Managerial Accounting 6th Edition Jiambalvo Solutions Manual
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Chapter 2
Job-Order Costing for Manufacturing and Service Companies
QUESTIONS
1. Manufacturing costs include all costs associated with the production of goods.
Examples of manufacturing costs are: labor costs of workers directly involved with
manufacturing goods, cost of all materials directly traced to products, indirect
factory labor, indirect materials used in production, depreciation of production
equipment, and depreciation of the manufacturing facility.
Nonmanufacturing costs are all costs that are not associated with the production of
goods. These typically include selling costs and general and administrative costs.
2. Product costs are assigned to goods produced. Product costs are assigned to
inventory and become an expense when inventory is sold. Period costs are not
assigned to goods produced. Period costs are identified with accounting periods
and are expensed in the period incurred.
3. Two common types of product costing systems are (1) job-order costing systems
and (2) process costing systems.
Process costing systems are used by companies that produce large numbers of
identical items passing through uniform and continuous production operations.
Process costing tends to be used by beverage companies and producers of
chemicals, paints, and plastics.
4. A job cost sheet is a form that is used to accumulate the cost of producing a job.
The job cost sheet contains information on direct materials, direct labor, and
manufacturing overhead related to a particular job.
5. Actual overhead is not known until the end of the accounting period. If managers
used actual overhead rates to apply overhead to jobs, they would have to wait until
the end of the period to determine the cost of jobs. In order to make timely
decisions, managers need to know the cost of jobs before the end of the
accounting period.
7. In highly automated companies where direct labor cost is a small part of total
manufacturing costs, it is unlikely that overhead costs vary with direct labor.
Further, in such companies, predetermined overhead rates based on direct labor
may be quite large. Thus, even a small change in labor (the allocation base) could
have a large effect on the overhead cost allocated to a job.
EXERCISES
E1. [LO 4] Managers at Company A will perceive that overhead cost allocated to jobs
increases with the amount of direct labor used. If they are evaluated on how well they
control the cost of jobs, they will try to cut back on labor, which not only reduces labor
costs but also overhead allocated to jobs they supervise. Following similar logic,
managers at Company B will cut back on machine time and managers at Company C
will make a special effort to control material costs (by reducing waste, searching for
lower prices, etc). Note that the measure of performance (reduction in job costs)
combined with the approach to allocating overhead drives managers to focus on
different factors—this is a good example of “You get what you measure!”
E3. [LO 4, 5] The predetermined overhead rate at Precision Custom Molds is $100 per
direct labor hour ($20,000,000 ÷ 200,000). Given Job 525 has 25 direct labor hours,
$2,500 of overhead would be applied to it ($100 x 25).
E4. [LO 3]
a. P d. J
b. P e. P
c. J f. J
E5. [LO 1, 2]
a. Y e. N
b. N f. Y
c. Y g. Y
d. Y h. N
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Ed egli amava e moriva. Amava e moriva come un cenobita austero, chiuso
e sepolto nella propria visione.
Si era appartato per non maledire. Lo chiamavano Pietro l’eremita, ma
senza scherno. Certe figure, certi uomini s’impongono oltre ogni
scetticismo per una loro forza morale che s’avverte a distanza, che è come il
raggio e lo splendore.
Di lui tacevano. Nessuno osava dirne cosa che non fosse a rispetto. La
malignità si ammantava di fronte al nome suo ed ogni miseria illividiva
impossente. Era stato diritto come l’antenna, sempre, e nulla poteva
adombrarlo: nè l’alito della moltitudine, nè la mala arte dei roditori. E i
roditori sentivano in Pietro Aresu un nemico imponderabile: troppo più
grande di loro e troppo lontano.
La gente amava il silenzio di quell’uomo e non avrebbe tollerato che altri lo
turbasse. L’inconscia necessità della fede, negli anni in cui ogni fede
dispariva, saliva a lui, senza parola. Tutti gli uomini col loro effimero nome,
anche quelli che pareva non sapessero altro nel mondo se non la mensa ed il
letto, sentivano ch’egli era più in alto, fra loro. Questo avveniva
tacitamente. È legge che la quercia giganteggi fra gli alberi. Pietro Aresu
aveva in sè e nel suo sdegno alcunchè di santo e di gigantesco. E la sua
grandezza non umiliava.
Valerio Aresu ripartì per le terre d’oltre mare senza aver riveduto suo padre.
L’antico dissidio che li aveva divisi e li aveva condotti a tale estremo d’ira
da rendere impossibile ogni convivenza, non era ancor morto. Poteva
risorgere al minimo accenno e porli di fronte come un tempo, senza nessuna
pace.
Era, in loro, l’anima di due età vicine e lontane, non compatibili nè
conciliabili. Meglio valeva lasciare nel sonno l’antico dolore. Chi dà alle
proprie convinzioni tutta la propria passione non sa tollerare. Tollera chi
non ama; concede chi non sa morire. Pietro Aresu vedeva questo. Il suo
giudizio non poteva scardinarsi per una sentimentalità improvvisa. Egli
portava con fierezza il proprio destino sul declinare degli anni e sapeva che
il suo gran sogno era morto. Una gente meschina agitava fosche passioni
per il mondo e le turbe ubbriache urlavano. Trascorreva una furia cieca. Il
ventre era Dio. Ad ogni altare si appostava lo scherno dei distruttori. Nulla
più era bello e grande, nulla si imponeva, convinceva e innalzava l’anima
impetuosa a una insolita virtù di amore.
Odiare, vivere, bestemmiare era la divisa dell’idolo fallico, ebbro della sua
bruta potenza. Decaduto ogni valor morale, la gran bestia non vedeva che la
sua mangiatoia. Per difender la vita la si impantanava. Tutto era tratto al
giudizio dei retori, alle scuole di una scienza cieca, alla gazzarra dei
trionfatori. Ogni mediocrità si paludava in manti imperatorî; ogni
imparaticcio era speso per buona sapienza; ogni miseria gabellata per virtù
fondamentale. La critica imperava e con lei la gioia del demolire. Le
demenze più sciocche si scatenavano a furia e tutto era sepolto sotto le
scorie dei roditori.
Ora chi scendeva, esule, da un’età dolce di amore e di gloria, non poteva
piegarsi alla realtà quotidiana. Le anime grandi non tramutano e non
s’adattano. Di fronte a tale verità egli aveva scelto per la seconda volta la
sua solitudine. E portava il suo dolore di padre come l’altro grande dolore
inespresso, lo portava in silenzio aspettando la morte. Non aveva rimproveri
per Valerio: lo giudicava travolto dalla corrente. Solo, nonostante gli anni
trascorsi, sentiva l’amaro della cieca irriverenza di lui, della sua vana
protervia, del suo giudizio meschino e reciso. Tutta l’anima di Pietro Aresu
si era ribellata violentemente allora, e ne fremeva tuttavia.
Così nulla mutò. I due monti lontani vegliarono la notte, muti e dissimili nel
cuor dell’ombra dove sono le invisibili strade degli astri.
*
Entrava per la quinta volta sulla punta dei piedi, adagio adagio. Era il
mattino fiorito.
— Giovannello?
E si fermava a mezzo la stanza trattenendo il fiato. Il giovine dormiva
profondamente, il capo affondato sui guanciali bianchi, soffuso di un lieve
rossore, la bocca chiusa. Lo guardava con le mani giunte, con gli occhi
umidi. Com’era giovine!
I capelli ricci gli adombravano la fronte bianca. Era forte e bello! E una
pietà, un amore inesprimibile tenevano il cuore di lei sospeso in ardore. Le
salivano alle labbra parole sorte da chissà dove, ch’ella non aveva dette
mai, che non aveva mai ascoltato. Parole soavi come quelle di una
preghiera, accorate un poco, fresche ed intatte.
Si fece un po’ più innanzi e si sporse un poco verso il letto e chiamò
appena:
— Giovannello?
Ma il giovine dormiva del più bel sonno profondo.
Allora Assunta Rosa si accostò alla finestra e l’aprì. Entrò il sole e la voce
di Pietro Aresu che era nell’orto.
— Si è levato? — domandò il vecchio.
— Ssst!... — fece Assunta Rosa.
— Destalo che è tardi!
Assunta Rosa si rivolse e ristette, la mano nel palmo della mano,
sorridendo.
Giovannello aveva appoggiato un gomito al guanciale e si passava una
mano su gli occhi, abbagliato dalla troppa luce.
— Che ore sono? — domandò.
— Sono le nove, — rispose Assunta Rosa.
— Le nove?
— Sì!
— Non dovevi chiamarmi alle sette?
— Sono venuta cinque volte e dormivi sempre!
— Perchè non m’hai destato?
— Io ti ho destato ma continuavi a dormire!
— Presto presto, zia, che è tardi!
E saltò il letto e passò da un canto all’altro della stanza tempestando.
Assunta Rosa gli apprestava i panni, gli versava l’acqua nel catino
affaccendandosi in gaiezza.
— Dov’è il nonno?
— Nell’orto.
— Di che umore è?
— Di ottimo umore. Già, tu fai miracoli.
— Io?
— Sì, tu.
— Via via, zietta!... Dammi l’asciugamano.
— Eccolo.
E si asciugava forte, arrubinando il volto.
Poi cantava ed ella evitava di guardarlo per non interromperlo. Ma tutto
finiva tanto presto! In un battibaleno era pronto.
— Addio, zia!
— Addio.
— Guarda che tornerò con molta fame!
— Bravo, bravo!
— Tieni pronto per mezzo giorno preciso!
— Sarà pronto.
E spariva come una folata di vento: traversava la casa; era nell’orto; non
c’era più!
Benedetto! Ella si attardava nella stanza di lui a guardare i libri, le carte, le
fotografie, ma senza curiosità investigatrice, solo per la gioia di sentirsi un
poco più vicina a quella giovinezza irruenta. Ed era, nel suo vecchio cuore,
un senso religioso e una tenerezza materna. Rideva, era contenta, le tornava
alla memoria la sua giovinezza remota, simile a un mare attraversato una
volta sola nel corso di un’alba e l’isola fiorita era lontana. E pensava che il
Signore avesse voluto premiarla della sua lunga vigilia e tesseva tesseva
un’incantevole trama per l’arca del sogno. Ma era contenta! Così, tutto,
intorno a lei, pareva più disposto a godere.
Quel monello era entrato per tramutare ogni cosa. Aveva detto:
— Voglio che tutto sia sole!
E tutto era diventato sole, miracolosamente. Le piccole cose e le grandi,
tutto quanto il mondo delle cose e delle anime.
La vita si era moltiplicata e Pietro Aresu lo sentiva. Sul suo volto grave era
ritornato il sorriso. Già, il nipote pareva il ritratto del nonno! Lo stesso capo
folto di capelli ricciuti, la stessa fronte severa e serena, gli stessi occhi
vivacissimi. Un miracolo. C’era, nel salotto, un vecchio dagherrotipo che
Pietro Aresu si era fatto a diciotto anni ed era tanta la somiglianza che
Assunta Rosa, a volte, si fermava perplessa per domandarsi:
— E se gli somigliasse anche....
E quando le nasceva tale dubbio si eclissava nella chiesa più prossima per
un giorno intiero.
In casa la cercavano invano.
— Dov’è Assunta Rosa?
— Dov’è la zia?
Rispondeva in sua vece la domestica:
— È uscita questa mattina. Ha dato gli ordini per tutta la giornata!
— E quando ritornerà?
— Dov’è?
La domestica non sapeva che rispondere.
Ritornava tutta avvolta nel suo scialle nero, verso sera.
Giovannello l’udiva primo. Conosceva il passo di lei e le balzava incontro
gridando:
— Eccola, eccola la scioperata! Ah zia! Cominceremo a pensar male di voi!
— Sta zitto, sciocco!
— Dove sei stata?
— Dove mi accomoda, — e rideva sotto lo scialle.
— Dimmi dove sei stata!
Allora la vecchia lo prendeva per mano, lo traeva in disparte, parlava
sommessa:
— Sono stata in chiesa a pregare per te!... Sssst!... Non dir nulla!...
Bambino.... promettimi che non farai pazzie!... Assomigli troppo a tuo
nonno!
Giovannello rideva.
— Me lo prometti?
— Ma sì!... che pazzie vuoi ch’io faccia?
— Eh! lo so io!
E si avviava senza aggiunger parola, tutta curva nel suo scialle nero.
Dopo ne parlavano, Giovannello e il nonno, ne parlavano sorridendo bonari,
in fondo all’orto.
E passavano i giorni e i mesi così.
Passavano.
Pietro Aresu li vedeva scendere uguali come i grani dell’arena nella
clessidra. E nulla era mutato nell’animo di lui come nella vita sua. La
solitudine non era stata interrotta. Solo a quando a quando un pensiero
luminoso gli si accendeva innanzi d’improvviso e gli occhi suoi ne erano
abbagliati. Ma lo scacciava. Non conveniva desiderare cosa che non
dipendesse dalla propria volontà. Egli amava Giovannello, ma voleva
saperlo libero di sè e del suo cuore. Così doveva vivere, scegliere e amare
secondo il giudizio suo. Solo ciò che si elegge spontaneamente può
accendere una luce. Ma per certe parole, per certi scatti, per certi silenzi
improvvisi egli aveva intravveduto nell’anima del nipote. Anima fresca e
innamorata di ogni cosa bella. E pensava a volte che la giovinezza fosse per
congiungersi alla vecchiaia per uno stesso ponte ideale. Forse stava per
risorgere il tempo di un ardore novello. Ma Pietro Aresu suggellava in sè la
trepida speranza e viveva la sua vita uguale e taciturna nel declinare degli
anni.