Tra tutti questi angoli mi sento in prigione
di Sabrina Peron
sabrina.peron@gagisco.it
Recensione: Lucia Berlin, La donna che scriveva racconti, a cura di Stephen
Emerson, traduzione di Federica Aceto, Bollati Boringhieri, Torino 2016, pp.
460, €18,50. Titolo originale: A Manual for Cleaning Woman. Selected Stories,
Farrar, Straus and Giroux, New York 2015.
Lucia Berlin (12 novembre 1936, Juneau, Alaska, Stati Uniti - 12 novembre
2004, Marina del Rey, California, Stati Uniti), nella sua vita ha pubblicato 77
racconti in tre volumi (Homesick [1991], So Long [1993], Where I Live Now
[1999]), la maggior parte dei quali oggi raccolti in A Manual for Cleaning
Woman. Selected Stories, appena pubblicato in Italia da Bollati Boringhieri col
titolo La donna che scriveva racconti.
È un’umanità sommersa e non salvata, quella raccontata da Lucia Berlin
nel suo Manuale per le donne delle pulizie (questo il titolo originale
dell’opera, trasformato in italiano con la La donna che scriveva racconti).
Un’umanità che non conosce redenzione, ma solo un calare negli abissi della
solitudine, dell’alcolismo, della malattia, della povertà (perché «la paura, la
povertà, l’alcolismo, la solitudine sono malattie mortali. Emergenze a tutti
gli effetti»), ma senza mai perdere la lucidità necessaria a comprendere il
lato a volte comico altre volte grottesco della vita.
L’umanità più svariata è rappresentata in questi racconti che rimandano
l’uno all’altro come in un labirintico gioco di specchi, componendo un unico
grande romanzo che è anche la vita dell’autrice.
Una vita rincorsa a pulire case altrui, a crescere figli, a nascondere
bottiglie vuote e lottare, lottare contro la miseria, contro uomini e fantasmi
(fantasmi che hanno la sostanza dei ricordi di vite passate). Ma anche una
vita che si apre all’immensa bellezza della natura: «non c’erano finestre solo
un’apertura tra le grondaie coperta con un’incerata nera. Kentshreve ci fece
un buco con il punteruolo del ghiaccio e subito entrò un gettò d’aria, come
sugli aeroplani, solo che l’aria era ghiacciata. Posandoci sopra l’orecchio si
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sentivano i ghiaccioli sui pini, il dondolio dei lampadari, lo scricchiolio del
pozzo della miniera, i carri sulle rotaie. Sapeva di freddo e fumo di legna.
Quando appoggiai un occhio sul buco vidi le stelle come per la prima volta,
ingrandite, e il cielo accecante e smisurato. Se avessi chiuso l’occhio anche
solo per un istante, sarebbe scomparso tutto».
Nei suoi racconti troviamo Angel, il vecchio indiano della lavanderia a
gettoni (dove «mentre stai seduto lì la vita ti passa davanti come se stessi
affogando»), dalle mani «nervose, sole”, con le nocche “bianche per lo sforzo
di fermare il tremore», responsabile di «tutte le preghiere e i motti degli
alcolisti anonimi», che quando Tony, ubriaco fradicio perde i «sensi sulla
sedia gialla», gli si inginocchia accanto e gli mette un «calzino spaiato umido
e freddo sulla testa».
Troviamo il nonno, terribile e grottesco, come l’orco della favole:
presentato come il «miglior dentista del Texas occidentale», è in realtà un
alcolizzato, molestatore delle piccole nipoti, il cui studio è un antro
infermale sulla cui porta – in «grosse lettere dorate» – capeggia la scritta
«non lavoro per i negri». Troviamo la nonna che porta la piccola nipote a fare
improbabili gite in macchina insieme alla signora Snowden; il terzetto vaga
per l’autostrada a 23 km orari, la nonna a e la sua amica declamano versetti
della Bibbia, mentre fuori il traffico impazza e la bambina si fa la pipì
addosso. Lo zio John, con un solo occhio, perché l’altro gliel’aveva cavato il
nonno sparandogli. Lo zio, alcolista pure lui, ma su di lui l’alcol aveva
l’effetto di renderlo più simpatico; l’altro effetto era che «prendeva e partiva
finiva in Messico, e qualche volta in prigione». La madre della protagonista
alcolizzata e snob nel suo «vecchio cappotto logoro con i logoro collo di volpe
senza più gli occhi», il cui unico elemento di romanticismo nella vita era «un
venditore di lampade nano». La madre, insensibile e spietata, che se la
chiamano per dire che stanno portando papà in ospedale con l’ambulanza
chiede: «visto che ci sei, potresti fermarti a comprare qualche banana?». Il
padre – santo, certo, ma anche lui crudele anche se «in modo meno palese» –
con cui ha vagato per il continente americano dall’Alaska alla Terra del
Fuoco, spostandosi spesso e vivendo in cittadine minerarie di montagna. La
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sorella Sally, che vede bellezza e bontà ovunque, malata di cancro, alla
quale raccontare storie di un passato che non c’è mai stato.
E poi ancora si affollano personaggi minori, come Otis, l’aspirante suicida
più stupido della settimana che si «è scolato due confezioni di Sominex, ma è
rimasto sveglissimo» anzi «addirittura pimpante». Dixton
il solitario
intellettuale e filosofo che parla e parla di Heidegger, e Wittgenstein e
Derrida e Chomsky e si infuria quando la sua amante non afferra le
implicazioni filosofiche del suo libro e il cui impeto passionale è solo rabbia e
(sensazione di) perdita. Il vecchio John con le gambe amputate per il diabete
che si lagna e grida: «le mie gambe! Mi fanno male le gambe», «Signore Gesù
fammi passa questo dolore alla gambe!». E non valgono le rassicurazioni
delle infermiere «è solo un dolore fantasma», perché si sa il «dolore è sempre
vero». Troviamo le suore della scuola, con le tonache nere fluttuanti al vento,
che provano tutti i modi per insegnare alle alunne ad essere buone e le
premiano con stelline e santini.
Ma le vere protagoniste sono loro, sono le donne: poco più che bambine
abusate dai parenti, molestare da estranei e da amici di amici, costrette ad
abortire o madri assassine dei loro figli; mogli abbandonate per donne più
giovani da mariti in carriera o da mariti alcolizzati e tossicodipendenti.
Donne che vivono «tempi di intensa felicità in technicolor» e «tempi sordidi e
spaventosi». Donne che si chiedono: «ma alla fine cos’è il matrimonio? Io non
l’ho mai capito. E ora è la morte che non capisco».
Donne che rimandano tutte a lei all’autrice: bambina a scuola che smette
di parlare; insegnante comunista con maglioni bisunti; donna delle pulizie
che dispensa consigli su come e cosa rubare nelle case altrui, dove si reca su
autobus scalcinati, sempre in ritardo o troppo in anticipo (così da far perdere
la corsa), che si perdono per strada, che «sbandano e si fermano
rumorosamente, sballottando le vecchie signore bianche contro i pali»;
giovane madre alcolizzata alle prese con i figli ed alla perenne ricerca di
lavori precari. La troviamo senza marito e gravida e in bilico tra abortire a
non abortire; la troviamo in centri di disintossicazione persi nel deserto; al
lavoro in ospedale (dal reparto al pronto soccorso) alle prese con un’umanità
più svariata; e la troviamo donna innamorata che ondeggia nel mare
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avvinghiata a Cèsar come le tartarughe. Cèsar che l’accarezza con le «mani
forti piene di cicatrici» e poi le chiede ventimila pesos per pagare i debiti
della barca.
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