Diritto Dell'Unione Daniele
Diritto Dell'Unione Daniele
Diritto Dell'Unione Daniele
L’integrazione europea segue due metodi: uno TRADIZIONALE ed uno più innovativo, definito
come COMUNITARIO.
• Prevalenza del metodo decisionale dell’unanimità: ogni Stato quindi può porre il veto su
una determinata decisione;
• Assenza o rarità di atti vincolanti ed obbligatori: vi sono per lo più atti raccomandatori.
1. CAMPO MILITARE:
• CONSIGLIO D’EUROPA: nacque con il trattato di Londra del 5 maggio 1949. Organo
principale: Comitato dei ministri, formato dai ministri degli esteri dei vari Stati.
Strumento d’azione del Comitato sono le Convenzioni internazionali, tra cui la più
importante fra tutte è sicuramente la CONVENZIONE PER LA SALVAGUARDIA DEI DIRITTI
DELL’UOMO E DELLE LIBERTA’ FONDAMENTALI firmata a Roma il 4 novembre del 1950
(nacque anche la Corte europea dei diritti dell’uomo).
Il metodo tradizionale, benché molto utile, presentava però delle importanti debolezze proprio
nei suoi punti chiave. Ecco perché si decise di applicare un metodo più innovativo, definito
come COMUNITARIO.
• Presenza di organi di individui ≠dagli organi di Stati presenti nel metodo tradizionale: i
soggetti rappresentano se stessi e sono indipendenti dallo Stato di appartenenza;
Il metodo comunitario ed il concetto di Europa fortemente legata sotto diversi profili nacque
con la DICHIARAZIONE SCHUMAN del 9 maggio 1950. Schuman, l’allora ministro degli esteri
francese, parlò nel suo discorso di “Europa dei piccoli passi”, un’Europa più unita e coesa nei
fatti che nelle parole e propose di porre sotto il controllo di un’Alta Autorità, con potere
vincolante ed indipendente, il settore carbo-siderurgico francese e tedesco. A tale accordo
avrebbero potuto aderire anche altri Stati. In realtà la Francia mirava a diventare il partner
ideale degli Stati Uniti, sostituendo così il Regno Unito. Inoltre gli USA premevano per un
veloce riarmo tedesco per fronteggiare il blocco filo-sovietico, fatto preoccupante per la
Francia, dato che proprio dal riarmo della Germania era partita la Seconda Guerra Mondiale. Si
arrivò quindi nel 1951 al Trattato istitutivo della CECA (Comunità Europea per il Carbone e
l’Acciaio), cui aderirono Francia, Germania, Belgio, Lussemburgo, Olanda ed Italia (la quale
non voleva rimanere fuori dagli stretti rapporti che sarebbero scaturiti da tale accordo). Si
ebbe così il concetto di PICCOLA EUROPA.
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• L’ALTA AUTORITA’, organo di individui (un membro per ogni Stato) con il compito di
applicare il Trattato e con il potere di emanare atti vincolanti in tutti i loro elementi
(direttive) o solo negli scopi (raccomandazioni);
• il Consiglio Speciale dei Ministri, che contava un rappresentante per ogni Stato ed
aveva funzione consultiva, con il solo potere di fornire PARERE VINCOLANTE su alcune
materie all’Alta autorità;
• l’Assemblea Comune, formata dai rappresentanti dei Parlamenti nazionali, che aveva
funzione consultiva;
In seguito si cercò di attuare la medesima cooperazione anche nel settore della difesa, tramite
la creazione della CED (Comunità Europea Difesa), all’interno della quale un’istituzione,
definita come Commissione, avrebbe avuto lo stesso ruolo dell’ Alta Autorità. In realtà il
trattato sulla CED non venne mai ratificato, specialmente dalla Francia. Non avendo un potere
politico comune alle spalle, la CED non avrebbe mai potuto garantire in egual misura la difesa
dei vari territori. Inoltre i singoli Stati avrebbero perso la propria sovranità, rinunciando al
supremo potere di comando.
Nella Conferenza di Messina del 1955 venne istituito un apposito Comitato con il compito di
ampliare l’esperienza della CECA anche ad altri ambiti.
Nel 1957 si arrivò, dunque, alla firma dei Trattati di Roma, definiti come TRATTATI DELLA
COMUNITA’ EUROPEA (TCE) con i quali vennero istituite la CEE (COMUNITA’ ECONOMICA
EUROPEA) e la CEEA (COMUNITA’ EUROPEA PER L’ENERGIA ATOMICA, anche detta Euratom).
Furono previste 4 istituzioni: la COMMISSIONE, corrispondente all’Alta Autorità della Ceca, il
CONSIGLIO, con ampio potere normativo, l’ASSEMBLEA PARLAMENTARE e la CORTE DI
GIUSTIZIA.
I due trattati istitutivi della CECA e della CEE erano ben diversi tra loro. Il trattato istitutivo
della CECA era un trattato-legge, all’interno del quale era già prevista l’intera disciplina che,
un organo amministrativo, ossia l’ALTA AUTORITA’, avrebbe semplicemente dovuto applicare.
Il trattato della CEE, invece, era un trattato-quadro, ossia fissava semplicemente dei principi
che, un organo legislativo, ossia il CONSIGLIO, avrebbe dovuto meglio disciplinare. Ecco
perché anche la stessa Corte di Giustizia assunse due ruoli diversi: nei confronti della CECA
era un giudice amministrativo, mentre verso la CEE si presentava come organo di controllo
della conformità degli atti legislativi del Consiglio con il trattato-quadro.
Già con i Trattati di Roma del 1957 si unificarono 2 istituzioni: l’Assemblea Parlamentare e la
Corte di giustizia.
Con il Trattato di Bruxelles del 1965 si unificarono le altre 2: Commissione e Consiglio (sparì
quindi l’Alta Autorità, sostituita in tutto e per tutto dalla Commissione).
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Col passare del tempo il processo di integrazione ha coinvolto un numero sempre maggiore di
Stati: si è passati dai 6 membri originari (Piccola Europa) a ben 27 Stati (gli ultimi dei quali
sono stati la Romania e la Bulgaria nel 2007). Altri Paesi, inoltre, hanno lo status di “candidati”
e sono la Turchia, la Croazia e la Repubblica indipendente di Macedonia.
Benché il metodo comunitario sia stato adottato sempre maggiormente dalla Comunità
Europea , permane il mancato rispetto del principio della democrazia parlamentare: il
Consiglio, che è l’organo di maggior rilievo, è formato dai rappresentanti dei governi degli
Stati, non dei loro parlamenti. Sarebbe bastato dare maggior rilievo all’Assemblea
Parlamentare, invece che al Consiglio.
Nel tempo, però, il ruolo ed i poteri dell’Assemblea Parlamentare sono notevolmente cresciuti.
PRIMA TAPPA = Nel 1970 e nel 1975 si sono avuti, rispettivamente, il Trattato di
Lussemburgo e quello di Bruxelles, definiti come Trattati Bilancio: all’interno di essi è stato
previsto il sistema delle RISORSE PROPRIE, ossia l’Europa gode di un proprio bilancio e non di
singoli finanziamenti da parte degli Stati membri. Inoltre il Bilancio delle Comunità deve
essere approvato non solo dal CONSIGLIO, ma anche dall’Assemblea Parlamentare, seppur in
modo diverso. Si è osservato, infatti, che debba essere un organo rappresentativo del popolo
a provvedere all’approvazione delle spese. In realtà sino all’entrata in vigore del Trattato di
Lisbona del 2007, avvenuta nel dicembre 2009, il Consiglio poteva approvare SPESE
OBBLIGATORIE E NON, mentre l’Assemblea poteva approvare solo le SPESE NON
OBBLIGATORIE, potendo solo proporre delle modifiche alle SPESE OBBLIGATORIE e salvo il
diritto di RIGETTARE L’INTERO BILANCIO X IMPORTANTI MOTIVI. Il trattato di Lisbona ha
eliminato tale differenza.
SECONDA TAPPA: si decise di dare applicazione ad una norma del TCE che prevedeva
l’elezione a suffragio universale diretto dei parlamentari europei, diversamente da ciò che
avveniva in precedenza, quando erano i Parlamenti nazionali a nominare i parlamentari
europei.
TERZA TAPPA: nel 1986 venne firmato l’AUE (ATTO UNICO EUROPEO) con il quale:
QUARTA TAPPA: partendo dal progetto Spinelli del 1984, venne firmato il TRATTATO
SULL’UNIONE EUROPEA (TUE) il 7 febbraio 1992 a Maastricht, il quale introdusse la
PROCEDURA DI COODECISIONE: nessuna Istituzione avrebbe potuto imporre qualcosa ad
un’altra.
Va sottolineato però che in due PILASTRI dell’Unione Europea, la PESC e la CGAI, il Parlamento
ha conservato poteri molto limitati, almeno sino all’entrata in vigore del Trattato di Lisbona.
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Nonostante l’ampliamento dei poteri del Parlamento Europeo, è sempre esistita una tendenza
al metodo tradizionale. E’ sufficiente pensare alla nascita del CONSIGLIO EUROPEO nel 1961,
nato per ovviare alle mancanze del Consiglio delle Comunità, incapace molto spesso di dare
nuovi impulsi. Al Consiglio Europeo prendono parte i capi di Stato o di governo dei vari Paesi,
accompagnati dai ministri degli esteri ed esso non è un organo delle Comunità, bensì
dell’UNIONE. Le proprie deliberazioni avvengono all’unanimità, o al massimo PER
CONSENSUS, ossia senza l’opposizione di alcuno.
Poi vi fu il problema della MINORANZA DI BLOCCO, ossia del numero di voti utili per evitare la
formazione della MAGGIORANZA QUALIFICATA e bloccare una determinata decisione. Si
temeva, infatti, una scarsa salvaguardia dei diritti degli Stati contrari. Per tale motivo si
decise, con il COMPROMESSO DI IOANNINA del 1994, che dinanzi ad una minoranza rilevante,
benché non sufficiente ad evitare la formazione di una maggioranza qualificata, non si
passasse subito al voto, ma si discutesse per un tempo ragionevole.
Con il passare del tempo l’esigenza di aumentare i settori di cooperazione tra i vari Stati
europei ha portato molto spesso alla modifica dei TCE. Nuove competenze furono attribuiti
anche dall’AUE del 1986 e dal TUE del 1992.
Il tutto, però, è sempre stato assoggettato al metodo comunitario, SALVO CHE X ALCUNI
ASPETTI, quali la POLITICA ESTERA: il TCE attribuiva competenza comunitaria solo agli scambi
internazionali commerciali. Per quanto riguardava, invece, gli scambi di tipo NON commerciale
occorreva che gli Stati stringessero tra loro accordi specifici. Questo fino a quando l’AUE non
disciplinò la CPE (COOPERAZIONE NEL SETTORE DELLA POLITICA ESTERA). Inizialmente CPE e
CEE avevano organi e ruoli indipendenti. Il TUE, però, trasformò la CPE in PESC (POLITICA
ESTERA DI SICUREZZA COMUNE), creando un TERZO SETTORE, ossia la CGAI (COOPERAZIONE
NEL SETTORE DELLA GIUSTIZIA E DEGLI AFFARI INTERNI).
Con i trattati di Amsterdam (1996) e di Nizza (2001) molte materie del pilastro GAI (diritto
d’asilo, visti, immigrazione) sono confluite nel primo pilastro e quindi sono state
comunitarizzate. All’interno dei GAI rimane solo la COOPERAZIONE IN MATERIA DI POLIZIA E
GIUDIZIARIA IN MATERIA PENALE.
Il metodo della maggioranza qualificata è stato introdotto anche nel II e III pilastro. All’interno
di quest’ultimo è stata inserita anche la Corte di Giustizia.
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NOTA BENE: col trattato di Lisbona è sparita del tutto la distinzione tra I & III PILASTRO,
unificati nel TF (TRATTATO SUL FUNZIONAMENTO DELL’UNIONE EUROPEA), mentre il II
PILASTRO è rimasto indipendente (nuovo testo TUE).
Il passaggio dal metodo tradizionale a quello comunitario ha fatto in modo che quest’ultimo,
nel tempo, si modificasse notevolmente, accogliendo diverse soluzioni intergovernative:
• ESEMPIO 4 = Esclusione delle misure comunitarie nel settore dei visti, dei diritti
d’asilo, dell’immigrazione e della circolazione dei cittadini di Paesi terzi per quanto
concerne 3 Stati: Regno Unito, Irlanda e Danimarca.
NOTA BENE: E’ stato il Trattato di Amsterdam a creare un istituto che permette l’adozione di
iniziative d’integrazione comunitaria SOLO ad alcuni Stati. L’istituto è quello della
COOPERAZIONE RAFFORZATA.
Con il TUE si decise di stabilire in ciascun trattato quando si sarebbe riunita la prossima CIG
(CONFERENZA INTERGOVERNATIVA) e quali temi si sarebbero trattati. Inoltre fu prevista la
possibilità di allegare delle DICHIARAZIONI agli stessi trattati.
• Dichiarazione relativa al futuro dell’Europa, la quale prevedeva che nel 2004 si sarebbe
tenuta una CIG di revisione, ma che già nel 2001 a LAEKEN (Belgio)si sarebbe adottata
una dichiarazione con iniziative appropriate.
Il Consiglio nel dicembre 2001 approvò la DICHIARAZIONE DI LAEKEN, la quale pose diverse
domande di non facile risposta inerenti, per esempio, il ruolo del Parlamento Europeo. La
suddetta dichiarazione stabilì di convocare una Convenzione, con membri dei Parlamenti
nazionali, del Parlamento Europeo e della Commissione, oltre ai Capi di Stato, con il fine di
dare delle risposte e di cercare delle SOLUZIONI.
La CIG del 2003 non raggiunse un accordo e sospese i lavori, ripresi poi nel 2004. Il Trattato in
questione venne approvato il 29 ottobre 2004 a Roma e prevedeva una divisione in 4 PARTI
(contraddistinte da numeri romani) ed in 488 ARTICOLI (contraddistinti da numeri arabi).
Il Trattato Costituzionale, però, necessitava di una ratifica da parte degli Stati membri. Solo 18
lo ratificarono, mentre in alcuni Paesi (vedi la Francia) i referendum popolari ne bloccarono la
ratifica.
A quel punto:
• O si rinegoziava il trattato;
• O il trattato entrava in vigore solo per gli Stati che lo avevano ratificato (IMPOSSIBILE
PERCHE’ SI SAREBBE AVUTA UNA FRANTUMAZIONE DELL’EUROPA).
Si decise che fosse una nuova CIG a predisporre un NUOVO TESTO DI TRATTATO.
Il Consiglio Europeo di Bruxelles del 21/22 giugno 2007 decise la convocazione di una CIG che
incorporasse nel TUE e nel TCE le innovazione del trattato costituzionale, eliminando i motivi
della mancata ratifica da parte di diversi Paesi.
3. NUOVA CARICA di ALTO RAPPRESENTANTE per gli affari esteri e la politica di sicurezza;
4. Riduzione del numero dei parlamentari europei e dei componenti della Commissione;
• TUE & TCE vengono emendati, ma NON ABROGATI; restano 2 trattati: il TUE è riscritto
completamente, mentre il TCE diventa TF (Trattato sul Funzionamento dell’Unione
Europea) e contiene disposizioni meno importanti di quelle del TUE.
• NO al primato del DIRITTO dell’Unione Europea su quello degli altri Stati membri;
• La II PARTE del Trattato Costituzionale, che avrebbe riprodotto la Carta dei diritti
fondamentali dell’Unione Europea VIENE ELIMINATA, benché la stessa Carta sia
riconosciuta al pari dei trattati;
Inoltre bisogna tener presente che si è dato ampio spazio alla possibilità che l’Unione Europea
possa regredire, ossia tornare sui propri passi e si è impedito che le competenze della stessa
si espandessero.
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Contrariamente a ciò che dice il libro di testo, il Trattato di Lisbona è entrato in vigore il 1
dicembre 2009, dopo le ultime ratifiche da parte di Germania, Repubblica Ceca, Polonia ed
Irlanda.
• Consiglio;
• Parlamento Europeo;
• Commissione;
• Corte di giustizia.
Dopo l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona è stato istituzionalizzato anche un organo,
esistente da tempo, che operava già all’interno dell’Unione, il CONSIGLIO EUROPEO. Inoltre il
Trattato di Lisbona ha modificato il nome di alcune istituzioni: la Commissione è diventata
COMMISSIONE EUROPEA, mentre la Corte di giustizia non è più delle Comunità, bensì
dell’Unione.
Inoltre bisogna sottolineare che sia per le Comunità, quanto per l’Unione, vi è un QUADRO
ISTITUZIONALE UNICO, garantito dall’art. 3 del TUE, che assicura il rispetto del primo
principio cardine dell’Unione, ossia il PRINCIPIO DI COERENZA, il quale prevede che le
azioni svolte dalle varie istituzioni siano tra loto COORDINATE. A conferma di tale principio vi è
anche il COMMA 2 del suddetto art.3: il principio di coerenza assume maggior rilievo per
quanto concerne l’AZIONE ESTERNA delle istituzioni. L’azione esterna, infatti, è composta da
un lato dalle azioni e dalle politiche comunitarie aventi rilievo esterno (politica commerciale
comune, politica di sviluppo ecc.), mentre da un altro lato prevede la Politica estera di
sicurezza comune (PESC). Le due politiche non devono in alcun modo entrare in contrasto tra
loro: responsabili per il rispetto del principio di coerenza sono il Consiglio e la Commissione.
Ad assicurare tale coerenza, inoltre, vi è, dopo l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona,
l’ALTO RAPPRESENTANTE PER GLI AFFARI ESTERI DELL’UNIONE EUROPEA, il quale è
sia Presidente del Consiglio degli Affari Esteri, sia vicepresidente della Commissione. Egli
garantirà, più di tutti, azioni che non entrino in contrasto tra loro in alcun modo.
N.B. il principio qui in esame riguarda le diverse attribuzioni delle istituzioni e NON
all’omonimo principio riguardante le Comunità Europee, il quale vieta alle stesse di occuparsi
di materie non attribuite alla competenza delle stesse dal TCE.
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Inoltre va segnalato un terzo principio, quello della LEALE COLLABORAZIONE, individuato
dalla Corte di Giustizia nella propria giurisprudenza: le istituzioni devono collaborare
lealmente tra di loro e con gli Stati membri.
• Principio di leale collaborazione: le istituzioni devono collaborare tra loro e con gli Stati
membri;
Le Istituzioni, non contando il Consiglio Europeo da poco riconosciuto come tale, sono 5:
• CONSIGLIO;
• COMMISSIONE EUROPEA;
• PARLAMENTO EUROPEO;
• CORTE DEI CONTI, CHE HA IL CONTROLLO CONTABILE SULLE ENTRATE E SULLE SPESE.
IL PARLAMENTO EUROPEO
La durata del mandato è di 5 anni. Il numero totale di membri è pari a 751, suddivisi in base
alla popolazione di ogni Stato membro. Originariamente dovevano essere, dopo l’entrata in
vigore del Trattato di Lisbona, 750, ma l’Italia si oppose al fatto che Francia e Regno Unito
avrebbero avuto più seggi e si optò per l’assegnazione del 751esimo allo Stato italiano.
Organo principale del PE è il Presidente, che dirige i lavori e rappresenta l’istituzione, assistito
da 14 vice-presidenti e dall’Ufficio di presidenza. I parlamentari sono divisi in GRUPPI POLITICI,
ognuno dei quali deve contare almeno 19 componenti provenienti almeno da 1/5 degli Stati
membri. Presidente del PE e Presidenti dei gruppi danno vita alla Conferenza dei presidenti.
Il PE lavora in aula, dove partecipano tutti i membri, oppure in commissione. Vi sono due tipi
di commissioni: quelle permanenti, previste dal regolamento parlamentare e che si
ripartiscono le competenze affidate all’istituzione, e quelle temporanee d’inchiesta.
• Informazioni circa la PESC, ricevute dalla Presidenza del Consiglio e dalla Commissione.
Oltre ai suddetti canali istituzionali, vi è poi tutta una serie d’informazioni che il PE può
ricevere dai singoli individui, i quali possono rivolgere:
• PETIZIONI inerenti materie per cui sono competenti le Comunità. Possono rivolgere tali
petizioni i cittadini dell’Unione o anche persone fisiche/giuridiche residenti negli Stati
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membri. Occorre dimostrare sempre il proprio interesse a ricorrere alla petizione da
parte dell’autore;
Il PE ha però POTERI SANZIONATORI SOLO nei confronti della Commissione, alla quale può
votare la MOZIONE DI CENSURA. Essa non entra in discussione prima che siano trascorsi 3
giorni dal deposito della stessa, deve essere votato con scrutinio pubblico e approvata da
almeno due terzi dei voti espressi. In caso di approvazione i membri della Commissione
dovrebbero immediatamente abbandonare le loro funzioni: uso il condizionale perché ciò non
si è mai verificato, se non nel caso di MINACCIA di ricorrere alla mozione di censura, che portò
delle dimissioni della Commissione nel 1999.
Il PE non ha, invece, alcun potere sanzionatorio sul Consiglio: sembra quasi inconcepibile che
l’organo eletto dal popolo non possa in alcun modo inficiare l’operato dell’organo esecutivo,
anche se ciò è legittimo in forza del fatto che il Consiglio non ha approvazione popolare. Le
due istituzioni sono pertanto ben distinte e pari-ordinate, come sottolineato dal Trattato di
Lisbona.
Il Parlamento, però, per tutelare le proprie prerogative può ricorrere dinanzi alla Corte di
Giustizia, sollevando il fatto che il Consiglio abbia operato senza rispettare il ruolo del
Parlamento. Inizialmente al Parlamento non era concesso questo potere, garantito solo a
partire dal giudizio positivo in proposito della Corte di Giustizia, poi estrinsecato nel Trattato di
Nizza del 2001.
Sia il Consiglio che il Consiglio europeo sono organi di stati in quanto composti da soggetti che
rappresentano direttamente il proprio Stato membro. Ciò deriva da un’originaria applicazione
del metodo tradizionale di cooperazione intergovernativa per il processo di integrazione
europea.
Partiamo dal Consiglio, istituzione più longeva rispetto al Consiglio europeo, in quanto prevista
dal TCE del 1957. Esso è composto da un componente per ogni Stato membro, il quale deve
avere il potere di impegnare lo Stato al quale appartiene per quanto concerne le decisione da
prendere. Occorre che tale soggetto sia un ministro, competente a seconda della materia
all’ordine del giorno, o comunque un rappresentante regionale di rango ministeriale, il che
avviene soprattutto per gli Stati federali (es. Germania). Per quanto riguarda l’Italia anche un
Presidente di giunta regionale o di una Provincia autonoma potrebbe rappresentare lo Stato
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italiano, qualora fosse delegato dallo stesso Governo in sede di Conferenza Stato – Regioni e
solo nelle materie in cui le regioni hanno competenza esclusiva.
Va segnalato, inoltre, che alle decisioni italiane in sede di Consiglio devono partecipare diversi
organi dello Stato italiano, quali il Parlamento, le Regioni e le Province autonome, gli altri enti
territoriali, le parti sociali e le categorie produttive: il Presidente del Consiglio italiano e/o il
Ministro per le politiche comunitarie hanno l’OBBLIGO DI INFORMARE i suddetti per quanto
concerne gli atti di matrice comunitaria da approvare in sede di Consiglio e i documenti
preparatori. Inoltre occorre anche rispettare un obbligo di consultazione che varia a seconda
dei soggetti interessati. Il Governo italiano, in sede di Consiglio, deve apporre una RISERVA DI
ESAME PARLAMENTARE, lasciando 20 giorni al Parlamento italiano per discutere dell’atto
comunitario in questione. Questo meccanismo può essere attivato su iniziativa dello stesso
Parlamento, qualora esso abbia iniziato l’esame di un progetto attinente, o su iniziativa del
Governo, qualora la materia trattata abbia particolare rilevanza politica, economica e sociale.
Un simile strumento può essere adottato per la partecipazione delle Regioni, qualora l’atto
comunitario riguardi una materia su cui hanno competenza esclusiva le stesse: in tal caso in
sede di Conferenza Stato – Regioni va raggiunta un “intesa” col Governo italiano, altrimenti
potrà essere richiesta una riserva di esame simile a quella parlamentare.
L’art.205 del TCE disciplina i modi di deliberazione del Consiglio: essi sono la maggioranza
semplice (o assoluta), la maggioranza qualificata e l’unanimità. Con l’entrata in vigore del
Trattato di Lisbona, la regola è quella della maggioranza qualificata, salvo che i Trattati non
prevedono diversamente, al contrario di ciò che avveniva in passato, quando la regola era
quella della maggioranza semplice. Mentre la maggioranza semplice prevedere che per
l’adozione di un atto occorre soltanto che i voti favorevoli siano in maggior numero rispetto a
quelli sfavorevoli, nel computo della maggioranza qualificata la situazione si complica: tutto si
basa su un sistema di ponderazione dei voti secondo cui il peso del voto di ogni Stato è
determinato da un coefficiente. Il Trattato di Lisbona ha previsto che fino al 2014 si
adotterà il sistema previsto dal Trattato di Nizza del 2001 ed inoltre ogni Stato potrà chiedere
l’applicazione del vecchio metodo addirittura fino al 2017. Ma passiamo ad analizzare i due
metodi, distinguendoli tra loro adoperando la terminologia VECCHIO E NUOVO metodo.
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1. Raggiungimento di una soglia minima di voti ponderati pari a 255 su 345 (gli Stati più
grandi hanno 29 voti ciascuno,occorre il 73,91% dei voti favorevoli rispetto al totale);
2. Voto favorevole della maggioranza dei membri, almeno 14, se la deliberazione è stata
proposta dalla Commissione. In caso contrario occorrono almeno 18 voti favorevoli;
L’ultimo sistema di deliberazione è quello dell’UNANIMITA’, richiesto talune volte dagli stessi
Trattati, il quale prevede che tutti i membri si esprimano a favore di un certo atto per la sua
approvazione. Essi possono decidere anche di astenersi, in quanto l’astensione non risulta
come voto contrario.
Distinzioni
Il Consiglio non va in alcun modo confuso con le riunioni dei RAPPRESENTANTI DEGLI STATI
MEMBRI, le quali il più delle volte coincidono con le riunioni del Consiglio, ma non sono
assolutamente un’istituzione comunitaria. I trattati hanno voluto affidare alla competenza dei
rappresentanti degli Stati membri alcuni temi quali la nomina dei giudici della Corte di
giustizia o la sede delle Istituzioni.
Il Consiglio va, inoltre, distinto dal CONSIGLIO EUROPEO, organo nato per dare un maggior
impulso allo stesso Consiglio. Esso ha assunto, pian piano nel tempo, sempre maggiore rilievo
sino ad essere consacrato come Istituzione all’interno del Trattato di Lisbona.
Originariamente era composto dal Presidente, coincidente con il Presidente del Consiglio in
carica per 6 mesi, dal Presidente della Commissione, dai Capi di Stato e di Governo dei Paesi
membri, dai ministri degli Esteri degli stessi e da un membro della Commissione. Si potevano,
quindi, distinguere due livelli: uno superiore del quale facevano parte i due presidenti del
Consiglio e della Commissione e i Capi di Stato e di Governo, ed un livello inferiore che
coadiuvava il lavoro del primo, composto dai ministri degli Esteri e dal rappresentante della
Commissione. Col trattato di Lisbona anche la composizione è variata: il Presidente del
Consiglio Europeo è eletto a maggioranza qualificata e dura in carica 2 anni e mezzo. Egli
rappresenta l’Unione, coordina il lavoro del Consiglio Europeo ed ha un ruolo di rilievo nella
PESC. Alle riunioni del Consiglio Europeo non è necessario che partecipino i Ministri degli
Esteri, bensì solo e solamente i Capi di Stato e di Governo, il Presidente della Commissione e
l’Alto Rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza. Il trattato di
Lisbona ha,inoltre, previsto che anche l’operato del Consiglio Europeo sia soggetto al
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controllo giurisdizionale della Corte, dato che lo stesso è diventato una vera e propria
istituzione comunitaria, benché conservi il ruolo di promotore dell’impulso necessario allo
sviluppo dell’Unione e non possa in alcun modo legiferare.
Il Trattato di Amsterdam aveva introdotto la figura del SEGRETARIO GENERALE del Consiglio,
diventato col Trattato di Nizza ALTO RAPPRESENTANTE PER LA POLITICA ESTERA E DI
SICUREZZA COMUNE (detto SIGNOR PESC), per garantire maggiore unitarietà all’azione
esterna dell’Unione, mentre affidava al VICESEGRETARIO GENERALE i compiti relativi al
funzionamento amministrativo del SEGRETARIATO GENERALE. Il Trattato di Lisbona ha
istituito la figura dell’ALTO RAPPRESENTANTE DELL’UNIONE PER GLI AFFARI ESTERI E LA
POLITICA DI SICUREZZA, con il compito di guidare la PESC, in qualità di mandatario
dell’Unione, di presiedere il Consiglio Affari Esteri e di essere il vicepresidente della
Commissione. Egli sarà nominato dal Consiglio europeo a maggioranza qualificata (e rimosso
allo stesso modo), previa approvazione del Presidente della Commissione, e durerà in carica,
salvo revoca del mandato, per un periodo pari a quello dei membri della Commissione stessa.
Per concludere possiamo dire che il Consiglio (non quello europeo) funge da organo, insieme
al Parlamento, per l’esecuzione della funzione legislativa e di Bilancio, conferendo incarichi di
attuazione alla Commissione e definendo “indirizzi di massima”, dapprima delineati dal
Consiglio Europeo.
LA COMMISSIONE
I membri della Commissione sono scelti in base alla propria competenza, alla propria
professionalità e devono, come abbiamo già preannunciato, offrire garanzia d’indipendenza.
Qualora violino i propri compiti, la Corte di Giustizia, su istanza del Consiglio e della
Commissione, può pronunciare le dimissioni d’ufficio del componente o decidere la decadenza
del diritto alla pensione, anche in seguito alla cessazione della carica.
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Il mandato dei membri della Commissione dura 5 anni, di pari passo con il mandato dei
parlamentari europei, in maniera tale che primo compito del nuovo Parlamento sia quello di
nominare i componenti della Commissione. Il Trattato di Lisbona ha stabilito che la carica
dell’intera Commissione o di alcuni membri possa cessare anticipatamente, per “dimissioni
individuali o collettive”, per “decisione della Corte in base alla violazione degli obblighi a
carico dei componenti, o per “mozione di censura” votata dal Parlamento europeo.
1. Designazione del Presidente della Commissione da parte del Consiglio che si esprime a
maggioranza qualificata;
4. Approvazione da parte del Parlamento degli altri membri, la quale non avviene
collettivamente, ma dopo audizioni separate per ciascuna persona. Il Parlamento
potrebbe minacciare, qualora non sia d’accordo sulla nomina di uno o più componenti,
di rigettare l’intera Commissione;
Il Trattato di Lisbona ha modificato la parte relativa alla nomina del Presidente, stabilendo
che sia il CONSIGLIO EUROPEO a proporre al Parlamento un candidato, deliberando a
maggioranza qualificata. La proposta dovrà essere approvata dal Parlamento a maggioranza
dei suoi componenti e nel caso in cui dovesse essere rigettata, il Consiglio Europeo dovrà
proporre entro un mese un nuovo candidato. La restante parte di nomina ed approvazione dei
componenti rimane invariata, salvo per il fatto che il ruolo del Consiglio sia sostituito da quello
del Consiglio Europeo.
La Commissione riveste un ruolo chiave a livello europeo, detenendo alcuni fra i compiti più
importanti. Essa è la “custode della legalità comunitaria” vigilando, sia secondo quanto
disponeva il TCE sia secondo il Trattato di Lisbona, sull’applicazione dei trattati in un tutte
le loro forme. Esercita, infatti, tale ruolo sia nei confronti degli Stati membri,tramite il ricorso
per infrazione, sia nei confronti delle altre istituzioni sfruttando i ricorsi d’annullamento. Essa
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può agire anche verso persone fisiche e giuridiche che non rispettando le norme comunitarie
(esempio: in tema di regole della concorrenza). Essa,inoltre, formula raccomandazioni e pareri
nei campi in cui i trattati le attribuiscono competenza e partecipa anche alla formazione di atti
del Consiglio e del Parlamento. Residua, inoltre, un parere decisionale autonomo su un
ristretto numero di materie (esempio: nel campo del controllo degli aiuti di Stato alle
imprese). Essa, infine, applica le norme che scaturiscono dal Consiglio (competenza di
esecuzione).
LA CORTE DI GIUSTIZIA
Abbiamo già visto come l’istituzione della Corte di Giustizia nacque all’interno del TCE del
1957 e fu adoperata anche per quanto riguardava la CECA, con l’unificazione delle Istituzioni.
Per Corte di giustizia, in realtà, si intende sia la Corte in senso proprio, sia il TRIBUNALE DI
PRIMO GRADO & le CAMERE GIURISDIZIONALI. Il Trattato di Lisbona ha esplicitato la
suddivisione, tracciando una netta differenza tra Corte – istituzione e Corte – giurisdizione:
all’interno della Corte di Giustizia dell’Unione Europea, infatti, ritroviamo la Corte di giustizia,
il Tribunale ed i Tribunali specializzati (corrispondenti alle camere giurisdizionali di cui sopra).
Si tratta pur sempre di un organo di individui pienamente indipendenti, che decidono secondo
coscienza, anche se la propria nomina dipende dal comune accordo tra gli Stati membri. I
propri membri possono essere rimossi dalla propria carica su decisione unanime della stessa
Corte.
La Corte di Giustizia è disciplinata sia all’interno del TCE, sia nel TUE, oltre che all’interno del
Protocollo sullo Statuto della Corte di Giustizia allegato al TCE. Il regolamento di procedura
della Corte, inoltre, è stabilito dalla Stessa, anche se necessita dell’approvazione a
maggioranza qualificata del Consiglio.
La Corte di Giustizia è composta da un giudice per ogni Stato membro, tra cui viene eletto un
presidente la cui carica rinnovabile dura per tre anni. Essi fanno parte del collegio giudicante.
Accanto ai giudici figurano anche gli AVVOCATI GENERALI, i quali hanno il compito di suggerire
alla Corte come andrebbe risolta una determinata causa. Il loro parere, però, non è in alcun
modo vincolante, né tanto meno necessario nei casi in cui non vengano sollevate nuove
questioni di diritto. Gli avvocati generali sono 8, 4 dei quali devono appartenere
obbligatoriamente ai 4 Stati maggiori (Italia, Francia, Germania e Regno Unito), mentre gli altri
4 sono nominati a rotazione tra gli altri Stati membri. La NOMINA di giudici ed avvocati è
decisa di <<comune accordo tra gli Stati membri>>, salvo il rispetto di quanto ha previsto il
Trattato di Lisbona, ossia che prima della nomina, sulla candidatura si debba pronunciare
un apposito comitato composto da ex giudici della Corte di Giustizia e del Tribunale di primo
grado. Il MANDATO dura sei anni ed è rinnovabile, oltre ad essere previsto un rinnovo parziale
ogni tre anni che riguarda la metà dei componenti.
• Sezioni a tre giudici e Sezioni a cinque giudici: si tratta delle sezioni ordinarie; la
distribuzione delle cause tra quelle a tre giudici e quella a cinque giudici dipende
dall’importanza della causa stessa;
• Grande Sezione: formata da 11 giudici, tra cui il Presidente ed i presidenti delle sezioni
ordinarie a 5; essa si riunisce su richiesta di uno Stato membro o di un’istituzione;
• FASE SCRITTA, NECESSARIA: consiste nello scambio o nel deposito di memorie scritte;
• FASE ORALE, NON SEMPRE NECESSARIA: comprende l’udienza con le parti e la lettura o
il deposito delle conclusioni dell’avvocato generale.
N.B. in taluni casi può essere adottata una procedura d’urgenza (specie quando si tratti di
materie che appartenevano al III PILASTRO).
La funzione principale della Corte è quella giurisdizionale che esamineremo più avanti.
Funzione secondaria è sicuramente quella consultiva: il parere della Corte, laddove richiesto
da Consiglio,Parlamento, Commissione o Stato membro, è PARZIALMENTE VINCOLANTE, in
quanto obbliga il richiedente, qualora la Corte abbia espresso parere negativo, a ricorrere ad
una procedura di revisione lunga e faticosa.
In origine la Corte di Giustizia venne concepita come organo di primo ed ultimo grado. Col
passare del tempo, però, nacque la convinzione che istituire un altro tribunale di prima istanza
avrebbe, da un lato abbreviato i tempi di decisione della Corte di Giustizia, mentre dall’altro
avrebbe fatto in modo che la Corte non si trovasse sommersa di lavoro. Inoltre l’istituzione di
un secondo tribunale avrebbe garantito una maggiore tutela giurisdizionale a livello
comunitario. Per questo motivo venne istituito il TRIBUNALE DI PRIMO GRADO, disciplinato dal
TCE ed in parte anche dallo Statuto della Corte di Giustizia. Il Tribunale, inoltre, avrebbe
potuto adottare dei propri regolamenti di procedura, “di concerto” con la Corte di Giustizia e
salvo approvazione a maggioranza qualificata del Consiglio. Il Trattato di Lisbona ha
introdotto, inoltre, delle notevoli modifiche: è stata eliminata la dicitura “DI PRIMO GRADO”, in
quanto il Tribunale fungerà da giudice d’impugnazione, e quindi di secondo grado, rispetto al
Tribunale della funziona pubblica.
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può far ricorso alla Corte. La stessa,infatti, non può entrare nel merito della faccenda,
risolvendosi così in un unico grado la questione posta dinanzi al Tribunale. Si potrà far ricorso
alla Corte solo per “MOTIVI DI DIRITTO”. La procedura, quindi, rispecchia più che altro un
ricorso per Cassazione. Il termine per lo stesso è di due mesi dalla notifica della decisione.
I giudici del Tribunale vengono nominati, anch’essi, di comune accordo dagli Stati membri e
sono 27, tanti quanti sono i Paesi dell’Unione Europea. Il mandato dura sei anni ed i giudici
eleggono un presidente, in carica per tre anni. I requisiti di professionalità ed indipendenza
sono i medesimi richiesti per i giudici della Corte. Non sussistono,invece, avvocati generali,
anche se un giudice del tribunale può fungere da avvocato generale in casi estremi. Lo
Statuto può prevedere, tra l’altro, l’assistenza di un avvocato generale a favore del Tribunale.
Per quanto riguarda la competenza di primo grado del Tribunale, sussistono diversi aspetti
complessi, dato che la disciplina ha subito notevoli cambiamenti con il passare del tempo.
Anzitutto su alcune materie la Corte di Giustizia funge ancora da unico organo giudicante
competente. Inoltre è stata istituita la prima delle camere giurisdizionali, ossia il TRIBUNALE
DELLA FUNZIONE PUBBLICA, nei confronti del quale il Tribunale funge da organo di appello, di
secondo grado.
• Ricorsi d’annullamento proposti dagli Stati membri contro il Consiglio in caso di:
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Europea. L’atto istitutivo di un Tribunale Specializzato sarà, tra l’altro, un regolamento e non
una decisione, come è avvenuto sino ad ora.
Primo Tribunale Specializzato ad essere istituito è stato quello della Funzione Pubblica (TFP),
composto da sette giudici nominati all’unanimità dal Consiglio, previa consultazione di un
comitato apposito, ed aventi requisiti di professionalità ed indipendenza. Chiunque sia in
possesso dei requisiti richiesti può proporre la propria candidatura.
Le decisione del Tribunale della Funzione Pubblica possono essere impugnate per soli motivi di
diritto dinanzi al Tribunale. Solo se è a rischio l’unità e la coerenza del diritto comunitario ci si
potrà rivolgere in terzo grado alla Corte di Giustizia. A proporre il riesame, tra l’altro, dovrà
essere un avvocato generale. La Corte deciderà entro un mese se accogliere l’impugnazione o
meno: in caso positivo deciderà tramite procedura d’urgenza.
La Corte dei Conti è un organo di individui, di cui pertanto fanno parte soggetti che pur
rappresentando uno Stato membro, sono del tutto indipendenti. Essa è composta da un
cittadino per ogni Stato ed i suoi componenti sono nominati all’unanimità dal Consiglio, previa
consultazione del Parlamento, per un mandato di 6 anni. Devono,ovviamente, avere gli stessi
requisiti d’indipendenza dei componenti della Corte di Giustizia. Compito della Corte dei Conti
è quello di vigilare sulla legittimità e sulla regolarità delle entrate e delle spese. Tale funzione
di controllo si estrinseca nella presentazione al Parlamento di una dichiarazione che attesti
legittimità,regolarità ed affidabilità dei conti, del bilancio e dalla relazione annuale che la
Corte redige alla chiusura di ogni esercizio finanziario, che viene trasmessa alle Istituzioni e
pubblicata sulla GU, contenente anche le risposte delle varie istituzioni alle osservazioni
formulate dalla Corte sui propri bilanci.
Vi sono poi una serie di organi con ruolo consultivo. Essi sono pur sempre organi di individui,
in quanto non legati a nessun mandato da parte dei Paesi rappresentati. Distinguiamo, per
esempio, il CES, COMITATO ECONOMICO & SOCIALE, i cui 353 membri nominati dal Consiglio a
maggioranza qualificata rappresentano le categorie produttive e sociali dell’intera Unione
Europea. Vi è poi il COMITATO DELLE REGIONI, anch’esso composto da 353 membri nominati
dal Consiglio, di cui fanno parte soggetti eletti a livello regionale nei vari Stati membri. I due
suddetti comitati possono interagire con il Consiglio, la Commissione ed il Parlamento quando
ciò è previsto dal TCE, fornendo dei pareri obbligatori e non vincolanti. Laddove, invece, sia
stata un’istituzione delle suddette a chiedere un parere esso è soltanto facoltativo. Il Trattato
sul funzionamento dell’Unione Europea ha previsto, inoltre, che il Comitato delle Regioni
possa ricorrere dinanzi alla Corte di Giustizia qualora sia stato adottato un atto legislativo per
il quale era obbligatorio chiedere un parere al Comitato.
Vi sono poi organi creati dal TUE in ambito dell’UEM. SI tratta della Banca Centrale Europea
(BCE) e del Sistema Europeo delle Banche Centrali (SEBC). La BCE è composta da un Comitato
esecutivo (presidente,vice presidente e 4 membri nominati dai Governi degli Stati membri di
comune accordo su proposta del Consiglio) e da un Consiglio Direttivo, composto dai membri
del Comitato esecutivo e dai Governatori delle Banche nazionali. Hanno poteri di
regolamentazione sulle materie di propria competenza.
Altro organo è la Banca Europea degli Investimenti (BEI), che ha personalità giuridica propria e
a cui partecipano gli Stati che ne sottoscrivono il capitale.
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Vi sono poi tutta una serie di agenzie autonome/indipendenti, disciplinate anche all’interno
del TF del Trattato di Lisbona (es. Ufficio di Armonizzazione a livello di mercato interno per il
rilascio dei marchi comunitari).
Nella distinzione tra le varie procedure d’applicazione generale pesa molto il ruolo del
Parlamento, il quale ha un compito meramente consultivo per l’adozione di alcuni atti
attraverso la PROCEDURA DI BASE ed un potere di codecisione nell’ambito della stessa
PROCEDURA DI CODECISIONE. A seconda del modello di procedura da utilizzare, inoltre, si
distinguono i vari modi di deliberazione delle varie istituzioni (esempio: in caso di procedura di
codecisione il Consiglio può deliberare a maggioranza qualificata).
Per sapere quale modello di procedura applicare, occorre individuare la BASE GIURIDICA
dell’atto, ossia da quale Trattato e da quale norma dello stesso le istituzioni traggono il potere
di adottare quell’atto. Ovviamente individuare la base giuridica non è un procedimento
semplice e molto spesso ha fatto in modo che sorgessero notevoli contrasti tra le varie
istituzioni, sino a giungere ad un ricorso d’annullamento dinanzi alla Corte di Giustizia per due
motivi fondamentali:
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l’adozione dell’atto ha richiesto semplicemente un “consultazione del Parlamento” ,
ispirata dalla base giuridica scelta dal Consiglio, mentre la base giuridica alternativa
proposta dal Parlamento avrebbe previsto una partecipazione attiva del Parlamento e
quindi una procedura di cooperazione = Caso Chernobyl 1990);
• Il ricorrente ha interesse a far valere una diversa base giuridica ispiratrice di una
differente procedura non perchè, come descritto in precedenza, avrebbe un ruolo più
significativo nell’adozione dell’atto, ma semplicemente perché l’atto ricadrebbe in un
settore di competenza diverso, maggiormente caratterizzato dal modello comunitario
(esempio: la Commissione ricorre dinanzi alla Corte contro il Consiglio impugnando un
atto in base all’erronea scelta della base giuridica Non perché avrebbe un ruolo
maggiore nella procedura, ma magari perché usando la base giuridica alternativa il
Consiglio avrebbe dovuto adottare una procedura di cooperazione, invece che
deliberare all’unanimità = Caso Erasmus 1989).
La scelta della corretta BASE GIURIDICA dipende da due elementi che contraddistinguono
l’atto da adottare: lo SCOPO ed il CONTENUTO, basandosi però su elementi oggettivi
suscettibili di sindacato giurisdizionale e non sulla convinzione soggettiva dell’istituzione che
adotta una determinata procedura.
Se poi i vari scopi e contenuti sono sullo stesso piano, ossia sono tutti di particolare
importanza e nessuno è secondario o accessorio rispetto ad un altro, andrà scelta una BASE
GIURIDICA PLURIMA, fondata su diverse norme anche di diversi trattati: qualora, però, ciò porti
a modelli di procedura da applicare totalmente diversi, andrà scelta la base giuridica tenendo
conto del fatto che la disposizione di portata più GENERALE andrà preferita a quella di portata
più specifica e non potrà essere scelta una base giuridica che pregiudichi il ruolo di
partecipazione del Parlamento Europeo.
Bisogna inoltre precisare che, qualora l’istituzione competente decida con ATTO DI PRIMO
GRADO di disciplinare gli elementi essenziali di una materia e di affidare ad un ATTO DI
SECONDO GRADO le disposizione di attuazione, non è necessario che il secondo atto rispetti
la procedura del primo, potendo decidere l’istituzione di affidare l’applicazione della disciplina
alla Commissione o di utilizzare essa stessa una procedura semplificata.
PROCEDURA DI BASE
L’art. 250 del TCE è uno degli articoli più longevi del Trattato relativi alla procedura
decisionale. Inizialmente, in realtà, quella descritta dall’articolo suddetto era l’unica procedura
che, in relazione ad altre disposizioni del TCE, definiva il modo di deliberazione del Consiglio o
prescriveva la consultazione o meno del Parlamento. Ecco perché la procedura dell’art. 250
viene definita come PROCEDURA DI BASE, sulla modificazione della quale sono sorte le altre
procedure. Spesso viene definita come PROCEDURA DI CONSULTAZIONE, in riferimento al
ruolo che il Parlamento assume all’interno di questa procedura (un ruolo consultivo appunto),
ma la denominazione può essere accettata solo se si tiene conto che tale consultazione non è
sempre prevista (esempio: adozione di misure di politica commerciale).
La PROCEDURA DI BASE si apre con la proposta della Commissione, unico organo che
possiede tale facoltà. E’ la Commissione, infatti, la portatrice dell’interesse generale della
Comunità a cui fa da contrappeso il ruolo decisionale del Consiglio, che rappresenta gli Stati
membri. Anche il Trattato di Lisbona ha ribadito l’esclusività di iniziativa della Commissione.
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Tuttavia altri organi possono rivolgersi alla Commissione per sollecitare proposte da portare
dinanzi al Consiglio. Primo fra tutti è il Parlamento: in realtà la Commissione non ha l’obbligo
di presentare la proposta di matrice parlamentare al Consiglio, ma è doveroso ricordare che
un continuo rifiuto della stessa potrebbe indurre il Parlamento a votare o anche solo a
minacciare una “mozione di sfiducia” che comporterebbe le dimissioni forzate della
Commissione. Anche il Consiglio stesso può invitare la Commissione a fargli determinate
proposte su un tema particolare. Ed analogo potere di sollecitazione possiede il Consiglio
Europeo. Il Trattato di Lisbona, inoltre, ha introdotto la possibilità per un milione di cittadini
di sottoporre all’attenzione della Commissione una particolare proposta, che la stessa può
decidere di ignorare senza andare incontro ad alcuna conseguenza.
Le proposte della Commissione, tra l’altro, prima di giungere dinanzi al Consiglio, passano dal
filtro costituito dal COREPER.
L’art 250 TCE prevede, inoltre, che il Consiglio possa emendare la proposta della
Commissione, apportando così delle notevoli modifiche: dobbiamo, però, prestare attenzione
al termine “emendamenti”, che non possono del tutto stravolgere il testo e gli obiettivi della
proposta. La modifica, tra l’altro, può avvenire solo e solamente all’UNANIMITA’. La possibilità
di emendare la proposta, tuttavia, potrebbe portare ad una situazione di paralisi in quanto il
Consiglio potrebbe non approvare la proposta, ma potrebbe trovarsi anche a non poterla
modificare perché uno o più membri sono magari d’accordo con la proposta originaria della
Commissione. In tal caso il membro della Commissione presente in Consiglio può decidere di
modificare la proposta per garantire una più semplice approvazione, o può d’altro canto
decidere di ritirare totalmente la stessa.
Abbiamo visto, inoltre, come in taluni casi specificati dal TCE (non direttamente dall’art.250)
sia necessario che il Consiglio consulti il Parlamento Europeo o addirittura altri organi prima di
approvare l’atto. Ne deve,quindi, chiedere il parere. Distinguiamo 3 tipi di pareri:
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tale parere, il che però non è possibile dato che uno dei principi base su cui è fondata la
Comunità Europea (ed anche l’UNIONE) è quello della leale collaborazione, il che comporta
che il Parlamento debba esprimersi entro un tempo ragionevole. Inoltre se il Parlamento ha
emesso il proprio parere ed il Consiglio provvede, solo in un secondo momento, ad emendare
la proposta della Commissione (o magari la Commissione stessa ritira la prima proposta e ne
formula una simile, ma non uguale), il Consiglio è tenuto a chiedere una seconda
consultazione al Parlamento. Il Trattato di Lisbona ha confermato questo orientamento.
PROCEDURA DI COOPERAZIONE
Introdotta tramite l’art.252 all’interno del TCE dall’AUE del 1986, la procedura di cooperazione
ha segnato un notevo passo in avanti per l’aumento dei poteri parlamentari. Il TUE del 1992
ed in seguito anche il Trattato di Amsterdam ne hanno ridotto il campo di applicazione: essa è
sopravvissuta, infatti, solo nel campo dell’UEM. Il Trattato di Lisbona, infine, l’ha eliminata
definitivamente.
La procedura di cooperazione prevede una DOPPIA LETTURA, da parte del Parlamento e del
Consiglio, della proposta proveniente dalla Commissione: non è altro, quindi, che una variante
della procedura di base. Il Parlamento, infatti, provvede ad una prima lettura della proposta e
fornisce un parere (consultivo) sulla stessa. Segue a ciò la prima lettura del Consiglio che
approva a maggioranza qualificata una posizione comune sulla proposta in questione. Si
passa quindi alla seconda lettura del Parlamento che può decidere se:
Nell’ultimo caso la questione torna dinanzi alla Commissione, la quale può decidere di
accogliere gli emendamenti proposti dal Parlamento o di motivarne il rifiuto, restituendo la
proposta RIESAMINATA al Consiglio.
Il Consiglio può anch’esso optare per diverse soluzioni, a seconda della decisione del
Parlamento:
Come possiamo notare, quindi, in questa procedura di cooperazione il ruolo del Parlamento è
notevolmente accresciuto rispetto al passato, anche se in realtà non può far altro che
provocare la votazione all’unanimità dell’atto da parte del Consiglio. Il Consiglio stesso
continua ad essere l’unica istituzione ad avere un ruolo decisionale. Mentre chi esce da tale
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procedura davvero sconfitta è la Commissione, la quale può solo approvare o meno gli
emendamenti del Parlamento, ma non può in alcun modo modificare essa stessa la proposta.
Qualora tra l’altro il Consiglio voglia dar ragione al Parlamento e torto alla Commissione lo può
tranquillamente fare nel corso della seconda fase.
PROCEDURA DI CODECISIONE
La Procedura di Codecisione è stata introdotta dal TUE del 1992 e la sua portata è stata
estesa dal Trattato di Amsterdam del 1996. Essa pian piano ha sostituito totalmente la
procedura di cooperazione, di cui tra l’altro rappresenta un’ evoluzione. Dalla procedura di
codecisione non scaturiscono più atti del Consiglio, in cui il Parlamento ha solo un ruolo
consultivo, ma atti congiunti del Parlamento e del Consiglio: è il mezzo che garantisce al
Parlamento di partecipare attivamente al procedimento legislativo.
Nel terzo caso la proposta torna alla Commissione che emette un PARERE (non una proposta
riesaminata). Il Consiglio in tal caso può decidere a maggioranza qualificata se:
• Approvare tutti gli emendamenti parlamentari (nel caso in cui la Commissione fosse
contraria occorre l’UNANIMITA’) e l’atto si considera APPROVATO;
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Il ruolo del Consiglio,invece, rimane lo stesso seppur il Parlamento sia posto sullo stesso
piano.
La Commissione, invece, ne esce del tutto sconfitta. L’organo che dovrebbe rappresentare
l’interesse delle comunità ha solo il compito di formulare la proposta e la possibilità di ritirarla
sino alla seconda lettura. In terza lettura non può più ritirare la suddetta e funge, all’interno
del Comitato di conciliazione, solo da paciere tra Parlamento e Consiglio.
Abbiamo visto, inoltre, che il Consiglio può deliberare il più delle volte a maggioranza
qualificata. Il Trattato di Amsterdam dapprima, ed il Trattato di Nizza del 2001 in un secondo
momento hanno reso necessario il voto all’unanimità del Consiglio.
Abbiamo potuto notare come all’interno del PRIMO PILASTRO si sia notevolmente diffuso il
metodo comunitario: il ruolo degli organi di individui è sempre più importante, le decisioni
sono vincolanti, il metodo maggioritario viene sempre più tenuto in considerazione, gli atti
sono soggetti al controllo di legittimità giurisdizionale della Corte di Giustizia. All’interno del
SECONDO & TERZO PILASTRO, invece, il metodo comunitario è stato per molto tempo
assente. Solo il Trattato di Amsterdam e quello di Nizza hanno permesso una lieve
contaminazione della PESC e di ciò che resta della CGAI (COOPERAZIONE NEL SETTORE DELLA
GIUSTIZIA E DEGLI AFFARI INTERNI),oggi ridotta alla sola COOPERAZIONE DI POLIZIA E
GIUDIZIARIA IN MATERIA PENALE.
Tuttavia, nonostante gli sforzi degli ultimi 15 anni, esistono ancora differenze notevoli tra I
PILASTRO da un lato e gli altri due dall’altro. Le decisione del Consiglio sono prese per lo più
all’unanimità e quando è prevista la maggioranza qualificata si tratta soltanto di decisioni di
secondo grado. Sono, tra l’altro, presenti clausole di salvaguardia che fanno in modo che gli
Stati membri possano causare una votazione all’unanimità. Inoltre un’altra istituzione, il
Consiglio Europeo, è del tutto orientato ad un metodo tradizionale. Esso riveste un ruolo
cardine all’interno della PESC. I ruoli di Parlamento e Commissione sono del tutto irrisori,
mentre la competenza della Corte di Giustizia è quasi del tutto assente.
Se analizziamo il II PILASTRO, quello della PESC (Titolo V del TUE), notiamo come importanza
rilevante abbia in tal settore il Consiglio Europeo, il quale oltre a dettare i principi e gli
orientamenti generali, provvede anche a formulare le strategie comuni. Il Trattato di
Lisbona, che istituzionalizza il Consiglio Europeo, ne conferma il ruolo preminente nell’ambito
della PESC: esso detta orientamenti generali, ma prende anche DECISIONI su interessi ed
obiettivi strategici dell’Unione, deliberando sempre all’unanimità.
Anche le deliberazioni dello stesso Consiglio (non Europeo) sono prese all’unanimità in ambito
PESC e tra l’altro è previsto un ulteriore istituto, quello dell’ASTENSIONE COSTRUTTIVA. Noi
sappiamo che una delibera del Consiglio dovrebbe avere carattere vincolante nei confronti di
tutti gli Stati membri, anche di quelli che si sono astenuti dal pronunciarsi. Questa novità,
invece, permette agli astenuti di non vincolare il proprio Paese, ma di accettare comunque la
decisione del Consiglio, vincolandosi a non ostacolarla. Qualora, però, gli astenuti fossero
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superiori ad un terzo, l’atto risulterebbe NON ADOTTATO. Il Trattato di Lisbona ha lasciato
tutto invariato, tranne per il fatto che l’atto risulta NON ADOTTATO solo nel momento in cui ad
astenersi siano un terzo dei componenti che rappresentano un terzo della popolazione
dell’Unione, in osservanza del nuovo metodo di calcolo della maggioranza qualificata.
E’ previsto, tuttavia, in contrasto con quanto abbiamo sostenuto finora, che il Consiglio possa
deliberare in ambito PESC anche a maggioranza qualificata. Questo, però, è possibile solo
nell’ipotesi in cui manchi la proposta della Commissione, ossia sempre in ambito PESC e solo
nei seguenti casi:
Come possiamo notare, però, si tratta pur sempre di atti di secondo grado: l’adozione di
strategie comuni da parte del Consiglio proviene dall’approvazione unanime delle stesse
strategie da parte del Consiglio Europeo. Anche nel secondo case, l’attuazione di azioni o
posizioni comuni dipende dal voto unanime, questa volta però del Consiglio. Anche la nomina
di un rappresentante speciale si può dedurre che provenga dalla necessità sancita da
decisioni comuni unanimi precedenti.
Il ruolo della Commissione, invece, nell’ambito PESC è del tutto irrilevante: essa conserva un
potere di proposta, ma non esclusivo in quanto concesso anche agli Stati membri. Il ruolo del
Parlamento è del tutto inesistente: esso non è contattato neanche in via consultiva, se non
per le sole scelte fondamentali della PESC.
All’interno del TERZO PILASTRO ritrovavamo prima la CGAI, COOPERAZIONE NEL SETTORE
DELLA GIUSTIZIA E DEGLI AFFARI INTERNI. Le disposizioni relative ai visti, al diritto d’asilo,
all’immigrazione ed alla cooperazione giudiziaria in materia civile, sono poi state
comunitarizzate e sono confluite, quindi, nel PRIMO PILASTRO. Nel terzo, infatti, è rimasta solo
la COOPERAZIONE DI POLIZIA E GIUDIZIARIA IN MATERIA PENALE.
Nel terzo pilastro, comunque, ritroviamo alcune differenze sostanziali rispetto al primo che
abbiamo già analizzato in ambito PESC. Non viene, in realtà, riconosciuto un ruolo specifico al
Consiglio Europeo, mentre analoga è la disciplina del Consiglio. Si fa una netta distinzione tra
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casi che richiedono l’unanimità e casi in cui si delibera a maggioranza qualificata. Occorre
l’unanimità, che è la regola di base, per quattro tipi di atti:
• Posizioni comuni;
• Decisioni – quadro;
• Decisioni;
Il potere di proposta della Commissione è, anche qui, condiviso con gli Stati membri.
NOTA BENE: IL TRATTATO DI LISBONA FARA’ CONFLUIRE LE MATERIE DEL TERZO PILASTRO
ALL’INTERNO DEL PRIMO PILASTRO, QUELLO COMUNITARIO. CRESCERANNO DI CONSEGUENZA
I RUOLI DELLA COMMISSIONE E DEL PARLAMENTO (VEDI PAGINA 117/118).
COOPERAZIONE RAFFORZATA
L’istituto della Cooperazione rafforzata è stato introdotto dal Trattato di Amsterdam del 1996
ed inizialmente era previsto solo all’interno del PRIMO & TERZO PILASTRO. In seguito, invece
venne introdotto dal Trattato di Nizza all’interno anche della PESC. Tramite tale istituto è
possibile che alcuni Stati membri possano instaurare tra loro forme di cooperazione non
condivise da tutti i Paesi dell’UE. Ciò in realtà è possibile SOLO NEL RISPETTO di alcuni
requisiti della cooperazione, che deve:
• Rispettare i Trattati;
• Essere l’unica via percorribile, perché impossibile sarebbe l’accordo fra tutti gli Stati.
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In ambito PESC la richiesta è avanzata al Consiglio, che sentita la Commissione ed informato il
Parlamento, decide a MAGGIORANZA QUALIFICATA, sempre che non vi sia opposizione da
parte di uno Stato membro per interesse nazionale.
In ambito degli altri due pilastri la richiesta di cooperazione va fatta alla Commissione, che
provvede a formulare una proposta. Su questa si pronuncerà il Consiglio a maggioranza
qualificata, sentito il parere del Parlamento. Un membro del Consiglio può chiedere, tra l’altro,
che la proposta venga esaminata dal Consiglio Europeo, che però non potrà concedere esso
stesso l’autorizzazione. Inoltre se la Commissione inizialmente non dovesse consegnare la
proposta al Consiglio, potrebbero farlo 8 Stati membri al suo posto.
• Accordi di associazione;
• Accordi di cooperazione;
Consiglio, Parlamento, Commissione e qualsiasi Stato membro possono domandare alla Corte
di Giustizia se l’accordo entrerebbe o meno in contrasto con il trattato.
Anche l’Unione può concludere accordi a livello internazione, seppur con piccole diversità, in
quanto un ruolo preponderante è rivestito dalla Presidenza del Consiglio. (vedi pagina 121)
E’ da questo quesito che dobbiamo partire per capire quanto il diritto comunitario influisca sul
diritto dei Paesi membri e sulla vita dei cittadini dell’Unione. Per quanto concerne tutto il
contenuto del TCE, la Corte di giustizia ha affermato, in più di un’occasione, che il diritto
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comunitario non solo risulta a se stante rispetto agli ordinamenti interni agli Stati in quanto ne
limita la sovranità seppur solo in alcuni settori, ma che vive come ordinamento autonomo
anche nei confronti di coloro che a tali norme sono sottoposti, in particolare rispetto ai
cittadini (Sentenza Van Gend & Loos del 1963 e sentenza Costa c.ENEL del 1964).
Come ogni ordinamento, anche quello comunitario ha un sistema di fonti di produzione del
diritto. Distinguiamo, a tal proposito, fonti primarie e fonti secondarie. Sono fonti di diritto
primario il TCE e le altre fonti che il TCE riconosce di pari natura. Sono, invece, fonti di diritto
secondario tutti gli atti che le istituzioni possono adottare in forza dello stesso TCE. Tra i due
livelli figurano anche fonti intermedie, che prevalgono sul diritto secondario.
Tra le fonti di diritto secondario o derivato troviamo tutta una serie di atti, molto spesso
diversi tra loro: regolamenti, direttive e decisioni. Non è previsto un ordine gerarchico,
tuttavia è lo stesso TCE a prevedere che vadano adottati in situazioni diverse, o meglio viene
specificato quale tipo di atto andrà adottato in determinate discipline.
Un’ulteriore distinzione è quella tra atti di PRIMO GRADO ed atti di SECONDO GRADO: tra
questi vi è una differenza del tutto gerarchica. Quelli di secondo grado sono, infatti,
subordinati ai primi. Non possono né abrogare né entrare in contrasto con quelli di primo
grado e devono rispettarne i principi di base, altrimenti l’atto di secondo grado potrebbe
essere annullato.
Gli atti di diritto derivato possono, tra l’altro, essere distinti in base all’istituzione dalla quale
provengono: Parlamento congiuntamente con il Consiglio, Commissione o solo Consiglio. In
genere, però, la Commissione può emanare atti solo in forza di una delega concessa dalle
altre due istituzioni: l’atto in tal caso non dovrà eccedere la delega, rispettandone i principi ed
il campo di operatività.
L’eventuale conflitto tra atti indipendenti di diverse istituzioni dovrà risolversi, in mancanza di
una norma specifica, ricollegandosi alla base giuridica dell’atto ed analizzando quale
istituzione fosse idonea ad emanare quel determinato atto. Il Trattato di Lisbona ha
introdotto una differenziazione tra atti giuridici che spiegheremo più avanti.
Abbiamo già detto che fonte primaria per eccellenza è sicuramente il TCE, come emendato
dai trattati di revisione e di adesione che si sono succeduti nel tempo. Sono, inoltre, fonti
primarie anche i Protocolli allegati agli stessi Trattati, non solo quelli riferiti al TCE, ma anche
quelli inerenti la CECA (fino a che è stata in vigore) e la CEEA. Inoltre, dopo una qualsiasi
revisione dei trattati, solitamente vengono allegate delle DICHIARAZIONI, che possono essere
di due tipi:
• Dichiarazioni della Conferenza, ossia di tutti gli Stati membri, che hanno funzione
interpretativa delle disposizioni dei trattati;
• Dichiarazioni di uno o più Paesi membri, che possono essere prese in considerazione
dall’interprete, ma sottolineando che esse non provengono da tutti gli Stati.
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Nello studio del TCE, almeno sotto il punto di vista tecnico, ci si domanda quale sia la NATURA
GIURIDICA dello stesso. Una risposta univoca è impossibile, ma sono state seguite due tesi
diverse. La prima vede il TCE come un TRATTATO INTERNAZIONALE: la struttura degli articoli, i
procedimenti seguiti, i destinatari dell’atto (gli Stati membri) che mantengono una propria
autonomia (sovranità) sono tutti fattori che riconducono il TCE ad un atto costitutivo di
un’organizzazione sovrannazionale. La seconda tesi, invece, vede il TCE come una vera e
propria CARTA COSTITUZIONALE: il fatto che la disciplina contenuta nel trattato sia
inderogabile dagli Stati membri se non tramite revisione dello stesso e l’operatività
giurisdizionale di cui gode la Corte di Giustizia manifesterebbero, infatti, una tendenza ad una
carta costituzionale di tipo statuale. E’ vero, però, che alle spalle del Trattato non vi è un unico
Stato europeo di cui il trattato costituisca la carta fondamentale. Potremmo concludere che la
natura giuridica del TCE si può ritrovare a metà strada tra le due definizioni appena date,
essendo il TCE stesso una figura in corso di trasformazione.
Anche la Corte di Giustizia, tuttavia, tratta il TCE come una carta costituzionale. Essa tende
sempre ad un’interpretazione estensiva sia delle norme inerenti le quattro libertà di
circolazione (merci, persone, capitali e servizi), sia delle norme che attribuiscono competenze
alla CE. Al contrario la Corte tende ad interpretare restrittivamente tutte quelle norme che
garantiscono agli Stati membri di trattare le stesse materie in maniera parallela. Tra l’altro va
sottolineato come la Corte, tra i propri criteri interpretativi, adoperi quello dell’EFFETTO UTILE,
interpretando una norma sempre nel modo che più riconosce alla stessa la maggiore
effettività possibile.
Il TCE può essere modificato in base alla PROCEDURA DI REVISIONE contenuta all’interno
dell’art.48 TUE. La procedura presenta due fasi: una PREPARATORIA, cui partecipano le
istituzioni dell’Unione ed una DELIBERATIVA, cui partecipano gli Stati membri. La fase
preparatoria si apre con la consegna al Consiglio di un progetto di revisione da parte di uno
Stato membro o della Commissione. Il Consiglio deve esprimere parere favorevole alla
convocazione di una CIG per la discussione della revisione, sentito però il Parlamento Europeo.
Qualora il parere sia favorevole, il Presidente del Consiglio convoca la CIG (CONFERENZA
INTERGOVERNATIVA) e si passa alla fase deliberativa: le decisioni andrebbero prese
all’unanimità e senza che ad esse partecipi alcuna delle istituzioni dell’Unione. L’esito della
CIG configura un nuovo trattato, che i Paesi membri devono ratificare. Nella prassi, però,
anche all’interno della fase deliberativa gioca un ruolo chiave il Consiglio Europeo, il quale si
esprime sul trattato prima che questo venga sottoposto alla firma dei rappresentanti degli
Stati membri. Il Trattato di Lisbona ha modificato anche la procedura di revisione: è
previsto, infatti, che il Consiglio si pronunci a maggioranza semplice su una proposta di
revisione proveniente o da uno Stato membro, o dal Parlamento o dalla Commissione e che
convochi una CONVENZIONE all’interno della quale siedono anche rappresentanti delle
istituzioni (è stato preso spunto dalla Convenzione sul futuro dell’Europa): essa esprimerà una
raccomandazione sulla proposta di revisione, della quale la CIG che deciderà dovrà tener
conto.
Il potere di revisione, tra l’altro, sembra essere, a norma dell’art.48, illimitato. Più volte, però,
la Corte di Giustizia ha sancito come inviolabili alcuni principi comunitari, quali quelli inerenti
la libera circolazione o la concorrenza, o comunque i principi generali del diritto comunitario.
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del Consiglio, tenendo conto del parere conforme del Parlamento e senza ratifica dei
Parlamenti nazionali.
Un altro procedimento di revisione dei trattati lo ritroviamo all’interno dell’art.49 del TUE, il
quale disciplina l’ADESIONE di nuovi Stati. Può presentare domanda di adesione all’Unione
ogni Stato europeo in senso geografico e che rispetti, al proprio interno, principi di libertà,
democrazia, rispetto dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e dello stato di diritto. La
procedura è anch’essa suddivisa in due fasi, la prima delle quali è sicuramente più rilevante
rispetto alla procedura di revisione trattata dall’art.48 TUE, in quanto la domanda di adesione
deve essere approvata all’unanimità dal Consiglio, previa consultazione della Commissione e
parere conforme del Parlamento. Occorre, quindi, il consenso del Parlamento e del Consiglio
per accettare tale adesione. Solo nella seconda fase gli Stati membri si occupano di
modificare i trattati in base all’adesione dei nuovi Paesi, ma si tratta di modifiche minori.
Anche tale procedura, nella prassi, ha subito notevoli modifiche: le due fasi si svolgono
contemporaneamente e tutta la procedura è seguita e coordinata dal Consiglio Europeo.
Inoltre la prima fase è preceduta da negoziati pre-adesione, all’interno dei quali gli Stati
candidati devono dimostrare di rispondere ad alcuni criteri (criteri politici, economici, criteri
relativi all’acquis comunitario). Solo in un secondo momento si può passare alla prima fase. Il
Trattato di Lisbona ha mantenuto questa procedura, prevedendo soltanto come
innovazione che sia il Consiglio Europeo a dettare i criteri da rispettare, di cui le istituzioni
devono tener conto. Inoltre è stato introdotto il diritto di recesso unilaterale da parte di uno
Stato membro.
Infine dobbiamo analizzare come il TCE sia mutato dal momento in cui è entrato in vigore il
TUE. Tra essi non vi è mai stato un rapporto gerarchico, ma bisogna riconoscere che con
l’entrata in vigore del TUE, il TCE ha perso la natura di carta fondamentale autonoma, in
quanto è entrato a far parte di un complesso di trattati, di cui è il più importante, che fanno
parte del TUE. Il Trattato di Lisbona ha sottolineato ancora maggiormente questa
dipendenza, attuando una differenziazione tra TUE, in cui sono comprese le norme più
importanti, e TF (trattato sul funzionamento dell’Unione Europea) che ha sostituito il TCE, il
quale reca norme di minore importanza. I due trattati (TUE & TF), tuttavia, hanno pari natura
giuridica.
Abbiamo già definito le FONTI INTERMEDIE, quelle cioè che si trovano a metà strada tra fonti
primarie e fonti secondarie. Tra queste rientrano, sicuramente, i PRINCIPI GENERALI DEL
DIRITTO, la cui tipologia è abbastanza ampia.
Una prima categoria è costituita dai PRINCIPI GENERALI DEL DIRITTO COMUNITARIO, i quali
vengono espressi, esplicitamente o implicitamente, all’interno del TCE e godono di una
notevole importanza. Un esempio è dato dal PRINCIPIO DI NON DISCRIMINAZIONE, tutelato
all’interno di diversi articoli del TCE e che non permette agli Stati membri di attuare distinzioni
di alcun tipo tra gli stessi cittadini. La Corte di Giustizia, inoltre, ha fatto in modo che alle
discriminazioni palesi si aggiungessero le discriminazioni occulte, ossia quelle che pur
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essendo basati su principi diversi, portano comunque allo stesso risultato di quelle palesi
configurando una vera e propria discriminazione. Il principio di non discriminazione gode, tra
l’altro, di una propria AUTONOMIA, nel senso che può essere applicato anche in situazione non
specificatamente previste dalle norme del TCE. La Corte di Giustizia ha, invece, respinto il
fatto che nel campo di applicazione del suddetto principio rientrino le DISCRIMINAZIONI ALLA
ROVESCIA, ossia quelle nate quando un principio comunitario entra a far parte del diritto
interno di uno Stato membro: un cittadino di un Paese dell’Unione non può evocare la
discriminazione attuata nei propri confronti perché magari un cittadino comunitario di un
diverso Stato membro gode di un più vantaggioso diritto. La Corte ha, infatti, previsto che sia
il legislatore interno a sanare le differenze, perché in contrasto con il principio di eguaglianza
rispetto ad altri cittadini comunitari.
Altri principi generali del diritto comunitario sono, senza dubbio, quello della LIBERA
CIRCOLAZIONE e quello della TUTELA GIURISDIZIONALE EFFETTIVA. Anch’essi rappresentano
fonti intermedie e per tal motivo prevalgono sulle fonti secondarie, ma non sui trattati, che
costituiscono fonti primarie.
Una seconda categoria di fonti intermedie è costituita dai PRINCIPI GENERALI DEL DIRITTO
COMUNI AGLI ORDINAMENTI DEGLI STATI MEMBRI. In tal caso, quindi, si tratta di principi
accolti a livello comunitario dopo un esame parallelo degli ordinamenti nazionali. Tra i principi
comuni ritroviamo:
• Principio di LEGALITA’, secondo cui ogni potere esercitato dalle istituzioni deve trovare
nei trattati la propria fonte legittimante;
• Principio della CERTEZZA DEL DIRITTO, in base al quale chi è tenuto al rispetto di una
norma giuridica deve essere messo nella condizione di conoscerla e poterla rispettare;
• Principio di PROPORZIONALITA’, in base al quale l’autorità può limitare diritti dei singoli
SOLO nel raggiungimento di un interesse pubblico e prevedendo atti necessari a tal
fine, che non facciano subire ai singoli sacrifici superflui.
Tra i principi generali del diritto comuni agli ordinamenti degli Stati membri vi è una
particolare categoria che merita una trattazione separata, ossia quella della PROTEZIONE DEI
DIRITTI FONDAMENTALI DELL’UOMO. In origine il Trattato non sanciva l’intangibilità di tali
diritti. Nel 1973, con la sentenza Frontini, la Corte Costituzionale italiana decide che non
possono essere ammessi all’interno del nostro ordinamento principi comunitari che entrino in
contrasto con i diritti fondamentali dell’uomo tutelati all’interno della nostra carta
costituzionale. La Corte Costituzionale sottolinea di non potersi esprimere sulla legittimità
dell’atto comunitario, in quanto non rientra nelle proprie competenze a norma dell’art.134
della Costituzione italiana, ma potrà esprimersi a favore dell’incostituzionalità della legge di
ratifica del Trattato e dell’ordine di esecuzione in essa contenuto. La Corte, quindi, minaccia di
dichiarare incostituzionale e quindi di disapplicare l’intero trattato. Nel 1974 anche la Corte
costituzionale tedesca attua una decisione simile, addirittura spingendosi oltre e sindacando
sulla legittimità dell’atto comunitario perché in contrasto con la costituzione federale tedesca.
Le due decisioni rischiano, a quel punto, di minare l’intero sistema di diritto comunitario. La
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Dichiarazione Comune del PE, del Consiglio e della Commissione del 1977 sancisce il rispetto
dei diritti fondamentali, ma non è in alcun modo un atto di valore giuridico, e pertanto risulta
inidoneo a produrre effetti. E’ semplicemente una presa di posizione, a favore della
salvaguardia dei diritti fondamentali dell’uomo, da parte delle istituzioni. Con la sentenza
NOLD del 1974 la Corte di Giustizia aveva però già previsto che i diritti fondamentali venissero
tutelati all’interno dell’ordinamento comunitario in quanto rientranti nei principi generali del
diritto, di cui fonte di ispirazione erano le tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri ed
i trattati internazionali sui diritti dell’uomo.
Il fatto di considerare il diritto fondamentali come rientranti nei principi generali del diritto
comunitario, infatti, dava ampio spazio al ruolo della Corte di Giustizia, che poteva, in maniera
del tutto flessibile, dare maggior rilievo a determinati diritti fondamentali, escludendone degli
altri, data l’assenza di un documento scritto che fosse un atto normativo al quale fare
riferimento. Ecco che quindi nel 1999 si decide di promuovere l’elaborazione di una CARTA DEI
DIRITTI FONDAMENTALI DELL’UNIONE EUROPEA, che riassuma tutti quelli che sono i diritti
fondamentali accolti a livello comunitario. Alla realizzazione di un così importante documento
partecipano i rappresentanti degli Stati, ma anche quelli delle istituzioni comunitarie. La
CARTA viene proclamata dai Presidenti di Commissione, PE e Consiglio in occasione del
Consiglio Europeo di Nizza del 2000. I tre presidenti non perdono occasione per emendarla
anche in occasione della firma del Trattato di Lisbona. Tale CARTA ha, più che un valore
normativo, un valore documentale, in quanto appare come un riassunto di quelli che sono i
diritti fondamentali, prendendo spunto anche dalla Convenzione di Roma del 1950. Viene
prevista anche una CLAUSOLA DI COMPATIBILITA’, che garantisca, qualora la CARTA stessa
non sia sufficiente, l’applicazione di altri documenti internazionali (es. CONVENZIONE di Roma
del 1950) che meglio salvaguardino determinati diritti. Contrariamente, però, agli auspici
iniziali, la Carta è priva di un proprio valore normativo quale FONTE AUTONOMA DEL DIRITTO:
essa è più che altro uno strumento interpretativo. Il progetto di Costituzione dell’Unione
prevedeva la completa adesione alla Convenzione di Roma del 1950, il che non è avvenuto,
neanche con il Trattato di Lisbona.
Essi fungono anzitutto da CRITERI INTERPRETATIVI delle altre fonti del diritto comunitario:
tanto i trattati quanto gli atti delle istituzioni devono essere interpretati il più coerentemente
possibile con i principi generali.
Inoltre i principi generali sono il PARAMETRO DI LEGITTIMITA’ PER GLI ATTI DELLE ISTITUZIONI:
essi possono essere annullati o invalidati per violazione di un principio comunitario di diritto.
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occorre un COLLEGAMENTO TRA IL COMPORTAMENTO DELLO STATO MEMBRO ED IL DIRITTO
COMUNITARIO: la violazione, in poche parole, deve scaturire dall’attuazione, da parte dello
Stato in questione, di un atto comunitario o quantomeno il comportamento deve riguardare
un settore di competenza comunitaria, altrimenti la Corte di Giustizia non potrà esercitare la
propria competenza per assicurare l’osservanza di tali principi (esempio: sentenza Grogan
1991).
Il rispetto dei principi generali vale anche per le materie del II e dell’ex III pilastro.
Va ricordato, inoltre, che la funzione del diritto internazionale generale è la medesima dei
principi generali del diritto comunitario: esso serve, infatti, come criterio interpretativo, nel
senso che una norma comunitaria va applicata tenendo presente quelli che sono gli accordi
internazionali stipulati dalla Comunità o, prossimamente, dall’Unione.
Gli accordi internazionali con Stati terzi che risultano essere più rilevanti rispetto
all’ordinamento comunitario sono di tre tipi:
Essi continuano a vincolare lo Stato membro nei confronti dello Stato terzo innanzitutto se
l’accordo internazionale è stato stipulato prima di un Trattato. Secondariamente il TCE ha
riconosciuto, tramite una clausola di compatibilità, che il Paese membro contraente
dell’accordo internazionale è tenuto a rispettare tanto tale accordo, quanto il trattato
comunitario. Addirittura se la materia oggetto del suddetto accordo rientra nella competenza
comunitaria, non solo lo Stato membro interessato, ma l’intera Comunità saranno tenuti a
rispettarlo. Lo Stato membro, tra l’altro, può sottrarsi alla disciplina comunitaria SOLO nella
misura in cui ciò sia utile al rispetto dell’accordo.
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Anche la Comunità, come abbiamo visto, godendo di personalità giuridica può concludere
autonomamente degli accordi con Stati terzi o organizzazioni internazionali, benché essa
abbia pur sempre un limite di competenza esterna dettato dagli stessi trattati.
Inizialmente alcuni Stati terzi non riconoscevano come persona giuridica la Comunità ed
occorreva la partecipazione dei vari Stati membri alla stipulazione di accordi internazionali.
Oggi, invece, gli accordi misti vengono stipulati sempre più frequentemente, specie riguardo a
materie oggetto di competenza concorrente tra Stati membri e Comunità.
Sotto il profilo del VALORE GIURIDICO gli accordi internazionali sono VINCOLANTI per le
istituzioni comunitarie e per gli Stati membri: ciò significa che né le une, né gli altri, né tanto
meno entrambi congiuntamente potranno adottare atti che non rispettino gli accordi conclusi
dalla Comunità. Ciò significa che anche gli accordi internazionali fungono da PARAMETRO DI
LEGITTIMITA’ degli atti delle istituzioni. Questo è senza dubbio vero ma NON SEMPRE. Esistono
taluni accordi internazionali che non possono fungere da parametro di legittimità per via della
loro flessibilità: un esempio considerevole è l’ACCORDO ISTITUTIVO DELL’OMC
(ORGANIZZAZIONE MONDIALE DEL COMMERCIO), che la Corte di Giustizia non può usare
come parametro di legittimità di atti comunitari, almeno che gli atti stessi SIANO ADOTTATI
PER DARE ESECUZIONE AGLI OBBLIGHI DERIVANTI DA TALI ACCORDI oppure RICHIAMINO
ESPRESSAMENTE DETERMINATE DISPOSIZIONE DELL’ACCORDO OMC. Un altro esempio è dato
dalla Convenzione delle NAZIONI UNITE di Montego Bay del 1982 sul diritto del mare.
Sono classificabili come atti tipici tutti quelli contemplati direttamente dall’art.249 TCE.
Per atti atipici, invece, si intendono quegli atti che pur non corrispondendo a quanto previsto
dall’art.249 TCE, hanno la stessa denominazione.
Un esempio di atto tipico è il BILANCIO della Comunità, atto produttivo di effetti vincolanti,
tanto da poter essere impugnato dinanzi alla Corte di Giustizia.
Un esempio di atto atipico è dato dal potere del Consiglio di deliberare l’istituzione di camere
giurisdizionali di primo grado tramite DECISIONI, non corrispondenti alle decisioni di cui parla
l’art.249.
Accanto agli atti atipici, inoltre, ritroviamo tutta una serie di atti che si sono affermati nella
prassi, specie per opera della Commissione in tema di concorrenza ed aiuti di stato alle
imprese. La Commissione, infatti, per orientare i comportamenti di imprese (per la
concorrenza) e di Stati membri (per gli aiuti di Stato) pubblica delle Comunicazioni (anche
dette linee direttive, orientamenti) per comunicare come attuare le norme contenute nel
trattato in riferimento a specifiche fattispecie. Le comunicazioni, in realtà, NON HANNO
VALORE NORMATIVO, ma sono pur sempre atti della Commissione, da cui la stessa non può
discostarsi nell’analisi di casi singoli.
Gli atti tipici di cui parla l’art.249 TCE sono cinque: DIRETTIVE, REGOLAMENTI, DECISIONI,
PARERI E RACCOMANDAZIONI.
Sono ATTI VINCOLANTI, con i quali le istituzioni pongono nuovi obblighi a carico dei
destinatari, le decisioni, le direttive e i regolamenti.
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Sono ATTI NON VINCOLANTI i pareri e le raccomandazioni, con cui l’istituzione mira ad
ottenere che i destinatari si orientino spontaneamente verso una linea guida conforme
all’interesse generale comunitario.
Tra gli atti vincolanti dobbiamo poi distinguere quelli di natura AMMINISTRATIVA, ossia le
decisioni, che hanno portata individuale, da quelli di natura NORMATIVA, ossia i regolamenti e
le direttive, che hanno portata generale ed introducono nuove norme o ne
abrogano/modificano delle altre.
Molto spesso sono gli stessi trattati a prevedere quale tipo di atto l’istituzione, per assolvere il
proprio compito, debba adottare. Altrettanto soventemente il trattato nulla prevede circa la
natura dell’atto, lasciando ampio spazio all’autonomia dell’istituzione.
REGOLAMENTI
2. EFFICACIA DIRETTA: il regolamento produce effetti diretti nei confronti non solo degli
Stati membri, ma anche dei singoli, a cui attribuisce diritti che i giudici nazionali devono
tutelare.
Il regolamento deve rispettare dei requisiti formali: deve essere MOTIVATO e fare
RIFERIMENTO A PROPOSTE E PARERI PREVISTI OBBLIGATORIAMENTE. Esso è firmato dal
Presidente del Consiglio e dal Presidente del Parlamento, qualora l’atto provenga dalle due
istituzioni; solo dal Presidente del Consiglio, qualora il regolamento scaturisca dal solo
Consiglio. E’ pubblicato nella GAZZETTA UFFICIALE DELL’UNIONE EUROPEA (ex GUCE) ed entra
in vigore 20 giorni dopo la pubblicazione, salvo diversa previsione.
DIRETTIVE
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La direttiva è un ATTO TIPICO, in quanto previsto dal terzo comma dell’art.249 TCE,
VINCOLANTE NORMATIVO, in quanto introduce nuove norme (o le abroga/modifica) all’interno
dell’ordinamento comunitario e quindi degli Stati membri.
Essa vincola lo Stato membro cui è rivolta per quanto riguarda il risultato da raggiungere,
mentre resta agli organi nazionali la competenza in merito alla forma ed ai mezzi.
Notiamo, quindi, come la direttiva abbia portata individuale e non generale, in quanto rivolta
a destinatari definiti. Talune volte, però, la direttiva può essere rivolta a tutti i Paesi membri,
ed in tal caso si parla di DIRETTIVA GENERALE.
Tuttavia le misure di attuazione delle direttive hanno portata generale ed è per tal motivo che
la direttiva rappresenta uno STRUMENTO DI NORMAZIONE IN DUE FASI. La PRIMA FASE si ha a
livello comunitario, dove vengono fissati principi ed obiettivi generali, mentre la SECONDA
FASE è decentrata a livello nazionale, dove spetta allo Stato membro attuare la disciplina
contenuta nella direttiva.
Anche la direttiva ha dei caratteri propri, così come abbiamo visto per il regolamento. Tra
questi figura l’OBBLIGATORIETA’ INTEGRALE: pur imponendo solo e solamente un obbligo di
risultato, la direttiva deve essere attuata totalmente e non è suscettibile di applicazione
parziale.
Abbiamo visto che i regolamenti, oltre al suddetto carattere, presentavano anche quello della
DIRETTA APPLICABILITA’ sotto due diversi punti di vista: sotto il profilo dell’adattamento
immediato agli ordinamenti interni e sotto il profilo dell’efficacia diretta, essendo possibile
attuare gli stessi anche in mancanza di misure di attuazione. E’ facile capire che, in linee
generali, la direttiva non gode di applicabilità diretta perché non può avere un adattamento
immediato, data la necessità d’intervento dei legislatori nazionali. Per quanto riguarda il
secondo profilo, però, dobbiamo chiarire che ANCHE la direttiva può avere EFFICACIA DIRETTA,
che però differentemente da ciò che avviene per i regolamenti, non è presunta, ma deve
soddisfare alcune condizioni temporali e sostanziali individuate dalla Corte di Giustizia.
Ogni Stato membro, infatti, ha l’OBBLIGO DI ATTUAZIONE della direttiva: esso può evitare di
applicarla all’interno dell’ordinamento nazionale solo qualora riesca a dimostrare che la
propria legge interna si ispiri già autonomamente alla normativa prevista dalla direttiva.
Secondo quanto abbiamo detto la scelta delle forme e dei mezzi per attuare la direttiva spetta
agli Stati ai quali è rivolta; tuttavia tale scelta non è libera, in quanto è necessario che il
legislatore nazionale tenga conto della gerarchia delle fonti di diritto interna: egli non può in
alcun modo attuare la direttiva tramite mezzi inefficaci (se per esempio la direttiva interviene
su una materia già disciplinata da legge ordinaria, occorrerà una successiva legge ordinaria
per attuarla e non un semplice regolamento, che sarebbe di grado gerarchico inferiore).
Capita, tuttavia, che la stessa direttiva non descriva solo il risultato da raggiungere, ma anche
i mezzi e le forme per farlo: si tratta delle cosiddette DIRETTIVE DETTAGLIATE, molto spesso
paragonate impropriamente ai regolamenti.
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Anche la direttiva deve rispettare determinati REQUISITI: deve essere anch’essa motivata.
Tuttavia è previsto che SOLO le direttive adottate congiuntamente da Parlamento e Consiglio,
o quelle adottate solo dal Consiglio o solo dalla Commissione e rivolte a tutti gli Stati membri
vadano pubblicate sulla Gazzetta Ufficiale dell’Unione Europea, ed entrano in vigore dopo
venti giorni, salvo diverso termine previsto. Le altre direttive sono notificate direttamente ai
destinatari ed entrano in vigore con la notificazione.
DECISIONI
Le decisioni sono ATTI TIPICI, in quanto previsti dal quarto comma dell’art.249 TCE, ed ATTI
VINCOLANTI AMMINISTRATIVI. Così come i regolamenti e le direttive, anche le decisioni sono
vincolanti nella loro interezza (obbligatorietà integrale). Hanno, invece, a differenza dei
regolamenti, portata individuale, potendo vincolare NON SOLO singoli Stati membri, ma anche
singoli soggetti all’interno dell’Unione.
Le decisioni rivolte agli Stati membri possono imporre OBBLIGHI DI FACERE (e l’attuazione è
uguale a quella delle direttive, seppur venga lasciato un ambito di operatività più ristretto
rispetto alle stesse), oppure OBBLIGHI DI NON FACERE, imponendo dei divieti.
Le decisioni possono essere, inoltre, rivolte ai singoli. I casi più importanti li ritroviamo quando
la Commissione impone le proprie decisioni nell’ambito della disciplina della concorrenza,
comminando sanzioni il più delle volte pecuniarie (sanzioni, quindi, amministrative). La
decisione costituisce titolo esecutivo e sarà possibile ottenere l’esecuzione forzata.
I requisiti formali sono gli stessi previsti per le direttive rivolte solo ad alcuni Stati membri:
vengono notificate ai destinatari ed hanno efficacia in virtù della notifica.
Cominciamo analizzando quelli che sono gli atti del III pilastro. L’art.34 TUE elenca quattro tipi
di atti:
3. DECISIONI: sono vincolanti e non hanno efficacia diretta. Hanno, invece, obbligatorietà
integrale, altrimenti sarebbero uguali alle decisioni-quadro. Mentre per le decisioni-
quadro l’attuazione è affidata agli Stati membri, in questo caso l’attuazione è nelle
mani del Consiglio, che delibera a maggioranza qualificata. Possono perseguire
qualsiasi obiettivo, tranne ravvicinare le normative degli Stati membri, per il cui
compito esistono già le decisioni-quadro;
Passiamo ad analizzare gli atti del II pilastro, quelli relativi alla PESC. In tal caso, però, gli atti
si differenziano notevolmente da quelli comunitari. Sono previste 4 categorie:
1. STRATEGIE COMUNI (art.13 TUE): si tratta di atti di altissima politica decisi dal Consiglio
Europeo su proposta del Consiglio, che provvederà, oltretutto, ad attuarli. Costituiscono
le linee guida su cui l’Unione deve muoversi nel settore della politica estera;
2. AZIONI COMUNI (art.14 TUE): esse affrontano situazioni specifiche in cui è necessario
un intervento dell’Unione. Si estrinsecano in azioni concrete, differentemente dai pareri
comuni. Sono vincolanti per tutti gli Stati membri. Atto del Consiglio;
Già da tempo si avvertiva il bisogno di una differenziazione del sistema delle fonti del diritto
dell’Unione Europea. Occorreva, infatti, distinguere le istituzioni incaricate di emanare atti
amministrativi, da quelle addette all’emanazione di atti normativi. Bisognava fare una
distinzione tra le diverse procedure decisionali, optando per quelle maggiormente complesse
per gli atti legislativi (procedura di codecisione) e garantendo procedure semplificate agli atti
amministrativi. La Costituzione europea avrebbe garantito una perfetta distinzione, ma come
ben sappiamo il progetto è stato abbandonato.
Il Trattato di Lisbona non ha modificato la tipologia di atti giuridici delle istituzioni, che resta
quella dell’art.249 TCE, ma ha introdotto una distinzione tra ATTI LEGISLATIVI E ATTI NON
LEGISLATIVI. In realtà la categoria degli atti NON legislativi è molto eterogenea: ne fanno
parte atti che a livello interno avrebbero assunto la forma di atti amministrativi, tanto quanto
ne fanno parte atti che nel nostro ordinamento interno avrebbero assunto la forma di atti
costituzionali (es. le decisioni del Consiglio circa la composizione del Parlamento Europeo). Il
Trattato ha, inoltre, disciplinato gli atti di secondo grado, distinguendone le funzioni rispetto a
quelli di primo ed ha, infatti, introdotto la distinzione tra ATTI DELEGATI ed ATTI DI
ESECUZIONE. Tutti gli atti, comunque, sono stati semplificati sotto il profilo della tipologia per
via della soppressione della struttura a pilastri.
Abbiamo già detto che non saranno introdotto nuovi atti, ma semplicemente la distinzione tra
ATTI LEGISLATIVI e ATTI NON LEGISLATIVI. Il nuovo art.288 TF ha sostituito in tutto e per tutto
l’art.249 TCE, ma la denominazione degli atti rimane la stessa, così come la loro funzione
(salvo per le DECISIONI, per le quali sarà prevista ANCHE una portata generale = decisioni
generali): ciò che cambia è solo il procedimento legislativo d’adozione dell’atto. Solo gli atti
adottati mediante procedura legislativa sono atti legislativi. Gli atti adottati con altra
procedura, pur avendo il nome di decisioni, regolamenti e direttive non sono atti legislativi.
Per distinguere gli atti legislativi dagli atti non legislativi bisogna anzitutto servirsi di un
CRITERIO ISTITUZIONALE: solo dal Parlamento congiuntamente con il Consiglio, o da uno
soltanto di essi, può pervenire un atto legislativo. Gli atti della Commissione e quelli del
Consiglio Europeo saranno di per se atti non legislativi.
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Per distinguere, invece, tra gli atti del Consiglio e/o del Parlamento quelli legislativi e quelli
che legislativi non sono, occorre rifarsi alla base giuridica dell’atto, la quale stabilisce quale
procedura debba essere utilizzata: è comunque un dato di fatto che la maggior parte degli atti
di queste due istituzioni saranno legislativi.
SI può anche notare se l’adozione di un atto è prevista dai trattati o da altro atto delle
istituzioni. Nel secondo caso si tratta di atti giuridici DI SECONDO GRADO e pertanto non si
può parlare di atti legislativi (essi sono emanati dalla Commissione e raramente dal Consiglio
tramite procedura semplificata non legislativa). Tra l’altro bisogna precisare che gli atti di
secondo grado devono essere etichettati come ATTI DELEGATI O ATTI D’ESECUZIONE.
Tra l’altro se si tratta di atto legislativo i lavori del Consiglio vanno svolti in seduta pubblica e
quindi ciascuna sessione è divisa in due parti: l’una in cui si trattano gli atti legislativi e l’altra
per attività non legislativa. Solo in caso di atti legislativi i parlamenti nazionali esercitano un
potere di controllo per il rispetto del principio di sussidiarietà ed i ricorsi d’annullamento di
persone fisiche e giuridiche presentati per atti legislativi saranno più severi rispetto a quelli
inerenti atti regolamentari.
Per quanto concerne gli atti di secondo grado, ossia quegli atti che scaturiscono da un
precedente atto legislativo, abbiamo già detto che possono essere di due tipi: delegati e
d’esecuzione. Gli atti delegati modificano determinati elementi NON ESSENZIALI di un atto
legislativo. Essi possono essere emanati dalla Commissione sulla base di un ATTO
LEGISLATIVO DI DELEGA del Parlamento o del Consiglio, all’interno del quale sono previsti la
portata, la durata, i contenuti e gli obiettivi ai quali la Commissione deve attenersi, oltre che
la fissazione delle condizioni alle quali la delega deve attenersi. Ciò comporta un potere di
controllo degli organi deleganti sull’organo delegato (la Commissione appunto), tale da poter
comportare la revoca della stessa delega o l’impedimento di entrare in vigore dell’atto stesso.
Si potranno, pertanto, avere direttive o regolamenti delegati (la dicitura "delegato" deve
essere sempre contenuta). L’altro tipo di atti di secondo grado che abbiamo sono gli atti
d’esecuzione, ideati per dare esecuzione ad ATTI VINCOLANTI DELL’UNIONE EUROPEA. Il
potere di esecuzione sarà dato alla Commissione e solo in casi eccezionali al Consiglio (in
ambito PESC), e tra l’altro solo nel caso in cui serva un’attuazione uniforme, altrimenti a ciò
sopperiranno gli Stati membri. Questi ultimi, inoltre, in caso di attuazione da parte della
Commissione potranno esercitare un potere di controllo sulla stessa, tramite regole e principi
stabiliti dal PE e dal Consiglio.
Il nuovo regime di atti giuridici è dato dalla fusione, operata dal Trattato di Lisbona, del I
pilastro con il III. Spariscono quindi tutte le categorie di atti previste all’interno del III pilastro,
nel quale ora è possibile emanare direttive e regolamenti. Il trattato ha, invece, mantenuto la
differenza di atti per quanto riguarda la PESC, prevedendo però anche qui una
semplificazione: vi sono, infatti, gli ORIENTAMENTI GENERALI, atti del Consiglio che
corrispondono alle vecchie “strategie comuni” e le DECISIONI PESC, che possono equivalere
alle vecchie “azioni comuni/posizioni comuni” oppure essere atti di 2° grado di esecuzione. In
ambito PESC, comunque, non figurano atti legislativi.
All’interno del nostro ordinamento tutti i trattati si presentano come semplici trattati
internazionali, ai quali l’Italia ha dato esecuzione tramite leggi ordinarie del Parlamento:
l’ORDINE DI ESECUZIONE infatti è stato recepito in tal modo. Una gran parte della politica e
della giurisprudenza avrebbe preferito, invece, una norma costituzionale per dar applicazione
al processo d’integrazione comunitario, come del resto hanno fatto diversi Stati come la
Francia. In realtà l’adesione dell’Italia dapprima alla Comunità ed in seguito all’Unione si è
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sempre poggiata sul testo dell’art.11 della nostra Costituzione, il quale prevede che <<l’Italia,
in condizioni di parità con gli altri Stati, consente alle limitazioni di sovranità necessarie ad un
ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le nazioni, promuovendo le organizzazioni
sovrannazionali volte a tale scopo>>. Tale tesi è stata appoggiata anche dalla Corte
Costituzionale, la quale ha sottolineato che l’art.11 non è solo una norma che abilita ad
accettare limitazioni di sovranità, ma anche una norma procedurale che consente di NON
MODIFICARE la Costituzione.
Più difficile, all’interno del nostro ordinamento, è stata l’attuazione del diritto comunitario
secondario, specie con riferimento alle direttive, le quali come ben sappiamo prevedono un
intervento dello Stato membro. Inizialmente, nel nostro Paese, si ricorreva allo strumento
della DELEGA LEGISLATIVA AL GOVERNO: il Parlamento, con legge, provvedeva a delegare al
Governo il compito di emanare decreti legislativi per l’attuazione di un certo numero di atti
comunitari, ma ciò comportava tempi troppo lunghi. Per tal motivo, nel 1989 venne emanata
la L.86, detta Legge La Pergola, sostituita recentemente dalla L.11/2005. La Legge La Pergola
ha introdotto un nuovo meccanismo annuale: ogni anno il Parlamento italiano approva una
LEGGE COMUNITARIA che conforma l’ordinamento italiano a quello comunitario (oggi anche le
regioni adoperano questo metodo delle leggi comunitarie regionali). Sono previsti TRE METODI
PRINCIPALI attraverso cui opera la legge comunitaria:
Per quanto concerne le Regioni, invece, la modifica del Titolo V Parte II della Costituzione
avvenuta nel 2001 ha previsto che tra le materie di competenza concorrente tra Stato e
regioni, ed in alcuni casi tra le materie di competenza esclusiva delle regioni, rientri
l’attuazione del diritto comunitario. Le regioni, quindi, secondo il nuovo testo dell’art.117 della
Costituzione, possono dare immediata applicazione alle direttive comunitarie, grazie anche
alla L.11/2005, senza tra l’altro, come invece prevedeva la legge La Pergola, un parere
preventivo dello Stato. Questo non esclude che, in materia di competenza concorrente, sia lo
Stato a fissare i principi fondamentali di attuazione, mentre le regioni si occupano della
disciplina specifica. Inoltre lo Stato ha anche, in forza sempre dell’art.117 Cost. V comma, un
potere sostitutivo nel caso di inadempimento regionale, che opera tramite una “sostituzione
preventiva”, prendendo provvedimenti che opereranno solo a partire dalla scadenza del
periodo entro cui le regioni avrebbero dovuto provvedere all’attuazione degli atti comunitari,
oppure tramite una “sostituzione successiva”, concedendo alle regioni di potersi ancora
adeguare al diritto comunitario autonomamente, almeno prima dell’intervento del Consiglio
dei Ministri.
42
PARTE IV – DIRITTO DELL’UNIONE EUROPEA E SOGGETTI DEGLI
ORDINAMENTI INTERNI
L’intero complesso di norme dell’ordinamento comunitario, cioè derivante dal TCE, riconosce
come titolari di soggettività giuridica non solo gli Stati membri, ma anche le stesse persone
fisiche e giuridiche appartenenti a tali Stati, il che comporta che le norme comunitarie
presentano due dimensioni: una INTERNAZIONALE ed una INTERNA. A livello
internazionalistico la Comunità (oggi l’Unione) attraverso le sue istituzioni può far valere diritti
ed obblighi nei confronti degli Stati membri o delle altre istituzioni. In caso di controversi si
può sfociare in procedimenti giudiziari di soluzione. Sotto il profilo interno, invece, molto
spesso troviamo contrapposti tra loro soggetti privati (rapporti orizzontali) o un soggetto
pubblico ed uno privato (rapporti verticali). Il diritto comunitario interviene su tali rapporti
soventemente tramite la disciplina dei rapporti stessi: i regolamenti, per esempio, essendo
direttamente applicabili disciplinano un’intera materia sostituendosi alle norme interne
preesistenti (EFFETTO DI SOSTITUZIONE). Altre volte, invece, il diritto comunitario si limita ad
impedire l’applicazione di norme interne contrarie a principi e regole comunitarie (EFFETTO DI
OPPOSIZIONE). In tali casi la norma comunitaria, si suol dire, che produce effetti diretti, ossia
gode di EFFICACIA DIRETTA negli ordinamenti nazionali, il che implica che un soggetto nei cui
confronti la norma produce effetti può pretenderne il rispetto da parte dell’altro soggetto
(EFFICACIA DIRETTA IN SENSO SOSTANZIALE). Nel caso in cui l’altro soggetto non rispetti tale
diritto, l’efficacia diretta comporta anche l’INVOCABILITA’ IN GIUDIZIO: i soggetti lesi possono
chiedere al giudice nazionale l’applicazione in giudizio della norma stessa. Non dobbiamo
confondere, in questi casi, l’EFFICACIA DIRETTA con l’APPLICABILITA’ DIRETTA: quest’ultima
comporta, infatti, che gli ordinamenti nazionali si adeguino automaticamente al diritto
comunitario, senza l’intervento degli Stati membri, il che avviene per i soli regolamenti.
L’efficacia diretta si configura, al contrario, anche per quanto concerne le direttive e le
decisioni, sebbene solo in taluni casi.
L’efficacia diretta, tra l’altro, non è l’unica forma con cui le norme comunitarie assumono
rilevanza normativa interna: la giurisprudenza ha individuato, infatti, altre due forme di
EFFICACIA INDIRETTA. Quando, infatti, un atto comunitario non ha efficacia diretta, ha pur
sempre due caratteristiche fondamentali: obbliga i giudici nazionali ad un’INTERPRETAZIONE
CONFORME al diritto comunitario e nello stesso tempo fornisce ai singoli la possibilità di
chiedere il RISARCIMENTO DEL DANNO a carico degli Stati membri che non hanno permesso al
diritto comunitario di operare all’interno dell’ordinamento nazionale.
Si è già detto che le norme comunitarie non godono tutte di efficacia diretta. Il giudice
nazionale, tra l’altro, per risolvere una controversia deve verificare d’ufficio se la norma da
applicare abbia le caratteristiche per produrre effetti diretti, avvalendosi, se lo ritiene
opportuno, del RINVIO PREGIUDIZIALE, essendo questo tema competenza della Corte di
Giustizia.
Le caratteristiche che la Corte tende a verificare sono quelle della SUFFICIENTE PRECISIONE e
dell’INCONDIZIONATEZZA DELLA NORMA.
• IL TITOLARE DELL’OBBLIGO;
43
• IL TITOLARE DEL DIRITTO;
Tra l’altro il requisito della sufficiente precisione deve inerire anche al contenuto del diritto che
si intende azionare, perché magari una stessa norma è sufficientemente precisa un fine, ma
non per un altro.
Concludendo possiamo dire che anche le norme che non godono di efficacia diretta già
all’origine possono comunque avere un’efficacia indiretta tramite il rispetto dei suddetti
requisiti.
Alcune disposizioni dei trattati, infatti, si rivolgono direttamente ai singoli (esempio: norme in
materia di concorrenza) e pertanto hanno da subito efficacia diretta, senza bisogno di ulteriori
riflessioni. Va, però, ricordato che, anche se le norme dei trattati sono rivolte agli Stati
membri, qualora siano “sufficientemente precise” ed “incondizionate” possono produrre
effetti diretti, come abbiamo precedentemente detto.
Il problema dell’efficacia diretta si pone anche riguardo agli “accordi internazionali” conclusi
dall’Unione con Stati terzi. I singoli, infatti, potrebbero aver interesse affinché vengano
rispettate delle norme che comportano regimi favorevoli agli stessi. La Corte di Giustizia, in tal
caso, rivolgerà la propria attenzione al contesto dell’accordo internazionale per verificarne
l’efficacia diretta, svolgendo un’analisi dapprima sulla NATURA e sulla STRUTTURA
dell’accordo internazionale, che devono permettere di riconoscere effetti diretti alle proprie
norme, ed in un secondo momento verificando che le stesse rispettino i caratteri della
sufficiente precisione e dell’incondizionatezza (è il caso degli Accordi OMC, cui la Corte non ha
riconosciuto, per natura e struttura degli accordi stessi, la possibilità di far nascere diritti nei
singoli in forza del diritto comunitario, ma solo limitatamente al proprio diritto nazionale, in
quanto è competenza degli Stati membri far operare tali accordi a livello nazionale).
Sappiamo bene che le DIRETTIVE non hanno di per sé, come invece avviene per i regolamenti,
efficacia diretta, in quanto occorre l’intervento dello Stato membro per attuarle e far
assumere alle stesse un valore normativo all’interno dell’ordinamento nazionale. Tuttavia
anche le direttive possono avere efficacia diretta, rispettando pur sempre i presupposti
sostanziali della sufficiente precisione e dell’incondizionatezza, questo però quando sia già
scaduto il termine temporale per l’attuazione, da parte del Paese membro, della direttiva.
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Prima di allora, infatti, il singolo non può pretendere di vantare diritti in base alla direttiva in
quanto è stata la stessa istituzione che l’ha emanata a prevedere che abbia efficacia solo a
partire dall’emanazione dell’atto attuativo da parte dello Stato. Dopo la scadenza del termine
di attuazione, invece, il singolo può benissimo pretendere l’applicazione di un atto, la direttiva
appunto, che farebbe nascere dei diritti in capo allo stesso. Unico caso di efficacia diretta
anticipata si ha nel momento in cui uno Stato membro abbia già attuato completamente una
direttiva europea, ma l’abbia fatto in maniera errata prima del termine di scadenza:
ricordiamo, infatti, che il termine per l’attuazione è previsto nell’interesse degli Stati membri e
per tal motivo essi possono attuare le direttive anche prima della scadenza. Qualora, però, ciò
si sia verificato ma non correttamente, perché magari lo Stato non ha applicato totalmente la
direttiva, il singolo potrà pretendere l’attuazione completa anche se non è scaduto il termine.
La prima differenza che ritroviamo, quindi, tra regolamenti e direttive circa l’efficacia diretta
sta proprio nell’EFFICACIA TEMPORALE.
Per quanto concerne le DECISIONI, invece, si presume che valga la stessa disciplina riservata
alle direttive in merito all’efficacia diretta che esse possono avere nel caso in cui siano
rimaste inattuate. La Corte di Giustizia, però, non ha mai avuto la possibilità di esprimersi in
merito alla possibilità di un’efficacia diretta orizzontale.
Nelle ipotesi in cui sia impossibile considerare che un atto comunitario abbia efficacia diretta,
vi è sempre la possibilità, come abbia già detto, di valutare un’efficacia INDIRETTA dell’atto
stesso.
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Prima forma di EFFICACIA INDIRETTA la ritroviamo nell’OBBLIGO D’INTERPRETAZIONE
CONFORME: i giudici degli Stati membri, infatti, sono tenuti ad interpretare il diritto per
poterlo applicare, ove possibile, nel maggior rispetto del diritto comunitario (questo in base
all’obbligo di leale collaborazione). I giudici, quindi, sono obbligati a fare il possibile affinché
una direttiva raggiunga il risultato voluto. Quindi, se nel caso di direttiva che abbia diretta
efficacia il giudice disapplica la norma interna configgente con quella comunitaria, nel caso di
interpretazione conforme il giudice applica la norma interna, ma lo fa nella maniera più vicina
possibile alla normativa comunitaria NON DOTATA DI DIRETTA EFFICACIA. Questo avviene SIA
nel caso in cui il giudice si trovi ad applicare la legge interna di attuazione della direttiva, che
magari lo Stato non ha provveduto a far aderire completamente a quanto voluto dall’atto
comunitario, SIA nel caso si tratti di applicare norme interne più antiche senza riferimento
diretto alla direttiva: in tal caso, infatti, si dovrebbe presumere che il diritto interno è sempre
conforme a quello comunitario.
Il primo limite è dato dal fatto che l’obbligo di interpretazione conforme permane solo se vi è
un margine di discrezionalità nella scelta dell’interpretazione da parte del giudice: se, infatti,
la disciplina interna è inequivocabilmente CONTRARIA alla direttiva e quest’ultima non gode di
efficacia diretta, il giudice dovrà applicare la norma interna, in quanto non può la direttiva
ASSUMERE IL VALORE DI FONDAMENTO CONTRA LEGEM DEL DIRITTO NAZIONALE.
Il secondo limite deriva dal fatto che l’obbligo d’interpretazione conforme esiste solo DOPO LA
SCADENZA DEL TERMINE DI ATTUAZIONE.
Le direttive, inoltre, ed è questo il terzo limite, sebbene siano inattuate anche dopo la
scadenza del termine di attuazione, non possono in alcun modo essere interpretate avendo
l’effetto di AGGRAVARE LA RESPONSABILITA’ PENALE DEGLI INDIVIDUI. Non può, quindi, il
giudice applicare una norma interna interpretandola secondo il senso della direttiva
comunitaria ed aggravare nello stesso tempo, tramite tale interpretazione, la responsabilità
penale dell’individuo.
L’obbligo di interpretazione conforme, inoltre, come sostenuto dalla Corte di Giustizia esiste
anche nei confronti delle decisioni-quadro prese all’interno del III pilastro dell’Unione,
nonostante esse NON abbiano efficacia diretta per espressa volontà del legislatore
comunitario.
Non vi è dubbio che qualora uno Stato membro non ottemperi ai propri doveri di attuazione di
una direttiva che sia direttamente efficace, esso debba il risarcimento del danno ai soggetti
lesi in capo ai quali sarebbe sorto un diritto.
Nel caso di direttiva inattuata priva di efficacia diretta il diritto al risarcimento del danno
permane, ma costituisce un diritto in se stesso, non un diritto derivato da uno principale.
Ovviamente perché il diritto al risarcimento sorga occorre che si verifichino tre condizioni:
3. Tra violazione e danno vi deve essere un nesso di causalità, mentre non è necessario
l’elemento psicologico (dolo o colpa).
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Gli organi interni ad uno Stato che possono, con il loro comportamento commissivo od
omissivo, causare la responsabilità per danno di uno Stato membro NON SONO SOLO gli
organi legislativi, bensì anche le autorità fiscali, gli enti locali ed addirittura il potere
giudiziario, potere che al pari degli altri, secondo la Corte di Giustizia (sentenza Kobler 2003),
deve garantire il rispetto del diritto comunitario.
Abbiamo visto che le norme comunitarie possono essere invocate dai singoli, dinanzi ai giudici
nazionali, per il rispetto dei diritti in esse contenuti. La fonte che regola gli ASPETTI
PROCESSUALI, ossia quelli attinenti all’esercizio in giudizio dei diritti comunitari, è, in linea
generale, lo Stato membro e solo talune volte possono intervenire le istituzioni comunitarie
con atti d’armonizzazione. Questo principio prende il nome di AUTONOMIA PROCESSUALE
DEGLI STATI MEMBRI ed incontra alcuni limiti sia nel PRINCIPIO DI EQUIVALENZA, secondo cui
le modalità con cui far valere il proprio diritto di matrice comunitaria non devono essere meno
favorevoli rispetto a quelle con cui far valere diritti che sorgono dall’ordinamento interno, sia
nel PRINCIPIO DI EFFETTIVITA’, secondo cui non si deve rendere particolarmente difficile o
addirittura impossibile l’esercizio del diritto stesso.
Per quanto concerne i termini di prescrizione o di decadenza previsti all’interno degli Stati
membri, la Corte di Giustizia ha stabilito che essi possano decorrere solo dal momento in cui
la disciplina comunitaria è stata completamente trasposta all’interno dell’ordinamento, e non
dal momento in cui si è verificato il fatto o dal momento in cui il diritto poteva essere
esercitato, come se si fosse trattato di diritto nascente da norme interne.
Il fatto che il diritto comunitario produca effetti diretti all’interno degli ordinamenti nazionali
degli Stati membri ci permette di capire molto facilmente che potrebbero nascere delle
incompatibilità tra norme comunitarie e norme del diritto interno, sia che si tratti di norma
interna emanata anteriormente rispetto all’atto comunitario, sia che si tratti di norma interna
successiva. Tali conflitti sono risolti da un principio giurisprudenziale della Corte di giustizia
definito come PRINCIPIO DEL PRIMATO COMUNITARIO, secondo cui i giudici nazionali,
nell’ambito di qualsivoglia causa, ravvisata l’incompatibilità tra norme, dovrebbero
disapplicare il diritto interno e dar luogo all’applicazione di quello comunitario. Tutto ciò, sotto
un profilo logico, è comprensibile data l’efficacia diretta di cui sono dotati gran parte degli atti
comunitari: l’Unione deve garantire, al di la del rango della norma interna da disapplicare,
un’omogeneità di applicazione del diritto comunitario ed in alcun modo potrebbe permettere
che una norma venga applicata differentemente in diversi Paesi membri. A tracciare le linee
guida del principio del primato fu la Corte di Giustizia con la Sentenza Costa c. ENEL del 1964.
In un’altra sentenza, inoltre, la Corte precisò anche che qualsivoglia giudice avrebbe dovuto
disapplicare il diritto interno, senza attendere che a far ciò fosse l’organo legislativo o un
organo giurisdizionale di più alto livello (Sentenza Simmenthal del 1978). La Corte, inoltre, in
tale sentenza delineò l’ordinamento comunitario come un ordinamento addirittura di rango
superiore rispetto a quelli interni ai Paesi membri, sottolineando quindi che una norma
incompatibile con il diritto comunitario non solo non sarebbe dovuta essere applicata, ma
sarebbe dovuta scomparire dall’ordinamento nazionale. La Corte costituzionale italiana nella
Sentenza Granital del 1984 si rifiutò di accettare una simile impostazione di quasi abrogazione
implicita delle norme nazionali e la stessa Corte di Giustizia nella sentenza IN.CO.GE del 1990
è tornata sui suoi passi ed ha respinto tale idea.
Tutto ciò, comunque, non esime il legislatore nazionale dal compito di abrogare la norma
interna incompatibile, garantendo agli interessati la certezza di potersi rivolgere al diritto
comunitario.
La Corte Costituzionale italiana è stato uno degli organi a livello europeo che ha accettato con
maggiori difficoltà il principio del Primato del diritto comunitario.
Nasce quindi il contrasto con la Corte di Giustizia, la quale afferma che il diritto comunitario
debba sempre prevalere su quello interno degli Stati membri e che il giudice debba
disapplicare il diritto interno.
Con la sentenza I.C.I.C. del 1976 la Corte costituzionale fa un primo passo in avanti verso la
Corte di Giustizia, valorizzando maggiormente l’art.11 Cost. e sottolineando che in casi
d’incompatibilità tra diritti interno e diritto comunitario, la norma interna è incostituzionale
per contrasto con il suddetto articolo 11. Riassumendo, quindi, qualora la legge interna sia
anteriore all’atto comunitario, prevarrà quest’ultimo per il principio si successione delle leggi
ed il giudice dovrà disapplicare la norma interna. Qualora invece avvenga il contrario, il
giudice dovrà rimettere la decisione nelle mani della Corte Costituzionale che deciderà per
l’abrogazione della norma interna. Ben presto, però, si intuisce che la tale operatività non
garantisce un’immediata applicazione del diritto comunitario, prevedendo tempi troppo lunghi
per l’abrogazione di norme interne.
Il sopravvenire della Sentenza Simmenthal da parte della Corte di Giustizia, in cui si afferma
anche un grado gerarchico superiore dell’ordinamento comunitario, infastidisce la Corte
Costituzionale che, sorprendentemente nella sentenza Granital del 1984 ritiene inammissibile
la questione, non dichiarando l’incostituzionalità di una norma interna rispetto all’articolo 11,
bensì prevedendo l’operatività del CRITERIO DI COMPETENZA, secondo cui ordinamento
italiano ed ordinamento comunitario devono essere coordinati, ma permangono due
ordinamenti distinti. Il giudice, quindi, dovrà esaminare se la materia prospettata nella
questione specifica ricade, in forza del Trattato, nelle materie di competenza comunitaria o
meno: qualora dovesse ravvisare che su quella materia avesse competenza la CE, allora
dovrà semplicemente disapplicare la norma interna e dar luogo a quella comunitaria. In caso
contrario, dovrà applicare la norma di diritto italiano.
La Corte di Giustizia non vede di buon occhio la soluzione prospettata dalla Corte
Costituzionale italiana, ma la deve accettare: sa bene, infatti, che un regolamento comunitario
non può in alcun modo abrogare, modificare o invalidare una norma di diritto interno.
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La Corte Costituzionale, inoltre, mantiene una COMPETENZA RESIDUA, ed impedisce pertanto
al giudice di disapplicare la norma interna favorendo quella comunitaria, in due occasioni
specifiche.
La SECONDA IPOTESI riguarda, invece, il caso in cui la Corte Costituzionale debba intervenire
perché norme di legge interne SONO DIRETTE AD IMPEDIRE IL RISPETTO DEI PRINCIPI
FONDAMENTALI DEL TRATTATO: si tratta di casi in cui il legislatore italiano ha rimosso, seppur
parzialmente, tramite un proprio atto legislativo alcuni dei limiti di sovranità previsti dal
Trattato. In tal caso dovrebbe dichiarare l’incostituzionalità del suddetto atto.
Va sottolineato, infine, come con la revisione del Titolo V Parte II della Costituzione avvenuta
nel 2001, sia stato definitivamente consacrato il Principio del PRIMATO COMUNITARIO,
prevedendo all’art.117 cost. nel suo nuovo testo che la potestà legislativa esercitata da Stato
e Regioni rispetti, oltre agli altri vincoli, anche quelli imposti dall’ORDINAMENTO
COMUNITARIO.
Tale sistema è ripartito tra la competenza DIRETTA del giudice comunitario e quella generale
del giudice nazionale.
• RICORSI PER INFRAZIONE: proposti contro uno Stato membro accusato di aver violato le
norme del Trattato;
• RICORSI D’ANNULLAMENTO: con cui si contesta la legittimità degli atti delle istituzioni;
Al di fuori di tutto ciò vige, invece, la competenza del giudice nazionale, al quale i singoli
possono rivolgersi per pretendere il rispetto di un proprio diritto di matrice comunitaria.
Vi è poi uno strumento di raccordo, ideato per garantire l’uniformità del diritto comunitario,
che consiste nel RINVIO PREGIUDIZIALE di cui all’art.234 TCE, in forza del quale il giudice
nazionale può, o addirittura è obbligato in taluni casi, rivolgersi al giudice comunitario per
chiedere come debba essere applicata una determinata norma comunitaria.
Il sistema di tutela giurisdizionale di cui abbiamo parlato, inoltre, deve essere un sistema di
TUTELA EFFETTIVA: nessuna lacuna del sistema stesso potrebbe, infatti, impedire ad un
singolo di far rispettare un diritto attribuitogli da un atto comunitario. Qualora non dovesse
bastare l’intervento del giudice comunitario, infatti, toccherà al giudice nazionale sanare le
lacune esistenti, anche qualora egli debba ricorrere ad un’interpretazione estensiva, ma
anche manipolativa, di una norma già esistente.
Per quanto concerne, invece, il SECONDO e TERZO PILASTRO, non esiste un sistema così
avanzato di controllo giurisdizionale, o meglio all’interno del pilastro PESC non esiste, mentre
all’interno del pilastro relativo alla COOPERAZIONE DI POLIZIA E GIUDIZIARIA IN MATERIA
PENALE, alla Corte di Giustizia sono attribuite alcune competenze.
Il ricorso per infrazione era disciplinato, prima dell’entrata in vigore del Trattato di Lisbona,
dagli articoli 226 e 227 del TCE, oltre che dall’art.228 TCE in caso di accoglimento del ricorso.
OGGETTO del ricorso è la presunta violazione, da parte di uno Stato membro, del Trattato o
degli atti adottati in base allo stesso (esempio: attuazione delle direttive). Per Stato membro,
tra l’altro, non si intendono solo gli organi governativi dello Stato in questione, ma anche
quelli indipendenti rispetto ad esso (Parlamento e Magistratura), tanto quanto le articolazioni
in cui è organizzato il potere pubblico (forze di polizia, uffici fiscali ecc.), tanto quanto gli enti
territoriali. Non è necessario, tra l’altro, dimostrare la presenza di un elemento psicologico
dello Stato membro (dolo o colpa) e tanto meno lo Stato in questione può addurre delle
giustificazioni per il proprio comportamento.
Il procedimento di ricorso può essere proposto dalla Commissione (art.226), organo garante
della legalità comunitaria, o da un altro Stato membro (art.227); ai singoli, quindi, è precluso il
ricorso alla Corte di Giustizia.
Sono previste due fasi del ricorso: la prima è una fase PRECONTENZIOSA PRELIMINARE, nella
quale si apre un confronto tra il ricorrente ed il destinatario del ricorso circa il rispetto degli
obblighi del trattato, il che potrebbe evitare il ricorso alla Corte; la seconda fase, invece, è
CONTENZIOSA e si svolge dinanzi alla Corte, portando così ad una decisione giudiziaria.
Nel caso in cui sia la Commissione a dare avvio al procedimento di ricorso, la fase
PRECONTENZIOSA si articola in più momenti:
1. La Commissione invia allo Stato membro una LETTERA DI MESSA IN MORA, in cui
riferisce di alcuni comportamenti contrari al Trattato e lo invita a presentare le proprie
osservazioni;
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3. La Commissione emette un PARERE MOTIVATO con il quale addebita allo Stato membro
determinate violazioni intimandogli di provvedere alla rimozione delle stesse entro un
determinato TERMINE, dopo il quale sarà comunque l’organo competente, la Corte di
Giustizia, ad esprimersi.
Talune volte, tra l’altro, non è neanche necessaria la fase precontenziosa, ad esempio in tema
di aiuti degli Stati membri alle imprese: in tal caso la Commissione intima al Paese membro di
cessare tale comportamento e qualora ciò non avvenga, si rivolge direttamente alla Corte.
Il passaggio alla FASE CONTENZIOSA può avvenire solo dopo che è scaduto il termine per il
ricorso, e tra l’altro la possibilità di adire la Corte è a discrezione della Commissione. Una volta
aperta tale fase, però, anche qualora lo Stato membro si adegui, il procedimento va avanti,
almeno che non sia la stessa Commissione a ritirare il ricorso. La sentenza della Corte è una
sentenza di MERO ACCERTAMENTO della violazione, che non impone alcuna condanna. Lo
Stato, tuttavia, è tenuto a prendere provvedimenti per la rimozione della violazione in
questione. Qualora non lo faccia, la Commissione potrà avviare un secondo procedimento
d’infrazione, passando sempre dalla fase precontenziosa, ma esprimendo nel proprio parere
motivato una somma forfettaria o una penalità da addebitare allo Stato membro. La Corte,
quindi, emetterà una vera e propria sentenza di condanna. Il Trattato di Lisbona, peraltro,
ha previsto una maggiore celerità del secondo procedimento, prevedendo che la Commissione
possa saltare la fase precontenziosa.
Quando, invece, è uno Stato membro ad avviare il procedimento d’infrazione, esso deve
obbligatoriamente rivolgersi alla Commissione, la quale seguirà l’iter sopra descritto. Qualora,
però, la Commissione non emetta il PARERE MOTIVATO entro tre mesi, lo Stato ricorrente potrà
rivolgersi direttamente alla Corte di Giustizia. L’eventuale secondo ricorso, benché potrà
essere avviato sempre dal Paese ricorrente, prevederà sempre che a chiedere la
comminazione di una sanzione pecuniaria sia solo la Commissione.
RICORSO D’ANNULLAMENTO
All’interno del sistema comunitario ritroviamo diversi mezzi con cui la Corte può effettuare un
controllo di legittimità sugli atti delle istituzioni:
• Ricorsi d’annullamento;
• Eccezione d’invalidità;
Per definire gli ATTI IMPUGNABILI l’art.230 fa riferimento a 3 criteri: AUTORE, TIPO & EFFETTI.
• Gli atti congiunti del Parlamento e del Consiglio (quelli adottati con procedura di
codecisione);
51
• Gli atti del Consiglio;
• Gli atti del Parlamento (impugnabili solo dopo l’aumento dei poteri parlamentari);
Solo tali istituzioni, quindi, hanno legittimazione passiva all’interno del ricorso
d’annullamento.
• I Regolamenti;
• Le Direttive;
• Le Decisioni;
Sotto il profilo degli EFFETTI, invece, va tenuto conto del fatto che sono atti impugnabili solo
quelli SUSCETTIBILI DI CREARE EFFETTI GIURIDICI OBBLIGATORI, e questo lo possiamo dedurre
sia dall’esclusione di pareri e raccomandazioni, sia dal fatto che gli atti del solo Parlamento
Europeo impugnabili sono quelli destinati a produrre effetti giuridici nei confronti di terzi. Gli
unici dubbi che permangono riguardano gli atti atipici, di cui non è presente una definizione e
che quindi dovranno essere valutati volta per volta.
• Gli atti del Consiglio, della Commissione e della BCE, esclusi pareri e raccomandazioni;
• Gli atti del PE e del Consiglio Europeo destinati a produrre effetti giuridici verso terzi;
• Gli atti di organi ed organismi dell’Unione destinati a produrre effetti giuridici verso
terzi.
2. Ricorrenti INTERMEDI = si tratta della Corte dei Conti Europea e della BCE; essi, però,
devono dimostrare che tramite l’atto impugnato ci sia stata una violazione di
52
competenza o sia stato pregiudicato l’esercizio dei compiti ad essi affidati. Il Trattato
di Lisbona ha ampliato tale categoria, aggiungendo il Comitato delle Regioni;
• Impugnando una decisione presa NEI PROPRI CONFRONTI, cioè una decisione in cui il
ricorrente sia destinatario dell’atto e quindi deve dimostrare solo l’interesse a ricorrere
(la posizione del ricorrente è pregiudicata dall’atto);
Le difficoltà appena descritte nel dimostrare l’interesse diretto ed individuale ed il fatto che i
regolamenti che non richiedono alcun atto attuativo da parte degli Stati membri renderebbero
impossibile il ricorso da parte di persone fisiche e giuridiche, ha spinto nel tempo sia i
ricorrenti che la stessa Corte ha chiedere una modifica dell’art.230 che preveda una maggiore
facilità per proporre il ricorso. Il Trattato di Lisbona ha accolto tali richieste prevedendo che
le condizioni di ricevibilità dei ricorsi individuali siano meno severe nel caso di impugnazione
di atti regolamentari che non comportano alcuna misura di esecuzione, essendo sufficienti
dimostrare l’interesse diretto; in caso, però, di atti regolamentari non legislativi che dovranno
essere seguiti da atti di esecuzione, occorrerà rispettare le suddette condizioni originarie
(dimostrazione dell’interesse non solo diretto, ma anche individuale).
Tornando a parlare del ricorso d’annullamento, dobbiamo evidenziare quali sono i VIZI DI
LEGITTIMITA’ che possono essere fatti valere nell’ambito del ricorso stesso, ossia:
• INCOMPETENZA;
• VIOLAZIONE DELLE NORME DEL TRATTATO O DI REGOLE DI DIRITTO RELATIVE ALLA SUA
APPLICAZIONE;
• SVIAMENTO DI POTERE.
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Analizziamo nel dettaglio i vizi da cui può essere affetto l’atto.
L’INCOMPETENZA può essere sia interna che esterna. E’ interna qualora l’istituzione autrice
dell’atto non potesse proprio emanarlo, in quanto competenza di altra istituzione; è esterna
qualora né quella istituzione, né nessun altra potessero emanare quell’atto, che non è di
competenza comunitaria ma semmai degli Stati membri.
La VIOLAZIONE DELLE FORME SOSTANZIALI può riguardare o il procedimento con cui è stato
emanato l’atto, viziato perché non rispettato o rispettato parzialmente (può darsi per caso che
non sia stata sentita la parte interessata prima di adottare l’atto, come invece era previsto),
oppure l’assenza o l’insufficienza della motivazione fornita dall’atto, particolarmente
importante in caso di decisioni destinate ad avere effetti individuali.
La VIOLAZIONE DELLE NORME DEL TRATTATO O DI REGOLE DI DIRITTO RELATIVE ALLA SUA
APPLICAZIONE rappresenta il vizio più frequentemente invocato: la violazione consiste nel
fatto che l’atto entra in contrasto con una norma gerarchicamente superiore, ossia
appartenente al trattato o ad una sua regola di applicazione.
Lo SVIAMENTO DI POTERE, invece, si ha nel momento in cui un’istituzione adotta un atto che
aveva il potere di adottare, ma perseguendo un fine diverso da quello per cui il potere le era
stato conferito.
Per quanto concerne il termine entro il quale promuovere il ricorso, esso è di 2 mesi a partire
dalla pubblicazione in Gazzetta Ufficiale, qualora l’atto sia sottoposto a tale regime di
pubblicità, a partire dalla notificazione, ma solo per quanto riguarda il destinatario della
notifica, o a partire dalla data in cui il ricorrente ha avuto conoscenza dell’atto.
Per quanto concerne, invece, l’efficacia delle sentenze di annullamento, esse comportano che
l’atto sia dichiarato nulla erga omnes e la nullità retroagisca al momento in cui è stato
emanato l’atto. La Corte, solo per quanto riguarda alcuni atti ed in particolar modo i
regolamenti, può decidere che l’atto sia nullo solo nei confronti del ricorrente o solo a partire
da un momento successivo all’emanazione della sentenza e quindi non abbia efficacia
retroattiva.
Il controllo che la Corte svolge è un controllo di mera legittimità dell’atto e solo per quanto
concerne i regolamenti del Consiglio e del Parlamento, o del solo Consiglio la Corte può avere
competenza di merito, limitata al riesame delle sanzioni.
Abbiamo più volte citato, all’interno del paragrafo, l’art.230 TCE: va evidenziato che esso è
stato sostituito, con l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, dall’art.263 TF.
RICORSO IN CARENZA
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• La VIOLAZIONE di tale obbligo.
• RICORRENTI PRIVILEGIATI: Stati membri ed altre Istituzioni (ivi compresa la Corte dei
Conti), i quali non devono dimostrare l’interesse a ricorrere;
La sentenza che scaturisce dal ricorso in carenza è una sentenza di ACCERTAMENTO, che
obbliga l’istituzione ad agire, ma non prevede un obbligo specifico di facere né tanto meno la
stessa Corte può adottare l’atto omesso.
Cominciamo col dire che i danni cagionati dalle istituzioni comunitarie o dai suoi agenti
nell’esercizio delle loro funzioni devono essere risarciti dalla Comunità (oggi Unione) e su tali
controversie è competente a giudicare la Corte di Giustizia. Questo vale per la sola
responsabilità extracontrattuale, mentre per quella contrattuale può essere inserita una
clausola all’interno dei vari contratti che dia competenza alla Corte di Giustizia.
La Corte ha più volte precisato che il ricorso per risarcimento danni è notevolmente differente
dal ricorso d’annullamento e dal ricorso in carenza, in quanto non mira ad ottenere
l’eliminazione degli effetti giuridici di un atto o di un comportamento omissivo, bensì, avendo
una propria autonomia data dal Trattato, mira proprio al risarcimento del danno causato dalle
istituzioni nell’esercizio dei loro compiti.
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Il ricorso per risarcimento, tuttavia, ha carattere RESIDUALE qualora dinanzi al giudice
nazionale si possa attivare un’azione analoga che miri allo stesso fine e porti allo stesso
risultato.
• Danno effettivo;
Nel caso di atti normativi (es. regolamenti) implicanti scelte di politica economica, occorre
inoltre dimostrare:
Il diritto al risarcimento danni si PRESCRIVE nel termine di 5 anni a partire dal momento in cui
ha avuto luogo il fatto che ha originato il diritto al risarcimento.
La competenza pregiudiziale della Corte di Giustizia è attribuita alla stessa dall’ex art.234
TCE: qualora un giudice nazionale di un qualsivoglia Stato membro, nell’esercizio delle proprie
funzioni ravvisi un dubbio su una norma comunitaria a cui non sa fornire autonomamente una
soluzione, egli deve rimettere la decisione circa l’interpretazione o l’applicazione di tale norma
nelle mani del giudice comunitario. La Corte di Giustizia, d’altro canto, non può entrare nel
merito della questione prospettata dinanzi al giudice nazionale, ma deve semplicemente
risolvere il dubbio dello stesso, in quanto la causa è iniziata e deve finire dinanzi ad un
tribunale nazionale. La competenza pregiudiziale, quindi, appare come una competenza
INDIRETTA, in quanto le parti interessate in causa non si sono rivolte loro stesse alla Corte, ed
appare anche come una competenza LIMITATA, potendo la Corte decidere solo sulle questioni
comunitarie e solo su quelle che il giudice nazionale le ha prospettato.
La risoluzione del dubbio del giudice nazionale da parte della Corte assume, quindi, una
doppia valenza: essa aiuta non solo il giudice, evitando che egli applichi erroneamente il
diritto comunitario, ma anche l’applicazione uniforme del diritto stesso all’interno degli Stati
membri, tenuto conto anche del carattere dell’efficacia diretta di cui godono la maggior parte
degli atti comunitari. Garantisce quindi una corretta applicazione degli atti comunitari.
Tra l’altro va ricordato che il Trattato di Lisbona ha fatto in modo che anche per ciò che
concerne la Cooperazione di polizia e giudiziaria in materia penale si possa applicare il rinvio
pregiudiziale alla Corte di Giustizia Europea, ponendo quindi sotto il controllo giurisdizionale
della stessa l’ex terzo pilastro, ora confluito in quello comunitario.
Va tenuto conto, inoltre, del fatto che il giudice nazionale non potrebbe in alcun modo, se non
nel caso in cui ne sia fermamente convinto, evitare il rinvio pregiudiziale pregiudicando i diritti
dei singoli affinché il diritto dell’Unione venga applicato in maniera effettiva.
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Il meccanismo della collaborazione pregiudiziale si configura, è giusto il caso di dirlo, come un
meccanismo di collaborazione e non come uno strumento gerarchico: il giudice nazionale non
è un subordinato del giudice comunitario e ciò spiega perché la Corte non eserciti alcun tipo di
controllo sulla competenza del giudice nazionale o sulla regolarità del giudizio.
La Corte, invece, ha previsto dei particolari requisiti inerenti il contenuto del provvedimento di
rinvio, all’interno del quale il giudice nazionale deve specificare “quali siano le questioni
sollevate ed in quale ambito di fatto e di diritto si vadano ad inserire”.
NOZIONE DI GIURISDIZIONE
L’organo autore del rinvio pregiudiziale deve essere un organo di GIURISDIZIONE di uno degli
Stati membri. Deve quindi svolgere anzitutto una FUNZIONE GIURISDIZIONALE, cioè deve
essere chiamato a statuire nell’ambito di un procedimento destinato a risolversi con una
pronuncia giurisdizionale (la Corte di Giustizia ha negato che ad effettuare il rinvio
pregiudiziale sia, per esempio, la CORTE DEI CONTI o l’AUTORITA’ GARANTE DELLE
CONCORRENZA E DEL MERCATO.
Devono, inoltre, essere verificati altri requisiti, quali l’ORIGINE LEGALE DELL’ORGANO, per cui
non possono rivolgersi alla Corte gli arbitri a cui le parti abbiano affidato la risoluzione di una
controversia, o l’indipendenza dell’organo stesso.
La posizione dei giudici nazionali in riferimento al rinvio pregiudiziale varia a seconda che essi
emettano decisioni contro le quali le parti possono appellarsi, o si tratti di giudici di ultima
istanza, qualificati come tale nel momento in cui sarebbe impossibile per le parti avere una
diversa soluzione del caso in questione.
Nel caso, quindi, di giudice NON di ultima istanza, il rinvio è oggetto di una FACOLTA’, mentre
nel caso contrario si tratta di un OBBLIGO. Va sottolineato, quindi, che il giudice NON di ultima
istanza può anche non effettuare il rinvio pregiudiziale, o può farlo nel momento che egli
ritiene più opportuno. Inoltre va chiarito che anche il giudice di ultima istanza può rifiutarsi,
anche qualora le parti lo richiedano, di effettuare il rinvio pregiudiziale (FACOLTA’ DI RINVIO
ANCHE PER I GIUDICI DI ULTIMA ISTANZA) qualora ravvisi che:
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• La questione sia identica ad altra già prospettata da un giudice nazionale del proprio
Paese o di altro Paese membro e a cui la Corte ha già dato una soluzione
d’interpretazione;
• La risposta alla questione si può dedurre dalla giurisprudenza consolidata della Corte di
Giustizia;
• La corretta applicazione della norma di diritto comunitario in questione sia tanto palese
da non lasciare il minimo dubbio (IPOTESI DELL’ATTO CHIARO): in tal caso, però, il
giudice di ultima istanza deve verificare che la soluzione che egli intende adottare si
imporrebbe anche ai giudici di altro Stato membro e che egli stesso stia tenendo conto
del fatto che il diritto comunitario e quello interno potrebbero non coincidere.
Ultimamente, tra l’altro, la stessa Corte di Giustizia ha previsto che sussista un OBBLIGO DI
RINVIO anche per i giudici di NON ultima istanza, almeno quando ritiene INVALIDO un atto
delle istituzioni e le parti lo ritengano parimenti invalido. In tal caso, tra l’altro, il giudice di
NON ultima istanza avrà l’obbligo di rinvio anche qualora la Corte si sia pronunciata a
riguardo.
Le questioni pregiudiziali d’INTERPRETAZIONE possono riguardare sia il TRATTATO, sia GLI ATTI
COMPIUTI DALLE ISTITUZIONI COMUNITARIE E DALLA BCE. Per trattato si intendeva il TCE, oggi
confluito nel TF. La portata degli atti, invece, è notevole, in quanto si tratta di tutti gli atti
comunitari (regolamenti, decisioni, direttive, pareri, raccomandazioni), inclusi gli atti atipici,
gli accordi internazionali e gli atti privi di efficacia diretta. Sembrano escluse solo e solamente
le convenzioni concluse tra gli stessi Stati membri.
La Corte tuttavia NON PUO’ applicare essa stessa il diritto comunitario, dovendo risolvere solo
il dubbio del giudice nazionale: essa deve INTERPRETARE e NON APPLICARE. Essa, inoltre, non
può interpretare il diritto nazionale del giudice remittente e non può pronunciarsi
sull’incompatibilità di una norma nazionale con una comunitaria: questi sono tutti compiti che
restano al giudice nazionale.
Un USO ALTERNATIVO DEL RINVIO PREGIUDIZIALE si può avere qualora il giudice nazionale
chieda alla Corte un giudizio sulla compatibilità di norme interne con il diritto comunitario: la
Corte, in tal caso, pur essendo incompetente a riguardo, non dichiara la questione del tutto
inammissibile e traccia delle linee guida per il giudice nazionale, in maniera tale che egli
capisca se la norma interna è compatibile o meno con quella comunitaria, e si possa
comportare di conseguenza.
Il rinvio in questione è obbligatorio anche per i giudici di NON ultima istanza, qualora le
motivazioni addotte dalle parti siano ritenute FONDATE dal giudice.
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IL VALORE DELLE SENTENZE PREGIUDIZIALI
L’art.5 TCE prevedeva, prima dell’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, il cosiddetto
PRINCIPIO DI ATTRIBUZIONE, secondo cui la Comunità Europea poteva agire nei limiti di
quanto previsto dal TCE e per raggiungere fini da esso indicati. Il problema che si pone,
specialmente in materia comunitaria, è quello dell’allargamento sempre maggiore delle
competenze comunitarie, che riduce tra l’altro quelle che sono le competenze degli Stati
membri. Se per quanto riguardava, infatti, gli altri due pilastri le decisioni seguivano il metodo
intergovernativo, affidando così alle decisioni unanimi del Consiglio le politiche PESC e CGAI,
per quanto concerneva il campo comunitario si rischiava, e si rischia, un’attribuzione di poteri
eccessiva alla Comunità, la quale non è, come gli Stati membri, un ente a finalità generali che
possa perseguire qualsiasi scopo, ma un ente a finalità specifiche e tale dovrebbe rimanere. Il
Trattato di Lisbona ha enfatizzato ancora maggiormente il principio di attribuzione,
sottolineando come i poteri dell’Unione derivino solo e solamente da un’attribuzione degli
Stati membri. Tuttavia la giurisprudenza della Corte di Giustizia ha ammesso che la Comunità
potesse essere competente anche in casi in cui l’esercizio di un potere non attribuitole fosse
necessario per raggiungere obiettivi propri della Comunità (TEORIA DEI POTERI IMPLICITI). Tale
teoria ha trovato applicazione in ambito di accordi internazionali in materia di trasporti,
nonostante non ci fosse un’esplicita previsione al riguardo. Sotto un diverso profilo, però,
l’art.308 TCE prevedeva, in deroga al principio della competenza d’attribuzione, che qualora
un’AZIONE fosse stata NECESSARIA ed al contempo ci fosse una MANCATA PREVISIONE DI
POTERI D’AZIONE ADEGUATI DA PARTE DEL TRATTATO, la Comunità avrebbe potuto, previa
delibera unanime del Consiglio su proposta della Commissione e sentito il Parlamento,
ASSUMERE NUOVI POTERI senza passare dalla revisione del Trattato e quindi dagli Stati
membri. L’art.308 TCE, però, era e rimane (nel nuovo art.352 TF) una norma RESIDUALE, che
tra l’altro non consentiva deviazioni o deroghe rispetto al Trattato, ma semplicemente di
intervenire in settori non menzionati dallo stesso.
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VARI TIPI DI COMPETENZA COMUNITARIA
L’art.5 TCE di cui abbiamo parlato, tra l’altro, non attribuisce pari natura a tutte le
competenze attribuite dal Trattato alla Comunità: essa prevede una distinzione tra
Competenze ESCLUSIVE e competenze CONCORRENTI (o RIPARTITE).
In caso di COMPETENZA CONCORRENTE, invece, sia la Comunità (Unione) che gli Stati membri
possono agire all’interno di una certa materia. L’aumento di interventi in quell’ambito da
parte della Comunità, però, fa diminuire costantemente l’intervento degli Stati, in quanto ad
esse è precluso intervenire per ostacolare la realizzazione degli scopi del Trattato (ex art.10
TCE).
Il Trattato di Lisbona ha, però, previsto che la competenza degli Stati membri non possa del
tutto essere svuotata all’interno di un determinato settore. L’Unione, infatti, può operare solo
per quanto riguarda gli elementi di quel settore previsti dal Trattato, non all’interno
dell’INTERO settore. La disciplina residua, quindi, rimane in mano agli Stati membri.
In realtà, però, il TCE non precisa se una determinata competenza comunitaria sia Esclusiva o
Concorrente. Spetta sempre all’interprete dedurlo, guardando più che altro agli scopi
perseguiti dal Trattato.
Accanto, tra l’altro, alle competenze esclusive ed a quelle concorrenti, figura un TERZO TIPO
DI COMPETENZE, costituite dalle competenze di COORDINAMENTO, SOSTEGNO E
COMPLEMENTO in cui l’Unione svolge un’azione parallela a quella degli Stati membri, SENZA
SOSTITUIRSI ALLA LORO COMPETENZA IN TALI SETTORI: ciò significa che, secondo il Trattato
di Lisbona, l’Unione non potrà avocare a se il potere di decidere e disciplinare determinate
materie, che resteranno in mano agli Stati.
PRINCIPIO DI SUSSIDIARIETA’
Il PRINCIPIO DI SUSSIDIARIETA’ era previsto dall’art.5 TCE, oggi sostituito dall’art.5 TUE
modificato dal Trattato di Lisbona, e prevedeva che nei settori di competenza NON
esclusiva della Comunità, essa intervenisse solo e soltanto nel caso in cui potesse garantire
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un’azione a livello comunitario migliore rispetto a quella che avrebbero potuto offrire gli Stati
membri.
Per quanto concerne il CAMPO D’APPLICAZIONE del principio di sussidiarietà, abbiamo già
visto che esso si applica soltanto nei settori di competenza NON ESCLUSIVA dell’Unione. Ciò
vuol dire che, nei settori di competenza concorrente, esso può garantire agli Stati membri di
disciplinare essi stessi una determinata materia, qualora gli atti dei Paesi membri a riguardo
siano soltanto SUFFICIENTI, mentre l’Unione, qualora decidesse d’intervenire, dovrebbe
garantire non un livello di disciplina sufficiente, bensì un LIVELLO SUPERIORE.
Si è, inoltre, a lungo discusso sulla possibilità che il principio di sussidiarietà possa essere
oggetto di controllo giurisdizionale da parte della Corte di Giustizia, essendo esso
un’indicazione politica rivolta alle istituzioni. La Corte ha accettato di sindacare circa il rispetto
del suddetto principio solo in caso di errore manifesto o di travalicamento dei limiti di
discrezionalità. In origine la violazione del principio di sussidiarietà era invocata dalle parti
come VIZIO DELLA MOTIVAZIONE, mentre in seguito è stata invocata come VIZIO AUTONOMO.
In tale occasione (Sentenza British American Tobacco del 2002) la Corte ha avuto modo di
precisare che per verificare il rispetto del principio di sussidiarietà bisogna verificare se
“l’azione comunitaria abbia garantito una migliore realizzazione dell’obiettivo” e se “tale
azione non abbia oltrepassato la misura necessaria per realizzare tale obiettivo”.
Il Trattato di Lisbona, come abbiamo già avuto modo di precisare, ha ripreso nell’art.5 TUE
ciò che era previsto già dall’art.5 TCE, aggiungendo però un riferimento al livello regionale o
locale accanto a quello centrale: da ciò NON deriva un principio di sussidiarietà interno agli
Stati, ma semplicemente una migliore valutazione del fatto che una materia possa essere
disciplinata anche a livello locale e garantire una migliore applicazione, rispetto sempre
all’alternativa di optare per una disciplina comunitaria. Inoltre al principio di sussidiarietà (e a
quello di proporzionalità) è stato dedicato un Protocollo apposito, in cui è stato previsto un
ruolo inedito dei Parlamenti nazionali: essi potranno, entro 8 settimane dalla presentazione di
un progetto di atto legislativo europeo, opporsi allo stesso tramite un parere motivato che
lamenti la violazione del principio di sussidiarietà. Se un terzo dei parlamenti nazionali si
esprimerà nello stesso modo, l’autore del progetto sarà costretto a rivederlo.
PRINCIPIO DI PROPORZIONALITA’
Un altro principio richiamato dall’art.5 TCE (oggi dall’art.5 TUE) è il PRINCIPIO DELLA
PROPORZIONALITA’. Esso impone all’azione dell’Unione di non andare oltre ciò che necessario
per il raggiungimento degli obiettivi del Trattato. Il principio suddetto si applica SIA nei settori
di competenza esclusiva SIA in quelli di competenza concorrente ed impone un INTERVENTO
LIMITATO AGLI OBIETTIVI, in modo tale da tutelare gli Stati membri contro interventi di portata
troppo ampia.
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La proporzionalità comporta delle restrizioni sia per quanto concerne il TIPO DI ATTO da
adottare, sia per il CONTENUTO dello stesso. A parità di condizioni, infatti, devono essere
preferite le direttive ai regolamenti ed, ove possibile, misure non vincolanti, quali le
raccomandazioni. Per quanto concerne il contenuto, invece, bisogna lasciare ampio spazio, il
massimo possibile, alle decisioni nazionali.
Più difficile, invece, risulta stabilire se la competenza esterna abbia natura ESCLUSIVA o
CONCORRENTE, ossia occorre verificare se su una determinata materia possa concludere
accordi internazionali solo l’Unione o anche gli Stati membri accanto alla stessa (accordi misti)
o anche da soli. In tal caso distinguiamo:
Il vecchio TUE, quello in vigore prima della ratifica del Trattato di Lisbona da parte di tutti
gli Stati membri, non prevedeva, per il secondo e terzo pilastro, norme paragonabili all’art.5
TCE. Quindi all’interno degli altri due pilastri non figurava un criterio di diversificazione delle
competenze dell’Unione completo. Inoltre all’interno dei due pilastri la Corte di Giustizia non
poteva operare con gli stessi poteri giurisdizionali del pilastro comunitario.
Mentre, quindi, il principio d’attribuzione poteva operare nei due pilastri perché palesemente
accettato per tutto l’ambito UE, non era possibile attuare una diversificazione tra competenze
esclusive, concorrenti o del terzo tipo, come invece avveniva per il pilastro comunitario. In
realtà l’Unione non aveva alcuna competenza esclusiva e la sola previsione all’interno del TUE
della competenza dell’Unione non pregiudicava il diritto dei Paesi membri di operare
autonomamente negli stessi ambiti. Il principio di sussidiarietà, inoltre, si applicava anche agli
altri due pilastri, non essendoci alcuna competenza esclusiva dell’UE.
Per quanto concerne, invece, la categoria della competenza concorrente, essa è sicuramente
prevista all’interno del III PILASTRO, dove, in forza anche dell’obbligo di leale collaborazione
imposto agli Stati membri, l’operato degli stessi rimane libero fino a quando non
sopraggiunge un intervento dell’Unione: più questa interviene, meno gli Stati sono liberi,
anche perché, sempre in forza del suddetto principio, non possono comportarsi
contrariamente alle decisioni-quadro dell’Unione, né tanto meno ostacolarne l’operatività.
Nel pilastro PESC, invece, la competenza concorrente trova riscontri soltanto parziali, limitari
al settore delle missioni umanitarie e di soccorso ed alle attività di
mantenimento/ristabilimento della pace. Per lo più, per quanto concerne il settore PESC, la
competenza dell’Unione assomiglia alle competenze del terzo tipo analizzate per il settore
comunitario: il crescente numero di misure prese in ambito PESC dall’Unione non comporta lo
svuotamento della competenza degli Stati membri, ma soltanto un obbligo, in capo agli stessi,
di COERENZA e di COORDINAMENTO.
L’obbligo di coerenza impone, agli Stati membri che svolgono una propria politica estera, di
evitare comportamenti che entrino in contrasto con la linea adottata dall’Unione. Ciò
comporta, di per sé, un coordinamento tra l’operato nazionale in ambito di politica estera e
l’operato dell’Unione. Concludendo potremmo dire che la competenza dell’Unione in ambito
PESC non è classificabile secondo le categorie comunitarie.