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Odissea: Traduzione di Ippolito Pindemonte
Odissea: Traduzione di Ippolito Pindemonte
Odissea: Traduzione di Ippolito Pindemonte
E-book544 pagine5 ore

Odissea: Traduzione di Ippolito Pindemonte

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Info su questo ebook

L’Odissea è il secondo grande poema epico, tradizionalmente attribuito a Omero. Narra delle vicende dell’eroe Ulisse (o Odisseo) dopo la fine della guerra di Troia, narrata nell’Iliade. Nel corso delle sue “peregrinazioni” Ulisse/Odisseo scende nell’Ade, approda presso i popoli dei Lotofagi e dei Feaci, incontra la bella Nausicaa, la maga Circe, la ninfa Calipso, le ammaliatrici Sirene, il ciclope Polifemo, fino all’agognato ritorno a Itaca dalla moglie Penelope e dal figlio Telemaco. Questa edizione riporta la traduzione del grande letterato Ippolito Pindemonte (1753-1828).
LinguaItaliano
Data di uscita25 nov 2020
ISBN9791220227674
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    Anteprima del libro

    Odissea - Omero

    DIGITALI

    Intro

    L’ Odissea è il secondo grande poema epico, tradizionalmente attribuito a Omero. Narra delle vicende dell’eroe Ulisse (o Odisseo) dopo la fine della guerra di Troia, narrata nell’ Iliade . Nel corso delle sue peregrinazioni Ulisse/Odisseo scende nell’Ade, approda presso i popoli dei Lotofagi e dei Feaci, incontra la bella Nausicaa, la maga Circe, la ninfa Calipso, le ammaliatrici Sirene, il ciclope Polifemo, fino all’agognato ritorno a Itaca dalla moglie Penelope e dal figlio Telemaco. Questa edizione riporta la traduzione del grande letterato Ippolito Pindemonte (1753-1828).

    ODISSEA

    TRADUZIONE DI IPPOLITO PINDEMONTE

    LIBRO PRIMO

    Musa, quell’uom di multiforme ingegno

    Dimmi, che molto errò, poich’ebbe a terra

    Gittate d’Ilïòn le sacre torri;

    Che città vide molte, e delle genti

    L’indol conobbe; che sovr’esso il mare

    Molti dentro del cor sofferse affanni,

    Mentre a guardar la cara vita intende,

    E i suoi compagni a ricondur: ma indarno

    Ricondur desïava i suoi compagni,

    Ché delle colpe lor tutti periro.

    Stolti! che osaro vïolare i sacri

    Al Sole Iperïon candidi buoi

    Con empio dente, ed irritâro il nume,

    Che del ritorno il dì lor non addusse.

    Deh! parte almen di sì ammirande cose

    Narra anco a noi, di Giove figlia e diva.

    Già tutti i Greci, che la nera Parca

    Rapiti non avea, ne’ loro alberghi

    Fuor dell’arme sedeano e fuor dell’onde;

    Sol dal suo regno e dalla casta donna

    Rimanea lungi Ulisse: il ritenea

    Nel cavo sen di solitarie grotte

    La bella venerabile Calipso,

    Che unirsi a lui di maritali nodi

    Bramava pur, ninfa quantunque e diva.

    E poiché giunse al fin, volvendo gli anni,

    La destinata dagli dèi stagione

    Del suo ritorno, in Itaca, novelle

    Tra i fidi amici ancor pene durava.

    Tutti pietà ne risentìan gli eterni,

    Salvo Nettuno, in cui l’antico sdegno

    Prima non si stancò, che alla sua terra

    Venuto fosse il pellegrino illustre.

    Ma del mondo ai confini e alla remota

    Gente degli Etïòpi (in duo divisa,

    Ver cui quinci il sorgente ed il cadente

    Sole gli obbliqui rai quindi saetta)

    Nettun condotto a un’ecatombe s’era

    Di pingui tori e di montoni; ed ivi

    Rallegrava i pensieri, a mensa assiso.

    In questo mezzo gli altri dèi raccolti

    Nella gran reggia dell’olimpio Giove

    Stavansi. E primo a favellar tra loro

    Fu degli uomini il padre e de’ celesti,

    Che il bello Egisto rimembrava, a cui

    Tolto avea di sua man la vita Oreste,

    L’inclito figlio del più vecchio Atride.

    Poh! disse Giove, "incolperà l’uom dunque

    Sempre gli dèi? Quando a sé stesso i mali

    Fabbrica, de’ suoi mali a noi dà carco,

    E la stoltezza sua chiama destino.

    Così, non tratto dal destino, Egisto

    Disposó d’Agamennone la donna,

    E lui, da Troia ritornato, spense;

    Benché conscio dell’ultima ruina

    Che l’Argicida esplorator Mercurio,

    Da noi mandato, prediceagli: "Astienti

    Dal sangue dell’Atride, ed il suo letto

    Guàrdati di salir; ché alta vendetta

    Ne farà Oreste, come il volto adorni

    Della prima lanuggine e lo sguardo

    Verso il retaggio de’ suoi padri volga".

    Ma questi di Mercurio utili avvisi

    Colui nell’alma non accolse: quindi

    Pagò il fio d’ogni colpa in un sol punto".

    "Di Saturno figliuol, padre de’ numi,

    Re de’ regnanti", così a lui rispose

    L’occhiazzurra Minerva: "egli era dritto

    Che colui non vivesse: in simil foggia

    Pera chïunque in simil foggia vive!

    Ma io di doglia per l’egregio Ulisse

    Mi struggo, lasso! che, da’ suoi lontano,

    Giorni conduce di rammarco in quella

    Isola, che del mar giace nel cuore,

    E di selve nereggia; isola, dove

    Soggiorna entro alle sue celle secrete

    L’immortal figlia di quel saggio Atlante,

    Che del mar tutto i più riposti fondi

    Conosce e regge le colonne immense

    Che la volta sopportano del cielo.

    Pensoso, inconsolabile, l’accorta ninfa il ritiene e con soavi e molli

    Parolette carezzalo, se mai

    Potesse Itaca sua trargli dal petto:

    Ma ei non brama che veder dai tetti

    Sbalzar della sua dolce Itaca il fumo,

    E poi chiuder per sempre al giorno i lumi.

    Né commuovere, Olimpio, il cuor ti senti?

    Grati d’Ulisse i sagrifici, al greco

    Navile appresso, ne’ troiani campi,

    Non t’eran forse? Onde rancor sì fiero,

    Giove, contra lui dunque in te s’alletta?"

    "Figlia, qual ti lasciasti uscir parola

    Dalla chiostra de’ denti?" allor riprese

    L’eterno delle nubi addensatore:

    "Io l’uom preclaro disgradir, che in senno

    Vince tutti i mortali, e gl’Immortali

    Sempre onorò di sacrifici opìmi?

    Nettuno, il nume che la terra cinge,

    D’infurïar non resta pel divino

    Suo Polifemo, a cui lo scaltro Ulisse

    Dell’unic’occhio vedovò la fronte,

    Benché possente più d’ogni Ciclope:

    Pel divin Polifemo, che Toòsa

    Partorì al nume, che pria lei soletta

    Di Forco, re degl’infecondi mari,

    Nelle cave trovò paterne grotte.

    Lo scuotitor della terrena mole

    Dalla patria il disvia da quell’istante,

    E, lasciandolo in vita, a errar su i neri

    Flutti lo sforza. Or via, pensiam del modo

    Che l’infelice rieda; e che Nettuno

    L’ire deponga. Pugnerà con tutti

    Gli eterni ei solo? Il tenterebbe indarno."

    "Di Saturno figliuol, padre de’ numi,

    De’ regi re," replicò a lui la diva

    Cui tinge gli occhi un’azzurrina luce,

    "Se il ritorno d’Ulisse a tutti aggrada,

    Ché non s’invìa nell’isola d’Ogige

    L’ambasciator Mercurio, il qual veloce

    Rechi alla ninfa dalle belle trecce,

    Com’è fermo voler de’ sempiterni

    Che Ulisse alfine il natìo suol rivegga?

    Scesa in Itaca intanto, animo e forza

    Nel figlio io spirerò, perch’ei, chiamati

    Gli Achei criniti a parlamento, imbrigli

    Que’ proci baldi, che nel suo palagio

    L’intero gregge sgòzzangli, e l’armento

    Dai piedi torti e dalle torte corna.

    Ciò fatto, a Pilo io manderollo e a Sparta,

    Acciocché sappia del suo caro padre,

    Se udirne gli avvenisse in qualche parte,

    Ed anch’ei fama, vïaggiando, acquisti."

    Detto così, sotto l’eterne piante

    Si strinse i bei talar d’oro, immortali,

    Che lei sul mar, lei su l’immensa terra

    Col soffio trasportavano del vento.

    Poi la grande afferrò lancia pesante,

    Forte, massiccia, di appuntato rame

    Guernita in cima, onde le intere doma

    Falangi degli eroi, con cui si sdegna,

    E a cui sentir fa di qual padre è nata.

    Dagli alti gioghi del beato Olimpo

    Rapidamente in Itaca discese.

    Si fermò all’atrio del palagio in faccia,

    Del cortil su la soglia, e le sembianze

    Vesti di Mente, il condottier de’ Tafî.

    La forbita in sua man lancia sfavilla.

    Nel regale atrio, e su le fresche pelli

    Degli uccisi da lor pingui giovenchi

    Sedeano, e trastullavansi tra loro

    Con gli schierati combattenti bossi

    Della Regina i mal vissuti drudi.

    Trascorrean qua e là serventi e araldi

    Frattanto: altri mescean nelle capaci

    Urne l’umor dell’uva e il fresco fonte.

    Altri le mense con forata e ingorda

    Spugna tergeano, e le metteano innanzi,

    E le molte partìan fumanti carni.

    Simile a un dio nella beltà, ma lieto

    Non già dentro del sen, sedea tra i proci

    Telemaco: mirava entro il suo spirto

    L’inclito genitor, qual s’ei, d’alcuna

    Parte spuntando, a sbaragliar si desse

    Per l’ampia sala gli abborriti prenci,

    E l’onor prisco a ricovrar e il regno.

    Fra cotali pensier Pallade scorse,

    Né soffrendogli il cor che lo straniero

    A cielo aperto lungamente stesse,

    Dritto uscì fuor, s’accostò ad essa, prese

    Con una man la sua, con l’altra l’asta,

    E queste le drizzò parole alate:

    "Forestier, salve. Accoglimento amico

    Tu avrai, sporrai le brame tue: ma prima

    Vieni i tuoi spirti a rinfrancar col cibo".

    Ciò detto, innanzi andava, ed il seguìa

    Minerva. Entrati nell’eccelso albergo,

    Telemaco portò l’asta, e appoggiolla

    A sublime colonna, ove, in astiera,

    Nitida, molte dell’invitto Ulisse

    Dormiano arme simìli. Indi a posarsi

    Su nobil seggio con sgabello ai piedi

    La dea menò, stesovi sopra un vago

    Tappeto ad arte intesto; e un varïato

    Scanno vicin di lei pose a sé stesso.

    Così, scevri ambo dagli arditi proci,

    Quell’impronto frastuon l’ospite a mensa

    Non disagiava, e dell’assente padre

    Telemaco potea cercarlo a un tempo.

    Ma scorta ancella da bel vaso d’oro

    Purissim’onda nel bacil d’argento

    Versava, e stendea loro un liscio desco,

    Su cui la saggia dispensiera i pani

    Venne a impor candidissimi, e di pronte

    Dapi serbate generosa copia;

    E carni d’ogni sorta in larghi piatti

    Recò l’abile scalco, ed auree tazze,

    Che, del succo de’ grappoli ricolme,

    Lor presentava il banditor solerte.

    Entraro i proci, ed i sedili e i troni

    Per ordine occuparo: acqua gli araldi

    Diero alle mani, e di recente pane

    I ritondi canestri empièr le ancelle.

    Ma in quel che i proci all’imbandito pasto

    Stendean la man superba, incoronaro

    Di vermiglio licor l’urne i donzelli.

    Tosto che in lor del pasteggiar fu pago,

    Pago del bere il natural talento,

    Volgeano ad altro il core: al canto e al ballo

    Che gli ornamenti son d’ogni convito.

    Ed un’argentea cetera l’araldo

    Porse al buon Femio, che per forza il canto

    Tra gli amanti sciogliea. Mentr’ei le corde

    Ne ricercava con maestre dita,

    Telemaco, piegando in vêr la dea,

    Sì che altri udirlo non potesse, il capo,

    Le parlava in tal guisa: "Ospite caro,

    Ti sdegnerai se l’alma io t’apro? In mente

    Non han costor che suoni e canti. Il credo!

    Siedono impune agli altrui deschi, ai deschi

    Di tal, le cui bianche ossa in qualche terra

    Giacciono a imputridir sotto la pioggia,

    O le volve nel mare il negro flutto.

    Ma s’egli mai lor s’affacciasse un giorno,

    Ben più che in dosso i ricchi panni e l’oro,

    Aver l’ali vorrebbero alle piante.

    Vani desìri! Una funesta morte

    Certo ei trovò, speme non resta, e invano

    Favellariami alcun del suo ritorno;

    Del suo ritorno il dì più non s’accende.

    Su via, ciò dimmi, e non m’asconder nulla:

    Chi? di che loco? e di che sangue sei?

    Con quai nocchier venìstu, e per qual modo

    E su qual nave, in Itaca? Pedone

    Giunto, per alcun patto io non ti credo.

    Di questo tu mi contenta: nuovo

    Giungi, o al mio genitor t’unisce il nodo

    Dell’ospitalità? Molti stranieri

    A’ suoi tetti accostavansi; ché Ulisse

    Voltava in sé d’ogni mortale il core".

    Tutto da me, gli rispondea la diva

    Che cerùleo splendor porta negli occhi,

    T’udrai narrare. Io Mente esser mi vanto,

    Figliuol d’Anchìalo bellicoso, e ai vaghi

    Del trascorrere il mar Tafî comando.

    Con nave io giunsi e remiganti miei,

    Fendendo le salate onde, vêr gente

    D’altro linguaggio, e a Temesa recando

    Ferro brunito per temprato rame,

    Ch’io ne trarrò. Dalla città lontano

    Fermossi e sotto il Neo frondichiomoso,

    Nella baia di Retro il mio naviglio.

    Sì, d’ospitalità vincol m’unisce

    Col padre tuo. Chieder ne puoi l’antico,

    Ristringendoti seco, eroe Laerte,

    Che a città, com’è fama, or più non viene;

    Ma vita vive solitaria e trista

    Ne’ campi suoi, con vecchierella fante,

    Che, quandunque tornar dalla feconda

    Vigna, per dove si trae a stento, il vede,

    Di cibo il riconforta e di bevanda.

    Me qua condusse una bugiarda voce,

    Fosse il tuo padre di Itaca, da cui

    Stornanlo i numi ancor; ché tra gli estinti

    L’illustre pellegrin, no, non comparve,

    Ma vivo, e a forza in barbara contrada,

    Cui cerchia un vasto mar, gente crudele

    Rattienlo: lo rattien gente crudele

    Vivo, ed a forza in barbara contrada.

    Pur, benché il vanto di profeta, o quello

    D’augure insigne io non m’arroghi, ascolta

    Presagio non fallace che su i labbri

    Mettono a me gli eterni. Ulisse troppo

    Non rimarrà della sua patria in bando,

    Lo stringessero ancor ferrei legami.

    Da quai legami uom di cotanti ingegni

    Disvilupparsi non sapria? Ma schietto

    Parla: sei tu vera sua prole? Certo

    Nel capo e ne’ leggiadri occhi ad Ulisse

    Molto arïeggi tu. Pria che per Troia,

    Che tutto a sé chiamò di Grecia il fiore,

    Sciogliesse anch’ei su le cavate navi,

    Io, come oggi appo il tuo, così sedea

    Spesse volte al suo fianco, ed egli al mio.

    D’allora io non più lui, né me vid’egli".

    E il prudente Telemaco: "Sincero

    Risponderò. Me di lui nato afferma

    La madre veneranda. E chi fu mai

    Che per sé stesso conoscesse il padre?

    Oh foss’io figlio d’un che una tranquilla

    Vecchiezza côlto ne’ suoi tetti avesse!

    Ma, poiché tu mel chiedi, al più infelice

    Degli uomini la vita, ospite, io deggio".

    Se ad Ulisse Penelope, riprese

    Pallade allor dalle cilestre luci,

    "Ti generò, vollero i dèi che gisse

    Chiaro il tuo nome ai secoli più tardi.

    Garzon, dal ver non ti partir: che festa,

    Che turba è qui? Qual ti sovrasta cura?

    Convito? Nozze? Genial non parmi

    A carco di ciascun mensa imbandita.

    Parmi banchetto sì oltraggioso e turpe,

    Che mirarlo, e non irne in foco d’ira,

    Mal può chïunque un’alma in petto chiuda".

    Ed il giovane a lui: "Quando tu brami

    Saper cotanto delle mie vicende,

    Abbi che al mondo non fu mai di questa

    Né ricca più, né più innocente casa,

    Finché quell’uomo il piè dentro vi tenne.

    Ma piacque altro agli dèi, che, divisando

    Sinistri eventi, per le vie più oscure,

    Quel che mi cuoce più, sparir mel fêro.

    Piangerei, sì, ma di dolcezza vôto

    Non fôra il lagrimar, s’ei presso a Troia

    Cadea pugnando, o vincitor chiudea

    Tra i suoi più cari in Itaca le ciglia.

    Alzato avriangli un monumento i Greci,

    Che di gloria immortale al figlio ancora

    Stato sarebbe. Or lui le crude Arpìe

    Ignobilmente per lo ciel rapiro:

    Perì non visto, non udito, e al figlio

    Sol di sturbi e di guai lasciò retaggio.

    Ché lui solo io non piango: altre e non poche

    Mi fabbricaro i numi acerbe cose.

    Quanti ha Dulichio e Samo e la boscosa

    Zacinto, e la pietrosa Itaca prenci,

    Ciascun la destra della madre agogna.

    Ella né rigettar può, né fermare

    Le inamabili nozze. Intanto i proci,

    Da mane a sera banchettando, tutte

    Le sostanze mi struggono e gli averi;

    Né molto andrà che struggeran me stesso".

    S’intenerì Minerva, e: Oh quanto, disse,

    "A te bisogna il genitor, che metta

    La ultrice man su i chieditori audaci!

    Sol ch’ei con elmo e scudo, e con due lance

    Sul limitar del suo palagio appena

    Si presentasse, quale io prima il vidi,

    Che, ritornato d’Efira, alla nostra

    Mensa ospital si giocondava assiso,

    (Ratto ad Efira andò chiedendo ad Ilo,

    Di Mèrmero al figliuol, velen mortale,

    Onde le frecce unger volea, veleno

    Che non dal Mermerìde, in cui de’ numi

    Era grande il timor, ma poscia ottenne

    Dal padre mio, che fieramente ammollo)

    Sol ch’ei così si presentasse armato,

    De’ proci non sarìa, cui non tornasse

    Breve la vita e il maritaggio amaro.

    Ma venir debba di sì trista gente

    A vendicarsi o no, su le ginocchia

    Sta degli dèi. Ben di sgombrarla quinci,

    Vuolsi l’arte pensare. Alle mie voci

    Porrai tu mente? Come il ciel s’inalbi,

    De’ Greci i capi a parlamento invita,

    Ragiona franco ad essi e al popol tutto,

    Chiamando i numi in testimonio, e ai proci

    Nelle lor case rientrare ingiungi.

    La madre, ove desìo di nuove nozze

    Nutra, ripari alla magion d’Icario,

    Che ordinerà le sponsalizie, e ricca

    Dote apparecchierà, quale a diletta

    Figliuola è degno che largisca un padre.

    Tu poi, se non ricusi un saggio avviso

    Ch’io ti porgo, seguir, la meglio nave

    Di venti e forti remator guernisci,

    E, del tuo genitor molt’anni assente

    Novelle a procacciarti, alza le vele.

    Troverai forse chi ten parli chiaro,

    O quella udrai voce fortuita, in cui

    Spesso il cercato ver Giove nasconde.

    Proa vanne a Pilo, e interroga l’antico

    Nestore; Sparta indi t’accolga, e il prode

    Menelao biondo, che dall’arsa Troia

    Tra i loricati Achivi ultimo giunse.

    Vive, ed è Ulisse, in sul ritorno? Un anno,

    Benché dolente, sosterrai. Ma, dove

    Lo sapessi tra l’ombre, in patria riedi,

    E qui gli ergi un sepolcro, e i più solenni

    Rendigli, qual s’addice, onor funébri,

    E alla madre presenta un altro sposo.

    Dopo ciò, studia per qual modo i proci

    Con l’inganno tu spegna, o alla scoperta;

    Ché de’ trastulli il tempo e de’ balocchi

    Passò, ed uscito di pupillo sei.

    Non odi tu levare Oreste al cielo,

    Dappoi che uccise il fraudolento Egisto,

    Che il genitor famoso aveagli morto?

    Me la mia nave aspetta e i miei compagni,

    Cui forse incresce questo indugio. Amico,

    Di te stesso a te caglia, e i miei sermoni,

    Converti in opre: d’un eroe l’aspetto

    Ti veggio: abbine il core, acciò risuoni

    Forte ne’ dì futuri anco il tuo nome".

    Voci paterne son, non che benigne,

    D’Ulisse il figlio ripigliava, ed io

    Guarderolle nel sen tutti i miei giorni.

    Ma tu, per fretta che ti punga, tanto

    Férmati almen, che in tepidetto bagno

    Entri, e conforti la dolce alma, e lieto,

    Con un mio dono in man, torni alla nave:

    Don prezïoso per materia ed arte,

    Che sempre in mente mi ti serbi; dono

    Non indegno d’un ospite che piacque".

    No, di partir mi tarda, a lui rispose

    L’occhicerulea diva. "Il bel presente

    Allor l’accetterò, che, questo mare

    Rinavigando, per ripormi in Tafo,

    T’offrirò un dono anch’io che al tuo non ceda".

    Così la dea dagli occhi glauchi; e, forza

    Infondendogli e ardire, e a lui nel petto

    La per sé viva del suo padre imago

    Ravvivando più ancora, alto levossi,

    E veloce, com’aquila, disparve.

    Da maraviglia, poiché seco in mente

    Ripeté il tutto, e s’avvisò del nume,

    Telemaco fu preso. Indi, già fatto

    Di sé stesso maggior, venne tra i proci.

    Taciti sedean questi, e nell’egregio

    Vate conversi tenean gli occhi; e il vate

    Quel difficil ritorno, che da Troia

    Pallade ai Greci destinò crucciata,

    Della cetra d’argento al suon cantava.

    Nelle superne vedovili stanze

    Penelope, d’Icario la prudente

    Figlia, raccolse il divin canto, e scese

    Per l’alte scale al basso, e non già sola,

    Ché due seguìanla vereconde ancelle.

    Non fu de’ proci nel cospetto giunta,

    Che s’arrestò della dedalea sala

    L’ottima delle donne in su la porta,

    Lieve adombrando l’una e l’altra gota

    Co’ bei veli del capo, e tra le ancelle

    Al sublime cantor gli accenti volse:

    Femio, diss’ella, e lagrimava, "Femio,

    Bocca divina, non hai tu nel petto

    Storie infinite ad ascoltar soavi,

    Di mortali e di numi imprese altere,

    Per cui toccan la cetra i sacri vati?

    Narra di quelle, e taciturni i prenci

    Le colme tazze vôtino; ma cessa

    Canzon molesta che mi spezza il cuore,

    Sempre che tu la prendi in su le corde;

    Il cuor, cui doglia, qual non mai da donna

    Provossi, invase, mentre aspetto indarno

    Cotanti anni un eroe, che tutta empiéo

    Del suo nome la Grecia, e ch’è il pensiero

    De’ giorni miei, delle mie notti è il sogno."

    O madre mia, Telemaco rispose,

    "Lascia il dolce cantor, che c’innamora,

    Là gir co’ versi, dove l’estro il porta.

    I guai, che canta, non li crea già il vate:

    Giove li manda, ed a cui vuole e quando.

    Perché Femio racconti i tristi casi

    De’ Greci, biasmo meritar non parmi;

    Ché, quanto agli uditor giunge più nuova,

    Tanto più loro aggrada ogni canzone.

    Udirlo adunque non ti gravi, e pensa

    Che del ritorno il dì Troia non tolse

    Solo ad Ulisse: d’altri eroi non pochi

    Fu sepolcro comune. Or tu risali

    Nelle tue stanze, ed ai lavori tuoi,

    Spola e conocchia, intendi; e alle fantesche

    Commetti, o madre, travagliar di forza.

    Il favellar tra gli uomini assembrati

    Cura è dell’uomo, e in questi alberghi mia

    Più che d’ogni altro; però ch’io qui reggo".

    Stupefatta rimase, e, del figliuolo

    Portando in mezzo l’alma il saggio detto,

    Nelle superne vedovili stanze

    Ritornò con le ancelle. Ulisse a nome

    Lassù chiamava, il fren lentando al pianto.

    Finché inviolle l’occhiglauca Palla,

    Sopitor degli affanni, un sonno amico.

    I drudi, accesi, via più ancor che prima,

    Del desìo delle nozze a quella vista,

    Tumulto fean per l’oscurata sala.

    E Telemaco ad essi: "O della madre

    Vagheggiatori indocili e oltraggiosi,

    Diletto dalla mensa or si riceva,

    Né si schiamazzi, mentre canta un vate,

    Che uguale ai numi stessi è nella voce.

    Ma, riapparsa la bell’alba, tutti

    Nel Foro aduneremci, ov’io dirovvi

    Senza paura, che di qua sgombriate;

    Che gavazziate altrove; che l’un l’altro

    Inviti alla sua volta, e il suo divori.

    Che se disfare impunemente un solo

    Vi par meglio, seguite. Io dell’Olimpo

    Gli abitatori invocherò, né senza

    Fiducia, che il Saturnio a colpe tali

    Un giusto guiderdon renda, e che inulto

    Tinga un dì queste mura il vostro sangue".

    Morser le labbra ed inarcar le ciglia

    A sì franco sermon tutti gli amanti.

    E Antinoo, il figliuol d’Eupìte: "Di fermo

    A ragionar, Telemaco, con sensi

    Sublimi e audaci t’impararo i numi.

    Guai, se il paterno scettro a te porgesse

    Nella cinta dal mare Itaca, Giove!

    Benché udirlo, Telemaco riprese,

    "Forse Antìnoo, t’incresca, io nol ti celo:

    Riceverollo dalla man di Giove.

    Parrìati una sventura? Il più infelice

    Dal mio lato io non credo in fra i mortali

    Chi re diventa. Di ricchezza il tetto

    Gli splende tosto, e più onorato ei vanne.

    Ma la cinta dal mare Itaca molti

    Sì di canuto pel, come di biondo,

    Chiude, oltre Antìnoo, che potran regnarla,

    Quando sotterra dimorasse il padre.

    Non però ci vivrà chi del palagio

    La signorìa mi tolga, e degli schiavi,

    Che a me solo acquistò l’invitto Ulisse".

    Eurìmaco di Pòlibo allor surse:

    "Qual degli Achei sarà d’Itaca il rege,

    Posa de’ numi onnipossenti in grembo.

    Di tua magion tu il sei; né de’ tuoi beni,

    Finché in Itaca resti anima viva,

    Spogliarti uomo ardirà. Ma dimmi, o buono,

    Chi è quello stranier? Dond’ei partissi?

    Di qual terra si gloria e di qual ceppo?

    Del padre non lontan forse il ritorno

    T’annunzia? o venne in questi luoghi antico

    Debito a dimandar? Come disparve

    Ratto! come parea da noi celarsi!

    Certo d’uom vile non avea l’aspetto".

    Ah, ripigliò il garzon, "del genitore

    Svanì, figlio di Pòlibo, il ritorno!

    Giungano ancor novelle, altri indovini

    L’avida madre nel palagio accolga;

    Né indovin più, né più novelle io curo.

    Ospite mio paterno è il forestiere,

    Di Tafo, Mente, che figliuol si vanta

    Del bellicoso Anchìalo, e ai Tafi impera".

    Tal rispondea: ma del suo cor nel fondo

    La calata dal ciel dea riconobbe.

    I proci, al ballo ed al soave canto

    Rivolti, trastullavansi, aspettando

    Il buio della notte. Della notte

    Lor sopravvenne il buio, e ai tetti loro

    Negli occhi il sonno ad accettar n’andàro.

    Telemaco a corcarsi, ove secreta

    Stanza da un lato del cortil superbo

    Per lui costrutta, si spiccava all’aura,

    Salse, agitando molte cose in mente.

    E con accese in man lucide faci

    Il seguiva Euriclèa, l’onesta figlia

    D’Opi di Pisenór, che già Laerte

    Col prezzo comperò di venti tori,

    Quando fiorìale giovinezza in volto:

    Né cara men della consorte l’ebbe,

    Benché temendo i coniugali sdegni,

    Del toccarla giammai non s’attentasse.

    Con accese il seguìa lucide faci:

    Più gli portava amor ch’ogni altra serva,

    Ed ella fu che il rallevò bambino.

    Costei gli aprì della leggiadra stanza

    La porta: sovra il letto egli s’assise,

    Levò la sottil veste a sé di dosso,

    E all’amorosa vecchia in man la pose,

    Che piegolla con arte, e alla caviglia

    L’appese, accanto il traforato letto.

    Poi d’uscire affrettavasi: la porta

    Si trasse dietro per l’anel d’argento;

    Tirò la fune, e il chiavistello corse.

    Sotto un fior molle di tessuta lana

    Ei volgea nel suo cor, per quell’intera

    Notte, il cammin che gli additò Minerva.

    LIBRO SECONDO

    Come la figlia del mattin, la bella

    Dalle dita di rose Aurora surse,

    Surse di letto anche il figliuol d’Ulisse,

    I suoi panni vestì, sospese il brando

    Per lo pendaglio all’omero, i leggiadri

    Calzari strinse sotto i molli piedi

    E della stanza uscì rapidamente,

    Simile ad un degli Immortali in volto.

    Tosto agli araldi dall’arguta voce

    Chiamare impose i capelluti Achivi;

    E questi, al gridar loro accorsi in fretta,

    Si ragunaro, s’affollaro. Ei pure

    Al parlamento s’avviò: tra mano

    Stavagli un’asta di polito rame

    E due bianchi il seguìan cani fedeli.

    Stupìa ciascun, mentr’ei mutava il passo,

    E il paterno sedil, che dai vecchioni

    Gli fu ceduto, ad occupar sen gìa:

    Tanta in quel punto e sì divina grazia

    Sparse d’intorno a lui Pallade amica.

    Chi ragionò primiero? Egizio illustre,

    Che il dorso avea per l’età grande in arco,

    E di vario saver ricca la mente.

    Sulle navi d’Ulisse alla feconda

    Di nobili destrier ventosa Troia

    Andò il più caro de’ figliuoli, Antìfo;

    E a lui dié morte nel cavato speco

    Il Ciclope crudel, che la cruenta

    S’imbandì del suo corpo ultima cena.

    Tre figli al vecchio rimanean: l’un, detto

    Eurìnomo, co’ proci erasi unito,

    E alla coltura de’ paterni campi

    Presedean gli altri due. Ma in quello, in quello,

    Che più non ha, sempre s’affisa il padre,

    Che nel pianto i dì passa, e che sì fatte

    Parole allor, pur lagrimando, sciolse:

    "O Itacesi, uditemi. Nessuna,

    Dacché Ulisse levò nel mar le vele,

    Qui si tenne assemblea. Chi adunò questa?

    Giovane, o veglio? E a che? Primo udì forse

    Di estrania gente che s’appressi armata?

    O d’altro, da cui penda il ben comune,

    Ci viene a favellar? Giusto ed umano

    Costui, penso, esser dee. Che che s’aggiri

    Per la sua mente, il favorisca Giove!

    Telemaco gioìa di tali accenti,

    Quasi d’ottimo augurio, e, sorto in piedi,

    Ché il pungea d’arringar giovane brama,

    Trasse nel mezzo, dalla man del saggio

    Tra gli araldi Pisènore lo scettro

    Prese, e ad Egizio indi rivolto: O, disse,

    "Buon vecchio, non è assai quinci lontano

    L’uom che il popol raccolse: a te dinanzi,

    Ma qual, cui punge acuta doglia, il vedi.

    Non di gente che a noi s’appressi armata,

    Né d’altro, da cui penda il ben comune,

    Io vegno a favellarvi. A far parole

    Vegno di me, d’un male, anzi di duo,

    Che aspramente m’investono ad un’ora.

    Il mio padre io perdei! Che dico il mio?

    Popol d’Itaca, il nostro: a tutti padre,

    Più assai che re, si dimostrava Ulisse.

    E a questa piaga, ohimè l’altra s’arroge,

    Che ogni sostanza mi si sperde, e tutta

    Spiantasi dal suo fondo a me la casa.

    Noioso assedio alla ritrosa madre

    Poser de’ primi tra gli Achivi i figli.

    Perché di farsi a Icario, e di proporgli

    Trepidan tanto, che la figlia ei doti

    E a consorte la dia cui più vuol bene?

    L’intero dì nel mio palagio in vece

    Banchettan lautamente, e il fior del gregge

    Struggendo e dell’armento, e le ricolme

    Della miglior vendemmia urne votando,

    Vivon di me: né v’ha un secondo Ulisse,

    Che sgombrar d’infra noi vaglia tal peste.

    Io da tanto non son, né uguale all’opra

    In me si trova esperïenza e forza.

    Oh così le avess’io, com’io le bramo!

    Poscia che il lor peccar varca ogni segno.

    E, che più m’ange, con infamia io pero.

    Deh s’accenda in voi pur nobil dispetto;

    Temete il biasmo delle genti intorno;

    Degl’immortali dèi, non forse cada

    Delle colpe de’ proci in voi la pena,

    L’ira temete. Per l’Olimpio Giove,

    Per Temi, che i consigli assembra e scioglie,

    Costoro, amici, d’aizzarmi contro

    Restate, e me lasciate a quello in preda

    Cordoglio sol, che il genitor mi reca.

    Se non che forse Ulisse alcuni offese

    De’ prodi Achivi, ed or s’intende i torti

    Vendicarne sul figlio. E ben, voi stessi

    Stendete ai beni la rapace destra:

    Meglio fôra per me, quando consunti

    Suppellettil da voi fóssemi e censo,

    Da voi, dond’io sperar potrei restauro.

    Vi assalirei per la città con blande

    Parole ad uno ad un, né cesserei,

    Che tutto in poter mio pria non tornasse,

    E di nuovo s’ergesse in piè il mio stato.

    Ma or dolori entro del petto, a cui

    Non so rimedio alcun, voi mi versate.

    Detto così, gittò lo scettro a terra,

    Ruppe in lagrime d’ira e viva corse

    Di core in cor nel popolo pietade.

    Ma taciturni, immoti, e non osando

    Telemaco ferir d’una risposta,

    Tutti stavano i proci. Antìnoo solo

    Sorse e arringò: "Telemaco, a cui bolle

    Nel petto rabbia che il tuo dir sublìma,

    Quai parole parlasti ad onta nostra?

    Improntar sovra noi macchia sì nera?

    Non i migliori degli Achei: la cara

    Tua madre e l’arti, ond’è maestra, incolpa.

    Già il terzo anno si volse, e or gira il quarto,

    Che degli amanti suoi prendesi gioco;

    Tutti di speme e d’impromesse allatta,

    Manda messaggi a tutti, ed altro ha in core.

    Tela sottile, tela grande, immensa,

    Questo ancor non pensò novello inganno?

    A oprar si mise, e a sé chiamonne, e disse:

    "Giovani, amanti miei, tanto vi piaccia,

    Poiché già Ulisse tra i defunti scese,

    Le mie nozze indugiar, ch’io questo possa

    Lugubre ammanto per l’eroe Laerte,

    Acciò le fila inutili io non perda,

    Prima fornir, che l’inclemente Parca,

    Di lunghi sonni apportatrice, il colga.

    Non vo’ che alcuna delle Achee mi morda,

    Se ad uom, che tanto avea d’arredi vivo,

    Fallisse un drappo in cui giacersi estinto".

    Con simil fola leggermente vinse

    Gli animi nostri generosi. Intanto,

    Finché il giorno splendea, tessea la tela

    Superba, e poi la distessea la notte

    Al complice chiaror di mute faci.

    Così un triennio la sua frode ascose,

    E deluse gli Achei. Ma come il quarto

    Con le volubili ore anno sorvenne,

    Noi da un’ancella non ignara instrutti,

    Penelope trovammo, che la bella

    Disciogliea tela ingannatrice: quindi

    Compierla dové al fin, benché a dispetto.

    Or, perché a te sia noto e ai Greci il tutto,

    Ecco risposta che ti fanno i proci.

    Accommiata la madre, e quel di loro,

    Che non dispiace a Icario e a lei talenta,

    A disposar costringila. Ma dove,

    Le doti usando, onde la ornò Minerva,

    Che man formolle così dotta e ingegno

    Tanto sagace, e accorgimenti dielle,

    Quali non s’udir mai né dell’antiche

    Di Grecia donne dalle belle trecce,

    Tiro, Alcmena, Micene, a cui le menti

    Di sì fini pensier mai non fioriro;

    Dove credesse lungo tempo a bada

    Tenerci ancor, la sua prudenza usata

    Qui l’abbandonerìa. Noi tanto il figlio

    Consumerem, quanto la madre in core

    Serberà questo suo, che un dio le infuse,

    Strano proposto. Eterna gloria forse

    A sé procaccerà, ma gran difetto

    Di vettovaglia a te; mentre noi certo

    Da te pensiam non istaccarci, s’ella

    Quel che le aggrada più pria non impalma".

    Io, rispose Telemaco, "di casa

    Colei sbandir, donde la vita io tengo?

    Dal cui lattante sen pendei bambino?

    Grave inoltre mi fôra, ov’io la madre

    Dipartissi da me, sì ricca dote

    Tornare a Icario. Cruccierìasi un giorno

    L’amato genitor che forse vive,

    Benché lontano, e punìrianmi i numi,

    Perch’ella, slontanandosi, le odiate

    Implorerìa vendicatrici Erinni.

    Che le genti dirìan? No; tal congedo

    Non sarà mai ch’io liberi

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