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Poesie scelte 1953-2010
Poesie scelte 1953-2010
Poesie scelte 1953-2010
E-book269 pagine1 ora

Poesie scelte 1953-2010

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Info su questo ebook

La sua scrittura si produce al crepuscolo in un appartamento della periferia di Oslo, nella stanza piena di carte in cui domina una vecchia Olivetti. Nessuno in casa parla l’italiano, né sua moglie Mary né i quattro figli, così come nessuno immagina in fabbrica la sua attività di scrittore, ma è proprio questa doppia condizione di parzialità a garantire alla sua poesia il segno della totalità compiuta. Essere ‘sotto’ e nel frattempo essere ‘fuori’ significa per lui non poter essere che lì, eternamente, sulla pagina. Egli non deve nemmeno liberarsi di zavorra eccessiva e, pure se in realtà ha letto tutti i libri, proclama la propria ignoranza menzionando pochissimi riferimenti d’avvio come i sillabati di Ungaretti e Lavorare stanca di Pavese. Benché parli volentieri neanche in italiano ma in dialetto fermano, in realtà conosce le lingue, traduce le liriche di Ibsen dal norvegese, legge di continuo i filosofi, ed è dalle lezioni di estetica di Hegel che deduce una volta per tutte l’idea secondo cui la poesia corrisponde a una coscienza disgregata che nella sua inversione si esprime in un linguaggio scintillante capace di verità. Per questo in ogni poesia di Di Ruscio c’è potenzialmente tutta la sua poesia e la sua intera produzione ha la circolarità di un autentico poema.

Dall’introduzione di Massimo Raffaeli
LinguaItaliano
Data di uscita13 nov 2023
ISBN9788892941038
Poesie scelte 1953-2010

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    Anteprima del libro

    Poesie scelte 1953-2010 - Luigi Di Ruscio

    LE ALI

    10

    Collana di poesia

    diretta da Fabio Pusterla

    LogoAli_RR

    LUIGI DI RUSCIO

    Poesie scelte

    1953-2010

    A cura di Massimo Gezzi

    Prefazione di Massimo Raffaeli

    marchietto-R

    www.marcosymarcos.com

    ISBN 978-88-9294-103-8

    © Luigi Di Ruscio

    © Marcos y Marcos 2019

    via Piranesi 10, 20137 Milano

    lettori@marcosymarcos.com

    Poesie scelte

    1953-2010

    Massimo Raffaeli

    Prefazione

    Ero immerso nelle acque fetali,

    sono immerso in questa acqua sociale.

    LDR, Cristi polverizzati (2009)

    Per decenni rimasta in uno stato di marginalità geografica e di semiclandestinità editoriale (a parte il consenso di alcuni mallevadori d’eccezione, quali Franco Fortini, Salvatore Quasimodo, Giancarlo Majorino, Antonio Porta) la poesia di Luigi Di Ruscio è emersa all’improvviso come un iceberg al passaggio del millennio e dunque nel contesto di una grave crisi sistemica, innanzitutto economico-politica, che ne ha svelata finalmente l’essenzialità, in senso stretto e persino etimologico. Il poeta del resto aveva sempre affermato, fino ad averne rauca la voce, che mentre la lingua del potere è sempre una lingua ricercata, contraffatta e intransitiva, quella di chi sta in basso viceversa è frontale, diretta, mirata alla esclusiva verità della propria testimonianza. Una lingua, quest’ultima, che può essere variata ma non abiurata, semmai replicata con la necessaria ossessione e fedeltà al nucleo di percezione primordiale che intanto la legittima. Quanto a ciò Di Ruscio è un poeta umanista in senso classico e già all’esordio, appena ventitreenne, sceglie un titolo, Non possiamo abituarci a morire (’53), che vale non tanto una dichiarazione di poetica quanto un progetto di resistenza o volontà di non accettare come ‘naturale’ quel che invece si determina nelle dinamiche sociali e di classe. Venuto al mondo a Fermo in vicolo Borgia, al tempo della dominazione fascista e in un ghetto di sottoproletari, alunno indocile e ripetente che non andrà oltre la quinta elementare, monello sbandato, comunista con evidenti venature anarchiche, poi ragazzo di mille mestieri, infine nel ’57 migrante a Oslo dove per quarant’anni lavorerà da operaio alla catena di montaggio di una fabbrica metallurgica: tale è il suo cursus honorum, dove il tempo della poesia è un residuo sottratto con tenacia al tempo dell’asservimento ed è il solo privilegio concessogli da quello che chiama, alternando sarcasmo e ironia, il paradiso socialdemocratico. L’autore ne ha raccontata la vicenda nelle sue tarde partiture in prosa, da Palmiro (’86) a La neve nera di Oslo (2010), veri e propri romanzi picareschi, verbali autobiografici ai limiti della docufiction, insomma una prolungata diversione nel comico e nel grottesco laddove, tuttavia, la parabola del personale romanzo di formazione si duplica nella genetica di una dirompente vocazione alla poesia. Per lui, chiedersi come un uomo diventi un uomo equivale a chiedersi come e perché un uomo diventi un poeta. E infatti Luigi Di Ruscio, al di là delle ovvie etichette, non è stato né un poeta operaio né un operaio poeta ma, più semplicemente, qualcuno che ha saputo tradurre con i mezzi della poesia la condizione operaia nella condizione umana tout court.

    Limiti incoercibili perimetrano da sempre la sua scrittura, che di regola si produce al crepuscolo in un appartamento all’ottavo piano della prima periferia di Oslo, in Aasengata 4/c, nella stanza adibita (sono parole che gli presta l’amatissimo Giordano Bruno) a ‘stalletto’ pieno di carte in cui domina, percussiva e fragorosa, una vecchia Olivetti. Nessuno in casa parla o intende l’italiano, né sua moglie Mary né i quattro figli, così come nessuno immagina in fabbrica la sua attività di scrittore, ma è proprio questa doppia condizione di parzialità (subordinazione sociale, alienazione geolinguistica) a garantire alla sua poesia il segno della totalità compiuta. Essere ‘sotto’ e nel frattempo essere ‘fuori’ significa per lui non poter essere che lì, eternamente, sulla pagina. Egli non deve nemmeno liberarsi di zavorra eccessiva e, pure se in realtà ha letto tutti i libri, continua a proclamare la propria ignoranza menzionando pochissimi riferimenti d’avvio come i sillabati di Ungaretti e Lavorare stanca di Pavese. Benché parli volentieri neanche in italiano ma in dialetto fermano, in realtà conosce le lingue, traduce le liriche di Ibsen dal norvegese, legge di continuo i filosofi, specie i classici del pensiero dialettico, ed è dalle lezioni di estetica di Hegel che deduce una volta per tutte l’idea secondo cui la poesia corrisponde a una coscienza disgregata che nella sua inversione si esprime in un linguaggio scintillante capace di verità e, pertanto, si esprime molto meglio della buona coscienza che le si contrappone. Per questo in ogni poesia di Di Ruscio c’è potenzialmente tutta la sua poesia e per questo la sua intera produzione (dalla plaquette d’esordio, passando fra l’altro per Apprendistati, ’78, Istruzioni per l’uso della repressione, ’80, fino alle clausole sapienziali de L’Iddio ridente, 2008) ha la circolarità di un autentico poema. Il poeta stesso ha detto più di una volta che la sua opera ha la forma del cosmo immaginato da Bruno e Spinoza, vale a dire un universo dove il centro si trovi dappertutto e i confini non si scorgano da nessuna parte. Non basta. Il cosmo poetico di Di Ruscio è una totalità dinamica, in perpetuo movimento, dove nulla è certo se non l’incalzare del ritmo, dentro uno stillicidio di varianti, correzioni, amputazioni che principiano da una particolare ortografia (morfologie distorte, metaplasmi, neologismi, dialettismi, lapsus d’autore) la quale deve rimanere allo stato incandescente, liquido, fino a rendere sinonimi lo scrivere e l’‘iscrivere’, massima capienza di un dire implacabile che neanche trova requie (tanto meno una rigidezza ne varietur) nella auto-antologia terminale delle Poesie scelte su cui, e con acribia, ha lavorato per la presente edizione Massimo Gezzi, uno studioso che è anche poeta conterraneo del grande fermano.

    Caso più unico che raro per chi abbia esordito in pieno Novecento, la poesia di Di Ruscio ignora la metafora alla stregua di una ambigua o bugiarda contraffazione mentre predilige a oltranza la postura metonimica. Sospetta gli aggettivi e vive più che altro di nomi e di verbi, il suo centro è la frase di senso compiuto o, meglio ancora, la connessione di frasi coordinate all’interno di un periodo. Ciò probabilmente vuol dire che, per il poeta, il pensare contiene l’esprimere e che la poesia o è pensiero in atto o non è. Quasi indenne da punteggiatura, essa è poverissima di figure retoriche che non siano quelle, le più schematiche (ma si potrebbe anche dire le più dialettiche), della ripetizione e della inversione. Il verso è lungo, la misura è libera e rilanciata dal ritmo, il che significa, a sua volta, che sulla metrica prevale in ultima istanza la pulsazione prosodica. Il suo pronome è l’‘io’ convenuto dei lirici ma si propaga nel ‘noi’ dei poeti epici, non certo per la retorica surriscaldata di un engagement ma per il senso di prossimità e anzi di condivisione e letterale commensalità che il poeta prova nei confronti dei suoi simili, gli immolati nelle guerre volute dal potere, gli spatriati, i migranti, i subalterni alla catena di montaggio, chiunque patisca umiliazione e oblio nel micidiale meccanismo di inclusione/esclusione delle cosiddette società opulente o neocapitaliste. La sua materia prima è un costante andirivieni, trattenuto nel crogiuolo del presente insonorizzato, fra l’altrove assoluto di vicolo Borgia (flash della vita offesa, immagini antiche di asfissia, di anonimato) e la prossimità che il tempo ha reso indecente, normale o del tutto ‘naturale’, di uno sfruttamento per cui l’uomo diviene il lupo dell’altro uomo. (Quasimodo mezzo secolo fa aveva visto in Hobbes, nelle fauci di un moderno Leviatano, il contesto appropriato a quel giovane poeta, noi diremmo invece la società ordoliberale, non meno famelica.) Perché leggere Di Ruscio, che dai bassi della condizione proletaria amava ripetere con Joyce che noi abbiamo meno speranze di una palla di neve all’inferno, è comunque un antidoto a quanto oggi si chiama, crisma di una egemonia proterva e planetaria, il Pensiero Unico. Qui valga per tutti il testo rubricato al numero CCCXIV del poema complessivo, dove il particolare e l’universale, per cortocircuito di storia e geografia, si danno ormai come una cosa sola: […] la fabbrica è l’ultima stazione / se ti licenziano è come se venissi sputato fuori nell’ignoto / in una caduta che non verrà attutita / l’operaio metalmeccanico è attaccato a qualcosa di diabolico / il polacco dice che lavorare / per l’avvenire sotto i comunisti era ancora peggio / qualche macchina ferma sembra una cassa da morto / per chi sta veramente male / mettersi sotto cassa malattia è difficile / di questo italiano straniero non sappiamo niente / si sa solo che puzza ed esiste. Perciò è bene che un poeta troppo a lungo appannaggio di autori e studiosi happy few (circa la generazione più recente, da Eugenio De Signoribus a Enrico Capodaglio e Biagio Cepollaro, da Francesco Scarabicchi a Emanuele Zinato e Andrea Cortellessa) incontri finalmente un pubblico senza ulteriori aggettivi ed è bene che divenga di senso comune la parola potente, penetrante, di questo proletario preistorico come lo definì una volta, e con totale affetto, lo scrittore che in vita gli fu più vicino, Angelo Ferracuti. Dentro un paesaggio sociale che sembra di immutabile devastazione e poi di sopravvenuta glaciazione, splende infatti nei versi di Di Ruscio, del tutto isolata (sta nell’intercapedine di Enunciati, rubrica 2), una immagine dove la storia sembra contraddirsi, ovvero smentirsi, in natura rediviva, quando nel paesaggio ancora invernale morso dal gelo / improvvisamente esplode la fioritura del mandorlo che brilla come poca materia viva circondata di morte. Quel mandorlo perso nel gelo al fondo dell’inverno è certamente un riflesso della esistenza che tuttora si propaga oltre gli interdetti storici e di classe, è un debolissimo vessillo ma è, come scrive, il vessillo medesimo della poesia, una fioritura in anticipo o in controtempo, nuda e inerme nella sua necessità.

    Massimo Gezzi

    Perché (e come) le Poesie scelte

    Chi conosce l’opera poetica di Di Ruscio¹ sa bene che se si volesse raccogliere tutta la sua produzione in unico

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