orientale. La testimo-
nianza erodotea, secondo la quale Talete era di stirpe fenicia, veniva
fatta segno a confutazioni più appassionate di quanto avrebbe richie-
sto il mero interesse per l’accertamento di un dato biografico: si trat-
tava di liberare dalla taccia di semitismo il fondatore della filosofia
europea. Thales ein Semite? era il titolo allarmistico di un articolo di
Hermann Diels; ma le conclusioni erano rassicuranti: semita no di cer-
to, caso mai di origine caria: ma i Carii, com’è provato dai più recen-
ti studi, sono indeuropei!25 E il Diels era ancora uno degli studiosi
tedeschi meno sciovinisti e antiliberali.
Bisogna tener presente questa atmosfera, queste discussioni, per
comprendere come mai il Gomperz si compiaccia ripetutamente di
considerare come un elemento favorevole al progresso della civiltà,
accanto ai contatti culturali tra i Greci e gli altri popoli, anche la
mescolanza razziale, e all’esaltazione dei purosangue contrapponga
polemicamente l’esaltazione dei mixobárbaroi: Talete, Tucidide, Anti-
stene ...26 Questa lotta al razzismo condotta con le sue stesse armi era
allora inevitabile: perfino il pensatore ottocentesco che meglio di ogni
altro seppe distinguere tra razza, lingua e cultura, Carlo Cattaneo, non
rinunciò a esaltare, contro gli etnologi razzisti, gli incroci tra stirpi
diverse come fattori di miglioramento, fisico e culturale insieme, del
genere umano.27
A questo superamento dell’etnicismo romantico e delle sue pro-
paggini razziste il Gomperz fu portato – prima ancora che dalla sua
consuetudine col pensiero illuministico e radicale inglese, su cui ritor-
neremo – dalla sua duplice condizione di cittadino dello stato austro-
ungarico e di ebreo. La plurinazionalità dell’impero austriaco fu sem-
pre considerata da lui come un elemento positivo: l’impero avrebbe
dovuto liberalizzarsi e decentrarsi, ma non dissolversi in singoli stati

25
iL’articolo del Diels è in «Archiv fur Geschichte der Philosophie» II (1889), p. 165 sgg.
Contro l’origine fenicia di Talete anche Zeller, trad. ital., parte I, vol. II, p. 103 n. 1. A favo-
re, invece, W. Christ, Gesch. der griecb. Liter., I6, p. 622, e Schmid-(Stählin), I, p. 728 n. 6. È
sintomatico che una delle pochissime critiche mosse dal Lortzing al primo volume dei Griechi-
sche Denker (in «Berliner philol. Wochenschr.», 1894, col. 520) riguardasse appunto il semiti-
smo di Talete!
26
iCfr. I, pp. 8, 18, 73; II, pp. 338, 563.
27
iCfr. C. Cattaneo, Scritti economici, ed. A. Bertolino, II, p. 364.
440 XI. Theodor Gomperz

nazionali; meno che mai gli austro-tedeschi avrebbero dovuto lasciar-


si sedurre dal miraggio della Grande Germania.28 Un punto di vista
del tutto diverso, quindi, da quello della quasi totalità degli studiosi
tedeschi suoi contemporanei, nazionalisti convinti. E gli ebrei, secon-
do il Gomperz, avrebbero dovuto rivendicare la fine di ogni perse-
cuzione e menomazione di diritti, ma non per mantenersi come un
gruppo a sé, con un proprio orgoglio etnico, bensì per assimilarsi con
i popoli tra i quali vivevano ormai da secoli: di qui la sua ostilità al sio-
nismo.29 La tragicità che il problema ebraico avrebbe riacquistato nel
xx secolo, con le più feroci persecuzioni che mai fossero state, egli non
era in grado di prevederla.

3. – Ma anche nel campo specificamente filosofico non esiste per il


Gomperz lo «spirito greco» come unità organica; né la storia del pen-
siero greco si riduce allo svolgimento di un tema unico, con tre fasi
successive di ascesa, apogeo e decadenza. Gli storici ottocenteschi
anteriori al Gomperz consideravano tutto il pensiero pre-platonico
come un processo di liberazione dal naturalismo. Ricalcando le orme
dell’excursus autobiografico di Socrate nel Fedone e di un famoso
passo della Metafisica aristotelica, essi esaltavano Anassagora come lo
scopritore dello Spirito e insieme deploravano che nel suo sistema
lo Spirito avesse ancora così poca parte. Vi erano, certo, delle varian-
ti all’interno di questa impostazione generale: c’era un’ala destra che
considerava il platonismo come il culmine del pensiero antico, con-
28
iQuesto punto di vista è espresso già nelle lettere giovanili al fratello Karl (Th. Gomperz
1832-1912, cit, pp. 49 sgg., 54, 58 sg.) ed è ribadito in Essays und Erinnerungen, pp. 30-32. Si
ricordi che il Gomperz era nato e aveva passato la prima giovinezza a Brünn (Brno), tra popo-
lazione prevalentemente cèca.
29
iVedi Der Zionismus, in Essays und Erinnerungen, p. 196 sgg. Il Gomperz abbandonò l’os-
servanza della religione ebraica fin dalla primissima giovinezza (ibid., p. 15) e non condivise mai
l’ebraismo un po’ chiuso e misoneista – anche se moralmente molto elevato – del Bernays (ibid.,
p. 107 sgg., cfr. Pens. gr., II, p. 598); ma nemmeno volle sconfessare le proprie origini e aderire
al cristianesimo per averne facilitata la carriera accademica (ibid., p. 24; Th. Gomperz 1832-1912,
p. 469). Negli ultimi anni di vita del Bernays, il Gomperz si sentì più distaccato da lui anche
per motivi politici, cioè per l’atteggiamento fortemente conservatore che si espresse nel libro del
Bernays su Focione: cfr. Die Akademie und ihr vermeintlicher Philomacedonismus: Bemerkungen
zu Bernays’ Phokion, in «Wiener Studien», IV (1882), p. 102 sgg. Ma in questo stesso saggio,
pur nel dissenso, egli ribadiva la grandezza del Bernays (p. 102: «Starke Geister bewähren auch
im Irren ihre Stärke»); né si può considerare questo articolo separatamente dall’ampia comme-
morazione del Bernays (in Essays und Erinnerungen, p. 106 sgg.) pubblicata l’anno prima, della
quale abbiamo già citato sopra qualche passo (cfr. p. 434 e nota 16), e nella quale il giudizio com-
plessivo sul geniale studioso è di schietta ammirazione.
XI. Theodor Gomperz 441

dannava nel modo più aspro gli atomisti e i sofisti, considerava Ari-
stotele come troppo empirista; e c’era una tendenza meno estrema che
ammetteva la validità della critica di Aristotele alla dottrina delle Idee
e riconosceva alla sofistica almeno una funzione di stimolo critico30.
Ma anche gli appartenenti a questa seconda tendenza misuravano pur
sempre il valore dei vari filosofi greci in termini di spiritualizzazione
della realtà, di passaggio (come diceva lo Zeller) dalla Naturbeobach-
tung alla Selbstbetrachtung,31 e svalutavano tutti quei movimenti di
pensiero che non si inserivano in questa linea evolutiva: atomisti, cini-
ci e cirenaici, epicureismo.32
Ben diverse valutazioni erano state date dagli «epicurei» dei seco-
li xv-xviii, cioè dai rivendicatori dell’atomismo in fisica, dell’edoni-
smo in etica, e di una storia della civiltà che prendesse le mosse non
da una rivelazione originaria, ma dalle origini ferine dell’uomo. Ma al
principio dell’Ottocento l’ondata romantica e spiritualista aveva
sopraffatto questa corrente di pensiero a cui tanto dovevano la scien-
za e la cultura moderna. La rivalutazione dell’epicureismo, intrapresa
contro Hegel (anche se in un contesto ancora hegeliano) da Marx gio-
vane, era rimasta ignorata. Ancora nel 1887 Hermann Usener, nel
pubblicare la sua fondamentale edizione di Epicuro, teneva a separa-
re le proprie responsabilità dall’epicureismo, e dichiarava (lui, storico
del pensiero e della civiltà antica, ostile al puro filologismo) che a stu-
diare quei testi era stato mosso da un interesse meramente tecnico:
«Epicuro ut operam darem, non philosophiae Epicureae me admira-
tio commovit, sed, ut accidit homini grammatico, librorum a Laertio
Diogene servatorum obscuritas et difficultas».33 Bisogna arrivare al
Gomperz per vedere finalmente quei motivi illuministici ripresi, sottrat-
30
iII più tipico rappresentante dell’«ala destra» in Germania è lo Schleiermacher (Gesch. der
Philosophie, in Sämmtliche Werke, III. Zur Philosophie, IV, 1, Berlin 1839, pp. 72, 87, 113 sgg.);
ma anche il Böckh è molto più unilateralmente filoplatonico e antiaristotelico di quanto fareb-
be supporre la sua concezione generale della scienza dell’antichità (cfr. Encyklopaedie und Metho-
dologie der philol. Wiss.2, Leipzig 1886, p. 604 sgg.). Recisamente ostile a Democrito e ai sofisti
è anche H. Ritter (Gesch. der Philos., I), il quale, però, tende a una svalutazione generale del pen-
siero greco nei confronti di quello cristiano e moderno. La tendenza più moderata è invece rap-
presentata da Hegel e dallo Zeller.
31
iE. Zeller, Die Philos. der Griechen, II, I5, Leipzig 1922, p. 37.
32
iSi veda, per esempio, con quale difficoltà (da lui stesso onestamente e un po’ ingenua-
mente confessata) lo Zeller riuscisse a collocare nel suo schema i «socratici imperfetti», ossia i
cinici, i cirenaici e i megarici (op. e vol. cit., p. 42).
33
iVedi, a proposito di questa dichiarazione dell’Usener, le giuste osservazioni di G. Arri-
ghetti nella già citata edizione di Epicuro, p. XII | 2a ed., p. XVI sg.| .
442 XI. Theodor Gomperz

ti al fuoco della polemica immediata, verificati filologicamente e siste-


mati in una vasta (anche se, purtroppo, incompiuta) opera storica.
Il pensiero presocratico, per il Gomperz, ha valore non come pri-
mo ingenuo tentativo di cercare nello studio del mondo esterno la
soluzione di un problema che il pensiero può cogliere solo ripiegandosi
su se stesso, ma proprio come inizio di investigazione scientifica del-
la natura, e quindi liberazione dal mito, conquista di una visione lai-
ca della realtà. Il punto culminante di questo progresso dello spirito
scientifico è rappresentato dagli atomisti;34 la sua larga diffusione in
tutta la cultura greca è merito dei sofisti. Il giudizio tradizionale su
Anassagora è rovesciato dal Gomperz: «La verità è che se egli avesse
agito altrimenti, se (come vorrebbe Platone ...) avesse compiuto la sua
investigazione ponendosi esclusivamente dal punto di vista del
‘migliore’, se, perciò, a proposito di qualsiasi fatto particolare si fos-
se domandato non già in qual modo e in quali circostanze esso abbia
luogo, ma perché e a qual fine, se egli avesse fatto questo, il suo con-
tributo al tesoro dell’umana conoscenza sarebbe stato incomparabil-
mente più modesto che non sia stato di fatto. Ma egli seppe evitare
questo falso cammino ...» (I, p. 328). La svolta che il pensiero greco
compie con Socrate e con Platone segna per molti aspetti un grande
approfondimento della consapevolezza critica e pone nuovi problemi,
destinati a rimanere per secoli al centro del pensiero europeo; ma nel-
lo stesso tempo costituisce un arresto di quel processo di laicizzazio-
ne della cultura e d’incremento dello spirito scientifico che era stato
portato avanti dai presocratici. L’ammirazione vivissima che il Gom-
perz ha per Platone è rivolta in particolar modo alla sua capacità di
autocriticarsi e di rinnovarsi,35 alla sua concezione della filosofia come
ricerca e non possesso della verità; ma l’antisperimentalismo, la sva-
lutazione delle scienze naturali connessa col disprezzo per le attività

34
iII Gomperz errò senza dubbio nel negare la derivazione di Leucippo dalla scuola eleatica
(II, pp. 65, n. 1; 106 sg.: su questo punto bene il Burnet, Early Greek Philosophy4, p, 334, n. 1).
Rimane tuttavia vero che l’atomismo è «il frutto ormai venuto a maturazione dell’albero del-
l’antica dottrina della materia quale era stata concepita e sviluppata dai filosofi naturalisti della
Ionia» (II, p. 74); così come rimane un merito del Gomperz l’aver sostenuto (contro lo schema
cronologico e logico tradizionale, seguito ancora dallo Zeller) che Parmenide è posteriore ad Era-
clito e polemizza contro di lui (I, p. 255 sgg.).
35
iVedi III, pp. 518 sgg., 531, e cfr. la prefazione al vol. II dell’edizione tedesca, purtroppo
omessa nell’edizione italiana.
XI. Theodor Gomperz 443

tecniche e artigianali, sono indicati esplicitamente come gli «aspetti


oscuri» del pensiero platonico.36
La forza del pensiero aristotelico consiste, per il Gomperz, nel suo
interesse per le scienze della natura e nella sua capacità di classificare
e comparare. I concetti aristotelici basilari (materia-forma, potenza-
atto, entelechia), che costituiscono uno sforzo poderoso di superare il
dualismo platonico, trovano la loro più feconda applicazione nello stu-
dio degli organismi viventi: «La vera patria di queste categorie è la
vita della natura, in particolare la vita organica, che offre, tanto nei
gradi dell’accrescimento quanto nella scala degli esseri, una progres-
siva realizzazione di germi dapprima rudimentali e di disposizioni
solamente accennate» (IV, p. 125). Per quanto contestata da studiosi
posteriori,37 questa intuizione del Gomperz rimane, mi sembra, del
tutto valida. Il biologismo è la grande forza di Aristotele ed è, insie-
me, un suo limite; molti punti deboli della Fisica e della Politica sono
il risultato dell’applicazione troppo immediata di concetti biologici
alla natura inorganica da un lato, alla società umana dall’altro. Il Gom-
perz ha visto più chiaramente, direi, i limiti di Aristotele studioso del
mondo fisico (IV, capp. VII, XI, XII) che quelli di Aristotele studio-
so del mondo umano. A quella prima intuizione di un Aristotele che
eccelle soprattutto nello studio della natura organica (e più nell’ana-
tomia che nella fisiologia) se ne sovrappone talvolta un’altra, di una
sempre maggiore acutezza di Aristotele a mano a mano che il suo
sguardo si sposta dal mondo inorganico verso il mondo umano: l’Eti-
ca, la Politica, la Retorica sarebbero tuttora più vive e attuali delle ope-
re biologiche, per il semplice fatto che le «scienze morali» avrebbero
compiuto, dall’età di Aristotele ad oggi, progressi meno grandi e
incontestabili che le scienze della natura!38 Qui, senza dubbio, il cri-
terio attualizzante del Gomperz finisce per deformare l’esatto giudi-
zio storico che egli stesso aveva formulato.
Anche nelle opere biologiche, del resto, l’amore di Aristotele per
l’osservazione e l’esperienza è contrastato da una persistente tendenza
all’apriorismo. Il Gomperz fa risalire questo contrasto a due diverse
fonti: da un lato l’eredità dei medici Asclepiadi, antenati di Aristotele,

36
iIII, pp. 367 sg., 569 e passim.
37
iSpecialmente da W. Jaeger, Aristotele, trad. it., p. 524.
38
iCfr. IV, pp. 187, 670.
444 XI. Theodor Gomperz

dall’altro l’influsso dell’insegnamento di Platone: «II Platonico e l’A-


sclepiade» è il titolo di due capitoli dedicati all’esame di queste oscil-
lazioni del pensiero aristotelico.39 Lo Jaeger ha obiettato che anche il
gusto per le scienze della natura venne ad Aristotele non dal padre
medico – che morì troppo presto per potersi occupare della sua edu-
cazione –, non da un molto ipotetico abito mentale ereditario, ma dal-
la stessa Accademia platonica, in cui, specialmente negli ultimi anni di
vita del maestro, vi fu un grande fervore di studi scientifici.40 Questo
è vero, e il Gomperz, che agli interessi di Platone vecchio e di Speu-
sippo per la classificazione scientifica dedicò pagine di grande acutezza
e suggestività,41 non lo avrebbe negato. Ma quella formula «Platoni-
co e Asclepiade» rimane efficace ad indicare l’assiduo sforzo di Ari-
stotele per liberarsi dall’apriorismo prepotente di Platone: uno sforzo
non del tutto vittorioso, giacché su molte questioni (esistenza o no del
vuoto, sede del pensiero nel cuore o nel cervello, geocentrismo o elio-
centrismo) Aristotele rimane indietro a taluni suoi predecessori; e
spesso, come il Gomperz mette in rilievo, all’apriorismo platonico si
allea in Aristotele una specie di ossequio al senso comune e alle opi-
nioni correnti.42 Il peso di queste concezioni erronee si farà sentire per
secoli e secoli, e non varrà a diminuirlo il fatto che gli immediati suc-
cessori di Aristotele (Teofrasto, Stratone di Lampsaco) si riattacchi-
no assai più all’«Asclepiade» che al «Platonico», sviluppando le idee
del maestro in senso più decisamente empiristico.43

4. – Nonostante il vivissimo interesse del Gomperz per la storia del-


la scienza greca, non è giusta l’accusa di scientismo che tante volte gli
è stata mossa, se per scientismo s’intende la riduzione di tutta la cul-
tura a modelli fisico-matematici e biologici. I problemi morali, politi-
ci, estetici appassionano il Gomperz non meno di quelli scientifici.
Risulta evidente, anzi, che egli lavora assai più di prima mano quan-
do tratta la storia di questi problemi, e che la scienza greca non lo inte-
ressa tanto in sé e per sé (a differenza, per esempio, che in un Tannery
o in uno Schiaparelli), quanto per il suo contributo a un processo di

39
iIV, capp. VI-VII. Ma lo stesso motivo ritorna anche in altri capitoli.
40
i«Deutsche Literatur-Zeitung», 1932, col. 734.
41
iIII, p. 519 sgg.; IV, p. 4 sgg.
42
iIV, pp. 83 sg., 87, 89 sgg., 153 sgg., 194 sg, 303 sgg. ; cfr. II, p. 132 sg.
43
iIV, pp. 683 sgg., 740 sgg.
XI. Theodor Gomperz 445

laicizzazione generale della cultura e della vita umana, a cui hanno


validamente cooperato anche altre attività culturali, a cominciare dal-
la storiografia. «Lo studio della natura non fu la sola via per la quale
il popolo greco venne attuando il proprio affrancamento spirituale»;
così comincia il capitolo dedicato agli storici,44 nel quale è illustrata
– per la prima volta in una storia della filosofia – la parte importan-
tissima che in tale affrancamento ebbero i logografi ed Erodoto, col
loro razionalismo e relativismo storico-etnografico. E tra i capitoli più
riusciti sono certamente quelli su «Gli inizi della scienza dello spiri-
to», sui «Mutamenti delle credenze e dei costumi» nel quinto e quar-
to secolo, su «Atene e gli ateniesi»: cioè su tutto quel movimento d’i-
dee e quel fervore di polemiche – imperniate sull’antitesi nomos-physis
– che sconvolsero le concezioni tradizionali sull’origine dello stato, del
linguaggio, della civiltà: polemiche inconcepibili al di fuori del clima
democratico che seguì alla vittoria nelle guerre persiane.45
Il Gomperz, insomma, è perfettamente consapevole che la «laiciz-
zazione» è sempre un processo sociale-culturale e non puramente
scientifico. Non solo: egli si rende conto che, anche da un punto di
vista radicalmente antimetafisico, sarebbe un grave errore considerare
i movimenti religiosi solo come un aspetto negativo della storia della
cultura greca. Anche in Grecia, come in tutto il corso storico poste-
riore, fino ad un passato molto recente, il progresso culturale è avve-
nuto non solo attraverso prese di posizione schiettamente laiche, ma
anche attraverso la lotta per conquistare una religiosità più pura, più
adeguata a nuove esigenze. Quindi il Gomperz riconosce, per esem-
pio, a quel complesso movimento religioso che si indica genericamen-
te come «orfismo» tutta l’importanza che esso merita, anche se non
passa sotto silenzio «l’ombra di quella luce», «l’intimo dissidio della
personalità (...), l’ostilità dichiarata alla natura e il rinnegamento asce-
tico delle sue esigenze anche salutari o innocenti», che quelle dottrine
implicavano e che esse tramandarono a Platone e poi al Cristianesi-
mo.46 E anche qui lo sguardo dello storico discende fino al sostrato
44
iI, p. 385. Preferisco rendere Naturforschung con «studio della natura» che con «ricerca
naturalistica» (così il Bandini).
45
iII, pp. 159 sgg., 363 sgg., 401 sgg.
46
iI, p. 209 sgg.; cfr. I, p. 380; III, pp. 255 sgg,, 668 (molto acuta e precorritrice, in que-
st’ultimo luogo, l’osservazione sul valore antiscolastico e antidogmatico che hanno avuto certe
correnti mistiche dell’antichità e del Rinascimento). Ben diversa, e veramente scientistica, è la
posizione del Burnet, Early Greek Philosophy4, p. 83 sg.
446 XI. Theodor Gomperz

sociale di questo movimento religioso: «La crisi religiosa si mostra


come un riflesso della crisi sociale. Essa ci appare come un fatto con-
comitante delle lotte di classe che agitarono il vii secolo e parte del vi.
Fu, anche allora, la dura necessità dei tempi che insegnò a pregare.
Furono specialmente le vittime della conquista e dell’oppressivo regi-
me oligarchico che furono indotte dalla loro condizione a gettare uno
sguardo pieno di accorata speranza nell’al di là, ripromettendosi di
ottenere dalla divinità la ricompensa per le ingiustizie ed i mali che
dovevano sopportare sulla terra. Certo è che l’orfismo prese radice
in mezzo alle classi medie e popolari, e non a quelle nobiliari ...» (I,
p. 210). Senza dubbio questo angolo visuale può apparire troppo ri-
stretto: l’uomo fu ed è indotto a pregare non soltanto dall’oppressio-
ne sociale, ma anche dall’oppressione esercitata su di lui dalla natura.
Ma quanto arretrati, rispetto al Gomperz, quegli studiosi più recenti
di lui che hanno creduto di far storia della religione greca partendo
da nozioni acritiche come il sacrum o il «numinoso»!
Anche la qualifica di «positivista», che viene data comunemente al
Gomperz, è troppo generica e può facilmente indurre in errore. Alla
corrente materialistica del positivismo (il cosiddetto materialismo vol-
gare di Büchner, Moleschott, Haeckel, Vogt) il Gomperz, come ri-
sulta da parecchi accenni nei Pensatori greci,47 è estraneo e piuttosto
ostile: direi troppo ostile, perché credo che al materialismo volgare
ottocentesco (i cui aspetti negativi non hanno bisogno di essere illu-
strati) vada pur riconosciuto il merito notevole di aver combattuto,
in modo più netto e radicale che lo stesso marxismo, contro ogni con-
cezione antropocentrica, e di aver posto l’accento sul condizionamen-
to dell’uomo da parte della natura. Anche nei riguardi del darwinismo
(e, a maggior ragione, del più generico evoluzionismo spenceriano) il
Gomperz mantiene un atteggiamento più riservato di quello che ci
potremmo aspettare e che sarebbe giusto. Segnala, sì, i precursori
antichi dell’evoluzionismo, e svela il carattere illusorio di alcuni pre-

47
iVedi per esempio II, p. 135 (allusione ai «manualetti» coi quali si fa propaganda di mate-
rialismo in forma «popolare»), 614 («quei pensatori che tentano di fondare l’etica sulla zoolo-
gia»); III, p. 306 («quella confusione d’idee che fa considerare le funzioni psichiche stesse come
qualche cosa di corporeo»: allude evidentemente alla famosa frase di Vogt sul «pensiero secre-
zione del cervello», la quale, del resto, era stata già criticata anche da un materialista come Büch-
ner). È significativo che il Gomperz, mentre cita quasi tutti i pensatori suoi contemporanei, non
nomini mai né Moleschott, né Büchner, né Vogt, né Haeckel.
XI. Theodor Gomperz 447

tesi precorrimenti;48 ma in complesso si sente che egli è già sotto l’in-


flusso di quell’ondata antidarwinistica che, per effetto dei nuovi studi
di genetica e del discredito provocato da talune generalizzazioni trop-
po frettolose e superficiali dell’evoluzionismo, si sollevò nell’ultimo
Ottocento e ai primi del Novecento.49 Perfino il punto di vista teleo-
logico nello studio della natura vivente, pur non ottenendo certo l’as-
senso del Gomperz, non è respinto da lui con assoluta decisione.50
Nelle filosofie sistematiche dell’Ottocento, fossero esse di tenden-
za materialistica o idealistica, il Gomperz sentiva odore di metafisica
e di romanticismo: la Naturphilosophie di uno Schelling o di un Oken,
l’hegelismo, l’evoluzionismo, il marxismo finivano perciò con l’essere
coinvolti da lui, molto sommariamente, in un unico atteggiamento di
diffidenza.51 È significativo che il solo pensatore tedesco del primo
Ottocento che il Gomperz citi frequentemente, e con assenso, sia l’an-
tihegeliano Wilhelm von Humboldt. Ma soprattutto, data la sua for-
mazione illuministica, il Gomperz trovò appagamento nell’empirismo
inglese, cioè in quella corrente di pensiero che continuava diretta-
mente l’illuminismo settecentesco. Racconta egli stesso come, a poco
più di vent’anni, gli capitò tra le mani l’Analysis of the Phenomena of
the Human Mind di James Mill; come vi trovò quello che da tempo cer-
cava, «una descrizione della vita spirituale che prescindesse da qual-
siasi concezione trascendente od ontologica»; come la lettura di Mill
padre lo invogliò a cercare e a studiare le opere del figlio, John Stuart,

48
iCfr. I, pp. 86, 369 sg.; III, pp. 570, 599 sg.; IV, pp. 223 sg., 321 n. 1.
49
iII, p. 136: «... benché le previsioni che aveva fatto nascere due generazioni fa il tentati-
vo di soluzione del Darwin siano in parte venute meno in conseguenza di ulteriori ricerche»; IV,
p. 190: «... cerchiamo una soluzione che, nonostante Lamarck, Wallace e Darwin, non abbia-
mo affatto raggiunto». Cfr. anche III, p. 246, contro la gnoseologia evoluzionistica dello Spen-
cer. Ciò nonostante, il Gomperz mostra simpatia per la teoria della formazione dei principii e
sentimenti morali nell’uomo attraverso l’evoluzione biologica, che gli appare un superamento
dell’etica immediatamente edonistica: cfr. II, p. 688 sg., e anche II, p. 638.
50
iCfr. II, p. 135; IV, p. 190 sg.
51
iCfr. II, pp. 25, 37 (su Schelling e Oken), 660 («Come, fra il quarto e il quinto decennio
del secolo xix, il grandioso sviluppo delle scienze della natura ha, quasi senza lotta, banditi i siste-
mi aprioristici di uno Schelling e di un Hegel ...»). Sulla sua avversione all’hegelismo vedi anche
Essays und Erinnerungen cit., p. 15 (una breve fase di hegelismo giovanile sembra attestata da alcu-
ni scritti riportati in Th. Gomperz 1832-1912 cit., pp. 38 sg., 43 sgg.; ma in ogni caso essa non
lasciò traccia nel pensiero del Gomperz maturo). Sull’evoluzionismo vedi qui sopra, nota 49. Di
Marx sembra – a giudicare dall’unico accenno in Essays und Erinnerungen, p. 38 – che il Gom-
perz abbia avuto una conoscenza assai superficiale, anche se, per via indiretta, sentì l’influsso del
metodo storiografico marxista (vedi il passo cit. sopra, p. 446; e più sotto, pp. 456-457).
448 XI. Theodor Gomperz

il cui nome egli aveva già visto citato nella Storia greca del Grote.52
Da allora John Stuart Mill rimase per il Gomperz il filosofo per eccel-
lenza, colui che, riassumendo in sé il meglio di tutta la tradizione illu-
ministica, aveva definitivamente liberato la mente umana dai pregiu-
dizi della realtà extrafenomenica e della morale basata su imperativi
assoluti e trascendenti: «fenomenismo», utilitarismo e determinismo
erano i tre punti fondamentali del pensiero filosofico del Mill, accolti
dal Gomperz.53 Dal 1869 all’80 il Gomperz spese buona parte del suo
tempo a tradurre le opere del Mill in tedesco (con vari collaboratori,
tra i quali figura anche Sigmund Freud, allora ventiquattrenne),54 e
pochi anni prima gli aveva dedicato l’edizione del De pietate di Filo-
demo (Philodem, Über die Frömmigkeit, Leipzig 1865). Nei Pensatori
greci il Mill è, tra i filosofi moderni, di gran lunga il più citato; e in-
flussi si possono scorgere anche dove non è citato. In III, p. 580, a
proposito dell’«anima mundi cattiva» a cui si accenna nelle Leggi di
Platone, il Gomperz osserva, in polemica col Böckh: «Non torna a pic-
colo onore del pensatore poeta il fatto che la sua anima d’artista asse-
tato di bellezza non lo rese cieco ai mali del mondo, e gli permise di
riconoscere coerentemente che, data l’esistenza di tali mali, la bontà
assoluta della divinità era inconciliabile con la sua onnipotenza». Mi
sembra evidente che qui c’è un richiamo alla ben nota tesi di Mill, che
Dio, per essere infinitamente buono, non può essere onnipotente. Il
laico Gomperz, beninteso, non credeva né nel Dio onnipotente né nel

52
iEssays und Erinnerungen, p. 33 sgg.; cfr. ibid., p. 87 sgg. («Zur Erinnerung an J. S. Mill»,
1873); Th. Gomperz 1832-1912, passim; F. Heinemann, Th. Gomperz und J. S. Mill, in «Philo-
sophia», III (Beograd 1938), p. 188 sgg.; Adelaide Weinberg, Th. Gomperz and J. S. Mill, in
«Cahiers V. Pareto», II (1963), p. 145 sgg. (con molto materiale inedito).
53
iEssays und Erinnerungen, p. 34 (dove fra l’altro, il Gomperz rivendica a sé la creazione del
termine Phänomenalismus). Professioni di empirismo, dichiarazioni polemiche contro ogni onto-
logia si incontrano ripetutamente nei Pensatori greci (ad esempio II, p. 44; III, p. 374, n. 1 ecc.).
Quanto al determinismo, vedi soprattutto IV, capp. X e XVI.
54
iCfr. E. Jones, Vita e opere di Freud, trad. it., Milano 19663, I, pp. 87, 409; III, p. 494;
Ph. Merlan, in «Journ. of History of Ideas», VI (1945), p. 375 sgg.; e il mio Lapsus freudiano,
Firenze, rist. 1975, p. 166. Ma sui rapporti Gomperz-Freud ci sarebbe ancora da indagare. L’ac-
cenno di E. Funari, II giovane Freud, Firenze 1975, p. 137, dimostra solo l’incompetenza del-
l’autore in questo campo e il suo cattivo compilare da fonti in lingue straniere: il Funari parla
dell’«editore Theodor Gomperz (noto anche come storico)», cioè trasforma in «editore» l’edi-
tor, ossia il «curatore» della traduzione tedesca delle opere di Mill, le quali diventano, nella sua
prosa, «la Gesammelte Werke di John Stuart Mill». Non sarebbe male che certi psicanalisti, se
vogliono occuparsi di storia della psicanalisi, si munissero di una elementare preparazione sto-
rico-culturale, possibilmente non di seconda mano.
XI. Theodor Gomperz 449

Dio di Mill. Ma riconosceva l’esigenza morale che aveva spinto il pen-


satore inglese a quella singolare concezione della divinità; e scorgeva
la stessa esigenza nella teoria platonica delle due animae mundi.
Accanto all’influsso del Mill, si fece sentire sul Gomperz anche
quello di Auguste Comte. Scolaro del Comte, benché scolaro tutt’altro
che pedissequo, era Émile Littré, il grande studioso della medicina
greca che guidò le prime ricerche del Gomperz sul Corpus Hippocra-
teum. Tuttavia, in confronto al Mill, il Comte fu sempre considerato
dal Gomperz un astro di seconda grandezza:55 la sua filosofia della sto-
ria non poteva non apparirgli inficiata da arbitrio metafisico e da ec-
cessivo schematismo. Soltanto nel campo politico-sociale, come vedre-
mo tra poco, egli finì col preferire al Mill il fondatore del positivismo
francese.
Dato questo suo orientamento empiristico, si comprende come il
Gomperz accogliesse con favore, fin dal suo primo apparire, la filoso-
fia di Ernst Mach, e come facesse di tutto per facilitare al Mach (fisico
e fisiologo, non ben visto dai filosofi professionali austriaci) la carriera
universitaria.56 Le storie della filosofia, là dove trattano dell’empirio-
criticismo, dedicano un cenno a Heinrich Gomperz e al suo Pathem-
pirismus, ma tacciono di Theodor Gomperz. Eppure da un’indagine
un po’ meno limitata ai soli «filosofi teoretici», un po’ più largamen-
te storico-culturale, dovrebbe risultare, credo, che proprio Theodor
Gomperz, con la traduzione del Mill e gli scritti dedicati a diffonder-
ne le idee, costituì un importante trait d’union fra l’empirismo inglese
e l’empiriocriticismo austriaco; e che Heinrich Gomperz, anche come
teorico, fu allievo di suo padre (sia pure allievo ben presto renitente),
prima ancora che del Mach.
Non mancano, nei Pensatori greci, giudizi storici dettati da un empi-
rismo a tinta agnostica e antimaterialistica, quale fu l’empirismo del
Mach e, ancor più, dei suoi successori. Democrito è esaltato soprat-
tutto per aver asserito il carattere soggettivo di quelle che saranno più
tardi chiamate le qualità secondarie; all’atomismo è riconosciuto un
grande valore euristico e metodologico, ma le sue pretese ontologiche,

55
iCfr. Essays und Erinnerungen, pp. 89 (con la nota 13 a p. 235), 97 sg.
56
iCfr. «Archiv für die Geschichte der Philosophie» (Ia sezione dell’«Archiv fiir Philo-
sophie»), XXIX (1916), p. 316. Mill e Mach sono citati insieme nei Pensatori greci, II, pp. 698,
n. 2; 699 (per le altre citazioni dal Mach vedi l’indice dei nomi).
450 XI. Theodor Gomperz

secondo il Gomperz, sono da considerarsi come una manifestazione di


realismo ingenuo.57 In sede di teoria della conoscenza, i prediletti del
Gomperz non sono gli atomisti, ma Protagora e soprattutto i Cire-
naici.58 Significativo è anche un passo riguardante l’ultimo filosofo
greco trattato dal Gomperz, Stratone di Lampsaco. A proposito della
testimonianza di Cicerone, secondo la quale Stratone dichiarava di
non ricorrere agli dèi per spiegare l’origine dell’universo, il Gomperz
si chiede (IV, p. 745): «Stratone ha ideato una cosmogonia in cui non
ammetteva interventi soprannaturali? Oppure ha creduto che tale
argomento fosse sottratto all’intelligenza umana e si è accontentato di
descrivere i fenomeni effettivamente osservati e di ricondurli a leggi
naturali?». E, nonostante che le parole di Cicerone (negat opera deo-
rum se uti ad fabricandum mundum: quaecumque sint, omnia effecta esse
natura) non lascino in realtà alcun dubbio, egli simpatizza per la tesi
agnostica: «II senso letterale di quella testimonianza di Cicerone è in
favore della prima alternativa; il robusto senso della realtà che tro-
viamo in Stratone e il suo rifuggire da avventure intellettuali quali era-
no i ‘sogni’ di Democrito, sono in favore della seconda».59
Tuttavia questi sono accenti isolati: la punta dell’empirismo di
Theodor Gomperz è rivolta, in generale, non contro il materialismo,
ma contro le metafisiche spiritualistiche, e quindi, per ciò che riguar-
da il pensiero antico, soprattutto contro il platonismo. Dagli sbocchi
idealistici del pensiero di fine Ottocento lo tenne lontano il suo amo-
re per le scienze della natura, il suo rigido determinismo e la sua
profonda ostilità per ogni filosofia del soggetto assoluto, dell’Io con la
maiuscola; dagli sbocchi neopositivistici, il suo gusto per la storia inte-
grale della civiltà e la sua diffidenza per i pericoli di apriorismo insiti
nella matematica e nella logica formale.60 Questa diffidenza va, anzi,
tanto oltre da renderlo quasi indifferente alle grandi conquiste della
matematica greca, a cui nei Pensatori greci sono dedicati accenni troppo

57
iVedi II, pp. 119 sg., 129.
58
iII, pp. 268 sgg., 690 sgg. Cfr. Essays und Erinnerungen, p. 34: «Diesem meinem Stand-
punkt (il fenomenismo), der schon jener der alten Kyrenaïker gewesen ist ...».
59
iL’accenno ai «sogni» si riferisce a una critica mossa da Stratone a Democrito a proposito
delle differenze di forma degli atomi (Cic., Lucull. 121; il Gomperz ne tratta a p. 741).
60
iOltre ai capitoli dei Pensatori greci dedicati alla logica aristotelica, si veda l’edizione del
Περ σηµεων κα σηµεισεων di Filodemo, intitolato dal Gomperz «Philodem über Induk-
tionsschlüsse» (Herkulanische Studien, I, Leipzig 1865) e considerato come un antecedente della
logica induttiva di John Stuart Mill.
XI. Theodor Gomperz 451

rapidi e sommari. La consapevolezza dei danni – certamente gravi –


che la forma mentis deduttiva arrecò alla ricerca sperimentale presso i
Greci,61 finisce con l’offuscare il riconoscimento dell’immenso valore
di quelle conquiste.
Ma più che per la storia dei problemi gnoseologici, l’adesione del
Gomperz al pensiero dei «radicali» inglesi si rivela feconda per la sto-
ria dell’etica antica. Qui appare ancor più evidente l’ispirazione illu-
ministica che pervade tutta l’opera, il suo ricongiungersi alle correnti
di pensiero «epicureo» del Sei-Settecento. Esattamente al contrario,
per esempio, di uno Schleiermacher, il Gomperz rivolge il suo inte-
resse più vivo a quei pensatori che si sforzano di secolarizzare la mora-
le, di rintracciarne le radici utilitaristiche: ai Cirenaici in primo luogo,
e poi anche all’etica aristotelico-teofrastea, nemica del rigorismo e del-
l’ascetismo, piena di indulgente curiosità per i vari caratteri umani,
desiderosa veramente di comprendere più che di ammonire o esecra-
re.62 Nella personalità stessa di Socrate – alla quale sono dedicati al-
cuni capitoli tra i più riusciti di tutta l’opera – il Gomperz mette in
risalto non tanto gli aspetti religiosizzanti, quanto l’utilitarismo etico,
l’identificazione di bene e piacere.
Questo interesse per i «caratteri morali» si rivela anche nei cenni bio-
grafici sui vari pensatori, nei riferimenti, sempre felicissimi, alla loro
personalità umana. Dal difetto che il Gomperz rimprovera giustamen-
te alle Platonische Studien del Bonitz (III, p. 503: «l’immagine di Plato-
ne che ci viene incontro in quest’opera difetta troppo dei colori del tem-
po e del luogo, e troppo altresì di determinatezza individuale») i
Pensatori greci sono del tutto immuni: sia che si tratti di grandi perso-
nalità come Platone o Aristotele, sia di mediocri come Senofonte, il
Gomperz sa coglierle in tutta la loro complessità e ricchezza di sfuma-

61
iCfr. IlI, p. 374: «Lo spirito di Platone, nutrito di dialettica e di matematica, è preso dal-
l’ebbrezza che produce di solito l’esercizio esclusivo o preponderante delle scienze deduttive, e
che ognuno può sperimentare direttamente, ove si lasci prendere interamente, per un tempo
abbastanza lungo, dallo studio della teoria delle funzioni, o di un’altra branca della matematica
superiore» (così pure III, p. 571, dove l’influsso dei Pitagorici su Platone è considerato soltan-
to nel suo aspetto negativo). Ai propri studi matematici giovanili e, insieme, alla sua scarsa pro-
pensione per essi, il Gomperz accenna in Essays und Erinnerungen, p. 25: «Ich studierte höhere
Mathematik (zu der ich nur geringe Befähigung besass) unter der Anleitung des Professors am
Polytechnikum Simon Spitzer, eines der besten, ja hinreissendsten Lehrer, die man sich denken
kann».
62
iII, p. 669 sgg.; IV, pp. 351 sgg., 707 sgg., 733 sgg.
452 XI. Theodor Gomperz

ture. Il capitolo su Senofonte è, sotto questo riguardo, un piccolo capo-


lavoro. Anche qui viene spontaneo il confronto con l’opera dello Zeller,
in cui non vi è una sola figura viva, ma solo dottrine spersonalizzate.

Soprattutto per ciò che riguarda la storia dell’etica greca dobbiamo


rimpiangere che il Gomperz, giunto alla soglia degli ottant’anni, con
un’opera che gli era via via cresciuta oltre il previsto, sia stato costret-
to a modificare il piano iniziale e a rinunziare alla trattazione della
filosofia ellenistica.63 Del tutto a torto lo Jaeger,64 partendo dal solito
preconcetto di un Gomperz «scientista», riteneva che quest’ultima
parte dell’opera, se fosse stata scritta, sarebbe riuscita inferiore alle
precedenti. La filosofia post-aristotelica doveva apparire come una
lunga decadenza a quegli storici speculativi che vedevano l’akmé del
pensiero greco in Platone o in Aristotele: non già al Gomperz, che ave-
va iniziato, come si ricorderà, la sua carriera di studioso con la pubbli-
cazione di testi epicurei e che considerò sempre Epicuro (il pensatore
in cui erano confluiti gli insegnamenti di Democrito e di Aristippo)
come uno dei suoi autori prediletti.65 Più lontano, certo, egli si senti-
va dall’etica (e dalla logica) degli Stoici; e tuttavia a questi pensatori
riconosceva il grande merito storico di aver riaffermato, nel nuovo cli-
ma creato dalle conquiste di Alessandro e dalla formazione delle
monarchie ellenistiche, gli ideali cosmopolitici già proclamati da alcu-
ni sofisti e dai Cinici.66 No, l’opera del Gomperz non era arrivata al
suo termine «naturale» con Stratone di Lampsaco: le anticipazioni
contenute nei primi volumi e in altri scritti del Gomperz ci autoriz-
zano a supporre che alcuni tra i capitoli più impegnativi e originali
dovessero ancora venire.
63
iCfr. IV, prefazione. Il cap. XLIV del vol. IV avrebbe dovuto costituire l’introduzione ad
un’opera sul pensiero ellenistico; fu Heinrich Gomperz che lo collocò in fondo all’edizione da
lui curata dei Pensatori greci.
64
iIn «Deutsche Literatur-Zeitung», 1932, col. 732: «Die griechische Philosophie des Hel-
lenismus und der Kaiserzeit war, mit den Augen eines Anhängers von John Stuart Mill betra-
chtet, restloser Verfall – Ausnahmen wie Poseidonios ändern daran nichts –, und Gomperz hät-
te sie schwerlich konsequent aus dieser negativen Einstellung schreiben können». A giudicare
da queste parole, si direbbe che lo Jaeger ignorasse completamente l’interesse del Gomperz per
Epicuro.
65
iVedi Tb. Gomperz 1832-1912, pp. 316 sgg. Scrive Heinrich Gomperz (ivi, p. 318): «Schü-
ler erzählen mir, dass sein Vortrag nie so ergreifend war, als wenn er im Kolleg Lucrez rezitierte,
ja dass ihnen dabei die Tränen ins Auge traten». Cfr. gli accenni a Epicuro nei Pensatori greci,
specialmente II, pp. 122, 184 sg.
66
iCfr. II, p. 592 sg.; IV, p. 759 sg.
XI. Theodor Gomperz 453

5. – Un’opera come questa non poteva non riserbare ampio spazio


alla storia del pensiero politico greco e all’esame delle concrete situa-
zioni politico-sociali che ne avevano costituito il sottofondo. Ora, esi-
steva già una storia politica greca ispirata alle idee dei «radicali» ingle-
si: la grande opera di George Grote. Lì per la prima volta la
democrazia ateniese era esaltata senza riserve, contro una tradizione
ostile che da Platone, si può dire, era giunta con pochissime interru-
zioni fino ai primi dell’Ottocento e che aveva avuto in Inghilterra i
suoi ultimi rappresentanti in John Gillies e, ancor più, in William
Mitford.67 Né il Grote si era limitato alla storia politica in senso stret-
to: la sua valutazione positiva della sofistica, benché troppo domina-
ta dalla preoccupazione di difendere la «rispettabilità morale» dei
sofisti (tanto che il Grote finiva col mettere un po’ in ombra l’origi-
nalità e il radicalismo di questi pensatori pur di renderli accetti al let-
tore bempensante), costituì senza dubbio un primo passo decisivo sul-
la via che poi sarebbe stata percorsa dal Gomperz.68 Anche i saggi del
Grote su Platone e Aristotele, assai meno originali della Storia greca,
offrirono al Gomperz un modello di esposizione chiara ed equilibrata,
pur suscitando il suo ben motivato dissenso su parecchie questioni
particolari.69
L’ammirazione che il Gomperz aveva provato alla prima lettura del-
la Storia del Grote, e che si era ancora accresciuta in seguito alla cono-
scenza personale del grande storico, rimase vivissima anche negli ulti-
mi anni.70 Tuttavia nel campo politico-sociale – e quindi anche nella

67
iCfr. A. Momigliano, G. Grote and the Study of Greek History, in Contributo alla storia degli
studi classici, Roma 1955, p. 213 sgg. (specialmente p. 217 sgg. sui rapporti tra il Grote e i radi-
cali inglesi). Secondo una testimonianza di John Stuart Mill riferita dal Gomperz (Essays und
Erinnerungen, p. 87 e n. 4 a p. 234), l’idea di scrivere una storia greca sarebbe stata suggerita al
Grote da James Mill. La diversa testimonianza della moglie di Grote sembra meno attendibile:
cfr. Gomperz, l. cit., e Momigliano, p. 218.
68
iII Grote (Hist. of Greece, VIII, cap. 67) polemizzava soprattutto contro le storie della filo-
sofia del Ritter e del Brandis e i commenti a Platone dello Stallbaum. Una tesi fondamentale
del Grote, ripresa dal Gomperz, è che i sofisti non costituiscono un’unica scuola (cfr. Pens. greci,
II, pp. 212, 229).
69
iVedi per esempio IlI, pp. 62 n.; 64 n.; 110 e n. 1; 191, n. 1; 414; IV, pp. 28, n. 2; 290,
n. 1, e altrove.
70
iVedi Th. Gomperz 1832-1912, pp. 337 sgg. (nel ’63, subito dopo averlo conosciuto, scri-
veva alla sorella: «Ich hatte Grote gegenüber unter Anderem auch das Gefühl, dass er mir an
blosser A u f k l ä r u n g ausserordentlich überlegen ist», p. 339); Essays und Erinnerungen,
pp. 33, 184 sgg.; Pensatori greci, IV, p. 103 («l’immortale storico della Grecia, George Grote»)
e passim. Cfr. A. Momigliano, Contributo cit., p. 225; A. Weinberg (cit. alla nota 52), pp. 170-177.
454 XI. Theodor Gomperz

valutazione delle correnti politiche del mondo antico – il Gomperz si


allontanò dai suoi maestri e amici inglesi, Grote e Mill, assai più che nel
campo filosofico. L’Austria-Ungheria dell’ultimo Ottocento, con i suoi
conflitti di nazionalità non risolti, col suo complicato intreccio di
sopravvivenze semifeudali e assolutistiche e di nuovi problemi suscita-
ti dall’avanzata del socialismo, era un ambiente troppo diverso da quel-
lo in cui era sorto il liberalismo «radicale» inglese. E già le primissime
esperienze politiche del Gomperz – la rivoluzione del ’48 e la reazione
susseguente – avevano indirizzato in un senso diverso tutto il suo pen-
siero. Appena sedicenne, alle prime notizie della rivoluzione di Parigi
aveva scritto da Vienna al fratello Karl una lettera di sorprendente acu-
tezza, in cui esprimeva la sua gioia per la caduta dell’«oligarchia ban-
caria» francese e aggiungeva: «Non mi illudo certo che tutto sia finito.
Al contrario, la vera rivoluzione sociale deve ancora venire, anche se,
una volta che la maggioranza del popolo sia in grado di esprimere con
mezzi legali la propria volontà, molto spargimento di sangue e molta
anarchia potranno essere evitati nei futuri rivolgimenti». Una simile
prospettiva gli appariva realizzabile anche in Germania e in Italia; per
l’Austria invece, «data l’incultura e la rozzezza delle masse e la scarsa
consistenza materiale e morale della classe media» temeva una rivolu-
zione sanguinosa e distruttrice, un «regno del terrore». «E tuttavia»
aggiungeva subito «questo non sarebbe il peggior male. Occorrerebbe
molto tempo, molto spargimento di sangue, ma alla fine il potente
influsso di tutta l’Europa occidentale farebbe certamente prevalere idee
sane, e il torrente delle passioni popolari, gonfiatesi selvaggiamente,
finirebbe con l’incalanarsi nel suo alveo normale ...». L’ipotesi peggio-
re era un’altra: che il governo austriaco, atterrito da una rivoluzione
scoppiata in Germania, chiedesse aiuto alla Russia zarista: «sopporte-
rei un milione di volte più volentieri la sanguinosa anarchia rivoluzio-
naria che il soffocamento di tutti i nostri fermenti migliori da parte di
un sistema dispotico come quello russo».71 Erano idee, speranze e timo-
ri che il Gomperz probabilmente aveva almeno in parte assorbito dal
suo maestro di ginnasio Thomas Franz Bratranek, un frate agostiniano
libero-pensatore e seguace della sinistra hegeliana.72

Troppo breve e superficiale, sui rapporti Grote-Gomperz, è M. L. Clarke, G. Grote, London


1962, pp. 89-93.
71
iTh. Gomperz 1832-1912, p. 40 sgg. (lettera del 7 marzo 1848).
72
iEssays und Erinnerungen, pp. 13-15. Cfr. qui sopra, p. 447, n. 51.
XI. Theodor Gomperz 455

Nel corso degli eventi del ’48-’49, ai quali il Gomperz assisté e par-
tecipò a Vienna (e che in parte, ad esempio per ciò che riguarda la
richiesta dell’intervento zarista, si svolsero secondo le sue previsioni),
quel primo atteggiamento di simpatia per le idee rivoluzionarie si andò
affievolendo, e si rafforzò, invece, il timore dell’«anarchia» e la sfi-
ducia nell’iniziativa popolare.73 Il Gomperz, beninteso, non divenne
mai un reazionario né un fautore dello «Stato forte»; si mantenne
fedele allo spirito del ’48 in quanto risveglio delle nazionalità oppres-
se e lotta contro l’assolutismo;74 ma sempre più si convinse che al
popolo si potesse giovare solo «dall’alto», per opera della borghesia
colta e illuminata. Perciò anche il pensiero politico di John Stuart Mill
finì con l’apparirgli troppo radicaleggiante e filosocialista.75 Egli era
d’accordo col Mill nel ritenere che il puro liberismo fosse incapace di
risolvere i problemi della società industriale; era anche d’accordo nel-
la solidarietà con i movimenti di indipendenza nazionale e con la cau-
sa della liberazione dei negri d’America (a differenza del Grote, che,
con tutto il suo illuminismo e il suo democratismo, parteggiava per i
sudisti).76 Ma gli sembrava che il Mill si fosse pericolosamente illuso
sulla capacità del proletariato di emanciparsi da sé. Anche la richiesta
del suffragio universale, sostenuta dal Mill con grande fervore, era mal
vista dal Gomperz, in parte per la giusta consapevolezza che questo
provvedimento non sarebbe certamente stato il toccasana per i mali di
cui il popolo soffriva, ma soprattutto per la sua sfiducia verso ogni ini-
ziativa dal basso.77

73
iSi può cogliere questo graduale mutamento nelle lettere pubblicate in Th. Gomperz 1832-
1912, pp. 44-75.
74
iVedi il capitolo sul ’48 nelle sue memorie, in Essays und Erinnerungen, p. 16 sgg.
75
iEssays und Erinn., pp. 34-38. Sull’avvicinamento del Mill al socialismo L. Stephen, The
English Utilitarians, III, London 1900, p. 224 sgg.
76
iAl Risorgimento italiano il Gomperz fu costantemente favorevole. In una lettera del 3 ago-
sto 1848 (Th. Gomperz 1832-1912, p. 46) considerava la vittoria del Radetzky a Custoza come
una sventura per la causa della democrazia austriaca: «denn mit der Unterjochung (della Lom-
bardia) würden wir uns selbst die Knechtschaft bereiten». Cfr. Essays und Erinn., p. 22, e le let-
tere del 1966 dall’Italia (Th. Gomperz cit., p. 427 sgg.). Per l’atteggiamento a favore dei negri
d’America vedi Th. Gomperz cit., p. 310 sg.; Essays und Erinn., p. 47, e il simpatico passo di Pen-
satori greci, IV, p. 71 sg., in cui, mentre si riconosce la sterilità del sillogismo ai fini dell’acqui-
sizione di nuove conoscenze, gli si attribuisce un valore di chiarificazione logico-morale, di sma-
scheramento di pregiudizi e di ipocrisie: e a questo proposito si adduce appunto l’esempio della
presunta inferiorità dei negri. Per il dissenso Grote-Mill a questo proposito Essays und Erinn.,
pp. 185; 242, n. 48.
77
iEssays und Erinn. p. 36 sg.; cfr. Pensatori greci, IV, p. 555.
456 XI. Theodor Gomperz

Di qui la sua persuasione che, nel campo politico-sociale, il Com-


te avesse visto più giusto del Mill, proprio perché il pensiero del
Comte aveva un’intonazione più scientista-pedagogica:
L’ideale sociale di Auguste Comte incomincia a realizzarsi, anche se non esatta-
mente nelle forme previste dal grande pensatore ... La classe colta, e il ceto politi-
co dirigente sviluppatosi dal suo seno, è divenuto realmente il fuoco centrale da cui
si irradiano influssi che a poco a poco penetrano anche negli strati meno colti della
società e costringono la comunità a prendersi cura dei suoi membri economicamen-
te meno fortunati. Gli esperti di politica sociale, detti erroneamente «socialisti dal-
la cattedra», questa élite di filantropi che trasformano lentamente ma profonda-
mente le leggi e il costume, adempiono appunto a quella missione che Comte
assegnava al pouvoir spirituel organizzato. Aziende-modello statali e comunali, gior-
nata lavorativa di otto ore, ispettorati delle fabbriche e delle miniere, assicurazioni
contro gli infortuni e le malattie, provvidenze a favore dei vecchi, riposo domeni-
cale pagato, – tutto ciò avrebbe ottenuto il plauso di Comte. Come ulteriore conse-
guenza di tali provvedimenti possiamo attenderci un miglioramento costante delle
condizioni di vita delle masse e, con ciò, l’estinguersi di quei movimenti rivoluzio-
nari che aspirano a un ordine di cose totalmente nuovo, ad un antistorico ritorno al
collettivismo della buia preistoria.78

In conformità con questo orientamento, egli si battè per estendere


in Austria il cooperativismo di Schulze-Delitzsch; ma la socialdemo-
crazia (anche la socialdemocrazia austriaca e tedesca di fine Ottocen-
to, sempre più riformista) gli sembrò ancora troppo rivoluzionaria o,
per essere più esatti, troppo poco paternalistica79. E poiché morì nel
1912, potè mantenere fino all’ultimo la convinzione che l’epoca delle
rivoluzioni – e delle guerre condotte fino all’ultimo sangue – fosse
finita per sempre.80
S’intende che queste idee politiche del Gomperz, analoghe a quel-
le di tanti altri intellettuali e uomini politici di fine Ottocento, non ci

78
iEssays und Erinnerungen, p. 35 sg., cfr, p. 236.
79
iAppoggio al cooperativismo: Essays und Erinnerungen, p. 47. Condanna del socialismo (e
rifiuto della distinzione del Mill tra socialismo e comunismo): ibid., p. 38. Ancora intorno al ’60,
tuttavia, la sua posizione doveva essere alquanto diversa, come appare da una lettera del 20 apri-
le 1863 da Londra, piena di espressioni ammirative per la maturità politica degli operai inglesi
(Th. Gomperz 1832-1912, pp. 346 sgg., 350 sg.). Ma anche allora il proletariato inglese doveva
sembrargli una rara e forse unica eccezione.
80
iSulle guerre cfr. II, p. 399. Si noti, tuttavia, che anche questa «illusione» del Gomperz
non era basata su pure aspirazioni sentimentali, ma su un’analisi dei rapporti internazionali come
si erano venuti configurando nell’ultimo Ottocento. Proprio in quella stessa pagina egli ribadiva
il principio che «la comunanza dei sentimenti suole seguire e non già precedere la comunanza
degli interessi».
XI. Theodor Gomperz 457

interessano tanto in sé (è facile scorgerne i forti limiti), quanto per i


loro riflessi storiografici. Rispetto al Grote, il Gomperz dimostra, sia
nei Pensatori greci che negli altri scritti raccolti in Essays und Erinne-
rungen, un senso storico più acuto e complesso. La democrazia ate-
niese non è per lui un ideale assoluto: egli scorge chiaramente i suoi
limiti, rappresentati soprattutto dal mantenimento della schiavitù e da
una politica estera aggressiva e sfruttatrice;81 e sa apprezzare, a diffe-
renza del Grote, il valore positivo di forme di governo «antiliberali»
ma tuttavia parzialmente liberatrici, come la tirannide greca, le mo-
narchie ellenistiche, l’impero romano.82 D’altra parte, la nota pater-
nalistica del suo pensiero politico riecheggia nella sua esaltazione del
programma politico di Dione di Siracusa, «un regime di cui si potreb-
be riassumere la tendenza nella divisa: “tutto per il popolo, poco dal
popolo”».83 La stessa polemica contro l’idealizzazione della democra-
zia greca ha – accanto all’aspetto antischiavistico e antiimperialistico
a cui abbiamo accennato – un aspetto conservatore: il Gomperz de-
nuncia (contro il Grote che aveva cercato di negarle o di minimizzar-
le) le violenze dei democratici contro i ricchi,84 considera come un
male della democrazia antica la troppo immediata dipendenza dei
governanti dai governati,85 applica ai democratici radicali dell’anti-
chità le critiche di un Burke contro il carattere «astratto» e «antisto-
rico» del giacobinismo.86
Eppure, se confrontiamo il Gomperz con gli altri critici del Grote
che pullularono in Germania nella seconda metà dell’Ottocento,87
vediamo quanto più immune da chiusure retrive e illiberali egli sia
rimasto. È specialmente istruttivo il confronto con Robert von Pöhl-

81
iII, pp. 380, 385 sgg.; Essays und Erinnerungen, pp. 189, 230 sg.
82
iSulla tirannide vedi I, pp. 11 sg., 211; III, pp. 26, 33 sg.; e, in polemica esplicita col Grote,
Essays und Erinnerungen, p. 193: «Es entgeht ihm (al Grote), dass es staatliche und gesellschaf-
tliche Zustände gegeben hat, in denen ein Durchbrechen der Legalität ein Gebot der Notwen-
digkeit war und das Heil des Gemeinwesens bedeutet hat. Darum wird er der schwerwiegen-
den und im wesentlichen segensreichen Rolle nicht gerecht, welche die sogenannte Tyrannis in
der Entwicklung des griechischen Staatlebens gespielt hat». Sulle monarchie ellenistiche vedi
qui sotto, p. 429. Sull’impero romano, Ess. und Erinn., p. 141.
83
iIII, p. 455 sg. (il dissenso dal Grote è espresso a p. 455, n. 1).
84
iIII, p. 26, n. 1: «Si consulti l’Hist. of Greece del Grote, evitando di lasciarsi fuorviare dalla
sua tendenza ad attenuare le violenze democratiche». Cfr. IlI, p. 455 sgg.
85
iCfr. IlI, p. 638 (a proposito del progetto di costituzione delle Leggi platoniche); IV, p. 637.
86
iCfr. IV, p. 569; II, p. 606.
87
iSu di essi vedi A. Momigliano, Contributo alla storia degli studi classici, Roma 1955, p. 225.
458 XI. Theodor Gomperz

mann, la cui polemica contro il Grote era condotta dal punto di vista
di un paternalismo sociale che accettava, sì, in buona parte la denun-
cia marxista del carattere illusorio della democrazia meramente po-
litica, ma rifiutava nettamente il principio dell’emancipazione dei
lavoratori per opera dei lavoratori stessi e attendeva solo dallo Stato
la riforma della società: un punto di vista, in fondo, non molto lonta-
no da quello del Gomperz stesso, ma con l’aggiunta di uno statalismo
e antiliberalismo che al Gomperz erano estranei: per il Gomperz la
soluzione della questione sociale spettava alla classe colta, per il Pöhl-
mann alla monarchia guglielmina.88 Al Pöhlmann che dipingeva a colo-
ri estremamente foschi la democrazia ateniese e tornava ad accusare i
sofisti della decadenza morale della Grecia, il Gomperz rispondeva
con una appassionata difesa dell’illuminismo greco, mettendo in risal-
to come le vecchie classi aristocratiche fossero state molto più sopraf-
frattrici e incivili dei «demagoghi» ateniesi (II, p. 383); e ribadiva che
«la ‘tirannia della maggioranza’ ha incomparabilmente meno minac-
ciato la libertà individuale nell’Atene del v secolo che in qualsivoglia
altro paese e in qualsivoglia altra epoca» (II, p. 247).
Si aggiunga che nel Gomperz, a differenza che nella maggior parte
degli storici tedeschi suoi contemporanei, le tendenze paternalistiche
erano in parte controbilanciate e neutralizzate dalla simpatia per il
decentramento e le autonomie locali. Ciò che egli soprattutto apprez-
zava nella democrazia ateniese non era la libertà astrattamente consi-
derata, né il principio generale dell’elettività di tutte le cariche, ma la
struttura decentralizzata dello Stato:
Le espressioni correnti, di libertà, di governo di popolo, ecc., non forniscono un’im-
magine idonea della vita costituzionale ateniese. L’essenziale in essa non è che la
totalità della popolazione maschile, adunandosi sulla Pnice, vi prendesse delle deci-
sioni, deliberando a maggioranza di voti, e che in tal modo governasse direttamen-
te lo Stato. Molto più importante è l’organizzazione estremamente articolata dello
Stato – che ha preceduto di assai l’avvento della democrazia ... Tutte quelle asso-
ciazioni intermedie erano come dei gusci protettivi entro i quali l’individualità, la
varietà dei caratteri, l’originalità potevano nascere e giungere ad una piena matu-

88
iDel Pöhlmann vedi, oltre la Geschichte des antiken Sozialismus und Kommunismus (1893-
1901; 2a ed. col titolo Geschichte der sozialen Frage und des Sozialismus in der antiken Welt, 1912),
specialmente il saggio Zur Beurteilung Georg Grotes und seiner Griechischen Geschichte (1890,
ripubbl. in Aus Altertum und Gegenwart2, Munchen 1911). Lì è anche espresso chiaramente il suo
punto di vista statalistico, antimarxista, più vicino, se mai, alle tesi di Rodbertus e di altri «socia-
listi cattedratici». Cfr. anche F. Natale, in «Nuova Rivista Storica», XLII (1958), p. 21 sgg.
XI. Theodor Gomperz 459

rità. C’è bisogno di dire che la libertà politica stessa può essere capace di durevole
esistenza e atta ad esercitare un’azione salutare soltanto là ove essa si appoggia sul-
l’autonomia di piccoli e piccolissimi circoli sociali, e che, in mancanza di questo fon-
damento, la libertà popolare non può far buona prova, e può soltanto degenerare in
una tirannide della maggioranza, sotto la quale ogni libertà del singolo vien meno?
(II, pp. 413-15).

Il fatto che queste idee, derivate al Gomperz soprattutto da W. von


Humboldt e dal Mill,89 avessero una punta antigiacobina (chiaramente
visibile nelle ultime parole che abbiamo citato), non deve far dimen-
ticare la loro funzione positiva contro lo Stato burocratico-accentra-
tore di tipo prussiano o absburgico, né l’aiuto che ne ricevette il Gom-
perz per una migliore comprensione storica della democrazia ateniese.
Nell’impero di Alessandro e nelle monarchie ellenistiche, d’altra
parte, il Gomperz non scorgeva né una mediazione tra antichità e cri-
stianesimo né una prefigurazione dello stato unitario ottocentesco, ma
piuttosto l’attuazione dell’ideale universalistico vagheggiato dai cini-
ci e poi dagli stoici (II, p. 592 sg.). E vorrei ancora richiamare l’at-
tenzione sulla conferenza Demosthenes der Staatsmann, generalmente
ignorata dagli studiosi, sebbene, a mio parere, costituisca uno dei pri-
mi e dei più seri tentativi di superare la contrapposizione tra il pa-
negirico di Demostene «eroe della libertà» e il panegirico di Filippo
«eroe della Realpolitik».90
Questa ricca esperienza di storiografia politica – ignota ad uno Zel-
ler e alla maggior parte degli storici della filosofia antica – il Gomperz
la portò nello studio del pensiero politico dei filosofi greci. Si veda,
per esempio, ciò che egli osserva sul duplice sbocco (ultrademocratico
e ultraoligarchico: Ippia e Crizia) a cui tendeva la teoria del «diritto
di natura» propugnata dai sofisti.91 Si veda di quanto la ricostruzione

89
iCfr. II, p. 412 (poco prima del passo che abbiamo citato sopra): «Mai più, può dirsi, d’al-
lora in poi, i requisiti esaltati da Guglielmo di Humboldt e dopo di lui da John Stuart Mill, han-
no avuto una così integrale realizzazione». Il Versuch, die Grenzen der Wirksamkeit des Staates zu
bestimmen di Humboldt è citato anche altrove dal Gomperz, e fu certo uno scritto che esercitò
su di lui un notevole influsso.
90
iLa conferenza, del 1864, è ristampata in Essays und Erinnerungen cit., p. 53 sgg., con le
note (molto importanti) a p. 228 sgg. Due delle note sono parzialmente sconfessate dal Gomperz
nella prefazione, ma di tale sconfessione egli non chiarisce il motivo,
91
iCfr. II, pp. 189 sgg., 247 sgg. Come è noto, questi temi hanno avuto ampi e originali svi-
luppi negli studi degli ultimi decenni: basti ricordare il saggio di Mario Untersteiner su Le origini
sociali della sofistica, in «Studi di filosofia greca» dedicati a R. Mondolfo, Bari 1950, p. 121 sgg.
460 XI. Theodor Gomperz

del pensiero politico di Socrate, e quindi la valutazione della condan-


na del grande pensatore, sia superiore a quella del Grote. Ossessiona-
to dalla preoccupazione di esaltare insieme Socrate e la democrazia
ateniese, il Grote osservava che, in fin dei conti, Socrate aveva potu-
to divulgare liberamente le sue dottrine per tutta una lunga vita, e che
la condanna lo aveva liberato dalla decadenza senile e gli aveva pro-
curato gloria immortale: l’eutanasia di Socrate ridondava anch’essa a
merito di quel perfetto regime politico!92 Il Gomperz invece vede nel
processo di Socrate il conflitto, storicamente necessario, tra gli ideali
della polis e i nuovi princìpi cosmopolitici che avrebbero trionfato nel-
l’epoca seguente (II, pp. 514-25). Era, come il Gomperz stesso nota-
va, l’interpretazione di Hegel, liberata, però, dallo spirito conformi-
stico e statolatra che aveva portato Hegel a simpatizzare, assai più che
per l’«eroe tragico» Socrate, per i diritti della religione tradizionale e
della morale corrente da lui conculcati.93 La difficoltà di valutazione
della condanna di Socrate consiste, in realtà, nel fatto che Socrate era
un antidemocratico razionalista e antitradizionalista, mentre i suoi av-
versari erano democratici tradizionalisti e oscurantisti: l’associazione
tra democrazia e razionalismo (e, viceversa, tra antidemocrazia e tra-
dizionalismo), che siamo abituati a considerare normale, in questo caso
non si verificava. Ciò, forse, non è messo adeguatamente in rilievo dal
Gomperz, il quale sottolinea più gli aspetti apolitici, interiorizzanti del
pensiero socratico, che gli aspetti propriamente antidemocratici.
Nell’ampia trattazione che il Gomperz dedica al pensiero politico
platonico, sono particolarmente pregevoli le osservazioni sul comuni-
smo della Repubblica (limitato alle classi dirigenti, paragonabile per-
ciò a quello di «certi ordini cavallereschi» piuttosto che al comunismo
moderno) e sul passaggio dalla Repubblica alle Leggi.94 Della Politica di
Aristotele il Gomperz mette in luce l’assunto rigorosamente scientifi-
co che costituisce la grande originalità di quest’opera, ma anche l’an-
gustia di orizzonte che fa ribadire ad Aristotele la necessità perpetua
della schiavitù e gli fa proclamare che «non nascono più monarchie al
giorno d’oggi» proprio mentre la monarchia ellenistica soppiantava la
polis.95 E soprattutto osserva come il più grave limite del pensiero pla-

92
iVedi la chiusa del cap. LXVIII della History of Greece, dedicato a Socrate.
93
iCfr. Hegel, Lezioni sulla storia della filosofia, trad. Codignola e Sanna, II, p. 84 sgg.
94
iCfr. III, pp. 403 sgg., 430 sg, 603 sgg.
95
iIV, pp. 473 sgg., 520 sgg. e altrove.
XI. Theodor Gomperz 461

tonico-aristotelico sia il disprezzo per il lavoro manuale, e come ciò


abbia non solo impoverito l’etica greca, ma costituito anche un osta-
colo insormontabile al progresso delle scienze empiriche.96

Occorrerà ora ritornare sull’accusa mossa al Gomperz, di avere ec-


cessivamente «modernizzato» il pensiero antico? Il Gomperz stesso ha
risposto a quest’accusa in un saggio sul Mommsen (alla cui Storia
romana era stato rimproverato lo stesso difetto) e in uno degli ultimi
capitoli dei Pensatori greci. «II sangue che noi infondiamo nelle ombre
del passato affinchè esse ci parlino, è tratto dalle nostre vene. Lo sto-
rico, per resuscitare dinanzi a se stesso e agli altri ciò che è morto, non
ha altro mezzo che l’a n a l o g i a ...». «Scrivere una storia della scien-
za prescindendo dalle proprie convinzioni personali ci sembra una cosa
impossibile (...). Colui che di fronte al processo storico da lui descrit-
to non ha un proprio giudizio, come potrebbe distinguere con una cer-
ta sicurezza ciò che è importante da ciò che è insignificante, ciò che è
duraturo da ciò che è effimero, in modo da adempiere alla condizio-
ne fondamentale per una prospettiva storica soddisfacente?»97
Tali considerazioni, se sono valide in generale, lo sono più che mai
per i Pensatori greci. Se non fosse stato egli stesso un illuminista – nel
senso che abbiamo cercato sopra di precisare –, ben difficilmente il
Gomperz avrebbe potuto scoprire e apprezzare nel loro giusto valore
i momenti illuministici della cultura greca. S’intende che vi sono an-
che, come abbiamo visto, i casi in cui i limiti ideologici del Gomperz
(specialmente nel campo politico-sociale) si riflettono nella sua storio-
grafia; e non mancano nemmeno i casi in cui lo storico si lascia sedur-
re da un’apparente analogia tra un singolo aspetto del pensiero di un
filosofo greco, staccato dal suo contesto, e una proposizione filosofi-

96
iSu questo punto, oltre ai Pensatori greci, II, p. 215, III, p. 367, IV, p. 488 sgg., è da vede-
re il saggio Realismus und klassisches Altertum, in Essays und Erinnerungen, pp. 209 sgg., special-
mente p. 210.
97
iEssays und Erinnerungen, p. 139 sg.; Pensatori greci, IV, pp. 681 sg. Sull’accusa di moderniz-
zazione rivolta al Mommsen vedi l’introduzione di G. Pugliese Carratelli alla nuova traduzione del-
la Storia di Roma antica, Firenze 1960, I, p. XXVIII sgg.; e P. Treves, L’idea di Roma e la cultura
italiana del sec. xix, Milano-Napoli 1962, p. 82 sg. | Con errore opposto, Italo Lana accusa il Gom-
perz di aver preteso di dare alla sua opera «carattere rigorosamente “oggettivo” con l’accettare i
canoni storiografici positivistici» (in «Encicl. filosofica» del Centro di Gallarate, 2a ed., III, Firen-
ze 1967, p. 320). Invece di partire dallo studio dell’opera del Gomperz e dalle sue esplicite dichia-
razioni di principio, si parte da una nozione estremamente generica del «positivismo» e la si appli-
ca dall’esterno, come un’etichetta, ad una personalità che evidentemente non si conosce! |.
462 XI. Theodor Gomperz

ca o scientifica moderna. Ma questi episodici e vistosi peccati di ana-


cronismo si lasciano individuare e isolare facilmente, non turbano
quasi mai la visione complessiva di un periodo o di una personalità
filosofica.98
Forme ben più sottili e insidiose di antistoricità doveva portarci la
storiografia posteriore al Gomperz. In Paideia di Werner Jaeger, nel-
l’Uomo greco (Der hellenische Mensch) di Max Pohlenz l’influsso dei
Pensatori greci è riconoscibile sia nella struttura generale – cioè nel pro-
posito di fare storia della cultura e dell’ethos greco, non del pensiero
filosofico in senso stretto –,99 sia nell’importanza che entrambi gli
autori attribuiscono alla medicina greca come fenomeno storico-cul-
turale e non puramente tecnico. Ma l’indirizzo di pensiero che anima
queste due opere è profondamente diverso da quello del Gomperz, e
a me sembra che rappresenti, sotto molti aspetti, un ritorno a vecchie
posizioni che il Gomperz aveva confutato. È questo un discorso che,
per non cadere nella genericità o nel settarismo, richiederebbe un
ampio sviluppo, e ben altra competenza specifica che la mia. È evi-
dente che personalità così ricche e complesse come uno Jaeger e un
Pohlenz non si possono liquidare con una frettolosa polemica mera-
mente ideologica: gran parte della loro opera di filologi e di storici del-
la cultura rimarrà valida anche per studiosi orientati in tutt’altro sen-
so. Ma intanto, il lettore che dai Pensatori greci passa al primo volume
di Paideia vede riapparire, insieme a venature di razzismo, il vecchio

98
iII Gomperz stesso, del resto, non mancò di reagire a questo pericolo della propria sto-
riografia. Vedi ad esempio ciò che egli osserva a proposito della teoria dei quattro elementi (I,
p. 350 sg.): «La storia della scienza non può adottare sempre come criterio di valutazione quel-
lo della verità obiettiva. Una teoria può essere interamente vera, e tuttavia rimanere senza appli-
cazione di sorta e infruttuosa perché lo spirito umano non è ancora sufficientemente preparato,
e quindi non è ancora idoneo a riceverla; un’altra teoria può essere interamente falsa, e tutta-
via, in quella data fase di sviluppo spirituale, essere oltremodo vantaggiosa al progresso della cul-
tura e della civiltà».
99
iÈ interessante notare come Guido Calogero, recensendo il primo volume di Paideia («Gior-
nale critico della filosofia italiana», XV, 1934, p. 358 sgg.), mentre polemizzava molto acuta-
mente contro il neo-umanesimo jaegeriano e ne metteva coraggiosamente in luce certe implica-
zioni politiche retrive, negava poi, in nome di pregiudizi idealistici, la possibilità di una storia
dell’ethos greco, e ammetteva soltanto storia di attività spirituali «pure»: della poesia, o dell’e-
tica come scienza filosofica professionale. Vedi su questo punto le osservazioni di Giorgio
Pasquali, in «Studi italiani di filologia classica» n. s., XII (1935), p. 45 sgg., e la replica – bril-
lante, ma elusiva – del Calogero in «Leonardo», 1935, p. 337 sgg. Pregi e difetti analoghi – ma
con una minore vivacità critica e una più stretta osservanza crociana – presenta la recensione del-
l’Omodeo, nella «Critica», 1937, p. 455 sgg.
XI. Theodor Gomperz 463

mito della grecità come modello universalmente valido, contro cui il


Gomperz aveva così efficacemente polemizzato. Nel Pohlenz gli ele-
menti razzisti acquistano un rilievo ancor maggiore; nello Jaeger, a
cominciare dal secondo volume di Paideia, scompaiono, ma per dar
luogo a un’accentuazione di motivi religiosizzanti, a un ritorno alla
concezione «platonocentrica» del pensiero greco e alla correlativa sva-
lutazione degli atomisti, dei sofisti, dei cinici e cirenaici.100 E infine,
negli ultimi lavori jaegeriani, la cultura greca è vista come preparazio-
ne a un cristianesimo raffinato e aristocratico, e il merito principale
dei Greci diventa quello di aver fondato la teologia.
Per riacquistare la consapevolezza che la grande originalità del pen-
siero greco sta nell’aver compiuto un passo decisivo verso la laicità e
la scienza, è ancor oggi necessario leggere, accanto a lavori più recenti,
l’opera del Gomperz.

POSTILLE

1. Lettere e documenti gomperziani pubblicati recentemente. – Ho


citato spesso, nelle pagine precedenti, il primo volume, uscito nel 1936,
di una biografia del Gomperz, a cura del figlio Heinrich, con ampio
corredo di lettere e documenti (cfr. qui sopra, p. 429, n. 4 e passim).
Prima ancora di abbandonare Vienna, Heinrich Gomperz aveva por-
tato a termine quest’opera, che avrebbe dovuto occupare lo spazio di
altri due grossi volumi. Ma, esule a Los Angeles, non trovò alcuna pos-
sibilità di pubblicare tutto questo materiale, che, del resto avrebbe
difficilmente interessato un pubblico sufficientemente ampio di let-
tori anglo-americani: troppi particolari minuti erano strettamente
legati alla storia, e talvolta alla cronaca, della «classe alta» (nel dupli-
ce senso, politico-sociale e culturale) dell’Impero absburgico.
Dopo la morte di Heinrich Gomperz (1942), una copia del mano-
scritto inedito rimase conservata presso l’University of Southern Cali-
fornia. Recentemente, negli anni Settanta, l’Österreichische Akademie
der Wissenschaften ha preso la meritoria iniziativa di un completa-
100
iSui sofisti vedi anche Umanesimo e teologia, trad. it., Milano 1958, p. 42 sgg., 45 sgg. Sul
neo-umanesimo jaegeriano e sui suoi ultimi sviluppi concordo specialmente con A. La Penna, in
«Società», XVI (1960), p. 646 sg. Cfr. anche L. Sichirollo, ibid., XVII (1961), p. 957 sgg., | e
Storicità della dialettica antica, Padova 1965, p. 333 sgg. |.
464 XI. Theodor Gomperz

mento parziale del progetto di Heinrich Gomperz: parziale, poiché


non solo difficoltà finanziarie, ma anche la sovrabbondanza del mate-
riale (meno interessante, nell’insieme, di quello che era stato pubbli-
cato nel primo volume del 1936) hanno imposto una drastica riduzio-
ne. È uscito così nel 1974, come vol. 295 dei «Sitzungsberichte der
Österr. Akad. der Wissenschaften», Theodor Gomperz: ein Gelehr-
tenleben im Bürgertum der Franz-Josefs-Zeit: Auswahl seiner Briefe und
Aufzeichnungen, 1869-1912, erläutert und zu einer Darstellung seines
Lebens verknüpft von Heinrich Gomperz, neubearbeitet und herau-
sgegeben von Robert A. Kann, Wien 1974. Benché una pubblicazione
parziale lasci sempre un certo senso d’insoddisfazione (accresciuto, in
questo caso, dai tagli forse troppo frequenti di s i n g o l e lettere e
documenti, con continuo uso di punti sospensivi), è doveroso ricono-
scere che questo era, ormai, l’unico modo praticamente attuabile di
render noto ciò che, nel mare magnum lasciato da Heinrich Gomperz,
più poteva interessare gli studiosi.
Dell’esistenza di questo volume io ho avuto notizia, purtroppo,
soltanto quando il presente libro, e quindi anche il saggio sul Gom-
perz, era già in bozze; e (anche a causa della scarsissima pubblicità
che, per quanto mi risulta, esso ha avuto) mi sarebbe quasi certamen-
te del tutto sfuggito, se non lo avessi visto menzionato in un saggio di
Giuseppe Cambiano (Merlan: filologia e filosofia, in «Riv. di filosofia»,
n. 10, febbraio 1978, p. 89 sgg.): un saggio di grande interesse per
comprendere non solo la personalità di Philip Merlan, ma quella di
Heinrich Gomperz, e il tormentato e, in fondo, antagonistico rap-
porto tra Heinrich Gomperz e suo padre: un argomento, questo, sul
quale ritorneremo brevemente verso la fine di questa postilla.
Non credo di indulgere alla pigrizia o alla presunzione del quod scri-
psi scripsi, se affermo che (tranne alcuni punti a cui ora accennerò) il
volume del 1974 non arreca notevoli mutamenti all’immagine di
Theodor Gomperz che ho cercato di tracciare nelle pagine preceden-
ti: non perché sul Gomperz non vi sia ancora molto da indagare, da
sottoporre a nuovo esame, correggendo magari radicalmente alcune
delle mie asserzioni (sono ben lontano dalla sciocca pretesa di avere
scritto su una personalità così complessa e finora poco studiata il sag-
gio “definitivo”!), ma perché, mentre sul Gomperz giovane il volume
uscito nel 1936 aveva offerto una documentazione in gran parte ina-
spettata – basti pensare alle lettere del 1848-49 –, sui decenni della
XI. Theodor Gomperz 465

maturità e della vecchiezza lo schizzo autobiografico e altri saggi rac-


colti negli Essays und Erinnerungen, e molti passi degli stessi Pensatori
greci, ci avevano già fatto conoscere l’essenziale. Le lettere, gli artico-
li, gli abbozzi riportati nel volume uscito sei anni fa hanno quindi, per
la maggior parte, un valore (tutt’altro che trascurabile, beninteso) di
conferma piuttosto che di rivelazione. Ritroviamo in essi il Gomperz
nemico di ogni dogmatismo, intolleranza, illiberalismo, e d’altra par-
te il Gomperz antisocialista, diffidente verso il suffragio universale
(cfr. per esempio pp. 257-260), convinto che il fattore determinante,
in ogni questione di emancipazione degli oppressi, fosse «die Gesin-
nung der leitenden Classen» (p. 258; cfr. anche i passi cit. nell’indice
analitico, alle voci «Soziale Frage», «Sozialismus», «Wahlrechtsre-
form»). Ritroviamo il miglior Gomperz empirista-antimetafisico, fau-
tore di una fondazione laica della morale, e il Gomperz diffidente ver-
so il materialismo, partecipe già di un positivismo in crisi. A proposito
di quanto abbiamo osservato qui sopra, pp. 446-447, 449 sg., 461 n.
97, sul carattere ingannevole dell’etichetta di positivista applicata al
Gomperz senza tutte le necessarie distinzioni, è particolarmente signi-
ficativa una lettera del 19 aprile 1912 (p. 478 sg.: il Gomperz morì
pochi mesi dopo). Egli si rallegrava che uomini eminenti, tra cui Poin-
caré, avessero preso l’iniziativa di fondare una «Società positivistica»,
ma prima di aderirvi voleva metter meglio in chiaro che cosa s’inten-
desse per positivismo: «il materialismo ingenuo di un Auguste Com-
te, incurante di ogni problema gnoseologico, o la concezione del mon-
do di un Mill, di un Mach ecc., basata su una radicale critica della
conoscenza?». Non solo, dunque, Büchner o Moleschott, ma anche
Comte (che per altri aspetti, come abbiamo visto, il Gomperz apprez-
zava altamente) era annoverato fra i materialisti volgari o, epiteto non
molto diverso, «ingenui». D’altra parte l’accostamento (certo discu-
tibile) di Mill a Mach conferma che la «critica della conoscenza» non
doveva intaccare, secondo Gomperz, il causalismo più rigido (cfr. qui
sopra, pp. 448 e 450).
Molte altre interessanti testimonianze (oltre quelle da noi citate
sopra, p. 448, n. 54) confermano gli stretti rapporti tra Gomperz e
Freud, e accennano – al di là delle cure che Freud prodigò alla moglie
di Gomperz, tormentata da una grave nevrosi – a spunti di collabora-
zione intellettuale fra i due (vedi i numerosi passi citati nell’indice alla
voce «Freud», p. 537). Su questa più ampia base documentaria il tema
466 XI. Theodor Gomperz

«Gomperz e Freud» potrà essere trattato più a fondo di quanto si sia


fatto finora.
I due punti a proposito dei quali il nuovo volume non fornisce solo
conferme e incrementi di documentazione, ma dati in qualche misura
contrastanti con ciò che risultava finora, riguardano l’atteggiamento
dell’ultimo Gomperz sui rapporti Austria-Germania e, soprattutto,
sulla questione ebraica.
Nell’introduzione al volume (p. 20) Robert A. Kann presenta il
Gomperz come un fautore del predominio dell’elemento austro-tede-
sco nell’Impero (e quindi come un «centralista», ostile a tendenze
autonomistiche o federalistiche) e, in politica estera, come un «incon-
dizionato sostenitore» dell’alleanza con la Germania; e considera que-
ste posizioni come un residuo, sia pure saggiamente adattato alla
realtà, degli ideali quarantotteschi di una «Grande Germania» demo-
cratica. Che l’Anschluss tra Austria e Germania, attuato tanto più tar-
di su un piano aggressivamente reazionario e sciovinista da Hitler, sia
stato originariamente un ideale democratico, condiviso ancora dopo la
prima guerra mondiale dai socialisti austriaci, è noto. E tuttavia il
Gomperz nelle sue memorie (Essays und Erinnerungen cit., p. 19) si
annovera tra coloro che, nel ’48, non erano tanto sedotti dall’ideale
della Grande Germania da dimenticare di essere austriaci, e da non
sentire anche un persistente attaccamento per la «engere Heimat» da
cui il Gomperz stesso e altri suoi compagni di studi provenivano, la
Moravia; e le lettere che ho citato a p. 440, n. 28 confermano che que-
sti erano stati effettivamente i sentimenti del Gomperz giovane. Nel-
le memorie stesse, riferendosi al più tardo periodo della maturità
(Essays und Erinner., pp. 30-32), egli ribadisce di essere stato «kein
Grossdeutscher»; aggiunge sùbito, è vero, di essere sempre stato
altrettanto contrario a uno sciovinismo austriaco che minacciava di
isolare Vienna da tutto il resto del mondo («Wien wider die Welt»),
ma include nella condanna di tale sciovinismo anche il «centralismo»
in politica interna (p. 32), e sottolinea i suoi sentimenti di amicizia per
gli ungheresi. Un esame attento (di cui non possiamo qui esporre i
risultati per mancanza di spazio) dei passi che il Kann, nell’indice
analitico del volume del 1974 (p. 554), indica sotto la voce «Gros-
sdeutsche Idee bei Th. G.», rivela, io credo, un accentuato favore per
l’alleanza tra Austria e Germania come fattore di pace e di stabilizza-
zione in Europa e un’accentuata preoccupazione per le spinte nazio-
XI. Theodor Gomperz 467

nalistiche centrifughe sempre più forti all’interno dell’Impero (con


qualche punta d’insofferenza verso gli ungheresi e i galiziani), ma nes-
sun vero orientamento «grande-tedesco». Rispetto a ciò che sapeva-
mo finora, c’è una qualche differenza di atteggiamenti emotivi, non
di idee politiche. Né mancano forti punte polemiche contro
l’«orgoglio sciovinistico» dei tedeschi, contro lo slogan Deutschland
über alles (p. 432 sg., lettera del 1908).
E, soprattutto, l’interpretazione del Kann non tiene conto del fatto
che culturalmente il Gomperz rimase sempre (come la maggior parte
degli intellettuali austriaci in tutti i campi, dalla filosofia alla lettera-
tura e alla musica, dalla psicologia alle scienze esatte) molto distaccato
dalla Germania, molto più aperto a influssi inglesi e francesi. Difficil-
mente si può qualificare come «grossdeutsch» un seguace di Mill, di
Grote e di Comte, un simpatizzante per personalità che nella cultura
tedesca ebbero difficile accoglienza, come Freud o Mach. Sotto que-
sto aspetto, il nuovo volume non arreca che conferme: si scorrano per
esempio i riferimenti alle letture del Gomperz, anche di opere lettera-
rie, contenuti nelle lettere (cfr. l’indice analitico, p. 551 col. 2-553, alla
voce «Lektüre»), e si vedrà che i tedeschi sono in minoranza. Ma anche
nel campo dell’antichità classica, se si eccettuano poche grandi figure
come Otto Jahn, Bernays, Mommsen (tutti, per un verso o per l’altro,
estranei al nazionalismo tedesco come si era andato configurando con
Bismarck e dopo Bismarck), si nota, e già si era notato nei Pensatori gre-
ci e negli altri scritti del Gomperz, un senso complessivo di distacco.
A proposito dei rapporti, prima cordiali poi divenuti più freddi, col
Diels, Heinrich Gomperz testimonia (p. 62) che suo padre si era sem-
pre più convinto di essere sottovalutato dai «berlinesi»; e bisogna
aggiungere che non era convinzione infondata. Per l’astro sorgente del-
la filologia tedesca, Wilamowitz, il Gomperz non ebbe simpatia (p. 162
sg.): pur avendo fatto molti passi a destra, si sentiva ancora troppo libe-
rale per amare il prussianesimo conservatore di Wilamowitz; e la let-
tura delle Homerische Untersuchungen gli lasciò un’impressione di dog-
matismo, di avventatezza nei giudizi, di scarsa attitudine alla ricerca
serena e obiettiva. Ciò non gli impedì, nei Pensatori greci, di consenti-
re spesso col Wilamowitz su singole questioni.101

101
iAlla Festschrift per i settant’anni di Gomperz (cfr. p. 347 del volume di cui ci occupia-
mo) collaborarono, di contro a 30 austriaci, soltanto 11 tedeschi (uno dei quali, L. Radermacher,
468 XI. Theodor Gomperz

Più diverso da quanto si potesse supporre (più tormentato e, sul pia-


no strettamente biografico, meno avanzato) appare l’atteggiamento
del Gomperz vecchio sulla questione ebraica. Ciò che ho accennato
sopra a questo proposito (p. 440 e n. 29) non è falso, ma presenta
soltanto un lato della verità. Nell’antisionismo del Gomperz vecchio
permane ancora – credo che ciò si deva ribadire – quello spirito
cosmopolita-illuministico, quell’aspirazione a non perpetuare vecchie
divisioni tra l’umanità e a non crearne di nuove, che fu sempre una
costante della sua personalità. Ma, senza dubbio, affiora anche un
altro aspetto (tutt’altro che caratteristico del solo Gomperz, beninte-
so): un desiderio di integrarsi nella società alto-borghese e di avvici-
narsi all’ambiente della corte imperiale e, più in generale, una fobìa
di apparire «cattivo suddito», eterodosso. Quantunque tale desiderio
si unisse ai più sinceri propositi di non rinunciare (e il Gomperz in
effetti non vi rinunciò) alle proprie idee «illuminate» e anzi di con-
tribuire a orientare in questo senso le alte sfere della politica dell’Im-
pero, tuttavia un certo prezzo, in termini di conformismo, andava pur
pagato; e di questo prezzo faceva parte un rinnegamento delle proprie
origini ebraiche che era diverso dall’abbandono puro e semplice della
religione ebraica (avvenuto già da tempo, e con piena sincerità, da par-
te del Gomperz), poiché implicava anche l’abbandono, non altrettan-
to sincero, della posizione dichiaratamente anticonfessionale che era
stata propria del Gomperz giovane (vedi qui sopra, p. 440, n. 29), e
l’accostamento meramente esteriore alla religione cristiana al solo sco-
po di cancellare ogni «diversità». Personalmente, il Gomperz non
arrivò mai a compiere questo passo; ma nel suo testamento, scritto nel
1887 (pp. 173-175 del volume di cui trattiamo), consigliò ai figli di
compierlo. Parole d’ordine in sé valide come «unione e affratella-
mento, non isolamento e separatismo» (p. 173), proposizioni dotate
di un aspetto di verità come «was die Menschen unterscheidet, das
scheidet sie auch» (p. 174), sforzi di valutare le religioni non per il
loro contenuto di verità o meno ma solo per la loro funzione di lega-
me sociale, finivano col soffocare o mascherare, in questo tormentato
testo, la consapevolezza che non c’è vera libertà senza anticonformi-

doveva di lì a poco diventare professore a Vienna), e 9 studiosi di altre nazioni. Uno di essi, il
polacco T. Zielin!ski, doveva più tardi scrivere forse il più bel necrologio di Gomperz (riportato
a p. 488 sgg. del vol. cit.).
XI. Theodor Gomperz 469

smo e rispetto di idee e posizioni minoritarie, e che per un laico la vera


fratellanza può basarsi, appunto, soltanto sulla laicità, fermo restan-
do, ovviamente, il rispetto per tutte le religioni, senza privilegi per
alcuna. Il Gomperz dichiarava invece fonte di discordia e di isola-
mento l’ateismo d i c h i a r a t o , e veniva a considerare come con-
dizione necessaria della pace sociale il conformismo religioso, con
un’unica perdurante avversione per la Compagnia di Gesù che gli
faceva preferire il protestantesimo (altrimenti da lui non amato, cfr.
p. 435 sg.) al cattolicesimo (p. 175).
E tuttavia – anche a prescindere dalla drammatica e disperante inso-
lubilità della questione ebraica, che non autorizza a impartire facili
lezioni di coerenza morale –102 sono convinto che nel giudizio su un
uomo di pensiero la biografia, per quanto importante, non deva preva-
lere sull’opera, tanto più quando si tratta di un’opera non meramente
libresca, ma essa stessa espressione di legame tra ricerca scientifica e
affermazione di valori. I Pensatori greci, gli studi del Gomperz sull’epi-
cureismo, i suoi scritti filosofici o di attualità, anche quelli degli ultimi
decenni della sua lunga vita, spirano laicismo, illuminismo, antidogma-
tismo da ogni pagina; i compromessi che il Gomperz, come tanti altri,
credette di dover fare nella vita quotidiana non intaccano questo dato
di fatto sostanziale. Ancora nel 1909, in un articolo ripubblicato nel
volume del 1974, il Gomperz riaffermava una posizione che ben si por-
tebbe dire cattaneiana sulla non coincidenza di razza, lingua e cultura
e contro ogni orgoglio razzista e nazionalista (p. 438 sg.).
Infine, il volume del 1974 pone, in modo ancor più paradossale, il
problema del rapporto tra Theodor e Heinrich Gomperz, al quale
abbiamo già fugacemente accennato qui sopra (pp. 433, 449). Da un
lato, il fatto stesso che Heinrich Gomperz abbia dedicato gran parte
del suo tempo e delle sue energie a raccogliere documenti e testimo-

102
iParlo di insolubilità (fino ad ora, beninteso), perché non scorgo nemmeno nell’esaspera-
to nazionalismo e nell’aggressività dell’attuale classe dirigente israeliana alcuna prospettiva
accettabile, mentre d’altra parte in troppi paesi perdura l’antiebraismo. Per quanto riguarda il
Gomperz, bisogna tener conto del rincrudirsi dell’antiebraismo in Germania dal 1880 in poi, ad
opera specialmente di H. von Treitschke. È da questa data che in lettere, appunti, articoli di
Gomperz il problema ebraico viene trattato particolarmente spesso (cfr. a p. 121 sgg. le inedite
Kritische und historische Glossen zur sogenannten Anti-Semiten Bewegung, e tutti i passi cit. nel-
l’indice analitico, pp. 5.55, alla voce Judenfrage; è interessante notare che a p. 386 in un lungo
appunto inedito del 1904, tra i più splendidi ingegni di origine ebraica Gomperz annovera Karl
Marx, malgrado il proprio antimarxismo).
470 XI. Theodor Gomperz

nianze sul padre e a scriverne la biografia, con una cura perfino ecces-
siva di non omettere il minimo dettaglio, indica un legame affettivo
profondo: ben pochi casi, credo, di una simile abnegazione si potreb-
bero citare. E tutto ciò che riguarda la vita del padre, i suoi affetti
familiari, i suoi rapporti con altre personalità del suo tempo, è non
solo documentato, ma commentato e narrato dal figlio con viva par-
tecipazione sentimentale e, insieme, senza dolciastri sentimentalismi
e agiografie. D’altro lato, un lavoro di tanta mole presupporrebbe
anche, nel figlio, la consapevolezza di un alto valore intellettuale del
padre, di un valore non destinato a estinguersi col subentrare di nuo-
vi orientamenti storiografici e filosofici. E invece tale consapevolez-
za (lo si scorge ora ancor meglio di prima) mancò quasi del tutto a
Heinrich Gomperz. L’accentuazione anticoncettualistica e, insieme,
antioggettivistica dell’empirismo, che sta alla base del Pathempirismus
di H. Gomperz, costituivano uno sviluppo (uno sviluppo, certo, estre-
mizzato ed esasperato) di motivi derivanti non solo da Mach, ma
anche da Th. Gomperz: sotto questo aspetto, credo di dover ribadire
(cfr. sopra, p. 449) che un nesso tra il pensiero del padre e quello del
figlio c’era. Ma H. Gomperz non mostrò mai, credo, di esserne con-
scio, anzi attribuì a se stesso (pp. 256 sg., 283 sg., cfr. 292) un influs-
so su quel tanto (quel poco!) di valido che egli riconosceva nel pensie-
ro del padre: con ragione per quel che riguarda qualche dettaglio;103
ma il «fenomenismo» di Th. Gomperz, derivato da John Stuart Mill,
era di molto anteriore a ogni possibile influsso del figlio; e questi esa-
gerò grandemente il distacco dall’etica utilitaristica che, persuaso da
lui, Th. Gomperz avrebbe compiuto: non vi fu in realtà alcun distac-
co, solo qualche maggior cautela di espressione. D’altronde i motivi di
contrasto fra i due pensatori prevalsero ben presto, perché Heinrich
Gomperz, seguendo un itinerario mentale comune a molti della sua
generazione (quell’itinerario mentale che, a dispetto di singoli ed epi-
sodici errori e forzature, è stato, a mio avviso, genialmente ricostrui-
to e confutato e, in parte, addirittura previsto da Lenin in Materiali-
smo ed empiriocriticismo, dove non figura H. Gomperz, ma figurano
molti suoi affini), utilizzò l’empirismo agnosticizzante come pars

103
iScritti di Heinrich Gomperz sono citati spesso nei Pensatori greci (vedi l’indice dei nomi
dell’edizione italiana), ma a proposito di questioni storico-filosofiche particolari, e non sempre
con consenso (cfr per esempio III, p. 584, n.).
XI. Theodor Gomperz 471

destruens per spianarsi la strada ad una ricostruzione spiritualistica:


disgregazione di ogni causalismo considerato come un errore ottocen-
tesco confutato dalla «nuova fisica», critica di ogni morale basata su
fondamenti edonistici e utilitaristici, e, per quanto riguarda più spe-
cificamente la filosofia greca, svalutazione della grande funzione cri-
tica e liberatrice della Sofistica e sua riduzione a mera retorica, inter-
pretazione del platonismo che puntava non sul valore del dialogo,
dell’incessante ricerca autocritica, ma sugli aspetti mistico-irraziona-
listici. Su tutto ciò vedi, meglio di ogni altro, l’articolo già citato di
Giuseppe Cambiano (p. 9**), il quale afferma con ragione che «per
molti versi Heinrich Gomperz è stato il rovescio del padre Theodor»,
e richiama l’attenzione sul giudizio estremamente riduttivo che, giun-
to al termine della sua biografia (pp. 494-498), H. Gomperz esprime
sui Pensatori greci, come opera ormai del tutto inattuale e superata: un
giudizio concorde con quello che poco prima aveva espresso Werner
Jaeger (vedi qui sopra, p. 428 sg.). La pietas verso il padre e la miope
incomprensione della sua opera coesistettero, in Heinrich Gomperz,
come una contraddizione irrisolta.

2. Augusto Murri e Theodor Gomperz. – Un influsso della lettura del-


l’opera principale del Gomperz si può ritrovare nel Medico pratico
(Bologna 1914, p. 34 sg.) di Augusto Murri, grande medico dotato di
interessi filosofici: «Aristotele (...) fu pure il teorico dell’induzione,
anzi il primo, il costante, l’autorevolissimo inculcatore di questa
maniera di ragionare. Fortunatamente, s’egli era stato scolaro di Pla-
tone, era pure figlio d’un medico, e qualche boccata d’aria esalata da
un sano empirismo e respirata in casa paterna dovrebb’essere per un
cervello infantile un tonico eccellente e un preservativo contro i con-
tagi della scuola». Qui come si vede, Murri interpreta fin troppo alla
lettera (vedi qui sopra, p. 443 sg.) la dicotomia di Aristotele alcmeo-
nide-platonico enunciata dal Gomperz.
Appendici

Testo epigrafe, testo epigrafe, testo epigrafe, testo epi-


grafe, testo epigrafe, testo epigrafe.
Nome Cognome
Appendice I **

Testo epigrafe, testo epigrafe, testo epigrafe, testo epigrafe,


testo epigrafe, testo epigrafe.
Nome Cognome

1. Postilla su Maffei e Muratori

Ho già accennato (pp. 336 sgg., 342 sg.) all’importanza di Scipio-


ne Maffei nella discussione sull’origine delle lingue volgari e sul rap-
porto tra Romani e barbari nel Medioevo. Vorrei, senza pretendere
affatto di esaurire un argomento così complesso, soffermarmi ancora
un momento sulla genesi di queste idee maffeiane e sul dissenso che,
riguardo a questi problemi, divise il Maffei dal Muratori.1
Nel libro che, pur non avendo uno scopo principalmente erudito,
segnò il suo primo accostamento alle ricerche erudite, la Scienza caval-
leresca (1710), il Maffei ci si presenta animato da un forte sentimen-
to antimedievale, di impronta umanistica. I Romani sono da lui idea-
lizzati come il popolo giusto e civile, che impugnava le armi solo per
necessità e non per spirito di sopraffazione. Della fine di quell’età feli-
ce sono responsabili i barbari: «Venne finalmente l’Italia in così lun-
ga serie di mali (le invasioni barbariche) a smarrir se stessa; ed a cam-
biare non solo il governo, le leggi, e le dignità, ma l’abito, la lingua, i
nomi degli uomini, e de’ paesi, e finalmente l’indole, ed i costumi»
(lib. II, cap. I, pp. 138-39). Dai barbari proviene il feudalesimo e,
legato ad esso, il falso concetto dell’«onore», che tuttora mantiene in
vita l’usanza irrazionale e feroce del duello. L’umanesimo del Maffei

1
iNon è questo il luogo adatto per citazioni di bibliografia generale sul Maffei; voglio soltan-
to ricordare il fondamentale saggio di Arnaldo Momigliano, Gli studi classici di Scipione Maffei
(1856, ora nel Secondo contributo alla storia degli studi classici, Roma 1960, p. 255 sgg.). Molto
materiale utile sul Maffei come umanista ed erudito e sui rapporti tra il Maffei e il Muratori si
trova nei vecchi studi del Simeoni e nei più recenti del Gasperoni e del Garibotto.
476 Appendice I

non è un mero atteggiamento libresco: esso esprime esigenze di abban-


dono dei pregiudizi nobiliari più anacronistici e di evoluzione della
nobiltà verso forme di vita borghesi (si pensi alla riforma della costi-
tuzione di Venezia che il Maffei proporrà più tardi, e infine al tratta-
to Dell’impiego del denaro); ma tali esigenze non sono ancora così for-
ti da sostenersi solo per virtù propria, come dettàmi della Ragione:
hanno ancora bisogno di un appoggio nella tradizione classica, e del
resto continueranno in parte ad averlo anche nell’età del pieno illu-
minismo.
Il patriottismo locale del Maffei, che è all’origine delle sue ricerche
sulla storia di Verona, presenta anch’esso fin dall’inizio una netta ispi-
razione antimedievale: si tratta di rivendicare a Verona la gloria di
figlia prediletta di Roma. Di qui (per citare i due esempi più noti e cla-
morosi) lo sforzo di dimostrare che il distico di Catullo attestante la
derivazione di Verona da Brescia è interpolato, e che Verona condivi-
de soltanto con Roma e Capua il privilegio di possedere un anfiteatro
(cfr. Momigliano, p. 268).
La celebre scoperta dei codici antichi della Capitolare, avvenuta nel
1712, segna una svolta nella vita intellettuale del Maffei. Da lettera-
to (con interessi eruditi già vivi, ma ancora marginali e un po’ dilet-
tanteschi) egli diviene, in breve tempo, un erudito e uno storico della
cultura, in funzione dello studio di quei codici e di tutti i problemi che
essi implicavano. Che questa conversione filologica, intrapresa in età
non più giovanile, non sia in tutto e per tutto riuscita, è indubbio, e
lo riconobbe per primo il Maffei stesso. Tuttavia se si confronta, per
esempio, il caso del Maffei con quello di Angelo Mai – il quale, meno
di un secolo dopo, dovette anche lui improvvisarsi filologo per poter
pubblicare i testi da lui scoperti –, non si può fare a meno di ricono-
scere la molto migliore riuscita del Maffei. Soprattutto si deve ammet-
tere che la diseguale e lacunosa preparazione filologica non infirmò la
sostanza delle sue geniali scoperte storico-culturali, anche se gli impedì
forse di trarne tutte le conseguenze possibili.
La prima, in ordine di tempo, di tali scoperte avvenne nel campo
paleografico. Alla molteplicità di scritture nate, secondo il Mabillon,
da innesti barbarici sul ceppo romano (scrittura longobardica, gotica,
merovingica, sassonica) il Maffei sostituiva un tipo fondamentalmen-
te unico: la minuscola romana. Vale ancora la pena, forse, di chiarire
che il dissenso tra il Maffei e la scuola del Mabillon non si può risol-
Appendice I 477

vere in una contrapposizione tra una mentalità «storicistica» e una


mentalità «illuministica», «linneiana», staticamente classificatoria.2
Ciò che contraddistingue il Maffei non è tanto il concetto dell’evolu-
zione storica delle scritture (anche il Mabillon considerava i suoi vari
tipi come un prodotto storico, connesso con la fusione tra cultura
romana e cultura barbarica), quanto la consapevolezza che già i Roma-
ni, accanto alla solenne scrittura capitale, avevano avuto una minu-
scola e una corsiva:3 più che una distinzione di fasi storiche, dunque,
una distinzione tra «aulico» e «usuale» nell’ambito della stessa cultu-
ra romana antica. Ciò non toglie, naturalmente, che la scoperta del
Maffei abbia anche portato come conseguenza un più giusto concetto
dell’evoluzione storica delle scritture, richiamando l’attenzione sulle
gradazioni intermedie tra i vari tipi e sui motivi intrinseci (esigenze
di rapidità e di minimo sforzo) dei mutamenti di forma delle lettere.
Sulla via indicata dal Maffei si trovano non solo, come è noto, il gran-
de Ludwig Traube, ma anche Jean Mallon con la sua teoria della
«minuscola primitiva».
Dalla paleografia il Maffei trasferì ben presto, con procedimento
analogico, la sua nuova concezione ad altri campi. Se nella lettera ad
Antonio Conti del 1° novembre 1714 e in quella al Muratori del 16
novembre nello stesso anno parlava ancora soltanto delle scritture
(cfr. Epistolario, ed. Garibotto, I, pp. 199 sg., 204), già l’Istoria diplo-
matica (1727) conteneva, accanto all’annuncio della sua scoperta
paleografica, un’appendice4 in cui il problema dell’origine della metri-

2
iCosì, per esempio, G. Cencetti, Lineamenti di storia della scrittura latina, Bologna 1954,
p. 8 sg.
3
iCfr. la lettera al Bacchini negli Opuscoli ecclesiastici annessi all’Istoria teologica (Trento
1742), p. 57: «I grand’uomini, che sopra questa materia hanno scritto, supposero sempre, che i
Romani altra maniera di scrivere non avessero, che la maestosa delle lapide, delle medaglie, e de’
codici più nobili, e sontuosi. Ma questo è per l’appunto, come s’altri osservando in oggi pari-
mente le nostre iscrizioni, le nostre monete, e le nostre stampe, venisse a credere, che dell’istesso
carattere, e dell’istesso modo ci servissimo anche nell’ordinario scrivere, e negli atti notariali, e
nelle missive». Così anche nella Verona illustrata, ediz. di Milano 1825, vol. II, p. 560.
4
iP. 177 sgg.: Ritmo de’ tempi di Pipino e dissertazione sopra i versi ritmici. La dissertazione fu
ripubblicata dal Maffei negli Opuscoli ecclesiastici cit. (p. 247 sgg.), col titolo De’ versi ritmici e
dell’origin loro e con notevoli modifiche, le quali però non riguardano la tesi fondamentale, ma
singole questioni di critica del testo. Cfr. L. Simeoni, prefazione al tomo II, parte I della nuo-
va ediz. dei Rerum Italicarum Scriptores (Bologna 1918), p. x sg.; A. Campana, Veronensia, in
Miscellanea Mercati, II, Roma 1946, p. 57 sgg., specialmente, p. 63. Sul testo dei carmi verone-
si si veda anche D. Norberg, La poésie lat. rythmique du haut Moyen Age, Stoccolma 1954, p. 104
sgg.
478 Appendice I

ca accentuativa mediolatina e romanza era risolto allo stesso modo,


respingendo la tesi dell’influsso barbarico e sostenendo che già i roma-
ni antichi, come i greci antichi, conoscevano, accanto ai versi m e-
t r i c i ligi alla quantità, i versi r i t m i c i costruiti in base al nume-
ro delle sillabe e all’accento: i primi opera dei dotti, i secondi del popo-
lo. Proprio perché popolareschi, i versi ritmici dovevano essere più anti-
chi dei metrici: le testimonianze di Orazio (Epist. II, 1, 145 e 157) sulla
Fescennina licentia e sull’horridus Saturnius sembravano avvalorare que-
sta tesi.5 La metrica mediolatina e romanza non era, perciò, che il rie-
mergere del vecchio fondo romano-italico, quando la crisi politico-cul-
turale alla fine dell’Impero romano aveva indebolito la tradizione dotta.
Il parallelismo fra paleografia e metrica nel pensiero del Maffei
sarebbe già evidente di per sé, ma il Maffei stesso ha cura di metter-
lo in rilievo: «È assai – egli esclama ironicamente, p. 185 – che anche
cotesti versi non siano stati divisi in Gotici, e Longobardi, e in altre
sì fatte spezie», come le scritture secondo il Mabillon.
Infine nella Verona illustrata (1732) lo stesso schema è applicato alle
origini delle lingue neolatine (non influsso barbarico, ma persistenza
e sviluppo del latino volgare) e quindi ai costumi e all’arte. Abbiamo
già notato (p. 238 sgg.) che la tesi della derivazione dell’italiano dal
latino volgare non era affatto nuova, anzi era stata sostenuta in forma
molto più unilaterale. Anche per la questione dell’origine dei versi rit-
mici è facile citare precursori, dai tardi grammatici latini6 agli umani-
sti che avevano effettuato imitazioni «ritmiche» dei versi di Plauto e
di Terenzio, a G. J. Vossius che aveva teorizzato la distinzione tra
poesia ritmica e metrica e la maggiore antichità della prima in termi-
ni analoghi a quelli del Maffei.7 Ma la novità del Maffei consiste pre-

5
iIl Maffei supponeva – come più tardi altri studiosi – un originario saturnio «ritmico», poi
regolarizzato e reso «metrico» da Nevio: cfr. Ist. diplom., p. 187 = Opusc. eccles., p. 248. Dal
Maffei deriva il Muratori, Ant. Ital. Medii Aevi, III, col. 665 sg.
6
iSoprattutto un passo di Beda sulla distinzione fra rhythmus e metrum (ora nei Grammatici
Latini del Keil, VII, p. 258) sembrava a favore di questa tesi. Probabilmente già lo stesso Beda,
basandosi sulla propria sensibilità ritmica non più quantitativa, aveva frainteso i grammatici più
antichi, i quali intendevano per «ritmo» qualcosa di meno regolarizzato del «metro», ma sem-
pre su fondamento quantitativo. Cfr. W. Meyer, Gesammelte Abhandlungen zur mittelalt. Rhyth-
mik, III, Berlino 1936, p. 139; D. Norberg, Introd. à l’étude de la versif. lat. médiév., Stoccolma
1958, p. 87 sgg.; M. Barchiesi, Nevio epico, Padova 1962, p. 310 sg.; S. Mariotti in «Riv. di cul-
tura class. e mediev.» VII, 1965, p. 628.
7
iDel Vossius vedi De artis poeticae natura ac constitutione, cap. XIII, e Poeticarum Institu-
tionum lib. I, cap. VIII, § 12 (tutt’e due nell’ediz. delle Opere di Amsterdam 1697, vol. III,
Appendice I 479

cisamente nel legame che egli stabilisce tra i vari aspetti della cultura
medievale, e quindi nella visione unitaria del Medioevo italiano come
continuazione della civiltà romana (o romano-italica: si ricordi l’im-
portanza da lui attribuita al sostrato), immune da rilevanti influssi ger-
manici.
Se, quindi, nel passo sopra citato della Scienza cavalleresca egli ave-
va asserito che la civiltà romana in tutti i suoi aspetti (fra l’altro anche
nella lingua) era stata corrotta dai barbari, ora, nella Verona illustrata,
si disdice esplicitamente.8 Resta immutato il patriottismo classicista,
l’odio verso i barbari; ma alla visione pessimistica del Medioevo come
catastrofe della civiltà romana è sottentrata una visione positiva del
Medioevo stesso, almeno di quello italiano.
Mentre per quel che riguarda la lingua e la scrittura le teoria del
Maffei si sono rivelate – a parte i loro moventi ideologici – scientifi-
camente in massima parte esatte, maggiori riserve si devono fare quan-
to alla metrica. Rimane, certo, un merito del Maffei l’avere analizzato
con grande finezza vari tipi di ritmi mediolatini, a cominciare dal fa-
moso «quindicinario» dell’arcidiacono Pacifico, e l’aver dettano sane
norme per la critica testuale dei versi ritmici, tenendosi lontano sia
dalle arbitrarie regolarizzazioni secondo i criteri della metrica classi-
ca, sia dal lassismo critico-testuale di cui aveva dato prova, fra gli altri,
il Muratori. È anche giusto, in via generalissima, il principio che in
fatto di metrica «natural cosa è il principiar col più semplice e men
perfetto, passando poi al più studiato ed artifizioso»: il Wilamowitz
esprimerà lo stesso concetto nella formula von der Freiheit zur Strenge,
da lui messa a fondamento dell’evoluzione della metrica greca. Ma
assai rischioso fu l’identificare la «semplicità» o «libertà» col sistema
accentuativo e l’«artificio» col sistema quantitativo, l’attribuire cioè
al volgo romano antico la nostra stessa sensibilità ritmica, la nostra
mancanza o debolezza del senso della quantità. Il Maffei non arrivò a
enunciare questa tesi in forma estrema, anzi ammise che «il nostro
orecchio lunghe e brevi più non distingue, fuorché ne’ raddoppia-
menti e nelle penultime sillabe» (diversamente, dunque, dall’orecchio

con numerazione delle pagine non continua). Il secondo passo del Vossius è citato anche dal
Muratori.
8
iEd. di Milano cit., II, p. 532: «Tanto parci poter bastare, e almeno a noi certamente basta,
per conoscere quanto c’ingannammo, quando asserimmo in altr’opera ... e l’abito e la lingua per
la dimora de’ Barbari essersi in Italia cambiati».
480 Appendice I

dei romani); e tuttavia in quella stessa dissertazione egli contrappo-


neva, già in Roma antica, i versi accentuativi fatti «a orecchio» ai ver-
si quantitativi composti «dagli uomini di studio». Questo errore ha
avuto lunga vita: i vari tentativi di interpretazione accentuativa del
saturnio, la convinzione che nei versi di Plauto e di Terenzio l’accen-
to avesse una funzione distintiva accanto alla quantità o perfino al di
sopra di essa, la tendenza a considerare la metrica latina dotta come
un prodotto di importazione greca non solo riguardo agli schemi dei
singoli versi (qui non ci sono dubbi), ma anche riguardo al principio
stesso quantitativo: tutto questo complesso di pregiudizi ha la sua
radice in quella concezione della poesia ritmica che, come abbiamo
visto, preesisteva al Maffei ma che il Maffei contribuì a rafforzare.
Le puntate polemiche che il Maffei nella Verona illustrata rivolge
contro chi riteneva che Romani e Longobardi si fossero fusi in un uni-
co popolo con uguaglianza di diritti sono certamente allusive al Mura-
tori, il quale aveva già sostenuto quella tesi nelle Antichità Estensi.
Anche il Muratori era passato – come narra egli stesso nella lettera
autobiografica al conte di Porcìa – dal giovanile antimedievalismo ad
una valutazione positiva del Medioevo; ma in un senso ben diverso dal
Maffei. Quello che il Muratori apprezzava nel Medioevo non era l’e-
lemento romano, ma il germanico. È stato messo bene in luce da Ser-
gio Bertelli come la simpatia del Muratori per i Goti e i Longobardi
nasca nel vivo della polemica giurisdizionalistica contro le pretese
temporali del papato e si alimenti nei rapporti col Leibniz.9 Il Bertel-
li osserva anche giustamente che tale atteggiamento non ha nulla a che
vedere con un «preromantico desiderio di esaltazione della barbarie»
(i barbari sono apprezzati dal Muratori non per la loro forza primige-
nia, ma per la loro capacità di civilizzarsi rapidamente a contatto coi
romani), e che piuttosto bisogna vedere in esso «una reazione al clas-
sicismo barocco e quasi un contraltare alla figura dell’eroe quale era
inteso dai canoni secentisti» (p. 257). Accanto al motivo giurisdizio-
nalistico, infatti, uno dei principali impulsi ad una valutazione positi-
va dei barbari era venuto al Muratori dalle sue indagini genealogiche,

9
iS. Bertelli, Erudizione e storia in L. A. Muratori, Napoli 1960, cap. III. Cfr. l’introduzione
di G. Falco a Muratori, Opere a cura di G. Falco e F. Forti, Milano-Napoli 1964, I, p. XXII.
Per il filo-longobardismo del Muratori va tenuto presente anche l’influsso del Bacchini: cfr. l’ar-
ticolo di Arnaldo Momigliano su Bacchini in Diz. biogr. degli Italiani, V, p. 24.
Appendice I 481

che lo avevano portato a respingere le vantate ascendenze greche o


romane delle famiglie nobili italiane. Attraverso la rivalutazione dei
popoli del nord, il Muratori tende a combattere lo sterile orgoglio e il
patriottismo accademico della tradizione culturale italiana e a rimet-
tere in contatto l’Italia con l’Europa. Direi che il suo filobarbarismo
è una forma indiretta di cosmopolitismo.
Perciò, accingendosi a trattare nei volumi II e III delle Antiquitates
Italicae Medii Aevi (1739-40) i problemi dell’arte medievale, dell’origi-
ne della lingua italiana e dell’origine della poesia ritmica, egli si trova-
va tendenzialmente in disaccordo con la soluzione «antibarbarica» che
nell’Istoria diplomatica e nella Verona illustrata ne aveva dato il Maffei.
D’altra parte la tesi del Maffei non era un semplice enunciato apriori-
stico: aveva dalla sua fatti concreti e ottimi argomenti, che il Muratori
era troppo onesto per trascurare. La soluzione a cui il Muratori ricor-
re consiste quindi nell’accogliere sostanzialmente le opinioni del Maf-
fei, accompagnandole però con tutta una serie di riserve, correzioni
parziali, integrazioni. La lingua italiana, dice il Muratori, è la conti-
nuazione del latino volgare modificato dai sostrati italici, ma a n c h e
all’elemento germanico va dato il suo peso. La poesia accentuativa deri-
va in primo luogo dalla ritmica popolare latina (e qui il Muratori accet-
ta in pieno l’idea della maggiore antichità e spontaneità di questo gene-
re di versificazione), ma non si può escludere né l’influsso arabo, né
quello germanico. Nelle dissertazioni XXXII, XXXIII e XL, dedica-
te appunto ai problemi linguistici e metrici, il Muratori cita il Maffei
parcamente, quasi soltanto per esprimere dissensi: gli studiosi moder-
ni hanno perciò finito col non accorgersi che quasi tutto il buono che
c’è in quelle dissertazioni deriva dal Maffei.10 Ciò si dice non per rites-
sere la cronaca delle indelicatezze e dei dissapori fra i due grandi eru-
diti (è indubbio che le indelicatezze più gravi furono commesse dal
Maffei), ma per sottolineare che, sebbene il Muratori fosse più moder-
no in certe esigenze di anticlassicismo e di riforma morale-religiosa,
sebbene fosse lavoratore più costante e più capace di portare a termi-
ne i suoi piani, tuttavia quanto a intuito filologico e a senso dell’es-
senziale il Maffei era di gran lunga superiore al suo amico-avversario.

10
iVedi qui sopra, pp. 337-338 e n. 26. Anche nelle note ai passi delle Antiquitates inclusi nel-
l’antologia cit. a cura di Falco e Forti (I, p. 630 sgg.) il contributo del Maffei, soprattutto per
ciò che riguarda l’origine della lingua italiana, non mi sembra posto nel dovuto rilievo.
482 Appendice I

Un campo in cui il Maffei ha ottenuto, anche in confronto al Mura-


tori, il posto che gli compete è quello della storia dell’arte. Giovanni
Previtali ha messo in chiaro come la rivalutazione del Medioevo arti-
stico italiano, compiuta nella Verona illustrata, non solo preceda cro-
nologicamente la dissertazione XXIV delle Antiquitates del Muratori
(«De artibus Italicorum post inclinationem Romani imperii»), ma sia
anche basata su una più diretta conoscenza di opere d’arte.11 Ciò che
forse rimane un po’ troppo in ombra nell’esposizione del Previtali è la
diversità di angolo visuale che, anche per ciò che riguarda le belle arti,
si nota tra i due studiosi. Il Maffei rivaluta l’arte medievale, special-
mente l’architettura, in quanto continuazione della romana: «Per
quanto riguarda la perfetta compositura delle muraglie, e la solidità, e
la magnificenza, si ritenne in Italia non solamente dopo la venuta de’
Barbari, ma fino agli ultimi secoli la stessa maniera de’ Romani» (Vero-
na illustrata, ed. cit., vol. II, p. 528). Il Muratori polemizza, sì, anche
lui, sulla scia del Maffei, contro il termine di «arte gotica», ma solo per
negare che tale arte sia peculiare dei Goti, non – «come aveva fatto il
Maffei» – per escludere che in essa abbiano avuto parte i barbari in
generale (cfr. Antiquitates, II, col. 354 sg.). All’arte medievale egli
attribuisce caratteri suoi: inferiore all’arte grecoromana (e alla moder-
na neoclassica) per elegantia, l’arte medievale è però talvolta superiore
per magnificentia e maiestas (ibid., 354-356, 365), doti che non sono,
come riteneva il Maffei, una semplice eredità romana. In questa con-
sapevolezza, sia pure ancora estremamente generica, di caratteristiche
di gusto proprie dell’arte medievale bisogna riconoscere, mi sembra, un
merito del Muratori: l’insistenza sulla continuità fra evo antico e
Medioevo, a cui teneva tanto il Maffei, era fondamentalmente giusta
nel caso di attività più «strumentali» che «sovrastrutturali», come la
lingua e la scrittura: diventava meno giusta per attività più soggette a
subire l’effetto delle trasformazioni della società, come le arti.
Mentre il Maffei esercitò un forte influsso sui classicisti dell’Otto-
cento – Leopardi da un lato, Romagnosi e Cattaneo dall’altro,12 – l’at-

11
iG. Previtali, La fortuna dei primitivi dal Vasari ai neoclassici, Torino 1964, pp. 70 sgg., 79 sgg.
Sul Maffei come conoscitore e giudice di opere d’arte, specialmente veronesi, cfr. Franco Bar-
bieri, S. Maffei storico dell’arte, in «Miscellanea Maffeiana», Verona 1955, p. 25 sgg.
12
iVedi qui sopra, pp. 338, 340, 342-343. Per il Leopardi vedi anche C. Galimberti in «Ras-
segna della letter. ital.» LIX, 1955, p. 460 sgg. L’ammirazione non meramente culturale che il
Leopardi ebbe per il Maffei come precursore di quel tipo di nobile «alfieriano» di cui egli stes-
so si considerava un esempio, è documentata da Zib., 4419.
Appendice I 483

teggiamento filobarbarico del Muratori, come già abbiamo accennato,


trovò naturalmente consensi in campo romantico. Tuttavia i roman-
tici introducevano un punto di vista nuovo in quanto consideravano
come elemento decisivo della distinzione fra antichità e Medioevo
l’avvento del cristianesimo (vedi sopra, p. 338). È singolare, in effet-
ti, come tanto il Maffei quanto il Muratori, benché implicati a fondo
nella problematica religiosa del loro tempo, abbiano trascurato quasi
del tutto, nella loro valutazione complessiva del Medioevo, l’elemen-
to religioso. Sia il Medioevo classicheggiante del Maffei, sia il Medioe-
vo germanico del Muratori, non sono affatto contrapposti all’antichità
in quanto epoca cristiana ad epoca pagana; anzi nel Muratori, come
si è detto, la simpatia per i Longobardi nemici del papato è colorata
di giurisdizionalismo – sebbene con toni meno accesi che nel Gian-
none –. Diviene quindi spiegabile come il Manzoni, nel Discorso sopra
alcuni punti della storia longobardica in Italia, polemizzi contro il Mura-
tori con una forte animosità che affiora sotto un tono ostentamente
pacato; e come addirittura, per impugnare il filo-longobardismo del
Muratori, prenda a prestito molti argomenti dal Maffei e lo citi con
molto onore.13 Ma in realtà, nella prospettiva storiografica generale il
Manzoni non concorda minimamente neppure col Maffei: alla svalu-
tazione dei Longobardi egli univa, come appare chiaro dalla Lettre à
Chauvet e da vari altri scritti, la svalutazione dei Romani e di tutta la
civiltà antica. Allo stesso modo la famosa frase «Le rugiade del medio
evo! Dio ne preservi l’erbe de’ nostri nemici» riprende, certo, un mo-
tivo illuministico, ma lo inserisce in un generale pessimismo su tutta
la storia umana, la moderna non meno dell’antica. Soltanto la politi-
ca dei papi nel Medioevo riceve da lui una difesa: una difesa, tuttavia,
anch’essa piuttosto cauta, consapevole che il papato stesso, in quanto
forza temporale, soggiace in certa misura alla feroce legge («far torto,
o patirlo») che governa il mondo.

2. A proposito di un inedito del Cattaneo sulla poesia dialettale

In «Paragone» (serie Letteratura, XVI, fasc. 184, giugno 1965,


p. 3 sgg.) Silvia Giacomoni pubblica un articolo inedito e incompiuto
del Cattaneo Sui milanesi e il loro dialetto, in occasione della traduzione
13
iVedi specialmente la parte finale del cap. IV del Discorso manzoniano.
484 Appendice I

milanese della Poetica di Orazio, da lei rinvenuto tra le carte Cattaneo


presso le Raccolte storiche del Comune di Milano.
L’articolo, «databile al 1836, anno della pubblicazione a Milano de
L’arte poetica esposta in dialetto milanese di Giovanni Rajberti», pre-
senta un notevolissimo interesse, sia per la grande bellezza di questa
prosa lucida ed energica, già all’altezza del Cattaneo migliore, sia per-
ché costituisce in parte, per le idee che enuncia, una sorpresa: il Cat-
taneo non solo difende in pieno la letteratura in dialetto e polemizza,
pur senza nominare il Giordani, col suo famoso articolo antidialettale
della «Biblioteca Italiana», ma non risparmia aspre puntate nemmeno
al Monti.
Osserva a questo proposito la Giacomoni: «Si sarebbe tentati, sul-
la scorta anche di altri inediti risalenti allo stesso anno, di ipotizzare
un cedimento del Cattaneo alle idee romantiche, delle quali questo
scritto rappresenterebbe una radicalizzazione. Ricordiamo però che
negli anni intorno al 1836 il Cattaneo si dedica quasi esclusivamente
agli studi di economia e alle intraprese finanziarie, e lascia trasparire
nei suoi scritti i primi accenni a quella che sarà la sua poetica della let-
teratura scientifica: ponendosi un problema squisitamente letterario
egli non poteva svolgerlo che in termini di completa rottura con il pro-
prio passato di apprendista-classicista, e ne fa fede il poco riverente
ritratto del Monti».
A queste osservazioni – che condivido, specialmente per ciò che
riguarda il rapporto fra la «poetica della letteratura scientifica» e que-
sta impennata contro i classicisti – vorrei aggiungere qualcosa. Mi pare
necessario innanzi tutto notare che alla raffigurazione satirica dei clas-
sicisti («si aggruppavano intorno al canuto Monti timoroso per la sua
gloria molti amatori delle abitudini ereditate, e zelatori delle Muse a
cui le Muse non aveano mai sorriso») tien dietro quella, altrettanto
ostile, dei romantici («O r a g l i i n n i s a c r i i n l i n g u a s i-
b i l l i n a, i r o m a n z i i s t o r i c i, le strenne, le traduzioni, i
rimpasti e la quotidiana selva degli articoli da teatro sono l’unica
nostra industria mentale ... Intanto dopo la caduta della mitologia il
romanzo e la poesia riscaldarono le fredde ceneri del misticismo ...»),
la quale culmina in un accenno ostile a quel Rosmini contro cui il Cat-
taneo sosteneva nello stesso anno 1836 una dura polemica in difesa del
Romagnosi (SF, I, pp. 19 sgg., 39 sgg.; cfr. L. Ambrosoli, La forma-
zione di C. Cattaneo, pp. 69 sgg., 124 sgg.).
Appendice I 485

La posizione del Cattaneo sembra dunque essere questa: favorevole


ai romantici milanesi del ’16-21 in quanto avversari di un accademismo
fossile; ma deluso per gli sviluppi del movimento romantico, che ave-
va finito col sostituire a un conformismo un altro conformismo e con
lo scoraggiare lo spirito scientifico («Le scienze fisiche non danno suc-
cessori ai grandi che furono superstiti al Secolo XVIII. La gioventù
si cura poco d’esperienze ove non sia nella bigattiera o in cantina. Le
scienze morali dovranno compiangere a lungo la perdita di Romagno-
si e dell’inonorato Gioia»).
Da questa insofferenza per ogni «bella letteratura» che evada dal-
la realtà della vita e della scienza scaturisce la valutazione positiva della
poesia dialettale. Finché il Cattaneo considera tale poesia come espres-
sione del «vero stato degli animi e delle anime», come «specchio del-
le abitudini, delle tradizioni, delle simpatie, delle antipatie» (p. 4),
concorda più o meno con la difesa che dei dialetti aveva fatto il Bor-
sieri nelle Avventure letterarie di un giorno. Ma quando, nello stesso
articolo, soggiunge che «la poesia vernacola giova non solo a rappre-
sentare l’intimo spirito degli uomini e dei tempi ma benanco a dargli
spinta e direzione», e la definisce «strumento che giunge ad operare
entro le latebre più intime della società, e urta e rompe i fili delle per-
tinaci tradizioni domestiche, e quindi affretta e sprona il corpo del
pensiero e il progresso delle generazioni» (p. 6), allora si distacca non
solo, come è ovvio, dai romantici reazionari – per i quali i dialetti era-
no da apprezzare proprio come espressione di quelle «pertinaci tradi-
zioni domestiche» –, ma anche dai romantici illuminati del «Conci-
liatore». Alla poesia dialettale egli attribuisce un’attiva funzione di
polemica sociale e di rinnovamento illuministico.
Questo motivo ritorna – con espressioni analoghe, anche se, forse,
con minore incisività – in scritti successivi del Cattaneo. Nell’articolo
Della satira, pubblicato nel ’39 come recensione a un altro travesti-
mento dialettale di Orazio per opera del medesimo Rajberti, il Catta-
neo scrive (SL, I, p. 129): «Ai nostri tempi Milano, non ostante l’ete-
roclito dialetto, sembra aver preso un certo primato letterario sulle
altre città d’Italia. E, se valesse il termometro della satira, sarebbe for-
za riconoscervi una vera superiorità mentale, poiché la satira di Carlo
Porta, per altezza d’obietti, intrepidezza d’assalto e vigor d’espres-
sione, non ha riscontro in altra città. È dunque parte del nostro orgo-
glio municipale che la sferza troppo presto caduta di mano a Porta,
486 Appendice I

non giaccia inerte al suolo; ma si rialzi, si agiti di quando in quando,


e ne faccia accorgere d’esser vivi». E ancora nelle Notizie naturali e
civili su la Lombardia del 1844 (SSG, I, p. 432) dirà: «Questo dialet-
to, inosservato all’Europa, ma parlato da più d’un milione di popolo,
ha due secoli di letteratura. Uomini d’ingegno e di studii e d’alto affa-
re si finsero plebe, affilarono coll’acerbità popolare l’ottusa verità ...14
Carlo Porta, poeta d’altissimo ingegno, alla naturalezza del dipinto
fiammingo15 congiunse la forza comica di Molière, il frizzo di Giove-
nale, l’efficacia contemporanea di Béranger ...».
In che rapporto sta questa rivendicazione della letteratura dialet-
tale col programma di eliminazione dei dialetti, che il Cattaneo aveva
enunciato già nell’abbozzo di opera etnografico-linguistica del ’24 (SL,
I, p. 410: «Dei mezzi con cui sostituire la lingua ai dialetti») e tornò
ad enunciare proprio nel ’36 (Interdizioni israelitiche, in Scritti econo-
mici, ed. Bertolino, I, p. 336) e poi ancora nel grande saggio del 1841
Sul principio istorico delle lingue europee (vedi qui sopra, pp. 334-335
e note 16-17)? Tra una politica culturale antidialettale e l’ammirazio-
ne per l’arte e per l’arguzia satirica di un Porta non c’è contraddizio-
ne: si tratta di piani diversi. Ma più difficile è conciliare pienamente
quel programma con la tesi di un valore sociale progressista (non sol-
tanto artistico) della satira dialettale: era appunto questo valore che
il Monti e il Giordani negavano. C’è qui perciò un’oscillazione nel
pensiero del Cattaneo: la conciliazione tra i diritti delle «piccole
patrie» e le esigenze di unificazione politico-culturale costituì per lui,
come già abbiamo visto (pp. 358-359), un problema non mai definiti-
vamente risolto.
In questa oscillazione un fattore non trascurabile era rappresenta-
to dal fortissimo attaccamento del Cattaneo alla tradizione milanese.
Antidialettale – e quindi concorde col Monti e col Giordani – quan-
do si trattava di reagire al fiorentinismo della Crusca o del Tomma-
seo o del Manzoni,16 il Cattaneo era pronto però a insorgere in difesa
14
iLa poesia dialettale non è dunque, per il Cattaneo, espressione immediata dello «spirito
popolare» in senso romantico, ma opera di poeti colti che si servono dell’arguzia plebea come
strumento espressivo.
15
iCosì già nell’articolo del 1836 (p. 5): «Nelle storie di Porta ella (l’ironia) si unì a tutto il
vigore e a tutta la verità di un dipinto fiammingo».
16
iVedi per esempio come, nella polemica col Tommaseo, riemerga in tutta la sua forza l’e-
sigenza dell’unificazione linguistica e il fastidio per il dialettalismo: «Quale invasione di barbari
è codesta? Qual ribellione di ortolane e di pettegole e di raccattoni da Fiesole e da Camaldoli
Appendice I 487

del suo dialetto. La polemica antigiordaniana con cui s’inizia l’artico-


lo del ’36 è anche una reazione di meneghinismo offeso, sebbene cer-
to non si riduca soltanto a questo. Non a caso tanto in questo artico-
lo quanto in quello sulla satira, e poi più ampiamente nelle Notizie
naturali e civili, la difesa della poesia dialettale si inserisce in un’esal-
tazione di tutta la storia economico-sociale e culturale di Milano.
Anche nella questione del classicismo e del romanticismo c’è fra
l’articolo del ’36 e gli scritti della maturità una diversa accentuazio-
ne. Certo, il Cattaneo continuò sempre a dichiararsi indipendente da
tutt’e due le tendenze scolasticamente intese: «Non faremo tesi di
pedanteria classica, ma nemmeno di pedanteria romantica», scriverà
nel ’62 (SL, II, p. 252 sg.); ma proprio quel «ma» indica chiaramente
dove adesso batte la polemica. E lo conferma quel che segue: «I due
generi, i due mondi, non sono forse così facili a separarsi perfetta-
mente, come i credenti pensano. Anche in poesia, come in altre cose
assai più gravi, per la via dell’oriente si perviene all’occidente; e per
la via dell’occidente si perviene, pur troppo, all’oriente!». Anche qui,
mentre si respinge sia l’uno sia l’altro dogmatismo, l’ironia grava
soprattutto sui romantici, che si vantano novatori, moderni, «occi-
dentali», e intanto col loro misticismo ci riconducono all’«oriente» (si
ricordi il valore ideologico che il Cattaneo attribuiva alla contrappo-
sizione Asia-Europa: qui sopra, p. 355 sg.).
Così pure nel saggio su Ugo Foscolo e l’Italia (1860) ritorcerà contro
i romantici l’accusa da loro rivolta ai classicisti, di imprigionare in una
precettistica la libera fantasia del poeta: «Un giorno vedremo forse
quanto inique fossero ai liberi ingegni quelle dottrine che chiusero le
nostre arti nei misterj del medio evo, e fecero schiava al Procuste ger-
manico l’Italia. Foscolo, italiano nell’anima quant’altri mai, non pen-
sava così; e le anime nostre vogliono esser libere come la sua» (SL, I,
p. 315 **). E già nella prefazione al primo volume di Alcuni scritti,
come abbiamo notato, sotto l’atteggiamento formale di distacco da
entrambe le scuole e di fastidio per una contesa che aveva fatto troppo

contro la lingua d’una nazione, contro il solo vincolo della vita e del nome comune? Per fermo
quest’è opera di tenebre e di confusione, contro la quale parlar dovrebbe chiunque ha caro que-
sto prezioso patrimonio dei dotti e del vulgo, la lingua, la lingua, che, più dell’alpi inutili e del
mare non nostro, segna il confine e la divisa della nostra gloriosa nazione» (SL, I, p. 116). E nel
passo già citato delle Interdizioni israelitiche l’eliminazione dei dialetti (e del campanilismo di cui
sono espressione) è addirittura considerata «un fomento alla pace universale».
488 Appendice I

rumore si rivela chiara la molto maggiore simpatia per i classicisti; e il


Monti, irriso nell’articolo del ’36, è in quella prefazione perfino trop-
po rivalutato.
L’articolo del ’36 è comunque interessantissimo perché fa meglio
comprendere come il filoclassicismo del Cattaneo non sia stato un fat-
to di pigrizia mentale e di impermeabilità alle nuove idee, ma sia ma-
turato attraverso ripensamenti e attenta valutazione delle ragioni del-
le due parti avverse. Può anche darsi che nella prefazione ad Alcuni
scritti, rievocando a più di vent’anni di distanza il proprio atteggia-
mento giovanile di fronte alla polemica classico-romantica, egli si sia
raffigurato ancor più univocamente filoclassicista di quanto fosse sta-
to in realtà. Si può pensare, cioè, che negli anni venti e ancora negli
anni trenta egli abbia oscillato tra il riconoscimento di quel che c’era
di giusto e di illuministico nell’anticlassicismo del «Conciliatore» e
l’avversione al misticismo e al medievalismo romantico; e che soltan-
to a distanza di tempo si sia convinto che il movimento romantico ave-
va complessivamente portato più danno che vantaggio al progresso
civile e culturale. Forse la pubblicazione di altri inediti giovanili potrà
dirci se questa ipotesi ha qualche fondamento. ** ** **
Appendice II.
Classicismo e «neoguelfismo» negli studi di antichità
dell’Ottocento italiano ∼

Testo epigrafe, testo epigrafe, testo epigrafe, testo epigrafe,


testo epigrafe, testo epigrafe.
Nome Cognome

Nella collana dei Classici Ricciardi il volume curato da Piero Treves


rappresenta, come pochi altri, il superamento di una concezione stret-
tamente letteraria della letteratura, il riconoscimento che nemmeno le
grandi personalità artistiche sono comprensibili appieno se non si stu-
dia la cultura di cui si nutrirono. E certo nella formazione dei poeti,
scrittori, ideologi dell’Ottocento italiano lo studio dell’antichità clas-
sica ebbe una parte essenziale, e il diverso modo di intendere e valutare
la civiltà antica costituì uno dei principali punti di dissenso tra le varie
correnti di idee, dalla polemica classico-romantica fino alle discussioni
di fine secolo tra marxisti, positivisti, neo-idealisti, puri eruditi. Un
libro, dunque, questo, che è destinato ad apportare un’integrazione
indispensabile alla storia culturale del nostro Ottocento.
Il criterio antologico che ispira la collezione ricciardiana, e che è, a
mio parere, fuor di luogo per i massimi autori della nostra letteratu-
ra, si dimostra invece del tutto opportuno quando si tratta, come qui,
di presentare movimenti di cultura, piuttosto che singole personalità
d’eccezione, a un pubblico non strettamente specializzato. Il Treves,
del resto, ha incluso nella sua antologia non piccole gemme isolate, ma
lunghi brani, per lo più, anzi, scritti interi; e l’introduzione generale
all’inizio del volume, gli ampi saggi su ciascun autore, le note esplica-
tive contribuiscono a inserire i singoli «pezzi» della raccolta in una
visione unitaria.

∼iRecensione a Lo studio dell’antichità classica nell’Ottocento a cura di Piero Treves, Milano-


Napoli, Ricciardi, 1962 («La letteratura italiana», Storia e testi, vol. 72), pubblicata in «Critica
storica», II (1963), pp. 603-611.
490 Appendice II

Rispetto ad altri, pur pregevolissimi, lavori del Treves (il saggio su


Ciceronianismo e anticiceronianismo nella cultura italiana del sec. xix nei
«Rendiconti dell’Ist. Lombardo» del 1958; il volume su L’idea di
Roma e la cultura italiana del sec. xix, uscito presso lo stesso Ricciar-
di), la superiorità di questo volume mi sembra indubbia. Comune a
tutti e tre è la straordinaria dottrina (nessuno, in questo campo, ha let-
to quanto il Treves!) e soprattutto la capacità di ricostruire una fitta
trama di influssi e di rapporti culturali tra storici italiani e stranieri,
tra studiosi professionali dell’antichità e letterati e politici: vedi, per
esempio, come il Treves sa tener dietro a tutte le reazioni suscitate in
Italia dalla storiografia del Niebuhr, del Grote e del Mommsen. Ma
nei lavori precedenti la sovrabbondanza della dottrina offuscava tal-
volta la chiarezza della ricostruzione storica; qui la necessità stessa di
tracciare profili di autori singoli, di commentare singoli testi, ha por-
tato ad una maggiore nitidezza, senza per questo far perdere la visio-
ne d’insieme. Anche lo stile, pur ricco di quegli arcaismi e di quelle
preziosità che il Treves ama un po’ troppo, è meno faticoso che negli
scritti precedenti, e raggiunge in parecchi punti una notevole efficacia
espressiva.
I più felici tra i profili mi sembrano quelli del Visconti, del Monti,
del Giordani, del Borghesi, del Ferrai, del Comparetti. Dei primi due
il Treves mette bene in luce la «feconda capacità di apertura europea»
(p. 181), l’esigenza di superare l’angustia provinciale del classicismo
controriformistico – donde anche, sul piano politico, la loro adesione
al dispotismo illuminato napoleonico e l’incomprensione a cui furono
fatti segno da parte della generazione seguente, già tutta impegnata in
senso patriottico, ostile al cosmopolitismo settecentesco –. Del Gior-
dani, che finalmente ottiene il posto che gli compete in una storia del-
la cultura italiana, il Treves, dopo una pregevolissima caratterizzazio-
ne generale, sottolinea l’importanza dei giudizi sul De re publica di
Cicerone e su Lucano. Questo del lucanismo nella cultura italiana è un
problema di primaria importanza: il Treves contribuisce al suo studio
con una lunga e dotta nota, in cui, prendendo lo spunto dal Giorda-
ni, insegue le tracce di letture lucanèe lungo tutto l’Ottocento, fin nel
testamento di Garibaldi (p. 444 sg.). Contemporaneamente al volu-
me del Treves, è uscito un interessante articolo di Lao Paoletti, uno
scolaro di Antonio La Penna, su La fortuna di Lucano dal Medioevo al
Romanticismo (in «Atene e Roma», 1962, p. 144 sgg.). Certo è che il
Appendice II 491

libertarismo dell’ultimo Settecento e del primo Ottocento, special-


mente nelle sue espressioni più disperate e titanistiche, ha in Lucano
un suo diretto ispiratore («Tenea ’l Ciel dai Ribaldi, Alfier dai Buo-
ni»); e spesso si continua a chiamare plutarchismo anche quello che
più esattamente dovrebbe dirsi lucanismo; ma su ciò vorrei ritornare
altrove.1
Sul Comparetti c’era già un saggio esemplare, quello di Giorgio
Pasquali; ma anche qui il Treves ha saputo dire parecchio di nuovo,
specialmente sul precoce isolamento del grande studioso dalla cultura
italiana post-unitaria e sulla particolare intonazione del suo epicurei-
smo (pp. 1058 sgg., 1089). Collocherei tra i saggi più riusciti anche
quello sul Mai, se non fosse un po’ troppo uniformemente svalutativo:
è giusto limitare fortemente il valore del Mai filologo, ma non ridurre
le sue scoperte a semplici colpi di fortuna; e se i discorsi di circostan-
za del Mai sono fredde esibizioni di oratoria conformistica, alcune let-
tere e prefazioni ci fanno scorgere esigenze, certo non attuate ma tut-
tavia significative, di rinnovamento culturale, attinte al Giordani e a
tutto l’ambiente lombardo del primo Ottocento.2
Ma più che continuare a passare in rassegna i vari saggi introdutti-
vi e a segnalarne i molti pregi, è utile dare un’idea dell’impostazione
generale dell’opera: poiché il Treves, uomo eruditissimo, non si appaga
affatto della pura erudizione, anzi è uno studioso fortemente impe-
gnato e caratterizzato dal punto di vista ideologico, come tutta la sua
produzione dimostra con piena evidenza. Egli stesso dichiara (pp. XLII,
XLVI) il suo debito verso la Storia della storiografia italiana nel sec. xix
di Croce, che è senza dubbio una delle opere più vitali dell’insigne
maestro, l’unica, forse, che autorizzi davvero a parlare di un «Croce
storico» più ricco e moderno del Croce filosofo. Col Croce il Treves
concorda nel considerare la scuola neoguelfa come la migliore espres-
sione della storiografia italiana dell’Ottocento; concorda nell’ostilità
al positivismo e al marxismo (al quale riconosce soltanto una limitata
funzione di stimolo critico) e nella concezione puramente strumenta-
le della filologia (su cui ritorneremo più oltre). Non mancano, tutta-
via, le divergenze, o almeno le diverse accentuazioni di certi motivi.

1
i| Vedi ora il primo saggio {di «Aspetti e figure della cultura ottocentesca»: «Aspetti della for-
tuna di Lucano tra Sette e Ottocento», pp. 1-79 } |.
2
| Vedi {«Angelo Mai», ivi}, pp. 245-247 |.
492 Appendice II

II Treves è molto più «antibismarckiano», molto più avverso alla Real-


politik di quanto non fosse Croce – anche l’ultimo Croce, scottato dal-
l’esperienza fascista, ma pur sempre restìo a rinnegare il fondo «prus-
siano» del suo pensiero politico, il suo disprezzo per le ideologie
umanitarie e illuministiche. La simpatia stessa per gli storici neoguel-
fi si arricchisce in Treves di un motivo «anticesareo» che a Croce era
del tutto estraneo (si ricordi che, dopo aver esaltato i neoguelfi nel
capitolo VI, Croce dedicava il capitolo VIII agli «sviati della scuola
cattolico-liberale», cioè proprio alla critica del moralismo neoguelfo).
I due tests fondamentali in base a cui il Treves giudica gli storici otto-
centeschi del mondo antico sono la fine della libertà greca e la fine del-
la libertà romana, il conflitto tra Demostene e Filippo e quello tra
Cesare e gli ultimi difensori della repubblica; e le sue simpatie vanno
agli storici anti-giustificazionisti. Si riconosce l’autore di quel libro su
Demostene e la libertà greca che, uscito nel 1933, rappresentò una co-
raggiosa affermazione di antifascismo.
Il valore positivo di questo atteggiamento va certamente sottoli-
neato, oggi che la maggior parte degli storici italiani è ossessionata dal
timore di incorrere nell’accusa di «moralismo» e pronta a tutto pur di
evitarla. Ma, credo, occorre distinguere meglio tra un antigiustifica-
zionismo progressista ed uno reazionario, tra l’anticesarismo democra-
tico del Giordani o di Atto Vannucci e quello conservatore (e vera-
mente moralistico in senso angusto) di Enrico Bindi, o addirittura la
mediocrissima pubblicistica antirivoluzionaria dei Romani nella Gre-
cia di Vittorio Barzoni, in cui i nomi antichi sono delle semplici crit-
tografie per sfuggire a un immediato sequestro da parte della polizia
napoleonica. Così pure la corrente di patriottismo italico e antiroma-
no (rappresentata nell’antologia dal solo Micali), al di sotto di un’ap-
parente uniformità, cela contenuti ideologici e politici di volta in volta
ben diversi.
Ma in quale misura è esistita nel secolo scorso una storiografia del
mondo antico che possa dirsi neoguelfa? Questa è la domanda che si
presentava spontanea già al lettore de L’idea di Roma e che si ripre-
senta al lettore del nuovo volume. Il Croce, anche se sopravvalutò la
scuola neoguelfa, aveva comunque tutto il diritto di parlarne ampia-
mente, perché si riferiva agli studi di storia medievale di Balbo, Troya,
Manzoni, Capponi. Ma nel campo della storia antica, a cui si riferisce
il Treves, è difficile indicare in tutto l’Ottocento una sola opera ori-
Appendice II 493

ginale di indirizzo neoguelfo. Vi sono, certo, brevi scritti e occasionali


meditazioni di cattolici liberali sulla storia e la letteratura romana (col
greco nessuno di essi aveva confidenza). Il Treves riporta nella sua
antologia, con un prezioso commento, due testi di grande interesse,
le postille del Manzoni alla Storia romana del Rollin e gli Studi sopra
le lettere di Cicerone di Gino Capponi: il primo tutto teso alla con-
danna morale del mondo antico (violento, schiavista, adoratore del
potere politico e della falsa gloria militare, e quindi essenzialmente
anticristiano), il secondo più preoccupato di conciliare il cristianesimo
con la comprensione storica del mondo pagano. Sta di fatto, però, che
queste meditazioni non costituirono, come il Treves stesso riconosce
(pp. XXX-XXXII), un avvìo a un’esplicita attività storiografica. La
polemica contro l’idealizzazione retorica dell’antichità – quella che il
Treves chiama felicemente la «decoturnizzazione dell’antico» – è cer-
to un merito di alcuni scrittori cattolico-liberali (non, tuttavia, una
caratteristica esclusiva della loro scuola: contro il valore paradigmati-
co dell’antichità classica si batté sempre il Giordani, si erano battuti
gli illuministi nel Settecento; e d’altra parte, non è forse affetto gra-
vemente dalla retorica della romanità il Gioberti, leader politico e
ideologico del neoguelfismo?). Ma la «decoturnizzazione», benché
importantissima, appartiene ancora alla pars destruens: i romantici, i
neoguelfi italiani non fecero seguire ad essa la costruzione di una nuo-
va filologia e storiografia, ma preferirono svalutare l’antichità pagana
a favore del Medioevo cristiano. E in quella loro condanna dell’anti-
chità, insieme a fermenti di umanitarismo cristiano-democratico, di
antiretorica, di antigiustificazionismo, c’erano (non solo negli oltran-
zisti francesi alla Gaume, molto efficacemente caratterizzati dal Tre-
ves, ma anche nel Manzoni) motivi di polemica antimaterialistica e
antigiacobina; così come, a sua volta, il classicismo del primo Otto-
cento non fu soltanto difesa di una tradizione letteraria imbalsamata,
ma, in alcuni suoi rappresentanti, repubblicanesimo, laicismo, antime-
tafisica. Ciò ha riconosciuto ed espresso assai bene lo stesso Treves nel
capitolo de L’idea di Roma intitolato «L’ambivalenza del classicismo»
(p. 36 sgg.) che è, a mio parere, il migliore di quel libro. I più ampi svi-
luppi che quel capitolo avrebbe potuto avere nell’una e nell’altra ope-
ra del Treves sono stati, mi pare, bloccati dall’eccessivo amore per la
tesi neoguelfa.
494 Appendice II

La mancanza di filologi e storici dell’antichità specificamente


romantici e neoguelfi in Italia, d’altra parte, ha costituito per il Tre-
ves un incentivo ad allargare oltre ogni limite le categorie di romanti-
cismo e di neoguelfismo, fino a includervi studiosi di tutt’altro orien-
tamento. Per quel che riguarda il romanticismo, come è noto, questo
procedimento è stato già messo in atto da molti studiosi: si è finito
col fare di «romanticismo» un sinonimo di «civiltà liberale-democra-
tica dell’Ottocento», o addirittura di tutto ciò che nell’arte e nella cul-
tura ottocentesca non è accademismo frigido: così Goethe, Foscolo,
Leopardi, Heine, Cattaneo – tutta gente che col romanticismo pole-
mizzò con asprezza – sono stati annessi, loro malgrado, alla schiera
romantica. Anche per il Treves romantica è «tutta la migliore intelli-
gentsia europea» (p. 592), romantico ogni storicismo; e un analogo
ampliamento subisce per opera sua il neoguelfismo, che non è più solo
una forma di cattolicesimo liberale (e anche queste due correnti
andrebbero tenute più distinte di quanto faccia il Treves), ma è «l’u-
nico tentativo sistematico di elaborazione d’un’educazione popolare
italiana, d’una sintesi storica di nuovo e d’antico, di classico e popo-
lare, di tradizione e rivoluzione. La quale, indipendentemente dall’o-
pera individua dei singoli, dal loro contingente militare in uno o in
altro partito, dal loro aderire all’una o all’altra scuola storiografica,
restò per mezzo secolo, dalla maturità del Manzoni alla maturità del
Carducci, il sostrato universo della nostra cultura» (p. XXVIII).
Tutto il libro, perciò, è pieno di romantici inconsapevoli (il Gior-
dani e il Leopardi nei loro momenti validi, pp. XXIX; 457, n. 1; 472;
perfino il Peyron, p. 875, perché «ebbe il senso della storia» e s’inte-
ressò di fonti non letterarie, come le epigrafi e i papiri) e di neoguelfi
inconsapevoli. Avversione alla retorica della romanità e anticesarismo:
basta la presenza di uno di questi due caratteri – e non sarebbero suf-
ficienti nemmeno tutti e due – perché uno studioso sia aggregato al
neoguelfismo. In base al primo carattere, il Niebuhr diviene una spe-
cie di collaboratore inconscio del Manzoni, il Mommsen un suo allievo
ideale (pp. XXXI, 597, 602; cfr. L’idea di Roma, p. 81 sg.), sebbene il
Treves stesso dichiari che rapporti Niebuhr-Manzoni e Mommsen-
Manzoni sul piano degli studi storici non ve ne furono, che «il Nie-
buhr costruiva, professionalmente, la storia; mentre il Manzoni, le
quante volte si propose di trattarne ex professo, la demoliva», che i
manzoniani e i neoguelfi furono tutti ostilissimi ai due grandi storici
Appendice II 495

tedeschi (pp. 597, XXXI sg.). In base al secondo carattere, un vio-


lento anticlericale e democratico avanzato come Atto Vannucci diven-
ta anch’esso un neoguelfo. Il caso del Vannucci è paradossale perché
non c’è pagina di lui – anche tra quelle riportate dal Treves – che non
contraddica a questo suo incasellamento tra i neoguelfi. L’anticesari-
smo del Vannucci è quello della tradizione alfieriana e giordaniana,
rinfocolato dall’ostilità per Napoleone III. Il Vannucci esalta il suici-
dio di Catone (p. 768), mentre il Manzoni, il Capponi e il Bindi, anti-
cesariani ma cattolici, lo condannavano severamente. Il Treves, a que-
sto proposito, rimprovera il Vannucci di incoerenza (p. 768, n. 5),
mentre la vera incoerenza consiste, mi sembra, nel voler fare ad ogni
costo un neoguelfo di un democratico anticlericale. Né è prova di neo-
guelfismo la polemica del Vannucci contro il Gaume (p. 728): se l’ul-
traclericale francese, che voleva bandire ogni istruzione classica per-
ché diffonditrice di paganesimo, era avversato dai cattolici di spirito
aperto, tanto più dovevano avversarlo i classicisti laici.
Io credo che, pur non vietando evidentemente a nessuno di usare
il concetto di romanticismo e altri analoghi in senso lato, come atteg-
giamenti spirituali che si possono ritrovare in epoche e in autori diver-
sissimi, si debba però, quando si fa storia dei movimenti culturali del-
l’Ottocento, restituire a queste categorie il loro valore storico preciso,
e tenere conto dell’adesione consapevole del tale o tal altro individuo
a questo o quel «partito culturale». Anche nella storia politica vi sono,
evidentemente, socialisti influenzati più o meno consapevolmente dal
liberalismo, cattolici più o meno eterodossi e via dicendo; ma che cosa
diventerebbe una storia dei partiti politici in cui si prescindesse total-
mente dalle esplicite professioni di liberalismo o di socialismo, dal-
l’appartenenza a questo o a quel partito? Ebbene, a un tal punto di
confusione rischiamo di arrivare nella storia culturale dell’Ottocento.
Certo, i «partiti culturali» sono sempre più fluidi dei partiti politici,
e gli stessi partiti politici erano nel secolo scorso ben lontani dalla rigi-
da struttura di quelli odierni; ma tale fluidità non dev’essere esagera-
ta a proprio piacimento dallo storico, fino a trasformare i classicisti in
romantici, i giacobini in neoguelfi.
Una volta ristabilite queste distinzioni, si vedrà, credo, che il meglio
degli studi classici nell’Italia preunitaria non è dovuto ai neoguelfi o
ai romantici, ma ai classicisti-illuministi: Monti, Giordani, Peyron
(solo dopo il ’48 passato da posizioni illuministiche e riformatrici a
496 Appendice II

posizioni clericali e reazionarie), Leopardi, Cattaneo. L’influsso di


questa corrente perdura anche nel secondo Ottocento: al Cattaneo si
ricollega l’Ascoli (la cui impostazione della questione della lingua è
nettamente antimanzoniana e antiromantica); lo stesso Comparetti
poté, sì, essere definito «romantico» dal Pasquali per il suo interesse
per le tradizioni popolari, ma non si deve dimenticare l’ispirazione
profondamente illuministica e laica del Virgilio nel medio evo, che cul-
mina nell’esaltazione di Dante come primo umanista (molto bene su
questo punto il Treves, p. 1054). E se è giusto indicare nelle tendenze
razziste e colonialiste, nella propensione alle generalizzazioni affret-
tate o, viceversa, nell’angustia erudita i lati negativi di molto positi-
vismo, non è giusto svalutare quegli aspetti per cui il positivismo pro-
segue e sviluppa l’illuminismo: l’antimetafisica, la storicizzazione della
natura, l’interesse per il rapporto uomo-natura. Questi aspetti non
furono privi di ripercussioni nemmeno nel campo degli studi greco-
latini: è un riflesso del positivismo il rinnovato interesse per Epicuro
e Lucrezio, che in Italia trovò espressione in Gaetano Trezza e, con
maggiore distacco storico, nel Comparetti e soprattutto nello splendi-
do commento a Lucrezio di Carlo Giussani.
Con la predilezione per una storiografia orientata in senso preva-
lentemente etico-politico si connette, nel Treves, il disprezzo per la
filologia in senso stretto (critica testuale, interpretazione), che egli
qualifica più e più volte come mera «tecnica», distinguendola recisa-
mente dalla storia. Contro un certo tipo di filologismo che oggi rischia
di prevalere negli studi storici, e che presume di espungere dalla sto-
riografia ogni interesse «pratico-politico», la protesta del Treves ha il
suo valore. Ma ricadere nella concezione crociana di una filologia
puramente strumentale rispetto alla storia etico-politica o alla critica
letteraria, non è, a mio parere, il modo giusto di reagire al filologismo.
L’interpretazione di un passo, la ricostruzione di un testo mal tra-
mandato, sono lavoro storiografico: sono, se vogliamo, «micro-sto-
ria», la quale non deve certo soffocare l’esigenza di una storia più
ampia, culturale o politico-sociale, ma non è neppure semplice mezzo
per quelle più vaste sintesi. La filologia testuale ed esegetica – la filo-
logia di un Porson, di un Hermann, di un Leopardi – è autonoma nel-
la stessa misura in cui si può considerare autonoma qualsiasi attività
umana, la quale, in quanto distinta da altre per una necessità pratica
di divisione del lavoro, reca sempre in sé il pericolo del settorialismo,
Appendice II 497

dell’angustia specialistica: in questo senso, certo, è purus asinus il puro


filologo, ma anche il puro artista, filosofo, politico: l’errore consiste
nello strumentalizzare certe attività e nel dare una posizione privile-
giata a certe altre.
D’altra parte, senza il possesso della deprecata «tecnica» l’interesse
storico rimane velleitario. La sintesi di filosofia e filologia proclamata
da Vico rimane inattuata se – come in Vico stesso – manca o difetta
la filologia. Proprio l’insufficiente preparazione filologica è uno dei
motivi principali per cui gli scritti dei nostri Bindi, Centofanti, Trezza
su cose romane sono «espressione di polemica immediata, non espe-
rienza attuale tradottasi in problema storico» – così Arnaldo Momi-
gliano, in una vecchia ma tuttora valida polemica contro il nazionali-
smo storiografico di Mario Attilio Levi (in «Leonardo», V, 1934, p. 566
| ora in Quarto contributo, Roma 1969, p. 662 |), al quale mi pare che
conceda troppo il Treves, p. XLIV –. Lo stesso si dica del Foscolo:
non si fa torto al suo profondo senso poetico della grecità riconoscen-
do il presuntuoso dilettantismo delle sue polemiche antifilologiche e
dei suoi tentativi eruditi (con una parziale eccezione per gli abbozzi di
studi di filologia dantesca degli ultimi anni); e quanto all’esegèsi del-
la lezione ales equus in Catullo, 66, 54, che il Treves (p. 244) cita come
contributo filologico originale, bisogna ricordare che quella era l’in-
terpretazione corrente al tempo in cui il Foscolo scriveva il suo com-
mento alla Chioma di Berenice. Vincenzo Monti, nella dissertazione
Del cavallo alato d’Arsinoe (Milano 1804, p. 12 sg.), citava una mezza
dozzina di «zefiristi», cioè di interpreti convinti che l’ales equus fos-
se lo Zefiro, tra i quali, ultimo in ordine di tempo, il Foscolo.3
Anche la «tecnica» ha la sua storia, che si intreccia strettamente
con la storia «ideologica» della storiografia. Una storia degli studi clas-
sici, se non deve prescindere dalle ideologie, dai legami con la storia
generale della cultura, non può nemmeno considerare come cosa estra-
nea l’evoluzione dei metodi di ricerca, né i risultati concreti ottenuti
grazie all’applicazione intelligente di quei metodi. Il Treves coinvol-
ge in una unica, indifferenziata condanna di tecnicismo i ricercatori
mediocri o incapaci e i geniali, gli «antiquari» romani della Restaura-
zione («un’accademia di tecnici», p. 4) e studiosi di filologia formale

3
i| Su limiti e pregi della filologia foscoliana sono ritornato più tardi: vedi {«Sul Foscolo filo-
logo», in «Aspetti e figure della cultura ottocentesca», cit.}, pp. 105-135 |.
498 Appendice II

della forza di un Garatoni o di un Leopardi. I rimproveri che il Pey-


ron moveva alla scadente tecnica editoriale del Mai, la sua rivendica-
zione della necessità della «critica di parole» accanto alla «critica di
cose» (cioè della filologia testuale accanto all’erudizione storico-anti-
quaria), diventano per il Treves (p. 874 sg.) una presa di posizione del-
lo «storico» contro il «tecnico» che riduceva il compito della filolo-
gia all’«apprendimento o all’insegnamento linguistico»; e invece era
proprio l’insufficiente conoscenza delle lingue antiche che il Peyron
biasimava nel Mai | vedi {«Angelo Mai», cit.,} p. 235 sg. |.
Per le stesse ragioni, pur riconoscendo che i filologi italiani del
secondo Ottocento non ebbero, tranne il Comparetti, grande ampiez-
za di orizzonte culturale, e sentirono troppo la loro sudditanza alla filo-
logia tedesca, pur riconoscendo, in particolare, che il Vitelli è stato
oggetto di esaltazioni talvolta eccessive, non mi sentirei di condivide-
re pienamente la severità del Treves verso quel gruppo di studiosi, i
quali avvertirono l’urgente necessità di sprovincializzarsi, di imparare
il mestiere filologico da chi aveva già una solida organizzazione di lavo-
ro in questo campo. Non mi pare, soprattutto, che possa essere liqui-
dato con un accenno poco favorevole (p. 958) Enea Piccolomini, filo-
logo di non grande produttività (anche per una crudele malattia che gli
tolse precocemente la possibilità di lavorare), ma lucido rivendicatore
dei diritti della filologia formale nella prolusione pisana Sulla essenza e
sul metodo della filologia classica (1875) e in altri scritti.4

4
i| Cfr. Il primo cinquantennio della «Rivista di filologia e d’istruzione classica», in quella rivi-
sta, C (1972), p. 387 sgg., specialmente 389-93, 403-06. Sul Vitelli ho cercato di dare un giudi-
zio equilibrato, a partire dal suo pamphlet postumo Filologia classica ... e romantica, in «Belfagor»,
XVIII (1963), p. 456 sgg. e XXXIII (1978), p. 697 sgg., e, per quanto riguarda i suoi rapporti
con giovani letterati che ebbero per lui vivissima ammirazione, nell’articolo De Robertis e la filo-
logia, in «L’approdo letterario», X, n. 25, gennaio-marzo 1964, p. 29 sgg.; vedi anche, per l’at-
teggiamento del Vitelli di fronte a F. De Sanctis, a Croce e a un crociano eterodosso come Lui-
gi Russo, la sua lettera a Russo pubblicata in «Belfagor», XXXIV (1979), p. 305 sgg. Il Treves
è tornato a ribadire la sua posizione antivitelliana (troppo antivitelliana, a mio avviso, seppure
in parte giustificabile come reazione agli atteggiamenti troppo apologetici di alcuni scolari del
Vitelli) nel saggio, come sempre ricco di dottrina, Girolamo Vitelli, in «Studi in onore di Vitto-
rio De Caprariis», Messina 1970, p. 289 sgg. Rimane sempre fondamentale il saggio su Vitelli
di G. Pasquali, in Terze pagine stravaganti, Firenze 1942, p. 297 sgg. [Pagine stravaganti, nuova
ed. {, Firenze 1968}, II, p. 205 sgg.]; il distacco di forma mentis di Pasquali rispetto al Vitelli è,
in questo scritto, ben visibile; ma non può essere sforzato fino a presentarlo quale un’assoluta
contrapposizione, come fa il Treves. Quanto al Piccolomini, oltre ciò che ho osservato nell’art.
cit. della «Riv. di filologia», p. 418 sg., mi sia lecito rinviare all’articolo {su «Giacomo Lignana
e i rapporti tra filologia, filosofia, linguistica e darwinismo nell’Italia del secondo Ottocento»}, in
«Critica storica», 1979, p. 489 sg. |.
Appendice II 499

Nel caso del Leopardi, l’antipatia per il «tecnico» e quella per il


materialista e pessimista si sommano. L’antileopardismo del Treves
affiora in numerosi accenni occasionali (vedi per esempio pp. 3, 13,
181, 187, 239, 349, 464, 541, 833, 835, 873) e culmina nel profilo del
Leopardi e nelle note apposte ai suoi brani (p. 471 sgg.). Il valore posi-
tivo della filologia leopardiana è fatto consistere dal Treves solo in un
vichiano interesse per la barbarie eroica, per la vigorosa passionalità
e combattività dei popoli antichi (p. 474), che è un motivo, certo,
importante – e il Treves ha il merito di ribadirlo con efficacia, dopo
il Luporini –, ma non esclusivo nel rapporto del Leopardi con l’anti-
chità. A un aspetto ancor più essenziale, cioè all’interesse del Leopar-
di per la filosofia ellenistica (basti ricordare la prefazione a Epitteto),
il Treves non accenna neppure. Questa limitazione della filologia leo-
pardiana si inserisce in una limitazione di tutta la personalità leopar-
diana, sulle orme di quel famigerato saggio di Croce su cui anche i cro-
ciani di stretta osservanza preferiscono di solito sorvolare, e a cui invece
il Treves si riattacca esplicitamente (p. 488). Non è questo il luogo adat-
to per una discussione generale sulla presunta arretratezza ideologica
del Leopardi, né sul suo «nazionalismo» che il Treves vuol dimostra-
re basandosi in parte su prese di posizione estremamente giovanili, più
tardi abbandonate dal Leopardi stesso, in parte su un passo dei Para-
lipomeni di cui già il Binni (La nuova poetica leopardiana, p. 110; 4a ed.,
p. 139 sg.) ha indicato la particolare collocazione psicologica e ideo-
logica. Vorrei soltanto accennare a qualche punto singolo. In che sen-
so il progetto di edizione delle opere ciceroniane, «ugualmente signi-
ficativo nella chiarezza metodica della programmatica impostazione e
nel mediocre latino del manifesto pubblicitario», indichi «quanto la
filologia leopardiana, ogni qual volta pur si proponga di trascendere
l’ambito meramente formale, invece di assurgere e divenire esegesi
storica, rimanga sostanzialmente al di qua della storia» (p. 481), non
mi riesce assolutamente di capire. Vorremo rimproverare a un pro-
getto di edizione di non essere un progetto di saggio critico, di opera
storica su Cicerone? Devo, del resto, ripetere (cfr. «Atene e Roma»
1959, p. 90) che il Leopardi si limitò a criticare e, per quel che era pos-
sibile, a correggere un pretensioso e immetodico progetto di Niccolò
Tommaseo, che l’editore Stella gli sottopose.5 – I versi dei Paralipo-

5
i| Cfr. La filologia di G. Leopardi, Bari 19782, pp. 127-129; G. Bezzola, Tommaseo a Mila-
no, Milano 1978, pp. 114-123 |.
500 Appendice II

meni (VII, st. 2) «Gli anni non so di Creta o di Minosse: il Niebuhr li


dirìa, se vivo fosse» sono uno scherzo, certo, non particolarmente
arguto – come in generale sono deboli, nei Paralipomeni e nelle stesse
Operette, le battute meramente scherzose, messe lì quasi in obbedien-
za al «genere letterario», ben lontane dalla più autentica e alta ironia
leopardiana –; ma considerare quei versi come un insulto alla memo-
ria del Niebuhr (Treves, pp. 3, 483, 487; cfr. L’idea di Roma, p. 96)
è un’evidentissima forzatura. Non ha nulla a che fare col Niebuhr,
poi, il «tedesco filologo» dei Paralipomeni, I, st. 16: lì il Leopardi
prende di mira quegli pseudo-linguisti tedeschi che sostenevano un’af-
finità immediata (ben diversa dall’unità d’origine di tutta la famiglia
indeuropea) tra le lingue tedesca, greca e latina; cfr. quanto ho espo-
sto ne La filologia di G. Leopardi, Firenze 1955, pp. 225-233 | Bari
19782, pp. 163-169 |. – A p. 497 il Treves osserva che il Leopardi «non
pare aver nemmen sospettato l’esistenza d’un pessimismo ellenico e
del motto, tradizionalmente attribuito al Sileno, secondo cui la
miglior cosa, per l’uomo, è il non essere nato». L’osservazione può
esser valida se riferita a quel singolo passo dello Zibaldone che il Tre-
ves commenta, ma non al Leopardi in generale; basti ricordare il Dia-
logo di Tristano e di un amico: «... e chi di loro (cioè dei poeti e filosofi
antichi) dice che l’uomo è il più miserabile degli animali; chi dice che
il meglio è non nascere, e per chi è nato morire in cuna; altri, che uno
che sia caro agli Dei, muore in giovanezza, ed altri altre cose infinite
su questo andare»; e vedi la nota del Leopardi stesso a questo passo, e
l’epigrafe menandrèa di Amore e Morte.6 – Noto infine che il Leopardi
meritava di esser citato a p. 375 n., accanto al Giordani, al Ciampi, a
Karl Ludwig (non Jacob Theodor) Struve e al Visconti, tra coloro che
parteciparono alla polemica sui frammenti di Dionigi: il suo fu il
miglior contributo a quella polemica.7
Ma queste diversità di valutazione – inevitabili dinanzi a un’opera
così vasta e di così preciso impegno ideologico – non devono far di-
menticare neppure per un momento l’eccezionale somma di cultura e
di ingegno che è racchiusa in questo volume. Anche per quegli autori
sulla cui collocazione storico-culturale si può dissentire, non si ricorre

6
i| Sulla «scoperta» del pessimismo antico, compiuta dal Leopardi nel primo soggiorno roma-
no, vedi ora {, qui, «Il Leopardi e i filosofi antichi»}, p. 163 sgg. (e p. 161 sgg. per Teofrasto) |.
7
i| G. Leopardi, Scritti filologici a cura di G. Pacella e S. Timpanaro, Firenze 1969, pp. 1-
41; cfr. La filologia di G. Leopardi2 cit., pp. 33-41 |.
Appendice II 501

mai inutilmente all’opera del Treves: vi si trovano sempre giudizi e


riferimenti nuovi, preziosi stimoli a ulteriori ricerche. Gli studiosi del
Capponi, tanto per fare un esempio, dovranno ricorrere a questo libro
per trovare (p. 663) indicazioni finora ignote sui suoi rapporti con stu-
diosi stranieri suoi contemporanei. O, per fare un altro esempio, l’i-
naccettabilità della definizione del Vannucci come neoguelfo non
deve far trascurare l’importanza del fatto che qui il Vannucci storico
è per la prima volta rivendicato contro la troppo sbrigativa condanna
da parte del Croce. E questi, e tanti altri, sono risultati che contano
non solo per la storia degli studi classici, ma di tutta la cultura otto-
centesca. Dal Treves attendiamo ora un’opera sugli studi classici nel-
l’Italia del Novecento, di cui egli ci ha dato già alcune anticipazioni (i
saggi su Marchesi, Valgimigli, e quello su D’Annunzio nel-
l’«Osservatore politico-letterario»). Ci sarà anche qui da discutere,
ma, più ancora, da imparare.
Annotazioni autografe

Testo epigrafe, testo epigrafe, testo epigrafe, testo epigrafe,


testo epigrafe, testo epigrafe.
Nome Cognome

copertine 1973 e 1984

** p. LXXV B: «(copia con postille)».


** ibid. δ: «Zib. 22 genn. 1821, Cicerone / Teofrasto?»

bandelle 1984

** p. LXXVI («vagheggiamento») δ: La bandella del 1984 recava scritto «una battaglia in


difesa della civiltà del Medioevo», segmento di testo modificato nella ristampa 1988; si tratta
d’un’omissione tipografica che capovolge il senso della presentazione del volume di Timpana-
ro, oltre a costituire, ovviamente, concetto opposto al pensiero espresso dall’intero libro e dal-
l’intera vicenda culturale dell’autore. La rist. 1973, invece, recava correttamente «una batta-
glia in difesa della civiltà illuministica contro il vagheggiamento del Medioevo» (corsivo nostro):
è il testo che Timpanaro ripristina in δ e poi in Classicismo e illuminismo 1988, sostituendo e
integrando «in difesa» con «per la difesa e la rifondazione» (prima di «rifondazione»: cancella-
to «rigene», per «rigenerazione» – cfr. qui sotto, annotazione immediatamente successiva), e
aggiungendo, dopo «vagheggiamento», «della civiltà».
** ibid. δ: «ritorno alla Natura»; cassato, significativamente, «nel senso di Rousseau», che nel-
le precedenti edizioni (fino, appunto, a δ 1984) chiudeva il periodo; su questa eliminazione del rife-
rimento a Rousseau, come anche su quel «rigene» per «rigenerazione» – segnalato nell’annotazio-
ne precedente –, ipotesi d’occorrenza lessicale che fremeva per affiorare allo status d’esplicito
dettato scrittorio, cfr., soprattutto nella sua prima parte, il capitolo VI, Natura, dèi e fato nel Leo-
pardi, nel quale si rendono particolarmente chiare la negazione, o almeno il forte ridimensionamento
della presenza rousseauiana come fonte filosofica dell’idea d’una benefica natura, ed altresì l’ope-
ra di discolpa, in questo caso non esattamente dell’illuminismo ma della tradizione del classicismo
letterario, dal côté accusatorio romantico. Proprio Natura, dèi e fato nel Leopardi, il primo Adden-
dum dell’edizione 1969, qui appunto inglobato nel centrale nucleo leopardistico e allineato quale
sesto capitolo del volume, manifesta un tragitto di fluido, osmotico scambio linguistico-lessicale con
la «copertina»: non a caso, in quella ch’era ad oggi rimasta l’ultima edizione-proposta editoriale di
Classicismo e illuminismo, l’«aggiunta» più cospicua s’era specificamente inverata in questo impor-
tante saggio, così peculiare focus dell’antichistica e insieme della modernistica di Timpanaro. Basti
riferirsi, in Natura, dèi e fato nel Leopardi, agli accenni a Rousseau:
Per quanto una conoscenza più o meno frammentaria di Rousseau non mancasse al Leopardi fin dal tempo del-
le primissime sue esercitazioni scolastiche di filosofia [...], tuttavia l’idea della natura benefica non gli venne,
inizialmente, da Rousseau né da altre fonti filosofiche.
504 Annotazioni autografe

Più sotto:
Proprio per questa radicalizzazione del concetto di natura e del contrasto fra semplicità antica e corruzione
moderna è legittimo l’accostamento a Rousseau, anche se Rousseau, almeno in un primo tempo, non fu una
fonte diretta del Leopardi.

Sulla «rigenerazione del classicismo» basti il cenno a Leopardi:


In quegli scritti {La «Lettera ai compilatori della “Biblioteca Italiana”» e il «Discorso di un Italiano intorno alla
poesia romantica»}, com’è noto [...], il Leopardi mira ad una rigiustificazione e rigenerazione del classicismo,
che lo sottragga alle accuse di scolastica imitazione e di distacco dalla vita, rivoltegli dai romantici.

Immediato, sino, in certi tratti, alla ripresa testuale del dettato, il raffronto identificativo con
la «copertina»: «Giordani, Leopardi, Cattaneo [...] militarono nel fronte classicista non per spi-
rito retrivo o per tradizionalismo letterario», bensì per elevare laico argine all’attacco d’un roman-
ticismo concepito soprattutto nelle sue componenti reazionarie, provvidenzialistico-religiose:
La fedeltà stessa ai classici latini e greci (e, per quel che riguarda la «questione della lingua», ai trecentisti)
era intesa dal Giordani, dal Leopardi e da altri classicisti-illuministi minori non come scolastico ossequio a
modelli precostituiti, ma come un «ritorno alla natura».

E tutto lo svolgimento di Natura, dèi e fato nel Leopardi sarà un’esplicazione in chiaro dei con-
cetti espressi in quel capoverso della «copertina»; o, se si preferisce, sarà quest’ultima a poter-
si consentire il lusso d’eleggere a fonte, a materia prima per la propria essenza di compendio
scrittorio di «presentazione» allo studioso e al comune lettore, il vero capitolo chiave, se non
dell’intero libro, certo dello sviluppo diacronico dello stesso libro, del suo passaggio dalla prima
alla seconda edizione, e anche alla successiva, ipotizzata e mai realizzata vivente l’autore (sulle
vere e proprie correzioni al VI capitolo, cfr. più sotto, ad vocem, in queste Annotazioni).
** ibid. δ: «Postfazione e numerose aggiunte e rettifiche»: la Postfazione è rimasta, per quan-
to ci risulta, nel rango d’indicazione intenzionale nel progetto d’autore; le «aggiunte e rettifi-
che» sono invece documentate e qui riprodotte; dopo «numerose»: cancellato «postille».

occhiello (p. I 1965, 1969 e 1984)

** p. LXXVII C: «correzioni a pp. 6, 19, 76, 145, 147, 155, 260, 283, 208, 227, 282» (i
numeri di pagina si riferiscono alla prima edizione, 1965).
** ibid. A: «156-79»
«correzioni a p. 64 n. 89»
«su Stellini e Romagnosi cf. Moravia, Vichismo e ‘idéologie’, in Omaggio a Vico, Napoli 1968»
«Su Giordani critico lett. abbastanza bene G. Marzot, nei Critici I, 30-39.»
«M. Vitale, Classicismo e purismo, «Acme» XXIII (1970), 233 sg. [ho l’estratto]»
«Giuliano Baioni, Classicismo e rivoluzione: Goethe e la Rivol. francese, Guida, Napoli 197»
Il numero di pagina (64) delle «correzioni» si riferisce, nello stesso modo dei numeri segna-
ti qui sotto in δ («addenda»), alla precedente edizione 1969; l’ultima annotazione sul volume
di Baioni termina con il numero di pagina, «197»; appare da escludere un’indicazione mutila di
data – ad esempio «1970» – perché la prima ed. di Classicismo e rivoluzione di Baioni è del 1969
e il libro non ha avuto ristampe negli anni 1970, bensì nel 1982, nel 1988 e nel 1998 (l’ultima
con il titolo mutato in Goethe: classicismo e rivoluzione, sempre Einaudi, Torino).

** ibid. δ: «Addenda p. 409, 412, 413, 414»


«Pacella Elenco, Binni-Ghidetti, Luporini, Cattaneo SL» (SL si riferisce agli Scritti letterari
di Cattaneo).
Annotazioni autografe 505

controfrontespizio (p. IV 1965 e 1969)

** ibid. C: «Claudio Colaiacomo, Un critico ideologo del primo Romanticismo italiano: L.


Di Breme, in ‘Angelus Novus’ 5-6, dic. 1965, 80 sg.»
«F. Neri, “Purista” (p. 118 sg.) e «La poesia dei puristi» (p. 123 sg.), in Letteratura e leg-
genda, Torino 1951.»
«M. Vitale, Purista purismo. Storia di parole e motivi della loro fortuna, in Acme XVII 1964,
187 sgg.»
«Sergio Anselmi, Riflessi dell’illuminismo nelle Marche, in Rass. storica Risorgim. LV 1968,
20 sgg.»

prefazione

** p. LXXVIII C: «cfr. Madrignani (anche su Contropiano), Cases, Samonà introd. a Trotz-


skij» (citazioni di Madrignani e dell’introduzione trotzskijana di Samonà sono ora nella n. 2 del-
la Prefazione alla seconda edizione).

prefazione alla seconda edizione

** p. LXXXIV B: da «ha avuto per conseguenza» a «generica atmosfera psicologica» il testo


è segnato a margine da barra verticale di richiamo (segno palese dell’interesse di Timpanaro per
la necessità dello studio dei «programmi» e delle dichiarazioni ideologiche degli autori e non del-
la mera fenomenologia letteraria delle loro opere, e della convinzione con cui lo stesso autore
sostiene tale concetto).
** p. LXXXV B: da «Lukács» a «romanticismo», a margine, barra verticale di richiamo.
** ibid. B: da «una perdita» a «sentiva?», a margine, barra verticale di richiamo.
** p. LXXXVIII B: da «concetto» a «post-rivoluzionaria», a margine, barra verticale di
richiamo.
** p. LXXXIX B: da «come se questo eurocentrismo» a «rappresentanti», a margine, bar-
ra verticale di richiamo.
** p. XC δ: «p. XXIII Bini Antileop.». L’annotazione si trova all’inizio delle Postille e aggiun-
te bibliografiche, p. 409 della seconda edizione; ma la stretta attinenza d’argomento con il tema
degli scrittori democratici avanzati, non liberal-moderati, del nostro Ottocento, trattato proprio
alla p. XXIII della Prefazione alla seconda edizione – alla «Prefazione» l’autore esplicitamente si
riferisce nel suo appunto manoscritto (vedi più sotto, annotazione a p. XXXIII) –, insieme alla
mancanza, in Antileopardiani, di numerazione romana (con la seconda prefazione a Classicismo e
illuminismo la coincidenza di tipologia di numerazione e di pagine è invece perfetta), persuasiva-
mente assegnano questa nota, con precisi presupposti di pertinenza, alla stessa Prefazione alla
seconda edizione; identica considerazione vale per il riferimento alla «nobiltà» e a Sul materiali-
smo: cfr. la successiva annotazione alla p. XXXIII. Si può pensare che Timpanaro, lavorando
ormai su δ, che è, rammentiamolo, del 1984 (ristampa precedente all’ultima riedizione 1988), e
disponendosi a recare nuove, non banali e ulteriori annotazioni sulle stesse postille e aggiunte
bibliografiche (a p. 409, sùbito dopo l’avvertenza, iniziano le postille all’Introduzione e le relati-
ve annotazioni a mano), abbia qui inteso esordire facendo materialmente precedere, alle proprie
annotazioni all’Introduzione, proprio le note alla seconda prefazione, in tal senso premessa e con-
cepita come serialmente allineabile a quanto segue, ovvero all’ordinata successione dei capitoli del
volume dall’Introduzione in poi. L’allusione a Bini, valida per la p. XXIII di Classicismo e illumi-
nismo edizione Nistri-Lischi, va quindi riferita come contenuti alle relative pagine di Antileopar-
diani (Appendice I: Alcuni chiarimenti su Carlo Bini, pp. 199-285, e passim).
506 Annotazioni autografe

** p. XCII n. 3 A: «sec. R.{iccardo} Massano il proemio è difficilmente del Borsieri, più


probabilmente del Foscolo ispirato da lui.».
** p. XCVII B: da «Ha tuttavia» fino alla chiusura di parentesi («Ascoli») e da «si sottoli-
neano» a «religioso-tradizionali», barra verticale di richiamo.
** p. XCVIII δ: «p. XXXIII Prefazione sulla nobiltà: Antileop. Sul materialismo (e Post.
1979 ed. inglese)» (si ricorda, anche in questo caso, che il numero di pagina si riferisce alla Pre-
fazione alla seconda edizione del 1969; oltre al professo riferimento ai suoi saggi sul materialismo,
presente nella correlata pagina dell’Introduzione, si rammenti la trattazione del concetto di
«nobiltà» nelle pagine leopardiane e soprattutto giordaniane di Antileopardiani – in particolare
le pp. 117-125 –; per le considerazioni sulla collocazione testuale della presente annotazione, cfr.
annotazione a «p. XXIII Bini Antileop.»).
** p. C δ (fine Prefazione alla seconda edizione): la nota che segue la fine della seconda pre-
fazione (p. XXXVI della seconda edizione) viene cancellata con una grande «X» e con la scrit-
ta «eliminare» cerchiata sul margine sinistro; tale nota è infatti da considerarsi integrata e supe-
rata dalla nuova nota, sempre a p. XXXVI, della ristampa 1988, da noi separatamente
riprodotta nel testo. Qui, per fornire al lettore l’opportunità comparativa, riproduciamo il testo
della nota cassata, che ha accompagnato la seconda prefazione del volume dal 1977 fino alla
ristampa del 1984:
Questa seconda edizione del 1969, notevolmente accresciuta rispetto alla prima del 1965 {copia «C» –
N. d. C.}, venne ristampata senza mutamenti nel 1973 {presente in queste «Annotazioni» come copia «B» –
N. d. C.}; viene adesso nuovamente ristampata, anche stavolta senza mutamenti. / Il libro è ormai «datato»,
e non avrebbe senso deformarlo con una lunga serie di aggiunte e modifiche e ridurlo ad una sorta di biblio-
grafia ragionata di quanto è apparso dopo il 1969 sugli argomenti qui trattati. Mi sia lecito soltanto avvertire
che più di recente ho difeso, sviluppato, in parte corretto il mio punto di vista (che nell’insieme continuo a
ritenere valido) in un lungo articolo pubblicato in «Belfagor» (XXX, 1975, pp. 129-56, 395-428; XXXI, 1976,
pp. 1-32, 159-200) col titolo Antileopardiani e neomoderati nella sinistra italiana; e che altri saggi, vecchi e nuo-
vi, riguardanti in parte anch’essi il Giordani, il Leopardi e altri personaggi e ambienti trattati o accennati in
questo libro usciranno l’anno prossimo in un volume di questa stessa collana. Alcuni degli scritti teorico-pole-
mici a cui alludevo qui sopra (p. XXXIII) sono stati raccolti insieme ad altri nel volume Sul materialismo, pub-
blicato anch’esso in questa collana (seconda edizione riveduta e ampliata, 1975) / luglio 1977 / S. T.

Com’è noto, il «volume di questa stessa collana» (Aspetti e figure della cultura ottocentesca)
che doveva uscire «l’anno prossimo» (cioè nel 1978), uscirà invece tre anni dopo questa nota,
nel 1980.

nota alla ristampa 1988 della seconda edizione

** p. CI: cfr., sùbito qui sopra, la nostra nota alla fine della Prefazione alla seconda edizione.

avvertenze sulle citazioni, sulle postille e sulle aggiunte bibliografiche

** p. CIII («riportate») δ: cassato «in carattere neretto».


** ibid. («SL = Scritti letterari..») δ: a margine, cassata l’annotazione autografa «Treves».
** ibid. δ: «Infine nell’ultimo saggio» nel testo a stampa; sostituzione autografa con «Nel
saggio su Cattaneo ed Ascoli».
** p. CIV «vedi sotto, p. 000» δ: è qui manifesto lo stadio tipograficamente progettuale del-
l’annotazione aggiunta da Timpanaro e nel contempo è evidente l’intenzione d’autore d’im-
mettere senz’altro le «aggiunte» nella «terza edizione».
Annotazioni autografe 507

introduzione

** p. 3 postilla («Borsieri») A: «D. Consoli, La critica letteraria di P. Borsieri, Atti e mem.


Arcadia serie 3a, vol. VI f. 3. pp. 1 sgg.».
** ibid. («pp. 423 sgg).») δ: «Spaggiari Calcaterra-Scotti».
** p. 4 postilla δ: «Breme: Asp. fig.; Ferraris;» (cfr. Angiola Ferraris, Letteratura e impe-
gno civile nell’«Antologia», Liviana, Padova 1978).
** p. 5 B: a tutto il periodo da «Importante» a «antinapoleonica», a margine, barra verti-
cale di richiamo.
** p. 7 B: da «contenevano» a «abbastanza», a margine, barra verticale di richiamo.
** p. 8 δ: «cfr. Spaggiari e DBI» («DBI»: Dizionario Biografico degli Italiani).
** p. 9 δ: «Bibl. Ital. Bizzocchi»; annotazione a margine, cancellata (Timpanaro si riferiva
a Roberto Bizzocchi, La Biblioteca italiana e la cultura della restaurazione: 1816-1825, F. Angeli,
Milano 1979).
** p. 10 δ: «meno roussoiano. Cfr. Di Breme».
** p. 11 δ: «Angeloni: M. Bellina qui accluso» (non risulta in δ, né in altre copie di Classi-
cismo e illuminismo, alcun foglietto o scheda che contenga riferimenti al nome di Bellina; Tim-
panaro si riferisce a Massimo Bellina, G. Tagliazucchi, L. Angeloni e le origini della lessicografia
puristica ottocentesca, in «Studi linguistici italiani», XIII, 1987, pp. 40-62; cit. in Nuovi studi
sul nostro Ottocento, p. 7 n., con particolare riguardo alle pp. 46-49 e 50-62).
** p. 13 n. 18 δ: «aggiornare».
** ibid. n. 19 δ: «Bizzocchi» (cfr. qui sopra, Roberto Bizzocchi, La Biblioteca italiana e la
cultura della restaurazione: 1816-1825, cit.).
** ibid. n. 19 A: «Roberto Wis, Fatti e misfatti di G. Acerbi, nel vol. dello stesso autore Ter-
ra boreale, Helsinki 1969 (Le Monnier, Firenze), pp. 79-105».
** p. 14 δ: «Dionisotti».
** p. 17 B: a tutto il periodo da «Ma» ad «insuccesso», a margine, barra verticale di ri-
chiamo.
** p. 21 n. 38 δ: «Asp. e fig.» (nel volume del 1980, infatti, Timpanaro ripubblica la recen-
sione a Piero Treves, con il titolo Classicismo e «neoguelfismo» negli studi di antichità dell’Otto-
cento italiano, pp. 371-386).
** p. 23 δ: «Binni / Cell. / Bellucci / Muscetta»; annotazione replicata e ampliata, sempre
in δ, nelle Postille e aggiunte bibliografiche: «p. 25.32 De Sanctis (Muscetta, Binni, vol. colletti-
vo, io su Binni / Cell. Bellucci, Bigi Antileop. Gramsci» («Cell.», puntato in ambedue le occor-
renze, si riferisce a Liana Cellerino).
** p. 24 B: da «e concordava» a «Verissimo», a margine, barra verticale di richiamo.
** p. 25 n. 46 δ: «Lett. e verità??».
** p. 30 A: «V. P. Castaldi, I rapporti fra Cattaneo e Manzoni, “Il Risorgimento” XXVI 1974,
pp. 95-121 / L’opera e l’eredità di C. Cattaneo, Bologna 1975, I, 307-321» (l’annotazione è in un
foglietto interposto fra le pp. 34 e 35 dell’edizione Nistri-Lischi; la citazione bibliografica cat-
taneiana [L’opera e l’eredità di C. Cattaneo] si riferisce ad un’opera collettiva in 2 voll. – I: L’o-
pera; II: L’eredità –, a cura di Carlo G. Lacaita, Il Mulino, Bologna 1975-1976).
** p. 32 n. 61 A: «illuministico» nel testo; sostituzione autografa con «ideologico».
** p. 34 A: «R. Cavalluzzi, Momenti del L. truce, in “Trimestre” III 3-4, sett.-dic. 1969, pp.
373 sg.».
508 Annotazioni autografe

i. le idee di pietro giordani

** p. 37 δ: «Aspetti e Antileop.; / Forlini Bibliogr. e Antologia».


** p. 38 A: «(Mazzatinti-Menghini-) Natali, Bibliografia leopardiana, Parte II, Firenze
1932, non registra il Badke. A. Tortoreto-C. Rotondi, Bibliografia analitica leopardiana 1961-
70, Firenze 1973. Alcune osservazioni sul pensiero del L. (in Critica storica) rec. da Raimondi in
Resto del Carlino 30 nov. 1966 e Rev. des études italiennes 1966, p. 192. Class. e ill. rec. in Bime-
stre, genn.-febbr. 1970, p. 45, Silvio Ramat; Aevum 1967, 574, di Noè Casuiti.» (l’annotazio-
ne è in un foglio interposto fra le pp. 42 e 43 dell’edizione Nistri-Lischi; la citazione del Maz-
zatinti-Menghini e della continuazione del Natali, come di quella di Tortoreto e di
Tortoreto-Rotondi – manca solo la segnalazione di quella di Natali-Musumarra – depone per il
forte legame di Classicismo e illuminismo con i contributi di Aspetti e figure e di Nuovi studi sul
nostro Ottocento: in questo caso, Aspetti della fortuna di Lucano tra Sette e Ottocento, in Aspetti e
figure, p. 53, alla n. 77, chiarisce come gli autori della Bibliografia leopardiana, in particolare Maz-
zantinti e Menghini, mai a stampa in Classicismo e illuminismo nonostante la «genetica» cifra
leopardiana del libro, siano invece, in questo Classicismo e illuminismo «autografo» offerto da
Timpanaro, rammentati in un contesto che annovera molte loro citazioni nel volume nistri-
lischiano del 1980; l’annotazione manoscritta congiunge, in modo direttamente, fenomenologi-
camente documentario, libri diversi e fasi editoriali diverse dello stesso autore; quanto all’im-
portanza del Badke, alla segnalazione di Giuseppe Velli e all’assenza dello stesso Badke nelle
bibliografie leopardiane, cfr. la suddetta nota 77, capitolo I, di Aspetti e figure – si ricordi Otto
Badke, Einführung in das Studium G. Leopardis, in «Wissenschaftliche Beilage zum Jahresberi-
chte des Realgymnasiums zu Stralsund», – 1907 –, p. 24).
** p. 40 δ: «44, [49] Pallavicino ecc.» («44» è numero di pagina dell’ed. Nistri-Lischi; il
numero è allineato a «49», altra occorrenza, che sotto segnaliamo, del richiamo a Sforza Palla-
vicino).
** p. 42 n. 16 δ: «p. 48 n. Lucano / su Cic. esagera» («48 n.» è numerazione dell’ed. Nistri-
Lischi; alle pp. 42-43 vi è il giudizio “esageratamente” negativo di Giordani su Cicerone, espres-
so nella lettera al Montani: Giordani è il sottinteso soggetto di «esagera»).
** p. 43 δ: «[44], 49 Pallavicino ecc.» («49» è numero di pagina dell’edizione Nistri-Lischi;
cfr. più sopra, annotazione a Pallavicino).
** ibid. A: «lett. del Pellico al fratello Luigi, 12 lug. 1817, p. 96 ed. Scotti. Favorevole allo
Sgricci! Annovera tra i “favorevoli a Sgricci” anche il Giordani! Tra i contrari Breme e Borsieri».
** ibid. n. 18 A: «Lett. a Gigli (1844) nella raccolta di Forlini, p. 269, forse con allusione
autobiografica per il motivo di essersi fatto frate».
** p. 45 (immediatamente prima della parola) A: «più probab. Pogniamo, vedi postilla a p.
52» (Timpanaro si riferisce – «p. 52» – alla numerazione dell’ed. Nistri-Lischi; per «postilla»
l’autore non intende, qui, un’annotazione stampata alla fine dello stesso testo 1969, bensì una
delle annotazioni autografe alla pagina successiva, che direttamente riproduciamo in parentesi
quadra nella n. 21, nella presente edizione; «Pognamo» del testo a stampa è sottolineato a
mano).
** ibid. (immediatamente dopo la parola) δ: «ia»; riproduciamo «ia» per «Pogniamo», dive-
nuta in δ 84 simile a correzione di refuso (formalmente suffragata dalla barretta obliqua posta
sia sul termine da correggere nel testo, sia, a ripresa, sul margine destro con le sole due lettere
da integrare a modifica della stampa); simile a correzione di refuso, si è detto, ma, in realtà, non
si tratta affatto di mero rimedio formale, e quindi l’intervento di Timpanaro non è da conside-
rarsi tale: a «Pogniamo» l’autore è pervenuto sulla base di una precisa elaborazione e di una
documentata riflessione sul termine, come è qui attestato dalla citata annotazione autografa da
noi inserita nella n. 21 e dalla postilla alla stessa nota. Concependo le proprie copie di Classici-
smo e illuminismo, e in specie δ, come protobozza d’una futura (e mai realizzata) edizione, Tim-
panaro può, com’è il caso della presente annotazione, approdare a una correzione di refuso, che
Annotazioni autografe 509

è in realtà frutto di meditato studio e di specillare vaglio bibliografico.


** ibid. n. 21 («nel primo Ottocento») δ: «p. 51 n. 1 (dialetti) AF, Spaggiari» («51» è nume-
razione di Classicismo e illuminismo Nistri-Lischi; la n. «1» è in realtà la n. 21 – probabilmente
l’autore ha inteso designarla come unica nota della relativa pagina –; «AF» è Aspetti e figure, volu-
me nel quale il problema dei dialetti è affrontato in particolare alle pp. 171 n. 39 e 195-196, nel
capitolo Il Giordani e la questione della lingua).
** ibid. n. 21 («dividono l’Italia...») A: «un accenno / non specificam. antidialettale, ma con-
tro frazionamenti di usanze, leggi, monete ecc. già nel Paneg., VIII 273 sg.».
** ibid. n. 21 («Pogn[i]amo») δ: «ia» (cfr. qui sopra l’annotazione a «Pognamo» nel testo).
** ibid. n. 21 («[Le Monnier del 1846, I, 305]») δ: «Gussalli, IX, 371» cassato e sostituito;
dopo l’annotazione da noi inserita in parentesi quadra, vi è «; cfr. qui sotto, p. 000» (Timpanaro
si riferiva all’annotazione, anch’essa da noi inserita in parentesi quadra, che segue più sotto:
«Lezione ancor più giusta, come mi fa osservare G. Forlini...»); l’edizione Gussalli, per il pre-
sente segmento testuale, è perciò a tutti gli effetti sostituita dall’edizione Le Monnier, in que-
sto senso e in questo contesto più accreditabile.
** p. 46 postilla δ: «pogniamo»; anche il pognamo originario della postilla a stampa è sotto-
lineato a mano da Timpanaro.
** ibid. fine postilla δ:«Asp fig.».
** ibid. n. 22 δ: «p. 52 n. 22 A su G. Roberti» («p. 52» è numerazione di Nistri-Lischi;
l’annotazione sull’abate Roberti è regolarmente scritta nella copia A e da noi assorbita nel testo
della nota, in parentesi quadra).
** p. 47 C: «Stravaganze 4e e supreme, p. 61; Università e scuola, p. 107.»; δ: «C Pasquali»
(la «C» è cerchiata come copia-testimone di Classicismo e illuminismo).
** p. 49 A: «III 105 allude al “Maestro Morcelli” per le iscrizioni italiane (raccomandava la
“semplicità”; ... “io mi dorrò sempre di non sapere abbastanza esser semplice{”}»{)}. (ripro-
duciamo esattamente la realtà grafica dell’annotazione manoscritta – p. 57 ed. Nistri-Lischi –,
ivi compresa una minima incongruenza nella virgolettatura e una mancata chiusura di parentesi).
** ibid. n. 30 C: «cfr. ora Roberto Papi, Luigi Muzzi principe dell’epigrafia italiana, Prato, ed.
Camera di Commercio.».
** p. 52 δ: «MAI 52-60 Prisciano e 60 n. 39» (si tratta di Angelo Mai; i numeri si riferiscono
all’edizione Nistri-Lischi; per l’annotazione alla nota 39, vedi qui sotto).
** ibid. n. 39 A: «La fil. di G L» (La filologia di Giacomo Leopardi; Timpanaro si riferisce
alla prima edizione – 1955 – del volume).
** p. 53 n. 41 δ: da «falsificata» alla fine del testo della nota vi è un segno di cancellazione
e una scritta che doveva essere sostitutiva: «già da altri sospettata di falsità, cfr. qui sotto, p.
000»; sul margine destro della nota vi è inoltre: «Anche Scritti Filol. di G. Leop.?». L’autore ave-
va dunque intenzione di aggiungere nota, o più probabilmente postilla, sui risultati, cospicui, dei
successivi studi sulla non autenticità della Guerra di Semifonte. Tali risultati sono ricavabili (e
sarebbero certo stati ripresi) da Il Giordani e la questione della lingua, in Aspetti e figure, p. 192 e
n. 73, e dalla voce, sempre ad opera di Timpanaro, Cesari, Antonio nel Dizionario biografico degli
Italiani, XXIV, 1980, pp. 151-58, poi ampliata e modificata in Ancora sul padre Cesari: per un
giudizio equilibrato, inserito nei Nuovi studi sul nostro Ottocento, pp. 1-29; i cenni alla Guerra di
Semifonte sono alle pp. 22-23 e n. 17; dalla n. 17, come esito più aggiornato dei dati in posses-
so di Timpanaro, riproduciamo, in linea di fedeltà all’intento d’autore, il segmento riguardante
la Guerra di Semifonte, un passo di testo che supera e ingloba non soltanto la nota di Classicismo
e illuminismo, che siamo qui costretti a mantenere inalterata, ma anche la citata nota 73 di Aspet-
ti e figure:
Cfr. Maria Augusta Morelli Timpanaro, Il dibattito sulla Storia della guerra di Semifonte nei secoli xvii-xx, «Cri-
tica storica», XXIII, 1986, pp. 215-58 (la non autenticità sembra ormai sicura, anche se un contributo di un
linguista, in appoggio alla ricostruzione documentaria della Morelli, sarebbe molto utile); sul Cesari, p. 249 e
n. 95 (dove è corretto un vecchio errore di lettura in una lettera del Cesari, dal quale sarebbe risultato, mol-
510 Annotazioni autografe
to stranamente, che nel medesimo anno 1806 il prete veronese avesse dichiarata autentica quell’opera nella
prefazione alla «Crusca veronese», I, p. XII, e apocrifa in una lettera privata al Tomitano!). Anche sul pare-
re del Giordani (V, pp. 280-84 e 403; X, p. 366; XII, p. 251) cfr. Morelli, p. 250 sg.: egli ignorava tutte le
discussioni precedenti e le prove documentarie che dimostravano la non autenticità, ma arrivò ad esserne sicu-
ro in base allo stile: aveva ben altro fiuto filologico-linguistico che il Cesari. Ciò che avevo scritto in Aspetti e
figure, p. 192 n. 73, è ormai insufficiente.

** ibid. δ: «Gigli (Forlini-Anelli)» (annotazione replicata in forma quasi uguale – «p. 62:
Gigli, Forlini, Anelli» – nelle Postille e aggiunte bibliografiche in δ; «p. 62» è riferimento alla
numerazione Nistri-Lischi).
** p. 55 A: «Pellico sempre antigiordaniano nelle lettere al fratello ed. M. Scotti, GSLI Sup-
pl. 28, 1963, p. 39 – (Dopo l’uscita dei 1i due nr. della Bibl. Ital., “Il povero Monti è già disgu-
stato, e d’Acerbi, ch’è, dicono, un intrigante, e di Giordani, che col suo preteso saper la lingua
ha ottenuto gran voce in questo giornale”{)}».
** ibid. δ: «pp. 65-71 quest. lingua Asp. figure; p. 69 Cecioni e mia recens.; p. 69 lett. a
Viani, cfr. A» (le indicazioni numeriche appartengono all’edizione Nistri-Lischi; la questione
della lingua è trattata, in Aspetti e figure, soprattutto nel capitolo dedicato, appunto, ad Il Gior-
dani e la questione della lingua – pp. 147-223 –, anche riguardo al rapporto con i dialetti; su
Gabriele Cecioni cfr. più sotto, annotazione alla n. 125; per la lettera a Viani cfr. qui sotto,
annotazione a n. 55; A è la copia del 1969).
** p. 58 A e δ: «XI» (il testo stampato, compresa l’edizione 1969 nella rist. 1988, reca «XI,
367»: errato rinvio a quello che è invece il vol. X delle Opere di Pietro Giordani).
** ibid. n. 55 A: «e anche più tardi lett. a P. Viani in Clelia Viani, con accenno alle “anti-
che e moderne mitologie”» (in A 69 è lasciato un ampio spazio bianco fra il mancato compimento
della citazione del volume della Viani e la precisazione dell’«accenno»; Timpanaro si riferisce a
Clelia Viani, La vita e l’opera di Prospero Viani accademico della Crusca, con lettere inedite di Pie-
tro Giordani a lui, U. Guidetti, Reggio Emilia 1920).
** p. 59 n. 56 C: «(XIV, )» (l’autore allude ad Opere, XIV, 372; cfr. postilla alla stessa n. 56).
** p. 61 postilla δ: «Antileop. Panegirico Dionisotti».
** p. 63 n. 68 A: «G. Gambarin (annotato qui sotto, a p. 122)» (a p. 122 dell’ed. Nistri-
Lischi vi è effettivamente l’annotazione qui anticipata, che riproduciamo più sotto).
** p. 65 δ: «p. 77 cfr. Passerin e Spadoni» («p. 77» si riferisce all’edizione Nistri-Lischi);
A: «Male su ciò E. Passerin, L’Ottocento nella St. lett. Garzanti, p. 000; bene D. Spadoni, Sètte
cospirazioni e cospiratori nello St. pontificio, Roma-Torino 1904, pp. LIII e LXXXII.» (prima di
«LIII» vi è un «LX» cancellato).
Il riferimento a Passerin allude alla trattazione di Ettore Passerin D’Entrèves, Ideologie del
Risorgimento, nell’opera collettiva Storia della letteratura italiana, a cura di Emilio Cecchi e Nata-
lino Sapegno, 9 voll., Garzanti, Milano 19822 – I ed.: 1969 –, VII – L’Ottocento –, pp. 181-366.
Le pagine alle quali si richiama (senza precisarle) Timpanaro sono nella Bibliografia finale del
capitolo di Passerin d’Entrèves e sono riferite proprio alla collocazione ideologico-culturale di
Giordani, in particolare all’Orazione per il riacquisto delle tre Legazioni ed alla lettera al Cardi-
nale Consalvi; dalle stesse pagine (354-355) appare opportuno riprendere le considerazioni di
Passerin d’Entrèves, a confronto comparativo con i concetti timpanariani e a riprova dell’im-
portanza d’un’equa valutazione della figura di Giordani, intellettuale e scrittore determinante
ai fini dell’incerto giudizio storiografico (e polemico) che si è affermato sul classicismo pri-
moottocentesco italiano:
Resta tuttavia da riflettere sulla persistente tendenza di Pietro Giordani, e non soltanto del Giordani, a non
distinguersi da quel patriottismo del movimento purista che «difendeva un’arcaica italianità contro l’illumi-
nismo e contro il romanticismo nello stesso tempo». Né sembra che il Timpanaro, volendo salvare la posizio-
ne «patriottica progressista» del Giordani stesso, abbia presente tutta l’orazione Per le tre Legazioni riacqui-
state dal Sommo Pontefice Pio VII (Parma, tipografia Imperiale, 1815: importante anche la lunga dedica al Card.
Consalvi, che vi è premessa, e la replica alle critiche di Mons. Giustiniani, delegato apostolico della città e pro-
vincia di Bologna, che la segue). Giustamente, insomma, il Giordani avvertiva di non poter entrare nel mon-
Annotazioni autografe 511
do nuovo degli scrittori impegnati del Risorgimento, anche se moderati, e si sentiva mero «spettatore» delle
loro lotte. L’aulicità irrimediabile, ch’era retaggio dell’età napoleonica, poteva ben suggerirgli una sincera e
veridica autodifesa nel ’34: «Io non ho mosso mai, non moverò mai un dito contro i troni»: neppur contro il
potere temporale del pontefice, soggiungerei, quando altri supplicava il pur aulico Monti di far presente ai
potenti, a Milano, la volontà prevalente fra i colti, in Bologna, di restare aggregati ad uno Stato laico (cfr. S.
Timpanaro, op. cit. {«Classicismo e illuminismo nell’Ottocento italiano», citato nell’edizione 1965 – N. d. C. –},
pp. 76-81 e l’Epistolario di V. Monti, Firenze 1928-31, vol. IV, p. 157, per la lettera di P. Costa del 6 mag-
gio 1814 in cui gli raccomanda, a nome di molti, la sorte di Bologna). Le «esigenze antioscurantiste» (ivi, pp.
86-97) potevano portare il Giordani a polemizzare colla tendenza concordataria del regime napoleonico, e più
tardi col neoguelfismo, con Gioberti, col Rosmini stesso, che «pensava a fondare nuova fraterìa», ma non ad
una coerente impostazione politico-culturale progressiva, per servirsi del termine del Timpanaro, che ammet-
te inoltre quanto poco fosse aggiornato sugli sviluppi del pensiero recente, specie tedesco: simile in questo ad
un Leopardi, ad un Romagnosi, ecc. (ivi, pp. 89-90).

Una citazione timpanariana del VII volume della Letteratura Garzanti, comprendente un rife-
rimento (in questo caso segnato da consenso al singolo scritto – non alla generale impostazione –),
a Passerin d’Entrèves, è nella prima postilla all’Introduzione a Classicismo e illuminismo, alla quale
rinviamo, ricordando, secondo le parole dell’autore, che gli
studiosi che in quel volume si occupano più specificamente del romanticismo e delle discussioni tra romanti-
ci e classicisti-illuministi (Giovanni Macchia, Giovanni Orioli e, per l’aspetto politico-ideologico, Ettore Pas-
serin d’Entrèves) muovono da una concezione e da una valutazione del romanticismo diverse da quelle soste-
nute nel presente libro. Molto pregevole è, comunque, soprattutto il saggio del Passerin.

**p. 66 n. 73 C: «bózare (cioè ‘buggere’), mi osserva Bruno Migliorini. bózara è accentato


in A. Bombelli, Diz. etim. del dialetto cremasco, 1940» (cfr. postilla alla stessa n. 73).
** ibid. postilla δ: sul margine destro, doppie virgolette e una barretta verticale di richiamo.
** ibid. B: «In magnis et voluisse sat est Properzio II 10, 6» (Timpanaro qui non si limita ad
integrare con l’«et» la citazione, ma riscrive per intero la frase, accompagnandola con l’autore
e con il locus; non si tratta, quindi, di mera correzione di refuso); δ: «In magnis ...: Properzio
II 10, 6 vedi se l’et c’è nell’aut.» («aut.» può significare «autore»; ma appare difficile che il
promemoria possa concernere scientificamente l’«et», tràdito e avvalorato dalla filologia pro-
perziana – puro esempio, l’ed. Oxoniensis del Barber, 19602 –; il promemoria sembra invece
rivolgersi ad un’incertezza di controllo sull’«aut.», «autografo», in questa circostanza la copia
B – l’altro testimone che è destinato ad annoverare questa correzione –, definita tale, con tut-
ta probabilità, perché sede di correzioni a mano: un «nodo al fazzoletto» a memento pratico-
organizzativo d’un’esigenza di verifica: controllare se si è o meno apportata la necessaria cor-
rezione).
** ibid. δ: sul margine sinistro, doppia barretta obliqua di richiamo (cfr. annotazione pre-
cedente).
** p. 67 postilla δ: «prossima pubblicazione» sottolineato.
** p. 68 δ: «pp. 80-86 idee sociali: Antileop., nobiltà».
** ibid. postilla δ: « – Antileop.».
** p. 70 B: «piuttosto l’iscrizione cit. dal Bezzola».
** ibid. n. 87 δ: «p. 83 A cf. Bertone?? e nota 88» (si ricordi, a questo proposito, l’appas-
sionata polemica con Giorgio Bertone sull’edizione del romanzo Primo Maggio di De Amicis;
l’accenno alla n. 88 confluisce nel luogo suo proprio – cfr. qui sotto, annotazione a nota 88 A).
** ibid. («Edmondo De Amicis») δ: «altro passo» (cfr. annotazione precedente).
** ibid. n. 88 (prima di «Mosè») A: «Cfr. già Panegirico».
** ibid. (dopo «Mosè») δ: «Licurgo??».
** p. 70 («quel legislatore») A: «Un accenno a Mosè e a questa argomentazione già nel Pane-
girico a Napoleone».
** p. 71 n. 92 (inizio della nota) δ: al margine destro della nota, barra verticale di richiamo.
** ibid. (fine della nota) A: «F. Giarelli, L’avvocato P. Gioia, Piacenza 1868; S. Fermi in
512 Annotazioni autografe

“Boll. stor. piac.” 1911 e 1913»; δ: «p. 85 A e art. nel Boll. stor. piacent.» (p. 85 è riferito all’e-
dizione Nistri-Lischi; la precisa indicazione, in δ, della copia A, e delle due correzioni che rego-
larmente vi sono confluite, rende evidente la funzione, rivestita in questa come in altre anno-
tazioni dal testimone δ, di collettore razionalizzante di modifiche già distillatamente apportate
negli altri testimoni, cronologicamente anteriori).
** p. 73 n. 97 A: «e Napoli 1835, p. 64 (così Savarese, Paralipomeni, da vedere a pp. 150-51
per il geocentrismo di Monaldo{)}.»; δ: «p. 87 A» («87» si riferisce all’edizione Nistri-Lischi).
** p. 74 n. 103 A: «sul Bianchetti cfr. Gentile, Storia d. filos. italiana dal Genovesi al Gal-
luppi, II 2, 1930, p. 111 n. 1; ibid. p. 116 sg sul Papadopoli.»; δ: «p. 89 A Bianchetti, e Di Pre-
ta» («89» nell’edizione Nistri-Lischi; Di Preta è citato da Timpanaro in Aspetti della fortuna di
Lucano tra Sette e Ottocento, primo capitolo di Aspetti e figure, p. 61, n. 94).
** p. 75 C: «dite (?)» (sia «pensate» del testo, sia «dite» scritto a margine sono accompa-
gnati da una crocetta di richiamo: «x»).
** ibid. B: «A. De Rubertis, Studi sulla censura in Toscana, Pisa 1936, p. 249 il Panegirico
vietato al libraio Pietti, oltre che per le lodi a Napoleone, perché si diceva che il pensiero risul-
tava “da un misterioso composto di operazioni chimiche e meccaniche”.»; δ: «p. 91 pens. secrez.
del cervello B A. De Rubertis» (la p. 91 è in realtà la 90 dell’edizione Nistri-Lischi; l’indicazio-
ne di «B» riprende in δ il testimone 1973, sede dell’annotazione).
** p. 79 n. 117 A: «Ruffini, Un angolo tranquillo del Giura, cap. VIII: sul Leopardi con
testim. del Gioberti?»; δ: «p. 95 A e Antileop.» (95 è numero di pagina dell’edizione Nistri-
Lischi; «p. 95 A» è la ripresa, in δ, dell’annotazione concernente Ruffini).
** p. 81 δ: «”» (la correzione di refuso, una chiusura di virgolette non assumibile nella
nostra edizione, data la regolare chiusura alla fine del periodo a generose!, denota l’incertezza
dell’autore in questa citazione; la correzione da noi regolarmente assunta nel testo [cr], il punto
interrogativo, è invece in B; il punto interrogativo si trova pure, ed è significativo che si tratti
dell’unica correzione autografa lì presente, nella copia da noi consultata della ristampa 1988).
** p. 82 n. 123 A: «Lettere inedite a Lazzaro Papi, Lucca 1851, p. 117 (17 aprile 1833): “Sen-
tii la morte dell’Antologia; ed è veramente cosa deplorabile. Le tenebre s’infittiscono; ma il sole
durerà più di loro”.».
** ibid. n. 125 A: «Tuttavia Cecioni, Viglio»; δ: «p. 99 n{ota}. A Cecioni, Viglio {ripetu-
to sul margine sinistro:} Cecioni (e mia recens.), Viglio, Spaggiari» (Timpanaro si riferisce, qui, a
Gabriele Cecioni, Lingua e cultura nel pensiero di Pietro Giordani, Roma, Bulzoni, 1977 – volume
più volte citato in Aspetti e figure della cultura ottocentesca e in Nuovi studi sul nostro Ottocento e
ripetutamente presente nelle annotazioni autografe di δ – e a Patrizia Viglio, Sulla formazione
ideologica di Pietro Giordani, in «Bollettino storico piacentino», LXXVII – 1982 –, pp. 54-81).
** ibid. inizio citazione B: «Bibl. Laur. C. Giordani XII 38, 5 nov. 1845 (a propos. della
malattia della moglie di Pietro Gioia): “Dirò anch’io; oh che vita! Ma quasi non bastasse la natu-
ra a farcela grave e dura, tanti uomini si brigano di aggravarcela; e per essere sicuri di non man-
care di guai ci fabbrichiamo principi e preti!”»; δ: «B (Gussalli tesi-ipotesi)» (nella copia B non
v’è, all’altezza di questa pagina – 99 edizione Nistri-Lischi –, annotazione autografa riguardan-
te il Gussalli; ma, a parte la continua «occorrenza concettuale», nei saggi ottocentistici di Tim-
panaro, del nome del curatore delle opere del Giordani, il binomio tesi-ipotesi può essere impli-
cito nella stessa citazione dalle laurenziane Carte Giordani sulla malattia della moglie del Gioia:
la tesi «generale» – «oh che vita!» – è che l’esistenza biologica dell’uomo è improntata alla sof-
ferenza; l’ipotesi è costituita da un auspicabile mondo in cui a tale sofferenza fosse almeno
risparmiato il concorso dell’umana responsabilità e, soprattutto, dell’umana ignoranza; e tutto
quel nucleo di pagine e di citazioni giordaniane è centrato sull’antioscurantismo del Piacentino,
sulla sua oscillazione tra una parziale assunzione del radicale pessimismo leopardiano, diacroni-
camente realizzatasi nella lettura delle opere del Recanatese, e una linea di ripresa della fonda-
mentale fiducia illuministica nella possibilità di lottare per rischiarare l’umanità dalle tenebre
dell’ignoranza e dell’ingiustizia).
Annotazioni autografe 513

** ibid. citazione («sorda materia inorganica)» C: «Forse accenno alla chiusa di Sopra il
ritratto di una bella donna?».
** p. 83 C: «cf. nota a p. preced.» (per «nota» Timpanaro intende proprio l’annotazione
autografa precedente a questa – «Forse accenno alla chiusa di Sopra il ritratto di una bella don-
na?» –, dato che la scritta a lapis si pone, nella p. 100 dell’ed. 1965, esattamente all’altezza del
capoverso che allude, da parte dello studioso, alla «materia senziente» e alla sua soggezione alle
stesse dure leggi della «materia inorganica»; dunque, non «nota» piè pagina né postilla, ma
annotazione autografa).
** p. 84 n. 128 δ: «Lett. a ... 102 n. 128» («102» si riferisce all’edizione Nistri-Lischi; la
lettera ha come destinatario Leopoldo Cicognara).
** p. 85 A: «cfr. Binni, Arcadia e Metastasio, p. 60.».
** ibid. A: «Nei Carteggi it. ed. Orlando, 1, II, p. 133 a proposito del tempo cattivo (a
Vieuss., 13 dic. 1830, da Parma): “Oh stagione monarchica!”. – XIV, 175: “Don Seneca” (per
il tono predicatorio).»; δ: «p. 103 A, e teologo algerino, schiavone (Tommaseo?) (“Matteo” cf.
oltre{)}» («teologo algerino» – si tratta ovviamente di Sant’Agostino – e quel che segue sono
cancellati poiché l’autore s’è potuto avvedere che tali riferimenti erano già impliciti nell’an-
notazione precedente alla n. 128 – cfr. qui sopra, e, nel testo, con due maiuscole al posto della
cursoria citazione a mano dell’autore, «il teologo Algerino» e «il biliosissimo Schiavone Giro-
lamo», n. 128).
** p. 86 n. 132 A: «Su rapporti sessuali del G. cfr. XIV, 174.»; δ: «p. 104 A + Dionisot-
ti».
** p. 88 δ: «p. 107 Antileop.» («107» è numerazione Nistri-Lischi).
** p. 95 (prima di «interpretazione») A e δ: sostituito «dell’».
** ibid. (dopo «realistica») δ: «115. De Sctis e Leop.» (De Sanctis e Leopardi; «115», al
solito, secondo la numerazione Nistri-Lischi).

ii. giordani, carducci e chiarini

** p. 97 n. 1 A: «XIV, 317»; δ: «p. 120 Sarpi A» («120» è numerazione di Nistri-Lischi).


** p. 99 C: «rapporti col Betti: 20 lett. di P. Giordani con un proemio di A. Bertoldi, Reggio
E. 1895»; δ: «C rapp. col Betti».
** p. 100 n. 4 A: «cfr. G. Gambarin, Ancora del Giordani, del Foscolo e del Capponi, in
“GSLI” CXLVIII (1979), p. 82 sgg. A. D’Ancona, G. Capponi e P. Giordani, in “Dai tempi anti-
chi ai tempi moderni: da Dante al Leopardi”, Milano, Hoepli, [1904], pp. 557-64; lett. di A.
Pezzana a Capponi in Capponi, Lett. ed. Carraresi, VI, p. 184 (cfr. Forlini, Bibliografia, p.
303)»; δ: «122 A e Antileop. per il Capponi e Giordani».
** ibid. B: «espulsione del Giordani: cfr. Mario Pieri, Memorie, Firenze, Bibl. Riccardia-
na, vol. V cc. 114-15: varie ipotesi.»; δ: «B Mario Pieri».
** ibid. n. 5 B: «Prose di A. Gussalli, Milano, Libr. editrice, 1877. Nella pref. Felice Tribo-
lati (p. XV) ricorda che il Gussalli fu imprigionato per l’ed. del Giordani ed ebbe sequestrati i
voll. XI-XII “finché non venne a redimerli il cannone di Magenta”.».
** ibid. postilla («romanticismo») δ: «Treves».
** ibid. postilla (fine) A: «ora in volume» (cfr. Ermanno Circeo, Lettura di Carducci e di altri
scrittori, D’Anna, Messina-Firenze 1971).
** p. 101 A: «M. Parenti, Rarità bibliografiche dell’Ottocento, II, Firenze 1956, pp. 58-60:
G. Carducci, Rime, S. Miniato, tip. Ristori, 1857: dedica: “A voi / Giacomo Leopardi e Pietro
Giordani / viventi / queste mie rime / come ad autori e maestri / offerto avrei vergognando / le
quali parmi ora superbo / consecrare / alla memoria di voi grandissimi / io piccolissimo”»; δ:
«dedica».
** p. 106 C: «Lucr. contro la provvidenzialità della natura: II 167-83; V 110-234; II 1070-
514 Annotazioni autografe

1104; autodifesa della N.: III 931-77.» (l’annotazione si trova su un foglietto incollato, a coprire
il testo, sulla p. 131 della copia del 1965; i rinvii lucreziani dell’annotazione e la collocazione
all’altezza della penultima pagina del capitolo Giordani, Carducci e Chiarini, quasi immediata-
mente prima dell’inizio di Alcune osservazioni sul pensiero del Leopardi e, più in generale, prima
di una sequenza di capitoli interamente leopardiani o comunque centrati sul Recanatese, fa pro-
pendere per una collocazione «concettuale» diversa del foglietto, che doveva essere introdutti-
vo allo stesso gruppo di capitoli leopardiani).

iii. alcune osservazioni sul pensiero del leopardi

** p. 108 C: «molto importante il pensiero di Zib. 2679 sg. (4 marzo 1823).».


** p. 110 n. 3 A: «Caffi, {/} p. 244 cita Leop. e parafrasa la Ginestra in senso socialista»
(si cfr. Andrea Caffi, Scritti politici, presentazione di Gino Bianco, La Nuova Italia, Firenze
1970; la barretta obliqua da noi interposta {/} significa uno spazio bianco ed un “a capo”,
che doveva essere riempito dalla citazione bibliografica dettagliata del volume di Caffi).
** p. 111 postilla δ: «Impossibile nota da Antileop. - Luporini - Binni - Leop. idéologue -
Ferraris - Leop. verde» (al di sopra di «Leop. verde» vi sono due parole cancellate, di diffi-
cile interpretazione; su Angiola Ferraris cfr. terza annotazione all’Introduzione;
«Impossibile», anziché attributo di «nota», sembra un rinvio al giordaniano Peccato impossi-
bile, citato appunto, in un segmento di testo a dominante storico-politica sul Piacentino, in
una «nota» di Antileopardiani - p. 143 n. 59 -, con riferimento all’improponibilità dell’opera
«anche nell’Italia sabauda e liberale»: del Peccato impossibile venne infatti promossa, dal
Gussalli, la pubblicazione a Londra nel 1862).
** p. 112 postilla δ: «mia rec. a Binni e nel vol. su Binni».
** p. 114 δ: «p. 140 su Vené autocritica» («p. 140» è riferimento all’edizione Nistri-
Lischi).
** p. 116 n. 22 δ: «142 n. 22 Monaldo e Antici» (l’autore aveva evidentemente inten-
zione di integrare la nota 22, o di inserire un riferimento ad altri cenni critici da lui fatti sui
due personaggi; in particolare, riguardo ad Antici, si ricordino i cenni in Aspetti e figure,
pp. 196 n. 80 e 330 e n. 50 - quest’ultimo, qui presente nel V capitolo: Di alcune falsificazioni
di scritti leopardiani - e in Nuovi studi sul nostro Ottocento, p. 129 n. 2: Il Leopardi e la
Rivoluzione francese, ora, in questo volume, IX capitolo, n. 4).
** p. 117 n. 27 δ: alla correzione dei numeri di pagina segue, nell’annotazione, un cenno
incompiuto, «(quest’ultimo ripubbl. nella nuova» (si tratta non della seconda, ma propria-
mente, e appunto, della nuova edizione del volume derobertisiano: Giuseppe De Robertis,
Studi 2, Le Monnier, Firenze 1971).
** p. 118 n. 29 A: «Garin, Helvétius e l’Italia nel 700, Riv. crit. st. filos. 26, 1971, 207,
213, spec. 208 importan{te}.».
** ibid. n. 29 («già l’anno precedente in una») C: «No! Nella Dissert. è sostanzialmente
favorevole» (nel 1967 la Dissertazione sopra l’anima delle bestie esce dallo stato d’inedito ad
opera della moglie di Timpanaro, Maria Augusta Morelli, che la pubblica in «Critica storica»;
cfr. postilla alla stessa n. 29).
** ibid. postilla δ: «(mio Holbach) Garin».
** ibid. postilla («La Dissertazione») δ: «Tutte le Dissertazioni in ediz. ecc. t. Puerilia t.
poetici vedi a p. 183-187» (la cancellazione delle precedenti parole è spiegata dallo stesso rin-
vio ad una successiva postilla, la quinta al capitolo Il Leopardi e i filosofi antichi: questo il
senso dell’indicazione delle pp. «183-187» della vecchia edizione; a quella postilla vi sarà
l’annotazione «nunc!» - cfr. più sotto -).
** p. 121 n. 39 A: «Borsieri già segnalato da Treves, p. 418 Cfr. anche (segnalatomi dal
Annotazioni autografe 515

Treves), Guerzoni, Giulio Cesare nell’arte, in «Politecnico» XXV, 1865, 211-32, 257-97 (su
Lucano 223-229, su Plutarco 230-232).»; d: «149-150 A e tutto Aspetti e figure (Grassi
anche); La Penna, Velli Narducci».
** p. 122 postilla δ: «Sul materialismo mio Holbach».
** p. 125 postilla δ: «Falsificaz. Aspetti e figure (dubbi di Binni)» («Falsificaz.» allude al
saggio timpanariano Di alcune falsificazioni di scritti leopardiani, inserito, dopo la prima pub-
blicazione nel «Giornale storico della letteratura italiana» – 1966 –, in Aspetti e figure della
cultura ottocentesca, e ora capitolo V di questo volume).
** p. 126 δ: «156-58: Blasucci e già Antileop. 157 n. 16» («156-58»: numero di pagina
appartenente all’edizione Nistri-Lischi).
** p. 130 δ: sul margine sinistro, una parentesi quadra aperta ed una barretta verticale di
richiamo.
** ibid. B: «così già bene in “Crit. stor.” III 1964, 417» (Timpanaro allude alla redazione
del testo di questo capitolo, Alcune osservazioni sul pensiero del Leopardi, apparsa in rivista nel
1964 – al testo in rivista si riferisce anche il numero di pagina, 417 –; il testo era allora corret-
to e non necessitava, quindi, di un intervento su quel saut du même au même che avrebbe cau-
sato l’omissione di «anche dell’immortalità»; di tale correzione v’è invece qui bisogno, al pun-
to che l’autore la scrive di sua mano in δ, oltre che in B: cfr. più sotto, in queste Annotazioni,
cap. VIII – Epicuro, Lucrezio e Leopardi –, n. 52. In B, con l’aggiunta della presente annota-
zione, Timpanaro ricorda che la modifica non è altro che il legittimo ritorno all’esatta versione,
precedentemente stampata in «Critica storica»).
** p. 131 δ: «162 sulla morte» («162» è numerazione dell’edizione Nistri-Lischi).
** ibid. n. 65 δ: sul margine destro, segno di richiamo, espresso con un cerchietto. Timpa-
naro si riferisce al testo della postilla (che parte appunto dalla considerazione del saggio di Bigi)
alla stessa nota 65: postilla resa valida dall’autore anche per le successive note 68 e 70.
** p. 134 C: «cfr. anche Zib., 4138 sg. (12 maggio 1825), su cui Savarese, Paralip., 109 n.
61.».
** p. 135 δ: «p. 166-67 Rousseau e gli altri, troppo reciso» («166-67» è numerazione del-
l’edizione 1969).
** p. 136 postilla δ: «ora pubbl. Cat. Del Vivo, Vannucci».
** ibid. n. 72 A: «Atto Vannucci».
** p. 137 δ: viene corretto «poteva».
** ibid. n. 73 A: «Lett. del Giord. in Carteggi ital. ined. o rari, antichi e moderni racc. ed
annot. da Filippo Orlando, serie I, vol. I, Firenze 1892, p. 11.»; δ: «170 A Carteggi Orlando»
(«170» è numerazione dell’edizione Nistri-Lischi).
** ibid. postilla δ: «Antileop. e Carpi».
** p. 140 δ: «p. 173 Ginestra, solidarismo: Antileop., Leop. e Riv. francese e “Leop. verde”»
(«173» è numerazione dell’edizione Nistri-Lischi).
** p. 141 postilla δ: «Belf. su Marchesi – La Penna / De Liguori».
** p. 143 δ: «p. 177 Biral» («p. 177» è numerazione dell’edizione Nistri-Lischi).
** p. 144 n. 84 δ: «178 nota: Gramsci» («p. 178» è numerazione dell’edizione Nistri-Lischi).
** ibid. postilla δ: «Materialismo; Antileop. Leop. verde».

iv. il leopardi e i filosofi antichi

** p. 148 A: «cfr. Cavalluzzi (annotato a p. 40), p. 382 n. 14» («p. 40» si riferisce all’edi-
zione 1969 A, su cui Timpanaro lavora; per il precedente richiamo a Cavalluzzi cfr. l’ultima
annotazione all’Introduzione; la pagina iniziale di Il Leopardi e i filosofi antichi, naturalmente
sprovvista d’esplicita numerazione, è stata segnata dall’autore, per comodità, con il suo nume-
ro, cerchiato: «183»).
516 Annotazioni autografe

** ibid. postilla («[cr]») δ: formalmente, correzione di refuso; a stampa, «antistorica» dal


1969 al 1988.
** ibid. postilla δ: «Naddei» (Mirella Naddei Carbonara; cfr. più oltre, cap. VIII, Epicuro,
Lucrezio e Leopardi).
** p. 149 δ: «cattolici illuministico-reazionari: Pignatelli, Le origini 700sche del cattolicesi-
mo reaz. Studi storici XI, 1970, 755-82» (cfr., nel testo, cap. IX, Il Leopardi e la Rivoluzione
francese, n. 1).
** p. 150 postilla δ: «nunc!».
** ibid. n. 5 A: «un modello, per tirate di questo genere, è forse Seneca, Ep. 88, 42 sgg.»;
δ: «185 n. 5: oltre Di Ben., cfr. Seneca A» («185» è numero di pagina dell’edizione Nistri-
Lischi; «A» è la copia della seconda edizione 1969).
** p. 152 n. 11 δ: «187 n. Porfirio, riferim. a ed. Mores.» (si tratta dell’edizione a cura di
Claudio Moreschini di Porphyrii De Vita Plotini, Le Monnier, Firenze 1982; cfr. la recensione
di Timpanaro in «Giornale storico della letteratura italiana», CLXI – 1984 –, pp. 609-615).
** ibid. postilla δ: «Moreschini e mia recensione» (si tratta di C. Moreschini, Metodi e risul-
tati degli scritti patristici di G. Leopardi, in «Maia», XXIII – 1971 –, pp. 303-320; recensione di
Timpanaro in «Giornale storico della letteratura italiana», CLIV – 1977 –, pp. 151-156; cfr.
VIII capitolo, Epicuro, Lucrezio e Leopardi, n. 14).
** p. 157 n. 22 δ: «193 n. 22 a fav. di Sto cfr.» («193» è numero di pagina dell’edizione
Nistri-Lischi).
** p. 163 δ: «202 Zib. sul Cic st {?}» («202» è numerazione dell’edizione Nistri-Lischi; le
parole di difficile interpretazione sono probabilmente leggibili come «Cicerone stoico»).
** p. 164 n. 38 δ: «202 n. 38 Pacella» («202» è numero di pagina dell’edizione Nistri-
Lischi).
** ibid. n. 39 δ: «203 n. 39» («203», al solito, è numerazione dell’edizione Nistri-Lischi).
** p. 165 n. 44 B: «Grilli Atti 1982 p. 61 n. polemica a vuoto» (Timpanaro si riferisce ad
Alberto Grilli, Leopardi, Platone e la filosofia greca, nell’opera collettiva Leopardi e il mondo anti-
co – «Atti del V Convegno internazionale di studi leopardiani», 1980 –, Olschki, Firenze 1982,
pp. 57-73).
** p. 168 n. 52 δ: «Grilli» (cfr. precedente annotazione).
** ibid. n. 53 δ: «cfr. Scritti filologici».
** ibid. n. 53 (fine nota) δ: «p. 208 n. 53: rivedere le letture di Platone (Scritti filol. cit. e
Fil. Leop.)» («p. 208»: numerazione dell’edizione Nistri-Lischi).
** p. 172 n. 64 δ: «aggiorn. Bigi e Blasucci» (l’annotazione vale per la nota 63 e per la nota 64).
** ibid. n. 65 (prima della citazione) A: «Cfr. anche Giordani, XIII, 129 “i sogni platonici
(ai quali con tanta veemenza e sì poco giudizio si tenta oggi da taluni risospingerci” (1845).».
** ibid. n. 65 (in fine di nota) B: «Sul Romagnosi lettera molto interessante a Pietro Zam-
belli, 12 agosto [1832?], in I. Della Giovanna, P. G. e la sua dittatura lett., Milano 1882, p. 215
sg.; forse la stessa pubbl. da Donato Valli, Giordani e Brighenti, “GSLI” CLII, 1975, p. 426.»;
δ: «214 Giordani A / “B” (“214” si riferisce alla numerazione dell’edizione Nistri-Lischi; il
segno «”» intende compendiare – “virgolette” – la ripetizione di “Giordani”, ovvero “Giorda-
ni A/Giordani B”: cfr. infatti questa e la precedente annotazione alla nota 65)».
** p. 176 n. 79 C: «Bollati, p. XLIV» (cfr. postilla alla stessa n. 79).
** p. 178 n. 82 δ: «Sulla fonte Grilli p. 69 e n. 58».
** ibid.: «piacere intenso, non catastematico; piacere come assenza di dolore, magra consola-
zione, Platone Fedone; Ruysch e Diogene Cinico in Diog. Laerz. supra p. 207 n. 50» (il numero
di pagina – 207 – si riferisce all’edizione Nistri-Lischi; la nota 50 di questo capitolo si richiama
proprio alla tematica che qui si tratta, con una citazione del Ruysch e con due citazioni dallo Zibal-
done, mentre nel testo cui tale nota è correlata vi è esplicita menzione di Diogene Laerzio).
** p. 179 n. 86 C (inizio nota): «/ /» (sul margine a destra della nota, una doppia barretta
obliqua di richiamo, a forte evidenziazione concettuale dell’argomento).
Annotazioni autografe 517

** ibid. n. 86 («in quell’elenco») δ: «ora Pacella».


** ibid. n. 86 («in contrario: se il Leopardi...») δ: da «se il Leopardi» a «congeniale», barra
verticale di richiamo a margine e periodo sottolineato.
** ibid. postilla δ: «sistem. (Saccenti male). / Grilli, folle, nega» («sistem.» sarà compendio
di «sistemare», riordinare i concetti che poi saranno ampiamente trattati, anche e appunto in
relazione alle tesi di Saccenti, di Grilli, di Mazzocchini e di altri studiosi – ai quali, peraltro,
Timpanaro non manca di tributare ancor più spesso il proprio convinto consenso critico –, in
Epicuro, Lucrezio e Leopardi, dapprima in «Critica storica» nel 1988, poi in Nuovi studi sul nostro
Ottocento, e infine qui, capitolo VIII del presente volume).

v. di alcune falsificazioni di scritti leopardiani

Si avverte in premessa che, nel testo a stampa 1980 Nistri-Lischi, Timpanaro usa, a com-
pendio di Appunti leopardiani di Cozza-Luzi, «AL», anziché, come nel «Giornale storico» del
1966, «A. L.».
** p. 184 Foglio di risguardo FLGS: «cfr. G. Lonardi, “Leopardismo” ecc. in ‘Studi nove-
centeschi’ I 1, marzo 1972, pp. 17 sg. / Binni, La protesta di Leopardi, Firenze 1973, p. 199 n.
2. / A. Monteverdi, / forse R. Negri, Leop. nella poesia italiana, Le Monnier, Firenze 1970 (rec.
in Rass. lett. ital. 76, 1972, 152 sg.)» (questi riferimenti bibliografici sono giunti ad utilizzazione
nelle pagine della redazione in volume – in particolare quello concernente Monteverdi, sul qua-
le vedi qui sotto, e quello riguardante lo specifico luogo citato di Binni, discussi nell’aggiunta
alla finale nota 73, regolarmente pósta fra i segni «| ... |» –, ad eccezione di Renzo Negri, il cui
Leopardi nella poesia italiana – appunto Le Monnier, «Documenti e studi leopardiani» 4 – non
è citato neanche in Aspetti e figure; l’incompiuta citazione da Angelo Monteverdi si richiama a
Frammenti critici leopardiani2, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 1967, più volte rammenta-
to nel testo e in nota; si ricorda che il Lonardi di Leopardismo, insieme al Balduino del Manua-
le di filologia italiana, integrerà anche la successiva nota 68, limitantesi nel 1966 – «Giornale sto-
rico» cit., p. 118 n. 1, secondo la numerazione di pagine e di note adottata dalla rivista – alla
precisazione numerica di voci del Catalogo del fondo leopardiano della Biblioteca Comunale di
Milano, 1958).
** ibid. n. 1 FLGS: «alcuni degli Appunti» (redaz. 1966).
** ibid. n. 1 FLGS: «altri» (redaz. 1966).
** ibid. FLGS: «“dolori fisici e non solo fisici” G. Mercati!» (annotazione manoscritta, sul
margine sinistro).
** p. 185 FLGS: «(anch’essa, in senso diverso, reazionaria e falsificante riduttiva e aber-
rante) d’un» (correzione autografa del 1966; «reazionaria e falsificante» cancellato; «seppur
meno assurda» è aggiunta del testo a stampa, non documentata in annotazione manoscritta; al
posto di «di un [Leopardi]», il testo a stampa del 1966 recava «del», e la relativa correzione
autografa «d’un»).
** p. 188 FLGS: «polemiche» (attributo di «lungaggini e divagazioni»: redaz. 1966; «super-
flue» è innovazione della stampa nistri-lischiana e non è attestato in annotazione manoscritta).
** p. 190 («qui sopra») FLGS: «p. 89» (numerazione del «Giornale storico»; e così più sot-
to, «p. 89, lettere a, b, c»).
** ibid. n. 11 FLGS: «Saggio sul Leopardi, 4a ed., Firenze 1960, p. 264» (redaz. 1966; nel
«Giornale storico» le citazioni dal Saggio saranno riferite a questa edizione).
** ibid. n. 12 FLGS: «Le poesie e le prose a cura di F. Flora, I, 4a ed., Milano 1953» (redaz.
del 1966; cfr. Avvertenza sulle citazioni da «Aspetti e figure della cultura ottocentesca»).
** ibid. n. 13 («cfr.») FLGS: «Ultimo, in ordine di tempo, a credere all’autenticità sono sta-
to io, in un articolo pubblicato in “Critica storica” del 1964 e ristampato in» (redaz. del 1966;
da «All’autenticità» sino a «cfr.» si tratta d’innovazione, non attestata come manoscritta, del-
518 Annotazioni autografe

l’edizione 1980; l’articolo è Alcune osservazioni sul pensiero del Leopardi, anche qui, come fin dal-
la prima edizione 1965, capitolo III di Classicismo e illuminismo).
** ibid. («19651») FLGS: «1965» (mancava ovviamente l’esponente indicatore dell’edizio-
ne: precisazione superflua, dato che Classicismo e illuminismo, nel 1966, era uscito soltanto da
un anno).
** ibid. («feci») FLGS: «ho fatto» (redaz. del 1966; anche riferendosi alla redazione del
1964 in «Critica storica», prima vera sede dell’articolo, l’autore è legittimato, in base alla con-
tiguità cronologica, all’uso del passato prossimo; nel 1980, dopo quattordici anni – sedici anni
dalla redazione in «Critica storica» –, vi è il passaggio alla forma aoristico-“remota”).
** ibid. («116 sgg.») FLGS: «P. Bigongiari, Leopardi, Firenze 1962, pp. 295 sgg., 341 sgg.;»
(redaz. del 1966; nella redaz. 1980 viene eliminato, in questa nota, il riferimento; il Leopardi di
Bigongiari tornerà nella nota 73, in fine di saggio, citato nella nuova edizione del 1976; diamo
gli estremi completi delle due edizioni: la prima è Vallecchi, Firenze 1961 – Timpanaro cita,
appunto, dalla ristampa del 1964 –; la seconda è La Nuova Italia, Firenze 1976, con qualche
modifica e arricchita di quattro saggi, che indichiamo nell’ordine interno al volume: Leopardi e
il desiderio dell’Io. Riflessioni preliminari sull’ordinamento dei «Canti», 1976; L’«infinito» di Leo-
pardi e l’«interminato» del Cusano, 1975; Leopardi e il «senso dell’animo», 1967; Leopardi e l’er-
metismo, 1972).
** p. 191 n. 16 FLGS: «261» (redaz. del 1966: si tratta dell’edizione 1960 del Saggio di De
Robertis, mentre in AF Timpanaro cita dalla «nuova ed.», da lui menzionata alla nota 11, del
1973).
** ibid. AF 305 rr. 4-5: «proi/biti» > «proi-/biti» (sillabazione di rinvio «a capo», a penna,
margine destro; la correzione è resa superflua dalla nuova impaginazione).
** p. 193 n. 19 FLGS: «1 di p. 92» (redazione – e impaginazione – del 1966).
** p. 194 FLGS: «sempre» (redazione 1966; sostituzione autografa con «anche»).
** ibid. («sviluppata al di là») FLGS: «sviluppata anche al di là» (redazione del 1966;
l’«anche» è stato eliminato per evitare la ripetizione con l’«anche» istituito poco sopra nello
stesso periodo – cfr. la precedente annotazione –).
** ibid. FLGS: «vol. II, pp. 1377 sgg. dell’edizione del Flora» (redaz. del 1966; manca anco-
ra, ovviamente, nella versione in rivista, il riferimento costituito dalla sansoniana Binni-Ghidetti
del 1969).
** ibid. FLGS: «II, pp. 1413-1421 Flora» (redaz. del 1966; cfr. precedente annotazione).
** p. 195 FLGS: «il Tacchi avrebbe copiato un po’ da questo proto-Zibaldone, un po’ dal
vero Zib., cfr. sopra p. 91» («p. 91»: numero di pagina della redazione in rivista; in volume
– Aspetti e figure –, tale pagina corrisponde alle pp. 299-301; qui, vedi alle pp. 187-188).
** ibid. FLGS: «si dette così la zappa sui piedi» (redaz. del 1966; «rivelò così la propria fro-
de» di AF non ha attestazione manoscritta ed è quindi innovazione della stessa edizione 1980).
** p. 196 n. 22 FLGS: manca «prescelto dai primi editori», istituito ex novo, senza annota-
zione manoscritta, dall’edizione 1980.
** ibid. («vedi sopra,») FLGS: «pp. 90-91» (numerazione del «Giornale storico»).
** ibid. («più dotte») FLGS: «e, magari, desiderose di far fare una figuraccia al Cugnoni»
(redaz. del 1966; la frase è completamente cassata nell’edizione 1980: non v’è segno manoscritto
dell’eliminazione).
** ibid. n. 23 FLGS: «3 di p. 91» (redazione del 1966).
** p. 197 AF, p. 312 n. 24: «1890» (così il testo a stampa 1980; si tratta d’evidentissimo
refuso, riferendosi la data ad uno dei «numeri» citati del «Don Chisciotte di Roma», tutti
– per quanto concerne l’argomento in questione – del 1899: tale è infatti l’anno indicato a stam-
pa nella nota 1, p. 98, di FLGS).
** p. 198 («AL, I») FLGS: «A. L. I» (non vi era virgola, e così sempre dopo «A. L.», in
FLGS, nel testo «in alto»).
Annotazioni autografe 519

** ibid. («gli abbozzi furono aggiunti») FLGS: «gli abbozzi vi furono aggiunti» (redaz. del
1966; non v’è segno manoscritto dell’eliminazione di «vi»).
** ibid. («p. 152») FLGS: «(2) Saggio sul Leopardi cit., p. 267.» (redaz. del 1966; nel «Gior-
nale storico» l’indicazione giuseppederobertisiana costituisce la nota 2 a p. 98, e riguarda l’edi-
zione 1964 [1960] del Saggio; in AF, oltre all’aggiornamento del dato bibliografico, vi è stato
l’assorbimento della citazione nell’immediata, lineare sequenzialità del testo «in alto»).
** p. 199 («il Flora e Muscetta e Savoca») FLGS: «e il Flora» (redaz. del 1966; il riferimento
a Muscetta e a Savoca è intervenuto successivamente, e non è documentato con integrazione
manoscritta).
** ibid. («tutti») FLGS: «tutti e tre» (redaz. del 1966).
** p. 201 («degna») FLGS: «degna certo più di una guida turistica o di una didascalia di car-
tolina illustrata che» (redaz. del 1966; nessuna cancellazione o sostituzione manoscritta).
** ibid. («sforzato») FLGS: «artificioso» (redaz. del 1966; nessun intervento manoscritto).
** ibid. n. 32 («L’ultimo canto di Saffo») FLGS: «in “Rassegna della letter. ital.” 1959, pp.
205 sg., e ora in Ritratti e letture, Milano 1961, p. 244 sg.» (redaz. del 1966; nessuna sostitu-
zione manoscritta).
** ibid. («paragr. 5») FLGS: «pp. 106 e 108» (redaz. del 1966; l’autore si riferisce ai nume-
ri di pagina del «Giornale storico»).
** p. 202 («Scheel») FLGS: manca il successivo «e più compiutamente dalla Corti», aggiunto
nella redazione 1980 AF.
** ibid. («Per esempio ...») FLGS: «“Dell’incantevole e magico effetto” è un doppio qui-
nario, e» (cancellato; redaz. 1966).
** ibid. («“pèr cui”, ...») FLGS: «al verso 22 corsì, al 28 forsé, al 23 arrèstai» (redaz. 1966;
«al 28 forsé», perfettamente legittimo come esempio e allineabile agli altri forniti, forse perché
inframesso, nell’àmbito dell’annotazione autografa, nella sequenza degli esempî costituiti dai
versi 22 e 23 – [22, 28, 23] –, è rimasto fuori dalla redazione in volume; non è in tal senso da
escludere una distrazione d’autore nel passaggio dalla redazione nel «Giornale storico» a quel-
la in Aspetti e figure, o una distrazione indotta nello stesso autore in séguito ad errore tipografi-
co: dopo l’allineamento dell’esempio del verso 23 a quello dell’esempio del verso 22, il suddet-
to esempio del verso 23 è rimasto pur sempre, nell’ordine della serie manoscritta, l’ultimo, e può
avere escluso l’esempio – appunto, il verso 28 – che concettualmente, nella «serie mentale»,
avrebbe in realtà dovuto ultimare la micro-filza elencativo-dimostrativa).
** ibid. («Al verso 32, ...») FLGS: «Al verso 32 crèder in fin di verso» (redaz. 1966; da
«dove pure» a «impossibile in fine di verso» si tratta d’aggiunta della redaz. 1980, in volume,
non attestata, neppure a livello manoscritto, nella redaz. comparsa nel «Giornale storico»).
** ibid. n. 33 FLGS: manca ovviamente nel 1966 la citazione, poi istituita, per questo sag-
gio, nella redazione AF, di TO (Tutte le opere, Binni-Ghidetti).
** p. 203 («togliendone là un’altra,») FLGS: «trasponendo,» (redaz. del 1966; nessuna cor-
rezione manoscritta).
** ibid. («degli scolari») FLGS: manca il successivo «...e trascurando gli accenti», che è
aggiunta, non documentata come integrazione manoscritta, di AF 1980.
** ibid. («al verso 1») FLGS: «al primo verso».
** p. 206 FLGS: «È un atteggiamento, più che da curatore di un’edizione, da “precettore”
verso il ragazzo Leopardi: si corregge quel che si può, senza tuttavia pretendere di rifare intera-
mente quello che deve rimanere un “saggio” scolastico» (annotazione manoscritta nella redazione
1966; vi sono, come si può constatare, alcune differenze rispetto all’edizione 1980 in volume).
** p. 207 («l’autografo») FLGS: manca il successivo «, nemmeno un falso autografo»,
aggiunto in AF 1980.
** p. 208 FLGS: «, in quell’epoca,» (integrazione manoscritta regolarmente giunta nel testo
a stampa del 1980).
** p. 210 FLGS: «Prefetto»; AF 326 r. 24 (compresa citazione): «“scrittore” della Biblio-
520 Annotazioni autografe

teca Ambrosiana» > «“dottore” etc» a lapis, margine sinistro (si segnala la correzione anche in
questa sede perché si tratta d’inserzione sostitutiva del precedente termine).
** p. 212 FLGS: «p. 91 sg.» (numerazione del «Giornale storico»).
** ibid. («Jozzi») FLGS: manca per intero il periodo che va da «Nemmeno» a «Jozzi», che
è aggiunta di AF 1980, senza anticipazione autografa.
** ibid. («, con ragione,») FLGS: manca «, con ragione,», che è inserzione di AF 1980, sen-
za, anche in questo caso, anticipazione autografa (le ultime due annotazioni – cfr., infatti, la pre-
cedente inserzione d’intero periodo – rafforzano, motivatamente, il laico e anticlericale concet-
to che, qui addirittura su diretta base filologico-documentaria, sostiene tutta l’argomentazione
di Timpanaro).
** p. 214 n. 51 FLGS: «94 n. 1» (numerazione del «Giornale storico»).
** ibid. FLGS: «95» (numerazione del «Giornale storico»).
** ibid. n. 53 FLGS: «abbia confuso tra le due opere di Eusebio; oppure che il lapsus sia sta-
to commesso da uno scrivano dell’autorità ecclesiastica che gli rimandò la copia della supplica
col rescritto in cui si concedeva la licenza» (redaz. del 1966; AF 1980 ha in tal senso, e limita-
tamente a questo caso, molto semplificato il testo apparso nel «Giornale storico»).
** p. 215 FLGS: «p. 98» (numerazione del «Giornale storico»).
** ibid. FLGS: «Poesie e prose» (cfr. Avvertenza sulle citazioni da «Aspetti e figure della cul-
tura ottocentesca»).
** ibid. FLGS: «93» (numerazione del «Giornale storico»).
** p. 217 FLGS: da «mi conferma» ad «Augusto Campana», si tratta, senza mutamenti, di
testo trasferito dalla nota 2, p. 112 dell’edizione 1966 nel «Giornale storico», al testo «in alto»
nella redaz. 1980 («Mi» con l’«M» maiuscola nella suddetta nota del «Giornale storico», dato
che si trattava della parola iniziale della nota stessa).
** ibid. FLGS: «!»; «cfr. abbozzo I, dove apre / copre presuppongono due diversi significa-
ti di orizzonte» (il punto esclamativo a «non visibilità dell’orizzonte» è nella redaz. 1966; i con-
cetti dell’annotazione, da «cfr. abbozzo I», confluiscono nella redaz. 1980, con alcuni muta-
menti testuali – com’è visibile –, nella nota 55; da tenere particolarmente presente il rimando,
che vi è nella stessa nota 55, alla precedente nota 25).
** p. 218 FLGS: «non lega affatto» (redaz. 1966).
** ibid. («bisticcio») FLGS: «di» (ossia, «bisticcio di...»; nessuna correzione autografa).
** ibid. FLGS: «G. De Robertis, Saggio sul Leopardi cit., p. 265» (redaz. 1966; la citazione
costituiva la nota 1 – ora inglobata nel testo «in alto» – a p. 113 del «Giornale storico»: Tim-
panaro ancora si riferiva alla IV ed. – 1960 – del Saggio).
** ibid. FLGS: «Questa correzione compare per la prima volta nel “Suppl. generale a tutte
le mie carte”, cfr. Monteverdi, p. 149.» (è, in forma di pregresso nucleo annotato a margine, la
nota 57 del testo 1980).
** p. 219 FLGS: «nei versi 1-11» (senza anticipazione autografa della variante).
** p. 220 FLGS: «,» (ossia, «Poi, l’Infinito»; la virgola, scritta a mano, non è approdata ad
AF 1980).
** p. 221 n. 59 FLGS: «con certezza» (non v’è segno autografo d’espunzione in vista di AF
1980).
** ibid. n. 60 FLGS: «4» (numerazione del «Giornale storico»).
** ibid. n. 61 FLGS: «Poesie e prose a cura del Flora,» (cfr. l’Avvertenza sulle citazioni da
«Aspetti e figure della cultura ottocentesca»; manca ovviamente, in FLGS, il rinvio alla Binni-Ghi-
detti).
** ibid. n. 62 FLGS: «ed. Flora» (cfr. la precedente annotazione).
** ibid. n. 63 FLGS: «e Flora» (cfr., per ogni necessaria precisazione, le due annotazioni pre-
cedenti).
** ibid. FLGS: «Pochi» («pochi» anni, quattro, separavano il 1966, l’anno in cui fu pubbli-
cato l’articolo timpanariano nel «Giornale storico», dall’uscita recanatese – 1962, appunto – del-
la Condanna e viaggio del Redentore al Calvario: nella nota 65 Timpanaro ne dà gli estremi biblio-
Annotazioni autografe 521

grafici; nel 1980, invece, i diciotto anni nel frattempo trascorsi giustificano il «Vari» di AF).
** p. 222 FLGS: «90» (numerazione del «Giornale storico»).
** ibid. n. 66 FLGS: «pagina preced., n. 5» (numerazione del «Giornale storico»; la pagina
precedente è, nel 1966, la 115).
** p. 224 n. 68 FLGS: la nota 1 p. 118 della redazione nel «Giornale storico» – corrispon-
dente, appunto, alla nota 68 di AF – si ferma a «Comunale di Milano»; da «cfr. G. Lonardi» a
«p. 165» si ha in AF 1980 un’aggiunta parzialmente anticipata (proprio nel Leopardismo di
Lonardi), in FLGS, dall’annotazione autografa sul foglio di risguardo, la prima del presente capi-
tolo V – vedi più sopra – da noi trascritta in questa sede.
** ibid. («trovano») FLGS: «trovavano» (redaz. 1966; nessuna anticipazione autografa di
«trovano»; – ne risulta, nel testo di AF, la conquista, con un «presente» di puro resoconto con-
cettuale-culturale, svincolato dal condizionamento temporale-narrativo espresso dall’imperfet-
to «di cronaca» del 1966, d’una superiore misura di respiro saggistico, d’una, se possibile trat-
tandosi di Timpanaro, ancor più nitida cifra di distaccata dimensione scrittoria; né questo dato
menoma in alcun modo la ratio vigile e «schierata», la subcutanea vena polemica che la filologia
del saggio sui «falsi leopardiani» acuminatamente arma contro le strategie, o talvolta semplice-
mente contro le tattiche ideologiche del mondo ecclesiastico, e più in generale contro i prete-
stuosi movimenti culturali del clericalismo).
** p. 225 («vedi qui sopra, nota 8») FLGS: «Vedi sopra, p. 92 n. 1» (numerazione del
«Giornale storico»; il rinvio, che in AF è nel testo «in alto», costituisce invece in FLGS la nota
2 di p. 118; del passaggio da nota piè pagina a rinvio incorporato nel testo «in alto» non v’è, in
FLGS, alcuna anticipazione autografa).
** ibid. («p. 204») FLGS: «p. 103» (numerazione del «Giornale storico»).
** ibid. («questo problema69») FLGS: «(*) {richiamo con asterisco, ripreso a fondo pagina}
(*) Onoranze rese a G. Cozza-Luzi Vice Bibliotecario di Santa Romana Chiesa, Roma 1898,
pp. 14-16 bibliografia: non risulta abbia composto versi stampati» (l’annotazione autografa è
un pregresso nucleo della nota 69 di AF 1980; sulla funzione dell’asterisco in questa annotazio-
ne e in quella che darà luogo alla nota 72, cfr., più sotto, la citazione dell’offerta d’una perga-
mena al Cozza-Luzi).
** ibid. n. 70 FLGS: «Giri» («i»: [cr]; la correzione del refuso, oggetto di doppia sottoli-
neatura, viene regolarmente apportata nella redaz. 1980).
** p. 226 FLGS: «Onoranze cf. qui sotto: fu offerta al Cozza-Luzi una pergamena il cui testo
dettato dal Cugnoni, p. 10» (dopo «Cugnoni, p. 10» la frase rimane formalmente non conclusa
– manca, è un’ipotesi, un «fu» a comporre «fu dettato [...] dal Cugnoni», che è il testo acquisi-
to dalla n. 72 in AF 1980 –; questa composita forma d’annotazione – cfr. qui sopra il primo
richiamo alle Onoranze e alla bibliografia sul Vice Bibliotecario, destinato alla nota 69, e insie-
me cfr., qui, la successiva e quasi immediata ripresa del tema e delle notizie sulle Onoranze [«cf.
qui sotto», sempre a proposito del Cozza-Luzi] – istituisce appunto, ex integro, non una, bensì
due note, la 69 e la 72 dell’edizione 1980 Nistri-Lischi, nelle quali si scindono, ciascuno diver-
samente arricchendosi, indicazioni e concetti qui vergati a mano; si parla d’annotazione in for-
ma composita poiché l’asterisco di richiamo, già prima citato, si pone in alto, al margine destro
del testo a stampa, all’altezza della fine del capoverso che termina con «su questo problema»,
quindi, con buona approssimazione di spazio, all’altezza delle parole che accolgono la nota 69
della redazione Nistri-Lischi: la relativa annotazione doveva primitivamente essere concepita
come origine della sola nota 69, mentre in séguito lo stesso asterisco, che appare autonomamente
«stagliarsi» in alto, ha invece ampliato il proprio ruolo grafico-manoscritto assumendo la dupli-
ce funzione di segnale per la citazione delle Onoranze – nota 69 –, per il quale si rivela insuffi-
ciente lo spazio materiale-cartaceo, onde il necessario rinvio «richiamato» al più capiente e
comodo fondo pagina, e altresì la funzione di contiguità con quella notizia dell’offerta d’una per-
gamena al Cozza-Luzi che non a caso s’incanala verso l’altra e del pari nuova e non meno speci-
ficamente mirata nota 72).
522 Annotazioni autografe

vi. natura, dèi e fato nel leopardi

** p. 227 δ: «379 Alla Natura v. sopra Asp. f.» (per il presunto idillio Alla Natura cfr. infat-
ti Di alcune falsificazioni di scritti leopardiani, qui citato da Timpanaro nella sua versione in volu-
me, appunto in Aspetti e figure, ma comunque precedente, in quanto pubblicato in rivista nel
1966, a Natura, dèi e fato nel Leopardi, uscito come primo degli Addenda nel 1969).
** ibid. δ: «Solmi nuove indicaz. bibliogr. ha torto» (una sintetica ma efficace ricognizione
dei motivi di dissenso critico da Sergio Solmi può essere letta nella Prefazione ai Nuovi studi sul
nostro Ottocento, cit., pp. XIV-XVI).
** p. 228 δ: «380 Blasucci» («380»: numero di pagina dell’edizione Nistri-Lischi; di Blasucci
si ricordi La posizione ideologica delle «Operette morali», allora – 1969 – di imminente pubbli-
cazione nell’opera collettiva Critica e storia letteraria. Studi offerti a Mario Fubini, 2 voll., Pado-
va, Liviana, 1970, I, pp. 621-672, quindi in Luigi Blasucci, Leopardi e i segnali dell’infinito, Bolo-
gna, Il Mulino – «Saggi» 293 –, 1985, pp. 165-226).
** p. 229 δ: «purismo: Binni mi fraintende».
** p. 230 δ: «Asp. fig. Dionisotti – Vitale – Tateo – art. Cesari DBI – Schubart»; il nome
di «Vitale» è congiunto da un tratto di penna, con funzione di richiamo, ad alcune parole scrit-
te al di sotto di «poco rigore di Solmi» – cfr. successiva annotazione –; le parole sono: «Quest.
lingua; / Purista, purismo, Acme 17, 1964, 187 sg. / Marazzini»; si ricorda che il saggio di Mau-
rizio Vitale intitolato Purista purismo. Storia di parole e motivi della loro fortuna, in «Acme», XVII
(1964), 187 sgg., come anche il saggio Classicismo e purismo, «ivi», XXIII (1970), 233 sg., appa-
re già citato in queste Annotazioni.
S’aggruma, qui, una costellazione di nomi, e di rimandi non solo bibliografici ma anche gene-
ralmente culturali, che acquisiscono il saggio Natura, dèi e fato nel Leopardi, e insieme la secon-
da, dinamica «fase» di Classicismo e illuminismo, ad una dimensione più latamente timpanariana,
capace d’abbracciare l’intera ottocentistica dello studioso, o, meglio, impossibilitata, feconda-
mente e fortunatamente impossibilitata a non abbracciare un campo così ampio, a non spaziare
in un àmbito intessuto d’una fittissima rete di rinvii e di rimbalzi concettuali, nessun piano
escluso, da quello della linguistica a quello dell’ideologia filosofica e letteraria. La focalizzazio-
ne critica del purismo primoottocentesco e in specie antoniocesariano s’apre infatti, proprio e
significativamente qui, sulle pagine del «vecchio» Classicismo e illuminismo (tanto più se in δ,
la copia della seconda edizione nella ristampa del 1984), a tutta una serie di riflessioni e di studî
che ormai non fanno più parte del volume Classicismo e illuminismo quale oggetto ufficiale, ma
ne fanno parte, di contro e a ben maggiore «compenso» culturale, quali componenti d’un’uni-
ca, grande ricerca che deve trovare altri titoli editoriali (nel tempo e per questi argomenti,
soprattutto Aspetti e figure e i Nuovi studi) soltanto perché non è possibile scardinare la primiti-
va impaginazione del volume-matrice, dell’UrClassicismo e illuminismo; ma da queste pagine s’e-
ra formato ed era partito, e qui ritorna, il robusto nucleo di revisione storiografica, in ratio
antihegeliana e in buona parte antidesanctisiana, dell’Ottocento italiano. E tutte appartenenti
ad Aspetti e figure e ai Nuovi studi sono le sollecitazioni e i caposaldi bibliografici annotati a
mano, quasi a lista, riguardo a Natura, dèi e fato nel Leopardi: una sequenza di nomi intensamente
registrati come a non perderne uno perché si era sull’ultima pagina delle postille di δ, ancorag-
gi onomastici d’autori di saggi fra loro collegati a catena, a sancire, ove ve ne fosse bisogno, l’as-
soluta attualizzazione dei fondamenti di Classicismo e illuminismo nella coerente prosecuzione
della ricerca di Timpanaro, oppure, se si preferisce, la perfetta acclimatazione degli studî cro-
nologicamente nuovi nella non fortuita temperie antecedente, la temperie metodologica delle
indagini sull’origine del purismo leopardiano e sul suo superamento, su un fenomeno decisivo,
anche nel suo momento ideologico denegante, per tutta l’evoluzione del primo Leopardi. Da
qui l’osmosi, armoniosa ed omogenea, e nel contempo rigorosa e severa, fra Aspetti e figure, ed
altresì i Nuovi studi, e Classicismo e illuminismo (un’osmosi coerente e organicamente nistri-
lischiana): Aspetti e figure è sùbito scritto, quasi a premessa, come volume del tutto legato a Clas-
Annotazioni autografe 523

sicismo e illuminismo e da questo non indipendente; il nome di Dionisotti ricollega al saggio Il


Giordani e la questione della lingua, in special modo a p. 150 n. 2 e alle successive pp. 151-152 e
157, nelle quali si evidenzia con qualche dissenso rispetto allo stesso Dionisotti la novità di con-
cezione linguistica di Cesari rispetto al modernismo settecentesco, facendo riferimento, oltre alla
recensione alla Storia della lingua italiana di Migliorini in Geografia e storia della letteratura ita-
liana, alla «distinzione fra il purismo cesariano e il fiorentinismo», e richiamandosi pure agli
studî di Maurizio Vitale, che è difatti il secondo nome dell’annotazione. La questione della lin-
gua, come anche il già citato articolo del 1964 in «Acme», la Storia del purismo allora in prepa-
razione, L’oro nella lingua, il contributo nei Saggi di letteratura italiana in onore di G. Trombato-
re, gli articoli su Il purismo linguistico di A. Cesari in «Lettere italiane» (1950) e Il purismo
linguistico italiano e l’opera di A. Cesari in «Cultura e scuola» (1978), dunque alcuni dei più
importanti lavori di Vitale, entrano in relazione con la voce dedicata a Cesari dallo stesso Tim-
panaro nel DBI del 1980, contemporaneamente alla ripubblicazione de Il Giordani e la questio-
ne della lingua (che era del 1974) in Aspetti e figure; e più ancora funziona, la griglia di collega-
menti, con i Nuovi studi, che nel 1994 iniziano proprio con la rielaborazione della voce su
Antonio Cesari (cfr. qui sopra l’annotazione alla n. 41 de Le idee di Pietro Giordani), supporta-
ta dalla costellazione bibliografica il cui nucleo è quello depositato senza neanche indicazione
di numero di pagina nelle annotazioni a Natura, dèi e fato, com’è reso palmare dalla conclusione
del saggio (Nuovi studi, p. 26): «[...] a una valutazione storicamente più equa [...] si è giunti nel-
l’ambito del rinnovato interesse per la questione della lingua (M. Vitale, C. Dionisotti, F. Tateo,
R. Tissoni, S. Timpanaro con maggiori riserve, e altri)». Vitale, Dionisotti, Tateo (cfr., di que-
st’ultimo, Da Cesari a Leopardi, I, L’intenzionalità estetica del purismo cesariano, in Michele Del-
l’Aquila-Arcangelo Leone De Castris-Vitilio Masiello-Francesco Tateo-Michele Tondo, La cul-
tura letteraria italiana dell’Ottocento, De Donato, Bari 1976, pp. 14-47, citato proprio in Nuovi
studi, p. 28) sono gli stessi nomi presenti a concludere, in autografo, la copia stampata da noi
denominata «δ»; e sùbito dopo l’autore allinea il proprio articolo su Cesari; e ancora, il barone
di Schubart, nominato in δ, è personaggio che costituisce un preciso e miratissimo rinvio ai soli
Nuovi studi, l’unico volume timpanariano in cui Herman Schubart, appunto, ambasciatore del
re di Danimarca a Napoli fino al 1805, poi residente a Montenero presso Livorno e vicepresi-
dente dell’Accademia (in séguito Società) Italiana di Scienze, Lettere ed Arti, venga esplicita-
mente menzionato. Amico di Cesari e di Monti, fautore d’una loro riconciliazione quando nac-
quero reciproci dissensi, culturalmente filoitaliano e promotore d’artisti e di letterati (compreso
il sostegno prestato per far premiare dalla suddetta Società la cesariana Dissertazione), dedica-
tario delle cesariane Grazie, egli è citato nelle sole pp. 13-14 dei Nuovi studi, anche sulla base
d’un notevole contributo nel frattempo pubblicato dalla moglie di Timpanaro, Maria Augusta
Morelli: Alcune note sul barone di Schubart, in «Critica storica», XVIII (1981), pp. 466-519
(Nuovi studi, p. 13 n. 12; nella stessa n. 12 lo studioso precisa nel saggio della Morelli i riferi-
menti ai rapporti con il Cesari – p. 479 n. 40 e pp. 482 sg. – e con Vincenzo Monti – pp. 473,
481 sg., 490, 499, 518 sg. –; il danese Herman Schubart non ha alcunché in comune con il filo-
logo tedesco Wilhelm Schubart, autore fra l’altro dell’articolo «Palimpsestus», in Pauly-Wis-
sowa, XVIII. 3, 1949, col. 123 sg., citato nell’Appendice A – Sulle scoperte e pubblicazioni di
palinsesti prima del Mai – ad Angelo Mai, VI capitolo di Aspetti e figure, p. 248). Anche nel caso
di Claudio Marazzini la citazione concerne solo i Nuovi studi, a p. 211, n. 10, a proposito del-
l’ultimo capitolo De Amicis di fronte a Manzoni e a Leopardi: Il gran «polverone» attorno alla rela-
zione manzoniana del 1868, in «Archivio glottologico italiano», LXI (1976), p. 120; e nella stes-
sa nota (pp. 211-212) tornano i richiami al Vitale di L’oro nella lingua e, insieme, i richiami al
Monti, all’antimanzoniano Graziadio Isaia Ascoli, al padre Cesari (anche a p. 213) e
all’«ambiguità fiorentino/toscano». Aspetti e figure, e oserei dire in ancor maggiore misura i ben
più recenti Nuovi studi sul nostro Ottocento (tutta, e non è certo un caso, la saggistica nistri-lischia-
na di Timpanaro) sono strettamente lì, dunque, sono presenti e vivi e convintamente deposita-
ti via inchiostro in Classicismo e illuminismo nell’Ottocento italiano, ne fanno già legittimamen-
524 Annotazioni autografe

te parte, e, considerati nella loro genesi intellettuale di “volumi”, imprescindibile parte inte-
grante. Semmai, stupirebbe fortemente il contrario: sul piano logico, innanzi tutto, e altresì sul
piano storico-cronologico, sul piano culturale e su quello editoriale.
Più che mai appare riconquistabile l’appunto che siamo venuti svolgendo sull’annotazione
alla «copertina» – vedi sopra, in queste Annotazioni – sul valore di midollare essenza storica e
critica rivestita da Natura, dèi e fato nel Leopardi riguardo allo snodo intellettuale verso il rin-
novato Classicismo e illuminismo; in singolar modo, valga il concetto d’osmotica, scambievole
continuità linguistica fra le prime pagine (ma non esclusivamente quelle) di questo VI capitolo
e il primo capoverso della «copertina», in una sorta di speculare reduplicazione cogitativa ed
espressiva. Speculare come distillato sintetico, sì, ma tale da non esser deterrente alla ripresa
nomenclatoria, alla citazione diretta, al mutuo transito capitolo-«copertina» della medesima
dotazione terminologica, alla pronuncia lessicalmente professa della stessa parola, vivente o can-
cellata (come il già notato «rigene» per «rigenerazione», virtuale ospite della copertina e inve-
ce escluso poiché già defluito nel testo del capitolo), ma ancora visibile nel fervido, quasi anco-
ra visivamente «sudato» dinamismo dell’annotazione manoscritta. La «copertina» si scrive quasi
sempre a testo finito: e il Timpanaro della «copertina» del 1965 – I edizione – era già, intellet-
tualmente, il Timpanaro della sontuosa «aggiunta», dell’Addendum assolutamente necessario;
era, in definitiva, già l’autore della seconda edizione, se non anche, proprio a causa delle limita-
zioni editoriali, e quindi con la mente oltre l’ostacolo, l’autore del progetto d’una terza poten-
ziale concezione del volume. Non a caso, Natura, dèi e fato nel Leopardi accusa una «percentua-
le» assai esigua di successivo ripensamento, di modifica (in uno studioso ideologicamente, ma
anche espressivamente tormentato da «flaubertiana» pressura di correttoria autorevisione). Il
testo di Natura, dèi e fato nel Leopardi v a b e n e , insomma, e ciò è fortemente significativo;
e le posteriori annotazioni autografe, poche se confrontate a quelle che devono sopportare altri
saggi della seconda edizione di Classicismo e illuminismo, non si pongono, come per altri testi
invece avviene, quali «correzioni», quali «modifiche» o «integrazioni-rettifiche», e perciò qua-
li interventi d’alterazione qualitativa, seppur talora minimale, del testo precedente; essi sono
piuttosto indicazioni, direzioni di ricerca, e, spesso, sanzione di pertinenza di ricerche già avvenute
e di saggi già scritti e già pubblicati e sostanzialmente non rimessi in discussione. Non, dunque, una
vera volontà correttoria su questo saggio, ma una serie di possibilità e di conferme; e, più anco-
ra, una rete di connessioni e d’associazioni, di riferimenti e d’incrociati rinvii rispetto a studi
ed a testi saggistici, dell’autore o d’altri, che sta a dimostrare, certo, l’assiduità d’elaborazione
concettuale di Timpanaro, ma che dichiara pure (e questo è il dato principale) la reciprocatio ine-
stricabile, se non in presenza di macroscopiche differenze di protocollo critico, fra molti dei lavo-
ri saggistici del Timpanaro ottocentista, e non solo ottocentista. Una reciprocatio tenacemente
coesa, anche dove è varia, a tal grado da rendere culturalmente intercambiabili gran parte dei
contributi interpretativi, storico-critici, critico-letterari, ideologico-culturali, e anche propria-
mente linguistici, leopardiani e non, con esclusione (così almeno sembra di poter pensare in
omaggio al genere e al «timbro» ispirativo e scrittorio di determinati lavori timpanariani) della
produzione peculiarmente, specificamente filologica (si vedano le varie edizioni de La filologia
di Giacomo Leopardi e la stessa edizione degli Scritti filologici) e di quella più scopertamente ideo-
logico-politica, cifrata sul «morso» polemico dell’indignatio appena velata, dell’attualizzazione
scottante e della manifesta pronuncia d’una vivace opzione di schieramento, anche nell’àmbito
della stessa sinistra e pur nella piena coscienza d’un’amara disillusione strategica sui percorsi del-
la res publica (è il caso di Antileopardiani). Nel doveroso rispetto dell’autonomia degli «estremi»,
da quello tecnico-testuale proprio della professione del filologo a quello del pensoso ma schiet-
to e dichiarato militante politico, si può considerare tutta la gamma degli studi nistri-lischiani
come una zona critica tutt’altro che diversa, nel protocollo di pensiero, da quella degli «estre-
mi» peculiarmente professati; ma si tratta d’una zona programmaticamente fluida e aperta alle
due fondamentali tipologie di approccio e al loro reciproco concorso, un’area di metodo che non
rinuncia ad alcuno dei due vettori, né a quello filologico né a quello storico, e che, proprio e in
Annotazioni autografe 525

particolare nei saggi pubblicati da Nistri-Lischi, tiene d’ambedue le sollecitazioni, nel solco basi-
lare d’una pur criticamente rivissuta eredità pasqualiana; ed è quindi da giudicare una zona sag-
gistica unitaria, anche al di là delle sue apparenze formali, della molteplicità delle contingenze
e delle occasioni critiche.
** p. 245 δ: «poco rigore di Solmi».

vii. note leopardiane

** p. 251 AF 275: «Leop. lett. a Giordani, 30 aprile 1817 “Mio Padre la ringrazia de’ saluti
suoi, e caramente la risaluta{”}» (a lapis, nell’intestazione).
** p. 258 (inizio Post scriptum) AF 284 r. 10: «segnalazione di Rino Avesani, 13. vi. 1961 (!):
Guido Vitaletti, Benedizioni e maledizioni in amore, “Arch. Rom.” III (1919), 206-39: a p. 239
cita il canto marchigiano con le parole “Nelle Marche abbiamo una lezione raccolta già dal Leo-
pardi in Recanati”.» (a penna, margine sinistro e intestazione).
** p. 263 AF 290 r. 11: «(segnalaz. di A. Carrannante, 21. i. 1981: progressivo in una corrisp.
anon. nell’“Antologia” gennaio 1832, 146 (opposto a retrogrado)» (a penna, margine sinistro).

viii. epicuro, lucrezio e leopardi

** p. 266 NS c1 143: «La Penna su Lucrezio (“Unità” 1983, rist. in volume ora)» (a lapis,
fronte pagina: cfr. Antonio La Penna, Da Lucrezio a Persio. Saggi, studi, note. Con una biblio-
grafia degli scritti dell’autore, a cura di Mario Citroni, Emanuele Narducci, Alessandro Peru-
telli, Sansoni, Firenze 1995).
** p. 286 n. 29 NS c2 166: «ora di nuovo Bigi, GSLI» (a penna, margine sinistro).
** p. 292 NS c1 173: «gli dèi di Epicuro “consentono all’opinione pubblica”, in realtà Epi-
curo ateo (cfr. De Nat. deor.): così, a torto, Pasquali Or. lirico 220 n. 3.» (a lapis, margine destro).
** p. 296 n. 38 NS c2 177: «Cfr. già Giordani, lett. al Leop. del 16.7.1827: “Mio caro, la
mia vita vitale è finita da un pezzo”.» (a penna, piè pagina).
** p. 301 n. 48 NS c2 183: «29» (Timpanaro, a maggior chiarezza della correzione di refu-
so, riscrive, cerchiandolo, il numero – 29 – della nota citata; a penna, margine destro nota).
** p. 304 n. 52 testo a stampa ’94: «(a p. 162 r.1, dopo “immortalità”, furono omesse per
errore tipografico una virgola e le parole “anche dell’immortalità”).» (frase da noi cassata per-
ché ormai del tutto superflua: la correzione del refuso, un saut du même au même, è poi stata
regolarmente da noi apportata nel testo [cr], in Alcune osservazioni sul pensiero del Leopardi – sag-
gio inserito fin dall’edizione 1965 in Classicismo e illuminismo –, sulla base di precisa annota-
zione autografa dell’autore: B e δ 162.
** ibid. NS c2 187: «Ricordo dei piaceri passati: più che mai infelicitante nella sventura:
Euripide Iph. Taur. 1117-22; Dante “nessun maggior dolore” ecc.; Leop. Ricordanze (e A Silvia)»
(a penna, fronte pagina e margine destro).
** p. 313 NS c2 196: «cfr. tuttavia U. Dotti»; nel testo, «Montaigne» sottolineato (cfr. Ugo
Dotti, Il savio e il ribelle. Manzoni e Leopardi, nuova edizione ampliata, Editori Riuniti, Roma
1993, in part. 170-172 – ma vedi, in generale, pp. 41, 122, 165, 181, 275 n. –; a lapis, margi-
ne sinistro).
526 Annotazioni autografe

ix. il leopardi e la rivoluzione francese

** p. 316 NS c1 e c2 128: «:» (i «due punti» si riferiscono a «cfr. qui sopra, p. 74 n. 8», da
noi trasposto in n. 2 come rinvio interno ad un saggio dei Nuovi studi – Pietro Gioia, Pietro Gior-
dani e i tumulti piacentini del 1846 – qui non ricompreso; nella nota è citato per esteso il saggio;
correzione a penna).
** p. 319 NS c2 132: «Nei “disegni letterari”, TO (Binni-Ghidetti) I p. 370: “Ifigenia, tra-
gedia o dramma dove si finisca colla morte della fanciulla”. – Segnalato già da Pasquali, Ifigenia
in Enc. Ital. 18 (1933), p. 810 “Anche G. Leopardi giovinetto si proponeva di trattare il tema”.»
(a penna, margine sinistro e intestazione).

x. carlo cattaneo e graziadio ascoli

I. Le idee linguistiche ed etnografiche di Carlo Cattaneo


** p. 328 postilla δ: «Armani, Bibliogr. C. Cattaneo / D. Santamaria. / Altra mia roba a can-
tiere. {?} e ide {?} / Rec. a {annotazione incompiuta} / Castellani Castelnuovo Frigessi».
Le parole di difficile lettura possono far ipotizzare «coordinare le idee»; i nomi degli studiosi
corrispondono a Giuseppe Armani, Gli scritti su Carlo Cattaneo: saggio di una bibliografia (1836-
1972), Nistri-Lischi – Collana scientifica «Domus Mazziniana», 13 –, Pisa 1973; a Domenico
Santamaria, Bernardino Biondelli e la linguistica preascoliana, Cadmo, Roma 1981; al linguista
Arrigo Castellani; a Delia Castelnuovo Frigessi, curatrice di Carlo Cattaneo, Opere scelte, 4 voll.,
Einaudi, Torino 1972.
** p. 344 n. 50 A: «P. de Tommaso, Il “Platone in Italia” del Cuoco, in “Belfagor” XXIX
(1974), p. 389 sg.»; δ: «De Tommaso».
** p. 346 postilla δ: «aggiornare; e Santamaria (Lo Piparo?)».
** p. 368 n. 131 B: «No: nel brano cit. sopra, le “monadi organiche” sono gli animali uni-
cellulari o simili!».

II. L’influsso del Cattaneo sulla formazione culturale e sulla linguistica ascoliana
** p. 373 n. 146 C: «cfr. G. Rosa, Autobiografie a c. di G. Tramarollo, Pisa 1963, pp. 127-
129.» (cfr. postilla alla stessa n. 146).
** p. 375 n 153 δ: «rabbuffo al Salvioni! / Santamaria».
** p. 376 C: «influsso del Tommaseo tra gli intellettuali della Venezia Giulia: v. le memo-
rie di P. Valussi.» (cfr. postilla a fine capoverso).
** ibid. postilla A: «Tommaseo-Valussi: Tommaseo e la “fratellanza dei popoli”, di G. Rutto,
‘Rassegna storica del Risorgimento’ 62, 1975, 3 sg.».
** p. 378 n. 163 δ: «294 n. 4 v. Lignana» («p. 294» è numerazione dell’edizione Nistri-
Lischi; «n. 4» è svista dell’autore per nota 31, a sua volta numerazione N. – L.: svista proba-
bilmente indotta dall’immediata contiguità con «4», ultima cifra del numero di pagina Nistri-
Lischi – la pagina 294 Nistri-Lischi annovera le note 31 e 32 –).
** p. 380 A: «cfr. già Ascoli, “Studj orient. e linguistici” I, p. 36.»; δ: «297 A Ascoli cit.»
(«297», indicato in δ, è, al solito, numero di pagina dell’edizione Nistri-Lischi).
** p. 387 n. 194 δ: «306 n. 62 Fano» («306 n. 62»: numero di pagina e di nota dell’edizio-
ne Nistri-Lischi; di Giorgio Fano è sinteticamente citato più sotto, nel testo, alla nota 280, il
Saggio sulle origini del linguaggio – titolo completo: Saggio sulle origini del linguaggio: con una sto-
ria delle dottrine glottogoniche, Einaudi, Torino 1962 – ed a lui, «pur all’interno di una conce-
zione idealistica della realtà», è attribuito il merito d’aver «confutato» i «presuntuosi sofismi»
che nascono dalla restaurazione dell’idealismo anche in linguistica: Timpanaro si riferisce, in
quella nota, alla polemica di Croce contro Alfredo Trombetti e alle posizioni dell’«hegeliano
Annotazioni autografe 527

ortodosso Augusto Vera» e dell’Introduzione alla filosofia della storia di quest’ultimo, Firenze
1869; ma in questa annotazione autografa l’autore, avendo in vista d’immettere nel volume un
contributo nuovo d’aggiornamento bibliografico e di conoscenza, vorrà richiamarsi non alla pre-
cedente e già citata edizione, bensì alla riedizione del Saggio di Fano, quindi alla sua più recente
riproposta – cfr. anche successiva annotazione alla nota 227 –, forzatamente non confluita nel-
le ristampe di Classicismo e illuminismo: Giorgio Fano, Origini e natura del linguaggio. Ried.
postuma con pag. inedite a cura di Anna e Guido Fano dell’ed. intitolata Saggio sulle origini del
linguaggio, Einaudi – «Piccola Biblioteca Einaudi» 209 –, Torino 1973).
** p. 397 n. 227 δ: «319 n. 95 Nencioni, nuova ediz.» («319 n. 95»: numero di pagina e di
nota dell’edizione Nistri-Lischi; alla prima edizione, citata da Timpanaro nella nota 227 – Gio-
vanni Nencioni, Idealismo e realismo nella scienza del linguaggio, La Nuova Italia-«Biblioteca di
cultura» 25, Firenze 1946 –, ha fatto séguito la «nuova ediz.», con lo stesso titolo, Scuola Nor-
male Superiore-«Pubblicazioni della Classe di Lettere e Filosofia», «Scuola Normale Superio-
re» 5, Pisa 1989).
** p. 406 n. 255 B: «Sostrato-manie e S-phobie:» («S-phobie» sta evidentemente per «So-
strato-phobie»; l’annotazione, dopo il segno dei due punti, non è completata).
** p. 407 A: barra verticale di richiamo ad inizio periodo (si tratta, qui e nei successivi capo-
versi, d’un concetto che particolarmente interessa Timpanaro: il lungo silenzio, non facilmente
spiegabile, degli scritti linguistici di Ascoli su Cattaneo – cfr. anche la successiva annotazione
allo stesso passo); δ: «p. 333 “Eppure ...”. No, cfr. Santamaria» («p. 333»: numero di pagina
dell’edizione Nistri-Lischi).
** ibid. B: «No (D. Santamaria)» (il «No» è scritto cerchiato, a riprova – cfr. la precedente
annotazione – del costante interesse rielaborativo applicato all’argomento).
** p. 409 A: «Pignatelli, Le origini settecentesche del cattolicesimo reazionario ecc, “Studi
storici” XI, 1970, pp. 755-82». Sono parole autografe scritte in un foglietto inserito fra le
pp. 334 e 335 dell’ed. 1969; la collocazione del foglietto appare incongrua agli argomenti trat-
tati in questo passaggio del capitolo cattaneiano-ascoliano; l’annotazione coincide invece total-
mente con il secondo riferimento bibliografico autografo da noi qui sopra inserito nella nota 1
ad Il Leopardi e la Rivoluzione francese, cap. VI dei Nuovi studi sul nostro Ottocento e, qui, IX
capitolo di Classicismo e illuminismo. Il foglietto è stato evidentemente posto per errore tra le
pagine di questo capitolo; ma la citazione è discesa inalterata, con «;[G(ius). ...]», «Giuseppe»,
premesso a «Pignatelli», nell’annotazione autografa di NS c1.
** ibid. B: «non, un poco lo aveva già rotto?».
** ibid. n. 269 C: al di sotto di «febbr.» appare «genn.» cancellato.
** p. 410 postilla δ: «vedi» (cerchiato).
** p. 417 δ: «p. 346 agg. A» («p. 346»: numero di pagina dell’edizione Nistri-Lischi; «agg.»,
«aggiunta» – o «aggiungere» –, appunto, delle parole che, nel testo, è stato in questo caso pos-
sibile incorporare in parentesi quadra).
** p. 419 A: «cfr. ancora Carteggi Ascoli-Salvioni, p. 96»; δ: «pp. 347 agg. A» («p. 347»:
numero di pagina dell’edizione Nistri-Lischi; per «agg.», cfr. precedente annotazione; in que-
sto caso, la mancanza d’espliciti, formali legami sintattici ed interpuntivi con la concreta feno-
menologia del dettato testuale destina alle presenti Annotazioni il rinvio bibliografico ai Carteggi
Ascoli-Salvioni).
** p. 421 n. 310 C: «Cfr. nello stesso art. p. 638 “L’epoca dell’homo àlalus, o, come egli
avrebbe preferito di dire, dell’homo illoquus ...” (poco prima del passo ora citato.)» (cfr. postil-
la alla stessa n. 310).
** p. 423 n. 312 C: «del Guarnerio» (cancellato: cfr. postilla alla stessa nota 312).
** p. 424 A: «cfr. Gius. Marchetti, Il Friuli (cit. a p. 284 n. 1), p. 632 sulle “ragioni nazio-
nalistiche e sentimentali” del dissenso di Salvioni da Ascoli sul ladino» («p. 284» si riferisce
all’impaginazione Nistri-Lischi, già nell’edizione 1965; la n. 1 è ora la 133, p. 370, all’inizio del
presente II paragrafo – capitolo X –, L’influsso del Cattaneo sulla formazione culturale e sulla lin-
528 Annotazioni autografe

guistica ascoliana); δ: «p. 354 Marchetti A; io» («354» è numero di pagina dell’edizione Nistri-
Lischi; «io» è scritto con doppia sottolineatura).
** ibid. postilla A: «Sull’interventismo virulento del Bartoli a Torino, cfr. G. De Sanctis,
Ric. della mia vita a c. di S. Accame, Firenze 1970, p. 107.».

xi. theodor gomperz

** pp. 429 AF 388-389: «1909. Socrate di Zuccante, n. a p. 15 di Framm. di storia della


filos.: sui Memorabili “Vedi quel che ne dice giustamente ne’ suoi Griech. Denk., II, 139-40 (del-
la trad. franc.) il Gomperz, a cui mancherà, anzi manca, il bernoccolo del filosofo, non quello
dell’uomo di gusto”.» (foglietto dattiloscritto incollato fra le pagine).
** p. 432 n. 13 AF 393: «9 verif.» (l’autore si riferisce ad una precisazione di verso, «Iph.
Aul.», 1058 > 1059; a lapis, margine destro).
** p. 471 AF 442: «9» sottolineato; Timpanaro si riferisce a Giuseppe Cambiano, Merlan:
filologia e filosofia, in «Rivista di filosofia», 10 – febbraio 1978 –, p. 89 sgg.; su Philip Merlan
cfr. anche, in questo contributo dedicato a Theodor Gomperz, la n. 54; a lapis, margine sinistro).

appendice i

1. Postilla su Maffei e Muratori


** p. 475 A: «Cfr. art. del Vitale sul Becelli» (la pagina iniziale dell’Appendice è stata segna-
ta dall’autore, per comodità, con il suo numero, cerchiato, «359»; su Giulio Cesare Becelli, set-
tecentesco purista veronese, cfr. appunto Maurizio Vitale, L’oro nella lingua: contributi per una
storia del tradizionalismo e del purismo italiano, Ricciardi, Milano-Napoli 1986, pp. 383-441);
δ: «359 Vitale su Becelli A, B?» («359» è il numero di pagina dell’edizione Nistri-Lischi; il pun-
to interrogativo, molto probabilmente rivolto solo a «B», è giustificato – vedi qui sopra, in que-
sta annotazione – dalla presenza del richiamo a Vitale soltanto in «A»: ulteriore conferma del-
lo scambio dinamico, della relazione non monogenetica esistente fra δ e gli altri testimoni, «C»,
«A» e «B»; δ spesso raccoglie annotazioni già presenti negli altri testimoni, e talvolta, come in
questo caso, «a distanza», senza immediato controllo – onde la momentanea incertezza qui
espressa dal punto interrogativo, come a chiedersi: «Il richiamo a Vitale sarà stato inserito sola-
mente in A o lo sarà stato anche in B?» –).

2. A proposito di un inedito del Cattaneo sulla poesia dialettale

** p. 487 C: «cfr. SF I 260» (Scritti filosofici: cfr., qui, l’Avvertenza sulle citazioni, sulle
postille e sulle aggiunte bibliografiche).
** p. 488 δ: «Borsieri: Spaggiari / Postfazione: lavori recenti Antileop. cap. su L. nota 3
/ Giovampietro / Galimberti» (questo appunto, scritto su autonomo foglietto inserito fra le
pagine precedenti all’Indice dei nomi di Classicismo e illuminismo, dimostra la volontà dell’au-
tore di aggiungere, se gli fosse stato possibile, una postfazione; gli aggiornamenti ragionati
della bibliografia sono in buona parte riuniti proprio nella nota 3 di Leopardi e la sinistra ita-
liana degli anni settanta, capitolo IV di Antileopardiani e neomoderati nella sinistra italiana, pp.
146-147).
ibid. C: «R. Bacone, De secretis trad. di G. Dee?, Milano 1945 / G. Mattiussi, Les points
fondamentaux de la philos. thomiste, Torino 1926??» (l’annotazione si trova in un foglietto
posto dopo l’Indice dei nomi, diviso in due parti da una linea orizzontale; ciascuna delle due
parti reca la rispettiva indicazione di Bacone e di Mattiussi; si cfr. adesso I segreti dell’arte e
Annotazioni autografe 529

della natura e confutazione della magia, di frate Ruggero Bacone, ora pubblicata per i candidati
alla vera scienza da un amatore della verità, secondo l’edizione critica antica di GIOVANNI
DEE [John Dee] londinese, Milano-San Donato, Archè-PiZeta, 1999 - tit. lat.: Fratris
ROGERII BACONIS De secretis operibus artis et naturae et de nullitate magiae, ripr. facs. del-
l’ed. Sebastiani; dell’opera di Mattiussi, si veda appunto GUIDO MATTIUSSI, Les points
fondamentaux de la philosophie thomiste: commentaire des vingt-quatre thèses approuvées par
la s. Congregation des études traduit et adapté de l’Italien avec l'authorisation de l'auteur
par l’abbé Jean LEVILLAIN, Turin, M. E. Marietti Edit. Tip., 1926).
ibid. B: «W. Fahr, Θεος νοµζειν. Zum Problem der Anfänge des Atheismus bei den
Griechen, “Spudasmata” 26, Hildesheim 1969.» (cfr. infatti WILHELM FAHR, THEOUS
NOMIZEIN: zum Problem der Anfänge des Atheismus bei den Griechen, Hildesheim-New York,
Olms - «Spudasmata» -, 1969; l’annotazione è in un foglietto inserito fra le pagine successive
all’Indice dei nomi).
Indice dei nomi e delle cose principali

Accademia della Crusca, vedi Crusca. n. 76.


Accame Bobbio Aurelia, 190 n. 13, 198 n. Anacreonte (anacreontèe), 11.
25, 201 n. 32. Anassagora, 153 n. 12, 440, 442.
Accame Silvio, 528. Andreoni Fontecedro Emanuela, 311-314.
«Accattabrighe (L’)», 8. Andres Giovanni, 178 n. 83, 229.
Acerbi Giuseppe, 8 e n. 7, 11, 13 e n. 19, Angeloni Luigi, XC, XC, 11 e n. 15, 12,
17, 43, 44, 54, 55, 66 n. 72, 72, 116, 507.
507, 510. Anglani, Barbara Silvia, LXX.
Adorno Theodor W., XCVI, XCVII. Anselmi Sergio, 505.
Adriani Marcello (il giovane), 164. Antíci Carlo, 115, 116 e n. 22, 168, 172 e
Agassiz Louis, 365, 366. n. 64, 174, 210, 213 e n. 50, 317 e n.
Agostino (santo), 84 n. 128, 109, 513. 4, 514.
Aiardi Alessandro, 251. Antíci Leopardi Adelaide, 104, 317 e n. 4.
Albini Umberto, 226 n. 73. «antiquaria» sette-ottocentesca, 497.
Alembert Jean-Baptiste d’, 49. Antistene, 154 n. 14, 439.
Alessandrini Giorgio, XCII n. 3, 3. Antognoni Oreste, 12 n. 40.
Alessandro Magno, 452, 459. «Antologia» (rivista), XXIII, 6, 15, 19 e nn.
Alessandrone Ersilia, XCVII n. 7, 131, 152, 34 e 35, 20, 29 n. 56, 48, 55, 82,128
273 n. 12. n. 55, 132, 137.
Alessi Turio, 167 n. 48. Antona-Traversi Camillo, 221 e n. 64, 222,
Alessio Franco, 332 n. 11. 223.
Alfieri Vittorio, XCV, 15, 24, 25 n. 43, 26, Antonielli Sergio, 191 e n. 17.
43, 68, 113 e n. 16, 120, 123, 155; A. Aporti Ferrante, 88.
e Lucano, 490-491. Arato Franco, LXX.
Alfieri Vittorio Enzo,179 n. 85. Archelao (filosofo greco), 170.
Algarotti Francesco, 152. Arimane, personificazione della natura ostile
Allacci Leone, 212. nel Leopardi, 294; «Arimane senza
Allodoli Ettore, 122 n. 40. Ormuzd», nel Leopardi, 294, 313.
Amari Michele, 79 n. 118, 81, 83. Aristippo, XXVI, 170, 452; vedi anche cire-
Amati Pasquale, 268 n. 4. naici.
Ambrosi Francesco, 66 n. 72. Aristotele, XLIX, L, LII, LVI, 6, 42, 51,
Ambrosoli Francesco, 59 n. 56, 172 n. 65. 150, 151 e n. 9, 153, 164, 170, 174 n.
Ambrosoli Luigi, 331 n. 8, 334 n. 16, 484. 72, 182 e n. 93, 183, 431 n. 9, 432 e
Amelotti Giovanni, 108. n. 12, 440, 441 e n. 30, 443, 444, 450
«Amici pedanti», XVIII, LXXVI, LXXX- n. 60, 451, 452, 453, 460, 461, 471;
VII, 61, 100 e nn. 4 e 8, 101, 102, 139 giudizio del Gomperz («Platonico e
532 Indice dei nomi e delle cose principali

Asclepiade», etica, politica), 443-444, Bacone Ruggero (Roger Bacon), 528-529.


450 n. 60, 451, 460-461, 471. Badke Otto, 508.
Armani Giuseppe, 526. Bailey Cyril, 266, 273, 288, 289, 301 n. 49,
Arndt Christian Gottlieb von, 350 e n. 74, 301 n. 49, 302.
362 n. 316. Bailly Jan-Sylvain, 152.
Arndt Ernst Moritz, 350 n. 74. Baioni Giuliano, 504.
Arnobio, 432. Balbo Cesare, 332, 340 nn. 36 e 37, 341 e
Arrighetti Graziano, 266, 302 n. 50, 303, n. 43, 344, 378, 379, 380, 381, 415 e
432 n. 12, 441 n. 33. n. 287, 416, 492.
Aruleno Rustico, 157. Baldacci Luigi, 25 e n. 46.
Ascoli Graziadio Isaia, XXV, XLIII, Balduino Armando, 224 n. 68, 517.
XLVII, LIV, LV, LVII, LXXVI, Balestrieri Domenico, 44 n. 20.
LXXIX, XCI, XCII, XCIII, XCVII, Balzac Honoré de, LXXXVIII, 262 n. 26.
CIII, 12, 21 e n. 38, 328 e n. 1, 329 e Bandini Carlo, 207.
n. 2, 342, 345 n. 55, 347 e nn. 62 e Bandini Luigi, 428, 445 n. 44.
63, 349, 369-427, 496, 506, 523, 526, Baranelli Luca, IX n. 5.
527; formazione giovanile, 369-376; barbari: influsso sulla lingua e la civiltà ita-
idee politiche, 372, 375, 391, 409-412; liana, 337-341, 475-483.
422-424, 425; legame tra linguistica e Barbarisi Gennaro, LXXXVI, 12, 45 n. 21.
antropologia, 398, 407-408, 412-414; Barber Edwin A., 511.
interesse per i problemi glottogonici, Barbieri Franco, 482 n. 11.
372-374, 412-414, 417; monogenesi e Barbuto, Antonio, XCV n. 5.
unità ario-semitica, 417-422; contro il Barchiesi Marino, 478 n. 6.
Biondelli, 346-348, 349, 385 n. 187; Barthélemy Jean-Jacques, XXIX, 164, 176
dissenso iniziale dal Cattaneo, 374-375, n. 79, 277-278 n. 17.
376-385; adesione alle idee del Bartoletti Vittorio, 432 n. 13.
Cattaneo, 388-390, 392-394, 407-422; Barigazzi Adelmo, 295 n. 37.
polemica contro i neogrammatici, 395- Barthélemy Jean-Jacques, XXIX, 164, 176
422; ostilità iniziale alla teoria del n. 79, 277-278 n. 17.
sostrato, 374, 382-388; adesione a tale Bartoli Daniello, XIX, 40, 97, 98 n. 1, 100,
teoria e suo sviluppo, 389-390, 394- 396.
395, 401-407, 414, 419-421; studi di Bartoli Matteo, 396 n. 25, 42, 423 n. 312,
dialettologia italiana, 369-371, 375, 424 nn. 314 e 316, 425, 426 n. 319,
390-392, 394-395; nella «questione 528.
della lingua», XCI, XCII, XCIII- Baruffi Gian Francesco, 47 n. 25, 78, 79 n.
XCIV, 392-394; scuola dell’Ascoli, 117, 81.
422-427. Barzoni Vittorio, 492.
Asor Rosa Alberto, LXX, LXXVIII, Bastiat Frédéric, 369 n. 132.
LXXXIX n. 2. Battaglia Roberto, 412 n. 278.
Assemani Simone, 212. Battisti Carlo, 424 n. 315.
Ast Friedrich, 168 e n. 53. Battistini Andrea, LXXIII.
Atene, giudizi di studiosi ottocenteschi sulla Baudelaire Charles, XCIX.
democrazia ateniese, 453, 456-459. Bayle Pierre, 122 n. 40.
atomisti greci, 440, 441-442 e n. 34, 449- Beauzée Nicolas, 59 n. 56.
450, 462-463. Becelli Giulio Cesare, 528.
Avalle D’Arco Silvio, XIII n. 20. Beda, 478 n. 6.
Avesani Rino, 191 n. 18, 207, 226 n. 73, Bédarida Henri, 76 n. 111.
525. Beethoven Ludwig van, 32 n. 60.
Avòli Alessandro, 116 n. 22. Bekker Immanuel, 434.
Belli Giuseppe Gioacchino, LXXXII,
Bacchelli Riccardo, 112 n. 13, 156 n. 21, LXXXIII, XCV, 122.
190 n. 12, 258 e n. 21. Bellina Massimo, 507.
Bacchini Benedetto, 477 n. 3, 480 n. 9. Bellini Bernardo, 53, 254 n. 12, 262.
Indice dei nomi e delle cose principali 533

Bellorini Egidio, 4 n. 1, 8 n. 6, 9 n. 8, 17 Binni Walter, XIX n. 28, XXVI, CIII, CV,


nn. 26 e 27, 19 nn. 31 e 32, 51 n. 36, CVII, 4, 15 n. 23, 27 n. 50, 28 n. 54,
122 n. 39, 338 n. 29. 32, 59 n. 56, 63 n. 68, 76 n. 111, 91 n.
Bellucci Novella, 507. 142, 95 n. 151, 108 e n. 1, 111, 112,
Bembo Pietro, 231, 336 n. 22, 341 n. 38. 113 e n. 16, 114 n. 20, 115, 118 n. 29,
Benfey Theodor, 385 n. 186. 120 n. 36, 122 n. 40, 136 n. 72, 138 n.
Bentley Richard, 434. 75, 141 n. 81, 199, 221 n. 63, 226 nn.
Berardi Gianluigi, 20 n. 35, 113 e nn. 15 e 71 e 73, 252 n. 2, 269 n. 6, 270 e n. 8,
16, 114, 125, 138, 143, 144 n. 84, 162 285-286 nn. 27-28, 292 n. 33, 301 n.
n. 34, 228, 235, 237. 48, 321 n. 14, 323 n. 17, 499, 504,
Berchet Giovanni, XCV, 4, 16, 18 e n. 30, 507, 513, 514, 515, 517, 518, 519,
19 e n. 32, 339 n. 33. 520, 522, 526.
Berengo Marino, 3. Biondelli Bernardino, 331 nn. 6 e 7, 346,
Bergson Henri, 420 n. 304. 347 e n. 63, 348-351 e nn. 75 e 76,
Bernays Jacob, 434 e n. 16, 435 e n. 18, 440 362, 373, 381, 385 n.187, 395 e n.
n. 29, 467. 219, 400 n. 239, 402, 408, 417, 419,
Bertani Agostino, CIII, 382 n. 178, 388. 526.
Bertelli Sergio, 480 e n. 9. Biondo Flavio, 336, 342 n. 45.
Berti Giuseppe, XC, 10 n. 10, 369 n. 132. Biovi Maria Grazia, 136 n. 72.
Berti Giuseppe (studioso cattolico di storia Biral Bruno, LXXXII, 113 e n. 15, 114, 126
della filosofia), 76. n. 50, 130 n. 60, 133, 134 n. 68, 143,
Bertoldi Alfonso, 14 n. 20, 77 n. 114, 513. 144 n. 84, 515.
Bertolino, Alberto, 335 n. 17, 358 n. 101, Bismarck Otto von, 467.
439 n. 27, 486. Bizzocchi Roberto, 507.
Bertone Giorgio, 511. Blanqui Auguste, 263.
Bertoni Giulio, 397, 426 n. 319. Blasucci Luigi, XXIV n. 35, L, LXXVIII,
Betti Salvatore, 8 e n. 6, 99, 513. 23 n. 41, 112 e n. 13, 136 n. 72, 172
Beverini Bartolomeo, 72 e n. 93. n. 64, 228, 255 n. 15, 259, 285 n. 28,
Bézzola Guido, 499 n. 5, 511. 294-295 n. 36, 297, 308 n. 60, 313,
Bianchetti Giuseppe, 55, 74, 512. 321 nn. 12 e 14, 515, 516, 522.
Bianchi Giovini Aurelio, 357 n. 98. Bleek Wilhelm Heinrich Immanuel, 422 e n.
Bianco Gino, 514. 311.
«Biblioteca Italiana», LXV, LXXXVII, Bobbio Norberto, CIII, 332 n. 11.
XCII n. 3, 3; nella polemica classico- Boccaccio Giovanni, 58, 254 e n. 12, 258 n.
romantica, 8 e n. 7; scissione del grup- 22.
po dirigente, 13 e n. 19, 15-17 e n. 26, Böckh August, 168, 433, 434, 435, 436, 441
43, 44 n. 20, 45 n. 21, 48, 53-55, 72, n. 30, 448; «etnicismo», 436-437; filo-
90-93, 103, 106, 211 n. 47, 228, 229, platonismo, 441 n. 30.
231, 232, 356 n. 94, 357 n. 96, 484. Bolelli Tristano, 341 n. 44, 423 n. 312.
Vedi anche Acerbi, Giordani. Bollati Giulio, XCVIII, XCIX, 59, 68, 176,
Bigi Emilio, 15 e n. 23, 27 e n. 50, 95 n. 516.
151, 112 e n. 9, 131 e n. 65, 133, 134 Bombelles Charles-René de, XXII, 69 n. 84,
n. 68, 135 n. 70, 136 n. 72, 171 n. 63, 85 e n. 130.
173 n. 68, 229 e n. 1, 241 n. 7, 243, Bonald Louis-Gabriel-Ambroise de, 327, 364
244 n. 8, 246 n. 9, 247 n. 11, 258 n. e n. 120.
20, 271 n. 9, 285-286 n. 28, 292 n. 33, Bonaparte Napoleone, vedi Napoleone I.
297 nn. 41 e 43, 313, 322 n. 17, 507, Bonghi Ruggiero, 100 e n. 6.
515, 516, 525. Bonitz Hermann, 431 n. 9, 432 e n. 11,
Bignone Ettore, 302 n. 50, 303, 312. 433, 435, 451.
Bigongiari Piero, 112 n. 13, 226 n. 73, 518. Bonnet Charles, 76.
Bindi Enrico, 492, 495, 497. Bopp Franz, 346 n. 60, 348, 360 n. 109,
Bini Carlo, XXIV n. 34, XL, LXX, XC, 361 e n. 114, 363 n. 119, 372 e n. 141,
505, 506. 389, 397 n. 228, 398, 399 n. 233, 417.
534 Indice dei nomi e delle cose principali

Borgese Giuseppe Antonio, 19 n. 35, 29. Callimaco, frammento dell’Ecale edito dal
Borghesi Bartolomeo, 490. Gomperz, 432 n. 13.
Borra Spartaco, 141 n. 82, 179. Calogero Guido, 429 n. 3, 462 n. 99.
Borsieri Pietro, XXII n. 32, XCII e n. 3, Calvo Edoardo, XCV.
XCV, 3, 17 n. 26, 18 n. 29, 45 n. 21, Camarda Demetrio, 389 e n. 201.
51 n. 36, 121 n. 39, 303 n. 51, 485, Cambiano Giuseppe, 464, 471, 528.
506, 507, 508, 514, 528. Camilli Amerindo, 394 n. 215.
Bosco Umberto, 31, 100, 120 e n. 35, 180 Campana Augusto, CV, 217, 253 n. 3, 268
n. 89, 236, 247 n. 11, 321 n. 14 n. 4, 311, 477 n. 4, 520.
Botta Carlo, 4. Campanella Tommaso, 40.
Boucheron Carlo, 50. Camporesi Piero, 3.
Bovio Giovanni, 412. Cancellieri Francesco, 115.
Branca Vittore, 4 e n. 1, 18 n. 29, 19 n. 31, Canova Antonio, 39 e n. 5.
39 n. 5, 338 n. 27, 339 nn. 30 e 33. Canova Giovan Battista, 77.
Brandis Christian, 435, 453 n. 68. Cantimori Delio, 85 n. 130.
Bratranek Thomas Franz, 454. Cantù Cesare, 19, 54, 351 n. 78, 373.
Bravi-Pennesi Mariano, 221 n. 61. Capponi Gino, XXIII, XXXV n. 40, 20, 38,
Bréal Michel, 399 n. 233. 68, 71, 83, 88, 99, 100 n. 4, 128 n. 55,
Breme Ludovico di, XLI, LXXXIX, XCII e 132, 492, 493, 495, 501, 513.
n. 3, 3-4, 9 e n. 9, 12 n. 17, 18, 19 e n. Caprioglio Sergio, 410.
31, 93, 228, 339 n. 33, 505, 507, 508. Capucci Martino, 112 e n. 11, 138 n. 73,
Bresciano Giovanni, 213 n. 50. 171 n. 62.
Bresciano Raffaele, 213 n. 50. Carcano Giulio, 265 n. 29.
Brighenti Pietro, 47 n. 24, 48, 60, 71 n. 90, Cardini Roberto, 3.
91, 92 n. 146, 94, 320 e n. 12, 321 n. Cardini Timpanaro Maria, LXXIII.
13, 516. Cardone Lorenzo, XCV n. 5.
Brilli Attilio, 138. Carducci Giosue, XVIII, XXII, LXXVI,
Bronzini Giovan Battista, 274 n. 14. LXXVII, LXXXVI, LXXXVII, 20 e
Brown Thomas, 152. n. 36, 28, 30, 40, 49 n. 30, 85 n. 129,
Brugmann Karl, 395, 398 n. 231, 399 e n. 100 e n. 7, 101,103 e n. 18, 109 e n. 3,
235, 405 e nn. 253-254. 112 e n. 9, 113, 136 n. 71, 138, 139 n.
Bruni Ettore, 62 n. 64. 76, 187 e n. 4, 196 n. 22, 254 n. 10,
Bruni Leonardo, 336 e n. 22. 513.
Bruno Giordano, 40. Caretti Lanfranco, VII e n. 1, XIII n. 18,
Bruscagli Riccardo, VII n. 1. XXXI, XXXIV, XXXIX, LI, LVI,
Bruto, 9 e n. 8, 157, 162, 299. LXXVII, XC, CVII, 14, 45 n. 21.
Büchner Ludwig, 103, 446 e n. 47, 465. Carlini Antonio, 175 n. 73.
Bunsen Christian Carl Josias, 162 e n. 64, Carlo Alberto di Savoia, 63 e n. 66, 64.
174 n. 71, 208, 365 n. 124. Carocci Giampiero, 115 n. 21.
Bürger Gottfried August, 18. Carpi Umberto, XXI n. 31, 515.
Burke Edmund, 457. Carrannante Antonio, 525.
Burnet John, 438 e n. 23, 442 n. 34, 445 n. Carraresi Alessandro, 513.
46. Carrone di San Tommaso Felice, 68.
Buti Francesco, 262 e n. 25. Casaubonus (Isaac Casaubon), 152, 277, 280
Byron George, 55 n. 48, 122 n. 40. n. 21.
Casella Gaspare, 191, 192, 197, 205, 215.
Cabella Cesare, 20, 90 n. 141. Casella Mario, 426 n. 320.
Caddeo Rinaldo, CIII, 67 n. 79, 369 n. 166, Cases Cesare, IX n. 5, X n. 8, XI e nn. 10-
380 n. 174, 388 n. 200. 11, XII e nn. 12-13 e 15, XIII nn. 16-
«Caffè (Il)», XCIII, 4, 18 n. 29, 333. 17 e 20, XIV n. 23, XV n. 24, 4 n. 4,
Caffi Andrea, 514. 505.
Calcaterra Carlo, 4 e n. 1, 507. Cassi Francesco, XLI, 115, 121.
Caleppio Trussardo, 8, 17 n. 27. Cassi Gellio, 207.
Indice dei nomi e delle cose principali 535

Cassio, 9 e n. 8. porti col Monti, XCIII-XCIV, 332 n.


Cassirer Ernst, 405 n. 252. 12, 334 e n. 16, 484; col Romagnosi,
Castaldi Vittorio Paolo, 507. 330, 332, 340, 354, 357, 362, 378 e n.
Castellani Arrigo, 526. 163, 379; col Giordani, 67 e n. 79, 99
Castelnuovo Frigessi Delia, 526. n. 2, 335 n. 18, 356 n. 94, 357 n. 99,
Castelvetro Ludovico, 341 n. 38. 484; con l’Ascoli e influsso su di lui,
Castiglioni Carlo Ottavio, 331 e n. 6, 346 n. vedi Ascoli; seguaci del C. nel secondo
61, 378. Ottocento, 411-412.
Casuiti Noè, 508. cattolicesimo liberale, 74-75, 135-138.
Catalano Franco, 26 n. 47, 369 n. 132. Catullo, 308, 476, 497; interpretazione di
Catone il censore, 155, 157. LXVI, v. 54: 497.
Catone Uticense, 159, 495, condannato dal Cavalca Domenico, 10, 57, 58, 117.
Manzoni e da altri cattolici, 495; esalta- Cavalluzzi Raffaele, 507, 515.
to da A. Vannucci, 495. Cavour Camillo, 375, 388.
Cattaneo Carlo, XVII, XXV, XLIII, LIV, Cebete, XXX, 175 e n. 73.
LXXVI, XC, XCII e n. 3, XCIII, Ceccarel Matteo, 379 n.168, 380 n. 171.
XCIV, XCV, XCVII, CIII, 7, 9, 12, Cecioni Gabriele, 510, 512.
16, 20 e n. 36, 21 e n. 38, 22, 25, 30, Cellerino Liana, 507.
31, 32, 34, 35, 39 e n. 5, 62, 67 e n. Celso, 52 e n. 40.
79, 71, 75, 76 e n. 110, 99 e n. 2, 102, Cencetti Giorgio, 477 n. 2.
328-427, 439 e n. 27, 482, 483-488, Centofanti Silvestro, 497.
494, 496, 504, 506, 526; idee politiche Cerruti Marco, XC, XCV n. 5.
e sociali, XC, XCVII, 16, 17, 62, 358- Ceriani Antonio Maria, 331 n. 6.
359, 368-369, 376-377, 411-412; Cesa Claudio, 410.
«patriottismo italico», 345, 356-358; Cesare, 52 n. 40, 155, 250, 492; anticesari-
europeismo, 355-356; atteggiamento smo nel primo e medio Ottocento, 250,
verso il colonialismo e il razzismo, 358- 492, 494-495, 515.
359, 365-368, 380; antirazzismo, 439 e Cesari Antonio, XXII, XLVI, XLVII, LV,
n. 27, 469; verso l’evoluzionismo, 368 10, 11 e n. 15, 23, 39, 53, 57, 59 e n.
n. 131; distinzione tra stirpe e lingua, 57, 77, 79 n. 116, 85, 92 n. 147, 230 e
354-355; contro le grandi migrazioni n. 2, 231, 251, 306 e n. 56, 308, 393
dei popoli, 341 e n. 39, 350-354, 382- n. 312, 509, 510, 522, 523.
384; poligenismo linguistico e razziale, Cesari Florindo,189 n. 8.
361-364, 366; concetto di sostrato, Cesarotti Melchiorre, XCII, 334 n. 16, 362
328-329, 344-345, 349-350, 355, 356, e n. 117.
390, 407; concetto di parentela lingui- Chateaubriand François-Auguste-René de,
stica, 352, 355, 361-362; sulle lingue LXXXVII-LXXXVIII, 5, 6, 34 e n.
celtiche, germaniche e slave, 360-361, 65, 74, 119 e n. 33, 262.
361-362, 383 n. 180; simpatia per la Checcucci Alessandro, 47, 77.
civiltà persiana, 377-378; polemica con- Cherchi Grazia, XIV n. 23.
tro F. Schlegel, 350-353, 355-356, 362- Cherubini Francesco, XCV, 331, 407.
364; sulla «questione della lingua, Chiarini Giuseppe, XXII, L, LXXIX, 100-
XCII-XCIV, 334-335 e n. 16, 392-394, 107, 139 n. 76, 187 n. 4, 189, 196 n.
496; contro l’abuso dei grecismi, 335 e 22, 197, 219.
n. 18, 377 n. 161, 421 n. 310; atteggia- Ciampi Sebastiano, 51, 337 n. 22, 500.
mento verso i dialetti, XCIII-XCV, Ciampini Raffaele, 19 n. 35, 89 n. 138.
334-335, 359, 483-487; conoscenza Ciavarella Angelo, 76 n. 112.
della linguistica tedesca, 346 e n. 60, Ciccotti Ettore, 376, 409-411 e n. 271.
349-351, 381 n. 114; vichianesimo, Cicerone, XLIII, 42, 68, 153, 163 e n. 37,
332 e n. 11, 362, 364; filoclassicismo, 170 n. 59, 180 e n. 88, 210 e n. 46,
331-334, 340, 359, 360-361, 487; pre- 267 e n. 3, 277, 281, 282, 283 n. 23,
sunto suo romanticismo, 494; giudizio 284 e nn. 24-25, 286 n. 28, 292, 296 e
sul Foscolo, 15 e nn. 22-23, 487; rap- n. 38, 299, 303 e n. 51, 304 e n. 53,
536 Indice dei nomi e delle cose principali

307, 342 e n. 45, 432 e n. 13, 450 e n. «Conciliatore (Il)», XCII, XCIII, 4 e n. 1,
59, 490, 499, 503, 508, 516; come filo- 6, 13, 15 e n. 23, 18 e nn. 29-30, 19 e
sofo, letto dal Leopardi, 267 e n. 3; n. 31, 20, 39 n. 5, 98, 119, 132, 333,
«incomprensione» dell’epicureismo, ma 338 n. 27, 339 e nn. 30 e 33, 485, 488.
critiche giuste a Epicuro, 280-282, 303- Condillac (Etienne Bonnot de), 59 n. 56, 75
305; giudizio del Giordani su C., 490; n. 105, 76, 79 e n. 116, 117, 118 n.
critica del Leopardi a un progetto di 29, 363 n. 119, 386 n. 189.
ediz. ciceroniana del Tommaseo, 499. Condorcet (Marie-Jean-Antoine Caritat de),
Cicognara Leopoldo, 40, 74, 84, 513. 323, 324.
Cilento Vincenzo, 169 n. 56, 171 e n. 62. Consalvi Ercole, 65, 208, 214 n. 51, 510.
cinici greci, 441 n. 32, 452, 459, 462-463. Consoli Domenico, 507.
Cipolla Carlo, 341 e n. 43. Contini Gianfranco, X.
Circeo Ermanno, 100, 513. Corti Maria, XCI, XCII n. 3, XCIII, XCIV
cirenaici, 441 n. 32, 449-450 e n. 58, 451, e n. 4, 202, 328, 519.
462-463. Costa Paolo, 510.
Cirese Alberto Mario, 370, 371. Cottone Giovanni, 332 n. 11.
Cisotto Gianni A., 46 n. 22. Cousin Victor, 118 n. 29, 168 e n. 53.
Citroni Mario, 525. Cozza-Luzi Giuseppe, XXXI, 184-226, 227,
classicismo ottocentesco, passim; diverse 517, 521; come allievo e collaboratore
posizioni classiciste, 7-10, 333-334; del Mai, 184-185, 210; come falsifica-
scarsa incidenza del giacobinismo sul tore (o editore di falsificazioni altrui) di
classicismo illuminista, LXXXIX-XC, scritti del Leopardi, e come antileopar-
62-63; ragioni dell’insuccesso immedia- diano clericale, 184-226; rapporti con
to dei classicisti illuministi, LXXXV- G. Cugnoni, 187-188, 196, 226 e n.
LXXXVI, 15-17; loro influsso cultura- 72.
le, 17-23; classicismo e filologia classica Crantore, 303 n. 51.
nell’Ottocento, 21; «forma vecchia e Creuzer Georg Friedrich, 168, 437.
contenuto nuovo», 25 n. 43; varietà di Crisippo, 177, 286 n. 28, 293.
posizioni, 493, 495-496. Crispi Francesco, 28.
Clarke Martin Lowther, 454 n. 70. «cristianesimo» e modernità» identificati dai
Clavijero Francisco, 378. romantici, 122, 338-339.
Cleante, 177. Cristofolini Paolo, XCVII n. 7.
Clerici Graziano Paolo, 13 n. 19, 67 n. 79, Crizia, 459.
86 n. 132, 90 n. 141. Croce Benedetto, XXVIII, LXXXIII, 12,
clima: presunto influsso sull’evoluzione delle 13 n. 18, 19 n. 35, 29, 30 e n. 58, 32
lingue, 349, 386-387 e n. 189, 400 n. n. 61, 49 n. 29, 91 n. 142, 108, 111,
239. 127 e n. 53, 300 e n. 46, 344 n. 50,
Cobet Carel Gabriel, 432, 433 n. 14. 357 n. 95, 413 n. 280, 426, 491, 492,
Cocchi Francesco, XXII, 85. 498 n. 4, 499, 501, 526.
Cocchiara Giuseppe, 402-403 n. 245. Crocioni Giovanni, 256 n. 18.
Colaiacomo Claudio, LXXXVI, LXXXVII, Crusca, Accademia della -; XCII, XCIII,
LXXXVIII-LXXXIX e n. 2, XCVI, XCIV, 11, 12, 56, 58,136, 250, 251,
18, 505. 252 (Crusca veronese), 253, 254 e n.
Colletti Lucio, XCVI n. 6. 12, 255 n. 15, 256 n. 18, 261, 262 e n.
Colombo Michele, 57. 25, 334, 393, 486, 510 (Crusca verone-
Comparetti Domenico, LV, 490, 491, 496, se); voci della Crusca a cui attinse il
498; presunto romanticismo del C. e Leopardi, 251 e n. 1, 253-254, 261-262
suo concetto del rapporto fra «lettera- e n. 25.
rio» e «popolare», 496; interesse per Cugnoni Giuseppe, 225-226 e nn. 70-71,
Epicuro, 496; valutazione di Dante, 318 n. 6, 518; ediz. delle Opere inedite
496. del Leopardi, 185, 221 n. 60, 222, 226
Comte Auguste, 449, 456, 465, 467; giudizi e n. 71; controversie sui Pensieri pseu-
del Gomperz, 449, 456, 465, 467. do-leopardiani, 186-189, 196 e n. 23,
Indice dei nomi e delle cose principali 537

206, 225; ignaro o consapevole delle De Mauro Tullio, XI n. 9, 346, 426 n. 319.
falsificazioni del Cozza-Luzi?, 225-226. De Maistre Joseph, 327.
Cuoco Vincenzo, 40 e n. 7, 151, 343 n. 50, «Democrazia progressiva», giornale fiorenti-
358, 526. no (1848-49), 263.
Curiel Eugenio, 264. Democrito, 150, 153, 154, 178 e nn. 81-82,
Curtius Georg, 391, 395, 397 n. 228. 180, 441 n. 30, 449, 450 n. 59, 452;
Cusano Niccolò, 518. vedi anche atomisti greci.
Demostene, 459 e n. 90, 492.
Dal Toso Pompeo, 52 n. 40, 68, 90 n. 141. Denina Carlo, 343 n. 50.
Damascio, 170-171. De Robertis Domenico, 263 n. 27.
D’Ambrosio Renato, 429 n. 3. De Robertis Giuseppe, XXVII, XXXIV, 29
Damiani Rolando, 327 n. 28. e n. 57, 93, 111 n. 7, 117 n. 27, 141 n.
D’Ancona Alessandro, 43 n. 17, 62 n. 63, 81, 190 nn. 11 e 13, 191 e n. 16, 198,
64 n. 69, 65 n. 71, 66 nn. 72 e 75, 79 215, 216, 218, 253, 257, 263 n. 27,
n. 118, 513. 274 n. 14, 322 n. 16, 514, 518, 519,
D’Annunzio Gabriele, 501. 520.
Dante, XLIV, 58 n. 52, 80 n. 120, 153, De Romanis Filippo, 168 n. 53, 169.
203, 262, 314, 336, 386, 392, 496, De Rossi Giovan Battista, 189 n. 8.
497, 525; dantismo nel Virgilio nel De Rubertis Achille, 512.
Medioevo del Comparetti, vedi De Sanctis Francesco, XVIII, XIX e n. 28,
Comparetti. XXIV, LXXVIII, LXXXV, LXXX-
D’Aronco Gianfranco, 372 n. 139. VII, 5, 12 e n. 17, 13, 19 n. 35, 23 e
Darwin Charles, 145 n. 86, 243, 368 n. 131, n. 41, 25 e nn. 43 e 45, 26 e nn. 47 e
405, 447 e n. 49; darwinismo, reazione 49, 27 e nn. 50 e 52, 28, 30, 33, 56,
antidarwiniana dell’ultimo Ottocento e 90, 91 e n. 142, 92, 93, 95 e n. 151,
primo Novecento, 447 e n. 49. 102, 112 e n. 9, 116 n. 23, 121, 131 e
Davanzati Bernardo, 255 n. 15. nn. 65-66, 144, 158, 226 n. 71, 321 n.
De Amicis Edmondo, XI n. 11, XVI n. 25, 12, 498 n. 4, 507, 513, 522, 528; sul
XLVII, LVIII, 70 n. 87, 511, 523. romanticismo, 5, 19 n. 35, 23-25 e n.
Debenedetti Giacomo, XXXIX. 43, 30, 33; periodizzazione del roman-
Debenedetti Santorre, X. ticismo, 23 n. 41; disconoscimento dei
De Castro Giovanni, XCIV, 381. classicisti illuministi, 24-26, 91 n. 142;
De Cristoforis Giambattista, 331. sul Monti, 12 e n. 17, 13-14; sul
Dee Giovanni (John Dee), 528-529. Leopardi, 26-28, 90-91, 92, 93-94, 94-
De Felice Renzo, 11 n. 15. 95, 112 n. 9, 116 n. 23, 131 nn. 65-66,
De Filippi Filippo, 368 n. 131. 144; rapporti col Vitelli, 498 n. 4.
De Gubernatis Angelo, 414 n. 284, 418 e n. De Sanctis Gaetano, 528.
300. De Tommaso Piero, 526.
Delaplace Guislain-François-Marie-Joseph, Devoto Giacomo, 329 n. 2, 392 n. 209, 426
176. n. 319, 427.
Delbrück Berthold, 395, 396 n. 222, 399 e De Vries Hugo, 419 n. 304.
n. 234, 400, 406, 420. dialetti e letteratura dialettale, LXXXIII,
De Liguori Girolamo, 515. XCI-XCII; vedi Cattaneo, Giordani,
Delitzsch Friedrich, 418 n. 299. Monti.
Della Giovanna Ildebrando, 82 n. 123, 270 Diaz Furio, 118 n. 29.
n. 7, 516. Di Benedetto Filippo, 280 n. 21.
Della Mea Luciano, XCVIII. Di Benedetto Vincenzo, XLVIII, XLIX,
Della Peruta Franco, 15 n. 23, 56 n. 50, 369 148, 181, 228, 234, 248, 266 n. 1, 280
n. 132. n. 21, 432 n. 12, 516.
Della Rena, famiglia, 53 n. 41. Di Breme, vedi Breme.
Dell’Avalle Arnaldo, 191. Diderot Denis, 118 n. 29, 149.
De Lollis Cesare, 29 e n. 57. Di Donato Riccardo, XXIV n. 35, XLVIII.
Del Vivo Caterina, 515. Diels Hermann, 432, 439 e n. 25, 467.
538 Indice dei nomi e delle cose principali

Diez Friedrich, 387-388 e n. 195. nel tentativo di tracciare un’etica “dal


Diogene cinico, 154 n. 14, 170, 516. basso” e nel tracciare lo sviluppo della
Diogene Laerzio, XXIX, XXXIII, 148, 152, civiltà, 281; divinità, 270 n. 8, 271-
161 e n. 32, 162, 167 e n. 51, 170 n. 272, 292-294 e n. 34; culto di E. come
59, 180, 277, 278 e n. 18, 279, 280 e “Salvatore”, 289-290, 292 e n. 34, 293
n. 21, 282, 303, 516; due letture com- e n. 35; divergenze ideologiche del
piute dal Leopardi?, 277-280. Leopardi da Epicuro, 286-306; debolez-
Dione di Siracusa, 430 n. 8, 456-457 e n. za delle “consolazioni” epicuree, inac-
83. cettabili dal Leopardi, 295, 298-306;
Dionigi d’Alicarnasso, 51 e n. 35, 92 e n. pretesa di combattere l’angoscia con
146, 211, 230, 500; excerpta scoperti “discorsi”, 286 n. 29, 295; atarassia,
dal Mai, 211, 500. non equiparabile all’esser morto, 271-
Dionisotti Carlo, XIX n. 3, XXXV n. 40, 273; non timore ma neppure desiderio
XLVI, XLVII, XCI, 328, 507, 510, della morte, 271-272, 299-300; conces-
513, 522, 523. sione d’un momentaneo dolore per la
Di Preta Antonio, 512. morte d’un amico, 302-303; nozione di
Dollfuss Engelbert, 429. “piacere”, totale divergenza dal
Donati Alessandro, XXXI, 149 nn. 2 e 4, Leopardi, 295-298; apoliticità, sgradita
150 n. 7, 157 n. 22, 190 e nn. 11 e 12, al Leopardi, 282-283 e n. 23. Vedi
199, 202, 204, 221 n. 63. anche Lucrezio.
«Don Chisciotte di Roma», 518. Epitteto, XXX, 131, 132, 175 e nn. 73 e
Dotti Ugo, 525. 76, 176, 177 e n. 80, 282, 285 e n. 28,
D’Ovidio Francesco, 403 n. 246, 418 n. 499; vedi stoicismo.
297. Eraclito, 153 n. 12, 442 n. 34.
Du Cange (Charles du Fresne), 342. Ernout Alfred, 266.
Du Marsais César, 59 n. 56. Erodoto, 10, 51, 83-84, 117, 277, 279, 432,
Dutens Louis, 170, 351. 436, 439, 445.
Erone alessandrino, 431 n. 9.
edonismo greco e moderno, 441, 452, 470. Eschilo, 176 e n. 79.
Egesia, 126 e n. 49, 167, 168. Eschine socratico (pseudo-), XXX, 175.
Ehrle Franz, 189 e n. 9. Esichio Milesio (e Leopardi), 152 e n. 11,
Eichhoff Frédéric-Gustave, 350 e n. 75, 278 e n. 18.
351. Esiodo, 229, 270.
Elvidio Prisco, 157, 159. etruscomania, 343-344 e n. 50, 344 n. 51,
Emiliani Giudici Paolo, 12 n. 17, 24. 346.
Emiliozzi Mary, 22 n. 67. Euripide, 141 n. 81, 164, 303 n. 51, 432 e
Empedocle, 53 e n. 43. n. 13, 436 e n. 21, 525; Th. Gomperz
Ennio, XXXVIII, XXXIX, 296, 307, 308; sull’«illuminismo» di E., 436 e n. 21.
mal conosciuto e frainteso dal Eusebio di Cesarea, Cronaca edita da Mai e
Leopardi, 307; contributo filologico del Zohrab, studiata dal Leopardi, 211,
Leopardi, 307 n. 57. 214 n. 53, 520.
Epicuro, XXVI, XXXIII, LII, CI, 135, 150 Eustazio di Tessalonica, 53 n. 43.
e n. 6, 153 e n. 12, 154 e n. 14, 176, evoluzione delle lingue per cause «interne»,
177, 178 e nn. 81 e 83, 266-314, 362, 382-383, 385-388; vedi clima, sostrato;
432 n. 12, 441 e n. 33, 452 e nn. 64- periodi creativo ed evolutivo nella sto-
65, 496, 525; «epicurei» dei secc. XV- ria delle lingue, 420-421 e n. 308; evo-
XVIII, 441, 451; antiepicureismo nel luzione «a salti», 419 e n. 304; evolu-
primo e nel medio Ottocento, 441; zionismo in biologia, 368 n. 131, 419
rivalutazione da parte del Gomperz, n. 304.
432 e n. 12, 452 e nn. 64-65; interesse evoluzionismo, 447 e n. 49; evoluzionismo
per Epicuro e Lucrezio nel secondo etico, 447 n. 49; vedi anche Darwin.
Ottocento italiano, 496; epistole in
Diogene Laerzio, 277; grande valore Fabi Angelo, 268 n. 4.
Indice dei nomi e delle cose principali 539

Fabretti Ariodante, 378. Foligno Cesare, 341 n. 38, 343 n. 48.


Fabricius Johann Albert, 152, 162. Fontenelle (Bernard Le Bovier de), 122 n.
Fahr Wilhelm, 531. 40, 152.
Falco Giorgio, 480 n. 9, 481 n. 10. Forcellini Egidio, 179 e n. 86, 269 n. 6,
Fano Anna, 527. 310.
Fano Giorgio, 413 n. 280, 526-527. Foresti Lorenzo, 66.
Fano Guido, 527. Forlini Giovanni, 46 n. 21, 53 n. 42, 55 n.
Fantoni Giovanni, 49 n. 30. 47, 58 n. 55, 67, 79 nn. 117-118, 80 n.
Faré Paolo A., 423. 121, 100 n. 4, 107 n. 39, 258, 508,
Fasano Pino, 3, 4, 322 n. 17. 509, 510, 513.
Faucci Dario, 428. Fornaro Pierpaolo, LX.
Fauriel Claude, 387 n. 194. Forti Fiorenzo, 480 n. 9, 481 n. 10.
Fermi Stefano, 62 n. 63, 63 n. 66, 88 n. Forti Francesco, 19 e n. 34.
137, 100 e n. 8, 103 e n. 19, 107 n. Fortini Franco, XCVIII-XCIX.
39, 511. Foscolo Ugo, XVII n. 26, XLI, XLIV,
Ferrai Eugenio, 490. LXXXIX, 14, 15 e n. 23, 24, 25 n. 43,
Ferrari Giuseppe, 15 n. 23, 25, 56, 102, 254 32, 39, 51n. 33, 63, 115 n. 21, 341 n.
n. 10, 329 n. 2, 332 e n. 11, 345 n. 58, 38, 343 e n. 48, 344 n. 52, 494, 497,
350 n. 73, 368 n. 132. 506, 513; il Foscolo come filologo, 497.
Ferraris Angela, LXVIII, 507, 514. Fourier Charles, XC.
Ferrero Giuseppe Guido, 113 n. 16. Fozio, XXX, 175 e n. 74.
Ferretti Giovanni, CIII, CV, CVII, 15 n. Franceschi Ferrucci Caterina, 86.
24, 37, 38, 44, 55, 62 n. 63, 63 n. 68, Frattini Alberto, LX, 34 n. 65, 114 n. 20,
76 n. 112, 84 n. 127, 87 nn. 135-136, 115, 118 n. 29, 122 n. 40.
89 n. 139, 90 nn. 140-141, 107 n. 39, Fréret Nicolas, 118 n. 29, 313.
116, 136 n.72, 190 nn. 12 e 14-15, Freud Sigmund, X; rapporti col Gomperz,
250, 251. 448 e n. 54, 465, 467.
Ferri Enrico, 188 n. 7. Frontone, 10, 23, 42 e n. 16, 92, 121 n. 39,
Ferri-Mancini Filippo, 221 nn. 60 e 62, 222 211 e n. 47, 229; F. e Leopardi, 271 e
e n. 66, 223 n. 67. n. 9; tradotto dal Leopardi, 211 e n.
Filangieri Gaetano, 179 n. 86, 276. 47; operetta grammaticale attrib. a F.
Filippo II di Macedonia, 459, 492. (in realtà di Arusiano Messio), 308 n.
filologia come «scienza dell’antichità», 434- 59.
436; «filologia formale», non riducibile Frye Northrop, 3.
a tecnica in senso svalutativo, 496-497; Fubini Mario, 3, 4 e n. 2, 43 n. 21, 112 n.
f. classica in Italia dopo l’Unità, 498. 9, 117 n. 27, 136, 176 e n. 78, 229 e
Filone, 170 n. 61. n. 1, 235, 238, 241 n. 7, 257-258, 270
Firenzuola Agnolo, 255 n. 15. n. 7, 273 e n. 12, 286 n. 28, 332 n. 12,
Fittipaldi Massimo, 226 n. 73. 339 e n. 31, 522; postilla del F. a una
Flaubert Gustave, 524. nota leopardiana, 257-258.
Flechia Giovanni, 370, 391. Fubini Riccardo, 336 n. 20.
Flora Francesco, LI, CIII, CV, 4 n. 1, 39 n. Funari Enzo, 448 n. 54.
2, 121 n. 39, 149 nn. 2 e 4, 153 n. 12,
159 n. 27, 163 n. 37, 164 n. 41, 165 Gadda Carlo Emilio, X.
nn. 43-44, 171 n. 62, 175 nn. 75-76, Galeazzi Giancarlo, LX.
178 n. 82, 182 n. 93, 190 e n. 14, 194 Galilei Galileo, XIX, 40, 43, 72 e n. 95, 73,
e n. 21, 198 n. 25, 199, 202, 204, 208, 262.
214 n. 52, 215, 221 n. 63, 231 n. 3, Galimberti Cesare, 250, 270 n. 7, 291, 292
252 e n. 2, 253 n. 6, 256 n. 17, 517, n. 33, 313, 482 n. 12, 528.
518, 519, 520. Gallo Franco, XI n. 9.
Focher Ferruccio, 30. Gallo Niccolò, 12 n. 17, 23 n. 41, 121 n. 37
Folena Gianfranco, 102 e nn. 15-16, 265 n. Galvani Giovanni, 378, 392 n. 211.
29, 423 n. 312. Gambarin Giovanni, 67 n. 77, 70 n. 86, 74
540 Indice dei nomi e delle cose principali

n. 103, 510, 513. Gioia Pietro, 20, 71 n. 92, 512.


Gambaro Angiolo, 128 n. 55. Giolli Raffaello, 31.
Gamberale Leopoldo, 308 n. 59. Giordani Livia, 50 e n. 32.
Garatoni Gaspare, 498. Giordani Luigi Uberto, 64.
Gargani Giuseppe Torquato, 100, 101. Giordani Pietro, XV n. 24, XVII, XIX-XX,
Garibaldi Giuseppe, 375, 490. XXI e n. 31, XXII, XXIII e n. 33,
Garibotto Celestino, 475 n. 1, 477. XXIV, XXVII, XL, XLI, XLVII,
Garin Eugenio, 43 n. 18, 75 n. 109, 514. LXV, LXXVI, LXXVII, LXXIX,
Gasperoni Gaetano, 475 n. 1. LXXXVI, LXXXVII, LXXXIX, XC,
Gatti Giuseppe, 189 n. 8. XCIV e n. 4, XCV, XCVI, XCVII,
Gaume Jean-Joseph, 493, 495. CI, CIII, CV, CVII, 3, 4 n. 2, 7, 10,
Ga#zdaru Dimitrie, 396 n. 223, 398 n. 231, 12, 13 e n. 19, 14 e n. 20, 15 e nn. 23-
405 nn. 253-254, 406 n. 258, 418 n. 24, 16 e n. 26, 17 e n. 27, 20, 21 e n.
299. 38, 22, 23, 25 e n. 43, 26 e n. 47, 31,
Gellio, 52 n. 40. 37-96, 97-107, 116 e n. 23, 117, 120,
Gentile Giovanni, LXXIII, LXXXIII, 30, 121 e n. 39, 123, 132, 137 e n. 73, 156
31 n. 59, 112 e n. 13, 130 n. 60, 180 n. 21, 172 n. 65, 173, 185 n. 2, 187,
n. 87, 270 n. 7, 273 n. 13, 512. 213 e n. 50, 219, 220, 226, 231 nn. 3-
Gentile Pescarolo, Nicoletta, LXXIII. 4, 232 e n. 5, 235, 247, 252, 257, 271
Gentiloni Vincenzo Ottorino, 188 n. 7. n. 9, 297 n. 42, 306 e n. 56, 320, 325
Gerratana Valentino, 264. n. 23, 326, 333, 334 e n. 14, 335 n.
Gervasoni Gianni, 51 n. 36, 210 n. 46, 213 18, 356 n. 94, 357 n. 99, 484, 486,
n. 49. 490, 491, 492, 493, 494, 495, 500,
Gervinus Georg Gottfried, 24. 504, 506, 508, 510, 511, 512, 513,
gesuiti: antitirannismo declamatorio nelle 514, 516, 525; aspetti retorici, 39-40,
scuole dei gesuiti, 318 e n. 7. 55-56, 97-98; contro la letteratura ozio-
Gherardini Giovanni, XCI, XCIV, 331, 338 sa, 41-42, 43-44, 53-54; contro la poe-
n. 27. sia dialettale, XCIV-XCVI, 44-46, 334
Ghidetti Enrico, VII n. 1, IX n. 4, LXXIII, n. 14, 484; contro lo scriver latino, 46-
CIII, CV, CVII, 199, 221 n. 63, 252 47; contro l’abuso di grecismi in italia-
n. 2, 504, 518, 519, 520, 526. no, 335 n. 18; per l’epigrafia in italia-
Ghisleri Arcangelo, 412 e n. 278. no, 49-50; cultura filologica, 50-52, 52-
Giacomoni Silvia, 483, 484. 54; purismo, 10, 55-60, 232-233; come
Giamblico, 158, 171 n. 62. scrittore, 22-23, 83-86, 103-104, 106;
Giambullari Pier Francesco, 343, 344 n. 51. sulla cultura popolare, 44-46, 54, 69,
Giancotti Francesco, LX, LXII, 291 e n. 31, 73-74, 97; sulla funzione delle riviste,
312. 16-17, 54; formazione filosofica, 75-77,
Giannini Giovanni, 259. 78-79 e n. 116, 172 n. 65; spunti di
Giannoli Giovanni Iorio, XI n. 9. pessimismo, 76, 82 n. 125, 122-123;
Giannone Pietro, 73, 483. laicismo e anticlericalismo, 72-75, 77,
Giarelli Francesco, 511. 80-82, 84-85; idee politiche e azione
Gigante Marcello, 161 n. 32, 280. politica, 61-68, 99, 132; idee sociali,
Gigli Ottavio, 53 n. 42, 508, 510. XC, XCV, 67-72, 89, 99; idee didatti-
Gilliéron Jules, 397. che e pedagogiche, 47-49, 87-90; giudi-
Gillies John, 453. zi su autori greci e latini, 42, 52, 121-
Ginzburg Carlo, 226 n. 73. 122 e n. 39; sui trecentisti, 52-53, 57-
Gioberti Vincenzo, LXXVIII, 25, 75, 78, 59; «lingua del trecento e stile greco»,
79 e n. 117, 80 e n. 120, 84 n. 127, 231, 232 e n. 5; sui secentisti, 40, 43,
107 n. 39, 130 n. 61, 172 n. 65, 184, 60, 97-98; sul Settecento letterario e
343 e n. 48, 344 e n. 50, 357 e n. 99, ideologico, 59 e n. 56, 76, 79 e n. 116;
369 n. 132, 378, 380, 381, 415 e n. rapporti col Leopardi e giudizi su di lui,
287, 493, 511, 512. 42, 51-52, 60, 68-69, 78-83, 86-87, 90-
Gioia Melchiorre, 71, 485. 96, 116-117, 123, 137, 173, 185 n. 2,
Indice dei nomi e delle cose principali 541

213, 219, 220, 231 e nn. 3-4, 232 e n. 103; dissensi e sottovalutazione dell’o-
5; rapporti col Monti, 13-14, 58-59; col pera paterna, 433, 464, 469-471.
Foscolo, 15 n. 23, 63; con l’Acerbi, 13 Gomperz Karl, 440 n. 28, 454, 455 n. 73.
e n. 19, 17, 43, 44, 55; col Capponi, Gomperz Theodor, XXV, XXVI, XXIX,
99-100 e n. 4; col Gioberti, 78-80, 172 XLI, XLIV, XLV, LIII-LVII, 428-471;
n. 65; col Cattaneo, vedi Cattaneo; giu- formazione giovanile, 431-432; valore
dizio sul Manzoni, 77-78; influsso sul come filologo e concetto di filologia,
laicismo risorgimentale, 20; influsso sul 431 e n. 9, 432-436 e nn. 11-21; i
Carducci e sugli «Amici pedanti», 100- Griechische Denker opera di storia cul-
103; misconosciuto dal De Sanctis, 25 turale in senso ampio, 435-436; rappor-
e n.43, 26 e n. 47, 91 e n. 142; ammi- ti tra Grecia e Oriente, 436-438 e n.
rato per il suo stile dalla «Scuola roma- 24; visione dello svolgimento del pen-
na», 226; presunto romanticismo, 494; siero greco, 440-446, 449-452 (vedi
perizia in filologia classica, 500; su anche i nomi dei singoli filosofi e movi-
Lucano, 490, 494-495; Panegirico a menti di pensiero); sulla storia politico-
Napoleone, 326; sulle “mode” della sociale e sul pensiero politico greco,
Restaurazione, pensiero notato dal 453, 456-457, 458-460; valutazione
Leopardi, 325 n. 23. della politica ateniese, vedi Atene;
Giordano Emilio, 326-327 n. 26. valutazione di altri regimi politici anti-
Giorgini Giambattista, 392. chi, 456, 459; sulla religione greca,
«Giornale Arcadico», 8 e n. 6. 445-446 e n. 46; sulla civiltà e la filoso-
Giotti Napoleone 179 n. 86. fia ellenistica, 452; valutazione della
Giovampietro Renzo, 528. medicina greca, 432 n. 12, 436 e n. 20,
Giovanetti Giacomo, 64. 449; sottovalutazione della matematica
Giovenale, 68 n. 81, 307 n. 56, 486. greca, 450-451 e n. 61; scarso influsso
Giovio Paolo, 49 n. 30. della cultura tedesca sulla sua formazio-
Giri Giacomo, 225 n. 70, 521. ne, 447, 467; rapporti col Bernays,
Girolamo (santo), 84 n. 128, 290, 513. 433-434 e n. 16, 435 n. 18, 439-440 e
Giuliano l’Apostata, 162. n. 29; contatti con la cultura inglese
Giussani Carlo, XLV, 266, 288, 289, 290, (Mill, Grote), 447-449, 453-454, 455-
496. 457, 459, 460; rapporti con Comte,
Giusti Giuseppe, 113, 251. 449, 456, 465; erroneità delle accuse
Giustiniani Giacomo (cardinale), 510. generiche di «positivismo» e «scienti-
Giustiniani Vito R., 253 e nn. 4 e 6, 254- smo» rivoltegli, 429 e n. 2, 429-430,
255 e nn. 13-14, 256, 257, 258, 259, 444-447, 451-452, 461 n. 97, 464-46;
510. ostilità generale per le filosofie «siste-
Gladisch August, 437, 438. matiche» tedesche, 447, 450; antimate-
Gliddon George R., 365, 366 e n. 127. rialismo, riserve sul darwinismo, 446-
Gnoli Domenico, 187 n. 4, 193 e n. 19, 447, 465; empirismo e «fenomenismo»,
194. 447-450 e nn., 464-465, 470-471;
Gobineau Joseph-Arthur de, 365. induttivismo logico, 450 e n. 60; deter-
Goethe Wolfgang, XVI n. 25, 7, 23 n. 41, minismo, 448 e n. 53, 465; edonismo e
32, 102, 377 n. 162, 494, 504. utilitarismo etico, 441, 447 n. 49, 448,
Goffis Cesare Federico, 179 n. 86 451, 452, 465, 470; riluttanza ad aderi-
Goidánich Pier Gabriele, 371 n. 138, 372 n. re a posizioni novecentesche propria-
141, 376 n. 157, 392 n. 210, 396 e n. mente idealistiche, 450; rapporti con
224, 406 n.258, 423 n. 312, 425, 426. Freud, vedi Freud; idee politico-sociali,
Goldmann Lucien, XCVI-XCVII. 454-458 e n. 86, 459, 460, 464-465;
Gomperz Heinrich, attività per far conosce- dissenso dal Pöhlmann, 457-458; scarsa
re la vita e l’opera del padre, 428, 429 conoscenza del marxismo, 447 n. 51
e nn. 4-5, 452 n. 63, 463, 467, 469- (cfr. p. 469 n. 102); favorevole al
471; influssi ricevuti dal padre, 470; Risorgimento italiano, 455 n. 76 (cfr.
influssi esercitati sul padre?, 470 e n. anche Pens. greci, I p. 344, III p. 454);
542 Indice dei nomi e delle cose principali

antirazzismo e valutazione positiva Guizot François, 262, 341 n. 43.


della mescolanza delle stirpi, 439, 469; Gussalli Antonio, XXII, LXV, CIII, CV,
favorevole ai negri nella Guerra di CVII, 46 n. 21, 59, 63 nn. 66 e 68, 64
secessione, 455 e n. 76; sulla plurina- e n. 65, 67 n. 79, 70 nn. 85 e 87, 71 n.
zionalità dell’Impero austro-ungarico e 92, 72 nn. 93 e 95, 82 nn. 124-125, 85
contro la «Grande Germania», 439-440 nn. 129-130, 86 e n. 131, 90 e n. 141,
e n. 28, 466-468; contro il suffragio 92 n. 146, 100 e nn. 5 e 8, 101, 105 n.
universale, 455-456, 465; questione 31, 173 n. 70, 306 n. 56, 357 n. 99,
ebraica, 439-440 e n. 29, 468-469; 509, 512, 513, 514.
«attualizzazione dell’antichità», 428-
430, 461-462; influsso su A. Murri, Haeckel Ernst, 422 e n. 311, 446 e n. 47.
471; incomprensione da parte degli stu- Hammer-Purgstall Joseph von, 372.
diosi delle generazioni posteriori, 428- Hazard Paul, 318 n. 5.
430, 438, 443-444, 452 e n. 64, 461 e Hébert Jacques-René, 324.
n. 97, 470. Hegel Georg Wilhelm Friedrich, XCVII, 75,
Gonzaga Luigi (santo), 189 n. 8. 110, 111, 160, 377 n. 162, 435, 441 e
Gozzi Gasparo 59, 187 n. 4, 254 n. 12 . n. 30, 447 e n. 51, 460 e n. 93; hegeli-
Graf Arturo, 108, 141 n. 82, 410 n. 270, smo giovanile e successivo antihegeli-
411, 412. smo del Gomperz, 447 e n. 51, 454.
Gramsci Antonio, LXXVIII, 144 n. 84, Heidegger Martin, XCVII.
264, 409 n. 269, 410, 423 n. 312, 426 Heine Heinrich, 7, 32, 102, 494; presunto
n. 319, 507, 515. romanticismo, 494.
Grana Gianni, XXV n. 36. Heinemann Fritz, 448 n. 52.
Grassi Corrado, XCIII, 328, 515. Helvétius Claude-Adrien, 118 e n. 29, 134,
Greenfield Kent Roberts, 13 n. 19. 149, 514.
Gregorio XVI (Cappellari, Mauro), papa, Herder Johann Gottfried, LXXXV, 23 n.
317. 41, 34, 351 n. 78, 364 n. 120, 436.
Grilli Alberto, 266, 267 e n. 2, 268, 269 e Hermann Gottfried, 433, 434, 435, 496.
n. 6, 277 e n. 17, 278, 279, 280 e nn. Hobbes Thomas, 115, 135.
21-22, 281, 306 n. 55, 516, 517 . Holbach (Paul Heinrich Dietrich, barone d’
Grimm Jacob, 34 n. 61, 347 n. 64, 391, -), 118 n. 29, 122 n. 40, 130, 134, 135,
434. 149, 150 n. 6, 249 n. 12, 293 n. 35,
Grimm Wilhelm, 391. 295, 303 n. 51, 313, 314, 327 e n. 27,
Grossi Tommaso, 19. 514, 515.
Grote George, 453-454 e nn. 67-70, 457- Horkheimer Max, XII n. 13, XCVI,
458, 467; valutazione della sofistica XCVII.
greca, 453 e n. 68; della democrazia Hugo Victor, 6.
ateniese, vedi Atene; sulla condanna di Hugues Guido, 372 n. 143.
Socrate, 459-460 e n. 92; saggi su Humboldt Alexander von, 354, 355, 365 e
Platone e Aristotele, 453; contro i n. 124.
negri d’America, 455 e n. 76; reazioni Humboldt Wilhelm von, 348, 354 e n. 90,
suscitate in Italia dalla sua Storia greca, 355, 372 e n. 141, 377, 387 n. 192,
490; rapporti col Gomperz, vedi 419 e n. 304, 447, 459 e n. 89.
Gomperz.
Guagnini Elvio, LXXXII. Ierocle, 175 n. 74, 180 e n. 90, 181 e n. 91.
Guarisco Carla, 46 n. 21. «illuminismo reazionario» settecentesco, 316
Guarnerio Pier Enea, 423, 527. n. 1, 274 n. 14.
Guasti Cesare, 49 n. 30. illuministi francesi: spunti pessimistici, 118,
Guerrieri Guerriera, 226 n. 73. 122, 142; influsso sul Giordani e sul
Guerzoni Giuseppe, 515. Leopardi, 59 n. 56, 76, 117-118 n. 29,
Guidetti Giuseppe, 230 n. 2, 393 n. 212. 118, 122 e n. 40, 149-150, 152.
Guidetti Ugo, 510. «immortalità del nome (o delle opere)», 304
Guidiccioni Giovanni, 72 e n. 93. e n. 52, 308-309.
Indice dei nomi e delle cose principali 543

Inama Vigilio, 347 n. 63. 308 n. 60, 314, 463 n. 100, 490, 515,
Innamorati Giuliano, XCV n. 5, 12 n. 17, 525.
321 n. 12. Larousse Pierre, 262 e n. 26.
innamorato = «che suscita amore», 253-257; Lasca (Anton Francesco Grazzini detto il -),
vedi anche participii. 251.
Ippia, 459. Lassen Christian, 434.
Ippocrate e pseudo-Ippocrate, 178, 432 e n. Laurent M.-H., 3.
12. Leibniz Gottfried Wilhelm, 160 n. 29, 351,
iscrizioni in volgare, 49-50 e n. 30. 480.
Isella Dante, 46. Le Monnier editore, XLI, 187, 195, 507,
Isidoro neoplatonico, 170-171. 509, 517.
Isocrate, XXX, 42 n. 15, 175. Le Monnier Felice, 216 n. 54.
Lenin (Vladimir Il’ic# Ulianov), LIV, 470.
Jacquier François, 149 e n. 2, 150 e n. 6. Leo Heinrich, 360 n. 109.
Jaeger Werner, LIV, LVII, 428, 429 e n. 2, Leone de Castris Arcangelo, 136, 523.
443 n. 37, 444, 452 e n. 64, 462, 463, Leopardi Giacomo, XII, XIV, XV, XVII,
471; incomprensione per il Gomperz, XIX, XX, XXIV, XXVI, XXVII-
428-429 e n. 2, 443 n. 37, 444, 452 e XXXI, XXXIII-XXXIV, XXXVIII,
n. 64, 471. XLII, XLIV, LII, LVIII, LXIII,
Jahn Otto, 433, 434 n. 16, 467. LXVIII, LXXVI, LXXVII, LXXVIII,
Jannelli Cataldo, 437. LXXIX, LXXXIV, LXXXVI, LXXX-
Jozzi Oliviero, 188-189 n. 8, 197 e n. 24, VIII-XCI, XCV, XCVII-C e n. 8, CI,
212, 215, 219, 220, 221 n. 64, 225, CIII, CV, CVII; passim; rapporti con
520. altri, vedi sotto i rispettivi nomi; «con-
versione letteraria», 10, 92-93, 116 n.
Kann Robert A., 464, 466, 467. 23; alfierismo, 26-27, 113 n.16, 120-
Kant Immanuel, 75 e n. 106, 281. 121; 155; titanismo, 120-122, 236-238,
Kenney E. J., 266, 292 n. 34, 299 n. 44. 239-240; influsso del Maffei, 338 n.
Kierkegaard Sören, 110. 28, 482 n. 12; influsso del Giordani,
Klopstock Friedrich Gottlieb, 23 n. 41. vedi Giordani; purismo, 10, 92, 117,
Kretschmer Paul, 361, 407. 229-233; rapporti col classicismo lom-
Kulczycki Ladislao, 258. bardo, 333; presunto «romanticismo»
(senza esclusione di influssi romantici),
Labriola Antonio, 264, 420 n. 304. LXXXIV, 31-33, 116-117, 322 n. 17;
Labus Giovanni, 211 n. 47. veri influssi romantici, 33-35; gusto let-
Lacaita Carlo G., 507. terario rispetto all’antichità classica,
Lachmann Karl, XXXVIII, XXXIX, L, 10-11, 121 n. 39, 233; conobbe
288, 434. Lucrezio?, 179 e n. 86; conobbe
Lamarck Jean-Baptiste, 368 n. 131, 447 n. Lucano?, 121 n. 39; giudizi sui filosofi
49. antichi, 148-183, 248-249; influsso
Lambruschini Raffaello, XXIII, 88, 365 n. della morale ellenistica, 131-132, 174-
124. 178, 180-181; giudizi sul cristianesimo,
Lamennais Félicité de, 7, 74 n.102, 77 e n. 248, 136 e n. 71, 157-159, 169 e n. 58,
113, 157, 161, 323, 324 n. 20 177; conoscenza degli illuministi fran-
La Mettrie (Julien Offroy de), 118 e n. 29, cesi, 117 n. 29, 118, 122 e n. 40, 135,
134, 149, 150 n. 6, 313. 149, 152; atteggiamento di fronte al
Lampredi Giovanni Maria, 344 n. 50. Settecento, 59 n. 56, 141; estraneità
Lana Italo, 461 n. 97. alla filosofia tedesca, 75, 145-146; sul
Landucci Sergio, L, 27 n. 51, 313. rapporto autore-pubblico, 16-17 e n.
Lanzi Luigi, 344 e n. 51. 26; patriottismo, 56, 123, 132-133,
La Penna Antonio, XIII n. 19, XLVIII, L, 162; concetto di «natura», 10, 117,
LI, LIII, LXXVIII, XCVII, 29 n. 55, 124-126, 144-145, 181 n. 91, 227-249;
120 n. 34, 134, 285 n.26, 307 n. 57, concetto di natura, nel primo L. e nel
544 Indice dei nomi e delle cose principali

L. maturo, 294, 314; dèi e fato, 236- n. 20, 293; Dissertazioni filosofiche e
240; «mezza filosofia», 159-161, 284 Appressamento della morte: antiepicurei-
n. 65, 323-325; passaggio dal pessimi- smo, 279 n. 20; Storia dell’Astronomia e
smo storico al pessimismo cosmico, citazioni da Lucrezio, 276; Saggio sopra
123-131, 164-166, 227-249; «vita gli errori popolari e citazioni da Lucrezio
strozzata» e pessimismo, 126-128; e da Epicuro, 274, 275, 278 n. 18,
superamento della misantropia, 129 n. 280; Bruto minore, 286 n. 29, 299; Inno
56; materialismo, XCI, 129, 239 e pas- ai Patriarchi, 269, 275; posizione ideo-
sim; negazione della teleologia nella logica delle Operette, 285 n. 28; Storia
natura, 242-243, 244-245; teoria del del genere umano, 269-271; Coro di
piacere, 129-131; fase «rassegnata», morti (nel Ruysch), 271-273; Dialogo di
131-135, 174-177; cosiddetti «grandi Plotino e di Porfirio, 271, 286 n. 29; Il
idilli» e posizione particolare del Risorgimento, 271; A se stesso, 273; Ad
Risorgimento, 112 n. 9, 243-244, 246 n. Arimane, 294, 313; La ginestra, 267,
9; evoluzione del tema delle illusioni, 268-269, 294-295 e n. 36; abbozzo
246-247; momenti «idillici» nell’ultimo dell’Erminia, 309-310; gnosticismo o
L., 111, 141 n. 81, 247-248; ultima manicheismo del L.?, 291-292; echi di
fase del pensiero leopardiano, XCVII- Lucrezio, sicuri e incerti, in L., 266-
XCVIII, 137-139, 180-183, 244, 248 - 273; diversa Weltanschauung in con-
249; sul latino volgare e l’origine della fronto a Epicuro e a Lucrezio, 291-306;
lingua italiana, 338 n. 28; contrario alla contro l’autosufficienza del sapiente e il
teoria del sostrato in linguistica, 386- volontarismo, contro l’accettazione o la
387; influsso sul Carducci e sul suo negazione «filosofica» dei mali, 295;
gruppo, 100-102, 138-139 e n. 76; pro- teoria del piacere, formulazioni diverse,
blema del rapporto tra poesia e pensie- tutte divergenti dall’epicureismo, 295-
ro leopardiano, XCVIII-C; Discorsi 298; felicità / infelicità del morir giova-
sacri, 221-223 e nn. 66-67; traduzione ni, non contraddizione banale, 299-300
di Frontone, 211 n. 47; scritti non e n. 47; non piena comprensione dell’e-
autentici, 125, 227; Infinito, autografi e donismo epicureo, 282-283, 284 n. 25;
«abbozzi» falsi, 198-199, 213-220 (vedi motivi dello scarso influsso di Lucrezio,
anche più sotto, falsificazioni); Ultimo come poeta, su Leopardi, 306-310; scar-
canto di Saffo, 200-201; Zibaldone, sa conoscenza della letteratura latina
depositato presso la Casanatense di arcaica, 306-308; rapporti coi genitori,
Roma prima della pubblicazione, 195- 315-318; «musica senza parole», 319 n.
196; interpretazioni di singoli passi, 9; Maria Antonietta (abbozzo), 319; Per
250-265 (vedi anche l’Indice generale); la liberazione del Piceno, 318-319; pen-
correzioni al testo dell’epistolario, 251- sieri sulla Rivoluzione francese, 315-
253 e n. 3; influssi della poesia popola- 325; su Napoleone, 325-326; mutato
re e convergenze con influssi letterari, atteggiamento sulla «pace» della
256, 257-258, 259; studi filologici, Restaurazione, 320-321; moti del 1820-
255-256 e nn. 13-14, 495-496, 496- 21 (Spagna, Napoli, Torino) concepiti
497, 498, 499-500; «scoperta del pessi- come revival della grande Rivoluzione,
mismo greco», 500 e n. 6; falsificazioni 325; «la Francia scellerata e nera» e
tardo-ottocentesche di scritti del L., atteggiamento verso la Francia in ségui-
184-226, 224 n. 68; ambiente reaziona- to, 320 e n. 12; canzone al Mai, 321 n.
rio-clericale di fine Ottocento di fronte 13; vedi anche Cicerone, Esiodo,
al L., 184-185, 188-189, 206-207, 212, Frontone, Lucano, Lucrezio, Platone,
213, 220, 224-226; presunta aspirazio- Porfirio, Stobeo, stoicismo, Teofrasto,
ne a divenire Primo Custode della morte, malattie, «immortalità del nome
Vaticana, 209-211, 213; aggiunte da (e delle opere)», Virgilio.
arrecare alle bibliografie leopardiane, Leopardi Giacomo (nipote del poeta), 186.
184 n. 1, 188-189 n. 8; cristianesimo Leopardi Monaldo, 11 n. 14, 57, 73, 78, 92-
giovanile doloroso-pessimistico, 279 e 93, 104, 110 n. 3, 115, 116 e n. 22,
Indice dei nomi e delle cose principali 545

137 n. 73, 149, 185 n. 2, 208 n. 37, 135, 141, 150 e n. 6, 153, 178, 179 e
223, 274 n. 14, 315-317 e n. 4, 319 e n. 86, 266-314, 452 n. 65, 496, 513,
n. 8, 320 n. 12, 321 n. 13, 324, 512, 515, 516, 525; edizioni nella biblioteca
514. Leopardi, 267 n. 4; ed. nella Collectio
Leopardi Paolina, 186 e n. 3, 216-217 e n. Pisaurensis, 267 n. 4, 275 n. 16, 304 n.
54. 53; sull’origine dell’umanità e della
Lepre Aurelio, 14. civiltà (lib. V), 276; fedeltà alla dottri-
Lepschy Giulio, XXV n. 36, 328, 361. na epicurea ma sentimento indomabile
Lesen Aristide, 218 n. 56. dell’infelicità della vita, 286-291 (vedi
Leucippo, 442 n. 34. anche «morte»); culpa della natura,
Levi Alessandro, 332 n. 11. 288-289, 312; che c’era di male nel non
Levi Giulio Augusto, 130 n. 61, 145 n. 86, esser nati? (V 176), 289; res abdita
154 n. 15. quaedam ... videtur (III 1234 sg.), 273,
Levi Mario Attilio, 497. 312; tragicità pacata (II 573-580), 291
Levillain Jean, 529. n. 30; giudizi del Cesari (306-307 e n.
Lignana Giacomo, XXV n. 36, 370, 397 n. 56) e del Giordani (306); vedi anche
228, 413 n. 280, 418 e n. 299, 419 n. Epicuro, Leopardi.
304, 498 n. 4, 526. Lukács György, LXXXV, LXXXVIII,
lingua: distinzione dei tipi linguistici fonda- XCVII, 4 e n. 4, 7, 23 n. 41, 143 e n.
mentali, 347-348, 362-364; lingua e 83, 505.
razza, 340, 354-355; vedi monogenesi, Lumpe (e Reichmann; cfr. Thesaurus linguae
origine del linguaggio, evoluzione delle Latinae, VIII, 1511, 64 sgg.), 268 n. 5.
lingue; «questione della lingua» in Luporini Cesare, XXVI, LXXVII, 108 e n.
Italia, XCI-XCVI, 11-12, 334-335, 1, 109, 110, 111, 112, 113, 114 e n.
392-394, 230-231, 328; discussioni sul- 17, 115, 116, 119 n. 30, 123 n. 42,
l’origine della l. italiana, 335-339, 340- 126 n. 49, 129 e n. 56, 130 n. 59, 131-
341; conoscenza della l. greca in Italia 133, 134, 135, 143 e n. 84, 145 e n.
nel primo Ottocento, 50 e n. 33. 87, 169 n. 56, 264, 285 e nn. 27-28,
Littré Émile, 262 n. 26, 436 n. 20, 449. 323 n. 18, 325 n. 23, 499, 504, 514.
Lobeck Christian August, 438. Luti Giorgio, 14.
Locke John, 150, 160 e n. 29, 275. Luzio Alessandro, 12 n. 16, 13 n. 19, 66 n.
Lombroso Cesare, 141, 379 n. 168. 72.
Lombroso Ferrero Gina, 379 n. 168. Luzzatto Fabio, 76 n. 110.
Lonardi Gilberto, 10, 111, 167, 181, 224 n. Lyell Charles, 405.
68, 517, 521.
Londonio Carlo Giuseppe, 9 e n. 9, 18 e n. Mabillon Jean, 476, 477, 478.
30.o, Maccarrone Nunzio, 398 n. 230.
Lo Piparo Franco, 526. Macchia Giovanni, 3, 511.
Lortzing Franz, 439 n. 25. Mach Ernst, 449 e n. 56, 465, 470.
Losacco Michele, 108, 109 n. 3, 117 n. 29, Machiavelli Niccolò, 134.
122 n. 40. Madini Antonio, 373 n. 146, 378.
Loschi Lodovico, 77. Madrignani, Carlo Alberto, LI, LXXXIX n.
Lozzi Carlo, 221 n. 64. 2, 505.
Lucano, XLI, 10, 42 n. 16, 48, 121 e n. 39, Maffei Scipione, XXIV, XCI, 310, 336 e
157, 159, 307 n. 56, 508, 512, 515; nn. 21-22, 337 e n. 24, 338 e n. 26,
conosciuto e apprezzato dal Leopardi, 340, 342, 343 e n. 47, 344 e n. 51, 345
285 n. 26, 293-294, 299, 314; n. 55, 346, 349, 351, 359, 402, 475 e
nell’Ottocento italiano, 490-491; luca- n. 1, 476, 477 e n. 4, 478 e n. 5, 479,
nismo e plutarchismo, 491. 480, 481 e n. 10, 482 e nn. 11-12, 483,
Luciani Paola, 265 n. 29. 528.
Luciano, 131, 148, 154, 155, 167 n. 51, Maggi Pietro Giuseppe, 373.
173. Maggini Francesco, LI.
Lucrezio, XXXIII, LII, LXI, CI, 23, 134, Mai Angelo, XXXI, XLI, LV, 51 e n. 36,
546 Indice dei nomi e delle cose principali

77, 92 n. 146, 94, 116, 124, 170 n. 59, 76.


185, 208, 209-212, 213 n. 50, 230, 308 Massano Riccardo, 506.
n. 59, 321 n. 13, 331 n. 6, 378, 476, «materialismo volgare» ottocentesco, 446-
491 e n. 2, 498, 509, 523; rapporti col 447.
Leopardi, 208, 211 e n. 47, 212 e n. Mattei Alessandro (cardinale), 186, 190,
49; col Peyron, 495-496, 498; giudizi 207, 209, 210, 211, 212, 213, 215,
di studiosi posteriori, 212 e n. 49, 491. 217.
Malagoli, Luigi, 62 n. 64. Mattioli Nicola, 212 e n. 48, 221 n. 63, 222
malattie (Epicuro, stoici, Leopardi), 304, n. 66.
305. Mattiussi Guido, 528-529.
Mallon Jean, 477. Maupertuis (Pierre-Louis Moreau de), 76.
Mamiani della Rovere Terenzio, 74, 261, Maurer Karl, 190 n. 13.
262, 263, 264, 265 e n. 29. Mazzali Ettore, 4 e n. 1.
Manfredi Eustachio, 257. Mazzatinti Giuseppe, 184 n. 1, 187 n. 4,
Manuzzi Giuseppe, 262. 188 n. 8, 224, 508.
Manzini Guido, LXXIX, 370 n. 133, 372 n. Mazzini Giuseppe, XVIII, 6, 15 e n. 23, 19
144, 375 n. 155. n. 34, 24, 32 n. 61, 67 n. 76, 99, 375,
Manzoni Alessandro, XV n. 24, XVIII, 379.
XXIII, LXXXIII, 14 e n. 21, 19, 22, Mazzocchini Paolo, 266, 267 e n. 2, 269,
24, 26, 27 n. 50, 45 n. 21, 77, 107 n. 270 e n. 7, 271, 272, 273, 276, 29 n.
39, 334, 341 n. 43, 392, 393, 394, 32, 298, 517.
483, 486, 492, 493, 494, 495, 507, Mazzoldi Angelo, 357 e nn. 95 e 98, 437.
523, 525; postille all’Histoire romaine Mazzoni Guido, 101 n. 9, 103 n. 18
del Rollin, 493-494; presunte analogie Mazzoni Toselli Ottavio, 343 e n. 49.
col Niebuhr e col Mommsen, 494. medicina greca, 432 e n. 12, 436, 462-463.
Manzoni Domenico, XXII, 70, 71 e n. 90. Medioevo: secondo il Maffei, 475-481; il
Marazzini Claudio, XLVII, 522, 523. Muratori, 480-483; il Romagnosi, 339-
Marchesi Concetto, 141 n. 82, 501, 515. 340; i romantici italiani, 18-20, 98-99,
Marchetti Alessandro, 268 e n. 4, 309 e n. 118-120, 333, 338-339, 482-483; il
61, 310; trad.di Lucrezio, 308-310. Leopardi, 119-120.
Marchetti Giuseppe, 370 n. 133, 527-528. Meibomius (Marcus Meibom), 152, 277, 278
Marco Aurelio, 175. n. 18.
Maria Luigia d’Austria, duchessa di Parma, Meillet Antoine, 427.
XXI, XXII, 64, 66, 69 n. 84, 85. Menagius (Gilles Ménage), 277.
Mario, Alberto, 412. Menandro, 164 e n. 41.
Mario Jessie, 412. Menghini Mario, 184 n. 1, 187 n. 4, 188 n.
Mariotti Filippo, 196 n. 22, 219. 8, 224, 508.
Mariotti Scevola, 478 n. 6. Mercati Giovanni, 517.
Maroncelli Pietro, 19 n. 35. Merlan Philip, 448 n. 54, 464, 528.
Marr Nikolaj Jakovlevic#, 361, 407. Merlo Clemente, 341 n. 44, 394 n. 218, 396
Marradi Anita, 76 n. 112. n. 224, 397 n. 228, 423 n. 312, 425,
Marti Mario, 136 n. 72. 426.
Martinozzi Giuseppe, 109 n. 3. Merlo Pietro, 396 n. 222.
Marx Karl, IX n. 5, X n. 8, XI n. 10, XII Mestica Giovanni, 318 n. 6.
nn. 12 e 15, XIII n. 20, XCVII, 32 e Meyer Paul, 397, 398 n. 230.
n. 61, 110, 111, 134, 147, 441, 447 n. Meyer Wilhelm, 478 n. 6.
51, 458 e n. 88, 469 n. 102. Meyer-Lübke Wilhelm, 388.
Marzolo Paolo, 373, 379 e nn. 168-169, Micali Giuseppe, 343 n. 50, 345, 357 e n.
380, 381, 408. 96, 358, 492.
Marzot Giulio, 504. Migliorini Bruno, 66, 392 n. 209, 406 n.
Mascioli Frederick, 344 n. 50. 258, 511, 523.
Masini Pier Carlo, 408 n. 267, 412 n. 278. migrazioni dei popoli, secondo l’etnografia e
Masnovo Omero, 55 n. 48, 62 n. 63, 67 n. la linguistica ottocentesca, 337, 341 n.
Indice dei nomi e delle cose principali 547

39, 350-354, 383-385, 416. 484, 486, 488, 490, 495, 497, 511,
Miklos#ic! Franz, 389, 408. 523; interesse per gli studi di antichità
Mill James, 447, 453 n. 67; rapporti col classica, 490, 495; su un passo di
Grote, 453 n. 67. Catullo, 497.
Mill John Stuart, 238, 447, 448 e nn. 52 e Moravia Sergio, LXXXVIII, 504.
54, 449 e n. 56, 450 n. 60, 452 n. 64, Morcelli, Stefano Antonio, 509.
453 n. 67, 455 e nn. 75-76, 456, 459 e Morelli Timpanaro Maria Augusta, XLVII,
n. 89, 465, 467, 470; rapporti col LXXIII, 118, 509, 510, 514, 523.
Gomperz, 447-449 e nn. 51-54, 449 e Moreschini Claudio, 274 n. 14, 278 n. 18,
n. 56, 450 e n. 60, 452 n. 64, 455-456 292, 516.
e nn. 75-76, 456 n. 79, 459 e n. 89, Morgan, Lady - (Sidney Owenson), 323 e n.
465, 467, 470; accenno implicito al 19.
Mill in un passo del Gomperz, 448- Morghen Raffaello, 207.
449; trad. tedesca delle Opere promos- Moro Tommaso, 71 n. 91.
sa dal Gomperz, 448 e n. 54, 449. Moroncini Francesco, 39 n. 3, 42 n. 13, 52
Millard Joseph England, 121 n. 38. nn. 38 e 40, 68 n. 82, 86 n. 133, 91 n.
Minghetti Marco, 20, 72 n. 93. 143, 93 n.148, 116 e n. 22, 136 n. 72,
Mirri Mario, L, LXXVIII, 23 e n. 40, 25 n. 137 n. 73, 169 n. 54, 172 n. 64, 175
43, 343-344 n. 50. nn. 73 e 75, 190 n. 14, 193 n. 19, 207,
Mistrali Vincenzo, barone, XXI. 213 n. 50, 214 n. 52, 218 n. 56, 220 n.
Moeller Hermann, 419. 59, 231 n. 3, 232 n. 5, 252, 260, 297
Moget Gilbert, LXXXVI, 3, 34, 61, 68. n. 42, 320-321 n. 12.
Moleschott Jakob, 405 n. 52, 446, 446 n. Morpurgo Giulio, 372 n. 144.
47, 465. Morpurgo Salomone, 53 n. 41.
Momigliano Arnaldo, LXXIX, 344 nn. 50- morte, secondo Epicuro-Lucrezio e
51, 391, 410 n. 271, 434 n. 16, 453 Leopardi, 298-304; «m. eterna» in
nn. 67 e 70, 457 n.87, 475 n. 1, 476, Lucrezio e in Leopardi, 298-304.
480 n. 9, 497. Mortier Roland, 34.
Momigliano Felice, 332 n. 12. Morton Samuel, 366.
Mommsen Theodor, LVI, 434, 461 e n. 97, Mosca Benedetto, 86.
467, 490, 494. Mosco, 11.
monogenesi e poligenesi del linguaggio e Müller Karl Otfried, 433, 435 e n.18.
delle razze umane, 361-363, 364-365, Müller Max, 365 n. 124, 379 n. 169, 397 n.
366, 417-422. 228, 403 n. 246.
Mondolfo Rodolfo, 437 n. 22, 459 n. 91. Murat, Gioacchino, 315, 318.
Montaigne Michel de, 313, 525. Muratori Ludovico Antonio, 46, 336, 337,
Montale Eugenio, VIII e n. 3, XI e n. 10. 338 e n. 26, 339 e n. 33, 343, 475 e n.
Montanari Eugenia, 13 n. 19. 1, 477, 478 e nn. 1 e 7, 479, 480 e n.
Montanelli Giuseppe, 369 n. 132. 9, 481, 482, 483, 528.
Montani Giuseppe, XIX, XXIII, 19 e n. 31, Murray Gilbert, 432 n. 13.
20, 93, 251-252, 508. Murri Augusto, eco di una lettura del
Montesquieu (Charles de Secondat de), 155, Gomperz, 471.
156, 157 e n. 23, 169 n. 57, 178 n. 84, Muscetta Carlo, 3, 13 n. 18, 25 n. 45, 95 n.
284 n. 25, 285 n. 26. 151, 112, 125 n. 46, 144, 190 n. 12,
Monteverdi Angelo, XXXII e n. 38, 218 n. 199, 201, 201 n. 32, 317 n. 4, 507,
57, 226 n. 73, 300 n. 47, 319, 338 n. 519.
26, 517, 520. Musumarra Carmelo, 508.
Monti Nicola, 85 e n. 130. Muzzarelli Alfonso, 149, 150 n. 51, 153.
Monti Vincenzo, XVII, XLVII, LXXVII, Muzzarelli Carlo Emanuele, 49-50.
XCII e n. 3, XCIII, XCIV e n. 4, 11 e Muzzi Luigi, 49 n. 30, 509.
n. 15, 12 e n. 17, 13 e n. 18, 14 e n.
20, 24, 25 n. 43, 27 n. 50, 50, 58, 334 Naddei Carbonara Mirella, 267 n. 2, 286 n.
e n. 14, 339 n. 33, 341 n. 38, 392, 29, 301 n. 48, 516.
548 Indice dei nomi e delle cose principali

Napoleone I, 5, 63 e nn. 65-66, 70, 73 e n. Orazio, XXXV n. 40, LI, LII, LIII, 47, 94
98, 326, 495, 511, 512; giudizio del n. 150, 154 n. 14, 270, 385, 478, 485;
Leopardi, 325-326; pubblicistica anti- possibili echi nel Leopardi, 270.
napoleonica reazionaria, 492. Orelli Johann Conrad, 175 e n. 75, 280 e n.
Napoleone III, 495. 22.
Narducci Emanuele, XIII n. 19, 267 n. 3, orfismo e correnti misteriche greche affini,
515, 525. 437-438, 445-446.
Natale Francesco, 45 n. 88. Origene, 313.
Natali Giulio, 184 n. 1, 188 n. 8, 189 n. 10, origine della civiltà (teorie sull’–), 7, 75,
225 n. 70, 508. 118-119, 181; origine del linguaggio,
Nauck August, 432 n. 13. 363-364, 373-374 e n. 149, 379, 412-
negri d’America, emancipazione: idee di 413.
Mill, Gomperz, Grote, 455 e n. 76. Orioli Giovanni, 3, 511.
Negri Gaetano, 410 n. 272. Orlando Filippo, 260, 513, 515.
Negri Giovanni, 189. Orlando Saverio, 270 n. 7.
Negri Renzo, 517. Osthoff Hermann, 395.
Nencioni Giovanni, 397 n. 227, 426 n. 319, Ottolini Angelo, 258.
527. Owen Robert, XC.
neogrammatici, 395-407.
neoguelfismo: abuso di questa categoria sto- Pacchiano Giovanni, XXXII n. 39.
riografica, 491, 492-495, 495-496. Pace da Certaldo (pseudo-), 53 e n. 41.
neoplatonici, 158, 168, 170-171. Pacella Giuseppe, XXXI, LXVIII, LXX-
Neri Ferdinando, 108-109 n. 2, 117-118 n. VIII, CIII, CV, CVII, 163 n. 37, 168
29, 119-120 n. 33, 505. n. 53, 169 e n. 55, 193 n. 19, 255 e n.
Nestle Wilhelm, 436 n. 21. 14, 269 n. 6, 276, 279, 280 nn. 21-22,
Niccolini Giovan Battista, 19, 25 e n. 46, 26 304 n. 54, 307 n. 57, 321 n. 15, 322 n.
e n. 47, 34, 252, 259-261; rapporto tra 17, 500 n. 7, 504, 516, 517.
una sua frase e la Palinodia del Pagnini Alessandro, VII n. 1.
Leopardi, 259-261. Palazzi Fernando, 265 n. 29.
Nicoletti Giuseppe, LXX. Pallas Peter Simon, 350 n. 74.
Nicolini Giuseppe, 80 n. 120, 338, 351 n. Pallavicino Sforza, XIX, 40, 43 n. 18, 97 e
80. n. 1, 508.
Niebuhr Bartold Georg, 490, 494, 500; rea- Paoletti Lao, 121 n. 39, 490.
zioni suscitate in Italia dalla Storia Papa Pasquale, 40 n. 6.
romana, 490; presunte analogie Papadopoli Antonio, 49 n. 30, 90 n. 141,
Niebuhr-Manzoni, 494. 512.
Nietzsche Friedrich, 126 n. 49, 160, 324. Papi Lazzaro, 92 n. 147, 512.
Nigra Costantino, 395 e n. 219, 402-403 e Papi Roberto, 509.
n. 245, 408 e n. 262, 414 n. 285. Paratore Ettore, LV, LVII, LXIX, 285 e n.
Noël Jean-François, 176. 26, 293 n. 35, 314.
Norberg Dag, 477 n. 4, 478 n. 6. Parenti Marino, 105 n. 24, 513.
Nott Josiah Clark, 365, 366 e n. 127. Parini Giuseppe, XLIX, XCVI, 24, 25 n.
Novalis (Friedrich von Hardenberg), LXXX- 43, 44.
VIII. Parmenide, 442 n. 34.
Parodi Ernesto Giacomo, 422, 423 n. 312.
Oken Lorenz, 447 e n. 51. Parronchi Alessandro, 118, 305, 326-327 n.
Olivet Pierre-Joseph, 174. 26.
Omero, XXIX, 10, 164-165 n. 43, 167, participii indipendenti dalla diatesi, 255 e
229, 248, 314. nn. 13-16.
Omodeo Adolfo, 5, 462 n. 99. Pascal Blaise, 109, 313.
Onciulencu Teodoro D., 370. Pascoli Giovanni, 47, 139, 140 n. 80.
Orano Domenico, 188 e n. 8, 189 n. 9, 193 Pasquali Giorgio, VIII, XI n. 3, XIII e n.
e n. 19, 194, 196 n. 22, 197, 207, 219. 18, XXXIV, XLIV, LV, LVI, LVII,
Indice dei nomi e delle cose principali 549

47, 431 n. 9, 462 n. 99, 491, 496, 498 Pio VI (papa), 13 e n. 18.
n. 4, 509, 525, 526. Pio VII (papa), 185, 189 n. 8, 207, 209,
Pasquier Etienne, 342. 214, 510.
Passavanti Jacopo, 57. Pio IX (papa), XXIII, 63 e nn. 65-66, 77.
Passerin d’Entrèves Ettore, 3, 61, 510, 511. Pirodda Giovanni, 20, 111.
Patin Henri-Joseph-Guillaume, 287. Pirona Jacopo, 370 e n. 133, 371.
patriottismo ottocentesco, 55-57; «patriotti- Pisacane Carlo, LXXVIII, LXXXIX, XC,
smo italico», 343-344 e n. 50, 345, XCI, 7, 25, 31, 369 n. 132.
356-358. Pisani Vittore, 352 n. 84, 361, 396 e n. 225,
Paul Hermann, 399 e n. 235. 403 n. 248, 407.
Paulian Aimé-Henri, 149, 150 n. 6. Pitagora e pseudo-Pitagora, 153, 158, 171 e
Pavan Massimiliano, 164 n. 42. n. 62.
Pavone Claudio, 31. Pitagorici, 451 n. 61.
Pazzaglia Mario, 111. Platone, XXIX-XXX, LIV, 51, 131 e n. 63,
Pedersen Holger, 360 n. 109, 398 n. 232. 150, 151 e n. 9, 153 e n. 12, 155, 158,
Pellegrini Pietro, 219, 220. 168-174, 178, 182, 183, 270, 282, 289,
Pellegrini Silvio, 426 n. 319. 298, 300 e n. 45, 303, 430 n. 8, 431 n.
Pellico Francesco, 79. 9, 432, 440, 441 n. 30, 442, 443, 444,
Pellico Luigi, 508, 510. 445, 448, 449, 451 e n. 61, 452, 453 e
Pellico Silvio, 3-4, 18 n. 30, 508, 510. n. 68, 457 n. 85, 460, 471, 516, 526;
Pellizzari Achille, 100 n. 8. P. e Leopardi, 270-271, 298; pretesto
Pelzet Maddalena, 260. per una polemica anticristiana, 300.
periodizzazione della storia secondo i roman- Plauto, 306 n. 56, 478, 480; P. e Giordani,
tici, 118-120; 338-339. 306 n. 56.
Perelli Luciano, 287. Plinio il giovane, 39 e n. 2.
Persio, 525. Plotino, 158, 168, 170 n. 61, 172, 180 n.
Perticari Giulio, XCIII, XCIV, 8, 12, 43, 87, 241, 242, 300 n. 45, 301, 516.
53, 94, 115, 208, 334, 340, 341 n. 38, Plutarco, 162 n. 33, 282, 284 n. 25, 515;
392 e n. 211. «plutarchismo», 490-491.
Perutelli Alessandro, 525. Poerio Alessandro, 144.
pessimismo antico, 161-168. poesia “ritmica” (accentuativa): sua origine
Pessina Enrico, 188 n. 7. secondo il Maffei e il Muratori, 477-
Pestelli Corrado, XXXVII-LXXIII (Nota del 480, 481.
curatore). Pohlenz Max, 462-463.
Petrarca Francesco, XXXIV, 124, 253, 254 Pöhlmann Robert von, 458 e n. 88.
e n. 12, 256 e n. 18, 258 e n. 22, 269. Poincaré Henri, 465.
Petronio Giuseppe, LXXXIII, 4 e n. 4, 22 Polignac Melchior de, 279 n. 20, 287.
n. 39, 30 n. 58, 32 e n. 64, 33, 116 n. «Politecnico (Il)», 16, 331 n. 8, 346 e n. 61,
24. 348 n. 65, 349 n. 66, 350 e n. 73, 354
Peyron Amedeo, XLIV, 12, 21, 51 e n. 37, n. 91, 364 e n. 122, 366 n. 127, 368 n.
52, 378, 494, 495, 498; rapporti col 131, 369 n. 132, 376, 377, 378 n. 164,
Mai, vedi Mai; suo presunto romantici- 381, 382 e n. 169, 384 n.186, 389 n.
smo, 494. 202, 390 n. 203, 417 n. 294, 418 n.
Pezzana Angelo, 513. 298, 420 n. 308, 515.
Pianciola Cesare, XCVI n. 6. «popolarità» secondo i romantici, vedi
Picco Francesco, 63 n. 66, 225 n. 70. romanticismo.
Piccolomini Enea, 498 n. 4 . Porena Manfredi, 108, 118 n. 29, 126, n.
Piergili Giuseppe, 73 n. 97, 221 n. 60. 50, 131 n. 63, 136 n. 71, 163 n. 36,
Pieri Mario, 513. 164 n. 38, 168 n. 53, 175 nn. 73-75,
Pietti, libraio, 512. 182 n. 93.
Pighini Giacomo, 141. Porfirio, 152, 158, 170 n. 61, 171, 172, 180
Pignatelli Giuseppe, 316 n. 1, 516, 527. n. 87, 241, 278 e n. 18, 300 n. 45, 516;
Pindaro, 164. Vita Plotini (e Leopardi), 278 e n. 18.
550 Indice dei nomi e delle cose principali

Porson Richard, 496. Regenbogen Otto, 162 n. 33.


Porta Carlo, XX, LXXXII, LXXXIII, Reichmann (e Lumpe; cfr. Thesaurus linguae
XCV, 44, 45-46 n. 21, 46, 485, 486 e Latinae, VIII, 1511, 64 sgg.), 268 n. 5.
n. 15. Renan Ernest, 348, 417.
Posidonio, 452 n. 64. Resnati editore, XCIV n. 4.
positivismo negli studi classici in Italia, 495- Rezzi Paolo, 424 n. 314.
496; in Austria (Gomperz), vedi Rezzonico (Carlo Della Torre di), 76 e n.
Gomperz Theodor. 111.
Pott August Friedrich, 348, 361 e n. 114. Ricasoli Bettino, 71.
Prandi Alfonso, 316 n. 1. Ricci Lapo de’, XXIII.
Praz Mario, 31. Ricciardi Giuseppe, 74 n. 102.
«preromanticismo», 4, 7, 32-33, 34, 331- Ridella Franco, 86 n. 132, 90 n. 141.
332. Rimbaud Arthur, XCIX.
Previtali Giovanni, 482 e n. 11. risalutare = «ricambiare il saluto», 251-252,
Prisciano, 509. 525.
progressismo politico-sociale e progressismo Ritter Heinrich, 435, 441 n. 30, 453 n. 68.
scientifico, XCVII-XCVIII, 134-135. Roberti Giuseppe, 46 e n. 22, 86 n. 133, 90
«progressista», termine divenuto sempre più n. 141, 509.
ambiguo, 322-323 n. 17. Robespierre Maximilien, 324.
progressivo in senso politico-sociale, 261-265, Robin Léon, 266, 288, 289, 303 n. 51.
525. Rodbertus Johann Karl, 458 n. 88.
Properzio, 511. Rollin Charles, 493.
Protagora, 432 n. 12, 450. Roma nell’Ottocento preunitario: retorica
Prunas Paolo, 19 n. 35. della romanità, 493, 494.
Puccini Niccolò, 251, 252. Romagnoli Ettore, 53, 225 n. 70.
Puccinotti Francesco, 179 n. 86. Romagnosi Gian Domenico, 71, 75, 76 e n.
Pugliese Carratelli Giovanni, LVII, 46 n. 110, 119, 172 n. 65, 329 n. 2, 330,
97. 332, 339, 340, 345 n. 58, 346, 350 n.
Pullè Francesco Lorenzo, 328 e n. 1, 410 n. 73, 354, 357 n. 96, 362 e n. 117, 369
271, 414, 415, 421. n. 132, 378 e n. 163, 379, 380, 381,
Puoti Basilio, 56, 90, 91 n. 142. 482, 484, 485, 504, 511, 516; valuta-
Puppo Mario, 4, 18, 253 n. 3. zione del Medioevo e distinzione tra
purismo, 10, 11-12, 55-60, 102, 117, 121 n. stirpe e civiltà, 338-339.
39, 229-233. Romano Giacinto, 341 n. 43.
Puškin Aleksandr Sergeevic#, LXXXIII, Romano-Catania Giuseppe, 109 e n. 3.
LXXXVIII. romanticismo, passim; varietà di gruppi e di
posizioni in Europa, LXXXII-
Quadrio Francesco, 337 n. 22. LXXXIII, 5-6, 332-333; uso estensivo
Quintili Paolo, XI n. 9. del termine (eccessiva estensione data a
questo concetto storiografico), LXXXI-
Radermacher Ludwig, 467 n. 101. LXXXVI, 31-35, 331, 493, 494-495;
Radetzky, Johann Joseph, 455 n. 76. polemica romantica in Italia (1816-21),
Raicich Marino, XCI, 328. 3-35, 332-333, 338-339 e passim; osti-
Raimondi Ezio, 508. lità al termine «romanticismo» in
Rajberti Giovanni, 484, 485. Italia, 19 n. 35, 339; reazione all’epicu-
Ramat Silvio, 508. reismo settecentesco, 7; religiosità,
Ranieri Antonio, 96, 259, 260, 261. LXXXVIII, 6-7, 24, 25-26, 98; «popo-
Rask Rasmus, 346 n. 60, 347, 360 n. 109, larità», 7, 98, 333, 334 n. 16, 393; r.
397 n. 228, 398. del gruppo di Heidelberg, 436-437; r.
Ravasi Sofia, 34 n. 65. mistico-orientalizzante tedesco, 437.
Ravizza Carlo, 335 n. 18. Rosa Enrico, 189 n. 8.
razzismo nell’etnologia e nella linguistica Rosa Gabriele, 373 e n. 146, 385 n. 186,
ottocentesca, 348, 364-368, 417. 412 e n. 178, 526.
Indice dei nomi e delle cose principali 551

Rosini Giovanni, 189 n. 8. Savoca Giuseppe, 190 n. 12, 199, 519.


Rosmini Serbati Antonio, 25, 75 e n. 104, Sbarberi Franco, 264.
172 n. 65, 484, 511. Scaligero Giuseppe, 434, 435 n. 18.
Rossi Paolo, 332 n. 11. Scarabelli Luciano, 49 n. 29, 55 n. 48, 105
Röth Eduard, 437, 438. n. 32, 262.
Rotondi Clementina, 508. Scarpa Gino, 156 n. 21, 165 n. 43, 190 e n.
Rotondò Antonino, VII n. 1. 12, 199, 204, 221 n. 63.
Ruffini Giovanni, 318 n. 7, 512. Scheel Hans Ludwig, 121 n. 39, 154 n. 14,
Rousseau Jean-Jacques, XLII, LXXXV, 7, 179 n. 86, 202, 229 n. 1, 308 n. 60,
10, 34, 42, 71, 109 n. 2, 111, 115, 519.
120, 134, 135, 228, 233, 240, 243, Schelling Friedrich Wilhelm Joseph, 181,
322, 503, 504, 515; analogie col primo 364 n. 121, 447 e n. 51.
Leopardi, 322. Scherer Wilhelm, 434.
Russo Carlo Ferdinando, 251 e n. 1. Schiaffini Alfredo, 392 n. 210.
Russo Luigi, 24 n. 42, 91 n. 142, 498 n. 4. Schiaparelli Giovanni Virginio, 444.
Rutto Giuseppe, 526. Schiavina Enzo, 111.
Schlechter Annamaria, 66 n. 72.
Saccenti Mario, 266, 267 e n. 2, 269, 274, Schlegel August Wilhelm, XXV n. 36, 6, 23
291, 294 e n. 36, 306, 309 e n. 61, n. 41, 332 n. 12, 338 n. 27, 346 n. 60,
310, 517. 355, 377 n. 62, 379, 387 e n. 192, 417.
Sacchi Defendente, 378 n. 163. Schlegel Friedrich, XXV n. 36, LXXXVIII,
Sade Donatien-Alphonse-François, marchese 23 n. 41, 181, 346 n. 60, 347, 349 nn.
di -, 314. 70-71, 350, 353 e n. 86, 355, 360 e nn.
Saitta Armando, XVI n. 25, LX, 339, 341 107 e 109, 362, 363, 364 e n. 121,
n. 43. 365, 377 n. 62, 379, 387, 417, 419,
Sallustio, 255. 437.
Salomone, XXIX, 165 n. 43, 167, 248. Schleicher August, 361 e n. 114, 385, 386 e
Salvatorelli Luigi, 62 n. 63, 109, 110 e n. 3, n. 188, 387, 389 n. 201, 397 n. 228,
114. 398, 401, 402 e n. 244, 403 n. 246,
Salvemini Gaetano, CIII, 329 n. 2, 369. 404, 405 n. 252, 406, 407, 418 e n.
Salviati Lionardo, 255 n. 15. 299.
Salvioni Carlo, 375 n. 153, 396 e n. 224, Schleiermacher Friedrich, 168, 441 n. 30,
419 e n. 302, 422, 423 n. 312, 424 e n. 451.
315, 526, 527. Schmidt Johannes, 361, 395, 398 n. 231,
Samonà Giuseppe Paolo, LXXXI-LXXXIV, 431 n. 9.
LXXXVI, LXXXVII-LXXXVIII, Schoell Friedrich, 432 n. 13.
LXXXIX n. 2, 122, 505. Schopenhauer Arthur, 132, 143.
Sanchini Sebastiano, 148, 151, 223. Schubart Herman, barone di, XLVII, 522,
Sansone Mario, 45 n. 21, 114 n. 20, 115. 523.
Santamaria Domenico, 526, 527. Schubart Wilhelm, 523.
Santi Domenico, 76 e n. 112, 89 n. 139. Schuchardt Hugo, 361, 363, 387 n. 194,
Sapegno Natalino, LXXXIII, LXXXV, 26 e 395, 396, 397 e n. 227, 401-402, 403,
n. 48, 27 n. 52, 32 e n. 61, 111, 113, 404, 406-407 e n. 258, 408.
510. Schulze-Delitzsch, Hermann, 456.
Sarpi Paolo, 43, 72, 97 n. 1, 513. Sciacca Michele Federico, 429 n. 3.
Sartorio Odoardo, 64. Scinà Domenico, 63 n. 67.
Sasso Gennaro, 293 n. 35. Sconocchia Sergio, LX-LXI, 267, 268 n. 4,
Saurau Franz Joseph von, 11. 276, 309 n. 61, 311.
Sauri (Saury) Jean, 149, 150 n. 6. Scotti Mario, 3, 309 n. 62, 507, 508, 510.
Savarese Gennaro, 118, 131, 137, 249 n. Segneri Paolo, XIX, 40, 97.
12, 259-260, 313, 318 n. 5, 319 nn. 8- Seneca il filosofo, 153, 157, 251 n. 1, 269 n.
9, 512, 515. 6, 303 n. 51, 513, 516.
Savigny Friedrich Karl von, 437. Senecione, 157.
552 Indice dei nomi e delle cose principali

Senofonte, 129 n. 56, 167 n. 51, 451-452; Spaggiari William, XXII n. 32, XXIII n.
caratterizzazione datane dal Gomperz, 34, 507, 509, 512, 528.
451-452. spasimato = che spasima, 255 e n. 15.
Serban Nicolas, 117 n. 29. Spaventa Bertrando, 102.
Sergi Giuseppe, XXVIII, 127, 141, 367. Spencer Herbert, 447 n. 49.
Sestan Ernesto, CIII, 329 n. 2, 331 n. 8, Speusippo, 444.
334 n. 16, 345 n. 58, 350 n. 73, 369 Spinazzola Vittorio, 3.
n.132, 373. Spinoza Baruch, 130.
Sesto Empirico, 170 e n. 61. Spitzer Leo, 402 n. 243.
Settembrini Luigi, LXXVII, XCV n. 5, 12 Spitzer Simon, 451 n. 61.
n. 17, 20, 24, 25 n. 43, 321 n. 12. Staël, Madame de (Anne-Louise-Germaine
Setti Giovanni, 169 n. 56, 178 n. 81. Necker), LXXXVI, 4 n. 2, 5, 34 e n.
Settis Salvatore, VIII n. 2. 65, 41, 120 n. 33, 228, 229, 231 e n.
Sichirollo Livio, 463 n. 100. 3, 332 n. 12, 338 n. 27.
Sgricci Tommaso, XX, 508. Stallbaum Gottfried, 168, 453 n. 68.
«Sigma» (pseudonimo di un articolista del Stefano (Henri Etienne), 161 n. 32.
«Messaggero» di Roma), 188 n. 7, 196 Steinhoff Margarete, LXXXII.
n. 23. Steinthal Heymann, 39 n. 228.
Simeoni Luigi, 475 n. 1, 477 n. 4. Stella Antonio Fortunato, 499.
Simmaco, riecheggiato dal Leopardi, 256 n. Stellini Jacopo, 75 e n. 106, 76 e n. 110,
17. 504.
Simon Richard, 363 n. 119. Stendhal (Henri Beyle), LXXXII, LXXXIII,
Simonide, 148, 167 n. 48, 294 n. 36. LXXXVIII e n. 1, 7, 39, 387 n. 194.
Sinner Louis de, 127 n. 52, 130 n. 61, 184. Stenzel Julius, 428, 429 e n. 2.
Sismondi Jean-Charles-Léonard Simonde de, Stephen Leslie, 455 n. 74.
19 n. 34, 343 n. 50, 345, 358. Stirpe Bianca, 136 n. 72.
Smith Adam, 345 n. 56. Stobeo, 164 n. 41, 165 e n. 44, 175 e n. 74,
Socrate, 148, 150, 153 e n. 12, 154, 160, 180 n. 90, 280 n. 22; cit. dal Leopardi
170, 173, 174, 298, 430 n. 8, 440, secondo due diverse edizioni, 280 n.
442, 451, 460 e n. 92, 528; «socratici 22.
imperfetti» secondo E. Zeller, 441 n. stoici greci secondo il Gomperz, 452, 459.
32. stoicismo, XLIII, 163, 175-177, 178 n. 83,
sofisti greci, 440-441 e n. 30, 442, 445, 452, 281, 282, 284 e n. 24, 285, 286 e n.
453 e n. 68, 458, 459, 463 e n. 100, 28; nell’età imperiale romana, 157,
470-471. 159; nel Leopardi: valutazione degli
Sofocle, 10, 164 e n. 39. stoici ultimi difensori della libertà nel
Solleciti Maria, 251. mondo antico, 284-285 e n. 26; acco-
Solmi Arrigo, 341 n. 43. stamento (con riserve e per breve
Solmi Sergio, XXXII e n. 39, 227, 233, tempo) ad Epitteto, 285 nn. 27-28;
236, 240, 241, 244, 245, 312, 522, contro il provvidenzialismo stoico, 286
525. n. 28.
Soprani Francesco, 70 n. 87. storici greci secondo il Gomperz, 445, cfr.
Soprani Leone, 87. 436.
Spadoni Domenico, 207, 510. Stok Fabio, X n. 6.
sostrato, nella linguistica anteriore al Stratone da Lampsaco, 180, 444, 449-450 e
Cattaneo, 342-344, 349-350, 356-357; n. 59, 452.
nel Cattaneo, vedi Cattaneo; Struve Jacob Theodor, 500.
nell’Ascoli, vedi Ascoli; nel Nigra, 395 Struve Karl Ludwig, 51, 500.
n. 219, 402 n. 245; nell’indeuropeistica Stussi Alfredo, 376.
a metà Ottocento, 385-388; nello Sue Eugène, 264.
Schuchardt, 401-402 e n. 243, 403-
404; sostrato e monogenesi delle lingue, Tabarrini Marco, 100 n. 4.
419-421. Tacchi Ilario, 187 e n. 4, 188 e n. 7, 189 e
Indice dei nomi e delle cose principali 553

nn. 8-9, 193, 196 e n. 22, 224, 225, Togliatti Palmiro, 264.
226, 518. Tolomei Claudio, 342 n. 45.
Tacito, 157, 159. Tomitano Bernardino, 510.
Tagliavini Carlo, 329 e n. 3, 390 n. 203, Tommaseo Niccolò, XXII, XXIII, XXVIII,
406 n. 255, 418 n. 299, 424 n. 315. LXXXIII, 10, 19 e n. 31, 21, 29 e n.
Talete, XXVI, 439 e n. 25; discussioni sulla 56, 38, 84 n. 128, 85, 89 e n. 138,
sua origine semitica, 439 e n. 25. 106, 127, 184, 254 n. 12, 262, 321,
Tannery Paul, 444. 332, 375, 376, 392 n. 211, 486 e n. 16,
Targioni-Tozzetti Fanny, 34. 499, 513, 526.
Targioni-Tozzetti Ottaviano, 100. Torti Francesco, XCII.
Tasso Torquato, 44, 258, 309, 314. Tortoreto Alessandro, 508.
Tateo Francesco, XLVI, XLVII, 522, 523. Tramarollo Giuseppe, 373, 526.
Tedaldi-Fores Carlo, 19. Trasea Peto, 157, 159.
Tellini Gino, VII-XXXV (Introduzione), Traube Ludwig, 477.
LXXIII. Traversari Ambrogio, 161 n. 32.
Temistio, 431 n. 9; De anima, congettura del Treitschke Heinrich von, 469 n. 102.
Gomperz, 431 n. 9. Treves Piero, XVI n. 25, XLI, XLIV-XLV,
Tenca Carlo, 19-20 e n. 35, 25 n. 43, 100, L, LIII, LXXXII, CV, 11 e n. 13, 21
265 n. 29, 373. n. 38, 43 n. 17, 49 n.30, 84 n. 128,
Teocrito, 309, 310. 112 e n. 10, 120 n. 34, 121 n. 39, 164
Teofrasto, XXIX, XXX, 132, 161 e n. 32, nn. 39 e 42, 213-214 n. 49, 318 n. 7,
162, 163, 164, 165, 170, 174 n. 72, 410 n. 271, 461 n. 97, 489-501, 506,
175, 180 e n. 87, 282, 283, 284 e nn. 507, 513, 514, 515; concordanze e
24-25, 304, 431 n. 9, 432 e n. 12, 444, divergenze rispetto a Croce, 491-492;
500 n. 6, 503; ammirato dal Leopardi, antigiustificazionismo storico, 492;
282, 284 e n. 24, 304. disprezzo per la «tecnica» filologica,
Teognide, 121, 164, 272; «meglio è per l’uo- 496-498; abuso delle categorie di
mo non esser nato ... »: giudizio oppo- romanticismo e di neoguelfismo, 492-
sto di Epicuro, consenziente del 497; antileopardismo, 499-500.
Leopardi, 164, 272. Trezza Gaetano, XLV, 496, 497.
Terenzio, 306 n. 56, 478, 480; T. e Tribolati Felice, 105 n. 32, 513.
Giordani, 306 n. 56. Trombetti Alfredo, 413 n. 280, 418 n. 299,
Terracini Benvenuto, 328, 329 n. 2, 347 n. 419, 425, 426 n. 318, 526.
63, 372 n. 142, 376 n. 157, 379 n. Tropeano Francesco, 62 n. 64.
169, 396 e n. 223, 397 e n. 228, 404 e Trotzskij Lev (Lev Trockij: Lejba Davidovic#
nn. 250-251, 405 e n. 254, 406 n. 258, Brons#tein), 505.
418 n. 297, 424-425, 426. Troya Carlo, 341 n. 43, 492.
Terzaghi Nicola, LV. Trubeckoj Nikolaj Sergeevic#, 361.
Thierry Augustin, 358 n. 102. Tucidide, XXVI, 42, 51 e n. 35, 436, 439.
Thorvaldsen Bertel, 62 n. 64. Turati Filippo, 410 n. 272.
Tilgher Adriano, LXIX, 10 e n. 2, 118, 119
n. 30, 129 n. 58, 130 n. 59, 297 e nn. Ubaldini Giovan Battista (pseudonimo di
40-41, 298. Ilario Tacchi), 187 n. 4.
Timpanaro Sebastiano senior, LXXIII. Untersteiner Mario, 429 n. 4, 459 n. 91.
Timpanaro Cardini Maria, vedi Cardini Usener Hermann, LVI, 266, 295, 431 n. 9,
Timpanaro Maria. 432, 434, 435 n. 19, 441 e n. 33.
Timpanaro Morelli Maria Augusta, vedi
Morelli Timpanaro Maria Augusta. Valgimigli Manara, XLVI, 501.
Tiraboschi Girolamo, 338 e n. 26. Valla Lorenzo, 178.
Tissoni Roberto, XLVII, 523. Vallauri Tommaso, 46, 50, 56.
Tocco Felice, 108, 130 e n. 60, 161 n. 32, Valli Donato, 516.
162 e n. 35, 169 n. 56, 172 n. 65, 178 Valsecchi Antonio, 150 n. 6.
e n. 81, 180 n. 87. Valussi Pacifico, 376, 526.
554 Indice dei nomi e delle cose principali

Vannucci Atto, 492, 495, 501, 515. Vogt Karl, 446 e n. 47.
Varrone, 52 n. 40. Volney (Constantin-François de Chasseboeuf),
Vegezzi Ruscalla Giovenale, 370. 118 n. 29, 313.
Velleio Patercolo, 156 n. 21. Voltaire (François-Marie Arouet), XXII,
Velli Giuseppe, 314, 508, 515. XXXV n. 40, 68, 75 e n. 105, 85, 115,
Vené Gian Franco, 114, 305, 326 n. 26, 122 e n. 40, 123, 135, 146 e n. 90,
514. 149, 150 n. 6, 240, 293 n. 35, 313,
Veo Ettore, 188 n. 7. 324, 327; Giordani e Leopardi spesso
Vera Augusto, 413 n. 280, 527. dissentono da lui quanto alla religione,
Verri Pietro, 18 n. 29, 22, 76. 313, 327; Siècle de Louis XIV, 324.
Viani Clelia, 510. Voss Johann Heinrich, 7.
Viani Prospero, 185, 213, 218 n. 56, 226 n. Vossius Gerhard Johannes, 478-479 e n. 7.
71, 252, 510. Vossler Karl, 397.
Vico Giambattista, LXXXV, 7, 34, 40 e n.
8, 75, 76, 332 n. 11, 343 n. 50, 351 e Wallace Alfred Russel, 447 n. 49.
n. 8, 362, 364, 373 e n. 149, 497, 504. Wartburg Walther von, 341.
Vidos Benedictus Eleutherius, 341 n. 44. Weinberg Adelaide, 448 n. 52, 453 n. 70.
Vieusseux Giampietro, XXIII, 16-17 e n. West Martin L., 437 n. 22.
26, 20, 44 n. 19, 48, 55, 71 n. 91, 82, Whitney William Dwight, 403 e nn. 24 e
89 e n. 138, 128 n. 55, 131, 132, 133, 248.
134, 135, 137 e n. 73, 251, 252, 513. Wilamowitz Ulrich von, 435 e n. 19, 467,
Viglio Patrizia, 512. 479.
Virgilio, XXXIX, LI, LII, 47, 233, 288, Winckelmann Johann Joachim, 437.
300, 305, 306, 307 n. 56, 308 e nn. Wis Roberto, 507.
59-60 (Leopardi), 395; culpa (Georg. III Wolf Friedrich August, 435.
68), 288 (ma cfr. 312).
Visconti Ennio Quirino, 490, 500. Zach Franz Xavier von, 68.
Visconti Ermes, 18 n. 30, 19 e n. 31, 39 n. Zajotti Paride, 9, 14, 17, 65, 66 n. 72.
5, 338 n. 27, 490, 500. Zampa Giorgio, VIII n. 3.
Vitale Maurizio, XLVI, XLVII, XCI, XCII, Zanotti Francesco, 59.
12 n. 17, 230 n. 2, 322 n. 17, 336 n. Zanotti Giampietro, 59.
20, 336 n. 26, 342 n. 45, 344 n. 55, Zeller Eduard, LVI, 431, 435, 436, 437 e n.
392 nn. 209-211, 504, 505, 522, 523, 22, 438, 439 n. 25, 441 e nn. 30-32,
525, 528. 442 n. 34, 452, 459.
Vitaletti Guido, 525. Zerbini Elia, 213 n. 50.
vitalità, vita vitalis (Ennio), nel Leopardi, Zielin!ski Tadeusz, 468 n. 101.
296 e n. 38. Zuccante Giuseppe, 528.
Vitelli Girolamo, L, 498 e n. 4. Zumbini Bonaventura, 108, 189.
Vitrioli Diego, 46.

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