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Il male che coglie Napoli: nomi, luoghi e personaggi in Anna Maria Ortese

2002, Il Nome Nel Testo

PASQUALE MARZANO IL MALE CHE COGLIE NAPOLI: NOMI, LUOGHI E PERSONAGGI IN ANNA MARIA ORTESE Nella narrativa di Anna Maria Ortese sono presenti numerosi spunti per una breve analisi di carattere onomastico-letterario,1 pur limitando il campo d’indagine ai soli nomi afferenti luoghi e personaggi campani. Per averne conferma, potrebbe essere sufficiente pensare ai titoli delle sue opere, fra i quali spiccano in tal senso quelli di almeno quattro volumi: Il monaciello di Napoli (1940),2 Il mare non bagna Napoli (1953, d’ora in avanti IMNBN),3 Il porto di Toledo (1975)4 e, in maniera differente, Il cardillo addolorato (1993, d’ora in avanti Ica).5 Infatti, oltre ai toponimi Napoli, adoperato due volte, e Toledo, sui quali mi soffermerò più avanti, si può ascrivere all’area dei nomi campani anche lo zoonimo «cardillo», citato nel dialetto napoletano che caratterizza in più parti il testo, ricco di osservazioni metanarrative, con diverse interpretazioni e rimotivazioni onomastiche.6 Mi limito a citare en passant 1 A proposito del talvolta intricato mondo onomastico della Ortese, vd. p. es. la voce «Nome», in M. FARNETTI, Anna Maria Ortese, Milano, B. Mondadori 1998, pp. 99-107, ma anche ivi, pp. 29-30, nonché L. CLERICI, Apparizione e visione. Vita e opere di Anna Maria Ortese, Milano, Mondadori 2002, pp. 472-4 e passim. Il lavoro sui nomi elaborato dall’autrice è tale da non poter essere trascurato, come risulta subito evidente dalla lettura dei suoi testi e come si può evincere anche da vari altri studi di carattere saggistico che le sono stati dedicati. Per una bibliografia degli scritti sulla Ortese, vd. principalmente FARNETTI, cit., pp. 172-6 e G. BORRI, Invito alla lettura di Anna Maria Ortese, Milano, Mursia 1988, pp. 103-6. Numerose e utili indicazioni bibliografiche sono anche in CLERICI, cit., alla fine di ognuno dei dodici capitoli di cui si compone il suo ponderoso volume e, per quanto concerne le «principali interviste», alle pp. 717-20. 2 A. M. ORTESE, Il monaciello di Napoli, Milano, Adelphi 2001, pp. 9-61, insieme a Il Fantasma, ivi, pp. 63-129 [«Ateneo Veneto», CXXXI (19401), 127, 3-4, pp. 105-22]. 3 EAD., Il mare non bagna Napoli, Milano, Adelphi 2001 (Torino, Einaudi 19531; 1ª ed. Adelphi 1994). 4 EAD., Il porto di Toledo, in EAD., Romanzi, I, Milano, Adelphi 2002, pp. 353-995 (Milano, Rizzoli 19751; 1ª ed. Adelphi 1998). 5 EAD., Il cardillo addolorato, Milano, Adelphi 1993. 6 Del resto, Cardillo è uno zoonimo citato sovente con la maiuscola (vd. p. es. Ica, pp. 189, 192, 414), che lo rende una sorta di nome proprio. La Ortese lo aveva effettivamente già adoperato come antroponimo, attribuendolo ad un cameriere citato ne Il silenzio della ragione (EAD., Il silenzio della ragione, in IMNBN, pp. 99-172, d’ora in avanti Isdr, p. 136). 142 PASQUALE MARZANO quelle concernenti il notaio Don Liborio Apparente, detto Pennarulo, ovvero «uomo di penna», sembrerebbe per la sua professione (Ica, p. 101). Si tratta di uno dei narratori delle molteplici e inafferrabili verità presentate e poi smentite nel romanzo, a partire da quella che lo riguarda, che lo vede introdotto inizialmente come «avvocato» (Ica, p. 99) e poi come «notaro» (Ica, p. 101), ma che in “realtà”, nell’explicit, ce lo mostra come «Poeta Diplomato» e quindi come «uomo» di un tipo diverso «di penna», o di scrittura (Ica, p. 414), ossia nella veste a cui il suo soprannome e il suo cognome alludevano fin dall’inizio, “Pennarulo Apparente”, cioè “narratore inaffidabile”, come del resto “appare” anche la principale ed eterodiegetica voce narrante.7 Induce ad una riflessione maggiore il toponimo Toledo, che a prima vista sembrerebbe non avere nulla a che fare con la Campania, evocando piuttosto l’immagine della famosa città spagnola, luogo geograficamente distante dalla ex capitale del Regno delle Due Sicilie, ma privo del mare e quindi di un porto. Il titolo Il porto di Toledo provoca così un effetto di giocoso straniamento onomastico, annunciando «un rovesciamento di prospettiva del senso comune che investirà la struttura narrante del romanzo», come rileva Romolo Runcini.8 Per i napoletani, però, da circa la metà del Cinquecento, Toledo ha rappresentato una zona della loro città,9 ovvero quella attraversata da via Toledo, strada che andava da Piazza Trieste e Trento, nei pressi dell’ex Largo di Palazzo, ora piazza del Plebiscito, fino all’attuale Piazza Dante, già Largo Mercatello. Rilevanti tracce di tale uso del toponimo si ritrovano in celebri testi di letteratura e storia, si pensi alla Tuled ’e notte di Viviani 7 Presentando il personaggio, la voce narrante specifica, fra parentesi, che «Apparente […] [è] il cognome» (Ica, p. 100). Sempre nel Cardillo, da rilevare il probabile omaggio referenziale ad un maestro della narrativa fantastica, con l’uso dell’antroponimo Nodier per uno dei personaggi maschili, come ricorda Luca Clerici (CLERICI, cit., pp. 646-7, n. 111). A proposito del nome della protagonista, cioè Elmina, vd. un estratto da un testo della Ortese, sempre in CLERICI (ivi, p. 587): «La storia della eroina (ha un nome bellissimo, ma non glielo posso dire) una napoletana di forza ed energia tedesca – non trova che avviene spesso? – coinvolge le cose, la storia di Napoli. Senza napoletanità». 8 R. RUNCINI, Giochi di prospettive nel «Porto di Toledo», in AA.Vv., Paesaggio e memoria, Atti della giornata di studi su Anna Maria Ortese (Università degli Studi di Napoli “L’Orientale”, 26 maggio 2000), a. c. di C. De Caprio e L. Donadio, Napoli, Edizioni Libreria Dante & Descartes 2003, pp. 33-6, p. 33. 9 Non era però, e non è attualmente, un «quartiere» cittadino (anche se sulla via Toledo esisteva ed esiste tuttora una zona nota come «Quartieri Spagnoli»), diversamente da quanto riporta Giancarlo Borri, soffermandosi sulla parentela Toledo-Napoli («Toledo è uno dei più noti quartieri di Napoli», BORRI, cit., p. 73). IL MALE CHE COGLIE NAPOLI 143 (1918),10 o alla Toledo molto più recentemente descritta nella Storia di Napoli di Ghirelli.11 Analogamente si può procedere vagliando diverse canzoni popolari, fra le quali sarà sufficiente citare, a mo’ di esempio, la nota Reginella (1917), di Bovio-Lama, in cui il protagonista ricorda di aver incontrato la sua ex innamorata «l’autre ieri a Tuled’», per l’appunto.12 È vero che fra i napoletani di oggi si è un po’ persa l’abitudine di riferirsi a tale zona della città indicandola semplicemente come Toledo, o Tuled’, ma si tratta di una consuetudine durata fino ad almeno la metà del Novecento, come si può evincere da uno dei testi della stessa Ortese poc’anzi citati, ovvero Il monaciello di Napoli, nel quale si legge: Poi le strade si gremivano subito e da Toledo a Chiaia non era che una sfilata nera e sontuosa di carrozze tirate da cavalli magnifici […].13 Come è noto, l’odonimo era dedicato al vicerè che fece costruire la strada nel 1536, della quale la stessa Ortese rievoca storia e percorso nell’ultima parte del Mare non bagna Napoli, adoperando un linguaggio che in alcuni punti ricalca esattamente quello di una guida della città:14 Mi trovavo davanti alla Banca d’Italia [sic],15 poco prima dell’Augusteo, nel tratto che va dal grosso edificio della Banca fino a piazza Trieste e Trento, passan10 R. VIVIANI, Tuledo ’e notte, ’O fatto ’e cronaca, La musica dei ciechi, in ID., Teatro napoletano, a c. di G. Trevisani, Bologna, Guanda 1957, pp. 200-336. Vd. anche A. GHIRELLI, La storia di Napoli, Torino, Einaudi 1992, p. 272. 11 Ivi, pp. 224 e passim. Sulla costruzione della Via Toledo e della zona circostante vd. ivi, pp. 28-9. 12 Forse vale la pena ricordare anche l’altrettanto famosa Tu vuo’ fa’ l’americano, di Nisa-Carosone, che uscì nel 1957. 13 ORTESE, Il monaciello…, cit., p. 16. 14 Vd. Guida d’Italia. Napoli e dintorni, Milano, Touring Club Italiano 1976 (col titolo Italia Meridionale-Napoli e dintorni, 19271), p. 159: «Da piazza del Plebiscito […] si passa nell’attigua piazza Trieste e Trento; all’angolo NO si diparte via Toledo (già via Roma), dal nome del viceré spagnolo don Pedro di Toledo che la fece aprire nel 1536 sul fosso Ovest della cinta aragonese: è diretta da S. a N., e lunga, con la continuazione di via Pessina, m 2250. È la più famosa e una delle più importanti vie della città, sempre animata da una folla vivace. Vi sorgono eleganti negozi, grandi magazzini e le sedi delle maggiori banche». A p. 159 della stessa guida si legge: «Ancora a d., N. 178 il Pal. Del Banco di Napoli (II 16; 1939), dalla grandiosa facciata marmorea». 15 Qui l’autrice cita probabilmente a memoria, confondendo la sede del Banco di Napoli (vd. nota precedente) con quella della Banca d’Italia, che era invece all’interno della Galleria Umberto. Il «grosso edificio» che la Ortese ricorda su via Toledo è ancora adesso quello del Banco di Napoli. La Banca d’Italia conserva quei locali all’interno della Galleria, ma la sua sede attuale è in via Cervantes, non lontano dalla attuale via Toledo, ex via Roma. 144 PASQUALE MARZANO do davanti alla Galleria Umberto e al Vico Rotto San Carlo.16 Qui finiva (o cominciava) la celebre via Roma, già Toledo, dal nome del viceré Don Pedro, che la fece aprire nel 1536 sul fosso Ovest della cinta aragonese. Quasi rettilinea, in lenta salita da sud a nord, lunga due chilometri e 250 metri, come avvertono le guide, è l’arteria principale della città. Stendhal la definì “la via più gaia e più popolosa dell’universo” e suppongo che questa fama le sia rimasta (Isdr, p. 152) .17 Con la «celebre via Roma», ricordata dalla scrittrice, i responsabili della toponomastica cittadina avrebbero voluto sostituire la via Toledo a partire dal 1870, per celebrare l’annessione di Roma al Regno d’Italia.18 Si trattò però di un mutamento mai completamente accettato dai napoletani, che continuarono ad usare il vecchio odonimo, tanto da indurre le autorità preposte ad una sorta di salomonica e successiva bipartizione della strada, divisa in via Toledo, da Piazza Trieste e Trento fino a piazza VII settembre,19 e via Roma, dalla stessa piazza fino a Piazza Dante, ossia per un tratto molto più breve.20 Una questione toponomastica in fondo ancora aperta, se si considera come oggi via Ro16 Poche pagine dopo, nel paragrafo intitolato Traduzione letterale: “Che cosa significa questa notte?”, la Ortese menziona il nome nuovo di Vico Rotto San Carlo: «Passando davanti a Vico Rotto San Carlo, ora piazzetta Matilde Serao, scorgemmo davanti al Bar Leda due o tre anime» (IMNBN, p. 156). 17 Non è stato possibile reperire i dettagli bibliografici della fonte stendhaliana, ma la stessa frase («la strada più popolosa dell’Universo») è riportata da F. HAAS (ammiratore e amico della Ortese) nel suo Descrizione del dolore: Su Anna Maria Ortese, «Linea d’ombra», IX (1991), 61, p. 18, come ricorda CLERICI, cit., p. 472. 18 Via Toledo fu ribattezzata via Roma il 18 ottobre 1870 (in omaggio agli eventi del precedente 20 settembre), su proposta del sindaco Paolo Emilio Imbriani. 19 Altro microtoponimo d’ispirazione risorgimentale, con cui si intese celebrare l’entrata in Napoli di Garibaldi e delle sue truppe (VII settembre 1860). Anche in questo caso, i napoletani continuarono e continuano a chiamare la piazza (e la zona circostante) «’O Spirit’ Sant’», per la presenza, nello stesso luogo, della Chiesa dello Spirito Santo, eretta nel XVI sec. e rifatta nel 1774. 20 Vd. Guida d’Italia. Napoli e dintorni, cit., p. 166. La stessa bipartizione toponomastica si ritrova nella cartina di Toledo/Napoli allegata fuori testo al volume ORTESE, Romanzi, cit., fra le pp. 1138 e 1139. Sul lato sinistro della strada, partendo da Piazza del Plebiscito, nei pressi del Banco di Napoli, si possono osservare oggi due targhe di marmo, poste curiosamente a distanza di pochi centimetri in verticale, con l’indicazione di entrambi i toponimi. Attualmente, comunque, lo stradario della città riporta solo l’odonimo più vecchio, ovvero «via Toledo», che indica tutta la strada che va da Piazza Trieste e Trento fino a Piazza Dante, altro esempio di rinominatio risorgimentale. La piazza era stata incorporata nella città nel 1765, con l’appellativo di «Foro Carolino», in onore di Carlo III di Borbone, ma nel 1872 una commissione presieduta da Luigi Settembrini deliberò, sempre su proposta di Paolo Emilio Imbriani (che aveva già suggerito la rinominazione di via Toledo, vd. supra), di innalzare una statua a Dante Alighieri, simbolo di unità nazionale. La scultura, affidata a Tito Angelini, fu poi installata nella piazza, che prese il nome del poeta. IL MALE CHE COGLIE NAPOLI 145 ma sia completamente scomparsa dal nuovo stradario cittadino, cedendo il suo posto alla originaria via Toledo, ma lasciando le tracce della sua presenza negli indirizzi che ancora la riportano come esistente negli elenchi telefonici della città.21 Tornando alla Ortese, alla luce di quanto appena ricordato, all’uscita del volume Il porto di Toledo, risultò subito chiaro che dietro il toponimo del titolo si celava la Napoli degli anni giovanili dell’autrice, nonostante l’apparente matrice ispanica dell’intero impianto topo-antroponimico dell’opera, come hanno successivamente confermato dichiarazioni della stessa scrittrice e le indagini critiche e toponomastiche condotte sul testo da diversi studiosi.22 Certamente da citare, a tal proposito, l’interessante lavoro di ricerca portato a termine dai due architetti Claudio Cajati e Yolanda Tugbang, dell’Università “Federico II” di Napoli, che hanno adoperato strumenti pluridisciplinari, in special modo storia dell’architettura e urbanistica napoletana, per giungere alla definizione dei riscontri con i luoghi reali ai quali la “Toledana” faceva riferimento nella sua «autobiografia romanzata».23 I risultati si possono leggere ora nell’Indice dei luoghi di Toledo, curato da Monica Farnetti e contenuto nel primo volume della recente riedizione della Adelphi di tutti i romanzi della Ortese, che riporta anche alcuni schizzi della visionaria Toledo napoletana, disegnata dalla scrittrice, prima ancora di essere descritta a parole.24 La sovrapposizione fantastica dei 21 Aggiornati al 30 settembre del 2002. Vd. p. es. i casi di alcuni esercizi commerciali, come il negozio di pelletterie e quello di fotografo degli omonimi «Riccardi», per i quali gli indirizzi recano ancora la vecchia denominazione, rispettivamente di «via Roma» 421 e 429 (PagineBianche, rete di Napoli 2002/2003, Torino, SEAT PAGINE GIALLE 2002, p. 744). 22 «Toledo è la Napoli degli anni venti-trenta, racconta Anna Maria a Pautasso, dove giunsi dalla Libia a dodici anni, e vissi a lungo, con i miei, in una casa e un quartiere poverissimo, il porto; e senza scuola […]», CLERICI, cit., p. 472. Sulla rinominatio del Porto di Toledo, vd. ivi., pp. 472-5. Per gli elementi autobiografici del romanzo vd. anche A. M. ORTESE, Nota a Il Porto di Toledo, EAD., Romanzi, cit., pp. 997-8. La Ortese aveva vissuto in via Piliero, nell’area portuale, diventata poi la «via del Pilar» del romanzo toledano (vd. CLERICI, cit., pp. 52-3 e pp. 54-7, a proposito della casa al porto). 23 M. FARNETTI, Pavana per un’infanta, in A. M. ORTESE, L’infanta sepolta, Milano, Adelphi 2000, p. 190. Per quanto concerne l’autobiografismo del Porto di Toledo, vd. anche FARNETTI, Anna Maria…, cit., pp. 12, 28, 112 e passim; CLERICI, cit., pp. 20, 33 e passim; BORRI, cit., pp. 20-1 e 72-7. Sulla genesi e sulla complessa vicenda editoriale del romanzo, vd. soprattutto CLERICI, cit., pp. 442-510. 24 Vd. M. FARNETTI, Indice dei luoghi di Toledo, in ORTESE, Romanzi, cit., pp. 1136-51, ed Elementi per una ricostruzione della topografia e toponomastica di Napoli nel «Porto di Toledo», ivi, pp. 1133-6. La “visionaria” ha evidentemente bisogno di “vedere”, o rivedere, i luoghi della memoria in cui decide di far muovere i suoi personaggi, aiutandosi in qualche 146 PASQUALE MARZANO due luoghi si compie così anche visivamente, ed è significativo che uno degli schizzi della Ortese ricalchi la celebre veduta di Toledo di El Greco,25 solo che al posto della città spagnola c’è quella campana.26 Lo studio dei due architetti ricorda per certi versi quello celebre di Benedetto Croce, condotto sulla novella di Andreuccio da Perugia,27 del quale si è occupato Giorgio Cavallini28 in occasione di questo convegno, o anche, mutatis mutandis, l’intrigante “inchiesta” sul legame fra toponimi inventati e reali nei romanzi polizieschi di Camilleri, portata a termine da Enzo Caffarelli per il convegno di “Onomastica & Letteratura” del febbraio 1999.29 I limiti di spazio ben definiti a cui si è solitamente costretti, mi hanno spinto però a concentrare la mia attenzione soprattutto su uno dei quattro volumi citati, ovvero sulla raccolta di cronache e racconti Il mare non bagna Napoli, che ha goduto e gode tuttora di una discreta fortuna editoriale, alimentata dalla sua ristampa negli Adelphi, nel 1994. Come si sa, lo stesso libro è stato anche motivo di profondo disagio per la scrittrice, che si ritrovò a subire una sorta di sordo ostracicaso con i disegni, e in altri con delle foto, come farà per Il cardillo addolorato, chiedendo a Franz Haas di fotografare per lei la zona del Pallonetto di Santa Lucia, dove intende ambientare una parte del romanzo, ovvero quella in cui si descrive la casa del guantaio, padre di Elmina, la protagonista femminile. Vd. CLERICI, cit., pp. 587-90. 25 A proposito della ispirazione tratta da El Greco vd. anche A. RICCIO, Toledo ovvero l’indicibile, in AA.Vv., Paesaggio e memoria …, cit., pp. 21-30, p. 28: «La Toledo spagnola non ha porto ma è lo scenario delle tele di Domenico Theotokópulus detto El Greco, l’autore del celeberrimo Entierro del Conde d’Orgaz, il pittore di albe e tramonti lividi, di cieli corruschi, di squarci di nubi abbaglianti. A lui la Ortese dedica il nome della Plaza Theotokópulus, da lui prende in prestito il nome del maestro di espressività, Maestro d’Armi, Conte D’Orgaz, da quelle tele nasce il livido clima in cui si svolge l’adolescenza e la giovinezza di Damasa Figueroa, Dasa, Asa, Toledana, Figuerina, ecc.». Vd. anche FARNETTI, Elementi per…, cit., p. 1135. 26 Vd. ivi, pp. 1136-51. Nel 1939 la Ortese aveva scritto un reportage da Ginevra, per il «Gazzettino di Venezia», per una mostra di maestri spagnoli, fra i quali spiccava appunto El Greco, che «più di tanti scrittori», secondo Monica Farnetti, le avrebbe «toccato il cuore, sollecitando numerose sue pagine a venire e con esse il sentimento che le sostiene e le ispira» (FARNETTI, cit., p. 1135). 27 B. CROCE, La novella di Andreuccio da Perugia, Bari, Laterza 1912 (ora nel volume Storie e leggende napoletane, Milano, Adelphi 1990, pp. 52-88). 28 G. CAVALLINI, Toponomastica napoletana e onomastica nella novella boccacciana di Andreuccio da Perugia e nella lettura storicizzante di B. Croce, in questo volume. 29 E. CAFFARELLI, Nomi di luoghi in Andrea Camilleri. Un’inchiesta irrisolta del commissario Montalbano, in M. G. Arcamone - F. M. Casotti - D. De Camilli (a cura di), Onomastica e intertestualità, Atti del V Convegno Internazionale di “Onomastica & Letteratura” (Pisa, 18-19 febbraio 1999), «il Nome nel testo», I (1999), 1, pp. 175-90. IL MALE CHE COGLIE NAPOLI 147 smo da parte di quegli intellettuali napoletani, di nascita o di adozione, da lei dipinti in un modo forse eccessivamente crudo e talvolta impietoso nello scritto Il silenzio della ragione, che chiude la raccolta.30 Innanzitutto, bisogna soffermarsi sul titolo, che era stato già adoperato per un articolo e per un racconto, diventato poi Il mare di Napoli.31 Inoltre, la Ortese lo aveva proposto anche per due volumi, fra i quali la raccolta di racconti pubblicata invece come L’infanta sepolta,32 nel 1950, ovvero tre anni prima del libro Il mare non bagna Napoli, uscito solamente nel 1953. In una lettera della scrittrice a Calvino (11 giugno 1953) si legge dell’idea di intitolarlo La città involontaria, come uno dei racconti che ne avrebbero fatto parte,33 scartando quello che l’autrice definisce «il marottiano Il mare non bagna Napoli».34 Calvino risponde qualche giorno dopo (16 giugno 1953), riconfermando la preferenza di Vittorini e dell’editore per l’altro titolo: […] noi saremmo favorevoli a Il mare non bagna Napoli. È un po’ marottiano, ma è ricordabile e significativo, e bene si adatta alla Napoli del libro. E poi – nota Einaudi – è giusto, perché a Napoli oggi la presenza del mare si sente pochissimo, il porto è in crisi, l’economia e tutta la struttura della città non sono marinare se non in piccola parte; cosicché la affermazione paradossale di quel titolo potrebbe divenire una definizione corrente d’una situazione [cors. aggiunto].35 Si trattava in realtà di un’espressione colloquiale e ricorrente di Pasquale Prunas,36 intellettuale sardo trapiantato a Napoli con la sua famiglia, amico della Ortese e direttore della rivista «Sud», sulla quale la giovane Anna Maria esercitò le sue qualità di osservazione della società napoletana del primo dopoguerra. L’attenzione per la realtà nella quale entrambi vivevano, che ha indotto vari critici a collocare il volume fuori dai territori fantastici abitualmente frequentati dalla scrittrice, pare le fosse stata richiesta proprio dal Prunas,37 nell’ambito di un progetto 30 ORTESE, op. cit. Ora in EAD., L’infanta sepolta, cit., pp. 122-38. 32 Ibid. 33 EAD., La città involontaria, in IMNBN, pp. 73-97. 34 CLERICI, cit., p. 239. La Ortese usa però la stessa espressione anche all’interno della raccolta, in un modo che non pare influenzato da obblighi editoriali: «Qui, il mare non bagnava Napoli [cors. aggiunto]. Ero sicura che nessuno lo avesse visto, e lo ricordava. In questa fossa oscurissima, non brillava che il fuoco del sesso, sotto il cielo nero del sovrannaturale» (ORTESE, Oro a Forcella, in IMNBN, pp. 63-71, p. 67). 35 CLERICI, cit., p. 239. 36 Vd. ivi, p. 163. 37 Sull’influenza del Prunas, affinché si mostrasse la «realtà di Napoli senza paraocchi», 31 148 PASQUALE MARZANO culturale di cui avrebbero dovuto far parte diversi intellettuali raccolti intorno alla rivista.38 Prunas riteneva che bisognasse smuovere l’apatia nella quale le classi sociali più agiate vivevano, lasciando che il resto della popolazione soccombesse ad una condizione che la Ortese attribuiva al prevalere di una Natura ingannatrice, tanto forte e radicata da ridurre al «silenzio» la «Ragione».39 Il «mare», invece, si presentava come una delle forze positive della natura stessa, soffio vitale e salvifico, topos ricorrente in tutta la narrativa della Ortese, dalla cui sfera d’azione erano esclusi gli abitanti di una vasta area della città, racchiusa in confini frastagliati, ma tracciati dall’autrice con precisione quasi cartografica.40 Gli abitanti dei vicoli, del centro storico, ma non solo, vivono a pochi metri, o pochi piani, in verticale, da un altrove che si distingue chiaramente, nonostante la contiguità fisica con la «Napoli plebea», come ci dice la scrittrice, quando racconta della zona in cui abitava Luigi Compagnone, uno degli scrittori che si sentì maggiormente offeso dalle pagine del Silenzio della ragione:41 vd. ancora CLERICI, cit., p. 252. Vd. anche la postfazione a Il Mare non bagna Napoli pubblicata dall’autrice nell’edizione Adelphi, A. M. ORTESE, Le giacchette grigie di Monte di Dio, in IMNBN, pp. 173-6. 38 Vd. Isdr, pp. 112-4. 39«La città si copriva di rumori, a un tratto, per non riflettere più, come un infelice si ubriaca. Ma non era lieto, non era limpido, non era buono quel rumore fitto di chiacchierii, di richiami, di risate; o solo di suoni meccanici; latente e orribile vi si avertiva il silenzio, l’irrigidirsi della memoria, l’andirivieni impazzito della speranza [cors. aggiunto]» (IMNBN, p. 134). «Del resto, anche il dualismo ragione-natura [cors. aggiunto] che la Ortese utilizza per interpretare le condizioni della sua città è un’idea antica». Come scrive La Capria [R. LA CAPRIA, L’occhio di Napoli, Milano, Mondadori 1994, p. 19], è il contrasto «profondo e ancestrale, tra Natura e Storia, Ombra e Luce, Istinto e ragione, o (come in Vico) tra Cosmos e Logos, che fa parte dell’anima mediterranea» (CLERICI, cit., p. 256). La Capria aveva già esposto le sue idee sul medesimo «oscuro ancestrale conflitto tra Logos e Cosmos» in un testo del 1982, raccolto poi in R. LA CAPRIA, L’armonia perduta, Milano, Mondadori 1986, pp. 67-70. La stessa dicotomia si ritrova espressa, probabilmente non a caso, in Leopardi, uno degli scrittori più amati e ammirati dalla Ortese: egli è in effetti uno dei due autori, con Dante, «a cui la Ortese si dichiara maggiormente devota» (FARNETTI, Anna Maria …, cit., p. 48). A proposito del legame con Leopardi, vd. ivi, pp. 16-7, 40, 48-9, 66-9, 74, 76, 78, 1034, 108. L’intento programmatico del libro su Napoli è descritto chiaramente in un testo della stessa Ortese, riportato in CLERICI, cit., pp. 262-3. 40 Vd. p. es. il lacerto concernente piazza Amedeo: «Ma non volli andare avanti (mi sentivo piuttosto stanca), fino a quella piazza Amedeo, per tre lati circondata da palazzi, appoggiata per il resto a una collina che la sovrasta con la sua oscura vegetazione, le rupi, i fiori. Là, in un decoro assolutamente borghese, Napoli finiva. Tornai indietro per la via Filangieri […]» (Isdr, pp. 136-7). 41 La Ortese provò successivamente, in varie circostanze, a spiegarsi e a chiarire che non intendeva ferire i suoi amici: «non intendevo assolutamente far male, recare, a qualcu- IL MALE CHE COGLIE NAPOLI 149 […] piazza Sannazaro, vicino alla nota darsena di Mergellina. Da questo porticciuolo, chiamato in origine Mergoglino42 […] immerso in una luce e in un silenzio superiori ai colori […] al tonfo dei remi che fendono l’acqua chiarissima, parte la via Nuova di Posillipo, che segue tutta la collina. E qui si può dire finisca la Napoli plebea (ch’è tutta Napoli) e cominci quella sezione civile e borghese, che per dimora non usa case o casupole […]. In realtà la divisione non è così netta, trovandosi dovunque, per Napoli, palazzi bellissimi, cinti da folti giardini, con saloni e scale di marmo, oltre i quali non è possibile immaginare l’oscurità e il fetore dei vicoli. Dove però, in Napoli, le zone di bellezza e di gioia sono isole, a cominciare da viale Elena, isole, o eccezioni, sono la bruttezza e lo stento. Il Compagnone abitava in viale Elena da vari anni e non ricordo se ne fosse mai compiaciuto (Isdr, pp. 104-5). Compagnone sembra non compiacersene, visto che dichiara di preferire il nuovo nome della strada, viale Gramsci, a quello vecchio, per evidenti ragioni di carattere ideologico.43 Egli abita comunque ai confino, del danno. Come avrei potuto? Amavo quegli amici, mi erano cari. A ciascuno dovevo un po’ della mia energia e speranza, dei miei voti che Napoli risorgesse, che il dolore e l’immobilità della vecchia capitale borbonica avessero fine. […] Non avevo voluto che questo. Ma seppi, bruscamente, che non era possibile, la voce si strozzò anche a me, non parlai più. E me ne andai, e non rividi più Napoli» (CLERICI, cit., p. 263). Molto significativo e interessante a tal proposito anche il breve testo che introduce l’edizione Adelphi, nel quale l’autrice cerca, ancora una volta, di far capire cosa l’avesse spinta a scrivere e a far pubblicare quel volume, quasi scusandosi delle «discussioni» che aveva generato e dolendosi che fosse stato interpretato come «un libro “contro Napoli”» (A. M. ORTESE, Il “Mare” come spaesamento, in IMNBN, pp. 9-11). 42 Anche in questo caso l’autrice sembra affidarsi alla guida, che riporta l’antico nome del luogo, senza avanzare alcuna ipotesi di interpretazione: «Mergellina fu celebrata nei canti dei poeti e fu dimora dell’umanista Iacopo Sannazaro (1458-1530), il quale, avuto in dono da Federico d’Aragona, nel 1497, un podere in questo luogo, chiamato allora Mergoglino [cors. nel testo orig.], vi costruì una casa, nella quale compose il poema “De partu Virginis”, e la chiesetta S. Maria del Parto (III 6), che nel 1529 donò, insieme col podere, ai Servi di Maria» (Guida d’Italia…, cit., p. 323). Ai piedi della collina di Posillipo vi è la «nota darsena di Mergellina», il cui nome deriverebbe quindi dall’antico Mergoglino. Secondo alcuni derivato a sua volta dal latino Margo-Margellus. Una leggenda narra invece di un pescatore, chiamato Mergoglino, pazzamente innamorato di una sirena che nuotava in quelle acque e inabissatosi nel tentativo di seguirla: in memoria dell’episodio il luogo avrebbe poi assunto il nome dello scomparso. Tale leggenda ricorda per molti versi quella, certo più famosa, di Niccolò Pesce, della quale si occupò anche Benedetto Croce, che ne ripercorse la genesi, rinvenendo poi le sue probabili parentele con analoghi racconti leggendari presenti nella cultura italiana ed europea (CROCE, Storie e leggende…, cit., pp. 298-305). 43 Lo scrittore dichiarò di preferirlo a quello vecchio proprio rievocando il suo primo incontro con la Ortese: «Un giorno, tornando a casa (abitavo al Viale Elena, ma preferisco il nome odierno, Viale Gramsci), vidi una giovane donna che andava avanti e indietro: un cespuglio di nerissimi capelli, nerissimi anche gli occhi, tutto un nero luminoso. Mi venne incontro: – Scusa, sei tu Compagnone? –» (CLERICI, cit., p. 241). Da rilevare che viale Elena ha subito una sorte analoga a quella di via Toledo. Il suo nuovo nome, infatti, ha incontrato una certa resistenza fra i napoletani. 150 PASQUALE MARZANO ni della città plebea, lì dove essa finisce, innalzandosi verso la collina di Posillipo e raggiungendo altezze che mettono al riparo dal male che coglie il resto della città.44 A tal proposito, vorrei aggiungere, salta subito agli occhi la presenza di quella che potremmo definire una isotopia “dell’alto e del basso”, che pervade tutto il volume, ed è paradigmaticamente espressa nella cronaca La città involontaria,45 con i relativi valori, rispettivamente positivi e negativi, tradizionalmente attribuiti ai due poli di tale coppia di opposizioni.46 Isotopia che si manifesta significativamente anche nel ritratto fisiognomico-metoposcopico di Compagnone, che viene così descritto: Era un giovane alto, distinto, con una piccola testa dai lineamenti classici, coperta di capelli castani. Gli occhi, dal taglio delicato, erano di un azzurro purissimo, velati da lunghe ciglia. Ugualmente delicati, e si può dire greci nella fattura, erano il naso e la bocca dalle labbra finemente unite, e solo di quando in quando piegate all’angolo da un sorriso torbido. Vi era qualcosa, in quel volto, tra l’estrema gioventù e la vecchiaia, e, da anni, si era fatta sempre più evidente una lotta tra certa nobiltà e gentilezza ch’erano in lui, e una disperazione e perfidia che erano ugualmente in lui, e poco alla volta, specialmente per chi lo rivedeva dopo un po’ di tempo, quella parte inferiore di lui, come un male nascosto, era avanzata [cors. aggiunto]. Non di molto, e si poteva anche non avvedersene (Isdr, pp. 105-6). Si tratta dei primi segni di un cedimento morale dell’intellettuale, che lo porterà a soccombere, come la maggioranza dei napoletani, alla “Natura”, a discapito della “Ragione”, che lo aveva invece precedentemente illuminato, soprattutto nel tentativo di distruggere il falso mito 44 A distanza di sicurezza dall’attrazione ineluttabile verso il fondo maleodorante e putrido, un movimento che risulta magistralmente e schematicamente reso nella cronaca La città involontaria (A. M. ORTESE, La città involontaria, in IMNBN, pp. 73-97), ambientata nei «Granili», un grosso caseggiato alle porte di Napoli, ovvero un ex deposito, in cui la stratificazione sociale degli sfollati che vi abitano coincide esattamente con l’altezza alla quale essi hanno diritto a vivere. Ad ogni rovescio di fortuna corrisponde la discesa, spesso irreversibile, di uno dei gradini che conducono verso l’inferno dei piani bassi. 45 Op. cit. 46 Secondo una tradizionale bipartizione schematica che risalirebbe a Parmenide, come ricorda Milan Kundera in uno dei suoi romanzi più famosi (M. KUNDERA, L’insostenibile leggerezza dell’essere, trad. it., Milano, Adelphi 1985, pp. 13-4; ed. orig. 1984): «Che cosa dobbiamo scegliere, allora? La pesantezza o la leggerezza? Questa domanda se l’era posta Parmenide nel sesto secolo avanti Cristo. Egli vedeva l’intero universo diviso in coppie di opposizioni: luce-buio, spesso-sottile, caldo-freddo, essere-non essere. Uno dei poli dell’opposizione era per lui positivo (la luce, il caldo, il sottile, l’essere), l’altro negativo. Questa suddivisione in un polo positivo e in uno negativo può apparirci di una semplicità puerile. Salvo in un caso: che cos’è positivo, la pesantezza o la leggerezza? Parmenide rispose: il leggero è positivo, il pesante è negativo. […]». IL MALE CHE COGLIE NAPOLI 151 popolare di una Napoli che, in realtà, non esisterebbe (Isdr, p. 111).47 Una parabola discendente che, secondo la Ortese, lo condurrà ad esprimere la sua ammirazione per il «nocerino» Domenico Rea, uno dei rappresentati più sfacciati di quella stessa “Natura” ritenuta colpevole della deplorevole condizione dei napoletani privati della presenza del “mare”. Quella parte di Luigi che non trovava più cosa a cui aggrapparsi, avendo tutto lacerato, e perciò moriva, fu rapita da quel tanto di furia e forza che era nelle pagine del nocerino, da quel risorto mito della napoletanità, che in quelle pagine erompeva così nudo e vivo (Isdr, pp. 122-3). Se il ritratto di Compagnone mostra i segni di una passata ammirazione e di un rimpianto legato alla sua attrazione verso la bassa Natura, quello di Rea è invece effettivamente poco lusinghiero, e ha stimolato maggiormente il mio interesse, perché si compie attraverso l’uso metaforico e antitetico di due toponimi: Più che Napoli, dove la forza è ormai debolezza, cioè isterismo, egli era la Campania [cors. aggiunto], quei contadini e carrettieri furibondi che premono alle porte di Napoli; la terra felice dove il pensiero non esce dai confini del sesso, del tumulto e il peso del sangue. La sua visione della vita non andava più in là dei meccanici contorcimenti del popolo (Isdr, pp. 147-8).48 Molto interessante, per quanto concerne gli aspetti antroponimici dell’opera della Ortese, anche il ricordo di Michele Prisco, che vale la pena citare, perché ci permetterà di stabilire un legame con la parte più squisitamente narrativa del Mare non bagna Napoli: 47 «La cultura più morta, a Napoli, è quella del sentimento: amore - gioia - bontà: un falso da esposizione. Non si può neppure arrabbiarsi: è una cultura impietrita in una (spietata) religione», lettera di Anna Maria Ortese a F. Haas, in CLERICI, cit., p. 589. 48 Rea dunque «non è Napoli», ma nemmeno altri scrittori partenopei lo sono, come p. es. Raffaele La Capria: «Rivedevo la casa del giovane a Posillipo, entro le grotte di Palazzo Donn’Anna; i maglioni celesti e bianchi di lui, che fino a pochi anni addietro era stato uno dei primi giovanottini della zona, sempre annoiati e scalzi in riva dell’acqua. Malgrado tutto questo, non mi appariva importante per una identificazione di Napoli, e difatti egli non era Napoli [cors. aggiunto], ma la cultura e i vizi e le virtù di una borghesia più che altro meridionale, la cui patria finisce per essere Roma. Io cercavo invece qualcosa che fosse Napoli, il Vesuvio e il contro Vesuvio, il mistero e l’odio per il mistero, i sussulti di un figlio di queste strade, di un fedele di queste strade, che fu, o cessò di essere soffocato, e tornò ad essere soffocato [cors. aggiunto]» (Isdr, p. 151). A distanza di anni, La Capria sentì l’esigenza di replicare, in qualche modo, e lo fece, richiamando esplicitamente alla memoria il titolo della raccolta ortesiana, trasformato però in una sorta di domanda retorica (R. LA CAPRIA, Il mare non bagna Napoli?, in ID., L’armonia…, cit., pp. 71-81). 152 PASQUALE MARZANO Era un giovane molto tranquillo, un po’ pingue, distinto; i nomi dei suoi personaggi: Reginaldo, Delfino, Radiana, Bernardo, Iris, perfettamente letterari e senza alcun riscontro nelle nostre regioni, avvertivano del suo isolamento e, più, del sereno distacco della sua immaginazione dalla furiosa e sempre tetra realtà di questa terra. Grazioso a vedersi e ascoltarsi, era per momenti in cui non si cercasse una verità (Isdr, p. 150)49 Una verità che invece, almeno in quel periodo e per quella precisa occasione editoriale era stata esplicitamente richiesta alla Ortese, che si sforzava di adempiere ad una sorta di dovere per rappresentarla degnamente anche attraverso una quasi totale fedeltà onomastica. Infatti, una delle critiche che dovette subire, e dalla quale si difese proprio con la necessità di aderire alla realtà, si concentrò sull’uso dei nomi reali di quella classe di intellettuali che forse avrebbe potuto ferire meno duramente, se li avesse occultati dietro la maschera di nomi diversi, o immaginari, così come all’inizio della sua carriera aveva nascosto sé stessa dietro lo pseudonimo di Franca Nicosi.50 Non lo fece, tranne nel caso di Gianni Scognamiglio, dal tipico cognome partenopeo,51 che fu invece citato con il poco noto cognome materno, cioè Gaedkens, per quella che fu considerata una forma di tutela dettata dall’affetto che si riteneva la Ortese avesse provato per lui.52 Questa sorta di adesione alla realtà onomastica produsse un curioso effetto anche sul racconto di un episodio apparentemente inventato nel Silenzio della ragione, ovvero 49 Prisco apprezzò il libro della Ortese, nonostante tutto, e dovette perfino difendersi da Compagnone, che lo accusava di essere ipocrita: «Caro Luigi, la differenza di giudizio sul libro di Anna Maria è data dal fatto che tu hai letto solo l’ultimo capitolo, e ti sei infuriato. Io l’ho letto tutto, e in certi momenti mi sono anche commosso» (M. PRISCO, Ortese, la lettera del felice dolore, «Corriere del Mezzogiorno», 8 aprile 1998, p. 9. Vd. CLERICI, cit., p. 241). 50 Vd. FARNETTI, Anna Maria…, pp. 59 e 105, nonché G. FIORI, Anna Maria Ortese o dell’indipendenza poetica, Torino, Bollati Boringhieri 2002, pp. 30-1 e F. DE NICOLA, «Angelici dolori», il libro di esordio di Anna Maria Ortese, in AA.VV., Anna Maria Ortese, Atti del Convegno di Studi (Rapallo, 16 maggio 1998), a. c. di F. De Nicola e P. A. Zanoni, Genova, Sagep 1999, p. 15. Sulla rispondenza con la realtà dei nomi degli intellettuali ritratti ne Il silenzio della ragione, vd. CLERICI, cit., pp. 257-8. 51 Ibid. Per la collocazione di Scognamiglio nel panorama onomastico campano, vd. E. DE FELICE, Dizionario dei cognomi italiani, Milano, Mondatori 1997, p. 229. 52 Vd. CLERICI, cit., p. 258. In verità, anche in un’altra circostanza l’autrice fu indotta ad una sorta di analoga tutela antroponimica di uno degli intellettuali da lei descritti nel suo libro su Napoli. Nell’occasione di una ristampa del volume per un’edizione scolastica, la Ortese modificò infatti il nome di Luigi Compagnone, su eplicita richiesta di quest’ultimo, che pensava a come avrebbero potuto reagire i propri figli di fronte a quel ritratto, che lo vedeva presentato come «un funzionario della RAI» e che egli riteneva evidentemente offensivo. Fu così che Luigi divenne Lelio, nell’edizione La Nuova Italia (del 1979), che riproduceva «con qualche leggera modifica l’edizione Rizzoli BUR (1975)», vd. CLERICI, cit., pp. 242-3. IL MALE CHE COGLIE NAPOLI 153 quello in cui l’autrice rievoca un incontro col giornalista Franco Grassi, in occasione del suicidio della giovane fidanzata [Giovannina Alatri] di un certo Ciro Esposito, lanciatasi da uno dei balconi prospicienti via Roma.53 Ebbene, in verità, l’episodio ricalca quasi fedelmente un avvenimento reale, ma l’incontro con Grassi era avvenuto nell’occasione dell’omicidio di una ricca vedova, che era stata moglie di un Esposito «capo delle guardie municipali».54 Quindi, si potrebbe dire, l’autrice trasfigura narrativamente la realtà di cui racconta, trasformando personaggi e causa della morte, ma conservando un legame col referente extratestuale proprio attraverso la riproposizione del cognome reale. Nel racconto Un paio di occhiali,55 con cui si apre la raccolta, la Ortese mostra la medesima attenzione per quella sorta di decoro onomastico al quale invece, come aveva opportunamente notato, si sottraeva Prisco, per ribellarsi ai lacci della «furiosa e sempre tetra realtà di questa terra» (Isdr, p. 150). Si potrebbe quasi affermare che tale racconto sia la rappresentazione narrativa di quanto esposto con un taglio giornalistico nella prosa che chiude il volume, venendosi così a costituire una sorta di percorso circolare. Infatti, Un paio di occhiali narra della miseria di una tipica famiglia di quella plebe, a cui la scrittrice faceva riferimento nel Silenzio della ragione, della sua condizione e dei suoi rapporti con gli abitanti dell’altra città, che non è “Napoli”. Un paio di occhiali però è anche e soprattutto la storia di una bambina, la terzogenita di don Peppino Quaglia56 e di Rosa, sorella minore di Carmela e Luisella e maggiore di Pasqualino e Teresella, nipote di Nunziata, abitanti del vicolo della Cupa, a Santa Maria in Portico, in una zona in cui la stessa autrice aveva realmente vissuto per un periodo:57 tutti antroponi53 Isdr, pp. 153-5. Vd. CLERICI, cit., pp. 142-3. 55 A. M. ORTESE, Un paio di occhiali, in IMNBN, pp. 15-34 (d’ora in avanti Upo). 56 Un diffuso zoomorfismo pervade l’opera della Ortese, che qui si esprime anche attraverso uno zoonimo. Vd. M. FARNETTI, Appunti per una storia del bestiario femminile: il caso di Anna Maria Ortese, in AA.VV., Bestiari del Novecento, a c. di E. Biagini e A. Nozzoli, Roma, Bulzoni 2001 («Quaderni del Novecento», 1), pp. 271-83. 57 Da segnalare, a tal proposito, una sorta di querelle relativa al piano dell’appartamento nel quale gli Ortese avevano abitato nel primo dopoguerra, nel vicolo della Cupa, divenuto poi vico Palasciano, nella zona di Chiaia. Secondo Borri (BORRI, cit., p. 17), la famiglia della scrittrice aveva vissuto nell’“abitazione-portineria del caseggiato”, mentre Clerici, pur riconoscendo in Borri un «testimone attendibile perché amico della Ortese» (CLERICI, cit., p. 10), e confermando la residenza della famiglia nello stesso immobile, precisa che la giovane Anna Maria abitava «all’ultimo piano, in un appartamento ampio e arioso» (ivi, p. 144), diversamente cioè da quanto riportato prima da Borri e poi abitualmente sottoscritto dal resto della critica, «senza eccezioni» (ivi, p. 174, n. 51). 54 154 PASQUALE MARZANO mi e toponimi ben radicati nella realtà napoletana del dopoguerra.58 Tutti, tranne forse quello della piccola protagonista, che si chiama Eugenia, distinguendosi antroponimicamente dai suoi parenti, dai quali la divide anche l’apparentemente triste sorte di essere l’unica «quasi cecata» in famiglia, come sottolinea zia Nunziata nel negozio dell’ottico di via Roma, dove Eugenia proverà per la prima volta la gioia di vedere chiaramente: Signorina bella, in casa nostra tutti occhi buoni teniamo, questa è una sventura che ci è capitata … insieme alle altre. Dio sopra la piaga ci mette il sale … [cors. aggiunto] (Upo, p. 18). La visione di via Roma attraverso le lenti graduate si rivela per la bambina un’esperienza emozionante e fantasmagorica,59 che accresce a dismisura l’impazienza spasmodica con cui attende l’arrivo dei costosi occhiali, che la zia si è impegnata a pagare con i propri risparmi («ottomila lire vive vive!»,60 ripete più volte). Un’attesa vissuta quasi in simbiosi con gli altri abitanti del vicolo, che partecipano emotivamente alla vicenda della figlia di don Peppino e Rosa. La gioia provata in via Roma è destinata però a trasformarsi in una sconvolgente e traumatica scoperta del mondo miserabile che la circonda, quando finalmente avrà modo di inforcare gli occhiali nuovi nel vicolo in cui vive.61 Ad una prima lettura, si potrebbe avere l’impressione di una scelta antifrastica operata dall’autrice nel battesimo del personaggio di Eugenia, due volte sfortunata, perché quasi cieca, ma anche e soprattutto perché 58 Come confermato dagli studi di Enzo Caffarelli (comunicaz. personale). Per «vicolo della Cupa», vd. nota precedente. 59 Upo, pp. 16-7. 60 Con un’espressione che la Ortese ha “rubato” all’amico Gianni Scognamiglio (vd. CLERICI, cit., p. 163). 61 Upo, pp. 32-4. L’esperienza traumatica della bambina ricalca un episodio analogo vissuto personalmente dalla Ortese (vd. CLERICI, cit., p. 246). L’unico personaggio che sembra capire veramente lo stato d’animo di Eugenia è Mariuccia (Upo, pp. 22-34), che nella sua caratterizzazione metonimica (Upo, p. 23) ricorda quello di Cé Montero, ovvero Celeste Montero, personaggio del Porto di Toledo, cit., ispirato dalla persona di Cecilia, governante nana della nonna di Anna Maria Ortese. Da notare, nel passaggio dal nome reale a quello fictional, la prima sillaba del prenome che resta praticamente invariata (Cecilia→Celeste→Cé). Il personaggio di Cé Montero richiama alla memoria, a sua volta, quello della «zia Nana» di Interno familiare (A. M. ORTESE, Interno familiare, in IMNBN, pp. 35-61) e di Anna, la governante dello «zio Alessandro» nel racconto Uomo nell’isola: una «scimmia» antropomorfa «comprata» a «Mindanao» (EAD., L’infanta sepolta, cit., pp. 91-7). Clerici individua un’ulteriore parentela fra questo personaggio e quello di Estrellita (EAD., L’Iguana, Firenze, Vallecchi 1965), dipanando così il filo che li collega tutti (vd. CLE- IL MALE CHE COGLIE NAPOLI 155 parte di quella plebe misera e derelitta dei vicoli: “mal nata”, dunque, contrariamente a quanto dovrebbe far pensare la radice etimologica del suo prenome.62 Non si può giurare sul fatto che la Ortese avesse coscienza di tale etimologia,63 considerando il suo retroterra culturale, ma si può certamente ricordare, come hanno già fatto vari studiosi,64 la sua grande stima per Edgar Allan Poe, autore del racconto The Spectacles (1850), ossia Gli occhiali, in cui Eugenie Laland è la promessa sposa del protagonista, fortemente miope, che la immagina giovane e bellissima, solo perché non l’ha mai vista da vicino alla luce del sole e perché non porta gli occhiali che gli avrebbero potuto rivelare la vecchiaia della donna.65 L’ammirazione per Poe, l’uso del medesimo antroponimo, e il tema analogo dei due racconti, autorizzano la supposizione di un legame,66 anche se nell’opera della Ortese è la giovane Eugenia a subire lo shock emotivo di una improvvisa e riacquistata percezione della realtà e della conseguente miseria delle cose e delle persone che la circondano, mostruosamente ingigantite «nei due cerchietti stregati [cors. aggiunto] degli occhiali» (Upo, p. 33). Illuminazione istantanea e violenta, che irradia la sua luce anche sul nome di Eugenia, inducendo RICI, cit., pp. 34-6). Per la quale vd. E. DE FELICE, Dizionario dei nomi italiani, Milano, Mondadori 1986, p. 157. 63 L’autrice aveva però già usato lo stesso prenome per altri due personaggi presenti nella raccolta L’infanta sepolta, cit., cioè per Eugenio Santillo, dagli «occhi vivi e falsi, inquieti come scarafaggi o topi prigionieri, sotto la fronte bassa» (ORTESE, Il mare di Napoli, cit., p. 125), e per Eugenia Ombra, che «evocava […] quella strana cosa a cui si riferiva il casato della famiglia, e cioè un’ombra» (EAD., Gli Ombra, in EAD., L’Infanta sepolta, cit., pp. 139-44, p. 139). Si tratta di due racconti ambientati in vicoli napoletani simili a quello in cui vive la «quasi cecata» Eugenia. 64 Vd. FARNETTI, Anna Maria…, cit, pp. 20, 69 e, per quanto concerne Upo, p. 145; BORRI, cit., p. 15 e CLERICI, cit., p. 248. Clerici riporta due dichiarazioni di grande stima della scrittrice per E. A. Poe, che la stessa Ortese non esita a definire «venerazione» (ivi, pp. 64 e 460). Un cenno all’autore nordamericano anche in A. M. ORTESE, Corpo celeste, Milano, Adelphi 1997, p. 27. 65 Il protagonista di The Spectacles non porta gli occhiali di cui avrebbe bisogno, perché non accetta la sua miopia, ma il rischio che corre è solamente frutto di una sorta di scherzo. Alla fine sposerà la giovane Stephanie Laland, ripromettendosi di non uscire mai più senza le sue lenti da vista. Da rilevare, nel racconto di Poe, una articolata disquisizione del protagonista a proposito dei suoi diversi nomi, delle loro caratteristiche fonosimboliche e di altre curiose coincidenze onomastiche. 66 Senza trascurare la lettura di O Giovannino o la morte della Serao (M. SERAO, All’erta, sentinella!; Terno secco; Trenta per cento; O Giovannino o la morte: racconti napoletani, Milano, Treves 1889), come sottolinea Clerici (CLERICI, cit., p. 248), riportando le dichiarazioni di un’intervista che egli stesso ha raccolto (ID., Il dolore bagna Napoli, «L’Unità», 14 62 156 PASQUALE MARZANO ad una sua rilettura, à rebours, che ci spinge a restituirgli il suo valore analogico per affinità. Eugenia è effettivamente “ben nata”, perché è l’unica esponente della famiglia Quaglia non costretta a subire l’offesa visiva del mondo triste e orripilante in cui si trova a vivere, come il personaggio di zia Nunziata aveva profeticamente e significativamente affermato nel negozio dell’ottico: Figlia mia, il mondo è meglio non vederlo che vederlo, aveva detto con improvvisa malinconia Nunziata (Upo, p. 18). Anche in questo racconto è presente l’isotopia “dell’alto e del basso” a cui accennavo prima, simbolicamente espressa nel confronto fra la casa dei Quaglia e quella della Marchesa D’Avanzo. La Marchesa vive nello stesso edificio della famiglia di Eugenia, ma al piano superiore, dal cui balcone si vede Posillipo, luogo posto in quell’altra città, “bagnata dal mare”, che non è “Napoli”. La contiguità con l’elemento marino, in questo caso, è garantita dalla vista, che pone la casa dei D’Avanzo in un’altra dimensione.67 Questo ci riporta al tema delle due città in una, diventato col tempo quasi un luogo comune, seguendo un percorso che risale almeno alle indagini ottocentesche di Rocco De Zerbi,68 ma al quale lo stesso vituperato Rea ha portato il suo contributo con Le due Napoli,69 tappa certamente non conclusiva di un simile viaggio verso il cliché.70 Ghirelli riassume tale condizione della città, rimaggio 1994, p. 7). 67 Per il fondamentale tema ortesiano della vista, o dello sguardo, vd. FARNETTI, Anna Maria…, cit., pp. 138-46. 68 Vd. GHIRELLI, cit., pp. 286-7, ma anche Paolo Macry (P. MACRY, I giochi dell’incertezza. Napoli nell’Ottocento, Napoli, L’ancora 2002, p. 91): «La pubblicistica sottolinea la spaccatura che divide la città borghese dalla città plebea, l’una addossata all’altra e tuttavia reciprocamente estranee. Di queste due nazioni Davide Mele scrive nel 1906 [D. MELE, Napoli e le sue nuove condizioni industriali, in ID., L’avvenire industriale di Napoli negli scritti del primo Novecento, a c. di G. Russo, Napoli 1963, p. 343], che “differiscono fra loro materialmente, igienicamente, moralmente. Si percorre il Rettifilo, e par di essere in una delle capitali più civili d’Europa. Si discende nei vicoli, a destra ed a sinistra, e par di entrare nell’Abissinia”. 69 D. REA, Le due Napoli (saggio sul carattere dei napoletani), in ID., Quel che vide Cummeo, Milano, Mondadori 1955. 70 I concetti elaborati da Rea nel suo saggio non possono però essere sommariamente ridotti alla loro stereotipizzazione e risultano in qualche maniera ancora attuali, come dimostrano le osservazioni di Domenico Scafoglio (D. SCAFOGLIO, Un’odissea etnografica, prefazione a T. BELMONTE, La fontana rotta. Vite napoletane: 1974, 1983, trad. it., Roma, Melteni ed. 1997, pp. 7-21), il quale ritiene che l’antropologo italo-americano Thomas Belmonte abbia condotto la sua apprezzata ricerca sul basso ceto napoletano proprio sulla scorta di alcune delle idee di Rea, «convinto che una città estremamente complessa come Napoli non IL MALE CHE COGLIE NAPOLI 157 cordando: «Nel trentennio seguito all’unificazione, l’incomunicabilità fra le due Napoli si è accentuata anziché attenuarsi. […] Sono due pianeti che girano nella stessa orbita senza incontrarsi mai […]».71 Risulterà dunque ancora difficile distinguere ed afferrare la “realtà” alla quale dovrebbe rimandare il toponimo Napoli. Difficoltà sentita anche da un viaggiatore d’eccezione, Jean Paul Sartre, citato non a caso, perché la Ortese confessa una certa ammirazione nei suoi confronti ed è fiera di ricordare che il suo amico e mentore Pasquale Prunas ne ha pubblicato «il primo saggio […] sull’Esistenzialismo» (Isdr, p. 113). Sartre dichiara di aver «scoperto» a Napoli «l’immonda parentela tra l’amore e il Cibo» e racconta dello spaesamento che lo colse un giorno di settembre del 1936, seduto ai tavolini del Caffè Gambrinus, all’inizio di via Roma, fino a fargli porre la domanda: «Ma sono a Napoli? Napoli esiste?».72 La sua ricerca, condotta in via Roma, lo delude, perché gli presenta una Napoli da cartolina, lontana da quella che si aspettava di trovare, ma alla quale cedono facilmente i suoi compatrioti. Per trovarla, finalmente, gli basta però addentrarsi in un vicolo, ai margini di quella stessa via che aveva affascinato con i suoi negozi e i suoi colori la piccola Eugenia. Non vedevo altro che carne, fiori miserabili di carne che fluttuavano in una oscurità blu, carne da palpare, da succhiare, da mangiare, carne molle, inzuppata di sudore, di urina, di latte. All’improvviso un uomo s’inginocchiò vicino a una bambina e la guardò ridendo; rideva anche lei, diceva: “Papà, papà mio”; poi alpossa essere conosciuta se non guardandola dal basso, dal lato oscuro dove diventano leggibili le sue regole occulte e si fa permeabile il mistero della sua vita» (SCAFOGLIO, cit., p. 8). Il «bel saggio» di Rea, del resto, era già stato adoperato da Raffaele La Capria (R. LA CAPRIA, Il filo conduttore, in ID., L’armonia…, cit., pp. 125-38), per tentare di spiegare in cosa consistesse la «napoletanità» e facendo notare che una serie di miti e concetti sulla città partenopea e i suoi abitanti, ormai ben radicati nell’immaginario collettivo, non avrebbero avuto modo di nascere e svilupparsi, «se davvero il mare non bagnasse Napoli» (ivi, p. 132). 71 GHIRELLI, cit., pp. 290-1. 72 J. P. SARTRE, Alimenti, in ID., Spaesamento. Napoli e Capri, trad. it., Napoli, Edizioni Libreria Dante & Descartes 2000, pp. 19-23, p. 19. «I primi due testi pubblicati, Alimenti (Nourritures) e Spaesamento (Dépaysement), sono scritti a seguito di un viaggio compiuto da Sartre e da Simone de Beauvoir in Italia nell’estate del 1936. Su questo viaggio, oltre alla novella Dépaysement da cui Sartre ricavò il frammento Nourritures, pubblicato sul numero 4 del 1938 della rivista “Verve”, possediamo anche una bella pagina di La force de l’âge, uno dei taccuini-diari redatti da Simone de Beauvoir. In questa pagina, la scrittrice racconta della curiosità che Napoli accendeva in lei e in Sartre, del contrasto tra la Guide Bleu che ne vantava il fascino senza spiegarlo e il giudizio della sorella che non l’aveva trovata affatto bella, ma solo sporca. A Napoli, annota Simone, “la vita degli uomini si esibisce nella sua nudità organica, nel suo calore viscerale: sotto questo aspetto, Napoli ci stordì, ci nauseò, ci 158 PASQUALE MARZANO zando un po’ il vestito della bambina, l’uomo le mordicchiò come pane le natiche grigie. Sorrisi: mai altro gesto mi è parso così naturale, così necessario. Alla stessa ora miei fratelli vestiti di bianco, a via Roma, compravano per la cena dei ninnoli verniciati… “È fatta, pensai, è fatta”. Mi sentivo immerso in un’enorme esistenza carnivora: un’esistenza sudicia e rosa che si rapprendeva su di me: “È fatta: sono a Napoli”.73 Sartre riesce dunque a trovare la sua Napoli, ma di quale “Napoli” si tratta? Non è forse la stessa città “non bagnata dal mare”, verso la quale la Ortese, fraintesa, sperava che i suoi amici intellettuali guardassero con occhi diversi, deponendo le lenti «stregate» del filtro letterario, o di quello della Natura, della mitologia e, in fondo, del folklore? Concludo, citando Pirandello, per provocare una possibile risposta: «Non c’è uomo […] che differisca più da un altro che da sé stesso nella successione del tempo».74 Basta sostituire il sostantivo «uomo» con ‘luogo’, o con ‘toponimo’, e il gioco è fatto. stregò”» (A. MONTANO, Introduzione a J. P. SARTRE, cit., p. 14). 73 SARTRE, Alimenti, cit., pp. 22-3. 74 L. PIRANDELLO, L’umorismo, Milano, Mondadori 1986 (Lanciano, Carabba 19081), p. 158. Pirandello cita a sua volta da Blaise Pascal, che sarebbe il vero autore della massima