Odissea: Traduzione di Ippolito Pindemonte
Di Omero
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Odissea - Omero
DIGITALI
Intro
L’ Odissea è il secondo grande poema epico, tradizionalmente attribuito a Omero. Narra delle vicende dell’eroe Ulisse (o Odisseo) dopo la fine della guerra di Troia, narrata nell’ Iliade . Nel corso delle sue peregrinazioni
Ulisse/Odisseo scende nell’Ade, approda presso i popoli dei Lotofagi e dei Feaci, incontra la bella Nausicaa, la maga Circe, la ninfa Calipso, le ammaliatrici Sirene, il ciclope Polifemo, fino all’agognato ritorno a Itaca dalla moglie Penelope e dal figlio Telemaco. Questa edizione riporta la traduzione del grande letterato Ippolito Pindemonte (1753-1828).
ODISSEA
TRADUZIONE DI IPPOLITO PINDEMONTE
LIBRO PRIMO
Musa, quell’uom di multiforme ingegno
Dimmi, che molto errò, poich’ebbe a terra
Gittate d’Ilïòn le sacre torri;
Che città vide molte, e delle genti
L’indol conobbe; che sovr’esso il mare
Molti dentro del cor sofferse affanni,
Mentre a guardar la cara vita intende,
E i suoi compagni a ricondur: ma indarno
Ricondur desïava i suoi compagni,
Ché delle colpe lor tutti periro.
Stolti! che osaro vïolare i sacri
Al Sole Iperïon candidi buoi
Con empio dente, ed irritâro il nume,
Che del ritorno il dì lor non addusse.
Deh! parte almen di sì ammirande cose
Narra anco a noi, di Giove figlia e diva.
Già tutti i Greci, che la nera Parca
Rapiti non avea, ne’ loro alberghi
Fuor dell’arme sedeano e fuor dell’onde;
Sol dal suo regno e dalla casta donna
Rimanea lungi Ulisse: il ritenea
Nel cavo sen di solitarie grotte
La bella venerabile Calipso,
Che unirsi a lui di maritali nodi
Bramava pur, ninfa quantunque e diva.
E poiché giunse al fin, volvendo gli anni,
La destinata dagli dèi stagione
Del suo ritorno, in Itaca, novelle
Tra i fidi amici ancor pene durava.
Tutti pietà ne risentìan gli eterni,
Salvo Nettuno, in cui l’antico sdegno
Prima non si stancò, che alla sua terra
Venuto fosse il pellegrino illustre.
Ma del mondo ai confini e alla remota
Gente degli Etïòpi (in duo divisa,
Ver cui quinci il sorgente ed il cadente
Sole gli obbliqui rai quindi saetta)
Nettun condotto a un’ecatombe s’era
Di pingui tori e di montoni; ed ivi
Rallegrava i pensieri, a mensa assiso.
In questo mezzo gli altri dèi raccolti
Nella gran reggia dell’olimpio Giove
Stavansi. E primo a favellar tra loro
Fu degli uomini il padre e de’ celesti,
Che il bello Egisto rimembrava, a cui
Tolto avea di sua man la vita Oreste,
L’inclito figlio del più vecchio Atride.
Poh!
disse Giove, "incolperà l’uom dunque
Sempre gli dèi? Quando a sé stesso i mali
Fabbrica, de’ suoi mali a noi dà carco,
E la stoltezza sua chiama destino.
Così, non tratto dal destino, Egisto
Disposó d’Agamennone la donna,
E lui, da Troia ritornato, spense;
Benché conscio dell’ultima ruina
Che l’Argicida esplorator Mercurio,
Da noi mandato, prediceagli: "Astienti
Dal sangue dell’Atride, ed il suo letto
Guàrdati di salir; ché alta vendetta
Ne farà Oreste, come il volto adorni
Della prima lanuggine e lo sguardo
Verso il retaggio de’ suoi padri volga".
Ma questi di Mercurio utili avvisi
Colui nell’alma non accolse: quindi
Pagò il fio d’ogni colpa in un sol punto".
"Di Saturno figliuol, padre de’ numi,
Re de’ regnanti", così a lui rispose
L’occhiazzurra Minerva: "egli era dritto
Che colui non vivesse: in simil foggia
Pera chïunque in simil foggia vive!
Ma io di doglia per l’egregio Ulisse
Mi struggo, lasso! che, da’ suoi lontano,
Giorni conduce di rammarco in quella
Isola, che del mar giace nel cuore,
E di selve nereggia; isola, dove
Soggiorna entro alle sue celle secrete
L’immortal figlia di quel saggio Atlante,
Che del mar tutto i più riposti fondi
Conosce e regge le colonne immense
Che la volta sopportano del cielo.
Pensoso, inconsolabile, l’accorta ninfa il ritiene e con soavi e molli
Parolette carezzalo, se mai
Potesse Itaca sua trargli dal petto:
Ma ei non brama che veder dai tetti
Sbalzar della sua dolce Itaca il fumo,
E poi chiuder per sempre al giorno i lumi.
Né commuovere, Olimpio, il cuor ti senti?
Grati d’Ulisse i sagrifici, al greco
Navile appresso, ne’ troiani campi,
Non t’eran forse? Onde rancor sì fiero,
Giove, contra lui dunque in te s’alletta?"
"Figlia, qual ti lasciasti uscir parola
Dalla chiostra de’ denti?" allor riprese
L’eterno delle nubi addensatore:
"Io l’uom preclaro disgradir, che in senno
Vince tutti i mortali, e gl’Immortali
Sempre onorò di sacrifici opìmi?
Nettuno, il nume che la terra cinge,
D’infurïar non resta pel divino
Suo Polifemo, a cui lo scaltro Ulisse
Dell’unic’occhio vedovò la fronte,
Benché possente più d’ogni Ciclope:
Pel divin Polifemo, che Toòsa
Partorì al nume, che pria lei soletta
Di Forco, re degl’infecondi mari,
Nelle cave trovò paterne grotte.
Lo scuotitor della terrena mole
Dalla patria il disvia da quell’istante,
E, lasciandolo in vita, a errar su i neri
Flutti lo sforza. Or via, pensiam del modo
Che l’infelice rieda; e che Nettuno
L’ire deponga. Pugnerà con tutti
Gli eterni ei solo? Il tenterebbe indarno."
"Di Saturno figliuol, padre de’ numi,
De’ regi re," replicò a lui la diva
Cui tinge gli occhi un’azzurrina luce,
"Se il ritorno d’Ulisse a tutti aggrada,
Ché non s’invìa nell’isola d’Ogige
L’ambasciator Mercurio, il qual veloce
Rechi alla ninfa dalle belle trecce,
Com’è fermo voler de’ sempiterni
Che Ulisse alfine il natìo suol rivegga?
Scesa in Itaca intanto, animo e forza
Nel figlio io spirerò, perch’ei, chiamati
Gli Achei criniti a parlamento, imbrigli
Que’ proci baldi, che nel suo palagio
L’intero gregge sgòzzangli, e l’armento
Dai piedi torti e dalle torte corna.
Ciò fatto, a Pilo io manderollo e a Sparta,
Acciocché sappia del suo caro padre,
Se udirne gli avvenisse in qualche parte,
Ed anch’ei fama, vïaggiando, acquisti."
Detto così, sotto l’eterne piante
Si strinse i bei talar d’oro, immortali,
Che lei sul mar, lei su l’immensa terra
Col soffio trasportavano del vento.
Poi la grande afferrò lancia pesante,
Forte, massiccia, di appuntato rame
Guernita in cima, onde le intere doma
Falangi degli eroi, con cui si sdegna,
E a cui sentir fa di qual padre è nata.
Dagli alti gioghi del beato Olimpo
Rapidamente in Itaca discese.
Si fermò all’atrio del palagio in faccia,
Del cortil su la soglia, e le sembianze
Vesti di Mente, il condottier de’ Tafî.
La forbita in sua man lancia sfavilla.
Nel regale atrio, e su le fresche pelli
Degli uccisi da lor pingui giovenchi
Sedeano, e trastullavansi tra loro
Con gli schierati combattenti bossi
Della Regina i mal vissuti drudi.
Trascorrean qua e là serventi e araldi
Frattanto: altri mescean nelle capaci
Urne l’umor dell’uva e il fresco fonte.
Altri le mense con forata e ingorda
Spugna tergeano, e le metteano innanzi,
E le molte partìan fumanti carni.
Simile a un dio nella beltà, ma lieto
Non già dentro del sen, sedea tra i proci
Telemaco: mirava entro il suo spirto
L’inclito genitor, qual s’ei, d’alcuna
Parte spuntando, a sbaragliar si desse
Per l’ampia sala gli abborriti prenci,
E l’onor prisco a ricovrar e il regno.
Fra cotali pensier Pallade scorse,
Né soffrendogli il cor che lo straniero
A cielo aperto lungamente stesse,
Dritto uscì fuor, s’accostò ad essa, prese
Con una man la sua, con l’altra l’asta,
E queste le drizzò parole alate:
"Forestier, salve. Accoglimento amico
Tu avrai, sporrai le brame tue: ma prima
Vieni i tuoi spirti a rinfrancar col cibo".
Ciò detto, innanzi andava, ed il seguìa
Minerva. Entrati nell’eccelso albergo,
Telemaco portò l’asta, e appoggiolla
A sublime colonna, ove, in astiera,
Nitida, molte dell’invitto Ulisse
Dormiano arme simìli. Indi a posarsi
Su nobil seggio con sgabello ai piedi
La dea menò, stesovi sopra un vago
Tappeto ad arte intesto; e un varïato
Scanno vicin di lei pose a sé stesso.
Così, scevri ambo dagli arditi proci,
Quell’impronto frastuon l’ospite a mensa
Non disagiava, e dell’assente padre
Telemaco potea cercarlo a un tempo.
Ma scorta ancella da bel vaso d’oro
Purissim’onda nel bacil d’argento
Versava, e stendea loro un liscio desco,
Su cui la saggia dispensiera i pani
Venne a impor candidissimi, e di pronte
Dapi serbate generosa copia;
E carni d’ogni sorta in larghi piatti
Recò l’abile scalco, ed auree tazze,
Che, del succo de’ grappoli ricolme,
Lor presentava il banditor solerte.
Entraro i proci, ed i sedili e i troni
Per ordine occuparo: acqua gli araldi
Diero alle mani, e di recente pane
I ritondi canestri empièr le ancelle.
Ma in quel che i proci all’imbandito pasto
Stendean la man superba, incoronaro
Di vermiglio licor l’urne i donzelli.
Tosto che in lor del pasteggiar fu pago,
Pago del bere il natural talento,
Volgeano ad altro il core: al canto e al ballo
Che gli ornamenti son d’ogni convito.
Ed un’argentea cetera l’araldo
Porse al buon Femio, che per forza il canto
Tra gli amanti sciogliea. Mentr’ei le corde
Ne ricercava con maestre dita,
Telemaco, piegando in vêr la dea,
Sì che altri udirlo non potesse, il capo,
Le parlava in tal guisa: "Ospite caro,
Ti sdegnerai se l’alma io t’apro? In mente
Non han costor che suoni e canti. Il credo!
Siedono impune agli altrui deschi, ai deschi
Di tal, le cui bianche ossa in qualche terra
Giacciono a imputridir sotto la pioggia,
O le volve nel mare il negro flutto.
Ma s’egli mai lor s’affacciasse un giorno,
Ben più che in dosso i ricchi panni e l’oro,
Aver l’ali vorrebbero alle piante.
Vani desìri! Una funesta morte
Certo ei trovò, speme non resta, e invano
Favellariami alcun del suo ritorno;
Del suo ritorno il dì più non s’accende.
Su via, ciò dimmi, e non m’asconder nulla:
Chi? di che loco? e di che sangue sei?
Con quai nocchier venìstu, e per qual modo
E su qual nave, in Itaca? Pedone
Giunto, per alcun patto io non ti credo.
Di questo tu mi contenta: nuovo
Giungi, o al mio genitor t’unisce il nodo
Dell’ospitalità? Molti stranieri
A’ suoi tetti accostavansi; ché Ulisse
Voltava in sé d’ogni mortale il core".
Tutto da me
, gli rispondea la diva
Che cerùleo splendor porta negli occhi,
T’udrai narrare. Io Mente esser mi vanto,
Figliuol d’Anchìalo bellicoso, e ai vaghi
Del trascorrere il mar Tafî comando.
Con nave io giunsi e remiganti miei,
Fendendo le salate onde, vêr gente
D’altro linguaggio, e a Temesa recando
Ferro brunito per temprato rame,
Ch’io ne trarrò. Dalla città lontano
Fermossi e sotto il Neo frondichiomoso,
Nella baia di Retro il mio naviglio.
Sì, d’ospitalità vincol m’unisce
Col padre tuo. Chieder ne puoi l’antico,
Ristringendoti seco, eroe Laerte,
Che a città, com’è fama, or più non viene;
Ma vita vive solitaria e trista
Ne’ campi suoi, con vecchierella fante,
Che, quandunque tornar dalla feconda
Vigna, per dove si trae a stento, il vede,
Di cibo il riconforta e di bevanda.
Me qua condusse una bugiarda voce,
Fosse il tuo padre di Itaca, da cui
Stornanlo i numi ancor; ché tra gli estinti
L’illustre pellegrin, no, non comparve,
Ma vivo, e a forza in barbara contrada,
Cui cerchia un vasto mar, gente crudele
Rattienlo: lo rattien gente crudele
Vivo, ed a forza in barbara contrada.
Pur, benché il vanto di profeta, o quello
D’augure insigne io non m’arroghi, ascolta
Presagio non fallace che su i labbri
Mettono a me gli eterni. Ulisse troppo
Non rimarrà della sua patria in bando,
Lo stringessero ancor ferrei legami.
Da quai legami uom di cotanti ingegni
Disvilupparsi non sapria? Ma schietto
Parla: sei tu vera sua prole? Certo
Nel capo e ne’ leggiadri occhi ad Ulisse
Molto arïeggi tu. Pria che per Troia,
Che tutto a sé chiamò di Grecia il fiore,
Sciogliesse anch’ei su le cavate navi,
Io, come oggi appo il tuo, così sedea
Spesse volte al suo fianco, ed egli al mio.
D’allora io non più lui, né me vid’egli".
E il prudente Telemaco: "Sincero
Risponderò. Me di lui nato afferma
La madre veneranda. E chi fu mai
Che per sé stesso conoscesse il padre?
Oh foss’io figlio d’un che una tranquilla
Vecchiezza côlto ne’ suoi tetti avesse!
Ma, poiché tu mel chiedi, al più infelice
Degli uomini la vita, ospite, io deggio".
Se ad Ulisse Penelope
, riprese
Pallade allor dalle cilestre luci,
"Ti generò, vollero i dèi che gisse
Chiaro il tuo nome ai secoli più tardi.
Garzon, dal ver non ti partir: che festa,
Che turba è qui? Qual ti sovrasta cura?
Convito? Nozze? Genial non parmi
A carco di ciascun mensa imbandita.
Parmi banchetto sì oltraggioso e turpe,
Che mirarlo, e non irne in foco d’ira,
Mal può chïunque un’alma in petto chiuda".
Ed il giovane a lui: "Quando tu brami
Saper cotanto delle mie vicende,
Abbi che al mondo non fu mai di questa
Né ricca più, né più innocente casa,
Finché quell’uomo il piè dentro vi tenne.
Ma piacque altro agli dèi, che, divisando
Sinistri eventi, per le vie più oscure,
Quel che mi cuoce più, sparir mel fêro.
Piangerei, sì, ma di dolcezza vôto
Non fôra il lagrimar, s’ei presso a Troia
Cadea pugnando, o vincitor chiudea
Tra i suoi più cari in Itaca le ciglia.
Alzato avriangli un monumento i Greci,
Che di gloria immortale al figlio ancora
Stato sarebbe. Or lui le crude Arpìe
Ignobilmente per lo ciel rapiro:
Perì non visto, non udito, e al figlio
Sol di sturbi e di guai lasciò retaggio.
Ché lui solo io non piango: altre e non poche
Mi fabbricaro i numi acerbe cose.
Quanti ha Dulichio e Samo e la boscosa
Zacinto, e la pietrosa Itaca prenci,
Ciascun la destra della madre agogna.
Ella né rigettar può, né fermare
Le inamabili nozze. Intanto i proci,
Da mane a sera banchettando, tutte
Le sostanze mi struggono e gli averi;
Né molto andrà che struggeran me stesso".
S’intenerì Minerva, e: Oh quanto
, disse,
"A te bisogna il genitor, che metta
La ultrice man su i chieditori audaci!
Sol ch’ei con elmo e scudo, e con due lance
Sul limitar del suo palagio appena
Si presentasse, quale io prima il vidi,
Che, ritornato d’Efira, alla nostra
Mensa ospital si giocondava assiso,
(Ratto ad Efira andò chiedendo ad Ilo,
Di Mèrmero al figliuol, velen mortale,
Onde le frecce unger volea, veleno
Che non dal Mermerìde, in cui de’ numi
Era grande il timor, ma poscia ottenne
Dal padre mio, che fieramente ammollo)
Sol ch’ei così si presentasse armato,
De’ proci non sarìa, cui non tornasse
Breve la vita e il maritaggio amaro.
Ma venir debba di sì trista gente
A vendicarsi o no, su le ginocchia
Sta degli dèi. Ben di sgombrarla quinci,
Vuolsi l’arte pensare. Alle mie voci
Porrai tu mente? Come il ciel s’inalbi,
De’ Greci i capi a parlamento invita,
Ragiona franco ad essi e al popol tutto,
Chiamando i numi in testimonio, e ai proci
Nelle lor case rientrare ingiungi.
La madre, ove desìo di nuove nozze
Nutra, ripari alla magion d’Icario,
Che ordinerà le sponsalizie, e ricca
Dote apparecchierà, quale a diletta
Figliuola è degno che largisca un padre.
Tu poi, se non ricusi un saggio avviso
Ch’io ti porgo, seguir, la meglio nave
Di venti e forti remator guernisci,
E, del tuo genitor molt’anni assente
Novelle a procacciarti, alza le vele.
Troverai forse chi ten parli chiaro,
O quella udrai voce fortuita, in cui
Spesso il cercato ver Giove nasconde.
Proa vanne a Pilo, e interroga l’antico
Nestore; Sparta indi t’accolga, e il prode
Menelao biondo, che dall’arsa Troia
Tra i loricati Achivi ultimo giunse.
Vive, ed è Ulisse, in sul ritorno? Un anno,
Benché dolente, sosterrai. Ma, dove
Lo sapessi tra l’ombre, in patria riedi,
E qui gli ergi un sepolcro, e i più solenni
Rendigli, qual s’addice, onor funébri,
E alla madre presenta un altro sposo.
Dopo ciò, studia per qual modo i proci
Con l’inganno tu spegna, o alla scoperta;
Ché de’ trastulli il tempo e de’ balocchi
Passò, ed uscito di pupillo sei.
Non odi tu levare Oreste al cielo,
Dappoi che uccise il fraudolento Egisto,
Che il genitor famoso aveagli morto?
Me la mia nave aspetta e i miei compagni,
Cui forse incresce questo indugio. Amico,
Di te stesso a te caglia, e i miei sermoni,
Converti in opre: d’un eroe l’aspetto
Ti veggio: abbine il core, acciò risuoni
Forte ne’ dì futuri anco il tuo nome".
Voci paterne son, non che benigne
,
D’Ulisse il figlio ripigliava, ed io
Guarderolle nel sen tutti i miei giorni.
Ma tu, per fretta che ti punga, tanto
Férmati almen, che in tepidetto bagno
Entri, e conforti la dolce alma, e lieto,
Con un mio dono in man, torni alla nave:
Don prezïoso per materia ed arte,
Che sempre in mente mi ti serbi; dono
Non indegno d’un ospite che piacque".
No, di partir mi tarda
, a lui rispose
L’occhicerulea diva. "Il bel presente
Allor l’accetterò, che, questo mare
Rinavigando, per ripormi in Tafo,
T’offrirò un dono anch’io che al tuo non ceda".
Così la dea dagli occhi glauchi; e, forza
Infondendogli e ardire, e a lui nel petto
La per sé viva del suo padre imago
Ravvivando più ancora, alto levossi,
E veloce, com’aquila, disparve.
Da maraviglia, poiché seco in mente
Ripeté il tutto, e s’avvisò del nume,
Telemaco fu preso. Indi, già fatto
Di sé stesso maggior, venne tra i proci.
Taciti sedean questi, e nell’egregio
Vate conversi tenean gli occhi; e il vate
Quel difficil ritorno, che da Troia
Pallade ai Greci destinò crucciata,
Della cetra d’argento al suon cantava.
Nelle superne vedovili stanze
Penelope, d’Icario la prudente
Figlia, raccolse il divin canto, e scese
Per l’alte scale al basso, e non già sola,
Ché due seguìanla vereconde ancelle.
Non fu de’ proci nel cospetto giunta,
Che s’arrestò della dedalea sala
L’ottima delle donne in su la porta,
Lieve adombrando l’una e l’altra gota
Co’ bei veli del capo, e tra le ancelle
Al sublime cantor gli accenti volse:
Femio
, diss’ella, e lagrimava, "Femio,
Bocca divina, non hai tu nel petto
Storie infinite ad ascoltar soavi,
Di mortali e di numi imprese altere,
Per cui toccan la cetra i sacri vati?
Narra di quelle, e taciturni i prenci
Le colme tazze vôtino; ma cessa
Canzon molesta che mi spezza il cuore,
Sempre che tu la prendi in su le corde;
Il cuor, cui doglia, qual non mai da donna
Provossi, invase, mentre aspetto indarno
Cotanti anni un eroe, che tutta empiéo
Del suo nome la Grecia, e ch’è il pensiero
De’ giorni miei, delle mie notti è il sogno."
O madre mia
, Telemaco rispose,
"Lascia il dolce cantor, che c’innamora,
Là gir co’ versi, dove l’estro il porta.
I guai, che canta, non li crea già il vate:
Giove li manda, ed a cui vuole e quando.
Perché Femio racconti i tristi casi
De’ Greci, biasmo meritar non parmi;
Ché, quanto agli uditor giunge più nuova,
Tanto più loro aggrada ogni canzone.
Udirlo adunque non ti gravi, e pensa
Che del ritorno il dì Troia non tolse
Solo ad Ulisse: d’altri eroi non pochi
Fu sepolcro comune. Or tu risali
Nelle tue stanze, ed ai lavori tuoi,
Spola e conocchia, intendi; e alle fantesche
Commetti, o madre, travagliar di forza.
Il favellar tra gli uomini assembrati
Cura è dell’uomo, e in questi alberghi mia
Più che d’ogni altro; però ch’io qui reggo".
Stupefatta rimase, e, del figliuolo
Portando in mezzo l’alma il saggio detto,
Nelle superne vedovili stanze
Ritornò con le ancelle. Ulisse a nome
Lassù chiamava, il fren lentando al pianto.
Finché inviolle l’occhiglauca Palla,
Sopitor degli affanni, un sonno amico.
I drudi, accesi, via più ancor che prima,
Del desìo delle nozze a quella vista,
Tumulto fean per l’oscurata sala.
E Telemaco ad essi: "O della madre
Vagheggiatori indocili e oltraggiosi,
Diletto dalla mensa or si riceva,
Né si schiamazzi, mentre canta un vate,
Che uguale ai numi stessi è nella voce.
Ma, riapparsa la bell’alba, tutti
Nel Foro aduneremci, ov’io dirovvi
Senza paura, che di qua sgombriate;
Che gavazziate altrove; che l’un l’altro
Inviti alla sua volta, e il suo divori.
Che se disfare impunemente un solo
Vi par meglio, seguite. Io dell’Olimpo
Gli abitatori invocherò, né senza
Fiducia, che il Saturnio a colpe tali
Un giusto guiderdon renda, e che inulto
Tinga un dì queste mura il vostro sangue".
Morser le labbra ed inarcar le ciglia
A sì franco sermon tutti gli amanti.
E Antinoo, il figliuol d’Eupìte: "Di fermo
A ragionar, Telemaco, con sensi
Sublimi e audaci t’impararo i numi.
Guai, se il paterno scettro a te porgesse
Nella cinta dal mare Itaca, Giove!
Benché udirlo
, Telemaco riprese,
"Forse Antìnoo, t’incresca, io nol ti celo:
Riceverollo dalla man di Giove.
Parrìati una sventura? Il più infelice
Dal mio lato io non credo in fra i mortali
Chi re diventa. Di ricchezza il tetto
Gli splende tosto, e più onorato ei vanne.
Ma la cinta dal mare Itaca molti
Sì di canuto pel, come di biondo,
Chiude, oltre Antìnoo, che potran regnarla,
Quando sotterra dimorasse il padre.
Non però ci vivrà chi del palagio
La signorìa mi tolga, e degli schiavi,
Che a me solo acquistò l’invitto Ulisse".
Eurìmaco di Pòlibo allor surse:
"Qual degli Achei sarà d’Itaca il rege,
Posa de’ numi onnipossenti in grembo.
Di tua magion tu il sei; né de’ tuoi beni,
Finché in Itaca resti anima viva,
Spogliarti uomo ardirà. Ma dimmi, o buono,
Chi è quello stranier? Dond’ei partissi?
Di qual terra si gloria e di qual ceppo?
Del padre non lontan forse il ritorno
T’annunzia? o venne in questi luoghi antico
Debito a dimandar? Come disparve
Ratto! come parea da noi celarsi!
Certo d’uom vile non avea l’aspetto".
Ah
, ripigliò il garzon, "del genitore
Svanì, figlio di Pòlibo, il ritorno!
Giungano ancor novelle, altri indovini
L’avida madre nel palagio accolga;
Né indovin più, né più novelle io curo.
Ospite mio paterno è il forestiere,
Di Tafo, Mente, che figliuol si vanta
Del bellicoso Anchìalo, e ai Tafi impera".
Tal rispondea: ma del suo cor nel fondo
La calata dal ciel dea riconobbe.
I proci, al ballo ed al soave canto
Rivolti, trastullavansi, aspettando
Il buio della notte. Della notte
Lor sopravvenne il buio, e ai tetti loro
Negli occhi il sonno ad accettar n’andàro.
Telemaco a corcarsi, ove secreta
Stanza da un lato del cortil superbo
Per lui costrutta, si spiccava all’aura,
Salse, agitando molte cose in mente.
E con accese in man lucide faci
Il seguiva Euriclèa, l’onesta figlia
D’Opi di Pisenór, che già Laerte
Col prezzo comperò di venti tori,
Quando fiorìale giovinezza in volto:
Né cara men della consorte l’ebbe,
Benché temendo i coniugali sdegni,
Del toccarla giammai non s’attentasse.
Con accese il seguìa lucide faci:
Più gli portava amor ch’ogni altra serva,
Ed ella fu che il rallevò bambino.
Costei gli aprì della leggiadra stanza
La porta: sovra il letto egli s’assise,
Levò la sottil veste a sé di dosso,
E all’amorosa vecchia in man la pose,
Che piegolla con arte, e alla caviglia
L’appese, accanto il traforato letto.
Poi d’uscire affrettavasi: la porta
Si trasse dietro per l’anel d’argento;
Tirò la fune, e il chiavistello corse.
Sotto un fior molle di tessuta lana
Ei volgea nel suo cor, per quell’intera
Notte, il cammin che gli additò Minerva.
LIBRO SECONDO
Come la figlia del mattin, la bella
Dalle dita di rose Aurora surse,
Surse di letto anche il figliuol d’Ulisse,
I suoi panni vestì, sospese il brando
Per lo pendaglio all’omero, i leggiadri
Calzari strinse sotto i molli piedi
E della stanza uscì rapidamente,
Simile ad un degli Immortali in volto.
Tosto agli araldi dall’arguta voce
Chiamare impose i capelluti Achivi;
E questi, al gridar loro accorsi in fretta,
Si ragunaro, s’affollaro. Ei pure
Al parlamento s’avviò: tra mano
Stavagli un’asta di polito rame
E due bianchi il seguìan cani fedeli.
Stupìa ciascun, mentr’ei mutava il passo,
E il paterno sedil, che dai vecchioni
Gli fu ceduto, ad occupar sen gìa:
Tanta in quel punto e sì divina grazia
Sparse d’intorno a lui Pallade amica.
Chi ragionò primiero? Egizio illustre,
Che il dorso avea per l’età grande in arco,
E di vario saver ricca la mente.
Sulle navi d’Ulisse alla feconda
Di nobili destrier ventosa Troia
Andò il più caro de’ figliuoli, Antìfo;
E a lui dié morte nel cavato speco
Il Ciclope crudel, che la cruenta
S’imbandì del suo corpo ultima cena.
Tre figli al vecchio rimanean: l’un, detto
Eurìnomo, co’ proci erasi unito,
E alla coltura de’ paterni campi
Presedean gli altri due. Ma in quello, in quello,
Che più non ha, sempre s’affisa il padre,
Che nel pianto i dì passa, e che sì fatte
Parole allor, pur lagrimando, sciolse:
"O Itacesi, uditemi. Nessuna,
Dacché Ulisse levò nel mar le vele,
Qui si tenne assemblea. Chi adunò questa?
Giovane, o veglio? E a che? Primo udì forse
Di estrania gente che s’appressi armata?
O d’altro, da cui penda il ben comune,
Ci viene a favellar? Giusto ed umano
Costui, penso, esser dee. Che che s’aggiri
Per la sua mente, il favorisca Giove!
Telemaco gioìa di tali accenti,
Quasi d’ottimo augurio, e, sorto in piedi,
Ché il pungea d’arringar giovane brama,
Trasse nel mezzo, dalla man del saggio
Tra gli araldi Pisènore lo scettro
Prese, e ad Egizio indi rivolto: O
, disse,
"Buon vecchio, non è assai quinci lontano
L’uom che il popol raccolse: a te dinanzi,
Ma qual, cui punge acuta doglia, il vedi.
Non di gente che a noi s’appressi armata,
Né d’altro, da cui penda il ben comune,
Io vegno a favellarvi. A far parole
Vegno di me, d’un male, anzi di duo,
Che aspramente m’investono ad un’ora.
Il mio padre io perdei! Che dico il mio?
Popol d’Itaca, il nostro: a tutti padre,
Più assai che re, si dimostrava Ulisse.
E a questa piaga, ohimè l’altra s’arroge,
Che ogni sostanza mi si sperde, e tutta
Spiantasi dal suo fondo a me la casa.
Noioso assedio alla ritrosa madre
Poser de’ primi tra gli Achivi i figli.
Perché di farsi a Icario, e di proporgli
Trepidan tanto, che la figlia ei doti
E a consorte la dia cui più vuol bene?
L’intero dì nel mio palagio in vece
Banchettan lautamente, e il fior del gregge
Struggendo e dell’armento, e le ricolme
Della miglior vendemmia urne votando,
Vivon di me: né v’ha un secondo Ulisse,
Che sgombrar d’infra noi vaglia tal peste.
Io da tanto non son, né uguale all’opra
In me si trova esperïenza e forza.
Oh così le avess’io, com’io le bramo!
Poscia che il lor peccar varca ogni segno.
E, che più m’ange, con infamia io pero.
Deh s’accenda in voi pur nobil dispetto;
Temete il biasmo delle genti intorno;
Degl’immortali dèi, non forse cada
Delle colpe de’ proci in voi la pena,
L’ira temete. Per l’Olimpio Giove,
Per Temi, che i consigli assembra e scioglie,
Costoro, amici, d’aizzarmi contro
Restate, e me lasciate a quello in preda
Cordoglio sol, che il genitor mi reca.
Se non che forse Ulisse alcuni offese
De’ prodi Achivi, ed or s’intende i torti
Vendicarne sul figlio. E ben, voi stessi
Stendete ai beni la rapace destra:
Meglio fôra per me, quando consunti
Suppellettil da voi fóssemi e censo,
Da voi, dond’io sperar potrei restauro.
Vi assalirei per la città con blande
Parole ad uno ad un, né cesserei,
Che tutto in poter mio pria non tornasse,
E di nuovo s’ergesse in piè il mio stato.
Ma or dolori entro del petto, a cui
Non so rimedio alcun, voi mi versate.
Detto così, gittò lo scettro a terra,
Ruppe in lagrime d’ira e viva corse
Di core in cor nel popolo pietade.
Ma taciturni, immoti, e non osando
Telemaco ferir d’una risposta,
Tutti stavano i proci. Antìnoo solo
Sorse e arringò: "Telemaco, a cui bolle
Nel petto rabbia che il tuo dir sublìma,
Quai parole parlasti ad onta nostra?
Improntar sovra noi macchia sì nera?
Non i migliori degli Achei: la cara
Tua madre e l’arti, ond’è maestra, incolpa.
Già il terzo anno si volse, e or gira il quarto,
Che degli amanti suoi prendesi gioco;
Tutti di speme e d’impromesse allatta,
Manda messaggi a tutti, ed altro ha in core.
Tela sottile, tela grande, immensa,
Questo ancor non pensò novello inganno?
A oprar si mise, e a sé chiamonne, e disse:
"Giovani, amanti miei, tanto vi piaccia,
Poiché già Ulisse tra i defunti scese,
Le mie nozze indugiar, ch’io questo possa
Lugubre ammanto per l’eroe Laerte,
Acciò le fila inutili io non perda,
Prima fornir, che l’inclemente Parca,
Di lunghi sonni apportatrice, il colga.
Non vo’ che alcuna delle Achee mi morda,
Se ad uom, che tanto avea d’arredi vivo,
Fallisse un drappo in cui giacersi estinto".
Con simil fola leggermente vinse
Gli animi nostri generosi. Intanto,
Finché il giorno splendea, tessea la tela
Superba, e poi la distessea la notte
Al complice chiaror di mute faci.
Così un triennio la sua frode ascose,
E deluse gli Achei. Ma come il quarto
Con le volubili ore anno sorvenne,
Noi da un’ancella non ignara instrutti,
Penelope trovammo, che la bella
Disciogliea tela ingannatrice: quindi
Compierla dové al fin, benché a dispetto.
Or, perché a te sia noto e ai Greci il tutto,
Ecco risposta che ti fanno i proci.
Accommiata la madre, e quel di loro,
Che non dispiace a Icario e a lei talenta,
A disposar costringila. Ma dove,
Le doti usando, onde la ornò Minerva,
Che man formolle così dotta e ingegno
Tanto sagace, e accorgimenti dielle,
Quali non s’udir mai né dell’antiche
Di Grecia donne dalle belle trecce,
Tiro, Alcmena, Micene, a cui le menti
Di sì fini pensier mai non fioriro;
Dove credesse lungo tempo a bada
Tenerci ancor, la sua prudenza usata
Qui l’abbandonerìa. Noi tanto il figlio
Consumerem, quanto la madre in core
Serberà questo suo, che un dio le infuse,
Strano proposto. Eterna gloria forse
A sé procaccerà, ma gran difetto
Di vettovaglia a te; mentre noi certo
Da te pensiam non istaccarci, s’ella
Quel che le aggrada più pria non impalma".
Io
, rispose Telemaco, "di casa
Colei sbandir, donde la vita io tengo?
Dal cui lattante sen pendei bambino?
Grave inoltre mi fôra, ov’io la madre
Dipartissi da me, sì ricca dote
Tornare a Icario. Cruccierìasi un giorno
L’amato genitor che forse vive,
Benché lontano, e punìrianmi i numi,
Perch’ella, slontanandosi, le odiate
Implorerìa vendicatrici Erinni.
Che le genti dirìan? No; tal congedo
Non sarà mai ch’io liberi