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De muta eloquentia.

2010

De muta eloquentia. La Signorina Else di Arthur Schnitzler tra monologo interiore, pantomima e film muto di Silvia Ulrich In: V. Gianolio (a cura di), Il silenzio. Pause eloquenti della parola, Tirrenia Stampatori 2010, pp. 121-133. Negli anni a ridosso del Novecento l’Europa è permeata da riflessioni filosofiche volte a esprimere mozioni di sfiducia verso il linguaggio. Così accanto a un Nietzsche che ritiene la parola «pericolosa e raramente giusta», troviamo un Henri Bergson che invita a liberarsi delle «parole ischeletrite», divenute uno schermo tra il pensiero e la realtà Cfr. P.M. Filippi, La parola muta. Pantomime nella Vienna fin de siècle, postfazione a H. Bahr, A. Schnitzler, La parola muta, Faenza, Mobydick, 1997, pp. 97-157, qui p. 100; Massimo Baldini, Silvano Zucal, Il silenzio e la parola da Eckhart a Jabès, Brescia, Morcelliana, 1989, in part. Introduzione, p. 9. . Ma il pensatore mitteleuropeo più autorevole nell’ambito di quella che viene comunemente definita l’era della crisi del linguaggio è Hugo von Hofmannsthal, fermamente convinto dell’inanità assoluta delle parole e dell’impossibilità di comunicare per loro tramite. Hofmannsthal è forse l’anello di congiunzione per eccellenza tra il pensiero filosofico dell’epoca e la sperimentazione letteraria dei suoi contenuti, che troveranno il proprio «manifesto» nella famosa Lettera di Lord Chandos (1902). La letteratura infatti, da sempre luogo d’elezione della parola detta e scritta, negli anni di fine secolo viene messa pesantemente in discussione, poiché si serve, per la trasmissione del proprio messaggio, del mezzo linguistico, privo ormai del genuino potenziale comunicativo, e questo a causa del vertiginoso mutare dei tempi che sottrae all’uomo moderno le antiche certezze, comprese quelle derivanti dalla lingua. Quando poi nel 1921 esce la Logisch-philosophische Abhandlung di Wittgenstein, nella quale si afferma che «su ciò di cui non si può parlare, si deve tacere» Cit. in P.M. Filippi, cit., p. 102., sembra che le sorti della cultura mitteleuropea siano destinate a un rassegnato mutismo. Arthur Schnitzler (1862-1931), che con Hofmannsthal e altri Jung Wiener condivide la medesima problematica, segue tuttavia percorsi creativi molteplici che compongono, all’interno della propria opera, l’ossatura di uno sperimentalismo pronto a rasentare le frontiere del silenzio, pur conservando intatta la propria ricchezza espressiva. La sfiducia nella potenzialità comunicativa del linguaggio in lui si muta in ricerca della forza espressiva del gesto e del pensiero, prima ancora che la sua esplicitazione lo imprigioni in un sistema ideologico di segni e di foni. In particolare, egli fa ricorso a forme quali la pantomima e il monologo interiore, che si rivelano innovative e d’avanguardia rispetto alla drammaturgia e all’epica borghesi dell’Ottocento, e che ben si prestano a una sperimentazione letteraria volta a ridimensionare l’eccessivo peso attribuito alla comunicazione verbale, intrisa ormai di una «orgogliosa, tautologica mera funzione di autoriferimento» C. Magris, L’anello di Clarisse, Torino, Einaudi, 1984, p. 184.. In esse anzi si celebra la riscoperta del discorso frammentario, che «ha bisogno per respirare di ampi margini di silenzio» M. Baldini, S. Zucal, Introduzione, cit., p. 11.. La tecnica narrativa che Schnitzler adotta in Fräulein Else è appunto assai affine al frammento comunicativo, poiché intervalla parti dialogiche a momenti di silenziosa introspezione monologica, assimilabili al flusso di coscienza. Quanto del resto Schnitzler amasse questa tecnica è documentato da una lettera a Stefan Zweig nella quale egli si dice stupito che fin dal momento della sua invenzione, dovuta a Edouard Dujardin nel 1887, il monologo interiore sia stato tanto poco sfruttato nella letteratura coeva: «Certamente solo pochi soggetti vi si addicono, altrimenti avrei forse fatto io stesso uso più sovente di questa forma» Lettera del 6.11.1924, in A. Schnitzler, Briefe 1913-1931, Frankfurt a. M., Fischer, 1984, p. 371 (ove non diversamente indicato le traduzioni sono mie).. Talmente pochi, che Schnitzler riesce a comporre appena due opere, Leutnant Gustl (1900) e Fräulein Else (1924) affermando inoltre, non senza piglio critico, come Dujardin, dal quale apprese la tecnica solo nel 1898, «non seppe trovare la giusta materia per la sua forma» Lettera a Georg Brandes dell’11.06.1901, in Georg Brandes und Arthur Schnitzler. Ein Briefwechsel, hrsg. v. Kurt Bergel, Bern, Francke, 1956, p. 88.. Hofmannstahl elogiò l’opera e la scelta del monologo interiore, che, a suo avviso, costituiscono insieme un genere letterario nuovo e autonomo: «per quanto Il sottotenente Gustl sia narrato bene, La signorina Else certamente lo batte; nell’ambito della letteratura tedesca, quello che Lei ha creato è davvero un genere a sé» Lettera a Schnitzler del 3.7.1929. In Hugo von Hofmannsthal, Arthur Schnitzler. Briefwechsel, hrsg. v. Th. Nickel u. H. Schnitzler, Frankfurt a. M., Fischer, 1964, p. 312.. Come si evince dalle date di pubblicazione delle opere citate, il monologo interiore necessita di una lunga gestazione, poiché per esprimere adeguatamente i propri contenuti deve dare voce alla percezione interiore che il soggetto ha della realtà esterna. Si tratta tuttavia di un processo muto che rinuncia a qualsiasi acustica vocale, pertinente agli stessi fenomeni dell’inconscio che Freud aveva reso noti attraverso l’analisi scientifica Cfr. Georg Brandes und Arthur Schnitzler. Ein Briefwechsel, cit., Introduzione, p. 28. . Al linguaggio parlato si sostituisce progressivamente la percezione sensoriale, in particolare l’udito, il tatto e la vista. Questo aspetto, unito alla contemporaneità tra la narrazione e gli accadimenti – come osserva Werner Neuse Werner Neuse, «Erlebte Rede» und «Innerer Monolog» in den erzählenden Schriften Arthur Schnitzlers, in PMLA, 49 (1934), pp. 327-355, qui p. 349. Il carattere fortemente innovativo della tecnica narrativa in questione era del resto stato colto già negli anni Trenta dalla critica schnitzleriana, la quale vi attribuiva, a differenza della narrazione epistolare o diaristica – impiegata spesso dall’autore nelle sue novelle –, la facoltà di orientarsi non al vissuto trascorso del parlante, ma a quello in procinto di accadere; si tratta dunque di una narrazione al presente di eventi futuri. – conferiscono al testo una caratteristica specificamente teatrale, che a buon diritto condivide molti aspetti con la pantomima. Schnitzler del resto praticò anche quest’ultimo genere, prima ancora di giungere a sperimentare le possibilità espressive del non-parlato che affiorano con il monologo interiore Schnitzler scrisse due pantomime, Der Schleier der Pierrette (1910), preceduta da una Urpantomime del 1892, e Die Verwandlungen des Pierrot (1908), che tuttavia rimangono isolate nella sua produzione, forse perché egli preferì sperimentare altri generi, non da ultimo scrivere per il cinema, come testimoniano gli assidui contatti intrattenuti con registi e professionisti del cinema, e le trasposizioni di alcuni suoi lavori, tra cui appunto Fräulein Else. L’affinità esistente tra pantomima e il cinema degli esordi è evidente in particolare nell’assenza del linguaggio verbale, affinità congeniale a Schnitzler, che alla prima proiezione del film tratto da Liebelei lamentò l’eccessivo utilizzo delle didascalie a commento delle scene. Cfr. Lettera a Karl Ludwig Schröder del 20.3.1913, in A. Schnitzler, Briefe 1913-1931, cit., p. 13.. In Fräulein Else le potenzialità del flusso di coscienza si ampliano nella misura in cui la materia supera l’astratta speculazione filosofica sul linguaggio degli Jung Wiener estendendosi alla realtà sociale coeva. L’autore infatti fa entrare in collisione i valori etici, di cui il linguaggio deve essere portatore, con quelli estetici assai diffusi nell’Austria del suo tempo, e di cui Hermann Broch offre una vivida descrizione: Il fenomeno della copertura della miseria con una vernice di ricchezza si presentò a Vienna, specie durante la sua ultima fioritura, con maggiore chiarezza che in qualsiasi altro luogo e in qualsiasi altro momento. Un minimo di valori etici doveva essere ricoperto con un massimo di valori estetici, i quali non erano più e non potevano più essere tali perché un valore estetico che non si sviluppi su una base etica è esattamente il contrario, e cioè artificio, paccottiglia, sofisticazione: in una parola Kitsch. Come capitale del Kitsch, Vienna divenne anche la capitale del vuoto-di-valori dell’epoca H. Broch, Hofmannsthal, a cura di S. Vertone, Roma, Editori Riuniti, 1981, p. 94.. Il dramma di Else si svolge in un contesto analogo a quello sopra riportato, rafforzato da alcuni riferimenti autobiografici che Schnitzler rende noti in alcune lettere A Stefan Zweig (6.11.1924), con un semplice riferimento; all’amico Gabor Nobl (21.2.1925) con accenni più espliciti. Cfr. Arthur Schnitzler, Briefe 1913-1931, cit., rispett. pp. 373, 395. Lo zio dello scrittore, tale Edmund Markbreiter, morto nel 1919 a New York, nel 1890 era sfuggito all’arresto per essersi appropriato di denaro affidatogli. Sua figlia, morta prematuramente nel 1902, si chiamava Else. L’aderenza autobiografica tuttavia non è il solo legame con la realtà asburgica di inizio secolo a costituire un possibile precedente per la figura della protagonista: «Certamente si ritroveranno tratti della “Signorina Else” in più di una creatura che si è conosciuta; io stesso potrei indicarne qualcuna, dalla quale ho preso a prestito, più o meno inconsapevolmente, alcuni tratti».. Il vuoto di valori prende forma in particolare nelle perversioni di natura sessuale, tema caro allo scrittore e variamente analizzato in molte altre sue opere Cfr. in particolare Die Braut. Eine Studie (1891) e Die Fremde (1902), che costituiscono due precedenti importanti per Fräulein Else. Centrale in entrambe le novelle è il corpo, con la sua potenzialità sensuale destinata a mettere in crisi il mondo maschile. Nella prima, Schnitzler tematizza la scelta della protagonista di vivere a pieno la propria sessualità scegliendo di fare la prostituta. Nella seconda, invece, la «muta» Katharina abbandona il marito Albert con un messaggio alquanto sibillino lasciatogli sul letto al mattino: «Mio caro amico, mi sono svegliata prima di te. Addio. Non so se ritornerò. Stammi bene. Katharina». Cit. in U. Weinhold, Arthur Schnitzler und der weibliche Diskurs, in «Jahrbuch für internationale Germanistik», XIX (1987), pp. 110-145, qui p. 117.. Nella fattispecie, la diciannovenne Else viene indotta dalla madre a chiedere un prestito in denaro a un ricco mercante d’arte per salvare dall’arresto il padre, avvocato, strozzato dai debiti contratti mediante speculazioni azzardate. L’uomo, che non è certo insensibile all’avvenenza della giovane, si dichiara naturalmente pronto a soddisfare la richiesta ma solo in cambio di una prestazione, che – per quanto insolita possa apparire al lettore odierno – rende molto bene l’atto di compravendita cui il corpo della fanciulla deve assoggettarsi: lasciarsi contemplare nuda per un quarto d’ora. A Schnitzler non interessa condannare l’immoralità in sé dell’atto iniquo, quanto piuttosto la forma alquanto subdola di induzione alla prostituzione, giacché voluta dagli affetti più intimi: «Dunque ti prego figlia mia, parla con Dorsday. T’assicuro che non c’è niente di sconveniente. Papà avrebbe potuto semplicemente telegrafargli, ci abbiamo seriamente pensato, ma è tutta un’altra cosa quando si parla personalmente con qualcuno» A. Schnitzler, La signorina Else, tr. it. G. Farese, Milano, Mondadori, 1994, p. 37. Le citazioni dal testo fanno riferimento a questa edizione. Else è in villeggiatura a S. Martino di Castrozza sulle Dolomiti con il cugino Paul e la zia. Dopo alcuni giorni, riceve la lettera della mamma con l’indecente proposta, seguita da un telegramma in cui la cifra è quasi raddoppiata. Alla richiesta di Else, Dorsday le chiede di poterla vedere nuda quella notte stessa. La giovane, dapprima offesa, poi profondamente turbata, decide infine – per ridurre il peso del ricatto e denunciare pubblicamente lo scandalo – di denudarsi per lui davanti a tutto l’albergo.. Le circostanze, tuttavia, impediscono che il meretricio in senso stretto avvenga; esso è però vissuto pienamente nell’interiorità della giovane, con effetti ben più rovinosi e devastanti: La nobile figlia si vende per salvare l’amato padre,e alla fine ne ricava anche un piacere. Puh! No, Paul, anche per trentamila non potrai avere nulla da me. Nessuno. Ma per un milione? – Per un palazzo? Per una collana di perle? Se un giorno mi sposerò, lo farò probabilmente per molto meno. Ma è poi così terribile? In fondo anche Fanny si è venduta. Lei stessa m’ha detto che ha ribrezzo del marito. Allora, che ne diresti, papà, se stasera mi mettessi all’asta? Per salvarti dalla galera. Sensazionale! Ivi, p. 41 sg. Il sensazionalismo è la frontiera cui approda l’esile femminilità di Else, che in una delle sale del grande albergo in cui alloggia, davanti al ricco Dorsday e alle decine di ospiti che l’affollano, si darà in pasto completamente nuda, pronta a imbottirsi di sonnifero e sprofondare in un deliquio mortale. Il suo gesto, lungi dall’essere l’esito di una forma acuta di isteria, è una sfida alla degenerazione morale dell’ordine precostituito, quell’ipocrita depravazione borghese che tutto mercifica, compreso il corpo femminile. Il denaro, l’asse attorno al quale ruota la vicenda, si offre come secondo termine di paragone, rischiarando, da una prospettiva analoga, il medesimo circolo vizioso. Per suo tramite infatti Schnitzler descrive l’orrida spirale in cui scivolano i rapporti umani quando lo spettro della valuta vi stende sopra la mano. Arnaldo Colasanti, nell’introduzione a una recente traduzione italiana della novella, descrive il rapporto che la forma del monologo interiore intrattiene con l’enunciato, servendosi di immagini plastiche, evocative, laddove il monologo «cade come un’ascia sul ghiaccio della mimesi fra Io e Realtà» e l’enunciato come l’esito del «terrore, […] la scudisciata del sacro»: Arnaldo Colasanti, L’effimera storia di Else, introduzione a A. Schnitzler, La signorina Else, cit., pp. 11, 14. l’elemento poetico della novella si ritrova proprio là dove a tanta funesta spietatezza corrisponde «la pena, il tremolio nascosto che è di Schnitzler stesso mentre guarda la scena ammutolito» Ivi, p. 11.. Con il monologo interiore Schnitzler rompe il silenzio di Else non già per aiutarla a trovare un possibile dialogo con la società, ma per smascherare i motivi che sono alla base di questo silenzio. Esso accompagna Else fin dall’inizio. La novella infatti si apre con il progressivo isolamento di Else mentre si congeda dal cugino Paul e da Cissy Mohr – che scoprirà poi essere la sua amante – senza portare a termine la partita a tennis che stava disputando con loro. La sua taciturnità viene solo brevemente interrotta dalle frasi di circostanza che i parenti e gli ospiti del Grand Hotel le rivolgono, e alle quali si sente in dovere di rispondere. In tal modo Schnitzler mette a confronto due tipi di linguaggio, che Broch nel passo citato raggruppa sotto la nomenclatura di «etico» ed «estetico». Quest’ultimo si fonda sull’arzigogolo barocco, manieristico; è pura forma, svuotata di qualsiasi intenzione comunicativa e coincide con la retorica di stampo aristocratico con cui la borghesia viennese tra Otto e Novecento ha plasmato il proprio costume: «Buonasera, signorina Else». «I miei rispetti, gentile signora». «Di ritorno dal tennis?». Lo vede, no? Perché me lo chiede? «Sì, signora. Abbiamo giocato quasi tre ore. E la signora, fa ancora una passeggiatina?» A. Schnitzler, La signorina Else, tr. it. cit., p. 31.. L’etichetta che definisce i rapporti umani della classe agiata in spensierata villeggiatura – cui Else appartiene senza tuttavia averne pienamente diritto («Ahimé! Che vita... nonostante la maglia rossa e le calze di seta. Tre paia! La parente povera invitata dalla zia ricca») Ivi, p. 30. – è già di per sé motivo di attenta riflessione: Ecco che arriva la marchesa italiana. […] Mi sorride gentilmente, come sempre. La lascio passare, accennando un saluto con la testa... Non che mi senta particolarmente onorata di ricevere il saluto di una marchesa. «Buona sera». Mi dice buona sera. Adesso come minimo dovrò inchinarmi. Troppo profondo, l’inchino? D’altra parte è tanto più anziana di me Ivi, p. 33 sg. . Nelle sue elucubrazioni, l’etichetta si trasforma in indicazioni di regia, che avvicinano la novella al canovaccio di una vera e propria pantomima Il monologo interiore della Signorina Else è stato anche definito «narrazione drammatizzata» e il genere novellistico cui appartiene interpretato con categorie cognitive specificamente drammaturgiche: «Nonostante l’uso ormai comune, iniziato dallo stesso Schnitzler, di definire Fräulein Else come una “novella”, di propriamente narrativo nel testo non resta più nulla. Togliendo al discorso del personaggio qualsiasi supporto esterno, istanza e tempo narrativi, cornice e commento, la scrittura si fa drammatica. In questo testo per di più, dramma e teatro costituiscono una metafora complessa grazie alla quale l’enunciato da una parte e la forma del monologo dall’altra entrano in un rapporto di strettissima reciprocità semantica». Cfr. P. Gheri, Il monologo muto della Signorina Else, in «Studia Austriaca» XIII (2005), pp. 171-185, qui pp. 172, 174.. L’interesse di Schnitzler per la caduta della parola a favore di una riconquista dell’espressività corporea è affidata però non solo alla forma del monologo interiore, ma al contenuto stesso della novella; dapprima mediante il rifiuto di Dorsday di intervenire in aiuto del vizioso avvocato attraverso la mediazione linguistica, in cambio della quale egli preferisce l’esperienza visiva che reifica il corpo della fanciulla; in secondo luogo nel momento in cui, una volta compiuto l’atto audace e avendo assolto un compito che esclude qualsiasi catarsi, Else assume una potente dose di sonnifero che la condanna a un’afasia letale: «Non riesco a schiudere le labbra. Non riesco a muovere la lingua, ma non sono ancora morta. È il Veronal. Dove siete finiti? Sto per addormentarmi. E allora sarà troppo tardi! […] Aiutami, Paul! La mia lingua è così pesante» A. Schnitzler, La signorina Else, tr. it. cit., p. 99.. Nessuno in realtà può più salvare la giovane suicida; anche la feroce accusa rivolta ai congiunti è soffocata dal mutismo cui, prima ancora del Veronal, l’ha condannata la sua stessa condizione di figlia e di donna Provocatoria e polemica appare infatti la novella in questione poiché sfida l’immaginario comune, specialmente ottocentesco, della donna borghese ridotta a pura materia, a corpo senza spirito. Naturale conseguenza di tale Geistlosigkeit è la riduzione della figura femminile a corpo muto. In Else tale riduzione è espressione dell’impotenza che il silenzio imposto dalle regole sociali genera e che si manifesta nel finto svenimento. Cfr. U. Weinhold, Arthur Schnitzler und der weibliche Diskurs, cit., in part. pp. 113, 129.: «Ecco che se ne stanno di nuovo tutti e tre fuori della porta, gli assassini! Tutti, tutti assassini. Dorsday e Cissy e Paul, anche Fred è un assassino e la mamma è un’assassina. Tutti mi hanno assassinata e fanno finta di niente. Si è suicidata, diranno. Siete stati voi a uccidermi, tutti voi, tutti voi!» A. Schnitzler, La signorina Else, tr. it. cit., p. 98. Else pronuncia mentalmente la sua accusa prima di afferrare il bicchiere nel quale aveva preventivamente sciolto il Veronal. Solo dopo la sua silente denuncia ingerisce il sonnifero.. Si tratta di un mutismo consapevole, storicamente determinato dalla cultura borghese cui Else suo malgrado appartiene, e che trova esplicitazione nelle intenzioni più che nelle parole: «[…] sento ma non rispondo. Sono svenuta, devo rimanere in silenzio. […] Non riesco a muovere le labbra. […] Non parlerò mai più ad anima viva» Ivi, p. 97.. Nemmeno il contesto alberghiero, lieto e festoso, è in grado di strappare Else alla tragica afasia. Nel 1925 Siegfried Kracauer, studiando le relazioni che intercorrono tra crimine e letteratura, scrive che l’hotel è il regno del silenzio, il rispetto del quale è un atto di devozione quasi religiosa. A suffragio della sua tesi, cita un passo da La morte a Venezia, ove si esalta la pace solenne che regna nei grandi alberghi, contribuendo così al loro buon nome Cfr. S. Kracauer, «Hall d’albergo», in Il romanzo poliziesco, Roma, Editori Riuniti, 1984, pp. 42-51.. E tuttavia, la giovane Else non si piega al buon costume del silenzio all’interno dell’albergo per onorare un rituale che essa per prima si rifiuta di condividere. Vi è una ragione più profonda, che Kracauer esplicita come segue: «La solennità insignificante di questo silenzio convenzionale non deriva da un rispetto reciproco, come si può generalmente intendere, ma serve a eliminare le differenze; è un silenzio che fa astrazione della parola differenziante e ci costringe a quell’uguaglianza dinanzi al nulla, dalla quale la voce che attraversa lo spazio potrebbe strapparci» Ivi, p. 48.. La «parola differenziante» è quella che coltiva Else nel suo muto soliloquio, quella spogliata degli arzigogoli barocchi imposti dall’etichetta; infine quella sincera e tagliente con cui nomina i responsabili dello scandalo e i suoi assassini. Ma non vi è un tribunale in grado di udire la sua voce interiore, né di comprendere il valore etico del suo pensiero, che non ha bisogno di coprirsi di sproloqui per dare sostanza al suo contenuto. Né potrebbe esistere all’interno del grande albergo, rifugio di una classe agiata anonima e superficiale, orientata verso svaghi effimeri e verso una retorica della conversazione fin troppo scontata. «La banalità dei loro discorsi – afferma infatti Kracauer – [è rivolta] intransitivamente ad oggetti insignificanti proprio perché ci si possa incontrare nella loro esteriorità» Ibidem.. Con il rifiuto del valore estetico della parola, acquistano rilevanza le forme della percezione sensoriale, in particolare la vista. Alla visualità è affidato il ruolo dell’interazione umana di cui invece il linguaggio è privo, senza tuttavia riuscire a spezzare le catene dell’isolamento di cui Else si scopre prigioniera. In quest’ottica, l’ambientazione al Grand Hotel è tanto più significativa poiché l’albergo, oltre a essere il regno del silenzio, è il luogo dove le dinamiche dello sguardo prospettano inaspettate liaisons: «[gli ospiti] per consolidare la distanza, la cui definitività li attrae, si riflettono in una prossimità che essi stessi cercano di suscitare […]. Il fugace scambio di sguardi, che rende possibile il rapporto reciproco, viene ammesso soltanto perché l’illusione della possibilità conferma la realtà della distanza» S. Kracauer, cit., p. 49 sg.. Ecco allora che la controparte voluta da Dorsday in cambio del denaro – in quanto mercante d’arte egli è un estimatore del «bello» – non si traduce in volgare carnalità, ma rimane a un livello di godimento estetico, tuttavia non per questo meno compromettente: Come saranno penetranti e insinuanti i suoi occhi! Se ne starà lì con il suo monocolo a sorridere. Ma no, non sorriderà. Assumerà un’espressione compunta, invece. Elegante. È abituato, no?, a cose di questo tipo. Quante ne ha già viste, così? Cento, oppure mille? […] Gli dirò che ho un amante. Ma soltanto quando i trentamila fiorini saranno stati spediti a Fiala. Allora gli dirò che è stato uno stupido, che mi avrebbe anche potuta far sua con quegli stessi denari. […] Se solo trovassi il modo di rovinargli la festa. […] Se volessi potrei invitare l’intero albergo, e lei sarebbe comunque obbligato a spedire i trentamila fiorini. […] Lei teme l’indiscrezione? Ma non è questo che conta, no? Io non ci tengo, alla discrezione. Una volta arrivati al punto in cui sono io, nulla ha più importanza. E questo di oggi è soltanto l’inizio. O pensa forse che dopo quest’avventura io me ne ritorni a casa da brava ragazza di buona famiglia? No, né buona famiglia, né tantomeno brava ragazza. Capitolo chiuso. D’ora in poi camminerò con le mie gambe. Ho delle belle gambe, signor von Dorsday, come lei e gli altri partecipanti allo spettacolo avranno presto modo di constatare A. Schnitzler, La signorina Else, tr. it. cit., p. 71 sg.. Sembra che Schnitzler voglia far coincidere il tanto deprecato valore estetico con il ruolo che la vista viene ad assumere nell’epistemologia degli anni Venti, sì da rappresentare in forma fredda e oggettiva la decadenza della borghesia austriaca. Vi sono analogie con la dinamica della percezione visiva che forgia i rapporti umani negli anni weimariani, in accordo con il programma artistico ed estetico della «Nuova Oggettività», come si legge in Kurt Tucholsky quando indaga le potenzialità dello sguardo indagatore all’interno dell’hotel: «Un occhiata… e tutto finisce sottosopra» K. Tucholsky, In der Hotelhalle, in Gesammelte Werke, Reinbek bei Hamburg, Rowohlt, 1975, III, pp. 75-79, qui p. 75.. All’hotel, dove non è data alcuna possibilità di conoscenza autentica, poiché i suoi frequentatori «fanno sparire l’individuo dietro l’uguaglianza di maschere sociali» S. Kracauer, cit., p. 48., l’individuo conosce solo la messinscena di sé e dei propri rituali. Il valore estetico dei rapporti umani celebra allora la propria superficialità raggiungendo l’apoteosi. La falsità è il sottaciuto peccato capitale della borghesia viennese che trova in Else un felice capro espiatorio: «Così, in questo gioco sofisticato e perverso di quinte teatrali, i valori si capovolgono: il gesto autentico di una donna condannata al silenzio, ovvero costretta a esprimersi nel linguaggio “illogico” del corpo, viene respinto come indecente messinscena da consumati attori per nulla disposti a tollerare alcuna verità che smascheri la recita perpetua cui si sono consacrati» P. Gheri, Il monologo muto della Signorina Else, cit., p. 181.. Di un simile decadimento del costume Kracauer mette in evidenza l’indole procace degli ospiti dell’albergo: «per essi lo spettacolo della superficie è una seduzione, il profumo esotico li sfiora voluttuosamente» S. Kracauer, cit., p. 49.. Con voluttà infatti la giovane Else assapora la propria ribellione nei confronti di Dorsday e dell’intera famiglia («così li avrò beffati tutti») A. Schnitzler, La signorina Else, tr. it. cit., p. 80.; e lo fa dapprima davanti allo specchio, in forma di una messinscena privata, nient’altro che una prova generale dell’esibizione pubblica che ha inizio con la discesa nel foyer; una simulazione, insomma, che funge da prologo a quello che poi assumerà la proporzione di un vero e proprio numero di varietà: «Mi guardi pure signore. Non immagina nemmeno davanti a chi sta passando. Peccato che sia dovuto salire in camera proprio adesso. Perché non si trattiene nella hall? Non sa cosa si perde. Un grande spettacolo» Ivi, p. 85.. Agli occhi di Schnitzler, tuttavia, l’atto di Else non è che il grido afono di ribellione del soggetto il quale, celebrato il passaggio da una cultura della colpa (Schuldkultur) – caratteristica del mondo borghese precedente la Grande guerra – a una cultura della vergogna (Schamkultur) – nata per effetto dello sguardo oggettivante che penetra nell’intimo dell’individuo fino a denudarlo Cfr. H. Lethen, Verhaltenslehren der Kälte. Lebensversuche zwischen den Kriegen, Frankfurt a. Main, Suhrkamp, 1999. – vuole ora liberarsi anche di quella vergogna, di cui sa di non essere responsabile («Vergognarmi io? Io vergognarmi di chicchessia? No, non ne ho davvero bisogno») A. Schnitzler, La signorina Else, tr. it. cit., p. 83. Else prende le distanze dal rapporto di causa-effetto che lega i concetti di «colpa» e «vergogna» già al momento della lettura della lettera: «Dovrei parlare con Dorsday? Mi vergognerei a morte… Vergognarmi, io? Perché? Non ne ho mica colpa», ivi, p. 16.; ma si tratta di una conquista effimera, che ha un prezzo troppo alto e costringe perciò a un silenzioso congedo dal mondo. Nell’eccitazione di Else che si appresta all’inconsueto show, un fugace pensiero va all’antico valore etico, edificante e sublime, in una parola poetico, che l’occhio ancora possedeva scoprendo il bello: «Guardami, o notte! Monti, guardatemi! Cielo, guardami, guarda come sono bella. Ma voi non avete gli occhi per vedere. Non serve a niente. Quelli da basso invece gli occhi ce li hanno» Ivi, p. 81.. Il decadimento dei valori etici al livello di quelli estetici acquista concretezza anche attraverso la metafora della verticalità, che all’hotel assume un significato particolare Cfr. C. Seger, Grand Hotel. Schauplatz der Literatur, Köln, Böhlau, 2005, in part. pp. 364 sgg.; qui più semplicemente si può leggere come degradazione, come gusto dell’infimo, contrapposto al sublime che risiede nei meandri illibati dell’adolescenza e che all’hotel è indotto a varcare la soglia di una più mondana consapevolezza di sé e degli altri. Per Else questa «iniziazione» assume l’apparente sembianza di una rinascita: «Oh, non sono affatto pazza. Sono solo un po’ eccitata. È naturale, sto per venire al mondo una seconda volta. La vecchia Else, infatti, è già morta» A. Schnitzler, La signorina Else, tr. it. cit., p. 81.. La Else protagonista dell’atto di denudamento infatti è espressione di un «neuer Mensch» assai particolare, che non ha più nulla di fiero e idealistico da condividere con l’Uomo nuovo espressionista; piuttosto è la manifestazione di un’umanità degradata, di un’innocenza pervertita cui è concesso rinascere solo all’interno di una realtà corrotta La sovrapposizione di ambienti culturali separati come Wiener Moderne e Neue Sachlichkeit mi è stata suggerita osservando lo sfasamento temporale che è alla base della composizione della novella e che si rispecchia nella storia dell’hotel Fratazza. L’albergo infatti fu costruito nel 1908 e distrutto da un incendio nel 1915, mentre la vicenda è ambientata nel 1896 e pubblicata nel 1924 (cfr. A. Schnitzler, Fräulein Else. Erläuterungen und Dokumente, Stuttgart, Reclam, 2002, pp. 16 sgg). Il motivo di una simile asincronia non può certo risiedere nello scrupolo di mantenere l’anonimato del rinomato albergo (il cui nome compare più di una volta nel testo), né con la pubblicazione esso avrebbe in qualche modo potuto nuocere alla sua fama, essendo già andato distrutto. Schnitzler intendeva piuttosto conferire un’aura di atemporalità alla vicenda, sì da astrarla da contingenze familiari e epocali precise. Al momento della sua apparizione, infatti, la novella viene erroneamente accolta come la celebrazione di un’epoca ormai conclusa e Schnitzler si trova costretto a puntualizzare come «il presunto mondo sommerso e liquidato sia altrettanto vitale e presente come non mai» (lettera del 3.11.1924 a Jakob Wassermann, in A. Schnitzler, Briefe 1913-1931, cit., p. 370 sg.). Da tanta umiliante coercizione nasce quindi la scelta, veramente libera, di abbandonarsi alla morte per avvelenamento. Quanto Schnitzler fosse intenzionato a divulgare il messaggio di cui la novella si fa portatrice è testimoniato dai numerosi tentativi di trasporre il testo in forma drammaturgica. La scena per lo scrittore rappresenta ancora quel contatto con la collettività del pubblico che la narrativa non possiede più L’impossibilità del monologo interiore di comunicare un’esperienza di vita rendendola fruibile al pubblico è stata messa in evidenza da Paola Gheri nell’articolo citato, ove si legge: «Chi narra di una vita altrui è qualcuno che ne ha ascoltata la storia e che, col proprio ascolto e ancora di più col proprio narrarla, le conferisce valore e dignità. Else invece muore sola, muta, senza colpa, priva d’ascolto e della misericordia del racconto», in «Studia Austriaca» XIII (2005), pp. 171-185, qui p. 184.. Ma in luogo di una messinscena teatrale, viene prodotta una versione filmica, Fräulein Else, proiettata per la prima volta il 7.3.1929 per la regia di Paul Czinner Fräulein Else. Ein Film nach Motiven von Arthur Schnitzler. Stummfilm, Deutschland 1928, ARTER/ZDF, SW, Erstausstrahlung, 90 Min. Regie: Paul Czinner, Drehbuch: Arthur Schnitzler, Paul Czinner, Kamera: Robert Baberske, Karl Freund, Adolf Schlasy, Musik: Marco Dalpane, Produktion: Poetic-Film, Produzent: Paul Czinner Mit: Elisabeth Bergner (Else), Albert Bassermann (Dr. Alfred Thalhoff), Albert Steinrück (Herr von Dorsday), Else Heller (Frau Thalhoff), Adele Sandrock (Tante Emma), Jack Trevor (Paul), Grit Hegesa (Cissy Mohr). L’autrice ringrazia la mediateca dell’Università di Oldenburg per averle gentilmente messo a disposizione il film.. Il film, muto, ebbe un successo straordinario; merito dell’attrice Elisabeth Bergner, della sua straordinaria espressività e grazia Cfr. V. Martinelli, Le dive del silenzio, Genova, Le mani, 2001.. Anche Schnitzler ne rimase ammaliato al punto da non voler rinunciare alla sua interpretazione neanche nella progettata e mai realizzata messinscena teatrale. Ma il cinema offre prospettive comunicative cui né la narrativa, e tantomeno il teatro possono ambire; soprattutto se è muto, cosicché parrebbe il veicolo più adatto per inscenare il silente universo interiore di Else. «silenzio» e «parola» infatti nel cinema degli esordi acquistano nuove declinazioni, affinando le potenzialità cognitive della vista che, come si è visto, assumono un’importanza cruciale nell’economia della vicenda. Nello scarto esistente tra la mancata espressione verbale e l’atto visivo si concentra dunque il confronto tra la Fräulein Else letteraria e quella filmica. Il film di Czinner, assai divergente dal suo modello Nella lettera a Catarina Pollaczeck del 15.3.1929 Schnitzler commentò la visione del film con un giudizio piuttosto tranchant: «Non male l’inizio; l’ultimo quarto sciocco e brutto. Capisco adesso perché non mi mandavano la sceneggiatura. La trovata contro cui mi ero opposto già al nostro primo colloquio (Czinner Mayer), cioè che Else prenda il Veronal prima di scendere nella hall nuda con la mantella addosso è ancora presente. […] L’interpretazione di Elisabeth meravigliosa; solo che (a causa del copione) è un’altra Else rispetto a quella che ho composto io», in Briefe 1913-1931, cit., p. 597. – evidente fin dal sottotitolo Ein Film nach Motiven von Arthur Schnitzler – potenzia tuttavia alcuni aspetti del testo schnitzleriano che con la narrazione tradizionale vengono percepiti secondariamente. Nella trasposizione cinematografica acquista rilevanza la lettera della mamma, che nel processo di visualizzazione dei moti interiori di Else mostra, attraverso la riproduzione visiva della scrittura, il carattere lapidario, quasi sentenzioso, del destino cui la madre si appresta a condannare la figlia. La donna, che vorrebbe mettersi in contatto telefonico con l’albergo, è tormentata dall’imbarazzo e poiché il maltempo impedisce il collegamento telegrafico, si risolve ad affidare l’audace richiesta alla carta da lettera. L’imbarazzo mostra il pavido atteggiamento borghese di fronte alle responsabilità e la prontezza nello scaricarle sugli altri. Questa digressione – molto dettagliata nel film (durata: 1’30’’) e anticipata dalla debole quanto melensa reazione della mamma allo scellerato agire del marito – ha non solo il pregio di aumentare la suspense, ma anche quello di giustificare il ricorso allo strumento cognitivo della lettura per esaltare il mancato approccio verbale tra madre e figlia. Il testo scritto infatti permette di affrontare argomenti spinosi con maggiore disinvoltura di quanto non permetta il contatto vocale. L’apoteosi del silenzio nel film coincide perciò con il venir meno della parola pronunciata, che il regista (che è anche lo sceneggiatore) trasforma in atto comunicativo mediato dalla scrittura. Ed è un venir meno che ha come punto di fuga proprio il corpo di Else, il quale, manovrato da terzi, diventa «un interruttore, all’interno del quale gli ordini impartiti per iscritto vengono tradotti in altro mezzo espressivo, prima di essere nuovamente convertiti in scrittura con l’assegno a Fiala» Mario Gomes, «Sterben in der ersten Person. Zur Problematik des Selbstmords und der Schrift in A. Schnitzler Leutnant Gustl und Fräulein Else», in Gedankenlesemaschinen. Modelle für eine Poetologie des Inneren Monologs, Freiburg i. Br, Berlin, Wien, Rombach Verlag, 2008, pp. 153-174, qui p. 168.. Il contenuto della lettera è infine potenziato nell’ultimo atto da un telegramma che rinnova perentoriamente la richiesta: il valore di ultimatum che quest’ultimo possiede è inasprito dal passaggio dalla calligrafia materna alla scrittura dattilografata, percepibili entrambe, anche dallo spettatore, sotto forma di didascalie (rispettivamente ai min. 50’40’’, 51’37’’ e 51’48’’ per quanto riguarda la lettera, al min. 77’15’’ il telegramma). Il film muto, del resto, riporta didascalie allo scopo di potenziare la comprensione degli eventi. Di una simile prassi Schnitzler aveva tuttavia affermato, già in occasione dell’adattamento di Liebelei (1913), come al posto di «questi insopportabili testi di collegamento» tra una scena e l’altra egli avrebbe di gran lunga preferito «l’accompagnamento musicale per ogni prodotto cinematografico» Lettera del 20.3.1913 a Karl Ludwig Schröder, in A. Schnitzler, Briefe 1913-1931, cit., pp. 13 sgg. Sulla questione delle didascalie cfr. anche le indicazioni che lo stesso autore fornì in occasione della stesura della sceneggiatura di Liebelei, edite in Hätte ich das Kino! Die Schriftsteller und der Stummfilm. Ausstellung (24-31.10.1976) und Katalog des Deutschen Literaturarchivs im Schillernationalmuseum Marbach a. N., Stuttgart, Klett, 1976, p. 148.. Si tratta di un’evidente testimonianza della rinuncia all’espressione verbale che vede nel film muto la forma più diretta e autentica di trasmissione del messaggio. La predilezione di Schnitzler per la musica come forma espressiva non verbale compare nella novella nel momento culmine del denudamento di Else; ma la triplice riproduzione del pentagramma nel testo altro non è se non musica fatta di segni grafici anziché acustici; essa segna l’assoluto venir meno della parola, quella pensata dalla giovane ma soprattutto quella scritta dall’autore. Nel film di Czinner una riflessione tanto profonda sul linguaggio non poteva aver luogo, sostanzialmente per due ragioni: perché il film nasce come istanza epica per eccellenza, come dimostra il lungo antefatto (totalmente assente nel testo) e l’eccessiva melodrammaticità degli eventi, residuo quest’ultimo del modus operandi del cinema muto delle origini Cfr. B. Brewster, L. Jacobs, «Piktorialer Stil und Schauspiel im Film», in F. Kessler (a cura di), Stummes Spiel, Sprechende Gesten, Basel, Stroemfeld, 1998, pp. 37-62. ; e poi perché, come sosteneva Pasolini, il discorso filmico è incapace ad esprimere concetti generali e astratti: «L’istituzione linguistica o grammaticale dell’autore cinematografico è costituita da immagini; e le immagini sono sempre concrete, mai astratte… perciò per ora il cinema è un linguaggio artistico, non filosofico. Può essere parabola, mai espressione concettuale diretta» P.P. Pasolini, Il «cinema di poesia», in Empirismo eretico, Milano, Garzanti, 1972, p. 176.. Questo è tanto più vero se si contano le cinquantuno didascalie presenti nel film, alcune delle quali riproducono veri e propri dialoghi. Ciononostante, il film di Czinner raggiunge un modesto grado di astrazione dei concetti attraverso le immagini: il già citato imbarazzo della mamma, la spensieratezza di Else che gioca sulla neve, lo scandalo suscitato all’Hotel dall’atto di denudamento o, più semplicemente, la vana richiesta da parte del padre di ulteriore credito, espressa mediante la ripetuta chiusura delle porte alle quali egli ha invano bussato. La lettera, centrale tanto nella novella quanto nella versione cinematografica L’episodio è riportato nel IV atto (ve ne sono sette in tutto), di cui occupa 10 min. su 14., unisce dunque il potenziale concreto del discorso filmico a quello più propriamente concettuale della comunicazione epistolare. Là dove manca il sonoro infatti il valore del silenzio è rappresentato dal cambio di medium: dall’immagine alla scrittura Un’analisi analoga di Transmedialität tra letteratura e cinema, ma più approfondita, l’ha offerta Stephanie Orphal al convegno «Literatur und Film – Neue Perspektiven auf eine alte Konstellation» (Potsdam, 26-27.2.2009) con una relazione dal titolo Leseszenen – RayBradburys ‘Fahrenheit 451’, attualmente inedito.. La presenza del mezzo linguistico grafico in un ambito costituito prevalentemente da immagini mostra in definitiva come la Fräulein Else cinematografica sia debitrice alla letteratura non solo dell’argomento, ma anche della sua stessa forma espressiva. Se poi tale processo è avvenuto in completo disaccordo con la scelta di Schnitzler di abbandonare la parola a favore della musica, esso è da imputarsi al medium che non può affidare un compito concettuale alla musica, che nel film si avvale della percezione acustica ed è perciò una istanza emozionale per eccellenza Spesso nel cinema muto un’orchestra (composta anche solo da un pianoforte e un violino) accompagnava dal vivo l’intera proiezione, al fine di spezzare la noia che la visione silenziosa poteva provocare e favorire la comprensione degli eventi. Cfr. Kevin Brownlow, «Der Stummfilm war niemals stumm», in Pioniere des Films: vom Stummfilm bis Hollywood, trad. dall’americano, Basel, Frankfurt a. M., Stroemfeld, 1997, pp. 30sgg. La pellicola in questione, completamente restaurata nel 2004, presenta un accompagnamento musicale per tutta la sua durata. . In due occasioni tuttavia Czinner riesce a «isolare» il silenzio di Else strappandolo all’assenza di sonoro della pellicola. La prima volta avviene alla fine del IV atto, quando la progressione degli eventi è interrotta dalla percussione di un gong (54’30’’) che inaugura la riflessione silenziosa di Else. La giovane, decisa a parlare con Dorsday, si appresta, per l’occorrenza, a intraprendere una febbrile toeletta, e il suo pensiero è esposto con due didascalie che recitano rispettivamente: «Ach, Herr von Dorsday, ich bekomme eben einen Brief» [Oh, Signor von Dorsday, ho appena ricevuto una lettera] (55’18’’) e «Dreißig tausend, Herr von Dorsday» [Trentamila, signor von Dorsday] (55’37’’). La seconda volta, invece, è all’inizio del VII atto. Dopo il colloquio con il facoltoso ospite dell’albergo, andato molto diversamente da come lo aveva immaginato, Else rientra nella sua camera totalmente buia (75’06’’). La ripresa, fatta dall’interno della stanza, mostra come la giovane entri in un tunnel dalla quale è destinata a non uscire più. Entrambi i momenti nel testo letterario non vengono messi in evidenza in modo altrettanto efficace. Nel primo caso si può solo evincere dal passaggio dal carattere corsivo del dialogo al tondo del monologo interiore, ma è un espediente grafico che ricorre per tutto il testo e perciò non desta nel lettore particolare attenzione. Nel secondo caso, invece, avviene attraverso la lunga digressione sui sogni (o allucinazioni) di Else a proposito della propria morte, che anticipano sì il finale, ma senza quell’effetto a sorpresa che il film riesce invece a creare in pochissimi istanti e a un livello quasi subliminale.