La nuova ‘polis’ e il ‘nomos’
L’opera di Anna Maria Ortese tra stasi ed erranza
Di Daniele Visentini
Il 25 febbraio del 1945, scrivendo a Valentino Bompiani per scusarsi del ritardo accumulato nella
consegna del libro che avrebbe dovuto seguire gli Angelici dolori stampati otto anni prima, l’Ortese
medita sulla propria condizione di scrittrice e, tout court, di essere umano: «io sono venuta su in
tempi difficili, e non ho ricordo che di pene e di stenti»1, si giustifica Anna Maria con l’editore; e
prosegue senza esitazioni confessando la sua disperazione, frutto d’un malessere psicologico
profondo e della penuria di risorse economiche in cui ella versa:
Da cinque anni a questa parte […] l’aria per lavorare mi è mancata: non ho avuto più una casa, un tavolo, una
sedia che fossero miei. Non ho avuto pace né pane sicuro. Era naturale che mi lasciassi andare e, molto spesso, mi
dimenticassi perfino di avere avuto delle ambizioni e di dovermi preparare un avvenire 2.
Il ricordo della guerra è dietro l’angolo e ad esso s’aggiunge, quasi a conferma di un’innata
vocazione all’instabilità, un passato di spaesamento, distratto da continue migrazioni lungo l’asse
della Penisola e oltre, sino ai margini del deserto libico3.
In altri casi l’Ortese non esiterà a descriversi come una “figlia della guerra”. In effetti sarà Anna
Maria stessa, trascorsi ormai trent’anni dall’ultimo conflitto mondiale, a individuare nell’esperienza
bellica la dolorosa, ma rilevante svolta che avrebbe comportato per lei una revisione totale del
mondo e delle sue categorie, a partire da quella fondamentale dello spazio. Nello scritto Dove il
tempo è un altro, ricordando il trasferimento della propria famiglia a Burano nel 1944, l’autrice
ammette:
Vivemmo, parte di noi, in casa dello spazzino del paese, ma era sempre un luogo più sicuro e amabile del Lazio,
dove, a quanto seppi dopo, erano accaduti orrori. E questa parola: orrore, sebbene, nella mia esperienza di allora,
solo di matrice storica e sociale, fu l’ultima grande parola che appresi, riguardo al vivere universale. Lo spazio,
l’AZUR, il sogno; quindi il tempo – la fuga della giornata precedente, lo spostarsi della nave umana, poi lo sparire
improvviso degli esseri, quindi il SILENZIO. Infine, ecco l’Orrore4.
A tale mutazione dell’animo segue, senza soluzione di continuità, quella tendenza all’apolidia che
l’Ortese manterrà sino alla vecchiaia e che sarà una delle componenti essenziali della sua arte:
sempre alla ricerca di un luogo, di una città, di una casa in cui fermarsi, la scrittrice rinuncia alla
propria stabilità geografica per assecondare quel «tumulto del cuore»5 che la porta a compiere
peregrinazioni improvvise e ingiustificate6.
1
Lettera di Anna Maria Ortese a Valentino Bompiani del 24 febbraio 1945, in L. CLERICI, Apparizione e visione. Vita e opere di
Anna Maria Ortese, Milano, Mondadori, 2002, p. 134.
2
Ibid.
3
Una ricostruzione degli spostamenti di Anna Maria è stata effettuata, oltre che da Clerici, anche da Maria Vittoria Vittori (cfr.
M.V. VITTORI, Storia di un’amicizia, «Leggendaria. Libri, letture, linguaggi», II (1998), n. 9, pp. 10-11).
4
A.M. ORTESE, Dove il tempo è un altro, in Corpo celeste, Milano, Adelphi, 2004, p. 74.
5
EAD., Trovata la casa iniziato il gioco, “Milano-sera”, 6 marzo 1950, p. 3. Nel mese di novembre del 1949, sempre sulle
pagine di “Milano-sera”, l’Ortese aveva pubblicato anche il racconto Stregata una stanza, in cui si possono ritrovare chiari
riferimenti alla propria instabilità geografica (cfr. EAD., Stregata una stanza, “Milano-sera”, 5-6 novembre 1949, p. 3, poi
ripubblicato con alcune varianti in EAD., L’infanta sepolta. Racconti, Milano, Milano-sera, 1950, pp. 69-77).
6
Secondo l’Ortese, tali viaggi e traslochi furono intrapresi per rimediare, di volta in volta, a forti disagi economici (cfr. EAD.,
Nota, in Estivi terrori, postfazione di A. Cambria, Roma, Pellicanolibri, 1987, p. 65). Molti critici, tra i quali Clerici e Aurelio
Benevento, hanno però ricondotto tale propensione allo spostamento a urgenze d’altra natura, decisamente più psicologiche che
materiali (cfr. in particolare A. BENEVENTO, “Il mare non bagna Napoli”. Anna Maria Ortese e gli amici di Napoli, in Novecento
D’altronde, non è casuale che uno dei più celebri, icastici ritratti di Anna Maria, quello inserito
da Vittorini nel risvolto del Mare non bagna Napoli nel 1953, faccia leva proprio su questa
peculiare tendenza al nomadismo, estendendone il senso all’intera opera della scrittrice. Per il
curatore dei Gettoni einaudiani, l’Ortese «ha vagato per dieci anni come una sonnambula. È stata
una zingara assorta in un sogno»7, in un’ottica in cui il dato concreto e quello ideale, rappresentato
dalla ricognizione letteraria, vanno a comporre un inestricabile sinolo.
Con l’identico sostantivo, zingara, la stessa Anna Maria si definirà numerose volte negli anni a
venire, confermando implicitamente l’idoneità di tale termine a inquadrare la propria personalità. E
si ricordi, ad esempio, l’intervista del 1975 con Dario Bellezza, che già dal titolo recita Sono una
zingara odio gli scrittori8.
Zingara per antonomasia, dunque, è Anna Maria; il che vale a dire dolorosamente sradicata e, di
conseguenza, errante. Un assunto, quest’ultimo, che rimanda di necessità a un’originale, in gran
parte inedita interpretazione del concetto di luogo e, lungi dallo svolgere una funzione puramente
connotativa, permette di gettar luce su alcuni aspetti dell’opera ortesiana rimasti sinora in ombra.
Di una sorta di epifania dello spazio, svincolato finalmente dal tempo, l’Ortese parlò apertamente in
un’intervista rilasciata a Sandra Petrignani alla metà degli anni Ottanta. Per Anna Maria, a seguito
di un senso crescente di disillusione avvertito durante e dopo la guerra, i rapporti di forza tra tempo
e spazio subirono un forte mutamento nella propria percezione del mondo: in quel periodo,
racconta, «vissi in ogni luogo con animo nemico, mi sentivo, ed ero, derubata dal mondo»9; e
appresso, riflettendo sul passaggio che dalla giovinezza la portò a una piena maturazione artistica,
conclude:
Misurai il tempo che era passato, e solo il tempo, la durata, mia e di tutti gli uomini e le cose, mi colpì
amaramente. Il tempo passava! Il tempo riempiva tutto col suo pendolo. E passare – con lo sguardo di dentro – da
questo pendolo al muro dove l’orologio era fissato, fu naturale. Muro d’aria. L’esterno! Lo Spazio, il Luogo dove
questo piccolo tragico mondo si muove! Il Sole che lo illumina e scompare ogni sera, e al mattino riappare. Su tutta
la Storia, il Sole10.
Per l’universalizzazione e la spazializzazione del concetto di storia che propongono, queste parole
richiamano la «dottrina “naturalistica” ed “ecumenica” di uno Jules Michelet»11 ricordata, a
proposito dell’Ortese, già da Monica Farnetti: protagonista assoluto di tale Storia, con l’iniziale
maiuscola, non è l’effimero tempo dell’uomo, ma il complessivo, multiforme spazio del pianeta
Terra da cui s’origina il movimento della vita. Lo spazio, permettendo il moto, lo spostamento, il
viaggio, determina infatti la nozione stessa di durata e dà, letteralmente, luogo al tempo.
A tal proposito, una lettura interessante può scaturire dall’applicazione, al pensiero dell’Ortese,
del metodo d’analisi interdisciplinare sperimentato di recente dal fondatore della scuola geocritica
di Limoges, Bertrand Westphal. Già leggendo l’incipit dello scritto Pour une approche géocritique
des textes, si nota come le parole di Westphal ben si adattino a spiegare lo spaesamento provato da
Anna Maria in seno alla seconda guerra mondiale:
italiano. Saggi su Pirandello, Rebora, Montale, Ortese, Maier, Cecovini e La Capria, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 2008,
pp. 45-61, a p. 60).
7
E. VITTORINI, I risvolti dei “Gettoni”, a cura di C. De Michelis, Milano, Scheiwiller, 1988, p. 61.
8
Cfr. D. BELLEZZA, Sono una zingara odio gli scrittori, «Il Mondo», XXVII (1975), n. 20, pp. 64-65. Si ricordi, poi, un’altra
importante intervista con Dacia Maraini, di due anni precedente. In essa l’autrice del Mare non bagna Napoli e dell’Iguana estende
tale definizione a tutta la propria famiglia, prostrata e disfatta dalla guerra; Anna Maria, infatti, riferisce all’intervistatrice: «Nel
dopoguerra ho avuto proprio fame. Una fame angosciosa, da mangiarsi le scarpe bollite. Come ho fatto a sopravvivere, non lo so.
Ancora nel ’47, ’48 la vista di una patata mi rianimava […]. Non avevo neppure casa: con i miei, andavamo come zingari da un posto
all’altro» (D. MARAINI, Anna Maria Ortese, in E tu chi eri? Interviste sull’infanzia, Milano, Bompiani, 1973, p. 31).
9
A.M. ORTESE, La libertà è un respiro, in Corpo celeste, cit., p. 114.
10
Ibid.
11
M. FARNETTI, Anna Maria Ortese, Milano, Mondadori, 1998, p. 18.
Jamais sans doute la perception de l’espace n’aura été aussi complexe que depuis la fin de la Seconde Guerre
mondiale. Les horreurs qui ont bouleversé l’histoire de l’Homme entre mille neuf cent trente-neuf et mille neuf cent
quarante-cinq, et dont les pires furent concentrées en quelques hectares ceints de barbelés, ont entraîné une nouvelle
lecture du temps; elles n’ont pas immédiatement affecté la lecture de l’espace 12.
Lo studioso, qui, non fa che gettare le premesse del discorso geocritico: esaminando l’impatto che
l’ultimo conflitto mondiale ebbe sulle sorti del pianeta, Westphal suggerisce di riformulare l’idea di
cronotopo a proposito della letteratura successiva al 1945, per cui non più la dimensione temporale,
come teorizzato da Bachtin, sarà responsabile d’informare e indirizzare lo spazio, ma al contrario lo
spazio stesso si porrà come termine modellante.
Facendo perno su questo assunto, Westphal si sofferma anche a indagare il significato profondo
di quell’erranza la cui centralità, nella vita e nel pensiero dell’Ortese, è stata già evidenziata.
Nell’articolo L’angelo e il nomade, apparso sulle pagine della rivista «Moderna», il critico francese
si concentra, difatti, sul fenomeno del nomadismo e lo riconduce a uno stadio della vita umana
antecedente alla creazione dei limiti geografici e, di conseguenza, alla geografia stessa, intesa come
comprensione particolare e organizzazione dello spazio. «Ulisse», asserisce allora Westphal, «non
era già più un nomade; errava alla ricerca dell’isola perduta. Il vero nomade dovrebbe errare, e
basta. Non dovrebbe cercare, né fuggire, solo muoversi»13. Nel suo indomabile bisogno di moto e di
eterogeneità, insomma, il nomade resta sempre identico a se stesso, privo sia di motivazioni, sia di
scopi ultimi. Con queste premesse teoriche, il critico tenta infine d’individuare le cause di ciò che
definisce «crisi del nomadismo», e ne ravvisa un indizio importante già nell’etimo dell’aggettivo
“nomade”: quel nomos identificato col pascolo, dapprima in contrapposizione alla polis, è infatti
etimologicamente imparentato col verbo némein, che significa “spartire, dividere”. In quanto
«distribuzione di eterogeneità in uno spazio libero»14, secondo la nota formula di Deleuze e
Guattari, il nomos è il prodotto di una dynamis che si esaurisce nell’atto stesso della creazione,
poiché a essa segue la fissazione di vincoli, norme, confini geografici che trasformano l’iniziale,
positiva eterogeneità del reale nel concetto negativo, pertanto demonizzabile, di differenza: come il
Prometeo del mito, «il nomade sarà dunque quello che dà uno slancio iniziale, prima di essere
castigato e travolto a causa della sua audacia creatrice»15; ossia sacrificato alla polis finalmente
eretta, supremo simbolo di sedentarietà e di omologazione.
A ben vedere, due idee analoghe a quelle di nomos e polis si ritrovano anche nel pensiero
dell’Ortese: si tratta della dicotomia tra Ragione e Intelligenza, dove al primo termine corrisponde
«la conoscenza […] del complesso di leggi – non visibili ma riconoscibili – che rendono possibile la
vita»16, mentre l’Intelligenza si configura come quel «contrappasso della ragione»17 il cui scopo
«non è durare o creare», bensì «annientare o umiliare in modo totale il suo predecessore (natura,
legge)»18 mediante le logiche devianti del denaro, del progresso e dell’esclusione del debole. Per
Westphal e per l’Ortese, sotto l’egida dell’Intelligenza (o polis) si è sviluppata la borghesia
contemporanea, indifferente «a qualsiasi insopportabile lamento dei figli della vita»19 e dunque
autoreferenziale, indistinta, immobilizzata; essa ha perduto quell’originaria dynamis che è
quintessenza della creatività, e senza la quale la vita dell’uomo sulla Terra si riduce a vana
sussistenza, a un’incapacità espressiva avvilente.
Tuttavia, è proprio prendendo coscienza di tale inerzia che si riscopre tutto il potenziale
espressivo dell’erranza, considerata ormai non in senso materiale, ma del tutto spirituale. Lo stesso
Westphal ammette la possibilità che rinasca, oggi, un nuovo nomade (identificato con l’angelus
B. WESTPHAL, Pour une approche géocritique des textes, in La Géocritique mode d’emploi, «Espaces Humains», I (2000), n. 0,
Limoges, PULIM, pp. 9-40, a p. 9.
13
ID., L’angelo e il nomade, «Moderna», IX (2007), n. 1, pp. 45-54, a p. 45.
14
Ivi, p. 48.
15
Ibid.
16
A.M. ORTESE, Non da luoghi di esilio, in Corpo celeste, cit., p. 138.
17
Ibid.
18
Ivi, p. 140.
19
Ibid.
12
novus benjaminiano) il quale, avendo imparato la lezione della storia, «sa che la polis classica si è
spenta come un sistema entropico chiuso»20; e l’Ortese, dal canto suo, può rappresentare con la
propria vita e la propria opera un esempio di risveglio della coscienza orientato in tal senso. Come il
nuovo nomade di Westphal, anche Anna Maria, la zingara, la viaggiatrice conscia del senso di
deprivazione (quella non appartenenza che, in un’autointervista del 1997, descrisse come
«condizione inevitabile per una certa libertà»21) e dello choc geografico seguiti al periodo bellico,
«ha imparato la lezione della storia»22 e, di conseguenza, ha riscoperto il valore di un’erranza
davvero fine a se stessa.
In ciò sta anche il significato della religione della Terra professata dall’Ortese: la Terra, al di là
di ogni ragione politica, di ogni nazionalismo, è lo spazio unico della vita in cui l’uomo,
combattendo un preconcetto senso dell’orientamento e un altrettanto preconcetto senso
dell’appartenenza, può affrancarsi dalla schiavitù dell’Intelligenza e riconquistare, attraverso
l’imprescindibile dimensione del viaggio23, il potere creativo (o, per dirla con l’Ortese, espressivo)
del nomos originario, della Ragione.
«Sento che vivere è viaggiare, e viaggiare è crescere. Sento che occorre un mutamento nel
paesaggio. Sento che è fondamentale un mutamento nel cuore»24, scrive Anna Maria citando Susan
Sontag; e il viaggio cui si riferisce non è tanto fisico, quanto ideale: è la scrittura, grazie alla quale
lo spazio esterno del paesaggio e quello interno dell’animo umano, giungendo al punto di fusione,
riacquistano vicendevolmente senso e, di conseguenza, si rinnovano del tutto.
Ciò si osserva in modo particolare in quel libro che Franz Haas, non a caso, descrisse come
l’opera più cara, autentica e, nel contempo, più napoletana di Anna Maria25, ossia Il porto di
Toledo. Sfogliando il libro, ci si imbatte in una delle formule più interessanti con cui l’Ortese volle
fissare la propria idea di letteratura. La parola, qui, è affidata al Conte d’Orgaz il quale, in una delle
sue prime lettere alla Toledana protagonista del romanzo, mostra come il gesto artistico non
consista in un rifacimento della realtà, ma nella realizzazione ex novo di un mondo in tutto e per
tutto autonomo da quello degli uomini; un mondo ideale, ma non per questo meno reale del primo:
Secondo d’Orgaz, ogni volta che mente umana entrava nel mondo dell’Espressività, lavorava a nient’altro che
alla costruzione di un nuovo continente, o terra, dove, finché sul mondo vi fosse stata la caducità, i naufraghi
avrebbero trovato salvezza, sebbene temporanea. L’umanità, in tale continente, avrebbe trovato pace. Questo
continente era il fiore della storia (come somma del vivere), della scienza e delle arti tutte, essendo l’Espressività26.
«Fiore della Storia» e «nuovo continente» o ancora, come nel titolo di un suo famoso saggio,
«continente sommerso»27, la letteratura è la vera patria della Ragione contro la violenza che
attanaglia l’uomo moderno, il quale conserva sì il denaro, la sua macchinosa intelligenza, la sua
arroganza, ma come ogni colonizzatore – ed egli è colonizzatore dell’intera Terra – è eterno
straniero, eterno esiliato, spogliato sia della Ragione, sia della cognizione profonda del “Luogo”.
Non ha dunque torto Giancarlo Borri quando asserisce che la riflessione del Conte d’Orgaz
potrebbe intendersi come «vera chiave di lettura per entrare nel mondo della scrittrice»28: un mondo
in cui realtà biografica e invenzione fantastica, così come luoghi mentali e luoghi fisici, fanno
B. WESTPHAL, L’angelo e il nomade, cit., p. 53.
A.M. ORTESE, Dialogo sull’appartenenza, «Lo Straniero. Arte, Cultura, Società», I (1997), n. 1, pp. 6-8, a p. 7.
22
B. WESTPHAL, L’angelo e il nomade, cit., p. 53.
23
Interessante, a questo proposito, è il giudizio espresso da Clerici nella postfazione alla Lente scura: secondo lo studioso, quella
dell’Ortese è in effetti una reale «coazione al viaggio», che «esprime […] una sofferta distanza dal mondo, ma anche il desiderio e la
caparbia volontà di testimoniare» (L. CLERICI, Una inaffidabile viaggiatrice visionaria, postfazione ad A.M. ORTESE, La lente scura,
Milano, Adelphi, 2004, pp. 455-65, a p. 462).
24
A.M. ORTESE, La libertà è un respiro, cit., p. 133.
25
Cfr. F. HAAS, La cacciata dal Purgatorio. Anna Maria Ortese e Napoli, «Belfagor», LXII (2007), n. 3, pp. 334-42, a p. 340.
26
A.M. ORTESE, Il porto di Toledo, Milano, Adelphi, 1998, p. 112.
27
Cfr. EAD., Il continente sommerso, in In sonno e in veglia, Milano, Adelphi, 1987, pp. 111-128.
28
G. BORRI, Invito alla lettura di Anna Maria Ortese, Milano, Mursia, 1988, p. 90.
20
21
tutt’uno. La stessa Toledo intorno alla quale si svolge la vicenda umana e letteraria di Damasa,
infatti, che cos’è se non la città più amata da Anna Maria, Napoli, resa finalmente espressiva,
liberata dalle pastoie del suo atavico immobilismo? Il porto che proietta la polis fuori dal confine
del conoscibile, verso l’inarrestabile moto dei mari e l’eccitato terrore dei naufragi, che cosa può
rappresentare se non la redenzione di quel «pezzo di deserto azzurro»29 del golfo partenopeo?
Tramite l’espressione letteraria, l’Ortese trasforma la stasi in movimento, la polis in un nuovo (tutto
spirituale e, si potrebbe dire, morale) nomos. O, per meglio dire, la trasformazione è quella della
vecchia polis in una polis nuova, una nea polis, appunto, non più schiava dell’ozio e delle
canzonette, ma divenuta il “Luogo” in grado di condensare in sé tutti gli altri luoghi.
Una simile dinamizzazione del mondo reale, tra l’altro, non è osservabile nel solo Porto di
Toledo. Si pensi, per esempio, all’invenzione geografica di quell’isola, Ocaña, che fa da sfondo
all’Iguana. Seppur in scala ridotta, Ocaña è davvero il nuovo continente annunciato dal Conte
d’Orgaz: isola posta oltre le Colonne d’Ercole, che «non è neppure segnata sulle carte, tanto è
piccola»30, essa in effetti è allegoria di un mondo infecondo, desertificato, il cui unico reale punto di
riferimento geografico non può che essere quel Portogallo esteso al di là dell’orizzonte, terra di
Sebastiano I segnata da un eterno destino di sconfitta e volontà di redenzione31.
È su questo «squallido corno di roccia affiorante dal mare»32 che il protagonista del romanzo,
Daddo, è destinato ad approdare mentre ricerca terre da acquistare per l’edificazione d’immobili.
Daddo è lombardo e riproduce, nella percezione dell’Ortese, il polo opposto della napoletanità:
dietro di lui vi è quella Milano, capitale dell’isteria e dell’utilitarismo, in cui l’autrice dell’Iguana
visse tra la fine degli anni Quaranta e tutti gli anni Cinquanta, una città in cui «si è soli. Molto più
soli che a Napoli, e uno può morire»33. Daddo, nonostante ciò, è una superstite anima buona, non
affatto schiavo del materialismo e dell’intelligenza lombarda, ma anzi tanto propenso a seguire la
voce del proprio istinto da innamorarsi dell’iguana Estrellita asservita alle volontà del Marchese
Ilario Guzman e dei suoi due fratelli, proprietari – nonché unici abitanti – di Ocaña. Ora, se l’isola
simboleggia la Terra, resa ormai sterile da esseri umani sempre meno disposti ad accettare la
dynamis della vita, e se Daddo è chi tale dynamis (paradossalmente, in quanto milanese)
rappresenta, il Marchese Guzman e i suoi fratelli possono essere visti come gli eredi di quel male
partenopeo che l’Ortese descrisse come una stasi generalizzata derivante dall’«elevare una categoria
inesistente – il “naturale” – a modello di vita»34. Il ricordo indelebile di una remota perdita35, nei tre
abitanti di Ocaña, è in effetti l’esplicitazione della saudade portoghese per cui «il tempo presente è
appena un’assenza»36 e l’identità nazionale stessa si proietta nella sola dimensione del mito; e certo
la saudade ricorda da vicino l’immobilizzazione e il senso di non appartenenza civile tipici del
popolo napoletano.
Daddo e i Guzman, come Milano e Napoli, raffigurano pertanto le due antitetiche, ma speculari
concretizzazioni della polis che furono cruciali nell’esperienza biografica stessa di Anna Maria.
Lettera di Anna Maria Ortese a Pasquale Prunas dell’11 dicembre 1952, in L. CLERICI, Apparizione e visione, cit., p. 251.
A.M. ORTESE, L’iguana, Milano, Adelphi, 2007, p. 28.
31
Lo stesso don Ilario in effetti, dopo aver dichiarato la totale indipendenza di Ocaña da qualsiasi nazione, ammette: «Tuttavia,
noi ci sentiamo sempre portoghesi. Tale, almeno, era la nostra famiglia, quando da Lisbona, nel 600, si trasferì qui» (ibid.).
32
Ivi, p. 24.
33
Lettera di Anna Maria Ortese a Pasquale Prunas del 17 agosto 1948, in L. CLERICI, Apparizione e visione, cit., p. 180. Nella
stessa lettera, tuttavia, l’Ortese aggiunge: «almeno questo è tutto quanto vedo per oggi di questa grossa Milano, eppure resisto. […]
Non saprei che fare, di me, dove andare, se lasciassi questa zona» (ibid.). In effetti il rapporto tra la scrittrice e la città lombarda sarà
sempre assai travagliato, perennemente in bilico tra devozione e repulsione: da una parte Milano rappresenta, per Anna Maria,
«l’Arca dove dio salvava gli italiani poveri dal tumulto e l’offesa della natura» (A.M. ORTESE, Il silenzio di Milano, “L’Unità” [ed. di
Milano], 20 ottobre 1957, p. 3); dall’altra è, però, il supremo simbolo di una civiltà totalmente industrializzata, raggelata, devota
unicamente al lavoro e al denaro.
34
A.M. ORTESE, Attraversando un paese sconosciuto, in Corpo celeste, cit., p. 47.
35
Si noti che l’iguana Estrellita, prima di divenire tale a seguito di un tremendo e misterioso dolore, fu una scimmia di nome
Perdita, per la quale Ilario di Guzman provò un profondo sentimento d’amore. Va anche osservato che il libro scritto da don Ilario –
intitolato, significativamente, Portugal – venne dedicato proprio alla scimmietta Perdita (cfr. EAD., L’iguana, cit., pp. 46-48).
36
G. LANCIANI, Il sebastianismo: un sogno che nasce come logos, Atti del XVII Convegno dell’Associazione Ispanisti
Italiani, Milano, 24-25-26 ottobre 1996, vol. I (Sogno e scrittura nelle culture iberiche), Roma, Bulzoni, 1998, pp. 339-51, a p. 343.
29
30
Ammesso ciò, è lecito concludere che, nel fitto tessuto allegorico del romanzo, l’iguana si
identifica con quella Ragione, o nomos, strumentalizzato, spodestato dall’Intelligenza e a
quest’ultima tragicamente asservito37. In tal senso, forse, va letto il pagamento di Estrellita in sassi
(e si ricordi il disprezzo da sempre manifestato dall’Ortese per il denaro), o la stessa condizione
fisica del personaggio, senza età38 e sempre in bilico tra l’animale e l’antropomorfo. Va da sé che
Daddo, innamorandosi dell’iguana, ossia riscoprendo la Ragione – ma si legga, ancora una volta,
nomos – non possa far altro che perdere di vista ogni suo obiettivo pratico, errare per errare e infine
morire, precipitando in un pozzo39. Sacrificato per aver tradito, col suo gesto spassionato,
l’Intelligenza: proprio come muore, lo si ricorderà, il nomade descritto da Westphal.
La vicenda del giovane imprenditore milanese che, dimentico dei propri scopi, si trasforma da
nuovo Ulisse alla ricerca di terre in nuovo nomade del tutto spaesato, è perciò di grande valore
etico. Lo dimostrano indirettamente quegli stessi fratelli Guzman che, dopo il sacrificio di Daddo,
ritrovano dentro di loro il germe di una grezza, ma comunque struggente ispirazione lirica, e
innalzano al cielo l’«invito scritto […] per amore della Iguana – acciocché l’anima immortale del
conte – sia sollecitata a rammemorarsi di Ocaña»40. I versi di questa poesia chiudono il romanzo
con l’agnizione della complessità terrestre, in cui ogni luogo e ogni vita si sommano ad altri luoghi
e ad altre vite in una concatenazione tanto necessaria, quanto positiva di presenze. Al defunto
Daddo, figura messianica paragonata esplicitamente a quella di Cristo41, i Guzman elevano la loro
supplica:
Salva la Spagna
e il Portogallo,
i paesi vinti,
che dormono
nelle alghe
nella pietra
nella montagna
nella Meseta
e la Murcia,
in Estremadura.
Salva il toro,
la mucca, l’agnello.
Salva il pellegrino.
Porta il lume,
porta il sole,
acqua, giardini42.
37
Qualche anno dopo la pubblicazione del romanzo, l’Ortese descrisse ad Alfredo Barberis l’iguana come una rappresentazione
degli «esseri umani dei Paesi non industrializzati», i quali «non hanno denaro, e così sono anche grotteschi, ridicoli» (A. BARBERIS, È
così difficile trovare a Milano il silenzio, “Il Giorno”, 6 aprile 1966, p. 9, ora in L. CLERICI, Apparizione e visione, cit., p. 384). Tale
definizione rimanda a quella delle vittime dell’Intelligenza di cui l’Ortese parlerà qualche decennio più tardi, intendendo però non
soltanto gli esseri umani schiacciati dal progresso occidentale, ma ogni forma di vita umiliata e sacrificata a una logica uniformante,
senza escludere le creature del regno animale – all’interno del quale, almeno in senso letterale, l’iguana certamente rientra.
38
Lungo tutto lo svolgimento del romanzo, l’aspetto esteriore di Estrellita oscilla tra un’apparenza fanciullesca, da bambina, e un
avvizzimento senile perturbante. In merito a questo particolare, è forse utile notare che alla fine dello scritto Non da luoghi di esilio,
dopo aver esposto la dicotomia tra Intelligenza e Ragione, l’Ortese asserisce di volersi collocare dalla parte «dell’Antenato e del
Bambino», intendendo questi due termini come rappresentazioni specularmente opposte di una identica Ragione originaria (A.M.
ORTESE, Non da luoghi di esilio, cit., p. 156).
39
In una intervista rilasciata a Giovanni Giuga nel 1977, l’autrice dell’Iguana, discorrendo circa il finale del romanzo, si ferma
anche a riflettere sulla vera natura di tale sentimento amoroso e ne illustra la forte valenza allegorica: «l’innamoramento», dichiara
Anna Maria Ortese, «è solo la maschera di una più profonda e vertiginosa attenzione: il Conte (Bontà generica, innocente, di
“classe”) ha intravisto il vero, la degradazione e la segregazione dell’essere umano divenuto “popolo”» (G. GIUGA, Il mare non
bagna la Liguria, «La Fiera Letteraria», LIII (1977), n. 107, pp. 8-9, a p. 9).
40
A.M. ORTESE, L’iguana, cit., p. 181.
41
È interessante notare come nello scritto Cristo e il tempo, pubblicato nel 1978 sulla rivista «Ipotesi» e recentemente inserito nel
volume Da Moby Dick all’Orsa Bianca, Anna Maria parli di Gesù Cristo stesso come di un’anima nomade, di uno «scopritore di
nuove terre, fondatore di un nuovo universo» (EAD., Da Moby Dick all’Orsa Bianca. Scritti sulla letteratura e sull’arte, a cura di M.
Farnetti, Milano, Adelphi, 2011, p. 104).
42
EAD., L’iguana, cit., pp.182-83.
Per intercessione di Daddo, anche i Guzman si sono innamorati dell’iguana, e sono riusciti allora
non solo a intuire la complessità e concordia di quel grande Luogo (o Spazio) che è il mondo, ma
anche a trovare in loro stessi l’ispirazione per scrivere, come Damasa nel Porto di Toledo, quei
ritmici che sono i documenti di una «Espressività totale, o Continente dell’Essere, i cui periodi, le
cui pagine e la stessa interpunzione, risultano formati dalla infinità di tutto quanto è vivente»43.
Sottraendo la Ragione alla morsa dell’Intelligenza, l’espressione letteraria restituisce il senso
profondo dello spazio, prima ancora che quello del tempo. Come aveva capito Perec, e come anche
Anna Maria mostra di credere, «lo spazio è un dubbio»44, il suo senso sfugge e va quindi
immortalato, designato mediante la scrittura. Solo passando per le coordinate di questa nuova
spazialità, dove il tempo (come recita il noto titolo) è un altro, la memoria, e il tempo stesso,
possono rivitalizzarsi: è infatti nella Toledo di Damasa, non nella Napoli della giovane Anna Maria,
che tutto un passato semi-dimenticato di composizioni poetiche e in prosa ritrova la sua giusta
collocazione; e così a Ocaña, non a Milano, Daddo riesce a redimere un’intera vita di asservimento
all’Intelligenza borghese per scoprire la catarsi di un presente che, nella perenne attualità della
Ragione, è sempre vivo45.
Se è vero, allora, quanto asserisce Monica Farnetti, ossia che nell’Ortese «il pensiero sullo
stanziare e l’erranza […] eccede, e infine rigetta come incongrua, qualunque corrente
interpretazione dello spazio e dei suoi predicati»46, la spiegazione di ciò sta nel fatto che la
dimensione spaziale, per la scrittrice, non si riduce mai a una mera impressione, al perecchiano
«simulacro di spazio»47, e neppure all’astratta «geografia interiore» cui accenna Gabriella Fiori48,
ma appare al contrario come massimo prodotto dell’espressività umana. Anna Maria Ortese, in
sostanza, rinnega quella geografia “oggettiva” responsabile d’aver diffuso una concezione limitata,
meramente tassonomica e, in ogni caso, antropocentrica della Terra, per cui gli uomini sono solo
spettatori certi che tutto ciò che li circonda non potrà coinvolgerli direttamente. «Partiamo dalla
certezza che il mondo sia conoscibile, anzi conosciuto. E questo ci tiene immobili»49, afferma
l’Ortese nel suo ultimo romanzo, Alonso e i visionari. E così già in un’intervista rilasciata nel 1994,
dove dichiara:
Questo nulla, o tutto, dell’universo, questa estraneità terribile dell’universo che nella tradizione occidentale non
è niente, o quasi, mentre per me è tutto. Prima, quando ho iniziato a scrivere, sentivo che il mondo, il cielo, era
pieno di figure, di cose dolci, bellissime; ora sono giunta a capire che ho sentito questo vuoto, questa freddezza di
mente in un certo senso estranea alle cose della gente, perché penso ci siano problemi più grandi; penso che se
l’uomo acquistasse la coscienza del luogo dove vive ci sarebbe una pace diversa, saremmo nella realtà. Invece non
lo siamo. Noi crediamo continuamente di essere seduti su qualche cosa: ma non siamo seduti su niente 50.
Poiché al giorno d’oggi «manca il senso dello Spazio, del Luogo […] Manca l’Esterno»51, l’Ortese
per mezzo dei suoi libri propone al lettore un percorso, un viaggio, l’attraversamento di un paese
che è sempre lo stesso, ma ogni volta intimamente si rinnova. Come ha puntualizzato già Caterina
De Caprio, dalle pagine di romanzi come Il porto di Toledo, L’Iguana o Il Cardillo addolorato
prende forma un vero e proprio «paesaggio ontologico, costruito dalla Ortese a testimonianza del
43
EAD., Il porto di Toledo, cit., p. 114.
G. PEREC, Specie di spazi, trad. it. di R. Delbono, Torino, Bollati Boringhieri, 1989, p. 110.
45
Si veda anche, nel Cardillo addolorato, «lo spessore, l’opacità letteraria del paesaggio scritto» tramite cui il tempo, come
intuisce Vittorio Coletti, è costretto a filtrare. Qui, secondo il critico, la preponderanza della dimensione spaziale su quella temporale
è gestita consapevolmente dall’Ortese e va intesa in senso parodico (cfr. V. COLETTI, Spazio e tempo nel romanzo italiano
contemporaneo, in Le configurazioni dello spazio nel romanzo del ’900, a cura di P. Amalfitano, Roma, Bulzoni, 1998, pp. 195-215,
a p. 208).
46
M. FARNETTI, op. cit., pp. 19-20.
47
G. PEREC, op. cit., p. 20.
48
Cfr. G. FIORI, Anna Maria Ortese o dell’indipendenza poetica, Torino, Bollati Boringhieri, 2002, p. 62.
49
A.M. ORTESE, Alonso e i visionari, Milano, Adelphi, 1996, p. 209.
50
L’intervista è riportata nell’articolo di L. CLERICI, Il dolore bagna Napoli, “L’Unità”, 16 maggio 1994, p. 7.
51
A.M. ORTESE, La libertà è un respiro, cit., p. 126.
44
proprio spaesamento»52: un paesaggio né reale, né fittizio, ma frutto di quella convergenza tra la
percezione sensoriale del dato oggettivo e l’interpretazione soggettiva di esso, che rimanda senza
dubbio al concetto leopardiano, ad Anna Maria assai caro, di doppia vista 53.
Considerando in specie queste ultime osservazioni, si comprende come il percorso artistico
intrapreso dall’Ortese, dai racconti della giovinezza sino ai romanzi della maturità e della vecchiaia,
non possa essere interpretato a partire da una semplicistica dicotomia tra realismo e letteratura
fantastica. Tramite lo stile crudo e volutamente deformante del Mare non bagna Napoli54, o ancora
in alcuni racconti di Silenzio a Milano, l’Ortese manifestava apertamente il dramma del proprio
spaesamento e della propria apolidia, opponendosi a quell’idea stanziale, immobilizzata del mondo
che il mito napoletano della naturalezza e quello milanese del denaro, su versanti opposti,
contribuivano a consolidare: come la piccola Eugenia del racconto Un paio di occhiali55, insomma,
Anna Maria prendeva coscienza dell’orrore che la circondava, rappresentato in primo luogo dalla
mancanza di solidarietà tra esseri umani, dal cinismo e dall’obnubilante individualismo
caratteristico dell’odierna società occidentale. La sua scrittura, di conseguenza, non poteva che
assumere un carattere negativo, di smascheramento e di denuncia. I punti di riferimento teorici della
scrittrice, a ben vedere, sono però rimasti gli stessi anche nei libri successivi, dall’Iguana al Porto
di Toledo, fino ai due romanzi degli anni Novanta; in queste ultime opere, però, alla decostruzione
del reale succede l’edificazione di un nuovo spazio possibile, immune alla mediocrità e
all’indifferenza che infettano il mondo contemporaneo, da offrire in primis a se stessa, quindi ai
lettori: lo spazio della pagina scritta, quel nuovo continente in cui eterogeneità e libertà, visione ed
espressività, possono davvero coincidere.
52
C. DE CAPRIO, Gli emblemi del fantastico nella narrativa di Anna Maria Ortese, in La civile letteratura. Studi sull’Ottocento e
il Novecento offerti ad Antonio Palermo, vol. II (Il Novecento), Napoli, Liguori, 2002, pp. 317-29, a p. 323.
53
Cfr. A.M. ORTESE, La virtù del nulla, in Corpo celeste, cit., pp. 98-99.
54
A tale alterazione del dato reale, in primis, si opposero parecchi tra i maggiori esponenti della cultura napoletana dell’epoca.
Esemplare è il caso di Aldo De Jaco, il quale, in due lettere del 1953 indirizzate a Calvino, protestò contro quel libro in cui ogni cosa
gli appariva «deformata e gonfiata», fino a raggiungere il grottesco nell’ultimo capitolo sugli intellettuali partenopei (lettere di Aldo
De Jaco a Italo Calvino del 12 luglio e del 10 agosto 1953, in La storia dei “Gettoni” di Elio Vittorini, a cura di V. Camerano, R.
Crovi, G. Grasso, t. II, Torino, Aragno, 2007, pp. 870-73). Tale giudizio negativo, a ben vedere, prende piede da un erroneo
inserimento del Mare non bagna Napoli nel filone del neorealismo partenopeo, al quale il libro appartiene solo formalmente. D’altro
canto lo stesso Calvino, rispondendo alle lettere di De Jaco, non smentì affatto la carica deformante e anti-realista del Mare non
bagna Napoli, ma anzi la sottolineò, attribuendole implicitamente un grande valore innovativo: se all’immagine della città che il libro
propone «certo […] non si può dar credito», infatti, Calvino precisa però che «di libri così, un po’ “provocatori”, che mettono spilli
nel sedere alla gente, ce n’è bisogno» (lettera di Italo Calvino ad Aldo De Jaco del 23 luglio 1953, ivi, p. 871).
55
Cfr. A.M. ORTESE, Il mare non bagna Napoli, Milano, Adelphi, 1994, pp. 15-34.
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